Pretty When You Cry di nuvolenere_dna (/viewuser.php?uid=164528)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
pretty prologo
Ciao amici
:)
Visto che fa
caldo, quale soggetto migliore del nostro amico Freezy per rinfrescarci
in
qualche momento di noia? A parte gli scherzi, sono felice di pubblicare
finalmente
questo prologo, è da maggio che ho iniziato a scrivere
questa storia ma non
sono mai soddisfatta (e temo che non lo sarò mai).
Vi comunico che
si tratta di una mini-long praticamente già scritta, mi
mancano ancora alcuni
pezzetti qua e là e una generale revisione (ho preferito
arrivare quasi alla
conclusione prima di iniziare a pubblicare perché come
alcuni di voi
sapranno... non ho la costanza per le long *imbarazzo* e rimangono
incompiute!
*orrore*).
Si comporrà
di
questo prologo, due o tre capitoli centrali e un epilogo.
La storia si
ispira alla canzone “Pistol Whipped” di Marylin
Manson, che
trovate qui.
Vi consiglio di
ascoltarla per tre motivi:
1. per entrare
nel mood;
2. perché
da
essa è tratto il titolo della storia;
3. perché
tre battute
di dialogo, evidenziate in corsivo, appartengono alla canzone stessa e
sono
canticchiate da un personaggio.
Dedico questa
storia a Vegeta_Sutcliffe e alla sua fanfiction “Padre e
figlio”,
che adoro alla follia e ho letto
talmente tante volte da iniziare a ricordare le parole a memoria! :)
A presto con il
primo, succoso capitolo!
Intanto vi
aspetto nelle recensioni per un parere a caldo!
Un abbraccio,
Nuvole
Pretty
When You Cry
Prologo
[Freezer’s
POV]
Schiudo le palpebre nude,
incantato, come
se non avessi mai visto nulla di più bello al mondo. Dovrei
essermi abituato,
ormai, i pavimenti che divorano le mie impronte sono tutti
lastricati di sangue e di morte, ma ogni volta è come la
prima, unica e speciale.
Sono deliziose le
lacrime che colano da
quegli occhi gonfi, venati di porpora, sul punto di scoppiare. Sono
provocanti,
licenziosi i lividi neri che circondano quelle iridi, talmente
impaurite da non
osare neppure sfiorare la mia figura.
È seducente
il sangue che cola dal filo
spinato che cuce insieme le loro labbra.
Questo è il
mio momento di pace, non
accetto che sia sporcato dai loro respiri fetidi, dal suono disarmonico
dei singhiozzi
e dei gemiti che cercano invadenti di risalire lungo le loro gole.
Rovinerebbero la
melodia impeccabile
della mia canzone preferita.
Tamburello le dita sul
metallo laccato
del mio trono volante, eccitato da una nuova esecuzione, mordendomi le
labbra per
il piacere di ascoltare il suono del tamburo della pistola che rotola,
dei
proiettili che si sfracellano al suolo.
Il ronzio del basso
inizia a vibrarmi
nello stomaco, il volume è talmente alto da far tremare i
vetri della sala del
trono, seguito dalla batteria, lenta e suadente, parallela ai battiti
del mio
cuore, così forti da farmi sussultare il petto.
La voce roca del
cantante sospira ed
esplode, infine, in tutta la sua intensità.
«Sei
così carina quando piangi.»
Sussurro,
cantando a memoria, facendo scrocchiare il collo a destra e a sinistra.
«Non voglio colpirti, ma la
sola cosa tra il nostro amore è un naso sanguinante, un
labbro rotto e un
occhio nero...»
Le
prigioniere ballano, tremanti, i corpi
avvinti in una coreografia che insegue sgraziata il ritmo della musica.
Le
guardo, divertito, lo sguardo ipnotizzato dal sangue che cola lungo i
loro
menti, giù per il collo, sui vestiti strappati e sporchi.
Mi chiedo quale
cederà per prima.
Osservo divertito i
loro sforzi, il modo
ridicolo che hanno di continuare a muoversi, consumando quel poco che
resta
delle loro vene, nella sola vana, ridicola, speranza di salvarsi la
vita. Si
dimenano, strisciando gli arti rotti, spezzati dalla furia dei miei
soldati,
nella speranza che io mantenga le mie false promesse.
«Voglio il tuo dolore... e
anche picchiarti»
La mia coda
frusta il pavimento in un
impeto di eccitazione, incidendo un solco nel marmo candido.
Cinque paia di occhi
sfolgorano
dall’orrore, cinque bocche si lacerano ancora di
più, pressate dalle urla che
cercano di liberarsi, ma i loro piedi perseverano, cauti nel toccare
terra e
nel rialzarsi, delicati come fiori che si girano piano verso il sole.
Mi rilasso nella
poltrona, cercando di
placare la tensione accumulata nelle spalle dopo l’ennesima
missione
diplomatica in un pianeta di luridi barbari, l’adrenalina che
si dissipa nelle
mie membra fredde.
Un nuovo brivido: una
delle ballerine sta
per crollare, noto la sua forza vitale esaurirsi, sfibrata dal fantasma
subdolo
della morte che la corteggia sempre più vicino, librandosi
intorno alla sua
figura stanca.
Lo spettacolo
è durato poco.
Anche troppo
poco, la delusione mi contorce il volto in una smorfia di disgusto.
«Ho
saputo che hai ucciso una delle mie puttane.»
Sibilo piano,
appoggiando il mento al
pugno contratto, un sospiro lieve che sfugge dalle labbra socchiuse,
abbastanza
forte da essere udito dalle sue orecchie fini, in grado di riconoscere
la mia
voce dolce in mezzo ad una tempesta. La mia coda si allunga cieca
all’indietro,
in cerca della sua caviglia.
«Non
immaginavo che attribuissi tanto
valore alla vita delle prostitute, Lord Freezer.»
La voce di Vegeta
sorge sarcastica da
dietro le mie spalle, venata da una sfumatura di tensione che soltanto
io posso
cogliere.
Tu non hai segreti, non per me.
«Non ne ha
alcuno, infatti.»
Allungo pigramente le
dita, dalle cui
punte sbocciano bagliori sinistri, proiettili immateriali che
trafiggono
all’istante il cuore delle ballerine, angeli le cui ali si
sfracellano
squarciate sul pavimento.
La musica continua a
gridare, assordante,
le mie labbra scure intrappolate in un requiem distorto, condannate a
ripetere mute
i versi della canzone. Sento il respiro di Vegeta accelerare per poi
estinguersi nel silenzio, come se trattenesse il fiato.
«Mi
hai deluso, sai?» mormoro, atono «Speravo che,
almeno tu, fra tutti, non ti
abbassassi a certe porcherie.»
Appoggio il braccio
alla testiera della
poltrona, facendo ruotare il trono volante nella sua direzione,
attirando le
attenzioni dell’intera sala su di lui. Indugio
nell’osservare il suo viso, una
maschera elegante di ghiaccio che incatena il fuoco divampante nei suoi
occhi neri.
«Non sai
quanto sono grato di appartenere
a una razza superiore.»
sibilo, mentre con un gesto stizzito indico a un servo di spegnere
l’altoparlante.
«Io sono
fortunato, Vegeta. Non ho bisogno
di aprire le gambe a nessuno per godere... sei già tu, la mia puttana.»
Sulle mie labbra
carminie fiorisce un
sorriso sadico che lascia scoperti i denti candidi, bianchissimi, su
cui
striscia repentina la lingua, le mie iridi come braci impazzite che
ridono
sguaiate, vermiglie come il sangue che pulsa impazzito sotto la sua
pelle
diafana.
Le risate perfide di
Zarbon e Dodoria
riempiono la stanza, seguite da quelle del Capitano Ginew. Si guardano,
complici, gongolanti per la rivincita avuta sulla creatura inferiore
che mi
ripetono sempre non essere sufficientemente degna di sedere insieme a
noi.
I pugni di Vegeta si
stringono, rabbiosi,
le unghie affondano con veemenza nel palmo fasciato di bianco,
dilaniando il
tessuto dei guanti, la mandibola si chiude in uno schiocco rabbioso
come quella
di un animale in gabbia.
La vedo, la sento,
l’umiliazione che come
un virus si moltiplica inesorabile dentro di lui, infettando ogni
molecola del suo
corpo. I suoi occhi non abbandonano i miei, lividi di un’ira
talmente bruciante
da assomigliare alla disperazione, la gola accoltellata da una litania
di insulti
e improperi che vorrebbe soltanto sbattermi in faccia. Il suo pugno
serrato
accenna un minimo movimento, subito intercettato dal mio palmo algido,
che lo
stringe gentile come una carezza materna.
«Oh, Vegeta,
ma quanto sei permaloso...
Stavo solo scherzando!» sorrido, amabile, tradito dalle
scintille di malizia
che infuriano nei miei occhi.
Mi trattengo con tutte
le mie forze per
non ridere.
Lotti con tutte le tue
forze per non
gridare.
Lo so, mio dolce
bambino... l’oscurità
non ha mai fine.
Continua...
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
pretty primo capitolo
Ciao
a tutti, amici! :)
Innanzitutto voglio ringraziare chi ha messo nelle
preferite, nelle seguite e chi ha recensito il prologo, mi avete dato
molto
sostegno e incoraggiato a proseguire!
Purtroppo non sono molto soddisfatta di questo primo
capitolo, non so, c’è qualcosa che non mi
convince... spero comunque che sia di
vostro gradimento e vi invito a lasciare il vostro parere nelle
recensioni, ho
sempre bisogno di un feedback!
Grazie di leggermi ancora!
Un bacio,
Nuvole
<3
Pretty
When You Cry
Capitolo I
[Vegeta’s POV]
Avanzo su questa terra, rigido come un
robot, rinchiuso fra le ossa e i muscoli, spasmodicamente tesi nel
tentativo di
trattenere la mia anima rabbiosa.
Ho il volto in fiamme, macchiato da un livore
ardente che scaturisce dalla profondità delle mie viscere.
Un altro pianeta, l’ennesimo, ridotto in
cenere con un gesto pigro del braccio.
Ho quattordici anni, da nove non faccio
che distruggere, radere al suolo, annientare e conquistare.
Sottili eufemismi per celare l’unica cosa
che racchiude il potere di darmi piacere: incutere terrore e infine
uccidere,
eccitato come una bestia, tossico del potere e
dell’adrenalina che corrodono
avidamente le mie vene.
Come un vampiro, rubo molecole di vita
dalla morte degli altri, sublimandola, divorandola, estirpando da essa
l’ossigeno che mi serve per respirare.
Sopporto le mie catene facendo a pezzi
quelle degli altri. Mentre guardo le rovine, coperte dal fumo delle
esplosioni
gemmate dalle mie mani indifferenti, mi abbandono a una sensazione di
piacere e
frustrazione, morbosamente mescolati nella furia calda del sangue che
pompa
impazzito in tutto il mio corpo.
«Io
sono fortunato, Vegeta. Non ho bisogno di aprire le gambe a nessuno per
godere... sei già tu, la mia puttana.»
Nel ricordare quella frase la bile mi corrode
l’esofago. Sento lo stomaco contrarsi in un crampo, le dita
che si chiudono
repentinamente nel pugno, talmente serrato da tremare.
La vergogna arde di nuovo sul mio volto,
come se fossi ancora lì, immobile in
quell’istante, paralizzato di fronte alla
presenza ghignante di tutti.
Vorrei soltanto vedere i loro occhi
spegnersi, ingozzarmi di quella luce, sfamandomi con l’ultimo
delizioso barlume
prima della morte. Il mio nome, il mio nome si moltiplicherebbe come un
virus
sulle loro bocche, fra i lamenti, incastonato fra le suppliche
patetiche di
guerrieri senza patria e senza onore, privi di spina dorsale, del
tutto
incapaci di scalfirmi.
Non sarebbero che lagne pietose di esseri
miseri, inferiori, come lattanti dalla forza sovrumana, ancora
imboccati dalle
illusioni futili di una vita al soldo di Freezer, il cervello
spappolato dalle
sue false lusinghe.
Non risparmierei nessuno, nessuno merita
neppure un briciolo della mia pietà.
Il mio piede calpesta un tessuto scarlatto,
probabilmente un brandello di una tenda, mischiato al pulviscolo e a un
fiorire
di cavi elettrici tranciati di netto, come vene riverse nella terra
chiara.
Stringo i denti, la mandibola che si contrae nervosa in uno schiocco.
Anche tu...
in fondo, non eri che un verme, un ectoplasma liquido la cui voce
gridava
inascoltata sott’acqua.
Sono stanco, sento le gambe indolenzite,
ma la mia forza immensa, incommensurabile, si agita ancora indomita
nelle mie
membra troppo immature per contenerla senza scoppiare. Ho sterminato
tutta la
popolazione, infranto l’ennesima civiltà come un
dio malevolo, stizzito per le
imperfezioni delle creature inette, incapaci di imporre la propria
volontà. Tuttavia,
io non sono che un emissario spezzato, un’aberrazione,
oggetto della
distruzione altrui e soggetto di altra distruzione, troppo infatuato
della
morte per preoccuparmi di costruire qualunque cosa. I miei passi si
ripetono in
infinite eco, onde di suono che non incontrano nulla oltre alle
macerie.
Mi domando se il mio pianeta, nell’attimo
prima di frantumarsi al contatto con il meteorite, apparisse
così, fragile e
indifeso, intimidito di fronte all’ira di una
divinità perversa, incurante
delle vite strappate senza alcuna ragione. In questo mondo conta
soltanto la
forza e se non sei in grado di sopravvivere muori, sbranato vivo. E i
Saiyan
non sono stati abbastanza forti, non abbastanza intelligenti da
sopravvivere in
questo gioco diabolico.
Abbasso lo sguardo sui miei stivali
chiari, insozzati dal sangue marcio, dalla terra ambigua, un tempo
così solida,
immutabile, deflagrata come polvere al vento per effetto di un mio
desiderio.
«Vi ordino di rientrare immediatamente.
Avete già sprecato fin troppo tempo.»
La voce tagliente di Freezer mi
attraversa il timpano sinistro, provocandomi un brivido doloroso.
«Ai suoi ordini, Lord Freezer.» Nappa e
Radish rispondono all’unisono, le parole metalliche,
disturbate dai fruscii dei
campi elettromagnetici di Hagalaz. Sono lontani, a qualche centinaia di
chilometri da me. Ci siamo divisi non appena siamo atterrati su questo
suolo
inutile, per conquistarlo più in fretta. Rimango in
silenzio, come stordito,
barcollando per la stanchezza. Da quando ci siamo alzati dalle nostre
brande
abbiamo già conquistato tre pianeti, uno dopo
l’altro, lasciandoci alle spalle
nient’altro che devastazioni rosse.
Deglutisco, la bocca prosciugata in un
deserto pungente. Mancano ancora due missioni per terminare la giornata
e poter
finalmente riposare, silenziosi in un anfratto della navicella di
Freezer.
«Vegeta? Ti consiglio di rispondere se
non vuoi vedertela con me!»
Un’altra coltellata nell’orecchio.
«Io
sono fortunato, Vegeta. Non ho bisogno di aprire le gambe a nessuno per
godere... sei già tu, la mia puttana.»
Un orgasmo di boria, malcelato nel
sorriso sghembo che gli tagliava la bocca, il fulgore dei suoi occhi
sarcastici, sorgenti di veleno vivo e bruciante il cui solo ricordo mi
provoca
l’impulso di vomitare.
Un colpo di stato, una ribellione
silenziosa viene combattuta all’interno del mio corpo, la
mano destra scatta in
alto a disattivare lo scouter, gettandolo a terra a frantumarsi sotto
l’impeto
di uno stivale stizzito. Il suono del vetro frantumato,
dell’elettricità che
muore, dilaniata dai circuiti, mi suscita un assurdo piacere che mi
infiamma la
faccia e contorce i miei lineamenti in un ghigno.
«Bastardo!» sibilo fra i denti, nel vuoto
del vento che sferza la mia figura, sollevando la sabbia nera sul mio
volto. La
sensazione piacevole svanisce in fretta, travolta dall’impeto
delle viscere che
si contraggono, un riflesso condizionato di quando il suo volto bianco
si ricompone
come un mosaico nella mia testa. Immagino le sue labbra violacee
contrarsi dall’indignazione,
tormentate dai denti, il pugno ferreo che affonda nel bracciolo della
poltrona.
Il mio volto si riassesta in un’espressione inquieta,
attraversato dalla
tensione che pulsa furente, entrando e uscendo dai miei confini.
Non ho dubbi sul fatto che pagherò ogni
secondo di questa insubordinazione.
Sono solo su questa terra, l’unico essere
vivente rimasto fra i cadaveri, ma uno strano senso di fibrillazione
contraddice l’ultima rilevazione effettuata con lo scouter.
Nel radar si
rifletteva soltanto un silenzio di morte, non interrotto neppure dal ki
insignificante degli abitanti di questo pianeta, conosciuti per i
poteri
psichici e la chiaroveggenza. Freezer odia le creature che indulgono
nella
contemplazione del futuro e si affretta a sterminarle, come se avesse
in
qualche modo paura di sapere della propria inevitabile fine.
Che senza dubbio arriverà, un giorno, per
mano mia.
Cammino ancora, cauto, gli occhi prudenti
nell’ispezionare il minimo particolare che possa indicare la
presenza di
qualcuno.
Mi fermo di fronte alle rovine del
Palazzo Reale, ridotto a un cumulo di rocce esanimi, scardinate dalle
fondamenta, un bolo informe di vetri e di travi, la cui colonna
vertebrale è
stata spezzata. Penso alla mia casa, un fantasma tremante nella mia
memoria, il
posto in cui la mia ingenuità di bambino ha strillato,
circondandosi del lusso,
dell’oro, della schiavitù, di vane illusioni e
sogni ridicoli che si sono rivelati
presto un macabro inganno.
Una sfumatura verde.
Come un’ombra scivola di fronte ai miei
occhi per poi disciogliersi nel grigiore della pietra frantumata.
Il cuore mi si contrae nel petto,
travolto da un brivido di eccitazione e di piacere. Sento la
salivazione
aumentare, la mente che lavora febbrile al pensiero di essere temuto,
supplicato
ancora una volta, quella volta in più che è
sempre meglio della prima.
Sono solo, nel buio della trasgressione.
Mi aggiro fra le macerie, le onde del vento che si increspano
sollevando i
detriti.
«Chi sei? Vieni fuori!» grido,
baldanzoso, leccandomi le labbra.
«Principe Vegeta»
Una voce limpida, femminile, recide
l’aria come una coltellata. Mi giro di scatto, ritrovandomi
di fronte un’aliena
dallo sguardo smarrito, come rapito in un’altra dimensione.
Mi guarda,
trapassandomi infinite volte, come se a ogni secondo che passa potesse
strapparmi un velo, una delle strutture coriacee che mi proteggono.
Incalzo lentamente, intenzionato a
godermi il più possibile la caccia. Voglio sentirmi di nuovo
potente,
insensibile, una fiera da supplicare, verso cui inchinarsi fino a
spezzarsi i
denti contro il pavimento.
Ho ancora due ore prima che Freezer invii
qualcuno a cercarmi qui e voglio sfruttarle fino all’ultimo
secondo.
«Ciao bellezza, ti è piaciuto lo
spettacolo?» sogghigno, le labbra piegate in un sorriso
malevolo.
Ma lei non indietreggia, continua a
fissarmi, allucinata. La osservo con attenzione, il suo volto
è più grazioso di
quello delle altre donne incontrate su questo pianeta, la sua veste
è
illuminata da pietre preziose, incastonate sulle sue spalle e lungo i
fianchi
snelli, il seno procace avvolto da un’ombra di organza,
impudica nel mostrare i
suoi capezzoli scuri.
Una sensazione simile alla fame risale
lungo la mia gola, il basso ventre pulsante, sempre più
rigido. Deglutisco
ripetutamente, cercando di reprimerla. Non sono ancora abituato a
questo
cambiamento, è da poco tempo che le mie membra ambiscono
anche a un tipo
diverso di piacere, un piacere umido e pulsante, talmente intenso da
farmi
perdere la testa. Lei mi guarda, dondolandosi sui piedi, il vento che
gonfia e
rilascia il suo vestito mostrando la curva dei suoi fianchi. Non riesco
più a
trattenermi e mi scaravento su di lei, brutale, sfracellando il suo
corpo a
terra sotto il mio. Sbrano con le dita la consistenza liscia della sua
pelle, graffiandola,
strappando i suoi vestiti per poi scendere ad abbassarmi i pantaloni
con
impazienza, l’eccitazione talmente dura da farmi male.
Alzo lo sguardo per riflettermi nel suo
volto, nel suo terrore, ma dentro le sue pupille dorate non
c’è nulla. La sua
espressione assente si tramuta lentamente in un ghigno, gli occhi
spalancati in
un’espressione folle, straripante nella delicatezza del suo
volto, dissonante
rispetto al sorriso dolce che si apre sulla sua bocca.
La sua nuca si solleva da terra per
avvicinarsi alla mia spalla e la sua voce non è altro che un
sussurro, appena
percepibile dai miei timpani.
«Lo sai, vero? Che... morirai per mano sua?»
Non fa nessun tentativo per allontanarsi,
per ricoprire le nudità del suo corpo. Rimane semplicemente
immobile, sotto di
me, il volto adombrato da una gioia torva, minacciosa, che
inspiegabilmente
risale lungo la mia schiena in un brivido gelido.
«Come osi rivolgerti a me in questo
modo?» ringhio, furente, stringendo i pugni intorno alle ossa
fragili delle sue
clavicole.
«Freezer ti ucciderà.» le sue iridi
scintillano, ebbre di piacere, scomponendosi in una risata che rimbomba
fra le
macerie del suo popolo, i cui cadaveri tempestano il terreno,
dissezionati dai
miei colpi spietati.
Sento la mia anima vibrare, come se fosse
stata scardinata dalle vene e dai ventricoli, lontana dalle ossa e dai
muscoli,
galleggiante nell’etere. Qualcosa cerca di sfiorarmi dentro,
scivolando e
schivando la coltre di spilli che mi circonda. All’improvviso
non riesco più a respirare,
annaspo alla ricerca di aria, tutto diviene lontano, le braccia
incerte, le
ginocchia vacillanti nei calcinacci, cerco di urlare ma dalla mia gola
non esce
alcun suono, impiccata da forze invisibili.
Uno spiraglio si apre e vengo colpito,
invaso da un vuoto divorante, che mi risucchia.
Nei suoi occhi vedo la mia fine, la mia
morte, il mio corpo profanato, spezzato, privo di vita, ormai impotente
di
fronte alla sua mano tesa, il volto adombrato da un’ira
talmente profonda da
illividirgli anche le labbra scarlatte, contratte in una smorfia.
La donna sbatte le palpebre, socchiudendo
maliziosa le ciglia lunghe.
«Hai visto? Alla fine la ruota girerà
anche per te, schifoso!» mi sputa in faccia, mentre mi
irrigidisco sempre di
più, impossibilitato ad alzarmi.
No! Non è altro che una sporca menzogna!
Contraggo la mascella mentre tremo per lo
sforzo di vedere ancora, soffocando ansante a pochi centimetri dal suo
viso,
incurante dell’energia tagliente che mi sferza implacabile.
«Non ti
vendicherai mai, Saiyan!»
Ghigna, soddisfatta, mentre altre
immagini si affollano nel buio delle sue pupille.
Il viso algido di Freezer non compare più,
sbranato da brandelli di visioni confuse, un caleidoscopio danzante di
volti e
di cieli, uno stormo roboante di colori, di oro e di nero, del sangue
vermiglio.
La terra inizia a tremare sotto i miei
gomiti, disciogliendosi in un fragore che mi frantuma i timpani. Solo
la sua
risata si staglia, imponente, mentre le sue mani mi circondano il
volto,
ustionanti, caustiche come acido. Sento infiniti pugnali trapassarmi,
coltelli
che mi scuoiano vivo, il sangue scarlatto mi cola lungo il mento,
sporcando la
sua pelle nivea.
«Sei caduto in una trappola, stupida
scimmia!»
All’improvviso realizzo che spegnere lo
scouter è stato un grosso errore, un errore fatale.
Ma il mio sguardo non abbandona mai le
sue pupille umide, grondanti di piacere.
Una bambina corre, un sorriso estasiato
dipinto sul suo piccolo volto, incorniciato da riccioli azzurri che si
agitano
leggiadri nell’aria. Dice qualcosa, sorridendo, le labbra che
si sporgono
all’infuori, come in una pernacchia. Stringe fra le mani una
scatola cilindrica
di colore rosa. Corrugando le sopracciglia in un’espressione
concentrata, le
sue piccole guance soffiano con determinazione, gli occhi blu
attraversati da
uno spiffero luminoso. Soffia così forte da sgretolare le
bolle ancor prima che
nascano.
Assurdo, cosa me ne può importare di una
mocciosa?
Qualcosa mi trapassa il costato,
mozzandomi il fiato. Singhiozzo, cercando di carpire
l’ossigeno che abbandona
inorridito i miei polmoni, le membra lontane, come arti robotici i cui
collegamenti sono stati tagliati.
Il caos si ferma, di nuovo, collassando
su se stesso.
Altri occhi azzurri, dello stesso blu
intenso, di un blu che non ho mai visto da nessuna parte in questa
galassia, ma
svuotati, mortificati da un pianto inarrestabile che trabocca copioso
lungo gli
zigomi pronunciati, appena sfiorati dai capelli lilla, lunghi fili che
gli
accarezzano il petto. La sua bocca si apre in un urlo, subito zittito
da un
calcio di uno stivale bianco simile al mio. Mi osservo afferrare il
mento del
ragazzo, stritolarlo fra le dita per poi lasciarlo andare, sfracellato
in un
bianco accecante, mentre le sue labbra ripetono insistenti la stessa
parola,
sempre più flebile, come una cantilena.
Dov’è Freezer?
Dov’è la mia vendetta?
Indietreggio, incespico pieno di terrore.
Il terreno si sbriciola sotto i miei piedi, il cielo avvolto in un
caleidoscopio di mura e di cieli intermittenti si ricompone nel
soffitto
candido di una stanza, illuminata da un elegante candelabro. Mi vedo
sdraiato
fra le lenzuola, addormentato, la spalla nuda che si alza e si abbassa,
chiara
nella penombra. La mia mano è intrecciata a quella di una
donna stupenda, i
capelli azzurri rovesciati sul cuscino, di un azzurro ancora
più intenso dei
precedenti, gli occhi vividi come oceani in tempesta, di un blu
indescrivibile,
lucido ma non di pianto, come se intrappolasse la luce al suo interno,
prigioniera in un gioco di vetri scintillanti. La donna mi guarda e si
avvicina
con cautela, finendo per baciare il mio volto ripetute volte, sulle
guance,
sulla fronte e sul naso.
Giochi con le bolle di sapone?
Piagnistei?
Patetiche smancerie?
E infine, la morte per mano di Freezer?
Sono veramente caduto in una trappola,
ingenuo fino al midollo, talmente ossessionato dalla vendetta da
indugiare in
questo assurdo specchietto per le allodole, una messinscena nutrita
dalla mia
stessa, svenevole curiosità. Non ho combattuto con tutte le
mie forze, tradito
dall’ardente desiderio di scorgere quell’immagine,
di vederlo sconfitto, fatto
a pezzi, sanguinante ai miei piedi, impotente di fronte alla mia forza
indistruttibile.
Sono veramente patetico.
Tremo e vomito sangue, una colata di
porpora risale dalla mia gola per infrangersi sul suo volto sempre
più
crepitante, incerto, come se l’energia dentro di esso stesse
per esplodere.
Tutto si interrompe, in un breve istante
in cui il tempo sembra fermarsi, come congelato.
La donna sorride amabilmente, i denti
come zanne di una fiera che sta per attaccare.
«Divertiti, feccia!»
Tutto finisce, in un nulla oscuro che mi
taglia le carni, spezzandomi le ossa.
Continua...
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
pretty capitolo 3
Ma buonaseeeera
amici :)
Io, tanto per cambiare, non sono soddisfatta, ma ormai vi
sarete abituati. Ci tengo a precisare che scrivere dal punto di vista
di Freezer
non è per nulla semplice, nel senso che quello che vorrei
realizzare, con
questa storia, è dare vita ad un’introspezione di
Freezer che sia un po’
personale, approfondendo un po’ il personaggio nel tentativo
di rimanere
comunque IC. Mi intriga molto il suo rapporto con Vegeta e spero di
riuscire a
fornirne un’interpretazione interessante o comunque godibile.
Eventuali
contraddizioni logiche fanno parte del personaggio! Mi sono impegnata,
fatemi
sapere se vi piace!
Questo dovrebbe essere l’ultimo POV di Freezer,
perché il
prossimo sarà di Nappa e la chiusura+epilogo di Vegeta, se
non cambio idea! :)
Ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente e chi ha
inserito nelle preferite/seguite! Troppo buoni *arrossisce*!
Un abbraccio caloroso,
Nu :*
Pretty When You Cry
Capitolo
II
[Freezer’s POV]
Io sono l’Imperatore del Male, Freezer,
un maestro del controllo, burattinaio del mio stesso viso, abile
stratega nel
trattenere severamente le redini degli arti, invulnerabile al sangue
caldo che
grida e spinge violento nelle vene. Non un movimento in più
del necessario, non
una smorfia impercettibile devono riflettersi nell’enorme
specchio della sala
del trono o nelle iridi bagnate di esseri inferiori che non hanno il
potere di
suscitare la benché minima sensazione dentro di me.
Non può esistere nulla al di fuori della
macabra fermezza dei miei occhi, braci congelate dal tempo, granelli di
aurora
boreale che si staglia luminosa e cangiante nel rigore della tundra.
«Ancora nessuna notizia, Signore. Come
dobbiamo procedere?»
La voce cauta di Zarbon sorge alle mie
spalle, distorta da un tremito che tradisce la paura di una mia
reazione.
Il mio servo mi conosce bene, molto più
di quanto avrei dovuto permettergli.
Sospiro profondamente, il disgusto che si
espande acido lungo la mia gola nel sentire il cuore accelerare,
sgradevolmente
pulsante al centro del mio petto, celato dai muscoli gelidi e coriacei.
Volteggio fra le dita il calice di vino
che Zarbon mi ha appena versato, smarrendomi ipnotizzato
nell’osservare il
liquido, lucido e perfetto, di una sfumatura fra il rosso e il viola,
danzare prigioniero
delle pareti vitree del bicchiere, ogni volta respinto
all’indietro.
Anche se lo volesse, nemmeno lui
potrebbe fuggire.
Il suo unico destino è di divenire parte
di me, carburante del mio stomaco e delle mie membra algide, oppure di
decomporsi, inacidendo, divenendo liquame nelle fogne.
Nessun altro lo potrà mai bere. Nessuno
potrà mai rubarlo. È mio, soltanto mio, il mio
piccolo vezzo personale, la cui
intera esistenza acquista un senso solo in funzione della mia.
Irrigidisco il polso, interrompendo la
litania di movimenti meccanici.
«Parti immediatamente per Hagalaz.»
ordino, piatto, non spostando lo sguardo di un millimetro
dall’enorme vetrata
affacciata sullo spazio aperto.
«Come desidera, signore.»
Zarbon si inginocchia brevemente, la
treccia scura che sfiora il pavimento candido, per poi dirigersi
rapidamente
verso l’uscita, preceduto dall’apertura dalle porte
automatiche. Il suo
sguardo, screziato d’ocra, ossequioso come sempre, non osa
neppure cercare il
mio.
Non è trascorso neppure un minuto quando
noto una delle mie astronavi da ricognizione svettare fra gli astri a
tutta
velocità, tracciando una linea immaginaria nel cielo
stellato che si estende
incommensurabile di fronte a me.
Cerco di rilassarmi, abbandonando la
schiena contro il trono.
Il bicchiere si frantuma fra le mie dita,
cocci di cristallo accarezzano taglienti i miei polpastrelli, arroganti
e
impotenti. Il vino implode, sporcandomi, sfracellandosi a terra in uno
stillicidio
che muore nel silenzio.
Dove cazzo sei finito, Vegeta?
La porta automatica si spalanca di scatto
rivelando Zarbon, trafelato, il volto grazioso increspato in una
smorfia turbata.
Fra le sue braccia giace il corpo svenuto di Vegeta,
l’armatura incrinata,
sporca di sangue e di terra. La coda fulva oscilla, non più
trattenuta intorno
alla vita, piegata dal contatto con il pavimento.
Un brivido mi accoltella la schiena,
glaciale e rovente al tempo stesso.
«Esigo delle spiegazioni.» sibilo fra i
denti, minaccioso, riducendo gli occhi a capocchie di spillo. Scendo
dal trono,
levitando a terra, i passi leggiadri nell’ancorarsi al marmo
candido.
«Era coperto dalle macerie di un
edificio. Non ho rilevato la presenza di nessun altro, probabilmente
chi l’ha
colpito è rimasto ucciso nell’esplosione oppure
è riuscito a scappare.»
Zarbon tace, un sogghigno compare sinuoso
fra le sue labbra armoniose, celandosi subito in un’ipocrita
smorfia di
preoccupazione. Le braccia muscolose si abbassano per scaraventarlo sul
pavimento senza troppa delicatezza, come se fosse un cadavere.
«E dimmi Zarbon, quali sono le ragioni
per cui un simile evento potrebbe essere accaduto?» incalzo,
incrociando le
braccia al petto, mentre un sorriso sarcastico mi piega rigido la
bocca.
«Come sospettavamo, il suo scouter è
stato distrutto. L’ho ritrovato a qualche centinaia di metri
dalle rovine. Le
analisi che abbiamo effettuato analizzando i dati non corrotti della
memoria
interna fanno pensare che sia stato disattivato manualmente.»
Manualmente.
Mi avvicino lentamente, lo sguardo rapito
dai movimenti impercettibili del petto che si alza e abbassa, respiri
radi,
faticosi, che non riescono più a riempire i polmoni
perforati. L’espressione
del suo viso è assente, contratta dal dolore. Sento la sua
forza spirituale
lottare per non spegnersi, monitorata dallo scouter sul mio occhio che
trilla
impazzito nel decretare la decrescita costante del suo flebile ki.
Se lo era... tolto?
«Vegeta! Ti ordino di svegliarti
immediatamente!» ringhio, colpendolo rabbiosamente con la
coda sui fianchi e
sulle gambe nel tentativo di farlo rinvenire. Rimane immobile, le
palpebre
chiuse come scrigni e le labbra appena inumidite dal soffio vitale.
No.
No.
Un senso di repulsione trapassa la mia
gola come un bolo di spilli, facendomi deglutire ripetutamente,
incredulo nell’osservare
la sua debolezza, gli arti esanimi, la miseria che tradisce il suo
corpo vuoto,
come una conchiglia svuotata dal mare feroce e gettata come un rifiuto
sulla
battigia.
Percepisco l’ira consumarmi voracemente,
divorarmi arida, fondere i circuiti freddi della mia
razionalità fino a farmi
impazzire. Mi mordo le labbra e stringo i pugni, notando Zarbon
indietreggiare
leggermente, come se presagisse la tempesta che inizia a scatenarsi
dentro di
me.
«Fammi capire, Vegeta, ti sei tolto lo
scouter e poi sei caduto in una trappola mortale? Ti ha dato di volta
il
cervello?»
Senza neppure accorgermene la mia coda
gli frusta la faccia, un ceffone talmente forte da farlo sussultare in
un
gemito, il volto contratto in una smorfia di dolore. La sua pelle
diafana e
pallida si apre sotto la scorza inflessibile della mia appendice,
facendo
sbocciare nuovi fiori di sangue, quasi fosforescenti fra i lividi scuri
delle
sue guance.
I suoi occhi sono polvere interstellare,
vuoti e traslucidi, come finestre su un’altra dimensione. Si
schiudono appena,
voragini nere infiammate di porpora, tradite da uno spiraglio di luce
che trema
fra le ciglia, fra le palpebre incrostate di terra. Mi fissa, muto,
mentre il
suo corpo arde e trema dal freddo, probabilmente consumato dalla febbre.
Indugio nel guardarlo, taciturno,
soppesando il suo volto con un’attenzione maniacale.
Sta cambiando, i lineamenti corrucciati e
schivi del bambino che ho portato via con me stanno svanendo,
lentamente
sostituiti da quelli di un uomo duro, dagli zigomi pronunciati e dalle
labbra
sottili come un filo d’erba.
Così simili ai suoi...
così dannatamente simili a quelli di quell’essere
scialbo,
amorfo, che odiavo con tutto me stesso.
«Forse pensava di fuggire... ma è stato
sfortunato.» la risata di Dodoria giunge spietata dal fondo
della sala, seguita
dai suoi passi pesanti. Il volto di Zarbon è eclissato da
un’ombra sinistra,
che scuote i suoi orecchini e fa brillare di malizia le sue pupille
dorate.
Le palpebre di Vegeta si richiudono,
attratte dall’oblio, seguite dal respiro sempre
più affannato, una melodia
dissonante sepolta nelle profondità del torace. China il
mento sulla spalla,
abbandonato al nulla, come se Io non ci fossi.
Come... come osi ignorarmi?
Sotto lo sguardo incredulo dei servi,
paralizzati di fronte all’espressione furente che ha lacerato
i miei lineamenti
fini, afferro Vegeta per il bavero della battle suit e lo sollevo,
scaraventandolo brutalmente contro la parete, fino a portare il suo
volto
all’altezza del mio. Lo strattono con veemenza, macchiandomi
la mano nivea con
la porpora che io stesso ho versato. Tossisce, singhiozzando, la bocca
piena di
sangue che risale dalle interiora, commisto a succhi gastrici. I suoi
occhi si
aprono di nuovo, titubanti dietro le ciglia, lucidi per lo sforzo.
«Questo si chiama tradimento, Vegeta.»
È un soffio impalpabile quello che sfugge
dai miei denti e gli sfiora il viso. Sento i lineamenti del volto
talmente
rigidi per la tensione da vibrare, spasmodicamente contratti nella
versione
macabra di un sorriso. Mi guarda, svuotato, come se il tempo si fosse
fermato
per sempre. Mi sento bruciare, ardere fin nelle viscere nel tentativo
di
controllarmi e non far esplodere tutto, questa astronave, questo
stupido
pianeta e questi sciocchi sudditi.
La sua forza vitale è scesa
vertiginosamente e una risata isterica mi piega le labbra, rimbombando
nell’enorme sala vuota. Chi lo avrebbe mai detto che saresti
morto nel
tentativo di tradirmi e non ucciso dalle mie mani? Non è che
l’ennesima
dimostrazione della fallibilità della sua razza, superba
senza sostanza,
arrogante senza potenza sufficiente per vincere, per vivere, neppure
per
pestare i piedi sul suolo al mio cospetto.
«E tu lo sai... quanto mi piacciono i
traditori.» mormoro, gli occhi impregnati di sarcasmo,
avvicinandomi così tanto
a lui da sentire i brandelli del suo respiro solleticarmi il volto.
«N-No...» biascica, sibilante,
abbandonandosi alla mia presa a peso morto, le gambe come propaggini
inerti,
ammassi di muscoli e di ossa privi di un briciolo di energia.
«No? Valgo così poco per te da non
tentare neppure di tradirmi?» lo provoco, sussurrando piano
nel lobo del suo
orecchio, insoddisfatto dalla sua apatia.
Non mi piaci così, voglio vedere il fuoco
ardere nei tuoi occhi, il mento alto, sospinto dalla boria, voglio
sentire il
tuo desiderio di uccidermi, voglio specchiarmi nella potenza del tuo
odio, voglio
sentire quanto sono importante per te.
Dillo.
Lo sai cosa voglio che tu dica.
E tutto sarà perdonato...
Nell’ascoltare i miei stessi pensieri un
moto di orrore mi rivolta le viscere: ma cosa mi importa di questa
scimmia
inferiore? Cosa mi può importare delle fesserie che escono
dalla bocca di un
animale?
Niente, assolutamente niente.
Ma le sue pupille gridano, occhi del
ciclone di disgusto e paura che tormenta la sua anima da quando mi ha
conosciuto, rancore antico e sempre vivido, splendido al punto da
emozionarmi.
Il mio sguardo suadente, un rubino che
riluce incastonato nel ghiaccio, lo trapassa, seducendo il nero delle
sue
iridi, massacrandolo. Muore e risorge, umiliato, vedo il dolore atroce
di quel
corpo morente che lotta per sopravvivere, vedo il suo odio, puro e
distillato,
per me, solo per me, vedo tutta la sua ostilità, e un
piacere folle mi colma
dentro, facendo trepidare ogni molecola del mio corpo.
«Dillo» sillabano le mie labbra, in
silenzio, sbranate dai suoi occhi inorriditi.
Tu riesci sempre a farmi eccitare.
I miei lineamenti aggraziati danzano,
ossessionati nell’osservare le sue labbra comprimersi e
tremare, come rocce sul
punto di sgretolarsi, animali che si sbranano fra loro nel tentativo
malcelato
di rinchiudersi nel silenzio.
Uno spiraglio si apre nella sua bocca
severa, una luce sinistra balena ambigua, linfa nera e densa gli cola
lungo il
mento. Mi sputa addosso un bolo di sangue e di saliva, il volto
contorto
nell’ombra di un sorriso, disfatto e acre. I denti si
scoprono piano, gravi
come terremoti che frantumano la terra nelle profondità,
zanne levigate e
mutilate dalla frustata che gli ha spezzato la mandibola.
Il nero dei suoi occhi riluce minaccioso,
simile a quello di una bestia circondata dal fuoco che ringhia fiera
mentre
sente il calore della morte avvicinarsi inarrestabile.
È per questo che mi piaci così tanto.
Tu sei nato per me, solo per me, per
odiarmi con tutte le tue forze.
Questa certezza fornisce carburante per
una risata che risale spontanea lungo la mia gola, condensandosi in un
sorriso
dolce, mellifluo come filo spinato, che si tramuta repentinamente in un
ghigno
sghembo che mi taglia la faccia.
«Come hai osato, sporco Saiyan, mancare
di rispetto a Lord Freezer?» ringhia Zarbon, il volto livido
dall’indignazione,
scagliandosi su di lui con i pugni serrati, interrotto da un mio lieve
cenno
del capo.
«Ti
rifiuti di piegarti? Bene, ragazzino, fai come desideri...»
dichiaro, di nuovo inespressivo,
allontanandomi bruscamente in direzione della vetrata, lasciandolo
cadere, il
corpo che si sfracella a terra scomposto.
«Oggi mi sento magnanimo, forse hai
soltanto bisogno di ricordare quanto hai bisogno di me... il tuo
padrone.»
dico, gelido, mentre Zarbon abbassa lo sguardo, intimorito
dall’aver incrociato
il mio.
Torno a godermi, spietato, lo smarrimento
delle sue membra ferite, sfibrate dalla perdita di sangue e dalla
mancanza di
ossigeno. Il suo corpo è imperfetto, rudimentale come
potrebbe essere soltanto quello
di un Saiyan, ma la sua anima è potente, vigorosa,
un’onda che travolge i massi
frantumandoli con la sua innocenza.
Continuo a osservare il suo viso, uguale
a quello di quella creatura indegna, di quel verme che si faceva
chiamare Re,
ucciso da una briciola irrisoria del mio enorme potere. Non ha avuto
neppure la
dignità di combattermi, ricordo ancora i suoi occhi bianchi,
ormai rivolti
verso l’abisso, la sua collana che roteava sul pavimento,
avvinta in un girotondo
di morte.
Gli somiglia ogni giorno di più, la barba
rada sta iniziando ad adombrargli le mascelle, la voce sempre
più profonda,
tagliente come una lama che sfreccia sul campo di battaglia,
l’espressione del
viso austera, impastata nell’acciaio.
No, no, lui non sarà
come lui.
Lui sarà come me.
I suoi occhi furenti cercano i miei,
sperduti, schegge di stelle infrante trascinate dal vento siderale. Gli
sorrido, freddo e irraggiungibile, superando il suo volto per osservare
al di
là del vetro lo spazio immenso, incommensurabile, dove si
estende e pulsa il
mio impero.
«Dal momento che rifiuti la mia
autorità... immagino che tu non possa abbassarti a
utilizzare le mie sporche
macchine di rianimazione.» lo derido, un ghigno che squarcia
i denti affilati
«Mi aspetto che tu sia di nuovo in forze per la missione su
Dagaz... ti ricordo
che la diserzione è punibile con la morte.»
Noto la corporatura imponente di Nappa
insinuarsi dalla porta principale, gli occhi sbarrati dal terrore,
ipnotizzati
dalla carcassa inerte del suo compagno e gli faccio un cenno
sprezzante,
incrociando impassibile le braccia dietro la schiena.
«Portalo in una cella di massima
sicurezza.»
Il Saiyan solleva fra le braccia il corpo
di Vegeta, nuovamente svenuto, e si allontana senza dire una parola.
Riuscirò a educarti nel modo corretto, ne
sono certo, non ti ribellerai mai più.
Tu non sei come lui... non sarai
mai un verme, un rifiuto, uno scarto che non
dovrebbe neppure alzare le ginocchia da terra al mio cospetto. E non
morirai, insubordinato,
come lui.
Perché sei, ancora, il mio
bambino.
Mio.
E lo sarai per sempre.
Continua...
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
pretty capitolo 3
Salve salvino
(?) a tutti.
Siamo qui
riuniti per celebrare un capitolo che mi ha fatto un po’
dannare... l’ho
riscritto diverse volte e ho deciso di averci impiegato abbastanza
tempo. La
verità è che l’introspezione di Nappa
mi è risultata più difficile di quella di
Freezer, forse perché a forza di riflettere su Freezer avevo
sviluppato una
vera e propria visione personale
del
personaggio, invece il personaggio di Nappa è molto
abbozzato nello Z e non mi
era mai successo di scriverci sopra (o rifletterci, o leggerci qualche
storia
particolarmente brillante sopra). È stato un esperimento
interessante, che però
non si ripeterà nel corso di questa storia. Questo POV di
Nappa è uno
stand-alone, ditemi se può essere interessante.
Nella speranza
che vi piaccia, un abbraccio a tutti.
Nuvole
PS: Come nella
mia storia precedente “Kintsugi” ho deciso di
attribuire a Re Vegeta il nome di
Veldock, per non fare troppa confusione.
Pretty When You Cry
Capitolo
III
[Nappa’s POV]
Corro, trafelato, stringendo quel corpo
magro e nervoso al petto, un corridoio dopo l’altro, tutti
bianchi, tutti
asettici, tutti uguali. Due dita sulla sua carotide, il respiro
è lento,
flebile, gli occhi chiusi, le ciglia incrostate di sangue. Il suo corpo
si
scompone fra le mie braccia vigorose, liquefacendosi in un impasto
informe di
ossa e muscoli triturati.
«A
costo della tua vita,
Nappa.»
Il marchio indelebile di quelle parole
brucia nella mia testa, corrosivo, come uno spettro che sibila stridulo
una
maledizione mortale. Rivedo quegli occhi severi, corvini come lo spazio
profondo in cui non ardono stelle, scrutare il mio onore di guerriero
per
decidere se sono degno di un compito così importante come la
protezione del suo
unico figlio, l’erede al trono del pianeta Vegeta.
«A
costo della mia vita, mio
Re.»
Avevo solo venticinque anni e le mie
gambe tremavano di fronte a lui, annichilito dalla soggezione e dal
timore nei
confronti di un Saiyan così potente, un Saiyan
così diverso da me, che trascorrevo
le serate nelle taverne a ubriacarmi dopo le battaglie, riverso su
tavoli scricchiolanti
per il peso delle risate taglienti di chi è riuscito a
beffare la morte ancora
una volta. Non era una vita spiacevole: combattere, mangiare, dormire e
scopare, con le prigioniere o con le puttane, talvolta con le guerriere
di
seconda classe, a volte con una in particolare, l’unica a cui
permettevo di
chiamarmi per nome mentre la piegavo.
Ricordo di aver abbassato lo sguardo, imbarazzato,
affondando ancora di più il ginocchio destro nella pietra
ruvida delle stanze
reali.
Avrei perso tutto, la mia indipendenza, la
mia donna, la libertà,
per piegarmi
ogni giorno di fronte a un mostro, affiancato da un altro mostro che mi
incuteva altrettanto timore: il giovane Vegeta, il cui sguardo a soli
cinque
anni era in grado di rovesciarmi le viscere.
Eravamo soli, sovrastati dal silenzio delle
stanze immerse nell’oscurità, tradita da radi,
sfumati spicchi di luce che penetravano
dalle tende tirate. La Regina era morta da pochi giorni, ritrovata con
una daga
scintillante trapassata nel cuore, infilzata al muro come una farfalla
a una
decina di piedi da terra, il sangue che colava denso e nero lungo la
parete
come un’ala strappata.
Quello era stato un avvertimento evidente
persino per me, pur essendo totalmente estraneo alla politica. Troppi
nemici si
accalcavano intorno alla corona, accomunati da un unico mandante, dal
burattinaio che aveva forse, accidentalmente, per puro caso, allentato
la
tensione di un filo lasciando che la bambola si frantumasse a terra.
Il sorriso sibillino di Freezer alla
cerimonia funebre era stato eloquente, e i suoi occhi non si erano
staccati per
un istante da Vegeta, accarezzandolo, seducendolo, divorandolo con lo
sguardo,
mordendosi le labbra nel piacere di costatare la sua naturale fierezza,
i suoi
occhi asciutti, le vene rigonfie che gli innervavano il collo per lo
sforzo di
trattenere la rabbia.
«O Mio, o morto.» avevano sussurrato le
braci demoniache del suo volto bianco.
«Riportamelo
vivo.»
La voce di Veldock tremò per un attimo,
una lievissima oscillazione, dissonante rispetto al suo volto algido,
scolpito
nel marmo. Era sempre stato un uomo duro, che aveva fatto della
razionalità e
della freddezza il suo cavallo di battaglia, surclassando velocemente
tutti gli
altri Saiyan nella scalata al potere, più dediti al sangue e
al sesso che ai
fini intrighi di governo.
Le sue pupille d’acciaio avevano indugiato
sul principe, in piedi nel cortile, il mantello di porpora che si
agitava
sferzato dal vento, contando i singoli passi che avrebbe ancora dovuto
compiere
per seguire Freezer sulla sua astronave.
Fu l’ultima volta che vidi Veldock.
Persi tutto ma, paradossalmente, l’avermi
affidato quel compito ingrato mi salvò la vita.
Un mormorio, un sussurro, qualcosa sfugge
dalle labbra di Vegeta.
Mi fermo, cercando di capire, ma non sono
che lamenti, orridi lamenti di dolore che straziano il suo volto. Il
mio
scouter vibra, la sua forza spirituale sta cadendo in picchiata,
trascinata dai
battiti del cuore sempre più radi, silenziosi. Sento il
terrore montarmi in
corpo, lui non può morire, non deve, il petto come un
compressore impazzito,
confuso al punto da perdermi nei corridoi labirintici
dell’astronave.
Cerco di respirare a fondo, mentre il
sangue di Vegeta cola rovente fra le mie mani fino a gocciolare sul
pavimento.
Lui... è l’unica speranza che ci rimane.
L’unica speranza che rimaneva a suo padre. La roccaforte
vivente della razza
Saiyan e del resto della galassia oppressa dal giogo di Freezer.
Ed io... non ho fatto niente per
difenderlo.
«Vegeta? Vegeta?» lo chiamo più volte,
scuotendo il suo corpo.
Non risponde. Mi blocco, incerto sulle
caviglie, stordito nel caleidoscopio di bianco e di grigio e deglutisco
ripetutamente. Una serratura scatta in uno schiocco sordo rivelando il
volto di
una donna, il corpo fasciato da una camicia da notte, il sonno che
svanisce
dalla sua espressione come se avesse ricevuto una frustata.
«Che vuoi, Nappa? Pensavo che per oggi
fossi soddisfatto...» sputa, acida, stringendo gli occhi in
due fessure. Sospira,
una mano che stringe nervosa il fianco esile, trasalendo non appena
nota ciò
che stringo fra le braccia. Le sue pupille si riempiono di terrore,
spalancandosi
in modo innaturale, subito seguite dall’arricciarsi malizioso
delle sue labbra,
ancora sporche di un rossetto color ocra.
«Allora è vero che la ruota gira per
tutti.» mormora, pungente, indugiando sulle sue ferite e sul
suo volto
tumefatto.
«Stai zitta!» le ordino, ma la fermezza
della mia voce si disperde nell’aria. Non sono sorpreso dalla
sua reazione,
neppure dall’acidità impressa nella sua voce
acuta.
Non è passata neppure una settimana dal
giorno in cui ho trovato il suo corpo tremante nascosto
nell’oscurità, gli
occhi rilucenti come finestre nelle tenebre della stanza, venate di
rosso,
gonfie di un pianto immobile che non voleva più versare di
fronte a me.
Non ho fatto domande, non mi interesso
dei problemi delle puttane, e l’ho scaraventata sul letto
disfatto, alzandole rudemente
il vestito e affondando dentro di lei.
Ma, mentre mi offriva le sue carni in un
silenzio denso come la terra, notai dei lividi offuscarle il seno, dei
morsi
lacerare il suo collo e il segno di dieci unghie scavare nei suoi
fianchi come
radici perverse. Incuriosito da quei segni, li guardavo ossessivamente,
spingendomi in lei con foga, ripercorrendo mentalmente
l’elenco dei soldati
presenti nella stazione, per individuare chi era stato
l’arrogante che aveva
osato marchiare la puttana di tutti. Soltanto alla fine, quando mi ero
svuotato
fra le sue cosce, mi aveva indicato un punto imprecisato al di
là della tenda
che divideva quello spazio da un altro. Un altro letto, un altro talamo
perverso su cui giaceva il corpo di una donna, i cui occhi opachi
fissavano
l’abisso della morte, immobilizzati in un eterno presente.
Era stato Vegeta a scoparle.
Vegeta, dall’alto dei suoi quattordici
anni, che aveva ucciso quella puttana travolgendola con la propria
forza.
Vegeta, il cui orgoglio si era rivelato talmente
forte da non poter resistere dal massacrare l’unica testimone
della sua
verginità.
Vegeta, che mi aveva confessato di non
averlo fatto apposta, ma il dispiacere non aveva lambito il suo sguardo
neppure
per un istante, tradito dal ghigno soddisfatto che aveva luccicato,
sibillino,
nei suoi occhi.
«Se fossi in te non mi preoccuperei
troppo. Quello è esattamente uguale a Lui.»
ribadisce, incrociando le braccia
al petto, il volto che trasuda veleno.
Non ribatto, il fiato che muore
lentamente in gola, schiacciato da una verità che, dopo
tutti questi anni, non
riesco ancora ad accettare. Vegeta tossisce e geme, gli occhi
stralunati che vagabondano
nello spazio intorno a noi senza riconoscere nulla.
«L’opinione di una puttana non vale
niente.» sibilo, mentre ricomincio a camminare furioso
lasciandomi la sua
figura alle spalle. Passo davanti alla porta della nostra stanza,
socchiusa, da
cui sfugge un riverbero di luce sul pavimento del corridoio.
Radish dorme, i lunghi capelli lisci che
sfiorano il pavimento, la bocca spalancata in un russare scomposto. Le
pareti
della cella sono coperte, divorate dall’oscurità
che come una pellicola avvolge
tutto, spoglie e anonime, prive di ogni simbolo di riconoscimento che
sottolinei la nostra appartenenza.
Perché noi, qui, non possediamo nulla,
non siamo nulla, siamo solo macchine da combattimento da mandare al
macello.
Nemmeno la nostra, di opinione, vale
nulla.
Siamo soltanto Saiyan, sporchi Saiyan, le
ultime propaggini di una razza sterminata, accuditi dalla
magnanimità
dell’Imperatore, che dovremmo ringraziare ogni singolo giorno
per essere ancora
vivi.
Perché, si sa, il pianeta Vegeta è
esploso per la collisione con un meteorite.
Casualmente, per puro caso,
accidentalmente, sette giorni dopo che Vegeta era stato consegnato fra
le sue
mani viscide.
E ora che si trova fra le mie, di mani,
penso al fatto che non avevo mai sfiorato la filigrana ruvida della sua
pelle o
la consistenza setosa dei suoi capelli cupi come la notte.
Vegeta era adulto ancora prima di
nascere, inflessibile e spietato, lo sguardo duro come
l’acciaio. Non ho mai
visto le sue palpebre tremare, la sua voce tremare, il suo corpo
tremare,
agitarsi incontrollato come in questo momento, in cui le sue membra
roventi
bruciano per la febbre.
«Vegeta? Si può sapere cosa diavolo è
successo su quel pianeta?»
«L-Lasciami in quella dannata stanza e
smettila di lagnarti come una femmina» esala,
l’indignazione che lo attraversa
come una scossa elettrica per poi scomparire in un nuovo gemito.
Se Vegeta non verrà curato entro poche
ore, probabilmente morirà. Le sue ferite pulsano, prossime
all’infezione, la
temperatura del suo corpo rovente.
Mi mordo le labbra mentre spalanco la
porta, immergendomi nella totale oscurità. Appoggio il corpo
di Vegeta sul
pavimento, fra la polvere, osservando il suo petto sfibrato dagli
ansiti, i
polmoni affaticati nel tentativo di carpire l’ossigeno
sfuggente.
Sarei dovuto restare anche io su Hagalaz,
controllare che la sua navicella partisse insieme alle nostre, avrei
dovuto
offrire a Freezer la mia testa in cambio della sua, come avevo promesso
a suo
padre.
Perché? Perché
non l’ho fatto?
La mia negligenza lo ha quasi ucciso,
facendolo incorrere in un’imboscata, il mio silenzio, ogni
secondo più tossico,
ha dato vita a una scena che non pensavo sarebbe mai potuta accadere. A
questo
potrei ancora rimediare, dopotutto potrei ancora tornare indietro,
supplicare
quel bastardo di avere pietà, pietà per un
ragazzo che ancora non ha imparato a
piegarsi a sufficienza di fronte al proprio padrone, ma le mie caviglie
non si
muovono di un millimetro, tronchi di alberi millenari, inflessibili
nell’aggrovigliarsi
alle profondità del suolo.
«Vattene» sibila fra i denti, schiacciato
fra le piastrelle incrostate di sporcizia.
Vegeta mi guarda, sollevando
faticosamente la nuca, una bestia ustionata dal fuoco che si contorce
negli
anfratti bui di una foresta dimenticata.
Il senso di colpa mi trafigge come una
coltellata.
Annuisco col capo, impenetrabile,
allontanandomi mentre sento le viscere contorcersi
dall’angoscia.
Se avessi rifiutato questo compito
probabilmente sarei morto. Insieme alla mia gente, al fianco dei miei
commilitoni dell’armata d’élite,
combattendo a testa alta contro Freezer,
completamente annebbiato dall’ingenuità e dalla
furia dell’orgoglio, come un
qualunque altro Saiyan.
Eppure, anche se sono stato risparmiato,
sento di aver già sacrificato abbastanza per seguirlo,
subordinando tutta la
mia vita alla sua per un giuramento azzardato, accettando di farmi
sottomettere
da un bambino e finendo per divenire l’animale domestico
dell’animale domestico
accarezzato dalla mano liscia e smaltata di Freezer.
“Traditore”
Grida il volto elegante di Veldock,
inabissato fra i suoi lineamenti squarciati.
“Traditore”
Gridano gli occhi severi di Veldock,
annegati nelle sue iridi nere gonfie di porpora, sfregiate dai lividi.
“Traditore”
Gridano le labbra sottili di Veldock,
sbranate dalle sue, madide del sangue e della saliva che gli cola
giù lungo il
mento.
“Traditore”
Gridano gli zigomi pronunciati di
Veldock, frantumati nei suoi come rocce demolite dal caos che inghiotte
la
terra scura.
Il Re credeva fermamente che in suo
figlio risiedesse il seme della rivoluzione, il barlume tremante della
bomba
nell’attimo prima di deflagrare, vedeva in lui il Super
Saiyan, il guerriero
leggendario dai capelli d’oro e dalla forza invincibile,
talmente potente da
uccidere Freezer e affrancare tutti i Saiyan dalla sua
schiavitù.
Sento i miei stivali arretrare, attratti
da una forza magnetica che mi allontana da lui, i brividi che mi
strizzano le
interiora, gelidi nel ricoprirmi le spalle, nel seccarmi la bocca e la
gola.
Non riesco a impedirmi di pensare che alla
fine, tutta l’intelligenza e le convinzioni del Re non
l’hanno salvato dal tramutarsi
in polvere interstellare, divenire melma insieme alla peggiore feccia,
carne
reale putrefatta in cadavere nel tempo di uno schiocco di dita.
“Traditore”
Grida la schiena di Veldock, fasciata di
seta rossa, tramutata nel sangue della sua battle suit a brandelli,
insozzata dal
buio della distruzione.
La verità è che io non voglio morire per
un’idea, in nome di un miraggio salvifico con cui si
masturbava un uomo
impotente, dall’orgoglio spezzato e dalle braccia
scarnificate da catene
infrangibili. Lo stesso sogno in cui ora si crogiola Vegeta, cullandosi
abbagliato dall’unica luce che mantiene in vita le sue membra
esauste, corroso
dalle voglie di un demonio crudele.
Mi volto, chiudendo la porta, lasciando
che le tenebre divorino il suo corpo.
Continua...
|
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
pretty capitolo 4
Ehm, ciao.
Non ho grossi
commenti da fare su questo capitolo, se non che sono insoddisfatta fino
al
midollo. Questo è il capitolo core della storia, come vedete
dalla lunghezza
praticamente raddoppiata rispetto agli altri, spero di essere in grado
di
trasmettervi almeno una piccola parte (la trasposizione esatta di
quello che
avevo in mente mi risulta essere impossibile, evidentemente...) dei miei sentimenti
riguardo alla situazione che
viene descritta.
Nella speranza
che vi piaccia almeno un po’, un abbraccio a tutti.
Nu :*
PS: Il capitolo
è dedicato alla canzone degli Evanescence intitolata
“Sweet Sacrifice” che
potete ascoltare qui.
| You poor, sweet, innocent thing; dry
your eyes and testify
You know you love to hate me; don't
you, honey? I'm your sacrifice |
Pretty
When You Cry
Capitolo IV
[Vegeta’s POV]
Respiro
l’oscurità, totale, immensa, di
un nero talmente intenso da annichilire le mie palpebre ancora anelanti
di
luce. I miei occhi si aprono e si chiudono, infinite volte, patetici
nel
tentativo di scorgere un fantasma, un barlume, nient’altro
che miraggi privi della
minima consistenza.
Questa è una stanza degli specchi,
corrosa dalle tenebre, un caleidoscopio perverso in cui la mia figura
viene
annientata infinite volte, sempre più debole, sempre
più insignificante.
Sono ovunque e da nessuna parte, i
contorni del mio corpo sono malleabili, liquidi, mi sono fuso con le
tenebre
che mi hanno sbranato, inglobandomi senza neppure sputare le mie ossa.
Tutto ruota, nauseante, coinvolto in una
giostra silenziosa che mi fa vibrare le viscere, mentre risate malevole
mi
trapassano come coltellate. Il divertimento di questo palco trafigge di
brividi
gelidi la mia schiena madida di sudore.
«È così che finisce il
leggendario
Principe dei Saiyan?»
Le voci stridule aumentano d’intensità,
pulsano
nelle mie orecchie distorcendosi in una macabra cantilena. In falsetto
gridano,
raccapriccianti, impiccando la mia gola in una morsa dolorosa.
Il principe dei Saiyan.
Vegeta.
Il mio nome.
Il nome di mio padre.
Il nome del pianeta che ero nato per governare.
Lo pronuncio a voce alta, tempestato
dagli echi che ritornano a infilarsi nei miei timpani.
Un nome sbocciato nella
morte e per la
morte.
Ricordo che Nappa mi disse che Vegeta non
era il nome di nascita di mio padre, ma fu il nome nobiliare che decise
di
assumere una volta completato lo stermino degli Tsufuru. Vegeta era il
nome di
un fiore molto raro, incantevole, dai petali morbidi come seta,
seducente e
malizioso, talmente sibillino che alcuni sostenevano di averlo sentito
ridacchiare solitario, sferzato dal vento della notte e illuminato
sinistramente dalle lune. Ovunque sbucasse questo fiore, la vegetazione
intorno
moriva, corrosa dal veleno che trasudava dalle sue radici, taglienti
come filo
spinato. Uno di questi fiori cresceva di fronte alla casa di mio padre
e
continuava a sorridere, sempre più enigmatico, mentre le sue
mani si riempivano
del sangue degli Tsufuriani, impotenti di fronte alla forza dei Saiyan,
il cui
fuoco distruttore non aveva avuto la minima pietà. La terra
di Plant era
divenuta arida, crepata dall’interno come una muta
abbandonata, mentre mio
padre si adagiava sul trono con un sorriso sghembo a tagliargli la
faccia.
Sono passati nove anni dall’ultima volta
che l’ho visto.
Il suo volto è divenuto bianco, pallido
come quello di un fantasma, appassito nella mia memoria. I suoi occhi
neri tentano
ancora di fissarmi, accusatori e sprezzanti, nel tentativo di
sottolineare come
la mia forza non sia mai sufficiente, mai abbastanza per realizzare i
suoi
personali sogni di vendetta.
«Tutti moriranno, soltanto perché sei
un
moccioso pigro.» mi sussurrava, le iridi cupe che rilucevano,
sinistre,
nell’ombra della mia camera da letto. Di nascosto da mia
madre, mi trascinava
nella stanza degli allenamenti, battendomi fino a ridurmi
sull’orlo della
morte. E quando, alla fine cedevo al pianto, spaventato e prostrato dal
dolore,
mi afferrava la nuca e strisciava il mio volto a terra, sporcandolo
della
polvere e della sporcizia che annerivano le mie lacrime.
Il marchio
delle nullità, lo chiamava, indifferente ai miei
singhiozzi e
all’umiliazione cocente che mi tagliava come una voragine.
È assurdo pensare che avrei potuto
ucciderlo senza nessuna fatica, semplicemente rispondendo ai suoi
colpi. Non
nascondo di averlo desiderato,
inscenato
in un anfratto tetro e rinnegato della mia fantasia infantile. Volevo
soltanto
essere stimato da lui, non me ne importava nulla di Freezer, della
popolazione,
della politica, volevo soltanto combattere e dimostrare a mio padre e a
me
stesso di essere il migliore.
E se non potevo ottenerlo, allora che
morisse, ucciso sul campo di battaglia o in un qualche colpo di stato
dai molti
Saiyan che disapprovavano la sua politica di governo. Il fato ha
capricciosamente ascoltato i miei sogni di bambino quando il volto di
mio padre
non era altro che un ricordo amaro dalle tinte contraddittorie. Mi
dimeno
cercando disperatamente di respingere un embrione di senso di colpa che
strilla, un latrato fastidioso, inutile, che vorrei fare a pezzi.
Non ricordo da quanto tempo sono qui.
Non esiste nulla al di fuori di questo
spazio nero, vischioso, ritmato dal battito convulso del mio cuore,
sempre più
vicino al collasso.
Sono vivo, io?
Sono vivo? O questo non è altro che
l’inferno?
Grido con le poche forze che sferzano le
mie membra, grido fino a farmi bruciare la gola, un suono acuto e
stridente
nasce dalle mie profondità, moltiplicandosi
all’infinito.
Un tonfo secco si ripete ancora una
volta. Un cassetto si apre, invisibile
nell’oscurità tetra, ed io infilo
maldestramente una mano al suo interno, incontrando il solito piatto di
carta
floscio, contenente una pappetta di riso in bianco. Mangio voracemente,
portandomi le mani sporche alla bocca come un animale. Poco tempo dopo
le mie
dita sono di nuovo pulite. Non distinguo più il sonno dalla
veglia, con il
passare del tempo anche i miei sogni sono divenuti vuoti, neri, privi
di immagini.
Mi contorco sul pavimento, gemendo, dilaniato dal dolore delle ferite,
la testa
che grida, compressa in un dolore insopportabile.
Due bagliori sbocciano nell’oscurità,
talmente accecanti da provocarmi una fitta di dolore alle iridi.
Due lampi di porpora, scarlatti come
braci di fuoco.
Conosco... quello
sguardo. Il battito nel mio petto accelera all’improvviso,
frenetico,
come se questo non fosse un miraggio uguale agli altri.
Mi avvicino, strisciando, attratto da un
magnetismo che anima le mie membra.
Sento il suo respiro.
Il mio cuore si paralizza, atri e
ventricoli talmente compressi da divenire un unico punto di massa
infinita,
come il nucleo decadente di una stella sul punto di deflagrare
nell’immensità
dello spazio, disperdendosi nel vuoto. Un buco nero che si annida nella
mia
gola impiccata dalla paura, trattengo il fiato, indietreggiando
istintivamente fino
a sbattere le spalle contro una superficie solida.
Le luci metalliche si dissolvono a
intermittenza, scivolando leggermente a destra e a sinistra, per poi
ricomparire di fronte al mio volto, immense, accecanti. Intorno a esse
si
dirama una superficie bianca, chiara, in cui si riflette un volto
terrorizzato
che riconosco infine come mio. Non sembro neppure io, i miei lineamenti
spigolosi sono disciolti nel terrore, gli occhi segnati da occhiaie
violacee, profondissime.
«Ti sono mancato?»
La sua
voce sospira sarcastica.
Deglutisco ripetutamente, il volto
infiammato dall’angoscia che si diffonde come un virus
contraendo i miei tratti.
Il mio corpo si muove autonomamente, sollevato da una potenza
immateriale,
mentre i suoi occhi mi trapassano, letali, in attesa di una risposta
che dalla
mia gola non sorgerà mai.
«Non avrei mai detto che sarebbe
accaduto, ma mi mancava la tua faccia da schiaffi.»
Da qualche parte nell’oscurità nasce
una
sfera luminosa.
È la sua mano che la trattiene fra le
dita, lisce e rigide come cilindri di marmo.
Lo vedo, il suo sorriso, perverso come il
sangue, stagliarsi accecante nel buio più nero.
China il capo da una parte, trattenendo
fra i denti la lingua lasciva, e mi guarda, famelico, mentre contrae i
muscoli
delle braccia, rapidi nel guizzare sotto la pelle viscida, per serrare
i pugni
sulle mie spalle fragili.
La sua mano si chiude su di me,
affondando le unghie in una delle mie clavicole, soffocando la luce
ancora una
volta.
Immobilizzato dal terrore, non riesco
neppure a muovermi, teso fino allo spasimo, ossessionato dai centimetri
in cui
i suoi artigli mi hanno trafitto, causando l’ennesimo dolore.
Il suo respiro è vicino, sento il suo
alito freddo solleticarmi il viso e la gola, pungente come la brezza
invernale.
Mi annusa, ingurgitando stizzito il mio odore, mentre l’altra
mano si allunga
sul mio volto, chiudendomi gli occhi, estendendo ovunque le sue dita
possessive.
Il mio respiro caldo si condensa contro
la sua cute algida, affannoso e ansimante.
Mi dimeno, spaventato, respinto dal muro
alle mie spalle, ma il mio corpo è divenuto liquido,
incerto, incatenato al suo,
indistruttibile, solido come metallo, la cui presa affonda nelle mie
carni come
se non avessero consistenza.
«Volevi davvero tradirmi, Vegeta?»
I suoi occhi divampano silenti, immobili
come soli al tramonto.
Annuisco appena, con un cenno del mento
appena percepibile, troppo paralizzato dalla paura anche solo per
considerare
la possibilità di fingere.
«Non posso crederci... Preferisci ancora quell’uomo a me?»
La sua voce si tinge di gelosia, algida
come una coltellata, le unghie affondano taglienti nel mio volto,
stringendosi
in una morsa.
«Quando ti arrenderai al fatto che quel
verme non ti voleva? Ti ha gettato via, come se fossi un rifiuto. Un
insetto.
L’ultimo delle terze classi.»
Falso. Vero. Falso.
Cerco disperatamente di sottrarmi a
quelle parole, incisive come ferite che mi strappano la pelle,
scoprendo le
ossa impotenti. Mi rinchiudo nella mia fortezza, stringendo i denti,
arroccandomi nella consapevolezza che le sue parole non hanno la minima
importanza,
menzogne, castelli di deliri e camaleonti che strisciano nella sua
mente,
rettili che sibilano impotenti alle mie orecchie.
Eppure qualcosa mi raggiunge, affondando
nelle profondità di me e moltiplicandosi in
un’eco, ossidandosi, infettando le
mie carni.
«Non ha mai combattuto per te.»
La luce risorge. Vuole guardarmi negli
occhi, vuole godere della contrazione dei miei lineamenti, appena
percettibile
sotto il tocco delle sue dita di ferro.
L’espressione sul volto di Freezer si
tinge di un’ipocrita tristezza, gli occhi che scintillano nel
piacere di sottolineare
quanto io fossi indesiderato, le labbra che vibrano nel tentativo di
trattenere
un ghigno, stravolte dal piacere di distruggere quel poco che fornisce
significato
al mio esistere.
La bile mi corrode acida la gola, inducendomi
a deglutire ripetutamente, tormentato dalle pupille severe di mio
padre,
sedotto dalla sua voce suadente, le poche energie rimaste che si
diradano nelle
profondità di me. Qualcosa dentro di me si è
rotto, l’oscurità si è insinuata
tanto in profondità dentro di me da germogliare,
rispecchiando la sua malvagità
cinica.
«Tu, invece, combatteresti per me?»
esalo
arrogante contro il palmo della sua mano, tremando.
«L’ho già fatto,
Vegeta.» ringhia, gli
occhi che per un attimo divampano nel candore disciplinato del suo
viso.
Vengo scaraventato a terra, la testa che
sbatte in un colpo secco sul pavimento, deflagrando infinite vertigini,
la
schiena perforata da brividi che mi ricoprono di sudore gelido.
Sento le viscere contrarsi, sminuzzate,
triturate in un milione di piccoli pezzi.
Spalanco gli occhi, dove lampi luminosi
si muovono nelle periferie del mio sguardo. La nausea trema nel mio
ventre,
contratto al punto da farmi digrignare i denti e gemere come una bestia.
Voglio soltanto che tutto finisca, che
tutto torni alla cenere dove nulla esiste, dove non esiste
più questo corpo a
pezzi, dove il dolore è sostituito da un sonno imperituro.
«È così che ricambi
l’unica persona al
mondo che attribuisce importanza alla tua sopravvivenza? Con il
tradimento?»
La rabbia ora divampa incontrastata sul
suo volto, mimata dalla coda che sbatte libera sul pavimento, scavando
solchi
di calcinacci e polvere. Cerco di sostenere il suo sguardo, ma tutto si
confonde, disciolto in una nebbia oscura in cui anche il suo viso si
disperde.
Ricordo solo le sue spalle esili, il
profilo del suo volto che si girava appena verso di me, continuando a
fissare
lo spazio.
«Non preoccuparti, piccolo... Mi
prenderò
cura io di te.» mi disse, mentre le labbra vermiglie si
piegavano in un sorriso
dolce come una frustata.
No. Non voglio. Non posso permettermi di
mostrarmi così debole di fronte a lui.
Cerco di aggrapparmi all’orgoglio,
all’arroganza che mi mantiene in vita, e inizio a contrarre
le gambe per
alzarmi, i palmi delle mani che sudano strisciando nella polvere.
Mi sento mancare e tossisco, immobile,
abbandonato dal mio stesso corpo. Un sussulto mi scuote come una scossa
elettrica, facendomi sfracellare su un fianco. Sento le viscere
impazzire,
ustionate da un incendio pungente che non riesco a respingere. Vomito
un bolo
rovente di sangue e di succhi gastrici, le unghie talmente affondate
nel palmo
della mano da aggiungere le ennesime incisioni a quello che
è divenuto un
cimitero di croci.
Non guardarmi. Non guardarmi...
Il peso delle sue iridi scarlatte è
insopportabile, i suoi occhi sono onnipresenti, assilli di porpora che
mi
osservano, moltiplicati per un milione, un caleidoscopio luminoso che
muore e
rinasce a ogni battito di ciglia.
Il mio volto avvampa, rovente per
l’imbarazzo e la paura. Non guardarmi, non voglio che tu mi
veda così debole,
così impotente, sfracellato sotto le tue ginocchia, rigide
come sculture di
marmo. Sbatto le palpebre, allontanandole dal suo sguardo, notando che
la sua
compostezza tradita dalla tensione che traspare dalle dita contratte
del suo
piede serpentino. Sento la sua risata rimbombare
all’infinito, rimbalzata dalle
mura vuote della cella fino a ferirmi i timpani, sovrastando il suono
dei miei
stessi ansiti.
«F-Freezer...» biascico, il respiro
fischiante, ogni lettera trascinata nello spazio e nel tempo come se
volessi
evocarlo. Una voce roca e consumata scaturisce dalle mie viscere,
vincente fra
i cori di urla e di gemiti che lottano per emergere dalle
profondità.
Non so perché lo sto chiamando, quasi
supplicando, stringendo la sua caviglia con la mano, tirandolo
flebilmente e
finendo per sporcare la sua pelle nivea e fredda del mio sangue.
Forse io...
«Cosa vuoi da me, Vegeta?»
Mi scaccia con sdegno, colpendomi
disgustato la mano, mentre le sue pupille vermiglie rifulgono nella
notte,
funeste, accompagnate dalla sua voce calma, ammorbata da una delusione
pungente, quasi rabbiosa.
«Io ti ho sempre trattato come sangue del
mio sangue. Ma tu insisti per voltarmi continuamente le spalle. Me lo
merito,
forse?»
Parla sottovoce, impastandosi di una
sinistra oscurità. Il sudore inizia imperlarmi anche il
volto, sento la gola
arida e pungente, non rispondo, paralizzato dal terrore, mentre la sua
coda continua
a frustare il pavimento, pesante come una trave, sempre più
a fondo, il suono
delle piastrelle che si polverizzano, schizzate dalla sua furia.
«Rispondimi Vegeta, me lo merito?»
La sua voce è pericolosa come un
serpente, deformata insieme ai suoi occhi in due fessure. Vedo le sue
labbra
tremare, il rossetto vagamente sbavato, la forza spirituale che cresce,
accumulandosi traslucida come una nebbia intorno al suo corpo.
Incontro nuovamente i suoi occhi roventi
e velenosi, affondando, disperdendomi in essi, non riuscendo
più a trattenere
la mia angoscia.
Ma Freezer, inaspettatamente, distoglie
lo sguardo.
Qualcosa esplode, sento le sue mani
circondarmi il collo e spingermi contro il muro con talmente tanta
forza da
farmi gridare, incrinando la parete di roccia che si frantuma al
contatto col
mio corpo. Le sue mani sono gelide sulla mia pelle cocente, la
stringono, le
mie mani si mescolano alle sue, cercando disperatamente di liberarmi.
Annego fra le sue mani, i polmoni alla
disperata ricerca d’ossigeno, le gambe che scalpitano contro
i suoi fianchi
coriacei, nella speranza vana di allontanarlo.
Sento gli occhi bruciare, madidi di
lacrime.
La speranza è stata assassinata, stuprata
come un fiore sorpreso da una nevicata primaverile.
Mi aspetterei di vederlo godere, ridere
divertito, ma il suo volto è serio, totalmente distorto
dalla rabbia, una
maschera di collera pura, le narici dilatate, le labbra morse fra i
denti
acuminati, gli occhi quasi fuori dalle orbite. È
l’espressione di un folle, ben
lontana dalla sua abituale compostezza, feroce e brutale, una
mescolanza di
sentimenti che raramente ho scorto sul suo volto.
È furioso, lo sento ansimare, i suoi
occhi sono cupi come l’autunno, popolati dai fantasmi di
sentimenti rifiutati e
controllati, frustati e ridotti in schiavitù dal suo
controllo inossidabile.
«Ammettilo, Vegeta!» grida, alzandomi e
gettandomi
nuovamente a terra con rabbia, allentando per un attimo la presa
affinché io
possa respirare, carpendo tutto l’ossigeno di cui sono
capace. Tossisco,
divorando aria, ansimando, ma le mie mani tremanti non lasciano quelle
di
Freezer, ancora ben salde intorno al mio collo, dure come propaggini
metalliche. Il suo volto furente mi fissa, in attesa, ma dalla mia
bocca non
fiorisce nulla, un campo devastato dal sangue e dalla violenza.
Silenzio. Il tempo si ferma,
cristallizzato in un istante corteggiato dalla morte.
«Padre»
È un sussurro quello che fiorisce sulla
mia bocca, freddo sul sangue rovente che mi cola lungo il mento. Il
peso di
quella parola, che io stesso ho pronunciato, è come un
terremoto che distrugge
quel poco che resta di me. Sento il cuore rivoltarsi, corroso e
vibrante, accompagnato
dallo stomaco che si contorce, svuotato.
So che questo è quello che desidera
sentire. Non delle scuse, non delle spiegazioni, ma una conferma,
un’ammissione
di quanto io sia sempre, incontrovertibilmente, suo figlio.
Padre.
Le sue mani si rilassano leggermente
senza allontanarsi, sempre possessive nel circondare il mio collo. Non
oso neppure
guardare le braci scarlatte dei suoi occhi, adombrate da spettri
brillanti come
fiamme nell’oscurità, devastato dalla
consapevolezza che tutto sta andando
ancora una volta in frantumi, l’ennesima roccaforte travolta
dalla sua potenza,
calpestata come se non fosse altro che una formica.
Sorride appena, scoprendo i denti
candidi, un sorriso dolce che impreziosisce i suoi lineamenti fini,
dolci come
una carezza che accoltella le viscere.
Mi ha piegato.
Ancora una volta.
«Padre... perdonami.»
Mormoro, rivolto contemporaneamente a due
figure diverse.
Una si trova di fronte a me, il demone di
ghiaccio il cui volto è turbato, eccitato, allucinato dalle
mie parole.
L’altra si trova nella mia memoria,
l’uomo profanato, disonorato dalla lealtà e dalla
sottomissione che trasudano
dalle mie parole.
La verità è che...
Un singhiozzo si fa strada nel mio petto,
riemergendo vile sul mio volto, piegato in una fitta dolorosa, bagnato
dalle
lacrime che iniziano a colare dai miei occhi gonfi.
Soffoco nel mio stesso pianto, tossendo,
le lacrime copiose che mi bagnano le labbra, che si infilano nelle mie
orecchie, sordo a qualunque altro suono che non sia il battito
impazzito del
mio cuore o quello del dolore inarrestabile che mi inumidisce il volto.
È il suono della vergogna,
dell’umiliazione che trucida il nome che porto, che insozza
la mia famiglia, la
mia stirpe, il suolo su cui sono nato, il mio ridicolo orgoglio, ancora
una
volta inerme di fronte alla sua personale capacità di
distruggermi come se
fossi il suo giocattolo.
Il suono della consapevolezza
agghiacciante, perversa, rinnegata, che ho tentato di seppellire con
tutte le
mie forze, mi scuoia vivo, annegandomi nel senso di colpa.
Assomiglio più a lui che al Re dei Saiyan.
Provo più rispetto per Freezer che per il
Re dei Saiyan.
«Sei così carino quando piangi...
Vegeta.»
La sua mano mi accarezza lieve il volto,
insistendo sugli zigomi, i polpastrelli delicati nel tormentare le mie
ciglia
umide, lentissimi sugli occhi doloranti, gonfi al punto di scoppiare,
suadenti
nel dischiudere leggermente le mie labbra ansimanti per i singhiozzi
che mi
scuotono.
Gli è sempre piaciuto sentirmi piangere,
ne è come ipnotizzato, affamato, di nuovo calmo mi guarda
silenzioso, le pupille
come porpora liquida, rubini incastonati
nell’oscurità.
Lo odio, talmente profondamente da
sentirmi mancare il fiato, fitte di dolore e di disperazione mi
tagliano
ovunque, facendomi gemere anche dalla frustrazione di non riuscire a
salvarmi,
di non riuscire a fare niente per ribellarmi.
Lo odio, lo odio con tutto me stesso, e
ardente dalla vergogna abbasso lo sguardo sulle mie gambe tremanti.
«Perché...
perché?» ringhio, furente, la
voce distorta dal pianto e dai singhiozzi.
Le sue dita, lente, mi alzano il mento,
facendomi sussultare. Non voglio incontrare il suo sguardo, immaginando
il
ghigno bastardo, straripante della soddisfazione cocente distorcergli i
lineamenti demoniaci. Ma nei suoi occhi non c’è
niente, le sue iridi sono
vuote, inespressive, il carminio scuro e consumato di una foglia
d’autunno che
viene sfiorata dalla neve per la prima volta. Mi fissa a lungo,
imperturbabile,
come annoiato.
«Ti voglio pronto entro
un’ora.»
Dichiara, freddo, smettendo di
accarezzarmi e lasciando scivolare la mano lungo il mio petto. Un flash
di
luce, solido e violento, si espande in uno schiocco secco dentro di me,
facendomi quasi deflagrare il cuore. Elettricità pura invade
le mie vene, le
tende e le fa vibrare, sento come i muscoli riprendere il loro vigore,
i
polmoni riempirsi di nuova linfa.
La sua energia vitale mi travolge,
inarrestabile, e deglutisco ripetutamente, cercando di placare il
battito
convulso, delirante, del mio petto.
Mi alzo a sedere e successivamente in
piedi, ritrovandomi di fronte a lui, alla sua stessa altezza. Il suo
dito
indice si appoggia sarcastico sulla mia clavicola ancora fasciata dai
brandelli
della battle suit sporca di terra e di sangue.
«Vai a farti una doccia, Vegeta, hai un
odore tremendo.»
La sua voce è di nuovo dura, affilata
come una lama, i suoi occhi gelidi come il ghiaccio. Le
sue labbra si arricciano, mimando il
disgusto del suo corpo immacolato nello sfiorare il mio. Sento uno
schiocco
sordo e la luce bluastra dei neon invade la stanza, mentre osservo le
sue
spalle esili allontanarsi, accompagnate dal suono robotico dei suoi
passi.
Dentro di me esiste solo l’oscurità,
vischiosa intorno alla mia anima annientata.
Non potrò mai
liberarmi di lui, anche se morisse, anche se lo uccidessi con
le mie stesse mani. Io lo odio, lo odio così tanto che
quando osservo il suo volto
mi sento contorcere le viscere, così tanto da sentire fame
del suo sangue di
serpente, desiderio di dilaniare le sue carni con i denti e le unghie,
eppure
quella parola, quella parola che ho pronunciato prima continua a
tormentarmi.
Scompare, disciolto nel bianco del
corridoio fosforescente, senza voltarsi indietro.
Odio mio
padre.
Continua...
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Capitolo 6 *** Epilogo ***
pretty capitolo finale
Pretty When
You Cry
Epilogo
[Vegeta’s POV]
L’ululato della
tormenta invade i miei timpani,
artigli di vetro arpionano il volto e le mani, frustati dalla neve
tagliente.
Il bianco è ovunque, ricopre e mangia la terra intrisa di
ghiaccio, è nelle mie
palpebre, nelle pupille divenute fantasmi slavati, accecati
dall’oscurità
sinistra di quel candore, una melodia inquietante che solletica le mie
viscere,
è fra le volute del mio mantello di seta, sferzate dal
vento, da cui schizzano
via innumerevoli gocce d’acqua, disciolte e respinte dal mio
movimento.
Affondo
nella neve ad ogni passo, in un
caleidoscopio muto, senza colori.
La
bufera urla, grida, strepita la sua
potenza e annienta, scatenata dal cielo scuro, lontano e distante come
una nebbia
corvina, roboante di tuoni.
Se
non sentissi il cuore battere,
frenetico come un terremoto nella cassa toracica, assordante pur nel
fragore
del ghiaccio, giurerei di non essere altro che una propaggine di questa
tempesta, una folata gelida e furiosa al tempo stesso, maledetto come
la terra
sterile, derubato di ogni linfa vitale.
Invece...
sono vivo.
Sono
vivo.
Ancora vivo.
Sbatto
ripetutamente le palpebre irritate
per il freddo, cercando di guardare la sagoma del mio petto alzarsi e
abbassarsi ritmicamente, le gambe muscolose, gli stivali scuri
inghiottiti dal
bianco.
Il
tempio del mio corpo è stato
disonorato, ridotto a un impasto fluttuante, della stessa materia delle
tenebre,
del nulla, attraversata dal fumo dell’incenso che brucia.
Durante
l’esplosione, su Hagalaz, ho
sentito le costole sbriciolarsi, polvere nel sangue, spappolate sotto
la pelle
divenuta nera.
Dopo,
nella confusione tumultuante della
sala del trono di Freezer, il tempo sembrava essersi fermato, la
clessidra
trattenuta dalle sue dita bianche: ero ritornato a essere soltanto un
giocattolo spezzato, l’ennesimo dei pianeti su cui sfogare
vampate di
frustrazione, la terra smossa, le strade rovesciate, la vita rimasta
che grida in
uno stillicidio di morte, inghiottita dalla pressione bulimica dello
spazio.
Lavarmi
e sfregarmi, scorticarmi con le
unghie tutto il corpo non è stato sufficiente a liberarmi
del sangue. Torrenti
di porpora colavano lungo le mie gambe, sui piedi, disperdersi
nell’acqua della
doccia, mescolandosi alla terra nera intrisa fra i capelli, ma quel
sangue è
ancora dentro di me, porpora tiepida che mi corrompe dentro,
sporcandomi le
ossa. L’acqua bollente che faceva ringhiare le mie cicatrici
fresche, come arse
dall’interno.
“Tu
non sconfiggerai mai
Freezer. Mai...”
La
voce stridula di quella donna risorge,
distorcendosi in un’eco infinita nella mia testa, rimbombando
all’altezza del
mio petto dove vibra, pulsa e genera spasmi dolorosi.
Sento
qualcosa risalirmi la gola, un bolo
di tensione e di rabbia che riempie rovente il mio corpo, vorrei
soltanto gridare
di rabbia, le corde vocali si tendono, compresso nei pochi centimetri
del mio
corpo, troppo piccolo perché riesca a contenere
l’abisso che mi trapassa ogni
secondo, sempre più profondamente.
Mi
mordo le labbra nel tentativo di non
urlare quando, in fondo, nel bianco vorticante, scorgo le forme esili
delle sue spalle.
Le
sue viscide, subdole, ipocrite spalle,
bagnate dal vento algido come se fosse una carezza, il viola che
riluce,
talmente intenso da essere violento, fosforescente nel candore.
La
sua coda si muove appena nella neve,
lenta, come se fosse stanca.
La
forza di Freezer corrode caustica le
mie vene, elettricità pura, oscena e gelida, tutto il mio
corpo è teso dalla
fibrillazione, formicolante per l’energia in sovraccarico che
lo percorre a
ripetizione, incontrollata come una bestia che cerca di liberarsi dalle
catene.
Se
questa è soltanto una briciola della
sua potenza, io non avrò mai alcuna speranza contro di lui.
Deglutisco, sfibrato
dal respiro corto, ansante per la tensione, mentre ogni passo mi
avvicina a lui.
La
nebbia tumultuante si dirada,
mostrandomi in lontananza la figura di Zarbon che indica a dei soldati
dove
caricare le scorte per il viaggio fino alla galassia di Dagaz.
Almeno
tre mesi di viaggio, una battaglia
in cui potrei morire come un insetto, dilaniato dalla potenza degli
abitanti
del pianeta che né l’esercito di Re Cold
né quello di Cooler sono riusciti a
conquistare. Freezer lo vuole, sbatte capricciosamente i piedi a terra
al
pensiero di superare il padre e il fratello e probabilmente potrebbe
farlo con
facilità se solo accettasse di scendere personalmente sul
campo di battaglia.
La
loro non è altro che una partita a
scacchi, dove a vomitare sangue e a morire sono soltanto le pedine.
Ricordo
il mio volto riflesso nello
specchio, i suoi lineamenti, il suo
sguardo, il suo modo di arricciare la bocca nel disgusto, il suo naso
dritto. Il
mio viso è cambiato, le linee rotonde del bambino sono state
irrigidite, battute
a sangue e incatenate una metamorfosi crudele, seguite dai miei occhi,
sempre
più segnati, cupi di fronte
all’immensità.
Chiudo
le palpebre per un istante e ripenso
al silenzio degli astri, immobili, avvolti in una melodia senza tempo,
alla navicella
biposto in cui io e mio padre viaggiavamo quando mi portava in guerra
con lui.
Gli
unici momenti di vicinanza che abbiamo
mai avuto. Non diceva una parola, le labbra strette in
un’espressione severa, osservava
il fluire dello spazio aperto, riflesso nei suoi occhi scuri,
attraversati da
una miriade di stelle ardenti. Non lo vidi mai vulnerabile come in quei
rari
istanti in cui ritardavo volontariamente l’ibernazione per
osservare
incuriosito come si discioglieva il suo volto addormentato.
Tutto
di quell’uomo, della sua razza, vive
in me, le radici incastrate talmente in profondità nel mio
sterno che per
ucciderlo definitivamente dovrei uccidere anche me stesso.
«Ve-ge-ta.»
Un
sussurro si insinua fra la neve,
scandendo lascivo il mio nome.
Le
sue spalle si contraggono, la coda
inizia a sferzare nervosa la neve, scavando come una frusta solchi
profondi
fino alla terra nera.
Un
azzurro liquido, rovente come la lava,
cola lungo il mio petto come una lunga lacrima di liberazione: ricordo
soltanto
quel colore, un blu di zaffiri fosforescente, un turchese dipinto nella
pace,
nella bellezza dell’universo. Un ceruleo che corteggia
l’anima e dischiude le
sue porte, come un fiore che si inchina di fronte alla luce.
Ricordo
gli occhi maliziosi di quella
donna e una sensazione di pace, vivida al punto di tagliarmi le carni,
nient’altro,
un vuoto che mi riempie di brividi la spina dorsale.
Quello
non può essere il paradiso che mi
attende alla mia morte. Io non sono altro che un assassino, una pedina
del gioco
che fa a pezzi le altre pedine per avanzare sul terreno, senza curarsi
del
rosso luminescente, sparso fra il bianco e il nero in mille cocci.
Una
timida speranza sboccia dentro di me.
Forse
un diverso epilogo vedrà solcare i
miei passi.
Potrebbe
essere l’ultima volta che lo
vedo, l’ultima volta in cui ascolto il silenzio degli astri,
il frastuono dei
meteoriti che si schiantano, il fragore delle stelle che deflagrano,
inosservate, penetrate dall’oscurità,
l’omertà dei buchi neri che risucchiano
tutto ciò che si trova intorno a loro, la solitudine dei
pianeti obbedienti,
incamminati lungo un’orbita, pieni di fiducia nel continuare
ad attraversarla
nell’aspettativa che tutto andrà bene.
Continuerò
sempre a combattere per la mia
vendetta.
Perché...
nonostante tutto, io voglio vivere.
[Freezer’s POV]
La
tormenta mi culla, ipnotica e atroce,
sussurrandomi veleno che solo io posso comprendere. Grida, strepita e
ulula che
l’ho tradita, che le mie mani si sono sporcate di un calore
bastardo, lurido,
che quel lerciume è ancora vomito nella mia bocca.
Le
sue maledizioni si scompongono in
volti sinistri, ombre di angoscia disciolte nella nebbia e nel fragore,
i cui
occhi mi fissano accusatori.
Sento
le vene contorcersi per la
stanchezza, le palpebre bruciare, sobillato dal richiamo famelico della
neve
che brama, licenziosa, di ricongiungersi a me, bisbigliandomi di
dimenticare
Vegeta, mio padre, Cooler, di abbandonare questo Impero, la vita di
razionale
dominio e conquista che non si addice per nulla alla mia natura.
Io
sono un demone del freddo, la cui
carne sorge impastata al ghiaccio, trapassata dalle stalattiti e dal
rigore
dell’inverno imperituro. Io sono nato per uccidere, per
dominare, per
annientare, per strappare con gli artigli e con i denti il terrore
altrui e
cibarmi famelico dei loro cuori roventi, pulsanti, deglutendo mentre la
porpora
mi cola lungo il mento.
Mi
lascio accarezzare dalla polvere di
vetro, socchiudendo gli occhi in due fessure.
Mentre
una parte della mia energia vitale
fluiva dalle mie dita, penetrando come una scossa elettrica il corpo di
Vegeta,
ho sentito le vene del braccio squarciarsi, come carbonizzate,
violentate da un
pensiero proibito. Qualcosa nelle profondità delle mie
viscere ha vibrato di
rabbia, di un’ingiustizia simile alla violazione di un
giuramento di sangue. Io
non sono nato per donare la vita, soltanto la morte.
I
conati di vomito mi hanno ustionato
l’esofago mentre ridevo.
Perché
l’ho fatto?
Parole
non dette vibrano censurate nella
mia mente.
Il
suono decadente e malinconico della
tempesta mi ricorda quello dei singhiozzi di Vegeta, piangeva talmente
tanto
che il suo volto era diventato violaceo, consumato della disperazione e
dell’angoscia. I suoi occhi neri vagavano come spiriti
maligni, senza pace,
annacquati dalle lacrime che colavano sulle sue guance livide, il volto
austero
inghiottito dall’abisso, fatto a pezzi come una bambola a cui
hanno
accoltellato i lineamenti, ricomponendoli in posizioni diverse.
Sorrido
nel ripensare a quell’immagine,
malizioso, passandomi la lingua sui denti nel rivivere quel piacere, un
brivido
che mi attraversava la schiena, come un fulmine che cerca la terra,
impetuoso e
cieco a qualunque altra cosa.
Sento
il suo odore di barbaro selvaggio
mescolarsi alla neve vorticante, furente, che tenta di dissuadermi
ancora
riempiendomi i timpani con grida possessive, gli artigli tentano di
chiudermi
la bocca, trapassandola di spilli.
«Ve-ge-ta.»
La
verità è che volevo continuare a
guardarlo piangere per sempre.
Cosa
c’è di tanto disonorevole?
Si
avvicina, suadente, l’ombra gettata
dal suo corpo esile che raggiunge lentamente la mia, disperdendosi in
essa. La
chimera di tenebra è immobile nel bianco, nera come
l’abisso, un mostro
immobile partorito dall’oscurità di una notte
eterna.
«Non
pensavo che attribuissi valore alla
vita delle puttane.»
È
il sibilo tagliente della sua voce,
caustica come un manrovescio in pieno volto.
Come
osa
mancarmi di rispetto?
Contraggo
adirato la mandibola, facendola
schioccare, mentre il resto del mio volto si scompone in una risata
divertita,
contemporaneamente stuzzicato dalla sua perspicacia.
Sono
io
quello che si è piegato veramente.
Come
osa sottolineare la mia debolezza?
Crede
forse che io non me ne renda conto?
Che
non senta il grido della neve,
stuprata, che smania la vendetta, che brama soltanto il sangue di cui
cibarsi,
saziarsi, innamorata della morte, esorcista di ogni scintilla vitale?
Mi
volto di scatto e incontro il suo
sguardo duro, forgiato nell’adamantio delle
profondità della terra corvina, mai
sfiorata dalla luce.
Nulla
traspare dal suo viso ostile, i
lineamenti irrigiditi in una maschera serrata come una cassaforte.
Indossa la
battle suit delle occasioni diplomatiche, seta lucida che gli fascia il
corpo
magro e muscoloso, l’eleganza tradita dal suo collo, dove i
segni delle mie
dita scavano ancora lividi nella sua pelle diafana, profondissimi e
scuri.
Mi
avvicino repentinamente, respirandogli
sul volto, i rubini nelle mie iridi che rifulgono di una luce sinistra,
porpora
liquida, vermiglia e bruciante come il rosso degli astri che muoiono
soli nello
spazio vuoto.
«Di
certo tu non attribuisci valore al
silenzio.»
Afferro
il bavero della battle suit e
stringo fra le dita il suo mento, accarezzando con le unghie le ossa
fragili
della sua mascella, rigenerate dalla mia potenza.
Le
mie labbra mordono le sue,
succhiandole, tagliandole con i denti affilati, afferrano e squarciano
la sua lingua.
Il
suo sapore.
Carne
e sangue caldo di bestia.
Il
sangue dolce e ferroso del mio
moccioso.
Un
brivido di piacere e di adrenalina mi
attraversa elettrico la schiena e mugugno, deliziato, la bocca che si
apre in
un sorriso nel notare la veemenza di Vegeta nel ritrarsi disgustato,
allucinato, portandosi istintivamente una mano alla bocca e sfregandola
lentamente
con il guanto candido.
Una
striscia viola, oleosa, macchia il
tessuto candido dei suoi guanti, mescolata allo scarlatto diluito dalla
saliva.
Nel notare la sua espressione turbata non riesco a impedirmi di
deriderlo,
tradito da una risata sguaiata, dissonante, che sbrana i miei
lineamenti fini.
Lascio
andare il bavero della sua
uniforme, mentre osservo la bile corrodergli l’esofago.
Ancora una volta
vorrebbe piangere, gridare, urlare con tutta la forza che ha in corpo,
ma
obbliga il suo volto a liquefarsi in un ghigno, tradito soltanto dalla
mandibola contratta come l’acciaio, gonfia sotto la pelle
diafana degli zigomi
pronunciati.
Mi
sorride, specchio del mio sorriso, materia
della stessa oscurità vischiosa e cangiante.
«Torna
vivo, Vegeta.» ordino, secco,
disperdendo lo sguardo nella tormenta e nello spazio che si estende,
incommensurabile, oltre il cielo plumbeo.
«Sono
un Saiyan.»
Un
barlume di irritazione mi fa vibrare
il petto, nauseato al suono di quella parola.
Gode
della mia stizza e il suo sorriso si
allarga ancora di più, una voragine bastarda si dilata sul
suo viso sferzato
dalla polvere di vetro. Si volta e si allontana lentamente, mentre mi
sforzo di
seguire le sue spalle esili e i suoi capelli corvini nel caleidoscopio
vorticante, fino a quando non rimane soltanto l’ululato della
tempesta,
affilato quanto la vergogna che mi taglia la faccia.
Mi
lecco le labbra, nostalgico e
famelico, masturbandomi con l’ultima goccia del suo sangue,
ancora incastonata
nell’increspatura della mia bocca.
“Traditore”
Gridano,
assordanti, inesorabili, gli
spiriti della neve.
Fine
*
Ciao a tutti!
Questa volta ho
deciso di posticipare lo spazio autore alla fine per salutarvi tutti
con
affetto, volevo dire un grazie di cuore a tutti quelli che mi hanno
letta,
inserita nelle preferite, nelle ricordate e nelle seguite, ma
soprattutto recensita!
Mi avete incoraggiato a proseguire e mi avete fatto molto piacere!
Questa è la
mia prima “long” che vede una conclusione e sono un
po’ emozionata!
Oltretutto...
era una storia alquanto particolare e avevo paura di fare un gran
pasticcio e
di essere radiata dal fandom! *ride*
Che dire, spero
che l’epilogo abbia soddisfatto le vostre aspettative...
attendo ansiosamente
commenti...
Un abbraccione,
Nu :*
|
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