Spada rossa, cuore bianco

di Makil_
(/viewuser.php?uid=717830)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Giochi nel buio ***
Capitolo 2: *** II - Il timore dell'ombra ***
Capitolo 3: *** III - Il brulichio della vendetta ***
Capitolo 4: *** IV - La fine dei giochi ***



Capitolo 1
*** I - Giochi nel buio ***


Premessa by Makil_: 
Ciò che più preme al momento, almeno da parte mia, è un ringraziamento a chi si trova qui a leggere quest'altra mia [piccola] opera riguardante Pantagos. Volevo scusarmi per l'inatteso ritardo con cui il lavoro si sta presentando quest'oggi, ma non ho potuto far altro che farvi aspettare. L'attesa dovrebbe accrescere il piacere della lettura... o questo mi voglio augurare. Ad ogni modo, vi ringrazio per aver aspettato e per essere nuovamente qui con noi. 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon. 
  • Questa storia, probabilmente divisa in 4 capitoli, sarà narrata da punti di vista differenti di volta in volta e potrà essere letta senza temere spoilers. Il tempo in cui la storia avviene è da collocare prima dell'inizio della Guerra Grigia, perciò questo spin-off si occupa di approfondire il casus belli, su cui molti si sono interrogati. 
  • L'aggiornamento avverrà ogni sabato, salvo imprevisti.

E ora direi di lasciarvi al succo! ^^

 

Cap. I – Giochi nel buio
 
 
Quel corridoio era sempre stato buio, che fosse giorno o notte, e Missy Redrock era l’unica a saperlo.
Le alte pareti scabre del lungo andito si ergevano ambo i lati come due robusti cavalieri retti all’interno delle loro armature, armi alle mani e acciaio sul capo, terrorizzando tutti coloro che osavano mettere piede nella loro tetra sede. Ma Missy Redrock non temeva le ombre, né i cavalieri, né qualsiasi altra forma cui le paure avrebbero potuto sfruttare per manifestarsi all’uomo.
Qui non mi troveranno nemmeno pregando” si disse attraversando il lungo corridoio. Abbassò la testa per schivare una torcia pendente dal muro. “No che non ci riusciranno. Ho vinto io questa volta, Faccia di Capra!”
Percorrendo  la via che la separava dal piccolo androne esterno alle camere private delle sguattere, Missy s’immaginò vestita di acciaio appena sgrossato e rifinito, con sfarzosi diamanti ad ornare la sua magnifica armatura. Si divertiva a fingere di essere una donna fatta, una principessa a tutti gli effetti, una nobile rinomata e temuta: insomma, le piaceva emulare tutto ciò che non appartenesse all’aspetto della sua signora madre che, con un pizzico di stizza sulla lingua, aveva tutte le ragioni di considerare fin troppo pavida.
Strattonò la gonnellina con la mano immaginando che fosse una lunga gonna bianca terminante a strascico e tesa su ginocchiere appena lucidate, e poi si tirò su le maniche dell’abito di seta che, almeno nella sua testa, fingeva fosse ricoperto da spallacci e bracciali del più nobile cavaliere. Finse di trovarsi su una piana appena baciata dai teneri soffi di vento, il sole ad ornare il suo viso, di galoppare con tutta la sua immatura fierezza sul dorso della più bella giumenta delle stalle di suo padre.  
Trova-chi-trova-la-mia-casa era il suo gioco preferito, e non c’era uomo nel castello di suo padre che non lo sapesse. Quasi ogni giorno, specie nei momenti in cui le veniva consentito di allontanarsi da matres Amadya, la sua istruttrice e tutrice personale, Missy si circondava dei ragazzini e delle ragazzine di corte per cimentarsi nell’impiego più bello del suo tempo libero: provare tutti i giochi creati dall’uomo.  Stare in compagnia del divertimento e dell’amicizia le dava più piacere dello stare con la sua tutrice, donna che, con un giudizio probabilmente infondato, riteneva petulante e pignola.
Raggirò l’angolo verso destra e si immise nella coltre di ombre che conosceva meglio di entrambi i palmi delle sue mani. Attraversò il piccolo androne con passo deciso a vincere la sua stessa ombra. Il fiatone della principessina di Corallo Rosso era bloccato in gola come un grumo di saliva, stretto a guisa di laccio alla base del collo, impedendole di riprendere fiato correttamente. Non demorse; doveva vincere… e doveva nascondersi, o Faccia di Capra, quel figlioletto demente di ser Warnick Garasbour, membro della guardia personale di suo padre, le sarebbe arrivato alle calcagna in un batter d’occhio. “Chissà dov’è finito Faccia di Capra”. L’immagine del suo volto reso rubicondo dalla sfiancante corsa la faceva sbellicare dalle risate. “Sarà crepato non appena ho iniziato ad aumentare il passo.”
Se il figlio demente di ser Warnick Garasbour la faceva ridere, però, c’era un altro giocatore in giro per il castello, uno più temibile e molto più veloce. Timmoty Hardhall era il figlio della cuoca, ma non aveva nemmeno un solo tratto in comune alla madre, per sua fortuna. La cuciniera del castello era una donna sempre paonazza sulle guance, costantemente accigliata ed aggobbita sotto ai suoi molteplici strati di grasso. Suo figlio, invece, era scheletrico e scarno, rapido come solo un felino sapeva esserlo e scaltro come la migliore delle volpi. Ogni rumore più lontano faceva trasalire la giovane Missy, che, sentendosi minacciata alle spalle e non volendo rischiare di perdere la partita, si rifugiava accanto all’ombra delle pareti del corridoio.
Continuò a correre verso la porta più vicina, un grosso infisso in robusto legno di quercia che dava su un ulteriore corridoio, molto più largo e lungo, su cui erano disposte le varie camere della servitù. La fronte della principessina di Corallo Rosso era imperlata da migliaia di goccioline di sudore. “Se mia madre mi vedesse in queste condizioni…” Sapeva bene che sorte le sarebbe capitata in questo caso, e rammentarlo in una così tetra situazione non faceva che metterle più paura, quindi più adrenalina. L’ultima volta la signora di Corallo Rosso si era arrabbiata talmente tanto da divenire completamente viola in volto, scoraggiata  enormemente dal comportamento fin troppo poco regale della figlia. Missy, quella volta, si era strappata per intero l’abito che le era stato cucito per la cena regale indetta da suo padre in onore dell’arrivo di patres Lorenol al regno. Allora, Missy si era messa a giocare a Più-in-alto-sempre-più-in-alto e, con il costante intento di prevalere sui suoi avversari, si era arrampicata sull’enorme quercia stagliata contro il cielo che cresceva nel giardino interno della Rocca Rossa: un luogo molto importante per suo padre, che tutti si apprestavano a chiamare Conca di Pietra. Quella volta, sua madre aveva veramente perso le staffe, e per una settimana intera l’aveva tenuta d’occhio come solo un segugio avrebbe saputo fare, guardandola in cagnesco e non mancando di rimproverarla ad ogni occasione. Se solo avesse saputo e potuto ringhiare, lo avrebbe fatto sicuramente e molto volentieri. Missy non era terrorizzata neppure da quello, ora, tanto la sua febbricitante eccitazione per la prossima vittoria era palpabile.
Chi sarebbe venuto a rinvenirla in quel lontano corridoio del castello? Nessuno, era questa la risposta. Solo le ombre. E le ombre non avevano né la forma né l’aspetto di quei due imbecilli che le tenevano la coda.
Con tutta la forza del suo gracilissimo corpo, si gettò di peso sul portone di quercia. Quel gesto lo fece aprire con molta lentezza, ma non gli diede il tempo di cigolare per più di due meri battiti di ciglia. Missy sorrise soddisfatta, poi continuò la sua corsa. «Missy, figlia mia, un giorno o l’altro rovinerai la tua reputazione di donna. Una principessina non dovrebbe scorazzare in giro per le viottole del castello. A te, mia dolce e bella Missy, si conviene altro: un giorno dovrai sposarti, un giorno dovrai dare al mondo la discendenza del tuo nobile marito. E come lo farai? Come ci riuscirai? Sbucciarti le ginocchia e distruggere la seta dei tuoi abiti non farà di te una nobildonna, ma un’umilissima garzona!». Le parole di sua madre le risuonavano nella testa rombando come tuoni prima di un temporale.
Al diavolo le nobildonne, allora! Missy non ne poteva proprio più di tutti quei discorsi sulla sua postera condizione di donna; ora voleva vivere l’età che aveva, un’età che ancora – e ancor di più per le sue aspettative – la faceva veramente molto giovane.
Per poco non inciampò su un tappeto di curatissima provenienza tytiana che le scivolò sotto ai piedi. Si girò giusto un momento per guardarsi alle spalle: di quei due moncherini coi piedi che le davano la caccia non c’era neppure la più vaga ombra.
Fu allora che Missy riprese a correre con più velocità. L’androne dentro al quale si ritrovò era come la piazza del castello in cui convenivano tutti i corridoi che portavano alle camere della servitù. La corte difficilmente andava a far visita a quell’ala di Rocca Corallo, poiché in molti sostenevano che in quel cupo ambiente del palazzo ognuno vivesse in condizioni di estrema sottomissione e che, respirando l’olezzo presente nell’aria, chiunque fosse costretto a divenire a sua volta un servo. Non c’era un briciolo di verità neppure in quelle dicerie, notò con dispiacere Missy, dalla cui constatazione fu non poco rammaricata. Il mistero e l’avventura erano il suo pane quotidiano, e avrebbe tanto voluto trovarsi al cospetto di uno di quei profumi che si diceva inebriassero la mente dei bambini e degli anziani, giusto per poter andare in giro a vantare di essersi trovata ad un passo da tutto ciò che si narrava.
Continuò a correre a fatica, impiegando gran parte delle sue forze per compiere l’ultimo slancio verso il nascondiglio più improbabile del castello: la stanza di una di quelle serve.  Le finestre presenti nel corridoio non venivano pulite da un po’ di t empo, a dispetto del fatto che si trovassero proprio nell’ala del castello in cui albergavano le sguattere. Una di queste, però, non era macchiata da alcun tipo di copertura rossiccia o polvere, e ciò permetteva ad un po’ di luce lunare di scontrarsi sul pavimento di pietra, producendo una sfilza di striature bianche come il quarzo, quasi fossero venature lattiginose conficcate nella roccia.
Mentre attraversava il corridoio, la sua attenzione fu attirata altrove da una serie di rumori e suoni gutturali provenienti da una sala poco distante. Per quanto ne sapesse, quella doveva essere proprio la stanza adibita alla sartoria, un luogo sempre molto silenzioso e riservato. Il battente del portone che dava sulla stanza riservata ai sarti era semiaperto, e ciò consentì a Missy di gettare un’occhiata fugace al suo interno. A primo impatto, non colse assolutamente nulla.
Il lamentio femminile si fece sempre più grossolano e sgradevole, e la curiosità spinse Missy a dimenticarsi di ciò che stava facendo da una manciata di minuti: correre.
La principessa di Corallo Rosso si avvicinò lemme lemme al portone striato di bronzo, posò le sue delicate manine sul battente e fece forza per spostarlo, senza curarsi di chiedere il permesso. Missy conosceva le buone maniere: sua madre Octawya aveva fatto di tutto pur di impartirle un po’ di sani principi nobili, ma lei si era sempre rifiutata di darle il piacere di poter dire che sua figlia le conoscesse. C’era nell’animo di Missy una sorta di fiamma, una scintilla di ribellione giovanile che veniva alimentata dal continuo dissentire sulle decisioni dei genitori e dal continuo infrangere le regole della buona convivenza a corte. E tutta quella trasgressione, in fin dei conti, la rendeva felice.
«Mia signora». La sarta di Rocca Corallo era completamente rossa sul volto e sulle vesti, come se avesse appena portato alla luce un bambino. Dalle sue maniche colava liquido rosso, abbastanza denso, a flussi copiosi.
«Cos’è successo?» chiese Missy inorridita dalla vista. Che avesse ucciso qualcuno? Missy fece per indietreggiare nuovamente verso l’uscita, ma, colpita da un inatteso stato di irrequietezza, batté il tallone contro la porta e ciò che ottenne fu solo la sua chiusura. Per un attimo, la sua vista di offuscò. Batté tre volte le palpebre. «Dove ti sei tagliata? Sta’ indietro o chiamerò mio padre! E tieni le mani alzate!»
«Mia signora» iniziò la sarta con voce fioca, ma pronta silenziare la principessa. La donna, rubiconda in volto e con qualche capello canuto sul capo, afferrò i lembi della sua tunica e li alzò. «Questo non è sangue, principessa. Si tratta di tintura
«Tintura?» domandò incredula Missy. Di colpo prese a ridere.
«Oh sì, mia signora. E non serve chiamare vostro padre… egli stesso mi ha dato ordine di fare questo lavoro per lui.»
«Che lavoro?»
La sarta indicò un’enorme bacile di rame posato su una base di pietra liscia. Al suo interno stava ribollendo un liquido rossastro, dello stesso colore del sangue, ma molto più denso e con molti più grumi. 
«Ho dovuto fare tutto da sola, mia signora. Non dite a vostro padre che mi sono mancate le forze e che, alla fine, ho rovesciato tutto… ve ne prego. Lui… lui…»
«Lui?»
«Lui ci teneva davvero tanto.»
Missy era confusa. Si guardò intorno per capire davvero cosa stesse succedendo, ma non notò nulla di strano nel laboratorio della sarta. Tutto era proprio come sempre lo aveva conosciuto: pile di armadi ripieni di stoffa, tre scrivanie poste a ferro di cavallo con al centro un cesto ripieno di tessuti, seta a destra e manca, numerose sedie impilate l’una sull’altra, con qualche cuscino sfilacciato ai loro piedi. C’era anche un letto semidistrutto poggiato sulla parete alle spalle di una delle scrivanie, zona su cui era stata ricavata una sorta di balconata stretta che adesso si trovava chiusa da un infisso.
«A cos’è che teneva davvero tanto?»
«Lui… lui… lui mi aveva commissionato un compito, mia signora. Ma non credo di avere l’ordine di poter dire altro». La sarta fece per allontanarsi ed afferrò il lungo mestolo ancora sporco di tintura rossa fino al punto in cui il suo bastone era stato immerso nel bacile. «Ora perdonatemi, mia signora, ma se non farò in tempo ad estra… volevo dire, se non farò in tempo a controllare il tutto, credo che combinerò un gran pasticcio. Molto più grande di quello che già ho fatto… credo.»
Missy la guardò torva ed inarcò le sopracciglia. «Che compito?»
Sapeva bene come, da lì a poco, avrebbe cavato via ogni parola dalla bocca di quell’inutile sarta, e questo perché conosceva i limiti di quella donna e sapeva bene quanto contasse per lei la parola di un superiore.
«Io… io… sono stata mandata al porto questa mattina, per ordine di vostro padre. Principessa… ve ne prego, non so se posso dirvi qualcosa del genere, per cui non fiatate in giro. Vostra signoria Renegar Redrock mi ha chiaramente detto di recapitare per lui una sorta di cassa. Ecco, sì… e con quella cassa …»
«Una cassa con cosa?»
«Una cassa contenente dei molluschi rossi da cui avrei dovuto tirar fuori il colore. Ecco, la nave mi ha portato davvero questa cassa di legno… il comandante ha detto di averne presi a bizzeffe sulle coste di Corallo Rosso, come mai ne aveva presi in vita sua. Una premiata abbondanza, così l’ha definita. Però io temo di essere negata per questo lavoraccio… e… e… e non riesco proprio a far venir su il colore.»
Missy si mise in punta di piedi per scorgere il bollore del contenuto nel bacile. Il liquido denso e rosso come lava vulcanica stava scoppiettando nel suo contenitore di rame e numerose bolle d’aria si erano formate tutte sulla sua superficie.  «E perché mio padre vorrebbe questo?»
«Ah, su quest’argomento non ho proprio risposte da darvi, mia signora… credetemi nella parola; la parola di una donna come voi.»
“Donna come me” pensò disgustata Missy. “Questa sì che è un’offesa”.  Le credeva? In realtà non ebbe il tempo di pensarci due volte su, poiché la sua attenzione fu presto attirata da altro: un rumore, poi un’ombra e dopo ancora una sagoma nella penombra della sala, proiettata proprio su una delle pareti. Un fruscio sibilante squarciò l’aria come fosse stata tagliata dal gelido filo di una daga immersa nelle acque ghiacciate di un laghetto. Missy si guardò intorno  e scorse rapidamente una figura fuori dalla vetrata chiusa che dava sulla balconata. Il bagliore dello sguardo dell’intruso si piantò nei suoi occhi e la fece tremare; un brivido le percorse la schiena nel sentirsi addosso lo sguardo di quello sprovveduto; un’occhiata famelica, viscidamente scrutatrice, che parve indispettirla e molestarla come se si stesse facendo strada nei cunicoli interni della sua testa, tra i pertugi della sua innocenza. Fu come un lampo nel bel mezzo di un temporale, e con la stessa rapidità con cui la avvistò, la sagoma dagli occhi tenebrosi scomparve. La principessa di Corallo Rosso si sfregò gli occhi con le nocche delle dita, credendo di essere precipitata, all’improvviso, nel sonno… ma così non fu.

Stava per aggiungere qualcosa in risposta, forse un grido di stupore e paura, ma la porta alle sue spalle si aprì con un rumore assordante. Un lungo e profondo sospiro portò con sé l’ingresso per niente teatrale di sua madre, Octawya Datterwack, che penetrò nella sala a rotta di collo. La sua signora madre era una donna avvenente, o almeno così dicevano i molti in giro per il castello, e il modo in cui conciava i propri capelli la faceva apparire molto più giovane di quanto non fosse. A dispetto di ciò, in quel momento, sembrava che su di lei fosse calata la furia di una burrasca infervorata.
«Missy!» vociò come inalberata. «Che tu sia dannata, figlia mia! Ti abbiamo cercato per tutto il castello sperando che tu non fossi stata rapita da qualcuno. Ti avrò detto mille volte di smetterla di darti da fare con queste inutilità che tu chiami giochi! Cos’è che dobbiamo fare per tenerti ferma una volta tanto? Ti farò cucire quegli abiti in modo talmente stretto che non avrai neppure più modo di alzare il braccio per grattarti. E voi sarta… voi…». Octawya Datterwack lanciò uno sguardo in cagnesco alla donna addetta alla cucitura, la quale si rannicchiò fino a sprofondare nella sua veste per la vergogna.
L’ira aveva devastato completamente i connotati di sua madre, ma non aveva intaccato la bellezza del suo portamento nobile. La signora di Corallo Rosso era molto regale quella sera: il suo abito porpora dalle maniche ad altezza di gomito e dal lungo strascico terminava  con un collo dall’importante curvatura che si apriva dietro la sua testa come la coda di un pavone. Sulle braccia erano tesi un paio di lunghi guanti di un bianco talmente lucido da scintillare alla vista della luce, appuntiti in prossimità delle sottilissime dita della donna. Le forme di sua madre erano messe in risalto dalla rigidità del vestito sulla vita e dalla strettezza della seta sul petto che le ingigantiva il seno, sopra al quale erano tese due fila di collane d’oro al cui centro splendevano due ametiste tonde, sfavillanti come astri tumefatti in un cielo plumbeo.
Nello scorgere la vergogna sul volto della serva addetta alla cucitura, i lineamenti appuntiti del volto di sua madre si fecero rigidi quasi quanto quelli della sarta, che, però,  stava tremando di paura, come fosse stata appena colta da un improvviso attacco di panico. La donna chinò il capo e abbassò lo sguardo, limitandosi a riposare il mestolo di legno all’interno del bacile gorgogliante.
Octawya Datterwack tirò un sospiro profondo, lo stesso che aveva preannunciato il suo arrivo. «Andiamo Missy!». L’afferrò per il braccio sinistro e la scosse con rabbia, inducendola a ridurre la forza con cui si era piantata al terreno. «Matres Amadya ti sta aspettando nei tuoi alloggi privati, come ogni sera… e tu sei costantemente in ritardo! Un giorno o l’altro anche lei ti tirerà le orecchie, figlia mia. E se non sarà lei a farlo, allora pagherò un uomo che lo faccia!»
Missy si lasciò rimproverare senza neppure ribattere e senza dare quasi ascolto a quella parole pungenti. La principessina era ancora terrorizzata dalla vista della sagoma fuori dal balcone del laboratorio della sarta, quell’ombra indistinta che l’aveva smembrata soltanto guardandola. Era stata l’unica a vederla? Si era trattato di un frutto di quella testa che sua madre definiva piccola, chiusa e assente, o forse c’era davvero qualcuno lì fuori, con la sua aria fastidiosamente puntata sulla principessa di Corallo Rosso?
L’avidità e la cupidigia avvistate in quell’occhiataccia le avevano infuso un timore mai provato prima, e ora Missy si sentiva come se avesse percepito qualcosa che nessun altro aveva avuto mai il potere di sentire.
Mentre sua madre la trascinava verso l’ala illuminata ed abitata del castello, passando, però, attraverso corridoi più accesi dell’andito attraversato da sua figlia, Missy non poté che far finta di non aver mai visto nulla… ed abbandonarsi completamente nelle braccia della furia di sua madre. Rivide i ragazzini sfiancati da cui stava scappando nel giocare a trova-chi-trova-la-mia-casa. Incrociò il suo sguardo con quello di Timmoty Hardhall, le mani poggiate allo spesso pilastro di un androne della rocca, orrendamente ripiegato su sé stesso dalla fatica della corsa, il volto pallido e lattiginoso appena puntellato da uno spruzzo di lentiggini color ruggine.
Rivolse uno sguardo a sua madre. “Alla fine sono stata trovata… e ho perso. Due mostri… quell’ombra e ora lei… lei…”. Missy si ritrasse dalla sua presa, ma ella strinse di più i suoi artigli nella seta del suo abito. Alzò appena gli occhi verso i ciondoli che le scendevano dal collo. “Lei deve spaventarmi di più.”
 


Note d'autore:
Ritornano i brevi spazi in cui vi pongo delle domande... devo ammettere che mi sono mancati abbastanza. 
In questo primo capitolo, veniamo a conoscenza di un personaggio abbastanza immaturo: si tratta di Missy Redrock, la figlioletta di Renegar Redrock, principessina di Corallo Rosso. Cosa pensate di questo personaggio, alla luce dei fatti appena letti?
La sua passione per il gioco e la sua continua volontà di irritare la madre la conducono in un luogo sbagliato e in un momento altrettanto scomodo. Ma si può temere qualcosa o qualcuno all'interno della propria casa? 
Tra una sarta confusionaria e una confusione generale, qualcosa desta la vista della nostra Missy. Di cosa pensate di si possa trattare?
E, infine, alla luce delle parole della stessa principessina, degli atteggiamenti della sarta e della medesima signora, cosa pensate di sua madre Octawya Datterwack?
Sono molto curioso di sapere cosa ve ne pare!
Vi saluto con un caloroso abbraccio, dandovi appuntamento al prossimo aggiornamento [sabato 12 c.m]: chi pensate che possa essere il successivo PoV?
Makil_

P.S. Ovviamente avevamo già sentito parlare di Renegar Redrock nella trama principale, dato che da lui è scaturito tutto il conflitto armato che poi ha avuto serie ripercussioni sulla vita di ogni abitante del continente. Vi rimando al capitolo in cui il tema "Redrock" è trattato: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3630529


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II - Il timore dell'ombra ***


Premessa by Makil_: 
 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon.
  • I fatti narrati ne "Spada rossa, cuore bianco" sono da collocare nel 29 AG, a dispetto di quelli narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda" del 31 AG. 

 
Buona lettura! ^^


 

Cap. II – Il timore dell'ombra
 
 
Il mare, come ogni sera accadeva, si trovava in combutta con le scogliere.
La grande lotta delle maree iniziava sempre al calar del sole, quando la grande stella immergeva le sue calde diramazioni celesti nel grande flusso d’acqua ai suoi piedi, dando vita ad un esplosione cangiante di luci e colori, in un caleidoscopio dalle infinite sfumature. L’inarrestabile forza dell’acqua produceva i medesimi boati che avrebbe prodotto il ruggito di un vulcano infiammato, rovente e pronto a sputar fuori la cenere e i lapilli bollenti del suo ventre.
Corallo Rosso sorgeva su un’irta scogliera massiccia, le sue torri gemelle, alte quasi quanto un acrocoro, s’innalzavano più rigide del massiccio, forti e robuste, l’una dietro l’altra a combattere le intemperie dell’isola. Il rosso tingeva ogni balaustra, ogni pietra, ogni doccione e finanche gran parte delle guglie del palazzo reale, la grande Rocca Rossa che, dalla più alta zona del regno, primeggiava su ogni altro edificio costruito dal primo Redrock insediatosi nella Punta.
Il seggio di casa Redrock era poco più grande di una cittadina modesta delle coste della regione, eppure il suo castello aveva la nomea di essere uno dei più misteriosi e tetri, sia per quanto riguardava il suo passato, sia per quanto aveva da dire il suo presente. La quattro cinte murarie che facevano da perimetro alla Rocca Rossa si distinguevano tra tutte a causa delle loro insolite sfumature color porpora, così tinte per il fatto che, a detta di molti uomini del popolino, in epoca di costruzione, il loro cemento fosse stato impastato col sangue degli operai. Il popolino che crede veramente ad ogni cosa è folle e stupido; questo aveva pensato l’odierna signora del regno la prima volta che aveva messo piede nella casa di suo marito. Ma presto, molto presto, era stata costretta a contraddirsi.
 La Rocca Rossa era tremendamente spaventosa. Molto era il terrore che le sue mura instillavano nel cuore di coloro che si spingevano a guardarla dal basso con aria superba. Tra gli anfratti delle rocce utilizzate nel costruirla si poteva scrutare ancora lo sguardo ferreo del primo Redrock che aveva posato la pietra: uno sguardo che aveva ogni membro di quell’antica casata. E che aveva anche suo marito, nonostante tutto.
L’ambiente salmastro e la sua aria sempre satura del sale marino facevano di quel castello una casa in cui Octawya Datterwack, signora di Corallo Rosso, non si era sin da subito sentita a suo agio. La sua dimora natia era Southport, il celebre regno della Punta affacciato sulla costa, abbastanza noto in gran parte del mondo per il suo ricco porto proliferante di vita e mercanzia. Quel regno le aveva dato i natali, e lei lì aveva insediato le sue radici. Ma queste non avevano resistito neppure un solo istante il giorno in cui suo padre, Romid Datterwack, aveva deciso che era giunta l’ora più fertile della vita della sua bambina, e aveva decretato che fosse mandata a Corallo Rosso, per conseguire la celebrazione del matrimonio tra lei e suo marito Renegar Redrock. Inizialmente, ella si era sentita come un pesce abbandonato sul lastrico, come un fiore sbocciato sul picco di un monte solitario, eppure Renegar aveva fatto di tutto per renderla parte della sua casa. Alla fine, volente o nolente, Octawya aveva dovuto assistere alla sua trasformazione.
 Il clima estraneo di quella corte divenne presto parte di lei, e quel tetro ambiente politico mutò nella sua unica e sola dimora.
Ma estranea e cupa le sembrava ancora ogni notte, nelle ore più profonde della sera, momento in cui Octawya si ritirava nei suoi alloggi privati, nell’attesa che Renagar giungesse al talamo dopo aver portato a termine le ultime faccende politiche ed aver smesso di tastarsi le tempie nella speranza di trovare un accordo ai suoi numerosi problemi da sovrano. Non passava notte senza che quella storia si ripetesse: Octawya se ne stava a contemplare il vuoto fuori dal balcone della sua camera, le mani a sfiorare il davanzale, lo sguardo piantato in basso, giù, proprio verso il mare furente, immersa nelle sue memorie di donna, il terrore negli occhi.
In quel momento, il fragore di un’onda scagliatasi sulla scogliera la fece trasalire.
“È buffo” si disse osservando dall’alto la furia del mare. Le scappò un lieve sorrisino. “È buffo quanto ancora io sia spaventata da queste tempeste”. Ricordava come, da piccola, quando i temporali e le maree infuriavano, ella correva a rintanarsi sotto il proprio letto a baldacchino o, se i suoi genitori glielo consentivano, proprio nel loro talamo nuziale, al centro, tra i due signori di Southport. Una cosa che accadeva ben di rado, ma che la sua mente non aveva ancora obliterato, tanto era attaccata ai rimpianti e ai rimorsi passati. Forse quella casa le piaceva meno di quanto desiderasse pensare.
Rimase immobile a respirare a pieni polmoni l’aria e fresca e salata della notte, le mani saldamente attaccate al davanzale scabro di quella finestra. Un tempo, anche puntare giù lo sguardo le aveva infuso terrore: la paura di precipitare nel vuoto da quell’immensa altezza, il timore di scagliarsi, anche lei come le onde, contro le scogliere alla base. Quelle paure avrebbero mai smesso di perseguitarla un dì?
Le uniche cosa che, ora come un tempo, le davano spesso conforto erano le luci provenienti dall’estremo sud, punto verso il quale la finestra della torre puntava. Laggiù, le luci sfavillanti di Caantos, l’isola dei Principi, erano gioia per la vista, uno spettacolo di lanterne e fiotti di chiarori festosi da cui Corallo Rosso era separato per mezzo del mare. 
Se sotto incombeva la vista di un mare tetro, profondo, scuro e perennemente rabbioso, sopra le stelle del cielo buio illuminavano la vastità della notte, messe in risalto dal chiarore di un’imperfetta mezzaluna ridente.
“Persino la luna ride di me.”
Octawya Datterwack si sistemò i guanti bianchi che indossava in ciascuna delle mani, tirandoli su all’altezza del gomito. Sciolse la collana d’oro finissimo che teneva cinta al collo e la posò con un gesto delicato nel comodino in legno che aveva sulla sinistra. Con entrambe le mani prese a tastare la base del suo collo, lasciando che il sospiro del vento notturno le baciasse la pelle come il più inclemente degli amanti, che facesse scorrere su di lei le sue dita provocandole un brivido lungo tutto il corpo. Chiuse gli occhi e si lasciò coccolare dalle fredde carezze del vento.
“Una notte fredda ed una donna che sta per diventarlo. Cosa posso odiare di più in tutta questa fastidiosa vita?” si chiese rammaricata.
Per Octawya esisteva una sola consolazione: l’amore che provava per sua figlia e per suo marito, quello stesso uomo che, ormai da un po’ di tempo, aveva smesso di darle le attenzioni che le aveva riservato durante i primi anni del loro matrimonio. Osservò ancora una volta le insenature che le scogliere formavano alla base della torre. “La mia lotta contro questo mare non avrà mai fine.”
Due colpi perentori sulla porta alle sue spalle la riportarono istantaneamente alla realtà.
«La porta è aperta. Avanti.»
«Mia signora». La languida voce di matres Amadya preannunciò il suo ingresso prima ancora che ella facesse capolino dall’ingresso. «Perdonatemi per il disturbo a quest’ora della notte. La questione è urgente. Temo che la principessina Missy si sia gravemente ammalata quest’oggi… il suo corpo è flaccido, la sua pelle sempre più giallognola, e lei stenta a prendere sonno. Ha le labbra viola, appena spaccate… che possa trattarsi di vaiolo nero? È da più di un’ora che lamenta dei fastidi.»
«Come sarebbe a dire?»
«Sì, mia signora… temo proprio che la principessa sia rimasta vittima di un’influenza in stadio avanzato. Deve aver preso fresco, senza dubbio… e, anche se non credo necessario allarmarsi, farei comunque affidamento sulle parole di un incantatore. Non vorrei, ecco… che possa trattarsi di altro.»
«Mia figlia è nei suoi alloggi?» domandò Octawya facendosi impettita. Che avesse causato lei quel malessere in Missy? Forse i suoi modi erano stati inadatti qualche ora prima. Non era certo un’incantatrice né una cerusica, ma sapeva bene che, a volte, la vergogna e la paura potevano tramutarsi in malanni e colpi di febbre. «Andiamo, fammi vedere come sta.»
Matres Amadya, una donnetta bassa e grassoccia, dai capelli corvini e un accenno di rughe da vecchiaia, le fece strada verso le scale.
«Seguitemi, mia signora» disse spalancando il braccio verso le scale che scendevano in direzione del terzo piano della torre, sede della camera privata di Missy e dell’alloggio della stessa esperta.
«Conosco la strada». Octawya Datterwack precedette la matres e prese a scendere ogni gradino di quello stretto passaggio della torre. Nel farlo, per più di due volte, il lungo strascico del suo vestito le si insinuò tra le gambe facendole temere il peggio nel momento in cui, per errore, vi posò sopra il piede. L’ormai anziana matres si fece zittire senza ribattere con un solo sbuffo, chinando il capo e lasciando che la sua signora svolgesse quello che il suo ruolo di sovrana implicava. Non appena arrivò nell’androne in cui erano ubicate le stanze di Missy, afferrò il battente della porta e la aprì di forza.
L’alloggio privato di sua figlia era molto più piccolo della camera riservato ai due signori di Corallo Rosso. Le pareti della torre davano alla stanza una forma circolare e poco rigida, attraversata in quattro punti da un paio di bifore. Non c’erano ornamenti nelle pareti della camera all’infuori di due poderosi armadi scuri ed uno stendardo rosso fuoco, per nulla in risalto in quel luogo di per sé porpora. Un lungo tappeto vermiglio si estendeva in lungo dalla porta fino alla base del letto di Missy. E fu lì che scorse sua figlia, quasi come fosse in fin di vita.
Octawya trasalì e portò entrambe le mani al petto. «Che cosa le è successo?»
Giunta ai piedi del letto su cui Missy stava riposando, poté esaminare meglio la condizione in cui versava sua figlia. Il volto ossuto di Missy era più lattiginoso che mai; le sue guance completamente paonazze, come fosse stata rese ebbra da una lunga permanenza in taverna. La bocca di un viola sbiadito, del colore dei lividi, era semiaperta. I suoi curati capelli color dell’ebano erano completamente spettinati ed arruffati e i suoi occhi erano chiusi con una forza barbara. Sulla fronte e sul collo, una serie di goccioline di sudore colavano verso il basso, l’una più rapida dell’altra, come stessero gareggiando a chi riuscisse a scappare prima da quel corpicino sfiancato.
Octawya si fece rossa in volto e s’inalberò non poco nel vedere la tristezza impressa nei bei lineamenti di sua figlia. «Che genere di febbre riduce in questo stato una bambina?»
«Non ne ho idea, mia signora… io giuro di averla trovata così. Non ho colpe, giuro anche questo.»
Octawya piegò duramente la bocca e guardò la donna con fare cagnesco. «Chi si scusa si accusa, matres. Dov’eri mentre mia figlia perdeva i sensi? Parla, donna! Il tuo compito è quello di restare sempre accanto alla mia bambina… sempre! »
Matres Amadya sgranò gli occhi. «Mia signora… io… come potete mettere in dubbio la mia onestà e la mia dedizione? Io non immaginavo… insomma… l’ora era tarda, io mi trovavo nella mie stanze… ma… ma dei lamenti mi hanno richiamata qui, negli alloggi di vostra figlia. La principessa stava molto male… mi ha detto che non riusciva a chiudere occhio e che sentiva freddo. Molto freddo. Le ho preparato all’istante un impacco di vino di ciliegia da poggiare sul capo, ma non ha funzionato. Lei lamentava… lamentava…». A quel punto la donna sembrò farsi cupa e tentò di trattenere a stento le lacrime.
“Piange per addolcirmi. Crede che io sia una donnetta come lei, incline al sentimento” pensò Octawya. “Insulsa donnicciola da quattro soldi.” «Lamentava cosa, di preciso, matres Amadya?»
«Paura. Una paura spropositata per il buio» rispose secca l’esperta. Dopo d’allora non riuscì più a trattenere le lacrime, che sgorgarono dai suoi occhi con la furia di un fiume in piena. «La paura… la paura delle ombre. Ecco… forse la vostra presenza avrebbe… insomma, voi non eravate con lei…»
“Questo non dovevi dirlo”. «La principessa non ha paura del buio. Vuoi forse insinuare che io non sappia da cosa mia figlia è terrorizzata e da cosa non lo è? Vuoi forse insinuare che io non sia adatta a crescere la mia bambina? Mia figlia sarebbe in grado di restare un’intera giornata da sola in uno sgabuzzino deserto, ma non verserebbe mai e poi mai una sola lacrime di terrore. Tu, invece, donna, stai sprecando ogni liquido del tuo corpo per difenderti da me… di cosa hai paura? Missy Redrock è la figlia di Renagar Redrock, un uomo che non teme nulla. Gradisco che tu non parli mai in questo modo di lei. E gradisco che tu ti inchini a me, donna.»
«La mia non voleva essere un’offesa, mia signora. Purtroppo queste sono state le sue parole, ma farò ciò che mi chiedete». Matres Amadya piegò la gamba destra fino a poggiarla per terra. Reggendosi a stento sul ginocchio, prese a chinare in avanti il busto portando la mano sinistra al petto. Tremò nel trattenersi in quella posizione finché non perse completamente l’equilibrio e cascò sul suolo.
“Cosa sto facendo?” . All’improvviso si sentì confusa, un’altra volta estranea a tutti quei ritmi di corte. L’ira le aveva dato al cervello, come spesso accadeva, e l’impossibilità di fare qualcosa per il bene di Missy la stava mandando fuori di testa. Era normale tutto ciò? Aveva bisogno all’istante di una colonna a cui reggersi, di un muro sul quale fare affidamento per non precipitare nell’abisso buio tra le onde e gli speroni rocciosi. Aveva bisogno di suo marito immediatamente. “Renegar… dove sei?”
«Alzati, matres.» riprese subito. «Va’a cercare mio marito di corsa». Il timbro di voce con cui quell’ordine fuoriuscì sembrò a tutti gli effetti richiamare quello profondo di suo padre nel giorno in cui costrinse sua figlia ad andare in sposa al suo odierno marito. «Va’ a cercarlo in ogni sala di questo maledetto castello e digli di correre qui con la stessa urgenza utilizzata nel chiamare me. Se non lo farai, giuro che darò ordine di farti divorare dai mastini questa sera stessa e... e giuro di gettare la tua carcassa nel mare da questa stessa torre. Trovalo, o questo sarò il tuo ignobile destino.»
La matres non osò neppure aggiungere altro. Chinò il capo, fece un ulteriore profondo inchino, si asciugò di fretta le lacrime e prese a correre in direzione delle scale. Non appena uscì, nell’alloggio della principessina di Corallo Rosso calò il silenzio.
Octawya si chinò ai piedi del letto poggiando entrambe le ginocchia per terra. In quell’istante si dimenticò del fatto che fosse vestita di tutto punto con un’infinità di pizzi e merletti, tanto lo sconforto e il rammarico per quella situazione l’avevano confusa. Posò la mano sinistra sulla fronte della figlia, giusto per dar credito alle voci della matres, ma notò subito che non persisteva alcun tipo di calore a simboleggiare l’avanzata della febbre. “Paura… è assurdo tutto questo. Come può permettersi di parlare fingendo di conoscere mia figlia? Lei non è altro che una matres!”
Carezzò delicatamente il volto ossuto di Missy; le passò la destra lungo tutti i lineamenti, tastandoli accuratamente e massaggiandoli con delicatezza.
“Quanto mi somiglia…” si disse. Un piccolo sorriso impacciato sorse spontaneamente sulle sue labbra. “Sono troppo dura con lei… lo sono sempre stata con tutti. Anche con me. Perché faccio questo? Forse desidero che lei non cresca come anch’io sono cresciuta… forse desidero che lei sia forte, proprio come suo padre. Ci starò riuscendo?”
Iniziò a disfare le coperte, giusto per mettere a nudo il corpicino smagrito di Missy. Era da molto tempo che non posava le sue mani su sua figlia con una tale delicatezza e che lo facesse per sentirne il calore e non per schiaffeggiarla. Gettò la coperta ai piedi del letto. “Così starai più fresca, amore mio”.
«Cosa ti è successo, piccola mia? Oh, se solo tu potessi dirmi… oh! Dimmi, tesoro, hai davvero avuto paura? Una donna forte come te? Oh, e di cosa hai avuto paura? Sai che non devi temere nulla finché ci siamo io e tuo padre a difenderti… oh, aspetta, no… è stata quella donna, non è vero? Dimmi, tesoro… parla… di’ qualcosa. Cosa ti ha terrorizzata? Parla e io saprò come muovermi. Giuro che punirò chi ti ha fatto del male.»
Il sibilo del vento produsse un sonoro fischio attraversando le bifore. Octawya Datterwack afferrò una delle manine della propria figliola. Il cuore le sobbalzò in gola. «Tesoro, è solo il vento quello. Oh, non dirmi che anche tu hai paura del vento, del mare e del… del… posto in cui siamo». Gettò una rapida occhiata in giro.
«Amore mio, non c’è nulla di cui avere paura qui. Tuo padre sta arrivando, e lui non teme nulla. Parla, tesoro…»
Nella cupa immensità notturna, un altro sospiro freddo penetrò nella camera. Questa volta, il vento andò a spegnere gli unici due lumi presenti nell’alloggio. All’improvviso, la camera fu completamente avvolta dal buio. Octawya trasalì ancora una volta. «Oh, tesoro, ma è solo il vento». In quel momento si rese conto di parlare a sé stessa, quasi come se quelle consolazioni fossero indirizzate al suo animo e non a quello della sua bambina. «Non aver paura del vento, la sua voce è semplicemente aria e la sua forza è nient’altro che fiato. Lui non potrà farti del male, tesoro. Non finché ci sarà qui la mamma.»
Dall’esterno poteva avvertire l’eco non così lontano del fragore prodotto dalle onde del mare. Il suo tormento era solo all’inizio, e quella notte sarebbe stata fin troppo lunga e più malefica delle altre.
La signora di Corallo Rosso strinse la presa sulla mano della figlia e si abbandonò ad un pianto consolatore, singhiozzando e lasciando che le lacrime solcassero per intero i suoi lineamenti. «Ascoltami, se puoi, bambina mia... ed apri i tuoi occhi. Se sono stata io la causa di questa tua… di questa tua… situazione, ti prego di scusarmi. Mia piccola bambina, apri gli occhi e dimmi che va tutto bene… dimmi che posso tornare alle mie paure e ai miei incubi, e dimmi che non occorre svegliare un incantatore per far sì che tu ti desti dal tuo sonno». Chiamò il suo nome, le passò due dita sotto al collo e una mano sul petto, giusto per valutare l’intensità del suo battito: non pensava al peggio, ma voleva esserne certa. «Presto quella donna tornerà con tuo padre: vuoi farti trovare in queste condizioni? Oh, piccola mia, apri gli occhi e fatti forza, sii la donna forte che hai sempre desiderato essere. Sai che con me puoi essere al sicuro. Io… io… io sono la donna che ti ha messa al mondo e che ti ha cresciuta nel suo ventre. Il mio sangue è stato il tuo sangue, la mia forza è stata anche la tua. I miei respiri ti hanno dato modo di crescere sana e forte, e la mia tenacia ti ha spinta fuori dal mio grembo nel momento giusto. Missy, mia adorata figlioletta…»
Tirò un flebile sospiro e rimase ad occhi chiusi per una indefinita frazione di tempo, le lacrime amare scorrevano incondizionate. Ogni suono si era fatto più sottile ora, smorzato dal dolore e dal senso di colpa che gravavano su di lei.
Un altro sospiro di vento si fece strada nella camera con furia, sollevò di peso una sfilza di pergamene arrotolate sul vicino mobile e spalancò forzatamente qualche libro sulla credenza. Senza rendersene conto, Octawya strinse la presa nella manina di Missy. Un’ultima lacrima le scivolò sullo zigomo freddo. «Dimmi, tesoro, di cosa hai avuto timore?»
«Del buio.»
Octawya sussultò. La voce rauca di un uomo alle sue spalle la costrinse di colpo ad urlare in modo impacciato, soffocato, tanto che quel grido non le uscì mai dalla bocca. La presa salda del suo stesso fiato le si incollò nella gola e la ghermì fino a farla soffocare. Si voltò verso quella voce e si mise immediatamente in piedi. Puntò il dito contro quello sconosciuto.
«Ladrospiaassassino… chi sei tu?»
 L’uomo tarchiato uscì allo scoperto dalla penombra della camera lasciando che la luce lunare proveniente dall’esterno rischiarisse i suoi lineamenti.  Octawya fu terrorizzata nel vedere quella figura sconosciuta stanziata di fronte a lei, le mani incrociate al petto e un ghigno contorto sulla bocca. L’impostore aveva un cappuccio tirato sul volto come a voler nascondere la sua identità, e una lunga tunica marrone gli scendeva fino alle caviglie. Sotto al copricapo erano visibili, sparsi qua e là sul mento, una serie di peli brizzolati.
Lo sconosciuto prese ad avanzare. «Un’ombra, Octawya Datterwack…». Il modo in cui pronunciò il suo nome la fece rabbrividire. «Ma tu non hai paura delle ombre, non è forse così?»
La signora di Corallo Rosso tentò di urlare, ma quell’uomo le fu spietatamente addosso. Allora ogni cosa prese a correre fin troppo velocemente.
L’uomo le afferrò la testa e la costrinse a girarsi di spalle. Octawya fece di tutto pur di non fargli mettere le mani addosso a sua figlio, facendo del suo corpo una barriera tra lui e il letto. L’impostore le schiacciò le vertebre col gomito facendola sussultare un paio di volte, dopodiché diede uno strattone alla sua gonna, che si strappò come fosse fatta di marzapane. Le intenzioni del mostro che le aveva messo le mani addosso non erano delle più consuete per un assassino.
Octawya tentò di farsi forza coi piedi per stare alzata e non frasi abbattere, ma non ci riuscì affatto. Di colpo, l’impostore la fece cadere sul corpo di sua figlia, e il suo volto si schiantò con forza sul mento di Missy.
«La… lasciami!» tentò di gridare. Se avesse potuto urlare, qualcuno sarebbe giunto in suo soccorso all’istante. Octawya riuscì, con una forza inaspettata, a girarsi di schiena sul letto. Aveva il volto del suo oppressore a tre pollici dal suo, ma non riusciva a scorgerne i lineamenti. Le mani di quell’uomo la tenevano incollata al letto stringendole il collo. Iniziò a mancarle l’aria e tutto prese a roteare intorno a lei, l’aria offuscata da alcuni aloni grigio-bianchi.  Fu come se fosse stata immersa all’interno di una vasca di vapori ed acqua calda legata strettamente ad una sedia. Non c’era modo di ribellarsi a quella presa robusta come il ferro.
Tentò di divincolarsi, ma l’uomo si gettò su di lei. Con la possanza delle sue gambe, l’impostore teneva le sue braccia attaccate al materasso di piume, mentre con la sinistra stringeva la morsa al suo collo. L’aggressore le infilò ferocemente tutt’e cinque le dita in bocca e tirò la pelle morbida fino al suo massimo punto di estensione. Ad Octawya parve che quell’oppressore stesse per staccarle via la guancia quando questi applicò ancora più forza e mandò ancor più verso la gola le sue cinque dita. Allora Octawya si riscosse un momento, ebbe la forza di girare rapidamente la testa e di addentare con forza gran parte della sua mano. L’uomo lasciò un momento la presa urlando di dolore e bestemmiando focosamente e, a quel punto, la signora di Corallo Rosso cadde incresciosamente sul pavimento.
Fu con un respiro molto profondo che fece uno scatto, alleggeritasi ormai dei gran parte delle sue vesti e dei suoi guanti totalmente stracciati. Si mise in piedi con una straordinaria prontezza e subito caracollò due volte all’indietro, ma non demorse. Passò immediatamente all’attacco: afferrò l’impostore per la collottola, lo strattonò due volte e lo spinse con ogni sua forza verso la bifora. Fu allora che impiegò ogni sforzo per vederlo, dapprima, sbattere la testa sul colonnato dell’infisso, e subito dopo costringerlo a sporgersi quanto più dalla finestra. Spinse, mise forza, e spinse ancora, affinché quel lurido uomo fosse costretto ad assaporare il timore di precipitare nel vuoto più totale. E, perché no, anche l’ebbrezza stessa del salto da quell’altezza. Ma non bastò e non servì, data la sua potente resistenza.
Lo sconosciuto fece un balzo all’indietro, si scaraventò su di lei con la forza di un mastino famelico e l’afferrò per i capelli. Un primo pugno le arrivò dritto allo stomaco, poi un altro le fu scaraventato esattamente sul cranio, all’altezza dell’occhio sinistro e del naso. Octawya sentì la bocca farsi immediatamente piena di sangue, ma non diede la soddisfazione a quell’uomo di saperlo. Inghiottì il suo stesso sangue e precipitò per terra. L’uomo le assestò un calcio al basso ventre mandandola a contorcersi come un serpente in punto di morte che si raggomitola attorno alle sue spire, le mani pressate sul punto in cui aveva ricevuto il colpo. «Basta! Ti prego! Ti prego!»
«Hai paura dell’ombra?»
L’uomo le si buttò di sopra con tutto il peso del suo corpo. Octawya sentì le ossa delle sue gambe scricchiolare un’ultima volta prima di accasciarsi al suolo, senza vita. L’uomo l’afferrò un’altra volta per i capelli e le strattonò a destra e manca il volto, facendole schizzare di forza il sangue fuori dalla bocca. Afferrò allora qualcosa dalla tasca interna della sua tunica marrone e la portò alla luce. Quella che si ritrovò tra le mani sembrava essere una fiala dal colorito verdognolo, il cui contenuto aveva una consistenza fin troppo liquida. La stappò con i denti e mandò il tappo di sughero altrove. «Apri la bocca, Octawya Datterwack. Ora non puoi più guardare.»
In quell’istante la porta della camera si aprì di colpo, tanto che il battente fu mandato a schiantarsi contro la parete interna. Lo stesso cardine dell’infisso cigolò e cadde distrutto sul pavimento. Octawya non ebbe le forze di girarsi a guardare, ma avvertì ciò che stava per succedere. Il rumore dell’acciaio estratto dal fodero si propagò in modo simultaneo nell’aria. I suoi salvatori erano arrivati.
All’improvviso, nella foschia causata dai colpi alla nuca, Octawya intravide una serie di armature già pronte a circondare lei e il suo aggressore. In mezzo al rivestimento rilucente dei molti ser spiccava una figura segaligna ed alta.  
«Mani dietro la nuca, bastardo» comandò una voce, un timbro che doveva appartenere a suo marito.
La fiala di vetro che l’aggressore teneva in mano precipitò al suolo e si frantumò in mille pezzettini. Octawya fece per mormorare qualcosa di cui non seppe neppure il suono; poco prima che il suo aggressore fosse allontanato di peso, la signora di Corallo Rosso perse definitivamente i sensi.
Tutto ciò che vide dopo fu una lenta, atroce, inverosimile agonia. Ma la paura, almeno quella, parve scomparire.

 


Note d'autore:
Rieccoci qui!
Innanzitutto ringrazio tutti e otto i miei assidui lettori che hanno lasciato una recensione allo scorso capitolo: come al solito, siete davvero tutti molto gentili. Ringrazio anche i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno messo lo spin-off tra le loro storie seguite. 
Il PoV di questo capitolo si rivela essere quello di Octawya Datterwack, la signora di Corallo Rosso. Vi aspettavate questo PoV: lo so perché molti lo avevano già indovinato. Ma, invece, cosa ne avete pensato? Avete visto le cose con occhi diversi da quelli della principessina Missy? E cosa potete dire, a conti fatti, del personaggio di Octawya? Vi sembra ancora una donna austera e severa per il semplice gusto di esserlo, o questo capitolo vi ha dato modo di rivalutarla completamente o anche solo in parte? 
Il seguente capitolo ci ha mostrato come le paure possano concretizzarsi. Da ombra con lo sguardo maniaco, la paura dello scorso capitolo si è concretizza in un uomo losco e barbaro... chi sarà mai? Cosa credete sia accaduto alla principessa Missy? 
Così concludo; se avete altro da dire, non limitatevi alle domande, sia chiaro! ^^
Piuttosto, di chi pensate sarà il prossimo PoV? 
Una buona giornata, miei cari, carissimi lettori. Per qualsiasi domanda, sappiate che sono sempre disponibile a darvi risposte. Al prossimo aggiornamento [sabato 19 c.m]!
Makil_



 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III - Il brulichio della vendetta ***


Premessa by Makil_: 
 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon.
  • I fatti narrati ne "Spada rossa, cuore bianco" sono da collocare nel 29 AG, a dispetto di quelli narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda" del 31 AG. 

  
Ancora una volta, buona lettura! ^^


 

Cap. III – Il brulichio della vendetta
 
 
sibili di un lieve venticello morente fischiavano infervorati nel bel mezzo di tutti quei cunicoli sotterranei, come prigionieri in rapida fuga dalle loro celle, o carcerieri maledetti animati da una focosa voglia di ribellarsi alle stesse gattabuie in cui essi lavoravano.
Dall’alba dei tempi, nessun uomo aveva mai osato dubitare della possanza e della magnificenza di Corallo Rosso, una rocca costruita sul più alto ed impervio sperone di roccia di un isolotto poco più a sud della Punta. Corallo Rosso era stato l’orgoglio di casa Redrock fin dalla sua fondazione, quando il vetusto e ormai leggendario Rickford Redrock aveva piantato sul terreno la prima pietra rossa estratta dal mare e dalle sue maree, facendosi incoronare Re dei Coralli e dei Marosi. Allora, secondo la leggenda, Rickford aveva ripiegato le correnti su suo volere e le aveva allontanate dai suoi porti, così da concedere ai suoi abitanti un po’ di riposo dal frastuono del mare.
La Rocca Rossa  era stata un faro molto importante durante i primi anni della sua costruzione, ma nelle leggende era sempre stata ricordata come un’antica casa dimenticata dagli dèi e dagli uomini in cui albergavano i demoni di Rickford Redrock e la sua stessa anima diabolica, che lo aveva reso pazzo a tal punto da comandare che fosse murato vivo all’interno della sua dimora, per far sì che potesse preservala dai più disparati nemici della sua epoca e non.
C’erano stati nemici, nell’arco della lunga storia di Corallo Rosso,  che avevano osato anche solo per un istante illudersi di poter scacciare Rickford dalle sue mura domestiche? E c’erano stati, forse, nemici che avevano anche solo pensato di poter ingannare uno dei discendenti del nobilissimo Redrock, entrare nella sua casa, abusare della sua clemenza, poi della sua famiglia, e infine uscire vivi dalla stessa rocca per andare in giro per il mondo a vantare di essere stati degli eroi vittoriosi? Se c’erano stati, allora, ogni volta che lo avevano fatto, un signore di Corallo Rosso si era dimostrato inadatto al suo ruolo.
Chiudendo gli occhi e isolandosi dalla realtà di quel luogo che aveva tutte le carte in regola per poter essere considerato dannatamente macabro, Renegar Redrock poteva ancora sentire le urla dei condannati a morte nelle gattabuie, di coloro che avevano perso la vita in quel luogo e dei carcerieri famelici che tenevano le redini di un’infinita serie di torture barbare, molte delle quali mai utilizzate nel corso della storia.
E se chiudeva gli occhi e li stringeva con forza, poteva anche ammettere di sentire le urla strazianti della sua donna. Se per errore batteva quelle dannate palpebre, rivedeva la scena avvenuta la sera prima, nei suoi alloggi privati, e allora il sangue gli ribolliva nelle vene e gli saliva fino al cervello, pulsando a ritmo del fuoco che da ore brulicava nel suo animo. E nella piccola lanterna ad olio che, come una dedita compagna, lo tallonava giù nelle segrete.
 
«Mio signore, mio signore!». Ricordava con chiarezza la voce terrorizzata, tremante, esausta di matres Amadya, che era venuta a chiamarlo negli studi di suo nipote Lemmon, un giovane virgulto sempre più indirizzato verso la buona politica. Stavano discutendo del forte ribasso che aveva subito la moneta della Punta nell’ultimo mese,  che stranamente coincideva con il lasso di tempo perso dallo stesso Lemmon nel cercare moglie. La questione aveva del comico, ma in verità l’argomento di discussione, di divertente, celava davvero poco.
In quella voce di donna, nella voce dell’esperta, Renegar riconobbe subito il sapore della paura: una paura infondata, invisibile, ma viva e forte come pochissime altre. Alzò immediatamente lo sguardo verso la donnetta rubiconda e sfiancata da una probabile corsa e si mise all’ascolto.
«Vostra moglie… vostra figlia!» iniziò la matres, ma il fiato corto le bloccò ogni altra parola.
Non che servisse. Infatti, non ci fu neppure modo di permetterle di parlare ancora o di aggiungere qualcos’altro; Renegar Redrock afferrò lo stiletto dalla scrivania, strinse il pomolo della sua spada e si precipitò fuori con una furia animalesca, diretto verso gli alloggi reali. Suo nipote non perse un secondo per porsi al suo fianco, allarmato quasi quanto lui, e chiamò subito a sé quanti più membri possibile della guardia reale.
Corsero per i corridoi, prima in due, poi in quattro, poi in sei, fino a divenire un’accozzata schermaglia di uomini in arme pronta ad attaccare un’improvvisa e sconosciuta minaccia. Matres Amadya gli correva dietro reggendo la lunga tunica accademica con la destra, nel tentativo di rendere più facile il suo percorso e con la speranza di non inciampare sui suoi piedi. Ad ogni passo, ad ogni respiro, anziché quietarsi, l’esperta malediceva ogni dannato corridoio di quel castello e lamentava la sua inclemenza, non mancando di disperdere qualche lacrima dolce nell’aria.
Ci vollero meno di due minuti per attraversare in corsa l’intero castello. Alla fine, Renegar e i suoi uomini, arrivati dinanzi alle porte dei suoi alloggi privati con la stessa furia che li aveva fatti sprizzare fuori dalle loro camere e dai loro studi, si precipitarono dentro. Fu un calcio diretto alla porta a farla ricadere sui suoi stessi cardini.
Le urla devastanti di una madre insanguinata e distrutta solo per essersi erta a protezione della propria bambina permeavano ancora nell’aria. Octawya, sua moglie, giaceva per terra moribonda, la testa schiacciata contro il pavimento, la bocca piena di sangue e le labbra spaccate. La fronte era sanguinolenta e nello stesso stato si trovava anche la metà superiore del suo braccio sinistro, parte in cui, a giudicare dallo strappo nel vestito, doveva essere stata graffiata con forza.
I suoi capelli si trovavano in mano ad un mostro dal viso coperto che giaceva sopra di lei, quasi come a volerla domare.
«Mani dietro la nuca, bastardo».  Fu la prima cosa che Renegar disse precipitandosi a rotta di collo nella stanza. La sua scorta, ormai guidata dal nipote, si dispose immediatamente a circondare il malintenzionato e la sua signora. I suoi erano uomini fedeli, cani pronti ad azzannare al primo cenno, e non vedevano che con gli stessi occhi rabbiosi del loro signore.  
Il mostro si ritrovò puntato da ogni direzione, le daghe e le spade acuminate pronte a recidergli le giugulari in quella stessa stanza. Renegar Redrock tirò uno sguardo in direzione del letto in cui sua figlia Missy era timidamente stravaccata,  a peso morto, forse anche lei caduta vittima di quell’abominio.  Cercò di non pensare al peggio, ma non vi riuscì. In breve fu assalito da uno strano, stranissimo terrore.  
«Che cosa gli hai fatto?» chiese afferrando il nemico per il collo e gettandolo a terra. «Chi diavolo sei tu?»
L’impostore scalciò, tentando di divincolarsi da una presa salda e robusta, ma invano.  Non c’era solo la forza devastatrice di un signore colpito profondamente nell’orgoglio, ma anche quella di un padre e di un marito colti, all’improvviso, da una rabbia esplosiva.
Il bandito portò le mani su quella di Renegar e tentò di strappargliela di forza, ma dovette rinunciare immediatamente dopo: stava per non arrivargli più l’aria al cervello e ciò lo stava compromettendo non poco. Sarebbe bastato un ulteriore minuto in quella posizione, forse anche meno, per rispedire quell’essere alla terra da cui era venuto. Eppure, qualcosa spinse il signore di Corallo Rosso ad alleggerire la presa. A una distanza tanto ravvicinata, fiato contro fiato, e naso puntato su naso, il signore di Corallo Rosso poté constatare che quella creatura era fatta di carne ed ossa, e che anche il suo sangue stava scorrendo all’impazzata nelle sue vene, al ritmo di pulsazioni forti, rintronanti e sul punto di farlo saltare in aria in un’enorme esplosione di sangue.
Renegar sfilò lo stiletto e glielo puntò alla gola. Per un momento, forse, l’assassino pensò di essere stato ucciso, tanto che iniziò a tossire tentando di portarsi le mani sul collo, senza sapere che il suo assalitore avesse altre intenzioni. Almeno per quel momento.
Lo stiletto lacerò la seta del suo cappuccio fino a farlo ricadere per terra, come una foglia distaccatasi dal suo ramo in pieno inverno, mentre la sua faccia, scoperta e nuda, fu messa in mostra come l’albero spoglio e secco.
«Patres Lorenol…»
Immergere la mano in un otre di olio incendiario sarebbe stato un sollievo in confronto, tanto quella rivelazione fu agghiacciante.
Quel volto, un tempo giovanile, fresco, addirittura tenero, ora aveva tutta l’aria di essersi trasformato in quello di una bestia assettata di chissà quale voglia lussuriosa. I lineamenti addolciti dalla tenera età dei trent’anni di Lorenol si fecero immediatamente paonazzi, e il suo viso divenne irriconoscibile anche da scoperto, tanto la cupidigia e un maligno desiderio lo avevano trasmutato in qualcosa di macabro e spaventoso.
In quella sala, un signore era stato ingannato da un esperto. Corallo Rosso era stata tradita dall’Accademia.
Fu allora che Renegar Redrock decise autoritariamente che la questione avrebbe avuto una durata ben più lunga di un semplicissimo castigo.
Renegar Redrock si rialzò, abbandonò la presa ferrea sul corpo del nemico e si buttò per terra, accanto alle spoglie immobili di sua moglie Octawya, la bocca oscenamente spalancata, il vestito completamente strappato, l’intimo quasi in mostra, bagnato di chissà quale liquido corporeo.
“Mai fare in modo che i tuoi uomini ti vedano debole, Renegar.” diceva sempre suo padre. “Mai.”
Ma in quel momento, nonostante tutto, egli non vedeva nessun uomo in quella stanza. C’erano solo lei, lui e quel mostro infame che aveva osato tanto. Gliel’avrebbe fatta pagare, oggi, domani e dopodomani. Gliel’avrebbe fatta pagare così tante volte e in un modo così vergognoso che la punizione sarebbe rimasta trascritta negli annali della storia, vergata col sangue piuttosto che con l’inchiostro.
Lemmon Redrock gli posò una mano sulla spalla. «Zio…»
Renegar si voltò verso il nipote, gli occhi rossi per la furia repressa e il pugno chiuso con furore. Nessuna parola uscì dalla sua bocca in quel momento. Stava male, fin troppo: caduta sua moglie, ogni altra sua certezza era definitivamente crollata, e ora era debole come cenere soffiata dal vento dopo un enorme braciere dalla potenza disumana. Per quanto ricordasse, non si era mai sentito così.
«Da’ il tuo consenso e poniamo fine alla vita di quest’uo… assassino. Non merita di vivere un secondo di più. Potremmo recidergli seduta stante tutt’e due le mani, se dai la tua sentenza. Al ladro deve essere insegnata la giustizia.»
«Sono d’accordo» fece ser Warnick. «La mia lama è pronta a calare, mio signore. E con la mia anche quella di tutti loro altri.»
Renegar, per tutta risposta, allungò il braccio. «Aiutatemi a sollevarmi.»
Tre cavalieri della sua scorta si precipitarono a rimetterlo in piedi. Ser Warnick lo afferrò da sotto le braccia, e gli altri due lo sollevarono di peso dalla schiena.  Lo avevano mai visto così debole e affranto?
Renegar chiedeva solo di poter dormire, adesso. Doveva meditare in silenzio e aveva bisogno di consultarsi con i suoi fantasmi per apprendere il comportamento da seguire. Non conosceva rimedio migliore alla soggezione e alla paura che quello di proporsi un sonno ristoratore, nonostante spesso potesse sembrare un atto di grande egoismo.
«Rinfoderate le vostre lame, cavalieri. Questa sera non ci sarà nessun altro spargimento di sangue in questo castello. Voglio che torniate ai vostri posti di guardia, se è possibile.»
Tutti i suoi uomini lo guardarono perplessi. Lemmon, suo nipote, si fece avanti con una daga fra le mani e due occhietti infervorati, accessi anch’essi dalla furia e dall’indignazione. «Come sarebbe a dire, zio? Quell’uomo ha quasi ucciso tua moglie…»
«E anche mia figlia, se è già tardi. Lo so.»
«E dunque vuoi lasciare il tradimento impunito? Quali erano le intenzioni di questo spregevole e disgustoso animale? Cosa lo ha spinto a credere di potersi prendere gioco di noi
«Già, cosa aveva in mente?» chiesero anche un paio di ser lì attorno.
Il corpo dell’animale in questione aveva smesso di scalciare, come se sedato a dovere da una buona dose di alcolici. Come un pezzo di piombo lanciato in un pozzo, l’animo furente del vile assassino pareva essersi arreso a rimettersi a cavalcioni.
«Non ho mai detto di volerlo ridare in pasto al mondo. La sua libertà adesso mi appartiene. Mediterò su una delle peggiori pene che l’uomo possa sopportare e, alla fine, solo e soltanto alla fine, darò la mia sentenza. Non ci saranno lame sporche di sangue tra le vostre. Almeno fin quando sarò io a vigere su queste pietre, sarò anch’io a calare l’acciaio sulla testa dei miei nemici, se mai dovesse rivelarsi questa la strada più giusta da imboccare.»
 
Imboccò un breve corridoio tenebroso e senza luce.
Il flebile chiarore emesso dalla lanterna ad olio stava andando affievolendosi sempre di più. Tra poco meno di qualche minuto, Renegar Redrock si sarebbe ritrovato al buio nelle stesse segrete che, nel corso del tempo, avevano fatto prigionieri milioni di trasgressori.
Ora, in verità, le celle erano più o meno vuote. Già dai tempi di suo nonno, Corallo Rosso aveva smesso di essere considerato il tetro luogo in cui la giustizia aveva sempre la meglio, non perché il suo sovrano non fosse adatto al suo ruolo, ma perché d’ingiustizia, nel mondo, ne era rimasta davvero ben poca. Forse, quello in cui governarono i suoi avi, fu un mondo più sano e giusto di quello cui fu relegato lui.
Imitare la gloria dell’antico splendore della casa Redrock non era servito a rendere la casata stessa quella di un tempo. Molti erano stati i Redrock che avevano utilizzato tingere i propri indumenti del sangue dei propri nemici. Di alcuni si diceva che amassero immergere le loro cappe, le loro giubbe, o addirittura le loro spade e il loro corpo, nel sangue di coloro che gli erano contro. Era un ottimo modo di tenere a debita distanza ulteriori nemici della propria corona, ma non era affatto il modo adeguato per crearsi una nomea sana agli occhi del mondo intero.
Renegar non aveva avuto nemici da cui poter ricavare il sangue per i suoi indumenti, forse a causa della sua estrema bontà, o forse a causa della medesima epoca giusta in cui viveva: un tempo che non aveva sfornato uomini odiosi o sfrontati a tal punto da finire per dar credito alle usanze Redrock. Eppure, il Cavaliere Rosso non era venuto meno alle tradizioni imposte della corona dei suoi avi.
Camminò per l’ultimo andito delle segrete, diretto verso la cella in cui avevano rinchiuso barbaramente un infervorato nemico della sua casa: l’accademico, patres Lorenol. I suoi passi erano appesantiti dal suo stato di confusione mentale e dalla sua focosa, famelica rabbia; la stessa che dalla notte precedente lo stava divorando lentamente dall’interno, sviscerandolo a poco a poco.
Non ricordava di aver mai provato tanto odio in vita sua. Sul suo cammino, però, gravava anche il peso della sua armatura, che aveva indossato per mostrarsi dinanzi agli occhi di patres Lorenol con tutta la grazia, la spudoratezza e la possanza della legge della sua casa. Se l’esperto aveva dimenticato in che luogo si trovasse, Renegar glielo avrebbe fatto ricordare all’istante.
Era stata una delle sue sarte a compiere per lui quel lavoro tanto importante, esattamente nel giorno in cui era stato fatto signore di Corallo Rosso. Renegar non aveva mai indossato quella sua armatura prima d’allora, dato che non aveva mai ritenuto necessario mostrarsi con tutta quella tintura rossa addosso. L’intero acciaio da cui era costituita era occupante, stressante e cigolante nelle articolazioni e nelle giunture in cui il colore si era asciugato male.
Quei passi diretti verso la gabbia di patres Lorenol stavano facendo scricchiolare più del dovuto le giunture delle ginocchia. O forse era solo il suo cuore a cigolare.
Quel giorno, Renagar Redrock era regale e tetro come non lo era mai stato prima d’allora. Il suo alto elmetto rosso dalla celata possente e stretta come le grate della gattabuia terminava con un cimiero a forma di drago marino color porpora. Ogni parte della sua armatura era animata dall’accesa colorazione del rosso corallo: dagli schinieri al pettorale, dagli spallacci alle manopole, dai cosciali alle scarselle. Persino il suo lungo mantello ricordava molto la lava in caduta libera sulle pendici scivolose di un vulcano, benché in questo caso cadesse dalle spalle di un signore. La perfezione con cui era stata forgiata nel ventre delle fiamme la rendeva, con ovvie probabilità, una delle armature più costose e nobili del suo tempo.
Arrivò dal capocarceriere, un uomo affetto da calvizie e dalle braccia robuste quanto due querce, che il chiarore del lumino si era definitivamente spento, divorato dalle ombre stesse.
Di certo, se quell’uomo avesse visto, sarebbe rimasto terrorizzato da quella comparsa tanto teatrale. Forse fu una fortuna per lui l’essere accovacciato su una sedia, la bocca con qualche goccia di saliva sui lati e la mente a riposo. Renegar si avvicinò a lui quanto bastò per afferrare le chiavi della cella dalla sua cintola di cuoio, che strappò con un gesto secco onde evitare di destarlo.
Il vecchio e burbero carceriere gli ricordava molto, per la posizione e per la sua aria drammatica, il corpo di Octawya su cui si era imbattuto la sera precedente e la mattina stessa.
Aveva dato ordine di scortare sua moglie e sua figlia nello studio dell’incantatore Lynn, affinché questi potesse prendersi cura dei loro corpi, assicurandosi che riuscissero a rimettersi e a risvegliarsi dal loro sonno.
«Trauma». Così aveva definito quel loro stato l’incantatore Lynn quando le aveva viste. Poi aveva aperto di forza le loro pupille e le aveva guardate con occhi sospetti ed indagatori. Gli occhi di un intenditore. «Sì, traumi… non ho dubbi. E la piccola è stata avvelenata.»
«Avvelenata?» aveva chiesto Renegar, sconvolto. Anche suo nipote Lemmon, al suo fianco, si era lasciato sfuggire un gemito.
«Temo proprio di sì, mio signore. So cosa fare in casi come questi, ma non posso promettervi nulla ora come ora. Devo riuscire a capire quale genere di intruglio abbia utilizzato il vostro assassino. Sono solo un uomo, dopotutto… non un dio. E non compio miracoli.»
Renegar si era preso un momento per carezzare il volto smagrito della sua povera figlioletta Missy, la sua preziosa fanciulla spavalda e chiacchierona. Una lacrima gli aveva solcato per intero il viso quando si era accorto di non riuscire a farla ridere in alcun modo.
Poi aveva rivolto parte del suo tempo a contemplare il corpo gelido ed esanime di sua moglie. Aveva amato da subito quella donna, e continuava a farlo con passione e bontà giorno dopo giorno. Nei suoi occhi, nella sua bocca, nelle sue gote, nei suoi fianchi, nel suo petto e sul ventre, egli rivedeva sé stesso e la vita che insieme avevano generato con lo stesso amore che li aveva tenuti uniti per tutti quegli anni. Su quel letto di paglia, nello studio dell’incantatore Lynn, Renegar si era perso tra le carni della moglie Octawya, che non guardava con tanta ammirazione da molto, moltissimo tempo.
“Il dolore apre gli occhi”. Sapere di non essere stato con lei nel momento dell’attacco lo rendeva inquieto e lo faceva sentire un mostro senza alcuna virtù. Sapere di averla lasciata soccombere alle sue tetre paure infantili lo annullava e lo disintegrava dall’interno. Avrebbe voluto rivederle sorridere, parlare e camminare, avrebbe voluto custodire la loro purezza e preservarle come le uniche donne della sua vita.
Si era avvicinato al corpo di Octawya, si era buttato ai piedi del letto e le aveva messo una mano sul ventre. Poi aveva lasciato cadere la sua testa sul suo petto e si era lasciato cullare dal ritmo delle pulsazioni delicate, soffocate quasi, del suo cuore. In breve, si era ritrovato a parlare col vuoto dello studio dell’incantatore, ma le sue parole gli avevano dato la speranza e il coraggio che stava cercando da ore.
«Sappi che sfiderei i mari e i monti per averti, Octawya. Hanno sbagliato a mettersi contro di noi, contro Corallo Rosso… e presto gli darò modo di rendersene conto da sé stessi. I vecchi fantasmi della rocca s’indigneranno a tal punto da iniziare la grande caccia al mostro, e tutti i nostri nemici inizieranno a cadere, e a cadere, e a cadere, finché non saremo rimasti soltanto io e te. E sono pronto alla guerra, mia signora… prontissimo. Sono pronto alla carneficina più sanguinosa della storia del nostro continente, se serve. Sono pronto a dare in pasto alle fiamme ogni suddito di questo luogo complice di quel mostro, pronto ad aizzare il mio esercito contro l’intera Accademia e contro tutti i titani che oseranno sollevarsi. Sono pronto a tutto pur di darti vendetta
Lo scricchiolio della paglia secca dentro alla cella lo riportò alla realtà. L’abominio che si stava contorcendo all’interno della sua prigione giaceva in posizione fetale sul pavimento, stroncato dal buio delle ombre.
Poteva avvertire l’inquietudine del mostro che aveva osato sfidarlo, e ciò gli parve dargli molta forza.
Posò la lanterna per terra, girò la chiave nella toppa, tirò un lungo sospiro e pose la mano sul pomolo della lunga spada che teneva saldamente alla cintola. Lo stridere della catene del prigioniero e lo schiocco della serratura furono presto sovrastati dalla voce cupa, rozza e secca del patres.
«Carcerie» cominciò. «Non ti ho chiesto di portarmi da bere. Sto cercando di riposare da due fottutissime ore… va’ via!»
Renegar non rispose né osò fiatare. Passo dopo passo s’inoltrò nel buio della cella.
«Mi hai sentito, vecchio scorbutico?»
Renegar fece un altro passo. L’acciaio del suo stivaletto tintinnò a contatto con la superficie scabra del pavimento della cella. Il salnitro era ovunque in quel piccolo ambiente, e il fetore degli escrementi lasciati a marcire nel vaso da notte era mortale.
«Cosa sei? Sordo, forse?»
Si fermò al centro della cella e puntò saldamente il tallone per terra. L’acciaio produsse un’eco assordante e placò l’animo focoso del prigioniero. «In piedi, patres Lorenol.»
«Non sono più un patres». Il prigioniero non si mosse di un piede da terra.  A giudicare dal silenzio che seguì, Lorenol doveva essersi reso conto solo allora di chi avesse di fronte. «E non ho alcuna intenzione di farmi dare ordini da un signore che non è il mio.»
Quando gli occhi di Renegar si abituarono al buio della cella, egli riuscì a vedere meglio l’uomo con cui stava parlando, contorto per terra come una serpe morta nel deserto più arido e vestito di un semplice straccio color sabbia lacero e macchiato di urina. Certo era che della bellezza giovanile e fresca di Lorenol non era rimasta neppure l’ombra su quei suoi lineamenti che egli stesso aveva osato rendere osceni. La sua faccia era macchiata di fanghiglia, le sue mani sporche di chissà quale schifezza e i suoi capelli già lerci ed ingialliti. Stava per divenire un prigioniero degno di quel nome.
«Sei venuto a porre fine alla mia vita?» ridacchiò improvvisamente Lorenol. «Devo comunicarti che non ci sono affezionato per niente. Era pure ora che ti facessi vivo, Renegar. Tagliami la testa con quella tua spada e facciamola finita. Sarebbe una cortesia per me, dico davvero». Si accorse solo dopo che Renegar non stava rispondendo alle sue parole. «Hai altro in programma, forse? Impiccagione? Defenestrazione? Oh no, aspetta… non mi dire… avvelenamento?»
«Sarebbe equo, non hai torto». Renegar ripiegò le labbra in segno di disgusto.
«Allora ti prego… facciamolo subito!»
«Credi forse che io sia il tuo dio?». Renegar si impose con tutta la sua possanza d’acciaio dinanzi al condannato e sollevò la celata del suo elmo rosso. «Stai pregando l’idolo sbagliato, patres Lorenol. Se sono qui non è per sottoporti alla bontà divina, né per assolverti dai tuoi molteplici peccati. Il giorno della tua completa assoluzione è ancora lontano per te.»
«Non mi spaventano le tue parole, Redrock!». Lorenol si mise a gattoni con una fatica immonda. «No che non lo fanno. E non ho paura della morte. Uccidimi, avanti, o ti torturerò finché non l’avrai fatto. La goccia è più fastidiosa se cade continuamente nello stesso punto della fronte.»
«Stai commettendo un gravissimo errore, Lorenol: io non ti ucciderò né oggi, né domani, né dopodomani. Tu vivrai ancora per molto.»
Solo allora il prigioniero si decise a guardarlo negli occhi dal basso della posizione in cui si trovava. I suoi connotati erano stati trasformati in un insieme di lineamenti brutti ed aspri, resi bianchi come un cencio dall’assenza di luce e di cibo. La fiammella che aveva bruciato fino ad allora negli occhi di Lorenol, infine, si era spenta, sconfitta.
«A cosa devo questa gentilezza, mio signore di Corallo Rosso?». Ogni volta che si rivolgeva a lui con il suo titolo utilizzava una mellifluità banale e corrotta.
«Di certo sei tu che devi dartene una risposta. Ancora una volta stai remando controcorrente: non sono qui per rispondere ai tuoi quesiti, ma cerco risposte alle mie domande.»
«Oh, ho sempre adorato i questionari e gli enigmi. Sai una cosa, signore? Per tutto il tempo in cui restai all’Accademia, tentai di convincere alcuni miei compagni a mettere qualche buona parola nell’orecchio del Supremo Patres Polwyr, affinché mi desse il permesso di divenire un censore. Adoravo stare a Piazza delle Campane e non c’era cosa più grande a cui aspirassi se non entrare nelle Celle dei Censori. Dicono che sotto alla piazza scorrano i cunicoli delle prigioni accademiche. Mi auguro che un giorno tu possa vederle da vicino in modo da narrare al mondo la tua versione dei fatti.»
“Per ora mi preoccuperei di ciò che stai vedendo tu, Lorenol, se fossi in te.” «La tua franchezza non fa che aumentare il mio disgusto.»
«E il tuo disgusto non fa che rendermi immune a qualsiasi cosa tu dica, mio grandissimo signore. Mi hai detto che non morirò oggi: non ho di che preoccuparmi, allora.»
«Ho detto anche che cerco risposte, patres prigioniero.»
«Hai detto così tante cose da quando sei entrato che ho già iniziato a dimenticarle.»
«Mi costringerai a ripeterle ancora ed ancora. Ho tutto il giorno». Renegar strinse la presa sul pomolo della spada.
«Lascia pure quell’elsa, Renegar. Non hai saputo utilizzare la spada quando ho attaccato personalmente tua moglie e tua figlia… vorresti dirmi che ci riuscirai ora, mentre mi preoccupo di fare tutt’altro che minacciare qualcuno di morte?»
Renegar si morse le labbra e si trattenne dal mollargli un calcio ammantato d’acciaio dritto in pieno volto, così da sfigurare definitivamente i suoi lineamenti. “Arriverà il momento…”
Il prigioniero fece per rimettersi in piedi, ma collassò nuovamente sul pavimento, come fosse scivolato sul marmo bagnato. «Questa cella mi rende debole.»
«È il posto in cui ti trovi a farlo. Ti sta risucchiando via ogni forza, perché hai osato sfidarlo e hai osato profanare la sua memoria. Gli spettri del forte ti stanno punendo.»
«Aye» buttò lì Lorenol. «E dietro l’angolo c’è un folletto che lecca i piedi a un lupo mannaro. Renegar, con cosa ti hanno ubriacato? Capisco bene che la vista di tua moglie in quello stato non sia affatto una miglioria alla tua condizione di imbecille, ma non puoi addossare la tua rabbia sui fantasmi». Lorenol si lasciò sfuggire un sorrisino disgraziato. «Oh, perdona le mie maniere scomode… devo essere davvero debole e stanco.»
Renegar strinse il pugno nella manopola. «Con cosa le hai avvelenate?»
Il prigioniero sollevò nuovamente lo sguardo e lo puntò dritto nei suoi occhi. Il barlume di una nuova, insana scintilla si accese nelle sue pupille scure. «Solo una. Sfiancata: è questo il termine corretto. Essenza di Bael.»
«Chi te l’ha data?»
«Il destino» rispose secco Lorenol. «Ha fatto tutto lui.»
Renegar curvò la bocca ed aggrottò le sopracciglia. “Dannato uomo senza onore”.«Chi te l’ha detta?»
«Non arrabbiarti, Renegar. La rabbia rovina la bellezza dell’uomo. Guardami… ti sembro il tipo in grado di produrre una fiala di essenza di Bael? Vengo dall’Accademia, non dalla Gilda degli Incantatori… e sono nato nel ventre del Sud, non nella Piana Amena.»
«Rispondimi, Lorenol.»
«L’ho rubata» sputò fuori il patres. «Afferrata da uno scaffale dello studio del vostro inutile incantatore. Ha già provato a curarla? Chiodi di garofano, due gocce d’acqua marina e un bel pugno sullo stomaco con forza e molta convinzione. Dovrebbe essere questo il rimedio più efficace». Lorenol tentò nuovamente di alzarsi, ma questa volta fu Renegar a rimproverarlo di restare giù. «Non te le avrei uccise, sappilo.»
“È la verità” constatò Renegar. “Brutto bastardo”. «Le tue intenzioni…»
«Argh! Questo pavimento mi sta massacrando il culo!» lo fermò Lorenol. Gemette un momento e poi riprese. «Tua moglie non era neppure nel mio piano. Diciamo che si è trovata nel luogo sbagliato e al momento sbagliato. L’ho solo malmenata. Ma se non fosse stato per matres Amadya…»
«Cosa gli avresti fatto?»
«Cosa le avrei fatto. Ti ho detto che non avevo alcuna intenzione di mettere le mani anche sua tua moglie. Mi avrebbe denunciato, mi avrebbe visto, mi avrebbe fermato…  ma solo se non avessi fatto qualcosa. Sono stato costretto.»
«Come sei entrato nelle sue camere?». Renegar inspirò e provò a calmarsi. Aveva i nervi tesi a tal punto da costringerlo a pensare che stessero per esplodergli. Il cranio stava iniziando a dolergli.
Il patres ghignò. «Hai tanti nemici qui dentro. Sei circondato da impostori che tu credi lavorino doverosamente per te. Li hai stancati con i tuoi ordini insulsi… e anche tua moglie Octawya ha fatto la sua parte.»
«Chi ti ha aiutato?»
«La tua sarta, Renegar. Quella donnetta inutile che pensavi ti fosse tanto sottomessa da poterti leccare lo stivale su tuo ordine.»
“Nemici dentro le mie mura. Padri… perdonatemi. Padri…”. «Tu mi stai mettendo contro i miei sudditi. Vuoi portare il nome della mia casa alla dannazione, all’inferno, mettendomi nelle orecchie voci che sono tutt’altro che veritiere.»
Lorenol si spinse in avanti, si mise gattoni e si girò sul fianco sinistro. Poi, con la forza di un uomo che si accinge a sollevare un macigno, si mise seduto. «Parlare richiede comodità, non trovi?»
«Non c’è un briciolo di serietà in te. Non ti scandalizza neppure l’idea della morte.»
«Sei contraddittorio, Renegar, mio caro amico. Contraddittorio e stupido.»
«Sarò tutto ciò che vuoi, ma io ho un cuore… e io non mi ritrovo in una cella.»
Lorenol lo guardò per qualche secondo, poi alzò la mano sinistra e la scosse in cenno distratto. «Già, hai ragione.»
«Voi accademici siete degli esseri insulsi e senza sentimenti. Non avete a cuore che la salvezza della vostra anima demoniaca e dei vostri scopi egoisti. Siete arroganti, ipocriti, ignoranti e senza alcuno scrupolo.»
«Non condivido a pieno.» mormorò Lorenol. «Ogni era produce i suoi frutti marci. Hai mai sentito parlare della Tempesta Rossa, mio signore? Il periodo in cui si combatté fu orrendo e spregevole. Quella sì che fu una guerra combattuta in un’era marcia.»
«Una leggenda persa negli annali della storia. Il frutto della mente di un amanuense che scriveva storie per bambini e si divertiva a parlare di cose mai accadute.»
«In cui erano inclusi spargimenti di sangue, giuramenti mandati a rotoli, battaglie navali e guerre sanguinolente e macabre. Non penso fosse proprio un testo per bambini… ma potrebbe essere che abbiamo due diverse concezioni del significato.»
«Le storie sono solo storie.»
«Sicuramente, ma i suoi personaggi possono farci capire molto. L’Accademia fu tradita dal suo stesso Supremo Patres, durante quegli anni. Si chiamava Galbard, se ricordo bene, ed era un inutile ammasso di sterco e piscio di cavallo. Non aveva neppure un briciolo di tutto quello che hai detto essere prerogativa di un accademico. Portò il nostro reame alla dannazione solo perché era inutile. Inutile, disonesto e senza palle. Ma non senza scrupoli, non ipocrita o senza sentimenti.»
«Venne trovato morto su una nave, l’Ultima Cantilena, dopo che i suoi nemici lo intercettarono a largo delle coste settentrionali. Si era reciso le vene dei polsi» concluse Renegar che conosceva abbastanza bene quella storia. «Mi stai suggerendo di lasciare che sia a tu a giustiziarti con le tue stesse mani?»
«Non esattamente» rispose secco Lorenol. «Non trarre deduzioni inutili e svelte. Volevo solo dirti che le ere passano, gli uomini restano, e la poca morale vive in eterno. Potrei farti centinaia di migliaia di nomi tutti diversi, e alla fine concorderesti con me, Renegar Redrock.»
«Eppure, detto da un saggio che proviene dall’Accademia suona sempre molto strano». Renegar scosse la testa due volte. Tutto quel parlare lo stava confondendo. Pensò di ritrovarsi gli sguardi indagatori ed inquisitori dei suoi avi puntati tutti sul suo elmo, l’indice teso contro di lui nel rimproverargli poca serietà, prendendolo in giro con risate e ghigni di scherno. «Perché ti trovi qui?»
«Perché tu mi ci hai messo, mio signore». Lorenol prese a ridere. «Inizi a non poterne più?»
Renegar posò una mano sulla fronte, acciaio sulla pelle. Il caldo era asfissiante con tutta quella dose di protezioni a dosso. E in più, la risata stridente di quel prigioniero lo stava facendo andare fuori di testa.
«Avrei fatto tantissime cose questa notte, pur di vederti cadere sulle tue spoglie. Sarebbe stato un piacere allontanarmi da Corallo Rosso su una piccola imbarcazione – una modesta galea, per dirne una – vedendo il fuoco e le spire del male avvolgere questo luogo senza dei». Risate: erano tremendamente gelide e cupe. «Avrei sgozzato matres Amadya e la tua sarta, giusto per evitare che parlassero. Poi sarei andato via, fingendomi malato, occupato o stanco di questa vita nel tuo regno. Avrei fatto ritorno a casa mia… ma vedi, tu mi stai dando molte complicazioni.»
Renegar fece scattare la mano verso il basso. Le acute risate del patres prigioniero gli si insinuarono nel cervello come ferro arroventato sul fuoco e fatto passare dentro al cranio da ogni pertugio aperto. Posò la destra sullo stiletto con una velocità spaventosa.
«Va’ da tua figlia, mio caro amico. Svegliala come ti ho insegnato poco fa e posale una mano calda, paterna, sul ventre. Chiedile della rosa che cresce tra le sue gambe e annunciale che è arrivato il momento che fiorisca. Quanto ancora avrebbe dovuto aspettare perché quel fiore profumato venisse colto?»
Renegar si sentì salire il sangue al cervello. All’istante capì. Le dita della sua mano sinistra iniziarono a contorcersi per la rabbia e per l’iraconda furia. “Verrà il momento...”
Sentì la presa della destra pressare sullo stiletto freddo. Un unico colpo, uno solo, dritto al collo e la questione si sarebbe chiusa lì, in quella gattabuia. Un solo colpo e tutto quel dolore sarebbe evaporato come acqua in una torrida giornata estiva. “Il momento…”
«Stai pensando di uccidermi, eh? La verità fa sempre tanto male». Lorenol si mise finalmente in piedi. Portò la mano destra in tasca con un colpo secco. Renagar ebbe il tempo di sfilare lo stiletto rapidamente e di puntarglielo alla gola.
In meno di un battito ci ciglia, i due si ritrovarono sulla parete della cella. Lorenol pressato contro la scura e liscia pietra dura della prigione, Renegar a sovrastarlo con il suo acciaio alla gola. Il patres aveva estratto un fiore dalla tasca.
«Un fiore per un fiore. Forse avrei dovuto fare il giardiniere, non il patres. Cogliere i fiori mi rende tanto felice. E i fiori della principessa Missy sono molto rari…». Renegar strinse la sua morsa. «Mi… pare… un gesto… mise… misericordioso.»
Il signore di Corallo Rosso alleggerì la presa e gli permise di staccarsi dalla parete. Non appena lo fece, il patres cadde sfinito per terra, le mani in cerca dei suoi petali rosati.
«Basta così». Renegar abbassò la celata del suo elmetto rosso con la mano libera. «Guardati attorno giorno e notte, controlla ogni più recondito angolo di questa cella, ogni sasso, ogni pietra, ogni ciottolo. Aggrappati a qualcosa che non sia la tua vita e trattieniti a quella cosa per sempre. Hai osato sfidare la mia lama, patres… non pensare di uscirne illeso.»
Si avventò contro il suo prigioniero, lo alzò afferrandolo per la collottola e lo riportò con le spalle al muro. Il patres sputò un grumo di saliva ai suoi piedi.
«Mi uccidi» constatò Lorenol. «Ma non mi… non mi dire. Un signore coe… co… coerente
Renegar gli puntò lo stiletto alla base del collo. Inspirò due volte. “Verrà il momento…”.
Lo sguardo infido e spregevole di quell’uomo gli stava facendo ardere le budella come fossero state colpite da lapilli infuocati. “Padri, abbiate pietà… di me”. Un gesto fulmineo gli permise di alzare al cielo l’arma. “Verrà il momento…”
Lasciò che lo stiletto precipitasse miseramente per terra. Infine, voltò le spalle al nemico.

 


Note d'autore:
Nuovo appuntamento.
Dopo i disastrosi fatti accaduti nello scorso capitolo, finalmente abbiamo modo di vedere il tutto con una calma quasi insolita per l'atmosfera in cui si crea. Attraverso gli occhi del celeberrimo Renegar Redrock, ci immergiamo all'interno dell'intrigo, del dolore e della giustizia. Cosa avete pensato di questo personaggio? Avevate immaginato in questo modo il fautore della Guerra Grigia che, nella bocca di quasi tutti i personaggi de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", era apparso come un mostro? 
Viene svelata l'identità dell'oscuro assalitore in grado di muoversi nell'ombra: patres Lorenol (un personaggio già citato nel I capitolo). Avevate immaginato che potesse trattarsi di un uomo tanto insito nel castello? Comunque, per chi avesse posto la domanda: ecco com'è riuscito ad entrare. Non solo aveva numerosi amici al suo interno - quindi tantissimi appigli - ma era addirittura un uomo votato e, perciò, abitante della Rocca Rossa.
Renegar, scosso dal suo immane senso del dovere e dal suo pugno fermo, scende a far visita al prigioniero. Lì, un paio di rivelazioni saltano a galla: Lorenol ha avvelanato Missy, come molti avevano dedotto. Ma il suo intento - cosa in cui è risciuto, secondo le sue parole - era un altro. Cosa pensate dell'intera situazione? Cosa del personaggio di patres Lorenol? E cosa immaginate abbia spinto questo uomo malato a comportarsi in questo modo? Ma soprattutto, come avete interpretato l'ultimo gesto di Renegar Redrock e come pensate si svilupperà la cosa?
Le domande di questo capitolo sono molte, me ne rendo conto. In attesa dell'atto di chiusura di questo spin-off [sabato 26 c.m] io vi saluto con una domanda molto difficile (ora come ora): chi sarà l'ultimo PoV di questa storia o chi sperate che sia?
Grazie a tutti i miei lettori e a tutti coloro che lasciano progressivamente il loro commento: un grande abbraccio!
Makil_

P.S. In questo capitolo abbiamo anche un importante cameo. Vi ricordate di Lemmon Cappa Rossa ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda"? Egli è stato uno dei tre coordinatori del grande intrigo di Roshby tra le mura della torre di Wolbert Dorran. Là, Lemmon è conosciuto come "Cappa Rossa"... un particolare rimando, ora che le vicende risultano più chiare, non credete?
Vi riporto il capitolo in cui spicca il suo personaggio (anche se lo abbiamo visto in molte altre occasioni - nell'epilogo e nei capitoli del torneo, ad esempio): 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3657043.


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV - La fine dei giochi ***


Premessa by Makil_: 
 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon.
  • I fatti narrati ne "Spada rossa, cuore bianco" sono da collocare nel 29 AG, a dispetto di quelli narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda" del 31 AG. 

  
Per l'ultima volta, buona lettura! ^^


 

Cap. IV – La fine dei giochi
 
 
Erano ben cinque le porte d’ingresso alla Rocca Rossa, ma solo una, col riverberare dell’alba, spiccava in mezzo a tutte le altre. Era la porta dedica a Rewerd Re dei Salici Rossi, uno dei primi figli dell’emblematico patriarca della casa Redrock, colui che aveva conquistato le due diramazioni occidentali del Wyndwater con memorabile sagacia e una strategia infallibile.
Il chiarore dei flebili raggi solari che si faceva spazio tra le vetrate di un piccolo atrio non bastava a lenire il rumore dei cardini vecchi e logori dei battenti di quella porta. Il suo schiudersi fu come il crocchiare di un corvo dalla voce rauca, come il formicolio insano di un arto fantasma.
Quando si aprì, il calore di un sole splendente irruppe in ogni angolo della stanza, abbagliando l’atrio con la sua focosa energia.
Lemmon Redrock non era stato destato da quella magnifica alba, ma dal suo ferreo senso del dovere, lo stesso che non gli aveva permesso di chiudere occhio che per due ore o poco più durante l’intera notte. Quello che si prospettava di fronte alla Rocca Rossa era senz’altro uno dei giorni più importanti dell’ultimo mese.
Era stato suo zio Renegar a dargli l’incarico e l’autorità di occuparsi di accogliere la staffetta  col sorgere delle prime luci. Lemmon non aveva esitato neppure per un secondo: se c’era una cosa per cui credeva di essere nato, era il suo profondo e spiccato senso dell’opera. Non puntava certo ad addolcire suo zio per ottenere da lui qualcosa in cambio; no, non c’era nessun tornaconto nel suo operato. A Lemmon piaceva mettersi in mostra per quel che davvero desiderava: far vedere al mondo quanto fosse legato alla sua famiglia, quanto a cuore avesse la situazione dei suoi parenti e quanto prestigioso e ligio al dovere fosse il suo animo, specie quando si trattava di servire suo zio. Tutte caratteristiche che avrebbero fatto di lui un ottimo sovrano, almeno secondo il parere affrettato della sua ormai dipartita madre.
Per quell’occasione, Lemmon aveva fatto in modo che anche il suo aspetto fosse il più decoroso possibile. Quel giorno aveva indossato un curatissimo farsetto trapuntato color mandarino, un paio di brache di lana scura, due stivaletti alti e neri dalla punta affusolata e un lungo mantello color oro rifinito nei dettagli con delle cuciture lattee. Al bacino, da una cintola di spesso cuoio ornata di dettagli dorati, pendeva un pugnale dalla lama molto fine. La notte precedente, probabilmente perché colto dall’insonnia, si era dedicato anche alla cura del suo aspetto fisico. Non solo aveva fatto un bagno caldo e colmo di vapori sufficientemente riscaldati, ma si era anche preso la briga di accorciare la sua barbetta rossa e i suoi capelli. Se il giorno prima aveva vantato di essere un ventottenne, quel dì  avrebbe potuto correre per i corridoi della Rocca annunciando di essere ringiovanito di ben dieci anni.
«Mio signore». Ser Warnick Garasbour si esibì in un profondo inchino e si avvicinò.
«Puoi chiamarmi Lemmon, ser Warnick, se ti compiace» gli confidò. «Mio malgrado, sono ancora sovrano di niente e nessuno.»
«Mi assicurerò di farlo la prossima volta». Ser Warnick inarcò il suo folto sopracciglio. «Bel farsetto, comunque. Un nuovo acquisto, non è così?»
«Diciamo che sto dando un po’ di voce al mio scarso gusto nel vestire. Begli indumenti, in rare occasioni, fanno begli aspetti.»
Ser Warnick annuì e sorrise. «Il giovane è appena giunto alle porte.»
Lemmon si resse ad una scanalatura del mastodontico infisso e si esibì in un largo sorriso a trentadue splendidi denti.  «Era pure ora che arrivasse. Stavo iniziando a temere che fosse affondato in acqua nella traversata in mare.»
I due battenti del portone erano stati costruiti con legno proveniente dalla stessa radura in cui Rewerd Re dei Salici aveva innalzato i suoi accampamenti durante la presa del fiume della regione. Il legno era stato immerso in una colata di tintura porpora che aveva saputo resistere negli anni senza sgretolarsi minimamente dopo essersi essiccata, ma le sue scanalature e i bassorilievi creati nei due battenti erano ancora ben più che evidenti anche sotto i vari strati di vernice.
Dopo appena cinque minuti, il sonoro tonfo dei passi di un fiero purosangue bianco risuonò sui sassi del sentiero. L’emissario – un tale Willy, l’accolito di matres Amadya – aveva viaggiato in sella a quel cavallo fino all’estremo Nord, diretto all’Accademia, su ordine di suo zio Renegar. Erano passati due mesi da quando l’accolito aveva deciso di imbarcare sulla galea che lo aveva trasportato sulla sponda meridionale della Punta, presso il porto di Grande Marea. Il giorno in cui la sua partenza era stata decisa era stato un giorno di tempesta e pioggia, esattamente il dì dopo l’arresto di patres Lorenol. Forse, gli dèi si erano infuriati a tal punto da scagliare su di loro un tenebroso temporale, stizziti a causa dell’affronto avanzato da quell’esperto.
«Invia il tuo accolito all’Accademia, matres Amadya» aveva detto fiero Renegar Redrock nel suo solarium. La sua decisione, non discussa con nessuno, era stata irremovibile. Lemmon ricordava ancora il barlume di fiamme focose che aveva scorto luccicare nei suoi occhi infiammati dalla rabbia. Quella di suo zio non era stata certamente una proposta.
«Come comandate, mio signore». Prima di congedarsi, la matres si era voltata un’altra volta, il dubbio e la perplessità incanalati nei suoi lineamenti anziani. «Willy avrà bisogno di una cavalcatura, tuttavia.»
«Avrà il mio cavallo migliore.»
Il viaggio era durato anche abbastanza. Era ora che quel ragazzo tornasse, dopo essersi rimpinzato di nuove e fresche risposte provenienti dal Supremo Patres in persona. La richiesta di Renegar era stata folle anche per le orecchie di Lemmon. Indubbiamente, aveva pensato sentendola, sarebbe stata rifiutata come una lisca senza carne consegnata come prima portata di una cena regale.
L’emissario lasciò le redini del suo cavallo in mano a ser Warnick, il quale si era prontamente recato ad assisterlo fuori dalla Rocca. L’accolito scese da cavallo con un salto e si incamminò verso il portone.
«Mio signore Lemmon». Willy fece un inchino. «La cavalcata è stata molto stancante. Devo avere un paio di vesciche su tutto il fondoschiena e lungo la coscia destra.»
Lemmon lo guardò a lungo. I segni di una permanenza lunga sulla sella erano veramente evidenti in tutto il suo corpo aggobbito e tra i suoi abiti stropicciati. «Mi auguro che tu possa riposarti quanto prima, Willy. Ma c’è altro a cui dover pensare adesso… questo lo sai bene.»
Willy scosse il capo e lo guardò con soggezione. Una paura fanciullesca prese il sopravvento nei suoi occhi mentre lui continuava a fare cenno di no col capo. «Purtroppo non c’è stato niente da fare.»
Lemmon si lisciò il farsetto con la sinistra e passò la mano nel tessuto fino a stringerlo. “Il loro primo passo verso il grande inferno di fuoco. Renegar impazzirà”. «Ser Warnick, per cortesia.»
Il cavaliere si voltò di scatto, lasciando la presa delle redini dello stallone nero. «Ai vostri comandi, Lemmon. Ai tuoi
“Il primo stivale è calzato. Chissà dove verrà posto l’altro piede!”. «Sveglia gli esperti e chiama a raccolta qualche tuo buon fratello giurato». Lemmon lo guardò con un’espressione mista tra lo scombussolato e il frastornato. «Dobbiamo convocare immediatamente il concilio.»
 
La luce del sole penetrava nella sala quadrangolare da ben cinque bifore, una delle quali grande il doppio delle altre e collocata alle spalle di uno scranno regale. Ospite di un cielo chiaro e turchiniccio come il mare dopo la pioggia, il luccichio dei raggi solari si faceva spazio nella stanza come le ciglia dell’occhio di una donna, accarezzando ogni oggetto ed ogni viso su cui osava posarsi. 
Renegar Redrock era baciato da tutta quella luce mattinale, ma nulla riusciva a illuminare veramente quel volto incupito e buio. Nelle ultime settimane, benché sia sua figlia che sua moglie si fossero risvegliate, incitate dall’ottima opera che aveva fatto l’incantatore Lynn, suo zio non aveva fatto altro che pensare e ripensare a tutti i possibili modi in cui avrebbe potuto ottenere vendetta. Non aveva fatto parola con nessuno di quel che aveva ascoltato nei sotterranei, quando era andato a far visita al suo prigioniero, ma il suo aspetto e la sua inconfessata rabbia avevano destato la curiosità di molti, Lemmon compreso. Certo era che Renegar Redrock avesse saputo qualcosa di incredibilmente importante e di dannosamente incriminante e sporco, poiché l’uomo che entrato nelle segrete non era lo stesso che ne era venuto fuori.  Conosceva bene suo zio, e sapeva altrettanto bene che non si sarebbe mai scrollato di dosso un’offesa, di qualsiasi genere e natura essa fossa, poiché voleva significare davvero tanto per lui. Avrebbe dato alle fiamme ogni ala del suo castello, se questo fosse servito a cancellare l’onta che patres Lorenol aveva commesso e il peccato di cui aveva macchiato l’intera genia Redrock, passata e futura.
«Zio, sai che puoi benissimo confidarmi tutto quello che sospetti. Il sangue della nostra casa è stato rovinato dall’odio smisurato di un uomo che non sa neppure quanto veramente valiamo» aveva detto Lemmon camminando al suo fianco in uno dei corridoi che conducevano al suo studio. Le sue intenzioni erano consolatorie e prettamente amichevoli. «Comprendo la difficoltà del momento, ma in me potrai sempre trovare un valido assistente ed un ottimo ascoltatore. In qualsiasi momento tu…»
«Chiudi la bocca, Lemmon». Renegar gli aveva riservato un’occhiata che suo nipote non aveva mai scorto nel suo volto, nemmeno quando, in età più immatura, gli aveva rovesciato addosso tutto l’olio bollente di una lanterna accesa, macchiandogli irrimediabilmente le brache e gli stivali. «Non voglio che si parli più di questo argomento, in mia presenza così come in mia assenza. Le voci che restano solo voci fanno presto a scomparire.»
Da allora Lemmon non aveva più osato aprire quella conversazione, e si era disposto affinché nessun uomo nel castello lo facesse in sua vece.
Lemmon sedeva alla sinistra di Renegar, sul lato del tavolo opposto a quello in cui sedevano già matres Amadya e il suo accolito Willy, vestito ancora degli stessi abiti di cui era provvisto al suo arrivo. L’esperta che serviva indossava una veste color sabbia con un soprabito turchese. I suoi gusti nel vestire senz’altro erano pessimi. “Potrebbe soffrire di cecità” terminò col pensare Lemmon. “O potrebbe essersi vestita che la sua camera era ancora al buio.”
Accanto a Lemmon aveva preso posto ser Warnick Garasbour, il quale, a sua volta, sedeva alla destra di ser Gilbert di Bale, un cavaliere anziano che aveva perso cinquantadue anni della sua vita a servire un ser più potente di lui in qualità di scudiero. Quantomeno, il suo servizio, a sentirlo parlare, lo aveva formato a dovere.
Il concilio stava attendendo l’arrivo di patres Worgan, al quale era stata riservata una seduta accanto all’accolito Willy.
“Il suo ritardo non farà che indispettire ulteriormente Renegar”. Lemmon rivolse uno sguardo indagatore allo zio, il quale aveva già iniziato a digrignare istericamente i denti, pressandosi le tempie con gli indici. “E non ha nemmeno tutti i torti.” Un conto era non arrivare in tempo ad un concilio in cui si discuteva del ribasso della moneta, del prezzo del grano, della quantità di risorse primarie e della disposizione dei possedimenti terrieri, un altro, invece, ritardare ad una riunione tanto rilevante.
Anche ser Gilbert iniziò a lamentare il ritardo del patres, non facendo altro che appiccare fiamme nel braciere che Renegar stava allestendo e su cui stava strofinando due pietre focaie. Se c’era una cosa che si poteva rimproverare al ser di Bale – forse una che non aveva saputo forgiare col suo servizio di scudiero – era la sua sproporzionata incoscienza.
«Avrei dormito un po’ di più» bofonchiò a denti stretti ser Gilbert. «Se avessi saputo che la puntualità non viene regolata in alcun modo in questo maledetto concilio.»
“Hai appena impugnato il badile con cui ti impegnerai a scavare la tua fossa, mio caro, vecchio ser senza cervello.”
Renegar sollevò appena la testa. «Nessuna catena di lega al tuo sedile, ser Gilbert. Se desideri che il tuo nome venga depennato dalla lista di questo concilio, alzati e va’ pure via. Non impiegherei molto a farti tornare a leccare gli zoccoli del cavallo di quel tuo ser a cui avevi prestato giuramento di fedeltà e a cui non mancavi di strisciare accanto.»
Ser Gilbert abbassò lo sguardo, le guance rosse per l’imbarazzo. «Le mie scuse, mio signore. Deve essere la deficienza di un vecchio a farmi parlare… o la stanchezza di una notte insonne passata a fissarmi i pollici.»
Renegar non fece caso a quelle parole. «Sembra che, ormai, farsi beffe del proprio signore sia diventato un passatempo alquanto gettonato in questo castello. Forse è per colpa mia… devo essere stato fin troppo permissivo con ognuno di voi». Renegar scosse lievemente il capo. «Ma ora è tempo che questa usanza passi di moda.»
«Concordo». Lemmon poggiò i gomiti sul tavolo. Non seppe dire perché concordò, in realtà non aveva neppure prestato molta attenzione al dibattito, eppure si ritrovò a farlo. Sentiva la necessità di rimediare al piccolo battibecco che avevano avuto un tempo in quell’ala del castello che conduceva ai suoi studi. Sentiva la necessità di far capire a suo zio che lui era lì con loro, in quella stanza, pronto ad aiutarlo e a sostenerlo in qualsiasi sua decisione, anche quella di radere al suolo l’intero regno e cospargerne le radici con del sale.
Renegar si morse il labbro. «Willy, va’ a cercare quel vecchio digli di correre qui. Immediatamente.»
Non aveva più voglia di attendere il vecchio, notò Lemmon. “Mio zio non ha mai stimato l’attesa.”
«Non ce n’è alcun bisogno» fece una voce rauca sull’uscio. Il vecchio in questione era davanti alla porta della sala in cui si erano riuniti. Entrò a rapidi passi e prese posto nell’unico scranno libero.
«Te le sai presa comoda, patres Worgan». Ser Warnick si lasciò sfuggire un risolino.
«Questioni fisiologiche di natura mattutina – chiamiamole così – mi hanno trattenuto». Il patres intrecciò le mani sul tavolo e guardò circospetto il suo signore.
«Ora che lo sappiamo» fece ser Gilbert. «Sicuramente il concilio andrà avanti più velocemente e con  maggiore probabilità di ottenere buoni risultati.»
Il patres guardò ser Gilbert. «Questo è l’augurio che tutti noi ci facciamo, ser.»
«Un augurio che non si realizzerà, probabilmente.» disse gelido Renegar Redrock. «Willy, mio caro giovane, esponi pure quanto sai. Dal principio, cortesemente.»
Willy si rizzò, per la prima volta interpellato personalmente dal signore di Corallo Rosso. «Mio signore, sono latore di notizie che non vi piaceranno.»
«Ho gusti alquanto complessi, ma lascia giudicare a me ciò che mi aggrada e ciò che non lo fa.»
“Come se non conoscessimo i tuoi gusti, zio.”
Willy si sforzò di sorridere. «Dopo settimane di viaggio verso il Nord, sono giunto a destinazione nelle Terre Brulle. L’Accademia mi ha accolto come un ospite, e io non ho dimenticato il motivo per cui ero stato inviato lassù. Consegnai la vostra missiva, mio signore, ad un infimo. Mi disse di chiamarsi Ronard.»
«Perché non hai riposto la lettere nelle mani del Supremo Patres?». Lemmon si rizzò sul sedile. “Peggio di quanto avevo previsto. Sarei dovuto andare io al Nord.”
«Ci ho provato, mio signore Lemmon, ma non ci sono riuscito. Mi è stato comunicato che il Supremo Patres Polwyr non aveva alcuna intenzione di ricevermi quel giorno. Ho atteso per due notti alle Nicchie, ma non è cambiato nulla.»
«Nessuno ha notato la mia lettera? La Lettera Rossa è stata vergata col sangue di un loro patres. Non è bastato a scuoterli un minimo e a farli riflettere?»
«A quanto pare non più del dovuto, mio signore. Patres Ronard mi ha riconsegnato la missiva col sigillo di ceralacca spezzato. E, leggendo, mi sono accorto che il Supremo Patres Polwyr vi aveva lasciato dentro una risposta.»
«Dov’è la Lettera Rossa?» intervenne ser Warnick.
«Eccola». Willy afferrò la missiva dalla tasca interna della sua giubba di cuoio. La consegnò a matres Amadya, la quale fece scorrere il messaggio fino alle mani di Renegar. «Mio signore.»
Il signore di Corallo Rosso srotolò la carta e ne lesse rapidamente il contenuto. Un risolino si materializzò sul suo volto. Un riso affatto piacevole da vedere, mentre i suoi connotati restavano impassibili.
«Possiamo conoscere l’esito della vostra lettera, mio signore?» chiese patres Worgan.
Renegar fece cenno col capo e passò la missiva a suo nipote. «Leggi, Lemmon. Ad alta voce.»
Lemmon fece fatica a capire cosa ci fosse scritto nel primo rigo, tanto la calligrafia del Supremo Patres risultava sottile e sbiadita. Senza ombra di dubbio, quella lettera aveva compiuto un grande viaggio. Prese a leggerne il messaggio. «Al fine di scongiurare ogni qualsiasi tipo di azione diffamatoria o illegale sostenuta senza l’unanimità del Seggio dei Saggi, io, Supremo Patres Polwyr, nego la possibilità di abbattere la Cinghia e abolisco categoricamente la sua diabolica utopia. In merito al secondo contenuto della missiva, mi dichiaro totalmente avverso alle pratiche dell’ingollo come metodo di ragionevole giustizia. Con la seguente, intendo limitare l’abuso di potere da parte di vossignoria Redrock e proibire definitivamente l’idea che io possa concedere metodi tanto barbari a gente barbara. Ossequi.»
Patres Worgan sospirò. «Era una causa persa in partenza, e io ve lo avevo assicurato, mio signore. Non prendetela sul personale. Il Supremo Patres Polwyr non è un tipo molto permissivo.»
«Ce ne siamo accorti» fece ser Gilbert.
Mentre Lemmon passava la missiva a ser Warnick, Renegar prese parola. «Matres Amadya, il tuo pensiero in merito?»
La donnetta inalò una grande quantità d’aria prima di rispondere. «La giustizia non può essere definita tale se non nasce che per educare. Una tecnica come l’ingollo ucciderebbe il prigioniero – cosa senz’altro giusta e sensata – ma metterebbe in cattiva luce voi, mio signore. E ciò farebbe di Renegar Redrock un assassino punibile dall’Accademia al pari del patres trasgressore. Io e patres Worgan, insomma… la pensiamo così.»
Renegar smise di fissare la matres solo dopo che questa ebbe concluso. «Eppure non mi risulta che l’Accademia abbia mosso un solo dito per punire l’esperto che si è infiltrato nel mio regno, che ha abusato di mia figlia e che ha assalito mia moglie, nonostante abbia letto personalmente quanto ho scritto. Il Supremo Patres non ha speso una parola in merito a questo.»
«Perché ha trovato le altre note molto più importanti e severe di quella sul prigioniero. Mio signore, nella vostra lettera voi avete scritto di voler abbattere la Cinghia, di voler riesumare una tecnica di tortura bandita anni orsono e di volervi servire di usanze e regimi delle Terre Spezzate. Obiettivamente, non cose da poco… e non cose tollerabili con molta facilità. Credo sia questo il motivo per cui l’occhio accademico sia caduto solo su parte della vostra Lettera Rossa» rispose patres Worgan, integerrimo fino all’ultimo.
“Placa i tuoi modi, patres, o solo gli dèi sapranno aiutarti.” Lemmon si intromise subito tra i due. «Zio, potremmo inviare un’altra missiva al Nord, giusto per chiedere informazioni specifiche sul comportamento da adottare in casi come questi. Se non possiamo fare giustizia a modo nostro, allora possiamo trovare un accordo che compiaccia sia noi che la legge.»
Renegar rivolse uno sguardo di rimprovero al nipote. «La stessa legge che permesso a quell’uomo di mettere le mani su mia figlia e sua mia moglie? La stessa legge che ha consentito che si arrivasse a tanto e che io venissi umiliato di fronte a tutto il mio popolo? La gente, sotto e dentro le mura di questa dannata rocca, ride di me ad ogni ora del giorno. Sono circondato da una servitù che mi ha tradito, da uomini in arme che non hanno saputo difendermi nel momento in cui avrebbero dovuto farlo. Gli spettri del castello ridono di me.»
«Se posso» s’intromise patres Worgan. «Quale fetta della vostra corta ritenete vi sia nemica?»
«Ogni fetta» rispose Renegar corrucciato. «Persino una delle sarte del mio castello mi è andata contro. Ho saputo dalle labbra stesse di patres Lorenol che la donna lo ha aiutato a celarsi nell’ombra del mio castello.»
«La donna in questione sarebbe la sarta che si è suicidata la scorsa settimana?»
Renegar fece di sì col capo. «All’inizio non volevo credere alle parole del prigioniero, ma il suo cadavere è stata la conferma della mia incompetenza. Mi sono chiesto quanto adatto al potere fossi. Un sovrano non dovrebbe mai porsi un dubbio del genere: se ho potere, allora merito di averlo.»
Era stata una serata torbida e senza luna, con una serie di nuvole grigie sparse su tutto il cielo a guisa di macchie d’olio. Avevano trovato la sarta appesa alla trave del tetto del suo ufficio, gli occhi fuori dalle orbite voltati al contrario e il volto emaciato e violaceo. La lingua si era ispessita fino a fuoriuscirgli di forza dalla bocca, come un boccone amaro sul punto di essere sputato per terra.
L’incantatore Lynn aveva tastato la sua testa e la sua pelle con il suo stesso mestolo. «Si è stretta il cappio alla gola più di tre giorni fa. L’aria ha smesso di arrivarle al cervello, poi è crollata». A quel punto, aveva chiesto cosa avrebbe dovuto fare del suo gelido cadavere.
«Sotterriamolo fuori dalle mura» aveva detto, giustamente, patres Worgan, vestito di un camice da notte ed un cappellino sul capo, destato improvvisamente dal suo sonno.
«Assolutamente no». Renegar aveva contorto sgradevolmente le labbra. «Ha desiderato tacere per sempre, poiché sapeva che sarei venuto a chiederle spiegazioni. La sua morte è anche la sua accusa.»
L’incantatore lo aveva guardato con occhio sospetto.
«Gettate il suo corpo in mare» aveva decretato Renegar continuando a fissare il corpo sospeso a mezz’aria della donna. «Ma prima fate che sia tinta di rosso in ogni parte del corpo.»
L’espressione di Renegar Redrock non lasciava intuire affatto ciò che stava pensando di fare. Eppure, qualcosa nei suoi occhi sprizzava di luce malsana e feroce. Non aveva mai visto un bagliore tale negli occhi di nessun uomo.
«Ser Gilbert, ser Warnick, Lemmon». Renegar non sollevò neppure lo sguardo nella direzione di coloro che aveva nominato. «Cosa avreste fatto se un impostore vi si fosse dichiarato servo solo per entrare nella vostra casa e distruggervi moralmente?»
«Avrei cercato vendetta» rispose secco ser Gilbert, lo sguardo assonnato e gli occhi scuri. «Gli anni di servizio mi hanno insegnato che non ci si può fidare di chi dice di stare sempre dalla parte della legge.»
Ser Warnick ci pensò due secondi su. «Avrei chiesto spiegazioni e poi me ne sarei liberato nel modo che più avrei ritenuto consono.»
“Stiamo solo compiacendo te, zio.” pensò Lemmon. “Dubito che, in altri casi, la risposta sarebbe stata la stessa”.
Solo a quel punto, Lemmon Redrock dovette combattere la sua indecisione. Se avesse detto qualcosa di sbagliato, suo zio non lo avrebbe neppure più guardato in faccia. Ma se, al tempo stesso, avesse detto ciò che suo zio si aspettava che lui dicesse, gli esperti in quella stanza sarebbero rimasti ben più che indignati dal comportamento adottato. «Lo avrei massacrato» concluse infine. «Avrei cercato per lui il peggiore dei destini cui un uomo possa andare incontro, e gliel’avrei fatta pagare ad un caro, carissimo prezzo. La famiglia è sacra». Si pentì della risposta soli pochi attimi dopo.
Anziché guardare i tre interpellati, Renegar Redrock si limitò a sollevare lo sguardo verso i due esperti. Digrignò i denti. «Quando nessuno sa darti giustizia, bisogna che sia tu stesso a dartela». Il signore di Corallo Rosso strinse la destra in un pugno. «Avete fatto in modo che io venissi deriso dalla mia gente. Voi, esperti della mia corte, avete cospirato alle mie spalle insieme a quell’uomo e ora state facendo di tutto perché a lui non capiti qualcosa di spiacevole. La vostra congiura è grande, molto grande… e include la presenza del vostro superiore: l’altissimo Supremo Patres, un politico irremovibile ed incontrastabile. Lasciare che voi continuiate a giocare non mi darebbe nessun conforto. Il miglior giocatore è scaltro, d’accordo, ma finché il suo avversario non si rende conto che la partita sta per concludersi.»
Renegar Redrock si alzò dal suo scranno e prese a camminare lungo tutta la sala del concilio. I respiri di matres Amadya e del suo accolito erano percepibili anche da quella distanza. C’era il sapore del sangue nell’aria, Lemmon lo notò subito. “Che gli dèi siano con noi. E questa è anche colpa mia”.
«Avete permesso ad un uomo del vostro ordine di farsi beffe del suo sovrano, e ora siete qui, in questa stanza, ancora nel mio castello, nella casa dei miei avi, a ribadire che non dovrei fare altro che dichiararmi clemente. Oh già, perché è così che si educano gli uomini… con la clemenza e con la dolcezza. Magari insignire Lorenol castellano di un qualche possedimento di Corallo Rosso ci aiuterà a rieducarlo.»
Lemmon tentò di prendere parola. Non poteva permettergli che si facesse di tutta l’erba un singolo fascio. Si trovò ancora una volta combattuto. «Zio, io…»
Renegar gli lanciò un’occhiataccia in cagnesco che lo sedò all’istante. “Un temporale è in arrivo. E io non posso fermarlo… o sarò fermato a mia volta.”
Il silenzio era calato sulla stanza. Ser Gilbert era impassibile di fronte ai passi delicati di Renegar, che stava andando verso la porta. Ser Warnick non muoveva un solo muscolo e non osava neppure respirare. Matres Amadya aveva gli occhi socchiusi, e probabilmente stava pregando il suo dio. Solo patres Worgan pareva non avvertire nessuna minaccia attorno al tavolo, e stava continuando a giocherellare con i suoi pollici in attesa che Renegar tornasse a sedere.
Ma il signore di Corallo Rosso non pareva avesse voglia di esaudire quel desiderio. «La mia decisione è incontrastabile. Questa notte, miei cari esperti, vi preparerete a lasciare la mia rocca. Non ci sarà alcuna alba per voi… non nella mia casa, quantomeno. Se domani alle prime luci sarete ancora tra noi, io darò ordine che siate gettate vivi dalla più alta delle mie torri, insieme al cadavere di patres Lorenol. Corallo Rosso, questa notte, smetterà di appartenere all’Accademia.»
Matres Amadya emise un gemito impacciato, ma non osò fiatare oltre.
«Con una sola parola». Patres Worgan si mise rumorosamente in piedi, un’espressione beffarda sul suo volto di vecchio. «Scatenerete la furia di una tempesta che il nostro reame non saggiava dai tempi del Supremo Patres Galbard. Avete dimenticato, mio signore, quanto e quanto a lungo sanguinò il nostro continente il giorno in cui i sovrani delle Terre Spezzate proposero la medesima pazzia scagliandosi a rotta di collo nella Tempesta Rossa? Avete dimenticato cosa avvenne ai figli di Patreck Carwock, signoria di Trionfo del Re, quando il conflitto ebbe inizio e la basilissa Galaradra osò marciarci contro con le sue belve squamate? Avete forse dimenticato quanto sanguinoso ed efferato fu il disastro di Biancastello? Avete dimenticato anche uno solo di tutti questi disgraziati eventi?»
«Io non dimentico, patres Worgan». Renegar si era fermato di fronte al vecchio esperto. «Io non dimentico mai.»
L’esperto gli punto contro il dito, ma trattenne la sua mira solo per un breve istante. «E allora, mio signore, archiviamo la cosa civilmente e consideriamo il problema risolto. L’Accademia provvederà a darvi giustizia nel modo più sano possibile, senza dover ricorrere ad intrugli ritenuti barbari e ormai in disuso da tempo immemore. Andrò di mia sponte al Nord a risolvere per voi la questione.»
«Sono d’accordo» fece matres Amadya. «Andrò anche io. Due voci suonano più forti di una sola.»
Renegar rise. «Avete voglia di scappare da questo luogo il più in fretta possibile?»
«Scappare? No!» buttò lì la matres. «Io voglio solo servirvi, mio signore. E farlo nel migliore dei modi, se me ne è data la possibilità». La voce di Amadya, constatò Lemmon, era divenuta tremante e debole.
Il disprezzo di Renegar per quelle parole si condensò tutto nel suo sorrisino tutt’altro che benevolo. La mente di suo zio stava covando qualcosa di puramente folle.
«Consentitemi, mio signore. Prendetevi pure un giorno o due per pensarci su e poi fatemi sapere. Partirò quando più lo riterrete consono e metterò fine a questo diverbio. Il reame non ha bisogno di sangue in questo periodo. Sarebbe la soluzione più giusta.»
«E la meno cruenta» s’introdusse matres Amadya.
«Il nostro continente ha sofferto abbastanza». Anche Willy prese parola.
Renegar guardò tutti e tre con uno sguardo torvo. «Mi dispiace, signori, ma le vostre parole rimarranno aria calda in una sala già fin troppo soleggiata. Io ho già pensato molto e a lungo, e non mi va più di farlo. Il vostro amico Lorenol non vivrà un giorno di più. Gli ho concesso fin troppo tempo libero in quella cella, ed è anche ora che si ricongiunga con gli stessi esseri infernali che lo hanno condotto qui». Renegar mise la mano sull’elsa della sua spada. «Non voglio percorrere altre vie che quelle che conducono alla violenza, patres Worgan. Non mi faranno cambiare idea le parole di un vecchio scorbutico.»
Patres Worgan non demorse. «Un vecchio che ha saggezza da vendere, mio signore… e non lo dico perché il vecchio in questione sono io. Avevo dato per scontato che la cosa fosse stata chiarita e messa da parte, obliterata il giorno in cui quella Lettera Rossa fu scritta e spedita al suo destinatario. Il tempo non ha cancellato né smussato il vostro odio, noto. Ebbene, me ne sono ricreduto ora. Devo ammettere che non avrei immaginato di poter arrivare a tanto». L’esperto alzò fiero il capo e si impuntò sui talloni. «Vorrei andare via, se è possibile. Farò ritorno all’Accademia, su al Nord… credo sia meglio per tutti noi.»
«Ed esimerti dal concilio seduta stante? Sì, è chiaro che puoi andare, mio gracile ed invecchiato esperto». Renagar Redrock gli riservò un sorrisino mellifluo. «Ma non con i tuoi piedi.»
«Che vuol dire?»
Fu a quel punto che Renagar Redrock fece saettare la destra sulla tunica dell’accademico. Un sibilo metallico dalla breve durata risuonò in mezzo istante nell’aria. L’istante dopo patres Worgan cadde morto per terra, il collo privo della sua testa, la pozza di sangue caldo dell’uomo ancora ribollente sul pavimento come il più profondo dei laghi.
Renegar sollevò in aria la sua lunga lama splendente, mentre in un urlo acuto e sconcertato attraversava la sala del concilio; i membri chiamati in riunione si alzarono dai loro posti e rimasero allibiti dinanzi alla scena. Solo Lemmon riuscì a riportare la quiete nella sala, estraendo anch’egli il suo pugnale e girando in cerca di qualcuno da puntare. Era necessario che suo zio lo vedesse mentre si batteva per lui con la sua stessa sadica ira. “E così è fatta”.
Trovò la sua preda nella vecchia esperta che aveva di fronte.
«Renegar Redrock!» vociò matres Amadya trattenendo le lacrime. «Pazzo! Questa è pazzia… pazzia allo stato puro!»
«No, matres. Quella di mio zio non è affatto pazzia». Lemmon la guardò dritta negli occhi e scosse la presa sul pugnale. Avrebbe scartato qualsiasi suo onore pur di alzare la sua lama a difesa di suo zio e dei suoi ideali. «Questa è politica. Questa è la fine dei giochi… dei vostri giochi.»
Matres Amadya iniziò a singhiozzare disperatamente, fino a che i suoi occhi si riempirono di lacrime aspre che le solcarono per intero il viso da vecchia. Il suo accolito le era scattato al fianco, sostenendola col braccio sulle spalle. Willy stava sussurrando qualcosa all’orecchio della donna.
Renegar fece appena due passi: due soltanto, che risuonarono nella stanza come tonfi ovattati e rintronanti tra i lamenti della matres e i bisbigli del tremante Willy. Rinfoderò con un gesto fulmineo la spada e abbassò il tono della voce. «E ora dedichiamoci a chi ha causato tutto questo. Ser Gilbert, Lemmon». Renegar scansò il corpo morto di patres Worgan e puntò gli occhi sui due. Poi spiegò il braccio verso la porta. «Dopo di voi.»
 
Buia era quell’ala della prigioni di Corallo Rosso, così buia che anche le parole venivano private del loro colore una volta fuoriuscite dalla labbra di qualsiasi uomo.
Ser Gilbert stava trattenendo il respiro per non inalare l’aria satura dell’acre olezzo delle feci umane lasciate a marcire nella cella oscura di patres Lorenol. Lemmon non poteva dargli torto ma, pur di non farsi vedere quale un debole da suo zio, preferì far finta che quelle stanze profumassero di salvia e garofani.
«Guarda caso dovevo finirci io a mettere le mani su quel mostro». Ser Gilbert sputò per terra. «Sarà immerso nei suoi escrementi fino al collo.»
“Ti conviene tenere per te questi pensieri, ser”. Lemmon gli riservò una gelida occhiata, resa ancora più fredda all’oscurità del cunicolo. “Lo penso per il tuo bene. E per quello della tua testa”.
Una serie di bestemmie e di lamenti vergognosamente scurrili condussero fuori Renegar Redrock dall’ingresso della cella. Il signore di Corallo Rosso trascinò il prigioniero di forza fuori dalla sua gattabuia, gettandolo a peso morto sul pavimento illuminato dalle torce vicine, accese proprio per l’occasione.
“Probabilmente sono state accese giusto per dare luce al patres e mettere in mostra la sua vergogna”. Lemmon si lasciò sfuggire un sorrisino distratto. “Nessun fuoco riuscirà ad illuminarlo. Ma Renegar vuole umiliarlo.”
Dinanzi al crepitio delle fiamme alle pareti, patres Lorenol apparve nudo. Non perché non vestisse dei suoi stracci, ma perché aveva completamente perduto qualsiasi umana compostezza avesse mai posseduto. Non restava alcuna caratteristica invidiabile in quel prigioniero. Era dannatamente vero: le prigioni di Corallo Rosso sapevano risucchiare via l’essenza vitale di un condannato, tanto da renderlo un obbrobrio, uno scarto del creato, una creatura di finissima pelle macchiata e pallida.
«Aiutatemi a sollevarlo». Renegar lo strattonò per la collottola e lo trascinò verso la seggiola posta al centro della sala del capocarceriere, il quale si godeva lo spettacolo in tenebroso silenzio accanto ad una delle cinque torce fiammanti, immerso nella penombra di un’arcata adiacente.
Lemmon aiutò suo zio a sollevare di peso il prigioniero, che legarono al sedile con delle cinghie di cuoio spesse e robuste, stringendone la presa attraverso delle giunture dorate.
Le ginocchia di Lorenol stavano sanguinando da numerose ferite, ma questi non mostrava alcun segno di dolore. Pareva essere addormentato o svenuto, come se non riuscisse a capire ciò che gli stava accadendo e fosse immune a tutto quel male. Le prigioni lo aveva ridotto ad uno stato di incoscienza tale da estraniarlo dal suo stesso corpo. “Se lo è meritato.”
«Ser Gilbert». Lemmon intuì che era meglio che il cavaliere si desse da fare anche lui. «Stringi un po’ quelle altre cinghi lì dietro, accanto alla scapola.»
Il ser si lasciò comandare a bacchetta e prese a fare ciò che gli era stato suggerito.
Lemmon sollevò lo sguardo verso Lorenol. Il condannato era stato ridotto ad una condizione di larva. Sul volto da trentenne del patres traditore ora si faceva spazio una barba grigia ed ispida, malcurata e piena di pulci. I suoi capelli erano tre pollici più lunghi del normale, anch’essi ingrigiti, sporchi e nodosi. Sul suo volto si disegnava un’espressione spettrale: due labbra rinsecchite e screpolate, due bulbi ingialliti e cupi e una serie di lividi su tutto il viso. Non era rimasta neppure una briciola intatta della sua passata bellezza segaligna. “Ma è colpa sua. Lui ha preteso tanto e tanto ha avuto”. Lemmon non gli diede la soddisfazione di lasciare che il sguardo di posasse sui suoi lineamenti per più di un istante. “E oggi morirà”.
«Ottimo lavoro, miei signori». Il capocarceriere sbucò dall’ombra. «Io avrei solo stretto un altro po’ la morsa delle cinghie sulle caviglie.»
«Sì…» mormorò con voce strozzata e soffocata il prigioniero. «Stringete ancora… sì.»
«Chiudi quella fogna» comandò gelido ser Gilbert. Non lo aveva mai sentito parlare a quel modo.
Lemmon tornò a fissare il prigioniero. “Allora comprende ancora. Si fa sempre troppo presto a dare per spacciato qualcuno.”
Lorenol tentò di divincolarsi dalla presa del cuoio che stringeva ogni suo muscolo. «Bella mossa… bella… mio signore.»
Renegar Redrock contorse le labbra e gli sputò addosso. «Mi auguro che tu possa trovare quest’ultimo luogo ti tuo gradimento. Oggi è il grande giorno.»
«Sono… pronto» ribatté il prigioniero cercando di alzare la voce. «Non… non sai da quanto tempo… ti aspetto.»
“Non è rimasto vivo un solo unico spiraglio di luce in quella mente. Quest’uomo è completamente accecato dalla follia”. Lemmon si pose alle spalle del patres prigioniero e gli posò entrambe le mani sulle spalle. Dinanzi a lui, Renegar Redrock interpretò la sua ovazione.
«Il tuo atto ha causato gravi, gravissimi risultati. Ne sarai orgoglioso: sei riuscito a sconfiggerli. I tuoi uomini e le tue donne, s’intenda. Non me. Non la mia famiglia. Non i miei padri. Questo gioco l’abbiamo vinto noi.»
Lorenol chinò appena il capo sul fianco sinistro e socchiuse gli occhi.
«Oh, no, no, no… non abbandonarci sul più bello». Gli assestò un pugno sul volto. «Avrai tutto il tempo di cui necessiti per riposarti appena avrò finito. Hai mai saggiato il profumato e gelido tocco dell’acciaio? È più freddo del bacio di un traditore, te lo assicuro. E io ho assaporato sia l’uno che l’altro.»
Lorenol scosse il capo violentemente. «Mi farai… male?»
«Dipende dalla tua interpretazione della parola. Pensi che una lama dal filo perfetto possa far male?»
Quando Lorenol chiuse di forza le labbra incartapecorite e fissò lo sguardo verso il tetto, Lemmon gli diede un forte strattone da dietro. «Rispondi, prigioniero.»
Lorenol si riscosse. Gli avrebbe volentieri sputato addosso se ne avesse avuto le forze, ma risparmiò a tutti quella scena scadente per quella volta.
«Io non… non penso più». Lorenol tentò di strapparsi di dosso quei dolorosi nodi che lo stritolavano e lo relegavano alla seggiola di legno. «Ammazzami… squartami… ucc… uccidimi! Poni fine, dannato uomo!»
Il prigioniero iniziò a piangere. Lunghe ed aspre lacrime corrosero il suo viso pallido e tetramente rinsecchito, ma il pianto liberatorio non durò a lungo. Aveva, probabilmente, terminato ogni liquido in corpo. “Povero disgraziato”. Lemmon non poteva far finta di non provare compassione per quell’ammasso di carne ed ossa delicate, ma si convinceva a pensare che tutto ciò fosse accaduto a causa di Lorenol e si risolveva dicendosi che quella di suo zio fosse vera e sana giustizia. “Anch’io lo avrei fatto se fossi stato un sovrano… e fossi stato un padre… e se fossi stato un marito”. Ma sarebbe mai stato tutto ciò?
Renegar ruggì d’odio. «Abbiamo ancora un conto in sospeso, noi due.»
«Zio?». Lemmon ripiegò lo sguardo verso Renegar, curioso non poco. Ser Gilbert, nel frattempo, aveva iniziato a stringersi il naso con indice e pollice.
Renegar posò una mano sul mento del prigioniero e fece scorrere la sua sinistra fino al pomo d’Adamo che furiosamente scendeva e saliva sul collo dell’uomo. «Dimmi, Lorenol… sei compiaciuto ora che tutto questo è accaduto?»
Lorenol scosse il capo e continuò a commiserarsi sforzandosi di lacrimare. Le querimonie del patres non furono mai concretizzate dalla sua voce. C’era ancora una rocciosa caparbietà nel suo animo, impossibile da corrodere col buio.
Renegar lasciò la presa e portò la mano sull’elsa della spada ancora macchiata del sangue di patres Worgan.
Stranamente, Lorenol, scuotendo sempre meno la testa, si decise a fiatare. «Sanguinerò molto?»
Renegar fece di no col capo. «Il necessario a ripagare il tuo vergognoso atto.»
«O… ottimo» mormorò flebilmente. «Non mi piacerebbe affatto… no… nient’affatto… sanguinare come tua figlia.»
La presa di Renegar si strinse avidamente sul pomolo della sua lama. Nonostante ciò, suo zio non lasciò che qualcuno zittisse il patres prigioniero. Talvolta, l’impassibile compostezza del signore di Corallo Rosso dinanzi a situazioni alquanto aspre era davvero encomiabile.
Lorenol cercò di tossire, ma un grumo di saliva gli ostruì la gola. Riuscì a parlare liberamente nel giro di qualche istante, liberatosi del catarro che, piuttosto che finire per terra, gli scivolò sulla barba lercia ed ingiallita. «Te l’ho fatta pagare, Renegar… ce l’ho fatta. Ho… ho vissuto… l’ho fatto… per fartela pagare.»
Renegar corrugò la fronte. «Cosa mi hai fatto pagare? Quando mai ti ho mancato di rispetto, patres? Ti accolsi nel mio regno con una cerimonia ed uno sfarzoso banchetto il giorno del tuo arrivo a corte. Quando ti rompesti una costola cadendo dalle scale mi curai personalmente di te affinché ti riprendessi. Hai dimenticato tutto questo?»
Lorenol non sembrava neppure comprendere. Scuoteva la testa come un dannato e si contorceva tra le spire di cuoio che stritolavano il suo corpo. «Io… io… te l’ho fatta pagare.»
“Il prigioniero è impazzito” intuì Lemmon senza ascoltare ulteriori giustificazioni. “Stiamo solo perdendo tempo. Spedirlo all’inferno libererà noi e lui.”
Ma Renegar non sembrava essere dello stesso parere. Una curiosità malsana era sorta nel suo viso. «Che cosa stai cercando di dire, patres?». Suo zio si avvicinò nuovamente al prigioniero sfiancato e lo tramortì scuotendolo una decina di volte. «Cosa vuoi dire?»
«Sì, esatto… lo è… esatto… Winnie». Lorenol chinò a destra il capo. I suoi occhi luccicarono. «Winnie…»
«Winnie? Come conosci il nome di mia madre?»
«Winnie…» ripeté il prigioniero. «Era anche mia… mia madre.»
Renegar Redrock strabuzzò gli occhi e si contenne dallo spalancare la bocca. «Sei un pazzo squilibrato, patres. Ser Gilbert, fermagli il fiato.»
Ser Gilbert si riscosse dal suo tepore e scattò verso il prigioniero ponendogli l’indice e il pollice sul naso. Quando chiuse la presa, Lorenol si alzò sulla sedia tentando di liberarsi, i piedi che scivolavano sulla roccia, le spalle che si innalzavano e si abbassavano seguendo il ritmo dei suoi ultimi spasmi finali.
«Ser Gilbert, lascialo». Renegar fece un solo passo verso Lorenol, che si accasciò sul sedile. «Vuole parlare ancora. E io devo ascoltarlo. Che mi sai dire di Winnie?»
Lemmon studiò il comportamento di suo zio. “Crede sia vero. Crede stia parlando con un uomo cosciente. Dannazione!”. Lorenol sorrise. «Winnie… Winnie… la mia mamma. Era così… così… dolce con me. Ma poi tuo padre mi cacciò via… e io persi… persi il suo sorriso. Persi lei. Persi… tutto.»
«Mio padre? Ti cacciò da dove?». Renegar curvò il sopracciglio. «Lorenol… tu sei malato.»
«Anche… anche… Ragar lo era. Sai cosa fece? Eh? Lo sai? Stuprò tua… mia… madre. Sì, lo fece… ma… tu… tu… tu non c’eri. E nemmeno tuo padre.»
«Ragar? Il vecchio carceriere?»
«Ragar… Winnie, mamma, me… me lo diceva sempre». Lorenol stava lacrimando. «Ero il frutto… il frutto di uno stupro. E tuo padre fingeva… fingeva di non saperlo, per… per preservare il nome della famiglia.»
Renegar continuò a fissarlo. Il silenzio era calato in quella sala delle gattabuie. Lemmon si allontanò dalle spalle del prigioniero, come a voler concedere intimità a quei dialoghi.
«E mio padre ti cacciò?» chiese Renegar. «Dove ti mandò?»
«Ave… avevo… quanti anni avevo? Tuo padre… sì, lui… mi mandò via all’Accademia». Lorenol iniziò a singhiozzare. «Lui non mi voleva… lui mi odiava. Gli… gli facevo schifo e… e un giorno me lo disse. Ma Winnie… Winnie…»
Lorenol iniziò a scuotere un’altra volta il capo. La violenza con cui intraprese questa volta l’azione gli fece sanguinare il naso già martoriato dalla presa di ser Gilbert sulle narici. «Mamma… Winnie… mi diceva sempre… mi diceva che avrei ereditato… Corallo Rosso.  Forse lo diceva per… per non farmi soffrire ancora di più». Lorenol urlò di una rabbia esplosiva. «Ma io non voglio soffrire! Io voglio solo morire! Voglio solo morire!»
«E morirai, figliuolo» lo consolò Renegar.
Lorenol si ricompose nel giro di due minuti. «Ero destinato a farlo… sì. Winnie lasciò… lasciò che tuo padre mi abbandonasse… come un vero rifiuto. E lei scelse di crescere… di crescere te! Cos’avevi più di… di me?»
“Un pizzico di contegno, forse”. Lemmon si grattò il naso: il puzzo fetido delle latrine lì vicine era incredibilmente pesante.
«Winnie… Winnie non rispettò mai la sua promessa. E io… io… non potei che crescere all’Accademia e di… div… diventare un patres. Mi avevano negato tutti i… i diritti.»
«I figli illegittimi non godono di diritti.»
«E rovinano le famigliole… lo so. Tuo padre non… non smetteva di ripetermelo. Ero come un abominio del… del creato… per lui. I cani gli stavano più a cuore. Così… così ho scelto di ottenere vendetta. Ho deciso di rovinare la tua, di… di famiglia. Ingravidare tua moglie ti avrebbe donato un figlio illegittimo che… che… ti avrebbe scombussolato ogni e… equilibrio. Proprio come… come me. Noi bastardi… noi… siamo rovina.»
Renegar lo fissò cupo. «Ma hai scoperto che mia moglie non era in età fertile.»
«E… esatto…». Lorenol annuì. «Non lo dà a vedere… ma la tua sarta me lo ha confermato… sì.»
«E così hai scelto Missy. Hai scelto la mia piccola bambina.»
Lorenol si lasciò sfuggire un languido e malevole ghigno nell’annuire. «Il mio desiderio… la mia vendetta… finalmente… riuscita. La tua casa soffrirà di nuovo i dispetti di un figlio illegittimo, di un bastardo… nato dalla schifezza, dall’odio e dallo stupro di una bambinetta. Se… se… sarà fortunata, tua figlia sopravvivrà… al parto… sì. Ora… ora deve essere forte.»
Renegar guardò Lemmon, poi ser Gilbert. «Mia figlia non metterà mai alla luce il mostro che si contorce nel suo ventre. Lascerò che tutto ciò che si sa di te muoia con te e con il tuo infinito silenzio». Poi sfilò rapidamente la lunga e tetra lama. «E ora siamo giunti sulla cuspide». Alzò la sua spada fino a sfiorare il tetto basso della gattabuia. «Le tue ultime parole?»
Lemmon si ripose alle spalle del prigioniero e lo stritolò con la sua presa fino a farlo aderire allo schienale. Ser Gilbert gli si chinò su di lui dal lato sinistro e alzò il braccio sul suo volto.
Lorenol chiuse gli occhi. «Ci rivedremo all’inferno, sangue… del mio sangue.»
E lo stesso sangue richiamato alla mente, poco dopo schizzò su tutte le pareti della sala flebilmente illuminata, andando a macchiare di rosso, sempre più rosso, ogni pietra di quella prigione. Mentre ser Gilbert stringeva le narici di Lorenol, Renegar fece calare la lama giù per la bocca del prigioniero e gli fece fare due giri vorticosi all’interno. Per un istante, un breve, brevissimo lasso di tempo, Renegar trasformò il corpo del prigioniero nel fodero della sua spada, la lama immersa nella sua gola fino a sfiorare le viscere interne, il pomolo sporgente dalla sua bocca.
Quando sollevò la sua spada, un’esplosione di sangue e organi lacerati fu risputata fuori dalle labbra del prigioniero di forza, e Lorenol si macchiò completamente del sangue del suo sangue. Barba, occhi, naso, labbra, mani, braccia e collo si ritrovarono completamente ricoperti da un sangue denso e scuro, che lo ammantò come la più calda delle coperte.
La lama di Renegar grondava sangue a flussi copiosi. «Guardate, miei signori, il primo atto della guerra. E noi  ne siamo già i vincitori. Presto saremo ricompensati. I giochi hanno sempre un vincitore.»
Lemmon lasciò le spalle del prigioniero e, di conseguenza, ser Gilbert allontanò la mano dal suo naso.
Mentre Renegar Redrock, signore di Corallo Rosso e fautore di una nuova guerra, si allontanava dal cadavere di Lorenol, Lemmon e ser Gilbert si guardarono in faccia. L’occhiata che i due si riservarono non fu piena di quel brivido di eccitazione che, in altri casi, avrebbe dovuto coinvolgere un vincitore di guerra.
No, non lo fu affatto.
 
Erano ben cinque le porte d’ingresso alla Rocca Rossa, ma solo una, col calare della notte e l’acuirsi del cicaleccio serale, spiccava in mezzo a tutte le altre. Era la porta dedica a Rewerd Re dei Salici Rossi, uno dei primi figli dell’emblematico patriarca della casa Redrock, colui che aveva conquistato le due diramazioni occidentali del Wyndwater con memorabile sagacia e una strategia infallibile.
Il chiarore appena visibile delle stelle e dalla luna che si faceva spazio tra le vetrate di un piccolo atrio non bastava a lenire il rumore dei cardini vecchi e logori dei battenti di quella porta.
Matres Amadya giunse dinanzi al portone con uno scialle color porpora legato sulle spalle e un grosso baule tra le mani. Non aveva indossato la solita tunica del suo ordine, ma un mediocre abito color blu notte dalle maniche lunghe e ornate da ricami bianchi e un colletto di pelo d’ermellino. Alle sue spalle, un indaffarato Willy si stava dando da fare per mettersi in spalla quante più sacche di cuoio possibili. Il giovane accolito vestiva di semplice cuoio, le brache color sabbia cascanti e larghe all’altezza dei polpacci.
Lemmon Redrock stava attendendo con le braccia conserte al petto, nel tentativo di congedare l’esperta e il suo giovane accompagnatore. Renegar Redrock, suo zio, aveva deciso che fossero allontanati dal suo regno e aveva decretato con pugno fermo il distacco politico di Corallo Rosso dall’Accademia, un evento che gli annali della storia avrebbero sicuramente rammentato con sdegno negli anni a venire.
Lemmon era lì per servirlo alacremente: non si poneva più domande del giusto, né si faceva scrupoli nel fare ciò che suo zio comandasse di fare.
Quando la matres passò accanto a lui non lo degnò neppure di uno sguardo, ma a Lemmon non sfuggì il dolore immortalato in quei due occhi da anziana. Aveva smesso di piangere da poco: i segni della vergogna erano più che evidenti nei suoi bulbi arrossati e sulle sue gote rosse. Willy si pose al suo fianco e fu il solo a fare un cenno con la testa nella direzione di Lemmon: non un saluto, ma un gesto privo di significato.
«Che gli dèi – qualunque siano i vostri – possano farvi fare buon viaggio». Lemmon mise le mani sui fianchi.
Non ricevette alcuna risposta, né da parte di Willy, né da parte di matres Amadya. I due continuarono a camminare e camminare, finché le loro sagome ombrose non furono definitivamente risucchiate dalle tenebre all’erta nel sentiero. Una carrozza  li stava attendendo in fondo alla strada, e più giù, sulla battigia, era giunta una piccola cocca che li avrebbe accompagnati fino a Brasengard. Da lì, le loro sorti non sarebbero state più legate in alcun modo a Corallo Rosso.
«Potete chiudere». Lemmon si voltò mentre tre cavalieri si accingevano a spingere i grossi battenti del rosso portone d’ingresso: due poderosi infissi dallo spessore di una parete da castello con intercapedini di legno.  La sua chiusura fu come lo stridio di catene vecchie e arrugginite, come il pizzicore di un’arma appena forgiata ed immersa nelle acque gelide di una fonte ghiacciata.
Alle sue spalle, ser Warnick stava scendendo i gradini della lunga scalinata d’ingresso. «Mio signore.»
«Puoi chiam…» stava per intervenire, ma poi ci ripensò. Si fece impettito. «Ser Warnick. Ti ascolto.»
Il cavaliere si pizzicò il labbro inferiore con i denti. «Cos’è successo a patres Lorenol?»
«Ha incontrato la giustizia». Lemmon lo guardò con curiosità. «Il modo in cui lo ha fatto è stato direttamente proporzionale alla portata del suo gesto illecito. E adesso arriv…»
«Credi che sia questa la buona giustizia?». Ser Warnick parve scosso da un brivido di nervosismo. «Lo credi davvero?»
Lemmon curvò la testa: non capiva. «Insomma, ser…». “Emerito imbecille”. Si fece strada verso la scalinata, giusto per troncare lì la discussione. La luna era sempre più alta nel cielo e lui aveva bisogno di andare a dormire. “Una lunga giornata. Lunga ed estenuante.”
«Saresti leale alla causa del nostro signore, qualsiasi sia l’esito di questo suo modo di darsi giustizia?»
Lemmon si voltò un’altra volta e alzò l’indice. «La rigida lama di una vera famiglia è la lealtà reciproca: questo esclama un adagio del popolino. Mi sento di dargli ragione.»
Ser Warnick annuì, come ad aver appreso la massima. Pareva avesse smesso di parlottare, quando se ne uscì con: «Sarà data una sepoltura al vecchio patres Worgan?»
«No… ma sarà data a te, ser Warnick, se non la smetterai di importunarti in questo modo. Ti sembra un gioco quello in cui siamo finiti tutti?». Lemmon lo rimbeccò alla vecchia maniera. «Vedi di tappare la tua bocca quando non sei da solo, ser, e vedi smetterla di blaterare solo per dare aria alla tua bocca.»
«Seppellire me?». Ser Warnick sgranò gli occhi. «Non sono ancora morto, per tutte le Grazie!»
«Va’ a dirlo a mio zio… e poi torna qui. Ma fuori dalla tua tomba, possibilmente: non vorrei essere accusato di negromanzia». Lemmon fece per voltarsi. «E ora ti prego di scusarmi, ser.»
Ser Warnick Garasbour fece un profondo inchino. «Sono io che mi scuso. Che tu possa passare una buona notte, mio signore.»
“Sì” fece Lemmon salendo piano i gradini dell’atrio. “Tra il sangue e i rancori si dorme sempre comodi. E nell’impervia piana delle grandi battaglie, poi, i residui del gioco sono sempre ostacoli giganteschi.”
Si chiese se ser Warnick avesse capito come comportarsi. Lemmon Redrock, di certo, non lo aveva mai saputo.

 


Note d'autore:
Ho rischiato di non riuscire ad aggiornare, ma per fortuna nulla è andato come previsto. Così, eccoci qui, al termine di quest'altra - breve - storia. Il capitolo ci mostra dunque "la fine dei giochi", di tutti i giochi, compresa la stessa vicenda. E lo fa attraverso gli occhi di un personaggio a noi abbastanza noto: Lemmon Redrock, il futuro Cappa Rossa, unico diretto erede del Cavaliere Rosso. Cosa avete pensato di lui, alla luce dei fatti appena avvenuti? Come considerate il suo personaggio, sulla base - anche - di come era apparso ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda"? Ce lo vedete a gestire le trame di un grande intrigo come quello di Roshby? E c'è anche una bella domande che si potrebbe inserire: a livello narrativo, Lemmon sarebbe più un nemico con ideali sbagliati o un amico fin troppo fedele?
Certo è che Lemmon non è allo stesso livello di Renegar - completamente esaltato in questo capitolo - che si appresta a divenire il mostro che tutti ricordano a Pantagos. Siete in grado di giustificare i suoi comportamenti? Cosa avreste fatto al suo posto? Avete condiviso i pareri della fazione alleata al signore di Corallo Rosso, o quelli degli esperti? 
E poi il nucleo centrale: Renegar impazzisce, si diverte nel torturare il suo prigioniero - tutto ciò dopo averlo reso una larva - e scopre amare verità. Lorenol si dimostra essere il fratellastro che Renegar non aveva mai conosciuto. Alla luce di ciò, quanto corretto vi è sembrato il comportamento di Lorenol? E quanto quello di Renegar? Si può giustificare l'atto barbaro di Lorenol, causato dall'assenza d'amore paterno nella sua vita o dal trauma dell'abbandono?
Non voglio scrivere una nota più lunga del capitolo: fatemi sapere tutto ciò che avete pensato e che vi è sembrato utile in questa storia. Chiaro è che se avete tanto altro da aggiungere, potete farlo senza considerare le domande ;)
Con questo io vi saluto: torneremo a Pantagos quanto prima, dato che "La spada e le due fiamme" è in corso di stesura: sicuramente bisognerà attendere non poco, ma confido di concluderla prima di Novembre (periodo in cui iniziai a scrivere il primo libro). Ciò significa che non avremo più contatti? Assolutamente no! Sarò attivo come lettore su moltissime opere lasciate a metà, e continuerò la lettura assidua di tante altre. Inoltre, mi sposterò - forse - sul genere storico. E, poi, come molti di voi sanno, sarò reperibile anche nella sezione "poesie".
Insomma, non è un addio a Makil! xD
Be', concludo ringraziando per nome i seguenti recensori: morgengabe, evelyn80, GothicGaia, OldFashioned, la luna nera, alessandroago_94, The3rdLaw, Davos e Stregattina. Ringrazio anche Ayr per aver messo la storia tra le seguite e per averci accompagnato in una lettura silenziosa. 
Un buon proseguimento di giornata!
Makil_



 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3691924