Sorella Morte

di Lady Mnemosyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dialogo con la Morte ***
Capitolo 2: *** Come nacque la Morte ***



Capitolo 1
*** Dialogo con la Morte ***


Dialogo con la Morte

Ha bussato la Morte alla mia porta
nel mezzo di una notte senza luna:
ogni cosa taceva nel silenzio,
aspettando quell’ospite maestoso.
Senza timore io le aprii la porta
e sorridendo la invitai a entrare.
Senza parlare lei si fece avanti,
nascosto il volto da un nero cappuccio.
‒ Buonasera signora ‒ io le dissi
‒ Era da tempo ormai che vi aspettavo.‒
Si guarda intorno circospetta e dice:
‒ Ti andrebbe di viaggiare un po’ con me? ‒
Così si volta e tende la sua mano
ed io la stringo, senza alcun timore.

E mi portò a vedere le sue terre,
le distese ghiacciate, i campi secchi,
le dune arroventate dei deserti,
le falesie taglienti ed i dirupi,
le punte adamantine in cima ai monti,
le fauci rosso fuoco dei vulcani,
le foreste riarse e incenerite.
Infine mi portò su una scogliera:
di fronte la distesa ampia del mare,
mentre a picco vi si tuffava il sole.
All’improvviso mi iniziò a parlare:
‒ Bambina mia, perché tu vuoi fuggire
da questa vita appena cominciata
e correre a cercarmi ad ogni costo
ancora vuota e priva di esperienza? ‒
La sua voce era calda, confortante,
e quando mi voltai verso di lei
la trovai priva del suo velo nero:
i bei capelli stretti in una crocchia,
la pelle candida, le labbra rosse;
per certo avresti detto che era un angelo,
se non avesse avuto gli occhi stanchi
e quella mano fredda come il ghiaccio.
‒ Perché ti vuoi sottrarre a questo mondo,
che quasi tutto ha da offrirti ancora?
Perché vuoi rinunciare a questa vita? ‒
‒ Come posso dar fede a ciò che dici
quando, ogni volta che ci provo e tento,
la Fortuna mi prende a schiaffi e ride
mentre cado, sconfitta dai suoi colpi?
Ci provo, mi rialzo ad ogni pugno,
ma arriva quel momento in cui si perde,
non già la forza, ma proprio la voglia
di lottare contro i mulini a vento. ‒
‒ Qualcuno ti ha mai detto oppure ha scritto
che è facile la vita, e senza affanni?
Dimmi soltanto uno che conosci
che abbia vissuto senza mai un dolore.
Ti credi di esser l’unica a soffrire?
Pensi che in questo mondo non ci siano
altre persone che con te patiscono?
Se vuoi la verità, bambina mia,
ciò che senti non si può dir dolore
se confrontato a tanti mali altrui. ‒
‒ Lo so bene di non soffrire affatto
rispetto a tanta gente in tutto il mondo
che ha problemi veri da affrontare.
Ma tu lasciami dire almeno questo,
che è lecito, dopo tante sconfitte,
prendere a disperare di un finale
che si pensava, non dico felice,
ma in grado almeno di portare gioia. ‒
‒ Preferiresti, dunque, porre fine
ad ogni prospettiva? Al tuo futuro?
Non scrivere più una sola parola
e gettar via l’inchiostro che è rimasto?
Il punto è proprio questo, bimba mia:
devi capire e ricordarti sempre
che per pensare a me ci sarà tempo,
ma quando, un giorno, io ti porterò
da questo mondo all’altro, mai più nulla
potrai aggiungere al libro mortale
in cui è raccolta tutta la tua vita:
nessuna pagina, nessuna riga. ‒
‒ Se sono queste le parole adatte,
scelte per me, per il mio libro-vita,
allora non ne voglio neanche una:
sono già sufficienti le battute
con cui la Sorte mi ha schernito gaia.
Che io non sia più presa in giro invano! ‒

A questo punto la Morte, al mio fianco,
distolse via da me i suoi begli occhi
e un sospiro profondo e molto amaro
si mosse dalle sue labbra sanguigne:
‒ Tu proprio non mi sai ascoltare ‒ disse
‒ Tu non ti rendi conto delle pietre
preziose che ti trovi intorno, gemme
nascoste in piena luce ai tuoi occhi,
che tuttavia non le sanno vedere.
Adesso guardami negli occhi e dimmi
se esiste un colore più bello, splendido,
dell’azzurro abbagliante che ha il cielo
nei pomeriggi tersi dell’estate;
se esiste uno spettacolo più dolce
delle stelle che beate sorridono
danzando intorno al viso della luna;
se esiste un regalo più prezioso
di un sorriso spontaneo, sincero,
che sia di un amico cui tu tieni
o di un passante che incroci per caso
e a lui, che si crede non visto, vedi
brillare in un lampo tutto il viso.
Saresti pronta a rinunciare a questo?‒
Rivolgo gli occhi a terra, intrappolata
davanti all’evidenza di parole
che mi sbattono in faccia ogni superba
asserzione di vuoto titanismo.
Lei mi prende la mano, mi alza il viso
e sembra per un attimo che gli occhi
risplendano del bagliore di un tempo:
‒ La vita non è mai soltanto dolce,
è fatta di batoste e di vittorie
e nessuno potrà mai dirla facile.
Ma vale sempre la pena di vivere
per le piccole ricchezze di ogni giorno,
dai bambini che giocano nel parco
al gatto che si struscia alle tue gambe.
Come ti ho detto prima, sappi sempre
che per pensare a me ci sarà tempo. ‒

Tacevo di fronte a tanta saggezza,
vergognandomi delle mie parole,
finché la Morte non mi disse: ‒ Andiamo,
è ora che ti porti a casa ‒ e prese
la mia mano nella sua, gelata.
Mi ricondusse a casa nel silenzio
dei miei pensieri sconvolti e mutati
e solo quando fummo sulla soglia
presi il coraggio di parlarle ancora:
‒ Grazie ‒ le dissi in un breve sussurro.
Lei mi guardò, senza dire parola,
con gli occhi belli ritornati stanchi.
Sollevò nuovamente il suo cappuccio:
‒ Ci rivedremo ancora ‒ disse solo,
scomparendo nel buio della notte.

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Capitolo 2
*** Come nacque la Morte ***


Come nacque la Morte

Ci fu un’epoca, tanto tempo fa che neppure gli astri del cielo ne conservano memoria, in cui esseri umani e divinità vivevano insieme in assoluta armonia. Le due stirpi condividevano la Terra e vi fondavano villaggi, che lentamente crescevano in città, prosperando in pace e concordia. L’unica differenza che distingueva gli uni dagli altri consisteva nei poteri di cui le divinità erano dotate per loro stessa natura, cosa che, tuttavia, non impediva che uomini e dei trascorressero serenamente le loro vite infinite. Sì: ci fu un tempo in cui noi eravamo immortali, un tempo in cui la morte non esisteva. Questa è la storia di come la Morte nacque.
In uno dei tanti villaggi che punteggiavano la Terra viveva una fanciulla di nome Speranza. Non era la più bella della regione, né era famosa per qualche dote particolare e non era neppure una dea. Era un fanciulla come tante se ne vedono anche oggi, gioiosa e con una vita infinita davanti a sé. C’era una fanciulla e c’era un giovane, Milo, il primogenito del mercante più ricco del villaggio. I due si conobbero per Caso, come sempre accade, in una mattina dei primi giorni d’autunno. Il ragazzo sostituiva il padre al negozio quando Speranza entrò spintonata dal vento. Subito Milo le si fece incontro sorridente e cominciò a mostrarle la merce che più ispirava la fanciulla, srotolando quella stoffa, portando l’altra vicino alla finestra perché se ne apprezzasse al meglio il colore e così via, finché presto l’interesse per le stoffe non divenne un mero pretesto per continuare a parlarsi l’un l’altra. Speranza cominciò a passare dal negozio sempre più spesso e i due giovani presero a vedersi ogni giorno. Passeggiavano lungo il fiume o per i sentieri del bosco lì vicino, sedevano abbracciati sulle colline intorno al villaggio, a guardare il cielo infuocarsi dei colori del tramonto e a contare le stelle che lentamente si accendevano nella volta del cielo.
Nel frattempo gli affari del padre di Milo non facevano che migliorare e ampliarsi, di pari passo, purtroppo, con la sua brama di denaro e di prestigio. Decise che suo figlio avrebbe sposato la pupilla di una famiglia aristocratica, ma quando comunicò a Milo la bella notizia, la reazione che suscitò in lui fu ben diversa da quella che aveva prospettato nei suoi piani. Milo infatti non voleva saperne di sposare una perfetta sconosciuta e, man mano che la discussione proseguiva, i toni di entrambi si fecero sempre più aggressivi e rabbiosi, così che il giovane si lasciò sfuggire il nome di Speranza. Suo padre fu completamente accecato dall’ira: Speranza, un’insulsa ragazzina qualunque, ostacolava i suoi progetti, cui si era dedicato con tanta pazienza e accortezza? Neanche per idea. Non perse tempo e il mattino seguente, all’oscuro del figlio, si recò a casa della fanciulla. Il suo piano era semplice: pagare alla piccola guastafeste una cifra esorbitante per eclissarsi dalla vita di Milo, in modo che questi fosse più disposto alle nozze che aveva pianificato. Ma Speranza fu irremovibile: non avrebbe mai accettato nulla del genere né tanto meno era disposta a tradire Milo, specialmente per denaro. Questo tuttavia non bastò a far demordere il mercante dal suo proposito: trovandosi la porta sbattuta in faccia, entrò dalla finestra. Si mise in contatto in segreto con i genitori della fanciulla, cui fece una proposta ancora più spregevole di quella che aveva fatto a Speranza: propose loro di vendere la loro stessa figlia. Bisogna dire che la situazione familiare di Speranza era piuttosto tragica: aveva altre cinque sorelle e la sussistenza dell’intera famiglia dipendeva unicamente da un minuscolo fazzoletto di terra, tanto sfruttato ormai da essere diventato quasi sterile. Barcollavano sul limite dell’indigenza e i genitori erano disperati per il futuro delle loro figlie. Fu così che, dopo lungo tormentarsi e litigare, decisero di perdere una figlia per salvare tutte le altre.
Una mattina il perfido mercante si presentò a casa di Speranza con una sacca sonante di monete e ne uscì trascinando via la povera fanciulla sotto lo sguardo impotente e truce dei genitori. Completamente all’oscuro di Milo, la buttò su un carro e si diresse di gran carriera verso il porto più vicino. Speranza piangeva disperata senza capire del tutto cosa stesse succedendo, mentre cercava di urlare nonostante lo straccio che le riempiva la bocca. Una volta giunti al porto, non appena il carro si fu fermato, la fanciulla tentò di saltare a terra e fuggire e continuò a tentare di scappare per tutto il tempo, finché non si trovò chiusa nella stiva di una nave diretta chissà dove.
Così iniziò il triste viaggio di Speranza, di porto in porto, di palazzo in palazzo. Fu venduta come schiava ad un proprietario terriero presso il quale si spaccò la schiena di lavoro; poi un giorno un commerciante di spezie se ne invaghì e la comprò per portarla nella sua ricca casa, dove divenne prima danzatrice e successivamente cortigiana, la preferita del padrone. Quando questi perse una scommessa, Speranza passò nelle mani di un aristocratico, che ne fece la cortigiana più famosa della regione, attrazione principale dei banchetti che teneva nel suo palazzo. Una notte, durante una di queste sontuose feste, un gruppo di uomini tese un agguato al nobile, approfittando del fatto che tutti gli invitati erano ubriachi, e saccheggiò la casa da cima a fondo, portando via persino le donne. Nella confusione qualcuna di loro riuscì a mettersi in salvo e tra queste c’era anche Speranza.
Corse a perdifiato lontano dalla casa e si fece strada nella foresta che si apriva subito oltre. Continuò a correre senza fermarsi, senza voltarsi indietro, finché non ebbe più aria nei polmoni e le gambe non cedettero. Cadde a terra e scoppiò a piangere, buttando fuori tutte le lacrime che aveva trattenuto in quegli anni. Era esausta, ma non per la corsa: per tutto il resto della sua misera vita e la sua disperazione eruppe dal suo cuore in alte grida ormai del tutto prive di ogni parvenza di umanità. Un dio emerse tra gli alberi, richiamato da quelle terribili urla, e si fermò in piedi di fronte alla fanciulla, che ora singhiozzava con il viso tra le mani:
– Calmati, mia cara, – disse con dolcezza, – ora sei al sicuro. –
Speranza sollevò il capo di scatto verso la voce che aveva parlato. Il dio la guardò sorridendo e riprese: – Non devi più preoccuparti: ora sei libera. –
La fanciulla scoppiò in una amara e gelida risata, al che il dio si rabbuiò perplesso.
– Libera? – chiese con un ghigno a deformarle il viso, – Io non sarò mai libera dopo quello che ho passato. –
Il dio sospirò e si sedette di fronte a lei, delicatamente le accarezzò la guancia; Speranza avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto, ma era troppo stanca per farlo.
– Vedrai che andrà bene, troverai un modo. – riprese il dio con il suo tono calmo. Speranza si voltò di scatto, lontano dalla sua carezza: – Lasciami in pace, – ringhiò, – Non mi servono le tue belle parole: sono inutili. –
– Allora cosa ti serve? – chiese il dio cercando gli occhi della fanciulla, che rispose stancamente: – Un modo per non soffrire più. –
Il dio emise un altro triste sospiro, poi disse: – Io posso offrirti riparo sotto il mio tetto: avrai di che mangiare e dove dormire, potrai riposarti e pensare a ciò che vuoi fare. Sarai un ospite gradito nella mia casa. –
Speranza scosse la testa: – I miei incubi saranno sempre con me, il mio passato infesterà sempre ogni mia notte: non troverei pace neanche nel palazzo più ricco del mondo con centinaia di servitori ai miei ordini. –
– Allora cosa posso fare per aiutarti? – chiese il dio appoggiando la sua mano su quella di lei. La fanciulla si voltò e lo guardò dritto negli occhi:
– Riprenditi la mia vita. –
Il dio indietreggiò spaventato, fissandola senza credere a ciò che aveva udito.
– Ma… come puoi dire una cosa del genere? – chiese con voce tremante. Speranza rise: – Sei un dio, no? Dovresti conoscere cosa ho passato, quante sevizie mi ha inflitto il destino. E ti chiedi perché rifiuto questa vita? –
– Sì! – esclamò il dio, – Tu puoi ricominciare, puoi ancora avere una vita felice: hai ancora tutta l’eternità! –
– È proprio questo il punto: io non voglio avere un secondo di più, basta. Sono esausta di tutto questo: voglio solo non essere più. –
– E vorresti buttare via tutte le possibilità senza nemmeno tentare?! – ribatté incredulo il dio. Fu Speranza a sospirare questa volta: – Io non voglio tentare, è qui che ti sbagli: non mi interessa più provarci ancora. –
Il dio continuava a guardarla esterrefatto, poi sbatté le palpebre e si mise in piedi: – No, non posso. –
– Come sarebbe a dire “non posso”?! Sei un dio! – esclamò Speranza indignata.
– Non posso privarti deliberatamente della tua vita, è assurdo! –
– Perché? Sono io a chiedertelo! –
Ormai i due gridavano a gran voce l’uno contro l’altra.
– Ma non capisci?! Mi stai chiedendo di non esistere! Mi stai chiedendo il nulla eterno, te ne rendi conto?! –
Speranza tornò a guardarlo dritto negli occhi, seria: – È esattamente quello che voglio. –
A questo punto il dio perse definitivamente le staffe: – Quindi tu rifiuti la Vita, il dono più grande che ti è stato dato? Bene! Sia come vuoi. Tu da oggi non sarai più Speranza ma Morte. Dove prima portavi il sorriso, porterai pianto e dolore. Priverai della vita i tuoi simili, tu che per prima ti sei voluta sbarazzare della tua. Io qui ti assegno questo compito e, poiché alla morte seguirà sempre la vita, il tuo incarico durerà in eterno. – E dopo queste parole, scomparve nel nulla.
Non appena le altre divinità vennero a sapere quanto era accaduto, abbandonarono inorridite città e villaggi e si ritirarono a vivere lontano dagli esseri umani, in luoghi appartati e segreti, finché non finirono per dimenticarsi gli uni degli altri. Speranza, mutatasi in Morte, pose fine in breve tempo a quell’epoca infinita e da lei gli uomini impararono a scandire il tempo. Speranza, che non era riuscita ad ottenere quello che avrebbe voluto, ben presto si rese conto di quale grande errore aveva commesso. Per cercare di rimediare, si adoperò quanto più poté per risultare odiosa e detestabile agli uomini, in modo da farsi fuggire e da non essere cercata e fece voto solenne di dissuadere dal togliersi la vita chiunque avesse questo proposito, missione che si rivelò sempre più difficile man mano che gli anni passavano.

Così la Morte vaga per il mondo a dispensare quel nulla eterno, che lei aveva così ardentemente desiderato e non aveva ottenuto, a persone che non lo desiderano, così, dalla Speranza distrutta di una fanciulla immortale, nacque la Morte.

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