L'Isola

di Alison92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le due isole - 1° capitolo ***
Capitolo 2: *** Le due isole - 2° capitolo ***
Capitolo 3: *** Le due isole - 3° capitolo ***
Capitolo 4: *** Le due isole – 4° capitolo ***
Capitolo 5: *** I nomi – 1° capitolo ***
Capitolo 6: *** I nomi – 2° capitolo ***
Capitolo 7: *** I nomi – 3° capitolo ***
Capitolo 8: *** La stanza – 1° capitolo ***
Capitolo 9: *** La stanza – 2° capitolo ***
Capitolo 10: *** La stanza – 3° capitolo ***
Capitolo 11: *** La stanza – 4° parte ***
Capitolo 12: *** Il cimitero – 1° capitolo ***
Capitolo 13: *** Il cimitero – 2° capitolo ***
Capitolo 14: *** Il cimitero – 3° capitolo ***
Capitolo 15: *** Il cimitero – 4° capitolo ***
Capitolo 16: *** Sangue e Spettri – 1° capitolo ***
Capitolo 17: *** Sangue e Spettri – 2° capitolo ***
Capitolo 18: *** Lyvia S. – 1° capitolo ***
Capitolo 19: *** Lyvia S. – 2° capitolo ***
Capitolo 20: *** Lyvia S. – 3° capitolo ***
Capitolo 21: *** Destinati - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Le due isole - 1° capitolo ***


Dovevamo partire entro due giorni, dato che la mia scuola aveva offerto la possibilità ad alcuni studenti di andare in vacanza. Frequentavo un college di alto livello, uno di quelli difficilmente accessibili. Io abitavo lì con le altre studentesse nella struttura adibita a scuola. Erano presenti due palazzi che fungevano da dormitori per gli studenti, uno per gli insegnanti, una struttura che ospitava le classi degli studenti e la mensa, l’unico posto poco prestigioso della scuola. Al tempo degli eventi io avevo diciassette anni e la mia vita mutò totalmente quell’anno. Non vantavo molte amicizie, ma avevo Lucy Meyer, la mia migliore amica. Oltre ai ragazzi dai 15 ai 19 anni era presente una classe speciale per i bambini dai dieci anni in su, nella quale era iscritta la cugina di Lucy, la piccola Mary. Dormiva con noi ed era pressoché impossibile non affezionarsi a quella bambina dai capelli biondo scuro, gli occhi castani e l’aspetto tanto innocente.
Tornando a noi, la cosa più intrigante erano quei cinque giorni di vacanza offerti agli studenti che più si erano distinti durante l’anno scolastico. Una rigida commissione valutava la media dei voti, il temperamento e le capacità degli studenti, scegliendone solo quindici. Ebbi la fortuna di rientrare in quel gruppo ristretto con Lucy e alle mie altre più care amiche, Lily Endlen, Auria Domin e Mya Faceler. Con noi fu costretta a venire anche Mary, che essendo sotto la tutela di Lucy, non poteva essere lasciata sola. Mary era rimasta già in tenera età orfana di entrambi i genitori. Altri ragazzi della Thomas Dreier (il nome della nostra scuola, dal suo fondatore) erano stati scelti insieme a noi.
Forse la più degna di nota era Amy Morgans, la ragazza più popolare della scuola, ormai al suo ultimo anno. Tutti erano affascianti dalla sua chioma riccioluta bionda e dai suoi occhi cristallini. Per me l’incantevole Amy però era solo una perfetta Barbie, non vedevo nulla di celestiale in lei. D’altro canto io, con i miei capelli castani, gli occhi azzurri e la pelle troppo smorta, non potevo paragonarmi di certo a lei. Un altro che non le somigliava molto era il fratello Trevor, più piccolo di lei di tre anni, scuro di capelli e con gli occhi blu. Il “rosso” del nostro gruppo, Michael Hovrel, era il migliore amico di Trevor. Alto e intelligente per i suoi 17 anni, era riuscito ad affascinare Lily, la mia amica. La giovane e futura sostituta di Amy poteva essere proprio fra le mie più care amiche: Lily Endlen aveva lunghi capelli scuri e setosi, occhi blu e un fisico tanto invidiato, che io stessa non credevo alla sua costante modestia. Le altre due mie amiche non godevano però della stessa popolarità. Mya aveva capelli castano chiaro e occhi verdi. Nonostante l’aspetto gradevole, i suoi modi avevano ben poco di aggraziato. Auria aveva 19 anni, capelli biondi e occhi grigi. Adorava stare in disparte, studiava duramente e parlava solo quando lo sentiva necessario. Un’altra che amava la solitudine era Molly Dallen, il cui pessimo carattere la rendeva poco simpatica a tutti. Con i suoi 18 anni, la corporatura robusta e scura sia di occhi che di capelli, non si poteva definire che l’opposto di Amy. La studentessa modello per eccellenza era Dary Volg, che a soli sedici anni aveva una delle medie più alte. Lo stesso non si poteva dire di Tyler Mickelson, che passava il suo tempo a scolpire più i muscoli che le meningi. Come fosse finito fra noi probabilmente lo sapeva solo il nostro insegnante di educazione fisica. Un altro diciassettenne era Dominic Fredon, l’unico ad avere occhiali tondi che contornavano gli occhi chiari. Con i capelli ricci scompigliati e le lenti spesse, aveva tutta l’aria del perfetto studente. Dary non era la sola dei più giovani ad aver ottenuto risultati ottimi, anche il timido quindicenne Eddy Van Door si concentrava sullo studio. Derek Forren era invece uno dei più grandi. La sua statura ed i suoi grandi occhi castani non rendevano giustizia alla sua vera età, facendolo apparire come un sedicenne. La nostra lunga lista è quasi completa, manca solo un nome: Francis. Con i suoi capelli biondi, gli occhi celesti e la pelle marmorea, Francis Wissol era l’unico ragazzo che mi rimase impresso, l’unico nome che sapevo avrei ricordato per sempre. Ci conoscevamo, ma non potevo dicerto inserire il suo nome fra la rosa dei miei amici. Per me lui era un libro aperto, solo che non avevo mai avuto il coraggio di leggerlo. 

La mia storia cominciò con il cielo infuocato del tramonto.
-Hai preparato tutto, Lyv?
Mi voltai verso Lucy. Le punte lisce e corte dei suoi capelli erano ancora bagnate.
-Ovviamente.
Risposi dirigendomi verso la finestra della nostra stanza. Fissavo senza vedere realmente gli studenti che oziosamente tornavano nei loro alloggi prima del coprifuoco serale. Solo qualche ora e poi sarei stata lontana da quel luogo. Il primo di quei cinque giorni alzarsi dal letto fu più facile del solito. L’unica professoressa che ci accompagnava in quel viaggio era Millicent Taller, la docente di lettere antiche della scuola. Il nostro gruppo era variegato, c’erano i più giovani, i “veterani”, quelli popolari e gli sconosciuti. L’unico modo che avevamo per giungere sulla splendida isola di Everdove era la nave, l’isola era talmente piccola che non era presente un aeroporto. La nostra isola non era molto nota, ma le sue coste erano mirabili come quelle delle più prestigiose località marine. La nostra guida durante quella breve vacanza era Camille Belle, una trentenne atletica e piena di vita.
-Benvenuti sull’isola di Everdove! Passerete la vostra miglior vacanza dopo tanta fatica sui libri.  
Ci diede regole basilari e semplici, come non andare nel centro abitato da soli e senza avvertire la professoressa. Il nostro albergo si trovava in riva a quello splendido mare cristallino. Dopo il lungo viaggio il pranzo fu il nostro unico pensiero. Al contrario dei pasti spesso privi di sapore, piatti e monotoni della mensa scolastica, le porzioni che ci furono servite ci ripagavano già del duro che era servito per essere scelti per quella vacanza. Adocchiai Francis, stava parlottando con Amy e una ciocca di capelli biondi gli ricadeva davanti agli occhi chiari.
-Lyvia, che ne pensi?
Mi chiese Mya trascinandomi lontano da quei pensieri.
-È un luogo incantevole.
Le risposi con aria distratta.
-Esattamente. Camille ha proposto di fare già oggi il primo bagno. Ti unirai a noi?
Non ero ansiosa di tuffarmi fra le acque limpide dell’isola, eppure non volevo di certo rimanere in disparte.
-Certo.
Il mare era la sola attrattiva di quell’isola, ma le coste erano talmente ammalianti che non poteva esserci località migliore per passare cinque giorni lontani dal caotico mondo della città. Proprio per osservare meglio il mare decisi di salire sulla terrazza dell’hotel.
-Le camere non sono da quella parte, Lyvia.
Quando mi voltai vidi il viso già solcato dalle prime rughe della Taller. I capelli ormai grigi le scendevano fino alle spalle, incorniciando il viso esangue.
-Lo so, volevo solo ammirare il panorama.
-Stai attenta Lyvia.  
Mi disse prima di dirigersi verso gli alloggi degli studenti. Continuai a salire le scale finché non giunsi nell’ampia terrazza. Appoggiai le mani sulla ringhiera scura e volsi lo sguardo al mare. Il cielo e le acque sembravano fondersi, creando una magia di sfumature e donandomi un panorama che non avevo mai avuto la fortuna di scorgere.
-È strabiliante, non è vero?
Non mi servì voltarmi per riconoscere la voce di Francis. Annuii, incapace di proferire parola. Si avvicinò a me, osservando anche lui lo scorcio di costa che si poteva ammirare da lì.
-Non sei stata anche tu sorpresa di essere scelta? Io non potevo crederci, insomma, sapere di essere fra i migliori della scuola!    
-Evidentemente sei più capace di ciò che credi, Francis.
Risposi abbozzando un sorriso. Lui si voltò verso di me ed incontrai il suo sguardo.
-Ti ricordi il mio nome?
Mi chiese con sincera sorpresa. Gli sorrisi, sentendo il sangue fluire nelle mie guance.
-Chi potrebbe dimenticare Francis Wissol?
Lui scoppiò a ridere.
-Adesso vado, ci vediamo in giro Lyvia.
-Anche tu ti ricordi il mio nome.
Gli dissi mentre lui si dirigeva verso le scale. Si voltò e mi sorrise radioso.
-Chi potrebbe dimenticare Lyvia Sommers?
La sera non tardò ad arrivare e la stanchezza giunse presto, trascinandomi con sé. Mi addormentai mentre fissavo il mare, ignara di ciò che si trovava oltre quell’orizzonte, dietro quel luogo apparentemente paradisiaco.  

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Capitolo 2
*** Le due isole - 2° capitolo ***


I primi raggi del sole s’insinuarono attraverso le tende della finestra, svegliandomi. Accanto a me Mary e Lucy dormivano beate, rannicchiate sotto il lenzuolo. Ancora assonnata guardai l’orologio e decisi che era tempo di prepararmi per quella nuova giornata. Scesi silenziosamente i gradini delle scale per giungere al primo piano, dove si trovava l’enorme sala da pranzo. La colazione era già disposta sui lunghi tavoli, ma tranne qualche cameriere e radi turisti, nessuno si trovava nella sala. Versai del tè bollente in una tazza e, quando alzai lo sguardo verso le grandi vetrate, notai la professoressa Taller ammirare il panorama. Mi diressi verso di lei, con la bevanda calda stretta fra le mie dita.
-Buongiorno professoressa.
-Oh Lyvia, già sveglia?
Le sorrisi debolmente prima di prendere un sorso del mio tè.
-Questo luogo è meraviglioso, non si poteva chiedere di meglio.
Fui d’accordo con lei. La superficie limpida del mare era solcata da qualche onda e sembrava quasi che l’acqua stesse tentando di congiungersi con il cielo colorato dall’alba. 
-Le due isole, il mare fra loro…
-Due isole?
Chiesi stupita. Poteva essermi sfuggita una seconda costa, nonostante avessi attentamente osservato il mare?
-Guarda bene Lyvia.
Tentai di aguzzare la mia vista, alla ricerca della seconda isola che non avevo scorto. Lentamente, i miei occhi videro emergere dalla leggera foschia mattutina la terra, come se l’orizzonte avesse deciso di rivelarmi un territorio che mi aveva celato. 
-Molte storie s’intrecciano con quest’isola. Gli abitanti la temono, nessuno ci mette più piede da orami quasi un secolo.
Cominciò la Taller.
-L'unica ad abitarla fu la famiglia Rosenburg. Apparteneva a Jonathan Rosenburg, ma alla sua morte il fratello decise di erigerci una casa e di andare a vivere sulla tranquilla isola, ancora incontaminata dalla presenza dell’uomo. Il ricchissimo fratello si trasferì lì con la moglie e i sedici figli, eppure la loro serena permanenza non durò molto. Una notte, spiriti maligni entrarono nella casa trucidando i due coniugi e tentarono di trascinare nelle loro tenebre anche i sedici figli Rosenburg. I giovani scapparono alle grinfie degli spiriti e i loro racconti divennero leggende popolari, mischiando fatti reali con pura fantasia.
La storia della professoressa mi lasciò interdetta e allo stesso tempo vogliosa di saperne di più. Immaginai che l’antica casa era ancora lì, magari conservava addirittura i cadaveri dei poveri coniugi. Non diedi molto peso a quel racconto, perché mi convinsi che poteva solo trattarsi di una leggenda, magari inventato da qualche pescatore che aveva visitato l’isola, oppure creata per giustificare la scomparsa dei consorti.
-Sembra una tragedia.
-E questa non è neanche la sua conclusione.
-Mi racconti la fine allora.
La Taller si voltò verso di me, con i grandi occhi scuri che fissavano i miei.
-Temo di non esserne capace.
Disse prima di lasciarmi da sola, con lo sguardo rivolto all’orizzonte, a contemplare le due isole.
L’acqua tiepida e il sole luminoso c’invogliarono ad andare sulle splendide coste dell’isola.
-Avanti, cosa aspetti a buttarti Lyv?
Urlò Mya mentre sguazzava allegramente nell'acqua. Alla fine mi tuffai anche io, sarebbe stato impossibile resistere.
-Attenta a non scottarti Sommers!
Mi disse Molly scoppiando a ridere. Al contrario di Barbie, ehm…intendevo dire Amy, che si crogiolava al sole, la mia pelle non è mai andata d’accordo con i raggi solari. Quando il nostro tempo sulla costa finì, eravamo tutti decisamente stanchi.
-Stai attenta Sommers.
Molly mi spinse mentre mi dirigevo in camera mia, facendomi cadere pesantemente a terra. Le rivolsi uno sguardo furente, ma le sue risate di scherno mi tolsero le parole di bocca.  
-Lasciala in pace, Dallen.
Intervenne Francis, porgendomi una mano e aiutandomi ad alzarmi da terra. Molly non fiatò, vedendo che per la prima volta qualcuno si mostrava dalla mia parte. L’unica cosa che fece fu andarsene raggiugendo la sua stanza.
-Certo che Molly è una tipa talmente odiosa.
Disse sospirando. Il mio cuore batteva all’impazzata, ma sentivo soprattutto l’imbarazzo per non essere stata capace di difendermi da sola.
-Grazie.
Gli sussurrai semplicemente, incapace di dirgli altro. La seconda giornata era trascorsa più velocemente del previsto e la nostra vacanza si stava già consumando in fretta. Quando arrivò l’ora di dormire io e Lucy eravamo al buio nella nostra stanza, intente a guardare le stelle. Mary era crollata, troppo stanca anche solo per infilarsi il pigiama.
-Lyvia, ti piace così tanto Francis?
Sorrisi a quella domanda, una delle classiche domande che la mia migliore amica mi rivolgeva.
-E a te piace così tanto Derek?
Avevo notato che Lucy parlava spesso con Derek, il migliore amico di Francis, e le guance scarlatte di Lucy mi confermarono ciò che avevo immaginato.
-Non provare a cambiare argomento signorina.
Scoppiai a ridere, vedendo quanto si era scaldata al nome di Derek.
-Va bene, basta parlare di ragazzi, dedichiamo il nostro tempo a qualcosa di meglio: dormire!
Dissi sorridendo, prima di affondare la testa nel cuscino.
-E sia. Certo che sei sempre la solita Lyv.
-Si, anche io ti voglio bene Lucy.
Ci addormentammo l’una accanto all’altra, con il sorriso ancora impresso sulle labbra.

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Capitolo 3
*** Le due isole - 3° capitolo ***


La mattina seguente il cielo divenne insolitamente scuro. Grosse nubi coprivano il sole pallido, minacciando l’arrivo di una tempesta. Un vento freddo si alzò dalla costa e a malincuore le condizioni cangianti del tempo ci costrinsero a rimanere nel nostro albergo.
-Oggi la giornata è talmente strana.
Disse Auria osservando il cielo che fino al giorno precedente era limpido.  
-I cambiamenti climatici non sono così rari sull’isola.
Ci disse la nostra guida Camille Belle per rassicurarci.
-Tanto a me non piaceva comunque il mare.
Disse Mary sorridendo e dondolando le braccia. Eravamo quasi tutti nella hall dell’albergo per parlare con Camille. Aveva proposto di andare nel centro abitato della città quella sera, se solo il clima lo avesse permesso. Vidi arrivare Amy con la sua chioma bionda e le guance rosee insieme al fratello Trevor.
-Che razza di posto. Perché la nostra scuola si ostina a mandarci in posti tanto sconosciuti e bizzarri? Ti ricordi la vacanza che abbiamo fatto questo Natale, Trevor? Quella si poteva definire isola.
Amy, alla quale la sua ricca famiglia non faceva mancare nulla, aveva di certo visitato le località turistiche migliori del mondo e non poteva comprendere la bellezza che noi altri vedevamo.
-Questo posto a me piace.
Amy con il suo aspetto da bambola di plastica si voltò verso di me, forse stupita che io avessi osato contraddirla.
-Sei Lyvia, vero?
Mi chiesi come poteva aver saputo il mio nome, ma infondo mi dissi che avrebbe potuto sentire qualcuno chiamarmi. Mary ci guardava incuriosita, mentre Trevor e Dominic lasciarono la hall dell’albergo.
-Beh, io penso che questo posto faccia schifo, la tua opinione non conta.
-Perché la tua dovrebbe allora?
Il volto di Amy si fece furioso, nessuno osava mai dirle quelle cose.
-Chi credi di essere, Sommers? Hai idea di chi io sia?
-Potrei farti la stessa domanda: chi credi di essere, Morgans?
Per un attimo le iridi cristalline di Amy divennero solo vetri ricolmi di rabbia e avevano perduto la loro bellezza.
-Tu sei una nullità Lyvia, dovresti tenerlo a mente quando parli con me.
-Adesso basta Amy.
Francis s’intromise nella nostra battaglia di sguardi perfidi e carichi d’irritazione.
-Amy, smettila.
Le sussurrò e Barbie abbandonò la sua battaglia, dalla quale sapeva sarebbe uscita comunque vittoriosa. Stanca di vedere la presunzione sul suo viso me ne andai, senza degnare di uno sguardo Francis.
-Lyvia, Lyvia aspetta!
Sentendo la voce di Francis non riuscii a far a meno di fermarmi e voltarmi verso di lui.
-Mi dispiace per Amy, lei è fatta così. Ti assicuro che lontana da chi non conosce è molto più di ciò che appare.
Mi era difficile immaginare una come Amy diversa da ciò che dimostrava di essere, solo una bambina ricca, viziata ed incantevole.
-Se ti aspetti che le chieda scusa, sappi che non ho niente da farmi perdonare.
-No, non era questo che intendevo dire.
Disse scostando le ciocche bionde dai suoi occhi chiari. Avrei voluto credergli riguardo Amy, perché un ragazzo come Francis non poteva andare d’accordo con una come lei. Infondo però io cosa sapevo veramente di lui? Come tutti i ragazzi popolari non si curava di quelli considerati “inferiori”. E allora perché mi aveva aiutata con Molly ed Amy?
-Lyv, ti stavo cercando.
Lucy arrivò e scostai il mio sguardo da Francis.
-Il tempo stasera migliorerà e la professoressa ci ha acconsentito di andare in centro stasera.
Disse spostando lo sguardo da me a Francis, come per capire cosa ci stavamo dicendo prima che lei arrivasse.
-Perfetto, allora dobbiamo prepararci.
Salutai con un cenno Francis e seguii Lucy verso la nostra stanza, pregando che il mio cuore smettesse di chiedermi di tornare sui miei passi per poter parlare ancora con lui. Mya era in camera nostra, intenta a sistemare i suoi lunghi capelli castani.
-Grazie per averci chiesto se potevi entrare, Mya.
-Avanti, il vostro specchio è migliore del mio.
-Immagino.
Dissi scoppiando a ridere.
-Io non vengo da nessuna parte.
Lucy sbuffò vedendo che come al solito Mary decideva di andare contro gli obblighi che la cugina le dava.
-Mary, preparati e non aggiungere nient’altro.
-Mi annoierò!
Esclamò osservando Lucy che sceglieva il suo abito migliore.
-Se ti annoierai ci saremo io e Lyvia pronte per rallegrarti.
Annuii e passai a Mary una salopette scura, una delle poche cose che Lucy aveva potuto infilare nella sua valigia semi-vuota. Più il tempo passava e più Mary odiava quella vacanza. Quando ci decidemmo a scendere la hall ospitava solo noi, gli altri pochi turisti si erano dileguati. Lily ci vide e venne verso di noi, lasciando il braccio di Michael.
-Dove siete state tutto il pomeriggio?
Lily indossava un vestitino blu notte che faceva risaltare il suo fisico perfetto, facendo ingelosire me che non avevo avuto la stessa fortuna di essere tanto attraente.
-I capricci di Mary continuano.
Mary guardò Lucy interdetta e incrociando le braccia al petto.
-Non ascoltarla Lily, è lei che fa l’antipatica.
Disse la piccola Mary facendo sorridere tutte noi.
-Allora ragazzi, pronti per andare?
Ci disse Camille, che quella sera era vestita in un giallo canarino che le donava. La seguimmo per le caratteristiche stradine in pietra dell’isola di Everdove. L’aria profumava di lavanda e gli abitanti del luogo apparivano talmente interessati a noi che addirittura un’anziana signora rivolse la parola ad Auria. Quando arrivammo nella piazza principale della città Camille si rivolse di nuovo a noi.
-Siete liberi di andare dove volete, ritornate qui fra un’ora e mezza.
In breve tempo quasi tutti si dileguarono.
-Allora, il gelato che mi avevate promesso?
Domandò Mary appena avvistò fra i negozi una gelateria.
-Chissà dove si è cacciata Mya.
Osservò Auria mentre addentava la cialda del suo cono.
-Vado a cercarla.
Le dissi addentrandomi nelle strade poco affollate del luogo. Avvistai Amy nel suo vestito rosa e luccicante da perfetta Barbie mentre parlava con Francis. Incontrai il suo sguardo, ma tentando di apparire indifferente scostai la mia attenzione da lui, alla ricerca della mia amica. Trovai Mya intenta ad osservare le semplici collane che una bancarella esponeva.
-Ti stavamo cercando.
Le dissi appoggiando la mano sulla sua spalla.
-Non trovi che queste croci siano bellissime?
Mi disse indicando degli orecchini che di sicuro non rientravano nei miei gusti. Il tempo che ci era stato concesso scadde più rapidamente di quanto avrei pensato e ci ritrovammo tutti nuovamente nella piazza. Camille era lì intenta a chiacchierare con un uomo del luogo. La professoressa ci osservò attentamente, contando che ci fossimo tutti.
-Perfetto, tutti e sedici.
Sussurrò quando si assicurò che non mancava nessuno. Eravamo vicino alla costa, l’intera città era stata costruita vicino al mare. Poi il rumore di un tuono, lontano e tetro, giunse e tutti ci voltammo per capire da dove quel rumore proveniva. La terra tremò sotto di noi, lasciandoci senza fiato e confusi. Un squarcio si creò nel terreno dove ci trovavamo e la terra si spezzò sotto i nostri occhi sconcertati. Un altro rumore, poi la terra si mosse, conducendoci lontano dall’isola.        

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Capitolo 4
*** Le due isole – 4° capitolo ***


Eravamo tutti immobili, incapaci di fare qualsiasi cosa. La zolla di terra sulla quale ci trovavamo continuava a navigare lontano dall’isola di Everdove, verso la seconda isola. Nessuno di noi riusciva a comprendere cosa stesse accadendo, eravamo troppo sconvolti anche per proferire parola. L’acqua torbida c’investiva, infradiciando i nostri vestiti. Mi aggrappai a Lucy che era rannicchiata per terra. Macabri suoni provenivano dal fazzoletto di terra che si era staccato dall’isola ed io non potei che restare lì ad ascoltarli, troppo impaurita. Poi la terra si fermò, lasciandoci senza fiato sulla seconda isola, dove non mi sarei mai aspettata di mettere piede. Tremanti ci ritrovammo sulla costa, buia e priva di vita.
-Cosa diavolo è successo?
Urlò Michael raggiungendo la nostra professoressa. Costatai che Camille non era con noi, eravamo noi sedici e la Taller. Dopo che Michael parlò, tutti noi cominciammo a discutere di ciò che era successo, spaventati e infreddoliti.
-Non serve a nulla farsi prendere dal panico. Qualsiasi cosa sia successa non importa, almeno siamo tutti vivi e presto qualcuno giungerà per noi!
Disse la professoressa, poi vedendo che Derek aveva tirato fuori prontamente il telefono sospirò.
-Dubito che i vostri aggeggi funzionino qui.
In effetti nessun cellulare ci fu d’aiuto, era come se quella zona fosse isolata dal mondo intero.
-Non possiamo restare qui fuori, entriamo nella casa.
-Entrare lì? Non ci penso proprio!
Per la prima volta ero d’accordo con Amy, neanche io avrei voluto entrare dentro quell’orrida casa vecchia di cent’anni. Non potevamo sapere cosa avremmo trovato.
-Volete rimanere a congelare qui?
Quella notte c’era effettivamente un insolito gelo e i nostri vestiti fradici non facevano che peggiorare la situazione. Alla fine ci accordammo tutti per passare la notte nella casa di quella che era stata la famiglia Rosenburg. La maestosa casa si trovava a pochi metri dalla costa e le sue pareti sembravano aver risentito solo in parte del tempo. Lentamente avanzammo verso la grande porta in legno e con nostra grande sorpresa, la trovammo aperta. Ci bastò afferrare la maniglia in ottone e spingere la porta, per trovarci all’interno della casa. Se esternamente la casa era affascinante e intrigante, all’interno era decisamente di più. La sala principale si diramava in tre direzioni e al centro si trovava una scala in legno imponente.
-Credete che ci sia ancora la luce?
Chiese Trevor, osservando la casa avvolta dal buio.
-Credi davvero che dopo tanti anni ci sia ancora la…?
Il grosso lampadario di cristallo si accese di colpo e tutti sussultammo.
-Evidentemente si.
Disse la Taller, mostrandoci l’interruttore che aveva trovato. Notai osservando bene l’enorme salone un semplice dettaglio inquietante: non un solo granello di polvere si trovava nella casa. Ogni singola cosa si era perfettamente conservata, dai tessuti delicati dei divani, ai pesanti mobili intarsiati in legno.
-Sembra che qualcuno abiti qui, è tutto troppo perfetto.
Disse Dary, notando anche lei ciò che avevo notato io.
-Non essere sciocca, nessuno mette piede qui da decenni!
Alle parole della Taller nessuno aggiunse altro, preferivamo convincerci che era tutto nella norma. Salimmo di sopra, consapevoli che avremmo trovato delle stanze confortevoli per dormire. I corridoi illuminati sembravano meno inquietanti e per un attimo la calma tornò fra di noi. Eravamo tutti stravolti, sporchi di sabbia e con gli occhi rossi sull’orlo delle lacrime. Come avevo immaginato, c’erano le sedici stanza dei figli dei Rosenburg, una per ognuno di noi.
-Una camera ciascuno, nessuna eccezione.
Disse la Taller fermandosi in mezzo al corridoio.
-Cerchiamo di non perdere la testa. Per lo meno questa strana coincidenza ci tornerà utile. Scegliete una stanza e andare a dormire, domani penseremo più lucidamente. Cercheremo di andarcene via, sempre se non ci verranno a prendere.  
Ognuno di noi decise di trovare una camera, la stanchezza si stava insediando in noi. Scelsi una porta qualsiasi, non m’interessava molto in che stanza avrei passato la notte. La mia stanza era incantevole. Dipinta di bianco, con i mobili in legno chiari, un grande armadio, una scrivania con sopra un vaso di margherite profumate, un letto dall’aria confortevole e…beh, sarebbe stata la camera perfetta per me, solo che c’era un elemento che stonava con l’aspetto idilliaco della stanza. Rosso. Rosso sangue sulle pareti chiare. Lettere rosse erano state tracciate nel muro candido sopra il mio letto. LYVIA. Era il mio nome scritto con il sangue. Sentii Lucy urlare e mi precipitai da lei. Sedici nomi erano stati tracciati nelle sedici stanze. I nostri nomi.  

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Capitolo 5
*** I nomi – 1° capitolo ***


Fissai come incantata le lettere rosse che formavano i nomi di tutti noi. Lucy tentava di trattenere le lacrime quando vide il nome della piccola Mary che imbrattava la parete della stanza difronte alla mia.
-Cosa significa tutto questo? Che diavolo sta succedendo?
Chiese con tono disperato Mya. Aprii la bocca per rassicurarla, per dirle che ci sarebbe stata una spiegazione dietro quelle macabre scritte, ma non ci credevo neanche io. Volevo andarmene, scappare da quella casa inquietante. Avanzai verso le scale quando qualcuno mi afferrò il braccio.
-No Lyvia, restare fuori potrebbe essere più pericoloso.
Fissai gli occhi di Francis e improvvisamente l’inquietudine svanì, eravamo solo io e lui in quella gabbia di terrore.
-Credi che stare qui sia meglio?
-Non lo so, è tutto talmente assurdo.
La paura occupava il suo volto sul quale non c’era più il solito sorriso luminoso. Mi arresi all’idea di rimanere lì, io stessa avevo timore di restare nelle tenebre di quella maledetta notte. Quando fui in quel letto confortevole, con il mio nome scritto con il sangue che vegliava su di me come un oscuro presagio e con la finestra aperta sull’orizzonte, mi fu insolitamente facile dormire. Ero distrutta, avevo semplicemente tolto la mia camicia bianca e i pantaloni blu, poi avevo afferrato la prima cosa che avevo visto in uno dei cassetti del mio armadio. La sensazione d'indossare abiti che qualcuno aveva già indossato, di essere avvolta nelle coperte dove altri avevano dormito, mi rendeva inquieta. Il suono dolce delle onde mi concesse qualche ora di sonno. La mattina seguente mi ci vollero alcuni istanti per realizzare perché io fossi là. Ogni cosa in quella stanza appariva meno inquietante alla luce tremula del sole. Dentro il mio armadio trovai decine di abiti, rigorosamente celesti, blu e bianchi. Erano i miei colori preferiti, com’era possibile che il caso avesse messo nella mia stanza i miei colori? Indossai un abito bianco in trina e delle scarpe del medesimo colore, poi uscii dalla stanza. Bussai alla porta di Lucy e lei mi aprii senza neanche chiedere chi fossi. Sul suo letto erano stati posti una dozzina di abiti del colore del grano. Lei stessa indossava un abito giallo pastello.
-Oltre ai nostri nomi questo. In ogni stanza ci sono abiti del nostro colore preferito. È come se qualcuno, o  qualcosa, che ci ha condotti qui ci conosca alla perfezione.
Ci ritrovammo tutti nel grande salone della casa. Era imponente e maestoso, alla luce del sole sembrava parecchio più vasto. Tutti noi indossavamo gli abiti che avevamo trovato nelle nostre stanze, perfino la piccola Mary, che non osava proferire parola, indossava un abitino arancione. Cominciammo tutti a parlare fra di noi, chiedendo alla nostra professoressa cosa fosse successo, perché e come noi eravamo su quell’isola.
-Ci divideremo i compiti. Tutti i ragazzi di 19 e 18 anni verranno con me a cercare un mezzo per lasciare l’isola, quelli di 17 cercheranno provviste e risorse di ogni genere, mentre tutti gli altri se vorranno potranno controllare la casa. Ci vediamo fra quattro ore qui.
Ognuno di noi si adoperò per i compiti al quale era stato assegnato. Il nostro fu semplice, trovammo un’enorme dispensa ricolma di cibo e acqua potabile.
-Sembra come se qualcuno fosse venuto qui, avesse lasciato tutto questo e poi se ne fosse andato.
Il tempo non aveva avuto nessun effetto corrosivo su quella casa e l’unica cosa plausibile era che qualcuno l’aveva tenuta in quell’ottimo stato.
-Sembra che il tempo si sia fermato alla morte dei Rosenburg.
Sussurrai sfiorando il tavolo in legno della sala da pranzo.
-Lucy, dove si è cacciata Mary?
Le chiesi quando mi accorsi che non era più con noi.
-In camera sua sicuramente, stanotte non ha dormito molto.
Andai da lei, perché immaginai che quella ad aver risentito più di tutti di quella situazione era lei. La trovai sul suo letto a piangere. I suoi capelli biondi erano sparsi sul cuscino e l’abito elegante era già stropicciato.
-Mary, sono io.
Lei si voltò lentamente verso di me, quasi non riuscisse a riconoscere la mia voce. Mi sedetti accanto a lei, accarezzandole il viso bagnato.
-Voglio andare a casa.
-Vogliamo tutti andare a casa, solo che adesso non è possibile.
La strinsi fra le mie braccia e mi apparve così debole, come se avessi potuto ferirla anche con la stretta più lieve.
-Tu farai di tutto per riportarci a casa, vero?
Per un attimo fui indecisa su cosa risponderle, non ero sicura di nulla in quegli istanti.
-Certo Mary, farò qualunque cosa.
La rassicurai, ma non credevo neanche io nella mia promessa. 

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Capitolo 6
*** I nomi – 2° capitolo ***


Quando ci riunimmo, nessuno portava buone notizie.
-Non c’è modo di lasciare l’isola.
Annunciò Derek con lo sguardo sconsolato. Lo strano fenomeno avrebbe sicuramente attirato l’attenzione di tutti gli abitanti dell’isola, ma non avevamo ancora ricevuto nessun messaggio o segnale.
-Quindi la soluzione è restare qui e non fare niente?
Chiese stupito Eddy, che sembrava essere intenzionato anche ad andarsene a nuoto, pur di lasciare l’isola.
-Non c’è altra soluzione.
Il tono della professoressa era duro, quasi definitivo. Ci eravamo arresi all’evidenza, nessuna via di fuga era presente sull’isola. Quella prima giornata sembrava non voler mai finire. La sera calò lentamente, lasciandoci un senso di disperazione e paura. Erano quasi passate ventiquattr’ore, ma nessuno era venuto per noi. Mi ritrovai a vagare per il corridoio del secondo piano verso le dieci di sera, alla ricerca di qualche foglio sul quale scrivere. Secondo Auria, scrivere ci avrebbe aiutato a comprendere meglio la situazione spaventosa nella quale ci trovavamo. Inoltre l’idea di confessare alla carta le mie paure e i miei sentimenti mi piaceva, spesso mi ritrovavo a scrivere ciò che mi turbava o mi rendeva felice, era un modo per lasciarsi andare. Non avevo però previsto che la casa fosse così grande e dopo breve tempo non ebbi idea di dove mi trovavo.
-Hai bisogno di una mano, Lyvia?
La voce chiara e sicura di Francis mi riscosse dai miei pensieri. Mi voltai e trovai Francis a pochi passi da me. Quella lieta coincidenza mi fece quasi dimenticare cosa stavo cercando.
-Cercavo della carta, in uno studio magari, o in una biblioteca.
Farfugliai, rendendomi conto di quanto la sua presenza mi rendeva al tempo stesso nervosa ed estasiata. I suoi capelli biondi erano insolitamente scompigliati e sul completo blu notte erano rimasti dei granelli di sabbia.
-Certo, so dove trovarla.
Disse, facendomi segno di seguirlo per i corridoi splendidi della casa. Sulle pareti bianche erano appesi quadri variopinti e alcuni piccoli arazzi e per un attimo mi persi ad osservare le figure ed i panorami rappresentati sulle tele.
-Come fai a sapere dove andare?
Chiesi osservando il modo sicuro con il quasi si destreggiava per la casa.
-Ho esplorato la casa questo pomeriggio e ho trovato parecchie cose interessanti, come una biblioteca.
-Certo che sei pieno di risorse, Wissol!
Dissi ridendo. Si voltò verso di me, rivolgendomi un sincero sorriso.
-Pensi che usciremo da quest’incubo?
Mi chiese tornando serio.
-Non lo so, non sento di sapere più niente in questo momento.
-Amy è disperata, ha borbottato qualcosa su una maledizione e sulla famiglia Rosenburg che abitava questa casa.
Non aggiunsi altro e dentro di me mi chiesi com’era possibile che anche Amy sapesse della storia. Che la Taller l’avesse raccontata anche a lei?
-Ecco la tua biblioteca. 
Disse aprendo una porta in legno e rivelando una stanza di grandi dimensioni, con scaffali ricolmi di volumi. Entrai titubante nella stanza immersa nel buio.
-Immagino che tu abbia bisogno di una candela.
Disse infilando la mano destra nella tasca dei pantaloni scuri. Con un fiammifero accese la candela che aveva tirato fuori e me la porse. Vedendo che lo guardavo stupita, sorrise e si affrettò a spiegarmi.
-Ne ho trovate un po’ in camera mia, credevo che potevano tornare utili la sera.
Alla luce flebile della candela vidi i suoi lineamenti contratti e la preoccupazione che ristagnava nelle sue iridi chiare. Avrei voluto consolarlo, ma non ne fui capace. Mi avvicinai invece ai titoli che erano custoditi in quella sorprendente biblioteca, ma ne conoscevo davvero pochi.
-Francis, hai notato?
Gli dissi dopo aver afferrato uno dei libri. Lui si avvicinò a me senza capire.
-Tocca i libri.
Le sue dita chiare scandagliarono gli scaffali e, quando ritrasse la mano, compresi che aveva capito.
-Non c’è polvere, neanche un granello. Non capisco, posso comprendere nelle camere o nel salotto, per quanto sia assolutamente inspiegabile che non sia presente, ma non è possibile che in questi scaffali carichi di libri non ci sia della polvere!
Comprendevo la sua reazione sconvolta, quel luogo era fuori dal tempo. Trovai dei fogli e qualche matita su una scrivania addossata ad una delle pareti, li afferrai e mi diressi verso la porta.
-Andiamocene, odio questo posto.
Lui non aggiunse altro, mi seguì fuori dalla porta senza degnare di un altro sguardo la biblioteca. Con un soffio spensi la candela e gliela porsi, immaginando che avrebbe potuto tornargli utile.
-No, tienila tu, credo che presto tornerai qui.
Aveva ragione, il mio amore per i libri non mi avrebbe tenuta lontana da lì, per quanto quel luogo fosse surreale.
-Non credi che qualcuno sia arrivato qui prima i noi, avesse rifornito la dispensa e pulito ogni singola stanza?
Era la cosa più plausibile, ma non credevo che fosse la verità.
-No Francis, io non credo.
Annuì e pensai che anche lui era giunto alla stessa conclusione. Percorremmo silenziosamente il tragitto che ci separava dalla sala da pranzo ed io cercai di memorizzare il percorso, così da poter tornare ogni volta che desideravo.
-Lyvia, non ho idea di cosa diavolo sta succedendo, solo ti chiedo di stare attenta.
-Solo se mi prometti di stare attento tu.
Sorridemmo entrambi e sentii il mio cuore più leggero, cosciente che c’era speranza.
-Affare fatto Sommers. 

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Capitolo 7
*** I nomi – 3° capitolo ***


Due giorni. Erano passati due giorni. Nessuno aveva forse notato ciò che era successo? No, non era possibile che nessuno avesse sentito la terra tremare, spezzarsi e allontanarsi. La notte potevamo vedere le luci dell’isola di Everdove, migliaia di piccole luci sfavillanti che probabilmente non potevano vedere noi. La nostra speranza era Camille Belle, lei era con noi e avrebbe fatto di tutto per capire cosa stava succedendo.
-Quindi aspettiamo?
Era stato Michael stavolta a porre quella domanda. Tutti ci chiedevamo le stesse cose, venti, quaranta, cento volte. Non c’era mai risposta. Lily se en stava stretta a lui, come se potesse scacciare ogni malevolo presagio solo stando vicina al suo bel ragazzo.  
-Sono solo io o la Taller è strana?
No, non era solo Mya che lo credeva. Nessuno aveva potuto smuovere la sua determinazione a restare lì ed aspettare pazientemente.
-Lyvia?
-Sto ascoltando!
Esclamai quando Lucy cominciò a scuotermi. Eravamo tutte sedute in riva al mare, con i nostri bei vestiti sporchi di sabbia e i volti tesi.
-Lasciala stare, sta pensando al biondino.
Sussurrò Auria ridacchiando.
-Smettetela, vi sembra il momento?
-Oh avanti Lyvia, lasciaci scherzare un po’!
Mi voltai verso Lucy e le sorrisi ripensando a quello che mi aveva detto la sera precedente.
-Perché non scherziamo su te e Derek allora?
Il volto di Lucy divenne rosso e m’intimò subito di stare zitta. Le altre scoppiarono a ridere, persino Mary scoppiò in una fragorosa risata. Sembrava che fossimo tornate a scuola, a casa, lontane da quel luogo misterioso e carico di timore. In quel momento pregai solo che l’incubo finisse, presto.
Ritornai nella biblioteca, leggere mi aiutava a liberare la mente da quei pensieri malinconici. Alla fine però decisi di esplorare la casa prima, seguendo l’esempio di Francis. Entrai in uno studio che si trovava nel secondo piano. Odorava di legno e libri, sembrava il posto perfetto per rifugiarsi dai problemi. Avrei voluto restare lì, in mezzo a quei mobili antichi per un po’, ma poi scorsi Lily e Michael accovacciati sul divano rosso. Prim’ancora che Lily potesse aprire bocca farfugliai delle scuse e corsi fuori dalla stanza.
-Se non volevano essere disturbati, potevano anche appendere un cartello.
-Perché girovaghi sempre per i corridoi?
Chiesi stupita a Francis. La sua vicinanza aveva sempre un effetto disarmante su di me.
-Potrei chiederti la stessa cosa, Lyvia.
Abbozzai un sorriso ed incrociai le braccia al petto.
-Come faccio a sapere che sono lì? Semplicemente li ho visti entrare poco tempo fa. E poi…
-Ecco dov’eri finito!
Alle sue spalle vidi arrivare Amy che lo interruppe. Amy non lo degnò di uno sguardo, fissava invece me, come per ricordarmi che ricordava le parole che le avevo rivolto.
-Ciao Sommers, che ci fai da queste parti?
-Lyvia.
La corressi con una punta di rabbia.
-Non importa. Allora, andiamo Francis?
Titubante Francis la seguì verso le scale, lontano da me. Ecco fatto, Barbie mi aveva portato via il ragazzo che sentivo di amare. Adesso che la mia attenzione non era più su di lui, continuai la mia esplorazione. A dispetto di come appariva esternamente, la casa all’interno celava un labirinto di corridoi e stanze, cosicché orientarsi non fu semplice. Una porta fra tutte mi colpì, era in legno di ciliegio, con intricati intarsi lungo lo stipite.  Il pomello di ottone sembrava brillare di una luce fiammante. Appena afferrai il pomello, ritrassi subito la mano, sentendo un dolore lancinante all’indice destro. Sotto il pomello c’era una sporgenza acuminata dalla quale stillavano gocce del mio sangue scuro che caddero tingendo di rosso il pavimento candido. Con molta più attenzione, riprovai ad aprire la porta.
Un fascio di luce m’investì e fui costretta a chiudere gli occhi. Dopo qualche secondo riuscii a vedere chiaramente cosa si trovava all’interno della stanza. Era una finestra spalancata la fonte di tanta luce, ma c’era qualcosa di macabro nelle tende bianche che si libravano nell’aria. No, in realtà non si muovevano. Con estrema cautela feci un passo verso la stanza, quasi come se quel luogo fosse un mausoleo nel quale non sarei dovuta entrare. Ogni cosa era impregnata di polvere, i tasti bianchi del pianoforte a coda che si trovava nella stanza apparivano consumati più dal tempo che dalle dita di un musicista. I fiori che adornavano i mobili erano completamente secchi, ne rimanevano solo gli scheletri. Le tende, semitrasparenti ed ingiallite, erano immobili a mezz’aria, squarciate come da grossi artigli. Tutto era immobile in quella stanza, persino il pulviscolo appariva stazionario nell’aria.    
Urlai talmente forte che gli altri, quando giunsero, credettero che io avessi visto un fantasma. In effetti era così, quella casa era un fantasma e noi i suoi giocattoli preferiti. 

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Capitolo 8
*** La stanza – 1° capitolo ***


-Se volevate avere la conferma che ci fosse qualcosa di disumano in questa casa, eccolo, proprio davanti a noi.
Il tono di Derek era insolitamente lugubre, conservando la paura comune a tutti noi. Solo Auria, la più razionale del gruppo, decise di entrare senza timore nella stanza. Il tempo si era congelato, ma allo stesso tempo ne erano visibili gli effetti.
-Sono d’accordo con Derek, non c’è nulla di spiegabile qui.
-Cosa facciamo adesso?
Chiese Dominic sistemandosi nervosamente gli occhiali tondi sul naso. Nessuno osò rispondere.
-Aspetteremo la morte qui?
Alla proibita parola tutti cominciarono a parlare, bisbigliare e pregare che così non fosse.
-Dom, tu che soluzione hai?
Disse Dary, giocando con le punte dei capelli corvini.
-Se non possiamo scappare da questa casa, dovremo affrontare qualsiasi cosa che si aggira fra queste mura.
Tutti si trovarono d’accordo con lui, solo Auria e Tyler sembravano ancora titubanti. Molly invece, la perfida Molly dai tratti duri e robusti, si era come ammutolita. Mi guardava come un cucciolo indifeso, come se da me dipendesse la sua vita.
-Andiamocene, non voglio restare un minuto di più.
Disse Amy e al tono altezzoso di lei, tutti si congedarono bisbigliando fra loro.
-C’è davvero qualcosa in questa casa?
Mi chiese Mary impaurita, con lo sguardo fisso sulla porta solenne. Avrei voluto mentirle, ma ripensando agli squarci sulle tende, ai fiori tristemente morti e ai nostri nomi scritti con il sangue, non mi sentii di mentirle.
-Si Mary, c’è qualcosa.
La stanza del tempo, così avevamo deciso di chiamarla, sembrava essere ormai solo un luogo arcano e fuori dalla nostra crudele realtà. In tacito consenso decidemmo che non saremo più entrati lì dentro. Eppure mi toccò non mantenere fede alla silenziosa promessa, la notte del terzo giorno. Il sonno difficilmente giungeva da quando ero sull’isola, ma quella notte in particolare non ebbi problemi a sprofondare fra le braccia di Morfeo.
Non ci volle comunque molto prima che io mi ridestassi. Feci per affacciarmi alla finestra, credendo che non mancasse molto all’alba, invece era chiaro che la notte era ancora alta nel cielo. Ero in procinto di tornare nel mio letto, quando una melodia si diffuse per la casa. Uscii in corridoio con la vestaglia in lino e scalza ed attesi, sicura che la musica avrebbe svegliato anche gli altri. Invece non fu così. Scesi silenziosamente le scale, sapendo che quella sinfonia poteva provenire unicamente dal pianoforte. Per la prima volta non ero terrorizzata, ero piuttosto serena e senza titubanze. La porta della stanza del tempo era spalancata e una luce sulfurea e dall’aria mistica illuminava il corridoio.
Dentro la stanza c’era una donna dai lineamenti dolci, i capelli castani le scendevano in onde lungo la schiena. La stanza appariva molto diversa da come l’avevo vista la prima volta, le tende erano integre, ogni granello di polvere scomparso. Dalla finestra filtrava la luce della luna e delle stelle, sembrava come accarezzare il volto pallido della giovane vestita in un semplice abito bianco. Alzò gli occhi dal pianoforte smise di suonare. Quando i suoi occhi incontrarono i miei sussultai, perché sembrava che io avessi già fissato quegli occhi prima. La sua figura era eterea e circondata da luce iridescente.
-Lyvia.
Mi disse alzandosi e venendomi vicina.
-Lyvia, sii prudente. Devi essere forte e impavida, abbiamo bisogno di te.
Le sue parole sembravano provenire da un’altra dimensione, i suoi occhi parlavano una lingua a me sconosciuta. Fantasma. Quella donna era un fantasma.
-Promettimi che vincerai questa battaglia.
Le promisi in un sussurro che avrei fatto ciò che chiedeva, senza sapere quale battaglia mai avrei dovuto affrontare. Quando aprii la bocca per chiederle chi era, le mie forze vennero meno ed io caddi ai piedi di quella donna beata.  
Riaprii gli occhi nella mia stanza, al sorgere del sole, indecisa se ritenere ciò che era successo un sogno oppure la realtà. Il desiderio di tornare nella stanza del tempo era martellante, ma decisi d’ignorarlo andando in riva al mare. Mi misi un abito lungo fino alle ginocchia celeste e scarpe in pizzo bianche, poi scesi con cautela i gradini. L’aria frizzante mattutina era piacevole. L’odore della salsedine stava diventando oramai familiare ed il venticello gelido delle prime ore del giorno mi era indifferente. Percorsi la strada fino al piccolo porticciolo in legno sulla riva, dove vidi che non ero l’unica ad aver scelto di osservare il mare all’alba.   
Francis era lì, così smarrito nel dolce moto delle onde che quasi non mi sentì arrivare.
-Lyvia, anche tu un incubo?
Mi chiese accennando un sorriso.
-Più o meno.
Non avevo ancora deciso come classificare gli eventi di quella notte.
-Volevo chiederti scusa per ieri, forse se tu non eri da sola…
-Fa nulla, non è colpa tua.
Era vestito con una camicia spiegazzata e pantaloni blu. I suoi occhi apparivano più malinconici del giorno precedente.
-In ogni caso è stato meglio così, dobbiamo renderci conto di che cosa si trova qui.
-Credi che l’isola ci tenga davvero prigionieri?
-Ormai non so più a cosa credere e a cosa no.
Fu la mia secca risposta.
-Già, è difficile credere in qualcosa quando ci si trova nel bel mezzo di una tempesta. Ma questo distingue i sopravvissuti dai morti, no? Credere che ci sia una possibilità.
-Allora dubito di potermi considerare fra i sopravvissuti.
Dissi con insolito sconforto e arrendevolezza. Francis distolse lo sguardo dal mare per incontrare il mio.
-Non credo che questo sia vero.
Era curioso vedere come in poco tempo da semplici conoscenti io e Francis fossimo quasi confidenti.
-Andremo via da qui?
Gli chiesi con voce flebile. Ci fu un attimo di silenzio e ripensai alla donna, alla battaglia che mi aveva chiesto di combattere.
-Ne sono più che certo. 

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Capitolo 9
*** La stanza – 2° capitolo ***


Quella giornata non tardò a finire, le ore scorrevano crudeli senza tenere conto del nostro crescente terrore. Lucy era più silenziosa che mai, neanche Derek era riuscita a farla sorridere.
-Dai Lu, anche se dovessimo morire lo faremo immersi nel lusso.
Lucy mi rivolse un flebile sorriso, forse comprendendo perché volevo allentare la tensione.
-Io non voglio morire con questi abiti, preferisco morire accanto ai miei orsetti. 
Protestò Mary addentando un pezzo di pane. Eravamo proprio nella sala da pranzo, mentre consumavamo quel pasto che avevamo preparato insieme, quando parlammo per la prima volta della morte.
-Beh, se dovessimo essere in TV so che il pubblico femminile piangerà molto la mia scomparsa.
Disse Tyler raddrizzando la schiena. Dary scoppiò a ridere, mettendo a disagio Tyler.
-Smettila Dary, almeno io non sono alto un metro e trenta.
-Almeno io ho un cervello!
Tutti scoppiammo a ridere per quel piccolo battibecco, forse tentando di dimenticare perché stavamo parlando di morte. 
-Io pretendo rose rosa sulla mia tomba.
Disse Amy nel suo meraviglioso abito rosa confetto.
-Mamma e papà ti costruiranno un intero mausoleo rosa con i glitter.
Intervenne Trevor.
-Se io dovessi morire…
Cominciò Dominic, indicando fiero la sua giacca lilla.
-Pretenderò violette viola e nient’altro.
-Beh, io vorrei solo margherite bianche.
-Niente celeste per te Lyvia?
Mi chiese Lily con tono quasi stupito.
-Meglio la semplicità quando si parla di morte.
-Perché ne stiamo parlando comunque? Non siamo intenzionati a sopravvivere a qualunque costo? Altrimenti, con le vostre pretese, si dovrebbero utilizzare tutti i fiori d’America.
Disse Eddy che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Lui, Dary e Mary erano i più restii a parlare dell’argomento, forse perché, essendo i più giovani, nessuno gli aveva mai detto che la loro vita poteva finire prim’ancora che fosse mai iniziata.
-Quindi margherite, eh?
Mi voltai mentre stavo salendo le scale per tornare nella mia confortevole stanza.
-Ti facevo più sofisticata.
-E tu cosa vorresti sulla tua di tomba, Wissol?
Mi sorrise colto alla sprovvista dalla mia domanda.
-Niente fiori per me. È come aggiungere morte alla morte, veramente triste.
Non aiutava neanche scherzarci sopra alla morte.
-Lyvia, la professoressa non ti appare strana?
Disse assumendo un tono improvvisamente serio.
-L’ho sempre reputata strana, ma m’inquieta la sua lucidità.
Confessai continuando a salire le scale.
-Non importa, non può che volersene andare quanto noi.
Ero d’accordo con lui, chi non avrebbe voluto fuggire da quella gabbia dorata fuori dal tempo e dallo spazio?
-Questa casa non ti dà l’impressione sempre sentito e osservato?
-Io ho solo l’impressione che questo sia un inferno senza fiamme.
-E allora Lyvia, cosa abbiamo mai fatto per meritare questo?
Alzai le spalle, perché non mi ero mai posta quella domanda.
-Gente come noi potrebbe morire senza neanche un motivo, un perché.
Lo sguardo di Francis divenne quasi supplichevole. Mi avvicinai a lui, sentendo il muscolo nel mio petto accellerare il suo incessante lavoro. Avrei voluto urlare la mia disperazione, che non era giusto che noi fossimo lì. Eppure i nostri nomi dicevano il contrario, dicevano che noi sedici dovevamo essere lì.
-Buonanotte Francis.
-Buonanotte Lyvia.
Tornai nella mia stanza, senza neanche voltarmi. Mi misi in ginocchio sul mio lussuoso letto. Il mio nome dipinto con il sangue sembrava fissarmi. Alcune lacrime mi rigarono il viso e tentai di cancellare le lettere scarlatte. Strofinai il sangue, grattai con le mie unghie, ma le lettere non si scalfirono. Quando ritrassi le mani erano impregnate di sangue viscido. Inorridita tentai di pulire il sangue nel mio abito turchese, stringendo le labbra per non urlare. Lavai le mie mani misteriosamente imbrattate e il sangue cominciò a scemare, lasciando le mie mani pallide pulite. Rigettai ogni cosa che avevo mangiato quella sera, ma almeno ero riuscita a lavare via il sangue.
Mi specchiai nella toletta accanto al mio letto. Il mio riflesso era diverso, il mio respiro era affannato, ma ero grata che potessero ancora riempirsi d’aria. Poi lacrime vermiglie scesero dai miei occhi e tinsero il mio viso dello stesso sangue che aveva incrostato le mie mani pallide. Urlai, o forse immaginai solo di farlo, perché nessuno accorse in mio aiuto.   

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Capitolo 10
*** La stanza – 3° capitolo ***


Forse stavo impazzendo. Erano passati quattro giorni da quando eravamo sull’isola e la mia mente non aveva un attimo di pace. Ero rannicchiata nel mio letto quando il sole sorse illuminando quella nuova maledetta giornata. Avevo coperto lo specchio per paura che riflettesse qualcos’altro di macabro ed irreale. Mi rifugiai nella biblioteca dopo una rapida colazione, desiderosa di leggere quali volumi i Rosenburg prediligevano. Ritenevo la biblioteca il mio luogo sicuro nella casa e non avrei mai permesso che anche quell’oasi di serenità venisse distrutta. Decisi di tornare in camera mia solo dopo il pranzo. Il mio cuore sussultò di paura quando vidi Amy comodamente seduta sulla mia toletta.  Aveva rimosso il lenzuolo che copriva lo specchio e cercai disperatamente di non fissare il mio riflesso.
-Cosa ci fai qui?
Le chiesi allibita di trovarla nella mia stanza.
-Lyvia, non credi che noi due abbiamo cominciato in maniera sbagliata? Insomma, qui tutti dovremmo essere alleati, no?
Cominciò mentre si sistemava i lunghi riccioli biondi.
-Cosa vuoi?
Sibilai chiudendo la porta alle mie spalle. Si voltò fissandomi con i suoi occhi cristallini.
-Ho cercato di aprire la stanza del tempo facendo attenzione a quel punteruolo, ma nulla. Così ho pensato che quella sporgenza non fosse messa lì per caso, che fosse necessario del sangue. Non si è aperta. Solo tu sei in grado di avere accesso a quella stanza.
-Ne dubito.
Risposi seccamente.
-Ti ho sentita per i corridoi la notte scorsa. Era lì che stavi andando?
-Ero andata in riva al mare ed era mattina, ho trovato Francis lì, puoi chiedere anche a lui.
Amy sgranò gli occhi, come se stesse cercando nei miei qualcosa di alieno.
-Non ti sto accusando di nulla solo…sembra che tu sia come legata a questo posto.
Alzai le spalle, incapace di darle una risposta.
-Forse è solo colpa mia, sento il peso di ciò che ho detto e fatto. Io non voglio essere così…così crudele. Devo essere la migliore, tutti lo reclamano ed io non so…
La sua voce s’incrinò e i suoi occhi celesti si riempirono di lacrime. Abbracciai di scatto Barbie, anche se andava contro ogni mio principio. La regina della scuola appariva più debole che mai fra le mie braccia. Perché era crollata proprio con me? Come avevo fatto a far vacillare la maschera di perfezione di Amy Morgans?
-Chiedo scusa a te, ma è come se lo chiedessi a tutti. Francis mi ha parlato di te, di come riesci a comprendere le persone.
Quando pronunciò il nome di Francis fu la mia di maschera a tremare.
-Non ho nulla di speciale, ma credo di poterti comprender. Tu però sei Amy Morgans! La più promettente allieva della Dreier, puoi essere tutto ciò che vuoi.
Amy sorrise staccandosi da me e asciugando le lacrime con un lembo della manica di un rosa sfavillante.
-Forse non sono così così perfetta come tutti credono, sono solo una bambola di porcellana costantemente in bilico su un burrone. Francis e Trevor sono gli unici che riescono a comprendere, a rendere le cose più semplici.
-Tu e Francis siete molto amici.
Osservai cercando di assumere un tono disinvolto e indifferente.
-Oh, non è come credi. Siamo cresciuti insieme, per me è un fratello quanto lo è Trevor. Invece tu, vedo come lo guardi.
Spalancai gli occhi e cercai di dirle che si sbagliava, che nulla era vero.
-Sono la sua migliore amica, lo so. Non sono affari miei, quindi la questione non mi riguarda, ma se lo ferirai sarò io a ferire te.
Scoppiai a ridere sentendo il tono minaccioso di Amy. Quando lei se ne andò, entrambe sapevamo di aver guadagnato una nuova amica.
Auria, Mya, Lily e Lucy avevano deciso di trascorrere il pomeriggio a passeggiare sulla spiaggia. Io e Mary ci unimmo a loro, perché ne avevamo entrambe abbastanza si restare dentro quella casa. Sembravamo delle ricche dame del secolo passato, con i nostri abiti raffinati ed eleganti, i gioielli sfavillanti e quell’aria del remoto che si respirava sull’isola.
-L’unica cosa piacevole sono i vestiti.
Disse Lily piroettando nel suo abito blu cobalto di velluto. Auria mostrò fiera il suo abito rosa pallido e i fiori che aveva incastonato fra le trecce bionde.
-Sembriamo delle principesse!
Esclamò Mary con insolito brio. Ci accomodammo sul prato verde a poca distanza dalla spiaggia, dove cominciai ad intrecciare i capelli di Mary.
-Lyv, hai notato che Molly e Dary stanno sempre in disparte?
Mi chiese Mya aggiustandosi l’abito verde acqua.
-Si e se a loro va bene così, tanto meglio!
Rispose al posto mio Lucy.
-Come sei scontrosa Lu, hai forse litigato con Derek?
Era ormai ovvio che ci fosse qualcosa tra loro e prendere in giro Lucy non aveva prezzo.
-Perché dobbiamo sempre finire per parlare di quest’argomento?
Sbottò diventando tutta rossa
-Perché siamo solo delle ragazze frivole.
Disse Lily scoppiando in una risata argentina.
-Parla per te, Lily
Le disse invece Auria. Quei piccoli momenti di gioia erano intervallati da altri di timore ed insicurezza, ma per una volta la stanza del tempo e i nostri nomi scritto col sangue erano distanti dai miei pensieri. Non abbastanza comunque, l’incubo incombeva incessante su tutti noi.

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Capitolo 11
*** La stanza – 4° parte ***


Alla sera eravamo tutti riuniti nel salotto, dopo la cena che avevamo pazientamene collaborato tutti a preparare. L’unica a mancare quella sera era la nostra professoressa. Appena me ne accorsi intercettai lo sguardo di Francis, intento a discutere con Derek. Ripensai alle parole di Amy e distolsi lo sguardo per paura che fossero proprio i miei occhi a tradire ciò che le parole celavano. Quando m’infilai sotto le lenzuola ogni singola preoccupazione tornò. Avevo cercato d’ignorare il mio specchio e di non pensare al sangue sulla parete, ma per quanto cercai di riposare e di far ristorare la mia mente, il sonno non arrivò. Scrissi per tutta la notte, raccontai di quella casa e dei miei sentimenti, senza ottenebrarne uno solo. Quando vidi le stelle lasciare spazio ad una loro sorella più luminosa, finalmente posai fogli ed inchiostro e tornai nel mio letto. A svegliarmi fu un cinguettio fuori dalla mia finestra. Le ore di sonno mancanti pesavano sulle mie membra, ma mi alzai e cercai un vestito bianco da mettere quel quinto giorno. Sulla tavola imbandita c’erano allettanti biscotti al cioccolato e tè bollente, il che mi strappò un sorriso.
-Ben svegliata Lyv.
Mi salutò Trevor nel suo completo verde bottiglia. Insieme a lui, Eddy e Molly chiacchieravano con l’indifferenza dipinta sui loro volti. Mi affacciai a una delle grandi vetrate e riuscii a scorgere l’isola di Everdove.
-Non è meraviglioso?
La Taller sbucò dietro di me facendomi trasalire con le sue parole carezzevoli. Era già successa una situazione simile, solo nell’isola che si trovava difronte a noi, quando non eravamo stati trascinati in un vortice di terrore. Adesso eravamo in una gabbia di marmo e legno cigolante.
-La storia non si è davvero ancora conclusa.
Le dissi, ricordandole la conversazione avvenuta una settimana prima. Lei sorrise, continuando a scrutare attentamente l’orizzonte.
-Immagino che lei non ne sappia la conclusione.
La Taller si voltò e fissò i suoi occhi scuri sui miei, mettendomi in soggezione.
-A meno che tu non abbia parlato con gli spiriti, nessuno può sapere la fine di questa storia.
Se ne andò, lasciandomi a fissare il mare lambito dai pigri raggi solari. Mai mi ero sentita tanto smarrita in vita mia. Voltai le spalle al panorama per tornare in cucina. Non ebbi il tempo di mettere piede nella sala, che le urla strazianti di Lily irruppero l’apparente stato di tranquillità della casa. Corsi più veloce che potei verso il giardinetto sul retro della casa, dal quale provenivano i lamenti di Lily. La mia amica era lì, seduta per terra difronte al giardino, che non era più solo un giardino. Croci di pietra bianca erano conficcate nel prato verdeggiante. Croci, sedici croci.     

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Capitolo 12
*** Il cimitero – 1° capitolo ***


Tutte le paure e i timori che avevano occupato la mia mente tornarono con violenza in quel cimitero vuoto. Davanti a me la foresta, selvaggia e spaventosa come non mai. I nostri nomi erano incisi sulle bianche croci. Ben presto tutti accorsero per ammirare il macabro lavoro che, Dio solo sa cosa, aveva compiuto.
Amy Claire Morgans, Trevor Morgans, Michael Hovrel, Lilian Endlen, Mya Faceler, Auria Domin, Molly Dallen, Daria Volg, Tyler Mickelson, Dominic Fredon, Eduard Van Door, Derek Forren, Lucy Meyer, Francis Wissol, Mary Rosin e Lyvia Sommers.    
I nostri sedici nomi erano incisi su quelle lapidi, sotto la terra pronta per ospitare i nostri sedici cadaveri. Mi girai con lo sguardo smarrito in quel panorama grottesco. Avrei voluto piangere disperatamente, gridare la mia rabbia, invece caddi anche io a terra, arresa al fatto che fossi impotente contro ciò che stava accadendo. Vidi la Taller arrivare e fermarsi per osservare le croci. Mi alzai tremante e barcollai verso di lei.  
-Sarà contenta adesso. Ci dica come andarcene prima che questo cimitero si riempia.
Sembrava stupita, ma non rispose nulla.
-Perché il suo nome non c’è? Perché lei sapeva quella maledetta stori a e ha cominciato a raccontarla a tutti noi?
-Figliola, non capisco di cosa tu mi stia accusando.
Sconvolta e accecata dalla rabbia le mollai uno schiaffo sulla guancia già solcata dalle prime rughe, poi corsi via nella mia stanza. Sparsi a terra tutti i fogli e i libri che avevo preso nella biblioteca, poi ruppi il vaso decorato ricolmo di fiori. Urlai e colpii il muro chiaro con tutte le mie forze. Quando mi calmai, avevo le nocche ferite ed il viso stravolto e rigato dalle lacrime.
-Lyvia basta, ti prego.
Lucy vide cosa la mia furia aveva fatto nella stanza e corse ad abbracciarmi. Pianse con me ogni lacrima che aveva represso in quei giorni. Il mio abito era irrimediabilmente macchiato di sangue, così fui costretta a cambiarlo. Pulii il sangue dalle mie ferite e mi sciacquai il viso arrossato.
-Non diamoci per vinte, infondo siamo ancora vive.
Le dissi senza troppa sicurezza nella voce. Era come se da quando avevamo messo piede su quell’isola fossimo già morti, cadaveri con un ultimo barlume di vita in attesa di essere tumulati. L’abito che avevo deciso d’indossare era lungo, fatto con una stoffa leggera e luminosa. Tutti erano nella sala principale, accomodati sulle poltrone. All’appello mancava solo la professoressa, ma nessuno se ne curò.
-Potrei giurare che ieri pomeriggio non c’erano.
Disse Tyler ed in effetti ricordai che anche io non avevo visto nulla d’insolito lì.
-E allora chi diavolo ha avuto questa brillante idea?
Tuonò Michael. A quel punto era chiaro che ci stessimo puntando il dito contro.
-Michael, io non credo che possiamo ancora accusare qualcuno di noi. Abbiamo ben compreso che non c’è nulla di ordinario in questa casa. Non c’è nulla di umano.  
Auria era al centro della stanza e parlava con voce flebile. Michael si accasciò sul divano rosso, comprendendo le sue parole.
-Quindi siamo tutti d’accordo che noi non sappiamo nulla di questa storia?
Nessuno fiatò alla risposta di Auria, eravamo tutti consapevoli di questo.
-O siamo uniti o siamo morti.
Disse Amy, con lo sguardo perso nel vuoto. Nessuno aggiunse altro e lentamente tornammo a trascorrere la giornata come eravamo soliti, quasi come se non fosse successo nulla. Io restai lì, ad osservare Francis e Amy parlare fra loro. Il mio sguardo incontrò il suo e fui tentata di andare da lui, ma avvertendo la disperazione sul volto di Amy, decisi di andare via. Il sole stava già tramontando ed io osservai il cielo in fiamme calare sul cimitero e sugli alti alberi della foresta. Lì fuori c’era qualcosa, un cacciatore, che aspettava pazientemente di uccidermi e di seppellire il mio corpo di preda sotto la lapide che riportava il mio nome.
-Sei qui Lyvia?
Mi girai sentendo la voce di Francis. Aveva le maniche della camicia alzate e qualche goccia di sangue imbrattava il colletto bianco.
-Immagino che adesso neanche nella biblioteca si possa essere al sicuro.
Dissi più a me stessa che a lui.
-Non siamo mai stati al sicuro da quando siamo qui.
Mi avvicinai a lui, avrei voluto porgli mille domande, reclamare altrettante risposte, ma riuscii solo ad annuire e a posare lo sguardo sul suo.
-Cosa hai fatto alle mani?
Nascosi istintivamente le mie mani ferite dietro la schiena.
-Nulla, non occorre che tu te ne preoccupi.
-Cosa hai fatto?
Insistette, venendomi così vicino che potei sentire il suo respiro irregolare sul collo. Aveva i capelli biondi che gli scendevano sulla fronte e gli occhi chiari più vivi che mai.
-Avevo bisogno di prendermela contro qualcosa.
Francis aprì la bocca per dire qualcosa, ma rimase in silenzio. Sospirò e mi sembrò di poter sentire il suo cuore battere contro il petto.
-Tieni gli occhi aperti Sommers, lo farò anche io.
Annuii, promettendo a me stessa di fare veramente attenzione.
-Cena alle otto, non tardare.
Mi sussurrò rivolgendomi un sorriso, poi andò in camera sua.

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Capitolo 13
*** Il cimitero – 2° capitolo ***


La prima cosa che vidi fu il mio riflesso sullo specchio. Coprirlo non ne cancellava l’esistenza, serviva solo per illudermi che un lenzuolo sottile mi avrebbe protetta da ciò che si trovava lì, dalla casa e da me stessa. Quindi lo sfidai, osservando il mio riflesso, alla ricerca di eventuali anomalie. Ero solo io, la stessa Lyvia di sempre, poi i miei occhi divennero scuri. Le pupille di ossidiana mi spaventarono, facendomi arretrare. Mi sfiorai le palpebre, come per scoprire se io stessa ero cambiata, il mio riflesso restava immobile, con gli occhi iniettati d’oscurità. Sotto il mio sguardo terrorizzato, una mano sconosciuta mi tastò il collo pallido, poi un’altra mano spuntò e incise un lungo taglio sulla mia gola.
 Il taglio era perfetto, spaccava in due la mia sottile pelle e il sangue trasudava dalla ferita, sporcando il raffinato abito blu. In preda al  panico, afferrai un tagliacarte sulla mia scrivania e lo scagliai con violenza contro lo specchio. Il vetro si frantumò in mille pezzi e tornò a mostrare la mia immagine distorta. La mia mente era arrivata al limite, sentivo le tempie doloranti e il cuore palpitare. Mary si precipitò in camera mia e fissò lo specchio con il tagliacarte conficcato nel centro.
-Lyv, cos’è successo?
Mi abbassai affinché i nostri sguardi fossero alla stessa altezza.
-A quanto pare, distruggere oggetti è un buon metodo antistress.
Le dissi scandendo ogni parola, con il tono di voce fuori controllo.  Mary sembrò guardarmi impaurita, come se avesse cominciato a temere anche me. La piccola Mary mi apparve per ciò che era davvero, solo una bambina. L’abbracciai e si lasciò andare al mio tocco.
-L’ho visto anche io, quel signore che mi premeva il coltello sul petto.
-Quale signore?
Mary non seppe rispondermi, mi disse solo che aveva avuto timore che ciò che vedeva nello specchio fosse reale, ma lei era rimasta illesa e si era rasserenata.
-Forse stiamo solo perdendo tutti la testa.
La fiducia di Mary mi tenne lontana dalla pazzia, adesso ne sono certa.
Scesi nella sala principale quando l’orologio indicò che erano giunte le ore otto. Indossavo ancora l’abito lungo e blu, ma avevo indossato gioielli di zaffiri che avevo trovato in camera mia.
-Ragazzi, Amy ha una teoria.
Annunciò Dary quando la silenziosa cena terminò. Amy si alzò e avanzò verso il centro della stanza, con l’abito rosa in ganza che le frusciava ad ogni passo.
-Credo che almeno in parte le storie della Taller siano vere. Potrebbero esserci quegli spiriti, gli stessi che uccisero i coniugi Rosenburg, che danno la caccia a noi.
Tutto mi fu più chiaro. Ogni singolo elemento del puzzle mi apparve finalmente con le sue ragioni, con i suoi significati e presagi oscuri.
-Siamo noi.
Sussurrai, guadagnandomi l’attenzione di tutti.
-Siamo noi.
Ripetei a voce più alta.
-I figli dei Rosenburg, siamo noi. Forse solo una copia, ma li rappresentiamo. I nostri nomi, le stanze arredate secondo i nostri gusti, i nostri nomi sulle pareti e sulle tombe…noi siamo i sedici figli dei Rosenburg.
Appoggiai la mano sulla bocca e le lacrime cominciarono a scendere sul mio viso.
-Sta completando la carneficina. Non ha potuto uccidere loro, quindi noi prenderemo il loro posto, completeremo la sua opera assassina.
-La Taller! Cercate la Taller!
Urlò Trevor quando finii di parlare, ma era inutile, lei non c’era più. Scomparsa. Lei ci aveva condotti là, in pasto a chissà quale essere. Un lamento sfuggì dalle mie labbra, perché mi stavo rendendo conto della verità, che era stata talmente semplice.
-Perché? Perché proprio noi?
Urlai prima di spalancare la porta e di uscire. Non avrei potuto restare un secondo di più lì dentro. La mia ragione lottava contro la verità, mi ritrovai a combattere e stessa. Corsi verso la costa, verso il mare.

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Capitolo 14
*** Il cimitero – 3° capitolo ***


Sentii il mio nome, urlato al vento che sibilava nelle mie orecchie. Sentii Francis, nella notte buia, chiamare il mio nome. Non mi voltai, non rallentai la mia corsa, la mia direzione rimase la stessa. Giunsi in riva al mare, le acque calme sembravano torbide e si poteva vedere l’isola di Everdove all’orizzonte. Dovevo raggiungerla. Avanzai lentamente nell’acqua, finché non mi lambì le gambe.
-Lyvia, Lyvia aspetta!
Mi voltai e vidi Francis raggiungermi. Il mare infradiciò il mio splendido abito blu, che appariva danzare fra l’acqua gelata. Per un attimo un brivido di terrore mi scosse, poi continuai ad avanzare verso la costa lontana.
-Lyvia, cosa stai facendo?
-Se nessuno verrà per noi, allora sarò io stessa a salvarmi!
Francis mi seguì cautamente nell’acqua.
-Lyvia è una pazzia, non puoi raggiungere a nuoto l’isola.
Le lacrime scesero sulle mie guance in un fiotto di dolore e disperazione.
-Tu vuoi aspettare qui la morte? Non posso restare senza fare nulla.
Francis mi afferrò la mano, ma io ero decisa ad andare. Lo guardai furiosa, senza pietà, neanche per lui.
 -Non c’è modo
-Ne troverò uno.
Quando avanzai un altro passo però, Francis mi circondò con le sue braccia, impedendomi di muovermi.
-Francis, lasciami!
Gli urlai mentre cercavo di divincolarmi dalla sua stretta, ma la sua caparbietà era forte quanto la mia.
-Non ti succederà nulla, te lo prometto Lyvia.
Il gelo della notte e il mio abito intriso di quell’acqua, esacerbarono la mia disperazione. Cercai di lottare contro Francis, ma lentamente il mio furore si placò e riacquistai la ragione. Quando smisi di dibattermi mi sussurrò:
-Torniamo dentro, Lyvia.
Annuii e mi lasciai condurre da lui lontano da quelle acque.
-Mi dispiace, non so cosa mi sia preso.
-Sono stato anche io sul punto di farlo, non devi scusarti.
Notai solo in quel momento che eravamo entrambi zuppi.
-Oddio, per colpa mia ti sei bagnato anche tu.
-Beh, se proprio dobbiamo morire, almeno avrò fatto il mio ultimo bagno di mezzanotte.
Disse ridendo. Quando fummo quasi fuori dall’acqua, scivolai sulla pietra che ricopriva la riva. Caddi indietro e trascinai con me anche Francis. Entrambi eravamo immersi nell’acqua, bagnandoci completamente. Scoppiammo a ridere, i suoi capelli biondi erano appiccicati sulla fronte e la mia chioma castana danzava nell’acqua.
-Sommers, quando dicevo bagno di mezzanotte, non intendevo mica che dovevo bagnarmi tutto.
Risi e gli schizzai il viso.
-Piccola impertinente!
Sembravamo solo due bambini che giocavano con l’acqua, non c’era sofferenza elle nostre risate. Il mondo sembrava lontano e noi intoccabili. Incontrai il suo sguardo e per la prima volta scorsi qualcosa che le sue iridi chiare non mi avevano mai rivelato. Nessuna parola sarebbe bastata, ogni cosa era estremamente irrilevante ed effimera. Il cielo stellato illuminava il suo viso pallido e l’azzurro dei suoi occhi divenne quasi alieno. Istintivamente ci avvicinammo fin quando non ci ritrovammo l’uno nelle braccia dell’altra. Le nostre labbra s’incontrarono e poco di quell’incubo contò più.
Quando qualche tempo più tardi tolsi l’abito blu fradicio ed entrai nel mio letto freddo, compresi finalmente chi era la donna che mi era apparsa nella stanza del tempo. Sembrava me, ma non lo era. L’unica cosa che avevamo in comune, escluso l’aspetto fisico, era il nome. Quella donna era Lyvia, una dei sedici figli dei Rosenburg.    

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Capitolo 15
*** Il cimitero – 4° capitolo ***


La mattina seguente l’euforia non aveva ancora lasciato il mio animo. Le mie labbra s’incurvarono in un sorriso quando incontrai Francis fuori dalla mia stanza.
-Buongiorno, dormito bene Lyv?
-Splendidamente.
Francis mi sorrise radioso prima di prendere la mia mano.
-Hai visto Lucy per caso?
Gli chiesi mentre scendevamo le scale.
-No, mi sono appena svegliato come te.
Non dovetti cercare a lungo la mia migliore amica, Lucy era infondo alle scale con il volto teso.
-Stavo salendo per cercarvi, mancavate voi, Dominic, Amy e Mary all’appello.
-Amy?                                 
Ripeté stupito Francis.
Il suo tono non era preoccupato, solo stupito dal fatto che Amy non fosse già sveglia. Nella sala da pranzo tutti parlottavano e sussurravano fra loro, forse non si accorsero neanche di me e Francis. Mi sedetti e versai il tè ancora bollente in una tazza. Amy giunse poco dopo insieme a Dominic. Aveva occhiaie scure sotto le iridi chiare e i riccioli biondi erano disordinati.
-Amy, tutto bene?
Le chiese il fratello Trevor vedendola.
-Non ho dormito bene stanotte.
Non era stata la sola, nessuno di noi sembrava completamente lucido.
-E la Taller? Ancora scomparsa nel nulla?
-Io e Trevor abbiamo ispezionato la casa e la costa, ma di lei non c’è traccia.
Mi spiegò Derek. Infondo, con o senza di lei, le cose non sarebbero cambiate.
-Voi credete che sia…
Cominciò Dary, ma non avevo intenzione di valutare nessuna delle infinite spiegazioni, delle possibilità.
-Se intendi che tutto questo c’entra con lei, ne sono certo.
Le rispose Tyler e tutti ci trovammo d’accordo con lui. Improvvisamente Lucy si guardò attorno allarmata, incrociai il suo sguardo e compresi il perché del suo sgomento.
-Dov’è Mary?
Chiesi al suo posto. Gli occhi verdi di Lucy mi trasferirono la sua inquietudine e la preoccupazione che nutriva. Nessuno rispose, tutti ci guardammo e lentamente un pensiero comune s’impossessò di tutti noi. Lucy si alzò di scatto, tanto da far tintinnare le tazze sul tavolo e corse verso il piano superiore, chiamando a gran voce Mary. Inutile anche dirlo: non la trovammo.
-Le croci, andiamo a vedere le croci.
Sussurrò Amy mentre fissava gli occhi ricolmi di lacrime di Lucy. Le nostre tombe erano lì, come il giorno precedente. Per quanto macabre e disturbanti, nulla di strano si era aggiunto al cimitero, neanche alla tomba di Mary. Quando mi voltai verso il retro della casa, però, quella normalità oscura mutò. Con le stesse lettere di sangue che imbrattavano le nostre stanze, era stata deturpata anche la casa.
“LA FINE È VICINA”
Lucy urlò disperata e corse verso la croce di Mary. Con le mani nude prese a scavare nella terra, come per cercare il corpicino della piccola Mary. La terra però non accoglieva ancora nessun cadavere, al suo posto c’era un orsacchiotto, uno dei tanti peluche presenti nella stanza di Mary. Lucy continuò a scavare convulsamente, finché io e Derek non la fermammo. Quello era l’ultimo segno, l’ultimo messaggio di sangue che ci giungeva. Mary era stata presa e molto presto la stessa sorte sarebbe toccata a noi. Non potevo aspettare oltre, non avrei lasciato Mary a quell’ingiusto destino.
Rientrai nella casa per l’ultima volta, sicura che mai più avrei osato tornare lì dentro. Sul mio letto trovai un lungo abito nero e un pugnale. Adagiata lì, quell’arma sembrava chiedermi di essere impugnata, di essere bagnata con il sangue scuro di chi aveva preso Mary. Non mi soffermai sul perché quell’abito era lì, erano già state abbastanza le cose fuori dall’ordinario. Indossai il mio vestito scuro e legai il coltello alla vita con una striscia di tessuto pallido che avevo strappato da uno dei miei bei vestiti. Sulla lama del coltello era inciso un nome, “Lyvia S.” e compresi che dovevo essere io a concludere la storia della famiglia Rosenburg.
Mi fiondai fuori dalla casa e gli occhi di tutti furono su di me.
-Vado a prendere Mary.
Dissi incamminandomi verso la foresta davanti al cimitero, l’unico luogo dove nessuno di noi aveva osato addentrarsi.
-Lyvia, aspetta.
Le dita fredde di Francis mi avvolsero il polso e dal suo sguardo compresi che, se solo glielo avessi chiesto, sarebbe venuto con me. No, era il mio nome inciso su quel pugnale, dovevo essere io a rischiare.
-Mi dispiace.
Gli dissi, ma lui comprese le altre parole che sottintesi. Gli strinsi la mano e quel contatto bastò affinché lui capisse cosa provavo, cosa avevo sempre provato. Ricambiò la mia stretta e dopo così tanto tempo lessi ciò che mi aveva celato, ciò che entrambi avevamo nascosto.
Volevo scusarmi anche con Lucy, perché nel nostro muto accordo io dovevo proteggere Mary. I suoi occhi erano supplichevoli e con un cenno della testa le promisi che le avrei riportato sua cugina. Fissai i volti di tutti e quattordici, sforzandomi d’imprimerli nella mia memoria per sempre. Poi mi voltai e corsi verso la foresta, abbandonando Lyvia Sommers e trasformandomi in Lyvia S. 

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Capitolo 16
*** Sangue e Spettri – 1° capitolo ***


Non c’era nulla di più mostruoso sull’isola della foresta. Rami, foglie, sussurri e pietre si univano in modo indissolubile per creare il luogo casa di demoni e antichi mostri. Gli stessi alti alberi apparivano privati della loro naturalezza, erano solo stridenti gusci che contenevano malefici e odio. Non era rimasta linfa in quella natura privata della sua essenza. I rami erano artigli che strapparono e colpirono la mia pelle fragile. Quelle lunghe dita infernali tentavano di trascinarmi nel loro perverso incantesimo e fui costretta a tagliare con il pugnale molti di quei rami apparentemente morti, di quelle liane che serravano la strada. Gli alberi cominciarono poi a diramarsi, i rami furono meno restii a lasciarmi passare.
 Giunsi in una pianura circolare, immersa nella foresta sembrava un’oasi priva di alberi. Il mio sguardo vagò alla ricerca di Mary. Urlai il suo nome e avvertii una voce flebile provenire da uno dei pochi alberi a margine della pianura. La piccola Mary era lì, legata con corde spesse a un albero, con i capelli pieni di fronde e il vestitino arancione sporco di sangue e terra.
-Mary! Mary!
Corsi da lei e con il coltello la liberai da quelle corde che le stringevano le piccole membra.
-Chi ti ha portata qui, Mary? Cosa ti ha fatto?
Gli occhi chiari le si riempirono di lacrime, rigando il viso sporco.
-Io non lo so, mi ha presa e mi ha portata qui. I suoi occhi erano strani, come morti.
Farfugliò mentre la liberavo definitivamente dall’albero. La strinsi a me, rincuorata che fosse ancora viva.
-Avevamo tanta paura Mary, tanta paura.
Le dissi continuando a stringerla me. Una buca poco distante dall’albero a cui Mary era legata attirò la mia attenzione. Mi sentivo troppo esposta in quel luogo, eppure volevo scoprire cosa si trovava in quella profonda buca. Mi sporsi per osservare meglio e appena scorsi ciò che giaceva al suo interno, mi ritrassi spaventata. Due scheletri erano seppelliti lì, avvinghiati in un lungo abbraccio mortale.
-Molto commovente, vero?
Mi voltai non riconoscendo quella voce maligna. Un uomo alto, dai capelli castani corti e ondulati, con gli occhi penetranti scuri che ci fissavano, emerse dalla foresta. Strinsi a me Mary, incapace di proferire parola.
-Ti presento mio fratello Roger e sua moglie Deborah. Di certo hanno conosciuto tempi migliori, ma il tempo scorre anche per i morti.
-Chi sei?
Chiesi senza distogliere lo sguardo dal suo.
-Ecco, sono stato davvero scortese, io so tutto di voi, ma voi non sapete nulla di me. Mi chiamo Jonathan Rosenburg e se me lo permetterai, ti racconterò gli eventi che vi hanno condotto nella mia isola. Ti racconterò perché morirete.    

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Capitolo 17
*** Sangue e Spettri – 2° capitolo ***


-Io e mio fratello Roger possedevamo le due isole, lui quella di Everdove e io questa. Eravamo molto dissimili, solo una cosa, oltre al sangue, ci accomunava: l’amore per Deborah Delahay. Lei scelse me, eppure mio fratello non riuscì ad accettare che io avevo il suo cuore. Così decise di perdere con la forza bruta ciò che voleva, uccidendomi e scaraventando in questa stessa buca il mio cadavere. Sposò la mia Deborah e si appropriò della mia isola. Mai avrei potuto lasciare impunito un tale misfatto, un tale tradimento.
Tornai, affinché la mia anima potesse scagliare contro di loro la mia vendetta. La morte sorprese il mio odiato fratello e la mia infedele amata e io gli ricambiai il favore, lasciando i loro corpi dove lui aveva abbandonato il mio. Nonostante ciò, non mi fu possibile prendere anche i loro sedici figli. Mi ripromisi che ci sarei riuscito, avrei riportato i sedici figli Rosenburg su quest’isola. Mi furono concesse le vostre vite prim’ancora della vostra nascita, ho atteso pazientemente il tempo della mia rivincita. Avete i loro nomi, i loro caratteri, ma non possedete il loro sangue. Non potevo riuscire da solo nella mia impresa, così mi appropriai di una discendente di Dominic Rosenburg, Lola Rosenburg, ma per voi è nota come Millicent Taller. Lei vi ha condotti qui da me, lei mi ha portato la mia vendetta.
Non era rimasto più nulla di umano in Jonathan, neanche l’apparente aspetto poteva celare la sua vera natura. La paura riprese a lacerarmi e strinsi la mano piccola di Mary, pregando di svegliarmi da quell’incubo.
-Noi non siamo i figli dei Rosenburg, non ti abbiamo fatto nessun torto.
-Non capisci Lyvia? È una resa dei conti, non m’importa quanto differenti siete dai miei cari nipoti, voi incarnate la mia vendetta, i figli del mio odioso fratello. Non m’importa chi sarà a pagare.
Inorridita dalle sue parole indietreggiai, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi vitrei e animaleschi.
-Hai paura Lyvia?
Mi schernì.
-No, non sapendo che sei già stato battuto una volta.
Affermai cercando di celare il mio vero timore.
-Quella maledetta ragazza, continua a crearmi problemi anche da morta.
Il suo sguardo vagò per le fronde, quasi si fosse dimenticato della nostra presenza.
-Ho sempre amato profondamente quest’isola. Vedi la differenza fra le due? Questa non è stata contaminata, la mia isola è rimasta pura. Il mio spirito è rimasto qui, in questa foresta per così tanti lunghi anni.
Tornò a guardare me e Mary, con un macabro sorriso sul volto.
-Le somigli, a Lyvia Sophie Rosenburg, le somigli molto. La mia scaltra nipote è di sicuro più felice di me adesso, beata e serena. Immagino che sia scesa dal suo scarno fra gli angeli per parlarti.
Scoppiò a ridere e i capelli scuri gli coprirono la fronte.
-Io non sono lei.
Sapevo a chi si riferiva e comprendevo che il nome sul pugnale stretto alla mia vita non era il mio, bensì quello dell’angelica donna che mi era comparsa, che mi aveva chiesto di essere forte.
-Non fa molta differenza per me. 
-Siamo innocenti.
Gli occhi di Jonathan divennero buchi neri privi di qualsiasi emozione differente dall’odio. Mi guardava come una preda, per lui ero carne da macello, come se non avessi un’anima. Strinsi più forte Mary, pronta a fuggire se si fosse scagliato su di noi. 
-Nessuno è innocente. 

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Capitolo 18
*** Lyvia S. – 1° capitolo ***


Jonathan avanzò un passo verso di me e io arretrai, cercando di non distogliere lo sguardo dal suo.
-Dammi la piccola, ti potrei concedere una morte più rapida se farai come ti dico.
-Perché vuoi Mary?
Arrivai alla risposta prim’ancora che lui aprì bocca.
-Lei è l’unica fra voi che può vantare una parentela con i Rosenburg, con me. Rosin, il suo cognome. A quanto pare non a tutti i miei nipoti fece piacere tenere il loro vecchio cognome. 
Sfiorai con i polpastrelli la lama del pugnale che Lyvia Rosenburg mi aveva lasciato. Non poteva funzionare, un semplice colpo non lo avrebbe mai sconfitto. 
-Dammi Mary.
-Sai che non lo farò.
Jonathan rise e un’espressione grottesca si dipinse sul suo volto scarno.
-Non sarai mia nipote, ma dicerto sei fastidiosa e stupida come lei.
Non gli lasciai aggiungere altro, corsi via trascinando con me la piccola Mary. I rami e le foglie mi colpivano il viso, i miei muscoli protestavano, ma continuai a correre finché non giunsi nuovamente al cimitero. Non c’era più nessuno, erano tutti in cucina, rinchiusi con la loro paura. Lucy scorse me e Mary sconvolte e urlò prima di venire ad abbracciarci piangente.
-Dobbiamo andarcene, subito.
Francis mi raggiunse e strinse le mie mani fredde fra le sue.
-Cos’è successo?
Mi chiese Dominic mentre fissava il sangue rappreso sul vestito di Mary.
-L’uomo che ha ucciso i Rosenburg, è qui. Non è vivo, non so com’è possibile, non riesco a comprendere più nulla.
-Calma Lyvia.
Mi sussurrò Francis e riacquistai una momentanea serenità. Non era il tempo di parlare, di spiegare, ma solo di abbandonare vivi quell’isola. Controllai che ci fossimo tutti, prima di tornare a parlare.
-Loro sono riusciti a scappare, possiamo farlo anche noi. Dobbiamo andare in spiaggia, so che c’è una via di fuga da qualche parte.
Ero fiduciosa, sei figli dei Rosenburg erano fuggiti, perché noi no?
-Bene, andiamocene.
Disse Amy. Ci precipitammo in spiaggia, lontano dalla casa spettrale, consapevoli che Jonathan non avrebbe tardato a giungere da noi. La Taller poteva essere ovunque e per un attimo ebbi pena per lei, magari era stata obbligata a fare quello che aveva compiuto. Abbandonai quel pensiero, lei nostre vite non erano ancora in salvo. Cosa dovevo fare? Perché Lyvia S. non mi dava una risposta, lei avrebbe dovuto guidarmi, non avevo idea di dove andare. Avevamo ispezionato l’isola più volte, possibile che ci fosse un passaggio del quale non ci eravamo accorti?
-Eccoli qui, i sedici figli Rosenburg al completo.
La voce spettrale di Jonathan giunse a noi e cercammo di capire da dove provenisse.
-Non datevi troppa pena, comprendete che era il vostro destino giungere qui.
Comparve difronte a noi, con le braccia incrociate al petto, facendoci sussultare per lo spavento. Ci sorrise e squadrò ognuno di noi, orgoglioso della sua macabra opera.
-Cari nipoti, quanto tempo è passato!
-Lasciaci andare Jonathan, non commettere un simile errore.
Rise sentendo il mio tono quasi supplichevole. Francis appoggiò le mani sulle mie spalle, come per infondermi la sua fiducia.
-Perché ti ostini a non capire? Voi siete miei, siete sempre appartenuti a me. Siete le mie bambole, i miei giocattoli, la mia vendetta.
Era tempo di chiudere i giochi, di liberarsi di lui e di fuggire alle grinfie di quell’isola. Con tutto il coraggio che la mia anima serbava, mossi due passi verso di lui e ignorai il sussurro di Lucy che mi chiedeva di arretrare.
-Noi non siamo tuoi.
Balzai su di lui, sfilai il pugnale dalla mia vita e glielo conficcai nel petto. Urla e sangue nero sgorgarono da quel fantasma e le mie mani furono imbrattate di quel liquido scuro. Barcollai indietro dopo aver estratto il pugnale dalla sua carne disumana. Jonathan era a terra, mentre stringeva il petto ferito.
-Lyvia.
Mi voltai verso i miei compagni e la vidi, il fantasma della mia omonima in tutto il suo fulgore.
-Non lo terrà a bada per molto.
Alzò le braccia, come per stringerci tutti nel suo abbracci eterno. Aveva il volto serio e intriso di preoccupazione.
-La stanza, dovete andare nella stanza. C’è un passaggio sotto il pianoforte, vi condurrà all’isola di Everdove, lontano da lui.
Annuii e le rivolsi un breve sorriso di ringraziamento.
-Liberatevi di questa maledizione, segnate la fine di Jonathan Rosenburg.
Lyvia S. mi rivolse un ultimo sguardo carico di speranza, poi la sua figura eterea scomparve. Non ci fu bisogno di parlare, come uno stormo corremmo verso la casa, verso quel luogo che ci aveva rinchiuso per diversi giorni. Mi voltai verso Jonathan, che lentamente stava rimarginando lo squarcio sul petto. Afferrai la mano di Francis e ci scambiammo un occhiata d’intesa. La fine era vicina.  

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Capitolo 19
*** Lyvia S. – 2° capitolo ***


Giungemmo difronte alla porta della stanza del tempo e compresi che solo io potevo aprire l’entrata. Con riluttanza, lascia che la punta acuminata mi ferisse il polpastrello, poi aprii la porta e tutti entrammo nella terrificante stanza. Era rimasta invariata, le tende squarciate erano ancora a mezz’aria e la polvere ricopriva ogni cosa. Lascia che le mie dita sfiorassero il pianoforte sul quale la mia omonoma aveva suonato e un brivido percorse la mia schiena. Guardai attentamente il pavimento in pietra e notai la nostra via di fuga, l’avevamo sotto gli occhi e non l’abbiamo mai scorta.
-Spostiamo il pianoforte!                
Esclamai e in breve l’imponente strumento scoprì una botola, un passaggio segreto che conduceva lontano dall’isola, da Jonathan. Derek afferrò la maniglia in ferro e scoprì un lungo cunicolo che scendeva per chissà quanti metri sottoterra. Una stretta scala in pietra era scavata fra la roccia che componeva il cunicolo.
-Allora, chi è così coraggioso da scendere per prima?
Chiese Derek cercando di capire quanto fosse profonda la botola. Non avevamo nulla con noi che potesse illuminare il nostro passaggio, la nostra fuga sarebbe stata ardua.
-Oh avanti, siete tutti così codardi?
Si stupì Mya, poi si calò lentamente, scendendo i pioli di quella grezza e scivolosa scala. Dopo di lei andò Trevor, poi Dary che stringeva teneramente la mano al muscoloso Tyler e andò avanti finché non restammo io e Francis.
-Wissol, dimmi che hai ancora una delle tue candele.
Lui mi sorrise e appoggiò le mani sulle tasche dei pantaloni scuri.
-Ahimè, candele non ne ho, però ti farà piacere sapere che ho con me un accendino.
-Perché un accendino?
-Per lo stesso motivo delle candele, non si può mai sapere.
Risi brevemente, poi riportai la mia attenzione sulla botola. Mi calai anche io nell’oscurità e Francis mi seguì, chiudendo l’apertura. Quando l’unica forte di luce scomparve, mi sentii una preda perfetta per Jonathan. Ero impaurita, tremante per il freddo che le pietre emanavano, con gli abiti e la pelle macchiati di sangue nero e un dolore lancinante alle tempie. Scesi con cautela, ricordando a me stessa che ro viva, eravamo ancora tutti vivi. Quando poggiammo i piedi sul pavimento della grotta, Francis con uno schiocco azionò l’accendino e vedemmo tutti dove ci trovavamo, ma non sapevamo cosa ci avrebbe atteso.
Francis tenne alta la breve lingua di fuoco emanata dal suo accendino, guidandoci in quella stretta galleria in pietra.
-Se riesce a scovarci?
Sussurrò Lily stringendo in una morsa il braccio di Michael.
-Beh, allora è stato un piacere conoscere tutti voi.
Le rispose senza nessuna mozione nella voce Eddy.
-Ci raggiungerà, sento già il suo fiato su di noi.
Disse invece Molly, con la testa china  e l’abito verde smeraldo sporco di terra.
-Potete smetterla di parlare di questo e stare tutti zitti?
Sorrisi alle parole di Amy, per la prima volta non era dalla bocca di Barbie che uscivano lamenti e parole insofferenti. Restammo tutti in silenzio, anche se erano tanti i pensieri che reclamavano di essere espressi, tante le domande che disperavano per una risposta. Non contavano le parole, l’unica cosa a essere importante era scappare dalle grinfie malefiche di Jonathan.
-Per quanti metri continuerà ancora questo tunnel?
-Non ne ho idea.
Risposi alla domanda di Dary, non mi ero curata di quanto tempo sarebbe stato necessario per raggiungere l’altra isola.
-Miei cari nipoti, non datevi troppi supplizi per scappare da me.
La voce luttuosa di Jonathan giunse a noi e tuonò fra le rocce della grotta. Ci arrestammo di colpo, ma non era dietro di noi, né potevamo in alcun modo vederlo.
-Andiamo avanti.
Disse con tono deciso Tyler e tutti continuammo a camminare. Sussurri lugubri vagavano nell’aria, chiedevano di essere ascoltati e facemmo del nostro meglio per ignorare quali orrori il fantasma bisbigliasse. Tralasciammo la voce malevola di Jonathan, finché una lingua di fuoco non bloccò il nostro passaggio. Amy urlo e tutti ci voltammo verso di lei. Jonathan aveva le mani sulla sua gola e Amy cercava di divincolarsi dalla sua stretta. Avanzai di scatto parandomi davanti ai miei compagni.
-Lasciala Jonathan.
Gli intimai, come se potesse avere paura di sedici giovani mortali.  La stretta di Jonathan fece fluire dal viso di Amy il suo colore roseo e la lotta ingaggiata contro di lui non produceva nessun risultato. Non avrei mai potuto vedere Amy morire sotto i nostri occhi, con tutti noi incapaci di fare qualcosa. Non m curai neanche di afferrare il coltello, quando per la seconda volta mi avventai su di lui. Allentò la presa su Amy e senza la minima grazia tipica della regina della scuola, gli assestò un calcio nello stomaco, facendolo piegare in due. Tirai fuori il coltello stringendo con una mano i polsi ghiacciati di Jonathan.
-Non puoi uccidermi con il pugnale di Lyvia, io sono già morto.
Disse prima di scoppiare in una risata priva di gioia. Ignorando le sue parole, gli incisi il collo dal quale sgorgò un fiume di sangue, ma non lo attraversò il minimo dolore. Poi le sue mani si strinsero alle mie spalle e un gelo primordiale mi attraversò, sembrò giungere fino al mio cuore, gelare il mio sangue.
-Basta giocare, adesso è tempo di chiudere i giochi.   

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Capitolo 20
*** Lyvia S. – 3° capitolo ***


Le mani inumane di Jonathan serravano la mia gola e i miei polsi, ero stretta dalla sua morsa e liberarmene sembrava impossibile. Fiammelle luminose scintillavano nei suoi occhi scuri senza fine e posi la mia mano sopra la sua, come per respingerlo. Potevo sentire la voce di Lyvia Rosenburg che sussurrava al mio orecchio, mi pregava di resistere e di avere la meglio. Ero immobile, sentivo i miei polmoni svuotarsi e il mio corpo reclamare ossigeno, ma ero incapace di combattere contro quel mostro. Il pugnale era caduto a terra e giaceva troppo lontano da me. Che cosa mai avrei potuto fare contro di lui? La risposta fu semplice, con le poche forze che mi erano rimaste, mi piegai in avanti, finché non sentii l’irregolare respiro di Jonathan sul mio collo, poi premetti il palmo della mia mano contro il suo, affidandomi alla consapevolezza che noi eravamo innocenti, che non meritavamo quella vendetta. Jonathan si ritrasse come scottato, mi guardò sconvolto e poi fissò la sua mano, annerita dove io l’avevo toccata.
-Che cosa hai fatto?
-Dovresti riflettere su ciò che hai fatto tu.
Sibilò Amy venendo accanto a me. Il mio respiro era affannato, la pelle sul mio collo gridava di dolore ed io tentai di alzarmi dal pavimento in roccia della grotta. Jonathan scoccò un’ultima occhiata a tutti noi, poi scomparve nel buio della grotta. Francis riaccese il suo accendino e venne verso di me, stringendomi la vita con il braccio.
-È finita?
Sussurrò fra i miei capelli e io osservai i volti di tutti noi sedici.
-Non è finita finché non usciamo da qui.
Nessuno fiatò. Ci stringemmo, cercando d’infonderci forza avvicenda, continuando il nostro cammino. Il silenzio era calato, un silenzio assordante. Solo il rumore del fuoco che divampa poteva scacciare via quello stato di presunta salvezza. Alte fiamme ci circondarono, formando un anello di fuoco che ci teneva prigionieri. Jonathan emerse dalle fiamme, che lambirono il suo viso senza produrre il minimo danno. Il calore insopportabile ci attanagliava e la mia gola secca bruciava.
-Non avresti dovuto farlo Lyvia, potevi lasciarmi compiere la mia vendetta. Dovreste imparare a lasciar andare, a cedere.
Fece un passo verso di noi e l’anello di fuoco avanzò, sfrigolando. La mia pelle soffriva, sentendo le lingue di fuoco pronte a sciogliere la nostra carne.
-Non imparate mai, cari nipoti.
Il fuoco avanzava e sentii Mary piangere. Francis si strinse a me, facendo aderire il suo corpo al mio e tutti ci legammo, afferrandoci le mani e pregando all’unisono. La fine. Era quella la fine?
-Oh Deborah, perché ti sei congiunta con il mio assassino?
Mormorò Jonathan e fissò il mio volto, come se fossi io l’amante che lo aveva tradito dopo la morte. Sentivo la mano immortale di Lyvia S. premere sulla mia spalla, guidare la mia mano verso il petto di Jonathan. Le mie dita si strinsero accanto al suo cuore, immobile. Artigliai le dita e le mie falangi affondarono nella carne morta di Jonathan. Un sibilo di dolore uscì dalle sue labbra e circondò il mio polso sottile con le sue dita pallide. Strinsi e afferrai il suo muscolo immobile, finché non estrassi quello che un tempo era stato il suo cuore. Il suo organo annerito e morto era intriso di sangue scuro e giaceva macabro nel mio palmo. Jonathan fissava i miei occhi, improvvisamente privato di agire, di ribellarsi. Le fiamme strinsero ancora, pronte a mangiare i nostri corpi.
-Perché sei divenuto tu un assassino?
La mia domanda trovò risposta nelle sue iridi: odio. Gettai il suo cuore alle stesse fiamme che lui aveva prodotto e un ultimo urlo disumano riempì l’aria. Le fiamme si arrestarono e ci ritrovammo con i vestiti bruciacchiati, l’animo stravolto e le lacrime agli occhi. Mi voltai verso i miei compagni, con le mani impregnate di sangue viscido. Eravamo vivi.
-È finita. 

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Capitolo 21
*** Destinati - Epilogo ***


Tutto accadde molto in fretta dopo che Jonathan fu sconfitto e rispedito alle sue fiamme eterne. Camille Belle ci spiegò di come raggiungere l’isola fosse stato impossibile e della paura consistente che gli abitanti provavano nei confronti della costa gemella alla loro. Tornammo nella nostra scuola, ripromettendoci di non raccontare che una parte della vera storia. Chi avrebbe mai creduto a sedici giovani che borbottavano di fantasmi? Fingere fu semplice, neanche noi volevamo pensare all’assurdità di quel luogo sanguinoso.
Io e pochi altri tornammo sull’isola due anni dopo. La casa era piombata nella rovina. Senza l’anima maledetta di Jonathan, il tempo era tornato a scorrere prepotentemente. Le mura fatiscenti conservavano ancora le scritte di sangue, ma la stanza del tempo sembrava non essere mai esistita. Della Taller non rimase traccia, io e Amy ritrovammo solo uno dei suoi abiti grigi sul pavimento della cucina, chiazzato di sangue. Della sua fine non ci fui dato sapere nulla. Prima di abbandonare per sempre quel luogo, entrai nella mia camera e presi una delle collane della mia omonima che ci aveva salvati. Non fui stupita di trovare sul letto impolverato il pugnale che avevo usato contro Jonathan. Promisi di non togliere mai più la collana con l’acquamarina di Lyvia S., mi avrebbe protetta e mi avrebbe ricordato ciò che era avvenuto in quei giorni lugubri.
Gli avvenimenti portarono noi sedici a restare uniti. A distanza di oltre dieci anni, Amy Morgans, che adesso è una talentuosa e ricca donna in carriera, è divenuta una delle mie migliori amiche. Chi l’avrebbe mai detto che io e Barbie saremmo state legate per sempre? Nonostante i numerosi ragazzi che l’hanno sempre desiderata, Amy ha sposato Dominic e lei non potrebbe esserne più felice.
 Suo fratello Trevor lavora presso l’azienda della sua famiglia ed è contento della sua vita.
Alla fine, la mia cara amica Lucy si è felicemente sposata con quel simpatico di Derek.
Per quanto riguarda Lily e Michael, fra loro non durò molto. La mia cara Lily adesso vive in Europa e divide il suo tempo tra fare la modella e a creare lei stessa capi di alta moda.
Molly, la cattiva e crudele Molly, adesso è un medico e siamo diventate buone amiche.
Dary e Tyler, la secchiona e il palestrato, alla fine non si sono più separati e le loro carriere tanto diverse hanno creato una coppia improbabile ma solida e felice.
Mya è divenuta una donna indipendente e un brillante capo d’azienda, ma conserva hobby stravaganti e una passione per gli sport estremi.
Auria ha coronato il suo sogno di riuscire in medicina e adesso coltiva la voglia d’immergersi nel mondo del teatro. A quanto pare, adesso che è un brillante medico, l’arte la emoziona di più delle siringhe e del bisturi.
Mary, la mia piccola Mary, ha sposato Eddy e abitano a pochi isolati dalla mia casa. Inutile dire che io, Mary, Lucy e Amy spesso passiamo del tempo insieme e che gli anni hanno solo consolidato la nostra amicizia.
Rimaniamo solo io e Francis, che abbiamo alimentato il nostro amore e che adesso ci ritroviamo con un anello al dito e la felicità nel cuore. Entrambi abbiamo dedicato la nostra vita ai libri e alla società. Abbiamo tre splendidi bambini e ho chiamato mia figlia Sophie, in onore di Lyvia Rosenburg e di tutto ciò che ha fatto per noi. Cerchiamo sempre di sfruttare la seconda possibilità che ci è stata concessa, non importa per quale scopo siamo nati. Eravamo destinati a ritrovarci su quell’isola, adesso siamo destinati  vivere al massimo gli anni che abbiamo rischiato di perdere. È questo che insegno ai miei figli, dico loro di lottare, di amare e di fare del loro meglio per non essere vittime di schemi e stereotipi. La speranza e la fiducia hanno tenuto noi sedici in vita.
La libertà è ciò per cui continuo a battermi. Il destino ha intrappolato noi, adesso mi chiedo se mai avremmo potuto sfuggirgli.
Siamo destinati a essere ciò che siamo, ma sono le nostre scelte che ci rendono liberi.  

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