You keep giving me a taste of your venom

di LeAmantiDiBillKaulitz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intervista ai cretinetti ***
Capitolo 2: *** Come le interviste vanno a finire in incuici strani ***
Capitolo 3: *** Veniamo a casa vostra! ***
Capitolo 4: *** Biscotti al radio e risse gratis ***
Capitolo 5: *** Scommesse e inviti a cena ***
Capitolo 6: *** Acidità nelle tagliatelle ***
Capitolo 7: *** Facciamo campeggio? ***
Capitolo 8: *** Chiusi dentro ***
Capitolo 9: *** Disavventure in un solaio ***
Capitolo 10: *** Biglietto sospetto ***
Capitolo 11: *** Possiamo baciarti? ***
Capitolo 12: *** Il Sergente ha una brutta idea ***
Capitolo 13: *** Complicazioni esistenziali ***
Capitolo 14: *** E il clan si riunisce ***
Capitolo 15: *** A cena con gli Spiegelmann ***
Capitolo 16: *** Tre gelati, una canzone e un viale per lo shopping ***
Capitolo 17: *** Go shopping girls! ***
Capitolo 18: *** Di ananas, luce di luna e tulipani fashion ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Intervista ai cretinetti ***


YOU KEEP GIVING ME A TASTE OF YOUR VENOM

CAPITOLO PRIMO: INTERVISTA AI CRETINETTI
P.O.V. Chelsea.
 
Per quel che ne so io, avere una coinquilina quando si ha vent’anni e si è incapaci persino a farsi una tazza di the, è davvero una benedizione divina. Soprattutto se suddetta coinquilina sa cucinare, sa fare un ottimo caffè, sa fare il letto e sa cacciare quelli del Folletto ogni volta che si presentano alla porta con la loro aspirapolvere che presentavano pure ai tempi dei nostri bisnonni. Beh, si da il caso che io abbia una coinquilina del genere: sa cucinare discretamente bene, sa fare un caffè delizioso, sa fare i letti senza lasciare quelle antipatiche stropicciature in fondo al lenzuolo e sa pure cacciare il Folletto con un’occhiataccia che avrebbe fatto filare Stalin. Peccato che l’amata coinquilina sia un pelino irritabile, soprattutto se la si sveglia alle sette del mattino del giorno in cui ha i corsi universitari che iniziano alle dieci per farsi fare una tazza di latte caldo. E forse è proprio a causa di questo piccolo quando fastidioso inconveniente che la sottoscritta è arrampicata in cima al tavolo della cucina con un mattarello in mano e tutta la sua carica di mellifluo selfcontrol per ammansire la belva che le lancia oscuri anatemi in un tedesco da dottor Faust e Mefistofele.
-Ok, ok Alex, non ti arrabbiare così tanto! Ti ho solo chiesto …
-Porca puttana, razza di oca! Sono le sette del mattino, cazzo, e lo sai benissimo che io devo dormire!- brandisce un forchettone da cucina dall’aria poco rassicurante, mentre mi ruggisce contro – Almeno oggi che ho i corsi alle dieci, te mi vieni a tirare giù dal letto alle sette?! E per cosa? Per una fottuta tazza di latte!
-Ehi, ehi, bambola, guarda che il latte alla mattina è importante per crescere, lo dicono tutti i pediatri.
-Hai vent’anni, non due. Possibile che, se proprio vuoi del latte, non te lo sappia scaldare senza svegliare mezza Magdeburgo?
Alexandria mi guarda malissimo, i capelli tutti arruffati, i grandi occhi marroni che mi fulminano con tutta la cattiveria di cui sono capaci. Stavolta devo averla fatta grossa sul serio, dannazione a me.
-Su, ora puoi tornare a dormire … non è una cosa così tragica.- cerco di addolcirla, scendendo dal tavolo con circospezione, tenendo il mattarello in posizione difensiva – Non ti scasso più per tutto il giorno, promesso.
Sospira, sedendosi al tavolo con aria palesemente scazzata, i lunghi capelli biondastri che le coprono metà del viso, mentre l’altra metà testa rasata ciondola mollemente sulla tovaglia a fiorellini blu della nonna.
-Dammi del pane e della marmellata, và. Ho fame- brontola, mentre le allungo titubante il cibo richiesto, pronta a scappare via se provasse a inseguirmi col forchettone, cosa che oltretutto è già successa molte, troppe volte. Che poi, fa queste scenate da Aida solo perché è una pigra svogliata che non ha voglia di alzarsi da letto e poi, detto sinceramente, chi cazzo si ricorda quando i suoi corsi iniziano prima o dopo? Quei fottuti corsi di filosofia continuano a cambiare orario, ed è già tanto che mi ricordo i miei, figurarsi i suoi.
Mi siedo con circospezione di fronte a lei, a cavalcioni della sedia, concentrandomi a seguire con lo sguardo le ellissi del latte che vorticano sotto al mio naso, concentriche e delicate, incredibilmente artistiche nella loro sconvolgente banalità. Sono come le onde di un lago scombinato dal vento, ugualmente difficili da seguire con lo sguardo, però contenute dentro a una tazza, bianche con alcune chiazze di caffè piuttosto stantio, turbinose e metafisiche nella tranquilla mondanità di una semplice tazza di latte la mattina. Potrei leggervi ciò che volete, in questa tazza. Posso vederci milioni di microcosmi che si creano e si distruggono con la velocità di un istante creati da uno scienziato folle ed egocentrico, posso leggerci le parole di un romanzo che è rimasto nascosto nel cassetto di qualche giovane innamorato dell’800, posso ascoltarvi le note di un requiem talmente antico da non poter più essere suonato, posso scoprirvi un’arte mai rivelata prima per la sua portentosa bellezza, posso trovarvi perle giapponesi talmente nascoste da perdersi negli oceani, posso fotografarvi dentro tutte le stelle di questa galassia. È una tazza di latte, ma è anche un mondo a sé stante, come diceva il vecchio Leopardi della luna, no? Io sono il pastore errante dell’Asia, e il latte è la luna, “gigantesco occhio ciclopico”, in fondo è tutto lo stesso sistema. Un poeta dell’Ottocento rinchiuso in una casa padronale di Recanati, e una ragazza del nuovo millennio rinchiusa in un appartamento della periferia di Magdeburgo. La luna che non cambia e cambia sempre, e una tazza di latte caldo con qualche chiazza di caffè. Insomma, in fondo non ci vedo questa differenza abissale: gli esseri umani non sono cambiati granché nel corso dei secoli, se non forse che si sono rimbecilliti, e che siano in Germania o in Italia poi cambia veramente poco, sono comunque rinchiusi in posti dove non avrebbero mai voluto stare davvero. Lui era un poeta, lei studia per diventare cineasta, con i sogni ci lavorano entrambi ed entrambi li lavorano e li smaterializzano a loro piacimento, covando l’arte del rimodellare la magia. Lui era innegabilmente depresso, lei irrimediabilmente ride, ma il motivo è lo stesso: odiano il sistema, e fuggono come possono. La luna e il latte sono entrambi bianchi, sono entrambi sogni dei bambini e ci puoi leggere dentro quello che diavolo ti pare, risucchiano i colori allo stesso modo, che siano dentro a una tazza o spersi nell’Universo. Io e Leopardi, vista da un certo punto, siamo esattamente, dannatamente, identici. Se la leggiamo per quello che è, posso benissimo paragonarmi a uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, e non è egocentrismo questo, è semplice lettura di quello che siamo davvero. Tra me e lui non c’è differenza, siamo due poveri sfigati che le tentano tutte per levarsi dalle palle questo mondo di merda: ma, come due veri sfigati che si rispettano, le prendono di santa ragione e sono costretti a sottostare alla legge del più forte. Il mondo gira attorno a questo, gente. Chi ha abbastanza palle per imporsi e chi è un palle mosce come me e Leo che ce le cucchiamo.
Immergo un dito nel latte e lo mescolo, guardando di sottecchi Alexandria che mordicchia svogliatamente il suo pane e marmellata. Non saprei bene spiegare cosa leghi me e lei, perlomeno non con parole decenti e soprattutto esaurienti, però potrei dire che se io mi sento una scanzonata Petrarca, lei è la mia Laura. Se mi sento un’assurda Boccaccio, lei è la mia Fiammetta. Se mi sento una scapestrata Dante, lei è la mia Beatrice. Se mi sento una grottesca Leopardi, lei è la mia Silvia. Credo di aver reso l’idea, insomma: io in veste di poeta che finge abilmente di essere lo sfigato di turno e lei in veste di meravigliosa fanciulla divina, anche se di divino non ha manco un dito. Per me Alexandria è come una sorella gemella con cui mi capisco al volo senza bisogno di parlare, come una migliore amica sempre pronta ad aiutare. Insomma, è la mia seconda faccia, è appunto la parte epica e aulica del povero poeta straziato; non so nemmeno quando è che ci siamo conosciute, mi sembra di stare con lei da tutta una vita. Tutte le cazzate le ho fatte insieme a lei, tutti i brutti voti li ho presi quando stavo con lei in banco (chiamasi sempre. E se sorvolassimo sulla mia carriera scolastica?), tutte le vacanze le ho passate a casa sua, tutti i film li ho visti con le sue lamentele nelle orecchie, tutte le canzoni che suoniamo le ho scritte con lei in camera mia. Siamo insieme da un secolo, parti combacianti di una stessa medaglia: la parte cinica, acida, incazzata lei, quella stupida, casinista, rumorosa io. Credo che ora come ora non potrei nemmeno immaginare la mia vita senza la presenza angosciante di Alexandria: anche perché, chi sarebbe disposto ad alzarsi alle sette di mattina per fare il latte a una ventenne incapace senza buttarla giù dalla finestra? Solo un animo pio e giusto come lei, appunto. “Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna mia, quand’ella altrui saluta”, sì, io e Dante abbiamo un feeling mica da ridere. Anche se non credo che Beatrice girasse per Firenze facendo allegramente il medio a tutta la gente che incontra come fa Alexandria.
-Senti, Chelsea, ma si può sapere cos’era la stronzata che hai visto ieri fino alle due di notte?- la mia amica alza la testa, pulendosi il labbro dalla marmellata.
-Come ti permetti, villana! Non puoi dirmi che era una stronzata, è un caposaldo del cinema!- le abbaio, conscia di star toccando un tasto dolente. Lei odia che io veda la tv a tutto volume la notte, cosa che io faccio sempre. C’è più gusto a vedere i film di notte fonda, ci capisci di più.
-Parlavano in russo, e te non capisci un’acca di inglese, figurarsi di russo.- alza un sopracciglio, i piercing che le ricoprono l’orecchio che brillano sinistramente alla luce della lampada – Cosa diavolo era?
-“Zerkalo”, di Andrej Tarkovskij, anno 1975. Un pezzo grosso del cinema moderno, una discesa nell’inferno onirico della Russia degli anni 70, simbolista quanto basta per discernerne per una settimana intera e oltre, con ottimi riferimenti all’“Andrej Rublev” del medesimo regista datato 1966, non è mai stato tradotto, perciò lo si vede con i sottotitoli. Una Margarita Terechova assurdamente bellissima e terribilmente identica alla “Ginevra de’Benci” di Leonardo Da Vinci.- snocciolo io, bevendo finalmente il mio latte lunare. Sarò stata una scarpa a scuola e non lo nego, ma in materia di cinema non mi batte nessuno.
-Ti droghi di cinema, Chess.- Alex ride, sbadigliando rumorosamente.
-E te di acidità.- ribatto, conscia di tutte le volte che l’ho costretta a imbucarsi in qualche cinema a vedere qualcosa di cui a lei non poteva fregargliene meno. Ma lei mi scassa le palle con quei benedetti manga giapponesi, quindi siamo pari.
Si alza, il corpo snello e flessuoso che ondeggia fino al lavello, dove butta le tazze e i piattini da lavare, avvolta nell’enorme maglietta dei Linkin Park.
-A proposito, lo sai che oggi è il grande giorno dove non saremmo più chiamate “Spiegelmann e Herder le darkettone nerd”?
Mi alzo anche io, raccogliendomi i dread bianchi in una coda di cavallo
-E perché? E poi a me chiamano “Full Metal Cinema”, mica darkettona nerd.
-E’ uguale, Chelsea, non sottilizzare.- Alexandria si gira e mi fissa con i suoi grandi occhi ancora sbavati dal trucco di ieri sera, che ha passato a girare per bar con la nostra cricca di amici squattrinati nerd, mentre io stavo chiusa in casa a guardare Tarkovskij. – Non ti ricordi che oggi abbiamo l’intervista? Dai, ai Tokio Hotel, la boy band che piace a tutte le ragazze.
-Ma stiamo parlando di quei quattro cosini che cantano che “Ich muss durch den Monsun hinter die Welt ans Ende der Zeit”?
-Quella è vecchia.- scuote la testa dandosi una manata sulla fronte.
-Anche Caccia al Ladro è un film vecchio ma lo guardiamo lo stesso, che c’entra!- mi difendo, dandomi una fine grattata alla pancia – Regia di Alfred Hitchcock, anno 1955, con Grace Kelly e Cary Grant. Comunque sì, ho capito chi sono. Non sono malaccio, no?
-Non sono malaccio?!- Alexandria fa una smorfia fintamente attonita – Ma sono assolutamente, terribilmente pop!
-Non ti ho mica detto che sono la band del secolo, Alex.- sbuffo, accendendo la radio e lasciandomi invadere le orecchie da quel capolavoro punk che è “English Civil War” dei The Clash. – Sinceramente, c’è roba peggiore che loro.
Annuisce mollemente, mentre ci scambiamo un’occhiata combattuta all’idea di dover andare a fare un’intervista. Cioè, io e lei. Ma che si era fumato il caporedattore di quel dannato giornalino universitario?
 
-Ehm, Spiegelmann, Herder, posso parlarvi un attimo?
La figura allampanata di quel flaccidamente miliardario del caporedattore ci blocca a metà del corridoio dell’Università, i suoi occhietti porcini che ci scrutano da dietro i pincenez dorati.
-Che cazzo vuoi, Ziemann?- ringhia Alexandria, incrociando le braccia e facendo di conseguenza tintinnare i bracciali borchiati. Lui deglutisce rumorosamente, come al solito, tirandosi il colletto della camicia inamidata – Non c’hai nulla di meglio da fare che venire da noi a scassare i coglioni?
-E sta calma, Alex, a cuccia.- sbuffo io, per poi rivolgermi al nostro caporedattore – Ehi, Zie, ma non l’hai visto “Mississippi Burning”, quello di Alan Parker con Gene Hackman del 1988? Insomma, se l’avessi visto potresti fare un parallelismo epico tra te in veste dell’agente Ward e noi in veste di membri del Ku Klux Klan. Con la differenza che noi non ce l’abbiamo con quelli di colore ma con i ricchi bastardi come te. Dai, spara: cosa ci vuoi proporre?
Il vecchio Ziemann sospira rumorosamente, guardandoci con un vago terrore
-Sarebbe una consegna per il giornale. Ho pensato di chiedervi di fare un’intervista …
-Un’intervista? Ma che ti salta in testa?!- sbotta Alexandria.
-Siete rimaste voi due come giornalista e fotografa a cui chiedere.- si affretta a spiegare il nostro coraggiosissimo caporedattore – Non sarebbe un compito complicato, è solo un servizio sul conto di una band nostra conterranea.
-Tipo i Rammstein?!- trilla improvvisamente la mia amica, nel contempo che io strillo
-Non mi dire che sono i Blind Guardian!
-Ehm, no.- Ziemann si allontana da noi impercettibilmente – Non sono quelli che avete nominato, bensì i Tokio Hotel.
-E te vuoi mandare me e Chelsea a fare un’intervista ai Tokio Hotel? Ma che bevi di sera, Ziemann?
-Sarebbe un’occasione d’oro per l’Università di Magdeburgo, Herder!- strilla alterato lui, sbattendoci in mano un foglio con la data e il luogo dell’incontro per la famosa intervista – E non potete rifiutarvi, siete le ultime rimaste.
-E se ti dicessimo picche, Zie?- tento io, prima che Alex gli salti al collo.
-Siete fuori da questa Università, Spiegelmann. Detto fatto.
 
-Che poi, a ben pensarci, se oggi abbiamo l’intervista mica ci vai all’Università.- commento, allungando un pezzo di burro salato a Panther Lily, il nostro gatto nero e cieco da un occhio che si è stabilito qui col nostro trasferimento lontano dalle abitazioni della nostra infanzia. – Quindi, perché mi hai inseguito con il forchettone?
-Mi hai comunque svegliato di soprassalto urlando, cretina. E piantala di dare il burro a Lily, prima o poi ci rimane.- risponde tranquillamente Alex, mettendosi le mani sui fianchi, aumentando il volume della radio e facendo un sorrisino che di simpatico non ha proprio nulla – E ora, al lavoro. Ci servono delle domande da porre ai Tokio Hotel per fare comunque un articolo che regga, mentre io devo preparare la macchina fotografica per un servizio che comunque stia in piedi. Non ho voglia di essere sbattuta fuori a calci in culo da quella pertica di Ziemann.
-Tipo, posso chieder loro qual è il loro film preferito?- urlo, mentre scompare in bagno strascicando i piedi.
-Col cazzo, Chess.- risponde da sotto l’acqua della doccia – Cerchiamo di essere asociali e serie, non ci voglio stare troppo con quella gente.
Sospiro rumorosamente, tornando nella mia postazione da colazione, cominciando a buttare giù qualche idea di domanda su un foglio, mentre alla radio si sente l’antipatica voce del radiofonico di Radio Berlino che scandisce
-E ora, in assoluta esclusiva, il nuovo brillante singolo dei Tokio Hotel! Preparatevi a sentire un pezzo che sicuramente vi rimarrà nel cuore!
Alzo lo sguardo verso la vecchia radiolina scassata posata sul tavolo, aspettando quasi con ansia che arrivi la fantomatica canzone dei tizi che stiamo per andare a conoscere, e sento una voce incredibilmente angelica, la stessa voce che qualche anno fa ce l’aveva con il monsone levarsi dalle casse, strillando qualcosa del tipo “You’re automatic, your heart’s like an engine …” . E’ già intuibile la profondità del testo, wow.
 
-Porca puttana, Alexandria, muoviti! Siamo in ritardo!
-Dio Cristo, Chelsea, non muoiono mica se arriviamo cinque minuti dopo!
-Cinque minuti ok, ma noi siamo in ritardo di venti minuti! Corri!
-Ho le Converse slacciate, aspetta un secondo!
-Te e queste dannate Converse, fattene una ragione di vita!
-Sto cazzo, carina, ora mi aspetti!
Siamo piantate di fronte a uno dei palazzi della cosiddetta Magdeburgo bene, pronte a lanciarci nell’intervista del secolo, fastidiosamente scrutate da tutti i ricchi borghesi che transitano, in attesa che Alex Sono Perennemente In Ritardo si sbrighi e non ci faccia proprio fare una figura da pecoraie non appena sbarcheremo nell’ufficio del manager dei favolosi Tokio Hotel. Non so quanto bene prendano una rasta ricoperta di tatuaggi e piercing con una maglietta enorme con scritto a mano “Io li odio i nazisti dell’Illinois”, e una con mezza testa rapata, tatuata e truccatissima con una maglietta super in tema dei Hollywood Undead, ma se ne dovranno fare una ragione. Non esistono solo giornalisti in completo da sera, eh. Esistono anche tipi da fanzine e punk hardcore con un brutto passato scolastico alle spalle (qui parlo per me e la mia ignoranza lapalissiana).
-Dai, sono pronta, andiamo.- Alexandria si alza da terra, la grande macchina fotografica che le ciondola dal collo, e ci avviamo dentro l’androne del palazzo.
Quella che solitamente pensa alle interviste sono sempre io, mentre lei si occupa dei servizi fotografici; forse perché a me è stato dato il dono del ficcanaso ciarlatano che è stato risparmiato a lei, forse perché io ho una faccia tosta da paura e lei no, forse perché io faccio amicizia anche con le scarpe e lei è già tanto se parla con me, forse semplicemente perché io ho il piglio da giornalista d’inchiesta e lei da fotografa di incontaminati ambienti, non lo so, però tra noi è sempre stato così, non solo per le interviste. Io ci metto la faccia, mi butto, mi prendo i ceffoni, lei ci mette il piano dietro, le astuzie, le cattiverie ciniche e acide; è un equilibrio calibrato al massimo, calcolato con la sezione aurea, è la nostra quadratura del cerchio che Fibonacci non ha mai trovato. La sua asocialità tiene a freno la mia iper socialità, la sua calma assassina tiene buono il caos che mi porto dietro, la mia ecletticità di parola salva il suo mutismo scazzato col mondo, la mia batteria è la base della sua chitarra. Nel nostro essere scombinate, siamo calcolate al millimetro. Io faccio parlare le persone e ne raccolgo i segreti più intimi, lei li fotografa e non lascia fuggire le loro espressioni tradite. Insomma, Leopardi, Raffaello, Chelsea e Alexandria: vedete poi quest’abissale differenza? Tutti e due scrivono e sono insoddisfatti, tutti e due ritraggono e sono arrabbiati. Chi è il genio, a questo punto? Erano loro per l’inconfondibile originalità, o siamo noi con la rielaborazione della pop culture? Cosa conta di più, il mistero che avvolge due maestri della storia italiana o la scontata banalità di due ragazze del nuovo millennio?
Arriviamo al quinto pianerottolo, dove si apre una finestra con perfetta vista fiume e dove ci attende aperta una porta che da su un ufficio dall’aria troppo seriosa per la sottoscritta.
-Ehi, Chess, parli te, eh.- mi da di gomito Alex – Prima che mi parta qualche bestemmia contro quei quattro cretinetti.
-Non menarli, mi raccomando.- sussurro in risposta – Che chissà che razza di assicurazione sulla vita che hanno; non abbiamo così tanti soldi per ripagargli il nasino rotto o il ditino distorto.
-Da quando sono così violenta?- sbuffa una risatina.
-Fight Club, regia di David Fincher, anno 1999, con Brad Pitt e Edward Norton. Alienazione, yuppie, consumismo e boxe. Impara dalla sottoscritta che film vedere, invece che guardare quelle serie tv da nerd patentata.- rispondo con tono da cospiratrice, prima di accingermi a scostarmi un dread dal viso e a fare il mio trionfale ingresso nell’ufficio, seguita a ruota dalla mia amica.
Una tipa tutta rifatta ci osserva dall’alto dei suo tacchi 15, costretta in un tailleur super castigato
-Le signorine desiderano?
-Siamo le giornaliste dell’Università. Abbiamo da fare un’intervista ai Tokio Hotel.- faccio un sorriso largo e amichevole, ricevendo in risposta una fulminata come se fossi un ratto con la scabbia.
-Di qui, prego.
Seguiamo Chiappe Strette per un lungo corridoio piuttosto anonimo, e ci blocchiamo di fronte a una porta a vetri smerigliati, venendo puntualmente bloccate da Chiappe Strette che ci lancia un’occhiata gelida. Non so perché, ma ho la certezza che ora ci chieda se abbiamo le mani pulite.
-Vogliate aspettare un attimo qui, chiedo se possono ricevervi.
-Non stiamo mica andando a parlare con il presidente, eh.- commenta acidamente Alexandria – Rilassati, amica.
Chiappe Strette non la calcola nemmeno, entrando nella stanza dietro al vetro smerigliato; la sua entrata è accolta da quelle che paiono le urla belluine di uno zoo in libertà, qualche bestemmia, qualche risata sguaiata, qualche strillo oltraggiato, e seguita subito dopo dalla ricomparsa lampo di Chiappe Strette che balbetta terrorizzata
-Po … potete a … andare, pre … prego.
Io e Alexandria ci scambiamo un’occhiata vagamente stranita, prima di prendere tutto il nostro coraggio da metallare più punk con ascendenze periferiche e entrare dentro la stanza. Stanza che si rivela un enorme ufficio color crema, arredato con estremo gusto moderno e pratico, con alcuni Kandinsky palesemente finti alle pareti, un divano e delle poltrone di pelle bianche con delle figure spaparanzate sopra, un tavolino di cristallo sporco di … pizza?
-Oh, ecco le giornaliste dell’università! Ragazze, benvenute.
Alziamo lo sguardo su un tizio in giacca e cravatta, che presumo possa essere il manager, che ci porge la mano con un sorriso affabile ma tirato. Qualcosa mi dice che i nostri sfavillanti Tokio Hotel lo abbiano mentalmente destabilizzato.
-Piacere, siamo onorate di fare la vostra conoscenza!- dico io, dando di gomito a Alex affinché si sprechi almeno a fare un sorrisino di circostanza. – Scusi il ritardo, ma abbiamo avuto alcuni problemi con la Redazione, siamo un po’ disorganizzati.
Non mi sembrava una cosa intelligente da dire che il nostro ritardo è dovuto alla perdita della macchina fotografica, alla ricerca di una penna carica e a un paio di Converse All Star verde acido slacciate.
Il tipo prova a sorridere con gentilezza, mentre si volta e ci presenta con un vago gesto della mano i quattro ragazzi stravaccati sul divano, che ci guardano incuriositi come fossimo le nuove scimmie dello zoo.
-Allora, vi lascio qui con i ragazzi per l’intervista, mi raccomando, non più di un’ora, abbiamo i tempi serrati in questo periodo, se riusciste a sbrigarvela più rapidamente, ve ne saremmo grati.
Non facciamo nemmeno in tempo a dire “bah” che il manager fugge dall’ufficio, chiudendoci dentro. Immagino che anche per lui debba essere stressante dover sempre averci per le palle quattro ragazzini troppo famosi, troppo ricchi e troppo viziati. Non vorrei essere al suo posto.
-Allora, truppa! Piacere di conoscervi, noi siamo Chelsea Spiegelmann e Alexandria Herder, rispettivamente giornalista e fotografa dell’Università. Siamo qui per fare un servizio il più scoppiettante possibile su di voi per allietare il nostro deprimente giornalino universitario.- esclamo io, sfarfallando gli occhi, beccandomi una gomitata nelle costole da parte della mia amica e sua conseguente rettificazione della mia prorompente introduzione.
-E così voi sareste le ragazze dell’Università? Piacere di conoscervi!
Uno dei quattro si alza con fatica dal divano e ci viene incontro con un sorriso gioviale, scostandosi i lunghi capelli da metallaro dal viso squadrato, la muscolatura più che sviluppata che fa a botte con la maglietta troppo attillata.
-Io sono Georg Listing, il bassista!- afferra la mano di Alex con una velocità impressionante e, meraviglie delle meraviglie, vedo la mia amica che gliela stringe e che fa anche un bel sorriso. Che diavolo succede alla mia Alexandria? Sorride a un estraneo e si presenta come se fosse sempre stata abituata a fare la fotografa ufficiale di una band di fama mondiale. Non posso fare a meno di pensare a “Harry ti presento Sally”, regia di Rob Reiner, anno 1989, magari con un bel “Georg ti presento Alex”. Hollywood, arriva Chelsea Sienna Spiegelmann, non c’è n’è più per nessuno!
-Gustav Schafer.- barrisce un coso biondo e grasso che si sta sbrodolando di pizza e che mi ricorda vagamente la sottoscritta nelle sue crisi trascendentali da cineasta in erba – Ciao a tutte.
Io e Alex guardiamo con aria concupiscente la pizza dall’aria succulenta che Gustav sta divorando allegramente sotto le nostre affamate fauci.
-E io sono Tom, piacere!- un altro balza in piedi, spappolandoci le mani in una presa da Obelix, le treccine che si muovono impazzite da sotto la fascia nera. Toh, se non erro dovrebbe essere uno dei fantomatici gemelli Kaulitz. Quelli di cui parla spesso e volentieri una nostra amica. Poi, mi indica la maglietta di colpo spalancando la bocca come un pesce. E ora che ha?
-Ehi, amico, tutto ok? Non mi sembra di avere sto gran davanzale da far rimanere la gente a bocca aperta.- gli sventolo la mano davanti alla faccia.
-Infatti come tette fai piuttosto schifo, scusa se te lo dico.- recupera subito Tom – Comunque, la tua maglia dice “Io li odio i nazisti dell’Illinois”.
Mi basta un quarto di secondo per riconoscere la luce che unisce tutti i Figli di Hollywood e balbettare
-Quindi, anche tu …
-The Blues Brothers, quando Jake si riferisce al Partito Socialista Americano dei Bianchi.
-Regia di John Landis, con John Belushi e Dan Aykroyd, datato 1980.
Io, normalissima studentessa squattrinata, e lui, chitarrista di fama mondiale miliardario, ci guardiamo con amore, sfarfallando gli occhi, abbracciandoci di slancio sotto gli sguardi sconvolti della sezione ritmica della band e della mia amica
-Fratello da lungo tempo perduto!- ululo io, mentre lui strilla
-Sorella da tanto tempo desiderata!
-Dov’eri per tutto questo tempo?!
-Cristo Dio, Chess, che cazzo ti salta in testa, minorata mentale!?- abbaia Alexandria, strappandomi di peso dalle braccia del mio fratello onorario Tom, mentre Georg fa lo stesso con lui latrando
-Giù le mani dalla giornalista, porco ritardato!
Ci guardiamo tutti negli occhi, ridendo (io e Tom), scuotendo la testa (Alex e Georg), mangiando (Gustav), quando una voce melodiosa, annoiata, angelica, miagola dal divano
-Ci sbrighiamo a fare sta fottuta intervista? Non ho mica tutto il giorno, eh?
Mi volto verso il divano, dove vi è quello che dovrebbe essere il cantante, affondato nei cuscini, i lunghissimi capelli neri e bianchi che gli coprono in parte il viso da bambola super scazzata e super truccata, una smorfietta presuntuosa stampata sulla faccia più bella che abbia mai visto, il telefono stretto tra le mani da fata ricoperte di anelli. Scambio un’occhiata incantata con Alex, prima che Tom sbuffi
-Ah, lui è Bill, il mio gemello. La nostra checca isterica.

***
Salve gente!! Piacere a tutte, noi siamo LeAmantiDiBillKaulitz, ovvero la fortuita unione delle folli teste di callingonsatellites (ovvero Alex, ovvero Lisa) e di Un Punk Perso A Hollywood (ovvero Chess, ovvero Charlie). Stiamo scrivendo questa storia a quattro mani, e sappiamo che è folle, ma vogliamo sapere assolutamente cosa ne pensate! I riferimenti ai film sono veri ahahaah, speriamo che l'inizio vi invogli a continuare le folli avventure di sta gente ... boh, credo che la storia abbia parlato da sè, speriamo solo che vi possa un minimo interessare. Lasciateci un commento e che la forza dei manga sia con voi,
Charlie&Lisa *-* *-*

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Capitolo 2
*** Come le interviste vanno a finire in incuici strani ***


Come le interviste vanno a finire in inciuci strani
ALEXANDRIA’S POV
Odio le interviste. Odio i presidi pieni di soldi che ti costringono a lavori ignobili come le interviste.
Odio i cantanti famosi. Soprattutto le boy band del momento. Odio i bimbi viziati che si divertono a canticchiare le loro canzoni del cavolo perché non hanno di meglio da fare in agenda.
Odio questa cosa che sono stata spedita qui a fare, per non parlare di quanto odi essere svegliata troppo presto da quella capra con i rasta della mia coinquilina. O meglio, di quella capra con i rasta che da qualcosa come Tutta la mia Fottuta vita mi rompe le palle con le sue chiacchiere allegre e ottimiste.
Odio l’allegria. E odio l’ottimismo. Soprattutto la mattina presto.
Insomma, sarà meglio vivere da metallari punk scazzati all’inverosimile? Nessuno viene a romperti le palle. A parte le coinquiline, alle sette, con le loro cazzo di tazze di latte. Ma Chess è perdonata in partenza. Sia chiaro che è un privilegio riservatole da molti anni di fedele spalleggiamento nella battaglia contro la società odierna condotta con orgoglio dalla sottoscritta e il resto del popolo dei matti usciti direttamente dal buco del Bianconiglio di Lewis Carrol. Usciti, nel mio caso, molto incazzati.
Ma tornando a noi.
Siamo arrivate in questa specie di salotto borghese camuffato da ufficio e ci abbiamo trovato quattro tizi dall’aria molto sospetta: un orso biondino intento a mangiare (mi ricorda i bei tempi passati sul lettone dei miei a scarabocchiare i libri di Winnie The Pooh), un finto metallaro palestrato, un coso simile a un vichingo a dieta e … un incrocio tra Vedova Nera e la Fata Turchina.
Beh, per Dio, i primi due sembrano simpatici. Anche il terzo, anche se ha la faccia da ritardato. Ma Fata Turchina mi spaventa: è troppo … troppo nero, troppo argento, troppo ingioiellato, troppo effemminato, troppo elegante, troppo snob, troppo schifosamente intonato a questo salotto e troppo scostante dagli altri suoi tre occupanti. Come se fosse un soprammobile in dotazione, ma del colore sbagliato. È come se i tre musicisti fossero arrivati a rompere l’armonia del salottino con la loro pizza e la loro irruenza, disturbando la quiete della stanza e rompendo il perfetto equilibrio della mobilia della quale faceva parte anche Vedova Nera. Se i divani fossero in pelle nera e le tende fossero di velluto rosso lo scambierei veramente per un soprammobile. Se non si muovesse, se non avesse parlato, se non mi fissasse con quei due pozzi color cioccolato troppo truccati di nero non crederei che sia vivo. Sembra una bambola. Una bambola troppo perfetta. Non mi piace la perfezione, perché non fa parte del mio armamentario. Nella cabina del corazzato denominato ‘Alexandria Herder’, ‘perfezione’ non è scritto su nessuna targhetta. E questa cosa è allarmante non poco. Passo.
-Oh, certo, giusto, sicuramente, ovvio- non sono l’unica ad essere rimasta folgorata dalla languida perfezione della Fatina: Chess si sta ingarbugliando con le parole. Prima mi ha lanciato un’occhiata preoccupante, molto simile a quella che mi manda quando vede qualche vecchia cassetta impolverata nei negozietti d’antiquariato. E la cosa più preoccupante è che ho ricambiato. Fatina mi spaventa, l’ho già detto. Mi fa fare cose che non farei.
-Allora … iniziamo con la prima domanda … - prede il blocchetto scarabocchiato dei tempi della terza media e la penna semi scarica che abbiamo trovato sotto il letto, e tremante tenta di sedersi su una sedia che qualche buon cristiano ha portato.
Nel sentire quelle parole, i tre tizi simpatici si fiondano sul divano, con un lamento elegantemente soffuso da parte della Fata. In breve Winnie The Pooh fa sparire il cartone di pizza sotto un mobile (non oso immaginare quali aliene forme di vita ci siano là sotto), e siamo pronti per cominciare.
-Allora … ehm … ah, sì, certo: la prima domanda è- sta ripetendo le parole. Capita, quando è nervosa. E non dà poco fastidio, soprattutto alla sottoscritta, amante delle persone chiare e circoncise. –Da dove è nata la vostra passione per la musica?
A parlare per primo è il vichingo. –Beh, a parer mio tutto cominciò dal viaggio in Tanzania con il nonno. Io e Bill avevamo circa sette anni, e quell’estate eravamo in balia dei nonni, visto che mamma e Gordon erano in crociera per un mese. Insomma, per farla breve laggiù c’erano … come si chiamano …
-Gli aborigeni- interviene stancamente Mister Fatina. Cazzo, non riesco a non sussultare ogni volta che quell’affare apre bocca. Tagliategli le corde vocali. È troppo cattivo da dire? … argh, Alexandria, chiudi la bocca e non pensare queste cose troppo gentili. L’ho detto, sto facendo cose che non farei.
-Sì, ecco, gli aborigeni. Eravamo in giro per le pianure selvagge quando ci è capitato di sentire in lontananza una melodia così … così …- il vichingo fissa incantato il soffitto, scuotendo la testa e richiamando alla mente chissà che cose. Scatto qualche foto.
-A Tom è piaciuta così tanto che quando siamo tornati a casa ha voluto assolutamente riprodurla con la chitarra del nostro patrigno. Ne è uscito un supplizio per le nostre povere orecchie … - il moretto fa dei gesti con la mano, come a voler scacciare dei moschini fastidiosi, facendo brillare tutta la chincaglieria manco fosse un lampadario. –Ma strimpellare quella roba gli è piaciuto così tanto che ha voluto assolutamente continuare a farlo- termina, con voce piatta. Poi aggiunge, rivolto al fratello: -Sii breve, Tom. Chiaro e circonciso. Le persone che si perdono nelle parole sono poco professionali.
Oh. Ragazzino, tu mi piaci sempre di più. Argh, di nuovo. Mi mordo la lingua. Composta e orgogliosa, soldato Herder.
-Ah, capisco … quindi è stato un incontro casuale quello fra voi e il mondo della musica?- torna a chiedere eccitata Chelsea dopo un breve silenzio. Chissà se si è accorta della somiglianza. Faccio un’altra foto, più da vicino.
-Sì, e anche piuttosto pericoloso. Quel babbeo ha voluto avvicinarsi troppo e per poco non ci beccavamo qualche bella freccia avvelenata nel sedere.
-Oh- ok, Chess è definitivamente partita. Pende dalle sue belle, piene, grosse labbra. Grr, maledetta bambola perfetta. Non fatemi dire queste cose.
La scuoto un po’ per la maglietta, così sembra svegliarsi.
-Ok, allora andiamo con la prossima domanda … cosa volete trasmettere con le vostre canzoni?
Questa volta è il finto metallaro simpy a rispondere. Ha la faccia di uno che potrebbe diventare il tuo migliore amico. Wow, non mi immagino Alexandria Herder e il suo Migliore Amico il Metallaro Finto. Insomma, è già tanto se riesco a stare 24 su 24 con quella cosa con i rasta bianchi e rosa che è la mia amica. Ma lei la conosco dalla notte dei tempi, probabilmente è un altro discorso.
-Innanzitutto sappiamo che mezzo mondo ci odia. E questa è una delle cose per cui ringraziamo di più al mondo, perché salire su un palco a urlare il nostro pop-rock è ancora più stimolante sapendo che un sacco di gente preferirebbe vederci a mendicare sotto un ponte. È un po’ come dire: ‘Hey, ciao, so che mi odi, eppure sono qua a infiammare folle di fan deliranti, mentre tu non riesci nemmeno a trovarti una ragazza degna di essere chiamata tale’- spiega, beffardo. Però! Mi piace come la pensa il Metallaro. Ha la mia stessa filosofia. –Quindi credo che il messaggio principale sia quello di non arrendersi mai. Ne abbiamo passata qualcuna, insieme, eppure sono dieci anni suonati che suoniamo insieme. E credo che sarebbe così in ogni caso, anche se non fossimo famosi. Suoneremo insieme comunque, anche ai bordi delle strade- la smorfia della Fatina nel sentire ‘ai bordi delle strade’ è simile a quella che farebbe una nobile signora dell’Ottocento francese nel sentire ‘al ricevimento inviteremo un sacco di simpatici contadini’.
-Wow, Georg, come sei nobile- ridacchia Winnie The Pooh dal divano. È la prima cosa che gli ho sentito dire da quando siamo entrate.
Georg fa svariati inchini, mentre Chelsea passa alla domanda successiva.
-Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Questa volta si fermano a pensarci un po’. Sembrano degli gnomi pensosi. Odio gli gnomi, soprattutto quelli di ceramica che le nonnette mettono in giardino. Non esiste nulla di più inquietante … Fatina a parte.
-Beh, continuare a suonare, credo. Sì, decisamente continuare a suonare. Continuare a scrivere musica e a sfondare i palchi con la nostra magnificenza!- annuncia il vichingo sorridendo, per poi ricevere consensi e strette di mano dagli altri due tizi simpatici. La Fatina si limita a scuotere la testa, anche se sono sicura che quello che sta prendendo forma sulle sue grosse, belle e piene labbra sia un sorriso divertito.
Oh, ti prego, non metterti anche a sorridere adesso.
Mi rifugio dietro lo schermo della macchina fotografica e faccio qualche foto, tanto per non dover vedere quel viso da Biancaneve sorridere.
A quanto pare la mia compare non è stata altrettanto furba, visto che sta sbavando a litri.
-Non è che vi va un caffettino?- chiede il vichingo dopo un po’.
-UH! No, vi prego, aspettate un attimo, ancora un paio di domande … quali sono le vostre ispirazioni?- si scuote Chelsea.
-I negri nei film americani!
-La bistecca alla pizzaiola!
-Gli Iron Maiden!
La faccia di Chess mentre annota tutto è sempre più esilarante. Potrei quasi mettermi a ridere.
-Bill, la tua?- chiede balbettando alla Fatina affondata nel divano.
Quello si prende tutto il tempo necessario per alzare gli occhi dalle sue meravigliose unghie, sospirare, strofinarsi i capelli, tirarsi un po’ su, sistemarsi il serpentone di piume nere intorno al collo, accomodarsi con una mano sotto il mento, e poi rispondere. Nel frattempo io e la compare abbiamo perso qualche litro di saliva sbavando sul pavimento.
-I racconti di Edgar Allan Poe.
Bene, questo tizio è decisamente inquietante. Non capisco se Chess la pensa come me o quella che ha dipinta in viso sia solo una smorfia di completo smarrimento nel dover fissare così a lungo quella specie di angelo malefico. Deglutisce rumorosamente, poi annota piano sul blocchetto, tutta rigida sulla sedia. L’obbiettivo della macchina gracchia mentre immortalo, con la mascella praticamente a terra, la posa mielosamente puttanesca del cantante in questo momento.
Bene insomma, abbiamo a che fare con un effemminato, dark, emo, inumano e macabro. Gli allarmi del corazzato stanno trillando impazziti. Vedo spie rosse, gialle e verdi lampeggiare ovunque in preda al panico. Devo riconoscere alla Fatina il merito di spaventarmi a morte.
-Bene, allora, ci prendiamo questo caffè?- viene fuori il vichingo, rompendo l’atmosfera di magia nera calata sulla stanza.
-Uhm … c-certo, possiamo fare una pausa se vi va- borbotta Chess sorridendo, mentre mi manda un’occhiata a metà fra l’innamorata persa e la pecorella terrorizzata caduta in balia del lupo.
Winnie The Pooh e gli altri due ragazzi schizzano su dal divanetto, seguiti da me e Chess. Bill si alza, lentamente, per ultimo.
Ci dirigiamo verso una macchinetta del caffè fuori dalla porta dell’ufficio.
Assomiglia tanto a quelle che piazzano nei corridoi delle scuole tanto per far vedere che ci tengono ai loro studenti. Ma tanto si sa che lo schifo che esce da lì è solo acqua parecchio sporca. Insomma, se proprio dovete farvi un caffè degno di tale nome, venite da me alle sette di mattina.
Chelsea e il vichingo chiacchierano allegramente di film, pellicole e altre cose da tizi che non hanno un cazzo da fare oltre a stare fermi davanti alla tv. Che cosa cattiva da dire. Stai zitta coscienza. Georg, l’amico finto metallaro, e l’orso che non ricordo come si chiama ridacchiano con loro aggiungendo qualcosa ogni tanto. Bill fissa la colonna di vapore che si alza dal suo bicchiere bollente, seguendo con i letali occhi color cioccolato le evoluzioni delle particelle d’acqua nell’aria. Io mi guardo sospettosamente intorno, soprattutto sto tenendo d’occhio il moretto-fatina. Nei quattro metri quadrati occupati da noi sei si distinguono due zone climatiche diverse. Tropicale e caldo vicino a Chelsea e gli altri. Vicino a me e la Fatina, ghiaccio puro. Come se lui fosse il mercenario russo appostato dietro ad una stalagmite che aspetta il momento giusto per far saltare in aria tutto e io l’inesperto soldato americano con l’ignobile incarico di pararmi il culo dalle insidie nascoste in ogni angolo della steppa.
-Allora, ragazzi, avete finito?
Ci mancava il rompipalle del manager esaurito. Si capisce solo guardandolo che l’unico suo neurone sopravvissuto ai quattro tenta disperatamente di tenersi aggrappato ai programmi per non cadere nel baratro. Poveraccio, se fossi in lui inizierei a prenotarmi un bel posto comodo in qualche reparto rianimazione.
-Sì Dav, rilassati e goditi la vita!- gli risponde allegro Tom per poi tornare ai film.
-NO, non posso godermi la vita visto che devo badare a voi quattro pesti. Scommetto che vi siete già dimenticati che fra meno di venti minuti avete un’altra intervista all’altro capo della città?
-Ah. Che palle, Radio Berlino. Ma non l’hanno ancora bandita?- si lamenta Winnie.
-No, a quanto pare, ed è meglio sbrigarci se non vogliamo fare una figuraccia in diretta radio.
I tre sbuffano in coro. Fatina si limita ad alzare gli occhi al cielo.
-Quindi sia chiaro che fra cinque minuti vi voglio pronti in macchina, tutti e quattro- l’agente sottolinea la parola ‘quattro’, alzando la voce in direzione del cantante.
Oh, poveraccio. Non avresti dovuto farlo.
Come previsto, Bill gli risponde con uno sguardo che farebbe congelare un vulcano in eruzione, fermerebbe una pioggia mi meteoriti, stecchirebbe un esercito di giocatori inglesi di football in corsa e farebbe finire in ginocchio a pregare una qualche divinità anche l’ateo più convinto.
Il manager sbianca totalmente, e balbetta due parole di scusa aggiustandosi la cravatta. Che stupido, dovresti averci fatto l’abitudine ad un temperamento del genere.
Il vocalist si allontana fiancheggiando come una modella anoressica sulla passerella di Louis Vitton, molla il bicchiere di plastica vuoto in mano ad una povera segretaria di passaggio e sparisce alla fine del corridoio. Io e Chelsea ci scambiamo uno sguardo in perfetto stile “Sorreggimi perché se è vero quel che ho visto potrei sciogliermi delirando da un momento all’altro”. Sto per aggiungere qualcosa, quando la nostra conversazione visiva viene interrotta dal mio amico metallaro:
-Le interviste in radio sono una palla. Le domande sono sempre le stesse … - sbuffa buttando la testa all’indietro. –Sarà più divertente scambiare due parole con due ragazze normali- il tono con cui ha detto ‘normali’ non era molto convinto. Beh, vorrei vedere io il coraggioso che ha il fegato di definire ‘normali’ due esseri quali siamo io e Chess. -… che con un commentatore rugoso con due binocoli della Seconda Guerra Mondiale sul naso?
Gli altri due annuiscono tristemente.
-Beh, si ci becca in giro. Meglio non perdere Bill, potrebbero partire senza di noi.
-Ultimamente mio fratello è strano- mugugna il vichingo, fissando il culo della segretaria intenta a riporre con cura il bicchiere nel cestino, manco fosse un rifiuto radioattivo, per poi zampettare via terrorizzata. –è sempre in orario, se non in anticipo. Poi è più nervoso del solito. Cioè, è isterico.
-Avrà il ciclo- sbuffa Georg, prendendosi un’occhiata interrogativa da parte di tutto il gruppo.
-Che c’è?! L a mia ragazza si comporta sempre così quando ha il ciclo!- si lamenta.
-Georg, va bene che Bill è un perenne mestruato, ma non nel senso letterale- interviene lapidario Tom.  -Cioè, non credo che sia una cosa perenne. In teoria viene solo una volta al mese … - si corregge poi, grattandosi il mento.
Guardo Chelsea. Scuotiamo la testa all’unisono, sconfortate.
-KAULITZ, LISTING E SCHAFER! SONO PASSATI SEI MINUTI!- tuona il manager dal fondo del corridoio.
-Sì, benedette tutte le Gibson. Stiamo arrivando- borbotta Tom dirigendosi stancamente
 verso l’uscita seguito dai compari. Poi si gira di scatto verso di noi, rimaste vicino alla macchinetta del caffè con i bicchieri vuoti in mano. –Ci sentiamo!- urla, facendo il gesto del telefono, per poi essere trascinato fuori dall’orso. Ora che ci penso mi sembra si chiamasse Garolf. O Gustav. No, era Garolf.
-Ma gli hai dato il tuo numero?- chiedo a Chess.
-Beh, come minimo. Deve venire a vedere la mia collezione di cassette degli anni ’50.
Rimaniamo un attimo in silenzio. So che stiamo pensando la stessa cosa, quindi tanto vale esternare le ragioni dei nostri rimuginamenti.
-Ma quanto è gnocco il mestruato?
-Gnocco alla ricotta affumicata. Gnoccosissimo.
Argh. Gnocco alla ricotta è già tanto, peggio di gnocco al ragù. Se poi è anche affumicata è davvero una situazione grave. Grave e pericolosa. May-day, may-day. Houston, abbiamo un problema. Un alto, magro, moro, effemminato, dark, macabro e tremendamente androgino problema. Un problema che mi sta facendo dire cose gentili. Un problema che sta rincoglionendo più del solito la mia comare. Abbiamo bisogno di una squadra aerea il primo possibile, la situazione sta precipitando.
-Dici che darai pace a quel povero bicchiere?- ringhio alla mia compare, che sta torturando il povero bicchiere nervosamente da mezz’ora.
-E tu dici che sia dell’altra sponda?- chiede flebilmente lei, senza lasciare in pace il povero grumo di plastica.
-Sì, e ci è molto affezionato e ben ancorato. Muoviti, non voglio rimanere qua un secondo di più- sentenzio nel tono più spietato che conosco, trascinando per la collottola la mia povera collega prima che scoppi in lacrime (cosa che succederà comunque una volta che saremo arrivate a casa,o meglio, addosso al responsabile del giornale quando dovremo consegnare l’intervista. Che sarebbe anche divertente), snocciolando una bella lista delle cose che non sopporto degli uffici da ricconi tanto per consolarla.

Heyyyy, qui è callingonsatellites che vi parla. Che ne dite della nostra storia? ... non abbiate paura di queste due bestiacce, in fondo siamo solo all'inzio .... Muahahhahha *Alexandria prende il sopravvento*
Mi raccomando lasciate tanti bei commentini -che sennò vi mando il sergente Herder sotto il letto- e grazie a chi passerà a leggere! Baci^^                   Noi :*

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Capitolo 3
*** Veniamo a casa vostra! ***


CAPITOLO TRE: VENIAMO A CASA VOSTRA!
 
Chelsea’s P.O.V.
-No, sul serio, quel ragazzo è … è divino, latte stellare che cade dalla luna, perla rara abbandonata nel fondo dell’oceano, ballad segreta degli Scorpions, sangue blu che scorre nelle labbra di un vampiro, cuore distrutto in mano a uno stregone …
-E basta, Chess! Non se ne può più di questa tua manfrina.
-Senti chi parla, avevi le ovaie in palla e gli occhi a cuore!
-Cosa c’entra?!
Mi gratto la testa, azzannando con poca femminilità l’hot-dog che ho appena comprato al baracchino all’angolo, lasciando penzolare le gambe giù dalla ringhiera del fiume che scorre placidamente sotto di noi. Guardo di sottecchi Alex, seduta accanto a me, il trucco sbavato che le cola sulle guancie pallide, quell’espressione particolare che vuole indubbiamente esternare al mondo la sua rabbia cieca. La bambola di prima ha avuto un effetto piuttosto deleterio su entrambe, che diavolo.
Per tutta l’intervista non ho fatto altro che cercare di leggere qualcosa che non fosse odio dentro quegli occhi ricoperti di trucco, l’ombra di un sorriso su quelle labbra spennellate di rossetto nero, una traccia di umanità su quel viso perfettamente modellato nella ceramica, senza trovare nulla se non un fascino da non morto assolutamente incredibile. Mi ha fatto balbettare, me, dico, me che non ho mai balbettato in vita mia, che ho sempre riso in faccia a tutti, qualunque cosa succedesse, e ha fatto essere gentile quella belva di Alexandria. Insomma, per avere una forza del genere nel solo aspetto bisogna davvero essere speciali.
Non è nemmeno la prima volta che io e Alex sbaviamo dietro allo stesso ragazzo, perché per qualche motivo contorto, a dispetto dei caratteri praticamente opposti, finiamo per fare il filo alla stessa gente, che solitamente si riducono o ad avanzi di galera, oppure a tipi sulla scia di Bill. Con la sostanziale differenza che lui è stato davvero il primo a farci rimanere imbambolate come due cariatidi greche. E non era solo per l’effeminatezza assurda dei tratti, o per il trucco pesante, o l’abbigliamento da prostituta notturna del Sunset, ma per quello sguardo perforante, quello charme principesco e quella freddezza degna di una regina. È stata una visione letteralmente travolgente, qualcosa di scombinante come il Cappellaio per Alice, di sconvolgente, un momento di pura follia che ci ha fatto precipitare in un maelstrom di sensazioni talmente assurdo da far impallidire Werther nei confronti di quella bastarda di Lotte. Ha qualcosa di arcano che scaturisce a fiotti dal suo sguardo magnetico e inquietante, che ti avvolge come un’onda e ti soffoca, una bellezza androgina che ricorda una silfide scaturita dai racconti popolari che i nonni raccontano ai bambini attorno al fuoco. Ci sono state volte in cui ho trovato ragazze simili a lui, ma mai nessuna ha saputo reggere uno sguardo e un fascino simile; ci sono stati ragazzi che avevano quello sguardo perforante ma non il carisma orrido che lo pervade. Mi sembra così tanto di capire il vecchio Baudelaire, quando scriveva dell’inquietante fascino della mendicante dai capelli rossi. Bill mi trasmette le stesse tragiche sensazioni, come fosse la mia Delfina, e io la sua Ippolita, un turbinio di passione e di orrore che mi ha soffocato non appena ho realizzato la sua silente presenza in quello studio. E ritorna il vecchio Baudelaire, con le sue Delfina e Ippolita, poesia condannata dei Fiori del Male, come dovrebbe essere condannato Bill per esistere in questo mondo. Come per aver sconvolto irreparabilmente me e Alexandria.
-Comunque, che ne pensi in generale?- chiedo, addentando con gusto l’hot-dog.
-Beh, il metallaro finto mi è fin simpatico, Winnie the Pooh è praticamente un addobbo di bruttezza, il vichingo è idiota esattamente come te e il mestruato è gnocco. Non male direi, no?- risponde Alex, accendendosi mollemente una sigaretta – Tu che ne dici, Chess?
-Direi che Georg, il metallaro, è uno sano di mente che potrebbe anche andare d’accordo con una belva infernale come te. Gustav …
-Chi cazzo è Gustav? Non si chiamava Garolf, il biondo?
-No, idiota, si chiama Gustav ed è fondamentalmente uno pacioccone, di quelli talmente innocui da far paura. E Tom … Dio, Tom! È a dir poco strepitoso.
-Ma se lo conosci da un’ora!- Alex scuote la testa, mettendosi le mani sui fianchi – Chelsea, pianta di essere così dannatamente sociale e iperattiva.
La guardo storto, da sotto il berretto da baseball, pulendomi le tracce di senape con la manica della felpa
-Senti, Mercoledì Addams, lo sai benissimo che sono fatta così, e poi Tom è il fratello che non ho mai avuto. Abbiamo gli stessi identici gusti di film, e poi è gnocco pure lui. A proposito, sai che tanto prima o poi te lo ritrovi in casa.
-Quel giorno farò in modo di essere fuori con quel deficiente di Lars.
Ci guardiamo un po’, in cagnesco, cominciando ad avviarci verso casa per scrivere finalmente un articolo che regga e inserirci le fotografie
-Oh no, bella mia, quel giorno tu sarai in casa a fare biscotti e caffè a Tom! Dai, è il ragazzo più famoso della nazione, ed è mio amico, non puoi lasciarmi così.- abbaio, rifacendomi la coda di dread bianchi e rosa che Alex tanto odia.
-Può anche essere Gesù reincarnato che nessuno, nemmeno tu Chess, potrà obbligarmi a farvi da sguattera e cuoca personale, non l’hai ancora capito dopo venti fottuti anni?!- latra la mia amica, scostandosi i capelli dal viso con un gesto che tradisce un certo nervosismo imperante.
-Ci scommetto che se Bill fosse lì con noi, faresti dieci torte.- le do di gomito e sì, Chelsea Sienna Spiegelmann sei proprio una cogliona perché te le botte te le vai a cercare, visto che mi tocca partire in quarta onde evitare i pugni rotanti e gli anatemi che Alexandria tenta di scaraventarmi addosso.
Quando poi arriviamo a casa, spompate, malmenate e distrutte, e ci trasciniamo mollemente nel vecchio salotto, la mia migliore amica riesce giusto a balbettare, mentre cade a peso morto sul vecchio divano che ha decisamente visto giorni migliori, recuperato nel vecchio magazzino di zio Connie
-Cristo, Chess … cosa non farei per Bill … sarà anche un finocchio patentato e frontman della band più orribile del pianeta, ma è davvero troppo.
Io mi limito ad annuire, poggiandole la testa sulla spalla, chiudendo gli occhi, cotta dalla corsa sfiancante che ho fatto per sfuggire ai suoi artigli malamente smaltati di nero
-Dillo forte, Alex … Bill è troppo per tutti noi. Sai una cosa? “Oggi, mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della terra”.
Rimaniamo qualche minuto in un silenzio religioso, guardandoci negli occhi, un paio marroni e rabbiosi, un paio viola e rassegnati, un paio pieni di folle grinta e un paio pieni di amara allegria, quando finalmente Alexandria rompe il fastidioso e innaturale silenzio
-Ok, tesoro, citazione di?
-“L’idolo delle folle”, di Sam Wood, anno 1942, battuta detta da Gary Cooper nei panni di Henry Louis Lou Gehrig.
-Sei una drogata di cinema.
-E tu di acidità.
 
Quando parte a tutto volume la suoneria del mio cellulare, io e Alex siamo impegnate in una guerra senza quartiere col vecchio portatile che ha deciso di scioperare e di non permetterci di scrivere quel dannato articolo da mandare a Ziemann. Quando parte, Alexandria si rovescia addosso imprecando coloritamente la Nutella che sta divorando a grosse cucchiaiate e il gatto Panther Lily comincia a banchettare con la cioccolata caduta per terra. Quando parte, io do un’involontaria botta al portatile, che si spegne del tutto.
-E che cazzo, Chelsea, una fottuta suoneria normale no, eh?!
L’abbaio della mia coinquilina mi fa riprendere dall’improvviso shock di sentire squillare un telefono che non squilla mai.
-E’ la colonna sonora di “Psycho”, quello di Alfred Hitchcock del 1960, con Janet Leigh e Anthony Perkins, brutta ignorante mezza rapata!
Afferro il cellulare e leggo sulla schermata “Tom Bro”. Tom?
-Tom?- dico ad alta voce, soffocando un urletto emozionato.
-Tom?- mi fa eco la mia amica, affacciandosi da sopra la mia spalla.
Ci guardiamo, io con quella felicità che ho insita dentro sin dalla nascita, lei con un certa noia scazzata. Ce l’hanno sempre detto tutti che in fondo siamo uno splendido paradosso vivente, un microcosmo che funziona proprio grazie alla sua scombinata formula chimica, un numero d’avanspettacolo da guardare solo per ridere delle disgrazie altrui. Perché io sono la Gwynplaine della situazione, col viso perennemente distorto in una risata che di normale non ha nulla, che sono abituata a sghignazzare impunemente anche di fronte a cose che meriterebbero nient’altro che lacrime e riflessione, ma io sono fatta così, io rido, rido e non la smetto, rido per mettermi in posizione contro questo mondo che fa schifo e per cui non vale più la pena lottare, rido per far vedere che esiste ancora la felicità, rido perché nessuno mi butta giù, nessuno farà mai piangere Chelsea Sienna Spiegelmann. Forse la mia è sempre stata una presa di posizione esagerata, forse puerile, ma oramai mi sono schierata dalla mia, il partito della risata, del menefreghismo e della gioia infinita, il partito di quella rasta sconclusionata che ha imparato a prendere tutto ridendo, col quella sua risata grottesca, volgare, proletaria. E se io rido, Alex ringhia, perché lei è fatta per arrabbiarsi, per sbranare, per distruggere. Se io prendo il mondo come viene, adattandolo con una stupida allegria, lei lo prende come una lotta all’ultimo sangue in cui nessuno ne uscirà vivo. Se io vedo il sole, lei vede il buio. Se io vedo la vita, lei vede la morte. E in qualche modo ci compensiamo, equilibrando l’horror vacui che io temo e il rococò che lei aborrisce. Chi era Matisse nel suo periodo Fauves, chi era Kirchner e la sua follia? Li chiamerei nessuno, se li prendo insieme a noi due. Perché Matisse e i suoi distorti quadri delle “belve” avevano dato un’impressione così violenta e l’odio che scaturisce dagli occhi di Alexandria no? Perché Kirchner veniva idolatrato per i suoi quadri folli e Chelsea viene considerata solo un’ochetta stupida? Chiedo ancora, le differenza dov’è. La rabbia è unica, è umana, è arte se la dipingi e se la urli, la follia è la stessa, che tu la illustri o che tu la rida a tutti, era furibondo Matisse esattamente come lo è Alex, era matto Kirchner esattamente come lo sono io, proviamo tutti l’odio ribelle per la società e siamo fuori di melone allo stesso modo. Ma se uno dipinge donne coi cappelli e una preferisce urlare la sua rabbia al cielo, se uno illustra la neve viola e una ride come un’idiota invece che piangere, chi è il dio? L’artista nella sua perfezione o le ragazze nella loro ignoranza? E chi è il diavolo, se non abbiamo dei? Insomma, l’ha detto anche Bulgakov a suo tempo “Che cosa farebbe il mio bene, se non esistesse il male?”
Rispondo immediatamente, senza tradire una certa eccitata esitazione nel farlo, guardando al settimo cielo Alex e Panther che mi guardano con gli occhi a palla.
-Pronto?
-Ehi, Chelsea Sis! Sono Tom, ti disturbo?
-Oh, Tom Bro! Affatto, sono contenta di sentirti così presto.- poso il cellulare e metto in vivavoce, facendo sbuffare la mia amica per la mia solita inguaribile allegria. – Avete finito l’intervista alla Radio Berlino?
-Sì, non ti dico che due palle … comunque, io e i ragazzi abbiamo guadagnato la serata libera, e mi chiedevo se potessi fare un passo da voi per le cassette.
Nello stesso momento in cui io urlo “Certo!”, Alexandria abbaia “Giammai!”
-Ovviamente puoi venire quando vuoi.- mi affretto ad aggiungere, mentre tappo la bocca a quella fogna della mia coinquilina. – Amburg Strasse, 17.
-Sei un tesoro, Sis. Ah, però verrebbe pure mio fratello, non è un problema no?
Io e Alex ci scambiamo un’occhiata allarmata. Oh, cazzo. Quindi dobbiamo resistere psicologicamente e fisicamente a un pericolo super sexy e super isterico, con un fascino della Madonnina Santa, delle labbra da paura e una voce da “eargasm”. So già che non ce la faremo mai, perché la corazzata Herder cederà sotto il fuoco nemico e il pagliaccetto Spiegelmann si scioglierà come cioccolato al sole.
-Ah, ma certo, Bro, ovviamente accoglieremo volentieri anche Bill.
Alex comincia a scuotere impazzita la testa, ma io mi limito ad alzare le spalle impacciata. Lo so, nemmeno io lo vorrei in casa perché ho paura dell’effetto che mi possa fare, ma non riesco a fare a meno di pensargli ossessivamente da quando siamo uscite dallo studio. Quel personaggio è sensazionale a dire poco.
-Fantastico, allora arriviamo subito!
Quando butto giù la chiamata, Alexandria mi assale con la sua fida chitarra elettrica, sbattendomela in testa con la stessa delicatezza di Sylvester Stallone in “Rocky”, diretto da John G. Avildsen, anno 1976.
-Razza di ochetta cogliona, come ti è saltato in mente di dirgli di sì?
-Ma Alex, non potevo mica ritrattare quando mi ha detto che c’è pure Bill.- tento di difendermi, saltando agilmente sopra il suo letto matrimoniale ancora sfatto, con quel dannato piumone nero che terrorizzerebbe pure Rambo.
Alexandria mi guarda, improvvisamente vuota di tutta l’eccitazione omicida di prima, lasciando cadere la chitarra per terra e abbandonandosi mollemente sul letto, tirandomi giù con lei in un ammasso di coperte.
-Siamo finite, Chess. Kaput. È il colpo di coda dell’Apocalisse di San Giovanni di Patmos. Il nostro bafometto personale.
Io sospiro, abbracciandola anche se so che odia i contatti personali. Eppure io e lei ci conosciamo da talmente tanti anni, che oramai a volte è lei stessa ad abbracciarmi, consce del rapporto che ci lega e che nessuno spezzerà mai. Siamo pappa e ciccia, in fondo, e oramai è riuscita ad ammetterlo e ad accettare i miei slanci di affetto che trova così inopportuni per un mondo “che era nero, è nero e sempre sarà nero”.
-Allora, Alex, andiamo a fare i biscotti per il nostro frontman preferito?
Mi guarda da sotto i capelli, buttandomi di scatto giù dal letto, con un mezzo ghigno satanico sulle labbra
-Andiamo a fare i biscotti, brutta capra di una rasta! Alza il culo!
 
Ovviamente, mi pare pleonastico se non lapalissiano dire che la sottoscritta non sa assolutamente fare dei biscotti, ma che si limita a starsene seduta nel disordinato salotto a guardare la propria coinquilina impegnata a spignattare nell’angolo cottura, intenta a impastare i biscottini col cioccolato che poi vengono puntualmente divorati da me. Resto seduta alla mia batteria, suonando la base di Magic Bus dei The Who, la mia adorata batteria. Beh, in fondo c’è un qualcosa che lega me e Alexandria, e quel qualcosa è la musica. Che sia ogni genere di punk rock o ogni sottogenere svasato del metal, io e lei lo suoniamo, lo ascoltiamo, lo viviamo sulla nostra pelle come fosse il sangue che ci scorre nelle vene o l’inchiostro che ci impregna il corpo. La radio sempre sintonizzata sulle musiche dei tempi che furono, i vinili e gli LP che riempiono ogni spazio del vecchio appartamento, le contrattazioni per infilarci in un qualche sfigato studio di registrazione per orchestrarci le vecchie cover o le nostre brutte canzoni che componiamo nottetempo, quando tutti dormono e noi siamo lì, stravaccate sul divano sfondato, che scriviamo cose che nessuno mai accetterà, intenti a divorare patatine fritte su patatine fritte (o meglio, io intenta a divorare quei chili di patatine che Alex mi frigge apposta), lasciando trascorrere quelle ore in cui davvero tutti dormono senza litigare nemmeno una volta. Beh, forse non so cosa si possa fare con una chitarra elettrica suonata da una dark che vede tutto con la luna storta e che starebbe bene in un concerto dei Joy Division e una batteria sbattuta da una specie di metallara con un difetto di fabbricazione perché le piace pure la musica punk, ma in qualche maniera tiriamo avanti pure con quello. Suoniamo perché per noi la musica è vita, parliamo attraverso i nostri strumenti, urliamo o piangiamo dentro spartiti che non vedranno mai la luce, svuotiamo le anime in un catasto di parole e note insensate e dissonanti ma che in fondo una loro dissociata armonia la hanno pure loro. È la nostra voce, e che cazzo, dobbiamo pure farci sentire in questo mondo di merda, dobbiamo disintegrare una batteria a suon di bacchettate e staccare le corde a una chitarra. Accarezzo mollemente i piatti della batteria, ricordando con un sospiro la prima volta che l’avevo costretta a imbucarsi nello studio di registrazione in riparazione degli Studio per suonare la nostra prima canzonetta che avevamo composto a quindici anni “Tower Hill”, che sembrava un brutto ibrido tra “Light My Fire” dei The Doors e “Do Or Die” dei 30 Seconds To Mars, tanto per farvi capire cosa poteva essere uscito fuori. Ci avevano cacciato fuori a calci, in realtà, perché io, presa da esaltazione da palcoscenico, avevo tirato due fumogeni e li avevo lanciati accesi nel tentativo di ricreare un’atmosfera da concerto, mentre ripetevamo per l’ennesima e finalmente perfetta volta Tower Hill. Beh, avevo fatto partire tutti i sensori antincendio, e ci avevano quindi non solo beccato, ma anche multato salatamente, senza scordare tutte le botte che mi aveva dato prima Alex e poi mia sorella maggiore (sì, sono la solita sfigata: siamo nove fratelli, ma l’unica che quella stronza di  Flora Anne odia sono io). Però, botte o no, soldi o no, era stata l’esperienza più eccitante di tutta la mia vita e lo rifarei ancora mille e mille volte.
Il triste squillo del campanello ci fa sobbalzare di colpo e Alex sibila
-Fai almeno questo, scansafatiche! Apri la porta!
Mi fiondo dalla porta e la spalanco di scatto, trovandomi davanti un sorridente Tom e un po’meno sorridente Bill, uno male in arnese come la sottoscritta e uno in stile “Andiamo a battere sul Sunset”.
-Ehi, ragazzi, benvenuti!- strillo come un’aquila, saltando al collo di Tom e sì, se qui ci fosse Alexandria mi avrebbe già pestato a sangue. Bill non oso nemmeno toccarlo, primo perché temo che mi cavi un occhio, secondo perché rischierei di violentarlo e mi ci manca giusto un’accusa di violenza su un cantante.
-Ma che casa figa!- commenta Tom, entrando nel microscopico ingresso dove giacciono tutti i nostri tomi universitari e i nostri appunti.
-Stai zitto, idiota. È uno schifo di casa.- lo gela Bill, senza guardarmi nemmeno in faccia e senza nemmeno dirmi un misero ciao. Dio, quant’è figo.
-E allora evitavi di venire.- ribatte il nostro Obelix a dieta serrata, infilandosi nel salotto cucina e salutando allegramente la mia coinquilina che puntualmente si limita a grugnire un saluto scazzato. Odia i Tokio Hotel, si è capito. E già non si capisce come fa a sopportare la sottoscritta, quindi non riesco a credere che sopporti anche Tom che va di pari passo con me per demenza. In più, come se non bastasse, ci si mette anche Bill che ci ha già strappato cuore e sanità mentale e che fa l’indifferente sociopatico. Povero soldato Herder.
-Avrei evitato di venire se Jake non mi avesse piantato in asso, va bene?- protesta inviperito Bill, sedendosi con aria schifata al nostro tavolo.
Io e Alex ci lanciamo un’occhiata eloquente, abbiamo una specie di collegamento telepatico che risale ai tempi delle verifiche di biologia di cui prendevo sempre gloriosamente l’insufficienza, del tipo “Quando è isterico è ancora più sexy”, e io mi arrischio a dire
-Ehm, Jake è un tuo amico …?
-No, è il suo scopa amico.- risponde Tom - Un santo che Bill ha portato all’esasperazione e che ha finalmente capito che per quanto mio fratello possa essere bello, apparentemente dolce- qui ci lanciamo un’occhiata dubbiosa – bravo a letto eccetera, è psicologicamente insostenibile. Quindi, hip hip urrà per Jake e la sua liberazione da questo demonio!
Siccome evidentemente io e Alex non brilliamo per arguzia, facciamo davvero hip hip urrà, guadagnandoci un’occhiataccia da Bill e un applauso da Tom.
Il nostro cantante ci guarda storto da sotto le chilometriche ciglia, osservando vagamente schifato il piatto di biscotti al cioccolato che la mia amica ha appena sfornato
-Cosa sarebbero questi … cosi?
-Sono biscotti, bambolina bella, che ho fatto io e sono anche piuttosto buoni.- ringhia Alexandria, incrociando le braccia al petto, la sua solita smorfia incazzata nera sul volto, i lunghi capelli biondicci che le ricadono scompostamente sul viso.
-E tu questi li chiami biscotti?!- Bill lo agita per aria – Io li chiamo rifiuti di Chernobyl.
Solitamente, se qualcuno osa anche solo fare un commentino poco educato sui suoi piatti, la mia adorata cuoca impazzisce, avventandosi sullo sfortunato con qualunque arma impropria gli capiti a tiro, pronta a sbranare persino la sottoscritta, ma quest’oggi no. Si limita a ringhiare come un cane in gabbia, a fargli il medio, e ad andarsene di sopra sbattendo la porta della cucina. Dio, questo ragazzo ha fatto addirittura cedere le armi ad Alexandria; la situazione è più grave di quanto pensassi.
-E che cazzo, Bill, sei proprio uno stronzo di prima categoria!- abbaia Tom, non appena Alex scompare di sopra – Ma ti sembra il caso di comportarti così in casa di due ragazze?!
-Toooom, senti non ti ci mettere anche tu, capito!?- Bill lo guarda in cagnesco, lasciandosi cadere su una delle vecchie sedie, le mani sui fianchi in perfetta mossa da modella, teneramente imbronciato – Non ti rendi conto dei miei problemi!
-Dai, coraggio, se vuoi ho delle pastiglie per i dolori mestruali.- lo consolo io – Magari sei come Alexandria, diventa una bestiaccia quando le viene il ciclo. Non sentirti solo, Bill.
Forse non sono stata tanto furba a vestire i panni di Crocerossina, visto che io e Tom ci ritroviamo sbattuti in salotto insieme a cinque biscotti lanciati con estrema rabbia e qualche bestemmia poco carina nei miei confronti.
Ci guardiamo un po’ negli occhi, grattandoci la testa in contemporanea, prima di alzarci in silenzio e andare in salotto a cercare le mie pregiatissime cassette di tutti i film muti di Gloria Swanson. Ci sediamo per terra, mentre riordiniamo per data di uscita questi piccoli gioielli, commentando acutamente i punti di forza di ciascuno, trovandoci perfettamente su una linea d’onda che ero certa di non poter mai trovare con nessun altro, chiacchierando come ci conoscessimo da una vita e non come se fossimo un chitarrista famosissimo e una giornalista spiantata conosciutisi per caso a un’intervista da quattro soldi per lo sfigato giornalino di un ancora più sfigato complesso universitario.
-Tesoro, ma è tua quella chitarra?
Tom molla la cassetta di “L’età di amare”, del 1922, con Rodolfo Valentino e la vecchia Gloria, precipitandosi ad afferrare la vecchia chitarra elettrica rossa di Alex, guardandola con aria rapita
-No, è di Alexandria, sai lei …
-Suona la chitarra e non ha voglia che un idiota come te osi anche solo sfiorarla con lo sguardo.- completa la mia simpatica e sempre disponibile coinquilina, apparendo come uno spettro della casa degli Asher sulla porta del salotto.
-Ehi, tranquilla bambola, stavo notando che … - sorride Tom, scostandosi le treccine dal viso aperto in una sempiterna risata.
-Intanto, bambola lo dirai a quella sconsiderata di Chelsea, e poi chi diavolo ti ha dato il permesso di toccarla?- Alex si avvicina a grandi passi, la canottiera degli Iron Maiden che non aiuta, come nemmeno il tatuaggio di un lupo con le fauci spalancate sulla spalla.
-E dai, Alex.- intervengo, mettendomi in mezzo ai due prima che mi sbrani il migliore amico – Non fare la stronza, Tom non ha fatto …
Nemmeno il tempo di finire la frase, che il nostro Obelix a dieta esclama (e sì, lo ammetto: è davvero stupido come la sottoscritta)
-Aspetta, guarda qui!- e comincia a schitarrare (oh, finalmente uno che sa suonare!) qualcosa, strillando – The pain of love will last forever
Puntualmente, Alexandria gli si slancia addosso ululando
-Giù le tue luride mani pop da una chitarra punk, coglione formato gigante che ti impiccherò con le tue stupide treccine da capra bollita!
Sospiro rumorosamente, vedendo il mio povero Tom rotolare per terra con addosso un’idrofoba Alex e la chitarra che rotola ai piedi della batteria. Beh, quand’è così so per esperienza personale che è meglio lasciarla sfogare, senza interrompere la sua ira da Pelide Achille. E che sarebbe pure meglio tagliare la corda, prima che la sua rabbia cieca si riversi anche sull’innocente rasta qui presente.
Scappo dietro all’angolo cottura, catapultandomi praticamente tra le braccia di Bill, rimasto sempre seduto al tavolo a mangiucchiare svogliatamente i biscotti di Cernobyl. Mi degna di un mezzo sguardo da sotto le ciglia ricoperte di mascara, continuando a sbocconcellare il biscottino, con aria vagamente afflitta, forse stanca, forse solo annoiata. Oh, mia Delfina, che ti affligge? Non dovrebbe essere la tormentata Ippolita a piangere trasparenti lacrime sul tuo prosperoso petto? Non dovrebbe forse lei incarnare la solitudine dello sbaglio, il margine di errore che non è più concesso a nessuno, la morte di un pantheon, l’ascesa di Lucifero? Perché anche tu cedi le armi di fronte al mondo, tu, che dovevi sostenerla, che dovevi traviarla nel coraggio di un’azione di cui sempre vi sareste pentite? Coraggio, Delfina, recupera le lacrime, non mostrarti debole di fronte alla bellissima Ippolita, illuminaci la triste Parigi del tuo perverso sorriso!
Mi siedo mollemente al suo fianco, mangiando a mia volta un biscotto un po’ troppo croccante, lanciando ogni tanto qualche occhiata ai due che si pestano di santa ragione sul tappeto.
-Ti piacciono i biscotti?- mi arrischio a chiedere a quella principessa, stanca di questo silenzio che non posso soffrire.
-Così e così.- borbotta Bill, scostandosi i lunghi capelli corvini raccolti in microscopici dread da quel viso da bambola.
-Scusa per prima. Intendo, la battuta del ciclo. Forse era davvero un po’ squallida.- mi do una grattata alla pancia, arrossendo lievemente.
-Scuse accettate.- mormora, guardandomi male – Per ora.
-Ho sentito per radio il vostro nuovo singolo. Non è malaccio.- continuo, cercando di ravvivare un po’ questa conversazione da ospizio.
-Si chiama “Automatic”. Ed è perfetta, soprattutto la mia voce. Non puoi dire che “non è malaccio”.- si pavoneggia il nostro bambolotto, evidentemente punto nell’orgoglio – Posso capire però che una … una plebea come te e come la tua amichetta non possono capire cosa distingue una voce bellissima come la mia da un urlo rauco e stonato di qualche band punk di poco conto. Dovreste imparare da chi sa veramente cantare, tesoro.
-Beh, Alex sa fare la voce death. È divertente!
-Dio, che squallore.- Bill alza gli occhi al cielo, sventolandosi. - Comunque, che diavolo sta facendo quel rintronato di mio fratello?
-Si sta pestando con la mia amica perché le ha toccato la chitarra.- spiego, guardando come procede la rissa da Bronx e notando con un certo sollievo che si è fermata e che i due si stanno tirando in piedi, bestemmiando e insultandosi ma in tutto ciò si stanno pure stringendo la mano. – No, hanno finito, e hanno preservato la batteria! Geniale!
-Chess, vieni subito qui e portami lontano questo pachiderma.- sbotta la cara coinquilina, scostandosi i capelli dalla parte rasata, guardando Tom da sotto le lunghe ciglia truccate.
-Chess, vieni subito qui e portami lontano questa iena.- mugola contemporaneamente il caro chitarrista, grattandosi le treccine e squadrando Alex da sotto le lunghe ciglia non truccate.
-Agli ordini, Capitano mio Capitano!- esclamo io, esattamente come in  “L’Attimo Fuggente”, di Peter Weir, anno 1989, con Robin Williams e Ethan Hawke, alzandomi e dirigendomi verso i due litiganti, senza però accorgermi, come tutte le sante volte, della simpatica spina del microonde che attenta alla mia vita da quando mi sono trasferita in questo appartamento. Il motivo tecnico del perché solamente la sottoscritta non veda la spina dovrebbe essere oggetto di studi psichiatrici, visto che puntualmente, anche oggi, mi ci inciampo dentro, rovinando miseramente al suolo come un sacco di patate bollite. Con l’unica, sostanziale, differenza dalle altre volte che cado perfettamente addosso alla sedia dov’è seduto il cantante, travolgendolo e trascinandolo con me nella caduta. Rotoliamo per terra, uno sopra all’altra, il suo strillo isterico che mi rimbomba nelle orecchie, i suoi capelli corvini che mi accarezzano il viso, i suoi splendidi occhi incatenati ai miei in un legame talmente forte da farci sballare, le mie mani ancorate ai suoi fianchi e le sue mani sulle mie spalle. Sento il suo profumo, che sa di rosa e di profumo da donna, di rossetto e di menta , sento il suo fiato che sa di sangue e di biscotti al cioccolato, sento il suo essere a contatto col mio, gelido come la morte e io bollente come il fuoco. È il fuoco che scioglie il ghiaccio, o è il ghiaccio che gela il fuoco? Ma, soprattutto, sento quel suo dannato tacco a stiletto dello stivale fucsia con i brillantini piantato nel polpaccio. Cazzo, che male fottuto.

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Capitolo 4
*** Biscotti al radio e risse gratis ***


-CHELSEA SIENNA SPIEGELMANN- abbaio in preda al panico più nervosamente rabbioso e assoluto. Tante ne ho viste nei miei agitati e movimentati vent’anni di vita, e tante ne posso immaginare; ma che quella scema della mia coinquilina decerebrata -che pensavo conservasse almeno un briciolo di sale in zucca-, potesse mollemente e stupidamente rovinare sopra la –odiosa, schizzinosa, crudele, scorbutica, meravigliosa, affascinante, ammaliante, tutto tranne che amabile- Fatina (roba che ci denunciano per stupro. Non testimonierò a tuo favore, sappilo) non era una cosa che avrei pensato potesse essere possibile. E ripeto che ne ho, di immaginazione. E le tragedie sono la mia specialità. 
-Agh…- geme la scemo-rasta, alzandosi piano. Seh, seh, fai la dispiaciuta, che l’avevo capito che ci stavi godendo tremendamente a stargli distesa addosso. Ho dovuto tenermi molto saldamente le mani per non scansarti violentemente da lui e chiamare la polizia. O uno psicologo. È una cosa che pensavo di fare da un po’, chiamare uno psicologo per te. Ma so che non mi gioverebbe, perché se anche solo dovesse posare lo sguardo su di me sarei la prima a finire in analisi. Quindi ho scartato questa idea dai miei programmi per il futuro. Anche perché ti voglio troppo bene per fare una cosa del genere. Ah, i rapporti affettivi. Che cosa vomitevolmente fastidiosa e rompicoglioni. Finiscono sempre per metterti i bastoni tra le ruote, per quanto tu provi a non averne bisogno.
Tornando alla nostra scena di sfiorato stupro: non voglio nemmeno guardare la faccia di Bill, perché ho abbastanza inventiva da sapere che sarà una delle cose più meravigliosamente spaventose che un visino mortalmente perfetto come il suo (più unico che raro, il cui fascino non ho mai trovato in nessun altro, maschile o femminile. Per quanto io e gli effeminati mestruati abbiamo feeling. Questa cosa penso che sia grave; sia io che Chess non siamo capaci di farci piacere i ragazzi normali, le nostre preferenze vagano ai due estremi, o avanzi di galera super tatuati ed educati come scaricatori di porto fattoni o pseudo trans totalmente privi di palle che non aspettano altro che un principe azzurro che li accetti come belle fanciulle. Dovremo farci visitare entrambe … ed ecco che torna il discorso dello psicologo) possa esprimere combinando contrazioni di muscoli facciali differenti.
-Oh … scusa, Bill- farfuglia Chess una volta tiratasi in piedi. –Non l’ho fatto apposta, io … vedi inciampo sempre- ‘Io, vedi, sono idiota e decerebrata, non penso mentre faccio le cose, sono malata mentale grave e fra poco mi denuncerete, ma sai, inciampo sempre …’ ripeto nella mia mente.
La Fatina non risponde. Come previsto, complimenti soldato Herder, le tue previsioni strategiche sono sempre impeccabili. Non vorrei e non dovrei, sento ogni creatura vivente e non, ogni singola cellula presente in questo spaziotempo urlarmi di non farlo, ma mi arrischio a guardarlo in faccia. Come non detto: l’espressione della più perfetta rabbia animalesca sapientemente e artisticamente contenuta, mista ad un nervosismo tale a quello di una quindicenne mestruata alle verifiche di fine anno scolastico, coperta dai quintali di trucco incerato intorno ad un paio di pozzi neri che sembrano portare direttamente all’Inferno (riesco a scorgere una simpatica hostess che distribuisce biglietti di ‘sola andata con atterraggio violento e non sicura sopravvivenza’ per il Fondo Inesistente di quel paio di occhi); insomma, il capolavoro più capolavoresco, il sogno di ogni essere rabbioso, il Nirvana di ogni metallaro punk incazzato, il Volto della Misantropia più assoluta, è presente di fronte a me e sta a pochi centimetri dal pavimento della mia cucina. Ed ha un labbro sporco di biscotto al cioccolato.
Apre la bocca per dire qualcosa, ma non mi do tempo di ascoltarlo perché nella mia mente sta già urlando le peggiori ingiurie in scream alternato a growl, accompagnato da chitarre rabbiose, distorte e apparentemente scoordinate, urla di terrore in sottofondo e batteristi impazziti che sfondano con ira un tamburo dopo l’altro spaccando bacchette (decisamente non posso abbinare Winnie The Pooh a questa parte della visione, mi dispiace tesoro ma per questo momento dovrai cercare un altro batterista). Insomma, questa è una scena da death metal violento e selvaggio allo stato brado.
-Tom. Aiutami ad alzarmi- poche, semplici e mielose parole spengono spietatamente i miei sogni a occhi aperti sul futuro da metallaro di quest’uomo … no, uomo decisamente no. Essere, angelo, presenza celeste, demone, incubo umano, sogno più ambito, meraviglia delle meraviglie, effemminato schifoso, figura eterea, Donna se vuoi, ma uomo proprio no. Subito il fratello corre a dargli una mano, mentre Chelsea si mette da parte in un angolino vicino ai fornelli, zoppicando. Ci manca solo lo sguardo a spirale concentrica di qualche colore strano e il sorriso perverso stile Stregatto, e poi saresti perfetta, tesoro mio adorato: con te farò i conti dopo. Per il momento sono occupata a cercare di rimanere in piedi senza svenire in modo poco virile addosso alla Vedova Nera semidistesa a mo’ di Sirenetta sul mio pavimento.
-Ti sei fatto male?- chiede premuroso il vichingo ladro di chitarre (giuro che lo seguirò, mi nasconderò sotto il suo letto, e quando andrà a dormire gli taglierò rozzamente tutte e due le mani. Nessun fottuto chitarristucolo pop-mainstream può anche solo provare a pensare lontanamente di mettere le mani sulla mia adorata, unico ed eterno amore assoluto, fusione materiale di ogni manifestazione di magnificenza terrena e celeste ossia la mia chitarra, rigorosamente punk-metal-emo. Nessuno che non sia la sottoscritta, nemmeno Chess può. Lui l’ha insudiciata, l’ha oltraggiata, l’ha violentata con quella sua obbrobriosa melodia pop. Sarà una crudele vendetta quella che scatenerò su Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel. Mondo, preparati al terrore), aiutandolo a tirarsi su. Sembra sinceramente preoccupato, probabilmente la Fata gli ha fatto il lavaggio del cervello trasformandolo in una specie di schiavo a portata di mano (eh, eh, mi piaci!). O forse è solo quell’odiosa cosa che chiamano ‘amore fraterno’. Nah, una creatura del genere non può provare ‘amore fraterno’. Che parola plebea.
-No- mormora piatto il vocalist, sistemandosi i capelli e i jeans strettissimi. Sembra quasi di vedere le piastrelle sciogliersi dove il suo sguardo incandescente passa.
-Perfetto allora- trilla il chitarrista, rivolto a Chelsea. –Possiamo tornare alle nostre cassette!
-Ovvio!- urla lei di rimando, con un sorriso a sessantaquattro denti stampato sulla faccia. Lei è brava a mascherare il panico sotto i sorrisoni, perché le vengono maledettamente bene. Se io provassi a sorridere inizierebbe a grandinare, il condominio verrebbe abbattuto dai fulmini, arriverebbe un esercito di mucche volanti dotate di mitra, perfino i soggetti delle foto scapperebbero dalle cornici e se la darebbero a gambe, e tutti i presenti si procurerebbero una schizofrenia grave e dieci anni di sedute dallo psicologo. Ed ecco che si torna sempre su di lui, lo strizzacervelli.
In breve entrambi schizzano fuori dalla stanza, lasciando me e Fata Morgana in piedi come due fessi a guardarci intorno. Ho colto negli occhi di Chelsea un disperato bisogno di prostrarsi millemila volte di fronte a Bill e implorare il suo perdono in ogni modo possibile; ma il rasta l’ha trascinata fuori prima che potesse anche solo chiedergli come stava. Non saprei dire se sia stata una buona mossa. Affrettata, quindi sicuramente la migliore a cui si potesse pensare al momento. Così, adesso siamo soli soletti come due scemi, solo il soldato Herder bloccato sull’allerta più assoluta e il mercenario russo che lo fissa giocherellando tranquillamente con il telecomando per attivare la bomba nucleare.
Argh.
Non sono brava a fare conversazione, tantomeno con un soggetto –divino- del genere. Ti prego, musa discesa dall’Olimpo, abbi pietà di un povero soldato ferito in questa umana terra.
-Mh, bene- mugugna Bill, non so se rivolto a me o a sé stesso. –La tua amica è piuttosto maldestra. Io non sopporto le persone maldestre- adoro come calca l’”Io”, come se fossimo tutti poveri schiavi inermi di fronte alla sua oscura ed eterea magnificenza, e la confidenza che mi stia lasciando in questo momento sia solo un’eccezionale concedere un attimo di considerazione ad uno di noi.
-È fatta così. È …- scema, sto per dire. –un po’ particolare. Ha la testa tra le nuvole.
-Mh. Capisco.
Si abbandona mollemente su una sedia, e ricomincia a mangiare i miei biscotti. Ne ha già fatti fuori una buona metà, e meno male che facevano schifo.
-Ti piacciono, eh?- dai, non posso non tentare di fare almeno due parole.
-Mh, buoni.
-Prima dicevi che sembravano radioattivi.
Mi guarda con uno sguardo di odio misto a stizza da sotto i ciuffi neri che gli pendono dalla chioma semi-rasta (ma sono l’unica qui a non provare a sembrare Bob Marley? Voglio dire, se va così di moda me li faccio anche io). Io ricambio indifferente, mi dispiace, Fata, ma questo lo so fare meglio io.
-Allora- mi siedo sulla sedia di fronte alla sua, al contrario, appoggiando le mani sullo schienale, come sono solita fare nelle occasioni meno eleganti. Ma anche in quelle eleganti. –Com’è fare il cantante?- chiedo tentando di sorridere un po’. Non vedo nuvole portanti tempesta in cielo, forse riuscirò a non far scoppiare il pandemonio stavolta.
Lui mi fissa come se stessi parlando in aramaico con accento francese, continuando a sgranocchiare biscotti.
-Stressante- ok, di tutte le risposte non mi sarei mai aspettata ‘stressante’.  D’altronde, la persona con la quale sto parlando necessita di un codice cifrato da interpretare tutto suo, non si può adattare al registro ‘normali persone rimbecillite’.
-Ah.
-E com’è fare la normale studente universitaria?- chiede disinteressato lui. Almeno, apparentemente. Wow, ti meriti una medaglia d’onore, Fata, non pensavo ti interessassi alle vite di noi comuni umani poco eccitanti.
-Mh, noioso- sbuffo io, rinfacciandogli la sua freddezza.
-Lo immaginavo.
-Allora perché chiedi cose che immagini?
-Perché immaginare non significa avere ragione. Anche se io ho sempre ragione.
Alzo un sopracciglio. Non riesco a capire se mi stia sfidando o se si stia semplicemente divertendo. Sicuramente mentre ‘parla’ con me sta architettando un modo per farla pagare a Chess per essersi buttata addosso a lui come un sacco di patate olandesi in caduta libera. E chi non lo farebbe.
-Buon per te.
-Grazie.
Cala il silenzio. Si sente solo il rumore di Bill che mastica i biscotti. Mi arrischio a prendergliene uno, ma appena la mia mano semi-avvolta dal guanto senza dita consumato di dieci anni fa, dalla pessima manicure che tenta di sembrare un minimo ordinata gli scivola sotto il naso scatta peggio di una trappola per orsi, strappandomi il piatto per un pelo e gridando in modo sovrumano, facendo tremare la terra e scatenare fulmini, aprendo voragini sul terreno e suscitando il terrore in tutta la Terra (o lo scenario apocalittico è solo nella mia mente? … oh, conosco questa fase. Il soldato, disperato ad esausto, avvolto dal terrore assoluto, inizia a pregare come una suora di clausura, avendo le peggio traveggole sugli scenari biblici). Con gli occhi spalancati che mi fissano tremolanti di gelosia nera e la bocca piena di biscotti al cioccolato; ricorda –per quando possa essere blasfemo pensarlo- una gatta isterica che soffia contro un randagio che vuole toccare i suoi cuccioli. Con l’unica differenza che i cuccioli in questo caso sarebbero di mia produzione.
-Hey, rilassati, tesoro. Non ti mangio mica.
-Ma i biscotti eccome se li mangi!- mi accusa aggressivo. Come se fosse un reato.
Ora scusa, ma non posso fare a meno di scoppiare a ridere. E rido. E rido. E mi sganascio, mi stanno scoppiando i polmoni, mi si sta strappando la faccia, mi si stanno rompendo le costole, ogni particella di me va in completa confusione, allarmi suonano ovunque impazziti, qualche povero sopravvissuto implora il may-day, è evidente che non ero preparata a questo tipo di situazione, nel mio addestramento non era compreso, sto andando in palla, non so quando sia stata l’ultima volta che ho riso così tanto, ma … cazzo, rido.
Quando –com’era prevedibile- Chelsea irrompe nella cucina per vedere che succede, io mi sto rotolando sul pavimento in preda alle convulsioni.
-A … Alex … che … che cos’hai?- mi chiede terrorizzata. Posso solo immaginare la sua faccia in questo momento, insomma, Alexandria Herder che si rotola dal ridere, è perfino peggio di quando sorrido, potrei essere malata. Potrei stare per morire. E ho paura pure io. Solo che non riesco a smettere di ridere come una scema ritardata in preda ad una grave crisi epilettica.
Nel frattempo, con tutta la calma possibile e immaginabile, nella stanza entra a passi lenti Tom, che immagino si stia guardando intorno spaesato per cercare di capire cosa c’è che non va.
-Riconfermo che sei una iena. Ti sei sentita ridere?- borbotta strascicante una voce che potrei ricongiungere a lui.
Mi blocco. Ferma immobile così come sono, le braccia strette attorno al torace piegato ad arco, le ginocchia praticamente in bocca e i piedi tirati a martello, mi fermo con gli occhi sbarrati e la bocca serrata.
Molto lentamente, giro la testa verso di lui, che mi sta ancora fissando sbadigliando. Ma il bagliore di terrore nascente lo scorgo, anche se probabilmente non se n’è ancora reso conto.
-Come, prego?- chiedo gentilmente.
Ah, adesso sì che hai paura. Lo vedo in ogni centimetro del tuo fottuto corpo da matricola tremante, con il suo primo fucile in mano e il casco male allacciato che cade sopra il viso, bloccato nel terrore alla vista del soldato nemico che si è improvvisamente trovato di fronte, spuntato da chissà dove dietro le foglie verdi, silenziose e abitate solo da allegre cicale ridenti. Fino a poco fa. Fino a che non sono spuntato io. Non è vero, matricola?
-Cosa … intendi?- come sei carino mentre cerchi di mettere insieme due parole. Tanto per vedere che sei ancora capace di farlo. Mi ricordi la mia passata innocenza. Ah, dimenticavo, non c’è mai stata.
-Non serve che io gridi qualcosa di ovvio e prevedibile per annunciare che sto per strappare quel bel visino dal teschio che lo regge in piedi?- chiedo, retorica. Le matricole, così spassose.
È divertente chiedersi perché nessuno provi a fermarmi quando, in un paio di millisecondi il mio corpo leviti dal pavimento a Tom, con un simpatico e potente cazzotto ingranato diretto al suo bel faccino e tutta l’allegra intenzione di ridurre questo essere umano ad una quantità di marmellata sufficiente da preparare un bel vassoio di panini per una festa di compleanno fra bambini. Come sono buona, penso sempre agli altri.

Hey people. Qui è callingonsatellites, spero che il capitolo -un po' cortino we know- sia stato di vostro gradimentoooooooooo :DD
Mi raccomando lasciate qualche commentinooooooooo :DD adesso ce ne andiamo, sì, ciao.
Che il potere del punk sia sempre con voi! (questa era Alex) ... e mi raccomando, attenti con i biscotti al cioccolato.
Bye frens :DDDDD            Noi^^

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Capitolo 5
*** Scommesse e inviti a cena ***


CAPITOLO CINQUE: SCOMMESSE E UN INVITO A CENA
-Wow, posso ufficialmente dire che facciamo un baffo a “Il paziente inglese”, diretto da Anthony Minghella nel 1996, con Ralph Fiennes e Juliette Binoche.
La mia esclamazione è seguita da un grugnito della coinquilina Hannibal, un gemito affranto del mio Blues Brother e da un’alzata del sopracciglio della mia Delfina elettiva. Siamo letteralmente accampati in salotto come gli scampati a una distruzione nucleare o a un bombardamento subatomico, io eroicamente in piedi sul divano con la mia splendida mise da Crocerossina che Alexandria mi aveva obbligato a indossare come cosplay di qualche manga orribile, Bill seduto composto al mio fianco con una faccia da fare concorrenza a una mummia egizia impegnato a smaltarsi le unghie di un improbabile rosa shocking come gli stivali come se tutto ciò non lo riguardasse minimamente, Alex abilmente incerottata dalla sottoscritta (eh, vedersi tutte le puntate di E. R. Medici in Prima Linea serve a qualcosa) che continua a far ballare lo sguardo furioso tra me e Tom, il quale giace come un cadavere su una barella di fortuna, ricoperto di bende e creme antidolorifiche sul perfetto stile di una mummia in via di preparazione.
-E’ lui che mi ha insultata!- scatta Alexandria, massaggiandosi le nocche della mano che si è mezza fracassata sul muro dopo uno scarto del chitarrista.
-Ma se qui qualcuno ha il senso dell’umorismo di una iena con le emorroidi, non è colpa mia.- mugola Tom da sotto le bende, tenendosi schiacciato il ghiaccio sulle parti basse, abilmente colpite da un calcione laterale.
-Tom, evita di girare il coltello nella piaga.- lo gela Bill, alzando lo sguardo dalle unghie per fulminare il povero gemello. – Mi sembra che la ragazzina sia piuttosto nervosetta.
Ora, tecnicamente Bill ha perfettamente ragione, perché Tom sembra davvero coglione come la sottoscritta, che si diverte a forzare la pazienza inesistente della nostra darkettona nerd e a farsi malmenare fino a sputare sangue sul pavimento, ma temo che il “ragazzina” non piaccia tanto alla mia amica, che puntuale come un orologio svizzero, abbaia
-Senti, “ragazzina” lo dici a tua sorella, capito, checca nevrotica?!
-E “checca nevrotica” lo dici a tua madre, sì?
Bill la guarda storto da sotto i dieci chili di mascara e eye-liner, tornando seraficamente a smaltarsi il mignolo e ad applicarci sopra dei brillantini. Beh, giuro su Steven Spielberg che nessuno ha mai detto una cosa simile ad Alexandria senza uscirne fuori con un occhio nero e un dente saltato, eppure qui, lei si limita a boccheggiare come se le avessero dato una ginocchiata micidiale nello stomaco, incapace anche solo di spiccicare parola, sbattendo gli occhi malamente truccati come un bambolotto meccanico. Cioè, prima ha riso come non ha mai riso in vita sua, ora non risponde a un insulto … ma che diavolo le sta succedendo? Dev’essere l’effetto deleterio di Bill, che la rende capace di sganasciarsi come un’epilettica e di continuare ad avere un fondo adorante nello sguardo torvo e incazzato col mondo verso la sua bellezza e la sua algidità, la sua compostezza e la sua aristocrazia. Ve l’ho detto, questo ragazzo ci sta distruggendo come uno specchio maledetto, ci ha marchiato della macchia nera di Long John Silver, ci ha rinchiuse in un Modigliani da cui non riusciamo a fuggire, ci ha ridotte in polvere di stelle che sparge tutt’attorno alla città, ci ha incatenate al suo destino come Dorian Gray era incatenato a Sir Henry Wotton, ci ha fagocitate nella sua morsa assassina e non ci lascia più andare. Siamo fritte in padella, andate, fottute con le nostre stesse mani, la fine che solo noi due potevamo avere. Ricordo ancora due anni fa, quando Alex era stata brutalmente mollata da quello stronzo del suo ragazzo di allora, un avanzo di galera che, per carità, un pezzo d’uomo che te lo dico io, ma bastardo nell’animo; ricordo come fosse ieri le lacrime di trucco della mia migliore amica, le prime notti insonni passate a evitare che si ubriacasse e andasse in coma etilico per la seconda volta, ad asciugarle il pianto, a frenarle gli istinti omicidi. Non aveva mai sofferto una storia prima d’allora, e non l’avevo mai vista scioccata come quando Stenka l’aveva lasciata così, da sola sul bordo di una strada, senza il minimo appiglio che non fossi io e la mia faccia da idiota irlandese (mia madre era irlandese, e io dal gene ho brillantemente ereditato quella faccia da patate bollite rincoglionite che hanno solo lì). Alexandria era un caso perso, lo è sempre stata, ma da quando Stenka se ne è andato ha cominciato il declino per l’autodistruzione, cadendo a ruota libera nel massacro e nella terra bruciata che si lascia dietro e portandomi irrimediabilmente con lei in un maelstrom che puzza di birra, musica punk e violenza gratuita. È lei, è la mia migliore amica, che si è chiusa ancora più a guscio dopo che quel figlio di troia aveva aperto uno spazietto di umanità pure nel suo cuore d’acciaio inossidabile e poi l’aveva lasciata così, col buco aperto e sanguinante asfalto fuso, tramutandola nella regina della periferia vera, fatta di alcol e sangue sulle nocche delle dita. Alexandria era stata abbandonata da qualcuno a cui stranamente sembrava tenere, e ora, dopo ben due anni di dure sopportazioni (per me e per gli eventuali tipi da botta e via), il buco nel cuore sembra essersi improvvisamente sanato. Sanato grazie al cantante più famoso di tutta la nazione e uno dei più idolatrati. Ma chi l’avrebbe mai detto?
Per quello che riguarda me, la mia cara Converse Dipendente dice che sono un caso perso sin dalla nascita, e che di nove fratelli l’unica tarata sono io (seh, perché in fondo lei Billy Terry non l’ha mai conosciuto, come nemmeno Charity Rebecca. Che due bastardi, ragazzi, che due fratelli bastardi che mi hanno bullizzato sin dalla nascita) io che vedo solo il cinema in ogni sua forma, che mangio sempre come un bufalo, che rido impunemente e dico cazzate pure nel sonno. Sì, forse ha ragione, sono tarata perché mi piace Bill e perché ero brillantemente riuscita a spedire in prigione per spaccio la mia ex fidanzata senza nemmeno rendermene conto, sono tarata perché faccio amicizia con tutti in un nanosecondo e perché mi sono fatta i dread alternati bianchi e rosa, sono tarata perché ho sempre rischiato la bocciatura e perché l’unica cosa che so fare è aggiustare la tv e il forno quando si rompono, sono tarata perché mi sono fatta tatuare un maiale che sniffa la colla sotto il seno e perché, quando il cantante dei Green Day mi aveva invitato sul palco a un loro concerto pescandomi a caso nella folla lo avevo baciato, sono tarata perché avevo fatto cadere un pregiatissimo Dix al museo d’arte e perché mi ero addormentata durante un mio esame universitario. Sì, sono tarata e basta, lo so e lo accetto senza farmi problemi. Non possiamo mica essere tutti geni a questo mondo, no? Servono pure gli idioti e i pagliaccetti, con un futuro a Hollywood come regista di commedie tragicomiche con personaggi sfasati come la sottoscritta e la sua coinquilina, ambientati nella periferia di una sfigata città sul confine tedesco-polacco che tutti ricordano solo per qualche patto della Seconda Guerra Mondiale, insieme a strani personaggi da incubo dal sesso incerto, la faccia da Winnie The Pooh, le treccine da capra bollita e il grugno da metallaro finto, contornati da musica che attinge da ogni repertorio possibile e no, non si fa aiutare dal buon Ennio Morricone, ma dall’orecchio dei giovani d’oggi. È il nuovo cinema onirico, il nuovo Lars Von Triar, il nuovo Peter Greenway.
-Sei riprovevole alla vista, levati quell’aggeggio!
La voce di Bill interrompe le mie elucubrazioni, riportandomi all’accampamento da rifugiati che abbiamo in salotto, ai gemiti del mio caro Tom, e all’occhiata schifata del cantante.
-Che ho che non va?- chiedo, grattandomi la testa e scrutando il mio cosplay da Crocerossina troppo stretto, con la pancetta lentigginosa che straborda dall’orlo della gonnellina bianca e le tette pure lentigginose che stanno per far partire tutti i bottoncini della camicetta.
-Infatti, che ha che non va?- mi fa subito eco Alex. No, non si sta schierando dalla mia parte, è solo che questo vestito l’aveva scelto lei e troverebbe osceno il fatto che qualcuno non approvi le sue scelte.
-Scusa tesoro, ma con quel vestito ci sto meglio io.
Io e Alex boccheggiamo e ci guardiamo, bavetta alla bocca. Porca zozza, ora lo voglio vedere sì Bill vestito da Crocerossina!
-Ma che cazzo dici Bill … - mugola il nostro ferito grave, alzando faticosamente il braccio che Alex gli ha serrato in una morsa assassina – Solo i tuoi scopa amici froci ti troverebbero eccitante vestito da Crocerossina!
-Non solo gli scopa amici froci … - sbaviamo noi due, dandoci di gomito.
Tom ci guarda strano, tra smorfie di dolore e di stupore, mentre Bill lo guarda con aria da vincitore e si batte il cinque da solo.
-Vedi, tesoruccio del tuo Billuccio?- miagola la Delfina, accarezzando il gemello con le unghie rosa sbrilluccicose – Io sono eccitante in qualunque mise.
Noi due annuiamo con aria convinta, stile showgirl alla Mike Buongiorno, e a Tom non resta che sospirare rumorosamente e seppellirsi nelle bende.
-Dai, Bill, facciamo una scommessa io, te e Alex!- me ne esco io, strizzandomi la pancia nella gonna e schiacciandomi il berrettino a triangolo sulla testa.
La mia amica annuisce convinta, ben capendo cosa la mia mente geniale stia per sputare fuori, mentre lui si limita ad alzare le spalle con aria di scherno e Tom a darsi una manata sulla fronte e urlare di conseguenza per aver beccato il livido provocatogli dall’anfibio borchiato che gli ha tirato in faccia.
-Se nel periodo di rapporti che avremo …
-Noi non avremo più nessun tipo di rapporto, ragazzina.- mi ferma subito lui, senza nemmeno guardarci. E meno male, così non si vede i musi lunghi.
-Invece sì!- mi spalleggia Tom, balzando a sedere e schiacciandosi il dito che Alex gli ha pressato nel tostapane acceso, strillando – Non mi porterai via né la sorellina, e nemmeno la iena con le emorroidi.
Alex è talmente presa da Bill che fortunatamente non registra l’insulto e si limita ad annuire con aria ebete e ripetere a pappagallo
-No, non ci porterai via …
-Quindi, la scommessa è la seguente: se tu ci dirai, seriamente, che ci adori in un arco di tempo di due settimane e mezzo, dovrai vestirti solo per noi col cosplay da Crocerossina. Se no, allora noi giuriamo di farti una fornitura a vita di biscotti al cioccolato e di aggiustarti gratis la tv ogni volta che si rompe.- concludiamo in coro perfetto io e Alexandria, dandoci il cinque con un sorriso entusiasta.
Tom ci guarda come se fossimo sceme e mi fa, ridacchiando nonostante la mascella slogata da un gancio mica da ridere
-Chess, tesoro, siete più fottute di David Carradine nei panni di Bill in Kill Bill volume 1 e 2 …
-Di Quentin Tarantino, del 2003, con Uma Thurman e Lucy Liu.- completo io, alzando le spalle con aria trionfante, come Beatrix Kiddo quando finalmente fa fuori quello stronzo di Bill. Un nome a caso. Coincidenze? Io non credo.
-Bene, bambine.- Bill si alza, scostandosi con un gesto studiato della mano i lunghi capelli corvini con le ciocche bianche dal viso perfetto – Cominciate a preparare i biscotti.
Si avvia sculettando abbondantemente verso la porta, per poi girarsi e sillabare
-Oh, e dopo che Jake mi ha lasciato ho rotto la tv con uno stiletto. Prepara gli attrezzi, ragazzina.- quindi schiocca le dita e strilla – Tom, portami a casa, non ho voglia di guidare.
Tom di Nazareth si alza, dolendo come un martire sul Golgota, ci stampiamo due sonori baci sulle guancie, alza timidamente la mano in segno di saluto verso Alex, che ringhia come una iena rabbiosa, e si avvia verso suo fratello che blatera qualcosa di sconclusionato sulla loro macchina. Prima di scomparire dietro l’uscio, ci sussurra, tentando di non farsi udire dal Carradine della situazione
-Stasera, siete invitate da me al Plaza alle 8. Cena a sei con tutti i Tokio Hotel. Tutte le ragazze darebbero chissà cosa per essere al vostro posto.
Riesce ad evitare l’ennesimo ceffone da Alexandria-Odio-I-Tokio-Hotel-Herder e il mio strillo da Kaulitz Girl. Io, che fino a cinque ore fa manco sapevo chi erano.
-Allora, ci state?
-Toooom, sbrigati ti ho detto, voglio andare a casa!- strilla amabilmente Bill in mezzo alla strada, dando una botta a quel gioiellino di Porsche Coupé parcheggiata fuori dalla nostra porta.
-Ci stiamo, tesoro. 8 al Plaza. Non mancheremo.- bisbiglio io, mentre Alex alza gli occhi al cielo e borbotta
-Qui non si rispetta più il grado dei vostri soldati. Corte Marziale. Stato Maggiore. Marescialli in posizione. Confindustria Bellica. Rancio dei militi semplici.
Sì, signori, qui non si rispetta più il grado di nessun soldato, ordini del Generale Kaulitz.
 
-Ok, Chess, cosa ne dici?
Riemergo dal sacchetto di patatine insieme a Panther Lily, lanciando un’occhiata indagatrice stile Diana Vreeland sul piede di guerra alla mia amica che mi parcheggia davanti in posa. Mi do una grattata alla guancia, percorrendo con lo sguardo il corpo snello fasciato in un corto vestitino nero decorato da borchie acuminate e catenelle penzolanti, con un paio di collant a rete piccola coordinati a un paio di stivali borchiati con una zeppa da paura. Le braccia nude sono adornate da un paio di guanti senza dita di pizzo nero, anelli e braccialetti gotici le decorano pesantemente le mani e i polsi, il trucco dark le ricopre il viso e i capelli le ricadono mollemente acconciati sotto le spalle. È bella, Alexandria. È bella di quella bellezza rovinata, sprecata, usata e maltrattata. È bella come una ninfa di periferia, nata dall’asfalto bruciato e dal fiume lurido dei liquami delle fabbriche, un perfetto personaggio dickensiano sbocciato nei vicoli periferici, il frutto della musica che salva e degli idoli già morti di una società già persa. Siamo gli eroi di una generazione, quelli che hanno smesso di pregare perché non hanno più dei, che hanno smesso di suonare perché hanno perso il ritmo, che hanno smesso di lottare perché non ci sono più ideali, che hanno smesso di ridere perché non esiste più la comicità, che hanno smesso di sperare perché hanno cancellato ogni sentimento, che hanno smesso di amare perché hanno lasciato scivolare via l’affetto, che hanno smesso di parlare perché sono troppo stufi, che hanno smesso di pensare perché, lo diceva Elicone nel Caligola di Camus, sono troppo intelligenti per farlo, che hanno smesso di vivere la loro giovinezza perché se la sono lasciata sfuggire. Sono La Generazione, annoiata e stanca, quella che giudica tutto con un cinismo inopportuno, che si ribella con i musi lunghi e graffiti sui muri, che è troppo furba per farsi fottere dai vecchi, che si lavora il mondo da dentro, che inganna prima di venire ingannata, mente prima di essere buggerata, muore prima che qualcuno la faccia fuori. Ci siamo noi, quelli della periferia, la streppa di ragazzi cresciuti su degli skateboard, con una canna in una mano e una bomboletta spray nell’altra. Ci hanno insegnato a rubare, a mentire, a farci gli affari nostri, a tenerci un coltello sotto al cuscino. Siamo cresciuti come Oliver Twist, relitti come David Copperfield, arrabattandoci in questo mondo che non perdona nessuno, tanti piccoli Raskol’nikov senza Sonia, inutili rimasugli per cui nessuno suonerà la campana, tanti Humbert senza Lolita. Siamo La Generazione distrutta che in fondo, forse, così distrutta non lo è mai stata.
-Sei uno schianto, Alex. Vuoi far morire del tutto Georg?- sghignazzo, dandole di gomito, mentre lei alza gli occhi al cielo esasperata dalle mie battutine squallide.
-Sì, lo arrostirò a fuoco lento e poi lo darò in pasto ai cani.- commenta acidamente, sfregandosi con un che di satanico le mani. Poi mi guarda storto – E te dove credi di andare conciata così?
-Al Plaza, no?- alzo le spalle, e mi becco un sonoro ceffone sulla testa.
-Ma che eri scema lo si sapeva, ma così interdetta no!- latra lei, prendendomi per un orecchio e sollevandomi come un pupazzo. – Ti vesti con questi due stracci da skater ritardata e vuoi andare al Plaza?! Ti lasciano fuori a mangiare trippa per gatti!
-Non è vero!- tento di giustificarmi – Se dico che sono la fidanzata e futura moglie di Tom Kaulitz mi fanno entrare anche in mutande! Anche perché se dico che sono la futura sposa di Bill, non penso mi credano.
-Chelsea, o fili a cambiarti, o ti infilo nel forno e quella capra bollita di Tom si trova come moglie uno spezzatino arrosto con patate novelle! E semmai, Bill lo sposo io!
Ci guardiamo un po’ in cagnesco, mentre lei mi trascina di peso in camera da letto e mi punta il mestolo addosso con aria cattiva
-Forza, ora cambiati che dobbiamo anche discutere di due cosette prima di andare.
Obbedisco, togliendomi i famosi vestiti da skater ritardata, cercando una qualche mise adeguata da infilarmi per la cena, schiacciandomi con fatica dentro un paio di shorts più che corti di lamé dorato e un top vertiginoso di paillettes nere assolutamente kitsch e volgare, cercando di infilarmi tra bestemmie e grugniti un paio di stivali col tacco a spillo verde acido su cui, mi pare lapalissiano, non so camminare, sciogliendomi i dread e dandoci una parvenza d’ordine. Lo so, sono pacchiana, sono sgargiante e grossolana, ma non ho nulla di meglio da indossare.
-Di cosa volevi discutere?- ansimo, tentando di tenere chiuso sto dannato paio di braghe di almeno due taglie in meno.
-Della Fatina Mortuaria, ovviamente.- Alex fa una smorfia piuttosto eloquente, spaparanzandosi sul mio letto. – Devo ammettere che Bill ci ha mandate fuori di melone tutte e due, ci ha fatto impazzire, letteralmente.
Oh Delfina, come hai potuto trascinare la dolce Ippolita in questo paradiso dei sensi meschini? Con quale cuore? Con quale trasporto?
-Ma, qui sta il problema. Io e te, strano ma vero, non saremmo mai capaci di litigare per un uomo, nemmeno volendolo.
Sì, ha ragione, anche Iena Herder oramai vuole troppo bene a Pagliaccio Spiegelmann per distruggerla di botte.
-Quindi, se entrambe siamo fuse per Bill, a chi tocca accaparrarselo?
-Alex, però è un Frocio di quelli con la F maiuscola. Secondo me se lo accaparra il primo gnocco al gorgonzola che transita per strada.- le faccio argutamente notare, accendendomi mollemente una sigaretta.
-Giammai Chess! Bill sarà nostro!- ulula lei, alzandosi di scatto – Gorgonzola o ragù, noi siamo di più!
-Beh, allora è semplice. Faremo in modo che lui ci vorrà tutte e due. Pacchetto unico, prendere o lasciare. Se vuoi la iena, ti ciucci anche il pagliaccio, se vuoi il pagliaccio, ti ciucci anche la iena. Non trovi?
Gli occhi le brillano sinistramente, troppo sinistramente per i miei gusti.
-Sai che per quanto tu sia furba quanto un procione castrato, quest’idea è davvero sensazionale?- Alexandria mi abbraccia, segno che è davvero ai minimi termini – Dici che dovremmo cominciare a lavorarcelo per bene?
-Esatto, sorella.- mi sistemo ancora un po’ i capelli, sospingendola verso la porta e uscendo in strada, un duo della Madonna Santa, con una dark decisamente emo e una rasta che sembra tanto una delle prostitute che battono dal Banhof Zoo. – Dobbiamo cominciare a circuirlo con abilità, trascinarlo nelle nostre grinfie senza che se ne renda davvero conto, e poi sopraffarlo quando ormai non vi è più china di risalita. Come in “Qualcosa di travolgente”, di Jonathan Demme, del 1986, con Melanie Griffith e Jeff Daniels.
Alexandria si gratta la testa, perché come al solito non sa assolutamente di cosa sto parlando, però annuisce convinta, mentre io declamo:
-Allora iniziamo da stasera, tesoro. Lo lavoreremo fino a farlo capitolare come era capitolato Marco Antonio di fronte allo strapotere di Ottaviano Augusto. Lo faremo cadere in ginocchio a pregarci di scoparlo come Cleopatra di fronte a Giulio Cesare. Lo faremo innamorare come Rossana aveva fatto innamorare Alessandro Magno. Lo trascineremo tra le nostre braccia come Lesbia aveva fatto impazzire Caio Valerio Catullo. Lo distruggeremo come Scipione l’Africano aveva distrutto Cartagine. Carthago delenda est, come diceva Catone!
-E allora sempre e per sempre, Bill delendo est!- strilla Alex, dandomi il cinque, mentre ci avviamo di gran carriera verso il Plaza, eccitatissime all’idea di questa geniale nottata e di quello che porterà nella nostra missione da 007.
 
Quando arriviamo davanti al Plaza, con le sue luci accecanti e il suo impeccabile stile Liberty, ci sentiamo entrambe vagamente fuori posto, osservate con evidente ribrezzo dai politici, dalle star e dalle topmodel che si affollano come vermi davanti al grandioso ingresso illuminato da cascate di luce dorata che riflettono il pavimento a scacchi bianco e nero, lucido di cera. Decisamente un posto poco adeguato a noi due, abituate ai luridi pub di periferia dove ci si ubriaca e ci si ingozza di patatine troppo unte e panini con salsicce che colano grasso, come è tipico mio e di Alex, con qualche bella rissa occasionale, due denti saltati, un po’ di sana musica metal sparata a tutto volume nelle vecchie casse sopra il bancone sudicio, tante battute sconce e risate sboccate e poco fini, skate e biciclette senza marce abbandonati fuori, bombolette spray semi vuote lasciate a mezzo con bottiglie semi vuote di Southern Comfort e di Hootch alla fragola, sigarette di contrabbando e marijuana scadente che impesta l’aria, schiene tatuate e braccia cicatrizzate. Sì, questo posto è decisamente diverso dai nostri standard abituali, ma in qualche modo ce la caveremo.
-Ehi, ragazze, siete un vero schianto!
La voce di Georg ci fa sobbalzare, e ce lo troviamo davanti con un sorrisone a trentadue denti che stona con il travestimento da metallaro finto. Ora, finché io lo abbraccio e lo bacio sulle guancie, non c’è nulla di strano, visto che abbraccio pure i lampioni, ma vedere Alexandria che tenta per un sorriso da squalo e dice, con un garbo che davvero non avrei mai potuto immaginare possibile:
-Georg, finalmente uno che ragiona come Lemmy comanda! Che piacere vederti.
Potete ben capire che per me sia uno shock terrificante, come quando mio fratello Billy Terry e mia sorella Charity Rebecca, da bravi piromani, avevano dato fuoco a tutte le mie riviste di cinematografia sotto ai miei occhi di innocente quattordicenne e se ne erano andati sghignazzando, per dar fuoco alle bambole di Charlotte Chanel. Insomma, la reazione allibita mia è più o meno simile: Alexandria gentile con qualcuno? Beh, Georg ha fatto il miracolo del secolo!
-Allora, Alexandria, quando uscirà il numero del vostro giornaletto con la vostra intervista, me ne manderai una copia, vero?- chiede con un sorriso larghissimo il nostro bassista e Alex annuisce! Basta, credo che dovremmo lasciar perdere Bill e concentrare le nostre attenzioni rispettivamente su Tom e su Georg, mi paiono più semplici da accalappiare che la Delfina o Fatina che si voglia. Anche se certamente Georg non si può dire sta gran bellezza e Tom mi è troppo simile per poterlo considerare più che un gemello separato alla nascita che un potenziale ragazzo.
Per l’appunto, non faccio in tempo a finire le mie elucubrazioni che un Obelix a dieta mi prende in braccio e urla come un’aquila mentecatta
-“Ciao, splendore”!
-Battuta detta da Barbra Streisand nei panni di Fanny Brice, in Funny Girl, del 1968, regia di William Wyler.- esclamo, mentre mi giro e strizzargli tra le dita le guance.
-Uhm, finalmente siete arrivate!- Gustav sbuca come un fungo da dietro la schiena di Tom, fregandosi le mani grassocce, guardandoci con occhi inquietantemente cupidi – Ora si può mangiare …
-Quella pizza formato gigante di tre ore fa non ti è bastata?- commenta acidamente Alex, tornando la vecchia Alex di una volta, con smorfia arrabbiata e scazzata al solito, mentre molla Georg e si schiera eroicamente al mio fianco.
-Beh, quello era un piccolo aperitivo per scaldare lo stomaco.- si difende subito Gustav, grattandosi la zazzera bionda – Tutti gli esperti dicono che noi ci cibiamo di ciò di cui abbiamo bisogno; ebbene, io abbisognavo di quella pizza tripla!
-Spero di non trovarmi mai con te in casa, Garolf.- ringhia Alex, assottigliando gli occhi – Già c’è questa rincoglionita capra che mangia tutto e anche di più, mi ci manchi pure te a dar fondo alla dispensa.
-Ehm, veramente mi chiamo Gustav.
-E’ lo stesso, soldato, non sottilizzare!
Georg la osserva affascinato, mentre Tom mi ha previdentemente stretto in un abbraccio mozzafiato onde evitare un altro pestaggio coi fiocchi e Gustav mi guarda come a dire “chi è questa hooligan in disguise?”.
-Ma Bill non viene?- faccio io con fare evasivo, cercando di sistemarmi il top e il davanzale lentigginoso che non vuole stare al suo posto. E che cazzo, è come dire che Giulio Cesare non si fosse presentato in Senato alle idi di marzo!
-Sì, Bill viene ma avrebbe tanto voluto starsene a casa, visto che è costretto a cenare con una … emo squinternata e una puttana!
Io e Alexandria ci giriamo con aria che vorrebbe essere assassina, ma che risulta pateticamente stupida, verso il fulcro delle nostre attenzioni, che ci guarda con un odio talmente potente da far impallidire l’Armageddon, l’Apocalisse e le predizioni Maya, un’occhiata che avrebbe fatto pisciare sotto Stalin e Hitler, avrebbe deviato la pallottola che ha ucciso John Fitzgerald Kennedy, avrebbe messo in riga le forze americane e fatto trionfare i vietcong decisamente prima del loro attuale trionfo, avrebbe sterminato i cinesi impedendo loro di invadere il Tibet. Sì, ce ne sarebbero volute di occhiatacce così, al mondo.
-Scusa, cocco bello, emo squinternata a chi?- ruggisce Alex, sfoderando i denti.
-A te, tesoro, che hai lo stile di un pappagallo incatramato abbandonato su Achill Island!- risponde Bill inviperito, per poi guardare la sottoscritta e sputare – E tu, Manchester, sembri veramente una di quelle troie che battono dal porto.
-A parte che tecnicamente mi chiamerei Chelsea, poi, ma ti sei visto? Se io sono una troia, tu sembri uno dei trans che battono sotto casa nostra. Dai, stasera ci facciamo uno scambio di clienti?
La mia battuta piace evidentemente alla parte ritmica della band, e ad Alex, che comincia a lanciargli anatemi sotto voce, il bracciale borchiato pronto a fare uno scempio di quel faccino meraviglioso. Bill ci guarda come se fossimo due intestini sanguinolenti appesi al culo di una pecora con l’ernia e digrigna i denti, appendendosi a Tom come fosse un’ancora di salvezza
-Andiamo, Tom. Tienimi lontano queste due … due puttane. Su, Tooom, muoviti!
Tom sospira, lanciandoci uno sguardo stravolto e apologetico, prendendolo a braccetto e guidandolo dentro il ristorante, tra gli sguardi golosi di pettegolezzi delle persone che ci circondano. Georg tenta di prendere a braccetto Alexandria, ma lei si limita a guardarlo talmente male da farlo saltare al fianco di Gustav e mi afferra per un braccio trascinandomi di peso dentro, furibonda, seguite da due scodinzolanti G&G, nel tentativo di individuare i gemelli.
-Partiamo all’attacco, ciccia?- sussurro io a bassa voce.
-Siamo già partite, tesoro. Da adesso in poi, è guerra.- mormora lei, mentre ci diamo una strizzata reciproca al braccio e ci avviamo a testa alta verso il tavolo, barcollando malamente sui tacchi troppo alti.

***
Ehilà bella gente! Qui è Un Punk Perso A Hollywood che parla! Come va con la storia? Vi piace? Vi fa schifo? Dai ragazze fateci sapere le vostre scommesse su come se la caveranno Chess e Alex nella conquista della nostra principessa di ghiaccio! Blub, ora vi lascio ... coraggio che la storia deve vederne  ancora delle belle! Bacio :* *le due tipe che vorrebbero farsi Bill* :0

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Capitolo 6
*** Acidità nelle tagliatelle ***


Seduti attorno a questo tavolo circolare, nel bel mezzo della sala schifosamente lucida e brillante di questo odioso ristorante; sembriamo i cavalieri della Tavola Rotonda. Con la differenza che metà di noi sono scappati (probabilmente terrorizzati da Morticia Addams, che si è giusto piazzato davanti a me, all’altro capo del tavolo. Ha tutta l’aria di voler sostenere una gara di occhiatacce, e personalmente sono felice di partecipare), oppure si sono consegnati al nemico pur di scampare alla pesantissima atmosfera fatta di imbarazzo, tensione, diffidenza e odio puro fusi insieme alla luce dorata di questo schifoso lampadario di diamantini che ci penzola sopra; stagnante nella circonferenza di questo tavolo come la crema di formaggio sulla base di biscotti di un cheesecake.
Chess e il vichingo stanno cicalando qualcosa a proposito di un western che c’entra con le clementine diretto da un certo John qualcosa; Georg se ne sta impalato sulla sua sedia, dritto come un fuso manco gli avessero impiantato un manico di scopa in quel posto; mentre Garolf si sta odiosamente sgranocchiando tutti i grissini, incurante degli sguardi assassini che gli sto lanciando per intimargli di smetterla. Non solo perché fa il rumore più odioso del mondo, ma anche perché preferirei che me ne lasciasse qualcuno, prima che qualcuno di questi lumaconi imbalsamati e imbrillantinati che dovrebbero essere i camerieri, ben ingessati nei loro frac senza un granello di polvere si decida ad avvicinarsi al nostro tavolo bollente.
A proposito di camerieri. Si vede chiaramente che nessuno ha voglia di passare dalle nostre parti, ma vedo quello che probabilmente dovrebbe essere il caposala confabulare (anzi, più che altro minacciare, viste le espressioni di supplica e puro terrore che si dipingono sul viso dell’altro) con un giovinetto paonazzo e nervoso.
Spero che non si accorga che li sto fissando, altrimenti svenirà sui piedi del suo capo. Poverino, mi fa quasi pena.
 
No, un attimo.
Pena?
Un fottuto cameriere imbrillantinato che mi fa pena?
Io che non ho mai provato pena nemmeno per i gatti spalmati sulla strada, per i bambini che piangevano appesi alla gonna della mamma al parco, per Chess che mi si appendeva addosso piangendo quando qualcuno dei suoi attori o registi finiva all’altro mondo e che mi implorava di guardare tutti i film del suddetto malcapitato assieme a lei sul divano mangiando marshmallows  al gusto di kiwi e cedrata (frignando per tutta la durata della pellicola come un coccodrillo dopo una delusione d’amore, e usando le mie splendide magliette con i personaggi di Death Note come fazzoletti), sto provando pena per un fottuto cameriere.
Avevo capito che l’incontro con la signora Addams mi aveva ribaltato il cervello. Ma non avrei mai pensato di perdere completamente le staffe, di rovesciare sottosopra i miei principi di sergente senza cuore che miete vittime sotto i cingoli del proprio carro armato travestito da Converse alte e quadrettate. Una minuscola vocina nella mia testa mi urla di ribellarmi, di alzarmi seduta stante da questa sedia elegante ma dura come il marmo, di strapparmi di dosso questi odiosi e pruriginosi guanti di pizzo e scappare verso il bar sudicio e semibuio più vicino, e di ordinare ringhiando al barista la bottiglia di Jack Daniel’s più vecchia che ha, perché così ho sempre fatto e così sempre continuerò a fare, fatine mortuarie o meno.
Seh, ti piacerebbe, Alexandria.
E invece no, perché la padronanza che quelle due spirali scure che sento incollate a me in questo preciso momento è ferrea e stretta e non mi permette di muovere un dito, ancorata a questa maledetta sedia che diventerà la mia prigione e poi la mia tomba se qualcuno non interviene a spezzare questo silenzio.
-S-scusate … posso esservi u-utile?
Tutti ci giriamo di scatto verso la vocina flebile che ci ha rivolto la domanda. Mi sorprendo ad essere sollevata dal fatto che non sia il giovinetto nervoso che ho visto prima, ma una ragazzina che avrà la nostra età,  che però sembra ancora più piccola in quella divisa da domestica in una casa borghese, il blocchetto rifinito di cuoio nella piccola mano tremante.
-SI’- se ne esce Winnie The Pooh, alzandosi di scatto dalla sua postazione, ribaltando tutti i grissini.
-Vorremmo vedere il menù- interviene gentilmente Tom.
-Oh! … uh, sì, cioè, subito.
La cameriera tira fuori sei libretti rilegati in pelle con i bordini dorati e un’etichetta argentata recante il nome del ristorante, in una bella grafia svolazzante, e li distribuisce fra di noi, sempre mantenendo il suo tremore da foglia autunnale.
-Torno fra qualche minuto, così … così potete sce-scegliere.
Bill fa un cenno con la testa, mentre sfoglia le pagine del menù con le sue dita lunghe e inanellate.
Gustav non si preoccupa nemmeno di aprire alla prima pagina, anzi continua a sgranocchiare grissini. Chess confabula con Tom se sia il caso di prendere le lasagne di cervo adulto aromatizzate al gelsomino o l’agnello alla brace con salsa di prezzemolo e malva. Georg ha l’espressione di uno che non capisce un corno di quello che c’è scritto e vorrebbe solo una pasta al ragù. Io, personalmente, sto girando le pagine a caso, mentre fisso Morticia di sottecchi, aspettando non so nemmeno cosa da quel visino pallido come la Morte e bello come la speranza di un Paradiso dopo di essa.
Oddio, sto proprio dando i numeri.
Dopo pochi minuti, sempre puntuale e sempre tremante, torna la cameriera.
-A-allora ... avete deciso?- chiede spaurita, tirandosi su gli occhialetti rotondi sul naso a punta.
-Cos’è il caviale?- viene fuori Chelsea, con la sua migliore espressione da topo dubbioso.
-Cosa significa ‘marinato al limone e spezie indiane’?- la segue a ruota Tom.
-Ehm … li fate gli spaghetti?-interviene timido Georg.
-Io prendo tutto, grazie- ordina Garolf, sorridendo placido.
Nel frattempo la poveretta si affanna a rispondere a tutte le domande e annotare le ordinazioni.
Io e Bill siamo gli unici che non hanno ancora aperto bocca. Lui sta ancora sfogliando il menù. Io sto ancora fissando i suoi occhi nascosti sotto le palpebre incatramate.
-I signori hanno deciso?
Entrambi ci voltiamo verso la cameriera.
-Ti sembro un “signore”?- gracchia Bill, per poi sospirare spazientito. –Prendo i ravioli integrali in salsa di barbabietole australiane. Li voglio senza burro, senza scaglie di formaggio, aromatizzati al tarassaco e soprattutto che non siano più di tre! Se trovo qualche difetto sarai tu a pagarne le conseguenze, mozzarellina. Capito?!
Io e Chess ci guardiamo allarmate. I nostri occhi dicono solo una cosa:
“Che grande stronzo!”
-E … lei?
-Uh? … ah. Ehmm … io … prendo … - sfoglio le pagine a caso, nella sezione dei primi. –La crema di patate dolci al rafano aromatizzata al tabasco- sparo a caso.
Tutta la tavolata mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite, cameriera compresa; a parte Garolf che si limita ad allargare il sorriso compiaciuto.
-O…ok. Arrivano subito.
Ho come la sensazione che l’”arrivano subito” non fosse solo un convenevole, ma che quei piatti arriveranno sul serio “subito”. Pur di mandarci fuori di qui …
-Allora…- tenta di iniziare una conversazione il bassista. Georg.
-Allora cosa?- torna fuori Chess con la sua faccia da topo dubbioso.
-Beh, non saprei …
-Questo posto è … interessante- fa Winnie con il naso per aria a scrutare i lampadari penzolanti.
-Già … -mormora Tom fissando il davanzale ad una ragazza in abito rosso seduta su un tavolo di fronte al nostro.
-Vi garantisco che se non fosse per voi non sarei mai entrata in un posto del genere. Cioè, Alex vi assicurerà che è un po’ fuori dai nostri standard- ma la mia sottospecie di amica guardando entusiasta dalla mia parte.
Sto per chiederle se sta cercando di rendere ancora più palese la nostra inferiorità sociale, quando Morticia se ne esce con un urlo da diva nervosa:
-Possiamo intrattenere una conversazione seria?- inizialmente tutti lo fissiamo spaventati. -Capisco che con queste due … persone- non è stato bravo a mascherare l’orrore nel pronunciare la parola ‘persone’. Un punto in meno per te, tesoro. -che abbiamo invitato- calca sulle ultime due parole, volgendo uno sguardo di fuoco al fratello. –è piuttosto difficile, ma vi prego! Se dovete parlare per riempire l’aria fatene a meno. Non sopporto chi perde tempo. E chiacchiere. Evitate di sprecare il fiato- sillaba nervosamente.
Credo che questo sia il discorso più lungo che gli abbiamo sentito fare da quando l’abbiamo conosciuto.
-E sentiamo, cosa intenderebbe sua signoria per “discorso serio”?- eh, no, adesso parlo io.
-Sentite quella che non ha spiccicato parola per tutta la sera.
-Ci siamo appena seduti, e ti ricordo che mi hai dato del pappagallo incatramato solo pochi minuti fa!
-Ho solo fatto un’oggettiva descrizione del tuo aspetto.
-Ah, perché tu non sembri il cadavere di qualche antenata della famiglia Addams riportato in vita con un elettroshock troppo violento!...
Il cadavere scatta in piedi. –COME HAI DETTO, BRUTTA MEGERA PROVA A RIPETERLO SE NE HAI IL CORAGGIO!! … - strilla diventando color fragola matura.
-Ho detto che sembri un cadavere risvegliato con un brutto elettroshock, mi hai sentito- ribatto, alzandomi a mia volta.
-Ascoltami bene, brutta troia depressa e asociale che non sei altro; se sei venuta per provocarmi sappi che non esiterò a farti andare a casa con una grande voglia di buttarti giù dalla finestra del tuo sporco appartamento da allevatrice di ratti con la cresta verde, da quante te ne dirò stasera …
-No tesoro, credo che tu ti sia sbagliato, qui la puttana emo e asociale sei tu.
-Ragazzi, vi prego, siamo al centro dell’attenzione-  sussurra un terrorizzato Georg, avvicinandosi a noi, che senza accorgercene siamo praticamente saliti sul tavolo e ci stiamo soffiando come due gatte con il mestro a pochi centimetri di distanza.
-Alex, credo che tu abbia un urgente bisogno di metterti a posto il trucco … vero?- fa Chess, rivolgendomi un’occhiata da ‘vieni subito con me che dobbiamo parlare, questo non è per niente il modo di fare colpo su di lui’.
-Mhg. Seh- mugugno scendendo dal tavolo e seguendo la mia amica verso la toilette.
-Hai già capito, vero?- domanda ironica, una volta che siamo davanti allo specchio, allungandomi una matita nera dalla sua borsa di paillettes dorate.
-Seh, seh, ho capito. Non devo dare aria ai miei istinti misantropici quando sono al centro di una sala di un ristorante chic- recito come una filastrocca imparata alle elementari.
-No, non è quello il problema- mi interrompe Chess, facendomi mandare a puttane la splendida riga nera ce stavo stendendo sulla palpebra inferiore. –Il fatto è che non puoi sperare di farti voler bene se gli dici che sembra la reincarnazione di una defunta Addams.
-Non è questo che ho detto. Ho detto che sembra un cadavere risvegliato con l’elettroshock.
-Ok, ok- sbuffa lei. –Abbiamo capito cosa intendevi. Adesso però comportati bene, mi raccomando, perché non voglio che questa sia una serata infruttuosa. Capito?- dice, prendendomi per le spalle e guardandomi con la faccia da mamma premurosa che fa le raccomandazioni al suo bambino prima della partenza per il campeggio dei giovani lupetti scout.
-Capito- borbotto io, con la faccia del bambino che non vuole che la mamma gli dia fastidio quando è in mezzo ai suoi amici lupetti scout.
-Bene allora- trilla allegra, spalancando la porta del bagno. Il suo sorriso si spegne quando troviamo Morticia in piedi fuori dalla soglia, con una faccia da funerale.
-Sono venuto a chiedere Scusa- mormora annoiato, calcando la parola ‘scusa’. –Sono stato un po’ acido nei tuoi confronti … scusa, com’è che ti chiami?
-Alexandria. Mi chiamo Alexandria- mormoro io, lapidaria. –E accetto gentilmente le tue scuse- recito dal copione mentale che mi sta inviando Chess in questo momento. Dio, come siamo macabre, eh? … ma fra di noi funziona così. È un sistema di comunicazione oculare che non sappiamo nemmeno come abbiamo inventato, esiste semplicemente. Da quando ne abbiamo memoria.
-Bene, quindi basta rancori?- continua annoiato, porgendomi la manina bianca e ingioiellata. Ho come l’impressione che sia più per sbattermi in faccia la sua manicure perfetta che come segno di pace.
-Mh. Pace- faccio io, imitando il suo tono di voce e dando una stretta vigorosa alla mano scheletrica, accompagnata dal miglior sorriso da schiaffi che potrei esibire.
-Allora possiamo tornare tutti al tavolo- strilla Chess, mettendosi fra di noi e mettendoci le mani sulle spalle, scortandoci poi come due galeotti alla Tavola Rotonda. Anzi, più che come galeotti, come due puma con l’acidità di stomaco che hanno ingoiato due poli positivi di due calamite.
-Oh, giusto in tempo per mangiare- annuncia allegro Garolf, sfregandosi le mani di fronte al suo piatto di … tutto.
-Vi stavamo aspettando … sono stati veloci, eh?- dice timoroso Tom, spostando la sedia al fratello, per farlo accomodare.
-Già … pur di averci fuori di qui al più presto- sussurro con un sorriso melenso, mentre affondo il cucchiaio nella mia crema al rafano. Devo ringraziare gli anni passati nella cantina della zia Arhilde, a spellare le famose radici piccanti per farci tutte le sue creme e salse stranissime, se adesso non sto lacrimando come una fontana. O meglio, come sta facendo Georg che si è seduto sul posto vicino al mio.
-Mh … sono piuttosto amico dello chef- ribatte mieloso Bill portandosi un tortellino alla bocca.
-Dovremo aggiungere il prefisso scopa-, immagino- faccio io, assaggiando la sbobba senza staccargli gli occhi di dosso. Lui ricambia lo sguardo, perplesso e un po’ preoccupato. Non dice niente. Aspetta che vada avanti. –Era solo un’innocente supposizione- continuo civettuola, sbattendo le ciglia mentre mando giù un’abbondante cucchiaiata di zuppa sotto gli occhi increduli di Georg.
-Beh … diciamo che eravamo intimi- taglia corto Bill, con un’espressione un po’ meno mielosa di prima.
-Questa roba fa schifo- interviene Chess, guardando male il suo piatto di spaghetti al caviale.
-E’ caviale, tesoro. Sono uova di storione. Sono molto pregiate e costose, e non è detto che tutti le apprezzino- spiega il cantante, rivolgendosi a lei. È chiaro che con ‘non è detto che tutti le apprezzino’ intende dire ‘non è roba per i vostri palati pagani abituati a cibo spazzatura colante d’olio scadente’.
-Oh- fa Chelsea, imperturbabile. –Beh, grazie della spiegazione.
Annuisce, poi rovescia tutto nel piatto di Tom, che sembra felice del regalo. Ho sentito un tonfo, credo che la cameriera che ci era stata affidata per stare attenta alle nostre esigenze –ovvero a stare impalata vicino al tavolo a controllare che ci comportassimo bene- sia svenuta.
Morticia sorride: assottiglia gli occhi e allarga la bocca facendo scintillare i denti freschi di sbiancatura sotto la luce di questo benedetto lampadario. Ci manca poco che Chess non caschi a faccia in giù nel piatto. Vuoto, tra l’altro.
-La signorina … desidera … che le porti qualcos’altro?- biascica la cameriera, dopo essersi ripresa dallo shock e avvicinata alla mia amica travestita da meretrice di basso livello.
-Uhm … direi … boh, non so. Quello che sta mangiando lui- indica il piatto di Georg, impegnato nella degustazione del suo piatto di spaghetti a qualche frutto di mare, che strabuzza gli occhi nel sentirsi nominare.
-Tranquillo Ge, puoi continuare a mangiare conchiglie- lo rassicura Tom.
-Non fono fonfiglie- protesta il bassista continuando a ingozzarsi. –E fomunfue io folefo folo una pafta al ragù.
-Allora la prossima volta porteremo un vasetto di ragù al cuoco e gli chiederemo di prepararla solo per te … Bill ci può fare da intermediario, giusto?- propone Chess guardando il cantante con gli occhi brillanti.
Lui fa un cenno d’assenso accompagnato da una risatina che non ha nulla di divertito, poi torna a sbocconcellare un tortellino borbottando frasi poco spiacevoli dirette a ‘qualche ragazza infiltratasi a cena’.
Nel frattempo la cameriera è già praticamente tornata (ora voglio sapere cosa hanno venduto al diavolo per far sì di essere così veloci a sfornare i piatti. Insomma, io ci metto il mio buon quarto d’ora a mettere in tavola una pasta fatta per bene, mentre questi in trenta secondi hanno già servito a Garolf il suo piatto di ‘Tutto’. Questo ristorante mi sta sempre di più sullo stomaco), e ha depositato gli spaghetti sotto il naso di Chess, che se ne torna allegramente a mangiare mentre confabula con Tom su una qualche probabile seconda produzione del western con le clementine di prima.
Le lancio qualche occhiata, circa una decina di sguardi prima che si accorga che la sto fissando.
“Ricorda per cosa siamo qui” le dico saettando con gli occhi da lei al cantante al chitarrista.
Lei spalanca gli occhi in un’espressione di assenso, e la vedo rimuginare su qualcosa di intelligente da dire.
-Scusa, Bill- salta su dopo un po’, con il solito tono di voce da far sobbalzare sulla sedia mezzo ristorante. Siete a un metro di distanza, tesoro, non servirebbe che urlassi.
-Sììì?- fa lui mieloso, alzando nervosamente gli occhi dai suoi splendidi tortellini.
-Ma chi ti aiuta a truccarti? Cioè … hai sempre un make-up così perfetto … scommetto che con le tue truccatrici ci lavori ore, prima di uscire! Insomma, io non sarei capace nemmeno di fare una riga giusta, senza sporcare tutta la stanza di matita- trilla allegra. Con la stessa allegria di una miccia che scintilla mentre la fiammella si avvicina alla bomba.
Tom e Georg si scambiano uno sguardo allarmato, mentre Morticia tenta di mantenere il suo sorriso entusiasta sotto gli evidenti strati di nervosismo che gli cadono addosso ogni secondo di più.
-D … di solito m … mi arr… arrangio- balbetta, in preda alla rabbia interiore più distruttiva e incontenibile. Sono sicura che se non fossimo in un ristorante pieno di gente pronta a rovinare la sua splendida immagine sui media ci salterebbe addosso e ci strangolerebbe senza pietà, per poi usare i nostri resti esanimi come paralumi da appendere nella sua stanza degli incantesimi; e userebbe i nostri capelli per fare qualche pozione magica mortale. Immaginate, “una manciata di capelli di persona stupida, odiosa, irritante e soprattutto morta. Aggiungere poi una zampa di armadillo e due scaglie di drago cinese. Mescolare a lungo a fuoco basso”. Non suona molto stregonesco?
-S…sì, Bill fa tutto da solo- interviene Tom. –Dai vestiti, ai capelli, al trucco alla manicure. Non si fida di stilisti e truccatori, dice che non sanno interpretare al meglio la sua immagine.
-Ooh- fa Chess stupita, fissando Bill meravigliata; che a sua volta risponde, mantenendo il tono nervoso nascosto da strati di gentilezza:
-Eh, già … sai com’è, non mi piace che gli altri mi mettano le mani addosso- perché ho come l’impressione che alluda a quando la mia intelligentissima coinquilina gli è piovuta addosso come un sacco di patate a casa nostra? …
-Capiiiiisco. Quindi sei uno molto indipendente- cinguetta lei, e a questo punto non so più se stia facendo per finta o se sia veramente rincoglionita a tale livello. Spero nella prima, perché altrimenti la sbatto a dormire con il gatto.
-Hai capito tutto, cara- fa lusinghiero Bill. –Odio essere contrastato.
L’ultima frase suona molto come un avvertimento nei miei confronti. Beh, mi piace raccogliere le sfide.
-Quindi immagino che per quanto riguarda la zona ‘Tokio Hotel’, con i manager e tutto … insomma, comandi tu e non si discute- intervengo. Meglio iniziare coni complimenti.
Georg scuote la testa, la bocca piena di spaghetti. –Eh no, fon Bill non fi difcute. Fe lui defide che una cofa non fa bene, fi cambia cofione. Altrifemti rifchia di distruggere l’autoftima di David, a fuon di urli e infulti.
-Oh, non immaginavamo questo tuo lato … tirannico- dico io, ruotando lo sguardo sul diretto interessato, che sembra totalmente indifferente a tutte le brutte cose che sono state dette di lui. Boh, forse perché è pura verità e lui ne va fiero. Ci scommetterei la testa e la chitarra, su questo.
-Posso essere molte cose che tu non immagini- mormora enigmatico, talmente piano che glielo devo leggere dalle labbra, lanciandomi un’occhiata scura da sotto i ciuffi neri. Scura, per riassumere in un solo aggettivo l’insieme di meteore cadenti, fiamme ardenti, spirali concentriche color cioccolato fuse a nubi color verde foresta, coperte da un velo di polvere di stelle e lacrime di angeli, sprofondanti verso un unico centro nero e senza fondo e senza ritorno, che è la massima concentrazione di quei suoi occhi infiniti e magnetici … a dir poco, che ti riducono a precipitare in uno stato di adorazione comatosa pressoché perenne, fino a che sei sotto il suo giogo.
Non so come dovrebbe suonarmi questa frase. Se intimidatoria, provocante o diffidente; ma la cosa sicura è che è comunque tremendamente affascinante. Ma non affascinante come una bella californiana bionda con il culo di silicone e le labbra rosa acceso; affascinante come un codice segreto che custodisce incantesimi che per nulla al mondo dovrebbero essere scoperti. Affascinante come i visi sfigurati dalle emozioni e allo stesso tempo immobili delle millenarie statue greche; come il sorriso indecifrabile della Gioconda; come le storie nere e fosche di omicidi irrisolti nell’Ottocento; come gli spuntoni anneriti dal sangue di una macchina per tortura medievale. Avvicinati, ti dicono gli spuntoni. Avvicinati e premi la mano su di noi, finché sanguina, finché non ci vedi trapassarti da una parte all’altra, finché non senti stringerti la morsa della morte e non puoi più scappare. Avvicinati, soldato, resta fermo a guardare il tuo compagno delirante a terra, straziato dai proiettili nemici; resta fermo con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, con il fucile scarico che penzola da una spalla, e più nessuna facoltà mentale che non sia utile per continuare a guardare la morte che agisce lentamente su un povero corpo. Non reagire al pericolo. Non schivare la pallottola che fischia verso di te, anzi guardala avvicinarsi come in una slow-motion, e spreca il tuo ultimo attimo a cercare di comprendere il dolore del piccolo involucro di metallo che di colpisce e ti attraversa, trascinando con sé il tuo sangue e le tue speranze, la tua ragione e la tua vita perse in quell’ultimo minuto in cui hai ceduto alla tentazione e ti sei lasciato affascinare, contro la tua volontà.
Ma tu non sei un soldato giovane e stupido, Alexandria. Non appoggi la mano sugli spuntoni, per vedere quanto faceva male essere stretti nella loro morsa. Non rimani ore a fissare il viso della ninfa Dafne che grida mentre Apollo la cattura. Ma ti perdi negli occhi di una dea della non-ragione, dell’oblio e del caos scesa in Terra a catturare e fagocitare inutili e sporche anime come la tua, che si lasciano pescare nella finta speranza di una vita migliore che non ci sarà mai, se ti lasci prendere. Ma perché, allora?
-Alex … Alex, ci sei?
Sposto lo sguardo di scatto. C’è Chelsea vicino a me, che mi agita una mano di fronte alla faccia per vedere se sono ancora sulla terra.
-Che porca mucca vuoi?- ringhio, una volta scesa dalle nuvole.
-Noi abbiamo finito di mangiare. Fuori fanno i fuochi d’artificio, vieni a vedere?
-I … fuochi d’artificio? E perché, scusa?
-Boh, che ne so, ci sarà qualche santo particolare. Allora, vieni?- insiste, sorridendo.
Io giro lo sguardo verso Bill, che si sta stirando i leggins in pelle neri, di qualche misura in meno anche per le sue gambe lunghe e scheletriche. Però, bisogna dire che il confronto con il cadavere ci stava, penso mentre lo guardo rassettarsi i capelli di fronte ad uno specchietto d’argento. Un bellissimo, bianchissimo e androgino cadavere. Un corpo che un qualche diavolo sotto i nostri piedi ha voluto riportare alla vita dopo un’ingiusta e prematura morte, per ricorrere ai suoi loschi scopi; per abbindolare anime da portare nel suo regno, a soffrire in uno dei gironi dell’Inferno. D’altronde, chi non si lascerebbe trascinare anche attraverso gli Inferi, se solo a farlo fosse quella splendida, candida e leggiadra mano? Il tuo piano ha funzionato, Lucifero, hai scelto bene il tuo cadavere. Se è veramente questo lo scopo per cui questo giovane dal viso angelico è stato da te scelto e risvegliato, allora stai sicuro, parola di un’eterna dannata, che il tuo demone svolgerà bene il suo lavoro.
-Uhm … sì, arrivo- biascico pensierosa, distogliendo lo sguardo da Bill. Ci avrei giurato che in quel millisecondo in cui i miei occhi schizzavano via da lui, i suoi si voltavano lentamente verso di me.

Wei people. Qui è callingonsatellites! E dai, su, ditelo che questa storia vi piace. Eeeeh. Eeeeehhh, dai ditelo. ;)) ok, basta importunare le gentili lettrici e i gentili lettori. Lasciate qualche bella recensione! (o vi mando Bill inviperito a casa MUAHAHAHAA *questa minaccia non ha impaurito nessuno*)  Aiutereste due povere fan arrapate.
Baci gentaglia!        Le Due ^^

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Capitolo 7
*** Facciamo campeggio? ***


CAPITOLO SETTE: FACCIAMO CAMPEGGIO?

Inquadratura dall’alto, sui fuochi artificiali che splendono nel cielo nero come la pece, spezzando la deprimente nebbiolina serale di Magdeburgo, aumentata dall’umidità non indifferente del placido fiume che scorre mollemente sotto di noi. Si sente una musica leggera in lontananza, potrebbe essere Chopin, forse un Notturno magistralmente suonato, musica effimera ed evanescente. L’inquadratura scende lentamente sulla folla assiepata sul ponte e sul lungofiume, vedi bambini che ridono allegri, persone che sorridono, non li senti però, è una scena gioiosa ma muta, come una fotografia, solo Chopin sta accompagnando questa scena di festa senza tempo e senza dimensione. La telecamera si ferma, con dolcezza, e si muove leggera in mezzo alla gente allegra, atta a inquadrare i protagonisti del film onirico che si sta girando in questa triste notte tedesca. Scivola tra le gonne delle donne anziane e tra i sandali delle ragazze, urta mele caramellate e girandole di mille colori abbandonante sul suolo bagnato dall’umido e dalle foglioline cadute dagli alberi che si appiccicano schifosamente per terra e sotto le scarpe. La telecamera inquadra una panchina verde, un po’ male in arnese, e sei paia di piedi. Vedi degli anfibi alti borchiati, degli stiletti verde acido, degli stivali laccati di nero con gli inserti di coccodrillo dorati, delle scarpe sfondate da skater, delle normalissime Vans blu e delle ancor più normali Nike gialle. La telecamera sale piano sui folli protagonisti di questo strano film indipendente, trasmesso in un piccolissimo cinema sperso in un paesino nel nord della Svezia, che vedranno solamente un vecchio sordo che sogna la moglie morta troppi anni fa, una coppietta di sedicenni gay più interessata a limonare abbondantemente che a guardare il film, una ragazza scappata dalla capitale con troppi sogni in testa, una casalinga disperata alla ricerca di un momento di evasione e un marinaio senza nome e senza identità. Vengono inquadrati i protagonisti, muti, freddi come ghiaccioli, stelle scadenti di un cinema mai nato. C’è un ciccione che pulisce gli occhiali, c’è un metallaro finto che sospira, c’è una ragazza dark col viso contrito che tiene in braccio una rasta che ride per una battuta sconosciuta, c’è uno con le treccine con un sorriso fanciullesco che tiene a sua volta in braccio un transessuale che gli dormicchia col capo posato su una spalla. Sono loro, i protagonisti del film. Sono brutti, sono silenti, sono pagliacci tristi di un circo caduto in disgrazia, sono zingari senza carrozzone, sono artisti di strada senza strade da percorrere. Cosa potrebbero essere? Il ciccione potrebbe vendere le patatine fritte nel baracchino unticcio, il metallaro è sicuramente il mangiafuoco, non vedete l’espressione?, il transessuale potrebbe ballare nudo con serpenti asiatici che lo avvolgono come una sciarpa, la dark senza dubbio è la maga di turno, quella che con i suoi trucchi oscuri ti terrorizza a morte, e i due finti rasta hanno la faccia da pagliacci, quelli che intrattengono il pubblico con le loro sboccate battute, forse sono acrobati, non si sa. Però sono lì, ad attendere qualcosa che nemmeno loro conoscono, abbarbicati come scimmie alla loro vecchia panchina scrostata. Il metallaro e la dark stanno conversando amabilmente, lei non gli dice che lui ha la maglia sporca di sugo, lascia l’arduo compito al ciccione, svogliato, annoiato, assonnato probabilmente. La dark tiene stretta la rasta, si capisce che sono abituate a stare in quella posizione, come quello con le treccine e il trans. La rasta e quello con le treccine si guardano, ma non parlano, sorridono, giochicchiano uno con le mani dell’altra, potresti pensare siano amanti, ma le loro espressioni tradiscono una strana fratellanza, tacciono perché il trans sta dormendo, o forse no, finge, tiene il capo sulla spalla dell’altro, gli occhi chiusi, non capisci se stia ascoltando ciò che lo circonda, se stia dormendo o se sia morto e si portino dietro il cadavere come un clan zingaro che si rispetti. Li guardi in faccia tutti e sei, e non capisci a che gioco stiano giocando. Potrebbe essere una farsa, oppure no. La loro potrebbe essere una festa o un funerale. Sono figure fuggevoli e sfuggenti di un’umida notte onirica costruita sugli incubi di ognuno di noi, i personaggi del cinema sperduto in Svezia, le tristi bambole di un malvagio burattinaio, i pagliacci di uno spettacolo che non fa più ridere nessuno. Sono qualcosa che insegue l’inconscio di ognuno di noi, danno vita alle urla che tutti noi vorremmo urlare, sono i sogni fumosi che ci lasciamo alle spalle per sogni più nuovi e cristallini, non vedete le loro facce torve? Sono le uova che abbiamo ucciso, i personaggi delle vostre storie mai vissute che avete scartato a prescindere, perché loro sono inquietanti, sono grotteschi, non sono fatti per essere sogni, bensì orribili incubi da cui è meglio fuggire. Sono gli scarti di Baudelaire e dei suoi Fiori del Male, le perversioni di Rimbaud, i fantasmi che perseguitavano i racconti di Mann, i figli nascosti di Hugo, sono gli orrori di Modigliani e di Kirchner, gli idoli di Dix e di Ernst, i pagliacci di Picasso e di Matisse.
-Ehi, tesoro, guarda là!
La voce di Tom fa crollare su se stesso il grande capolavoro artistico che la mia mente geniale stava preparando per sfondare a Hollywood, riportandomi brutalmente al fiume, alla panchina e alle gambe secche di Alex su cui sono seduta.
Alzo lo sguardo troppo viola sul suo dito, seguendo la traiettoria che mi porta direttamente a visualizzare gioiosamente un baracchino degli hot dog, con sopra scritto un gigante “Per la festa di Santa Winifred: sconto speciale per le coppie etero”. Uh, hot dog scontati! Fantastico, la cena in quel ristorante non mi ha soddisfatto per niente; quegli spaghetti alle vongole erano pochi e facevano pure schifo, per non parlare dell’entrecote al pepe verde di secondo e della torta Sacher per dolce. Sì, decisamente è meglio cenare al pub sotto casa con untume e whiskey. Io e Tom ci lanciamo uno sguardo complice, ma veniamo subito frenati da Bill, che si è appena svegliato dal suo finto sonno
-Tooom, razza di idiota, stai un po’ fermo che mi fai venire il mal di mare se continui a ondeggiare! E poi cosa vuoi, altro da mangiare insieme a questa obesa?!
-Non sono obesa!- ribatto – Sono solo rotondetta!
-Io direi pure che sembri un ippopotamo con l’ascesso.- sibila inviperito il cantante, lanciandomi un’occhiataccia.
-Non ha tutti i torti.- grufola Alex sotto di me – Sei ingrassata, Chess.
-Tu dovresti provare a stare dalla mia parte, scheletro.- le abbaio in faccia, sistemandomi un po’ meglio tra le sue braccia, imitata da Bill che si sistema su Tom. Sta per partire una lotta all’ultimo sangue comprendente i due che se ne stanno comodamente seduti in braccio ai loro sfortunati amici.
-Su, Chess non è grassa.- mi difende a spada tratta Tom – E’ burrosa, che è diverso.
-Appunto, sono burrosa.- alzo il mento con aria di superiorità – Capito, sottoestratto di anoressia cavalcante?
-Su questo ti do ragione.- stranamente Alex finge di essere dalla mia – Chess sarà anche una palla di lardo, ma te sei uno stuzzicadenti.
-Comunque, a parte ciò, Bill alzati un po’ che si va a far rifornimento di cibo.- esclama Tom, scuotendo le lunghe treccine e fa scendere uno stizzito Bill dalle sue ginocchia. Io balzo in piedi a mia volta e lascio una stupita Alexandria seduta in panchina tra Georg e Bill, e sono certa di non ingannarmi quando vedo che si alza, si aggiusta il vestito, e costringe Gustav a fare cambio di posto. Lo sapevo che non è capace di stare dietro a Bill, lo sapevo! E meno male che è stata lei quella del “sì, sarà nostro” “non ce lo faremo sfuggire”. Bella roba, se manco gli sta seduta vicino!
Io e il fido Tom ci mettiamo in fila dal baracchino degli hot dog, in mezzo a una streppa di coppiette romantiche e sdolcinate che ci guardano con evidente schifo. Certo, siamo capitati tra ragazzi perfettamente borghesi e perfettamente normali. La solita fortuna dei principianti, eh?
-Oi, Chess, facciamo finta di stare insieme.- mi sussurra all’orecchio Tom. – C’è la speranza che ci allunghino più hot dog gratis per toglierci dai piedi. Spaventiamo le coppiette felici e schifosamente normali.
-Agli ordini, capo.- mormoro in risposta, appendendomi al suo braccio e cominciando a sbaciucchiargli una guancia. Lui non fa in tempo ad afferrarmi per la vita e a slinguazzarmi la faccia che Georg Il Nero Vendicatore e Alexandria La Nera Vendicatrice calano su di noi come rapaci sull’innocente topolino.
-Thomas, razza di maniaco! Giù le mani dalla giornalista!- riabbaia per la seconda volta nel giro di un giorno Georg.
-Chelsea, bifolca con un ritardo, non osare più baciare la capra bollita, sai?- latra la mia migliore amica.
-Ma porca troia zozza, volete tacere!?- strepito io, dando una spinta ai due Neri Vendicatori e cercando di riconquistare il posto tra le braccia del mio amico.
-E che cazzo, ragazzi, vogliamo scroccare gli hot dog!- sibila Tom tra i denti – Non rovinateci la messa in scena, c’è lo sconto per le coppie!
-Sei già un barile, Chelsea, ci mancano gli hot dog.- Alex mi strafulmina, mentre Georg fa lo stesso con Tom.
-Potete anche evitare di dare pubblico scandalo, se volete gli hot dog, non c’è bisogno che facciate queste sceneggiate.- Georg ci guarda severamente – Insomma, Tom, se ci fosse qualche vero giornalista e vi fotografasse uscirebbe un sacco di spazzatura sul fatto che vai a prostitute!
-Grazie per il prostituta, Georg.- sospiro teatralmente io, alzando gli occhi al cielo. Ma sono davvero così volgare?
-Uh, scusa, non volevo, io … - balbetta il metallaro finto, diventando rosso fuoco – Mi sono fatto prendere la mano, il tuo abbigliamento …
-Non ti scusare.- ringhia Alexandria – Con lei non ce n’è bisogno.
Fa sempre così, lei. Quand’è con altra gente non vuole mai far vedere che in fondo mi vuole bene, come se farlo vedere distruggesse un pezzetto della sua barriera.
Io e Tom ci guardiamo negli occhi, guardiamo sdegnati quelli che dobbiamo per forza chiamare amici, poi ci prendiamo a braccetto e continuiamo ad avanzare sbaciucchiandoci giocando con lo schifo che le coppiette normali hanno verso di noi, le tipiche persone che aspettano di baciarsi giusto il giorno del matrimonio, quando credo di avere la più grande idea della mia vita.
-Tesoro, senti qua.- gli sussurro nell’orecchio – Se convincessimo Alex e Georg a fare come noi per mangiare ancora due hot dog?
Tom si gratta la testa e mi guarda, ciucciandosi il labbro inferiore pensieroso
-Beh, potrebbe funzionare … ma non voglio che Alexandria mi castri. E nemmeno che Georg mi rompa la mascella.
Gli faccio un sorriso che vorrebbe essere rassicurante, partendo di gran carriera verso la mia migliore amica, mettendole le mani sulle spalle con un ghigno che non promette nulla di buono. Ora, l’occhiata che mi lancia farebbe filare anche Kim Jong-Un ma non la sottoscritta. No, tesoro, Chelsea ha imparato a sopravvivere a te e alle tue occhiate, nessuno sarà così forte da poterci separare e collassare. Siamo come Starsky e Hutch, come Bo e Luke, come Sherlock Holmes e John Watson, come Poirot e Hastings. Insomma, pappa e ciccia, ce l’hanno sempre detto tutti. In questo momento mi viene in mente il ballo di seconda liceo, quando l’avevo letteralmente costretta ad andarci anche se ovviamente nessuna delle due aveva il minimo straccio di accompagnatore, e ci eravamo trovate a bere come due spugne, da sole, arrampicate sugli sgabelli del bar, per poi avviarci ubriache a ballare la salsa in mezzo alla pista, da sole, con tutti che ci filmavano sghignazzando, sputtanandoci fino alla fine della scuola, e la povera Alex che mi aveva giurato eterno odio e rancore mentre io continuavo a tentare di imparare a ballare la salsa guardando a ripetizione “Romantici Nati”, anno 2000, regia di David Kane, con Craig Ferguson e Olivia Williams. Era stato un triste giugno, con Romantici Nati a ripetizione in tv, io che ballavo la salsa con una tazza di cereali in mano e Alexandria che terrorizzava a morte mia sorella Katie Crystal con orribili racconti di zombie dei vecchi soldati morti al fronte tornati per vendicarsi. Però, per quanto vista da occhi profani potesse essere stata un’esperienza oscena, per noi due era stato un giugno avvolto da una strana cappa di felicità nascosta sottopelle, anche solamente vedendomi ballare ininterrottamente come una balenottera spiaggiata nella soffitta dove c’era la mia camera e vedere lei leggersi i racconti di H.P. Lovecraft sul vecchio letto che condividevamo quando veniva da me, quello sotto l’abbaino da dove si vedevano le stelle, con il poster un po’ rovinato di Avril Lavigne sulla porta e quello appeso al soffitto dei Green Day, con tutti i vinili degli Scorpions e degli Einsturzende Neubaten ammucchiati in un angolo con quel vecchio manichino di una fabbrica fatto coi tappi dei dentifrici nel tentativo di imitare La Fabbrica Di Cioccolato, la videocamera, le riviste di cinema, i film che occupavano tutta la stanza, insieme anche a un vecchio paio di riflettori pescati dal magazzino di zio Connie. Erano bei tempi, quelli. Erano quelli della scuola, quando uscivamo e andavamo a casa in bicicletta, giù per la stradina mal acciottolata, o a casa mia o a casa sua, quando volevamo stare da sole andavamo da lei, con quel silenzio tetro e inquietante che gravava dappertutto, e poi via, da me, dove c’erano sempre un casino inenarrabile, nove fratelli di sangue irlandese, musica a palla e tanti litigi. Erano i tempi di quando io filmavo tutto quello che succedeva e tutti mi pestavano sempre per la mia mania di fare un film a cui nessuno voleva partecipare, in cui Alex era il terrore della scuola, in cui suonavamo i nostri ibridi di canzoni, in cui pensavamo di diventare delle Grandi, in cui sognavo l’Oscar e lei un premio da fotografa. Sì, erano bei tempi, anche quando stavamo in quel letto stretto con il piumone di Batman a tirarci i capelli e a darci pizzicotti (o meglio, lei faceva così per farmi stare zitta. Io mi limitavo a soffrire in silenzio) o quando partivano i My Chemical Romance e lei cantava a squarciagola nonostante io stessi tentando di fare una ripresa decente per il mio horror, che per inciso poi sono pure riuscita a fare. Ho il dvd, in camera, che ogni volta che lo vedo mi vien male per come l’avevo fatto da schifo, ha anche i titoli di coda e la colonna sonora fatta da noi due. Che poi, Alex me l’aveva intitolato “La rivolta dei babbuini” anche se di babbuini lì non c’e ne’era traccia e poi mi aveva dato una statuetta di un Oscar fatto con i bisognini di mucca secchi dicendomi “Complimenti, signorina Spiegelmann, ha vinto l’Oscar per il film più merdoso mai girato sulla faccia della Terra”. Oh, per inciso la statuetta ce l’ho ancora e non mi sono mai offesa. D’altronde, la scena con mio fratello Cooper Carter legato al letto in veste di posseduto intento a parlare al contrario e Alexandria nei panni dell’esorcista vestita da ballerina di streaptease che lo esorcizzava citando i Ramones insieme al fotogramma di mia sorella Madison Hope travestita da ballerina classica intenta a ballare in mezzo alle macerie di una casa maledetta sotto una luna rosso sangue mi parevano degne di nota anche dai grandi registi di horror contemporanei.
Comunque, tornando a noi e lasciando correre i bei tempi, mi appresto a dar voce al mio piano sensazionale
-Cara, cara Alexandria, pasticcino adorato, tesoro mio, ciccina della …
-Cosa vuoi, Chelsea. Parla e evitati queste scenate da soap opera.- ringhia lei, cominciando a sbavare come un cane rabbioso.
-Devi farmi un regalo!- cinguetto, scuotendo i tubi.
-Nemmeno se mi paghi.- abbaia, scostandosi dalla mia presa – Cosa ti salta in quella capoccia da malata mentale?
-Io e Tom abbiamo molta fame.- comincio, fregandomi le mani.
-Anche io, se per questo!- ulula Gustav dalla panchina, evitando con grazia un’unghiata di Bill.
-Io, Tom e Gustav abbiamo molta fame.- rettifico subito, sfarfallando le ciglia.
-Credo di avere anche io un certo languorino.- sbava Georg.
-Io, Tom, Gustav e Georg abbiamo molta fame.- mi correggo, facendo la faccina tenera da irlandese a cui lei non resiste, cercando di togliere ogni vena tedesca dalla mia espressione costruita.
-Beh, non è per dire, ma quel ristorante faceva così tanto schifo che il mio stomachino santo e delicato non si è riempito come avrebbe dovuto.- miagola Bill.
-Io, Tom, Gustav, Georg e Bill abbiamo molta fame.- dico di nuovo.
-Allora, la facciamo finita?!- latra Alex, guardandoli tutti malissimo – Cos’è, una specie di oscura trama alle mie spalle?
-Esattamente, tesoro!- cinguetto io – Stiamo tramando alle tue spalle come in “La cruna dell’ago”, anno 1981, di Richard Marquand, con Donald Sutherland e Kate Nelligan. Tu puoi fare Faber e noi facciamo David e Lucy.
I Tokio Hotel annuiscono con aria compresa nella parte anche se ho il vago sospetto che non sappiano nemmeno di che sto parlando, come Alexandria, d’altronde.
-Senti, non provare a confondere le acque con quella tua dannata parlantina sciolta perché è la volta che seriamente ti … - inizia lei, ma io sono più veloce a bloccarla. Perché Chelsea Sienna Spiegelmann non solo è sinonimo di Grande Regista Surrealista, ma anche di Oratrice Sensazionale.
-Il piano è perfetto, corazzata Herder, siamo sicuri di limitare al massimo la perdita di armi e di uomini. Questo è un delicato servizio di spionaggio bellico, gli appostamenti sono già stati prefissati per insaccare il losco e imprevidente nemico.
-Pericolo rosso!- grufola il biondo batterista.
-Esatto, il pericolo rosso si sta avvicinando.- continuo io – Gli sporchi comunisti sono a un passo dal conquistare le nostre linee, e la pressione dell’opinione pubblica è oramai insostenibile. Sappiamo per certo che i luridi agenti si stanno infiltrando con l’inganno nelle nostre linee, ma il Reich non si farà gabbare così facilmente, per questo motivo hanno creato un plotone d’assalto di super agenti scelti atti a sterminare le linee nemiche con le loro contro tecniche d’assalto.- mi giro con una giravolta mal fatta sui tacchi a spillo 12 – Il compito inviatoci via cablo dal Capo è innanzitutto quello di confonderci abilmente tra i rossi e comprendere i loro movimenti, se davvero hanno preparato un’armata di Spitzfire capaci di bombardare i nostri depositi in Alsazia. Hanno predisposto siffatti schieramenti.- indico Tom con un sorriso incoraggiante – Il pilota scelto delle Valchirie Tom Kaulitz, memore di mirabili imprese alla guida dell’invincibile Morte Rossa, con il capitano di lungo corso Chelsea Spiegelmann, pezzo grosso degli assalti sottomarini con gli U-Boot.- poi mi giro verso Gustav e Bill, ancora seduti sulla panchina – Il sempre valido panzer d’assalto in trincea Gustav Schafer, meglio conosciuto come La Volpe Pannonica, insieme al nostro Bill Kaulitz, perla del contro spionaggio tedesco, spia che contro spia le spie che lo spiano.- dunque, mi giro verso Georg e Alexandria – Il nostro telegrafista Georg Listing, ottimo esempio di creatore di cablogrammi assolutamente impossibili da risolvere per gli sporchi nemici e la corazzata Alexandria Herder, stratega di ottimo livello e regina assoluta delle imboscate alle spalle. Signori, questo è il piano.- li guardo tutti con aria compresa nella parte – Alea Iacta Est! O si vince, o si muore!
-O si vince, o si muore!- mi fanno subito eco i cinque, per poi vedere subito la mia amica che si riprende immediatamente
-Accidenti a te, Chess, che diavolo volevi dire con tutto quel panegirico? Io non mi abbasserò mai a fare …
-Mi spiace, corazzata Herder, ma oramai ha firmato il sacro patto. Abbasso le disonorevoli ritirate.- trillo io, evitando con grazia un pugno sul naso. – Quindi, camerata, pronti al piano della cattura hot dog.
 Non facciamo in tempo ad esultare che la voce troppo intossicante del vocalist si fa sentire nel casino
-Scusa, Leeds, fammi capire. Io dovrei fingere di stare con quel cesso di Gustav?
-Intanto, mi chiamo Chelsea.- lo correggo – E poi … senti, bellezza, sei te che hai detto che hai lo stomachino santo vuoto, mica io.
-Su, Bill.- interviene Gustav – Tanto è solo per gli hot dog, fai finta di essere la mia fidanzata. Non ci dobbiamo mica baciare, basta che mi tieni a braccetto.
-Dai, guarda che lo so che per i tuoi scopa amici ti travesti da donna.- commenta tranquillo Tom. – Quindi che razza di problemi potresti avere?
-I miei scopa amici, caro, sono belli, fascinosi e muscolosi. Gustav non è né bello, né fascinoso, né ben che meno muscoloso.- spiega seraficamente, facendosi una mezza coda – Quindi, o mi trovate un’alternativa, o ciccia.
-Se vuoi puoi fare il mio fidanzato!- strillo io, aggiustandomi i pantaloncini. – Siamo pure credibili, come Christiane e Detlef!
-Oppure il mio.- interviene subito Alex – Darkettone con darkettona è sensato.
Bill ci guarda attentamente tutte e due, e ora sono quasi sicura che si acchiappi la mia amica, sicuramente più bella, interessante e sexy della sottoscritta, quando lo vediamo saltare con un’agilità insospettabile in braccio a Gustav strillando
-GusGus, amore … ho tanta fame.- gli strofina il nasino aristocratico nel collo grasso – Anche il bambino vuole mangiare, mi compri un panino?- si accarezza la pancia e per un attimo io e la mia amica ci lanciamo un’occhiata telepatica “Oh, Cristo, ma non è che è incinto sul serio? È troppo credibile!”
Dopo un nanosecondo di espressione instupidita, Gustav è rapidissimo a riprendersi e a fare alzare la Delfina porgendogli braccetto
-Certo, Wilhelmina, cara, andiamo.
E noi quattro rimaniamo lì come dei baccalà a guardare quella perfetta coppia da manuale avviarsi a braccetto verso il baracchino degli hot dog, cercando con risultati più che scarsi di imitarli e di creare coppie più che finte.
 
Dopo circa un’ora e mezza siamo nuovamente seduti su quella dannata panchina, a sentire i bambini ridere e giocare in mezzo ai nostri piedi, con una scorta di hot dog da fare invidia a una rosticceria di prim’ordine. Le abbiamo fatte tutte, sia dal baracchino per le coppie etero e pure dal baracchino con lo sconto per le coppie omosessuali, e lì sì che ci siamo fatti delle grasse risate a vedere Tom e Bill che sembravano una coppia di sposini in luna di miele e Georg e Gustav che le tentavano tutte per fingersi gay senza riuscirci minimamente, senza contare me e Alexandria che a detta di Tom eravamo La Coppia Più Bella Del Mondo, come Emma e Adèle  in “La vie d’Adèle”, di Abdellatif Kechiche , anno 2013, con Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux. Comunque, il tutto finisce con un accampamento mandriano da vecchio West con tutti i nostri hot dog bollenti da sbafare in allegria e una quantità di caffè da fare invidia a un bar italiano. Oh, senza contare una certa amarezza imperante in me e la mia migliore amica perché non siamo riuscite ad accalappiarci Bill nemmeno per sbaglio, dovendolo sempre lasciare tra le braccia dei ragazzi.
-Dì un po’.- Alex mi tira un dread bianco con uno scatto secco e doloroso – Ma Bill lo fa apposta a ignorarci bellamente?
-Credo che se fossimo due uomini gnocchi e muscolosi, forse ci considererebbe.- commento io, masticando il wurstel a bocca spalancata.
-Senti, ma Cooper Carter, tuo fratello. Me lo ricordo, non era affatto male. Non è che potrebbe fingere di essere cotto della Fatina e poi al momento buono lasciarci campo libero? Era gnocco forte!- mi da un altro strappo secco al dread incriminato, strappandomi un gemito.
-Grazie al cazzo, te lo sei portato a letto.- le rispondo, dandole una gomitata che non sortisce gli effetti desiderati – Comunque non penso che ci aiuterebbe a conquistare Bill per poi darcelo. Lo sai che l’hanno sbattuto in carcere per almeno un mesetto perché aveva partecipato a una specie di raid neonazista, figurati se finge di essere dell’altra sponda per aiutarci.
-Allora l’altro tuo fratello, Billy Terry!- esclama lei, con un'altra tiratina al dread – L’ho visto poco, ma mi pare che fosse frocio pure lui, neh?
-Sì, Terry è un altro Frocio con la F maiuscola, ma a parte il fatto che pur di non farmi un favore preferirebbe buttarsi sotto un treno, è praticamente la copia sputata di Bill! Magrolino, effeminato da far schifo, assolutamente divah. Non ce lo mollerebbe mai, la Delfina Fatina. E la Delfina Fatina non mollerebbe Terry per noi, ecco.- spiego, rubando un sorso di caffè da quello di Tom.
-I tuoi fratelli sono inutili!- sbotta Alex, dandosi una manata sulla fronte e un tirata decisamente dolorosa al dread. Ora me lo strappa, sta a vedere. – E le tue sorelle? Potremmo far intervenire Madison Hope, spaventarlo a morte e poi farcelo con sequenzialmente cadere tra le braccia!
Qui ci vuole la piccola precisazione che Madison è una specie di ballerina anoressica posseduta da non si sa quale orrenda divinità sumerica, per l’appunto era la cattiva del mio film “La rivolta dei babbuini”. In effetti, basterebbe chiudere in una casa Bill e la cara Maddie Hope e vedi come fa filare anche quella specie di creatura gotich-lolita con lo sguardo troppo profondo e la voce troppo acuta. Poi, noi lo aspettiamo sotto casa e spalanchiamo la porta, precipitandoci a salvarlo proprio quando sta per morire di paura a contatto con la sorellina posseduta. Essendo le sue salvatrici, sarà ben disposto a innamorarsi di noi, no? In ogni film è così! Suggerisco il piano ad Alexandria, che pondera
-Beh, anche sì. Ma primo, siamo sicure che Madison Hope non lo violenti? Secondo, siamo sicure che la Fatina non muoia prima di strizza? Terzo, dove li chiudiamo?
Mi gratto la pancia nuda, per poi commentare
-Hai ragione, il piano fa acqua. La ballerina indemoniata è troppo shoccante, sarebbe come risvegliare un mostro orrendo. Più che altro, è che solo Flora Anne sa come bloccare la sua furia invasata, e ora vive in Svezia con suo marito e una bambina, quindi non credo che abbia voglia di venir chiamata per fermarla.
-Sì, Flora è pericolosa, lo ricordo.- Alex da uno strappo furibondo al povero dread e io piagnucolo. Sì, Flora Anne è pericolosa, Alexandria è pericolosa, Madison Hope è pericolosa, Bill è pericoloso. Meno male che in questa vita esiste Tom.
-Ehi, ragazze, mi è venuta un’idea strepitosa!- ulula per l’appunto il fratellone.
-Se è una tua idea, sicuramente sarà una gran cazzata.- mormora tetra Alexandria, lanciandogli un’occhiata bruciante. È ancora offesa per la chitarra.
-No, è bellissima!- trilla lui, ignaro del malocchio che lei gli ha appena lanciato – Propongo una serata camping tutti assieme a casa nostra!
L’idea è seguita da un urlo eccitatissimo mio, un ruggito demoniaco della mia compare, una mano sulla fronte di Georg, un barrito di Gustav e un “Scordatelo, Thomas”, gelido come una schioppettata, di Bill.
-Tom, è un’idea da asilo nido!- sbotta il metallaro finto, alzando gli occhi al cielo.
-Se hai birra, patatine, popcorn, wurstel, coca cola, noccioline, pastasciutta, crauti, formaggini, pistacchi, cioccolatini, leccalecca, zuccherini, chinotto e tramezzini, ok vengo anche io.- elenca tranquillamente l’orsetto lavatore.
-Ma sei diventato scemo, capra bollita?- abbaia Alex, afferrandolo per una treccina e dandogli una tirata dolorosa a giudicare l’urlo – E mo’ che veniamo in casa di voi due maniaci, cosa siamo, amici? Manco per ridere, pezzo di imbecille!
-Gemello delle mie unghie strafighe e stracurate, se fai una cosa del genere, ti castrerò nel sonno e mangerò un panino con il salame ricavato dai tuoi coglioni.- fa serafico Bill, lisciandosi la lunga chioma corvina.
-A me pareva un’idea carina … - pigolo io, dal mio angolino in braccio ad Alex, beccandomi una caterva di insulti e una pungolata nel fondoschiena data con un coltellino a serramanico. – Ma Alex, anche noi da bambine facevamo il camping nel salotto di tua zia quando pioveva!
-E tu, sottoestratto di paté d’oca geneticamente modificata, non raccontare a questi mostriciattoli i cazzi nostri!- altra pungolata nel fondoschiena.
-Ma che carine bamboline, il campeggino nel salottino della zietta … mi sciolgo.- Bill ne approfitta subito per girarci la frittata con aria melensa, dandomi un calcetto negli stinchi.
-Ti sciolgo io nell’acidino, bel bambino, se non la pianti di fare lo stronzettino.- miagola Alexandria, con quell’aria assassina che non promette nulla di buono. Per me, ovviamente.
-No, ma seriamente, era una figata assurda!- continuo imperterrita io, perché non sia mai detto che Chelsea Sienna Spiegelmann sia una ragazza sveglia – Noi due tiravamo su la tenda con la tovaglia a fiori ricamata che aveva cucito sua zia nell’…
-Scusate, dobbiamo assentarci un attimo!- la compare mi scaraventa in piedi e mi afferra per il braccio per non cadere sui tacchi.
-E perché?- chiedo l’incauto Georg, cercando di fare gli occhi dolci alla coinquilina Hannibal Lecter.
-Cose da donne … - risponde rapida lei, per poi estrarre un assorbente dalla borsa borchiata che porta - … che non vuoi approfondire!
Ce ne andiamo sotto gli sguardi scioccati della band, svoltando l’angolo della strada e mi becco un ceffone che mi lascia il segno sulla guancia
-Ma dico, sei cretina Chess!- mi urla – Perché gli hai detto quelle cose?!
-Ma Alex … - tento di difendermi – Anche tu l’avevi raccontata a Lars, a Stenka, a Claudia … perché io non posso dire mai niente?
-Tu dici anche troppo, ma poi, a loro! Dillo anche a Obama, per quel che mi riguarda, ma non ai Tokio Hotel! Cioè, non a Bill! Potrebbe usare queste informazioni contro di noi!- abbassa il tono della voce, come se stessimo cospirando contro Putin.
-E Santo Tarantino, che palle che sei! Non siamo in piena Guerra Fredda!- sbuffo, cercando di sistemarmi il top troppo piccolo.
-E’ come se lo fossimo!- mi rimbrotta subito – Ora forza, cerchiamo un cesso.
-Un cesso? E che ti serve, scusa? Devi sboccare tutti gli hot dog che ci siamo divorati impunemente?- chiedo, mentre le corro, si fa per dire, dietro in questa viuzza acciottolata male alla ricerca di un bar.
-A questo, Chess, a questo. Impara a essere più sveglia e più donna, a volte.- sventola l’assorbente in aria, senza degnarsi nemmeno di aspettarmi. Cristo, ma allora è vero che le è venuto il ciclo. Porca pipa, se ha pure il ciclo, ora sì che siamo fregati.

***
Heyyyyy ragazze! Allora, ecco qui il settimo capitolo e le conseguenti cazzate che solo le nostre menti malate possono produrre *Chess e Alex prendono il sopravvento* *vengono internate all'Asylum di AHS* *non riescono a fuggire*. Cooooomunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto agagagah, e che vogliate tassativamente recensire. A Natale puoiiiii, recensire quello che non recensiresti maiiiiii *partono a cantare* *tutti le legano e le danno in pasto agli squali*
Buon Natale bitches e godetevi la neve che cade leggiadra!!
Bacii, Charlie&Lisa Premiata Ditta :DDDDD

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Capitolo 8
*** Chiusi dentro ***


Ma io mi chiedo, cosa di tanto malaugurato ho fatto per meritarmi una … persona del genere. Cosa le metteva sua madre nel latte, la mattina, cianuro allungato?! Grappa concentrata?!
Anche io, però, ho fatto del mio meglio. Fra tutte le persone in questa terra, proprio dritta fra le grinfie di una pseudo-irlandese svitata dovevo andarmi a buttare. Non so quale fosse stata la forza sovrannaturale che ci ha calamitate, ma se trovo l'angioletto che ha avuto la grande idea di prevedermi per sempre incollata alla suddetta persona, giuro che gli stacco tutte le penne, ci faccio una sciarpa e poi lo faccio imbottito per il pranzo di Natale. E lo do al gatto.
Comunque, in ogni caso non posso farci niente. Siamo state invitate a casa dei Calamità Twins, quindi … facciamo buon viso a cattivo gioco, si direbbe. Spero non significhi che devo sorridere, perché posso affermare da esperienze passate che non sarebbe una grande idea. Ne abbiamo già parlato, no? …
-Dai, non fare quella faccia!- strilla Chelsea. È più o meno da un'ora che continua ad elencare tutte le belle cose che si possono fare ai pigiama party; a parte il fatto che questo più che un pigiama party mi sembra una riunione di streghe progettata all'ultimo momento per un attacco ai resti dei miei tessuti nervosi; nessuna di noi due ci ha mai messo piede ad un pigiama party. Ovvio, escludendo le nottate sul tappeto della zia Mariah, obesissima parente di Chess, che non faceva altro che alzarsi ogni due ore per vedere se stavamo dormendo e avrebbe dovuto metterci sopra un paio di coperte. Ma del resto credo che nemmeno la più coraggiosa e caritatevole delle figlie di pastori di chiesa avrebbe avuto il coraggio di invitare a casa sua due persone del nostro genere. Nemmeno io l'avrei fatto, se fossi stata la figlia del suddetto pastore.
-Sto cercando di mantenere un'espressione neutra. Non rendere tutto più difficile di quanto non sia.
-Dai, sono sicura che ci divertiremo un casino. Conosco un sacco di giochi divertenti … - e a questo punto inizia a tamburellare i polpastrelli, con la pura perfidia dipinta in volto. Il punto in cui bisogna iniziare a temere per la propria incolumità. -E poi, non è detto che riusciamo a ritagliarci un attimo di intimità con Bill. Eh?
-Ti prego, dì tutto quello che vuoi ma non guardarmi in quel modo aspettandoti che mi metta a ridere sadicamente con te. Perché sai bene che non lo farò.
-Eddai, sciogliti un attimo! Non posso portare a casa del mio futuro marito un baccalà congelato sul piede di guerra aspettandomi che se ne innamori. Ci arrivi fin qui?
-Ci arrivo, non preoccuparti, ci arrivo. Ti sto solo chiedendo di non mettermi in imbarazzo. Ce la fai?- soffio fra i denti.
-E va bene, allora andremo con calma … -sto per ascoltare la sua versione di 'calma', quando il vichingo arriva piombando alle nostre spalle.
-Dove pensate di andare?
-Beh, andiamo a prendere il Motorino, così vi seguiamo a casa vostra … - per la cronaca, Il Motorino è una Vespa color verde mela sbiadito, regalo dei miei lontani quindici anni, che ho gentilmente messo a disposizione della coppia di poveracce appiedate che siamo. Se ve lo state chiedendo, no, non mi fido ad andare in giro con Chelsea dietro in mezzo alle strade di Magdeburgo, soprattutto perché ha la splendida capacità di agitarsi come un uccello in gabbia, e almeno una volta su tre rischiamo un frontale con qualche riccone inamidato fuori dal parcheggio dell'università, defilandoci giusto un attimo prima di venire fermate da un vigile incazzato. E se vi state chiedendo anche questo, sì, questa sera siamo venute al ristorante con Il Motorino. Sì, una pseudo prostituta irlandese e una negromante scampata ai roghi del Settecento che girano per strada su un coso verde mela alle otto di sera. Questo è lo spettacolo a cui hanno assistito i magdeburghesi per strada questa notte.
-Ma che motorino e motorino. Vi accompagniamo noi in macchina!- esclama entusiasta. Credo che la smorfia d'orrore che si dipinge sul mio volto sia la stessa che si spalma sul faccino perfetto del vocalist, che ci fissa dal finestrino dell'Audi, lunga, nera e perfettamente lucidata che a quanto pare sarà il nostro mezzo di trasporto stasera.
-E … i G&G?- domanda Chelsea. -Resteranno a piedi!
-E la mia Vespa? Anche lei rimarrà abbandonata- faccio io. Sarà anche un catorcio datato e indegno di girare per strada, però cavolo non voglio che qualche barbone nullatenente me la freghi.
-Staremo tutti quanti nell'Audi di Bill- dice tranquillo Tom, mentre l'espressione di terrore sul volto del vocalist si intensifica sempre di più. -Tanto Georg guida, io mi tengo mio fratello sulle ginocchia sul sedile del passeggero, e voi tre ci state dietro; insomma, Gus sarà pure grasso, ma si compensa con Alexandria che è praticamente inconsistente- spiega, mentre alle parole 'Georg guida' e 'tengo mio fratello sulle ginocchia' la maschera di orrore in faccia a Bill si trasforma in una buona imitazione dell'urlo di Munch. Aspetta, adesso non lo vedo più. Deve essere svenuto.
-Beh, è un ragionamento sensato!- acconsente Chess. Ma dove lo ha preso il buonsenso, questa ragazza, fra le occasioni della Coop?
-Ma la mia Ves …
-E il vostro motorino può stare nel bagagliaio, tanto c'è spazio.
- … ah.- beh, almeno sapere che il caro catorcio non verrà abbandonato alle grinfie della notte tedesca mi rassicura un minimo. Anche se non sono sicura che il bagagliaio ristretto dell'Audi possa contenerlo.
-Quindi, miei prodi … a bordo!- esclama il chitarrista, agitando un pugno nell'aria. Giuro che se avesse uno scudo rotondo e un elmetto con le corna sarebbe un vichingo schifosamente perfetto, cavolo, parla una che passava i pomeriggi davanti ad Asterix ed Obelix.
Senza ulteriori indugi, ci stipiamo nell'auto, come prestabilito: Georg al volante, i gemelli davanti -e sì, avevo ragione, Bill deve essere svenuto. È strano che non faccia resistenza ai quattro bigotti che si sono infilati nella sua meravigliosa macchina senza nemmeno chiedere permesso-, Gustav e noi due dietro. E odio dovergli dare ragione, ma fra la ciccionaggine del batterista e la mia inconsistenza ci stiamo perfettamente, manco fossimo fatti con lo stampo.
Quindi, rapporto della situazione attuale: sono spalmata fra la portiera spolverata e lucidata dell'Audi del cantante più famoso del momento e più gay di tutti i tempi e il davanzale lentigginoso e brillantinoso della mia coinquilina rasta, e sono diretta ad una nottata in compagnia della band del cantante citato in precendenza, composta da un uomo rigettato dal regno dei metallari, un hamburger in formato umano, un vichingo sudicio stupratore di chitarre e … beh, il gay. Piani d'azione? Nessuno. Non sapremo nemmeno se ne usciremo vivi. Unità Herder, passo e chiudo.
-Eccoci qua!
Le porte dell'auto si aprono, e lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è roba da restarci a bocca aperta. Insomma, mi aspettavo sì una bella casa; ma quella che si presenta ai nostri occhi è a dir poco una reggia. Avrà almeno tre piani, dipinta di bianco brillante, con tanto di balconate e terrazza, con le colonne di marmo, porta d'ingresso a doppio battente, prato da far invidia al campo da golf della Regina Elisabetta, e per finire fontana con tanto di angioletti seminudi in mezzo al viale di ghiaia candida.
Io e Chess non ci siamo ancora riscosse dalla nostra estasi stupefatta, quando sentiamo tre paia di braccia spingerci avanti, e in men che non si dica siamo dentro.
Ora: che è bella e grande fuori ci sta. Ma ora … ora ci troviamo praticamente nel salone da ballo della principessa Sissi, lo stesso che si vede in tutti quei film di trent'anni fa che tiene Chess sulla libreria, con il soffitto altissimo e un lampadario di cristallo che pende proiettando bagliori sui muri e sull'enorme scala a chiocciola che scende dai piani superiori.
-Vi piace? L'arredamento è di mia scelta- nonostante non si sia fatto sentire per tutto il viaggio, non ci giriamo nemmeno a guardare Bill mentre parla, e la cosa non sembra dargli fastidio visto che continua a blaterare su come fosse stata dura la scelta fra i vari tessuti per le tende. Cioè, per quello che mi riguarda le tende sono di un velluto rosso porpora e sembrano pesanti quanto costose, e fra poco spunterà Franz con le sue basette e la fascetta rossa da principe e ci inviterà a ballare.
-Ti sei ispirato al film della principessa Sissi, per caso?- ci pensa Chess a dare voce ai miei pensieri.  Bill risponde solo dopo un po', fingendo indifferenza. -Uhm … sì, beh, solo per l'ingresso. Nel resto della casa ho preferito mantenere uno stile più chic e moderno, più lineare.
-Ah.
Veniamo spinte oltre una porta di legno chiaro esattamente di fronte a noi, e allora eccoci ufficialmente entrate in quella che dev'essere Casa Kaulitz. Non lo dico per la chitarra appoggiata sul cuscino nero del divano in pelle bianca, giusto accanto ad una pila di calzini che non sembrano per nulla puliti; ma nemmeno per l'enorme ritratto in quello che sembrerebbe carboncino appeso sulla parete color tortora chiaro fra la lampada argento e la poltroncina nera. Pura intuizione.
-Sei tu quello vestito da ballerina sul muro? … -chiede Chess indicando il ritratto.
-Tesoro, sono proprio io. Acuta, la ragazza.
-E i calzini sul divano dove IO andrò a dormire sono di tuo fratello?- aggiungo io, indicando il divano che ho adocchiato. Eh no raga, mi avete voluto qua, adesso mi impossesso del divano.
-THOMAS KAULITZ, lurido bifolco disordinato; io ce la metto tutta per dare una buona accoglienza ai nostri ospiti e tu lasci la tua roba in giro?!! Te l'avevo detto che la prossima volta che avessi trovato i TUOI calzini sul MIO divano avrei sbattuto fuori di casa sia te che quella fannullona della cameriera, a cui pago uno stipendio mensile a quanto pare solo per venire disturbato di notte dai vostri urli da ricci in calore- sbraita il vocalist in direzione di suo fratello, che si fa piccolo piccolo e terrorizzato. -O SBAGLIO?
-No, Bill, non sbagli- sussurra flebile Tom, riparandosi dietro me e Chelsea, che nel frattempo siamo rimaste impalate a fissarci intorno.
Morticia fa un respiro profondo, chiudendo gli occhi e sollevando la testa. -Ma siccome ti voglio bene perché sei mio fratello, non manderò via né te né Dalia. Ma ho avvertito entrambi, ok?
-Ok- fa il chitarrista con un filo di voce. Quando Bill torna a guardarci è tornato il suo sorriso falso e melenso da brava signora di casa.
-Prego, da questa parte- ci invita, indicando una porta scorrevole che si apre sulla cucina. -Posso offrirvi una tisana alla malva? …- di fronte alla nostra chiara ignoranza da provincialotte che vanno avanti a birra al limone, prosegue: -È ottima per depurare l'organismo, rinfresca ed è calmante. Particolarmente consigliata alle signore durante i loro periodi.
-AH- facciamo in coro, giusto per fargli intendere che abbiamo capito.
-Se non vi va dovremmo avere anche qualcosa alla melissa. Ma la mia preferita in assoluto è zenzero e petali di rosa. O preferite un tè?- elenca, mentre gironzola per casa sui suoi trampoli, ticchettando sul marmo bianco e grigio.
-Ma gira per casa con gli stivali tutti i giorni?- sussurro a Tom.
-Ce l’hai la camomilla?- se ne esce come al solito Chess, in direzione di Bill.
-Purtroppo sì. Dovresti vedere quegli affari che osa chiamare pantofole- mi risponde il chitarrista.
-Ah. Posso immaginare- in effetti sì, mi immagino un bel –bel, si fa per dire- paio di decolleté tacco 15 in pelo rosa confetto.
-Certo che ce l'ho, tesoro. Che aroma preferisci?
Chess mi guarda, come se potessi suggerirle io il migliore aroma di camomilla.
-N … non lo so- balbetta, perplessa.
-Ci affidiamo al tuo gusto personale- esclamo io, tappandole la bocca e sorridendo.
Il vocalist ci fissa per qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore. Cristo, se non dobbiamo tenerci a vicenda per evitare di saltargli addosso.
-Tom, fai accomodare queste due splendide ragazze … io arrivo- si lagna in direzione del fratello, e il modo languido in cui dice 'splendide ragazze' mi fa rizzare tutti i peli sulle braccia. Scambio uno sguardo terrorizzato con la mia coinquilina, per poi essere trascinata da un paio di braccia robuste fuori da quella cucina, bianca e pulita come una nuvoletta. Con un angioletto con le corna seduto sopra, proprio come nelle bustine di tè che l'arpia sta spargendo sul tavolo.
-Ma perché fino a qualche minuto fa ci voleva sbranare vive e adesso fa la brava signora di casa? … -domando a Georg, che sta facendo strada attraverso i corridoi infiniti di questa casa esageratamente enorme.
-Credo che dovreste preoccuparvi, deve avere qualcosa in serbo per voi- risponde amareggiato il bassista.
-Credi che ci metterà il pepe nel tè?- se ne esce Chess, con gli occhi spalancati e troppo viola.
-Come minimo ci metterà un po' di cianuro, Chelsea- sussurro io, guardandola 'Ringrazia Dio che non ti mollo uno scappellotto' la avviso in silenzio.
'Sto cercando di prevedere le sue mosse, rilassati!' mi risponde.
'Non mi rilasserò fino a che non saremo al sicuro, intere e in salute, sedute sul divano di casa nostra a mangiare gelato' la rimbecco.
'Questa è una bugia! Perché quando siamo sul divano e il gatto ci raggiunge, tu diventi una iena e cerchi di scalciarlo giù dal tuo gelato, e allora col cavolo che ti rilassi!'
-Scusate, cosa state facendo?
I nostri sguardi guizzano in direzione di Gus, che ci sta fissando perplesso con un panino gocciolante in mano.
-E tu da dove l'hai preso quello?- ringhio io, giusto per distogliere la sua attenzione dalle nostre comunicazioni oculari, che siamo perfettamente consapevoli sembrare davvero inquietanti.
-Mah, nel frigo.
-Ma quella era la mia merenda di mezzanotte!- urla Tom, accortosi del cibo che il biondino deve avergli rubato.
-E sta gocciolando sulla moquette candida di tuo fratello!- ci avvisa allarmato il metallaro, strattonando Winnie the Pooh che si lamenta con la bocca piena.
-Se solo una molecola si sugo macchia quella moquette, Gustav Schafer, giuro che passerai davvero una brutta nottata!- esclama Tom. -Ancora più brutta visto che dovevo mangiarlo io, quel panino.
-Possiamo proseguire, per favore?- fa spazientito Georg, indicando il corridoio che stavamo percorrendo.
Con un coro di 'oh, sì' e 'oh, certo', riusciamo a tornare a dove stavamo andando.
Dopo quelli che giurerei essere cinque minuti buoni a girare fra corridoi bianchi come la panna, riusciamo ad arrivare davanti ad una porta con un grosso cartello recante la scritta: 'CAMERA DI TOM'.
-… ma sul serio hai ancora la scritta appesa alla porta?- chiedo io.
-Che problema c'è?- esclamano in coro i due rasta. -Anche io ce l'ho ancora, a casa dei miei- lo difende Chess. In effetti, mi tocca darle ragione. E non ha solo una scritta gigantesca, fatta con il pennarello viola e i brillantini verde palude, appeso all'entrata di quella specie di soffitta che sarebbe la sua camera.
-Comunque, cosa siamo venuti a fare di preciso qua den … - comincio a dire io, ma vengo interrotta  dal rasta, che ci lancia addosso una decina di t-shirt slargate.
-Il bagno è subito a destra. Mettetevi quella che vi sta meglio, e vi prego risparmiate quelle degli Angry Birds.
Alzo un sopracciglio in direzione di Chess, che mi risponde con ovvietà:
-Non penserai mica di dormire con quel coso e tutte le catene addosso.
In effetti è un ragionamento piuttosto sensato. E uno di questi vestiti -perché sono praticamente vestiti, mi ci potrei sposare con una di queste magliette e avrei pure lo strascico da quanto sono lunghe- è sempre meglio di qualsiasi strana vestaglia possa provenire dall'armadio di Bill.
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- … e ti giuro, non mi sarei mai aspettata un finale del genere!
- … si sa che è un genio della suspense, d'altronde non ci si poteva immaginare qualcosa di troppo tradizionale, soprattutto nella scelta delle ambientazioni … - siamo seduti sui divanetti in pelle nera e lucida di un salottino a qualche rampa di scale dalla sala da ballo asburgica all'ingresso, e francamente non ho capito perché quello di sotto non andava bene, visto che c'erano dei divani pure lì.
“Perché quello è il salotto da giorno, e per il relax serale la mansarda è più adatta” ci ha ripetuto a pappagallo Tom, evidentemente qualche frase proveniente dalla maestria del feng shui di Bill, al che abbiamo preferito non commentare. In ogni caso, siamo qui da una buona mezz'ora, alla fine ci siamo fatte andare bene le magliettone di Tom -Chess ne ha presa una grigio scuro, con una simpatica Morte che cammina sui cadaveri e il nome di una band probabilmente death metal scritto in argento arzigogolato sul davanti; mentre io mi sono fatta andare bene una maglietta completamente nera che mi arriva alle ginocchia, con il logo di qualche videogioco spaziale sul davanti, anzi, questo grosso alieno mi inizia a stare simpatico-, Georg ha rubato un pigiama e Gustav pure, Tom no, lui è rimasto in jeans. E con 'è rimasto in jeans' intendo dire che è spaparanzato sul divano a petto nudo. Perché ho come la sensazione che quando arriverà suo fratello verrà spedito a mettersi una maglietta perché 'un gentiluomo non resta mezzo nudo di fronte a degli ospiti', o cose del genere? … a proposito di Bill. L'abbiamo lasciato che era in cucina a  scegliere aromi di camomilla -ergo: a preparare la pozione che ci trasformerà in ranocchie o zombie, per scaricare tutta la sua terribile vendetta su noi due povere provinciali che non conoscono aromi di camomilla-, e non l'abbiamo ancora visto. Sto seriamente iniziando a temere che si sia perso, quando l’acuta voce da ninfa incantatrice ci riscuote dalle nostre posizioni –Chess e Tom che blaterano di film, Gustav che mangia il panino gocciolante, io e Georg che guardiamo il vuoto- :
-Tesooooriiiiiii, vi ho portato la camomilla.
Ci giriamo verso la porta, e quello che ci troviamo davanti non è Bill. È l’incarnazione ringiovanita di Zia Mame, quella con i capelli neri e la sigarettona e la vestaglia che struscia per terra aperta sul decolleté. Solo che al posto della sigarettona porta un vassoio con tazze e teiera, e giurerei che sotto quella vestaglia porta una camicia da notte in pizzo.
-Beh, che avete da guardare?- fa, tornando per un attimo acido.
-Uh, assolutamente niente. Sei elegantissimo, anzi- esce Chelsea.
Il cantante abbassa lo sguardo e fa un sorrisino di finto imbarazzo. –Tesoro, così mi fai arrossire.
Appoggia il vassoio sul tavolino di vetro di fronte a noi, e ci piazza in mano due tazze fumanti piene di un intruglio color miele con inquietanti pezzettini di roba secca che girano dentro, trasmettendo quasi l’impressione di poter schizzare fuori da un momento all’altro.
-Oh, e … cosa sarebbe?- domanda di nuovo Chess.
-Camomilla- risponde innocentemente Bill. –Ci ho messo un ingrediente segreto- aggiunge poi, sfarfallando le lunghe ciglia e puntando le iridi nocciola al soffitto.
Chelsea mi manda un’occhiata fortemente preoccupata, a cui rispondo con una frecciata piena di sospetto; poi sorseggia la ‘roba’.
‘Come ti sembra?’ le chiedo, ma non mi risponde, sembra in catalessi.
Dopo qualche istante di silenzio –lunghissimo, per la sottoscritta che si trova con una tazza bollente in mano e non sa se provare a bere o meno-, chiede:
-C’è della rosa di bosco per caso?
A parte il fatto che né io né –per quel che ne dovrei sapere io- lei sappiamo cosa sia la rosa di bosco, come domanda mi sembra abbastanza appropriata. Bene, soldato, può andare.
-Oh, ma come hai fatto ad indovinare?- cinguetta emozionato il cantante. In questo momento sembra parecchio una adolescente in crisi da High School Musical, ma non oso immaginare quali perfidie gli stiano frullando in mente.
-Eh, sai, l’esperienza … - borbotta Chess, e in due minuti ha già svuotato la tazza mentre io sono ancora qui con il vapore sul naso. Non ho nessuna intenzione di bere questa roba, sia chiaro.
-Ehm, potrei … dare un’occhiata al panorama dalla finestra?- chiedo, stampandomi in viso un sorrisone a trentadue denti che sembrerà osceno, ma ho veramente bisogno di sembrare convincente.
-Certo, fai con comodo … c’è un’ottima visuale sul quartiere proprio da quella finestra laggiù. Di notte poi è spettacolare- dice Bill, enfatizzando la parola ‘spettacolare’ con un’alzata di sopracciglia.
Io mi alzo senza aggiungere altro e mi fiondo alla finestra, e quando sono sicura che non mi stia guardando nessuno rovescio il contenuto della tazza giù per il balcone. Spero solo che non si attacchi alla vernice bianca candida della casa.
Quando torno al divanetto, qualche abbondante minuto dopo, stanno animatamente blaterando di cose come vacanze, viaggi e altra roba di cui si discute quando non si sa cosa dire. Brava Chess, sempre ottima nel sollevare l’imbarazzo.
-… e dovevate vedere Gustav con la collana di fiori, c’era una ragazza hawaiana che gli si era avvinghiata addosso e lo stava invitando a ballare … dovremmo avere ancora la foto da qualche parte, la sua faccia era esilarante! …- racconta Georg, spaparanzato su una poltroncina.
-Vogliamo mettere te, quando ti hanno messo sotto il naso quel cocktail con un minimo di 90 gradi spacciandotelo per latte di cocco? … te lo sei scolato fino in fondo, e poi sì che ballavi!- lo rimbecca l’interessato, che adesso è passato all’attacco di una scatola di biscotti.
-Beh, io a casa ho delle fantastiche foto di quando io e Alexandria siamo andate a … - mi fiondo su di lei e le tappo la bocca con entrambe le mani appena in tempo prima che trafelino informazioni compromettenti sul mio conto, perché so perfettamente di che vacanza sta parlando, intende quando siamo andate dai suoi zii irlandesi e gli animatori del corteo di San Patrizio ci avevano imbrattato la faccia di verde, piazzandoci sopra una bicicletta, io davanti e lei sul portapacchi, con quei ridicoli cappelloni a cilindro verde scuro a seguire il corteo di ubriachi per le strade. Avevamo nove anni, ma il ricordo è vivido come se fosse stato ieri. Lei si sarà anche divertita un disastro, ma per me è stato uno degli incubi peggiori della mia vita.
-Siamo andate in Grecia con mia nonna, me lo ricordo anche io! … che bel mare che c’era laggiù, eh? Ci siete mai stati?- praticamente urlo sopra Chess, rivolgendo una sorta di sorriso in direzione dei quattro che ci fissano perplessi, chi più chi meno.
-Ora che ci penso … certo che ci siamo stati! Ti ricordi, Bill? Con Gordon e mamma, avevamo otto anni e la scuola era appena finita … - esclama entusiasta Tom, indicando suo fratello, che assume un’espressione lontanamente nauseata, non so che ricordi gli stiano venendo in mente, mi basta sapere che i miei annedoti imbarazzanti siano ben al sicuro chiusi in bocca a Chelsea. –Anzi, forse di sopra ci sono ancora le foto. Andresti a prenderle?- chiede, con la migliore espressione da cucciolotto speranzoso che abbia mai visto. Insomma, Chelsea è brava a supplicare, perché per vivere con me devi essere molto bravo a supplicare. Ma con uno come Bill non deve essere diverso, se non peggiore.
-Meh … - fa Bill, aumentando il grado di schifo dipintogli in viso.
-Le ragazze saranno così gentili da accompagnarti, così non ti perdi per questi lunghi corridoi bianchi- continua con voce sensuale il fratello, avvicinandosi come un serpente tentatore. È buffo, come allunga con maestria le parole ‘lunghi corridoi bianchi’, perché in fondo si tratta solo di recuperare delle fotografie, invece qui sembra di essere nella Genesi, dove Adamo ed Eva hanno fatto tutto quel casino con le mele.
Alla fine Fatina sembra cedere, perché si alza dal divano sbuffando –e giurerei che il cuscino non ha assolutamente cambiato posizione. Cioè, di solito quando le persone si alzano dai divani si vede il solco che si rigonfia. Invece qui zero. Giuro che non è cambiato niente. Inizio a chiedermi a quante piume sia pari il peso di questo ragazzo- e si stringe la cintura della vestaglia frusciante, per poi rivolgersi a noi, povere ragazze della plebe che non abbiamo mai smesso di fissarlo con un barlume di meraviglia in fondo agli occhi:
-Allora? Andiamo a prendere queste foto.
Detto fatto, io e Chelsea siamo in piedi e stiamo seguendo Morticia attraverso il dedalo di scale e corridoi candidi che è l’interno di questa casa. Sarà qualche minuto che andiamo su e giù, avanti e indietro, mi starei seriamente preoccupando se non fosse che sembra essere così sicuro di dove va. Beh, mi preoccupo lo stesso, visto che fin’ora non ha fatto altro che fare il finto melenso e servirci brodaglia sospetta: per quel che ne so potrebbe trascinarci in uno sgabuzzino per le scope e rinchiuderci là dentro, o gettarci in pasto ai coccodrilli spingendoci dentro il laghetto in giardino. Non mi stupirei se ci fosse qualche belva sospetta là dentro.
-Manca ancora molto?- chiede ad un certo punto Chess, si vede che non ne può più di camminare. È una scansafatiche.
-No- miagola Bill, girando la testa verso l’ennesima rampa di scale. –La soffitta è in cima a quella scala- continua, aggiungendo sottovoce qualcosa come ‘Ma chi me l’ha fatto fare di portarmi queste due dietro’.
Chelsea tira un sospiro di sollievo, mentre saliamo gli ultimi scalini e Bill apre la porta.
Subito veniamo investiti da un’ondata di puzza di chiuso e polvere, a cui la mia amica reagisce con uno starnuto degno di un elefante con il raffreddore: sì, è allergica alla polvere.
-Come potete vedere è piuttosto grande, quindi  meglio dividerci- ordina Bill, entrando in modalità First Lady, con il mento alzato e le labbra in fuori.
-Scusa se mi intrometto, ma cosa dovremmo cercare esattamente?- chiedo, alzando un indice.
Il moro si volta verso di me, guardandomi con sufficienza. –Una scatola color pistacchio con un nastro blu tutto intorno. Su un lato ci dovrebbe essere scritto ‘foto vacanze 96-97’.
-AH- facciamo noi in coro, per poi entrare nella soffitta, che in effetti è veramente enorme. Credo che qui dentro ci starebbero comodi quattro o cinque rinoceronti, contando uno spazio di cinque metri quadrati per ciascuno. In ogni lato in cui ti giri trovi mobili coperti da teli bianchi, poltrone, attaccapanni e bauli e scatole, scatole di cartone in ogni dove. Mi avvicino ad un pacco di libri giusto davanti a me. Tanto non abbiamo fretta …
-Cime tempestose? Chi leggeva questa roba?- domanda Chess, spuntata da chissà dove dietro di me, afferrando il primo della pila.
-Erano di mia nonna. Me li ha regalati quando ho fatto quindici anni- spiega Bill lapidario, dall’altra parte della stanza.
Appoggio il volume, e mi volto verso quello che sembrerebbe uno specchio. Sollevo il velo, e quella che mi ritorna è la mia immagine riprodotta un centinaio di volte, su una ragnatela argentata a macchie. –E chi è stato il genio a rompere ‘sto specchio?
Bill si volta verso di me, e il suo viso assume una posa ferita. –Colpa mia. Avevo sedici anni ed ero di malumore. Non mi piacevo quel giorno- spiega, perdendosi a seguire con lo sguardo le incrinature dello specchio. Chi lo ha rotto deve aver avuto un destro davvero potente. Glielo faccio notare.
-Seguivo corsi di autodifesa. Una vera First Lady non ha bisogno di cavalieri con l’armatura, per difenderla dai vicoli magdeburghesi-  si vanta, con il mento alto e gli occhi socchiusi. Lascio andare il velo, e la mia immagine scompare.
Passano più o meno una decina di minuti, durante i quali passiamo più tempo a curiosare tra le cianfrusaglie che a cercare effettivamente quella scatola.
-Chi è questo?- chiede Chelsea, sollevando una gigantografia in cui si distingue chiaramente il vocalist avvinghiato ad un ragazzo biondo ed espressivo come una cozza bollita. Sembrano una coppietta felice.
-AAAAAAARGHHHH- strilla Fata Morgana vedendo il quadro. In quattro e quattr’otto lo strappa di mano alla mia amica, e lo infila dentro un armadio a caso, sbattendo le ante e serrandole con la chiave, che poi lancia a qualche metro di distanza. Rimane per qualche istante a fissare l’armadio, con il respiro pesante e gli occhi sbarrati, come se potesse da un momento all’altro uscirne una belva affamata che potrebbe divorarci in un attimo. Poi, si gira verso Chelsea, iniziando a urlare come un matto in preda ad una crisi mistica.
-NON TIRARE MAI PIU’ FUORI NESSUNA FOTO, FICCANASO CHE NON SEI ALTRO, PERCHE’ NON TE LE METTI NEL SEDERE QUELLE MANI?!
Per qualche minuto lo fissiamo perplesse, quando lui si calma e dice:
-Era uno dei miei ex.
Altro silenzio, durante il quale alziamo le sopracciglia, per spronarlo a dire qualcos’altro. Quando si accorge che non lasceremo perdere la storia, fa un grosso sospiro stizzito ed inizia a raccontare:
-Ci conoscevamo dalla prima media. È sempre stato il migliore amico di mio fratello. Si chiamava Erik. Il loro tempo lo passavano a fare dispetti alle ragazze e … - si interrompe, lisciandosi i capelli. – Beh, camminare lentamente avanti e indietro per il cortile, con il vento contro che smuoveva capelli e vestiti, da fare invidia ai bagnini di Baywatch. Io ero solo l’ultimo della fila di ragazzine che li fissavano, allineate lungo i muri della scuola, sospirando e facendomi film mentali sulla nostra futura vita insieme. Passai il resto delle medie in questo modo, ovviamente Tom non ne voleva di farmi conoscere al suo amico, io per la gerarchia scolastica ero nel più infimo scalino di ogni categoria di sfigati; perciò, appena iniziarono le superiori decisi mi prendere la mia vendetta: passai l’intera estate chiuso nella mia stanza, a fare trattamenti anti-acne, ricoprirmi di maschere e farmi continuamente la manicure. Se uscivo era solamente nei giorni di brutto tempo, per non rischiare di abbronzarmi e scurire l’incarnato cadaverico che mi stavo impegnando a mantenere. Seguii decine e decine di tutorial di trucco e parrucco, nel frattempo il mio guardaroba si trasformava sempre di più in quello di una sgualdrina dark, la sera mi infilavo nelle feste a cui mio fratello veniva invitato vestito praticamente da ragazza, e ogni volta la fila di quattordicenni che mi sbavavano dietro cresceva; ovviamente non dissi mai a nessuno chi fossi veramente.
Fa una breve pausa. Adesso siamo praticamente seduti a triangolo, sul pavimento ricoperto da un dito abbondante di polvere, sia io che Chess pendiamo dalle labbra di Bill, che, volente o nolente, alla fine ci sta praticamente raccontando la storia della sua vita. Prende fiato e ricomincia.
-Alla fine, il primo giorno di liceo, al cui sapevo perfettamente che sarebbe stato presente anche Erik, quello che entrava dai portoni antipanico, portandosi dietro una ventata incredibile d’aria gelida (sono rimasto un sacco di tempo fuori dalle porte, nascosto fra i cespugli, aspettando il momento giusto. Volevo assolutamente fare un’entrata degna di essere ricordata, dovevo consacrare la mia immagine fin dal primo giorno) non era più il bambino sfigato e truccato da femmina che osservava i ragazzi tendendosene lontano. Ero diventato una sorta di regina cattiva, mi piaceva un sacco identificarmi come la matrigna di Biancaneve, con il mantello nero e gli occhi truccati … - fa un sospiro sognante, ricordando chissà quale immagine di gloria. –Insomma, in meno di una settimana tutto l’istituto era diviso in due fazioni: chi seguiva Bill Kaulitz come anatroccoli dietro alla chioccia, e chi lo osservava da lontano come una divinità irraggiungibile. Ovviamente non avevo lasciato che il mio pupillo entrasse a far parte della prima fazione. Per un anno intero non l’ho degnato di uno sguardo, lasciando che si torturasse l’anima sapendo che non lo caggavo di striscio. Solo il giorno del ballo di fine anno gli ho concesso di avvicinarsi. Abbiamo ballato insieme. Avevo studiato quel giorno dall’ultimo giorno della terza media, quando avevo deciso che sarei diventato regina indiscussa.
Altra pausa ad effetto. Non è difficile immaginarselo mentre cammina fra le file degli armadietti, con il suo seguito di ragazzine adoranti e gli sguardi degli invidiosi che gli scivolano addosso. Aveva ragione a parlare di matrigne, gli sarebbe veramente mancata solo la mela avvelenata.
-Quel giorno divenne il mio ragazzo. Eravamo la coppia più felice di tutto il liceo. Perfino i futuri primini della terza media parlavano di noi. Ero la regina e lui era il mio re- sospira, afflosciandosi nella vestaglia rosa. –E’ stato il periodo più felice di tutta la mia vita.
Si asciuga una lacrimuccia che gli pende dalle lunghe ciglia nere, e giurerei che stia singhiozzando. Non vorrei aggiungere niente, anzi, mi sembra di avergli fatto venire in mente abbastanza brutti ricordi, ma ovviamente ci pensa Chelsea a far precipitare tutto come al solito.
-E poi cos’è successo?- chiede, con l’espressione più preoccupata che le abbia mai visto dall’ultima volta che abbiamo guardato Titanic. Mi preparo alle peggio scene apocalittiche, ma stranamente non succede niente, anzi, Bill risponde pure.
-Sono passati due anni. Due splendidi e perfetti anni, finché qualche puttana deve essersi infilata nella vita sentimentale dei suoi, si sono separati e lui è dovuto andare a casa di suo padre. Ogni tanto si faceva vedere, ma non è mai tornato lo stesso. Era sempre nervoso, e sempre al telefono con la madre. Non facevano altro che litigare, e quando finalmente buttava giù si isolava, non parlava più con nessuno e andava in bagno a fumare. Non parlava più nemmeno con me- alza il viso in un’espressione tradita, poi va avanti. –E un giorno, un giorno che non dimenticherò mai … - crolla con la faccia nella stoffa rosa. Iniziando a frignare. Chess gli dà qualche pacca sulla schiena, chiedendogli cosa fosse successo quel giorno.
-Sono entrato in bagno per vedere che fine avesse fatto. E lui stava fottendo rumorosamente una zoccola di prima. Me ne sono andato senza farmi vedere. Sono tornato a casa, accusando un forte mal di pancia (che non era neanche troppo finto, visto che ero in preda alla nausea) e non sono più uscito dal mio letto. Devo averci pianto tutte le mie lacrime. Per un mese non feci altro che piangere. Piangevo a tavola e piangevo durante la notte. Ero diventato un piagnone incredibile- ci arriva, da sotto la vestaglia dove ha affondato la faccia. Ci scambiamo uno sguardo impressionato, per poi tornare a guardarlo.
–Quando uscii di casa fu per andare a firmare il contratto con la Universal Music. Mentre io piangevo, le nostre canzoni diventavano famose e le case editrici si interessavano. Diventammo celebrità in meno di qualche mese. Ogni singola persona all’interno di quel liceo era diventata per me meno di un moscerino morto sul parabrezza. Non ci rimisi più piede, e non incontrai più quel figlio di puttana.
Finalmente alza la testa dalla stoffa rosa, e ci fissa a intermittenza, con gli occhi semichiusi e il trucco colato sulle guance. Sembra un piccolo panda oltraggiato.
-Mi dispiace- dico, piano. È vero, mi dispiace seriamente. Forse capisco perché si comporta da diva con le persone, facendo il superiore con tutti. A volte basta conoscere un minimo il passato di una persona, per cambiare completamente la propria impressione su di lei.
-A me no- risponde lui. –Non mi dispiace più … anzi, non mi è mai dispiaciuto- si capisce che questa è una bugia. Gli trema il labbro inferiore, e l’espressione da imperatrice superiore non è più molto convincente.
-Anche a me è successo qualcosa del genere- gli dico. –Avevo un ragazzo. È stato la prima ed ultima storia seria che ho avuto.
-Deve essere stato veramente coraggioso- commenta, con la voce incrinata che tenta di sembrare acida. Ma non ci riesce, ed entrambe lo guardiamo con ironia. Ridiamo, tutti e tre.
-Sì, era veramente coraggioso. Pensa che la prima cosa che ci dicevamo dopo esserci baciati era un bel ‘ti odio’. In effetti ci odiavamo davvero parecchio- racconto, sorridendo. Bill continua a ridere. Credo si stia immaginando la scena.
-Non scherza. Una volta si sono tirati dietro tutto il servizio di piatti che avevo in dispensa, e quando hanno distrutto tutti i piatti hanno iniziato con le posate. Poi hanno iniziato a menarsi, e allora addio a tutti i soprammobili. Hanno evitato per un soffio di distruggere la mia batteria, infatti da quel giorno l’ho sempre tenuta nello sgabuzzino delle scope, in cui era severamente vietato entrare. Quando sono tornata a casa erano seduti uno di fianco all’altra sul divano, erano completamente coperti di graffi e si stavano borbottando insulti. La casa era un completo macello, ci ho impiegato due giorni interi a sistemare tutto, ovviamente da sola visto che loro erano impegnati a girare per locali a suonare- racconta Chelsea. Rido. Mi ricordo quel fine settimana. Stenka aveva una sorta di band, e siccome il chitarrista era affidabile come una casa di paglia in una giornata di tempesta, spesso andavo a sostituirlo. Era divertente suonare di sera nei locali da quattro soldi, qualche volta veniva anche Chess. E poi, diciamocelo, per noi fedeli seguaci dei My Chemical Romance, limonarsi sul palco è molto più poetico.
-Vogliamo parlare di quando ti frequentavi con la lanciatrice di coltelli? Un giorno entrando i casa ti ho trovata appesa ad una ruota gigante in mezzo al salotto, strillavi come un’oca e lei ti lanciava i coltelli a tre centimetri dalla faccia- la rimbecco, in modo scherzoso.
-Ma era divertente!- protesta lei. –E poi, parli tu di lanciarsi addosso i coltelli …
-Anche io ho conosciuto un circense una volta- interviene Bill. –L’ho ufficialmente lasciato quando mi ha chiesto se potevo entrare nella  scatola divisa. Quel pazzo voleva segarmi via le gambe, accidenti.
-A questo punto non possiamo non parlare di Toby … - dico a Chelsea. Toby era un bravissimo ragazzo. Il problema era che era ossessionato dagli oggetti taglienti. Non faceva altro che fare quel gioco macabro, in cui bisogna aprire la mano e piantarsi il coltello fra le dita, velocemente, passando da uno spazio all’altro. Per carità, era bravo, ma un giorno non ce l’abbiamo più fatta a guardarlo, avevamo un terrore troppo grande che potesse partire un dito nella nostra cucina, e l’abbiamo mandato via. Chiariamo: l’aveva trovato Chess, io non c’entravo niente con lui.
-NO!- urla lei, infatti. Ci siamo ripromesse di non parlarne più.
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Stiamo allegramente chiacchierando dei vari fallimenti amorosi imbarazzanti, quando ad un certo punto, Bill si ferma e sposta lo sguardo spaventato verso la porta.
-Ragazze?- chiede, con la voce tremante.
-Sì?
-Chi è entrato per ultimo?
-Io- Chess alza la mano, innocente.
Bill scatta in piedi e vola verso la porta. Abbassa la maniglia. Non si apre. Noi ci scambiamo uno sguardo terrorizzato. –C…che succede?- chiedo io.
-Questa porta ha un difetto- dice piatto Bill. –Si blocca molto facilmente, soprattutto se chiusa dall’interno. In quel caso bisogna chiamare il falegname e far cambiare la serratura.
-E … quindi?- chiediamo in coro, temendo il peggio.
Bill  lascia la maniglia, e si volta verso di noi, tornando ad indossare la maschera di indifferenza.
-Quindi, per tutta la notte, siamo chiusi dentro.


Hello, qui è il verde acido che parla! :D Dai dai che ce la fanno, le nostre ragazze, con questo COSO irremovibile nella sua gayezza. Incrociamo le dita, incrociatele con noi xD ...e insomma, speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, e che stiate apprezzando tutto questo disagio.
... Buon Anno in ritardo da noi due, e ci si vede al prossimo capitoloooooooooooo!!!! :********                     Baci e panettoni,         LeRenneDark *-*

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Capitolo 9
*** Disavventure in un solaio ***


CAPITOLO NOVE: DISAVVENTURE IN UN SOLAIO

Avevamo diciotto anni, Stenka aveva appena mollato Alexandria, io avevo appena rotto con Annika dopo che mi aveva praticamente falciato un orecchio con uno dei suoi coltelli, eravamo una coppia di depresse croniche che non facevano che urlare e dare pugni nei muri o fissarsi davanti alla tv a vedere “Love Story”, quello del 1970, di Arthur Hiller, con Ali MacGraw e Ryan O’Neal. Bene, era in quel tranquillo clima sociale, durante un gelido e mefitico inverno magdeburghese che quei due gran figli di troia dei miei fratelli Billy Terry e Charity Rebecca avevano avuto la geniale e acutissima idea di farci un simpatico scherzetto. La porta della soffitta, ovvero di camera mia, è sempre stata difettosa e quale migliore idea se non quella di chiudere dentro a chiave la povera sottoscritta con la sua nevrotica amica, spingendo contro la porta il vecchio baule dello zio Connie e lasciarle lì dentro a urlare e battere i pugni, optando anche per farlo la notte in cui c’era il temporale ed era saltata la corrente? Così avevano fatto, lasciandoci da sole nell’oscurità della mia stanza, con i lampi che illuminavano a stento il letto, una gran fifa (perlomeno, io avevo una gran fifa, soprattutto perché Alex aveva appena finito di raccontarmi un racconto di Edgar Allan Poe semplicemente terrificante), e costrette a udire i canti disarticolati, che sarebbero dovute essere le canzoni di Lady Gaga, di mia sorella Katie Crystal che pattinava ignobilmente di fronte alla porta chiusa senza sentire le nostra urla belluine. Ecco quello a cui penso non appena Bill si gira livido verso di noi comunicandoci che siamo chiusi dentro alla soffitta di casa Kaulitz senza possibilità di fuga. Ecco quello a cui penso quando realizzo che siamo in una soffitta piena di ricordi e gigantografie pericolose di ex ragazzi stronzi, seduti in circolo come se fossimo a un ritrovo di streghe di Benevento, con una megera in vestaglia, una con il logo dei Venom e un’altra con E.T. Ecco quello a cui penso, mentre Bill si mette a strillare come un gattino a cui hanno arrostito la coda e ci hanno fatto un arrosto con patate novelle, Alexandria comincia a tempestare la porta di calci rotanti e io attacco a mugghiare, in piena crisi adolescenziale di quando ancora vivevo a casa coi miei e la mia infinita fratellanza “Billy Terry, schifoso bastardo senza cuore, facci uscire di qui o dico a mamma che ti bruci tutti i tuoi dannati smalti!”.
-Bill, porca puttana, ma sei certo che non si possa aprire?!- sbotta la mia amica, dandoci ad entrambi uno scappellotto per farci tacere.
Il cantante più bello che ci sia la guarda un po’ con un certo astio dipinto in quegli occhi meravigliosi, astio però chiaramente rivolto al fatto che gli abbia scompigliato i fluenti capelli da Crudelia Demon.
-No, Alexandria. – oh, miracolati da San Patrizio, si è ricordato almeno il suo nome – Sono sicuro che la porta non si può aprire. È difettosa, ve l’ho detto.
-Quindi siamo tipo chiusi dentro per tutta la notte, da soli, al buio, e soprattutto senza televisione?!- strillo istericamente io. Io non posso vivere senza vedere un film, capitemi. Sono la mia bombola dell’ossigeno, il mio pacemaker, lasciatemi senza e morirò soffocata nel mio stesso vomito!  - Alex, Bill, non abbiamo la tv!
-Siamo chiusi all’umido e al freddo con i miei capelli in pericolo e senza le mie maschere notturne antirughe e i cetrioli per gli occhi e tu ti preoccupi di una dannata televisione?! Dico, ma sei scema, Birmingham?- Bill mi guarda con quei suoi enormi e meravigliosi occhi profondi come una galassia lontana, dove posso vedere incrociarsi miliardi di nuove Pleiadi, insieme al sanguigno rossore di Antares, il luccichio soffocato della Stella Polare, l’incrocio dello Scorpione, il riflesso degli anelli saturnini, la nebulosa Aquila, l’intreccio della Cintura degli Asteroidi. Sono occhi che ti soffocano e ti trascinano dentro al loro orrore senza riuscire a farti uscire, catene che ti soffocano e ti si avviluppano attorno, catene che nessuna chiave potrà mai aprire; sembra di finire nelle oscure grinfie di una personale Lorelei, trascinato in fondo a un lago nel cui affogherai e da cui nessuno ti tirerà mai fuori, oppure sembra di venire risucchiati in buco nero che divora tutto quello che gravita nelle sue vicinanze, insieme a gomitoli di energia interstellare che si dipanano come corde lucenti e ti legano, drogandoti con la loro polvere di stelle e accecandoti con la polvere del sogno dei vecchi ricordi, soffocandoti col profumo di rose avvelenate e di sete impregnate di profondi incensi orientali, chiuse nella gabbia di un avvenente principessa di passaggio a Samarcanda.
-A parte che mi chiamo Chelsea, e poi chi cazzo se ne frega dei tuoi capelli splendidi e del tuo viso assurdamente perfetto quando a me rischia di venire un infarto prima che ci tirino fuori da qui!- strepito, perché Chelsea Sienna Spiegelmann è brava, dolce, tranquilla, ridanciana, amorevole ma non quando è a corto di cinema.
-Te lo faccio venire io un infarto se non la smetti di fare casino, Chess!- mi urla Alex, dandomi uno strattone terribilmente doloroso a un dread rosa. Poi si gira digrignando i denti verso Bill e si limita a ringhiare – E tu, signorinella in vestaglia, tieniti i tuoi capelli come sono e non rompere le palle, chiaro?
Noto con un certo stupore che nemmeno in questo indecoroso frangente gli ha tirato un ceffone, cosa che avrebbe fatto a chiunque fosse stato qui con noi, anche a Jared Leto, per capirci. Dio, qui stiamo impazzendo tutte e due, io che perdo il controllo, lei che non picchia: il nostro equilibrio sta venendo duramente scombussolato da questa meraviglia divina con la voce intossicante.
-Beh.- intervengo io, nascondendomi previdentemente sopra a un vecchio baule, troppo in alto perché Alexandria non mi strappi un altro tubo – Nessuno ha un cellulare o una radio, o un walkie-talkie per chiamare gli altri tre che vengano a tirarci fuori?
Perfetto, ho calcolato male. Ok, Alex sarà alta un metro e un tappo come la sottoscritta, quindi per l’appunto non ci arriva a picchiarmi dalla cima del baule. Peccato che Bill invece sia un palo telegrafico con tanto di tacco 15 e plateau 10 quindi riesce senza problemi a prendere le veci della coinquilina e a tirarmi il dread rosa con una forza che non credevo possibile in quelle braccia anoressiche. Mentre io volo giù dal baule ululando di dolore, però mi rendo conto che Bill non mi ha ancora mollato i capelli. Ora, immediatamente nella mia mente perversa viene proiettata una scena post apocalittica:
 
Inquadratura frontale, telecamera mobile, un leggero soffiare di vento tra le macerie funge da colonna sonora, non si sente altro. La telecamera comincia a muoversi, rapida, come se stesse strisciando per questo paesaggio catastrofico, mantenendo un’inquadratura frontale, quasi fosse un cyborg che deve battere il territorio prima di dichiararlo inagibile. Vengono inquadrati resti di quelle che potevano essere case, scheletri di automobili, mulinelli di sabbia grigiastra che vorticano mollemente nell’aria, spingendo grossi gomitoli di rovi che rimbalzano uno contro l’altro, i resti di elettrodomestici dimenticati tutt’attorno, scenario distrutto, un cielo marroncino senza sole e senza luna, né buio ma nemmeno luminoso, semplicemente spento, come fosse un Inferno in via di restauro. La telecamera rallenta la sua corsa, svolta violentemente in quella che forse prima poteva essere una piazza e inquadra due figure. Una alta, con lunghi capelli corvini e bianchi, vestita di pelle nera stracciata e impolverata, una katana appesa alla cintura e un mitra appeso alla schiena, l’altra figura bassa, una strana capigliatura rosa e bianca, seminuda e ricoperta di sangue, un fucile a pompa in una mano e una fascia con appese delle granate penzolante da una spalla. La telecamera si avvicina, e il vento scema vagamente d’intensità. Le figure, una maschile e una femminile vengono inquadrate perfettamente, mostrando il trucco rovinato e i graffi sulla pelle di lui, le cicatrici sanguinanti e il sorriso smorto di lei. Si ferma l’inquadratura e si concentra sui due ragazzi, uno di fronte all’altra, marmorei nella triste luce di un giorno senza notte e senza meriggio. Momento di calma, telecamera fissa, un leggero soffiare di vento in sottofondo e poi lui le accarezza i capelli e lei sussurra “Sei tornato, finalmente”. Lui mormora, avvicinando le rispettive labbra “Dovevo vederti prima di morire”. La telecamera inquadra il bacio dolce e disperato che consegue questa frase, mentre lei molla il fucile per terra e appende le mani al suo collo, mentre lui le stringe il retro della nuca. Comincia a sfumare la scena lasciando impressa negli occhi degli spettatori questo bacio che sa di morte tra i due protagonisti. Potrebbe finire che fanno l’amore in quella desolazione apocalittica, oppure che si separino e non si rivedano mai più. Forse lui sta morendo.
 
Essendo che i registi surrealisti non vengono mai compresi da buona metà della popolazione, così accade anche a me, venendo infatti brutalmente strattonata come una bambola dalla mia amica che fa crollare tutto il sogno hollywoodiano e costringendomi a cacciare un urlo di dolore, perché Bill il dread rosa mica lo molla.
-Ahia, per favore, mollami i capelli.- piagnucolo, e lui mi risponde con un tiro più deciso e uno strillo virile quanto Cenerentola e conseguente pianto isterico
-Oh mio Dio, Toooom, aiutami! Fai qualcosa!
-Ma si può sapere che Cristo state … oh, cazzo.- Alexandria ha la faccia letteralmente sconvolta. Lei, che non si è sconvolta manco quando le avevo fatto vedere “Lanterne Rosse”, anno 1991, regia di Zhang Yìmòu, con Gong Li e Caifei He.
-Ma cosa sta succedendo?- chiedo terrorizzata, cominciando a sudare.
-La mia unghia è rimasta incastrata nei tuoi capelli e non riesco a toglierla.- balbetta Bill, cereo come la morte.
-Mi state prendendo in giro, vero?- li guardo tutti e due, scoppiando a ridere sonoramente delle loro occhiate sconvolte e della loro terribile, idiota paura. – Chi cazzo se ne frega se hai un’unghia incastrata nei miei dread!
-Senti, Sheffield, vorrei pure evitare di girarti appeso alla schiena, cosa ne dici?- abbaia isterico Bill, dandomi uno strattone da piangere e cominciando a singhiozzare come una bambina a cui hanno vietato le Lelly Kelly.
Io e Alex ci scambiamo una delle nostre occhiate telepatiche con cui ci comunichiamo fin l’impossibile e leggo chiaramente nei suoi occhi orgogliosi “Aspetta, ora potrei incastrare le mie unghie nei suoi capelli e così potremmo stare tutti insieme come la triade indù”. Ci penso un secondo e poi rispondo “Fallo Alex! Veloce, prima che la Delfina riesca a liberarsi di me!”
Che io non sia mai stata quello che la gente chiama “una ragazza intelligente e sveglia”, lo si sapeva da sempre. Ma che anche la coinquilina Hannibal scadesse così miseramente come la Full Metal Cinema sottoscritta, questo proprio è grave come quando è morto Robin Williams, per intenderci. Una perdita per il cinema mondiale e qui una caduta di stile inequivocabilmente dettata da Bill per lei. Perché per l’appunto lei è rapidissima ad afferrare la capigliatura corvina della Delfina e provare a incastrarsi a sua volta nei piccoli dread bianchi. Peccato che lei non abbia gli artigli da paura di Bill e sia decisamente troppo gnomica per potersi attaccare con decisione, così l’unica cosa che si becca è un’occhiata di fuoco e una scrollata di spalle che la fa capitombolare lontano da me e lui.
-Comunque, che problema c’è?- continuo, cercando di fare gli occhi dolci a Bill e a lanciare un’occhiata ammonitrice ad Alexandria prima che gli salti addosso come sta per fare la sottoscritta e lo violenti di brutto qua in soffitta. Cioè, la vestaglia che gli sta scivolando giù dalla spalla e i capelli vagamente arruffati insieme al trucco pesantissimo sono qualcosa di troppo sensuale per poter essere legale. Bill intero è troppo sensuale per essere legale, non c’è storia. Mi chiedo come mai nella Costituzione tedesca non ci sia un articolo con su scritto “E’ severamente punibile con l’ergastolo chiunque porti un Bill Kaulitz al di qua della frontiera”. È droga allo stato puro, questo ragazzo, una coltellata in pieno petto ogni volta che ti parla, un’emozione continua e irripetibile. Oh, e ovviamente se è vietato tenere un Bill al di qua della frontiera, io e Alex lo faremo volentieri, perché noi siamo quelle due cattive ragazze da cui la mamma ti tiene lontano, siamo quelle che urlano “Fuck the police” in faccia all’agente di turno, che fomentano risse nei bar periferici, che vanno a sedersi sui cavalcavia di notte fonda a tirare le pietre a quelli di sotto, che fanno graffiti sui muri dei palazzi, che buttano all’aria il bucato delle nonne immergendoli nella vernice nera, che rubano le caramelle ai bambini dell’asilo, che girano con i coltelli nella borsa e che si fanno beffe di tutto e di tutti. Siamo quelle che non sono belle, ma che hanno il fascino dei perduti, non sono edotte ma lo sembrano anche fin troppo, non sono fini ma le chiamano “principesse”, non sono altro che rigetti di periferia e proprio per questo piacciono un casino. Siamo quelle che vanno perché in fondo nessuno le vuole. – Basta tagliarmi il pezzo di dread dove c’è la tua unghia e poi così la puoi liberare senza raparmi la testa.
-Ma Londra, tesoro, lo sai cosa stai dicendo?- Bill mi guarda sfarfallando gli occhi.
-Beh, credo di sì.- mi gratto la guancia lentigginosa, cercando un aiuto psicologico nella mia amica che pare più perplessa di me.
-Già sei una specie di puttana malvestita e disordinata, ci manca solo che ti rovini quella capigliatura fallita dagli anni 80’!- strilla lui, mettendosi l’altra mano nei capelli e sbuffando – Coco Chanel, aiutami tu!
-A me non sembrava una brutta idea, quella di Chess.- mi spalleggia stranamente Alexandria, aggiustandosi i boccoli dalla parte non rasata – Tanto è già un cesso arruffato e irlandese così com’è, non penso che senza un pezzo peggiori più di quanto già non sia peggiorata.
Ecco. Mi pareva troppo bello che non mi insultasse. Ora mi chiedo, ma perché li ho accompagnati e non me ne sono rimasta giù a chiacchierare con Tom su quale film di fantascienza avventurosa degli anni 2000 è il migliore?! No, ovviamente l’oca irlandese doveva mettersi a fare il leprecano mancato e seguire i due mostriciattoli per mettersi poi brillantemente nei casini.
-Ho capito, anche perché forse è davvero l’unico modo.- sospira teatralmente Bill, con fare svenevole, sventolandosi melodrammaticamente – Mi raccomando, Donatella Versace, proteggi questa piccola e insulsa scemo rasta dal disastro a cui sta andando incontro.
-Ma se vuoi, per me non è affatto un problema rimanere legati a vita, eh.- interrompo sorridendo – Forse è un po’ perversa come cosa ma …
Il sordo ceffone che Alex mi molla sulla guancia mi fa desistere dall’attaccarci il pippone su qualche film dimenticato da Dio che solamente i grandi estimatori di cinema come la sottoscritta e il fido Obelix a dieta possono conoscere. Comincio a seguire con lo sguardo la mano perfettamente curata della Delfina cercare qualcosa nelle tasche della vestaglia e la vedo poi riemergere con un paio di forbicine da manicure che avvicina pericolosamente al mio dread rosa.
-Santo Scorsese, Bill sei fottutamente uguale a Johnny Depp in “Edward Mani di Forbice”, quello di Tim Burton del 1990, con Winona Ryder!
-Sei una drogata di cinema.- commenta la mia amica, inesorabile come la morte, per poi girarsi verso di lui e continuare, tetra come la miseria – Tu sei un drogato di moda.
Il momento in cui io e Bill ci guardiamo, occhi violetti e ridenti dentro occhi neri e dannati, è qualcosa che probabilmente segnerà a vita sia me che lui. Ci riconosciamo di quel legame archetipico che va contro ogni legge delle fisica e della chimica, quel sentimento che unisce gli uomini anche dal Burundi all’Alaska, l’incrocio che mischia razze diverse in barba all’estrazione sociale e alle culture, la passione di ritrovarsi tutti dallo stesso fronte. In noi posso riconoscere due soldati, sì, due semplici  soldati semplici, magari giovani, due ragazzi del ’99 che si sono trovati a combattere su fronti opposti ma che ora sono entrambi persi in trincee piene di sangue, senza più nessuno e che invece di spararsi addosso si abbracciano piangendosi addosso polvere da sparo e lacrime di sangue, lasciando cadere i fucili nel massacro e aspettano che qualcuno li uccida così, abbracciati di fronte all’orrore in cui hanno preso parte. Posso riconoscere due vecchi compagni dell’IRA che si ritrovano seduti in uno squallido bar di Lambeth a guardarsi negli stanchi occhi opacizzati, con due birre che sanno di piscio davanti, indecisi se cominciare a ricordare i vecchi ma sempre fulgenti ricordi della rivolta irlandese oppure ignorare il fatto che in realtà si sentono due sporchi traditori della causa, loro, che servivano l’Irlanda sopra a tutto e che ora sono schiavi di loro stessi e della dannata Inghilterra che li ha fagocitati. Posso riconoscere due cloni del prossimo futuro appena scappati dal terribile regime schiavista in cui sono stati creati e che si sono incontrati così, sotto a un vecchio ponte romano dimenticato e mangiato dalla Natura, spaventati e schivi ma che si uniscono per fuggire insieme da quel nemico comune che è il sistema, cercando di confondersi inutilmente nella folla, consci del loro pericolo ma fieri di poter dire che sono ribelli e che sono insieme contro tutti. Posso riconoscere due punk convinti della bollente Londra degli anni ’80 che si stanno lanciando a cambiare il mondo con le loro creste, e i Sex Pistols nelle orecchie, e le mazze in mano, pronti a fare casino, a farsi valere a volere buttare giù il mondo, il coraggio che scaturisce dai loro occhi, mentre si tengono per il polso e cantano “God Saves The Queen” sotto a Buckingham Palace e vengono cacciati a calci ma loro se ne fregano e se ne vanno verso il sole, ubriachi di sogni e speranze già morte ancora prima di venire alla luce. Posso riconoscere due donne che un tempo lontano erano state amanti e che ora si ritrovano in una metropoli americana e si guardano con ansia, non sapendo bene come uscire da quella situazione, entrambe a una festa della ditta per la quale entrambi sgobbano, e vedono le fedi alle rispettive dita, e se ne rendono conto che ora hanno famiglie, con un lavoro che annoia, due mariti che non amano, figli adolescenti che non sentono loro, una vita fallita che avrebbero potuto evitare se avessero resistito insieme contro al mondo, ma alla quale hanno rifiutato, forse per orgoglio, forse per vergogna. Posso riconoscere tutto questo nello sguardo che io e Bill ci scambiamo quando prendiamo un profondo sospiro e ci giriamo in coppia verso Alexandria, abbaiando in sincronia perfetta
-E tu sei drogata di acidità!
La coinquilina Hannibal ci strafulmina, e io mi sento il solito vomito di piccione, mentre la Delfina sembra ignorarla amabilmente e con un taglio netto e secco taglia il pezzetto di capelli rosa. Finalmente posso staccarmi dalla sua morsa d’acciaio e mi massaggio la povera testa tirata e malmenata, mentre lui riesce finalmente a liberarsi l’unghia chilometrica.
-Tò, manco fosse così complicato!- diciamo noi due ragazze, quando sentiamo tre voci ben conosciute fuori dalla porta. E finalmente, direi.
-Ci siete? È successo qualcosa? Un infarto fuori programma?- urla Georg, battendo i pugni sulla porta.
-Sì, già che ci siamo un attacco di colera fulminante!- commenta acidamente Alexandria, dando un calcio amichevole alla povera e sfruttata porta.
-Vi state ingozzando alle nostre spalle!- barrisce Gustav, mentre mastica quelle che all’udito super sviluppato per il cibo della sottoscritta sembrano patatine al chili.
-Non abbiamo un cazzo da mangiare, camerate Gustav.- rispondo – Cioè, a meno che non divorino i miei chili in più, ovviamente.
-No, Bill! Ammettilo che te le stai scopando tutte e due in una botta! Ottimo lavoro, fratello, continua così, spompale!- esclama tutto allegro Tom e qui io e Alex ci lanciamo un’occhiata triste che può volere dire solo “e magari avesse ragione …”, ma no, perché puntualmente la Delfina strilla
-Dillo ancora e quando esco ti cavo gli occhi e me li mangio come fossero olive!
-Ma Bill, scusa, sei mica un estimatore del cannibalismo? No, perché prima hai proposto un panino farcito con le palle di Tom, ora gli stuzzichini coi suoi occhi … fai come in “Il silenzio degli innocenti”, di Jonathan Demme, del 1991 con Jodie Foster e Anthony Hopkins?
La mia intelligente uscita da regista in erba si merita un sonoro ceffone da parte del cantante più isterico del mondo e un ululato d’approvazione dal chitarrista più nerd che si sia mai visto.
-Bene, ora, razza di oche giulive con la gonorrea, pensate di poter tirarci fuori di qui?- si impone Alex, ruggendo come un leone arrabbiato.
-Scusa, ma siete chiusi dentro per tutta la notte. Non penso che potremo far molto.- commenta amabilmente il metallaro finto, perché in fondo lui mica deve avere paura, lui non è chiuso tutta la fottutissima notte insieme a una psicopatica e a una checca isterica.
-E ce lo dici così?!- strilliamo io e Bill, guardandoci con orrore e cominciando a tempestare di virile pugnetti la porta. Oh mia Delfina, porta almeno tu sollievo nel cuore sperduto della piccola Ippolita, non lasciarla al suo triste destino dell’impietosa Parigi. Ti prego, Delfina, soccorri l’anima della dolce Ippolita, almeno tu non perderti nell’incubo di questa notte ai limiti dell’osceno. Intercedi per noi, signora della miserabile morte della dannazione eterna dell’amore perverso.
-O provate ad aprirla, o non so cosa rimarrà di voi tre quando esco.- dice tranquilla Alexandria, cominciando ad affilare le unghie smaltate di nero sul muro. Mi ricorda vagamente la fine che avevano fatto quelli della band di Stenka dopo che avevano rotto. Siccome io non ero al momento disponibile per venire malmenata al posto di quel bastardo, troppo impegnata ad aiutare mia sorella Avery Aubrey con la sua raccolta di piante grasse (e di conseguenza impegnata a non farmi uccidere da suddetta Avery Aubrey per i miei tentativi di fare un secondo horror con le sue piante carnivore), lei aveva brillantemente pensato di sfogare la sua rabbia verso quei poveri Cristi del chitarrista, bassista e batterista di quella band di death metal sfigata a cui io dovevo fare i video e per cui dovevo fare il tifo anche se non mi sono mai andati giù. Ma ve l’ho già detto: io, per Alexandria, farei l’impossibile. Le andrei a prendere la luna, le sacrificherei un pollo spennato, le farei addirittura un poema in versi se me lo chiedesse. E ascolterei anche la band del suo ex, certo. Se questo non è essere un’amica coi fiocchi, signori, allora a sto mondo non c’è più religione. Mi pare piuttosto superfluo aggiungere che ovviamente, nonostante io mi sia sempre prodigata a dimostrarle il mio smisurato affetto, lei non mi scriverà mai un poema epico in versi, ecco. In compenso una volta mi ha comprato lo zucchero filato rosa al luna park visto che mia sorella Charlotte Chanel aveva piantato un casino per quello zucchero filato e alla fine glielo avevo dovuto cedere.
-Ok, tesoro, ora vi tiriamo fuori.- commenta tranquillo Tom, mentre io e Bill ci guardiamo e strilliamo in contemporanea perfetta, sfarfallando le ciglia e mettendo le mani a cuore
-Oh, nostro coraggiosissimo eroe che vieni a salvarci! La principessa ti aspetta qui nel suo letto di petali di rosa!
-No, scusa, Liverpool, ma l’eroe deve salvare me.- immediatamente Bill mi lancia un’occhiata bruciante, mettendosi le mani sui fianchi e scostandosi i capelli dal viso con un movimento studiato del capo. Dio, quant’è figo. – Io sono la principessina che aspetta nel suo bagno di petali di rosa e latte d’asina che arrivi il cavaliere dalla finestrella della torre a salvarla, e sempre a me capita un eroe fighissimo che mi fa vedere le stelle nella …
-Sì, checca isterica, grazie ma il porno gay ce lo evitiamo anche- ruggisce Alex, e mentre io tento inutilmente di dire che dai, anche io potrei fare la principessa rasta, d’altronde se esistono le principesse trans, ma vengo di nuovo zittita da un sonoro scontro alla porta e a una serie di bestemmie dall’altra parte della porta.
-Ma fare aggiustare sta merda di porta, intanto?- latra Georg – Non è la prima volta che ci tocca scartavetrarci le balle ad aprirla!
-Secondo me non l’apriamo mica.- borbotta tetro Gustav.
-Mo’ non portare sfiga tu.- cristo io da dentro, dando un pugno alla porta – Su, uomini, siamo tre fanciulle in pericolo, almeno fate finta! Che poi avete l’accollo di aver tre fantasmi che ululano tutta la notte.
Io e Alex cominciamo a tirare la maniglia, mentre loro spingono, ma non facciamo altro che bloccarla sempre di più, cristare, insultarci, e sentire lo sbuffo spazientito di Bill che ci fa cadere morti e sudati fradici dalle rispettive parti della casa
-Ma la piantate di ansimare come dei maiali gay che trombano con una giraffa arrapata senza una zampa?- strilla alterato il nostro cantante, scuotendo la folta chioma corvina – Se continuate così, sono sicuro che i vicini chiamano la Polizia!
-E’ vero!- esclama Georg di là – Possiamo chiamare il fabbro, quello che ha la fonderia all’angolo della strada.
Mentre tutti diciamo che sì, questa sì che è un’idea geniale, la Delfina si fa sentire con un urlo che avrebbe svegliato i morti della battaglia delle Ardenne e si avventa contro la porta con le unghie sguainate che Wolverine deve solo che imparare, i capelli elettrici che si dipanano come quelli di Malefica e un ringhio che farebbe impallidire il lupo mannaro più ganzo del mondo
-Georg Listing, prova anche solo a chiamare Jostein e io ti appendo a testa in giù facendoti sbranare dalle mie fan pitbull.
Come avrete capito, Chelsea Sienna Spiegelmann è anche sinonimo di Oca Giuliva Che Non Capisce Mai Quando Chiudere Quella Fogna Di Bocca, come mi chiamano amabilmente Alexandria e tutti i miei fratelli e sorelle. Per l’appunto, mentre di là Tom impreca coloritamente tra i denti, Gustav fa un verso strano e Georg sputa una scusa, di qua la mia amica mi lancia un’occhiataccia per farmi tacere ma non sarà di certo questo a farmi stare zitta. Io non sto mai zitta, nemmeno quando dormo.
-Chi è Jostein? Uno dei tuoi scopa amici?
E quasi mi pento di aver parlato quando Bill si gira lentamente verso di me, con le unghie che incombono pericolose e l’espressione più crudele che si sia mai vista. Quella che farebbe congelare Loki, farebbe spaventare la Regina Bianca, accecherebbe Sauron, smonterebbe l’autostima di Cersei Lannister, massacrerebbe Moriarty, accopperebbe Joker e farebbe pisciare sotto Voldemort. Sì, decisamente penso che scritturerò Bill per fare la parte del super cattivo nel mio film che vincerà l’Orso di Berlino e la Palma di Cannes. Sarò ricordata come la Grande Regista che ha usato l’antagonista più gnocco del creato.
-Stai zitta, troietta. Non sono cazzi tuoi.
-Allora c’ha azzeccato.- commenta tranquilla Alex, affilandosi le unghie. Uhm, sarò anche ricordata come la Grande Regista che ha usato la cattiva più terribile del mondo. Sì, Hollywood trema che sto arrivando. – Vediamo un po’ che problemi hai con questo Jostein. Se Tom ci vuole illuminare …
Anche Tom, come me, non brilla per furbizia, infatti sciorina subito
-No, sapete, Bill ha deciso che non vuole più farsi vedere da Jostein in situazioni diciamo “imbarazzanti” nel terrore che escano quelle foto …
-Che foto?!- trilliamo subito noi due, memori della rubrica di gossip che tenevano sotto falso nome a scuola. Siamo entrambe patite di gossip selvaggio, solo che per vari motivi non possiamo rivelare questa passione comune.
-Foto compromettenti.- conclude Georg – Bill, caro, vuoi illuminarci? Se no lo chiamo e ti attacchi al tram.
Bill ci guarda furibondo, sputando qualche insulto velenoso tra i denti prima di dire, contrito come un lama stitico con il tumore alla prostata
-Sono foto compromettenti, appunto. Non c’è bisogno di infierire su …
-Ma tipo foto di te nudo, o vestito in maniera sconcissima che fa delle cose proprio porche da fare impallidire YouPorn?- lo interrompo, pregustandomi già il personaggio porcello del mio prossimo film da Oscar e Grammy Awards.
-Grande Chess!- ulula Tom – Esatto! Sono davvero roba da porno spinto.
-Come hai fatto a capirlo?!- strilla alterato Bill, cominciando a scuotermi. – Mi hai stalkerato, confessa! Sei una spia degli sporchi comunisti! Una fottuta inviata da Mosca!
-Beh, l’ho intuito. Mio fratello Billy Terry si metteva sempre in casini simili. Tipo che si trascinava in casa i suoi amanti e si faceva fare delle foto che farebbero impallidire un politico. È una puttana nel cuore, lui, solo che almeno le foto se le teneva lui e insaccava sempre gli altri. Te mi sa che sei meno furbo di Terry.
-Ah, e così il nostro cantantucolo si è messo nei problemini con il ragazzino, eh?- sibila Alex, facendo il serpente tentatore – E ora si vergogna, piccino.
Bill ci manda a fanculo e comincia a insultare i tre musicisti, visto che nemmeno i pompieri si possono chiamare nel terrore di qualche scandalo.
-Va beh, coraggio, tanto è solo per una notte. Domani chiamiamo un altro fabbro che non sia Jostein.- dice tranquillo Gustav – Buonanotte.
La scena assolutamente da girare nel fantomatico film che sta prendendo forma nella mia testa da prodigiosa cineasta è praticamente perfetta. Una soffitta enorme e buia, se non per le luci della strada e delle stelle che fendono perpendicolarmente la finestrella dell’abbaino, casse e casse di ricordi che non vorrebbero mai venire alla luce, foto oscurate di cui si distinguono solo oscuri contorni informi, un vecchio divano sfondato che dorme in un angolo della stanza, una ragazza mezza rasata che fissa con aria di sfida e rabbia insita nel suo cuore la porta sprangata, una rasta che si gratta il collo e non sa bene che dire per alleggerire l’atmosfera e una checca che prega in silenzio Vivianne Westwood di venirlo a salvare. Sono quelle scene che poi rimangono nella storia del cinema, quelle che poi diventeranno l’antonomasia, pezzi che nessuno si scorderà come la scena di Casablanca, di Michael Curtiz, del 1942 quando Humphrey Bogart dice addio a Ingrid Bergman.
-Quindi siamo qui soli come tre sfigati qualunque?- sussurro, quasi spaventata di rompere questo silenzio religioso con uno sbadiglio rumoroso.
-Esatto, e io casco dal sonno, cazzo.- dice Alex, grattandosi la testa e sbadigliando a sua volta – Credo che mi butterò sul divano a dormire.
La guardo mentre si avvia verso il divano, ondeggiando dolcemente e mentre si lascia cadere poco finemente sui cuscini rosso fuoco, guardandomi e sbottando
-Dai, Chess, non rompere il cazzo e vieni a letto, su che ho sonno.
Giusto. Mi avvio ballonzolando verso il divano, saltellandole al fianco. Io e lei siamo abituate a dormire insieme, dai secoli dei secoli. Credo forse che appena nate fossimo anche vicine di culla. Siamo gemelle, a modo nostro. Mi raggomitolo sul bracciolo, con la sua testa sulle gambe, schiacciandomi un cuscino dietro alla nuca, cercando di aggiustarci per starci tutte e due e lasciare un po’ di spazio per Bill, sempre in piedi in preghiera verso Christian Dior. Ci guardiamo un po’ negli occhi, quando io le stampo un bacio sulla guancia, i soliti baci che lei odia, e trillo
-Buonanotte Alex!
-Fanculo, irlandese cretina bollita dei miei coglioni che da baci appiccicosi.- sbuffa lei, scuotendo la testa e dandomi a sua volta un bacino sulla guancia. Non ho mai capito che problemi abbia a darmi la buonanotte normalmente.
Ci diamo qualche pizzicotto e qualche insulto pesante dei nostri mentre tentiamo di addormentarci senza sbavarci addosso e senza darci dei calcioni nei denti, prima di cadere praticamente addormentate una sopra all’altra sbavando e dandoci calcioni nei denti come al solito. Eppure, potrei giurarci, un momento prima di cadere nelle braccia di Morfeo, vedo, con la coda dell’occhio sveglio, Bill che si avvicina al divano, sbuffa, e si raggomitola vicino a noi come un bambino, accoccolandosi vicino a noi due che infondiamo calore in questa notte gelida come l’inferno. Credo che se questo è un sogno, vorrei non svegliarmi mai più.

*** Ehiii siamo tornate scusate il ritardoooooo! Mi raccomando, lasciateci qualche commento che ora si entra nel vivo della storia*** Mi levo che non ho più voglia di scrivere. Kiss, Noi :D

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Capitolo 10
*** Biglietto sospetto ***


Quando ci svegliamo devono essere più o meno le otto di mattina. Voglio dire, non sono mai stata un genio a indovinare l’ora dalla posizione del sole e cose del genere, ci ho messo quindici anni a trovare la Stella Polare, e ancora non ci credo che le stelle rosse sono fredde e quelle blu sono calde, ho sempre odiato le trasmissioni meteo, perché che cavolo se deve piovere pioverà e tu non sei nessuno per dire che domani alle sette ci saranno diciannove gradi a Berlino.
 Mentre sono qui a discutere con me stessa sull’astronomia; Chess sta iniziando ad agitarsi, come ogni santa mattina. Solo che mentre a casa puoi tranquillamente svegliarti scalciando e biascicando cose su Woody Allen e Jhonny Depp, perché al massimo ti arriverà una scarpa per svegliarti definitivamente e farti smettere, mentre sui divani nelle soffitte delle case degli altri anche no.
-Spiegelmann, piantala, non ce ne frega niente della trama di Chocolat- bofonchio, tirandole un tubo rosa spelacchiato, deve essere la piccola vittima delle unghie di Bill di ieri sera.
-Argh! Che succede?! Vianne? Cioccolata?- salta su lei.
-Mmmmgh- si lamenta Bill, riemergendo dal mondo degli ornitorinchi fucsia e delle giraffe con gli orecchini di Just Cavalli. –Che succede?- chiede, stropicciandosi un occhio, che nonostante abbia passato una notte mal stravaccato, non struccato e senza maschera al fango di palude e cetrioli continua ad avere un aspetto troppo meraviglioso per appartenere al genere umano.
-Bill?- fa Chelsea, dopo essersi ripresa dal traumatico risveglio.
-Eh? Sì?
-Sembri un piccolo panda, sai?
Lui ci fissa a metà fra il “ma che cazzo sta dicendo?” e il “ma quanto parli?”, mentre io mi sbatto una mano sulla fronte. Giuro che con il prossimo stipendio che prendo dal bar scrauso dove ogni tanto vado a spinare birre per sbarcare il lunario ti regalo un bel piercing, doppio, alle labbra, così magari tieni chiusa la bocca.
-Niente, ti prego, lasciala perdere- mormoro disperata.
-Perché dovrei sembrare un panda?
-Perché … hai tutto il trucco sbavato. Però non è brutto, cioè, è sbavato ma è bello! Sembra fatto apposta, insomma, sembri un panda! Hai capito, vero? … - continua lei interdetta. Perché Chelsea ha la fortuna di non appartenere al gruppo di persone che la mattina sono troppo rincoglionite per fare qualsiasi cosa, come appunto parlare a vanvera, che richieda un eccessivo sforzo muscolare e cerebrale. Quindi inizia a rompere le palle già da appena svegliata.
-Mi stai dicendo che sono carino anche così?- chiede, incerto. Ma perché le persone non mi calcolano minimamente quando serve? …
-Sìììììììììì…- biascica Chess, mentre le palpebre le ricadono pericolosamente sopra le iridi viola.
-Oh, grazie allora. Penso che lo prenderò come un complimento…- mormora Bill, mentre lei mi ricade, per l’appunto, addosso come un sacco di patate ronfando. –Ma è così tutte le mattine?
-Uhm … sì- rispondo. “Nel caso volessi tenerci per sempre a casa tua?” penso, ma evito di dare voce alla mia mente ritardata della prima mattina.
-Ah.
Rimaniamo per un po’ lì, a guardare per terra mentre cerchiamo di non riaddormentarci, senza dire niente e senza pensare niente. Per quel che ne so io potrebbe essere un sogno e potremmo star ancora dormendo. Vi capita mai? A me un sacco di volte. Mi sveglio, poi mi alzo, mi vesto e faccio colazione, e quando esco di casa e vengo investita dalla pioggia fredda … mi accorgo di essere ancora nel mio letto, in ritardo per i corsi, con Chelsea che mi butta addosso secchiate d’acqua gelata urlando nel tentativo di svegliarmi.
A tirarci fuori dal nostro oblio mattutino è la voce di Tom, che ci urla di svegliarci.
-E’ arrivato il fabbro!... ringraziate il cielo che era aperto la domenica mattina, altrimenti restavate tutti e tre là dentro!
-Oppure buttavamo giù la porta- borbotta la voce di Georg. Mi verrebbe voglia di uscire e stringere la mano a quel sant’uomo, questo sì che si chiama ragionare. Buttare giù le porte.
-Stai zitto Listing! Le MIE bellissime porte laccate bianche NON si toccano!- strilla Bill, svegliandosi completamente; per poi balzare giù dal divano –facendo saltare qualche decina di molle che per poco non mi trafiggono un occhio- e barcollare fino alla porta.
-Uh? Conte? Conte De Reynaud siete voi?- farfuglia Chess, ricominciando a scalciare con le sue gambe lentigginose.
Le tiro un poderoso ceffone, poi un altro e sembra ridestarsi.
-Mi sono riaddormentata?- chiede, innocentemente, strofinandosi un occhio e tirando uno sbadiglio.
-Eh, ma và- rispondo io, tentando di togliermela di dosso.
-Che cosa fai? …
-Cerco di spostarti, visto che mi stai schiacciando!
-Oooh. Scusa- dice, tornando ad appoggiare la testa piena di rasta sul mio davanzale, come se fosse un cuscino.
-CAZZO, CHELSEA, TOGLITI!- barrisco in preda ai nervi. –Ma quanto cazzo mangi? Pesi più tu di quindici ippopotami con la pancia piena di sassi- mi lamento, mentre cerco di spostarmi da sotto la sua massa corporale. Se non funziona in un modo, andrà nell’altro.
-Sei tu che hai i muscoli flaccidi, Alex- dice, assumendo un piglio presuntuoso. –Se continui a fare la nerd davanti ai manga e l’unico movimento che fai sono le occasionali risse da bar, è ovvio che poi tutto sembra pesante.
-Perché, sentiamo, tu non passi i tuoi giorni davanti ai film, a mangiare popcorn scaduti con il burro fuso, eh?- commento, più verso me stessa che verso di lei, mentre striscio appendendomi ad un attaccapanni lì vicino, nel tentativo di liberare le mie povere gambe.
Al che il genio-Spiegelmann decide di alzare il suo nobile deretano e liberarmi dal “peso dell’amicizia” che stava frantumando il mio femore, e dirigersi trotterellando verso Bill, che nel frattempo ha continuato a chiedere ai ragazzi dall’altra parte della porta a che punto erano col liberare la serratura.
No, non ho sbagliato io: glielo sta proprio chiedendo. Chiedendo, con la vocina flebile e lagnosa, senza strillare, porconare e insultare Tom. Quasi gentilmente, come se a questo punto gli importasse solo di uscire da questa benedetta soffitta e il dimostrare la sua superiorità rispetto ai semplici esseri umani sia un’attività passata in secondo piano.
Mi alzo anche io, ma non mi avvicino troppo, mi basta sentire come sono messi con questa porta.
-Ecco, forse ci siamo riusciti- sentiamo la voce del fabbro che ci rassicura dall’altra parte. Poi risuona un sordo croc, e la porta si apre da sola, rivelandoci finalmente il corridoio bianco e le facce dei nostri tre amici –più il fabbro- che ci fissano come si guardano gli astronauti tornati da un viaggio lungo mesi verso alla scoperta della superficie lunare.
-Tutto ok?-  chiede Georg, con un sorriso divertito.
Nessuno risponde, usciamo come lugubri fantasmi della soffitta, spuntati dai quadri polverosi e dai possedimenti dei vecchi parenti morti.
-Avete fame?- viene fuori poi Gustav, brandendo quattro ciambelle grandi come il mio girovita.
E manco a dirlo, ci fiondiamo tutti e tre sul batterista, senza nessuna pietà per lui e i suoi poveri occhiali, e in meno di qualche nanosecondo ci siamo già fatti fuori tre ciambelle, e stiamo litigando come iene mestruate per la quarta.
-Ok, ok, calmi … questa è per me- interviene Tom, strappandoci la ciambella in questione e lasciandoci con un palmo di naso e l’espressione vuota di chi ha perduto ogni cosa che desse senso alla propria vita.
-Ma…- si lamenta Gustav, che è rimasto semidisteso sulla moquette candida, tremante e terrorizzato dalla nostra aggressione; mentre il chitarrista divora senza pietà l’ultimo boccone di dolce di fronte ai suoi occhi golosi. –Era per me a dire il vero.
-Hai detto bene: ERA!- si lecca i baffi e sfrega le mani, per poi tirare su poco delicatamente il fratello e invitandoci a scendere le scale. –Giù in cucina dovrebbe esserci qualcos’altro da mangiare. Adesso muovetevi.
Vorremmo fiondarci giù in cucina, ma appena facciamo un passo troppo lungo rotoliamo tutti e tre per terra, quindi siamo costretti ad andare piano e sostenerci a vicenda in una specie di parodia a tre di due Stanlio e Ollio che ballonzolano per le strade trascinando la loro stanchezza e le loro lamentele condivise fino all’agoniata cucina.
Gustav ci segue a ruota e Tom si accoda, mentre Georg è l’unico abbastanza umano da pagare il fabbro, che nel frattempo era rimasto a guardarci scandalizzato chiedendosi in che razza di casa dei matti fosse finito; ringraziarlo e indicargli la strada più  breve per uscire senza incrociarci per i corridoi.
#
-Dove sono i nostri vestiti?
Ci siamo appena alzate da tavola. È stato il pasto più silenzioso della nostra vita. Sia io, che –stranamente- Chess e Bill eravamo chini sui nostri cappuccini, a intingere biscotti a raffica e cercare di non addormentarci con il naso nel caffè; con Tom e Georg che cercavano di intrattenere un minimo di conversazione, facendo domande senza senso a cui rispondevamo con “mh”, “mh-m” e “no”.
Alla fine, dopo il terzo “mh” i due si sono scambiati uno sguardo scuotendo la testa e si sono arresi, tornando ai loro caffè a testa bassa. Gustav era l’unico che non creava problemi a nessuno: aveva un sacchetto di brioches calde e ciò sembrava bastargli.
Ma torniamo a noi, che come ho detto, ci siamo appena alzate da tavola e indossiamo ancora le magliette-vestiti di Tom. Miseria, ci potrei andare ad un matrimonio con questa roba, anzi sarei anche fin troppo coperta.
-Credo che siano rimasti in bagno- fa Tom.
-Ho detto ad Amelia di appenderli in lavanderia- miagola Bill, alzando appena la testa.
-Ah- mugugna il chitarrista. Non si capisce se la smorfia sulla sua faccia sia dovuta al fatto che Bill si sia preoccupato delle cose di qualcun altro o al suo tono di voce, da cui è misteriosamente sparito il disgusto e l’altezzosità che erano soliti quando eravamo noi i soggetti della conversazione. Vabbé, Disgusto e Altezzosità c’erano in ogni caso, anche se non c’eravamo noi di mezzo, ma qualcuno deve averli seriamente rapiti e rimpiazzati con Preoccupazione e un vago presentimento di Gentilezza. Ma forse sono solo le mie seghe mentali. O le seghe mentali di Tom.
Veniamo accompagnate in lavanderia dal Tom più muto e pensieroso di tutti i tempi, che poi ci lascia lì a cambiarci, perché in fondo così porcello non è. Oh, mio Dio, sergente Herder sei scandalizzante. Un pensiero gentile su qualcuno che hai picchiato solo due giorni fa. Nonononono, non si sgarra così, torna alla tua posizione e stai buona buona, muta e incazzata.
-Mi dai una mano?
Mi ci vuole qualche attimo per capire da dove arrivava la vocetta, e dopo aver fatto con lo sguardo tutto il giro panoramico della stanza mi accorgo di una piccola rasta con la testa bloccata all’interno della magliettona.
-Come cavolo hai fatto?- le chiedo sbuffando e cercando di staccare quest’affare dai rasta rosa, che sembrano essersi affezionati ad un’etichetta dietro al … come si chiama? Buco per il collo? …
-Cerca solo di tirarmi fuori ed evita le domande di prima mattina- la stacco con un ultimo strattone parecchio potente e piombo col sedere su un cumulo di pantaloni e calzini –che schifo- poco profumati: cos’è sta storia? … cominciamo con il fatto che sono le nove passate e non è prima mattina, per poi dire che comunque sono io quella che di mattina è peggio di un porcospino in menopausa, e per finire che, diamine, l’acidità è una MIA esclusiva, qua! …
Miss Niente Domande Di Prima Mattina non si volta nemmeno a ringraziare/chiedere scusa. Anzi, mi dà pure le spalle, la piccola zoccola. Mi trattengo dal tirarle una bottiglia di detersivo solo perché è troppo lontana dalla mia portata, ma resto comunque a fissarla con odio intenso e bocca spalancata, scaricando tutta l’artiglieria pesante sulle sue chiappe avvolte nelle mutande nere a teschi che le ho regalato qualche Natale fa assieme ad un reggiseno coordinato che però è caduto vittima del suo davanzale troppo abbondante non molto tempo fa. Non ho più avuto sue notizie da allora. Soldato, riposa in pace.
-Beh? Pensi di restare lì ancora per molto?- mi chiede dopo un po’, cercando di tirare su la cerniera del top, che ovviamente non si chiuderà mai se non vado a darle una mano.
-Sì, se non mi dici qual è il problema- la minaccio, giuro che ti farò andare a casa con la canottiera aperta.
-Ugh- sbuffa, lasciando perdere la cerniera e abbandonandosi su una pila di ... calze?, di dubbia provenienza. –Il fatto è che non ho guardato nemmeno mezza pellicola stanotte.
Oh, Stalin. Non ci posso credere. Vorrei veramente tirarle il flacone di detersivo a questo punto.
-Scherzi vero?- chiedo, scettica.
-Giuro che ho dormito malissimo, e ho pure fatto gli incubi! C’era Spielberg che non faceva altro che sbacchettarmi le mani ripetendo che avevo mancato alla mia fede di cinefila, e poi arrivava Grace Kelly e mi guardava schifata, scuotendo la testa e allontanandosi senza nemmeno concedermi un autografo!- inizia a piagnucolare.
-Chess, Grace Kelly è morta prima che tu nascessi!- ringhio esasperata.
-Ma … ti rendi conto che non ho nemmeno potuto vedere il proiettore originale del 1946 di Tom? Te ne rendi conto?! …- e continua! … non ci posso credere. Siamo qui per una missione più che speciale e peggio che impossibile, abbiamo appena sconvolto le posizioni dei battaglioni sul campo con una mossa nemmeno prevista; potremmo aver cambiato totalmente le sorti della battaglia e lei, lei pensai ai film! E sogna Grace Kelly che … aaargh, ma io non so più cosa fare con te.
Mi accorgo che devo aver pensato a voce alta quando sento le lamentele zittirsi e vedo la rasta che mi fissa preoccupata.
-Da quando parli da sola, Alex?- mi chiede, cauta.
Io boccheggio per un attimo, poi cerco di sembrare il più sicura possibile quando dico che … -Lascia perdere e passami il mio vestito- tutto questo casino mi sta veramente mandando in palla.
-Ma devi aiutarmi a chiudere la cerniera del top!- torna a lagnarsi, e a questo punto capisco che è tutto a posto.
-Aspetti!- taglio corto, mentre mi infilo nel coso strettissimo che per qualche malaugurata idea ho deciso di indossare ieri sera.
#
-Allora … quando possiamo sperare di rivedervi?- chiede speranzoso Tom.
-Quando volete voi! Sapete che noi siamo sempre nel nostro appartamentino nella meravigliosa periferia di Magdeburgo- risponde Chess con un sorriso a trentaquattro denti, rifilandomi una gomitata nelle costole quando sto per ribattere che no, non siamo sempre libere; avremmo i corsi, qualche turno di lavoro, il venerdì sera i bambini della vicina e il martedì siamo a casa di Perry con gli amici nerd per la maratona settimanale di Halo 4. Giuro che questa dopo ti torna.
-Allora non c’è nessun problema. Credo che ci faremo sentire presto- conclude Georg con un sorriso.
-Mercoledì siamo in qualche programma tv, se nel frattempo mi manchiamo e vi va di vederci- aggiunge Gus, che sta masticando un krapfen. Credo che sarà un ottimo cognato, un giorno.
-Allora … beh, noi ce ne andiamo- taglio corto, trascinando via Chess che vorrebbe rimanere per sempre ferma sulla soglia a fissare Bill che guarda per terra sconsolato, stringendosi la vestaglia rosa piumata addosso, in un quadretto che dà una magnifica impressione di tenerezza da cui sicuramente non si staccherebbe per nessun motivo al mondo. Ma siccome inizia ad essere inquietante, meglio che la tiri via.
A dire il vero vorrei unirmi al quadretto, e rimanere lì a fare la sogliola lessa impiantata davanti alla porta, come in una pessima reinterpretazione di Romeo e Giulietta, in cui il vero Romeo è morto in battaglia e i poveri Benvolio e Mercutio sono rimasti soli ad ammirare la sua legittima Giulietta, sapendo che non l’avranno mai perché è troppo in alto per loro ma allo stesso tempo stringendosi a lei per condividere il dolore della perdita di un amico che più che altro invidiavano. Però rischiano di essere spediti via a pedate nel sedere se restano a fissare Giulietta con la bava alla bocca e due facce da stupratori accaniti ancora un po’, perciò a malavoglia ricambio il saluto con la mano di Tom e mi avvio verso il nostro malandato destriero verde mela, parcheggiato vicino all’Audi nera.
-Hai notato che sguardo triste aveva?- domanda –leggesi: urla- Chess. Le rispondo con un sonoro scappellotto sulla nuca, intimandole di parlare piano, visto che sono a tre metri da noi e in quanto musicisti ci sentono benissimo.
-Certo che l’ho notato- rispondo, quando siamo abbastanza lontane.
-Secondo te è ancora per la storia del suo ragazzo?
Mi piazzo sul sellino della Vespa, e le porgo il casco. –Perché gliel’abbiamo ricordato? …nah. Non credo- rispondo, allacciando il cinturino sotto il mento.
-E allora?...-fa lei, posando il delicato deretano sul Mio Motorino, e facendolo sobbalzare con il suo dolce peso.
-E allora non so cosa stia pensando. Purtroppo non posso essere dentro la sua testa- mugugno con un pizzico –leggesi: valanga- di tristezza, mettendo in moto e sgommando via da questo vialetto selciato fin troppo perfetto e ordinato.
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-AAAAHHHH! DIVANO, AMORE MIO- ulula Chess buttandocisi sopra a peso morto. A naso tra poco inizierà ad amoreggiare con uno dei cuscini e si alzerà solo per chiedere cibo alla sottoscritta.
-Negativo, tesoro- latro io, facendo la mia entrata trionfale nel nostro appartamento di bassa classe sociale e tirandola su per i rasta. –Prima ti infili in doccia, e dopo FORSE puoi strusciarti sui cuscini puliti- le urlo in un orecchio, marcando bene la parola “puliti”. Li ho lavati due settimane fa, che per i nostri standard è tanto.
-Ma ho sonno, e bisogno di film.
-Non mi interessa, puzzi.
A questo punto si arrende e sia avvia mogia mogia verso il bagno,togliendosi gli stivali e mollandoli in mezzo alla zona giorno lungo la strada. Così io mi posso spaparanzare sul divano, imbracciando il Puro Splendore, nonché Meraviglia Divina, Dono del Cielo e Magnificenza Musicale; ovvero B… ehm, la mia chitarra.
Inizio a strimpellare qualche motivetto di cui non mi sovviene il nome sentito in qualche locale per poveri punk senza speranza, così tranquillamente e senza amplificatore, quanto il mio momento di relax viene bruscamente interrotto da uno strillo selvaggio proveniente dal bagno.
Scatto in piedi e per poco non faccio cadere a terra Splendore Divino, e nello stesso momento la testa rosa di Chelsea spunta dalla porta del bagno, e lei si avvia a passo di carica verso di me, tenendosi l’asciugamano con una mano e stringendo nell’altra qualcosa di non identificato.
-Cos’è?- chiedo allarmata.
-Era nella tasca degli shorts- risponde lei senza fiato.
-Tenente Spiegelmann, ho chiesto cos’è non dove l’hai trovato- abbaio io, strappandoglielo dalla mano tremante. Mi rendo conto che è un biglietto, piccolo e ritagliato in una carta leggera e color azzurrino. Cala un silenzio di tomba, mentre cerco di leggere qualcosa di quello che c’è scritto sopra, con Chess che mi inchioda con i suoi occhioni viola accesi di trepidazione, magari lei ha già letto e aspetta la mia reazione. Che non tarda ad arrivare.
-Mi stai dicendo che ci vuole vedere?- chiedo, senza un fondo di scetticismo nella voce.
Chess annuisce più che convinta. Secondo me ci stiamo facendo qualche illusione di troppo, magari l’ha scritto la cameriera, Amelia, quella che non raccoglie i calzini e si fa scopare da Tom, per farci uno scherzo di cattivo gusto. Ma mi rendo conto che la mia teoria non regge, perché –sebbene non abbia mai visto la sua grafia- le linee eleganti delle lettere scritte a stilografica su questa filigrana per borghesi di alto rango non può essere opera di una cameriera dispettosa.
Domani. Ore 18:30. Herrenkrug Park. Puntuali.     Bill

***
HEHEYYYYYYY GREAT PEOPLEEEEEEEEEEE BD here we are with a nuovo capitoloo! We hope that the story is piacendo to you. *viva la Regina, il tea e i denti gialli* Questa cosa del biglietto è un po' inquietante, ehh?? Ma d'altronde, chi deve essere inquietante se non Bill-il-Porcospino-Meraviglioso? Così inquietantemente sexy. OOK, OOK, qui stiamo fuorviando... ci(?) raccomando, lasciate tanti bei messaggini e leggete tanti bei libri :))
Baci al pandoro avanzato :*** The Two Of Us -*^*-

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Capitolo 11
*** Possiamo baciarti? ***


CAPITOLO UNDICI: POSSIAMO BACIARTI?

Le ore che trascorrono prima dell’appuntamento apocalittico le passiamo chiuse in casa a strillare, strapparci i capelli, mangiare patatine e a saltellare istericamente. Cioè, sta cosa qualcuno me la deve pure spiegare, come cazzo abbiamo fatto io e Alexandria, la coppia di amiche più sfigata di Germania a finire chiuse in una soffitta tutta la notte con Bill Kaulitz, a diventare amiche dei Tokio Hotel e a ricevere un appuntamento segreto col cantante più gay e più isterico del mondo. Manco nei film del vecchio Woody succedono queste follie. Però è grave, dannazione: cosa vorrà mai da noi la Delfina? Vendicarsi di noi come fossimo sul set di “C’era una volta il West”, quello di Sergio Leone, del 1968, con Charles Bronson e Claudia Cardinale? Chiederci in spose in perfetto stile mormonico? Stipulare un’amicizia eterna come si vede nei cartoni animati? Farci diventare sue segretarie personali? Offrici una cena da sultane? Sgozzarci come due maiali? Da uno come lui, non me la sento di eliminare nessuna di queste ipotesi, anche se credo che la più accreditata sia quella di sgozzarci come due maiali.
-Alex, ma secondo te cercherà di sgozzarci?- chiedo urlando, mentre mi strafogo istericamente di patatine fritte affogate nel ketchup e insozzo di conseguenza le bacchette della batteria che sto sbattendo allegramente sui piatti.
-Non si vorrà mai sporcare le manine sante di sangue plebeo come il nostro.- la mia migliore amica sbuca dalla porta del salotto, scuotendo i boccoli biondi – E poi cosa vuoi, ho pestato abbastanza persone da essere pronta a salvarci il culo.
-Anche io sono una grande combattente!- trillo, esibendomi in una complessa mossa di kung-fu e lasciando la ciccia lentigginosa sobbalzare sotto i vestiti enormi. – Non ho mica visto dieci volte “Colpo grosso al drago rosso”, di Brett Ratner, del 2001, con Jackie Chan e Chris Tucker per niente, eh?
-Chess, non tireresti giù manco un neonato con una mossa del genere.- la marrana alza gli occhi scuri al cielo, scuotendo la testa e dandomi un coppino sul collo – Piuttosto, dobbiamo creare un piano d’azione.
Mi sistemo meglio alla batteria, legandomi i dread in una coda alta, strofinandomi il ponte del naso a patata, mentre lei si accoccola sul divano con aria da cospiratrice folle, il tatuaggio del lupo in bella vista e la scritta tatuata attorno alla caviglia “Kill all your friends” che non mi ha mai rassicurata molto.
-Stiamo parlando di fare qualcosa come il mio secondo film?
Perché sì, io ho anche girato un secondo film, dopo la rovinosa accoglienza de “La rivolta dei babbuini”. Avevo dunque pensato che non ero tagliata per gli horror (Scusa Wes Craven, amico di tante bevute, sono una tua discepola fedele devo solo allenarmi scusami), e avevo virato su un genere più soft e meno splatter: la commedia vagamente noir e vagamente ironica sulla società attuale, condita da un pizzico di comicità da sobborghi e di citazioni random che la rendono di una certa levatura stilistica presso anche i grandi registi. O, come la chiama più semplicemente la Coinquilina Hannibal “La Grande Cagata”.
Questa mia seconda perla di Grande Cinema era stata girata durante una delle più afose estati che io abbia mai registrato, quando io e la mia infinita fratellanza avevamo passato le vacanze estive in Irlanda, a casa dello zio Sean e della zia Morvenna, portandoci dietro l’immancabile Alex. Dopo aver visto il caprone dello zio Sean che ballava la giga insieme a mia sorella Madison Hope, dopo essermi fatta ispirare dal rogo piromane di Billy Terry e di Charity Rebecca, e dopo aver spiato Cooper Carter che convinceva ad atti poco consoni la giovane commessa del supermercato, la mia mente geniale aveva prodotto quello che poi avrebbe preso il grande nome di “La capra che scoreggiava lamponi” (indovinate chi gliel’ha appioppato sto bel titolo? Ma Alexandria, ovviamente). La trama era un’accozzaglia di eventi surreali, come l’arrivo in paese di una sedicente strega, l’ordalia di due gemelli amanti che dovevano nascondere il fatto che la gemella era incinta del gemello, le perversioni di un naziskin in diretta da Magdeburgo, la presenza oscura della solita ballerina posseduta e una gara di bellezza di pecore. Ora, non che tutto questo centri qualcosa con l’Appuntamento, ma nel film (che ogni tanto costringo la povera Alex a rivedere) si doveva fare un piano molto astuto per far combaciare tutte le varie nefandezze che ne costituivano l’elaborata trama.
-Credo che se facessi vedere a Tom “La rivolta dei babbuini” e “La capra che scoreggia lamponi” avresti finalmente il tuo primo estimatore serio.- la mia amica si sfrega le mani, alzando un sopracciglio. Beh, solo lei si è dovuta passare da quando è nata tutte le festività in casa Spiegelmann, costretta a sorbirsi ogni Natale quella che la mia sfatta madre chiama “La crescita sociale dei pargoli”, evento tragico che consiste nella messa in scena di ognuno di noi fratelli in qualcosa in cui eccelle particolarmente. Evento da cui oltretutto non era esclusa nemmeno Alexandria, in qualità di figlia e sorella adottiva della sempre prospera casata. Quindi solo lei sa cosa vuol dire sorbirsi a ogni Natale i miei film, le mostre botaniche duranti ore di Avery Aubrey e le cantatine di Katie Crystal.
-Perché Tom è qualcuno che ne capisce sul serio di cinema, non come te!- sbotto, dando qualche botta alla batteria in segno di protesta. – Comunque, che si fa? Se Bill delendo est, dobbiamo dargli fuoco? O distruggerlo?
-Beh, in quel senso lo distruggerei volentieri …
Ci scambiamo uno sguardo famelico e pervertito, sbavando leggermente entrambe. Cristo, è sesso allo stato puro quel ragazzo o ragazza che sia. Ispira brutte cose sporche da fare in un motel sperduto in una cittadina del New Hampshire che nessuno si è mai filato dalla sua fondazione in una fredda notte invernale insieme a un vecchio film di Kusturica in tv e la radio del vicino di camera che trasmette una commedia radiofonica anni ’50. Basta guardarlo per catapultarsi in questo ambiente, magari con la vecchia decappottabile giù di sotto con la capote rotta, la bottiglia di bourbon nella borsa e la coca nascosta nei jeans a sigaretta, gli occhiali da sole anni ’80 su anche se è notte fonda e nevica da ore. Non posso fare a meno di cominciare a girare la scena nella mia mente
 
Telecamera mobile, oscurata dalla neve che cade fitta. Svolta secca da un vicolo buio, proietta la scena di un vecchio motel abbandonato, la targa malamente illuminata, il lampione che funziona poco: nelle province dell’impero, a nessuno interessa se tutto va bene o no. Si sente una musica dance tedesca che nessuno ascolta più e una deca bianco panna frena strafottente davanti al motel. Ci sono tre ragazze, a bordo. O forse due ragazze e un ragazzo. Non si capisce subito se non quando la telecamera inquadra chiaramente l’interno della macchina. La mora, che si rivela un moro, spalanca con un calcio la vecchia portiera, strillando, palesemente ubriaco “Vamos, ragazze! Devo … devo farmi …”. Si inquadra quella al volante, mezza rapata, che beve a garganella un sorso di bourbon e salta giù, trascinandosi con se quella coi dread bianchi e rosa che dorme d’in piedi. La telecamera vira sui tre ragazzi che salgono le scale dismesse dell’edificio, ancheggiando, soffermandosi sulle loro risate graffianti e sulle pacche che si danno a vicenda dappertutto. La musica dance tedesca continua imperterrita. La telecamera segue la porta che si apre di scatto e inquadra i tre ragazzi che capitombolano dentro ridendo isterici. C’è un ciccione alla cassa, che beve aranciata e riguarda l’ennesima partita di baseball. Il moro gli barcolla addosso, chiede una stanza con voce inferma. L’uomo non fa altro che grugnire e dargli un registro dove viene scritto un nome palesemente falso, mentre la ragazza bionda gli sbatte in mano due banconote luride. La telecamera continua a seguirli al piano di sopra, nella stanza piccola e lurida, in penombra. Intravedi la rasta che si butta sul divano, accende la televisione: c’è Kusturica in tv. Ride, una brutta risata. La bionda comincia a spogliarsi, si vede il suo corpo pallido con uno strano effetto di vedo/non vedo dettato dalla luce incerta del lampione e della neve che danza fuori dalla finestra. Il ragazzo si siede al tavolo, si prepara una striscia di coca, vedi che la sniffa di colpo. Ne fa un'altra e sniffa pure quella con l’altra narice, la carta di credito abbandonata lì come fosse un pezzo di carta inutile. La telecamera vaga sulla bionda che gli si avvicina “Senti, stronzo, potevi lasciarmene almeno un po’, eh” “Dai, stellina, ti fa male alla boccuccia”. Ride, e lei gli molla uno schiaffo che risuona a vuoto nella stanza, insieme al film in tv e alla radio del vicino di camera che macina a tutto volume. Lui ride ancora, la fa sedere sulle sue ginocchia, lei lo schiaffeggia di nuovo, arrabbiata, ma poi lo bacia. La ripresa è fredda e esterna, vieta la partecipazione emotiva a questa scena degradante, inquadra senza sottolinearlo il fatto che il ragazzo estremamente effeminato e la bionda mezza rapata si stiano dando piuttosto da fare, ma qualunque gemito viene soffocato dalla televisione. La scena passa alla rasta, abbandonata sul divano, i buchi freschi sul braccio lentigginoso visibili alla luce arancione del lampione, non partecipa a nulla, forse nemmeno al film che sta guardando. La scena stringe sul suo viso da irlandese. La telecamera inquadra di nuovo gli altri due, che si stanno trascinando sul letto poco invitante, spogliandosi, divorandosi di baci, di tocchi di morsi. Cadono sul letto a peso morto quando la voce scocciata della rasta si fa sentire, irreale nel surrealismo della scena, anche se non viene inquadrata “Perché fate tutto senza di me?”. Passa da dietro la telecamera, seminuda, lasciandosi cadere accanto ai suoi loschi compari. Viene inquadrato meglio lui, il trucco sciolto, che ride forte e si siede con la schiena sui cuscini giallastri “Su, tesori, datevi un bacino”. Le ragazze si baciano, effettivamente, col crescendo di Kusturica e della partita alla radio, capisci che c’è più feeling e intimità tra le due di quanta non ce ne sia col ragazzo. Forse lui è il padrone, forse si è aggiunto dopo. La scena sfuma con le mani del moro avvolte sulle nuche delle ragazze, mentre le trascina verso il suo collo da cigno, una telecamera che rapida si allontana tra gemiti spezzati e una musica dance che ritorna a udirsi nel silenzio della neve.
 
-Porca miseria, Alex, Bill ispira brutti film.- commento, grattandomi la testa, il tatuaggio “Avanti gli stupidi” sull’avambraccio che fa bella mostra di sé.
-Dillo a me!- esclama lei, stiracchiandosi – Allora, senti qua, Chess. Quando andiamo all’appuntamento, dobbiamo essere sistematicamente pronte a tutto. Dunque, elenchiamo i vari scenari che potrebbero avere luogo tra un’ora:
-Intanto, quello che ci sgozza come maiali.- intervengo, attaccando nervosamente il pacco di biscotti al burro. No, non sono grassa. Sono burrosa, l’ha detto pure Tom.
-Esattamente, dobbiamo premunirci di scarpe adatte per fuggire, quindi non provare a metterti i tacchi a spillo, e un coltello che non si sa mai. Poi, per l’evenienza che ci voglia sposare, o farci diventare sue segretarie personali, dobbiamo indossare qualcosa di umano. Quindi, Chess, non provare a vestirti come una troia che se no ti castro.
Quando provo a farle notare che il suo abbigliamento da dark sexy ha sortito uno schifato “Sembri un pappagallo incatramato abbandonato su Achill Island”, mi zittisce con una scarpa in testa.
-Potremmo tentare una sortita.- le faccio notare, mettendomi a gambe incrociate, mentre batto dolcemente la base di una qualche canzone dei Red Hot Chili Peppers, mentre Alexandria si lancia in qualche accordo dei Linkin Park. – Tipo, andare in un bar a fare la merenda delle sei e mezza e poi sbatterlo nel bagno delle donne.
-Come idea non è terribile, ma non penso che si faccia violentare nei cessi del bar. Cioè, a meno che non lo droghiamo col cloroformio.- Alex si gratta il naso, con un’aria da cospiratrice che mi mette un po’ paura. In realtà, mi ha sempre messo un po’ paura, ogni tanto. Tipo quando si era presentata all’appuntamento tra me e una delle mie ex dell’epoca travestita da Freddie Kruger. O quando aveva fatto venire un infarto a uno dei prof universitari mettendogli una ranocchia nera sotto alla sedia. – Senti qua, piuttosto: tiriamo la corda. Comportiamoci come se questa notte non fossimo rimasti tutti e tre insieme in quella cazzo di soffitta, facciamolo impazzire dalla frustrazione. E poi colpiamo come cacciabombardieri e distruggiamolo fino a farlo piangere. Bastonate nei denti fino a che non ci cade in ginocchio davanti.
-Come vuoi; però secondo te se comincio a raccontargli dell’evoluzione del movimento neorealista italiano si …
-Non è Tom, Chess! Non cominciare a scassare i coglioni con quel tuo dannato cinema, regista dei miei stivali.- Alexandria si alza, si stiracchia un poco e poi commenta, scivolando aggraziatamente di là – E ora vatti a vestire e a darti una parvenza di ordine a quella testa bianca, palla di lardo!
 
-Non mi pare di essere in errore affermando che l’appuntamento era alle 18.30 spaccate.- ci accoglie Bill, sempre simpatico come Jabba the Hut, appoggiato sensualmente al muretto del parco, vestito completamente di nero e argento manco fossimo in un film di cloni mutanti, la sigaretta tenuta tra quelle dita della Madonna in una posa talmente sensuale da fare sbavare pure i piccioni.
-Scusa Bill, lo sappiamo di essere in ritardo, ma vedi, l’autobus non partiva e allora siamo andate dal controllore a chiedere cosa stesse succedendo, ed esce fuori che era un nostro ex compagno delle elementari, allora ci …
Vengo brutalmente interrotta da una dolorissima pestata di Alexandria sul mio povero piede e dal suo ringhio arrabbiato che si sovrappone alla mia storia
-Ringrazia solo che siamo venute, tesoro.
-Semmai, ringraziate voi me che vi ho dato questa possibilità.- sibila Bill di rimando, facendo quasi arrossire la mia amica. E facendo morire la sottoscritta.
-No, ma aspetta, forse siamo partiti col piede sbagliato!- trillo io, mentre la nostra punk rapata tenta di zittirmi e il cantante mi guarda scioccato – Voglio dire, noi viviamo in una periferia che fa invidia ai casermoni del dopoguerra, quelli dei bombardamenti, infatti Magdeburgo è stata rasa al suolo, che ti credi, un po’ come Anna Magnani in “Roma città aperta”, quello di Roberto Rossellini del 1945. E come nel neorealismo devi capire che …
-Devi capire tu che devi smetterla di parlare così tanto, bambola. Non mi piacciano le persone prolisse.- Bill mi strafulmina, con una di quelle sue occhiate che farebbero filare tutti, indicando con un secco gesto della sigaretta davanti a sé – Forza, andiamo in un bar. Dobbiamo parlare.
-Vedi, oca del cazzo?- mi abbaia Alex nell’orecchio – Stai zitta una buona volta!
Mi rintano silenziosamente a capo mogio in silenzio, zampettando dietro a Bill che, con passo sicuro e strafottente, ci sta guidando verso un locale piuttosto esclusivo, di quelli dove noi due non abbiamo mai nemmeno messo la punta dell’alluce.
Ci scambiamo un’occhiata preoccupata, osservando le gambe chilometriche e il culo da donna del nostro anfitrione che ancheggia troppo abbondantemente davanti a noi, in bilico sui tacchi altissimi di un paio di stivali rosso lacca. Immagino che le mie grasse cosce lentigginose costrette in una minigonna di tre taglie in meno di pelo sintetico blu elettrico e le gambe anoressiche di Alexandria avvolte negli shorts neri e slabbrati non riescano nemmeno a reggere il paragone con gli skinny neri che fasciano perfettamente le curve di Bill. Continuiamo a trotterellare come tre marchette di dubbio gusto attraverso il ponte e dritti in quel bel locale fumoso che appare sulla sinistra, con l’insegna rossa e dorata, che sa tanto di yuppie e che fa immediatamente storcere il naso alle punk qui presenti.
-Se pensate che questo sia un locale schifosamente yuppie della generazione d’oro con la BMW in giardino, la Jacuzzi sempre piena, la Perrier in mano e l’abbronzatura perfetta, siete sulla strada sbagliata.- Bill ci guarda dall’alto della sua regalità, gli occhi truccatissimi che sfarfalla a una rapidità inquietante. Non facciamo in tempo a boccheggiare, perché come cazzo ha fatto a capire a cosa stavamo pensando, che continua – Ma non è nemmeno un locale punk anni ’80 con i Sex Pistols nelle casse, le creste fatte in casa, la Guinness nei boccali e le lotte studentesche.
-Possiamo appoggiarci a un ideale new wave, con l’elettronica nelle casse, un po’ di bella gente vestita di nero, due superalcolici belli pesanti e una carica di acido da farsi tutti insieme?- commenta sarcastica Alexandria, squadrando con evidente schifo il bar in cui ci stiamo per infilare.
-Oppure un bel locale irlandese, con la partita di calcio gaelico in tv, i vecchietti che parlano gaelico stretto, uno striscione “Fuck England”, e tante patatine?- tento io, pregustandomi già un’altra estate dalla zia Mariah alla festa di San Patrizio.
-Nessuno di queste stupide trovate.- Bill ci fa gli occhi, con una smorfia scioccata – Bensì … questo!
Quando entriamo, a noi due cade seriamente la mascella venti metri sotto terra. Ma che razza di posto è un locale che da fuori sembra normale ma nel quale dentro ci sono solo tipi sulla scia di Bill e maschioni prestanti che se li tacchinano spudoratamente, con una barista che sembra un uomo e che serve roba che potrebbe stare bene sia in uno dei peggiori pub della Liffey e cupcakes sullo stile di una bomboniera e con un’inquietante alternanza di Nena e di Ronnie James Dio nelle casse?
-Chess, dimmi che sono vittima di un trip da acido.- balbetta Alex nel mio orecchio, afferrando il mio braccio in una morsa assassina.
-Non credo, amore, visto che lo vedo anche io.- tartaglio in risposta, appendendomi spasmodicamente a lei – Scappiamo!
-Dove credete di andare, voi due?
La voce secca della Delfina ci blocca come due ghiaccioli già mezze girate per darcela a gambe, visto che siamo anche le uniche ragazze in tutto il pub, se vogliamo escludere quel mostro di donna baffuta al bancone.
-Dovevi portarci in un locale, bello mio, non in un raccordo di marchette di Manhattan alle prese con tipi da Bronx, Vergini di Ferro e una musica isterica!- abbaia la mia amica, facendo voltare qualcuno nella nostra direzione.
-Cioè, Bill, più che altro è che siamo in mezzo a una manica di froci, in più la barista baffuta mi guarda strano i dread e ho paura che me li tranci con la sega, come in “The Saw – L’enigmista”, quello del 2004, di James Wan, con Leigh Whannell e Cary Elwes, e non hanno un criterio logico per la musica. Cioè, non si può sentire Nena, poi RJ Dio, poi gli One Direction e poi gli Offspring, tutto senza soluzione di continuità.- continuo io, nascondendomi dietro ad Alexandria.
-Uff, come siete sofiste!- sbuffa Bill, contrariato, spingendoci verso un tavolo pericolosamente vicino alla barista baffuta, che ci guarda così male che nemmeno la coinquilina Hannibal ha il coraggio di ribattere. – Vi offro pure da bere, non venite a rompermi le balle su che locale scelgo!
-Ah, ma offri te? E potevi dirlo subito, tesoro!
Che bello essere sempre al verde e non perdere occasione di mostrare al mondo la propria mancanza di liquidi. La darkettona nerd e Full Metal Cinema sono sempre all’insegna del buongusto, come ovvio.
-Beh, anche perché immaginando le vostre finanze, non oso immaginare cosa avreste potuto offrire voi a me! Un bicchiere di soda? Una limonata acida?
-Mah, pensi positivo.- sbuffa Alex – Io avrei detto anche solo un po’ d’acqua.
-Però io ti ci potevo mettere lo zucchero! Sai, siccome mia mamma è irlandese, sistematicamente io bevo sempre il the delle cinque e casa nostra è piena di zollette di zucchero, quindi avrei potuto …
-Dio, Coventry, la smetti di parlare!?- strilla esasperato Bill, ciccando il mio nome come al solito. Penso che quando sentirò la sua voce angelica e demoniaca contemporaneamente dire “Chelsea” non mi girerò. Poi ci guarda tutte e due, facendo un gesto snob alla barista baffona con i boccoli biondi che ci raggiunge con la delicatezza di un leone marino incazzato che sta per divorare una sirena mutante. E poi c’è pure chi dice che sono io quella indelicata. Credo che se all’università continueranno a sfottermi per la mia finezza inesistente gli scatenerò contro questo esempio di donna grossa come un uomo truce. Voglio vedere chi ride ultimo, manica di fighetti incapaci anche solo di distinguere un Derek Jarman e un Roy Andersson  . Vi voglio ritrovare a pulirmi le scarpe quando io sarò alla Notte degli Oscar con l’ennesima statuetta d’oro in mano e miliardi di fan adoranti, a braccetto con Alexandria, ovviamente, mentre voi sarete lì col vostro filmetto che nessuno guarderà mai.
-Cazzo, ma che è sta merda?!- l’urlo tipo di Alex mi risveglia dai miei sogni di vendetta contro quei figli di buona donna che frequentano Cinematografia. Mi giro e la vedo sputare per tutto il tavolo, con evidente schifo e stizza della Delfina, quello che, a giudicare dall’odore, dovrebbe essere un Caipirosca.
-Ma sei stupida, ragazzina?- latra Bill, dandole un ceffone – Non provare mai più in vita tua a sputare qualcosa che ti offro io!
-Io sputo quello che mi pare, fighettina, perché io sta roba non la bevo!- strilla lei, dando un pugno sul tavolo, cominciando a ringhiare. Ahia, Chelsea, pronta a beccarti due menate anche se non hai fatto nulla.
Facendo finta di niente, scivolo più vicina a Bill prima che la coinquilina Hannibal mi cavi un occhio o mi strappi il povero dread bianco che tenta di afferrare.
-E’ un normalissimo Caipirosca.- ribatte stizzito lui, incrociando le braccia al petto, per poi guardarlo con evidente sdegno – Ma certo, due … popolane come voi due non sapranno nemmeno cosa sia un cocktail come si deve, come sono stato stupido a pensare che avreste potuto apprezzarlo. Siete davvero due luride proletarie.
-E meglio proletarie che trans snob con la puzza sotto al naso che usano profumi merdosi e credono di sapere tutto loro mentre c’hanno il cervello in pappa!
Scusa, Bill, hai tutta la mia comprensione, ma Alex quando si arrabbia non la batte nessuno. Contando che ora per i suoi limiti sta solo discorrendo tranquillamente.
-Cervello in pappa a chi, scusa? Sono forse io quello che a vent’anni deve condividersi l’appartamento con un’oca obesa rasta che parla solo di cinema, fa un lavoretto insignificante e se la barcamena? No, tesoro, mi risulta che invece io a vent’anni sono il ragazzo più famoso del mondo, sono multimiliardario e vivo d’arte.
Sì, anche Bill in effetti non è male. Sa il fatto suo, devo ammettere.
-Oh, ma certo. Ma almeno io non vivo di canzoncine per ragazze arrapate, non sembro una troia, e non sono soffocata dai media ogni tre per due. E permettimi, non mi pare che quel coglione con le treccine da capra bollita sia tanto meglio dell’oca obesa.
È divertente seguire il collegamento sociologico di come si è passati a parlare dai Caipirosca alle situazioni sociali.
-Ma non farmi ridere, stecchino. Guardati lì, vestita come una metallara fallita che non riesce manco a farlo sul serio, acida come un limone spremuto e insopportabile come un capello fuori posto. Non ti troverai mai nessuno, se rimani così, stellina mia, e ti toccherà passare tutta la tua lurida e inutile esistenza al fianco delle lentiggini di Bournemouth.
Valli a capire perché tutti sono convinti che io farò la fine della zia Mariah, vecchia obesa circondata da gatti neri che vive a Portumna, sfigato paesotto del centro Irlanda, e che cuce roba che nessuno metterà mai.
-Io non mi troverò nessuno, dici? Può anche essere, ma preferisco vivere la mia vita libera e ribelle al fianco della mia migliore amica, che poi non è nemmeno così grassa come la dipingi, che essere costretto a farmi fottere da omaccioni che non fanno che usarmi solo perché sono talmente idiota e intrattabile e i miei profumi sono così schifosamente dolci!
Ovviamente, Alex non sta spezzando una lancia in mio favore, lo fa solo per dare torto a Bill. Era troppo bello crederci.
-Ma io almeno ho lo charme e il fascino per trovarmi un uomo che … ehi!
Quando gli sguardi di Bill e di Alexandria si fermano finalmente sulla sottoscritta, sono raggomitolata in un angolo del tavolo mentre sorbisco rumorosamente i loro cocktail in contemporanea, gli occhi spalancati e la faccia innocente.
-Ma quelli sono i nostri cocktail?!- sbottano in sincrono perfetto quelli che fino a un secondo fa si stavano scannando.
-Beh … voi litigavate … io avevo sete … il Negroni che mi hai ordinato mi fa schifo …
Evidentemente non sono abbastanza tenera e innocente per salvarmi dal ceffone che Alex mi tira (non tanto perché le abbia finito il Caipirosca, solo perché deve salvare la faccia della stimata coppia Herder&Spiegelmann, che a sentirla così sembra pure il nome di un prestigiosa studio legale berlinese), prima di alzarsi di colpo, assestare un bel pugno sul tavolo e andarsene a passo di carica verso i bagni.
Rimaniamo io e Bill, come due prostitute la mattina dopo una notte particolarmente stancante, seduti uno vicino all’altra come due perfetti prototipi di persone stanche di vivere, con tre bicchieri praticamente finiti davanti e l’aria spaesata.
-Senti, Bill … scusa se ti ho bevuto il Bloody Mary, ma devi capire che proprio il Negroni non mi va giù, cioè, una volta, era il 23 maggio dell’anno scorso, stavo …
-York.- chiude gli occhi e si massaggia il ponte del naso – Stai zitta. Bevi tranquilla.
Si prende il mio Negroni e beviamo insieme, senza guardarci, lui che fissa la porta e io il bagno, come se fossimo due lontani cugini che si rivedono in occasione del funerale della nonna o come se fossimo stati fidanzati alle superiori ma poi lui mi avesse beccata a letto con il suo migliore amico e da lì non riuscissimo più a guardarci come Dio comanda. O come fossimo due ragazze stanche morte di tirarsele da California Girls e che vorrebbero solo starsene da sole in camera loro a leggersi un libro di Tolstoj invece che rollarsi le canne a Palm Beach.
-Posso dirti una cosa?- sussurro piano, guardandolo di sottecchi. Quando la cugina chiede se lui si ricorda la nonna. Quando la ragazza cerca di dirgli che non aveva mai amato l’altro ma solo lui. Quando una delle due californiane cita Kerouac e immediatamente viene guardata con quell’espressione.
Bill mi guarda eloquentemente, sorseggiando come una regina il drink. Quando il cugino le dice “che vada a fanculo quella vecchia strega ipocrita”. Quando il ragazzo le dice “va bene, amore, forse potremmo parlarne di nuovo”. Quando l’altra californiana fa il dito medio a tutti e porta via la sua amica.
-Ecco … Alex non è cattiva. E io non sono stupida. O meglio, lo so che forse tu ci hai sempre viste quando mostravamo il peggio di noi, però ti posso assicurare che non siamo così terrificanti come diamo a vedere.- per un attimo sto per dirgli che lo amiamo, ma mi trattengo. È il primo discorso serio che faccio da anni – Lei mostra un lato acido non da poco, ma in fondo è la più buona di tutte noi: credi che mi sopporterebbe ancora se non avesse il cuore buono? Anche se ti risponde male, ti insulta, si incazza per niente … non devi prendertela. È fatta così, va presa come viene, ma è leale, fedele, è la migliore amica che potresti mai trovare e la peggior nemica che ti abbia mai tagliato la strada. Lei ti da tutto o niente, quindi potresti provare a vederla da un altro punto di vista, che ne dici?
-Potrei crederti come no, Durham.- commenta lui, nascondendosi dietro ai lunghi capelli corvini come dietro a una tenda – Non credo a nessuno, credo che sia chiaro. Sicuramente non di voi due.
-Beh, lo so che forse non siamo proprio il massimo in cui riporre la propria fiducia, tentavo solo di farti sapere che comunque io e lei siamo brave persone. Tipo, Alex mantiene i segreti come una tomba, è burbera e violenta ma è anche la prima che si butta a salvarti se cadi nel fiume. Ti insulta in continuazione ma ti fa sempre il latte caldo se ti viene mal di stomaco dopo che ti sei ingozzato di patatine come un porco. Non è dolce e sensibile, ma ti asciuga le lacrime se piangi. È nervosa e nevrotica, ma se hai dei problemi corre a risolverli come può.
Mi zittisco solo perché la perfetta mano eburnea della Delfina mi fa cenno di tacere, le lunghe unghie smaltate di nero e bianco che brillano.
-Credo che la tua amica possa essere una persona piuttosto interessante, ma …
-Grande fratello! È questo che volevo farti dire: devi capire che lei è più che interessante, ti deve quadrare per forza perché ...
-Sì, va bene, ti concedo che Alexandria sia un tipo intrigante.- si gira verso di me, gli occhi truccatissimi che fissano penetranti – Ma di te che mi dici? Ogni volta non fai che parlare della tua amica in tutti i modi. Bene, Leicester, tu chi sei?
-Lei? Beh, intanto si chiama Chelsea e non con un altro assurdo nome, è la persona più appiccicosa, casinista, golosa e stupida che abbia mai conosciuto, non ti lascia mai stare, è tonta oltre misura, pensa solo al cinema in ogni sua forma, scalcia quando dorme, rutta, mangia qualunque cosa, e unge tutto.
Ci giriamo di colpo e ci troviamo dietro Alexandria che si arrotola un boccolo attorno al dito e parla con un sorriso da squalo
-Come se non bastasse, ogni volta che ti vede giù di morale ti propina un film di Martin Scorsese e non ti lascia in pace finché non sei lì che ti rotoli per terra dalle risate e hai dimenticato tutti i tuoi problemi, mentre ha la brutta mania di cacciarsi in casini assurdi e portarti con lei per poi uscirne sempre per il rotto della cuffia. In più, ride sempre e comunque, non l’ho mai vista piangere in tutta la nostra vita, non è capace di essere seria e accidenti a lei, porta allegria anche in un mausoleo. È affettuosa e rompicoglioni, vuole sempre socializzare e abbracciare tutti, si mette in mezzo per proteggerti mettendosi lei nei casini, ha dei dread orrendi e … ed è una fottutissima irlandese del cazzo.
Mi stampa un bacio sulla guancia, strizzandomi le guance tra le dita, e mentre io ululo e la abbraccio, facendola imprecare, urlando insieme
-E te sei la peggior migliore amica del mondo ma porca puttana ti adoro!
 sentiamo Bill che spalanca la boccuccia da bambola quasi incredulo
-Siete assolutamente …
-Intendi che siamo perfette?- esclamiamo in coro, guardandolo con un certo inguaribile desiderio stampato nelle pupille, le arie decisamente fameliche e, ops, forse siamo davvero troppo vicine alle sue gambe da modella, al suo sguardo terrorizzato, al fatto che l’abbiamo costretto in un angolo del divanetto rosso.
Sì, è come se tre cugini stessero giocando con l’altalena della casa padronale della loro infanzia, ricordando estati di cui aveva dimenticato il sapore, rivivendo un settembre morto da anni, mentre tutti piangono la nonna al requiem. È come se si rivedessero un triangolo amoroso dei tempi del liceo al college, costretti a bersi qualcosa insieme per cercare di capire che diavolo avevano a che fare e come si erano impelagati in quella relazione tossica dire basta alla loro schifosa dipendenza. È come se tre ragazze californiane bionde, abbronzate e con gli occhi azzurri stessero scappando da Santa Barbara e si stessero dirigendo a Seattle, pronte per un viaggio dove non sanno che fare e dove andare ma che sarà il loro passepartout per la libertà che non hanno mai davvero sperimentato, schiave della ricchezza, della droga e di Hollywood.
È come la fine del funerale, la rottura del triangolo, l’incidente delle californiane quando, senza rendercene conto, io e Alex schiacciamo le nostre bocche contro quella di Bill in un bacio a tre che sa di patatine fritte, rossetto di marca, alcol. E per un attimo, mentre io e lei lo schiacciamo contro il muro, potrei giurare che lui sta ricambiano alla nostra passione.

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Capitolo 12
*** Il Sergente ha una brutta idea ***


Nessuno ha di preciso idea di che cosa sia successo. Almeno, a giudicare dagli sguardi pieni di scandalo e semi-orrore che ci lanciano da tutto il pub da quando Bill è volato via urlando come una sirena oltraggiata, sembra che qui dentro sia appena successo qualcosa di tremendamente impensabile e innominabile, come se qualche stupido metallaro satanista avesse commesso in ordine tutti e sette i peccati capitali mentre gridava che Ziggy Stardust è etero.
Beh, la verità è che sappiamo benissimo cosa è appena successo, e cavolo, tutte queste troie gay non hanno nessun diritto di fissarci in quel modo, perché se iniziassi a fare una lista di tutte le porcherie che ho visto nella scarsa mezz’ora in cui la mia persona è rimasta qua dentro, interverrebbero dieci corpi di polizia, qualche plotone di marines e Mastro Lindo in persona. Voglio dire, l’abbiamo solo baciato.
Sì, abbiamo baciato Bill e lui ha pure ricambiato. Quei tre secondi, lunghissimi e troppo brevi in cui il nostro trio di labbra è rimasto unito in un bacio appiccicoso di lucidalabbra e che niente aveva a che vedere con il romanticismo, anzi bisognerebbe classificarlo tra i peggiori crimini mondiali, potrebbe sembrare quasi una parvenza di stupro se, non fosse che Dio, Jimi Hendrix e tutti i santi, quella sporca troia ha ricambiato; eh no caro, non mi freghi, perché a te è piaciuto, ti è piaciuto un casino, è stata la cosa più eccitante che hai fatto nei tuoi ultimi vent’anni di vita, questo non puoi nasconderlo. Non puoi nasconderti dietro la tua facciata da gay patentato con onorificenza al Valore Frocio, dietro alla tua maschera di fondotinta e ombretto e sotto tutti quei capelli; che tanto ormai l’abbiamo capito che non regge più. Ti hanno fotografato nudo, e ora non sai più come coprirti. Ti hanno distrutto l’argine, e ora non sai più come bloccare l’acqua che ti travolge. Ti hanno spinto giù dalla limousine, e ora gli unici che possono darti un passaggio, anzi, le uniche, sono due provincialotte senza arte né parte che sanno al massimo mettersi lo smalto nero e sputare insulti addosso alle camicie inamidate di sfigatissimi direttori di università. Ti tocca appenderti alla bandiera dell’Anarchia, e questa cosa non ti piace per niente.
Certo che sei proprio una gran zoccola.
Perché nemmeno il caro alieno Polvere di Stelle sarebbe stato tanto cafone da mollarci qua, in mezzo a questa mischia di uomini che non sono uomini e donne che cercano qualcosa di meglio che il loro ruolo inferiore datogli dalla società tagliandosi i capelli e sparandoli in aria, con una brutta aria da camionisti che masticano chewing-gum. Lo so, era un piano organizzato, il tuo. Trascinare il nemico in trappola, poi lasciarlo in pasto al tuo esercito appostato dietro l’erba alta delle steppe, e portare il culo al riparo dove poterti godere lo spettacolo. Non posso fare a meno di ammirarti, perché la tua bravura come stratega è disarmante, e io non so più cosa inventarmi. Mi hai battuto, Morticia. Hai abbattuto la corazzata Herder-Spiegelmann, e non posso che riconoscertene il merito. Ma non sperare che per questo ci vedrai sparire per sempre, anzi. È un motivo in più per sbrigarci a raccogliere le armi e i brandelli della tuta mimetica, rinfilarci i caschetti e ripassare le due dita di grasso sulle guance. Ti faremo il culo, Morticia. Ti faremo il culo e sarà molto, molto doloroso per la tua bella reputazione e la tua splendida immagine pubblica. Vedrai, non riuscirai più a fare a meno di averci tra i piedi. Sarà divertente per entrambi.
-Chess.
Il mio secondo mi risponde con un mugolio che il vecchio cane di mia nonna Ersenbelle avrebbe fatto risultare più allegro e vitale.
-Chess!- ripeto, dandole una pacca sulle spalle, che però non sembra riscuoterla dalla sua posizione di assoluto abbandono corporale. Precisamente, se vi va una descrizione dettagliata, è semi-accasciata sul divanetto bianco, nel punto in cui fino a un attimo fa c’era Bill, le mani appese al tavolo per la punta delle dita e gli occhi viola da Pixie che spuntano da sotto i dread malmessi, fissando con rimorso la porta da cui è uscito. Sta ancora dondolando.
E ora che ci penso, i froci ci stanno ancora fissando.
Per carità, non che abbia nulla contro di loro, anzi sono praticamente una loro grande fan e quasi appartenente al gruppo. Però mi sento i loro occhi addosso da troppi secondi. E questo mi rompe altamente le palle.
-CHE CAZZO AVETE DA GUARDARE?!- sbotto, salendo in piedi sul tavolo e rovesciando il Bloody Mary lasciato a metà sopra a Chelsea, che si riscuote con un sussulto. –TORNATE A DISCUTERE SU QUANTO SIA FIGO IL VICINO DI CASA E FATEVI I CAZZI VOSTRI- scandisco, in fondo le maratone di Full Metal Jacket con il Sergente Hartman sono servite a qualcosa.
Detto questo, i clienti del locale tornano beatamente a farsi i fatti loro, spero di non averli offesi con il discorso del vicino di casa ma sinceramente non me ne frega niente.
-Coraggio, portiamo via il culo di qui- ringhio a Chelsea, prendendola per un braccio e dirigendomi a passo di carica verso l’uscita, e uscirei anche se non fosse che la barista-boscaiolo di prima mi si piazza davanti con tutta la sua mole muscolare, mugugna qualcosa a proposito del conto e allunga una manona verso di noi. Io la guardo un attimo con sospetto, poi allungo un bigliettone da venti euro e me la filo, con la rasta moscia al mio seguito, circumnavigando l’enorme donna e infilando la porta senza aspettare il resto.
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-Cosa abbiamo sbagliato?! Cosa?- strilla Chelsea, lanciando pop corn imburrati contro un thriller degli anni cinquanta sullo schermo della tv.
-Smettila. Stai ungendo lo schermo- dico, strappandole la ciotola di mano. Me ne infilo una manciata in bocca, poi la rovescio nel cestino dell’umido in cucina, sotto lo sguardo scandalizzato della mia pseudo-coinquilina. –Efano scafuti da tfe mefi- bofonchio masticando. Poi prendo la poltrona a sacco rattoppata abbandonata dietro al divano, la trascino al centro del salotto e mi ci piazzo sopra, proprio fra Chess e la tv.
-Non è questo il problema. Non è ciò che abbiamo fatto- dico, fissando tetra la rasta che continua a muoversi a destra e a sinistra per vedere il suo film. –E’ come ha reagito. Non si sentiva preparato a questo- continuo, mentre lei continua a non calcolarmi. -Non se l’asp… mi ascolti?!- sbotto dopo un po’, prendendola saldamente per le spalle. Dalla smorfia di dolore che si dipinge sul suo viso lentigginoso credo di averle incrinato qualche ossicino.
-S…sì Alex, ti ascolto- miagola, spegnendo a malincuore la tv e lanciando via il telecomando, che atterra con un ‘pof’ sul cuscino morbido del divano. –Puoi anche mollarmi adesso- le stacco le mani di dosso, e mi affloscio sulla poltrona a sacco con le braccia conserte.
-Hai capito quello che ho detto?- chiedo guardandola di sottecchi.
-No- fa lei, iniziando a rosicchiarsi un’unghia.
-Ho detto- inizio, guardando male quei grossi incisivi che frantumano quel pezzo di pseudo-osso semi coperto di smalto nero di due mesi fa. –Che il problema non siamo state noi. Il problema è stato lui.
-Non ti feguo- fa lei, continuando a scorticarsi il pollice.
-Intendo dire che non se l’aspettava. Uffa, come dire…- inizio a girarmi a destra e sinistra, nervosamente. –Non è scappato perché gli siamo saltate addosso. È scappato perché … arghhh- non so come spiegare quello che sto pensando, e questo cric-crac di unghie non è d’aiuto. –Smettila di mangiarti quel cazzo di pollice!- urlo.
-Scusa!- urla lei.
-Ma tiralo via dalla bocca!- urlo io.
-AAAAGH!- urla lei, togliendosi finalmente quelle mani dalla faccia e sedendocisi letteralmente sopra. Poi mi fissa, con gli occhi sbarrati e un dread sul naso. –Intendi dire che … non voleva che accadesse?
-No, non intendo questo. Beh, sì, anche.
-Ok, aspetta, ho capito. Tu intendi dire che è scappato non perché gli siamo saltate addosso e l’abbiamo quasi stuprato in mezzo al locale, né perché non voleva che lo baciassimo ma bensì, perché … era semplicemente spaventato dopo essersi reso conto che stava … ricambiando?- conclude il suo monologo d’intelligenza, assottigliando i mega-occhi viola da manga giapponese.
-Sssì. Più o meno. Sì, intendevo questo.
Restiamo a fissarci per qualche secondo, ognuna persa nei suoi pensieri contorti. Almeno, io sono persa nei miei pensieri contorti. Quanto a lei, non saprei definire esattamente cosa stia succedendo nel suo cervello a nocciolina, ma giurerei di vedere quella luce strana e molto inquietante che si accende quando c’è un’idea in fase di produzione.
-Quindi … ora cercherà di starci il più lontano possibile ma nello stesso tempo non riuscirà a non pensare a noi. Cercherà di uscire dalla fossa ma ormai ci è completamente impantanato dentro- riflette, mettendo teatralmente un indice sotto il mento. –Ommioddio. Alex!- esclama allarmata, dopo un po’.
-Cosa c’è?- chiedo, alzando un sopracciglio. Eccola.
-Ma … potrebbe cercare di toglierci di mezzo! E sai cosa intendo! Manderà un suo sicario russo a prenderci sotto con la sua Volkswagen, mentre ci troviamo in un vicolo buio di notte! Oppure ci metterà una bomba sotto casa! Il veleno nell’acqua! O peggio ancora, si farà portare qui con la Volkswagen del suo sicario russo, poi entrerà dentro casa, ci ammalierà con qualche mossa sexy, ci avvelenerà con un lucidalabbra tossico, e ci lascerà agonizzanti sul letto, dentro il quale piazzerà una bomba, per poi scivolare elegantemente via e far esplodere tutto, eliminando cadaveri e prove!
…ora, non so se sia peggio l’enorme sega mentale che mi ha appena sciorinato in questo momento, il modo in cui gesticolava e mimava il fatto di ‘scivolare elegantemente via e far esplodere tutto’, o il semplice fatto che io mi aspettavo un’idea malvagia e geniale mentre mi è arrivato questo monologo nonsense nemmeno degno dei più scrausi shonen del pianeta Terra. è chiaro che qui tocca allo stratega, ovvero la sottoscritta, arrangiarsi a creare il piano d’attacco. Che poi l’idea del mercenario russo è mia. Puoi entrare nella mia testa fino ad un certo punto, cara.
-Sì, e sicuramente compirà il tutto indossando un’aderente tutina nera e un bel paio di occhiali da spia- dico piatta, mentre lei annuisce convinta, totalmente sicura della sua teoria. Sospiro coprendomi gli occhi con una mano, che poi l’immagine di Bill vestito da spia con la tutina aderente non è poi così oscena. Anzi. Oooh, se è una bella immagine. Meglio pensare a qualcos’altro, prima che mi arrestino per pornografia mentale. questa cosa non ha senso MAA anyway
-Però non è un’idea del tutto sbagliata … -rimugino, fissando un’asse di quercia fuori sede sul pavimento. –Potrebbe cercare di liberarsi di noi. Sicuramente non entrando in casa nostra e piazzandoci una bomba, ma…- alzo la testa, percorrendo con lo sguardo la fila di vinili degli Oasis appesi al muro sopra il divano. –Potrebbe, per esempio, trasferirsi in una città tipo Berlino, e non mettere mai più piede qui. O molto più semplicemente denunciarci per qualcosa, e lasciarci a marcire dietro le sbarre oppure sul lastrico dopo qualche multa divoratrice mentre lui gira felicemente il mondo al sicuro da noi.
-E perché ci dovrebbe denunciare?- chiede scandalizzata Chelsea.
-Mah, vuoi una lista di tutte le cose “diversamente legali” che girano nella nostra miserabile vita?! Ad esempio i freni del Motorino, morti e sepolti diversi anni fa? O le pile di fumetti comprati in nero da negozi online cinesi imbucati nella rete?- abbaio, pensando che in effetti se qualche poliziotto dovesse entrare in questa sorta di appartamento, non girerebbe troppo a lungo prima di trovare qualcosa per cui si potesse denunciare una persona. O molto più semplicemente, ci arresterebbe direttamente alla prima occhiata, per precauzione, come si fa coi messicani baffuti e tatuati in America. Il nostro aspetto non ispira molta legalità e fiducia. Anzi, si può dire che siamo totalmente illegali. Come è illegale studiare i concetti di filosofia cantandoli come ritornelli dei The Who, o guadagnare spiccioli pasticciando tele ai bordi delle strade al ritmo di una canzone dei Placebo, o sprecare il tempo della propria vita a contorcersi in varie postazioni sul divano più scassato del mondo mentre si segue un telefilm muto sottotitolato in russo, avere il colesterolo messo peggio degli ottantenni a causa dei chili di burro che si versano sui pop corn, sputare sul fondo del boccale di una birra rossa da pochi soldi per poi buttarsi in una rissa a caso in un bar legale quanto il resto citato sopra e uscirne con un rivolo di sangue che scende dal naso e un altro dalla bocca, ondeggiando invece di camminare e tutto ciò perché non c’era nient’altro di meglio da fare. Siamo illegali com’è illegale farsi film mentali in ogni momento, bloccare la fila dei paganti ritardatari alle poste perché la luce è esattamente quella che cercavi di creare da giorni, e un’inquadratura in quel punto sarebbe talmente perfetta che non puoi farti sfuggire un’occasione del genere. Com’è illegale rincorrere bambinetti con un nome doppio e lunghissimo in giro per una casa enorme e piena di irlandesi lentigginosi per farsi ridare indietro la spada di alluminio che hai impiegato anni a trovare per completare quel benedetto cosplay che sai che ti varrà la vittoria nella prossima fiera. Com’è illegale innamorarsi dell’uomo più sbagliato del mondo e meno uomo del Sistema Solare, e iniziare un circolo vizioso fatto di soffitte, biglietti, baci rubati e fughe in mezzo ai locali pieni di gente poco raccomandabile. Se cerchiamo bene nella Costituzione tedesca, almeno credo che esista una Costituzione tedesca, visto che durante le lezioni di diritto alle superiori ero troppo impegnata a spotacciare le gomme dei miei vicini di banco con vari ‘fuck the rules!’ e simboli dell’Anarchia per stare attenta a cosa dicevano quegli sfigati universali dei prof; sono sicura che troviamo, in qualche articolo messo fra le righe, qualcosa come “Chelsea Sienna Spiegelmann e Alexandria Herder sono severamente vietate e contro la legge. La loro esistenza è punibile con l’ergastolo e una multa fino a dodicimila euro”.
-Comunque credo che abbia di meglio da fare che sprecare il suo tempo a denunciarci- mugugno, mentre Chess inizia a battere il tempo di un qualche ritornello dei Bullet For My Valentine con le dita sul bracciolo del divano.
-Quindi? Soluzione geniale?- chiede, mentre i suoi indici si esibiscono in una rullata su quelli su e giù per i quadrettoni della stoffa.
-Non lo so. Non ne ho idea. Non ne abbiamo idea.
Per un attimo nella stanza cala una sorta di silenzio, interrotto dal rumore attutito del ritmo di You want a Battle sullo schienale.
-Dobbiamo chiedere un consiglio a qualcuno- fa Chess dopo un po’.
-E a chi, sentiamo? I tuoi vivono a venti chilometri da qui, e in questo periodo in Irlanda piove l’oceano e il segnale telefonico non raggiunge casa di tua zia. E scordatelo che chiedo qualcosa a quel tuo fratello gay di dubbia mascolinità perché sono ancora arrabbiata con lui da quando mi ha fregato il lucidalabbra nero.
Lei interrompe il suo rullìo, si gira verso di me e mi fissa con un dito fra le labbra. Giuro che se ricominci a mangiarti l’unghia…
-A Tom!
-Cosa?- no, aspetta. Questo è peggio di lei che si mangia le unghie. A Tom? –Cioè, aspetta, spiegami. Vuoi rivolgerti a quella sorta di caprone bollito per chiedergli un consiglio su come comportarci con suo fratello?
-Beh, l’hai detto, è suo fratello. Hanno trascorso nove mesi nella stessa pancia e vent’anni appiccicati come due sardine sott’olio. Sarà pure un’infame battona incomprensibile, ma lo conoscerà un minimo più di noi- dice, con la sua espressione da pesce lesso sapiente.
A me viene voglia di tirarglielo in faccia, un pesce lesso. –E’ la peggiore idea che ti sia mai venuta in assoluto. E ne hai avute tu, di belle pensate- commento.
-Sparane una migliore!- fa, incrociando le braccia in tono di sfida.
In questo momento, se gli sguardi avessero capacità di bruciare, i suoi bellissimi rasta rosa chewing-gum starebbero fumando come lo spiedo che abbiamo mangiato l’estate scorsa, a casa di una delle sue molteplici zie con i capelli rossi in pieno stile Famiglia Wesley, sotto un albero senza foglie cercando di ripararci da una pioggia torrenziale.
-No, non ho un’idea migliore. Ma la tua non mi piace per niente. E lo sai benissimo, meglio del nome di tutti i tuoi benedetti fratelli, che non mi piace per niente- mugugno, arrotolandomi un ricciolo sul dito.
-Bene- gongola, soddisfatta. –Allora alzati, giovine fanciulla, e dirigiamoci verso il porto della nostra salvezza!- declama, alzandosi con un’altra ciotola di popcorn comparsi dal nulla in mano e la coperta dell’Ape Maia nell’altra.
-Adesso?!
-Sì, proprio adesso- conferma, ballonzolando fino alla cucina, per rimpinguare la ciotola di popcorn. Un attimo dopo, di fronte alla pentola che scoppietta, di blocca. –No, aspetta, non adesso.
Alzo un sopracciglio. E adesso cosa c’è?
-Adesso c’è Grey’s Anatomy!
-Ma tu detesti Grey’s Anatomy.
-Non importa!- gira di duecentosettanta gradi, fa quattro lunghissimi passi e torna sul divano, mentre la pentola sta per esplodere. Ma io mi chiedo, con tutte le macchinette per popcorn che ti ho comprato, devi sprecare le mie bellissime pentole? …
-Spiegami qual è la sua utilità in questo momento.
-Farà anche pena ai pappagalli, ma è pieno di intrighi amorosi. Può esserci d’aiuto- bofonchia, mentre zappa in cerca del canale. Ecco spiegato, perché da quando è iniziata questa benedetta storia vedo comparire ovunque cassette con le vecchie puntate di Beautiful e cd di Centovetrine.
-E allora quando avresti intenzione di andare da Tom?- domando, mentre mi alzo a spegnere il fornello prima che si incendi casa a causa dei suoi dannati popcorn.
-Quando è finito- risponde lei dal salotto.
-Cioè…- controllo l’orologio sulla parete. –A mezzanotte meno venti? Direi che è un orario adattissimo. Chi non va a casa degli altri a chiedere stupidi consigli d’amore a mezzanotte meno venti!
-Appunto, chi?- oh mio Dio, Kurt Cobain, Dee Dee e tutti i Ramones, Sid Vicious e Freddie Mercury. Sapevo che sei tonta, sapevo che non capisci le battute da intelligentoni e il sarcasmo triste non fa per te, ma ti prego, Chelsea ti prego, non mi fare queste cose, perché il mio povero cuore ne soffre.
Rovescio il contenuto della pentola mezzo bruciato in un gigantesco bicchiere da frullato, era lì vicino e non mi andava di cercare una terrina più decente; poi torno in cucina e mi posiziono vicino alla coinquilina a sgranocchiare popcorn carbonizzati e seguire le vicende di un gruppo di dottori inutili che scopano invece di fare il loro lavoro, mentre dovrei fare qualcosa di utile a risolvere la brutta situazione in cui si siamo cacciate, conquistare il vocalist più gnocco del mondo e studiare per il test di filosofia che c’è fra un mese scarso di cui come al solito mi sto sbattendo altamente le cosiddette palle.
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-Secondo me resta un’idea di merda- mormoro, mentre Chelsea suona il citofono.
-Ma non abbiamo altra scelta- risponde lei, mentre un Tom piuttosto accaldato e credo completamente nudo si affaccia alla finestra.
-Chi cazzo è a quest’ora?- urla nella nostra direzione. È buio, è palese che non ci abbia riconosciuto. Perché se ci avesse riconosciuto credo che avrebbe detto qualcosa di diverso, tipo “Se non ve ne andate chiamo la polizia”, o sarebbe semplicemente sceso a prenderci a randellate con un aspirapolvere.
-Siamo noi, Toooom- urla di rimando Chelsea. Ma il citofono a che cazzo serve? …
In base a quanto posso stabilire vedendo la sua faccia con la scarsa luce che esce dalla finestra, sembra che si sia fermato a decodificare l’informazione. Oppure sta solo pensando a cosa rovesciarci addosso di bollente e molto appiccicoso per farci soffrire di più.
-Oh, ma certo! Aspettate un secondo che scendo ad aprire.
Ma come?! Niente mitra? Niente calderone di pece e schiera di arcieri? Niente olio bollente e gas lacrimogeno? Ma che razza di combattente è? … o forse è una strategia, vuole finirci all’interno del suo salotto dove nessuno può fare da testimone, a parte forse la battona che si stava molto probabilmente scopando.
-Su, muovetevi, che fa freddo qua fuori- dice una volta sbucato (in mutande) dal portoncino d’ingresso.
Chess saltella allegramente verso l’entrata, io mi dirigo un po’ meno allegramente dietro di lei.
-Non c’è mica tuo fratello in casa, vero?- chiede lei, quando siamo dentro al salone asburgico all’ingresso.
-Uh, credo di no. Almeno, mi aveva detto per telefono che andava da… da…- il chitarrista si pianta, come fa la nostra connessione internet ogni tanto, magari sta pensando con chi doveva andare Bill, magari ha visto la Madonna, magari sta crepando sul posto. Spero la terza.
-Ok, ok, abbiamo capito non c’è, non affaticare troppo il tuo cervello che ci serve- borbotto, spalancando il portone del salotto e buttandomi sulla prima poltrona così schifosamente bianca che capita a tiro.
-E in cosa posso servirvi, dolci madamigelle?- chiede, chiudendo la porta dietro a Chess.
-Intanto dolce non me lo dici nemmeno se vuoi- chiarisco. – E poi c’è una questione importante. C’entra la checca di tuo fratello- faccio finta di spulciare alcuni cd impilati sul tavolino di vetro, Chess che non sarà poi la persona più intelligente del mondo ma di sicuro è più intelligente della capra qui presente in biancheria, afferra che non mi va di esplicare la questione e inizia a blaterare.
-Ecco, il fatto è che … ci piace tuo fratello. Cioè, no, non è che ci piace. È che siamo completamente cotte. Fuse. Bruciate. Incenerite. Come quando ti imbamboli a fissare le foglie che cadono e ti si consuma tutta la sigaretta. Capito no? Ecco, sì. E vorremmo riuscire a … conquistarlo? Boh, credo sia la parola giusta. Spero. Comunque. Fatto sta che…
-Nononono, aspetta- la interrompe lui, mettendo le mani avanti. –Non ho capito bene, vai più piano.
-Ti fa schifo il triangolo?- chiedo io, e giurerei che la sua faccia si stia sciogliendo dall’acido che gli ho praticamente sputato addosso.
-Uh? Bah. È più alto il numero di triangoli che faccio io di quanto sia basso il pH di ciò che dici, Hannibal.
Entrambe restiamo un attimo a guardarlo, perplesse, cercando di sciogliere i nodi dell’intricatissimo discorso che ci ha appena fatto.
-Era una battuta, Kaulitz?- faccio io dopo un po’, fissandolo di sottecchi da dietro una copia mai aperta di Never Mind The Bollocks.
-Si dia il caso di sì, Herder, mi dispiace se il tuo piccolo cervellino acido non l’ha capita- lagna lui, facendo le smorfie.
A questo punto mi alzerei a prenderlo a pugni, ma forse è meglio limitarsi al potere della vista-sciogli-persone.
-Hei, hei, non incominciate adesso- interviene Chelsea. –Alex, basta con lo sguardo acido. Tom, ti prego, evita le provocazioni. È già di malumore perché ho bruciato i popcorn nella pentola dove cucina la pasta- wow, devo assegnare un punto al mio secondo. Complimenti, sergente Spiegelmann, potrei pensare di farla avanzare di grado.
-Allora aspetta … ripeti quello che hai detto prima. Hai detto che … siete fuse di mio fratello?
-Sì, esatto.
Tom rimane fermo un secondo a fissare Chelsea.
-Ma… come cavolo?...
-Ci piace e basta, coso. Meno domande ti fai, meno persone si faranno male- lo avviso, scorrendo la lista dei testi di una qualche Greatest Hits dei Guns ‘n’ Roses.
-Ok, ok, ho capito- borbotta guardandomi male. –E io cosa c’entro allora? Non chiedetemi di farvi da Cupido, quello bravo a unire le persone è Georg.
-No, no, non è questo- aiuto, la mia amica sta andando in crisi. I rasta iniziano a fumare. –Il fatto è che … beh, non sto a raccontarti tutta la storia. Poco fa, era tardo pomeriggio ed eravamo in un bar…
-…pieno di gay- aggiungo.
-…e stavamo parlando.
-Di cosa?- chiede Tom.
-Non te ne frega niente- dico io.
-Uffaaa, fatemi parlare!- lanciate l’SOS, Spiegelmann sta esplodendo. –E insomma, eravamo lì e… beh, eravamo vicini, però… lui ha detto… e noi…
-L’abbiamo baciato- intervengo, mentre sfoglio i testi di Back In Black.
Tom ci è rimasto di… merda. Ho contato, sono quasi venti secondi che è fermo, con gli occhi spalancati e la mascella per terra, che fissa Chelsea che nel frattempo sbatte la testa su una colonna di marmo. Te l’ho detto che era una pessima idea.
-Cioè ... voi … avete baciato mio fratello?
-A-ha- asserisco. Uh, sono finiti. Che collezione scarsa, Kaulitz. Dove sono gli altri?
-Oh mio Dio, non posso crederci. Io … non credevo che quell’essere fosse capace di manifestare sentimenti!- esclama scioccato puntando un pollice di lato verso di me.
-Come scusa?! Sono più sentimentale di te, io- ribatto, girando la testa.
-Sì, al massimo sai sorridere se ti pagano- ma vuole morire in modo doloroso, quest’uomo?
-Posso tirarti un sentimentalissimo cazzotto in un occhio, se vuoi!- ringhio, scendendo dal divano. Adesso il mio naso è più o meno a due centimetri dal suo, e ho tanta voglia di fare sul serio quello che ho detto.
-Bene, ottimo, basta, so che vi volete bene ma staccatevi- fa Chelsea, abbandonata la colonna, infilandosi fra i nostri nasi e distanziandoci di qualche metro. –Non è in questo modo che ho voglia di risolvere la situazione. Posso finire di parlare?
-Ma quanta roba devi dire?- domanda esasperato Tom.
-Se continui a interrompermi posso parlare fino a mezzanotte- ribatte lei.
-E’ l’una passata da un pezzo, e questa mi è sempre sembrata una pessima idea- abbaio, con l’acido che mi cola da tutte le parti.
-OK, ok. Siamo arrivati che tu e … lei avete limonato mio fratello in mezzo ad un gay bar. Ottimo. Poi?- si risiede e cerca di seguire Chelsea, anche se ogni due nanosecondi mi arriva una freccia infuocata sotto forma di occhiata.
-E poi lui è scappato in preda al terrore o al non so cosa, e ci ha mollate lì senza troppe scuse.
-Uhm. Poi?
-Poi basta, poi arriva lei con la sua pessima idea di venire a chiedere un consiglio a te perché noi non sappiamo cosa fare- mi lagno, perché a questo punto mi sto praticamente lagnando.
-Ma… a voi piace… e a lui piacete?
-CERTO, CHE DOMANDE!- esclamiamo in coro, come se fosse la cosa più palese del mondo, che in effetti è.
-Ok. Su questa cosa avrei qualche dubbio, ma … sapete, mio fratello è etero come un tubo di brillantini arcobaleno con prevalenza di rosa. Non so se ve ne siete accorte.
-E noi ti sembriamo così etero?- chiede Chelsea, mettendosi in posa da io-non-sono-etero.
-Ok, ma cosa c’entr… ah. Ho capito- Dio solo sa cosa avrebbe capito, ma non importa. L’importante è che sia convinto. –Quindi cosa devo fare io?
-Devi darci una mano. Dobbiamo fare in modo che Bill non fugga appena spuntiamo dall’angolo.
-Bene. Come facciamo?
-HA, bella domanda! Ce lo siamo chiesto anche noi- dico ironica, iniziando a gesticolare a caso con le mani e girare nervosamente in questo salotto. Tutto questo mi sembra una grossa e grassa perdita di tempo.
Spiegatemi come può esserle venuto in mente. Venire a chiedere una cosa seria ad una persona come Tom Kaulitz, che l’unica cosa seria che sa fare è evitare di scopare la prima persona che gli capita a tiro sul marciapiede. Voglio capire qual è il problema che affligge questa donna. Credo di avere anche abbastanza prove per confermare che Chelsea Sienna Spiegelmann soffre di qualche grave mancanza di rotella: primo giorno di scuola. Primo giorno in cui abbiamo il diritto e il dovere di percorrere quel benedetto chilometro da sole. Qual è la geniale idea della suddetta donna? Andiamo in bici! Prendiamo la mia bellissima bici rosa con le rotelline, io salgo sul sellino e tu sul cestino. Dio solo sa quale strana forza della natura mi abbia fatto accettare questa cosa: quando siamo arrivate nella benedetta classe, quindici minuti in ritardo, metà del contenuto del mio zaino era stato perso per strada, le sue ginocchia erano ridotte in uno stato pietoso e sulla mia faccia era comparso un magnifico livido viola scuro dovuto allo scontro con un palo della luce, che mi fece sembrare ancora più incazzata e ancora più scontrosa agli occhi delle maestre di quanto già non fossi. E fu da quel giorno che Alexandria Herder fu maledetta dalla scuola. Ma ce n’è ancora: festa di Halloween. Vediamo il nostro duetto alla tenera età di sedici anni partecipare alla loro prima festa più o meno seria: un enorme posto, che ben non si è capito cosa fosse visto che l’unica illuminazione erano luci stroboscopiche di colori improbabili come il blu scuro e il verde bottiglia, pieno di gente vestita da vampiri sporcaccioni e infermiere sanguinanti che balla al ritmo di una canzone monocorde strusciandosi gli uni contro gli altri in balia di non si sa che sorta di pillola. Beh, sì, ci siamo anche noi, ovvio: un Johnny Rotten e un Marilyn Manson, incipriati fino alla morte, e inculati in un tavolino nel più remoto angolo della pseudo-discoteca, che si guardano intorno sorseggiando Coca-cola. Tutto bene, più o meno, finché non arriva il mona di turno che scambia me conciata da Marilyn Manson (a dire il vero i travestimenti dovevano essere al contrario, ma i capelli corti e rossi di Chelsea erano palesemente più adatti dei miei a interpretare la zazzera di Johnny. Così ho dovuto cederle l’onore) per Morticia Addams, e che sostiene di essere Gomez. Come è finita? Che io sono stata costretta a ballare con un idiota, entrambe siamo finite in mezzo alla mischia, qualcuno ci ha messo dei cocktail in mano (con svariate pillole dentro) e ci siamo ritrovate solo alle quattro del mattino, vomitando l’anima come due senzatetto incipriate dietro il cassonetto della spazzatura. Cosa c’entra Chelsea? Che fosse stato per me, quell’Halloween l’avremmo passato sul divano sotto la coperta a teschi nella soffitta di casa mia, a guardare per l’ennesima volta The Nightmare Before Christmas. Ma no, Alex, andiamo ad una festa! Mi hanno invitato quelli di quinta, dai, andiamo anche noi; su, muovi il culo Herder. Ne volete ancora? Parliamo di quella volta in cui stavo per venire iscritta al corso di geologia applicata invece di filosofia, perché la genia ha insistito per fare lei le iscrizioni all’università. Ringrazio Dio di vederci bene e di aver letto e riletto il documento prima di firmare. A proposito di documenti e firme! Estate 2005. Io volevo solo frequentare un corso estivo di fotografia … e beh, mi sono ritrovata in mezzo ai boyscout, perché Miss Faccio Io aveva preso il foglio sbagliato. E mi sono rotta un femore quell’estate, per colpa di un bambino coglione che voleva che gli prendessi la palla finita sopra l’albero. Stupido albero. Stupido bambino. Aspetta. Che cavolo stanno facendo. Stanno confabulando. Oh, Cristo. Se già c’è da aver paura delle idee di Chelsea, figuriamoci di quelle di Tom.
No. No, un attimo. So che parte della storia è questa. È quella in cui i due geni della situazione fanno un salto alto tre metri, urlano qualcosa come ‘MA CERTO!’ oppure ‘CI SONO!’, si girano verso l’emarginato del momento e vengono fuori con la loro stupida pensat…
-MA CERTO! CI SONO!
Uh. Appunto. Eccoli là che si guardano come Edison e il suo assistente che accendono la prima lampadina.
-Alexandria! Abbiamo un’idea stratosferica! Vieni qui!- urla Chess, fissandomi con una faccia che illuminerebbe l’intero emisfero boreale a giorno.
Mi avvicino cautamente, molto molto cautamente, mi metto comoda sul divano –perché so che potrei prendere un colpo di cuore e fare un patatrac per terra- e la guardo negli occhi.
-Ti ascolto.
I due Edison si scambiano un’occhiata entusiasta.
-Faremo un film!
U … un attimo. Che cavolo c’entra il film?
-E questa è la vostra soluzione per farci perdonare da Bill e fargli capire che anche lui è palesemente cotto di noi e non siamo assassine stupratici di cantanti che vogliamo solo abusare del suo cadavere?
-Beh, no. Cioè, sì. Più o meno. Aspetta, aspetta, non è tutto. Non faremo mica un film qualunque.
Oh. No. Questo tono sadico, malvagio e cospiratore non mi piace.
-E … cos’avrà di speciale?-chiedo. Credo di essere il ritratto della preoccupazione, anzi, del puro terrore.
-Parteciperemo tutti e sei: Georg, Gustav, Tom, Bill, io, tu- alla parola ‘tu’ mi cadono le braccia. No, no, no. È già successa una cosa del genere. Più di una volta. Non è mai stata una bella esperienza. A parte quando ho fatto il serial-killer con la maschera da hockey che inseguiva i suoi fratellini in giro per la casa abbandonata. –Aspetta, ti dico la trama! Anzi, no, te la dice Tom. L’abbiamo scritta.
Capra Bollita tira fuori un foglietto, lo alza bene davanti agli occhi e si schiarisce la voce. Hanno pure fatto in tempo a scriverlo. Mi stupiscono sempre di più. In negativo.
-Anno 1975. Due abili mercenari newyorkesi, meglio conosciuti come Chelsea McMurder e Tom Ripperson, vengono ingaggiati da una società segreta di criminali dalla lontana Berlino Est. Un grosso capitale, ricavato di anni di rapine e spaccio di stupefacenti, in cambio di una sola missione: uccidere Gustav Schafer, capo della STASI, il Ministero Per la Sicurezza di Stato della Germania Est. I due caricano le armi e affilano i coltelli: il bottino non arriverà che a lavoro terminato. Ma quello che sembra un facile compito, un lavoretto da nulla per due sicari come Chelsea e Tom; si complica quando sulla strada dei due irrompe Makhmud Kunanbaev, tassista fuggitivo del Kazakistan, che cerca un qualsiasi lavoro che gli permetta di mettere qualcosa sotto i denti. Per quanto i due possano essere spietati e senza cuore, non possono lasciare un uomo per strada in questo modo: inoltre si sono resi conto che la missione non è facile come sembra. Makhmud, sotto il falso nome di Georg Listing, diventerà essenziale, grazie alle sue abilità di spionaggio, per penetrare la densa coltre di protezioni che circondano Gustav Schafer. E ce l’hanno quasi fatta, sono quasi riusciti a trovare un buco dove infiltrarsi per raggiungere l’obiettivo, quando a rovinare i piani subentra Alexandria Nozewood, giornalista londinese infiltrata dal The Times per indagare sui complotti contro la STASI: cosa dovranno fare i due, per impedire alla perfida giornalista di spifferare tutto ai quattro venti? Come arriveranno al loro obiettivo? Incasseranno il bottino, o Georg fuggirà con i soldi in cerca di una realtà migliore? Ma soprattutto … cosa si cela realmente dietro la faccia da bambola di Bill Kaulitz, il misterioso amante di Schafer, che compare in una notte buia e piovosa, in mezzo alla strada, a pochi centimetri dall’auto in corsa dei due americani? Cosa sa Bill? Cosa vuole? Cosa è disposto a dare? Ma la vera domanda è … di chi bisogna fidarsi? “The Berlin Night” – un film di Thomas Kaulitz e Chelsea Sienna Spiegelmann, con la partecipazione esclusiva di Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schafer e Alexandria Herder. Nelle sale a gennaio 2011!


Mi stanno ancora fissando. Non so cosa rispondere.
Di tutte le pensate, Chelsea, di tutte le bici in prima elementare, delle feste di Halloween e dei campeggi di boyscout, ti giuro, sergente Spiegelmann, che questa è la peggiore in assoluto. HEY boys&gurls! Scusateci per il ritardo, eravamo occupate a sclerare perché INSOMMA E' USCITO DREAM MACHINE!!! Non siete in fibrillazione?... :)))
Beh, lasciateci qualche bel commentino... and stay punk! ;) TheTwoOfUs***

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Capitolo 13
*** Complicazioni esistenziali ***


CAPITOLO TREDICI: COMPLICAZIONI ESISTENZIALI 

-Io non ho capito perché devo fare il tassista kazako. Cioè, c’erano tanti personaggi tra cui avreste potuto scegliere: un hacker che lavora per la libertà della nazione, un indipendentista, uno storico della Grande Guerra, un …
-E invece te ne stai e fai il tassista kazako, punto e basta.
Il salotto di casa Kaulitz potrebbe sembrare un vero campo di battaglia che farebbe impallidire Waterloo, ora che, dopo che a me e al mio fratellone è venuta la strepitosa idea di fare un film per riconciliarci con Bill e costringerlo finalmente ad ammettere che è cotto perso di noi. Certo, probabilmente un profano rimarrebbe visibilmente scioccato dal vedere un panzone che mangia pacifico un hot dog come se lui non facesse minimamente parte della situazione, un metallaro finto che bestemmia in aramaico misurando la stanza a grandi passi, un trans che si ritocca il trucco con la faccia tutta tirata da “chi cazzo me l’ha fatto fare di dire di sì?” (in realtà, se vogliamo proprio metterla così, siamo stati tutti abbastanza abili da ricattarlo dicendogli che se non avesse partecipato attivamente avremmo sempre potuto convincere Jostein a mettere le sue foto hard sul web. Chissà come mai è passato da un inventario di urla, strepiti e vari “vi squarto e intingerò le vostre dita nel latte la mattina” a un mogio e sottomesso “Va bene, ma non finisce qui!”, sibilato prima di nascondersi in un mutismo offeso nascosto dal pellicciotto nero.), un Obelix a dieta che saltabecca in giro a braccetto con una rasta lentigginosa e una darkettona che insegue il metallaro brandendo un forchettone da barbecue, ma tutto ciò a noi non interessa. Le riprese di Misty Berlin devono cominciare, dopo che abbiamo lavorato alacremente alla prima scena del copione e abbiamo costretto i nostri avvenenti partecipanti a impararsi a memoria un pacco di battute, e avevamo gloriosamente pensato di buttarci con un inizio contemporaneamente squallido ma sexy, con Bill come protagonista indiscusso della scena che osserva i movimenti del gradasso Gustav, una pantera che si aggira con una maschera di sensuale apatia attorno al suo sfatto e smargiasso amante, opportunamente abbigliato con un completo finto Armani che gli sta strettissimo amabilmente unto di senape, anche se sono sempre più convinta che se fossimo riusciti a convincere Bill a mettersi un paio di calze a rete con un vestitino nero cortissimo l’effetto sarebbe stato migliore di quell’abito con lo spacco e la schiena nuda. Ma il signorino si è opposto urlando e scalciando alle calze a rete e al vestitino vertiginoso perché “Non mi farò mai vedere da queste due proletarie vestito così!”. Sì, le due proletarie che ti stavi limonando ben bene nel bar dei froci e che ti vedranno vestito così, fosse anche l’ultima cosa che fanno nella loro marcia vita.
-Più che altro, non si capisce dove voglia andare a parare sta cazzata.- grugnisce Alexandria, appollaiandosi con aria truce sul divano bianco panna, pericolosamente vicina a Bill. Io e Tom ci lanciamo un’occhiata, scrutando con aria gnorri la reazione del cantante al fatto che la nostra Coinquilina Hannibal gli si sia praticamente seduta in braccio, visto che GusGus occupa mezzo divano da solo. Ottimo lavoro, Alex, distrai il nemico con le tue argute tecniche d’assalto frontale, non lasciare che vinca questa guerra di logoramento dove solo noi possiamo avere la meglio, ne va del tuo onore che ti sei scavata dopo tanti anni di guerre scolastiche. Mi aspetto in realtà che ora Bill balzi in piedi e fugga, per quanto gli possano permettere i tacconi vertiginosi dei sandali alla schiava che indossa, nascondendosi dietro al grosso tavolo della cucina dove campeggiano ancora gli avanzi del nostro pranzo. Vedo già il vestito che ondeggia sensuale nella fuga, accompagnato da un gesto sexy dei capelli corvini e il conseguente strillo oltraggiato quando … mi rendo conto che Bill non si è mosso da un millimetro dalla sua postazione sul divano, dritto come un fuso e serio come la morte, così impassibile e intento a ritoccarsi il cerone da non reagire minimamente al “Oh cazzo, ma è davvero Bill quello?” sibilato tra i denti da Tom, al “Ma stiamo scherzando?” soffocato dalla sottoscritta nel braccio del fratellone, e alla faccia letteralmente sconvolta di Alexandria a vedere che il suo vago tentativo di suscitare una reazione in Bill si è risolto addirittura non solo senza fuga, ma pure senza smorfie schifate e nauseate.
-Ma io te l’avevo detto che anche a lui piacciamo.- sussurro nell’orecchio di Tom.
-E’ una cosa inquietantemente inaudita … - mormora lui con tono reverenziale in risposta, prima che la mia attenzione venga colta dall’S.O.S. terrorizzato degli occhi scuri e scioccati della mia amica. Credo che la povera corazzata Herder stia cominciando a fumare, come se le avessero acceso dentro dei razzi segnalatori prima di sfondare la frontiera della salvezza e ho ancora più ragione di credere che il fatto che Bill se la tenga quasi in braccio come se manco l’avesse notata, è per lei qualcosa di troppo scioccante per poter reagire, penso che sia meglio se mi lanci a salvarla con uno delle mie missioni tipo. Tecnicamente, poi, io sarei quella che si mette nei casini ma poi in fondo sono anche quella capace di cavare gli altri fuori da essi, ne è un esempio pratico quando avevo inscenato una crisi epilettica per distogliere le attenzioni del prof di matematica del liceo da una furibonda Alexandria che rischiava di venire espulsa per insulti a superiore. O quando avevo abilmente salvato mia sorella Charity Rebecca dalle ire funeste di nostra madre, anche se quello non l’avevo nemmeno fatto apposta, siccome non avrei mai voluto salvare quella vipera con la cresta verde acido, ma sono una regista così appassionata da non poter venir privata di una delle attrici del mio cast stellare e quindi avevo abilmente convinto la mamma che colei che aveva depredato la sua toeletta degli smalti non era stata Charity Rebecca bensì una misteriosa cugina Karina di nostro padre sbucata da non si sa dove, e solo grazie al fatto che io abbia una parlantina degna del più grande oratore mondiale e che siamo una famiglia così vasta che conoscere tutti i cugini è matematicamente impossibile, mia sorella l’aveva scampata. Dunque, non dovrebbe essere così difficile proteggere ancora una volta la mia migliore amica. Peccato che sottovaluto il diavolo a quattro nel lanciarmi come un peso morto addosso a loro strillando in un falsetto perfetto e cadendo di conseguenza come un sacco di patate sui due. Infatti, travolgendoli, rovescio miseramente lo smalto che Bill si sta diligentemente dando sulle unghiette da arpia e glielo spalmo amabilmente sul vestito, facendo rotolare Alex lontano come un povero foglio di carta gettato nel vento. Il silenzio orribile e inquietante che segue alla mia caduta di stile mi fa temere il peggio per la mia incolumità; Georg ha smesso di piagnucolare e mi guarda trasecolato, Gustav ha addirittura fatto cadere il panino doppio che stava divorando e apre e chiude ripetutamente le fauci, Alexandria mi lancia una di quelle occhiate così perfide che mi fanno accapponare la pelle, Tom semplicemente ha una faccia così terrorizzata che sembra che sia appena scoppiata la terza guerra termonucleare, e io … beh, io alzo lo sguardo atterrita sul nostro cantante, cercando di spalancare gli occhi da manga il più possibile, spremendo fuori tutta la mia vena irlandese, gonfiando le guance lentigginose e cavando addirittura una lacrimuccia disperata che dovrebbe muovere a compassione gli animi. Credo che sarebbe interessante anche cimentarmi nel trashmovie, in perfetto stile “American Psycho”, quello di Mary Harron, del 2000, con Christian Bale e Willem Dafoe, però ancora più scadente nel trash, con Bill che mi usa per farsi le unghie, come penso stia per succedere adesso. Posso già sentire le sue unghie distruggermi e farmi a fettine e il mio sangue imbrattare il tappeto persiano sul pavimento e questi divani bianco panna, i miei dread usati come cordoni per il lampadario, i miei occhi messi al posto di orecchini, i …
-Uh, ma guarda che disastro che hai combinato Canterbury!
Tutti guardiamo Bill con aria scioccata. Non sta urlando. Non mi sta accoltellando. Non mi sta nemmeno bruciando con lo sguardo. No, semplicemente si guarda il grembo sporco di smalto con aria corrucciata e una dolcissima espressione indispettita, come quella di una bambina a cui hanno tagliato i capelli della Barbie.
-Oh mio dio, Bill, stai bene!?
Tom gli si fionda addosso, scuotendolo per le spalle sottili, strizzandogli le guance, mettendogli la mano sulla fronte e berciando di conseguenza, mentre gli afferra il polso e se lo schiaccia sull’orecchio
-Sei caldo! Lo sapevo, hai la febbre equina! Georg, svelto, chiama l’ambulanza! Ecco, mancano i battiti! Hai un calo di pressione! Un attacco di ulcera fulminante! Un …
-Giù le mani, fratello pervertito maniaco depravato e cretino!
Tom è costretto a ritirarsi dopo che la Delfina gli ha mollato un ceffone che avrebbe girato la testa di Schwarzenegger.
-Ma Bill … - piagnucola il fratellone – Ti ha appena rovesciato lo smalto sul vestito, l’ultima volta che l’ho fatto io mia avevi inseguito per tutta la casa con un forchettone cercando di infilzarmi, quindi siccome non hai reagito pensavamo che stessi male.
-Uff, come sei sofistico Tom!- sbuffa Bill, alzandosi e schiacciando volutamente la mano del povero chitarrista seduto per terra afflitto col tacco a spillo. – Tu mi avevi sporcato anche la mano, lei si è limitata a rovesciarmelo su questo vecchio Lauren, non ci vuole niente a farlo lavare da quella buona a nulla di Amelia!
-Quindi non mi punirai, o Delfina?- balbetto io, inginocchiata per terra, prostrandomi in venerazione di questa bellezza rara.
-Per questa volta sarò magnanimo, Bradford.- il nostro cantante si scosta uno dei piccoli dread bianchi dalla fronte e mi guarda come fossi una piccola pastorella sperduta – Vai in pace.
Il fatto che poi io mi metto a sbaciucchiargli i piedi prostrata in venerazione (Santo Scorsese, pure i piedi profumano! Non come quelli di Alexandria che sembrando due formaggette andate a male) e che la coinquilina Hannibal sia rapidissima a saltarmi al fianco e ad abbaiarmi qualcosa con cattiveria mentre mi strappa dai piedi di Bill (seh, che poi l’ho vista benissimo che nel strapparmi via pure lei gli sbaciucchiato un piede), assolutamente non scalfisce l’atmosfera puramente sconvolta del salotto che osserva Bill uscire dalla sala sculettando abbondantemente, un po’ di smalto che gocciola dallo spacco vertiginoso del vestito.
Il silenzio tombale è rotto solamente dalla lamentosa voce di Georg
-Va beh, sì, tutto quello che volete, ma io continuo a non capire perché io debba fare il tassista kazako e voi …
Ma io e Alex non lo sentiamo nemmeno, troppo impegnate a guardarci negli occhi e a comunicare telepaticamente tutta la carrellata di emozioni sconosciute che ci ha appena travolto come un fiume in piena. Non solo ha bellamente ignorato il fatto che la nostra punk gli si sia spalmata addosso, ma ha pure resistito stoicamente al mio splendido disastro da povera matricola sfigata. Sembra quasi che Alexandria avesse ragione quando asseriva che non era stato tanto il bacio in sé quanto il momento in cui la ricevuto. Messo così, poi, sembrerebbe quasi che abbiamo cominciato a smuovere qualcosa nel cuore di ghiaccio della principessina algida come un ghiacciolo e cattiva come un demonio sbucato fuori dalla penna di Dante insieme a uno dei mostri di Fussli. Mi gratto la pancia, mentre lei si gratta l’orecchio, segnale che, nel nostro complesso gergo, vuol dire “All’attacco!”; questa cosa dei gesti era nata quando eravamo ancora due piccole e innocenti alunne delle sfigate elementari di periferia gestite dalle suore di Magdeburgo, quando Alexandria aveva brillantemente pensato che prendere il crocefisso e appenderlo al contrario immerso nella minestra fosse un’idea geniale, come io ero convinta che tenere banco coi compagni costringendoli a girare un corto inneggiante al nazifascismo e alla segregazione razziale (colpa delle inquietanti fissazioni estremiste di mio fratello Cooper Carter, che all’epoca aveva sedici anni e si approfittava di un’innocente sorellina di dieci e della sua amichetta cercando di influenzarle con la sua politica senza che loro capissero un benemerito cazzo, e considerandole eretiche non appena si erano rivelate una punk e l’altra più di una sponda che dell’altra) fosse una grande idea. Le suore ci avevano etichettato come “indemoniate bambine progenie di Lilith”, osservandoci da vicino e costringendoci dunque a creare un linguaggio gestuale per comunicare le nostre idee ribelli senza farci scoprire, cosa che si era rivelata più utile del previsto e che si era successivamente ampliata a seconda delle esigenze. Beh, la grattata di pancia e orecchio ha sempre voluto dire una e una sola cosa “All’attacco”, e sarà quello che faremo per riuscire finalmente a beccare Bill nel momento giusto.
-Perché state facendo quelle facce inquietanti?- mormora Tom, spaventato – E’ per il fatto che forse avevate ragione su mio fratello?
-E certo, capra bollita! Che ti credi!?- abbaia Alex, ringhiandogli in faccia – Fanculo a te che dicevi che non avremmo avuto nessuna possibilità. In culo, Kaulitz!
-Visto, tesoro?- cinguetto io, saltellando amabilmente vicino a lui e saltandogli sulle spalle – Siamo o no le ragazze più sexy di Hollywood?
-Una patata fritta e uno scheletro dark non le considererei esattamente le ragazze più sexy di Hollywood, comunque.- dice Gustav.
L’ultima cosa che interrompe la mattina prima di riprendere le riprese di Misty Berlin è il batterista della più famosa band del momento correre in tondo inseguito da una ragazza mezza rapata che gli corre dietro brandendo un coltello da cucina.
 
-Chess, quando ti deciderai a cambiare quella dannata suoneria?- mi rimprovera Alexandria dal bagno mentre io, affondata nel divano senza via di scampo, frugo alla cieca alla ricerca del telefono mentre guardo “Monty Python – Il senso della vita”, quello di Terry Jones e Terry Gillian, con Graham Chapman e John Cleese del 1983, che ogni tanto danno sulla rete e mentre mi strafogo di patatine fritte preparate amorevolmente da Mamma Alex.
Il fatto che poi appena trovi il cellulare e veda scritto #Sorella5 cacci un urlo terrorizzato da fare invidia alle sirene antiaereo e faccia uscire la mia migliore amica dal bagno in accappatoio cristando in aramaico antico potrebbe rientrare in una situazione tipo nella casa Herder-Spiegelmann (che contiamo presto di far diventare casa Kaulitz, ma.) se non fosse che la #Sorella5 non chiami mai la sottoscritta se non quando ci sono dei drammi apocalittici. Ecco, lo sapevo che era tutto troppo bello per essere vero. Sono stata punita per la mia empia soddisfazione, ora mi dirà che il nostro fratello Billy Terry ha l’AIDS (cosa oltretutto più che probabile se non certa) e che mi toccherà mollare la Germania e di conseguenza Bill e Tom per andare con la Famiglia e l’immancabile Alex a consolarlo nei suoi ultimi giorni di vita in quel buco del culo in Irlanda.
-Cazzo Alex!- strillo, afferrandola per le spalle e facendole cadere l’accappatoio e beccandomi un ceffone di conseguenza – E’ Katie Crystal, l’uccello del malaugurio! Vuol dire che è successa una disgrazia!
-Ma invece di starnazzare come un’oca, rispondi!- strilla Alexandria, dandomi un pugno in testa. Ma lei non ricorda, povera infante, le apocalissi di mia sorella.
Deglutisco rumorosamente, rispondendo prima di venir scaraventata giù nella pattumiera di sotto.
-Ehm … pro … pronto?- balbetto. La sento già “Terry ha l’AIDS” “Papà è morto” “Un parente ha deciso di ucciderci tutti” “E’ scoppiata la terza guerra mondiale”.
-Chelsea, dico, ma sei scema?
L’inconfondibile voce antipaticissima di quella troia di mia sorella si spande nell’aria, mentre metto titubante il vivavoce.
-Ciao Crystal.- pigolo, facendomi piccola piccola nel divano – Cosa … vuoi?
-Senti, Chess … c’è anche Alexandria lì con te?
Eccolo il demonio: aspetta pure la nostra punkettara per portare le sue maledizioni.
-Certo che ci sono, oca giuliva coi capelli rossi, cosa credi?- ruggisce la mia coraggiosa amica.
-Quand’è che vi sposate voi due? No, perché avrei un’amica che ha un negozio di vestiti da sposa, vi farebbe un bello sconto, sicuro. Io pensavo che magari però Magdeburgo è un po’ squallida come location, dovreste almeno scegliere Dublino, così anche lo zio Niall potrebbe venire e …
-Ma che cazzo ti fumi?!- urliamo in perfetto coro noi due – Non ci dobbiamo sposare!
Questa è una strana e inquietante paturnia mentale delle mie sorelle, quella che io e Alex ci dovremmo sposare. Beh, sì, appena convinciamo anche Bill sicuramente organizzeremo un favoloso matrimonio a tre, magari lui col vestitone bianco e noi due in frac, con Tom che mi fa da testimone e mia sorella Charlotte Chanel, che è la più piccola di casa e l’unica coi boccoloni biondi e gli occhioni azzurro innocenza, insieme a un tenero e pacioccone Gustav a lanciare confetti al cianuro nero. Che poi io una volta ne sia uscita fuori dicendo “Alex, e se ci sposassimo? Fa sempre più figo una regista sposata con un’artista eccentrica che single”, ma l’unico risultato era stato un insulto e un anfibio borchiato stampato in fronte. Sicuramente, una regista di fama mondiale, uno dei cantanti più in voga del momento e una prossima chitarrista con un grande futuro farebbero impazzire i gossip di tutto il mondo, roba che farebbe sembrare Johnny Depp, Angelina Jolie e Leonardo Di Caprio gli ultimi arrivati.
-Comunque, che cazzo vuoi uccello del malaugurio? Terry è morto di AIDS dopo essersi scopato tutta la popolazione maschile tedesca e irlandese? Madison è stata rinchiusa in un istituto per psicopatici per aver ammazzato qualcuno con forbici a punta arrotondata? Avery è stata fagocitata dalle sue piante carnivore? Charity si è impiccata come nei suoi video da depressa emo?
Queste elencate sono solo alcune delle uscite tipo che solo la più bella delle mie sorelle potrebbe tirar fuori, le più papabili e le meno drammatiche. Io e Alexandria ci scambiamo un’occhiata, stringendoci istintivamente sul divano una accanto all’altra, i Monty Phyton che continuano a cazzeggiare in tv e le patatine che il gatto Panther Lily sta amabilmente finendo.
-Nah, niente di così tragico.- sentiamo distintamente la gomma da masticare che scoppia ripetutamente col quel suono così molle, annoiato e così dannatamente americano medio borghese. Katie Crystal è il perfetto esempio di americana medio borghese con le sue gomme da masticare, i suoi scaldamuscoli rosa confetto, il suo trucco da cheerleader, le gonne corte e i suoi continui OMFG. – Volevo solamente chiederti se potevamo vederci. Noi fratelli e Alex.
-Ma ti ha dato di volta quel poco di cervello che hai?!- abbaia la mia amica, strappandomi il cellulare dalle mani e sputandoci sopra – Chi ha voglia di tornare a fare la babysitter a voi tutti!
-Dai, Alex, stai calma per favore.- dico, togliendole il telefono prima che me lo sbatta per terra e lo pesti – Ma perché poi dovremmo vederci?
-Ma come “perché”? Dai, Chess, siamo comunque fratelli.
Sentila, la Giuda Iscariota. Sentila, la Hagen. Sentila, la Iago. Sentila, l’ipocrita che ha sempre odiato il fatto di essere “sorella di una patata rasta”.
-E quando dovremmo vederci, di grazia?- in realtà, lo dico balbettando, sepolta sotto la mia batteria e usando il vinile di Iggy Pop come scudo protettivo, uno scolapasta occasionalmente trovato calcato in testa.
-Stasera!- trilla Crystal e posso sentire la sua odiosa risatina soffusamente costruita – Ho già chiesto agli altri, a parte Flora che tanto abita in culo al mondo- e ci mancava giusto Flora Anne e poi ce l’avevo nel culo, tra lei e Alexandria non so chi sia peggio – Dovremmo esserci tutti e nove.- Sì, lo so, siamo nove noi Spiegelmann, ma la mia coinquilina Hannibal è sempre stata contata da tutti i miei fratelli come sorella adottiva.
-Ma stasera dobbiamo andare fuori a cena con i ragazzi!- esclama Alex, tirandomi con cattiveria un dread rosa. Eccola lì, l’altra ipocrita, che quando si trattava di dover parlare delle riprese di Misty Berlin ha accettato solo perché avevamo un’altra possibilità di baciare il nostro Billuccio. Ora fa tutta la scena perché non vuole vedere, come me d’altronde, tutto il clan irlandese.
-E’ vero!- cinguetto io, cercando di salvare i miei capelli dalle sue unghie dipinte malamente di nero – Scusa, Crys, ma stasera siamo impegnate.
Ora, siccome Chelsea Sienna Spiegelmann è sinonimo pure di Fogna Di Bocca Per Eccellenza, non penso minimamente alla cazzata enorme che sto per commettere mentre trillo
-Andiamo a cena con i Tokio Hotel.
Nemmeno il tempo di finire di parlare che dall’altro capo del telefono si sente un urlo trapanante, mentre nel nostro appartamento fatiscente si vede una rasta vagamente sovrappeso che corre strillando come un’oca sgozzata inseguita da una tipa anoressica che le tira in testa tutte le Converse luride che possiede.
-Brutto rafano sottosviluppato messo in salamoia da un cuoco fatto di foglie di banano andato a male, ma che cazzo di problemi hai?!
-Ma tu scherzi, Chess! Mi sembra un ottimo motivo per venire con voi, no?!- esclama Katie Crystal, prima che Alexandria le ringhi qualcosa di intellegibile addosso, mentre io tento di ripararmi inutilmente sotto la mia povera batteria.
-Col cazzo, carina.- Alex si impone, afferrando il telefono e piantandosi davanti ai Monty Python. – Tu e tutta quella sfilza di checche, ballerine, botaniche, nazisti, e bamboline di porcellana non verrete a rovinare la mia vita, ok? Perché si dà il caso che sia coinvolta anche io in questa storia e che non voglia assolutamente dover aver a che fare di nuovo con tutti voi irlandesi di sta minchia. Ci sono già quei quattro ritardati che bastano e avanzano.
-Ma Alex!- sento mia sorella strillare come la Scream(ing) Queen che in fondo è – Dopo tutto quello che hai fatto con noi!
-Appunto, razza di uccello del paradiso con le penne spelacchiate e gli scaldamuscoli rosa confetto, mi avete rovinato l’adolescenza? Bene, non mi rovinerete sicuramente la maturità.- poi si gira verso di me, guardandomi come si può guardare solo un lurido soldatino che si è messo a piangere al primo sparo – E quanto a quella palle mosce senza nerbo di Chelsea … finché è sotto la mia giurisdizione, voi non la toccate.
Oh alleluia. Temevo già che mi avrebbe luridamente venduto alla fratellanza per la mia pavidità. Ma forse lei è ancora un soldato come si deve, che rispetta il proprio commilitone, non come Bill, che ce lo vedo già come lurida spia che mi avrebbe venduto al primo miglior offerente. E non posso fare a meno di pensare
 
Inquadratura classica, una stanza spoglia come quelle delle carceri dove si interrogano i prigionieri, nessuna musica se non giusto il sordo ronzio dell’aria condizionata rotta. Ci sono due ragazze sedute su due seggioline di metallo, una, la bionda mezza rapata, che tiene alta la testa, lo sguardo immobile e battagliero, l’altra, con i dread bianchi e rosa guarda per terra, continua a muoversi, ad agitarsi. La bionda la guarda male, un’occhiata così fredda che la rasta pigola qualcosa di sconnesso tra i denti. Parla una lingua sconosciuta, forse dell’Est Europa. Sembra stia facendo degli scongiuri a un dio che non l’ascolta, più la si guarda più è chiaro che sta pregando mentre singhiozza un nome sconnesso. Si inquadra più vicino sulle due, un crescendo delle suppliche della rasta, la voce che si alza sempre di più in una nenia inquietante e ossessiva, ripete un nome americano in mezzo alla sua disperata cantilena in un lingua che potrebbe essere rumeno, ma anche albanese, per quello che si può capire. La bionda sbotta, a un certo punto. Lei parla inglese, invece, mette fine alla nenia dell’altra, è esasperata ma suda, è palese che anche lei è terrorizzata a morte come la sua compagna, dice quel nome tra i denti, lo sputa. La telecamera si sposta, inquadrando un capannello di uomini in divisa. Uno di quelli, il capo, a giudicare dal portamento tirato, si siede dall’altro capo del tavolo, fa un gesto in silenzio a due sottoposti di mettersi ai lati delle due ragazze ammanettate. La bionda sputa sul tavolo tutta la sua rabbia, maledicendoli, la rasta china il capo, continuando imperterrita a pregare, come fosse una formula per isolarsi da quell’inferno. Forse è bulgara. La telecamera è sempre fissa sulle due ragazze, mentre il militare parla e le prende in giro, quando la sua parlantina è interrotta dall’urlo disperato della ragazza bionda, che prova ad alzarsi di colpo ma viene trattenuta dall’altro soldato, la rasta scoppia semplicemente a piangere. La telecamera gira lentamente, per scoprire chi ha fatto impazzire così le giovani prigioniere. Viene inquadrato un uomo (o forse è una donna?) truccatissimo, vestito come una meretrice di bassa lega, i capelli lunghi acconciati in modo da coprirgli in parte il viso da bambolina. Cammina come fosse in passerella, ancheggia, ma non sorride. Viene sottolineato il fatto che cerchi di ignorare le due ragazze che strepitano e piangono, la mascella induritasi improvvisamente, il fantasma di una lacrima di rimorso nelle pupille, ma forse è solo un mero effetto della luce. Il generale ride forte, una brutta risata, si fa sedere il ragazzo moro sulle ginocchia. Lui obbedisce, sorride smielato, forse lo bacia, sfarfalla gli occhi, ma è sempre più palese l’orrore che sta provando in questo momento, sotto lo sguardo accusatorio delle due. Si sente in colpa, e la telecamera lo coglie come mai. La ragazza bionda gli dà addosso, lo insulta, prima di venire zittita dal ceffone di uno dei soldati. La rasta si limita a dire qualcosa nella sua lingua, guardando piangendo la sua amica. Le ragazze si guardano disperate prima di fissare di nuovo il giovane e il militare che ride, e lo stringe a sé, e lui non fa altro che fingere di ridere, di cinguettare, ma le guarda e nei suoi occhi brilla il senso di colpa. Il soldato ride ancora
-Allora, Bill, sono loro le due sporche sovversive? Sono loro quelle che hanno attentato alla vita del nostro beneamato presidente?
Silenzio di tombe, rotto solo dalle lacrime che cadono per terra e dal condizionatore. Capisci che sono in guai inimmaginabili, forse rischiano addirittura la pena di morte, lo senti, è palese. Le vedi, che lo fissano, e gemono il suo nome tra i denti. Lo sguardo della bionda chiede vendetta, quello della rasta chiede giustizia, quello del ragazzo chiede pietà. Chiede pietà mentre sussurra
-Sì, Jostein. Sì, sono loro.
 
-Chess, perché stai facendo quella faccia?
La voce di Alexandria mi risveglia brutalmente dalla perfetta scena da Oscar che mi si stava srotolando nella mente, trascinandomi nuovamente al lurido divano incassato nel nostro triste e squallido appartamento e al poster gigante di Gene Simmons sopra al frigo. Come se qualcuno avesse detto a Lewis Carroll “Lew, tesoro, perché stai scrivendo di un coniglio con l’orologio da taschino?”, o come se qualcuno si fosse permesso di prendere da parte Ernst per dirgli “Ok, Max, come mai fai dei mostriciattoli ermafroditi che piangono?”, ecco, questo strapparmi dal mio film perfetto sarebbe come aver smontato due Grandi della letteratura e della pittura. Non potete permettervi di smontare la prossima Grande Regista Surrealista che riscriverà tutta la storia della cinematografia mondiale, a cui sarà dedicata una stella commemorativa nella Hall of Fame e che tra secoli tutti ricorderanno.
-Stavo pensando a come potrebbe essere fare un film con …
-Ok, basta.- Alex mi fa gli occhiacci, stringendosi l’accappatoio rosa con i teschi rossi che le avevo regalato qualche compleanno fa e che usa solamente perché sa che per comprarglielo avevo dovuto rinunciare a comprarmi una nuova luce per le inquadrature dei miei film. Forse anche lei è umana, in fondo. Ma in fondo, eh. – I tuoi trip mentali non mi interessano, piuttosto, vedi di andare a lavarti che puzzi come un maiale appestato e di vestirti. Tra un po’ abbiamo l’appuntamento con i ragazzi a casa dei gemelli coltelli.
Mentre saltelliamo in bagno, con lei che si trucca il peggio possibile e io che ballo nella doccia al ritmo di qualche canzone dei White Snake, mi affaccio dalla cabina, scuotendo i dreadlocks come un cane e inzuppando la coinquilina di conseguenza
-Senti, tesoro, però … credi che dovremmo fare qualcosa con Bill stasera?
-Qualcosa tipo scoparlo fino a farlo piangere?- la Coinquilina Hannibal continua a truccarsi tranquillamente e approfittando per tirarmi il tubo rosa.
-Dai, non dirlo così male.- la rimprovero, grattandomi il collo – Ero seria, per una volta. Dovremmo …
-Ma certo, oca giuliva!- si gira e mi guarda come fossi scema – Secondo te perché ho accettato di dar retta a te e alla capra bollita? Ben per Bill, no?
-Per un bellissimo momento, avevo sperato che fosse anche perché finalmente avevi compreso la mia arte … - commento ironica, beccandomi un phon in testa.
-La tua non è arte, Chess, è deficienza congenita. E Tom ti può dar la mano. Comunque, sì, certo, hai visto benissimo che anche la Fatina sta cominciando a cedere e noi dobbiamo approfittarne. Mi raccomando, poi – mi guarda fisso, prima di uscire dal bagno ancheggiando vagamente – Vestiti in maniera sgargiante come tuo solito. Dobbiamo dargli alla testa come una droga.
E chissà perché, qualcosa mi dice che non ce la faremo mai.
 
Io e Tom siamo seduti sul divano bianco a leggere insieme una rivista di cinematografia, cercando di ignorare Alexandria che misura a grandi passi il salotto dopo aver rovistato tutta la discografia di casa Kaulitz, e di ignorare pure Georg che dà manforte alla Coinquilina Hannibal, senza contare Gustav che si è paciosamente addormentato sulla poltrona. Quant’è che aspettiamo che Bill sia pronto? Un’ora? Un’ora e mezza? Due ore?
-Ma è affogato nel cesso o cosa? Io ho fame!- sbotta Alex, dando un pugno sul muro. – Tom, non puoi andare a chiamarlo?
-Scusa, Alex, ma non voglio morire così male.- risponde serafico il fratellone – Se vuoi andarci tu, prego, terza porta a sinistra.
-Eh, mi pare un’ottima idea!- trilla Georg – Ragazze, non potete andare voi a chiamarlo? C’è la speranza che non vi tiri dietro un forcone rosa con i brillantini, dopo quello che è successo stamane sono fiducioso per voi!
Beh, considerando che sì, oggi nonostante tutto quello che gli abbiamo fatto non ci ha nemmeno lanciato una maledizione in antico persiano e che avremmo la possibilità mica da ridere di entrare in camera sua …
-Dai, Alex, sto morendo di fame! Andiamo a recuperare la Delfina!
 E senza tanti complimenti, barcollando sui tacchi esagerati dei miei soliti stivali verde acido, la acchiappo e, prima che possa ribattere, la trascino verso lo scalone principesco
-Dico, ma sei scema?!- sibila, mentre saliamo le scale dirette verso la fantomatica terza porta a sinistra – Che cazzo ti viene in mente quando hai fame?!
-E dai, ti ho detto mille volte che se vogliamo Bill delendo est, allora dobbiamo buttarci a fare cazzate simili, tipo questa!- sbotto, sorridendo allegramente.
Me ne frego se alza gli occhi al cielo e mi manda a fanculo tra i denti e la trascino verso la porta bianca da dove provengono delle strilla disperate e degli insulti a una “spazzola che non vuole spazzolare come io comando!”
-Ehm, Bill …? Tutto bene?- chiedo, poggiandomi alla porta. E rotolando miseramente per terra come un sacco di patate nel momento in cui Bill la spalanca urlando isterico e calpestandomi tranquillamente.
-No che non va tutto bene! Sta stronza di una spazzola non sta facendo il suo lavoro! Detrazione dello stipendio! Corte marziale! Vendetta efferata e trasversale! Primogeniti sacrificati! Maledetti bastardi dell’Illinois!
A parte la citazione da Blues Brothers che apprezzo particolarmente, vengo calpestata e tirata su con brutalità dalla mia migliore amica e sbattuta di conseguenza in una camera da letto che dire imperiale è dire poco, con un meraviglioso letto a baldacchino decorato da stucchi bianchi e tende rosa confetto che coprono una meravigliosa trapunta rosa antico con enormi cuscini rosa polvere e adorabili orsacchiotti fucsia e rosa shocking. Il mio paradiso, in poche parole.
-Oh ma che è sta merda?- se ne esce Alex, guardando scioccata la toelette bianca e rosa con gli angioletti rosa geranio che farebbe impazzire tutti.
-E’ il paradiso terrestre … - pigolo io, guardando ammirata l’enorme lampadario rococò rosa pompelmo che sovrasta la camera.
-E’ la mia … sigh … la mia stanza!- piagnucola teatralmente Bill, seduto sull’adorabile sgabello bianco col cuscino rosa pallido a inserti dorati – Ma io … io sono sigh … orribile pettinato così!
Lo guardiamo. Ci guardiamo. Lo guardiamo. E scoppiamo a ridere come due sceme.
-Orribile?! Ma se sei la cosa più bella che si sia mai vista al mondo!- esclamiamo in coro perfetto, fregandocene altamente di sembrare sdolcinate. Io non so dove si veda in disordine, vestito tutto di nero e argento nel modo più sexy e puttanesco possibile e immaginabile, truccato così tanto da essere un pagliaccio e con quei capelli corvini e bianchi lisciati che manco gli spaghetti alla bottarga di Alexandria.
-Dite davvero o lo fate solo perché … sigh … perché avete fame e volete andare a mangiare?- ci guarda con una faccina sperduta.
-Beh, principalmente perché abbiamo fame, ma poi anche perché è vero!- dico io, beccandomi il solito ceffone che incasso in silenzio.
-Forse Chess non ha tutti i torti.- dice Alex, cominciando ad avvicinarsi a lui con una luce maniaca negli occhi che non mi piace, e trascinandomi con lei, io, con la faccia da patata irlandese con zero sensualità – Ma sei davvero, davvero, perfetto …
E lo baciamo di nuovo. Forse un po’ più impacciate, forse un po’ meno alla sprovvista, ma lo baciamo di nuovo, e, sogno dei sogni, apocalisse della apocalissi, la nostra Delfina ricambia il bacio (perché sì, tu, bellissima Delfina, salva la triste Ippolita dalla sua depressione; amala come non ami nemmeno te stessa, tra le coltri leggiadre di un letto bagnato dalla vostra impurità, voi, che solo Dio può vedere e giudicare colpevoli, tu, nel letto di un uomo che non ami a fare tua la fanciulla che ti ha rapito il cuore. Ama la dolce Ippolita, sublime Delfina. Falla tua, davanti a dio e alla società blasfema di una Parigi soffocata dalle impurità). Ci baciamo in  tre, che poi fa pure ridere, ad assaporarci a vicenda le bocche che si divorano come se si conoscessero dalla notte dei tempi, come fossimo una creatura come l’Idra di Lerna, stessa cosa separata e ora finalmente riunita, mentre barcolliamo sul bellissimo letto tutto rosa e ci cadiamo sopra con una finezza unica. Cioè, Bill è fine pure mentre cade sulle coltri e ci infila le mani nei capelli, noi sembriamo due troglodite mentre inciampiamo miseramente su di lui, lo pressiamo come una sardina in scatola e cominciamo a slacciargli la camicia e a baciargli il collo da cigno ma tant’è. Bill striscia verso la testata del letto, e apre le gambe, mentre noi due gli ciondoliamo in braccio e lo fissiamo, occhi neri, marroni e violetti.
-Baciatevi. Per me.- sussurra lui, stringendoci le nuche e facendo cozzare le nostre bocche in un bacio che non è nulla di nuovo, perché io e Alex siamo talmente unite da non avere il minimo problema, o inibizione, a baciarci tranquillamente sotto gli occhioni truccatissimi del nostro fantomatico cantante, prima di scambiarci un’occhiata e cominciare una a baciargli il collo, l’altra a slacciargli la camicia e baciargli lo sterno di conseguenza, sentendo le sue mani lunghe, pallide e flessuose, slacciarci i vestiti e infilarsi sulle nostre pelli, quella di Alex, così pallida e grigiastra e la mia, così lentigginosa, e accarezzarci, toccarci, studiarci. E graffiarci con quelle cazzo di unghie da arpia smaltate di nero e bianco zebrate. È una cosa vagamente saffica, e vagamente perversa, ma è troppo, dannatamente, da film.
-Cosa vuoi che facciamo?- chiediamo io e Alexandria, guardandolo negli occhi e sentendo le sue mani toccarci le pance e stringere la mia ciccia tra le unghie.
-Gloucester, devi buttare giù un po’ di ciccia, lo sai? E tu, Alexandria, dovresti mettere su un po’ di peso, sei ossuta!- Bill ci guarda scuotendo la testa, con aria perfettamente nauseata. E vagamente eccitata e sconcertata quando io comincio a slacciargli i jeans e Alex comincia a spogliarsi completamente del vestito borchiato.
-Ma porca miseria Bill, metterti dei jeans che non siano pelle?- sbuffo io, dando uno strattone troppo forte a sti dannati fuseaux di pelle nera.
-E te metterti dei vestiti umani, Doncaster?- abbaia lui, strappandomi di conseguenza il top azzurro di paillettes.
-E voi due piantarla di scartavetrare i coglioni anche quando si scopa?!- ruggisce Alex, sbattendo il seno in faccia a Bill – Siete impossibili!
-Anche te sei impossibile, drogata di acidità!- ribattiamo noi due, mentre lui comincia a baciarle il davanzale e a levarle il reggiseno e mentre io glielo prendo in bocca senza troppi complimenti.
Wow. Ce l’abbiamo fatta. Stiamo scopando con il nostro sogno. Un punto alla premiata ditta Spiegelmann-Herder, forse questa guerra abbiamo ancora qualche possibilità di vincerla, dopo tutto. Forse proprio schifo non lo facciamo visto che io e la mia collega ci siamo appena scambiate di ruolo e il nostro soggetto si sta dando parecchio da fare a non lasciarci andare, ma anzi, sta guardando piuttosto allegramente me e Alex che ci sbaciucchiamo e ci si sta mettendo pure lui in un intrico di corpi che si baciano, si leccano, si toccano e parlottano inframmezzando il tutto con insulti e gemiti mischiati.
Ora, dico, sarebbe perfetto. Quella scena che se fosse un film fatto bene ora dovrebbe prevedere lui che comincia a scoparsi seriamente una delle due mentre si limona l’altra per poi farle scambiare. O dove le due scopano e lo massacrano, certo. Ma ho detto, se fosse un film fatto bene. Perché proprio nel momento in cui io e Alex gli tiriamo via i boxer e ci leviamo a nostra volta gli slip, si sente la voce di Tom dall’altra parte della porta e due pugni su di essa
-Ehi, ragazze, ci siete tutte e tre? No perché … si sono appena presentati alla porta  due ragazzi e cinque ragazze che sostengono di essere i fratelli di Chess …
Perché questo, ve l’ho detto, è il film surreale che nessuno vorrà mai vedere se non nel piccolo cinema sperduto in un villaggio svedese.

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Capitolo 14
*** E il clan si riunisce ***


Al richiamo selvaggio di qualche rompipalle venuto a rovinare il nostro momento di gloria, tiro un bel ringhio e rotolo abilmente giù dall’enorme materasso, sprofondando in un pacco di cuscini rosa confetto della stessa consistenza di una nuvola di zucchero filato. Blah. Ho avuto brutte esperienze con quell’orrida materia rosa. Filamenti appiccicati ovunque e capelli che battevano la chioma di Chelsea in quanto a orridume, sporcizia ed essenza rosa. Ma non ne parliamo adesso.
-ARGH- la coinquilina Spielberg fa un salto che quasi sbatte la testa sul soffitto, e atterrando si lancia sulla porta bianco-laccata della stanza, e la chiude colpendola con una buona dose di eleganza.
-Heiiiii!- insistono da fuori. –Ma ci siete? Che cavolo state facendo?!
-Mi stanno aiutando con la piastra- lagna Delfina dal mare di chiffon e fronzoli ammassati sul letto, nei quali ha rapidamente sommerso il suo meraviglioso corpo stecchinoso da vampiro anoressico non appena gli sono scivolata di dosso. –Arriviamo subito. Cinque minuti.
Chelsea fa un sospiro che sposta quasi le tende, mentre striscia lentamente sulla parete rosa shocking sbattendo il fondoschiena per terra. Poi si spalma stancamente sul pavimento e inizia una nenia lamentosa elencando tutti i primi e secondi protagonisti di Mean Girls. O qualche commedia simile a Mean Girls.
-Su, coraggio, alzate i vostri culoni pesanti e diamoci una mossa!- esclama Bill, interrompendo Chess su Amanda Seyfried.
Io emergo dalla montagna di cuscini, e borbotto, sputacchiando organza:
-Ma come cavolo hai fatto?
-Eh?-questa è Chelsea.
-Sei già vestito?- la troietta è lì che passeggia sui suoi tacchi 30, tutto perfetto come se fosse appena uscito da una sfilata.
-Uh?
-Stai buona, Chess.
-Guardami in faccia, Canterbury- dice, dopo aver eseguito una magnifica giravolta per girarsi verso di me, puntandomi i suoi occhi cioccolatosi addosso.
-Canterbury è lei- aggiungo io, puntando un pollice verso i rasta di Chess, che nel frattempo ci ha raggiunto.
-…ti sembro uno che ha tempo da perdere a lagnarsi in mezzo ai MIEI cuscini rosa?- finisce imperterrito lui, esibendosi in una fantastica smorfia da io-non-ho-tempo-da-perdere, o forse da che-schifo-stai-toccando-i-miei-cuscini-fantastici.
-Mi sembri UNA che non ha tempo da perdere- replico io, con un sorriso ebete e sfacciato, beccandomi un bel ceffone condito di unghiata sulla guancia destra.
-AHIA- mi lamento, per poi beccarmi un bacio a stampo che sa di fretta e persone che non hanno tempo da perdere.
-Stai zitta- mi sgrida, lanciandomi il mio vestito. Mi prendo una borchia in un occhio. Ahia Parte Seconda. –E mettiti il deodorante!
Chelsea mi lancia uno sguardo che non so se ribolle perché mi sono beccata un bacio gratis o perché in effetti non avevo messo il deodorante; ma poi mi dà una mano ad allacciare lo stupidissimo nastro incrociato che chiude questo stupidissimo vestito inutile.
-Il tuo top- borbotto, alzando con una mano uno straccetto viola e brillantinato che probabilmente appartiene a lei.
-Grazie- borbotta lei di rimando, mentre me lo piglia di mano e tenta di chiudere la cerniera, che prima o poi, tutti lo sappiamo, esploderà sotto a quella quinta abbondante e grazie tante a Tezenis e Victoria Secret.
-Ma tu… - comincia Chess, rivolgendosi a Morticia, seduto davanti ad uno specchio incorniciato, che si sta piastrando i ciuffi.
-Io cosa?- mormora, concentrato. Cavoli, deve esserci abituato alle scopate occasionali. Non sembra per nulla scosso, come se non avesse appena stravolto la sua meravigliosa immagine di assoluto gay passivo con due pseudo-barbone universitarie conosciute a caso ad un’intervista.
-Tu …
In quel momento, proprio in quel momento, la porta si apre di colpo facendoci tutti sussultare, mentre qualcuno dei rompipalle di prima compare urlando qualcosa come “Quanto tempo ci vuole ad armeggiare con quell’arnese infernale?!” .
-TOM!
Bill strilla, con in mano una ciocca di capelli neri bruciati.
-IGNOBILE ESSERE! QUANTE VOLTE TI HO DETTO CHE NON DEVI ENTRARE IN QEUSTO MODO MENTRE MI STO PIASTRANDO I CAPELLI?! SAI COSA SUCCEDE?! CHE MI SPAVENTO! E SE MI SPAVENTO SUSSULTO! E SE SUSSULTO FACCIO UN MOVIMENTO BRUSCO, E MI BRUCIO I CAPELLI! FRATELLO IDIOTA, TROGLODITA E BARBARO!- continua, brandendo il ferro bollente verso il fratello, mentre noi due ci ricomponiamo in quattro e quattr’otto: la sua sa tanto di mossa tattica. Scommetto che quelli che ha in mano non sono nemmeno veri capelli.
Tom apre la bocca per dire qualcosa, ma Delfina lo interrompe subito scattando in piedi. –Comunque ho finito, grazie per l’attenzione. Alexandra, Canterbury, andiamo- abbaia, uscendo dalla stanza a passo di carica. Noi due ci accodiamo dietro di lui, e Tom resta fermo a cercare di decodificare ciò che gli è appena stato detto. Capra bollita ed inutile. 
-Oh, finalmente- sospira Georg non appena giriamo l’angolo, come se fossimo una versione rivisitata a budget estremamente ridotto di un trio di cheerleaders dei film americani per adolescenti, quelli di cui parlava prima Chess. Quelle con il vento artificiale che muove i capelli, anche se siamo al chiuso, riprese dal basso per sembrare più alte.
-Possiamo andare, adesso? Ho fame, io- interviene Winnie The Pooh.
-Perché? Mi aspettavo foste già in macchina!- esclama Morticia, con il lucidalabbra aperto a mezz’aria.
Georg boccheggia qualcosa, mentre Bill si avvia ancheggiando verso l’uscita. –Ah, se devo stare qui ad aspettare voi … su, su! Muovete quei fondoschiena pesanti che le vostre madri hanno avuto la carità di darvi, pelandroni!
#
Quando arriviamo al ristorante, poco dopo, veniamo accolti da uno strillo che probabilmente appartiene ad un’oca selvaggia fuggita dalla cucina del ristorante.
-AAAAAAAAAAAALEEEXX!
Katie Crystal.
-Tesoro, quanto che non ti veeeeeeeeedo! Vieni, vieni qua amore mio- viene verso di me e inizia a strapazzarmi come se fossi il suo pulcino stupido e selvaggio. –Wow, che belle unghie- si meraviglia, mentre inizia a fissare le mie mani assolutamente inguardabili da abusatrice di chitarre. Il fatto non è come può sembrare. Katie Crystal  non mi adora. Mi odia con tutto il suo cuore, e con ogni particella di sé stessa fin dalla notte dei tempi. L’odio è notevolmente incrementato quando, circa quattro anni fa, ho dato fuoco alla sua collezione di pon-pon dorati per farle uno scherzo. Con uno stratagemma degno di C.S.I. sono riuscita a far sembrare il misfatto colpa dei gemelli piromani, così Mamma Spiegelmann ha sgridato loro e non ha creduto a Katie che invece sosteneva di avermi visto benissimo appiccare fuoco ai suoi pon-pon. Quella sera si è arrabbiata talmente tanto con me che ha iniziato a tirarmi dietro tutte le scarpone mega col tacco che aveva nell'armadio. Io correvo per casa ridendo, lei mi tirava dietro le scarpe. Poi, a un certo punto, ho avuto la malaugurata idea di girarmi per controllare se mi stava ancora seguendo, e un plateau rosa pastello mi è arrivato in un occhio, procurandomi un magnifico livido viola, bello visibile da lontano. L’ho costretta a inginocchiarsi ai miei piedi e a fare tutto ciò che le avrei detto di fare per almeno un mese, altrimenti sarei corsa da Mamma Spiege a dire che “Katie Crystal mi ha tirato una scarpa addosso!”. E così, io mi sono presa casualmente un pugno in un occhio ad una rissa di strada e Audrey all’improvviso mi idolatra –era fra gli ‘obblighi eterni’ che le avevo imposto. Adorami come se fossi la tua persona preferita sulla terra, ma a me resta il permesso di maltrattarti. È incredibilmente divertente.
-Dai, dimmi qualcosa- mi fa, mentre mi avvelena con lo sguardo tremendamente viola che si ritrova.
-La tua mamma fuma crack- rispondo io, facendo schioccare la lingua e trattenendo una risata a forza.
-Ehi! Guarda che la sua mamma è anche la mia mamma- se ne esce Chelsea, protestando.
-E anche la mia mamma!- viene fuori un’altra voce, non più maschile di quella di Katie Crystal: ancheggiando come solo le vere troie professioniste sanno fare, agitando il boa di piume verde acido che la sottoscritta aveva regalato ad un Natale di sei anni fa, fa il suo trionfale ingresso Billy Terry,  lagna magistrale della famiglia Spiegelmann nonché primo dei gemelli piromani.
-Se vi ha creato così deve averne fumato davvero parecchio, di crack- commenta un altro, spuntando da dietro il boa di Billy. Rossiccio e nazista, squillano le trombe, generale di brigata dell’esercito dei distruttori sociali di Magdeburgo e dintorni, signore e signori ecco a voi, il grande Cooper Carter. Attualmente il mio migliore amico nella famiglia degli irlandesi, Chelsea esclusa ovviamente.
-Spiegelmann!- esclamo, e quattro teste si girano verso di me. –Quanto tempo che non ti vedevo! Quanto odio hai sparso in giro per la landa desolata che ha la sfiga di sostenerci, vecchio mio?
-Herder! Quanto basta per sterminare la colonia di coniglietti che avevano fatto la tana in giardino, mia cara. Ho usato il lanciafiamme come avevi suggerito, ma ho dovuto apportare qualche modifica … ampliando il raggio d’azione, ho terminato il lavoretto velocemente e ho pure eliminato qualche nutria- dice, tirandomi qualche pacca sulle spalle, io ricambio.
-E hai quasi incendiato il frutteto … - interviene Billy Terry, deluso perché suo fratello gli ha rovinato l’entrata trionfale. –Insomma. Non ci hai nemmeno invitato. Ti sei tenuto tutto il divertimento- si lamenta, mentre l’inquietante testa verde di Charity Rebecca, comparsa per magia, annuisce, con il broncio.
-Certo. E poi avreste eliminato tutte le mie piantagioni di muschio bianco. Avete idea di quanta fatica abbia fatto per ampliarle?! E voi piromani del cavolo sareste venuti a bruciarmele come se fosse divertente. Sapete quanti boschi spariscono annualmente per colpa di quelli come voi? Eh? Lo sapete? Vi piacerebbe essere al posto degli alberi? Quanti chilometri di pteridophyta viene annullata per il vostro divertimento? Eh?!
-Avery Aubrey, non scassare le palle. E usa un linguaggio umano, nessuno ha idea di cosa sia la pteridophyta.
-La felce, porco piromane, la felce- Avery se ne va sbraitando, mentre Bill arriva dietro di noi.
- Ci vogliamo muovere?
-Concordo! Ho fame.
Ci avviamo verso il portone d’ingresso, una vetrata gigantesca e così schifosamente lucida.
-Wow, cos’è questa roba?- fa qualcuno, mentre entriamo nella mega sala del mega ristorante per mega ricconi (ah, specifichiamo. Pagano quelli con i soldi).
-Scusa, Chess- fa Georg, avvicinandosi a noi. –Ma chi erano tutti quelli là fuori? Sai, quello con la sciarpa verde, la tipa con i capelli neri …
-Sono i miei fratelli!- esclama felicemente Chelsea. –Ci avevano invitato fuori a cena, ma siccome eravamo impegnate con voi … abbiamo deciso di fare di tutto un pezzo!- conclude, piazzandosi davanti ad un’enorme tavolata circolare, per tre quarti occupata dai più disparati elementi umani, più comunemente conosciuti come …
-Signori, i sette fratelli della famiglia Spiegelmann!- annuncia, e i sette elementi umani condiscono l’affermazione iniziando a fare un gran casino, sbattendo le posate sul tavolo e urlando parole in dialetti irlandesi sconosciuti ai più disparati dizionari. Stile sagra paesana alla festa di San Patrizio.
I ragazzi sono dietro di noi. E … beh, Gustav sta fregando i grissini dal tavolo a destra, Georg sta fissando perplesso Cooper Carter che costruisce una torre impilando coltelli, Tom sta esaminando la superficie lucida della bolla di chewing-gum che sta gonfiando Katie Crystal, e Bill … Bill credo stia svenendo.
-Aaaagh- esala, prima di afflosciarsi su sé stesso.
-Bill!- strilla Tom, gettandosi a mò di portiere sotto di lui. –Bill? Bill! Hey, ci sei? Coco Chanel, Gucci, Pandora, Vitton, Swarovski; saldi da Guess, 50% di sconto da Essence, il tuo armadio sta andando a fuoco, la tua collezione di lucidalabbra al mirtillo sta autocombustendo … - elenca, sventolandogli un bigliettone da 500 sotto il nasino perfetto.
-Alexandria si è impossessata dei tuoi stivali- urla Chelsea, sbucando da sotto il braccio di Tom. E in men che non si dica il fascinoso moretto apre gli occhioni, e fulmini e saette si distribuiscono abbondantemente per la sala.
-Lei COSA?
Mi riparo immediatamente dietro ad una sedia infiocchettata, precisamente sotto alla torre di coltellini da dolce che ha costruito Cooper Carter sul tavolo.
-Che succede alla ragazza?- mi chiede l’amico naziskin, infilandosi sotto la tovaglia.
-Ascoltami attentamente, generale Spiegelmann- comincio, sbirciando la situazione. –Non è una ragazza. Si chiama Bill Kaulitz. Voce e frontman dei Tokio Hotel- Morticia è definitivamente rinvenuto e credo mi stia cercando. –La missione è riservata, ma ti basti sapere che è estremamente pericoloso e suscettibile. È come una mega mina antiuomo che scatta con il soffio del vento.
-Di che esplosione stiamo parlando?- bisbiglia, serio.
-Grado elevato. Molto elevato. Non misurabile nella scala predefinita. Meglio di tutto evitare il contatto.
-Ricevuto. Come mi devo comportare?
-Estremamente gentiluomo- affermo, prima di sgusciare da sotto la tovaglia ricamata, rotolare dietro ad un’altra sedia e infine appiattirmi dietro a Chelsea, che gli sta spiegando che non mi sono veramente impossessata dei suoi stivali.
-Uh, certo. Scusate, ragazze. I mancamenti. Mi capita- si scusa, facendosi aria con il cinquecentone di prima.
-Beh, dicevo … - riprende Chelsea. –Vi presento la mia sterminata ciurma di fratelli! In senso orario a ore dodici, Avery Aubrey, Katie Crystal, Charity Rebecca, Billy Terry, Madison Hope- si fa un po’ fatica a distinguere Madison, interamente vestita in color panna, di un colorito cadaverico e con un cappellino bianco dal rivestimento perla della sedia. Credo che se a qualcuno che porta gli occhiali li togliessimo, e gli chiedessimo di individuare Madison Hope seduta in quella sedia, non la vedrebbe. Il fatto è che quella ragazza, oltre a possedere la capacità di mimetizzarsi e rimanere perfettamente immobile anche nelle pose più assurde per tempi prolungati, è tremendamente inquietante. Il primo ricordo che ho impresso nella memoria di Madison Hope è una figura filiforme in tutù nero che volteggia per casa sorridendo in modo inquietante, con i suoi grossi occhi viola cupo circondati da profonde occhiaie dello stesso colore fissi nei miei. E quello più recente che ho, esclusa questa sera, è, per l’appunto, Madison Hope nel suo tutù nero che danza per casa fissandomi in un modo che farebbe striminzire le budella a Stalin. Insomma, le abitudini di questa donna non sono cambiate parecchio. Credo che la prima frase di senso compiuto che sia uscita da quella bocca rossa e tirata sia stata qualcosa come “Con un bel grand battemens potrei rompere la testa a Billy Terry”. Ridendo, ovviamente. Madison Hope è pazza. Pazza, completamente inquietante, e non sono mai troppe le volte in cui usi quest’aggettivo riferendoti a lei. Ha pure lo stesso nome di un personaggio di Beautiful. Ditemi voi cosa c’è di più spaventoso di una ballerina matta che si chiama come la bionda di Beautiful. Brrr. –Charlotte Chanel- continua Chess, indicando una minuscola chioma di boccoli biondi talmente perfetti da sembrare finti, da cui spuntano due grandi occhi azzurro cielo. Charlotte ha qualcosa come tredici anni, o forse quattordici. È la più piccola di casa Spiegelmann, ed è praticamente una bambola. Ma proprio una bambola. Una di quelle cinesi, di ceramica che ti fissano da sopra i mobili polverosi delle case delle vecchie zie. Certo, non supera Madison in quanto ad inquietudine, ma insomma. Però, lei ha un grosso lato positivo: è una calcolatrice. Una mini-calcolatrice con i boccoli biondi. La richiedevamo presente ogni volta che la perfida professoressa di matematica ci mollava qualcuno dei suoi malvagi problemi. ‘Charlotte, quanto fa 182.235 sotto radice?’ ‘Fa 13.5 approssimato per eccesso. Credo abbiate sbagliato qualcosa’ a cui seguivano una bella trafila di insulti e porconi ben fantasiosi, fra cui anche qualche ‘grazie’ alla piccola Charlotte Chanel, che nel frattempo se ne stava lì a giocare con le radici cubiche dei coseni. –E infine, Cooper Carter- termina il giro indicando l’amico naziskin, che alza una mano facendo un cenno della testa. Di solito saluta con il braccio sinistro alzato, per tener fede al suo essere nazista convinto, ma siccome gli ho detto di fare il gentiluomo ha alzato una mano da persona normale. Vorrei parlare di quanto fosse divertente andare a disegnare le svastiche sulle lavagne durante la ricreazione, alle elementari, per poi scatenare il panico fra le maestre e costringere la scuola a dieci ‘mea culpa’ con prostrazione. La preside era una rossa convinta. Avevamo pure una bandiera dell’Unione Sovietica appesa in atrio. Non condivido tutto l’odio naziskin di cui è splendidamente dotato Cooper, ma ogni santa mattina mi chiedevo che cosa cavolo c’entrassero i russi.
-Ah. Dunque … questi sarebbero … i tuoi fratelli?- chiede cauto Bill.
-Che c’è bambola, ti facciamo tanto schifo?- chiede Katie Crystal, che con gli altri non è obbligata ad essere gentile.
-Katie, rimanda le tue paturnie di orgoglio cheerleader a più tardi. Siamo stati invitati, ricordatelo- la rimprovera Chess, prendendo posto in una delle sedie vuote.
Katie sbuffa, io mi stravacco due sedie dopo Chelsea. –Significa che pagano loro,  Crystal- le ricordo. –Quindi non devi sborsare money dalla tua ‘cassa scarpe’. Dovresti essere contenta- dico, ridendo sotto i baffi.
Lei mi fa la linguaccia, che è il massimo gestaccio che le ho concesso, poi mi ignora e torna a gonfiare la sua bolla.
Intanto anche gli altri tre si siedono, Gustav vicino a me perché siamo di fronte al porta grissini, Tom in parte a lui e Georg ancora di fianco, vicino ad Aubrey che lo squadra dal basso verso l’alto per cercare di capire se possa costituire una minaccia per le specie protette di felci da giardino.
-Uhm- mugugna, dopo un po’ che lo fissa. –E così … tu saresti in una band?- gli chiede, come chiederebbe ad un fioraio se quello che le ha dato è veramente un germoglio di cavolfiore e lei conoscesse già la risposta.
-Uhmm- fa Georg, perplesso. –Sì- che suona più ‘sì?’ che ‘sì’, però Aubrey fa quell’effetto. Lei fa un altro ‘uhm’, poi scrive due appunti sul block notes con le foglie secche che le abbiamo regalato il Natale scorso. Le ho incollate io, quelle dannate foglie che non facevano altro che staccarsi di continuo.
-Beh- esordisce Chelsea, rivolgendosi a nessuno in particolare. –Sapete? Finalmente gireremo un film!- esclama tutta gasata. Posso vedere le stelline al posto dei suoi occhi.
-Cheslea Sienna, è la quindicesima volta nei tuoi vent’anni di vita che inizi una conversazione con ‘finalmente gireremo un film’- commenta Charity Rebecca da dietro la coltre di capelli verde palude. Sembra un mostro del mare da horror scadente. Con gli occhi viola che ribollono dietro le alghe.
-No, al pranzo di San Patrizio di tre anni fa il soggetto era ‘io’, non ‘noi’- interviene Charlotte Chanel, sfarfallando le ciglia chiare. 
-Infatti. E sentiamo, quale sarebbe la trama questa volta?- chiede una curiosissima Madison, piantando (lo fa apposta, lo so, lei mi prende di mira) i suoi grossi occhi folli in quelli della sottoscritta, che puntualmente si nasconde dietro ad un bicchiere d’acqua. Trasparente, e quindi ci vediamo lo stesso, ma ogni opzione è buona.
-La dico io, la dico io!!!- strilla Tom eccitatissimo, scattando in piedi e sbattendo le mani sul tavolo. Prende fiato, come fanno i bambini di sette anni prima di recitare le poesie. –Allora, i protagonisti sono …
-Tooom!
-Sì, esatto, siamo io e …
-TOOOOOOOOOOOMM!
-No, no, io e Chelsea!- protesta, girandosi verso la provenienza della voce che lo interrompeva.
-TOOOOOOOM, IDIOTA CEREBROLESO, STACCAMI QUESTI COSI DI DOSSO!- solo allora ci accorgiamo di Bill, prigioniero fra i gemelli piromani, che gli stanno pichignando tutte le collane.
-Billy Terry! Leva le tue manacce dal mio fid-ERHM, da Bill!- grida Chelsea, fulminando il fratello minore, mentre i dread rosa si agitano frenetici.
Bill ci lancia uno sguardo interrogativo, che forse non è poi così interrogativo, ma poi giunge la cavalleria (Tom) che lo sottrae alle grinfie dei malvagi gemelli.
-Urhm- commenta, spazzolandosi i leggins di pelle. –Voi irlandesi siete … strani- condisce l’aggettivo con un’occhiata a Chelsea, che non si scioglie solo perché ci sono io a tirarle pizzicotti. In compenso, però, inizia ad agitarsi sulla sedia e i dread sono ancora più frenetici. Mi chiedo se ‘strani’ sia un grosso complimento.
… beh, a giudicare dai gusti della Delfina, probabilmente sì.
-Dicevo- riprende Tom, mentre Bill si avvicina alla nostra porzione di tavolo ancheggiando. –Che i protagonisti, interpretati da me e Chelsea, sono due mercenari americani che ricevono il compito di uccidere il capo della STASI, un tizio molto importante interpretato da Gustav- gira un pollice verso Winnie The Pooh, che sta fregando i grissini a Georg, intento a cercare di fare conversazione con Aubrey, che ogni due parole interrompe con un ‘Uhmm…’ e scrive qualcosa sui suoi appunti. Dio solo sa cos’ha nella testa. Foreste pluviali. Concordo con il discorso della mamma che fumava crack.
-…e niente, insomma, per la strada incontrano un tassista kazako in fuga dal suo paese, Abrhmud o qualcosa del genere, che sarà interpretato da Georg- indica il bassista, che però non si gira. Bill squadra il tavolo alla ricerca dell’unico posto libero rimasto, che dovrebbe teoricamente essere il suo. -…che aiuterà i due mettendo a disposizione tutte le sue capacità segrete di spia. Tutto bene finché non capita Alexandria, che interpreterà una giornalista politica inglese, che ha scoperto tutto il piano che i due stavano architettando, e minaccia di spifferare tutto al mondo intero. E poi ci sono vari intrighi … - Morticia si accorge che l’unico posto libero è fra me e Chelsea. Noi giriamo all’unisono la testa verso di lui, e guardandolo con occhiate ambigue, battiamo con la mano il posticino che gli abbiamo personalmente assegnato. Lui, prima ci incenerisce con lo sguardo, poi si da un’occhiata intorno, passa una mano fra i capelli, e infine si siede.
Ka-boomm, vittoria per Herder-Spiegelmann. La corazzata procede vincente.
-…c’è Bill, che farà l’amante del capo, e poi interverranno tutte le bande criminali di Berlino … a proposito, proprio per questo avevamo pensato a voi…
Un’enorme punto interrogativo compare in centro tavola mentre tutti girano lo sguardo verso il chitarrista.
-Chi sarebbe disponibile per una parte nel prossimo successo di Hollywood?
#
Una colonna di camerieri pieni di piatti di spaghetti alla carbonara è appena passata a portare cibo al tavolo degli elementi umani ambigui, ovvero, noi.
-Allora, vi spiego- inizia Tom, mentre arrotola una forchettata di spaghetti. –La scena iniziale sarà girata nell’appartamento delle ragazze: lo ri-arrederemo e aggiungeremo alcuni dettagli per farlo sembrare l’alloggio provvisorio di due gangster. Le armi ce le siamo procurate stamattina- infila in bocca la forchettata. –Ad un negozio di softair in fallimento, ce le hanno praticamente regalate.
-Ho una domanda!- strilla Billy Terry, alzando una mano, con la conseguenza che la sua forchetta ha fatto un volo distribuendo carbonara in giro, il boa di piume ha seguito la carbonara in volo ricadendogli in testa e Charity Rebecca si è presa un’unghiata. –Cos’è il softair?
-E’ un gioco in cui si fa finta di far guerra sparandosi con armi a pallini- spiega annoiata Aubrey, tirando un grumo di uova strapazzate a Georg mentre gesticola con la forchetta. –E per farlo si va nei boschi, o nei campi, calpestando un sacco di muschi e piante di sottobosco rari e in via d’estinzione. Per non parlare di tutti gli alberi che si rovinano, con tutte le pallinate- termina, chiudendosi la bocca con uno spaghetto. Grazie, Aubrey.
-Ok. Ricevuto- Billy si risiede, tornando buono alla sua pasta con la forchetta rubata a sua sorella.
-Ci sono altre domande?- chiede Tom, indicandoci tutti con un grissino; e vedendo che nessuno sembra fare obiezioni, se ne sgranocchia la punta e prosegue. –Perfetto. Dicevo … nella scena iniziale avremo bisogno di un cameraman che sostituisca Chelsea, che sarà occupata a recitare. Durerà più o meno due minuti, quindi non ci saranno grossi problemi … qualcuno si offre?
Il vociare nella sala è piuttosto forte, quindi copre il rumore dei grilli in lontananza.
-O…ok. Chess? Che proponi?
Lei alza la forchetta, spargendo carbonara in giro (sarà una delle numerose doti di famiglia), e indica Katie Crystal, che sta alternando un boccone di pasta a una bolla di chewing-gum. Dio, Kurt Cobain e Jimi Hendrix. Che schifo.
-Katie ha la mano ferma. Propongo per lei.
-Qualcuno ha qualcosa da ridire?- chiede di nuovo Tom.
-IO! Non voglio girare il vostro stupido film- urla Katie Crystal dalla sua posa stravaccata sulla sedia.
-Beh, lo farai comunque. Io sono la regista, io decido. Passiamo alla prossima scena …
Tom estrae un piccolo block notes stropicciato, e sfoglia qualche pagina. –Uhm…- fa scorrere il dito sulle righe, poi si ferma. –I mercenari prendono il volo da New York. Qui ci servirà un ambiente che sembri abbastanza l’interno di un aereo. Oppure giriamo di nascosto in un vero aereo. Ma la seconda opzione è piuttosto rischiosa …
-Metto a disposizione il jet privato- fa Bill, sbattendo (con delicatezza) un biglietto sul tavolo.
Io e Chess ci sporgiamo a dare un’occhiata. È una foto, un aereo piuttosto piccolo per essere pubblico ma piuttosto grosso per essere privato. Wow.
-Ah … ehm … wow. È vero, non ci avevo pensato- ammette Tom, impallidendo.
-Il jet è MIO, me l’ha regalato Fred al mio ventesimo compleanno- ringhia Bill. Potrei giurare di aver sentito ‘giusto due mesi prima di scaricarmi’. –Quindi è abbastanza ovvio che non ve l’avrei lasciato prendere senza il mio permesso.
-Il tuo compleanno è anche il mio!- protesta Tom.
-Sì, ma il regalo e l’ex sono miei e non tuoi. Sbaglio?
-Non sbagli- borbotta Tom, tornando mogio mogio al suo posto. –Comunque- riprende. –In questo caso dovremmo cambiare qualcosa … i due gangster non prendono più l’aereo, ma un jet privato … quindi, o dispongono di un bel capitale … ma no, non si farebbero vedere così tanto.
Il chitarrista rimugina, rigirando la pasta con la penna. Vorrei avvertirlo che non ha in mano proprio una forchetta, però è esilarante e quindi me ne sto zitta a guardarlo.
-Uhm- mugugna, imboccando un rotolo di spaghetti mezzi neri d’inchiostro.
-Beh, potrebbe essere il jet dei boss criminali che li hanno assoldati! Durante il viaggio potrebbero intrattenere una conversazione sugli accordi … sai, i soldi, l’obiettivo … quelle cose lì, da gangster- interviene Charlotte Chanel, sfarfallando i suoi occhioni da calcolatrice.
-Ottima idea, Charlotte!- esclama Chess. –Cooper Carter potrebbe fare la parte del boss. E alla fine … - in preda alla crisi mistica registica, si alza di colpo, facendo cadere bicchiere, forchetta, bicchiere di Bill e bottiglia del vino rosso, macchiando la splendida tovaglia bianca ricamata. Poi inizia a gesticolare come se fosse nella scena. –I tre smontano dall’aereo, assieme alla scorta … e il boss fa uccidere il pilota, ANZI, NO, lo uccide lui stesso con un colpo della sua magnum d’oro bianco, così, con un colpo obliquo … -si piega rimanendo miracolosamente in equilibrio sui tacchi verde acceso. Poi punta le dita a pistola verso di me, mi guarda ma non mi vede, credo stia immaginando la scena. –Sì, sì. Mi piace. Non ci devono essere testimoni, oltre alla fidatissima scorta … sì, sì!- esulta, lasciandosi cadere sulla sedia, e insudiciandosi i pantaloncini con il vino rovesciato sulla sedia. Poi festeggia la sua geniale idea con una forchettata di carbonara, usando la forchetta di Bill (altra dote di famiglia?). –Ottima idea. Davvero ottima. Tom, scrivi. Cooper Carter è il boss. Il pilota sarà …
-Mick Mervein- suggerisco io, la testa appoggiata alla mano, mentre rigiro la pasta. –L’amico di Booze. Quello che cazzeggia con i simulatori di volo- Booze è uno della compagnia dei nerd, per intenderci. E Mick è il suo amico scemo di cui parla sempre, dal padre riccone e pilota di linea, che passa la sua vita inutile a giocare con i simulatori del papà. –Secondo me, se gli diciamo che finirà in un film, accetta.
-Ottimo! Tom scrivi. Mick Mervein=pilota. La scorta? …
-I ragazzi della squadra di basket. Ne bastano un paio. Due belli grossi- dico, continuando a rigirare la pasta. Guardare Tom che riempiva il piatto d’inchiostro è stato divertente, ma ora mi ha fatto passare la fame. Piuttosto aspetto la prossima portata. Spero in una bella bistecca al sangue.
-Perfetto, perfetto. Hai segnato?- Tom annuisce energicamente, mentre scribacchia dondolando sulla sedia.
-Ah, sarà un successo, lo so! Sarà un successo, un successo!- ripete ‘un successo’ una quindicina di volte, mentre saltella sulla sedia facendo sobbalzare di continuo il tavolo. Bill è impassibile, anzi, forse sta anche sorridendo. Non so se sia per circostanza o perché è veramente felice perché il nostro progetto sta decollando. Forse. Ma credo che sia la seconda opzione. Ad un certo punto il suo quasi-sorriso si accartoccia in una smorfia seccata, mentre arrotola una forchettata di pasta con la posata fregata alla sottoscritta (effetto domino, neh?). Chelsea sta continuando a saltellare sul posto, e per poco il suo bicchiere non si rovescia di nuovo. Ad un certo punto getta la forchetta, sbuffa e le prende le guancie con le sue mani ingioiellate, in un modo che potrei benissimo definire violento, lei si ferma per un nanosecondo e lui sfrutta l’attimo per stamparle un’impronta di rossetto nero sulle labbra grosse e lentigginose.
Poi si lascia cadere all’indietro sulla sedia, e appoggia un braccio allo schienale in una posa così assolutamente puttanesca che posso sentire tutti gli ormoni dei presenti iniziare a circolare come i pazzi quando si aprono le porte del manicomio. Chelsea rimane immobile, paralizzata, con le labbra pastrocchiate di nero vagamente curvate all’insù e due segni rossi sulle guancie.
-Oh, finalmente stai ferma.

Hey NevadaBoys&CaliforniaGurls. *make America punk again* Come state? In piedi o seduti? :D Beh, in ogni caso speriamo abbiate apprezzato ancora una volta i nostri sforzi di scrittrici da strapazzo *Charlie arriva e mi bastona* e che lascerete un commentino. -^^-                   The Two Of Us Love You All! 8) con baci e Beatles. :****      Noi <3

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Capitolo 15
*** A cena con gli Spiegelmann ***


CAPITOLO QUINDICI: A CENA CON GLI SPIEGELMANN

In questo momento, sto volando. Sì, esattamente, sono sollevata ad almeno quindici metri da terra, il sapore dolciastro delle labbra di Bill sulla bocca, il suo profumo di fumo e di Chanel che mi invade le narici, lo sconcerto che mi ottenebra il cervello. Non riesco nemmeno a concepire che Bill mi abbia appena baciato davanti a tutti, rinunciando alla solita aura da Cthulu che solitamente irradia tutt’attorno a sé. Sono qui, impalata come una perfetta deficiente, a guardare boccheggiando la Delfina che si è tranquillamente riseduta al suo posto, lisciandosi i capelli già perfettamente lisci. È … irrazionale, perfettamente, dannatamente illogico tutto ciò. È un po’ come se Anastasija fosse scappata con il protagonista delle Notti Bianche, rinunciando a tutto e distruggendo di conseguenza il castello di sogni di lui. È come se Margherita non si fosse cosparsa della crema miracolosa e non avesse accettato le cure di Mefistofele, spegnendo sul nascere tutto l’incubo di cui Mosca rimase vittima. È come se D’Artagnan fosse stato innamorato di Aramis e non avesse minimamente considerato quella deficiente di Milady. È come se Tonio Kroger avesse conquistato la ragazza dei suoi sogni, come se Montale non avesse scritto del male di vivere, come se Jane Eyre avesse piantato il suo lord e fosse partita. Qualcosa di completamente fuori da ogni grazia divina, e io mi sento esattamente in questa situazione, tutte quelle poche basi sciolte e massacrate in un secondo di durata di un bacio a stampo e del suo “Così stai ferma”. Ma che mi abbia detto questo, o che mi abbia detto “Qual è stato l’inverno del nostro scontento”, a me non interessa. È bastato questo, come poteva bastare a Rimbaud un briciolo dell’amore di Verlaine, come poteva Enrichetta Blondel consolare Manzoni, come poteva la mendicante dai capelli rossi placare l’animo tempestoso di Baudelaire. Un singolo bacio per rimproverarmi, una spennellata di rossetto di traverso sulle mie labbra, un semplice gesto completamente gratis tirato fuori dal nulla come il trucco di un prestigiatore. L’incantamento rapido come una freccia di Robin Hood, il mio personale Peter Pan che mi vuole trasportare verso …
-Toglimi le mani di dosso!
L’urlo di Tom mi fa violentemente precipitare nella sala del ristorante, sotto lo sguardo divertito di Alexandria, e fortunatamente distrae tutta la tavolata dalla scena piuttosto scabrosa che ha appena avuto atto. Stop, si rifà. Aggiusta un po’ quelle luci, dannazione e vedete di far apparire il fumo prima!
Mi giro insieme a tutti gli altri verso il mio fratellone, risedendomi al mio posto con aria il più casuale possibile, come se nessun cantante di fama mondiale mi avesse appena baciato. Sì, mi risiedo per rialzarmi subito dopo e slanciarmi bestemmiando verso quella cazzo di troia di Billy Terry che, porcaccia la miseriaccia avrei dovuto prevederlo, è scivolato non visto da Tom e gli si è seduto in braccio infilandogli quelle mani demoniache sotto la maglietta.
-Billy Terry, don’t touch him!- urlo io, mentre Alexandria alza gli occhi al cielo e Cooper Carter lo afferra per la collottola ruggendogli qualcosa in gaelico. In casa Spiegelmann, Alexandria può confermarlo, si hanno tre livelli base di gravità della situazione: quando parliamo in tedesco, allora va tutto bene e non ci sono problemi apocalittici in atto; quando si passa all’inglese allora cominciamo a peggiorare, non c’è più quella soffice pace e affettuosità che vi era prima; quando poi si passa al gaelico stretto significa che si sta per scatenare una nuova apocalisse zombie. Bene, quando Cooper Carter ruggisce in gaelico, possiamo aspettarci un pestaggio coi fiocchi e i controfiocchi e dunque conseguente cacciata dal ristorante. Certo, se non dovesse combattere con quelle unghiate che solo Terry riesce a dare, che forse possono competere solo con Bill, e che di conseguenza accecano momentaneamente Cooper
-Tesoro, hai dei muscoli sinceramente fa-vo-lo-si.- miagola il bastardo, appendendosi al braccio del povero Tom, accarezzandogli il petto con la sua faccia tipo del “Voglio scoparti. Ora. Subito.”; sfortunatamente per noi e per tutti i nostri amici maschi guardabili, esiste Billy Terry e la sua ninfomania acuta, la sua perversione del voler andare a letto con qualunque essere umano di sesso maschile nel giro di un miglio, i suoi discorsi sempre a doppio senso e la sua magistrale laurea in porcate di ogni genere e natura. Mi chiedo ancora come mai non è finito a fare la ballerina di lap-dance in qualche locale di dubbio gusto berlinese.
-Ah, ehm, grazie.- pigola Tom, guardando terrorizzato gli occhi troppo viola di mio fratello e squadrando il suo trucco da battona. – E’ solo che … assomigli molto a mio fratello. Da piccolo. Siete tipo identici.
Solo ora realizzo che in effetti, Bill e Billy Terry si assomigliano in maniera vagamente inquietante, entrambi troppo effeminati, truccati, vestiti come due fanciulle dai più che facili costumi, i capelli corvini di mio fratello esattamente uguali al taglio che aveva il nostro fidanzato, o meglio, Bill, quando avevano girato quella cavolo di “Durch Den Monsun”. Ecco, se Tom è inquietato dalla versione irlandese di suo fratello che cerca di toccargli i pettorali, credo di poterlo capire.  Ora mi aspetto che Bill si alzi a falciare la testa di Tom per averlo abbassato al lurido livello di Terry, o perlomeno che sbuffi con quella sua aria viziosamente annoiata qualche salace insulto a quel cavolo di boa di piume verde acido. Ma siccome qui siamo sul set di un film surrealista che ha come scopo primo quello di stupire gli spettatori e ribaltare con violenza e un pizzico di malizia tutte le loro supposizioni ardite, ecco qui che la Delfina si limita a sfarfallare gli occhioni, ad atteggiare la boccuccia in una smorfietta da diva annoiata e a cinguettare
-Comunque, stella, fattelo dire, hai una mise davvero deliziosa.
Io e Alex ci scambiamo un’occhiata interrogativa. Cioè, la prima volta che ci ha invitate a cena ci ha dato del pappagallo e della troia e a lui no?
-Anche tu, tesoro, quello smalto è davvero a-do-ra-bi-le.- squittisce Terry, sbattendo le ciglia incrostate di mascara scadente, decidendosi a mollare il povero Tom.
-Certo che dover sopportare una sorella e una sorellastra del genere deve essere stato un vero incubo, caro.- Bill lancia un’occhiata bruciante ma inconsapevolmente complice a noi due, che ci limitiamo a boccheggiare. Poi guarda mio fratello con aria sinceramente dispiaciuta e affettata.
-Non dirmelo nemmeno, splendore, non sai come mi si riducevano i capelli la sera dopo essere stato a contatto con quei due pappagalli incatramati abbandonati su Achill Island.- Billy Terry fa la sua smorfia svenevole che solitamente fa svenire qualunque uomo con altre tendenze nel giro di un miglio. Ma, aspetta, non è lo stesso epiteto che ci ha affibbiato Bill?! Non sapevo esistesse un codice cifrato per le checche isteriche.
-Ti credo sulla parola, amore, quelle due lì sono stressanti, mi fan venire le doppie punte solo a pensarci.- Bill mugola, lanciandomi un’occhiataccia – Su, Stratford-Upon-Avon, alzati. Voglio che il tuo adorabile fratello mi si sieda vicino.
Schiocca le dita, mentre io strillo
-Cosa?! Ma te scherzi, Bill! Non mi farai alzare di qua, non dopo il bacio, non dopo che io e Alex ti abbiamo …
Un tacco infilato dritto nel piede mi fa urlare di dolore e tacere, mentre Terry mi tira in piedi e sibila
-Chelsea Sienna, sei in-fan-ti-le. Sono tuo fratello maggiore, dunque, decido io cosa fare e non mi sembra che il tuo semplicemente splen-di-do amico abbia voglia di sopportare la tua ciccia lentigginosa. Slog-gia. O lo dico alla mamma.
-Appunto! Devi dimagrire e sloggiare, tesoro mio. Sono sicuro che diventeremo migliori amici in un battibaleno.- la Delfina rivolge al mio odiatissimo fratello il primo, vero, sincero sorriso da quando lo conosciamo.
Osservo tristemente Bill e Billy Terry che si accoccolano uno accanto all’altro, immediatamente persi in una dimensione di letti rosa, uomini coi muscoli al posto giusto, smalti all’ultima moda e skinny di pelle rosso fuoco, come due perfette quindicenni isteriche, chiudendosi a guscio in una loro dimensione assolutamente gay, dimenticandosi di essere in un ristorante di lusso e teletrasportandosi nel loro mondo fatto di glitter e risatine isteriche.
-Dai, Chess, andiamo là.- Alexandria mi ha appena preso per il polso trascinandomi nei posti dei gemelli, osservando rabbiosa Billy Terry che si è impossessato di Bill e Charity Rebecca che si è impadronita del posto della Coinquilina Hannibal, con quei suoi occhi violetti circondati da trucco e occhiaie fissi sul povero Tom. Sì, che le guarda il davanzale. Wow, devo ricordarmi di metterlo in guardia da Charity Sono Un Fottuto Demonio Rebecca e dal suo apparente sex appeal fatto di capelli verde mare, trucco dark e davanzale trasbordante come il mio, corredato di guanti a rete strappati, anello al naso e sigaretta lunga magistralmente tenuta tra le dita inanellate. Perché lei è quello che si dice una vera lamia. Ricordo più che chiaramente qualche anno fa quando aveva fregato il ragazzo a Avery Aubrey, evidentemente stufo di sorbirsi una ragazza casa-chiesa-piante carnivore, utilizzando me ed Alex come pali che dovevano stare davanti alla porta della camera dei gemelli a controllare che nessuno degli altri fratelli entrasse. Avevamo atteso diligentemente che finissero di consumare una bella scopata, impegnate a truccarci a vicenda e a commentare amabilmente Sandinista! quando la porta si era spalancata, buttando all’aria la sottoscritta, e ne era uscito fuori di corsa il poveretto, nudo come un pesce, la schiena inquietantemente ricoperta di disegni satanici e mia sorella dietro che strillava “Vieni qui, Rolf, ti prego, dobbiamo finire il rito per evocare Pazuzu!”. A parte il fatto che Rolf in casa Spiegelmann non si era più visto, da quel giorno in poi io e Alexandria avevamo cominciato una vera e propria crociata per salvaguardare i ragazzi dalle grinfie perverse di Charity Rebecca. Ecco, non posso categoricamente permettere che il mio povero Tom venga riutilizzato da quella strega emo per fare i suoi rituali satanisti, ecco.
-Cazzo, Alex!- sibilo, tirandomela vicino – Dobbiamo proteggere Tom da Charity! Non posso lasciare che …
-E non fare cadere Bill nella rete di Terry.- mi interrompe lei, ringhiando, occhieggiando con una furia pericolosa le manine di mio fratello maggiore saettare a stringersi attorno ai braccialetti di Bill. Lo sapevo che era una fregatura.
-E pure salvare Georg da Aubrey … - le indico terrorizzata quel demonio di mia sorella continuare a mitragliare il bassista di domande (che poi, io le so le sue domande “Che tipo di carta igienica usi? E’ importante per gli alberi!” “Come ti comporteresti di fronte a un tornado: salveresti te stesso o un cactus rarissimo?”) e le annota sul suo orribile quadernino fatto di foglie che gli aveva confezionato Alex, siccome io ero troppo devastata dalla visione prolungata di “Il Grande Gatsby”, quello di Jack Clayton, del 1974, con Mia Farrow e Robert Redford.
Ora mi chiedo: perché solo io devo avere un clan di fratelli deficienti? Non guardo nemmeno Cooper Carter che sta insudiciando sadicamente gli occhiali di Gustav di ketchup e maionese mentre il poverino è distratto da Katie Crystal che ha trovato in lui l’orsetto perfetto sul quale scatenare le sue paturnie da cheerleader, mentre Madison Hope giochicchia istericamente con i cucchiaini d’argento per il dolce, pungolando Alexandria con la forchettina per le olive e Charlotte Chanel continua a tartassare un Gustav scioccato e prossimo all’isteria elencandogli a razzo tutte le proprietà fisiche e chimiche di quello che il poveretto sta ingurgitando.
-Su, tesoro, è ora di continuare con le tue paturnie su Misty Berlin.- Alexandria mi molla uno scappellotto preventivo, tirandomi un dread rosa. – Ho come la vaga impressione che se li lasciamo allo sbando, i tuoi fratelli facciano scoppiare la terza guerra mondiale.
Annuisco, prendendo un profondo respiro, e saltò di nuovo in piedi, sventolando il tovagliolo con mossa consumata
-Ohè plebaglia! Datemi orecchio! Dobbiamo continuare a stendere la linea base del prossimo Oscar!
Immediatamente, tutti tacciono e si voltano verso di me, chi scazzato, chi entusiasta, chi nauseato, chi semplicemente curioso.
-Sono vent’anni che continui a dire che vincerai l’Oscar, Chelsea Sienna e non se ne è ancora visto nemmeno l’ombra.- mi gela Charity Rebecca, scostandosi con un gesto provocante un ciuffo di capelli verdi dal viso.
-Comunque, non mi pare carino il modo in cui ti stai rovinando, sai?- Avery Aubrey mi lancia un’occhiataccia bruciante da sopra gli occhiali – Non ci si alza in un ristorante del genere sventolando un tovagliolo come la plebea che sei, e quel tuo abbigliamento sguaiato … riprovevole! Vero, Georg? Ho ragione o no? E anche tu, Alexandria, non credere di passarla liscia!
Georg la guarda con la bavetta alla bocca, annuendo con fare ebete e cotto come una mela alla festa di Santa Winifred. Ahia, ci siamo persi il bassista, qualcuno interrompa le riprese, stop, state sbagliando tutto!
-Va beh, eravamo comunque arrivati al punto che i due mercenari americani sbarcavano dal jet privato che Bill mette gentilmente a disposizione, parlando con il mafioso che li ha assoldati, ovvero Cooper.- le interrompe Tom, grattandosi le treccine da capra bollita – Dunque, poi come si prosegue?
Nel frattempo, arrivano i secondi, delle frittate di caviale con salmone affumicato e pregiate alghe nori, frittate che vengono immediatamente soppesate con occhio critico da Avery Aubrey e considerate dannose per l’improprio utilizzo di alghe, quindi di conseguenza vietate al povero Georg che osserva piangendo il proprio piatto venir gettato nelle fauci della società Pattumiere Municipali Gustav&Cooper, frittate che vengono divorate senza tanti complimenti dalla sottoscritta e dalla Coinquilina Hannibal, frittate di cui Bill e Billy Terry si impossessano e si portano nel loro mondo glitterato di rosa e maschi alpha. Ora giuro che faccio una strage se Bill non torna a pseudo considerarci come prima.
-Io direi di optare per  la scena che avevamo cominciato a girare questa mattina, un conseguente spostamento verso una scena dove viene presentato Gustav attraverso gli occhi di Bill.- commento, sputazzando un po’ di alga – Dunque, ci servirebbe un’ambientazione allo stesso tempo sofisticata, ma anche un po’ squallida, qualcosa che possa ricordare una casa di un capo della STASI, insomma, che traffica in  cose poco pulite, dunque un ambiente che però sia anche adatto a Bill, un misterioso essere le cui origine sono incerte e misteriose.
-Avremmo potuto farlo a casa nostra, ma ve lo vieto categoricamente, Chess e Tom.- dice pacifica Alex, pulendosi le dita nel tovagliolo di Madison – Non usurperete la mia chitarra e il povero gatto Panther Lily, va bene?
-No, ragazze, casa vostra è out.- se ne esce Bill, scostandosi i capelli dalla fronte con un gesto così consumato, sexy e studiato, con quelle sue mani perfettamente curate, muovendole di modo che la luce brilli proprio sulla pietra d’opale da far di conseguenza trattenere il fiato a tutta la sala – E’ troppo disordinata, per i miei gusti.
E giurerei di non ingannarmi quando mi pare di leggere, nelle sue labbra, un vago “E lì abbiamo decisamente altro da fare”. Ma forse sono io che sono una pervertita e l’unica cosa che vorrei fare in questo momento, dopo divorarmi un mega soufflé al cioccolato bianco e amarene candite, è andare a letto con Bill e Alexandria.
-Beh, possiamo sempre usare casa nostra.- esclamano i gemelli Spiegelmann in coro perfetto, riemergendo una dallo sbavare su Tom e l’altro dal GlitterWorld che ha instituito con la Delfina – E’ abbastanza squallida, ma anche sofisticata. Intendiamo dire, il posto fa schifo, il disordine regna sovrano, però ci sono degli elementi assolutamente stre-pi-to-si. Come le gigantografie dei disegni di Victoria Francés, i letti con le coperte nere e violette, le lampade Tiffany verdi e nere, gli specchi giganteschi e la vasca da bagno dipinta di blu notte.
Noto con piacere che Billy Terry ha evitato di elencare la sua collezione di giocattoli sconci, forse un briciolo di dignità ce l’ha pure lui.
-E la mia collezione di giocattoli sconci, è ovvio!
Ah. E ti pareva.
-Se ce la cedete, allora credo che potremmo anche utilizzare la casa dei gemelli come location per l’abitazione di Gustav e Bill.- dice Tom, scrivendo rapidamente sul quadernetto e inforcando di nuovo la frittata con la penna.
-Ma certo che te la cediamo … - cinguettano Charity e Terry, scambiandosi una di quelle occhiate che non promettono nulla di buono per la sottoscritta e per Alex. I miei fratelli sono specializzati a rovinarci la vita, primi tra tutti, i gemelli, con la loro insana passione per la piromania e per tutto quello che possa nuocere al prossimo. Non dimenticherò mai quando avevano dato fuoco alle mie riviste di cinema e alle bambole di Charlotte Chanel, o la volta che avevano trovato divertente usare Alex come preda delle loro mitragliatrici a pallini; certo, non che la mia fiera collega non si sia poi riscattata da quell’indegna fuga sostituendo gli shampoo di Billy Terry con un puzzolente impacco di alghe marce e spingendo Charity Rebecca dentro un ricordino di mucca appena fatto. Tutta la nostra infanzia in fondo è stata costellata da episodi di questo genere, continui scherzi giocati tra fratelli e infinite vendette efferate o meno per riscattarsi dai terribili tiri che sembravano un must del sempre prospero clan Spiegelmann. – Anche il nostro letto, se vuoi.
Vi giuro che sono inquietanti, quando parlano in coro perfetto e si stringono uno accanto all’altra, tenendosi per mano, la testa di lei posata sulla spalla di lui, che le cinge le spalle con un braccio. Perché te li guardi, e ti sembrano anche così carini, così dolci, ma non lo sai che sono due demoni che nascondo le più terribili perversioni umane dentro di loro, i nostri nuovi Azazel che farebbero impallidire Bulgakov, i nostri nuovi Morte Rossa che la raccontano ad Allan Poe.
-Oh, davvero?- Tom sbava indegnamente sul davanzale di mia sorella, ma prima che possa firmare la sua condanna a morte, Bill lo schiatta
-Bene, Tooooom, razza di deficiente, ora che abbiamo appurato la nostra location, possiamo pure andarcene da questo letteralmente schifosissimo ristorante e trovarci un posto un po’ più consono per il nostro film, trovi?
-Bill, ma allora ti interessa davvero il film?!- urliamo in coro io e Alex, balzando entrambe in piedi come due molle. Dimmi che ora mi dice che siamo meravigliose. Dimmelo ti prego. Dimmelo e la Grande Regista Surrealista sarà anche Grande Illuminata Dal Dio Bill Kaulitz. Mi professo cultrice capo del suo tempio.
-Certo che mi interessa, tesorini.- ci sorride, quel suo sorriso battagliero e antipatico – Sono o no la star principale?
-Ma, veramente, i protagonisti saremmo io e Tom, però …
Vengo zittita da un coppino secco di Alex e da un abbaio
-Sì che sei la star principale, anche se il tuo personaggio è così stronzo che tutti preferiscono ovviamente il mio!
-Il tuo? Ma non farmi ridere, Alexandria.- ha un modo di pronunciare il suo nome che farebbe accapponare la pelle pure a un cappone. A-lex-an-dria. – Una sgualdrinella inglese scontata come pochi.
-Perché infatti la troia dei potenti non è scontata, no, quando mai.- lei si scosta una ciocca biondastra dal viso, scuotendo la testa, acida e sarcastica come una colata di acido citrico dritta negli occhi.
-E’ scontata, ma non io! Ho l’aura di mistero e dannazione che piace, tesoro, piace.- cinguetta lui, guardandosi le unghie da arpia – Vero, Bath?
Mi guarda e prima che io possa anche solo fare un minimo di ragionamento logico (o meglio, prima che la mia piccola Charlotte Chanel possa darmi una mano con la logica matematica che a me è sempre difettata), me ne esco urlando
-Beh, sicuramente i vostri personaggi sono interessanti, ma mai quanto i mercenari interpretati da me e da Tom!
-Razza di pasticcio di pernice con contorno di patate fritte e mela cotta in bocca, dovevi sostenere la MIA causa, non la TUA, pezzo di cretina!- ringhia Alex, dando una strappata dolorosa al dread rosa sempre incriminato. – Sono io la tua migliore amica, la tua nemesi, il tuo suicidio, la tua Ankou! Dovevi spalleggiarmi, dicendo così la dai vinta a questa troia sui trampoli!
-Sì, troia sui trampoli che ti fa sbavare dalla mattina alla sera e che ti fa addirittura essere gentile con Crystal!- strillo io, cercando (inutilmente) di farmi valere.
-E invece dovevi stare dalla mia parte, Bristol!- strepita Bill, dandomi un ceffone, visto che non ho la pelle abbastanza rossa e lentigginosa di mio. – Sono il tuo fottuto dio, la tua redenzione, la tua magia! Non devi sostenere questo pappagallo incatramato fine come uno scaricatore portuale!
-Certo, pappagallo incatramato che intanto ti ha fatto diventare più o meno etero e più o meno in grado di non prenderci a stilettate nella schiena!
Mi alzo di nuovo, sbattendo le mani sul tavolo, mentre tutta la tavolata mi guarda impressionata e Cooper Carter mi fa il video sghignazzando, pronto a sfottermi a vita, insieme a Madison Hope, che applaude timidamente.
Ma ora basta, perché Chelsea Sienna Spiegelmann si è rotta la scatole di dover sempre fare la figura della scema, del pagliaccio, della sfigata, di dover sempre essere la più martirizzata del trio, quella a cui sistematicamente viene addossata tutta la colpa, quella che viene sempre presa a ceffoni, che viene insultata qualsiasi cosa dica, che non viene mai calcolata come essere umano. È ora di dire basta. È ora che anche i registi surrealisti si sollevino dalla loro posizione infelice e facciano vedere a quei fottutissimi registi di kolossal che anche loro sanno sopravvivere nella giungla della cinematografia. È ora che i registi che mettono giù il mondo onirico come dovrebbe essere, quelli nati in famiglie popolari tedesco-irlandesi in mezzo a una ciurma di fratelli psicopatici, quelli che vivacchiano nell’inferno urbano, quelli che conoscono il popolo perché vi appartengono, è ora che loro, i mezzosangue senza blasone, si rialzino dalle ceneri e brillino. Che facciano mangiare la polvere a quei luridi registi hollywoodiani con famiglie solide e budget inesauribili. È la rivolta del proletariato cinematografico, gente, scegliete adesso che cosa volete che venga trasmesso nei vostri cinema. La vita vera e la sua grottesca paradossalità, o quella falsa con la sua finzione di plastica? La guerra è in piazza, gente. Con le telecamere al posto delle molotov e dei copioni al posto della tenuta antisommossa.
-Basta, io mi sono rotta le scatole di sopportarvi!- urlo, sbattendo il tacco a stiletto verde acido per terra – Ma che cavolo vi credete voi due? Che siccome sono una pacioccona ragazza irlandese con qualche chilo di troppo e troppe lentiggini possa essere trattata in questo modo?! Ma vi sembra? Qualunque cosa che dica o faccia, da quando siamo noi tre, non va mai bene. E il film, e come mi vesto, e come mangio, e cosa dico, e qui, e là! Alex, porca miseria, sei diventata ancora peggio di prima da quando è arrivato Bill, te ne stai rendendo conto?! E tu, Bill, non hai mai mostrato un minimo di riguardo per me, e non mi va bene, ok? Ora piantatela qui: devo sempre farvi da mediatore, e ogni volta mi prendo un sacco di insulti da entrambi. Bene, adesso smettetela, se non mi volete più in giro basta dirlo! Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!- prendo un attimo di respiro, prima di sciorinare – L’ultima frase è una battuta di Peter Finch nei panni di Howard Beale, in “Quinto Potere”, film del 1976 girato da Sidney Lumet.
Mi guardo in giro, mentre Tom e Madison Hope applaudiscono, Gustav mi rutta in faccia un segno di approvazione, Avery Aubrey scuote la testa, Georg mi fa i pollici in su, Katie Crystal fa una smorfia incomprensibile, Cooper Carter mi da una pacca affettuosa sulle cosce, Billy Terry e Charity Rebecca confabulano tra loro guardandomi malissimo, Charlotte Chanel mi abbraccia urlando “Sorellona, hai parlato senza prendere fiato per due minuti e 34 secondi, bravissima!”, Alex boccheggia allibita e Bill … Bill fa la faccia da Bill infastidito. Che è tutto un programma. Ora, guardo meglio la Coinquilina Hannibal, bianca come un morto e attonita come un merluzzetto fritto, perché, vedete, farmi arrabbiare è davvero, davvero, difficile. Voglio dire, bisogna aver studiato per farmi innervosire, io, che non mi arrabbio mai e che rido sempre, sempre, sempre. Anzi, credo che anche adesso mi stia venendo di nuovo da ridere, perché in vent’anni di vita e di convivenza, Alex me ne ha fatte passare veramente tante, mi ha detto di tutto, però non mi sono mai arrabbiata con lei, credo che sia tutta colpa di Bill, è lui, è la Delfina che mi ha fatto perdere le staffe, che mi ha sconvolto, che mi ha fatto smettere per un secondo di ridere e farmi schizzare male. E non è mica colpa mia se sono sempre io la patata bollita irlandese che si fa mettere nel sacco da un paio di occhi troppo truccati e da un viso da bambolina di porcellana.
Guardo Alexandria, che sbatte gli occhi scuri, col trucco dark che le cola miseramente, e posso giurare di intravedere una lacrimuccia di rimorso nelle sue pupille dure come il ferro, e tutto ciò è sottolineato dal fatto che Cooper mi guarda e la guarda, toccandosi per scaramanzia. L’ultima volta che Alex aveva quasi pianto era stata quando avevamo cinque anni e lei mi aveva spaccato un dente con una padellata a casa sua, e io mi ero presentata davanti ai suoi con un sorriso tutto denti e sangue. Credo si fosse commossa non tanto per il fatto di avermi praticamente rovinato la bocca a vita, ma perché non avevo detto nulla ai suoi, in pieno spirito di amicizia sincera, perché chi trova un irlandese per amico, allora trova un doppio tesoro. Solo che appena dopo che lei aveva mostrato segni di lacrime, era partito un blackout nell’intero isolato durato per tre giorni. Si sa, Alexandria Herder che ride è l’apocalisse peggiore che San Giovanni poteva immaginare, poveraccio, al sicuro nella sua Patmos e lontano da questa terra infeconda.
-Bene, gente scusate, mi devo sistemare il trucco.- la Corazzata si alza di scatto, come se l’avessero punta con un forchettone. Uh, Madison l’ha pungolata sul serio con la forchetta per le olive. – Chess, amore, vieni con me.
Con la sua grazia elefantiaca mi acchiappa per l’orecchio e mi trascina di peso in bagno, mentre sento chiaro Tom che tenta di tornare in argomento “Misty Berlin” e l’inconfondibile strillo di Katie Crystal “Io voglio diventare la moglie di Orlando Bloom, ma non mi sposerà mai se mi costringete a collaborare a questa schifezza!”. Toh, si è evoluta, l’anno scorso era convinta che avrebbe sposato Chris Hemsworth.
Rotoliamo in bagno, chiudendoci dentro un cubicolo e inciampando di conseguenza, pestandoci i piedi a vicenda, e bestemmiando in aramaico antico. C’è un cazzo di buio pesto in sto bagno.
-Alex, ma che vuoi? Devo aiutare Tom a …
-Ma se è lì che sbava sulle tette di Charity, Chess!- mi zittisce lei, dandomi un pugno preventivo – Stammi bene a sentire, adesso.
Messa così sembra che le debba un sacco di soldi in cocaina. Esattamente come in “Trainspotting”, di Danny Boyle, del 1996, con Ewan MacGregor e Robert Carlisle. “No, dai, Franco, non ce l’ho la roba, adesso, dai Franco, lasciami stare …”
-Quella schizzata che hai fatto prima. Ecco, a parte che ti usciva il davanzale da sto top striminzito che ti ostini a infilarti, io …
“Cazzo, Matt è morto. Ti mancherà, Simo?”
-Senti, Chess, scusami. Sai che odio chiederti scusa, sai che preferirei metterti il muso per giorni ma oggi ho deciso che dovevo farmi perdonare. Quindi, scusa.
“Mark, amico, è il tuo momento, prenditi la dose e sparisci, il Cigno è stanco”
Mi da un delicato bacino sulle labbra, dandomi contemporaneamente un pugno
-Ma guarda te che mi costringi a far ste cose, razza di oca deficiente!
“Questa non è questione, Spud: guardiamo tutti i treni, in sto mondo di merda”
-Oh, Chess, ma ci sei?
-Lo so, lo so che Allison è persa di me, e allora?
Alex mi sventola una mano davanti alla faccia, scuotendo la testa
-E ora chi sarebbe Allison? Chess, ma che cazzo spari?
-Allison è un personaggio di Trainspotting. York, riprenditi.
Io mi sveglio dalla mia trance “trainspottiniana” con uno strillo, mentre Alex lancia due porconate non appena vediamo Bill chiudersi dentro il cubicolo con noi. C’è qualcosa che mi sfugge. Che ci facciamo tutti e tre chiusi in un cesso troppo piccolo e puzzolente di disinfettante di un ristorante di lusso, schiacciati come sardine e con gli ormoni dannatamente impazziti che fumano e urlano?
-Oh, ma che problemi hai?- sibila Alex – Eravamo qui a parlare di fatti nostri, cos’è che ora ti infiltri addirittura qui quando prima ci volevi uccidere?
-Sei venuto per il film, vero?- trillo io, scuotendolo con un sorriso.
-Dio, siete veramente … - per un attimo, penso che ci dica che siamo meravigliose, e mi faccia di conseguenza vincere la scommessa tanto agognata, ma vengo brutalmente smentita quando sputa – Siete due cafone di periferia!
Poi, acchiappa Alex e la bacia con trasporto da film scadente, quelli romantici che si vedono giusto il sabato sera quando si ha la febbre e non si sa che pesci prendere, quello accompagnato solitamente da una scatola di cioccolatini e da una coperta addosso, da guardare con la propria migliore amica o col proprio cugino sfigato.
Lei, veloce come Furia Cavallo Del West Che Beve Solo Caffè, gli molla una tirata ai piccoli dread bianchi che avrebbe steso un toro, ma non la Delfina, ovviamente, e gli si appende al collo, perché sì, mia Delfina, culla la dolce Ippolita nel tuo fertile grembo come frutto fecondo della tua passione sconsiderata, crescila come Lilith ha cresciuto i suoi demoni del deserto, avvelena Parigi da dentro, con l’innocenza cristallina della tua prediletta schiava, sorella, amica, amante dai mille tormenti interiori. Dunque, Bill passa a fare la stessa cosa con me, ma io non gli tiro i capelli, mi limito a sussurrargli sulle labbra “Io faccio Rent Boy e tu fai Allison, sì?” e potrei giurare che mi sembra mi abbia risposto “Sì, Nottingham, come vuoi”.
-Continuiamo quello che avevamo interrotto, allora.- latra Alex, sfregandosi le mani.
-Ma è troppo squallido qua dentro!- sibila Bill, cercando di staccare me dalla sua camicia e Alex dal suo collo. – Rischio di prendermi il colera!
-In tutti i migliori film scopano nei cessi, su.- lo rimbecco io, scuotendo i dread e fissandolo con i miei grossi occhi viola da manga. – E poi, dai, saresti uguale sputato a Rayon, il personaggio interpretato da Jared Leto in Dallas Buyers Club, del 2013, di Jean - Marc Vallée, con Matthew McConaughey. Aveva l’AIDS ma era un gran …
-Sei una drogata di cinema.- sbuffa Alex, appendendosi all’imbarazzante cintura di brillantini di Bill e cominciando a slacciargliela.
-E te di acidità!- mi lamento, attaccandomi al collo della Delfina Fatina come un vampiro particolarmente affamato, mentre le sue mani lunghe e secche si aggrappano una ai capelli di Alex, dandole uno strattone e una sulla mia schiena, graffiandomi di conseguenza.
-Oh … oh mio dio, siete … siete davvero … - comincia a mugolare, mentre io e Alex ci sbaciucchiamo direttamente sulla sua pancia e sul suo ombelico, e di nuovo, per un secondo io e lei ci guardiamo convinte che finalmente dica la benemerita frase e ci faccia vincere sta cazzo di scommessa ma l’insopportabile voce di Billy Terry, insieme a quella di Tom, fuori dal cesso dicono, in coro perfetto, congelandoci
-Sorelline, ci siete o siete morte? Il maitre ci sta scacciando a calci, dobbiamo andare a parlare del film da un’altra parte.

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Capitolo 16
*** Tre gelati, una canzone e un viale per lo shopping ***


Tutta questa questione sta riducendo il mio status di corazzata assassina a quello di serial killer mediocre. Mentre un tempo la mia furia omicida era indirizzata verso qualsivoglia individuo mi superasse per strada o mi passasse accanto ad una distanza inferiore agli 0,5 metri, ora sembra essersi concentrata su un unico, musicista, sbarbatello e rasta obbiettivo. Che non è Chelsea. Beh, se consideriamo oggettivamente il discorso, anche Chelsea è musicista, è sbarbatella ed è rasta; ma io intendevo dire Capra Kaulitz, detto Quarto Incomodo, chiamato Individuo Da Eliminare, anche conosciuto come Bastardo Idiota Ti Ammazzo.
Solo pochi degli insulti che mi sono appuntata in mente: in mente! Ci rendiamo conto?! Da quando ho smesso di urlare ingiurie liberamente? Da quando un bel faccino da bambola anoressica si prende il permesso di ribaltare archivi e regole della Corazzata? Da quando a un faccino da bambola anoressica è anche solo permesso mettere piede nell’archivio della Corazzata? Ho un reclamo da fare, Signor Me Stesso, Comandante, Signore. Ma il Comandante Me Stesso, Comandante, Signore sembra essere fuggito dalla sedia, che non ha ancora smesso di girare su se stessa. Corazzata disapprova. Il nemico avanza, e noi siamo fermi, senza razzi e senza carburante. Possiamo solo sperare in Dio e darci all’ebbrezza dei brillantini, che sembrano abbondare qua dentro.
La mia fantasia murder si è inoltre molto ridotta. Prendiamo il mio diario di seconda media. Se prima scarabocchiavo cingolati, mortai, bazooka, bombe a mano, frecce esplosive e colate tossiche, perché ora le uniche armi che mi vengono in mente sono dardi-unghie finte e boa di piume rosa per strangolare la gente?
-Porco Flanders, Billy Terry, ti ho chiesto solo di prendermi un cono alla menta, non era poi così difficile evitare di spargerci le tue piume fluo sopra- sputacchio, mentre Piromane 1 trotterella allegramente sul prato distribuendo coni e coppette. Un giorno lo strangolo col suo boa fosforescente. Sì, perché quel coso si illumina al buio, precisamente in una tonalità violetto-azzurrina. Solo il meglio, per i Gemelli Piromani Spiegelmann.
-Oh, sono veramente dispiaciuto tesoro, già, non mi dispiace per niente- strilla Billy, facendo una giravolta e terminandola appollaiandosi graziosamente –per quanto possa essere grazioso un piromane travestito da spogliarellista mezzo tedesco e mezzo irlandese- su un gruppo di soffioni in parte a Tom; facendo svolazzare i piumini tutt’intorno e ovviamente spargendone una buona parte sul mio gelato alla menta. Oh, scusate, volevo dire alla menta e piume sintetiche glow-in-the-dark.
-Puttanella- bofonchio, rinunciando a spiumare il gelato e iniziando a rosicchiare la cialda del cono.
-Allora, allora, non perdiamoci d’animo- esclama a gran voce Tom, ritirando fuori il foglio degli appunti e la penna sporca di sugo. –Comparse scena 2, ci siete?
Madison e Charlotte alzano la mano, con due sorrisoni che vanno da un orecchino di perla all’altro. Dio, che inquietudine.
-Bene, come previsto voi sarete la vecchietta e la nipotina dell’appartamento accanto. Passate mentre i due gangster stanno richiudendo la porta. Si intravedono due magnum e un fucile di precisione sul tavolo; la bambina sporge la testa per curiosare, la nonna scorge le armi e la trascina via in preda al panico. Giusto?
-Giusto- esclamano Inquietudine 1 e Inquietudine 2 in un coro perfettamente inquietante.
-Uhm. Ottimo. Non ci sono altre comparse nella scena 2. Passiamo alla 3…- dopo ore che si attendeva, finalmente Culo Sodo Coi Jeans di Pelle si degna di avvicinarsi al gruppo dei barboni accampati sull’erba, dopo essere stati malamente cacciati dal ristorante perché facevano troppo casino, intenti a mangiare gelato e piume fosforescenti mentre cercano di stendere il copione di un film.
-C’era fila in bagno?- chiede Chelsea, appollaiata accanto a me con un cono triplo all’amarena abbastanza prevedibile che le cola sul top brillantinoso. Ovviamente, Morticia non spreca la sua preziosa voce soave per darci una risposta, e poggia elegantemente il suo culo sodo sulla giacca rubata a Georg –che è talmente impegnato in un’interessante conversazione sulle graminacee a rischio di estinzione che non si accorge di essere rimasto in maniche corte ad una temperatura di 10 C° di notte (sì, perché il gelato si mangia a -10°. Ma il gelato è onnipotente, e va bene sempre; e lo dice una che grazie al gelato è sopravvissuta a varie vicissitudini, quali delusioni familiari, delusioni scolastiche, delusioni amorose, la scomparsa della propria tarantola domestica e la costante presenza di un individuo quale Chelsea. E poi siamo a Mag, in Germania, e il gelato si mangia e basta, non solo perché si conserva bene, ma perché è il gelato, è dolce, qui tutti siamo d’accordo e poi io necessito di zucchero.)-, cento centimetri spaccati di distanza da noi. Fra le dita scheletriche e perfette regge una coppetta minuscola di gelato –incontaminato dalle piume- alla vaniglia, che tutti sanno che non mangerà, perché l’unico compito della breve vita di quella coppetta è fare uno splendido effetto coordinante col colore del colletto merlettato della camicia che esce dalla giacchina in pelle.
-…Chelsea e Tom si incontrano con il datore di lavoro ad un bar alla periferia di Berlino… ovviamente si porteranno dietro le pistole e il registratore. il locale deve ancora essere individuato…- oh, forse ho sbagliato. Per una volta l’unico ruolo del gelato alla vaniglia sembra non essere quello di accostarsi alla camicia, ma anche di stuzzicare i poveri estrogeni delle due zingare qui presenti, tormentando il malcapitato cucchiaino di plastica azzurra con quegli enormi labbroni da negro.
…no, wait. Labbroni da negro? Ma sul serio, Alexandria? È vero che Bill ha le labbra grosse, però “labbroni da negro” è un’espressione che userebbe Chelsea, dopo essere riemersa da una delle sue Maratone Luther King e altri Film sui Diritti degli Afroamericani. Evitiamo di fondere troppo le personalità… che poi, casomai, Bill è negra, non negro. No, no, cioè, volevo dire nero. Ma si può dire “negro”, o “nero”? O devo dire “afroamericano”? E se uno è algero-francese e in America non c’è mai stato? Ommioddio. Ma che diamine… che razza di discorsi. I soldati stanno ufficialmente dando di matto, generale, ci serve uno stock di whiskey, signore.
-…però abbiamo scelto come barista Franzi, della birreria in parte alla Universal. Credo non abbia problemi a darci la sua disponibilità, una comparsa in un futuro successo di Broadway darebbe gran lustro al locale, e lui sembra il genere di persona interessata a questo tipo di cose…- mioddio, Chelsea, tieni il tuo gelato sul tuo davanzale e non sgocciolarmelo addosso, soprattutto smettila di fissarlo perché altrimenti non la smetterà mai, Cristo Signore mi si sta sciogliendo la menta in mano, credo che se mi misurassero la temperatura corporea mi spedirebbero direttamente al “Centro Malati Febbre a 45°”. Adesso gli si è seduta a fianco Charity Rebecca. Iniziano a parlare di quanto Billy Terry e Tom potrebbero star bene in una scena alla Titanic, minchia, dobbiamo fare in modo che questa cosa venga inserita nel film, già, quanto sarebbe figo Billy con l’abito di Rose; e oh, guarda come stanno appiccicati, e Tom non gli bada nemmeno!, wow, secondo me tuo fratello è gay fino al midollo, sta sudando freddo. Cacchio, Billy mi sta azzerando le chance di cavar fuori qualcosa con Tom, cavolo, dobbiamo rimediare a questo problema. Tranquilla tesoro, ci penso io, anche se un po’ mi dispiace, cavolo, guarda che coppietta. Hi hi hi hi. Charity Rebecca ha preso la zuppa inglese, quella roba gialla annegata nell’Alchermes, che è un 25% e lei l’alcol non lo regge a meraviglia. Adesso si sono scambiati le coppette e continuano a sghignazzare. Intanto lui ci fissa, a momenti. È inquietante, e arrapante. Secondo me fra meno di tre minuti sono strafatti tutti e due. Lo fa apposta, che terribile putt…
-Chelsea, mi stai ascoltando?!
-AH? EH? COSA?ROSE?- Chelsea riemerge dallo stato di dormienza ormonale e il laghetto di amarena che si era formato sulle sue tettone pensili cola a cascatella sul top brillantinato. Diciamo che detto così potrebbe sembrare una cosa molto sexy e porca, insomma, se la sua faccia non fosse una brutta replica di Stanlio nei suoi momenti di confusione e i rasta uniti ai rotolini di ciccia lentigginosa non combattessero fianco a fianco nella costante “guerra per difendere la non-attraenza di Chelsea Sienna Spiegelmann e preservarla al grado attrattivo di un broccolo lesso”.
Nel frattempo le due arpie ubriache qui accanto ridacchiano, con la testa all’indietro e il gelato iperalcolico in mano. –Non hai sentito la domanda?! È la quinta volta che ti chiedo con quale inquadratura bisognerebbe introdurre “Accordo al Bar”, scena 3. Se una lenta rotazione dal bancone al tavolo o un primissimo piano del boss- si lagna Tom, agitando il blocco note e tirando uno scappellotto involontario a Billy.
-NON VOGLIO NESSUN PRIMISSIMO PIANO, HO DETTO!- abbaia Cooper Carter, emergendo dalla massa di canne verdi dove si era appostato per mirare le anatre del laghetto con i sassolini senza essere visto.
-Erm, no, no, nessun primo piano…- farfuglia Chelsea, mentre il suo sguardo viola Winx ruota lentamente verso Bill e Charity che, totalmente disinteressati dal film e intenti a commentarsi reciprocamente il colore del lucidalabbra, stanno ondeggiando pericolosamente da destra a sinistra. Credo che abbiano infilato della marijuana nel gelato di nascosto, perché per tutte le palline di zuppa inglese che io abbia mai visto, non ho ricordi di gente finita sbronza a rotolarsi sull’erba ammiccando a due povere persone concentrate a fare qualcosa di molto importante. -…io… io avevo pensato più che altro a… - le prendo la faccia con due mani, da dietro, e gliela rigiro verso Tom, bloccandole il collo con un braccio perché non torni a girarsi verso quelle due macrolesbiche pervertite e ci eviti questa figura magra… diciamo anoressica, da stupratrici seriali con istinti animaleschi. -…ad una prima inquadratura sul barista che passa lo straccio sul bancone. Le voci si sentono comunque in sottofondo, ma vediamo i tre solo quando la telecamera fa una lenta rotazione verso un poster della Coca Cola con la faccia di Marilyn, che è appeso dietro un vetro e il loro tavolo vi si vede riflesso. Solo per poco, poi li inquadriamo normalmente e la scena procede come ti avevo…-  sì, ecco, esatto. Brava, concentrati. Concentrati… non fare caso alle due arpie che si alzano… che si separano… la prima va a spalleggiare suo fratello nel tormentare Tom e l’altra si avvicina pericolosamente… ma tu NON farci caso! …no, no, no, no, nononono porcoddue Chelsea CONCENTRATI SU QUELLO CHE STAI DICENDO.
-Alexandria, tutto ok?- chiede Morticia, che è in piedi poco distante da noi e ci fissa innocentemente con il suo cucchiaino e la sua coppettina alla vaniglia in mano. No, aspetta, diciamo che tutti ci stanno fissando. Anzi, MI stanno fissando, anche Chelsea, perché si vede che come spesso capita mi sono messa a sbraitare ad alta voce quello che stavo –in teoria- solo pensando. Oh, che figura magra, Corazzata.
-Uhm… sì. Cioè…- balbetto. Chelsea mi fissa e non so cosa mi stia comunicando. Qualcosa tipo “ho freddo e voglio andare a casa”. No, aspetta, è “voglio evadere e andare a casa”. No, no, ci sono: “VOGLIO EVADERE DA QUESTA SITUAZIONE TI PREGO INVENTATI QUALCOSA AIUTO”. E aggiunge “ricordati che in teoria hai ancora il ciclo”. Giusto, giusto Spielberg, brava, hai ragione. Piccolo genio. Si vede con chi è cresciuta, la piccola stratega. -…cioè, no, vedete, io dovrei andare in bagno. Uh, argh, sì, certo, mi fa veramente malissimo la pancia, e ugh!, sapete, io e quel periodo del mese abbiamo uno strano rapporto, ehm… guardate, voi andate tranquillamente avanti!... Chelsea muovi il culo. Torniamo subito!...- incespico sulle zeppe trascinandomi questo sacco di lentiggini dietro, schiviamo Bill per un pelo, che fa una piroetta su se stesso e si gira come una foglia al vento, poi si ferma e tutti ci fissano andare via, verso un bagno pubblico piazzato poco lontano dal prato. E mentre tutti, capitanati da Tom, ci guardano perplessi, ecco che Morticia sfodera tutta la sua crudeltà che è come una pozza di petrolio senza fondo, si passa la lingua sulle labbra sporche di vaniglia, ride e ci fa un occhiolino perverso. Poi fa un’altra piroetta e si siede, come un petalo di dalia che si appoggia sull’acqua, e tutti ricominciano a fare quello che stavano facendo, mentre lui continua a fissarci da dietro lo stradannato cucchiaino di plastica azzurra.
*
-Che palle- borbotta per la quintordicesima volta Chelsea.
-Te ne faccio ingoiare un paio se fiati un’altra volta.
-E dove le prenderesti?! Sentiamo?
-Stai tranquilla che te le trovo.
-Spero che nessuno stia ascoltando, perché sei veramente oscena.
-Disse Miss Colata All’Amarena- prendo il plettro, e inizio ad accordare la mia amata, appoggiata in parte al divano. Il rosso della chitarra spicca in mezzo a questo mortorio.
-Ah, se avessimo un basso…- sospira Chess, cambiando argomento, mentre sbacchetta mollemente i piatti, seduta dietro la batteria.
-Io direi di rapire Georg- mormoro, concentrata sul la. La…sol. No. La…la. Ok, ce l’ho fatta.
-Io direi di rapire qualcun altro!
-Evitiamo.
-Ma sì, ti dico. Lo facciamo bere, o gli iniettiamo un sonnifero. Poi lo avvolgiamo in un lenzuolo e lo nascondiamo nell’armadio- dice entusiasta, concludendo con un bel pof  sincronizzato sui due tom.
-Va benissimo. Intanto dimmi dove possiamo trovare un sonnifero abbastanza potente, diciamo… per orsi- farfuglio, col plettro in bocca. La…si. La…diesis. La…ok, la.
-Jack lavora nella forestale, può fornirci qualcosa del genere.
-Jack non lo vediamo dal ballo delle superiori, Chess, quando ti sei ubriacata per sperimentazione e ti abbiamo trovato in bagno, vestita da cheerleader, a fare cose sconce con la ragazza del contrabbassista dell’orchestra jazz.
-Sono passati cinque stramaledetti anni, Alex, e non hai ancora finito di parlarne!- strilla, sbattendo violentemente i poveri piatti. Secondo lei parlare della festa delle superiori è imbarazzante. Invece è terribilmente divertente.
-Esatto, Chess, sono passati cinque anni e quindi Jack non avrà nessun interesse a fornirci un sedativo per orsi.
-Cambiamo discorso. Come siamo arrivate a qui?- protesta, borbottando. -Ah, giusto, dovevamo rapire Georg.
-Giusto, grande pensata. Poi ci trovano con un bassista metallaro di dubbia provenienza imbavagliato nell’armadio, e assieme alle decine di denunce per disturbo della quiete pubblica con musica ad alto volume dopo l’una di notte, hanno il motivo per arrestarci definitivamente e affittare questo buco ad una brava coppietta ortodossa con tanti bei bambini. E a quel punto…
-Non sia mai! Nessun marmocchio può calpestare lo stesso suolo su cui sono rovinata addosso al cantante più figo del mondo!- abbaia, alzandosi in piedi.
-Io intendevo dire che a quel punto non potremo più fargli il filo e tentare di cavarci fuori qualcosa, col cantante più figo del mondo- sogghigno. Ma in effetti ha ragione. Questo squallido pavimento di piastrelle a poco prezzo è segnato. Maledetto dalle suole degli anfibi, e consacrato nella polvere di chi non ha mai usato una scopa; benedetto dai popcorn e assoldato con il sangue delle risse… da pavimento. Delle risse di due coinquiline che lottano per il telecomando, perché una vuole vedere Attack on Titan e l’altra C’era una volta il West; che fanno il tiro alla fune con il jack dell’ultimo paio di cuffie intatte rimaste, che si rincorrono con le più svariate armi per minacciarsi, dai mestoli, agli stivali, ai sacchi di farina. Una volta, mi ricordo, stavo preparando i biscotti. I biscotti al radio, capito, no? Sì, ecco. Stavo preparando i biscotti. Ero concentrata. Stavo dividendo i tuorli delle uova dagli albumi. Avevo un fantastico baffo di farina sul labbro superiore, e indossavo la traversa della nonna di Chelsea, verde erba, con uno gnomo grasso che diceva “buon appetito” in irlandese. Ed ecco che ad un certo punto, arriva qualche, appunto, irlandese, a urlarmi nelle orecchie qualcosa che c’entra con gli Angeli di Victoria Secret, io prendo un mezzo infarto, lancio un urlo belluino e la ciotola piena di albume d’uovo si rovescia sul libro delle ricette di cinquant’anni fa, quello della prozia Ameleitrud, pieno di oscuri segreti di cucina e qualche pozione per fare andar via i brufoli dal naso; le pagine si incollano l’una all’altra, e la sottoscritta inizia a rincorrere Irlandese Coi Tubi Rosa con le uova rimaste nella confezione, gridando tutte le ingiurie possibili, maledicendo l’essere in tutti i nomi del punk e del grunge, tirando uova. È il pavimento degli scontri di sorellanza, dove ci si tirano i capelli e ci si strappano le magliette. Una volta Chelsea mi ha persino tirato un morso perché mi staccassi dai suoi tubi rosa e la smettessi di colpevolizzarla. Era sempre la stessa volta, quella dei biscotti: alla fine abbiamo trovato Billy Terry nascosto sotto il tavolo che se la rideva, e scoperto che era stato lui a schiamazzare facendomi rovesciare le uova (era entrato in casa di nascosto per rubare lo smalto con i glitter che gli avevamo sequestrato due settimane prima perché l’aveva usato per riempire il tubetto dell’eyeleiner. Vi lascio immaginare, giorni passati a strofinarsi gli occhi con l’acetone, porconando). Fatto sta che, vista l’estrema furbizia dei mezzo irlandesi, pari cioè a quella di un quadrifoglio sotto il sole di giugno, invece di andare via come era entrato aveva deciso di farmi un dispetto. La storia si è conclusa con me con un nuovissimo morso su una spalla, giusto accanto alla scritta “A vampire bit me years ago” (tatuaggio pagato come regalo dei miei 16 anni), Chelsea felice di non aver preso tutta la razione di botte per una volta, Billy Terry con le uova nei capelli e il libro della prozia Ameleitrud salvo, ma con una chiazza di uovo perenne.
Ecco perché questo pavimento è sacro. Così come i muri, pieni di crepe e buchi coperti coi poster di Colazione da Tiffany, schizzi di vernice che spacciamo per sangue e macchie di sangue che spacciamo per vernice; e ogni singolo centimetro cubo dello spazio racchiuso da queste quattro noiose mura, che ogni giorno ci danno più noia, ma che sono Casa in ogni caso. Ha, ha, che bel gioco di parole, “casa in ogni caso”.
-Però non vale. Due volte ci abbiamo provato, due volte i stavamo riuscendo e due volte sono venuti a rovinarci la festa- mugugna Chess.
-Ah, di questo devi rendere conto solo ed esclusivamente al tuo fratello dei film, tesoro- visto, che io l’avevo capito da subito che Tom era solo una capra bollita del popolo dei Galli, e avrebbe rappresentato un problema. Ma tu non ascoltarmi, cara, fai di testa tua.
-A proposito del fratello dei film- strilla, per poi saltare a mo’ di fungo di Super Mario giù dallo gabellino. –Volevo farti leggere una cosa- recupera un foglio piegato in due da una piega del divano; poi si siede sul pavimento a gambe incrociate. –Mi è venuta…così. Di getto. Mi piacerebbe trovarle un posto nel film.
-Uhm- grugno. Chelsea parla delle sue scene come fossero persone, come se fossero la sua prole, la sua classe di bambini prodigio con tante belle qualità da mostrare alla società. Smetto di strimpellare, e appoggio il mento sulla chitarra. –Sentiamo.
-U-hum… ok. Allora, ascolta.
La telecamera comincia la ripresa da lontano, su un’enorme spiaggia della Germania settentrionale, una vaga musica anni ’30 che culla delicatamente lo spettatore. È pomeriggio, un pomeriggio silenzioso, solo il mare ad accompagnare una canzone molto Lana Del Rey, forse un po’mosso, il tempo non è soleggiato ma è percepibile il sole che spinge da dietro le nuvole che fan di tutto per non farlo penetrare. L’inquadratura è posteriore, c’è un ragazzo seduto sulla sabbia grigia, i lunghi capelli corvini mossi dal vento leggero, vestito come una meretrice di bassa lega, gli stivali neri laccati accanto a lui, i piedini nudi lambiti dalle dolci onde scure. C’è un granchietto che nuota accanto a lui. Lui è malinconico, lascia la mano giocare con una collanina sottile che lascia bagnare dalle onde. Non piange, ma i suoi occhi sono così rossi e gonfi da fare male. Non sorride, non fa nulla che non sia fissare l’oceano con l’espressione più vuota che ci possa essere, come fosse una bambola abbandonata al suo cupo destino. La telecamera allarga all’indietro, per lasciare spazio alla rada vegetazione frustata dal vento, per mostrare tutti i movimenti di lui che si alza, raccoglie gli stivali, si avvia lungo la battigia. Ogni suo movimento deve essere talmente lento da essere opprimente, come fosse incapace di camminare, il capo è chino, i capelli sono scompigliati dal vento, i piedi inconsciamente accartocciati dal freddo. La telecamera è larga, per inquadrare il tempo che diventa rapidamente più brutto, i turbini del cielo grigio metallizzato proprio degli stati del nord, e come fantasmi dalle nebbie, appaiono due ragazze, così incerte da sembrare solamente giochi visivi. C’è una ragazza bionda che esce fuori dalle sterpaglie, semi nuda, graffiata, cadaverica come solo i fantasmi dei morti in terra sconsacrata lo possono essere. C’è una ragazza con degli strani capelli bianchi e rosa che si trascina stancamente su dalle onde, vestita di stracci, verdognola come spetta agli uomini strappati dal mare, gonfia. La telecamera segue le due ragazze camminare lentamente dietro di lui, si trascinano, eteree eppure terrene, fino a prendersi per mano, una stretta così gelida eppure così forte da essere inquietante. Amore oltre la morte. Continuano a camminare dietro di lui, che si trascina sempre più lentamente sulla sabbia, sino a sedersi di nuovo giù, in ginocchio, come se stesse pregando. Il tempo è così lento da essere snervante, nauseante, così dilatato da fare male alla vista e al cervello, i passi delle ragazze che gli si siedono accanto è straziante. Lui non le guarda, mentre le due gli prendono le mani tra le loro. Non reagisce quando loro si alzano e lo portano verso il mare. La telecamera è larga, la musica è finita, il colore predominante è il grigio perla, l’inquadratura è posteriore, le due ragazze che accompagnano lui al mare, dentro le onde, la telecamera rimane fissa mentre i tre si allontanano, mano nella mano, verso il cuore del Mar Baltico. Scompaiono nell’acqua che li fagocita dolcemente, come fossero i figli da lungo tempo perduti. La telecamera rimane ferma sulla porzione di spiaggia identica a quella dove prima era seduto il ragazzo. Non si muove, mentre il mare pulsa e il grigio invade la scena.
L’orologio scassato appeso al muro fa tic-tac. Lei mi fissa, io rimugino.
-Saremmo noi tre, alla fine del film.
-Boh. Non lo so. Può essere. Magari è un incubo di Bill, preso dai sensi di colpa per averci denunciate- dice lei.
-Oppure una visione del cattivone… sì, beh, quello che interpreta Gustav. Magari è lui stesso a pentirsi di averci… che ne so, fatto ammazzare.
-Forse dopo che Bill si è suicidato per il dolore.
-Esatto. Una cosa di questo genere.
Annuisco. Annuisce pure lei. Ci piace. Scribacchia qualcosa in fondo al foglio, poi salta di nuovo in piedi e torna dietro alla batteria. Infila il foglio piegato in quattro sotto la maglietta, poi riprende la bacchette in mano.
Io sto ancora rimuginando, e non mi accorgo che lei inizia a battere un ritmo costante. Tum-tum-tum-tum…
-Ci sta, secondo te?- chiede, dopo una quindicina di ‘tum’, urlando per sovrastare i tamburi. Dio, fai sempre così. Fai casino con la batteria, ti rendi conto che devi dirmi qualcosa, ma non è che ti fermi, non sia mai!, urli, così ci arrivano tutte le vecchiette del piano di sopra a bussare per farti smettere.
-Ci sta cosa?- urlo, perché se no non mi sente, mentre vado ad aprire la porta per controllare che non ci siano pensionate al di fuori.
-Per la colonna sonora! Ecco, a questo punto dovresti entrare tu- dice, cambiando ritmo. –E qui ci serve un basso- aggiunge, mordicchiandosi il labbro.
-Posso sapere di cosa stai parlando?- urlo, chiudendo la porta, e augurandomi che non venga nessuno.
Poi inizia a guaire, tipo i lupi alla luna piena, ma in una versione più stonata, qualcosa che sembrerebbe una parola.
-Ma stai bene? Stai impazzendo? Oh, lo sapevo, la tv ti ha fuso il cervello- dico tra me e me, per poi accorgermi che la cosa che sta urlando è effettivamente una parola con senso, e cioè…
-RAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAIIIIIIN…- urla e intanto annuisce, sorridendo. La cosa che mi piace di Chelsea, oltre al fatto che subisce i miei cazzotti senza lamentarsi troppo, è che si auto-approva. Non ha troppo bisogno di qualcun altro che le dica che ‘sta facendo bene’, ecco, sì. Sostengo una teoria, ovvero, se Chelsea vivesse da sola nel mondo, non avrebbe grossi problemi: è iperattiva e parla per dieci, si fa domande e si risponde, riesce ad essere il cameraman dietro la cinepresa e anche l’attore protagonista in mezzo al set. Una volta che il suo spettacolo inizia, qualsiasi altro intervento, anche solo un dito che sia di un’altra persona, rovina il senso, è troppa roba sul palcoscenico: lei è talmente presente, talmente esuberante, talmente tutto da riempire anche un deserto, anche la Luna si sentirebbe affollata se Chelsea ci mettesse piede sopra. Chelsea Sienna Spiegelmann ha quella cosa che hanno in pochi, e che non ha nessun altro che io conosca; e ce l’ha in una quantità che basterebbe per diciotto persone e mezzo: mi sento così Johnny Depp a dirlo, lei ha la moltezza. E ne ha molta, troppa, straborda di moltezza come i suoi ridicoli costumi da bagno di qualche taglia in meno strabordano di tette quando andiamo al mare. Ecco, sì, uguale. Chelsea potrebbe popolare una città della grandezza di Mosca, e farla sembrare affollata. E pensandoci, è quasi triste, ma più per noi, tagliati fuori dal suo mega-micro-cosmo, che per lei, che immersaci dentro ci vive benissimo. Almeno, ci vivrebbe benissimo se non fosse Chelsea, se si accontentasse dei milioni di stelle che circolano nella sua testa, se fosse un Leopardi che si isola dietro la sua siepe, un Dante che non osa toccare Beatrice. Ma purtroppo, non ho la fortuna di essere amica né di Leopardi e né di Dante, bensì di una nana irlandese con i tubi rosa, a cui sé stessa non basta, e deve cercare altro, sempre altro e sempre di più, fagocitare gli altri nella sua nebulosa viola e scintillante, trascinare tutto e tutti nel suo megacosmo, perché nonostante l’enorme presenza che è e che costituisce, parlavamo della popolazione di Mosca, esatto, che con lei sola sembrerebbe affollata due volte Tokyo agli occhi degli altri, per lei sarebbe terribilmente vuota. Chelsea è un contrapposto. È un bianconero. È un aforisma incomprensibile perché troppo comprensibile. Si tenderebbe a lasciarla sola nel suo essere strabordante, restare seduti quei tre centimetri fuori dalla sua linea di confine, con il mento tra le mani, ad osservare come bambini, le sue stelle che ribollono ed esplodono, si separano e si fondono. Ma allo stesso tempo, lei cercherebbe in tutti i modi di trascinarci dentro, disperatamente, perché si sentirebbe tremendamente sola. Lei, che sembrerebbe la più grossa delle torri con le più solide delle fondamenta, collasserebbe su sé stessa; e gli altri seduti tre centimetri fuori non se ne accorgerebbero. Vedrebbero solo il microcosmo sparire, così, ad un tratto; ci rimarrebbero male ma poi perderebbero interesse. Ed è per questo che Chelsea non andrebbe mai e poi mai sola sulla Luna, mai e poi mai sola a Mosca: per gli altri sembra incomprensibile, come qualcuno che chiaramente sarebbe fin troppo già da solo, necessiti talmente tanto delle altre persone, di vita, di calore, di approvazione, o disapprovazione, qualunque cosa, pur di far vedere che c’è, anche se in realtà si vede benissimo comunque. Credo non ci abbia mai pensato, e non se ne fosse mai accorta. Forse sono dettagli immensamente astratti a cui penso solo io, al secondo anno della facoltà di filosofia, perché non ho altro da pensare, la notte quando invece di dormire fisso le stelline fluorescenti sul soffitto e gioco con i tubi di Chelsea che mi ronfa addosso, stritolandomi come fanno gli irlandesi. Probabilmente non avrete capito un corno di tutto questo grosso discorso, e quasi sicuramente se dovessi farlo a lei mi manderebbe a quel paese. Per la prima volta nella storia, me lo sento.
-Ti prego, smettila di strillare- scrivo su un foglio che poi le piazzo davanti alla faccia, perché a questo punto anche se urlassi non mi sentirebbe.
Incredibile!, lei smette. Mi fissa addosso i suoi occhi fuori misura.
-Com’era?- chiede, sorridendo. Il mondo collasserà su sé stesso, quando mai dovesse smettere di sorridere per ogni stupidaggine.
-Non era male- commento. Poi riprendo la chitarra. Oh, amata. Ave, mia salvezza. -No, per niente male... Adesso ci attacchiamo le chitarre. Passami il jack dell’amplificatore- lei mi passa il filo. Lo attacco, le casse fanno FIIIIIIIII, i vetri vibrano. -...poi magari faccio uno squillo a Georg e gli chiedo se ci presta un’oretta da bassista- gracchio, non appena è finito il FIIIIIIIIIIIII. Chelsea applaude e inizia a saltellare sullo sgabellino. Mioddio, non ammetterò mai e poi mai quanto mi rincuora quando fa così. Sembra una bambina. –Smettila di bambineggiare. One, two, three, four!
Chelsea ricomincia a sbacchetare. Io conto i battiti, sì, sulle dita, perché così imparo prima. Oh, Astbury, se ci vedesse, credo inizierebbe a sfasciare l’appartamento urlando, per poi rincorrerci con un vetro scheggiato e assassinarci in un vicolo, magari quello qua dietro, vicino al pub, quello dove ci si tira le scazzottate il sabato sera. Oh, diamine, Bill, colpa tua, mi sto afflosciando, è troppo tempo che non faccio una bella rissa come si deve, ad andare a ristorantini chic e prati verdi. Magari quel fantastico vicolo dove ho rotto una gamba, tre dita, qualche incisivo e provocato un trauma cranico fra ragazzi della band di Stenka, dopo che mi aveva piantato. Che ignobile, non è nemmeno andato a vedere come stavano.
-Hot sticky scenes, you know what I mean…- strillo nel microfono di quarta mano, praticamente rubato ai mercatini dell’usato, mentre i ragazzi del club dei nerd tenevano occupato il venditore con le più assurde domande su un televisore degli ’80 non funzionante. E mentalmente recito un Atto di Dolore, fissando implorante i The Cult appesi giusto di fronte a me in parte a Dani California.
*
Sto camminando. Cammino in centro, e supero Sisley, Zara, e Tiffany sulla destra; Guess, Armani, Swarovski sulla sinistra. Il fumo della sigaretta rotola verso l’alto, e le fronde delle palme che sopravvivono chimicamente fanno frush frush. Si può musicare? Sto cercando ispirazione, mi intriga l’idea di qualche traccia bonus per Humanoid. Sapete, quelle cose da vinile-versione-deluxe autografato e placcato in argento, da impacchettare in una bella custodia in cartone lucido con interno di velluto. Magari di un bel blu oltremare.
Mah.
Qualcosa di così raffinato, in bilico verso il pacchiano; qualcosa da vendere ad una ristrettissima elite di ragazze viziate da padri pieni di soldi. Ragazze che passeggiano in centro, e superano Sisley, Zara e Tiffany sulla destra. Che si destreggiano su tacchi mozzafiato, che fumano sigarette sottili e lunghe. Ragazze con gli occhi neri e le unghie con il french. Che muovono le braccia per far tintinnare i braccialetti, che ancheggiano ciondolando la testa, a occhi socchiusi, mentre spiano le altre ragazze constatando che non saranno mai al loro livello, che non sono un problema, che stanno loro cento e cento metri sotto. Ragazze che ascoltano Beethoven nel loro salotto color panna, Lady Gaga nella loro stanza fucsia acceso e i Sex Pistols nel loro seminterrato gocciolante, ragazze con i tacchi color verde acido con inserti rosa, che tirano cazzotti al primo che critica il loro abbigliamento. Che sospirano al vento freddo di Magdeburgo, sognando l’aria calda della California in maggio. Ragazze segnate dalle risse e dalle cerette, dal rifiuto di dieci, cento, mille persone. Che costruiscono la loro scala verso il successo con le ossa delle loro nemiche, e salgono destreggiandosi su decolleté argentate in un concerto di cric-crac. Quelle che vedono le stelle dietro le nuvole, che hanno la pioggia nel cervello; che parlano e parlano e parlano, e ridono perché nessuno starà mai lì ad ascoltare, e ridono e ridono e poi il loro ridere diventa un piangere, e si appigliano le une alle altre in un Munch scadente, di borchie e sogni infranti, che un falsario dipinse un giorno mentre la sua ragazza triste cantava. Le ragazze che sorridono di sorrisi schizzati di sangue, che non si sa da dove venga. Che non possono nascondersi dalla polizia, dopo essere state trovate a imbrattare i muri del Parlamento con citazioni new wave, perché i loro capelli sono troppo vistosi e tutta la gioielleria pesante che hanno addosso luccica al raggio delle torce. Delle ragazze che ci arrivano prima, e decidono di non nascondersi, che alzano le mani, e quando i poliziotti si avvicinano con le manette tirano qualche bel calcio rotante, perché nessuno sbirro di città può nulla contro una zeppa ben preparata. Quelle che si fanno una bella e grassa risata la mattina dopo, quando leggono sul giornale che una pattuglia della polizia è stata trovata ammanettata al cartello dello Stop di fronte ad un Municipio che recitava “I’m a stranger, killing an arab” scritto in verde fluo. Che annegano il giornale di birra scaduta due anni prima e poi gli danno fuoco, buttandolo giù per la finestra, per vedere se prevale l’alcool o l’acqua; e molto probabilmente la fiamma non prenderà, perché si sa che la birra ha due gradi in più delle pesche mature.
Quelle che mandavano a farsi friggere i prof almeno una volta ogni novanta minuti, ma che sono uscite con il massimo dei voti da tutte le scuole, perché queste ragazze sono fottuti geni che vanno avanti ad Aristotele e Coca Cola; che sfogano la depressione su un muro che un tempo era bianco, e la loro pazzia sbriciolando i cuori dei loro amanti, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro.
Le ragazze che sono tutto tranne che vere ragazze, perché le vere ragazze hanno due X, e nessuna Y; e si comportano bene, mettono il fondotinta scuro, si vestono bene e guardano tante fiction d’amore, non passano giornate su Kubric e Godard, e non usano ‘troia’ come nomignolo affettivo, e non soffiano come i gatti a chiunque tocchi le loro collezioni di smalti da unghie.
Non perdono tempo a cercare di capire quelli come il sottoscritto, che non sono ragazzi e non sono ragazze, ma che si danno del maschile per comodità (si sa, purtroppo la forma neutra non c’è proprio in tutte le lingue); quelli che sono il peggio del peggio degli ibridi, orribili sotto tutti i punti di vista, tremende bellezze che ammaliano come le sirene, che una volta arrivati lì, si accorgono di non avere nulla da darti, se ne vanno e ti lasciano affondare nell’oceano buio senza tornare a prenderti. Vampiri senza cuore, che cercano disperatamente di recuperarne qualcuno aprendo corpi con le unghie; per poi lasciarsi dietro solo una scia di cadaveri sanguinolenti e nulla di buono. Che conoscono solo eterni ed egiositci sensi di colpa.
Sono tentato di entrare da Dior. Ci sono sempre quelle fantastiche boccette dorate, quelle che sono perennemente uguali da chissà quanto tempo ma che a quanto pare vendono bene, tanto da convincere i manager a spendere sempre più soldi in pubblicità sempre diverse. Non mi ricordo quante ne ho, ma so che la mia sfida per quest’anno era ‘arriva a cinquanta J’adore prima di settembre’. Credo di essere a quaranta, fra pieni e vuoti. Un’ossessione come un’altra, no?
A volte mi sento una meretrice di bassa qualità, che spende i suoi milioni negli J’adore e le sue espressioni facciali in smorfie da modella rabbiosa. Così vuoto. Vorrei che qualche disperato venisse a cantarmi una canzone d’amore sotto il balcone, anche il primo afghano venditore di rose rosse pagato due soldi per strada. Vorrei che qualcuno mi rincorresse per casa, per il giardino e per tutta Mag solo per prendersi un bacio. Sapete, quel tipo di persone che quando sei nel tuo jet privato, comodo comodo e pronto per andare in tour, si piazzano in mezzo alla pista di decollo perché devono assolutamente dirti ancora una volta che “ti amo e mi mancherai. Canta bene, copriti e torna presto”. Ciò che di più romanticamente stupido può esserci sulla Terra.
-Scusi, desidera?- quanto di più insignificante, idiota e incredibilmente sincero. Qualcosa che nemmeno il più strapagato dei compositori potrebbe pensare. Qualcosa da voce stonata e ukulele senza una corda, sotto il sole di mezzogiorno che ti impedisce di guardare in alto, verso la terrazza, perché altrimenti resti mezzo cieco. E quindi, la tua mente calcolatrice da innamorato folle ti suggerisce di andarti a comprare una di quelle maschere che usano gli operai per saldare i tubi, così puoi fissare la tua Bella controsole anche per due ore di fila e non ti farai male. Forse. Ma per la tua Giulietta, che sta sul balcone, questo ed altro, anche a costo di sembrare un vero idiota, un vero idiota da film americano scadente. Un vero idiota innamorato.
-Uno J’adore. Anzi, due. Non li tenete sugli scaffali, ho visto- un vero idiota che mi insegni a lasciar perdere tutta questa robaccia inutile, inutile, inutile, mortalmente inutile. Voglio smetterla di fare regali a me stesso. Voi non immaginate per quanti anni io mi sia andato a comprare i maledetti J’adore, per poi farli impacchettare con carte a cuori e nastri rossi, e farmeli mettere sul comodino da Amelie ogni 14 febbraio.
Oh, non che non riceva regali a San Valentino, anzi. Ma fra tutti gli omaccioni che si destreggiano nel corsivo per farmi un bigliettino decente, magari allegando un fiore, o una collana, credetemi, gli unici vagamente piacevoli erano quei due cartoncini che riuscivano a passare i bodyguard, infilati magari dalle finestre, di nascosto, dai fan.
-Sì, teniamo solo i tester. Ecco a lei. Vuole un pacchetto?- beh, non si dica mai che il mio amato gemellino non sfatichi a San Valentino per il sottoscritto per-sempre-single-dentro. Ogni anno si fa un’ora in macchina di andata e una di ritorno, per andare da  Süßen Geschmack, quella fantastica pasticceria artigianale a chilometri da Magdeburgo, a prendermi una red velvet gigantesca e piena di panna, con le rose di zucchero e le palline argento; così posso rinchiudermi in camera e annegarmi di torta, mentre guardo tutti quegli orridi film da San Valentino che mandano alla tv. Cosa non si fa, per un bellissimo brutto essere ibrido come me, eh?
-Uhm… no.
Ma potrai mai esistere, mio menestrello sottopagato? Comparirai mai alla mia porta, idiota innamorato? Potrò mai vederti, tu, sagoma indistinta, che si sdoppia nella nebbia dell’inverno perenne che strizza questo cuore da dentro? Forse questo si può musicare, è abbastanza in rima, sì, direi di sì. Magari, quando torno, scrivo qualcosa.
Fisso le boccette colorate dietro alla capigliatura ossigenata della cassiera, mentre lei mette due scatolette in una sporta di carta. Ce ne sono per tutti i gusti. Alte e strette, basse e cicciotte, una a forma di farfalla, una che ricorda una moto scassata. Viola, blu, verdi, rosa, anche gialli poco invitanti. Davvero per tutti i gusti.
E mentre fisso le boccette, sarà il mio animo da Regina Rompipalle, ma mi viene un’idea. -Anzi, sì. Ma li faccia recapitare a questo indirizzo- dico, veloce, interrompendo il complicato lavoro di imbustamento della cassiera. Quella probabilmente mi sa guardando male, ma il mio sguardo cade a terra. Il pavimento di questo negozio sembra una volta celeste. Marmo nero, con minuscoli punti luce, bianco, argento. Fashion. Scommetto che l’hanno copiato dallo Swarovski qui davanti, ci metto tutti i miei Pandora che se entro in quel negozio ce l’hanno uguale identico.
La bionda al bancone mi guarda perplessa, mentre scribacchio un indirizzo su un pezzo di carta e le allungo il foglietto. Che c’è, non siete abituati alle richieste complesse? Va’ a cercarti un fattorino e fa’ il tuo lavoro, rifatta dei miei Savage in pelle tacco venti. Le piazzo un cinquantone sotto il naso, e a questo punto sembra aver inteso la mia richiesta. Oh, che scartavetramento di palle. Non si può mai eseguire semplicemente.
Miss Rifatta mi ringrazia e mi saluta, ma io mi allontano senza spiccicare parola. Tesoro, non si offendono le queens. Adesso il tuo negozio è sulla lista dei ‘posti che abbatterò quando avrò preso il controllo del pianeta, per poi piantarci filari di betulle’. E non mi interessa una betulla marcia se il posto non è tuo e sei solo una dipendente del cavolo che domani sarà già stata trasferita e sostituita con un’altra nana rifatta. Mi irriti, come i tuoi profumi scaduti.
Creo una certa distanza fra me e il buco impestato di Miss Rifatta Dior. Mi sono accorto solo adesso che in fin dei conti, a parte questo sigarettone nero, non ho proprio niente in mano. Bisognerebbe rimediare, entrare in qualche negozio, spendere qualche migliaio, comprarsi qualche cosuccia. Magari un bracciale da abbinare con la cintura che mi ha regalato Tom un mese fa. Non l’ho ancora messa, proprio perché progettavo di rimediare un accessorio. Ma magari più tardi, c’è una caffetteria aperta, uno di quei locali eleganti dove fanno il caffè all’italiana; e quando dico che è aperta intendo proprio che porte e finestre sono spalancate, e il viale è inondato di un profumo a cui non sarebbe lecito opporre resistenza.
Quindi al diavolo le mie mani vuote, entro e mi siedo su uno sgabello alto, al bancone. Un bellimbusto abbronzato con la faccia da latin lover (secondo me è italiano pure lui. Woha, non ho ricordi di italiani nel mio letto) si avvicina, e chiede se può portarmi qualcosa. Un espresso, lungo, doppio, concentrato. Grazie. Con lo zucchero. Il bellimbusto fa un accenno di inchino, e se ne va. Incrocio le gambe, appoggio il gomito sul bancone, la catenella della pochette è fredda e pende dal mio braccio. All’improvviso mi rendo conto di come i turbini del fumo della sigaretta, da tenere fra pollice, indice e medio, come le vere signore degli anni ’30, sia immensamente più interessante del fustacchione che mi è appena passato davanti. Sarà un riflesso involontario? Avrò un problema. Crisi da eccesso di ispirazione, ho bisogno di relax, troppo stress, troppe corse, troppe cose tutte insieme. Ho bisogno di una Moon River, e di un caffelatte, dolce, leggero. Di dormire. Di bruciare tutti i miei lucidalabbra, e buttare tutti gli anelli-tirapugni. Ho bisogno di un’isola deserta, e di una coperta rosa da stenderci sopra. Di un giorno di sole e del vento caldo della California, quello che sognano le ragazze che comprerebbero i bonus di Humanoid. Ho bisogno di qualcuno che si sieda dietro di me e mi faccia tantissime treccine, perché farsi acconciare i capelli è rilassante, più di tutte le camomille; e di qualcuno che mi si sieda davanti, e inizi ad elencare tutte le forme che hanno le nuvole nel cielo, per riempire il silenzio.
Non è ancora arrivato il mio caffè. Perciò resto a fissare la mia sigaretta. Una sigaretta lunga, nera, come quella di Audrey Hepburn quando faceva la star di Colazione Da Tiffany. Ecco, io sono Bill Kaulitz, star di Caffè Di Metà Pomeriggio Dal Bellimbusto-in centro a Magdeburgo. Un modo come un altro per far carriera, il cinema è sempre lì per te, quando vuoi. Fatti avanti, e ti spiaccichiamo su uno schermo, et voilà, sei giovane per sempre. Semplice, la vita del personaggio da film. Lui è lì, fa le sue mosse, recita le sue battute, ha il suo happy-ending, sottofondo finale, titoli di coda. E quando ti ritirano fuori, sei pronto per ricominciare daccapo. Bello, facile… mi sento veramente tentato. Chissà se l’amante del capo della STASI sarà all’altezza di Audrey. Oh, questo sta a Chelsea, è lei il cervello della cosa. Forse non è proprio una brutta idea. Ha una bella trama, il nostro film, se tutti fanno per bene quello che devono fare, forse ne ricaveremo qualcosa di buono.
Improvvisamente un raggio di sole filtra dalla vetrina, e mi prende in pieno. Detesto quando succede, perché fa rifrazione sul piercing sul sopracciglio, ed è fastidioso. Però, con tutta questa luce, mi immagino il red carpet. Bill Kaulitz che sfila accanto al fratello, sventolando la manina e sorridendo alle macchine fotografiche. Uhm, no. Bill Kaulitz che sfila, a braccetto di due nane male acconciate e per nulla fotogeniche, una che inciampa sulle sue stesse zeppe e picchia  i giornalisti, l’altra che non sa da che parte guardare e ribolle di felicità mista a panico mentre strattona gli altri due a destra e a sinistra, lanciando urletti entusiasti a destra e manca. Un po’ patetico. Però, ci sta.
Il bellimbusto arriva, con la sua faccia da perverso maniaco e il mio caffè più nero dell’universo. Io mi alzo, raccolgo la pochette e poggio la sigaretta.
-Hei … hei, scusi! Non lo vuole il caffè?- esco dal locale a falcate da cavallo. No, grazie, non mi va più il tuo caffè. Adesso, giuro, vado a comprare un regalo per Tom, uno per Georg, e due panini per Gustav. C’è il sole, e ho voglia di prenderne un po’ prima che tramonti, e poi… uh, mi sento buono.
E a proposito…  faccio marcia indietro, mi affaccio al locale.
-Cambiati la maglietta. È sporca di caffè.

Hey guys!!! Che ne dite di questo capitolo?? Speriamo che questa storia piaccia a voi quanto a noi... lasciateci qualche commentino!!! :))))
Baci!! :******                                                                                                                                                                        The Two Of Us ^^

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Capitolo 17
*** Go shopping girls! ***


CAPITOLO DICIASSETTE: GO SHOPPING GURLS!

Siamo sdraiate a letto questo momento, il suo grosso letto matrimoniale sfondato nel mezzo del disordine cosmico che vige nella camera, la chitarra abbandonata in mezzo alle vecchie fanzine hardcore, i vestiti buttati alla rinfusa sul pavimento insieme ai vecchi cd dei Linkin Park e dei Bauhaus, le tapparelle scassate e la nebbia che schiaccia sui vetri come a voler entrare e divorarci, citazione perfetta di “Attacco Glaciale” del 2010, di Brian Trenchard-Smith con Michael Shanks e Alexandra Davies.
Credo che Alexandria dorma, a questo punto, usando il mio davanzale come cuscino come abbiamo sempre fatto sin da quando eravamo bambine, accoccolate una sull’altra come due procioni in letargo. Sento il suo respiro caldo sulla mia pelle lentigginosa, il petto che si alza e abbassa lentamente, le mie braccia che la stringono come una bambolina, e intanto penso, lo sguardo perso sul soffitto, la mano intrecciata coi suoi capelli, un sorriso vago sulle labbra, gli occhi viola socchiusi nella perfetta posizione da regista surrealista che sta per partorire l’Idea Del Secolo per aggiudicarsi l’Orso d’oro di Berlino e la Palma di Cannes. Certo, magari aggiungendo il rumore della pioggia che batte sul vetro e il sordo risuonare di Rachmaninov in qualche stradina secondaria, possibilmente anche coi due protagonisti della vicenda colti in un momento post-coito, ma immagino che per noi possa andare bene anche due migliori amiche che russano sonoramente senza alcun Rachmaninov ma solo qualche vecchia canzone dei One Direction della vicina di sopra e nessuna sigaretta, sostituita poeticamente da un pacchetto di patate fritte.
Sarebbe una pellicola decisamente strana, la mia, penso, mentre Alex russa distrattamente e mi da un calcio nel sonno. Soprattutto per la presenza di Bill che fa da jolly della situazione. Non potremmo mai davvero dire che è nostro, noi, che non abbiamo mai posseduto davvero nulla. Perché la musica non appartiene, la musica è libera, è la radio, sono le note che scorrono le chitarre, nessuno può dire di fare musica perché è la musica che fa te stesso, è lei che ti plasma e ti filtra fuori dalle dita o dalle corde vocale. Perché la follia non era nostra, era l’effetto di idoli sbagliati che non avremmo mai dovuto imitare, era lo strascico di quegli anni ’70 di cui mio fratello Cooper Carter ci ha fatto testate inimmaginabili, era lo schizzo copiato da una Factory che avremmo tanto voluto visitare. Perché la ribellione è del popolo, non del singolo, è la miccia che Billy Terry e Charity Rebecca ci hanno infilato in testa, è il messaggio che gli anni ’60 ci hanno voluto lasciare da portare avanti come figli di un mondo che è stanco. Perché il cinema ha già avuto i suoi padri di ogni sua forma e perversione, non siamo altro che i loro discendenti, i discepoli di mondi che non dovrebbero mai venir distrutti come il Gabinetto del Dottor Caligari ma continuati incessantemente per non dimenticare. Non abbiamo nulla di nostro, io e Alex, siamo solamente la periferia stessa nella sua essenza. La periferia non possiede, conquista, come noi c’eravamo conquistate la fama di regista da quattro soldi e di bestiaccia assassina. La periferia patrocina i propri figli e non li lascia in pasto alla borghesia, li difende dalla fine del mondo, e ugualmente noi ci proteggiamo a vicenda, costruendo labili muri di sogni infranti e cocci di bottiglie rotte che graffiano la gente e gli strappano via le borsette. Possiamo non aver niente, ma io ho in mano una vecchia macchina da presa, delle luci di scena vecchie come il mondo, un copione sporco di fritto e uno dei cast peggiori che la storia del cinema abbia mai visto. Ma non sono forse i piccoli sogni che danno vita a grandi opere? Non saremo forse noi tre a rivoluzionare il sistema? Mi alzo faticosamente dal letto, però mi inciampo e rotolo pesantemente a terra, rotolando come un sacco di patate nella gigantesca maglietta di MØ e svegliando irrimediabilmente la Coinquilina Hannibal che salta in piedi sobbalzando
-All’armi!- urla agitando indefessa il pugno – Ci attaccano da ovest!
-No, Alex, sono solo caduta dal letto.- le rispondo, premunendomi di un grosso vinile dei Guns’n’Roses onde evitare che mi tiri addosso una scarpa, cosa che sta per fare ma che viene fortunosamente bloccata dalla bella faccina di Axl Rose che la guarda con aria sexy dalla copertina. Anche questa l’hai scampata, Chelsea Sienna Spiegelmann. Non sia mai detto che la Grande Regista non sappia difendersi abilmente: cosa farò quando dovrò convincere un’arzilla centenaria a lasciarmi la sua casa in Himalaya per girare il più grande kolossal sul metabolismo magico di una capretta del Kentucky che teletrasporta lo squinternato protagonista in mezzo all’Annapurna?
-Dio, Chess, ma che eri rincoglionita si sapeva, ma non a ‘sti livelli.- grugnisce Alex, riemergendo dai boccoli biondi, il trucco sfatto e un filo di bava che cola sul cuscino dei Sex Pistols. Avrebbe anche un che di poetico, a guardarla ora, bella, bellissima e volgarmente sdraiata su questo letto sfatto. Guardo le calze strappate che le fasciano le gambe anoressiche, quel tocco di regale sciatteria che rimanda tanto alla brutta Berlino degli anni ’70 ma che, miracolo dei miracoli, potrebbero essere una deliziosa citazione di “Pretty Woman”, quello di Garry Marshall del 1990, con Richard Gere e Julia Roberts. Osservo la maglietta sfatta dei Linkin Park che le nasconde grossolanamente le forme eppure, nelle loro sfatte forme non sarebbero in fondo così diverse dalle statue di Prassitele, quelle morbide curve del tessuto che avvolgono la statua come ragnatele e che ugualmente la maglietta fa con suo corpo, è qualcosa di impalpabile ma tangibile nella sua presenza trivialmente attuale di una squinternata fan adagiata nel ricordo di una vecchia tournée dimenticata. Risalgo lentamente sulle sue braccia avvinghiate al vecchio cuscino pulcioso, alla semplice infantile dimostrazione di una ragazza che per quanto possa fare il muso duro e ringhiare in faccia a tutti è comunque ancorata ancora a quando eravamo bambine e dormivano con mia sorella Flora Anne, la maggiore in assoluto, che ci raccontava le storie della buonanotte e ci teneva strette a lei come bambolotti. Mi ricordo ancora quando ci svegliavamo nel cuore della notte, io con pigiama intero, i capelli ancora rossi, corti e riccissimi e lei coi boccolotti biondicci con le treccine, i peluche bucherellati di una pecora e un ragno gigante, una vicina all’altra nei lettini pressati in camera coi gemelli che ci raccontavano le storie più terrificanti prima di dormire e passavano le notte a letto insieme a ridacchiare, di cosa poi nessuno l’hai mai capito, e allora noi due ci alzavamo, i suoi occhi scuri determinati e i miei fanali viola terrorizzati a morte, e ci tenevamo per mano mentre sgattaiolavamo nel buio della casa verso la camera di Flora Anne, e saltavamo nel suo letto, svegliandola, e brontolava sempre, mentre tu davi la colpa ai gemelli che ci avevano spaventate e io dicevo che erano arrivati gli alieni a forma di formaggetta gigante e dormivamo con lei per tutta la notte. Sono i ricordi bellissimi della nostra spensierata infanzia che ancora adesso si trascinano mollemente nella nostra mondanità squilibrata sempre sull’orlo di un coltello. Adesso non abbiamo Flora da cui correre quando ci spaventiamo, abbiamo solamente noi stesse. E Bill, a questo punto, coi suoi capelli corvini e la faccia da troia. Sarà in grado di proteggerci dagli alieni formaggetta o scapperà anche lui come ho sempre fatto io? Ci consolerà la notte dopo le storie dei gemelli oppure andrà a dormire lontano come ha sempre fatto Alexandria?
Non so se è bello essere considerate dei casi persi, quelle a cui nessuno ha mai detto “ti amo” perché per qualche misterioso motivo eravamo sempre troppo pagliaccesche per poter essere prese sul serio. Non dici “ti amo” a una iena e a un pagliaccio, questo è poco ma sicuro. Tutte le ragazze che ho avuto io, e i suoi ragazzi nessuno si è mai sprecato più di tanto a considerarci qualcosa di più che un buffo duo di squilibrate che non si staccavano mai una dall’altra e che sparavano cazzate a mitraglietta. Mi ricordo ancora quella volta, sedute a cavalcioni del cavalcavia, a tirare sassolini giù di sotto e a cantare le vecchie canzoni dei Beatles a squarciagola, dondolando le gambe nel vuoto, e c’era brutto tempo e una schifosa nebbia che saliva da sud. C’eravamo solo noi due, mentre aspettavamo Cooper Carter e i suoi amici che tornassero da uno dei loro soliti raid da strafatti. Io avevo alzato la testa, tirando un altro sassolino, smettendo di strillare Hey Jude ad ogni uccello che passava e avevo detto ad Alex, con aria mesta “Ma se nessuno ci ha mai detto “ti amo” non credi che dovremmo dircelo io e te? Tanto per vedere che effetto fa”. Lei mi aveva guardato storto e poi aveva detto “Potremmo anche farlo, ma non credo che funzioni. È un po’ come il Califragilistichespiralidoso. Solo Mary Poppins può dirlo, e che diamine”. Le avevo dato ragione, come ogni volta, ma ce l’eravamo detto comunque, per poi metterci a ridere come due deficienti e rischiare di cadere giù dal cavalcavia. Non so quanto vorrei che Bill ci dicesse che ci ama seduti su un viadotto a tirare sassolini cantando Hey Jude. O forse cantando Automatic. Sì, l’ho sempre saputo di non essere molto poetica, ma in fondo sono una regista che racconta i meravigliosi paradossi della vita reale, non sono mica qui per montare storie su quanto l’amore possa essere bello. Sono qui per registrare l’amore sporco, brutto e inutile che si vive ogni giorno sulla pelle, che sia pallida, truccata, o lentigginosa. Con noi due non vale nessuna regola, credo sia più che appurato, siamo quelle ragazze ribelli che non valgono più una cicca per nessuno. E allora cosa farai, vogliosa Delfina? Ti sacrificherai così per la bella Ippolita, sarai disposta ad amarla da dietro un sottile velo di brina, a posarle le mani sui prosperosi fianchi senza poter fare altro che ardere d’amore per lei? Questo è il crudele destino del vostro amore dannato, destinato a languire per sempre sotto torbide occhiate e arrossamenti celati abilmente dietro un ventaglio di piume di pavone.
Avrei anche già una scena perfetta per un film socialmente impegnato, qualcosa che sarebbe perfetto da girare ancora qui in Germania
 
Notte fonda, la telecamera parte larga, sul cielo sporcato da qualche pallida stella, si sentono risate sguaiate in sottofondo, la musica a palla dei Beatles soffocata in casse di marca scassa. La telecamera scende piano, inquadra da lontano un gruppo di ragazzi, sono gli anni ’70 e ce se ne rende conto, sia dalle inquadrature che rimandano volutamente a quel periodo, sia dall’abbigliamento dei ragazzi seduti su un cavalcavia abbandonato, ormai divorato dalle piante. La visuale si avvicina sempre di più sui ragazzi, che tirano sassolini giù, ridono, ci sono birre che girano insieme a spinelli mal girati, c’è uno che suona la chitarra, qualche ragazza balla, uno sicuramente starà seduto a contare la velocità accelerata dei sassolini che precipitano, il solito secchione con gli occhiali e la salopette. Ci sono due ragazze, poco distanti dal gruppetto, silenziose, una accanto all’altra, slavate come in fantasmi di un futuro rovinoso che sono tornate indietro distrutte dalle sabbie del tempo. Una, bionda, mezza rapata, vestita da rockettara guarda con una smorfia, è avvilita, delusa, distrutta. L’altra, coi dread bianchi e rosa, vestita come una puttana piange in silenzio, grosse lacrime che colano, è semplicemente spezzata dentro. La telecamera torna a concentrarsi sui ragazzi degli anni ’70. Sul cofano della vecchia giardinetta beige ci sono la versione seventies dei due fantasmi, due ragazze decisamente più giovani, la bionda ha tutti i capelli e ha un vestito a fiori, l’altra ha i ricci arancioni e una tenuta orientale, ballano saltellando, ridono felici insieme a una terza ragazza, che forse a guardarla bene è un maschio ma non si capisce mai davvero bene, lui ha i capelli corvini, lunghi, tirato come una ballerina da lap-dance, balla molto meglio delle ragazze, ride forte, è bellissimo, si stringono uno all’altra quando il ragazzo con la chitarra e l’aria hippy scatta loro una foto con la vecchia Polaroid, tutti e tre abbracciati, accucciati sul cofano, sono felici, devono sprizzare amore da tutti i pori. La ripresa riprende sui due fantasmi del futuro che osservano il tutto senza colore, piatte, come se il solo vedere il loro passato le riportasse a ricordi così strazianti da sfibrare addirittura i loro fantasmi. È impercettibile, ma più guardano, più si sfaldano e perdono consistenza reale. Eppure, quando i tre si baciano contemporaneamente, stringendosi e ridendo, la rasta piange, piange forte e la bionda non è da meno, le loro lacrime scorrono sempre di più fino a farle sciogliere sul cavalcavia. Nessuno si rende conto che sta arrivando una macchina della Polizia sempre più rapida.
 
-Ehi, Chess, ci sei?- lo schiocco delle dita della Coinquilina Hannibal mi riporta alla realtà malamente, smontandomi tutti i momenti tragici che si sarebbero susseguiti in questa scena – Un’altra crisi da cineasta?
Non aspetta nemmeno risposta, si alza semplicemente e mi da uno schiaffetto affettuoso sulla testa, andando a recuperare la chitarra che si scorda sempre.
-Credo che dovremmo fare una versione 2.0 di Tower Hill.- commenta acidamente, girando le chiavi della vecchia chitarra rosso fuoco – Sinceramente, quella vecchia era una vera cazzata.
-Perché?- ribatto amareggiata. Ovviamente, Tower Hill era stata la colonna sonora de “La capra che scoreggiava lamponi”. – Aveva un che di mistico, a modo suo. È un po’ come Clint Eastwood. Come attore, da giovane, intendo, non era granché, ma come regista la musica cambia del tutto. Però non puoi cancellare i film del passato, che c’entra! Tower Hill ha sempre avuto una sua dignità!
-Sì, certo, infatti proprio perché era dignitosa sei stata così furba da metterla come colonna sonora nel frame in cui Terry e Charity fingevano di scopare. Wow. Un premio di intelligenza alla Grande Regista Surrealista.
Mi guarda tanto male quanto aveva guardato i compagni di band di Stenka quando lui l’aveva mollata spudoratamente e io mi faccio piccina piccina sotto la batteria, prima che mi arrivi un mattarello in testa come quando mia sorella Avery Aubrey ci aveva inseguite per ore dopo che le avevamo inavvertitamente calpestato la sua serra di bulbi algonchini con gli anfibi.
Mi lego i dread in un muccio sformato, attaccando voracemente qualche biscotto di Chernobyl con Nutella, mentre Alex si lascia cadere sul divano come un sacco di patate con la chitarra imbracciata, lanciandosi in una piccina cover di qualche pezzo intramontabile dei Black Sabbath che distorce così tanto da essere irriconoscibile.
Sembra la classica scena madre da casa nostra, io che mangio parlottando tra me e me di cinema sudafricano, e lei che strimpella, la nebbia oscura fuori, un umido bestiale che filtra dalle pareti di cartapesta e la pigrizia congenita che ci attanaglia la membra accidiose.  Sì, assolutamente lo sembra se a un certo punto non sentissimo un clacson fuori e uno strillo che purtroppo, o per fortuna, conosciamo più che bene.
-Ehi, puttanelle. Uscite!
È solo una frazione di secondo prima di precipitarsi entrambe fuori dalla porta come due missili, strabuzzando gli occhi non appena vediamo la famosa Audi della volta scorsa ferma davanti al nostro portoncino scrostato e Bill al volante, con occhiali da sole fatti a farfalla molto ’70, i guantini di pizzo nero, i capelli corvini accuratamente pettinati e le labbra spennellate di nero che schiocca le dita non appena ci vede, noi comune mortali sovra e sotto peso e strilla, agitando la sigaretta lunga
-Su, volete muovere i vostri culi grassi?! Salite, no!
-Oh, ma ci prendi in giro? Bill ma che … - inizia riluttante Alexandria, piantandosi a braccia incrociate di fronte alla portiera, per essere immediatamente smentita da me, per una volta, che la spingo nel sedile posteriore strillando
-Porco Humphrey Bogart e santa Jessica Chastain, Bill! Che ci fai qui?
-Sono venuto per portarvi in giro, troiette.- cinguetta lui, guardando con sufficienza la sottoscritta e la Coinquilina Hannibal buttate come due sacchi della spazzatura nella sua lussuosa Audi.  Eppure non riesce a nascondere un sorriso divertito e l’aria inguaribilmente cotta dietro le lenti nere degli occhiali a farfalla bianco panna.
Io e Alex ci guardiamo, boccheggiando. No. Cioè, ci sta veramente dicendo che è venuto lui, di sua spontanea verità, a recuperarci per portarci in giro?! Sembra impossibile, messa così. Come se in “Attack the Block”, film di Joe Cornish del 2012, con John  Boyega e Alex Esmail, Moses avesse deciso di non andare a bruciare vivi gli alieni. O come se Dorian Gray non avesse prestato attenzione a Sir Henry Wotton, che è più o meno la stessa cosa.
-Ma prima di tutto, mettete questi. Se volete davvero venire in giro col sottoscritto, dovete almeno reggere il paragone modaiolo.
Ci allunga due paia di occhiali da sole anni ’60, uno con due grossi cuori giallo limone e l’altro con due coni gelato fucsia. Io ho la brutta idea di allungare una mano per afferrare gli occhiali col cono gelato, deliziata all’idea delle facce che potrebbe fare Katie Crystal quando mi vedrà con queste meraviglie americane addosso.
-Cosa fai, sottoesperimento di robot narcolettico e storpio!- abbaia Alex, strappandomi di mano i bellissimi occhiali a cono gelato – Non puoi cedere così al sistema, indossando questi rimasugli di dietrologia consumista da americano medio sotto il governo Reagan!
-Senti un po’, straccetto da post-comunismo da governo Gorbaciov dietro la Cortina di Ferro, hai due chance: o ti metti gli occhiali consumisti da governo Reagan oppure puoi anche scendere qui!- Bill si gira, anche se sta guidando, abbassandosi sulla punta del nasino i suoi occhiali e ammiccando satanicamente.
E, anche se ci avrei giocato la testa di Mel Gibson, Alex sibila qualche insulto tra i denti ma mi strappa di mano gli occhiali a cuore e se li infila borbottando, dandomi anche uno scappellotto grugnendo
-Forza, soldato palla di lardo, mettiti gli occhiali. È il tuo superiore che te lo ordina.
Io e Alex ci guardiamo, prendendo un profondo respiro. Siamo sedute su una Audi della madonna, con gli occhiali da sole anni ’60, con Bill che guida a razzo per le strade, la radio che trasmette i Tokio Hotel a tutto volume accompagnata dal nostro fidanzato che strilla a tutto volume e una pericolosa bavetta alla bocca. Proprio come nei peggiori cliché di questo mondo, anche se non posso fare a meno di pensare che a volte certi cliché in un film sono proprio quelli che salvano da clamorosi tentativi di trovare la giusta chiave di originalità.
 
Route americana, telecamera esterna e fredda, deve riflettere tutta la falsità di quello che riprende, possibilmente gli Oasis come colonna sonora, il deserto del Nevada che brucia sotto il sole bollente dell’estate, i canyon all’orizzonte, tanto rosso che si fonde con l’azzurro pungente del cielo. Colori molto calcati, finti, molto irrealistici. Una Cadillac rosa shocking macina chilometri veloce, senza tettuccio, la telecamera si avvicina, viene inquadrato un ragazzo coi capelli corvini troppo effeminato con gli occhiali da sole a forma di farfalla, un fazzoletto a fiorellini rosa e verdi in testa, le mani ingioiellate, canta insieme agli Oasis, ridendo, guida. Dietro, una ragazza bionda mezza rapata con gli occhiali a cuore se ne sta spaparanzata su tutto il sedile posteriore, fuma tranquilla, i capelli al vento, la pancia nuda, si smalta le unghie dei piedi di un improbabile celeste, la mano con la sigaretta mollemente abbandonata all’indietro, una gamba tenuta su, volgare e sboccata, ride. Davanti, un’altra ragazza coi dread bianchi e rosa, coi piedi sul cruscotto, muove la testa al ritmo della musica. A un certo momento, quando si ripete “You’re my wonderwall”, si alza in piedi sul sedile, agita un grosso fazzoletto con la bandiera americana, uno sciame di Hell’s Angels accerchia rombando la Cadillac, urla “We are the future! America is ours!”, tutto questo accompagnato dalla risata del ragazzo che guida, un ghigno rauco della bionda e da un generale rombare dei motociclisti. La telecamera stacca su questo momento, come stesse scattando una foto a quella bandiera sventolante nel vento del Nevada.
 
-Benissimo, ragazze, che ne dite di andare a fare un po’ di shopping?- trilla Bill, svoltando con una frenata gagliarda nel parcheggio dei grandi magazzini, nel massimo tripudio di ignoranza medio-borghese. Ma noi siamo proletarie.
-Shopping? Ma non abbiamo nemmeno una lira!- esclamiamo in coro noi due, guardando preoccupate il negozio griffato nel quale lui ci sta trascinando, tenendoci per mano e graffiandoci con le sue unghie chilometriche, sculettando che manco in passerella.
-Ma abbiamo questa, ragazze mie, abbiamo questa!- agita una carta di credito, bloccandosi e mettendoci rapidamente a posto i capelli, aggiustando i boccoli di Alex e i miei dread bianchi e rosa – Ho deciso che avevo voglia di comprare qualcosa, e chi non meglio delle mie due patatine per rinnovare il look?
Cioè, sbaglio o ci ha appena chiamate patatine? No, aspetta, l’ultima volta che qualcuno mi aveva chiamato patatina era stato alle medie, quando non ero altro che la Sesta Spiegelmann, la Patata Irlandese, il Sacco di Ciccia Lentigginosa.
-Scusa, come ci hai chiamate?- Alex assottiglia gli occhi, incrociando le braccia al petto. L’avesse chiamata così qualcun altro a questo punto l’avrebbe già steso, ma come Bill, oramai l’abbiamo largamente accettato, non c’è nessuno.
-Patatine!- cinguetta lui – Perché, non ti piace?
Basta guardare la sua espressione sotto il sorriso e gli strati di trucco per capire perfettamente che appena una di noi due proverà ad obbiettare i suoi soprannomi, verrà schiavizzata senza troppi complimenti a porta-borse della Reginetta Delfina.
-Sì, ci piace un sacco!- intervengo, prima che Alex se ne esca con qualche insulto velenoso e rovini questa scena che fino a ieri non potevamo che sognarci – E’ davvero un soprannome delizioso.
-Volevo ben vedere. Ora forza, sbrighiamoci. Ovviamente, non ho tutto il giorno.
Seguiamo come due criceti la Delfina che sale come la regina che è lo scalone di imbarazzante plastica rosa confetto dello scalone principale che porta a un immenso corridoio decorato con imbarazzanti piante di magnolie nane e una serie di vetrine tirate a specchio dove anche una semplice piumetta costa più delle nostre due vite messe insieme. Non so perché, ma mi sento come se da un momento all’altro mi volessero mitragliare come un colabrodo perché ho provato a smontare la sacralità di questo tempio di boutique esclusive, così diverso dai negozi da battone dove andiamo io e Alexandria a comprarci i vestiti, e questi locali di nouvelle cuisine californiana così opposti ai 7-11 dove ci riforniamo anche alle due del mattino di bottiglioni da due litri di Coca-Cola e di immensi pacchi da chilo di marshmellow alla fragola e vaniglia. Potrebbero scatenare una sparatoria contro di noi, lo sento, come in “Commando”, del 1985, di Mark L. Lester, con Arnold Schwarzenegger e Alyssa Milano.  Poi, non che io e Alex siamo così pratiche di centri commerciali all’ultima moda: ricordo con chiarezza che l’ultima volta che ci siamo recate in un posto del genere è stato quando io dovevo comprare un regalo di compleanno a Sonja, una delle mie ex ragazze, e dopo che l’unica cosa con un prezzo abbordabile che ero riuscita a comprare erano state un paio di mutandine rosa con i gatti e che suddetta Sonja mi aveva mollata subito, beh, allora avevamo deciso di non metterci più piede.
-Ma, spiegaci, noi in cosa ti dovremmo aiutare?- chiede Alex, facendo una linguaccia a una timida commessa spaventata dalla rumorosa entrata di queste tre battone di periferia.
-Molto semplice, tesoro: mi devo assolutamente comprare qualcosa di carino, e devo anche comprare qualche accessorio per voi due! Siete due barbone!
Bill ci squadra dall’alto dei suoi stivali col tacco 12, scuotendo la testa con aria platealmente sconvolta.
-E perché non andiamo bene così? Siamo vestite molto bene, oggi, oserei dire anche con un certo stile!- esclamo io, guardando la mia maglietta sfatta di MØ e i miei shorts di jeans rosa shocking slavati in pendant con gli occhiali da sole con tanto di infradito di plastica verde pisello con le farfalline di plastica rosso fuoco appese sopra e la gonna vertiginosamente borchiata di Alex, con tanto di top scollacciato con scritto “I’m waiting you to die” e Converse nere che stanno su da sole. Insomma, come se non fossi mai andata in giro con vestitini di lattice rosa pompelmo con inserti rosa aderentissimi e stivali rossi con borchie argentate.
-Certo, come no. Una tortora darkettona con le emorroidi e una vacca danese in trasferta.- commenta lui, squadrandoci malamente, e mentre Alexandria gli sputa in faccia un “mai come te, pecora smarrita ad Amsterdam” e io gli perdo le bave dietro seguendo come un cucciolo scemo, lui schiocca sonoramente le dita e parte in quarta verso una boutique così griffata da non aver manco il nome scritto sopra.
Ci afferra per le collottole, e devo dire che ha una forza invidiabile, trascinandoci come due sacchi di patate bercianti verso un camerino grosso quanto casa nostra, spingendoci dentro in mezzo a grossi specchi, pareti rosa pesca, un divanetto imbottito dello stesso colore delle pareti con deliziose bordature barocche dorate e appendiabiti con piccoli brillantini. Una specie di bomboniera-camerino, ci mancava giusto un vassoio con paté di caviale e champagne ed eravamo a posto.
-Ora aspettate qui e non fate casino. Devo andare a cercare qualcosa di carino da farvi indossare!
Vediamo la sua chioma corvina scomparire di corsa da oltre la tendina rosa confetto, e rimaniamo da sole, una davanti all’altra, così fuori posto in tutta questa perfezione e pulizia, noi, che abbiamo i vestiti che camminano da soli e che abbiamo le pareti scrostate perché non riusciamo mai ad avere abbastanza soldi per chiamare l’imbianchino. Certo, ci sarebbe stato Jakob, ma non penso che ci voglia più fare lavori gratis dopo che Alex l’aveva mollato e mi aveva beccato a limonarmi la sua fidanzata dell’epoca. Mi guardo intorno, mettendomi comoda sul divanetto
-Beh, tesoro mio,- esordisco, accavallando le gambe, e ci mancherebbe un sigaro e a Don Vito Corleone gli faccio un baffo – La sai una cosa? Mamma diceva sempre che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita. Voglio dire, a noi è capitato Bill come una meteora, è piombato nelle nostre esistenze punk ribaltando tutto quello che avevamo dato per assodato, ha capovolto due vite che oramai erano scritte nelle stelle. Bill ha cambiato il nostro destino, Alex! Immagina: io e te, non siamo altro che due ventenni punk che dalla vita non si sarebbero potute aspettare nulla che non fosse stata una laurea stiracchiata e qualche stupido lavoretto come cameriere in qualche locale di bassa lega, nell’attesa che qualcuno ci notasse come erano stati  notati i Beatles, saremmo rimaste le solite due zitellone che tutti si aspettavano, sempre insieme come da principio, con una stirpe di Panther Lily e la musica a palla a qualunque ora del giorno. Io non avrei mai imparato a cucinare, anzi, credo che non lo farò mai, e tu non saresti mai stata gentile, cosa che comunque non lo sei nemmeno adesso. Cosa avrebbero detto di noi? Una coppia di squinternate, che si credono sempre bambine, due universitarie senza uno straccio di nessuno che non siano loro stesse, unite come solo due gemelle siamesi lo possono essere, perché io e te, non puoi negarlo, siamo unite come se ci fosse un pezzo di pelle a legarci. Ci saremmo trascinate nello squallore di questo mondo “trainspottiniano”, senza però vedere nessun treno e senza nessun Ewan MacGregor per le mani, avremmo continuato a stare con i miei fratelli, sopravvivendo a noi stesse come abbiamo sempre fatto. Invece, è arrivato lui. La popstar, la troia, la bastarda, tutto quello che più odiamo ma che più ci ha salvato dalla dannazione di dover vivere la nostra depressione punk. Con lui, abbiamo cominciato a cambiare, abbiamo l’ombra incerta di un futuro, lo straccio di qualche possibilità che ci illumina la strada verso un avvenire già segnato eppure miracolosamente squilibrato da quella supernova che è la Delfina. La nostra vita ha virato violentemente da una parte, e noi con lei, siamo salite sull’onda di trucchi che Bill ci ha porto e ci siamo appese alla sua certezza con le unghie e con i denti, e per quanto lui vada veloce, noi stiamo resistendo eroicamente, e non ci facciamo tirare giù. Perché per quanto lui sterzi, acceleri, noi siamo le figlie della periferia che ci ha insegnato a non arrenderci, a sbatterci come uova per uscirne e noi la faremo contenta, resisteremo, Alex, appese a lui non lasceremo la presa e …
Un sordo schiaffo mi fa tacere e mi fa strillare malamente, perdendo tutta l’aria sexy da Chelsea Sienna Corleone. Dio, come suona bene. Cambierò nome. Che poi, con sto cognome tedesco che mi ritrovo, capace che a Hollywood venga considerata una nazista e si abbiano dei pregiudizi contro di me e i miei dread.
-Ma tua mamma non ha mai detto che la vita è come i cioccolatini!- mi urla Alexandria, guardandomi malissimo. Ma come ha fatto a capire solo quella frase di tutto il panegirico che ho fatto?! Sì, signori e signore, la Grande Regista Surrealista Tedesca non viene mai accuratamente compresa a fondo. Come posso mostrare la mia arte al grande pubblico se tutti guardano il dito mentre io indico la luna? Come comprenderanno il complesso significato de “La rivolta dei babbuini”?
-Citazione da “Forrest Gump”, del 1994, alla regia Robert Zemeckis, con Tom Hanks e Robin Wright.- recito a memoria, per poi mugolare – Su, Alex, l’abbiamo visto centinaia di volte … come fai a non ricordarti di Forrest, sei Oscar alla Notte del 1995, al tredicesimo posto nella classifica dei 250 migliori film di sempre e al settantaseiesimo nella classifica dei migliori 100 film statunitensi?
-Ottima mente matematica, Newcastle, lo ammetto.- ci voltiamo di scatto, guardando con un certo orrore dipinto negli occhi Bill che ci guarda trionfanti dalla tendina del camerino, con in mano tanti di quei vestiti imbarazzanti che io e Lady Gaga sembriamo giusto due educande pudiche. – Ma ora, citando direttamente Avril Lavigne “I wanna lock you up in my closet”. Su, ragazze, è ora della fine del mondo!
E con un sorriso sadicamente sexy, chiude la tendina rosa pesca.

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Capitolo 18
*** Di ananas, luce di luna e tulipani fashion ***


-NO. No, no, no, no, e se non hai afferrato, NO. Io non indosserò nessuna gonna in tulle.
-Ma dai, tesorino, vedrai che belle gambe che ti fa.
-NNNO.
-Alexandria, scendi da quella lampada o ti prendo a scarpate- sono cinque minuti buoni che mi minaccia, con la sua faccia da fata malvagia, per costringermi a indossare una stupidissima minigonna in tulle bianco con le stelline. Io mi sono riparata sopra un lampadario.
Sì, ok? Sopra un lampadario. ‘Sti cosi sono talmente intricati ed enormi che potrebbero sorreggere anche il pisolino di un elefante, volendo.
-Alex, ti conviene scendere- cinguetta Chess, mentre si rimira al gigantesco specchio del camerino. –Guarda che è vero che ti fa delle belle gambe!
-No, a me sembrano solo cosce di pollo lentigginose.
Chelsea si gira, infuriata (descriviamo la “Chelsea infuriata”: testa incassata nelle spalle, ginocchia piegate verso l’interno, pugni stretti e guance gonfie di lentiggini e rabbia. Sembra un disegno), e mi punta il suo dito pallido contro:
-TU, amica ignobile, LO SAI che non puoi nominare cibo di fronte a me nelle prime tre ore dopo il pasto!- strilla, assumendo una perfetta espressione da manga.
-Non è colpa mia se hai sempre fame, honey- borbotto, tenendomi salda al filo del lampadario.
-Pensate di discutere delle vostre belle forme ancora per molto, o possiamo cercare qualcos’altro per le vostre gambocce?- esclama Bill, togliendosi uno stivale laccato.
-No, aspetta aspettino, cosa vuoi fare con que…
Si gira verso di me, e si prepara a lanciarmi la sua zeppa di venti centimetri dritto in mezzo agli occhi.
-Hey hey! Calmino, eh! Scendo, scendo… rilassati, bellezza!...- moooooolto lentamente, scendo dal lampadario, ovviamente rischiando di romperlo, ma ciò non importa visto che fra poco saremo fuori di qui. Me lo sento. Fra poco potremo uscire da questo inferno di piumette e cartellini.
-Guarda, siccome il tulle bianco non ti piace proprio, ho pensato di farti provare questa- e afferrando un’altra gonna in tulle, verde fluo con piccoli ananas, mi aggrappo alle mie speranze.
 
-…cavolo, Alex, sei uno schianto!
-Sì, uno schianto in tangenziale, che solitamente porta a qualche migliaio di euro di danni, due morti…- la manina inanellata di Bill mi tappa la bocca, mentre l’altra manina mi allunga una paio di decolleté corallo.
-Ma sei sicuro che non facciano un brutto effetto con i miei capelli?...- sussurro, mentre Chelsea mi infila a forza le scarpe.
-Tranquilla, Spuncione di mamma, lascia fare a chi se ne intende più di te.
Faccio una giravolta su me stessa, e torno a fissarmi nello specchio.
Ecco, quello che mi si presenta è un esemplare bruttino di “piccolo punk con indosso degli ananas”.
-Uhmm… perfetta, perfetta. Adesso cerchiamo qualcosa per Burro.
-Sarei io il Burro?- chiede Chelsea, dal divanetto dove si era distesa per godere di una migliore vista della mia gonna con gli ananas.
-Sì, esatto, ma prima, Spuncione, potresti accostare questa pochette? Credo faccia un bell’effetto con le scarpe- mi allunga un quadrato di lacca dello stesso colore delle decolleté, io lo prendo in mano, e lo tengo sul davanti. Come una vera bella signora.
-Uhmmm… dovremmo lavorarci un po’. Senti Copenhagen, non è che proveresti tu quella roba, mentre ti cerco qualcosa? Forse per Alexia sono preferibili accessori sui toni del blu.
Sorvolo sul fatto che ha storpiato il mio glorioso nome con un nomignolo da modella stupida, e lancio tutti gli ananas e tutti gli accessori a Chelsea, per poi fiondarmi sul divano. Oh, è caldo.
Neanche tempo di sistemarmi per bene su questi comodissimi cuscini rosa cipria, che Coco Chanel 2.0 torna con le mani piene di roba.
-Oh, porco Vitton, Copenhagen, non ti ho detto di metterti la gonna con gli ananas! Senti, toglitela perché ti sta veramente male. Ma mentre lo fai, prova questo tubino. Con le scarpe che avevo portato a lei, per favore. Ah, e quando hai fatto, accosta questa. Io torno subito!
In tredici secondi e mezzo le tendine si richiudono, e lui sparisce lasciandoci sommerse dal raso arancione.
-Come, sta dicendo che io dovrei seriamente portarmi a casa quella cosa verde? Con tutti gli ananas?- biascico, atterrita.
-Sì, e con degli accessori sui toni del blu!- strilla Morticia da fuori, mentre sandali con tacco blu notte piovono da sopra la tendina, rischiando di provocarci un trauma cranico a testa.
Intercorrono due minuti di silenzio, nei quali io compiango la mia lontana esistenza da punk vestita con merchandise rubato, cercando di allacciare questi sandali della malora, e Chelsea gira come una trottola, guardandosi da destra, poi da sinistra, poi da destra verso sinistra e da sinistra verso destra. Sembra un tulipano. Un tulipano arancione. Sono carini, i tulipani. Anche lei è carina, vestita così. L’arancio si abbina con le sue lentiggini.
-Alex?
-Sì?
-Secondo te, come sto?- mi chiede, inchiodandomi nell’ignobile posa in cui sono messa (immaginate un coso punk, con i piercing che scintillano da una parte e i riccioli untuosi che si agitano dall’altra, con indosso solo un reggiseno a teschi e una gonna verde punteggiata di ananas, seduto su un divanetto color pesca e intento ad allacciarsi un paio di sandaloni blu i cui tacchi superano di un po’ la sua altezza. Non suona carino e affidabile?) con i suoi fanali viola, con quella faccia da cerbiatto, e tutti i rotolini di ciccia graziosamente fasciati nel raso arancione.
-Stai benissimo. Sembri un fiorellino.
Potrei giurare che lei si commuove, e storcendosi un piede sui tacchi mi cade letteralmente addosso, forse con il primo intento di abbracciarmi. Poi mi stampa un bacio bavoso sulla guancia.
-Chess, togliti. Chess, togliti!!! Vuoi che mi si storgano due vertebre?! Chess!
Per fortuna, a salvare le mie vertebre ci pensa Fata Morgana, che spunta di nuovo dalla tendina, con le braccia cariche di roba. Cavolo, a vederlo sembra una statuina di vetro, tanto si direbbe fragile. Eppure…
-Oh, Canterbury! Fatti vedere… ma sei splendida! Radiosa! Questo colore ti dona tantissimo. Mi fa una voglia pazzesca di farti provare ogni cosa arancione ci sia in tutto il negozio!- strilla, lanciando per aria tutti i vestiti che si era portato dietro. E potrei giurare, guardando attraverso questa pioggia di vestiti, che la prende e la bacia, oh, cavolo se la bacia, se la sta limonando all’impazzata, con le manine perse nei suoi dread rosa, e lei che gli circonda la vita con le braccia; ma guardali questi due, credo che nessuno Shakespeare sarebbe stato capace di inventarsi una scena più romantica.
Poi però una camicia nera mi cade in testa, e per me che ho ancora le mani impegnate con i sandali e la schiena incriccata dal peso di Chelsea, la scena si chiude così.
 
Siamo usciti dal negozio, con due enormi borse a testa in più e mezzo milione in meno; e ora ci dirigiamo verso un caffè che sta proprio qui di fronte. Io e Chelsea si scambiamo sguardi fiduciosi, contente che finalmente la nostra umanità possa risorgere dalle nuvole rosa pesca della moda e le il ruggito delle nostre pance possa essere placato.
-Beh, che fate? Non è lì che andiamo- fa Bill, pigliandoci per le collottole e trascinandoci lontano dalla vetrina piena di ciambelle.
-Come NO?- protesta Chess, annaspando verso la salvezza dei nostri stomaci.
-Uff, se proprio volete dopo possiamo fare una capatina al VEG-Cafè, ma adesso abbiamo altre faccende da sbrigare.
Eh? Ho sentito bene? VEG-Cafè?
-Scusa, tesorino di Gucci, che significa VEG?- chiedo, sospettosa.
-Significa che è tutto sano e di origine vegetale!- trilla allegro Morticia. Anzi, Morticia-VEG. È così allegro. Mi chiedo cos’abbia che non va, sembra una giapponesina felice che passeggia per i campi con i suoi bei cestini pieni di fiori di loto, forte del pensiero che presto o tardi arriverà il suo bel samurai a prenderla per portarla nel palazzo più bello del mondo, a imboccarsi  il riso a vicenda fino a morire d’amore.
…da quando ti fai questi film mentali, Alex? Che c’è, siamo stati contagiati dal tubero rosa? Soldati, nessuno vi ha dato il permesso, tornate alle vostre postazioni…
-…e che nulla potrà nuocere alle vostre pancette, niente simile a burro, scaloppine impanate, birre scadute o cose del genere- continua, zampettando allegro verso l’entrata di qualcosa simile ad un outlet di Prada. Noi sbuffiamo, un po’ perché abbiamo fame, un po’ perché non vogliamo riempire le nostre pance di merda biologica, un po’ perché quest’angelo dannato ci crea sempre più problemi. Perché il suo sorriso è velenoso, e il suo sorriso vero è ancora più terribile, coltellate al cuore e dolore buono, come morire di ossigeno. Come perdersi nei fumi di un bicchiere di marsala, dipingendo colombe, in una stanza piena di fiori, con un vinile di The Black Album dei Beatles che suona, e una serva vestita alla greca che entra solo ogni tanto per spostare la puntina, ripetutamente, sull’inizio di Oh My Love.
-…io ci faccio abituali scappatelle. Si imparano un sacco di tecniche per dare sapore ai piatti, anche senza dover ricorrere ai dadi da brodo. Sapete? L’altro giorno ho assaggiato un fantastico sformato di carciofo e quinoa. Sapore celestiale- ancora trascinate per le collottole, e povere le nostre magliette, rispettivamente TheWho e BluesBrothers, che erano pure costate tanto. Questo posto è illuminato dalla luce più accecante che i miei poveri occhi di quasi-vampiro abbiano mai sofferto. Oltre a quella che investe il mondo quando Morticia sorride. Oh, come sono mielosa. Devo darci un taglio.
-…ecco, se deste un taglio sano alla vostra alimentazione potreste benissimo portare abiti come questo. Senti Canberra, non è che ti va di provarlo? Magari in viola, sai, non credo che l’azzurro ti doni- prende un vestito lungo quanto il Golden Gate Bridge e largo quanto un quaderno A4 dall’espositore e lo esamina sotto la luce dei fari abbaglianti del negozio.
-Sì, sì, devi sicuramente provarlo. Ecco, tieni, vai. Noi ti raggiungiamo. Ho già individuato un bel pantaloncino per te, Alexia- detto questo, le caccia l’abito in mano e la spedisce verso un camerino, con una potentissima spintarella della sua manina assassina. Lei barcolla mugugnando, e per poco non si scontra con una commessa della corporatura di una palma, con due orecchini che potrebbero sembrare le noci di cocco e dei capelli che potrebbero essere le foglie. Poi sparisce dietro una tendina dello stesso colore della mia nuova gonna con gli ananas. Io, invece, vengo trascinata da tutta un’altra parte del negozio, e riesco a percepire solo qualcuna delle sue chiacchiere, prima che Bill mi copra la visuale con un qualcosa color blu notte, probabilmente un altro vestitone simile a quello di Chess. Poi blatera ancora un po’, e io annuisco vagamente, mentre cerco di localizzare la sua posizione annaspando e rischiando di ribaltare qualche scaffale pieno di borsette più costose di me e tutti gli Spiegelmann messi insieme.
-Bene, andiamo- colgo distintamente, per poi avvertire una stretta mortale ad un braccio ed essere trascinata –suppongo- in camerino. Qui posso finalmente rovesciare tutta la roba che stava sulla mi testa sul divanetto, e la luce mi investe di nuovo, con grande protesta delle mie retine.
-Chelsea…- bofonchio, localizzando una figura violetto che si muove di fronte a me.
-Sì?- lei si gira. È bella. Questo stile la smagrisce. E il colore dell’abito è lo stesso dei suoi occhi. Ha dipinta in viso un’espressione perfettamente imbecille, come un manga stupido. Io l’ho sempre detto, Chelsea Sienna Spiegelmann è un manga stupido, con troppi occhi, troppa ciccia e troppo ottimismo, disceso dal pianeta delle Pretty Cure per illuminare il mondo con la scemaggine dei suoi film incapibili per critici depressi. Spesso, mentre lei stava lì a giocare con la telecamera scassata (rubata al mercatino dell’usato con lo stesso stratagemma del microfono, ovvero con l’aiuto degli amici nerd, e poi rifilata come regalo di Natale), io stavo nella poltrona sfondata, ad ascoltare i suoi discorsi sulla filosofia esistenziale e nel frattempo pensare a come sarebbe riuscito bene un quadro, magari qualcosa fra il Romanticismo e il Realismo, che ci ritraesse in quel momento. Due figure di cui si distinguono più che altro i capelli, una dietro una telecamera e l’altra sprofondata in una poltrona, nello spazio angusto di una soffitta polverosa, tutto illuminato da due lame di luce che penetrano da una finestra semicoperta da una tenda a fiori, sbiadita e stracciata. Un Hayez, un Friedrich, un Füssli solo per noi, da tirare fuori dalla sua tomba, e metterlo lì, a dipingere, con i colori secchi della quinta elementare e i pennelli spennacchiati trovati sotto il divano; una triste colonna sonora, magari un disco jazz, o beat, ecco, sì, qualcosa di molto beat. Un quadro che puzzi di sigaretta e di lucidalabbra, perché il rosa per fare i capelli di una non ce l’avevamo, e nemmeno una cornice decente, e così l’abbiamo lasciato a nudo, con i bordi bianchi visibili, così; brutto, crudo, bello. Quanto brutte e belle possano essere due anime in una soffitta, una persa nei propri sogni di gloria, nella propria Hollywood senza stelle; l’altra concentrata sui granelli di polvere, che, incandescenti per un attimo sotto la lama di luce, spariscono un attimo dopo, morendo, eterni. E pensavo, mentre mi figuravo tutto questo, quante paturnie deve avere, una persona qualsiasi, per venire ad ascoltare proprio i miei, di pensieri, a sentire proprio le nostre, di inutili storie, per ammettere che cavolo, per quanto sia sporca e sbagliata, la nostra filosofia è perfetta, non fa una piega. Spesso, mentre Chelsea giocava con i suoi sogni, racchiusi nella pellicola di una telecamera andata, creando i suoi film per critici depressi, io stavo lì, a fare il pubblico, la platea, la stampa, la stella del cinema, facevo io il critico depresso, dicevo io se andava bene o no. E lo dicevo a caso, ora andava bene, ora no. Lei si corrucciava, io sghignazzavo, e lei tornava al lavoro, alla ricerca di una nuova inquadratura, qualcosa di meglio, di più adatto alle esigenze del suo critico depresso. Ed io, nella poltrona sfondata, guardavo i suoi movimenti, seguivo il filo dei suoi pensieri, piegando la testa, di qua e di là, finché non andava bene, e allora lo ammettevo, che ci era riuscita, per una volta. E a quel punto si festeggiava, un bicchiere di succo al lampone per me, uno per te: “Cin cin, miei prodi, portate anarchia e pace nel mondo. Che Dio benedica l’America! Amen”. Era solo una delle nostre formule pre-bevuta. Le migliori venivano fuori nelle serate da sbronza. Alcune le abbiamo pure messe per iscritto.
E quindi, eccoci qui, di nuovo, in un quadro che, a parte un’illuminazione leggermente più accecante e una telecamera in meno, non è cambiato di molto. C’è sempre lei, che sogna a braccetto con il suo entusiasmo. A questo punto mi viene in mente il discorso sul cambiamento delle nostre vite che mi ha fatto mezz’ora fa. Ovviamente non lo ammetterò mai, ma quanto, in realtà, aveva ragione. Probabilmente senza quell’affare sexy ed urlante saremmo ancora nella buia soffitta, con i tentativi falliti di registrare horror e i vinili degli Oasis a girare in continuazione. Non che non ci piacesse, come realtà… ma si sa, si ha paura della luce del sole, e quando si mette il naso fuori non se può più farne a meno.
…beh, ragioniamoci: non è che Bill si possa poi tanto paragonare alla luce del sole, lui, con i suoi capelli neri, il suo trucco nero, il suo tutto nero, nero e nero e argento. Probabilmente “la luce della luna”. Ma a questo punto il concetto non avrebbe più senso. Sto perdendo senso. Sto uscendo dalla traccia. Non sono solo fuori tema, sono proprio fuori dal foglio, sto scrivendo sul banco. E Chelsea mi sta ancora fissando in attesa di un segno.
Mannaggia a te, Spielberg, e alla tua soffitta! Mannaggia anche a Morticia, e ai suoi raggi di sole che poi tanto luminosi non sono. Mannaggia alla mia inutile laurea in filosofia, che mi ammattisce e basta, forse zia Lauren aveva ragione; per i disastrati di mente come noi, non va bene esporsi così ai concetti da intelligenti, non va bene per niente. Lui, non va bene per niente. Non dovremmo essere qui, in un camerino luminescente, a provare abiti più costosi di metà Germania, alla mercé di una Fata oscura che ci trascina in una fossa senza fondo ogni minuto di più. Eppure… eppure siamo qui lo stesso.
Eppure, per una volta i benedetti sistemi d’allarme sembrano aver fallito, dato completamente le dimissioni, essere andati in pappa. I radar del mio cervello sono andati in cortocircuito, mi sembra quella volta. Ero incazzata come non mai. Sono entrata in un club, era pieno giorno ma tutti gli ubriaconi erano già lì. Ordino un Jack Daniel’s nello stesso momento in cui lo ordina un altro tizio. Il Jack è finito, e ne resta un solo bicchiere. Così, per evitare una rissa inutile, condivido un fondo di liquore con un ragazzo incazzato almeno quanto me, un brutto incrocio fra Elvis Presley e Sid Vicious, che mi fissa storto con i suoi occhi, uno freddo come il ghiaccio e uno del colore del nostro bicchiere condiviso. Non ci eravamo detti niente, ma il resto sono stati tuoni e fulmini. Il ragazzo, tempo dopo, è scomparso sgommando. Io non ho più bevuto Jack Daniel’s. O forse sì? Non mi ricordo niente, di quel periodo. Ho rimosso. Dovrei chiedere a Chelsea, che però l’ha chiuso in un cassetto, buttando via la chiave. Forse ha fatto bene, forse no. Fatto sta che, a questo punto della partita, compare questo essere, questa creatura idilliaca, che sembra aver tanta voglia di sbudellarci da cima a fondo, di rovesciarci completamente e di distruggere tutti i cassetti. Sarebbe veramente terribile, perché ogni male verrebbe fuori e cadrebbe al pavimento, tintinnando. Sarebbe una vera tragedia, perché siamo fatte di mali e false commedie. Sarebbe veramente strano, rimarremmo senza brutte storie, senza tragedie personali, senza copioni tristi da nascondere sotto strati e strati di lividi e musica punk.
Dovrebbero cambiarci, sostituirci, riempirci con qualcos’altro, imbottirci come si fa con i bignè, di una bella crema rosa, fatta di sole e romanticismo. Sarebbe così poco credibile…
Ma forse abbiamo una speranza. In fondo, guardate anche lui. Sarà anche bello, sarà anche ricco, perfetto, una statua, una bambola… ma non è diverso da noi, se lo strappassimo a metà ne uscirebbero i nostri stessi mali. Potrei quasi dire, che è l’unico essere sulla Terra che potrebbe assomigliarci da cima a fondo. Pur essendo così completamente diverso… pensandoci, anche se la nostra fata dovesse aprire tutti i cassetti, ciò che vi troverebbe dentro non sarebbe niente di diverso da ciò che vede ogni giorno in sé stesso. Non sono le stesse tragedie, gli stessi cuori senza speranza? Non è lo stesso, infinito, imbattibile, incurabile veleno? Non siamo solo esseri subumani, ombre che nuotano in una periferia di pugni e baci? Nostri i pugni, tuoi i baci, Morticia. Squarciaci da cima a fondo, possiamo darti tutti i demoni che vuoi, se sarai disposto ad accettarli.
Oh, con delle parole del genere potrei intitolare un opera punk che farebbe un baffo ad American Idiot e 21st Century Breakdown messi insieme; venderei veramente un sacco di dischi, e tutti i presidenti si dimetterebbero in preda alla vergogna, probabilmente dirigendosi a qualche fossa del suicidio.
Ah, ecco dov’era andata Alexandria. Ma guardati. Non sei altro che un ammasso di malvagità senza speranza. Unito ad una pecora-Spielberg con il surrealismo in testa, Bill caro, ti trovi per le mani un Vero Capolavoro.
-Hei… Alex, ci sei?
-UH?- ecco, come al solito, mai perdersi nei monologhi, soldati! Ma che cavolo stavate facendo?...c’è poco da fare, questa luce mi dà alla testa. –Erm, sì, certo. Dicevi?
-Sei tu che mi hai chiamato.
-Ah…- e che cavolo avevo detto? –Ah, sì. Volevo dirti che…
-E’ qualcosa a cui dovrei prepararmi perché potresti non dirmelo mai più?
-Pr… obabilmente. –wow, donna, chi ti dà il permesso di leggermi nel pensiero, vacci piano. –Volevo dirti che stai bene. Vestita così, intendo. Cioè… con il vestito, e tutto. È … dello stesso colore dei tuoi occhi. Insomma, li valorizza- farfuglio. Poi appoggio le mani sulle ginocchia e sfarfallo un po’ le palpebre. Così, magari sembro più convincente.
-Grazie- dice lei, diventando completamente rossa, poi viola, così è un tutt’uno col vestito. È imbarazzante. Non siamo abituate a farci complimenti.
-Allora?!- gracchia la nostra arpia aprendo le tendine di colpo. –Come siamo messi?... oh, tesoro. Fatti vedere! Stai be-nis-si-mo. Hai visto, Spuncione?! Non le dona un sacco questo viola?
Lui inizia a pichignare ogni singola piega esistente e non sul tessuto viola, facendola girare a testa e manca e cinguettando cose sul suo buon gusto.  A quel punto mi rendo conto che sono ancora spaparanzata sul divanetto, semi-coperta da una tuta blu.
Infatti, poco dopo, entrambi iniziano a fissarmi.
-Beh, e che avete?
-Tu pensi di passare ancora molto tempo a fissare il vuoto? Alza il culo e prova quella cosa che ti ho dato. E già che ci sei, ci abbini queste. Forza, su! Lo shopping è fatica, la bellezza è dolore! Non abbattiamoci così presto!- trilla, potrei quasi dire cantando, mentre distribuisce scarpe e borse piroettando.
Io mi alzo a fatica, districandomi alcune collane dalle braccia –quando sono comparse queste?...-, poi mi levo –di nuovo- i jeans malandati e la maglietta dei TheWho e mi infilo nell’enorme drappo blu che fino a un secondo fa stava sulla mia testa.
Quando riemergo, in men che non si dica qualcuno mi ha già fatto salire su due trampoli argentati e me li sta allacciando dietro alle caviglie. Do un’occhiata allo specchio. Sembro una modella anoressica, potrei essere rapita da un fotografo di Vogue e non tornare mai più.
-Ok, lasciami dire che questo blu ti sta d’incanto- borbotta Miss Tulipano Viola.
-E che avevo detto? Tu sei fatta per indossare cose blu. Il blu è il colore della calma, della pace…
-…della depressione-aggiungo, senza però che Chanel 2.0 mi senta.
-…e fa un contrasto meraviglioso con i tuoi capelli. Già, già, ho fatto un’ottima scelta. Quando torniamo, svuotiamo il tuo armadio da cima a fondo, honey.
-…per riempirlo di cose blu?- chiedo, con una vocina flebile flebile che non riconosco nemmeno, dall’alto di questi tacchi da astronauta, davanti ad uno specchio che mi mostra una ragazza bella, stralunata e quasi commossa che non sembro io. Forse sono troppo scioccata dalla mia immagine, ma giurerei di sentire che Morticia mi lascia un bacio sulla guancia, per poi commentare qualcosa di simile a:
-Uhm… ma magari qualche cosa di verde lo possiamo anche lasciare.
 
Finalmente, per grazia di Freddie Mercury e John Lennon, ci stiamo dirigendo verso la salvezza dei nostri stomaci brontolanti. Sarà pure un VEG-Cafè, ma almeno potremmo appoggiare questa decina di borse e mettere qualcosa nella pancia.
-Dunque, allora allora…- Morticia si piazza ad un tavolo, uno di quelli alti con gli sgabelloni che necessiterebbero di una scaletta. Svelto, tira fuori una moleskine nera, e una penna argentata. –Ho bisogno di voi. Cosa abbiamo preso?
“Ho bisogno di voi, gnè gnè, faticate per me, luridi mortali”. Come se non avessimo portato cinquanta chili di shopping a spasso per mezza Magdeburgo.
-Ehm…- Chess si risveglia dallo stato vegetativo in cui era precipitata, rischiando di cadere dallo sgabello e rompersi un osso. –Credo… quattro paia di scarpe.
-Un vestito- aggiungo.
-Due- fa lei, e nel frattempo Bill mette delle crocette su una lista.
-Una gonna con degli ananas- borbotto. –E un vestito arancione.
-Qualche decina di pochettes…
-E dei gioielli, credo.
Lui mette crocette, e quando finisce, resta qualche minuto a fissare la sua lista. –Nessuna calza? E niente bluse trasparenti?!- esclama alla fine, sconcertato.
-Erm… no- mormoro. Sembra terribilmente deluso.
-Uff. Abbiamo completato appena metà della Lista-Per-Rifarvi-Un-Guardaroba-Decente. Dovremmo assolutamente fare un altro giro…- commenta, bevendo rumorosamente con una cannuccia rosa fluo da un bicchierone di carta che un fustacchione con la faccia da vegano gli aveva portato nel frattempo. Io osservo i due bicchieri che ci sono stati piazzati davanti.
-Ma… sei sicuro? Perché noi non abbiamo tutto questo spazio. Nell’armadio, intendo…
-Noi siamo poveracce, Bill, come facciamo a pagare tutta questa roba?- mi interrompe Chelsea, esibendo le più svariate espressioni di disgusto mentre cerca di bere quello schifo.
Lui la liquida con un gesto della mano, puntando gli occhi al cielo. –Ce n’è, ce n’è di spazio a casa vostra. Basterebbe solo eliminare tutti quei CD e quelle cassette…
-EH?!- sputacchiamo roba verde per tutto il bar, guadagnandoci occhiatacce da tutta la clientela. –Sei impazzito, vero? Le luci di Prada hanno dato alla testa anche a te?!- abbaio, sbattendo il bicchiere sul tavolo.
-Dovrai passare sul mio cadavere, prima di sfiorare anche solo UNA delle mie cassette- borbotta Chelsea, mangiucchiando la cannuccia giallo canarino.
-Ok, d’accordo, calmatevi… non serve scaldarsi tanto! Siamo in un luogo pubblico, ragazze- ci zittisce lui, tornando elegantemente alla sua bevanda bio.
-Beh, ci hai fatto prendere un bel colpo. Seriamente, come facciamo a far stare tutta questa roba a casa nostra?
-Compreremo un nuovo armadio!- strilla Morticia, allegramente. 
-Tu sei cosciente del fatto che mi rifiuterò categoricamente di girare per negozi d’arredamento con te, vero?- chiarisco, mollando il bicchiere in mano ad un cameriere di passaggio. –Se c’è una cosa che detesto più dell’umanità, sono i negozi d’arredamento.
-Beh, significa che ci penserò io. Altrimenti, potreste trasferirvi direttamente a casa nostra!
Chelsea sputacchia nuovamente tutto il frullato sul tavolo. Io non lo faccio solo perché non ho più il bicchiere, ma in compenso credo di aver assunto il colore di un lenzuolo pulito.
-Tu… dici sul serio?- miagola Chelsea, da quasi-sotto-il tavolo.
-Ah ah ah, ma certo che no. Prima devo avvisare Amelie di far posto nelle stanze degli ospiti.
Io guardo Chelsea, Chelsea guarda me, noi guardiamo lui.
-Tu sei matto. Matto da legare.
-Sì, sono andato. Fuso. Sarà per questo che mi piacete così tanto- declama, con la sua vocina morbida e mielosa, lasciando un ventone sul tavolo e prendendoci sottobraccio. –Su, forza. Abbiamo ancora un paio di cosette da procurarci!- dice, mentre veniamo investiti in pieno dalla luce arancione del tramonto tedesco. Tra poco inizierà a fare freddo. Glielo faccio presente.
-Beh, ciò vorrà dire che andremo tutti ad abbracciarci come pinguini, sorseggiando tisane diuretiche di fronte al camino di casa Kaulitz- borbotta, adocchiando una vetrina piena di camicie e puntando il negozio.
-Ma… se al posto delle tisane diuretiche facciamo cioccolata calda?- si intromette Chelsea.
Lui ci rivolge uno sguardo truce. Noi, dalle nostre basse misure, rispondiamo con espressioni da eloquenti deficienti. Chelsea occhieggia, muovendo le sue sopracciglia arancioni. Io esibisco lo splendore micidiale del mio sorriso da supercattivo con tanto di canini. Non può resisterci. La combinazione delle nostre mosse-rimorchiatrici potenza 2.0 è imbattibile, nessun sistema di difesa militare potrebbe neutralizzare il suo attacco. Forza, bellezza, cedi. Forza. Forza. Forzaforzaforza. Eddai.
Ad un certo punto lui distoglie lo sguardo, guardando il cielo con una smorfia di disappunto. Adoro le sue smorfie di disappunto. Si succhia il labbro inferiore, e muove gli occhi facendo vibrare le ciglia.
-…avete vinto. Vada per la cioccolata.


Hey dolcezze! Piaciute queste nove pagine e tre righe di Word? E certo, altrimenti non sareste qui a leggere!
Siamo superfelici che qualcuno stia leggendo la nostra storia, ragazzi, vi rassicuro, siete quasi giunti alla fine. Incredibile ma vero! D: Heheee, state tranquilli, questa storia è solo un debutto... ce ne saranno altre, mooooolte altre!
Voi state sempre lì, che noi prima o poi arriviamo. :)))          With All The Love!  (se lasciate un commentino siamo felici :* )  TheTwoOfUs ^^

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


.EPILOGO
Un anno dopo, Berlino, premiazione per “Misty Berlin”, regia di Chelsea Sienna Spiegelmann&Tom Kaulitz

E finalmente, il momento è arrivato. Incredibile, grottesco, paradossale, ma è arrivato. Il giorno in cui sono su di un palco tirato a lucido, con indosso un vestito lungo viola come i miei occhi e un paio di zeppe bianche e rosa come i dread accuratamente acconciati in una pericolosa impalcatura da matrona romana, con tanto di pesanti gioielli tribali tempestati di quarzi rosa e ametiste, a braccetto di Alexandria da una parte, con un lungo vestito nero con tanto di spacco, tacchi a spillo, e guanti strappati in vero stile emo, insieme a gioielli coordinati con teschi di brillanti e rubini perché quello non glielo estirperai mai dal cuore, quanto io sono punk dentro, quanto lei è dark, e Tom dall’altro braccio, con uno smoking che continua a tirarsi, evidentemente infastidito e le treccine accuratamente pettinate da suo fratello. Suo fratello, appunto. Che se ne sta appoggiato a lui pavoneggiandosi nell’abito di paillettes nere e nella giacchetta di strass dorate, i capelli corvini accuratamente lisciati, così ingioiellato da fare un baffo alla zarina Caterina di Russia, gli stivali alti fino alla coscia laccati di nero con inserti dorati e un’espressione di puro trionfo stampata sul visino perfetto. Eh sì, signori e signore. Alla fine, Chelsea Sienna Spiegelmann è riuscita alla realizzazione di un film, alla faccia di ogni pronostico o bookmaker. Certo, probabilmente è tutto merito del mio fratellone Tom, che senza il suo aiuto probabilmente sarei rimasta a dibattermi nella rete come prima, però adesso sono dove ho sempre sentito di dover appartenere. Qui, alla premiazione dell’Orso d’oro di Berlino, sopra un palcoscenico dove è stato appena chiamato il mio film, sotto un mare di riflettori e flash di macchine fotografiche. Giuro, se non fosse che prima di salire Alex non mi avesse mollato un ceffone ruggendomi nelle orecchie “Cerca di farmi fare bella figura quando saremo lassù, soldato palla di lardo!” e se Cooper Carter non mi avesse rovesciato sul vestito il suo drink, starei pensando di essere in uno dei miei iper realistici sogni in cui incorro ogni tanto la notte. Però no, questa volta sono realmente qui, col mio sorriso da patata bollita e la mia finezza da portuale, con la statuetta in mano e la ciccia lentigginosa che mi fa compagnia in questo momento unico nella storia di Lady Corleone. Ricordo quando eravamo ancora teenager senza onore e senza gloria, nella vecchia soffitta di casa mia, a guardare il cielo stellato dall’abbaino, contando quante comete vedevano attraversare la pianura, e c’era Avril Lavigne a tutto volume nell’impianto stereo che avevo riciclato da Billy Terry e Charity Rebecca, dopo che l’avevano fuso a suon di, guarda che strano, Tokio Hotel. C’eravamo io e Alex, sedute sul mio letto un po’ sfondato, e lei canticchiava What The Hell, mentre io mi limitavo a scribacchiare nervosamente su uno di quei quadernetti a fiorellini recuperati da Avery Aubrey qualche sparuta idea per qualche film che avesse più senso de “La rivolta dei babbuini” o di “La capra che scoreggia lamponi” e glieli proponevo con aria sognante, mentre lei mi rifilava i suoi inquietanti disegni di scheletri danzanti e zombie in frac all’orchestra di Dusseldorf. Non so quante certezze potevamo dare, con quei “Ho visto una stella!” “L’hai espresso un desiderio?”, e poi sdraiate nel lettino troppo stretto per entrambe, a darci qualche pizzicotto e a chiederci che fare delle nostre insignificanti vite. Quando ancora Alex mi diceva che ci saremmo trasferite a Stoccolma, lei sarebbe diventata una graffitara e io avrei allevato gatti obesi, ci saremmo trovate una persona con cui stare, o “al massimo, due gemelli, un maschio e una femmina, o due maschi, o due femmine, che cambia?” perché non siamo mai state in grado di concepire il fatto di dover vivere separate, o quando ancora io ero convinta che saremmo state a Los Angeles, e io le dicevo che se io sarei stata la nuova Pasolini, ma mi diceva che al massimo io sarei stata la nuova Terrence Malick. Eppure, andava bene così all’epoca. Andava bene sognare giorno e notte, andare sullo skateboard per ore senza studiare un cazzo, che tanto ci pensava Charlotte Chanel a farci matematica e Avery Aubrey tutto il resto, e poi via, le serate al pub sotto casa, a raccontarsi i propri sogni, a giocarsi a freccette o a carte la propria esistenza, lei che suonava insieme a Stenka sul palco, mentre io raccontavo qualche strana chimera a chiunque fosse disposto ad ascoltarmi, lei che tirava freccette con rabbia e io che giocavo col jukebox e mettevo sempre la stessa canzone dei Led Zeppelin, lei che giocava a poker sbattendo i pugni sul tavolo e io che stavo con le ragazze gitane appena arrivate e imparavo a leggere i tarocchi e i fondi di the. Erano esistenze tutte loro, le nostre, quelle cene con tutti i miei fratelli, e i piatti che volavano, e le crisi adolescenziali, e le gite di classe in campeggio, e io che mi limonavo tutte le fidanzate dei ragazzi gnocchi della scuola mentre lei si cercava sempre avanzi di galera, e le litigate furibonde, e gli abbracci in lacrime, e le leggende, e le speranze, e la musica libera nei vinili dei nostri padri, e gli Hollywood Undead a tutto volume a cullarci insieme ai Green Day e ai Panic! At The Disco. La nostra vita era fatta così, prima di trovarci su questo palco, con un Orso d’Oro in mano, un film tradotto in mille lingue e l’improvvisa carrellata di una fama che fino a ieri non ci saremmo nemmeno potute immaginare. Hanno vinto, signori e signore. C’è stato un nuovo ’68 in strada, e questa volta sono sbancati i registi surrealisti che fanno film di vita vera, usando i propri fratelli come attori e casa propria come location, con una telecamera da spalla che non vale una cicca, che scrivono sceneggiature assurde e meno sensate di “Dal tramonto all’alba”, di Robert Rodriguez, del 1996, con George Clooney e Quentin Tarantino, che basano la loro colonna sonora su canzoni dei Tokio Hotel e di cover di Avril Lavigne versione punk. Questa volta, sbaragliando ogni bookmaker, Chelsea Sienna Spiegelmann ha vinto quello che nessuno si sarebbe mai aspettato: un suo film ha acquistato la fama e il riconoscimento, non sarà trasmesso solo nel piccolo cinema svedese ma nelle grandi città, brillerà in colorate locandine della China Town americane come nei piccoli cinema accuratamente nascosti dalle parti di Ponte Mammolo. La rivolta è stata vinta nel sangue dai rivoluzionari, che hanno sovvertito le regole del gioco, affermandosi per una volta in mezzo ai kolossal passati di moda, sbrinando l’ignoranza della gente per dare un prodotto costato sudore della fronte e porconate in gaelico. Ce l’hanno fatta, signori e signore. Tom Kaulitz e Chelsea Sienna Spiegelmann, i registi surrealisti del nuovo millennio.
-Ma porca te, Chess, ce l’hai fatta!- ruggisce Alexandria, dicasi anche la nostra co-protagonista, dandomi un fraterno schiaffone accompagnato da, ma guarda un po’, un abbraccio trascinante. – E porco pure te, capra bollita, grandioso!- non si spreca a dare un pugno nello stomaco e ad abbracciarlo di conseguenza. Devo dire che è migliorata, adesso per i suoi standard è semi dolce. Dio.
-Avete visto? Misty Berlin ha ottenuto il successo che si meritava, ora possiamo pure andare a fare tutti camping in casa nostra!- esclama Tom, prendendomi di peso in braccio. Mi sembra giusto far notare che sono un po’ ingrassata.
-Dico, ma sei scemo o lo fai?- abbaia Bill, dandogli uno strattone a una treccina, perché il nostro attore principale era, è, e rimarrà per sempre una vera palla al piede – Io in casa mia sta gente non ce la voglio!
-Ma Bill … - mugolo io, facendo gli occhi dolci – Però io e Alex siamo le tue fidanzate, non riesco a capire perché …
-Oh, cosa c’entra, Ballicastle?!- mi guarda dall’alto in basso, scuotendo la testa – Casa mia deve rimanere uno specchio rosa perfetto e inappuntabile, mi ci manca solo che tu me lo insozzi con le tue patatine fritte e i tuoi kebab o che Alexandria mi rompa le casse con quelle vostre schifezze death.
No, Bill non ha ancora imparato a chiamarmi Chelsea. A volte divento “patatina mia”, a volte “troietta cicciottella”, a volte “rotolino di lardo”, qualche volta “salsicciotta lentigginosa”, ma Chelsea mai, sostituito brillantemente da qualche altra città angloirlandese di dubbia esistenza. Come Alex diventa sempre “scheletrino mio”, “ossicino isterico”, “pappagallino spelacchiato”, più raramente “limoncino iperacido”. Ma tutto ciò solo quando è particolarmente in vena, o quando, più spesso, vuole chiederci un favore particolarmente difficoltoso. Sennò siamo semplicemente “puttanelle”, “zoccolette”.
Raggiungiamo tutto il nostro colorito cast, che si fa notare in mezzo a tutti per i suoi vestiti assurdi, i suoi striscioni da concerto e le sue urla belluine miste tedesco/gaelico. Guardo Cooper Carter e la piccola Charlotte Chanel che saltellano in giro sventolando qualche cartellone pseudo nazista scribacchiato dalla mia sorellina sotto dettatura di quel coglione di mio fratello maggiore, mentre Madison Hope balla per la stanza, roteando come un derviscio rotante, con tanto di salti e spaccate volanti. Poi guardo quel santo di Georg abbracciato a quella strega di Avery Aubrey, vestita di verde come una pianta gigante, con tanto di cappellino ornato di margherite (nel film, ovviamente, faceva la biologa pazza); quando si sono fidanzati io e Alexandria abbiamo pensato bene di fare le nostre condoglianze al nostro povero amico che si è andato a sistemare con una che, per quanto indubbiamente bellissima, è in realtà la classica psicopatica che conquisterà il mondo a capo di un’orda di piante carnivore mannare. Osservo Katie Crystal e Gustav che si ingozzano impunemente di tartine al caviale, imboccandosi a vicenda; per qualche oscuro motivo, pure loro due si sono fidanzati, dopo che il buon batterista è stato l’unico a soccorrerla durante la sua depressione post fine di “High School Musical” e lei gli si è appiccicata come una patella: mi chiedo a sto punto se la bellezza delle mie sorelle possa davvero far chiudere gli occhi ai G&G sui loro caratteracci psicopatici. Scivolo su Billy Terry e Charity Rebecca che, come nel peggiore dei film romantici di serie C che giusto una regista come la sottoscritta potrebbe girare, hanno conquistato il cuore del mio fratellone elettivo; giusto ora gli siedono uno su un ginocchio e l’altra sull’altro, guardandolo con quei loro occhi violetti e perversi, fieri di essere conquistati una preda apparentemente irraggiungibile. Che dire, in quest’anno, si sono magnificamente impegnati entrambi per aggiudicarselo, al suono del loro corale “Se tu e Alex vi siete prese Bill in due, ora spiegateci perché noi due che siamo gemelli non possiamo prenderci Tom!”, e puntualmente eccoli lì, che se lo sbaciucchiano felicemente. Un anno, un film, e troppi intrighi amorosi tra gli Spiegelmann-Herder e i quattro Tokio Hotel. A pensarci bene, non sarebbe malaccio cominciare a pensare a un film sulla base de “La capra che scoreggiava lamponi”, un ritorno alle origini, alla commedia onirica secondo i sacri dettami di Jim Jarmush e di Aki Kaorismaki, un sublime gioco di vite che si intrecciano in una situazione straordinariamente normale eppure caratterizzata dal surrealismo che può riflettersi come niente, aggiungendo e togliendo personaggi fuori dal mondo che si alternano mollemente in una dimensione paradigmatica in cui tutti possono ritrovarsi anche se apparentemente indica solo le brughiere d’Irlanda, bagnate dal vento e frustate dal mare, illuminate dal sole malato di estati piovose e inverni nebbiosi. Sarebbe una storia suburbana perfetta, un richiamo di stile non da ridere, decisamente diverso dal nostro brillante Misty Berlin. Ritornerebbe Alex come sedicente zingara che legge le carte, tornerebbero Terry e Charity nei panni di due gemelli amanti (e magari questa volta la gravidanza di Charity la faremo meglio invece che infilarle un pallone da calcio sotto la maglia), tornerebbe Cooper come ex militare nazista fuggito dalla Germania, tornerebbe Madison nella ballerina fuggita dalla Russia per scampare alle leggi contro l’omosessualità di Putin. E poi ci sarebbero Tom, che sarebbe perfetto nei panni di un giovane giornalista statunitense che tenta di scoprire i misteri delle sue origini, e Bill, magari un famosissimo cantante che tenta di fuggire dalle telecamere e dai paparazzi, e Georg, che ci starebbe benissimo di nuovo come autista dalla corriera che porta nel paesino deputato a luogo d’azione, e Gustav, un abitante che tutto vede e tutto sente. E poi io, che in qualche modo mi infiltrerò.
E figurarsi che splendido polpettone ne verrebbe fuori, magari alternando una colonna sonora che mischia Evan Taubenfeld e i System Of A Down.
-Tesoro, non è una cosa meravigliosa? Ce l’abbiamo fatta alla fine. A fare il film che tanto speravo di girare dai tempi dei tempi.- sospiro, stringendo il braccio alla mia migliore amica, sorridendole e traboccando gioia da tutti i pori.
-Sì, amore.- annuisce lei, per poi fulminarmi con lo sguardo – Ma non provare a montarti la testa, ora, capito? Orso d’oro o no, rimani sempre una …
-Cucciolotte, usciamo?- Bill si intromette nel discorso, prendendoci a braccetto con uno di quei suoi sorrisetti da checca – Sto morendo di caldo!
-Ma io veramente avrei sete e … - inizio io, ma un calcione nello stinco mi fa tacere e seguire stancamente la Delfina e Alexandria fuori dalla sala, svicolando in mezzo a fotografi e giornalisti che tentano di bloccarci e intervistarci (una, a un certo punto, riesce a placcarci e chiede a Bill “Ma, Bill, chi sono queste due ragazze? Insomma, dov’è il tuo fidanzato super palestrato?” ma basta che lui schiocchi le dita e la Coinquilina Hannibal si scatena con tutta la sua belluina malvagità “La sai una cosa, stronzetta? Bill ha una dichiarazione da fare a tutte le Aliens di questo mondo: lui non è gay, è lesbica, va bene?! E da che mondo è mondo, le lesbiche stanno con altre donne”), fino a raggiungere l’uscita di servizio. Mi inginocchio per terra, sfilandomi rapidamente dalla complessa acconciatura uno spillone sormontato da un’ametista e lo infilo nella serratura. Che credete, è servito vedere film di rapine. Dopo un po’ di rimestamenti, la serratura scatta, e sgattaioliamo tutti e tre fuori, sulle scale di servizio, finalmente al freddo della sera, sotto le pallide stelle che illuminano Berlino e il suo cielo di velluto nero che pare solo un enorme domino di una maschera veneziana sepolta sotto i misteri di Murano.

La telecamera parte fissa, direttamente sui visi tristi dei tre ragazzi, affacciati al balcone di una ricca villa vittoriana in un luogo non troppo ben precisato. Sono importanti le espressioni; c’è una ragazza bionda che fuma distrattamente una sigaretta, sogghigna al nulla, guardando le stelle. C’è una ragazza lentigginosa che fissa la strada, piangendo silenziosamente, senza premurarsi di asciugare il mascara che cola miseramente. C’è un ragazzo così effeminato da fare impressione che fissa davanti a sé, mordicchiandosi pensosamente un’unghia. C’è una musica sottile nell’aria, una sorta di Lana Del Rey, forse, la luna che li illumina dolcemente, lattea e pallida. Nessuno dei tre guarda l’altro, sono soli tra la folla, come se stessero mollemente assistendo alla fine di un impero di cui loro in fondo non fanno parte. La telecamera allarga un po’ sui loro corpi. La rossa trema, la bionda è ferma immobile, il ragazzo è in tensione. La ripresa è sempre fissa sui tre personaggi, inquadra bene la rossa che non regge più e scoppia in lacrime, si volta come per scappare ma la bionda la afferra per un braccio, le sibila addosso, cattiva
-Stai a guardare, troia. Guarda.
Spinge la rossa verso il parapetto, lei piange forte più sente la bionda sghignazzare. Il ragazzo la stringe a sé, le accarezza i capelli, sospira, non piange ma è distrutto
-Non piangere, tesoro mio. Non piangere, ti prego.
-Io … io non ce la faccio, Bill, non ce la faccio … Alex, ti prego, andiamo via …
La ripresa deve comunicare tutto l’orrore che permea questa situazione sconosciuta, è una ripresa piena e presente nel dolore.
-Alex, ti prego. Chelsea è stanca, per favore …
Lui stringe la rossa, lascia qualche lacrima solcargli le guance. È stanco. Morto.
-Andare via? Ma siete impazziti? Perché farlo adesso?- la bionda ride, era normale ma ora non lo è più, ovvio. – Perché non guardare la fine del nostro inferno?
La telecamera gira finalmente, inquadrando la costruzione del muro di Berlino. Si sente in sottofondo una risata, un sospiro, un pianto spezzato. Uno schiaffo.

-Credo mi sia appena venuto in mente un’idea semplicemente geniale per il nostro prossimo film. Magari questa volta con una sfumatura più storica e … - inizio io, tirando le maniche dei miei due fidanzati.
-Ti ho già detto di non montarti al testa- mi rimbecca Alex, scuotendo i capelli – Hai vinto il premio, bene, brava. Ora basta!
-Davvero, Cork, per piacere non cominciare a stressare. Guarda,- Bill mi agita sotto al naso le sue unghie perfette – Mi sono impercettibilmente scheggiato un’unghia e ho una rughetta sotto l’occhio sinistro. E tutto questo per colpa tua, sia chiaro.- Alexandria non fa in tempo ad esultare perché non l’ha tirata in causa che subito risuona – E anche tua, pappagallo incatramato, che ti credi.
Ci guardiamo tutti e tre, appoggiati alla balaustra di marmo bianco di Carrara, Alex che sorseggia distrattamente la birra da una lattina fregata a un tecnico del suono, perché sicuramente non siamo le tipe capaci di abituarci ai flute di champagne e ai drink di alta classe, ma ci facciamo andare bene qualche lattina e qualche bicchiere sbeccato di whisky dei peggiori, Bill che fuma una sigaretta lunga da star degli anni ’50, tirata fuori da un portasigarette rosa shocking con ricamata sopra una B maiuscola di piccoli strass violetti, io che mi ingozzo alla velocità della luce di tartine al paté d’anatra, sembrando un piccolo criceto bianco e rosa, guardandomi in giro con aria circospetta e pronta a debellare eventuali assalti del Panzer Gustav.
Non so che effetto potremmo fare, a vederti questi tre personaggi completamente diversi uno dall’altro che guardano la città da sopra un balcone come una nuova oligarchia poco seria e tanto squinternata, eppure c’è qualcosa di romantico anche in noi, che ci teniamo per mano nonostante tutto, come un cordone di sopravissuti a un tragico incidente nucleare, unici al mondo ad essere vivi in mezzo alla morte e alla desolazione, tre reduci che non sanno cosa fare e nemmeno dove andare ma che hanno ancora la realtà di loro stessi, si conoscono e si legano nel tentativo di ricreare quelle condizioni ideali come prima del conflitto che ha portato il mondo alla rovina. Non hanno casa, morale o passato, ma vogliono proiettarsi verso un futuro così incerto da fare paura. Però sono insieme, e questo dovrebbe bastare, si tengono le mani per non perdersi nella nebbia radioattiva che si alza dai nuovi deserti freddi che hanno ricoperto l’Europa, si stringono uno alle altre per riscaldare i loro cuori congelati dalla polvere radiogena che cade dal cielo diventato di un insostenibile beige sporco, litigano per ricordarsi di come era la vita prima della fine, si amano per ravvivare notti buie come solo l’inferno può essere, sopravvivono come possono per non lasciarsi andare in mezzo a quegli scheletri di persone che forse potrebbero anche conoscere, fanno gli sciacalli verso ogni cosa ancora intera, fregandosene della morale. Sono i nuovi eroi di un mondo distrutto, i nemici di una completa revisione della società, i frutti genetici della malvagità e della crudeltà del genere umano. Sono semplicemente i cattivi ragazzi che vincono dove tutti gli altri sono costretti a cedere le armi, e hanno il mondo in mano quando gli dei muoiono.
-Sapete una cosa, ragazze?- cinguetta Bill, lisciandosi l’abito aderentissimo – Sono quasi contento di avervi conosciuto.
Io e Alex sputiamo rispettivamente la tartina e la birra, strabuzzando gli occhi. Eh?
-Se è uno scherzo, non fa ridere.- sputo io, tossendo paté dappertutto.
-Veramente, Bill, che cazzo dici?- abbaia la mia amica, pulendosi la bava di birra.
-Quello che ho detto, oche giulive.- ribatte lui, guardandoci malissimo – E pulitevi la bocca, sozze creature!- obbediamo celermente, pulendoci ognuna nel vestito dell’altra, guardandolo con i nostri occhi violetti e marroni – Voglio dire, è passato più di un anno da quel giorno maledetto in cui ci avete fatto quell’oscena intervista che faceva cadere le braccia e non rendeva merito del nostro disco strepitoso. Dunque, è passato quasi un anno da quando mi avete insalivato la bocca e da quando ho malauguratamente deciso che meritavate una possibilità, tanto da avervi addirittura inviato dei profumi di Dior, che non sono ancora riuscito a sentirvi addosso, oltretutto.
-Profumi Dior?! Ma allora eri tu ad averli mandati?!- strilla la Coinquilina Hannibal, sputando altra birra. – Ma porca puttana, Chess!
-E chi volevi che li avesse mandati, scusa?! Non penso che voi due galline possiate avere tanti spasimanti, eh!- le urla Bill, dandole un ceffone sulla testa. – Dove li avete messi?!
-Li abbiamo buttati nel cesso.- rispondo io con tutta la calma del mondo. – Scusa, tesoro mio, ma siccome non erano firmati, io e Alex eravamo convinte che fossero a base di acido muriatico e che ci volessero morte, così prima abbiamo pensato di regalarli a Katie Crystal, ma alla fine la bontà ha vinto sull’odio secolare e li abbiamo direttamente svuotati nello scarico.
Non riesco a capire perché ora Bill si sia accasciato sul pavimento ululando “Christian, perdonale, non sanno quello che fanno!”, per poi vederlo rialzarsi come una furia e sentirlo ruggire
-Razza di ingrate teste di melone, erano un regalo da parte mia! Siete …
-Meravigliose?- tento di suggerirgli, ma l’unica risposta che ottengo è un pugno
-Ma che meravigliose, siete cerebrolese!
-E va beh, amore della zia, stai calmino eh!- latra Alexandria – La prossima volta ti firmi e non li buttiamo nel cesso, ok?
-No, la prossima volta ci metto davvero l’acido muriatico dentro.- sibila inviperito, rassettandosi vestito e capelli. Prende un profondo respiro, e poi continua – Comunque, a parte ciò, ho detto che è appunto passato un anno e un film, addirittura, in cui … beh, vi devo ringraziare. Odio doverlo ammettere, non pensiate che sentirete mai più un discorso simile, ma mi sono reso conto che ve lo devo. Grazie. Voi … a modo vostro, con la vostra scurrilità, i vostri vestiti orribili, la vostra casa lurida, la vostra musica inascoltabile, i vostri discorsi idioti, mi avete aperto un mondo che non credevo fosse possibile per me accedervi. Mi avete fatto vedere il mondo dietro le pareti. Pensate, quella canzone l’ho scritta per voi. Sì, per un pappagallo incatramato e una battona irlandese grassa, perché in qualche maniera mi avete rivoluzionato. Sì, forse parlate tanto di rivolte punk, e vi devo comunicare che una rivolta siete riuscite a farla, ed è la mia personale. Pensavo che non avrei mai potuto avere nessuno, che tutti avrebbero continuato a trovarmi insopportabile, acido e cattivo, perché in fondo lo sono, assolutamente, ma voi mi avete sopportato, come fa Tom. Siete sempre state lì, e più io cercavo ingenuamente di allontanarvi dalla mia sfera di moda e odio, più voi restavate lì fuori a bussare, come quegli insopportabili venditori porta a porta. Ho cercato di stare da solo, e voi siete penetrate senza grazia nella mia solitudine, distruggendola, facendovi odiare, ma avevate oramai aperto lo spiraglio giusto per far entrare nella mia bolla di sapone rosa super fashion la luce del mondo reale, e non quella dei negozi o riflessa sui diamanti. Dunque, grazie. Per esserci state, per avermi salvato da un bozzolo che si stringeva sempre di più. Grazie per avermi rovinato la vita, per essere state moleste, insopportabili e puzzolenti. Grazie per avermi dato quei biscotti di Chernobyl, per avermi presentato i vostri strepitosi fratelli, per esservi vestite come dico io. Grazie per avermi sopportato sempre, per avermi dato la parte principale nel nostro film, per essere state delle rompipalle assurde. Semplicemente, grazie. Ragazze … - ci guarda, con quei suoi occhi straordinari – Siete meravigliose.
Non penso ci possano essere mai sceneggiature, film, regie e cineprese che possano immortalare il momento in cui io e Alex ci guardiamo, sbattendo gli occhi, e ci baciamo, trascinando il nostro Bill nel nostro squinternato bacio, qui, sul balcone. No, questo non potrà mai essere un film, perché nemmeno la Grande Regista Surrealista potrà mai essere capace di replicare l’attimo in cui le nostre tre labbra si toccano e il sussurro corale che ne esce, aprendosi in un ventaglio di dolcezza cyberpunk
-Sì, ragazze. Siamo meravigliose.

 

“You keep giving me a taste of your venom”
Regia: Charlie and Lisa
Sceneggiatura: Charlie and Lisa
Scenografia: Charlie and Lisa
Fotografia&Montaggio: Charlie and Lisa
Colonna Sonora: Tokio Hotel, Green Day, etc…
Bill Kaulitz as himself
Charlie as Chelsea Sienna Spiegelmann
Lisa as Alexandria Herder
Tom Kaulitz as himself
Georg Listing as himself
Gustav Schafer as himself
Anno di produzione: 2016-17
Distribuzione: in tutti i cineclub sfigati di terza categoria.


E' con onore e orgoglio che Charlie e Lisa pongono la fine alla loro scapestrata storia! Che Chess e Alex possano sempre essere dalla vostra, insieme all'Innefabile Kaulitz, ovviamente. Grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto, ci rivedremo presto con un'originale romantica incentrata sulle due ragazze, baciii
Charlie e Lisa

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