Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Una vita da sopravvissuta *** Capitolo 2: *** Dal buio alla luce - Prima parte - *** Capitolo 3: *** Dal buio alla luce - Seconda parte - *** Capitolo 4: *** Il chiarore delle stelle, il mormorio del vento e il profumo della tua pelle *** Capitolo 5: *** Quando il passato bussa alla porta *** Capitolo 6: *** Ritorno a Ravensbrück *** Capitolo 7: *** La verità è svelata *** Capitolo 8: *** La verità ha i tuoi occhi *** Capitolo 9: *** Delirio d'amore *** Capitolo 10: *** Verità negata - Prima parte - *** Capitolo 11: *** Verità negata - Seconda parte - *** Capitolo 12: *** Paure, bugie e fiori d’arancio *** Capitolo 13: *** Ciò che resta di noi *** Capitolo 14: *** Di nuovo insieme *** Capitolo 15: *** Soltanto un incubo *** Capitolo 16: *** La realtà di un incubo - Prima parte - *** Capitolo 17: *** La realtà di un incubo - Seconda parte - *** Capitolo 18: *** Un amore ferito *** Capitolo 19: *** Prigioniera di te *** Capitolo 20: *** Nelle catene dell’amore *** Capitolo 21: *** Nell’abbraccio del tuo amore *** Capitolo 22: *** La scelta di amare - Prima parte - *** Capitolo 23: *** La scelta di amare - Seconda parte - *** Capitolo 24: *** Ricominciare *** Capitolo 25: *** Come un’unica famiglia *** Capitolo 26: *** L’ora della verità *** Capitolo 27: *** Il frutto della verità - Prima parte - *** Capitolo 28: *** Il frutto della verità - Seconda parte - *** Capitolo 29: *** Padre, madre *** Capitolo 30: *** Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte *** Capitolo 31: *** Le colpe dei padri non ricadano sui figli *** Capitolo 32: *** Vivere è amare, amare è vivere *** Capitolo 33: *** Il dono della vita ***
Nadine era
particolarmente contenta quella sera: suo marito era tornato dall’ospedale nel
pomeriggio, avendo fatto il turno di mattina e adesso i due stavano sulla pista
da ballo di una balera a ballare, o meglio a cercare di ballare, il moderno
boogie-woogie. Nadine rideva nel suo vestito nero a pois bianchi mentre alcune
ciocche di capelli sfuggivano ribelli dal suo elegante chignon.
Nadine
ballava, mano nella mano di suo marito, rideva ed era viva. Dieci anni prima,
infatti, dai rubinetti di quella fredda stanza non era fuoriuscito gas ma
acqua. La morte atroce del giovane Kurt e le ultime parole d’amore scambiate
fra lui e Nadine avevano tanto commosso la kapò da risvegliare in lei il senso
d’umanità e spingerla a non eseguire l’ordine del capitano di Ravensbrück. La donna fece passare Nadine – la prigioniera
che aveva tentato di fuggire dal campo– per un’altra prigioniera morta quella stessa sera per inedia
vicino a una baracca; mise alla sventurata il vestito beige di Käthe e lo scambio fu fatto; poi portò Nadine alle docce per farle
togliere il sangue di dosso ed evitare così qualsiasi sospetto. Nadine fu
l’unica donna che riuscì a sopravvivere nell’inferno di Ravensbrück per cinque
lunghissimi anni.
“ Werner! Ti prego, fermiamoci! ” esclamò Nadine esausta ma senza
spegnere il suo sorriso. “ Certo! … ” rispose il marito e la prese sotto
braccio “ … Andiamo a sederci! ” Sedettero a un tavolino lontano dalla pista da
ballo e, intanto, il boogie-woogie fu sostituito da uno scatenatissimo
rock’n’roll. La guerra sembrava ormai lontana. I due giovani sposi si
guardarono in faccia ed esplosero in una fragorosa risata. “ No! Questo sarebbe
troppo! ” fece Nadine. Nei balli, nelle canzoni, nell’aria si percepiva la
voglia delle persone di divertirsi e dimenticare. Per alcune dimenticare ciò
che erano state durante gli anni bui del nazismo, per altre dimenticare ciò che
avevano subito.
Nel locale cominciò a fare caldo e Nadine tirò indietro i capelli,
aggiustando alla meglio l’acconciatura. “ Amore, stai sudando, togliti la
giacchettina. ” le consigliò Werner con apprensione. Il volto di Nadine divenne
improvvisamente triste e, con un fil di voce, disse: “ No, amore, si vedrebbe.
” Nadine si riferiva al tatuaggio, marchio indelebile, ricordo di un terribile
passato. Il marito le strinse la mano per rassicurarla e la donna, come in un
flash, rivisse sulla propria pelle tutto ciò che aveva subito nell’inferno di Ravensbrück:
il dolore dell’ago bagnato di un liquido bollente che s’introduceva
ripetutamente nel suo braccio; il bruciore della disinfestazione sulle parti
del corpo ferite dalla violenta depilazione; l’umiliazione della svestizione e
della visita; la fatica dell’inutile e interminabile lavoro al laghetto; le
fitte alle mani che si spaccavano e sanguinavano trascinando la carriola
stracolma di sabbia; poi le botte, il freddo, la fame, la sete; il suo aspetto
e la sua dignità di persona e di donna oltraggiati; la paura della morte; la
rassegnazione al proprio destino; l’angoscia e la disperazione della solitudine
… Nadine chiuse per un istante gli occhi e un brivido gelido le percorse lungo
la schiena. “ Amore, adesso ci sono qui io. ” Suo marito tentò di rassicurarla
e, come sempre, ci riuscì. La donna riaprì gli occhi e sulle sue labbra sbocciò
un sorriso.
Nadine e Werner si erano uniti in matrimonio in un tiepido
pomeriggio di metà settembre del ’46 con rito cattolico. Con il cuore
palpitante d’amore e di gioia, Nadine era entrata in chiesa vestita di bianco e
con il velo sulle note dell’Ave Maria di Schubert. Quello era stato davvero il
giorno più felice della sua vita. Al loro matrimonio, c’erano poche persone:
qualche amico e collega di Werner e la cugina di Nadine, unica sopravvissuta
della sua famiglia al genocidio degli ebrei. Poco tempo dopo, i due sposi
andarono ad abitare in una casetta dal tetto rosso con fuori un piccolo
giardino, in una zona tranquilla della città dove la devastazione della guerra
miracolosamente non era giunta. Il sogno di Nadine si era avverato insieme a
Werner. L’anno successivo, arrivò un figlio. I due giovani sposi adottarono un
bambino di due anni orfano di guerra: Nadine non poteva avere figli poiché
durante l’ultimo anno di prigionia a Ravensbrück le fu asportato l’utero per un esperimento medico. Entrambi
avevano desiderato un figlio tutto loro, che fosse frutto e senso del loro
amore. Per Nadine, che sin da ragazza sentiva forte il desiderio di maternità,
era stata una gran sofferenza rinunciare alla trepidazione dell’attesa e dei
preparativi e a quella gioia che segue immediatamente il dolore del parto. Dopo
un po’, insieme a suo marito, Nadine decise di mettere da parte ogni sentimento
egoistico e di adottare un bambino, anche lui vittima dell’insensata furia
della guerra. Il bambino si chiamava Andrej ed era di origine polacca. Nadine e
Werner riversarono su quel bambino – dagli occhi azzurri e dai capelli biondi –
tutte le loro cure e tutto il loro amore. Con la sua genitorialità, Nadine
aveva realizzato appieno il sogno di tutta una vita. Il poter donare amore ad
Andrej e a suo marito e riceverlo in cambio l’avevano finalmente resa una donna
completa e felice anche se la vita da sopravvissuta non era facile. Spesso,
Nadine provava un senso di colpa e di vergogna per essere scampata alla morte
nel campo femminile di Ravensbrück e si domandava perché proprio lei fosse
sopravvissuta a migliaia di donne e bambini innocenti. Del suo tragico passato
aveva ormai smesso di parlare poiché, al suo racconto, le persone domandavano:
Cosa hai fatto per sopravvivere? Loro non credevano al miracolo e pensavano che
la donna avesse venduto se stessa ai nazisti in cambio della vita. Questa
rappresentava un’ulteriore umiliazione per Nadine che rispondeva con un
silenzio di tristezza e di rabbia. L’unica persona in grado di capirla era
Werner. Con lui, che l’aiutava a portare il suo pesante bagaglio di incubi e
ricordi, Nadine aveva ritrovato fiducia e speranza e soprattutto dignità e
autostima che nel lager erano andate perdute.
Nadine accarezzò il viso di suo marito: era stato lui a cambiare
la sua vita, salvandogliela in tutti i sensi ed era nel verde dei suoi occhi che
tutto ciò che aveva subito in passato – violenze, offese, privazioni – sprofondava.
Werner la guardò negli occhi, come i suoi, lucidi per l’emozione e si perse nel
ricordo del loro primo incontro.
Capitolo 2 *** Dal buio alla luce - Prima parte - ***
Capitolo
2
Dal buio alla luce
- Prima parte -
“ L'amore non si vede in un luogo e non si
cerca con gli occhi del corpo. Non si odono le sue parole e quando viene a te
non si odono i suoi passi ”.
Sant’Agostino
Le rose di
Ravensbrück
Campo di
concentramento di Ravensbrück,
5 maggio 1945
Il soldato russo spinse Werner nella baracca e, con tono
sprezzante, gli intimò: “ Muoviti, dottore! ” Il giovane coprì subito il naso e
la bocca con un fazzoletto bianco per evitare di respirare quel terribile odore
mentre il soldato continuò a dirgli: “ A te spetta questa baracca! ” Werner si
guardò attorno: nella baracca c’erano tanti letti, se così potevano essere
definiti (altro non erano che tavoli di legno posti gli uni sopra gli altri),
ma poche persone vi giacevano. In un primo momento, il giovane non riuscì a
capire se quelle persone fossero uomini o donne né tantomeno se fossero vive o
morte: questa era stata la conseguenza dell’ideologia che sin da bambino gli
avevano inculcato, che da sempre aveva ritenuto giusta e che come medico aveva
anche appoggiato. Ma adesso, davanti allo scempio dell’umanità, tutto era
crollato, i suoi occhi si erano aperti e aveva incominciato a provare angoscia
e rimorso. Werner si chinò davanti a un letto e sentì il polso a due ragazze –
una delle quali era poco più di una bambina – ma per loro non c’era più niente
da fare come per le altre tre donne sdraiate sul letto di sopra. Nella baracca
sembrava non esserci più nessuno ma Werner per precauzione fece un altro giro,
prestando maggior attenzione ai letti dell’ultimo piano. Ed ecco che si accorse
della presenza di un’altra donna, sdraiata su un fianco, con la schiena rivolta
verso il muro. Non appena la vide, nonostante l’aspetto emaciato e
l’espressione sofferente, ebbe la sensazione che fosse ancora viva. Non le sentì
nemmeno il polso che subito la sollevò delicatamente dal suo letto, prendendola
in braccio e facendola sdraiare su quello di mezzo. Un lieve gemito di dolore
che uscì dalle labbra della giovane confermò la sensazione di Werner. La
donna era viva ma non lucida: il suo stato di denutrizione era troppo avanzato
e molto probabilmente aveva contratto più di una malattia. Non ne ebbe paura e
senza alcuna protezione medica, tipo guanti e mascherina, le si avvicinò per
controllarne l’attività respiratoria e cardiaca. Entrambe erano nella norma,
considerata la situazione. Fu contento per lei e, accennando un lieve sorriso,
le disse: “ Non preoccuparti, ce la farai. ” Werner si meravigliò delle sue
stesse parole e di quella strana sensazione che stava provando. La ragazza,
intanto, emise un profondo respiro e Werner immaginò che anche lei stesse
tremando. E aveva ragione. Confuso, uscì di corsa dalla baracca per avvisare i
sovietici delle condizioni di salute dell’unica sopravvissuta. “ L’infermeria è
piena. ” rispose freddamente uno dei due soldati. “ Ho bisogno urgentemente di
una flebo … e una coperta. ” continuò Werner, assumendo un tono più autorevole.
Il soldato fece un cenno al suo commilitone che, senza alcuna fretta, si
allontanò mentre Werner ritornò nella baracca. Sedette accanto alla ragazza e
all’improvviso, mentre aspettava con impazienza ciò che aveva chiesto, apparve
alla porta un suo collega tutto trafelato. “ Werner! ” iniziò a dire “ Tra poco
i sovietici bruceranno parte del campo per evitare contaminazioni. Questo è il
momento giusto per scappare, per metterci in salvo! ” Il giovane Werner si
sollevò quasi di scatto mentre il suo collega continuò a esortarlo: “ Forza,
andiamo! ” Ma Werner guardò la ragazza e, determinato, rispose: “ Non posso. ”
“ Su via, Werner, ci penseranno i sovietici a lei! ” ribatté il collega con un
pizzico di sarcasmo. Il giovane Werner non diede retta al suo collega e prese
in braccio la ragazza, pronto a raggiungere la gip aggirandosi velocemente tra
le baracche del campo in fiamme.
Capitolo 3 *** Dal buio alla luce - Seconda parte - ***
Capitolo
3
Dal buio alla luce
- Seconda parte -
“
Chi sei tu, dolce luce, che mi riempie e rischiara l'oscurità del mio cuore? Tu mi guidi con mano materna, e se mi
abbandonassi, non saprei fare più nessun passo. Tu sei lo spazio che circonda il mio essere e lo
racchiude in sé. Da te lasciato, cadrebbe nell'abisso del nulla,
dal quale tu l'hai elevato alla luce ”.
Edith Stein(Santa Teresa
Benedetta della Croce)
Città di Fürstenberg/Havel, 23
maggio 1945
Nadine respirò profondamente e
subito fu invasa da un gradevole profumo di lavanda. Erano anni che non lo
sentiva. Un intenso calore avvolse il suo corpo e capì allora di trovarsi in un
letto, in un vero letto, ben coperta da lenzuola calde e pulite. L’odore e il
freddo della baracca erano scomparsi, così come quel dolore che prima avvertiva
in tutto il corpo e, confusa, si domandava dove fosse. Forse in un sogno, si
disse ma quella sensazione era troppo reale per esserlo. Aprì lentamente gli
occhi e una forte luce l’abbagliò: anche il buio era scomparso. Poi, pian
piano, quel bagliore andò diminuendo e vide il volto di un angelo chinato su di
lei. Per un istante, quella visione celestiale fece credere a Nadine di essere
passata a miglior vita. “ Buongiorno! ” udì a un tratto e capì che chi aveva di
fronte non era una visione ma un uomo in carne e ossa. Ne colse subito la
dolcezza della voce, la bellezza del sorriso, la perfezione dei lineamenti. “ Come ti senti? ” le domandò ma Nadine rispose con un’altra
domanda: “ Dove mi trovo? ” “ Questa è la mia casa … Io sono un medico, mi
chiamo Werner … Il campo di Ravensbrück è stato liberato, la guerra
è finita … ” A queste parole il cuore di Nadine fece un sussulto di gioia: dopo
cinque anni di prigionia era finalmente libera. “ … e adesso sei stata affidata
alle mie cure … Sai dirmi qual è il tuo nome? ” Nadine ci mise un po’ di tempo
per ricordarlo: per troppo tempo, infatti, il suo nome era stato un numero di
matricola. “ Mi chiamo Nadine. ” rispose in seguito e gli tese la mano,
mostrando un lieve sorriso. “ Piacere, Werner. ” Quel sorriso appena accennato,
di calma e fiducia, rasserenò il giovane: dopo due settimane, la ragazza si era
risvegliata dal coma e nel vederlo non si era spaventata. Il
suo cuore si riempì di un qualcosa mai provato prima, di una gioia che andava
ben oltre la soddisfazione per averla salvata dal tifo contratto nel lager, di
una pace che stranamente lo allontanava dalle preoccupazioni del dopoguerra.
D’altra parte, Nadine si domandava perché si fosse fidata subito di quell’uomo
– che in fondo era uno sconosciuto e di sicuro un tedesco – e perché il suo
cuore stesse battendo così forte guardando il verde dei suoi occhi. Era come se
lo conoscesse da sempre e la sua vicinanza la faceva sentire al sicuro.
Nadine cominciò pian piano a
riprendersi e a non aver più bisogno dell’alimentazione artificiale. Il suo
corpo e il suo aspetto ritornavano a essere quelli di una donna e, dentro di
lei, la speranza e la voglia di libertà si erano ridestate. Nadine stava pian
piano rinascendo e il merito era di Werner. Non erano soltanto le sue cure a
farla stare bene ma anche le sue attenzioni, il suo comportamento gentile e
rispettoso, la sua delicatezza nel domandarle del suo stato d’animo e di
salute, il suo trattarla da essere umano. Le prime volte la giovane se n’era
addirittura meravigliata, essendo abituata al disprezzo e all’umiliazione. Contemporaneamente,
anche la vita di Werner stava cambiando. Il suo prendersi cura di Nadine, il
suo starle vicino, vederla rifiorire e sorridere dopo tutto quello che aveva
passato nel lager, guardarla negli occhi e capire che in lei c’era qualcosa di
diverso, qualcosa di speciale, una luce che non aveva mai visto in nessun altro
sguardo, lo facevano sentire ogni giorno meglio e il suo cuore si apriva sempre
di più. Werner si stava innamorando di Nadine.
“ Oggi ho il turno di notte … ” disse
Werner, affacciandosi alla porta “ … Torno a casa alle sei. ” A queste parole,
il cuore di Nadine fu invaso da una strana tristezza. Avrebbe voluto dirgli di
restare con lei, di non andare via, di non lasciarla da sola ma non tentò
nemmeno di farglielo capire, con una parola o un gesto. E così Werner andò via
mentre Nadine cominciò a domandarsi cosa stesse succedendo al suo cuore, il
perché di quel suo turbamento, perché ogni volta che il giovane si allontanava
da lei ne sentisse la mancanza. Ben presto, girandosi e rigirandosi nel letto,
Nadine riuscì a dare una risposta alle sue domande e trovò nel suo cuore quella
verità che a se stessa stava nascondendo. Ciò che provava nei confronti di
Werner andava oltre la gratitudine e la riconoscenza, la stima e l’affetto: era
in realtà amore. La giovane non riusciva ad accettare questa verità e si diceva
di non poter permettersi – proprio adesso che il suo corpo e il suo spirito
cominciavano a riprendersi – di ricadere nella disperazione per un amore non
corrisposto e di ritrovarsi a un passo dalla morte … interiore. Il suo cuore
già martoriato dalla terribile esperienza di Ravensbrück non avrebbe mai sopportato un’altra delusione e
stavolta per lei sarebbe stata davvero finita. Non poteva confondere le cure
mediche di Werner e la sua umana sensibilità per un sentimento più profondo, i
suoi ampi sorrisi e i suoi sguardi lucenti per dei segnali d’amore, non poteva
crearsi l’amara illusione di essere contraccambiata. Ma, ogni giorno che
passava, Werner non faceva altro che confermare la sua sensazione e il suo
cuore cominciava a scalpitare, desideroso di aprirsi nuovamente all’amore. Il
suo cuore era pronto ma la sua mente era ancora frenata dai ricordi del lager e
delle persone che in quegli anni le avevano fatto del male. Nel frattempo,
anche Werner pensava che ciò che provava Nadine fosse soltanto riconoscenza per
averla portata via dal campo e ospitata nella sua casa e non voleva illudersi di
un amore che in realtà era a senso unico.
Seduta alla finestra della sua camera, Nadine scrutava la strada: un
cumulo di macerie faceva da tappeto alla città e nell’aria aleggiavano ancora
polvere e detriti. Di fronte, un palazzo sventrato dai bombardamenti sembrava
reggersi in piedi a malapena: forse sarebbe bastata una semplice pioggia per
farlo cadere e ridurre in mille pezzi. La ragazza guardò per l’ennesima volta
il tatuaggio inciso sul suo braccio, il numero 950 e pensò che il suo cuore
fosse proprio come quel palazzo che aveva dinanzi agli occhi. Distrutto e, se
anche Werner l’avesse abbandonata, non sarebbe rimasto più niente. Quell’amore
che provava le riempiva il cuore e la incoraggiava a riprendersi e ad andare
avanti dopo Ravensbrück ma, allo stesso tempo, le faceva paura. Nadine temeva,
infatti, che tutto ciò che stava vivendo fosse un sogno e che Werner fosse
un’illusione. Temeva di risvegliarsi da un momento all’altro e di ritrovarsi sola
nel fango del lager, sporca di disprezzo e disperazione. Temeva di essere
ingannata come nel suo arrivo a Ravensbrück quando, percorrendo quel bellissimo
viale fiorito di gerani colorati, aveva creduto che fosse un posto migliore
oppure come aveva fatto Kurt promettendole di salvarla dal campo. Nadine aveva
paura ma sentiva di potersi fidare di Werner, perché lui era diverso da tutti
gli altri e non le avrebbe mai fatto del male. Intanto, anche il giovane si
domandava se Nadine fosse soltanto un’illusione, un miraggio nel deserto della
sua vita e temeva che presto sarebbe svanito e lui risprofondato nella
solitudine e nel buio dell’antisemitismo. Ma ben presto le loro paure caddero
e, in un tiepido pomeriggio d’inizio estate, i due trovarono il coraggio di
dirsi i loro sentimenti.
Poi la mano di Werner si posò su quella di Nadine mentre i loro
visi si fecero sempre più vicini. Gli occhi negli occhi, i respiri all’unisono
e le loro labbra finalmente vicine per potersi sfiorare.
Capitolo 4 *** Il chiarore delle stelle, il mormorio del vento e il profumo della tua pelle ***
Capitolo 4
Il chiarore
delle stelle,
il mormorio del
vento e
il profumo della
tua pelle
“ Io andavo lungo il
sentiero, tu venivi, il mio amore cadde tra le tue braccia, il tuo
amore tremò nelle mie. Da allora il mio cielo di notte ebbe stelle e per raccoglierle la tua vita si fece fiume ”. Pablo Neruda
Werner strinse
più forte la mano di Nadine mentre il terreno, procedendo verso il lago, si
faceva sempre più in discesa. La luce del sole quasi al tramonto, la natura
tutta in fiore e la silenziosa tranquillità della foresta, offrivano già ai due
innamorati l’atmosfera perfetta. Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del
lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra,
avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava
la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due
contavano ancora i loro inverni. Come dimenticare il dolore di Ravensbrück, la furia dei soldati, il fumo nero
che ogni giorno ininterrottamente saliva al cielo e i volti delle persone a cui
la vita non aveva dato una possibilità di salvezza? Come dimenticare se le
ferite del corpo non erano ancora cicatrizzate? E Werner come poteva cancellare
dalla mente la sua iscrizione al partito nazista, le sue tesi mediche redatte a
favore della teoria razzista, l’eutanasia e gli esperimenti praticati dai suoi
colleghi e il suo silenzio che diventava loro complice? Come allontanare il
rimorso se la donna che amava ne era stata vittima e sotto le macerie
s’intravedevano ancora corpi senza vita? Per entrambi la risposta aveva un nome,
un volto, degli occhi nei quali ritrovare una parte di se stessi, assopita
durante gli anni della guerra e delle braccia nelle quali rifugiarsi e
soffocare le ombre del passato. Sulla sponda di quel lago, saldamente
abbracciati l’un l’altra quasi da sembrare un sol corpo, i due capirono che non
tutto era stato vano. Solo a causa del suo orientamento politico e della sua
professione, infatti, Werner era stato catturato dai russi e condotto a Nadine.
E anche per lei Ravensbrück non era stato inutile perché le aveva poi donato
Werner. Allora la sua sofferenza acquistò un senso e benedisse quei cinque anni
di prigionia. Nadine alzò
gli occhi al cielo e finalmente riuscì a scorgere il chiarore delle stelle. Il
fumo nero del forno crematorio e le scie degli aerei militari non offuscavano
più il firmamento. E, in quel preciso istante, Nadine riacquistò i suoi
venticinque anni e quella giovinezza che nel campo era stata spenta. Il tempo
della guerra, del nazismo e dell’odio lasciava adesso spazio a quello dell’amore.
Tutto stava cambiando, dentro e fuori di loro. Adesso non
c’era il frastuono della guerra, il rumore degli spari e le urla disperate a
impedire l’ascolto del mormorio del vento, del fruscio degli alberi e del suono
rilassante dell’acqua che accarezzava le rive del lago. “ è tutto finito, amore. Adesso ci sono
qui io. ” le disse teneramente Werner stringendola di più a sé.
Il sole era
già da un bel po’ giunto al suo tramonto, segnando la fine del giorno e della
loro tristezza e con un bacio cominciò una nuova vita, l’inizio di un futuro
migliore e di un’eternità felice insieme. Con quel bacio, gli anni di dolore
vissuti da Nadine svanirono e il velo di paura che ricopriva i suoi occhi
cadde. I terribili ricordi e gli incubi del lager si dispersero tra il profumo
di Werner e le sue carezze. Poi un “ ti amo ” esplose dai loro cuori,
finalmente liberati dalle catene del passato.
Il buio
cadde prepotentemente sulla città di Berlino che sembrava tanto lontana da loro
con la sua devastazione e le sue rovine mentre la luce della luna e delle
stelle illuminò quel paesaggio reso incantato dall’amore. I due innamorati
avevano lasciato l’albero e adesso erano in piedi, a un passo dal lago, a
scambiarsi un bacio appassionato. Poi il vento si fece più forte e il foulard
di Nadine volò via.
Ora alza gli occhi al cielo
e dimmi quando mancherà al tramonto.
Ci vuol buio a questo punto,
voglio farti tenerezza.
La tristezza si dissolve con il fumo.
Resta solo il tuo profumo,
il profumo della pelle,
lo sfondo delle stelle
e un vago senso di dolore che scompare col respiro,
col respiro del tuo amore.
Lucio Battisti, Dove arriva quel cespuglio
[i]Lago situato nella Foresta di Grunewald (detta anche “ foresta verde ”) all’interno della città di Berlino.
Capitolo 5 *** Quando il passato bussa alla porta ***
Capitolo 5
Quando il passato bussa alla porta
“ Non raccontavo mai del mio passato, né davo
informazioni personali …
Quei ricordi erano soltanto miei e avevo imparato che
certe cose è meglio tenerle segrete ”.
Nicholas Sparks
Berlino ovest, ottobre 1950
Un tenue
raggio di sole entrò lentamente dalle persiane della finestra posandosi sui
capelli di Nadine che stava ancora dormendo. Werner stropicciò gli occhi,
sollevando ancora un po’ la testa dal cuscino: il vestito a pois, tolto in
tutta fretta, giaceva arrotolato sulla sedia davanti al letto; la porta della
camera era ancora socchiusa, a dimostrazione che anche sua moglie non si era
alzata quella notte. In un istante, mille e mille pensieri affollarono la mente
di Werner e lo condussero a domandarsi come sarebbero stati i suoi trentacinque
anni senza l’amore di Nadine, come avrebbe reagito di fronte allo sfascio del
dopoguerra senza il suo sostegno, come avrebbe affrontato quel passare ogni
giorno da Berlino ovest a Berlino est e gli umilianti controlli dei militari
sovietici per recarsi all’ospedale senza il sorriso che lo attendeva la sera.
Era cambiato
in quegli anni: il ragazzo Werner, all’apparenza insensibile e menefreghista,
schiavo del conformismo ideologico, medico senza cuore che non considerava i
suoi pazienti come persone, era scomparso per lasciar posto all’uomo gentile e
rispettoso, combattivo nell’affermare il valore e la dignità di ogni singola
vita umana.
Decise poi
di frenare i suoi pensieri, di mettere da parte il suo passato e ciò che era
stato e di godersi quella tiepida domenica autunnale con la sua famiglia: una
passeggiata al lago, come promesso a Nadine; poi di nuovo a casa per il pranzo
e infine Messa alla Cattedrale di
Sant’Edvige[i]
e quattro passi in città. Ma all’improvviso Werner sentì bussare alla porta e
vide sua moglie scuotersi dal sonno. “ Chi può essere a quest’ora? ” fece il
dottor Hofmann rivolgendosi più che altro a se stesso mentre quel bussare
diventava sempre più prepotente. “ Nadine! … Nadine! ” A quella voce familiare,
Nadine balzò dal letto, afferrò la vestaglia dalla poltrona e, in tutta fretta,
la indossò correndo lungo il corridoio. Quando Werner giunse all’ingresso,
Nadine aveva già aperto la porta a sua cugina Edith, l’unica della famiglia
sopravvissuta alla Shoah. La ventenne, dall’espressione stravolta e il respiro
affannoso, aveva in mano un quotidiano. “ Nadine, c’è una cosa che dovresti
vedere. ” disse con voce tremante e le porse il giornale. Di colpo, Nadine
divenne pallida come un fantasma e Werner si avvicinò poggiandole una mano
sulla spalla. “ Nadine. ” sussurrò atterrito. Il nome del giornale era,
infatti, “Der
Hochmann” e su tutta la prima pagina era stampata una foto: quella di Nadine
nel campo di concentramento scattata da Kurt nel 1939. Sotto la foto c’erano
scritte due date: 1 luglio 1920 e 16 giugno 1940. La prima era la data di
nascita di Nadine e la seconda la data di morte di Kurt. Entrambe le date erano
attribuite alla ragazza della foto. Sopra la foto, un titolo a caratteri
cubitali: “Un volto per non dimenticare”. “ Dove l’hai trovato? ” fece Nadine
sconvolta, rivolgendosi alla cugina. La donna credeva, infatti, che il “Der
Hochmann” non fosse stato più pubblicato dopo la caduta del nazismo e che le
sue foto fossero state distrutte dal padre di Kurt tempo addietro. “ Sono
passata vicino all’edicola sotto casa mia e l’ho trovato. ” rispose Edith con voce più
calma. Nadine iniziò a sfogliare freneticamente il giornale e i tre insieme
videro tutte le foto scattate dal giovane Kurt nell’inverno del ’39: l’entrata
del campo di concentramento di Ravensbrück,
la recinzione, le baracche, l’appello delle prigioniere, il lavoro sulle rive
del lago di Schwedt,
il forno crematorio e, infine, Nadine. Nadine ragazza, così minuta da sembrare una bambina, seduta sul
terreno fangoso del lager, intenta a coprirsi il volto con le mani e, ancora,
Nadine in ginocchio con il braccio sinistro scoperto per mostrare il tatuaggio
inciso sulla sua pelle. Allora Nadine cominciò a ricordarne i momenti, a
sentire nella sua testa il rumore degli scatti della macchina fotografica di
Kurt e il suono della sua voce …
“Mettiti
in ginocchio … Scopriti il braccio sinistro in modo che si veda bene il
tatuaggio”.
“Così
va bene?”
“Sì,
va bene … Inclina il capo a destra e guarda fisso a terra … Non muoverti, mi
raccomando … Fatto! … Adesso siediti … Togliti il fazzoletto … Ecco, abbiamo quasi
finito! … Avvicinati che voglio fotografare solo il tatuaggio”.
Werner si girò nel letto e allungò il braccio, sicuro
di trovare ancora sua moglie ma lei non c’era. La trovò in cucina vestita in tailleur
blu, intenta a sistemare il giornale nella valigia che aveva poggiato sul
tavolo. “ Che stai facendo? ” le domandò preoccupato. Nadine si voltò solo dopo
alcuni secondi: gli occhi erano gonfi a causa della notte insonne e i capelli
raccolti nello chignon, questa volta con poca accuratezza. “ Ho deciso di
partire, Werner. ” rispose con tono fermo e continuò: “ Devo scoprire chi è
l’autore di quell’articolo, come ha fatto a conoscermi e … se è il padre di
Kurt, devo dirgli che io sono viva e che suo figlio è morto. ” “ Non andare
via, Nadine! ” esclamò Werner, prendendole il polso con delicatezza. “ Perché?!
Io ho bisogno di conoscere la verità! ” ribatté la donna, troppo convinta per
cambiare idea.Allora, il dottor
Hofmann tirò in ballo il loro figlioletto e disse: “ Come farò con Andrej? ” “ Ho parlato già con Edith, verrà lei ad
aiutarvi. ” rispose Nadine e, intanto, dalla strada si udì un clacson. “ è arrivato il taxi. ” fece la donna,
svincolandosi dalla presa di suo marito per poi correre alla finestra. “ Ti
avrei accompagnato io. ” affermò Werner deluso. Ma Nadine prese la valigia dal
tavolo e gli disse: “ Abbi cura di Andrej … Io tornerò presto. ” I due si guardarono profondamente
negli occhi: in entrambi traspariva un velo di malinconia. Si
abbracciarono. “ Nadine … ” Per un attimo, Werner pensò davvero di farcela. “
Dimmi, Werner. ” lo incoraggiò Nadine. Ma l’uomo scelse di dire ciò che era più
facile: “ … Ti amo. ” “ Anch’io ti amo, amore mio. ” rispose sua moglie. Werner
la abbracciò più forte come se in quella stretta volesse chiederle un qualche
perdono. “ Torna presto. ” le disse trattenendo a stento le lacrime. “ Te l’ho
già detto, Werner: tornerò presto. ” ribatté Nadine con dolcezza e per la prima
volta i due si divisero. Dai vetri della finestra inumiditi dalla pioggerellina
notturna, Werner vide la sua sposa salire sul taxi bianco e un senso di vuoto
lo invase. Poi dentro di lui si fece spazio la paura di non rivedere più Nadine
o di rivederla cambiata. Avrebbe voluto uscire di casa, correre in pigiama e
pantofole verso di lei, trattenerla ma ormai il taxi era partito e Nadine già
lontana.
Motore
danza, sento già che il dolore avanza. Respirerò lacrime e aria che mi sbronza. Danza, non potrei vivere abbastanza senza di
lei. Non potrei senza una speranza.
Umberto
Tozzi, Notte rosa
[i]Cattedrale cattolica dell’arcidiocesi
di Berlino. In tedesco “Sankt-Hedwigs-Kathedrale”.
Si trova in Bebelplatz a
Berlino, nel quartiere Mitte.
“Ci siamo
accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest'offesa, la
demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà
ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare:
condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci
hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci
ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il
nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di
fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo,
rimanga”.
Primo Levi, Se
questo è un uomo
Il binario morto di Ravensbrück, foto di Ambra Laurenzi
Il vagone era pieno di gente: donne di ogni età, anziane, ragazze
e bambine e madri con i loro figlioletti in braccio. Tutte erano in piedi,
attaccate le une alle altre tanto da non potersi neanche muovere e in un
fortissimo stato di shock. Nessuna di loro, infatti, si aspettava di vivere una
situazione del genere e così presto. Ad aggravare il tutto c’era il caldo, un
caldo opprimente, mai provato prima di allora in una città tanto fredda come
Berlino. Era il 2 luglio e il giorno prima Nadine aveva compiuto diciannove
anni. Le donne cominciarono a piangere e urlare e lo stesso fecero i bambini.
Il caldo, le urla, lo spazio ristretto, la puzza poiché quello in cui si
trovava doveva essere un treno per il trasporto del bestiame: Nadine si sentiva
impazzire. Portò le mani alle tempie e iniziò ad ansimare per il panico.
“Signora, si sente
bene?” Nadine si risvegliò dall’incubo che in realtà era un ricordo del suo
passato e guardò l’uomo che gentilmente le aveva posato la mano sulla spalla.
Era il controllore. In fretta, Nadine aprì la pochette e gli porse il
biglietto. “Signora, si sente bene? …” ripeté l’uomo. Nadine, infatti, era
molto provata. “… Se vuole le porto un po’ d’acqua.” aggiunse il controllore
con apprensione. “No, grazie. Sto bene, non si preoccupi.” affermò Nadine
calmandosi e l’uomo timbrò il biglietto. “Mi scusi, come potrei raggiungere Ravensbrück?”
Nadine era pronta a ritornare nei luoghi della sua persecuzione, per guardare
da vicino il suo passato e ciò che aveva dovuto affrontare da donna libera e
per lasciare un fiore su quella che era stata la tomba di Kurt. “Deve scendere
alla stazione di Fürstenberg, prendere
un taxi e in un quarto d’ora è già arrivata.” rispose il controllore con fare
professionale. “La ringrazio.” Nadine abbozzò un sorriso e volse lo sguardo al
finestrino. La sua espressione era estremamente malinconica.
Presto il treno si sarebbe fermato e lei avrebbe fatto i conti con il suo
passato. Un po’ ne aveva paura.
Il treno si fermò quasi
di colpo e la marea di donne poté finalmente uscire da quella trappola. Un
soldato delle SS afferrò Nadine per un polso e la catapultò fuori dal vagone
facendola cadere bruscamente a terra. Le diede un calcio e iniziò a inveire
contro le donne ebree. Tutti i soldati imprecavano mentre le donne
singhiozzavano per la paura. C’erano anche delle donne soldato che a gran voce
davano ordine alle donne ebree di mettersi in fila. La confusione era pazzesca:
le urla dei soldati, l’abbaiare dei loro grossi cani e i lamenti delle donne
che come Nadine erano sgomente per l’ignoto futuro che le attendeva. La giovane
Nadine era in fila tra le centinaia di donne in una triste marcia avvolta da
un’illusoria speranza. Lo splendido viale fiorito e le caratteristiche casette
tirolesi fecero sperare a Nadine che il lager non fosse poi così male. E invece
si sbagliava.
Nadine
era a un passo dal cancello di Ravensbrück e, per un attimo, ritornò diciannovenne; in
quel vestito blu a campana regalatole da sua madre il giorno del suo
compleanno, con i capelli lunghi e spettinati, confusa, spaventata. Si avvicinò
ancora di più fino a toccare con le punte delle dita il freddo cancello del
lager. Quello che era conosciuto come “l’inferno delle donne” non era molto
cambiato ma, a differenza di un tempo, regnava il silenzio. C’erano ancora
numerose baracche, il forno crematorio, l’infermeria e il famigerato ufficio.
Dopo un’interminabile notte insonne trascorsa nell’umidissimo
locale delle docce, Nadine insieme a tutte le altre donne fu costretta a
spogliarsi e a uscire in quel modo nel campo. Tanto fu l’imbarazzo per una
ragazza riservata come lei. Il sole splendeva alto nel cielo ma il suo calore
non bastava per fermare il tremore di Nadine che freneticamente stringeva tra
le mani il vestito e i suoi effetti personali. La lunghissima fila di donne
nude si fermò davanti ad una piccola baracca e lì Nadine rimase in piedi per
ore e ore prima di entrarvi.
Nadine
rivisse sulla propria pelle ciò che aveva provato in quei momenti di estenuante
attesa: il caldo che la faceva sudare, la sabbia e le pietruzze che le
pizzicavo i piedi, l’umiliazione nel ritrovarsi nuda davanti agli occhi dei
soldati che si scambiavano battute volgari sulle deportate. Le ricordò tutte.
Ma ancora di più ricordò la paura, quella paura tremenda per l’ignoto che la
attendeva dietro quella porta. In quel doloroso momento, Nadine avrebbe voluto
l’abbraccio di suo marito e ricordò che neanche a lui aveva raccontato ciò che
accadeva nell’ufficio.
La stanza era
tremendamente buia, considerando che fuori era pieno giorno e spoglia. L’unico
mobile presente in quell’ufficio era una lunga scrivania dietro la quale sedeva
un ufficiale delle SS, forse un tenente. Grasso, senza espressione, che
scriveva lentamente su un registro di colore nero. “Nome?” fece l’ufficiale con
voce atona. La ragazza aprì lievemente le labbra impastate per la sete e
sussurrò il suo nome: “Nadine Hoffen.” “Età?” continuò il tenente senza alzare
lo sguardo dal grande registro. “Diciannove.” rispose Nadine terrorizzata. Poi
una donna soldato le strappò di mano i suoi effetti personali e, dopo averli
gettati sulla scrivania, ne fece un minuzioso elenco: “Vestito blu a maniche
corte, borsetta beige con tracolla lunga, scarpe marroni con tacco basso,
catenina in argento con ciondolo a forma di cuore; contenuto della borsa:
specchietto quadrato in astuccio di pelle color marrone, fazzoletto di stoffa
bianco.” La donna dall’espressione altera mise il tutto in una busta di cartone
che Nadine non rivide mai più e la poggiò a terra in mezzo a tante altre. “Bene,
procedere con la perquisizione.” esclamò il tenente. Panico: cosa significava
in quel contesto la parola “perquisizione”? Un’altra donna soldato si avvicinò
alla giovane Nadine e la sua intimità fu violata, morì la sua dignità e a breve
anche la sua identità avrebbe fatto la stessa fine. “Pulita.” affermò la donna
che l’aveva perquisita e l’ufficiale pronunciò dei numeri: “9,5,0.” Solo poche
ore dopo Nadine capì il loro significato.
Come
in un tragico film, Nadine si rivide mentre le tatuavano sul braccio sinistro
quel numero e le rasavano i suoi bei capelli neri. Come allora, una lacrima le
rigò il viso e un singhiozzo uscì dalle sue labbra. No, Nadine non aveva
dimenticato il suo passato, si era soltanto illusa di averlo fatto. Ciò che le
era successo in quel campo era stato orrendo: per cinque lunghissimi anni, le
avevano strappato la libertà, la dignità e la stessa umanità. In quell’inferno,
lei diciannovenne era morta. No, Nadine non poteva dimenticare e forse non era
nemmeno giusto farlo. Strinse più forte il fiore che aveva portato per Kurt e
lo lanciò oltre la rete di filo spinato in ricordo di tutte le persone che come
lui avevano perso la vita a Ravensbrück: il piccolo Petru, la coraggiosa Grâce, le tante donne e bambini che aveva
conosciuto nel suo blocco. In un secondo ne rivide i volti, emaciati,
impauriti, senza speranza, spenti. E non tralasciò la sua stessa morte, la
morte di quell’aspettativa di vita normale e magari felice che si ha all’età di
vent’anni, quella morte che era poi divenuta rinascita grazie al suo Werner.
Io chiedo quando
sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.
Nomadi, La
canzone del bambino nel vento (Auschwitz)
che
vi sia uno che la esprima e un altro che la comprenda”.KahlilGibran
Nadine
scese celermente dal taxi e alzò gli occhi: la grande insegna “Der Hochmann”
sovrastava quello che tutto sommato era un piccolo edificio. Con tre piani, due
porte d’ingresso, tante finestre e verniciata di color ocra così si presentava
la sede dello storico giornale di Fürstenberg/Havel, un tempo di
propaganda nazista. La donna entrò dalla porta alla sua destra, ritrovandosi
davanti a una lunga scrivania dietro la quale sedevano tante persone
occupatissime a scrivere a macchina e a parlare a telefono. Si avvicinò a una
ragazza bionda con grossi occhiali da vista neri e una lunga coda di cavallo. “Mi
scusi …” le disse “… è possibile
parlare con il signor Hochmann?” “Ha un appuntamento?” fece
la giovane con tono quasi annoiato. “No, ma è importante!” rispose Nadine
sicura. “Mi dispiace, signora, ma non è possibile. Se vuole, le fisso subito un
appuntamento per la prossima settimana.” Le parole della ragazza non
scoraggiarono Nadine che però si vide costretta a uscire dalla sede del “Der
Hochmann”. Subito, una ventata di aria fredda le sferzò il viso e, facendo una
smorfia, chiuse gli occhi per proteggerli dalla polvere. “Ragazze, ma ci
rendiamo conto che questa è la seconda volta che facciamo tardi?! Il signor
Hochmann ci licenzierà tutte, ne sono sicura!” Nadine aprì gli occhi all’udire
questa giovane voce dal tono disperato. “Non agitarti troppo, Gabriela. Questa
volta entreremo dal retro e, se saremo fortunate, nessuno si accorgerà del
nostro ritardo.” All’udire ciò, Nadine ebbe un’idea e si girò di scatto verso
il gruppetto di ragazze. Ne erano sei, tutte vestite in tailleur scuri e tutte con i capelli raccolti in
chignon, alcune indossavano occhiali da vista. Le seguì nella loro corsa verso
il retro, si confuse fra loro e con loro entrò di nascosto nella sede del
giornale attraverso una porta stretta di colore rosso sopra la quale c’era
scritto un divieto d’accesso. Un po’ si vergognò del suo comportamento ma
questo era l’unico modo per conoscere e per far conoscere la verità. Lei e il
padre di Kurt ne avevano pieno diritto! Mentre percorreva i lunghissimi
corridoi del primo piano dalle pareti verniciate di un bel verde acqua, Nadine
ripeteva nella sua testa le parole da dire al signor Hochmann e si
domandava quale sarebbe stata la sua reazione. Forse l’avrebbe incolpata
dell’orribile morte di suo figlio, avrebbe urlato contro di lei la sua rabbia,
l’avrebbe cacciata via e di questo Nadine aveva paura. Ma non gli avrebbe dato torto. Adesso che
anche lei era madre poteva capire pienamente il dolore, la rabbia, l’angoscia,
il vuoto che si prova per la perdita di un figlio. Al solo pensiero di poter
perdere il suo piccolo Andrej,
Nadine rabbrividiva. Alla fine del lungo corridoio, la donna trovò finalmente
l’indicazione che cercava su una targa bianca posta in alto alla parete:
l’ufficio della direzione era al terzo piano, alla stanza numero venticinque. La
porta dell’ufficio era semiaperta e Nadine, prima di bussarvi, sbirciò
all’interno della stanza. Davanti alla finestra c’era un uomo in piedi e di
spalle, con una mano poggiata su un mobiletto pieno zeppo di giornali e l’altra
che reggeva una sigaretta. Curvo e immobile, immerso nella luce fioca della
stanza e probabilmente nella tristezza dei suoi pensieri, l’uomo sembrava il
protagonista di un quadro del più disperato tra i pittori. Nadine capì subito
che quell’uomo non era il padre di Kurt. I suoi capelli non erano bianchi, le
sue mani non erano segnate dal tempo e la sua corporatura non era quella di un
sessantenne. Nadine pensò che quell’uomo fosse un collaboratore del signor Hochmann
o un dirigente del giornale. Nonostante ciò, dovette farsi ugualmente coraggio
per bussare alla porta. “Lydia, lascia quei documenti sulla scrivania e, quando
esci, chiudi la porta per favore.” esclamò l’uomo con voce autorevole senza
voltarsi e Nadine bussò di nuovo alla porta. “Buongiorno …” disse con fare
sicuro “… Dovrei parlare urgentemente con il signor Friedrich Hochmann.” A
quelle parole, l’uomo si voltò e tutto accadde in meno di un secondo. I due si
scambiarono uno sguardo, Nadine sbiancò di colpo, l’uomo sconvolto lasciò
scivolare la sigaretta a terra. Nadine non aveva esitato neppure per un istante
a riconoscerlo, aveva subito capito chi si nascondeva dietro quel volto
sfigurato da innumerevoli cicatrici, ma non voleva crederci e pensò che le ore
d’insonnia e di viaggio le avessero giocato uno strano scherzo. “Nadine?”
“Kurt?” E tutto divenne improvvisamente buio.
Quando
Nadine riprese i sensi, si ritrovò sdraiata su un
divano con la camicetta un po’ sbottonata e due ragazze che la osservavano
preoccupate. “Sta riaprendo gli occhi! Sta riaprendo gli occhi!” esclamò una
delle due con tono molto agitato.Pian
piano, Nadine si mise a sedere - sentiva la testa
come schiacciata da un grosso macigno - mentre l’altra ragazza le porse un
bicchiere d’acqua che però non prese. Nadine era
troppo sconvolta e frastornata per quella verità che aveva dinanzi. Quell’uomo,
Kurt, era lì, immobile, di fronte a lei, col volto ferito … vivo. Sì, Kurt era
vivo e adesso la guardava con apprensione e meraviglia. Dopo alcuni istanti di
esitazione, l’uomo s’incamminò verso di lei zoppicando. Si accovacciò e la
guardò profondamente negli occhi, in quegli occhi nocciola, gli unici in grado
di confermare chi lei fosse. Kurt già sapeva che dietro quell’immagine di
donna, dal viso lievemente truccato, dai capelli raccolti in uno chignon
spettinato, dalle forme del corpo armoniose, si nascondeva la ragazza
conosciuta a Ravensbrück
ma le chiese ugualmente: “Tu sei davvero Nadine?” Lei
distolse per un attimo lo sguardo e, trattenendo a stento lacrime convulse,
rispose con un’altra domanda: “Tu eri morto! … Sei morto tra le mie braccia! …
Non può essere vero! … Cos’è successo?!” E la memoria di Kurt andò a quel
giorno …
16 giugno 1940, campo
di concentramento di Ravensbrück
Kurt iniziò ad
avvertire dolori lancinanti in tutto il corpo, in particolare gli bruciava la
faccia e, a ogni respiro, provava una fitta al naso. Tentò di aprire gli occhi
ma gli fu impossibile: il dolore era troppo forte. Il giovane era fisicamente
distrutto e mentalmente confuso. Immaginava di essere morto e si domandava il
perché di quel male. Pensò di essere capitato in un girone dell’inferno e ne
ebbe la conferma quando capì di essere completamente nudo e sporco di fango.
Non era riuscito a salvare Nadine dal lager e quella
sarebbe stata la sua eterna punizione. Dietro di lui c’erano alcuni cadaveri di
donna ma questo Kurt lo avrebbe appreso più in là. Con sforzo disumano, riuscì
lentamente a sedersi e, all’improvviso, udì una voce in lontananza: “Ehi, tu …
Stai fermo … Vengo a prenderti.” Il giovane era sempre più confuso. Fu
sollevato e sorretto da quell’uomo che, con espressione angosciata, disse:
“Povero ragazzo … Guarda come l’hanno conciato … Povero figliolo.”
Quell’uomo si chiamava
Franz, aveva cinquant’anni e apparteneva alla Widerstand[i]. Fratello di un gesuita,
sin dal 1933, si era opposto al nazismo e, con l’inizio delle deportazioni, si
aggirava per la Germania in cerca di qualche anima da salvare. Grazie al
coraggio e alla generosità di quell’uomo - che lo accolse nella sua casa, lo
fece curare e lo tenne con sé come un figlio -, Kurt ebbe la possibilità di
salvarsi e di riprendersi, dopo la guerra, la sua vita.
“Dopo la guerra ti ho
cercato, Nadine …” esordì Kurt, dopo averle
raccontato di quel giorno “… Sono ritornato a Ravensbrück per sapere se ce
l’avessi fatta ma senza risultato. Per anni ho vissuto col senso di colpa per
non averti portato via da quel posto.” Entrambi erano seduti sul divano e
bevevano una tazza di camomilla. “Ma come hai fatto a sopravvivere, Nadine?” continuò l’uomo ancora meravigliato. La signora Hofmann si alzò e,
dandogli le spalle, disse: “Sono stati anni molto duri. Ogni giorno pensavo che
sarebbe stato l’ultimo della mia vita. Ho subito enormi crudeltà … Beh, io lo
considero un miracolo … E tu come hai passato gli anni della guerra?” “Con la famiglia di Franz
passavamo di casa in casa, di città in città e nell’ultimo periodo ci
nascondevamo nei boschi per fuggire ai nazisti …” rispose Kurt e aggiunse: “…
Franz era già morto. Era stato scoperto da un soldato delle SS mentre tentava
di salvare una bimba da un rastrellamento. Per me era come un padre.” Poi Nadine gli chiese dei suoi genitori e di Käthe …
I coniugi Hochmann si
separarono nell’inverno del 1942. Friedrich e Ingrid s’incolpavano a vicenda
della scomparsa del figlio, le loro liti erano sempre più violente e per il
bene di Käthe avevano deciso di lasciarsi. Ma, nel
frattempo, la ragazza - trascurata dai genitori perché chiusi nel guscio del
loro dolore e sprofondati nell’abisso dei sensi di colpa, attratta dallo strano
fascino della divisa e soggiogata dall’ideologia che dominava la Germania -
perse la testa per un capitano delle SS di dieci anni più grande di lei. Da
subito, quell’uomo si era rivelato un violento arrivando persino ad alzare le
mani sul suo futuro suocero per una piccola divergenza di opinioni. Plagiata
dal nazista, la giovane Käthe abbandonò gli studi e i
suoi sogni e si sposò dopo pochi mesi di fidanzamento.
“Mia sorella ha vissuto quattro anni d’inferno.
Quell’essere, che non merita nemmeno di essere chiamato per nome, la
rinchiudeva in casa, la picchiava, la violentava. La picchiava anche in
gravidanza quel bastardo!” il tono di Kurt divenne arrabbiato “Grazie a Dio, il
processo di Norimberga ha posto fine alla sua orrenda prigionia … Lo
arrestarono e, prima di essere giudicato, si tolse la vita con del veleno.”
“Povera Käthe.” affermò Nadine
con le lacrime agli occhi e Kurt continuò dicendo: “Käthe
adesso sta bene. Vive da sola con suo figlio e, pian piano, sta rimettendo
insieme i pezzi della sua vita per ricominciare tutto daccapo.”
Dopo la separazione da sua moglie, Friedrich si
mise alla ricerca del figlio partendo dalle fotografie di Ravensbrück. Si recò al
lager e lì i suoi occhi iniziarono ad aprirsi. Capì che cos’era in realtà il
“campo di rieducazione” femminile e da dove proveniva quella cenere che ogni
mattina trovava sulla sua macchina. La sera stessa, ritornando a casa, assisté
all’uccisione di un bambino autistico durante un rastrellamento e, a questa
scena, fu il suo cuore ad aprirsi. In meno di un secondo, Friedrich ritornò
uomo, ritornò padre e, da un giorno all’altro, fece del “DerHochmann” un giornale di opposizione al nazismo. Era
l’autunno del 1943.
“Mio padre fu
abbandonato da tutti i suoi dipendenti. Rimase da solo a scrivere e denunciare
gli abusi dei nazisti …” affermò Kurt, mostrando un certo orgoglio “… E, poco
tempo dopo, le SS fecero irruzione nel suo ufficio, in quest’ufficio. Lo
trascinarono in strada e, senza un processo, senza una sentenza, lo impiccarono
a quel palo della luce.” Glielo indicò dalla finestra e, con voce angosciata,
continuò il suo racconto: “Mia madre fu arrestata nello stesso giorno e portata
a Dachau perché moglie di un traditore. Da lì non ha
fatto più ritorno.” Nadine e Kurt si scambiarono uno
sguardo. Nei loro occhi si leggevano la stessa malinconia, la stessa resa a
quel passato brutale, la stessa voglia di un futuro migliore. I loro erano gli
occhi di due sopravvissuti.
“Kurt, sono molto
stanca. Sapresti indicarmi un albergo?” domandò Nadine
e Kurt, abbozzando un sorriso, rispose: “Vieni a casa mia. Ti farò conoscere la
mia famiglia.”
Quante sere
ho consumato a tempestarmi di domande,
“L’amore
si paga solo con l’amore e le piaghe dell’amore si guariscono solo con
l’amore”.
Santa
Teresa di Lisieux
Città di Berlino, settembre 1940
“Otto, dimmi: come sta il ragazzo?” Il signor Franz balzò dalla
poltrona del salotto non appena il dottore, suo carissimo amico e sostenitore
della sua “missione”, uscì dalla stanza dopo aver visitato Kurt. “Pian piano,
sta riprendendo le forze ma avrebbe bisogno di qualche operazione chirurgica al
viso. Io non posso operarlo, Franz, perché non è mia competenza.” rispose il
medico estremamente dispiaciuto e, mettendogli una mano sulla spalla, continuò:
“Ma se devo essere sincero, in questo momento, mi preoccupa di più il suo stato
di salute mentale.”
Kurt era, infatti, ossessionato dal ricordo di Nadine. La sua immagine
appariva in ogni angolo della stanza e, continuamente, il suo fantasma sedeva
ai piedi del letto sul quale era immobilizzato a causa delle innumerevoli
fratture. In questo delirio, Nadine implorava il suo aiuto e lo incolpava di
non averla portata via dall’inferno di Ravensbrück. E Kurt, senza
sosta, urlava il nome della sua amata e invocava il suo perdono.
Incurante del dolore,
il giovane tentò di alzarsi dal letto precipitando inevitabilmente a terra. “Perché?!...
Non doveva andare così!... Perche?!!... Lei doveva vivere, non io!... Nadine,
perdonami!... Perdonami!!... Adesso tornerò da te!” urlava e, piangendo in
maniera convulsa, iniziò a strisciare verso la porta della stanza. Le sue
strazianti urla richiamarono l’attenzione del signor Franz e del dottor Otto
che si precipitarono nella stanza per aiutarlo. Ogni tentativo fu vano. Kurt si
dimenava violentemente, batteva i pugni sul pavimento, continuava a piangere e
urlare e, per evitare che si facesse del male, il medico gli iniettò un
tranquillante. “è più grave di
quanto pensassi.” affermò il dottore …
Berlino
ovest, 9 ottobre 1950
Quel
giorno, Werner decise di non andare in ospedale: i troppi pensieri che
affollavano la sua mente gli avrebbero impedito di lavorare in pace. Gli
mancava Nadine; gli mancava quasi da togliergli il respiro; gli mancava perché
temeva di perderla. Il dottor Hofmann rimase quindi a casa con suo figlio e,
mentre lo guardava giocare, ripensava a tutti i suoi sbagli, a uno in
particolare. Ripensò agli anni vissuti da medico antisemita, ai malati che
aveva visto uccidere senza far nulla, alle terribili e false teorie descritte
nelle sue tesi. Sì, le sue tesi. Le stesse che Nadine aveva scoperto dopo il
loro matrimonio. La giovane sposa conosceva già l’oscuro passato di suo marito
ma leggere quei documenti era stato ugualmente sconvolgente per lei e ancora di
più l’aveva delusa quella mancanza di fiducia nei confronti suoi e del suo
amore. Ci volle un po’ di tempo per sanare la frattura e, solo dopo l’arrivo
del piccolo Andrej,
Werner ricevette da sua moglie il sospirato perdono. Ma questa volta sarebbe
stato diverso. Era certo che la sua Nadine, davanti ad una nuova e più
sconvolgente verità, non l’avrebbe perdonato come allora e sarebbe scappata via
portando con sé anche il loro bambino. Werner non riuscì più a contenersi e,
allontanatosi da Andrej, in un’altra stanza, scoppiò in un pianto sommesso.
Città di Berlino, febbraio 1941
Come ogni mattina, Engel mise la colazione sul comodino e aprì le tende
della finestra. Engel era la più piccola delle tre figlie di Franz, aveva diciannove
anni ed era l’unica rimasta a casa con suo padre, vedovo da ben oltre dieci
anni. Era lei che si prendeva cura di Kurt. Dal carattere forte e tenace, la
ragazza seguiva coraggiosamente suo padre nella Resistenza ed era con lui
quando Kurt fu ritrovato agonizzante fuori al campo di concentramento di Ravensbrück. Il giovane,
intanto, iniziava a metabolizzare il dolore per la perdita della sua amata.
Aveva smesso di piangere e dibattersi ma ancora non aveva trovato la forza di
reagire e rialzarsi da quel letto. Viveva in una sorta d’incoscienza.
“Per quanto tempo
ancora pensi di vivere in questo modo?” iniziò a dire Engel “Devi reagire!...
Coraggio, parlami un po’ di te!” Kurt non rispose e la guardò. La ragazza
portava sempre i pantaloni e i capelli legati in una coda di cavallo. “Io
conosco il tuo dolore, so benissimo cosa significa perdere una persona cara.”
Engel riprese a parlare e sedette sul letto, accanto a lui “Ma prova a
trasformare il tuo dolore in rabbia, una sana rabbia che a sua volta deve
trasformarsi in desiderio di giustizia. Vieni con noi, Kurt!” la ragazza gli
mise una mano sul braccio e, guardandolo profondamente negli occhi, continuò:
“Aiutaci a salvare quelle persone innocenti!... Innocenti, come lo era Nadine.”
Kurt ricambiò lo sguardo e, inaspettatamente, iniziò a raccontarle di lui, di
Nadine e del loro amore. Engel lo ascoltava con attenzione, poi con trasporto,
finché non accadde l’inevitabile: in lei si accese un sentimento mai provato
prima. Engel s’innamorò di Kurt e del suo modo di amare. S’innamorò di
quell’amore fatto coraggio spingendosi oltre fino al sacrificio, di quell’amore
che gli era bruciato dentro fino a diventare cicatrici sulla sua pelle. Qualche
tempo dopo, il giovane se ne accorse e anche in lui cominciò a muoversi
qualcosa.
Città di Berlino, marzo 1941
Engel apparve sull’uscio della stanza in un vestito beige chiarissimo,
i capelli biondi sciolti e un’espressione dolce sul viso. Quella sera, la
ragazza sembrava davvero un angelo. “Engel, vieni qui.” Kurt la chiamò “Ho
freddo.” e la ragazza s’infilò nel suo letto …
E da allora solo oggi non farnetico
più.
A guarirmi chi fu?
Ho paura a dirti che sei tu.
Ora noi siamo già più vicini.
Io vorrei … non vorrei … ma se vuoi
…
Lucio Battisti, Io vorrei … non
vorrei … ma se vuoi …
“La verità deve
cadere come un fulmine, altrimenti non ha alcuna efficacia”.
Elias Canetti
Foto Lucia Bosè
Città di Fürstenberg/Havel,
9 ottobre 1950
“Non mi sembra ancora vero che tu sia qui, Nadine.” Kurt distolse per un attimo
lo sguardo dalla strada e lo rivolse a lei che guardava fuori dal finestrino.
Nadine ricambiò lo sguardo e, con espressione serena, disse: “Anch’io ti guardo
e non mi sembra ancora vero.” La donna osservava le strade deserte della città,
i grandi palazzi sorti dalle ceneri della guerra, le boutique eleganti chiuse a
quell’ora del pomeriggio e rifletteva sugli eventi da poco accaduti. Era
partita credendo di consegnare la verità a un padre disperato, aveva rivissuto
il suo tragico passato a Ravensbrück e adesso era in macchina e parlava con un uomo che
dieci anni prima aveva esalato l’ultimo respiro della vita tra le sue braccia,
l’uomo che aveva amato prima di Werner: Kurt, un fantasma, un uomo in carne ed
ossa. Quella realtà le sembrava così irreale. Presto avrebbe conosciuto la
famiglia dell’uomo incontrato dietro la rete di filo spinato, amato sul letto
di una squallida infermeria, poi odiato e infine dimenticato tra il dolore e le
fatiche del lager. Ma adesso non provava né odio né rabbia verso Kurt che, come
lei, era miracolosamente scampato alla morte ed era riuscito a costruirsi una
nuova vita. La realtà serbava tante sorprese. I loro sguardi s’incrociarono di
nuovo e, in un rapidissimo istante, entrambi rividero tutte le immagini della
loro breve e travagliata storia d’amore. In quel ricordo, svanirono i sensi di
colpa di Kurt e l’impercettibile rancore di Nadine si dissolse.
La casa di Kurt non
distava molto dalla sede del giornale e si trovava all’ultimo piano di un
palazzo d’epoca. Parlando con respiro affannoso, i due giunsero sul
pianerottolo e, subito, una donna – dai capelli biondi e gli occhi verdi da
cerbiatta – aprì la porta. Guardò Nadine con meraviglia, poi rivolse uno
sguardo interrogativo all’uomo che le disse: “Engel, lei è Nadine.” “Nadine?!”
fece la donna scioccata e Kurt continuò: “Sì, è davvero incredibile … Nadine,
lei è Engel, mia moglie.” Le due donne si strinsero la mano e, non appena
entrarono in casa, una bambina dall’espressione felice corse verso di loro. “Papà!”
urlò, aggrappandosi alla gamba di Kurt. Quest’ultimo la prese in braccio e,
sorridendo, si rivolse di nuovo a Nadine: “E lei è mia figlia Brigit.” La donna
accarezzò la guancia della piccola e disse: “Sì, è tale e quale a te.” E,
improvvisamente, il sorriso di Kurt si spense …
“Ho adottato Brigit
nell’estate del 1945, subito dopo la fine della guerra. Aveva soltanto tre
mesi. I suoi genitori erano due ragazzini. Suo padre aveva diciotto anni, era
un disertore, sua madre era una nipote di Franz e aveva soltanto sedici anni.
Facevano parte della Resistenza, combattevano insieme a noi e persero la vita
durante gli ultimi giorni del conflitto.” le raccontò Kurt. Lui e Nadine erano
da soli nello studio davanti a una tazza di caffè. “Anche il mio Andrej è nato
prima della fine della guerra ma dei suoi genitori so ben poco. So soltanto che
erano di origine polacca, nient’altro.” ribatté la donna con gli occhi velati
dalla commozione. I due parlavano con molta naturalezza e confidenza come se
quei lunghissimi dieci anni fra loro non fossero mai passati. Non ancora
trentenni e ancor prima di sposarsi, entrambi avevano capito di poter generare
alla vita anche senza concepire: Kurt nelle persone – uomini, donne e bambini –
che salvava insieme al signor Franz e Nadine nelle donne e nei bambini che
aiutava a Ravensbrück. “L’anno successivo sposai Engel ma non abbiamo avuto più
figli.” aggiunse il signor Hochmann e la donna iniziò a raccontargli
dell’esperimento medico subito. “Dopo la perdita dell’utero, contrassi una
grave infezione e subito dopo il tifo ma grazie a Dio la guerra finì, il campo
fu liberato e un medico mi salvò la vita …” Anche gli occhi di Kurt si velarono
di lacrime e, mentre accendeva una sigaretta, Nadine continuò: “… Si chiamava
Werner, l’uomo che poi è diventato mio marito.” “Werner?” domandò Kurt con aria
stranamente stupita. “Sì, si chiama Werner.” rispose Nadine, alquanto sorpresa
per l’espressione dell’uomo e poi, di scatto, si alzò dalla poltrona
chiedendogli di fare una telefonata.
La signora Hofmann si
recò nel corridoio, dov’era il telefono e chiamò suo marito. “Werner, tesoro,
non ci crederai ma … ma Kurt è … è ancora vivo.” gli disse con voce agitata
“Adesso sono a casa sua e …” “Nadine …” Werner la interruppe “Io già sapevo che
Kurt era vivo.”
Capitolo 11 *** Verità negata - Seconda parte - ***
Capitolo 11
Verità negata
- Seconda parte -
“La verità è
come il cauterio del chirurgo: brucia, ma risana”.
Riccardo
Bacchelli
Foto Jesse
Gordon Spencer
Città di Fürstenberg/Havel,
28 agosto 1946
La giornata in ospedale si prospettava molto lunga e impegnativa per il
dottor Hofmann, o meglio per il “dottorino”, perché così era soprannominato
Werner da colleghi e pazienti per la sua giovane età. A soli venticinque anni,
infatti, aveva iniziato a lavorare come medico chirurgo e il merito non era
soltanto della sua eccezionale bravura con il bisturi. Suo padre era il
primario del reparto di chirurgia dell’ospedale di Berlino e, durante la
guerra, aveva partecipato all’Aktion T4[1].
Ma, a differenza di Werner, lui non viveva nel rimorso. Anzi, per amore di
quella spregevole ideologia ormai sconfitta, aveva addirittura disconosciuto il
suo unico figlio maschio dopo aver saputo della sua relazione con Nadine:
un’ebrea, una sopravvissuta, un obbrobrio per il buon nome della famiglia.
Hofmann, infatti, non era il vero cognome di Werner. Con Nadine, aveva perso
tutto – la sua famiglia, il suo nome, il suo lavoro nella capitale, la sua
eredità –, guadagnando l’immenso che solo l’amore può donare. Del suo passato
aveva chiesto perdono a Dio ma ciò non gli era bastato e adesso, per redimersi,
curava le vittime della guerra spesso senza chiedere alcuna ricompensa. In quel
caldo pomeriggio di fine agosto, il giovane dottore aveva già operato ben
quattro bambini dal volto sfigurato per lo scoppio di una bomba. Era
sconvolgente il fatto che creature innocenti fossero state le maggiori vittime
di quell’assurda guerra.
Werner sciacquò il viso impregnato di sudore e, subito dopo essersi
asciugato, aprì la porta dello studio per far entrare un altro paziente. “Il
prossimo?!” disse, affacciandosi sull’uscio. Tra le tante persone che, sedute,
attendevano il proprio turno, un giovane si alzò. Aveva il volto completamente devastato
da cicatrici, il setto nasale deviato e un labbro spaccato e, in più, era
claudicante. “Si accomodi …” fece Werner, indicandogli la poltrona e continuò:
“Allora … Mi dica!” Il giovane sorrise in maniera quasi ironica e rispose:
“Penso che la mia situazione clinica sia abbastanza evidente, dottore. In più,
ci vedo poco dall’occhio sinistro e quasi mi manca l’udito dall’orecchio
destro.” “Cercherò di fare il possibile per lei.” ribatté Werner con
espressione seria e decisa e, alzandosi dalla poltrona, gli disse: “Io
comincerei dal naso.” Il dottore si avvicinò al paziente e, con un pennarello
nero, iniziò a tracciargli dei segni per un’eventuale settoplastica[2]. “Posso
chiederle com’è successo?” domandò Werner e il giovane, dopo un lunghissimo
sospiro, rispose: “Durante la guerra, facevo parte della Resistenza. Un giorno,
un gruppo di SS mi catturò e mi ridusse in questo stato. Sono vivo solo per
miracolo.” “Mi dispiace.” affermò il dottore. Con Nadine, Werner aveva anche
imparato a immedesimarsi nei dolori e nelle gioie degli altri. “Beh, il peggio
è passato …” fece il giovane paziente “… Adesso voglio soltanto ricominciare,
migliorare il mio aspetto e riprendere la mia vita, il mio lavoro e la mia
dignità!” “Allora … Facciamo presto!” il dottor Hofmann accennò un sorriso
“Compiliamo la scheda.” Prese una biro e iniziò a fare le solite domande.
“Nome?”
“Kurt.”
Di Kurt ce n’erano a migliaia in Germania ma Werner non poté fare a meno
di pensare al passato della sua futura sposa.
“Cognome?”
“Hochmann.”
Questa risposta fu come un pugno nello stomaco per il giovane dottore
che, a stento, riuscì a mantenere la calma.
“Data di nascita?”
“29 aprile 1917.”
“Luogo
di nascita?”
“Fürstenberg/Havel.”
“Professione?”
“Fotografo. E presto dirigerò il giornale di mio padre.”
Werner sbiancò, tutto coincideva: quel giovane era Kurt, il primo amore
di Nadine …
Il tempo è pieno di sorprese
e qualche volta ci assomiglia,
si sogna e si sbaglia
e ci si spegne sempre un po’.
Pooh, Cercando di te
[1]Programma
nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva l’uccisione di
persone affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni
fisiche. Le vittime dell’Aktion T4 furono circa
200.000 persone.
[2]Intervento
chirurgico che si esegue in anestesia generale per raddrizzare il setto
nasale.
Capitolo 12 *** Paure, bugie e fiori d’arancio ***
Capitolo 12
Paure,
bugie e
fiori d’arancio
“L’amore deve
tutto osare quando ha tutto da temere”.
Kahlil Gibran
Kurt, il primo amore di Nadine, era
vivo. Non era più il fantasma di un tragico passato da dimenticare, ma un uomo
in carne ed ossa; un uomo ferito, dall’aspetto martoriato, ma ancora vivo.
Werner era sconvolto. Tentando di nascondere il suo stato d’animo, gli diede
appuntamento per il giorno successivo e lo accompagnò alla porta. Werner non
riusciva ancora a crederci. Quel giovane era Kurt, colui che aveva lottato con
tutte le sue forze e messo a repentaglio la propria vita pur di difendere
Nadine e liberarla dalle catene di Ravensbrück. Werner cominciò a sentirsi male e chiese a un
suo collega di sostituirlo. Kurt, l’eroe morto cinque anni prima per la sua
amata, adesso risorgeva dalle sue ceneri. Il giovane dottore non poté più
resistere e, toltosi il camice, vomitò. Per un istante, si sentì svuotato
dell’amore di Nadine ed ebbe paura. Provò una sensazione di vulnerabilità, la
stessa di quando le bombe si abbattevano sulla città e lui cercava un riparo
sicuro tra i reparti dell’ospedale oppure di quando i russi lo braccavano e lui
invano scappava. Come allora, era stato violentemente catturato, sorpreso da un
passato che adesso non poteva far altro che torturarlo. La paura di perdere la
sua futura sposa cominciò ad assalire il giovane Werner, a stringergli le
viscere, a tormentarlo nell’anima. Ormai, era stato gettato nel buio di un
tunnel profondo dove l’unica via d’uscita era altrettanto buia: nascondere a
Nadine la verità e quindi mentirle, una seconda volta. Era certo che, se lei
avesse saputo di Kurt, avrebbe perso il suo equilibrio ancora troppo precario
e, sconvolta, avrebbe spostato la data del loro matrimonio o addirittura lo
avrebbe annullato. Werner non voleva perdere la sua Nadine e il loro sogno
d’amore che presto sarebbe diventato realtà, sigillato con il sacro vincolo del
matrimonio. Per lei era stato disprezzato dai suoi cari e sradicato dalle sue
sicurezze e adesso non temeva di sentirsi vigliacco, incrociando lo sguardo
della sua amata e bugiardo, pronunciando quel sì dinanzi a Dio. Il giovane
dottore era uscito dalla sua tempesta interiore attraccando all’unico porto
sicuro: il silenzio. Tornato a casa, non avrebbe raccontato a Nadine del suo
incontro con Kurt. Forse, pensò per darsi un’ulteriore giustificazione, anche
lui aveva una persona accanto e stava per rifarsi una vita e non era giusto
sconvolgergliela. E, qualche giorno dopo, prima di operarlo, ne ebbe la
conferma.
Werner tornò a casa e trovò Nadine seduta al tavolo della cucina
che confezionava le bomboniere del loro matrimonio. La bellezza della sua
futura sposa era sbocciata come un fiore in pieno inverno, il suo corpo
iniziava a guarire dalle ferite di Ravensbrück, la sua anima finalmente gioiva
di speranza e in ogni suo sguardo, in ogni sua parola, in ogni suo gesto
traspariva l’emozione per il grande giorno. Il giovane si avvicinò e le diede
un bacio sonoro sulla guancia. Poi si fermò a guardarla e Nadine, dietro quel
suo sguardo incantato d’amore, riuscì a scorgere in lui qualcosa che non
andava. “Che c’è, amore? …” gli chiese preoccupata “… Hai l’aria di uno che ha
visto un fantasma!” Senza volerlo, Nadine aveva centrato il problema. “Ho visto
la sofferenza, tanta.” rispose, celando il vero motivo del suo stato d’animo e
la ragazza continuò: “Ancora bambini, vero?” Werner annuì con la testa e poi
subito cambiò discorso. “Ho pensato che potremmo trasferirci a Berlino, lì
avrei più possibilità di trovare un lavoro migliore.” disse, temendo un
possibile incontro tra Kurt e Nadine. Lei non sembrò molto contenta di questa
proposta: Berlino era la città della sua infanzia e delle sue speranze infrante
ed era una delle città più tormentate della Germania del dopoguerra. Preferiva
restare a Fürstenberg/Havel e
ricominciare lì la sua vita. Ma Werner non si arrese e tirò fuori il suo asso
nella manica. Aprì la ventiquattrore e, con un sorriso larghissimo, le porse un
giornale. “Guarda, amore …” le disse raggiante “… La casa dei tuoi sogni, con
il tetto rosso e un piccolo giardino e il prezzo non è nemmeno eccessivo,
possiamo permettercela!” Nadine iniziò a illuminarsi e Werner aggiunse: “Poi a
Berlino c’è tua cugina Edith, è sola e potrà darci una mano quando arriverà il
nostro bambino.” La ragazza si commosse e, piangendo di gioia, abbracciò
fortemente il suo futuro marito. Werner l’aveva convinta e, due settimane dopo,
era ai piedi dell’altare ad aspettare impaziente l’arrivo della sua amata
vestita di bianco. Fu un’emozione grandissima quando l’organista intonò l’Ave
Maria di Schubert mentre Nadine varcava il sagrato della chiesa e quasi gli
mancò il fiato quando, sollevandole il velo, vide il suo viso dolcissimo
perfettamente incorniciato dal taglio di capelli alla garçonne[i].
Perdendosi negli occhi lucidi della sua futura sposa, Werner dimenticò
l’incontro con Kurt, tralasciò l’assenza e il disprezzo dei suoi genitori e si
spogliò del suo terribile passato. Al momento del sì, fu lui a piangere per la
commozione.
È quando tutti i giuramenti
fatti a te saranno inganni
alla vita che, stupita, sbanderà.
Amarsi è prima di capire,
è rimbambire la ragione in noi.
Non è la verità, che più la dici
e meno baci avrai.
È l’illusione mia che è vera.
Amedeo Minghi, Cantare è d’amore
[i] Taglio di
capelli molto corto, alla maschietta.
“Non ci può
essere profonda delusione dove non c’è un amore profondo”.
Martin Luther
King
Città di Fürstenberg/Havel, 9 ottobre 1950
“La verità è che non hai mai creduto nel mio amore!” ribatté Nadine,
alzando il tono della voce senza nemmeno accorgersene. “Lascia che ti spieghi
meglio, amore …” continuò Werner inutilmente. “Quale amore?! …” lo interruppe
la donna ancora più arrabbiata “… è
finita!” e gli attaccò il telefono in faccia. Nadine era davvero su tutte le
furie. Si sentiva tradita da suo marito, ingannata, usata, trattata come una
bambolina immeritevole di conoscere la verità e farne ciò che riteneva più
giusto. Avrebbe sposato ugualmente Werner, pur sapendo di Kurt e non avrebbe
trascorso altri cinque anni tormentata dai sensi di colpa per la sua presunta
morte. Werner non aveva mai avuto fiducia nel suo amore, si disse Nadine con il
cuore a pezzi e non era mai entrato veramente, completamente in intimità con
lei, nascondendole la verità. Di quell’amore così grande che le riscaldava il
cuore, adesso, non restava altro che il freddo di un’amara delusione; il suo
castello di sogni era improvvisamente crollato riducendosi a un cumulo di
macerie; quell’invidiabile quadretto di famiglia perfetta si era ridotto in
tanti piccoli frammenti d’illusione e, pian piano, i ricordi felici della vita
trascorsa con il suo Werner scomparivano nella tristezza e nella rabbia. Nadine
non si sentiva più amata e in lei cominciava a riaffiorare quella lacerante e
pietrificante sensazione di solitudine. “Nadine!” la voce preoccupata di Kurt,
apparso nel corridoio, la scosse e la fece voltare. Il viso di Nadine era
bagnato di lacrime …
“E così il dottor Hofmann è tuo marito?” domandò Kurt, porgendole una
seconda volta la scatola dei fazzoletti. Nadine sussurrò un debole sì e,
asciugandosi di nuovo le lacrime, disse: “Scusami per lo sfogo ma è come se
stessi vivendo un incubo da cui non riesco a svegliarmi. Mai avrei pensato che
Werner potesse ingannarmi così e per tanti anni.” “Figurati, Nadine, ti capisco
…” ribatté Kurt “… Ma forse lui ha agito così per una sua insicurezza personale
e non per mancanza di fiducia verso di te. Vedrai che un suo chiarimento
sistemerà tutto.” E gli venne naturale darle una carezza sul viso. Nadine lo
guardò un po’ stupita e, in quegli occhi bagnati di lacrime, Kurt ritrovò la
ragazza di Ravensbrück.
La sua mente tornò indietro di dieci anni, alla rete di filo spinato, alle
emozioni che quella terribile situazione rendeva più grandi e i ricordi del suo
primo amore, dei momenti di tenerezza vissuti con Nadine vibrarono nel suo
cuore e lo scossero. Per un attimo, dimenticò la sua vita presente, Engel, la
piccola Brigit, il suo lavoro e ritornò nei panni del giovane fotografo ansioso
d’amore. Desiderò baciarla ma, proprio in quel momento, sull’uscio del salotto
apparve sua moglie. “Kurt, non dovresti essere già a lavoro a quest’ora?”
chiese Engel con voce cupa e, qualche istante dopo, era al posto di suo marito
a parlare con Nadine.
“In realtà, Kurt non ti
ha mai dimenticata.” Nadine non ribatté ma, sconvolta, continuò a fissare il
nulla. Ancora non aveva metabolizzato il fatto che Kurt fosse miracolosamente
sopravvissuto a Ravensbrück e che suo marito lo sapesse già da tempo che adesso
le stava per piombare addosso un’altra inaspettata verità pronta a confonderla.
“Prima che ci sposassimo …” continuò Engel, trattenendo le lacrime “… si mise
freneticamente alla tua ricerca. Si sentiva in colpa e non voleva fare questo
passo a tua insaputa, se tu fossi stata ancora viva. Mi lasciò sola con i
preparativi del matrimonio e sono certa che, se ti avesse trovata, avrebbe
mandato tutto all’aria.” Nadine non sapeva cosa dire e nemmeno cosa pensare. La
sua mente era annebbiata, impossibilitata nel mettere insieme un qualsiasi
ragionamento logico. Poi Engel si alzò dal divano e, volgendole bruscamente le
spalle, con tono deciso, affermò: “Non credere che per me sia facile dirti
queste cose, io sono una donna e per me è umiliante, ma è giusto che tu sappia
…” prese un bel respiro “… Spesso, quando stiamo in intimità, pronuncia il tuo
nome e non se ne rende neppure conto.” Nadine rimase pietrificata …
Tutto era finito. Il
suo matrimonio, l’amore di Nadine erano finiti. La sua vita era finita. Come
quando si perde una persona cara, Werner si era chiuso in un profondo silenzio.
Davanti ai suoi occhi velati di lacrime scorrevano rapidamente le immagini dei
momenti felici vissuti con la sua amata: il primo bacio sulle rive del lago, il
giorno del loro matrimonio, l’arrivo del piccolo Andrej e quei momenti della
loro vita quotidiana di coppia e di famiglia. Tutto era finito, distrutto,
svanito e la colpa era sua. “Papà!” la voce di Andrej lo scosse dai suoi
malinconici pensieri “Posso dormire con te stanotte?” domandò, stringendo a sé
il suo orsacchiotto. Werner tentò di nascondere il suo stato d’animo, sorrise e
aprì le braccia per accoglierlo. “Vieni, vieni, vieni da papà!” lo invitò e il
piccolo si tuffò felice nel lettone e nell’abbraccio di suo padre. “Dove è
andata la mamma? … Quando torna? … Mi manca.” Andrej era diventato
improvvisamente triste. “è andata
a trovare un vecchio amico … Torna presto … Non preoccuparti.” Con queste
parole, Werner provò a confortare anche se stesso ma inutilmente.
Perché ad un tratto è arrivato il maledetto freddo
che col suo ghiaccio ha coperto ciò che abbiamo fatto e detto
“Lasciami libere le mani e il cuore, lasciami libero! Lascia che
le mie dita scorrano per le strade del tuo corpo”.
Pablo Neruda
Massimo
Girotti e Lucia Bosé
Engel era davvero su
tutte le furie. Con uno scatto, voltò le spalle a suo marito e si avvicinò ai
fornelli per preparare la cena. “Sai benissimo che non è così. Nadine fa parte
del mio passato.” ribatté Kurt e, sorridendo ironicamente, continuò: “Sono passati
dieci anni, Engel. La tua gelosia è assurda.” “Ma certo! Adesso sarei io la
pazza! La moglie isterica che vede le amanti del marito dappertutto!” urlò la
donna, fuori di sé. “Ti rendi conto delle stupidaggini che stai dicendo?” fece
Kurt irritato “E non urlare che potrebbe sentirti.” “Non m’interessa!” rispose
Engel in modo altero. E, in quel preciso momento, squillò il telefono. Andò a
rispondere Engel e, quando ritornò in cucina, aveva sul viso un’espressione
stravolta. Mise le mani fra i capelli e, dopo un lungo sospiro, disse: “Ci
mancava solo questo … Mia zia … Zia Klara sta molto male e devo andare subito
da lei.” Poi abbracciò suo marito con un’improvvisa dolcezza e gli sussurrò
all’orecchio: “Scusami se a volte mi comporto come una stupida … è che ti amo troppo e non voglio
perderti.” Kurt sorrise e l’abbracciò più forte. “Anch’io ti amo tanto, Engel.”
rispose e la baciò con passione …
Engel era scappata ad
assistere la zia gravemente ammalata, la piccola Brigit dormiva già da tempo e
Kurt era rimasto da solo a casa con Nadine. Tante cose aveva ancora da
raccontarle e tante altre desiderava ascoltare dalla sua bocca. Il nostalgico
ricordo del loro ritrovarsi alla rete di filo spinato gli attraversò il cuore
e, senza indugio, bussò alla camera degli ospiti. Nadine era in piedi davanti
al comò in un vestito a campana nero a pois bianchi che metteva in risalto la
pienezza armoniosa del suo corpo; dai suoi lunghi capelli neri che, sciolti
posavano morbidi e ondulati sulla schiena, s’intravedevano dei bellissimi
riflessi rossi e Kurt si fermò ad ammirare la sua immagine riflessa nello
specchio dal quale lei stessa si guardava. Nadine indossava una collana e un
bracciale di perle e sul braccio sinistro nudo si vedeva chiaramente il marchio
indelebile della sua prigionia a Ravensbrück; il suo viso era truccato ma non
la faceva sembrare volgare, al contrario, quel rosso che le colorava le labbra
esaltava la sua eleganza, la sua bellezza … la sua sensualità. Aveva davanti
l’immagine di una donna raffinata e affascinante, l’esatto opposto di Engel troppo
spesso trasandata e vestita da maschiaccio. “Hai chiarito con tuo marito?” le
domandò, interrompendo i propri pensieri che altrimenti sarebbero andati troppo
oltre. “No, non ancora. Non ce l’ho fatta a richiamare. Ho bisogno di un po’ di
tempo. Sono troppo confusa, troppo delusa.” rispose, voltandosi lentamente e
poggiando le mani sul comò. Poi fece un lungo sospiro e, all’improvviso,
scoppiò in lacrime. Kurt la strinse in un abbraccio consolatorio e Nadine si
lasciò abbracciare, ricambiando. Ma l’uomo iniziò ad accarezzarla dove e come
non avrebbe dovuto e lei lo respinse bruscamente. “Ti faccio così ribrezzo?!”
reagì Kurt per farsi commiserare e per farla sentire in colpa. “No … non è
questo.” ribatté Nadine mortificata. “Tuo marito non ha fatto un buon lavoro.”
“Ha fatto sicuramente quel che poteva.” “Perché ti ostini a difenderlo?! Dopo
tutto quello che ti ha fatto! Dopo che ti ha trattato come uno straccio
vecchio! Non vedi come ti ha ridotto?!” affermò l’uomo fuori di sé. Nadine non
rispose e, con espressione sfinita, sedette sul letto. Dopo alcuni secondi,
Kurt si pose in ginocchio davanti a lei e, addolcendo il tono di voce,
continuò: “Ti sei mai chiesta come sarebbe stata la nostra vita insieme, se
quella notte fosse andato tutto bene?” Ma la donna perseverò nel suo silenzio. “Nadine,
ascoltami bene. Adesso abbiamo la possibilità di ricominciare tutto daccapo, di
rivivere quella notte che non abbiamo mai vissuto. Andiamo via, Nadine.
Scappiamo insieme, come decidemmo dieci anni fa. è inutile che fingi, io lo so che non mi hai mai
dimenticato.” Nadine ruppe il suo silenzio e, confusa, disse: “E tua figlia? …
E mio figlio?” “Suvvia, Nadine! Non sono neanche carne della nostra carne,
sopravvivranno senza di noi.” E, prima che potesse controbattere da buona madre
di famiglia qual era, Nadine si ritrovò tra le braccia di Kurt travolta da un
improvviso e violento vortice di passione. “Vedrai che insieme saremo felici …
Fidati di me.” le promise, baciandole ripetutamente il collo e inebriandosi del
profumo dei suoi capelli. I due erano di nuovo insieme, stretti l’uno
all’altra, uniti da un amore che dopo dieci lunghissimi anni ritornava
prepotente alla luce, rivendicando tutte le promesse di eternità e facendo
battere i loro cuori e fremere i loro corpi. E, improvvisamente, i due si
ritrovarono giovani sulla brandina dell’infermeria di Ravensbrück. Nadine era
ritornata nel suo camicione a righe da prigioniera, esile, pallida, senza
trucco, senza capelli e le cicatrici che deturpavano il volto di Kurt erano
scomparse. “Prendimi … E portami via.” sussurrò la ragazza e si sdraiò,
attirando l’amato su di sé. Intanto, dalla finestra di quella che era diventata
la baracca dell’infermeria del lager, giungeva in lontananza “Habanera”, la
loro canzone. “Te lo prometto …” ribatté Kurt “… Tu sei mia.” E la fede nuziale
scivolò dal dito di Nadine, cadendo rovinosamente sul pavimento …
“L’unica cosa
che non riceviamo mai abbastanza è l’amore; l’unica cosa che non doniamo mai
abbastanza è l’amore”.
Henry Miller
Nicole Kidman
Nadine
fremeva di passione, scossa dai baci irruenti di Kurt e dalle sue energiche
carezze. Il desiderio avvolgeva i loro corpi che presto sarebbero diventati una
sola carne, profanando il sacro vincolo del matrimonio. “Per tanti anni ho
desiderato questo momento …” disse Kurt, guardandola profondamente negli occhi
“… Io ti amo, Nadine. Ti amo come la prima volta.” “Anch’io ti amo, Kurt.” rispose
Nadine e, prendendogli la faccia, lo baciò con estrema passione. I due avevano
ormai dimenticato le loro responsabilità, i loro coniugi, le loro famiglie, le
loro case, i loro figli e il loro obbligo di fedeltà giaceva nei vestiti
lanciati sul pavimento in tutta fretta. Le loro mani s’intrecciarono, così come
i loro respiri che diventavano sempre più affannosi e poi anche la sottoveste
nera di Nadine volò via. Le loro labbra si unirono in baci rapidi e intensi
mentre i loro corpi si accarezzavano mossi da violenti brividi. E, dopo ben
dieci anni, i due si ritrovarono intimamente donandosi al ricordo del loro
amore e tradendo i loro valori. Ma, ad un tratto, una voce li interruppe e tutto
divenne buio …
“Papà!
Papà!” urlò il piccolo Andrej con voce disperata, spaventato dai lamenti di suo
padre e Werner si risvegliò di colpo dall’incubo, affannato, confuso, sudato. Sì,
era stato soltanto un brutto sogno. Grazie a Dio, Nadine e Kurt non erano mai
stati insieme.
Le
mani di Engel stringevano tremanti la tazza di tè e, dopo averne assaggiato un
sorso, la donna riprese a parlare con espressione malinconica: “Kurt è un
ottimo marito, un padre eccezionale ma è un uomo diviso a metà. Dentro di lui
c’è ancora quel ragazzo follemente innamorato di te, o meglio, della ragazza
che eri tu, prigioniera a Ravensbrück
…” bevve un altro sorso “… Nella mia vita ho sempre dovuto combattere. Ho
combattuto contro la malattia di mia madre, ho combattuto contro il nazismo, ho
combattuto per sopravvivere e ho combattuto per essere amata e per amarlo
nonostante tutto, nonostante il suo cuore fosse ancora tuo …” gli occhi di
Engel si velarono di lacrime “… E adesso temo che il tuo ritorno possa
allontanarlo di nuovo da me ed io sono stanca di combattere. Non ho neanche
trent’anni ma mi sembra di averne sessanta.” Nadine aveva davanti una donna
sfinita, insoddisfatta, provata dalla vita, distrutta da un amore poco
corrisposto e ne provava compassione. Il loro matrimonio, apparentemente
felice, era in realtà segnato da profonde crepe, conseguenze di un passato mai
dimenticato e forse lo era anche il suo a causa delle paure di Werner. “Ma io
sono una donna sposata!” reagì Nadine, assumendo un atteggiamento
auto-difensivo. In fondo, la colpa di quel matrimonio infelice era
principalmente sua. “Sapevo che avresti risposto così.” affermò Engel e,
poggiando una mano sotto il mento, distolse lo sguardo per poi fissare il
vuoto.
Kurt era nel suo
ufficio. Seduto immobile sulla poltrona, con lo sguardo fisso nel vuoto,
pensava e ripensava a Nadine, ai suoi occhi bagnati di lacrime, alla loro
conversazione, alla carezza che le aveva dato, a quel bacio mancato e si
sentiva strano. Confuso, stordito, oppresso da un peso interiore, il signor
Hochmann non aveva la forza di lavorare. Un pensiero gli attraversò la mente e,
di colpo, si alzò come per fermarlo. Forse provava ancora qualcosa per Nadine. Disperato,
mise le mani fra i capelli e, voltandosi, scorse dai vetri della finestra il
suo volto sfigurato. Ripensò a quei momenti, i più brutti della sua vita: le
botte, il dolore, la paura, il sapore del sangue, il buio della morte, il
distacco dalla sua amata. Non aveva mai amato sua moglie tanto intensamente
quanto Nadine e non poteva più negare a se stesso questa triste verità. Di
Engel si era innamorato lentamente. Perché era lei che, insieme a suo padre,
gli aveva salvato la vita e che, giorno dopo giorno, gli stava vicino curando
le sue ferite e sopportando i suoi momenti di follia ed era lei che, con
dolcezza e determinazione, aveva perseverato nel trasmettergli la forza di
rialzarsi e il coraggio di ricominciare. Con Engel si sentiva al sicuro, si
sentiva più forte e sapeva di essere guardato al di là del suo aspetto, ormai
devastato. Capì allora che era questo uno dei motivi per cui aveva deciso di
sposarla: la furia delle SS lo aveva reso un mostro e nessun’altra donna lo
avrebbe voluto al proprio fianco. Poi c’era il suo sentirsi in debito verso il
signor Franz, padre di Engel, e responsabile nei confronti di quella povera
bambina rimasta orfana, Brigit, bisognosa di una famiglia. Kurt si sfiorò il
viso e i suoi occhi si velarono di lacrime.
Il suo matrimonio
rischiava di diventare un fallimento. Era stato soltanto un incubo ma Werner
non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Nadine e Kurt insieme, i
loro corpi nudi che dolcemente si accarezzavano, i loro baci appassionati, i
loro profondi sospiri e ne era ossessionato. Temeva che quel brutto sogno
potesse avverarsi e diventare una tragica realtà, la fine per lui.
Concitatamente, iniziò a preparare la valigia: il mattino seguente sarebbe
partito per riprendersi sua moglie, chiederle perdono e risanare il loro
rapporto.
Non
è la vita che avrei voluto mai desiderato vivere.
Non
è quel sogno che sognavamo insieme.
Fa
piangere.
Eppure
io non credo questa sia l’unica via per noi.
Capitolo 16 *** La realtà di un incubo - Prima parte - ***
Capitolo 16
La realtà di un incubo
-
Prima parte -
“Un vecchio
amore è come un granello di sabbia, in un occhio, che ci tormenta sempre”.
Voltaire
Massimo Girotti e Lucia Bosè
Kurt
non era più nel suo ufficio. Quel peso tremendo, che iniziava a logorargli
l’anima e il corpo, lo aveva spinto a uscire dalla sede del giornale nella mera
speranza di liberarsene. Ma fu inutile e, addirittura, peggio perché il
camminare da solo nel buio e nel silenzio della città lo costrinse ben presto a
guardare nelle profondità della sua anima e a farle violenza, spogliandola
della maschera che si era costruito in quei dieci anni. E vide che il suo
matrimonio non era fondato su un grande amore ma su delle enormi fragilità – le
sue paure e le sue insicurezze – e che, nonostante possedesse tutto – una
moglie splendida, una figlia sana e intelligente, una casa e un lavoro
invidiabili –, non era un uomo felice perché ancora vincolato al suo passato …
il suo passato con Nadine. Quel peso divenne un macigno e la sua tristezza mutò
improvvisamente in un lucido delirio. Iniziò a tormentarsi pensando che Nadine
avesse ricominciato una nuova vita con il bel “dottorino” biondo col nasino
alla francese e, in lui, crebbe sempre di più quest’assurda gelosia. Werner
aveva usurpato il suo posto e, di sicuro, viveva una vita felice con accanto
una donna bella, raffinata, dolce, sensibile, forte come Nadine, la vita che
spettava a lui se solo quella maledetta notte fosse andata diversamente. Il
macigno lasciò una voragine nelle cui profondità Kurt smarrì l’amore di Engel e
il calore della famiglia e ritrovò la sua antica e distruttiva ossessione per
Nadine. Poi ebbe un attimo di lucidità e capì che i suoi pensieri ferivano
Engel, il loro matrimonio e la stessa Nadine.
“Allora
è meglio che me ne vada!” esclamò Nadine e si alzò di scatto, travolta da un
vortice di sentimenti. Era scioccata, impietrita, imbarazzata, sconvolta,
impaurita all’idea che Kurt fosse ancora innamorato di lei. Avrebbe voluto
nascondersi nel posto più buio e isolato della terra e urlare con tutte le sue
forze. “No! …” Engel la fermò disperata “… Tu sei l’unica persona che può
aiutarlo a dimenticarti!” Nadine la guardò con espressione interrogativa e
occhi gonfi di lacrime trattenute. Poi sedette di nuovo e, fissando lo strazio
impresso sul suo volto, si mise in attesa di una più esaustiva spiegazione. Ma,
prima che Engel potesse aprir bocca, Kurt ritornò a casa. “Il lavoro era poco e
sono tornato prima.” disse e, guardando meglio le due donne, si accorse della
loro espressione stravolta, dei loro occhi arrossati e del loro aspetto
scarmigliato. “Cos’è successo?” chiese, preoccupato. “Nadine mi stava
raccontando di Ravensbrück.”
esordì Engel, dopo un lunghissimo istante di silenzio e Nadine confermò: “Sì,
sono stati anni terribili.” Era una bugia. Kurt lo capì subito perché entrambe,
a differenza sua, non erano mai state brave a mentire. “Adesso è tutto
passato.” disse ugualmente, chiedendosi di che cosa avessero parlato le due
donne. Nadine gli rivolse lo sguardo ed esalò un profondo sospiro. “Già.” proferì,
con voce flebile e afflitta per poi abbassare gli occhi e fissare il vuoto.
Gli occhi di Nadine
continuavano a fissare il vuoto mentre la sua mente e il suo corpo, tesi
all’estremo, cercavano un po’ di distensione nell’acqua calda della vasca. Con
profondi sospiri, la donna provava inutilmente a buttar fuori tutto lo stress
accumulato in quel giorno che sembrava non finire mai. Guardò il numero inciso
per sempre sulla sua pelle e nella sua anima e poi, lentamente, portò le mani
all’addome coprendo l’enorme e indelebile cicatrice. Scoppiò in lacrime: la sua
vita era continuamente provata dalla sofferenza. Nadine aveva vissuto cinque
anni d’inferno a Ravensbrück soffrendo il freddo, il caldo, la fame, la sete,
la fatica di un lavoro inutile e durissimo, le botte, gli insulti, il ricordo
della morte atroce del suo primo amore, il dolore degli esperimenti medici con
i quali i nazisti le avevano tolto l’utero e strappato anche l’ultima dignità.
Dopo la guerra aveva combattuto contro la malattia, i sensi di colpa per essere
sopravvissuta a sei milioni di ebrei, le accuse di chi l’additava come una
venduta alle SS e, adesso, doveva far fronte alla delusione di suo marito. No,
non c’era mai fine alla sua sofferenza. Con Werner, pensava di aver raggiunto
quella felicità tanto desiderata ma, in meno di un secondo, tutto era
sprofondato nella tristezza del suo inganno: il loro matrimonio, la loro
famiglia, il loro amore, le loro promesse, i loro momenti di tenerezza. Tutto
era come ricoperto da un enorme velo scuro, persino la gioia di essere genitore
insieme ad una persona che adesso non riconosceva più come l’uomo sincero che
aveva sposato e che amava oltre ogni misura. Le lacrime scivolavano veloci sul
suo viso pallido e stanco, cadendo e mescolandosi nell’acqua, ormai fredda,
della vasca: Nadine aveva perso il suo Werner e, con lui, tutte le certezze
sulle quali aveva ricominciato la propria vita dopo l’inferno di Ravensbrück.
In ultimo, Kurt le aveva chiesto di ritornare con lui al campo il pomeriggio
successivo e lei, convinta da Engel, aveva accettato dandosi l’obiettivo di
approfittare di quest’occasione per mettere ordine alla confusione dell’uomo e
salvare un matrimonio sull’orlo del precipizio. Non sapeva come e nemmeno se ne
avrebbe avuto la forza perché tramortita dal tradimento di Werner che aveva
ribaltato e scosso violentemente la sua vita, la sua anima e anche il suo
corpo. Nadine si sentiva troppo fragile.
Engel si mise sotto le
coperte e, con infinita dolcezza e desiderio ardente di un gesto di tenerezza,
cercò la mano di suo marito. Ma Kurt le volse bruscamente le spalle e la donna,
enormemente risentita, fece altrettanto per poi esplodere in un pianto
sommesso. Engel aveva perso suo marito.
Capitolo 17 *** La realtà di un incubo - Seconda parte - ***
Capitolo 17
La realtà di un incubo
- Seconda parte -
MassimoGirottie LuciaBosè
Berlino
ovest, 10 ottobre 1950
Werner
mise in moto la macchina con rabbia e paura. Era certo che Nadine non l’avrebbe
mai perdonato e sentiva ormai lontano il suo amore. “Sono un idiota! Un idiota!
Un idiota sono!” si sfogò, battendo ripetutamente i pugni sul volante. Poi mise
la testa tra le mani: sembrava quasi esplodergli mentre il nodo dei sensi di
colpa gli stringeva fortemente la gola. Tentò di calmarsi, esalando un profondo
e tremante sospiro e partì, con il cuore ferito da un enorme e incolmabile
vuoto.
Città di Fürstenberg/Havel
Kurt uscì di casa per primo, lasciandosi alle spalle una forte scia di
profumo e un incrocio di sguardi attoniti. Nadine ed Engel condividevano lo
stesso stupore nel vedere l’uomo preparato come per un appuntamento importante
e la stessa stanchezza per una notte trascorsa insonne e in lacrime. Entrambe
immaginavano la vera intenzione di Kurt. “Voglio che tu sappia che non ho
niente contro di te …” esordì Engel, spostandosi nervosamente un riccio biondo
dietro l’orecchio “… Che non ti porto nessun rancore.” Nadine la guardò e, in
quell’istante, abbandonò il proprio dolore per entrare nel dramma della donna.
Nei suoi occhi verdi, ormai spenti, vide un’anima ferita da un amore a metà.
L’uomo che aveva sposato non l’amava come lei avrebbe voluto essere amata e
questo dramma, struggente e mortificante per Engel e tante altre donne, era
cominciato anche nella sua vita. “Ravensbrück non cambierà nulla, anzi …” Nadine le prese una mano
“… farò il possibile per aiutarti.” Engel le strinse anche l’altra mano e
disse: “Grazie, Nadine. Spero di rivederti, magari in un’occasione più serena.”
Le due donne tentarono di sorridersi ma invano poiché la fortissima commozione,
che attanagliava entrambe, non diede loro questa libertà. Il risultato fu quasi
una smorfia. Qualche istante dopo, Nadine era sotto casa ed Engel alla finestra
ad osservare Kurt intento ad aprire lo sportello della macchina alla donna. Per
sua moglie, invece, era ormai da tempo che aveva smesso di farlo. Engel si
volse di scatto e, poggiando le spalle alla parete, scoppiò in un pianto
disperato per poi lasciarsi lentamente scivolare sul pavimento. Non avrebbe mai
dovuto sposarlo e si diede della stupida superba per aver pensato di poterlo
cambiare. Kurt amava ancora Nadine.
“Grazie, Kurt.”
sussurrò Nadine, accennandogli un debole sorriso. L’uomo rispose ricambiando il
sorriso ma nel suo traspariva un inopportuno entusiasmo dato che a breve
sarebbero ritornati a Ravensbrück, un campo di concentramento, “l’inferno delle
donne”, luogo d’immani torture. Il comportamento di Kurt confermò la sensazione
di Nadine che aspettava il momento giusto per intervenire e farlo ragionare e
porre fine a quella situazione per lei imbarazzante. E il momento giusto non
tardò ad arrivare. Kurt distolse lo sguardo dalla strada per rivolgerlo a
Nadine che fissava il vuoto. Era triste Nadine, triste e bella, bella come non
mai e, in un secondo di lucida follia, colse in lei indifferenza e disprezzo.
“Per quanto tempo ancora pensi di andare avanti così?” esordì, improvvisamente
nervoso. La donna sobbalzò e, quasi urlando, rispose: “Così come?!” “Negando a
me e a te stessa …” “Cosa?!” Nadine lo interruppe bruscamente e, con tono
autorevole, disse: “Ferma la macchina, per favore. Dobbiamo parlare.” Sedettero
a un tavolino all’aperto di un caffè, deserto a quell’ora del pomeriggio.
L’aria era piacevolmente fresca e un debole vento muoveva appena le foglie di
un albero lì vicino. Per qualche istante, i due si guardarono in silenzio
mentre un raggio di sole li avvolse con il suo tenue calore facendo socchiudere
gli occhi di Kurt e illuminare di riflessi rossi i capelli lunghi e ondulati di
Nadine. Le ginocchia tremavano e i cuori battevano più forte. Poi la donna
prese un bel respiro e iniziò a parlare: “Quando i nazisti ti portarono via da
me, sentii un dolore lacerante come se qualcuno mi avesse strappato il cuore
dal petto. Mi sentivo morire e volevo morire ma nella mia testa risuonavano
sempre e forti le tue parole che mi esortavano a lottare e vivere. Mi feci
forza e andai avanti perché non volevo che il tuo sacrificio fosse stato vano.
Il tuo amore mi aveva salvato. Ma un giorno iniziai a provare rabbia verso di
te e il mio amore scomparve lentamente, bruciando nell’inferno di Ravensbrück.
La vita del campo era sempre più dura, il giorno sembrava non finire mai, i
nazisti diventavano sempre più crudeli ed io ero sempre più stanca e affamata.
Mi stavano riducendo a un niente e dentro di me non c’era più spazio per l’amore.
In quell’inferno, non riuscivo più ad amarti …” Kurt la interruppe e, in
lacrime, disse: “Perdonami, Nadine.” “No, non dirlo, Kurt. Io ti ringrazio
perché il tuo amore è stato come una luce nel buio per me, come un faro nella
tempesta, è stato una speranza nella mia disperazione. Io ti ho amato tanto,
Kurt, davvero tanto. Ma poi è tutto finito come finisce un bel sogno …” la voce
di Nadine si ruppe per la commozione “… Conserverò sempre nel mio cuore un bel
ricordo del nostro amore e anche tu dovresti, se davvero mi hai amato. Ed è in
nome di quell’amore che non puoi continuare a tormentarti e far soffrire tua
moglie.” Kurt si sentì guardato dentro, toccato nelle profondità dell’anima e,
ormai arreso, confessò: “Non riuscirò mai ad amarla come ho amato te.” “Devi
scegliere di amarla …” ribatté Nadine, con tono fermo “… Lei lo ha fatto
nonostante tutto.” “Pensi che saremmo stati felici insieme, Nadine?” chiese
l’uomo, mentre grosse lacrime continuavano a bagnargli il viso. “Non lo so. So
soltanto che adesso la mia felicità è nelle mani di mio marito e negli occhi di
mio figlio.” rispose e anche lei scoppiò in lacrime.
Werner salì di corsa le
scale e bussò fortemente alla porta di Kurt, trovandosi di fronte la moglie.
Tentò di regolare il respiro, troppo affannoso per poter subito spiegarsi ma
Engel, che aveva già capito, lo anticipò e disse: “Sono andati a Ravensbrück.”
La sua voce fioca, spezzata e i suoi occhi tristi, velati di lacrime
confermarono e incrementarono la paura di Werner.
Ravensbrück, campo di
concentramento
Nadine si strinse nel
cappotto, incrociando le braccia per proteggersi da un’improvvisa ventata
d’aria fredda mentre Kurt, completamente immerso nel dolore e nell’angoscia dei
ricordi, si avvicinò di più alla rete di filo spinato. Era lì, in quel luogo –
teatro della ferocia umana –, adesso avvolto da un tetro silenzio, che aveva
perso una parte di se stesso. La donna esalò un profondo sospiro e, molto
lentamente, lo seguì. Il sole era quasi giunto al tramonto ma i suoi colori non
bastavano a coprire il grigiore del campo. Anche Nadine iniziò a ricordare e,
di colpo, il macigno delle atrocità viste e subite a Ravensbrück le piombò
rovinosamente addosso. Si aggrappò con una mano al filo
spinato e, soffocando uno straziante urlo di dolore, cadde in ginocchio sul
terreno fangoso. “Nadine!” esclamò Kurt, preoccupato mentre la donna scoppiò in
un pianto convulso e disperato, al limite di una crisi isterica. La sollevò da
dietro e, staccandole la mano che iniziava a sanguinare dalla rete di filo
spinato, la strinse a sé per calmarla. Ma proprio in quel momento arrivò Werner
che da lontano e nel buio fraintese ogni cosa. “Nadine, ti prego, calmati.”
supplicò Kurt, trattenendo atterrito le lacrime. Poi la voltò e, prendendole il
viso tra le mani, insisté: “Ti prego!” In quel gesto, Werner vide un bacio e
fece del suo incubo una realtà.
“La
grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la
metafisica più ingegnosa non giustifica l’uomo che ha lacerato il cuore che
l’amava”. Frédéric Beigbeder
Nicole Kidmane Aaron
Eckhart
Nadine si rifugiò tra le braccia di Kurt e, afferrandogli
le spalle della giacca, tentò di soffocare le lacrime nel suo petto. E Werner
li vide stretti l’uno all’altra, malinconici e felici, nell’abbraccio di un
amore mai tramontato. Sentì il cuore fermarsi e il respiro venir meno mentre
assisteva impotente al fallimento del suo matrimonio. “Perché? … Perché? …
Perché?” sussurrò con disperazione Nadine, ormai intrappolata nella dolorosa
morsa dei ricordi. Non poteva esserci alcuna risposta al suo grido sommesso, a
quella lacerante domanda che continuava a tormentare l’umanità rimasta umana
nel tempo dell’odio e Kurt si limitò ad accarezzarle i capelli nell’ennesimo
tentativo di calmarla. “Sss.” le disse e, stringendola di più a sé, abbracciò
in lei anche il proprio dolore e quello di tante altre persone vittime della
ferocia nazista. In quell’abbraccio strinse sua madre e suo padre, il signor
Franz, Anja e Karl – i genitori naturali della sua bambina –, Hans – il suo
carissimo amico morto in guerra – e una lacrima gli rigò il viso mentre il perché
risuonò potente anche nella sua mente. Nadine era tra le braccia di un altro
uomo e Werner, alla vista delle loro effusioni di tenerezza, avrebbe voluto
correrle incontro e prendere Kurt di petto, spaccargli la faccia che lui stesso
aveva rimesso a posto e spezzargli le ossa, sfogare la sua rabbia. Ma preferì
scappare via, lontano dalla scena di quell’abbraccio che segnava lo
sgretolamento delle sue certezze, la sua sconfitta come uomo, la fine di un
amore e l’inizio dell’oblio.
Berlino
ovest
“Scusami
per prima, Kurt. Non sono riuscita proprio a trattenermi.” esordì Nadine, alla
fine di un viaggio trascorso nel completo silenzio di entrambi. “Non devi
scusarti, Nadine. Anche per me è stato difficile ritornare a Ravensbrück.” rispose Kurt,
parcheggiando la macchina. La donna indugiò alcuni istanti con la testa china e
lo sguardo perso nel vuoto, già ferita e vinta da ciò che sarebbe accaduto una
volta varcato l’uscio di casa. Nessuna spiegazione avrebbe potuto giustificare
la falsità di suo marito e lei stessa temeva la propria reazione. “Vedrai che
tutto si sistemerà, coraggio!” affermò Kurt, abbozzando un sorriso di ostentata
serenità. Ma Nadine si era già fatta coraggio e, con determinazione, scese
dalla macchina.
Il rumore delle chiavi
nella serratura frenò di colpo l’ossessivo incedere avanti e indietro di Werner
e fece sussultare di gioia il piccolo Andrej. “Mamma!” urlò e, saltellando,
corse verso la porta d’ingresso seguito dalla giovane Edith. “Amore mio!”
esclamò Nadine e prese in braccio suo figlio, stringendolo forte a sé “Quanto
mi sei mancato!” Per un attimo, la donna sembrò dimenticare l’imminente dramma.
“Com’è andata?” le domandò sua cugina, con tono preoccupato e, subito, il volto
di Nadine ritornò cupo e il sorriso scomparve dalle sue labbra. “Poi ti
racconto.” rispose e la giovane Edith, abbassando la voce, riprese a parlare:
“Werner si sta comportando in maniera molto strana.” E, in quel preciso
momento, nel silenzio e nel buio del salotto, l’uomo iniziò un lungo e lento
applauso sarcastico che suscitò l’improvvisa meraviglia di entrambe. “Forza,
Nadine, racconta!” disse, con una punta di ironia e di amarezza “Racconta a tua
cugina come ti sei sollazzata con il tuo amico Kurt!” Edith la guardò
profondamente scioccata mentre una lama trafisse il cuore già ferito di Nadine.
“Ti ho vista al campo, sai?!” continuò Werner e la donna, lasciato il suo
bambino, lo raggiunse nel salotto. “Mi hai seguita?!” fece Nadine, invasa da un
fortissimo ed esplosivo senso di rabbia e delusione. “Sì, va bene?! E vi ho
visti! Vi ho visti mentre vi abbracciavate, mentre vi baciavate! Che vergogna!”
La donna rimase per alcuni istanti senza parole, sconvolta, pietrificata: suo
marito la stava accusando di un qualcosa che non aveva mai fatto. “Ah, certo!
…” ribatté, fuori di sé “… Ho capito la tua intenzione! … Vorresti farmi
passare dalla ragione al torto per non affrontare il vero problema!” Edith capì
la situazione e, prendendo il piccolo Andrej per mano, gli disse: “Adesso la
zia ti porta a mangiare un bel gelato, contento?” “Sì!!!” urlò il bimbo,
felicissimo, nella sua ingenuità. “E quale sarebbe il vero problema?!” domandò
Werner, con un atteggiamento che parve a Nadine arrogante e presuntuoso e la
donna, stringendo i pugni, emise un incomprensibile verso di nervosismo. Con
uno scatto, corse nella camera e iniziò a prendere dall’armadio i vestiti di
suo marito e a gettarli sul letto. “Ma che stai facendo?! Sei impazzita?!”
Nadine gli rivolse lo sguardo ma senza fermarsi. “Hai il coraggio di chiedermi
qual è il problema?! … Tu sei il problema! … La tua falsità è il vero problema!
… Mi hai mentito per cinque anni!” “Perché?! Cosa sarebbe cambiato?!” Werner
non abbandonò quel suo tono sicuro. “Che saresti stato sincero con me!” “E
saresti ritornata da lui!” “Se è questo quello che pensi, puoi anche andare
via!” affermò la donna, lanciandogli in faccia un maglione. Il rancore fremeva
nei loro occhi velati di tristezza, nelle loro parole studiate a tavolino, nei
loro cuori palpitanti di rabbia e non più d’amore e l’atmosfera tra i due
diventava sempre più tesa. “E così butteresti all’aria il nostro matrimonio?!”
fece Werner e iniziò a rinfacciare “Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto
quello che ho rinunciato per te!” “A cosa hai rinunciato?! Alla tua famiglia
nazista?! Va’ pure, ritorna da loro e di’ a tuo padre che non stai più con la
sporca ebrea – come mi definì lui!” Nadine e Werner non erano più gli stessi.
Le loro labbra non si aprivano più a parole d’amore e sospiri di piacere, a
baci appassionati e promesse d’eternità che accarezzavano il cuore ma adesso
erano spalancate ad urla di rabbia e predominazione che ferivano il cuore, lo
sballottavano, lo picchiavano a sangue, lo laceravano, lo rendevano a
brandelli. Le loro mani non si cercavano più per accarezzarsi e intrecciarsi ma
adesso gesticolavano di nervosismo e puntavano il dito, accusandosi l’un l’altra.
“Ho rinunciato ad essere padre! Io che avevo tutte le carte in regola!” Werner
capì subito di aver esagerato e di averla ferita a morte. Per Nadine, infatti,
fu una vera e propria pugnalata al cuore. “Allora per te Andrej non significa
niente? … Io non significo niente? …” affermò delusa per poi continuare con
espressione arrabbiata “… Dov’eri?! Dov’eri tu mentre nel lager mi aprivano in
due?! … Ma certo! Eri comodamente seduto sulla poltrona di tuo padre a giocare
ad essere Dio e decidere chi lasciar vivere o morire!” “Perdonami, Nadine, non
volevo ferirti.” L’uomo era ritornato in sé ma sua moglie lo ignorò e disse:
“Sai cosa ti dico?! … Vado via io! …” Nadine afferrò dall’armadio due tailleur
e li lanciò nella valigia, schiacciandoli “… Perché la colpa è mia! … Sono
stata io una stupida a crederti, a credere che tu fossi diverso, che tu fossi
diventato un uomo migliore, che tu amassi me e nostro figlio veramente!” “Ti
prego, Nadine.” implorò Werner ma fu ancora una volta ignorato. Poi la donna
chiuse con violenza la valigia e, guardandolo con espressione seria e
sprezzante, affermò: “Addio, dottor Günther.” Günther era il vero cognome di suo marito. Nadine aveva vinto
sferrando il colpo più forte, rinfacciandogli – chiamandolo con il suo vero
nome – le colpe del suo passato da medico nazista. Il velo di compassione era
scivolato via dagli occhi della donna e si era spenta la luce dell’amore.
Werner rimase immobile, schiacciato dal peso dei ricordi e dei sensi di colpa,
vinto, ferito dalle parole di sua moglie e non tentò nemmeno di fermarla.
Nadine andò via.
Città di
Fürstenberg/Havel
Engel era seduta sul divano con le
mani giunte, la testa china e i capelli spettinati che le coprivano il viso.
Kurt lanciò le chiavi nello svuotatasche ma neppure quel rumore riuscì a
scuotere la donna, troppo immersa nel suo dolore. Le sedette accanto e tentò di
abbracciarla ma Engel, con uno scatto, si alzò dal divano. Gli rivolse uno
sguardo accusatorio, severo e sprezzante, più eloquente e distruttivo di mille
parole, per poi allontanarsi e andare in un’altra stanza. Kurt rimase da solo.
Non
spalancare le labbra ad un ingorgo di parole, le tue labbra così frenate nelle fantasie
dell’amore. Dopo l’amore così sicure a rifugiarsi nei
“sempre”, nell’ipocrisia dei “mai”. Non sono riuscito a cambiarti, non mi hai cambiato lo sai.
“Aspettava e la sua piccola mente impazzita
d’amore andava alla deriva come una barca senza remi. Fantasie insensate e
verità sconcertanti i flutti che la sbatacchiavano nella nebbia della
sprovvedutezza e contro gli scogli della disperazione”.
Oriana Fallaci
Lucia Bosè
Berlino ovest, 9
novembre 1950
Nadine sedeva
sul letto, con le braccia incrociate sulle ginocchia avvolte dalle coperte e lo
sguardo fisso nel vuoto della solitudine e dell’incertezza. Le dita della mano
sinistra giocherellavano con la fede nuziale e la sua mente andava alla ricerca
di ricordi per ritrovare l’uomo che aveva sposato. Quel Werner che aveva
lasciato, incattivito e sprezzante, non era lo stesso che, commosso e
innamorato, le aveva giurato amore eterno dinanzi a Dio; quel Werner che le
aveva rinfacciato, in modo crudele e mortificante, la sua rinuncia ad essere
biologicamente padre non era lo stesso che, pieno di entusiasmo e trepidazione,
aveva firmato i documenti per l’adozione. La luce del sole che entrava
prepotentemente dalle persiane della finestra la esortava ad alzarsi ma il suo
corpo si rifiutava, schiacciato dal peso della malinconia. Le mancava la sua
casa, il suo letto, il tepore di un corpo che le dormiva accanto, la protezione
di due braccia che la stringevano nelle notti di paura quando gli incubi del
suo passato ritornavano a tormentarla bruciando nelle cicatrici della sua pelle
… le mancava suo marito, i suoi baci, le sue carezze, ciò che lui era sempre
stato prima dell’irreparabile dramma della verità. Nadine amava ancora l’uomo
che aveva sposato, quel marito perfetto e padre esemplare con cui aveva
condiviso gli anni più belli della sua vita, l’uomo dolce, sincero, forte,
sensibile, amorevole che l’aveva salvata e che ogni giorno tentava di
proteggerla dai fantasmi di Ravensbrück e si sentiva legata, imprigionata ad un malinconico
ricordo che altro non era che un crudele inganno di Werner. Quel Werner che lei
continuava ad amare, in realtà, non esisteva e mai era esistito.
“Buongiorno, Nadine!”
esclamò Edith, con in volto un’espressione radiosa e una tazzina fumante tra le
mani “Ti ho portato un buon caffè!” “Sei sempre tanto cara, Edith ma adesso non
ne ho voglia.” rispose Nadine e sospirò tristemente, poggiando il mento sulle
braccia. “Cosa?! Cosa?! Nadine che rifiuta il caffè?! …” la giovane mise la
tazzina sul comodino e continuò con fare scherzoso “… Esci, esci da questo
corpo! Tu non sei la mia cugina! Nadine non rifiuterebbe mai e poi mai un
caffè!” Edith riuscì a strapparle un sorriso che però subito svanì. Anche la
ragazza tornò seria e, sospirando profondamente, sedette sulla sedia accanto a
lei. “Per quanto tempo ancora durerà questa tortura? … È già passato un mese …
Non sei stanca del male che stai facendo a te stessa e a tuo figlio? … Quel
piccolino piange sempre perché gli manca il suo papà.” Nadine non rispose e la
guardò con un’aria di sufficienza che indispettì Edith. “Io invece sono stanca
e non voglio più appoggiarti in questa pazzia!” “Dimmi, dimmi allora cosa
dovrei fare adesso?!” la donna alzò la voce in un atteggiamento auto-difensivo
“Chiudere gli occhi e far finta che non sia successo niente?!” “No, al
contrario … Devi permettere a Werner d’incontrarti e chiarire la vostra
situazione … Fallo almeno per il tuo bambino.” Parlava la giovane Edith con la
maturità e la forza di chi era stata costretta a crescere e diventare donna
prima del tempo, madre di se stessa, suo unico appoggio e riferimento, ma la
sua determinazione non convinse Nadine che ribatté: “Ma non hai ancora capito?!
Per Werner non siamo altro che un peso! L’ha detto lui stesso!” “E tu invece? …
Cos’hai detto nella rabbia? … Non pensi che anche lui abbia sofferto? … Io sono
tua cugina ma in questo caso non posso stare dalla tua parte, mi dispiace!”
Nadine capì di essere sola, sola con il proprio dolore, sola con un cuore
ferito e diviso a metà: da una parte l’amore che, con la sua incoscienza, la
spingeva verso un perdono e dall’altra il rancore che, forte e inflessibile, la
condannava alla tristezza e alla disperazione di una netta separazione. Nessuno
avrebbe potuto aiutarla, consolarla, rialzarla da quel letto bagnato di
lacrime, speranze infrante e certezze svanite. “Io sto dalla parte di Andrej e
non accetto che tu l’abbia separato da suo padre!” aggiunse la ragazza e Nadine
esplose in un pianto convulso. “Rivoglio il mio Werner …” sussurrò tra i
frenetici singhiozzi, aggrappandosi alle spalle di Edith “… Voglio tornare ad
amarlo come una volta … Rivoglio la mia famiglia.” “Sì, Nadine … Ritorna
all’amore … Metti da parte l’orgoglio e dagli un’altra possibilità … Entrambi
avete già sofferto abbastanza nella vita.” affermò la giovane con le lacrime
agli occhi, stringendola in un fortissimo abbraccio. Ma Nadine non frenò il suo
pianto e disse: “No, non ce la faccio … Sono troppo disperata, Edith … Come
devo fare?” “Ferma il ricordo più bello del vostro amore e ricomincia da lì.”
Città di
Fürstenberg/Havel
Lo specchio rifletteva
ciò che era rimasto di lei: il viso pallido e dimagrito di una donna ormai allo
stremo, tormentata da un amore crudele dal quale non riusciva a liberarsi. I
segni del viso rispecchiavano le ferite dell’anima. Era stanca Engel, stanca di
combattere, stanca di soffrire, stanca di essere sempre la seconda scelta di
suo marito ma non riusciva a lasciarlo. Kurt era tornato da lei dopo il rifiuto
di Nadine. Engel amava ancora suo marito, lo aveva sempre amato nonostante
vedesse nei suoi occhi l’ombra di un’altra donna, da lui tanto desiderata e mai
dimenticata e si tormentava domandandosi perché avesse scelto di vivere questa
dolorosa umiliazione. Per Kurt aveva rinunciato alla sua dignità di donna. Da
un mese aveva smesso di parlargli, di dormire insieme a lui, di cedere alle sue
ingannevoli carezze per chiudersi in un silenzio forzato, carico
d’inquietudine. La vita di Engel era stata un susseguirsi di lotte e abbandoni
che aveva sempre affrontato indossando una corazza di forza e coraggio, adesso
scivolata via. Lo specchio rifletteva tutta la sua fragilità di donna, tutte le
sue paure e le sue insicurezze. Engel si sentiva sola, non amata, delusa da un
uomo che avrebbe dovuto essere per lei un rifugio, la realizzazione dei suoi
sogni, il compimento della sua felicità. Ma quanto più Kurt la faceva soffrire,
tanto più Engel non riusciva a separarsi da lui e si ostinava ad amarlo. Lo
specchio rifletteva l’immagine della donna che non avrebbe mai voluto essere,
sottomessa ad un rapporto che le impediva di vivere da sposa desiderata e da
madre serena. E un dubbio iniziava a tormentare la sua mente, ormai troppo
ingarbugliata: continuava ad amare suo marito per amore o soltanto per tenersi
assicurata quella vana sicurezza affettiva che lui poteva offrirle?
Lago
di Schlachtensee, 10novembre 1950
La strada dei ricordi, lunga cinque anni, l’aveva
condotta sulla riva del lago Schlachtensee, lì dove la sua nuova vita era
cominciata. Nadine si strinse nel suo cappotto rosso e incrociò le braccia per
ripararsi dall’aria fredda e pungente del mattino. Una morsa le attanagliò lo
stomaco, il cuore, la gola mentre i suoi occhi, stanchi e gonfi per l’ennesima
notte trascorsa insonne e in lacrime, si fermarono a guardare un’alta conifera.
Nadine si rivide venticinquenne, seduta all’ombra di quell’albero, tra le
braccia calde e forti di Werner, con il cuore traboccante di gioia e speranze,
di sogni e libertà … con il cuore traboccante d’amore. Quel tempo era ormai
passato e non sarebbe mai più tornato. Le lacrime scivolarono veloci sul suo
viso, poi da dietro due braccia la strinsero e un sussulto uscì dalle sue
labbra.
Erano il dolore
e le rovine, e tu fosti il miracolo.
Ah donna, non so
come hai potuto contenermi
nella terra
della tua anima, nella croce delle tue braccia!”
Pablo Neruda
Berlino ovest, 9
novembre 1950
La
casa era un completo disastro. Ad accogliere il ritorno di Werner dal lavoro
non erano più il bacio di sua moglie e l’abbraccio di suo figlio ma, ormai da
un mese, era la gigantesca e angosciante confusione di piatti e vestiti sporchi
da lavare. Lo scompiglio della casa rispecchiava perfettamente quello dei suoi
pensieri. Werner si fece un po’ di spazio tra il mucchio di fogli e indumenti
sparsi sul divano e vi si accasciò, esalando un profondo sospiro. Strofinò gli
occhi umidi, arrossati, stanchi per la notte di lavoro in ospedale e le tante
altre notti trascorse insonni a piangere le ceneri del suo matrimonio. Pensava
a Nadine, ai suoi occhi gonfi di rabbia e delusione, alle sue parole infuocate
e alle proprie ancor più crudeli, al suo brutale distacco. Non riusciva a
rassegnarsi all’idea che cinque anni d’amore fossero stati distrutti in un
attimo di follia e che lui per primo ne fosse il carnefice. Conosceva benissimo
la fedeltà di sua moglie ma l’aveva ugualmente incolpata di tradimento,
accecato dal buio della paura – la stessa che gli aveva impedito di raccontarle
la verità su Kurt. Werner era sempre stato geloso di Kurt. A differenza sua,
lui non aveva permesso all’ombra del nazismo di trascinarlo con sé nel buio
dell’ingiustizia ma l’aveva combattuta, sacrificando la propria vita per amore
di Nadine. Non aveva speso gli anni della propria giovinezza per la rovina
degli altri né tantomeno aveva fatto carriera, arricchendosi sempre di più con
il loro sangue. Ma si era schierato dalla parte dell’umanità assurdamente e
atrocemente perseguitata, rinunciando a tutto ciò che era e che aveva. A
differenza del suo, quello di Kurt non era certo un passato orribile di cui
vergognarsi, un passato da nascondere ai propri figli, un passato da
dimenticare. Le parole di Nadine avevano aperto nel suo cuore un’enorme
voragine nelle cui profondità Werner era crollato, schiantandosi nella verità
del suo passato. Era stato colpito, trafitto, distrutto senza pietà dalla stessa
donna che un tempo con dolcezza lo aveva salvato dall’incubo “Günther”. Quella donna, quella dolcezza, quella compassione erano
scomparse e, lontano dall’amore che Nadine gli aveva strappato portandosi via
anche suo figlio, i fantasmi del suo passato ritornavano a tormentarlo
ricordandogli chi era stato e cosa aveva fatto lui, il dottor Werner Günther,
negli anni del nazismo. La sua sposa, la donna che amava, colei che gli aveva
cambiato la vita lo aveva anche rigettato nell’inferno dei sensi di colpa, nel
buio della solitudine e della tristezza, nel fango della disperazione. Werner
esalò un altro profondo sospiro e iniziò a sudare freddo. Il suo cuore ferito non
aveva smesso di sanguinare. Allentò il nodo della cravatta e, tremando
spasmodicamente, sbottonò il colletto della camicia. Il laccio delle sue paure
gli stringeva la gola come una morsa di ferro. Si sfilò la giacca e si sdraiò
sulla confusione del divano. La sua mente ingarbugliata cercava riposo nei
ricordi di un amore bello, immenso, forte che aveva vinto i postumi della
guerra superando gli ostacoli della malattia, delle rovine, della fame, dei
pregiudizi e aprendosi al miracolo dell’adozione. Chiuse gli occhi e smise di
tremare. I suoi pensieri si erano fermati all’attimo eterno di quel bacio nel
rosso del tramonto, tra le carezze del vento, sulla riva del lago, con la
speranza e i sogni nel cuore traboccante d’amore. E, ad un tratto, qualcosa
simile ad un sorriso apparve sulle labbra di Werner.
Città di
Fürstenberg/Havel
Un
gemito di dolore accompagnò il risveglio di Kurt: con un crack la sua schiena
si ribellava alle troppe notti trascorse a dormire, o meglio, a cercare di
dormire sul divano, scomodo, freddo. Kurt si svegliò già stanco e la colpa non
era soltanto della posizione sbagliata. Una battaglia interiore, infatti, lo
tormentava riducendolo ogni notte allo stremo. Si mise a sedere e,
stiracchiandosi un po’, rivolse lo sguardo alla porta d’ingresso. Quante volte
avrebbe voluto aprirla, buttare tutto all’aria, lasciarsi alle spalle la
brutale indifferenza di sua moglie ma ogni volta, puntualmente, si trovava ad
incrociare gli occhi amorevoli della sua bambina e il coraggio andava via. Era
ormai da un mese che Engel aveva smesso di parlargli – le uniche parole che gli
rivolgeva riguardavano la piccola Brigit –, di dormire insieme a lui, di farsi
toccare da lui. E così lo puniva per un qualcosa che con Nadine non aveva mai
fatto ma che, se scavava in profondità nelle sue viscere, avrebbe voluto. Il
silenzio di sua moglie lo costringeva a guardare dentro di sé e a combattere le
proprie contraddizioni. Il ricordo di Nadine occupava un posto importante nella
sua vita e si sentiva attratto dalla donna che aveva ritrovato dopo dieci anni.
Ma, allo stesso tempo, desiderava fortemente la sua Engel e si sentiva legato a
tutto ciò che il loro amore aveva costruito in quegli anni. Mai avrebbe potuto
scappare dalle sue responsabilità, tradire la promessa fatta al signor Franz,
abbandonare sua figlia, fare del male a sua moglie e si tormentava pensando a
quanto fosse poco l’amore che riusciva a darle. Per quanto potesse sforzare il
suo cuore, Kurt non riusciva ad amare in pienezza Engel, colei che – prima di
essere sua moglie – era stata il miracolo sulla sua morte, la cura per le sue
ferite, la forza nella sua disperazione, la speranza che asciugava le sue
lacrime, la pace sulla sua guerra, il suo tutto in un mondo che non aveva più
niente da offrirgli. La testa diventava sempre più pesante e le gambe, come
paralizzate, gli impedivano di rialzarsi. Di nuovo, si abbandonò sul divano e
s’infilò sotto la coperta mettendosi in posizione fetale. Era di nuovo solo
Kurt. Solo tra le braccia della sua tristezza, a contare i lividi dei suoi
errori, a raccogliere le lacrime dei suoi fallimenti, a soffocare i fantasmi
dei suoi limiti e delle sue debolezze. Perché non c’era mai fine al tormento
della sua sofferenza?
Lago
di Schlachtensee, 10 novembre 1950
In cinque anni, tante cose erano cambiate: le
strade, i negozi, le case, i parchi … lui stesso era cambiato, eccetto quello
squarcio di mondo immerso nella natura. Il lago Schlachtensee rimaneva sempre
lo stesso, teatro e spettatore dell’esplosione di un amore che pure era
cambiato perdendo la bellezza della sua speranza e della sua spensieratezza
nelle ferite dell’inganno e dell’amarezza. Senza farsi troppe domande, Werner
si era fidato della voce del suo cuore che lo guidava nel silenzio della
foresta in una fredda mattina di autunno. I suoi occhi, umidi di lacrime e di
stanchezza, videro da lontano una figura di donna con indosso un cappotto rosso
e una corda del suo cuore vibrò. Un palpito di gioia risvegliò il suo cuore e
lo squarciò d’amore: quella donna di spalle, che osservava immobile le rive del
lago, era proprio la sua Nadine. Si avvicinò lentamente e da dietro la strinse
in un abbraccio, accogliendo il suo sussulto.
“Farò della mia
anima uno scrigno per la tua anima,
del mio cuore
una dimora per la tua bellezza,
del mio petto un
sepolcro per le tue pene”.
Kahlil Gibran,
Il Lago di Fuoco
Lago
di Schlachtensee, 10 novembre 1950
Nadine
non avrebbe mai potuto sbagliarsi: le braccia forti, calde, rassicuranti che la
stringevano da dietro erano di suo marito. Il cuore iniziò a batterle più forte
e Werner ne accarezzò i palpiti con le dita, mentre il tempo si fermò per
perdersi nell’infinito dei loro sospiri. Entrambi chiusero gli occhi pieni di
lacrime da trattenere e si lasciarono avvolgere dal calore dei loro corpi e dal
ritmo dei loro cuori. Il dolce fruscio delle onde, il lento agitarsi dei rami e
l’armonioso cinguettio degli uccelli facevano da sottofondo ai loro respiri. Nadine
si volse e sprofondò nel petto di Werner, esplodendo in un forte pianto. Solo
tra le sue braccia, quelle braccia che l’avevano salvata dall’inferno di Ravensbrück, poteva nascondere
le sue paure e assaporare la vera felicità; solo tra le pieghe del suo cuore,
quel cuore che l’aveva accolta e guarita dopo le atrocità della guerra, poteva
ritrovare se stessa e sentirsi amata e protetta … sentirsi donna. Sul suo viso
pallido e stanco scorrevano veloci lacrime di gioia e di dolore, di amore e di
rancore, di speranza e di delusione. Nadine non riusciva ancora a perdonare suo
marito. Anche Werner iniziò a piangere e, mettendole una mano dietro la nuca,
la strinse di più a sé. Tra le sue braccia era racchiusa l’essenza della vita,
la bellezza del vero amore, la ragione per cui poteva essere veramente felice,
la donna che non avrebbe mai dovuto ferire. Le prese il viso tra
le mani e, con voce rotta dai singhiozzi, le disse: “Mi dispiace, amore mio,
perdonami.” Ma Nadine non rispose né gli rivolse lo sguardo e continuò a
piangere disperata. Una parte del suo cuore faceva ancora fatica a credergli.
Werner si abbassò un poco e, piangendo più forte, avvicinò la guancia alla sua.
Le loro lacrime si unirono e le loro labbra tremanti ne assaggiarono l’amaro di
un amore ferito che, pur volendo, stentava a rinascere. “Io ti amo, ti amo, ti
amo …” insisté Werner ancor più disperato “… Tu sei il mio respiro, la mia
vita, il mio tutto.” Le prese di nuovo il viso, costringendola a guardarlo
negli occhi e continuò: “Senza i tuoi occhi non riesco più a guardarmi allo
specchio. Senza di te non so più chi sono. Ho bisogno di te, dei tuoi occhi,
dei tuoi bellissimi occhi per sentirmi un uomo migliore. Ti prego, credimi,
amore mio. Io ti amo. Ricominciamo tutto daccapo.” Nadine smise di singhiozzare
e, poggiando le mani fredde sulle sue calde, lo guardò profondamente negli
occhi. Emise un debole sospiro. Quegli occhi verdi, belli, pieni di lacrime
erano sinceri e supplicavano una risposta. Qualcosa si sciolse nel suo cuore.
Werner era davvero pentito, l’amava oltre ogni misura e non le avrebbe mai più
fatto del male. Meritava un’altra occasione. Con un cenno della testa, la donna
annuì – più che altro per convincere ulteriormente se stessa – e, con un fil di
voce, disse: “Sì, ricominciamo, amore mio.” Sorrise con tenerezza e il volto di
Werner s’illuminò di gioia. La strinse in un abbraccio fortissimo quasi da
toglierle il fiato, la sollevò un po’ da terra e le riempì il viso con una
raffica di baci. Entrambi piangevano e ridevano allo stesso tempo. Poi le loro
labbra casualmente si sfiorarono, le loro lacrime e le loro risate scomparvero
di colpo e il tempo sembrò di nuovo fermarsi. Nel silenzio, spezzato soltanto
dal fruscio del vento tra gli alberi e sulle onde del lago, con gli occhi
chiusi e i cuori più aperti, i due si guardarono dentro l’un l’altra e
ritrovarono il loro amore. “Nadine, amore mio, promettimi che non mi lascerai
mai più.” sussurrò Werner, accarezzandole la guancia con la punta delle dita.
La donna gli prese la mano e, guidandola lentamente sul proprio cuore, ribatté:
“E tu promettimi che riuscirai a guarirmi di nuovo, dottor Hofmann.”
Le loro labbra si aprirono in un largo sorriso e, ormai troppo vicine, si
unirono in un bacio appassionato che sigillò le loro promesse. “Io ti amo
tanto, Werner.” disse Nadine, finalmente libera e l’uomo, estremamente commosso,
rispose: “Anch’io ti amo tanto, Nadine … Torniamo dal nostro bambino.” “Sì,
andiamo …” Nadine era radiosa. Prese Werner per mano e, intrecciando le dita
con le sue, aggiunse: “… Andrej non vede l’ora di riabbracciare il suo papà.”
E allora porta via
questa malinconia
devi convincermi
che non sei mai andato via.
E adesso
scaldami in tutti gli angoli
con la tua pelle
ed i tuoi baci e poi guariscimi.
Fammi sentire
tutta quella voglia che hai di vivermi
e poi cancella
dentro me l’incertezza e la paura che ho di perderti.
I
cannoni sovietici tuonavano senza tregua e i palazzi in città crollavano come
castelli di carta. Un rumore infernale di mitragliate e di aerei, pronti a
lanciare le loro bombe, echeggiava nel cuore silenzioso della foresta e faceva
tremare le ginocchia di chi, tra la vegetazione e nei fossati, un rifugio aveva
trovato. Kurt ed Engel erano nascosti tra i poveri resti di una casetta
sventrata e, rannicchiati l’uno di fronte all’altra vicino a quello che un
tempo era stato un muro, cercavano di proteggere la piccola Brigit, un tenero
fagottino di appena due settimane di vita. Quanto era stata crudele la vita con
loro! Per anni avevano combattuto il nazismo – tra rinunce e stenti, con fatica
e sofferenza –, salvando molte persone e perdendo tutti i loro cari e, adesso,
le bombe sovietiche – sorde e cieche – non avrebbero risparmiato il loro
coraggio, la loro innocenza. Senza pietà, avrebbero colpito anche loro
condannandoli alla stessa sorte dei colpevoli. Kurt ed Engel si guardavano con
espressione disperata: i loro occhi erano pieni di lacrime che non riuscivano
più a versare e le loro labbra screpolate non potevano far altro che chiudersi
nel silenzio; i loro volti e le loro mani erano sporchi di polvere e di terreno
e i loro vestiti erano sempre più logori; le loro gole erano riarse per la sete
e i loro stomaci brontolavano per la fame. Nello zaino avevano soltanto un po’
di latte per la bimba e delle scatolette di carne rubate ad un soldato delle SS
morto in città. Kurt allungò il braccio, poggiando la mano sul fianco di Engel
e, aprendo pian piano la bocca impastata, iniziò a parlare con voce tremante:
“Superato questo inferno, sarà tutto finito. Teniamo duro. Ancora qualche
giorno e la guerra sarà finita, vedrai.” La ragazza dissentì scuotendo
freneticamente la testa e il fragore di una bomba esplosa nelle vicinanze
incrementò in loro la paura di morire. Si sentivano indifesi, vulnerabili,
deboli, impotenti dinanzi ad un qualcosa che non avrebbero mai potuto fermare e
dal quale sarebbe stato impossibile scappare. I due erano in una trappola
mortale. Entrambi ripensarono alle loro madri, alla tenerezza dei loro sorrisi,
al calore dei loro abbracci, alla spensieratezza della loro infanzia, al tepore
delle loro case e desiderarono rivivere anche solo per un attimo quel piacevole
senso di protezione e di sicurezza provato da bambini. Sentivano la morte
sempre più vicina e desideravano l’abbraccio della mamma. Il pensiero di Kurt
andò anche a sua sorella Käthe – ai
loro giochi e alle loro zuffe, ai loro litigi e al loro affiatamento, a quel
rapporto di “amore e odio” che li teneva sempre uniti – e a suo padre – alle
parole non dette e a quelle che avrebbero dovuto evitare, agli abbracci
mancati, al tempo sprecato, a quello schiaffo ricevuto per le foto scattate a Ravensbrück,
a quei soldi rubati per fuggire con Nadine. E inevitabilmente il suo cuore
corse a lei – al ricordo di un amore così lontano, eppure tanto vicino da
riaprirne le cicatrici e bruciargli nelle viscere, nelle ossa, nelle profondità
dell’anima. Ma poi fissò lo sguardo di Engel e, in uno slancio d’amore, vide in
lei la donna della sua vita, le sue speranze, i suoi sogni, il suo futuro, la
sua sposa, la madre dei suoi figli … se mai sarebbe sopravvissuto. Kurt era
sempre stato innamorato di Engel, tante volte in quei quattro anni avevano
dormito insieme, si erano lasciati e poi ripresi, ma mai aveva trovato il
coraggio di ricominciare ad amare, di fare una scelta di vita importante, di
iniziare a concretizzare la promessa fatta al signor Franz di prendersi cura di
lei regolarizzando il loro rapporto. Mai come in quel momento – forse
inopportuno perché contrassegnato dal rumore di cannonate e mitragliate –, in
quel luogo – non proprio adatto perché teatro di follia e disperazione, bagnato
dal sangue delle vittime e dei carnefici di un’insensata guerra contro
l’umanità –, aveva provato un sentimento così forte, improvviso, profondo,
esplosivo verso di lei. Era un sentimento, una forza capace di spezzare le
catene delle sue paure, di infondergli sicurezza in se stesso fino a spingerlo
a dire: “Engel, io ho preso una decisione …” il cuore gli batteva forte e la
voce era rotta per l’emozione “… Io voglio sposarti. Dopo la guerra,
riconoscerò la bambina come mia figlia e ti sposerò!” Il tempo e i rumori
sembrarono fermarsi e loro non essere più lì. Engel sgranò gli occhi, verdi, da
cerbiatta, belli, velati di lacrime e, con un fil di voce, confusa, sussurrò:
“Perché?” “Perché …” Kurt inumidì le labbra con la lingua “… Io ti amo.” A
queste parole dolci e tremanti, la ragazza ebbe un tuffo al cuore e quasi le
mancò il respiro: per ben quattro anni le aveva sperate, desiderate, sognate,
attese tra fiducia e angoscia, tra pazienza e tormento, e adesso non riusciva a
credere alle proprie orecchie. Avrebbe voluto piangere per la commozione,
urlare per quell’improvviso senso di liberazione che aveva provato, ma riuscì
soltanto a balbettare una parola, un nome, la causa dei suoi dubbi e delle sue
paure: “Nadine.” Subito, gli occhi di Kurt si bagnarono di lacrime e, con voce
grave, rispose: “Nadine è morta.” “Non per te.” Engel aveva ragione. E
un’altra bomba cadde nelle vicinanze. “Ma io ho scelto te …” fece il giovane
estremamente commosso, accarezzandole la guancia “… è con te che voglio trascorrere il resto della mia vita. E tu
vuoi restare con me per sempre?” Engel annuì con la testa. Lo amava troppo.
Accennò un sorriso e, con il cuore in gola, gli rispose: “Anch’io ti amo.” Gli
prese la mano, intrecciando dolcemente le dita con le sue e fu colta da un
incontenibile desiderio di incontrare le sue labbra. Anche Kurt sorrise ma poi,
all’improvviso, ci fu uno scoppio tremendo. Il cielo si accese, la terra tremò
e, all’urlo straziante di Engel, la loro casetta scomparve in una nube di fumo
nero.
[1]
La Foresta di Grunewald (detta anche “foresta verde”)si
estende lungo la riva orientale dell’Havel, nella zona occidentale di Berlino.
[2]
Quinto giorno della Battaglia di Berlino (16 aprile 1945 - 2 maggio 1945).
L’Armata Rossa sferra il grande attacco per distruggere le forze tedesche e, dopo
scontri molto aspri e dure perdite per entrambe le parti, i sovietici
conquistano la capitale. L’8 maggio 1945, sei giorni dopo la fine della
battaglia, il Terzo Reich si arrende ufficialmente.
Capitolo 23 *** La scelta di amare - Seconda parte - ***
Capitolo 23
La scelta di amare
-
Seconda parte -
-
Ricominciare ad amare per crescere nell’amore -
Città di Fürstenberg/Havel, 26 settembre 1946
La sorella di Kurt era andata via, portando con sé il suo pesante
bagaglio di ricordi di donna ferita che nessuna parola avrebbe mai potuto
alleggerire, e aveva lasciato Engel in uno stato di profonda tristezza. Anche
lei si sentiva ferita. Come un automa, prese dal tavolo le patate da pelare e
si avvicinò alla cucina per preparare la cena. Era in quei momenti, alla sera,
quando la piccola Brigit faceva il suo pisolino e Kurt era
ancora al lavoro, che Engel si spogliava della sua corazza e, sola con se
stessa, contava le sue ferite. Lasciò cadere nel lavandino il coltello e la
patata e, piegandosi un po’, esplose in un pianto sommesso. Era in quei
momenti, nel silenzio di una casa di cui a volte si sentiva soltanto la
domestica, quasi un’estranea, che Engel non aveva bisogno di essere forte e
poteva cedere alle lacrime. Pensava alla guerra: il fragore delle bombe
riecheggiava nella sua testa, i brividi di paura ripercorrevano la sua schiena
e il dolore per la perdita di suo padre e delle sue sorelle squarciava ancora
il suo cuore. Si aggrappò con forza al bordo del lavandino fino a farsi male le
dita tremanti e violacee e iniziò a piangere più forte. Pensava alla sua vita:
un senso di solitudine e d’insoddisfazione le stringeva la gola e lo stomaco
come una morsa. No, non era quella la vita che aveva sempre desiderato. Engel
era rimasta da sola e non aveva più nessun altro al di fuori di Kurt ed era
proprio lui la causa principale della sua frustrazione. Subito dopo la guerra,
aveva riconosciuto la bambina ma non aveva più parlato di matrimonio e lei
aspettava sempre nell’illusione che prima o poi avrebbe mantenuto la promessa.
Quella di Engel non era altro che un’attesa inutile fatta da un susseguirsi di
vane convinzioni che, puntualmente smentite dalla realtà dei fatti, la
spingevano ogni volta, sempre di più, verso il baratro dell’autodistruzione.
Dopo aver ritrovato sua sorella Käthe
e dopo aver superato il lutto per la perdita dei suoi genitori, Kurt non le
aveva chiesto di sposarlo come lei credeva né, tantomeno, dopo aver riottenuto
la sede del giornale e dopo aver superato senza troppe difficoltà il delicato
intervento chirurgico al viso. E, adesso, Engel che cosa avrebbe dovuto
aspettare ancora? Aspettare che Kurt dimenticasse per sempre Nadine, che
smettesse di piangere di nascosto per lei e di pronunciare senza accorgersene
il suo nome durante i loro momenti di intimità sarebbe stata un’assurda follia
e questo Engel sapeva benissimo di non poterlo nemmeno lontanamente sperare.
Allora perché continuare a torturarsi, a farsi calpestare la propria dignità di
donna, a precludersi una felicità che magari era altrove, lontano, fuori da
quella prigione di illusioni? Lo amava, lo amava con tutta se stessa ma non
poteva più continuare a vivere nel tormento di un amore mal corrisposto: Kurt
non sarebbe mai guarito dalla sua ossessione per Nadine. Tra le lacrime
convulse di un dolore troppo grande che il suo cuore non riusciva più a
trattenere, Engel prese la decisione di porre fine alla loro relazione e lo avrebbe
fatto quella sera stessa. Un senso di rimorso subito la invase per non esser
stata capace di dare una famiglia a Brigit, così piccola e già tanto provata
dalla vita, ma lasciare Kurt sarebbe stata la cosa più giusta da fare anche e
soprattutto per lei. Come una spugna, infatti, la bimba assorbiva tutta
l’infelicità della mamma. Sobbalzò all’udire il rumore delle chiavi nella
serratura e, velocemente, asciugò le lacrime con il dorso della mano per poi
iniziare a tagliare la cipolla. “Amore, sono a casa!” esordì Kurt dal corridoio
e, gettate la ventiquattrore e la giacca sul divano, entrò in cucina. Engel
finse di non averlo sentito ma poi fu difficile per lei restargli indifferente
quando le sue braccia, calde e forti, la strinsero da dietro, avvolgendola del
suo dolce profumo di muschio. “Cosa c’è per cena?” domandò, dandole un bacio
sonoro sulla guancia. Senza aspettare la risposta, sbirciò nel lavandino e, con
fare scherzoso, disse: “Ancora patate e cipolle? … No!” Engel si divincolò
dall’abbraccio e, contrariata, aprì il rubinetto per sciacquarsi le mani.
“Scusami, amore.” fece Kurt, mortificato, ignorando il vero motivo del
malessere della donna. Era stato capace di rovinare uno dei momenti più belli
della sua vita. Engel si volse e, asciugandosi freneticamente le mani con il
grembiule che poi gettò sul tavolo, gli disse: “Dobbiamo parlare.” Il cuore le
batteva forte mentre gli occhi della sua mente sfogliavano veloci le immagini
belle di un amore troppo spesso travagliato dai fantasmi di un passato
difficile da dimenticare. Una parte di se stessa non voleva perderlo. Kurt la
guardò e, da quegli occhi velati di tristezza, intuì la sua imminente
decisione. “Sì, ma lascia parlare prima me.” ribatté, prendendola per le
braccia e facendola sedere sulla sedia. Le sedette di fronte, attaccando le
ginocchia alle sue, e le strinse fortemente le mani, fredde e tremanti. Emise
un profondo sospiro e iniziò a parlare: “Vorrei trovare le parole giuste per
dirti quello che provo per te …” sospirò più profondamente “… Engel, tu sei
stata un miracolo nella mia vita. Mi hai strappato dalla morte di Ravensbrück,
insieme a tuo padre che ringrazierò fino al mio ultimo respiro. Ti sei presa
cura di me e, senza provare ribrezzo come qualsiasi altra ragazza …” entrambi
abbozzarono un lieve sorriso “ … hai fasciato ogni giorno le mie ferite.” Engel
si domandò dove volesse arrivare Kurt e, intanto, quest’ultimo continuò: “Poi
hai curato il mio cuore. La dolcezza del tuo amore disinteressato,
generoso, forte, coraggioso ha permesso al mio cuore di ricominciare ad amare
quando tutto sembrava ormai finito senza alcuna speranza. Insieme abbiamo
vissuto momenti belli pur vivendo in un tragico contesto a causa della guerra.
Grazie a Dio siamo sopravvissuti, siamo diventati genitori e abbiamo superato
momenti difficili. So che di tanti la colpa è mia perché non sono ancora
riuscito a superare tutto il mio passato e ti chiedo di perdonarmi, di
continuare ad aiutarmi, di capirmi. Io voglio crescere con te, voglio costruire
il mio futuro con te, voglio che tu e Brigit siate la mia famiglia e voglio che
tu sia la mia sposa.” Di colpo, s’inginocchiò e tirò fuori dalla tasca dei
pantaloni una scatolina di velluto colore blu notte mentre la ragazza si tappò
la bocca con entrambe le mani per trattenere l’emozione. Kurt aprì la scatolina
e, mostrandole l’anello di fidanzamento, con la voce rotta dall’emozione, le
chiese: “Engel, amore mio, vuoi sposarmi?”
10
novembre 1950
Engel ripose il coperchio sulla pentola e spense il
fornello: la cena era pronta. Si mise a sedere e la sua mente iniziò a perdersi
in pensieri di angoscia mentre le sue dita giocherellavano nervosamente con la
fede nuziale. Non avrebbe mai dovuto sposare Kurt – pensava, tormentata dai sensi
di colpa per aver scelto una vita d’insoddisfazione – ma non riusciva a
separarsi da lui. Si sentiva sempre più sola, smarrita, svuotata. Il rumore
delle chiavi nella serratura non la scosse e continuò a far girare e rigirare
l’anello tra le dita fino a quando Kurt non apparve sull’uscio della cucina.
Alzò lentamente il capo e gli rivolse lo sguardo: i capelli scompigliati le
coprivano gli occhi arrossati dalle lacrime. Engel abbassò di nuovo la testa e,
con uno scatto, si tolse la fede dal dito e la pose sul tavolo. Un gesto lungo
un attimo e tutto era finito. Dopo qualche istante di orgogliosa esitazione,
Kurt le si avvicinò e s’inginocchiò davanti a lei stringendole fortemente le
mani. Non voleva perderla. Appoggiò la fronte sulle sue ginocchia e scoppiò in
un pianto disperato, in lacrime di rimorso, di richiesta di aiuto, di dolore,
in lacrime d’amore che sciolsero il cuore di Engel. Anche lei scoppiò in
lacrime e, prendendogli il viso tra le mani, fra i singhiozzi, gli disse: “Io …
io non posso lasciarti.”
Ti pentirai di
tutto fuorché d’essere venuta a me, liberamente, fieramente.
Ti amo. Non ho
nessun pensiero che non sia tuo;
non ho nel
sangue nessun desiderio che non sia per te.
Lo sai. Non vedo
nella mia vita altra compagna, non vedo altra gioia.
Rimani.
Riposati.
Non temere di
nulla. Dormi stanotte sul mio cuore …”
Gabriele
D’Annunzio, Rimani
George Peppard e Sophia Loren
Città di Fürstenberg/Havel, 10 novembre 1950
Kurt abbassò lo sguardo: non aveva il coraggio di
guardare Engel negli occhi. Nonostante i suoi tanti errori, le sue
contraddizioni, le sue brutture, nonostante il suo poco amore, lei continuava
ad amarlo ed era pronta a ricominciare. Pensava di non meritare un’altra
possibilità, pur desiderandola con tutto se stesso. Appoggiò di nuovo la fronte
sulle sue ginocchia e rimase lì per terra, in ginocchio, a piangere stretto a
lei. Anche Engel piangeva a dirotto. All’improvviso, Kurt si sentì tirare la
giacca e si volse di scatto: era la sua piccola Brigit che lo fissava con occhi
sgranati di innocente stupore. La bimba aveva un’espressione interrogativa
stampata sul visetto pallido e un ditino poggiato sulle labbra come indecisa su
cosa dovesse dire. Poi i suoi occhioni marroni si riempirono di lacrime e, con
voce sottilissima, quasi sussurrando, disse: “Papà, mamma, vi prego, fate la
pace.” Nonostante i suoi cinque anni, Brigit aveva capito dal principio e
sofferto nel silenzio l’attrito tra i suoi genitori. Davanti all’espressione
triste e un po’ corrucciata della sua bambina, Kurt si sentì l’uomo peggiore
del mondo e capì quanto fosse stato stupido a smarrire le sue priorità, la sua
famiglia, per rincorrere un fantasma del suo passato, un ricordo idealizzato
della ragazza che un tempo aveva amato. Nadine non era più quella ragazza. Quelle
lacrime, pronte a bagnare il faccino della sua bambina, lo avevano
improvvisamente guarito dalla sua ossessione. Engel si alzò di scatto dalla
sedia e prese in braccio la piccola Brigit per rassicurarla e per evitare che
iniziasse a piangere. “Shh, tesoro mio … La mamma e il papà hanno già fatto la
pace.” le disse, con voce spezzata e tentando un sorriso. Anche Kurt si alzò e,
trattenendo un pianto di commozione, strinse sua moglie e sua figlia in un
abbraccio fortissimo. I tre erano di nuovo una famiglia.
Berlino ovest
Edith aprì la porta e, non appena vide sua cugina
mano nella mano con Werner e le loro dita intrecciate, il suo viso s’illuminò
subito di gioia. “Andrej, vieni qui! C’è una sorpresa per te!” disse la ragazza
entusiasta mentre Nadine le ricambiò il sorriso. Alle parole di Edith,
seguirono immediatamente il tonfo di un salto giù dal letto e il rumore di due
piedini che, scalzi, correvano spediti verso il salotto. “Papà!” urlò felice il
piccolo Andrej, tuffandosi nelle braccia aperte di Werner. Quest’ultimo si
acquattò a terra e lo abbracciò fortemente, baciandolo sulla fronte. “Quanto mi
sei mancato, piccolo mio.” gli disse, trattenendo a stento lacrime di
commozione, mentre il bimbo non riuscì a resistere ed esplose in un pianto
sommesso. “Papà, non ci lasciare mai più.” sussurrò, fra piccoli singhiozzi.
“Mai più, te lo prometto.” rispose Werner e, alzatosi, lo sollevò in aria per
farlo sorridere. Guardando i bellissimi occhi azzurri del suo bambino pieni di
lacrime, Nadine capì quanto dolore avesse causato il proprio orgoglio e quanto
fosse stato crudele separare suo figlio dal padre, dividere la propria
famiglia. Una lacrima le rigò il viso mentre tentava d’ingoiare un singhiozzo,
poi avanzò lentamente nel centro della stanza per unirsi a quell’abbraccio e volse
uno sguardo a sua cugina. La giovane Edith annuì con un cenno della testa e le
sorrise compiaciuta. “Io vado a preparare la valigia di Andrej.” disse e Nadine,
ricambiandole il sorriso, esplose in un pianto di gioia. Tra risa e lacrime, la
donna si strinse più forte a suo marito e al suo bambino: la famiglia era
finalmente riunita.
Città di Fürstenberg/Havel
Engel rimboccò le coperte alla sua bambina e, andando verso il salotto,
indugiò sull’uscio ad osservare l’ombra di suo marito nel bagliore del camino
acceso. Kurt era seduto sul tappeto e fissava la lenta e rilassante danza delle
fiamme, con una mano poggiata su un cuscino e l’altra che teneva un bicchiere
con del vino rosso, e con quell’aria che lo faceva sembrare sempre triste e
inquieto. Quanti pensieri tormentavano la sua mente di uomo provato dalla vita
e lei questo molto spesso lo dimenticava troppo concentrata sul proprio dolore
e sul proprio desiderio di voler essere felice a tutti i costi. Troppo spesso
aveva occhi solo per se stessa e chiudeva il cuore a suo marito. Lentamente
entrò nella stanza e, senza fare rumore, con movenza impercettibile, prese dal
tavolino il bicchiere che in precedenza Kurt le aveva riempito. Gli si avvicinò
e, inginocchiatasi dietro di lui, lo avvolse con un braccio provocando un suo
sussulto. “Engel!” esclamò, poggiandole di colpo una mano sul braccio mentre
lei lo baciò sonoramente sulla guancia. Riuscirono a sorridere dopo tanto tempo
e tante lacrime versate. La donna sedette e, subito, le sue pallide guance
arrossirono, accarezzate dal calore del fuoco. Alzò il bicchiere verso Kurt e
disse: “Brindiamo?” “A cosa?” fece l’altro ostentando curiosità. Sapeva già a
cosa avrebbero dovuto brindare. “Al nostro nuovo inizio.” rispose Engel con un
tenero sorriso. Per quanto tempo gli aveva negato quello sguardo di dolcezza. I
suoi occhi brillavano di emozione contenuta ma non era uno sguardo di vera
felicità e non lo era mai stato. Improvvisamente, Kurt divenne serio e,
accarezzandole la guancia, le disse: “Engel, amore mio, io non voglio più farti
soffrire perché io ti amo.” Una grossa lacrima le rigò la guancia. Da troppo
tempo non udiva quelle parole e adesso stentava a crederci. Nel profondo di se
stessa sentiva di non essere amata. “Ti prego, credimi. Io ti amo e voglio che
tu sia felice, Engel.” continuò Kurt, sfiorandole le labbra e facendosi sempre
più vicino fino ad avvicinare il viso al suo. “Credimi, amore mio …” aggiunse
l’uomo, quasi in un sussurro di preghiera “… non ci sei che tu nella mia vita.”
La stanza diventava sempre più calda e le loro labbra erano sempre più vicine, mentre
i battiti dei loro cuori si rincorrevano all’impazzata e i loro respiri si
univano affannati in un sol sospiro di tremore. Engel rabbrividì al lieve bacio
di Kurt: quasi ne aveva dimenticato il sapore. “Non aver paura, fidati di me.”
Forse fu la dolcezza di queste parole appena sussurrate oppure il tocco caldo
di quel bacio a labbra socchiuse e tremanti a risvegliare in lei il desiderio
di ricominciare per davvero e di abbandonarsi di nuovo tra le braccia di suo
marito. Le loro labbra si unirono finalmente in un bacio appassionato e le loro
mani ripresero ad accarezzare dopo un tempo che era sembrato un’eternità. I
bicchieri si rovesciarono e il vino disegnò una grossa macchia sul tappeto, nell’indifferente
frenesia di due corpi desiderosi di rincontrarsi.
Berlino ovest
Nadine si tolse il cappotto rosso e, guardandosi
attorno con espressione sempre più allibita, lo mise sulla sedia dove giaceva
ancora il suo vestito a pois, ricordo dell’ultima notte insieme. Si sfilò le
scarpe ed emise un lieve sospiro di stanchezza. “Questa casa è un completo
disastro.” disse, stiracchiandosi un po’ mentre Werner poggiò la valigia sul
letto. “Lo so ma senza di te avevo perso ogni cognizione. Domani penserò io a
mettere tutto a posto.” ribatté l’altro e la donna, sorridendo in modo quasi
ironico, sedette ai piedi del letto. “Non basterebbe un’impresa di pulizie.”
scherzò Nadine per sdrammatizzare quella strana sensazione di disagio che stava
provando. C’era un qualcosa che le impediva di sentirsi finalmente a casa e
quel qualcosa non era di certo il disordine che aveva reso la casa irriconoscibile.
Il pensiero che suo marito non si fidasse di lei continuava ad opprimerla e a
tenerla legata a un forte dolore. Sobbalzò quando Werner, senza preavviso, aprì
la bottiglia di spumante. “Nessun’ombra del passato dovrà più oscurare la luce
del nostro amore.” disse, porgendole il bicchiere. Ma gli occhi di Nadine erano
ancora velati di una tristezza che celava quel desiderio di ricominciare. Le
prese il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, quegli occhi tanto
accesi di determinazione, e poi avvicinò la fronte alla sua. Il “ti amo” di
Werner fu un sussurro veloce che si perse tra le labbra socchiuse di Nadine e
scivolò dritto nel suo cuore. A quel “ti amo”, appena sussurrato ma fermamente
deciso, la donna rispose abbandonandosi in un bacio appassionato.Si ritrovò sdraiata sul letto, con il
corpo a pochi centimetri da quello di suo marito e, con un fil di voce, disse:
“Ricominciamo.” “Da dove eravamo rimasti?” fece Werner, alludendo all’ultima
notte insieme. “No, da qui …” ribatté Nadine “… Perché il tempo che abbiamo
vissuto lontani l’uno dall’altra non può essere stato vano e deve averci
insegnato qualcosa …” gli prese il viso e lo guardò profondamente “… Devi
fidarti di me.” “E tu?” “Devo imparare ad essere meno impulsiva.” “Non da
adesso spero.” concluse l’uomo con tono ironico e i loro sorrisi si unirono in
un lento e interminabile bacio appassionato.
“Pensa a tutta la bellezza
ancora intorno a te e sii felice”.
Anna Frank
Immagine dal film “L’incredibile vita di Timothy Green”
Città di Fürstenberg/Havel, 29 giugno 1955
Le dieci candeline dell’enorme torta che avanzava lentamente lungo il
corridoio illuminavano il volto sorridente di Nadine, pronta ad intonare la
canzoncina di buon compleanno per il suo Andrej. Il lungo applauso degli
invitati accompagnò il forte soffio del bambino sulle candeline mentre
l’abbagliante flash della macchina fotografica di zio Kurt immortalava quel
momento felice. Le luci della sala da pranzo furono riaccese, rivelando larghi
sorrisi e sguardi luminosi e i colori sgargianti dei vestiti delle signore.
Seguì un altro fragoroso applauso quando Werner stappò la bottiglia di spumante
e un altro ancora quando Andrej, guidato dalla mano di sua madre, iniziò a
tagliare la torta. La prima fetta, quella più grande, fu per zia Edith e la
seconda per suo marito Yonathan. Due anni prima, la cugina di Nadine aveva
conosciuto e, subito dopo, sposato un bellissimo ragazzo dai capelli fulvi e
gli occhi verdi, anche lui miracolosamente sopravvissuto all’orrore della
Shoah. La loro storia d’amore era nata tra le testimonianze ad un convegno
organizzato per contrastare quello che qualche anno dopo sarebbe stato chiamato
Negazionismo[1] e
stava per essere coronata dalla nascita di una bambina … rossa come suo padre,
sperava Edith.Un lieto fine che non era ancora toccato
a zia Käthe e a suo figlio Radolf, adesso dodicenne. L’anno precedente, la
sorella di Kurt aveva incontrato un uomo dolce, gentile, sensibile che sapeva
bene come farla sentire importante, protetta, amata e al quale veniva naturale
comportarsi da padre verso il ragazzino. Ma l’epilogo di questa favola non era
stato “E vissero felici e contenti” perché, come la prima volta, il principe
azzurro si era trasformato nell’orco cattivo e il sogno era diventato un incubo
dal quale doversi svegliare prima che fosse troppo tardi. Al secondo schiaffo,
memore delle cicatrici del suo passato che ancora le bruciavano nell’anima,
Käthe seppe dire basta e scappare da quell’amore sbagliato. Adesso non era più
sola, aveva l’affetto di una famiglia che le dava la forza di volersi bene e
aspirare al meglio per la propria vita e, questa volta, fu più facile per lei
ricominciare a sorridere.Con un sorriso a trentadue denti, prese
il bicchiere di spumante che le aveva offerto Werner. La vita dell’uomo
procedeva abbastanza serena e appagata nei suoi quarant’anni da un matrimonio
che andava a gonfie vele e un lavoro che lo gratificava e permetteva alla sua
famiglia un certo benessere economico. Nel ’52, mentre tantissime persone
abbandonavano la Germania dell’Est per fuggire a Berlino Ovest in cerca di
libertà nella Germania Federale[2],
lui e Nadine decisero di fare ritorno nella città di Fürstenberg/Havel. Tra i due
non c’erano più state grandi incomprensioni e, con il passare degli anni, il
loro amore si era consolidato maturando sempre di più. Werner era cresciuto
nella fiducia in se stesso vincendo le sue paure e, senza fare troppe storie,
aveva condiviso la scelta di sua moglie di accettare la proposta di lavoro di
Kurt. Quest’ultimo non rappresentava più un rivale ma adesso era diventato un
amico, quasi il fratello che non aveva mai avuto. A lui non nascose le lacrime
quando la vita gli presentò un altro dolore e riaprì crudelmente una ferita che
mai si sarebbe rimarginata.Suo padre, il dottor Günther, fu processato per crimini di guerra e
condannato a morte per aver partecipato al programma nazista di eutanasia[3].
Prima che la pena venisse commutata in ergastolo, credendo che quelli fossero
gli ultimi giorni di vita di suo padre, Werner tentò un riavvicinamento. Anche
se l’aveva disconosciuto come figlio, anche se durante la guerra si era macchiato
di crimini contro l’umanità più debole e indifesa, quell’uomo rimaneva sempre e
comunque suo padre e pensarlo vicino alla morte gli lacerava ugualmente il
cuore.Sostenuto dalla comprensione di Nadine,
andò a trovarlo in carcere ma suo padre non era cambiato: nessun segno di
ravvedimento traspariva dai suoi occhi per i quali Werner continuava ad essere
un estraneo. Il loro incontro durò meno di un minuto, il tempo necessario per
infliggere altro dolore a un figlio che il dottor Günther non considerava più
come tale.Lo rinnegò di
nuovo ma furono le parole che seguirono a fargli ancora più male; parole di
rabbia scandite lentamente, a pugni stretti per esprimere fermezza, guardandolo
negli occhi affinché potessero penetrare bene nella sua mente e ferirlo per
punire la sua scelta di cambiamento: “So benissimo perché sei qui ma non posso
darti quello che cerchi. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che
ho fatto e mille volte ancora.” disse suo padre. E quegli occhi verdi, così infuocati
di odio ma tanto uguali ai suoi, ricordavano a Werner chi era stato durante la
guerra; la complicità del suo silenzio, la codardia del suo conformismo, il suo
assistere ad esperimenti e mutilazioni di una medicina che avrebbe dovuto
curare anziché portare alla morte, le migliaia di persone passate cadaveri
davanti all’indifferenza dei suoi occhi, ciechi a quel tempo. Dopo lo
smarrimento iniziale, seppe rialzarsi prima che i sensi di colpa lo facessero
sprofondare di nuovo nell’abisso della disperazione e allontanare dalla sua
vita presente: lui non era più quel ragazzo, inconscio del male, succube di suo
padre e dell’ideologia nazista e adesso aveva una famiglia, una moglie, un
figlio ancora piccolo che aveva bisogno della sua protezione e della sua
serenità. Per Andrej dovette farsi forza e tornare a sorridere anche dopo
l’ennesimo dolore. Werner rivide sua madre soltanto una volta, prima che il
cancro la portasse via, ma in lei si era ormai spenta quella luce che un tempo
brillava nei suoi occhi e traspariva dal suo sorriso. In lei l’abbraccio e le
lacrime di suo figlio non riuscirono a risvegliare quell’amore materno,
scomparso nelle pieghe di un cuore troppo accartocciato dal risentimento.
Neanche in punto di morte la signora Günther volle conoscere il suo nipotino.
“Ma è bellissimo! Grazie zio Kurt!” esclamò Andrej carico di entusiasmo, dopo
aver scartato il regalo di Kurt: uno dei primissimi modelli di macchinina
telecomandata a filo. Il ragazzino corse felice verso l’uomo e si tuffò in un
abbraccio riconoscente. In quegli anni, la vita di Kurt aveva finalmente
trovato il suo equilibrio, superando pian piano le ferite del passato e
maturando nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Alla direzione del giornale
e dalla responsabilità che ne derivava, l’uomo – alla soglia dei quarant’anni –
aveva iniziato a comprendere suo padre e il suo essere spesso di cattivo umore
e, dai suoi errori, aveva imparato a lasciare il lavoro fuori alla porta di
casa.Nel ’53, decise di tentare altre
operazioni facciali ma, nonostante gli sforzi di Werner, i risultati non furono
quelli che aveva sperato. Dovette allora intraprendere un percorso interiore
per arrivare ad accettarsi per ciò che era diventato e ci riuscì, fino a
portare con orgoglio quelle cicatrici, per se stesso e per tutti coloro che
avevano lottato contro l’odio razziale e vinto … e per Nadine. Rimessi in
ordine i pezzi della sua vita e i suoi affetti, Kurt ritrovò in lei un’amica e
con Werner acquisì un fratello, fu risanato completamente il suo rapporto con
Engel e cominciò a vivere appieno la sua paternità. Adesso poteva essere
felice.Andrej, incoraggiato da Nadine, corse a
ringraziare con un bacio anche zia Engel e Brigit, che arrossì; poi tornò da
sua madre per mostrarle con fervore quel giocattolo speciale e, insieme a lei,
scoprirne le funzioni. Rideva Nadine, ritornando bambina insieme a suo figlio.
Rideva di gusto, con la spensieratezza di una gioventù riconquistata. Rideva,
per un amore consolidato e sempre in crescente e per quella famiglia unita e
felice che tutti insieme avevano costruito. Rideva di vera gioia, mentre la
guerra e i suoi orrori sembravano un ricordo lontano. Nadine era riuscita a
dimenticare. Un dimenticare che non significava cancellare dalla memoria
l’incubo di Ravensbrück ma ricordare senza permettergli di farle ancora del
male. Un dimenticare che non le impediva di raccontare nella pagina del
giornale di Kurt a lei affidata la verità dei soprusi inflitti a migliaia di
donne e bambini. Un dimenticare che però non aveva ancora il significato del
perdono: a questo Nadine ci sarebbe arrivata più tardi. Adesso indossava
disinvolta un vestito con stampa floreale a maniche corte, mostrando senza più
vergogna il numero inciso sul suo braccio, da marchio di schiavitù a distintivo
di forza.Lei aveva
resistito, combattuto e vinto, ricevendo come premio una nuova vita e non
poteva che esserne fiera. Abbracciò suo figlio e si rivolse verso Kurt, pronto
a scattare un’altra fotografia. La vita era un dono meraviglioso e lei aveva
imparato a sorriderne di ogni attimo. Il flash si accese, immortalando la
tenerezza dell’abbraccio tra madre e figlio mentre Nadine continuava a ridere,
godendo di quel momento di vera felicità.
Può stupirci
ancora tante volte
questa vita è
forte
trova le
risposte.
E tanto
dimentico tutto
dimentico tutti
i luoghi che ho
visto, le cose che ho detto,
i sogni
distrutti.
La storia non è
la memoria ma la parola
non vedi che
cosa rifletti
sopra un mare di
specchi si vola.
Emma, Dimentico
tutto
[1]Il
Negazionismo è una teoria che nega la realtà storica degli avvenimenti legati
al nazismo secondo la quale l’Olocausto sarebbe un’enorme finzione per
screditare la Germania e avvantaggiare lo Stato d’Israele.
[2]Nel
1952 il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso e l’attrazione
dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Democratica
iniziò ad aumentare.Tra il 1949 e il 1961 fuggirono circa
due milioni e mezzo di persone e i dirigenti della Germania dell’Est trovarono
un rimedio nella costruzione del Muro di Berlino (13 agosto 1961-9 novembre
1989), simbolo di una nazione divisa in un mondo ancora oppresso.
[3]Riferito
all’Aktion T4 che, sotto responsabilità medica, prevedeva l’uccisione sistematica
di persone affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni
fisiche. Le vittime furono circa duecentomila persone.
“I figli non
conoscono la vita dei loro genitori. Quando sono giovani, non ci pensano perché
il mondo è cominciato con loro. I loro genitori non hanno storia e hanno la
brutta abitudine di parlare ai figli soltanto del futuro, mai del passato. È un
grave errore. Non parlare del passato li rende simili a dei buchi spalancati”.
Jean Michel
Guenassia
Immagine dal film “Rudderless”
Città di Fürstenberg/Havel, 30 giugno 1962
Nadine rimase seduta sul divano, inerme e sconvolta, a fissare con le
lacrime agli occhi il tavolino ribaltato e i cocci di vetro sparsi sul
pavimento, conseguenza di un’improvvisa verità: Andrej, diciassettenne, aveva
scoperto per puro caso di essere stato adottato. Rovistando in soffitta alla
ricerca spensierata della sua prima macchinina telecomandata, si era
tragicamente imbattuto nella scatola in cui erano nascosti i documenti
dell’adozione. Dopo lo shock e l’incredulità iniziali, la prima reazione fu di
rabbia. “Avete fatto della mia vita un’intera bugia!” aveva urlato ai suoi
genitori, prima di lanciare tutto in aria e andare via sbattendo la porta. Un
gesto improvviso, violento, inaspettato da parte di un ragazzo tranquillo e
gentile come Andrej. Un colpo al cuore per Nadine che, come un peso morto, si
lasciò cadere sul divano mentre Werner gli corse dietro, pregandolo di fermarsi
e ascoltare le loro motivazioni ma inutilmente. Con gli occhi pieni di lacrime
e la testa come se volesse esplodere, sordo alle parole supplichevoli e sempre
più ansimanti di suo padre, il ragazzo accelerò la sua corsa e Werner dovette
arrendersi. A testa bassa e senza più fiato, frastornato da quella situazione
imprevista che aveva reciso il loro equilibrio familiare, l’uomo tornò a casa
da sua moglie e la trovò ancora lì, seduta immobile sul divano, con lo sguardo
perso nel vuoto dell’angoscia. Quante volte avevano tentato di raccontare ad Andrej
la verità delle sue origini e del loro passato ma il coraggio era mancato. Quante
volte avevano provato quel discorso alla ricerca delle parole migliori da dire
e dei possibili atteggiamenti da assumere ma il momento non era mai quello
giusto.Era sempre troppo presto ed Andrej non abbastanza grande per comprendere
la sua e la loro storia e portare il peso degli sbagli di un’intera umanità.
Volevano proteggerlo dal dolore che la scoperta della verità nei suoi tragici
dettagli gli avrebbe procurato. Ma forse questa era soltanto una
giustificazione per proteggere se stessi dai fantasmi del passato e dalla paura
di perdere il loro bambino, la propria genitorialità. E adesso il senso di
colpa per aver sbagliato tutto li aveva colpiti come un pugno allo stomaco. Si
scambiarono un rapido e intenso sguardo atterrito, rassegnato, carico di
rimorso per poi piangere di nascosto l’uno dall’altra il proprio dolore.
Arrabbiato con se stesso, Werner si chiuse nella camera da letto sbattendo la
porta mentre Nadine rimase sul divano, con la testa china e le braccia
incrociate sul ventre, svuotata, strappata dell’amore di un figlio tanto
desiderato. Entrambi consapevoli che l’uno non avrebbe capito il dolore
dell’altra, così diverso e così uguale.
Werner uscì dalla stanza e, con le braccia conserte e lo sguardo cupo di
preoccupazione, osservò le dita di Nadine indugiare sulla cornetta del telefono
prima di sollevarla e comporre tremanti il numero di Kurt: era da lui che Andrej
era solito rifugiarsi dopo un litigio con i genitori o un problema a scuola,
nella certezza mai delusa di ricevere dal suo zio preferito una parola giusta
di conforto e incoraggiamento. Almeno fino a quel momento. Era bastata una sola
e semplice parola di Kurt, un “pronto” appena sussurrato con voce flebile e
spezzata di lacrime trattenute a far capire subito a Nadine che qualcosa non
era andata per il verso giusto. Questa volta il caro zio non era riuscito a
consolare Andrej ma in compenso aveva ferito un altro giovane cuore, quello di
sua figlia, il cuore di Brigit. Alla rabbia del ragazzo contro i suoi genitori,
Kurt aveva risposto rivelando a sua figlia che anche lei era stata adottata.
Una verità scagliata veloce come una freccia, quasi per sbaglio, ma subito
sospesa a mezz’aria perché alle domande di Brigit rispose il silenzio di un
padre paralizzato dai ricordi di un passato troppo difficile da raccontare,
doloroso da rivivere. “Adesso non so più chi sono.” aveva biascicato la ragazza
fra le lacrime tormentandosi le mani e la freccia scavava i cuori di entrambi
unendoli nello stesso, seppur diverso, dolore. Kurt non riuscì a riempire quei
buchi che lui stesso aveva spalancato e lasciò che la persona più importante
della sua vita scappasse via, confusa e tradita. Solo Engel tentò di persuadere
i due giovani ma inutilmente. Brigit ed Andrej
fuggirono insieme portandosi dietro i loro bagagli di rabbia e delusione. “Mi
dispiace, Nadine.” disse Kurt e non poté più trattenere le lacrime. Pianse con
lei, quell’amica che aveva sempre capito e condiviso i suoi dolori. E ora più
che mai.
“Proviamo a ragionare un attimo …”
ribatté Brigit gesticolando nevroticamente, seduta a gambe incrociate su una
vecchia poltrona “… Siamo rinchiusi da due giorni in questa topaia. Non
sappiamo dove andare. Non abbiamo un soldo. Per quanto tempo ancora riusciremo
a scappare dalla nostra vita?” Andrej rimase di spalle con le mani poggiate sui
fianchi e, con un ghigno sarcastico, disse: “Sì, una vita costruita sulle
bugie.” I due giovani avevano trovato rifugio in una baracca abbandonata vicino
alla palude e iniziavano a mettere in discussione la loro scelta, Brigit
palesemente mentre Andrej non ammetteva nemmeno a se stesso il suo
ripensamento. “A me manca quella vita e manca la mia famiglia. Loro sono la mia
famiglia e mi fa stare male pensarli in angoscia per me …” riprese la ragazza
con voce sempre più spezzata ma sicura “… Ho deciso di tornare a casa perché
non posso continuare a nascondermi da una verità che neanche conosco, non posso
dimenticare tutto l’amore che mi è stato dato per diciassette anni. Ho bisogno
di avere delle risposte ai miei tanti perché, ho bisogno di conoscere le mie
radici e togliermi dal petto questa terribile sensazione di vuoto.”Le
parole di Brigit erano un fiume in piena che spingeva sugli argini del
risentimento nel cuore di Andrej, che restava immobile ma con le braccia lungo
i fianchi di una decisione ormai compromessa. “Tu fai quel che vuoi ma io torno
a casa.” concluse la ragazza, prima di alzarsi con uno scatto e uscire di
corsa. “Brigit!” urlò Andrej.
Città di Fürstenberg/Havel
Nadine accompagnò i poliziotti alla
porta e, per l’ennesima volta, li ringraziò scusandosi per il disturbo. “È il
nostro dovere.” rispose uno dei due agenti con voce ferma e lasciarono
prontamente l’uscio. Con estrema lentezza, la donna chiuse la porta: era stanchissima.
Tutto il suo corpo tremava, ancora scosso dalle ore di preoccupazione e
angoscia; le gambe non la reggevano più in piedi per i chilometri percorsi alla
ricerca di suo figlio e di Brigit e l’incedere avanti e indietro per la casa; i
suoi occhi bruciavano di sonno perso e lacrime versate e la testa sembrava
esploderle per quel rincorrersi frenetico di pensieri e quel groviglio di
ricordi che, a breve, avrebbe dovuto districare. Raccontare ad Andrej la verità
le faceva paura. E lui era lì, seduto sul divano del soggiorno, con le gambe
accavallate “a quattro” e le braccia incrociate, lo sguardo risentito e ostile
come quello di Brigit che gli sedeva accanto ma con gli occhi coperti anche da
un velo di lacrime. I due ragazzi avevano deciso di condividere il momento più
drammatico e significativo della loro vita, insieme come se già sapessero di
essere i protagonisti di una verità che accomunava e univa la vita dei loro
genitori adottivi. Nadine non aveva dubitato nemmeno per un istante che ad
interrompere quel silenzio, alternato ai deboli sospiri di Engel e ai vani
tentativi di Kurt e Werner, sarebbe stata proprio lei. Anche questa volta le
toccava essere forte, vestire la maschera del coraggio e prendere in mano una
situazione che nessuno avrebbe smosso. Quanto le costava strapparsi quel peso
dal petto, vincere quel nodo che le stringeva la gola, vincere se stessa per
addossare il fardello del suo passato sulle spalle di due giovani figli, ferire
e ferirsi. Ma quel dolore era necessario per risanare gli affetti e ricucire un
equilibrio strappato dalla scoperta di verità taciute o dette a metà. Quelle
parole avrebbero distrutto e ricostruito allo stesso tempo. “Andrej, ti ho
sempre raccontato di essere stata a Ravensbrück soltanto durante l’ultimo anno
di guerra ma ti ho mentito. Sono stata a Ravensbrück per ben cinque anni. Era
il 2 luglio del ’39 e avevo appena compiuto diciannove anni …”
Tra
di noi
non
ci sono più ingannevoli parole
ma
il mormorio degli anni
come
onde che si infrangono nel sole.
Tiromancino,
Tra di noi
[1]La Foresta della
Sprea è una regione paludosa situata a sud-est di Berlino e attraversata dal
fiume Sprea. È caratterizzata da canali, fiumi, paludi e foreste.
Capitolo 27 *** Il frutto della verità - Prima parte - ***
Capitolo 27
Il frutto della verità
- Prima parte
-
“Preferiamo
ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti
diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi”.
Massimo
Gramellini
Immagine dal film “Padre e figlio”
Sarebbe
stato molto meglio non sapere e andare avanti restando nell’oblio, piuttosto
che fare i conti con un passato così doloroso, disperato, devastante, quasi
surreale nella sua crudezza. Una delle pagine più buie della storia
dell’umanità non era più muto inchiostro sui libri di scuola ma adesso aveva
voci e mani tremanti, volti inquieti e occhi velati di lacrime. Le immagini
sfocate viste alla televisione diventavano carne e respiro attraverso le parole
di coloro che fino a qualche giorno prima erano i loro genitori. Parole che nei
loro giovani cuori alimentavano sentimenti opposti di compassione e
risentimento. Il tragico racconto del loro vissuto, dal quale non riuscirono
neanche a cogliere il sottile filo di speranza che lo attraversava, non fu
sufficiente a spazzare via la rabbia e la delusione per le tante bugie dette e
le verità taciute per troppo tempo. Verità al cui ascolto i due giovani
avrebbero voluto tapparsi le orecchie, urlare, sparire. Ma per Andrej la verità
più difficile da metabolizzare, il boccone più amaro da ingerire fu la scoperta
del passato nazista di suo padre. Werner, che fino a due giorni prima credeva
suo padre, il suo eroe, il dottore buono che aiutava i pazienti più bisognosi,
era in realtà un medico della morte e il suo vero nome sapeva di paura e
angoscia, di prigionia e ingiustizia, di vite crudelmente spezzate.Günther
era un sinonimo di Aktion T4, di programma nazista di eutanasia, di
duecentomila vittime tra le persone più deboli e indifese. La maschera si era
sciolta al calore di una verità che bruciava, rivelando che quell’uomo non era
suo padre e soprattutto non era la persona che conosceva. Anzi faceva parte
della foltissima schiera di criminali che molto probabilmente lo avevano reso
orfano. A quest’ultimo pensiero, Andrej non riuscì più a trattenere il senso di
nausea che gli aveva attanagliato la gola, lo stomaco, le viscere in quegli
interminabili e strazianti minuti. Corse in bagno. Le sue certezze non erano
altro che bugie mascherate, i suoi genitori dei perfetti sconosciuti che
avevano recitato in modo impeccabile una parte lunga diciassette anni e lui non
sapeva più chi fosse. Intanto, Brigit sollevò le ginocchia sul divano e vi
nascose il viso scoppiando in un pianto dirotto, disperato, inconsolabile. Mai
come in quel momento si era sentita così sola e smarrita, privata della più
piccola, scontata e fondamentale certezza: essere figlia di un padre e una
madre di cui fidarsi, in cui credere, a cui appoggiarsi e da qui, dalle sue
stabili radici, avere la consapevolezza di se stessa. Tutto era perso, lei si
era persa.
Brigit
adagiò il mazzo di fiori sul marmo grigio. Chinandosi, un ginocchio ne sfiorò
il freddo e una lacrima fuggitiva vi trovò riposo. I pensieri rallentarono la
loro corsa, lì dove il tempo si ferma per continuare nell’eternità. Lì dove sua
madre e suo padre, Anja e Karl, sarebbero stati per sempre quei due ragazzi di
sedici e diciotto anni, coraggiosi e testardi, generosi e imprudenti, sognatori
ribelli con la speranza e la pretesa di poter cambiare il mondo. Ragazzi, come
lo era anche lei con i suoi diciassette anni, ma con una maturità diversa, con
ragionamenti, espressioni, atteggiamenti, gesti diversi, ben lontani dalla
spensieratezza e i capricci di una vita le cui maggiori preoccupazioni erano
prendere bei voti e indossare bei vestiti. Il velo di lacrime divenne più
spesso, impedendole di fissare in modo nitido i nomi e le date incisi sulle
targhette bianche, scurite dal tempo e, in uno scatto veloce, cercò le mani dei
due angeli che la affiancavano, Engel e Kurt, i suoi genitori.Una
richiesta di conforto, uno slancio di affetto, di riconoscimento, di rimorso
verso coloro che l’avevano cresciuta, guidata, supportata dandole il meglio e
anche il superfluo. Le lacrime scivolarono veloci sul suo viso stanco e, lì
dove tutto sembra finire inesorabile e senza speranze, un abbraccio infinito,
che sapeva di riconciliazione e consapevolezze rinnovate, diede vita ad un
nuovo inizio.
I
nazisti erano tutti scomparsi, dissolti nel nulla. Gli 8,5 milioni di iscritti
al Partito nazista si nascondevano alle coscienze, complice la collettiva ed
euforica speranza nella democrazia, nella ricostruzione, nel boom economico, in
un divertimento che era solo di facciata. Presi dal presente e protesi verso il
futuro, nessuno si poneva domande sul passato, nessuno ricordava. D’altra
parte, anche lui non si era mai posto domande sul passato di Werner, convinto
della sua estraneità ai crimini nazisti. Per Andrej suo padre era sempre stato
un cittadino inconsapevole, un medico innocente, o tutt’al più un oppositore
travestito da conformista. La scelta di sposare una ragazza ebrea sopravvissuta
a un campo di concentramento non aveva fatto altro che confermarlo nella sua
convinzione. E i suoi pensieri andarono a lei, a Nadine: come aveva potuto
accettare di trascorrere il resto della propria vita accanto ad un nazista,
pentito ma pur sempre colpevole, donarsi a mani complici delle crudeltà subite
e degli affetti strappati? Come poteva l’amore andare oltre i ricordi, le
sofferenze, il rancore, le brutture dell’altro, le proprie origini … oltre se
stessa? Questi interrogativi riavvicinarono Andrej a sua madre adottiva e capì
che la risposta era racchiusa nella domanda stessa, nell’inesplorabile mistero
dell’amore. Sfogliare tra le pagine del cuore di Nadine, pur non comprendendo
appieno, entrare nell’intimità dei suoi sentimenti, fu la prima toppa su un legame
strappato e gli permise di aprirsi di nuovo con lei. “Ho deciso di mettermi
alla ricerca dei miei genitori. Tu, Kurt, Edith, Yonathan e tanti altri ce
l’avete fatta e posso ancora sperare di trovarli in vita e conoscerli …” le
confidò ma Nadine non ne rimase sorpresa, aspettandosi da giorni questo colpo
“… Mi aiuterai?” Aiutarlo significava rischiare di perderlo e il suo cuore di
madre piangeva di tristezza. “Non posso farlo da sola.” rispose e, proprio in
quel momento, Werner si affacciò alla porta della stanza. Andrej gli rivolse
uno sguardo più rabbonito: aveva bisogno anche di lui.
Capitolo 28 *** Il frutto della verità - Seconda parte - ***
Capitolo 28
Il frutto della verità
- Seconda
parte -
Immagine dal film “Padre e figlio”
Lago
di Schlachtensee, 1 settembre 1962
L’acqua
del lago brillava al sole, ancora alto e caldo nel cielo limpido di un
pomeriggio di inizio settembre. Le ore che preferiva. Il silenzioso fruscio
degli alberi, il flebile cinguettio degli uccelli, il melodioso e ritmico sussurro
delle onde che accarezzavano le sponde facevano da cornice ai suoi pensieri.
Nadine si sentiva sola e ricercava la solitudine nella quiete del suo rifugio.
Era uscita di casa senza lasciare neanche un biglietto ma Werner sapeva bene
dove avrebbe potuto trovarla. Davanti ai suoi occhi socchiusi dal vento leggero
era fissa l’immagine di una valigia aperta sul letto e nel suo cuore si annidava
la rassegnazione per l’imminente e definitiva separazione.Il
giorno seguente, Andrej sarebbe partito alla volta di Cracovia per conoscere il
suo padre biologico, un ebreo polacco sopravvissuto al campo di concentramento
di Mauthausen, lì dove invece sua madre si era spenta alcuni giorni dopo averlo
dato alla luce e affidato al generoso coraggio di un’infermiera. Werner lo avrebbe
accompagnato in questo viaggio. Tra lui e Nadine si era innalzato un muro di
silenzio per la mancata comprensione e condivisione del dolore che li
attanagliava. Per Nadine erano incomprensibili, quasi irritanti la calma, la
pazienza, la forza, la determinazione di suo marito nella ricerca dei genitori
naturali di Andrej, confondendo questo atteggiamento con un sentimento di
distacco mentre Werner non riusciva a capire la passività di sua moglie,
scambiandola per una forma di egoismo verso il loro figlio. Al dolore
aggiungevano altro dolore. Il vento soffiava un po’ più forte sul lago e tra i
suoi capelli mentre il tempo scorreva, avvicinando inesorabilmente il momento
del distacco. Diciassette anni prima per amore aveva accolto Andrej nella sua
vita, ricercando inizialmente la propria felicità nella realizzazione di sé
come madre e adesso per amore avrebbe dovuto lasciarlo andare via, desiderando
soltanto il suo bene e la sua felicità. “Nadine!” Una voce familiare la raggiunse
come un sussurro lontano. Non si volse e si limitò ad ascoltare il suono dei
passi che si avvicinavano schiacciando rami secchi, ciottoli e foglie cadute.
“Werner!” Quando fu troppo vicino dovette alzare lo sguardo e abbozzare un
lieve sorriso. “Sapevo che ti avrei trovato qui.” Seppur pacata, dalla voce di
Werner si percepiva un tono di rimprovero. Nadine rispose con un debole sospiro
mentre suo marito le sedette accanto. “Non ti sei presentata a lavoro e sei
sparita senza lasciare neanche un biglietto. Anche Kurt era in pensiero per
te.” Il rimprovero si palesò nella voce più decisa. Nadine sbuffò, alzando gli
occhi al cielo e provocando la reazione di Werner. “Credi di essere l’unica a
soffrire per questa situazione?” disse spazientito, costringendo i loro sguardi
ad incrociarsi. Da troppo tempo la donna non rifletteva il volto di suo marito:
la luce del sole rivelava tanti altri fili d’argento fra i suoi capelli biondi;
nuove, piccole rughe sottolineavano gli angoli dei suoi occhi verdi, tristi e
stanchi di lacrime più amare. Lo guardò con uno sguardo diverso, quello di un
tempo, capace di entrare nei suoi sentimenti e provarli sulla propria pelle e
capì che forse proprio lui avrebbe avuto la parte peggiore in quella
situazione. Gli aprì di nuovo il cuore e si spogliò di quell’inconfessato
egoismo. Nadine non era più sulla difensiva e, sotto il velo di lacrime che le
copriva gli occhi, Werner riuscì a scorgere la sua paura e il suo smarrimento.
Lasciò che la tenerezza gli accarezzasse il cuore e, con uno slancio improvviso,
strinse fortemente a sé la donna amata, persa e ritrovata. Entrambi scoppiarono
in un pianto più eloquente di mille parole e in quell’abbraccio, così forte
quasi da togliere il respiro, svanì ogni ombra di rancore. Tra le braccia l’uno
dell’altra ritrovarono la cura al loro dolore e, tra le note dei loro cuori che
di nuovo vicini battevano all’unisono, la forza per affrontarlo. Il muro era
stato abbattuto.
Cracovia,
2 settembre 1962
Il
viaggio durò una vita intera. GuidavaWerner, tenendo gli
occhi fissi sulla strada e il cuore rivolto ai momenti trascorsi con suo figlio
Andrej: i giochi, le passeggiate in bicicletta, le feste comandate, i pomeriggi
al lago nel buffo tentativo di pescare, le risate, le sgridate, i primi
conflitti, i silenzi, le giornate da raccontarsi a tavola … la quotidianità di
una famiglia come tante. Negli ultimi mesi si era fatto in quattro,
sacrificando tempo e denaro, per strappare alla propria vita il bene più
grande. Diventare padre lo aveva fatto crescere come uomo. Il pensiero di dover
essere forte e superare le ferite del passato per un altro, più fragile e
bisognoso di cure, lo aveva realmente rafforzato e guarito. Lo aveva cambiato.
Nadine ne era stato il motivo mentre Andrej il fine. Con l’animo in preda a
sentimenti contrastanti, Werner non sapeva se augurargli un incontro deludente
o un riavvicinamento positivo con tanto di lacrime e abbracci. Non voleva
perderlo ma nemmeno vederlo soffrire e un po’ temeva per ciò che avrebbe potuto
trovare dietro quella porta dal momento che, in diciassette anni, quell’uomo
non aveva neanche provato a cercarlo. Anche se teso, Andrej sembrava ottimista.
“Ecco, siamo arrivati.” fece Werner con voce strozzata, parcheggiando
l’automobile davanti a un palazzo di nuova costruzione. Lo guardò di sottecchi:
Andrej indugiava ad uscire, tormentandosi le mani a testa bassa. Dopo qualche
secondo, ricambiò lo sguardo e ruppe un silenzio lungo due mesi. “Grazie per
tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. So che non è stato facile. E
per tutto ciò che mi hai dato in questi anni. Dopotutto sei stato un buon
padre.” disse, con un’aria quasi di sufficienza. Ma Werner non si aspettava
così tanto e ne fu commosso. Riuscì a biascicare solo un “grazie”, trattenendo
con un sorriso le lacrime, mentre Andrej apriva lo sportello e lo guardò
sparire velocemente nella penombra del portone.
Al
primo gradino Andrej si fermò: si era reso conto di non aver preparato nessun
discorso. Sentì il cuore battere un po’ più forte e la sicurezza sulla sua
capacità di improvvisare al momento venir meno. Fermò ancora il suo incedere
lento e volse lo sguardo all’ultima rampa di scale. I gradini sembravano
altissimi e non avere mai fine, grosse gocce di sudore gli grondavano dalla
fronte aggrottata per la tensione e diede il nome di paura a quel brivido
freddo che gli percorreva la schiena. Era la paura di un rifiuto, di una porta
chiusa in faccia e al tempo stesso di un ricongiungimento, di un cambiamento
improvviso nella sua vita. Ma si fece forza e, trascinando i piedi pesanti,
continuò a salire. Il desiderio di conoscere il suo vero padre e il bisogno di
riconoscere in lui la propria identità erano troppo forti. Esitando per qualche
secondo, bussò alla porta con mano come addormentata e la persona che cercava
gli fu subito davanti. Era lui, era suo padre quell’uomo sulla quarantina dalla
corporatura esile e l’altezza regolare, con gli occhi azzurri e i capelli
castani e l’espressione stravolta di chi ha visto un fantasma. Sembrava averlo
riconosciuto. “Hai sbagliato a venire fin qui.” disse con voce autorevole ma Andrej
non capì. “Sai chi sono? Mi hai riconosciuto?” domandò confuso, portando le
mani al petto. “È meglio che vai via.” ribatté l’altro più ostile, tentando di
chiudere la porta che il giovane prontamente bloccò. “Perché non ritorni dalla
tua bella famiglia nazista?” infierì l’uomo con sarcasmo mentre Andrej picchiò
i palmi delle mani contro la porta. “No! Adesso ho bisogno di spiegazioni!
Perché mi hai cercato?! Perché non mi hai ripreso con te se non volevi che
crescessi con loro?!” “Non farti illusioni. Ti ho cercato soltanto per
assicurarmi che il sacrificio della mia povera moglie non fosse stato vano e
poi tu non fai più parte della mia vita.” rispose con tono più rabbonito e
intanto dall’interno della casa si udì una voce di donna. “Caro, chi era alla
porta?! Dovresti venire a darmi una mano a fare il bagnetto ad Andrej!” Quei
secondi di silenzio sembrarono eterni. “E allora perché l’hai chiamato come
me?” esordì il giovane atterrito e negli occhi dell’uomo si accese un luccichio
di commozione che subito scomparve. “Vai via o chiamo la polizia.” concluse ed Andrej
gli permise di sbattergli la porta in faccia.
“Ogni
genitore è in un determinato momento il padre del figliol prodigo, senza nulla
da fare che non tenere la sua casa aperta alla speranza”.
John
Ciardi
Andrej rimase a fissare la porta chiusa,
inerme, sconvolto, incapace di comprendere l’accaduto. Per un attimo pensò di
essersi addormentato durante il viaggio e di aver fatto soltanto un brutto
sogno. Perché non poteva essere vero che suo padre lo avesse rifiutato,
cacciato via, ferito, ignorando la voce del sangue. Ma quello non era suo
padre, quella non era la sua famiglia, quella non era la sua casa, quello non
era il suo posto. Il cuore accelerò di delusione e rabbia, in primis contro se
stesso e la propria ingenuità e, di corsa, scese le scale.
Werner distolse lo sguardo dal suo punto
fisso: Andrej gli era passato accanto come una freccia, con la testa bassa, le
braccia stese lungo i fianchi, i pugni stretti, rigido, arrabbiato. Qualcosa
era andato storto. Il malessere di suo figlio lo attraversò dentro come una
scarica elettrica e, balzato dalla macchina, gli corse dietro. Più volte urlò
il suo nome e lo pregò di fermarsi, ricreando così una scena già vissuta.
Andrej non aveva il coraggio di
fermarsi, di voltarsi indietro e guardare in faccia Werner dopo il suo
atteggiamento di disprezzo e le sue parole di addio, colto dal pensiero che
anche lui lo avrebbe rifiutato e che niente sarebbe stato più come prima. Non
aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, di farsi perdonare e perdonare il
suo passato nazista e le sue reticenze, di raccontargli della sua aspettativa
delusa e ammettere, prima di tutto a se stesso, che si sbagliava e che c’era
una voce più forte di quella del sangue. Quell’uomo che lo seguiva e lo
chiamava disperato, che lo aveva cresciuto e amato incondizionatamente,
quell’uomo con la coscienza in debito verso l’umanità e un bagaglio di cose non
dette a tempo opportuno, era suo padre, il suo vero padre e a suggerirglielo
era la voce del cuore.
Poi di colpo Andrej fermò il suo
incedere spasmodico e si voltò, gli andò incontro e gli si gettò tra le
braccia, esplodendo in un pianto dirotto. In diciassette anni Werner non lo
aveva mai sentito piangere in quel modo, così disperato e straziante, come quando
si perde una persona cara. Le lacrime gli cadevano a fiotti sulla giacca e gli
penetravano il cuore, ferendolo. Rivoleva suo figlio ma non a quel prezzo.
Abbracciare il dolore di Andrej lo faceva sentire impotente, un po’ come quando
da piccolo stava male e lui non poteva farci niente, se non aspettare che la
medicina facesse effetto. Essere un dottore non lo esonerava dal provare
apprensione per suo figlio. In quel momento desiderò avere accanto Nadine: lei
sì che avrebbe avuto le parole giuste per rassicurarlo, la medicina per il suo
cuore ferito. “Lui … lui non … non …” balbettò Andrej fra i singhiozzi. “Shh … Non è necessario. Sta’ calmo …” Werner
lo interruppe con tenerezza e pronunciò quelle tre brevi parole, troppe volte
negli ultimi anni taciute per pudore e rimaste in bilico sulla punta del cuore,
antidoto efficace e vera manifestazione del suo affetto “… Ti voglio bene.” Ma Andrej
si aggrappò alle sue spalle e pianse più forte.
Nadine si ritrovò davanti un Andrej
diverso, provato, stanco. Il suo portamento era dimesso, il suo viso pallido di
tristezza e dai suoi occhi gonfi di lacrime traspariva uno sguardo perso nel
vuoto. Werner gli assomigliava ed entrambi sembravano fantasmi. Capì subito.
Sollevò la mano verso la spalla di suo figlio per tentare un gesto
consolatorio, per introdurre una parola di conforto ma Andrej le volse le
spalle e si diresse verso la sua stanza. Lo sguardo di resa di Werner
incrementò la sua angoscia.
Nadine era sempre più angosciata: Andrej
non usciva dalla sua stanza da ben due giorni, neanche per mangiare. Desiderava
varcare quella porta, parlargli, rassicurarlo, infondergli coraggio, aiutarlo
ad uscire da quello stato di isolamento ma temeva di ottenere l’effetto
contrario invadendo il suo dolore e, allo stesso tempo, di sembrarne
indifferente. Si sentiva confusa, smarrita, non sapeva come né quando agire e,
insieme a Werner, si diede un altro giorno di tempo.
Ma al terzo giorno Andrej uscì dalla sua
stanza per fare colazione, mangiò l’impossibile davanti allo sguardo stupito di
Nadine e Werner e, addentando famelicamente una fetta biscottata, ruppe il suo
silenzio. “Prima che finisca l’estate organizziamo una giornata al lago con lo
zio Kurt?” domandò, come se nulla fosse accaduto. Nadine e Werner si guardarono
con aria interrogativa e gli risposero con un “sì” corale e perplesso.
In quei tre giorni vissuti da solo con
se stesso, Andrej aveva ripercorso i suoi diciassette anni, riscoprendo
l’insostituibile presenza di Nadine e Werner in ogni tappa della sua vita,
bella o brutta, significativa o ordinaria, una presenza discreta e mai
soffocante, fatta di calore e sostegno. Curato e amato, non gli avevano mai
addossato il peso del loro passato e si era sempre sentito figlio. Nadine e
Werner erano i suoi genitori, sua madre e suo padre, nonostante gli errori
passati e le mancate verità, al di là del legame biologico. Pur non avendo lo
stesso sangue, in loro si riconosceva nel modo di pensare, nelle espressioni,
negli atteggiamenti e, curiosamente, anche in alcune caratteristiche fisiche.
Perché era l’amore il legame che li univa, che li rendeva simili e faceva di
loro una famiglia. Per amore Nadine e Werner avevano scelto di accoglierlo
nella loro vita e adesso per amore era Andrej a scegliere loro.
Assomiglieremo come gocce, sarò presente la tua notte. Io padre tu mio figlio, diventerò più grande insieme a te. Divideremo il bene dal male, terrò distanti le tue paure.
Capitolo 30 *** Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte ***
Capitolo 30
Tra sorrisi accesi e lacrime
asciutte
“Forse
la vita è come un fiume che va al mare. Non è andata dove intendeva andare, ma
è finita dove aveva bisogno di essere”.
Fabrizio
Caramagna
Città di Fürstenberg/Havel, 1 luglio 1968
Dopo una lunga giornata di lavoro, Nadine tornò a
casa. Ad accoglierla il buio e il silenzio, binomio perfetto per concludere un
malinconico compleanno. Questa volta, per qualche strano motivo, nessuna delle
persone a lei più care lo aveva ricordato, nemmeno suo marito e suo figlio. Si
appoggiò con una mano alla parete e, dolorante, sfilò dai piedi le décolleté,
tirando un sospiro di sollievo. Nel giorno del suo compleanno era sempre
difficile non richiamare alla mente Ravensbrück, coincidendo infatti con il suo
ultimo giorno di libertà prima della deportazione, e da lì, fare un bilancio
della propria vita intervallato da tanti se e perché. In momenti come quelli,
si domandava come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate
diversamente, se non fosse mai stata deportata a Ravensbrück oppure se fosse
riuscita a scappare prima con Kurt. A tal proposito, non provava rimpianti
perché di sicuro non sarebbe diventata la donna che era, non avrebbe mai
incontrato Werner e suo figlio non sarebbe stato Andrej.
Senza le ferite di Ravensbrück sarebbe stata una donna un po’ più
fragile e, conoscendolo meglio, con Kurt non avrebbe avuto una vita felice. Ma
in fondo anche il suo essere era stato condizionato dagli eventi passati e da
ciò che aveva vissuto, dall’orrore nazista visto e provato sulla propria pelle.
Grazie all’aiuto di Kurt, era riuscita a realizzare il suo sogno di raccogliere
fondi a favore dei sopravvissuti che, a differenza sua, attendevano ancora un
riscatto dalla vita, mediante cene di beneficenza e serate di ballo. Un sogno
scaturito non soltanto dal suo desiderio di fare del bene ma anche da un
nascosto senso di colpa: quello di non aver fatto nulla per gli altri a tempo
opportuno, di non essersi ribellata davanti alle scene di crudeltà nel lager,
di essere sopravvissuta. Aiutare gli altri era una delle risposte al perché
della sua sopravvivenza a Ravensbrück ed anche un modo per espiare il suo
debito con la vita. Tolse la giacca, restando con la camicetta di seta bianca e
liberò dallo chignon i capelli, adesso un po’ più corti e scuri, che ne uscirono
arruffati. Casualmente, volse lo sguardo verso lo specchio sulla parete e
incrociò la malinconia della sua immagine riflessa. Quarantotto anni e nella
sua vita la felicità era sempre stata un qualcosa per cui combattere, da
rincorrere e, una volta afferrata, facile da sfuggirle ancora; a volte di cui
vergognarsi e da nascondere ai fantasmi di chi aveva lasciato fra i tormenti di
Ravensbrück. Nonostante i sogni realizzati, i sorrisi accesi, l’affetto delle
persone che la circondavano e l’amore dei suoi cari, per quanto potesse
sforzarsi, non riusciva ad essere pienamente felice e spesso si ritrovava a
piangere lacrime asciutte, come in quel momento. Ventitré anni dalla fine della
seconda guerra mondiale, del nazismo e il mondo, pur cambiando nella cultura,
nelle mode, nella politica, negli stili di vita, nella società, era rimasto
sempre uguale a se stesso, un po’ come lei. All’odio verso gli altri avevano
dato nomi diversi, le persecuzioni erano più sottili e silenziose, le guerre e
le rivolte continuavano ad esplodere e lei restava sempre lì, inerme, senza
poter fare nulla di concreto per cambiare le cose. Del passato nessuno sembrava
aver fatto un buon maestro di vita. Nel giorno del suo compleanno, questa
volta, a distoglierla dai suoi malinconici pensieri non vi erano stati la
vicinanza e l’affetto dei suoi cari, le attenzioni e la colazione a letto di
suo marito, le sorprese di suo figlio, la telefonata di primo mattino di sua
cugina Edith, il pranzo a lavoro con Kurt, le chiacchierate e le risate con
Engel eKäthe davanti ad un’enorme fetta di
torta. Attraversando il corridoio, iniziò a sbottonare la camicetta, quando
all’improvviso sentì il rumore sordo di qualcosa che cadeva a terra seguito da
un brusio di voci e, intimorita, si diresse lentamente verso il salotto. Con
mano tremante, accese la luce e un botto le fece chiudere gli occhi, emettendo
un urlo. “Sorpresa!” dissero tutti in coro e lei rimase impietrita, ricoperta
di coriandoli. Ritrovandosi davanti i volti sorridenti dei suoi cari, di suo
marito e di suo figlio, di Edith, di Kurt e delle loro famiglie, riuscì a
trattenere per poco la commozione e, tuffandosi tra le braccia di Werner che le
porgeva un enorme mazzo di fiori, scoppiò in lacrime. Il suo non era soltanto
un pianto di gioia ma anche liberatorio: era amata, non era sola e si diede
della stupida per averlo pensato, anche se solo per qualche istante. Le persone
che aveva davanti non meritavano i suoi dubbi. “Scusatemi, devo essere
impresentabile.” disse, asciugandosi le lacrime e abbozzando un sorriso. “Non è
vero, sei bellissima.” rispose Werner e lei sorrise ancora. Poi volse lo
sguardo verso suo figlio e, fingendo un tono di rimprovero, aggiunse: “Vorrei
tanto sapere di chi è stata questa idea.” “Della stessa persona che ha
rischiato di rovinare tutto.” replicò Brigit e anche lei volse ad Andrej uno
sguardo canzonatorio. Il giovane alzò le braccia, ostentando un segno di resa
mentre Kurt, chinandosi ad accendere la prima delle tante candeline di una
torta grandissima, disse ironico: “Caro Andrej, adesso toccherà a te solo
prendere la colpa per aver urtato la permalosità di tua madre.” Il sorriso di
Nadine divenne una smorfia. La tristezza aveva ceduto già il posto
all’allegria. “Zia Nadine, non dargli retta. Vieni a spegnere le candeline.”
intervenne la figlia di Edith con affettuosa determinazione, prendendole la
mano per farla avvicinare al tavolo. Guardando alla tenerezza di quella
ragazzina, dai capelli rossi e gli occhi verdi e i tratti simili a quelli delle
fate descritte nelle fiabe, ritrovò la speranza per quel presente costruito
sulle ceneri di un terribile passato e il coraggio di ricacciare i fantasmi
delle sue paure per vivere pienamente e godere degli affetti e di tutto ciò che
la vita le aveva donato. Un palpito di gioia scaturì dal suo cuore, mentre la
fiamma danzante delle candeline arrossiva le sue gote. Sentì di dover essere
felice per amare liberamente, pienamente coloro che le stavano accanto e
affinché il sacrificio di quanti l’avevano aiutata negli anni bui del nazismo
non diventasse vano. Il suo volto si distese in un ampio sorriso e, soffiando
sulle candeline, promise a se stessa di non perdere mai più, neanche per un
istante, la gioia di vivere, di sperare, di amare.
Capitolo 31 *** Le colpe dei padri non ricadano sui figli ***
Capitolo 31
Le colpe dei padri non ricadano sui
figli
“Arriva
un momento in cui i figli ti si staccano dalle mani, come sull’altalena, quando
li spingi per un pezzo e poi li lasci andare. Mentre salgono più in alto di te,
non puoi fare altro che aspettare, e sperare che si reggano saldi alle corde.
L’oscillazione te li restituisce, prima o poi, ma diversi e mai più tuoi”.
Paolo
Giordano
Città di Fürstenberg/Havel, 2 agosto
1969
Käthe si lasciò cadere lentamente davanti
all’armadio spalancato e rimase lì, confusa e impaurita, a guardare in faccia
una verità che in cuor suo intuiva già da tempo ma che non poteva accettare:
suo figlio era un neonazista. A decretare la sua sconfitta di madre erano quei
cimeli, bandiere con i simboli della svastica e dell’aquila, spille e medaglie,
piastrine e uniformi appese con estrema cura, un busto del führer e una
fotografia del suo defunto marito che, con quel ghigno nascosto sotto il
berretto da ufficiale, sembrava deriderla vittorioso. Anche da morto continuava
a farle del male, a distruggerla, prendendosi un altro pezzo di lei, il più
importante, ragione del suo esistere, sostegno nei naufragi della sua vita. La
scoperta del ruolo di suo padre durante il regime nazista non aveva provocato
nel giovane Radolf un senso di rifiuto, di vergogna o di dispiacere, bensì un
pericoloso atteggiamento di emulazione che ormai era giunto al limite. Si
accasciò sul pavimento, chiedendosi disperata dove avesse sbagliato e nella
testa rimbombava la voce di suo marito che, come in passato, le ripeteva quanto
fosse una buona a nulla. Esplose in lacrime, mentre quel ghigno diventava
sempre più una risata sarcastica e irrisoria.
“Käthe!” Quella voce preoccupata arrivò alle sue orecchie come un suono
ovattato e non riuscì a riportarla alla realtà presente. Solo il tocco di due
mani, che dapprima la fecero sussultare impaurita nel tentativo di sollevarla,
ne fu capace. Erano le mani del suo vero amore quelle che ricercavano un
abbraccio nel desiderio di confortarla, di afferrare il suo dolore per
condividerne il peso, che le accarezzavano il viso per raccogliere le sue
lacrime, che pazientarono aperte nell’attesa che lei vi poggiasse il cuore.
“Dov’è che ho sbagliato?!” La domanda di Käthe fuoriuscì come un urlo
disperato, soffocato dai singhiozzi, segnando la fine di una felicità appena faticosamente
conquistata. “Non è colpa tua.” rispose l’uomo, stringendola fortemente a sé e
guardando con apprensione l’interno dell’armadio. “Vedrai che tutto si
sistemerà.” aggiunse ma lei non ci credette e pianse più forte.
A nulla erano valse le lacrime
supplichevoli di sua madre e le ostinate paternali di suo zio, Radolf aveva già
scelto di continuare per la strada sbagliata. “Guardami! …” gli aveva urlato
Kurt, prendendolo di petto “… Guarda come mi hanno ridotto i tuoi eroi!” “È
stata un’ebrea a ridurti così.” ribatté il giovane, sfoderando un’aria di
strafottente incoscienza e prendendosi uno schiaffo che non lo scalfì
minimamente. Per Radolf non c’era niente da fare, nessuno avrebbe potuto
salvarlo dal baratro in cui stava volontariamente precipitando. “Sappi che ti
farai del male.” aggiunse Kurt, puntandogli un dito contro e cercando nei suoi
occhi un accenno di ripensamento che non comparve affatto. Gli occhi di Radolf
non rimandavano più al ragazzo sensibile e solare che era stato fino a qualche
mese prima. Plagiato dagli ideali di un padre che non aveva nemmeno conosciuto,
era diventato improvvisamente cupo e arrogante, proprio come lui. Kurt aprì le
braccia in segno di resa e, volgendosi a sua sorella che sull’uscio della
camera soffocava i singhiozzi in un fazzoletto, disse: “Perdonami, Käthe, ma io
non so più che fare.” Suo fratello l’aveva abbandonata. Käthe si sentì
sprofondare nel più profondo abisso della solitudine e ricercò le braccia del
suo compagno di vita mentre Kurt andava via a testa bassa, rassegnato e
arrabbiato.
Dopo mesi trascorsi a piangere, cercando
una risposta ai suoi perché, Käthe si ritrovò davanti ad un bivio. Seduta nella
penombra della cucina, accompagnata dallo sguardo empatico di Nadine, fissava,
girava e rigirava tra le dita il pezzo di carta sul quale erano scritti un
indirizzo e una data. Il suo istinto di madre non poteva sbagliarsi: il giorno
seguente Radolf e i suoi amici avrebbero preso d’assalto l’abitazione di un
noto avvocato ebreo della città di Zehdenick.Käthe si trovava
quindi davanti ad una scelta difficile: proteggere suo figlio per paura di
perderlo, facendo finta di niente e divenendo sua complice in un atto di
violenza oppure denunciarlo, perdendolo forse per sempre nel tentativo di
salvarlo dal male dell’ideologia nazista. “Cosa faresti al posto mio, Nadine?”
chiese la donna in un sussurro disperato. “Farei di tutto perché non gli
accadesse qualcosa di più grave. Potresti perderlo sul serio, Käthe.” rispose e
gli occhi di entrambe si velarono di grosse lacrime. Le parole di Nadine,
cariche di determinata apprensione, risvegliarono in lei la forza di alzarsi e
fare ciò che in cuor suo aveva già deciso, ancor prima di sfogarsi con la sua
amica, per il bene di suo figlio. Prese allora la cornetta del telefono e
compose un numero. Nell’attesa di risposta, regolò il respiro e il battito del
cuore, poi emise un sospiro tremante. “Pronto, polizia? …”
All’alba del mattino seguente, Radolf e
i suoi amici neonazisti fecero irruzione nell’appartamento dell’avvocato ma non
vi trovarono una famiglia indifesa, bensì manette e pistole puntate contro.
Capitolo 32 *** Vivere è amare, amare è vivere ***
Capitolo 32
Vivere è amare, amare è vivere
“Ci sono volte
in cui vivere la vita è come entrare a mani tese in un cespuglio spinoso di
fiori. Dopo ti senti tremendamente graffiato ma pieno di luce”.
Fabrizio
Caramagna
Käthe
indugiò davanti alla stanza di suo figlio. I suoi occhi erano stanchi di troppe
notti insonni e lacrime versate, le sue mani reggevano mollemente due grosse
scatole di cartone e il suo cuore sembrava non battere più come prima. Si
sentiva svuotata Käthe, vuota, proprio come quelle scatole che aveva posato con
fiacchezza sul letto per riempirle dei cimeli nazisti collezionati da suo
figlio. Radolf era stato processato e condannato per violazione di domicilio,
detenzione abusiva di armi e apologia del nazismo e, dal carcere, rifiutava
ogni contatto con sua madre.Ma per Käthe era ora di farsi
forza. Energicamente, legò i capelli in una coda spettinata e si rimboccò le
maniche del maglioncino per poi avvicinarsi con decisione all’armadio. Sospirò
e, raccogliendo dall’armadio i primi cimeli, iniziò a fare un bilancio della
propria vita, contandone le sofferenze. Ai tempi del regime, nella sua ingenua
incoscienza, aveva sposato un ufficiale delle SS, violento, senza cuore; aveva
perso suo padre e sua madre, che si erano opposti alla persecuzione razziale e,
dopo la guerra, aveva ritrovato un fratello, irriconoscibile, a causa della
violenza nazista che lo aveva quasi ucciso. Il nazismo l’aveva resa orfana e
poi vedova, dopo anni di umiliazioni e maltrattamenti, e adesso la condannava
ancora una volta alla tristezza e alla solitudine, prendendosi anche suo figlio.
Come un male contagioso, continuava a mietere vittime nella sua famiglia. Käthe
ripose nella scatola anche la fotografia del suo defunto marito e, fissandola,
capì di dover riprendere in mano la propria vita, impedendo al passato di
continuare a farle del male. Il dolore nel pensare suo figlio in carcere non
poteva certamente sparire ma, al suo ritorno – qualora fosse ritornato –, Radolf
avrebbe ritrovato una madre più forte, una donna libera, viva. Proprio in quel
momento, apparve sull’uscio il suo compagno. “Fritz!” esclamò in un sussurro
rauco e, per alcuni istanti, i due rimasero a guardarsi in un loquace silenzio.
Il primo passo per ritornare a vivere era quello di lasciarsi alle spalle i
soprusi di suo marito, ricominciando ad aprire il cuore, senza più paure. Con
gli occhi velati di lacrime e la voce rotta dalla commozione, disse: “Fritz, la
risposta alla tua domanda è sì.” Dopo quasi un anno, Käthe aveva accettato di
sposarlo.
Lago
di Schlachtensee, agosto 1970
Nell’aria
aleggiava ancora il tepore di un’estate ormai agli sgoccioli; la lieve brezza,
che di tanto in tanto soffiava sul lago, spruzzava sui loro visi ambrati
gradevoli goccioline d’acqua mentre l’ombra delle foglie ricercava i loro corpi
distesi, desiderosi ancora di sole. Era un sabato pomeriggio, uno di quelli che
ti lascia ricordare le attese deluse e, allo stesso tempo, guardare alla vita
con nuove speranze, che dà alla tua spensieratezza dei tratti malinconici di
una gioventù diventata ormai adulta. Andrej e Brigit erano lì, con i loro
venticinque anni e un bagaglio di sogni e ferite che come amici di una vita
intera avevano da sempre condiviso, all’inizio di un decennio che il mondo
avrebbe ricordato per il desiderio di libertà e progresso, per le lotte
politiche e sociali, per la trasgressione e la musica rock, per i pantaloni a
zampa e i fiori tra i capelli. Come tanti giovani, anche Andrej e Brigit
sognavano un mondo migliore, ma a modo loro, lontani da una mentalità
divorzista e abortista, estranei alla banalizzazione dell’odio come dell’amore,
convinti che solo la memoria e la parola avrebbero abbattuto i muri e
accorciato le distanze. A tal proposito, dopo l’arresto di Radolf, decisero
coraggiosamente di organizzare degli incontri tra i figli delle vittime e dei
carnefici della Shoah, promossi e mediati dai loro genitori. Kurt, Engel,
Nadine e Werner raccontarono le loro storie di vita e quest’ultimo non ebbe
paura nel presentarsi come carnefice e vittima al tempo stesso, figlio del
dottor Günther. Nonostante la riluttanza e le critiche di molti, i due giovani,
grazie all’indispensabile e prezioso supporto dei loro genitori, riuscirono ad
aiutare un cospicuo numero di persone a riconciliarsi con il proprio passato e,
per la sempre più vicinanza l’uno dell’altra, Andrej e Brigit spinsero la loro
amicizia verso un sentimento più grande. L’amore vissuto in gioventù da Nadine
e Kurt era destinato a rivivere nei cuori dei loro figli, in un tempo diverso,
con modalità diverse, accolto ed espresso con maggiore libertà e sicurezza.
Dall’alba del loro giovane amore, scaturì un lungo bacio al tramonto che ne
riempì i cuori di una felicità mai provata prima, una di quelle che ti fa
inumidire gli occhi di pianto e risa. Prendendosi per mano, Andrej e Brigit
lasciarono l’asciugamano e la spiaggia ormai deserta per correre sulla riva.
Tra risate e giochi, acchiapparella e solletico, grida di allegria e abbracci,
si ritrovarono nelle acque del lago con le mani intrecciate e le labbra di
nuovo vicine.
“Ho capito che
nella vita ci sono tante vite, per quante volte in vita abbiamo amato”.
Evgenij
Aleksandrovič Evtušenko
Due
mesi dopo
“Brr,
che freddo!” Anche Kurt era arrivato. Nadine lo accolse alla porta e gli prese
il soprabito bagnato della prima pioggia autunnale. “Di cosa vorranno parlarci
i ragazzi?” chiese con una punta di apprensione, stringendosi nelle spalle,
ancora infreddolito. “Non lo so …” rispose la donna con voce serena, sorridendo
“… Ma posso immaginarlo.” Nadine aveva capito già da tempo che tra suo figlio e
Brigit era maturato un sentimento più profondo, che andava oltre alla loro
storica amicizia, che si palesava nella tenerezza dei loro sguardi complici e
dei loro gesti premurosi. “Sei sempre un passo avanti tu, eh?” disse Kurt per
prenderla un po’ in giro. “Tu invece sei sempre in ritardo. Sbrighiamoci che
sono già tutti qui.” ribatté, fingendosi indispettita e insieme raggiunsero il
salotto. Kurt sedette di sbieco sul bracciolo della poltroncina accanto a sua
moglie e lo stesso fece Nadine mettendosi vicino a Werner, entrambe le coppie
di fronte ai loro figli seduti sul divano. “Allora? Di cosa volevate parlarci
di così importante?” fece Nadine, con l’aria di chi ha già capito tutto. I due
ragazzi sembravano nervosi ed esitanti. Brigit abbassò lo sguardo sul tavolino,
guardando la teiera che aveva smesso di fumare mentre Andrej alzò gli occhi al
soffitto. Poi fu lui a prendere la parola: “Io e Brigit non sappiamo quando né
come è successo, ma abbiamo scoperto di amarci.” “Ma è meraviglioso!” esclamò
Engel, scambiandosi con Nadine un sorriso sgargiante mentre i due giovani
innamorati ricercavano la mano l’uno dell’altra. “Ma c’è dell’altro.” continuò Andrej
più serio. Brigit si morse un labbro e, con voce tremante, disse: “Sono
incinta.” In quel pomeriggio al lago, coperti soltanto della luce rossa del
tramonto, le carezze del vento fresco di fine estate non avevano portato loro
solo un brutto raffreddore, ma anche qualcosa di inaspettato, che faceva paura
e sorridere allo stesso tempo: un figlio. Nel salotto piombò un silenzio
imbarazzante. Anche i respiri sembravano più sommessi. Nadine non sapeva cosa
fare né cosa dire, se esprimere parole di rimprovero o di rallegrata
comprensione mentre Werner si alzò quasi di scatto facendola traballare dalla
sua scomoda posizione. “è inammissibile,
Andrej! …” disse, portando le mani sui fianchi “… E adesso cos’hai intenzione
di fare?!” “Voglio sposarla.” rispose il ragazzo sicuro e, al tempo stesso, con
voce tremante mentre Engel si mosse dalla poltroncina per andare a stringere la
mano di sua figlia. “Adesso dovete prendervi le vostre responsabilità,
rimboccarvi le maniche per questa creatura e, se siete davvero sicuri di
amarvi, iniziare una nuova vita insieme.” intervenne Kurt molto più pacato di Werner.
“Siete davvero pronti per fare questo passo così importante?” continuò Engel,
rivolgendosi con tenerezza a Brigit la quale rispose con un flebile ma
determinato sì. Solo Nadine era rimasta inerme, impigliata ad un vortice di
sentimenti diversi e contrastanti che non riusciva ad esprimere. Infine ruppe
il silenzio, nascondendo in parole di apprensione la sua vecchia, malinconica
paura di lasciar andare Andrej. “Decidete per amore e non per aggiustare le
cose.” disse e il ragazzo ribadì: “Abbiamo già deciso.” Suo figlio era
cresciuto e ormai pronto per spiccare il volo.
“La
mamma dello sposo sarà la donna più bella.” fece Werner compiaciuto,
guardandola nel suo lungo vestito blu notte. Nadine ricambiò lo sguardo attraverso
lo specchio e, sorridendo, indossò anche l’altro orecchino. Ma nei suoi occhi
traspariva un velo di tristezza e nel suo sorriso, che assomigliava più ad un
ghigno, si delineava una curva di inquietudine. Werner se ne accorse subito. Le
si avvicinò e, prendendola per le mani, la indusse a guardarlo in faccia. “Cosa
ti turba, Nadine?” le domandò con estrema apprensione e lei per un attimo
abbassò con aria sofferente lo sguardo. Poi sospirò debolmente. I suoi occhi
brillavano di lacrime trattenute, sfidando il luccichio degli orecchini. “Credi
che Andrej sia davvero pronto?” domandò e Werner rispose con un’altra domanda:
“E tu sei pronta?” Aveva centrato in pieno la vera causa del suo malessere.
Nadine abbassò di nuovo lo sguardo per poi dissentire, scuotendo lievemente il
capo. “Ho paura che non sia pronto per affrontare le difficoltà che verranno.”
disse e Werner, accarezzandole la guancia, ribatté con dolcezza: “E noi lo
eravamo? Quante difficoltà ci hanno messo alla prova! E noi eravamo soli, non
potevamo contare su nessuno.Andrej e Brigit sono due ragazzi in
gamba e poi saprebbero a chi chiedere aiuto.” Concluse con uno sguardo profondo
e un sorriso rassicurante mentre la testa di Nadine si affollava di ricordi
belli e brutti della loro vita insieme: il dopoguerra e la rinascita, le
lacrime delle incomprensioni e le risate dei momenti felici, la trepidante
attesa dell’arrivo di Andrej, la gioia e la fatica di essere genitori adottivi,
le aspettative deluse e l’accettazione dei limiti dell’altro, il loro amarsi
all’immenso e litigare per nulla, quel loro perdersi, ricercarsi e amarsi
ancora … “Hai ragione.” fece Nadine e, sorridendo, strofinò un po’ la palpebra inferiore
per impedire ad una lacrima di sfuggire. “Conserva le lacrime per il
matrimonio.” le disse Werner con espressione serena e lei sorrise più gioiosa.
I
fiori d’arancio che profumavano la chiesa, la commozione che scintillava gli
occhi, lo scambio delle fedi nuziali e le promesse di gioventù tra Nadine e
Kurt si realizzavano nei loro figli. Poi il lancio del riso sugli sposi, lo
scambio di auguri, il volo delle bianche colombe e per la vita della ragazza
sopravvissuta a Ravensbrück iniziava un nuovo capitolo. Cinque mesi dopo, il
senso e l’essenza di una vita intera erano racchiusi tra le sue braccia, in
quei due occhietti grigi che sembravano fissarla, riconoscerla e in quella
manina un po’ violacea che le stringeva forte il dito. Nadine ebbe la sensazione
di aver già vissuto quel momento. Forse era il ricordo di un sogno o un augurio
di speranza, una scena creata dalla sua mente per sopravvivere alla
disperazione di Ravensbrück.Sorrise e una lacrima le rigò il
viso: cullare tra le braccia il suo nipotino, che adesso dormiva beatamente,
valeva ogni attimo vissuto, le gioie e i dolori di una vita intera, tutte le
lotte per continuare a sopravvivere e poi vivere a pieno la propria vita. La
vita che stringeva tra le braccia era il dono più grande che Dio potesse farle
e nel suo lieve respiro era l’anelito di un futuro di felicità, la melodia
appena percettibile che sovrastava i rumori del passato. E ricordò: quella che
stava vivendo era una scena che spesso aveva immaginato aRavensbrück
per aggrapparsi alla vita, l’eco di una voce amica che nel fango dell’umanità
negata la incoraggiava a sperare ancora. Avrai
una splendida famiglia. Stringerai tra le braccia i figli dei tuoi figli. Sarai
felice. E lo era per davvero. Porse ad Andrej il suo bambino e, stringendo
la mano di Werner che era poggiata sulla sua spalla, pianse di gioia, grata
alla vita per averle donato un altro e il più prezioso frammento di felicità.