Alive

di lightvmischief
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45 ***
Capitolo 46: *** Epilogo ***
Capitolo 47: *** Ringraziamenti ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

CAPITOLO 1

 

«Merda» impreco, sbattendo il petto contro il muro, mentre cerco di aggrapparmi ad una scala e scappare dai quei mostri.

Non poteva andare peggio: sono sola, intrappolata in un’orda di zombie, senza un’arma – ho una pistola, ma è senza proiettili – e cerco di salire su una scala che non so nemmeno dove mi porterà.

Andare nel centro della città in cerca di cibo e armi non è stata esattamente una buona idea. Sinceramente, farei meglio a pensare prima di agire.

Salto un’altra volta e riesco ad aggrapparmi con una mano al primo scalino della scala e uso tutta la mia forza per aggrapparmi anche con l’altra mano. Cerco velocemente un appoggio con i piedi contro il muro di quell’edificio.

Si stanno avvicinando.

Devo essere più veloce.

In fretta e furia, mi aggrappo al secondo scalino, poi al terzo, al quarto, fino a quando riesco a toccare il primo scalino con il ginocchio.

Mi fanno male le braccia.

Piego le ginocchia e faccio leva sui piedi.

Riesco a salire; cerco di farlo più veloce che posso.

Arrivo all’ultimo scalino e mi butto di peso sul tetto della struttura. È una fortuna che quei cosi non riescano ad arrampicarsi. Nonostante non sia molto in alto, loro non possono raggiungermi.

Sono al sicuro.

Mi manca il fiato; mi siedo e mi sfilo lo zaino dalle spalle, lo metto tra le gambe.

Poteva andare peggio, penso.

***

Una volta essermi ripresa dallo sforzo fisico, mi rimetto in piedi e cerco una via tra gli zombie. Niente da fare. È passato troppo poco tempo.

Il sole sta tramontando. Devo sbrigarmi se non voglio girare per la città al buio con il rischio di essere attaccata.

Devo trovare un rifugio o, almeno, un posto in cui io possa dormire. Ne ho davvero bisogno.

«Non c’è via d’uscita» dico, liberando la mia frustrazione.

«Già.»

Mi giro, ho il cuore che batte a mille.

A meno che quei mostri non abbiano cominciato a parlare – cosa che trovo molto difficile, dal fatto che molti di loro neanche ce l’hanno una bocca – o qui sopra non sono sola.

Ho la mano sulla pistola, potrei usarla per spaventarlo, perché c’è un ragazzo.

C’è un ragazzo.

O sono in pericolo, o mi vuole aiutare, cosa che trovo molto improbabile. In ogni caso, gli punto la pistola contro.

«È senza proiettili, non sono idiota.» dice il ragazzo.

«Seriamente?!» quasi grido dalla frustrazione. Nonostante sappia che non ho proiettili – cosa che mi sorprende -, tengo la pistola ben puntata contro il suo petto. Non mi fido.

«Senti, non voglio farti niente. Voglio solo aiutarti.» dice e si avvicina.

«Hey! Non avvicinarti.» lo avverto.

Non mi fido.

«Okay, okay» alza le mani e si ferma dov’è.

«Credo che siamo messi nella stessa situazione. Entrambi dobbiamo tornare dai nostri gruppi» continua.

Con la sola differenza che io, un gruppo, non ce l’ho, penso.

Non è una cosa che deve sapere, però. Così annuisco.

«Io potrei sparare alcuni colpi da quella parte, così da aprire una via d’uscita e scappare.» Il piano è buono.

Vedo che il ragazzo possiede una pistola alla cintura, oltre al fucile che ha sulla spalla. Decido di approfittarne; dopo tutto, lui ha un gruppo di persone su cui appoggiarsi, io non ho nessuno e, prima che trovi un’altra arma o dei proiettili, passeranno giorni.

Così, con un cenno della testa, indico la sua pistola.

«La vuoi?» mi chiede, guardandola e sfiorandola.

Annuisco e la sfila dalla cintura, tendendomela.

Abbasso la mia pistola e la infilo dietro la schiena. Tendo la mano sinistra e prendo la sua.

Non so se quello sia stato un gesto di gentilezza o pena. O entrambi.

Il piano ha inizio.

Il ragazzo si porta dalla parte opposta alla mia sull’edificio e punta il fucile verso il basso.

Mi guarda e mi fa un cenno con la testa, mentre comincia a sparare il primo proiettile.

Guardo in basso: si stanno muovendo. Funziona.

Il ragazzo spara un altro proiettile.

Devo saltare, ora o mai più, penso.

Lancio uno sguardo al ragazzo. Non posso lasciarlo lì sopra.

«Hey! Muoviti!» gli urlo, mentre mi siedo sul cornicione della struttura, pronta a buttarmi.

Devo fare attenzione, potrei rompermi una caviglia.

Conto fino a tre. E mi butto.

I miei piedi toccano terra, ma non riesco a mantenere l’equilibrio e cado in avanti, sulle mani. Mi rialzo velocemente, subito pronta a correre via, mentre il ragazzo è atterrato al mio fianco.

«Non abbiamo molto tempo.» afferma. Prende il fucile in mano e comincia a correre.

Scuoto la testa; avrei potuto lasciarlo benissimo su quel tetto.

Decido di muovermi e comincio a correre dalla parte opposta alla sua; preferisco cavarmela da sola, d’ora in poi.

Mi fanno male le gambe, ma non posso fermarmi adesso che ho la strada libera.

Li vedo. Stanno tornando indietro. Non può essere.

Sono in un vicolo cieco; dietro di me c’è l’edificio dal quale sono saltata giù, ai lati ci sono degli zombie qua e là, mentre davanti a me, se prima c’era una via d’uscita, beh, molto presto non ci sarà più. Ucciderne anche solo uno, di zombie adesso, sarebbe un suicidio.

Questi cosi sono molto sensibili ai rumori, la loro sopravvivenza – se così si può definire – è basata solo ed esclusivamente sull’udito.

Ah, e anche su qualche sconsiderato che decide di sparare in mezzo a un’orda enorme di zombie. E questo sconsiderato non può essere nessun altro, se non quel ragazzo.

Non credo che ci sia qualcuno più idiota di lui a questo mondo. Non lo conosco nemmeno e già sta facendo di tutto per farsi odiare.

Tengo ben stretta la pistola tra le mani, sentendo il metallo scaldarsi sotto al mio palmo. Mi guardo alle spalle: l’idiota è dietro di me e sta indietreggiando.

Mi giro di scatto e sparo ad uno zombie che stava per attaccarglisi al braccio: si comincia.

Faccio uno scatto e corro fino al ragazzo. Mi abbasso, evitando uno zombie e sparo alla testa ad un suo compare.

Fuori due.

«Questa volta, ascolta me.» gli dico, una volta essergli arrivata alle spalle.

«Facciamone fuori più che possiamo, poi, appena si crea un buco, scappiamo. Okay?» continuo, mentre sparo ad un altro zombie.

Annuisce e ne uccide uno.

Più andiamo avanti e più stento a credere che ne usciremo vivi, ma vale la pena provarci.

Sento che presto finirò i proiettili e spero di riuscire a cavarmela con la lotta fisica, ma non so fino a che punto potrei resistere. Dovrei mettere in conto anche la corsa e non credo che riuscirei a fare entrambe le cose; ho già avuto abbastanza sforzi fisici per essere una ragazza che è a digiuno. Ero stata già abbastanza fortunata per avere trovato dell’acqua.

«Al mio tre, seguimi.» Mi istruisce il ragazzo.

Non so se fidarmi oppure no: l’ultima volta che l’ho fatto sono finita in un’orda di zombie assassini che cercavano di mangiarmi viva.

«Uno…»

Non so che fare.

«Due...»

Sono stanca di combattere, voglio trovare un posto al sicuro dove poter riposare.

«Tre!»

Faccio uno scatto e seguo il ragazzo: aveva creato una via di fuga.

Lui rallenta, ma continua a correre. Lo seguo; non so perché io lo stia facendo, forse non sa nemmeno che io sono dietro di lui, forse pensa di avermi già seminato.

Eppure lo sto seguendo.

Rallenta sempre di più, fino ad arrivare a camminare.

Deve sentirsi al sicuro in questa zona, penso.

«Sapevo che mi avresti seguita fino a qui. Sono arrivato alla conclusione che, probabilmente, un gruppo non ce l’hai.» Appura il ragazzo, sicuro di ciò che dice, voltandosi dalla mia parte.

Non ho il fiato per rispondergli, ma lo guardo male.

«Io sono Wayne, comunque» continua, questa volta facendo comparire un leggero sorriso sulle labbra.

Lo fisso per qualche secondo e, dopo, riporto lo sguardo davanti a me.

Non ho intenzione di dirgli come mi chiamo e nemmeno di ricambiare il sorriso; non credo sia il caso e non sono una che si fida facilmente delle persone. Anche se fino ad ora l’ho fatto e, per questo, mi ritrovo qui, con lui.

«Senti, avevi… Avevi una bella mira, sai, là fuori… Vorresti unirti al mio gruppo?» mi propone e nel frattempo si ferma davanti a ciò che mi sembra una specie di portone.

«Sto bene da sola, grazie.» Gli rispondo con un sorriso falso.

Ormai aveva scoperto che non avevo un gruppo, non c’era bisogno di mentire ancora.

«Sei sicura? Non hai bisogno di riposare e di cibo?»

Scoppio a ridergli in faccia.

«Me lo stai chiedendo seriamente?»

«Ti sembro uno che sta scherzando?»

Scuoto la testa; non avevo intenzione di restare, o almeno, non avevo intenzione di farlo fino a pochi secondi fa.

Ora avevo davanti a me la possibilità di riposarmi sul serio e di mettere sotto ai denti qualcosa.

I pensieri stavano facendo a botte nella mia testa.

«Va bene. Ma solo per una notte, dopo me ne andrò.»

«Okay, ma se vorrai restare per più di un giorno, sarai la benvenuta»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

Wayne apre il portone dell’edificio e mi fa da guida verso l’interno; alla mia destra ci sono delle tribune, mentre davanti a me e alla mia sinistra lo spazio è occupato da diversi scatoloni e scaffali.

Il ragazzo mi porta verso le tribune, dove sono raggruppate diverse persone.

«Hey, Wayne! Hai trovato qualcosa di utile là fuori?» gli chiede un ragazzo con la carnagione chiara.

«No, però ho trovato lei»

Wayne si sposta di lato e lascia che le persone mi vedano; ero rimasta dietro a lui durante il tragitto porta-tribune.

Una donna del gruppo mi guarda sorpresa, il ragazzo di prima mi rivolge un sorriso, mentre un altro ragazzo mi punta la sua pistola addosso.

Faccio un passo indietro, presa alla sprovvista, e metto una mano dietro alla schiena, pronta a tirare fuori la mia arma, se ce ne fosse il bisogno.

L’avrei già fatto se fossi stata in una situazione diversa, ma, considerando che queste persone potrebbero offrirmi cibo e munizioni, non l’ho fatto.

«Woah, Calum, amico, abbassa quella pistola.» gli ordina il ragazzo dalla pelle chiara.

«Wayne, come mai hai deciso di portarla qui?» continua il ragazzo, mentre mi guarda dalla testa ai piedi.

Alzo gli occhi al cielo; tutti uguali.

«Ve lo spiego dopo. Per il momento, fidatevi di me.» dice lui, lanciando uno sguardo accusatorio alla mia mano sulla pistola.

Alzo un sopracciglio e la tolgo, facendola ritornare a fianco della mia gamba.

«Okay… Allora, benvenuta, baby» dice il tipo con un ghigno.

«Chiamami un’altra volta ‘baby’ e potrai fare a meno della tua simpatia, quando sarai morto» gli rispondo, con un sorrisino sarcastico.

«Gentile e carina come poche, eh? Io sono Blaine, piacere»

«Kayla.»

Ci fu un momento di silenzio.

«Avete intenzione di farmi fare un giro? Ah, e tu potresti anche abbassarla quella pistola.» dico, rivolgendomi al ragazzo di prima.

Scuoto la testa e seguo Blaine, che mi fa un cenno con la mano.

Ci dirigiamo verso una porta che porta ad un corridoio: davanti a me c’è un’uscita di emergenza, mentre alla mia sinistra il percorso finisce con una svolta a sinistra.

Sulla parete a destra ci sono tre porte; entriamo nella prima.

«… Vedo che cominciano a scarseggiare acqua e proiettili» sento dire da una voce maschile, ma non riesco ancora a scorgere nessuna figura.

«Potremmo mandare due di noi a fare un’ispezione.»

Ora, vedo un altro gruppo di cinque persone; questa volta c’è solo un ragazzo, mentre le altre quattro sono ragazze, abbastanza giovani direi.

«Hey, Lynton! Ti presento il “nuovo acquisto” di Wayne.» dice Blaine, indicandomi con il pollice.

Saluto con un cenno della testa.

Non so cosa intendesse per “nuovo acquisto”, ma in questo momento non mi importa; la stanchezza e la fame stanno cominciando a farsi sentire.

«Siccome è nuova nel gruppo…» inizia il ragazzo biondo, Lynton.

«Io non ho mai detto di fare parte del gruppo.» protesto.

Non ne ho alcuna intenzione. Sto bene da sola, questo è stato solo un momento di debolezza.

«Ma sei nuova e sei qua, quindi, tecnicamente, fai parte del gruppo.» continua Blaine.

«Ho intenzione di andarmene domani mattina.» preciso, cercando di farglielo capire.

«In ogni caso, stavo dicendo che potremmo mandarla insieme a Calum a fare un’ispezione in giro, domattina. Solo per farle capire come funzionano le cose qui.» finisce Lynton, ignorandomi bellamente.

«Perfetto, vado io a dirlo a Calum.» dice Blaine, girando i tacchi e lasciandomi lì da sola.

Bene: dovrò fare il giro turistico da sola.

Che bella accoglienza.

***

Una ragazza era venuta da me e mi aveva affidato un posto nel quale dormire, prima. In questo momento, sono seduta proprio lì.

Mi ha detto di chiamarsi Mali e mi ha detto di essere la sorella del ragazzo che mi aveva puntato la pistola addosso, Calum. Non si assomigliano molto, a dire la verità; lei è stata la prima a chiedermi come stavo, mentre suo fratello è stato il primo a tentare di uccidermi.

Mali mi ha detto che con loro c’è anche la loro mamma; sono riusciti a scappare tutti quanti insieme, ma il padre è morto poco dopo essersi unito a questo gruppo.

Si è anche scusata per l’accoglienza di suo fratello, ma le ho detto di non preoccuparsi. Pensandoci, ho agito esattamente allo stesso modo qualche ora prima, con Wayne, il ragazzo del tetto, nonostante le circostanze fossero diverse.

Mi accomodo meglio sulle coperte su cui sono seduta: sono decisamente più comode e più calde del pavimento o dell’asfalto.

Il sole è tramontato: riesco a vederlo dalle finestre sopra le tribune. È buio fuori, ora.

Una bambina sale le tribune e si ferma due gradini sotto di me. Mi ricorda mia sorella.

Ha i capelli raccolti in due trecce, che le arrivano all’addome. Ha il viso dolce.

Alza lo sguardo e mi vede, io le sorrido e lei abbassa lo sguardo, mentre io lo distolgo.

«Mi hanno detto di chiamarti. Si mangia» sento, qualche secondo dopo.

È lei, che ora mi sta guardando e mi fa un cenno con la testa, verso i gradini delle tribune: vuole che io la segua.

Così, mi alzo e mi stiracchio: i miei muscoli sono un po’ indolenziti.

Lei mi fa strada e io la seguo.

«Quanti anni hai?» mi chiede lei, non appena la raggiungo al suo fianco.

«Ne ho venti. Tu, invece?»

«Io ne ho dieci.» risponde e, per la prima volta, mi fa un sorriso.

«Ti trattano bene, qua?» le chiedo, sorridendole a mia volta.

«Sì. Oggi, Lynton mi ha regalato una bambola che ha trovato fuori. L’ho chiamata Rachel.»

Questa bambina sembra così felice, sembra quasi che non sappia cosa ci sia là fuori. Ed è un bene.

Nessun bambino dovrebbe vivere in un mondo così. Non se lo meritano.

Attraversiamo lo stesso corridoio in cui mi ha portato Blaine un’ora fa e lei apre la porta di una stanza, dicendomi che è qui dove mangiano.

Ci sono diversi tavoli e delle panche di legno, ordinate in due file, una non troppo distante dall’altra. Si sono organizzati piuttosto bene.

Noto che ci sono altri due bambini e che la ragazzina che era con me li raggiunge; ci sono anche alcune persone anziane, ma c’è un numero evidente di giovani. Sono un gruppo decisamente numeroso.

Vedo che sono tutti quanti seduti, o quasi: in piedi, a servire ai tavoli – quasi a come un vero ristorante – ci sono cinque ragazzi e due ragazze, tra cui Mali.

Lei non mi ha detto come funzionano le cose qui, nonostante non dovrei rimanere per altro tempo, anche se, al momento, sto rivalutando la scelta.

Vado a sedermi al tavolo più vicino alla porta, che è anche il più vuoto. Mi siedo sul bordo della panca.

Uno dei ragazzi mi vede e si avvicina: deve avere qualche anno in più di me, ma è carino.

«Ciao! Tu devi essere… Kayla, giusto?»

«Sì» rispondo, abbozzando un sorriso.

«Ecco, tieni. Non sarà molto, ma è sempre meglio che niente.» dice, appoggiando sul tavolo un piatto di plastica con del pesce dentro.

Poi, se ne va, non lasciandomi il tempo di ringraziare.

Era da un anno che non vedevo del pesce; fino ad ora ero andata avanti con qualche barretta energetica e fagioli di fortuna.

Guardo negli occhi le due donne sulla panca davanti a me, ognuna agli opposti di questa, prima di avventarmi sul piatto di cibo.

In pochi minuti ho già finito tutto quanto il pesce. Ero affamata.

«Non credere che tu non abbia più niente da fare, ragazzina.» mi riprende una delle due signore, proprio mentre mi stavo alzando.

«Non essere così aggressiva, Olivia.» replica l’altra signora.

«Mi dica cosa devo fare, allora» rispondo a Olivia, mettendomi le mani sui fianchi e alzando un sopracciglio.

Non mi piaceva venir trattata come una bambina capricciosa. Non lo sono e non lo ero mai stata.

Sono arrivata fino a questo punto e non per pura fortuna.

«Ehi, calmatevi tutti quanti.» dice lo stesso ragazzo di prima.

È più alto di me di parecchi centimetri, ha i capelli scuri, gli occhi scuri e la pelle olivastra.

«Io sono calma.» replico, rilassando le spalle e facendo tornare le braccia a fianco del mio corpo.

Non è vero. Non sono per niente calma.

Ma stanotte voglio dormire in pace.

«Olivia intendeva chiederti gentilmente se ti andrebbe di aiutarci a pulire quando tutti quanti hanno finito di mangiare» mi spiega il ragazzo.

«Gentilmente, certo…» ripeto a bassa voce, alzando gli occhi.

Non le stavo certamente simpatica a questa Olivia, si era capito.

«Okay» riprendo il discorso, rispondendo alla domanda.

Prendo il mio piatto e quelli delle due signore e seguo il ragazzo.

«Mi dispiace per prima. Devi capirla, ha perso suo figlio poche settimane fa e non se n’è ancora fatta una ragione.» mi spiega, mentre mi guida verso una porta.

Non sono ancora riuscita a capire quante vie d’uscita ci siano, prima di tutto perché non ho ancora fatto un giro dell’edificio. Ma potrebbe essermi utile nel caso decidessi di restare.

«Non ti preoccupare»

***

Salgo le scalinate, cercando di evitare le altre persone sdraiate, e arrivo allo spazio che mi hanno dato. Ovviamente non sono da sola sullo scalino, ma tra me e gli altri c’è un po’ di spazio e mi va più che bene.

Mi siedo sulle coperte e appoggio la schiena al muro; mi tolgo la camicia che indosso e rimango in canottiera. Non mi tolgo le scarpe; voglio essere pronta se mai dovessi scappare.

In città riuscivo a dormire per qualche ora soltanto; non era sicuro e mi svegliavo continuamente nella paura di poter essere attaccata.

Sento la canna della pistola premermi contro la schiena, me ne ero scordata. La sfilo dai jeans e la metto dentro al mio zaino.

Questa notte non me ne dovevo preoccupare.

Avrei potuto anche abituarmici.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
«Ehi, svegliati. Calum ti sta aspettando.» mi dice una voce maschile, scuotendomi.
Mi alzo sui gomiti e mi passo una mano sugli occhi per abituarmi alla luce e per cercare di capire chi ho davanti.
«Arrivo» rispondo, in modo da far andare via il ragazzo.
Quest’ultimo annuisce e mi dice un’ultima volta di darmi una mossa, prima di andarsene.
Mi stiracchio e mi metto a sedere a gambe incrociate.
Indosso la camicia sopra la canottiera, prendo lo zaino e mi alzo in piedi mettendomelo in spalla.
Scendo le scale e vedo il ragazzo di prima che mi dà delle indicazioni per raggiungere Calum.
Mi dirigo dove mi ha detto e lo trovo dentro alla stanza.
«Hai intenzione di puntarmela addosso?» lo sfido, notando che ne sta maneggiando una.
«Non ho intenzione di scusarmi.» dice per tutta risposta.
«Non è quello che voglio.»                               
Alza lo sguardo per un attimo e alza le sopracciglia, poi lo riporta all’arma.
Lo fisso per un po’; è alto, ha la pelle olivastra, i capelli neri e un corpo allenato coperto da una maglietta nera a maniche corte e jeans dello stesso colore. Ha un tatuaggio su ognuna clavicola e altri sul braccio sinistro. È piuttosto sexy, ad essere onesti.
«Che cosa devo fare?» chiedo, togliendomi lo zaino dalle spalle e prendendo la pistola.
«Quanti proiettili hai?»
«Tre o quattro. Li ho usati tutti ieri per salvare il culo del tuo amico e il mio»
Soffoca un risata e mi prende la pistola dalle mani per riempirla di proiettili.
«Adesso siamo pronti per uscire»
Lo seguo fino al portone da dove sono entrata ieri.
Lì, lui prende uno zaino vuoto e se lo mette in spalla; poi apre il portone e usciamo.
«Dobbiamo trovare proiettili, cibo e, se ci sono, anche dei medicinali. Meglio essere previdenti.» mi spiega, mentre aumenta il passo.
Non faccio fatica a stargli dietro: sono abituata a camminare velocemente.
Entriamo in città; ci dirigiamo in una via che sembra avesse anche un supermercato.
«Entriamo lì» mi fa un segno con la mano verso la struttura.
«Mi raccomando: occhi aperti» mi raccomanda, dicendolo come se non avessi mai avuto a che fare con uno zombie.
Alzo gli occhi al cielo e lo supero, entrando per prima nel supermercato.
Tengo la pistola dritta davanti a me e guardo prima a destra poi a sinistra: via libera.
Non ero ancora stata in questa parte della città: dovevo ancora finire di esplorare la parte a est.
A prima vista, sembra che nessuno sia ancora entrato qui: c’è molta roba in tutti i reparti.
Di sicuro qui non troveremo delle armi o proiettili, ma ciò non mi importa.
Mi dirigo verso un reparto davanti a me, prendo tutto ciò che può essere utile e lo infilo nel mio zaino.
Prendo cose per il loro gruppo, ma soprattutto per me; loro possono contare sugli altri, io posso contare solo su me stessa. E ho bisogno di determinate cose per sopravvivere.
Setaccio un altro reparto, prendo un borsone e comincio a riempirlo di cibo.
Entro in quello dell’igiene personale e ci trovo il ragazzo. Mi avvicino a lui e butto il borsone ai suoi piedi. Poi, alzo lo sguardo.
«Sei serio?» dico, alzando le sopracciglia.
Si gira verso di me con un pacchetto di preservativi in mano.
Scuoto la testa e rido istericamente.
«Questa è la fine del mondo e tutto ciò a cui riesci a pensare è questo, invece che renderti utile per il tuo gruppo. Complimenti, davvero.»
Mi volto, scuotendo la testa e per poco non mi viene un infarto.
C’è uno zombie a pochi passi da noi.
Non ne ho paura: finché è solo uno non me ne preoccupo. Più che altro non me lo aspettavo.
Lancio uno sguardo al tipo dietro di me, cercando di fargli capire di non fare alcun rumore, ma lui sembra capire tutto il contrario e tira fuori la pistola, pronto a sparare.
Prima che possa farlo, però gli abbasso il braccio violentemente, facendogli quasi cadere l’arma.
Mi guarda come se fossi pazza.
Mi giro nuovamente e tiro fuori il coltello che ho infilato nei pantaloni; lo tenevo nello zaino di solito perché non ne avevo quasi mai il bisogno – cercavo di passare sempre nei luoghi della città dove sapevo che non ci fossero zombie o che ne fossero pochi -, ma in questo caso mi sentivo più sicura con quello che con la pistola. Questa era una zona molto abitata, se avessimo sparato, avremmo attirato tutti quei mostri qui.
Lascio che lo zombie si avvicini e cerco di aggirarlo nel modo più silenzioso possibile, riuscendoci.
Era un uomo e non deve essersi trasformato da molto: i suoi vestiti sono ancora intatti.
Gli arrivo dietro alle spalle e, poi, gli pianto il coltello in testa.
Lui cade ai miei piedi e estraggo l’arma dal suo cranio.
«Sai, Carlos, Colton, come diavolo ti chiami, se sono riuscita a sopravvivere fino a questo punto da sola, credo che ci sia un motivo.» dico, mentre mi alzo e pulisco il coltello sui pantaloni.
«Calum. È Calum.» dice, piuttosto irritato.
Qualcosa cade.
Produce un rumore metallico, molto forte.
Questa volta, tiro fuori la pistola.
Indietreggio lentamente ed esco dal reparto; guardo oltre le casse.
«Sapere il tuo nome è l’ultima cosa di cui preoccuparmi. Credo ci sia qualcos’altro di più importante adesso.» dico, indicando una decina di zombie avvicinarsi alla porta dell’edificio.
«È arrivato il momento di far vedere se ciò che hai appena detto è vero» mi sfida, raccogliendo il borsone e mettendoselo in spalla.
I cadaveri sono alle porte.
Stanno cercando di entrare.
Devo essere pronta.
Mi sistemo bene lo zaino sulle spalle e me lo lego in vita: è diventato pesante e, una volta uccisi tutti questi zombie, dovrò correre. Non voglio che mi scivoli via. Ho dentro tutto ciò che mi serve.
Carico la pistola e la tengo dritta davanti a me, mentre mi avvicino sempre di più all’entrata.
Calum spara il primo colpo a uno dei morti che cade a terra subito.
Arrivo al suo fianco e sparo un colpo anche io, colpendo il secondo.
Mi avvicino sempre di più all’uscita mano a mano che li uccido.
Non voglio aspettare che si avvicinino altri zombie.
Calum è appena dietro di me, quando uccide l’ultimo.
Usciamo cauti, uno al fianco dell’altro.
Guarda a destra: vuoto.
Tengo stretta la pistola tra le mie mani e mi volto a sinistra.
Calum sta prendendo a pugni sul petto uno zombie; deve averlo preso alla sprovvista perché la sua pistola è a terra.
Non posso sparargli, rischierei di colpire Calum.
Faccio una corsa veloce e arrivo alle spalle del morto, tiro fuori il coltello e lo uccido.
Mi chiedo come abbiano fatto tutti loro a sopravvivere fino a questo punto.
***
Siamo alle porte della palestra; dopo aver ucciso lo zombie, Calum si è messo a correre velocemente, in direzione del loro campo.
Non era spaventato, o almeno, non lo sembrava.
Così, le sono andata dietro, cercando di non perderlo di vista.
Poi, pochi minuti fa a dire il vero, ha smesso di correre ed ha iniziato a camminare, cercando di riprendere fiato.
«Avrei potuto benissimo farcela da solo.» dice, guardando dritto davanti a sé.
«Ti ho salvato il culo. Un “grazie” non farebbe certo male.» replico.
Non ero nemmeno obbligata a farlo. Dopotutto l’avevo conosciuto solo poche ore fa.
La differenza era che io non sono ancora diventata come quei mostri. Io sono ancora umana.
«Mi chiedo cosa sia saltato in mente a Wayne. Non avevamo bisogno di un nuovo acquisto.» dice con astio, buttando il borsone a terra con violenza, una volta entrati nella stessa stanza di questa mattina.
Lì dentro ci sono anche Blaine e Mali, che buttano lo sguardo sul borsone.
«Avete trovato un mucchio di rob-»
«Sai cosa? Vaffanculo. Se avevo cominciato a prendere in considerazione l’idea di restare, ora è completamente scomparsa. Io me ne vado.»
«Pensi che andare là fuori di nuovo sia meglio?» dice Blaine, mentre apre il borsone e comincia a tirare fuori ciò che c’è dentro.
«È certamente meglio che stare con questo idiota»
Butto violentemente la pistola di Calum sul tavolo ed esco dalla porta.
Avevo ragione: non era spaventato. Era solo arrabbiato.
Era arrabbiato perché non era stato in grado di difendersi da solo, anzi, era stato salvato da una ragazza.
Che maturità.
«Quella ragazza spacca i culi. Mi piace.» lo sento dire non appena esco.
Mi lascio scappare una risata sarcastica. Non ci posso credere.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
Voglio andarmene al più presto, ma prima devo pensare a quale parte della città esplorare, così vado diretta verso le tribune e prendo posto.
Potrei tornare al supermercato e cercare un modo per barricare le entrate: in questo modo avrei un posto sicuro in cui dormire, provviste a volontà e un sacco di spazio.
Non è una brutta idea.
Ho solo bisogno di controllare il posto un’altra volta e fare in modo che non ci siano zombie.
E se non fosse possibile chiudere le porte, potrei cercare di ripulire una casa nelle vicinanze, così che quando ne ho bisogno posso andare a prendere le provviste.
C’è anche da considerare il fatto che Calum sa che il posto è pieno di provviste di qualsiasi tipo, quindi potrebbe tornare.
E ci potrebbero essere altri sopravvissuti che mi ucciderebbero senza problemi davanti a tutta quella roba.
Voglio davvero correre questo rischio?
Quali altre possibilità ho?
«Ehi»
Mi sono persa nei miei piani così tanto che non mi sono nemmeno accorta che Wayne si è seduto al mio fianco.
Lo guardo con un sopracciglio alzato; sono curiosa di sapere cosa deve dirmi.
Si passa una mano tra i capelli dorati e li tira indietro, togliendoseli dal viso.
«Alcune volte Calum può essere un po’ scontroso…»
Sposto lo sguardo davanti a me e scuoto la testa, ridendo.
«Se sei venuto qui per parlarmi di lui o per parlarmi di ciò che è successo là fuori, stai sprecando tempo.» lo interrompo subito.
Non ho voglia di sorbirmi delle cose inventate al momento.
Piego le ginocchia davanti a me e spingo sul pavimento con i talloni.
«È successo qualcosa fuori? Calum ha detto che…» esclama sorpreso, ma lo interrompo di nuovo.
«Stava per essere morso»
«Lo hai salvato tu?»
Annuisco e comincio a giocare con la stoffa dei pantaloni.
«Beh… Grazie. Non eri obbligata a farlo.»
«No, infatti»
Non mi interessa molto la sua gratitudine. L’ho fatto e basta, non voglio ringraziamenti, non pretendo niente in cambio.
«Senti… Te l’ho detto ieri, se vuoi rimanere qui, fai pure» mi dice, appoggiando una mano sul mio ginocchio destro.
Sposto la gamba e la sua mano scivola via. Non mi piace tutta questa confidenza e non mi piace essere toccata da persone che conosco a malapena.
«E quante persone sarebbero d’accordo?» gli chiedo sarcasticamente.
Nessuno lo sarebbe.
Lui, forse.
Ma penso che lo faccia solo perché gli ho salvato il culo, così come al suo amico.
«Ci potremmo lavorare su. Potremmo fare un’assemblea o qualcosa del genere e poi…»
«Senti, ho intenzione di lasciare questo posto tra un’ora.» constato, cercando di farlo smettere di parlare.
«Ne sei proprio sicura?»
«Certo.»
***
Esco dal bagno della palestra: finché sono qui voglio godermelo. Era da settimane che non vedevo un bagno del genere.
Sulla porta ci sono un uomo e una donna: entrambi mi guardano male.
Non mi interessa, a dire il vero. È solo una prova di ciò che ho detto prima ad Wayne: nessuno mi vorrebbe qui.
Ho pulito il coltello, anche se non rimarrà così per molto tempo, ma almeno è già qualcosa.
Ritorno alle tribune, cercando di non incrociare lo sguardo con nessun altro, principalmente perché non ho voglia di iniziare una conversazione.
Una volta mi sarebbe piaciuto, forse sarei stata anche io la prima ad iniziarla, ma le cose sono cambiate, le persone sono cambiate.
Raccolgo lo zaino e la mia camicia e scendo i gradini. Non ho nient’altro da fare qui.
Mi lego la camicia ai fianchi: non fa freddo fuori – dopotutto siamo alla fine di settembre -  e preferisco stare in canottiera. È più comodo perché quando scende il freddo ho la camicia da indossare, mentre, se ce l’avessi già addosso sarei alla ricerca di qualcos’altro con cui coprirmi. Ma ho scoperto a mie spese che non ci sono molti abiti nelle case che ho esplorato.
Sciolgo un po’ i muscoli delle spalle prima di mettere lo zaino; non fanno più male come all’inizio, ormai mi sono quasi abituata a portare peso continuamente, ma questa volta lo zaino è più pesante.
Infilo il coltello nella cintura dei pantaloni e sistemo meglio la pistola.
Sono pronta per andarmene.
Lancio un ultimo sguardo alla palestra quando sono vicina alla porta e mi convinco che niente mi lega e questo posto.
Esco e vado dritta per la mia strada.
Ritorno a concentrarmi sul mio obiettivo: il supermercato.
Percorro la stessa strada che abbiamo fatto ieri io e Calum.
Entro nella via, ma mi fermo all’istante: il posto è pieno di zombie. Sono sparsi tutti per la via e, ad occhio e croce, sono una centinaia. Non ce la farei mai a farli fuori tutti, sarebbe un suicidio.
Cammino all’indietro lentamente, poi, quando arrivo a cinque metri di distanza, mi volto ed esco dalla via. Non corro, non ce né bisogno; non mi possono vedere. Ed è veramente una fortuna.
Devo trovare un piano B.
Continuo a camminare, in cerca di un’uscita dal centro della città. Se mi sposto in periferia, ci sono meno zombie e più provviste, anche se non sono tutte nello stesso punto, ma piuttosto dilazionate.
Potrei trovarla lì una casa sicura. Certo, se trovassi anche una macchina con della benzina dentro sarei molto più veloce, ma sarebbe troppo bello.
Ne sono già andata alla ricerca di una e, anche se la trovai, non aveva carburante. Ho provato a dormirci per una notte, ma si è verificato inutile: mi sono svegliata di soprassalto con uno zombie a centimetri dalla faccia. Non c’è da dire che ciò successe il primo mese che mi ritrovai da sola a combattere contro il mondo. Non lo avrei mai fatto ora, non ce n’era ombra di dubbio.
Tengo stretto il manico del coltello, ancorato alla cintura dei pantaloni. Sono un po’ arrabbiata perché avevo davanti a me un’opportunità perfetta, ma si è verificata un fallimento.
Sospiro e lancio un sassolino con il piede; inizia un’altra ricerca, un altro percorso.
Svolto in un vicolo, ma devo uscirne subito: è pieno di zombie.
Devo uscire dal centro della città, non c’è altra scelta.
Mentre cammino, penso se ne valga davvero la pena. Insomma, prima o poi, faremo tutti la stessa fine.
Il termine “morto” ha cambiato completamente significato, in questi ultimi tempi.
Ormai le persone “morte” non lo sono più, anzi, vanno in giro in cerca di carne fresca da mettere sotto ai denti.
Li vedi, lì, che si tengono a stento in piedi, che cercano di camminare, che cercano di vederti ma non possono.
Hanno gli occhi vitrei e sembra che ti sorridano quasi, quando si avvicinano.
Ogni tanto mi fermo anche a pensare che, una volta, erano persone: potevano avere un lavoro, una casa, una famiglia…
Alcuni di loro sono bambini.
Potrebbero essere i miei fratelli.
A questo pensiero scuoto la testa e alzo lo sguardo al cielo: il sole è stato coperto dalle nuvole e credo che pioverà presto.
Ho scoperto tempo fa che la pioggia riesce a rallentarli; non sono veloci di per sé, ma se camminano più lentamente, in caso di pericolo potrei anche cavarmela.
Nonostante questo, però, voglio evitare di bagnarmi: ammalarmi è l’ultima cosa che voglio.
Mi affaccio su un’altra via: sembra vuota. Decido di imboccarla.
Un tuono squarcia il silenzio. Sobbalzo: comincerà a piovere a minuti.
Lancio lo sguardo alla mia destra e trovo una porta che sembra socchiusa.
Faccio una corsetta e la spingo con due dita: si apre.
Nel frattempo che prendo in mano il coltello, qualche goccia di pioggia comincia a cadere.
Entro cauta nella casa e mi chiudo la porta alle spalle. La esploro attentamente e vengo piacevolmente a scoprire che non c’è alcuna traccia di zombie.
Il primo ambiente è la cucina: con mio dispiacere non sono rimaste provviste e penso immediatamente che chiunque vivesse in questa casa non deve essere morto da molto tempo. Oppure ha deciso di andarsene.
Il prossimo ambiente è il salotto: è intatto, pulito, ha un aria di fresco.
Salgo le scale, stringo bene il coltello nel palmo della mano destra. Apro una porta e in quella che una volta era una camera da letto c’è un letto con le coperte sul pavimento. Al suo fianco c’è un comodino con una lampada al di sopra.
Anche qua nessuna traccia di zombie. La cosa mi sorprende.
Esco dalla camera da letto e entro in un’altra porta: il bagno.
La prima cosa che mi colpisce è il puzzo di marcio che ne esce.
La vasca da bagno ha una tendina impermeabile e penso che chiunque abitasse qui abbia deciso di farla finita proprio in quella vasca. Mi avvicino lentamente e tiro indietro la tendina: nella vasca c’è il corpo di una donna che ha in braccio un neonato. Entrambi sono morti con un colpo alla testa e, infatti, appena sotto le gambe della donna c’è una pistola.
Mi pizzicano gli occhi.
Tiro velocemente la tenda e esco immediatamente dal bagno.
***
Dopo essermi riposata un po’ sul letto, sono andata a controllare la porta: pensavo avesse qualche problema con la serratura dato che l’avevo trovata aperta, ma in realtà non ne aveva alcuno. Era solo stata lasciata aperta. Così l’ho chiusa, assicurandomi di dare tutte le mandate possibili. Non volevo rischiare di ritrovarmi a faccia a faccia con decine di zombie.
Il fatto che abbia trovato madre e figlio ancora intatti nella vasca da bagno e che non erano stati divorati da zombie mi sorprendeva molto.
Mi affaccio alla finestra della cucina: fuori piove da ormai una mezz’ora. È stata una vera fortuna aver trovato questa casa.
Non avevo ancora aperto cassetti, armadi e dispense, lo avrei fatto domani. Ora volevo solo rilassarmi.
Dopo aver controllato ancora una volta che tutte le finestre e la porta fossero ben chiuse, vado in salotto e mi stendo sul divano, dove pochi minuti dopo cedo al sonno.
Mi sveglio di soprassalto e mi accorgo di aver dormito per un’ora: è un record. Non riuscivo a dormire per così tanto tempo di fila da molto tempo ormai. Ero sempre attenta e forse anche spaventata che qualche cadavere-camminante sarebbe potuto spuntare fuori dal nulla.
Mi alzo e sento i muscoli della schiena e delle gambe farmi male, ma non ci faccio molto caso.
Decido di andare in camera da letto per vedere cosa contengono gli armadi: potrebbero esserci vestiti che mi calzano e magari anche un giubbotto. Sarebbero molto utili data la stagione autunnale in avvicinamento.
Apro un’anta dell’armadio e sono sorpresa quando la prima cosa che mi si presenta davanti sono tre scatole di proiettili piene e una pistola. Prendo tutte e quattro le cose e le butto sul letto dietro di me. Prendo anche alcuni vestiti dall’armadio; dopo penserò a smistarli.
Guardando ancora nell’armadio noto un vestito estivo color pesca. Doveva essere di quella donna.
Devo assolutamente spostare quei corpi. Mi inquieta troppo il fatto di averli a pochi passi da me. Per la prima volta, mi ritrovo ad essere più spaventata di quei due corpi che degli zombie. Non ne so il motivo, lo sono e basta.
Nel frattempo, decido di cercare dei contenitori in cui io possa raccogliere l’acqua; fuori piove ed è veramente una fortuna, soprattutto ora che ho trovato un rifugio: è difficile trovare dell’acqua in giro. Stare senza cibo è una cosa, stare senz’acqua è assolutamente orribile: la stanchezza prende il sopravvento, la vista si annebbia, il mondo attorno a te comincia a girare, la gola si asciuga sempre di più fino a diventare completamente asciutta, secca, arida. È orrendo.
Trovo tre contenitori, sono abbastanza capienti e mi vanno più che bene. Li metto sui davanzali delle finestre, sperando che nessuno zombie ci si incastri dentro.
Vorrei buttarmi sul letto e non alzarmici mai più, ma ho altre cose più importanti da fare ora.
Setaccio ogni punto della casa e vengo a trovare cose molto interessanti, ma soprattutto utili. Niente cibo, ma penso che quello che ho preso ieri al supermercato sia sufficiente per un po’.
Finalmente, mi stendo sul letto e in pochi minuti mi ritrovo in un sonno profondo.
***
Ho avuto un’idea per quanto riguarda i cadaveri nel bagno: l’unico modo per liberarmene è bruciarli nella vasca. Non riesco a spostarli e non voglio che se ne cibino gli zombi.
Non sono così insensibile.
Così, prendo un grosso respiro e apro la porta del bagno con l’accendino – che ho trovato ieri – nella mano. Ho trovato anche dell’alcol, che vado subito a prendere.
Sono davanti ai due cadaveri.
«Mi dispiace»
Verso l’alcol sui due corpi. Prendo un pezzo di carta e lo incendio, poi lo butto nella vasca. Subito s’innalza una fiamma ed indietreggio velocemente mentre mi pizzicano di nuovo gli occhi. Apro velocemente la finestra e chiudo con un tonfo la porta.
Mi dispiace.
***
Prendo i contenitori, ora pieni d’acqua e li appoggio per terra. Ho delle bottiglie vuote nello zaino, le prendo.
Faccio bollire l’acqua.
Mentre aspetto che sia pronta, mi guardo intorno: le pareti del soggiorno sono bianche, addobbate da qualche piccolo quadro qua e là. Il tappeto sul quale sono seduta è verde mela, davanti a me ho un camino, ormai spento da tempo. Sopra ad esso c’è un televisore.
 
«Kayla, non puoi fare due cose assieme. O guardi la tele o fai i compiti.» dice mio padre, appena tornato a casa dal lavoro.
«Allora guardo la tele» rispondo con un sorriso da ebete sul viso.
«Piuttosto vai a fare un giro con Ebony. Guardare per troppo tempo la tv fa male alla vista» dice mia madre, scendendo le scale con in braccio mia sorella.
Ha cinque anni, ma vuole uscire ancora nel passeggino. Aah, i bambini.
«Non dovresti portarla in braccio, mamma. Sei incinta, non dovresti fare certi sforzi» dico, mentre mi alzo dal pavimento e spengo la televisione. Questa donna è già al terzo figlio. Non ci posso credere.
«Dai, Ebony, ti porto al parco» le dico, mentre mi infilo velocemente le scarpe.
Io e mia sorella usciamo, salutando mia madre e mio padre, dirette verso il parco della città.
 
Scuoto la testa.
Non avrei mai pensato che, quattro anni dopo, sarebbe finito il mondo. Anche se non letteralmente, è finito per come lo conoscevamo.
I miei piani erano diversi, ma non va sempre tutto come ci si aspetta.
Devo smetterla di pensare al passato.
 
«Kayla, ascoltami bene adesso» comincia mia madre, prendendomi il viso decisa e guardandomi dritto negli occhi.
«Non legarti emotivamente a nessuno e ce la farai, okay?» dice, questa volta con le lacrime agli occhi.
Mi abbraccia, assieme a lei anche mio padre. Ebony e Jackson sono in macchina, piangono.
«Io non vi lascio qua. Non vi lascio!» dico, mentre le lacrime cominciano a scendere.
«Salvati, almeno tu!» urla mio padre, sciogliendo l’abbraccio e spingendomi via da loro.
«Ce la farai. Ti vogliamo bene.»
 
La porta si spalanca violentemente e sbatte contro il muro.
Apro velocemente gli occhi, che mi era accorta solo ora di aver chiuso.
La mano corre velocemente sul tappetto, di fianco a me, a racchiudere in una morsa solida la pistola.
«Tu devi essere Kayla.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
Sento la testa pulsare.
Apro lentamente gli occhi: davanti a me c’è un uomo, cammina avanti e indietro per la stanza. Ha in mano un coltello.
Cerco di muovermi, ma scopro presto di avere le mani legate, bloccate dietro a una colonna.
Non sono nella casa in cui mi trovavo: il posto in cui mi trovo deve essere un magazzino, è molto sporco e c’è poca luce.
Mi guardo ancora un po’ in giro e vedo che ci sono due donne a guardia di quella che sembra la porta principale, ma non riesco a guardare oltre perché l’uomo si accorge che sono sveglia.
«Ehilà, uccellino smarrito, sono Jordan, piacere di conoscerti.» dice l’uomo, allungando una mano verso di me, poi si mette a ridere.
Che senso dell’umorismo.
Non distolgo lo sguardo da lui, fissandolo minacciosamente.
«Ti starai facendo molte domande nella tua testolina, suppongo.» continua, chinandosi alla mia altezza e giocando con il coltello, passandolo da una mano all’altra.
Mi fissa per un po’, analizzando ogni piccolo dettaglio del mio viso, poi distoglie lo sguardo.
«Non sei una di molte parole» dice con un ghigno sulle labbra.
«Arriva al punto, Jordan» dice una delle due donne alla porta.
Già, arriva al punto.
Non ho idea di cosa vogliano da me, non so come abbiano fatto a trovarmi e nemmeno come facciano a sapere il mio nome.
«Va bene, va bene. Allora…»
Mi prende per il mento e mi alza il viso velocemente.
«In poche parole… Dimmi dove si trova il gruppo di Travis e non ti succederà niente»
Famose ultime parole.
Ci credo eccome che non mi farà niente.
«Non ho idea di chi o cosa tu stia parlando.» appuro freddamente.
Mi lascia andare violentemente il viso.
«Oh, avanti» Si allontana di qualche passo.
Poi, con uno scatto, mi punta il coltello alla gola. Sento la punta fredda pungermi il collo.
Deglutisco lentamente.
«Vi abbiamo visto, tu e quel ragazzino. Lui fa parte del gruppo di Travis. Vi abbiamo seguito per un po’, ma poi vi abbiamo persi. Adesso non devi far altro che dirmi dov’è il loro rifugio. Semplice, no?» dice con un ghigno, spingendo il coltellino.
Sento una goccia di sangue colare giù per il collo.
Resto in silenzio per un secondo.
«Jordan, ti è mai passato per la testa che potrebbe non essere lei quella che stiamo cercando? Insomma, era da sola in quella casa» dice l’altra donna.
Finalmente qualcuno che ragiona.
Penso di aver capito a chi si riferisce questo tipo. A me e quel ragazzo… Calum.
«È lei. Ho visto dei gruppi in giro e facevano tutti quanti parte dal gruppo di Travis»
«E perché non hai assalito loro invece che me?» Ho il coraggio di aprire bocca.
Mi rivolge uno sguardo di ghiaccio.
«Parli solo quando ti conviene, eh?»
«La ragazza ha ragione. Perché non hai detto agli altri di assalire loro? Cosa ti passa per la testa?!» replica la donna.
«Perché la stavano cercando. Ho sentito uno di loro dire che la dovevano trovare assolutamente. Perciò, ho pensato che se l’avremmo trovata prima noi, ci avrebbe detto dove si trovava quel maledetto gruppo!»
La donna che aveva parlato china la testa annuendo.
Non ho intenzione di dirgli dove si trovano.
Lo faccio solo per i bambini che ho visto, per nessun altro.
So per certo che se quest’uomo dovesse trovare quel gruppo non regalerebbe loro certo fiori e cioccolatini.
«Penso proprio che tu abbia sbagliato persona.» appuro nuovamente.
Se gioco bene le mie carte potrei farcela.
Non ne uscirò certamente illesa, ma è sicuramente meglio che niente.
Lui si alza e si volta.
«Tu credi?» dice, questa volta con tono amichevole.
Questo mi spaventa ancora di più del coltello alla gola, perché so che sta per colpirmi.
«Non ho mai incontrato quel ‘Travis’ e sono sempre stata da sola. Non ho mai avuto gruppi.»
Mi tira un calcio alla gamba.
Aspiro l’aria tra i denti e serro gli occhi. Fa male.
Poi, un altro al fianco.
Lancio un urlo e cado dall’altra parte.
L’avevo detto che non ne sarei uscita illesa.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

CALUM

 

«Non posso credere che lo stiamo veramente facendo, Calum.»

Già, nemmeno io.

Chi l’avrebbe mai detto che avrei trascinato il mio gruppo dentro a tutto questo.

«Abbiamo Jordan alle calcagna da tre mesi. Siamo stati fortunati che non ci abbia ancora trovato e ora tu stai rovinando tutto quanto!» sbotta Tracey, la moglie di Travis.

 

«Scordatelo. Non ho intenzione di mandare dieci dei miei là fuori in una missione suicida» stabilisce Travis.

«Abbiamo bisogno di lei.» appuro, chiudendo le mani in due pugni.

«E noi abbiamo bisogno di voi qua. Ci sono i bambini, ci sono gli anziani… Se dovesse scoprirci Jordan...» continua Meredith, sua sorella.

«Non accadrà. Se riuscissimo a trovarla, avremmo una persona in più in grado di proteggerci.» continuo, rimanendo sulla mia strada.

Non avrei mai fatto tutto questo casino se non fossi completamente certo della sua utilità.

Lo ammetto, non la sopporto. Ma devo sacrificare il mio volere per quello degli altri.

«E se questa, come hai detto che si chiama?» chiede confuso Travis.

«Kayla» risponde Wayne al mio fianco.

Se io non la sopportavo, lui la adorava.

Gli aveva detto che se ne sarebbe andata, ma lui non ci credette. Qualche ora dopo se ne accorse e venne a dirlo a tutti. Voleva che tornasse, così come lo volevo io ma per motivi diversi.

«Ecco. Dicevo, se questa Kayla fosse una spia di Jordan?» continua Travis, allarmato.

«No. Non può esserlo.» appuro, sicuro di ciò che sto dicendo.

«E come fai ad esserne così sicuro?»

«… Mi ha difeso dagli zombie, prima che se ne andasse. Se facesse parte del gruppo di Jordan non lo avrebbe mai fatto. Se ne sarebbe andata e mi avrebbe lasciato lì.» ammetto riluttante.

Odio il fatto che sia stata lei a salvarmi. So benissimo che non ce l’avrei mai fatta se fossi stato solo, ma non volevo fosse lei quella a riuscirci.

«Potevi dircelo prima, Calum.» mi rimprovera Meredith con sguardo accusatorio.

«Non pensavo potesse essere importante.»

«Porta Wayne, Blaine, mia moglie e Meredith. Partirete domattina.» decide Travis, indicandoci poco dopo la porta.

 

«Ssh!» ci zittisce Blaine, appoggiando un dito sulle labbra.

Con un movimento della testa ci indica il fabbricato alla nostra sinistra.

«Sento delle voci» ci spiega subito dopo, parlando a bassa voce.

Lentamente ci avviciniamo, arrivando ai lati di una finestra.

Tutti quanti teniamo stretta la pistola tra le mani. Ci fissiamo per qualche istante, poi Wayne si affaccia. Lo vedo strizzare gli occhi per cercare di vedere meglio.

Si volta verso di noi e annuisce.

L’abbiamo trovata.

«C’è solo un piccolo problema…» comincia Wayne vagamente.

«… C’è anche Jordan.»

Il primo impulso che ho è quello di urlare cosa ci faccia lì assieme a lei, ma mi trattengo.

«Io lo sapevo che non avremmo dovuto fidarci.» dice Tracey, cercando di farci tornare indietro, ma Wayne riprende a parlare.

«Non so, non mi convince… Kayla è a terra, ma non capisco cosa possa volere da lei»

«Abbiamo bisogno di un piano. Wayne, quanti sono nella stanza?»

«Due. Solo lei e Jordan, per quello che riesco a ved-»

Un rumore sordo lo interrompe. Sembra qualcosa sia caduto, qualcosa di metallico, un tubo.

Ma non siamo stati noi.

«Ma guarda un po’ chi si rivede…»

Deglutisco, poi mi volto. Ma prima di fare in tempo a riconoscere da chi proveniva la voce femminile che aveva appena parlato, un proiettile le si pianta in fronte, facendola barcollare e presto cadere a terra.

Il destino è simile anche per la sua compagna, che presto finisce a terra al suo fianco.

«Dobbiamo fare in fretta.» dice Meredith, sorpassando i due corpi delle donne e cercando la porta dalla quale sono uscite.

Ha ragione: Jordan si sarà sicuramente accorto del rumore e avrà capito che qualcosa non va e poi col rumore degli spari, presto verranno attratti verso questo posto molti vaganti.

Dobbiamo fare in fretta.

Meredith trova la porta: ci fa segno di avvicinarci. Lentamente spinge verso il basso la maniglia. La porta si apre.

«Non azzardare a muoverti» Sento una voce maschile, sicuramente quella di Jordan. Subito dopo sentiamo dei passi.

Wayne mi guarda negli occhi per qualche secondo; entrambi stringiamo nelle nostre mani le armi.

Poi entriamo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

KAYLA
 

Devo aver preso una botta alla testa, di nuovo: la sento pulsare. Mi accorgo che ho gli occhi chiusi e che appena li apro vedo tutto quanto sfocato.

«Jordan, usciamo a fare un giro. Controlliamo se c’è qualcuno di vivo là fuori» Sento dire, mentre cerco di mettermi a sedere, appoggiando la schiena alla colonna alla quale sono ancora legate le mie mani.

Ho i muscoli intorpiditi. Mi fa male il fianco destro, sento un dolore pungente ogni volta che respiro. Ho la bocca asciutta e sento il sapore del sangue.

Sento freddo. Mi hanno tolto la camicia e non sento più il coltello alla vita, devono aver preso anche quello.

Vedo la porta chiudersi dietro alle spalle delle due donne; Jordan si accorge che mi sono svegliata.

«Buongiorno, uccellino smarrito! Non siamo più così coraggiose ora, eh?» dice, facendo gesti teatrali con le braccia, enfatizzando il buongiorno.

Vorrei poter mandarlo al diavolo, ma l’unica cosa che riesco a fare è guardarlo dolorante.

«Hai perso la voce?» continua, questa volta abbassandosi alla mia altezza e piegando la testa di lato, aspettando una mia risposta.

«Lo prendo come un sì» Si alza e prende a camminare per la stanza.

Per quanto questa storia dovrà andare avanti? Mi lasceranno a morire qui, una volta scoperto che il gruppo di Travis non verrà mai a cercarmi. Spero solo che succeda presto.

Sobbalzo quando sento il rumore assordante di due spari, che inizia a rimbombarmi nella testa assieme al dolore.

«Non azzardare a muoverti» mi avverte minaccioso Jordan, avvicinandosi poi alla porta.

Vorrei. Vorrei veramente riuscire a muovermi, lo vorrei con tutto il mio cuore. Ma in questo momento non è il volere ciò che sarebbe utile. In questo momento è un dovere. Devo alzarmi.

Devo raccogliere tutte le poche energie che mi sono rimaste, ignorare il dolore che mi percuote tutto il corpo e la fame e la sete che mi annebbiano la vista.

Devo alzarmi.

Appoggio le mani affianco alle mie gambe – ora libere dalle corde che le legavano dietro alla colonna -, piego le ginocchia e faccio appoggiare saldamente i piedi sul pavimento.

La porta si spalanca.

Jordan indietreggia velocemente e poi impugna la sua arma alta all’altezza della spalla con entrambe le mani.

«Bello il teatrino del ‘non li conosco’, Kayla. Peccato che non ci abbia mai creduto nessuno» dice sarcastico Jordan, voltando solo il suo volto verso di me.

«Ciao Tracey! Come sta Travis? Si è già ripreso dalla morte della sorella? Che brava donna che era, mi dispiace così tanto…» continua, riferendosi a una donna, con fare prepotente e derisorio.

«Lasciala andare» interviene una voce maschile.

Cerco di mettere a fuoco la vista e riconosco il ragazzo che ha appena parlato: è Wayne.

Che diavolo stanno facendo?

«Oh, suvvia! Lo sai che le regole le decido io qua, ragazzino» dice Jordan, abbassando la pistola e tenendola in una sola mano.

È molto sicuro di ciò che sta facendo; nonostante di fronte a lui ci siano ben cinque persone armate, non si protegge.

Deve avere molto potere su di loro per fare una cosa del genere. Non voglio immaginare cosa possa aver fatto per averlo ottenuto.

«È una ragazza così dolce e collaborativa, non è così, Kayla?» continua, avvicinandosi, di nuovo, a me.

Mi alza il mento con la canna della pistola. È fredda, così come lo è il mio sangue.

«Oh, avanti! Non penserai mica che ti voglia uccidere, adesso!» dice, ridendo.

Toglie la pistola dalla mia faccia e la butta a terra.

«Ti ho tenuta viva fino ad adesso! E dire che avreste potuto fare molto più in fretta ad arriva-»

«Basta con le chiacchere» dice secco quello che mi sembra essere Calum.

Punta la pistola alla sua spalla destra e preme velocemente, quasi impazientemente, il grilletto.

Jordan lancia un urlo di dolore e barcolla all’indietro, premendo sulla spalla.

Subito dopo, parte un altro proiettile che gli si pianta nella coscia sinistra, facendolo cadere definitivamente a terra.

La donna lancia la sua pistola lontano da lui, facendola arrivare alla mia coscia.

Jordan cerca di tirarsi a sedere mentre impreca, stringendo sia la spalla che la gamba.

Io cerco di mettermi in piedi, di nuovo. Afferro la pistola al mio fianco e spingo con tutta la forza che ho in corpo, ma le braccia di Wayne arrivano in mio soccorso e fanno il lavoro che avrei dovuto fare io.

«Non toccarmi» dico, tossendo, mentre mi tiene in piedi.

Le mie gambe non riescono a reggersi da sole, ma nonostante questo non voglio il suo aiuto. Dopo tutto, se ora ero in questa situazione era anche colpa loro.

«Non riesci a reggerti in piedi» appura, non lasciandomi andare.

«Potresti almeno ringraziarci, ti abbiamo salvato il culo» dice Calum, ripetendo ciò che avevo detto poco prima di andarmene, prendendomi in giro con una voce effeminata.

Se potessi lo prenderei a calci.

Nel frattempo vengo trascinata fuori dal magazzino da Wayne, che si chiude la porta dietro le spalle, ignorando totalmente l’ultima minaccia e imprecazione di Jordan.

Uscendo, scopro presto che gli spari precedenti hanno attirato una quindicina di zombie circa.

«Ehi, appoggiati al muro» dice Wayne, lasciando la presa sul mio fianco.

Li vedo indaffarati con le loro pistole e vorrei urlargli che in questo modo ne attireranno altri, ma non mi sembrano nemmeno nella situazione di poterli uccidere tutti.

Cerco di stare in piedi da sola, non prendendo in considerazione il consiglio di Wayne.

Alzo la pistola e cerco di mirare a uno degli zombie più lontano dal gruppo: non vorrei sbagliare mira e uccidere qualcun altro al suo posto.

Lo sparo va a vuoto. Cerco di ricaricare l’arma, ma mi sento cedere le gambe.

«Ehi! Non puoi fare niente. Evita di fare altri casini e mettiti contro quel cazzo di muro!» mi intima furiosamente Calum.

Stavo solo cercando di aiutarti, idiota, penso e mi arrendo all’idea che non sono in grado di fare niente ora.

Lo odio. Odio essere in una situazione di impotenza. Odio essere finita in questa di situazione. Vorrei fosse andata diversamente, ma non posso cambiare il corso dei fatti. E non posso far altro che accettare la situazione.

Mi appoggio al muro e utilizzo tutte le forze che ho nel corpo per tenermi in piedi e non scivolare a terra.

Nonostante il dovere che mi sono imposta, le mie gambe cominciano a cedere lentamente mentre sento il rumore degli spari arrivare ovattato alle mie orecchie e la mia vista si annebbia, fino a che non mi ritrovo per terra e tutto ciò che vedo è il buio.

***

«Jordan è morto?»

«Noi crediamo di sì. Gli abbiamo sparato due volte, anche se fosse riuscito a uscire da quel magazzino, non credo sia andato molto lontano. Quindi, sì, è morto.»

Apro lentamente gli occhi e la prima cosa che vedo sono quei fastidiosi puntini bianchi e neri che mi ostacolano dal vedere ciò che mi circonda.

Ho sentito le voci, ma non riesco a capire a chi appartengono e, più importante, non riesco a capire dove sono.

Ricordo di aver perso i sensi e ricordo il cemento freddo contro la schiena e le gambe, niente di più.

Mi passo le mani sugli occhi, sfregandoli, cercando di capire qualcosa e mi tiro su a sedere, cosa che mi fa girare la testa violentemente e devo appoggiarmi con la schiena al muro per attenuare la sensazione.

«Ragazzi, è sveglia.» Sento la voce lontana, ma credo che sia più vicina di quanto io pensi.

«Ehi.» Riconosco essere la voce di una ragazza. Stringo gli occhi e la metto a fuoco: i suoi capelli sono biondi e le arrivano appena sopra le spalle, il suo viso è ora caratterizzato da un sorriso gentile. La riconosco come Mali, la sorella di Calum.

«Tutto bene?» mi chiede, appoggiando delicatamente una mano sulla mia spalla.

«Credo-credo di sì» dico, la mia voce risulta roca a causa della gola secca.

«Tieni, bevi un po’» Mi porge una bottiglietta d’acqua e gliela prendo subito dalle mani, sorseggiando velocemente.

«Ti hanno conciata male, eh?» dice e fa passare il suo sguardo su tutta la mia faccia.

«Kayla» Volgo lo sguardo dietro le sue spalle e noto Wayne avvicinarsi.

«Mali, ti vuole Travis» le dice, lei mi stringe delicatamente la spalla e poi si alza e si allontana.

So di essere al loro accampamento, ma non capisco in che parte. Mi guardo intorno: sono seduta su una brandina, alla mia destra c’è una sedia e alla mia sinistra il muro.

«Va un po’ meglio?» mi chiede dopo avermi fissato per qualche istante.

Annuisco debolmente. Mi porto una mano alla base del collo e sento qualcosa di secco, probabilmente è sangue.

«A quello ci pensiamo dopo» dice, indicandomi il collo.

«Mi dispiace per ciò che è successo. No so nemmeno come sia arrivato a te» continua poi, parlando più a se stesso che a me.

«Aveva seguito me e Calum» dico flebilmente. Non capisco nemmeno perché mi sia andata via la voce.

«Me l’ha detto lui» gli spiego subito dopo, dato che mi stava guardando confuso.

Tossisco e sento il dolore percorrermi tutto il corpo e emetto un gemito involontario.

Subito Wayne porta una mano sulla mia gamba, quasi di conforto. La sposto e la sua mano ricade sulle lenzuola.

«Da cosa ti stai proteggendo?» mi chiede, guardando prima la sua mano e poi me.

«Di cosa stai parlando?» chiedo confusa. Non è forse ovvio?

«Ti comporti in modo scontroso, pungente e chiuso. Hai paura di qualcosa e vuoi proteggerti. Da cosa? E, no, non sto alludendo agli zombi là fuori»

«Sono fatta così e basta.» Sto mentendo. Lo so benissimo e lo sa anche lui.

«Capisco, non ne vuoi parlare. Aspetterò che sia tu a prendere iniziativa.»

Seguono attimi di silenzio.

«Come hai fatto a capire che non avevo un gruppo?» Mi guarda un po’ confuso, quasi si fosse dimenticato del giorno in cui c’eravamo incontrati su quel tetto.

«Di solito, quando si fa parte di un gruppo, si esce sempre in due o tre… Tu eri sola.»

«Lo eri anche tu» appuro e mi sistemo meglio sul letto, provocando altre fitte di dolore per tutto il mio corpo.

«Sì, è vero. È morto due giorni prima che ti incontrassi» dice e sposta lo sguardo dietro di lui, verso la porta, come per controllare che nessuno lo sentisse.

«Come si chiamava?» gli chiedo, spostando lo sguardo alle mie mani incrociate tra di loro.

«Beck.»

«Mi dispiace.» Di nuovo, la conversazione cade e la stanza ritorna nel silenzio completo.

Voglio alzarmi dal letto. Ho le gambe indolenzite e sento il bisogno di muovermi. Provo a muovermi lentamente, ignorando il dolore continuo.

«Aspetta, ti aiuto io» Questa volta lascio che mi tocchi e, lentamente, riesco a mettermi in piedi con il suo aiuto.

«Da quanto tempo sei da sola?» mi chiede, mentre usciamo dalla stanza.

Se non mi stesse tenendo per la vita, sarei di nuovo a terra. Sono debole, più di quanto ricordo di esserlo mai stata. Se non fosse arrivato nessuno, sarei morta dalla debolezza. Forse è ora di aggiungermi a un gruppo e forse proprio questo gruppo.

«Da quando tutto è iniziato.»

«Perché?»

Passiamo per un corridoio ed entriamo nella palestra: ci sono persone dappertutto.

«Perché odio dipendere da qualcuno e non voglio che qualcuno dipenda da me. Non sono esattamente una delle persone più adatte da seguire» dico e subito mi vengono in mente mia sorella e mio fratello.

Se loro fossero stati con me, quel giorno in quella casa, sarebbero stati presi anche loro e ora sarebbero in queste condizioni. Non avrei potuto sopportarlo, sapendo che la colpa sarebbe stata solo mia.

«Quanti anni hai?» mi interroga, mentre ci avviciniamo ad un gruppo di persone delle quali riesco a riconoscere solo Mali.

«Venti» rispondo, facendogli cenno di fermarsi per qualche istante.

Ho bisogno di riprendere fiato.

«Sei quella più giovane tra di loro» ribatte, indicando il gruppetto davanti a noi.

«Quanti anni avete?» chiedo curiosa, non devono avere molti anni in più di me.

«Io ne ho ventitré, Calum e Lynton ventuno, Blaine ventidue, Mali venticinque e Travis quarantasei» elenca.

Quando sentono i loro nomi si girano e mi guardano un po’ sconvolti.

«Ciao, Kayla. Sono Travis, il capogruppo, per così dire. Spero che ti troverai bene tra di noi» dice l’uomo, porgendomi una mano che stringo debolmente.

Sorrido flebilmente e Travis ricambia. È gentile.

«So che, prima che tutto questo succedesse, hai salvato dai Vaganti Wayne e Calum e poi hai collaborato per portare qui delle provviste, per questo te ne siamo grati» dice e poi lancia un’occhiataccia a Calum.

«Certo, se qualcuno avesse messo da parte il suo orgoglio un po’ prima, avremmo fatto molto più in fretta e tu non saresti conciata in quel modo» sentenzia.

Calum serra la mascella nervoso. Mi guarda per qualche secondo e poi distoglie lo sguardo.

«Wayne, aiutala a medicarsi. Mi dispiace, non abbiamo un vero medico qui, dobbiamo arrangiarci con quello che sappiamo» spiega e poi ci fa cenno di allontanarci.

Ci dirigiamo verso un’altra stanza; entriamo e subito davanti a me vedo un lavabo e sopra uno specchio. Di fianco c’è un armadietto: credo ci siano dentro tutti i medicinali e le garze.

A sinistra c’è una doccia.

Appena Wayne chiude la porta alle nostre spalle, mi allontano dal suo corpo e raggiungo lo specchio.

Ho gli occhi stanchi, il viso pallido, un taglio sulla tempia sinistra, uno sulla fronte e un altro sul collo, il sangue uscito si è seccato e ha raggiungo la clavicola. Riesco a vedere anche un livido violaceo sulla spalla destra.

Mi aggrappo con una mano al lavabo e mi tiro su di qualche centimetro la canottiera che indosso e si mostra evidente un ematoma sul fianco e, alzando la maglietta ne scopro un altro tra torace e addome. Scovato il motivo per il quale mi è faticoso respirare.

Mi giro verso la porta e trovo Wayne girato verso la doccia per lasciarmi un po’ di privacy. Apprezzo il gesto e comincio a pensare che i pregiudizi che mi ero fatta su queste persone possano essere errati.

«Ho bisogno di una mano» dico, abbassando lo sguardo e aspettando che si avvicini.

Metto le mani ai bordi della canottiera e mi aiuta a toglierla. Gli do le spalle subito dopo.

«Vieni, ti lavo via il sangue dalla schiena» dice gentilmente, indicando la doccetta al muro.

«È grave?» chiedo, girando la testa e sedendomi su uno sgabello di plastica, in attesa di sentire l’acqua scorrere.

Mi guarda confuso.

«La ferita, è grave?»

«No. Devi esserti tagliata quando sei svenuta. C’erano dei pezzi di metallo per terra.»

Annuisco.

Sento l’acqua tiepida cominciare a scorrere sulla mia schiena e Wayne sta bene attento a non bagnarmi i pantaloni e il reggiseno, anche se a me non interessa.

Poi, sento la sua mano prima sulla nuca, poi sulla parte laterale del collo e infine sul dorso della schiena.

I minuti scorrono silenziosi, accompagnati solamente dallo scrosciare dell’acqua.

«Dov’eri quando ti ha trovata?» Appoggia la doccetta al muro e asciuga la schiena con una salvietta. È ruvida.

«Ero vicino al supermarket che io e Calum avevamo setacciato. Ho trovato una casa aperta e mi ci sono fiondata dentro. Pioveva.»

Prende una scatola dall’armadietto e tira fuori alcuni cerotti di tutte le misure; poi, me ne applica uno sulla schiena, delicatamente. Mi passa la mia canottiera e mi aiuta a infilarla.

Mi mette due cerotti anche sulla fronte e sulla tempia, così che i tagli non possano riaprirsi.

«Non aveva molto, ma aveva ciò che mi serviva. Poi sono andata in bagno e-e lì c’erano madre e figlio nella vasca da bagno, morti. Io non… ho dovuto bruciare i loro corpi» Mi pizzicano gli occhi.

Mi prende una mano e la stringe nella sua, subito dopo mi guarda con un mezzo sorriso sulle labbra.

«Perché vi importa così tanto di me da venire a cercarmi per la città?» gli chiedo spontaneamente, me lo sono chiesta da quando entrarono dalla porta di quel magazzino.

Non capivo per quale motivo: perché rischiare la vita per cercare una sola persona, oltretutto sconosciuta, per riportarla in vita al loro campo?

«Perché nessuno si merita di stare in quell’inferno là fuori, chiunque sia» ribatte, lasciando la mia mano ma aiutando ad alzarmi.

«Chi ha voluto che io tornassi qui?» lo interrogo senza sosta. Ho bisogno di risposte.

Ho bisogno della verità, se vogliono che io rimanga.

«Calum.»

«Perché?»

Proprio in quell’istante, la porta si apre e si presenta proprio lui.

«Ho bisogno di parlarti» sentenzia e non vuole sentire obiezioni. Anzi, fa un cenno a Wayne di andarsene e uno a me di seguirlo.

«Aiutala, non è in ottima forma, sai?» gli sussurra Wayne, anche se riesco a sentirlo pure io.

Calum mi guarda per un attimo e, notando che sono subito dietro di lui, ritira la mano che mi stava porgendo controvoglia.

Sarò orgogliosa, ma un aiuto da lui è l’ultima cosa che voglio.

«Che c’è?» gli chiedo con fare scontroso.

Nessuna risposta.

Lo seguo e mi riporta nella palestra; si ferma poco prima delle scalinate. Mi fissa per qualche istante e poi si decide a parlare.

«Seguimi e sta’ zitta.» Si volta e continua a camminare.

«Wow» dico, facendo schioccare la lingua contro il palato.

Mi lancia un’occhiataccia da dietro la sua spalla e poi apre una porta. Aspetta che entri e poi la chiude alle sue spalle.

Ho appena il tempo di guardarmi attorno che mi ritrovo con le spalle al muro, bloccate dalle sue mani.

Faccio una smorfia di dolore.

«Lo conoscevi.» Il suo corpo distanzia di pochi centimetri dal mio, il suo sguardo è infuocato e il suo petto si alza freneticamente.

«Tu credi?» gli chiedo con fare sarcastico. Questo ragazzo non fa altro che lasciarmi continuamente basita.

«Tu lo conoscevi» ripete, abbassando il tono della voce ed enfatizzando sul ‘tu’.

«Oh, mio Dio. Adesso spiegami, per favore, che diavolo ti passa per la mente perché sto avendo qualche problema a capirti.»

Stringe la presa sulle mie spalle e mi sento automaticamente più pressata contro al muro.

«Conoscevi Jordan. È l’unica spiegazione che riesco a darmi, che riusciamo tutti a darci. Com’è possibile, altrimenti, che lui ti abbia trovata, quando noi eravamo in giro a cercarti ma non avevamo la più pallida idea di dove tu fossi?»

«Ci aveva seguiti, io e te. Quando eravamo andati in quel maledetto supermarket» ribatto velocemente e mi dimeno debolmente nella sua presa ferrea.

«E, se quello che dici è vero, perché mai avrebbe preso solo te, quando il suo teorico bersaglio era una persona del mio gruppo? E, perché mai, sei scappata via da qui il giorno dopo?» dice a pochi centimetri dal mio viso.

«Stando a quello che diceva, lui sapeva che voi eravate in giro per me e mi ha usato come esca per voi» dico, ignorando il resto della sua frase.

«Ti rendi conto che dalla tua bocca escono solo cazzate?»

«A che diavolo di gioco stai giocando?» chiudo gli occhi in due fessure.

«Non sono io quello che gioca» ribatte pronto, allontanandosi di qualche centimetro da me.

«Ne sei sicuro? Perché, per quanto io ne sappia, sei stato tu a convincere tutti che venirmi a cercare non sarebbe stato uno sbaglio. Sei stato tu quello che ha messo in pericolo cinque delle tue persone per me, okay? Per una volta, non sono io quella con delle responsabilità!» sputo fuori, finendo con l’urlare. Il mio petto si alza freneticamente.

Sfrutto lo spazio che mi aveva lasciato pochi secondi prima per uscire dalla sua gabbia e dalla stanza, sbattendo la porta alle mie spalle.

Per la velocità con cui ho fatto il tutto, mi viene un giramento di testa e la gamba destra quasi mi cede. Lancio un'imprecazione e mi dirigo verso le scalinate.

Non ce la faccio più.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

Ho ancora il nervoso addosso quando mi siedo sulle gradinate.

Non ho più niente.

Lo zaino che avevo deve averlo preso Jordan, assieme alla pistola e al coltello; l’arma che mi aveva lanciato una delle due donne di questo gruppo devono averla ripresa. Le uniche cose che mi rimangono sono i vestiti.

Non so perché me ne preoccupo così tanto: adesso sono costretta a rimanere con loro.

Non so nemmeno perché me ne lamenti: la vita non sembra fatta solo di sopravvivenza qua dentro.

Provo un senso pesante di inadeguatezza e inutilità.

«Kayla» Sento pronunciare il mio nome da una voce femminile e, voltando la testa, scopro che appartiene a Olivia.

Mi chiedo se questa giornata può andare peggio di così.

La fisso per qualche istante, mentre viene a sedersi accanto a me.

Appoggia una mano sulla mia spalla, delicatamente.

«Va tutto bene?»

«Perché le importa?» le rispondo, forse un po’ troppo acidamente.

Del resto, ho le mie ragioni: l’ultima volta sembrava che mi odiasse, nonostante non mi avesse mai vista prima.

«Capisco che mi tratti così dopo come ti ho rivolto la parola e mi dispiace. Ma devi capirmi» dice, abbozzando un sorriso e sfregando leggermente la sua mano sul mio braccio.

«Non sono esattamente nella condizione di poter capire oggi» rispondo, spostandomi dal suo tocco.

Certo, non ero da salvare nemmeno io. Non avevo fatto che comportarmi male con la maggior parte della gente che avevo conosciuto.

«Mi dispiace, davvero. Keith, mio figlio, è morto da poco» mi spiega, giocando con le sue mani.

Ricordo che il ragazzo di pochi giorni fa mi raccontato di suo figlio. Non capisco perché me lo stia raccontando lei, però.

«Mi dispiace» dico, guardando altrove. Mi sento a disagio.

«È stato Jordan.» Il suoi occhi sono fissi nei miei: sono pieni di rabbia e dolore.

«Ho bisogno di sapere se è morto» continua, questa volta prendendomi le mani e stringendole tra le sue.

«Sì.»

«Grazie.» Mi stringe in un abbraccio.

La lascio fare, so che ne ha bisogno. Del resto, la capisco: quando successe tutto questo avrei voluto abbracciare anche io qualcuno e sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene.

Ma non c’era nessuno.

«Guarda come ti hanno ridotta» dice, scrutandomi il viso attentamente.

«Passerà» rispondo e distolgo lo sguardo.

«Vieni ancora al nostro tavolo a mangiare, okay?»

Annuisco e la vedo allontanarsi e poi sparire in una delle tante porte qui dentro.

Lentamente salgo le scalinate una ad una e arrivo ad affacciarmi alle finestre: sta piovendo.

Trovo uno spazio libero e mi ci siedo.

Penso a mia sorella e a mio fratello e se fossero qui con me. Penso a come sarebbe se tutto questo non fosse vero, se tutto non fosse successo così velocemente, così alla sprovvista. Li rivedo mentre scappiamo dalla nostra casa: la fretta di prendere il necessario per vivere, il panico e la confusione negli occhi di due bambini così piccoli da non capire cosa stava succedendo, ma da capire di essere in pericolo.

Io che prendo in braccio Jackson e per la mano Ebony, li porto in macchina e cerco di tranquillizzarli, nonostante la mia voce non lo fosse.

Mi ricordo di averli abbracciati, di averlo fatto per l’ultima volta.

Una lacrima solca la mia guancia.

Mi mancano.

«Ehi, che succede?»

Nonostante la vista offuscata dalle lacrime, riconosco Lynton, che si affretta a raggiungermi.

«Tutto bene?» ripete, forse per la seconda volta.

Scuoto il capo e lo abbraccio.

Mi accarezza la schiena senza dire niente.

«Mi mancano.»

***

«Sei sicura di voler venire?» mi chiede Blaine, indeciso se darmi la pistola oppure no.

«Sì, sto bene adesso.»

È passata una settimana da quando sono tornata al loro campo; la maggior parte delle ferite è guarita e con loro il dolore, sia mentale che fisico.

Sono pronta per uscire di nuovo in escursione.

Ho provato a conoscere meglio tutti e sto provando tutt’ora a non fare la stronza.

Anche con Calum.

«Okay, allora tieni la pistola» dice Blaine e mi dà una pacca di incoraggiamento sulla spalla.

Gli sorrido leggermente e prendo uno zaino, me lo lego in vita e infilo la pistola nella fondina.

«Andiamo» ordina Calum, facendoci cenno di seguirlo.

Siamo quattro in totale: Blaine, Calum, io e un’altra ragazza di cui ancora non so il nome.

«Di cosa abbiamo bisogno questa volta?» chiede proprio lei.

«Legna, ramoscelli, foglie secche… insomma, qualcosa che bruci. Stiamo finendo le scorte proprio adesso che comincia ad avvicinarsi il freddo» spiega Calum mentre camminiamo per la strada.

Tiro un sospiro di sollievo alla notizia.

«Che c’è, felice di non dover tornare in città?» mi chiede Blaine, dandomi una gomitata leggera.

«Decisamente.»

«Non ne sarei così felice, io. Alcune volte è peggio nei boschi che in città perché non riesci a vederli subito: sbucano fuori all’improvviso» mi interrompe la ragazza.

Non ha tutti i torti, ma per un po’ preferisco evitare il centro abitato dopo tutto quello che è successo.

«Mi chiamo Elyse» continua con un sorriso sul viso.

«Credo che tu sappia già come mi chiamo io» dico, cercando di non suonare troppo scontrosa.

Calum, che è davanti a noi, si ferma davanti a una casupola proprio appena all’entrata di un piccolo bosco.

«Ci dividiamo» stabilisce, facendo cadere a terra con un tonfo il suo zaino.

Si massaggia un po’ le spalle e piega il collo da entrambe le parti e poi se lo rimette.

«Io vengo con te» mi dice Elyse e comincia ad avventurarsi nel bosco.

Non mi lascia tempo di ribattere che subito le sono dietro.

Si china a prendere dei ramoscelli e la imito, tenendo ciò che raccolgo tra le braccia.

«Quindi… da quanto sei con loro?» sputo fuori le parole con velocità.

Guardo per terra, raccogliendo tutto ciò che trovo.

«Abbastanza da conoscerli bene» risponde vaga e lascia cadere il mio tentativo di iniziare una conversazione.

Beh, ci ho provato. Evidentemente è ancora troppo presto per pensare che a questa gente io piaccia.

Annuisco.

Metto i rami nel suo zaino e lei nel mio.

Mi volto di scatto: ho sentito un rumore tra gli alberi.

«Ehi» inizia, ma la interrompo subito mettendo un dito sulle mie labbra.

Faccio qualche passo più in là per indagare e trovo uno zombie che penzola da un ramo di un albero.

Tiro un sospiro di sollievo.

Prendo il coltello e glielo pianto nella testa.

Non faccio neanche in tempo a girarmi che sento urlare un ‘attenta’ e mi sento buttare a terra.

Lancio un urlo e tiro pugni a quello che mi è appena venuto addosso.

Mi dimeno con tutte le forze in corpo, poi sento uno sparo.

Mi accorgo di aver chiuso gli occhi solo quando sento il suo peso schiacciare il mio corpo. Lo butto a terra e mi alzo. Struscio le mani sui vestiti per pulirli dalla terra.

«Pulisciti la faccia, hai il sangue di quello stronzo addosso» dice Elyse, indicandomi la faccia.

«Grazie.» Mi pulisco la faccia con i vestiti.

Alza le spalle non curante e dà un calcetto al corpo del morto per assicurarsi che ora lo sia definitivamente.

«È meglio se ce ne andiamo. Se ce ne sono altri in giro, non ci metteranno molto ad arrivare.»

Annuisco di nuovo – ormai è l’unica cosa che mi viene spontanea fare – e la seguo fino al luogo da dove siamo venute.

Troviamo già lì Calum e Blaine con un bel mucchio di legna accatastato a terra di fianco a loro.

«Siete state voi a sparare?» chiede Calum allarmato.

«Sì, sono stata io. Andiamo adesso» risponde scocciata Elyse.

Si mette subito in marcia per tornare indietro e gli altri due la seguono. Sento Calum che si lascia scappare un commento sul suo modo di rispondere, ma lei lo ignora.

Prima di seguirli mi guardo in giro per assicurarmi che non ci siano altri di quei mostri in giro e, mentre il mio sguardo torna alla casupola di legno, noto una sagoma che sembra di una macchina.

Mi avvicino per controllare che la mia mente e la mia vista non mi giochino brutti scherzi e sì, è proprio una macchina.

«Ragazzi!» li chiamo a gran voce, sapendo che erano ancora vicini per potermi sentire.

«Che fai ancora lì? Muovi il tuo bel culo e raggiungici» grida Calum seccato dal fatto che io sia rimasta indietro.

Alzo gli occhi al cielo e gli faccio cenno di tornare indietro.

«Spera per te che sia una cosa veramente importante» dice Elyse, sorpassandomi.

Alla vista della macchina alza un sopracciglio.

Noto ora che ha un piercing a forma di anello proprio lì.

«Quindi?» chiede Blaine, incrociando le braccia al petto.

Odio il fatto che tutti e tre mi stiano trattando come fossi un’idiota.

«Potremmo portarla al campo. Sicuramente in macchina sarebbe più facile portare tutta questa legna» dico come se fosse ovvio.

Elyse nel frattempo ha aperto il cofano.

«Il motore è a posto» interviene, sfregando le mani tra di loro per pulirle.

«Lo sai che sei veramente sexy quanto fai queste cose?» commenta Blaine, passandosi la lingua sulle labbra.

«Vaffanculo, Blaine» ribatte lei, alzando il dito medio.

«Quando ti arrabbi lo sei ancora di più.»

«Ehi!» sbottai frustrata.

Mi stavano prendendo in giro e non lo sopportavo.

«È a secco. Possiamo andarcene adesso.» Calum sbatte con violenza lo sportello della benzina.

«Potremmo…»

«Non c’è niente che possiamo fare con questo catorcio, lo vuoi capire?» sbotta lui infuriato, alzando le braccia al cielo.

«Siamo in quattro. Potremmo trascinarla» continuo imperterrita, ignorando Calum.

Lo sento sbuffare rumorosamente.

«Li attirerebbe» interviene Elyse.

«Possiamo andare ora?» chiede Blaine, già pronto ad andarsene.

Lascio che si allontanino di qualche passo e provo in tutti i modi ad aprire una delle portiere della macchina. È una questione di orgoglio ora.

Dopo alcuni tentativi, lascio perdere e tiro un calcio alla macchina, infastidita.

L’avessi mai fatto.

Scatta improvvisamente l’allarme.

«Figlio di puttana!»

Rompo il vetro all’auto e cerco il modo di spegnere quell’aggeggio, invano. Il suono è sempre più forte e so di aver combinato un casino.

«Cazzo. Siamo nella merda.»

Li sento correre indietro e imprecarmi contro.

«Corri, cazzo!»

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

Le mie gambe ci impiegano qualche secondo a dare retta a ciò che dice il mio cervello, ma quei pochi secondi mi sono bastati per vedere due zombie che escono dal piccolo boschetto da cui eravamo usciti da poco.

Dio solo sa quanti ce ne potrebbero essere in giro.

Mi sento strattonare il braccio e con uno scatto fulmineo volto il viso e trovo Calum davanti a me che mi dice di muovermi, mentre corre e cerca di trascinarmi con sé.

Lo ascolto e lo seguo, più veloce che posso, cercando di raggiungere Blaine ed Elyse, ormai davanti a noi di alcuni metri.

Lancio uno sguardo dietro di me: da che erano due sono aumentati a dieci e vedo le ombre di altri avvicinarsi sempre di più.

È di nuovo una questione di metri: pochi metri che ci separano dalla morte, pochi metri che potrebbero salvarci, se siamo abbastanza veloci, o che potrebbero ucciderci.

Sento l’adrenalina che scorre nelle vene, sento quel senso di sopravvivenza che mi permette di continuare a correre, sento i tonfi dei miei piedi che battono veloci sull’asfalto ripercuotere nei muscoli delle mie gambe.

Sento i polmoni pesanti, l’aria che entra a fatica dalla mia bocca aperta.

Questi sono tutti i segni che mi permettono di dire che sono ancora viva.

Perché mai ho voluto insistere sul voler spostare quella dannata macchina! Lo sapevo che non sarebbe servito a niente, ma ho continuato imperterrita sulla mia strada.

Calum inciampa tutto d’un tratto e manca poco che gli finisca addosso.

«Avanti, forza!» gli urlo in faccia con tutto il fiato rimasto.

Lo prendo per un braccio e lo tiro su a fatica.

I mostri si avvicinano sempre di più.

La mia mano si muove d’istinto verso la pistola dietro alla mia schiena, ma lui, vedendo il mio gesto, la scansa velocemente.

«Sarebbe un suicidio.»

Mi prende per il polso e ricomincia a correre ancora più veloce di quanto stesse facendo prima.

Ci avviciniamo sempre di più a Blaine ed Elyse.

Ad un tratto, Elyse lancia un urlo e poco dopo vedo Blaine venir preso alla sprovvista da uno dei vaganti sbucato fuori dal nulla.

«Cazzo» impreca Calum e aumenta la sua velocità per raggiungere i suoi compagni, sorprendendomi.

Prende la pistola e spara in testa al vagante, liberando Blaine dalla morsa in cui lo stava tenendo.

Sento di nuovo un urlo: è stata di nuovo Elyse. È a terra, sopra di lei un altro zombie. Gli tiro un calcio e trapasso il suo cervello con il mio coltello.

Offro la mano ad Elyse per alzarsi.

«Siamo pari.»

Abbiamo solo un minuto per riprendere il fiato, ma subito ci ricordiamo cosa c’è dietro di noi.

Corriamo, fino a quando riconosco delle mura familiari che mi fanno fare un sospiro di sollievo.

***

«Potevamo morire tutti quanti, ti rendi conto della cosa o no?!»

Ho lo sguardo basso. So di avere sbagliato, so di aver messo in pericolo la vita di tutti quanti.

Una volta arrivati alla palestra Elyse mi aveva preso per la maglietta e sbattuta contro il muro, urlandomi contro con tutta la voce che avesse in corpo.

Non la biasimavo, aveva ragione.

«Non è un gioco andare là fuori!»

«Pensi che io non lo sappia?!» sputo fuori, infuriandomi con lei.

Elyse scoppiò in una risata isterica, scuotendo la testa.

«Togliti dai piedi, Elyse.»

È Travis che ci interrompe. Fa cenno ad Elyse di andarsene. Di tutta risposta lei lascia cadere con un tonfo il suo zaino e se ne va, lanciando un ultimo insulto nei miei confronti.

«Seguimi» mi ordina, con tono duro.

«Calum mi ha detto ciò che è successo.»

«Posso spiegare.»

«Non ho bisogno delle tue spiegazioni, Kayla. Ho bisogno che tu non ci faccia uccidere tutti, ho bisogno che tu ti fidi di noi.»

Mi lascio scappare una risatina.

«Cosa c’è trovi di così tanto divertente in tutto questo?»

«Come faccio a fidarmi di voi? Non vi conosco. Tutto quello che so di voi sono i vostri nomi e che mi avete voluto tra di voi. Non so il motivo, non so perché me.»

«Potrei dire la stessa cosa di te, Kayla. Non sappiamo niente della tua vita, di cosa hai passato per arrivare fino ad oggi, okay? Però ho riposto la mia fiducia nel fatto che tu abbia salvato due dei nostri dai pericoli che ci sono là fuori, mi è bastato questo.»

Rimango in silenzio.

«Queste persone sono la mia famiglia e voglio che tu stia più attenta la prossima volta che andrai in ricognizione. Non voglio perdere più nessuno, ne sono già morti troppi» continua, il suo tono si è rilassato. Non mi sta più facendo la ramanzina.

Capisco che a queste persone tiene veramente.

«Non succederà più.»

«Ci conto. Ora vai.»

Esco, mantenendo lo sguardo basso.

Ho bisogno di riprendere senno. Vado verso il bagno e mi sciacquo la faccia con l’acqua fredda. Strizzo gli occhi più volte: ho la vista un po’ annebbiata.

Credo che la mia mente lo sia, che sia annebbiata. Poco prima che io e Wayne ci incontrassimo su quel tetto, pensavo che fosse arrivata la mia fine: ero esausta fisicamente e mentalmente, ero sempre in cerca di un ancora a cui aggrapparmi per rimanere sana di mente. Mi sembrava tutto così surreale, impossibile. Pensavo di aver perso completamente la testa quando sentii la voce di Wayne. Pensai addirittura di essere morta. Ma non lo ero, come non lo sono adesso.

Ora che ci penso, mi sembra che tutto questo sia successo mesi fa: in realtà sono passate solo due settimane.

Devo ammettere che ho pensato di uccidermi, mettere fine a tutta quella sofferenza che mi metteva alla prova ogni dannato giorno; però c’era sempre qualcosa che me lo impediva. È sempre stato più forte di me: ogni volta che mi trovavo in bilico tra la vita e la morte, sceglievo sempre la vita. Perché? Perché in me c’è ancora speranza, la speranza di ritrovare qualcuno della mia famiglia. È stata questa speranza che mi ha tenuta in vita per due anni. Dentro di me sento che c’è ancora qualcuno di vivo là fuori, ci deve essere. Non possono essersene andati tutti così.

Mi asciugai il viso, tornando alla realtà.

Qualcuno entrò.

«Ma guarda un po’, chi non muore, si rivede!» esclamò Wayne, abbracciandomi.

Rimasi con le braccia dritte lungo il mio corpo, ero rigida come metallo.

Mi era ancora estraneo il motivo per il quale questo ragazzo tenesse così tanto a me.

«Già» risposi dopo qualche minuto di silenzio.

«Vieni, è ora di pranzo.»

Giunti alla sala pranzo, mi andai a sedere vicino a Olivia, come il primo giorno che ero arrivata qui.

I sentimenti che provavo erano gli stessi: disagio, inutilità. Nonostante questo, camminavo sicura di me, con lo sguardo alto, determinato.

«Non credere di essere speciale.»

Poco prima di sedermi, Elyse prese il mio posto. Alzai le sopracciglia in modo scettico.

«Cosa? Ci sei rimasta male?» continuò, addentando un pezzo del suo panino.

Alzai la testa al cielo.

«Non l’ho mai pensato.»

«Bene, continua a farlo. È stata solo fortuna la tua.»

«Tu credi? In che cosa esattamente sarei stata fortunata?»

«Sei stata fortunata a finire in questo gruppo, sei stata fortunata che tu abbia incontrato Wayne. Fosse stato per me saresti già morta.»

La presi per la maglietta e la tirai in piedi.

«Qual è il tuo problema, eh?» sputai a pochi centimetri dal suo viso.

«Se non lo avessi ancora capito, sei tu. Mi sembravi più acuta, sai…»

«Elyse, piantala» le ordina Olivia, usando un tono autoritario.

Divertente pensare che il primo giorno ci fosse lei al posto di Elyse.

Quest’ultima rise. La sua risata era fastidiosa, ruvida, mi ricordava il verso di un corvo.

«Oh, avanti, Olivia, mi sto solo-»

La mia mano era già chiusa in pugno, era già alzata ed era già pronta a colpirla in pieno viso. Venni solo fermata da Lynton, che mi strattonò via da lei.

«Smettetela, tutte e due!» grida, rimproverandoci.

Il mio sguardo era incatenato a quello di Elyse, entrambi erano pieni di astio.

«Non ero io quella che voleva tirare un pugno.»

«Non mi interessa. Kayla, vattene.»

Non ero sorpresa, ero l’ultima arrivata, la sconosciuta, non mi sarei aspettata che nessuno mi appoggiasse.

Mi libero dalla sua presa ferrea sulle mie braccia e me ne vado, infuriata.

Due settimane che sono qui dentro e già mi odiano, fantastico.

Sfogo la mia rabbia lanciando un pugno contro la parete fuori dalla sala adibita al pranzo. Il dolore si espande velocemente, partendo dalle nocche fino a sentire in fiamme tutta la mano e a non sentire più la sensibilità nelle mie dita.

Mi volto per dirigermi alle tribune e sobbalzo. Mi ritrovo davanti la bambina del primo giorno che stringe tra le sue braccia la sua bambola Rachel e che mi guarda spaventata.

«Io… scusa, non volevo spaventarti.»

«Mi chiamo Kayla» riprendo, avvicinandomi lentamente e chinandomi per arrivare alla sua altezza.

«Io sono Margaret.»

Non sapevo cosa dire. Mi guardai in giro.

«Beh, è bello rivederti, Margaret.»

«Ti sanguina la mano.»

Lanciai uno sguardo veloce alla mano e feci spallucce.

«Non è niente.»

«Non riesco più a trovare l’elastico per i capelli di Rachel» confessa, quasi colpevole.

«Tieni, prendi il mio.» Tolgo il mio dal mio polso destro e glielo metto nella piccola manina.

«Grazie, Kayla.» Mi sorride, mi abbraccia e poi se ne va, saltellando felice.

Mi lasciai scappare un sorriso.

«Margaret! Cosa fai in giro? Vai da tua madre, ti stava cercando.» Calum la prende in braccio, le dà un bacio sulla guancia e la rimette a terra.

«Guarda cosa mi ha appena regalato Kayla!» Gli mostra il mio elastico orgogliosa.

«Vai dalla tua mamma, su!» dice Calum, dopo averle regalato un sorriso.

Mi alzo dalla mia posizione e mi passo le mani sui pantaloni.

«Dove credi di scappare?»

Stavo già camminando verso le scalinate, non volevo che mi vedesse e, soprattutto, io non volevo vedere lui dopo quello che era successo.

«Non scappo da nessuno. Sto solo andando alle tribune» rispondo, continuando a camminare.

«Ti devo parlare.»

«Puoi farlo anche mentre camminiamo.»

«Ti sta sanguinando la mano» mi fece notare, proprio come Margaret.

«Lo so.»

«Ti vuoi fermare?» disse, irritato.

Mi prese per una spalla e mi fece voltare.

«Se vuoi farmi anche tu la paternale su quello che è successo questa mattina, ci hanno già pensato Travis ed Elyse.»

«Non è di questo che voglio parlarti. Voglio parlarti di Margaret.»

Lo guardo con un’espressione corrugata. Non capisco.

«Le sono molto legato, quindi, nonostante questo sia difficile da dire, apprezzo il fatto che tu la tratti bene. Sembra quasi che ci tenga a lei.» Abbassa lo sguardo. Penso sia la prima volta che lo vedo così impacciato e tranquillo. Deve tenerci davvero a lei.

«Le ho solo dato un elastico.»

«Calum, dì a tua sorella di venire da me, se la vedi.»

Calum si gira di scatto, lo vedo irrigidirsi.

«Sì, mamma» la liquida velocemente e lei se ne va.

«Vai, pensa a loro» gli dico, dopo qualche attimo di silenzio.

«E tu?»

«Io, cosa?»

«Che ne è stato della tua famiglia?»

«Non sono affari tuoi» ribatto secca.

Non capisco perché abbia deciso di chiedermelo, non capisco perché abbia cambiato atteggiamento verso di me. Per una settimana sembrava non esistessi nemmeno per lui – e ne ero felice: quando parlavamo io e lui finivamo sempre per litigare per quel poco che ne sapevo -, e ora si comportava così.

«Volevo solo cercare di conoscerti.»

«Beh, non è il momento adatto. E mai lo sarà.»

«Scusa se per una volta cerco di non urlarti contro.» Alza le braccia al cielo, si sta infastidendo.

«Lasciami stare.»

«Come vuoi» dice, andandosene, imprecando qualcosa a mezza voce.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

Ho questa brutta abitudine di scappare sempre dalle situazioni più difficili, che non mi piacciono. Non so perché, ma è la cosa che mi viene più facile da fare; non succede sempre, ogni tanto decido di affrontarle, ma questo è esattamente una situazione dalla quale vorrei scappare.

Non riesco a smettere di torturarmi le mani e le unghie, qui, seduta sull'ultima gradinata della palestra mentre guardo le persone camminare, parlare tra di loro sotto di me: alcune mi lanciano degli sguardi di tanto in tanto per vedere se sono ancora lì, altri mi lanciano delle occhiatacce.

Non so perché, alla fine, abbia deciso di rimanere qui per davvero. Sapevo che sarebbe stato difficile, sapevo a cosa andavo in contro. Sapevo che dovevo farlo.

Quando venni presa da Jordan non mi sarei aspettata di uscirne viva, da un lato ne ero anche sollevata: avrei smesso di combattere da sola questa guerra invisibile ed invincibile tra me e i morti. Poi, però, mi vennero a salvare proprio dalla morte e, non so, qualcosa è scattato dentro me, quel qualcosa che ogni volta che ne ero vicina mi dava la forza di reagire, di dire: non oggi.

Credo di essere restata perché da sola non riuscivo ad andare avanti o comunque sapevo che non sarebbe durata a lungo e il solo pensiero di trasformarmi in uno di quei mostri mi disgustava. Non volevo e non voglio essere il motivo per cui le persone lì fuori debbano morire.

Faccio passare con lo sguardo ogni persona all'interno del mio raggio visivo: mi sono appena accorta che ci sono molti più sopravvissuti di quanti me ne immaginassi e mi rendo conto che ne conosco pochissimi.

«Kayla, posso parlarti un attimo?» È Mali che interrompe il mio flusso di pensieri.

«Sì, certo.»

«Come stai?»

Rimango un attimo spiazzata alla sua domanda, mi aspettavo qualcosa di diverso.

«Io... Sto bene, credo.»

«Okay, allora ti ripeto la domanda: come stai?»

«Non lo so, non ci ho pensato molto ultimamente.»

«Okay, è già qualcosa.»

«Cosa vuoi dire?»

«Ti stai aprendo con qualcuno.»

«Io non mi sto aprendo. Sto solo dicendo quello che penso.» ribatto confusa.

Alza gli occhi al cielo con un sorrisetto sulla faccia.

«Va bene. Comunque, volevo dirti che anche Calum sta provando a conoscerti, solo che non so chi sia peggio tra voi due, sinceramente» si lascia scappare una risatina.

La guardo male e mi sposto i ciuffi di capelli caduti sul mio viso.

«Oh, avanti, non guardarmi così. Prova almeno a dargli una possibilità. So che avete iniziato con il piede sbagliato, ma magari-»

«Io mi chiedo solo perché continuo a trovarmi davanti persone che parlano per Calum anche se non sono lui.» Incrocio le braccia al petto scocciata.

«Queste cose me le ha dette lui e io gli sto solo dando una mano. Sono sua sorella, lo conosco bene com'è fatto.»

Rimango in silenzio.

«Dimmi almeno che ci proverai» dice, quasi pregandomi.

Annuisco riluttante.

Devo trovare un modo per andare d'accordo con queste persone e magari questo può essere un primo passo.

Mi lascio scappare un sorriso e lei mi abbraccia contenta.

***

È ora di cena quando finalmente mi muovo dalle scalinate.

Ci ho riflettuto a lungo su ciò che mi aveva detto Mali e sapevo che il primo passo avrei dovuto farlo io, questa volta.

Insomma, voglio andare d'accordo con questa gente, non voglio essere una minaccia per loro, non voglio far provar loro della paura inutile – ne provano già abbastanza -.

Ho capito che io mi sto comportando esattamente come loro: sono distaccata, li guardo come se da un momento all'altro dovessero farmi del male, non mi fido.

Ho capito che ci comportiamo così perché abbiamo paura l'uno dell'altro e non voglio andare avanti così.

Non mi fido ancora ciecamente di loro, ma sono loro riconoscente di tutto quello che hanno fatto e di quello che stanno facendo per me.

«Ehi, um... stasera facciamo una specie di gioco dopo cena, qui. Accendiamo un piccolo falò. Certo, sempre se vuoi unirti a noi» mi dice Blaine con un sorrisetto sulla faccia.

«Okay, grazie» ricambio il sorriso e lo raggiungo con una leggera corsetta.

All'inizio mi guarda sorpreso, non se lo aspettava, poi alza le spalle e mi sorride, di nuovo.

Alzo le spalle e alzo gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso.

«Okay, grande!» Alza i pollici delle mani.

«Allora... Come va?» chiede incerto.

Lo imito alzando i pollici un po' incerta: non sono più abituata a questo genere di domande o a domande in generale, non so esattamente come rispondere e per evitare di suonare troppo scontrosa mi limito ai gesti.

Lui annuisce. Apprezzo che non abbia fatto commenti al riguardo, credo abbia capito che sto provando a comportarmi diversamente, comportarmi come avrei fatto una volta, tanto tempo fa.

Insieme entriamo nella mensa, lui mi saluta e va a sedersi a un tavolo assieme a Lynton e altri due ragazzi; io proseguo per la mia strada finché non raggiungo il tavolo di Olivia.

La saluto e poi mangiamo assieme. Oggi dividiamo una scatola di fagioli in due: credo che le scorte stiano diminuendo e presto so che dovremmo uscire ancora in cerca di cibo. Decido di lasciarle l'ultima forchettata di fagioli e, alla fine, accetta.

Ci sto provando.

***

«Okay, okay, allora, preferiresti usare collirio fatto di aceto oppure carta igienica fatta di sabbia?»

Poco dopo aver finito di cenare, si erano riuniti tutti attorno a un piccolo falò al centro della palestra e per la prima volta mi accorsi della quantità di persone che questo gruppo conteneva: erano veramente tantissimi, contando che non vedevo così tante persone vive da tantissimo tempo.

Attorno a questo fuoco, facendo questo gioco, si dimentica completamente di ciò che succede fuori dalla palestra. Si ritorna ai giochi del liceo o del college, si ritorna alla vita di prima.

«Uh, bella domanda. Non lo so, credo carta igienica di sabbia, mi fa schifo l'aceto»

Scoppia una risata di gruppo, io mi limito a sorridere e scuotere la testa.

«Tocca a me» interviene Mali, aggiustandosi sul posto e alzando la mano entusiasta.

«Blaine, preferiresti essere la persona più divertente nella stanza o quella più intelligente?» continua lei, indicandolo.

«Sono già entrambe, non c'è bisogno che io scelga» risponde Blaine, alzando le sopracciglia e allargando le braccia.

Alzo gli occhi al cielo e rido.

«Qualcosa in contrario, Kayla?» dice, dandomi delle gomitate nel fianco sinistro.

Alzo le mani in segno di resa, sorridendo.

«Tocca a te» mi ricorda Margaret alla mia destra. La domanda è per lei.

«Preferiresti... avere un drago o essere un drago?» chiedo incerta. È la prima cosa che mi è venuta in mente da chiedere ad una bambina.

«Essere un drago!» risponde, gli occhi che le si illuminano.

«Perché?» le chiede Calum, seduto alla sua destra.

Mi sporgo leggermente per riuscire a vederlo e, anche se per pochi secondi, i nostri sguardi si incrociano. Poi, decido di essere la prima a distogliere lo sguardo e posarlo di nuovo su Margaret.

«Perché così potrei volare! E poi potrei bruciare tutti i morti!» replica eccitata, quasi saltando sul posto e mimando con le braccia il volo del drago.

Blaine si aggiunge a lei, imitando un drago che sputa fuoco.

«Cal, preferiresti essere senza gomiti o senza ginocchia?» chiede lei a Calum, ignorando le regole del gioco perché troppo felice.

«Come ti è venuta in mente?» le domanda incuriosito.

«Ci stavo pensando prima.»

Lui scuote la testa divertito.

«Credo senza gomiti. Non chiedetemi perché, ma l'idea mi piace di più che essere senza ginocchia.»

Tutti abbiamo fatto il giro nel nostro cerchio, quindi ora – da quello che mi hanno spiegato – ognuno può decidere di fare una domanda a chi vuole.

«Kayla, ne ho una per te: preferiresti indossare una tuta da neve nel deserto o essere nuda in Antartide?» mi chiede Wayne.

«Tuta da neve nel deserto» rispondo veloce.

«Wow, non mi aspettavo una risposta così veloce» interviene Blaine, sorpreso.

«La tuta possa toglierla di giorno e metterla la notte, mentre se sono in Antartide non ho niente e morirei di freddo» spiego, alzando le spalle.

«Abilità di sopravvivenza!» canticchia Wayne, aprendo le mani e muovendole come se stesse presentando un programma tv.

«La cosa mi fa venire in mente: preferireste morire congelati o bruciati?» si collega Mali, incrociando le gambe e piegandosi col busto.

«Preferirei non morire, per ora» ribatte Calum, oscurandosi in volto e lanciando un'occhiataccia a sua sorella.

«Scusate, non volevo uccidere l'umore» riprende lei, facendo scomparire il sorriso.

«Io non voglio morire» dice Margaret con la sua vocina, rivolgendomi lo sguardo triste.

Non riesco a sostenerlo.

«Vado a dormire, scusate.» Mi alzo in fretta e cammino veloce verso le scalinate.

***

Mi sveglio di colpo: ho la fronte sudata e mi trema il corpo. Sono ancora scossa dall'incubo che ho appena fatto. C'era mia sorella, di nuovo.

Mi guardo per qualche attimo attorno: stanno ancora dormendo tutti, però non è completamente buia la palestra. Mi affaccio alla finestra e vedo i colori del cielo: azzurro, giallo, arancio e rosa. Dev'essere l'alba.

Provare a riprendere il sonno è inutile: ogni volta che ci provo mi risveglio pochi minuti dopo reduce da un incubo.

Decido di alzarmi. Prendo il coltello e me lo infilo nella cintura dei jeans. Attraverso la palestra, facendo attenzione a non fare rumore: non voglio svegliare nessuno. Vago un po' per un corridoio senza sapere esattamente dove sono o a dove portino le porte. Ne apro una di ferro: davanti a me ci sono delle scale, alla mia sinistra un'uscita d'emergenza.

Salgo le scale senza fretta. In cima alle scale c'è un'altra porta, sempre di ferro. La apro: davanti a me c'è il tetto della palestra. Il suolo è di cemento, è piano e ci sono dei parapetti di cemento che circondano i limiti del tetto.

Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza. Faccio un respiro profondo e percorro l'enorme spazio che c'è dalla porta al parapetto.

Lascio che la brezza fresca tipicamente mattutina mi travolga completamente.

Inspiro. Espiro.

Appoggio le mani al parapetto e guardo il sole spuntare dal basso: la sua luce dona alla città davanti a me un colore dorato, la accende, riflette sui vetri dei pochi grattacieli che si vedono in lontananza. Tutto questo mi tranquillizza e mi permette di non pensare agli incubi che mi inseguono ogni notte.

«Bello, vero?»

Mi volto di scatto e prendo il coltello dalla cintura, puntandolo contro la voce. Ho il cuore che batte a mille.

Calum si avvicina a me e si appoggia con i gomiti sul parapetto, affianco a me.

Rimetto via il coltello, aspettando qualche secondo prima di voltarmi di nuovo.

«Sì» rispondo, la voce che mi trema.

Mi guarda negli occhi: i suoi sono illuminati dalla luce del sole, facendoli brillare. La sua pelle risulta dorata.

«Non riesci a dormire?» mi chiede, alzandosi sulle mani e guardandomi dall'alto.

È più alto di me di dieci centimetri circa.

Annuisco, alzando il viso per guardarlo.

«Nemmeno io.»

Distolgo lo sguardo dal suo e torno ad ammirare la città. Non c'è alcun rumore, solo quello del mio e del suo respiro.

«Ho sognato mio papà» confessa.

Lo fisso per qualche attimo, incerta su cosa fare.

«L'ho rivisto morire. Ho rivisto ogni secondo. Ho rivisto ogni cosa» continua lui, lo sguardo perso davanti a sé.

Comincio a giocare con le mie dita.

«Non mi capita spesso, anzi. Ormai è passato molto tempo da quando è successo, è solo che ogni volta è sempre peggio. È come mettere del sale su una ferita aperta: brucia.»

«Lo so bene» intervengo.

«Chi?»

È una domanda semplicissima, ma faccio fatica a rispondergli.

Apro la bocca, ma non esce alcun suono. La richiudo.

Incrocio le braccia al petto e stringo le mani in due pugni. Le unghie premono forti sui palmi delle mie mani.

Deglutisco.

«Avevo una sorella e un fratello.»

Ho la bocca asciutta. Deglutisco di nuovo.

Calum è in silenzio, aspetta che io continui.

«Ho sognato mia sorella.»

Ora mi guarda negli occhi, però non capisco il suo sguardo.

Stacca le mani dal parapetto e le lascia per pochi secondi a mezz'aria, poi decide di incrociarle al petto.

«Da quanto non dormi?» mi chiede dopo alcuni secondi.

«Da quando sono da sola.»

«Cioè?»

«Due anni» ammetto a mezza voce.

È veramente tanto tempo, se ci penso.

Questa volta, colgo nel suo sguardo la sorpresa e mi sembra quasi di scorgere dolore, ma forse è solo la mia mente a farmelo credere.

Annuisce, si guarda intorno.

«Forse dovremmo rientrare» dice, guardando prima me e poi la porta.

«Ho bisogno di ancora un po' di tempo.»

«Ho capito.» Si gira e se ne va, lasciandomi sola con i miei pensieri per la testa.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

CALUM

 

«Ho bisogno di ancora un po' di tempo.» risponde lei, muovendo la testa di lato.

Oh, lo so bene che ne hai bisogno, penso.

Sono rimasto sorpreso quando ha deciso di aprirsi con me e penso che lei lo sia rimasta quando io l'ho fatto con lei.

So che non si riferiva al fatto di aprirsi con qualcuno o di fidarsi di qualcuno – o almeno credo -, non è così semplice come sembra per lei.

«Ho capito.»

Due anni.

Scendo le scale.

Due anni da sola.

Percorro il corridoio.

Due anni che gli scheletri del passato, la sua famiglia, la rincorrono.

Entro in bagno.

Due anni a combattere quei mostri da sola.

Tiro un pugno al muro.

***

«Calum?»

«Sì?» Alzo lo sguardo dalla pistola che stavo caricando.

Wayne fa il giro del tavolo e si mette al mio fianco, copiando i miei movimenti.

«Tutto bene?»

«Come mai me lo chiedi?»

«Hai una faccia strana. E poi hai saltato il pranzo oggi.»

Appoggio l'arma sul tavolo.

«Non avevo fame» rispondo secco.

«Okay» ribatte, arrendendosi subito.

Sa come sono fatto e capisce che non ho voglia di parlarne. Wayne è stato il primo a cui mi sono legato di questo gruppo, forse perché era l'unico della mia età circa: Blaine e Lynton sono arrivati qualche mese dopo di me.

Travis è diventato come un padre dopo che il mio è morto una settimana dopo esserci uniti al suo gruppo.

«Settimana prossima usciamo» incalza il discorso Wayne, provando a tirarmi fuori qualche parola di bocca. Se c'è una cosa che non sopporta è troppo silenzio.

«Cosa dobbiamo prendere?»

«Cibo, sta finendo.»

Annuisco e passo a caricare i fucili.

«Credi che Travis lascerà venire anche Kayla?» riprende.

«Perché non dovrebbe?»

«Dopo quello che è successo l'ultima volta-»

«Non è stupida. Sa di aver sbagliato e poi Travis crede in lei, come ha fatto con tutti noi del resto» lo interrompo brusco. Non lo so perché, ma parlare di lei mi rende nervoso.

«Già.»

«Perché ti interessa così tanto di lei?» gli chiedo poi, curioso della sua risposta.

«Mi interesso di lei esattamente come fai tu, non negarlo» ribatte, lasciando cadere la pistola sul tavolo.

Ripeto il suo gesto e stringo la mano in pugno.

Serro la mascella e lo fisso per qualche istante negli occhi.

«Ho bisogno d'aria.»

Esco veloce dalla stanza.

Non so se abbia più bisogno d'aria o di una doccia fredda.

Non so cosa mi sia preso, non so perché me la sia presa così tanto per Wayne. In fondo, non ha detto niente di male. Ha solo detto la verità.

Eppure mi ha dato fastidio.

Alla fine, decido di entrare in bagno. Mi sciacquo la faccia con dell'acqua fredda, prendo un asciugamano e mi asciugo.

Mi guardo allo specchio: è da tanto che non lo faccio, un po' per questioni di tempo, un po' perché non ne sento più il bisogno come una volta.

Una volta mi curavo il viso molto di più di adesso, a partire dalla barba: ogni tre giorni mi radevo, mettevo il dopobarba per fare colpo sulle ragazze e funzionava sempre. C'è da dire che oltre al dopobarba faceva colpo anche il mio aspetto fisico e non posso dire che mi desse fastidio, alla fine era quello che cercavo anche io in una ragazza. Sono uscito con molte ragazze e la maggior parte non è durata per più di un mese. Sono state solo due le relazioni più lunghe che ho avuto.

Cerco di non pensarci troppo a come era la vita prima di tutto questo. Tutto era più facile, più tranquillo, più prevedibile. Non lo è più da quando i telegiornali hanno annunciato la “Fine del Mondo”. Da lì è iniziato il caos: gente che faceva i bagagli in fretta e furia, li buttava su una macchina e se ne andava in cerca di un posto più sicuro, gente che si barricava in casa dichiarando di essere pronta a tutto pur di non abbandonare la propria casa, gente che prendeva un filo e se lo legava attorno al collo.

Dopo la notizia, gran parte dei supermercati – quelli che ancora erano aperti e dove c'era ancora personale a lavorarci - hanno finito le scorte in poche ore e sono stati costretti a chiudere.

Il governo ha pensato bene di far dire un ultimo messaggio di incoraggiamento a tutti i cittadini, direttamente pronunciato dal presidente, prima di sparire completamente e ritirarsi in chissà quale bunker sotterraneo in chissà quale Paese.

A poco a poco la razza umana ha cominciato a dimezzarsi. La cosa spaventosa era che per le strade non c'erano cadaveri accasciati a terra: pochi minuti dopo il decesso riprendevano vita, ma con un aspetto diverso.

La prima volta che vidi uno dei Non-morti avevo diciotto anni, mi ricordo che era estate perché mi ero appena diplomato ed ero in giro a distribuire il mio curriculum a destra e a manca: non potevo permettermi di andare all'università, non avevo abbastanza soldi per pagarla e poi non avevo ancora le idee chiare sul cosa fare, allora decisi che la scelta più adeguata sarebbe stata quella di lavorare.

Era pomeriggio inoltrato, faceva caldo, decisamente. Entrai in un bar sulla quale porta c'era un foglio dove c'era scritto che cercavano personale. Andai al bancone: dietro c'era un uomo alto, avrà avuto trentacinque anni circa, aveva i capelli castani legati in un codino dietro alla testa. Stava servendo un ragazzo che era della mia età, lo vedevo spesso a scuola e poi l'ho visto alla cerimonia del diploma. Non sapevo come si chiamasse però.

Appena l'uomo mi vide mi salutò calorosamente e mi chiese cosa volevo da bere. Io gli mostrai il foglio che avevo tra le mani e, forse era proprio disperato, forse aveva visto qualcosa in me, mi disse che da lunedì avrei cominciato a lavorare. Io rimasi spiazzato e così cominciai a porgli mille domande sul perché mi avesse assunto senza aver fatto un colloquio; poi, però, capendo che non stava scherzando, cominciai a chiedergli le formalità sul lavoro. Lui, per tutta risposta, mi disse che il suo nome era Travis e che dovevo presentarmi lì il lunedì alle sette del mattino.

Incredulo, allora, lo ringraziai ed uscii dal suo bar.

Decisi di andare in spiaggia a fare una camminata, ci vivevo molto vicino e allora colsi l'occasione. Il sole splendeva forte in cielo, la sabbia era bollente e la temperatura dell'acqua era perfetta per una nuotata: tutto era perfetto, l'unica cosa era che non avevo indosso un costume.

Sulla via di casa notai che in mezzo alla strada c'era qualcuno: si muoveva come fosse percosso dalle convulsioni all'inizio, poi cominciò a trascinare i piedi sull'asfalto. Mi avvicinai, qualcuno doveva portarlo fuori dalla strada, altrimenti chissà che fine avrebbe fatto. Pensai fosse qualcuno che ci era andato pesante con l'alcool. Poi, però, riuscii a scorgere il suo viso: la pelle sembrava come bruciata però era di un colorito grigiastro come quella di un cadavere, gli occhi guardavano fissi davanti a sé e sembrava avessero come una patina addosso.

Doveva essere uno scherzo.

Non sapevo cosa fare, pensai che sicuramente ci doveva essere qualcuno dietro a questo, una qualche specie di troupe cinematografica, allora decisi di lasciar perdere e tornai a casa un po' scosso.

Feci appena in tempo a varcare la soglia di casa che subito mia sorella mi corse in contro, stava piangendo e mi stava urlando contro perché non rispondevo al cellulare, poi mi abbracciò. Mi disse che dovevamo andarcene.

Io non capivo. Cercai di tranquillizzarla ma non c'era modo. Corse su per le scale e mi disse di accendere la tv.

C'era il caos totale. Su qualsiasi canale girassi c'era un notiziario diverso, ma tutti con lo stesso titolo: “Stato di allarme”.

Presi qualche secondo per cercare di capire cosa stesse dicendo la giornalista e poi lo vidi: l'uomo in mezzo alla strada.

Non era uno scherzo.

La fine del mondo era iniziata.

La porta del bagno si apre con un leggero cigolio. Sbatto un paio di volte le palpebre e torno alla realtà.

«Oh, scusa, non volevo. Non mi sono ancora abituata, ho sbagliato porta.»

Kayla è già pronta ad andarsene, però esita qualche secondo prima di farlo.

«Va tutto bene?» mi chiede, il suo tono di voce un po' incerto.

È la seconda volta in una sola giornata che la vedo insicura e senza barriere.

È strano, fino ad ora ha sempre giocato la parte dell'insensibile con me, mi sembra quasi irreale parlarci senza che ci urliamo contro o che ci tiriamo frecciatine a vicenda.

Sta cominciando ad aprirsi, ma sono sorpreso che abbia scelto me per farlo.

«Cosa?» rispondo distratto, quasi dimenticandomi la domanda che mi ha appena fatto.

«Ti ho chiesto se andava tutto bene» ripete con un tono calmo, togliendo la mano dalla maniglia della porta e lasciandola cadere al fianco della sua gamba.

«Sì, diciamo di sì» rispondo dopo qualche istante.

Annuisce.

Apre la bocca per dire qualcosa, ma la richiude poco dopo. Comincia a giocare con le sue mani.

Non sa cosa fare.

Rimetto l'asciugamano al suo posto e mi avvicino a lei.

«Senti, so che io e te abbiamo iniziato con il piede sbagliato e non ci stiamo tanto simpatici, ma se hai bisogno di parlare o di altro sai dove trovarmi. Alcune volte è più facile farlo con persone che non si conoscono» dice tutto d'un fiato, quasi come se mi stesse rivelando un segreto.

Rimango spiazzato, esattamente come tre anni fa in quel bar.

Non so cosa dire, non me lo sarei mai aspettato da lei. O almeno non così presto.

«Grazie, ma non ho bisogno del tuo aiuto al momento.» Il mio tono esce più brusco e scontroso di quello che avrei voluto risultare.

La sua espressione si irrigidisce immediatamente.

«Suppongo di essermi sbagliata.»

Se ne va, chiudendomi la porta in faccia.

Grande.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 

CAPITOLO 12

 

KAYLA

 

«Prendi!» urla Mali mentre mi lancia la pistola.

Faccio appena in tempo ad alzare lo sguardo che l'arma mi colpisce sul braccio e poi per terra.

«Potresti avvisare un po' prima la prossima volta?» le dico mentre la raccolgo.

«Scusa!»

Alzo gli occhi al cielo, sorridendo, intanto che lei si avvicina per abbracciarmi.

«Fa niente.»

«Allora... Cosa dobbiamo cercare oggi?» Mi toglie la pistola dalle mani e la infila nel suo zaino.

Oggi dobbiamo uscire in escursione. Travis è venuto di persona a parlarmi per assicurarsi che io non facessi altre idiozie là fuori e per farmi promettere che qualsiasi cosa avessi in mente di fare, avrei prima dovuto parlarne con il gruppo. Non lo biasimo, ne ha tutte le ragioni.

È solo che, riflettendoci, mi viene difficile parlare e aspettare il loro consenso.

Sono stata da sola per così tanto tempo, abituata a dovermi appoggiare solo su me stessa e sulle mie decisioni, pronta anche alle loro conseguenze, perché non avevo niente da perdere.

Ora invece è diverso: insieme a me ci sono delle persone vere e le conseguenze delle mie scelte potrebbero ricadere anche su di loro e non voglio essere la responsabile delle loro ferite, o peggio, delle loro morti, pensando che c'è qualcuno che a loro ci tiene. E forse sto cominciando a tenerci anche io.

«Cibo» rispondo e mi metto lo zaino sulle spalle, assicurandolo poi con la chiusura sullo stomaco, così che se dovessi correre non cadrebbe.

Annuisce e con una pacca sulla spalla mi fa cenno di avvicinarci alle porte della palestra.

Lì ci sono Lynton, Calum, Margaret e un altro ragazzo di cui ancora non so il nome.

«Ci siamo» annuncia Mali, appoggiando il borsone che teneva in mano per terra quando ci uniamo a loro.

«Ciao, Kayla! Prima di andare, volevo darti l'elastico che mi avevi dato, così non ti vengono tutti i capelli in faccia» dice Margaret, allungando la mano verso di me con l'elastico tra le sue piccole dita.

Le sorrido dolcemente, la ringrazio e poi la prendo in braccio.

«Tu devi stare con la mamma» dice Mali a suo fratello.

Pensavo fosse qui solo per salutare sua sorella, ma noto ora che ha lo zaino sulle spalle.

«Se tu esci, esco anche io» replica serio.

«Non capisco perché ogni volta che io esco ti ostini a venire anche tu. Sono capace di proteggermi e poi non sono sola» sbotta Mali, arrabbiandosi.

«Perché mi preoccupo per te, va bene?!»

Mali si ammutolisce e distoglie lo sguardo da Calum.

«Scusa, ma mi è bastato perdere papà. Non voglio perdere anche te» riprende lui e abbraccia sua sorella.

«Ti voglio bene» sussurra lei con gli occhi lucidi.

Distolgo lo sguardo.

Quanto vorrei riabbracciare mia sorella e mio fratello e potergli dire 'ti voglio bene'.

«Kayla» mi richiama Margaret, sventolandomi una mano davanti alla faccia.

Sbatto una paio di volte le palpebre e decido di rimettere la bimba per terra.

«Possiamo andare?» chiedo, prendendo in mano il borsone che aveva buttato a terra Mali.

Lynton annuisce e in fretta esco dalla palestra a passo sostenuto, senza preoccuparmi degli altri o da che parte dobbiamo andare.

«Rallenta un po'!» mi ordina Calum, ma lo ignoro.

Lo sento che continua a chiamarmi e continuo a fare finta di non sentirlo.

Non ce la faccio. Alcune volte sento la mancanza della mia famiglia così tanto che mi sembra di impazzire: comincio a pensare che sia stata colpa mia se ci siamo divisi e se ora loro sono chissà dove. Comincio a pensare che continuare a sperare che siano vivi sia inutile. Sono passati tre anni e il loro ricordo continua a vivere forte e alcune volte mi butta più a terra di altre.

Mi accorgo di aver rallentato il passo quando Lynton mi sorpassa e piano piano, lascio che lo facciano anche gli altri tre.

Devi riprenderti, hanno bisogno di te lucida, penso subito.

Ho già commesso troppi errori. Devo smetterla. Pensare a loro non mi servirà a niente qui fuori, non mi salverà dai pericoli che la città nasconde dietro ad ogni angolo.

Riprenditi.

«Ci dividiamo» ordina Lynton deciso, incrociando le braccia al petto e fermandosi per fissare ognuno negli occhi, in cerca di disaccordo.

«Vado da sola» dichiaro, impugnando il coltello nella mano destra.

«Non se ne parla» ribatte Calum.

«Stai bene?» mi chiede Mali preoccupata, avvicinandosi.

«Alla grande» rispondo scocciata, indietreggiando.

Lascia cadere il braccio che aveva alzato e ritorna alla sua posizione di fianco al fratello.

«Okay... Calum, Mali cominciate ad andare, ci incontriamo qui alle 15» intima loro Lynton.

«Reece e Kayla, noi andiamo di qua, senza obbiezioni.» Dice le ultime due parole rivolgendosi a me.

Annuisco e li seguo. Imbocchiamo una via a sinistra, mentre Calum e Mali sono già spariti dietro ad un angolo della via opposta.

«Stiamo tutti vicini, se incontriamo uno dei Vaganti passiamo oltre. Se sono in gruppo lavoriamo insieme seguendo una strategia. Non prendete iniziativa» ci istruisce Lynton, camminando dritto davanti a sé con sicurezza. Le spalle aperte a formare una linea retta, la schiena dritta e la testa alta.

«Okay» risponde Reece, un po' indeciso se proferire parola fosse la cosa giusta da fare.

«Andrà tutto bene, Reece, rilassati.» Lynton da una pacca di conforto sulla spalla del ragazzo. È piuttosto magro e, al contrario di Lynton, le sue braccia sono asciutte e cammina in modo piuttosto impacciato. Dal viso mi sembra che abbia diciassette anni circa.

«È la prima volta che esci?» gli chiedo da dietro.

Annuisce.

«Ce la puoi fare.»

È l'unica cosa che mi sembra più sensata da dire.

«Entriamo» comanda Lynton, avvicinandosi alla porta di una casa. La verniciatura è ancora perfetta.

«Guarda e impara» dice a Reece.

Lynton tira fuori una forcina dalla sua tasca e la infila nel buco della serratura, maneggiandola per qualche minuto fino a che si sente il lucchetto scattare.

«Vecchia scuola» mi scappa dalle labbra. Devo dire di essere piuttosto impressionata dalla facilità con cui abbia aperto la porta: io ci avevo provato alcune volte, ma non vedendo risultati mi arrabbiavo e sparavo alla serratura per farla saltare non esattamente in modo furtivo.

«Sei solo invidiosa» ribatte lui con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.

«Me lo insegni?» chiedo, forse con un po' troppa prepotenza.

«Sì, certo, ma non ora. Abbiamo cose più importanti da fare.» Lynton prende la pistola dalla fondina e la tiene dritta davanti a lui, all'altezza delle spalle.

Lo imito ed entro cauta nell'abitazione, seguendo Lynton con lo sguardo davanti a me.

Lanciò un'occhiata a Reece dietro di me e gli faccio cenno di fare silenzio e di seguirmi. Annuisce e comincia a camminare mettendo un piede davanti all'altro lentamente.

Ritorno a guardare davanti e noto che sulle mura del piccolo corridoio che stiamo percorrendo ci sono quadri dei fiori e anche qualche foto delle persone che qui dentro ci abitavano.

«Via libera.» Lynton abbassa l'arma e la rinfila nella fondina.

Faccio lo stesso e smetto di camminare per far passare Reece. Preferisco averlo davanti a me, così che possa controllare che non gli accada niente.

«Vado al piano di sopra» dico e comincio ad andare, senza aspettare una risposta.

«Vai con lei, io controllo qua giù.» Sento dire da Lynton.

Salgo la rampa di scale e arrivo al pianerottolo: ci sono diverse mensole e su ognuna di queste ci sono delle foto incorniciate e un nome. Mi avvicino per guardarle: sulla mensola più in basso c'è il nome John e le foto ritraggono un ragazzo che gioca a baseball, lui che bacia una ragazza, lui al diploma. Prendo in mano quest’ultima e mi viene un groppo in gola a pensare che appena una settimana prima che tutto questo iniziasse, io mi ero appena diplomata.

 

«Kayla Russel.»

Mi tremano le gambe appena mi alzo dalla sedia. Non ci posso credere.

Cerco di mantenere l'equilibrio sui tacchi che indosso, mentre cammino verso il palco.

Non posso fare a meno di sorridere.

Salgo gli scalini, alzandomi la toga nera che indosso e facendo attenzione a non cadere.

«Complimenti!»

Stringo la mano alla preside e lei mi porge il diploma. Lo prendo e attendo che scattino la foto.

«Vorrei ringraziare la mia famiglia per essermi stata sempre accanto, soprattutto quando ero stressata ed affamata...» ridacchio mentre leggo il breve discorso di ringraziamento che ho scritto. Lancio un'occhiata ai miei genitori e li vedo scuotere la testa sconsolati.

«... i miei amici, anche se dovrebbero essere loro a ringraziare me per tutte le volte che ho salvato loro la dignità e la media scolastica...»

Sento delle urla da parte dei miei amici seduti nelle prime file. Rivolgo loro un sorrisino innocente e li saluto con la mano.

«... ed infine, vorrei ringraziare me stessa perché sono fantastica. Grazie e buona continuazione!»

 

«Tutto bene?»

Rimetto a posto la foto e mi asciugo la guancia con il dorso della mano. Non mi ero nemmeno accorta di star piangendo.

«Sì... Sì, tutto bene. Andiamo avanti, forza» rispondo, tentando di mantenere il mio tono della voce fermo.

«Quest'anno, tra tre mesi, mi sarei diplomato.» Reece mi segue mentre apro una delle quattro porte del piano di sopra.

«Avevo già in progetto di andare all'Università. Volevo diventare un ingegnere aerospaziale. A dire la verità voglio ancora diventarlo, nonostante suoni un po' folle dato le condizioni in cui siamo costretti a vivere» continua.

Mi fermo e lo guardo per qualche istante con l'ombra di un sorriso sul viso. Lui mi sorpassa e comincia a frugare tra i vari cassetti e mobili della camera in cui siamo entrati.

Non so cosa dire. Il solo pensare che a questo ragazzo, così come a milioni di altri in tutto il mondo, me compresa, sia stata tolta la possibilità di scegliere il proprio futuro, di poter vivere la vita per ciò che è, con tutte le sue sfumature, le sue avventure, le possibilità che questa ci offre.

«Ho sempre amato lo spazio. Quando ero piccolo i miei genitori mi hanno regalato un telescopio.» Si volta a guardarmi per un piccolo istante e vedo le scintille che ci sono nei suoi occhi mentre me ne parla.

Gli sorrido sinceramente. Vorrei solo potergli dire che diventerà ciò che lui vuole, ma sarebbe soltanto una menzogna. E lui lo sa benissimo. Credo che sia stata questa speranza ad averlo portato fino a qua e credo sia stato il suo carattere a farlo rendere amato dal suo, ormai anche mio, gruppo.

«Vorrei vedere la terra dallo spazio e vorrei che questo mio desiderio fosse possibile e non sembrasse solo un capriccio per scappare a questo inferno.»

«Fidati, non lo è.»

Reece sta maneggiando con un lucchetto che chiude le due ante di un grande armadio di legno con la forcina di Lynton e credo pensi che possano esserci delle cose utili dentro, altrimenti perché sarebbe stato chiuso a chiave?

Esco per qualche istante dalla stanza, lasciandolo al suo lavoro e cerco di fare un buon uso del tempo in modo da trovare il più possibile.

Sento il lucchetto aprirsi, subito dopo un forte tonfo.

Mi volto e ritorno verso la stanza.

«Kayla!»

Entro e la prima cosa che vedo sono le ante dell'armadio spalancate. Reece non c'è.

«Reece!» urlo, sperando sia in grado di rispondermi.

Qualcosa è andato storto.

E ormai non è più un brutto presentimento quello che sento. È una costatazione.

Sento le sue grida e dei gemiti fin troppo riconoscibili, gemiti che mi perseguitano nei miei incubi.

Mi fiondo nella camera e vedo che c'è una rientranza dopo l'armadio. Lo oltrepasso senza esitare e lo vedo.

Prendo la pistola e senza pensare alle possibili conseguenze che avrebbe causato il rumore, sparo.

Il corpo cade sopra a quello di Reece e lo schiaccia. C'è qualcosa che non va in lui.

Non grida, ma respira a fatica e lo sento lamentarsi flebilmente.

Butto la pistola a terra e con tutta la forza in corpo e cercando di trattenere i conati di vomito, sposto il corpo del Vagante da quello di Reece.

«Ehi, Reece, va tutto bene, okay?» Ma non appena lo dico mi accorgo che non lo è affatto.

È ricoperto dal sangue che gli sgorga dalla ferita alla spalla destra, ha il viso pallidissimo, le palpebre si aprono e si chiudono lentamente, la bocca semiaperta dalla quale escono dei deboli respiri.

Mi chino su di lui con le lacrime agli occhi.

«Reece, resta con me, okay? Ti riporto al campo, okay?» Gli metto le mani sotto alla testa e provo a metterlo seduto, ma i suoi occhi cadono all'indietro.

«No, no, no, Reece, ti prego!» lo scuoto leggermente, provando a farlo rimanere con me.

Ormai le lacrime scendono copiose e mi annebbiano la vista.

Devo portarlo giù, non c'è modo che lui riesca a fare le scale da solo.

«Okay... okay. Adesso andiamo giù. Tieniti forte a me.» La determinazione prende il posto dello shock e della paura.

Metto una mano sotto le sue spalle e una sotto le sue ginocchia e con una fatica incredibile lo alzo tra le mie braccia e comincio a camminare faticosamente ma veloce, per quanto sia possibile.

Attraverso la stanza e Reece tiene le braccia al mio collo, esattamente come gli ho detto.

«Okay, Reece, dimmi qual è la tua costellazione preferita» gli chiedo, cercando di tenerlo sveglio.

«Idra» risponde tra un respiro e l'altro.

Scendo i primi tre gradini e sento i muscoli delle gambe contrarsi ad ogni movimento.

«Perché?»

«Perché è... è la più-più grande.»

Altri due scalini.

Sistemo meglio Reece tra le mie braccia, ormai ricoperte del suo sangue, così come i miei vestiti.

«Perché si chiama così?»

Mancano ancora pochi scalini e sento ad ognuno il dolore alle gambe che cresce.

«È il n-nome di... una creatura...» La sua testa cade all'indietro.

«No. No, Reece, avanti, svegliati.»

Arrivo finalmente alla fine delle scale e cerco dappertutto Lynton con lo sguardo.

«Lynton!» grido con tutta l'aria rimasta nei polmoni.

Sento le braccia cominciare a cedere sotto il peso del ragazzo inconscio tra le mie braccia, ma non voglio appoggiarlo a terra o su qualsiasi altra superficie: voglio portarlo all'accampamento, voglio salvarlo.

Lynton arriva correndo, la pistola spianata davanti a lui.

La lascia cadere a terra non appena vede la scena che si presenta davanti a lui.

«Dobbiamo portarlo indietro!»

Il suo viso è vuoto, non ha emozioni. Vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime e per qualche secondo resta immobile a fissarlo, sopraffatto dalla situazione.

«Kay...» Reece riprende coscienza e alza un po' la testa.

«Ehi, ehi, non ti preoccupare...»

«Finalmente... potrò v-vedere la t-ter... ra dallo spazio» sussurra con gli ultimi rimasugli di fiato rimasti in lui.

Cado sulle ginocchia con lui ancora tra le mie braccia e lo stringo forte.

«Mi dispiace, ma non posso permetterti di farlo, Reece» gli confido tra un singhiozzo e l'altro.

«Non-non credo... ci sia altra scelta» dice e un sorriso appena accennato gli si forma sulle labbra.

«Reece... c'è sempre una soluzione, lo hai sempre detto» interviene Lynton, piegandosi al mio fianco e abbracciandolo.

«Non questa... volta» dice e l'ultimo respiro esce dalle sua labbra. La sua testa cade per l'ultima volta all'indietro e le sue palpebre si chiudono per sempre.

«Sarai la stella più luminosa nella costellazione dell'Idra.»

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

CAPITOLO 13

 

Il rumore dei passi e del mio respiro sono gli unici presenti.

Il sole splende forte nel cielo e l'aria è umida.

Il mio sguardo è rivolto verso l'asfalto.

Sulle spalle sento tutto il peso dello zaino, nonostante sia quasi completamente vuoto.

Nella mia mente continuo a rivedere il corpo di Reece inerme in quella maledetta casa.

Davanti a me ci sono Calum e Mali, dietro c'è Lynton.

Tutto il resto è sfocato, annebbiato. Non è importante.

Sento il rumore della porta della palestra aprirsi: non alzo lo sguardo, entro e basta.

Mi arriva dritto alle orecchie tutto il vociare attorno a noi, appena tornati dalla spedizione.

Mantengo lo sguardo basso.

Oltrepasso Wayne che ci è venuto in contro per aiutarci con gli zaini e sapere come è andata fuori.

Ignoro il suo richiamarmi allarmato e vado verso le scalinate che portano al tetto della palestra.

Apro la porta con fatica e mi trascino sugli scalini, uno ad uno. All'ultimo mi tolgo lo zaino dalle spalle e lascio che cada per terra con un tonfo.

Mi avvicino al parapetto e mi siedo appoggiandoci la schiena.

Tiro le gambe al mio petto e ci appoggio sopra le braccia. Sono ancora ricoperta del suo sangue: le mie braccia, le mie mani, la mia maglietta.

È colpa mia.

È colpa mia se è morto.

È colpa mia perché ho deciso di lasciarlo solo in quei pochi secondi che gli sono costati la vita.

Porto le mani al mio viso e stringo forte gli occhi. Le lacrime cominciano a scendere e vorrei poter urlare.

Vorrei poter gridare con tutta l'aria nei miei polmoni, tirare fuori tutto ciò che provo dentro, vorrei porre fine a tutto questo, vorrei poter tornare indietro nel tempo e vorrei non essermi mai unita a questo gruppo.

Vorrei che le cose fossero andate diversamente, vorrei aver potuto evitarlo, avrei potuto farlo se solo non avessi deciso di lasciarlo solo in quel dannato momento.

«Kayla.»

Premo le mani sugli occhi, senza preoccuparmi di guardare chi mi ha raggiunta sul tetto.

So già chi è, lo riconosco dalla voce.

Si siede di fianco a me.

«Non è colpa tua.»

Lascio cadere le mani in grembo e alzo lo sguardo al cielo.

«Sappiamo entrambi che ogni volta che andiamo fuori potrebbe essere l'ultima, Reece lo sapeva.»

Guardo Wayne. Nel suo sguardo non c'è scia di rimprovero, vedo però il dolore.

Lo vedo e mi viene ancora più voglia di urlare.

«So che è difficile, ma dobbiamo andare avanti, non possiamo permetterci...»

«Lui era una mia responsabilità!» grido a pieni polmoni, frustrata, con le mani tra i capelli e le lacrime che mi rigano le guance.

«Dovevo stare con lui, dovevo proteggerlo e non sono stata in grado di farlo!» Mi alzo in piedi.

«Ho il suo sangue addosso e la sua morte sulla coscienza, come posso andare avanti facendo finta che non sia successo niente?! Aveva solo diciassette anni, Wayne!»

Si alza in piedi e si avvicina, mi mette le mani sulle spalle e prova ad abbracciarmi. Gliele tolgo con violenza e mi allontano. Ora anche i suoi avambracci sono sporchi del sangue di Reece.

«Questa è la ragione per cui non volevo restare, sapevo che prima o poi avrei combinato un casino, di nuovo.»

Gli do le spalle e affondo il viso nelle mani, scoppiando in un pianto disperato.

Sento poi il suo petto contro la mia schiena e lui che mi stringe forte a sé. Lascio cadere le braccia ai lati del mio corpo, lasciando che mi giri tra le sue braccia e appoggio la testa al suo petto, lasciando uscire tutto ciò che ho dentro, tutte le lacrime, tutti i singhiozzi, affondando sempre di più nel suo abbraccio.

Mi accarezza i capelli con una mano e appoggia il mento sulla mia testa.

Ora ascolto il battito del suo cuore e lentamente lego le mie braccia attorno a lui.

Mi guida lentamente verso il pavimento, tenendomi sempre stretta a lui. Si mette seduto con la schiena contro al parapetto e mi fa sedere in mezzo alle sue gambe e mi cinge la vita con le sue braccia.

«So cosa provi, Kayla» inizia un po' incerto.

«Ti avevo detto che due giorni prima di incontrarti Beck, il ragazzo che era uscito con me, è morto. Lui era una mia responsabilità e io ero una delle sue: ci coprivamo le spalle a vicenda.»

Mi asciugo le lacrime con i dorsi delle mani, consapevole che ora il suo sangue sarà anche sulla mia faccia.

Le mani di Wayne si spostano dal mio ventre alle mie spalle e si muovono su e giù per le braccia. Fosse stato un momento diverso mi sarei spostata all'istante, ma ora il suo tocco è rassicurante e calmante, quindi lo lascio fare.

Devo ammettere che non manca la sensazione di disagio, ma al momento è l'ultima cosa che mi preoccupa.

«Lì fuori però è pieno di imprevisti e quello è stato il nostro giorno sfortunato. Avevamo trovato una fabbrica e abbiamo deciso di entrare, solo che la struttura non era molto stabile.»

Ho lo sguardo fisso davanti a me, ma ascolto con attenzione ciò che mi sta dicendo.

«Cadde una trave di ferro e il rumore fu infernale; il resto lo puoi immaginare: quella parte di città è infestata dai Morti e il rumore ne attirò a decine.» Prende un respiro profondo e si ferma per qualche istante.

Stringe la presa sulle mie braccia e lo sento teso. Giro il viso piano verso di lui e lo vedo boccheggiare in cerca delle parole giuste.

«Va bene, ho capito» gli dico, provando a confortarlo e mettendogli una mano sul collo, incerta.

«Quello che sto cercando di dirti è che anche io mi sento in colpa per ciò che è successo, vorrei che le cose fossero andate diversamente, ma non si po' cambiare il passato. Ho imparato a convivere con il senso di colpa ed è quello che devi fare anche tu o il peso della sua morte ti schiaccerà» conclude, guardandomi dritto negli occhi. È sincero.

«Non è così semplice» sussurro, distogliendo lo sguardo e posando sulle mie mani.

«Possiamo cominciare con il toglierlo» dice, indicando il sangue sul mio corpo.

Sospiro e annuisco. Mi alzo in piedi, aiutandomi con le mani: comincio a sentire gli sforzi fatti nelle ultime ore e avverto un dolore crescente alla coscia destra. Zoppico un po' sulla sinistra e seguo Wayne verso un tubo giallo.

Apre il rubinetto e ne esce un sottile rivolo d'acqua: prende il tubo in mano e mi fa cenno di allungare le mani.

Lo faccio titubante, anche se il mio desiderio è quello far sparire subito il sangue rimasto.

Mi prende le dita e comincia a sciacquare. Mi sembra di avere un dejàvu.

In qualche modo è sempre lui che si prende cura di me.

***

«Siamo qui riuniti questa sera per commemorare quel ragazzo che, in poco tempo, è entrato nei nostri cuori per la sua gentilezza, positività e passione per lo spazio. Tutti noi abbiamo imparato qualcosa di nuovo da lui e ciò non sarà dimenticato. Grazie, Reece.»

Travis finisce il suo breve monologo e butta un pezzo di legno nel fuoco.

«Grazie, Reece» ripetono tutti all'unisono.

La totalità del gruppo è riunito sul tetto attorno a un piccolo falò. Ognuno ha in mano un piccolo pezzo di legno che man mano viene buttato nel fuoco e si trasforma presto in fumo. Wayne mi ha spiegato che è un modo per loro di rimanere sani mentalmente, di dare ancora importanza alla morte di un uomo e a ciò che a lasciato dietro di sé. I pezzetti di legno sono una metafora per ricordare la parte della persona mostrata a ciascun componente del gruppo – con qualcuno può essersi mostrata in un modo e con altri in un altro -, così poi da ricrearla nella sua totalità gettando i pezzi nel fuoco.

Io sto un po' in disparte all'inizio, ancora un po' scossa e nuova alle loro, per così dire, tradizioni; poi mi avvicino lentamente, stringendo forte il frammento di legno tra le mie dita e lo butto nella fiamma.

«Grazie, Reece» sussurro, a malapena riesco a sentire la mia voce.

Indietreggio di qualche passo per lasciare spazio agli altri di commemorare il suo ricordo, mentre osservo la colonna di fumo ondeggiare verso l'alto.

Una volta finita la cerimonia, tutti quanti scendono le scale, pronti per andare a dormire.

Travis si avvicina a me e mi strizza delicatamente una spalla, poi segue gli altri.

Forse comincio a sentirmi a casa.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

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PICCOLO SPAZIO AUTRICE:

Ciao a tutti!
E' la prima volta che mi prendo un po' di spazio all'inizio del capitolo, questo perchè gli aggiornamenti sono stati fermi per un po' di mesi e mi sembrava giusto farmi "sentire" in questo piccolo spazio che ho deciso di utilizzare.
Mi dispiace, per chiunque segua questa storia, che abbiate dovuto aspettare 8 mesi per leggere questo capitolo, ma ci ho messo veramente degli anni per scrivere i prossimi capitoli, era tanto se riuscivo a scrivere anche una sola frase e poi ho avuto alcuni problemi nella vita, tra cui anche il trovare il tempo di scrivere.
Non volevo poi pubblicare questo capitolo e lasciar passare altri mesi per aggiornare gli altri capitoli, quindi ho preferito finire di scrivere altri due capitoli, così da portarmi un po' avanti.

E niente, spero che questo capitolo vi piaccia e se vi va fatemi sapere cosa ne pensate!
Vi lascio anche il link della mia pagina di Wattpad, nel caso preferiate leggere lì, così vi arrivano anche le notifiche quando aggiorno i capitoli: 
https://www.wattpad.com/user/lightvmischief

Grazie a tutti e buona lettura!
- Marina


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CALUM

Dopo la cerimonia ero ancora sconvolto. Non ero molto legato a quel ragazzo, ma era giovane. Diamine se lo era.

Nessuno di noi era pronto per un'altra perdita e mai lo saremo.

Vorrei poter dire di essermi abituato ormai, ma sarebbe una bugia.

Quando io e Mali tornammo al punto di incontro oggi, mai ci saremmo aspettati una notizia del genere. Non c'è stato bisogno di parlare, l'ho capito dalla sua mancanza, dal sangue sugli abiti di Lynton e Kayla, dalle loro espressioni. È come se mi avessero tirato un pugno nello stomaco e il senso di nausea era forte dentro di me.

Un'altra vittima di questo dannato destino.

«Penso che ti serva una bevuta adesso, Cal.» Blaine si avvicina a me alla fine delle scale e scuote le bottiglia di whisky, trovata chissà dove, tra le sue mani.

«Sì, decisamente.»

«Raggiungici quando vuoi» mi dice indicando con un dito Wayne, Lynton e mia sorella seduti sulla prima scalinata.

Annuisco e mi passo una mano sul viso.

Vado a mettere nella stanza delle armi la mia pistola, come gesto di routine di tutte le sere, e poi raggiungo i miei amici.

«... Questo genere di cose ti fanno pensare, cavolo» sento dire Wayne mentre beve un sorso dalla bottiglia e poi la passa a mia sorella.

Mi siedo tra di loro e prendo il liquido dalle mani di mia sorella prima che possa poggiarci le labbra.

Mi lancia un'occhiataccia e di tutta risposta la spintono leggermente con la mia spalla.

«Come va, signorine?» dico, cercando di migliorare un po' il morale.

«Non fare l'idiota, Calum» mi rimprovera Lynton come se fossi un bambino.

«Scusate, ci ho provato» rispondo subito dopo, pentendomi.

Ha le sue ragioni del resto. È lui che lo ha visto morire, non io.

«E Kayla?» chiede Mali, lanciando un'occhiata alla fine delle scalinate.

La copio e vedo la figura di Kayla giocare con i lacci delle sue scarpe, pensierosa.

«Vado a parlarle» prendo iniziativa e la raggiungo, ignorando le lamentele di Blaine perché mi sono portato via l'alcol.

«Ti dispiace se mi siedo?» le chiedo, imitando Blaine e agitando la bottiglia nella mia mano.

«No, siediti pure» sussurra, senza alzare lo sguardo e continuando a giocare con i lacci dei suoi scarponi.

Alzo le spalle e mi siedo di fianco a lei e poi bevo un sorso.

«Ti va?» Questa volta mi guarda negli occhi e annuisce.

Le porgo la bottiglia e subito la porta alla bocca, senza esitare.

Faccio una risatina e scuoto la testa.

«E io che pensavo che stessi bene» scherzo e sorprendendomi quando la vedo sorridere.

Mi sarei aspettato un insulto da parte sua. Forse sta anche peggio di quello che pensavo.

«Ti va di parlare?»

«Riguardo?»

«Quello che ti va» rispondo, facendo spallucce e riprendendomi il liquido.

«Che te ne pare del fatto che io non riesca a capirti? Un giorno mi insulti e quello dopo mi offri da bere» dice, sistemandosi di fronte a me con le gambe incrociate.

«Pensavo volessi parlare di qualcosa di più interessante dei miei sbalzi d'umore» rispondo, prendendomi in giro da solo.

Lei ride e io la seguo.

«Dammela» mi ordina. Le passo la bottiglia.

«Sai, volevo fare la poliziotta» inizia, poi scoppia in una risata amara.

«Non so perché te lo stia dicendo, forse è l'alcol che mi fa parlare. Okay, lo è decisamente.»

«Come mai? Volevi fare la poliziotta, intendo.»

«Non lo so, non c'era nessun motivo preciso. Volevo fare qualcosa che potesse aiutare le persone, proteggerle. Mi piaceva l'idea e basta.»

«E quindi? Non dirmi che sei arrivata alla fine dell'accademia e non hai passato il test.»

«Magari. In realtà non ci sono mai entrata. Dovevo ancora iscrivermi.»

«Perché? I tuoi non volevano che mettessi la tua vita in pericolo così?» chiedo curioso.

Dal primo momento in cui l'avevo vista, è sempre stata circondata da quest'aura di mistero ed ero felice che si stesse aprendo con me.

Forse era l'alcol. Forse ne aveva bisogno.

Forse entrambi.

«No, no, assolutamente. Avevo appena finito il liceo; dovevo solo fare l'iscrizione all'accademia e poi avrei iniziato i corsi. Però, come puoi immaginare, non è mai accaduto. Quella mattina presi la macchina e andai in strada; a metà circa, era bloccata: c'erano auto della polizia e camion dei pompieri dappertutto.»

    «Gli agenti in strada avevano le pistole in mano, erano in agguato. Era come se avessi appena avuto un visione sul mio futuro» dice sarcastica.

Prende un sorso e poi mi passa la bottiglia.

«Allora fermai la macchina come tutti gli altri. Volevo capire cosa stesse succedendo così scesi, anche se fu inutile perché gli agenti e tutta la massa di gente attorno a loro mi bloccavano la visuale. Cercai di avvicinarmi il più possibile alla linea netta della polizia e quella fu la prima volta in cui li vidi, sai, gli zombie» continua, enfatizzando la parola zombie con l'espressione e con le mani.

«All'inizio pensai ci fosse un qualche regista famoso in città e che stessero girando un film, poi capì che quella era la dannata realtà e non una finzione. Quindi tornai a casa, svelta: dovevo dirlo alla mia famiglia, dovevo metterli in guardia di ciò che stava succedendo a pochi chilometri da noi»

    «Trovai i miei genitori già sotto al portico. Appena scesi dalla macchina mi abbracciarono, mi dissero che eravamo in pericolo e che dovevamo andare via, che mia sorella e mio fratello non sapevano ancora niente per non spaventarli.»

Era forse la prima volta che stavamo insieme per così tanto tempo senza che uno dei due si mettesse a insultare l'altro.

Era la prima volta che si apriva sulla sua vita e la consapevolezza che anche lei aveva delle persone a cui teneva, una famiglia, mi colpì allo stomaco.

Ogni volta che qualcuno di nuovo veniva a far parte del nostro gruppo non pensavo mai al suo sfondo affettivo, pensavo solo alla persona che era.

«Andammo di sopra a preparare le valigie. A loro dicemmo che saremmo andati in vacanza per un po' di tempo.» Dalle sue labbra esce una risata amara e scuote la testa.

Poi alza il viso verso il soffitto e vedo una lacrima attraversarle la guancia.

È così vulnerabile in questo momento, così pura.

«Non eravamo pronti, nessuno lo era. Sentimmo degli spari e i bambini si preoccuparono, come noi, del resto. Uscimmo di casa con le valigie e partimmo subito dopo. Viaggiammo per quattro ore, me lo ricordo benissimo. Arrivammo fino a Richmond, trovammo una casa e ci sistemammo lì, però ci separammo, non mi ricordo neanche il perché.» Si ferma e si asciuga le lacrime con il dorso della mano.

«Da quel momento non li ho più visti. Non credo li rivedrò vivi, se mai dovesse succedere.»

«Mi dispiace.» Sono le uniche parole che mi escono dalla bocca.

«Non esserlo. Sarebbe dovuto succedere prima o poi. È stato meglio così, almeno non ho dovuto vederli morire davanti ai miei occhi e nemmeno loro» sussurra e beve l'ultimo sorso della bottiglia.

Sospira e poi appoggia la sua testa sulla mia spalla e chiude gli occhi.

Mi irrigidisco, non pronto al suo gesto e non più abituato a certe dolcezze.

Faccio un respiro profondo, cercando di assimilare tutta la sua storia. Il mio sguardo vaga poi nel grande spazio della palestra e finiscono su mia sorella, addormentata vicino a mia madre.

Non posso perderle.

Sono tutto ciò che mi è rimasto di bello.

***

Sento un tintinnio lontano ma che si fa sempre più forte ed insistente, fino a diventare un fischio continuo e sgradevole.

Poi vedo un uomo che tiene una pistola in una mano, dritta davanti a sé, e una donna stesa a terra, sanguinante.

L'uomo si volta verso di me e spara.

Apro gli occhi di colpo.

Era solo un incubo.

Mi sento come se stessi affogando: mi manca l'aria. Prendo più respiri, uno dietro l'altro. La testa comincia a girarmi.

Mi sfrego le mani sul viso, rimanendo sugli occhi più del dovuto.

Era solo un incubo.

Riesco a tranquillizzarmi e mi accorgo di essere seduto: sento le gambe intorpidite e guardo in basso per capire che sono incrociate e lo sono state per tutta la notte. Sulla mia coscia destra giace la testa di Kayla, che dorme ancora. Non so come siamo finiti in questa posizione: mi ricordo solo la sua testa sulla mia spalla e poi il vuoto completo.

L'alcool deve aver fatto effetto su entrambi a quanto pare.

Penso sia stata la prima volta che siamo riusciti a parlare per più di cinque minuti senza insultarci a vicenda.

Mi sembra così indifesa, guardandola che dorme sulla mia gamba: mi sembra di vedere la Kayla del passato, quella di cui mi ha parlato la notte scorsa.

«Cal, puoi venire un secondo?» Travis mi chiama dal basso delle tribune.

«Sì, arrivo.»

Sento il peso sulla gamba alleviarsi e scomparire: devo aver svegliato Kayla.

«Buongiorno» sussurro, aspettando che si riprenda totalmente.

Mi guarda confusa, poi sembra ricordarsi gli avvenimenti della notte passata.

«Ehi» risponde, facendo comparire un piccolo sorriso sul suo viso.

«Io, uh, devo andare ora.» Mi alzo cautamente, cercando di non perdere l'equilibrio.

«Oh, okay.»

Le faccio un cenno con la testa e scendo le scale.

Non appena ha aperto gli occhi, mi sono sentito quasi in soggezione.

Saranno i postumi dell'alcool. Sicuramente.

Attraverso la palestra e raggiungo Travis nella stanza delle armi ancora un po' assonnato, ma piuttosto di fretta.

«Grazie di essere venuto subito. Tutto bene?» mi chiede Travis appena entro nella stanza.

Ci sono anche sua moglie e sua sorella, le quali stanno mangiando una barretta di cereali come colazione mentre parlano, probabilmente della prossima meta che non è ancora stata visitata per trovare delle scorte.

«Sì... sì» ripeto, questa volta più convinto di quello che sto dicendo.

Ad essere sincero sono ancora un po' scosso, sia dall'alcool, sia dagli avvenimenti della serata e della mattinata con a Kayla.

«Okay, allora, so che ciò che è successo a Reece è ancora fresco nella mente di tutti quanti, soprattutto in quella di Wayne e Kayla, immagino.» Annuisco e incrocio le braccia la petto, aspettando che arrivi al punto.

«Però, c'è bisogno di uscire di nuovo. Le scorte stanno finendo velocemente e se non riusciamo a trovarne abbastanza e in fretta, dovremo applicare un ulteriore razionamento, lasciando la maggior parte del cibo e acqua ai bambini e agli anziani.»

«Quindi mi hai chiamato per formare un gruppo per uscire o c'è dell'altro?» chiedo, aggrottando le sopracciglia confuso. Se c'era bisogno di uscire in gruppo non si faceva problemi a parlarne in pubblico; in questo momento nella stanza c'eravamo solo lui, Meredith, Tracey ed io.

«C'è un altro problema: il piccolo acquedotto qui vicino ha smesso di funzionare. Dobbiamo trovare un'alternativa all'acqua corrente al più presto, senza mettere panico, per questo sei qui.»

«E non può essere riparato?»

«Purtroppo no. Abbiamo provato di tutto» interviene Meredith.

«Scusate, ma quindi da quanto tempo ha smesso di funzionare regolarmente?»

«Una settimana circa, ma non volevamo allarmare nessuno, o almeno, non prima di aver provato a sistemarlo.»

Prendo qualche minuto per elaborare le informazioni.

Travis è un uomo piuttosto fiducioso, ma la situazione dev'essere veramente seria se ha deciso di parlarne solo con le persone a lui più fidate e, in qualche modo, io facevo parte di una di queste.

«Scusate, non volevo origliare, ma vi ho sentiti parlare.»

Ci voltiamo tutti quanti e vediamo Kayla entrare nella stanza e chiudersi la porta alle spalle.

«Non dovresti essere qui» interviene Travis con tono autoritario.

Raddrizzo la schiena ed incrocio le braccia al petto.

«Lo so, ma vorrei darvi una mano. Da quando sono qua avete fatto tanto per me e mi sembra il momento di ripagarvi in qualche modo» ribatte lei con calma, appoggiandosi alla porta con la schiena come se avesse bisogno di supporto.

Io e Travis ci scambiano un'occhiata veloce, poi annuisco, facendogli capire di provare almeno a lasciarla parlare per poi decidere cosa fare.

«Siamo tutt'orecchi» dice, appoggiandosi con i pugni al tavolo e chinandosi verso Kayla con fare interessato.

Quest'ultima si avvicina al tavolo e osserva per qualche secondo la cartina lì appoggiata.

«So che può sembrare una cosa stupida, ma magari potrebbe essere d'aiuto.» Appoggia un dito sulla mappa e indica la nostra posizione.

«Noi siamo qui. Io vivevo qui, a circa mezz'ora di strada, credo» dice, indicando un altro punto sulla mappa.

«Non con la mia famiglia, intendo. Ci vivevo qualche mese fa e setacciando le strade ho trovato uno di quei distributori d'acqua gratis...»

«Apprezzo il fatto che ci voglia aiutare, Kayla, davvero, ma credo che questa risulti solo come una soluzione a breve termine. Prima a poi l'acqua del distributore finirà, se non lo ha già fatto» la interrompe Tracey.

«Potremmo sempre provarci, potrei provarci da sola. Se c'è anche un solo spiraglio di speranza da cui attingere, allora vorrei lo prendeste in considerazione» riprende con più determinazione Kayla, con una scintilla di luce e fiducia negli occhi.

«È la miglior soluzione che abbiamo al momento» affermo, appoggiando la sua idea.

«Potremmo provare, ma dovremo trovare un'alternativa al più presto, come ha detto Tracey. Non sappiamo per quanto questo possa bastare, ma vale la pena provare» sentenzia Travis, alzandosi dal tavolo e grattandosi il mento pensieroso, probabilmente ponderando tutte le possibilità.

«Posso partire subito, ho solo bisogno di uno zaino e dei contenitori» dice Kayla entusiasta.

«Vengo con te» dico autoritario. Voglio aiutare anche io e non voglio che esca da sola, rischiando la sua vita pur di salvare la nostra.

«Okay, appena siete pronti partite. E, mi raccomando, fate attenzione.»
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15

KAYLA

Stringo bene i lacci degli scarponi e mi alzo, battendo le mani sulle mie cosce per risvegliare un po' i muscoli; mi aspetta una bella camminata beh, in realtà, ci aspetta: Calum sta finendo di sistemare il suo zaino e tra poco partiremo.

«Prendi un giubbotto, la sera fa freddo» mi ordina Calum, lanciandomi un'occhiata veloce mentre infila lo zaino e si lega una felpa in vita.

Annuisco e prendo un bomber nero, decisamente troppo grande per me, ma almeno mi terrà al caldo. Lo infilo nel mio zaino e imito Calum, mettendomelo sulle spalle.

«Pronto?» gli chiedo, sistemando la pistola e il coltello nei pantaloni in modo da poterli togliere velocemente, se dovessero servire.

«Andiamo.» Prende la cartina, la mette sotto il braccio e usciamo dalla palestra.

Metto una mano davanti agli occhi per lasciarli abituare alla luce del sole; ormai siamo ad ottobre e l'aria comincia a farsi più fredda, ma il calore del sole è una delle sensazioni migliori che io abbia provato ultimamente.

Calum si gira verso di me per qualche secondo prima di aumentare il passo e rimanendo davanti a me per guidarmi, siccome ha lui la cartina.

E così iniziano questi trenta minuti.

***

Mi guardo attorno: siamo in mezzo ad una via piuttosto larga, su entrambi i lati ci sono delle ville di diversi colori, anche se ormai sbiaditi. Sorrido tra me e me: mi sarebbe piaciuto scattare una fotografia una volta per poi mostrarla a Ebony, che mi avrebbe chiesto di portarla a vedere il luogo dal vivo, così avrei potuto fare una foto a lei, che poi sarebbe finita su una delle pareti di casa.

Mi fermo qualche istante, semplicemente per fissare i particolari nella mia mente, quasi anche a immaginarmi come sarebbe stata la scena.

«Ehi, ci sei?» Calum mi chiama, poco più avanti di me.

«Sì... Sì, scusami.» Faccio una corsetta per raggiungerlo e vedo spuntare sul suo viso un sorrisino.

«Tu che ti scusi? Questo è un miracolo!»

«Non ci posso credere» sbuffo, alzando gli occhi al cielo.

«Oh, avanti, sto solo scherzando» replica lui, allargando le braccia e facendomi l'occhiolino.

«Beh, vai a scherzare con qualcun altro» rispondo senza pensarci troppo.

Calum si avvicina a un palo della luce e lo abbraccia.

«Ehi, ciao, ti va di scherzare un po' assieme a me? Sai, questa qui non è dell'umore giusto oggi...»

Mi fermo nel mio cammino e scuoto la testa, nascondendo un sorriso.

Che idiota.

«Ti va di bere qualcosa insieme?» continua, ammiccando al palo.

«Calum.»

«Chi è lei? Nah, non ti preoccupare, baby, non è nessuno.»

«Calum, muoviti» lo richiamo, cercando di mascherare il mio divertimento.

Fa un giro attorno al palo e poi mi raggiunge saltellando.

«Che fretta c'è, piccola?» Lo guardo male e lo supero, rubandogli la cartina dalle mani.

Lo sento ridere dietro di me.

Idiota.

«Sai, ogni tanto dovresti lasciarti andare, in fondo, cos'hai da perdere?» mi chiede, raggiungendomi una seconda volta, sfiorandomi una spalla con la sua.

Tengo lo sguardo fisso sulla cartina, lasciando che i miei capelli mi coprano la faccia, ora in fiamme, per qualche strano motivo.

«Dovrebbero esserci delle rotaie qui» dico, ignorandolo e indicando la strada davanti a noi.

Aumento il passo e vedo che sotto a tutto un groviglio di erba, foglie e radici di alberi spuntano alcune parti arrugginite di quelle che sembrano quattro file di binari.

«Eccole qui.»

«Non dovremmo essere troppo lontani» dico, mostrando a Calum il punto cerchiato sulla cartina, più o meno a duecento metri da dove siamo ora.

«Dammi la mano» mi ordina Calum e per tutta risposta lo guardo confusa.

Allora decide di prendere iniziativa e intrecciare le sue dite tra le mie, salendo sui binari e saltando da una linea di ferro all'altra.

«Sei un'idiota, lo sai questo?» ridacchio, imitandolo e stringendo la sua mano come appoggio per non perdere l'equilibrio.

«Non sei la prima che me lo dice» risponde, voltandosi verso di me con un sorriso da far invidia.

Devo ammetterlo: è davvero attraente. La luce del sole mette in risalto la sua carnagione olivastra e i tatuaggi che ha sul braccio sinistro.

Si passa una mano tra i capelli e poi si volta, continuando a saltare da un binario all'altro con me al suo seguito.

«Mi ricordo questo edificio! Siamo arrivati, Calum!» esordisco dopo qualche minuto, riconoscendo l'imponente fabbricato beige sul lato sinistro della strada.

Una volta attraversate le rotaie del treno, Calum si abbassa per superare una sbarra del treno, ormai ricoperta di ruggine ed edera, senza mai lasciarmi la mano.

«È lì!» dico, stavolta sono io a trascinare Calum dietro di me.

Sorrido, sfilandomi lo zaino dalle braccia e appoggiandolo per terra. Mi chino e comincio a togliere le bottiglie e appoggiarle sul distributore.

«Ti prego, dimmi che funzioni ancora» sussurro, aprendo il rubinetto.

Un urletto di felicità esce dalle mie labbra non appena vedo l'acqua scorrere giù dal distributore e finire nella bottiglia.

Mi giro verso di Calum, ancora dietro di me, con un sorriso sul viso e alzando il pollice, facendogli capire che funziona.

Lui ricambia il sorriso e mi imita, togliendosi lo zaino dalle spalle e appoggiandosi con una spalla alla macchina per guardare felice l'acqua corrente.

«Allora non hai solo un bel faccino» dice, guardandomi con un sorrisetto compiaciuto.

Alzo gli occhi al cielo, senza però lasciare che le sue parole mi innervosiscano.

«Tieni d'occhio l'ambiente, mi sembra tutto troppo tranquillo» dico dopo un po', ripensando a tutto il percorso che abbiamo fatto.

Siamo stati piuttosto fortunati perché non abbiamo trovato troppi Vaganti nella strada, in qualche modo siamo riusciti ad evitarli. Eppure qualcosa mi dice che questa fortuna finirà presto.

«Ci penso io, non ti preoccupare. Quante bottiglie ci mancano?»

«Ancora tre.»

Ho un brutto presentimento, sento la bocca dello stomaco chiudersi. O magari è solo la fame.

Infatti, poco dopo sento la mia pancia brontolare e deve averla sentita anche Calum, che si mette a frugare nello zaino, offrendomi poi un pezzo di cioccolato.

«Oh, mio Dio. Non ci posso credere» dico sorpresa, accettando con piacere un pezzo di quel cioccolato, che una volta era il mio preferito: fondente.

Era da mesi che non riuscivo a trovare un pezzo di cioccolato che non fosse stato scaduto.

«Sembri una bimba» esordisce Calum, ridacchiando.

«Taci» ribatto, dandogli una manata sul braccio.

Finge uno sguardo offeso e alza il cioccolato in alto, dove non riesco a raggiungerlo.

«Sai cosa? Puoi tenertelo.» Chiudo una bottiglia e la sostituisco con un'altra, incrociando le braccia al petto e dandogli la schiena, comportandomi proprio come una bambina.

Sobbalzo quando sento il suo braccio cingermi la vita e mi allontano.

Non sono pronta.

***
Il sole è calato da circa quaranta minuti ed ora siamo circondati da una nebbia che si sta infittendo sempre di più.

«Dovremmo tornare» suggerisce Calum, alzandosi dal marciapiede su cui avevamo deciso di sederci per fare una pausa.

Annuisco e mi infilo il giubbotto, poi alzandomi, rifiutando la mano tesa di Calum.

Sento tutto il peso dello zaino che spinge le mie spalle verso il basso.

Calum mi lancia un'occhiata e apre la bocca come se volesse dire qualcosa, ma poi scuote la testa e mi porge una torcia. Si sistema meglio lo zaino sulle spalle e poi comincia a farsi strada nella nebbia sulla via del ritorno.

Controllo che la mia torcia funzioni, accendendola e spegnendola un paio di volte e seguo Calum.

Sento l'umidità entrarmi nelle ossa. Devo mantenere il passo di Calum, altrimenti rischio di perderlo nella nebbia. Il fatto che sia vestito tutto di nero non aiuta affatto.

Sento il mio stomaco contorcersi, ma cerco di non pensarci troppo, non voglio dar ragione al mio istinto che mi dice che qualcosa andrà storto.

«Mi dispiace per prima.» Sussulto quando sento la voce di Calum, troppo preoccupata a guardarmi intorno in cerca di qualche possibile minaccia.

«Cosa?» rispondo distrattamente, notando che si è fermato pochi passi più avanti di me per aspettarmi.

«Non volevo oltrepassare il limite, so che è ancora presto-»

«Ssh!» lo zittisco velocemente, mettendomi l'indice sulle labbra e lanciandogli un'occhiata veloce.

Sposto la torcia con attenzione facendo un giro su me stessa: ho sentito qualcosa.

«Non vedo niente» dice Calum, cercando di tranquillizzarmi.

Annuisco distrattamente, sperando che abbia ragione e che abbia deciso di lasciar cadere l'argomento di poco fa: l'avevo zittito perchè avevo davvero sentito qualcosa, ma allo stesso tempo non volevo parlare di ciò che era successo per non dargli troppa importanza. In fondo, non era successo niente di così importante, no?

Il ragazzo decide quindi di riprendere il cammino e io rimango pochi passi dietro di lui, tenendo lo sguardo fisso sulla schiena per non perderlo di vista.

Per qualche minuto riesco a liberare la mia mente da ogni nervosismo e sento solo il rumore dei miei passi mischiarsi a quello del mio respiro. Mi sistemo meglio lo zaino sulle spalle e perdo qualche secondo a stringere le cordicelle, quando la luce della mia torcia comincia a lampeggiare e poi spegnersi del tutto.

Impreco sottovoce, dandogli qualche colpetto, provando a farla riaccedere.

«Oh, avanti!» Agito il piccolo oggetto nelle mie mani ma senza ottenere alcun risultato.

Alzo subito lo sguardo allarmata e vedo a pochi metri il bagliore della torcia di Calum e cerco di raggiungerlo con una corsetta, fermandomi pochi secondi dopo perchè ho sentito un altro rumore.

Dei passi pesanti.

Un lamento soffocato.

Faccio appena in tempo a voltarmi alla mia sinistra che vedo un Vagante a una distanza troppo ravvicinata; il mio cuore comincia a battere freneticamente per lo spavento e sento il respiro cominciare ad affannarsi, ma faccio capo a tutta la forza nel mio corpo per prendere il coltello infilato nella cintura dei pantaloni e piantarlo nella testa dell'essere, togliendolo poi con fatica e facendo cadere il corpo con un tonfo a terra.

Riporto lo sguardo rapidamente a dove avevo visto Calum pochi minuti fa, ma non c'è più.

Sento una scossa di paura attraversarmi le ossa e l'adrenalina farsi spazio nelle mie vene.

«Calum!» lo chiamo, sperando di sentire una sua risposta, sperando di sentire la sua voce e non un altro lamento.

Mi accorgo di aver stretto il coltello nelle mani e le sento tremare, così come le mie gambe che cominciano a fare fatica a sostenere il peso del mio corpo, aumentato anche dalle bottiglie nello zaino.

Comincio a correre alla cieca, inutilmente, ma è l'unica cosa razionale che al momento mi sembra di fare, mentre provo con tutta me stessa a ripetere di calmarmi.

I miei sensi cominciano a diventare ovattati, l'unico rumore che riesco a sentire è il battito del mio cuore, che sembra essere impazzito.

D'un tratto, mi sento scaraventare a terra e ci impiego qualche secondo per capire cosa sta succedendo: un Vagante mi ha attaccato da destra e ora sono intrappolata tra il suo lurido corpo e il cemento freddo e ruvido. Il peso del suo corpo mi schiaccia e mi fa mancare il respiro, comincio a vedere appannato e a sentire gli occhi pungere, le braccia farsi molli e la mia mente annebbiarsi, ma con la poca lucidità che mi è rimasta riesco a tirare un calcio su quello che una volta era il ventre di quell'essere, riuscendo ad ottenere qualche centimetro in più.

Mi piego con fatica in avanti, con il peso dello zaino che mi ancora a terra, colpendolo sul collo. Emette un grugnito strozzato e allunga di nuovo le braccia verso il mio corpo. Scivolo indietro e riesco a uscire dalla sua presa mortale, alzandomi in piedi con qualche traballamento, raccogliendo il coltello cadutomi dalle mani a causa della caduta.

«Calum!» chiamo ancora, disperata, dopo aver rifilato un altro calcio al Vagante, facendolo rotolare per terra.

Lo uccido prima che possa riprendersi e quasi mi manca un battito quando sento il mio nome, anche se lontano.

Ho il respiro affannato, i polmoni che iniziano a bruciare e i muscoli del mio corpo tremare e dolere per la mancanza di ossigeno.

Le lacrime cercano la loro via d'uscita, appannandomi la vista.

Non ora, non ora, non ora.

Provo di nuovo a chiamare Calum, ma tutto ciò che ne esce è un verso strozzato.

Mi volto in tutte le direzioni, non capendo più in quale devo andare, il panico già presente si trasforma in terrore e mi ritrovo a pensare abbattuta che non so più cosa fare.

Percepisco qualcosa prendermi da dietro e, con i sensi ovattati e ponderando la scelta di continuare a lottare oppure lasciare che io mi abbandoni al mio destino, mi giro nella stretta e lascio che il coltello strisci sul corpo indefinito.

«Kayla, cazzo, sono io! Sono Calum!»

Questa volta le lacrime scendono e mi sento quasi mancare tra le sue braccia, mentre l'unica cosa che mi verrebbe da fare sarebbe urlare, se solo riuscissi a respirare normalmente.

Mi accorgo che mi sta trattenendo vicino al suo corpo, mentre mi trascina verso una casa.

Con una mano spara un colpo alla serratura della porta, facendola saltare, aprendola e portando dentro entrambi.

«Respira» mi ordina.

«Non è niente» dico a fatica, scuotendo la testa veemente, accorgendomi di quanto stupida risulti quell'affermazione.

«Dannazione, Kayla, respira insieme a me.» Calum mi prende le mani e le stringe nelle sue, il suo sguardo fisso nei miei occhi mentre cerco di dargli retta e seguire il ritmo del suo respiro.

«Va tutto bene. Siamo al sicuro adesso.»

Mi prende il viso tra le mani per qualche secondo, intimandomi a concentrarsi su di lui.

Lascio che mi avvicini verso di lui, avvolgendomi tra le sue braccia.

Riesco lentamente a calmare il mio respiro e il battito del mio cuore, percependo le gambe cominciare a cedermi per davvero.

Calum sembra capirlo e lascia che raggiungiamo il pavimento, sempre stretta tra le sue braccia. Mi accarezza i capelli e io appoggio la testa sul suo petto, chiudendo gli occhi per qualche istante, lasciando che il mio corpo si ammorbidisca al suo tocco.

«Va tutto bene» ripete lui, la sua voce proprio di fianco al mio orecchio.

Mi metto velocemente seduta non appena mi ricordo di averlo colpito con il coltello. Prendo la torcia da terra e la punto verso il corpo, cercando la ferita sul suo corpo, guadagnandomi un'occhiata confusa da parte del ragazzo.

Scopro di avergli tagliato il braccio destro dai rivoli di sangue presenti. Metto la torcia in bocca, puntandola sul taglio, e gli prendo l'arto tra le mani, sentendolo contrarsi al mio tocco. Lo esamino per qualche minuti, scoprendo felicemente di non essere andata troppo in profondità con l'arma.

Presagisco il suo sguardo che segue curioso ogni mio movimento e rimango sorpresa dal fatto che non abbia detto una parola per fermarmi.

Lascio andare il suo braccio, mi apro il giubbotto, lasciandolo cadere alle mie spalle, ignorando le piccole scie di brividi che mi percorrono la pelle. Appoggio a terra la torcia, pulisco la lama con la mia maglietta prima di tagliare una striscia di stoffa da un fianco all'altro, non preoccupandomi più di tanto di lasciare il mio ventre scoperto.

Frugo nello zaino e prendo una delle bottiglie d'acqua, ignorando Calum quando prova a ribattere.

Verso l'acqua sulla ferita, tentando di pulirla il più possibile dal sangue e dallo sporco; poi gli avvolgo il pezzo di stoffa con le mani ancora un po' tremanti, mi sciolgo la coda di cavallo e uso l'elastico per assicurare la benda improvvisata al suo braccio.

Lascio scivolare le mani lungo il suo arto fino ad arrivare alla sua mano, rimanendo ferma più del dovuto. Alzo poi lo sguardo e rimango spiazzata dalla vicinanza del suo viso al mio e al trovare Calum che già mi stava fissando.

Gira la mia mano tra la sua e intreccia le sua dita con le mie, stringendole leggermente.

Un rumore sordo, come qualcosa che cade a terra, ci fa risvegliare entrambi da quello stato di trance in cui eravamo caduti.

«Non siamo soli» esordisce Calum con una smorfia misto tra seccata e presa alla sprovvista, alzandosi in piedi e tirandomi su assieme a lui.

Mette il braccio sano davanti al mio corpo, spostandomi leggermente dietro di lui, quasi per proteggermi.

Alzo gli occhi al cielo istintivamente, anche se stavolta non ho la forza di controbattere oppure lamentarmi.

Entrambi rimaniamo immobili in silenzio per quella che sembra un'eternità, aspettando che qualsiasi cosa si stia nascondendo, esca allo scoperto.

«Sono armata!» Sussultiamo entrambi alla voce femminile che riecheggia nella casa.

Subito dopo vedo spuntare la canna di un fucile, decisamente troppo grande rispetto al corpo della bambina che lo tiene in mano.

Sento il mio cuore affondare in fondo al petto.

«... Kayla?!»



___________________
SPAZIO AUTRICE:
Spero questo capitolo vi sia piaciuto - a me personalmente è piaciuto molto scriverlo - e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! I vostri pensieri sono sempre ben accetti.
Grazie a tutti!
- Marina

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16
 

CALUM
 

«... Kayla?!»

Fisso confuso e sorpreso la bambina davanti ai miei occhi: deve avere circa la stessa età di Margaret, ha i capelli neri arruffati e disordinati che le arrivano fino al petto, le braccia minute che fino a poco prima tenevano ben saldo il fucile puntato verso di me e Kayla, ora le tremano e nei suoi occhi chiari si possono ben notare tutte le emozioni che sta provando in questo momento.

«Oh, mio Dio!» esclama Kayla sottovoce, quasi come se non credesse a ciò che sta vedendo.

Mi volto appena verso di lei e vedo i suoi occhi lucidi e le mani che le coprono la bocca in uno stato di completo shock. Infatti ci impiega qualche secondo per superarmi e dirigersi incerta verso la bimba.

Facendo saltare il mio sguardo prima da una e poi all’altra, non posso far a meno di notare una certa somiglianza tra le due, soprattutto nei capelli e nel viso con i lineamenti morbidi. L’unica differenza saliente è il colore degli occhi: Kayla ha gli occhi di un castano intenso, si schiariscono solo quando la luce del sole batte sul suo viso.

Un pensiero comincia a farsi spazio nella mia mente. Mi ha raccontato di avere una sorella e un fratello, ma era piuttosto sicura del fatto che non li avrebbe più ritrovati, anche se avevo intravisto ancora qualche scia di speranza attraversarle il viso quando me ne aveva parlato.

«E-Ebony?» chiede Kayla timorosa, spaventata da ciò che potrebbe risponderle la bambina.

Si ferma a un metro di distanza da lei, incredula, incerta sul da farsi. Non la biasimo: se mi capitasse di ritrovare un componente della mia famiglia che ormai avevo dato per morto, mi comporterei esattamente nello stesso modo.

La bimba lascia cadere l’arma a terra, senza preoccuparsi troppo del rumore causato, gli occhi le si riempiono di lacrime mentre chiude la distanza tra lei e Kayla, stringendo quest’ultima in un abbraccio.

Kayla la stringe fortissimo e la alza in braccio, unendosi a Ebony in un pianto incredulo e gioioso.

Decido di rimanere dove sono per non intralciarle in questa loro sincera e commovente riunione e per lasciarle un po’ di privacy, giocando distrattamente con le mie mani.

Kayla appoggia a terra sua sorella e si abbassa alla sua altezza, mettendosi in ginocchio, allontanandola quanto basta da lei per poter esaminare ogni aspetto del suo viso, come se lo vedesse per la prima volta. Le sposta qualche ciocca di capelli dalla fronte e le appoggia le mani sulle guance, asciugandole le lacrime con i pollici.

«Come....» inizia Kayla, non riuscendo a terminare la frase perchè scossa da un singhiozzo.

«Pensavo di non rivederti mai più» dice Ebony, rinchiudendola di nuovo nella stretta morsa del suo abbraccio.

«E invece, eccomi qui!» esclama Kayla con una risata, facendo sorridere anche la sorella.

«Ti voglio tanto bene, Kaykay» esordisce la più piccola dopo qualche attimo di silenzio, seguito subito da un “anche io” di Kayla.

Il cuore mi si stringe nel petto a quel piccolo nomignolo e la scena davanti ai miei occhi mi trasmette un’immagine della ragazza completamente diversa da quella che ho avuto finora; adesso è completamente sopraffatta dalle emozioni, ma posso percepire un lato tenero e premuroso di lei che non avrei mai pensato di vedere.

Quando l’avevo vista con Margaret, ho capito che aveva una certa destrezza con i bambini e una scia di questo lato quasi materno l’avevo intravista, ma era come se si stesse sforzando. Ora, invece, è naturale, limpida, per la seconda volta riesco a vedere e capire ciò che sta realmente provando e la vedo vulnerabile.

«Tu chi sei?» Sento Ebony chiedermi con sospetto, alzandosi da terra assieme a Kayla. Noto quest’ultima guardarmi per qualche secondo, quasi con aria riconoscente, per poi distogliere lo sguardo dal mio e farlo tornare su sua sorella.

«Oh, io sono Calum, sono con lei» dico preso allo sprovvista, alzando una mano in segno di saluto e avvicinandomi cautamente alle due.

«È davvero con te?» indaga subito lei diffidente e sveglia, proprio come la sorella.

Kayla annuisce un paio di volte, l’ombra dello shock ancora presente sul suo bel viso, cercando un costante contatto fisico con la sorella, intrecciando quindi le dita della sua mano con le sue, come se avesse bisogno di provare a se stessa che non sta sognando, non se la sta immaginando: lei è veramente lì.

«Come avete fatto a entrare?» domanda Ebony, guardando prima me e poi Kayla.

«Ho fatto saltare la serratura. Ah, a proposito, mi dispiace per quella.»

«Non importa, adesso che ti ho trovata non ti lascio più sola» interviene Kayla, passandosi il dorso della mano libera sulla faccia.

«Vuoi stare qui assieme a me?»  

«No, non se ne parla» mi intrometto, prima che Kayla possa dire qualcosa.

Non posso dire di conoscerla bene, ma so con certezza che accetterebbe qualsiasi cosa sua sorella le chiedesse o dicesse. Infatti, mi lancia un’occhiata contrariata e incrocia le braccia al petto, alzando un sopracciglio. Apre la bocca per parlare ma, di nuovo, la blocco.

«Ebony, che ne diresti di venire insieme a noi al nostro rifugio? Non è molto lontano da qui e possiamo partire domani mattina.» Mi chino su un ginocchio alla sua altezza, speranzoso.

«Calum.» mi ammonisce Kayla, ancora prima che sua sorella potesse esprimersi.

Le guardo duro per qualche istante: sarebbe la scelta migliore per entrambe e lei lo sa, solo che è troppo orgogliosa per ammetterlo. Non solo in questa casa sarebbe completamente isolata da qualsiasi possibilità di provviste, a meno che non abbia intenzione di passare di casa in casa, rischiando di farsi ammazzare dai Morti; inoltre, sarebbero solo lei e sua sorella contro ogni possibile minaccia lì fuori e, nonostante Kayla abbia provato diverse volte di sapersela cavare piuttosto bene da sola, ora doveva badare anche a Ebony.

Riporto lo sguardo alla bambina davanti a me, aspettando una sua risposta positiva.

«Io non posso andarmene» risponde risoluta, i suoi occhi fissi nei miei quasi con ferocia, come se stesse proteggendo qualcosa.

«Perché?» le chiedo confuso. Fossi stato io nelle sue condizioni, avrei accettato senza battere ciglio.

«Non posso abbandonare mamma e papà.»

«Cosa? Sono ancora vivi?» chiede Kayla, confusa.

Ebony distoglie lo sguardo da quest’ultima per spostarlo al pavimento e cominciare a giocare con una ciocca dei suoi capelli.

«Venite con me» ci ordina, voltandosi e cominciando a salire le scale.

Osservo Kayla con la stessa aria confusa della mia, anche se io comincio ad essere quasi preoccupato.

«Non spaventatevi» ci prega, facendomi allarmare ancora di più.

Apre una porta lentamente, si sposta di lato e ci lascia dare un’occhiata all’interno.

Con la coda dell’occhio vedo Kayla portarsi una mano alla bocca scioccata e quasi scannerizzare l’intera scena nella sua mente.

Lo spettacolo davanti a noi è devastante: ci sono tre figure, una seduta con la schiena appoggiata al letto e la testa che guarda al soffitto, con la bocca aperta, un’altra fa avanti e indietro dall’armadio fino ad un’altra porta nella stanza e l’ultima in una posizione innaturale, quasi accasciata, con il volto verso la finestra.

L’odore di marcio e di corpi in composizione mi arriva pungente al naso, facendomi pizzicare gli occhi e causando l’arrivo della nausea.

L’avevo detto che stava proteggendo qualcosa, solo che non mi sarei mai aspettato questo: stava tenendo quelli che una volta erano i suoi genitori rinchiusi dentro una stanza. Una scia di brividi mi ricopre le braccia.

Ebony chiude la porta a chiave e alterna il suo sguardo tra me e la ragazza al mio fianco, ancora visibilmente scossa. Chi non lo sarebbe?

«Ebony...» inizia Kayla sottovoce, anche se nel silenzio calato in questa casa sembra quasi stia urlando.

«È successo una settimana fa» si difende la più piccola, indietreggiando di qualche passo dalla porta.

«Quelli-quelli non sono più mamma e papà.»

Non posso immaginare cosa sta provando Kayla in questo momento: ha appena scoperto che sua sorella è ancora viva, che tiene segregati in una camera dei Morti che erano i suoi genitori, che sono morti appena una settimana fa.

«Non sapevo cosa fare, mi hanno detto di rimanere giù perchè avevano sentito un rumore, ma io non sapevo-» riprende Ebony, prima di scoppiare in un pianto disperato.

«Non è colpa tua» le dico, provando a rassicurarla. Dannazione, è solo una bambina, non poteva prevedere ciò che sarebbe successo.

Inaspettatamente, Ebony allaccia le braccia attorno al mio bacino, stringendomi forte, con la guancia premuta contro il mio ventre. Le accarezzo un paio di volte i capelli cauto.

«Bonnie, ascoltami, Calum ha ragione, non possiamo rimanere qui.» Kayla si china all’altezza di sua sorella, appoggiandole una mano sulla schiena, muovendola su e giù.

Mi abbasso anche io, trovandomi ad una distanza ravvicinata con Kayla per la terza volta oggi. Le scruto il viso in cerca di qualsiasi emozione, ma questa volta non riesco a leggerla, non riesco a capire cosa le stia passando per la testa.

Ebony annuisce lentamente, asciugandosi le lacrime con i pugni e spostandosi i capelli dal viso.

«Dovremmo riposarci un po’» suggerisco, abbozzando un sorriso alla bimba, sperando di tirarla un po’ su di morale. Lei guarda sua sorella come per cercare il suo permesso e poi ci fa strada giù per le scale.

Nella fretta di prima non avevo notato le varie candele accese per le varie stanze della casa.

Ci mostra un divano e ci fa cenno di prendere posto, ma prima di farlo Kayla mi fa cenno con la testa di seguirla da una parte più appartata. Rifila qualche scusa a sua sorella e poi la seguo.

«Che c’è?» le chiedo curioso, passandomi il pollice sul labbro inferiore, prendendomi poi il mento.

«Una volta riportato lo zaino da voi io e mia sorella cerchiamo un altro posto.»

«Cosa? Perchè?»

Kayla si passa una mano tra i capelli, che per la prima volta vedo sciolti, nervosa, spostandosi una ciocca che le era caduta proprio davanti agli occhi.

«Devo prendermi cura di lei» risponde sospirando.

«Ed esattamente come hai intenzione di farlo? Da sola, là fuori, preda di qualsiasi possibile minaccia?» le chiedo sarcastico, lasciandomi scappare una risata amara. E io che pensavo che avesse finalmente ceduto al suo dannato orgoglio. «Lo sai che da noi sareste le benvenute e avreste anche un posto sicuro-»

«Un posto sicuro? Non so se te ne sei accorto, ma non c’è un posto sicuro. Da nessuna parte» ribatte, interrompendomi.

Mi inumidisco le labbra con la lingua, stringendo i pugni e contando fino a tre prima di parlare. Non vorrei dare spettacolo con sua sorella nella stanza proprio accanto, ma lei ce la sta mettendo tutta per farmi perdere le staffe.

«Noi possiamo darvi protezione-» Anche stavolta non lascia che io finisca di parlare.

«No ho bisogno della vostra protezione. Posso farcela benissimo da sola.»

«Ah, davvero? Che mi dici di Reece allora? Ho proprio visto come sei riuscita a farcela da sola» obbietto, rendendomi conto solo qualche istante dopo di ciò che ho appena detto.

Cazzo.

«Questo è veramente un colpo basso anche per te» sputa velenosa, scuotendo la testa, lasciandomi da solo nella stanza buia.

Mi prendo la testa tra le mani, scompigliandomi i capelli dal nervoso.  Lo sapevo che non era colpa sua se Reece era morto, volevo solo cercare di convincerla a fare la cosa giusta, per lei e per sua sorella, per cercare di tenerle in vita ancora per un po’, soprattutto ora che si erano appena ritrovate.

Se eravamo riusciti ad andare d’accordo per più di qualche minuto, ora eravamo tornati di nuovo al punto di partenza.

Lascio sbollire per qualche minuto tutta l’irritazione cresciuta dentro di me. Torno nell’altra stanza, cercando di non inciampare e di non andare a sbattere contro le pareti.

Sul divano trovo Kayla ed Ebony abbracciate che dormono di già: nonostante pochi attimi prima le avrei volentieri urlato contro, ora non posso far altro che intenerirmi davanti alla scena.

Prendo i due zaini, che Kayla ha spostato vicino al divano, e li uso come cuscini, prima di stendermi a terra, chiudendo gli occhi e desiderando di fare sogni beati, sperando che i demoni nella mia testa non decidano di farmi visita almeno per una notte.

***

Vengo svegliato da un leggero chiacchiericcio non molto lontano dalle mie orecchie. Aspetto qualche secondo prima di aprire gli occhi, cercando di godermi ancora qualche minuto di completa pace. È passato un po’ di tempo da quando sono riuscito a dormire così beatamente l’ultima volta.

Alzo le braccia per strofinarmi gli occhi e sento una fitta di dolore al braccio sinistro, ricordandomi della ferita inferta da Kayla la sera precedente.

La sera precedente. Sono successe così tante cose. È stata la prima volta che ho visto Kayla così disperata, così spaventata e impreparata quando mi ha colpita. Per la prima volta ho visto oltre il suo lato duro e sicuro e ho visto quella che mi è sembrata la vera Kayla: terrorizzata da ciò che le succede attorno, così come lo siamo tutti.

Forse il suo è solo un modo di proteggersi, magari fingendo di sentirsi all’altezza di poter sconfiggere i Morti e la morte le dà un po’ di senso di sicurezza, senso ormai mancante nell’universo in cui viviamo.

«Ehi, è sveglio.»

Il mio flusso di pensieri viene interrotto bruscamente, quindi giro la testa alla mia sinistra, lasciando che gli occhi mettano a fuoco le due figure davanti a me.

Mi alzo piano sul gomito destro, tenendo invece il braccio sinistro appoggiato sul mio ventre.

«Buongiorno» dico strascicando un po’ le parole, con la voce che mi esce più roca di quanto immaginassi.

Kayla mi porge un sorriso tirato, spostando subito lo sguardo sul braccio bendato. Si alza dalla posizione seduta in cui era e va verso un tavolo: la seguo con con lo sguardo puntato sulla sua schiena. Per un momento mi sembra quasi di essere tornato alla normalità, qui, circondato dalle mura di una casa, con Kayla che si muove come se conoscesse questo posto a memoria - nonostante siamo qui da poche ore soltanto -, come se anche lei avesse riavuto indietro un pezzo della sua normalità trovando sua sorella. È tutto così folle, così surreale.

«Vuoi un po’ d’acqua?» mi chiede Ebony gentilmente, porgendomi una bottiglia d’acqua, facendomi distogliere l’attenzione da sua sorella.

La più piccola è seduta a gambe incrociate sul bordo del divano, avvolta da una coperta arancione, con la mano minuta che spunta da sotto di essa.

Annuisco e prendo un sorso mentre Kayla torna verso di noi, stavolta con quelle che mi sembrano bende in mano. Mi fa cenno di piegare le gambe per lasciarle un po’ di spazio per sedersi per terra affianco a me.

«Bonnie, hai detto che qui c’è una credenza con tante bottiglie, vero? Puoi portarmene una, per favore?» Ebony obbedisce subito agli ordini della sorella e si alza dal divano con la coperta, che ora striscia sul pavimento.

Scruto per qualche istante il viso della ragazza davanti a me: sarà solo un’impressione, ma la sua espressione mi sembra più leggera, più rilassata. Sbatte un paio di volte le palpebre, facendo oscillare le lunghe ciglia che le adornano gli occhi scuri.

«Ti fa male?» mi chiede un po’ incerta, facendo passare il suo sguardo dal mio braccio al mio viso.

Ci impiego qualche secondo per risponderle che non è niente, troppo perso nell’osservare ogni suo movimento. Ho bisogno di concentrarmi, una doccia fredda non sarebbe male.

Sarei cieco se dicessi che non è una bella ragazza, starei mentendo a me stesso, ma non era proprio il momento adatto per lasciare il via libera a questi pensieri.

«Mi dispiace per ieri» sputo fuori veloci le parole, cercando di non pensarci troppo. È la seconda volta in poche ore che mi sento in dovere di scusarmi con lei per le mie azioni o per le mie parole, fino a quando, poco tempo prima, non me ne importava troppo dell’effetto che avrebbero potuto avere su di lei.

«No, hai ragione.»

I miei occhi si spalancano involontariamente alla sua affermazione: cosa stava succedendo?

«Non posso prendermi cura di lei quando non so nemmeno come prendere cura di me stessa.»

«Non era questo che intendevo-» Vengo interrotto da Ebony che ritorna nella stanza con una bottiglia di vodka, credo, più grande di lei.

Tutte le volte che provo a scusarmi e provo ad avere una conversazione più civile del solito con lei, veniamo interrotti in qualche modo.

«Questa era quella più piena» spiega Ebony alla sorella, che la ringrazia velocemente.

Kayla sfila delicatamente l’elastico dal mio braccio, poi toglie la benda improvvisata della sera prima ora decorata da una macchia del mio sangue.

Svita il tappo dalla bottiglia di alcool, lasciando il suo sguardo fisso nel mio per più del dovuto.

«Dì a Calum quello che hai detto a me stamattina.» Versa il liquido sulla ferita per disinfettarla e subito sento un bruciore pungente: chiudo gli occhi e aspiro aria dai denti serrati.

«Abbiamo una macchina che funziona.»

Apprezzo che Kayla le abbia chiesto di parlare, così da farmi distrarre dal dolore che mi sta infliggendo involontariamente.

«Ci sono anche dei vestiti e del cibo qui in giro. In macchina abbiamo un po’ di pistole che mamma e papà avevano trovato in giro.»

Kayla, nel frattempo, prende le nuove bende e mi fascia con cura il braccio con le sue mani delicate, avvolgendole bene e fermandole con un pezzo di scotch di tessuto.

«È troppo stretto?» mi chiede con un’aria fin troppo preoccupata, come se il fatto che sia troppo stretta potesse costarmi la vita.

In realtà credo che si senta in colpa per avermi inflitto in primo luogo il taglio, ma l’aveva fatto solo per difendersi, non gliene avrei mai fatto una colpa. Era sotto shock, era piuttosto sorpreso che fosse anche solo riuscita a pensare abbastanza lucidamente per provare a salvarsi la vita in qualche modo.

«No, no, va bene così. Grazie.» Kayla pulisce l’elastico e lo indossa al polso, passandosi poi le dita tra i capelli per spostarli dal suo viso.

La luce timida del sole entra dalla finestra, permettendomi di capire che sono solo le prime ore del mattino, ma illuminando la stanza in cui ci troviamo. Noto solo ora che le candele sono state spente.

«Quindi, avete detto una macchina?» esordisco dopo qualche istante di silenzio.

Kayla si alza in piedi stiracchiandosi le braccia sopra la testa e facendo alzare la maglietta che indossa, rivelando le linee di un addome quasi scolpito. Sento scie di calore percorrermi il corpo e il cavallo dei jeans tirare ma, ancora una volta, non è questo il momento.

«Sì, il problema è che le chiavi sono nella tasca di quella che una volta era nostra madre» dichiara la ragazza, chinandosi in avanti per afferrare le cose lasciate a terra ed infilandole nel suo zaino, mostrando parte della sua scollatura nel mentre, non aiutandomi in tutta questa situazione quasi imbarazzante.

«Posso prenderle io» offro, decidendo di alzarmi finalmente dal pavimento.

«Devi stare molto attento» interviene Ebony, lasciando cadere la coperta sul divano dietro di lei.

«Non posso farti rischiare la vita per-»

«Ho deciso io di farlo, nessuno mi sta forzando a fare niente, perciò non ti preoccupare» dico, interrompendo subito Kayla.

Sarò anche uno stronzo molte volte, ma non sono un pezzo di ghiaccio: rivedere di nuovo quelli che una volta erano i suoi genitori sarebbe troppo per lei. Ha già dovuto far fronte al fatto che siano morti una seconda volta, solo che questa volta ne aveva la certezza. Non volevo farle passare quell’inferno una terza volta, soprattutto se questo era esattamente il giorno seguente.

«Ebony, hai detto che qui ci sono anche altre provviste, giusto? Mentre io prendo le chiavi, voi potete prendere quelle e raggruppare tutto ciò che trovato in salotto» dichiaro, passandomi le mani sui pantaloni.

Ebony annuisce e subito se ne va, obbedendo ai miei ordini, mentre Kayla è piuttosto titubante sull’intera situazione. Incrocia le braccia al petto, alzando le spalle. Apre un paio di volte la bocca come se volesse dirmi qualcosa, ma poi lascia perdere e lascia vagare il suo sguardo sul pavimento.

«Andrà tutto bene» la rassicuro, avvicinandomi e mettendoci tutta la mia forza di volontà per non allungare le braccia e stringerla in un abbraccio. Non so se tutto quello che sta succedendo sia nella mia testa che fuori sia causa di tutto ciò che è successo nelle ultime ore, ma decido di non dargli troppo peso. È solo attrazione fisica, è normale, no?

«Solo… stai attento» sussurra, dando voce alle sue preoccupazioni, prima di lasciarmi solo.

Seguo la sua figura fino a quando non la vedo sparire dietro a un muro, cercando in tutti i modi di capire lei e i suoi modi di fare. Se io ero complicato, lei lo è mille volte di più: non so mai come comportarmi con lei, perchè in un modo o nell’altro, quando mi aspetto una sua reazione ne ricevo sempre un’altra che è l’opposto.

Mi lascio andare ad un sospiro: è ora di andare a prendere quelle chiavi.

***

«Ce l’ho fatta!» esclamo soddisfatto, facendo dondolare il portachiavi sull’indice della mia mano, cogliendo di sorpresa le due sorelle.

«Anche noi abbiamo raccolto un bel po’ di roba» dice Kayla, lasciando spazio al primo timido sorriso della giornata.

«Torniamo alla base!» dico con fin troppo entusiasmo, provando a strappare una risata da entrambe le sorelle, ma ricevendone una solo dalla più piccola.

Prendo il mio zaino e quello di Kayla e li infilo sulle spalle, ignorando le lamentele di quest’ultima, insistendo che può farcela a portarlo. Non molla proprio mai, eh?

Una volta essersi arresa, decide di riempirsi le tasche dei pantaloni e del giubbino con tutto ciò che può entrarci dentro e le mani con il resto, non prima di aver controllato di aver ben sistemato il coltello nella cintura dei pantaloni.

Ebony si infila la tracolla del fucile, lasciandolo dietro alla schiena e anche lei si riempe le mani con tutto ciò che riesce a portare.

Dopo un ultimo controllo da parte di quest’ultima di non aver dimenticato niente e dopo aver sussurrato un breve addio ai suoi genitori, apro la porta della casa, lasciando uscire le due prima di richiuderla alle mie spalle.

Non abbiamo messo in conto che i Morti si sarebbero raggruppati in questa via dopo le urla disperate mie e di Kayla di ieri sera.

Ebony fa qualche passo indietro, nascondendosi dietro alla schiena di sua sorella, che vedo subito pronta a farle da scudo. Si volta lentamente verso di me, avvicinando a fatica un dito alle labbra e facendomi cenno di seguirla.

La sua tattica era giusta: se non facciamo rumore, non possono attaccarci e, visto che ora l’unico che ha le mani libere per sparargli sono io, sarebbe un suicidio anche solo sparare il primo colpo. Perciò la seguo, rimanendo dietro ad Ebony, in modo che abbia le spalle protette. Se dovesse succederle qualcosa, Kayla non me lo perdonerebbe mai e già non eravamo esattamente migliori amici.

Kayla si fa strada verso la macchina - che Ebony deve averle mostrato prima -, evitando di fare rumori e cercando di stare il più lontano possibile dai quei corpi sparsi per la strada.

Come arriviamo a solo un metro dalla macchina, dalla parte del guidatore, proprio davanti alla portiera c’è uno dei Morti che continua a muoversi avanti e indietro la fiancata dell’auto.

Kayla si blocca improvvisamente, probabilmente pensando a come aggirare il problema e un flash mi passa per la mente: il coltello.

Mi avvicino alla ragazza, che mi guarda stranita: lascio che il braccio destro le cinga la vita, per poi farlo passare per tutta la cintura dei suoi pantaloni finchè la mia mano non sente il coltello, non distogliendo di un secondo lo sguardo dall’obiettivo davanti a me.

Sfilo il suo coltello e glielo mostro, facendole capire che non ero improvvisamente impazzito: per tutta risposta, alza le sopracciglia sorpresa e annuisce. Quindi la supero e prudentemente arrivo alle spalle del corpo. Appoggio una mano sulla sua spalla e lo colpisco dritto nel cranio: questo si irrigidisce di colpo e lo sento pesante, quindi lo accompagno verso terra, cercando di fare il tutto nella maniera più furtiva in assoluto.

Prendo quindi le chiavi, apro la macchina e apro le portiera con successo. Ebony sale sui sedili posteriori, mentre Kayla mi fa raggiunge nel sedile del passeggero.

Ce l’abbiamo fatta.

Infilo la chiave nel cruscotto e metto in moto, schiacciando sull’acceleratore e ringranziando il fatto che la macchina non abbia il cambio manuale.

«Nel tuo gruppo ci sono tante persone?» chiede dopo qualche attimo di silenzio Ebony.

«Un po’, sì. Ci sono anche quattro bambini che hanno circa la tua età.»

«Ho otto anni e mezzo» sottolinea, mettendosi in una posizione in mezzo ai due sedili per sentirsi parte della conversazione.

Lancio un’occhiata fugace a Kayla e la trovo con lo sguardo perso oltre il finestrino alla sua destra. Deve avere molti pensieri nella testa.

Ridacchio alla constatazione di Ebony e lascio cadere la breve conversazione iniziata.

In poco tempo riusciamo ad arrivare alle familiari porte della palestra, quindi spengo il motore e scendo dalla macchina, aprendo la portiera ad Ebony per farla scendere e riprendendo i due zaini.

«Andiamo?» chiedo a Kayla, notando che esita qualche secondo prima di scendere dall’auto.

Come se fosse appena uscita da uno stato di trance, sbatte velocemente le palpebre e raggiunge me e sua sorella all’entrata delle porte.

«Benvenuta nella tua nuova casa, Ebony.»

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17


KAYLA

Sono passate un po' di settimane da quando ho ritrovato mia sorella, sono passate così velocemente. Mi sembra di averla trovata appena ieri e, allo stesso tempo, di averla avuta con me per un'infinità di tempo.

Quando l'ho rivista per la prima volta, non ci credevo, non potevo farlo: era successo tutto così velocemente e casualmente, ero ancora scossa dagli avvenimenti di pochi attimi prima, quando improvvisamente mi si presenta davanti ai miei occhi lei, quasi come un'allucinazione, che ho temuto di aver avuto fino a quando non l'ho ristretta tra le mie braccia.

È stato come ricevere una botta di vita improvvisa, inaspettata. Per quei piccoli istanti mi sono sentita a casa di nuovo. È stato come se l'avessi vista nascere per una seconda volta.

 

«Kayla.» Mi sento scuotere una spalla un paio di volte.

«Kayla.» Ora la voce prende forma nelle mie orecchie e sbatto le palpebre, cercando di far sparire completamente il sonno dai miei occhi.

«Zia? Cosa c'è?» chiedo alla donna che mi ha svegliato. Mi sistemo meglio sulla sedia verde e scomoda su cui mi sono addormentata.

«Non vuoi venire a vedere tua sorella?» Una scossa di adrenalina mi attraversa il corpo non appena sento la parola "sorella".

Salto in piedi velocemente e comincio a porre subito mille domande a mia zia.

«È già nata? Perchè nessuno mi ha svegliata prima?!» mi lamento, saltellando da un piede all'altro mentre la donna mi fa strada tra i corridoi dell'ospedale.

Quando mamma e papà mi hanno detto che avrei finalmente avuto una sorellina, avevo fatto i salti di gioia: era da quando avevo cominciato a parlare che chiedevo di avere una sorella o un fratello, lo avevo scritto in tutte le letterine a Babbo Natale, ma le mie richieste non erano mai state esaudite, fino a nove mesi fa. Avevo da poco compiuto gli undici anni e ormai non ci pensavo più di tanto, i miei desideri stavano pian piano cambiando.

Qualche settimana dopo, andammo tutti insieme a mangiare fuori e io mi chiedevo qual era l'occasione: ce n'era sempre una. Una volta finito il dolce, mia mamma mi prende le mano e la appoggia sulla sua pancia mentre mi dice le fatidiche parole: "Kayla, sei pronta per avere una sorellina?"

È scontato dire quanto quella notizia mi migliorò l'intera settimana. Finalmente avrei avuto anche io qualcuno con cui giocare, al di fuori dei miei amici di scuola, avrei avuto anche io qualcuno con cui passare le mie giornate e con cui condividere le mille avventure in cui mi cacciavo durante le vacanza al mare o in montagna.

«Ohi, nipotina numero uno!» mi saluta mio zio non appena ci vede arrivare, scompigliandomi i capelli.

«Zio! Ci ho messo un quarto d'ora per metterli in ordine!» lo sgrido, dandogli uno schiaffetto sulla mano, fingendomi offesa.

Lui fa una smorfia di dolore, portandosi la mano al petto.

«Spero tua sorella sia meno violenta di te!» Al nominare di mia sorella, una scia di gioia mi percorre di nuovo tutto il corpo e ricomincio a saltare sul posto.

«Dov'è?!» chiedo impaziente, non vedo l'ora di vedere chi sarà la mia compagna di vita. Mi affaccio al grande vetro a cui arrivo a malapena con la punta del naso, appoggiandoci le mani per tirarmi su e poter vedere dentro.

Allora mia zia indica una culla di plastica trasparente con appeso un biglietto con il nome Ebony scritto in stampatello. La neonata all'interno stava pacificamente dormendo, probabilmente anche sognando, dato che muoveva le piccole manine strette a pugno sopra la sua testa.

«Come facciamo a essere sicuri che sia proprio lei? Sono tutti uguali!» Mia zia e mio zio scoppiano in una risata e la prima mi accarezza la schiena. Li guardo curiosa prima di lasciar cadere la questione e ritornare ad ammirare quella piccola cosina che era mia sorella.

 

Sapere e vedere con i miei occhi che era ancora viva, che ce l'aveva fatta a sopravvivere in quel mondo di mostri, era una consapevolezza che mi aveva riempito il cuore.

Non sono più da sola ora che Ebony è con me. Non mi sento più come se dovessi costantemente portarmi dietro un fardello sulle spalle.

Certo, scoprire e vedere con i miei occhi i miei genitori... Quello è stato un colpo dritto dritto allo stomaco. Sapere che erano vivi fino a una settimana prima dell'arrivo mio e di Calum, sapere che pochi mesi fa io ero esattamente a pochi chilometri, forse persino metri, dalla mia famiglia ancora viva e al completo mi ha distrutta. Se solo avessi cercato meglio, se avessi setacciato ogni singola casa, forse sarei riuscita a dirgli addio per un'ultima volta. Forse sarei riuscita a stringerli in un abbraccio per un'ultima volta.

 

«Grazie, adesso potete andare!» dico, scendendo dalla macchina e chiudendo la portiera.

Mi volto verso la grande casa davanti a me e saluto Joe e Kaycee con la mano con un sorrisone a decorarmi le labbra: era finalmente arrivato il primo sabato del mese e avrei passato con i miei due migliori amici la giornata e poi avremmo dormito tutti e tre a casa di Joe. Era ormai una tradizione che andava avanti da quando ci eravamo conosciuti due anni fa, in prima elementare.

Aspettavamo quel sabato con ansia da una settimana: avevamo tantissime cose da raccontarci e tantissimi nuovi giochi da tavolo da provare. Poi, poco prima di dormire, avremmo giocato a nascondino per tutta la casa enorme di Joe, che offriva veramente tanti spazi in cui nascondersi con successo.

L'ultima volta era toccato a me cercare i due, mentre questa volta sarei andata a nascondermi insieme a Kaycee. Avevamo deciso di collaborare per far sì che Joe non ci trovasse subito, dato che aveva il vantaggio di conoscere tutta la casa.

«Ce lo dai un abbraccio?» mi chiede mia mamma alla mie spalle.

«Veloci che devo andare a giocare!» rispondo di fretta, aprendo le braccia per velocizzare l'intero processo.

«Veniamo a prenderti domani mattina alle 11. Mi raccomando fai la brava» mi raccomanda papà, tenendomi stretta a sè più del dovuto.

«Lo so, papà! Sono grande adesso!» dico, ricordandogli che avevo già ben otto anni e che sapevo cosa dovevo fare.

Finalmente mi lascia andare, così corro felice verso la cancellata che mi divide dai miei migliori amici, emozionata e intrepida di passare del tempo con loro.

 

Ma non c'era niente che potessi fare ormai. Loro erano lì, trasformati, proprio davanti a me. Il loro sguardo, una volta acceso di energia, di amore, di vita, era ora vitreo, freddo, impassibile.

È stata una botta allo stomaco.

Dopo che ci eravamo separati, quasi quattro anni fa, ero terrorizzata: ero da sola e avevo la costante angoscia che non ci saremmo mai più ritrovati. E infatti fu così. Mi ero abituata, per quanto fosse possibile, all'idea che non li avrei mai più rivisti vivi. È stato un processo lungo e doloroso: ogni notte mi ritrovavo da sola a piangere con questi pensieri nella testa, a volte volevo solo che si fosse spenta per un po', che mi avesse lasciato in pace e che mi avesse lasciato riposare.

Quando tutte quelle consapevolezze avevano ormai preso il loro posto fisso dentro di me, avevo in qualche modo imparato ad accettarle e a conviverci. Ero riuscita a non pensarci più di tanto, ero riuscita con veramente molta forza di volontà - forse l'unica cosa che mi era rimasta - a sovrastare quei pensieri orribili con un po' di speranza.

Vederli poi con i miei occhi in quello stato, mi ha causato una reazione simile alla prima volta. Era vero. Era reale. Non c'era più niente che avessi potuto fare. Mi ci è voluta qualche ora per realizzarlo.

All'inizio, non volevo tornare con Ebony al campo di Travis. Non volevo aggravare la loro situazione con una persona in più da sfamare, soprattutto una bambina. Ma dopo, riflettendoci, ho dovuto cedere alla proposta di Calum: magari sarei riuscita a badare a lei per qualche settimana, ma non mi perdonerei mai se la causa della sua morte potessi essere io.

Quindi, siamo saliti in macchina, i miei pensieri che continuavano a fare a botte tra di loro: molta gente del gruppo non era d'accordo con la scelta di Travis di tenermi con loro e lo dimostravano spesso. Io potevo sopportarlo, ma se avessero avuto lo stesso comportamento con Ebony... Non credo che ce la farebbe. Non perchè non è forte, dannazione, lo è più di me, ma perchè non se lo merita. Non ha fatto niente di male a nessuno lì, al contrario mio.

Per le prime settimane è stata dura: Ebony girovagava per l'intera palestra - mai che riuscisse a stare ferma per più di qualche ora - e se non la trovavo andavo in panico. Avevo paura che le succedesse qualcosa di brutto.

Lei è una mia responsabilità, ma prima di tutto, è l'unica famiglia che mi è rimasta.

Dopo qualche giorno in cui mi ha tenuto il muso perchè l'avevo ripresa troppe volte e dopo molte chiacchierate terapeutiche con Mali, Olivia e Wayne, sono arrivata alla conclusione che non l'avrei potuta tenere sotto controllo sempre e che se era all'interno della struttura sarebbe stata al sicuro.

Aveva fatto amicizia più velocemente di quanto avessi fatto io, soprattutto con Margaret e gli altri bimbi che facevano parte del gruppo, ma anche con Wayne, Lynton, Mali e, sorprendentemente, Calum.

Devo dire che, forse trascinata dalla sua scia di socialità e buon umore, mi ero lasciata andare anche io ed ero riuscita ad avere una convivenza pacifica con maggior parte del gruppo e potevo andar fiera delle poche ma estremamente importanti amicizie che si erano create.

Stavo finalmente imparando a tornare a vivere, o comunque a sentirmi viva, più di quanto non lo fossi mai stata da quando tutto era cominciato. Era una bella sensazione. Finalmente, sentivo qualcos'altro oltre al terrore. Finalmente.

Calum.

Erano successe un sacco di cose anche con lui, a partire dal cambiamento del nostro rapporto. Prima di tutto, dovevo ringraziarlo per ciò che aveva fatto per me ed Ebony.

 

«Hai bisogno di qualcosa?»

Mi chiudo la porta alle spalle e resto per qualche secondo intenta a guardare Calum riordinare le armi davanti a lui, dividendo quelle cariche da quelle scariche.

«Cosa? No, no. Volevo... volevo solo ringraziarti, sai, per averci aiutato.» Sfrego le mani sui pantaloni, ansiosa, cercando di mettere nell'ordine giusto tutte le parole.

Eravamo arrivati da qualche ora al campo e non avevo ancora avuto occasione di ringraziarlo per ciò che aveva fatto.

«Oh, figurati» risponde, senza neanche alzare lo sguardo dalle sue mani.

Lo osservo per qualche secondo e noto, di nuovo, a malincuore la benda che gli fascia il braccio sinistro. Sapevo di non avergli inflitto una ferita grave, ma mi sentivo comunque in colpa.

«Grazie anche per... avermi salvato ieri sera.»

«Siamo pari adesso.» Lancia un'occhiata veloce verso di me, stringe la mascella e poi ritorna al suo lavoro.

Annuisco, lasciando cadere il mio sguardo sulle mie mani che giocano frettolose tra di loro. Deglutisco un paio di volte, bagnandomi la gola secca.

«Dovresti cambiarti la maglietta.»

Istintivamente mi guardo come se non sapessi cosa stessi indossando e porto le braccia davanti alla parte di ventre scoperta.

«Uh, sì. Hai ragione.»

«Va tutto bene?» mi chiede stranito dal mio comportamento, lasciando cadere la pistola che stava maneggiando sul tavolo da lavoro e facendo qualche passo cauto verso di me.

«Sì... sì. Dovrei- devo andare ora» lo liquido incerta, sorprendendomi. La mia agitazione era dovuta a tutti gli avvenimenti delle ore precedenti, sicuramente.

«Già.» Calum fa spallucce e mi fissa per qualche secondo, quando decido di lasciar perdere e uscire dalla stanza, prendendo un respiro profondo non appena sono fuori.

 

Non era cambiato tutto così velocemente e di certo non erano mancati i nostri soliti e inutili battibecchi. Siamo entrambi troppo testardi e orgogliosi anche solo semplicemente per ammettere che uno dei due ha ragione.

Ce la stavo mettendo tutta per andare d'accordo anche con lui, in qualche modo. Dovevamo solo incontrarci a metà e già solo questo era un'impresa.

 

«Kayla, mi serve una mano.» Mali mi passa di fianco e mi dà uno schiaffetto sulla spalla, richiamandomi.

«Sì, scusami.» Prendo il cacciavite che mi passa e una vite arrugginita da terra, cominciando ad avvitare un pezzo di legno nell'altro. «Esattamente cosa dovrebbe essere questa... cosa?»

Ero piuttosto aggiornata su ciò che succedeva nel gruppo oramai: ero a conoscenza di gran parte delle decisioni, conoscevo i programmi delle uscite e sapevo cosa scarseggiava. Ero ufficialmente entrata a far parte del "gruppo spedizioni" e ciò significava che ero ormai veramente parte di quel gruppo, che ora avrei potuto chiamare mio.

Ma di questa cosa informe che avevo sotto gli occhi non sapevo nulla. Non sapevo se era un'idea di Mali o di Travis, dato che avevo visto solo la prima lavorarci. La vedevo spesso indaffarata - quando non era il suo turno di uscire - e la cosa mi aveva incuriosita, perciò ora le stavo dando una mano. O comunque stavo cercando di farlo.

«Okay, manderò a puttane l'intera sorpresa, ma sappi che è stata una scelta tua» mi minaccia con il cacciavite e a stento mando indietro una risata. «Sto cercando di costruire una specie di albero di Natale, ormai mancano poche settimane e non ne abbiamo mai avuto uno prima...»

Il mio sguardo si addolcisce alle sue parole e questa volta le sorrido sinceramente, ora più motivata ad aiutarla nel suo lavoro.

«Ho cercato di rubare di nascosto dei pezzi di legno qui in giro che sapevo che nessuno avrebbe usato oltre a, beh, bruciarli, ma questo è più importante! Cioè non lo è, però un po' di spirito natalizio non fa male a nessuno, vero, Kayla?» Questa volta le scoppio a ridere in faccia, coprendo la bocca con le mani. Quando è nervosa comincia a straparlare, è una delle piccole cose che ho imparato di lei.

Per tutta risposta, alza gli occhi al cielo e mi lancia una vite addosso, ridendo non appena faccio una faccia scioccata.

«Mi avresti potuto uccidere con quella!»

«Pfft, esagerata!»

«Che diavolo state combinando voi due?» Veniamo interrotte da Calum, che dev'essere entrato di soppiatto quando non stavamo lavorando.

«È una sorpresa. Che vuoi?» chiede Mali, posizionandosi davanti alla sua "opera d'arte" in corso con le braccia aperte, così che il fratello non possa vederla.

Mi passo una mano sulla fronte, scuotendo la testa. È pazza.

«Volevo sapere se ti andava di uscire domani assieme a Lynton ed Elyse.» Mali fa una smorfia triste. È veramente fissata a completare il suo lavoro.

«Posso uscire io» mi intrometto, alzandomi prontamente in piedi, già pronta per andare a ricevere istruzioni.

«No, tu no.» Mi blocco sui miei passi.

«Perchè?»

«Perchè no. Vado a chiedere a Wayne.» Detto questo, non mi lascia neanche il tempo di ribattere che esce dalla stanza e si chiude la porta alle spalle.

Pensa per caso che io sia una bimba? Perchè io di certo non mi accontentavo di un banale "perchè no".

Lancio un'occhiata di scuse a Mali e lo seguo infuriata oltre la porta.

«È da tre settimane che non esco e non pensare che non abbia notato tutti i programmi che hai fatto per tagliarmi completamente fuori» lo inseguo mentre cerco di mantenere a bada il mio tono di voce e la mia frustrazione. «Vuoi darmi una cazzo di spiegazione?»

Calum si volta, decisamente seccato dalla mia reazione, stringe la mascella e chiude per qualche secondo gli occhi, passandosi una mano sulla guancia.

«Te l'ho già detto.»

«"Perchè no?" È questa la tua spiegazione?»

Il ragazzo mi prende la mano irritato e mi trascina dentro a una stanza al riparo da orecchie indesiderate. Mi strattono dalla sua presa, incrociando le braccia al petto.

«Non potresti accontentarti e basta per una dannata volta?»

«Accontentarmi?» ripeto incredula. Alcune volte mi lasciava veramente basita il ragazzo. Quasi sempre a dire la verità.

«Sì, è così difficile per te?» mi sfida, avvicinandosi al mio viso con un sorrisetto strafottente sul viso. Mantengo il suo sguardo infuriata.

«Io non ci posso credere, davvero» ribatto, emettendo una risata sarcastica.

«Hai finito le parole?» Ora il suo viso è ha pochi centimetri dal mio, sento il suo respiro sulle mie labbra, sono costretta ad alzare il mento per poterlo vedere in faccia. La determinazione non abbandona per un solo secondo il mio sguardo e la stessa cosa accade nel suo. C'è solo un attimo di esitazione da parte sua, quando vedo i suoi occhi cadere sulle mie labbra per poi tornare velocemente ai miei occhi.

Decido di allontanarmi di qualche centimetro, abbassando lo sguardo incredula, mentre lui si passa due dita sul labbro inferiore.

«Domani esco, che tu lo voglia o meno. Non sei tu a decidere della mia vita.»

In mezzo alla sua fronte si forma un cipiglio marcato, si prende il labbro tra le dita e lo tira in avanti, come se stesse pesando le parole con cui rispondermi.

«Lo sono da quando tu decidi di essere irresponsabile.»

«Scusa?» Non credo di poter raggiungere un più alto livello di incredulità in questo momento. Era serio?

«Sto cercando di farti passare il tuo tempo con Ebony, ma se tu decidi di andare fuori, l'unica cosa che avrà sarà una sorella morta.»

Le sue parole vengono assimilate velocemente, come un colpo dritto dritto allo stomaco. Non so se essere offesa per la sua mancata fiducia nelle mie abilità o apprezzare il fatto che ci tenga che io passi del tempo con Ebony, ora che l'ho ritrovata.

«Quindi dovrei far rischiare la vita ad altri solo per un mio desiderio? È un po' egoista, non trovi?» gli chiedo retoricamente. Non era giusto.

Il ragazzo davanti a me si ammutolisce e vedo di nuovo apparire il muscolo della sua mascella.

«È diverso.»

Faccio schioccare la lingua e alzo un sopracciglio. Era diverso. Sì, certo.

«Fammi un fischio quando ti deciderai a darmi delle spiegazioni sensate.» Lo sorpasso dandogli una spallata apposta, non riuscendo a trattenermi, e uscendo dalla porta, sbattendola dietro di me.


Dopo quell'episodio, non era cambiato molto: Calum aveva continuato a escludermi dalle uscite per altre due settimane ed era riuscito a portarsi dalla sua parte anche Wayne e soprattutto, Travis, secondo i quali era meglio che stessi per un po' con Ebony prima di tornare ad uscire.

Lo trovavo stupido, perchè mai io avevo il privilegio di non uscire mentre tutti gli altri erano costretti a dover farlo? Non era giusto.

Infatti, dopo quelle due settimane ero riuscita a convincere proprio Travis a lasciarmi uscire, non perchè fossi masochista, anzi, ogni volta che uscivo sapevo benissimo che sarebbe potuta essere l'ultima volta. Ma avere qualcuno che mi aspetta qui al campo è una motivazione in più per dare il meglio di me stessa e sopravvivere fuori.

Calum ovviamente non era d'accordo, ma a me non interessava. Era la mia vita, non la sua, non capivo come mai gli importasse così tanto.


Mi bagno la faccia con un po' di acqua fredda per far sparire un po' di stanchezza dal mio viso. Ebony e Margaret mi avevano praticamente costretto a giocare con loro a nascondino per tutto il pomeriggio e ora si erano appena addormentate e io avevo bisogno di un po' di tempo per riprendermi. Erano solo le dieci di sera, ma loro erano crollate quasi subito dopo cena.

Entra una donna che mi pare si chiami Joanne e allora decido di uscire dal bagno per lasciarle un po' di privacy. Anche lei aveva il viso stanco.

«Mi dici che succede tra te e Kayla?» Mentre passo nel corridoio che porta fino alle scalinate della palestra sento il mio nome, allora decido di fermarmi davanti alla porta chiusa.

Lo so che non dovrei origliare e non lo farei se non avessi sentito il mio nome. Voglio sapere di che si tratta.

«Perchè?» la voce è maschile e la riconosco come quella di Calum. Ora mi resta capire solo con chi sta parlando.

«Non lo so, sembri così interessato alla povera creatura.» Questa è Elyse, la riconosco dal tono e dal nomignolo che usa spesso quando è costretta a parlarmi. «Ammettilo che stai solo cercando di entrare nei suoi pantaloni.»

«Non posso dire di non averci pensato.»

«Oh, avanti! Io me la faccio con Blaine, non ti giudico! E per quanto non la sopporti, non posso dire che sia una brutta ragazza, perciò non ti biasimo.»

Sto veramente cercando di fare appello a tutta la mia forza di volontà per non irrompere nella stanza e iniziare a prendere a insulti entrambi.

«Avrei proprio bisogno di una scopata, in effetti...» Non credendo a ciò che sto sentendo, decido di andarmene prima che uno dei due esca dalla stanza e mi colga di sorpresa.

Ho capito perchè gli importava così tanto di me. Stava solo cercando di portarmi a letto. Peccato per lui che questa sua tattica non avrebbe funzionato con me.


L'intera settimana successiva, ho fatto il possibile per evitare le due persone incriminate: sapevo che sarei scoppiata se solo avessi dovuto stare nelle loro vicinanze per più di cinque minuti. Dovevo dire che ero riuscita piuttosto con successo nella mia impresa.

«Kayla, puoi venire un secondo?» Parli del diavolo...

Mi alzo da terra, dove stavo controllando di aver tutto il necessario nel mio zaino, dato che tra poco sarei dovuta uscire in spedizione, mi passo le mani sui pantaloni e alzo lo sguardo scettica, con entrambe le sopracciglia alzate. Gli faccio un cenno con la testa per farlo continuare a parlare.

«In privato.» Alzo gli occhi al cielo e mi costringo a seguirlo, visto che non si è preoccupato di ricevere una mia risposta prima di voltarsi e cominciare a camminare verso uno dei corridoi.

Apre la porta di una stanza e mi fa entrare dentro, mi segue e poi se la chiude alle spalle. Incrocio le braccia al petto e prendo le dovute distanze dal suo corpo. Mi sembra di avere un dejavù.

«Che c'è?» gli chiedo scocciata, stanca della troppa attesa. In realtà erano passati forse tre minuti, ma non volevo stare con lui nella stessa stanza per più di cinque.

«Sei di fretta?» mi chiede ridacchiando, ricevendo una nuova alzata di occhi da parte mia.

«Ho altri posti in cui dovrei essere adesso» rispondo acida. Quella conversazione continua a ripetersi nella mia mente ora che ce l'ho davanti ai miei occhi. Non so per quanto riuscirò a trattenermi.

«La scorta dell'acquedotto finirà quasi sicuramente settimana prossima, anche con il razionamento questo è il massimo che siamo riusciti a fare. Dovremo quindi lasciare presto questa palestra.» Annuisco, passandomi una mano sul collo distrattamente.

Dopo che eravamo tornati con Ebony e con le bottiglie d'acqua, Tracey ci aveva avvisato del fatto che ci fosse una scorta d'acqua che erano riuscite a sbloccare, solo che sarebbe durata al massimo qualche giorno se non avessero avvisato l'intero gruppo. La sera seguente, infatti, Travis aveva riunito tutti ed aveva esposto la problematica e siamo arrivati alla conclusione che sarebbe stato necessario applicare un razionamento all'utilizzo dell'acqua. Ed ha funzionato per qualche settimana.

«So che oggi devi uscire e volevo chiederti se potessi dare un'occhiata in giro a qualche edificio.»

«Sì, posso farlo» rispondo, alzando le spalle, già pronta a chiudere qui la conversazione ed uscire dalla stanza.

«Non devi entrare, ti chiedo solo di individuare quelli che ti sembrano adatti, poi io e te potremmo fare un sopralluogo interno-»

«Coerente» mi lascio sfuggire prima di potermi rendere conto di ciò.

«Oh, mio Dio.» Esasperato, Calum lascia cadere le braccia e si volta verso il muro per serrare gli occhi. «Qual è il tuo problema adesso?»

«Oh, non lo so, magari che un giorno mi dici che non vuoi che io esca e il giorno dopo mi chiedi di farlo.»

«E dov'è il problema in questo? Se non mi sbaglio, mi hai detto che della mia opinione non te ne frega niente.»

«Senti, non ho tempo per questo» cerco di tagliare corto la discussione, sarebbe inutile in ogni caso. Ognuno di noi due cercherebbe solo di fare saltare i nervi all'altro e devo cercare di andare in spedizione tranquilla o, conoscendomi, ne uscirebbe soltanto un casino.

«Certo, continua a scappare da queste situazioni! Sai, per una volta, dimmi le cose in faccia se hai davvero le palle di farlo.» Mi punta un dito contro, avvicinandosi di qualche passo a me, vedo la sua frustrazione nei suoi occhi e nei suoi movimenti.

«Sai una cosa? Mi fai ridere» mi lascio scappare una risata incredula, aprendo la bocca e lasciando cadere le braccia ai fianchi del mio corpo. «Io dovrei dirti le cose in faccia, divertente.»

Per qualche istante il suo sguardo diventa confuso, ma subito dopo riprende un'espressione marmorea, chiudendo la mascella con forza.

Con un flusso improvviso di rabbia che mi percorre le vene, mi avvicino al suo viso con gli occhi come due fessure, le spalle dritte, il petto in fuori.

«Hai bisogno di altro? Non so, accendini, sigarette, preservativi, così puoi entrare nei pantaloni, giusto?» Calum aggrotta le sopracciglia confuso per qualche istante, subito dopo il suo sguardo si blocca compiaciuto sul mio, con un sorrisetto sulle sue labbra.

«Origliare le conversazioni altrui è proprio uno dei tuoi vizi, eh?» China la testa di lato e siamo così vicini l'uno all'altro che riesco a sentire il suo respiro mentre parla.

«Solo quando sento dire il mio nome. Poi però sono io quella che non ha le palle di dire le cose in faccia, non è così?»

Non faccio in tempo a spostarmi che le mani di Calum mi prendono il viso e le sue labbra vengono premute con forza sulle mie. Non ho nemmeno il tempo di formulare dei pensieri sensati che mi ritrovo a ricambiare quel gesto, con mia grande sorpresa.

Una sua mano finisce frenetica sul mio fianco destro, mentre ci sposta indietro, mettendo una sua gamba tra le mie e facendo pressione sul fianco per farmi muovere. Sento poi di colpo il muro contro la mia schiena, i nostri corpi che premono uno contro all'altro, come se potessimo avvicinarci ancora di più, il suo bacino che preme contro il mio ventre.

La sua lingua spavalda cerca la mia e gli lascio completo accesso, mentre sento entrambe le sue mani andare sulle mie cosce e lui si abbassa quel che basta per alzarmi da terra. Racchiudo le mie gambe attorno al suo bacino, sentendolo sempre più vicino e più frettoloso. Le mie mani passano dalle sue braccia muscolose, al suo viso e dietro al suo collo, andando a giocare con l'attaccatura dei suoi ricci castani, ricevendo un gemito gutturale da parte sua.

Decide poi di spostarci lontano dal muro e dopo qualche istante vengo appoggiata sul tavolo di ferro presente al centro della stanza. Il contatto con il metallo freddo fa nascere dei brividi sulla mia pelle e sento Calum sorridere nel bacio.

Mentre le mie dita si intrecciano con i suoi capelli, lui decide di spostare le sua labbra affamate sulla mia mascella, lasciando una scia di baci avidi, per poi passare al mio collo e alle mie clavicole, soffermandosi qualche istante, preoccupandosi di lasciare segni che di lì a poco sarebbero apparsi sulla mia pelle. Inclino la testa all'indietro, buttando al vento tutta la prudenza e controllo che avevo, lasciandogli più spazio su cui lavorare e lasciandomi andare completamente al suo tocco avido ed avvolgente.

«Posso?» mi chiede sottovoce all'orecchio, assicurandosi di ricevere il mio consenso prima di continuare.

«Avresti già ricevuto un pugno in faccia, altrimenti.» Per tutta risposta ridacchia e poco dopo le sue labbra ritornano sulle mie, calde e umide.

«Chi l'avrebbe mai detto che saresti stata tu quella con cui avrei usato i famosi preservativi, eh?» bisbiglia soddisfatto a pochi millimetri dalle mie labbra con ancora gli occhi chiusi, mentre le sue mani vagano fameliche per il mio corpo, arrivando alla base della mia maglietta, infilandole sotto tutto d'un tratto, facendomi sussultare a causa del contatto freddo e provocando altri brividi per tutto il corpo.

«Taci, prima che cambi idea» rispondo, aiutandolo a togliermi la maglietta di dosso e facendola finire da qualche parte per terra nella stanza, seguita poco dopo anche dalla sua. Noto velocemente alcune cicatrici sul suo torace assieme ad alcuni tatuaggi.

«Non vorrei mai, tesoro» Mi fa un occhiolino e si allontana quanto basta dal mio corpo per prendere il preservativo dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni, lanciandolo in aria per poi riprenderlo in mano espertamente.

Alzo gli occhi involontariamente a questa sua mossa e al fatto che si porti sempre dietro i preservativi. «Spero almeno che tu abbia controllato che non siano scaduti.»

«Perchè, non vorresti anche tu avere un figlio in queste condizioni?» mi chiede ironico, mentre io comincio a maneggiare con la chiusura dei suoi pantaloni, riuscendo finalmente ad aprirli e a tirarli giù.

«Dovresti veramente imparare a capire quando aprire quella bocca.» Mi prende le gambe e mi fa scivolare sul tavolo fino a farmi arrivare al bordo, imitando le mie stesse azioni di poco fa, facendo scendere anche le mutande.

«Fidati so bene come usarla» dice velocemente, prima di aprire le mie gambe con un gesto veloce delle sue mani e chinandosi sul mio ventre, lasciando dei baci umidi sulle ossa del mio bacino prima di fiondarsi a capofitto in mezzo alle mie gambe.

E in effetti sa proprio come usarla bene, quella dannata bocca.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


CAPITOLO 18
 

KAYLA

Mi rivesto in fretta, così come Calum appena a pochi metri da me, come da routine ogni volta che decidiamo di sfogare le nostre frustrazioni l’uno con altro. Non una parola, non un suono tra noi due, tutto inizia e finisce in poco tempo, come se avessimo fatto un accordo taciturno. A me sta bene così, alla fine tutto ciò che voglio da lui è un contatto fisico e credo che la stessa cosa valga per lui. Nient’altro.

Tutto questo è successo cinque volte dopo la prima della settimana scorsa; ci bastava soltanto incontrarci per uno dei corridoi che uno tirava subito l’altro dentro a una stanza per poi chiuderla dietro di sé, con le mani che girovagavano frenetiche le une sul corpo dell’altro.

Non potevo dire che la situazione tra noi due, al di fuori di quella fisica, fosse cambiata di molto: ci parlavamo solo se era strettamente necessario o se era in compagnia di Ebony. Durante le giornate ci scambiavamo qualche occhiata fugace qua e là, ma niente di più profondo di quello. 

Mi sistemo per qualche secondo i capelli, cercando di farli sembrare il meno scompigliati possibile, passando le dita attraverso le ciocche nel tentativo di pettinarli.

«Devi vedere qualcun altro?» 

Mi giro sorpresa verso il ragazzo, trasalendo leggermente nel trovarlo appena dietro di me, chinato quanto basta per poter sussurrare al mio orecchio.

«Cerco solo di essere discreta» rispondo rivolgendogli un sorriso falso e spingendolo indietro, facendo leva sulle sue spalle.

«Sistemarti i capelli non coprirà tutto il resto» ribatte, indicandomi il collo con l’indice e sghignazzando.

Mi tocco la pelle involontariamente, fulminandolo con lo sguardo.

«Non guardarmi così, ero piuttosto convinto che ti piacesse quello che stavo facendo» continua lui ammicando.

«La convinzione fotte» ribatto, guardandolo con aria di sfida e sorridendogli maliziosamente.

Si lascia uscire una risata e abbassa la testa, passandosi una mano sulla nuca. Soddisfatta della reazione in lui suscitata, esco dalla stanza, chiudendomela dietro alle spalle proprio prima che lui potesse fare la stessa cosa.

Cammino per la palestra in cerca della sorella del ragazzo per aiutarla a finire gli ultimi ritocchi dell’albero di natale fai-da-te. Dovevo dire di essere piuttosto soddisfatta di come era uscito: non era di certo un albero convenzionale, ma almeno aveva un qualcosa che ci assomigliasse e che portava un po’ di “magia del natale” con sé.

«Finalmente ti ho trovata!» esclamo, non appena vedo Mali indaffarata a pulire le scalinate. Faccio una corsetta per raggiungerla e le scompiglio i capelli.

«Giù le mani!» dice ridacchiando, appoggiando la scopa al muro per combattere contro le mie mani. «Come mai così contenta? Voglio dire, finalmente, però sai, non ci sono abituata a vederti senza il tuo solito broncio.» 

La guardo indignata, alzando le sopracciglia e lasciando cadere la mascella, appoggiandomi le mani sul cuore, fingendomi ferita.

Sapevo benissimo che da quando ero arrivata, la mia unica e monotona espressione era corrucciata, semplicemente perchè era quella che avevo tenuto per oltre un anno della mia vita. Ora però sembrava che tutto stesse andando per il verso giusto e sicuramente l’aver ritrovato Ebony ha aiutato in questo processo.

«A che punto sei messa?»  le chiedo non appena riprende in mano la scopa. 

Domani sarebbe stata la vigilia di Natale e volevo riuscire a rifinire gli ultimi dettagli in tempo per poterlo portare al centro della palestra domani sera. Mancavano poche ore alla cena e se fossimo riuscite a finire tutto ciò entro la mezzanotte sarebbe stato magnifico, anche se la vedevo dura dato che dopo cena rimanevo sempre con i bambini finché non si addormentavano e il loro orario variava di giorno in giorno.

«… ho appena iniziato, Kayla. Ti facevo più brillante, sai?» risponde Mali, facendo cenno con la mano libera che era al primo gradino delle scalinate.

«Okay, ti aiuto, dai, vado a prendere una scopa.» Non le lascio il tempo di rispondere che mi sono già incamminata verso uno dei piccoli ripostigli della grande palestra. Dopo tre mesi ormai avevo imparato a orientarmi bene o male.

Rivolgo dei sorrisi accomodanti ad alcune delle persone che incontro per il percorso, ricevendone altrettanti di risposta. Non potevo dire che ora mi accettavano completamente, ma era come se fossimo scesi al compromesso di non guardarci in cagnesco.

«Ciao, Wayne.» Passo una mano sulla spalla del ragazzo, facendolo voltare nella mia direzione.

«Ehi.» Nonostante la stanchezza presente sul suo viso, i suoi occhi si illuminano e gli spunta un sorriso sulle labbra.

«Com’è andata?» gli chiedo, lasciando cadere la mano e appoggiandomi allo stipite della porta della stanza in cui è appena entrato per appoggiare lo zaino.

«Devo dire che è molto meno stressante uscire con una macchina» scherza e si passa una mano sul viso, facendola salire fino ai capelli chiari per ravvivarli. «Non credo che ti ringrazierò mai abbastanza per questo.»

Scuoto la testa divertita, incrociando le braccia al petto. «È sempre un piacere!»

«Sai, è bello vederti così spensierata, finalmente.» Mi coglie alla sprovvista lanciandomi qualcosa che faccio appena in tempo a prendere al volo. «Ho trovato questo in giro, ho pensato potesse essere un regalo di Natale carino per i bambini.» 

Esamino l’oggetto avvolto in un fazzoletto e scopro essere una tavoletta di cioccolato. Controllo la scadenza e scopro con piacere che è ancora edibile. Gli rivolgo un altro sorriso, pensando sia a ciò che ha detto, sia al pensiero gentile che ha avuto, anche se lui non lo vede, perchè indaffarato a riordinare sul tavolo gli altri oggetti utili trovati.

«Non sarà l’unica bella sorpresa che avranno» sussurro tra me e me, pensando all’albero di Natale. 

«Che stavi facendo?» mi chiede dopo qualche istante di silenzio, ognuno perso per i propri pensieri.

«Ah, giusto, devo tornare da Mali, le avevo detto che l’avrei aiutata a pulire le scalinate.» Wayne si avvicina e mi scruta per qualche secondo in viso.

«Lo sai che lo intendo veramente quello che ho detto prima.»

Decidendo di oltrepassare per una volta tutte le barriere costruite attorno a me e lo stringo in un abbraccio. È soprattutto grazie a lui se oggi sono qua e di questo non potevo che essergli grata, nonostante all’inizio gli avrei volentieri mangiato la testa per avermi fatto un’offerta del genere. 

«Lo so.»

Wayne ci impiega qualche secondo a ricambiare l’abbraccio, probabilmente sconvolto dal fatto che sia stata mia l’iniziativa.

«Sai, non credevo che avrei mai visto il giorno in cui questo sarebbe successo!» Mi stringe tra le sue braccia e appoggia il suo mento sulla mia testa.

«Non è la prima volta che ci abbracciamo.»

«Lo so, ma le altre volte ero sempre io a farlo e non per dei bei motivi.» Appoggio la fronte alla sua spalla, nascondendo un sorriso. Allento la presa e sciolgo l’abbraccio, tirandogli un pugno leggero sul petto, ridendo.

«Grazie» dico, caricando una sola parola di tanta gratitudine e rispetto per il ragazzo davanti a me. 

***

Vengo svegliata da un insistente scossone del mio braccio e da una vocina che continua a pregarmi di svegliarmi.

«Che c’è?» Stringo gli occhi un paio di volte, aprendoli poi lentamente per abituarmi alla luce che entra dalle vetrate proprio dietro di me.

«Sta nevicando!»

Mi sistemo seduta e mi accorgo di essere circondata da Ebony, Margaret, Matthew e Dylan, con la prima che per poco non mi stacca un braccio dalla frenesia.

Lancio un’occhiata alla finestra, accecata per qualche istante dalla luce bianca del cielo, per poi scoprire dei pallini bianchi scendere giù dalle nuvole.

Distolgo lo sguardo dalla magnifica vista per controllare l’orologio al mio polso, trovato qualche giorno fa da Wayne. Sono appena passate le sette del mattino.

Come per istinto poi, i miei occhi si posano proprio sulla figura di Wayne, qualche scalino più in basso di noi, ancora addormentato.

«Possiamo andare fuori a giocare?» mi chiede Margaret, riportando la mia attenzione sui quattro bambini ai miei lati.

«Non ora» rispondo distrattamente, ignorando i lamenti che ne derivano. «Prima di pranzo andiamo tutti insieme sul tetto, d’accordo?» Questa volta ricevo degli esulti, seguiti da un mio sorriso sincero.

Torno a guardare i fiocchi di neve scendere copiosi sull’asfalto e sul tettuccio della macchina parcheggiata all’interno del cortile della palestra, notando che si è già creato un notevole strato.

«Ragazzi, restate qui. Io vado da Wayne» avviso i bambini, non ricevendo alcuna risposta perchè troppo incantati davanti alla finestra.

Mi alzo in piedi, impiegando qualche minuto per stiracchiarmi il corpo ancora addormentato, poi scendo i gradini e arrivo a fianco del corpo di Wayne. Mi abbasso alla sua altezza, appoggiandomi sulle ginocchia. Gli scuoto delicatamente il braccio sinistro chiamando il suo nome per qualche volta prima di ricevere un suo segno di vita.

Stira le braccia oltre il suo corpo e strizza gli occhi, si passa entrambe le mani sul viso un paio di volte prima di aprire gli occhi e alzarsi su un gomito.

«È successo qualcosa?» mi chiede con un tono di voce allarmato, sebbene ancora impastato dal sonno.

«Niente di cui preoccuparti, a parte il fatto che sta nevicando» replico sorridente, vedendo la sua espressione cambiare radicalmente.

«Sei seria?» Annuisco più volte e gli faccio segno di seguirmi mentre scendo le scale di corsa con lui che ancora si deve alzare in piedi.

Lancio un ultimo sguardo alle mie spalle per vederlo raggiungere le scale, mentre io sparisco dietro l’angolo del corridoio diretta verso la porta di ferro che porta al tetto.

Aspetto qualche istante, fino a quando non lo vedo apparire, apro la porta e la chiudo dietro alle sue spalle. Prendo un cappotto dall’attaccapanni affisso alla parete e glielo passo, indossandone uno anche io subito dopo.

Saliamo le scale in silenzio e raggiungiamo il tetto in pochi secondi: non appena Wayne apre la porta sento un’ondata di freddo penetrare fin dentro alle ossa e devo coprire gli occhi con una mano per abituarmi alla luce accecante del cielo. Stringo bene il cappotto al mio corpo, indossando il cappuccio e superando il ragazzo con il viso rivolto verso l’alto.

Sento la neve cadere sulle mie guance, fredda ma piacevole e apro la bocca proprio come una bimba per assaggiarla.

«Kayla, sei un genio!» Wayne mi indica con un dito, io lo guardo stranito.

«Grazie…?»

«Aiutami» mi ordina, dopo essersi guardato intorno per qualche secondo. Mi prende la mano e mi trascina giù per gli scalini e poi mi passa un vecchio bidone inutilizzato. Lo guardo confusa.

«Possiamo raccogliere la neve» mi spiega velocemente, prendendo due bidoni e portandoli sul tetto.

«Oh, mio Dio! Sono un genio!» dico ridendo e ringraziando la sua intelligenza.

Appoggiamo i bidoni per terra, raccogliendo un po’ di neve da terra per fissarli al terreno. Facciamo ancora un paio di scale per portare di sopra tutti i bidoni presenti nel piccolo stanzino, cercando di fare il tutto in silenzio e senza troppo rumore, per evitare di svegliare le persone che ancora dormono.

Dopo aver finito, restiamo a guardare la neve copiosa scendere davanti ai nostri occhi con un braccio di Wayne che mi circonda le spalle ed entrambi con un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia.

«Ritiro tutti gli insulti mentali che ti ho tirato per avermi svegliato» dice, scompigliandomi i capelli. Gli tiro uno schiaffo sul braccio e gli faccio la linguaccia.

«Non c’è di che!»

Pensandoci, mi è venuto completamente naturale svegliare qualcuno per condividere quel momento. Oramai mi sento veramente in famiglia con queste persone e in famiglia si condivide tutto o quasi. 

È per me una cosa completamente nuova, però. Prima l’unica persona su cui mi dovevo basare per tutto era me stessa. Ora avere qualcuno di cui fidarsi, finalmente, su cui appoggiarsi per condividere cose anche stupide come la neve era una bella sensazione che non provavo da tantissimo tempo.

«Ragazzi, che ci fate qui sopra?» Io e Wayne ci voltiamo all’unisono, trovandoci faccia a faccia con Travis.

Wayne gli fa cenno con una mano dietro di noi, dove abbiamo piazzato i diversi bidoni e gli chiede se c’è qualche altro contenitore in giro per la palestra, in modo da riuscire a raccogliere più neve. Travis annuisce e ci fa strada per le diverse stanze dell’edificio, aiutandoci a portare sul tetto tutto ciò che riusciamo a trovare.

«Avete avuto proprio una bella idea voi due» esordisce una volta tornati dentro, mentre io e Wayne ci togliamo i giubbotti indossati prima.

«Il merito è tutto suo» rispondo indicando il ragazzo al mio fianco. Per tutta risposta, alza le spalle e si passa una mano sulla nuca, mentre l’altra la infila nella tasca dei pantaloni.  «Dipende da quanto nevica, ma dovrebbe bastare per almeno una settimana.»

«Era proprio il miracolo di cui avevamo bisogno.» Noto le occhiaie sul viso stanco di Travis e mi chiedo come faccia ad avere sempre una soluzione positiva a tutto ed avere l’energia e mentalità adatta per guidare questo gruppo.

Wayne si congeda, dicendo che deve controllare il calendario spedizioni e sistemare le provviste trovate ieri.

«Travis, va tutto bene?» gli chiedo con aria preoccupata quando lo vedo sedersi stanco su una sedia nel corridoio.

«Niente di cui preoccuparsi» risponde agitando una mano con nonchalance. «Davvero, Kayla, tranquilla» continua, avendo notato il mio sguardo non molto convinto.

«Se hai bisogno che ti prenda qualcosa fuori, basta una tua parole e vado-»

«Rilassati, Kayla. È l’età» mi interrompe, sdrammatizzando la situazione con una risatina. Dopo qualche istante si alza e gli sto a fianco per tutto il tragitto dal corridoio fino alle scalinate.

«Posso chiederti una cosa?» Lui annuisce, facendomi cenno di continuare. «Come fai a rimanere sempre così calmo e a trovare sempre le soluzioni migliori per tutti?» Travis mi lancia un sorriso di chi la sa lunga.    

«Tutto proviene dalla giusta mentalità, rispetto e fiducia. Bisogna essere positivi, è un obbligo ormai, altrimenti non resta niente, neanche la speranza di potercela fare in questo mondo.» Saluta un paio di membri del gruppo svegli. «E poi, c’è una fiducia reciproca, capisci? Io mi fido di voi e voi di me, so ciò che siete in grado di fare e questo mi basta per affidarmi a voi come voi vi affidate a me.»

Mi prendo qualche istante prima di replicare, lasciando che tutto il suo discorso si assimili bene dentro di me. Già all’inizio avevo capito perchè avevano scelto lui come loro “capo”, ma ora era più che evidente.

«Non è sempre tutto così facile come sembra, so che tu lo sai bene adesso, Kayla. Ma capisci che ora come mai, essere tutti uniti è ciò che fa la differenza e io posso dire di avere trovato una nuova famiglia, oltre a quella che sono abbastanza fortunato da avere ancora.» Lancia uno sguardo a sua moglie e sua sorella sulle scalinate più vicino al portone; vedo i suoi occhi luccicare. «Ci saranno sempre momenti difficili da superare, ma ho la vostra garanzia, quella del gruppo che siamo, che riusciremo sempre a trovare una soluzione.»

Mi pizzicano gli occhi e sento un groppo in gola alle sue parole. 

«Sei un uomo veramente meraviglioso.»

«Adesso basta, ho già rubato fin troppo del tuo tempo. I bambini ti stanno aspettando e sai già quanto loro ti adorino.»

Ebony, Margaret, Dylan e Matthew sono seduti in cerchio al centro della palestra che parlano tra di loro animatamente.

«Buona Vigilia, Travis.» Lo saluto, stringendogli una spalla.

Forse aver trovato Wayne quel giorno su quel tetto è stato il vero miracolo di cui avevo bisogno.

***

«Chiudete tutti gli occhi!» Mali urla sopra il vociare di gente raggruppato sul pavimento della palestra. «Lynton, ti vedo che sbirci!»

Dopo aver cenato e aspettato che le persone che avevano il turno per riordinare la mensa finissero il loro lavoro, Mali si è occupata di far confluire tutti in palestra. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte e voleva portare proprio al centro l’albero di Natale per fare una sorpresa a tutti.

Di solito, mi ha raccontato, si riunivano tutti lì e parlavano del più e del meno, giocavano a qualche gioco come “Preferiresti…?” e così passavano la loro serata aspettando il Natale; nonostante non tutti lo festeggiassero, era comunque un modo diverso di passare il loro tempo. 

«Mamma, ti vedo! Non hai il privilegio di guardare, è una sorpresa anche per te!» la riprende Mali, facendo ridere la donna e Calum al suo fianco. Adesso capivo da chi avevano preso il loro bel sorriso.

Dopo essersi assicurata completamente che tutti quanti avessero gli occhi chiusi, mi raggiunge in corridoio. Insieme solleviamo la struttura e la portiamo al centro della palestra. Sarebbe stato carino avere delle lucine da appenderci, ma non siamo state così fortunate da trovarne in giro. Nonostante questo, la luce calda del falò crea un’atmosfera quasi mistica.

«Ora potete aprire gli occhi!» 

Quasi subito l’intera audience scoppia in un boato e in un applauso, tutti quanti con dei sorrisi meravigliosi sul viso.

«Adesso ho capito perchè sparivi sempre» dice Calum alla sorella.

«Io invece devo ancora capire dove sparisci tu» ribatte pronta lei ridacchiando e incrociando le braccia al petto. Calum fa spallucce e mi lancia uno sguardo veloce, sapendo benissimo che quando spariva era con me.

Distolgo lo sguardo e mi avvicino a mia sorella, guarda caso proprio di fianco al ragazzo in questione.

«Cantiamo le canzoni di Natale?» mi chiede Ebony, mettendodosi in ginocchio davanti a me con le mani unite in preghiera.

«Sei sempre stata tu quella che sapeva cantare, non io» rispondo ridacchiando, sedendomi in mezzo a lei e Calum.

«Ti prego!» Scuoto la testa più volte, non cedendo alle sue suppliche. Dopo qualche istante, allora, decide di prendere iniziativa e comincia a cantare, con un sorriso che le raggiunge gli occhi non appena Mali e Calum si uniscono a lei e poco dopo si innalza un coro, che ricrea quell’atmosfera natalizia che ormai sembrava non esistere più in questo nuovo mondo in cui vivevamo.

Incrocio le gambe e appoggio le mani dietro la mia schiena, godendomi quel momento magico che sembrava quasi un sogno dal quale non mi sarei mai voluta svegliare, con tutto ciò di cui avevo bisogno esattamente qui con me.

Mentre lentamente si creano dei piccoli gruppetti di persone, rimane ancora una melodia sospesa nell’aria e nel tempo. 

Dev’essere passato qualche minuto ormai, tutti trascorsi in compagnia dei miei pensieri nella testa - alcune abitudini erano difficili da mandare via - e mi accorgo che al gruppo iniziale di Mali, Calum, loro madre, Ebony e me, si sono aggiunti anche Wayne, Olivia e Margaret. Ebony è al centro della conversazione, parla animatamente e improvvisamente mi accorgo come lo sguardo dei partecipanti si alterni da lei a me. Incuriosita, scuoto la testa e ritorno al mondo reale, cercando di carpire quale sia l’oggetto di tale conversazione.

«Okay, tesoro, penso che possa bastare-» intervengo non appena mi accorgo che sta raccontando a tutti quanti la mia vita amorosa di quattro anni fa.

«Ho appena iniziato! E, comunque, Jonas era il peggiore-»

«Okay, non siamo qui per parlare dei miei ex. E poi, come cavolo fai a ricordarteli tutti? Avevi cinque anni!» Mi copro la faccia, cercando di non far notare il rossore sulle mie guance.

«Beh, al suo contrario, io sono molto interessato ai suoi ex, quindi vai pure avanti» dice Calum, fin troppo divertito dall’intera faccenda.

«Devo dire che tu mi piaci.» Scoppio in una risata nervosa e fragorosa non appena sento ciò che dice Ebony.

«Noi… Noi non stiamo insieme» provo a fare uscire tra una risata e l’altra, cercando di riprendere fiato nel mentre.

«… anche se pensavo che avrebbe scelto Wayne, mi sembra più il suo tipo...» continua lei, ignorandomi completamente e aumentando l’ilarità generale del gruppo, perfino della madre di Calum.

«Okay, qualcuno la zittisca, vi prego.» 

La conversazione passa ad un altro argomento e con sé passano i minuti velocemente. Mi è mancato avere dei momenti di questo genere, dove siamo completamente incuranti di tutti i problemi che abbiamo e che ci circondano. L’unica cosa importante è ora: essere qui e adesso, in questo preciso istante. Una delle poche cose positive della situazione fuori è che bisogna cogliere l’attimo di ogni istante, di ogni evento, anche quello che sembra il più insignificante.

Mi ero così persa, questa volta ad ascoltare l’assurdo dibattito in corso tra Wayne e Mali su come il cioccolato fondente sia più buono di quello bianco, che mi accorgo solo ora di essere appoggiata alle gambe di Calum e le sue mani posate sulle mia spalle, con i pollici che si muovono su e giù sul maglione di cotone di fortuna che indosso.

Mi volto verso di lui quanto basta per vedere il bellissimo sorriso che gli adorna il viso e, per una volta, decido di non scansarmi dalla sua presa, che sembra quasi rassicurante.

«Scusate, vorrei rubare per qualche istante la vostra attenzione.» Travis si schiarisce un paio di volte la voce, alzandosi in piedi per attirare l’attenzione di tutto il pubblico.

Ci voltiamo verso di lui, aspettando curiosi le sue parole. Nel frattempo, sento un freddo improvviso alle spalle e mi accorgo che Calum ha tolto le sue mani dal mio corpo per appoggiarle dietro di lui. 

«Prima dei desideri di mezzanotte, volevo far sapere a tutti voi che, grazie a Wayne e Kayla, per ancora una settimana non dovremo cambiare la nostra dimora-»

«Ringrazia la neve, non noi, Travis!» lo interrompe proprio Wayne, facendo partire l’ilarità del gruppo. Travis scuote la testa ridendo.

«D’accordo, passiamo avanti. Kayla e Ebony, siete le ultime due arrivate in questo gruppo» riprende l’uomo, facendo un breve cenno a me e mia sorella. Le teste degli altri si voltano tutte nella nostra direzione.

Cambio la posizione in cui mi trovo in modo irrequieto, allontanandomi dal corpo di Calum di qualche centimetro e incrociando le braccia al petto, evitando i troppi sguardi presenti sulla mia figura. Ebony, invece, è a completo agio, sorride e la vedo stringere forte la mano a Margaret, che è diventata ormai la sua migliore amica. Alla loro vista, rilasso le spalle contratte e prendo un respiro profondo.

«Ogni anno, qualche istante prima della mezzanotte di Natale, ci riuniamo qui, in questo spazio e ognuno di noi esprime un suo desiderio nella propria mente.» Travis spiega calmo, aprendo le braccia per indicare quella che poche ore fa ha chiamato la sua “nuova famiglia”. «Non è niente di eclatante, ma per noi è una tradizione speciale ormai. Se vi va, potete unirvi a noi quest’anno.»

«E se scrivessimo i nostri desideri sull’albero di Natale?» propone Ebony appena Travis ha finito di parlare.

«Questo sarebbe nuovo.»

«Io ci sto!»

«Non ci penso neanche.» Stringo la mascella al commento pungente di Elyse, che attiva la mia parte protettiva nei confronti di Ebony.

«Io dico che ognuno può fare ciò che più preferisce. Ebony, è stata una tua idea, a te l’onore» Lynton porge un pennarello indelebile alla bimba e lei lo accetta subito, senza pensarci due volte. Sicura di sé si dirige verso l’albero e comincia a scrivere. 

«Chi è il prossimo?» chiede non appena ha terminato di scrivere a voce alta. 

Una signora sulla cinquantina si alza e imita Ebony, porgendolo poi a un altro ragazzo e così via.

«Tu non vai?» mi chiede Calum sussurrandomi all’orecchio, facendomi trasalire e rabbrividire allo stesso tempo.

«No, non credo.»

Io e mia sorella siamo persone completamente diverse. Certo, l’età gioca un grande ruolo, ma siamo l’opposto l’una dell’altra. 

Io volevo tenere il mio desiderio per me stessa, così come ho sempre fatto; forse perchè lo considero inutile, stupido ma allo stesso tempo spero ingenuamente possa avverarsi.

Io desidero che ci possa essere un futuro migliore. Per me, per Ebony, per loro.

***

Il silenzio della stanza viene rotto dai nostri respiri ancora accelerati e l’unica luce presente è quella che entra dalla finestra. I nostri corpi sono distesi l’uno di fianco all’altro, le nostre braccia si toccano.

Mi prendo abbastanza tempo per far tornare il ritmo del mio respiro e il mio battito cardiaco regolare, prima di mettermi seduta e spostarmi i capelli sciolti dietro la schiena, lasciando che la coperta che ci copre entrambi cada fino al mio bacino, scoprendo il mio corpo ancora nudo e causandomi una scia di brividi sulla pelle appena scoperta.

«Non devi andare per forza.» Calum poggia una mano alla base della mia schiena e la fa scorrere su per tutta la spina dorsale, arrivando fino alla spalla sinistra e spostando i miei capelli sulla spalla opposta.

Si mette seduto, cingendomi il ventre con il suo braccio e lasciandomi un bacio umido sulla spalla scoperta, aumentando i miei brividi. Il mio sguardo rimane fisso davanti a me, mentre le mie mani cominciano a giocare tra di loro sulle mie gambe. Lentamente, Calum fa una leggera pressione per farmi tornare alla posizione di poco fa: decido di cedere e mi faccio guidare dal suo tocco.

Una volta stesi di nuovo, mi sistemo meglio, appoggiando la testa sul suo petto, mentre lui mi tiene vicina a sè con il suo braccio. Con quello libero tira su la coperta fino alle mie spalle: deve aver notato i vari brividi che mi hanno percorso il corpo.

Appoggio la mia mano sul suo addome e distrattamente comincio a tracciare delle linee astratte sulla sua pelle, mentre lui muove la sua mano su e giù sul mio braccio per tenermi caldo, ognuno perso nei propri pensieri. Probabilmente anche lui sta pensando a come diavolo siamo finiti qui.

Dopo qualche minuto, sento le sue labbra sfiorarmi la testa. Blocco i miei movimenti improvvisamente, non aspettandomi un gesto così dolce da parte sua. Non appena mi fermo, vedo affiorare i brividi, questa volta sulla sua di pelle.

«Sei riuscita a trovare qualche edificio?» Sbatto un paio di volte le ciglia che sfregano contro il suo petto. 

«Questo non era esattamente ciò che mi sarei aspettata di sentire da te in questo momento.»

«Cosa, credevi che ti chiedessi se ti fosse piaciuto? Non ho bisogno di chiedertelo per capirlo.» 

Mi alzo su un gomito guardandolo con le sopracciglia alzate, perplessa. «Cosa ti rende così sicuro?»

«Non saresti tornata da me dopo la prima volta.» Apro la bocca alla sua spavalderia.

«Vorrei precisare che sei stato tu a cercarmi la seconda volta.»

«Hai iniziato tu a togliermi i vestiti di dosso.»

«Non è vero.» Questa volta è il turno di Calum di guardarmi con le sopracciglia alzate.

«Sai, non c’è niente di male ad ammettere di voler fare del buono e sano sesso.» Scuoto la testa troppo divertita dall’intera situazione.

«Non è questo il punto.»

«Sì che lo è. Dai, torna qui giù che ho freddo.» Calum continua ad accarezzare il mio braccio e dopo qualche secondo, decido di ascoltarlo e torno alla posizione precedente, con la testa di nuovo sul suo petto.

«Ne ho trovato uno» esordisco una volta tornata la quiete nella stanza. Il silenzio del ragazzo mi fa capire di averlo preso un attimo alla sprovvista, dopo che io avevo cambiato l’argomento iniziale qualche minuto fa. Sento per la seconda volta le sue labbra lasciarmi un bacio tra i capelli.

«Non appena smette di nevicare, possiamo andare a controllarlo.» risponde, la voce più bassa di prima.

«Facciamo coppia fissa adesso?»

«Perchè, hai qualcosa in contrario?»

«Fidati, ci sono almeno mille motivi per cui io sia contraria alla cosa» replico, tornando a concentrare la mia attenzione sul movimento del mio indice sul suo addome, tracciandone con calma le linee definite.

«Uno di questi è sicuramente il fatto che io sia affascinante e perciò ti distrarresti troppo.»

«Questo non è decisamente uno dei punti della lista.»

«Beh, è parte della mia lista.»

«Ah, quindi ne hai una anche tu?» Scoppiamo entrambi a ridere, il petto di Calum che vibra proprio sotto il mio orecchio. 

«Sono felice che tu abbia deciso di rimanere con noi alla fine» confessa Calum, questa volta serio, mentre con l’altra mano mi sposta i capelli via dal viso, facendo passare le dita tra le ciocche.

«Non mi sembravi molto felice all’inizio, dato che mi hai puntato una pistola contro...»

«Lo avresti fatto anche tu.»

«Touchè.»  Lascio titubante un bacio umido sul suo petto. «E comunque lo dici solo perchè abbiamo appena fatto sesso.»

«Mi sottovaluti troppo, tu.» Per tutta risposta, faccio spallucce, lasciandomi scappare una risatina.

La stanza torna di nuovo nel silenzio, i nostri corpi che ormai compiono gesti in modo quasi automatico, come fosse una routine al quale sono ormai abituati, come se fosse la cosa più naturale e spontanea al mondo.

«Forse dovremmo tornare di là» dico in un sussurro, facendo tornare i brividi sulla sua pelle. Calum stringe di più la presa attorno al mio corpo, molto più piccolo rispetto al suo muscoloso, dandomi un senso di protezione che non sentivo più da tanto tempo. E allora cedo alla sua richiesta taciturna, lasciandomi cullare dal suo calore corporeo e dal suo tocco leggero e rassicurante.

Sbatto un paio di volte le palpebre e apro gli occhi confusa. Ci impiego qualche istante per capire dove mi trovo, poi sento la mia testa alzarsi e abbassarsi ritmicamente e ricordo di essere ancora con Calum.

«Oddio, quanto ho dormito?» sussurro tra me e me, cercando la luce della finestra per cercare di capire che ore sono.

«Dieci minuti, circa.» Trasalisco non appena sento la sua voce, ora profonda, non aspettandomi di trovare Calum sveglio. «Avevi bisogno di quei minuti per poter tornare di là senza addormentarti nel tragitto.» 

Mi lascio andare a un sospiro di sollievo, rilassando immediatamente i muscoli, accorgendomi di averli contratti nel mentre. Sento il ragazzo sotto di me muoversi, allora decido di mettermi seduta, lasciandogli spazio per farlo, sentendo subito il freddo della stanza percorrermi tutto il corpo e penetrare fino alle ossa. Calum si stiracchia da seduto, poi mi passa i vestiti, aiutandomi a rimettermi il maglione che indossavo prima che tutti i nostri vestiti finissero sul pavimento.

«Ci vediamo domani» dice, questa volta lasciando trasparire tutta la sua stanchezza nel suo tono di voce.

«Tu non vieni?»

«Ancora qualche minuto.» 

Annuisco, passandomi una mano tra i capelli e alzandomi in piedi, chiudendo le braccia attorno al mio corpo per tenermi al caldo. «Buona notte.»

«Lo è stata.»

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


CAPITOLO 19
 

KAYLA

Sono sveglia da qualche ora ormai, cercando di calmare i miei nervi per prepararmi ad uscire. È da quando c’è Ebony che divento un fascio di nervi non appena devo uscire: di mezzo c’è tanta preoccupazione, quella di non riuscire - per un motivo o per l’altro - a tornare da lei. Lei è la mia priorità assoluta. Non credo riuscirei a superare il perderla di nuovo, se questo mai dovesse accadere. E spero che non debba farlo.

Ho scoperto qualche settimana fa una stanza con degli attrezzi da palestra, cyclette, tapis roulant e pesi tutti coperti da dei teli ormai impolverati. Tutte le volte che è prevista la mia partecipazione ad un’escursione, vengo qui e sfogo la mia agitazione in esercizi, per tenere a bada la mia mente. Da una parte c’è la voce di Calum che mi dice che potrei non tornare indietro ogni volta che esco, dall’altra c’è la mia voce che mi rassicura del fatto che io sia riuscita a sopravvivere per molto tempo da sola, facendo affidamento solo e soltanto sulle mie capacità, sul mio corpo. Nel mezzo c’è una vocina che continua a ripetersi che andrà tutto bene e che non c’è niente di cui preoccuparsi.

Mi alzo dal tappetino una volta finito di fare stretching , raccolgo i capelli in una coda alta, stringendo bene l’elastico. Prendo un respiro profondo e rilasso le spalle, cercando per la centesima volta di liberare la mente. Forse è per il fatto che è la prima volta che esco con la neve, forse perchè esco con Elyse, Blaine e Tracey, forse perchè ogni volta che esco sembra fosse la prima, forse non c’è un perchè. 

Grazie alla neve, che dopo quattro giorni scendeva ancora copiosa, per un po’ non dovevamo preoccuparci dell’acqua. Inoltre, non dovevamo preoccuparci di un possibile cedimento del tetto, perchè c’erano dei gruppi che a turno salivano e si occupavano di spalarla e metterla nei bidoni, così che poi sarebbe diventata acqua da far bollire.

Le scorte di cibo erano ancora alte, grazie al ritrovamento di una casa ben fornita non molto lontano da qui e grazie alla macchina, perchè ora potevamo trasportare molte più cose molto più facilmente. Lynton era stato tanto fortunato da trovare anche delle taniche di benzina, così che ci eravamo assicurati ancora un bel po’ di viaggi con la vettura.

Ciò di cui abbiamo bisogno ora, sono dei cappotti, maglioni, tutto ciò che possa mantenere al caldo una quarantina circa di persone nel tragitto dalla palestra a un nuovo “campo base”, che era ancora indefinito però. Subito dopo il giorno di Natale, avevamo discusso le possibili opzioni dello spostamento, quando e se fosse avvenuto durante l’inverno, quali possibilità avevamo a disposizione. 

Lo spostamento in macchina per tutti quanti non era pensabile: si sarebbero dovute fare troppe strade e, non conoscendo ancora una meta precisa, non sapevamo quanto sarebbe stata distante la meta.  Eravamo giunti alla conclusione che si sarebbero fatti tali spostamenti solo per trasportare le poche persone anziane e i bambini, oltre che agli oggetti più pesanti e di più grande valore.

Per quanto riguardava gli altri, per assicurare uno spostamento in totale sicurezza si sarebbe dovuta fare un’uscita preventiva per poter eliminare ogni possibile minaccia.

Tutto ciò che ci manca, ora, è solo l’effettivo campo base. Dopo aver detto di una possibile struttura a Calum due notti fa, non avevamo ancora deciso quando saremmo usciti in ricognizione. In realtà, non ci eravamo parlati per i due giorni seguenti.

Prendo un altro respiro profondo, chiudendo gli occhi.  Qualsiasi cosa ci fosse tra me e Calum, non poteva diventare un’altra questione di cui preoccuparsi.

Esco dalla sala attrezzi, vado a prendere il mio zaino nella stanza delle armi, prendendo anche una pistola e controllando che sia carica. Dopo aver controllato che gli altri tre partecipanti fossero pronti all’uscita, vado a prendere il mio giubbotto, lo infilo e tiro su la cerniera.

«Bonnie, ti voglio bene.» Abbraccio stretta a me mia sorella, che era già pronta ad aspettarmi davanti alla porta.

«Lo so, me lo dici sempre.» Si allontana dal mio corpo, sorridendomi e tirandomi delicatamente la guancia. Lo faceva sempre quando non mi vedeva felice, ai tempi.

«Pronte?» chiede Blaine, arrivato appena pochi secondi fa.

«Io guido» replica Elyse, arrivando da dietro di noi e oltrepassandomi con una spallata.

Stringo le mani in pugni, sentendo le unghie affondare nei palmi, ma decido di lasciare perdere. Seguo le tre persone davanti a me, restando dietro al gruppo e lanciando un’ultima occhiata dietro di me prima di uscire: Ebony mi saluta con la mano, ma affianco a lei c’è un’altra figura. Calum mi fissa intensamente, più del dovuto, con un’espressione corrucciata. Mi volto ed esco dalla porta, sentendo ancora il suo sguardo bruciare sulla mia schiena.

***

«La smetti di cantare?» Elyse lancia un’occhiata di fuoco a Blaine, seduto sul sedile del passeggero, facendogli spuntare un sorrisetto sul viso e alzando di più la voce. «Vaffanculo.»

Mi appoggio con il gomito al poggiolo della portiera, guardando fuori dal finestrino della macchina; erano ormai passati quarantacinque minuti da quando eravamo partiti. Nonostante la neve sul tragitto, che aveva creato delle piccole difficoltà iniziali, il viaggio stava andando bene. Tra poco ci saremmo fermati probabilmente: non volevamo andare troppo lontano.

Sbatto un paio di volte le palpebre, cercando di scacciare la sensazione sempre più crescente di sonno invadere quasi completamente i miei sensi, dovuta al fatto di essermi svegliata molto presto e alla notte insonne passata. Una piccola parte è dovuta anche al paesaggio monotono che mi si presenta davanti agli occhi: campi innevati a destra e a sinistra, alberi secchi, morti o caduti dal troppo peso della neve. Morti che dondolano, barcollano, si trascinano qui e là.

«Che cosa-?»

«Cazzo!»

Mi riprendo improvvisamente dal mio stato di trance, non appena sento le voci dei due davanti. Mi affaccio al parabrezza, dividendo lo spazio tra i due sedili anteriori con Tracey, che ha lo sguardo puntato davanti a sé. Elyse rallenta, guardandosi più volte in giro.

A pochi metri di distanza da dove siamo ora, c’è una distesa di auto, ognuna in una posizione più disordinata dell’altra, con i vetri rotti, alcune senza portiere o con il tetto ceduto. Saranno circa una cinquantina, che bloccano la strada e ci rendono impossibile il passaggio sotto a un ponte a cinquecento metri di distanza.

«Che facciamo, Tracey?» Elyse si volta in direzione della donna, fermando l’auto ma tenendola in moto, pronta a ricevere istruzioni dalla donna, che scruta l’ambiente intorno a lei concentrata, con un cipiglio profondo in mezzo alle due sopracciglia.

«Torniamo indietro» propone Blaine, dopo aver fatto passare il suo sguardo da destra a sinistra, in una probabile ricerca di una via percorribile.

«Sì, sarebbe l’opzione più saggia...» La donna prende la cartina tra le sue mani, studiandola per qualche istante con le due dita appoggiate sul mento. Chiude gli occhi, ci passa sopra due dita, sfregandoseli, cercando di prendere la decisione più adatta alla situazione. «ma, allo stesso tempo, abbiamo già setacciato l’intera zona vicina a noi e non è rimasto molto, se non zone completamente infestate. Io dico… Dico di continuare a piedi» conclude con un sospiro pesante.

«No, è troppo pericoloso» esordisco, scuotendo la testa. 

Non se ne parla neanche. Dentro quella “giungla” possono nascondersi minacce ad ogni angolo, letteralmente. Sarebbe troppo pericoloso passarci proprio in mezzo a piedi, così come sarebbe una brutta mossa lasciare la nostra auto - funzionante - proprio qui, a disposizione di chiunque potesse esserci di ancora vivo qui fuori.

«Kayla ha ragione, è troppo pericoloso. Dev’esserci qualche altro posto in cui guardare su quella cartina-»

«L’ho già fatto, l’ho controllata e ricontrollata. È l’unica opzione che abbiamo di non tornare al campo a mani vuote-»

«Sì, ma a che costo? Potremmo perdere la vita tutti quanti!»

«Allora credo sia ora per te di farci vedere come sopravvivere» dice Elyse con un sorrisino sarcastico sulle labbra.

«Elyse, piantala.» Blaine lancia un’occhiata severa alla ragazza, che di conseguenza lo guarda male. Se gli sguardi potessero uccidere...

«Da che parti stai? Sto cercando di farci arrivare a casa tutti quanti sani e salvi-»

«Proprio come con Reece, uh?» 

«Smettetela! Tutte e due!» Tracey interviene, alzando le mani in aria per farle cadere ai lati delle sue cosce pochi istanti dopo, così come il silenzio.

Serro la mascella, lanciando un ultimo sguardo di fuoco ad Elyse prima di tornare a concentrare la mia attenzione sulla donna al mio fianco.

«Vorrei ci fosse un altro modo» inizia proprio quest’ultima, passando lo sguardo su tutti e tre con le sopracciglia aggrottate e le mani congiunte posate sul suo ventre. «Ascoltate, io so che avete grandi capacità, tutti quanti» dice, soffermando il suo sguardo su Elyse, mettendola a tacere prima che potesse dire qualcosa.

«Io vado davanti, Elyse alla mia sinistra e Blaine alla mia destra. Kayla, tu sarai dietro di me. In questo modo tutti quanti ci guarderemo le spalle a vicenda» conclude, indicandoci man mano che dice i nostri nomi.

Annuisco all’ordine, sconfitta e combattuta allo stesso tempo, sapendo che qualsiasi cosa avessi ribattuto sarebbe stato inutile. Ormai la decisione era stata presa.

Dopo aver aspettato il consenso di tutti quanti, Tracey scende dalla macchina, chiudendo delicatamente la portiera ed evitando ogni rumore. Successivamente, Elyse la segue non prima di aver spento il motore della macchina e aver tolto le chiavi dal cruscotto.

Io e Blaine ci lanciamo un’occhiata veloce, entrambi consapevoli dell’immensa responsabilità che ci aspetta, preoccupati di ciò che potrebbe succedere di qui a pochi minuti. Lui è il terzo a scendere, poi lo faccio anche io.

Tutti quanti prendiamo i nostri zaini dal bagagliaio, stringendoli bene attorno al corpo con i lacci e le cinghie presenti. Tracey prende in mano la pistola, controllando velocemente che fosse carica, nonostante sapesse con certezza che lo era. L’aria tutt’intorno a noi è elettrica, la tensione è palpabile. Tutti quanti siamo tesi con tutti i muscoli del corpo completamente contratti, facendoci risultare completamente rigidi, come se fossimo di gesso. L’adrenalina scorre nelle mie vene come scariche elettriche.

Stringo nella mia mano destra la pistola subito dopo aver sistemato nella cintura il coltello, così che possa estrarlo rapidamente nel caso fosse servito.

Elyse chiude a chiave la macchina e bisbiglia qualcosa, probabilmente un’imprecazione oppure una preghiera che tutto vada bene, anche se mi sembra piuttosto improbabile.

«Se qualcosa dovesse andare storto...» comincia Blaine, lasciando però in sospeso la frase. Restiamo in silenzio, ognuno pensando a ciò che potrebbe succedere.

Poi, Tracey comincia a camminare, prendendo la posizione da lei decisa poco fa. «Occhi aperti.»

Restando nella formazione prestabilita avanziamo per il tratto di strada dalla nostra macchina, arrivando alla prima di tante.

Tracey ci guida, la pistola puntata dritta davanti a sè, il suo sguardo che corre veloce da una parte all’altra della strada, da una vettura all’altra.

Elyse, a sinistra, tiene la pistola stretta vicina al petto, pronta a sparare un colpo se dovesse essere necessario, ma evitando di farsi prendere alla sprovvista nel caso un Morto dovesse sbucare fuori e attaccarsi a un suo braccio. Lei controlla dentro alle auto e in mezzo ai piccoli spazi tra le vetture.

Blaine, dalla parte opposta, fa lo stesso, controllando anche più avanti di sè, tenendo d’occhio la figura di Tracey. Ogni tanto vedo il muscolo della sua mascella apparire.

Tra ognuno di noi c’è circa un metro di distanza.

Io tengo la pistola bassa, a lato della mia coscia destra, con entrambe le mani a stringerla. Nonostante il freddo sento le mani appiccicose.

Mi sembra tutto troppo tranquillo. Il silenzio che ci circonda è quasi fastidioso; l’unico rumore percepibile è quello dei nostri stivali che affondano nel mediocre strato di neve sull’asfalto, accompagnato da qualche verso di cornacchie che volano in cielo.

Mancano pochi metri al ponte.

Apro la bocca per prendere un respiro più profondo, espirando successivamente, vedendo il vapore che esce dalla mia bocca.

Tracey rallenta fino a fermarsi. Si volta dalla parte di Elyse e le fa un cenno con il capo verso sinistra. Poi, indica lo spazio abbastanza largo tra una vettura e l’altra, posizionate parallelamente e in modo orizzontale tra di loro.

La ragazza avanza di qualche passo per riuscire a vedere ciò che le sta mostrando. Poi si blocca. Abbassa la pistola e la infila nella fondina. Si gira indietro e mi fa un segno con la mano. Le lancio un’occhiata confusa, poi collego il tutto: sfilo il coltello dalla cintura dei miei pantaloni e glielo lancio, sperando con tutto il cuore che riesca a prenderlo al volo.

Con una mano e con un certo tempismo, riesce a prenderlo dalla parte del manico.

Blaine ricomincia a muoversi, avvicinandosi alle due, sempre all’erta.

Quando decido di riprendere a camminare anche io, Tracey scatta velocemente in avanti, sorpassando il varco tra le due auto: in questo modo, ha attirato l’attenzione del Morto che, trascinandosi sui suoi arti, fa appena in tempo ad uscire dal suo nascondiglio prima che Elyse prenda iniziativa e lo colpisca alla testa, pugnalandolo e lasciandolo accasciare a terra.

Lascio andare il respiro che neanche mi ero accorta di stare trattenendo.

Tracey riprende il suo cammino silenzioso con noi al suo seguito. Passiamo tra una macchina e l’altra, alcune volte dobbiamo girarci di lato per passare tra il piccolo spazio rimasto.

Non posso fermarmi a pensare cosa possa essere successo qui, ma lo scenario più probabile è quello di una fuga di massa allo scoppio  della fine. Dev’essere successo tutto freneticamente, le auto che si scontrano l’una con l’altra per fretta di scappare dalla situazione contingente, provando a crearsi una via tra le code infinite che probabilmente portavano a un’autostrada.

Non so cosa sia successo dopo, non so se tutta quella gente sia riuscita a scappare o sia morta.

Con calma - e con i muscoli che cominciano a risentirne di tutta questa tensione - siamo riusciti ad arrivare al di sotto del ponte. Qui siamo obbligati a salire sul cofano di alcune macchine, perchè non c’è spazio. Uno dopo l’altro saliamo, Blaine mi porge la mano per salire e la accetto, facendo leva sulle gambe e aiutandomi con la sua presa.

Dobbiamo stare molto attenti: la neve sui tetti può causare una nostra scivolata da un momento all’altro oppure il tetto stesso può cedere con il nostro peso.

Sono preoccupata per Tracey: essendo la prima qualsiasi cosa potrebbe prenderla alla sprovvista, ora che abbiamo dovuto abbandonare la formazione per procedere in fila indiana.

Ogni movimento è calcolato, ogni respiro è contato, ogni sguardo è veloce ed attento.

Mi sembra di stare camminando da ore e da pochi secondi allo stesso tempo.

Non mi piace stare senza il mio coltello. Non sono per niente tranquilla, ma non voglio fermare l’intero gruppo per farmelo ridare da Elyse per una mia stupida paranoia.

Mi accovaccio per scendere delicatamente dal tetto di un’auto e passare sul suo parabrezza, mettendo davanti il piede destro e dietro il sinistro, simulando una scivolata. Appoggio il piede sul cofano e questo fa un rumore stridulo improvviso. Impreco sottovoce, alzando gli occhi al cielo irritata. Mi sembrava che stesse andando tutto troppo bene.

«Veloci, dobbiamo uscire da qui» ci ordina Tracey, muovendo in fretta la mano per enfatizzare.

Passo rapidamente sulla prossima auto, controllando quante me ne mancano ancora prima di tornare a toccare terra. Tracey lo ha appena fatto e vedo che ne mancano ancora tre.

Rischio di scivolare per quattro volte, nonostante abbia deciso di mantenere le gambe piegate per muovermi più velocemente e teoricamente in modo più stabile. Finalmente torno sull’asfalto, saltando giù dalla macchina e atterrando con un tonfo fin troppo udibile.

Siamo riusciti ad uscire da sotto il ponte, ma facciamo appena in tempo a riprenderci che veniamo presi alla sprovvista da un fin troppo noto lamento. Lancio uno sguardo dietro alle mie spalle: i Morti si stanno svegliando. E questo per colpa mia.

«Correte.» Tracey ci lancia l’ordine con una tale serietà che sento salire i brividi per tutto il corpo.

 E poi, corriamo.

Corriamo, corriamo, corriamo. Più veloce che possiamo, cercando di mettere la più possibile distanza tra noi e i Morti. Non possiamo guardare indietro, siamo troppo occupati ad evitare ogni ostacolo sulla nostra strada per assicurarci che non ci stiano raggiungendo.

Sento l’aria entrare ed uscire veloce dalla mia bocca, il mio petto alzarsi ed abbassarsi rapidamente, ogni tonfo dei miei piedi manda una scarica elettrica su per tutto il corpo, non facendomi sentire il dolore ma soltanto adrenalina, urgenza, paura.

La formazione si è distrutta non appena abbiamo iniziato a correre, infatti ora siamo in fila indiana, uno attaccato alla schiena dell’altro, pochi centimetri a separarci effettivamente. Dobbiamo uscire di qui al più presto possibile.

Ogni nostro passo minaccia il risveglio e l’uscita di altri Morti dalle vetture che ci precedono e a noi mancano ancora un po’ di metri prima che la fila di auto finisca.

Per la seconda volta in questa giornata, i minuti sembrano passare repentinamente e sembrano fermarsi allo stesso tempo.

Lo zaino rimbalza sulla mia schiena ad ogni passo, la pistola nella mia mano destra sembra voler scivolare via.

Poi, Elyse mi taglia la strada, rischiando di farmi inciampare nei miei stessi passi per evitare di finirle addosso. «Là!»

Ci impiego qualche secondo per riuscire a capire cosa abbia detto, tra il rumore del mio respiro affannato, quello dei nostri passi tutti mescolati assieme e quello dei Morti che si lamentano e sbattono continuamente contro il ferro delle macchine, provocando continui rumori sordi.

Blaine e Tracey la seguono subito, il primo che lancia uno sguardo dietro di sè per controllare le creature dietro tutti noi: i suoi occhi sono spalancati, la bocca semiaperta. Supera la donna, forse senza neanche accorgersi e raggiunge veloce Elyse davanti.

Tracey sta rallentando. La vedo affaticata. 

«Dammi lo zaino!» le ordino urlando, ormai il casino era fatto, un mio urlo non avrebbe cambiato in peggio la situazione.

Tracey, respirando affannosamente, tenta di slacciarsi le corde dello zaino dal suo addome, dove erano state strette con cura. La raggiungo, esortandola a continuare a muoversi e non fermarsi. 

Dopo l’ennesimo tentativo di togliersi lo zaino dalle spalle fallito, si ferma e me ne accorgo solo dopo qualche istante. Impreco, tornando indietro e raggiungendola, notando i Morti avvicinarsi sempre di più, nonostante siamo riusciti ad avere abbastanza vantaggio da essere a “distanza di sicurezza”.

Tolgo le sue mani dalle corde, che ancora stavano cercando di aprirle tremanti, le prendo e le slaccio violentemente, quasi rompendole dalla fretta. Guardo negli occhi la donna con una certa frenesia e preoccupazione e le prendo il viso tra le mani, urlandole a pochi centimetri dalla faccia «Non ti arrendi finchè ci sono io!»

Le sfilo lo zaino dalle spalle e me lo infilo davanti, attenta a non far cadere l’arma dalla mia presa.

Prendo la donna per la mano, lanciando un ultimo sguardo dietro di noi: sono vicini. La tiro e ricomincio a correre, Tracey mi segue, la sento comunque stanca e un po’ pesante, ma almeno sta correndo.

Davanti a noi riesco ancora a vedere la figura di Blaine correre tra le diverse auto. 

«Attenta!» 

Premo il grilletto della pistola con la mano che trema, mancando completamente il bersaglio, spuntato a pochi centimetri davanti a me dal finestrino di un’auto. «Cazzo!»

Il secondo colpo, che esce pochi istanti dopo il primo, lo centra sul collo, abbastanza per farlo distrarre e abbastanza per permettere a me e Tracey di passare senza gravi conseguenze.

Blaine si volta terrorizzato, appena uscito dalla fila di macchine e al fianco di Elyse, entrambi con le mani sui fianchi che cercano di riprendere abbastanza fiato per poter continuare la corsa. Elyse improvvisamente si rimette a correre, ma nella direzione opposta: sta tornando verso di noi.

«Che cazzo fai?! Torna indietro!» dico con tutto il fiato rimastomi in corpo, disperata. 

La vedo alzare la pistola, caricarla con un solo gesto e sento il mio stomaco contorcersi, temendo per un attimo che abbia intenzione di ucciderci per farci fare una fine più degna di quella di venire morsi ed essere ridotti in pezzi dai Morti dietro di noi.  Mi sento mancare il respiro. Vedo solo la sua figura. 

Tracey ed io veniamo prese alla sprovvista da un corpo che si getta addosso al mio fianco, facendomi perdere completamente il respiro e facendomi finire contro la fiancata di un’auto con un rumore sordo. Per la botta lascio andare involontariamente le mano di Tracey, mentre la pistola mi cade dall’altra.

Poi, uno sparo e sento il corpo del Morto addosso al mio diventare pesante, la sua bocca a millimetri dalla mia faccia, i suoi occhi che sembrano guardare dritti nei miei mentre scivola pian piano giù fino a terra.

Sputo a terra, sentendo il suo sangue sulle mie guance, sulle mie labbra e questa volta è proprio Tracey a prendermi la mano e tirarmi dietro di sé. Incespico tra i miei passi, il peso dei due zaini che mi tira verso il basso e lo shock dello spavento che mi toglie ancora l’aria dai polmoni. È successo tutto così velocemente. Sarei potuta morire così velocemente.

Sbatto le palpebre quanto basta per riprendere il senno e riuscire a vedere lucidamente di nuovo. Il mio corpo si sta muovendo in automatico, ma ho bisogno di riprendere controllo di me stessa all’istante.

«Forza, manca poco!» mi dice Tracey, tirando la mia mano dietro di sé, aumentando la velocità. Il rimbombo dei miei passi è un loop fastidioso in testa.

Elyse, pochi metri davanti a noi si assicura che la strada sia pulita.

E poi, finalmente, siamo tutte e tre fuori dall’inferno.

«Non possiamo fermarci adesso» dice Blaine non appena lo raggiungiamo sull’angolo di una strada secondaria che prima mi era impossibile vedere. Ora ho capito perchè Elyse aveva cambiato direzione.

«Arriviamo alla prima struttura che vediamo, ci entriamo e ci riprendiamo. Forza!» Elyse ci ordina, ricevendo consenso da parte di Tracey.

Annuisco, fermandomi sulle mie gambe tremolanti e facendo arrivare un po’ di ossigeno dentro ai polmoni, che bruciano in modo insopportabile.

Elyse parte in una camminata veloce, più simile ad una corsa lenta, forse per lasciarmi ancora qualche secondo per riprendermi. 

Mi passo un braccio sulla bocca, rabbrividendo alla vista sulla pelle del sangue sbavato, ripetendo l’azione in modo concitato. Sistemo meglio gli zaini addosso al mio corpo e poi riprendo di nuovo a muovermi a passo sostenuto.

«Ci sei?» mi chiede Blaine, rallentando il suo ritmo per arrivare al mio fianco. Alzo il pollice per rispondergli, non volendo sprecare fiato prezioso. Lui annuisce.

Nonostante io riesca ancora a sentire i gemiti e i lamenti dei Morti dietro di me - anche se ora sono quasi ovattati - e i miei arti tremare, mi sento più tranquilla. Forse perchè siamo finalmente usciti da tutto quel macello.

Una ventata di aria gelida mi frusta il viso, spostando i capelli da esso e facendomi rabbrividire, a causa delle piccolissime gocce di sudore che mi accorgo si sono create all’attaccatura dei capelli. Stringo i pugni involontariamente e quasi mi blocco quando mi accorgo di non avere più tra le mie mani la pistola, ricordandomi solo ora che è caduta durante l’attacco.

Ora sono completamente disarmata.

Tracey mi si avvicina e mi fa cenno con la mano verso lo zaino: me lo tolgo e glielo passo, sentendo subito una sensazione di leggerezza e il petto aprirsi maggiormente. Toglie la cartina da una tasca esterna, studiandola per qualche secondo, anche lei tornando ad avere una camminata veloce, lanciando occhiate attorno a sè di tanto in tanto.

«Vedo qualcosa» ci avvisa Elyse, indicando davanti a sé il primo edificio in questa strada desolata. «Accampiamoci lì.»

Dopo aver fatto uno sprint finale, arriviamo davanti alla struttura, arrestando i nostri passi.  Alzo la testa verso l’alto, studiandone l’altezza e cercando di capire cosa fosse stato una volta. Ha delle grandi finestre sulla facciata principale, sbarrate da inferriate arrugginite. L’entrata è un portone, chiuso a chiave da una grande catena - arrugginita anche questa - con un lucchetto. Da quel che vedo potrebbe essere un vecchio magazzino o forse una fabbrica.

Elyse fa saltare via il lucchetto con un proiettile senza troppi indugi: questo sbatte violentemente contro il portone e poi cade a terra, trascinando con sè la catena. Dà un calcio alle porte, aprendole facilmente. Entra, venendo inghiottita da un cono di luce che penetra dalle finestre.

«Cosa state aspettando?» ci chiede sarcastica, voltandosi verso di noi con un sopracciglio alzato.

«Stai-»

«Attenta, sì, lo so» interrompe Tracey, alzando gli occhi al cielo accompagnata da un gesto delle mani teatrale. 

La tensione ritorna immediatamente. Stringo forte le dita attorno alla stoffa delle spalle dello zaino.

Per la seconda volta, l’attenzione di tutti ritorna al massimo, pronti a scovare una possibile minaccia una volta entrati all’interno.

Non so se essere sorpresa dallo spazio completamente vuoto, riempito solo da qualche colonna di cemento. Non c’è assolutamente niente al suo interno. Solo polvere e qualche ammasso di neve, che mi accorgo essere caduta da alcuni buchi del tetto.

Dopo aver controllato che non ci fossero Morti, Blaine chiude il portone e ci mettiamo finalmente seduti al centro della luce. Purtroppo, non possiamo accendere un fuoco per tenerci al caldo, perchè non abbiamo niente che bruci, oltre alla mappa ma quella è fuori discussione.

Tolgo lo zaino, appoggiandolo dietro di me. Incrocio le gambe a terra e mi ci appoggio con la schiena su di esso, prendendo respiri profondi. 

Non c’è niente di cui preoccuparsi. Siamo al sicuro ora. Continuo a ripetere questi frasi nella mia mente, magari alla fine finirò anche per crederci.

«Okay, allora… Io direi di passare qui qualche ora, mangiamo qualcosa, dormiamo per qualche minuto e poi torniamo al campo.»

«Abbiamo rischiato la vita per niente, quindi? Tracey, è stata una tua idea quella di venire qui. E poi non possiamo tornare indietro tra qualche ora, quel posto sarà completamente infestato ormai.»

«So cosa ho detto e sapevo anche che sarebbe stata una pessima idea, solo non pensavo così pessima.»

«Beh, ti posso confermare che lo sarebbe anche tornare indietro tra qualche ora, con la differenza che moriremmo, per davvero.»

«Ci dev’essere una strada secondaria che ci riporta indietro-»

«Possiamo semplicemente riposarci per qualche minuto?! Vi prego!» intervengo esasperata alla lotta verbale tra Tracey ed Elyse. È ovvio che ciò che esce dalla bocca della donna è la sola conseguenza dello spavento appena preso. È solo preoccupata e in questo momento non è in grado di prendere delle decisioni lucidamente, nessuno di noi lo è. «Dopodichè penseremo a cosa fare. Ora dobbiamo solo pensare a riprendere le nostre forze.»

Il silenzio cala nella grande sala in cui siamo. Mi aspettavo una specie di commento sarcastico da parte di Elyse, ma non apre bocca.

«Elyse, mi puoi dare il coltello?» le chiedo dopo qualche istante, ricordandomi nuovamente di essere disarmata. Lei lo fa scivolare sul pavimento fino a farlo arrivare alle mie gambe. Lo prendo, passando la lama un paio di volte sulla stoffa dei pantaloni, gesto automatico che sono abituata a fare ogni volta che lo prendo in mano.

Chiudo gli occhi, inizialmente per qualche istante per farli riposare, ma solo quando mi sveglio mi accorgo di essermi addormentata in realtà. Infatti, ad ogni mio singolo movimento per rimettermi seduta, sento i muscoli del corpo dolere. 

Noto che anche gli altri tre si sono lasciati andare e si sono addormentati; alla fine la stanchezza aveva vinto su tutti quanti.

Dentro di me sento una vocina che mi suggerisce di tornare a dormire in modo insistente e sto quasi per cedere alla sua richiesta, quando un forte rumore metallico mi riporta ai miei sensi. Poco lontano da dove siamo seduti cade della neve.

«Oddio, ragazzi, svegliatevi!» passo da un sussurro all’urlare, alzandomi prontamente in piedi. «Il tetto sta cedendo, dannazione, svegliatevi!»

Con urgenza do degli scossoni a Blaine, Elyse e Tracey, che finalmente si svegliano appena in tempo per alzarsi, prima che il tetto venga giù, proprio sopra di noi.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


CAPITOLO 20

 

CALUM

Fisso la figura di Kayla allontanarsi, preso alla sprovvista quando la vedo voltarsi un’ultima volta per sorridere ad Ebony. La guardo preoccupato con le sopracciglia aggrottate; lei sa che non sono d’accordo. Poi, la vedo scomparire dietro alla porta.

Dopo l’ultima notte passata insieme, due giorni fa - precisamente la notte di Natale -, non ci siamo parlati. Ci siamo avvicinati più del solito quella sera e forse anche più del dovuto. Entrambi dovevamo rivedere ciò che stavamo facendo e il miglior modo per farlo era quello di evitarci completamente. 

Le prime volte era davvero sola e pura attrazione fisica verso il suo corpo e anche un bisogno fisico che entrambi avevamo. Poi con l’aumentare delle volte, ho cominciato a scherzare con lei, prenderla in giro per suoi atteggiamenti futili ma senza cattiveria. Ho cominciato a ricercare la sua presenza sempre di più, trovandomi sorprendentemente bene quando ero in sua compagnia. 

Dobbiamo ancora conoscerci bene, non so ancora niente di lei e viceversa, ma mi sono accorto che  i pregiudizi nei suoi confronti sono completamente infondati. All’inizio pensavo fosse stata una spina nel fianco del gruppo: troppo indipendente, troppo autoritaria per far parte di uno. Poi, ho scoperto che aveva le sue ragioni di comportarsi in quel modo e ho scoperto la storia della sua famiglia.

Insieme abbiamo ritrovato sua sorella. Ho vissuto assieme a lei momenti di completa vulnerabilità che pensavo non avrei mai visto da parte sua. Aveva una muraglia costruita davanti a sè, apparentemente così solida, ma in realtà piena di crepe, che ha distrutto completamente una volta essersi abituata all’idea di avere di nuovo sua sorella con sè.

Da quel momento in poi è completamente cambiata. È aperta, disponibile, cerca sempre di dare una mano, ascolta le persone accanto a lei… È come vedere e vivere una persona completamente differente. Stava finalmente vivendo la sua vita, per quanto ciò fosse possibile nelle circostanze.

Quella notte avevo bisogno di sentirla vicina a me più dei soliti minuti di rito, prima che ognuno tornasse a rivestirsi e uscire veloce dalla stanza di fortuna senza una parola. Volevo tenerla stretta a me, riprovare ciò che non sentivo più da tanto tempo.

Forse era davvero oltrepassare quell’accordo taciturno che avevamo fatto o era un oltrepassare una linea invisibile, piazzata quando l’apocalisse iniziò; avere una qualsiasi relazione - affettiva o d’amore - può mettere a rischio la propria vita. Kayla la chiamerebbe debolezza.

Forse ci eravamo avvicinati troppo. Forse quel “troppo” io lo sentivo ancora come poco.

Quel che sapevo - e che so - è che entrambi abbiamo bisogno di tempo e che affrettare le cose rovinerebbe il rapporto che abbiamo creato. Non è perfetto, anzi: entrambi siamo testardi e determinati, ognuno con le sue idee e valori, solo ultimamente abbiamo iniziato a non scontrarci per ogni singola questione.

Kayla sa che non sono d’accordo con le sue uscite e probabilmente sa anche della sfuriata che ho fatto contro Travis quando ho scoperto che era diventata ufficialmente parte del “gruppo spedizioni”. 

Questa volta è diverso, però: sebbene le altre volte che usciva ero in pensiero per lei, questa volta sono completamente teso.

Ho scoperto proprio due giorni fa che la meta sarebbe stata più lontana del solito e che avrebbero esplorato una zona del tutto nuova. Ci sono mille variabili che potrebbero definire il risultato della loro uscita e gran parte di queste sono negative. Forse è anche per questo che l’ho evitata fino a poco fa: sapevo che se avessi provato a farle cambiare idea, avremmo solo finito con il litigare.

«Andiamo, ti faccio vedere come bollire l’acqua» dico ad Ebony, aprendo il palmo per prendere la sua mano tra la mia. 

Farei qualsiasi cosa per tenere la mente occupata in questo momento e l’unico modo per farlo è tenere le mani occupate.

Arrivati nella stanza apposita, troviamo Pauline - una donna alta di trentacinque anni, non ci frequentiamo molto - che si sta occupando di imbottigliare l’acqua già bollita. Le dico che può andare, l’avrei sostituita io adesso. Mi saluta con un cenno del capo e rivolge un sorriso dolce ad Ebony, lasciandoci poi soli nella stanza.

All’interno ci sono tutti i contenitori con la neve che si scioglie in fretta a causa del piccolo fuoco in mezzo alla stanza. Per far uscire il fumo - che comincia a farmi pizzicare gli occhi - c’è aperta una finestrella rettangolare posta vicino al soffitto. 

«Fa caldo» dice Ebony, aprendo la cerniera della felpa troppo grande per il suo piccolo corpo.

«Dopo un po’ ti ci abitui» le rispondo, finendo di versare l’acqua rimasta nella pentola sopra al fuoco, facendo attenzione a non scottarmi con il metallo rovente. Passo la bottiglia alla bimba, facendole segno con l’indice verso l’armadio in cui deve posarla.

«Ti mostro come si fa, poi lo fai tu, d’accordo?»

«Sono pronta!» risponde Ebony entusiasta, dandomi la sua totale attenzione.

Immergo la pentola in un contenitore quasi vuoto, chinandomi per raggiungere il fondo e riempiendo l’utensile di acqua. Lo tiro su verso il mio petto, lo appoggio su un tavolino da lavoro, asciugando le gocce sulle pareti esterne dell’attrezzo, così che non cadano sul fuoco acceso. Poi sposto la pentola sul fuoco, aggiungendone qualche pezzo di cartone per una fiammata iniziale.

«Ora dobbiamo aspettare che bolla» le spiego, sedendomi sullo sgabello di legno vicino al tavolo. «Deve bollire per almeno un minuto e poi la travasiamo nelle bottiglie.»

«E noi cosa facciamo nel frattempo?» mi chiede, facendo uscire il suo labbro inferiore e appoggiando le mani sui fianchi. Proprio come sua sorella ha sempre bisogno di fare qualcosa.

«Hai qualche idea?»

Ebony si prende del tempo per pensare, sedendosi a gambe incrociate per terra. «Mi puoi fare le trecce!» esclama poi, voltandosi sorridente verso di me.

«Non so come si fanno le trecce...» 

«Te lo insegno io. Prendi una ciocca di capelli e la dividi in tre e poi le intrecci tra di loro.»

«Rallenta, rallenta, mi sono già perso.» Ebony si gira, fingendosi scocciata, sbuffando rumorosamente dalla bocca. 

Mi fa cenno di arrivare al suo livello, allora scendo dallo sgabello, inginocchiandomi dietro di lei. Prende una ciocca dei suoi capelli neri e me la appoggia sul palmo della mano. Mi ripete che devo dividerla in tre ulteriori ciocche, quindi eseguo. 

«Adesso le tieni tra le dita, ne prendi due e le intrecci.» Seguo attentamente le sue istruzioni, cercando di evitare di creare nodi tra i suoi capelli morbidi e lunghi. «Hai fatto?» mi chiede frettolosa, se non la conoscessi abbastanza bene mi aspetterei anche un’alzata di occhi.

Svolgo l’azione, facendo attenzione a non far scivolare le ciocche tra le mie dita e senza tirare troppo allo stesso tempo. «Aggiungi la terza ciocca e vai avanti così fino alla fine dei capelli.»

«Lo dici come se fosse una cosa semplice» mi lamento scherzoso ma concentrato. Faccio un po’ di tentativi, arrivando ad intrecciare la terza ciocca nel modo giusto dopo qualche minuto.

Infilo la lingua tra le labbra, probabilmente il mio solito cipiglio tra le sopracciglia ha fatto la sua apparizione, come ogni volta che sono concentrato nel fare qualcosa. Continuo il mio lavoro, tornando indietro un paio di volte perchè intreccio nel modo sbagliato o non stringo troppo l’intreccio.

«Con cosa la chiudo?» le chiedo una volta riuscito ad arrivare alla fine. Mi mostra gli elastici colorati ma sbiaditi al suo polso, passandomene poi uno.

«L’acqua sta bollendo da un po’» mi fa notare, ridacchiando sotti i baffi. 

«Ci ho messo davvero così tanto?» chiedo incredulo, facendo un ultimo giro all’elastico, così che restasse esattamente lì. «Beh, non giudicare.» Ispeziona la treccia per qualche istante prima di alzare i pollici sorridente. Lascio un sospiro di sollievo ironico, passando una mano sulla fronte, enfatizzando l’azione.

«Passami le bottiglie, quelle le so fare più veloce.»

«A te piace Kayla, vero?» Blocco le mie azioni, voltandomi verso Ebony con le sopracciglia alzate.

«Come persona, sì, mi piace» rispondo con un’alzata di spalle. Evito lo sguardo della bambina di quasi nove anni proprio come un bimbo della sua stessa età.

«Intendo come “fidanzata”, cretino» replica pronta, facendo le virgolette con le dita.

«Sei troppo piccola per chiedere certe cose» dico, sviando completamente la domanda e tornando a concentrarmi sull’incanalare l’acqua correttamente nelle bottiglie.

«Quindi ti piace» appura entusiasta, spuntando al mio fianco con un sorriso a trentadue denti.

«Non mi sembra di averlo mai detto» replico ridendo nervosamente. «Ora tocca a te» le ricordo, sperando di cambiare argomento della conversazione.

È davvero troppo presto per poter dire che mi piace Kayla, perchè non è così; come persona? Sì, mi piace per quel poco che sono riuscito a carpire dai suoi gesti, che prendono il posto delle parole, sempre o quasi spicciole tra di noi. 

Sì, mi piace anche fisicamente, altrimenti non ci andrei a letto così frequentemente. Sì, mi è piaciuto avere un momento più intimo con lei quattro notti fa e sì, vorrei che capitasse ancora, il più presto possibile. Ma non posso andare oltre a questo: conosco ancora così poco di lei, solo quei pochi ma drammaticamente importanti avvenimenti che le sono accaduti da quando tutto è iniziato. Vorrei poter conoscere la vera Kayla, quella che è sotterrata dentro di lei, quella che era prima e, una volta scoperta, vorrei essere proprio io quello in grado di farla tornare come era. Non so se me lo permetterebbe, però.

«Secondo me, piaci a Kayla» riprende Ebony, una volta finito di ripetere tutta l’operazione da me mostratagli precedentemente. Quasi mi soffoco con il sorso d’acqua che avevo appena preso. Tossisco un paio di volte prima di ricompormi e incrociare le braccia al petto.

«Io non ne sarei così sicuro» rispondo dopo qualche istante. «Ma non è questo il punto. Forza, vieni qui, devo ancora farti l’altra treccia.»

***
«Fratellino!» Mi volto per vedere Mali avvicinarsi verso di me con una corsetta. «Che combini?» mi chiede curiosa, dandomi un pugno giocoso sulla spalla.

«Non molto al momento» le rispondo, alzando le spalle con nonchalance.

«Sei noioso» ribatte, la sua espressione si trasforma presto in un broncio. «Questa sera sei di turno in mensa con Joey e mamma, comunque.» Annuisco, facendomi un memo mentale per ricordarmi della cosa più tardi. 

Mi gratto la nuca, guardandomi intorno, osservando le persone presenti sulle scalinate e sul campo della palestra andare da una parte all’altra, ognuno verso il suo compito assegnato o per riposarsi.

«Penso di avere capito dove sparisci sempre ultimamente...» inizia dopo qualche istante di silenzio, con aria indagatrice, prendendosi il labbro superiore tra il pollice e l’indice, gesto solito che dimostrava la sua concentrazione.

La guardo con le sopracciglia alzate, pronto a sentire una possibile stupidata che avrebbe detto, magari solo per farmi ridere. 

Essendo la sorella maggiore, in qualche modo si era sempre presa cura di me prima, quando le vite erano ancora normali. Ora, invece, si preoccupa sempre di vedermi sereno, leggero perchè in pensiero per la mia salute mentale; non che avessi mai avuto problemi, ma la situazione contingente poteva essere causa scatenante di molte problematiche a livello mentale. È molto più facile ora perdersi nella propria mente, nei propri pensieri, paure e paranoie, rischiando di cascare rovinosamente in un pozzo di oscurità da quale è quasi impossibile uscire se non si hanno accanto le persone giuste. Nonostante ogni volta mi facesse ridere e alzare gli occhi al cielo allo stesso tempo con le sue battute troppo pessime, sono grato di averla ancora con me e veramente fortunato.

«Sentiamo la tua teoria.»

«La mia non è una teoria, è un dato di fatto» anticipa, facendomi un occhiolino tutto il contrario di impercettibile. «Tu sparisci insieme a Kayla.»

Per poco non mi strozzo con la mia stessa saliva, tossendo troppe volte prima di tornare a riprendere il controllo del mio respiro normalmente.

«Ha! Lo sapevo!» esulta felice, dopo avermi dato qualche pacca sulla schiena per farmi riprendere.

«Veramente non ho nè negato nè appurato.»

«Ci ha già pensato il tuo linguaggio del corpo» ribatte con aria saccente, alzando un paio di volte le sue sopracciglia. «E poi, non credere che non abbia visto i succhiotti sulle sue clavicole. Kayla crede di coprirli bene con la maglietta, ma in realtà fa proprio un pessimo lavoro» confessa ridacchiando e scuotendo la testa, pensando alla ragazza.

«Scusa, ma potrebbe benissimo andare a letto con qualcun altro, non sono l’unico uomo qui dentro-»

«Come se non avessi visto la tensione sessuale che c’è tra di voi ultimamente» risponde con le sopracciglia alzate e le labbra unite e all’infuori. 

«Ti lascerò con il beneficio del dubbio.» Le sorrido perfidamente, alzando le mani con i palmi verso l’alto e alzando le spalle.

***    

Mi sciacquo velocemente il viso con l’acqua, cercando di cancellare magicamente ogni traccia di stanchezza da esso, nonostante tra poco sarei andato a dormire. Prendo l’asciugamano e sfrego sulla pelle, sentendo il materiale ruvido di esso sulla fronte e sulle guance. 

La giornata era arrivata alla fine, il cielo si è già oscurato da un paio di ore, facendo piombare l’intera palestra nel buio della sera invernale, se non per la luce del falò al centro del campo, che riesce ad infiltrarsi anche nei suoi corridoi, non riuscendo ad arrivare a tutte le stanze però.

Questo pomeriggio mi ero occupato dei bambini, prendendo praticamente il posto di Kayla, visto che di solito stavano con lei, così che potesse passare un po’ di tempo con sua sorella finchè poteva. Insieme abbiamo letto un libro di storie, ormai già letto e riletto, ma i bambini non si stancano in fretta delle cose come lo fanno gli adulti.

Dopodichè ho svolto il turno in mensa assieme a mia mamma e a Joey - un uomo di trentadue anni -, abbiamo mangiato tutti e tre prima di cominciare a servire tutti gli altri e poi io e Joey abbiamo pulito la sala, dopo aver obbligato mia madre ad andare a riposarsi, con non poche sue proteste. È sempre stata una donna forte e piena di energie, ma che lo accettasse o meno, anche lei aveva bisogno di un attimo di pausa.

«Oh, proprio te stavo cercando.» Alzo la testa una volta uscito dal bagno, trovandomi davanti il corpo di Wayne con un’espressione preoccupata, pensierosa.

«Va tutto bene, Wayne?» gli chiedo, percependo una brutta sensazione alla bocca del mio stomaco. 

«Non dovrebbero già essere tornati?» chiede, lasciando trasparire tutto il suo timore, incrociando le braccia strette al petto, probabilmente per fermare il movimento nervoso delle sue mani.

Mi prendo il mento tra le dita con una mano e l’altra la passo tra i capelli, l’angoscia che comincia a farsi strada dentro di me.

«Non so, è buio ormai, magari preferiscono tornare domani con la luce del giorno e con qualche ora di riposo addosso» provo titubante, cercando di convincere anche me. 

Avrei mentito se avessi detto che non mi era balenato per la mente che Elyse, Blaine, Tracey e Kayla avrebbero già dovuto far ritorno questo tardo pomeriggio, ma ho cercato di mettere a tacere quella fastidiosa vocina dentro il mio cervello, sapendo che molte volte i piani potevano cambiare. Non era la prima volta che succedeva che un gruppo tornasse un giorno dopo tutto integro, per questo cercavo di non preoccuparmene troppo, nonostante ho sentito il mio stomaco contorcersi più del dovuto ogni volta che pensavo a loro.

«Lo hai già detto a Travis?»

«Sì, sì. Vuole aspettare ancora prima di mandare un gruppo di ricerca.» Annuisco all’informazione ricevuta, trovandomi d’accordo e in disaccordo allo stesso tempo.

D’accordo perchè siamo senza un’auto e la loro destinazione era già lontana con un mezzo, a piedi ci impiegheremmo il doppio del tempo, senza contare che le strade erano completamente innevate. Inoltre, con già quattro persone fuori, bisognava agire con cautela prima di inviare fuori qualcun altro.

In disaccordo perchè se era successo qualcosa, il prima ci muovevamo meglio era; anche se da una parte saremmo potuti cadere nel loro stesso problema, dall’altra forse potevamo aiutarli o, nella peggiore delle ipotesi, riuscire a salvar loro la vita.

«Sì, è meglio così. Vedrai che domani torneranno.» dico infine, dandogli una pacca sulla spalla, cercando di confortarlo.

In silenzio andiamo insieme sulle scalinate. Non ci salutiamo neanche prima di prendere il nostro posto sui diversi gradoni.

Mi sdraio, chiudendo gli occhi non appena la mia testa tocca terra, provando a silenziare i pensieri che fanno a botte nella mia testa e a calmare il mio battito cardiaco e respiro inutilmente.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


CAPITOLO 21
 

KAYLA

Tossisco. Gli occhi ancora chiusi. Un dolore al petto improvviso, dovuto alla caduta improvvisa sul pavimento. Tossisco di nuovo. Le braccia mi coprono ancora la testa.

Faccio fatica a respirare tra la botta, la polvere, lo spavento e tutti i trascorsi di pochi minuti prima.

Ho paura ad aprire gli occhi. Io so di non essere finita sotto al tetto o alla parte di tetto caduta proprio attimi fa: oltre al dolore al petto e alle costole non sento nessun peso schiacciare il mio corpo.

Mi rannicchio, facendo strisciare le ginocchia sul pavimento e tirandomi le cosce al petto, provando ad alzarmi lentamente. Tossisco un’altra volta, ma ora riesco a prendere più aria di prima. Alzo il viso con le mani che mi abbracciano il capo. 

Apro gli occhi: la prima cosa che vedo sono lastre di ferro arrugginito e cemento davanti a me, proprio dove eravamo tutti quanti seduti appena prima. Sopra di qualche metro c’è una lastra che pende, ancora attaccata alla base, ma rotta a metà: infatti, vedo la parte caduta a un metro da me.

«Oh, mio Dio» dico senza fiato, la mia voce un sospiro tra i diversi scricchiolii della struttura ora completamente instabile. «Tracey! Ragazzi!» urlo questa volta, riprendendo parziale controllo della mia voce e del mio corpo, che si alza veloce in preda al panico. I fastidiosi puntini bianchi e neri mi annebbiano per qualche istante la vista.

Sento un colpo di tosse.

Mi butto tra le parti cedute davanti a me e affacciandomi vedo immediatamente il corpo di Blaine intero ed intatto. Ha fatto in tempo a spostarsi, altrimenti ora sarebbe completamente sepolto dalle macerie.

«Blaine!» esclamo, facendo un sospiro di sollievo, gli occhi che pungono per la mescolanza di emozioni dentro di me.

Il ragazzo tossisce ancora un paio di volte, sventolando la mano davanti alla faccia, cercando di far scomparire la polvere davanti a sè. «Sto bene!» risponde poco dopo, alzando il pollice.

Sorpasso un calcinaccio di cemento bianco e passo troppo veloce lo sguardo sulle macerie. In questo modo non riuscirò mai a capire dove sono le altre due donne. 

«Tracey! Elyse!» chiamo, sperando con tutto il cuore in una loro risposta o in un loro qualsiasi suono.

Erano riuscite ad alzarsi, ma non so se siano riuscite a spostarsi in tempo o se siano state abbastanza fortunate da non venire colpite.

«Lì!» esclama Blaine, indicando un punto alla mia destra e fiondandocisi tempestivamente.

Sento una scossa di adrenalina improvvisa percorrermi l’intero corpo mentre lo raggiungo, facendo attenzione a oltrepassare le macerie in modo cauto e cercando di rimanere stabile.

Il corpo di Tracey è steso in una posizione innaturale, ma per fortuna è cosciente. Avvicinandomi vedo che ha un braccio intrappolato in un piccolo e stretto spazio tra i calcinacci di cemento e sopra di esso una trave di metallo, rendedole impossibile tirarlo fuori.

«Tracey, ehi, mi riesci a sentire?» le chiede Blaine, accucciato di fianco a lei, assicurandosi che la donna non sia in uno stato di shock. 

Mi inginocchio dall’altra parte e insieme la mettiamo seduta, i nostri corpi che le fanno da appoggio.

«Sì… sì, ti sento» risponde la donna, inizialmente un po’ confusa. «Il braccio...» Si toglie la polvere dalla faccia con il braccio libero e poi fa segno verso l’altro.

«Adesso lo tiriamo fuori da lì, d’accordo?» cerco di rassicurarla, annuendo.

«Elyse… Dov’è Elyse?» chiede, l’agitazione nella sua voce fa immediatamente capolino, anche se il suo tono di voce è appena più alto di un sussurro.

«Riesci a stare seduta da sola?» le chiede Blaine, la preoccupazione e il panico ben evidente sul suo viso.

La donna annuisce quasi impercettibilmente, appoggiando la mano libera a terra in modo da avere più equilibrio. Sbatte diverse volte le palpebre e tossisce, ma poi mi fa cenno di aiutare Blaine a cercare la ragazza.

Ritorna a fare capolino il respiro accelerato e pesante, come se un macigno mi si fosse posato sul petto, impedendomi di prendere aria correttamente. Devo concentrarmi. Devo, dobbiamo trovarla. Viva.

«Oh, mio Dio!» Sento a malapena l’esclamazione di Blaine a pochi metri di distanza davanti a me, che subito dopo si china velocemente, cadendo sulle ginocchia sulle macerie sotto di lui. «È qui!»

Mi precipito immediatamente da lui, facendo attenzione a non inciampare nei diversi spigoli appuntiti delle lastre e travi di ferro e dei pezzi di cemento. Mi chino al suo fianco, aiutandolo a spostarne un pezzo e buttarlo dietro di noi.

Il volto di Elyse è macchiato dal sangue che scende da una ferita alla testa, ha gli occhi chiusi. Vedo solo fino al suo collo, rendendomi impossibile capire se sta ancora respirando, se è ancora viva.

Blaine ed io continuiamo a spostare le macerie in modo frenetico, anche se faticoso. I muscoli tirano fastidiosi sotto i miei vestiti, ma cerco di non farci caso: c’è in ballo la vita di una persona, non ho tempo di preoccuparmi di questo.

«Ti prego» Blaine sussurra tra sé e sé e scommetto che i suoi occhi sono lucidi, anche se non riesco a vederlo in faccia.

Il ragazzo scende dall’ammasso di macerie e calcinacci e si accovaccia a terra, a fianco della testa di Elyse, inginocchiandosi nel piccolo spazio libero e appoggiando entrambe le mani sul suo viso, chinando la testa di lato per sentire il suo respiro. Poi sposta lo sguardo davanti a sè e la sua espressione cambia completamente.

«Brutta stronza» dice, lasciandosi scappare una risata di sollievo.

A questo punto lo osservo completamente allibita. Che problemi ha?

Copio i suoi movimenti e, una volta lanciato lo sguardo nella sua stessa direzione, lascio andare un sospiro incredulo e liberatorio.

Il corpo di Elyse è completamente intatto: sopra di lei c’è una trave di metallo caduta così perfettamente da aver impedito alle macerie di schiacciarla completamente. La trave si è appoggiata al muro dietro di lei e al pavimento, lasciandole così lo spazio minimo bastante per non averla uccisa.

«Respira, Kayla. Respira!» mi informa Blaine, lasciando libero sfogo alle lacrime che gli rigano il viso - questa volta lacrime di sollievo - e appoggiando la sua fronte su quella di Elyse.

Appoggio le mani sulla mia testa sollevata, finalmente, e mostro il pollice in su a Tracey con un sorriso sulle labbra. La donna si copre la bocca e stringe gli occhi, alzando la testa al cielo e stringendo poi la mano in un pugno vittorioso sopra la sua testa.

La mia attenzione ritorna alla ragazza stesa non appena la sento tossire.

«Piano» le ordina Blaine, aiutandola ad alzare la testa, sicuramente dolorante. 

L’unica ferita che mostra è appunto quella alla testa: deve esserle caduto addosso un calcinaccio e potrebbe avere un commozione cerebrale. Ora ci resta solo capire se sia lieve oppure grave, ma l’importante è che sia viva.

«Che diavolo-?» inizia, la voce sottile e roca. «Smettetela di fare rumore!» dice dopo alcuni attimi, incespicando un po’ nelle sue parole.

«Come ti senti?» le chiedo, dopo aver lanciato un’occhiata veloce a Blaine. C’è completo silenzio, non stiamo facendo alcun rumore.

«Come se fossi appena caduta da un palazzo» risponde mentre tenta di mettersi a sedere, sbattendo le palpebre per riabituarsi alla vista. «Anzi, come se mi fossi appena presa una sbronza pesante.»

Appoggia una mano alla testa, strizzando gli occhi non appena lo fa. 

«Hai provato a uccidermi?» mi chiede una volta aver visto il sangue sulle sue dita.

«Non sarei così teatrale nel farlo» appuro, alzando gli occhi al cielo alla sua accusa. «Adesso vuoi dirmi cosa ti senti?» ripeto con insistenza.

«Mal di testa, sembra che una bomba sia esplosa nelle mie orecchie e giuro che se non la smetti di farmi domande idiote potrei vomitarti addosso.»

«D’accordo, sta bene. Dobbiamo solo metterti qualcosa su quella ferita, non ti si può proprio vedere così» interviene Blaine, puntando sull’ironico della sua ultima affermazione e asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.

«Ha parlato Miss Universo.»

«Dai, ti tiriamo fuori di lì.» Sbatto le mani sulle cosce, provando a far riprendere la circolazione e a far arrivare abbastanza sangue.

«Sarebbe anche ora.»

Metto una mano sotto la sua ascella e l’altra sulla sua spalla, Blaine mi copia nei movimenti. Una volta contato fino a tre, la tiriamo fuori assieme, tirando il suo corpo nel modo più delicato possibile, anche se la vedo fare delle smorfie di dolore con la coda dell’occhio.

Una volta messa seduta con il busto completamente fuori, Blaine la prende da sotto le ascelle e la aiuta a tirarsi su in piedi, stando sempre pronto dietro di lei nel caso perdesse l’equilibrio.

Una volta essermi assicurata che il ragazzo ce la facesse da solo, ritorno da Tracey: ora dobbiamo occuparci di tirare fuori il suo braccio da tutto quel macello.

«Tracey, ora ti libero da qui sotto. Devi dirmi se ti fa male quando sposto i pezzi, okay?» La donna annuisce subito alla mia richiesta e, con sguardo determinato, mi fa cenno di iniziare.

Con qualche intoppo e rallentamento calcolato alla missione - sia per i suoi giusti lamenti, sia per il mio sforzo fisico -, riesco a togliere abbastanza detriti per riuscire a farle muovere il braccio e toglierlo da lì sotto.

La aiuto nell’azione, provando ad essere il più delicata possibile, tentando di non aggiungere ulteriore dolore a quello che già prova e alla fine ce la facciamo.

«Credo sia rotto» dice dopo qualche secondo di silenzio, portandosi l’arto vicino al petto, provando a piegarlo ma fallendo.

«Dovrei avere qualcosa per fissarlo nello zaino...» inizio, interrompendomi subito dopo. Gli zaini. Devono essere finiti sotto alle macerie. «Dannazione!» impreco frustrata, passandomi veloce una mano sui capelli.

Non ci sarebbe stato di modo di provare a recuperarli. Avremmo perso troppo tempo e inoltre, saremmo stati solo io e Blaine in grado di alzare il peso di alcune macerie, ma delle lastre di metallo non se ne parlava.

Per non parlare poi del fatto che tra poche ore sarebbe calata la sera e con lei il freddo gelido che, se prima era controllato e gestibile dalle mura e dal tetto dell’edificio, tra poco no. Sarebbe insostenibile passare la notte qui dentro se dovesse rimettersi a nevicare, per non parlare della neve che gravava sul tetto, ora sparsa per il pavimento e che ha già cominciato a sciogliersi.

Dobbiamo spostarci, il problema è: dove?

E soprattutto, come? Siamo rimasti senza cibo, acqua, senza la cartina per poter orientarci in questa nuova zona. Elyse ha quello che sembra un lieve trauma cranico e Tracey ha un braccio rotto. Io ho ancora addosso il coltello - fortunatamente -, ma gli altri?

Eravamo appena riusciti a sfuggire ad un’orda enorme di Morti, solo per ritrovarci in una situazione anche peggiore appena minuti dopo.

E io non so cosa fare.

«Taglia la mia manica, useremo quella» Tracey si è già tolta il suo giubbotto mentre io stavo pensando.

La guardo incerta per qualche istante, pesando le diverse possibilità, ma annuendo alla fine. «Per il dolore non possiamo fare niente, mi dispiace.»

«Credo di riuscire a sopportarlo.» Sfila la manica del suo maglione dal braccio rotto con un po’ di fatica, facendo smorfie ogni volta che muove l’arto in questione.

«Attenta» suggerisce Blaine a Elyse, che vedo avvicinarsi con la coda dell’occhio, l’uno cercando di mantenere in piedi e in equilibrio l’altra.

Sfilo il coltello dai pantaloni e passo la lama più e più volte sulla stoffa del maglione, riuscendo lentamente a tagliarla. Una volta staccata, Tracey si rimette il giubbotto e sistema il braccio infortunato piegato sul petto, con la mano sulla spalla opposta. Posiziono la manica sotto al suo braccio e gliela lego al collo, facendo più nodi in modo che tenga.

«Qualcuno ha qualche idea sul cosa fare ora?» chiede Elyse, guardandosi attorno e prendendo atto della situazione.

«Stai bene?» le chiede Tracey, avvicinandosi preoccupata alla ragazza con una mano alzata verso il suo viso per spostarle una ciocca di capelli impregnata di sangue dal viso. 

«Non sono morta, quindi direi che sto abbastanza bene.»

«Gli zaini sono andati, vero?» chiede Blaine sconsolato, già conoscendo la risposta. La sua espressione si infrange non appena mi vede annuire.

«Quindi, in pratica, non sono morta sotterrata per morire di fame, sete e assideramento. Ottimo!» esclama Elyse con un tono più che sarcastico. Per quanto mi costi darle ragione, questo sarà esattamente ciò che succederà se non decidiamo immediatamente cosa fare.

«Okay, allora: non possiamo tornare indietro-»

«Dicci qualcosa che già non sappiamo, genio» mi interrompe bruscamente la ragazza, osservandomi con le sopracciglia alzate.

Serro la mascella irritata dalle suo solite frecciatine, tentando in tutto e per tutto di mantenere la calma. So che lo fa apposta e so che in realtà è solo spaventata della situazione e se le rispondessi darei inizio a una discussione completamente inutile.

«La cartina è qui sotto da qualche parte, così come i nostri zaini. Dobbiamo uscire di qui al più presto prima che anche il tetto rimanente decida di cadere sulle nostre teste. Come siamo messi ad armi?» Mostro il mio coltello, aspettando con speranza di vedere le loro pistole ma, purtroppo, solo Elyse lo fa. «Fantastico...»

«Ragazzi, se la mente non mi gioca brutti scherzi, dovrebbe esserci una via secondaria per tornare al campo, ma-»

«Fammi indovinare? È più lunga» interviene Blaine, interrompendo Tracey e aprendo le braccia amareggiato.

«Non è l’unico problema» riprende la donna, sedendosi poi su un pezzo di cemento. «Abbiamo una sola pistola e un solo coltello. Io non ho una buona mira con il braccio destro e tu, Elyse, non mi fido a darti un’arma con la botta che hai preso.» La ragazza nominata prova a contestare, ma Tracey la blocca con uno sguardo severo,  continuando a parlare.

«In poche parole, siamo fottuti» conclude Blaine, lasciando cadere le braccia ai suoi fianchi.

Tracey si lascia andare un sospiro frustrato, pizzicandosi il labbro inferiore con pollice e indice in cerca di una soluzione ragionevole. Il punto è che non ce ne sono: non c’è alcuna certezza che uscendo da qui o rimanendoci potremo riuscire a sopravvivere, ma non ho intenzione di starmene seduta un attimo di più senza fare assolutamente niente.

Non ho rischiato la mia vita per niente. Avremmo trovato una soluzione al più presto e tutti saremmo tornati sani e salvi al campo. Da Ebony. Non sono disposta a lasciarla andare per una seconda volta e non sono disposta ad avere altre morti sulla coscienza.

«Ce ne andiamo da qui.» Mi passo le mani sulle gambe, ravvivando la circolazione e risvegliando i muscoli. «Adesso.» ordino, facendo ammutolire ogni prova di contestazione.

Mi avvio verso il portone da cui eravamo entrati pochi minuti prima, evitando calcinacci appuntiti. So che questa potrebbe essere una decisione ancora più avventata di quella di Tracey di scendere dalla macchina poco fa, ma non abbiamo altra scelta. 

So che potrei guidarci direttamente verso la morte non appena mettiamo piede fuori dal fabbricato, ma so anche che rimanere qui dentro a sperare in un segno divino ci porterà dritti alla morte in ogni caso.

«Spero tu sappia ciò che stai facendo.» Sento Tracey sussurrare poco lontano da me, scuotendo leggermente il capo.

Sì, lo spero anche io.

***

Siamo stati abbastanza fortunati da trovare un altro di quei distributori d’acqua appena ci siamo addentrati nei vicoli di quel nuovo paese. Due di loro trovati precedentemente erano relativamente rotto e bloccato. 

Elyse deve camminare lentamente rispetto al suo solito ritmo ed ha constantemente il braccio di Blaine allacciato in vita, il quale si preoccupa di chiederle ogni cinquecento metri di come lei stia e se ce la faccia a continuare o abbia bisogno di una pausa. Si è occupato anche di prenderle la pistola e infilarla nella cintura dei suoi pantaloni, in modo che riesca a tirarla fuori facilmente se qualcosa dovesse succedere e allo stesso tempo non rischi di perderla.

Tracey è, invece, al mio fianco. Il braccio destro sostiene il sinistro nella fasciatura fai-da-te allacciata al suo collo in modo piuttosto precario. Lei mi guida, cercando di ricordarsi il più possibile le vie della cartina. Se solo avessimo un pezzo di carta e una penna, almeno potrebbe fare una mappa abbozzata di un possibile percorso.

«Dobbiamo trovare un rifugio» comincia Tracey, sfiorandomi la spalla per catturare la mia attenzione, facendomi irrigidire i muscoli al contatto improvviso. «Tra poco sarà buio e la temperatura andrà sotto zero. Non possiamo rimanere all’aperto e vagare alla cieca.» 

Annuisco, rimanendo concentrata però sulla strada davanti a me. «D’accordo, Blaine dobbiamo trovare un posto sicuro, guardatevi intorno» ordino, girandomi indietro.

 Blaine fa un cenno positivo con la testa. Sposto il mio sguardo preoccupato su Elyse, rivolgendole un pollice all’insù come per chiederle se ce la fa a camminare per ancora un po’, ma per sua risposta ricevo il suo dito medio alzato davanti al suo viso. Mi volto proseguendo per il percorso, ignorando il suo gesto.

Dopo alcuni minuti, Blaine richiama la mia attenzione verso uno dei tanti palazzi ricoperti dall’edera disposti in fila sulla via che abbiamo appena imboccato. 

«Che ne dite?» chiede, raggiungendo me e Tracey e parlando sottovoce. A qualche metro da noi ci sono un paio di Morti e non vogliamo attirare la loro attenzione. Nonostante siano, appunto, solo due, vorrei evitare ogni tipo di intralcio, che potrebbe verificarsi in un totale disastro data la nostra recente fortuna degli avvenimenti.

«Avviciniamoci» rispondo, tirando fuori il coltello e facendolo roteare nella mia mano nervosamente. «Voi rimanete qui, io vado a controllare. Senza obiezioni.» Faccio cenno ai tre di mantenere gli occhi aperti e poi entro nel vialetto che porta dritto dritto all’ingresso del palazzo.

Questa giornata mi sembra infinita. Voglio solo avere un po’ di tempo per riposarmi e non pensare a niente. Mentre mi avvicino sento il mio stomaco contorcersi, un po’ per la fame e un po’ per la costante tensione di queste ore. 

Noto che la porta doveva aprirsi con l’elettricità, notando un interruttore proprio alla sua sinistra. Sospiro frustrata, osservando dall’alto al basso la porta davanti a me, cercando un possibile modo per aprirla, senza successo. Nonostante l’idea che mi balena per la testa sia piuttosto stupida, provo lo stesso a premere l’interruttore accanto alla porta: il massimo che può fare è clic, non può di certo far aprire una botola mortale sotto ai miei piedi.

Con grande sorpresa, invece, la porta si apre.

C’è ancora l’elettricità. E per quanto questo possa sorprendermi allo stesso tempo mi sconcerta. Com’è possibile che sia rimasta l’elettricità in questo luogo completamente abbandonato a sè stesso? O almeno, questo è quello che sembra.

Lancio uno sguardo confuso ai miei compagni, accorgendomi che mi stanno guardando le spalle da quando mi sono addentrata qui dentro. Con un cenno della mano mostro loro che sto per entrare.

Grazie alle numerose finestre sulle infinite scale, riesco a scorgere i dettagli fondamentali della struttura. Il mio sguardo guizza veloce da una parte all’altra del lungo e largo corridoio che mi si presenta davanti. Scelgo di proseguire a sinistra, dato che è la parte più illuminata. C’è una porta a pochi metri dall’ingresso e credo che sia l’abitazione del custode, quindi senza troppi indugi ruoto la maniglia qualche volta e spingo sulla porta per aprirla, riuscendoci. Purtroppo, questa volta l’unica luce presente è quella che viene da fuori della porta: evidentemente l’ultima persona che è stata qui dentro deve aver bloccato tutte le finestre o qualsiasi fonte di luce, probabilmente per precauzione dai Morti, dato che è al piano terra. Orientarsi qui dentro sarà difficile.

Stringo la presa sul coltello, fermandomi dal farlo roteare ancora una volta con la paura che possa scivolarmi dalla mano e che non riesca più a ritrovarlo. Devo essere prudente e perdere così una delle due uniche armi che ci sono rimaste sicuramente non lo è.

Apro completamente la porta, lasciando entrare un fascio di luce che ricopre l’area davanti a me di un’aura quasi malata per colpa del colore giallognolo che proviene dal sole in tramonto. Da questo capisco anche che non abbiamo più molto tempo. Cerco sulla parete un interruttore: se la porta si è aperta prima, forse riesco anche ad accendere le luci. Tasto il muro a vuoto per qualche istante, strizzando gli occhi e avvicinandomi con il viso alla parete e dopo alcuni secondi trovo l’interruttore e lo schiaccio. 

Un tremolio di luce si fa spazio nell’oscurità e negli istanti che proseguono finalmente riesco a vedere in modo nitido il salotto. È arredato con mobili scuri, i quali contribuiscono all’aria tetra e quasi sinistra dell’ambiente, ma per il resto non vedo alcun pericolo. Niente Morti, niente persone, niente animali. 

«Ragazzi, è sicuro.» Avverto gli altri, uscita velocemente dall’edificio per rassicurarli. «Potete entrare e sistemarvi.» Nei loro sguardi c’è sollievo misto a spossatezza.

Ritorno dentro, facendomi un promemoria mentale di fare un giro delle altre stanze dell’appartamento per tenerle chiuse. Non abbiamo tempo di rovistare - nonostante trovare qualcosa da mettere sotto ai denti sarebbe davvero comodo ora - e nel caso ci sia qualche Morto in quelle stanze, almeno siamo sicuri che rimanga lì.

«Non pensavo esistesse ancora qualche topaia con l’elettricità» esordisce Elyse una volta entrati tutti quanti dentro all’appartamento.

Chiudo la porta alle mie spalle, tirando il chiavistello appena sopra la maniglia. Degli interrogativi mi balenano in testa perchè mi sembra troppo nuovo. E poi, perchè mettere un chiavistello quando appena sotto c’è la serratura? Non credo ai tempi ci fossero grandi problemi di sicurezza o forse il mio cervello è troppo stanco e io mi sto preoccupando inutilmente.

«Già, chi l’avrebbe mai detto!» esclamo sarcastica, piegando la testa di lato. «Per una volta la fortuna ha girato dalla nostra parte.»

Tracey si sistema con la schiena appoggiata alla base del piccolo e malmesso divano al lato destro del salotto. «Evitiamo di parlare di fortuna» dice, quasi ammonendomi, cominciando a sciogliere il nodo della fascia al collo.

«Ti fa molto male?» le chiedo, spostandomi dalla porta d’ingresso e raggiungendola. «Magari posso cercare se c’è qualche antidolorifico qua in giro.»

«No, no. Non ti preoccupare, non è niente che non possa gestire» mi rassicura la donna, rivolgendomi un sorriso tirato. «E poi, dovremmo riposarci tutti quanti adesso. Non voglio che tu caschi in qualche trappola.»

La guardo per qualche istante incerta prima di annuire. «Vado a bloccare le porte delle altre stanze.»

«Ti aiuto.» Blaine si alza subito dal suo posto - ormai fisso - vicino ad Elyse. Gli faccio un cenno negativo con la mano.

«No, Blaine. Piuttosto occupati della sua testa» gli suggerisco, indicando la ferita di Elyse. Non avevamo avuto molto tempo per ripulirle il viso dal sangue ormai secco e nemmeno di medicarla, soprattutto perchè non avevamo i mezzi. Non che ora ce li abbiamo, ma almeno ha un po’ di tempo e tranquillità per farsi venire in mente qualcosa.

Il ragazzo annuisce e credo che stavolta anche Elyse sia troppo stanca per ribattere qualsiasi cosa. Allora, dopo aver fatto un cenno con la testa a Tracey, mi avvio per il corto corridoio per bloccare le porte.

Una volta averle bloccate tutte senza troppi intoppi - il problema era solo trovare qualcosa con cui bloccarle, ma non è stato troppo difficile, grazie alle numerose sedie nel corridoio -, ritorno in salotto, notando con piacere che tutti e tre sono già crollati in un sonno quasi angelico. Non ci metto molto a prendere posto sul tappeto impolverato e ad addormentarmi.

***
«Kayla.» Strizzo gli occhi prima di aprirli lentamente. La voce di Tracey mi risveglia e assieme a me, anche tutti i miei muscoli dolenti. Faccio una smorfia, passandomi una mano sulla spalla e piegando il collo a destra e sinistra per scaldare la cervicale.

«Come state?» chiedo a Tracey ed Elyse subito dopo aver preso un sorso d’acqua.

«Potrei stare meglio» mi risponde la prima, alle prese con la fasciatura. Annuisco all’informazione e sposto il mio sguardo su Elyse, che mi porge un pollice all’insù.

«Dovremmo rimetterci in marcia...» dice Blaine, spuntando dal corridoio. Lo guardo sorpresa e preoccupata. «Non ti preoccupare, il bagno è sicuro» mi rassicura, infatti, alcuni secondi dopo.

«Buono a sapersi.» Elyse si alza dal divano, provando a scacciare dal suo viso la stanchezza con una mano.

Dopo esserci sistemati tutti quanti - e dopo aver ignorato il nostro stomaco vuoto e il mal di testa causato dalla fame -, Blaine apre la porta, seguito da Tracey, Elyse ed infine io, che me la chiudo alle spalle. Alcuni gesti sono difficili da far andare via.        

Guardo distratta il pavimento mentre ci avviamo verso l’uscita del palazzo, preparandomi mentalmente ad affrontare un altro giorno di marcia. Per questo, non mi accorgo che le tre persone davanti a me si sono fermate bruscamente e quasi gli finisco addosso, confusa, prima di sentire una voce maschile, profonda e roca.

«E voi chi diavolo siete?»

Sento quasi la mia anima lasciare il mio corpo, notando che davanti a noi ci sono cinque persone fin troppo armate che ci puntano addosso i loro fucili.

«Ehi, ascolta, non abbiamo cattive intenzioni-»

«Ti ho per caso dato il permesso di parlare?» Blaine viene interrotto bruscamente dall’uomo che ci ha colti di sorpresa. Ha i capelli castani e lunghi, sporchi e ondulati. Ha una brutta cicatrice sulla mano che tiene la canna del fucile puntata dritta verso di noi. Lanciando un’occhiata veloce a Blaine lo vedo deglutire inquieto.

Oltre a lui, davanti a noi ci sono tre uomini e una donna. Sembra quasi che dalla loro posizioni abbiamo studiato come schierarsi davanti a noi: l’uomo con la cicatrice è nel mezzo, avanti di qualche passo rispetto ai suoi compagni. Subito dietro di lui ci sono gli altri, due ad ogni suo lato. Se le circostanze fossero diverse, forse troverei la cosa quasi comica.

Seguono attimi interminabili di silenzio dopo la sua ultima domanda retorica, riempiti solo dal battito accelerato del mio cuore. La tensione è fin troppo palpabile.

«Tu, con i capelli rossi. Tu puoi parlare» interviene di nuovo l’uomo con la cicatrice.

Elyse gli porge un sorrisino accomodante e poi gli mostra il dito medio. Tracey impreca sottovoce, richiamando Elyse per il suo comportamento.

Con nostra estrema sorpresa, invece che lo scoppio di un proiettile sentiamo una forte risata, seguita poi da quella degli altri “scagnozzi” del tipo.

«Sei simpatica, sai?» dice l’uomo, facendo qualche passo avanti. Poi, con un movimento repentino, fa passare il fucile da una mano all’altra e lo punta dritto al petto di Elyse, il dito pronto sul grilletto.

«Ehi, ehi, non c’è bisogno di tutto questo, okay?» interviene prontamente Tracey, alzando subito la mano libera verso l’alto. «Siamo solo venuti qui per riposarci. Non siamo armati. Vogliamo solo andarcene.»

L’uomo lancia uno sguardo dietro di sè ai suoi compagni. La donna gli fa un cenno con la testa. «Chi c’è oltre a voi?» chiede dopo qualche istante, il fucile ancora davanti al petto della ragazza.

«Nessuno. Siamo solo noi e, come puoi vedere, non siamo messi nelle condizioni migliori» risponde Tracey con un tono di voce fermo e sicuro di sè. «Vogliamo solo andare via e non faremo ritorno nel vostro territorio.» riprende, soppesando con cura le sue parole, cercando di convincerli.

«Ragazzi, insomma, cos’è tutto questo chiasso?! Lo sapete che non voglio essere svegliato prima delle-» Un’altra voce maschile si fa spazio nella stanza, ma nessuno dei quattro presenti davanti a noi sta parlando. Ha un qualcosa di familiare, mi sembra di averla già sentita, il che non mi tranquillizza affatto.

L’uomo con la cicatrice abbassa immediatamente la sua arma ed abbassa la testa, spostandosi di lato per fare spazio al volto della voce. 

Lo sguardo scioccato che si presenta sulle nostre facce non appena questo viene allo scoperto non può che avere una nota terrorizzata. «Come… Come fai ad essere vivo?»

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


CAPITOLO 22

 

CALUM
 

Non ho chiuso occhio.

Sono ormai le prime ore del giorno, precisamente le cinque passate e le ore precedenti le ho trascorse girandomi e rigirandomi nel mio “letto”, provando persino a contare le pecore per disperazione, tutto pur di distogliere la mia mente da ogni pensiero che formulava.

Quei pochi minuti in cui sono riuscito ad addormentarmi erano peggiori di quelli in cui ero sveglio, perchè un incubo arrivava presto a prendere forma nella mia mente o perchè mi svegliavo con il respiro e il battito cardiaco accelerato per nessun motivo apparente.

Sono abituato ad avere incubi, ormai sono fedeli compagni delle mie dormite notturne da quando tutto questo casino è cominciato. Quello che mi spaventa è che questa volta riguardano persone che sono ancora vive: Elyse, Blaine, Tracey. Kayla.

Da quando, la sera prima, Wayne mi aveva messo la pulce nell’orecchio del fatto che sarebbero già dovuti essere rientrati, non sono riuscito a pensare ad altro, nonostante le molteplici prove. In qualche modo, i miei pensieri finivano dritti dritti verso quel baratro oscuro di paranoie, ansie e paure che potrebbero essere non del tutto infondate, purtroppo.

Da una parte, cerco, provo ad essere ottimista e tento di convincermi che ci deve essere un buon motivo se non sono ancora tornati, che non prevede la loro morte. Dall’altro, invece, quello è il primo pensiero.

Conosco Elyse da oltre tre anni: è arrivata nel gruppo di Travis sei mesi dopo lo scoppio della fine, con un carattere impetuoso fin dall’inizio. È una di quelle persone che sarebbero in grado di affrontare qualsiasi cosa si ponga davanti al loro cammino. 

E così è stato: è stata una figura vitale nella sopravvivenza del nostro gruppo, soprattutto per i primi due anni, dove nessuno ancora sapeva esattamente cosa fare o come organizzarsi. Eravamo semplicemente degli sconosciuti - tranne per poche facce note - raggruppati in uno spazio comune. Non avevamo ancora un senso di comunità o di appartenenza.

Elyse è sempre stata in prima fila nella lotta alla sopravvivenza: era sempre disponibile ad uscire, lei diceva perchè in quel modo poteva “sfogare la rabbia e l’odio che provo verso il mondo intero”. Avrebbe potuto uccidere i Morti anche a mani nude se voleva. Ha quel fuoco dentro che è rimasto veramente a poche persone ora.

Me la ricordo, appena arrivata, con i capelli rossi che le sorpassavano le spalle in lunghezza, le lentiggini cosparse sul suo naso e le sue guance, le labbra sottili ma dalle quali uscivano già allora parole taglienti e coraggiose. 

Non appena aveva preso un po’ di confidenza con le poche persone iniziali del gruppo, mi ricordo che aveva preso un coltello affilato, lo aveva messo in mano ad una donna che precedentemente faceva la parrucchiera e le aveva detto di fare un taglio netto. La donna, con gli occhi spalancati e l’espressione un misto tra sorpresa, scioccata e timorosa, le aveva tagliato i capelli fin sopra alle orecchie. 

Elyse odia avere i capelli lunghi e sta cercando da una vita un rasoio a pile per rasarli a zero, ma senza esito. Quindi continua a farseli tagliare con il coltello.

Il prossimo anno fa i ventiquattro anni, proprio come Wayne, solo che i due non vanno proprio d’accordo: Elyse crede che il ragazzo sia troppo gentile e premuroso per riuscire a sopravvivere a questo mondo.

Il rispetto è uno dei suoi valori in cui più crede e questo lo mostra soprattutto con Travis e Tracey. Li guarda quasi con ammirazione, uno sguardo che non avrei mai pensato di vedere sui suoi occhi color miele.

Beh, c’è poco da dire su di loro: Travis e Tracey sono per noi più giovani come dei genitori secondari - per chi è abbastanza fortunato da averli ancora con sè -. Hanno accolto tutti quanti a braccia aperte, ogni persona è la benvenuta: nessuno dovrebbe subire l’apocalisse da solo e ognuno può portare un potenziale grandioso al gruppo.

Ho conosciuto Tracey - la moglie di Travis - qualche settimana dopo aver incontrato Travis. Lei è una donna intelligente, concreta, le questioni pratiche sono il suo forte. È gentile ma diretta: se qualcosa non va bene, lo dice senza problemi. Del resto, ne potrebbe pagare l’intero gruppo.

Anche se non sembra, tutti noi siamo la sua famiglia, ci vuole bene come se fossimo parte dei suoi parenti o amici più stretti. Voleva avere dei figli assieme a Travis ma, sfortunatamente, i fatti l’hanno battuta sul tempo, impedendole di avere un luogo sicuro in cui crescere la propria famiglia. Per questo è particolarmente affettuosa con Margaret, Matthew e Dylan, proprio come se fossero figli adottivi.

Mi metto seduto, appoggiando la schiena al gradone dietro di me, facendo attenzione a non urtare il braccio della persona stesaci sopra e arrendendomi all’idea che non sarei riuscito in ogni caso a riprendere sonno. Mi sfrego la faccia con i palmi delle mani. Tiro le ginocchia vicino al petto, appoggiandoci poi la fronte e prendendomi la testa tra le mani.

Quell’idiota di Blaine, invece, è un totale personaggio: non siamo andati subito d’accordo, ci sono volute un po’ di settimane per conoscerci, capire che entrambi stavamo solo cercando di fare il possibile per sopravvivere, poi infine abbiamo capito che eravamo soltanto due ragazzi spaventati per ciò che ci stava succedendo attorno.

Da quel momento in poi siamo diventati amici, ci siamo lasciati andare, abbiamo appreso uno cose dell’altro. Lui era sempre presente per una buona risata, per alleggerire l’atmosfera pesante che a volte si creava nel gruppo.  Sembra superficiale molte volte, ma in realtà cerca solo di nascondere quel suo lato preoccupato e profondo che ha dentro di sé. 

«Calum.» Sento il mio braccio sinistro venire punzecchiato un paio di volte, prima che io volti la testa per intravedere la figura di Ebony in ginocchio al mio fianco, che mi fa tornare in modo violento alla realtà.

«Ehi, che ci fai già sveglia?» le chiedo sottovoce, avvicinandomi quel che basta per distinguere nitidamente i lineamenti del suo viso, illuminato solo per metà e facendo risaltare i suoi occhi chiari.

«Non riesco a dormire» risponde, incespicando un po’ nelle parole.

«Come mai?»

«Ho fatto un brutto sogno.»

«Vuoi parlarne?» Scuote la testa, passando poi i pugni sugli occhi, sfregandoli. «Vieni qui, magari riesci a riaddormentarti, okay?» propongo, ritornando alla posizione precedente, appoggiato al muro.

Ebony si avvicina al mio fianco senza farselo ripetere due volte e appoggia la sua testa sul mio braccio, perchè troppo bassa per arrivare alla mia spalla. «Come mai Kaykay non è ancora tornata?» 

Stringo la mascella e mando giù la saliva, cercando di far sparire il groppo appena creatomisi in gola. «Non lo so, ma non preoccuparti, tornerà. È tosta, sa cosa fare là fuori. Ce la farà, tranquilla.»

«Lo so, è mia sorella, so che ce la farà. Tu non preoccuparti» risponde, enfatizzando il “tu”, nonostante il suo tono di voce strascicante. 

Guardo fisso davanti a me, non dandole una risposta. Ha ragione, sono io quello che si deve calmare e smetterla di preoccuparsi. Sarebbero tornati, tutti quanti.

Dopo qualche minuto, vedo che Ebony si è addormentata. I suoi capelli neri scendono disordinati sulle sue spalle e sulla sua schiena, ricordandomi quelli di sua sorella Kayla; una delle differenze immediate che si può cogliere, è il colore degli occhi: quelli della più giovane chiari di un verde tendente all’azzurro, mentre quelli della più adulta di un marrone scuro e profondo, schiariti soltanto dalla luce del sole.

Le differenze caratteriali, invece, sono infinite: se non fosse per la loro somiglianza fisica, non si potrebbe dire che sono sorelle. Ebony è estroversa, disponibile, a volte persino solare, per il poco tempo in cui è da noi. Forse è causa della giovane età, forse perchè è riuscita a vivere con i suoi genitori parte della catastrofe, forse è il suo meccanismo di difesa o forse è l’aver ritrovato sua sorella. Sono sicuro che dentro di lei, nel suo incoscio probabilmente, sta cercando di processare tutto quanto: la morte dei suoi genitori, il mondo presente, l’aver ritrovato la sorella creduta morta e la morte del fratello. 

Non avevo fatto domande sul loro fratello: me ne ero ricordato qualche ora dopo aver trovato Ebony, che Kayla mi aveva raccontato di avere anche un fratello più piccolo. Sarà sicuramente morto, purtroppo. Non volevo rabbuiare un momento per loro felice tirando in ballo il bambino.

Kayla, invece, è chiusa, sta sulle sue, permalosa e sulla difensiva. Solo ultimamente ha cominciato ad aprirsi - a modo suo - un po’ con tutti. So che ha creato un legame stretto con Mali e con Wayne, che ormai sono praticamente amici e ne sono felice. Dopo tutto quel tempo trascorso da sola in mezzo all’inferno, aveva bisogno di qualcuno che finalmente si prendesse cura di lei dal punto di vista mentale e che la facesse aprire, le facesse esternare i suoi pensieri.

Il suo, nostro rapporto invece, è un po’ diverso. Dobbiamo ancora chiarirci su questo: non credo voglia metterci un’etichetta, probabilmente la farebbe sentire incatenata a un qualcosa che per lei non può esistere. Ma al momento non mi importa. Al momento ho bisogno di saperla al sicuro e, soprattutto, viva.

Qualche settimana fa non avrei mai pensato che proprio lei - la ragazza che prima non capivo e quindi non riuscivo a sopportare - sarebbe diventata una persona importante per me. Certo, mi sarei comunque preoccupato per lei anche se non ci fossimo mai parlati, del resto è comunque una persona in carne ed ossa, con ancora un cervello che funziona e che si è presa cura del nostro gruppo, facendo parte delle uscite e salvando alcuni di noi là fuori - me compreso.

Ma qualcosa è cambiato, qualcosa è scattato. Amore? Decisamente troppo presto e troppo avventato come termine. Qualcosa si sta muovendo dentro di me, ma non sono ancora pronto a dargli un nome. Le circostanze, le responsabilità… 

Sfrego gli occhi con pollice ed indice del braccio libero, cercando di fermare i pensieri continui nella mia testa, che ormai mi hanno fatto compagnia per troppo tempo. Vorrei poter fare qualche passo, magari prendere anche una boccata d’aria fredda, ma non voglio svegliare la bimba appoggiata su di me, che finalmente sta riposando pacificamente.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


CAPITOLO 23
 

KAYLA
 

«Come… Come fai ad essere vivo?» Le parole mi escono incredule dalla bocca, quasi automaticamente.

«Tesoro, non sai quanta forza ti dia lottare per la tua vita, per quanto schifo faccia.» L’uomo con la cicatrice sghignazza alle sue parole. «È un piacere rivederti.» Questa volta a mostrare un ghigno è la stessa spregevole persona che sta parlando.

«Non è possibile… Ti abbiamo rinchiuso là dentro- ci saranno stati una decina di Vaganti» Blaine ha lo stesso guardo confuso che ho io. Elyse e Tracey, invece, sembrano quasi terrorizzate, paralizzate.

Jordan fa altri due passi avanti. «Ah, sì. In effetti, c'è stato qualche intoppo...» dice, mostrandoci il suo braccio sinistro, o almeno ciò che ne rimane: dalla spalla fino al gomito. C'è una fasciatura pulita sul gomito. Deve esserselo fatto tagliare via, sicuramente era stato morso e l'unico modo per non far arrivare l'infezione - virus, malattia o qualsiasi cosa fosse - al cervello era tagliarlo prima che fosse entrata in circolo.

Sono passati mesi. Tutto quanto mi sembra così surreale.

«Loro chi sono?» chiede Elyse, riprendendosi dallo shock iniziale piuttosto velocemente.

«Loro sono i miei nuovi... amici» risponde senza esitazioni Jordan, aprendo le mani in modo teatrale.

«Oh, intendi i tuoi servi?» ribatte Elyse, lanciando un occhiolino sarcastico all'uomo con la cicatrice.

Questo riprende subito il suo fucile e lo punta di nuovo addosso al corpo della ragazza, furioso e pronto a farla fuori.

«Oh, suvvia, Karl, sta solo cercando di irritarti» lo riprende Jordan, posando una mano sulla canna del fucile e facendo peso su di essa per fargliela abbassare. «Comunque, per quanto questa rimpatriata sia stata piacevole, credo sia ora di farla finita una volta per tutte.»

Prima che possa capire ciò che sta succedendo attorno a me, sento un colpo di pistola e un proiettile tagliare l'aria. Lancio occhiate rapide a destra e a sinistra per capire se qualcuno è rimasto ferito, ma Jordan ricattura la mia attenzione prendendo l'arma all'uomo con la cicatrice con un movimento fluido e rapido. Carica l'arma e si avvicina a falcate veloci verso il mio corpo, la canna del fucile a pochi millimetri dalla mia spalla. 

«Le tue ultime parole?» mi chiede ammiccando e posizionando lentamente e in modo teatrale l'indice sul grilletto.

«Va' all'inferno!» dico tra i denti, cogliendo l'attimo di distrazione dell'uomo davanti a me per fargli cadere l'arma dalla mano. Alzo il ginocchio fino a farlo collidere violentemente con il suo ventre, facendolo piegare in due con le mani a coprirsi la parte colpita.

Tutt'attorno è scoppiato il caos: sento grida, pugni e mugolii di dolore.

Jordan si riprende in fretta e lo sguardo furioso e assetato di sangue presente nei suoi occhi mi manda un brivido di terrore per la spina dorsale. Poi, sento un dolore acuto e pungente prima alla mascella e poi all'addome. Indietreggio boccheggiando, finendo contro al muro con un rumore sordo. Non ho neanche il tempo di prendere un respiro che mi trovo il braccio di Jordan alla gola, che spinge sulla trachea facendomi mancare completamente l'ossigeno. Ha un sorrisetto maniacale in viso quando con la sua unica mano rimasta mi mostra l'oggetto luccicante.

«È sempre utile portare un coltello con sé, non è vero, tesoro?» sputa a pochi centimetri dal mio viso.

È riuscito a prendermi il coltello senza che io me ne accorgessi e ora l'unica difesa che credevo di avere potrebbe essere la mia fine.

I miei arti non riescono a rispondere ai miei comandi, l'unica cosa su cui riesce a concentrarsi il mio cervello è la sempre più crescente pressione del suo braccio contro il mio collo, la sua garza al gomito che mi sfrega la faccia e i colpi di tosse che escono involontari dalla mia bocca. Comincio a vedere puntini bianchi e neri formarsi ai lati dei miei occhi.

«Per essere così cazzuta come fai credere di essere, mi aspettavo avessi combattuto almeno un po'.» Jordan abbassa rapido l'arma e l'affonda nel mio fianco completamente.

Le mie gambe quasi cedono al dolore improvviso. Nell'azione, la presa dell'uomo sul mio collo si allenta quel che basta per farmi riprendere fiato bastante per allontanarlo da me con una spallata con tutta la forza rimastami in corpo. Tossisco un paio di volte e mi tocco il fianco colpito dolorante, non sorprendendomi di vedere il sangue sulla mano. Il dolore lancinante di certo non aiuta, ma riesco a lanciare un calcio dritto dritto sulla sua faccia, facendogli sparire quel ghigno odioso e facendolo finire in ginocchio. Come per riflesso, il coltello gli cade dalla mano. 

«Sì, credo sia proprio ora di farla finita, coglione.» La voce di Elyse rimbomba forte nelle mie orecchie. Subito dopo un colpo di fucile e Jordan comincia a sputare sangue prima di cadere a terra dolorante. «Ci vediamo all'inferno.»

Il corpo dell'uomo perde pian piano la vita, questa volta testimoni della sua effettiva morte. Elyse si china a raccogliere il coltello e me lo passa. Mi mette una mano sulla spalla e - per la prima volta - mi sembra di scorgere della preoccupazione nel suo sguardo determinato.

«Facciamola finita» mi ordina, lanciando un'occhiata veloce al mio fianco ferito. «Credi di potercela fare?» Annuisco, premendo la mano sulla ferita per fermare la fuoriuscita del sangue e mascherare il pulsare continuo.

Elyse mi strizza la spalla per incoraggiarmi e si precipita verso Tracey, la quale sta lottando corpo a corpo con l'uomo con la cicatrice, ma è piuttosto in difficoltà. Blaine, a pochi passi da lei, spara un colpo all'ultimo uomo rimasto in piedi. Lo raggiungo più in fretta che posso, mentre Elyse si occupa di mettere in salvo Tracey. Quando alza il viso vedo del sangue colargli dal naso e un piccolo taglio al sopracciglio, un ematoma che sta prendendo forma sulla sua mascella.

«Credo questo sia il giusto segnale per andarcene» dice Elyse dopo aver sparato un proiettile alla gamba dell'uomo e avergli rifilato un pugno in pieno volto. Colpisce il tizio alla testa con il dorso del fucile e poi lo getta a terra, scarico.

«Kayla-»

«Ce la faccio a camminare» interrompo un po' troppo bruscamente Blaine, che deve essersi accorto dei miei abiti sporchi di sangue fresco. «Torniamo al campo.»

Dopo che Elyse si è assicurata che Tracey stia bene, finalmente usciamo dal quel posto infernale, lasciando dietro di noi una scia di cadaveri e rimanendo con un sapore amaro in bocca.

«Se l'universo ci permette di farlo» risponde Elyse sarcastica, alzando un dito medio verso il cielo.

A causa dei molteplici spari, dobbiamo muoverci velocemente: di sicuro avranno attirato l'attenzione dei Morti.

Abbiamo lasciato la cautela dentro quell'edificio: stiamo camminando  in mezzo alla strada guardando specificatamente dritto davanti a noi. 

Sono esausta e ad ogni passo che faccio sento fitte di dolore al fianco ferito, pian piano togliendomi  tutta la forza rimastami in corpo.

Blaine sputa saliva mista a sangue per i colpi ricevuti al viso, Tracey si tiene il braccio rotto al petto, dolorante. Elyse deve aver ricevuto un paio di colpi sul suo corpo ma - nonostante la botta presa alla testa ieri - sembra quella messa meglio.

Premo forte la mano sulla ferita, cercando di fermare la fuoriuscita continua del sangue. Lancio uno sguardo veloce al mio fianco, strizzando gli occhi un paio di volte. Mi sento come se tutte le energie stessero uscendo tutte insieme dal mio corpo. Fisso lo sguardo davanti a me: la strada libera con uno strato sottile di  neve, qualche edificio sparso qua e là, i pali dell'elettricità con sopra i corvi. Provo a notare qualsiasi particolare per distrarmi e per continuare a camminare.

Ce la posso fare. 

La vista si scurisce in un millisecondo davanti a me.

«Merda.» È l'ultima cosa che sento prima che diventi tutto buio.

***

«Sta tornando.»

Strizzo gli occhi prima di aprirli. Ho la gola secca. Ci impiego qualche secondo a capire di essere sdraiata a terra.

«Ho trovato una farmacia. Portiamola dentro, magari troviamo qualcosa anche per te.» È la voce di Elyse e lentamente riesco anche a mettere a fuoco la sua figura. «Oh, si è svegliata.»

Giro la testa di lato e capisco di averla appoggiata a delle gambe: sopra di me torreggia il viso di Tracey, al suo fianco è seduto Blaine, il quale sta premendo deciso sulla mia ferita.

«Credi di riuscire ad alzarti?» mi chiede quest’ultimo con uno sguardo apprensivo.

Annuisco, schiarendomi la gola. Devo essere svenuta. Non so quanto sia passato da quando mi si sono chiusi gli occhi fino ad adesso, ma mi accorgo dai dintorni che siamo in una zona diversa, con più case e, stando a ciò che ho sentito dire da Elyse poco fa, c’è una farmacia.

Mi alzo dolorante sui gomiti, il braccio di Tracey subito pronto ad attutire una mia possibile caduta dietro di me. Elyse mi porge la sua mano e la prendo volentieri. La ragazza si mette alla mia destra e Blaine alla mia sinistra. Appoggio le mani sulle loro spalle. Mi sento debole, mi gira la testa.

«Forza, sono cento metri» ci informa Elyse, cominciando a camminare cauta, per capire se riesco a stare in piedi.

Riusciamo ad entrare a rilento nella farmacia, i due ragazzi mi appoggiano a uno scaffale. A farmi compagnia c’è anche Tracey. Attimi dopo, i due scompaiono tra i diversi scaffali alla ricerca di qualunque cosa gli serva.

«Come sta… il tuo braccio?» chiedo ansimante alla donna al mio fianco.

«Se riescono a trovare un antidolorifico sarei la donna più felice al mondo.» Annuisco, poi appoggio la testa dietro di me, troppo pesante per riuscire a sostenerla. «Credo… Credo dovrai aspettare di tornare al campo per quella. Non posso ricucirtela senza averla disinfettata.»

«Buone notizie!» esulta Blaine ritornando al “punto di raccolta”. «Ho trovato gli antidolorifici e qualche dose di adrenalina!» Il ragazzo si opera immediatamente a somministrare le pasticche di antidolorifico a Tracey e a me.

«Dov’è Elyse?» chiedo, deglutendo a fatica senza l’aiuto dell’acqua. Subito dopo aver posto la domanda, sentiamo un rumore eclatante. Qualcosa è decisamente caduto. «Cosa è stato?»

«Cazzo, forse c’è qualche Vagante, vado a cont-» Prima che Blaine possa finire la frase, la figura di Elyse compare davanti a noi ed esalo un sospiro di sollievo al vederla.

C’è qualcosa che non va nella sua espressione e nei suoi movimenti. Non è naturale. 

«Cammina!» Elyse viene spintonata violentemente e quasi inciampa nei suoi stessi passi, i capelli rossi che le cadono davanti al viso. 

La ragazza alza le mani in segno di resa e, anche nel mio stato un po’ confusionale - sia per la quantità di sangue perso, sia per l’effetto immediato degli antidolorifici - vedo che entrambe sono vuote. Alle sue spalle spunta un uomo trasandato, con la barba incolta sul viso, i vestiti sudici e madidi di sudore presente anche sulle sue tempie, gli occhi incavati con tanto di occhiaie scure. La sua mano coperta da un guanto si appoggia con violenza sulla sua spalla per spostarla al suo fianco mentre l’altra tiene in mano la pistola, la nostra pistola, puntata dritta dritta sulla sua schiena.

«Ragazzi, ho fatto amicizia» dice Elyse sarcastica, nonostante l’atmosfera elettrica creatasi. «Questo qui è Albert.» Fa un cenno col capo dietro di lei, riuscendo a spostare delle ciocche di capelli dal suo viso.

«Quello che avete preso… Non vi appartiene» comincia Albert in modo frenetico, guardando attentamente tutti noi. «Ridatemelo prima che faccia del male alla vostra amica.» Spinge la canna della pistola sulla schiena di Elyse per rendere veritiera la sua minaccia.

«Albert, non abbiamo preso niente» mente Blaine, alzando le mani vuote in aria, preoccupandosi prima di nascondere gli antidolorifici e le due dosi di adrenalina. «Quindi che ne dici di lasciare andare la nostra amica?»

«Non sono stupido. Vi ho osservati da quando lei è entrata qui dentro da sola e ho sentito cosa hai detto.»

«Albert, ascoltami. Noi-noi abbiamo un gruppo. Se tu vuoi, puoi venire con noi» inizia cauta Tracey. Questa giornata sta andando sempre peggiorando. «Abbiamo cibo, acqua, un posto sicuro dove stare-»

«Non mi interessa!» risponde isterico l’uomo. «Voglio ciò che mi avete rubato.» Gli occhi vagano da una parte all’altra della stanza in un battibaleno. Noto che la mano che ha in pugno la pistola comincia a tremargli.

«Avere queste cose non ti farà sentire meglio» risponde cauto Blaine, tenendo le mani alzate. 

«Tu non puoi saperlo! È l’ultimo avvertimento. Ridatemi le mie cose o sparo.» Punta la pistola verso il soffitto, la mano ancora tremante.

Elyse coglie il momento per tirargli una gomitata in pancia, riuscendo a scappare dalla sua presa e facendolo indietreggiare. Allo stesso tempo, riecheggia nell’aria il rumore di uno sparo. Riapro gli occhi dopo averli chiusi inconsciamente: ha sparato al soffitto.

«Credo sia il momento per questa» dice veloce Blaine al mio orecchio, prima di piantarmi una dose di adrenalina nella coscia senza preavviso. Lancio un grido di dolore, imprecando e strizzando gli occhi. Un altro colpo viene sparato.

«Mettetevi al riparo!» grida Elyse, lanciandosi dietro a una struttura di metallo. 

Blaine e Tracey copiano i suoi movimenti rapidi. Mi trascino con le braccia dietro allo scaffale a cui ero appoggiata, sapendo però che la mia copertura non sarebbe durata molto. Sarebbe bastato che Albert girasse corsia per trovarmi completamente inerme e disarmata. Mi guardo attorno freneticamente, cercando una qualsiasi possibile arma ma trovo solo barattolini di plastica pieni di pasticche. Dannazione.

Due colpi vengono sparati di nuovo, ma finiscono su una parete metallica. Elyse. Dev’essere vicino a lei. Spero solo abbia trovato qualcosa di più utile di me per proteggersi e per una eventuale offesa contro l’uomo.

Una lampadina mi si accende improvvisa nel cervello: Albert ha rubato la pistola ad Elyse; carica avrebbe dodici proiettili ma lui ne ha già sparati quattro. Più i due o tre sparati prima nella lotta con Jordan e i suoi scagnozzi… Ne rimangono cinque. Non mi resta che aspettare che spari quei cinque colpi a vuoto, sperando che non riesca a trovare nessuno di noi prima che la pistola rimanga a secco. La speranza e la fortuna non sono stati esattamente dalla nostra parte in questi due giorni.

L’effetto dell’adrenalina comincia a farsi sentire: il senso di stanchezza viene sostituito da un’ondata di energia e forza improvvisa nelle mie vene. Ancoro le mani a terra e mi metto in ginocchio. 

Uno sparo. «Non potete nascondervi per sempre!» urla l’uomo in modo isterico, la sua voce più alta di qualche ottava.

Piego le ginocchia e faccio leva sulle braccia per tirarmi in piedi.

«Non avete scampo!» continua a minacciare, sprecando ancora un altro proiettile.

Mi alzo completamente, ma perdo per qualche attimo l’equilibrio, andando a sbattere brutalmente contro lo scaffale alle mie spalle, causando la caduta rumorosa di alcuni contenitori di plastica. Merda.

Aguzzo l’udito, sentendo i passi pesanti dell’uomo avvicinarsi. Devo spostarmi.

«Non siete poi così furbi...» Il tanto atteso scoppio di proiettile questa volta non arriva.

 Ripreso l’equilibrio, comincio a camminare: alla mia destra c’è il bancone con dietro Elyse, dall’altra parte, invece, ci sono Blaine e Tracey. Albert deve essere vicino alla mia posizione, quindi mi butto in mezzo ai due banconi di corsa.

«Ti ho trovata.» Eccolo, lo sparo. Mi lancio verso il nascondiglio di Elyse, ringranziando il fatto che Albert abbia una pessima mira. Un altro colpo.

«Cazzo!» impreco d’un fiato. Un proiettile mi ha fatto il pelo al braccio e sento subito un dolore pungente prendere forma.

Quando spara l’ultimo colpo rimastogli nell’arma, io sono ormai di fianco ad Elyse, la schiena e la testa appoggiata dietro il bancone in preda al panico e a un filo di sollievo. Almeno ora non può più colpirci con colpi mortali.

«Ha-ha finito… i colpi» informo Elyse ansimando. Lei annuisce e si alza dalla copertura. Albert, ignaro dell’informazione, prova a premere il grilletto di nuovo, ma questa volta non ne esce niente, se non un fastidioso rumore.

«Grazie per l’accoglienza...» dichiara Elyse aprendo le braccia e facendo un cenno con il capo. «ma ora togliamo il disturbo.» La ragazza fa un inchino teatrale e mi aiuta a rimettermi in piedi. Dalla parte opposta, Blaine e Tracey sono già usciti dal loro nascondiglio e sono già all’uscita della farmacia.

Albert ha uno sguardo furioso e infranto, un qualcosa di maniacale che lo rappresenta piuttosto bene. Boccheggia, probabilmente in cerca di insulti e ulteriori minacce da lanciarci. Io e la ragazza ci voltiamo senza troppe scuse e raggiungiamo gli altri sulla strada.

Si va a casa.

***

Il freddo è entrato nelle nostre ossa ormai. Facciamo attenzione a dove mettiamo i piedi per evitare di scivolare su parti di ghiaccio nascoste. Sono un paio di ore che camminiamo ininterrottamente da quando siamo usciti da quella farmacia. Prevedo che l’effetto della prima dose di adrenalina finirà tra non molto, nonostante senta ancora il cuore battere a mille e il dolore ovattato al fianco e al braccio. C’è un sole timido sopra di noi, credo che siano le prime ore del pomeriggio oramai.

Non vedo l’ora di vedere in lontananza il nostro campo. Non vedo l’ora di sdraiarmi e chiudere gli occhi, dormire, riposare. L’effetto dell’adrenalina mi ha cancellato lo stimolo della fame, per il momento, ma guardando i volti degli altri vedo che sono affamati e assetati.

Questa uscita è stata un disastro. Abbiamo perso una macchina funzionante, alcune provviste, gli zaini, una cartina e tutte le nostre armi, tranne per il coltello, che ora ha Blaine. Per non parlare delle nostre condizioni fisiche: oltre ad essere stremati per la fame e la stanchezza, siamo feriti. L’unica cosa positiva è che non siamo morti. Non ancora, almeno.

Non abbiamo nemmeno la forza di spiccicare qualche parola tra di noi: non che ce ne sia bisogno, ma gli unici suoni che escono dalla nostra bocca sono grugniti e respiri pesanti. 

Per ora non abbiamo visto nessun Morto vagare per le strade innevate, forse perchè Tracey ci ha indicato una strada secondaria a quella che abbiamo percorso in auto, priva di abitazioni o edifici di qualsiasi tipo. Solo pura e inesplorata campagna.

Dovremmo farcela in una o due ore ancora.

Con la forza al minimo e la stanchezza al massimo, l’unica cosa che ancora mi tiene in vita è il pensiero di stringere forte Ebony tra le mie braccia.

***

Ho preso la seconda dose di adrenalina prima che rischiassi di svenire per una seconda volta. Un’altra ora è passata silenziosa. Siamo allo stremo. Il cielo si è oscurato di nuvole grigie e prevedo una brutta pioggia a breve. Ammalarmi non è nei miei programmi, anche se ora è l’ultimo dei miei pensieri.

Appoggio la mano sul giubbotto chiuso dalla parte del fianco per premere ancora un po’ sulla ferita. Deglutisco a secco. La mia mente si fissa sul vuoto continuo o mi mostra l’immagine di mia sorella. Di Wayne, Mali, degli altri bambini al campo, Calum.

«Là» esordisce Elyse con voce rauca, puntando il dito davanti a lei. In lontananza, e un po’ nascosta dall’umidità, scorgiamo la struttura: il nostro campo.

Credo che potrei piangere in questo esatto momento. Con ritrovata risolutezza, aumentiamo di quel poco il nostro passo. Ma qualcosa non va. Man mano che la mia visione diventa nitida, noto un gruppo di corpi muoversi ritmicamente e monotonamente a circa cento metri dall’entrata. 

«Non è possibile.»

Come ad un segnale, ci fermiamo sui nostri passi all’unisono con la faccia vuota di ogni emozione. per qualche istante nessuno parla. Nessuno propone un piano, nessuno esprime alcun suono. Riprendiamo a camminare.

«Gli giriamo attorno, correndo. L’ultimo sprint prima della vittoria» ordina Elyse, il suo sguardo focoso pieno di rabbia. E così facciamo. A cinquanta metri da loro, cominciamo a correre. Un dolore pungente mi attraversa il corpo improvvisamente, ma non posso arrendermi ora. 

Corriamo, corriamo e corriamo. Corriamo con tutta la stanchezza addosso, la lentezza attaccata come un parassito ai nostri ormai fragili corpi ancora viventi, mentre passiamo a troppa poca distanza dai Morti. Così poca che sbatto sbadatamente contro uno di quei corpi in putrefazione, sbandando e finendo inevitabilmente contro un altro corpo staccatosi dalla massa. Il panico prende il sopravvento mentre rimango intrappolata nel suo arto, la sua faccia a pochi centimetri dalla mia emette un lamento disgustoso, attirando l’attenzione degli altri suoi compagni.

Sono inevitabilmente rimasta indietro di qualche passo rispetto a Blaine, Tracey ed Elyse. Proprio quest’ultima però si volta indietro, controllando che io stia al passo, la sua faccia in preda al terrore quando mi vede lottare con tutte le forze rimaste contro la mia prigione.

«Scappa!» le urlo. Non ci sarebbe stata via d’uscita.

«Non vado da nessuna parte senza-» Elyse tira un colpo secco al Morto, prendendomi il braccio e trascinandomi dietro di sè. «-di te!»

«Aprite il portone!» urla Blaine a qualche metro dall’entrata con tutte le sue forze.

Con i Morti ormai alle calcagna, qualcuno dentro al campo deve averci sentito e, come per magia, le porte vengono aperte. Con un ultimo sforzo e con l’aiuto dello sguardo puramente terrorizzato di Travis dall’altra parte, ci intrufoliamo dentro appena in tempo.

«Chiudi la porta! Chiudila, adesso!» urla Blaine frenetico, le parole che si mischiano tra loro per la fretta.

Con il rumore forte e sordo delle porte che si chiudono, tutti e quattro cadiamo a terra stremati. Stremati, ma salvi.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


CAPITOLO 24

Avviso: in questo capitolo è presente una scena di suicidio. Potete non leggerla se vi reca disturbo, inizia da quando troverete gli ultimi asterischi (***) fino alla fine del capitolo.

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KAYLA

Il respiro pesante che esce dalla mia bocca riesce a coprire in parte il terrificante tonfo dei Morti che sbattono contro le porte della palestra.

«Cosa-cosa è successo?» La voce di Travis rimbomba lontana nei miei timpani. Appoggio le cosce sulle suole delle scarpe e appoggio i palmi delle mani a terra, chiudendo qualche istante gli occhi, provando a fare entrare aria nei polmoni dopo la corsa fino al campo.

«Oh, mio Dio! Siete vivi!» Un’altra voce si unisce a quella di Travis, ora inginocchiato vicino alla moglie mentre le chiede se sta bene. Blaine tossisce un paio di volte, non molto lontano da me.

Il pulsare al mio fianco ritorna improvviso, colpendomi come uno tsunami in piena forza. Biascico un’imprecazione confusa. Intorno a noi si sono avvicinate altre persone, ma non riesco a mantenere gli occhi aperti abbastanza per riuscire a capire chi sono. Mi tolgo il giubbotto a fatica, lasciandolo cadere dietro di me senza troppe cerimonie.

«Kayla!» Uno strilletto alto di qualche ottava mi fa saltare un battito cardiaco. Poi, vengo travolta da due piccole braccia. «Lo sapevo che saresti tornata!» Due occhi verdi mi guardano contenti in viso, le labbra aperte in un sorriso sincero.

«Bonnie» rispondo a fatica, deglutendo subito dopo. Il suo abbraccio affettuoso mi ha provocato altre scie di dolore al fianco e al braccio. Il suo sguardo muta da felice a preoccupato una volta fatto passare sul mio corpo.

«Stai-stai sanguinando» dice delicatamente, sedendosi di fronte a me. Annuisco, chiudendo un’altra volta gli occhi e deglutendo la mia quasi inesistente saliva.

«Kayla ha bisogno di Rose e Olivia. Subito.» Sento dire da Blaine. 

Ebony passa lo sguardo da me al ragazzo, le lacrime che cominciano a farsi spazio nei suoi occhi. «Ehi, va tutto… bene» dico, provando a rassicurarla, accarezzando con il dorso della mano la sua guancia.

Prima di rendermene conto, qualcuno mette le mani sotto le mie ascelle e mi tira su, appoggiando poi il mio braccio alla sua spalla. Le gambe tremano sotto di me, sembrano quasi di gelatina. Un’altra persona mette l’altro mio braccio sulla propria spalla, facendo attenzione a non urtare la ferita. Ho la vista annebbiata, non riesco a distinguere i lineamenti delle due persone; tutto ciò che so è che vengo accompagnata nell’infermeria con Ebony al seguito. Vengo adagiata sull’unico materasso della palestra destinato all’infermeria ed Ebony mi prende la mano non appena la mia testa finisce sul cuscino.

«Vuoi un po’ d’acqua?» mi chiede, strizzandomi la mano come per farmi sentire ulteriormente la sua presenza. Faccio un cenno con la testa e finalmente le mie labbra vengono a contatto nuovamente con dell’acqua. Bevo lentamente, cercando di non strozzarmi.

«Hai preso tutto?»

Una voce femminile e delicata irrompe nella stanza. La vista diventa di nuovo scura all’improvviso e l’ultima cosa che sento è una stretta rassicurante della mia mano.

***

Ho di nuovo la gola secca. Boccheggio un po’ di volte. Piano piano riprendo consapevolezza del mio intero corpo: i piedi e le gambe calde, il ventre e il petto che si alzano e abbassano ritmicamente come il mio respiro, una mano fredda, mentre l’altra calda. Strizzo gli occhi prima di aprirli ed abituarmi alla luce bassa nella stanza. Volto la faccia, notando con grande sorpresa la mia mano calda tenuta tra due mani, i pollici di esse che massaggiano delicatamente il dorso. I capelli scuri e ricci coprono il volto del ragazzo, ma non mi ci vuole molto a capire di chi si tratta.

Muovo leggermente le dita della mano, quasi come per impulso e la testa del ragazzo scatta in alto, fermandosi sul mio viso.

«Ci hai fatto prendere un bel colpo, sai?» inizia, schiarendosi la gola subito dopo. «Tua sorella è appena andata a dormire. O almeno, l’ho obbligata ad andare a dormire.» Un piccolo sorriso sincero si crea sulle mie labbra.

Calum mi porge dell’acqua e la accetto volentieri. «Come ti senti?» mi chiede con voce gentile.

«Distrutta» rispondo sinceramente, lasciando un sospiro poco dopo. 

«Rose ti ha cucito la ferita mentre eri svenuta.» All’informazione, passo istintivamente la mano sul ventre sopra le coperte, dopo averla fatta scivolare via dalla stretta calda delle mani di Calum. Annuisco, non sapendo esattamente cosa dire.

«Sei stata fortunata, nessun organo vitale è stato colpito.»

«Non direi fortunata ma lo accetto.» Il silenzio cade nella stanza. Fisso per qualche istante il soffitto della stanza rovinato dal tempo e dall'umidità stagionale, con delle lievi crepe che passano da un angolo all'altro.

«Forse… forse vuoi riposare, ti lascio-» Calum distoglie lo sguardo quasi imbarazzato, le sue mani calde che lasciano andare la mia per la seconda volta. 

«No, no. Va bene un po’ di compagnia per ora» lo interrompo velocemente. Annuisce, lanciando uno sguardo veloce alla porta. «A meno che tu voglia dormire, allora è-»

«No. Avrei passato comunque la notte qui, fino a quando non avresti ripreso coscienza.» Il mio cuore si scalda all’informazione rivelata.

È vero, devo ancora processare per bene ciò che è successo nella quarantott’ore appena passate, ma al momento voglio avere qualcuno accanto a me, che renda questo inferno un po’ più sopportabile. Se mi distraggo, riesco a percepire un po’ di meno il dolore e la solitudine.

«Posso sedermi?» chiedo al ragazzo, ma ricevo subito un cenno negativo come risposta. Non richiedo spiegazioni - immagino sia per non riaprire la ferita appena ricucita - e mi adatto al restare stesa. Mi sistemo per poter guardare meglio il ragazzo seduto al mio fianco.

«Elyse mi ha detto in breve ciò che vi è successo-»

«Preferirei non parlarne ora. Loro come stanno?»

«Si stanno riprendendo, come te» risponde con un sorriso sollevato in volto.

Non immagino come si siano sentiti tutti loro quando non siamo tornati la sera scorsa. L'angoscia che si prova alla bocca dello stomaco, la tensione che si prende controllo del corpo, i pensieri che diventano negativi per quanto una persona possa essere positiva. Un peso enorme deve essersi tolto dal loro petto quando ci hanno visto rientrare. 

Il che mi porta a pensare a tutti i Morti appiccicati pericolosamente alle nostre porte. «Stanno ancora facendo baccano? I Morti, intendo.»

«Si sono calmati un pochino. Le persone sono preoccupate però, ho paura che qualcuno possa dare di matto» risponde concentrato, un cipiglio che si forma tra le due folte sopracciglia. 

Non ha tutti i torti; molte persone potrebbero essere a rischio se si sentono costantemente minacciati. Gli attacchi di panico possono colpire chiunque in queste condizioni. Inoltre, da quanto ho capito, molti membri di questo gruppo sono venuti "a contatto" con i Morti solo quando tutto ciò è scoppiato - quasi quattro anni fa - e poi si sono rinchiusi qui dentro. Forse dovremo cambiare casa prima del previsto.

«Mia sorella e Wayne sono venuti a trovarti quando eri ancora incosciente.» Non so perché, ma sono sorpresa. In modo positivo. Non sono più abituata a persone che si preoccupano per me così tanto, come se le conoscessi da una vita. Non sono più abituata ad essere importante per qualcuno.

Ad essere sincera, da quando sono entrata in questo gruppo, sono già stata ferita due volte e sempre dallo stesso dannato terribile uomo, solo che stavolta - anche se faccio fatica ad ammetterlo a me stessa - sarei potuta morire. Tra Morti ed effettive persone andate fuori di testa, non esiste un posto sicuro qui, non più. Ma qui, con loro, ho guadagnato più di quello che mi sarei potuta immaginare.

«Sai, prima che io e i miei ci separassimo, mia madre mi ha detto di non legarmi a nessuno per farcela.»

«E…? Ha funzionato?»

«Prima che vi incontrassi, sì.» Faccio una pausa, facendo scivolare la mia mano vicino alla sua, passando le mie dita tra le sue. «Ora… ora vi conosco. E ora siete le prime persone che sono diventate di nuovo importanti per me. Non posso non essere legata a voi» confesso, gli occhi che mi diventano lucidi tutto un tratto.

Calum mi prende la mano, intrecciando le sue dita tra le mie, portandosela poi alle labbra per lasciargli un bacio umido. 

«Credo tua madre avesse ragione allora.» sussurra, quasi tra sé e sé. «Saresti potuta morire là fuori.» sputa fuori, il suo tono preoccupato come non mai.

«Sono dura a morire, ora che ho qualcosa per cui lottare.»

Il suo sguardo si ammorbidisce, l'ombra di un sorriso che si crea sulle sue labbra piene. «È la prima cosa dolce che ti sento dire.» Alzo gli occhi alla sua affermazione. «Mi hai frainteso. Lo apprezzo.»

«Probabilmente sarà anche l'ultima. Sono gli antidolorifici che parlano.»

«Sì, sicuramente. Stai solo cercando di nascondere il fatto che sotto sotto sei tenera anche tu» ribatte, ridacchiando, quel suono piacevole che fa spuntare un sorriso anche sulle mie labbra.

«Facciamo che ti terrò sulle spine su questo punto.»

Calum mi lancia un occhiolino, scatendando una breve risata, bloccata dal dolore al taglio al fianco. Impreco sottovoce per la centesima volta in un giorno.

«Grazie per avermi tenuto compagnia. Ne avevo bisogno» dico dopo essermi ripresa.

«Ti lascio riposare adesso.» Annuisco. Calum si alza dalla sedia e mi dà un bacio delicato sulla fronte prima di uscire dalla stanza.

***

«Sono stanco di doverti rimettere in sesto ogni volta che esci.» Wayne ridacchia mentre lascia uscire un sospiro dalle sue labbra, chiudendosi alle spalle la porta, dopo aver fatto entrare anche Mali.

«Io, invece, sono contenta di vederti con gli occhi aperti» dice quest'ultima, sorpassando il ragazzo e chinandosi su di me per darmi la cosa più simile ad un abbraccio, data la mia posizione stesa. 

«Vi voglio bene» rispondo biascicando e inciampando un po' nelle parole.

«Sta delirando? Sì, sì, decisamente» ribatte Wayne, lanciando un'occhiata stranita prima a me e poi a Mali. «In ogni caso, io e la mia apprendista infermiera qui dovremmo cambiarti le fasciature!» riprende con fin troppa enfasi, facendoci ridacchiare.

Sono le prime ore del giorno, io mi sono svegliata da poco tutta intontita a causa dei medicinali. Ho provato a prendere la bottiglia d'acqua per prendere un sorso, ma fallendo e facendola cadere: a quel punto è entrato nella stanza tutto allarmato Calum, che credo abbia dormito fuori dalla mia porta. Mi ha passato l'acqua e mi ha detto che sarebbe andato a chiamare Wayne e Mali. E infatti, eccoli qui.

Grugnisco quando Mali mi toglie improvvisamente la coperta dal corpo, facendomi rabbrividire. Lei alza le spalle. Allento la presa sulla stoffa della maglietta pesante che indosso e allungo le dita verso la fine di questa per sollevarla fino a sotto il seno. Piego leggermente la testa in avanti per vedere il mio ventre: c'è un cerotto rettangolare che copre la ferita, sporco di sangue al centro, e al di sopra ci sono due strati di fasciatura che mi abbracciano la pancia e la schiena.

Mali comincia a togliermi delicatamente la fasciatura con le sue dita tiepide che mi strisciano ogni tanto sulla pelle; Wayne, dall'altra parte, ha in mano quello che presumo sia alcool e un batuffolo di cotone.

«Preparati» mi avvisa proprio lui, una volta che Mali ha rimosso tutte le medicazioni.

Il ragazzo si inginocchia, posa le mani vicino a entrambi i lati del taglio e si avvicina per studiarla meglio da vicino. «I punti tengono. Te la disinfetto e poi ti rimettiamo la fasciatura, d'accordo?» mi informa, non continuando prima di ricevere un mio cenno di consenso.

Non appena appoggia il cotone imbevuto dell'alcool sulla ferita, aspiro l'aria dai denti serrati, irrigidendo tutti i muscoli del tronco. Il ragazzo mi lancia un'occhiata dispiaciuta e poi continua, cercando di essere il più veloce e preciso possibile e allo stesso tempo delicato. Mali mi stringe una spalla per empatia.

«Okay, appena abbiamo finito ti spedisco subito qui Ebony, che non vede l'ora di parlarti. Anche Matthew, Dylan ed Liz non vedono l'ora che ritorni operativa» mi dice Mali, riuscendo nella sua impresa di distrarmi dal bruciore intenso.

«Quanto pensate che ci voglia? Prima che possa tornare a stare in piedi, almeno.» 

«Per questo  dovrai chiedere a Rose o Olivia» comincia Wayne, ancora chinato sulla ferita. «Dall'aspetto direi ancora una settimana prima che si possano togliere i punti.»

«Cosa? Ma-» 

«Ma, un bel niente. Se non vuoi che si riapra ti conviene stare qui e non muoverti per nessuna ragione. Tranne per i bisogni, ma qualcuno ti deve assistere» mi interrompe fermo Wayne, il suo sguardo duro ed autoritario. 

Ormai sa bene anche lui che non mi piace stare con le mani in mano mentre gli altri si spezzano la schiena. E, soprattutto, non riesco a convivere troppo tempo con i miei stessi pensieri, l'unica cosa che mi resta da fare bloccata qui a letto. 

Annuisco, anche se un po' controvoglia. Mali mi applica un nuovo cerotto e una nuova fasciatura. Poi, Wayne mi controlla il braccio colpito di striscio dal proiettile, informandomi che non era nulla di grave e che sarebbe guarito senza troppi problemi.

«Non ti facevo il tipo da tatuaggi» riprende Wayne, prendendo lo sgabello per sedersi per qualche istante. Gli lancio uno sguardo interrogativo prima di ricordarmi della piccola medusa stilizzata tatuata appena sotto la linea del reggiseno sul lato del mio corpo sinistro.

«Ah, oddio. L'ho fatto appena compiuti i 16 anni. Non è nulla di importante, volevo solo farmene uno e la medusa era quella che mi piaceva di più.»

«Sai, credo ti descriva. Per quanto sembri ironia della sorte.»

Mali ci saluta entrambi, dicendo di dover andare a controllare una cosa e uscendo poi dalla porta senza fare alcun rumore, lasciando me ed il ragazzo soli nella stanza.

«Spiegati» gli chiedo curiosa della sua imminente risposta. 

Wayne si bagna le labbra con la lingua prima di rispondere. «Le meduse sono belle da lontano, ma appena qualcosa le sfiora la attaccano, pensando che tutto sia una minaccia.» Si passa una mano tra i capelli dorati, che sembrano morbidissimi e mi viene spontaneo chiedermi come faccia a mantenerli in quello stato anche con l'Apocalisse qui fuori e l'acqua per lavarsi razionata.

«Non ero così quando l'ho fatto» rispondo subito sulla difensiva, appurando immediatamente la sua teoria appena descritta. 

«Vedi, eccola qui che è tornata» ribatte ridacchiando. «Capisco perché tu sia cambiata, sarei uno stupido a negarlo. Non ti conoscevo prima, ma credo che la vecchia Kayla spunti qua e là ogni tanto.»

«Ho l'impressione che tu sia rimasto lo stesso invece» dico, sorridendogli.

«Più o meno.» Per qualche attimo la sua espressione si rabbuia e spero di non aver risvegliato in lui ricordi troppo dolorosi. «Non organizzo più feste quando ho casa libera» risponde invece scherzando, riuscendo in poche parole a risollevare l'intero morale.

«Ah, perché, esisteva davvero qualcuno che lo faceva?» ribatto scherzosa, limitando la mia risata a causa della ferita, punzecchiando il suo braccio con il mio indice.

Annuisce, fingendosi oltraggiato, lasciando piano piano morire la sua fragorosa risata. 

Sposto lo sguardo distrattamente verso la finestrella della stanza, senza far caso a ciò che c'è effettivamente al di fuori di essa; momenti come questi sono rari e devo tenerli al sicuro dentro al mio cuore per riscaldarlo nelle giornate più buie e gelide, quando tutto sembra perduto ed inutile. Noto con la coda dell'occhio Wayne seguire il mio sguardo e voltarsi verso la fonte di luce.

«Ha ricominciato a nevicare» dice, distogliendomi dai miei pensieri. «Credo di dover tornare al lavoro, allora» conclude, appoggiando le mani sulle coscie ed alzandosi subito dopo. Mi fa l'occhiolino con tanto di dita a pistola ed esce dalla mia visuale, non prima di avermi ordinato di rimanere a letto tranquilla e di cercare di riposare, finché mi era possibile.

Invece di rimanere sola come credevo, dall'uscio spunta una testolina nera e delle mani appoggiate allo stipite. Gli occhi di Ebony diventano subito vivaci quando capisce che sono sveglia e che è - finalmente - il suo turno di entrare. 

«Ciao, peste» la saluto dolcemente, facendole cenno di avvicinarsi al letto con la mano. «Fai piano stavolta.» 

Come stesse eseguendo un ordine, si avvicina lentamente e con la stessa cautela mi abbraccia il torso, dandomi due grandi baci sulla guancia. La stringo a mia volta con il mio braccio, muovendo su e giù la mano sulla sua piccola e minuta schiena.

«Ho così tante cose da raccontarti!» dice emozionata, quasi saltando sui suoi stessi piedi e battendo le mani felice. 

«Vai!»

«Allora, io e Dylan abbiamo trovato dei pennarelli, sono tutti così belli, solo che alcuni sono scarichi. Non lo dire a nessuno, ma abbiamo fatto dei disegnini su un muro.» Mi fingo sorpresa, mettendo la mano alla bocca per enfatizzare l'azione, mimando poi una zip che si chiude sulle labbra stesse, facendole capire che avrei mantenuto il suo grande segreto.

«Poi, abbiamo fatto la finta famiglia e io ero la mamma, Matthew il cane-»

«Il cane?» la interrompo ridacchiando.

«Ha scelto lui!» si difende, aprendo le braccia per incrociarle al petto due istanti dopo. I bambini e la loro fantastica fantasia. «E poi Calum mi ha fatto le trecce!»

«Manco per due giorni e già mi sostituisci come tua unica parrucchiera» rispondo, voltando la testa dalla parte opposta alla sua, ma con un sorriso enorme stampato in viso.

«Tu sei la prima scelta, lui può essere la seconda, anche se deve ancora fare tanta pratica.»

«Credo di poterlo accettare.» Ebony ridacchia divertita.

«Posso stendermi con te?» mi chiede, la vocina di una dolcezza incredibile. Annuisco e le faccio spazio sul materasso, alzando la coperta. 

Si infila veloce al di sotto, appoggiando la testa sulla mia spalla e prendendo tra le sue dita una ciocca dei miei capelli, rigirandosela tra le dita in un silenzio confortevole. Piano piano, sento la stanchezza tornare dentro di me e decido di chiudere gli occhi, consapevole che tra pochi istanti mi sarei addormentata con la persona più importante della mia vita tra le braccia.

***

Mi sveglio di colpo a causa di un forte rumore proveniente da fuori la stanza. Ebony ha ancora gli occhi chiusi - non sapevo nemmeno si fosse addormentata - e la mano destra appoggiata sul mio petto. 

Di nuovo un forte rumore. Forse se lo ignoro passerà. Riprovo a chiudere gli occhi. Passa solo qualche istante prima di sentire qualcuno gridare, anche se le parole sono tutte confuse. Non riesco a starmene qui seduta ad aspettare che qualcuno venga ad aggiornarmi su ciò che sta succedendo. So benissimo che alzarmi in queste condizioni è un gravissimo rischio per la mia ferita e oltretutto, Wayne mi ha ordinato di non farlo per nessuna ragione al mondo se voglio che guarisca il prima possibile. Ma non ce la faccio ad aspettare.

Sveglio quindi Ebony, la faccio scendere dal letto. Mi tiro su seduta - non senza gemiti di dolore -, appoggiando per qualche istante il tronco alla parete fredda del muro per stabilizzare i miei giramenti improvvisi.

«Cosa stai facendo?» mi chiede Ebony, non appena mi vede spostare le gambe giù dal letto.

«Aiutami ad alzarmi» le ordino, ignorando la sua innocente domanda. Ebony prova a ribattere, ricordandomi che non posso alzarmi ma, per una seconda volta, faccio finta di non sentirla e mi tiro su in piedi, trattenendomi dal lasciare uscire dalle mie labbra un’imprecazione di fronte a lei.

Ebony allora mi viene subito al fianco sano, avvolgendomi con le sue braccia per cercare di aiutarmi a tenere l’equilibrio. Appoggio una mano sulla sua spalla, stringendola appena muovo un passo, rendendomi conto che il mio peso è troppo per lei. Piano piano, arriviamo alla porta della stanza, una mano sulla sua spalla, l’altra tremolante sul muro. C’è ancora qualcuno che sta gridando: mi si contorce lo stomaco, anche se non riesco ancora a capire le parole. Di sicuro, non è niente di buono.

Con una lentezza incredibile, riesco ad arrivare alle scalinate della palestra - per fortuna non troppo lontane dall’infermeria -, anche se cerco di combattere l’impulso di sedermi a tutti i costi. C'è un gruppo abbastanza numeroso di gente raggruppata vicino alle porte: non sono tranquille, continuano a guardare freneticamente da una parte all'altra. Il fatto solo che siano vicino alle porte non mi tranquillizza affatto.

«Giuro che sparo!» Eccola la voce che mi ha svegliata. Ecco cosa sta dicendo.

Il battito del cuore aumenta di colpo, il senso di ansia che prende il suo posto stabile alla bocca dello stomaco. 

«Ebony...» Mi volto solo per non trovarla più alle mie spalle, al suo posto solo uno spazio vuoto. Con una situazione del genere dovevo assicurarmi che lei rimanesse lontana da qui, ma è troppo tardi a quanto pare.

Mi concentro su ogni spazio della palestra, provando ad individuare i suoi capelli neri o i suoi occhi, ma senza risultati.

«Non ce la faccio più!» La voce maschile ritorna, facendomi trasalire per quanta potenza e rabbia caricano il suo tono di voce.

Non posso rimanere qui, sperando che la situazione si calmi, senza effettivamente capire cosa stia succedendo; so solo che ha una pistola e non mi sembra esattamente nel pieno delle sue capacità mentali.

Arrivo alla cerchia più esterna di persone e, in quella più stretta, intravedo la madre di Calum che sta cercando in tutti i modi di tranquillizzare l'uomo, che non ha un bell'aspetto: ha gli occhi rossi, gonfi, il viso completamente rosso, in preda al completo terrore e rabbia.

«Cosa ci fai tu qui?!» Trasalisco per una seconda volta, il braccio di Calum che si allaccia al mio corpo e comincia a tirarmi dalla parte opposta.

Mi libero dalla sua presa, ritornando a dove ero prima. Il ragazzo mormora un'imprecazione quasi impercettibile per tutto il baccano qui intorno.

«Clark, per favore, dammi la pistola. Risolviamo questa cosa parlando, okay?» dice la madre di Calum, Johanna, con un tono di voce talmente delicato e gentile che sembra quasi cancellare la tensione nella stanza.

L'uomo abbassa l'arma, prima puntata verso il pubblico, chiudendo gli occhi per soppesare le sue parole. In questo improvviso silenzio, vengono in risalto quegli orribili tonfi e versi strozzati che provengono dalla parte opposta della porta. Il problema stava influenzando tutti quanti, tranne me che dall'infermeria e dal mio stato di spossatezza non riuscivo a sentire nulla.

«Non possiamo risolverla parlando. Non c'è via d'uscita...» ribatte l'uomo con lo sguardo fisso sul pavimento. Un singhiozzo scuote completamente il suo corpo e noto una piccola goccia toccare il suolo tra i suoi piedi. Si prende la testa tra le mani, stringendo i capelli. «… non ce la faccio a rimanere qui… non ce la faccio più. Voglio solo mettere fine a tutto questo rumore!» Il suo lamento iniziato con un sussurro finisce presto in un urlo.

In uno scatto veloce si porta la mano armata alla testa, le lacrime che ora scendono copiose sul suo viso, trasformato in un'espressione finita. «Non è più solo nella mia testa.» Fa un cenno verso la porta con il capo.

«Ehi! Ehi, ti prego, ti supplico. Non farlo.» La voce che mi sembra uscire da sola dal mio corpo. «C'è una via d'uscita, c'è sempre. Lascia che ti aiutiamo, per favore.» 

L'uomo stringe ancora più chiusi i suoi occhi, scuotendo la testa. «Non c'è speranza!»

«Non so cosa tu abbia passato, ma so che tu sei importante. Per noi. Sei importante per te stesso. Io-noi siamo orgogliosi di te» inizio, facendo qualche passo traballante avanti con le braccia aperte ai miei lati. «Sei un sopravvissuto. Ci vuole coraggio a rimanere in questo mondo e tu, proprio tu, ne hai da vendere. Credo in te, so che ce la puoi fare.» Avvicino una mano verso la sua, sperando in una risposta positiva.

Mi sorprende quando decide di prendermela e darle una forte stretta. Tutto si sarebbe risolto ora.

«Mi dispiace.» La sua voce impercettibile, mentre l'indice preme veloce sul grilletto.

Lo sparo rieccheggia più del dovuto nelle mie orecchie. Mi sembra di stare guardando la scena da lontano. Il suo corpo cade in modo terribilmente sconnesso a terra. La mano tiepida che scivola veloce dalla mia. Mi viene la nausea. Indietreggio di qualche passo.

Gli “spettatori” hanno le mani sulle bocca, alcuni gli occhi serrati, le mani sulle orecchie, presto molti danno le spalle alla scena. Io mi sento paralizzata. 

Vedere qualcuno morire davanti ai propri occhi è un trauma, qualsiasi legame si avesse con quella persona. Prima Reece. Adesso Clark. Lo so che non è colpa mia. Forse avrei potuto fare di più. Ci credevo davvero a quelle parole? Forse avrei potuto salvarlo dal proiettile. Forse non avrei potuto fare niente, perché la sua battaglia era contro un altro tipo di mostri.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


CAPITOLO 25


KAYLA
 

Tutto quello che succede dopo è molto confuso, annebbiato: qualcuno si butta disperato sul suo cadavere, i singhiozzi che rieccheggiano e riempiono l’intero spazio circostante. Io vengo trascinata all’indietro in uno stato completamente confusionale e di shock. È come se tutto si stesse svolgendo a rallentatore.

Mentre vengo portata via, ritrovo Ebony con le lacrime che le scendono copiose sulle guance, uno sguardo di puro terrore sul suo viso. Riesco a vederla per appena pochi secondi, prima che la scena riprenda a correre davanti alla mia vista. Johanna vicino a me che annuisce non appena dico quelle parole, la stretta di mano, il suo sguardo rotto… Lo sparo.

Non posso salvare tutti. 

Non posso salvare tutti. 

Non posso salvare tutti.

Salvare da cosa, poi? Dalla morte? Dalla vita? Morte e vita. Aveva davvero senso continuare a vivere sopravvivendo? Forse ha fatto la cosa più sensata di questi tempi. Forse no. In ogni caso, era al di là di ogni mio possibile controllo. Non era colpa mia. Non è colpa mia.

«Gruppo Spedizioni, riunione. Ora!»

«Ti riporto in infermeria» dice Calum, dopo aver rassicurato mia sorella, essendo io troppo in trance per farlo.

«Cosa…?» gli chiedo con un tono di voce assente, non mi sembra nemmeno di essere presente. Mi sembra di stare guardando la scena svolgersi dall'esterno. «Dov'è Ebony?» chiedo subito dopo, in un momento di preoccupazione improvvisa.

«È andata con gli altri-» Calum si ferma improvvisamente. Mi appoggia le mani sulle spalle per tenermi in equilibrio, posizionandosi davanti a me. «Ehi, ehi, tranquilla, okay?» Mi prende il mento tra le dita, voltando il mio viso verso il suo.

Sto piangendo. 

Passa i pollici sulle guance per asciugarle dalle lacrime che cominciano a scendere copiose dagli occhi. 

«Voglio venire alla riunione» dico, tra un respiro e l'altro, provando a trattenere i singhiozzi che lottano per uscire dal mio petto. Uno scappa al mio controllo, smuovendo l'intero corpo, provocandomi una scia di dolore acuta all'addome, che mi fa vacillare sulle mie stesse gambe. Mi aggrappo alle braccia del ragazzo.

Calum non dice nulla. Mi aiuta solo a riportarmi a letto. Il breve tragitto passato in silenzio, se non per il mio tirare su con il naso. Una volta seduta, riprendo controllo della mia mente e della poca rimasta lucidità. Mi strofino gli occhi e le guance quasi con violenza, se non fosse per la poca energia in corpo.

«Devo andare. Torno da te appena finiamo.» Mi guarda ancora una volta preoccupato per quella che sembra la centesima volta in poche ore. «Prova a non prenderti la colpa per ciò che è successo. Sarebbe accaduto comunque, prima o poi.»

«Voglio sentire la riunione» ripeto, imperterrita. 

Lo so che non è colpa mia. Lo so che non posso farci nulla. Ma è comunque morto davanti ai miei occhi. L'unico modo per non pensarci è tenere occupata la mente con qualcos'altro. E bloccata qui in questo letto non posso farlo. O mi porta da loro, o la riunione viene da me.

Calum sospira frustrato, se solo non fosse successo ciò che è appena successo, so che mi griderebbe addosso quali problemi io abbia. Vorrei avere del tempo per poter guarire. Lo vorrei davvero. Ma ora più che mai, mi accorgo che non ce n'è.

«Per favore» lo supplico. Ormai è l'unica cosa che mi rimane da fare. Se non fossi ferita, ci andrei con le mie gambe a questa dannata riunione.

Sospira rumorosamente, le mani che gli sfregano il viso per poi passare al collo. «Vedo cosa posso fare.» Detto questo, non temporeggia oltre, lasciandomi ancora una volta da sola in questa stanza.

Sono in momenti come questi che vorrei avere tutte le risposte. Capire il senso di tutto ciò, se ne esiste veramente uno. Perché, al momento, mi sembra come se qualcuno avesse intrecciato e annodato in malo modo tutti i nostri fili da marionette e non sappia come fare a snodarli. Allora li lascia lì, accasciate l'una sull'altra, dimenticandosene dopo poco tempo.

L'unica cosa che riesco a provare in questi giorni - oltre al dolore - sembra travolgermi come una ventata. Chiudo gli occhi per qualche istante, lasciando che la stanchezza mi cancelli ogni pensiero dalla mente. Vorrei potermi addormentare. Dimenticare. Però non funziona così.

***

Alla fine, la riunione non è venuta da me. E nemmeno io sono andata da loro. Ero completamente persa in uno stato di dormiveglia, un po' cosciente, un po' no, prima che arrivasse Blaine nella stanza a ricapitolare ciò che si era detto. Mi sembrava quasi di essere tornata a scuola, quando c'erano le assemblee dei docenti o rappresentanti, che il giorno dopo riassumevano in veramente troppe poche parole i punti principali. Blaine era stato molto esaustivo, invece.

Dopo che ognuno di noi due si era assicurato dello stato di salute dell'altro, mi ha informata che avremmo presto dovuto cambiare "casa"  - come avevo immaginato, infatti -. Il continuo battere e sbattere dei Morti famelici contro le porte della palestra stava danneggiando i cardini che, per quanto potessero essere stati controllati durante gli anni, sono troppo vecchi e presto sarebbero ceduti. 

Dopo l'episodio traumatico di oggi, il panico si sta diffondendo come una piaga tra le persone del campo. Tenere a bada quaranta persone circa, terrorizzate che possano avere una morte atroce da un momento all'altro non è una cosa fattibile. Non mi aspettavo sarebbe successo così in fretta: dopo quasi quattro anni, credi uno ci abbia fatto l'abitudine a vivere costantemente minacciato. Non è così.

Ora abbiamo davanti a noi due grandi problemi: dove andare e come. Avevo detto a Calum la notte di Natale che avevo intravisto un edificio che poteva essere adatto: la zona era piuttosto tranquilla l'ultima volta che ci sono passata, lì intorno c'era un blocco abitativo, quindi avremmo anche potuto trovare delle provviste.

Il punto è che non abbiamo fatto alcun sopralluogo. Potrebbe star cadendo a pezzi. Potrebbe essere infestato. Potrebbero esserci altri sopravvissuti e dopo l'ultima esperienza, avrei preferito non invadere il loro territorio.

Fuori sta ancora nevicando. La neve si accumula sull'asfalto. Ad avere ancora un auto sarebbe più semplice. Avremmo potuto trasferire tutto e tutti via macchina, invece che trasportare solo bambini e più anziani come era il piano iniziale. Non so nemmeno se adesso esista un piano. 

Ancora una volta, il tempo è contro di noi. Tutto si riduce a lui. Non abbiamo tempo.

«Avete trovato delle soluzioni?» chiedo quasi speranzosa, una volta che Blaine ha finito di parlare.

«Travis ne sta parlando ora con tutti quanti. Con più menti al lavoro, forse possiamo trovare una risposta.»

«Vorrei poter essere di più aiuto.» Blaine mi guarda sconfortato, un cipiglio che si forma tra le sue sopracciglia. 

«Ce la possiamo fare anche senza di te.» Qualche attimo di silenzio segue, la sua espressione che muta in una di errore. «Quello che intendo, è che ti meriti anche tu un po' di riposo. Soprattutto nelle tue condizioni» aggiunge poco dopo, quasi come se pensasse mi fossi offesa.

«Lo so e lo apprezzo, credimi. Ma mi sento comunque inutile.» Mi sistemo sul letto, provando a mettermi seduta ma rinunciando non appena mi viene un capogiro. «Cosa mi dici di Tracey ed Elyse?»

Avevo già posto questa domanda poche ore fa, ma la preoccupazione era ed è ancora presente dentro di me. Se non fosse stato per Elyse, sarei morta già due volte.

«Non sono loro quelle con un taglio al fianco, Kayla. Stanno bene, Rose le ha già sistemate» dice, finendo la frase con una risata leggera. 

Una volta finita la nostra leggera conversazione, Blaine mi lascia ancora una volta sola nella mia stanza, che comincia già a starmi stretta.

***

Il clic rumoroso della porta che si apre nell'oscurità e silenzio tombale. L'unico rumore oltre al mio respiro. Giro appena appena la testa, pronta per accogliere chiunque sia venuto a farmi visita a quest'ora.

Erano già passate due ore - o almeno così mi sembrava, dato che non avevo nessun orologio a dirmelo - dalla piccola e misera cena che sono riuscita a mandare giù, gentilmente portatami da Olivia, accompagnata da Ebony. Mentre la prima praticamente mi imboccava, la seconda mi intratteneva, raccontandomi storie inventate da lei stessa. Sono sicura che se il mondo non fosse finito, da grande sarebbe diventata una scrittrice o un'attrice. 

Dopo aver controllato che le bende tenessero e che non fossero sporche di sangue - così da capire che anche i punti improvvisati stessero funzionando -, le due sono ritornate alle gradinate riluttanti, non volendomi lasciare sola per troppo tempo. Credo di aver ringraziato Olivia almeno un centinaio di volte per la sua premura nei miei confronti e le ho praticamente obbligate a ritornare di là, così che potessero accumulare qualche ora di meritato riposo.

Non so nemmeno che giorno sia, non che sia importante, ma l'avere un qualche punto fisso a cui aggrapparmi mi fa sentire un po' più normale di quello che sembra.

Un flebile spiraglio di luce entra dalla porta e mi tocca socchiudere gli occhi per l'improvviso cambio. Secondi dopo, la porta viene richiusa. Faccio spallucce mentalmente e lascio che la mia guancia si appoggi al cuscino sotto la mia testa, chiudendo gli occhi.

Il trovare una soluzione a tutti questi problemi mi tormenta da un po' di tempo ormai. Vorrei schiacciare l'interruttore per spegnere tutti i miei pensieri. Vorrei che fosse così semplice.

Clic. Di nuovo. Decido di non aprire gli occhi. Sarà solo qualcuno che si starà assicurando che stia dormendo o che stia bene. Spesso entravano e uscivano subito dopo, anche solo per sapere se avessi bisogno del bagno. 

Un sospiro pesante mi giunge subito alle orecchie, poi qualcosa viene appoggiato sul "comodino". La sedia viene spostata delicatamente, per non disturbarmi. Chiunque sia, crede che io stia dormendo.

«Mi dispiace. So che stai dormendo e che non sentirai mai ciò che ti sto dicendo, ma mi dispiace che questo sia dovuto succedere.» Un altro sospiro carico di… dolore? «Se non ti fossi mai unita a noi, questo non sarebbe successo. Non avresti mai dovuto affrontare qualcosa che non ti riguardasse, in nessun modo. Mi sento così in colpa.»

Ho capito di chi si tratta. E non appena sento pronunciare quelle sue ultime parole, le mie labbra si muovono veloci, sfiorando l'estremità della coperta. «Niente di tutto questo è colpa tua, Travis. Non ci provare neanche.»

«Scusami. Pensavo stessi dormendo, non volevo disturbarti con i miei discorsi autocommiserativi» risponde veloce, con una leggera risata per smorzare le sue parole.

«Puoi parlare con me,» gli dico, facendo ricorso a tutta l'empatia in me. «ho tutto il tempo del mondo» aggiungo, il mio viso girato verso di lui. Mi ha portato una candela profumata. Cannella?

È un pensiero carino. Adesso c'è un po' di luce e calore in questa stanza quasi asettica come un ospedale.

La fiamma ondeggia, creando ombre grottesche sul suo viso, più stanco del solito. Sono successe un bel po' di cose in questi pochi giorni; dalla paura che sua moglie non potesse più tornare al campo, al vederla con un braccio rotto, le importanti perdite materiali subite, le nostre ferite, i Morti alle porte, Clark...

«Non posso non sentirmi in qualche modo in colpa, Kayla. Sei stata ferita due volte dallo stesso uomo da quando sei con noi.» Si passa una mano sul viso. «Avevo paura che non ce l'avreste fatta. Poi ho scoperto che a fare tutto questo è stato ancora lui...» La sua voce si affievolisce. Con un mano fa cenno a me e verso la porta.

«Non potevi prevedere che fosse ancora vivo. Eravamo noi stessi sorpresi nello scoprirlo. Adesso siamo davvero sicuri che non ritornerà a fare del male a nessuno.»

«Quell'uomo sembra quasi immune al suo destino.» La frase aleggia nell'aria per qualche istante. 

La curiosità comincia a farsi strada dentro di me. Non sapevo niente di Jordan. Ormai non avrebbe più avuto controllo su di loro, ma doveva avere avuto un qualche ruolo importante nella storia di questa grande "famiglia" - se così si poteva chiamare - e sento il bisogno di saperlo. Per me, ma anche per provare a togliere una parte del macigno che gravava - e ancora grava - sulle sue spalle e sul suo cuore.

«Cosa… Come siete arrivati a questo punto?» Lascia andare una risata amara, cosa che mi sorprende non poco. Si passa ancora una volta la mano sul viso, strofinandosi gli occhi.

«Non eravamo ancora qui. Avevo un bar» comincia, gesticolando leggermente e guardando la parete dietro di me. «alcuni dei ragazzi lavoravano da me, hanno portato lì più persone che potevano. Sopra al bar c'era la mia casa, dietro un piccolo giardinetto. Le provviste c'erano, abbiamo solo dovuto barricare la struttura e fare un po' di spazio per tutti quanti.»

     «Avevamo un piccolo orto con patate e carote, crescono senza troppi problemi. Un giorno è arrivato Jordan.» Qualche istante di silenzio. Un altro sospiro. «Era solo, lo abbiamo accolto senza troppe domande - il più grande sbaglio mai fatto;» Scuote la testa, le dita che cominciano a giocherellare con le sue unghie.

«Voleva le provviste, tutte quante, e anche l’intera proprietà, tutto per sè. Ha cominciato a minacciarci con il fucile. Noi avevamo forse due pistole, io non sapevo nemmeno come usarne una, quindi per qualche giorno siamo stati tutti sotto i suoi ordini. Il terzo giorno, è arrivata altra gente, armata fino ai denti: non ci ho messo molto a capire che erano assieme a lui.»

«Hanno cominciato a uccidere una persona al giorno, a sangue freddo, che fosse adulta o un ragazzino, a loro non importava molto. Volevano solo che ce ne andassimo. E l’abbiamo fatto. Ho abbandonato tutto quanto: il lavoro di una vita, la casa costruita mattone per mattone, un’intera vita lasciata alle mie spalle. Non potevo, non riuscivo a vedere altre persone innocenti morire sotto ai miei occhi.» Fa una pausa e deglutisce, strizza gli occhi. Io prendo un respiro profondo.

Il destino è crudele. Quante possibilità c’erano che Jordan trovasse proprio la loro casa? Quante possibilità c’erano che Jordan fosse così meschino? Mi preoccupo sempre di quanto sia stato ingiusto il destino con me e la mia famiglia, rendendomi conto solo poche volte che lo è stato anche con tutti quelli ancora vivi. 

Una volta lessi la frase “la vita è sofferenza” e pensai a come fosse possibile che la nostra intera esistenza potesse ridursi a sola e pura sofferenza; c’erano così tante possibilità, così tante alternative, così tante cose belle per me per poter credere a quella frase. Ora è tutto così diverso; ora è tutto così chiaro ed annebbiato allo stesso tempo.

Travis prende un sorso d’acqua dalla mia bottiglia, dopo avermelo chiesto almeno tre volte. «Ce ne siamo andati, ti ho detto. Puoi immaginare che il gruppo si è quasi dimezzato con tutti quei pericoli lì fuori. Michael, il padre di Calum, è morto per salvare Meredith. Ucciso dai Morti. Quanto è ironica la vita a volte» dice, lasciandosi andare in una risata amara.

Sapevo che il padre di Calum e Mali era morto - me lo aveva detto proprio il primo, appena qualche giorno dopo il mio arrivo al campo, sulla terrazza, quando nessuno dei due riusciva a riprendere sonno a causa dei terribili sogni che ci rincorrevano costantemente nel nostro sonno. Scoprire le circostanze in cui era accaduto… Proprio davanti ai loro occhi.

«Siamo arrivati qui. Abbiamo ricostruito tutto da capo, ma con molta più fatica. Abbiamo creato i diversi gruppi di lavoro, con non pochi problemi inizialmente. Quando tutto sembrava star andando per il verso giusto, Jordan è ricomparso. Non direttamente, no. Ha fatto crescere la suspence, proprio come voleva il suo carattere teatralmente melodrammatico. Ogni volta che un gruppo usciva, una persona moriva e gli altri che tornavano al campo, terrorizzati, dicevano che era stato lui, che aveva un messaggio per noi. La stessa storia si ripeteva, solo che non voleva la proprietà. Voleva le nostre provviste e voleva che noi gliele procurassimo ogni volta.»

    «Le tensioni nel gruppo non sono mai state così alte. Abbiamo provato a contrattaccare, senza risultati positivi però. Tre anni vissuti nel completo terrore, e non per i Morti. Per una cazzo di persona viva.» La rabbia è così evidente sia nel suo tono di voce che nei suoi occhi, che quasi mi spaventa. «Il resto lo sai. Sei arrivata tu. In qualche modo il tuo arrivo ha messo fine a tutto quella paura e rabbia, ma non prima di aver fatto del male anche a te.» Conclude e lascia andare due respiri profondi, il petto che si riempie e si svuota lentamente, lasciando andare con sè il peso di tutte quelle parole.

Processare tutte queste informazioni in così poco non è per niente facile. La mia rabbia è placata dal solo sollievo di saper Jordan morto. La sua morte ha tolto un enorme macigno dalle loro fragili e continuamente frustate schiene, lasciandoli però con dei traumi permanenti. Ancora una volta, penso a quanto il destino sia un bastardo figlio di puttana.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Ciao a tutti!

Per prima cosa, grazie a tutti per tutto "l'amore" che state dando ad Alive, per me significa davvero molto. Grazie, grazie e grazie ancora.💜

Ora, il capitolo: come potrete vedere, questo capitolo sarà narrato da un punto di vista diverso. Ho detto, perchè no? 

E' anche abbastanza lungo e succederanno,,,,,,,, cose.

Vi lascio al capitolo, buona lettura e spero vi piaccia!

- Marina


CAPITOLO 26

WAYNE

La luce filtra timida tra le finestre. I raggi del sole si fanno spazio tra le nuvole ancora gravanti di neve per la prima volta in una settimana e mezza. La polvere compare e scompare tra i fasci di luce ed ombra, ombre grottesche si posano sui teli che coprono gli attrezzi della palestra. L’aria al primo piano della palestra è fredda ed umida: il calore del fuoco sottostante non riesce ad arrivare fino a qui.

Questo è un addio.

Dopo tre anni, dobbiamo lasciare la nostra casa, o almeno, la cosa più vicina ad una. Divertente detto da me, che non ho mai sentito di appartenere da nessuna parte. Per quanto le circostanze possano essere differenti - se non macabre e terrificanti -, questa palestra, queste persone, sono le cose più vicine ad un senso di familiarità che ho provato in tutta la mia vita.

Non è il fatto di dover abbandonare l’edificio di per sè, è il fatto di lasciare andare tante cose, tante emozioni, sensazioni, sicurezza... Dover lasciare andare quel senso di tranquillità e rassicurazione.

Prima del Riavvio - così mi piace chiamarlo -, mi sentivo spesso un granello insignificante di sabbia in una vastissima spiaggia fatta da sette miliardi di altri granelli. Mi sentivo come se la mia presenza fosse superficiale, non del tutto importante; non ho mai voluto cambiare il mondo o diventare famoso, ma volevo essere davvero importante per qualcuno. Forse la colpa era della compagnia con cui giravo al tempo, forse era mia, sempre alla ricerca di quel senso di completa pienezza che mi faceva perdere la cognizione del presente e delle persone all’interno. 

Non sono mai stato troppo attaccato alla mia famiglia, non è mai stata una roccia su cui contare qualsiasi cosa accadesse; partendo dalla separazione dei miei genitori in tenera età, alla continua lotta tra i due per decidere chi dovesse avere la mia custodia o quella del cane, al dovermi mettere subito al lavoro per poter mettere qualcosa da mangiare sotto ai denti quando i soldi venivano a mancare…

Poi ho trovato Travis e il lavoro al bar casualmente, o forse non troppo. Ho lavorato per lui per due anni, poi il Riavvio è cominciato. Nonostante tutto, sono sempre stato positivo davanti alla vita, non mi sono mai arreso facilmente, - forse perchè sotto sotto sto ancora cercando il mio posto in questa spiaggia dimezzata -. Venire preso “in custodia” da Travis e Tracey è stato come se il Riavvio mi avesse voluto dare una seconda opportunità ad avere una famiglia più vicina al normale. Una famiglia molto allargata, ma ha funzionato comunque.

Non è stata facile, per niente. Tra Jordan, le discussioni e i problemi pratici da risolvere nel gruppo, davanti a noi si poneva sempre un quesito a doppia risposta: vita o morte? “Se prendiamo questa via, riusciremo a uscirne vivi?” La linea tra queste due opzioni è così sottile. La vita. La morte. Due delle più grandi questioni dell’umanità; cosa rende la vita vita? Cosa c’è dopo la morte? Credo che in questo periodo siamo tutti nella linea di mezzo: non siamo vivi, ma neanche morti. Stiamo sopravvivendo. Non mi chiedo per cosa, tutto questo discorso di per sè manda già in crisi le certezze del mio essere, figuriamoci chiedermi per cosa lo sto facendo.

C’è una cura?

C’è ancora un governo?

C’è ancora qualcuno lì fuori che sta cercando una soluzione?

Ai notiziari - quando ancora la situazione non era sfuggita completamente di mano - dicevano si potesse trattare di un virus all’interno del cervello. Niente di più, niente di meno. Da cosa potesse essere causato? Da dove proveniva? Chi è stato il portatore? Nessuna risposta a queste domande. Siamo tutti portatori  sani della nostra stessa distruzione, della cosa che ci spaventa di più al mondo. O almeno, così ci è stato detto.

Ticchetto distrattamente le dita sul basso davanzale della finestra, il rumore appena accennato dei polpastrelli contro il marmo che mi riporta alla realtà. Il mio momento per dire addio è finito. Devo tornare di sotto per finire di prepare tutto ciò che possiamo portarci addosso nella nostra lunga camminata verso una nuova, possibile casa.

Non è decisamente il periodo migliore in cui potesse capitare: la neve sull’asfalto, Tracey e Kayla - soprattutto quest’ultima - ancora gravemente ferite per poter affrontare uno sforzo fisico del genere, il freddo invernale… Ma è o questo o una morte crudele. Di nuovo: vita o morte?

Mentre scendo le scale, sento il chiacchiericcio soffuso della gente, indaffarata tra il raccogliere i loro miseri affetti personali e le provviste racimolate in questi mesi. Ad essere realista, non siamo pronti per un esodo così improvviso, ma di sicuro non sarò il primo a mollare.

Decido di passare da Kayla prima di riprendere a impacchettare le mie cose. La trovo seduta sul letto con uno sguardo omicida impresso sul viso rivolto verso Calum.

«Ti prego, fai entrare un po’ di senso nella sua testa» dice, lasciandomi appena il tempo di mettere piede in infermeria. Calum scuote la testa, lasciandosi scappare una veloce e precisa risata sarcastica.

«Che succede?»

«Tutti crediamo che dovremmo armare sia anziani che bambini, ma lei ovviamente si rifiuta di farlo-»

«Non è che mi rifiuto, te lo impedisco. Ebony non terrà in mano una pistola fin quando ci sarò io» ribatte Kayla decisa, la risolutezza che sembra quasi rinvigorirla completamente e donarle un po’ più di vita di quello che mostra il suo colorito.

Lei vuole quasi nascondere il fatto che sta soffrendo fisicamente, forse perchè pensa di essere un peso, ma la ferita non è ancora rimarginata e Rose ha dovuto diminuire la dose di antidolorifici a causa delle poche scorte che ci sono rimaste. Infatti, come se mi avesse letto nel pensiero, la vedo nascondere una smorfia di dolore quando torce il suo busto.

«Kayla, Calum ha ragione» dico cauto, lanciando un’occhiata al ragazzo al mio fianco, che sembra ringraziarmi mentalmente.

«Non ci posso credere.» Le sopracciglia si alzano incredule sul suo viso, le braccia che si incrociano davanti al suo petto e un’altra smorfia di dolore le passa come un’ombra fugace sul viso. «Io non voglio farlo!»

«Sai, alcune volte sei forzato a fare cose che non vorresti! Pensi che tutti noi siamo felici di dare in mano a dei bambini di otto anni una pistola o un coltello, che nemmeno sanno come si usa? Perchè non è così! Non lo è, dannazione!» Calum sfuria, le mani che si muovono veloci attorno al lui. Il suo gesticolare gli scappa sempre di mano quando è arrabbiato. «È solo per precauzione» dice dopo aver preso qualche respiro, il tono addolcitosi così come il suo aspetto.

Annuisco alla sua ultima affermazione. Ma non sembra funzionare, quando Kayla sembra scoppiare come un vulcano in piena eruzione. «Io sono la sua precauzione!» Per un attimo penso voglia alzarsi in piedi e prendere entrambi a pugni. «La sua infanzia è già difficile così, non voglio che la violenza diventi la sua migliore amica.»

«Potrebbe fare la differenza in una situazione di pericolo,» ribatte pronto Calum, con la vena nel collo che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Sta cercando di controllarsi. Ormai sa anche lui che per convincerla non serve a niente gridarle contro e sa anche che loro due si assomigliano più di quanto possano immaginare. «sai anche tu che non potrai rimanere con lei in ogni istante.»

«Soprattutto in queste condizioni» intervengo, appoggiando Calum e annuendo. Porto una mano al viso per grattarmi la guancia e poi prendo a giocare con il mio labbro inferiore.

Il silenzio che segue è quasi sconcertante. La quiete dopo la tempesta. Fissa un punto indefinito ai piedi del letto, assorta nei suoi pensieri che si stanno molto probabilmente prendendo a pugni, calcolando ogni rischio di entrambe le situazioni. Alla fine, alza lo sguardo, facendolo passare prima su di me e poi su Calum. Poi, annuisce sconfitta. «Gliela darò io.» Calum fa un cenno con il capo e se ne va senza troppi indugi, lasciandoci da soli nella stanza.

Prendo posto ai piedi del suo letto, studiando per qualche istante il suo comportamento; ho imparato a lasciarle il suo tempo in qualsiasi cosa. Dopo aver passato tutti quegli anni da sola, non è più così facile e spontaneo parlare dei propri pensieri con gli altri. All'inizio, infatti, si vedeva che faticava a mantenere una conversazione, era una cosa diventata completamente estranea per lei. Io devo solo ringraziare tutti gli amici e coetanei che sono ancora qui con me.

«È strano,» dice flebilmente, tenendo lo sguardo incollato allo spazio tra le mie e le sue gambe, osservando la coperta beige sul letto. Lo dice così piano, che per qualche istante credo che non stia neanche parlando con me, ma poi alza gli occhi. «non ho alcun motivo di essere nostalgica per… questo» continua, indicando le pareti attorno a lei, ma so che vuole indicare l'intera palestra.

Sembra quasi mi abbia letto nel pensiero. 

«È umano» ribatto, facendo scorrere lo sguardo per la stanza, come se volessi imprimerla per sempre nella mia mente.

Ci sono stato così tante volte. Solo un paio di volte nel letto, la maggior parte come visitatore. Jordan non era proprio un tipo clemente quando le provviste erano meno di quelle da lui richieste. Tanti hanno sofferto. Alcuni sono morti. Altri sono diventati Morti. 

In un modo perverso, tutto questo ha senso: prima noi abbiamo distrutto la natura, ora la natura distrugge noi. Il ciclo è completo. Tutto torna.

«Scusami, io penso sempre a me… Tu, come ti senti?»

«Okay. Come hai detto tu, strano. Ma va bene così, niente è perenne.»

Passano istanti profondi di silenzio, ma me ne accorgo solo quando Kayla riprende la parola. «Come l’hanno presa?» chiede, facendo un cenno con la testa oltre la porta.

«Non come mi aspettavo,» rispondo, lasciando andare uno sbuffo. «alcuni vogliono restare qui. Credono di non riuscire a farcela una seconda volta.» 

La ragazza riposa subito lo sguardo su di me, preoccupato, allarmato, gli occhi sgranati e la bocca che potrebbe aprirsi in stupore da un momento all’altro. «Se rimangono qui sono morti.» So che si trattiene nel dire la parola pazzi.

«Non siamo riusciti a fargli cambiare idea. Anche Olivia non vuole saperne.» Al sentire il nome della donna, Kayla fa uno scatto repentino per alzarsi in piedi, imprecando fortemente non appena riesce a stare sulle sue due gambe. Mi alzo di riflesso, allungando le braccia verso di lei per paura che crolli, lanciandole uno sguardo ammonitore. Per risposta, alza le sopracciglia. 

«Farà bene ad ascoltare me, allora.» ribatte risoluta, con una mano che si appoggia come un velo sul suo fianco ferito.

La seguo inerme fuori dalla stanza, sapendo che bloccarla sarebbe del tutto inutile: probabilmente mi risponderebbe che a breve dovrà camminare comunque per il nostro esodo. Le suggerisco solo di fare attenzione a non fare movimenti troppo bruschi - anche se già si è alzata troppo velocemente - per non far riaprire la ferita.

La donna in questione è seduta sugli spalti assieme a un piccolo gruppo di persone, che riconosco come tutti quelli che vogliono rimanere. Kayla chiama Olivia con un tono minaccioso e uno sguardo di fuoco. È pazzesco come si sia affezionata a determinate persone così tanto, ma in così poco tempo. E mi ritengo fortunato nell’essere uno di quelle, vedendola così pronta a proteggere le persone a lei care.

«Per quale cazzo di motivo non vuoi andartene?» le dice senza preoccuparsi troppo del suo linguaggio. Olivia mi lancia uno sguardo allarmato e io le faccio spallucce. Kayla barcolla quasi impercettibilmente e le appoggio svelto il palmo della mano sulla schiena. Non sembra nemmeno accorgersene, abituato come sono a vederla irrigidirsi a ogni contatto umano al di fuori di sua sorella Ebony.

«Sarei solo un peso morto.» Olivia fa in fretta a riprendere parola prima che Kayla la interrompa. «Sono vecchia, non so usare armi e fa freddo. Dovreste starmi sempre appresso. Non voglio che voi rischiate la vostra vita per salvare me.»

«Sarai-sarete tutti quanti morti se state qui!» ribatte aggressiva Kayla, indicando tutti quanti seduti sulle scalinate, compresa Olivia. Sull’ultima parola la voce le si incrina. Sbatte un paio di volte le palpebre e digrigna i denti.

«Tesoro, apprezzo che tu ti preoccupi per me. Lo sai anche tu che ormai non c’è più niente da fare per me. Io l’ho accettato tanto tempo fa,» Olivia appoggia le mani sulle sue spalle, una che poi le accarezza una guancia. «chiedo solo di accettarlo anche voi.» Copia lo stesso gesto anche su di me e sento una parte del mio cuore spezzarsi in tanti piccoli frammenti. Questo è un addio.

Strizzo gli occhi, passandoci poi il dorso della mano sopra. Kayla combatte ancora una volta con i suoi pensieri e poi, annuisce combattuta.

Ci allontaniamo lentamente, con i cuori e le menti pesanti. Entrambi combattiamo contro lo stimolo delle lacrime. È molto più doloroso così. Lascia in bocca un sapore agrodolce: è la sua volontà, ma ti chiedi se doveva andare così. Ti chiedi se non avresti potuto fare altro, fino a quando un giorno smetti di chiedertelo, accettando la realtà per quella che è, con un peso che ti si toglie dalle spalle improvvisamente. Lasciandoti quasi un vuoto piacevole.

«Forse dovrei restare anche io.» Mi volto di scatto verso Kayla, accorgendomi solo ora che si è fermata qualche passo indietro. Non credo che la mia espressione attuale possa trasmettere quello che sto provando dentro. «Wayne, dai, quante possibilità ci sono che io riesca a farcela? Questa cazzo di ferita non si è ancora rimarginata, sono lenta e i miei riflessi sono praticamente inesistenti.»

«Cosa mi dici di Ebony, allora? La vuoi abbandonare così?» le chiedo quasi furioso. 

«Ha più possibilità di me! Credi che sia facile per me dire questo?» ribatte, alzando la voce per quanto le è possibile.

«Perché ovviamente lei verrebbe con noi, sapendo che tu rimani qua, no?» le chiedo retoricamente. «Non dire stronzate, Kayla.»

«Sto solo cercando di non mettere tutte le vostre vite in pericolo!» urla con le lacrime agli occhi. 

Prendo un respiro profondo, aprendo le mani che avevo involontariamente chiuso a pugno. «Capisco che tu abbia paura, okay?» inizio cauto. «ci hai dimostrato più volte che noi possiamo fidarci di te quando le nostre vite sono appese a un filo; lascia che sia il contrario, per questa volta.»

«Kaykay!» Ad interromperci è Ebony, proprio alcuni istanti prima che Kayla annuisse quasi impercettibilmente. Lo sguardo combattuto sul suo viso viene subito sostituito da un lieve sorriso rivolto alla bimba. «Ciao, Wayne!» dice, ondeggiando la sua mano. Ricambio il saluto e mi chino alla sua altezza.

«Che ne dici se andiamo a sederci da qualche parte? Tua sorella è un po' stanca.»  Lancio un fugace occhiataccia alla ragazza, proprio prima che ribatta. 

«Calum mi ha detto che mi devi dire qualcosa» la informa Ebony una volta seduti.

So che Kayla non porta con sé una pistola, quindi tolgo prontamente la mia dal retro dei pantaloni e gliela passo, ricevendo subito uno sguardo allarmato da parte della più piccola. Kayla prende l'arma tra le mani, facendola passare da una all'altra con delicatezza, quasi come fosse un piccolo animale e forse continuando a soppesare l'idea di dare un oggetto così potente e mortale nelle mani della sua stessa sorella.

«È solo per sicurezza, okay?» dice, porgendogliela. «io sarò sempre vicino a te, ma se qualcosa dovesse andare storto la devi usare.»

Ebony boccheggia per qualche istante. Il peso dell'arma nei suoi palmi dev'essere una cosa nuova. Appena trovata, aveva un fucile troppo grande per la sua taglia; ora è tutto a portata di mano. È terrificante come un semplice oggetto carichi così tanto significato.

«Ma io non so come si usa...» dice con aria sconfitta. 

Kayla, allora, inizia lentamente a spiegare ed indicare le parti essenziali dell’arma, mostrandole che deve premere il grilletto per poter sparare ed essere certa di aver tolto la sicura. Le fa provare i movimenti un paio di volte, per assicurarsi che sia pronta ad usarla in caso di emergenza. Poi Ebony ci congeda, dicendo di dover finire di fare le valigie.

«Ho paura di perderla.» In uno scatto, volto il viso nella sua direzione, preoccupato. Ha usato un tono così grave e carico di dolore; ho paura di ciò che possa passarle nella testa. Sono sorpreso che stia condividendo con me i pensieri più profondi, ne sono quasi soddisfatto, che con me possa essere libera di esprimersi senza troppi indugi. È così cresciuta nei rapporti personali, mi sento quasi come un genitore orgoglioso dei primi passi del proprio figlio.

«Non posso prometterti nulla, non sono Dio,» le dico, appoggiando una mano sulla sua spalla per confortarla. «ma posso dirti che farò e faremo di tutto purché ciò non accada.»

Per la seconda volta mi sorprende, abbracciandomi improvvisamente e stringendo la presa. Strofino la mano leggera sulla sua schiena.

Spero che vada tutto bene.

***

«Prima di partire, voglio ringraziarvi.» Il Gruppo Spedizioni è riunito per l’ultima volta nell’armeria. «Non so cosa succederà qui fuori e, se sarà l’ultima volta che ci vediamo, voglio potervi ringraziare adesso che posso. Se non fosse per voi giovani e coraggiose anime, non saremmo più qui da tempo» dice Travis con gli occhi lucidi. «Ora, è tempo di andare. Facciamolo di nuovo. Occhi attenti e cerchiamo di restare vivi.» 

Usciamo in silenzio dalla stanza. Ci mettiamo gli zaini in spalla. Ci chiudiamo i giubbotti. L’aria è pesante e tesa. Ognuno è nelle proprie menti. Ci attendono delle lunghe ore, forse quelle più importanti per la sopravvivenza di questo gruppo.

Sono terrorizzato. Sono pronto. Sono teso. Prendo un bel respiro profondo.

Andiamo fuori.

Davanti al gruppo ci sarà Blaine assieme ad Elyse - loro stessi si sono offerti di stare nella prima fila del pericolo -, subito dopo prendono posizione Travis e sua sorella Meredith. In mezzo ci sono tutti quelli al di fuori del Gruppo Spedizioni, dopo di loro i bambini, Tracey, Lynton, Calum e altri tre ragazzi. Kayla e Mali sono appena davanti a me, che mi fanno compagnia alla fine del gruppo.

Dietro di noi, salutiamo per l’ultima volta con gli occhi lucidi Olivia, assieme a tutti gli altri che hanno deciso di rimanere. Vorrei poter dire che è solo un arrivederci, ma sappiamo bene che è un doloroso addio. Olivia chiude la porta. E noi cominciamo a camminare.

In silenzio.

Non possiamo rischiare alcun rumore più forte di quello dei nostri passi. Ed essendo in tanti, facciamo già troppo rumore, anche se comunque attutito dai centimetri di neve sotto ai nostri piedi.

Per far si che anche i bambini rimanessero in silenzio, li abbiamo convinti a giocare al gioco di "chi riesce a stare più in silenzio?", promettendo loro una ricompensa se tutti quanti avessero tenuto la bocca serrata. So che è troppo presto, ma per ora stanno andando bene.

Non abbiamo una meta. Continueremo a camminare finché Elyse e Blaine non avvisteranno un qualsiasi edificio agibile o finché qualcuno non ce la faccia più a camminare.

Ogni tanto lancio delle occhiate fugaci a Kayla, notando con la coda dell'occhio che marca il passo sulla gamba opposta alla ferita. Sono preoccupato che si possa riaprire, ma so che Kayla è a conoscenza di tutti i rischi possibili e farà il possibile per evitarli.

Guardare il gruppo davanti a me, mi riporta all'esodo di massa dallo scoppio del Riavvio. Mi sembra di avere un deja-vu; non eravamo pronti allora come non lo siamo adesso. Ma ci si adatta, così come lo ha fatto la natura: guardandomi intorno vedo i rami secchi della vegetazione che ha ripreso il controllo dei suoi vecchi spazi: palazzi grigi e cosparsi di macchie ammuffite con l’edera che fuoriesce dalle finestre rotte, abbracciando la struttura come se la stesse tenendo in piedi, pensiline sfalsate dalle radici possenti degli alberi che rompono l’asfalto… In primavera sembra quasi di stare in un luogo immaginario o fatato con tutti questi fiori che sbocciano e che riempiono di colore il paesaggio, per non parlare del loro profumo. 

Adesso però i rami degli alberi devono sostenere il peso della neve caduta nei giorni scorsi, che al momento sembra averci dato tregua per qualche ora. Dobbiamo fare attenzione a mettere i piedi nel posto giusto per non scivolare sul ghiaccio. Mi viene quasi l’impulso infantile di mettermi a giocare a palle di neve.

Mi sistemo meglio lo zaino pesante sulle spalle, stringendo bene le corde annodate in vita, poi ricaccio subito le mani dentro alle tasche e mi diverto lasciando uscire dalla bocca la nuvoletta bianca che crea il mio respiro. Sono le piccole cose.

Vedo Lynton alzare il braccio, tenendo la mano aperta: è il nostro segnale di fermarci, c’è un possibile pericolo. Kayla, Mali ed io ci lanciamo un’occhiata fugace, già in allerta. Sposto la mia mano destra sul manico della pistola nella fondina; le due ragazze fanno lo stesso con le rispettive armi. Lentamente arriviamo ad arrestare i nostri passi. 

Kayla cerca di avere una visuale su sua sorella Ebony, sospirando quando non ci riesce. Sa - e vede - che i bambini sono tutti circondati, ad ogni angolo c’è una persona del Gruppo Spedizioni. Prima di arrivare ai bimbi, qualsiasi minaccia ci sia passerà sui corpi dei ragazzi. Spero non ce ne sia bisogno.

«Tiene la mano a Margaret. Mi sembrano tranquille» le sussurra Mali per calmarla ulteriormente. Kayla annuisce.

Istanti dopo, Lynton ci fa segno di tornare a muoverci. Falso allarme.

***

«Ecco, bevi un po’.» Passo la bottiglia d’acqua a Kayla, che si bagna prontamente le labbra, deglutendo qualche sorso meritato.

Siamo seduti dentro a un ex negozio di dolciumi, uno di quelli cui i genitori ti impediscono di entrare per tutte le schifezze che ci sono dentro. Blaine ed Elyse si sono accuratamente assicurati di neutralizzare i cinque corpi che vagavano tra una cassa di dolci e l’altra prima di farci entrare. Non abbiamo avuto tempo di trascinarli fuori, perciò ho a pochi centimetri di distanza il viso inerte di uno di loro. Sto cercando di ignorarlo più che posso, ma sembra che i suoi occhi senza vita mi brucino un buco nella schiena.

Abbiamo deciso di fare tappa dopo due ore di cammino così da poter sgranocchiare qualcosa e recuperare le energie. Per le persone che non sono del Gruppo Spedizione, questo è un grande stress mentale e dobbiamo fare delle pause spesso per non rischiare di affaticare loro e noi troppo. Ognuno conta su sé stesso e sull’altro per la propria protezione.

Lancio un’occhiata in giro per vedere la coda di persone che devono usare il bagno muoversi lentamente.

«Pazzesco pensare come una volta eravamo dipendenti da questi fogli di carta,» Calum si unisce a noi due, portando nelle sue mani il vecchio registratore di cassa del negozietto. «invece adesso potrei usarli per pulirmici il c-»

«Calum!» lo riprende fermamente Mali, lanciando un’occhiata dietro le sue spalle ad indicare i bambini in vicinanza, mentre io e Kayla ci lasciamo sfuggire una risata, guadagnandoci un ulteriore occhiataccia dalla ragazza.

Calum prende posto davanti a noi, appoggiando la cassa davanti a lui, cominciando a frugarci dentro. «Almeno questa Mary Jane Vanaugh, nome piuttosto ambiguo a dirla tutta, pace all’anima sua,» dice, facendo il segno della croce e guardando in alto. «ci ha messo qualcosa di utile qui dentro.» Tira fuori un coltellino svizzero praticamente nuovo, facendolo roteare nel suo palmo.

«Brinderei a questo, se solo avessi dell’alcol» ribatto, alzando la bottiglietta d’acqua, ridatami da Kayla al mio fianco.

«Se mi fate ridere un’altra volta, potrei infilzarvi tutti e due con quello» dice proprio quest’ultima, un sorriso giocoso sulle labbra.

«Oh, mio Dio, quella era una battuta? Uscita dalla tua bocca?» Calum esagera nella sua espressione sorpresa, mettendosi le mani sulle guance.

«Potresti migliorare la tua tecnica, ma è un buon iniz- Ehi!» Kayla mi tira un buffetto sul petto, scalfendomi di poco o niente, considerato lo strato imbottito del giubbotto che indosso. Kayla allarga il sorriso subito dopo, spostandosi i capelli dal viso, buttandoli dietro alla sue spalle.

Ebony e Margaret vengono verso di noi, sorridenti. «Va tutto bene, ragazze?» chiede loro Mali, appoggiandosi al barile di legno dietro di lei e distendendo braccia e schiena.

«Possiamo farvi le trecce?» Margaret ci mostra tre elastici sbiaditi. 

«Solo se ne fate una anche a me» dico, muovendo i capelli a mò di principe delle fiabe. È una buona idea per tenerle occupate in questi momenti morti. D’istinto lancio un’occhiata dietro di me per assicurarmi che il Vagante rimanga fermo immobile al suo posto.

«Io voglio farle a te!» esclama Ebony con un gridolino emozionato, puntando dritta nella mia direzione. Le sorrido divertito, scendendo dal piccolo gradino per far sì che ci possa salire lei. «Calum, tu puoi fare pratica su Kaykay! Così la prossima volta che me le fai escono belle!» Il ragazzo si finge offeso dalla sua ultima frase, ma si alza lo stesso.

I tre si mettono subito al lavoro, Calum che praticamente ha un occhio fissato sulla mia testa per copiare i movimenti di Ebony, che mi sta dividendo i capelli in ciocche non con troppa delicatezza. Mali sembra la più fortunata dei tre, con Margaret che muove agili e leggere le dita sui suoi capelli.

«Posso farvi una foto?» Lynton ci mostra la vecchia polaroid che gli pende dal collo, sicuramente trovata in qualche reparto segreto qui intorno. Ne avevo una anch’io una volta; mi piaceva maneggiare oggetti che usavano i miei nonni una volta. Avevo anche un giradischi, solo che quello era rotto.

«Fai pure» risponde Calum, mettendosi già in posa per lo scatto con un ciocca di capelli in ciascuna mano e un sorriso smagliante. 

Lynton scatta la foto, dopo qualche tentativo andato a vuoto per il pulsante non più così funzionante, ma nell’istante successivo al clic dalla macchina fotografica esce la piccola pellicola. La agita qualche minuto e poi, mentre ormai nessuno di noi è più in posa, sento un altro clic e un’altra foto sbuca fuori.

«Così uno di voi ne può tenere una.» Allungo il braccio verso di lui, che mi passa proprio l’ultima foto, quella più spontanea: infatti, io e Mali stiamo ridendo per qualcosa che ha detto Margaret, Kayla ed Ebony si guardano divertite negli occhi, mentre Calum è uscito tutto mosso perchè si stava voltando. Ora questo momento rimarrà impresso per sempre.

«Ta-daa!» esclama Calum, aprendo le braccia e agitando le mani intorno alla testa di Kayla, mostrando fiero il suo pessimo lavoro.

«Ringrazia che non puoi vederti il retro della testa» ridacchia Mali, osservando con sopracciglia alzate il lavoro di suo fratello. «Margaret, sei la migliore.»

Ebony dà una pacca di incoraggiamento sul braccio del ragazzo, facendoci scoppiare a ridere tutti quanti, eccetto Kayla che si sta trattenendo per non morire di dolore al suo fianco ferito.

«Vi siete meritate un premio!» esulto, congratulandomi con le due bimbe. «Magari qui intorno troviamo qualcosa di ancora buono da mangiare.» Aiuto Kayla ad alzarsi, mentre gli altri quattro si sono già sparpagliati per il negozietto in cerca di prelibatezze datate.

«Ragazzi, altri dieci minuti e poi ripartiamo.» La voce di Travis ci arriva forte e chiara alle orecchie. Ci siamo assicurati che tutte le entrate fossero ben sigillate per minimizzare i rumori ed è bello poter parlare liberamente senza dovercene preoccupare troppo. Mi dà un senso di normalità nell’anormalità.

«Ho trovato qualcosa!» ci informa Uriah, un ragazzo poco più grande di me facente parte del Gruppo Spedizioni. Kayla ed io ci dirigiamo prontamente da lui, seguiti da alcuni altri membri non occupati con il bagno. Si trova dietro al bancone dove c’era la cassa, prima che Calum se la portasse via. «Qui dietro» dice facendo cenno di raggiungerlo. 

Mi viene quasi da piangere dalla gioia non appena vedo cosa ha scoperto. Praticamente questa Mary Jane Vanaugh ha costruito un finto fondo del bancone per conservare diversi barattoli di cibo in scatola da occhi e mani indiscrete. Appoggio con l’aiuto di Uriah i contenitori sul piano d’appoggio, scambiando un’occhiata di gioia con Kayla, la quale ne prende in mano uno per controllare immediatamente la scadenza e sorridendo subito dopo. Annuisce, dandomi la certezza che per qualche giorno avremmo tutti quanti da mangiare.

«Grazie Mary Jane Vanaugh!» esulto, baciando uno dei barattoli e dando un bacio sulla guancia anche a Uriah. 

«Immagino che stasera ceneremo come dei veri porcelli!» Annuncia Calum, agitando in aria le braccia in segno di festa. Mi sembra più sfrenato del solito oggi, ma è bello avere un po’ di questa energia con noi. Infatti, gli batto il cinque non appena si avvicina abbastanza.

«Perchè prendiamo questa roba? E se la vogliono altre persone?» mormora Ebony, appoggiando il mento al balcone, mettendo le mani ai suoi lati. «Io non voglio farlo.»

Kayla si china immediatamente al livello di sua sorella, appoggiando la sua mano al suo fianco. Ormai è una specie di strato involontario. 

«Bonnie, lo so. Però ne abbiamo bisogno anche noi» dice addolcendo il suo sguardo, sperando di convicerla facilmente. La più piccola, però, abbassa i lati della bocca. «Okay, ehi, ascolta, tu vuoi morire?» le chiede più drastica questa volta, piegando le ginocchia e appoggiando le mani sulle sue spalle.

«No.»

«Per non morire, dobbiamo mangiare. Quindi, che ne dici di aiutarci a mettere questi barattoli negli zaini?»

«Va bene» annuisce sconfitta Ebony dopo qualche istante di silenzio. Ne prende due in mano, facendo attenzione a non farli cadere, anche se la sua espressione è ancora completamente contrariata, però obbedisce a ogni cosa che le dice di fare sua sorella maggiore.

Kayla si rialza, barcollando un po’ sulle sue stesse gambe e chiudendo momentaneamente gli occhi per frenare l’improvviso capogiro che la colpisce. «Sto bene» dice dopo qualche istante, per rassicurarmi. 

Poi Uriah, Kayla ed io ci mettiamo al lavoro.

«D’accordo, rimettiamoci in marcia. Abbiamo ancora qualche ora prima che faccia buio.» ordina Travis. 

Mi rimetto in spalla lo zaino precedente, più una sacca nuova che mi penzola sul ventre con dentro parte delle nuove provviste appena ritrovate. Sento un rumore di come una porta o una finestra che sbatte, ma non ci faccio troppo caso: qualcuno può essere andato sbadatamente contro a un barile o lo ha urtato con lo zaino.

Vedo Blaine ed Elyse scambiarsi un abbraccio fulmineo poco prima di uscire dall’ingresso principale. Sono così grato del loro coraggio, ma allo stesso tempo non so come reagirei se dovessi perderli entrambi. Sono parte della mia nuova famiglia da tre anni ormai. Ho ricordi con ciascuno di loro.

Li seguono senza indugi Meredith e Travis, così come tutte le persone esterne al Gruppo Spedizioni. Questi cominciano a camminare, lasciando già dietro di loro qualche metro di distanza. Seguo Kayla e Mali fuori dalla porta, così da poter chiudere la fila più facilmente, spostandoci di lato per lasciare spazio a coloro che ci staranno davanti. 

Tracey esce, tenendo aperta la porta per Dylan e Matthew. Segue Lynton che tiene per mano Margaret. 

Poi un boato proveniente dall’interno arriva alle nostre orecchie. Subito dopo delle imprecazioni e un grido.

«Che succede?» chiede subito allarmata Mali. Suo fratello è ancora all’interno del negozio.

Kayla prende prontamente in mano la pistola, il suo sguardo fissato sull’unica vetrina inondata dal riflesso del sole che ci impedisce di capire cosa sta accadendo all’interno. 

La porta viene spalancata. I versi fin troppo familiari mi raggiungono come un gancio dritto allo stomaco. Calum si fionda fuori dal negozio, la faccia distorta in una di puro panico.

«Dov’è Ebony?» La domanda di Kayla mi arriva distrattamente alle orecchie e sembra che sia così anche per tutti gli altri.

Il suono chiaro di uno sparo squarcia l’aria, facendo aumentare la tensione esponenzialmente. Il fatto di non avere visibilità su ciò che sta accadendo all’interno peggiora le cose. Il vetro della finestra si infrange in mille pezzi, facendoci sobbalzare. Mi porto le braccia al viso per coprirlo dalle schegge vaganti.

«Dov’è mia sorella?!» chiede Kayla più forte, cercando in tutti i modi di attirare la nostra attenzione per ricevere una risposta concreta, ma viene tagliata da Ryan che si lancia fuori dalla vetrina, atterrando precariamente sui suoi piedi e correndo via. 

«Aiuto!» Il grido arriva come un campanello di allarme: è la voce terrorizzata di Ebony.

Kayla fa in tempo a fare solo qualche passo prima di venire fermata dalle braccia di Calum. Per la potenza con cui è partita, rischia quasi di perdere l’equilibrio, ma la presa del ragazzo è ferrea sulle sue braccia.

«Lasciami!»

È stato Uriah a sparare alla finestra e ora sta sparando alla rinfusa dietro di lui con le mani che gli tremano. Ha liberato la visuale e ora vedo la scena: almeno dieci Vaganti sono entrati dal bagno, dove stanno continuando a fuoriuscire. Ebony è terrorizzata mentre corre verso di noi con la testa girata all’indietro. Va a sbattere contro un barile e la botta violenta la fa cadere a terra.

Subito dietro di lei un Vagante le afferra vorace la piccola gamba, dopo due tentativi andati a vuoto.

Ebony urla di nuovo.

«Prendi mia sorella! Prendi Ebony con te!»

Calum molla la presa sulla ragazza disperata, lanciandosi in una corsa contro il tempo verso la porta del negozio. Kayla è già sui suoi passi, ma questa volta sono io a bloccarla. Non può andare lì dentro.

«Uriah!» grida Calum, sparando al Vagante che aveva in pugno Ebony, facendolo cadere a peso morto sulla sua gamba.

Uriah si blocca e si volta, allunga un braccio per raggiungere la piccola, ma ci rinuncia non appena vede la veramente breve vicinanza con uno di quei mostri.

Ebony è incastrata sotto al peso di quel corpo che le è caduto addosso e non riesce a muoversi.

Calum continua a sparare.

Kayla si dimena sempre di più, urlando il nome di sua sorella con le lacrime che le scendono copiose dal viso. Provo a voltarla verso di me per evitarle la scena straziante che stiamo osservando inermi e vedo i suoi vestiti macchiarsi di sangue. La ferita si è riaperta.

Il rumore degli spari, le urla di Kayla e Calum, i tonfi pesanti dei passi di Uriah che esce dalla vetrina e ci sorpassa correndo, i versi famelici dei Vaganti che si ammassano sul corpo di Ebony. Tutto questo mi arriva ovattato alle orecchie.

Ebony grida straziata con le mani che scivolano sul pavimento.

Kayla scappa dalla mia presa, indebolitasi a causa della scena.

Calum spara un’ultima volta.

Kayla si blocca e temo che possa infrangersi in qualsiasi secondo.

Io e Calum la trasciniamo via. Le sue urla coprono i rumori del banchetto che quei bastardi stanno facendo.

È finita.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


CAPITOLO 27

KAYLA

Fluttuo.

Sto fluttuando avanti e indietro su un campo di papaveri rossi. Se guardo in alto vedo il cielo cosparso di innocue nuvole bianche, così piene e soffici che provo ad allungare la mano per toccarle da quanto sembrano vicine. Se guardo in basso, invece, vedo gli steli d’erba verde smeraldo che si muovono uniti in una danza dettata dal vento. I fiori rossi come il sangue, invece, vengono strappati ad uno ad uno fino a formare un piccolo mazzolino.

In questo momento mi sento libera. Il vento tra i capelli, il sole che mi scalda la pelle, questo senso di leggerezza, mia sorella che corre spensierata in questo campo immenso.

Poi la paura comincia ad insinuarsi dentro di me quando la vedo sparire. I miei piedi tornano a toccare terra un po’ instabili, mentre muovo senza indugio i primi passi incerti sul suolo morbido. Guardo a destra e a sinistra. E poi comincio a correre scalza sul terreno, incespicando tra i miei passi e cadendo un paio di volte, le mani che strappano fili d’erba dalla terra umida per rialzarmi.

E poi la trovo. La trovo distesa a pancia in su a guardare il cielo con un sorriso enorme che le arriva fino a gli occhi. Mi vede e mi dice di raggiungerla e così faccio. Mi stendo al suo fianco, trattenendo la rabbia dentro di me per il suo gesto improvviso che mi ha fatto allarmare: alla fine l’ho trovata e sta bene. Non c’è più nulla di cui preoccuparsi.

Guardiamo il cielo e le nuvole per minuti infiniti, guardiamo il loro spostarsi e mutare da una forma all’altra, da una bizzarra a una conosciuta. 

Il sole comincia il suo percorso verso il tramonto e capisco che è ora di tornare a casa. Per mano ci allontaniamo dal campo fiorito, ci rimettiamo le scarpe e lei prende il mazzolino di fiori che aveva raccolto da esporre in cucina.

Mi sento di nuovo leggera, serena, come se potessi affrontare qualsiasi cosa al mondo. È uno dei miei giorni preferiti in assoluto.

 

Sbatto le palpebre.

Ho la vista annebbiata.

Un dolore insopportabile al fianco.

Un male terribile al centro del petto.

E grido.

Grido, grido e grido ancora.

Perchè il mio cuore fa male e non so se lo posso sopportare.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


CAPITOLO 28

CALUM

Ho poco tempo per elaborare ciò che è appena successo. 

Sento il respiro pesante di Kayla e vedo la sua mascella contrarsi più volte, le mani che si stringono in due pugni e gli occhi che si stringono in due fessure. Sta per scoppiare.

Mi lancio per afferrarla una seconda volta prima che faccia qualcosa di avventato, ma invece di prendere lei, prendo l’aria, perchè lei si è già mossa. Con grandi falcate, raggiunge Uriah che le dà ancora la schiena. Lo prende per il giubbotto e lo tira indietro con violenza.

«Bastardo figlio di puttana!» urla tra i denti serrati, facendo collidere la schiena di Uriah contro la parete di una casa con un tonfo. «Tu, tu, cazzo! Avresti potuto tirarla fuori!» Il suono del suo pugno che va a sbattere contro la sua mascella mi dice che è arrivato il momento di intervenire.

Non è il luogo adatto per sfogare la sua - legittima - rabbia e dolore. Le persone che avevano già cominciato a muoversi istanti fa, si erano voltate per gli spari ma ora stanno tornando indietro. Mali fa segno loro di continuare a camminare: dobbiamo allontanarci da questo posto immediatamente, sarà infestato a momenti. E soprattutto, dobbiamo abbandonare la “scena del crimine” prima che Kayla decida di infilarcisi dentro. In questi momenti la lucidità ti abbandona e ho paura che potrebbe buttare via la sua vita, cercando invano di salvare il corpo di sua sorella.

Kayla punta la pistola in pieno viso di Uriah con entrambe le braccia tese che le tremano, così come tutto il suo corpo. Uriah è pietrificato contro al muro e serra gli occhi, preparandosi al suo destino. Kayla butta a terra la pistola facendola rimbalzare e finire qualche metro più in là. Fa in tempo a prendere per il colletto il ragazzo, facendogli sbattere un’altra volta la testa contro il muro, prima che io riesca ad avere una presa ferma sulle sue braccia. Stringo soprattutto sul suo braccio che sta guarendo dalla ferita subita e riesco a farle mollare la presa. Faccio cenno ad Uriah di spostarsi dalla sua visuale e non se lo fa ripetere due volte, mentre corre raggiungendo in fretta il resto del gruppo a qualche metro da noi.

«Andiamo» le dico soltanto, spostandola quasi di forza dalla posizione di difesa che aveva preso per colpire il ragazzo. Ha lo sguardo fisso davanti a sé e l’intero corpo che le trema. 

«Toccami un’altra volta e la pallottola è per te.» Lo dice con una tale freddezza e rabbia nella voce che un senso di angoscia ed inquietudine si insinua dentro di me. La lascio prontamente andare, alzando le mani in segno di resa. Posa il suo sguardo vuoto su di me per appena qualche istante prima di cominciare a camminare, ignorando totalmente l’arma buttata a terra pochi secondi fa. 

Stringo la mascella, distogliendo lo sguardo dal suo viso, notando con dispiacere e preoccupazione la macchia di sangue fresco sui suoi vestiti. Dannazione.

Mali prova ad avvicinarsi a Kayla per provare a dirle qualche parola di conforto, ma quest’ultima la trascura completamente, non voltandosi nemmeno dalla sua parte. Mali rinuncia presto nella sua impresa con lo sguardo affranto. La raggiungo e le passo una mano sulla schiena in segno di conforto. Wayne ci raggiunge - non mi ero nemmeno accorto che fosse sparito - per comunicarci che ha avvisato Travis della situazione.

«Non starà in piedi per molto» dico, passandomi una mano sul viso e pizzicandomi il labbro inferiore tra le dita. «Con la ferita-»

«Lo so, ho visto. Dobbiamo almeno lasciare questa zona,» mi interrompe Wayne bruscamente. Questa scena è stata un colpo allo stomaco per tutti quanti. «poi vedremo cosa fare. Per ora teniamola d’occhio.» Annuisco in cerca di parole adatte da poter dire, ma non ne trovo alcuna.

Subito indirizzo lo sguardo sulla sua figura, qualche metro avanti a noi: si sta avvicinando ai bambini, muovendo la testa a destra e sinistra, come se stesse cercando sua sorella. Come se non l’avesse appena vista venir massacrata da quei mostri infami. Almeno le ho evitato una morte sofferente con quel proiettile. La cosa non mi fa sentire meglio però.

Ho lo stomaco in subbuglio e la gola secca. Non era solo sua sorella: Ebony era parte della nostra famiglia. Andavo fiero dell’essere suo amico ed ero così contento quando quella bambina così vivace e solare veniva a trascorrere un po’ del suo tempo con me. Mi ha fatto sentire importante. Gli occhi mi pizzicano. Premo le dita sulle palpebre, cercando di scacciare le lacrime, ma con il risultato opposto.

Credi di farci l’abitudine, credi di saperlo che prima o poi succederà, credi di essere pronto a ricevere il colpo quando questo arriverà. Ma la verità è che ogni volta che succede sembra che il respiro ti venga tolto di violenza dai polmoni e ti sembra di soffocare, di star venendo ucciso lentamente, come se la tua anima volesse lasciare il tuo corpo in un'agonia pigra e costante.

Questo mondo non ha pietà per nessuno; “Uccidi o vieni ucciso”. Non c’è alternativa. 

Lancio uno sguardo dietro le mie spalle, asciugandomi le lacrime, sfregando il dorso della mano sulle guance. Gli spari e le urla stanno rianimando la Città dei Morti: stanno uscendo dai loro nascondigli, mostrandoci la loro presenza tramite quei versi strazianti e famelici, agitando i loro arti rimasti pronti ad afferrare qualsiasi cosa intralci il loro percorso.

Sembra quasi pazzesco come mio padre sia morto in circostanze simili. Si è sacrificato per il bene del gruppo. Si è sacrificato lasciando mia madre, Mali e me dietro di sé. Ero furioso con lui e per il suo gesto eroico. Come aveva anche solo pensato che la sua vita potesse essere gettata via, senza preoccuparsi di chi avrebbe lasciato? All’inizio pensavo fosse stato egoista, una parte di me ancora lo crede. Una parte di me vorrebbe potergli dire addio come si deve, ma sarebbe solo un modo più difficile di lasciarlo andare, non avrei di certo potuto dirgli “ciao papà, sono felice che darai la tua vita per salvare la nostra”. 

Non è il momento di pensarci. Ho provato molte volte a fare pace con ciò che è successo, ci sono quasi riuscito. La parte più difficile sono gli incubi che ti vengono a trovare la notte. Sbucano dal nulla solo per ricordarti cosa hai perso e per ricordarti come è successo.

Camminiamo. Non so da quanto. Mi sembra che siano passati solo pochi istanti da quando è successo tutto quanto, ma mi volto di nuovo e non vedo più i Vaganti dietro di noi. Essere così distratto non giova né a me né al gruppo. Avrò tempo per rimuginarci sopra e pensare a cos’altro avrei potuto fare. Ma non adesso.

Mali intreccia le sue dita con le mie, dandomi una stretta incoraggiante. Ecco il suo ruolo di sorella maggiore che esce sempre nei momenti adatti. Ricambio la stretta. Abbiamo bisogno l’uno della forza dell’altra. Non posso nemmeno immaginare cosa stia passando Kayla in questo istante.

La cerco tra la folla per assicurarmi che stia bene - per quanto possibile - ma non la trovo. Il mio cuore comincia a battere a mille contro il petto, lo sento nelle orecchie forte e chiaro. Dov’è?

Allargo il mio orizzonte e la vedo allontanarsi dal gruppo. Il sospiro di sollievo non è ancora arrivato. Sto trattenendo il respiro. Lascio la presa di Mali, passo dietro a Wayne, i due mi lanciano sguardi interrogativi, li vedo muovere le labbra ma non sento cosa dicono.

Kayla si china a terra per raccogliere quello che mi sembra un vecchio tubo idraulico e mentre lo fa, capisco a cosa sta puntando: c’è un Vagante alla fine del vicolo che stiamo oltrepassando, con la schiena rivolta verso di noi e la testa verso al muro.

Kayla alza l’arma fai-da-te, lanciando un grido di battaglia. La creatura si gira infastidita e non fa nemmeno in tempo a capire cosa l’ha colpito. Lo colpisce ancora, ancora e ancora. Il Vagante è ormai a terra, mi sorprendo che sia ancora tutto intero.

Raggiungo per la seconda volta Kayla correndo, mentre continua sbattere quel tubo di metallo addosso al Vagante con urla di rabbia.

«Kayla, fermati.» Non mi ascolta. Continua a percuoterlo. Ha le guance rigate di lacrime. La macchia di sangue sui vestiti si allarga. «Kayla, ascoltami-» Lancia un altro grido rabbioso, cominciando a colpire il Vagante con i suoi stessi pugni.

Intervengo, bloccandole la braccia per una seconda volta nonostante la sua ultima minaccia ricevuta. I suoi muscoli sono così tesi che ho paura di poterle spezzare le braccia se solo faccio un movimento di troppo. Lascia che gliele abbassi, facendole arrivare ai lati del suo corpo. Provo a stabilizzare il mio respiro.

Vengo colto di sorpresa quando si libera dalla mia presa e si volta improvvisamente, facendo collidere le sue mani contro il mio petto, facendomi barcollare all’indietro. Il respiro mi viene a mancare per il colpo improvviso. 

«Lasciami in pace!» sbotta, la vena sul collo che si gonfia in un secondo, un altro colpo che arriva dritto sul mio petto. «Lasciami… stare..! Lasciami qui-» Un singhiozzo le percuote l’intero corpo, facendola vacillare sui suoi stessi passi.

«Sto cercando di aiutarti-»

«Non lo voglio il tuo aiuto!» Questa volta mi sposto prima che possa colpirmi una terza volta. Infatti, prende l’aria a causa dei suoi riflessi rallentati.

«Stai mettendo a rischio la vita di tutti quanti-»

«Non mi interessa degli altri-»

«Sai che è una bugia.»

Non ricevo una risposta verbale. Ottengo solo il suo sguardo furioso e rotto che mi penetra fin dentro all’anima. È una situazione scomoda: non so come muovermi, qualsiasi cosa faccio o dico so che risulterà sbagliata. Quindi sto in silenzio.

Vorrei abbracciarla, stringerla forte e dirle che tutto questo passerà. Ci vorranno mesi, ma passerà. Il dolore diventerà un po’ meno insopportabile, la rabbia svanirà, il vuoto si riempirà. Ma non lo faccio. Ha bisogno di tempo. Ha bisogno di spazio. Ha bisogno di risposte alle quali io non so rispondere.

Ha bisogno di sua sorella e io non posso portargliela indietro.

Non posso lasciare che scoppi di nuovo. Non con tutto il gruppo che ne potrebbe pagare le conseguenze.

«Ci dividiamo» annuncio, posando lo sguardo su di lei. «Tu vieni con me, troviamo un posto dove stare finché non ti sarai calmata, poi ripartiamo. Non posso rischiare la sopravvivenza del gruppo così.»

Kayla non risponde. Non fa alcun cenno di assenso. Continua solo a aprire e stringere i pugni e respirare a grandi boccate dalla bocca. Almeno ora non mi sta più gridando addosso, quindi lo prendo come una risposta affermativa. Lo sa benissimo anche lei che non può andare avanti così - né per lo stato fisico e men che meno per quello mentale - senza mettere a rischio la pelle di tutti quanti. Nonostante l'immenso dolore che sta provando, in fondo a lei c'è ancora quell'istinto di protezione verso le persone a cui tiene. E lei a noi ci tiene.

Le faccio cenno con la testa di seguirmi, aprendo i palmi delle mani tra me e lei, per farle capire che non la voglio toccare. Poi mi volto, ritornando a mischiarmi nel gruppo, facendo ricorso a tutta la fiducia che ho in me che mi seguirà. Deve capire lei stessa che non voglio farle da balia. 

«Travis, Kayla non può continuare.» Sfioro appena l'uomo sul braccio, per fargli capire la mia presenza. «io e lei ci fermiamo per qualche ora- beh, giorno.»

«Se volete morire, fate pure.» Guardo sbigottito Travis, che ha detto la frase con tale nonchalance da mettermi i brividi. «Non guardarmi così. Non abbandono due dei miei. Elyse, fermiamoci-»

«No, Travis, devi. È per il bene di tutti quanti. La ferita di Kayla si è riaperta, non potrà andare avanti per molto senza una meta.» Vorrei fossimo in un luogo diverso da questo e vorrei che avessimo un po' di privacy. Non voglio allarmare gli altri. «È meglio se ci dividiamo, lo sai anche tu.»

Travis sembra pensarci per un'infinità di tempo. Poi è Meredith a parlare. «Calum ha ragione. È una scelta difficile ma necessaria, Travis. Queste persone sono già abbastanza terrorizzate.»

«Prendi qualcun altro con te.»

«No. Non basterebbero le provviste per tutti quanti.» Mi viene mal di testa a continuare a pensare a una via differente da poter prendere, ma non abbiamo tempo. Non abbiamo nessuna certezza. Dannazione, non so nemmeno se Kayla vivrà ancora a lungo di questo passo.

Passo lo sguardo su mia madre e Mali. Mi viene la nausea e mi si crea un groppo in gola al solo pensiero di abbandonarle. So che sanno cavarsela da sole e che sono perfettamente capaci di difendersi, cavolo, loro sono quelle più forti della famiglia. E sono anche l'unica famiglia che mi è rimasta.

La scelta è difficile ma necessaria.

Queste parole mi rimbombano in mente per tutti gli istanti di silenzio che trascorrono da quando ho aperto bocca. Poi Travis si toglie lo zaino dalle spalle e me lo passa. «Questi dovrebbero bastarvi. Ci sono anche delle bende, ago, filo di sutura e un po' d'alcol» dice con un tono di voce duro che gli ho sentito usare solo poche volte. «Saluta tua madre e tua sorella. Andremo ad ovest. Ci incontreremo di nuovo.» Travis fa fatica a mantenere la voce ferma. Lo ringrazio con un cenno del capo e le lacrime agli occhi.

Ci rincontreremo.

***

«Tieni, mordilo.» Metto in bocca a Kayla una maglietta arrotolata. Sotto alla sua testa posiziono il mio braccio, facendo aderire la sua nuca ad esso. Mi inginocchio di fianco a lei. Faccio un cenno a Wayne di iniziare con la sutura.

Kayla ha gli occhi serrati, l'intero busto che si alza e abbassa frenetico, l'addome sporco di sangue e madido di sudore. 

Dopo aver riscaldato l'ago accuratamente ed aver disinfettato sia l'arnese che la sua ferita con l'alcol, Wayne infila il primo punto di sutura nella sua carne. Il grido di dolore che esce dalla sua gola viene smorzato dalla maglietta che ha tra i denti.

Mia madre fa avanti e indietro per la piccola stanza, agitata. Non vede l'ora che tutto sia finito. Mali lancia sguardi preoccupati a destra e a manca, a intermittenza tra Kayla, me e nostra madre. 

La prima volta è stato più semplice: Kayla era così stremata che aveva perso i sensi. Ora sembra più cosciente che mai. Mi fa male vederla in questo stato e non poter far niente per diminuire il suo dolore. Sono infinitamente grato a Wayne che ha deciso di ricucirle la ferita.

Non appena lui e Mali hanno saputo ciò che volevo fare, si sono impuntati che sarebbero venuti con noi a tutti i costi. Anche mia mamma si è aggiunta. La testardaggine è sempre stata parte della famiglia.

Proprio pochi minuti fa sono riuscito a convincerli di ritornare con il gruppo: il tempo di rimettere in sesto Kayla e non avrebbero avuto grossi problemi a rintracciarli.

La ragazza tra le mie braccia sta dimenando la testa come se stesse venendo torturata - e in un certo senso è così -. Le asciugo il sudore dal viso bianco come un cencio e le afferro la mano, che per riflesso stringe immediatamente. 

«A che punto sei?» chiedo con fretta a Wayne, non riuscendo a vedere ciò che sta facendo.

«A metà. Se mi fermo adesso, la perdiamo» ribatte, lanciandomi un'occhiata veloce. «Resisti ancora un po', Kayla.»

Lacrime di dolore le scendono dagli occhi e il suo volto è deformato dallo stesso. 

«Mali, tienile le gambe» ordine Wayne, dovendo interrompersi per il troppo agitarsi di Kayla. Mia sorella le prende le gambe di forza, appoggiandoci sopra le mani e facendo il possibile per immobilizzarla.

«Okay, cazzo, ho finito.»

Tolgo la maglietta dalla stretta della sua bocca. Respira ancora freneticamente, ma almeno non si agita più come prima. La sua presa sulla mia mano è ancora ferrea. Mi faccio passare l’alcol da Wayne per fargliene bere un sorso, stando attento a non farglielo andare di traverso. Fa una smorfia non appena lo ingoia: presto dovrebbe fare il suo effetto, considerato che è ormai a stomaco vuoto. 

Passo la maglia a Wayne che la imbeve di alcol per passarla delicatamente sulla ferita richiusa, prima di bendarla. Il momento dell’addio si avvicina.

«Kayla, ehi,» interviene poi, rimanendo in ginocchio sul pavimento, frugando nella sua tasca dei pantaloni. «questa dovresti tenerla tu.» Apre la mano, mostrando la foto scattata da Lynton minuti fa e, visto che non riceve alcuna risposta, la appoggia esitante nella sua mano libera. Mantiene la presa, guardandola in viso per qualche istante impensierito: probabilmente ci stanno passando per la testa le stesse preoccupazioni.

Mali copre il corpo sudato di Kayla con una coperta leggera trovata in questa piccola stanza. «Dovremmo andare, ora» sussurra non troppo sicura, non è ciò che vuole fare.

Mia madre ci fa segno di fare silenzio, alzando un pugno di fianco al suo volto e con un dito alla bocca. È un po’ difficile dati i continui gemiti di Kayla, quindi le appoggio una mano sulle labbra semichiuse: è troppo dolorante per poter ribattere, forse non se ne accorge nemmeno. 

Scambio un’occhiata allarmata con Mali; siamo qui dentro perchè lei ha visto la stanza dalla finestra aperta - dalla quale siamo entrati -, ma non abbiamo avuto tempo per controllare che l’intera casa fosse libera da Vaganti. Perciò, mia madre ha prontamente chiuso la porta a chiave e infilato una sedia sotto alla maniglia per impedire a chiunque di entrare. Date le urla di Kayla però non mi sorprenderebbe se un Vagante avesse deciso di spostare la sua attenzione proprio qui. Il punto sta nella quantità: se ce n’è solo uno, non è un grosso problema. Ma se sono di più, non ci metterebbero molto a sfondare la porta e noi saremmo in trappola.

Dopo qualche istanti dall’ordine di mia mamma, infatti, sentiamo dei forti versi arrivare da oltre la porta. Premo più forte il palmo della mano sulla bocca di Kayla, quasi avvolgendole il capo con il mio busto per camuffare il suono.

«Sembra solo uno» dice sottovoce mia madre, dando le spalle alla porta dietro di lei. «Faremmo meglio ad andare.» Annuisco, appoggiando la testa di Kayla sullo zaino per farle da cuscino e togliendole la mano dalla bocca. 

Lascio scivolare via la sua mano dalla mia e mi alzo in piedi per abbracciare Wayne, dandogli qualche pacca silenziosa sulla schiena. «Grazie, amico.»

«Fai in modo di pulire e cambiare le bende ogni sei ore.» Mi stringe forte e poi mi mette le mani sulle spalle. «Non scolarti l’alcol, serve a lei.» Ridacchio, annuendo. Lo so.

Abbraccio Mali. Siamo entrambi silenziosi. Potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo. Provo a non pensarci, fallendo. «Ti voglio bene» le confesso sottovoce.

«Anche io ti voglio bene» risponde provando a mantenere la voce ferma. «Non provate a morire, voi due» mi ammonisce, accarezzandomi una guancia con gli occhi lucidi.

«Neanche voi.»

Mia mamma mi saluta con un bacio sulla fronte, dopo esserci abbracciati. Tutti e tre si sistemano cappotti e zaini in spalla, pronti per uscire dalla finestra.

«Prendetevi cura l’uno dell’altro» dico loro per quella che potrebbe essere l’ultima volta.

***

È notte inoltrata. Ho sigillato la finestra qualche ora fa con della stoffa trovata per non far passare spifferi di aria gelida all’interno. Finalmente le nuvole cariche di neve di qualche giorno fa hanno deciso di lasciare spazio a un cielo nero stellato: è un bella vista.

Mentre Kayla sta accumulando alcune ore di meritato riposo, io sono seduto di fianco a lei con la testa all’insù a contare le stelle e a farmi prendere da domande esistenziali sulla vita. Da qualche minuto sento le palpebre pesanti; devo tirare le tende prima di crollare addormentato. Per fortuna che chi una volta abitava in questa casa ha deciso di metterle blu scuro.

Poi mi metto a curiosare tra i mobiletti della stanza, trovando alcuni libri ed enciclopedie, qualche gioco da tavola, dei quaderni e pennarelli… Per essere una camera più simile a uno sgabuzzino, l’avevano evidentemente pensata per uno spazio tempo libero. Beh, almeno posso tenermi occupato con qualcosa durante il giorno.

Si gela. Il respiro di Kayla e il mio non sono abbastanza a riscaldarci. Non posso accendere un fuoco, a meno che voglia provare ad intossicarci entrambi. In mancanza di materiali, mi avvolgo con il tappeto le spalle, adoperando lo zaino che mi ha lasciato mia mamma come cuscino, dato che il mio lo ha sotto alla testa Kayla.

Ogni tanto la sento mormorare parole confuse nel sonno, ma non ci faccio troppo caso. Dovrei cambiarle la benda, ma non voglio farlo mentre non è cosciente: è un’invasione di privacy, soprattutto adesso che sembra aver aperto guerra con me. Non voglio sconfinare il suo spazio vitale se non strettamente necessario e voglio che ne sia almeno a conoscenza. E non voglio interrompere il suo riposo, potrebbe non riuscire a prenderlo più per alcune ore.

Le asciugo un’ultima volta il sudore dal viso prima di appoggiarmi sul fianco e prendere sonno quasi istantaneamente.

Vengo svegliato da Kayla che svuota il suo stomaco nel secchio accanto a lei, nonostante fosse riuscita a mandare giù solo qualche morso di una barretta energetica a base di frutta secca. Tossisce qualche volta, sputando la saliva. Mi alzo un po’ stordito, passandomi veloce una mano sugli occhi, e le passo subito la bottiglietta dell’acqua. Risciacqua la bocca dai succhi gastrici e si appoggia con la schiena al muro, prendendo grandi boccate d’aria, serrando gli occhi e digrignando i denti.

«Tutto bene?» le chiedo stupidamente. Ovviamente non va tutto bene. «Vado a svuotare il secchio» la avviso, anche se dubito stia facendo caso a ciò che le sto dicendo. Mi infilo il giubbotto, tiro le tende apro la finestra ed esco, portando assieme a me l’oggetto e svuotandolo in un tombino a pochi metri dalla casa. Ritorno alla base di corsa, affrettandomi a serrare di nuovo la finestra.

Kayla ha appoggiato il retro della testa al muro, il volto che è rivolto verso l’alto con le labbra semiaperte. Il suo petto si alza frenetico, il sudore continua a coprirle la pelle. Si è tolta la coperta di dosso. La benda messa da Wayne ha già una macchia rosso scuro che si sta espandendo.

«Te la cambio, okay?» Lei annuisce senza troppi indugi, nemmeno chiedendomi di che cosa sto parlando. Non l’ho mai vista così.

Le passo la maglietta imbevuta di alcol sull’addome, le tolgo la fascia sporca e tampono la ferita. Non ha un bell’aspetto. Spero solo che abbia abbastanze energie per riuscire a far lavorare i suoi globuli bianchi. Ho paura che con la botta emotiva ricevuta la cosa sia un po’ più complicata del previsto. 

La ricopro con la coperta: nonostante stia sudando, la sua pelle è fredda come quella di un cadavere. Brutta scelta di parole. Sto soppesando l’idea di darle una delle tre pastiglie di antidolorifico che mi ha lasciato Wayne. Non so se riuscirà a mantenerlo giù per molto. Però posso provare a distrarla.

«Ti va se ti leggo qualcosa?» I suoi occhi si aprono appena alla mia proposta, fissandomi a lungo, facendomi sentire quasi fuori luogo. Poi annuisce di nuovo.

Prendo un libro dalla pigna. Sembra quasi un manuale per bambini alla scoperta della terra. Mi sembra quello più leggero come argomento, quindi anche se mi sento stupido mentre glielo leggo, in un certo senso mi fa sentire meglio. Mi riporta indietro ai tempi delle elementari.

***

Ho svuotato di nuovo il secchio dei nostri bisogni. Mi manca la vita alla palestra. Forse se avessimo aspettato ancora qualche giorno tutto questo non sarebbe successo ed Ebony sarebbe ancora viva. Scaccio questi pensieri dalla testa. Non c’è spazio per i “se”.

Kayla sta riposando. Sembra quasi in pace, nonostante le occhiaie marroni sotto agli occhi, la pelle bianca e tutto il resto. 

La scorsa notte si è svegliata di colpo almeno tre volte, chiedendomi dove fosse e domandando di sua sorella. Non me la sono sentita di ricordarle che sua sorella era morta e che lei l’aveva vista nei suoi ultimi istanti venire azzannata dai Vaganti. Ho sviato il discorso. Stava comunque delirando, non se ne sarebbe ricordata da qui a poche ore. Alla terza volta ho deciso di darle una pastiglia di antidolorifico che l’aveva stesa quasi immediatamente. Ora sono almeno quattro ore che sta dormendo senza interruzioni, dopo il continuo passaggio da cosciente ad incosciente delle scorse ore.

Sto prendendo qualche boccone da una delle lattine della famigerata Mary Jane. Non sono male, anzi sono la cosa più gustosa che metto sotto ai denti da quello che mi sembra un decennio, ma non so quanto la cosa possa durare, dato che sarà fonte di tutti i pasti della giornata, ma non mi lamento.

Ho aperto di qualche millimetro la finestra per far ricambiare l’aria all’interno della stanza e far uscire tutti i cattivi odori all’interno. Ho preso un quaderno e un pennarello verde e mi sono messo a scrivere una specie di diario per far passare il tempo. 

Ho sgranchito le gambe per qualche minuto, facendo avanti e indietro vicino alla finestra, per poter sentire nel caso Kayla avesse bisogno di qualcosa o se si fosse svegliata in generale.

Non so come abbia fatto questa ragazza a sopravvivere così a lungo tutta sola.

«Buongiorno» le dico, notando da qualche istante che ha aperto gli occhi. Mi sembra stare meglio, ho fatto bene a darle l'antidolorifico ieri sera. È quasi ora del tramonto fuori, la luce dorata che entra dalla finestra le fa sembrare la pelle di un colorito quasi normale. «Vuoi un po’ d’acqua?»

Si schiarisce la gola, prima di rispondere affermativamente con voce flebile. Le appoggio il collo della bottiglia sulle labbra, stando bene attento a non fare un disastro. Non voglio forzarle le parole di bocca, perciò stiamo in silenzio. Mi siedo accanto a lei, fissando i colori del tramonto cambiare di minuto in minuto. Le cambio un’altra volta la garza. Gli unici suoni che escono dalla sua bocca sono dei gemiti quasi strozzati, come se non volesse farsi sentire. O come se non volesse far vedere quanto sta soffrendo.

Svuoto un’ultima volta il secchio, serro la finestra e chiudo le tende. Lei si mette seduta e io mi stendo al suo fianco, lasciandole abbastanza spazio per muoversi e tenendo quella solita distanza di sicurezza. 

«Forse dovresti mangiare qualcosa» sussurro, con la testa voltata dalla parte opposta alla sua. Infatti dubito che mi abbia sentito. 

«Non ho fame.» È la prima frase compiuta che le sento dire da quasi un giorno. La sento tirare su con il naso e mi giro dalla sua parte: sta guardando la foto scattata da Lynton che tiene tra le sue mani appoggiate in grembo. Con un pollice sfiora la pellicola, come se stesse accarezzando sua sorella. Mi si spezza il cuore. È tornata abbastanza lucida per ricordarsi ciò che è successo.

Allungo esitante una mano verso la sua, appoggiandola quando vedo che non oppone resistenza. Lascia che intrecci le mie dita tra le sue, nonostante la sua presa sia pressoché nulla. Guardo anche io la foto, rivivendo il bel momento nella mia mente. Kayla ha ancora le mie trecce pessime sul suo capo, anche se piuttosto arruffate e sfilacciate. Mi manca quella piccola creatura. E mi manca la Kayla più leggera quando Ebony era in nostra presenza.

Mi mancano i momenti con lei. E non parlo dei nostri occasionali momenti di passione. Parlo dei piccoli istanti in cui parlavamo, i piccoli gesti e le occhiate che ci scambiavamo, i sorrisi… La Kayla autentica.

«Forse è meglio così» dice, forse più a se stessa che a me. Lascia bruscamente andare la mia mano, si asciuga le lacrime dal viso e accartoccia la fotografia, gettandola lontano da lei. Si sdraia e volta la testa verso il muro.

***

Mi sveglio di nuovo di soprassalto. Kayla sta singhiozzando rumorosamente con il corpo tremante e ricoperto di sudore. 

«Ti prego falli smettere» mi supplica non appena mi tiro su a sedere. 

«Cosa-?»

«Non ce la faccio più.» Lancia un grido straziato che le scuote l’intero corpo.

Il mio cuore si stringe sempre di più alla vista straziante del suo dolore, arrivandomi fino in gola, aggiungendosi al già presente groppo al centro di essa. Decido di ignorare tutte le sue minacce e le mie precauzioni e di stringerla forte tra le mie braccia, appoggiando il mio mento sul suo capo. Racchiude in due pugni la stoffa del mio maglione, tirandomi ancora più vicino a sè mentre lascia uscire dal suo corpo parte della rabbia e del dolore che sta provando. Appoggia la fronte al mio petto, che per quanto possibile maschera parte dei suoi singhiozzi.

Sobbalzo quando sento un tonfo contro alla porta, susseguito da un altro e un altro ancora. Poi i fin troppo familiari versi strozzati. Lancio un’occhiata veloce alla sedia sotto alla maniglia, che rintocca ad ogni tonfo sulla porta, ma non cede.

Accarezzo la schiena della ragazza, provando a farla calmare, così da tranquillizzare anche i Vaganti oltre la porta. Non posso rischiare. Non ora.

Prendo il viso di Kayla tra le mani, asciugandole le lacrime dalle guance con i pollici e guardandola negli occhi pieni di dolore. «Ehi, so che non ti interessa ora, e ne hai tutto il diritto, ma è successo anche a me» le sussurro a pochi centimetri dal viso. «Continuavo a vedere mio padre ovunque andavo, la sua faccia, tutto ciò che lui era per me continuava ad apparire nella mia mente, non lasciandomi un momento di riposo né il giorno e nemmeno la notte.» Interminabili istanti di silenzio seguono dopo la mia voce, i suoi singhiozzi declassati all'occasionale tirata su con il naso.

«So come ti senti, capisco il tuo dolore e io- dannazione, io voglio solo aiutarti.» Cerco un appiglio tra i suoi occhi, un qualche segno di luce, qualcosa che mi dica che non l’ho persa completamente anche se sta affogando nelle sue stesse emozioni. «Quindi, per favore, lascia che lo faccia.»

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


CAPITOLO 29

KAYLA

«Sono a casa!» Lascio cadere lo zaino a terra con un tonfo, abbandonandolo vicino all’entrata di casa. 

Mi sfilo le scarpe di corsa, lasciandole per strada mentre mi avvicino alla porta chiusa della cucina. La spingo stranita: non era mai chiusa, a meno che mamma o papà non stessero cucinando qualcosa di fritto.

«Ciao a tutti-» Le parole mi muoiono in bocca non appena vedo l’intera famiglia seduta al tavolo. Sono tutti nella stessa posizione con le mani congiunte sul tavolo e un’espressione austera sui loro volti: la bocca serrata in una linea, le sopracciglia corrugate, gli occhi puntati su di me. «Che succede?» chiedo in un sussurro, incespicando tra le parole. Ho fatto qualcosa di male?

Silenzio. Silenzio tombale.

Le quattro paia di occhi mi seguono quando mi sposto verso il frigorifero, pronta ad aprirlo per prendere dell’acqua. Mi sembrano dei poster, delle statue. È reale? 

Impugno la maniglia del frigo, lo apro e allungo la mano nella porta di esso per afferrare l’acqua, mantenendo lo sguardo sui quei quattro seduti a tavola. Mi accorgo solo ora che non c’è neanche una sedia dove io possa sedermi. 

Tiro fuori la mano dal frigo, guardo tra le mani e il battito del mio cuore salta un colpo: ho in mano una pistola nera come la pece ed è così pesante che i miei muscoli cominciano a fare male. Non riesco a farla cadere. Posso solo sorreggerla anche se mi sta massacrando.

Riporto lo sguardo sul tavolo: Ebony si alza e ha una macchia rossa sulla maglietta - prima perfettamente bianca - al centro del petto che continua ad allargarsi. Cosa sta succedendo?

«...C...Cos-sa» provo a chiedere spiegazioni, ma questo è tutto ciò che mi esce dalla bocca, che adesso mi brucia per i continui sforzi che sto facendo per emettere un semplice suono. 

Le lacrime cominciano a scendere dai miei occhi, bruciando al loro passaggio sulle guance. La vista si annebbia e proprio in quell’istante una figura identica alla mia entra dalla finestra. Mi circola attorno per due volte, poi si mette in posizione di combattimento: di lato, con una gamba davanti all’altra. Il mio corpo si muove da solo, riportando la sua stessa posizione. L’unica cosa che ci differenzia è il colore degli abiti: il suo rosso, il mio nero.

In un istante, la mia sosia prende una pistola da dietro alla schiena e spara. Spara tre colpi dritti alla fronte di mia madre, mio padre e mio fratello. 

Ho la bocca aperta, ma non esce alcun suono.

I loro corpi cadono a terra inermi. La sosia si volatilizza in cenere.

Ebony mi fissa con un’espressione delusa. Poi, alza le braccia. E spara un colpo.

 

Sento una scossa elettrica percorrermi le braccia e il cuore che batte a mille nel petto, rimbombando come campane nella mia testa. Delle lacrime calde mi bagnano le guance e ne sento il sapore salato perfino sulla lingua. Prendo respiri rapidi, sentendomi come se mi avessero appena salvato dall’affogare. Sento la testa scoppiare. 

Sto sudando, ma i brividi mi percorrono il corpo, facendomi tremare. Fisso il soffitto sopra di me, provando a calmare il respiro, ma presto le lacrime silenziose si trasformano in un pianto rumoroso senza il mio controllo.

Quasi immediatamente, una mano calda stringe la mia, forte. Sobbalzo, guardo a destra e vedo il braccio di Calum allungato verso di me, ma con il volto girato dalla parte opposta. Muove il pollice su e giù sulla mia mano. Ma io mi sento ancora affogare.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


CAPITOLO 30

CALUM

Sono passate tre settimane. Questa notte segna l’inizio della quarta. Kayla si è quasi completamente ripresa fisicamente, ha ripreso a mangiare - non perché avesse fame, ma perché doveva per mantenersi in forze - e riesce a stare in piedi per un tempo prolungato. La ferita si è rimarginata, lasciando spazio a una brutta cicatrice. Man mano che i giorni passavano, la realizzazione di ciò che era successo scendeva su di lei come una coperta di piombo; era più silenziosa, passava gran parte del tempo dentro alla sua testa, ai suoi pensieri. Era difficile riuscire ad estrapolarle più di una frase compiuta al giorno. Ci sono stati giorni più difficili, quando anche solo farla uscire da quella specie di stato di trance era quasi impossibile: il giorno lo passava dormendo e la notte fissava la parete davanti a sè rinchiusa nella gabbia dei suoi pensieri.

Ho letto i libri almeno una dozzina di volte ciascuno, ho riempito almeno tre quaderni di scritte, pensieri, scarabocchi. Avevo sempre qualcosa da fare, che fosse svuotare il secchio e disinfettarlo, costruendo un piccolo falò al di fuori della nostra abitazione, sciogliendo la neve, fare dei piccoli percorsi di corsa ed esercizi fisici per mantenermi in forma. Sono dovuto andare in ricognizione nelle case del vicinato quando stavamo finendo i viveri.

Non è stato facile. 

Non lo è stato l’essere in pensiero per Kayla, gestire lo stress di rimanere senza provviste, la paura che Kayla potesse morire quella notte in cui mi ero scordato di cambiarle la benda e la ferita stava iniziando a fare infezione, i Vaganti dall’altro lato della porta che di tanto in tanto ci venivano a trovare, provando a gettare a terra la porta.

Domattina partiremo. Kayla si è detta pronta ad affrontare il viaggio alla ricerca del gruppo, alla ricerca della mia famiglia. Abbiamo racimolato abbastanza provviste e qualche arma tagliente per poterci proteggere al meglio. 

Non abbiamo mai parlato di Ebony. Lei non era pronta ad affrontare una ferita così grande per la seconda volta e non lo ero nemmeno io. Ci sono stati momenti in cui ho pensato: e se l’avessi potuta salvare? Ci sono state notti in cui il senso di colpa veniva a trovarmi, ma non ho ceduto. Non potevo. Non posso.

Mi sfilo la maglietta dall’alto, gettandola ai miei piedi. Intingo lo straccio nel secchio di acqua calda e lo passo sulle braccia, sul collo e sul volto, strofinando bene. Lo passo sul torace e sull’addome, lo porto fino alla nuca, cominciando a fare fatica per pulirmi bene la schiena.

«Lascia, ti aiuto.» La voce di Kayla mi fa sobbalzare. Non tanto perchè non me l’aspettassi, più che per il tono di voce che ha usato: delicato. La osservo esitante, cercando qualche ombra di dubbio tra i suoi occhi e alla fine lasciandole lo straccio tra le mani. «Siediti.»

Bagna lo straccio, lo strizza e comincia a passarlo sulla schiena. Il mio corpo viene assalito dai brividi quando appoggia sulla parte appena bagnata l’altra sua mano, fredda rispetto all’acqua. Poi, lentamente i muscoli della mia schiena si rilassano e mi lascio prendere cura dalla ragazza. 

«Cosa significano?» Giro il viso verso di lei, vedendola solo con la mia vista periferica. «I tatuaggi, intendo.» 

Accolgo la sua richiesta sorpreso. «Da quale vuoi iniziare?» le chiedo con un sorrisino sulle labbra. È la prima possibilità di parlare a lungo che mi si pone in settimane e la accetto senza troppi indugi; farei di tutto pur di non continuare a pensare a domani. E credo lei cominci a stancarsi di continuare a rivivere la morte di sua sorella, pensando a tutti i possibili scenari che avrebbero potuto salvarla.

«Credo- No, scegli tu.» Mi prendo qualche istante per osservare l’inchiostro sulla mia pelle, come se non li vedessi da anni. 

«Okay, allora...» Passo l’indice sul primo tatuaggio all’interno del braccio sinistro: il piccolo geco riempito di nero con al di sotto una data in numeri romani. «Questo è il primo che ho fatto: è la data di nascita di Mali e il geco è il suo animale preferito. Sì, è strana, lo so» dico ridacchiando, strappando un sorriso anche a Kayla. Mi si riscalda un po’ il cuore nel vederlo.

Le spiego della scritta Kia kaha in maori sulla clavicola, che significa sii forte, per ricordare la provenienza dalla Nuova Zelanda di mia nonna; la piuma sull'altra clavicola non ha significato, volevo solo farmi un altro tatuaggio. Le dico anche che non la rifarei un’altra volta. Una piccola rosa, disegnata veramente male era la prima prova di tatuaggio della mia seconda ex ragazza, che avrebbe voluto fare, appunto, la tatuatrice. Un veliero stilizzato sulla parte esterna del braccio perchè mi ricordava l’infanzia. 

«E le cicatrici?» sussurra dopo minuti in cui era calato il silenzio, lasciando cadere lo straccio nella bacinella e tracciandone una sulla mia schiena con il suo dito. 

«La maggior parte colpa di Jordan,» rispondo, abbassando la mia voce a un mormorio. Cambio posizione, avendola adesso faccia a faccia. «preferisco non parlarne» le confido abbassando lo sguardo. Quelli sono stati dei momenti bui, non voglio riviverli adesso che non hanno quasi più significato. Sono solo dolore. 

Kayla scruta il mio viso per qualche istante, poi la sua vista viene catturata da qualcos’altro sul mio addome, allungando il dito per toccarlo con delicatezza. Seguo il suo dito, ricordandomene solo ora. 

«Oh, no, quella è la cicatrice di quando sono stato operato di appendicite» le dico ridendo, smorzando un po’ la tensione che si era venuta a creare. «E qui mi sono bruciato mentre provavo ad aggiustare la moto.» Le sposto la mano dalla mia pancia per prenderla tra la mia, facendo lo stesso con l’altra.

«Hai pensato che potremmo non trovarli, vero?» mi chiede tutt’un tratto, cambiando argomento bruscamente. Ecco cosa le stava frullando per la testa per tutto questo tempo.

Annuisco sconfitto, abbassando lo sguardo. Ci ho pensato così tante volte a questa terribile possibilità. Travis mi aveva detto che sarebbero andati ad Ovest, ma c’erano così tanti casi possibili per cui hanno potuto cambiare piani, direzione e quant’altro. Domattina saremmo potuti partire verso il nulla, un vicolo cieco. 

Kayla mi prende il viso tra le mani e mi accorgo solo ora che ha dimezzato la distanza che ci divide. Mi prende alla sprovvista annullandola, baciandomi lentamente, facendola quasi sembrare l’ultima volta. Faccio scivolare le mani al di sotto dei suoi vestiti, risalendo la sua schiena e scendendo di nuovo. Una mano si appoggia sulla sua nuca, per avvicinarla ancora di più a me, mentre le sue si intrecciano tra i miei capelli. Poi Kayla mi lascia andare per togliersi maglione e maglietta e riprendere con più fervore il bacio interrotto. Si lascia spostare sul mio bacino, il suo petto che aderisce contro il mio, facendomi arrivare mille scosse elettriche per il corpo.

Forse è sbagliato. Forse non è il momento adatto. Ma entrambi ci lasciamo andare e facciamo la cosa più simile all’amore che io conosca.

***

Piego la foto stropicciata e la metto nella tasca posteriore dei miei pantaloni mentre Kayla finisce di sistemare il suo zaino; so che al momento la cicatrice è ancora aperta e non vuole nemmeno sentire nominare sua sorella, ma quando farà i conti con ciò che è successo e con sé stessa vorrà avere qualcosa che possa ricordarla, oltre ai suoi ricordi. 

La cosa divertente è che dopo un po’ che non vedi più una persona - anche se quella più importante della tua vita intera -, te ne dimentichi il volto. Tutti quei piccoli particolari che erano così importanti, andati in un secondo: il colore degli occhi, le sue espressioni, le piccole rughe d’espressione… E poi la voce, il suono della sua risata, tutto ciò che lo rende familiare a te.

Rimangono le frasi, i piccoli gesti d’amore… tutto il resto scompare come uno schiocco di dita: un giorno c’è e l’altro non c’è più, così, d’improvviso.

Raccolgo il giubbotto di Kayla e glielo passo: lei lo afferra, evitando il mio sguardo e senza dire una parola. La fisso per qualche istante confuso, anche se mi sta dando la schiena: ho fatto qualcosa di male? Oppure è solo uno dei giorni brutti?

Faccio spallucce tra me e me, non prendendola troppo sul personale.

Una volta che entrambi siamo pronti, usciamo veloci dalla finestra, lasciandoci alle spalle tanto dolore e sacrifici. Lasciando indietro tutti i quaderni che ho riempito durante queste tre settimane: se qualcuno dovesse mai trovarli, saprà che esiste ancora un ragazzo di ventun’anni di nome Calum e che, assieme all’altra ragazza Kayla, dopo giorni infiniti e pieni di discorsi interiori, andranno alla ricerca del loro vecchio gruppo.

Vi troveremo.

***

Mentre camminiamo in questa nuova città mi diverto a giocherellare con i sassolini che trovo sull’asfalto dove la neve si è già sciolta. Il sole riscalda la pelle del mio volto, regalandomi una piacevole sensazione di calore. Non vedo l’ora che finisca l’inverno.

Siamo diretti ad Ovest: non che sappia esattamente dove sia, visto che siamo sprovvisti sia di una mappa che di una bussola, ma almeno abbiamo il sole ad indicarci la via. Sarà più difficile quando pioverà o sarà nuvoloso. 

Dopo queste tre settimane sento l’energia scorrere dentro di me al massimo: sono determinato a trovare di nuovo Mali, mia madre e tutto il resto del gruppo. Sono fiducioso in loro, sono sicuro che ce l’hanno fatta. Devono avercela fatta. Non mi importa se impiegheremo settimane per trovarli.

«Vuoi fare una pausa?» chiedo a Kayla, alzando lo sguardo dall’asfalto. Non è stata di molte parole questa mattina, come non lo è nemmeno ora. 

«No, mangiamo mentre camminiamo» risponde brusca, non rivolgendomi nemmeno uno sguardo.

«Dovremo fermarci, prima o poi.» Aspetto istanti infiniti una sua risposta che non arriva mai. Decido di lasciare perdere per una seconda volta. Quando questa sera ci fermeremo per accumulare qualche ora di sonno, potremo parlarne tranquillamente.

Non sono preoccupato di incontrare dei Vaganti: forse è tutto questo spirito positivo che è entrato dentro di me stamattina e forse dovrei sapere che sottovalutare i possibili rischi non porta a niente di buono, ma mi sembra una zona tranquilla. Per una volta voglio godermi l’aria fresca e i raggi di sole senza dover continuamente assillare la mia mente con paranoie inutili.

***

«Faccio io il primo turno» dice Kayla - o meglio, ordina -, sistemando meglio le sue cose sull’asfalto. Annuisco senza troppi indugi, ho già provato a controbattere prima di arrivare qui ma non ho avuto molto successo.

Mi sdraio, piegando il braccio sotto alla testa per usarlo come cuscino, mentre ho lo zaino ancora sulle spalle in caso di pericolo imminente; io e Kayla non siamo riusciti a trovare un rifugio sicuro, quindi ci siamo dovuti adattare ed accamparci in mezzo ad una ex strada che collega la città da cui siamo appena usciti ad un’altra, per cui da ogni parte abbiamo campi, campi e ancora campi.

Ho provato più volte a convincere Kayla che ci saremmo dovuti fermare tempo fa, così ora non ci troveremmo qui al freddo e al gelo, vulnerabili ad ogni pericolo ed intemperia, ma è stata troppo testarda ed orgogliosa per ascoltarmi. 

Il buio è calato da qualche minuto, abbiamo costruito un falò abbastanza grande da tenerci al caldo con i libri che ho portato via da quella stanza angusta - per fortuna che ho deciso di prenderli con me - e abbiamo deciso di fare a turni per fare da guardia.

Durante la giornata, passata per la maggior parte in silenzio, istanti della nottata precedente mi balzavano in testa, facendomi rabbrividire al ricordo delle nostre mani sui corpi dell’altro, delicate come se non volessimo rischiare di spezzarci, i baci scambiati dopo istanti persi ad ammirare l’uno i dettagli dell’altra…

Eppure qualcosa è cambiato.

E non riesco a chiudere occhio. Non riesco a capire il senso del suo silenzio e della sua freddezza improvvisa dopo l’ultima notte. 

Mi rigiro un paio di volte su me stesso, strizzando gli occhi quasi con violenza pur di riuscire a prendere sonno. 

«Potresti fare un po’ meno baccano?» mi riprende Kayla sottovoce, irritata. Mi volto così da poterla guardare in volto con un sopracciglio alzato. «Cosa?» mi chiede alzando entrambe le sopracciglia. Poi distoglie lo sguardo sbuffando e ritornando ad appuntire un ramo con il coltellino svizzero.

«Vuoi dirmi che ti prende?» le chiedo, rimettendomi seduto e abbandonando l’idea di provare ad addormentarmi. Prima ho bisogno di chiarire alcune cose con lei.

«Mi sembra di averlo appena fatto-»

«Non parlo di questo,» inizio, osservandola. Smette di raschiare il legno e per la prima volta della giornata mi rivolge lo sguardo. «è tutto il giorno che mi tratti come uno zerbino. Capisco quello che stai passando, ma non è una scusa per il tuo cazzo di comportamento, soprattutto non dopo ieri sera.»

«Non era nulla di serio-»

«Oh, sì, certo, se dirlo a te stessa ti fa sentire meglio,» cerco di modulare il mio tono di voce, ma sono troppo alterato dalla sua risposta per potermi controllare. Ci sono già i campi a farlo. «credevo avessimo già superato da tempo questa fase.»

«Non prenderla troppo sul personale.»

«Io non- Ma ti senti?» praticamente urlo, gesticolando. «Credevo di essere io quello a reprimere i propri sentimenti-»

«Volevo solo provare qualcosa di diverso dal dolore, terrore e sensi di colpa!» sbotta, interrompendomi ed alzando la voce. «Hai una minima idea di come mi senta in questa cazzo di situazione? È l’unico cazzo di motivo per cui ho fatto quello che ho fatto ieri sera!»

«Incredibile» lascio sfuggire una risata amara dalla mie labbra, scuotendo la testa deluso. Non so se lo sono più per ciò che mi sta dicendo o per il fatto di esserci cascato. 

«Credo-credo che dovremmo separarci» riprende dopo alcuni istanti schiarendosi la gola. Per un attimo mi sembra di percepire la sua esitazione nel pronunciare quelle parole, ma poi capisco di averla solo immaginata.

«Quindi non te ne frega niente nemmeno del gruppo?» ribatto fumante. «Dei tuoi amici?»

«Non è più la mia battaglia.»

«Sì, certo, come no. Facile tirarsi fuori quando diventa dura, eh?»

«Lo dici come se mi conoscessi-»

«Perchè è così, Kayla, cazzo!» Mi sento l’intera faccia andare a fuoco e non perchè sono imbarazzato. Com’è possibile che da un giorno all’altro abbia deciso che tra noi non c’è mai stato niente, nemmeno una semplice intesa? Come può solo dire che non le interessa che fine faccio io o Wayne o Mali o i bambini? Non è possibile, mi rifiuto di crederle. «Ascolta, a questo punto non posso obbligarti a fermarti. Se è veramente ciò che vuoi, sei libera di andartene-»

Alzo immediatamente lo sguardo al cielo, illuminato a giorno nonostante sia notte fonda. 

Non è possibile. 

I miei occhi rimangono fissi sulla sagoma incendiata dell’aereo che è appena passato sopra alle nostre teste e che sta per precipitare rovinosamente al suolo. 

Mi metto in piedi senza pensare oltre, seguendo con lo sguardo questa falsa meteorite, fino a quando uno scoppio enorme mi fa capire che è atterrato. E che è impossibile che ci siano dei sopravvissuti. Boccheggio senza motivo, o forse perchè sento i polmoni contorcersi, togliendomi l’aria dal corpo. 

Quell’attimo di speranza provata nel vedere ancora un aereo volare sopra la mia testa, segno che c’è ancora civiltà, che ci sono ancora delle persone al mondo, sparisce in un batter d’occhio. Mi lascio cadere al suolo deluso, sconfitto. 

Passano minuti di silenzio incredulo, interrotto solo da sporadici scoppi lontani provenienti dalla carcassa del mezzo. 

«Alzati,» ordino a Kayla. «raggiungiamo l’aereo.» 

Forse c’è ancora speranza. Forse qualcuno del gruppo ha visto lo stesso aereo precipitare - il che non sarebbe molto difficile, dato il rumore e la luce che ha diffuso a notte fonda - e forse manderanno qualcuno a perlustrare l’area. 

Di sicuro anche tutti i Morti e Vaganti nel giro di parecchi chilometri avranno sentito l’impatto e chissà chi altro. Ma se c’è anche una minima possibilità che io possa riuscire a ritrovare la mia famiglia e tutti i miei amici, beh, allora la colgo al volo.

Comincio a camminare senza aspettare Kayla, del resto ha appena detto che questa non è più la sua battaglia. Non sono pronto a lasciarla andare, ma non posso obbligarla a rimanere con me, non posso obbligarla a fare un bel niente. La scelta deve essere sua ed ora ha la possibilità di prenderla. 

Camminare tra i campi mi rallenta a causa del terreno morbido e fangoso, ricco di acqua, oltre che a uno strato rimanente di neve a coprirlo, ma non mi interessa. Sono determinato a raggiungere quell’aereo, anche se mi ci vorranno ore o giorni. 

Questo è il mio biglietto di sola andata verso la speranza.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


CAPITOLO 31

KAYLA

Lo sto seguendo.

Lo sto facendo davvero. Sono parecchi metri dietro di lui, non credo si sia ancora accorto che lo sto seguendo ma non mi interessa. Ho preso una decisione e non mi posso tirare indietro proprio nel momento del bisogno.

Da quando ho cominciato ad affezionarmi al loro gruppo è come se mi fosse stato assegnato il dovere inderogabile di aiutarli nel momento del bisogno. È stato semplice finchè lei era ancora con me, o almeno non così difficile. Adesso, invece, non ho più nulla. Per la seconda volta. 

Ho pensato quale fosse il mio compito adesso, il mio obiettivo e mi sono risposta molte volte: “nessuno”. Prima dovevo ritrovare la mia famiglia, o almeno parte di essa, poi dovevo proteggere lei. Ora non ho più niente da portare a termine. 

Mi sono distratta. 

Mi sono distratta, dando peso ai miei sentimenti invece che insabbiarli profondamente dentro di me. Se non mi fossi lasciata trasportare, ora lei sarebbe ancora qui con me. 

Non ho avuto nemmeno la possibilità di dirle: “va tutto bene”, anche se in realtà non andava tutto bene. Tutto andava a rotoli, il mondo si era fermato e migliaia di stelle avevano cominciato a cadere: l’universo si stava distruggendo. Così mi sentivo: il mio universo stava morendo sotto ai miei occhi e io non ho potuto fare nulla per evitarlo. Non andava tutto bene, ma alcune volte la speranza è l’ultima cosa che puoi dare a qualcuno.

Ho guardato impotente mentre la vita veniva cancellata, strappata via dal mio universo, come se le stelle cadenti avessero artigli aguzzi e affilati che lasciavano solchi indelebili sul suo suolo. 

Non ho più nulla da fare qui. Non ho più niente che mi lega. Non ho più niente.

Queste frasi si ripetono ogni giorno incessantemente nella mia testa, non lasciandomi dormire o riposare o semplicemente vivere. Mi divorano dall’interno come la stessa malattia che ci ha portato qui. I giorni sono diventati mesi e le notti sono diventate anni. Ogni ora, ogni minuto è un inferno sempre più doloroso che mi ritrovo a combattere da sola.

Non c’è via d’uscita.

Ho sempre capito perchè Clark ha fatto ciò che ha fatto e ogni volta che queste parole rimbombavano nella mia mente, mi venivano i brividi e pensavo a lui. A quante volte ho visto la vita uscire dagli occhi di qualcuno, proprio davanti a me. A quante volte mi sono incolpata per cose che non potevo controllare. A quante volte mi sono sentita crollare il peso del mondo addosso e schiacciarmi sotto di esso.

È finita.

E poi. 

Poi mi sono accorta che non ero sola, che per tutte quelle tre settimane infernali e miserabili c’era qualcuno accanto a me. Qualcuno che si prendeva cura del mio corpo malato, provando a distrarmi con delle letture per bambini accompagnate da commenti stupidi solo per riuscire a strapparmi una risata, che però non arrivava mai. Qualcuno che era presente quando mi svegliavo fradicia la notte, dopo uno dei tanti incubi che non mi lasciavano riposare. Qualcuno che ha deciso di abbandonare la sua famiglia per rimanere con me.

Qualcuno a cui so di tenere e per questo non posso lasciare che vada verso una missione suicida da solo. Lui ha ancora la speranza che arde dentro di lui, motivando le sue scelte e accendendo quella scintilla nei suoi occhi.  Non posso abbandonarlo ora. Ma non posso lasciarmi distrarre di nuovo.

Forse è meglio così. Non sento più molto da tre settimane. Mi sembra essere prigioniera di un corpo che non è il mio, con pensieri che si avvinghiano sempre di più attorno alla mia gola e mi tolgono il respiro. 

Eppure lo sto seguendo.

Forse perchè non mi resta altro da fare, forse è l’unico modo per distrarmi da ciò che mi sta portando sul fondo di un abisso sempre più profondo e buio. Forse perchè non sono pronta a lasciare andare qualcun altro di importante dalla mia vita.

L’aereo… ha risvegliato qualcosa in me. Voglio scoprire cosa c’è dietro, chi c’è dietro. Voglio qualcuno da incolpare per tutte le perdite che ho subito, perchè incolpare solo me stessa non mi basta più. 

Calum è alla ricerca della sua famiglia. Io, invece, sono alla ricerca della verità, perchè è tutto ciò che mi rimane.

***

Mancano appena pochi metri alla carcassa bruciata dell'aereo e già la situazione non si prospetta una delle migliori: ci sono Morti ovunque, dentro a ciò che rimane del velivolo, intorno… Non mi sorprenderei se ne vedessi qualcuno anche sopra di esso. Sono insaziabili. 

«Dovremmo almeno avere un piano per distrarli» suggerisco a Calum, mantenendo il mio tono di voce basso. 

Durante il tragitto abbiamo avuto qualche incappio e vorrei evitare di causarne altri, nonostante sia più che pronta a far fuori uno di quei mostri e passare all'altro senza problemi. 

Non è cambiato molto da quando siamo partiti: ognuno sta sulle sue, con i propri pensieri per la testa, i propri piani e i propri obiettivi. Ci scambiavamo qualche parola solo per sapere chi avrebbe iniziato il turno di guardia e per svegliarci a vicenda. Una delle cose positive è che con i chilometri che macinavamo a piedi, non appena il mio capo toccava terra cadevo in un sonno senza sogni né incubi, anche se non profondo, ormai abituata ad allarmarmi ad ogni singolo rumore.

Non abbiamo avuto - e ancora non abbiamo - problemi di scorte: a quelle ci aveva pensato Calum quando io ero ancora imprigionata in quella stanza. 

«Sì, hai ragione» risponde borbottando, quasi che faccio fatica a capire cosa dice. «Ehi, brutti bastardi!» urla istanti dopo, mettendo le mani a coppa ai lati della bocca.

«Ma sei impazzito?!»

«Ho creato un diversivo,» ribatte, lanciandomi un'occhiataccia, che ricambio incredula. «Ora, corri.» Non mi lascia nemmeno il tempo di recepire la sua frase che è già partito in uno scatto veloce.

Impreco sottovoce, piegando il collo. «Che piano fantastico.» Prendo il coltellino svizzero - unica arma che mi è rimasta - e lo stringo nel palmo, forse con troppa forza.

Si farà ammazzare. 

Aumento la velocità e lo supero, sviando poi a destra. «Venite da mamma!» grido a gran voce, ormai a pochi metri dal primo Morto, che subito si gira e comincia a camminare nella mia direzione. Funziona. «Non sprecare l'occasione, vai!» urlo a Calum.

Lui ha tutto il diritto di trovare le persone a cui tiene. Io non ho più nulla da perdere. Il piano è essere l'esca e sta funzionando meglio di quanto pensassi. 

Che la festa cominci.

Corro verso  la coda dell'aereo con ormai un'orda di Morti che continua ad allargarsi dietro di me, ma non sono così veloci e tra di noi ci sono abbastanza metri per una distanza di sicurezza.

Mi ero scordata la sensazione dell'adrenalina che scorre per il mio corpo: è passato così tanto tempo dall'ultima volta che ho dovuto correre per salvarmi la pelle. La sensazione dei piedi che sbattono sull'erba, inviando scosse di energia pura su per le gambe, le braccia che si muovono coordinate, il respiro che entra ed esce dalla bocca… Mi viene da ridere e lascio uscire una risata fragorosa dalle mie labbra, come se fossi appena impazzita. Eppure mi sento così libera ed invincibile adesso.

«Vaffanculo, stronzi! Ha!» urlo in modo liberatorio, alzando il dito medio sopra alla mia testa.

Lancio un'occhiata veloce dietro di me, notando che Calum è riuscito a farsi strada dentro all'aereo grazie alla mia distrazione.

Continuo a correre, provando così tanta leggerezza improvvisa che potrei continuare a correre all'infinito, se solo non fosse per i polmoni che cominciano a bruciare.

Magari non vedrò mai un Vagante sopra a un aereo, ma io posso salire su un'ala appena esaurirò l'ossigeno dentro di me: sono arrivata alla coda e vedo che l'ala dalla parte opposta è appoggiata obliquamente al terreno. 

Devo fare uno sforzo enorme per riuscire a darmi lo slancio per salire e devo contare che davanti a me ci sono altri Morti che stanno cominciando ad accorgersi della mia presenza. Dannazione. 

Uno sparo.

Non sono io e di sicuro non è Calum. C'è qualcun'altro oltre a noi due, ma deciderò dopo se prenderlo come un buon o pessimo segnale. L'unica cosa importante è che ha distratto molti Morti, che adesso si stanno dirigendo dalla parte opposta. Ne ho ancora una quindicina circa dietro di me, ma posso farcela a raggiungere l'ala. Dovrei farcela.

Faccio uno sprint, sentendo muscoli e polmoni bruciare, salto e mi aggrappo alla parte più bassa dell'ala. Per qualche istante la mia presa tiene, le mie gambe penzolano a qualche centimetro da terra, ma poi comincio a scivolare e muovo le mani come una pazza per riprendere la presa.

Posso farcela.

Mi lascio cadere, prendo una piccola rincorsa e salto di nuovo, sentendo i muscoli delle braccia tirare per lo sforzo. Forza.

I Morti si avvicinano e io ho ancora le gambe che penzolano. Riesco ad appoggiare il braccio destro sul suolo metallico, faccio leva, trattenendo un grido di sforzo tra i denti digrignati. Nell'altra mano ho ancora il coltellino ma non posso lasciare cadere l'unica arma che mi è rimasta: la lancio sull'ala e provo a tirarmi su con la mano libera.

D'improvviso mi sento prendere una gamba e il battito del mio cuore accelera impazzito: un Vagante ha afferrato il mio polpaccio e sta cercando di tirarmi giù. Scalcio più forte che posso con entrambe le gambe, riuscendo a colpirlo in faccia, ma si riprende in pochi istanti, ritornando ad aggrapparsi al mio polpaccio.

Sforzo così tanto sulle braccia che credo potrebbero staccarsi da un momento all'altro e il continuo dondolare delle mie gambe non mi permette di riuscire a salire su questa dannata ala.

Potrei lasciarmi cadere e soccombere così al mio destino, ma non posso dargliela vinta. Hanno già spezzato le vite di tutta la mia famiglia, non lascerò che facciano banchetto anche con la mia carne. Non succederà.

Un altro sparo inaspettato mi fa saltare un battito. «Quello era l'ultimo, ti conviene muoverti!» Non mi chiedo da dove provenga la voce né a chi possa appartenere; ha appena colpito il Vagante attaccato alla mia gamba, che cade lentamente a terra, tirandomi giù assieme a lui.

Ultima occasione.

Salto di nuovo.

Strizzo gli occhi così forte che mi fa male la testa, digrigno i denti e tutti i muscoli del mio corpo si ribellano per lo sforzo continuo. Poi la mia mano viene afferrata e tirata su. E anche le mie gambe riescono a toccare il metallo. Striscio avanti, riprendendo fiato. Mi giro sulla schiena, appoggio le mani sulla pancia e scoppio in una risata fragorosa, non preoccupandomi più di niente.

Apro gli occhi e vedo subito il volto di una donna di colore sulla cinquantina, che mi fissa con un'espressione tra il sorpreso e il divertito. Sposto lo sguardo sulla sua mano che stringe una pistola. «Grazie» dico praticamente senza voce, mettendomi a sedere.

«No, ringrazia lui,» dice, facendo cenno verso il corpo mozzato dell'aereo. «È stato piuttosto convincente.» Calum si gratta la nuca, il petto che si alza e si abbassa veloce per riprendere fiato. Gli faccio un cenno riconoscente con il capo.

La donna allunga una mano verso di me e la prendo esitante, lasciando che mi aiuti ad alzarmi in piedi.

«Sono la dottoressa Nuha Jacobs,» dice una volta raggiunto Calum ed essere entrati nella parte intatta dell'aereo. «ma potete chiamarmi Nuha o doc.»

Annuisco distrattamente, registrando appena le parole da lei appena pronunciate, troppo impegnata a studiare lo spazio attorno a me. Mi sembra di stare dentro ad un laboratorio: le luci a pila illuminano di bianco l'intero luogo con qualche sfumatura blu, c'è un tavolino con sopra un microscopio e diverse provette e campioni e altri contenitori di vetro, oltre che almeno una cinquantina di scartoffie sparse tra la scrivania e la sedia. Verso il fondo dell'aereo ci sono diverse flebo vuote, un sedile disteso per fare da brandina e bottiglioni di acqua potabile - c'è attaccata sopra un'etichetta con le parole ben leggibili -, al loro fianco diverse scatole di cartone.

Sento Calum e la dottoressa parlare in sottofondo, anche se non sto seguendo ciò che stanno dicendo; dalla parte da cui siamo entrati, che è dove la parte finale si è separata dal resto del velivolo durante l'impatto, ci sono degli spuntoni per tenere lontano i Morti: infatti, ci sono due corpi infilzati che muovono le braccia instancabilmente, aprendo e chiudendo i palmi con scatti spasmodici e che continuano a fare quel loro odioso verso.

«Fidatevi, vi ci abituerete, dopo un po'.» Sobbalzo al sentire la voce della donna così vicina a me.

«Come fai ad essere viva?» le chiede Calum, raggiungendoci all'entrata.

«Sono stata fortunata. Tutto qui» risponde, facendo spallucce. «Drew, il pilota, è morto all'impatto. Riley è stata scaraventata fuori. O almeno, credo. Io ero chiusa in bagno quando è andato tutto storto.»

«Cos'è tutta questa… roba?» chiedo, osservando nei minimi dettagli tutta l'attrezzatura sulla scrivania.

«Test. Provette con il loro sangue,» indica i due Morti infilzati, «sono stati molto gentili ad avermelo lasciato prendere» dice con un tono troppo leggero, lasciando scappare una leggera risata.

Questo suo modo di ironizzare su tutta questa situazione mi mette a disagio e sta cominciando a darmi sui nervi. Calum invece sorride.

«Hai trovato qualcuno?» chiedo a quest'ultimo. Non voglio stare in questo posto più del necessario se non ha visto nessuno del suo gruppo.

«Vuoi dire che c'è qualcun altro là fuori oltre a voi due?» Alla donna stanno brillando gli occhi di… emozione? «Oh, mio Dio, non credevo mi sarebbe andata così bene-»

«Calum?» la interrompo secca. Voglio una semplice risposta, non ho chiesto la sua opinione. Calum scuote la testa sconfitto, abbassando lo sguardo.

«Accomodatevi pure, sarete stanchi dopo tutto quel correre.» Calum attraversa lo spazio, andandosi a sedere sul sedile in fondo all’aereo. Io sento tutti i muscoli del mio corpo contratti; non sono tranquilla qui dentro. Forse per i Morti a pochi passi da me, forse per questa specie di laboratorio, forse per Nuha stessa. Prendo qualche respiro profondo, giocando nervosamente con le dita delle mie mani, ma non vado a sedermi.

«A cosa serve il loro sangue?» chiedo alla dottoressa, che si siede al tavolino, cominciando ad armeggiare con i suoi strumenti con una calma e abitudine quasi inquietanti. Sto comunque a distanza di sicurezza, abbracciando il mio corpo con le braccia.

«Okay, vedo che sei curiosa» risponde senza togliere gli occhi dal microscopio. «Lo sto studiando in cerca di qualche segno di cedimento della malattia, per capire come si sviluppa a lungo termine, se ci sono ancora delle cellule sane-»

«Perchè l’aereo?» la interrompo con fare un po’ troppo inquisitorio. 

«Intendi perchè spostarci?»

«Intendo qualsiasi cosa. Voglio sapere la verità e, visto che lei mi sembra una di quelle dottoresse che lavoravano vicino al governo, voglio sapere tutto quello che sa.» Incrocio le braccia al petto, le mani che si stringono in due pugni involontariamente. «Non avete avuto molti problemi ad abbandonarci nel caos» sputo fuori fredda, tagliente come un lama appena affilata.

Ho sempre saputo di avere un risentimento nascosto per tutto ciò che ha fatto - o meglio, non ha fatto - il governo, il Presidente e la comunità scientifica quando tutto ciò è scoppiato. Ho sempre avuto domande rimaste senza risposte e dopo un po’ ho smesso di pensarci: non avevo nessuno che potesse rispondere in ogni caso. Ma adesso, avevo sotto mano una risorsa e sarei stata stupida a sprecarla, anche se sapere la verità non avrebbe cambiato niente. Non avrebbe potuto riportare indietro nessuno.

«Lo so» inizia, fermandosi subito per esalare un sospiro e togliere lo sguardo dal microscopio, appoggiando la schiena al sedile della sedia. «E sì, ero piuttosto vicina al governo. Non voglio cercare delle scuse, ma quando è scoppiato tutto ciò,» dice, indicando attorno a sé, «anche noi non ne sapevamo molto e la situazione è diventata disastrosa troppo velocemente per riuscire a fermarla. Tutto ciò che so adesso è frutto di mesi, anni di studio di provette, campioni, soggetti, dopo che è stato ristabilito una specie di ordine tra la comunità scientifica ancora rimanente. Il governo ci ha affidato il compito di trovare una cura-»

«Vuoi dirmi che esiste ancora un governo?» chiede sconvolto Calum con gli occhi spalancati e la mandibola che credo possa cadergli da un momento all’altro.

Mi lascio scappare una risata amara: non mi sorprende molto questa notizia. Ci hanno abbandonati una volta, non dubitavo sul fatto che avrebbero potuto farlo una seconda.

«Sì. Beh, prima- Ora è più complicato. Comunque, abbiamo scoperto che è un virus modificato derivante da quello della rabbia e dall’encefalopatia spongiforme bovina: quello della mucca pazza, in parole povere.»

«Ma entrambi sono fatali» interviene di nuovo Calum. Non ci sto capendo nulla. Vado a sedermi accanto a lui. 

«Per questo ho detto che è modificato.  La rabbia può essere trasmessa all’uomo attraverso la saliva: quindi morsi, ferite e graffi e così via. La stessa cosa da uomo a uomo, ora, con l’aggravante che un semplice starnuto o colpo di tosse può infettare molti più soggetti.

«Come avrete potuto capire dopo tutti questi anni, i soggetti perdono la vista, il senso morale è scomparso, il gusto, l’olfatto eliminati. Rimangono solo il tatto e l’udito, solo che quest’ultimo è potenziato. È come se tornassero a uno stato animale, preoccupati solo della caccia. Come hai detto prima, Calum, entrambi i virus sono fatali: infatti, in entrambi i casi, la distanza tra i sintomi e il coma e successiva morte è di una settimana. La mia teoria è che il virus finale sia stato contaminato da un virus influenzale che ferma il cuore umano e poi lo fa ripartire. Sembra fantascienza, ne sono consapevole, ma non è un’opzione da scartare.

«Non sappiamo da dove provenga. Si è vociferato che fosse un esperimento di laboratorio e che alcuni soggetti vennero erroneamente rilasciati, ma non ci sono prove fondate al riguardo. Non sapere la provenienza ha prodotto un grave rallentamento della ricerca. Nonostante ciò, recentemente abbiamo scoperto che il genoma umano dei più giovani - parlo di bambini nati durante la pandemia o appena precedentemente - si è modificato.

«Si è parlato a lungo di fare esperimenti su tali soggetti: contagiarli con la malattia, vedere come il loro corpo e le loro cellule avrebbero reagito a ciò, se c’era una possibilità che potessero essere immuni e da lì poter ricavare una possibile cura sperimentale. Non è mai stato approvato, a causa delle divergenze createsi nel gruppo. Non sono mai stata d’accordo sullo sperimentare su neonati e bambini, mi sono sempre opposta.»

Mi passo una mano sul viso frustrata all’idea di poter torturare vite innocenti. Strizzo gli occhi, poi li riapro, la vista ci mette qualche istante per ritornare a fuoco.

«Fino a due settimane fa.» Nuha prende un respiro pronfondo, l’aria sconfitta e combattuta. «Hanno approvato il progetto, hanno cominciato a prendere i bambini. In quel momento ho capito che non potevo restare a guardare. Non potevo rimanere chiusa in un edificio e vedere le vite di quei bambini venire spezzate dagli esperimenti. Non tutti sopravvivono. I miei colleghi sono stati tutti quanti corrotti dal terrore di potersi trasformare come loro.» Indica di nuovo i Morti. «Si sono spinti troppo oltre, senza modo di tornare indietro. Così io e un paio di miei collaboratori fidati abbiamo preso questo aereo, sperando di arrivare a Chicago e proseguire gli esperimenti su soggetti già contagiati lì. Il resto lo sapete.» 

Mi prendo qualche minuto per digerire tutte le informazioni. Ho la testa in subbuglio e le emozioni che fanno a lotta tra di loro.

Ho voluto la verità. Ed ora l’ho ricevuta, sempre che non ci stia raccontando un mare di bugie per chissà quale scopo.

«Hai detto Chicago… Da dove provenivate?» chiedo, cercando di mettere in ordine tutti i pezzi del puzzle.

«Fort Detrick, a Frederick nel Maryland.» La guardo con uno sguardo perplesso. «È una base medica dell’esercito. Fino al 1969 è stata centro di ricerca per le armi biologiche, per questo abbiamo deciso di studiare il virus lì.»

Mi passo le mani tra i capelli frustrata. Vorrei poter urlare, scaricare la rabbia. Vorrei poterci capire qualcosa. Ancora una volta, vorrei che le cose fossero andate diversamente.

Le teorie complottiste non mi servono a molto a quattro anni dallo scoppio di tutto questo casino. Si dice che la verità dovrebbe dare tutte le risposte, ma io ho solo più domande e un gran mal di testa. Pensavo mi sarei sentita meglio, invece mi sento come se fossi appena stata investita da due treni, uno dopo l’altro. Ho bisogno di aria.

Mi alzo in piedi, barcollando leggermente sui miei stessi passi e immediatamente sento una mano stabile sulla mia schiena. Stringo i pugni ai lati delle gambe, così forte che sento le unghie affondare nel palmo e lasciare i segni.

«Dove vai?» chiede sottovoce Calum, sfiorandomi quasi impercettibilmente il polso con le sue dita. 

«Fuori. Devo schiarirmi le idee.» 

Oltrepasso gli spuntoni, passando dallo stesso punto da cui siamo entrati, ritornando sull’ala dell’aereo. Appoggio la schiena alla parete bianca e fredda, stringendo le braccia al petto. Chiudo gli occhi, inspiro. Espiro. Apro gli occhi.

«Stai bene?» Richiudo gli occhi.

«Non è importante.»

L’ombra prende il posto della luce. Apro gli occhi. Calum è davanti a me. Preoccupato, con le sopracciglia aggrottate: un’espressione che ho visto sul suo viso ormai troppe volte per non riconoscerla.

«Lo è per me.» 

Faccio un respiro profondo: sento la gola chiudersi, il battito del cuore accelerare e gli occhi inumidirsi. La mia gamba destra comincia a muoversi avanti e indietro, il mio solito tic nervoso che appare ogni volta che sto per piangere. Giro la testa di lato, guardando l’infinità di verde e marrone che si estende nei campi. Mi metto a sedere, incrociando le gambe.

«Pensavo di aver fatto pace con l’idea della morte.» Vedo con la vista periferica che Calum si siede davanti a me, tenendo il suo sguardo inquisitore sul mio viso. «Dopo quattro anni. Cazzo, quattro anni.» Prendo qualche attimo di pausa. 

Dopo la nostra convivenza forzata per tre settimane, ho notato diverse volte che Calum mi lascia i miei spazi e miei tempi. Nonostante tutto, è una delle cose che ho più apprezzato durante questo continuo periodo di dura prova per entrambi. Non è più precipitoso con i miei pensieri, con i miei tempi di condivisione, forse perchè ha imparato a capire quanto condividere sia difficile e doloroso per me.

«Io non so più niente. Non so chi sono, non so cosa voglio. Non so cosa devo fare in questa dannata vita! I miei genitori, Reece, Clark… Ebony.» Dire il suo nome per la prima volta dopo tre settimane fa aumentare il battito del mio cuore. Il suo nome rimbomba nella mia testa, nell’aria, nello spazio tra me e Calum. «Non ho fatto nulla per evitare...»

«Smettila di crederti Dio, Kayla.» Calum scuote la testa, il suo sguardo mi trafigge nel profondo. «Molte cose sono fuori dal tuo controllo, come lo sono dal mio. Non potevi sapere ciò che sarebbe successo e non avresti potuto evitare l’inevitabile. Smettila di incolparti di cose per cui non hai colpa.» Mi prende la mano, dandole una stretta rassicurante e racchiudendola nelle sue.

«Grazie» sussurro, senza guardarlo negli occhi, «per non averla fatta diventare una di loro.» Non pronuncio il suo nome di nuovo, ma sa benissimo a chi mi riferisco. Lo vedo annuire, un’espressione addolorata sul viso. E io che credevo di star portando tutto questo dolore da sola. La sua vita ha avuto un impatto anche su quella di Calum, ma sono sempre stata troppo preoccupata del mio dolore per vedere oltre.

Dopo alcuni minuti di silenzio, passati a riflettere sulle sue parole, decido di alzarmi, lasciando scivolare via la mia mano dalle sue e ritornando all’interno dell’aereo.

«Perché hai deciso di seguirmi, alla fine?» La voce di Calum mi arriva forte e chiara alle orecchie e la domanda mi fa fermare sui miei passi, presa alla sprovvista.

Perchè l’ho seguito se poco prima gli ho detto di non voler aver più niente a che fare con lui o la sua missione e il gruppo e tutto il resto?

«Ti saresti fatto ammazzare, altrimenti.»

È la verità: si sarebbe davvero fatto ammazzare con tutti quei Morti. Ma è davvero solo questa la motivazione che mi ha spinto ad andare oltre? A continuare?

Non lo so. Ma per ora mi va bene.

«Allora ti importa qualcosa di me» ribatte con un sorrisetto sulle labbra. Scuoto la testa, la traccia di un sorriso sul mio viso, mentre soppeso i sentimenti dentro di me. 

«Mani in alto, non vi muovete!»

Il mio cuore salta un battito, poi corre all’impazzata.

Il mio istinto di sopravvivenza vorrebbe voltarsi, riuscire a tirare fuori il coltello e provare a mettere a tappeto chiunque stia alle nostre spalle. 

Ma non lo faccio, sapendo che anche se riuscissi prendere l’arma e colpire, non avrei comunque possibilità.

Alzo le mani sopra la testa.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


CAPITOLO 32

KAYLA

Mi viene da alzare gli occhi al cielo, tante sono le volte che mi sono trovata in questa situazione negli ultimi sei mesi, però la mia mente è concentrata sulla canna dell’arma premuta contro la mia schiena, che mi spinge a dirigermi nello spazio centrale dell’aereo.

Nuha è magicamente sparita, così come le poche cose mie e di Calum e mi viene solo da pensare a come la sua molto convincente storia della “Dottoressa Nuha: pronta a salvare il mondo!” ci abbia incastrato bellamente. 

Avrei dovuto pensarci. Avrei dovuto prevederlo. Del resto, cadere nel bel mezzo del nulla con decine e decine di Morti pronti a farti fuori non è una delle più belle prospettive, quindi, perchè non derubare i curiosi che vengono ad indagare?

Eppure è stata così convincente.

Forse non è nemmeno una dottoressa. Forse è solo arrivata qui prima di noi, magari ha trovato zero sopravvissuti all’impatto, si è appropriata dello spazio e ha messo in scena il tutto.

Io e Calum ci scambiamo un’occhiata veloce, prima che l’assalitrice - perchè ha una voce femminile, acuta ed autoritaria - lo colpisca in mezzo alle spalle, facendolo incespicare nei suoi stessi passi. «Non voltarti.»

«Scusa, stavo solo cercando di dare un’occhiata al tuo bel faccino» la schernisce lui. Gioca con il fuoco, ma mi tocca nascondere un sorriso alla sua battuta. 

Non so come faccia a mantenere i nervi così saldi adesso; forse è solo il suo modo di reagire alla paura.

Schiaccia l’occhiolino dalla mia parte, prima di venire colpito di nuovo nello stesso punto, questa volta con il calcio di quello che mi sembra un fucile d’assalto. Calum questa volta cade, atterrando sui palmi delle sue mani con un tonfo.

Se solo fossimo più vicini ai Morti conficcati negli spuntoni, potrei riuscire a sbilanciarla e farla cadere, dandole un colpo con la spalla, ma siamo praticamente alla fine dell’aereo e sono bloccata, oltre che sotto tiro di un fucile che con un colpo potrebbe mettermi k.o. definitivamente.

Non ho alternative se non quella di seguire i suoi ordini e inginocchiarmi con la faccia rivolta verso il fondo.

«Ci attacchi e poi non ti vuoi far nemmeno vedere in faccia? Suona molto da codardi, per quanto mi riguarda.» Piego il collo di lato, lasciando uscire le parole quasi inconsciamente. Mi preparo a ricevere un colpo in mezzo alle scapole.

«Allora, cosa volete da mang- Riley?» Le nostre teste scattano a destra, dove Nuha esce dal bagno improvvisamente, facendomi trasalire per la sorpresa e allo stesso tempo facendomi salire i brividi fino al collo per il nome che ha pronunciato.

«Nuha! Oh, mio Dio, sei ancora viva!» L’assalitrice lascia cadere l’arma dalle sue mani, provocando un rumore sordo che fa lamentare i Morti dietro di noi. 

Non perdo tempo e lo lascio scivolare sul pavimento fino a farlo arrivare a Calum al mio fianco, il quale lo afferra, puntandolo sulle due donne che ora si stanno abbracciando. «Regola numero uno di un sequestro: mai lasciare andare la propria arma.»

«No, vi prego, posso spiegarvi» ribatte veloce la donna stessa, voltandosi con le mani davanti a sè.

È alta poco più di Nuha, i capelli biondi sono sporchi di sangue della ferita che deve avere sulla testa, visto che gran parte della guancia destra è imbrattata dal sangue secco cristallizzato in minuscole spaccature sulla sua pelle chiara.

«Calum, ti prego abbassa l’arma. Lei è con me-»

«Dove hai messo i nostri zaini?» chiedo con prepotenza, alzandomi e affiancandomi al ragazzo, osservandola con uno sguardo di fuoco. Le mani mi si stringono a pugno per la tensione.

«Sono qui. Ho pensato di metterli più al sicuro per voi» risponde pronta Nuha, spostando un bottiglione di acqua. 

È la verità. Lì ci sono le nostre cose. 

Lancio uno sguardo incerto a Calum, che le sta ancora tenendo sotto tiro, il muscolo della sua mandibola che appare sotto la sua nuova barba. L’ultima settimana aveva provato a tagliarsela con il coltellino svizzero, finendo per tagliarsi. Dopo alcuni istanti, abbassa il fucile, mantenendo ben salda la presa, la postura rimane tesa, rigida.

«Lei è Riley, l’altra donna che vi ho detto era con me su questo aereo. Credevo fosse morta a causa dell’impatto» dice, dopo istanti di silenzio carichi di tensione. «È inaspettato per voi quanto lo è per me.»

«Sì, a proposito, scusate per i colpi» ribatte Riley, quasi imbarazzata.

Non sono ancora pronta ad abbassare le guardia e non lo è nemmeno Calum. Potrebbe essere una messa in scena, anche se il mio istinto mi dice il contrario. 

«Calmiamoci, tutti quanti, okay?»

«No, Elyse! Ci ha detto di aspettare-»

«Grazie per avermi fatto saltare la copertura, genio!»

Io e Calum ci voltiamo all'unisono al nome e alla voce, un sorriso incredulo che gli si piazza sul viso alla vista della familiare testa rossa.

«Che diavolo ci fate voi due qui?»

«Stiamo bene, grazie per averlo chiesto!» risponde Calum ad Elyse, entrambi con la gioia dipinta in volto. Chiudono la distanza tra loro, stringendosi forte in un abbraccio carico di emozioni e parole sospese.

Le faccio cenno di saluto con la mano, spostando poi lo sguardo dietro di lei, notando la figura di Lynton e della piccola Margaret.

«Grazie a Dio siete ancora vivi. Non avevamo più speranze ormai» dice incredulo Lynton, abbracciando con un braccio Calum. Gli rivolgo un sorriso.

«Vi conoscete tutti?» chiede Nuha confusa, con un cipiglio profondo tra le sopracciglia, anche se il resto dei muscoli del suo viso sono rilassati.

Mi ero scordata per qualche secondo della tensione nell'aria e delle due donne dietro di noi nella frenesia del ricongiungimento. Il cuore mi sembra un po' più leggero al saperli vivi, nonostante io abbia chiaramente detto a Calum che non mi importasse. 

Margaret mi coglie alla sprovvista, allacciando le braccia attorno al mio ventre e stringendo forte la presa. Le fisso la testa per qualche istante, interdetta. Non me l’aspettavo. Le poso le mani sulla schiena, strofinando delicatamente, spostando lo sguardo sul pavimento.

«Mi sei mancata tanto!» esclama, staccandosi dal mio corpo con un sorriso enorme sulle labbra.

Annuisco piano, sforzando un sorriso. Sono praticamente uguali. Non d’aspetto, ma di carattere, l’età, tutto il contesto… Non ce la faccio. Sento gli occhi pizzicare e i brividi salire su per la schiena. Mi schiarisco la gola, distogliendo gli occhi dalla sua figura e riportandoli su Lynton, Elyse e Calum.

«Dove sono tutti gli altri?» chiedo, facendo un grande sforzo per non dare a vedere le emozioni che mi hanno creato un groppo in gola. Deglutisco a fatica, avvicinandomi ai tre ragazzi. 

Noto una scia di dolore passare sugli occhi di Elyse, mentre Lynton distoglie lo sguardo. Pessime notizie. Do un’occhiata al viso di Calum, notando di nuovo l’apparizione del muscolo della mandibola: è nervoso e preoccupato. Le mani gli si stringono in pugni per riaprirsi istanti dopo, solo per ripetere di nuovo l’azione. Sento lo stomaco aggrovigliarsi dentro di me.

«Siamo stati divisi,» inizia la ragazza, schiarendosi la gola. «tua madre, Mali e Wayne sono riusciti miracolosamente a trovarci ma non è passato molto prima che succedesse un disastro.»

«Cosa-cosa intendi dire?» chiede immediatamente Calum, i muscoli che si tendono non appena sente i nomi della sua unica famiglia.

«Travis, Calum. Lui è-» Elyse si interrompe solo per imprecare e alzare un pugno sopra la sua testa. «È morto. E non è l’unico» conclude con amarezza, il suo sguardo pieno di rabbia.

La notizia mi colpisce allo stomaco come un proiettile. Per quei pochi mesi che ho potuto vivere con lui, ho sempre pensato che fosse uno degli uomini più puri rimasti in questo inferno. Tutto ciò che ha fatto, lo ha fatto per le persone che aveva con sè, di cui sentiva tutto il peso sulle spalle. Ha sempre pensato al loro bene, qualunque fosse il costo che lui stesso avrebbe dovuto pagare.

Calum indietreggia fino a sedersi con un tonfo sul sedile. Ha gli occhi pieni di lacrime e il fiato corto. Era come un padre per lui. Era anche lui parte della sua famiglia. È stato il suo salvatore fin dall’inizio, accogliendolo nel suo bar per proteggersi da tutto l’orrore che c’era all’esterno.

So cosa prova. Lo so fin troppo bene. Rabbia, dolore, delusione. Questo mondo ti porta via le persone a cui più tieni nei modi peggiori possibili. Questo mondo non ha pietà. Per nessuno.

«La tua famiglia era ancora viva quando ci siamo dovuti separare e so che lo sono ancora» riprende Elyse dopo qualche istante di silenzio. «Quei tre sono macchine da guerra, non si lasciano intimidire da niente.»

«Blaine?» chiede Calum, provando a riprendersi dalla notizia, con uno spiraglio vano di speranza.

«Non lo so. Non sappiamo dove sia.» Lynton prende parola, sapendo che l’argomento è piuttosto delicato per Elyse. Non so che legame ci fosse tra i due ma mi sembravano piuttosto intimi, nonostante spesso si stuzzicassero a vicenda. «È rimasto con gli altri che si sono salvati. Non potevamo raggiungerli: siamo capitati in un brutto quartiere e i Vaganti ci si sono messi in mezzo, non abbiamo potuto fare nulla.»

Sento la mia mano venir presa, facendomi trasalire per il contatto improvviso; è Margaret, che la stringe forte, mentre le tocca rivivere tutto quell’orrore.

Tre settimane.

Tre settimane sono bastate per dimezzare il gruppo.

Tre settimane per portare via le persone a noi più care.

Tre settimane per portarci via tutto e lasciarci a bocca asciutta.

Sento i polmoni bruciare mentre la mia mente rivive gli ultimi momenti strazianti della vita di Ebony. Il peso del mondo mi è già caduto addosso tempo fa, frantumandosi sopra le mie spalle senza pietà, ma il vuoto che provo dentro non riesce ad essere colmato in nessun modo.

Reece, Clark, i miei amici, i miei genitori, Jackson, Olivia, Ebony, Travis… Tutti nomi che vengono cancellati con un pennarello che scava sempre più a fondo, lasciando segni sempre più profondi, lasciando solo ricordi indelebili.  Mi chiedo quanto ancora andrà avanti questa lista. Mi chiedo se tutto questo dolore sparirà e mi chiedo se riuscirò mai a non sentirmi in colpa.

Calum ci ha provato a dirmi che non sono poi così importante, che ciò che succede agli altri non è legato a me, che succede e basta. E io ci ho provato a non far ricadere tutte le colpe su di me, ma ogni volta che sento un nome venir eliminato brutalmente dalla lista mi chiedo se io avessi potuto fare di più. Mi chiedo, se avessi preso scelte differenti forse sarebbe andata diversamente? E Calum ha ragione. Ha dannatamente ragione a dire che non sono Dio, che nessuno lo è. Ma se c’è un Dio, allora, perchè far accadere tutto questo? 

«Sei ferita.» Nuha interviene, avvicinandosi a noi con uno sguardo corrucciato il viso, il suo sguardo diretto sulla mano di Elyse, che mi accorgo solo ora star sanguinando.

Elyse prova a sminuire, nascondendo la mano, dicendo che “non è niente”, ma la dottoressa insiste e dice a tutti quanti di sederci a terra. Prima medica la testa alla sua collega, Riley, poi passa ad Elyse. Lynton e Calum stanno parlando a bassa voce tra di loro e non mi voglio intromettere, non dopo quello che ha appena saputo.

Mi alzo e mi dirigo agli zaini, evitando le persone nello spazio ora ristretto. Mi chino, lo apro, spostando le ultime provviste per controllare che ci sia ancora tutto quanto - anche se ormai la storia di Nuha sta in piedi, altrimenti non ci starebbero aiutando - e il mio cuore si ferma per qualche misero istante quando mi trovo per le mani la foto.

Credevo di averla buttata. Calum deve avermela messa nello zaino di nascosto. La guardo distante, i sorrisi impressi sulla pellicola mi sembrano così lontani, così surreali.

«È una bella foto.» 

Giro di scatto la testa, venendo presa alla sprovvista; la presa si stringe involontariamente attorno alla foto, stropicciandola per quella che sembra la millesima volta. Riley si è seduta alla sedia del tavolino con le mani incrociate in grembo e il suo sguardo curioso ma innocente sulle mie mani. Ha un sorriso appena accennato sulle labbra screpolate.

«Scusa, non volevo intromettermi» comincia, ponendo le mani a palmi aperti davanti a sè. «Sembrano molto importanti per te» dice, indicando con il mento la foto, ancora racchiusa tra le mie mani.

«Non ho molta voglia di parlarne» ribatto, ricacciando la foto alla rinfusa nello zaino. «Scusa» aggiungo, quasi sentendomi in colpa.

«Oh, no, no, non ti scusare. Lo capisco.» Incrocia le gambe, appoggiando la schiena allo schienale della sedia. «Avevo una specializzazione in psicoterapia» spiega istanti dopo, notando il mio sguardo perplesso in volto. 

Annuisco all’informazione appena ricevuta, non facendomene poi molto. Insomma, anche se ora non è più una minaccia, minuti fa ha attaccato - quasi legittimamente - me e Calum senza troppi problemi, ma di sicuro non le avrei parlato di tutti i miei traumi da un momento all’altro.

«Senti, visto che sei l’unica libera al momento» esordisce, facendo un cenno all’altra parte dell’aereo, dove tutti gli altri si stanno aggiornando sulle relative situazioni. «volevo proporvi se volete restare qui con noi-»

«Oh, no-»

«Aspetta, fammi spiegare.» Sono già pronta ad alzarmi quando praticamente mi implora con lo sguardo. «Potreste aiutarci nella ricerca, potreste essere essenziali per fare ulteriori passi avanti-»

«Non c’è speranza!» sbotto, interrompendola malamente. «Non troverete mai una cura e anche se doveste riuscirci, ormai sarebbe troppo tardi!» Mi alzo in piedi, fregando le mani sulle cosce, muovendo i primi passi per allontanarmi da lei.

Riley si piazza davanti a me con la sedia, bloccandomi nei miei stessi passi. «Potresti salvare centinaia di persone!» risponde risoluta, «potresti salvare quella bambina, potresti darle un futuro. Certo, non potrai riportare indietro le persone che ormai hai perso-» Lancia un’occhiata allo zaino, facendomi perdere le staffe.

«Non provarci nemmeno» la avverto, avvicinandomi e gonfiando il petto. Non sa nulla e non deve permettersi di far leva e pressione su ciò che crede che sia importante per me. Non si deve permettere di tirare in ballo una delle persone a cui ero più legata, anche se questo lei non lo sa. Prendo due respiri profondi anche se il mio sguardo rimane tagliente e fissato sul suo. «Perchè continuate a fare questo? Sapete anche voi come stanno le cose.»

«Per loro.» Si gira con la sedia, dandomi la schiena ed indicando i Morti. «Hai ragione, forse quando troveremo una cura sarà troppo tardi. Ma loro avrebbero voluto che almeno ci provassimo. Avrebbero voluto un futuro diverso per tutte le persone che stavano loro a cuore.»

«Beh, non contare su di me.»

Ci sono momenti in cui mi accorgo di essere cambiata più di quanto voglia immaginare: questo è uno di quelli. Quattro anni fa avrei fatto di tutto pur di proteggere il popolo, sarei diventata un’agente di polizia e avrei fatto il mio meglio pur di mantenere fede alla promessa fatta. 

Adesso?

Adesso ho subito troppe perdite per poter dire lo stesso. Troppi traumi, troppe buche mai rattoppate. Ho perso il mio mondo, non ho più niente da salvare.

Questo è il motivo per cui sono rimasta da sola così a lungo: non sapevo se sarei riuscita ad affrontare altre perdite. E ora che, come le tessere di un domino, stanno cadendo una dopo l’altra, capisco che avevo ragione. Non ce la faccio.

Pensavo di aver trovato qualcosa che avrebbe riempito il vuoto dentro al mio petto raggiungendo questo aereo. Pensavo di aver trovato qualcosa per cui combattere di nuovo. 

Ma è proprio guardando le persone dall’altra parte dell’aereo che capisco che quello che era un buco si sta trasformando in una voragine senza fondo. Margaret, Lynton, Calum, Elyse. Nonostante tutte le menzogne che ho provato a raccontare a me stessa, loro sono importanti per me. Così come lo sono Wayne, Mali e Blaine. Ma il solo pensiero di poter vedere uno di loro perdere la vita davanti ai miei occhi senza che io possa fare niente, di nuovo… Non lo posso sopportare.

E per quanto mi faccia male l’idea di abbandonarli per una seconda volta, mi sembra l’unica via percorribile.

Ma non posso. Non posso abbandonarli proprio adesso, non posso lasciarli affogare nel dolore. Calum è rimasto al mio fianco nel momento più buio della mia vita e non posso semplicemente andarmene, facendo finta che non sia mai successo niente, facendo finta che non li abbia mai conosciuti.

Perchè per quanto faccia male ricordare, non voglio dimenticare

Non voglio dimenticare tutti i momenti pieni di gioia passati con Ebony, tutte le vacanze estive passate a casa dei nostri nonni in Florida a divertirci nell’oceano, tutte le battute e le risate e i sorrisi. 

Non voglio dimenticare l’amicizia che Wayne e Mali hanno costruito a fatica con me, scavando nel profondo per riuscire a creare una breccia dentro di me, oltrepassando tutto il dolore.

Non voglio dimenticare i battibecchi con Calum - per quanto irritanti -, le notti passate insieme l’uno tra le braccia dell’altra, i momenti di spensieratezza e libertà, i brevi momenti di normalità.

Non voglio dimenticare Elyse, Blaine, Lynton, Margaret, Matthew e Dylan e tutto ciò che abbiamo passato insieme: dalle giornate in ricognizione alle fiabe raccontate prima di dormire.

Non voglio dimenticare il viso di Reece, che si accese non appena cominciò a raccontarmi della sua più grande passione.

Non voglio dimenticare Travis, Meredith e Tracey: guide morali e persone uniche, così altruiste e pronte a mettere in pericolo loro stessi pur di salvare la vita di un componente del loro gruppo, della loro famiglia.

Non voglio dimenticare di come Wayne quel giorno mi ha salvato sopra a quel tetto.

Non voglio dimenticare.

Anche se molte volte è la cosa più semplice da fare.

«Kayla, scusa, Calum vorrebbe parlarti un secondo.» La voce di Lynton mi arriva alle spalle con qualche esitazione. Annuisco, sollevata di poter lasciar cadere la conversazione con Riley.

Calum ed Elyse sono in piedi dall’altra parte dell’aereo: il primo con uno sguardo sconfitto sul volto che si passa nervoso le mani sui pantaloni, quasi fosse un tic, mentre Elyse muove avanti e indietro la gamba destra, il suo sguardo fisso sulla mia figura.

«Cosa abbiamo intenzione di fare?» domanda secca ed impaziente Elyse, non appena sono a pochi centimetri da loro. Alzo le sopracciglia. «Se vogliamo trovare gli altri, non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo metterci in marcia subito.»

«Senza sicurezze e senza mete,» aggiunge Calum al suo fianco, incrociando le braccia al petto, lasciando vagare lo sguardo per la stanza ma senza mai incontrare il mio. «potremmo camminare per giorni senza trovare alcun rifugio o provviste e dovremo stare sempre all’erta. Non conosciamo l’area.»

«Con una bambina al seguito non mi sembra una delle migliori idee» replico secca, lanciando un’occhiata veloce a Margaret, che sta parlando tranquillamente con Nuha. «Lynton?» chiedo, notando che lui non è qui a discuterne con noi.

«Ha parlato con le dottoresse. Vorrebbe rimanere per “aiutare la ricerca”» ribatte Elyse, alzando gli occhi al cielo. «Sa badare a se stesso, se è ciò che stai pensando.»

«Voi siete d’accordo?» chiedo stupita. Con tutte le sfide e perdite che hanno dovuto affrontare, non credo sia semplice per loro lasciar andare ancora un altro componente del gruppo originale. 

I due annuiscono senza troppe esitazioni. «La scelta è sua, non possiamo certo impedirglielo.» Elyse sposta il peso da una gamba all’altra. Fisso per qualche istante la figura di Lynton, che ora mi dà la schiena. Un altro addio, allora. Un altro da aggiungere alla già troppo lunga lista.

«Quindi, Margaret…?» chiedo perplessa. Non sono pronta per tenere a bada un’altra bambina, per proteggerla, assicurarmi che sia al sicuro… È troppo presto.

«Con noi.» Calum continua a non guardarmi negli occhi. Non gliene faccio una colpa, ha appena ricevuto pessime notizie. «Ci stai?» chiede, infine, attendendo solo una mia risposta.

Incrocio le braccia al petto, chiudendo per qualche istante gli occhi. Poi annuisco. 

«Partiamo stasera,» appura Elyse, facendo un cenno con la testa. «Preparate gli zaini.» Detto questo, ci lascia soli, andando a fare compagnia a Margaret, probabilmente per comunicarle la scelta appena presa.

Calum rimane nella stessa posizione, stringendo le braccia attorno al suo petto ed irrigidendosi come una statua di marmo. Ha lo sguardo fisso sulla mia spalla, ma la testa altrove.

«Mi dispiace per Travis» mormoro, avvicinandomi alla sua figura. Gli poso esitante una mano sulla spalla, ritraendola immediatamente non appena sobbalza al contatto.

«Sì, anche a me.» È tutto ciò che dice prima di andarsene.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


CAPITOLO 33

KAYLA

E così, siamo di nuovo in marcia.

Lancio un ultimo sguardo dietro di me alle tre figure rimaste sull’aereo, sorridendo appena al ragazzo in centro. Ci siamo abbracciati per la prima ed ultima volta, anche se Lynton era molto speranzoso e ci ha salutato con un “la prossima volta che ci vedremo, sarò con la cura in mano!”.

Nuha e Riley ci hanno dato qualche litro d’acqua e qualche busta di carne secca che, sommate alle provviste rimaste, ci basteranno  per una settimana e mezza, se tutto andrà bene. Nonostante l’attrito iniziale, causato da molte incomprensioni, sono sicura che tratteranno Lynton con cura. Il pensiero mi rende più tranquilla.

Elyse tiene Margaret per mano, la prima con il fucile d’assalto che le pende sul lato sinistro della schiena e il suo zaino portato davanti. Saremmo andati ad Ovest, seguendo il nostro istinto, sperando di ritrovare le loro persone, la loro famiglia.

Calum è pochi passi più avanti rispetto a me, ha bisogno dei suoi spazi per metabolizzare la morte di Travis. Ha bisogno di silenzio e di rimettere in ordine i suoi pensieri. Lo so bene, purtroppo.

Mi dispiace vederlo così affranto; prima c’era quel fuoco che ardeva nei suoi occhi, non appena abbiamo lasciato quella stanza. Ora, quell’incendio si è un po’ affievolito. Credo che stia considerando la terribile idea che possa trovare sua sorella e sua madre morti o che non li riesca a trovare affatto.

Vorrei poter fare qualcosa per alleviare il peso della perdita, ma del resto non ho imparato nemmeno io a farlo, non so di che aiuto potrei essergli.

Un brivido mi percorre la pelle al sollevarsi del vento: è una bella giornata, ma ci sono delle brutte nubi all’orizzonte e con quest’aria non ci metteranno molto a raggiungerci, motivo per cui dobbiamo trovare un rifugio prima del calare del sole. Per fortuna abbiamo tre paia di occhi per questo.

Stiamo percorrendo la strada parallela alla tangenziale, tra i campi umidi e la strada dissestata con più terra che asfalto, ormai rovinato dalla mancata manutenzione. Il paesaggio è sempre uguale e non mi aiuta a distrarmi dalla mia mente e dai miei pensieri, che sono tutto ciò che voglio evitare al momento; troppi “se” e troppi dubbi mi annebbiano la mente da quando Nuha ci ha rivelato tutto. Non voglio cadere nel pozzo profondo di cosa avrei fatto se avessi saputo prima quelle informazioni o di chi avrei potuto salvare, perchè non posso tornare indietro nel tempo e non posso cambiare le cose.

È così. Devo solo accettarlo.

Più facile a dirsi che a farsi.

«Cammineremo finchè Margaret non è stanca» ci avvisa Elyse, camminando all’indietro per far arrivare l’informazione alle nostre orecchie. Alzo il pollice per darle un segnale positivo, Calum fa lo stesso.

Cominciano a dolermi le spalle per il peso dello zaino ma, dato che non abbiamo intenzione di fermarci nei prossimi minuti, dovrò abituarmici. Non sarebbe la prima volta. Ho imparato a convivere con tutti i dolori del mio corpo, ma ancora non sono riuscita a domare i morsi della fame in tutti questi quattro anni; se non verrò uccisa dai Morti o da qualche altro Sopravvissuto, morirò per colpa della fame e della sete. Non che ora sia un problema, grazie a Nuha e Riley.

Oppure per il sonno.

Sento già le palpebre pesanti. Non sono riuscita ad accumulare molte ore di sonno questa notte: i gemiti dei Morti infilzati come spiedini alla bocca dell’aereo non hanno di certo aiutato. Ma più che altro era il pensiero di dover partire di nuovo con una bambina a carico e con altre due vite. Uno dei tanti motivi per cui ho soppesato così tante volte l’idea di abbandonare il gruppo e tornare ad affrontare il mondo per conto mio è sempre stata la responsabilità: mi sento sempre il peso delle loro vite sulle spalle, non vorrei che se qualcosa di brutto mi capitasse, tornassero indietro rischiando le loro per la mia e magari perdendola nel frattempo.

Ho così tanto sangue sulle mie mani che non sopravviverei al pensiero di perdere qualcun altro. Non più.

Ancora nessun cenno di abitazioni. La strada continua fino a dove può vedere il mio occhio.

***

«Dovremmo sbrigarci» suggerisce Calum, accartocciando nel pugno la confezione vuota della carne essiccata. 

Il buio incombe su di noi e se siamo riusciti a sventare un acquazzone questo pomeriggio, ora non credo che avremo la stessa fortuna. 

L’umidità si insinua tra le ossa, così come il terrore di ciò che può nascondersi qui fuori. Non voglio uscire viva per miracolo da un’altra nebbia fitta o da un altro scontro con i Morti. E vorrei evitare di passare una nottata all’aperto con il serio rischio di ammalarci, cosa che nessuno di noi può rischiare, soprattutto se con noi abbiamo solo degli antidolorifici, bende e qualche goccia di alcool. Zero paracetamolo.

Abbiamo sorpassato lo scheletro di una fattoria qualche chilometro fa, sapendo che sarebbe stato un rifugio inutile: le sole travi non sarebbero riuscite a proteggerci da nulla. Adesso siamo decisamente ai bordi della periferia di Horner - ho visto il cartello stradale poco prima che ci fermassimo a fare una pausa -, se così si può chiamare: ci saranno sì e no tre case in croce davanti a noi, l’una ben distanziata dall’altra. Non credo ci sia nemmeno un centro abitato effettivo ed è decisamente meglio così: più case ci sono significa più Morti.

«Per quanto dobbiamo camminare ancora?» chiede Margaret, strofinandosi le mani sulle palpebre. Credo sia abbastanza distrutta, abbiamo camminato per quasi tutto il giorno.

«Ti prendo in spalla.» Calum le fa cenno di alzarsi. Lui si sistema lo zaino davanti e poi si mette sulla schiena Margaret, che si aggrappa senza problemi a lui. «Andiamo?» ci sprona con una certa fretta, notando che sia io che Elyse siamo ancora sedute sull’asfalto.

«Sì» risponde Elyse, lasciandosi scappare uno sbuffo subito dopo. Non deve essere riferito a Calum, visto che ha annuito ed è già ripartito. Alcune volte mi sfugge dalla mente che questi due si conoscono bene ormai: dopo quattro anni hanno imparato i gesti l’uno dell’altra, come approcciarsi, i loro comportamenti… Praticamente qualsiasi cosa.

Alcune volte mi chiedo se riuscirò mai a tornare la persona di prima. Ma la risposta mi arriva veloce al petto.

Mia madre aveva ragione.

Meno ti affezioni e meno soffri; meno ti affezioni, più sopravvivi.

***
«Non la lascio dormire su questo cazzo di lerciume,» appura Elyse risoluta, mettendosi le mani sui fianchi, prendendo una postura sicura di sé. Butta la sua giacca per terra senza troppe cerimonie, rimanendo solo con la sua felpa.

«Preferisci morire di freddo?» chiede retorico Calum, non aspettandosi realmente una risposta.

Continua così da almeno cinque minuti e, nonostante stia facendo il mio meglio per starmene in disparte e distrarmi con il conteggio delle provviste - so di averlo fatto solo poche ore fa, ma mi fa sentire meglio -, la mia pazienza si sta esaurendo.

Elyse questa volta lo ignora e fa sdraiare Margaret sulla sua giacca. «Faccio io il primo turno di guardia,» dice, infilandosi di nuovo in spalla il fucile, «così non muoio di freddo» conclude, scimmiottando Calum e lanciandogli un’occhiataccia. 

Abbiamo deciso di passare la notte nella rimessa del fieno di un casolare completamente diroccato perchè l’unico presente nel raggio degli ultimi chilometri dai noi percorsi; siamo parzialmente riparati dal freddo - grazie alle due pareti di cemento -, ma completamente dalle intemperie grazie al tetto sopra di noi. Non è esattamente molto igienico, dato che ci tocca dormire su un pavimento sporco di futili rimasugli di fieno, fango e molto probabilmente sterco secco. Anche se è solo per poche ore, sono sicura che mi sveglierò con il costante bisogno di dovermi fare una doccia. Avrei fatto lo stesso per Margaret, di certo non l’avrei lasciata dormire su tutto questo schifo.

Cerco di pulire con le scarpe ma trascino solo lo sporco da una parte all’altra. Mi arrendo e appoggio a terra lo zaino, mentre Elyse comincia a fare avanti e indietro per tutto il perimetro della rimessa.

Margaret è tutta raggomitolata sul giubbotto di Elyse, le mani sotto alla guancia e gli occhi serrati mentre cerca di prendere sonno; Calum è seduto a terra che si massaggia le piante dei piedi con le scarpe al suo fianco.

Inarco la schiena per allungare la colonna vertebrale e sento tutti i muscoli delle spalle e del petto dolere.  Piego la testa da un lato e dall’altro, sentendo diversi crac del collo. Bevo un sorso d’acqua, la rimetto nello zaino e mi stendo, appoggiandoci sopra la testa e cercando di non pensare su cosa sono sdraiata.

«Ehi, dammi il cambio.» Elyse mi sveglia bruscamente, scuotendomi la spalla. Mi sembra di aver dormito per un sacco di tempo.

Annuisco di riflesso, strizzo gli occhi e mi tiro a sedere, appoggiando una mano per terra per farmi da leva. La prima cosa che percepisco è il rumore della pioggia battente, infatti appena apro per bene gli occhi e accendo la torcia che mi ha dato Elyse, vedo i milioni di gocce d’acqua rimbalzare via non appena toccano terra. 

Poi mi ricordo cosa ho appena toccato. Mi alzo di corsa, mettendo subito la mano fuori dal tetto e sentendola bagnarsi in un batter d’occhio: sfrego quasi violentemente la mano contro l’altra, tenendo la torcia tra collo e orecchio.

«Vuoi farti una doccia?» 

Sobbalzo, facendo cadere a terra la torcia per lo spavento.

«Dovresti dormire, è il mio turno di guardia» rispondo, dopo che il mio cuore ha ripreso un battito regolare. Stavo per prendere il coltello e colpirlo se solo non avessi riconosciuto la sua voce ormai familiare.

Mi volto e lo vedo, in piedi proprio dietro di me, gli occhi rossi e il viso stanco. Raccoglie la torcia al posto mio e la stringe nella mano.

«Non riesco a dormire in ogni caso,» dice, facendo spallucce. «Ti faccio compagnia.»

«Non credo sia il caso.» 

Non è strategicamente una buona idea: anche se non riesce a dormire, può comunque riposare, così che domattina saremo tutti quanti in forze per continuare il nostro viaggio.

«Non te l'ho chiesto.»

 Piego la testa di lato, studiandolo per qualche istante: è molto teso, la sua corporatura è rigida ed ha le sopracciglia corrucciate. 

«C'è qualcosa che ti turba?» gli chiedo, cominciando a percorrere la rimessa, stando ben sotto al tetto per evitare tutti gli schizzi di pioggia. Almeno non c'è vento.

«Non lo so,» ribatte, alzando le spalle con nonchalance, «solo molto a cui pensare.» Si sfrega le palpebre con le dita, massaggiandosi poi le tempie.

Il rumore della pioggia che batte sulla terra mi ha sempre rilassato, anche se ho sempre preferito il sole rispetto a quest'ultima. In questo istante riempe il silenzio tra di noi in modo quasi confortante.

«So che sono solo preoccupazioni inutili,» comincia, schiarendosi la voce, «e che non posso fare nulla per cambiare ciò che è stato. Ma, forse, se fossimo rimasti in palestra tutto questo non sarebbe successo.»

Sospiro, fermandomi quando arriviamo all'estremità opposta da dove Elyse e Margaret stanno dormendo.  «Avremmo solo rimandato l'inevitabile.»

«Questo non puoi saperlo-»

«E nemmeno tu puoi, Calum. L'unica cosa certa è che la morte ci aspetta proprio dietro l'angolo ad ogni passo che facciamo.»

«È il tuo modo di dirmi che devo accettare le cose come stanno?» mi chiede con una punta di amarezza nella voce.

«Okay, senti, so che stai soffrendo per la tua famiglia e per la morte di Travis.» Stringo le braccia al petto, guardandolo negli occhi. «E so che è ironico detto da me, ma questo è il modo in cui vanno le cose, okay? Puoi provare a farne qualcosa oppure puoi semplicemente vivere come se fosse una delle cose da fare nella tua lista giornaliera.

        «Puoi provare a farti delle amici che sai saranno lì per te proprio quando ne avrai bisogno e viceversa, oppure puoi usare le persone per i tuoi singoli interessi e poi abbandonarle non appena hai finito con loro; puoi costruire la cosa che più assomiglia ad una famiglia di questi tempi oppure puoi continuare a vivere da solo, contando solo su te stesso. Puoi avere fiducia nelle persone che ti chiedono aiuto o che vogliono aiutarti senza nulla in cambio, oppure puoi ignorarle e vivere con i sensi di colpa e i rimorsi.» Sento gli occhi bagnarsi, ma non scendono lacrime.

«Potremmo provare ad essere persone migliori o potremmo vivere come se niente importasse più, perché sembra che sia così, no? Potremmo pensare di più al presente e meno al passato, potremmo semplicemente provarci.» Prendo in respiro per calmare l'affanno e le forti emozioni che mi stanno travolgendo. «Abbiamo le nostre vite davanti, perché non provare ad essere migliori? Non abbiamo nulla da perdere, l'abbiamo già perso.»

«Per essere una che dice che non gliene frega niente, questo mi sembra tutto l'opposto, onestamente.» Incrocia le braccia al petto, il fascio di luce della torcia viene proiettato verso il muro.  «Se almeno tu ci credessi, sarebbe molto più convincente, Kayla.»

Stringo i denti e distolgo lo sguardo dalla sua figura. Non so perché ho detto tutto ciò a lui, le parole mi sono sembrate uscire dalla mia bocca come un fiume in piena: non puoi fermarlo.

Forse sono stanca di soffrire, forse sono stanca di vedere gli altri soffrire per le mie stesse ragioni. Forse voglio davvero provare a fare del mio meglio, ma è come se avessi paura di farlo. È come se vivessi in un limbo senza mai prendere la via che ne porta all'uscita per paura di soffrire di nuovo.

«Volevo solo dirti che se hai bisogno, sono qui per te. Che tu mi creda o meno.»

«E lo apprezzo, Kayla, davvero. Ma devi prima fare pace con te stessa.» Prende delicatamente la mia mano per appoggiarci la torcia, mentre l'altra sale fino alla mia guancia per accarezzarla. Scruta il mio viso per qualche istante e poi lascia scivolare la mano sulla spalla e giù fino al braccio, lasciandomi con un senso di vuoto e quasi volendo che il suo tocco non mi avesse mai lasciato.

«Aspetta.» Lo fermo proprio appena comincia a muovere i primi passi, ma dandomi la schiena. «So che è per colpa mia che vi siete dovuti separare e… mi dispiace.»

«Non potevo abbandonarti, Kayla, eri ferita. Da sola non c'è l'avresti mai fatta.»

«Forse avresti dovuto, invece. Almeno ora saresti ancora con loro e non qui a domandarti se riusciremo mai a ritrovarli-»

«Non mi pento della scelta che ho fatto.» Questa volta si gira, nessuna traccia di dubbio nelle parole che dice e nemmeno nei suoi occhi.

«Perché?»

Alcune volte mi sono chiesta se avrei fatto lo stesso: abbandonare la mia famiglia per stare accanto ad una persona ferita. La risposta è sempre stata: dipende dalla persona, dipende dalle circostanze. Poche volte sono arrivata alla conclusione che sì, lo avrei fatto anche io ad occhi chiusi, perchè so che non è così. Se avessi ancora una famiglia, non credo l’avrei lasciata andare così facilmente. 

Non sto dicendo che Calum ha preso questa scelta alla leggera, perchè so che non è così, ma per me? Io non me lo merito.

«Perché sei importante per me, Kayla! Non l'hai ancora capito?!» 

La sua risposta è arrivata così veloce che ci impiego qualche istante ad assimilare il significato delle sue parole. Sento il cuore cominciare a battere all’impazzata e gli occhi inumidirsi. Io… non so cosa dire. Lo guardo per minuti interminabili, il rumore della pioggia che batte incessantemente sul suolo sembra un rumore così lontano. È come se il tempo si fosse fermato.

Si avvicina, appoggia la sua fronte alla mia, prendendomi il viso tra le mani. Chiude gli occhi, respirando dalla bocca e credo che anche il suo cuore stia impazzendo come il mio. 

Avvolgo le mie braccia attorno al suo corpo senza pensarci due volte, stringendolo forte a me, mentre il mio corpo cerca di combattere le lacrime. «Mi dispiace.» E so che ha capito cosa intendo.

«Non c’è niente di cui dispiacersi. Va bene così.» Mi accarezza i capelli, stringendo la presa attorno a me e facendomi sentire al sicuro, riuscendo a riempire una parte di quel vuoto insostenibile dentro di me.

Mi dispiace per ciò a cui ha dovuto rinunciare, mi dispiace perchè provo le stesse cose ma non sono pronta ad ammetterlo a me stessa, non sono pronta ad ammetterlo a lui. E mi dispiace perchè, ora più che mai, ho paura di perdere anche lui.

Sto provando così tante emozioni contrastanti in questo momento che vorrei scoppiare a piangere.

Calum si stacca improvvisamente e noto un repentino cambiamento nel suo atteggiamento; volta la testa verso il lato esterno della rimessa e scruta l’orizzonte davanti a sè, con gli occhi semichiusi per cercare di intravedere qualsiasi cosa tra il buio e la pioggia battente.

Punto la torcia nella direzione in cui sta guardando, ma non riesco a vedere nulla. Provo a tendere le orecchie ma, di nuovo, sento solo il rumore della pioggia.

Calum mette un braccio davanti al mio corpo in modo protettivo, premendo leggermente per farmi camminare all’indietro. Continuo a tenere il fascio di luce della torcia puntato dritto davanti a noi. Con l’altra mano comincio ad afferrare il coltellino svizzero e tirarlo fuori, tenendolo ben stretto nella mano al mio fianco.

Cazzo.

Volto la testa a sinistra, ricordandomi improvvisamente che non c’è una parete a proteggerci da quella parte.

Mi esce un urlo strozzato dalla bocca, non riuscendo nemmeno a vedere cosa mi è venuto addosso dalla velocità con cui accade: la torcia cade ai miei piedi mentre a pochi millimetri dalla mia faccia c’è il volto putrefatto di un Morto con la bocca spalancata, mettendo in bella vista i pochi denti marci rimasti e fiatandomi in completo viso con il suo fiato nauseabondo.

Riesco a malapena a colpirlo al ventre con il coltello, il suo corpo è pesante sopra il mio e sto provando con tutte le mie forze a scrollarmelo di dosso.

Il cuore batte a mille.

Le gambe mi tremano.

Poi il corpo scivola giù pesantemente dal mio, strusciando il volto giù fino ai piedi. Mi muovo subito all’indietro, voltando la testa di lato per vedere Calum con una tubatura di ferro tra le mani. Gli faccio un cenno di assenso rapido, prima di cominciare a correre verso Elyse e Margaret.

E se sono già state attaccate? Sento la paura prendere posto alla bocca dello stomaco e corro più veloce che posso con Calum che mi segue a ruota.

Non voglio che si ripeta di nuovo il mio sbaglio; mi sono distratta durante il mio giro di ronda. Se è successo loro qualcosa, questa volta non ho via di scampo: la colpa è solo mia e non credo riuscirei mai a perdonarmelo.

La mente comincia già ad offuscarsi con tutti i possibili scenari che potrei trovarmi davanti, l’adrenalina pompa nelle mie vene. E poi le vedo, ancora addormentate.

«Elyse!» urlo, a pochi metri da loro, «Svegliatevi!»

Calum si lancia a terra, scuotendo veemente Margaret, che si sveglia di soprassalto, impaurita. Calum prende il suo zaino e la giacca di Elyse e gli faccio cenno di cominciare ad allontanarsi.

Faccio in tempo a prendere il mio zaino, appena vicino alla fine del tetto, che scorgo due Morti a pochi centimetri dal mio corpo. Faccio un balzo all’indietro, chiamando di nuovo Elyse. Perchè diavolo non si sveglia?!

È questione di secondi: se attendiamo un altro po’ ad andarcene, rimarremo chiuse in una trappola mortale tra il muro e la morsa dei Morti, che si sta stringendo sempre di più. Il mio sguardo vola frenetico da tutte le parti, mentre continuo a chiamare il nome di Elyse con insistenza.

Mi chino su di lei, scuotendole la spalla e appena vedo le sue palpebre muoversi, la tiro su di colpo con tutte le mie forze. Barcolla sui suoi passi ma rimane in piedi e proprio dopo che ha inveito contro di me, la trascino via da lì.

Solo che si divincola dalla mia presa per allungarsi verso il suo zaino.

«Lascialo lì! Andiamocene!»

Abbandona subito la sua missione non appena capisce che anche un solo istante potrebbe esserle fatale. Torna rapida verso di me e subito cominciamo a correre sotto l’acqua incessante, con la luce della torcia che salta da un posto all’altro ad ogni passo che faccio, nella speranza di vedere presto le figure di Calum e Margaret.

Sono già sulla strada, Calum si è voltato per farci cenno con il braccio di seguirli dalla loro parte, lontano dalla rimessa e lontano da quel casolare maledetto. Tengo ben salda la presa sul braccio di Elyse per non perderla al buio sotto la pioggia, dove sarebbe impossibile rintracciarla. Lo zaino continua a sbattere contro la schiena e il braccio che tiene la torcia, ma non posso fermarmi a metterlo a posto.

Calum si mette di nuovo in braccio Margaret e una volta riuniti di nuovo, continuiamo a correre, ormai già fradici, nel buio della notte in cerca di un luogo sicuro. Se ancora ne esiste uno.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


CAPITOLO 34

KAYLA

Siamo fradici.

La pioggia persistente ha ora lasciato il posto ad una pioggerella intermittente, accompagnata da una brezza gelida che sta mettendo a dura prova la nostra salute, fisica e mentale.

Abbiamo corso, corso e corso ancora. Da circa un’ora abbiamo ricominciato a camminare ma siamo esausti, causa anche del continuo stress a cui la nostra mente è sottoposta.

Tengo ancora per il braccio Elyse, anche se le prime ore del mattino stanno portando una timida luce con sè, non mi fido ancora a lasciarla andare. Margaret è tra Elyse e Calum, che praticamente le fanno da scudo in caso di attacco laterale, mentre io lo faccio ad Elyse.

Voglio fermarmi più di ogni altra cosa. Cambiarmi in qualcosa di asciutto e caldo, riposare, prendere qualche boccone, magari progettare anche un piano secondo il quale muoverci e decidere la nostra strategia, altrimenti continueremo a camminare a vuoto.

Vorrei tanto avere qualche indizio su dove cercare. Stiamo andando alla cieca, ma le chance di trovare Mali, Wayne e Johanna diminuiscono ogni ora di più; una volta raggiunto un qualsiasi centro abitato ci saranno troppi luoghi dove dover cercare e dovremmo dividerci tutti quanti per poter rendere possibile la ricerca e non possiamo permetterci di farlo. Sempre detto che stiamo andando nella direzione giusta.

È tutto così complicato. Più ci penso e più la testa mi scoppia.

E poi c’è Blaine. Lui ed Elyse erano decisamente più di semplici amici; so che quest’ultima tiene molto a lui e che sta soffrendo per la loro divisione improvvisa più di quanto dà a vedere. Trovare tutti quanti sarebbe un vero e proprio miracolo. Ma sono pronta a  fare tutto ciò che in mio potere per farlo; almeno ho un obiettivo da raggiungere e la mente occupata. Non so se sarò mai pronta per affrontare i miei traumi e per ora mi va più che bene ignorarli, perchè sono terrorizzata al solo pensiero di dove mi possa portare la mia testa tornando nei suoi luoghi più oscuri.

«Dammi lo zaino,» esordisce con voce rauca ma decisa Elyse, interrompendo bruscamente il silenzio, «lo porto io per un po’.» 

Mi tolgo lo zaino dalla spalla, sollevata dal non doverlo più sentire sbattere pesantemente contro la schiena e spengo la torcia, così da mantenere la batteria per quando ci sarà più utile. Vorrei poterle dare anche il mio giubbotto, se solo non fosse fradicio: il suo l’ha usato Calum per tenere il più asciutta possibile Margaret, usandolo quasi come un mantello.

«Abbiamo idea di dove stiamo andando?» chiede Elyse, rivolgendosi anche a Calum.

«Onestamente? No.» Calum fa spallucce, non distogliendo lo sguardo dalla strada davanti a sè. «Mi basta trovare un posto asciutto, al momento.» Annuisco alla sua affermazione; è la cosa che più voglio anche io.

«D’accordo.» Elyse si ravvia i capelli sul capo, togliendoli con frustrazione dal suo viso. «Sono stanca di vedere solo fottuti campi. Ma, ehi, siamo nella Virginia dell’Ovest, che altro mi aspettavo?» chiede ironicamente, alzando gli occhi al cielo.

Già, che altro ci aspettavamo in un mondo andato completamente alla deriva?

«Marg, tutto bene?» chiede Calum alla bambina. Mi sembra un po’ giù; deve aver preso un bello spavento ieri notte. Margaret annuisce senza proferire parola.

«Ehi, vuoi salire in groppa?» le domando con un sorriso accennato sulle labbra. Mi preoccupa il suo comportamento così silenzioso: ieri non appena capiva che potevamo parlare - anche se a bassa voce -, non esitava ad aprire bocca, ponendoci domande o magari canticchiando qualche motivetto che aveva in testa. Forse è solo assonnata, per questo le ho chiesto se vuole salire in spalla, così può almeno riposarsi. Mi fa cenno di no con la testa.

«Sapete che in qualsiasi momento un asteroide potrebbe colpire la terra e letteralmente spazzare via tutto quanto?» esordisce Elyse tutt’un tratto e gliene sono quasi grata. Magari parlare di altro può risollevare Margaret. «Anche la sola onda d'urto di un asteroide che si spacca nella nostra atmosfera potrebbe causare un sacco di danni. C’erano molte più probabilità che accadesse una di queste due cose che la dannata apocalisse zombie!» 

Io e Calum le lanciamo un’occhiata stranita. Non la facevo il tipo da astrofisica, ad essere sincera.

«Che c’è? Reece mi informava, okay?» ribatte, alzando spallucce.

Al nominare il suo nome quasi sussulto involontariamente, la cicatrice della sua morte ancora aperta nella mia mente. Credo sia la prima volta che sento nominare il nome di Reece senza risentimento per ciò che gli è successo e per una volta mi sento quasi sollevata.

Sarebbe stata meglio una fine per colpa di un asteroide, proprio come i dinosauri: sarebbe finito tutto velocemente, senza soffrire, senza persone dilaniate dal senso di colpa del sopravvissuto, Morti…

Durante le tre settimane passate a guarire dalla ferita al fianco ho pensato molto. Ho pensato troppo: volevo tornare sul luogo della morte atroce di Ebony. Come se fosse una specie di tomba, per dirle che ero terribilmente dispiaciuta - le parole non riescono a rendere il tipo di dispiacere così profondo che strazia il tuo essere -, che ci sarei dovuta essere io al suo posto, che avrei voluto avere più tempo con lei, che non sarei mai dovuta separarmi da mamma e papà quella prima notte di pazzia, che avrei dovuto proteggerla con tutta me stessa. Volevo dirle quanto bene le ho sempre voluto, anche quando entrava in camera mia mentre studiavo e cominciava a saltare sul letto per attirare la mia attenzione. 

Anche quella notte sulla strada, quando io e Calum stavamo litigando e l’unica cosa ad interromperci è stato l’aereo in fiamme che stava precipitando sopra le nostre teste… Se non fosse successo, sarei tornata là per dirle addio. Probabilmente mi sarei fatta ammazzare dai Morti pur di provare a recuperare il suo corpo, sempre che ne fosse rimasto uno. Il solo pensiero mi fa venire male allo stomaco e mi fa chiudere la gola. Forse mi sarei fatta uccidere pur di poterla abbracciare un’ultima volta e stringerla a me forte, forte, forte.

Quel luogo è la sua tomba e mi è sembrata l’unica via per poterle dire addio, perchè lei era lì.

Quando Reece è morto e per la prima volta sono venuta a conoscenza ed ho assistito al funerale creato dal gruppo di Travis, con i pezzi di legno buttati nel fuoco quando non è possibile portare il corpo al campo; all’inizio ho pensato che fosse tutta una messa in scena, che fosse una specie di bolla lontana dalla realtà. Buttare dei ceppi in un fuoco per dire addio a qualcuno dovrebbe farmi sentire meglio? No. Perchè la realtà è che questo mondo è affamato di vite innocenti, le preda quando meno ce lo si aspetta e in un istante non ci sono più.

Adesso, capisco che avevo torto, che non era una messa in scena. Era il loro modo di dire addio. E vorrei tanto averlo avuto anche io.

«Vedo movimento là davanti» sussurra Elyse, arrestando i suoi passi per studiare meglio la situazione.

Il paesaggio non è cambiato di una virgola: siamo sempre circondati da solo e soltanto campi e la strada è lunga e grigia davanti a noi. Solo che ora noto anche io delle figure, ma sono troppo lontane per capire se sono Morti o altri sopravvissuti.

«Cambiamo direzione?» propone Calum, facendo cenno con il capo verso i campi, l’unica alternativa possibile.

«Non lo so, sarebbe un campo di battaglia più difficile» intervengo, pensando a una possibile corsa sul terreno fangoso. «Dovremmo capire di che si tratta prima...»

Elyse studia entrambe le proposte, indecisa sul da farsi. Non è una scelta facile e la maggioranza deve essere d’accordo sulla decisione.

«Marg, cosa ne dici?» le chiedo, chinandomi al suo fianco. Fino ad ora non l’abbiamo mai presa in considerazione per le scelte, perchè è una bambina, ma ha il diritto di esprimere la sua preferenza, del resto è sempre parte del nostro piccolo gruppo.

«Non voglio incontrare i Vaganti» ribatte mordendosi il labbro e stringendo nel palmo della mano l’estremità del giubbotto di Elyse.

«D’accordo, quante provviste abbiamo senza il mio zaino?» Elyse incrocia le braccia al petto, credo per tenersi più al caldo possibile. 

«Se i miei conti sono esatti, abbastanza per quattro, forse cinque giorni?» rispondo, anche se esce più come una domanda. «E abbiamo bisogno di vestiti asciutti, se non vogliamo ammalarci.»

«Io dico di dividerci-»

«No.» Elyse ed io mettiamo subito a tacere la pazza idea di Calum. Non possiamo dividerci, non di nuovo.

«E allora cosa? Non ho intenzione di portare Margaret dritta verso il pericolo, rischiando un attacco, di chiunque sia.»

Impreco, cercando di trovare una soluzione a tutti i problemi che abbiamo.

«Io e Kayla andiamo avanti, vediamo di che si tratta,» comincia Elyse, togliendosi il fucile d’assalto dalla spalla e impugnandolo risoluta, «se vedete alzare due braccia, significa che potete venire, altrimenti… prendete l’altra via.»

«Se è l’unica via possibile… D’accordo.» Faccio un cenno di assenso con il capo, già pronta con il coltello in mano. Significa dividerci in un certo senso, ma non vedo alternative.

«State attente» risponde infine Calum. Mi aspettavo combattesse per trovare un’altra via, evidentemente è davvero l’unica.

Dopo aver fatto un cenno di saluto al ragazzo e a Margaret e dopo che Elyse si è stretta bene al corpo lo zaino - non possiamo permetterci di perdere altre provviste fondamentali, non qui in mezzo ai campi -, ci incamminiamo a testa alta verso i corpi in movimento in silenzio, preparandoci a qualsiasi cosa dovremo affrontare davanti a noi.

«Sono Vaganti» borbotta Elyse più a se stessa che a me, non appena siamo abbastanza vicine per delineare con chiarezza i loro corpi e i loro movimenti, che sono ripetitivi e macchinosi proprio come quelli dei Morti. Sono sei in totale, il che significa tre a testa. Le lancio un’occhiata preoccupata. «Oh, avanti, sai anche tu che possiamo farcela. Siamo le più spaccaculi che conosco,» ribatte al mio sguardo, «e poi, non vuoi avere una vendetta per tutto ciò che ti hanno tolto? Perchè io sì, decisamente.»

Alle sue parole un fuoco comincia ad ardere dentro di me, salendo dalla pancia fino alla faccia, facendo ritornare quella furia incontrollata per tutto ciò che mi è stato portato via dai Morti, anche se inconsapevolmente. Annuisco, lo sguardo che si trasforma in uno tagliente e la presa che si stringe forte sul coltello.

«Ti copro le spalle» dice, posizionando il fucile per avere una buona mira. Spero non manchi i bersagli.

Ci avviciniamo accelerando il passo e cominciando a fare rumore con i piedi per attirare la loro attenzione, poi Elyse spara il primo colpo e il primo corpo cade a terra in pochi istanti. Come fosse un richiamo, i cinque Morti si girano verso di noi quasi in sincronia. Uno dei più coraggiosi, avanza verso di noi e aspetto abbastanza per farlo distanziare dagli altri per prendere una rincorsa, saltare e conficcargli con tutta la mia forza il coltello nel cranio, mentre l’altra mano finisce sulla sua spalla molle e putrefatta per farlo cadere a terra, adesso veramente senza vita una volta per tutte.

Due a terra. Ne rimangono quattro.

Elyse spara un altro colpo e un altro corpo cade inerte. Mentre si prepara a sparare un altro proiettile, mi butto sull’altro Morto, dandogli una spallata per fargli perdere equilibrio ed atterrare con un tonfo a terra, mi metto a cavalcioni sopra di lui, gli giro il cranio di lato con una mossa secca e il coltello si conficca nel suo cervello con facilità.

Non ho sentito lo sparo. Mi alzo e mi volto per vedere Elyse in completa modalità di combattimento che colpisce con la canna del fucile l’ultimo Morto rimasto, finchè vedo la punta dello stesso uscirgli dalla parte opposta del cranio. Con un calcio al petto, Elyse estrae l’arma e fa cadere rovinosamente a terra il Morto.

«Visto?» dice Elyse, alzando una sopracciglia in modo spavaldo. Entrambe alziamo il braccio destro all’unisono: il segnale che Calum e Margaret stavano aspettando e infatti, vediamo le due figure in lontananza cominciare a muoversi e venire verso di noi.

«Faremmo meglio a vedere cos’hanno addosso» mi ordina Elyse, dandomi una pacca veloce sul braccio per dirmi di muovermi e si china subito sul primo cadavere, tastando ogni sua parte.

Mi inginocchio di fianco ad un altro corpo, tirando su fino al naso il colletto del giubbotto per farmi da scudo dal fetore che emana: non ci farò mai l’abitudine. Una volta averlo tastato senza successo, decido di togliergli la giacca che indossa, a lui non serve più mentre a noi fa più che comodo; ribalto il corpo, facendolo atterrare sul viso con un tonfo e gli piego le braccia quasi in modo innaturale fino a che l’indumento è libero tra le mie mani. Dovremo almeno sciacquarlo prima di indossarlo.

«Almeno avevate qualcosa di utile con voi, brutti bastardi.» Elyse mi mostra due scatole di fiammiferi e quattro accendini dai colori fosforescenti, in netto contrasto con l’ambiente circostante. Le sorrido e alzo la giacca, per farle capire di prendere anche i loro vestiti, o almeno quelli in condizioni decenti. Se sono a brandelli non ci servono a molto.

Mentre tasto il secondo corpo trovo una fotografia sgualcita e completamente rovinata, facendomi riflettere ancora una volta che questi stessi corpi potremmo essere noi. Una sola mossa sbagliata e finiremmo così da un momento all’altro, tra istanti di agonia e pazzia.

«Va tutto bene, non possono più farti del male.» Alzo lo sguardo per vedere Margaret e Calum che ci hanno finalmente raggiunto, la prima con gli occhi sbarrati mentre si morde il labbro intensamente.

Le faccio cenno di coprirsi il naso. «Mi aiuti a tenere la giacca?» le chiedo, facendole segno con la mano di avvicinarsi e guardandola nel modo più rassicurante possibile, nonostante il mio cuore stia ancora battendo più veloce del dovuto.Si avvicina incerta, facendo saettare il suo sguardo da destra a sinistra più volte mentre mette un piede davanti all’altro. 

«Visto? Adesso non sono più una minaccia» le dico, mentre do una spinta al corpo per farle vedere che non ha reazioni, se non quella di muoversi come se fosse gelatina. Allungo la giacca verso di lei, che la prende tra le sue mani anche se la tiene lontana dal suo corpo. «Va meglio?»

«Un po'» risponde a mezza voce, anche se adesso ha un colorito un po' più acceso sul viso.

«Devi affrontare le tue paure, se vuoi superarle.» Tolgo i pantaloni al corpo, passandoli di nuovo a Margaret. «A meno che la tua paura sia quella di saltare nel vuoto, allora è meglio non affrontarla» continuo, alzando lo sguardo per sorriderle, guadagnando una risatina da parte sua.

Ci spostiamo al terzo cadavere, mentre Elyse e Calum fanno lo stesso dalla propria parte. Trovo un orologio di quelli vecchi fermo, qualche mentina sciolta, una moneta colorata di nero e una bussola.

Una bussola! 

Finalmente possiamo orientarci a modo ed intraprendere la giusta direzione. 

Dopo aver finito il saccheggio dei corpi, decidiamo di cambiarci immediatamente nei vestiti sporchi appena presi, ma soprattutto asciutti. I nostri vecchi vestiti li buttiamo in mezzo alla strada, tranne che per i giubbotti che teniamo con noi: una volta asciutti saranno più che utili.

Non appena sento la stoffa asciutta sulla mia pelle mi vengono i brividi su tutto il corpo, che piano piano comincia a riscaldarsi. Ci dividiamo fiammiferi ed accendini e li mettiamo in tasca o nel reggiseno, così da non essere completamente dipendenti dagli zaini. Abbiamo già perso troppe provviste ed è ora che impariamo la lezione.

Prendiamo un sorso d'acqua ciascuno e ci rimettiamo in marcia, con l'unica differenza che adesso Margaret dà la mano a me. Il suo gesto mi riscalda il cuore e mi ricorda tutte le responsabilità a cui devo rispondere, ricordandomi inevitabilmente come non sono riuscita a proteggere la mia stessa sorella.

Non succederà una seconda volta.

***

Dopo giorni di viaggio, abbiamo finalmente raggiunto Parkersburg, una città alle sponde del fiume Ohio, dove finalmente abbiamo visto il paesaggio trasformarsi da prati, campi e desolazione, in case, ponti, barche e negozi. Non abbiamo incontrato ulteriori difficoltà dopo l’ultimo scontro con i sei Morti affrontati da me ed Elyse ed è stata una fortuna. Margaret si è ripresa il giorno seguente dallo shock dell’attacco al casolare, ricominciando lentamente a parlare e mangiare più volentieri. Anche Calum sembra aver ripreso gran parte della sua scintilla di determinazione, lasciandosi scappare qualche battuta di spirito qua e là.

Non appena arrivati in città, siamo entrati in una vecchia tabaccheria completamente svaligiata da chi aveva fretta ma non sapeva dove guardare: infatti, abbiamo solcato ogni singolo centimetro del negozio e aperto qualsiasi cassetto, anta e nascondiglio segreto possibile, trovandoci delle candele, altri accendini, vecchi giornali risalenti a molti anni precedenti la pandemia, coltellini e persino una katana da arredo - anche se non affilata, può fare molti danni grazie al suo peso -, che abbiamo deciso di lasciare a Calum.

Una volta usciti, abbiamo attraversato la città in cerca di un’abitazione temporanea, così da permetterci di riposare e cercare ulteriori provviste per poter proseguire il nostro lungo viaggio; mi è sembrato di attraversare una città fantasma, un po’ come quelle del Far West rappresentate nei film o nei documentari: le case sono particolari, costruite ognuna con un dettaglio diverso dall’altra, che sia il colore o il balconcino o il portico. Alcune hanno delle colonne imponenti all’ingresso, altre hanno delle torrette circolari. La costante di tutte le città che ho visto in questi quattro anni sono tutte le radici e le piante rampicanti che si riprendono i loro spazi, attraversando strade, rompendo il cemento, attaccandosi e attorcigliandosi su su per ogni cosa che l’uomo ha piazzato nel loro cammino.

Siamo stati fortunati nel trovare un palazzo di cinque piani completamente sgombro e solo con qualche accorgimento da fare qui e là, come richiudere le finestre con dei teli per non far passare l’aria ancora gelida e tagliente oppure le frequenti intemperie. La descriverei quasi accogliente: non è un buco, anzi ci sono due camere da letto, un bagno e un ambiente comune formato da soggiorno e cucina. Inoltre, siamo al quarto piano, guadagnandoci così un’ottima visuale del quartiere e del ponte che attraversa il fiume.

«La cena è servita!» esclama Calum, appoggiando gli ultimi due piatti sul tavolo della cucina e sedendosi al tavolo.

Appoggio la candela accesa a terra e cammino seguendo il sentiero di luce costruito, sorridendo in modo malinconico al tavolo apparecchiato di tutto punto. La cena consiste in carne essiccata razionata e due cracker ciascuno, con un bicchiere riempito a metà di acqua davanti ad ogni piatto. Calum ha persino messo in tavola forchetta e coltello, quasi fosse una cena in un ristorante a cinque stelle.

Mangiamo con calma tutti e quattro, assaporando ogni singolo boccone, sapendo che potrebbe essere l’ultimo molto presto e godendoci il fatto di stare seduti civilmente ad un tavolo. Sono cose che credi di non rivedere e rivivere più. Restiamo alcuni istanti in completo silenzio, rotto solo dal cinguettio degli uccelli, ognuno perso nei propri pensieri.

«Mia zia faceva le ombre con le mani con le candele» esordisce Elyse dopo un po’, facendomi sobbalzare al suono della sua voce. Si alza dalla tavola e si china, posizionando le mani appena a lato di una candela vicina alla parete. Ci fa cenno di raggiungerla mentre intreccia le dita e muove la mani per qualche tentativo prima di riuscire a proiettare sul muro l’ombra di un coniglio seduto.

Margaret si lascia scappare uno strilletto di entusiasmo, appoggiandosi le mani sulle guance con gli occhi che le brillano. «Fanne un’altra!»

Elyse ridacchia per la sua reazione, si sfrega le mani come se stesse per fare una magia e riposiziona le mani in modo diverso, creando una diversa creatura.

«Cosa dovrebbe essere, scusa?» chiede Calum confuso, piegando la testa di lato per capire che animale sia. «Ah! È un dinosauro!»

«Cosa? No! È un cammello.»

«Ah.» Scoppiamo tutti a ridere. «Beh, non è colpa mia se la mia mente è molto più fantasiosa della tua, Elyse» la canzona Calum, facendole cenno di spostarsi con la mano per prendere il suo posto, incrociare i pollici e proiettare un’aquila.

«Che figata! Voglio farlo anche io!»

«Dovresti imparare dai professionisti, non dai principianti come lui» ribatte Elyse, guardando con aria di superiorità il ragazzo per poi scoppiare a ridere.

«Ha fatto del suo meglio, poveretto» dico, immettendomi nella conversazione con un sorrisetto sulle labbra.

«Senti chi parla! Vediamo cosa sai fare tu, allora, miss “ha fatto del suo meglio”!» Scuoto la testa, ridacchiando e prendo il posto di Calum, posizionando le mani per fare l’ombra del cane - nonché l’unica che abbia mai imparato a fare.

«E poi io ero il principiante, eh? Okay, me lo ricorderò quando avrete bisogno di me.»

L’atmosfera è così leggera e così piacevole: vorrei che fosse così per sempre, vorrei che questo stesso istante non finisse mai. Sembra di stare in famiglia, certo una famiglia un po’ abbozzata, ma qui e adesso mi sento bene. Mi sento libera dal peso del mondo.

Dopo qualche minuto passato ad insegnare a Margaret delle ombre e lei che apprende così velocemente e con così tanto entusiasmo, mi viene solo da pensare a come ai bambini sia stata negata loro un’infanzia normale, un’educazione, il puro divertimento del gioco e dello scherzo. No, non gli è stata solo negata: gli è stata rubata.

«Sta dormendo,» sussurra Calum, tornando in soggiorno, dopo aver messo a letto Margaret in una delle camere da letto. «Dovremmo pensare a come muoverci.»

«Domani mattina controlliamo questo posto da cima a fondo» risponde Elyse, sedendosi a gambe incrociate e stringendosi nei vestiti di almeno due taglie più grandi. 

Annuisco, sapendo già che ci divideremo le camere e gli spazi da controllare e che faremo a turni con Margaret per poterla intrattenere nel mentre. 

«Con la bussola possiamo capire da che parte stiamo andando. Elyse, sai se a loro è rimasta una cartina o qualcosa o se hanno detto dove sarebbero andati?» Elyse scuote la testa, la fronte corrucciata mentre pensa ad ogni conversazione avuta con loro.

«Okay.» Calum sospira, strusciandosi una mano sul volto, la frustrazione chiara sul suo viso. «Continuiamo alla cieca, allora. L'unica cosa di cui siamo sicuri è che non possiamo averli mancati per sbaglio, visti tutti i campi vuoti.»

«Aspetta» borbotta Elyse, anche se sembra lo stia dicendo più a se stessa che a noi. «Aspetta! Cazzo, come ho fatto a non pensarci prima?!» Si batte la mano sulla fronte, stringendo gli occhi e imprecando contro se stessa.  «Le barche!» 

Io e Calum la guardiamo confusi, cercando di capirci qualcosa.

«Sì, pensateci! Chissà quante barche ci saranno al ponte e tutte devono avere dei razzi segnalatori, potremmo spararne uno in cielo per segnalare la nostra posizione!»

«Oh, mio Dio, Elyse, sei un genio!» esulta Calum, dandole un abbraccio dal trasporto della notizia.

«Aspettate, non è detto che lo vedano solo loro-»

«Non sarebbe niente di cui preoccuparci, possiamo badare a qualche Vagante-»

«Non stavo parlando dei Vaganti» ribatto secca, interrompendo Calum. «Chiunque, vivo o morto, lo vedrà. Dobbiamo essere preparati, se davvero vogliamo farlo.»

«Lo saremo,» inizia Elyse risoluta, con uno sguardo tagliente, «ma voglio che siate d’accordo entrambi. Siamo tutti sulla stessa barca, dopotutto.» Calum annuisce determinato come non mai e dopo alcuni istanti per pensarci a fondo, lo faccio anche io. Ho detto che sarei rimasta con loro per aiutarli, non mi tirerò indietro proprio adesso. «Perfetto. Domani discuteremo i dettagli. Sto io con  Margaret stanotte. Ci vediamo domani.» 

«Dovremmo andare anche noi» dico a mezza voce alcuni minuti dopo che Elyse è andata a dormire, rompendo il silenzio piacevole che si era creato.

«Ti aiuto a spegnere.» Calum si mette in ginocchio e comincia a soffiare sulle candele dal suo lato. «Puoi prendere tu la stanza, se vuoi.» 

Gli faccio cenno di no con il capo, togliendo un’altra piccola luce dal soggiorno. «Come stai?» gli chiedo, forse per la prima veramente da quando ci siamo incontrati.

Si blocca con la candela a mezz’aria, fissandomi quasi sbigottito. «Bene… credo. Un po’ stanco» ridacchia dopo la sua affermazione, riprendendo il suo lavoro. «Tu? Onestamente.»

«Sono a posto» ribatto, annuendo con la testa per rinforzare ciò che ho appena detto. «Vai a dormire, Calum. Qui ci penso io.»

«Se non riesci a dormire, sai dove trovarmi, okay?» Si alza dal pavimento e lo vedo indeciso se seguire il mio consiglio oppure rimanere ad aiutarmi. Annuisco, grata del suo pensiero. «D’accordo, allora… Vado. Sono un po’ stanco.»

«Non lo siamo forse tutti?» ribatto ironicamente, non riferendomi soltanto al sonno. Mi dà la buonanotte e lo saluto, ritornando a spegnere le altre candele.

Torno in salotto con l’ultima candela accesa in mano, mi siedo sul divano così morbido che vorrei quasi mi inglobasse e soffio sull’ultima fiamma accesa, facendo calare l’intera casa nell’oscurità. Un po’ come la mia mente non appena chiudo gli occhi, che già si prepara i suoi migliori incubi.

***

«Avete trovato qualcosa di utile?» 

Elyse butta sul tavolo della cucina delle scartoffie che ha trovato in una delle due camere da letto. Io e Calum scuotiamo la testa all’unisono, mentre Margaret ci guarda con aria sconfitta.

«Suppongo non ci abbia mai abitato nessuno qui dentro» dice Calum tenendo lo sguardo sul tavolo. 

Sospiro, passandomi una mano sulla fronte. Almeno abbiamo un rifugio sicuro dove passare la notte. Dalle prime ore del mattino abbiamo cominciato a ribaltare qualsiasi angolo della casa sottosopra, cercando qualsiasi tipo di provvista, vestito, qualsiasi cosa utile alla nostra sopravvivenza. Non siamo stati molto fortunati. E le provviste di cibo stanno finendo: nella migliore delle ipotesi, riusciamo a tirare avanti fino a domani sera.

«Cazzo» impreca Elyse, battendo un pugno sul tavolo e scompigliandosi i corti capelli rossi con una mano.

«Ehi, abbiamo un’intera città da esplorare, partendo dai piani di sotto, magari con quelli saremo più fortunati-»

«La fortuna può andare a farsi fottere!» ribatte Elyse infuriata, preparandosi a dare un altro pugno al tavolo, ma bloccandolo a mezz’aria per poi riportarlo giù al suo fianco. Respira rumorosamente, cercando di fare sbollire tutta la rabbia che ha dentro.

«Ce la faremo, okay?» Calum le si avvicina lentamente, ma la ragazza lo scansa con una spallata, superandolo e andando in salotto. Poi sentiamo un singhiozzo, seguito da un’altra imprecazione.

«Lo troveremo, non importa quanti chilometri dovremo fare.» Calum la abbraccia stretta a sé, smorzando il rumore dei suoi singhiozzi.

È la prima volta che la vedo crollare davanti agli occhi di tutti. Mi sento veramente fuori luogo e nonostante vorrei poter far qualcosa per consolarla, al momento voglio solo lasciarli da soli.

«Okay, vado al ponte» esordisco dopo qualche istante, «trovo i razzi, ne sparo uno e torno indietro» dico, cominciando già a preparare uno zaino.

«Da sola?» chiede Margaret allibita, ormai anche lei ha imparato le regole per sopravvivere con successo.

«Non esiste,» ribatte duro Calum, alzando lo sguardo dalla testa di Elyse, ancora accucciata sul suo petto, anche se adesso si sta sfregando i dorsi delle mani sulle guance bruscamente, «e poi non eri tu quella che aveva detto che non ci dovevamo dividere?» Alzo gli occhi al cielo, sapendo anche che ha perfettamente ragione.

«Lo so, ma è una toccata e fuga. E poi avete l’intera visuale da qui al ponte; se succede qualcosa, lo vedrete. E al momento mi sembra tutto tranquillo.»

«Qualcuno deve pur farlo» dice Elyse con una scrollata di spalle, ora completamente ripresa dal crollo improvviso. «Prendi il fucile.»

«No, no. Non voglio rischiare di perdere l’unica arma che funziona. Ho il mio coltello, sto bene con quello» rispondo, mostrando l'utensile nella tasca dei miei pantaloni. Calum mi lancia un’occhiata incredula e so che è dovuta alla sua preoccupazione. «Starò bene» dico, più a me stessa che a lui.

Prendo una delle tre bottiglie d’acqua rimaste, quella riempita a metà, così che nel caso debba accadere qualcosa, non avrebbero una grande perdita di scorte. Dopo aver annuito non troppo convinta al “stai attenta” di Margaret, mi infilo lo zaino sulle spalle, faccio un cenno con la testa ai tre nel salotto ed esco dalla porta, chiudendomela alle spalle e non muovendomi finché non sento il rumore del chiavistello.

Mi sembra che siano passati anni dall’ultima volta che sono stata da sola, che ho dovuto intraprendere una missione solitaria per potermi sfamare. Questo mi basta per mandare una scarica di adrenalina nel mio corpo, quasi fossi appena stata colpita da un fulmine. Prendo un respiro profondo non appena le mie scarpe mettono piede sull’asfalto e metto a fuoco il ponte e qualche chilometro di distanza da dove mi trovo: la strada è completamente libera e non c’è un solo rumore. Mi sembra di stare su un set cinematografico abbandonato, ma è meglio così: non dovrei avere grossi problemi.

Sono ancora io di fronte al mondo e mi sembra così strano essere da sola che ogni tanto mi giro a controllare che ci siano anche Calum, Elyse e Margaret, ricordandomi solo dopo averlo fatto che sono al sicuro. Non avrei mai creduto che mi sarei abituata così tanto alla loro presenza e all’essere parte effettiva di un gruppo, se solo qualcuno me lo avesse detto sei mesi fa. Sono successe così tante cose.

La cosa che è più strana è avere ancora qualcuno che si preoccupa per me e viceversa.

Siamo stati fortunati - nonostante Elyse non creda nella fortuna - a trovare rifugio proprio sulla strada principale di Parkersburg che porta dritta dritta al ponte, che è veramente imponente, anche se non caratteristico come quello di San Francisco o di Brooklyn. Il fiume Ohio è in piena e scorre rapido per il suo corso, comincio già a sentire il rumore dell’acqua.

E comincio anche a vedere qualche barca arenata sull’asfalto dopo una grande piena che deve aver fatto esondare il fiume: almeno non dovrò andare sull’acqua. Non mi è mai capitato di dover rovistare da cima a fondo una barca, ma ho paura che le corde non tengano più così bene come una volta.

 Il fiume da vicino è veramente imponente con il suo scorrere impetuoso e rapido, trascinando via con sè ogni detrito, facendolo girare e sbattere contro tutte le barriere architettoniche al suo interno. In lontananza vedo la sponda opposta, con il profilo del ponte che si stringe fino a diventare un punto. 

Non appena arrivo a pochi metri dalla riva, mi arriva al naso un lezzo di pesce, marcio e morte, così come un’ondata di nausea mi invade il corpo. Alzo sulla bocca e sul naso la stoffa dei vestiti e studio per qualche minuto l’area attorno alla barca che voglio esplorare: via libera.

Mi arrampico su per la barca con qualche fatica, con le suole delle scarpe che scivolano giù per i primi due tentativi, ma poi riesco a rotolare sull’imbarcazione e cadederci dentro, battendo i gomiti sul legno rovinato del pavimento.

Negli angoli ci sono corde, corde e ancora corde, ma non è tanto la superficie che mi interessa: devo andare sottocoperta. Faccio per girare la maniglia, ma la porta è già aperta e si sposta cigolante. Guardo dietro alle mie spalle prima di proseguire all’interno, solo per sicurezza. Entro mettendo un piede dopo l’altro, cercando di limitare al minimo lo scricchiolio del pavimento, che sembra invece solo peggiorare. Abbasso la stoffa del maglione dal mio viso e subito mi viene un colpo di tosse a causa della polvere, che smorzo con il braccio, mentre nell’altra mano stringo forte il coltello.

La mia ombra viene proiettata e allungata in modo disumano sul parquet e nell’aria illuminata dalla luce del giorno vedo le piccole particelle di polvere danzare tutte attorno a me. Nonostante la porta fosse solo avvicinata, qui sotto è completamente vuoto da ogni possibile minaccia, il che mi fa lasciare andare il respiro ed allentare la tensione. Adesso devo solo trovare il razzo e tornare alla base il prima possibile.

Frugo tra i mobiletti, trovanodoli completamente vuoti e poi vedo una maniglia di ferro arrugginito su una botola rettangolare sul parquet; mi copro le mani con il maglione e la afferro, piegando le gambe ed aprendola, rinvenendo una cassetta di primo soccorso e una cassetta di emergenza. Bingo.

Le tiro fuori entrambe, metto la prima nello zaino senza nemmeno controllare cosa ci sia dentro, mentre appoggio l’altra sul pavimento e la apro e ci trovo un foglio scritto a matita riportante tutti i numeri di telefono da chiamare in caso di emergenza, una cartina della Virginia Occidentale e, finalmente, una pistola lanciarazzi con due ricariche. Metto via la cartina e le due ricariche ed esco velocemente, non preoccupandomi di rimettere in ordine le cose come le avevo trovate. Non appena sono di nuovo all’aperto sparo in alto un razzo, guardandolo mentre sale, sale, sale ed esplode in mille particelle rosso-arancione nel cielo.

Se Elyse o Calum stanno guardando, hanno capito che sto per tornare indietro; se Mali, Wayne, Blaine o Johanna lo hanno visto, spero decidano di venire verso di noi.

Ho la tentazione di salire sulla barca appena affianco a questa per vedere se c’è altro che posso prendere in un solo viaggio, ma non voglio rischiare troppo. E poi ho detto che dopo aver sparato il razzo sarei tornata subito: non vorrei farli preoccupare, o peggio, farli uscire pensando che mi sia successo qualcosa. Quindi, infilo la pistola nello zaino e lo allaccio attorno al mio corpo, cominciando poi a correre verso casa. Devo tenermi allenata in caso di pericolo e questa mi sembra un’ottima scusa per farlo.

In pochi minuti, infatti, sono davanti alla porta di casa, con il fiatone e un velo sottile di sudore a ricoprirmi la pelle. 

«Grazie a Dio sei arrivata» dice agitato Calum, accogliendomi e trascinandomi subito dietro di sè, lasciandomi appena il tempo di chiudere la porta. «Elyse è svenuta, l’ho messa a letto ma non si è ancora svegliata» continua con la voce tremolante ed ogni suo gesto che trasuda timore.

Un peso mi si blocca sullo stomaco immediatamente. «Potrebbe avere la febbre» deduco preoccupata, ricordandomi della sera al casolare, dell’aria gelida e della pioggia.

Non appena arriviamo alla soglia della camera, la prima cosa che mi colpisce è Margaret in ginocchio con gli avambracci appoggiati sul materasso del letto e la testa al di sopra di essi con uno sguardo impensierito. Elyse è sdraiata sul letto sul fianco così come deve averla messa Calum, ancora priva di sensi. Mi tolgo velocemente zaino e giubbotto con un groppo alla gola, terrorizzata dall’idea che possa essersi ammalata.

«Forse è solo stanca?» prova il ragazzo, anche se esce più come una domanda più che un’affermazione.

Le tocco la fronte: è bollente. «Passami lo zaino» ordino a Calum, ricordandomi di aver preso la cassetta di pronto soccorso. Spero solo ci sia dentro ciò che ci serve.

La apro con forza, facendo saltare fuori alcune garze per il colpo improvviso. Frugo velocemente, facendomi passare davanti agli occhi le cose senza davvero leggerne i nomi dalla frenesia. Prendo un respiro profondo, chiudendo gli occhi per qualche istante quando mi sento picchiettare sul braccio da Margaret. Ha in mano un tubetto di analgesico e mi verrebbe da abbracciarla per il suo gesto così semplice ma importante. Calum si precipita immediatamente in cucina a prendere un bicchiere e appena ritorna lo riempie d’acqua, tuffandoci dentro l’unica compressa presente nel tubo.

E poi aspettiamo. Secondi interminabili, attendendo che la ragazza si svegli. Lasciamo andare tutti quanti un respiro di sollievo non appena apre gli occhi e la prima cosa che lascia la sua bocca è un’imprecazione. Mi verrebbe quasi da ridere. Calum le offre il bicchiere, spiegandole in veramente poche parole ciò che è successo e lei lo prende senza troppi indugi.

«Dovremo ridurre della metà le porzioni di cibo» constata il ragazzo, sedendosi sul letto di fianco ad Elyse, che adesso è distesa sulla schiena con il corpo sotto le coperte e gli occhi semiaperti.

«Non ce n’è bisogno, posso uscire di nuovo-»

«Smettila, Kayla-»

«Non c’è abbastanza cibo per tutti e quattro. È tornata viva, Calum, non ho capito perchè stai così tanto in pensiero.»

«Esatto. Sono stata là fuori da sola per due anni, so come cavarmela» appuro, rimettendomi di nuovo il giubbotto. «Discorso chiuso» dico, bloccando sul nascere la contestazione già pronta sulle labbra di Calum che, per tutta risposta, serra la bocca, stringendo la mascella e distogliendo lo sguardo innervosito perchè è la seconda volta che non lo sto a sentire. Credevo ci avesse fatto l’abitudine ormai.

In pochi secondi, sono di nuovo in strada.

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


CAPITOLO 35

CALUM

«Quanto rumore che fanno i tuoi pensieri!» Lancio ad Elyse un’occhiataccia, dicendole che dovrebbe almeno provare a riposare se vuole rimettersi in piedi al più presto. 

Da quando Kayla è uscita di nuovo - circa un’ora fa -, ha deciso di prendere una sedia della cucina e piazzarsi davanti alla finestra e guardare l’andirivieni degli uccelli e il movimento delle foglie sugli alberi, nonchè il passaggio delle nuvole bianche e soffici per poi tornare grigie e pesanti di acqua. Mentre io dovrei assicurarmi che riposi, ma in realtà sono più dentro alla mia testa che presente in questa stanza.

A Margaret ho dato i giornali che abbiamo trovato in tabaccheria con la scusa di farla esercitare nella lettura, anche se in realtà volevo solo avere un po’ di tempo da solo.

Sono preoccupato. Per la mia famiglia, Wayne, Blaine… Sì, anche per Kayla. So che sa cavarsela benissimo da sola, me l’ha provato più e più volte. Ho paura che ogni volta che la vedo possa essere l’ultima, così come ho paura che lo sia anche per la mia famiglia.

Da quando Elyse ci ha detto che Travis è morto… Cavolo, non faccio altro che pensare a quanto sia improvvisa ed inaspettata la morte. Non che prima non lo sapessi, solo che mi sembrava un concetto un po’ più lontano. Sono passati anni da quando ho visto mio padre morire e il resto della mia famiglia è sempre rimasto con me. Certo, ce la siamo vista brutta un numero infinito di volte ma eravamo insieme ed insieme avremmo potuto fare tutto.

Il fatto che Travis se ne sia andato così e venirlo a scoprire d’improvviso è così ingiusto. Mi ha salvato sin dall’inizio, offrendo a me e alla mia famiglia rifugio al suo bar, e poi così tante altre volte e anche così semplici: dalla fame, alla sete. C’è sempre stato per me ed era diventato il mio secondo padre quando il mio se n’era andato davanti ai miei occhi. Avrei voluto essere lì io per lui per una volta, avrei voluto guardarlo negli occhi per ringraziarlo con tutto il mio cuore, abbracciarlo forte, dargli un addio dignitoso, aiutarlo come lui ha sempre fatto con me e con tutti quelli che incrociavano il suo cammino.

Non se lo meritava. Non si meritava nulla di ciò che ha dovuto affrontare, partendo da quella piaga di Jordan. Era il leader perfetto: empatico, forte, ragionevole e in grado di ascoltare ogni voce al suo fianco, dalla più piccola alla più grande.

E anche lui si è dovuto aggiungere alla lunga lista di persone che continueranno a vivere dentro di me.

E adesso ho paura che questo succeda a tutti gli altri.

«Dovresti andare a letto.» Elyse continua a darmi la schiena e guardare fuori dalla finestra, scrollando le spalle con nonchalance. Me la immagino alzare gli occhi al cielo.

«Sì, e tu dovresti preoccuparti un po’ di meno, ma nessuno dei due farà nessuna delle due cose» ribatte, facendo schioccare la lingua. 

«Come posso anche solo provarci?» Sto buttando fuori tutta la mia rabbia e frustrazione su di lei, anche se non ha niente a che fare con tutto ciò che è successo nelle ultime settimane. «Non so se la mia famiglia o i miei amici sono ancora vivi, dannazione, non so nemmeno dove siano! Tu sei malata, Kayla decide sempre di fare di testa sua giocando a fare l’eroina e Margaret! Margaret è rimasta senza amici della sua età, non so nemmeno come faccia a rimanere sana in tutta questa merda!»

«Adesso ti senti meglio?» mi chiede accondiscendente, mostrandomi il suo viso per la prima volta in un’ora, caratterizzato da un sopracciglio alzato, incrociando le braccia al petto.

«Cosa-?!» Alzo le braccia in aria, facendole ricadere ai miei lati pochi istanti dopo, prendendo un bel respiro profondo e sedendomi a peso morto sulla sedia. «… non lo so, forse.»

«Felice di aiutare» dice, facendomi l’occhiolino e ritornando di nuovo a guardare fuori dalla finestra.

Sento bussare alla porta e l’unica persona che potrebbe farlo è Kayla. Infatti, non appena mi avvicino alla porta per aprire, la sento inveire contro se stessa dall’altra parte e subito dopo un rumore sordo. 

Me la ritrovo davanti con gli occhi chiusi in un'espressione infastidita, lo zaino che le cade sul gomito destro, fradicia da testa a piedi e che emana un orribile odore, rispetto a quello interno vanigliato e fresco delle candele che si mescola all’odore di chiuso ed umidità.

Non faccio in tempo ad aprire bocca per chiederle cosa le sia successo che mi sorpassa, lanciando a terra il suo zaino - fradicio anche quello -, tira fuori un’altra cassetta di pronto soccorso, la appoggia sul tavolo e la apre con violenza.

«Posso chiederti cosa ti è successo?» le chiedo cauto, aspettandomi una sua sfuriata da un momento all’altro.

«Hai deciso di ammalarti anche tu!» sghignazza Elyse, sfociando in una risata fin troppo concitata. «Esperienza pessima, non la consiglierei-»

«Almeno è servito a qualcosa» dice dura Kayla tra sé e sé, ignorando sia me che Elyse. Mi lancia un tubetto che faccio appena in tempo a prendere, prima di finirmi tra gli occhi. «Tu dovresti essere a letto.» Kayla lancia un’occhiataccia sia alla ragazza seduta davanti alla finestra, sia a me che me ne sto in piedi come un palo senza capirci molto.

«Rilassati! Sto perfettamen-» Elyse prova ad alzarsi dalla sedia, ricadendoci sopra istanti dopo. Mi ero già lanciato verso di lei per prenderla.

«Mi dici cosa è successo o ti devo pregare in ginocchio?» domando stizzito a Kayla, il cui sguardo sembra indurirsi tanto quanto il suo stesso corpo.

«Sono salita su un’altra barca, il mio peso l’ha fatta sbilanciare, andando dritta sul fiume. La corda si è rotta. Mi sono dovuta buttare dentro per tornare a riva.»

«Beh, dovresti cambiarti adesso-»

«Oh, e volete sapere perchè questo cazzo di buco sembra una città fantasma? Perchè tutti i Morti sono finiti dentro al fiume! Quindi, non avvicinatevi al fiume per nessun cazzo di motivo!» sbotta, infuriata con l’intero universo, poi la vedo prendere di soppiatto qualcosa dalla cassetta di pronto soccorso sul tavolo e dirigersi in bagno a grandi falcate.

Aggrotto le sopracciglia, passandomi una mano frustrato sul viso. Prendo Elyse di peso, ignorando le sue proteste e la metto a letto nella stanza dove Margaret stava leggendo e da dove stava per uscire, dicendo che ci aveva sentiti discutere. La avviso che Kayla è tornata e le chiedo di rimanere per qualche minuto con Elyse, pregando quest’ultima di almeno provare a chiudere gli occhi per il suo dannato bene. Poi busso alla porta del bagno con delicatezza, aspettando che Kayla mi dia il permesso di entrare dall’altra parte.

«No» ribatte secca, anche se sento il suo tono di voce vacillare.

«Se non sei nuda, entro» la avviso risoluto, aspettando solo qualche minuto in una sua qualsiasi risposta che, ovviamente, non arriva. Allora apro la porta centimetro per centimetro, vedendola poi davanti allo specchio con ancora addosso i vestiti fradici.

Ha le mani sul lavandino e sta gocciolando sangue. «Fammi vedere.»

Mi lancia un’occhiata truce, togliendo bruscamente le mani dalla mia vista, facendo cadere due gocce cremisi sul pavimento azzurro. «Và via, Calum.»

Sul lavabo ha appoggiato un rotolo di garza e la sua bottiglia d’acqua che sta ormai terminando. Mi avvicino ancora a lei, guardandola in modo inquisitorio. Non sono qui per farle la paternale sui pericoli che ci sono o che debba stare più attenta: lei lo sa già e sa meglio di me cosa va e cosa non va fatto né rischiato là fuori, soprattutto quando si è da soli. Due anni per proprio conto sono terrificanti, ma devono averle insegnato più di quanto io possa soltanto immaginare. Voglio solo capire come si sono svolte le cose.

«Siamo tornati di nuovo a questo punto?» le chiedo, cominciando ad innervosirmi per il suo continuo chiudersi in se stessa, nonostante le abbia ormai mostrato più e più volte che sono sempre al suo lato pronto ad offrirle una spalla su cui piangere. 

Distoglie lo sguardo, riportandolo alla sua mano ferita e ricoprendolo dal primo strato di benda, arrotolandolo lentamente e con cautela al palmo e al dorso, non senza qualche smorfia che le balena sul viso per sparire immediatamente. Lei e il suo dannato orgoglio. Forse non si ricorda che l’ho assistita durante uno dei momenti più dolorosi della sua vita.

«È solo un graffio,» mormora, scuotendo la testa, «ho preso male una roccia, tutto qui» dice, ma la vedo deglutire nervosamente e chiudere gli occhi.

«Kayla» la richiamo sfinito. So che non mi sta dicendo tutto.

Seguono minuti di silenzio: finisce di bendarsi la mano e poi appoggia il palmo sano al lavandino, chinando la testa e il corpo. Scorgo delle gocce trasparenti toccare il lavabo e mescolarsi a quelle di sangue.

«In quei brevi istanti nel fiume in cui mi sono accorta che se non avessi fatto qualcosa sarei morta, ho pensato solo per un attimo di lasciarmi affogare, così avrei potuto rivederla un’ultima volta.» Alza il viso verso il soffitto, le lacrime che le scendono copiose dagli occhi e le braccia che le tremano dall’emozione. 

La sua rivelazione mi arriva come una pugnalata dritta al cuore. So che stava ancora soffrendo per la morte di Ebony, ma credevo che fosse riuscita a metabolizzarla meglio, o almeno mi sembrava così. Stava solo cercando di convincere se stessa che fosse così. E poi, io stesso non sarei stato in grado di accettare la sua di morte, non dopo tutto quello che ha fatto per noi, per me, e non dopo ciò che c'è stato tra noi. Mi avvicino a lei, stringendola forte tra le mie braccia mentre continua a singhiozzare e a lasciar uscire parte del dolore che prova dentro di sè.

«Andrà m-»

«Cazzate! Tu non hai idea cosa significhi perderli tutti quanti due volte!» Si divincola dall’abbraccio, accusandomi con un dito puntato verso il mio petto. «La prima volta credevo fosse devastante, non sapevo cosa mi aspettasse dopo!»

Apro la bocca per ribattere, ma la richiudo istanti dopo; ha ragione, io non ho idea di cosa stia passando e le mie parole sarebbero tutto fuorchè di conforto. Quindi sto zitto, permettendole di sfogarsi: alcune volte si vorrebbe solo avere qualcuno che ascolta.

Si sfrega le mani sul viso con frustrazione con il corpo ancora tremante. Prende qualche respiro tra i singhiozzi ravvicinati, provando a calmarsi anche se le lacrime non danno segno di volersi fermare. Allora si siede sulla tavola del water, abbracciando con le braccia il suo stesso corpo.

«Affrontare la perdita dei miei genitori era una cosa- è stato straziante, ma in qualche modo l’ho accettata. Ma affrontare la sua… non so se riuscirò a farcela.»

Il fatto che mi stia rivelando i suoi pensieri e le sue preoccupazioni più intime mi fa stringere il cuore. La morte di Ebony non solo l’ha sconvolta ad un livello molto più profondo, ma l’ha completamente spezzata. Come non farlo, del resto? Il loro legame profondo è stato visibile fin dal primo momento: è come se una parte della sua coscienza avesse deciso di abbandonarla improvvisamente. Mi sentirei perso anche io.

La preoccupazione e la disperazione che sto provando da quando Elyse ha detto che si sono dovuti separare per l’attacco improvviso dei Vaganti mi sta lacerando ogni giorno di più. Sono terrorizzato dall’idea di non rivederli più e il senso di colpa si sta insinuando dentro di me con ogni istante che passa, mentre continuo a ripensare alle diverse scelte che avrei potuto fare nel passato per cambiare il mio e il loro futuro. La risposta è impossibile, sicuramente un paradosso e non riesco a pentirmi del fatto di essere rimasto a prendermi cura di Kayla. 

Il fatto di non riuscire ad accettare l’idea che possano essere tutti morti è la cosa che fa andare avanti: la speranza che io possa trovarli di nuovo, proprio come Kayla ritrovò Ebony. Quante possibilità c’erano che riuscissero ad incontrarsi di nuovo? Pari a zero. Invece, le mie probabilità si alzano corrisposte dal fatto che noi ci stiamo cercando a vicenda.

«Voglio ringraziarti,» inizio, schiarendomi la voce, «per aver rischiato la vita per una causa che non ti riguarda.»

«Mi riguarda, eccome. Ho provato tante volte a rimanere distante, ma il risultato non mi ha portato da nessuna parte.» Alza lo sguardo su di me. «Mi hanno salvato la vita più di una volta, a partire da Wayne su quel tetto. Sono- siete brave persone; farei il secondo errore più grosso della mia vita a non aiutarvi.»

Le prendo la mano sana, stringendola nella mia e facendole un cenno di gratitudine nella sua direzione e rimaniamo così per qualche minuto, in completo silenzio, attingendo l’uno dalla forza dell’altra.

Cavolo, mi mancano terribilmente. Dal passare ogni giorno assieme a loro a non sapere nemmeno se sono ancora vivi e se stanno bene mi fa dolere il cuore. Con Wayne e Blaine ho condiviso praticamente ogni istante della mia vita da quando è iniziata l’Apocalisse: da quando ho visto Wayne il primo giorno al bar e mi ba accolto subito con un sorriso caloroso, a quando Blaine mi ha insegnato a sparare le bottiglie vuote del bar di Travis con proiettili di gomma.

Lasciare alle spalle Lynton è stato comunque doloroso: nonostante non sia morto terribilmente - grazie al cielo -, non l’avremmo più rivisto. Lui e la sua testa piena di idee geniali e di sogni irrealizzati ma ai quali non ha mai smesso di credere. Pensavo fosse un pazzo, un sognatore illuso ed ingenuo; in realtà è sempre stato il suo modo di affrontare la realtà ed andare avanti e ha funzionato.

«Dovresti sparare un altro razzo.» Kayla lascia andare la mia mano e si alza dal water, raccogliendo bende e bottiglia, ormai vuota, dal lavandino. «Siamo anche più in alto; c’è più possibilità che lo vedano adesso.»

«Sì… sì, hai ragione.» Mi schiarisco la voce un paio di volte, lanciandole un’ultima occhiata prima di uscire dal bagno per lasciarle i suoi spazi, anche sento subito la porta riaprirsi alle mie spalle.

«Dai la mia razione a Margaret» dice con sguardo afflitto, sapendo ormai troppo bene che se non troviamo cibo nelle prossime ore, moriremo di stenti. «Domani esco la mattina presto, ho solo bisogno di qualche goccio d’acqua.»

«Certo» le rispondo, sospirando rumorosamente. Non so cos’altro dirle. 

Torno in salotto con le spalle curve e prendo la pistola lanciarazzi. Apro la finestra e premo il grilletto, rimanendo poi a guardare il modo in cui raggiunge il cielo, lasciando dietro di sè una scia, quasi fosse una stella cadente e poi esplode in aria come fuochi d’artificio.

Esprimi un desiderio.

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


CAPITOLO 36

KAYLA

«Ti prego, dimmi che hai trovato qualcosa.»

Eseguo la solita routine degli ultimi due giorni: entro in casa, appoggio - o meglio, butto - lo zaino a terra e scuoto la testa desolata e frustrata. Nessun segno di alcun tipo di cibo.

Dopo l’incidente della barca ho deciso di non avvicinarmi più al fiume se non strettamente necessario: ciò vuol dire che se non abbiamo estremo bisogno di medicinali, non ho intenzione di mettere piede su un’altra imbarcazione nell’immediato futuro. Cadere nell’acqua gelida è stato terribile, soprattutto quando ho aperto gli occhi e ho visto altre paia d’occhi fissarmi dall’altra parte, mentre con i loro arti gonfi d’acqua e molli mi incatenavano sott’acqua.

Ieri ho perlustrato gli altri tre piani sottostanti del palazzo in cui abitiamo e il risultato non è stato molto differente: solo vecchie riviste di arredamento, qualche scartoffia per le vie d’uscita d’emergenza, asciugamani e salviette. Nient’altro.

Ho diritto a un cracker al giorno; dopo aver regalato la mia misera porzione a Margaret due sere fa, Calum ed Elyse mi hanno obbligata a mangiare almeno un cracker al giorno per poter avere abbastanza forze per trovare altro cibo, ma di questo passo sto perdendo le speranze. 

Elyse ha ancora la febbre ma adesso riesce a stare in piedi, almeno. Calum ha provato a convincermi che questa mattina sarebbe uscito anche lui con me, ma l’ho messo a tacere con un gesto secco della mano. Non mi sarei mai azzardata a lasciare Margaret in casa da sola con un’Elyse malata: se dovesse succedere qualcosa, almeno, Calum sarà in grado di proteggerle.

Quindi oggi ho setacciato la casa del vicinato ma nessun risultato. La cosa migliore di questa città è che almeno posso girarne le strade senza preoccuparmi troppo di cadere in incontri indesiderati con i Morti, visto che sono stati tutti risucchiati da una lontana piena del fiume. Un punto per me.

Calum fa cadere sul tavolo l’ultimo pacchetto intatto di cracker con rabbia e sconforto, imprecando davanti a Margaret. Ormai non si scandalizza da anni. Stiamo finendo anche l’acqua e, per ironia della sorte, non piove da quando abbiamo lasciato il casolare.

Storgo il naso all’odore troppo intenso delle candele che hanno riempito l’intero appartamento. «Sono solo tornata a prendere qualche goccio d’acqua» dico, sedendomi in malo modo sullo sgabello della cucina, guardando il profilo di Calum muoversi in cucina. «Elyse?»

«Sta meglio.» Prende la penultima bottiglia piena di acqua e ne travasa un po’ nella mia, stando attento a non farla uscire. «Questo è tutto ciò che posso darti» risponde poi, sospirando e passandosi una mano sul viso stanco.

Non ha dormito molto queste due notti: quando mi sveglio dai miei frequenti incubi lo vedo affacciato alla finestra con gli occhi rossi e gonfi. Abbiamo già sparato quattro razzi - ce ne rimangono ancora due -, ma ancora nessun segno di Wayne, Mali o Blaine. So che sta lottando contro i pensieri negativi che gli girano per la testa per provare a mantenere un po’ di speranza accesa tra noi quattro.

Margaret vorrebbe farmi sentire come legge bene, tuttavia mi tocca liquidarla velocemente, spiegandole che devo uscire di nuovo. Se la prende più del dovuto, ma so che stasera le sarà già passato. La convivenza con la copia perfetta di Ebony sta andando meglio, forse perchè per maggior parte del tempo sono fuori casa e non mi tocca venir costantemente ricordata della sua misera e tremenda fine. Ci sto lavorando.

«Stai attenta.» Mi fa un cenno con la testa di saluto, prima di chiudere di nuovo la porta alle mie spalle.

Non abbiamo parlato molto dopo l’incidente. In realtà non ho parlato molto con nessuno dei tre, anche perchè gli unici momenti in cui sono in casa li trascorro dormendo per recuperare e mantenere la maggior parte delle forze. Aver diminuito tutto a un tratto le razioni mi ha reso più suscettibile, spossata e stanca, ma almeno riesco a dormire un sonno tranquillo e senza sogni. 

Scendo le scale a due a due per fare più in fretta ad arrivare in strada: ho deciso di setacciare le due case a due piani dall’altro lato della strada e vorrei spingermi fino a quelle più avanti. La responsabilità della nostra sopravvivenza è caduta tutta sulle mie spalle: non posso permettermi di lasciarmi andare alla stanchezza o al leggero mal di testa che ho da quando ho aperto gli occhi. Hanno bisogno di me, non posso deluderli. Non voglio deluderli.

Attraverso la strada deserta stando attenta a non inciampare nelle radici degli alberi, che hanno rotto l’asfalto per proseguire la loro crescita e rincorrere la loro libertà. Vorrei averla anche io, la libertà.

Mi ricordo che pochi giorni dopo lo scoppio di quello che ora so essere un virus, i gruppi anarchici gioivano: erano finalmente liberi da ogni forma di governo. Niente regole e, soprattutto, nessuno a farle rispettare. Il completo ed assoluto caos. Credevano di essere finalmente liberi; ovviamente si sbagliavano. Essere arrivati fino a questo punto è sia una salvezza che una condanna: la prima perchè vuol dire che non abbiamo ancora contratto il virus, la seconda perchè da un momento all’altro potremmo morire di morte violenta e perchè la nostra vita ruota attorno a tre cose principali: acqua, cibo, rifugio. Non c’è spazio per la vita vera, per i divertimenti, gli hobby, lo svago. Non siamo liberi, non lo saremo mai: saremo sempre rinchiusi nella stretta gabbia della paura finchè questo mondo non cesserà di esistere o tornerà normale; è più possibile la prima che la seconda.

Noto subito una “x” disegnata con una bomboletta nera sulla porta della prima casa: non è fresca ma nemmeno troppo datata, avrà qualche giorno al massimo. Mi guardo attorno scettica prima di spingere la porta con il palmo della mano e vederla aprirsi facilmente. Lancio un’occhiata fugace alla nostra finestra, non riuscendo a capire se c’è qualcuno affacciato a causa del riflesso del sole sul vetro. Faccio scrocchiare il collo, prima a destra poi a sinistra, prendo un respiro ed entro, impugnando ben stretto il manico del coltellino svizzero e facendolo aprire di scatto.

Dopo aver fatto un veloce giro dell’intera area e aver scoperto che il piano superiore è completamente barricato e che non c’è traccia umana qui dentro, rilasso le spalle e rimetto via l’arma, cominciando ad esaminare la cucina. 

Impreco. Qualcuno ha anticipato le mie mosse e ha deciso di svuotare l’intera dispensa. Non controllo neanche il piccolo salotto, notando che è in completo disordine. Esco e passo alla casa di fianco, notando che stavolta sulla porta c’è una “x” rossa.

Ora non mi resta che capire cosa significano questi due colori. Spero solo di non finire in qualche imboscata. 

Apro con cautela anche questa porta, trattenendo il respiro. E poi, niente. Nessun rumore, nessun segno di vita, nessun movimento. Niente. Passo in rassegna tutte le stanze, prendendo qualche bottiglia di vino vuota, così da poter raccogliere l’acqua nel caso il tempo decidesse di regalarci un po’ della sua preziosissima pioggia.

«Ti prego» sussurro a denti stretti, aprendo i mobiletti della cucina. Polvere, polvere e ancora polvere. Mi chiedo se si possa mangiare.

***
«Abbiamo preso una decisione» comincia quasi solenne Elyse. È la prima sera che è tornata a sedersi al tavolo e questo non fa altro che alleggerire un po’ il peso sulle mie spalle. «L’ultimo pacchetto sarà solo per voi due» dichiara, indicando prima Margaret e poi me.

«Prima che tu dica qualcosa, è la decisione più saggia,» dice Calum, lanciandomi un’occhiata severa, «tu devi uscire, devi mantenerti in forze, mentre tu devi crescere.»

«Quindi avete intenzione di lasciarvi morire di fame?» chiedo scettica, guardandoli con le sopracciglia alzate, incredula.

«No. Perchè tu e Margaret uscirete-»

«Io e chi, scusa?!» Non credo di aver capito bene.

«Margaret. Lei è d’accordo.»

«Non me ne frega un cazzo se lei è d’accordo. Non la porto con me-»

«Non hai forse detto che tutti i Vaganti sono finiti nel fiume? Allora non c’è alcun pericolo per lei.» Elyse alza le spalle, facendo schioccare la lingua sul palato.

Non credo alle mie orecchie. Mi stanno davvero obbligando a portare fuori Margaret? Una bambina di nemmeno nove anni?

«Perchè?» chiedo, incrociando le braccia al petto, facendo saettare lo sguardo da Calum e Elyse, ignorando invece Margaret al mio fianco. Forse pensa che non la voglia con me o che in qualche modo non mi stia simpatica, ma è per la sua protezione.

«Perchè se rimane con noi sarebbe più in pericolo?» chiede retorica Elyse, quasi intonando la frase. «Voglio dire, Kayla, riflettici: io ho questa dannata febbre e i miei riflessi fanno più che schifo, oltre al fatto che se sto in piedi per troppo tempo mi gira la testa. Calum non mangia da stamattina e se andiamo avanti di questo passo, chissà quando mai riusciremo a farlo. Non possiamo badare a una bambina in queste condizioni, a malapena riusciamo a raggiungere il letto.»

«Se ci dovesse essere qualsiasi intruso, non saremmo abbastanza veloci da proteggerla, questo è ciò che vuole dire.»

«Non è detto che io lo sia» ribatto dura, chiudendo gli occhi in due fessure. Lui prima di tutti dovrebbe saperlo, soprattutto dopo Ebony. Non ho potuto fare niente, l’ho lasciata da sola: chi mi dice che non potrebbe succedere un’altra volta? So di aver fatto una promessa a me stessa che non l’avrei lasciato accadere, ma alcune cose sono fuori dal mio controllo. «Dovrei avere anche io una scelta, non credete?»

«Siamo tre contro uno. La scelta è già stata presa» replica Elyse decisa, mantenendo il mio sguardo senza troppa fatica.

«Grazie per avermelo chiesto» rispondo sarcastica, già pronta ad alzarmi dalla tavola e uscire di nuovo, da sola.

«Dì la verità, Kayla: tu non vuoi portarla per quello che è successo a tua sorella-»

«Elyse-»

«No, tu chiudi quella cazzo di bocca,» Elyse si alza dalla sedia, facendola stridere sul pavimento e puntando un dito contro Calum per farlo stare zitto, «credi di essere l’unica ad aver perso tutto? Fattene una ragione e vai avanti, sono stanca di te che continui a pensare che tutta questa merda sia successa solo a te!»

Rimango allibita e sconcertata per qualche minuto alle sue parole gridatemi in faccia. Ho davvero assistito a questo? Scuoto la testa amareggiata, alzandomi dallo sgabello e raccogliendo subito lo zaino da terra. «Dopo questa, puoi ben scordarti che io la porti con me.»

«Certo, scappa, Kayla, scappa; non è forse quello che fai sempre?»

Sbatto la porta dietro le mie spalle, provando ad ignorare il pizzicore agli occhi e alla base della gola. «Fanculo.»

***

Sono fuori da qualche ora, seduta sul pavimento di una casa rivoltata da sotto a sopra, cercando di trovare un po’ di pace. Non ho voglia di affrontare Elyse, non ho le energie per farlo, anche se ho dovuto sforzarmi di uscire dalla porta e non tornare indietro a dirgliene quattro in faccia; la situazione non sarebbe cambiata comunque.

Crede che io non lo sappia? So benissimo che ogni persona ancora viva a questo mondo ha passato il mio stesso inferno o molto peggio, ma non è mai stato questo il punto. Vogliono che io mi porti dietro una bambina che dovrei tenere sott’occhio ogni minuto che passiamo fuori dall’uscio di casa, sapendo benissimo cos’è successo l’ultima volta sia a Reece che a mia sorella. Come possono anche solo pensare che io mi senta a mio agio con una responsabilità del genere, dopo aver fallito non una, ma ben due volte? Sono a conoscenza del fatto che Margaret non potrebbe in alcun caso morire per mano di un Morto, ma che mi dicono dei vivi, dei sopravvissuti? Possono essere due volte più pericolosi dei primi se hanno preso una cattiva strada - il che non sarebbe una novità e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi, viste le cose orribili che sono successe a questo mondo -.

Prendo la testa tra le mani, facendo passare le dita tra i capelli, impigliandomi tra i nodi: non posso rimanere qui a rimuginare sul passato e sulle sue parole all’infinito, devo muovermi e setacciare altre abitazioni finchè c’è ancora luce.

Su questa casa c’era un’altra “x” nera e credo di aver intuito un loro possibile significato: nero uguale “siamo già stati in questa casa e l’abbiamo svuotata”; rosso uguale “qui non c’è più nulla”. Non lo so, so solo che non voglio imbattermi in nessuno.

Esco, non curandomi di chiudermi la porta alle spalle e continuo il mio giro infinito alla ricerca di qualcosa di commestibile, sperando che almeno stanotte il cielo decida di farci avere un po’ della sua acqua.

***

Metto piede dentro al portone del palazzo quando il sole è appena calato, lasciando spazio a un cielo carico di nuvole grigie. Salgo le scale lentamente, sentendo i muscoli stridere ad ogni gradino e il mio stomaco gridare che ha fame. 

Busso alla porta e mi apre Margaret frettolosamente, ritornando poi in salotto con lo sguardo basso non appena mi vede sulla porta. Ci dovrò parlare, prima o poi.

Appoggio lo zaino delicatamente ai piedi del tavolo della cucina, mi verso un bicchiere d’acqua, bevendolo tutto d’un sorso, provando a calmare lo stomaco che richiede cibo, cibo, cibo. Come sempre, istanti dopo il mio rientro, arriva Calum a chiedermi con il solo sguardo, speranzoso e rassegnato allo stesso tempo, se ho trovato qualcosa. E io, di nuovo, scuoto la testa.

«Potrebbe piovere» dico con la voce rauca, schiarendomi poi la gola. «Ha ancora la febbre?»

Scuote la testa e allora decido che il mio momento di interagire con le persone per oggi è finito. Comincio a muovere qualche passo verso il salotto, ma Calum mi prende il braccio.

«Senti, per quello che è successo oggi...»

«Non ne voglio parlare.»

«Voglio che tu sappia che non avremmo preso questa decisione se Margaret non fosse stata d’accordo. Anzi, è quasi stata lei a chiederlo.» Mi lascio scappare una risata, scuotendo la testa sconcertata. «Quando ha sentito che non c’erano Morti in giro, ha detto che voleva aiutarti e che non voleva lasciarti uscire sempre da sola. Forse dovresti darle ascolto.»

«Non mi aiuterebbe per niente, sarebbe solo d’intralcio là fuori» ribatto sottovoce, non volendomi far sentire dalla diretta interessata seduta davanti alla finestra.

«È intelligente. Farà tutto quello che le dici di fare.» Calum mi lascia andare il braccio, facendo ricadere la sua mano al suo fianco con poca energia. «Dovresti avere più fiducia negli altri. E in te stessa; noi già ce l’abbiamo, altrimenti non avremmo mai pensato a questo.»

«Devo sparare un razzo» replico, sviando il discorso e lasciandolo solo nella cucina.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


CAPITOLO 37

KAYLA

Sto continuando a girarmi e rigirarmi sul divano, provando invano a prendere sonno. Ho troppi pensieri per la testa e nonostante sia completamente distrutta e praticamente al minimo delle mie energie, non riesco a chiudere occhio. Mi giro sulla schiena e guardo verso il soffitto, anche se vedo solo nero senza le luci delle candele.

Abbiamo ancora un solo razzo da sparare; ancora nessun segno. Sto cominciando a pensare che siamo completamente fuori rotta, ma non possiamo coprire così tanti chilometri senza cibo e acqua: moriremmo entro i primi dieci minuti dopo aver messo piede fuori casa. 

Tutta questa situazione è così frustrante: mi sento come un capobranco che non riesce mai a infierire il colpo mortale alla sua preda per poterla portare ai suoi componenti. Nonostante stia uscendo continuamente e senza tregua, mi sento comunque inutile. E poi, c’è sempre la questione Margaret: dopo esser tornata in casa questa sera, con la discussione ancora ben presente nella mia testa e le parole taglienti di Elyse ancora attaccate alla mia pelle, non ho voluto saperne di risolvere la questione. Mi sto comportando da immatura? Forse sì, ma le mie preoccupazioni sono più che legittime. E poi, avrebbero almeno potuto chiedermelo prima di prendere la decisione; forse allora avrei anche accettato - con molta riluttanza -. Dovrei parlarle, capire cosa pensa, anche scusarmi per come l’ho trattata ultimamente.

Mi metto a sedere, appoggiando le piante dei piedi a terra e strofinandomi gli occhi. Sarà una notte lunga, tanto vale fare qualcosa di utile. Mi fermo davanti alla porta della sua camera condivisa con Calum e abbasso lentamente la maniglia per evitare di fare rumori bruschi e farli spaventare inutilmente. Indugio qualche istante prima di aprire la porta, con la mano ancora stretta alla maniglia, fredda contro il mio palmo caldo. Potrei aspettare domattina, magari non mi vuole nemmeno parlare adesso e le rovinerei soltanto il sonno. A questi pensieri mi pento subito dell’idea, rialzando la maniglia e facendo marcia indietro.

Mi fermo all’entrata del salotto, notando la figura di Calum davanti alla finestra per un’altra notte, con le spalle abbassate e il corpo che trema impercettibilmente. Non posso lasciare che vada avanti così.

Mi avvicino a lui, arrivando al suo fianco. «Vuoi parlare?» gli chiedo esitante e sottovoce, voltando lo sguardo al di fuori della finestra non appena si gira verso di me, passandosi veloce i dorsi delle mani sulle guance bagnate.

«Non credevo fossi sveglia.» Si schiarisce la voce, prendendo qualche respiro per stabilizzarla.

«Non devi fingere con me.» Le parole mi escono spontanee ed automatiche dalla bocca. «Ti ho visto le notti scorse, non puoi andare avanti così, Calum.»

«Senti chi parla» ribatte, voltando la testa dall’altra parte. «Scusa… Scusa.» 

Quasi mi pento di avergli parlato e sono pronta ad alzare i tacchi, ma stringo la mascella e mi obbligo a rimanere. «Cos’hai per la testa?»

Sospira, facendo il giro del divano per sedercisi sopra e appoggiare i gomiti sulle ginocchia. «Cosa non ho per la testa.» Mi siedo accanto a lui, così vicino che le nostre spalle si toccano. Rimango in silenzio, un po’ per lasciargli lo spazio di cui ha bisogno per mettere in ordine i suoi pensieri e un po’ perchè non so cosa dire. «Non lo so, Kayla… è il quinto razzo che spariamo... »

Gli appoggio una mano sulla schiena, muovendola su e giù. Ho pensato la stessa cosa proprio minuti fa. 

«È il tuo modo di dirmi che devo accettare che non li rivedrò più?» dice Calum, girando il viso verso il mio e lasciandosi andare in una risata breve ma amara.

«No, continueremo a cercarli, Calum. Non mi interessa quanti chilometri dovremo fare, li troveremo.» I nostri volti sono a pochi centimetri di distanza e i nostri sguardi incantenati l’uno all’altro. Rimaniamo così per pochi istanti, gli occhi di Calum si spostano a intermittenza dalle mie labbra ai miei occhi e poi si allontana, schiarendosi la gola e puntando lo sguardo dritto davanti a sè. Nella penombra lo vedo cominciare a giocare con le sue dita un po’ a disagio.

«Hai… ci hai ripensato a portare con te Margaret?» chiede dopo qualche istante, cambiando discorso.

«Ci sto riflettendo,» ribatto, togliendo la mano dalla sua schiena, «ma non sono qui per parlare di questo.»

«Afferrato.» Alza la testa come irritato della mia risposta e mi tocca alzare gli occhi al cielo. Mi comporto anche io in questo modo così fastidioso quando sto soffrendo? «Non ho molto da dirti, Kayla, non so nemmeno cosa pensare a questo punto. E il fatto di dire le mie ipotesi ad alta voce le fa sembrare ancora più assurde di quando le penso. Quindi, credo- credo che tornerò di là.»

«Come preferisci» mi lascio scappare con una punta di irritazione, aspettando che si alzi dal divano per potermi stendere di nuovo. Rimango con gli occhi aperti finchè non lo sento chiudere la porta della sua camera.

Dopo interminabili minuti trascorsi a provare a contare pur di prendere sonno, credo di sentire delle gocce di pioggia: mi alzo con qualche giramento di testa e sbilanciamento e vado alla finestra, sperando di non avere anche le allucinazioni adesso. Ci impiego qualche secondo per girare la maniglia e aprirla e subito vengo travolta dal tradizionale odore della pioggia sull’asfalto asciutto. Un sorriso enorme si stampa sul mio volto, mentre di corsa mi infilo le scarpe e il giubbino, con passi pesanti e veloci prendo i possibili contenitori presenti in questa casa - pentole, padelle, brocche, due secchi - e mi fiondo giù dalle scale, tentando di non cadere o perdere l’equilibrio. Li appoggio appena fuori del tettuccio sull’uscio e li vedo riempirsi a ritmo sostenuto di goccioline d’acqua.

Sono così felice che scoppio in una risata sommessa e incontrollata ed esco dal tettuccio anche io, aprendo braccia e bocca sotto la pioggia. Lascio che scorra sulla mia figura, facendo arrivare le mani ai capelli per poter lavare via tutto lo sporco accumulato e trascinando via con sè parte dello stress degli ultimi giorni. È una sensazione paradisiaca. Qui e ora, mi sento bene, mi sento libera e mi sento leggera, anche se rimango sotto all’acqua per veramente pochi minuti per tornare a riempire altri contenitori, lo faccio con un sorriso leggero. Vorrei sentirmi sempre così.

Rientro in casa dopo qualche ora, mi tolgo i vestiti e mi asciugo con una salvietta, poi mi butto sul divano, riuscendo finalmente a prendere sonno.

Mi sembrano passati solo minuti da quando ho chiuso gli occhi, che già vengono a svegliarmi; è ora di tornare fuori a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Rimango sorpresa quando riconosco la voce delicata che mi sveglia come quella di Margaret. Mi metto a sedere, stringendo ben addosso al mio corpo la salvietta in cui mi sono addormentata e la coperta.

«Hai dormito bene?» le chiedo con una punta di tensione. Non l’ho trattata molto bene negli ultimi giorni e voglio provare a rimediare alla situazione. Annuisce, accennando appena un sorriso. «Sei davvero sicura che vuoi uscire con me?» le domando dopo qualche istante, soppesando i pensieri nella mia testa e frenando la mia voce interiore che vorrebbe urlarle che è pazza a volerlo fare.

«Tu mi odi?» mi chiede invece, lasciandomi completamente spiazzata.

«Cosa-? No. No, Margaret, non- ti ho fatto credere questo?» 

«Quando sei a casa non mi parli mai e poi non vuoi farmi uscire con te» ribatte, l’espressione sul suo viso imbronciata e il suo sguardo che penetra nel mio. 

Mi si spezza il cuore al solo pensiero che le abbia dato la minima idea che io la odiassi tramite i miei comportamenti schivi. E mi dispiace che non sia per nulla colpa sua: è solo il fatto che assomiglia così tanto a Ebony nel suo modo di fare che fa riaprire la ferita non ancora rimarginata e ciò mi fa automaticamente distanziare da lei: è una cosa inconscia, non avrei mai creduto che ciò potesse ferirla fino a credere che io la odi.

«Mi dispiace, Margaret. Davvero, credimi. Non ti odio, non l’ho mai fatto,» inizio, prendendole le piccole mani e stringendole tra le mie, «voglio solo proteggerti. Non ce l’avevo con te ieri, se è questo che stai pensando. E voglio che tu sia sicura al cento per cento di voler uscire con me-»

«Sono sicura. Mi manca stare un po’ con te.» Al suono delle sue parole il mio cuore si rompe definitivamente e mi vengono le lacrime agli occhi. La stringo forte in un abbraccio, rassicurandola ancora una volta che non la odio e che non ho mai provato quel sentimento nei suoi confronti.

Forse Elyse ha ragione: non posso continuare a rimuginare e rimuginare sugli eventi tragici del mio passato, trascurando le persone che ci sono nel mio presente. Non faccio del male solo a me, ma anche a loro. Ho passato così tanto tempo - settimane, mesi - a portare un costante lutto e ripensare a tutte le cose che avrei potuto fare per cambiare la situazione che mi ha lacerato dentro, facendomi dubitare di me stessa prima che degli altri. Devo accettarlo; devo andare avanti. 

Per quanto io mi sforzi di non creare connessioni profonde con le persone per paura della loro perdita e del dolore che ne consegue, non posso negare a me stessa il piacere di avere qualcuno su cui contare per il senso di colpa che mi affligge per le altre morti subite; perchè per quanto io provi a convincermi che sono rimasta per ricambiare loro un favore, in realtà Wayne e Mali mi mancano terribilmente. Sono stati i miei primi amici dopo due anni di solitudine, sono stati i primi a voler andare oltre la mia corazza senza mai dubitare. Sono stati i primi con cui ho avuto i primi momenti di normalità nell’anormalità. 

Adesso, però, devo occuparmi di sfamare noi quattro, altrimenti la prima cosa che troveremo sarà la morte. Non so per quanto riuscirò ad andare avanti in questo modo, con tutto il peso della sopravvivenza sopra le mie spalle e lo stress e la frustrazione di non riuscire a trovare nulla. 

Avviso Calum ed Elyse che ho raccolto un po’ d’acqua che dovranno far bollire mentre io e Margaret siamo fuori. Spero abbiano abbastanza energie per farlo, soprattutto il primo, visto che dorme poco o niente ultimamente. Non so nemmeno come faccia a tenere gli occhi aperti. Elyse, anche se debole, almeno non ha più la febbre.

Stringo bene le cinghie dello zaino attorno al corpicino di Margaret, facendo in modo che non continui a rimbalzarle addosso ad ogni passo che facciamo; ha insistito nel voler portare l’acqua nel suo di zaino, in caso fosse successo qualcosa al mio. Apprezzo il fatto che non abbia detto in caso fosse successo qualcosa a me.

«Stai proprio bene con questi pantaloni» sussurra Margaret dopo aver trascorso i primi dieci minuti fuori in silenzio. La guardo con le sopracciglia alzate, provando a trattenere una risata mentre guardo i pantaloni sgualciti e decisamente non della mia taglia.

«Grazie?» ribatto, ridendo subito dopo. «Quando sarai più grande, credo te li cederò. Così ti ricorderai di me» scherzo, dandole una spinta giocosa sul braccio.

«Ma tu ci sarai ancora quando io sarà grande! Non sei mica così vecchia» appura, scrutandomi il viso come a cercare delle rughe. Rido di nuovo.

«Okay, okay. Adesso, stai dietro di me.» Le faccio cenno positivo con la testa prima di aprire la porta con un’altra x nera sopra. Sembrano tutte state dipinte nello stesso periodo; chiunque è venuto in questa città con il nostro stesso intento, deve averlo fatto qualche giorno fa e non credo che ci sia più traccia di queste persone. Una cosa in meno di cui preoccuparsi, spero.

Stessa storia ancora una volta per un ciclo che sta diventando fastidiosamente ripetitivo: casa ribaltata da cima a fondo già in precedenza. Niente da prendere. Lancio uno sguardo afflitto a Margaret, facendole segno di uscire di nuovo in strada e continuare la nostra ricerca.

«Da grande voglio essere come te.»

«Perchè?» le chiedo di primo impatto, non preparata alla sua affermazione improvvisa. «Credo che tu vada benissimo così.»

«Ma tu sei forte e sai uccidere dieci Vaganti assieme con un solo colpo di pistola!»

«Beh, scommetto che tu ne saprai uccidere venti, se ce ne sarà ancora bisogno.» Il fatto che mi veda come una specie di supereroina, mi fa ridere amaramente dentro di me; se solo sapesse tutte le paure che ho dentro…

«Sì e poi farò quelle cose magiche che fa Calum quando fa finta di avere le pistole in mano» dice esultante, soffiando sulle sue dita a forma di pistola, imitando un pistolero del vecchio west.

Scuoto la testa, ridacchiando e stringedole la spalla con una mano, pensando alla completa innocenza di questa creatura, nonostante tutto lo schifo che ha dovuto vedere crescendo.

Ci sediamo sull’asfalto freddo per fare una breve pausa: lei per mangiare il suo piccolo pezzo di cracker e io per bere qualche sorso d’acqua che, anche provandoci, non riesce a placare i morsi della fame e l’acquolina in bocca alla sola vista di quel pezzo di cibo tra le piccole mani di Margaret. Devo fare ricorso a tutto il mio autocontrollo per non fregarglielo tra le mani e prenderne anche un solo morso.

«Okay, andiamo, su.» Incito Margaret con un segno della mano ad alzarsi e a riprendere la nostra ricerca. Sono sempre più esausta ad ogni passo che facciamo e non vedo l’ora di sdraiarmi sul divano di casa per sprofondare in un sonno profondo.

Altri due appartamenti vuoti o già rivoltati da cima a fondo. Ora entriamo nel terzo ed ultimo del palazzo. Faccio aprire la porta a Margaret e la faccio entrare per prima, così come ha fatto nelle altre due case: nonostante io sia ancora fermamente convinta che è stato troppo presto per la sua età portarla fuori con me, almeno così le posso insegnare qualcosa che prima o poi avrebbe dovuto imparare ugualmente, con le buone o le cattive. In questo modo, se qualcosa dovesse andare storto, ci sarò io a poterla aiutare e proteggere.

Entro subito dopo di lei e immediatamente vengo accolta da uno sparo e un proiettile vagante che si va ad incastrare nel legno spesso della porta. «Indietro!» urla una voce isterica dall’altra parte dell’ingresso.

Frenetica, afferro per il braccio Margaret, tirandola indietro e nascondendoci dietro alla porta. «Stai bene?» le chiedo con l’affanno per lo spavento improvviso.

«Sì» risponde, deglutendo la saliva e annuendo veloce con gli occhi sbarrati per la sorpresa.

«Okay, cazzo, allora… tu stai qui. Io entro,» sussurro, togliendomi lo zaino dalle spalle, «se non mi vedi uscire entro dieci minuti, prendi questo e scappa-»

«Ma-»

«Niente ‘ma’, Margaret. Ti ricordi la strada?» Annuisce con le lacrime agli occhi. «Starò bene» le dico, provando a rassicurarla invano. Le stringo le mani forte, poi le accarezzo una guancia con un sorriso appena accennato. Le faccio un cenno della testa, prendo un bel respiro profondo, sfodero il coltello e poi entro.

Non appena mi chiudo la porta alle spalle - lasciando Margaret da sola dall’altra parte -, un braccio si chiude attorno al mio collo, togliendomi improvvisamente fiato dai polmoni. Gemo incontrollabilmente mentre mi dimeno nella sua presa salda, poi afferro con le mani il suo braccio, faccio un passo di lato a fatica, tiro un pugno al suo inguine, facendolo immediatamente piegare di riflesso. Gli tiro una gomitata al mento, facendogli finalmente lasciare la presa.

Barcollo all’indietro, riprendendo aria con la vista ancora a puntini bianchi. Vedo appena la figura della pistola con cui ci ha sparato prima sul pavimento e in un movimento rapido la prendo tra le mie mani e gliela punto addosso appena in tempo. Si blocca sui suoi passi e alza le mani in alto, di fianco alla sua testa.

È un uomo basso ma tarchiato, con la barba nera sul suo volto dalla pelle chiara e i capelli sudici raccolti dietro alla testa in una crocchia disordinata a causa del combattimento appena svoltosi. Entriambi abbiamo l’affanno, i nostri petti si alzano e abbassano frenetici, le bocche aperte per prendere quanta più aria possibile.

«Prova a fare qualcosa e ti sparo» lo minaccio, stabilizzando la mira sul suo petto. Mi rivolge uno sguardo tagliente, che però non mi intimidisce affatto ora che ho io il coltello dalla parte del manico. «Cammina.»

Non appena ho sentito lo sparo, ho capito che chiunque si stesse nascondendo qui dentro avrebbe dovuto avere qualcosa di molto valore che non vuole condividere. Le persone non si rinchiudono in casa se non hanno di cui vivere e questo tipo non sembra proprio il tipo che vuole morire da solo in una stanza qualsiasi. Sembra più il tipo da voler cadere in battaglia. Spero il mio istinto sia corretto.

Lo faccio camminare davanti a me, mantenendo una distanza di sicurezza e sempre sotto tiro nel caso voglia fare qualsiasi mossa di contrattacco; mi è andata bene la prima volta, se dovesse afferrarmi di nuovo vincerebbe lui. Ho già usato la mia misera dose di energie per liberarmi.

Lancio occhiate fugaci all’ambiente, non trovando nulla di circospetto o di utile. Almeno finchè non arriviamo nella camera da letto: ha sistemato un tavolo - probabilmente quello della cucina - proprio dietro al letto e sopra ci sono tre lattine: una con il coperchio aperto, le altre due ancora sigillate, con l’involucro rosso brillante. 

Cibo.

È come se il mio cervello andasse in tilt alla sola vista di quelle due scatole intatte. Il mio sguardo si ferma troppo a lungo su quei due oggetti e le braccia si abbassano involontariamente.

L’uomo se ne accorge prima di me. In un rapido frangente, si volta rilasciando un verso animalesco e con tutto il suo peso si butta addosso al mio corpo, facendomi sbattere violentemente contro la parete e togliendomi per la seconda volta il fiato dai polmoni. 

Sparo.

Dopo qualche istante, il suo sguardo si incatena al mio, tramutandosi da quello di un leone inferocito a quello di un leprotto innocente, pian piano perdendo la sua forza e cadendo senza vita ai miei piedi.

Sto tremando. L’arma mi cade dalle mani intrise del suo sangue appena sgorgato e cade con un tonfo sordo sul pavimento che riempe tutta la stanza, caduta d’improvviso nel silenzio. 

Non riesco a distogliere lo sguardo dal corpo che giace ai miei piedi: ha le palpebre ancora aperte, gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta che si sta tingendo di rosso vivo, mentre dal petto sgorga un fiume incessante color cremisi che gli sta sporcando tutti i vestiti e sta formando un lago sotto di lui. 

Mi viene la nausea. Non riesco a frenare i tremiti del mio corpo e delle mie mani e sento il calore dentro al mio corpo abbandonarmi. 

L’ho ucciso.

Ho appena ucciso un uomo.

Ho lo sguardo perso, non riesco a concentrarmi su altro. Sono diventata una di loro.

Sento la porta d’ingresso cigolare lontana e mi ricordo improvvisamente di Margaret. Tolgo lo sguardo dal corpo inerme, sforzandomi di raggiungere quelle due lattine e lasciare questo posto il prima possibile.

Mi costringo a stabilizzare la presa con le lacrime agli occhi e poi lascio la stanza di corsa, tornando all’ingresso e trovandoci Margaret con le lacrime che le scendono copiose dal viso. Deve essersi aspettata il peggio. Mi abbraccia forte, ma non riesco a ricambiare il gesto, vedendo le mie mani, le mie dita colorate del sangue di quell’uomo, che sta colando sulle due lattine di cibo.

Non sento quello che mi dice, so solo che apre lo zaino per metterci i due contenitori dentro, lo richiude e me lo passa. Lo metto in spalla e poi usciamo da quell’appartamento, lasciandoci un corpo alle spalle e un pezzo della mia umanità persa per sempre.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


CAPITOLO 38

KAYLA

Ad aprirci questa volta è Elyse, subito travolta dalla felicità di Margaret che la informa dei due barattoli trovati. Non le dice a che prezzo, ovviamente. Le lascio lo zaino in un’azione da automa, andando subito verso il bagno per togliermi definitivamente i rimasugli di sangue secco dalle mani. 

La prima cosa che ho fatto dopo essere tornate in strada è stata farmi buttare l’acqua sui due arti da Margaret e sciacquare via con insistenza la sostanza color cremisi, ma non è bastata per riavere le mani completamente pulite e nemmeno per scacciare via quel senso ostinato di nausea e pesantezza al centro dell’addome. Sembra assurdo, ma è come se sentissi ancora il suo braccio stringere forte la presa sul mio collo.

«Avete trovato-» Faccio appena in tempo a voltare la testa che vedo la figura di Calum accasciarsi a terra sulla soglia della camera da letto.

Corro da lui con le braccia allungate in avanti, anche se troppo tardi per prenderlo. Sbatte la testa a terra, inconscio.

«No, no, no, no, avanti. Svegliati.» Sono inginocchiata a fianco del suo corpo e gli prendo la testa tra le mani, appoggiandola sulla mia coscia. 

È la prima volta che lo vedo così messo male e il cuore comincia a battere all’impazzata e il respiro comincia a venire meno, mentre nella mia testa cominciano a farsi spazio i peggiori scenari; sono troppi giorni che non mangia. 

«Dai, non puoi morirmi tra le braccia, cazzo!» sussurro in preda al panico a pochi centimetri dalla sua faccia, dandogli dei leggeri schiaffi per riuscire ad avere un qualsiasi stimolo, anche un piccolo movimento che mi dica che è ancora qui con me. Le lacrime cominciano a scendere silenziosamente dai miei occhi, cadendo sul suo viso pallido. «Non posso perdere anche te, svegliati, cazzo!» Gli accarezzo così tante volte il viso che le mie lacrime si mischiano al sangue che ho sulle dita, lasciandogli le tracce sulle sue tempie e sulle sue guance.

«Wow, stai addirittura piangendo per me...» mormora sommessamente, sbattendo impercettibilmente le palpebre.

«Fanculo.» Mi lascio scappare uno sbuffo nervoso. Gli sembra per caso il momento di scherzare? Mi allontano dal suo viso, togliendo immediatamente le mani e aspettando che si metta a sedere contro lo stipite della porta per alzarmi e andarmene irritata ed esausta in bagno.

Sto ancora tremando, ma mi asciugo le ultime lacrime sulle guance con una passata ruvida del dorso della mano. Ho veramente pensato che stesse morendo e tutto lo stress vissuto negli ultimi giorni mi ha fatto perdere il controllo, facendomi vedere la situazione più nera di quel che fosse. Era solo svenuto. Fine della faccenda. Almeno posso tirare un sospiro di sollievo.

Sento la voce di Elyse chiamarlo dalla cucina per andare a mangiare e poi sento i suoi passi fino alla camera: è venuta per accompagnarlo al tavolo: allora deve essere stato molto debole per tutta la mattinata.  La sento poi tornare indietro e bussare alla porta del bagno.

«Tu vieni?» mi chiede, stranamente in un tono molto gentile.

«Tra qualche minuto» rispondo, sedendomi sul coperchio del water per calmarmi. Prendo la testa tra le mani, facendo dei respiri profondi, ma in qualche modo le lacrime tornano a sgorgare copiose dai miei occhi.

La porta del bagno si apre. «Ho detto tra qualche minuto!» inveisco in uno scatto d’ira contro Elyse, che di tutta risposta si chiude la porta alle spalle, appoggiandoci contro la schiena e aspettando che io abbia finito di sfogarmi.

«È tuo quello?» mi chiede dopo qualche istante di silenzio, mischiato al mio respiro pesante. Mi guardo le mani per quella che sembra la centesima volta, scuotendo la testa affranta e tirando su con il naso. «È un bene.» La guardo di traverso.

«Senti, ho solo bisogno di qualche istante da sola. Poi arrivo.»

«È la tua prima volta?» mi domanda invece di contropiede. All’inizio non capisco, poi annuisco sconfitta. «L’avevo capito subito da quando ci siamo imbattuti in Jordan. Avevi la possibilità di ucciderlo proprio davanti a te, ma hai deciso di non farlo.»

Si appoggia sul bordo del lavandino, ora di fronte a me, con le braccia incrociate al petto e uno sguardo inquisitorio e compassionevole.

«Come lo hai affrontato?» le chiedo, guardando le piastrelle del pavimento con ancora le macchie del mio sangue secco della ferita alla mano di pochi giorni fa. Ho deciso di mettere da parte il mio orgoglio per questa volta, anche se non so bene perchè proprio lei, che ha sempre fatto intendere che io non le andassi troppo a genio, sia seduta qui a cercare di consolarmi.

«Mi sono ripetuta più volte che era per la mia sopravvivenza. La mia e delle persone che amavo. Era necessario.»

«‘Necessario’» ripeto, scuotendo la testa amaramente. «E pensare che avrei voluto diventare parte del corpo di polizia...»

«Cos’ha a che fare con questo, scusa?» ribatte appena appena stizzita, prima di ricomporsi e appoggiare i palmi delle mani al bordo del lavabo.

«C’è così tanta violenza- Voglio dire, volevo far parte di qualcosa che abusa del suo potere e uccide persone innocenti solo perchè può farlo. Lo sapevo prima, credevo solo di poter ignorarlo o magari cambiare le cose, ma non sarei mai stata pronta ad uccidere una persona-»

«Kayla, ho capito dove vuoi andare a parare, ma le circostante sono ben diverse. Non sei una persona orribile perchè hai deciso di difenderti- Margaret me l’ha detto. Uccidi o vieni ucciso, no?» Scruta il mio viso per istanti interminabili in attesa di un assenso che non arriva mai. «Andiamo a mangiare qualcosa, dai.» Annuisco impercettibilmente con lo sguardo ancora fisso nel vuoto e lo stomaco che mi si è chiuso tempo fa, nonostante il digiuno di questi giorni.

Mi alzo barcollando sui miei passi e poi seguo Elyse fuori dalla porta. Ad essere sincera non mi sarei mai aspettata che lei - proprio lei - venisse in qualche modo a consolarmi. Lo apprezzo, davvero, ma abbiamo comunque due visioni ben distinte e diverse del mondo.

«Ecco la nostra eroina! Dovremmo festeggiare, sai?»

«Non- non chiamarmi così, ti prego.» Al solo pensiero di poter essere definita eroina perchè ho ucciso un uomo mi viene la nausea. Magari lui non lo sa ancora e da una parte preferisco che non lo sappia; non voglio che mi guardi in modo diverso da come sta facendo ora. Non voglio che mi guardi e pensi: ‘assassina’.

«Non riesco a credere che finalmente oggi non mangerò ancora quei cracker stantii- anzi, che mangerò colla, praticamente. O che mangerò in generale!» esclama ridacchiando Elyse, facendo strisciare sul pavimento la sedia con noncuranza.

Mi siedo anche io sullo sgabello, provando a scacciare l’amarezza e delusione che provo nei miei confronti, indossando un sorriso tirato sul mio volto. Dicono che la prima regola per sentirsi meglio sia sorridere, anche se per finta. «Già.»

Dopo il pranzo sembriamo tutti quanti molto più rinvigoriti, finalmente con delle calorie nel nostro corpo e dell’energia vera. Rimaniamo al tavolo anche dopo aver sparecchiato, Elyse, Margaret e Calum che chiacchierano del più e del meno e io che rimango ad ascoltarli in silenzio, seguendo gli interlocutori con gli occhi. C’è un’aria così familiare in tutto questo, così naturale e spontanea, come se io non avessi appena ucciso un innocente e come se prima di questo momento non fossimo tutti quanti disperati e a digiuno. È come aver creato la nostra piccola bolla sicura.

«Credo che domattina dovremmo rimetterci in marcia» esordisce Elyse, giocherellando con l’etichetta della scatoletta mezza piena, facendosela girare e rigirare tra le dita. 

Con una sola frase, riesce a far acquietare le risatine di Calum e Margaret, facendoli ritornare seri tutt’un tratto. Il ragazzo annuisce, il suo sguardo che si perde sulla superficie del tavolo, tornando improvvisamente pensieroso.

«Spariamo l’ultimo razzo dopo il tramonto,» dico, appoggiando Elyse, «così avranno ancora qualche ora per trovarci, prima che noi partiamo.»

«Non sarebbe sbagliato muoverci adesso?» chiede Margaret, sistemandosi sulla sedia e incrociando le braccia sul tavolo. «Se poi arrivano, ma noi ce ne siamo già andati?»

«Prenderemo altri razzi. Non hai detto che ci sono altre barche, Kayla?» Calum intreccia le sue dita e mi fissa con aspettativa.

«L’ho detto, sì,» comincio già scuotendo la testa, «ma non sono stabili. Sono a riva, sì, ma c’è un’alta probabilità di cadere in acqua. E con le forti correnti che ci sono sommate a tutti i Morti sommersi, sarebbe una vera e propria missione suicida.»

«Vedremo cosa possiamo fare» ribatte Calum, appoggiando la schiena alla sedia. Annuisco, alzando le sopracciglia, non troppo convinta.

«Di sicuro, qui non possiamo restare. Questo è l’unico scampolo di vita che abbiamo trovato in praticamente quattro giorni, non credo che troveremo altro. Siamo stati fortunati adesso, sì, ma dopo?»

«Allora è deciso.»

«È deciso. Siamo tutti d’accordo?» chiede Elyse, facendo passare il suo sguardo prima a Margaret e poi a me, ricevendo immediatamente da entrambe un cenno positivo della testa. «Ultima domanda: dove siamo diretti?»

«Io direi di attraversare il ponte, arrivare in Ohio. Da lì, vedremo come muoverci» suggerisco, ricevendo assensi dagli altri tre.

«Okay. Allora… cominciamo a fare le valigie.»

***

«Cosa dice una mucca ad un’altra mucca?»

«Oh, mio Dio.» Elyse si pianta una mano in faccia esasperata.

«… muu?» risponde Margaret, alzando le sopracciglia. 

«Così non vale però, Marg» ribatte Calum, chiudendo con un colpo secco il libro per bambini dalle grosse pagine che ha in mano. 

Ridacchio allo scambio tra i tre, scuotendo la testa divertita, mentre continuo a cercare oggetti utili oppure altro cibo nella casa sulla via per il ponte. Ieri notte Calum ha sparato l’ultimo razzo in cielo ed è stato un momento molto emotivo per tutti quanti; l’atmosfera, lo stato d’animo generale, le cose sofferte tutti assieme ci hanno in qualche modo unito al davanzale della finestra per guardare quel cilindretto esplodere in mille scintille nel cielo nero e stellato della notte. Ho dormito per qualche ora ed è stato un gran traguardo, anche se alla fine mi sono svegliata bruscamente a causa di un nuovo incubo che la mia mente ha deciso di propormi. Pasto dopo pasto - anche se ancora razionato -, le nostre energie e forze stanno tornando in noi, facendoci sembrare un po’ più quelli che eravamo prima di lasciare la palestra, con la sola aggiunta delle ferite e cicatrici nuove, sia fisiche che mentali.

Abbiamo riflettuto su ciò che ha detto Margaret e abbiamo deciso di comune accordo che, per aumentare le possibilità di incontrarci di nuovo con la parte dispersa del gruppo, avremmo esplorato qualche casa nel tragitto dal nostro palazzo al ponte. La villetta in cui siamo ora ha le pareti - una volta di un bianco immacolato - ricoperte di muffa e crepe a causa della sua prossimità con il grande fiume Ohio; i mobili, i divani e le sedie sono ricoperti da un alto strato di polvere che ci ha fatto starnutire non poche volte da quando siamo entrati. Dopo aver informato Elyse e Calum che le porte delle case finora esplorate avevano tutte quante una ‘x’ dipinta sopra, abbiamo tirato un sospiro di sollievo notando con piacere che su questa non c’era alcun segno.

«Ragazzi,» Elyse è sull’uscio del retro della casa che ci fa cenno con una mano di raggiungerla, avvolta da un fascio di luce proveniente dall’esterno, «venite a rifarvi gli occhi.»

Calum abbandona sul comodino della camera da letto infantile un altro inutile libro che stava sfogliando, raggiungendo in pochi passi la ragazza, con Margaret subito dietro di lui. Li imito e appena Elyse fa qualche passo in avanti, lascia che scopriamo con i nostri occhi il grande giardino pieno di sterpaglie ed erbacce davanti a noi: ci sono tre grandi alberi carichi dei loro frutti invernali: mele, arance e pere in risalto tra le foglie verdi di ciascun albero. Sento già il mio stomaco brontolare per la fame.

A fare il primo passo dopo lo stupore e la meraviglia è proprio Elyse, che stacca con sonoro “tac” una mela gialla dal suo ramo. La studia per qualche istante, girandola tra le sue mani come se fosse un antico artefatto dal valore inestimabile e poi ne prende un morso, chiudendo gli occhi per assaporare la prelibata sostanza.

«È questo il paradiso?» dice con gli occhi che le brillano, prendendo subito un altro morso. «Riempiamoci gli zaini con queste meraviglie!»

Non ce lo deve ripetere due volte: Calum ha già iniziato a mettere nel suo le arance, mentre io passo a Margaret le mele che lei ripone con cura nello zaino. In pochi minuti, entrambi gli zaini sono carichi dei frutti, ma non abbastanza per Elyse che chiede al ragazzo e alla bambina di cercare qualsiasi altro contenitore trasportabile all’interno della casa.

«Come ti senti?» Esordisce, dandomi le spalle e continuando a guardare i frutti sugli alberi rimasti attaccati ai rami più alti, studiando un modo per raggiungerli. Infatti, mi chiedo se stia parlando con me oppure con la pianta stessa. Poi si volta appena con uno sguardo interrogativo sul volto.

«Bene?» rispondo, provando invano ad essere convincente. Elyse alza gli occhi al cielo, tornando a darmi le spalle. «Voglio dire, finchè non ci penso- Non lo so, Elyse, sinceramente. Come cavolo dovrei sentirmi secondo te?» sbotto nervosa. 

«Era solo per controllare» ribatte con un cenno disinvolto della mano per chiudere la veramente breve conversazione.

Calum e Margaret tornano in giardino con uno zaino da scuola dai colori pastello, che viene immediatamente riempito dei frutti delle tre diverse piante, aggiungendone qualcuno anche nelle nostre tasche. Dopo aver concordato che avremmo tenuto i semi in una tasca di esso quando avremmo finito di mangiare - cosicché in un futuro vicino avremmo potuto piantarli -, ritorniamo in marcia verso il ponte con l’animo un po’ più tranquillo, almeno su un versante.

A pochi metri dallo stesso, mi dà subito il benvenuto il lezzo di morte che aleggia sopra l’acqua del grande fiume; storco il naso, facendo cenno a Margaret di coprire il suo con i vestiti.

«Quella barca sembra stabile» dice Calum, indicandone una dall’altra parte della strada. Mi sposto di qualche passo per vederla praticamente incagliata tra l’asfalto e il primo pilone dell’infrastruttura.

«Dev’essere una cosa veloce» ordino, osservando il movimento minimo dell’imbarcazione alla corrente del corso d’acqua. «Lasciamo qui zaini e armi, in caso dovesse succederci qualcosa.» Lancio un’occhiata ad Elyse, che mi fa un cenno positivo della testa.

«Vi aspettiamo qui.» La ragazza e Margaret si avvicinano alle nostre cose, mettendosi in posizione di guardia.

«Prendiamo i razzi, la cassetta del pronto soccorso e poi ce ne andiamo» stabilisce Calum mentre ci avviciniamo sempre di più al fianco della barca.

«Quello era il piano.» 

Fa un salto, aggrappandosi con le mani al gancio per mettere la corda e tirandosi su, flettendo i muscoli delle braccia. Una volta sopra, si sporge con un braccio, aiutandomi a salire. Appena appoggio i piedi sul legno scrostato la barca ondeggia in modo brusco, andando a sbattere contro il pilone del ponte, per poi incagliarsi di nuovo nello stesso punto di prima. Lascio andare il respiro, che neanche mi ero accorta di star trattenendo.

Calum scende sottocoperta, apre ogni cassetto e rivolta persino le coperte del piccolo letto, rimanendo a fissare l’acqua dall’oblò per qualche istante. «Ah, sarebbe stato carino essere qui, soli, io e te. Goderci un po’ di pace… Avrebbe potuto essere il nostro primo appuntamento» dice melodrammatico, sospirando rumorosamente e ridacchiando poco dopo.

Scuoto la testa, nascondendo un timido sorriso sulle mie labbra. «Ne riparliamo più tardi.»

«Mi prendi alla sprovvista; credevo mi avresti detto di star zitto e muovermi.»

«Te l’ho detto in modo carino. Adesso: “zitto e muoviti”.» Calum ride di gusto, seguendo però il mio ordine, continuando a setacciare l’imbarcazione in ogni suo angolo.

«Comincio a uscire» mi avvisa, dopo che abbiamo trovato sia i razzi sia a cassetta di pronto soccorso. Annuisco, vedendolo già ritornare di sopra mentre io chiudo la piccola cassaforte vuota.

Un brusco movimento della barca mi fa sbattere contro il cucinino, facendomi perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra.

«Calum!»

Al sentire Elyse gridare il suo nome, mi rialzo in fretta e furia, ritornando con un balzo sovracoperta e seguendo il suo sguardo sull’acqua: mi affaccio appena in tempo per vedere il corpo di Calum che si dimena tra la corrente del fiume, sbattendo le braccia dentro e fuori dall’acqua in cerca di un qualsiasi appiglio, con la testa che finisce presto sott’acqua.

Deve uscire da lì, adesso: tra la corrente e i Morti che tra brevi istanti proveranno ad avvinghiarsi al suo corpo, per lui non ci sarà più via d’uscita.

Una corda. Devo trovare una corda e lanciargliela in acqua. Mi volto frenetica, facendo balzare lo sguardo sul pavimento della barca, correndo da una parte all’altra e sentendo la stessa muoversi sotto il mio peso, facendomi perdere l’equilibrio due volte e facendomi atterrare rudemente sui palmi delle mani. Dopo quelli che sembrano istanti interminabili, trovo una corda e mi butto a terra per raggiungere a corse Elyse che, assieme a Margaret, continua a urlare il nome di Calum e di aggrapparsi a qualsiasi cosa.

«Margaret, fai da guardia agli zaini. Elyse.» Le mostro veloce la corda e senza aspettare un suo cenno, mi arrampico su un’altra imbarcazione più vicina al corpo di Calum che viene trasportato dalla corrente.

Lego la corda al un pezzo di ferro, notando che è piuttosto consumata e spero con tutta me stessa che riesca a mantenere lo sforzo. Elyse mi raggiunge e insieme buttiamo la corda nel fiume, urlando al ragazzo di afferrarla. Ma Calum, nonostante cerca di combattere contro la forte corrente con tutte le sue forze, lancia un braccio verso la corda ma troppo lontano per stringerla nella sua mano. La rilanciamo di nuovo e riesce a prenderla: Elyse ed io cominciamo a tirare, stringendo i denti e piegando le gambe ma d’improvviso veniamo scaraventate a terra.

La corda si è spezzata. Calum viene ingurgitato dall’acqua, di nuovo. Lo guardo con occhi spalancati in preda al terrore, finchè in pochi millisecondi lo vedo smettere di combattere, le braccia che spariscono al di sotto, come se fosse appena stato risucchiato.

Senza pensarci due volte e gettando al vento la prudenza, mi tuffo in acqua, riuscendo appena a sentire Elyse gridare il mio nome prima di impattare con l’acqua. Subito mi si riempiono le orecchie e ci impiego qualche secondo per riuscire a tenere aperti gli occhi, che lottano contro tutto il sudiciume per riuscire a vedere qualcosa. Il mio corpo viene sballottato dalla corrente, mentre cerco di prendere controllo dei miei movimenti. Poi sento il mio piede venir afferrato e tirato giù, facendomi finire di nuovo sott’acqua. Scalcio con tutta la potenza che ho, liberandomi dalla presa, ritornando in superficie e prendendo un breve respiro, prima di venir colpita di nuovo dall’acqua, che mi fa rifinire sotto. Faccio un giro di 360 gradi su me stessa e finalmente vedo Calum che lotta debolmente tra le grinfie dei Morti.

Decido di sfruttare la corrente a mio vantaggio e nuotare verso di lui, ma vengo intralciata da un Morto che si avvinghia con le braccia al mio collo. Il panico prende il sopravvento e sento l’ossigeno cominciare a venire meno. Poi mi ricordo del coltellino svizzero nei pantaloni: lo tiro fuori, lo apro e colpisco ripetutamente e con violenza inaudita il suo corpo gonfio e molle, riuscendo a liberarmi dalla sua morsa.

Raggiungo Calum proprio nel momento in cui lo vedo perdere conoscenza, lo libero dai Morti colpendoli con i piedi, lo afferro per le ascelle e con l’ossigeno al minimo e la vista che comincia a diventare nera, muovo le gambe in un'ascesa disperata, facendo uscire le nostre teste dall’acqua.

Prendo un grosso respiro, tossendo qualche volta e continuando a muovere le gambe incessantemente per tenere entrambi a galla, stringendo i denti e gemendo per il peso del corpo senza sensi di Calum. Nuoto stremata verso la riva, sfidando la corrente, facendo ricorso a tutte le forze rimastemi.

Mi accorgo appena della figura di Elyse lungo la riva del fiume che afferra il mio braccio quando sono abbastanza vicina per non lasciare che la corrente ci porti via. Tira, tira e tira ancora, finchè finalmente il mio petto torna a toccare la terra ferma, assieme a quello di Calum.

Elyse mi aiuta a sistemare il suo corpo in modo che non possa ricadere in acqua e comincia a cercare il suo battito sul collo; gli tappa il naso e gli apre le labbra, facendogli una respirazione bocca a bocca di emergenza, ripetendo l’azione due volte consecutive, mentre io tossisco e riprendo fiato, con le lacrime agli occhi, attendendo un suo qualsiasi segnale di vita, disperata.

Dopo quelli che sembrano minuti interminabili e proprio poco prima che Elyse si arrenda, Calum tossisce, alzando la testa improvvisamente e facendo uscire l’acqua dai suoi polmoni.

«Oh, mio Dio» dico senza fiato, piangendo adesso di felicità. Si volta di lato per liberarsi completamente e poi prende delle rumorose boccate d’aria, prima di rigirarsi sulla schiena sfinito.

«Brutto bastardo, cosa non avevi capito del “non avvicinatevi all’acqua”?!» lo sgrida Elyse, anche se ha anche lei il viso bagnato dalla lacrime. Si mette in ginocchio, tirando un buffetto al suo braccio, alzando poi la testa verso il cielo e lasciando andare un lungo respiro di sollievo.

«Porca puttana» impreco, mettendomi nella stessa posizione di Calum e ridendo sommessamente tra le lacrime e i respiri affannosi. «Se volevi… farci prendere un colpo… ci sei… riuscito.»

«Era tutto calcolato» scherza lui, emettendo le prime parole da quando ha ripreso conoscenza.

«Elyse! Kayla!»

Il grido di Margaret ci fa tornare tutti e tre sull’attenti, entrambi che ci voltiamo immediatamente nelle sua direzione, lontani di qualche metro. Mi metto subito in piedi, barcollando sui primi passi, e correndo subito da lei, cercando di mantenere l’equilibrio.

Penso subito che sia in pericolo, ma quando riesco a vedere l’espressione sul suo viso e seguendo la direzione del suo dito puntato verso il ponte, capisco che è un grido di sorpresa. Perchè, proprio sulla nostra sponda dell’infrastruttura, tre delle quattro persone che stavamo cercando ci guardano dall’alto dei loro cavalli.

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Capitolo 39
*** Capitolo 39 ***


CAPITOLO 39

KAYLA

Rimango senza parole, quasi disorientata nel vedere Wayne, Mali e Blaine sui loro tre bellissimi cavalli - rispettivamente marroni e grigio - che si dirigono al trotto verso di noi.

«Cavalli?» chiede incredula Elyse, portandosi dietro anche il corpo ancora ansimante di Calum, entrambi che guardano le tre figure come se fossero una visione.

«Cavalli» ripete Calum, appurando l’ovvio, con un tono molto più sorpreso di ciò che dà a vedere. «Ehi, aspettate, dov’è mia mamma?» chiede poi istanti dopo, mettendo assieme i conti nella sua testa e staccandosi dalla spalla di Elyse per provare a scorgere un quarto cavallo, che però non c’è.

«Rilassati, forse è rimasta indietro-»

«Dov’è?» urla Calum, interrompendo Elyse, non appena i tre sono praticamente a pochi passi da noi.

«Sta bene, è rimasta al campo» risponde subito Mali, saltando giù dal suo cavallo e abbracciando stretto suo fratello con le lacrime agli occhi. «Sono così felice di vederti tutto intero.»

Blaine segue a ruota Mali, correndo incontro a Elyse e stringendola tra le sue braccia, i loro singhiozzi che si mescolano gli uni agli altri. Wayne è l’ultimo a farlo e dà una stretta al corpo di Calum, battendogli una mano sulla schiena con un sorriso a trentadue denti stampato sul viso.

«Non avrete mica creduto che ci saremmo dimenticati di voi!» dice ancora emozionata Mali, prima di abbracciare me questa volta. Abbraccio che ricambio con immensa gioia, mentre lascio andare un enorme respiro di sollievo, sentendo il peso sulle mie spalle affievolirsi lentamente. Mi sento come se fossi di nuovo in grado di respirare liberamente adesso. «Mi fa piacere vedere che ti sei rimessa in sesto» sussurra al mio orecchio poco prima di allentare la presa.

«È tutto merito suo» ammetto, facendo cenno con il capo verso suo fratello, spostando poi lo sguardo sulla sua figura e rimanendo a fissarlo per più del dovuto. «E anche vostro che mi avete ricucita subito. Grazie.»

«Non dirlo neanche.»

Dopo aver scambiato un caloroso abbraccio anche con Wayne e dopo che tutti quanti ci siamo salutati a dovere, intercambiando brevi frasi di gioia e gratitudine per averli ritrovati tutti quanti in salute e senza alcun graffio, ci rimettiamo gli zaini in spalla e saliamo assieme a loro sui cavalli: Elyse assieme a Blaine, Mali con Margaret davanti e Calum dietro, mentre io assieme a Wayne.

«Abbiamo visto dei razzi per qualche giorno e abbiamo deciso di venire a controllare,» spiega Wayne, «non eravamo certi che sareste stati voi, ma ne è valsa la pena.»

«Sono contenta che abbiano funzionato» dico, ripensando a tutto ciò che è successo negli ultimi giorni. Mi sembra sia passato un mese, altro che qualche giorno.

«Adesso mi sorge il dubbio: voi due avete per caso deciso di farvi un bagno?» chiede Mali, ridacchiando, lanciando un’occhiata a me e poi a suo fratello dietro di lei. «Perchè, mi dispiace dirvelo, ma non avete proprio un buon odore.»

«Colpa mia, devo ammetterlo.» Calum ride, alzando una mano in segno di resa. «Vi racconteremo tutto quando arriveremo al campo. A proposito, quale campo?»

«A Murray City.»

«Dovrebbe far suonare un campanello questo nome?» chiede scettica Elyse, ma con aria divertita, mentre appoggia la guancia alla schiena di Blaine. Sono lieta che questi due si siano ricongiunti nel migliore dei modi possibili.

«Hai ragione. È a circa un’ora e mezza di viaggio a cavallo da qua, è un piccolo villaggio vicino a un fiumiciattolo che in confronto a questo fa ridere, ma per ora è la nostra casa» espone Wayne. «Abbiamo svuotato le case infestate dai Morti e devo dire che sono diventate piuttosto accoglienti; vi piaceranno di sicuro.»

«Okay, adesso preparatevi che tra qualche chilometro passeremo attraverso la Wayne National Forest e Wayne si esalterà tutto perchè ha il suo stesso nome» dice Blaine, cominciando a schernire il ragazzo davanti a me.

«Sei solo invidioso» ribatte Wayne, facendogli la linguaccia. «K, puoi dormire se vuoi. Devono essere stati giorni duri per voi» dice dopo qualche minuto, abbassando il suo tono di voce e girando appena il viso verso di me. 

Rimango sorpresa dal diminutivo che ha usato, ma annuisco e allaccio le braccia attorno al suo addome per poi appoggiare la faccia alla sua schiena, sentendo già le palpebre pesanti, nonostante tutta l’adrenalina ancora nel mio corpo. «Voglio prima capire cosa vi è successo e se siete...»

«Tutti vivi?» mi interrompe lui, piegando la testa di lato e cambiando espressione. «Penso già sappiate che Travis non c’è più; Matthew e Dylan ce l’hanno fatta, Meredith e Tracey stanno facendo i conti con il dolore della perdita, ma almeno sono ancora qui con noi. Abbiamo perso altre tre persone, purtroppo.» conclude sconsolato, scuotendo la testa amaramente.

«Come hai fatto a ritrovarli?» Sento dire da Elyse, accucciata sulla spalla di Blaine.

«Per ironia della sorte, ci siamo incrociati per caso: entrambi stavamo scappando da due orde diverse e le due strade convergevano nello stesso punto» risponde il ragazzo, l’incredulità del momento ancora presente nella sua voce.

«È veramente passato più di un mese dall’ultima volta che ci siamo visti...» dice Mali, pensando ad alta voce.  

«Come avete trovato i cavalli?» chiede curioso Calum, indicando con l’indice i tre animali. «Anzi, mi correggo: come li avete trovati ancora tutti interi e non sbudellati dai Morti?»

«Che schifo, Calum» lo riprende Mali con un’espressione chiaramente disgustata sul viso. «E, per tua informazione, abbiamo incontrato una signora anziana tenerissima, che era riuscita a sopravvivere grazie alla sua fattoria in una posizione isolata rispetto alla città.

«Purtroppo, però, ha cominciato ad avere l’osteoporosi qualche mese prima che la incontrassimo e ormai era al suo stadio finale. Non riusciva più a raccogliere i frutti del suo duro lavoro né per sé né per i suoi cavalli, che amava come fossero suoi figli. Così ha deciso di lasciarli a noi, piuttosto che vederli morire assieme a lei» spiega Mali, ricorrendo i momenti passati con quella anziana signora tempo fa. Noto una veloce scia di malinconia attraversarle il viso durante il suo racconto.

«Ci ha anche lasciato un po’ di semente di grano, frumento e orzo» aggiunge Wayne, anche lui con uno sguardo perso nei ricordi.

«A proposito di ciò, volete una mela?» chiede improvvisamente Margaret, non smettendo però di accarezzare la criniera color nocciola del cavallo. «O una pera? Un’arancia?»

«Sì, abbiamo praticamente depredato le piante di un giardino poco fa» dice Calum, ridendo di buon gusto e poi tossendo gli ultimi rimasugli di acqua rimastagli bloccata in gola dal suo fin troppo probabile annegamento.

«Adrienne sarà molto felice di avere nuovi semi da piantare.»

«Piantare?» chiedo scettica. 

«Sì… stavamo pensando di stabilirci a Murray City. Magari recintare il villaggio e i campi, farne la nostra nuova casa permanente» risponde Wayne, facendo ritornare sul suo viso un’espressione serena. «Ne riparleremo con più calma una volta che avrete visto il campo. Vogliamo l’opinione di tutti quanti, prima di costruire qualsiasi cosa.»

«Sarebbe bello, eh?» dice tra sè e sè Calum con aria pensante. 

Sarebbe diverso, strano per certi versi, ma sicuramente l’idea suona più che allettante.

«E, comunque, sì, voglio un’arancia, Margaret.»

***

Dopo un’ora di trotto - e soprattutto, dopo aver attraversato la Wayne National Forest -, Mali ci avvisa che a breve dovremmo cominciare a vedere i profili delle case del villaggio. 

Ogni tanto lancio qualche occhiata divertita a Margaret, che si sforza di tenere gli occhi aperti ma inevitabilmente vedo la sua testa che pian piano si abbassa per poi scattare su di nuovo. Mi diverto con poco, ma devo dire che mi fa anche molta tenerezza. Infatti, anche Mali quasi subito le ha cinto la vita con un suo braccio per evitare di farla scivolare da cavallo. Sento anche io le palpebre pesanti, ma non riesco a prendere sonno: un po’ perchè non sono abituata ad andare a cavallo - questa è praticamente la prima volta, se non conto quella volta da bambina in cui sono salita su un pony per cinque minuti -, un po’ perchè sono elettrizzata al solo pensiero di vedere il nuovo campo. E, soprattutto, perchè ad ogni fruscio di foglie o rumore sospetto una scarica di adrenalina mi percorre le vene, preparandomi al pericolo. Ogni volta che Wayne sente il mio corpo irrigidirsi per questo, mi lancia un’occhiata da dietro la spalla come per dirmi di calmarmi.

Elyse e Calum hanno informato i tre sulla dipartita di Lynton, fiducioso nel trovare una cura per tutti quanti e, nonostante lo shock iniziale e la nostalgia per un loro caro amico, si sono detti felici che abbia trovato il suo posto nel mondo nonostante quello che è diventato. Mancherà loro sicuramente, più di quanto daranno a vedere.

«Ragazzi, benvenuti a Murray City» esordisce Blaine, facendo cenno con la testa verso il cartello stradale con il nome della città in un appariscente carattere rovinato dal tempo e dalle intemperie.

Dopo aver percorso l’unica strada asfaltata con ancora le strisce gialle e bianche ben visibili, con a lato alberi e cespugli ancora secchi o spogli, davanti a noi si cominciano a vedere le prime case. Man mano che ci addentriamo, noto che le costruzioni mi ricordano molto i bungalow di un campeggio; tutte quante hanno un portico sorretto da colonne, non c’è alcuna recinzione, alcune hanno dei vialetti di cemento ricoperti di foglie secche che portano all’ingresso, mentre altre sono anticipate da un piccolo pezzo di giardino, che poi si sviluppa dietro alla casa in un vero e proprio giardino posteriore. Sono rimaste ancora delle macchine e dei pick-up parcheggiati nel cortile di fianco alle abitazioni e noto addirittura una piccola barca a motore davanti al garage di un’altra.

A primo impatto, il paesaggio mi si presenta desolato: più che altro per la stagione invernale che non aiuta a spruzzare un po’ di vita e di colore sul piccolo villaggio. Potrebbe funzionare, però. Certo, con molto lavoro per rimettere in sesto tutto quanto, rendere le case abitabili, aggiustare i tetti e così via, ma il tempo di certo non ci manca.

«La posizione è molto strategica: siamo praticamente circondati da campi da qualsiasi parte ci giriamo. Il primo villaggio si trova a venti minuti di cavallo da qui» spiega Wayne, agitando l’indice attorno a sè.

«Sono tornati!» Sentiamo dire da una voce squillante, che riconosco subito come quella di Matthew, che ci corre incontro a grande velocità.

Da una casa comincia a uscire un po’ di gente, tra cui noto subito Johanna e Rose: lancio uno sguardo immediato a Calum, che praticamente si butta giù dal cavallo ancora in moto, incespicando tra i suoi passi e quasi cascando per terra tra l’impatto e il peso dello zaino pieno di frutta e acqua, buttandosi tra le braccia di sua madre che ci impiega qualche istante a realizzare di avere di nuovo tra le sue braccia il suo secondogenito. Mi sussulta il cuore alla scena e mi sento quasi le lacrime agli occhi, piena di gioia e sollievo per questa famiglia, finalmente, riunita.

Wayne, Mali e Blaine fermano i cavalli e scendono senza problemi. Wayne mi aiuta a scendere, tenendomi per i fianchi mentre scendo a terra, sentendo di nuovo sensibilità nelle gambe. Margaret viene presa in braccio da Mali che la mette a terra, correndo subito verso Rose e Matthew, con i capelli che le svolazzano al vento e le sue urla gioiose che riempiono lo spazio, tra mormorii fra la gente, pianti sconnessi di gioia e grandi sorrisi.

«Siamo di nuovo a casa» dice Elyse, lasciando andare un grosso respiro, abbassando le spalle e stringendo a sè Blaine, chiudendo poi lo spazio rimanente tra di loro con un bacio fugace.

«Sono così contenta di vederti ancora tutto intero» dice Johanna a suo figlio, ripetendo le stesse parole di Mali, provando a trattenere le lacrime mentre lo tasta con le mani, quasi non credendo ai suoi stessi occhi.

«Anche io, mamma» sussurra appena Calum di risposta, asciugandosi con i palmi le lacrime scese sul suo viso.

Io, Wayne, Elyse e Blaine ci avviciniamo, praticamente seguendo Mali che si era unita alla sua famiglia pochi istanti fa. Saluto Matthew e Dylan con un grosso abbraccio mentre scompiglio loro i capelli e rivolgo un sorriso grato sia a Rose che Johanna. È anche grazie a loro se io sono qui oggi.

Dopo i convenevoli, Calum, Elyse ed io ci riuniamo nella casa “padronale” del villaggio, cioè una delle tre case nelle migliori condizioni dove al momento ci vive una parte del gruppo rimasto. Devo dire che ho avuto un senso di angoscia improvviso non appena ho visto con i miei occhi di quanto il gruppo si è rimpicciolito e, soprattutto, è stato un vero colpo al cuore non aver più visto Travis tra la folla. Si è sentita subito la sua mancanza. Ma al posto suo, ora Tracey e Meredith sono viste come coloro che mandano le cose avanti, anche se - ci hanno appena spiegato - ricevono molto aiuto dal vecchio “Gruppo Spedizioni”, o almeno di ciò che ne è rimasto: Wayne, Mali, Blaine, George e Tasha - due ragazzi giovani che ho incrociato qualche volta in palestra-. Proprio adesso, ci stanno chiedendo se vogliamo tornare a farne parte.

«Assolutamente. Non c’è nemmeno bisogno di chiederlo» risponde senza indugiare Calum, appoggiando le nocche e il suo peso sul piano di marmo del tavolo.

«Sì, potete contare su di me» dice Elyse, annuendo fermamente.

«Sì» mi limito a dire io, incrociando le braccia al petto e annuendo un paio di volte.

«Io… grazie. Non credo di avervi mai ringraziato fino ad ora.» Tracey si alza dalla sedia a capotavola su cui era seduta e appoggia entrambe le mani sul tavolo davanti a sè. Sono felice di vedere che il suo braccio è finalmente guarito. «Come vi avranno già accennato i ragazzi,» inizia, lanciando occhiate veloci a Wayne, Mali e Blaine, «vorremmo stabilirci qui. Se possibile, per sempre.»

«Murray City è perfetta per le nostre esigenze: ci sono case in abbondanza per tutti noi, siamo circondati da campi coltivabili e abbiamo lo Snow Fork che ci può consentire il sostentamento, sia di acqua che cibo, finchè non avremo i frutti delle coltivazioni» si inserisce Meredith. «Certo, c’è un bel po’ di lavoro da fare e abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, ma possiamo farcela.»

«Ce la faremo» la sostiene Tracey, stringedole una spalla, trasferendole un po’ della sua forza. Credo che dalla morte del rispettivo marito e fratello si siano avvicinate ancora più di prima.

«Okay, allora… di cosa si parla?»

«Dovremmo creare altri gruppi di lavoro, fare delle liste dei materiali che ci servono, fare un inventario… praticamente creare una piccola industria nel nostro villaggio.»

«La prima cosa da fare è prepare il terreno per le coltivazioni, così da poterci sfamare e immagazzinare ciò che non ci serve subito» suggerisce Adrienne, la “signora delle sementi”.

«A proposito, questi tre ci hanno portato a casa un bel po’ di mele, pere ed arance, potremo piantare anche queste» dice Blaine, indicandoci con un cenno del capo.

«Sarebbe ottimo!» esulta Adrienne, quasi con gli occhi che le brillano. «Ma ho una buona e una brutta notizia: quella bella è che al confine con la West Virginia dovrebbero esserci frutteti di pesche, mentre quella brutta è che i meli ci mettono dai cinque ai sette anni prima di dare i frutti.»

«Per quel periodo dovremmo essere coperti dalla soia, frumento e grano, giusto?» interroga Blaine, incrociando le braccia al petto. «Dovremmo avere anche il latte di cavalla.»

«E provare a ricavare il latte di soia.»

«Qualcuno ne sa qualcosa?» chiede Elyse, alzando le sopracciglia, provando a trattenere una risata, ma fallendo e trascinando con sè tutto il gruppo.

«Oddio, ah… Ci inventeremo qualcosa» dice Tracey con un sorriso leggero sulle labbra. «Lo facciamo sempre.»

«Lo facciamo sempre» ripete determinato Wayne, facendo un cenno positivo con il capo.

«Magari siamo abbastanza fortunati da trovare qualche manuale in giro. Le case le avete liberate dai Morti, ma dovete ancora perlustrarle, giusto?» esordisco, dopo essere stata in silenzio ad ascoltare per il resto della conversazione.

«Sì, sì, hai ragione. Ottima idea.» Meredith annuisce, con la mente subito persa a macchinare diverse possibilità. 

«Dobbiamo ancora disinfestare delle zone però» fa notare Mali, proseguendo poi ad enumerarle.

«Okay, per oggi credo vada bene così. È stata una giornata lunga e dobbiamo riposarci tutti quanti. Sono felice di avervi di nuovo qui con noi» conclude Tracey, facendo passare il suo sguardo su Calum, Elyse e me.

Questo suo piccolo e quasi insignificante gesto, in realtà per me significa molto e mi si riscalda il cuore al suo bentornato. Perchè adesso mi sento veramente parte di qualcosa, mi sento parte del loro gruppo e, più importante, mi sento a casa.

«Oh, un’ultima cosa,» riprende poi la stessa, chiudendo gli occhi per maledirsi di essersene dimenticata, «vorremmo chiamare la nostra nuova casa Camp Travis, se a voi sta bene.»

«Non potrebbe andare meglio» ribatte Wayne con gli occhi che gli diventano lucidi. Tutti quanti nella stanza annuiamo senza indugi, mostrando il nostro assenso a questa proposta.

Non credo che ci sia nome più appropriato da dare alla nostra nuova casa, se non quello di colui che ci ha fatto sentire come una la prima volta.

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Capitolo 40
*** Capitolo 40 ***


CAPITOLO 40

KAYLA

Usciamo dalla casa della riunione con la direttiva di trovare una sistemazione adatta a noi; per qualche strano motivo a me sconosciuto, Tracey e Meredith hanno dato la priorità e il vantaggio al Gruppo Spedizioni per scegliere per primi la loro casa. È bello poter decidere liberamente di nuovo qualcosa che non sia questione di vita o di morte, senza dover affrontare le conseguenze delle mie scelte: mi fa sentire un po’ più libera.

Dai pezzi di conversazione che ho sentito durante il tragitto verso le altre case, ho capito che Blaine ed Elyse andranno ad abitare insieme - non che avessi dubbi -, Mali per il momento ha deciso di rimanere con sua madre Johanna e presumo che anche Calum le seguirà, mentre Tasha, George, Wayne ed io, vorremmo provare ad abitare da soli, vedere come vanno le cose.

Ho sempre aspettato con trepidazione il momento della mia vita in cui avrei scelto una casa mia: già da piccola giocavo a quelle simulazioni online su come arredare la mia prossima casa, mentre da adolescente cominciavo a guardare i mobili e gli accessori che avrei voluto metterci dentro. I miei gusti hanno continuato a cambiare e cambiare, ma il desiderio è rimasto lo stesso. Non avrei mai pensato, dopo tutto quello che è successo, che sarei riuscita a coronare questo sogno proprio adesso. Certo, non è proprio la stessa cosa, ma a me sembra cento volte meglio.

Il solo fatto di aver ritrovato le persone che stavamo cercando, il resto del gruppo e aver anche scoperto che abbiamo l’intero villaggio per noi, praticamente nella massima sicurezza che si può avere di questi tempi… Mi sembra di stare sognando. Non posso credere che tutto questo sia reale. Ma, per una volta, lo è. E questa realtà non mi dispiace affatto. Nonostante tutte le perdite subite.

Sto cominciando a far pace con il fatto che tutte le persone a cui tenevo non ci sono più: è meglio così. Non devono più soffrire, non devono più sopportare ciò che questo mondo può buttare addosso. La loro sofferenza è finita una volta per tutte. E per quanto io avrei voluto che loro vedessero con i loro occhi ciò che sto vedendo io ora, almeno adesso so che non sono più in pericolo. E non lo saranno mai più. Posso solo tener stretto a me i ricordi dei momenti passati con loro: il mio più grande tesoro. Vorrei avere delle foto da appendere nella mia nuova casa per onorare la loro vita vissuta, ma va bene così. Grazie a Lynton, Wayne e Calum ho ancora la foto che ha più significato per me e sarà la prima che appenderò.

«Momenti stressanti per i nuovi acquirenti!» dice al mio orecchio Wayne, adottando una voce da narratore televisivo e facendomi sobbalzare per lo spavento. «Hai già puntato qualcosa?»

Scuoto la testa con un sorriso sulle labbra. «No, sono appena arrivata, sai.»

«D’accordo, Miss Sarcasmo, prenditi tutto il tempo che vuoi. Magari saremo vicini di casa» ribatte, dandomi una gomitata giocosa. 

Rido, scuotendo la testa, fingendo un’espressione schifata, ma fallendo miseramente. Che cosa strana avere di nuovo dei vicini. E, comunque, sarebbe un onore avere lui come mio vicino di casa.

«Sai, dopo la casa ti spetta la scelta del bolide,» dice, strizzando l’occhiolino, «posso accompagnarti a vederlo domattina.»

«Sì… sì, sarebbe bello.»

«Ottimo, passo da te alle undici allora- Ehi, ehi! Blaine, Elyse, levatevi subito, l’ho vista prima io!» Wayne fa una corsetta verso i due e immagino che adesso si metteranno a discutere come bambini sull’abitazione addocchiata da entrambi. Oppure se la giocheranno a morra cinese.

Scuoto la testa divertita, con un senso di familiarità che mi riempie le vene.

Dopo tre quarti d’ora a studiare le facciate delle diverse case, provando a sceglierne una a sentimento, ho preso la mia decisione: la mia nuova e prima casa ha un portico che copre la porta d’ingresso e la prima finestra della facciata che dà sulla strada principale, mentre dietro un grande giardino e un altro grosso portico con dei vecchi portacandela che pendolano giù dalle travi del tetto. La vernice bianca è praticamente tutta scrostata, lasciandola quindi di un color grigiolino ma ciò non mi infastidisce affatto. Ha un piano terra con la cucina che dà sul retro con una grande vetrata che parte dal soffitto fino a toccare terra, facendo entrare la luce naturale. L’arredamento è color legno. Ha un salotto con delle grosse tende bordeaux che coprono le finestre e due divani azzurrini in buone condizioni. Ci sono anche un bagno-lavanderia e un ripostiglio spazioso.

Salgo le scale con delicatezza, anche se non dovrei preoccuparmene dato che gli scalini sono fatti di muratura e ricoperti con un bellissimo marmo, per cui non mi cederanno sotto ai piedi. Al piano superiore ci sono due stanze da letto, con un bagno comunicante con le due.

La prima cosa che faccio prima di buttarmi su uno dei letti e cadere in sonni profondi, è aprire tutte le finestre per far uscire l’odore di chiuso e polvere che impregna l’intera struttura. Ho ancora qualche candela nello zaino e dopo potrò accenderla per scaldarmi. Torno di nuovo al piano inferiore per aprire la porta della cucina e andare in giardino, ma mi blocco sui miei passi quando sento bussare.

Me lo sono forse immaginata?

Apro la porta dell’ingresso e mi trovo davanti la figura di Calum che si gratta nervoso la nuca, mentre con una spalla si appoggia allo stipite della porta. «Ehi, uhm… Scusa se piombo qui all’improvviso-»

«Sono letteralmente appena entrata, Calum» dico, ridacchiando. «Non c’è bisogno che ti scusi.»

Calum annuisce incerto, facendo vagare il suo sguardo tra lo spazio tra la porta e me. Poi, si decide a fare qualche passo avanti e chiudersela alle spalle.

«Ti offrirei qualcosa da bere, se solo ne avessi.»

«Oh, no, non ti preoccupare.»

La conversazione si chiude e piombiamo velocemente in un silenzio imbarazzante. Struscio le mani sulle cosce prima di prendere iniziativa e mostrargli la casa nella sua integrità. Da parte sua ricevo solo alcuni sorrisi nervosi e cenni di assenso con il capo. Scendiamo in cucina, chiudo la finestra e gli dico di accomodarsi mentre accendo un paio di candele. 

«Allora… che succede?»

«Mh? Cosa?»

«Non lo so, sei tu che hai bussato alla mia porta. Immagino avessi qualcosa da dirmi» ribatto, alzando le spalle e prendendo posto su una sedia al suo fianco. Calum distoglie il suo sguardo dal mio, facendolo finire sulla vetrata sul giardino. Attendo una sua qualsiasi risposta senza fretta, incrociando le braccia al petto e sistemandomi più comoda sulla sedia.

«Mi chiedevo...» inizia, ma si interrompe subito per schiarirsi la gola e deglutire la saliva. «Insomma, se ti andava di, sai… vivere insieme? Io e te?» conclude, bagnandosi le labbra con la lingua e tornando a puntare il suo sguardo su di me, per scrutare la mia espressione.

Dire che sono sorpresa è un eufemismo. Ma, per la prima volta, credo di esserlo in modo positivo: mi batte forte il cuore e sento l’adrenalina nelle vene, proprio come quando mi trovo a faccia a faccia con il pericolo, ma in qualche strano modo la mia mente è rilassata alla sua proposta.

«Wow, okay, uhm...» incespico nelle mie stesse parole, fermandomi per rimettere in ordine i miei pensieri. Prendo un respiro profondo per cercare di calmare il fiume di emozioni che si è scatenato dentro di me e il calore improvviso che mi sale al viso.

In fondo, che differenza farebbe se lui venisse qui a vivere con me? Lo abbiamo fatto per le scorse settimane, in un certo senso è come se convivessimo di già. Certo, le circostanze erano forzate e non eravamo completamente soli, ma non cambierebbe molto. C’è un che di emozionante nella sua proposta, come se stesse rendendo ufficiali tutte le piccole cose successe tra noi due nel corso di questi mesi. Da una parte sono terrorizzata alla sola idea di avere un rapporto consolidato di nuovo, dall’altra non sono che sollevata e sorpresa che lui tenga così tanto a me da lasciare di nuovo la sua famiglia, anche se alla fine la avrebbe a qualche passo di distanza.

«Puoi pensarci, non devi darmi una risposta adesso» dice veloce, così tanto che faccio fatica a carpire le parole. «Ho solo pensato che sarebbe carino, non lo so… noi due.»

«E poi, posso sempre cacciarti di casa se non dovessi sopportarti più» ribatto, con un sorrisone sulle labbra e lo sguardo timido sul suo, mentre mi massacro le pellicine alle punte delle dita. Vedo la sua espressione alleggerirsi e trasformarsi in un grandissimo sorriso luminoso, per poi scoppiare a ridere fragorosamente. Lascia andare un rumoroso sospiro di sollievo con tanto di fischio, alza le mani dietro la testa, piegandola all’indietro e chiudendo gli occhi.

«Ero più preparato a un tuo rifiuto, quasi.»

«Mi sottovaluti troppo, ultimamente» ribatto ridendo, lasciando cadere le mani oltre i poggioli della sedia.

«Non credo di averlo mai fatto» sussurra, prendendomi poi la mano e intrecciando le sue dita tra le mie, dondolandole avanti e indietro come fossero una piuma smossa dal vento.

«Come sta tua madre?» gli chiedo dopo minuti di silenzio, schiarendomi la voce e girando la testa per guardarlo in volto.

«Sollevata. Sì, decisamente sollevata» risponde, abbassando la testa e strizzando gli occhi. «Non credo abbia dormito molto ultimamente.» Guarda il soffitto, prendendo grossi respiri e combattendo contro le lacrime che spingono per uscire dai suoi occhi.

«È tutto finito ora. Siete di nuovo insieme, va tutto bene.» Struscio la sedia sul pavimento, avvicinandomi al suo profilo, appoggiando le dita tremanti sul suo viso per raccogliere le lacrime che gli stanno scendendo sulle guance. 

Mette le sue mani sui miei polsi, incatenando il suo sguardo velato al mio e passano istanti infiniti prima che chiuda la distanza tra di noi, appoggiando le sue labbra sulle mie. Piccole scintille scoppiano dentro di me al suo solo tocco, mentre assaporo ogni singolo istante di questo nostro piccolo speciale momento. Faccio scivolare le mie mani sulla sua nuca, mentre le sue mi prendono il viso, ognuno di noi che cerca di azzerare sempre di più la distanza tra di noi. Ci stacchiamo, senza respiro, le labbra appena aperte per prendere aria come se fossimo appena stati colpiti da una mazza in pieno petto, gli occhi ancora chiusi, i pensieri completamente in tilt. 

Appoggia la sua fronte alla mia, accarezzandomi la guancia con il pollice, ancora senza fiato. «Tutto questo grazie a te. Non hai mollato, mai. Te ne sarò sempre riconoscente, Kayla, voglio che tu lo sappia» sussurra, il suo respiro che mi solletica le labbra.

«Dovrei essere io a ringraziarti,» ribatto, scuotendo appena la testa, «per avermi salvato la vita, in più di un modo» confesso ancora ad occhi chiusi. Sento le sue labbra spostarsi sulla mia fronte per lasciarci un bacio umido e confortante.

Forse siamo ancora persi e stiamo ancora cercando di raccogliere i pezzi di noi stessi, forse non dovrei legarmi così tanto a una persona in un modo che al solo pensare di poterla perdere mi fa mancare l’aria, ma forse non mi interessa. Perchè qui e adesso mi sento di nuovo intera. 

Ci benderemo le nostre ferite a vicenda e potremo ricominciare di nuovo.

Rimaniamo così per ore che vorrei fossero interminabili, persi nella confortevolezza l’uno dell’altra, nella pace del silenzio e della tranquillità della sicurezza ritrovata, mentre il buio comincia a calare sulla nostra nuova casa.

«Andiamo sul tetto» dice ad un tratto Calum, facendomi alzare il viso dalla sua spalla per rivolgergli uno sguardo interrogativo. «Non guardarmi così» ribatte, ridendo.

Mi prende la mano e mi trascina su per le scale, mette un piede fuori dalla finestra che dà sul tetto del portico, seguito poi dall’altro e mi fa cenno di seguirlo. Così faccio e lo vedo arrampicarsi con le braccia sul tetto, poi si sdraia a pancia in giù e lascia cadere un braccio per me per prenderlo. Mi slancio e afferro la sua mano e in pochi istanti sono assieme a lui sul tetto.

«Adesso sei felice?» gli chiedo, mettendo le mani sui miei fianchi e guardandolo con un sopracciglio alzato.

«Non ancora. E smettila di fare la scettica. Ti piacerà.» Si siede e poi incrocia le braccia dietro alla sua testa prima di stendersi e guardare il cielo.

Incrocio le braccia al petto, facendo saltare lo sguardo da lui al cielo. Poi mi ordina di stendermi al suo fianco e, dopo aver alzato teatralmente gli occhi al cielo, lo faccio. Appoggio la testa sul suo petto e subito il suo braccio mi cinge, portando con sè un totale senso di calma e sicurezza. L’aria gelida sembra non scalfirmi con il suo calore che mi circonda.

Alzo lo sguardo verso l'alto, rimanendo ammaliata dalla splendida vista del cielo completamente stellato: non credo di aver mai visto così tante stelle insieme. O forse è solo una vita che non lo guardo abbastanza attentamente.

«Questa è la pace dei sensi» sussurra Calum, più a se stesso che a me. 

Non posso che dargli ragione: stare qui distesa, con lui, su questo tetto e guardare questo immenso spettacolo della natura senza troppe preoccupazioni per la testa… Mi sembra di nuovo di sognare. Sento solo il battito del suo cuore, il suo petto che si alza e si abbassa ad ogni suo respiro, il fruscio delle foglie secche, un leggero vociare di persone. Se qualcuno avesse detto alla me di qualche mese fa che mi sarei trovata con Calum su un tetto a guardare le stelle come se il mondo non esistesse, ma il mondo fossimo solo noi, mi sarei messa a ridere di gusto. Non avrei mai pensato di riuscire ad arrivare fino a questo punto, non dopo tutto ciò che ho, che abbiamo passato.

«Ehi, è tutto apposto?» mi chiede tutto preoccupato Calum, abbassando il mento e facendo arrivare il suo pollice sul mio viso, fregandolo delicatamente. 

«Oh, cazzo, non mi ero nemmeno accorta» dico, ridacchiando e tirando su con il naso, accorgendomi solo ora delle lacrime silenziose che mi sono scese sulle guance. «Credo che il mio subconscio stia elaborando… tutto.» Sento il petto di Calum vibrare sotto il mio orecchio, mentre la sua breve risata riesce già a calmare i miei nervi. Mi lascia un bacio sui capelli e torna a cingermi con il suo braccio.

«Già… Anche a me sembra tutto pazzesco» ammette, scuotendo appena la testa. «La mia testa ha già cominciato a fare piani per il futuro come se non avesse appena passato tutto ciò che ha passato.»

«Sarà stato l’effetto indesiderato dell’acqua nel cervello» dico, punzecchiandolo.

«Sei molto simpatica a scherzare sulla mia salute mentale, davvero» ribatte falsamente incredulo. «Ma, comunque, sono grato che ora abbiamo un campo sicuro dove stare. E soprattutto di avere ancora la mia famiglia con me.» Mi irrigidisco involontariamente, pensando alla mia, ma lasciando andare il pensiero con un sospiro, cominciando ad accettarlo.

«Io sono grata di averne una nuova» ammetto, tracciando distrattamente linee indefinite sul torace di Calum. Sento il suo battito aumentare veloce sotto il mio orecchio, come il mio che ha cominciato a battere all’impazzata alla mia affermazione.

«Hai bevuto qualcosa di strano? Non è da te tutta questa mielosità.»

«Ugh, stai zitto» ribatto, ridacchiando e dandogli uno buffetto sullo stomaco, facendolo appena appena muovere.

«Sai a cosa stavo pensando? All’enorme fagiolo messo in piazza a Chicago. Chissà chi un giorno ha pensato: “ehi, io amo i fagioli. Adesso ne costruisco uno gigante e ne faccio un monumento!”» Scoppio a ridere sommessamente. «Ehi! Sono serissimo!»

«Sì, immagino!» dico, prendendolo in giro. «Hai mai visto Lucy the Elephant? Perchè quella sì, che è una scultura terrificante.»

«Non ho idea di cosa tu stia parlando e credo di non volerlo sapere.» Calum comincia a giocherellare con una ciocca dei miei capelli, intrecciandoci le dita dentro e arrotolandola tra esse. «Ah, tutto questo parlare di monumenti mi ha fatto venire un incredibile voglia di viaggiare.»

«A me è venuta voglia di cioccolata calda con panna e cannella.»

«Non sarai mica incinta, vero?»

«Cosa-? Calum, no-»

«Oddio, forse non ho fatto abbastanza attenzione- E se lo sei veramente? Non credo di poter essere un gran padre nelle condizioni-»

«Calum, ascoltami per un istante!» dico tra le risate, cercando di placare il suo straparlare da nervosismo improvviso e alzandomi su un gomito per vedere la sua espressione- Chiude la bocca con gli occhi spalancati, in attesa di una mia qualsiasi parola. Credo il cuore gli stia scoppiando in petto per la paura. «Non sono incinta, te lo posso assicurare.»

«Come fai ad esserne così sicura? Non hai le prove certe-»

«Fidati quando ti dico che non lo sono.»

«Cosa, vuoi tenermi sulle spine proprio fino all’ultimo?» dice frenetico, agitando il braccio con gli occhi che potrebbero uscirgli dalle orbite. Non credo di averlo mai visto così terrorizzato.

«Ho il ciclo!» esclamo ridendo a più non posso. «Puoi rilassarti adesso.» Lascia andare un sospiro di sollievo mentre si lascia cadere teatralmente con la testa all’indietro.

«Oh, cazzo. Ero così preoccupato per la tua incolumità e il fatto che ti avessi fatto quasi annegare con un figlio in grembo.» Si passa una mano sulla fronte e poi mi fa cenno di rimettermi sul suo petto per riprendere la posizione precedente. «Comunque, non l’avrei mai detto. Ti fa male?» mi chiede premuroso, facendo passare una mano sopra al mio stomaco impercettibilmente.

«No. Sono una delle fortunate.»

«Non mi hai mai detto se avresti voluto avere figli» riprende improvvisamente, dopo alcuni istanti di silenzio.

«Prima? Sì. Adesso? Non lo so. Non credo che sarei un ottimo esempio per un bambino» ammetto, riportando lo sguardo alle stelle e ripensando a qualche giorno fa, all’uomo in quella casa e al bang della mia pistola. Rabbrividisco, stringendo gli occhi e sentendo il respiro venir mozzato nel mio corpo. «ma questo è un altro discorso. Tu?»

«Prima? No. Decisamente no. Adesso? Potrei pensarci. La persona giusta c’è; se i tempi migliorano, chi lo sa?»

«Non credi di star bruciando le tappe un po’ troppo in fretta?» chiedo, alzando le sopracciglia in modo scherzoso, anche se non mi può vedere in faccia.

«Nei film lo fanno e funziona tutto a meraviglia!»

«Sì e nei film trovano persino il tempo di scrivere delle lettere prima di morire, che leggono sempre mentre spargono le ceneri della persona nell’oceano. Che clichè!» 

Le nostre risate si fondono assieme, lentamente spegnendosi nell’oscurità della notte. La stanchezza comincia a mostrarsi e a farsi sentire sui nostri corpi distrutti dagli eventi dei giorni passati. Decidiamo di tornare in casa, appisolandoci l’uno sull’altra con i pensieri un po’ più leggeri e il cuore pieno di noi due e la nostra nuova normalità.

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Capitolo 41
*** Capitolo 41 ***


CAPITOLO 41

CALUM

«Ho il turno al confine stamattina.» Kayla beve un sorso del suo latte e prende un morso dall’ultima mela rimastaci, appoggiandosi con la schiena al bancone della cucina e stringendosi nelle sue spalle. «Dovremmo tornare entro il tramonto.»

Annuisco, sedendomi al tavolo e prendendo un pezzo di cioccolato fondente. «Cosa dovete fare?» le chiedo interessato, alzando un sopracciglio e appoggiandomi allo schienale della sedia con nonchalance.

Sono passate due settimane dal nostro arrivo al campo e ci siamo subito messi al lavoro per organizzare i turni per rendere questo decadente ammasso di cemento e metallo uno splendente villaggio pieno di vita. Di morte ce n’era già abbastanza. Abbiamo disinfestato tutte le case dai pochi Morti rimanenti e le abbiamo ripulite di tutte le scorte ancora commestibili, immagazzinandole nella base centrale, organizzandole e razionandole per i diversi giorni. Noi del Gruppo Spedizioni siamo stati più fuori dal campo che dentro: siamo andati in ricognizione dei prati coltivabili e li abbiamo ripuliti da tutte le erbacce, tronchi e rami caduti, portando questi al campo per poter riscaldarci; abbiamo raggiunto il fiumiciattolo per provare a pescare qualcosa - impresa più ardua della lista, visto che siamo completamente sprovvisti di una canna da pesca vera e propria -, finendo sbadatamente nell’acqua noi stessi nel solo tentativo. Alla fine, qualcosa abbiamo preso. Siamo andati al confine tra Ohio e Virgina dell’Ovest e abbiamo trovato i famosi campi di pesche citati da Adrienne: su suo ordine, abbiamo potato alcuni rami per poterli piantare più vicino a noi, dato che a cavallo distano più di un’ora e il clima è ancora piuttosto rigido per poter affrontare questo tipo di viaggio più volte al giorno, nonostante siamo ormai a fine marzo.

Questa settimana vorremmo arare i terreni per poter seminare frumento, soia e mais, oltre alle piantine di pesche e i semi di mele, pere e arance - siamo stati incredibilmente attenti a non buttarne neanche uno - . Per il momento, viaggiamo ancora sulle scorte trovate in giro, perciò il compito principale del Gruppo Spedizioni è di trovare e portare al campo qualsiasi cosa sia commestibile o utile. Per fortuna adesso abbiamo i cavalli con noi.

Le persone che invece rimangono all’interno del campo, si occupano di rendere di nuovo abitabili ed utilizzabili tutte le case e costruzioni in tutta la loro integrità, o quasi.

«Legna, principalmente» risponde Kayla, dandomi la schiena per mettere nel lavandino il suo bicchiere. «Tu?»

«Andiamo a New Straitsville.» Alla mia risposta le sue sopracciglia si corrugano in leggera preoccupazione. «Vediamo se riusciamo a trovare dei materiali per la recinzione. Più che altro in ricognizione. Non preoccuparti.»

«Solo… state attenti» dice con un filo di voce e con uno sguardo che parla molto più delle parole uscite dalla sua bocca.

«Sempre.» Mi alzo dalla sedia per raggiungerla e lasciarle un lungo bacio sulla fronte, abbracciandola stretta a me per qualche istante, prima di doverci separare per prepararci alle nostre rispettive giornate.

È stato… diverso vivere assieme a lei in questa settimana: lo stress ad un livello sopportabile, le responsabilità della vita altrui diminuite perchè divise su tutto quanto il gruppo… È stato come conoscerci per la prima volta: più leggeri, meno nervosi, con più energie. In realtà con tutte le cose che dobbiamo fare dentro e fuori dal campo non rimane molto tempo da trascorrere assieme - a meno che veniamo assegnati allo stesso gruppo -, ma la convivenza sta andando per il verso giusto. Ero a dir poco terrorizzato che il sogno scomparisse improvvisamente come una nuvola di vapore quando gliel’ho chiesto e, ad essere sincero anche i primi due giorni in casa con lei. Pensavo che si sarebbe stancata di me e che avrebbe preferito essere lasciata in pace. Ma non è successo - non ancora per lo meno -, anzi per la prima volta vedo la sua vera persona per ore intere e non solo per qualche istante prima che si accorga di aver lasciato abbassate le sue difese, perchè adesso lo sono sempre. Continua a sorprendermi da ogni verso.

«Kayla!» le grido dalla porta d’ingresso prima di uscire, vedendola sulle scale. «Stasera appuntamento galante?» 

Lei scoppia in una bellissima risata fragorosa, riprendendo la sua discesa degli scalini. «Ne sarei onorata.» Mi chiudo la porta alle spalle con un sorriso da ebete sul viso, ora pronto più che mai per affrontare la mia giornata.

Faccio un salto da Mali e mia madre prima di andare a prendere i cavalli, chiedendo consiglio alla prima su cosa sarebbe potuto piacere a Kayla per stasera.

«Wayne ha trovato un proiettore a batterie l’altro giorno. Se trovi qualche dvd in giro, potresti farle una bella sorpresa» risponde, intrecciando i suoi capelli sempre più lunghi in una treccia alta. «Apprezzerà anche il solo pensiero, fidati» dice, facendomi l’occhiolino e dandomi una strizzatina alla spalla.

«Sono fortunato ad averti!» le dico entusiasta della sua idea, facendo poi il giro della cucina per salutare nostra mamma alle prese con le piante secche e le erbacce del loro giardino, intanto che ha ancora qualche minuto libero prima di iniziare il suo turno con Margaret, Matthew e Dylan.

«Buona giornata, mamma. Ti voglio bene!» È ormai diventata un’abitudine salutarla in questo modo; dopo lo spavento di qualche settimana fa, temendo di averla persa per sempre, ora voglio essere sicuro che sappia quanto bene le voglia nel caso qualcosa dovesse andare storto. Non voglio avere rimpianti su questo.

Mi dirigo alla stalla improvvisata sotto il portico della chiesa ormai caduta a pezzi: il tetto laterale è letteralmente l’unica cosa rimasta in piedi. Ci trovo Elyse e Tasha, ognuna che sta preparando il proprio cavallo per affrontare il viaggio di oggi verso New Straitsville: un piccolo villaggio a nord ovest del nostro campo, a circa tre quarti d’ora di distanza a cavallo. Non sappiamo cosa ci aspetta, non sappiamo se troveremo qualcosa di utile, ma prima o poi ci saremmo andati comunque.

«Avete tutto quanto?» ci chiede Elyse, assumendo subito l’incarico di Generale, anche se involontariamente.  «Acqua? Armi?»

Annuisco, mostrandole orgogliosamente la mia katana dietro alla spalla e salendo poi sul cavallo dopo aver sistemato lo zaino. Tasha le fa un cenno di assenso e, una volta pronti, usciamo ufficialmente dal campo, salutando Tracey sul portico di casa sua che ci intima di fare molta attenzione.

Il viaggio è tranquillo e anche silenzioso. Sono in coda al gruppo ed è Elyse a farci strada: deve essersi impressa a memoria tutti i dettagli della cartina, compresi i nomi delle strade da imboccare. Il vento sferza ancora gelido sulla mia faccia, facendo ondeggiare i miei capelli di lato e all’indietro.

Non c’è segno di Vaganti in mezzo ai campi o per la strada, ma quando butto lo sguardo sugli alberi in lontanza il mio cuore perde un battito alla vista di due corpi penzolanti dai rami di due alberi adiacenti, il cappio al collo e il vento che li muove a destra e a sinistra, quasi stessero ballando un walzer assieme. Dev’essere successo molto tempo fa. La scena mi fa salire un groppo alla gola e tolgo in fretta lo sguardo, provando a scacciare l’immagine dalla mia testa.

«Non scendiamo da cavallo per ora,» ordina Elyse, girando la testa per farsi sentire in modo chiaro da Tasha e me, «vediamo cosa c’è là più avanti.»

«D’accordo, capo!»

Pochi minuti dopo raggiungiamo la prima costruzione dopo infiniti campi aridi e incolti: c’è un grosso cartello verde che riporta le parole “Campeggio Begley” e la prima cosa che notiamo è la fila di quad pieni di fango secco parcheggiati davanti a una casupola rossa con la scritta scrostata di Reception. Le sterpaglie infestano l’intero luogo e basta dare un’occhiata veloce per capire quanto velocemente la natura si sia ripresa tutto ciò che era suo: infatti, ci sono grossi cespugli e rami ovunque e persino alcuni alberi spezzati che sono andati a sfondare il tetto di alcuni bungalow e roulotte. 

«Non fermiamoci. Perlustreremo la zona nel ritorno.»

Ritorniamo allora sulla strada principale, trottando e lanciando sguardi a destra e a sinistra: ora si cominciano a vedere i primi Vaganti per le strade. Il rumore degli zoccoli dei nostri cavalli mi sembra improvvisamente triplicato nelle mie orecchie mentre rimbomba sull’asfalto in questo piccoli villaggio. 

«È meglio continuare a piedi» suggerisco a Elyse, arrivandole a fianco con il mio cavallo, attendendo la sua opinione sulla situazione. 

«Potremmo fermarci in quella biblioteca» dice moderando il tono di voce Tasha, scendendo con un agile balzo dal suo cavallo, trascinando con sé il proprio zaino e stringendo bene nel palmo della mano la sua mazza di legno chiodata. Se non la conoscessi, mi incuterebbe molto più timore dei Vaganti stessi.

«Sì, Tasha. Andiamo lì» conclude infine Elyse, copiando i suoi stessi movimenti e prendendo le briglie tra le mani, tirando il proprio animale dietro di sé.

Le finestre e le porte di vetro della struttura sono completamente frantumate, lasciando intatta solo la loro struttura di ferro dipinta di rosso. Sembra quasi implosa. Non è difficile quindi entrare e legare i nostri cavalli al bancone interno.

«Facciamo il punto della situazione» esordisce Elyse, più a se stessa che a noi, appoggiando lo zaino sul ripiano del bancone di marmo bianco ed estraendone un foglio e una penna, cominciando subito a fare brevi schizzi della strada percorsa con a lato delle brevi annotazioni.

«C’è ancora un sacco di roba qui dentro...» sussurra con aria nostalgica Tasha, accarezzando i dorsi dei libri come se avesse paura si possano spezzare sotto al suo tocco. «Vado… vado a vedere se trovo qualcosa per i bambini.»

«Stai attenta» le dice Elyse con il tappo di un evidenziatore, appena trovato, tra i denti.

«Io guardo se trovo qualche manuale» la avviso, ricevendo un cenno distratto del suo capo mentre continua a tracciare linee ed evidenziare la sua cartina improvvisata, con un ciuffo rosso di capelli che le finisce in mezzo agli occhi, ondeggiando ad ogni suo movimento.

Magari riesco a trovare anche qualche dvd, come mi ha suggerito questa mattina Mali. Sarebbe magnifico riuscire a soprendere Kayla per una volta. Gli scaffali sono pieni di polvere e devo nascondere la bocca nell’incavo del gomito per camuffare i miei colpi di tosse senza fare troppo rumore. La luce entra audace da ogni buco della biblioteca e ogni minimo movimento fa innalzare le minuscole particelle di polvere nell’aria. Faccio danzare i miei polpastrelli sulle copertine dei libri del reparto fai-da-te, prendendone tra le mani quelli che più ci saranno utili in questo momento - sembra comunque che una biblioteca non sia molto frequentata di questi tempi, perciò saranno ancora tutti qui ad aspettarci la prossima volta che torneremo - e passo ad un altro scaffale, lanciando sempre delle occhiate di sicurezza a Tasha ed Elyse.

Mi sono già abituato al rumore dei minuscoli vetrini sotto alle suole delle mie scarpe che quasi non me ne accorgo quando sento il rumore di un passo che non è il mio. Poi, sento metallo freddo contro la mia nuca scoperta. Merda.

«Non voglio farti del male, davvero… ma, ti prego, non fare gesti bruschi.» La voce maschile trema, balbetta quasi e anche la sua presa sulla sua arma è completamente esitante.

«Non ti conviene proprio. Butta quel tubo, ragazzo» lo riprende subito Elyse da dietro, la voce dura e risoluta. 

«Adesso mi giro lentamente. Non c’è bisogno che nessuno si faccia del male qui, okay?» Non appena sento il metallo staccarsi definitivamente dal mio collo mi giro lentamente, preparando già i libri come un’arma. L’esperienza mi ha insegnato a non fidarmi di nessuno.

Il ragazzo che mi trovo davanti però non sembra davvero offrire la minima minaccia, perchè tutto il suo essere urla con forza che è completamente fuori luogo: le spalle alzate a coprirgli il collo, il braccio che fa da scudo davanti alla pancia, lo sguardo che vaga dappertutto meno che sul mio, la testa leggermente china…

Lascio andare un sospiro di sollievo: ne avevo veramente abbastanza di essere sorpreso alle spalle dai nemici.

«Visto? Non c’è bisogno di agitarsi» riprendo, sentendo i muscoli di mani a braccia rilassarsi man mano che i secondi passano. Faccio cenno ad Elyse di abbassare il fucile che, con non poca riluttanza, rimette sulla sua spalla. Tasha esita ancora un istante prima di lasciare cadere il braccio con la mazza a lato del suo corpo. «Sei solo?»

«Vuoi saperlo così mi puoi uccidere senza problemi?» chiede con la voce sul punto di rompersi e il suo corpo che comincia a tremare.

«Cosa? No. No! Rilassati.» La sua figura è veramente troppo esile per quello che dovrebbe essere il suo corpo nella sua età: credo che abbia intorno ai quattordici, quindici anni dal suo viso. «Sembra che tu abbia bisogno di una mano, uh?»

«Cosa te ne dà l’idea?» chiede sarcastica Elyse, alzando gli occhi al cielo e tornando al bancone con nonchalance.

«Calum, abbiamo già abbastanza bocche da sfamare...»

«Lo… so. Lo so, giuro. Ma potrebbe darci una mano al campo. Non mi sembra una minaccia» dico a Tasha, parlando come se lui non fosse qui con noi. In effetti non sembra molto presente. Magari sta decidendo se continuare a vivere ciò che resta della sua vita in modo miserabile oppure non poi così tanto miserabile. Ci siamo passati tutti.

«Avete un po’ d’acqua?» chiede incerto, come risvegliandosi dalla sua trance di pensieri. Lo vedo mettere istintivamente una mano alla cintola, appoggiando il palmo su un vecchio walkie talkie senza fili. Mi faccio un promemoria mentale di chiedergli dove l’ha trovato, più avanti.

Annuisco e gli passo la mia bottiglia, cominciando a fargli domande: da quanto tempo è qui, cosa gli è successo, dove trova da mangiare…

«Uccelli, prevalentemente. Da cotti non hanno un brutto sapore» dice sconsolato, alzando le spalle.

«Questo è… nuovo. Più o meno. Non ti ho ancora chiesto, come ti chiami?»

«Leon.»

«Piacere di conoscerti, Leon. Io sono Calum.»

Dopo qualche istante per raccattare le nostre cose e sistemare negli zaini quelle nuove, uno spuntino veloce offerto anche a Leon, ripartiamo in groppa ai nostri cavalli e seguiamo il consiglio del nuovo ragazzo di fare un salto al Dollar General - il supermarket “tutto a un dollaro” della cittadina -. L’unica cosa utile che trovo è una piccola cornice per foto: ho pensato che incorniciare la polaroid che aveva scattato Lynton e appenderla in casa potrebbe essere una sorpresa ancora più bella per Kayla. Sembrano passati anni da quella giornata.

Facciamo un salto veloce anche alla caserma dei pompieri - che mi sorprende ci sia in un villaggio così piccolo - nella speranza di trovare munizioni e armi, per poter costruire un nostro arsenale nel caso ci sia il bisogno, ma rimaniamo molto delusi nello scoprire che è stato saccheggiato fino all’ultimo proiettile ed attrezzatura utile.

«Sarebbe stato troppo facile» commenta Elyse, con un tono a metà tra l’amarezza e l’accettazione. «D’accordo. È ora di tornare a casa. Torneremo con gli altri al campeggio per raccogliere i materiali.»

«Sì, concordo. Non è comunque stata una mattinata persa» aggiungo, facendo cenno con il capo a Leon seduto dietro di me e ai nostri zaini pieni di libri di istruzioni e alcuni romanzi.

«Spero tu abbia ragione su di lui» dice secca Elyse, senza lasciare spazio per ribattere e dare comando al suo cavallo di ripartire verso la strada di casa.

***

«Sono tornata!» Sento Kayla chiudere la porta dietro di sè e salire le scale a passi pesanti: dev’essere stata una giornata stancante per lei.

La luce del giorno sta lentamente scemando, colorando il cielo di un rosso-violaceo che riflette sulle finestre della cucina, facendola minuto per minuto piombare nel buio. Accendo più candele del solito questa sera e subito l’intera stanza si profuma di rose, creando un più che piacevole tepore. Finisco di preparare i morbidi cuscini e le coperte linde a terra contro la porta finestra e piazzare il proiettore davanti al muro. Mancherebbero soltanto due calici di vino e poi tutto quanto sarebbe perfetto.

«Com’è andata a New Str-... Wow.» Kayla si blocca sotto allo stipite della porta  con le braccia a mezz’aria e uno sguardo più che stupito. Il suo volto è illuminato dall’insieme di luce di tutte le candele, regalandole una sfumatura calda sulle guance. Sembra una visione.

«Sorpresa?» le dico con un sorriso da adolescente sulle labbra, aspettando una sua qualsiasi reazione. Spero positiva. Non so ancora come possa reagire alle sorprese e spero solo che non le odi. Alzo tra le dita la custodia del dvd che ho preso dalla biblioteca: un film di animazione uscito prima dello scoppio della pandemia zombie. La vedo corruciare le sopracciglia e piegare di lato la testa, facendo muovere le labbra ma senza far uscire una parola. «Che c’è? Non dirmi che non ti piace-»

«È al contrario.»

«Ah.»

Scoppiamo a ridere, entrambi con una punta di imbarazzo tra di noi. Giro - finalmente dal lato giusto - la custodia e Kayla, senza dire una parola, si siede accanto a me.

«Come facevi a saperlo?» mi chiede con un’emozione immensa nella voce, come se stesse per scoppiare a piangere. «Ero andata a vederlo tre volte al cinema con la mia famiglia. Ebony lo amava.»

«Oh, mi- mi dispiace. Non volevo riaffiorare- non lo sapevo.»

«No, Calum, no. Io… sono veramente senza parole» dice, guardandosi intorno. «In modo positivo.»

Lascio andare un respiro di sollievo, forse fin troppo rumoroso perchè Kayla se ne accorge e si lascia andare ad una risata appena accennata, mentre io sento i muscoli delle mie spalle e della mia schiena rilassarsi contro il muro.

«Pura fortuna» ammetto, facendo spallucce ma con un sorriso sornione sulle labbra. Non credo di aver sorriso così tanto da moltissimo tempo. «Okay, ora rilassati e buona visione!» dico euforico, trascinandomi sulle ginocchia per inserire e far partire il film.

La visione spazia da momenti felici e musicali - con tanto di partecipazione e trasporto da parte di Kayla che non sa cantare per nulla - a momenti carichi di emozioni e tristezza per i protagonisti del cartone animato. La serata è una delle più belle della mia vita.

Verso la fine della proiezione, Kayla si appisola sulla mia spalla, la stanchezza della giornata che ha vinto su di lei. Qualche minuto dopo i titoli di coda, mentre cerco anche io di tenere gli occhi aperti e convicermi ad alzarmi, sistemo i cuscini in modo da non far svegliare bruscamente Kayla e appoggiarla su di essi. Mi alzo lentamente, tentando di fare il meno rumore possibile. Purtroppo, però, la mia missione fallisce miserabilmente quando faccio accidentalmente cadere a terra con un rumore sordo ed assordante la custodia di plastica del dvd, facendo trasalire Kayla che si alza con uno scatto fulmineo.

«Scusa, non era previsto» sussurro, ridacchiando appena. Quando non recepisco nessuna sua risposta, ritorno con lo sguardo sulla sua figura: ha le braccia attorno al suo corpo tremante, lo sguardo assente. «Kayla?»

«Io non volevo...» mormora così sommessamente che faccio fatica a capire ciò che dice.

Qualcosa non va. «Kayla, va tutto bene. Siamo a casa. Sediamoci, okay?» le dico con tono dolce, come se stessi parlando a Margaret, e le sfioro appena le braccia. Fa un balzo all’indietro, facendomi spaventare immensamente, ma il suo sguardo adesso è presente. Respira affannosamente, le spalle che si alzano e si abbassano assieme al suo petto mentre si guarda attorno quasi spaesata, come se non si ricordasse più di essere qui. «Ehi, ehi, sono io. Sono Calum.»

«Io… Mi dispiace.» Ha le lacrime agli occhi e le basta solo poggiarli sui miei per scoppiare a piangere e sedersi a terra, abbracciandosi le ginocchia al petto. «Non volevo sparargli, non volevo ucciderlo-»

«Kayla, prendi un bel respiro, d’accordo?» Le prendo le mani, stringendole tra le mie e istruendola a seguire il mio respiro, proprio come quando abbiamo ritrovato sua sorella in quella casa abbandonata, appena qualche mese fa. «Cosa è successo?» provo a chiederle, tentando di distrarla e farla uscire da questo improvviso attacco di panico. Mentirei se dicessi che so cosa sto facendo.

Le tremano le mani in un modo assurdo, ma minuto dopo minuto - che sembrano infiniti per il mio cuore preoccupato - riesce a riprendere il controllo di sè. Comincia a raccontarmi della sua uscita con Margaret, quando ancora stavamo in quel palazzo a Parkersburg e stavamo letteralmente morendo di fame. Mi dice di come sono incappate nell’abitazione di un uomo pronto a tutto pur di proteggere le sue scorte, di come l’abbia aggredita e di come lei, inevitabilmente, abbia premuto il grilletto, vedendo il suo corpo afflosciarsi sul suo. Di come si senta una di loro, una dei Morti.

«Ti sei solamente difesa. Non puoi fartene una colpa. Avevi troppe responsabilità, eri stanca, affamata, con una bambina da proteggere. Hai fatto ciò che doveva essere fatto.»

«Continuo a ripetermelo anche io, ma non mi fa stare meglio.»

«Perchè non me lo hai detto?»

«Perchè non volevo che la tua idea di me cambiasse,» risponde sinceramente, lasciandomi spiazzato, «soprattutto, non dopo tutto ciò che siamo riusciti a costruire insieme. Non volevo rovinare quello che abbiamo.»

«E guarda dove ti ha portato. Non puoi tenere dentro te un peso così grande e pensare di poterlo sostenere tutto da sola.» Il tono di voce mi risulta più duro di quanto volevo. «Ti conosco, Kayla. Tu non sei un’assassina, non sei come loro. Non potrai mai esserlo» le dico e non per compiacerla o per alleviare i suoi sensi di colpa, ma perchè sinceramente lo penso: a tutte le volte che ha salvato la vita a me o a Wayne, Elyse, qualsiasi membro del nostro gruppo anche quando non ci conosceva per niente e non aveva nessun obbligo a farlo. A quanto diventa protettiva come una mamma con i suoi cuccioli non appena si affeziona. E soprattutto, so che non farebbe mai del male a un altro uomo o donna che sia ancora vivo. Nonostante l’avesse appena accoltellata, non è riuscita a far del male a Jordan, oltra la pura e semplice difesa.

Resta in silenzio per molti minuti con le palpebre abbassate sugli occhi e per qualche istante penso che si sia addormentata. «Non l’abbiamo mai detto ad alta voce, ma sappiamo benissimo che tutto questo è temporaneo:» dice, alzando la testa e guardandomi dritto negli occhi, «tardi o prima, uno di noi due morirà, uno del gruppo o uno dei bambini. Posso sperare che sia per cause naturali, ma sappiamo entrambi cosa c’è là fuori. Qualsiasi cosa succeda, non oltrepassiamo la linea. Una volta è già troppo.»

Annuisco, facendole una promessa e sperando di mantenerla. Ma il solo pensiero di poterla perdere mi fa rabbrividire e impazzire il cervello. Mi è già bastato lo spavento della mia famiglia ed ero devastato, l’unico pensiero che mi faceva andare avanti era la pura e semplice probabilità. A questo pensiero penso ancora a quanto sia forte questa ragazza e a come sia andata avanti nonostante tutto. Non è una promessa solo per lei, ma anche per me stesso. C’è una linea netta che separa i Morti dai Vivi: non oltrepassarla significa ricostruire di nuovo una civiltà. Per me, per Kayla, per la mia famiglia, per il gruppo, per l’intera umanità rimasta.

 

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Capitolo 42
*** Capitolo 42 ***


CAPITOLO 42

CALUM

Chiudo gli occhi e alzo il viso verso il sole, godendomi tutto il suo tepore primaverile: sono passati due mesi da quando abbiamo messo piede a Camp Travis, anche se mi sembra ieri quando sono sceso da cavallo e sono corso incontro a mia madre dopo troppo tempo in cui credevo di averla persa per sempre. È incredibile quello che si riesce a fare in un team che ha ritrovato la speranza, la voglia di ricostruire qualcosa di bello e il tempo vola; siamo alla fine di maggio ormai e abbiamo seminato tutti i cereali e le piante da frutto. Siamo andati varie volte a New Straitsville a raccogliere tutti i materiali che ci sarebbero stati necessari per costruire la recinzione, i libri di agricoltura e di fai-da-te, le provviste necessarie per tirare fino all’inizio dell’estate in preparazione alla raccolta dei campi. Mi sento come se stessimo rinascendo assieme alla natura stessa. Piccoli germogli che crescono, crescono, crescono, rafforzandosi man mano che il tempo passa e diventando sempre più forti.

Quando non siamo fuori, Wayne, Blaine, Elyse, Mali, Kayla ed io ci ritroviamo per passare un po’ di tempo insieme per rilassarci, per giocare a qualche gioco da tavolo trovato in vecchie cantine o soffitte e per raccontare semplicemente come vanno le nostre giornate quando non siamo assegnati agli stessi gruppi. Ognuno ha ormai trovato una specie di indipendenza ed intimità nelle proprie abitazioni, creando un’atmosfera sempre più familiare ed accogliente: ci sono vasi di fiori, libri, poster, disegni, piccoli oggetti che danno un’identità particolare alla propria casa.

Io e Kayla abbiamo messo al centro del tavolo da cucina la foto incorniciata scattata da Lynton con di fianco un bellissimo vaso di gerbere rosa e arancioni che, quando vengono incendiate dai colori del tramonto, danno una pennellata di vita alla nostra casa, oltre che al nostro giardino posteriore, dove abbiamo scoperto un sacco di altri bellissimi fiori. 

Nonostante i grandissimi sacrifici che dobbiamo tutti compiere per portare avanti la costruzione del campo, l’atmosfera è molto meno tirata: adesso è facile incrociare persone con un sorriso in volto al posto degli sguardi corrucciati e pieni di tensione di qualche mese addietro. La strada è ancora molto lunga, ma ho come la sensazione che ce la faremo ancor prima del previsto. Meredith e Tracey sono delle ottime guide e ogni giorno ci presentano delle sfide del tutto nuove con un misto di emozione e rammarico, ma la loro fiducia in tutti noi è quella che ci fa muovere.

È strano pensare che gli unici litigi e battibecchi ormai rimasti tra me e Kayla siano per chi si prende tutta la coperta nel letto e per cosa vedere alla sera nel proiettore, quando è il nostro turno di averlo: abbiamo deciso di comune accordo che saremmo stati troppo egoisti a tenerlo tutto per noi e così a turno ogni casa ha la sua serata film, in modo da poter staccare la spina completamente e magari piangere qualche lacrima di felicità, tornando indietro nel tempo quando ancora esistevano i cinema. Quando non siamo con i nostri amici, invitiamo sempre mia madre e mia sorella a casa nostra, anche solo per sederci davanti alla finestra che dà sul giardino.

Sebbene siano stati tutti guardinghi nei rispetti di Leon inizialmente - il nuovo ragazzo che ho deciso di portare al campo, dato che era completamente abbandonato a se stesso e del tutto deperito quando l’abbiamo trovato nella biblioteca di New Straitsville -, ora è diventato parte integrante del campo e del Gruppo Spedizioni. Elementi caratterizzanti del ragazzo sono un sorriso innocente, una risata sempre pronta a uscire dalla sua bocca e il suo fantastico walkie talkie che tiene sempre alla cintola. Qualche volta l’ho persino colto parlarci dentro, come se quel rottame funzionasse ancora.

Appena la settimana scorsa Rose ha deciso di impiegare un’ora al giorno per insegnare a tutti quanti nel campo le basi del Pronto Soccorso, così che qualsiasi cosa succeda, siamo almeno un minimo preparati ad agire nell’emergenza. Adrienne, oltre ad essere un’esperta di giardinaggio e delle coltivazioni, ho scoperto essere un’insegnante di lettere prima della fine del mondo come lo conoscevamo e quindi insegna a Margaret, Matthew e Dylan le basi di ogni materia, per poi approfondire sulle cose che gli serviranno per sopravvivere. Margaret mi ha già confidato che “Sopravvivenza” è la sua materia preferita e che non vede l’ora di crescere e far parte anche lei del nostro Gruppo Spedizioni. Ah, beata infanzia.

«Qualche raggio di sole non aiuterà a cambiare la tua bellissima faccia di sterco di cavallo.»

Mi lascio andare in una risata fragorosa, buttando all’indietro la testa e battendo le mani davanti agli occhi. «Sono grato dei tuoi complimenti, Elyse, davvero. Anzi, perfino sorpreso, direi, di sapere che qualcuno qui dentro mi apprezza.»

Elyse fa un saluto militare con le due dita, schiacciando un occhiolino nella mia direzione. «Sai che sono qui apposta!»

«Buongiorno, ragazzi!» Wayne ci raggiunge, salutandoci a gran voce e con entusiasmo. 

«Cavolo, Wayne, ti ho già detto che mi devi portare un po’ della tua roba,» ribatte Elyse, curvandosi all’indietro, finendo con la testa sulla pancia del cavallo, in piedi dietro di lei «non mi spiego come fai ad essere sempre così dannatamente positivo ed entusiasta, altrimenti.»

«È off-limits per te» replico al posto di Wayne, scuotendo la testa divertito.

«D’accordo, bambini, finite di prepararvi che siamo già in ritardo» ci riprende Wayne mentre io ed Elyse ancora ridiamo.

«Veramente stiamo aspettando la sua fidanzatina.» Lancio un’occhiataccia ad Elyse: oggi ci prende più gusto del solito a punzecchiarmi.

«È già all’uscita con tutte le armi. Adesso, muovete il culo» ordina il ragazzo con un sorriso sfottente sulle labbra. Cavolo, questa volta ci ha fregato, non ci posso credere.

Salgo senza troppi indugi sul mio cavallo, Elyse che copia i miei movimento subito dopo aver stretto bene i lacci dei suoi scarponi ed aver chiuso la zip del suo giubbino. Sarà una giornata lunga.

All’entrata del Campo troviamo Kayla sul suo cavallo, ma dietro di lei, con le mani allacciate sul suo ventre, c’è anche Leon che ci guarda arrivare sorridente.

«Ce ne avete messo di tempo» dice Kayla, facendo voltare il suo cavallo in modo da poterci guardare in faccia. «Lui viene con noi. Se vuole diventare parte attiva del Gruppo Spedizioni, è meglio cominciare a farlo uscire assieme a noi» spiega, indicando con un cenno del capo Leon dietro di lei che risponde con un movimento della mano. Kayla deve aver notato le nostre espressioni interrogative.

«Fantastico, qualcun altro a cui dover fare da baby-sitter» ribatte Elyse e, anche se non posso vederla in viso, so che ha alzato platealmente gli occhi al cielo. Con un movimento rapido della mano, dà ordine al suo cavallo di cominciare il trotto e superare Kayla e Leon, uscendo per prima dal campo. 

Arrivo al fianco di Kayla e con la coda dell’occhio la vedo stringere la mascella in modo secco, prima di chiudere gli occhi e prendere un respiro profondo. Nonostante i lati più spigolosi delle due si sono ormai smussati con l’assenza del troppo stress, ci sono ancora atteggiamenti che le fanno innervosire a vicenda. Lancia una pistola carica a Wayne e a me, ne infila una nella fondina stretta alla sua coscia destra, si sistema il coltello infilato nel calzino, in modo da non farle male, e poi ci fa cenno di partire, seguendoci in fondo al gruppo.

Durante la marcia per le strade accerchiate dai campi, che stanno lentamente tornando alla vita e al loro splendore primaverile con il terreno umido che comincia a fare spazio ai primissimi germogli, sento sprazzi di conversazione di Kayla e Leon dietro di me, mentre io cerco di assorbire più raggi solari possibili. Mi sento sollevato al pensiero che quei due stiano provando a conoscersi dopo che Kayla, inizialmente, mi ha insultato per aver preso sotto la nostra ala un’altra bocca da sfamare e proteggere. Nonostante non si debba ormai fare più carico della sopravvivenza di una parte del gruppo, certe abitudini fanno fatica ad abbandonarla. Dire che era contraria al nuovo arrivato è un eufemismo. Per questo abbiamo litigato, ma il mattino seguente si è scusata, dicendo che se io pensavo di aver fatto la scelta giusta, allora la cosa sarebbe andata bene anche a lei. E così abbiamo chiuso la discussione. Ha capito che volevo soltanto salvare una vita.

Elyse, in testa al gruppo, alza un pugno in alto, rallentando progressivamente fino a trovarsi di nuovo assieme a noi. Proprio come Kayla, anche lei ha sempre avuto bisogno di sbollire la sua rabbia da sola, ma credo che ora ci sia qualcosa di molto più sospetto di lei che sbollisce le sue emozioni in soli dieci minuti. 

«Che succede?» le chiede Wayne con il tono di voce basso abbastanza da farsi capire dalla ragazza. 

«Dovremmo essere più silenziosi.» Si guarda intorno con occhi vigili, scrutando l’orizzonte tra alberi morti, cespugli e la foschia del mattino in lontananza. «Non lo so, qualcosa non va.»

Alle sue parole, mi irrigidisco subito e per istinto lancio uno sguardo a Kayla dietro di me, per vedere se è ancora tutta intera. Lascio andare il respiro quando vedo il suo viso. 

«Dovremmo continuare a piedi?» chiedo, incerto sul da farsi. Non c’è nessuna effettiva minaccia al momento, ma se Elyse dice che qualcosa le sembra storto, allora significa che è così; altrimenti, è sempre la prima a buttarsi a capofitto nel pericolo. Un altro modo per aiutarla a sbollire le sue emozioni represse.

«Non credo sia una buona idea» interviene Kayla con leggerezza, anche se il suo sguardo e il suo linguaggio del corpo dettano tutto il contrario. «Dovremmo muoverci. Lancaster non è proprio vicina.»

«E io vorrei tornare nel mio letto caldo stanotte» dice Leon, troncando il pensiero che stava per uscire dalle labbra della ragazza davanti a lei, «sapete, ormai mi ci sono affezionato.»

«Se vuoi far davvero parte del Gruppo Spedizioni, ti conviene sapere che non sempre volere e dovere coincidono» lo punzecchia Wayne ma senza cattiveria.

«Sì e adesso stiamo solo perdendo tempo» incalza Elyse, lanciando uno sguardo austero sia a Leon che Wayne. «Muoviamoci. Kayla ha ragione, a mio malincuore.»

Ed è proprio dopo venti minuti di galoppo che ci accorgiamo che Elyse aveva ragione: qualcosa non va. E il motivo è proprio davanti ai nostri occhi: un'enorme orda di Vaganti si trova a pochi metri da noi, bloccandoci il passaggio. In effetti, non so come non ho fatto a fare due più due: nei prati e nelle campagne precedenti non c’era ombra di un solo Vagante, nemmeno sulla carreggiata.

«Ragazzi.» Kayla ci richiama a sè. Noto che è scesa da cavallo e sta studiando l’asfalto davanti a noi. Vorrei darle dell’incosciente a fare una mossa del genere con un’orda di questa portata a così poca distanza, ma probabilmente non riescono nemmeno a sentirci da qui. «Non siamo soli.»

«Non l’avrei mai detto» ribatte sarcastica Elyse dall’alto del suo cavallo, indicando con il braccio e con la testa i Vaganti davanti a noi. «Sempre sul pezzo tu, eh?»

«Stai zitta, per una dannata volta» le risponde stizzita Kayla, aprendo le braccia nervosamente. «Guarda l’asfalto: sono segni di pneumatici.»

Scendo da cavallo anche io, raggiungendola e notando subito due strisce nere sull’asfalto. «Potrebbero essere vecchie, non c’è in giro anima viva oltre a noi.» rispondo, ridacchiando qualche istante dopo. «Letteralmente.» 

Kayla alza gli occhi alla mia battuta e rivolge il suo sguardo a Wayne, che noto essere dietro di me. 

«Credi che siano finiti lì dentro?» chiede proprio quest’ultimo alla diretta interessata, studiando l’altra strisciata nera di una frenata improvvisa.

«Non lo so. Forse li ha attirati il loro rumore, o magari-»

«Qualunque cosa sia successa, non è un nostro problema» si intromette Elyse con tono serio. «Capire come oltrepassarli, beh, quello lo è.»

 

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Capitolo 43
*** Capitolo 43 ***


CAPITOLO 43

KAYLA

«Li aggiriamo, non è così difficile.» Io ed Elyse lanciamo un’occhiataccia a Leon dietro di noi, ancora in groppa al cavallo. «Cosa?» chiede ingenuo, con le sopracciglia alzate in modo interrogativo in risposta ai nostri sguardi.

«Non abbiamo tempo da perdere, Leon» risponde Wayne, sempre e comunque paziente in qualsiasi situazioni si trovi. Vorrei avere anche un solo briciolo della sua immensa tolleranza.

«Ma abbiamo i cavalli, non sarebbe poi così lunga-»

«E così sei morto. Cavolo, ragazzo, ne hai da imparare» ribatte Calum, interrompendolo e aprendo le braccia, per poi grattarsi il capo con fare pensieroso.

«E se li uccidessimo? Prima che mi guardiate male,» Leon alza le mani ai lati delle sue guance, «potremmo scaricare una cascata di proiettili su di loro-»

«E siamo morti. Di nuovo.»

Strizzo gli occhi, portandomi le dita alle tempie, cercando di ragionare; l’orda di Morti si estende da un lato all’altro della strada, ma i campi non sono del tutto liberi dai cadaveri: la maggiore concentrazione è sull’asfalto, tuttavia sul terreno dei due campi aridi a lato della carreggiata ci sono almeno una trentina di Morti da ogni lato, che stanno arrancando per avvicinarsi all’enorme massa di corpi in decadimento. Cerco di concentrarmi nonostante il rumore dei loro lamenti, che mi arriva forte e chiaro alle orecchie anche a qualche metro di distanza. Non credo di aver mai visto una cosa del genere, o almeno, non da così vicino. Il numero è così vasto che sembra che l’intera popolazione delle almeno sei cittadine che abbiamo oltrepassato si sia riunita proprio qui. Se questo è ciò che troviamo in mezzo alla campagna, non voglio nemmeno pensare a cosa potremmo trovare a Lancaster.

«Li attiriamo» esordisce Elyse dopo un’attenta elaborazione di tutti i dati a sua disposizione. 

«E io ero morto, poi?!» sbotta incredulo Leon, di qualche ottava più in alto del suo normale tono di voce e un po’ troppo forte per i miei gusti. «Cavolo, a questo punto mi state prendendo in giro!»

«Stai.» Elyse si porta un dito alle labbra, lanciandogli uno sguardo truce, «Zitto.»

Sento i muscoli del torso irrigidirsi in un istante quando scorgo i Morti più esterni all’orda girare il loro volto marcio dalla nostra parte. Mi maledico mentalmente per averlo portato assieme a noi. Noi tre a terra rimaniamo immobili, tratteniamo perfino il respiro, con gli occhi puntati davanti a noi in attesa del loro prossimo movimento, in attesa della mossa finale. Non si può pensare di sopravvivere a così tanti Morti assieme, solo un pazzo avrebbe anche solo un briciolo di speranza di potercela fare. Nonostante non possano vederci, mi sento troppo esposta davanti ai loro occhi vitrei, mi sento nuda. 

Riprendiamo fiato quando decidono di concentrare la loro attenzione su di un minuscolo passerotto e il suo cinguettio, in completo disaccordo con l’ambiente che ci circonda e la tensione perpetrata perfino nelle nostre ossa.

«Stai cercando di farci uccidere?» sibila a denti stretti Elyse, che con grandi falcate ha raggiunto il ragazzo - finalmente sceso dal cavallo - ed ha già le mani pronte per stringerle attorno alla stoffa del maglione che indossa. Lo sguardo di Leon si tramuta in un istante da fin troppo rilassato a terrorizzato della giovane donna con lo sguardo furente a pochi centimetri dalla sua faccia. Vedo di sfuggita la mano del ragazzo appoggiarsi sul suo walkie-talkie, ma l’azione è così rapida che mi chiedo se non me lo sono solo immaginata.

«Sono contenta di vedere che questo è il tuo modo di dare il benvenuto a tutti, qui dentro» commento senza pensarci troppo, tornando indietro a mesi fa quando venni sbattuta contro il muro proprio da Elyse al ritorno dalla nostra prima missione insieme.

«Faresti meglio a chiudere la bocca. È colpa tua se lui è qui con noi» ribatte truce, adesso rivolgendo il suo sguardo omicida dalla mia parte, che sostengo senza problemi. Ne abbiamo passate troppe insieme per essere tornate allo stesso punto di inizio, non ci facciamo più intimidire l’una dall’altra. Non che fosse successo così spesso, comunque.

«Più tempo perdete a tagliarvi la testa a vicenda e meno ne abbiamo per trovare una dannata soluzione.» Elyse lascia andare malamente Leon alle parole accusatorie di Wayne e torna a studiare la situazione davanti a lei.

«E se...» inizia Calum, facendo schioccare le dita, pensante. Ha qualcosa in mente. Infatti, con uno scatto fulmineo toglie il suo zaino dalle spalle e ne tira fuori una piccola scatolina. «… li bruciassimo?» 

Fiammiferi.

«Come, esattamente, credi di poter dare fuoco a decine di Morti senza un combustibile? Il solo fuoco non basterebbe.»

«Elyse ha ragione. Sono troppi» acconsento, annuendo più volte con la testa, ma con lo sguardo perso sull’asfalto davanti a noi. 

«Adesso aggirarli non suona più come una cattiva idea, eh?»

«Leon, se non hai nulla di utile da dire, stai semplicemente zitto» ribatto, fulminandolo con lo sguardo. Mi sto amaramente pentendo di averlo portato con noi: pensavo potesse imparare qualcosa, invece si sta rivelando più inutile e cocciuto dei bambini del campo. Mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere da solo così a lungo.

«Potremmo mescolare le due soluzioni.» Wayne si avvicina a me, Elyse e Calum dopo aver osservato la situazione a qualche passo di distanza da noi. «Diamo fuoco a qualcosa e lo lanciamo in mezzo ai Vaganti; quelli che non muoiono bruciati, li attiro via da voi. In questo modo dovreste avere un'apertura abbastanza grande da passarci attraverso.»

«Potrebbe funzionare-»

«Aspetta, cosa? Hai detto attiro?» chiedo rapida, ricapitolando il suo piano nella mia testa. 

«K, è l’unico modo per non finire ammazzati tutti e cinque-»

«Non se ne parla neanche, sei andato fuori di testa?!» Nonostante io stia parlando a bassa voce mi sembra di urlare e mi accorgo del perchè: Elyse e Calum non stanno cercando di fermarlo e ribattere il suo piano. «Voi siete d’accordo?» chiedo agli altri due incredula, con gli occhi fuori dalle orbite. Calum abbassa lo sguardo, incrociando le braccia al petto. Alzo gli occhi al cielo frustrata. Alcune volte mi chiedo se sia l’unica ad avere un po’ di buon senso qui dentro.

«Ha ragione, Kayla. E più ci pensiamo, più tempo perdiamo. Non siamo più solo noi tre.  Un'intera comunità conta su di noi, adesso.» Elyse si passa più volte le mani tra i capelli, tenendo lo sguardo fisso su di me, facendo di tutto per evitare quello di Wayne.

«Morirà, nella migliore delle ipotesi-»

«Grazie per la fiducia» mi interrompe proprio il diretto interessato, ridacchiando di seguito, come se fossimo nel bel mezzo di una bella chiacchierata tra amici. 

«Nessuno potrebbe mai farcela con un’orda di queste dimensioni, neanche il più folle al mondo» ribatto, ferma sulla mia posizione. Non voglio perdere anche lui e soprattutto, non voglio che si sacrifichi per noi. Non lui, che è l’anima più pura rimasta in questo mondo.

«So che sei spaventata, so che lo siete tutti. Ma fidatevi, per favore. Ho imparato dai migliori, dopotutto.»

Mi viene da gridare,  da piangere, da prendere tutti quanti per le spalle e scuoterli per riportarli alla realtà dei fatti, per far entrare un po’ di senno nelle nostre menti. Prendo un respiro profondo, alzando la testa verso il cielo e chiudendo gli occhi, cercando di ritrovare la calma. 

«Lo conosci anche tu, ormai. Sai che nessuno di noi due glielo farebbe fare, se non fossimo convinti che potrebbe farcela» dice Calum, appoggiandomi una mano sulla spalla, facendomi tornare al duro momento presente. Mi scanso involontariamente ed impreco più di una volta.

«Se muori, giuro che ti uccido.» Punto l’indice contro il suo petto, cercando di risultare intimidatoria, anche se in realtà il mio intero braccio sta tremando.

«Credo di avere più paura di te che dei Morti lì davanti. E di Elyse. Quindi, credo questo basti per non farmi ammazzare» scherza, di nuovo ridacchiando come nulla fosse. Cazzo, quanto lo odio quando vuole fare l’eroe. Il fatto è che lui nemmeno se ne accorge, farebbe di tutto senza battere ciglio pur di aiutare gli altri, anche e soprattutto a suo discapito.

«Prendetevi cura di voi altri, qua fuori, qualsiasi cosa succeda.»

«Qualsiasi cosa succeda» ripete Calum, deglutendo subito dopo, cercando di nascondere le sue emozioni. Poi lo stringe in un abbraccio forte e quando lo lascia andare, Elyse fa lo stesso. Non hanno perso il senno improvvisamente, mi ricordo solo ora che per loro Wayne è come un fratello; loro sono solo più bravi di me a nascondere le proprie emozioni e a pensare a sangue freddo. Ora capisco più che mai l’ultimo consiglio di mia madre. 

Non ti legare emotivamente a nessuno e ce la farai.

Cazzo, vorrei fosse così semplice.

Chiudo le mie braccia attorno alle sue, stringendolo forte a me e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Devo convincermi più volte a lasciarlo andare e pensare che ce la può fare, anche se la mia mente si rifiuta di crederci.

«D’accordo. Allora… Diamo fuoco a qualcosa, che ne dite, amici?» Ci fa l’occhiolino prima di recuperare un ramo caduto sul ciglio della strada, trascinandolo dietro di sé. Sprechiamo quattro fiammiferi prima che Calum riesca ad attaccare la scintilla al legno umido, facendo salire in alto una scia di fumo nero dall’estremità del ramo.

«Al tre lo solleviamo e lo lanciamo.» Wayne si volta verso i cavalli. «Leon, dacci una mano.» Il ragazzino, di cui mi ero completamente dimenticata l’esistenza fino a pochi istanti fa, fa una corsetta e ci raggiunge, arrotolando le maniche della sua enorme felpa a scoprire le sue esili braccia fino al gomito.

«Uno, due,» ci chiniamo tutti e cinque in contemporanea, mettendo le mani sotto al ramo, facendo leva sulle gambe, «tre!» Facciamo qualche passo per darci una spinta e poi vediamo il legno infuocato scomparire in mezzo ai corpi.

Ci lanciamo in una corsa disperata verso i cavalli, salendoci in fretta e furia, pronti a fare lo scatto. Non riesco a vedere oltre la terza fila di Morti da quanto sono ammassati tra di loro e non vedo nessuna apertura. Che il ramo si sia spento con l’impatto?

Passano istanti di tensione silenziosa in cui non accade ciò che sarebbe dovuto succedere. I minuti scorrono lenti, i nostri muscoli si irrigidiscono sempre di più, mentre l’aria sembra diventata di piombo. Non riesco nemmeno a capire se sto imprecando oppure pregando che accada qualsiasi cosa. Lancio uno sguardo sconfitto ad Elyse al mio fianco, stringendo tra le mani le briglie, sentendo il cuoio freddo sfregare duro sulla pelle del palmo. 

Poi, improvvisamente, si comincia a levare un fumo nero come l’oscurità di una notte senza stelle e senza luna, e una minuscola apertura comincia a intravedersi tra la ressa di membra, teste e corpi davanti a noi.

«Ah, sì!» esulta Wayne, facendomi trasalire per il suo tono di voce che rimbomba nello spazio come se fossimo al chiuso. «Addio, amici miei, ci vediamo dall’altra parte!» urla mentre comincia il galoppo per attirare i Morti lontano da noi e verso di sè. 

Non c’è tempo per le lacrime, non c’è tempo per gli addii. Così come Wayne ha fatto la sua parte, non possiamo lasciare che tutto ciò vada perso invano: Elyse, Calum con Leon ed io diamo ordine ai nostri cavalli di virare sulla terra del campo al nostro fianco per attutire il rumore degli zoccoli, mettendo un metro di distanza dai primi Morti scampati dal fuoco che inseguono Wayne, che emette fischi e versi a tutto fiato pur di allontanare la loro attenzione da noi. 

I miei occhi si spalancano nel vedere l’enorme portata dell’orda che si sta sfaldando pian piano: sono ovunque in una massa che non ha fine. I corpi che stanno prendendo fuoco lo danno di conseguenza anche ai Morti che gli finiscono addosso nolenti, riescono appena a fare qualche metro prima di cadere a terra in una palla di fuoco e fumo tetro. Mi copro naso e bocca con il braccio, tentando di stare in equilibrio sul cavallo mentre non riesco a far altro che guardare la figura di Wayne venire inseguita da una scia di morte.

Vedo sfrecciare Elyse davanti a me: si è creata la nostra via d’uscita. Preparo il coltello nella mano, prendendo le briglie con l’altra e poi parto anche io, Calum e Leon subito dietro di me. 

Elyse entra nell’apertura nell’orda brandendo il fucile dalla parte della canna, usandolo come bastone e lancia per scansare e staccare le braccia troppo vicine al suo corpo. Mi giro per vedere il volto di Calum per infondermi coraggio e per ricordarmi per cosa vivo e combatto, prima di seguire Elyse dentro al passaggio. D’un tratto mi sento claustrofobica in mezzo a tutti questi corpi terrificanti, alle loro dita che riescono per pochi millisecondi a toccare i miei pantaloni, tentando di aggrapparsi ma senza risultati.

Sento il cuore tuonare nelle orecchie e battere così forte contro la cassa toracica, quasi come voglia uscire dal mio petto, ma il mio sguardo è infuocato e puntato sulla schiena di Elyse, che si sta facendo strada a colpi di calcio del fucile. Non posso permettermi di guardare indietro, di  vedere come se la sta cavando Calum, posso solo sperare nelle sue capacità di brandire la katana.

Ci muoviamo controcorrente nella massa di Morti all’inseguimento di Wayne per minuti interminabili, con l’adrenalina a mille e le braccia che cominciano a far male per lo sforzo. Pianto il coltello dentro al cranio di un Morto troppo audace e troppo vicino alla mia gamba, trancio mani e braccia, senza volerlo ma per il solo impatto con le gambe del cavallo, che sembra terrorizzato tanto quanto me. Il disgusto mi percuote ogni volta che sento gli schizzi del loro sangue finire sul mio corpo e sulla mia faccia.

Riporto l’attenzione davanti a me e finalmente vedo Elyse fuori dall’orda, a distanza di qualche metro, il suo giubbino intriso e imbrattato di schizzi di sangue, ma fortunatamente è tutta intera. Ci guarda con occhi determinati ed infuocati della battaglia appena conclusa per lei e mi fa un semplice cenno secco del capo: il suo modo per dirmi: “falli a pezzi”.

E così faccio. Impugno l’altro coltello nell’altra mano e con le braccia spianate ai miei lati, come se fossi un uccello in procinto di prendere il volo, uno dopo l’altro i Morti che entrano in collisione con le lame affilate vengono tranciati e si riversano a terra, mentre le mie mani fino ai polsi vengono ricoperte da strati sempre più spessi di sangue e tessuti ceduti all’impatto.

Manca poco.

Conto i secondi mentre il battito del mio cuore riempie i miei timpani.

Sto già lasciando andare il respiro, le gambe anteriori del cavallo fuori dalla mischia, quando sento il verso di un animale imbizzarrito. Guardo frenetica davanti a me: sono ancora in groppa al mio, quello di Elyse è tranquillo a pochi passi da me.

Cazzo.

Appena uscita dall’orda, mi volto in uno scatto repentino per vedere subito il cavallo di Calum in piedi sugli zoccoli posteriori, gli occhi fuori dalle orbite e un nitrito terrificante che esce dal suo muso spalancato. I Morti vengono attratti come calamite dal suo verso impaurito, cominciando a chiudere la già stretta via d’uscita, mentre Calum cerca disperatamente di riprendere controllo del suo cavallo.

Senza accorgermi completamente di ciò che sto facendo, ritorno dentro alla schiera di corpi. Sento Elyse imprecare coloramente, per poi emettere un fischio sonoro.

I Morti si chiudono sempre di più su Calum e Leon, mentre l’animale schiaccia con i suoi zoccoli i Vaganti che gli finiscono sotto. 

«La katana!» urlo con tutto il fiato nei polmoni, cercando di farmi sentire sopra a tutta la baraonda, facendo cenno a Calum di lanciarmela. Lo sento gridare qualcosa di incomprensibile a Leon e poi vedo l’arma volare in aria. La afferro per un pelo, sentendola quasi scivolare tra le dita. La sfodero, facendo finire la custodia in mezzo alla calca.

«Leon!»

Alzo lo sguardo appena in tempo per vedere il ragazzo cadere da cavallo, mentre l’animale stesso comincia a subire i primi attacchi dei Morti, che chiudono le loro fauci attorno alla sua carne. Non ho il tempo di pensare, non sto nemmeno capendo cosa sta accadendo intorno a me.

So che non voglio perdere nessun altro.

Con la katana ben stretta in mano, falcio via dal mio percorso questi esseri immondi di cui mi sono veramente stancata. Ne ho avuto abbastanza. Vedo Calum che riesce a recuperare Leon, ma non gli resterà comunque molto da vivere se non abbandonano il cavallo, che sta ormai cedendo ai morsi e graffi dei Morti, che lo stanno tirando a terra colpo dopo colpo.

Hanno fame e non possono aspettare un secondo di più il loro tanto agognato pranzo.

«Saltate!» Grido e questa volta tiro fuori la pistola. Sparo al primo corpo che si para tra Calum e me, mentre i Morti rimasti in piedi attorno a me cadono uno ad uno. Elyse.

Calum salta a terra, Leon proprio dietro di lui e io continuo a tirare a segno i proiettili, neutralizzando le minacce. Afferro il braccio di Calum e lo aiuto a tirarlo su;  subito dopo lui stesso aiuta Leon. Finalmente raggiungiamo Elyse e, senza perdere altro tempo, fuggiamo il più lontano possibile dal massacro alle nostre spalle.

Solo quando ci rendiamo conto di essere lontani dall’orda rimasta dietro di noi, permettiamo ai nostri cavalli di rallentare il passo per poter riprendere fiato. Noi quattro compresi.

Ci fermiamo per qualche istante per metabolizzare il tutto. Scendo da cavallo, felice di sentire ancora ogni parte del corpo e mi rendo ora conto di essere ricoperta da capo a piedi di sangue - fortunatamente non mio -. In un accesso di disgusto, prendo l’acqua e me la butto in faccia, strofinando la pelle. Sputo più volte a terra, provando ad eliminare ogni rimasuglio di liquido organico. Mi viene da vomitare al solo pensiero.

«State tutti bene?» chiede Elyse dopo istanti interminabili, in cui gli unici rumori a rompere il silenzio erano i nostri respiri spezzati dall’agitazione.

Annuisco, sputando un'ultima volta prima di rimettere via l’acqua. Calum risponde in modo affermativo, provando a controllare il tremolio della sua voce. Elyse fa un cenno positivo, cominciando già a ripulire le armi utilizzate.

«So di essere un guastafeste...» Leon socchiude gli occhi con un sorriso da ebete sul viso, «… ma io non mi sento molto bene.» 

Alle sue parole, sposto lo sguardo sul suo corpo, notando le mani insanguinate che stringono la sua coscia e il sorriso che si tramuta in un ghigno sofferente, mentre scopre la gamba. 

«Sono stato morso.»

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Capitolo 44
*** Capitolo 44 ***


CAPITOLO 44

KAYLA

«Datemi solo un antidolorifico e starò bene.»

«Mi dispiace» sussurro, ancora in preda allo shock della pessima notizia, mentre gli passo un’intera pastiglia di antidolorifico e dell’acqua; si merita almeno di non soffrire.

«Dobbiamo continuare a muoverci.» Elyse dà una pacca sulla spalla a Leon, prima di salire sul suo cavallo. «Forza, andiamo.»

«Stai davanti» dico a Leon, dopo aver guardato il suo giovane viso per istanti interminabili. Metto il piede nella staffa, dandomi lo slancio per salire dietro di lui, mentre Calum sale dietro ad Elyse.

Dopo averci detto di essere stato morso, Elyse, Calum ed io abbiamo dibattuto a lungo so cosa avremmo potuto fare per salvarlo. La risposta è stata semplice: nulla. Di tagliare la gamba non se ne parlava: sarebbe morto dissanguato o, nel breve tempo in cui sarebbe rimasto vivo, avrebbe preso una brutta infezione. Eravamo troppo lontani dal campo per tentare qualsiasi cosa. Non c’era via d’uscita per lui. Gli abbiamo almeno disinfettato la ferita. Gesto inutile, fatto solo per farci sentire meglio. Ed ecco un’altra morte che si aggiungerà presto alla lista di persone morte per causa mia. Quanto è ironica la vita.

«Aspettate,» dice proprio Leon con voce rauca, schiarendosi la gola subito dopo, «so dove siamo.»

«Sei sicuro? Sei sotto shock, Leon, forse ti stai confondendo-»

«Non posso dimenticare il posto dove sono cresciuto» ribatte senza indugi, guardandosi attorno con aria malinconica. «Cavolo, questo posto fa schifo!» Ridacchiamo alle sue parole, anche se più per compassione che per altro. 

«Facci strada, allora» gli intima Calum, rivolgendogli un sorriso carico di rimpianto, anche se ben celato. Ho imparato a osservarlo bene, ormai.

«Non manca molto a Lancaster, una decina di minuti, credo.»

Continuiamo il percorso verso la città in silenzio, l’atmosfera aggravata dal pensiero di due perdite: quella di Wayne e quella di Leon, che ha deciso di usare in modo più che utile le sue ultime ore di vita prima di trasformarsi in qualcosa che gli assomiglierà solo per l’aspetto fisico, ma che non sarà più lui. Sta sopportando bene il dolore e ancora meglio l’idea della sua morte.

Ci impieghiamo più del previsto ad arrivare, ma poi vediamo finalmente un grande cartello verde decadente ricoperto di sporcizia con indicato il nome di Lancaster. Il paesaggio muta visibilmente e nettamente: da grandi prati a piccole abitazioni ed infine ai palazzi nascosti dal verde della città, con i rami degli alberi, che sembrano ossa di cadaveri, che abbracciano le costruzioni di cemento e metallo.

Passiamo davanti a negozi di parrucchieri, estetisti, vestiti di ogni nome e genere, oltre che a tantissimi ristorantini di ogni etnia con le finestre rotte, gli arredamenti rovesciati a terra o impolverati e rovinati, le insegne decadenti con i fili dell’elettricità che spuntano da ogni dove. Accompagnati dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli e dai leggeri mugolii di Leon ad ogni sussulto dell’animale, arriviamo nel vecchio centro della città: le diverse corsie del traffico sono impegnate da semafori caduti, rottami di ogni genere, lampioni, cartelli stradali, poster pubblicitari consumati dall’acqua, tombini saltati e… cadaveri. Alcuni, carbonizzati sull’asfalto stesso, hanno creato un’aureola di fuliggine attorno ai loro corpi; altri sono in strada da così tanto tempo che ne è rimasto solo lo scheletro e rimasugli di stoffa dei vestiti che portavano.

«Non mi piace» esordisce Elyse, facendo cenno con il capo alla sua destra, l’espressione contrita dalla tensione.

Sposto lo sguardo nella sua direzione. All’incrocio tra quattro strade, lateralmente a pochi metri da noi, passiamo un enorme ammasso di corpi in decomposizione con una nube di mosche e moscerini, accompagnati soltanto da uccelli e un branco di cani randagi a cibarsi dei loro resti. Saranno almeno una centinaia, uno sopra l’altro.

«Sembra una fossa comune» dice Calum, deglutendo la saliva con aria disgustata.

«Ugh… Credo di dare di stomaco» interviene Leon, voltando la faccia dalla parte opposta, spostandosi la felpa su sul naso e bocca, tenendo una mano davanti ad essa.

«Occhi aperti» avviso, scambiando un cenno di comprensione con Elyse. Almeno sulle questioni pratiche ci siamo quasi sempre capite al volo.

Sembra che sia appena passata la festa di Halloween per le strade e che le abbiano addobbato a dovere con tutti questi cadaveri, è ancora più inquietante dei Morti stessi. Qualsiasi cosa sia successa qui, non voglio rimanerci più del dovuto. Spero solo di non aver fatto tutta questa fatica per nulla e che Wayne non si sia sacrificato per un pugno di polvere.

«Dove siamo diretti?» chiedo a Leon, provando a distrarlo dallo spettacolo immondo e dal dolore del morso, anche se mi accorgo che non ha più fatto versi doloranti. L’antidolorifico deve aver fatto effetto.

«L’ospedale. Alcuni reparti potrebbero essere ancora ben forniti.» Annuisco; potremmo trovare molte cose di cui abbiamo bisogno.

«Venivi a scuola qui?» 

«Sì… un postaccio, a ripensarci. Era bello solo per gli amici» ribatte con una punta di malinconia nella voce. «Ah… sì. Quelli erano tempi semplici.»

«Parli come un uomo con la crisi di mezza età» lo punzecchio, ridacchiando. 

«Beh, credo di esserci appena entrato» ribatte, schiacciandomi l’occhiolino, anche se il suo sguardo ritorna subito serio quando si sposta sulla sua coscia intrisa di sangue.

«Avrei dovuto lasciarti al campo.»

«Sì, avresti dovuto.» Rialza lo sguardo, controllando la strada come se stesse guardando l’ora. «A sinistra. Prendiamo la metropolitana, risparmieremo un sacco di tempo.»

«Agli ordini, capitano!» risponde Calum, facendo il saluto militare.

Arrivati davanti all’ingresso della metro, scendiamo da cavallo. Alla fine delle scale vedo solo buio.

«Per fortuna abbiamo queste.» Calum mi lancia alla sprovvista una torcia, facendola rimbalzare sul mio petto e poi cadere con un tonfo a terra. «Dovresti rivedere la tua coordinazione mano-occhio, Kayla!» Gli mostro il medio, sorridendo sarcastica, chinandomi per raccogliere l'oggetto.

«Ah, siete così divertenti, ragazzi. Vorrei davvero restare con voi più a lungo, per conoscerci meglio, sapete-»

«Basta con le chiacchere. Muoviamoci.»

«Non credo sia una buona idea addentrarci tutti e quattro lì dentro. Non sappiamo cosa potremmo trovare» dice Leon prontamente, interrompendo Elyse, la quale alza prontamente gli occhi al cielo e stringe la mascella.

«Cosa suggerisci?» 

«Io e Kayla andiamo là sotto, vediamo cosa ci aspetta; se è tutto apposto, torneremo a prendervi.» Leon scende lentamente da cavallo. Una volta giù, apre le braccia e guarda Elyse. «Se siete d’accordo.»

«Purchè non ti abbia più tra i piedi, per me va bene» annuisce controvoglia Elyse, incrociando le braccia al petto.

 «Riesci a camminare?» chiedo apprensiva a Leon al mio fianco, in equilibrio sulla gamba sana.

«Ce la farò, in qualche modo.» Il ragazzo muove qualche passo incerto e decido allora di porgli la mia spalla come supporto. «Sono l’unica possibilità che avete di non perdervi lì sotto.»

«Sì. Quindi, muovetevi. Non rimane molto tempo» ribatte Elyse con poco tatto, facendo cenno con la mano verso gli scalini dell’entrata. Le lancio un’occhiata in tralice e per tutta risposta alza le spalle.

«State attenti. Questa cosa è molto più rischiosa di quanto non pensiate, okay?»

«Stessa cosa per voi qui fuori.» Schiaccio l’occhiolino a Calum e faccio un cenno del capo ad Elyse. «Ci vediamo tra poco.»

E così, cominciamo a scendere. Leon si appoggia con forza alla mia spalla per fare i gradini a saltelli per evitare di stancare subito la gamba ferita. Lancio un’occhiata alla garza con cui l’abbiamo fasciato: è già intrisa di sangue. Spero solo non muoia qui sotto, per quanto mi sento in colpa al solo pensiero, non voglio rimanere da sola in una intricata rete di cunicoli sotterranei.

«È... acqua?» chiedo incerta a metà scale, muovendo la torcia a destra e sinistra e più in profondità per cercare di capire su cosa si riflette la luce.

«Così parrebbe. Avrebbe senso, non fanno manutenzione da anni qui sotto. Le infiltrazioni avranno eroso tutto il resto» appura Leon, chinando il capo per osservare con maggiore attenzione.

«Carino» ribatto ironica, alzando le sopracciglia alla notizia. Perchè ho pensato che fosse una buona idea?

Il tonfo del piede di Leon non appena entra in contatto con l’acqua produce un rumore che rimbomba sulle pareti, oltre che schizzare le mie gambe, facendomi rabbrividire. Oltre ad essere congelata, non ha un buon aspetto: non voglio nemmeno pensare a cosa ci sia finito dentro. Non è molto alta, arriva appena sopra alle caviglie; del resto non siamo ancora scesi al livello dei treni.

«Non credo siano percorribili, Leon...» dico, esprimendo i miei dubbi, lanciando un’occhiata verso la luce proveniente dall’entrata alle mie spalle, dove abbiamo lasciato Calum ed Elyse. «Dovremmo tornare su, trovare un’altra str-» 

Mi interrompo bruscamente, sentendo un rumore sospetto, come una specie di ronzio e subito dopo un suono disturbato, come quello di una televisione su un canale che non prende. Faccio saettare lo sguardo da ogni parte, tentando di tenere la torcia ferma nella mano.

Lancio uno sguardo a Leon, ma vengo catturata da una lucetta arancione alla sua cintola, proprio dove tiene il suo walkie-talkie. Non ci ho mai fatto troppo caso, non fino ad ora. Ma con un battito di ciglia, la luce svanisce. Forse è stato solo il riflesso della torcia. Forse me lo sono immaginata.

«Che cos’era?» sussurro, provando a concentrarmi. Se non posso neanche fidarmi della mia mente, non andremo molto lontano. Non devo farmi impressionare dalla situazione.

«Qualsiasi cosa fosse, credo che dovremmo muoverci.» Guardo incerta Leon. «Almeno fino ai binari. Se la cosa non funziona, torniamo su.»

Annuisco e cominciamo a muoverci. Non voglio rimanere qui sotto più del necessario se questa via dovesse rivelarsi impraticabile. Questo posto mi mette i brividi, a cominciare dal fatto che è completamente buio, se non per il piccolo cono di luce emesso dalla mia torcia. Prendo un respiro profondo, cercando di rilassare le spalle. Siamo arrivati alla biglietteria: fin qui tutto bene.

«Dobbiamo attraversare» bisbiglia Leon vicino al mio orecchio, prendendomi la mano con la torcia per puntarla verso la parte opposta alla nostra e poi alzarla sul cartello con a scritta “treni”, con una freccia che indica per quella parte. Lo spazio è piuttosto largo: del resto doveva ospitare una marea di gente proveniente da dentro e fuori città. «Sarò i tuoi occhi, non posso essere molto altro...»

Lancio un’occhiata incerta a Leon, non riuscendo a fidarmi completamente della sua vista qui sotto e dei suoi riflessi, ma devo correre il rischio, non c’è altro modo; devo sapere se i binari dei treni sono percorribili.

«D’accordo.» Lascio andare un rumoroso sospiro, facendo capire a Leon con uno sguardo eloquente quanto non mi piaccia tutto questo. 

Cedo la torcia al ragazzo in modo da avere entrambe le mani libere in caso di attacco. Passo il coltello da una mano all’altra, nervosa, mentre cominciamo a muoverci per attraversare lo spazio, l’acqua che rimbalza gelida sulle caviglie ad ogni movimento. A ciascun passo che facciamo si insidia dentro di me il freddo dei sotterranei e l’umido penetra fino alle ossa, così come il costante pensiero che questa sia una pessima idea. Continuo a lanciare sguardi frenetici da una parte all’altra dello spazio, incontrando solo il buio, dato che Leon tiene la luce fissa sulle scale mobili che dobbiamo raggiungere. Questo posto mi mette i brividi.

Finalmente, arriviamo intatti alla destinazione. Leon lascia andare un respiro di sollievo, mentre io continuo a sentire i muscoli tirare dalla tensione: non è ancora finita. Forse il peggio ci aspetta proprio in fondo al buco nero che sono queste scale.

«Togliamoci il pensiero» dico, ruotando le spalle e cominciando a scendere i gradini a due a due. Mi accorgo dalla luce tremolante che Leon fa piuttosto fatica a starmi dietro e mi tocca rallentare di nuovo il passo. 

Siamo a metà scale. Devo fare attenzione a come mettere i piedi per non scivolare. Dopo estenuanti minuti, siamo finalmente all’ultimo gradino e poi la mia gamba atterra nell’acqua, se possibile, ancora più gelida. Arriva fino alle mie ginocchia, il contatto fa salire una scia di brividi su per il mio corpo.

«Alla tua destra!»

Non faccio in tempo a voltare la testa che Leon punta la torcia sul corpo di un Morto a pochi centimetri dal mio, accecandomi dalla luce improvvisa, ma non ho bisogno della vista per sentire la punta del mio coltello attraversare la sua guancia gonfia. Le mie braccia hanno agito d’istinto. Con uno spintone, lascio cadere il cadavere, che atterra con uno sonoro “sciaf” nell’acqua, sollevando schizzi da ogni parte, mentre il rumore continua a rimbombare tra le pareti.

«Vedi altro?»

«Sì, quella parete di roccia proprio davanti a noi.» Il ragazzo zoppica fino al mio fianco, sposta la torcia davanti ai nostri occhi, dove un'intera parete deve essere crollata su se stessa a bloccarci la strada verso i treni, e poi la ripunta sul mio viso, accecandomi per la seconda volta. «Scusa! Scusa, non l’ho fatto apposta.»

Strizzo gli occhi, sbatto più volte le palpebre prima di tornare ad aprirle e venir infastidita dalla scia di luce rimastami nelle pupille. È così goffo che mi viene da imprecare, ma mi trattengo dal farlo per la nostra incolumità.

«Aspetta! Guarda là, in alto.» Punta con l’indice un’apertura tra le macerie, a un metro dal pavimento allagato. Alzo le sopracciglia, guardandolo da testa a piedi.

«Apprezzo il tuo aiuto, Leon, ma non credo che tu riesca a scavalcare quella parete nelle tue condizioni.» Sussurro, lo sguardo a intermittenza tra lui e la parete. «Sarà sicuramente allagato, non c’è più nulla da fare. Torniamo su dagli altri e non perdiamo altro tem-»

Vengo presa da dietro alla sprovvista e lancio un urlo scappato al mio controllo. Mi divincolo dalla presa, quasi inciampando sui miei stessi passi e lancio fendenti da una parte all’altra; non vedo nulla.

«La luce!» urlo tra i denti digrignati dallo sforzo di tener lontano da me ciò che credo un altro Morto. 

Tasto il corpo per trovare la faccia e il pollice mi finisce dentro alla bocca, strusciando sui denti. Cerco di trattenere un conato di vomito e con l’altra mano gli pugnalo il cranio. Sento il corpo cadere nell’acqua. 

Sono ancora al buio.

Proprio mentre provo a girarmi verso Leon, vengo presa alla caviglia e strattonata improvvisamente. Finisco con un tonfo nell’acqua, sbattendo con violenza il busto e il mento a terra, il dolore che comincia ad espandersi a macchia d’olio, mentre cerco di riprendere possesso del mio corpo. Il dolore al mento rimbomba per tutto il mio viso e la mancanza improvvisa di ossigeno mi annebbia i sensi.

Dimeno le gambe, riuscendo finalmente a liberarmi dalla presa, faccio leva sulle mani e torno finalmente a respirare e a vedere. La luce! Finalmente Leon sta puntando quella dannata torcia nella direzione giusta. Un Morto è piegato in acqua, dimena le braccia; un altro proprio al suo fianco è già pronto all’attacco.

Mi alzo con uno scatto repentino, faccio per stringere i coltelli nelle mie mani ma mi accorgo di non averli più. Mi guardo attorno disperata, senza alcun riscontro. 

Schivo il braccio del Morto, riuscendo a mettere a segno un pugno al suo petto, facendolo indietreggiare. Lancio un calcio al collo dell’altro, piegato a terra, facendogli finire la testa sott’acqua. Sposto il piede più su, schiacciandogli la testa e salendoci sopra con tutto il mio peso finchè non si sfracella.

Fuori uno.

Il mio braccio viene tirato all’indietro, facendomi sbilanciare e quasi perdere l’equilibrio, di nuovo. Con il gomito libero, colpisco l’aggressore alle mie spalle e sento la pelle affondare in qualcosa di molle ed umido: un altro Morto.

«Non morirò qui sotto!» 

Con un calcio ben assestato al ventre del Vagante, lo faccio cadere in acqua come fosse un oggetto inanimato, gli schizzi che si alzano e mi piovono addosso. Tiro un pugno al mento dell’altro Morto rimasto in piedi, piegandogli la testa in modo disumano. Lo spintono indietro da me e va a sbattere contro una parete, rimbalzando.

Con un urlo liberatorio, lo tengo fissato alla parete con il piede, piego il ginocchio, sentendo la suola dello scarpone affondare nelle sue membra. Grazie alla luce di Leon, vedo lo scintillio del coltellino nel mio calzino: lo tiro fuori rapida e con un movimento agile, lo conficco nell’occhio del Morto. Lascio che il corpo cada ai miei piedi, mi volto e pianto la lama sporca nel cervello del Vagante in acqua.

Fuori tre. 

Ho chiuso con questo posto.

Mi rialzo dalla posizione piegata con il fiatone, la mano che tiene il coltello tremola dall’adrenalina. «Andiamocene di qui- Leon?» Quando alzo lo sguardo da terra il ragazzo è scomparso e con lui la luce della torcia.

Dannazione.

Comincio a sentire i brividi percorrere il mio corpo da testa a piedi, mentre il terrore inizia a insinuarsi dentro di me. Che abbia già iniziato la trasformazione? Non può essere stato attaccato, avrebbe urlato altrimenti.

Vengo spinta con forza in avanti e finisco nell’acqua gelida. Non riesco nemmeno a uscire con la testa che vengo girata a faccia in su e due mani si stringono attorno alla mia gola, facendo pressione per tenermi sott’acqua. Ho gli occhi spalancati, mi dimeno ma non riesco a sfuggire alla presa mortale. Mi aggrappo ai polsi dell’assalitore, riuscendo a diminuire la presa alla base del collo. Finalmente, riesco ad alzare la testa nonostante la continua pressione. 

D’improvviso vengo accecata, serro gli occhi, finendo di nuovo sott’acqua. Mi bruciano i polmoni, i pensieri non scorrono come dovrebbero, mi sento affogare. Continuo a dimenarmi, provo a lanciare calci e finalmente colpisco qualcosa con il piede. La presa al collo diminuisce brutalmente; riemergo dall’acqua con un verso strozzato, tossendo e prendendo respiri veloci. 

Non ho tempo per pensare, sferro un colpo al gomito dell’assalitore, liberando il mio collo dalla stretta mortale. Apro e chiudo i palmi, pensando di trovarci il coltello, la mente ancora offuscata.

«Cerchi questo?»

Dolore. 

Dolore e ancora dolore. 

Lancio un urlo lancinante, la spalla destra che pulsa e comincia a perdere sangue. Mi ha pugnalato con il mio coltello.

«Leon?!» Toglie la lama, girandola nella ferita, facendomi tirare un grido disumano. «Che cazzo fai?!» Porto una mano tremante alla spalla, provando a mettere a fuoco la vista. 

«Ciò che devo.» Si illumina il volto con la torcia, ruotandosi il coltello nella mano con un sorriso arrogante a rovinargli la faccia, mentre io non riesco a far altro che pensare al dolore alla spalla, provando a tamponare l’uscita di sangue con il palmo della mano. 

Lo guardo sconvolta da terra dove sono, non riesco nemmeno ad alzarmi in piedi. Una lucina arancione lampeggia costante alla sua cintola: allora non me l’ero immaginata. Non faccio in tempo a guardare oltre, nemmeno a difendermi, quando mi colpisce alla tempia con il manico del coltello. Finisco come un sasso in acqua, annebbiata dal dolore straziante.

«Siamo qui.» 

Sono le ultime parole che gli sento dire prima che tutto diventi nero.

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Capitolo 45
*** Capitolo 45 ***


CAPITOLO 45

CALUM

«È impossibile che ci mettano tutto questo tempo» commento, continuando a lanciare i sassolini sull’asfalto da trenta minuti.

«Sarebbero già dovuti essere fuori» annuisce Elyse, tenendo il suo sguardo pensieroso sull’entrata della metropolitana.

«Credevo mi dicessi di rilassarmi» ribatto, sentendo l’angoscia farsi spazio nell’addome. Se anche Elyse è preoccupata, significa che qualcosa è andato storto.

«Lo credevo anche io. Ma il tuo ragazzino è in condizioni precarie. A quest’ora potrebbe già star marcendo.» 

Le rivolgo una faccia disgustata al solo pensiero, anche se dentro di me sento il cuore rimpicciolirsi in un minuscolo punto. È passato molto tempo dall’ultima volta che uno dei nostri è stato morso; mi ero quasi dimenticato il senso di colpa che si insinua nei meandri della mente e che si stringe al petto, bloccando il respiro.

«Gli dò altri cinque minuti-»

«Potrebbe non averli cinque minuti!» sbraito, pensando a Kayla là sotto. Potrebbe davvero non averli. Elyse serra gli occhi, facendo uscire un respiro rumoroso dal naso. «Io scendo. Sei libera di seguirmi o di restare qui.»

«Fanculo al tuo eroismo, Calum. Sai dannatamente bene che vengo con te.» Si rimette in spalla il fucile, controllando le cartucce e togliendo la sicura. Senza dire un’altra parola, si inoltra nella discesa a passo spedito. 

Impugno la katana, ancora sporca del sangue dell’orda di Morti: se siamo riusciti a sopravvivere a quello, non ho timori. Con una rinnovata dose di coraggio e adrenalina, il petto stretto dall’angoscia e dall’ansia per Kayla e Leon, seguo Elyse giù per la discesa, senza guardarmi indietro.

Le domande mi sorgono spontanee una volta arrivati giù, accolti dallo strato di acqua presente sul pavimento. Deve essere successo qualcosa; Kayla non sarebbe mai andata oltre a questo punto, se non costretta. È evidente che più in profondità si va, più questi tunnel sono allagati.

Elyse accende la torcia, puntandola su ogni angolo del grande corridoio che porta alle vecchie scale mobili. Nessuna minaccia. Mi lancia uno sguardo di assenso prima di continuare proprio verso i gradini che portano ai treni, sperando che siano andati da questa parte; odio il fatto che ci possa essere un margine di errore così grande.

Cerco di modulare il respiro ai passi, provando a sciogliere un po’ di tensione nei miei muscoli, ruotando le spalle e piegando la testa da un lato all’altro. Anche Elyse è piuttosto agitata, lo capisco dalla tensione nel suo collo e da come continua a muovere la torcia da una parte all’altra, in cerca di qualsiasi pericolo pronto a sbucare fuori dal buio.

«Ma che…?» sibila Elyse, una volta in fondo alle scale, inciampando e schizzando acqua da tutte le parti con le scarpe pur di tenersi in piedi e non rovinarci dentro. Il rumore echeggia da un lato all’altro rinforzandosi, fino a morire lentamente.

Si china con la torcia puntata a terra, cercando di capire cosa l’abbia quasi fatta cadere, mentre io stringo ancora più forte l’impugnatura sulla katana. Faccio mente locale delle altre armi che ho addosso, ma la cosa non mi fa sentire più sicuro.

Infila la mano tra le minuscole onde dell'acqua, smossa dai nostri movimenti, e ne tira fuori qualcosa di metallo. Mi avvicino a lei e man mano che alza il materiale, scorgo degli anelli che compongono una catena arrugginita. Ci scambiamo uno sguardo angosciato.

Elyse segue il percorso della catena fino alla parete di fianco alle scale mobili che abbiamo appena percorso, illuminando l'inizio degli anelli proprio lì, fissati al muro da una grossa e spessa placca di ferro.

«Fossimo in un'altra situazione, ci avrei scherzato su» borbotto, deglutendo il groppo formatomisi in gola.

Elyse mi ignora e segue la catena dalla parte opposta. Dopo una ventina di passi, si blocca di colpo, lo sguardo rimane fisso sulla parte di acqua illuminato dal fascio di luce. La raggiungo, tentando di non inciampare. 

Il cuore salta un battito. 

La faccia deformata di un Vagante ci guarda dal basso. E la catena è avvolta attorno al suo bacino.

«Chiunque ha fatto questo deve avere una strana perversione.» 

«Calum.» Elyse richiama la mia attenzione a una parete di macerie e calcinacci che blocca la nostra traversata ai binari del treno.

Questa volta, il mio cuore affonda.

«Dove sono finiti?» sussurra Elyse, dando voce alle mie preoccupazioni. 

Mi guardo attorno disorientato, venendo accolto dal solo buio che avvolge l'intero sotterraneo. Le peggiori sensazioni si fanno spazio dentro di me; non c'è modo che abbiano scavalcato quella muraglia e per cosa, poi? 

Perché non sono tornati indietro?

«Qui ce ne sono altri tre.» Mi volto, posando di nuovo l'attenzione sul fascio di luce della torcia. «Sono tutti morti definitivamente.»

Capisco dove vuole arrivare Elyse: se sono morti, significa che Kayla e Leon li hanno fatti fuori. Ciò potrebbe significare che quei due sono ancora vivi e vegeti. A meno che sono stati colti alla sprovvista e non sono stati morsi prima di aver messo fine a quei cadaveri passeggianti.

Perché non sono qui, allora?

Io ed Elyse ci voltiamo all'unisono al suono di un grido stridulo in lontananza. 

Il sudore comincia a colare freddo dalla nuca giù fino alla schiena, i peli si rizzano su per le braccia. Elyse imbraccia il fucile in una presa ferrea, puntandolo da ogni parte visibile. 

Attendiamo. Qualsiasi cosa. Ma non succede niente.

Sento il mio stomaco contorcersi per la tensione. «Cosa diavolo era?» Elyse scuote la testa, deglutendo. Questa situazione non piace a nessuno dei due.

«Continuiamo a cercare» risponde sbrigativa, tornando a perlustrare lo strato di acqua. Non vede l'ora di uscire da questo posto terrificante.

Annuisco, mantenendo lo sguardo più del dovuto dalla direzione dell'urlo, pronto a fendere la lama della katana. Dopo qualche istante di pura tensione, torno da Elyse e subito noto due diversi particolari sulla superficie dell'acqua. Li raccolgo per accettarmi ciò che i miei pensieri mi stanno urlando.

«Sono i suoi.» Il mondo mi crolla addosso non appena vedo i dettagli dei due coltelli.

Lo sguardo di Elyse muta velocemente alla vista delle due lame nei miei palmi. «Cosa cazzo è successo quaggiù?»

Il mio cervello smette di pensare. Si blocca, improvvisamente.  «Dobbiamo trovarli. Alla svelta. Sono disarmati, dobbiamo-»

Vengo interrotto da un forte fischio, poi una luce arancione illumina a giorno il sotterraneo improvvisamente. Devo chiudere gli occhi per il forte contrasto, alzando una mano di riflesso per proteggerli. 

«Finalmente siete arrivati! Calum, Elyse, vi prego di seguirmi.» 

Mi sento stordito; la vista ha bisogno di ancora qualche istante prima di riuscire a mettere a fuoco le immagini davanti a me, ma sono sicuro di aver sentito benissimo una voce femminile dire di seguirla. E ha pronunciato i nostri nomi. 

La cosa terrificante è che so per certo che non è la voce di Kayla.

«Dietro di te!» Elyse mi lancia un grido di avvertimento, troppo tardi perchè io possa fare qualcosa. Con un movimento fluido, vengo disarmato della mia katana e le mie braccia vengono piegate in malo modo dietro alla schiena, facendomi piegare in avanti.

«Sono contenta che abbiate deciso di collaborare volontariamente.» Finalmente riesco a definire con chiarezza i tratti significativi appartenenti alla voce: è una donna giovane, non credo che abbia più di dieci anni rispetto a me ed Elyse. I suoi abiti sono fradici, così come i capelli e ha due graffi freschi sulla guancia destra. «Bene, adesso, in piedi. Avete un’amica a cui far visita.»

Mi prende il mento tra le mani, osservandomi con disprezzo e tirando verso l’alto, poi mi lascia andare con violenza e passa a rassegna Elyse, la quale però è svelta a dedicarle uno sputo in faccia. Se usciamo vivi da qui, devo ricordarmi di darle un abbraccio.

Il tipo che mi tiene le braccia piegate dietro alla schiena mi spintona in avanti, abbaiando un ordine secco. Giro appena la testa per cercare di carpire alcuni suoi dettagli e per vedere se potrei riuscire a sovrastarlo in uno scontro corpo a corpo; è poco più alto di me, ma la sua corporatura è piuttosto minuta, anche se mi sta trattenendo con una forza che sembra non appartenergli a prima vista.

Allungo il collo dall’altra parte, vedendo Elyse sottomessa alla mia stessa condizione da un altro ragazzo, più tarchiato rispetto al mio. È affiancata dalla donna come fosse una sua guardia del corpo, l’unico problema è che tiene in mano una scatoletta che fa scintillare ogni secondo: un taser. Nonostante l’espressione sul viso di Elyse non fa altro che gridare “ribellati”, non posso rischiare la sua vita; basterebbe una sola scossa ed Elyse morirebbe folgorata tra corrente ed acqua.

Non mi resta altra soluzione che continuare a camminare.

Invece che oltrepassare la parete di roccia - come mi sarei aspettato -, ci fanno proseguire a sinistra rispetto a dove siamo arrivati; percorriamo un corridoio umido illuminato dalle stesse luci arancioni, l’odore di muffa e rifiuti organici mi intasa le narici. L’acqua è scesa fino al livello delle caviglie, abbastanza da recarmi comunque fastidio. Cerco di nascondere i tremolii mentre oltrepassiamo quattro Morti legati ad altre catene, che provano subito ad avventarsi sul mio corpo non appena sentono i nostri rumori, ma che vengono bloccati immediatamente dal loro impedimento.

«Alla tua sinistra» sussurra al mio orecchio il ragazzo che mi blocca le braccia. 

Volto immediatamente il capo, trovandomi faccia a faccia con un Morto. Indietreggio, incespicando sui miei passi, scatenando una risata sguaiata da parte dei nostri rapitori. Stringo la mascella così forte che credo che i miei denti possano spezzarsi da un momento all’altro.

Mi spinge avanti, facendomi sbattere contro una porta tagliafuoco, gelida al contatto con la mia guancia.

«Ops, devo aver sbagliato la mira» dice ad alta voce, schernendomi con i suoi amici. Allunga la sua mano e spinge verso il basso la maniglia. 

Vengo spintonato una seconda volta in avanti, facendo aprire la porta con il peso del mio corpo. Solo un’altra persona mi ha umiliato così tanto nella mia vita e per lui non è finita proprio bene. Muovo la mandibola, cercando di diminuire il dolore della botta, ma i miei occhi vengono immediatamente catturati dalla sedia posta in mezzo alla stanza.

«Ce ne avete messo di tempo.» 

Leon, in piedi, dietro alla sedia. 

Seduta, davanti a lui, Kayla.

I suoi occhi si risvegliano alla mia vista, ma dalla sorpresa passano al rassegnamento quando vede il ragazzo dietro di me. Se possibile, si attenua ancora di più quando vede che la stessa sorte è capitata ad Elyse.

Ha il volto rigato dalle lacrime, sangue che le cola dal sopracciglio. È bagnata da testa a piedi e una macchia di sangue fresco sulla sua spalla, ma se il suo sguardo potesse uccidere, beh, saremmo tutti defunti.

«Cosa ti hanno fatto?» mormoro sommessamente, lo stomaco che si contorce in una stretta che mi fa mancare il respiro. Poi, sposto lo sguardo su Leon, indenne - tranne per il morso -, con un sorriso sfottente sulle labbra. «Leon?!» ringhio per la rabbia, anche se non ho ancora capito niente di ciò che sta succedendo.

Dalla vista periferica, capisco che Elyse viene posizionata al mio fianco, ma il mio sguardo è puntato su Kayla.

Sento la porta chiudersi. La donna cammina lentamente al centro della stanza, godendosi tutte le nostre espressioni per minuti interminabili.

«Oh, quanto adoro tutto questo pathos. Ma adesso, bando alle ciance, abbiamo del lavoro da svolgere.» Con un cenno del capo, i due che ci tenevano fermi ci liberano senza troppi indugi. 

«Alt! Non credo proprio.» La donna mi blocca non appena muovo il primo passo verso Kayla. Proprio di fianco al suo collo, a pochi centimetri dalla pelle, infatti, Leon fa spuntare un altro taser. Non c’è bisogno di dire altro per farmi tornare subito al mio posto, con la rabbia che comincia a ribollire dentro di me, crescendo sempre più. Apro e chiudo i pugni, frustrato di non poter fare nulla.

«Quando avete finito questo terribile teatrino...» commenta Elyse, rivolgendosi con astio ai quattro. «Sapete, non è il primo rapimento a cui partecipo, ne avrei anche abbastanza delle pause ad effetto.»

«Divertente.» La donna si avvicina con passo lento a Kayla, ma tenendo lo sguardo fisso su Elyse. «Davvero. Ma, indovina chi ha il coltello dalla parte del manico?» chiede in modo retorico, alzando esageratamente le sopracciglia.

Elyse ruota le spalle nervosamente; si sta trattenendo dallo scoppiare. Io, al contrario, lascio sgorgare dalla mia bocca diverse imprecazioni.

«Adele, non abbiamo molto tempo da perdere...» borbotta uno dei suoi due scagnozzi, alternando lo sguardo da lei a Leon. Questi bastardi sanno del morso e hanno paura che si trasformi proprio qui dentro, assieme a tutti noi.

«Sai, posso ancora sentirti, Joe. Il mio udito è tuttora impeccabile» ribatte Leon, gesticolando con il taser in mano. 

Mentre i due continuano a battibeccare, Elyse mi fa un cenno della testa impercettibile, prima di muoversi veloce alle spalle del terzo ragazzo - l’unico rimasto impassibile durante la discussione degli altri suoi compagni - e con un movimento fulmineo riesce a riprendersi le due pistole che ci hanno sequestrato, puntandone una dritta alla tempia dello stesso e l’altra verso la donna. Adele.

«Sei stata veloce. Astuta, te lo concedo, ma-» Prima che Adele possa dire un’altra parola, lo scoppio di uno sparo rimbomba nella stanza. Non mi rendo nemmeno conto di aver chiuso gli occhi. Leon si tiene il polso con l’altra mano, ma c’è qualcosa che manca: Elyse ha sparato al taser. Mira impeccabile.

«Figlio di puttana!» impreca Leon immediatamente, allontanandosi da Kayla giusto di qualche passo. Abbastanza per provare a fare qualcosa.

Elyse mi lancia una pistola, l’altra è sempre puntata alla tempia del tizio. Riesce a riprendersi anche un pugnale, ora mescolando le carte: la lama piega la pelle del collo del ragazzo, si comincia a vedere il primo rivolo di sangue; la pistola torna ad essere puntata su Adele.

Mi sembra di aver aspettato questo momento da anni, anche se sono passati solo pochi minuti, odio sentirmi impotente in una situazione di alta tensione come questa. Mi sembra di aver ricevuto dieci dosi di adrenalina in un solo colpo per quanta elettricità sento scorrere dentro alle mie vene.

Non perdo tempo a puntare l’arma sull’altro tizio; ora l’unico che può muoversi senza rischiare di venir centrato da una pallottola è Leon, al momento troppo scioccato di aver quasi rischiato la mano. Non che sia molto coerente, dato che da qui a pochi minuti morirà comunque.

«Parla» ordina Elyse ad Adele, in cerca di una spiegazione plausibile. Adele apre e chiude le palpebre con una lentezza inaccettabile, provando a tergiversare il più possibile. «Ora!» il tono di Elyse non ammette deroghe. 

Ma ad Adele non interessa. Deve esserci qualcosa che ci sfugge. Ha ancora un vantaggio nascosto, dev’essere così; altrimenti non sarebbe così tranquilla con una pistola puntata al centro della sua fronte. Apre le dita delle mani come per sgranchirsele, ma da quelle non cade nulla, non come mi aspettavo.

«Leon, mi dispiace davvero per la mera fine che farai. Sei stato davvero bravo a mantenere il segreto» dice la donna, lanciando uno sguardo dispiaciuto al ragazzo al suo fianco. 

La rabbia monta sempre di più dentro di me. Ci stanno solo prendendo in giro. Kayla sembra essere della mia stessa idea, quando sento la sua voce per la prima volta da quando siamo qui sotto. 

«Ne ho abbastanza dei vostri cazzo di giochetti!» grida con voce roca, la vene sul collo che si gonfiano per lo sforzo, «Perchè siamo qui e cosa cazzo volete da noi?»

«Non avrei potuto dirlo meglio» commenta Elyse, facendo un cenno di approvazione a Kayla. Poi preme la lama del pugnale più forte sul collo del ragazzo, aumentando la fuoriuscita di sangue. «Parlate o lui muore.»

Lo sguardo di Adele tramuta velocemente; almeno le interessa qualcosa dei suoi compagni. Comincia a sbattere la punta del piede nell’acqua nervosamente.

«Il campo» interviene Leon, ricevendo un’occhiata fulminante da parte della donna. Finalmente qualcuno si è deciso a parlare. «Siete arrivati prima di noi.»

«Di appena. Qualche. Giorno.» conclude a denti stretti Adele, espirando dal naso, le sopracciglia corrucciate.

«E…?» chiede Elyse impaziente, agitando il polso per far cenno di continuare.

«Era praticamente nostro. Sarebbe stato perfetto per lasciare una volta per tutta questa lurida città. All’ultimo giro di ricognizione, però, vi eravate già insediati voi» spiega Leon, tagliando più parti della storia pur di metter fine alla faccenda il prima possibile. Magari pensa ci sia ancora una speranza per lui. «Così, Adele e Jerry hanno messo a punto un piano per impadronirsene, che prevedeva me come vostra esca. Devo dire di aver fatto un buon lavoro, dopotutto.»

«Ci hai portati qui apposta...» Kayla muove le labbra velocemente, con gli occhi che viaggiano sulla superficie dell’acqua; sta mettendo assieme i pezzi.

«Non potevate semplicemente chiedere spazio per voi?» chiedo con aria saccente, aprendo le braccia, amareggiato da tutta la faccenda, ma soprattutto dal voltafaccia di Leon. Sono stato io a portarlo al campo. Sono stato io ad abboccare. 

«Oh, perchè ci avreste accolto a braccia aperte, non è così?» domanda sarcastica Adele, fermando il movimento del piede nell’acqua e muovendo il collo il modo secco. «Ma fammi il piacere.»

«Se Leon ha percepito almeno un minimo dell’accoglienza che gli è stata rivolta, potrà affermare che sì, l’avremmo fatto» ribatto secco, lanciando un’occhiata furente al ragazzo in questione. 

«Ho provato a sviarli dal piano finale… ma poi è successo questo.» Con il palmo della mano indica il sangue che inzuppa l’intera coscia del suo pantalone. «E ho pensato che è solo colpa vostra e della vostra testardaggine.»

«Tesoro, ti abbiamo salvato dal venire maciullato in modo lento e doloroso. Certo, alla fine morirai, ma questo è del tutto inevitabile» ribatte Elyse, piegando la testa di lato, fingendosi terribilmente dispiaciuta.

«Se noi siamo qui...» Vedo Kayla che sta continuando a scervellarsi, ma non capisco su cosa la sua mente sia fissata. 

«Beh, considerato che quella sarebbe dovuta essere la vostra fine in mezzo a quella gigantesca orda...» commenta Adele, alzando il mento verso il soffitto. Sul suo viso compare un sorriso pieno di malizia.

«Cosa sta succedendo al campo?» chiede improvvisamente Kayla con un ringhio, la sua voce piena di rabbia primitiva.

«Finalmente qualcuno ci è arrivato...» Adele schiaccia l’occhiolino alla ragazza, che si alza con un balzo di ritrovata energia dalla sedia, pronta ad avventarsi sulla donna.

Uno sparo riempie la stanza.

Mi copro la testa, piegandomi sulle ginocchia e chiudendo gli occhi involontariamente. Non c’è tempo per pensare. Elyse ha lasciato andare dallo spavento il ragazzo, che è ora caduto carponi in mezzo alla stanza.

La stanza è crollata nel più totale caos. Ci sono grida, spari che sfrecciano a mezz’aria, una grande baraonda di suoni. Io ed Elyse siamo spalla a spalla, lei spara un paio di colpi alle gambe dei due ragazzi, costringendoli a cadere doloranti per terra. Uno da una parte e uno dall’altra, io ed Elyse ci occupiamo di far rimanere a terra i due, sferrando pugni con l’intento di far loro perdere i sensi. 

Mentre ne tengo uno per il maglione, lancio un’occhiata alla situazione nella stanza: Adele si è rannicchiata per terra, come chiusa a guscio su se stessa, con una pistola stretta in mano sopra alla testa.  Kayla si è avventata su Leon, spingendolo al muro per il colletto e urlandogli parole in faccia, appena a pochi centimetri dal suo viso, le vene del collo che potrebbero scoppiare da un momento all’altro. Sono gli unici dettagli che colgo prima di vedere lo scintillio dell’arma di Adele - ora perfettamente in piedi - mentre scatta senza freni, colpendo in pieno il retro della coscia di Kayla.

«NO!» Non so quale delle due grida sia il più disumano, mentre la vedo, scivolare a terra in preda al dolore, l’acqua sotto di lei che si colora rapidamente di rosso.

Lascio andare con forza il ragazzo tra le mie mani, facendolo atterrare in acqua con un tonfo e raggiungendo con uno scatto fulmineo Adele alle spalle, la mia pistola puntata in mezzo alle sue scapole. Con il pollice, armo la pistola, tenendo l’indice ben saldo sul grilletto, pronto a sparare il colpo finale in qualsiasi momento.

«Getta l’arma» ordino con tono intransigente, il respiro che esce rumoroso dalle narici, la mascella stretta, i muscoli tesi.

Kayla si mette in ginocchio, la vedo sforzarsi con tutta se stessa pur di rimettersi in piedi. 

Non c’è più tempo. Con la mano libera, afferro il polso di Adele, piegandolo in modo innaturale, facendole lanciare un urlo di dolore tra i denti serrati. L’arma cade a terra, lanciando schizzi a rallentatore.

«Figlio di puttana!» Elyse è al mio fianco in un battibaleno.

E poi, tutto diventa silenzioso.

Il coltello sporco di sangue viene fatto volare via da un proiettile, che ha colpito Leon alla mano.

Tutto. 

Troppo. 

Tardi.

Sputa sangue a terra, in cerca d’aria da far entrare nei suoi polmoni. Crolla nell’acqua; lo sguardo una volta inferocito ora svanito. Nei suoi occhi c’è solo paura.

«Kayla, ehi, ehi!» Le mie gambe si muovono da sole, le ginocchia sbattono sul pavimento duro, le mie mani prendono frenetiche le sue, i miei occhi scansionano le sue ferite. «Non puoi morire qui sotto, okay?!» 

Una lacrima le scende da un occhio, un leggero sorriso che le piega le labbra. «L’ho detto anche io» sussurra, tra un singhiozzo e un respiro spezzato, scoprendo i denti ricoperti di sangue. 

Volta il viso per sputare di nuovo. I suoi vestiti sono intrisi dal liquido cremisi proveniente dalle tre ferite subite. Sollevo appena il suo corpo, faccio appoggiare la sua testa al mio petto. 

«Legali!» sbraito l’ordine ad Elyse, non preoccupandomi di girarmi a guardarla. So che eseguirà.

«Non… N-non oltrepassate… la linea, C-calum» dice a fatica, strusciando le mani a terra per cercare di rimanere seduta con le sue misere forze.

«Ti porto a casa, Kayla, andiamo» ribatto frenetico, in preda al panico di poterla perdere tra le mie braccia. 

La alzo in piedi, dopo pochi istanti anche Elyse mi aiuta a tenerla su, gli occhi lucidi, le mani che tremano. Il corpo di Kayla comincia a venir scosso da tremiti sempre più forti, gli occhi che cadono all’indietro, le palpebre che si chiudono. La adagiamo di nuovo a terra. Riprende conoscenza con estrema lentezza, mentre il mio cuore non vuole far altro che uscire dal petto.

«Per favore, Kayla» singhiozzo, stringendola a me, il suo sangue che si sparge sui miei vestiti, sulle mie mani, dappertutto. Lancio uno sguardo terrorizzato ad Elyse, che ricambia con uno pieno di apprensione, dolore e rabbia. «Abbiamo ancora bisogno di te. Non puoi abbandonarci così.»

Elyse tiene le mani premute sulla ferita al torace e alla spalla, provando ad arrestare la fuoriuscita copiosa di sangue. Kayla appoggia una mano debole sulla mia guancia, facendola scivolare sul collo, la sua bocca alla continua ricerca disperata di un po’ di ossigeno.

«Grazie. Per tu-tto.» Mostra un sorriso deformato dal dolore e dalle lacrime, il suo sguardo terrorizzato e agonizzante che passa dal mio a quello di Elyse. «Tutti… e due.» Poi, una crisi di tosse la colpisce con un uragano, muovendole tutto il corpo, facendole emettere gemiti e suoni strozzati. Sputa più volte sangue, che continua a colare dalle sue labbra, giù, giù, giù fino in acqua.

«Aiutami ad alzarla» mi ordina Elyse, scuotendomi la spalla, facendomi rinvenire dal mio stato catatonico. Mi sento come se stessi provando il suo stesso dolore, un male infinito che mi pervade il corpo e si stringe con i suoi artigli attorno al mio cuore, alla mia gola, al mio cervello.

«Non- non… lasciatem-» Le stringo forte le mani, portandole alla bocca e appoggiandoci le labbra.

«No, non ti lascio, amore mio, non ti lascio.» Le mie parole escono come un fiume in piena, interrotte solo dai miei continui singhiozzi e i suoi gemiti sempre più sottili. «Devi resistere, okay? Resisti, ti prego.» Strizza gli occhi dal dolore, un altro colpo di tosse, un altro respiro agonizzante. 

Riapre gli occhi, sento le sua mani stringersi sulle mie, per un attimo vedo la speranza che possa farcela. Ma poi il suo corpo si irrigidisce, le sue iridi si bloccano, i muscoli del suo collo diventano rigidi per istanti interminabili. 

I miei occhi si spalancano, apro la bocca ma non esce alcun suono. Scanso le braccia di Elyse in malo modo, comicio a praticare il massaggio cardiaco in preda al panico più totale. I suoi occhi rimangono aperti, fissi, vitrei. Privi di ogni goccia di vita.

Sento le braccia di Elyse trascinarmi lontano dal suo corpo inerme, stringendomi forte a sè per bloccarmi da fare altri gesti ormai inutili. Singhiozzo tra le sue braccia, in uno stato confusionale; il suo corpo che non si muove più, circondato da un’aureola di sangue, i suoi occhi che continuano a fissare il soffitto, i suoi arti abbandonati nell’acqua.

«Struggente.» 

Con un lampo, mi alzo furioso con la pistola in mano tremante. Puntata dritta alla fronte della spregevole donna dinanzi a me. Lancio un grido liberatorio, come un ringhio feroce che mi sale dalle viscere.

«Divertitevi con quello che troverete al campo» continua, schiacciando un occhiolino soddisfatto.

«Non abbiamo finito con voi.» Elyse arriva al mio fianco, mettendomi una mano sul braccio teso ma pervaso dal tremore. Toglie la pistola dalla mia mano e mi tira indietro. Mi sussurra qualcosa all’orecchio ma ne afferro solo poche parole a casaccio.

Provo a riprendere controllo delle mie emozioni, chiudendo gli occhi, premendoci sopra le mani. Elyse torna dai quattro figli di puttana legati in ginocchio. Io mi giro di nuovo verso il corpo di Kayla, sperando di essermi sbagliato, sperando di vederla respirare di nuovo.

Ma non è così.

Mi inginocchio al suo fianco, le chiudo le palpebre e la prendo in braccio, tirando i muscoli delle gambe, portando il mio fisico allo stremo. Mi sembra di aver perso improvvisamente tutte le energie. Il suo corpo martoriato tra le mie braccia, le gambe e il braccio che penzolano senza vita, la testa che le cade di lato.

«Divertitevi quando si trasformerà e vi mangerà tutti quanti!» Mi giro verso la voce di Elyse, notando che ha liberato Leon dalle corde fatte con i suoi vestiti. «E questa volta, assicuriamoci che la porta sia davvero chiusa» dice, questa volta rivolgendosi a me. Raccoglie tutte le armi cadute e mi raggiunge. Lascia cadere il suo sguardo sul cadavere tra le mia braccia, annuendo lentamente, una lacrima che scappa al suo controllo.

Esco dalla stanza infernale, aspettando finchè Elyse non si è assicurata di averli blindati dentro,  lasciandoli al loro più che meritato destino crudele.

Tutto il resto è offuscato. Non mi rendo conto di essere uscito dai sotteranei finchè la luce non mi colpisce gli occhi.

«Toglietevi di mezzo, cazzo! Ne ho abbastanza di voi!» Elyse corre ai cavalli, sparando a raffica contro un paio di Vaganti, perforando i loro corpi. 

Saliamo sull’unico cavallo rimasto intatto, prima Elyse, poi il suo corpo, infine io. Non l’avrei mai abbandonata alla mercè dei Morti o di quei mostri laggiù. L’avevo già fatto con il corpo di sua sorella, non potevo lasciare che accadesse anche a lei.

Il tragitto verso casa scorre monotono. Ogni volta che provo a guardare l’ambiente circostante, la mia mente mi ricorda del corpo tra me ed Elyse. Alla luce del giorno il suo colorito è uguale a quello del marmo, la sua temperatura gelida.

«Che cazzo…?» La voce di Elyse mi desta dai pensieri autocommiseranti e dal torpore in cui sono caduto. Alzo lo sguardo: siamo arrivati al campo. In fiamme.

I miei occhi si spalancano di nuovo, la fuliggine si attacca nelle narici. Con un colpo secco, Elyse dà ordine al cavallo di sfrecciare all’interno del nostro campo, della nostra casa. I miei pensieri corrono subito alla mia famiglia. 

Scendiamo rapidi dall’animale, cominciando a correre a perdifiato. A destra e manca le abitazioni sono in preda alle fiamme, un fumo nero sale su fino al cielo. Tossisco nel gomito, in cerca di qualsiasi segno di vita. Attraversiamo l’intero campo e finalmente, proprio fuori alla vecchia chiesa, troviamo la nostra gente provata, ricoperta di fuliggine e polvere.

«Ragazzi! Grazie al cielo!» urla Tracey, venendoci incontro e stringendosi a sè. «Siete vivi.»

«Cosa sta succedendo?!» Elyse, in preda al panico. Non credo di averla mai vista così sconvolta dalle sue emozioni come oggi.

«Intrusi. Non amichevoli.» È la voce di Wayne. «Sono stati carbonizzati dalle loro stesse fiamme.» Non faccio in tempo a studiare le sue condizioni che dietro di lui spuntano mia sorella e mia madre. Mi butto tra le loro braccia, stringendole a me come se fosse l’ultima volta.

«Mi dispiace, Elyse.» Sento dire da Tracey con voce rotta. Mi giro appena per vedere il corpo di Blaine giacere a terra, inerme. E subito mi riporta all’altra persona che abbiamo perso oggi. 

Lascio andare la mia famiglia, voltandomi sconfitto verso la strada appena percorsa. Torno da loro pochi minuti più tardi con il cavallo e il cadavere di Kayla sopra di esso. Non colgo nessuna reazione. So solo che le mie gambe si dirigono da sole verso la nostra casa, dalla parte del campo salvata dalle fiamme.

Lascio la porta aperta alle mie spalle, mi sento soffocare. Appoggio i palmi al tavolo della cucina. Alzo lo sguardo e vedo la foto con il vaso di fiori di fianco. Li avevo raccolti per lei questa mattina. Serro le mani in due pugni, le unghie che si conficcano nella carne. In un accesso di collera, scaravento tutto giù dal tavolo con un verso rabbioso; il vetro che si rompe in piccoli pezzi taglienti, sparsi per il pavimento freddo. Le mie spalle si alzano e si abbassano frenetiche, seguendo i respiri mozzati presi dalla bocca e piano piano, scivolo giù, giù, giù fino al pavimento assieme a tutti i pezzi rotti delle cose che mi tenevano assieme.

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Capitolo 46
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

«K, ssh. Tranquilla.» La stringo a me, dondolandola avanti e indietro, fregando la mano sulla sua schiena per farla calmare. Una volta più quieta, le lascio un caldo bacio sulla fronte, ammirandola con orgoglio. «È ora di andare a conoscere una persona.»

Usciamo dal retro, passando per il giardino di casa nostra che sta piano piano riprendendo forma e vita dopo aver passato l’inverno ricoperto di neve e ghiaccio. Il sole primaverile dell’inizio della seconda settimana di aprile è tiepido sulle mie gote e vorrei rimanere qui per ore, ma ho faccende più importanti da sbrigare. 

«Ehi, Calum! Avrei bisogno di-» Mi volto dalla parte opposta, con la faccia verso il giardino dei vicini, vedendo Elyse bloccarsi a metà strada tra l’erba e il percorso di ciottoli. «Stai lontano da me con quella… cosa.»

«Chi? Lei?» le chiedo, già ridendo e avvicinandomi sempre di più alla sua figura, facendola indietreggiare.

«Lo sai che io e i mocciosi non andiamo d’accordo» ribatte con una faccia disgustata, gli occhi fissi sulla neonata tra le mie braccia. Alza una minuscola manina e stringe il mio indice nel suo palmo. «Hai gli occhi a cuore. Potrei vomitare.» Ridacchio, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla creaturina. 

«Stavo andando-»

«Lo so. È oggi.» appura Elyse, rabbuiandosi in volto, ma l’espressione cambia così velocemente che mi chiedo se non me lo sia immaginato.

«Vuoi venire?» Annuisce dopo qualche istante, entra in casa a prendere dei fiori quasi appassiti e insieme usciamo sulla strada principale.

«Jacelyn?» domanda durante il tragitto, forse perchè non la vede assieme a noi.

«Scuola.» Annuisce, infilando le mani in tasca. Questo giorno porta sempre con sé brutti ricordi. «Passiamo da Wayne, magari viene con noi.»

«È impegnato al turno di guardia, assieme a Mali. Hanno detto che ci vanno non appena staccano.»

Mi guardo attorno, distraendomi con tutta la bellezza che esce da ogni casa, da ogni edificio; vasi di fiori, decorazioni, oggetti vintage e da collezione adornano porticati, scalini, giardini. Gli alberi creano un piacevole fruscio con le loro foglie smosse dal leggero venticello. Oltrepassiamo l’orto comune, facendo cenni di saluto alle persone che stanno raccogliendo gli ortaggi e a quelle che stanno seminando nuove piantine. Niente, però, batte il periodo estivo, quando il campo è inondato dai profumi dei fiori freschi sugli alberi.

«Eccoci qua.» La voce di Elyse mi fa ritornare al tempo presente. 

Ci siamo. 

«Sono già cinque anni» commento, osservando le croci di legno intagliate a mano ed incastonate nel terreno. Ci sono già dei mazzi di margherite e violette ad adornare le tombe.

Kayla.

Blaine.

Meredith.

John, Constance, Delilah, Jules e Riley.

Abbiamo tutti perso qualcosa quel giorno: io ed Elyse abbiamo perso le persone con cui avremmo voluto davvero passare il resto dei nostri giorni, oltre che a due cari amici; Tracey ha perso l’ultimo rimasuglio che potesse ricordarle suo marito, oltre che essere la sua spalla nella guida di questo posto; Wayne ha perso un braccio; mia sorella e mia madre hanno perso la loro casa… La lista va avanti.

Non diventa più facile ogni anno che passa.

Dopo aver passato i primi due giorni dopo la sua morte rinchiuso al buio in casa, in un costante stato di dormiveglia così da non dover pensare, affrontare i giorni, le settimane, i mesi successivi è stato ancora più difficile e doloroso. Mi sono fiondato nel lavoro pur di non dover passare un minuto di più nella nostra casa, il costante senso di soffocamento che mi raggiungeva non appena ci mettevo piede dentro. Almeno la recinzione del campo è venuta su prima del previsto, a discapito della mia salute mentale e fisica. 

Ho cominciato ad evitare tutti. Volevo stare da solo con il mio dolore. Con il mio ricordo di lei che mi muore tra le braccia inchiodato nella mente, senza traccia di voler andarsene una volta per tutte. Alla fine ho cambiato casa. Non potevo più sopportare di vivere tra le quattro mura che avevo condiviso per la prima volta con lei, non con tutti i bei momenti che venivano a urlarmi in faccia cosa avessi perso. Ho pagato molto caro l’errore di essere stato io ad aver accolto quel bastardo nel nostro gruppo la prima volta.

Sono stato al suo funerale, sì, ma non sono riuscito ad andare alla sua tomba per i primi due anni. La croce con il suo nome intagliato sopra mi rendeva la cosa troppo reale. Troppo dolorosa. 

Elyse non se l’è passata meglio di me. Uscire la faceva sentire meglio, diceva, ma lo faceva solo per accanirsi sui Morti, uccidendoli una volta per tutte senza pietà. Era furiosa con il mondo intero. Non le davo torto; mi sentivo così anche io. Abbiamo condiviso alcuni momenti del nostro lutto. Ci ha aiutato a reagire più in fretta.

Dopo tre mesi mi sono guardato attorno, accorgendomi di quanto tutti fossero provati dalle perdite. 

Niente era più come prima.

Ma abbiamo continuato a lottare, per far sì che le loro morti non fossero invano. Mai lo sarebbero state, non con tutto quello che avevano lasciato dietro di loro, dentro ai nostri cuori e nelle nostre menti. Ci siamo messi al lavoro per portare Camp Travis al suo massimo splendore; ci abbiamo messo tre anni, ma alla fine possiamo essere orgogliosi di averlo trasformato in una piccola cittadina autosufficiente in tutto e per tutto. I campi fruttano proprio come ci eravamo immaginati, regalandoci frutta, verdura e cereali necessari per il nostro sostentamento. Siamo riusciti a capire l’anno scorso come ricavare il latte dalla soia e dall’avena ed è stato un momento che ci ha cambiato la vita. In meglio, s'intende. Da due anni, festeggiamo ogni sabato con la proiezione di film all’aperto; abbiamo una scuola aperta a tutti; acqua potabile, corrente elettrica ricavata da turbine nel fiume appena fuori dal campo… Molto è migliorato. Non senza intoppi, ma in qualche modo ce l’abbiamo fatta.

Lo facciamo sempre.

E poi, tre anni dopo quel nefasto giorno, ho incontrato Jacelyn. 

Ero fuori con il Gruppo Spedizioni: ci siamo scontrati con cinque persone malmesse che vagavano nei campi da giorni. Sono stato molto scettico nel farle entrare al campo per curarle. Non volevo fare per la seconda volta lo stesso errore; li ho controllati, giorno e notte, non lasciandoli mai soli un istante. Se ci fosse stato sotto qualcosa di sospetto, lo avrei scoperto.

La buona notizia è che non c’era nulla. Erano soltanto dei poveri malcapitati, decisamente graziati dalla sfortuna di aver perso la strada principale per cambiare Stato. La loro destinazione finale doveva essere la Florida; alla fine hanno cambiato i loro piani e sono rimasti qui assieme a noi, apportando un quantitativo di capitale umano al nostro campo di cui avevamo decisamente bisogno, nonostante il mio negare iniziale. Volevo che se ne andassero al più presto, dicevo che non c’era posto per loro. Sarebbe un eufemismo dire che mi sono presto ricreduto. Anche perchè stavo mentendo per proteggere me stesso.

Jacelyn è diventata a suo tempo importante per me. La creaturina che porto tra le braccia è nostra. È stata piuttosto inaspettata. I momenti di panico durante la gravidanza sono stati molti. Eppure, eccoci qua. E quasi come se stessimo gridando al mondo di andare a fanculo, perchè una nuova vita è nata in un mondo circondato da morte.

«Ciao.» Mi piego sulle ginocchia, arrivando all’altezza della croce. «Ti avevo detto che te l’avrei portata.» 

Sollevo mia figlia dalle mie gambe dov’era appoggiata, girandola verso la tomba di Kayla, come se potesse davvero vederla. «Kayla, ti presento Kayla. Beh, in realtà Kayla è il suo secondo nome, il primo sarebbe Alesha, ma non ha molta importanza.» Alesha fissa con confusione la croce davanti a lei, tornando presto a guardare il mio viso. La appoggio sulla mia spalla, cullandola per farla rilassare di nuovo.

«Cinque anni, eh?» sospiro, annuendo tra me e me, perdendomi negli intagli del suo nome sul legno. «Ti sarebbe piaciuto. Avrei voluto che lo vedessi con i tuoi occhi, ma non si può avere tutto dalla vita, giusto?» Sorrido malinconico, allungando lo sguardo oltre l’orizzonte. 

Dopo essere rimasto per altri minuti alla tomba di Kayla, mi alzo e raggiungo Elyse sulla tomba di Blaine, a pochi passi dalla prima. Ha già appoggiato i fiori sulla terra smossa.

«Hai ancora dei momenti in cui ti manca terribilmente?» mi chiede con gli occhi lucidi, i capelli corti che ondeggiano ai lati della testa. Annuisco, appoggiandole una mano sulla spalla. «Mi manca anche lei. Non era poi così male» ammette, facendomi l’occhiolino.

Rido, chinando la testa e scuotendola poco dopo. «Sarebbero fieri di noi.»

«Già.» Ci perdiamo ognuno nei propri pensieri, entrambi a rendere memoria a Blaine. «Gli originali sono rimasti in quattro.» commenta, pensando agli inizi dello Scoppio, a Lynton, Wayne, Mali, io, lei e Blaine. 

Facciamo il giro delle croci, fermandoci più tempo sulle tombe di Travis e Meredith, ringraziandoli silenziosamente per tutto ciò che hanno fatto per tutti noi, per farci arrivare fino a qui. Non sanno nemmeno quanto qualsiasi cosa attorno a noi non sarebbe stata possibile senza di loro. Se non ci avessero accolti quel giorno nel loro bar… Sarebbe stata tutta un’altra storia.

«Già ve ne state andando?»

Ci voltiamo all’unisono, vedendo Wayne e Mali accorrere verso di noi. Hanno appena finito il turno, non sono nemmeno andati a cambiarsi. Mali mi circonda il bacino con un suo braccio protettore, mentre Wayne appoggia la sua mano sulla spalla di Elyse.

«Sono grato di essere ancora qui con voi» riflette Wayne ad alta voce, annuendo e lanciando uno sguardo rapido al suo braccio mancante. 

«“Pochi ma buoni!”» ribatte Elyse, citando una famosa frase che soleva dire il padre di Travis, quando quest’ultimo ci raccontava dei suoi genitori e della sua vita. 

Il sorriso si allarga sui nostri quattro - anzi cinque! - visi pervasi da tutte le emozioni - belle e brutte - che stiamo vivendo in questo momento, ricordando i vecchi, ma poi non così tanto, tempi.

Sarebbero davvero fieri di noi.

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Capitolo 47
*** Ringraziamenti ***


RINGRAZIAMENTI

Dopo cinque lunghi anni, Alive è giunta alla sua conclusione, tra la felicità della sola idea, tra blocchi, scene già pronte nella mia mente e scene mai state raccontate, trama che ha visto continue svolte… Alla fine, eccola qua.

Grazie.

Grazie per aver letto questa storia che avrà sempre un posticino dentro al mio cuore. Grazie per aver commentato ed avermi fatto sorridere e ridere di conseguenza, grazie per le vostre teorie e per le volte in cui sareste voluti venire sotto casa mia a prendermi con fiamme e forconi. Anche tutto questo rimarrà nel mio cuore.

Grazie a me stessa per aver finito dopo anni questa storia e per non aver mollato anche quando ero vicina ad abbandonarla al Magico Mondo delle Bozze di Storie sul mio pc, continuando ad aprire e chiudere la bozza anche quando non riuscivo a scrivere una parola.

Infine, grazie a Kayla, Calum, Wayne, Elyse, Blaine, Lynton, Mali ed Ebony. Mi mancate già, anche se so che rimarrete sempre con me, qualunque cosa accada.

A presto,

- Marina

@lightvmischief

 

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