Nothing Safe Is Worth The Drive

di FrancescaPotter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo Venti. ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno. ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue. ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré. ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiquattro. ***
Capitolo 25: *** Capitolo Venticinque. ***
Capitolo 26: *** Epilogo - Parte 1. ***
Capitolo 27: *** Epilogo - Parte 2. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno. ***


Disclaimer: questa fanfiction nasce da una mattina di sclero mia e di Giada. Abbiamo iniziato a pensare ai possibili figli delle coppie principali di Shadowhunters (in particolare Clace, Jemma e Sizzy) e la situazione ci è leggermente sfuggita di mano, visto che ho scritto più di dodici capitoli. Non ho ancora finito la storia, ma direi che dodici capitoli sono una buonissima base per iniziare a pubblicare. Devo fare un paio di premesse:
  • Ci sono spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows. Ripeto: ci sono SPOILER di Lord of Shadows, e anche delle Cronache dell’Accademia di Shadowhunters.
  • Tuttavia non ci sono spoiler né di The Last Hours, né di Queen of Air and Darkness (ultimo libro della trilogia di The Dark Artifices) perché NON SONO ANCORA USCITI (lo scrivo in maiuscolo non perché sto urlando, ma perché così si legge bene, ahah).
  • Visto che la storyline di Julian ed Emma, e dei Blackthorn in generale, non si è ancora conclusa, mi sono inventata delle cose, come ad esempio il fatto che non siano più parabatai o il fatto che Mark stia con la persona con cui lo shippo io e non con l’altra. Non so cosa succederà, me lo sono inventata di sana pianta.
  • Pubblicherò ogni venerdì.
  • Se state leggendo la Rose-Scorpius, vi chiedo scusa. Avete ragione: faccio proprio schifo. Se avete fede in me, vi prometto che mancano solo un paio di capitoli e che prima o poi la finirò, fosse l’ultima cosa che faccio e dovesse accadere tra anni. La finirò, Biondaccio e Padella meritano una conclusione. Glielo devo.
  • Uno shoutout a Giada che mi ha corretto tutti gli errori di battitura e mi ha messo tutte le virgolette come dio comanda. È una santa e si merita solo cuori e cioccolatini. <3
Nulla, ecco qua il primo capitolo. Buona lettura e spero che vi piaccia.
 
Nothing Safe Is Worth The Drive
 
Parte Prima

Capitolo Uno
 
George Lovelace sentì il pugnale sfrecciargli accanto e sfiorargli il viso. Si voltò e vide l’arma conficcata nel torace di un demone Mantide che lo stava per attaccare alle spalle.
«Ehi!» esclamò, guardando il demone dissolversi e ritornare alla sua dimensione originaria. «Mi hai quasi beccato in faccia!».
Si girò e trovò due occhi verdi e un sorriso compiaciuto che lo osservavano. «Io non sbaglio mai, dovresti saperlo» disse Will Herondale, il suo parabatai, rigirandosi un coltello tra le mani. «E non c’è di che, comunque. Se non lo avessi colpito, ti avrebbe staccato la testa».
«Meglio una testa staccata che il mio viso rovinato» commentò distrattamente George mentre scrutava il vagone arrugginito davanti a sé.
Quel giorno Will e George stavano pattugliando i tunnel abbandonati della metropolitana di New York e si erano imbattuti in un nido di demoni Mantide che avevano dato loro del filo da torcere.    
George sentì Will borbottare alle sue spalle, ma non gli diede retta. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione. Alzò la stregaluce così da illuminare meglio il tunnel, e vide delle figure scure allontanarsi di corsa.
«Will». Non ebbe bisogno di aggiungere altro, perché sapeva che il suo parabatai aveva capito. Si rivolsero uno sguardo d’intesa e partirono all’inseguimento.
George sentì l’adrenalina che anticipava una battaglia scorrergli nelle vene, e il suo arco e frecce che gli sbattevano sulla schiena in modo familiare. Si allenava con l’arco da quando aveva memoria: era sempre stata la sua arma preferita. Non gli dispiacevano neppure le spade, ma con quelle in mano non si sentiva a suo agio come con una freccia incoccata sull’arco.
Arrivarono a un bivio e scelsero di curvare a sinistra, senza aver bisogno di consultarsi; George sapeva che quella era la direzione che avrebbe preso Will, lo sapeva dal modo in cui aveva inclinato il capo, dal modo in cui stava correndo. Lo sentiva lì, nella runa che si erano reciprocamente disegnati sull’avambraccio durante la cerimonia che li aveva legati per sempre.
Le figure che avevano avvistato precedentemente erano sparite, probabilmente avevano inforcato l’altra strada sulla destra, pensò George, rallentando leggermente l’andatura per riprendere fiato.
Will stava davanti a lui e si guardava attorno vigile, come se potesse scorgerli da un momento all’altro nell’oscurità.
George si bloccò di colpo, rendendosi conto che le pareti ora erano molto più pulite, aerodinamiche quasi, e rivestite di metallo. Erano tunnel nuovi, non più i vecchi cunicoli puzzolenti ormai in disuso che pattugliavano di solito.
«William» disse George, e la sua voce suonava tesa alle sue stesse orecchie. «Non vorrei essere paranoico, ma credo che abbiamo sbagliato strada e che…»
Un fischiare assordante rimbombò per il tunnel. Will si portò le mani alle orecchie e fece qualche passo indietro verso George.
«Merda» imprecò, i suoi capelli biondi che risplendevano illuminati dai fanali della metropolitana. Senza indugiare oltre, si voltarono entrambi e iniziarono a correre, in una gara di velocità già persa in partenza. Gli Shadowhunters erano veloci, grazie al sangue angelico e alle rune, ma non avrebbero mai potuto competere con il motore di un treno; dovevano trovare un nascondiglio, un riparo, altrimenti la metro li avrebbe raggiunti e schiacciati al suolo come formiche, e George non voleva fare quella fine.
Strinse i denti e cercò di correre più veloce. Sentiva Will al suo fianco, i loro passi e respiri sincronizzati, come se i loro cuori battessero all’unisono, come se fossero una cosa sola.
Ad un tratto Will afferrò George per un braccio e lo trascinò di lato, in una rientranza del muro. Il treno sfrecciò loro davanti, sollevando polvere e detriti che li fecero tossire. Will continuava a tenere George stretto per la giacca, temendo che venisse risucchiato via dalla forza dei vagoni in corsa.
Quando tutte le carrozze furono passate, Will allentò la presa e lo guardò in faccia. «Stai bene?» chiese, scoppiando a ridere.
George si unì alla sua risata, strofinandosi gli occhi irritati dalla terra e dalla polvere. «A posto, ma c’è mancato poco» disse, saltando sui binari e restando in ascolto. «Sarà meglio levarsi dai piedi. Non voglio diventare un sandwich».
Risalirono le rotaie in fretta, tenendo occhi e orecchie aperte, e si ritrovarono di nuovo nei tunnel abbandonati. Le figure che avevano inseguito prima erano sparite, e nel giro di qualche minuto Will e George furono all’aperto, vicino al ponte di Brooklyn e al fiume Hudson che scorreva davanti a loro.
«George». Will lo stava chiamando. Si era allontanato e ora stava chino su qualcosa, o meglio… qualcuno.
George lo raggiunse e trattenne il respiro. Era abituato al sangue e a trovare cadaveri di mondani deturpati da demoni, ma non aveva mai visto niente del genere. Due corpi impeccabili, vestiti di tutto punto e che non avrebbero avuto niente di anormale, se solo avessero avuto ancora la testa. Le teste dei due uomini, infatti, erano state mozzate di netto e se ne stavano a pochi passi da loro con gli occhi spalancati e un’espressione di orrore sul volto.
Will pareva altrettanto sconvolto. «Questa non può essere opera di un demone».
«No» concordò George. «I tagli sono troppo netti, sono stati per forza fatti con una spada».
Will annuì e si alzò in piedi. «Dici che sono stati gli uomini che abbiamo inseguito nei tunnel?»
«Credo di sì, anche se non sono sicuro che si trattasse di uomini. Erano troppo veloci, ci hanno seminati nel giro di qualche secondo, e penso che neppure una spada angelica potrebbe tagliare un collo in modo così… pulito». George prese il cellulare.  «Chiamo i miei genitori. Questa faccenda va sottoposta ai Fratelli Silenti».
 
I Fratelli Silenti arrivarono nel giro di dieci minuti, seguiti dal padre di George, Simon, e la mamma di Will, Clary. Simon e Clary erano parabatai, proprio come Will e George, una coppia di guerrieri che giurava di combattere insieme e di guardarsi le spalle a vicenda per il resto della propria vita. In un certo senso era quasi come un matrimonio, con la differenza che non potevi per alcun motivo innamorarti del tuo parabatai.
«Non è giusto!» esclamò George, furioso. «Li abbiamo trovati noi!»
Gli Shadowhunters dai diciotto anni in poi erano considerati come dei veri e propri adulti e potevano prendere parte alle riunioni del Conclave, avendo diritto a un voto in Concilio. Eppure, nonostante George e Will fossero maggiorenni, spesso venivano trattati ancora come dei bambini.
«Non potete rispedirci a casa» disse Will con calma, come se credesse impossibile anche solo prendere in considerazione l’idea.
Simon sospirò. Aveva gli stessi capelli indomabili di George e gli stessi occhi scuri, però era di qualche centimetro più basso del figlio. «I Fratelli Silenti stanno esaminando i cadaveri e poi li porteranno alla Città Silente. Non ha senso che stiate qui a prendere freddo».
«Oh». George alzò un sopracciglio, non credendo alle proprie orecchie. «Hai davvero paura che possiamo raffreddarci?»
«Non abbiamo dodici anni!» sbottò Will, indignatissimo, come se lo avessero insultato sul personale. «Mamma!» urlò poi, rivolgendosi alla madre.
Clary sospirò e guardò il suo parabatai con aria stanca. «Ha ragione Simon». Will fece un verso e lei continuò, fulminandolo con lo sguardo. «Dato che volete essere trattati come degli adulti, in qualità di direttore dell’Istituto di New York, vi ordino di tornare a casa perché il vostro aiuto non è più richiesto».
Li guardò entrambi con aria di sfida, mettendosi le mani sui fianchi. Clary era una donna piccola e delicata, ma che sapeva incutere un certo timore quando voleva.
Will e George rimasero ammutoliti e furono costretti a ubbidire. Senza aggiungere altro se ne andarono, con la sensazione di essere stati appena ripresi come due ragazzini indisciplinati.
 
Will e George tornarono all’Istituto con la testa bassa e l’orgoglio ferito.
Sgraffignarono qualcosa da mangiare dalla cucina e poi si diressero in camera di Will con l’umore a terra. George non si stupì di trovarla ordinata come al solito, con le sue pareti verde chiaro e la scrivania in legno bianco. Su questa era depositata una scatola di matite colorate e un blocco da disegno, mentre sulle mensole erano stati riposti gli acquerelli e le tempere che Will usava di meno. Sui muri Will aveva appeso dei disegni fatti da lui stesso, uno della sua famiglia, uno di Lizzie quando aveva circa dieci anni, e uno di George con in mano il suo arco.
George si lanciò sul letto del suo parabatai, suscitando non poche proteste di quest’ultimo, e afferrò un libro dal comodino.
«Racconto di due città?» chiese, inarcando un sopracciglio. «Non credevo fosse il tuo genere».
Will glielo strappò dalle mani e lo rimise al suo posto. «Me lo ha dato mio padre».
George fece per fare una battuta, ma a Will era arrivato un messaggio sul cellulare. Un sorriso da ebete gli spuntò sulle labbra mentre lo leggeva, e George non ci mise molto a capire da chi dovesse provenire: Rose.
Will era molto abile nel mascherare le proprie emozioni, non ammetteva mai di essere triste o di star soffrendo: per Will andava sempre tutto bene, e tutti gli credevano. Ma George non era una persona qualunque, era il suo parabatai, il suo migliore amico, e lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso. Era solo a George che Will mostrava i luoghi più oscuri della sua anima, quei luoghi dove veniva dilaniato ogni giorno dalla consapevolezza che la ragazza che amava, per la quale si sarebbe staccato un braccio, non ricambiava i suoi sentimenti.
«Devi fartene una ragione» disse George in modo diretto. Non era da lui indorare la pillola. «Lo sai, vero?»
Il sorriso di Will si spense. «Lo so» disse con un filo di voce, capendo esattamente di che cosa l’amico stesse parlando. «Ma non posso».
George alzò gli occhi al cielo. «Certo che puoi. Hai diciotto anni. La gente normale a diciotto anni si sposa».
George si morse la lingua, rendendosi conto che si era spinto troppo in là. Pensò a Cath, e il suo cuore perse un battito alla sola idea che lei non lo amasse.
«Al giorno d’oggi, non ci si sposa più a diciotto anni» replicò Will con aria assente.
George deglutì.
Diglielo, si impose. È Will, puoi dirglielo.
Ma come poteva parlargli di una delle cose che più lo rendevano felice quando il cuore di lui era così distrutto?
George percepiva la disperazione di Will dal legame, dalla runa che lui stesso gli aveva disegnato all’interno del braccio sinistro, una disperazione così intensa che spesso gli faceva venir voglia di dire tutto a Rose. Ma non avrebbe mai e poi mai potuto tradire la fiducia del proprio parabatai. Se Will voleva continuare a tenerlo segreto, non stava a George intromettersi.
«Vero. Ma quale sarebbe il tuo piano?» continuò George, incapace di essere più gentile di così. «Glielo devi dire».
«E se poi smettesse di parlarmi?» chiese Will con una punta di panico nella voce. «Preferisco essere nella sua vita in questo modo che esserne tagliato fuori completamente».
«Rose ti vuole bene. Immensamente. Dirglielo è l’unico modo per poter andare avanti, e lo sai».
Will si chiuse in un cupo silenzio. Si rigirava il telefono tra le mani fissando il vuoto davanti a sé, come se stesse cercando la soluzione a un qualche problema metafisico, che nel suo caso George sospettava che fosse: come faccio a smettere di amare Rose Blackthorn?
«Ha scritto che ha un’emergenza e chiede se può venire qua» disse Will a un certo punto. Non mise il soggetto, ma George sapeva che stava parlando di Rose. «Probabilmente le si è rotto il computer e si annoia».
George ghignò. «Niente di più probabile».
Rose era vagamente ossessionata dai computer. E vagamente ossessionata significava che ne poteva parlare per ore senza fermarsi. George però doveva ammettere che sarebbe stata una brava insegnante, se solo loro fossero stati disposti a imparare.
Will impugnò lo stilo e iniziò a tracciare una serie di rune e simboli contro al muro, dando pian piano origine a un portale, abilità acquisita da sua mamma, la quale però era anche in grado di creare nuove rune, cosa che Will non sapeva fare.
Quando il portale prese forma in un miscuglio di colori brillanti, Rose comparì loro davanti.
«Ciao» disse con un sorriso, facendo un cenno di saluto a George mentre il portale si richiudeva alle sue spalle.
Rose aveva lunghi capelli color cioccolato e dei penetranti occhi verde-azzurro, dello stesso colore del mare in una giornata di sole. George spesso rimaneva quasi incantato a osservarli e non poteva biasimare il suo amico per essersi innamorato di lei.
«Salve a te» la salutò George. «Qual buon vento ti porta nella grigia New York?»
Rose viveva a Los Angeles e i Blackthorn gestivano l’Istituto della città. I genitori di Rose e di Will e George erano amici, perciò da piccoli i bambini si erano ritrovati più volte a giocare e ad allenarsi assieme, sia a NY che a LA, costruendo pian piano una solida amicizia.
«Ho un appuntamento» disse Rose, saltellando un po’ sul posto. «Non so come sia potuto succedere, ma Logan Ashdown mi ha chiesto di uscire».
«Non è possibile» esclamò George, non credendo alle sue orecchie.
Rose aveva una cotta per Logan Ashdown da qualche mese ormai. Gli Ashdown vivevano a Los Angeles e delle volte i più piccoli si allenavano all’Istituto; era lì che Rose aveva visto Logan per la prima volta e ne era rimasta stregata quando lui le aveva chiesto di spiegargli come funzionasse un computer. Ma a parte quella breve interazione, Rose non aveva mai trovato il coraggio per parlargli.
George vide la mascella di Will serrarsi. Sembrava perfettamente tranquillo, ma George percepiva la tensione che attraversava il suo corpo.
«Quindi ci hai finalmente parlato?» chiese George con un ghigno. «Fai progressi, dato che in questi mesi ti sei solo limitata a guardarlo da lontano».
Rose gli fece una linguaccia. «Ho bisogno del vostro aiuto perché… mi conoscete, non sono brava con le persone».
«Per prima cosa devi decidere se è uno stronzo o no» disse George con fare pratico, come se stesse elencando gli step per compiere una manovra con la spada.
Rose spalancò gli occhi. «Perché dovrebbe essere uno stronzo?» chiese preoccupata. Poi guardò Will come in cerca di sostegno e lui alzò le spalle. «Non puoi sapere com’è una persona finché non la conosci, no?»
«Ah, già» fece Rose, il suo entusiasmo del tutto sgonfiato.
George si sentì vagamente in colpa. Rose e Will erano i suoi migliori amici e, da come stavano le cose in quel momento, la felicità di uno avrebbe compromesso quella dell’altro. George cercava di aiutare entrambi come poteva.
«Vieni qui» sospirò e le fece posto sul letto accanto a lui. «Per tua fortuna sono un esperto di relazioni».
Will si mise a ridere. «Tu. Un esperto di relazioni?»
George si portò una mano al petto ferito. «Sto con Cath da due anni ormai».
Sembrava ieri che Catherine era arrivata a New York dalla Francia. George aveva sempre pensato di essere uno spirito libero, di non essere fatto per una relazione stabile e duratura, ma quando aveva incontrato Cath aveva capito che non avrebbe mai voluto nessun’altra se non lei.
All’inizio era iniziata come una sfida: era bellissima, con lunghi capelli biondo chiaro e occhi azzurri come il cielo in primavera, e lui si era sentito immediatamente attratto da lei. Ma non si era innamorato subito; non sapeva neanche lui quando fosse successo, sapeva solo che dopo essere tornato a casa dal primo appuntamento aveva desiderato rivederla, e così dopo il secondo, e il terzo.
«Io direi che è Cath, l’esperta di relazioni» lo prese in giro Will.
George sbuffò e non disse niente, perché sapeva che Will aveva ragione.
Rose andò a sedersi vicino a lui, appoggiando la testa alla testiera del letto e allungando le gambe davanti a sé. Will li raggiunse e si sedette di fianco a Rose, così che la ragazza fosse stretta tra i due parabatai.
«Come faccio a capire se è uno stronzo?» chiese Rose.
«Escici insieme un po’ di volte e lo saprai» disse George.
«E come faccio a capire se gli piaccio?» continuò Rose, intrecciando distrattamente tra di loro alcune ciocche di capelli marrone scuro. «Lo sapete che io non lo capisco».
«Gli piacerai di sicuro» disse Will con un sorriso. «Sarebbe un vero idiota altrimenti».
Aveva parlato in modo rilassato, come se il fatto che Rose avesse un appuntamento con un altro ragazzo non lo toccasse minimamente.
Rose arrossì leggermente sulle guance e alzò le spalle. «Non lo so».
«Se ti chiede di uscire un’altra volta, significa che è ancora interessato a te» disse George pensieroso. «Ce l’hai la runa anticoncezionale?»
Rose alzò un sopracciglio e Will guardò altrove, come se fosse sul punto di vomitare.
«Non credo di averne bisogno per il momento» rispose Rose. Poi inorridì. «O sì?»
George alzò le spalle. «Dipende da te, ma sempre meglio averla, no?»
Rose era diventata verde, ma non fece in tempo ad aggiungere altro perché il padre di Will, Jace, bussò alla porta e infilò la testa nella camera senza aspettare di essere invitato ad entrare.
«George, vuoi fermarti a cena?» chiese con un sorriso, lo stesso di Will. Poi notò Rose. «Ciao, Rose. Sei sempre più bella ogni volta che ti vedo».
«Papà!» esclamò Will. «Se devi entrare senza aspettare una risposta, puoi anche evitare di bussare la prossima volta».
Jace ignorò il figlio e continuò a rivolgersi a Rose: «Ovviamente anche tu sei invitata».
«Se posso, resto» disse Rose. «Oggi è l’anniversario di matrimonio di mamma e papà. Vent’anni, sapete… sarebbero quasi carini se non fossero i miei genitori. Meno sto nei paraggi e meglio è».
«Io invece passo» disse George, alzandosi dal letto. «Cath viene a cena da noi e la mamma ha deciso di cucinare le lasagne».
Jace e Will proruppero in versi schifati. «Stai scherzando, vero?» chiese Will. «Vuole forse avvelenarvi tutti?»
«Papà ha promesso che se la situazione è tragica, a metà cena ordina le pizze».
«E Cath?» chiese Jace. «Deve proprio amarti tanto per tollerare la cucina di Izzy».
George sorrise. «Cath adora la mamma e non ammetterebbe che cucina male neppure sotto tortura».
Era vero. Cath aveva perso la madre quando aveva dieci anni e da quel momento aveva vissuto solo con il padre, con il quale non aveva un buon rapporto. La madre di George, Isabelle, la aveva accolta come se fosse stata la figlia che non aveva mai avuto e Cath le voleva così bene che ogni volta che si fermava a cena da loro mangiava tutto quello che Isabelle le metteva nel piatto senza dire una parola.
Per il suo diciassettesimo compleanno, Isabelle le aveva preparato una torta a forma di cuore. Era disgustosa, oltre che mezza bruciata, ma Cath era stata così contenta che non solo si era messa a piangere per la commozione, ma ne aveva anche mandate giù due fette con una forza di volontà che George invidiava.
«Ci vediamo domani» disse a Will. Incrociò lo sguardo del suo parabatai e lo fissò per qualche istante, una muta domanda tra di loro: starai bene?
Will annuì, e George si rivolse a Rose: «Quand’è l’appuntamento?»
«Appuntamento?» saltò su Jace. «Quale appuntamento?»
«Papà, vattene» sbottò di nuovo Will.
Rose sembrava a disagio e lanciò a George un’occhiata velenosa.
«Logan Ashdown mi ha chiesto di uscire» disse. «E l’appuntamento è domani sera. Andiamo al molo di Santa Monica. Non facciamone una questione di stato però».
«Oh» disse Jace, spostando lo sguardo sul figlio. Poi sembrò riprendersi e ghignò, come se sapesse qualcosa che invece a loro era oscuro. «Ashdown hai detto? Il figlio di Cameron Ashdown?»
«Sì» rispose Rose, guardandolo curiosa. «Lo conosci?»
«Io no, ma i tuoi genitori sì. Tuo padre lo sa che esci con lui?»
Rose alzò le spalle. «Non ancora, perché?»
«Chiedevo solo» disse Jace ridacchiando. «Assicurati che sia seduto quando glielo dici».
Rose spalancò gli occhi, chiaramente confusa.
Il telefono di George suonò. Gli era arrivato un messaggio: Cath.
«Devo davvero scappare» disse. «Buona serata a tutti».
«Anche io vado» disse invece Jace. «Siccome ti fermi a cena, Rose, cucino io. Così puoi confermare ciò che sostengo da anni, cioè che cucino meglio di tuo padre».
Fece loro un occhiolino e sparì oltre la porta assieme a George, lasciando Will e Rose da soli.
 
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Rose stava osservando la porta con un leggero sorriso sulle labbra, e Will stava osservando lei. I capelli le ricadevano sulla spalla destra in morbide onde marrone scuro, lasciando scoperto un lato del collo. Gli occhi di Will lo trovarono immediatamente, come acciaio attratto da un magnete, come se non potesse farne a meno.
Erano ancora seduti vicini sul letto di lui, le braccia e le spalle che si toccavano. Will viveva per quei contatti casuali, per una mano sulla gamba, un bacio sulla guancia.
Rose alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Lo aveva colto in flagrante, intento a guardarla come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto, e lo era. Will cercò di rendere la propria espressione il più neutrale possibile, ma non distolse lo sguardo, e lei neanche. Per qualche istante Rose lo scrutò con la bocca leggermente aperta, come se fosse sul punto di dire qualcosa, come se fosse sorpresa che lui la stesse guardando in quel modo.
«Tuo padre è simpatico» disse invece. «Ma la cucina del mio, di padre, non la batte nessuno».
Will si stava sforzando di comportarsi in modo normale, di scherzare con lei come aveva sempre fatto, ma non ci riusciva. Era così stanco di fingere, così stanco di aspettare, così stanco di sentirsi come se ci fosse un peso sul suo petto ogni volta che cercava di respirare.
«Stai bene?» gli chiese lei, toccandogli piano la mano. «Sembra che tu stia per vomitare da un momento all’altro».
Will prese un profondo respiro e si impose di sorridere. «Sto bene, solo un po’ stanco. Questo pomeriggio io e George abbiamo trovato due mondani decapitati. È stato piuttosto… forte».
«Per l’Angelo!» Rose si portò una mano al cuore e spalancò gli occhi. «E non si sa chi è stato?»
«Non si sa niente, ma stiamo indagando. A quanto pare si sono verificati episodi simili anche in altre città» spiegò brevemente Will. Non voleva parlare di quell’argomento. C’era qualcosa in quei cadaveri, qualcosa che gli trasmetteva una strana inquietudine.
«E invece tu?» le chiese poi. «Come stai?»
«Bene» rispose lei, riprendendo a intrecciare i capelli distrattamente. Era una cosa che faceva spesso quando era nervosa. «Nessuno si era mai interessato a me prima d’ora, e non riesco a credere che il primo ragazzo che mi chiede di uscire sia proprio lui».
Se solo sapesse, pensò Will. Se solo spesse che lei è tutto ciò a cui penso prima di addormentarmi la notte e che se solo non avesse quella cotta per Logan le chiederei di uscire con me ogni giorno della nostra vita.
E ora era troppo tardi, perché tutto ciò che Will desiderava era che lei fosse felice, e se Logan Ashdown l’avesse resa felice, a lui sarebbe andato bene.
Will annuì. «Scommetto che un sacco di ragazzi vogliono uscire con te. Sono solo troppo codardi per chiedertelo».
E tra quelli, lui era il primo della lista. Non aveva paura di correre rischi quando si trovava davanti a dei pericoli: sua madre diceva che sotto quel punto di vista somigliava a suo padre e George si era preso più di una volta un bello spavento. Ma, quando si trattava di Rose, si sentiva come un ragazzino spaventato dal buio.
Rose scosse il capo. «Lo sai come sono io».
Lo sapeva. Rose faceva fatica a capire i sentimenti delle persone, tanto che talvolta poteva risultare fredda. Era riservata e aveva interessi diversi da quelli comunemente accettati dal Conclave, come ad esempio i computer.
«È proprio perché lo so che dico che gli piacerai per forza».
Rimasero così, a chiacchierare seduti vicini per parecchio tempo, come erano soliti fare, com'era normale per loro. Poi Rose poggiò il capo sulla spalla di Will e sospirò. «E tu?»
Will si immobilizzò. «Io cosa?»
«Non c’è nessuna ragazza che ti piace?» gli chiese piano, come se non osasse porgli la domanda.
In quel momento, Celine fece irruzione nella stanza, rigorosamente senza bussare, salvandolo dal rispondere.
«La cena è pronta» annunciò pimpante. «Ciao, Rose».
Rose e Will si allontanarono velocemente, e Will si sentì arrossire. Sua sorella maggiore lo stava guardando con malizia, e Will tirò un sospiro di sollievo quando lei non fece commenti.
«Ma no, non preoccupatevi» disse invece. «Bussare è passato di moda».
Celine si lanciò dietro le spalle i lunghi capelli rossi e si mise le mani sui fianchi. «Perché, stavate facendo qualcosa che non potevo vedere?»
Will la ignorò e si alzò dal letto, seguito da Rose.
«Ciao, Celine» le disse lei. «Come sta Sophia?»
«Bene, grazie» le rispose Celine mentre si incamminavano lungo il corridoio. «Sarebbe dovuta venire anche lei questa sera, ma ha avuto un imprevisto».
Celine e Sophia stavano insieme da anni ormai, e si sarebbero sposate a breve. Will era convinto che non ci fosse nessuno di più adatto per sua sorella, perché l’animo tranquillo e gentile di Sophia era in grado di calmare il carattere turbolento di Celine.
Will ricordava ancora di quando Celine aveva detto loro di essere bisessuale e di come suo padre si fosse messo quasi a piangere perché in quel modo non si sarebbe dovuto preoccupare solo per i ragazzi, ma anche per le ragazze che le facevano la corte.
Arrivati in cucina trovarono Elizabeth, che aveva quindici anni, già seduta a tavola con aria depressa, e i loro genitori che parlottavano davanti ai fornelli.
Will prese posto di fianco a sua sorella minore, mentre Rose e Celine si sedettero di fronte a loro.
«Ciao, pulce» disse Will a Lizzie, scompigliandole i capelli, biondi come i suoi.
Lei grugnì qualcosa di indefinito, ma non rispose.
«Che succede, Lizzie?» chiese Celine. «Ti hanno rubato la katana?»
Lizzie aveva scelto come arma la katana e si allenava con quella da anni, tanto che le aveva anche dato un nome.
«No, Dolly è al sicuro» rispose Lizzie. «Sono solo stanca. Marisol mi ha fatta lavorare più del solito oggi».
Marisol era la responsabile dell’allenamento dei ragazzi all’Istituto: aveva allenato Celine, Will e George, e ora si stava occupando anche di Elizabeth.
«Ciao, Rose» disse Clary, abbracciandola dal dietro e stampandole un bacio sulla guancia. «Come stanno Emma e Julian?»
«Troppo bene» borbottò Rose. «Così bene che sono dovuta scappare di casa. Grazie per l’ospitalità, a proposito».
Jace li raggiunse al tavolo con una grande pentola tra le mani e si sedette a capotavola, di fronte a Clary. «Salutali da parte nostra. E di’ a Julian che se vuole gli insegno qualche trucco in cucina».
Rose si mise a ridere. «Lo sai che lo prenderebbe come un insulto, vero?»
«Sì» fece Jace. «Lo so benissimo».
Will si era imbambolato a fissare Rose che rideva e parlava con i suoi genitori, pensando che avrebbe tanto desiderato fare uno sgarro alla sua regola e prendere carta e penna per ritrarla. Will amava disegnare, passione trasmessagli da sua madre, ma da quando aveva capito di essere innamorato di Rose si era ripromesso che non l’avrebbe mai usata come soggetto per un suo disegno. Mai.
Celine gli tirò un calcio da sotto al tavolo e gli rivolse un’occhiata eloquente, e Will distolse subito lo sguardo da Rose. Non aveva mai parlato a nessuno dei propri sentimenti per lei, fatta eccezione per George, ma sua sorella Celine sembrava saperlo.
La cena trascorse con tranquillità, e Will riuscì a non guardare Rose per il resto della serata. Lizzie parlò loro dei suoi progressi con la katana e Celine li aggiornò sui preparativi del matrimonio. Anche Will raccontò alle sue sorelle quanto accaduto quel pomeriggio con George, riuscendo quasi a dimenticarsi di Rose e Logan Ashdown.
«Rose, se vuoi puoi stare qui tutto il weekend» le propose Clary. «Sai che sei sempre la benvenuta».
Will avrebbe tanto voluto che accettasse, ma sapeva che non era possibile.
«Non può» disse infatti suo padre. «Rose ha un appuntamento domani».
«Un cosa?» esclamarono in coro tutte e tre le donne Herondale.
«Con chi?» chiese Clary.
«E' bello?» chiese invece Celine, beccandosi un’occhiataccia da parte di Jace.
Rose era diventata bordeaux e Will si sentì male per lei. «Fatevi i fatti vostri» disse infastidito. Neppure lui aveva voglia di parlare di quell’argomento.
Celine lo guardò con un’espressione indescrivibile e Will scrollò le spalle, ignorandola. I suoi genitori invece parevano stupiti.
«Non c’è problema» disse Rose, spezzando la tensione. «È Logan Ashdown».
Clary si portò le mani alla bocca e Will si domandò come mai i suoi genitori fossero così divertiti dal fatto che Rose stesse per uscire con un Ashdown.
«Il figlio di Cameron Ashdown intendi?»
«Proprio lui» rispose Jace al posto di Rose con un sorrisetto.
«Oh cielo» sospirò Clary. «E Julian lo sa?»
Rose sembrava davvero perplessa. «Che problema c’è con Cameron Ashdown?»
«Nessuno» risposero Jace e Clary all’unisono, lasciando tutti ancora più confusi.
«D’accordo» si intromise Celine. «Ma è bello, Rose?»
«Mmm». Rose ci pensò un attimo. «Suppongo di sì».
«Come supponi di sì?» chiese Lizzie. «Quando ti piace qualcuno pensi che sia la persona più bella sulla faccia della terra».
Will la guardò storto. «C’è qualcosa che devi dirci, Liz?»
«Già» fece suo padre pungente. «C’è qualcosa che dovresti dirci?»
Lizzie era diventata dello stesso colore dei capelli di Celine. «No no. Chi, io? Niente».
«Non c’è nessun problema se hai un fidanzato, tesoro» le disse Jace con un sorriso. «Devi solo invitarlo a cena. A proposito» continuò, rivolgendosi ora a Will. «Tu e George dovete assicurarvi che Rose stia con un tipo che la meriti. Julian è troppo educato per dare del filo da torcere ai suoi spasimanti, quindi dovrete farlo voi».
Lo stomaco di Will sprofondò. Si sentì come se avesse ingoiato della sabbia.
Rose sbuffò. «Non ce ne sarà bisogno».
Will non era sicuro di riuscire a parlare, perciò si limitò ad annuire.
«Sarà meglio che torni a casa». Rose sollevò la manica della maglietta e controllò l’ora. «O i miei genitori potrebbero iniziare a preoccuparsi».
«È vero» concordò Jace serio. «Julian potrebbe pensare che hai deciso di trasferirti qui perché cucino meglio di lui».
Rose si mise a ridere e non rispose. Will sospettava che Rose preferisse come cucinava suo padre, Julian, ma che fosse troppo gentile per dirlo.
«Ti accompagno». Will si alzò e si diresse con Rose nel corridoio.
Prese lo stilo e iniziò a disegnare un nuovo portale.
«Fammi sapere come va» disse una volta che ebbe terminato. «L’appuntamento, intendo».
Rose lo stava guardando. La luce del portale conferiva ai suoi occhi una sfumatura quasi innaturale, come se questi fossero due pietre preziose. Will deglutì.
«Certo» disse lei, sollevandosi sulla punta dei piedi e dandogli un bacio sulla guancia. «Buonanotte, Will».
Will chiuse gli occhi e sì portò una mano al viso, dove le labbra di lei gli avevano sfiorato la pelle.
«Buonanotte» sussurrò. Ma quando aprì di nuovo gli occhi, lei era sparita.
 
NOTE DELL’AUTRICE
Avete conosciuto George, Rose e gli Herondale in questo capitolo. Così è come me li immagino io, ma mi rendo conto che abbiamo proprio carta bianca quando si tratta della “seconda (o terza?) generazione”, quindi spero vi sia piaciuta la mia rappresentazione.
Nel prossimo capitolo conoscerete Cath e capirete meglio il rapporto Cath/padre di Cath, e Cath/George. Ah, ci stanno anche Julian e Emma nel prossimo :D.
Si vi va di lasciare una recensione e farmi sapere cosa ne pensate a me fa solo piacere. <3
Grazie e a settimana prossima,
 
Francesca
 

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Capitolo 2
*** Capitolo Due. ***


Capitolo due
 
Rose si ritrovò nell’atrio dell’Istituto di Los Angeles. Solitamente si focalizzava sulla propria stanza quando attraversava il portale, ma quella sera si era limitata a pensare vagamente all’Istituto perché la sua mente era altrove, ancora a New York.
Salì le grandi scale che davano sull’entrata e girò a sinistra, verso la zona riservata alla sua famiglia. Sperò che i suoi genitori fossero già fuori casa –sarebbero dovuti uscire a cena per il loro anniversario e c’erano tre ore di fuso orario tra New York e Los Angeles- perché non le andava di vedere nessuno.
Will era strano in quell’ultimo periodo. Era come se ci fosse qualcosa che lo turbava e non gliene volesse parlare. Rose non era brava con le persone, non era brava con i sentimenti in generale. Spesso ne aveva troppi e non sapeva come gestirli. Ma con Will era diverso: non era la sua parabatai, eppure riusciva a percepire gli stati d’animo di lui come se fossero i propri. Questo non significava che li comprendesse, significava solo che sapeva –sentiva nelle ossa- quando Will era triste, e quella sera Will era triste. Non si spiegava come mai lui non si aprisse con lei; si erano sempre detti tutto e perciò non voleva insistere: se non desiderava confidarsi, Rose non lo avrebbe mai costretto a farlo.
Will era sempre così solare che vederlo meno splendente del solito le faceva male, la faceva quasi uscire di testa, perché se Will non era felice, allora non lo sarebbe mai stata neppure lei, non fino in fondo. Gli voleva troppo bene e desiderava solo il meglio per lui: voleva aiutarlo, ma come avrebbe potuto se neanche sapeva che cosa gli stava succedendo?
Probabilmente si stava facendo le paranoie per niente, concluse. L’indomani avrebbe chiamato George per assicurarsi che non gli stesse accadendo nulla di grave e ci avrebbe messo una pietra sopra. 
«Rose» la chiamò la voce di suo padre, Julian. «Rose, sei tu?»
Rose imprecò nella sua mente. «Sì, papà» disse, raggiungendolo in cucina, un’ampia stanza attrezzata con gli utensili più vari. L’Istituto talvolta poteva risultare freddo e austero con le sue stanze minimaliste e l’armeria incavata nella pietra; la cucina, invece, era stata arredata dalla mamma di Julian, morta prima che Rose nascesse, e successivamente rinnovata da Julian stesso. Era un luogo personale, vissuto, con le pareti giallo chiaro e un grande tavolo circondato da panche e sedie in legno.
Julian le dava le spalle, intento a lavare dei piatti. Si era gettato un panno sulla spalla destra e indossava il grembiule con i gattini che Rose e Holly gli avevano regalato per il compleanno.
«Tua sorella ha già mangiato e ora è nella sua stanza». Julian chiuse il rubinetto e si asciugò le mani. «Dalle un occhio prima di andare a dormire. Ti ho lasciato da parte un po’ di pasta per questa sera».
Holly aveva sette anni –e mezzo, come le piaceva ricordare a tutti- ed era una bambina con i capelli biondi e le lentiggini. Anche lei aveva ereditato gli occhi verde-azzurro dei Blackthorn, però aveva avuto anche la fortuna di ereditare i capelli biondi dei Carstairs. Una vera ingiustizia, secondo Rose.
«Mi sono fermata a cena da Will in realtà… La mangio domani, grazie. Non avresti dovuto».
Julian spesso si dimenticava che Rose aveva quasi diciotto anni e che era in grado di prepararsi la cena da sola quando lui e sua mamma erano fuori casa; Rose glielo aveva detto più volte, ma lui le aveva risposto che lei e sua sorella stavano crescendo troppo in fretta e che voleva prendersi cura di loro almeno per quanto riguardava le piccole cose.
«Lo so». Julian si voltò e le sorrise, togliendosi il grembiule e riponendolo al suo posto nel cassetto sotto al lavello. «Non avrei dovuto, ma ho voluto farlo».
Indossava un paio di jeans scuri e una camicia azzurro chiaro che gli metteva in risalto gli occhi, un misto di azzurro e verde che somigliava al colore del mare. Rose non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza per averglieli tramandati.
Rose sospirò. «Grazie, davvero. Mi spiace, ti ho mandato un messaggio ma mi sa che non lo hai ricevuto».
«Colpa mia» disse lui, alzando le mani. «Il mio telefono è morto e l’ho lasciato in camera a caricare tutto pomeriggio. In ogni caso, domani cerca di non mancare, la mamma ha detto che vuole cucinare lei…». Si guardarono entrambi inorriditi. «Ripensandoci, forse non è una buona idea».
A volte la mamma di Rose, Emma, decideva di cucinare, affermando che Julian meritasse una pausa, ma spesso la sua buona volontà non era sufficiente per dare alla luce qualcosa di commestibile e si ritrovavano a ordinare cibo d’asporto. Non è che ciò che preparava fosse sempre un disastro, era solo che Emma in cucina era un po’ sbadata. Ad esempio, una volta aveva confuso il sale con lo zucchero, e un’altra ancora aveva dimenticato di mettere le uova nell’impasto della torta.
Rose ringraziò il cielo di avere già un impegno.
«Uhm, ecco…». Rose non sapeva bene come formulare la frase. Non era mai uscita con nessun ragazzo e non aveva idea di come avrebbero potuto reagire i suoi genitori. Sapeva che Jace, il padre di Will, era molto protettivo quando si trattava delle proprie figlie, ma il suo, di padre? Era più tranquillo di Jace, ma Rose preferiva aspettare che arrivasse anche sua mamma per dare la notizia. «Domani sera non ci sono».
«E dove sei?» chiese Julian automaticamente.
«Esco» rispose lei evasiva. Non le piaceva mentire, men che meno ai suoi genitori, e di sicuro non lo avrebbe fatto per una tale sciocchezza.
«Ma con un ragazzo?» Julian sbiancò e parve sgonfiarsi, come se fosse stato privato della propria energia vitale. «Hai un… appuntamento?»
«Qualcuno ha detto appuntamento?» Emma era appena entrata nella cucina con indosso un lungo vestito floreale e i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle come una cascata dorata. Rose notò che aveva coperto le rune permanenti con del fondotinta, allo stesso modo di alcune cicatrici, tra cui quella che le attraversava tutto l’avambraccio e che lei stessa si era inflitta con Cortana quando aveva saputo che i suoi genitori erano morti. Era così evidente che persino gli Shadowhunters ne rimanevano impressionati e la fissavano inorriditi.
Julian parve riprendersi. «Ehi» disse a Emma, guardandola come se la vedesse per la prima volta nella sua vita.
Emma gli sorrise e gli si avvicinò, stampandogli un leggerlo bacio sulla guancia.
Rose sbuffò. I suoi genitori erano così innamorati che guardarli per troppo tempo faceva male agli occhi. Anzi, a volte era quasi deprimente, perché ti ritrovavi a chiederti se avresti mai trovato anche tu una persona da amare e che ti amasse tanto profondamente.
Sua madre si voltò verso di lei e le rivolse un’occhiata maliziosa. «Allora, chi è il fortunato?»
Julian grugnì qualcosa di indefinito, e Rose sospirò. «Logan Ashdown».
«Logan Ashdown?» Suo padre spalancò gli occhi. «Quel Logan Ashdown?»
«Uhm… sì?»
Emma si mise a ridere, mentre Julian prese una sedia e si sedette con aria frastornata. Rose non capiva: non lo doveva mica sposare!
«Ma io…» Suo padre la guardò con occhi grandi, dello stesso colore dei suoi. «Noi… pensavamo…»
«Che ti piacesse Will» concluse sua madre, sbattendo le palpebre come se non riuscisse a metterla a fuoco. Julian la guardò storto e lei scrollò le spalle. «Tutti pensano che le piaccia William».
«Mamma! No, certo che non mi piace!» esclamò Rose con un po’ troppa ferocia, per poi pentirsene subito. Il suo cuore aveva iniziato a battere più forte alla menzione di Will. Era arrossita, lo sapeva, sentiva le guance e il viso andare a fuoco, e dovette prendere ben due respiri profondi prima di poter parlare con voce ferma. «Siamo solo amici».
Emma e Julian si lanciarono uno sguardo ricco di sottintesi ma non dissero nulla. Rose sapeva a che cosa stavano pensando: anche noi eravamo solo amici. Ma non lo erano mai stati davvero, no? Dai loro racconti, Rose aveva intenso che fossero innamorati sin da ragazzini, sin da prima di essere costretti a diventare parabatai, nonostante non se ne rendessero conto allora.
Con lei e Will era diverso. Erano amici. In più lui era bellissimo, un Herondale, uno degli Shadowhunters migliori della loro generazione, capace di creare portali, e... «Lui non potrebbe mai essere interessato a me». Aveva parlato ad alta voce senza volerlo e sentire quelle parole con le sue stesse orecchie, non più solamente nella propria testa, faceva ancora più male, perché Rose sapeva che erano vere.
«Perché no?» chiese subito Emma, aggrottando le sopracciglia ed entrando in modalità nessuno svalorizza mia figlia, nemmeno lei stessa. «Sei meravigliosa, Rosie».
Rose non disse niente.
«Se c’è una cosa che ho imparato» disse Julian, osservando Emma dal basso verso l’alto. «È che non puoi mai essere sicura dei sentimenti che qualcuno prova per te».
«Siete i miei genitori» sospirò Rose. «Ovviamente dovete pensarla così».
«Nessuno è perfetto». Suo padre si alzò e le diede un bacio tra i capelli, per poi prendere la giacca dalla sedia. «Nemmeno Will».
«Ma alcune persone sono perfette per stare insieme» continuò Emma.
«Magari io e Logan saremo perfetti per stare insieme».
«Ma non lo conosci» disse Julian depresso, per poi borbottare tra sé e sé. «Ashdown…!»
«Quello è il punto, no?» disse Rose con logica. «Ci esco insieme per conoscerlo».
Suo padre si passò una mano tra i capelli e annuì; sua madre, invece, ridacchiò.
«Si può sapere che problema avete tutti con gli Ashdown?» chiese Rose, non capendo le reazioni di Jace e Clary e dei suoi genitori.
«Tutti chi?» chiese Emma, sinceramente sorpresa.
«Jace» disse Rose. «E Clary, anche! Sono stata a cena da loro oggi, e entrambi mi hanno chiesto se sapevate che sarei uscita con il figlio di Cameron Ashdown».
Julian lanciò uno sguardo a Emma, indecifrabile agli occhi di Rose, ma non a quelli di sua madre, che gli prese la mano. Rose sospettava che lei gli stesse scrivendo qualcosa sul palmo nel linguaggio che era solo loro e inaccessibile ad altri. Era un modo di comunicare che avevano adottato quando erano bambini e che avevano mantenuto a distanza di anni. Rose aveva sempre pensato che fosse dolce, intimo. Ovviamente tranne quando lo usavano per tenerle nascosto qualcosa, come in quel caso.
Si mise le mani sui fianchi e si schiarì la gola, facendo sobbalzare i suoi genitori, che ebbero la decenza di arrossire.
«Tesoro» iniziò sua madre, avvicinandosi a lei. Aveva smesso di ridere e ora la guardava con espressione rassegnata. «Diciamo che sono uscita con Cameron Ashdown quando avevo la tua età».
«Eugh!» esclamò Rose, arricciando il naso e facendo un passo indietro. «Credevo che tu fossi sempre stata innamorata di papà! Tipo da… sempre?»
Guardò suo padre come in cerca di sostegno, ma quello alzò le spalle con un sorrisetto. Ora i ruoli parevano invertiti ed era lui quello che si stava divertendo.
«Eravamo parabatai!» esclamò Emma. «E quella con Cameron non era una relazione seria».
«È vero» le diede ragione Julian. Rose alzò un sopracciglio nella sua direzione e lui si appoggiò alla credenza incrociando le braccia al petto. «Emma usciva con Cameron e ogni due mesi lo scaricava. Una volta ha anche dimenticato il suo compleanno. Non ha mai dimenticato il mio».
«Ma certo che no!» sbottò Emma, per poi posare le mani sulle spalle di Rose. «Credevi bene: ho sempre amato tuo padre, ma sai… non lo potevo ammettere a me stessa, no? Eravamo parabatai, era proibito. Non ho mai amato Cameron, neanche un po’. Ci ho provato con lui, tantissimo, ma ogni volta che mi chiamava e la sua faccia compariva sullo schermo –be’, un lama, dato che non avevo sue foto…»
«Un lama?» Rose spalancò gli occhi. Sua madre avrebbe anche potuto concludere lì, era evidente cosa avesse provato per il povero Cameron Ashdown.
«… mi faceva così arrabbiare. Voleva sempre giocare ai videogiochi e io odio i videogiochi».
Julian rise e scosse il capo. Emma si voltò e lo guardò, probabilmente con un’espressione svenevole stampata in viso, pensò Rose. I suoi genitori si guardavano spesso in quel modo, come se fosse un privilegio poter stare insieme, anche dopo più di vent’anni.
«Mamma» disse Rose con calma. «Stavo scherzando. Tu e papà sembrate due tredicenni alla prima cotta».
Se mai mi innamorerò di qualcuno, pensò Rose, non lo guarderò mai così. Per l’Angelo.
Emma scrollò le spalle e trafficò con il vestito. Rose non aveva notato che stava portando Cortana, la spada della famiglia Carstairs, fissata dietro la schiena e nascosta dai lunghi capelli biondi. Emma se la sfilò e la porse a Rose.
«È tua, per questa sera» le disse, tenendo la spada sulle sue mani e allungando le braccia verso di lei.
«Dovrei allenarmi a quest’ora?» Rose sapeva che sua madre aveva passato intere giornate ad allenarsi senza sosta quando era più giovane, senza pause per mangiare o riposarsi, ma non era mai stata troppo esigente con lei; al contrario, dopo un certo orario la spediva a dormire, ignorando le sue proteste.
«Proteggi l’Istituto» le disse con serietà. «E proteggi Cortana».
Rose aveva iniziato ad allenarsi con Cortana da tempo ormai, e non appena avesse compiuto diciotto anni, sua madre le aveva promesso che sarebbe stata sua per sempre.
«Uhm, credevo che l’Istituto fosse sicuro». Rose prese la spada titubante, non era mai successo che la madre uscisse senza portare Cortana con sé.  
Emma fece per dire qualcosa, ma Julian le mise una mano sulla spalla e sorrise a Rose. «Lo è. Ma devi abituarti a portare Cortana. Il tuo compleanno si avvicina».
«E se servisse a te?» chiese Rose, alzando lo sguardo sulla madre.
Emma le fece un occhiolino. «Ho altri assi nella manica, non preoccuparti. Ci vediamo domani mattina».
Emma le diede un bacio sulla guancia, prese la mano di Julian e insieme si diressero fuori dalla porta.
Rose annuì tra sé e sé, passando una mano sul fodero della spada, con il sospetto che i suoi genitori non le stessero dicendo tutta la verità.
 
---
 
Il telefono di Cath si illuminò e George la sentì sospirare e allontanarsi leggermente. Erano seduti sul letto di George, lui stava con la schiena poggiata alla testiera e lei gli era seduta in grembo con le gambe allacciate attorno alla vita.
«Devo andare» sussurrò, scorrendo il dito sullo schermo e leggendo il messaggio. «Apparentemente è una delle serate no».
George sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Ogni volta che il padre di Cath era in una “serata no” e lei faceva tardi, lui le scriveva, intimandole di tornare a casa.
«Ti prego, resta». George le diede un bacio sotto alla mandibola, là dove si sente il battito del cuore, e lei sospirò.
«Non posso… lo sai mio padre come diventa se non torno a casa».
Da quando la mamma di Cath era morta, suo padre cercava di alleviare il dolore con l’alcol, tanto che ne era ormai dipendente. Gli Shadowhunters non vedevano di buon occhio questa tipologia di problema e se lo avessero scoperto lo avrebbero rinchiuso, o esiliato. Nel peggiore dei casi gli avrebbero strappato anche i marchi.
Cath aveva fatto promettere a George di non dirlo a nessuno, e lui era stato disposto a non farne parola neanche con Will, ma Cath gli aveva dato il permesso di dirglielo perché non avrebbe mai voluto che tenesse nascosto qualcosa al suo parabatai. George l’aveva amata ancora di più per questo.
«Non lo sopporto» disse George.
«Lo so. Spesso non lo sopporto neanche io». Cath gli passò le mani tra i capelli e poggiò la fronte contro la sua. «Ma è pur sempre mio padre».
A volte la trattava male, aggredendola verbalmente e accusandola di aver ucciso la madre. In realtà la mamma di Cath era morta colpita al cuore dal pungiglione di un divoratore mentre si frapponeva tra il demone e la figlia. Era raro morire per una ferita del genere, ma a volte non potevi opporti al destino, e una combinazione di fattori, tra cui l’essere colpita al cuore e Cath troppo piccola per avere uno stilo, avevano portato alla sua morte.
George aveva una paura accecante che il padre potesse farle anche del male fisico. Ogni volta che Cath lo trovava ubriaco quando tornava a casa, il cuore di George si fermava. Cath gli aveva raccontato che una volta le aveva lanciato un bicchiere contro, mancandola per un pelo. Non c’erano stati altri episodi del genere, a detta di Cath, ma George odiava l’idea che vivesse con quell’uomo, perché sapeva che se lui l’avesse aggredita, lei non si sarebbe difesa perché era suo padre e non gli avrebbe mai fatto del male.
«Promettimi che se le cose dovessero sfuggire di mano, me lo dirai» disse, guardandola negli occhi. Nella famiglia di George, tutti avevano capelli e occhi scuri, e George era rimasto incantato dai colori chiari di Cath quando l’aveva incontrata per la prima volta. Le sue iridi erano di un azzurro così cristallino che anche nella semioscurità della camera risplendevano come stelle nel cielo.
Cath gli posò una mano sul cuore e tirò su con il naso, come se stesse trattenendo le lacrime.
«Devo andare, George». Gli diede un leggero bacio sulla guancia. George sentì un buco aprirsi all’altezza dello stomaco, come se fosse sulle montagne russe. La abbracciò e la strinse a sé, circondandole la vita con le braccia e seppellendo il viso nell’incavo del suo collo. Cath gli passò le mani sulla schiena, su fino alla base del collo, e George rabbrividì.
«Resta qui». Ora la stava quasi implorando. La sua voce era roca, faceva fatica a riconoscerla lui stesso. «Domani mattina ti accompagno a casa io e mi prendo tutta la colpa».
«Se mio padre è ubriaco, potrebbe ucciderti» disse Cath seria.
«Ma mi conosce!» esclamò lui, allontanandosi leggermente per poterla guardare in faccia.
Cath sorrise, un sorriso senza allegria, e gli accarezzò piano il viso. «E ti odia».
Era come se suo padre non volesse che lei fosse felice. Cath lo aveva presentato a George, ma lui si era fatto trovare così ubriaco che lo aveva insultato, accusandolo di volersi solo portare a letto sua figlia. Cath era andata avanti a scusarsi per più di un mese.
George era così arrabbiato. Così arrabbiato che voleva distruggere qualcosa. Desiderava solo che lei fosse felice, perché Cath era gentile, e buona, e aveva un animo bellissimo che meritava il meglio.
«Tuo padre odia tutti» fece notare George.
«Vero».
George si sporse in avanti e appoggiò delicatamente le labbra sul quelle di lei. «È tardi» disse, in un ultimo tentativo per farla restare da lui. «Non puoi tornare da sola a quest’ora».
Cath a volte rimaneva a dormire a casa sua, quando suo padre era troppo ubriaco per rendersi conto che lei non c’era, e George lo adorava. Adorava sentire il calore del suo corpo, il suo profumo, poter passare la mano tra i suoi capelli biondo chiaro e poterla osservare mentre dormiva tranquilla, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. Ma più di tutto, amava svegliarsi la mattina e trovarla accanto a sé.
Cath sospirò. «Sono una Shadowhunter, i mondani non possono vedermi e so difendermi da sola».
«E se trovassi qualche vampiro alla ricerca di una vergine da dissanguare?» tentò di tirarle su il morale lui.
«George». Cath si mise a ridere. George adorava il modo in cui pronunciava il suo nome, marcando leggermente sulla erre. «Tu meglio di tutti dovresti sapere che non sono vergine».
George provava un tale affetto nei suoi confronti che a mala pena riusciva a parlare con voce ferma. Le mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio e la guardò incantato per qualche secondo. «Ma sei così bella che potrebbero passarci sopra e dissanguarti lo stesso».
Cath emise un singhiozzo strozzato e chinò il viso verso quello di lui. Posò le labbra sulle sue e George ricambiò il bacio con tutto ciò che aveva, cercando di trasmetterle quanto la amasse. Le passò le mani lungo le cosce, su fino a quando non trovò la schiena nuda sotto al tessuto leggero del vestito. Seguì la sua colonna vertebrale e la sentì rabbrividire al suo tocco. Poi allontanò la bocca da quella di lei e le tracciò una scia di baci sul collo, fino alla clavicola. Le scostò lo scollo del vestito di lato e si bloccò.
C’era una cicatrice lì. Partiva dal seno e le tagliava in diagonale la clavicola fino alla spalla; George sapeva che non l’aveva mai avuta, perché George conosceva il corpo di Cath meglio del proprio.
«Che cos’è questa?» chiese, reprimendo l’urgenza di mettersi a urlare.
Cath lo fissò confusa per qualche istante, poi seguì il suo sguardo e capì. A George bastò guardarla per un secondo per dedurre come se la fosse fatta. O meglio, chi gliel’avesse fatta.
Alla fine era successo ciò che temeva, e la cosa lo mandava su tutte le furie. 
«Niente» disse lei. Poi si sistemò il vestito e fece per allontanarsi, ma George rafforzò la presa sui suoi fianchi e la tenne ferma dov’era.
«Catherine» sibilò, girandole il volto verso di sé così da poterla guardare negli occhi. «Che cos’è quella cicatrice?»
«Non intendeva farlo! È stato un incidente!» esclamò lei, il labbro inferiore che tremava. 
George scosse il capo. «Tu là non ci torni».
«Devo andare invece!». Scese dal letto e iniziò a infilare il cappotto. «Se mio padre non mi trova a casa, è capace di venire qui, e non voglio che i tuoi genitori…»
«I miei genitori potrebbero aiutarti!» Anche George si era alzato, e ora torreggiava su di lei di parecchi centimetri. «E lo sai cosa mi fa incazzare? Cosa mi fa uscire completamente di testa? Che lui ti ha puntato un coltello alla gola e ti avrebbe ucciso se fosse stato dell’umore…»
«George…» Cath fece per interromperlo, ma lui continuò. «E tu glielo avresti lasciato fare!» urlò. «Perché in tutti questi anni è riuscito a convincerti che è colpa tua se tua madre è morta, che è colpa tua se lui si è ridotto in quello stato. Ma non lo è. Non lo è, Catherine».
«È mio padre» disse lei, come se stesse ripetendo la battuta di un copione. «Devo prendermi cura di lui. È tutto ciò che mi rimane, è l’unica famiglia che ho».
«Hai me». George le si avvicinò e le prese le mani nelle sue. Se solo avesse saputo… «E i miei genitori ti vogliono bene come se fossi figlia loro».
«Lo so» disse piano lei. «Ma che cosa dovrei fare? Darlo in pasto al Conclave? È pur sempre mio padre».
«Cath, non è più tuo padre da anni». George odiava essere così duro con lei, lo odiava. Voleva proteggerla da tutte le sofferenze del mondo, ma sapeva che non era possibile e che metterla davanti alla cruda realtà l’avrebbe solo aiutata.
Cath sbiancò e George temette si mettesse a piangere. Invece liberò le mani dalle sue e lo abbracciò forte. Era così piccola che George temette si potesse spezzare tra le sue braccia.
«Ti amo tanto, George» gli disse con una nota di disperazione nella voce. «Davvero tanto».
«Cath, io te lo giuro, se ti tocca di nuovo…»
«Non glielo permetterò» disse subito lei, alzandosi sulla punta dei piedi e baciandolo sulla bocca. «Ti prometto che reagirò questa volta».
George cedette; non poteva mica incatenarla alla sedia della sua scrivania, nonostante avrebbe voluto farlo.
«Scrivimi» le disse. «Quando arrivi, quando vai a dormire, e domani mattina quando ti svegli. E promettimi che cercheremo una soluzione, perché non puoi andare avanti così. Io non posso andare avanti così».
Cath annuì e se ne andò, chiudendosi piano la porta dietro le spalle e lasciandolo solo nella sua camera. George si passò le mani sul viso e prese un respiro profondo, consapevole che quella notte non avrebbe chiuso occhio.
Si guardò attorno, come aspettandosi di trovarla di nuovo sul suo letto. E invece il suo letto era vuoto, sempre al suo posto contro la parete sinistra della stanza. Sopra a quello c’era una mensola con delle foto con Will e Rose e la sua famiglia, assieme a qualche fumetto che suo padre aveva provato a fargli leggere. George ci aveva tentato, ma aveva concluso che i fumetti non facevano per lui.
Fece per prendere la sua chitarra -George suonava da quando era piccolo- ma si rese conto che era tardi e che probabilmente i suoi genitori stavano già dormendo. Allora afferrò il cellulare e chiamò l’unica persona in grado di prendere su di sé parte della sua preoccupazione, perché le sofferenze di George erano anche quelle di lui.
Una voce un po’ assonnata rispose dall’altro capo del telefono, e George si sentì improvvisamente sollevato.
«Will» disse, finalmente in grado di respirare.
 
---
 
Rose spalancò gli occhi e allungò una mano verso il comodino per afferrare Cortana, ma la spada cadde al suolo con un rumore assordante che echeggiò per tutta la camera.
Si sedette di scatto sul letto e accese la luce. Era sudata, la camicia da notte appiccicata al corpo e il cuore che le batteva forte nel petto a causa dell’incubo che aveva appena avuto. Sentiva ancora il sapore del sangue in bocca.
«Holly?»
Sua sorella se ne stava in piedi di fianco al suo letto con gli occhi rossi e un peluche stretto sotto al braccio. Non stava piangendo, gli Shadowhunters non lo facevano spesso, ma le sue guance erano bagnate di lacrime.
«Ho avuto un incubo» disse seria, il viso pallido incoronato dai capelli biondi. Stava tremando leggermente nel suo pigiama con gli orsetti. «Brutto».
Rose gettò un’occhiata alla sveglia sul comodino per controllare l’ora: erano quasi le due di notte e i suoi genitori dovevano essere già tornati, ma non era la prima volta che Holly andava da Rose dopo aver avuto un incubo.
«Vieni qui». Scostò le coperte di lato e le fece spazio nel letto. «Anche io ho appena avuto un brutto sogno».
Holly le si accovacciò accanto e le posò la testa sulla spalla. Rose la abbracciò e la strinse un po’ a sé, seppellendo il viso nei suoi capelli e traendo conforto dalla presenza di un corpo caldo accanto al suo. Holly profumava di cioccolato, di sapone e di casa, e Rose chiuse gli occhi, sentendo pian piano rallentare il battito del proprio cuore.
«Dimmi la verità» le disse poi. «Sei andata a rubare del cioccolato prima di venire qui».
Holly stette in silenzio per qualche secondo, poi sospirò. «Non dirlo a mamma e a papà».
Holly amava il cioccolato e spesso nascondeva delle barrette nella sua camera, facendo arrabbiare i loro genitori che le avevano proibito di mangiare cioccolato dopo cena e prima di andare a dormire.
Rose ridacchiò e le diede un bacio sulla fronte.
«Cosa succedeva nel sogno?» Parlare dei propri incubi aiutava a superarli e a rendersi conto di quanto fossero assurdi in realtà.
«C’eri tu, e papà» iniziò Holly. «C’era tanto sangue. Tu avevi gli occhi spalancati ma non ti muovevi, eri morta. E papà…» Holly iniziò a singhiozzare e Rose la strinse un po’ di più a sé, trattenendo un sussulto. Sapeva come terminare la frase, conosceva quell’incubo perché lo aveva appena avuto anche lei.
E papà veniva torturato da una figura senza volto.
«C’era una persona con una spada in mano e anche io ero morta». Holly aveva smesso di piangere. «L’unica viva era la mamma».
«Basta così». Aveva iniziato a tremare anche Rose. Com’era possibile che avessero avuto lo stesso incubo? Una coincidenza, si disse. «Non devi andare avanti. Era solo un brutto sogno, Holly. Mamma e papà stanno bene, io sto bene, vedi? Non ti preoccupare, torna a dormire e non pensarci più».
Sentì Holly annuire vicino al suo collo; pian piano i respiri della bambina si fecero più regolari e si addormentò, ma Rose non riuscì più a prendere sonno. 

NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il secondo capitolo. Come promesso avete conosciuto meglio Cath -e George, e ci sono i Jemma. Julian e Emma sono i miei personaggi preferiti e temo si veda, quindi vi chiedo scusa se preferite qualcun altro, ma vi prometto che pian piano cercherò di inserire tutti i personaggi principali di TMI e TDA, almeno per qualche scena. E' un po' difficile perché sono tantissimi, ma ci sto provando! 
A settimana prossima e grazie per aver letto,

Francesca 

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre. ***


Rinnovo l'avviso: SPOILER da Lord of Shadows (Signore delle Ombre, che uscira a settembre in italiano) 
 
Capitolo Tre
 
La mattina seguente Holly sembrava non aver più alcuna preoccupazione al mondo. Aveva mangiato i suoi pancake annegandoli di cioccolato come ogni venerdì e se n’era andata nella sua camera a disegnare con le matite colorate che le avevano regalato per il compleanno.
Rose, al contrario, era inquieta e non riusciva a smettere di pensare a quanto accaduto la sera prima.
L’incubo era lo stesso, Rose ne era più che convinta. Lei, Holly e loro padre morti, i loro corpi mutilati e ricoperti di sangue, l’unica viva loro madre che piangeva e si copriva il volto con le mani.
Rose non aveva toccato cibo quella mattina: si sentiva male, lo stomaco chiuso, la bocca impastata come se avesse ingerito del gesso, tanto che Julian aveva finito di lavare i piatti e lei era ancora seduta al tavolo con metà dei suoi pancake davanti a sé
«Non stai bene, Rose?» le chiese lui, sedendosi vicino a lei. «Vuoi del tè?»
Rose scosse il capo e non disse niente. Si sentiva una stupida perché sapeva che si trattava solo di un sogno, che non era reale, eppure non poteva fare a meno di continuare a riviverlo nella propria mente.
Emma stava in piedi davanti al frigorifero con aria assonnata. «Tu e le tue origini inglesi» borbottò tra sé e sé mentre si versava un bicchiere di succo d’arancia. Si voltò verso di loro e rivolse a Rose uno sguardo preoccupato. «Se Jace ti ha avvelenato, mi sentirà».
Rose non poté fare a meno di sorridere. «No no, non è colpa sua. Cucina bene».
«Ci sarà mai una cosa che gli Herondale non sanno fare?» continuò sua madre pensierosa. Julian arricciò il naso e la guardò storto.
«Mamma!» esclamò Rose, la cui mente era volata direttamente a Will senza che lei potesse fermarla.
«Che c’è? È vero! E Will è sulla buona strada, somiglia a Jace da giovane».
Jace e Clary erano molto famosi nel mondo degli Shadowhunters –prima ancora che lo diventassero Emma e Julian- e Jace veniva definito il miglior guerriero della sua generazione. Quando Emma aveva dodici anni, e Jace diciassette, aveva avuto una cotta per lui, che però non era durata per molto tempo.
Bleah, pensò Rose. Non che Jace fosse brutto, anzi, se da giovane somigliava davvero a Will come tutti dicevano… be’, Rose non poteva certo biasimare sua madre. Però erano così simili che Rose sospettava che se mai fossero davvero usciti insieme non sarebbero sopravvissuti al primo appuntamento.
«Allora potete trasferirvi tutte a New York» disse Julian, fingendosi offeso. «Dato che gli Herondale sono così fantastici».
Emma gli fece una linguaccia e Rose sentì un vuoto all’altezza dello stomaco al pensiero di dover vivere senza di lui per davvero. «No» disse semplicemente, gli occhi che bruciavano. Le era tornato in mente l’incubo che aveva avuto la notte precedente, in particolare l’immagine di suo padre a terra agonizzante. 
«Rose» la chiamò lui. «Sicura che non debba chiamare un Fratello Silente?»
Le mise una mano sulla fronte per sentirle la temperatura e per poco Rose non singhiozzò.
«Ho fatto un brutto sogno stanotte» confessò di getto. «Eravamo tutti morti, tranne la mamma. È stato terribile, terribile. E Holly ha avuto lo stesso identico incubo»
Emma fece un verso strano e si portò una mano tremante alla bocca.
I suoi genitori si scambiarono un’occhiata veloce che valeva più di mille parole. Rose spesso si era ritrovata a chiedersi se tutti i genitori fossero in grado di farlo –di comunicare senza usare le parole- o se era una cosa che era rimasta a loro come residuo del legame parabatai.
«Cosa?» Rose raddrizzò la schiena e spostò lo sguardo dall’uno all’altra. «Cosa c’è?»
Emma era diventata dello stesso colore di un panno sporco e Julian fu al suo fianco nel giro di una manciata di secondi. Le prese la mano e Rose lo vide tracciarle delle lettere sul polso con l’indice.
«Odio quando lo fate!» sbottò, sbattendo una mano sul tavolo. Normalmente non si sarebbe comportata in quel modo, ma la notte in bianco e la paura si stavano facendo sentire.
I suoi genitori la guardarono confusi e lei continuò: «Quando vi scrivete sulla pelle. Voglio sapere che cosa vi state dicendo! Non sono Holly, sono quasi un’adulta ormai».
Julian lasciò andare la mano di Emma e la guardò negli occhi. «Va tutto bene, Rose. Era solo un sogno».
«E allora perché sembra che la mamma abbia appena visto un fantasma?» chiese Rose, indicando sua madre con la mano. Ma quando puntò di nuovo gli occhi su di lei sembrava stesse bene, la sua espressione ora era tranquilla, rilassata quasi.
«Ha ragione tuo padre» le sorrise e poggiò il bicchiere sul tavolo. Non stava tremando più. «Era solo un incubo. Può succedere».
Rose era furiosa perché sentiva che c’era qualcosa che non le stavano dicendo. «Bene» disse. «Continuate a tenermi all’oscuro».
«Qualcuno è nervoso questa mattina?» Rose voltò il capo di scatto, sul punto di lanciare la forchetta che aveva in mano, ma si bloccò quando vide suo zio Kit sulla soglia della porta con Holly al suo fianco.
Rose incrociò le braccia al petto. «No, sto benissimo. Mi trattano solo come una bambina».
«Tecnicamente lo sei ancora» intervenne zio Ty, che era appena comparso di fianco a Kit. «Almeno fino al 26 Ottobre».
Ty era lo zio preferito di Rose –zio Mark non doveva assolutamente venire a saperlo- e Rose si illuminò quando lo vide, nonostante in quel momento non fosse dalla sua parte.
«Sto imparando a programmare» gli disse, dimenticandosi dei sogni, di essere arrabbiata con i suoi genitori, di tutto.
Ty le sorrise. «Tra poco sarai tu a dover insegnare a me».
Ty era il responsabile dell’istruzione dei ragazzi all’Istituto, mentre Kit si occupava del loro allenamento fisico. Holly era troppo piccola per imparare ad usare delle vere e proprie armi, ma spesso Kit la portava nella palestra a giocare con delle spade di legno con le punte smussate.
«Ho trovato questa qui in giro per i corridoi con ben due barrette di cioccolato in mano» spiegò Kit riferendosi a Holly, che seppellì il viso contro il suo fianco come a volersi nascondere.
«Holly!» esclamò Emma. «Quante volte ti ho detto che il cioccolato non si mangia dopo i pasti?»
Holly borbottò qualcosa e Rose si mise a ridere, ma venne subito fulminata da suo padre.
Julian allungò una mano verso Kit. «Dalle a me, gliele nascondo sulla mensola alta».
«Ne ho sequestrata una e abbiamo fatto metà per uno dell’altra». Kit ghignò, porgendo a Julian una barretta di cioccolato al latte. «Vero, Holly?»
Holly alzò il capo e sorrise, le mancavano due denti davanti ed era così carina che Rose si chiedeva come i suoi genitori potessero davvero essere arrabbiati con lei.
Julian gli rivolse un’occhiata perplessa, come se stesse decidendo se lasciar correre o rimproverare sia zio Kit che Holly, ma Emma lo precedette.
«D’accordo». Si mise le mani sui fianchi ed era evidente per Rose che stesse cercando di non mettersi a ridere. «Adesso sparite dalla mia vista prima che butti via tutto il cioccolato che abbiamo in casa».
«No!» si lamentò Holly, gli occhi pieni di lacrime.  Sua madre amava il cioccolato quasi quanto Holly e Rose sapeva che non lo avrebbe mai fatto, ma sua sorella pareva davvero spaventata.
«Andiamo a giocare con Livvy, va bene?» propose Ty, posandole una mano sulla spalla.
Ty e Kit avevano adottato Livia quando era appena nata. La madre era morta dandola alla luce e non c’erano notizie del padre, perciò Ty, che si trovava a Idris al tempo, era tornato a casa con la bambina in fasce, proponendo a Kit di adottarla.
Holly annuì, un po’ triste per la minaccia di Emma, e Kit e Ty la portarono via, lasciando Rose in cucina con i suoi genitori.
Julian fece per dirle qualcosa, ma Rose poggiò la forchetta sul tavolo e se ne andò, sbattendo la porta dietro di sé, ancora arrabbiata con loro.
 
Rose continuava a pensare all’incubo e alla discussione avuta con i suoi genitori. Aveva passato il resto della mattinata in spiaggia, correndo lungo la riva e tuffandosi nel mare ogni tanto. Quando era tornata all’Istituto aveva mangiato la pasta lasciata da suo padre, cercando però di evitare i suoi genitori e riuscendo nell’intento.
Si era fatta una doccia e si era infilata un paio di pantaloncini della tuta e una maglietta sformata, per poi aprire l’armadio e decidere cosa indossare quella sera. Dopo un’attenta analisi, aveva ridotto la scelta a due vestiti, che aveva gettato sul letto e che ora stava fissando con estrema attenzione. Uno era azzurro, stretto sotto al seno e lungo fino alle caviglie, l’altro era rosso e le arrivava al ginocchio.
I capelli le si stavano pian piano asciugando da soli, arricciandosi in morbidi boccoli sulle punte. Era autunno ormai e, nonostante le giornate si stessero pian piano accorciando, il clima era ancora mite a Los Angeles, così che Rose non avrebbe avuto bisogno anche di una giacca.
Un problema in meno, pensò, mettendosi le mani sui fianchi e scrutando i due vestiti intensamente.
«Rose». Suo padre stava bussando piano alla porta. «Rose, posso entrare?»
«No» urlò lei, incrociando le braccia al petto. «Non puoi».
Julian sospirò e questa volta Rose si sentì in colpa. «Va bene» si affrettò a dire prima che lui se ne andasse. «Vieni pure».
Julian aprì la porta ed entrò nella stanza. Le si avvicinò senza dire niente e le si mise vicino, osservando anche lui i due vestiti con fare critico.
«Scelta difficile» iniziò. «Devo chiamare la mamma?»
Rose scosse il capo. «Mi piacciono tutti e due, ma non so decidermi».
Julian le sorrise e Rose si dimenticò di essere arrabbiata con lui. «Quello azzurro. E non lo sto dicendo perché è quello che copre più pelle. Ti mette in risalto gli occhi».
Rose arrossì un po’ ed alzò le spalle. «Sì, credo che metterò quello perché è lungo, almeno non si vedono le cicatrici sulle gambe».
«I tuoi marchi sono parte di ciò che sei, Rose». Suo padre la stava osservando con aria dispiaciuta. «Vorrei che fosse diverso, che tu non dovessi essere costretta a vivere questa vita fatta di sofferenza e perdite, che potessi andare all’università e imparare tutto quello che c’è da sapere sui computer, ma…»
«Lo so» lo interruppe lei. «Sono una Shadowhunter. Non vorrei essere qualcos’altro. Ne sono fiera, sul serio».
Julian la guardò con occhi grandi. Fece per dire qualcosa, ma sembrò cambiare idea.
«Me la ricordi così tanto» sospirò infine, e Rose sentì il dolore nelle sue parole.
«Zia Livvy, intendi?» chiese piano lei, sapendo già la risposta.
Livia era stata la sorella di suo padre e la gemella di zio Ty. Era morta, era stata assassinata durante la guerra contro la Corte Unseelie avvenuta prima che lei nascesse. Spesso i suoi parenti le avevano detto che le somigliava, però Livvy era un argomento alquanto tabù nella loro famiglia, perché Rose vedeva la sofferenza negli occhi di tutti quando parlavano di lei, anche a distanza di anni.
Julian annuì. «Non solo per l’aspetto. Voglio dire, anche lei era bellissima, ma era anche determinata, e coraggiosa, e intelligente. Come te»
Rose non sapeva bene come reagire. «Avrei tanto voluto conoscerla»
«Ti sarebbe piaciuta» disse Julian. Poi scrollò le spalle e indicò il vestito azzurro. «Metti quello, ascolta il tuo papà».
Rose si convinse e iniziò a pensare alle scarpe da abbinare. Escluse quelle con il tacco perché Logan non era particolarmente alto e optò per quei sandali argento che aveva appena comprato in saldo da Secret Planet.
Dovresti mettere le scarpe che vuoi senza pensare al ragazzo con cui esci, diceva la voce nella sua testa spaventosamente simile a quella di sua madre, ma lei la scacciò via.
«Lo sai che io e la mamma vogliamo solo che tu sia felice, vero?» disse ad un certo punto Julian, riferendosi a quanto accaduto quella mattina.
«Sì» rispose Rose, raddrizzando un po’ le spalle. «Ma voglio sapere quello che succede. Tra poco avrò diciotto anni e non potrete più trattarmi come la vostra bambina, sarò ufficialmente un membro del Conclave e voi…»
«Sarai sempre la nostra bambina» sussurrò suo padre, così piano che Rose credette di esserselo immaginato. Poi si passò una mano sul viso, come se fosse profondamente stanco. Aveva dei cerchi violacei sotto agli occhi che rendevano il loro colore ancora più intenso. Probabilmente aveva fatto tardi la sera precedente e aveva dormito poco, pensò Rose. «Era solamente un incubo, Rose, e la mamma era dispiaciuta che abbiate avuto un sogno tanto brutto».
«Ma…»
«Non è nulla» tagliò corto lui, poi le mise una mano sulla spalla e una sulla guancia. «Promettimi che non ci penserai più. Devi pensare al tuo appuntamento adesso, e a divertirti. Okay?»
Rose annuì, distogliendo lo sguardo.
«Vuoi che ti faccia le trecce?» le chiese poi lui, toccandole distrattamente i capelli. Julian faceva sempre le treccine a Rose e a Holly; d'altronde quando ti ritrovavi a crescere due sorelle più piccole dovevi per forza imparare a fare certe cose.
«No, grazie» disse Rose. «Li tengo sciolti questa sera».
«Certo» Julian le sorrise, un sorriso delicato, quasi nostalgico, e abbassò la mano. «Sarà meglio che vada ora, ho promesso a Holly che l’avrei portata nello studio a colorare».
Si avviò verso la porta e abbassò la maniglia, poi si voltò. «Buona serata. Promettimi solo che starai attenta».
«Io sono sempre attenta» replicò Rose, con una strana sensazione all’altezza dello stomaco.
 
Logan la stava aspettando davanti all’Istituto come d’accordo. Era appoggiato a uno dei pilastri del portico con le mani infilate nelle tasche e un’espressione rilassata sul viso. Indossava una camicia a maniche corte con una stampa floreale e un paio di pantaloni cachi che gli arrivavano al ginocchio. Era una sera piuttosto calda e soffiava una leggera brezza che gli scompigliava i capelli rossi.
«Rose» disse con un sorriso quando la notò. «Sei bellissima».
Lo stomaco di Rose si contrasse. Nessuno a parte i suoi familiari –e Jace- le aveva mai detto che era bella. Non che Rose si facesse complessi sul suo aspetto, ma era carino sentirselo dire dal ragazzo che ti piace.
Be’, non avrebbe potuto dire altrimenti, no? Si ricordò con una punta di cinismo.
«Grazie» gli rispose, scacciando quei pensieri dalla mente e cercando di comportarsi come una persona normale al primo appuntamento. Che cosa le aveva consigliato Cath?
Fagli anche tu dei complimenti e fingiti interessata a ciò che dice anche se in realtà preferiresti buttarti da uno scoglio.
«Anche tu stai bene» aggiunse, ed era vero. Logan era bello, non bello da far male come Will, ma bello in un modo più delicato e meno appariscente.
Decisero di andare a mangiare in un ristorante messicano in riva al mare. Rose di solito evitava la cucina messicana perché era abituata alle enchiladas di sua zia Cristina, però doveva ammettere che anche quelle che provò quella sera erano molto buone.
Alla fine della cena, era chiaro a Rose che Logan stesse cercando in tutti i modi di impressionarla. Siccome lui aveva diciannove anni, le aveva raccontato di quando era andato a Idris per prendere parte a una riunione del Conclave, incontrando così Simon Lovelace, che era stato Console per parecchio tempo ed era una figura di spicco nel Concilio. Rose gli aveva parlato precedentemente di Will e George e delle loro famiglie, ma Logan sembrava non aver collegato le cose e lei non glielo aveva fatto notare.
Aveva anche scoperto che era un surfista, e Rose odiava i surfisti, perché si credevano i padroni della spiaggia e non le permettevano di nuotare in santa pace. Ma non disse neppure questo.
«Ti ho già parlato del fatto che so tradurre due lingue demoniache?» le chiese poi lui, mentre si dirigevano verso il molo di Santa Monica.
Rose conosceva tre lingue demoniache e sua madre le aveva insegnato a imprecare in cinque. Ovviamente suo padre ne era all’oscuro. «Uhm, penso che tu lo abbia accennato prima».
Sì, lo aveva accennato prima.
Era ormai calta la sera e le luci del Luna Park brillavano frizzanti, creando un contrasto con l’oscurità del cielo e dell’oceano, che ora sembravano un tutt’uno indefinito. La ruota panoramica aveva sempre affascinato Rose, nonostante non ci fosse mai salita perché era un po’ spaventata dalle altezze. La metteva a disagio l’idea di stare sospesa nel vuoto e si domandava spesso come i mondani potessero prendere l’aereo in tutta tranquillità. Si era però ripromessa che prima o poi ci sarebbe salita –sulla ruota, non sull’aereo- perché doveva essere meraviglioso poter ammirare Los Angeles e le sue luci dall’alto.
Il molo non era molto affollato quel venerdì, complice il fatto che le giornate si stessero accorciando e facendo pian piano più fredde, e Logan e Rose riuscirono a raggiungere la sua estremità passeggiando tranquillamente.
«Qual è la tua arma preferita?» le chiese lui ad un tratto, appoggiandosi con la schiena al parapetto del molo.
Rose si affacciò alla ringhiera e guardò l’oceano davanti a sé, beandosi dell’odore del mare e dei suoi spruzzi sulla pelle. «Cortana».
Logan aggrottò le sopracciglia e parve non capire. «Cortana?»
«Sì» disse Rose. «È la spada di mia madre. E presto sarà mia».
«Ah, ma certo». Logan annuì, capendo di cosa stava parlando. «La famosa Cortana della famosa Emma Carstairs».
Cortana era una spada molto conosciuta nel mondo degli Shadowhunters, forgiata da Wayland il Fabbro con lo stesso acciaio e tempra di Gioiosa e Durlindana. Poteva tagliare qualsiasi cosa. Qualsiasi.
«Sono sicuro che la porterai con l’orgoglio di tua madre» disse Logan. «Anche se è una spada corta e non è molto pratica. Preferisco le spade angeliche».
Rose era felice che lui fosse sincero con lei, però le sembrava di star sbagliando qualcosa, perché di ogni cosa che lei diceva, lui pensava l’opposto.
Rose non capiva e sentiva gli ingranaggi del suo cervello lavorare per cercare una spiegazione al comportamento di Logan. Era normale? O non avevano molte cose in comune? Cosa doveva fare?
Certo che era normale, si disse, con una punta di panico che iniziava a farsi spazio nel petto. Si stavano conoscendo, era così che funzionava. Semplicemente Rose non era abituata a uscire con nuovi ragazzi: aveva sempre avuto solo George e Will, e loro erano i suoi migliori amici. Non aveva avuto bisogno di conoscerli perché ci era cresciuta insieme.
«Quindi di solito usi le spade angeliche?» chiese allora, voltandosi verso Logan e dando le spalle all’oceano.
«Già» disse lui. «Me la cavo anche con arco e frecce, ma preferisco le spade angeliche. Sono più comode e spaventano i demoni».
Il suo ragionamento non faceva una piega, e Rose si rese conto di aver preso troppo sul personale il commento su Cortana. Anche Will adorava le spade angeliche, come molti altri Shadowhunters. Era lei quella strana che preferiva una spada corta.
Qualcosa catturò l’attenzione di Rose. Aveva visto con la coda dell’occhio un’ombra aggirarsi tra i mondani, per poi scomparire dietro a un lampione. Sbatté le palpebre un paio di volte, ma era sparita. Aveva una forma umanoide e non sembrava un demone, ma Rose l’aveva intravista per così poco tempo che poteva sbagliarsi. Non si era disegnata alcuna runa quella sera, non pensava che ne avrebbe avuto bisogno, perciò la sua vista notturna non era particolarmente affilata in quel momento, e si convinse di esserselo immaginato.
«Credo sia meglio che vada». Si passò le mani lungo le braccia, sentendo improvvisamente freddo. «Mio padre non vuole che faccia troppo tardi».
Non era vero, Rose non aveva un coprifuoco da anni ormai, e non sapeva come mai stesse mentendo. Anche se doveva ammettere che l’ombra l’aveva fatta agitare un po’.
Stai facendo la paranoica, si rimproverò. Cercò di pensare razionalmente: se ciò che aveva visto fosse stata una minaccia, li avrebbe già attaccati. E poi non era una sprovveduta, aveva delle armi e il suo stilo con sé.
«Ma certo». Logan parve preso di sprovvista, ma si ricompose subito e le sorrise. «Non vorrei mai far arrabbiare Julian Blackthorn. Ti accompagno».
Rose si rese conto che sicuramente gli era sembrata una ragazzina che doveva ancora dar conto ai propri genitori.
Wow, brava. Si disse depressa. Tu sì che sai come fare colpo.
Sulla strada del ritorno, Rose si domandò se Logan fosse a conoscenza della relazione che sua madre e suo padre avevano avuto alla loro età. Chissà che tipo era Cameron e se era stato davvero innamorato di Emma. Rose si sentiva quasi dispiaciuta per lui perché sapeva che sua madre non aveva neanche un briciolo di tatto e che probabilmente lo aveva trattato in modo molto superficiale. Se poi non era una relazione seria, significava che…
O mio Dio. Rose si rese conto solo in quel momento che sua madre era sicuramente andata a letto con il padre di Logan.
Che schifo, che schifo. Rose, ma perché pensi a queste cose? Smettila immediatamente.
L’idea che i suoi genitori avessero avuto, e che avessero tutt’ora, una vita sessuale la faceva rabbrividire. Lei e Holly erano state trovate sotto a un cavolo. Era molto più semplice pensarla così.
Senza rendersene conto, erano arrivati davanti all’entrata dell’Istituto. Rose non capiva bene come si sentiva, provava tanti sentimenti tutti insieme e faceva fatica a separarli. Era contenta, certo che lo era, ma provava anche qualcos’altro: non aveva dimenticato l’incubo avuto la notte precedente, né la figura sul molo, e in qualche modo fu sollevata di essere di nuovo a casa.
«Grazie per la serata» disse a Logan. «Buonanotte».
Ma non fece in tempo a mettere il piede sul primo gradino che lui la prese delicatamente per un braccio e le mise due dita sotto al mento. «Aspetta, Rose. Lascia che ti saluti come si deve».
Posò le labbra sulle sue e Rose rimase immobile per una manciata di secondi, perché non se lo aspettava per niente.
Logan la attirò a sé e cercò di approfondire il bacio, e Rose glielo lasciò fare, aprendo la bocca e permettendogli di esplorarla con la lingua. Cercò di scollegare il cervello: gli accarezzò la base del collo, dove la pelle era più delicata e si incontrava con i capelli, e lo sentì sospirare sulle sue labbra. Logan si allontanò leggermente e la guardò negli occhi. Rose non aveva mai baciato nessuno e non sapeva se lo aveva fatto bene, ma lui sembrava soddisfatto e lei si rilassò.
«Ci vediamo domani?» le chiese, dandole un bacio a stampo.
Rose gli sorrise e annuì, pensando che allora l’appuntamento non doveva essere andato poi così male.
 
NOTE DELL'AUTRICE
Lo so, lo so, oggi non è venerdì, però questo weekend non potrò pubblicare e quindi ho anticipato a oggi. :)
Non ho molto da dire in realtà. Avete finalmente conosciuto Logan, a voi i pareri: meglio lui o Will? Penso di sapere già la risposta, ma chi lo sa... ahaha.
Nulla, spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

A presto,

Francesca 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro. ***


Capitolo quattro
 
Will continuava a rigirarsi nel letto e non riusciva a prendere sonno.
Erano le sette della mattina e gli sarebbe piaciuto dormire per qualche ora ancora, dato che era stato al telefono con George fino a notte inoltrata, ma la sua mente non gli dava tregua.
Chissà com’è andato l’appuntamento di Rose.
Non riusciva a pensare ad altro.
George continuava a ripetergli che doveva prendere una decisione: o confessarle i propri sentimenti, o metterci una pietra sopra. La prima opzione non poteva essere presa in considerazione, non in quel momento, e la seconda... Come poteva smettere di amarla?
Ci aveva provato. Dio solo sa quanto ci avesse provato. Era uscito con delle ragazze, le aveva baciate, aveva tentato di farsele piacere, ma senza alcun risultato. Non si era mai spinto oltre perché non si sentiva neppure particolarmente attratto da loro, per quanto oggettivamente belle fossero, tanto che era arrivato a interrogarsi sulla propria sessualità quando aveva quindici anni. Aveva concluso che nella sua mente c’era spazio solo per una ragazza, e il suo cuore e la sua anima l’avevano già scelta: Rose. Rose, Rose, Rose. Era arrivato a un punto dove non voleva neanche desiderare qualcun altro.
Ma Rose non ricambiava i suoi sentimenti: aveva una cotta per Logan Ashdown adesso, e ogni volta che parlava di lui era per Will come una doccia nell’acido.
Will aveva sperato che un giorno Rose si accorgesse di essere sempre stata innamorata di lui, ma ormai aveva diciotto anni e quel giorno non era ancora arrivato.
Non ti vuole, si ripeteva disperatamente. Fattene una ragione.
E se la faceva, una ragione, fino a quando lei gli dava un bacio sulla guancia o lo prendeva per mano, risvegliando tutto ciò che si era così tanto sforzato di seppellire nei luoghi più profondi della sua anima.
Non stai bene.
Non l’hai superata.
Non desidererai mai nessun’altra che non sia lei.
Si alzò dal letto e, dopo essersi fatto una doccia per schiarirsi le idee, indossò una maglietta grigia e un paio di pantaloni, per poi dirigersi in cucina a fare colazione.
Sua madre stava preparando il caffè, mentre suo padre stava mettendo le uova nel piatto di Elizabeth, che guardava dritto nel vuoto davanti a sé, probabilmente in procinto di riaddormentarsi.
«Uova?» gli chiese suo padre con un sorriso pimpante, come se fosse sveglio da ore e non fosse appena sceso dal letto. O forse era davvero sveglio da ore, dato che era già vestito di tutto punto con una camicia bianca infilata in un paio di jeans scuri. Anche sua madre era già vestita, segno che avevano avuto qualche impegno di lavoro di prima mattina.
Will scosse il capo e si diresse verso il frigorifero. Lo aprì e prese il cartone del latte.
«Non ti azzardare, William» lo rimproverò Clary, afferrando una tazza e piantandogliela in mano.
«Ma è quasi finito!» si lamentò Will, facendo riferimento al latte.
«Non mi interessa» rispose lei. «Puoi benissimo fare colazione usando una tazza come le persone civili».
Will brontolò qualcosa tra sé e sé e si sedette di fianco a sua sorella, alla quale era appena arrivato un messaggio.
«Chi è Peter?» chiese Will, sbirciando lo schermo del cellulare.
«Nessuno!» urlò lei, diventando tutta rossa e tirandogli uno spintone.
«Peter?» fece suo padre, prendendo anche lui posto a tavola. «Chi diavolo è Peter?»
«Nessuno» mugugnò Lizzie, iniziando a mangiare le sue uova imbronciata.
«Datele una tregua» sospirò Clary, posando una tazza di caffè di fronte a Jace. Lui le prese la mano e le stampò un bacio sul palmo, e lei gli accarezzò piano i capelli. «Non ascoltarli, Lizzie».
«Voglio solo sapere chi frequenta mia figlia» spiegò Jace, alzando le spalle.
«Non frequento nessuno» continuò lei. Bevve una sorsata di succo di arancia così lunga che Will temette potesse affogare.
«Non c’è bisogno che tu lo presenti a papà». Will si versò dei cereali nel latte e le fece l’occhiolino. «Basta che lo fai conoscere a me».
Lizzie sbatté la forchetta sul tavolo. «Smettetela!»
«D’accordo» accettò suo padre con un ghigno. «Visto che non posso infastidire l’altra mia figlia, che ha deciso di spezzarmi il cuore e non solo di andare a convivere, ma anche di sposarsi, toccherà a Will. Com’è andato l’appuntamento di Rose?»
Will tenne gli occhi fissi sui suoi cereali e mugugnò un: «Non lo so».
«Come non lo sai?» continuò suo padre, beccandosi una gomitata da Clary.
«Mi sono appena svegliato» commentò freddo Will. «E Rose starà ancora dormendo».
Alzò il capo e trovò gli occhi dorati del padre che lo fissavano attenti. Non aveva più il ghigno divertito che aveva usato per prendere in giro Lizzie, ma al contrario gli stava rivolgendo un’espressione quasi preoccupata.
«E tu stai bene, tesoro?» gli chiese Clary, bevendo un sorso di caffè.
Will sentì il proprio cuore fermarsi. Possibile che avessero davvero capito…?
«Perché non hai un bel colorito questa mattina» continuò lei, avvicinandosi e posandogli una mano sulla guancia.
«Sto bene» disse Will, allontanandosi dalla madre con una scrollata di spalle. «Ho dormito poco questa notte».
I suoi genitori gli fecero la grazia di lasciar cadere il discorso e Will poté finire la sua colazione in santa pace. Una volta terminato, si alzò per andare da George, ma non fece in tempo a uscire dalla porta della cucina che si scontrò proprio con il suo parabatai.
George sembrava stanco. Aveva dei cerchi violacei attorno agli occhi e un’espressione tesa sul volto. Cath era con lui e anche lei non se la stava passando molto meglio. Aveva raccolto i capelli in uno chignon basso alla base del capo ed era truccata e impeccabile come suo solito, ma Will aveva imparato a conoscerla e sapeva che in realtà stava soffrendo molto. 
«Ehi» gli disse George, posandogli una mano sulla spalla. «Come stai?»
«Bene». Will forzò un sorriso, sapendo che George avrebbe capito lo stesso. E infatti George rafforzò la presa sulla sua spalla in segno di conforto.
«E tu, Cath?» continuò Will, rivolgendosi alla ragazza. «Tutto okay?»
«Certo» rispose lei con la schiena dritta e lo sguardo fermo. «So gestire mio padre ormai».
George sbuffò e alzò gli occhi al cielo, per poi entrare in cucina senza aspettarli.
Cath parve sgonfiarsi, e guardò George allontanarsi come se fosse sul punto di mettersi a piangere.
«Lo sai che è solo preoccupato per te, vero?» le disse piano Will.
Lei annuì e Will notò che le erano venuti gli occhi lucidi.
Raggiunsero George in cucina e lo trovarono intento a parlare con i genitori di Will degli omicidi che si erano verificati negli ultimi tempi in giro per il mondo: Londra, Città del Capo, e ora anche New York.
«Questa mattina siamo stati in chiamata con Joseph Rosewain dell’Istituto di Stoccolma. Hanno trovato i corpi di suo figlio con la moglie e i nipoti, uccisi…» Clary si incupì. «La cosa strana è che solamente una delle bambine è stata torturata. L’assassino ha ucciso gli altri tre con un colpo netto al cuore. Non si sa se per mancanza di tempo o altro…»
Cath si portò una mano alla bocca e Will si sedette su uno sgabello della penisola.
«Hanno qualcosa in comune con gli altri omicidi?» chiese. «I corpi che abbiamo trovato George e io sono stati decapitati, ed erano mondani».
«Non c’è nessuna continuità tra gli omicidi». Jace scosse il capo. «Non avevano mai colpito per più di una volta in una città, ma questa è la seconda volta che accade a Stoccolma».
«Dovremmo intensificare le pattuglie, allora. Anche durante il giorno» disse George, prendendo il cellulare. «Scrivo a Rose di venire qua così non si perde tutto il divertimento».
«Rose e Cath sono ancora minorenni» fece notare Jace. «Non si tratta di uccidere demoni mantide o divoratori, si sta parlando di qualcosa di molto più pericoloso, e…»
«Signor Herondale» iniziò Cath. «Credo che Rose e io possiamo cavarcela»,
«Come se tu alla loro età non avessi affrontato di peggio» disse Will.
I suoi genitori avevano salvato il mondo da Sebastian Morgenstern quando avevano a mala pena diciassette anni e avevano corso più rischi di quanti ne avesse corsi Will in tutta la sua vita.
«E poi Rose sarà maggiorenne tra meno di un mese» continuò, sapendo quanto valessero sul campo le due ragazze.
«Sarà solo una normale pattuglia per assicurarci che non ci siano altri cadaveri sparsi per la città» promise George, passandosi una mano tra i capelli scuri e scompigliandoli ancora di più.
Will poteva sentire nelle ossa il suo stesso desiderio di avere qualcosa da fare, qualcosa per tenere impegnata la mente.
Jace sospirò. «Se qualcuno lo chiede, io non vi ho dato il permesso».
«Anche io voglio andare!» esclamò Lizzie con gli occhi che brillavano. Quel giorno si era fatta due treccine che le arrivavano quasi alla vita e la facevano sembrare ancora più giovane.
«Non se ne parla neanche» stabilì Clary. I ragazzi sono adulti ormai, e Rose lo sarà tra pochissimo. Per quanto riguarda Catherine… mi sentirei un’ipocrita a impedirle di andare. Tu sei troppo piccola e devi allenarti. Su!» le fece segno di alzarsi. «Marisol ti sta aspettando».
Lizzie brontolò tra sé e sé, ma ubbidì.
«Voi quattro, invece». Jace li guardò uno ad uno. «Non fate sciocchezze. Non voglio avervi sulla coscienza».
 
Will disegnò un portale nel corridoio dell’Istituto per Rose. Lo oltrepassò e si ritrovò davanti alla sua camera. Rose era già lì che lo aspettava, in tenuta da combattimento nonostante avesse l’aria di una che era appena stata trascinata giù dal letto. Sbadigliò e si passò una mano sul viso, le guance arrossate e gli occhi lucidi per il sonno. Era evidente che si fosse appena svegliata e che si fosse vestita velocemente per essere pronta in orario; Will si sentì quasi mancare. Immaginò come dovesse essere svegliarsi ogni mattina e trovarla al suo fianco, tracciarle il contorno delle labbra con le dita e passarle le mani tra i capelli.
Rose salutò con un sorriso e si materializzarono nuovamente a New York senza perdere tempo. Gli altri avevano già indossato la tenuta da combattimento e la cintura delle armi, e stavano finendo di applicarsi le ultime rune.
«Ciao a tutti» iniziò lei, stiracchiandosi un po’. Will distolse lo sguardo. «George Lovelace, non so se ti perdonerò mai per avermi svegliata».
George alzò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto. «Mi avresti perdonato se non ti avessi chiamato e avessimo catturato uno degli assassini?»
«Mai». Rose ghignò e gli diede una leggera spallata. George ovviamente non si spostò di mezzo centimetro, essendo molto più alto di Rose; al contrario, fu lei a essere quasi rimbalzata via.
Will la sostenne per un braccio per impedirle di cadere e lei si appoggiò leggermente a lui.
«Grazie, Will» disse. «Meno male che ci sei tu».
Will deglutì, ma non disse niente. In quell’ultimo periodo la situazione stava peggiorando, al punto che spesso aveva paura che Rose capisse quello che provava per lei da una semplice frase o sguardo.
«Mi sa che hai bisogno di una runa per l’equilibrio» la prese in giro George. «Perché fa schifo».
Rose si imbronciò, punta sul vivo, e non gli rivolse la parola per il resto della mattina, durante la quale riuscirono a controllare tutta l’Upper East Side; nel pomeriggio si dedicarono invece all’Upper West Side, per poi decidere di ritornare all’Istituto quando il sole tramontò verso le cinque del pomeriggio, rassegnati all’idea di non aver trovato nulla che potesse aiutare le indagini.
Probabilmente George aveva rovinato l’umore a Rose, pensò Will, perché non disse nulla riguardo l’appuntamento. Will aveva bisogno di sapere com’era andata, se si era divertita, se Logan era l’uomo della sua vita, se gli piaceva ancora di più… doveva sapere e basta. Ma quello non gli sembrava il momento più adeguato per iniziare il discorso. Inoltre era evidente che la mente di George e Cath fosse altrove, perché normalmente sarebbero stati i primi a tirare fuori l’argomento “Logan Ashdown”. George sapeva essere un’inguaribile pettegola e Cath adorava questo genere di cose.
Le giornate si stavano accorciando velocemente e il clima si stava facendo sempre più pungente a New York, ma quello era il periodo dell’anno preferito di Will. Adorava i colori delle foglie in autunno, dal giallo sbiadito al rosso acceso, e il profumo dell’asfalto quando pioveva ininterrottamente per giorni.
«Guardate lì». Era stata Cath a parlare, strappando Will dai suoi pensieri. Camminava in coda al gruppo, tenendosi un po’ lontano dagli altri, le mani in tasca e il cappuccio alzato.
Stavano attraversando Central Park e alla loro sinistra si era radunato un gruppo di quattro persone: due poliziotti e due mondani, un ragazzo e una ragazza che parevano terrorizzati.
Will si mise a correre e raggiunse i suoi amici.
«Quei poliziotti sono demoni» decretò George, l’arco già in mano.
«Ma non possiamo attaccarli davanti ai mondani» disse Rose, sfoderando una spada angelica.
«Non possiamo neanche lasciare che se li mangino» fece notare Will. Uno dei due demoni aveva preso la donna per il braccio.
Will vide Cath sfoderare un pugnale e lanciarlo, senza aver quasi bisogno di prendere la mira. Questo si conficco dritto nel petto del demone, che cadde al suolo e si dissolse nel giro di qualche secondo. I due mondani urlarono e scapparono via. L’altro demone fece per inseguirli, ma George gli trapassò il capo con una freccia.
George e Cath avevano entrambi una mira fenomenale; insieme facevano quasi paura.
Will fischiò. «Bel tiro».
«Chissà cosa pensano di aver appena visto» sospirò Rose, guardando i due ragazzi allontanarsi in fretta e riponendo la spada angelica nella cintura delle armi. I mondani non possedevano la vista e, come diceva sempre il padre di Will, vedevano ciò che volevano vedere.
George fece l’occhiolino a Cath e lei gli sorrise con fare complice. Ma il sorriso le si congelò sulle labbra quando capì che cosa stavano guardando i due ragazzi mondani prima che i demoni arrivassero.
C’era una figura stesa al suolo in una posizione innaturale, come se fosse caduta da un palazzo e morta sul colpo. Le si avvicinarono e inorridirono tutti e quattro. Si trattava del cadavere di un uomo: aveva i capelli scuri incrostati di sangue e gli occhi spalancati. Will rimase impressionato da quest’ultimi perché erano di un verde brillante simile a quelli di Rose. La camicia dell’uomo era stata strappata e sul suo petto erano state incise delle lettere: stiamo arrivando.
«Stiamo arrivando» lesse Cath a bassa voce. «Chi sta arrivando?»
Rose si inginocchiò accanto al corpo e lo osservò con attenzione. «Non è morto qui» decise. «C’è troppo poco sangue sull’erba e le ferite sono ormai secche. È come se fosse stato ucciso in un altro luogo e poi portato qui cosicché lo trovassimo».
«Volevano mandarci un messaggio» disse Will, inquieto. Tutta quella storia non gli piaceva. «Stanno arrivando, ma cosa significa?»
Si voltò e trovò George che lo osservava con sguardo mesto. «Non lo so, ma a me pare che siano già arrivati».
 
Dopo aver chiamato i Fratelli Silenti, erano stati fatti allontanare e la situazione era stata presa in mano dai genitori di Will.
I ragazzi non avevano protestato molto, dal momento che erano stati fuori tutto il giorno ed erano stanchi ed affamati. Inoltre, come se non bastasse, si era alzato il vento e stava iniziando a fare davvero freddo.
Rose rabbrividì nella giacca della tenuta da combattimento, non abituata al clima rigido di New York, e Will dovette reprimere l’istinto di passarle un braccio attorno alle spalle e stringerla a sé.
Rimettiti insieme, si disse, mentre la osservava di sottecchi sperando che lei non lo notasse.
«Sto morendo di fame». Rose alzò lo sguardo e lo colse in flagrante.
Come non detto.
Lei non sembrò far troppo caso al fatto che Will la stava osservando come se fosse un’opera d’arte, e gli sorrise. «Non ho nemmeno fatto colazione. Se non mangio qualcosa, svengo. E poi fa freddo».
«È vero» concordò Cath, sfregandosi le mani nel vano tentativo di riscaldarle. «Si muore di freddo».
Furono tutti d’accordo su quell’ultimo punto e decisero di rifugiarsi da Taki, il ristorante più popolare nella New York dei Nascosti.
Attraversarono in fretta Central Park, cercando di evitare di scontrarsi con i mondani che facevano ritorno a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Era sempre complicato per gli Shadowhunters muoversi tra la folla newyorkese quando si rendevano invisibili a coloro che non possedevano la Vista. Era come fare lo slalom tra le meduse dell’oceano. George non era molto delicato, e spesso prendeva dentro qualche signore che camminava con il viso seppellito nello smartphone, ma questi erano solitamente così di fretta che o non ci facevano caso o pensavano di essere stati presi dentro da un mondano sbadato. George lo odiava, mentre Will lo trovava divertente perché era più agile e la prendeva come una sfida.
Entrarono da Taki con un sospiro di sollievo, beandosi del calore del ristorante. Quella sera era particolarmente affollato, ma Lucy, la cameriera che aveva una cotta vergognosa per Will, riuscì a trovar loro un tavolo vicino alla finestra. Era una fata con i capelli arancioni e la pelle verde chiaro, e sarebbe stata carina se non si fosse messa a ridere per ogni cosa che Will diceva. Erano usciti insieme una volta, ma non aveva funzionato. Will credeva che, anche se non fosse stato innamorato di Rose, non sarebbe mai potuto stare con Lucy. Non erano compatibili.
Cath e George presero posto vicini su una panca, mentre Will e Rose si sedettero di fronte a loro.
Rose tolse la giacca e la appese allo schienale della sedia. Sotto indossava una canottiera verde con una scollatura profonda che lasciava scoperta un sacco di pelle. Quando Will si rese conto che la stava fissando –di nuovo- distolse subito lo sguardo.
«Ci credo che avevi freddo» le disse George. Lui, sotto alla giacca della tenuta, portava una felpa. «Sei praticamente nuda. Cos’è quello, un pigiama?»
Rose alzò gli occhi al cielo. «Mi hai tirato giù dal letto!»
George si sfilò la felpa e gliela porse. «Prendi».
«No, sto bene» disse lei. «Fa caldo qui dentro, colpa dello sbalzo di temperatura».            
Will desiderò avere la nonchalance di George e poter scherzare con Rose in quel modo senza avere paura che lei scoprisse i suoi sentimenti. Will era sicuro che fosse evidente, quello che provava per lei. Doveva esserlo, ne era convinto, tanto che era diventato quasi paranoico quando Rose era nei paraggi, perché se Rose avesse scoperto che era innamorato di lei, tutto sarebbe cambiato. E lui non poteva permetterlo.
Lucy tornò per prendere le loro ordinazioni, non senza ammiccare a Will, che la ignorò leggermente in imbarazzo. Non voleva che Lucy ci provasse con lui davanti a Rose.
«Le piaci» disse Cath con un sorriso, una volta che Lucy si allontanò.
«Uh?» fece Will, chiudendo il menù e posandolo sul tavolo.
«A Lucy» spiegò Cath, guardando la ragazza mentre serviva un tavolo poco lontano. Cath aveva sempre l’espressione di chi ti conosceva meglio di quanto tu conoscessi te stesso, anche se ti aveva appena incontrato. «È così evidente».
«Ci abbiamo provato, a uscire insieme» disse Will con tono piatto. «Non ha funzionato».
«Ti prego, prometti che non ti metterai mai con lei». George fece una smorfia. «L’hai baciata una volta e ti ha inondato di messaggi per un mese. Quando ha finalmente capito che tu non eri interessato, ha iniziato a scrivere a me, chiedendomi di cercare di convincerti a darle un’altra possibilità. Mai più, William. Mai più».
Rose sbatté le palpebre un paio di volte e si alzò leggermente, come se volesse vedere meglio Lucy. «Perché io non lo sapevo?» Chiese, rivolgendosi poi a Will. «Non sapevo foste usciti insieme».
Will si sentì mancare. Lucy era stata uno dei tentativi che aveva fatto per dimenticare Rose e non era andato a buon fine, come tutti gli altri.
«È stato solo un appuntamento, è andato male, non ci siamo più visti. Fine della storia» spiegò Will, cercando di suonare il più tranquillo possibile. «Ed è lei che ha baciato me, George. Non il contrario».
Il suo parabatai sventolò una mano per aria e poi si rivolse a Rose con un ghigno. «E tu, Blackthorn? Non hai niente da raccontare?»
«Esatto!» Cath batté un paio di volte le mani, e con i capelli biondi che le erano quasi usciti tutti dallo chignon sembrava ancora più giovane. «Devi raccontarci tutto di Logan. Com’è stato? Dove ti ha portato? Vi siete baciati?»
Rose spalancò gli occhi e fece per dire qualcosa, ma Cath la interruppe. «Oddio. Vi siete baciati. Bacia bene?»
Lo stomaco di Will si contrasse e guardò altrove. Certo che Logan l’aveva baciata, quale persona sana di mente non avrebbe baciato Rose avendone la possibilità?
«Catherine» George ridacchiò. «Lasciala parlare».
«È andato bene» iniziò Rose, giocherellando distrattamente con il bordo del menù. «E sì, ci siamo baciati».
«Brava, Blackthorn» disse George. Will non sapeva se George gli avesse lanciato un’occhiata, perché si stava fissando ostinatamente le mani. «Il prossimo passo è…»
Non fece in tempo a terminare la frase che Cath lo interruppe. «Ma non mi sembri entusiasta» stava osservando Rose intensamente, in quel modo che metteva quasi a disagio, come se ti stesse leggendo nel pensiero.
Rose finalmente alzò il capo su di loro. «Siamo un po’ diversi, credo».
«In che senso?» si azzardò a chiedere Will.
Rose lo guardò e non disse niente per qualche secondo. Will sentì la familiare sensazione di vertigine che lo accompagnava ogni volta che Rose puntava i suoi occhi verde-azzurro su di lui.
«Gli piace il surf» disse con una smorfia. «E si è dimenticato che sono vostra amica il momento stesso in cui gliel’ho detto, dato che si è vantato di aver incontrato il padre di George a Idris. Wow, io vado a casa sua almeno una volta al mese!»
George si mise a ridere. «Felice di essere stato motivo di conversazione al tuo appuntamento, Rose. Questa è la prova che non ti libererai mai di me. Dovresti farcelo conoscere».
Rose mugugnò qualcosa, poi aggiunse: «Ah… Gli ho parlato di Cortana e lui ha anche detto che non gli piacciono le spade corte perché non sono pratiche».
George, Cath e Will inorridirono. Nonostante nessuno di loro prediligesse quel genere di arma, sapevano che bisognava stare molto attenti a parlare di Cortana quando Rose era nei paraggi. Mai, mai, screditare Cortana davanti a lei.
«E poi ogni volta che io dicevo qualcosa, lui sosteneva il contrario». Rose iniziò a intrecciare alcune ciocche di capelli tra loro.
«Come si permette?» esclamò George, portandosi una mano al petto e fingendosi indignato. «Dai, Rose. È normale essere diversi».
«È positivo che sia stato sincero con te» la incoraggiò Cath con un sorriso.
«Certo» le diede man forte George, passando un braccio attorno alle spalle della sua ragazza. «Guarda me e Cath: lei mi ama anche se non ho mai letto e mai leggerò Harry Potter».
Cath lo guardò di traverso e lui le diede un leggero bacio a stampo.
«Ma io non capisco. Niente» continuò Rose, ignorandoli. «Pensavo di non piacergli, che la serata stesse andando da schifo… e poi lui mi ha baciata».
Will sorrise triste, perché Rose era proprio ingenua quando si trattava di rapporti sentimentali, e molte cose le andavano spiegate. «È il suo carattere, Rose» iniziò Will con calma. «È una persona diretta e onesta, il che non è una cosa negativa. È ovvio che ti ha baciata, sarebbe stato stupido altrimenti».
Will sentiva gli occhi di George su di sé, ma non incrociò il suo sguardo.
Rose sorrise e parve rilassarsi impercettibilmente. In quel momento Lucy arrivò con i loro piatti: waffle al cioccolato e caffè per Rose, un piatto di ravioli al vapore da smezzare per Cath e George, e un hamburger vegetariano con patatine per Will.
«Non lo so» continuò Rose bevendo un sorso di caffè. «Spero che oggi andrà meglio».
A Will andarono di traverso le patatine. Prese la tazza di caffè di Rose e ne bevve un po’ per evitare di morire soffocato a soli diciotto anni. «Vi rivedete di già questa sera?» chiese, tossicchiando, incapace di trattenersi. Poi si maledisse mentalmente perché era sicuro che dalla sua voce fossero evidenti tutte le sue speranze infrante.
Aveva sperato infatti che l’appuntamento fosse andato male e che avessero deciso di non vedersi più per un po’ –sentendosi una persona orribile. Che amico è quello che non vuole che il ragazzo che ti piace sia all’altezza delle tue aspettative?
Un amico che è innamorato di te, si rispose depresso. Will voleva che Rose fosse felice, ma sarebbe stato in grado di sopportare la vista di Rose felice con un altro?
Ovviamente sì, ma sarebbe stata la prova più dura della sua vita.
Rose annuì, e si mise a mangiare i suoi waffle senza aggiungere altro.
Anche George e Cath lasciarono cadere il discorso, iniziando a litigare per il numero di ravioli che ciascuno avrebbe dovuto mangiare.
«Stai scherzando?» stava dicendo George indignato. «Sono molto più grosso di te, dovrei mangiarne di più io!»
«Non se ne parla» replicò lei, inforcandone uno con le sue bacchette. «Li dividiamo a metà com’è giusto che sia».
«Ma perché non ne ordinate uno per ciascuno se poi dovete litigare per dividerveli?» chiese Rose. Quella era una domanda più che lecita che Will aveva posto loro più volte.
Cath sorrise angelicamente e George sbuffò. «Perché Cath non riesce a mangiare una porzione intera da sola. Allora ne prendiamo una in due, ma tanto poi va sempre a finire che dobbiamo ordinare qualcos’altro perché abbiamo ancora fame».
Le porzioni di Taki erano molto abbondanti, neanche Will sarebbe stato in grado di finire da solo un piatto intero di ravioli a vapore. Era sicuro che se Cath ci avesse provato ce l’avrebbe fatta, perché mangiava una quantità di cibo sproporzionata per una ragazza tanto minuta. Lei però preferiva dividerli con George, che era alto un metro e novanta e aveva uno stomaco molto più grande di quello di lei, così che alla fine si ritrovavano entrambi non completamente sazi.
Quella sera infatti, dopo aver mangiato i ravioli, ordinarono del riso fritto con pollo teriyaki. Cath ne spiluccò un po’ e lasciò il resto a un più che soddisfatto George.
Will spesso si era ritrovato a osservare George e Cath con profondo affetto, pensando che non avrebbe potuto desiderare persona migliore per il suo parabatai. Si domandava se avrebbe mai avuto qualcosa del genere con qualcuno, se non con Rose almeno con un’altra.
Rose gli tirò piano la manica della maglietta e lui si voltò verso di lei. Aveva cercato di non guardarla per il resto della serata, di non incrociare il suo sguardo, di non prenderla dentro con il braccio o la gamba quando si muoveva. Ora lei lo stava osservando con intensità, quasi come se stesse cercando di leggergli dentro. Ma non ce n’era bisogno, pensò Will, perché era scritto su tutta la sua faccia come si sentiva: completamente e irreversibilmente distrutto all’idea che lei amasse Logan Ashdown.
«Stai bene?» gli chiese in un sussurro. Il suo respirò gli sfiorò la guancia e un brivido corse lungo la colonna vertebrale di Will. «Sei strano in questi giorni. C’è qualcosa che non va?»
Rose ere preoccupata per lui, e Will imprecò nella mente. Era consapevole di essersi comportato in modo innaturale con lei nell’ultimo periodo, e alla fine era successo ciò che temeva: Rose lo aveva capito.
«Certo» le sorrise, il sorriso sincero al quale lei era abituata. Poi alzò la mano e le toccò piano la guancia, come aveva sempre fatto. «Va tutto bene, Rose».
Rose trattenne il fiato e si immobilizzò, come pietrificata da un incantesimo, come se non se lo aspettasse, come se fosse la prima volta che Will la toccava.
Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo riso e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te.

NOTE DELL'AUTRICE
Ciao a tutti!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Si capiscono un po' meglio i sentimenti di Will, anche se praticamente erano chiari sin dal primo capitolo. Come direbbe Giada, è un cagasotto, e sì, diciamo che lo è. Ha paura di rovinare l'equilibrio che si è creato tra loro (lui e Rose) e George, non vuole che le cose diventino imbarazzanti, anche se come avete notato lo sono di già. 
Rose d'altra parte sente che c'è qualcosa che non va, ma non capisce che cosa sia, perché nella sua testa è assurdo che Will possa essere innamorato di lei, e più avanti capirete il perché. 
Grazie per aver letto e a presto!

Francesca 

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque. ***


Rinnovo l'avviso: spoiler da Signore delle Ombre (Lord of Shadows)
Capitolo cinque
 
Julian non riusciva a trovare Emma. L’aveva cercata dappertutto: nell’armeria, in cucina, in palestra, persino nello studio, ma di lei neanche l’ombra. Stava andando a controllare nella loro camera, quando la intravide nel suo ufficio al secondo piano, affacciata alla finestra. Gli dava le spalle e stava fissando qualcosa che teneva in mano, i lunghi capelli biondi che le ricadevano morbidi sulla schiena come una cascata dorata.
«Emma» la chiamò Julian, ma lei non si mosse.
Julian notò che stava tremando leggermente e le si avvicinò piano. «Emma» disse di nuovo. Non la toccò, si limitò a stare in piedi dietro di lei a qualche centimetro di distanza.
Emma si voltò, prendendolo dentro leggermente, ma Julian non si mosse. Le poggiò una mano sulla spalla e due dita sotto al mento per farle alzare lo sguardo su di sé. Emma aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto, e Julian deglutì. «Cos’è successo?»
«È tutta colpa mia» disse lei con voce sottile, crollandogli addosso e seppellendo il viso nell’incavo del suo collo. Julian la strinse a sé e la sentì singhiozzare. 
Emma non piangeva spesso, ma in quell’ultimo periodo Julian si era spesso svegliato la notte trovandola seduta sul materasso con le mani premute sul viso bagnato di lacrime.
Julian lo odiava. Odiava vederla cadere a pezzi in preda alla preoccupazione e al senso di colpa.
Emma si allontanò leggermente da lui e gli mise in mano una grande foglia accartocciata. Julian aggrottò le sopracciglia e la spiegazzò per poterla guardare meglio. Su quella erano state incise delle lettere: Stiamo arrivando. Se lo direte a qualcuno, pagherete con il sangue.
Era tipico degli appartenenti al Popolo Fatato comunicare in questo modo, stregando pezzi di tronco o foglie, e Julian sapeva chi l’aveva mandata.
«Non è colpa tua» disse Julian, furioso. Spezzò la foglia in quattro e la gettò a terra, per poi prendere Emma per le spalle. «Emma, ascoltami». Emma continuava a scuotere il capo, come se non volesse starlo a sentire, ma lui continuò. «Non è colpa tua».
«Se non avessi ucciso Fal, niente di tutto questo sarebbe successo».
Quando avevano diciassette anni, Julian ed Emma si erano ritrovati ad affrontare i sette Riders di Mannan, mandati dal re della Corte Unseelie per reclamare il Volume Nero della Morte, un libro di magia oscura che credeva fosse in loro possesso. Nessuno in tutta la storia era mai riuscito a ucciderli, la loro forza era sovrumana e la loro armatura inespugnabile. Ma poi era arrivata Emma con Cortana.
Julian ricordava quel giorno come se fosse ieri, nonostante fossero passati anni. Avevano dovuto combattere contro quattro di loro sulle scogliere della Cornovaglia, e Julian era stato messo con le spalle al precipizio da Fal. Aveva nascosto la sua balestra dietro a una roccia poco lontano, ma non aveva fatto neppure in tempo ad afferrarla che Emma aveva infilzato Fal tra le scapole con Cortana. Il Cavaliere era caduto al suolo con un grido disperato e i suoi fratelli avevano giurato vendetta. Per molto tempo, Emma aveva temuto che la loro ira potesse abbattersi su di loro come un uragano, ma per più di vent’anni non era successo nulla, tanto che Julian ed Emma pensavano di essere al sicuro, che i Riders avessero deciso di lasciarli stare.
Julian sapeva che si trattava di un’effimera illusione e che gli appartenenti al popolo fatato pagavano sempre i propri debiti. E il momento era arrivato.
«Se non lo avessi ucciso, probabilmente sarei morto» replicò Julian prontamente. Avevano già avuto quella discussione un sacco di volte.
«È ufficiale ora. Sono loro. Sono i Riders di Mannan» continuò Emma con voce strozzata, sedendosi sulla grande sedia di legno. «Spiega anche tutte le altre morti che si sono verificate nell’ultimo periodo. Ci stavano cercando e ora ci hanno trovato».
Julian guardò il cielo azzurro fuori dalla finestra, aspettandosi quasi di vederli arrivare in groppa ai loro cavalli volanti.
«Devo andare» disse Emma improvvisamente. «Se mi consegno a loro, vi lasceranno stare».
Julian la fulminò con lo sguardo. «Se credi davvero che ti lascerei…»
«Ma devi!» esclamò lei, alzandosi in piedi. «Devo. Per le bambine. Hanno avuto anche loro il sogno, lo abbiamo avuto tutti. Se non mi consegno, vi faranno del male».
Julian le carezzò piano il viso, sentendo una tenerezza dolorosa salirgli nel petto. Emma non aveva capito, e Julian la amava proprio per quello, perché era buona, e onesta. Emma aveva onore e non aveva neppure preso in considerazione l’idea che i Riders volessero far pagare qualcun altro per ciò che lei stessa aveva fatto.  
«Emma» le disse piano, tracciandole lo zigomo con il pollice. «I Riders non vogliono te».
Emma sbatté un paio di volte le palpebre. «Cose intendi dire? Ho ucciso uno dei loro fratelli e Ethna è stata chiara: non avrà pace finché non mi vedrà morta».
Julian sospirò, sentendo il sapore della bile in bocca. Non riusciva neppure a dirlo. «Non vuole te, Emma. Vuole noi, Rose, Holly e me. Vuole ucciderci davanti ai tuoi occhi, è questo che significa il sogno».
Emma sbiancò e fece qualche passo indietro, come a volersi allontanare da lui. «No» disse, scuotendo il capo. Alcune ciocche di capelli le andarono negli occhi. «No no no. Rose e Holly non hanno fatto niente».
Emma lo guardò, e Julian sapeva cosa stava per dire ancora prima che aprisse bocca. «Li ucciderò tutti prima che ci raggiungano».
Si voltò e fece per uscire dall’ufficio, ma Julian fu più veloce e le bloccò la strada. «Non essere ridicola, Emma! Non puoi affrontarli tutti da sola, anche se hai Cortana, ti ucciderebbero prima ancora che tu possa…»
«Fammi passare» gli disse lei. Julian poteva leggere la determinazione nei suoi occhi, quella determinazione che lui stesso amava e che la rendeva una Shadowhunter tanto temibile, ma anche lui era determinato, e se Emma avesse davvero voluto fare qualcosa di così stupido, avrebbe dovuto passare sopra al suo cadavere.
«Emma». Julian cercò di mostrarsi calmo e di celare il panico che si stava facendo strada nel suo petto. «Sistemeremo tutto, te lo prometto. Chiederemo a Mark di andare a parlare con Kieran. I Riders servono il Re della corte Unseelie da un millennio ormai, dovrà pur valere qualcosa».
«Pensi che Kieran possa riportarli all’ordine?» chiese Emma.
Julian non ne era sicuro, la speranza era tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. «Sicuramente» disse invece.
«Non lo so, Jules». Emma tirò su con il naso. «Non so…»
Si bloccò e si passò velocemente una mano sulle guance per asciugarsi le lacrime.
Julian si voltò e trovò Rose davanti alla porta aperta. Li stava osservando con sguardo penetrante e Julian poteva quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello tanto brillante lavorare.
«Rose» la salutò Emma con un sorriso. «Dove stai andando?»
Rose si era truccata e stava indossando una gonna lunga che Julian non aveva mai visto.
«Sto uscendo con Logan» disse lei.
Emma sbiancò e Julian temette potesse svenire da un momento all’altro. Avrebbe voluto andare da lei, prenderla tra le sue braccia e sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, ma non poteva. Se lo avesse fatto Rose si sarebbe non solo arrabbiata, ma anche insospettita ancora di più.
«Oh» fece Emma, riprendendosi leggermente. «Oh. Quindi l’appuntamento ieri è andato bene?»
Rose annuì. «Credo…»
«Ma non puoi uscire anche stasera» continuò Emma con un finto tono allegro. «Devi farti desiderare, figlia mia».
Rose spalancò gli occhi. «Ah, davvero?»
«Se c’è una persona dalla quale non devi accettare consigli di questo genere» disse Julian. «Quella è tua madre».
Emma alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Parlami di nuovo di tutte le tue fidanzate… ah, no. Aspetta».
Rose alzò una mano per zittirli e chiuse gli occhi. «Non voglio sentirlo. Ero solo passata a salutare».
Julian iniziava a provare la stessa ansia di Emma, non solo perché sua figlia stava crescendo e stava uscendo con un ragazzo per la seconda volta –si saranno già baciati? Avranno fatto di più? Julian non ci poteva pensare- ma soprattutto perché non si sentiva tranquillo a saperla fuori da sola con i Riders sulle loro tracce.
Emma si portò una mano alla schiena e sfoderò Cortana.
«Io sono Cortana, dello stesso acciaio e tempra di Gioiosa e Durlindana» lesse l’incisione sulla lama e Julian sapeva che cosa stava per fare ancora prima che pronunciasse le parole.
Rose stava guardando Cortana con la stessa riverenza di Emma.
«È tua ora. Per sempre».
«Mamma» disse Rose. «Il mio compleanno è a fine mese».
«Lo so» Emma alzò le spalle. «Ma voglio che tu la abbia adesso».
Rose allungò una mano titubante e prese la spada per l’elsa. «Perché?»
«Perché è il momento giusto» rispose Emma. «Acciaio e tempra, Rose. E ricorda che una spada…»
«… forgiata da Wayland il Fabbro» continuò Rose, passando una mano sulla lama. «Può tagliare ogni cosa».
 
---
 
George sentì qualcosa sfiorargli la guancia. Aprì gli occhi e trovò Cath che lo fissava assorta, le labbra socchiuse e le guance arrossate per il sonno.
«Scusa» disse, allontanando la mano. «Non volevo svegliarti».
George gliela prese e se la portò alle labbra. Le diede un bacio sul palmo, e poi un altro sul polso, dove la pelle era più morbida e delicata.
«Non devi scusarti». George era sdraiato a pancia in su con un braccio dietro la testa, mentre Cath si era messa su un fianco e lo guardava dall'alto verso il basso, appoggiata su un gomito.
Iniziò a disegnargli con il dito dei cerchi irregolari sul petto. «Credo che i tuoi si siano alzati».
George emise un verso esasperato. «Mamma o papà?»
I genitori di George avevano la sgradevole abitudine di entrare in camera sua senza bussare. Una volta avevano trovato Cath e George abbracciati nel letto senza vestiti, e da quel momento i due avevano deciso di indossare sempre qualcosa prima di addormentarsi. A George non andava molto a genio e avrebbe preferito che i suoi genitori rispettassero la sua privacy, ma se quello era il prezzo per avere Cath con sé la notte, era più che disposto a pagarlo.
Quella mattina, infatti, Cath si era infilata la sua casacca del pigiama -una maglietta di Batman che suo padre gli aveva regalato al compleanno- mentre George era rimasto a torso nudo con indosso solo un paio di boxer.
Cath appiattì la mano sul suo cuore e si chinò per dargli un bacio. «Io scommetto su tuo padre».
Era un gioco che facevano ormai da tempo, indovinare quale dei genitori di George sarebbe entrato senza bussare. Non succedeva sempre, George doveva ammetterlo, ma accadeva comunque troppo spesso per i suoi gusti.
A distanza di anni si ritrovava ancora a ringraziare l'Angelo che la prima volta che lui e Cath erano stati insieme i suoi genitori fossero in viaggio di lavoro a Idris, altrimenti l’avrebbero fatta scappare a gambe levate.
«Allora dobbiamo sbrigarci» disse George, prendendo Cath per i fianchi e facendola sdraiare su di sé. Cath si mise a ridere e il cuore di George perse un battito. Non si sarebbe mai abituato all'effetto che lei gli faceva, alla sua risata, al suo corpo, al suo profumo. La camera di George era ancora immersa nell'oscurità, ma alcuni raggi di luce erano riusciti a sfuggire alle tende consentendo a George di distinguere i tratti del viso di Cath. Gli zigomi alti, l'arco delicato delle sopracciglia, le labbra sottili. Gliele baciò lentamente, quasi con devozione, e la sentì trattenere il respiro quando le sollevò la maglietta. Aveva bisogno di sentire il calore della sua pelle, di baciarle la cicatrice sulla clavicola che aveva scoperto solo qualche giorno prima, di baciarle ogni cicatrice e ogni marchio che la rendevano la Shadowhunter che era. Fece per sfilarle completamente la maglietta, ma in quel momento un fiotto di luce si riversò nella stanza, illuminandola a giorno.
«George, non ci crederai mai, ma gira voce che Hulk morirà nel prossimo...» disse Simon, il papà di George, spalancando la porta. «Ciao, Cath».
Cath sussultò e rotolò velocemente di lato, lontano da George, che imprecò mentalmente. Lui li odiava, i fumetti.
«Signor Lovelace» disse Cath, mettendosi seduta e sistemandosi i capelli.
Simon le sorrise. «Quando inizierai a chiamarmi Simon?» Cath arrossì, non solo in viso ma anche alla base del collo e sulle braccia.
Quando George glielo aveva fatto notare, lei gli aveva spiegato che avendo la pelle chiara arrossiva ovunque. George provò il desidero di baciarle tutte le macchie rosse che le stavano spuntando sul collo, ma non poteva perché suo padre stava proprio in piedi di fianco a loro.
«Papà» sibilò, cercando di mantenere la calma. «Quante volte ve lo devo dire di bussare?»
Simon lo guardò e sbatté le palpebre un paio di volte, come se non si fosse reso conto di aver fatto qualcosa di male. «Ah, giusto. Scusate».
George gli lanciò un'occhiataccia, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che sua madre li raggiunse, i capelli lunghi sciolti sulle spalle e un vestito viola che le svolazzava attorno alle caviglie.
«Buongiorno!» li salutò allegra. «Ciao Cath, mi sembrava di aver sentito la tua voce».
Cath le fece un cenno con la mano e Isabelle si sedette sul letto accanto a loro.
George la guardò con gli occhi fuori dalle orbite. «Mamma, che stai facendo?»
«Ho trovato una camicia bellissima ieri» spiegò lei, rivolgendosi a Cath e ignorando il figlio. «Ma non avevano la mia taglia, quindi ne ho comprata una più piccola che sono sicura ti piacerà».
«Signora Lovelace, non doveva...» iniziò Cath, ma Simon la interruppe. «Lasciala fare» disse con un sorrisetto. «Quando George era più piccolo ha tentato di vestirlo da bambina una volta».
George voleva morire.
«Io vado a fare una doccia» decretò, alzandosi dal letto e non degnando i suoi genitori di uno sguardo. Era in quei momenti che desiderava avere un fratello, almeno gli avrebbero dato fastidio solo per la metà del tempo.
Era da un po' che George stava meditando sull’idea di andare a vivere da solo. Ormai aveva diciotto anni, e aveva sempre pensato che una volta diventati maggiorenni lui e Will sarebbero andati a vivere assieme. Adesso però non vedeva più Will al suo fianco, o meglio, non solo Will: ci vedeva anche Cath.
L'appartamento nell'Upper East Side che condivideva con i suoi genitori non era molto grande, con solo due camere e un piccolo salotto nel quale a mala pena ci entravano un divano e una libreria, ma era un luogo intimo e personale, con le pareti decorate da vecchie fotografie e poster di Star Wars, saga amata sia da Simon che da Isabelle. George lo adorava, ci aveva sempre vissuto e lo avrebbe sempre ricordato con affetto, ma sentiva il bisogno dei suoi spazi, di un luogo che fosse suo.
Si infilò nella doccia e lasciò che l'acqua calda sciogliesse la tensione accumulata in quegli ultimi giorni. Era sempre più preoccupato per Cath e desiderava solo che raggiungesse la maggiore età al più presto possibile. George osservò l'anello dei Lovelace che portava al pollice e provò a immaginarlo al dito di Cath. Chiuse gli occhi e sospirò. Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno a Will, e sentiva che da un momento all'altro sarebbe esploso. Come se non bastasse, gli omicidi che si stavano verificando in quell'ultimo periodo non aiutavano a migliorare il suo umore.
Uscì dalla doccia controvoglia e indossò un paio di jeans scuri e un maglione nero, per poi dirigersi in cucina. Lì suoi genitori stavano chiacchierando con Cath, che però gli dava le spalle. I capelli biondi le ricadevano morbidi sulla schiena, di qualche tonalità più chiara dell'oro fuso. George non aveva il minimo senso artistico, ma Will gli aveva detto che si trattava di un misto di biondo platino e biondo vaniglia.
«George!» esclamò sua mamma. «Stavamo giusto dicendo a Cath che dovremmo organizzare una cena per conoscere finalmente suo padre».
Cath si voltò e gli rivolse un sorriso teso.
George non sapeva come rispondere e cercò di mostrarsi tranquillo. «Uhm, se per voi va bene...»
«Mio padre è un uomo molto impegnato» disse lei. «Ed è sempre ad Alicante».
Simon aggrottò le sopracciglia. «Strano. Non l'ho mai incontrato di persona. Anche ora è a Idris?» Cath annuì, stropicciandosi le mani. Si era rivestita e indossava la gonna bordeaux e la camicia bianca della sera precedente.
«Allora dovresti fermarti qua qualche giorno» propose Isabelle subito. «Oppure George può venire da te. Non voglio che tu stia sempre da sola».
«Non c'è problema» si affrettò a dire Cath. «Sono abituata».
George dovette contare fino a dieci per non confessare tutto, per non urlare che il padre di Cath era a New York, probabilmente collassato sul divano con una bottiglia di vino in mano.
Simon e Isabelle si lanciarono uno sguardo preoccupato, e Isabelle fece per dire qualcosa, ma George si era calmato e intervenne in favore di Cath. «La accompagno a casa».
«Ma, George...» iniziò Simon, come per protestare, ma qualcosa nello sguardo di George lo convinse a cedere. «Fermatevi almeno a colazione».
«Prendiamo qualcosa per strada» disse George, poggiando una mano sulla spalla di Cath. «Andiamo?»
Cath si alzò e guardò Simon e Isabelle con occhi grandi. «Grazie mille per tutto, mi dispiace non restare, ma non posso proprio. Devo badare... alle piante e ai gatti».
Cath non aveva gatti, e se avesse avuto piante, George era sicuro che sarebbero già morte. Distolse lo sguardo, perché non lo sopportava. Non sopportava quella situazione.
Alla fine i suoi genitori li lasciarono andare e Cath e George si diressero in silenzio verso la metro.
Fuori faceva freddo e George si strinse nel tessuto caldo del cappotto senza riuscire a trarne conforto, perché Cath era distante anni luce e camminava con il capo chino e le braccia strette attorno al torace per proteggersi dal vento. I capelli biondo chiaro le svolazzavano negli occhi e George doveva trattenersi dallo scostarglieli ogni volta che si fermavano a un semaforo.
Quella domenica mattina la stazione della metro era quasi deserta, fatta eccezione per qualche senzatetto che ne aveva fatto la sua casa provvisoria. Sul treno Cath e George non si parlarono, non si toccarono, a mala pena si guardarono.
«Devi dirlo ai miei genitori» iniziò d'un tratto George, prendendo un respiro profondo. «Possono aiutarti. Ti prego, lascia che ti aiutino. Lascia che io ti aiuti».
George sapeva già come quella conversazione sarebbe finita: con un litigio e con Cath in lacrime.
«Va bene così» disse lei. «È sotto controllo».
George sentì la rabbia scorrergli nelle vene come fuoco liquido. «Sotto controllo come quando ti ha quasi pugnalata alla gola?»
Cath non lo stava guardando. Fissava dritto davanti a sé. «È stato un incidente, non era in sé».
«È questo il punto!» esclamò George. «Non è mai in sé!»
Cath incrociò le braccia al petto e non disse niente. George si accasciò sul sedile e lasciò cadere il discorso: non si era mai sentito così impotente in vita sua.
Dopo quella che parve un'eternità, sentì Cath prendergli la mano. George gliela strinse e lei poggiò la testa sulla sua spalla. George si beò di quel contatto tanto desiderato per tutto il resto del viaggio. Arrivarono a Brooklyn nel giro di quaranta minuti, ma a George parvero molti di più. Scesero dal treno e raggiunsero velocemente la casa di Cath, un appartamento situato al quattordicesimo piano di un palazzo grigio scuro.
«Sarà meglio che vada» disse lei. «Ringrazia di nuovo i tuoi genitori. Per tutto».
George annuì. «Vuoi che ti accompagni di sopra?» chiese, indicando con il capo il portone di ingresso.
Cath sospirò. «No, George. È meglio di no».
Tutta la rabbia che George aveva provato fu spazzata via dallo sguardo che lei gli rivolse in quel momento. «Mi dispiace tanto» gli disse. «Mi dispiace così tanto. Vorrei che le cose fossero diverse, ma non lo sono. Ti chiedo solo di capire perché non lo posso dire a nessuno, neanche ai tuoi genitori».
George non capiva, non capiva e odiava i segreti. Ma proprio come nel caso di Will, anche quello non era il suo segreto da confessare e perciò avrebbe taciuto, aggiungendo un altro fardello al carico che stava già sopportando da anni.

NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il nuovo capitolo, spero che vi piaccia! 
Finalmente scopriamo cosa tormenta i poveri Blackthorn. Sono consapevole che nell'ultimo libro di TDA i Riders verranno sistemati, ma visto che non è ancora uscito ho dato una mia versione dei fatti. 
Il re della corte Unseelie è Kieran qui nella FF, già proprio lui. Di nuovo: non so se lo diventerà, me lo sono inventato e vedremo come andrà a finire! 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei. ***


Capitolo sei
Rose si era svegliata con il cuore in gola e un dolore martellante alla testa. Si era portata una mano alla tempia, aspettandosi quasi di trovarla bagnata di sangue come nell’incubo, ma ovviamente questa non aveva nulla che non andasse. Erano passati una decina di giorni da quando aveva avuto quel sogno la prima volta, e non si era aspettata che si ripresentasse. Era rimasta immobile nel letto per il resto della notte, troppo spaventata anche solo per respirare.
La mattina quando si era alzata aveva sentito Holly in camera sua che piangeva, e la voce di sua madre che cercava di consolarla. Significava che anche sua sorella aveva avuto l’incubo e la cosa la turbava non poco.
Non disse niente ai suoi genitori, che senso avrebbe avuto quando loro neanche la prendevano sul serio? Voleva parlarne con Will e George, ma entrambi le parevano distanti. Rose sospettava che George fosse preoccupato per Cath –sapeva che lei aveva dei problemi a casa ma non conosceva i dettagli- mentre non aveva idea di che cosa ci fosse che non andava con Will.
Avrebbe potuto dirlo a Logan, ma non era sicura che fosse una buona idea. L’ultima volta che si erano visti avevano deciso di non frequentare altre persone, non che Rose avesse altri con cui uscire. Rose supponeva che questo la rendesse la sua ragazza -almeno era ciò che George continuava a sostenere- ma in ogni caso stavano insieme da sole due settimane e non le andava di tediarlo di già con le sue paranoie. Tra le altre cose, George l’aveva letteralmente obbligata a disegnarsi una runa anticoncezionale, nonostante lei non si sentisse ancora pronta e si fosse opposta all’inizio. Dopo un’opera di convincimento durata tutto un pomeriggio, alla fine Rose si era resa conto che George aveva ragione e che lei stava esagerando: la runa durava per tre mesi e non poteva sapere quando ne avrebbe avuto bisogno, disegnarsela non significava niente.
Stava ritornando a casa dopo essere andata a correre sulla spiaggia rimuginando sui suoi problemi, quando vide suo zio Mark che saliva le scale che portavano all’ingresso dell’Istituto. Lo raggiunse velocemente e salì gli ultimi gradini assieme a lui.
Non lo vedeva da un po’, di solito i suoi parenti gironzolavano sempre per l’Istituto e si fermavano spesso a pranzo o a cena, e sembrava un po’ più magro del normale. I capelli biondo chiaro gli cadevano sulla fronte in ciocche bagnate, segno che si era appena fatto una doccia, e Rose notò che aveva un taglio sulla guancia che si stava rimarginando.
«Graziosa nipote» la salutò lui con un sorriso, passandole un braccio attorno alle spalle e attirandola a sé. Mark aveva fatto parte della Caccia Selvaggi per parecchi anni e non aveva del tutto perso le movenze e il linguaggio del Popolo Fatato.
«Ciao, zio Mark» borbottò Rose contro la sua camicia. Mark profumava sempre di fiori. «Dove sei stato in queste ultime settimane? Mi sembra di non vederti da secoli».
Ogni volta che Rose aveva chiesto ai suoi genitori o a zia Cristina dove zio Mark fosse, quelli le avevano sempre dato risposte vaghe.
«Missione segreta» rispose Mark, dandole un bacio tra i capelli e lasciandola andare.
Ecco, appunto.
Rose si accigliò. «Tra poco avrò diciotto anni! Me lo potete dire».
Odiava essere minorenne, lo odiava. Odiava che la tenessero all’oscuro di tutto e che la trattassero come una bambina o una sprovveduta. Pattugliava le strade di Los Angeles e New York con George e Will da quando aveva quattordici anni, era una Shadowhunter fatta e finita, ed era frustrante venire messa da parte in quel modo.
Mark ridacchiò davanti alla sua espressione imbronciata e spalancò la porta con una spalla. Rose lo seguì dopo qualche secondo. Lo trovò al centro dell’atrio che si guardava attorno con aria curiosa e rilassata, come se non vedesse l’Istituto da tantissimo tempo.
«Da quanto hai detto che non ci vediamo?» le chiese con occhi socchiusi. Rose sapeva che uno di quelli era verde-azzurro, lo stesso colore dei suoi, mentre l’altro era dorato.
«Da almeno dieci giorni, quindici massimo» rispose Rose. «Perché?»
Mark scrollò le spalle e le sorrise. «A volte il tempo scorre così velocemente che ci sfugge come sabbia tra le dita, non trovi?»
«Uhm…» Rose ora era confusa. Non le era mai piaciuta la retorica, faceva fatica a capire ciò che una persona voleva dire se parlava in modo troppo complesso, preferiva che le cose venissero dette con chiarezza. Ecco perché adorava George, perché era chiaro, sintetico e a volte senza pietà: ti metteva davanti agli occhi anche la più cruda delle verità, non importa quanto questa ti avrebbe fatto soffrire.
«I tuoi genitori sono in casa?» chiese poi Mark.
«Credo di sì» rispose Rose distrattamente, il suo cervello ancora concentrato sulla missione segreta di suo zio. «Prova nell’ufficio, o nella palestra».
Mark annuì e si allontanò sventolando una mano per aria. «Ci vediamo in giro, Rose».
Rose sbuffò e andò in camera sua. Aveva preso in considerazione di seguire suo zio e origliare la conversazione con i suoi genitori, ma aveva scartato subito l’idea, sapendo che suo padre l’avrebbe beccata subito.
Si fece una doccia e mise direttamente in pigiama. Prese il suo computer e si sedette sul letto, sentendosi in pace con il mondo.
Era stato suo zio Ty a regalargliene uno per il suo quindicesimo compleanno e a insegnarle come usarlo. Le cose però le erano sfuggite un po’ di mano quando aveva scoperto internet e tutte le possibilità che offriva. A sedici anni si era iscritta a un corso online di matematica della UCLA e a diciassette a uno di fisica, senza dirlo a nessuno: non sapeva quale sarebbe stata la punizione se il Conclave lo avesse scoperto e sicuramente i suoi genitori non avrebbero approvato.
L’educazione che i giovani Shadowhunters ricevevano comprendeva il greco, il latino, storia, lo studio delle rune e demonologia, sicuramente non venivano insegnate loro materie mondane come la matematica, la fisica o l’informatica; dopotutto non ti sarebbero mai servite a combattere contro a un demone, no? Rose non si trovava molto d’accordo. Da quando aveva imparato i principi di fisica e di matematica vedeva il mondo in maniera diversa: la sua mente era più elastica, reattiva, e si rese conto che anche il suo corpo lo era diventato di riflesso. Era diventata più brava a fare stime di distanze e altezze e anche la sua mira era migliorata incredibilmente.
Avendo adorato i due corsi che aveva seguito, da un mese ne stava seguendo uno di programmazione, che era decisamente il suo preferito. Tuttavia lo aveva trascurato un po’ perché con tutto quello che stava accadendo nella sua vita le mancava la concentrazione. Quella sera si era promessa che niente e nessuno le avrebbe impedito di continuare, ma non fece in tempo a cliccare sulla nuova lezione che le arrivò un messaggio. Rose fu tentata a non rispondere, non voleva distrazioni, ma il suo cellulare vibrò di nuovo. Rose sbuffò, sentendosi in colpa: e se fosse successo qualcosa di grave a Will? O a George?
Non si trattava né di Will, né di George invece. Era Logan, che le chiedeva di andare da lui per cena perché i suoi genitori erano a Idris e lui era a casa da solo.
Rose non ne aveva voglia; desiderava solo rimanere nella sua camera a sentire il professore che parlava di modelli matematici e algoritmi. Si diede subito della stupida per averlo pensato: le persone normali volevano vedere il proprio ragazzo, desideravano passare ogni secondo con lui, e Rose si stava sforzando così tanto per essere una ragazza normale.
Chiuse il computer con un tuffo al cuore e promise a Logan che lo avrebbe raggiunto nel giro di un’ora.
Si vestì e si asciugò i capelli, si truccò un po’ per rendersi più presentabile e andò a cercare i suoi genitori per avvisarli che sarebbe uscita.
Li trovò in cucina, sua madre seduta al tavolo con delle scartoffie sparse davanti a sé e suo padre intento a tagliare le verdure.
«Sto uscendo» disse Rose, affacciandosi dalla porta della cucina.
«E dove vai?» chiese Julian.
«Da Logan».
Sua madre alzò lo sguardo e le rivolse un ghigno. «Divertiti».
Suo padre perse almeno due gradazioni di colore e riprese a preparare la cena. «Oh. Okay. Cioè… okay».
«Papà» disse Rose preoccupata. «Stai bene?»
Suo padre aveva gli occhi rossi e sembrava si stesse per mettere a piangere da un momento all’altro.
«Certo, tesoro» le rispose sua madre. «Sta solo tagliando le cipolle. Vero, Jules?»
Julian annuì, ma non disse niente. 
Rose, anche questa volta, non capiva. Lasciò perdere e se ne andò con una scrollata di spalle.
Gli Ashdown abitavano in una casetta con il giardino che si affacciava sull’oceano poco lontano dall’Istituto e quando Rose arrivò rimase sorpresa da quanto fosse carina.
Logan le aprì la porta e la salutò con un bacio. Rose ci era ormai abituata e accolse la piacevole sensazione di familiarità che lo accompagnava.
Ordinarono del cibo cinese d’asporto e lo mangiarono davanti alla televisione, parlando del più e del meno. Rose aveva detto a Logan della sua antipatia per i surfisti e lui ci aveva scherzato su, tanto che Rose riuscì quasi a dimenticarsi della lezione di informatica alla quale aveva rinunciato.
Finito di mangiare si sedettero sul divano a guardare un film mondano che Rose reputò noioso già dai primi dieci minuti. Parlava di una banda di criminali che dovevano rubare un gioiello custodito in una cassaforte inespugnabile. Noioso. Non c’era nessuna storia d’amore tragica o invenzione rivoluzionaria.
Anche Logan non pareva molto interessato alla trama, perché verso metà film le passò un braccio attorno alle spalle con uno sbadiglio e le diede un bacio sul collo che le fece il solletico. Rose ridacchiò e cercò di rilassarsi. Era questo che due persone che stavano insieme facevano, era assolutamente normale.
Girò il capo e le sue labbra trovarono immediatamente quelle di lui come attratte da una calamita. Logan le prese il viso tra le mani intensificando il bacio e Rose spense il cervello, focalizzando tutta la sua attenzione su di lui. Gli mise una mano sul petto e sentì il suo cuore battere regolarmente sotto al palmo. Lo invidiò terribilmente: il suo, di cuore, batteva così forte che le faceva quasi male.
Logan le passò le mani dal viso alla vita, facendola sdraiare sotto di sé sul divano. Raggiunse l’orlo della maglietta e gliela alzò. Rose si bloccò, improvvisamente agitata.
«Aspetta» sussurrò sulle sue labbra.
Non si era preparata psicologicamente. Non era la prima volta che Logan la toccava, ma ogni volta che si erano baciati era sempre stato piuttosto contenuto e Rose non pensava che Logan volesse già passare allo step successivo.
Sei un’idiota, Rose! Si insultò, reprimendo l’istinto di mettersi a piangere per la frustrazione. Ancora una volta non aveva capito le intenzioni di una persona, e se c’era una cosa che odiava, quella era il non capire.
Logan si allontanò leggermente e la guardò con espressione languida. «Cosa c’è?» le chiese, stampandole un bacio sul collo.
Rose non sapeva proprio come dirgli che non se la sentiva di andare oltre.
Diglielo e basta, la rimproverò la voce di George nella sua testa. Si sentiva così stupida. Ovvio che Logan volesse andare a letto con lei, era il suo ragazzo e anche lei avrebbe dovuto volere la stessa cosa. Prima o poi sarebbe successo, lo sapeva, era solo che non credeva sarebbe successo proprio quella sera. A Rose piaceva avere tutto sotto controllo, era ossessionata dall’organizzazione, e quando qualcosa non andava secondo i suoi piani rimaneva come paralizzata.
«Non credo sia una buona idea…» disse velocemente, arrossendo sulle guance. «Voglio dire, non adesso, almeno».
Rose lesse lo stupore nello sguardo di Logan e desiderò che il divano la inghiottisse.
«No?» Logan si sfilò la maglietta e la gettò per terra, per poi chinarsi di nuovo sulle sue labbra. «Hai la runa» disse poi, come se quello chiudesse la questione.
«Io non ho mai…» iniziò Rose, senza sapere bene come continuare.
«Non importa». Logan le sorrise e la guardò con i suoi grandi occhi nocciola.
Rose gli carezzò con delicatezza i capelli, poi la guancia, chiedendosi cosa ci fosse di sbagliato in lei e perché non potesse vivere quel momento con serenità come una ragazza normale.
«Andrà tutto bene, Rose» le sussurrò allora Logan all’orecchio. «Fidati di me».
«Okay» si ritrovò ad annuire lei.
 
«Devo andare» disse Rose. «Mio padre non vuole che dorma fuori casa».
Non era vero e Rose stava mentendo a Logan di nuovo. Non sapeva perché, sapeva solo che aveva bisogno di stare un po’ da sola.
Erano ancora sdraiati sul divano, e Logan la attirò a sé per darle un bacio sulle labbra. «Ci vediamo domani?»
Rose gli sorrise. «Certo».
Raccolse i suoi vestiti da terra e se li infilò in fretta, per poi salire in macchina e tornare a casa. Raggiunse l’Istituto in meno di dieci minuti, consapevole di aver superato il limite, ma guidare ad alta velocità la aiutava a schiarirsi le idee.
Era stanca e se pensava che l’indomani avrebbe rivisto Logan, si sentiva a disagio. Era ancora scossa e non aveva avuto il tempo per metabolizzare che sì, era successo: aveva perso la sua verginità con il ragazzo per il quale aveva una cotta da tempo. Sarebbe dovuta essere al settimo cielo, felice, in pace con il mondo, e invece non provava niente di queste cose. Non riusciva a identificare le sue emozioni e a pensare lucidamente, percepiva solo un nodo allo stomaco.
Era tardi e Rose fu lieta che tutta la sua famiglia fosse andata già a dormire. Non avrebbe sopportato lo sguardo apprensivo di suo padre o quello compiaciuto di sua madre; mentire a Logan le era venuto quasi naturale, ma farlo con i suoi genitori sarebbe stato difficile, soprattutto quando si trovava in quello stato mentale.
Si gettò sulle coperte a pancia in giù, senza neppure la forza per togliersi i vestiti e mettersi in pigiama. Avrebbe tanto voluto fare una doccia, ma ormai difficilmente sarebbe riuscita ad alzarsi. Si girò su un lato e poggiò la testa sul cuscino, guardando fisso davanti a sé.
La parete opposta al letto era stata affrescata da suo padre prima che lei nascesse con il disegno di un paesaggio primaverile: un castello in mezzo a un bosco circondato da rose e spine. Nel cielo splendeva il sole e degli uccellini si libravano in volo all’orizzonte.
Rose sospirò e cercò di analizzare la situazione con logica: non aveva senso che si sentisse in quel modo, stanca, vulnerabile quasi. Doveva essere felice, tutto stava andando per il verso giusto e Logan sembrava essere davvero interessato a lei.
Prese un respiro profondo per calmarsi e dopo parecchio tempo si addormentò, cadendo vittima di un sonno senza sogni.
Si svegliò qualche ora più tardi; dalle tende entravano dei tenui raggi di luce, segno che il sole stava sorgendo. Rose afferrò il cellulare e lesse l’ora sullo schermo: le 5.38. C’era anche un messaggio da parte di Will in cui le diceva che quella mattina suo padre si era messo a cantare le canzoni di Natale in anticipo, svegliando tutto l’Istituto.
Rose fece per mettersi a ridere, ma tutto ciò che le uscì di bocca fu un singhiozzo strozzato. Il messaggio di Will aveva innescato qualcosa dentro di lei, portandola a realizzare perché si sentisse tanto abbattuta: non le era piaciuto. Fare l’amore con Logan non le era piaciuto per niente, e quella consapevolezza le premeva sul petto impedendole quasi di respirare.
Fece per chiamare Will e chiedergli di raggiungerla a Los Angeles, ma si rese conto che non sarebbe mai riuscita a parlarne con lui. Forse con George, anche se temeva che l’avrebbe rimproverata per aver acconsentito a qualcosa che non voleva davvero fare, ma con Will no.
Si vergognava, si sentiva una stupida e non avrebbe potuto sopportare la delusione dei suoi amici. Perciò decise di chiamare Cath, che rispose dopo il terzo squillo. Non sembrava assonnata, e Rose fu grata di non averla svegliata: a New York erano quasi le nove della mattina.
«Ciao, Cath. Sono Rose». La sua voce suonava spezzata, impastata di lacrime, ed era evidente che avesse pianto.
«Rose, tesoro, ti senti bene?»
Cath chiamava tutti tesoro, anche se erano più grandi di lei.
«Mmh» fece Rose, asciugandosi le lacrime con le mani. «Sì, va tutto bene».
«Non mi sembra che tu stia bene».
Ovviamente Cath aveva capito, Cath capiva sempre. «No, sto bene. C’è George lì con te?»
«Oh ma certo, George». Rose percepì un pizzico di delusione nelle sue parole. «Mi dispiace, non c’è. Vuoi che provi a chiamarlo io?»
«No no no» la bloccò Rose. «È te che stavo cercando».
«Ah». Cath parve stupita. «Dimmi, allora».
Rose non sapeva da che parte iniziare e cercò di prendere tempo. Era bloccata: voleva dirlo a Cath, ma allo stesso tempo non riusciva. «Posso chiederti una cosa?»
«Puoi chiedermi quello che vuoi, ma chère».
Rose provò una fitta di tenerezza nei suoi confronti così forte che rischiò di mettersi a piangere di nuovo. Cath aveva un anno in meno di lei, ma per Rose era come una sorella maggiore.
«Devi promettermi che non lo dirai a George e a Will» disse.
Cath tacque per qualche istante, come se ci stesse pensando. «Rose, mi stai facendo preoccupare».
«No, Cath» disse subito Rose, cercando di suonare allegra. «È una cosa stupida».
E lo era, no?
«D’accordo» sospirò lei. «Giuro sull’Angelo che non lo dirò a nessuno».
Rose si coprì il viso con la mano, anche se non c’era nessuno in camera con lei e Cath si trovava a chilometri di distanza.
Dillo e basta.
 «Com’è stata la tua prima volta?» chiese Rose tutto d’un fiato, smettendo di respirare per un attimo.
«Intendi…?»
«Sì».
Cath emise un verso stupito e Rose desiderò scomparire. «No, senti, scusami» si affrettò ad aggiungere. «Non volevo risultare invadente. Dimenticati che te lo abbia chiesto».
Lei e Cath erano amiche e Rose si fidava immensamente di lei, ma ebbe paura di essersi spinta troppo in là. Cath invece si mise a ridere e la tranquillizzò. «Non preoccuparti, Rose. Non mi aspettavo la domanda, tutto qua. Aspetta un attimo che esco».
Rose si lasciò cadere a pancia in su sul letto traendo un sospiro di sollievo.
«La mia prima volta è stata con George» iniziò Cath. Rose riusciva a sentire il rumore delle auto in lontananza. «Non dirglielo, ma è stato quasi divertente. Era così preoccupato di farmi male che non stavamo concludendo nulla».
Certo che la sua prima volta era stata con George, si disse Rose.
«E te ne ha fatto? Male, intendo?»
«Niente di insopportabile» disse Cath. «Non ci pensi neanche quando stai con quello giusto».
«E come fai a sapere che è quello giusto?»
Cath ci pensò un attimo. «Lo sai e basta».
Rose sbuffò, chiedendosi perché nessuno avesse scritto un manuale con delle regole, dei principi, delle leggi da seguire. Le relazioni erano troppo complicate per lei.
Cath non le aveva chiesto il perché di quell’interrogatorio e Rose gliene fu grata, ma sapeva che era arrivato il momento di vuotare il sacco.
«Sono andata a letto con Logan ieri». Rose tirò su con il naso. «Non mi è piaciuto».
«Oh, Rose. La prima volta è normale che faccia un po’ male. Vedrai che la prossima andrà meglio».
«Non si tratta solo di questo» continuò Rose con voce sottile. «Non ho provato niente; credo sia stata la cosa più imbarazzante della mia vita. E non sono innamorata di lui, non sono nemmeno sicura che mi piaccia».
«E allora perché lo hai fatto?» le chiese Cath con gentilezza. Non c’era malizia o sfida nella sua domanda, solo il puro desiderio di comprendere meglio la situazione.
Rose si morse il labbro. «Non lo so» sussurrò. «Non lo so. Io gliel’ho detto che non ero pronta, ma lui mi ha convinta. Credo sia stato il modo in cui mi ha guardata, come se fossi impazzita a voler aspettare. Mi sono sentita così sbagliata, Cath… stavo solo cercando di comportarmi in modo normale. Vorrei poterti dire che non mi importa, che è stato solo sesso e che va bene così. Ma la verità è che mi importa e che non va bene così».
Cath trattenne il fiato all’altro capo del telefono e lo stomaco di Rose si contrasse. «Quel brutto stronzo!» esclamò con un forte accento francese. La maggior parte delle volte l’accento di Cath era talmente leggero che Rose neppure ci faceva caso, ma quando si arrabbiava diventava più marcato.
Rose si mise a ridere, sentendosi un po’ più leggera.
«Non c’è niente che non vada in te, Rose. Mi hai capito? Niente» Cath sbuffò. «Non lo dico a George e a Will solo perché te l’ho promesso e non voglio la vita di Logan Ashdown sulla coscienza».
«Se George lo scoprisse, si arrabbierebbe tantissimo con me» disse Rose con voce piatta. «Perché gli ho detto di sì quando in realtà avrei voluto dire di no».
«Vero» concordò Cath. «Probabilmente ti darebbe dell’idiota per aver pensato anche solo per un istante di non essere normale e non aver tirato a Logan un calcio nelle palle».
«Non è colpa sua» disse Rose.
«E invece lo è». Cath era irremovibile. «Nel momento stesso in cui tu gli hai detto che avresti preferito aspettare, avrebbe dovuto toglierti le mani di dosso».
Rose si morse il labbro. «Will sarebbe così deluso da me».
«No, tesoro». Cath suonava quasi triste. «Will non sarebbe deluso da te».
«In ogni caso, ne sto facendo una tragedia per niente» Rose non voleva pensare a Will in quel momento. «La prossima volta andrà meglio».
«La prossima volta?» Cath trattenne il respiro. «Rose, lo hai detto tu stessa che non sei innamorata di lui…»
«Ci esco insieme da appena due settimane» disse Rose, più a se stessa che a Cath. «Ci vuole del tempo, no?»
«Sì, ma…»
«Grazie Cath, ora devo andare» la interruppe Rose prima che potesse aggiungere altro. «Ti voglio bene».
«Anche io te ne voglio» disse lei. «Però anche tu devi promettermi una cosa, cioè che non farai più niente che tu non voglia fare».
«Ma ormai…» iniziò Rose.
«No, niente ma» la interruppe Cath brusca. «Giura».
Rose fissò il soffitto sopra di sé per qualche secondo, come se lì fosse nascosta la soluzione a tutti i suoi problemi. Ripensò alle parole di Cath: quando è quello giusto lo sai e basta. Rose avrebbe tanto voluto crederle, ma purtroppo non poteva: una volta aveva creduto di aver trovato il ragazzo giusto per lei, ma era rimasta scottata come se avesse messo la mano sul fuoco, e da quel momento aveva smesso di fidarsi del suo cuore per affidarsi solo al suo cervello. 
«Lo giuro. Lo giuro sull’Angelo» pronunciò il giuramento, e per la prima volta quelle parole sapevano di menzogna.

NOTE DELL'AUTRICE
Buonasera a tutti!
Ecco qua il nuovo capitolo. Sono un po' agitata perché è un punto importante della storia. Voglio solo chiarire che Rose dice di sì a Logan; glielo dice per le motivazioni sbagliate, però glielo dice. Poi ci sta male perché si rende conto che non è innamorata di lui e che si è bruciata la sua prima volta con una persona con la quale non condivide nessuna connesione profonda, e per com'è fatta Rose, lei ne ha bisogno, ha bisogno di provare qualcosa di forte per poter stare con qualcuno, altrimenti si sente a disagio. Ed è proprio questo disagio che la manda in confusione: credeva che Logan le piacesse, e invece no, si rende conto che non è così. Se a questo aggiungete che Rose di base si sente strana e fuori posto perché le piacciono cose che a un normale Shadowhunter non piacciono, be', diciamo che è abbastante in confusione al momento. 
Nel prossimo capitolo capirete a cosa si riferisce Rose quando dice che credeva di aver trovato il ragazzo giusto per lei. E' anche per questo motivo che Rose sta male, perché in cuor suo sa di essere innamorata di X (chissà chi, eh?) ma che non potrà mai averlo. Quindi si è quasi "accontentata" di Logan, che è bruttissimo da dire, però terra a terra è così.

Alla prossima,

Francesca 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette. ***


Capitolo sette – Due anni prima
 
Ricordava ancora le parole che George le aveva detto, le sentiva rimbombare nella sua mente anche a distanza di giorni, come un eco lontano: forse dovresti prestare più attenzione al modo in cui ti guarda.
Will.
Si riferiva al modo in cui Will la guardava. Avrebbe dovuto prestare più attenzione.
Rose non capiva, non capiva e si odiava perché non riusciva a capire. Significava forse che Will la vedeva come più di un’amica? Che era… innamorato di lei?
Rose e Will si conoscevano da tutta la vita. Will era nato a febbraio e Rose a ottobre: non aveva mai vissuto in un mondo senza di lui. Ma neanche senza George, che era nato a maggio. Anche lui aveva sempre fatto parte del loro gruppo, ma Rose non poteva negare di provare sentimenti diversi quando pensava all’uno e all’altro.
È normale, si disse decisa, ogni rapporto è unico, non puoi provare le stesse cose sia per George che per Will.
Quando pensava a George vedeva il fratello che non aveva mai avuto, che la prendeva in giro, ma che avrebbe spezzato le gambe a chiunque l’avesse fatta soffrire. Will, invece… che cos’era Will? Rose non riusciva a pensare a lui come a un fratello. Puoi pensare che tuo fratello sia il ragazzo più bello e gentile che tu abbia mai incontrato e che la persona della quale si innamorerà sarà la più fortunata sulla faccia della terra? No, decisamente no.
Ma questo non significava niente. E anche se avesse significato qualcosa, Rose era sempre stata convinta che Will non l’avrebbe mai vista come più di un’amica. Ma ora George le aveva mandato in cortocircuito il cervello: forse dovresti prestare più attenzione al modo in cui ti guarda.
Era successo esattamente una settimana prima: si stavano allenando a New York –Rose spesso si allenava all’Istituto assieme ai ragazzi- e lei e George si stavano esercitando con arco e frecce mentre Will tirava di spada con Marisol, la responsabile del loro addestramento.
«Quindi, Catherine?» aveva iniziato Rose. «Finalmente una ragazza che ti ruba il cuore».
George aveva incoccato una freccia nell’arco e preso la mira con un ghigno. «Nessuna avrà mai il mio cuore» aveva lasciato andare la freccia e fatto centro al primo tentativo.
Rose aveva incrociato le braccia al petto. «Hai dato buca a me e a Will almeno tre volte nell’ultimo mese per uscire con lei».
«Gelosa, Blackthorn?»
Rose aveva alzato le spalle e sventolato una mano per aria, come a scacciare un insetto fastidioso. «Forse. Anche se quello più geloso qua è sicuramente Will».
Rose stava scherzando. Lei e Will sarebbero stati solo contenti se George avesse smesso di uscire una sera sì e l’altra no per rimorchiare, costringendoli ad andare con lui.
George le aveva passato l’arco, improvvisamente serio. «Secondo me non gli dispiace passare più tempo da solo con te».
Le mani di Rose avevano iniziato a tremare e dovette serrarle a pugno per nasconderlo. «Cosa intendi dire?»
George aveva alzato le spalle, cercando il suo parabatai con lo sguardo. A Rose era sembrato incredibilmente stanco e triste, come se stesse portando un peso sulle spalle che pian piano lo stava schiacciando al suolo. «Dico solo che forse dovresti prestare più attenzione al modo in cui ti guarda».
Rose non aveva fatto in tempo a rispondere perché Will stesso li aveva raggiunti con il suo solito sorriso stampato sulle labbra e il discorso era caduto, ma era bastata quella semplice frase per mandarla in confusione.
Ovviamente aveva chiesto a George che cosa intendesse, ma lui l’aveva liquidata velocemente, affermando di non ricordare esattamente di che cosa stesse parlando e che probabilmente stava solo blaterando a vanvera.
Ma ormai il danno era fatto e Rose non poteva cancellare dalla sua mente ciò che aveva sentito. Perciò fece ciò che le veniva meglio: seguì le istruzioni, seguì il consiglio di George, e iniziò a prestare più attenzione del solito a Will.
In quella settimana aveva iniziato a tenere una sorta di diario nel quale annotava i suoi comportamenti. La cosa però le aveva preso un po’ troppo la mano, perché si era ritrovata a fissarlo in modo così insistente che lui se n’era accorto e le aveva chiesto se per caso avesse qualcosa sul viso.
Rose aveva persino cercato su Google come fare a capire se un ragazzo è interessato a te –sentendosi molto stupida e senza risultati soddisfacenti.
Aveva concluso che il comportamento di Will era sempre lo stesso, lo stesso che aveva sin da quando erano bambini, e Rose riteneva molto improbabile che lui fosse innamorato di lei quando aveva otto anni.
Rose si gettò sul letto a pancia in giù, seppellendo la testa nel cuscino e ponderando l’idea di chiedere consiglio a sua madre. Sì, era abbastanza disperata e non aveva amiche femmine, a parte le sue cugine che avrebbero sicuramente fatto la spia. L’unica persona con la quale poteva parlarne era George, ma se si sentiva così confusa era solo colpa sua ed era chiaro che non fosse intenzionato ad aiutarla.
Quella sera sarebbero andati in un locale di Beverly Hills, lei, George e Will. Era stata riportata una strana attività demoniaca nella zona, in particolare nei pressi dei night club più popolari: i demoni erano attratti dai mondani ubriachi. George aveva colto la palla al balzo, proponendo di passare una serata in compagnia tenendo gli occhi aperti nel caso avessero visto qualcosa di sospetto.
Suo padre le aveva raccomandato, come ogni volta che usciva, di non bere nulla, di non interagire con i mondani e di stare attenta a eventuali demoni. Rose aveva ascoltato tutto annuendo e alzando gli occhi al cielo perché suo padre si preoccupava troppo e le ripeteva sempre le stesse cose; non era più una bambina, aveva sedici anni ormai, era quasi un’adulta e sapeva badare a se stessa.
Si alzò controvoglia dal letto e prese un top nero con i brillantini e una lunga gonna viola scuro che aveva comprato in saldo in un negozio poco lontano dall’Istituto, così che i marchi sulle sue gambe non fossero visibili.
Si raccolse i capelli con delle forcine di ferro e nascose un paio di pugnali negli stivali. Indossò dei braccialetti che in realtà erano chakram e per finire si coprì con del fondotinta la runa della chiaroveggenza sulla mano sinistra. Sapeva che i mondani avrebbero fissato le sue cicatrici e che si sarebbero chiesti come una ragazza così giovane potesse avere una pelle tanto rovinata. Rose spesso si era ritrovata ad osservare le ragazze mondane prendere il sole sulla spiaggia invidiando la loro pelle liscia e splendente, immacolata, senza neppure un graffio. Ma Rose era una Shadowhunter ed era consapevole che quelle cicatrici dovevano essere motivo di orgoglio e non di vergogna.
Scese le scale di corsa, sapendo di essere in ritardo e cercando di non cadere per via dei tacchi. Nell’atrio Will e George stavano chiacchierano con i suoi genitori, che le davano le spalle. Will fu il primo a notarla; quando la vide sbatté gli occhi per un attimo, come se non la riconoscesse e la vedesse per la prima volta.
Forse dovresti prestare più attenzione al modo in cui ti guarda.
Se lo stava immaginando? E ammesso che davvero la stesse guardando in quel modo, cosa significava? Forse era solo sorpreso di vederla indossare una gonna…
«Wow, Rose» sussurrò Will quando li raggiunse. Aveva parlato a bassa voce, così che solo lei e forse George potessero sentire.
Rose temette di morire.
O mio Dio, pensò. O mio Dio.
Fu salvata da Catherine. Non l’aveva notata mentre scendeva le scale perché era talmente piccola –sarà stata alta a mala pena un metro e sessanta, pensò Rose- che era rimasta nascosta dalla figura di Julian. Indossava un vestito blu scuro con le maniche lunghe che le arrivava alle caviglie e che le copriva tutti i marchi e le cicatrici che le decoravano la pelle.
«Tu devi essere Rose» le disse con un leggero accento francese. «Sono Catherine Bellefleur, ma tutti mi chiamano Cath».
Aveva pronunciato il suo nome alla francese, Catrìn. Le tese una mano con un sorriso e Rose gliela strinse, contenta di fare finalmente la sua conoscenza. «Rose Blackthorn in carne ed ossa. Qualunque cosa George ti abbia detto su di me, non è vera».
Cath rise come se quello che Rose aveva appena detto fosse davvero divertente. Aveva una risata dolce e sincera, come quella dei bambini. Sembrava quasi sua cugina Olivia perché, come lei, aveva i capelli biondo chiaro e dei lineamenti così delicati che Rose dovette trattenersi dal chiederle se nella sua famiglia ci fosse del sangue di fata.
Rose non si sarebbe mai aspettata una ragazza tanto carina; credeva che George avrebbe perso la testa per una ragazza alta, formosa, con i capelli colorati e la faccia di una che ti avrebbe staccato le dita dei piedi se l’avessi fatta arrabbiare. Cath non era niente di queste cose, ma George la guardava con una tenerezza con cui Rose non gli aveva mai visto guardare nessun’altra.
«Mi raccomando» disse Emma. «Non fate niente che io non farei».
«Non fate niente che io non farei» la corresse Julian con un sospiro. «Sei abbastanza sprovveduta, Em».
«Tranquilli» li rassicurò Will. «Siamo persone responsabili».
Emma alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Sei il figlio di Jace Herondale. Non ci credo neppure se lo vedo, che sei responsabile».
Will si portò una mano al petto con un ghigno. «Così mi ferisci».
«Lo sappiamo che il più responsabile sono io» disse George, e tutti, Julian compreso, scoppiarono a ridere.
Rose non avrebbe mai definito George responsabile e se avesse dovuto associargli un colore, quello sarebbe stato il nero, non solo per i suoi capelli e occhi scuri come la pece, ma anche perché quando non indossava la divisa da combattimento si vestiva comunque di quel colore. Credeva che gli desse un’aria misteriosa e Rose e Will lo avevano preso in giro più volte per questa sua fissa.
«La più responsabile è Rose» decise Emma, passandole un braccio attorno alle spalle. «È mia figlia, ma è anche figlia di Julian, deve per forza essere responsabile».
Rose se la scrollò di dosso imbarazzata e lanciò un’occhiata di sottecchi a Will, che sembrava si stesse divertendo.
Indossava una camicia azzurro chiaro e un paio di pantaloni scuri che mettevano in risalto la sua figura slanciata. Non era alto quanto George, che raggiungeva il metro e novanta, ma superava Rose di almeno dieci centimetri così che lei dovesse comunque alzare un po’ il capo per poterlo guardare negli occhi. Si era tirato indietro i capelli biondi, di una tonalità più scura rispetto a quelli di Emma, e il suo viso risplendeva limpido nella semioscurità dell’ingresso dell’istituto.
Era così bello che Rose avrebbe passato la sua vita a ritrarlo, se solo avesse saputo disegnare. Ma quello bravo a disegnare era proprio Will, non lei che non sapeva neppure da che parte prendere in mano una matita.
«In realtà, scoprirete che la più responsabile è Catherine, nonostante sia la più piccola» disse George, pronunciando il nome della ragazza all’inglese e facendole alzare gli occhi al cielo.
Cath aveva quindici anni e si era appena trasferita con il padre dalla Francia in un appartamento a Brooklyn, quindi spesso si allenava nella palestra dell’Istituto di New York. Rose però non aveva mai avuto occasione di conoscerla prima di quel momento, quindi non poteva giudicare il suo livello di responsabilità. Non si fidava molto di George sotto quel punto di vista, ma Cath sembrava a posto.
Salutarono Julian e Emma e uscirono. Fuori soffiava un leggero vento; stava pian piano calando la sera e il sole era ormai tramontato oltre l’orizzonte.
Rose aprì la sua macchina, una Toyota vecchissima che era appartenuta ai suoi genitori quando erano giovani e che ora avevano lasciato a lei, e si mise al volante.
«Non ho capito perché devi sempre guidare tu» le disse George.
«Ehm». Rose fece finta di pensarci. «Forse perché sono l’unica che sa guidare?»
«È così ingiusto che a New York non abbiamo una macchina». Will prese posto al sedile del passeggero, mentre George e Cath si sedettero dietro di loro.
«Con tutto il traffico che c’è a New York sarebbe inutile, è molto più comoda la metro» fece notare Cath ragionevolmente.
«Non può essere così difficile guidare» continuò George mentre Rose metteva in marcia e premeva l’acceleratore.
«Una volta che hai imparato non lo è» spiegò Rose. «Ma non ti farei toccare la mia macchina nemmeno in cambio di un computer quantistico».
«Ma se è un rottame!» protestò George.
«Vero». Rose si voltò velocemente per lanciargli un’occhiata seria. «Ma è il mio rottame».
Will ridacchiò piano al suo fianco e il cuore di Rose fece una capriola. Strinse le mani attorno al volante per darsi una calmata e concentrò la propria attenzione sulla strada davanti a sé.
Era vero, la macchina era vecchia, ma era sua. Aveva imparato a guidare con quella macchina e la trattava come se fosse il suo animale domestico, dato che non ne aveva nessuno.
A parte Church ovviamente, ma lei non gli era mai piaciuta più di tanto, quindi si rifiutava di prenderlo in considerazione.
Raggiunsero il night club nel giro di mezz’ora. Era un locale vicino all’oceano, piuttosto popolare tra i giovani perché la sicurezza all’entrata non era molto selettiva.
«Rune» disse Will, scendendo dalla macchina. «Meglio essere prudenti».
Passò lo stilo a George, che iniziò a disegnargli dei marchi sotto le maniche della camicia: una runa applicata dal tuo parabatai era più potente. Rose sospirò, aveva sempre voluto un parabatai, ma non aveva ancora trovato la persona giusta.
Vide Cath scarabocchiarsi un paio di marchi sulla caviglia e tornò alla realtà. Cercò distrattamente il proprio stilo nelle tasche della gonna, ma queste erano vuote fatta eccezione per il cellulare.
Non fece in tempo a chiedersi dove diavolo lo avesse cacciato che sentì la mano di Will sul braccio. «Hai bisogno di qualche runa?»  
Alzò il capo per guardarlo negli occhi. Non era sicura di riuscire a formulare una risposta di senso compiuto, quindi si limitò ad annuire e a voltarsi, mostrandogli la schiena. Will spostò la mano dal suo braccio alla spalla e Rose sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale.
Will le scostò il top di lato, e le poggiò lo stilo sulla scapola. «Velocità» sussurrò mentre disegnava. «Precisione». Rose sospirò, ogni sua terminazione nervosa era diventata ipersensibile.
«Agilità». Il respiro di Will sulla pelle nuda era un dolce tormento che la stava facendo uscire di testa. Desiderava che la attirasse a sé, voleva abbracciarlo, sentirlo vicino, seppellire le mani nei suoi capelli. Voleva toccarlo a sua volta e… e che cavolo, Rose!
«Non trovo il mio stilo» disse con voce sottile per cercare di non pensare alle mani di Will sul suo corpo. «Dev’essermi caduto in macchina».
«O magari lo hai dimenticato» disse Will. La sua voce era roca. Se la schiarì prima di parlare di nuovo. «Non sarebbe la prima volta». Rose lo sentì spostare lo stilo sull’altra scapola. «Hai bisogno anche di vista notturna e forza, ma non ho più spazio» disse poi, una volta che ebbe tracciato l’ultima runa.
«Va bene così». Rose si volto in fretta verso di lui così da poterlo guardare in faccia.
«Non puoi andare là dentro senza vista notturna. Non è sicuro, è la runa più importante!» Fece un passo verso di lei e Rose trattenne il fiato. Li separavano solo pochi centimetri. «Lascia che te la disegni qui».
Le scostò di nuovo la maglietta di lato, ma questa volta le scoprì la spalla. Quando Will vide la spallina del reggiseno deglutì e la spostò delicatamente, per poi appoggiarle lo stilo sulla pelle. Rose sentì il familiare senso di bruciore che caratterizzava l’applicazione delle rune, ma questa volta era diverso: era come se stesse andando a fuoco. La mano di Will tremava leggermente, ma Rose credette di esserselo immaginato. Non era in grado di pensare lucidamente in quel momento.
Quando Will ebbe terminato, abbassò la mano e i loro occhi si incontrarono. Rose non distolse lo sguardo, non ce l’avrebbe fatta neanche se avesse voluto, e Will neppure.
«Ehi, è ora di…» urlò George, per poi bloccarsi non appena li vide così vicini. Will e Rose si allontanarono subito come se avessero preso la scossa. «… di andare» concluse George con voce più bassa.
Rose si azzardò a lanciare uno sguardo a Will, e il suo cuore sprofondò. Stava sorridendo al suo parabatai come se niente fosse, come se Rose si fosse immaginata tutto quello che era appena successo tra loro.
O forse… non era successo proprio niente tra loro. Forse lui non aveva provato niente e lei si era immaginata tutto.
Si incamminarono verso l’entrata della discoteca ma Rose si tenne un po’ distante dagli altri. Si sentiva frastornata, confusa.
«Adoro la tua gonna». Cath le si era avvicinata e la stava guardando con un piccolo sorriso stampato sulle labbra. «E i tuoi occhi, sono bellissimi».
Rose la osservò con la bocca leggermente aperta per qualche secondo prima di riprendersi e riuscire a far funzionare il cervello. «Grazie» disse, sinceramente sorpresa. Poi si affrettò ad aggiungere: «Anche il tuo vestito è molto bello, ti mette in risalto il colore dei capelli. Ho sempre desiderato avere i capelli biondi».
Cath passò le mani sulla stoffa blu del vestito e sospirò. «Grazie. Era di mia madre, è morta qualche anno fa».
«Oh». Rose non sapeva come comportarsi in certe situazioni: doveva metterle una mano sulla spalla? O forse era meglio di no, dato che si erano appena conosciute? «Mi dispiace per la tua perdita» si limitò a dire, sentendosi profondamente dispiaciuta per Cath. Sapeva che la vita che conducevano era una vita all’insegna del rischio, pericolosa, e che non era inusuale per uno Shadowhunter morire piuttosto giovane in battaglia, ma il solo pensiero di sua madre, o suo padre, o uno dei suoi zii morti le faceva venire voglia di urlare.
Cath alzò le spalle e fece per aggiungere qualcosa, ma avevano ormai raggiunto i ragazzi all’entrata del pub, dal quale proveniva un rumore assordante.
Rose si preparò psicologicamente a tornare a casa con il mal di testa quella notte. Non sopportava quando nei locali mettevano la musica a un volume troppo alto, al punto che non riuscivi neppure a sentire quello che qualcuno ti stava urlando nell’orecchio. Quella sera la musica era così forte che Rose a malapena riusciva a sentire i suoi pensieri, il che forse non era un male…
Il buttafuori li squadrò da capo a piedi, decidendo se farli entrare o meno. Non sembrava che avessero ventun anni, Rose lo sapeva, ma certamente potevano passare per diciottenni. Alla fine l’uomo decise di farli passare, stampò loro un simbolo sul dorso della mano e si spostò di lato.
Rose non era mai stata in quella discoteca. Era molto spaziosa e la pista da ballo era piena di ragazzi che si strusciavano gli uni sugli altri. Sul lato sinistro c’era una fila di divanetti e di tavolini bassi sui quali erano appoggiati dei bicchieri pieni di liquidi colorati. Tra la folla Rose individuò dei vampiri e anche un paio di stregoni al bancone, che occupava tutto il lato destro del posto.
«Nascosti» urlò Cath, assottigliando lo sguardo.
«Strano da parte loro frequentare un luogo pieno di mondani» commentò George.
«Dici?» fece Will, guardandosi attorno con curiosità. «Magari vogliono farlo diventare un ritrovo per Nascosti. Meglio tenere gli occhi aperti in ogni caso, non mi fido di vampiri ubriachi in presenza di ragazze umane altrettanto ubriache»
George prese Cath per mano e la portò sulla pista da ballo. Le diede un bacio sulla guancia e lei si mise a ridere, allacciandogli le braccia attorno al collo.
«Le piace davvero tanto, vero?» gridò Rose a Will, cercando di farsi sentire. «Cath, intendo».
Will annuì e le fece segno di seguirlo attraverso il locale.
Rose notò una ragazza con i capelli rossi che ballava assieme a un vampiro. Era umana e molto probabilmente non aveva idea che il ragazzo fosse una creatura sovrannaturale.
Will si fermò e per poco Rose non gli finì addosso. Si trovavano all’estremità opposta della pista da ballo, vicino al muro. Qui c’era un po’ più di spazio per respirare, nonostante fossero ancora circondati da ragazzi che si muovevano sulle note della musica.
«Hai visto anche tu quel vampiro?» le chiese Will scrutando la folla con attenzione.
«Sì» rispose Rose. «Ma sembrava a posto».
Will parve non sentirla. Si voltò verso di lei e la osservò con espressione seria, come se stesse combattendo una battaglia interiore. Rose gli sorrise, non capendo il suo cambio di umore e lui le mise la mano sul fianco come se non potesse farne a meno, come se non fosse padrone delle proprie azioni. Poi le passò lentamente la mano dal fianco alla schiena e la attirò a sé. I loro corpi si toccarono, incastrandosi alla perfezione, e Rose poté finalmente respirare. Poggiò la testa sulla spalla di Will e chiuse gli occhi. La musica era assordante, eppure, stretta tra le sue braccia, non si era mai sentita più tranquilla. Non stavano ballando, a mala pena si muovevano, ma a Rose non importava: per lei esisteva solo Will e si strinse a lui, aggrappandosi alle sue spalle, desiderosa di sentirlo più vicino.
«Rose». Rose sentì Will pronunciare il suo nome e sollevò il capo. «Io…»
Grazie agli stivali con il tacco solo pochi centimetri li separavano e Rose pensò che le sarebbe bastato muovere la testa leggermente verso l’alto per baciarlo.
Fece per avvicinarsi ancora di più, mossa da un istinto irrazionale che non le apparteneva, ma si bloccò quando vide con la coda dell’occhio la ragazza con i capelli rossi venir trascinata verso l’uscita di sicurezza da un ragazzo diverso dal vampiro con cui stava ballando prima.
Un demone, dedusse immediatamente. Le era bastato osservarlo per una frazione di secondo per rendersi conto che non si trattava di un umano.
Senza fermarsi a pensare, Rose si allontanò da Will e inseguì i due fuori dal locale. Sentì Will che la chiamava, ma non aveva tempo per fermarsi a spiegargli la situazione. La strada sul retro era deserta, fatta eccezione per qualche bidone della spazzatura maleodorante e un furgoncino bianco abbandonato.
Il demone era addosso alla ragazza, che giaceva al suolo priva di sensi. Rose tirò un calcio alla creatura e questa sibilò, mostrando il suo vero aspetto: pelle squamosa, denti aguzzi e occhi gialli come quelli di una serpe.
Rose prese un coltello dallo stivale e lo lanciò, ma il demone fu più veloce e lo schivò, gettandosi contro di lei. Rose si abbassò e si spostò di lato, afferrando un altro pugnale e conficcandolo nel dorso del demone, che morì e tornò alla sua dimensione originaria, non senza schizzarla di icore sul braccio.
Rose imprecò per il dolore. Il sangue demoniaco non era letale, ma poteva creare qualche danno permanente se ingerito e se non ripulito in fretta, e lei non aveva nemmeno con sé il suo stilo.
Si avvicinò alla ragazza dai capelli rossi e notò che aveva ripreso i sensi. Stava tremando e si guardava attorno confusa.
«Cos’è successo?» chiese.
«Niente» rispose subito Rose, inginocchiandosi accanto a lei per assicurarsi che non fosse ferita. «Volevi prendere una boccata d’aria e sei svenuta. Ora chiamiamo un taxi così puoi farti portare all’ospedale. Temo tu abbia battuto la testa».
La ragazza scosse il capo. «Sono qua con una mia amica».
«D’accordo». Rose le tese una mano e la aiutò a sollevarsi da terra. «Allora andiamo a cercarla».
«Sei ferita» le disse piano la ragazza guardando il braccio arrossato di Rose mentre si incamminavano verso la discoteca.
Rose, ancora vittima dell’adrenalina, non sentiva alcun dolore. «Non è niente» disse, aprendo la porta antipanico con una spalla.
All’interno, nulla sembrava essere cambiato, la gente continuava a ballare come se niente fosse e la musica continuava a rimbombare a livelli disumani.
«Naomi!» Una ragazza con la carnagione scura e una pelle così liscia da far invidia a Rose si precipitò verso di loro. «Ecco dov’eri finita, ti ho cercata dappertutto! Un attimo eri qui e quello dopo sei sparita».
Naomi si portò una mano allo stomaco intontita. «Mi viene da vomitare».
«Ha picchiato la testa» spiegò Rose. «Dovresti portarla all’ospedale».
L’altra ragazza annuì sconsolata e prese Naomi con sé, ringraziando Rose per averla aiutata.
Rose le osservò allontanarsi, poi si voltò e per poco non si sentì mancare la terra sotto ai piedi. A pochi passi da lei, dove prima aveva stretto Will come in un sogno, stava proprio lui, Will. Ma non era lei che stava abbracciando, era un’altra ragazza dalla pelle verde e i capelli azzurri che le arrivavano fino alla vita. Era bellissima, e Will doveva essere dello stesso avviso, perché la guardava come se fosse la cosa più meravigliosa che avesse mai visto. Le sussurrò qualcosa all’orecchio, per poi prenderle il viso tra le mani e baciarla.
Rose voleva chiudere gli occhi e scappare via, ma non riusciva a muoversi. Rimase lì, a guardare Will che baciava con trasporto un’altra ragazza e a soffrire come se le stessero strappando il cuore dal petto. Se lo meritava: era stata una stupida, solo una stupida avrebbe potuto pensare che Will Herondale fosse interessato a lei, e ora meritava di soffrire, meritava di affrontare la realtà, la realtà che lei, per Will, sarebbe sempre stata come una sorella.
Non piangere, si disse, non azzardarti a piangere. Non ne hai alcun diritto, è tutta colpa tua.
Will sussultò e spalancò gli occhi. Allontanò le mani dal volto della fata come se si fosse reso conto solo in quel momento di ciò che stava succedendo. Rose fece per scappare via, ma Will alzò il capo e i loro occhi si incontrarono. Will si allontanò dalla ragazza e si diresse verso di lei.
«Rose» disse con voce spezzata, ma Rose lo interruppe. Non voleva che lui fosse dispiaciuto per lei, non voleva che la compatisse.
«Wow» si costrinse a sorridergli e a fargli un cenno di incoraggiamento, cercando di non svenire. «Colpo grosso per te questa sera».
Non si era mai sentita così stupida in tutta la sua vita e non poteva permettergli di vedere quanto stesse soffrendo.
«No» disse lui, prendendola per le spalle come un disperato. «No no no, non hai capito».
«Will». Rose si mise a ridere, sperando di suonare convincente. «Hai baciato una ragazza, va tutto bene. Dovresti chiederle il numero».
Allontanò delicatamente le mani di lui da sé -non poteva sopportare che la toccasse, non quella sera- e sussultò a causa della ferita.
Will sbiancò. «Che ti è successo al braccio?» glielo afferrò, ignorando le sue proteste, e le disegnò un iratze all’interno del polso. Rose si liberò dalla sua stretta e rabbrividì: ciò che prima l’aveva fatta sentire così bene, ora le faceva venire voglia di gettarsi da una rupe.
«Te lo racconto dopo» disse, senza guardarlo in faccia. «Torna dalla tua fata, non vorrai farla aspettare».
Si girò in fretta e andò a cercare George e Cath, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra lei e Will. 

NOTE DELL'AUTRICE
Ahhhhh, chiedo venia per non aver aggiornato ieri! E' stata una giornata piuttosto impegnativa e mi è completamente passato di mente, scusate!
Ecco qui il nuovo capitolo comunque. <3 
E' un flashback di quanto successo due anni prima. George e Cath sono in quella fase in cui "okay, stiamo uscendo ma stiamo insieme o non stiamo insieme?" Si piacciono entrambi un sacco ma non hanno ancora DTR (Define The Relationship), per citare Clary, ahah. 
Will e Rose, be', che dire di quei due salami se non che sono due salami? Sono due salami, lo so. Comunque è per questo che Rose è convinta di non piacere a Will e che tra di loro non ci sarà mai nulla se non pura e semplice amicizia, ed è per questo che cerca fi farsi piacere qualcuno, tipo Logan.
Nulla, la smetto di blaterare e vi auguro un buon fine settimana!
A presto,

Francesca 

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto. ***


Capitolo otto
 
Quella mattina splendeva il sole su New York. Era ormai autunno inoltrato e gli alberi di Central Park si stavano colorando delle più diverse tonalità di giallo, arancione e rosso, dando agli artisti di strada molto materiale per i loro dipinti. Era il periodo dell’anno in cui anche Will si sentiva più ispirato: solitamente si limitava a disegnare con una penna o con del carboncino, ma quando le foglie iniziavano a farsi gialle e rosse risfoderava i suoi acquerelli e passava interi pomeriggi a dipingere nel parco. Inoltre, le feste si stavano avvicinando e per le vetrine della città si potevano già vedere in vista di Halloween ragnatele, ragni, zucche e streghe, che lo mettevano di buonumore.
Will stava seduto su una panchina, intento a ritrarre la coppia di mondani che sedeva di fronte a lui dall’altra parte del vialetto. Si stavano tenendo per mano e stavano parlando del più e del meno. Si vedeva che erano innamorati, e Will cercò di rappresentare nei loro sguardi l’amore e il rispetto che era evidente provassero l’uno per l’altra, il tutto senza farsi notare e denunciare. Adorava disegnare estranei che non si rendevano conto di essere osservati, era come scattare una fotografia, ma Will lo preferiva perché era lui stesso a darle vita con una semplice matita. Era piuttosto soddisfatto del risultato ottenuto, nonostante la prospettiva non gli fosse uscita particolarmente bene: preferiva soffermarsi sull’aspetto emotivo del disegnare, piuttosto che su quello tecnico e teorico.
Voltò pagina e guardò il foglio bianco per qualche secondo.
E se provassi a…? Si chiese. Solo una volta. Una volta sola e basta…
Aveva sempre ritratto i suoi amici e i suoi familiari sin da quando era bambino. Un giorno però, intorno ai quindici anni, aveva disegnato Rose e lo shock che aveva provato nel farlo gli aveva quasi mozzato il fiato. Aveva terminato il disegno con le mani tremanti e sudate, il cuore che gli batteva forte nel petto come sul punto di esplodere.
Era stato a quel punto che aveva capito. Aveva ammesso ciò che già sapeva da tempo ma che aveva arginato negli angoli più remoti della propria consapevolezza: era innamorato di lei, era chiaro, scritto a caratteri cubitali nella cura e precisione con cui l’aveva rappresentata. Non l’aveva più ritratta da allora, nonostante avesse passato notti in bianco a immaginare di disegnare una sua particolare espressione o inclinazione del capo.
In quelle ultime settimane però il desiderio di disegnarla era diventato quasi insopportabile. Forse era colpa della situazione in cui si trovavano, di Logan, dei sentimenti di Will che si intensificavano ogni giorno che passava… Non lo sapeva, sapeva solo che aveva bisogno di buttare tutto fuori, nero su bianco. Era il suo modo per esprimere ciò che provava: più che andare a correre o allenarsi fino allo strenuo, era disegnare ciò che gli permetteva di rimanere calmo quando dentro di lui tutto urlava.
Si rigirò la matita tra le mani un paio di volte e poi mandò tutto al diavolo e iniziò a tracciare delle righe sul foglio per delineare il contorno del viso, poi l’arco delicato delle sopracciglia e del naso, gli zigomi appena accennati e le labbra. Si era soffermato così tante volte a osservarle che non aveva bisogno di avere Rose davanti a sé, la sua immagine era stampata a fuoco nella sua mente, gli bastava chiudere gli occhi per vederla chiaramente.
«Che stai facendo?»
Will sobbalzò e chiuse il blocco da disegno così che sua sorella Celine, che gli era comparsa alle spalle e lo stava abbracciando da dietro, non vedesse nulla. Will aveva praticamente finito il viso di Rose, gli mancavano solo il collo e le spalle, e pregò che sua sorella non l’avesse riconosciuta.
«Secondo te?» le chiese lui leggermente infastidito. «Mi sto allenando per il balletto».
Sua sorella girò attorno alla panchina e gli si sedette di fianco con un ghigno. «Ti ci vedo con una calzamaglia».
Will alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Celine gli tirò una leggera spallata e si mise a ridere, i capelli rossi raccolti in un’alta coda di cavallo che le arrivava quasi alla vita. «Qualcuno si è alzato con il piede sbagliato».
«Come hai fatto a trovarmi?» le chiese Will. «Non ho detto a nessuno che sarei venuto qui».
«Ho usato una runa per localizzarti» spiegò Celine, lanciandogli un orologio, il suo orologio che non trovava da una settimana. Will lo afferrò al volo e se lo mise al polso.
«Avresti potuto telefonarmi e ti avrei detto dov’ero» disse. «Non era un segreto».
Celine lo guardò storto e gli sorrise angelicamente. «E dove sarebbe stato il divertimento?» 
A quel punto Will si concesse di ridere. Celine lo stava fissando intensamente con i suoi occhi verde chiaro, gli stessi sia di Will che di Elizabeth –tutti e tre i fratelli Herondale avevano gli occhi verdi con delle pagliuzze dorate attorno alla pupilla. Sembrava quasi Cath quando faceva così e Will si sentì a disagio, esposto; tornò subito serio.
«Sta peggiorando, vero?» gli chiese piano lei, con un tono di voce che Will non era abituato a sentirle usare, non con lui almeno. Celine era sempre sfacciata, a tratti strafottente, e la maggior parte delle volte ti faceva venire voglia di lanciarle qualcosa per farla stare zitta. Ma sotto a molti strati di arroganza e sarcasmo, da qualche parte, era nascosta la sorella maggiore che gli aveva raccontato le storie della buonanotte per farlo addormentare e che gli aveva baciato i lividi quando si era fatto male saltando dalla trave senza elastico e protezioni.
«Che cosa?» Will non capiva e non era dell’umore per i suoi giochetti.
Celine indicò il blocco da disegno che Will teneva stretto in grembo con il capo. «La tua cotta per Rose. Sta peggiorando, vero?»
Will non disse niente e tenne gli occhi fissi davanti a sé, rendendosi conto che Celine era probabilmente riuscita a vedere il disegno di Rose. Non avrebbe avuto senso negare, lei sapeva e in qualche modo lo aveva sempre saputo.
«Come…» Will si schiarì la voce, cercando di mantenere un tono fermo. «È così evidente?»
«Ti prego» fece lei. «È così evidente che mi domando come abbia fatto lei a non accorgersene. E poi sei il mio fratellino, ti conosco».
Will si imbronciò e strinse il quaderno al petto, sentendo improvvisamente freddo. «Non importa» disse. «Non prova lo stesso per me».
«Come fai a saperlo?» Alcune ciocche di capelli le erano sfuggite dall’elastico della coda e Celine se le scostò dagli occhi con una mano. «Le hai mai detto che sei innamorato di lei?»
Innamorato. Sentirlo dire ad alta voce gli faceva sempre un certo effetto.
«Sta con Logan Ashdown» spiegò piatto Will. «Mi pare evidente che non sia interessata a me in quel senso».
«Questo perché sei il re degli idioti, oltre che dei codardi, e non le hai confessato prima i tuoi sentimenti. Sei uno scemo. Se solo glielo dicessi, sono sicura che…»
«Grazie» la interruppe Will pungente, aveva già avuto quella conversazione con George e non aveva intenzione di discuterne anche con sua sorella. «Avresti potuto aspettare che tornassi a casa, non ti saresti dovuta scomodare a venire qui apposta per insultarmi».
«In realtà non sono qui per questo» disse lei, improvvisamente allegra. «Volevo chiederti una cosa». Will la guardò in attesa e lei continuò. «Vuoi essere il mio damigello d’onore?»
Will spalancò gli occhi. «Il tuo… cosa?»
Celine alzò le spalle. «È un’usanza mondana, sai, la damigella d’onore. L’amica che aiuta la sposa nei preparativi per il matrimonio e la sostiene durante le sue crisi isteriche».
«E non ce l’hai un’amica che possa fare questo?» chiese Will. «Ho vissuto con te per quasi diciotto anni della mia vita, non pensi che abbia sopportato abbastanza le tue crisi isteriche?»
Celine sembrò pensarci un attimo e poi scosse il capo. «Primo, io non ho crisi isteriche» iniziò, contando sulle dita di una mano. «Secondo, ho davvero bisogno di aiuto e non posso chiedere a mamma e a papà perché sono pieni di lavoro in questo periodo. Terzo, se non ci diamo una mossa dovremo rimandare il matrimonio. E quarto» sospirò e distolse lo sguardo. «Mi duole ammetterlo, e se mi chiederai di ripeterlo non lo farò, ma hai gusto, William».
Eeh?
Questa gli mancava.
«Non fare quella faccia sorpresa, come se non lo sapessi!» sbottò Celine incrociando le braccia al petto. «Ti vesti bene, abbini sempre tutto e tieni più te ai tuoi capelli di me e Lizzie messe assieme. E poi la tua stanza… È carina, ecco. Mi piace come l’hai arredata e mi fido di te».
Will scosse le spalle. «Non lo so… Voglio dire, che tu abbia il senso estetico di uno scimpanzé credo sia innegabile».
Celine fece una smorfia. «Non pensi di stare esagerando ora?»
«Hai ragione» Will ghignò. «Uno scimpanzé probabilmente ha più senso estetico di te».
Celine si mise a ridere e Will con lei.
«Vorrei anche il tuo parere per il vestito, perché…»
«Non hai ancora scelto un vestito?» chiese Will orripilato. Il matrimonio sarebbe stato a inizio dicembre -Celine odiava il caldo e aveva convinto Sophia a sposarsi in autunno- e da ciò che sua sorella gli stava dicendo la situazione era peggiore di quanto Will immaginasse.
«No…?» Disse lei. «Manca un sacco di tempo»
Will controllò la data sull’orologio. «È il 23 ottobre!» esclamò. «Il matrimonio è tra meno di due mesi, quando pensavi di organizzare tutto?»
«Uhm…» Celine ci pensò un po’ e poi gli sorrise. «Vedi perché ho davvero bisogno di te? E poi conoscerai tutte le mie amiche di Idris, magari è la volta buona che ti trovi una ragazza, sai, non esiste solo Rose».
Era tipico di Celine chiedere aiuto facendo sembrare che fosse lei a stare facendo un favore a te.
Will sventolò una mano per aria, ignorando ostinatamente il riferimento a Rose. «D’accordo» decise. «Ti aiuterò. Ma a una condizione».
«Sempre detto che sei il fratello migliore del mondo!» Celine batté le mani contenta e lo abbracciò, stampandogli un bacio sulla tempia. «Qualsiasi cosa».
«Non chiamarmi mai più damigello d’onore» disse Will. «E non sceglierai tu il mio vestito. Perché io, la gonna, non la metto».
 
Will e Celine fecero una passeggiata nel parco durante la quale Celine gli spiegò a che punto fossero con i preparativi –avevano spedito gli inviti e basta- e ciò che aveva bisogno che lui facesse –tutto. In realtà non era proprio così: non voleva che Will le organizzasse il matrimonio dal nulla, desiderava solo il suo consiglio, che la accompagnasse a scegliere i fiori, e il vestito, e la torta. Will si sentiva vagamente lusingato dal fatto che la sua opinione significasse tanto per lei e acconsentì, promettendole che l’avrebbe seguita passo per passo dandole il suo sincero parere.
Verso tarda mattina presero strade diverse e Will tornò all’Istituto, mentre Celine si incontrò con Sophia per pranzo.
Will entrò nella sua stanza e gettò la giacca e il blocco da disegno sul letto, per poi lasciarsi cadere sulla sedia davanti alla scrivania.
«Ahia!» fece una voce, la voce che avrebbe riconosciuto anche tra mille altre. «Era necessario tirarmi il quaderno in testa?»
Si girò e per poco non gli mancò l’aria dai polmoni. Rose se ne stava con le gambe incrociate sul suo letto e lo guardava con aria divertita. Will si alzò di scatto e lanciò un’occhiata al pugnale che teneva sul comodino, perché Rose era a Los Angeles e non era possibile si trovasse nella sua camera; doveva trattarsi o di un sogno o di un qualche tipo di inganno, ed era abbastanza sicuro che non stesse dormendo.
Questa volta era pronto. Non si sarebbe più fatto ammaliare da…
«Wo wo wo» gli disse Rose, alzando le mani in segno di resa. Aveva seguito il suo sguardo e aveva trovato il pugnale. «Sono entrata nella tua stanza senza chiedere il permesso mentre non c’eri, scusami, ma non penso che dobbiamo diventare violenti. Giuro che non ho ficcato il naso da nessuna parte».
Will deglutì, tutti i sensi all’erta. «Non puoi essere qui. Non ho aperto nessun portale».
«No, ma si dà il caso che tu non sia l’unico con questa abilità, caro il mio egocentrico» spiegò Rose con un sorrisetto. «Tua madre era a Los Angeles e sono tornata qui con lei».
Will si rilassò impercettibilmente, sentendosi uno stupido. La fissò ancora qualche istante per assicurarsi che fosse davvero lei, dritta negli occhi di quel colore tanto brillante che lo lasciava senza fiato anche a distanza di anni.
«D’accordo» sbuffò Rose. «Da Starbucks prendi sempre un doppio macchiato con cannella, il tuo piatto preferito è la torta al cioccolato di mio padre, ma questo Jace non lo sa e mi hai fatto promettere di non dirglielo, hai paura delle anatre e da quando hai visto sgozzare un agnellino a Idris quando avevi sette anni sei vegetariano. Superato il test? Che cos’è questo, comunque?» prese il blocco da disegno e lo aprì, iniziando a sfogliare le pagine e a guardare i suoi disegni. «Diventi sempre più bra… Ehi!»
Will si era mosso così velocemente che lui stesso ne era rimasto sorpreso. Si era alzato di scatto dalla sedia e le aveva strappato il quaderno di mano un po’ troppo violentemente.
Rose alzò lo sguardo su di lui, ferita. «Si può sapere che ti prende?»
«Niente». Will chiuse il blocco da disegno e lo ripose con cura in un cassetto. Poi si voltò verso di lei e le sorrise, cercando di sembrare il più tranquillo possibile. «Sono solo scarabocchi, nulla che valga la pena vedere».
«Un giorno potresti diventare famoso per quegli scarabocchi, nel mondo dei mondani almeno». Rose si appoggiò con la schiena alla testiera del letto e Will si sedette vicino a lei, allungando le gambe davanti a sé.
Will notò che Rose aveva i capelli bagnati che le gocciolavano sulla maglietta in grosse ciocche marrone scuro. La maglietta era di un tessuto leggero, a maniche corte, e le si era appiccicata al corpo nei punti in cui i capelli l’avevano bagnata.
Will distolse lo sguardo e afferrò una felpa che aveva gettato ai piedi del letto la sera precedente. La sua camera era sempre molto ordinata, non lasciava mai nulla in giro e rimetteva sempre tutto al suo posto, ma in quel momento l’aver sgarrato alle sue manie di ordine gli stava tornando utile.
«Dovresti coprirti di più quando vieni qui» le disse, passandole la felpa. «Fa freddo a New York».
Ed era vero. Era ormai da qualche settimana che le temperature scendevano sotto i cinque gradi.
Rose prese la felpa e se la infilò. «Hai ragione, ma si sta così bene in California».
«E dovresti anche asciugare i capelli» continuò Will. «Non vorrai prenderti un raffreddore».
Gli Shadowhunters, grazie al sangue angelico che scorreva loro nelle vene, raramente contraevano malattie mondane, ma poteva sempre succedere. Will aveva avuto l’influenza una sola volta nella sua vita, quando aveva sei anni, ed era stato così orribile che se lo ricordava ancora.
Rose si sfregò le mani per scaldarle e chiuse gli occhi, poggiando la testa contro al muro. Sembrava stanca, spossata, nonostante a Los Angeles fossero le nove della mattina passate. «Il raffreddore non lo prendi se non ti asciughi i capelli» spiegò. «È un virus. Anche se studi dimostrano che una temperatura corporea bassa rende più difficile per il sistema immunitario…»
«Okay, okay» la fermò Will con un sorriso quando iniziò a non capire la metà delle cose che stava dicendo. «Va bene, dottore».
Rose aprì gli occhi e gli rivolse uno sguardo di traverso. «Scusa» gli disse.
Will scosse il capo. «Non devi scusarti».
Rose raddrizzò la schiena e si girò verso di lui, così che desse le spalle al resto della camera e Will potesse vederla direttamente in viso.
«Sono davvero tanto strana secondo te?» gli chiese a bruciapelo, aggrottando leggermente le sopracciglia e morsicandosi il labbro inferiore.
«No» rispose subito Will, senza nemmeno doverci pensare. «Perché me lo chiedi?»
Rose abbassò il capo e Will dovette reprimere l’istinto di prenderle la mano, o di toccarle i capelli, e dirle che per lui lei era perfetta nella sua imperfezione, e che se questa la rendeva strana a lui non importava.
«Non lo so…» Rose continuava a non guardarlo, poi sospirò. «Nulla, dimenticati tutto».
Will fece per insistere, ma George bussò alla sua porta. George, a differenza dei suoi familiari, bussava sempre nonostante non ne avesse davvero bisogno. Normalmente Will riusciva a sentire quando il suo parabatai era vicino, ma in quel momento era troppo sopraffatto dalla vicinanza di Rose per rendersene conto.
«William» stava dicendo quello. «So che ci sei».
Will si schiarì la voce. «Sì, entra pure».
George entrò nella stanza e quando li vide seduti vicini sul letto alzò un sopracciglio e incontrò per qualche secondo lo sguardo di Will. Poi si rivolse a Rose. «Sembra che tu abbia appena visto un fantasma, Blackthorn» le disse con un sorriso allegro. «Se non conoscessi Will così bene, ti chiederei se ti ha dato fastidio in qualche modo. Ma è Will, non darebbe fastidio a nessuno, men che meno a te».
Will lo fulminò con lo sguardo, intimandogli di tacere, ma George lo ignorò di proposito, continuando a guardare Rose e sedendosi vicino a lei sul bordo del letto.
«Sto bene, grazie per averlo chiesto, George. E tu come stai?» gli rispose lei sbuffando. «Sei sempre più simpatico ogni giorno che passa».
George la scrutò per qualche istante. «Hai il ciclo?» chiese poi. «Sei particolarmente suscettibile oggi».
Rose grugnì e gli tirò una spallata con molta poca delicatezza. «No! E fatti gli affari tuoi».
«Lasciala stare, George» disse Will.
«Qui c’è puzza di problema di cuore» continuò lui. «Cos’ha fatto Logan? Dillo a George, dai».
Rose impallidì e si guardò le mani. Will lanciò un’occhiata preoccupata a George, che aveva notato anche lui la strana reazione di Rose.
«Va tutto bene, vero?» le chiese George, addolcendo il tono di voce.
«Sì» disse lei. «Benissimo. Sono stanca e ho un po’ di mal di testa, tutto qua».
Will non sapeva se crederle e sentiva dal legame che anche George era perplesso. Conoscevano Rose da talmente tanto tempo che erano in grado di dire quando qualcosa non andava, e quel giorno qualcosa non andava. Rose non era brava a nascondere le proprie emozioni, le indossava con naturalezza quasi, senza accorgersene.
«Sei sicura che…» Will le poggiò una mano sulla spalla e la sentì rabbrividire impercettibilmente sotto al tessuto della felpa. Non appena se la fosse tolta, l’avrebbe indossata lui, solo per sentire il suo profumo ancora per un po’, immaginando di poterla stringere a sé, di poterla amare apertamente senza nascondersi dietro a un sorriso o una mano sulla spalla.
«Sto avendo dei brutti sogni ultimamente» spiegò lei. «Vedo me e la mia famiglia morti, e Holly sta avendo lo stesso incubo. Lo abbiamo avuto due volte in contemporanea. Mentirei se dicessi che non sono preoccupata».
«È strano per uno Shadowhunter avere sogni premonitori» disse George. «Sono sicuro che non è niente».
A Will invece era ghiacciato il sangue nelle vene, non solo perché c’era la remota possibilità che Rose fosse in pericolo, ma perché sapeva che sua madre, Clary, in passato aveva avuto dei sogni del genere.
«Spero tu abbia ragione» disse Rose, giocherellando con il copriletto. «Tutto ciò era per dire che non sto dormendo bene».
Will le passò la mano dalla spalla lungo il braccio un paio di volte per tranquillizzarla, come faceva con Lizzie quando era più piccola. «George ha ragione. Se vuoi posso chiamare zio Magnus così puoi chiedere consiglio a lui».
Rose scosse il capo. «No, non ce n’è bisogno, grazie» poi sorrise. «Basta parlare di me, voi due, niente di nuovo da raccontare?»
Will allontanò la mano da lei e la poggiò sul materasso. «Celine mi ha chiesto di essere il suo… damigello d’onore, credo abbia usato questo termine».
Rose e George scoppiarono a ridere e Will fu felice di aver sollevato a entrambi l’umore, nonostante fosse lui il soggetto di tale ilarità. «Bravi, prendetemi in giro, ma in realtà vuole solo il mio consiglio per i fiori, il vestito, quelle cose lì, sapete. Vestito che, tra l’altro, non ha ancora scelto».
Alla menzione dell’abito da sposa Rose si illuminò come una lampadina. «Posso venire anche io quando andate a comprarlo?»
«Credo che non ci sia alcun problema». Will alzò le spalle, distrattamente.
Era da qualche tempo che Will percepiva qualcosa all’altezza dell’avambraccio, una strana sensazione lì dove c’era la runa parabatai che lo legava a George. Non era spiacevole, era solo costante, e Will non ci aveva prestato molta attenzione. In quel momento però si era intensificata, era diventata quasi un presentimento: sapeva che c’era qualcosa che George non gli stava dicendo, e non era mai successo.
«George» iniziò. «C’è qualcosa che non va?»
George li guardò entrambi con i suoi grandi occhi scuri e poi arrossì leggermente, cosa che non era da lui; sembrava anche nervoso, il che era strano.
«Visto che stiamo parlando di matrimoni…» disse, guardandosi i piedi. «E' da tanto tempo che ci penso, e sapete che le cose a casa di Cath non vanno molto bene... Quindi, insomma... Voglio chiederle di sposarmi. So che non possiamo sposarci subito» si affrettò ad aggiungere. «Però... voglio solo chiederglielo».
«Tu vuoi cosa?» esclamò Will, che era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato.
Rose si portò le mani al petto. «Oh, Georgi» esclamò, per poi abbracciarlo così forte che per poco non lo fece cadere dal letto.
«Chiediglielo» gli disse poi, dandogli un bacio sulla guancia. «Subito, adesso, cosa ci fai ancora qua?»
George si allontanò un po’ da lei. «Non posso. Devo aspettare il momento giusto».
«Per esperienza posso dirti che il momento giusto non esiste» disse Will mentre si alzava e faceva il giro del letto per mettersi di fronte a George. George si alzò a sua volta così che Will lo potesse stringere a sé. «Quindi ha ragione Rose» gli sussurrò all’orecchio. «Chiediglielo e basta».
Aveva aspettato così tanto il “momento giusto”, l’attimo perfetto per confessare a Rose i suoi sentimenti. Pensava di avere tempo, così tanto tempo, e quella era la fine che aveva fatto: aspettare non lo aveva portato da nessuna parte.
Rose si asciugò le guance e alzò lo sguardo su di lui. «Cosa vuol dire per esperienza? Quale esperienza? Hai anche chiesto a una ragazza di sposarti senza dirmelo?»
George si mise a ridere, ma Will si immobilizzò. Ancora una volta si era spinto troppo in là, era scivolato su quel mare di sentimenti che si stava sforzando così tanto di nascondere. Prima o poi lo avrebbero sommerso e si sarebbe lasciato trascinare dalle onde, come un naufrago che troppo stanco per lottare si arrende alla forza dell’oceano.
«No» disse. «Nessuna proposta».
Rose passò una mano sul copriletto e sospirò. «Sarai sempre uno scapolo d’oro, Will Herondale. E io che avrei puntato tutto su George».
Will non disse niente, non aveva niente da dire.
Sua sorella Celine aveva ragione: era il re degli idioti.
 
Rose tornò a casa dopo pranzo, e Will e George andarono ad allenarsi nella palestra dell’Istituto. Lì vi trovarono Lizzie e Marisol intente ad esercitarsi con la katana, così prese dal combattimento che a mala pena si accorsero del loro arrivo.
George afferrò due spade angeliche e ne lanciò una a Will.
«Michele» la chiamò, e questa si illuminò.
«Raffaele» disse invece Will, sentendo la familiare scarica di adrenalina che accompagnava l’attivazione di una spada; era come se questa prendesse vita dalle ceneri per bruciare nella sua mano.
«Dovresti davvero dirglielo». George si rigirò l’arma tra le mani e lo guardò con aria di sfida.
Will sapeva che cosa intendeva: dovresti dirlo a Rose. Aveva avuto quella conversazione così tante volte che non aveva più la forza per replicare. Perciò si limitò ad alzare la spada contro il suo parabatai; George parò il colpo con un ghigno e fece un affondo che avrebbe colpito Will nel fianco sinistro se non si fosse spostato con prontezza.
«Sono serio» continuò George. «Secondo me sbagli a dare per scontato che Rose non provi niente per te».
Stavano girando in cerchio, la guardia alta, pronti a parare qualsiasi attacco dell’altro. Ma Will sapeva che non sarebbero mai riusciti a cogliersi di sorpresa: erano parabatai, si allenavano insieme da quando ne avevano memoria e Will era in grado di prevedere la prossima mossa di George ancora prima che lui decidesse quale fosse.
Will si scagliò di nuovo contro di lui, ma George lo evitò prontamente balzando di lato. Will girò su se stesso e tornò all’attacco con più ferocia, tanto che dopo qualche tentativo riuscì a disarmarlo e a tirargli una ginocchiata nello stomaco.
«È inutile che sfoghi la tua rabbia repressa su di me» grugnì George. «La situazione non camb…»
Will lo spintonò a terra. «Ti tiro un’altra ginocchiata se non la smetti di parlare».
George emise un verso strozzato. «No, grazie».
«Tutto bene, voi due?» Chiese Marisol, scrutandoli con occhio critico.
Will sorrise smagliante. «Va tutto benissimo. George stava solo controllando lo stato del pavimento. Come ti sembra, George? Abbastanza solido e resistente?»
George gli rivolse un’occhiataccia dal basso verso l’alto e Will gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi; George la accettò e si tirò in piedi. I suoi capelli scuri sparavano in tutte le direzioni e cercò di appiattirseli sul capo, peggiorando solo la situazione.
«Pensaci» disse poi. «Qual è la cosa peggiore che può succedere?»
Will sbuffò. «Adesso ti prendo a pugni».
George ghignò. «Non lo faresti. Tu dai per scontato che se le confessassi quello che provi, lei ne rimarrebbe talmente disgustata che smetterebbe di parlarti. Corretto?»
Will chiuse gli occhi e contò fino a dieci, cercando di calmarsi e di non assassinare il suo parabatai. Quando George si metteva in testa qualcosa sapeva essere incredibilmente testardo, non aveva senso opporsi all’inevitabile: quel pomeriggio avrebbero parlato di Rose, che Will lo avesse voluto o no.
«Sì» rispose rigidamente. «È esattamente ciò che credo accadrebbe».
«Ma perché?» George scosse il capo. «Sei proprio un idiota».
«Grazie, ma ho già ricevuto la mia dose di insulti per…»
«William» disse George, i suoi occhi scuri lo stavano guardando con serietà, cosa che non accadeva spesso quando si trattava di George. «Smetti di fare il finto modesto: sei divertente, hai pazienza, così tanta pazienza che a volte penso che non sia normale, sei gentile e sai disegnare. E poi non ce l’hai uno specchio? Qualsiasi ragazza che conosco muoverebbe carte false per poter stare con te. Be’, a parte Cath…» si accigliò per un istante. «Credo».
«George!»
«Sto scherzando» disse George, alzando le mai in segno di resa. «Sto scherzando per quanto riguarda Cath, ma non per tutto il resto».
«Non basta un bel viso perché una persona si innamori di te». Will ripose la spada nel suo fodero e poi alzò lo sguardo sul suo parabatai. «Non funziona così».
Will si diresse verso l’uscita della palestra e George, dopo aver gettato la sua spada a terra e essersi beccato qualche insulto da Marisol, lo seguì di corsa. «Dimentichi la cosa più importante: Rose ti vuole bene».
Will si fermò nel mezzo del corridoio e si voltò verso il suo parabatai, che era qualche centimetro più alto di lui. «Il fatto che mi voglia bene non implica che sia anche innamorata di me».
«Magari non lo è». George alzò le spalle. «E allora? Tu devi solo dirle come ti senti, non puoi controllare il resto. Magari non ricambierà i tuoi sentimenti e soffrirai da morire, ma almeno potrai andare avanti con la tua vita una volta che te ne sarai fatto una ragione».
«Andare avanti?» Chiese Will, sentendo la sua voce tremare leggermente. «Non potrò mai andare avanti. Ho sempre amato solo lei, desiderato solo lei, per anni. Non si torna indietro da qualcosa di così grande. Amare Rose ormai fa parte di ciò che sono. Vorrei che non fosse così, ma lo è e non posso fare niente per cambiare le cose».
George sospirò. «Puoi darti, e darle, una possibilità».
Will per la prima volta si ritrovò a considerare la possibilità che George avesse ragione. Era così stanco, così stanco di fingere, di nascondere come si sentiva davvero. Rose non lo avrebbe mai odiato per quello che provava, se lo avesse fatto non sarebbe stata la Rose che lui tanto amava.
«Le dirò tutto non appena chiederai a Cath di sposarti» fece Will con tono di sfida.
George sostenne il suo sguardo. «Non dovresti mentire a me».
Will sbuffò. «Perché ti importa così tanto?»
«Perché mi importa? Perché sei tu. Sei il mio parabatai, il mio migliore amico, e lo sento quando stai male, lo sento qui» disse, allungando il braccio e indicando il punto dove Will gli aveva disegnato la runa che li avrebbe legati per sempre. «È da anni che lo sento, una costante sensazione di malessere all’altezza dell’avanbraccio. Non voglio che tu sia triste. Voglio che tu sia felice».
Will abbassò il capo, a corto di parole. «Mi dispiace».
George gli si avvicinò e lo prese per le spalle, scuotendolo leggermente. «Sarebbe un privilegio essere amati da te, William. Dovresti solo iniziare a crederci».

Quella sera Will non riusciva a prendere sonno. Le parole di George gli martellavano nel cervello, contro le tempie, minacciando di rompergli il cranio in due.
Sarebbe un privilegio essere amati da te, William.
Davvero? E anche se lo fosse stato, a Rose sarebbe importato?
Magari avrebbe davvero potuto buttarsi; il salto era troppo alto, lo sapeva, ma era un salto che prima o poi avrebbe dovuto affrontare. Non poteva andare avanti in quel modo, non poteva vivere così.
Forse dirlo, dirlo soltanto, lo avrebbe aiutato. Non l’avrebbe sfiorata se Rose non avesse voluto che lui lo facesse, le avrebbe soltanto aperto il suo cuore, glielo avrebbe offerto su un piatto d’argento, sarebbe poi spettato a lei decidere che cosa farsene.
E Logan?
Rose non gliene aveva parlato molto. Da quando si erano messi insieme era come se lei cercasse di cambiare discorso ogni volta che l’argomento saltava fuori, così che Will non sapeva niente: non sapeva cosa lei provasse per lui, non sapeva se la facesse stare bene, se la facesse ridere, se lo amasse.
Il suo telefono vibrò e Will allungò una mano per prenderlo dal comodino.
Era proprio Rose, come se avesse in qualche modo percepito che stava pensando a lei. Rose, che gli chiedeva se era sveglio.
Sì, le scrisse velocemente. Era quasi mezzanotte, ma non riusciva a dormire.
La risposta di lei arrivò quasi altrettanto repentina: Puoi venire qui, per favore?
Will non si preoccupò nemmeno di mandarle un altro messaggio: si alzò, afferrò il proprio stilo e iniziò a tracciare una serie di rune nell’aria davanti a sé. Lo aveva fatto così tante volte che non doveva più nemmeno concentrarsi, gli veniva naturale come respirare.
Di solito, quando andava da Rose, apriva un portale nel corridoio davanti alla sua porta, ma quella sera si ritrovò nella camera di lei senza rendersene conto.
Rose stava camminando avanti e indietro, intrecciando delle ciocche di capelli tra di loro, cosa che faceva quando era nervosa o sotto pressione.
Quando si accorse che Will si era materializzato a pochi passi da lei sobbalzò e si portò una mano al petto.
«Scusami» disse Will. «Non volevo spaventarti».
Rose lo guardò con i suoi grandi occhi verde-azzurro e annuì vagamente, riprendendo a camminare avanti a indietro.
Diglielo, gli intimò la voce nella sua testa che somigliava a quella di George. Adesso. Smetti di pensare e dillo e basta.
Io ti amo, Rose. E se tu non provi lo stesso per me va bene, continuerò a esserti amico, avevo solo bisogno che lo sapessi.
Ti amo.
Dillo, Will. Dillo.
Will si sedette sul bordo del letto -gli stavano iniziando a tremare le ginocchia- e la osservò. Sembrava che fosse appena tornata a casa, o che si stesse preparando per uscire: indossava un vestito rosa che le arrivava sopra al ginocchio e che le lasciava scoperte le spalle. Will, al contrario, non si era cambiato, si era precipitato subito da lei e portava ancora i pantaloni del pigiama e la felpa che le aveva prestato quella mattina.
Prese un respiro profondo e si buttò, senza paracadute, senza qualcuno o qualcosa che attutisse la caduta. Si buttò e basta. «Devo dirti una cosa» iniziò.
Rose alzò lo sguardo su di lui e a Will morirono le parole in gola. Qualcosa non andava. Quando era arrivato non aveva notato che le guance di Rose erano bagnate di lacrime o che i suoi occhi fossero arrossati.
Will si alzò e con due falcate le fu di fronte. «Cos’è successo?»
«Non saresti dovuto venire qui adesso» disse lei. Aveva le braccia strette attorno al petto come se avesse freddo, e Will vide che si era graffiata là dove aveva premuto con troppa forza le unghie nella carne.
«Cos’hai fatto lì?» le chiese serio. Non tollerava che qualcuno ferisse Rose, nemmeno se quel qualcuno era lei stessa.
Rose seguì il suo sguardo e allungò le braccia lungo i fianchi, liberandosi da quella presa nella quale lei stessa si era imprigionata. «Non me ne sono accorta, ma è l’unico modo che ho per avere un po’ di silenzio. Nella mia mente c’è sempre così tanta confusione, a volte ho solo bisogno di…» Rose chiuse gli occhi e le scappò una lacrima che si affrettò ad asciugare con la mano. «Dovrei davvero fare una doccia e indossare qualcosa di più comodo. Tu aspetta qui».
Will non capiva e si stava iniziando a preoccupare. Le si avvicinò, una mano già tesa verso di lei, ma Rose fece un passo indietro e sbatté la schiena contro la porta del bagno.
«Va tutto bene?» Will non capiva, sembrava che avesse quasi paura di lui.
«Sì, certo» cercò di sorridergli lei, ma non fu per niente convincente. «Torno subito».
«Lasciami almeno…» Will non ebbe il tempo di concludere la frase che Rose si era già infilata nel bagno e aveva aperto l’acqua della doccia.
Will prese un libro dalla scrivania e si sedette sul letto, sopra alle coperte, per poi accendere la lampada a forma di luna che Rose aveva sul comodino. Si sistemò qualche cuscino dietro la schiena, Rose ne aveva tantissimi, e lesse il titolo del libro: “Introduzione alla fisica quantistica”.
Stai scherzando? Pensò Will con una smorfia, gettando il volume ai piedi del letto, senza neanche provare a leggerlo. Gli stava venendo un po’ di sonno ed era sicuro che la fisica quantistica lo avrebbe solo fatto addormentare. Inoltre non aveva i suoi occhiali con sé, quindi avrebbe avuto qualche difficoltà con la lettura. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, cercando di rilassarsi e di non pensare al modo in cui Rose lo aveva guardato poco prima, come se lui fosse tutto ciò che desiderava ma che non aveva il permesso di avere. Will era convinto di esserselo immaginato, perché le sarebbe bastato dirlo e lui sarebbe stato suo.
Quando riaprì gli occhi, Rose era inginocchiata sul letto accanto a lui. La luce della lampada splendeva dietro di lei conferendole un’aria quasi eterea, surreale.
«Sei davvero tu?» chiese Will.
Rose si mise a ridere, ma Will non stava scherzando. «Sì, ti sei solo addormentato» disse lei. Poi si morsicò il labbro. «Mi dispiace averti fatto venire qui. Puoi tornare a casa a dormire se vuoi».
Will sbatté le palpebre un paio di volte e si riprese immediatamente. «Non vado da nessuna parte finché non mi dici cos’è successo».
Rose aveva indossato una canottiera sformata e dei pantaloncini della tuta, e questa volta si era asciugata i capelli. «Ho una teoria» iniziò a bassa voce. «Credo che tutti noi abbiamo una persona per la quale lasceremmo il nostro promesso sposo all’altare, se solo questa si presentasse il giorno del matrimonio chiedendoci di scappare con lei».
Will aggrottò le sopracciglia, non capendo dove volesse andare a parare. «Rose, io non…»
«Dovremmo tutti stare con quella persona» continuò lei. Stava parlando velocemente, mangiandosi quasi le parole «Quella che non lasceremmo all’altare per nessun motivo, quella che sposeremmo anche se l’universo fosse sul punto di esplodere, che seguiremmo anche in capo al mondo».
Will deglutì, incapace di dire alcunché, e lei proseguì. «Logan non è quella persona e penso di averlo capito sin dal primo appuntamento. Però mi sono detta che mi stavo comportando da stupida: non tutti sono così fortunati da poterla trovare subito, no? Alcuni non la trovano proprio…» Rose alzò gli occhi, scuri nella penombra della stanza, su di lui. «Altri la trovano ma non possono starci insieme».
Will le prese la mano e gliela strinse, sostenendo il suo sguardo. Si era avvicinato senza accorgersene, o lei si era avvicinata a lui, non lo sapeva. Gli sarebbe bastato pochissimo per baciarla.
Rose gli poggiò una mano sulla guancia e Will temette di andare a fuoco, il cuore gli batteva così forte contro al petto da fargli male.
Adesso la bacio, si disse. Fanculo la dichiarazione. Fanculo le conseguenze.
Stava per chiudere gli occhi, quando Rose emise un verso strozzato e lo abbracciò, seppellendo il viso nell’incavo del suo collo.
Will la strinse a sé e le accarezzò piano la schiena, cullandola avanti e indietro come aveva fatto tante volte con Lizzie quando era più piccola. Rose stava piangendo e Will si sentì un idiota per aver pensato a sé e a ciò che lui desiderava in un momento del genere.
Rose profumava di menta, di fresco e di mare, e Will le diede un casto bacio tra i capelli, per poi sussurrarle piano all’orecchio che sarebbe andato tutto bene, anche se non aveva idea di che cosa le fosse successo.
Quando si fu calmata si allontanò un po’ da lui, quanto bastava per poterlo guardare in faccia, e Will le asciugò le lacrime dalle guance con il pollice.
«Non sopporto quando piangi, Rose» disse. «Non lo sopporto».
Rose si mise a ridere e prese un fazzoletto per soffiarsi il naso.
«Meglio» le sorrise Will.
Rose lo guardò per qualche istante e poi incurvò le spalle, sgonfiandosi come un palloncino. «Sono andata a letto con Logan» disse. «Ieri per la prima volta».
Fu come se lo avesse schiaffeggiato. Will si impose di rimanere immobile, di non lasciar trasparire tutta la gelosia e la disperazione che lo attraversavano se solo pensava a Logan che la sfiorava, che la baciava, che poteva stare con lei in tutti i modi in cui lui non avrebbe mai potuto.
«Perché?» riuscì a chiederle Will. La sua voce era spezzata, ma non gli importava. Doveva sapere. «Prima hai detto che Logan non è quella persona, quella per cui lasceresti chiunque all’altare, e che lo hai sempre saputo. Allora perché?»
Rose distolse lo sguardo. «Perché non tutti hanno la fortuna di poter stare con qualcuno che amano così tanto».
«Ma tu lo ami, almeno un po’?» insistette Will. «Logan. Sei innamorata di lui?»
«No». Rose ci pensò un attimo, come se non sapesse come continuare. «Non ero pronta perché non credevo che fossimo già a quel punto della relazione, ma quando gli ho detto che avrei preferito aspettare mi ha guardato come se fossi impazzita e mi sono sentita uno schifo. E alla fine mi ha convinta. È stato… imbarazzante. Brutto». Rose fece una smorfia. «Credevo fosse normale, essendo la prima volta, no? Ma questo pomeriggio è successo di nuovo, e poi Logan mi ha chiesto di passare la notte da lui e non ce l’ho fatta. Il solo pensiero che mi tocchi di nuovo mi mette ansia, mi fa rabbrividire. Allora ho rotto con lui e quando mi ha chiesto il perché gli ho detto la verità, ovvero che non sono innamorata. Ma non l’ha presa bene, ha detto... Ha detto che non c’è bisogno di amare qualcuno per fare sesso. E forse ha ragione e ho qualche problema, ma io ne ho bisogno. Altrimenti questo» e si indicò con un dito tremante. «È il risultato». Si soffiò di nuovo il naso e proseguì. «Me ne sono andata e lui mi ha dato della troia, non so esattamente il perché dato che il punto della questione era proprio che non volessi andare a letto con lui. Will. Will…» Rose gli tirò piano la manica della felpa. «Ti prego, di’ qualcosa. So che mi sono comportata da stupida e che sei deluso da me, ma ti prego…»
Will alzò lo sguardo su di lei, sentiva le orecchie fischiare e il sangue pulsargli nelle vene, una rabbia cieca si era impossessata di lui, ne riusciva a sentire il sapore in bocca. «Io lo uccido» disse, la voce così ferma e calma da far quasi paura a lui stesso. «Sono serio, Rose. Deve sperare di non incontrarmi mai, perché io gli faccio male».
Rose gli si avvicinò e gli mise le mani sulle spalle. «No no no» si affrettò a dire. «Non è colpa sua».
«Non iniziare» la fulminò Will, sempre con una calma innaturale che non rispecchiava ciò che davvero provava. «Non ti azzardare a non dargli neanche un briciolo di colpa, perché di sicuro è colpevole per essere uno stronzo insensibile».
Will non riusciva a processare quanto aveva appena scoperto: il solo pensiero che Logan l’avesse fatta sentire così sbagliata da convincerla a compiere un passo tanto importante lo mandava su tutte le furie. Ma più di tutto, lo faceva infuriare il fatto che Rose avesse pensato di non meritare niente di meglio di Logan Ashdown.
«Forse hai ragione» gli disse. Poi sorrise. «In ogni caso, sto esagerando. Mi passerà, voglio dire… fa niente. Spero di non rivederlo più e basta».
«Rose». Will voleva rompere qualcosa, distruggere qualcosa. «Promettimi che non penserai mai più di valere così poco. Per favore. Se non vuoi farlo per te, fallo per me. Lo puoi fare per me?»
Rose spalancò leggermente le labbra e poi annuì. Will le accarezzò i capelli e glieli sistemò dietro a un orecchio. «Ti meriti molto meglio di così. Molto meglio. Perché sei bellissima, e gentile, e incredibilmente intelligente, e odio che tu non te ne renda conto. Lo odio».
Rose trattenne il fiato e Will ebbe paura di essersi spinto troppo in là, ma ormai era troppo tardi: aveva fatto cadere i muri che aveva eretto attorno a sé durante tutti quegli anni e le stava parlando con il cuore in mano. L’avrebbe baciata, se la situazione fosse stata diversa, ma quella sera non avrebbe mai potuto.
«Sarà meglio che vada» disse allora, facendo appello a tutta la sua forza di volontà. «Non c’è niente di sbagliato in te, Rose. Mi piaci così come sei».
Rose sospirò e si infilò sotto alle coperte, mentre Will si alzava dal letto. «Grazie per essere passato, so che è tardi a New York».
«Ci sono sempre per te, Rose. Non devi ringraziarmi» Will prese lo stilo dal comodino, ma Rose lo fermò, afferrandogli delicatamente il polso. «Puoi rimanere qui stanotte? Per favore… non voglio stare da sola, se dovessi avere di nuovo quell'incubo non credo che riuscirei a sopportarlo, non oggi».
Lo aveva convinto al puoi rimanere qui stanotte. «Certo».
Rose trasse un sospiro di sollievo e si fece da parte, alzando le coperte. Will spense la luce e la raggiunse; si stava per sdraiare accanto a lei quando Rose gli tirò la manica della felpa. «Questa dovresti toglierla» disse, guardandolo dal basso verso l’alto, i capelli sparsi sul cuscino. «Non fa così freddo».
Will deglutì. «Non ho niente sotto».
Rose gli sorrise. «E allora? Come se non ti avessi mai visto senza maglietta. Toglila lo stesso».
Will si sfilò la felpa dalla testa e si infilò sotto alle coperte. Si girò di lato e trovò i grandi occhi di Rose che lo fissavano intenti.
Che cosa si aspettava da lui? Doveva abbracciarla? O mantenere le distanze?
Le si avvicinò impercettibilmente, quanto bastava per sentire il calore del suo corpo e il suo respiro sulla pelle. Rose lo notò e Will si diede dello stupido, temendo che si allontanasse. Invece Rose lo fece sdraiare sulla schiena, per poi poggiargli la testa sulla spalla e passargli un braccio di traverso sul petto. Will la strinse a sé, pensando che non si sarebbe mai più ripreso da quella notte e che la sensazione di averla tra le sue braccia lo avrebbe tormentato ogni volta che avesse chiuso gli occhi. Ma non gli importava, perché ne sarebbe valsa la pena.
«Grazie, Will». Il respiro di Rose gli sfiorò il collo e Will sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale.
«Sono qui» la rassicurò lui, accarezzandole piano la schiena, sperando di curare in qualche modo la ferita ancora aperta che Logan le aveva lasciato. «Ora dormi, Rose».
Rose chiuse gli occhi e, dopo averla osservata per qualche secondo per imprimere quell’immagine nella sua mente per sempre, li chiuse anche lui.


NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il nuovo capitolo! 
Spero che vi piaccia. Povero Will, proprio quando si decide a dichiararsi a Rose succede il finimondo. Mandiamogli un abbraccio virtuale per averci provato. 
Scherzi a parte, Will dopo aver visto Rose così abbattuta non avrebbe mai potuto né toccarla né mandarla ancora più in paranoia con una dichiarazione. Will è davvero incazzato con Logan, vero, ma aspettate che lo scopra George. xD
La colpa di Logan è quella di aver dato per scontato che Rose volesse andare a letto con lui e che lei stesse solamente cercando di "farsi desiderare", cosa non vera, perché quando Rose gli ha detto di non essere pronta e che se non se la sentiva, non si sentiva pronta e non se la sentiva per davvero, dato che non provava qualcosa di abbastanza forte per lui. Okay, gli piaceva, era simpatico, ma PER ROSE non era abbastanza per fare qualcos'altro, mentre per Logan (che non è mica innamorato perso di Rose, la trova bella, simpatica e intelligente ma finisce lì anche per lui) invece lo era. Non erano "on the same page" e Logan al posto che rispettare la posizione di Rose, non ci ha dato importanza e l'ha fatta sentire sbagliata. Rose già si sente strana di per sé (tenete conto che nella società degli Shadowhunters la tecnologia e tutto ciò che riguarda il mondo dei babbani è un tabù), se ci si aggiunge Logan il risultato non può che essere una Rose che sta abbastanza male perché pensa di aver sbagliato qualcosa e non capisce che cosa. 
Niente, spero che vi sia piaciuto!
A presto,

Francesca 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove. ***


Capitolo nove
 
«Rose». Will sentiva dei colpi risuonare in lontananza e qualcuno che chiamava Rose.
Strano, pensò. A casa mia nessuno bussa mai.
I colpi cessarono e della luce si riversò nella stanza, svegliando definitivamente Will. «Rose, è pronta la colazione. È tardi».
Will spalancò gli occhi e prese coscienza dell’ambiente circostante: delle pareti azzurro chiaro della camera di Rose e di Rose stessa accanto a lui. O forse sarebbe stato più corretto dire addosso a lui. Durante la notte non si erano mossi più di tanto, Will stava ancora sdraiato a pancia in su e Rose continuava a tenergli un braccio sul petto, inchiodandolo al materasso; la differenza era che ora le loro gambe erano praticamente intrecciate e Rose stava per metà sopra di lui.
Sentiva il cuore di lei batterle contro al petto e il suo respiro sulla guancia. Non era mai stato così vicino a Rose in tutta la sua vita e non avevano mai dormito insieme, e l’idea che non sarebbe successo mai più gli apriva un buco all’altezza dello stomaco. Era tremendamente sbagliato non potere avere questo ogni giorno, non poterla baciare, non poterla amare apertamente come avrebbe voluto. Ed era tremendamente sbagliato quello che le era successo con Logan.
Will aveva deciso: le avrebbe confessato tutto non appena ne avesse avuto l’occasione, le avrebbe detto ogni cosa, promettendole che comunque sarebbero andate le cose si sarebbe impegnato al massimo per non farla mai più sentire come se ci fosse qualcosa di sbagliato in lei.
Rose si mosse leggermente, stringendosi di più a lui, e Will credette di morire. Poi si rese conto che Julian Blackthorn li stava fissando con la bocca spalancata e sì, ebbe la certezza che quella mattina sarebbe morto.
«Per l’Angelo» disse Julian. «Ma perché, Rose?»
Rose si svegliò e si allontanò da Will, tirandosi a sedere di scatto. Sbatté un paio di volte le palpebre, per poi passare lo sguardo da Will a Julian.
«Perché non hai bussato?» chiese con calma, come se suo padre non l’avesse appena trovata con un ragazzo nel letto.
«Ho bussato. Più di una volta» rispose Julian con altrettanta calma. Ma era troppo calmo, faceva paura. «Non è colpa mia se non avete sentito».
«Non è quello che sembra» si affrettò a dire Will, mettendosi seduto e cercando con lo sguardo la sua felpa. La trovò sul pavimento e si maledisse. Forse non era stata una buona idea sedersi, perché Julian guardò il suo petto nudo e inclinò il capo, alzando un sopracciglio.
«Ah no? Perché a me sembra…»
«Ha ragione Will» disse Rose. Will non si spiegava come potesse essere così tranquilla; lui avrebbe voluto sotterrarsi. «Non è successo niente. E anche se fosse, che ti importa?»
Julian sbiancò e fece una smorfia, per poi voltarsi e andarsene. «Emma!» brontolò, chiudendosi la porta alle spalle. «Emma!»
«Oddio» mugugnò Will, lasciandosi cadere a pancia in su sul letto e coprendosi il viso con le mani. «O mio Dio. Mi odierà per il resto dei nostri giorni. Secondo me sta andando a organizzare la mia morte».
Rose scoppiò a ridere e Will la sentì alzarsi in piedi. «Ma stai scherzando? Lo hai visto, no? A mio padre non importa. E poi sei tu».
Will tolse le mani dagli occhi e la guardò storto. «Tu stai scherzando, semmai! L’ho visto molto bene e, fidati, vuole la mia testa».
Rose pareva più che stupita. «No, lo conosci. Mio padre è buono come il pane».
Will si alzò anche lui e indossò velocemente la felpa. «Torno subito» le disse.
«Ehi, ma dove…?»
Will non sentì il resto della domanda perché si era già precipitato fuori dalla porta e lungo il corridoio che portava alla cucina. Ci piombò dentro di corsa e si fermò sulla soglia per riprendere fiato. Emma e Julian lo fissarono per un istante, stupiti.
«Non penso di poterti guardare in questo momento» disse piatto Julian, seduto su una sedia. Emma gli stava di fronte con le braccia incrociate e gli tirò una piccola spinta, per poi sorridere smagliante a Will. «Io sì, invece! Ha finalmente rotto con Logan? Lo sapevo che non andava bene per lei. Siediti e prendi dei pancake, William».
«No no no». Will alzò le mani per fermarla. «Non è successo niente. Niente, ve lo giuro. Abbiamo solo dormito. Ci siamo addormentati. Con gli occhi chiusi e con i sogni».
«Perché, si può dormire con gli occhi aperti?» chiese una voce assonnata.
Will abbassò lo sguardo e si ritrovò Holly, la sorella di Rose, di fianco. Si stava stropicciando gli occhi con una mano, mentre con l’altra reggeva un orsacchiotto.
«No, tesoro» fece Julian. Si alzò e la prese in braccio, per poi stamparle un bacio sulla guancia. «Non si può. Assolutamente vietato».
Will arrossì.
«Smettila, Jules» lo riprese Emma. «Stai mettendo in imbarazzo Will».
Julian alzò gli occhi su di lui e sbuffò. Mise Holly per terra e poi fece cenno a Will di seguirlo fuori dalla cucina.
«So che non mi credi» iniziò Will. Dava del tu ai genitori di Rose anche se non erano imparentati, li conosceva da quando era nato. «Ma non farei mai niente per mancare di rispetto a Rose, o a te, e…» Non sapeva come continuare, si sentiva un idiota. Forse avrebbe dovuto lasciar perdere e basta. 
Julian sospirò e gli mise le mani sulle spalle. «Se fossi stato qualsiasi altro ragazzo, ti avrei tagliato le mani, e anche qualcos’altro. Ma sei tu, e se mia figlia deve proprio crescere e innamorarsi di qualcuno, vorrei che si innamorasse di te. Di sicuro ti preferisco a Logan Ashdown».
Will per poco non si mise a piangere. Si domandò che cos’avrebbe fatto Julian se avesse saputo quello che era successo tra Logan e Rose.
«La prossima volta però avvisatemi, okay?» Julian gli diede una pacca sul braccio e gli sorrise. «Non voglio prendere atto di certe cose».
Will si domandò come diavolo avrebbe dovuto fare per avvisarlo, ma preferì non chiederglielo.
«Non è successo niente» ripeté Will. «E non credo che succederà mai qualcosa, o che ci sarà una prossima volta».
La sua voce suonò così triste che Julian se ne accorse e lo guardò con simpatia. «Mai dire mai, Will».
In quel momento arrivò Rose. Si era vestita e raccolta i capelli sul capo.
«Va tutto bene, vero?» chiese, per la prima volta un po’ titubante. «Voglio dire… è Will!»
Julian lanciò un’occhiata di sottecchi a Will e poi le sorrise pacato. «Lo so bene che è Will».
«Comunque io e Logan abbiamo rotto» disse. Poi si bloccò e corrugò le sopracciglia. «Non che questo implichi che ci sia stato qualcosa tra me e Will perché non c’è stato niente».
«Te e Logan avete rotto?» Julian parve stupito. «Perché?»
Rose sbiancò e le vennero gli occhi lucidi. Julian pensò che fosse dovuto solamente alla rottura e si affrettò ad aggiungere: «Ti preparo la torta al cioccolato».
Rose si coprì il viso con le mani e prese un respiro profondo. A Will si strinse il cuore e dovette reprimere l’impulso di abbracciarla lì, davanti a suo padre.  
Emma cacciò la testa fuori dalla cucina. Evidentemente aveva sentito tutto. «Appena vedo Logan Ashdown dovrà vedersela con me. È un idiota, Rose».
«Cosa vi fa pensare che sia stato lui a rompere con me? Perché sono stata io a mollarlo, sapete».
Emma la guardò per qualche istante. «Degna figlia di tua madre, brava Rosie».
Rose si mise a ridere e Will ne fu contento, perché non era più disperata e abbattuta come la sera prima; non avrebbe sopportato vederla in quello stato per un istante di più.
«Ti unisci a noi per colazione, Will?» chiese poi Julian. «E se resti anche per pranzo preparo la torta al cioccolato. Sai, quella che ti piace più di quanto ti piaccia quella di tuo padre».
Will incontrò subito lo sguardo di Rose, come a chiederle il permesso. «Fermati» disse lei. «Possiamo chiamare George e andare in spiaggia. C’è il sole oggi».
Will sentì un sorriso spuntargli automaticamente sulle labbra. «D’accordo».
 
---
 
«Perché no?» Stava chiedendo George, il cellulare schiacciato tra la guancia e la spalla mentre finiva di preparare lo zaino.
Sentì Cath sospirare dall’altra parte del telefono. «Vorrei tanto venire con voi, ma… è meglio di no. Non oggi».
George stette in silenzio per qualche secondo, mentre apriva a caso dei cassetti nella stanza di Will alla ricerca di una maglietta pulita e di un costume da bagno per il suo amico.
Rose lo aveva chiamato quella mattina, dicendogli di raggiungere lei e Will a Los Angeles. Il perché Will fosse già in California gli era sconosciuto, ma il suo parabatai gli aveva mandato un messaggio chiedendogli di portargli un costume e dei vestiti puliti. George sperava si fosse dichiarato e avesse passato una notte di fuoco con Rose. Sarebbe stata anche l’ora.
«Abbiamo litigato» disse Cath, vedendo che George non si decideva ad aggiungere nient’altro. «È arrabbiato con me. Non posso uscire».
«Catherine» disse lui, la voce che tremava per la rabbia. Sapeva che si riferiva a suo padre, e ogni volta che parlavano di lui la conversazione finiva male. «Io…»
«George» gli disse lei. «Vai e divertiti. Io starò bene: sbrigo qualche commissione e poi mi chiudo in camera con un libro».
«Non ti ha fatto del male di nuovo, vero?»
Da quando George le aveva trovato la ferita sulla clavicola non si era dato pace. Sapeva che in un combattimento Cath avrebbe avuto la meglio sul padre perché era più agile, più forte e più veloce, ma era ossessionato dall’idea che lui potesse ferirla di nuovo, o peggio: ucciderla. Perché Cath non avrebbe mai alzato un dito per fargli del male, convinta di meritarselo, convinta che lei fosse la responsabile di quella situazione nella quale si era ritrovata contro la sua volontà.
Non avevano più parlato della nuova cicatrice e Cath non gli aveva accennato nessun altro episodio violento; George non aveva insistito: glielo avrebbe detto, se fosse successo qualcosa di grave, no?
Non ne era più così certo.
«No» rispose Cath, ma a George non sembrava convinta.
«Lo sai che odio le bugie».
Cath non disse niente e George prese in considerazione l’idea di andare a casa sua. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di poterla portare via da quel posto, ma come poteva salvare qualcuno che non voleva essere salvato?
«Solo una volta» confessò infine lei, cercando di suonare tranquilla, il tono di voce rilassato, come se stesse parlando del tempo. «Ma non era armato, non mi ha fatto praticamente niente».
«Ma ti stai sentendo?» sibilò George. «Non dovrebbe neppure sfiorarti, Catherine. Tu ti sei abituata, ma questa non è la normalità e io non mi abituerò mai. Non lo capisci? Non mi interessa quanto male ti ha fatto, mi interessa che te ne ha fatto. Non sopporto l’idea che ti venga torto un capello, come posso sopportare che il tuo stesso padre ti ferisca in questo modo? Non posso e basta».
George sentì Cath trattenere il respiro. «Sarà meglio che tu vada».
«Sì, forse è meglio» disse George freddo. «Ci sentiamo stasera».
Chiuse la telefonata senza aspettare una risposta e afferrò lo zaino, per poi mandare un messaggio a Will, dicendogli di aprire il portale.
Gli dispiaceva per essersi arrabbiato con Cath e dovette sforzarsi per non scriverle o chiamarla di nuovo, ma decise di non pensarci e di provare a divertirsi con i suoi amici.
Si infilò un paio di occhiali da sole e cercò di indossare un’espressione rilassata e disinteressata, l’espressione di chi pensava di avere il mondo ai propri piedi. Si era sentito così una volta, anni fa, prima di conoscere Cath e di capire che la vita non era sempre facile come gli sembrava, fatta di feste, demoni e spade angeliche.
Innamorarsi era stata la cosa più bella e più spaventosa che gli fosse mai capitata: era una persona completamente diversa grazie a Cath, migliore, ma amare qualcuno significava anche esporsi alla sofferenza, significava dare il proprio cuore a una persona e sperare che questa non lo distruggesse. George si fidava di Cath e la amava così tanto che per lei avrebbe fatto ogni cosa, anche rimanere in silenzio davanti a quanto le stava succedendo. Ma spesso si ritrovava a chiedersi se così facendo la stesse davvero aiutando.
Will si materializzò nella sua stanza nel giro di qualche minuto, accompagnato dalla familiare luce brillante che caratterizzava i portali.
Sembrava stanco, felice come mai prima e allo stesso tempo distrutto. George percepiva sensazioni contrastanti dal legame.
«Ehi, tu» gli disse. «Notte di fuoco con Rose?»
Will gli diede un pugno sul braccio. «Shhh».
«Non ci può mica sentire!» si lamentò George.
«No, nessuna notte di fuoco. Però abbiamo dormito insieme». Will sorrise imbarazzato e poi si riprese. «È una lunga storia, ma non sta a me raccontarla. Andiamo, forza».
Ora George era perplesso, e anche un po’ preoccupato.
Seguì Will attraverso il portale e si ritrovò a Los Angeles, nella camera di Rose. Gli era sempre piaciuta, la stanza di lei, perché le si addiceva. Era più grande di quella che aveva lui a New York, e con le pareti azzurro chiaro, il letto a baldacchino e il castello con le rose che Julian le aveva dipinto sul muro, sembrava la stanza di una principessa delle fiabe. Ma Rose non era una principessa, non una tradizionale almeno, e sulla scrivania aveva ammassato un plico di libri di fisica, informatica e di qualche altra disciplina mondana impronunciabile per George, assieme al suo amato computer.
George si ritrovò Rose davanti, con i capelli raccolti in due lunghe trecce ai lati del capo e un vestito leggero con i fiori.
«Finalmente» lo salutò lei con un sorriso. «Ancora un po’ ed è ora di pranzo».
George lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino. «Ma se sono le dieci!»
«Appunto» gli rispose lei seria. «È tardissimo».
Rose si alzava sempre presto e quasi ogni mattina andava a correre sulla spiaggia prima che il resto di Los Angeles si svegliasse.
La ignorò con una scrollata di spalle e aprì lo zaino, lanciando a Will i vestiti che gli aveva portato. «Ecco a te» gli disse, non riuscendo a reprimere un ghigno nella sua direzione. «Spero che abbiate dormito bene».
Will lo incenerì con lo sguardo, promettendogli con gli occhi una morte lenta e dolorosa, e George si sentì un po’ in colpa per la battuta, ma neanche troppo, dato che Rose stava guardando qualcosa al computer e pareva non averlo neppure sentito.
«Torno subito» borbottò Will, infilandosi velocemente in bagno.
«Che stai facendo?» chiese allora George a Rose, sbirciando da sopra la sua spalla.
«Controllo le previsioni del tempo» rispose lei. «Sole e poco vento oggi, fantastico! Almeno quei palloni gonfiati dei surfisti non ci daranno troppo fastidio».
George le tirò una treccina e lei fece una smorfia. «Me lo fai conoscere Logan o avrò il piacere di incontrarlo solamente al vostro matrimonio?»
Rose si immobilizzò e guardò Will, che era appena uscito dal bagno con indosso una maglietta a maniche corte e un costume giallo fosforescente.
Rose si accorse che George aveva notato lo sguardo che si erano rivolti e si affrettò a sorridere.
«Direi che è presto per parlare di matrimonio» disse.
«Rose» sussurrò piano Will. Sembrava triste, i suoi occhi verde chiaro erano cupi e George sentiva dalla runa che aveva sul braccio che qualcosa lo turbava, che, anzi, era furioso. «Dovresti dirlo a George».
«Che cos’ha fatto?» chiese George, che aveva intuito che Logan dovesse aver fatto qualcosa di davvero grave per ridurre il suo amico in quello stato.
Rose iniziò a camminare avanti e indietro stropicciandosi le mani e quando alzò lo sguardo su di lui, George vide che aveva gli occhi lucidi.
«Per favore, non essere deluso da me».
George sussultò. Come poteva credere anche solo per un istante che lui l’avrebbe giudicata per qualcosa? Lei e Will erano i suoi migliori amici, li avrebbe sempre sostenuti.
«Non potrei mai essere deluso da te» rispose. «Puoi dirmi ogni cosa, Rose».
E allora lei iniziò a parlare. Gli disse tutto, di come aveva capito sin dall’inizio che tra lei e Logan non sarebbe potuta durare, di come lui l’avesse fatta sentire sbagliata e di come l’avesse convinta ad andare a letto con lui non solo una volta, ma due, quando lei non era ancora pronta. E infine gli raccontò della rottura e di come Logan l’avesse insultata per il semplice fatto che non volesse stare con lui.
Una volta terminato, Rose si sedette sul letto, come se si fosse tolta un enorme peso dal petto ma farlo le fosse costata un’immensa fatica.
«So cosa stai pensando» disse. «Che sono…»
«Oh, tu non hai idea» la interruppe George. «Non hai idea di ciò a cui sto pensando».
Si sedette anche lui, ma sulla sedia della scrivania davanti a lei. Lanciò un’occhiata a Will, che se ne stava appoggiato al muro con le braccia incrociate e i capelli che gli ricadevano in morbide ciocche dorate sulla fronte. Non lo stava guardando, ma George poteva vedere dalla posizione rigida delle spalle, dal profilo della mascella serrata, che era furioso.
E la rabbia di Will era anche quella di George. Perché nessuno faceva del male a Rose, nessuno.
Sapeva che al mondo esistevano ragazzi del genere, che non appena scalfivi il loro orgoglio impazzivano, ma non poteva concepire che avendo avuto la possibilità di amare Rose, Logan l’avesse gettata via in quella maniera.
Will ti amerebbe così tanto, pensò George triste.
Ed era sicuro che Rose avrebbe ricambiato tutto il suo amore, se solo quella notte di due anni fa non avesse visto Will baciare un’altra.
«Sei un’idiota» disse infine.
Rose emise un verso strozzato e sbuffò. «Pensavo che non giudicassi».
«Non sto giudicando. Sto esponendo un dato di fatto».
«George, smettila» lo ammonì Will.
George guardò Rose e le fece un cenno con la mano. «Vieni qui».
Rose corrugò le sopracciglia e poi obbedì. Si alzò e gli si mise di fronte, in questo modo i loro occhi erano quasi alla stessa altezza.
«Sei un’idiota» ripeté George, prendendole la mano. «Ma non perché sei andata a letto con Logan, ma perché hai pensato di non essere normale per voler aspettare».
La attirò a sé e l’abbracciò forte, stampandole un bacio sulla guancia. «E comunque, farò molto male a Logan Ashdown non appena lo incontro. Quel figlio di…»
«Shhh» fece Rose vicino al suo orecchio. «Se mio padre ti sentisse ti bandirebbe da Los Angeles».
«Scherzi?» fece George, continuando a tenerla stretta a sé. «Se tuo padre sapesse che cos’ha fatto Logan, lo ucciderebbe mentre dorme e sarebbe lui a essere bandito da Los Angeles».
Rose si allontanò un po’ per guardarlo negli occhi. «Grazie, Georgi».
«Non chiamarmi mai più Georgi» le disse. «Per il resto, lascialo a me e a Will».
Will si era staccato dalla parete e si era avvicinato a loro. «Le ho già detto che non appena mi capita tra le mani lo strozzo».
Rose raddrizzò la schiena e si mise le mani sui fianchi. «No» disse. «Voi non farete proprio niente. Basta, ci ho messo una pietra sopra. Non voglio più sentir parlare di lui».
«Ma…» iniziò Will con gli occhi che ardevano.
«Niente ma» sentenziò lei, per poi afferrare una borsa che stava ai piedi del letto. «Vogliamo andare o no? Sono reduce da una rottura, ho bisogno di non pensarci. Giusto?»
George e Will si guardarono e sospirarono. «Giusto».
 
«Devi proprio spiegarmi perché hai portato anche Cortana» disse George, una volta che arrivarono in spiaggia.
Quella mattina Santa Monica non era particolarmente affollata: non solo era autunno, e quindi non c’erano tutti i turisti dell’estate, ma era anche giovedì, perciò molte persone dovevano essere al lavoro. Tuttavia c’erano molti ragazzi che prendevano il sole e che passeggiavano sul lungomare, quindi Rose aveva dovuto applicare alla spada delle rune così che i mondani non la vedessero.
Rose la poggiò sulla sabbia e ci stese sopra il proprio telo mare, un grande asciugamano con delle palline colorate che George sospettava fossero atomi o qualcosa del genere.
«Perché mia madre mi ha detto di portarla sempre con me».
«Non credo intendesse alla lettera» disse Will. «Soprattutto di giorno e con il sole».
Rose scrollò le spalle, si tolse il vestito e lo getto per terra. George vide Will deglutire e distogliere velocemente lo sguardo. Era così evidente che fosse innamorato di lei che quasi gli faceva pena.
«L’ultimo che arriva paga il gelato» urlò Rose, mettendosi a correre verso il mare.
George imprecò e si tolse velocemente la maglietta, per poi seguirla, Will subito dietro di lui.
George era quello con le gambe più lunghe, quindi raggiunse Rose con due falcate e si tuffò nell’oceano per primo. Riuscì però a sentire Rose che lo chiamava con un appellativo che avrebbe fatto impallidire Julian Blackthorn. Emerse dall’acqua e vide Will con Rose su una spalla.
«Non vale!» stava urlando lei, battendo le mani sulla schiena di lui. «Stai barando».
«Non credevo esistessero delle regole» disse serio lui. «Mi sembra di ricordare che tutto sia lecito in guerra e in amore. E questa è decisamente una guerra».
Will la scaricò velocemente sulla riva e si buttò in mare.
Rose si alzò e li raggiunse con calma, ferita nell’orgoglio.
«Ve la farò pagare» disse seria, immergendosi davanti a loro. «Quando meno ve lo aspettate».
«Che paura». George le spruzzò dell’acqua negli occhi. «Sto tremando».
E guerra fu. Rose gli si gettò addosso, cercando di mettergli la testa sott’acqua, ma George se la scrollò di dosso senza troppe cerimonie. Andarono avanti per più di mezz’ora a cercar di annegarsi a vicenda e alla fine Rose ne uscì vincitrice perché era quella che riusciva a trattenere il respiro per più tempo. Will fece notare che non era giusto dato che era cresciuta a Los Angeles, ma a lei non importava e riuscì a convincerlo a comprarle il gelato quel pomeriggio. Non che ci volesse molto a Rose per convincere Will a fare qualcosa.
Quando si stancarono di giocare, Rose iniziò a cercare delle conchiglie sul fondale, mentre George si sdraiò a pancia in su, chiudendo gli occhi e aprendo le braccia come un cadavere che galleggia sulla superficie. L’acqua era fredda, ma a George non importava: ne aveva bisogno per schiarirsi le idee e il sole era caldo e splendeva alto nel cielo.
«Ho deciso di dirglielo» disse Will, che gli si era avvicinato. «Appena siamo soli. Glielo dico».
George si tirò in piedi e osservò il suo parabatai. I suoi capelli bagnati erano più scuri, rasentavano quasi il marrone chiaro, e gli si erano incollati al capo e al collo, mettendo in risalto il suo viso delicato e i suoi occhi verdi.
George gli sorrise, sinceramente contento. «È la cosa migliore che tu possa fare, William» gli mise una mano sulla spalla. «Non posso prometterti che andrà tutto bene, ma ho un buon presentimento».
Will annuì e si girò per guardare Rose che era appena riemersa dal mare. «Siamo sempre stati io, te e lei, non voglio che le cose si facciano imbarazzanti tra di noi, non voglio rovinare il nostro equilibrio».
«Lo so» disse George. «Ma una cosa mi ha insegnato Cath in questi anni: parlare dei propri sentimenti è sempre la decisione migliore, anche se all’inizio è difficile. E poi, vuoi dirmi che ora le cose non sono imbarazzanti? Fidati, io ti vedo. E vedo anche lei, onestamente».
«Cosa intendi dire?»
«Che secondo me ti guarda come se fossi l’inventore del computer».
Will sbatté le palpebre un paio di volte. «Ed è una buona cosa?»
«Stiamo parlando di Rose, non c’è niente che ami più dei computer. A parte te, forse».
Will arrossì leggermente alla base del collo e a George venne da ridere.
In quel momento Rose li raggiunse con due bracciate, per poi alzare il capo e osservare il sole con fare critico. «Sembrerebbe quasi mezzogiorno e inizio ad avere fame».
Decisero di tornare all’Istituto, anche perché George non aveva ancora pranzato e a New York erano già le tre del pomeriggio.
Rose si chinò per prendere il suo telo e Cortana, e per poco non fece cadere la spada. George si stava asciugando i capelli con il suo asciugamano e si bloccò, seguendo lo sguardo di lei.
Stava osservando un ragazzo con i capelli rossi che stava uscendo dall’oceano con una tavola da surf poggiata su una spalla. George dedusse che si trattasse di Logan Ashdown: lo aveva visto un paio di volte a Idris e non era cambiato molto, aveva i soliti capelli corti, le solite lentiggini e i soliti occhi color nocciola che ispiravano fiducia.
Stronzo, pensò George.
«Sarà meglio che non si avvicini». Anche Will lo aveva notato e lo stava guardando con sguardo assassino.
Rose si era avvolta l’asciugamano attorno al corpo e teneva Cortana stretta al petto, come se stesse traendo forza dalla sua spada. Logan stava uscendo dall’acqua e sarebbe dovuto passare loro di fianco per attraversare la spiaggia e raggiungere la strada.
«Ignoratelo» disse Rose, distogliendo lo sguardo. «Ignoratelo e sperate che ci ignori a sua volta».
Ma sia Will che George non abbassarono gli occhi. Forse stavano sbagliato e avrebbero dovuto ascoltare Rose e rispettare la sua volontà, ma in quel momento George sospettava che Will non riuscisse a pensare lucidamente.
Logan purtroppo non esaudì il desiderio di Rose e si fermò proprio davanti a loro.
George prese Will per il gomito, esercitando una leggera pressione così da tenerlo fermo e impedirgli di scagliarsi contro di lui ancor prima che aprisse bocca.
«Rose» disse Logan con un sorriso. «Non mi presenti i tuoi amici?»
Rose batté le palpebre un paio di volte come se volesse metterlo a fuoco. «Uhm, George Lovelace e Will Herondale, questo è Logan Ashdown».
Will stette in silenzio, mentre George non riuscì a trattenersi. «Vorrei dire che è un piacere conoscerti, ma mentirei. E io odio le bugie».
Logan aggrottò le sopracciglia. «Ho fatto qualcosa per offenderti?»
«No, ma hai fatto qualcosa per offendere Rose. E se offendi Rose, offendi me».
Rose gli sussurrò di smetterla. «È tardi» disse poi. «Dovremmo andare».
Logan alzò un sopracciglio e passò lo sguardo da Will a George e poi da George a Rose. «Vedo che mi hai rimpiazzato in fretta» disse, abbandonando i toni cortesi usati fino a quel momento. «Non con un ragazzo, ma con due. Dimmi, chi ti sei portata a letto per primo?»
Will si liberò dalla presa di George e avrebbe preso Logan a pugni fino a fargli sputare sangue se solo Rose non lo avesse afferrato per il polso.
«E anche se fosse? Non è affar tuo chi mi porto a letto» gli rispose pungente lei. «E ora sparisci dalla mia vista, se non vuoi che ti infili Cortana dove non batte il sole, così poi vediamo se continui a disprezzare le spade corte».
Logan alzò le mani in segno di resa. «Come vuoi tu, Rose, disprezzami pure. Non sembravi disprezzarmi tanto fino all’altro giorno però».
Rose spalancò gli occhi e per la prima volta parve davvero arrabbiata con lui. Gli diede uno spintone e gli puntò un dito contro. «Sei proprio pieno di te, non accetti neppure di non piacere a una ragazza, ma ecco la verità: non mi piaci, Logan. Fattene una ragione».
Si voltò e se ne andò via con la schiena dritta e la testa alta. Will fece per dire qualcosa, ma George lo interruppe. «Vai. Va’ da lei».
Will rivolse un’ultima occhiata a Logan e seguì Rose verso la strada che riportava all’Istituto. Anche Logan fece per andarsene, ma George lo bloccò.
«Sei fortunato» disse, parlando lentamente e scandendo ogni parola con calma. «Se non ti stacco tutte le dita dei piedi è solo per rispetto nei confronti di Rose, perché è troppo buona per uno come te e non vorrebbe che ti facessi del male».
«Tanto ritornerà da me strisciando» disse l’altro. «Tornano sempre quelle come lei, vogliono solo farsi desiderare facendo finta di essere tanto pudiche, ma desiderano solo una cosa».
George fece un passo verso di lui e lo prese per il collo con una mano. «Stammi bene a sentire, stronzo. Se ti sento un’altra volta parlare di Rose, o se ti becco vicino a lei, o se scopro che la stai infastidendo, non avrai più un aggeggio tra le gambe di cui vantarti. Sono stato chiaro?»
Logan spalancò gli occhi e annuì.
«Bene». George gli sorrise angelicamente, mentre Logan tossiva per riprendere fiato. «Buona giornata a te, Ashdown».
 
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Rose era così arrabbiata che e si ritrovò senza accorgersene nel deserto dietro all’Istituto. Lo poteva ancora vedere poco lontano, alto e imponente come una vecchia cattedrale, nonostante fosse più moderno rispetto a quelli di New York e Londra.
Non voleva farsi rovinare la giornata da Logan, ma la conversazione avuta con lui poco prima la stava mettendo a dura prova. Non voleva rivederlo mai più, voleva dimenticare le sue mani sulla pelle, le sue labbra sulla bocca, voleva dimenticarsi di Logan Ashdown per sempre.
Rose si bloccò in mezzo alla strada. Non passavano macchine in quell’arida distesa che si allungava per chilometri nell’entroterra, perciò Rose non rischiava di venire investita o disturbata, e trasalì quando qualcuno le poggiò una mano sulla spalla e la fece voltare.
Era Will, i capelli biondi che risplendevano contro il cielo azzurro e gli occhi verdi con le pagliuzze dorate che la stavano osservando preoccupati. Anche Rose lo osservò per qualche istante, incantata dalla forma dei suoi fianchi asciutti e delle spalle larghe: la sua pelle ambrata si stava pian piano asciugando e delle gocce di acqua gli ricadevano sulle spalle dalle ciocche dei capelli ancora bagnati; non aveva indossato la maglietta, così come lei non si era infilata il suo vestito, troppo turbata per ricordarsene.
Rose deglutì. Credeva che il corpo di Will, che aveva visto così tante volte, che aveva visto crescere, non le avrebbe fatto più quell’effetto, e invece si era sbagliata.
Scacciò via quei pensieri e gli sorrise, poggiando una mano su quella di lui, che era ancora sulla sua spalla. Si sentiva come se Will le stesse donando parte della propria energia vitale, proprio come aveva fatto la notte passata quando l’aveva stretta a sé come se non volesse lasciarla andare mai più. Se Rose chiudeva gli occhi riusciva ancora a sentire le sue mani carezzarle delicatamente la schiena e le sue dita stringersi attorno ai suoi fianchi.  Non lo avrebbe mai dimenticato, l’avrebbe perseguitata nei suoi sogni più segreti, ogni notte, per il resto della sua vita.
Se solo Will l’avesse amata, le cose sarebbero state molto più semplici.
«Non lo sopporto» sbottò Rose, riferendosi a Logan. «Chi si crede di essere?»
Will deglutì. «So che sei perfettamente in grado di rompergli il collo da sola, ma…»
«Niente ma» lo interruppe lei, togliendo la mano da quella di lui. «Voglio davvero metterci una pietra sopra. Non voglio più sentirlo nominare».
Will annuì, la mascella serrata e gli occhi fissi in quelli di lei. Rose sospirò e pensò che era davvero bellissimo e che la ragazza di cui si sarebbe innamorato sarebbe stata così fortunata.
«Ieri sera mi hai detto che dovevi dirmi qualcosa». Rose cercò di cambiare discorso. «Puoi dirmela ora. Va tutto bene?»
Will le sorrise e Rose sentì un brivido attraversarla dalla testa alla punta dei piedi.
«Sì» disse lui. «So che potrebbe essere uno shock per te, ma io…»
Non riuscì a terminare la frase perché improvvisamente si alzò un forte vento. Rose si portò una mano al viso per proteggersi gli occhi e Will la imitò.
«Che succede?» chiese Will, tossendo.
«Non lo so!» urlò Rose di rimando, stringendo Cortana al petto.
Attorno a lei tutto era confuso, non riusciva più a distinguere i contorni delle rocce, del corpo di Will o dell’Istituto in lontananza.
Quando il vento si calmò, due figure emersero dalla sabbia e dalla polvere: sembravano cavalieri del popolo fatato, ma erano diversi da quelli che Rose aveva conosciuto grazie ai libri o ai racconti di zio Mark; erano più alti, più imponenti, con la pelle e i capelli bronzei e una maschera di metallo brillante che copriva loro metà del viso. Portavano entrambi un’enorme spada alla vita, più grande di qualsiasi arma Rose avesse mai visto, e un lungo mantello rosso sangue svolazzava loro dietro la schiena come un drappo insanguinato. Uno di loro aveva i capelli corti, mentre l’altra, che Rose dedusse essere una donna, li portava stretti in una treccia ordinata.
«Chi siete?» li interrogò Will. «Per ordine del Conclave, identificatevi».
Rose trattenne il fiato, perché per quanto innaturali e spaventosi le sembrassero, lei li aveva già visti nei suoi incubi.
La donna sputò a terra. «Non rispondiamo ai Nephilim. Siamo i Riders di Mannan, e spetta a noi decidere al servizio di chi mettere la nostra spada».
«Vi ho studiato» disse Rose, ricordando improvvisamente le lezioni all’istituto con zio Ty «Siete gli assassini del Re della Corte Unseelie».
La donna le sorrise, un sorriso freddo, terrificante e disumano. «Eravamo al suo servizio, sì, lo siamo stati per un millennio. Ma non condividiamo le politiche del nuovo Re, quindi la nostra lealtà non è più sua».
«Cosa ci fate qui?» chiese allora Will. «Siete cacciatori. Che cosa state cercando?»
Rose sapeva la risposta, se lo sentiva nelle ossa che erano lì per lei.
E infatti gli occhi di entrambi i cavalieri si puntarono di lei come acciaio attratto da una calamita.
«No» sussurrò Will, cercando di spostare Rose dietro di sé, ma lei non si mosse. «Vi state sbagliando».
«Io sono Karn e questa è mia sorella Ethna» disse Karn. «Noi non sbagliamo mai. I nostri fratelli stanno cercando gli altri. È stato un lungo viaggio, questo è vero: prima Londra, Città del Capo, Stoccolma e poi New York. Ma è stata colpa nostra, ci siamo lasciati ingannare da una falsa pista».
«I tuoi genitori hanno conoscenze nei ranghi più alti del Popolo Fatato grazie all’ibrido Mark Blackthorn» spiegò Ethna. «Siamo stati ingannati dal Re in persona. Che scempio, il Re della Corte Unseelie che, al posto di portare giustizia per l’assassinio di un appartenente alla sua stessa specie, protegge il suo carnefice».
«Non so di che cosa stiate parlando» disse Rose. «Non ho mai ucciso nessun appartenente al vostro popolo».
«Oh, non tu». Ethna alzò la sua spada, una lama lunga il doppio di una spada angelica e spessa parecchi centimetri. «Ma tua madre sì. E pagherà per quello che ha fatto. Avrei voluto iniziare con la più piccola, ma credo che dovrò accontentarmi di te».
Rose sfoderò Cortana, sapendo che contro due guerrieri del genere non aveva alcuna possibilità. Will era disarmato e George non era lì con loro per aiutare. Erano spacciati, ma Rose non sarebbe morta senza combattere.
«Will, vai via» disse.
«Sei impazzita?»
«Sei disarmato» sibilò lei, voltandosi verso di lui e abbassando la voce. «Per l’amor del cielo, vattene. Vai a… Chiamare aiuto».
Sarebbe stato inutile e sarebbe morta prima che Will arrivasse all’Istituto, ma almeno lui sarebbe stato salvo.
Rose sentì Karn sussultare. «La spada» esclamò, facendo un passo indietro e tirando Ethna per un braccio. «Ethna, ha la spada».
Ethna scrutò Cortana con i suoi occhi scuri e imprecò sotto voce. «Non è possibile, non può essere…»
Avevano perso entrambi l’audacia e la ferocia che avevano sfoggiato fino a quel momento, come se la mera vista di Cortana li avesse spaventati terribilmente.
«E invece lo è». Rose prese coraggio e avanzò, alzando la spada davanti a sé. «Cortana, della stessa tempra di Gioiosa e Durlindana».
«Ethna, siamo solo io e te». Karn continuava a tenere gli occhi fissi sull’arma di Rose, come se questa potesse prendere vita da un momento all’altro e attaccarlo. «Abbiamo bisogno anche degli altri per combattere contro la spada».
«La spada?» chiese Rose. «La spada ha un nome e il suo nome è Cortana».
Karn sussurrò qualcosa all’orecchio di Ethna e questa sbatté un piede a terra stizzita. Poi si rivolse di nuovo a Rose. «Se pensi che sia finita, ti sbagli di grosso. La prossima volta che ci incontreremo non saremo così misericordiosi, perché i Riders di Mannan sono senza pietà e non si fermano davanti a nessuno. Va’ e di’ a Emma Carstairs che non c’è niente che possa fare per nascondervi da noi».

NOTE DELL'AUTRICE
Buonasera a tutti! 
Ho aggiornato oggi perché domani non potrò farlo e volevo evitare di dimenticarmi come l'altra volta, ahah. Nulla finalmente i Riders si sono palesati e Rose sa la verità. E anche George sa la verità, su Logan però! E' stato divertente scrivere la sua reazione, non ha picchiato Logan solo perché sapeva che Rose si sarebbe arrabbiata, altrimenti lo avrebbe probabilmente strozzato. 
Con questo capitolo si conlclude la prima parte, dal prossimo si inizia con la seconda. Per ora ho in mentre tre parti, ma la terza è in work in progress e non so quanto verrà lunga. Se sarà troppo lunga diventeranno quattro parti. 
Nulla, spero vi sia piaciuto! A presto Francesca

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci. ***


Parte Seconda
 
Capitolo Dieci
Rose osservò il punto in cui i Riders erano scomparsi in groppa ai loro cavalli alati, paralizzata da un freddo terrore che le scorreva nelle vene: cosa significava che i loro fratelli erano andati a cercare gli altri? Si riferiva forse ai suoi genitori? A Holly?
Il pensiero di sua sorella parve risvegliarla. Aveva trattenuto il respiro e ora si concesse di respirare a pieni polmoni. Anche Will sembrava turbato.
«Non mi piace» disse, prendendola per il polso e trascinandola via. «Dobbiamo andarcene da qui».
Rose non si sarebbe potuta dire più d’accordo e lo seguì di corsa verso l’Istituto. Una volta che lo raggiunsero, trovarono George seduto sui gradini e con il cellulare in mano, il suo zainetto nero e la borsa di Rose gettati a pochi passi da lui.
Quando li vide sorrise e fece per dire qualcosa con aria compiaciuta, ma quando notò l’espressione spaventata sul volto dei suo amici si alzò in piedi di scatto.
«State bene?»
Fece per avvicinarsi, ma Will e Rose lo afferrarono per un braccio ciascuno e lo trascinarono su per le scale.
«Ehi!» urlò George, scrollandoseli di dosso una volta che furono nell’atrio. «Si può sapere che vi prende?»
«Non era sicuro parlare fuori» spiegò Will, piegandosi sulle ginocchia per riprendere fiato.
Rose si appoggiò al muro e chiuse gli occhi. «Dobbiamo trovare i miei genitori. Subito».
Si precipitò nell’ufficio di suo padre, sperando di trovarli entrambi lì, ma non ebbe fortuna. George e Will stavano parlottando tra loro dietro di lei; probabilmente Will stava spiegando al suo parabatai quanto appena accaduto, ma Rose non riusciva a sentirli. Nelle orecchie aveva solo un costante ronzio che non le permetteva di pensare lucidamente: doveva trovare i suoi genitori.
E se fossero usciti? E se avessero incontrato gli altri Riders?
Rose stava andando nel panico, quando finalmente trovò sua madre nel corridoio al primo piano.
«Dove sono papà e Holly?» chiese Rose, continuando a controllare dentro alle porte freneticamente, prima nella camera di sua sorella e poi in cucina, che trovò vuota nonostante la tavola fosse già apparecchiata.
«Rose, che succede?» Sua madre la stava seguendo. La prese per le spalle e la fece voltare verso di sé. «Holly è in biblioteca e tuo padre è andato un attimo da zio Mark».
Rose si sentì mancare. «Digli di restare là, di non uscire dalla casa degli zii».
Emma trattenne il fiato, l’ombra della comprensione che piano piano si faceva spazio sul suo viso. «Ti hanno trovata».
«I Riders di Mannan» disse Rose. «Due di loro, mentre gli altri stavano cercando voi: te, Holly e papà».
Emma si portò una mano sulla bocca e si appoggiò contro al muro. Prese il cellulare dalla tasca e compose il numero di Julian. Rose notò che stava tremando.
«Non risponde» sussurrò, cercando di suonare calma. «Gli mando un messaggio e chiamo Mark. Sono sicura che va tutto bene».
Stava stringendo con la mano l’anello dei Blackthorn che portava in una catenina al collo, e Rose sapeva che era preoccupata e che stava solo cercando di non farsi prendere dal panico per lei.
«Magari ha lasciato qua il telefono» tentò Will. «O si è scaricato».
«Come mai vi hanno lasciati andare?» chiese Emma, tenendo il cellulare premuto contro l’orecchio. «I Riders di Mannan non hanno pietà per nessuno».
«È stata Cortana» spiegò Rose. «Non appena l’hanno vista sono scappati, dicendo che avrebbero avuto bisogno anche dei loro fratelli per affrontare… la spada».
«Ha senso». Emma annuì distrattamente. «Mark, grazie all’Angelo! Julian è lì?»
Rose sentì zio Mark dare una risposta in sottofondo e dal viso di sua madre dedusse che non fosse quella che avrebbe desiderato. «Ah, e da quanto? No, va tutto bene, ti chiamo più tardi».
Emma chiuse la telefonata e guardò i ragazzi, per poi posare lo sguardo su Rose. «È andato via dieci minuti fa» disse. «Rose, non te lo chiederei se non fosse importante, ma ho bisogno che tu mi dia Cortana».
«Non puoi uscire anche tu!» esclamò Rose. C’era già suo padre là fuori, non poteva sopportare l’idea che anche sua madre fosse in pericolo.
«Andate da Holly e portatela in cucina a mangiare qualcosa. Non possono entrare nell’Istituto: finché starete qui, sarete al sicuro» ordinò Emma, mentre strappava Cortana dalle mani di Rose e si dirigeva con la schiena dritta verso l’atrio.
«Non se ne parla neanche!» sbottò Rose, voltandosi verso Will e George. «Non rimarrò qua in casa con Holly! Andate a prenderla voi, io…».
«Ci penso io a Holly». George mise una mano sulla spalla di Rose. «Lo sappiamo tutti che sono il suo preferito».
«Bugiardo!» esclamò Will. «Vuole più bene a me perché le porto i cioccolatini».
Emma e George lo guardarono storto e Will si passò una mano tra i capelli. «Solo per merenda».
Rose lasciò perdere e corse dietro a sua madre. «Mamma! Mamma, fermati!»
Scese le scale velocemente e la raggiunse davanti alla porta dell’Istituto, Will sempre al suo fianco.
«Per favore, non siate ridicoli». Emma aveva indossato la giacca della tenuta da combattimento e si stava legando i capelli biondi sulla testa. «Non potete venire con me. Le armi normali non funzionano con i Riders di Mannan, solo Cortana può attraversare la loro armatura e ucciderli».
«Ma non puoi affrontarli tutti e sette da sola». Will cercò di farla ragionare. «Potremmo distrarli».
«Sei» disse Emma in un sussurro.
«Cosa?» Will aggrottò le sopracciglia.
«Sono solo sei adesso, non più sette». Emma li guardò negli occhi. «Ne ho ucciso uno, anni fa. E ora vogliono farmela pagare».
Rose sussultò. Questo spiegava tutto, perché li stessero cercando, perché Ethna l’avesse guardata con così tanto disprezzo e perché avesse accusato Emma di aver ucciso un appartenente al Popolo Fatato. Sua madre non aveva ucciso un Cavaliere qualsiasi, aveva ucciso uno dei sette Riders di Mannan.
«Non è possibile» sussurrò Will. «Non ricordo bene le lezioni sulla Corte Unseelie ma sono quasi sicuro che nessuno nella storia sia mai riuscito a uccidere uno dei Riders. Credevo fossero immortali, esistono dall’alba dei tempi».
Gli occhi di Emma si riempirono di lacrime e distolse lo sguardo. Rose sentì il suo cuore andare in pezzi, perché non sopportava vedere sua madre, che era sempre così forte e determinata, crollare.
«Non c’è tempo, devo andare» disse, prendendo uno stivale e togliendosi gli infradito. «Non permetterò loro di farvi del male. Capito, Rose? Andrà tutto bene. Te lo prometto».
Rose si fidava di lei e sapeva che avrebbe tagliato i Riders in tanti piccoli pezzettini con Cortana non appena le fossero capitati sotto tiro, ma allo stesso tempo era terrorizzata: li aveva visti, erano grandi il doppio di lei e le loro armi erano diverse da qualsiasi spada Rose avesse mai visto. Per quanto Cortana potesse essere potente e per quanto l’avessero fatta arrabbiare, non credeva possibile che sua madre avrebbe potuto affrontare sei di loro da sola.
In quel momento le grandi porte di legno si spalancarono e Julian, i capelli dello stesso colore di quelli di Rose scompigliati per via del vento, comparve sulla soglia con Church in braccio. Indossava una maglietta rossa con le maniche un po’ scucite e un paio di jeans sporchi di tempere, avendo passato la mattinata in casa con Holly a dipingere.
«Guardate chi è venuto a trovarci» disse, facendo un grattino dietro alle orecchie di Church.
Rose tirò un sospiro di sollievo, il cuore le batteva così forte nel petto da farle male. Will le sfiorò la mano con la propria, delicatamente, come se avesse paura che lei lo respingesse. E invece Rose gliela prese, intrecciando le dita alle sue, concedendosi finalmente di respirare: suo padre era vivo, non era ferito, stava bene.
«Papà» fu tutto ciò che Rose riuscì a dire con voce spezzata. Sarebbe voluta correre da lui, ma era come paralizzata, la mano di Will l’unica cosa che le stava impedendo di scoppiare a piangere.
«Razza di idiota!» lo salutò invece Emma, lanciandogli lo stivale che aveva in mano.
«Ma che cavolo…» Julian si chinò e lasciò andare il gatto, evitando la scarpa che altrimenti gli sarebbe finita in testa. «E quello per cos’era?»
«Perché non rispondi al cellulare!» Emma si morse il labbro e lo guardò come se volesse picchiarlo.
Poi fece cadere Cortana per terra e gli gettò le braccia al collo, stringendolo a sé e sussurrandogli all’orecchio qualcosa che Rose non riuscì a sentire.
Julian si scostò leggermente da Emma e guardò Rose da sopra la sua testa. Poi lasciò andare Emma e la raggiunse in due falcate, avvolgendola in un abbraccio che per poco non le tolse il fiato.
Rose si aggrappò a lui e suo padre le accarezzò piano i capelli come faceva quando era piccola, dopo che aveva avuto un brutto sogno. «Va tutto bene. Sto bene».
«Non va tutto bene!» sbottò Rose.
Julian la guardò in silenzio, fu sua madre a parlare: «È il momento, Julian. Devono sapere».
Lui annuì. «Suppongo tu abbia ragione. Andiamo in cucina però, le lasagne sono quasi pronte».
 
Rose e Will si erano rivestiti e avevano raggiunto gli altri in cucina.
George aveva fatto mangiare Holly prima che gli altri arrivassero, così che Emma potesse spedirla nella sua camera a giocare. Julian aveva riempito a tutti i piatti, nonostante nessuno avesse fame: solo George sembrava avere appetito.
«Che c’è?» sbottò davanti agli sguardi perplessi di Will e dei Blackthorn. Si era bloccato con una forchetta piena di cibo a metà strada tra il piatto e la bocca. «Meglio avere la pancia piena mentre si ascoltano brutte notizie, no?»
«Ha ragione» disse Julian, facendo un cenno a Rose. «Mangia qualcosa, Rosie».
«Mi viene da vomitare» rispose lei allontanando il piatto da sé.
«Penso sia arrivato il momento di dirci tutto» decise George. «Will mi ha raccontato che i Riders di Mannan li stavano per attaccare ma che non appena hanno visto Cortana sono scappati. Per prima cosa, chi diavolo sono i Riders di Mannan?»
«Sono, o meglio, erano gli assassini del Re della Corte Unseelie» spiegò Julian.
«Wow». George posò la forchetta. «Perché degli assassini vi starebbero cercando?»
«Non lavorano più per il Re. Kieran è un amico di famiglia» continuò Emma. «Quando Julian ed io avevamo la vostra età ne abbiamo affrontati quattro e io… ne ho ucciso uno».
«Questo spiegherebbe perché ci hanno lasciato in pace quando hanno visto Cortana» disse Will.
«Cortana è…» Emma guardò Julian come in cerca di sostegno. «Speciale. Può davvero tagliare ogni cosa, non è solo una leggenda».
«Tutte le leggende sono vere» sussurrò Rose, fissando il bicchiere davanti a sé.
Si sentiva rintronata. Era come se fosse lì, nella cucina dell’Istituto, ma allo stesso tempo fosse distante anni luce. La voce di sua madre era lontana, un eco che le rimbombava contro le tempie.
«Pochi ne sono a conoscenza» continuò Julian. «Pochi sanno che Emma ha ucciso uno dei Riders, perché dopo che li abbiamo affrontati sono spariti, non ci hanno più cercati e pensavamo che ci avrebbero lasciato in pace. È stato stupido, ma spesso è proprio la speranza ciò che ti fa rimanere ucciso».
«Quindi i sogni sono collegati?» chiese Rose. «Sono stati loro a mandarli?»
Emma annuì, il viso pallido dello stesso colore di un panno sporco. «Ho dovuto farlo. Fal stava per uccidere Julian. Onestamente nemmeno pensavo di riuscirci, a trapassare la sua armatura e la sua gabbia toracica, ma ce l’ho fatta e…»
«E ora non vi lasceranno in pace finché non avranno ottenuto vendetta» concluse Will a bassa voce.
«Li ucciderò prima che possano farvi del male» promise Emma, le mani strette a pugno sotto al tavolo. «Li ucciderò. Tutti e sei».
«Lo dirò ai miei genitori. Possono aiutarvi» disse Will.
«Certo» concordò George. «Anche i miei. E zio Alec e zio Magnus. Zio Magnus può certamente aiutare».
«Lo sanno già». Emma sorrise a Will e a George. «Ma c’è poco che possano fare. Mark ha parlato con Kieran, e lui ha promesso che ci avrebbe aiutato e lo ha fatto. Ma ora temo che nemmeno l’aiuto del Re della Corte Unseelie in persona sia più sufficiente».
Rose era rimasta pietrificata dalle parole della madre. «Vuoi davvero…» Faceva fatica a parlare, come se avesse inghiottito della sabbia. Si schiarì la voce. «Vuoi davvero dar loro la caccia e affrontarli da sola?»
Emma le prese la mano da sopra al tavolo. «È l’unica soluzione».
Rose si voltò verso suo padre. «E tu glielo lasceresti fare?»
Julian era serio, la mascella serrata, segno che era arrabbiato. Agli occhi di una persona che non lo conosceva bene sarebbe sembrato il ritratto della calma, ma Rose sapeva che in realtà era furioso e preoccupato a morte. «Se pensi che ci sia qualcosa che io possa fare per convincerla a non intraprendere questa missione suicida, ti prego di dirmelo».
«Dovete avere fiducia in me» disse Emma. «Posso farcela».
Julian distolse lo sguardo. «In ogni caso non andrai da nessuna parte fino al compleanno di Rose».
Rose si rese conto che il suo compleanno sarebbe stato dopo un paio di giorni. Avrebbe compiuto diciotto anni e sarebbe ufficialmente diventata una Shadowhunter adulta. Era tradizione che, nel giorno del diciottesimo compleanno di un giovane Shadowhunter, un Fratello Silente venisse all’Istituto e gli consegnasse l’anello di famiglia alla presenza di uno dei membri più di rilievo del Concilio. Simon, il padre di George, si era offerto di presidiare la cerimonia. Rose sapeva che i suoi genitori avevano invitato parecchie persone e che le stavano organizzando una festa, ma Rose non ne era più così entusiasta.
Emma sussultò e fece per dire qualcosa, ma sembrò ripensarci e sorrise. «Ma certo. Staremo nell’Istituto in questi giorni. Loro non possono entrare qui».
«Non voglio una festa in grande» si lamentò Rose. «Con tutto quello che sta accadendo non posso sopportare di avere estranei in casa».
«Rose, sono i tuoi diciotto anni…» iniziò Julian.
«Non mi importa!» esclamò lei. «Voglio mangiare una torta con voi e basta».
«Non si può, tesoro». Emma le accarezzò i capelli. «Mi dispiace, se fosse stato un compleanno qualunque avremmo potuto passarlo in famiglia, ma non è un compleanno normale e lo sai. E poi abbiamo già mandato gli inviti».
«Ci siamo passati tutti, Rose». George le fece l’occhiolino. «Purtroppo dovrai sopportarlo anche tu. Spera che ci sia del buon vino».
Julian lo guardò male e lui alzò le spalle.
Rose si imbronciò e iniziò a prepararsi psicologicamente a dover stringere la mano a tutti gli Shadowhunter in visita da Idris e a dover chiacchierare con tutti gli amici di Los Angeles.
«Aspettate». Rose si depresse ancora di più. «Avete invitato anche gli Ashdown?»
«Sì, Rose, gli Ashdown e anche gli Aldertree, tutti gli Shadowhunters di Los Angeles».
Rose emise un verso strozzato. «Non voglio vedere Logan. Ditegli di non venire, vi prego».
«Penso proprio che non ti darà fastidio» disse George con un sorriso vago.
«Se ti si avvicina, lo scuoio vivo» aggiunse Will a bassa voce.
Julian e Emma li guardarono perplessi ma non aggiunsero altro e Rose sprofondò nella sedia, pensando che in fin dei conti avrebbe potuto sopportare Logan. Aveva cose molto più terribili a cui pensare, prima tra tutte cercare di convincere sua madre a non inseguire i Riders. Aveva tre giorni per riuscire a trovare una soluzione alternativa, e l’avrebbe trovata. Fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
 
---
 
Il giorno del compleanno di Rose diluviava a New York.
George si tirò il cappuccio della giacca sul capo, consapevole che i suoi capelli sarebbero stati più indomabili del solito per colpa dell’umidità. Si era anche vestito in modo elegante per Rose: jeans neri e camicia bianca, pregando che a Los Angeles il clima fosse più mite. Solitamente era il rosso il colore delle cerimonie, ma non lo avrebbe indossato neanche morto.
Uscì dalla metropolitana con la musica alta che gli rimbombava nelle orecchie, così da estraniarsi dai rumori frenetici della città e riuscire a concentrarsi sui suoi pensieri.
Il cielo era coperto da nuvole scure e le strade profumavano di pioggia, illuminate dai lampioni e dai fanali delle auto. Erano le sei passate e Brooklyn era piuttosto affollata per via dei mondani che stavano facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro. George non si era disegnato alcuna runa per nascondersi a coloro che non possedevano la Vista, così che potesse camminare in santa pace senza preoccuparsi di prendere dentro qualcuno. Si era però applicato qualche marchio per migliorare la vista notturna e si era infilato un paio di pugnali negli stivali, nel caso avesse fatto qualche incontro sgradito.
Si fermò sotto al palazzo di Cath e guardò verso l’alto; la luce nella sua camera era accesa, così come quella in salotto. Probabilmente suo padre era a casa, pensò George infastidito.
Non vedeva Cath da almeno tre giorni. L’aveva chiamata quella mattina per informarla di quanto accaduto a Los Angeles, ma Cath lo sapeva già perché glielo aveva detto Rose.
Si erano messi d’accordo che George sarebbe passato a prenderla, per poi tornare insieme all’Istituto e andare da Rose con Will e i loro genitori.
George le mandò un messaggio per farle sapere che era arrivato. Cath gli aprì il portone e gli disse di aspettarla nell’atrio.
George fece come lei gli aveva chiesto, non aspettandosi che lo invitasse a salire nell’appartamento, non quando anche suo padre era in casa.
Cath arrivò dopo qualche minuto e George si tolse le cuffie dalle orecchie.
Le si avvicinò e la abbracciò, sollevandola da terra e dandole un bacio sulle labbra. Cath lo strinse a sé come se non volesse lasciarlo andare mai più e gli passò una mano tra i capelli; George notò che stava tremando leggermente.
«Stai bene?» le sussurrò all’orecchio, continuando a tenerla sollevata da terra.
Cath seppellì il viso contro la sua guancia e annuì, dandogli poi un bacio sul collo.
George la lasciò andare e la osservò. Sembrava un po’ più magra dell’ultima volta che si erano visti, il viso sciupato e teso. Non era truccata e si era fatta uno chignon morbido sul capo dal quale sfuggivano delle ciocche di capelli; indossava solo un paio di jeans e una felpa e non aveva portato una giacca con sé.
«Non hai preso il cappotto» fu tutto ciò che George riuscì a dire. «Fa freddo fuori».
Cath lo guardò negli occhi e George capì: quella sera non sarebbe andata con lui.
«Non posso venire» disse infatti, la voce spezzata. George dovette trattenersi dal salire al quattordicesimo piano e urlare contro suo padre. Non lo avrebbe mai fatto, la rispettava troppo anche solo per prendere in considerazione l’idea, ma non sopportava che lui la facesse soffrire in quel modo.
«Penso sia meglio che tu vada senza di me». Cath si ricompose e gli sorrise. «Devi divertirti».
«Non me ne vado da qui senza di te, invece». George parlò piano, scandendo ogni parola. «Che cos’ha fatto?»
Cath era seria e lo stava guardando con i suoi grandi occhi azzurro chiaro. Erano asciutti adesso, secchi quasi, e lei sembrava tranquilla. «Niente. Non è per colpa di mio padre se ho deciso di rimanere a casa».
George era confuso, era una serata importante per Rose e loro avevano sempre avuto un buon rapporto, George credeva fossero amiche. Avevano forse litigato?
Non riusciva più a leggere l’espressione di Cath, era come se avesse indossato una maschera senza volto.
«È per te» continuò lei con voce monotona. «Penso che dovremmo prenderci una pausa, almeno fino a quando la situazione con mio padre non si sarà calmata».
George all’iniziò non capì quello che Cath intendeva, era come se il suo cervello si rifiutasse di processare l’informazione, come se Cath gli avesse appena detto che il sole sorge a ovest e tramonta a est.
Lo shock iniziale gli impedì di rispondere, si limitò a fissarla con gli occhi spalancati perché, in due anni che erano stati assieme, Cath non aveva mai avuto bisogno di una pausa. Raramente discutevano e non era successo niente che potesse suggerire a George che Cath avesse dubbi sulla loro relazione.
Dopo lo shock arrivò la negazione; l’istinto di sopravvivenza prese il controllo e il suo corpo e la sua mente si misero al lavoro per ammortizzare il colpo: doveva essere uno scherzo, doveva essersi sbagliata.
George si schiarì la voce, incredulo. «Vuoi rompere con me?»
Cath esitò. «Non è ciò che ho detto».
Bastò quel momento di esitazione: George realizzò ciò che stava succedendo. Era come se qualcuno avesse preso un martello e avesse ridotto il suo cuore in mille pezzi, che poi gli si erano conficcati nella carne.
«Perché?» riuscì a chiedere. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?»
L’aveva sempre trattata con rispetto, con devozione quasi, l’aveva amata così tanto e pensava di renderla felice. Renderla felice era tutto ciò che desiderava e la consapevolezza di non esserci riuscito lo investì come un’onda anomala, lasciandolo agonizzante al suolo.
Il muro che Cath aveva eretto quella sera attorno a sé vacillò e George riuscì a intravedere qualcosa oltre all’indifferenza: sembrava triste.
Ma allora perché stava rompendo con lui se farlo le faceva così male?
«No». Cath tirò su con il naso. «Non hai fatto niente. Voglio solo che tu sia felice e non credo tu possa esserlo con me».
«Ma sei impazzita?» George fece un passo verso di lei. «Penso di poter stabilire da solo le cose che mi rendono felice, e tu sei la prima della lista!»
Sembrava ieri che l’aveva baciata per la prima volta. Ricordava ancora come, fuori da quel concerto dei Dark Paradise, non avesse pensato ad altro che alle sue guance arrossate per il freddo e alle sue labbra screpolate, a come avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa per poterle baciare, anche solo per una volta. E poi si erano seduti davanti al locale, sul marciapiede, e lui aveva rovinato tutto. Cath aveva fatto per baciarlo e lui l’aveva fermata, preso dall’agitazione. Cath aveva creduto che lui la stesse rifiutando e se n’era andata di corsa. Era stato solamente il pomeriggio seguente davanti all’Istituto che George era riuscito a parlare nuovamente con lei e a spiegarle che era solo nervoso. Cath le era sembrata mortificata per aver frainteso ma a lui non importava. Cioè che desiderava, ciò che aveva sempre desiderato, era poter stare con lei.
«Quindi ora sarebbe un buon momento per baciarti?» le aveva chiesto, cercando di risultare sicuro di sé, ma sentendosi un perfetto idiota: non aveva mai chiesto a nessuna il permesso e temeva che Cath avrebbe riso di lui.
E infatti lei si era messa a ridere, arrossendo ancora di più sulle guance. Lo stomaco di George aveva fatto una capriola perché la sua risata era così cristallina e sincera da lasciarlo senza fiato. Cath aveva fatto un passo verso di lui ed era quasi caduta. George si era fatto avanti e l’aveva presa tra le sue braccia, ponendo finalmente una fine a quel tormento che stava minacciando di divorarlo dal dentro. Ricordava di come si fosse chinato su di lei e avesse preso il suo viso tra le mani per poi baciarla, all’inizio lentamente per assaporare ogni momento e poi più profondamente. George le aveva baciato prima le labbra, poi il naso, le guance, e Cath gli aveva allacciato le braccia attorno al collo e si era alzata in punta dei piedi per stringersi di più a lui. Gli aveva passato una mano tra i capelli e aveva sospirato sulla sua bocca, e in quel momento, quando George aveva sentito il suo cuore fermarsi e poi ripartire in un modo completamente nuovo, aveva saputo che si sarebbe innamorato di lei, o che forse era già innamorato da un pezzo.
Adesso Cath era sull’orlo delle lacrime, le tremava il labbro inferiore e George dovette trattenersi dal tendere una mano verso di lei, timoroso che l’avrebbe rifiutata.
«Ti meriti molto meglio di tutto questo» disse lei, spalancando le braccia, gli occhi ormai lucidi. «Devo andare. Mi dispiace tanto, voglio solo che tu sia felice».
Si voltò e corse verso l’ascensore.
«Catherine, aspetta» la chiamò George, come paralizzato. Non riusciva a muoversi «Catherine!»
Ma lei era già scomparsa oltre le porte scorrevoli, lasciandosi dietro soltanto una scia di profumo alla vaniglia.
George si passò le mani sul viso e poi se le guardò: stava tremando.
Se solo non fosse stato in ritardo le avrebbe telefonato, sarebbe rimasto tutta la notte in quell’atrio buio ad aspettare che Cath uscisse di casa per chiederle delle spiegazioni, per cercare di capire. Ma Will e i suoi genitori lo stavano aspettando e lui sarebbe dovuto essere arrivato all’Istituto già da tempo.
Controllò il cellulare e trovò tre chiamate perse da parte di Will e un messaggio in segreteria.
«George, si può sapere dove siete?» diceva il suo parabatai. «Rose sta minacciando di ucciderci se non andiamo a salvarla. Io… vado da lei adesso, rimane indietro mia mamma ad aspettarvi. Voi muovetevi».
George mandò un messaggio a Rose per scusarsi e assicurarle che sarebbe stato a Los Angeles nel giro di un’ora. La risposta di lei arrivò repentina: Ti perdono, gli scrisse. Solo se porti dell’alcol.
 
NOTE DELL'AUTRICE - scusate ho dovuto eliminare il capitolo due secondi dopo averlo pubblicato perché avevo sbagliato una cosa e ne dovevo modificare un'altra.
Rifacciamo: 
Buon pomeriggio a tutti!
* si nasconde per evitare i pomodori *
Sì, i pomodori che probabilmente mi vorrete lanciare per quello che succede tra George e Cath. Mi... dispiace...? 
Cath è tanto confusa. Si è ritrovata a dover gestire una situazione più grade di lei e non sa come fare, tutto ciò che sa è che George merita di essere felice e che lei non può dargli quella felicità. Ovviamente si sbaglia, perché a George basta che lei stia bene, però quando tutti continuano a dirti che non meriti di essere amata (come fa il papà di Cath nei momenti peggiori) alla fine un po' ci credi. 
Nula, volevo dire solo questo. Spero che vi sia piaciuto e alla prossima!
Francesca 

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici. ***


Capitolo Undici
 
«Non sopporto che sia qui» disse Rose, versandosi un altro bicchiere di vino. «La sua presenza mi infastidisce».
Stava parlando di Logan Ashdown, che era arrivato da poco con i suoi genitori e si stava intrattenendo con Julian e Emma.
Anche Will non tollerava la sua vista e si era ripromesso che si sarebbe tenuto a debita distanza per evitare di prenderlo a pugni in faccia.
«Se si aspettano che vada a stringergli la mano, sono impazziti» continuò Rose, riferendosi ai suoi genitori. Julian le aveva fatto cenno di raggiungerli, ma lei gli aveva risposto con uno sguardo assassino e si era voltata di scatto dandogli le spalle e rivolgendosi completamente a Will, che se ne stava appoggiato a uno dei lunghi tavoli che erano stati preparati nella sala dei ricevimenti dell’Istituto.
Rose quella sera si era raccolta i capelli sul capo in un’acconciatura fatta di trecce e forcine, e per l’occasione aveva scelto un lungo vestito rosso. Tutta la parte superiore del vestito era decorata con dei brillantini e le stringeva il busto mettendo in evidenza le curve dei seni e della vita stretta, mentre la gonna era di semplice seta e le ricadeva morbida sui fianchi. Le maniche a tre quarti le arrivavano fino ai gomiti e lo scollo seguiva la linea delle scapole in una scollatura per niente profonda. Nonostante non stesse mostrando molta pelle, Will doveva concentrarsi per non rimanere imbambolato a fissarla.
Anche Will aveva scelto con cura il suo abbigliamento: un paio di jeans scuri abbinati a una giacca nera e una camicia bordeaux, quasi della stessa tonalità dell’abito di Rose.
Il rosso era il colore ufficiale delle cerimonie, quindi non era inusuale che per questo tipo di celebrazioni gli Shadowhunters lo scegliessero, ma Will provò una punta di trionfo nell’aver indovinato la tonalità del vestito di lei.
«Normalmente ti direi di ingoiare l’orgoglio e di andare a salutare» disse Will. «Ma si tratta di Logan, non merita neanche le tue buone maniere».
Rose ghignò e bevve un sorso dal suo bicchiere. «Dove diavolo si è cacciato George con la roba più forte?»
Gli Shadowhunters reggevano molto bene il vino grazie al sangue angelico che scorreva loro nelle vene. Avevano bisogno di assumere un’alta quantità di alcol per ubriacarsi e perdere ogni freno inibitore. Will non voleva che Rose arrivasse a quel punto, era comunque il suo compleanno.
Le tolse il bicchiere dalle mani, ignorando le sue proteste, e la condusse al centro della sala, che era stata preparata per l’occasione: dei lunghi tavoli erano stati apparecchiati ai lati, mentre al centro era stato lasciato dello spazio per ballare. All’estremità opposta all’entrata un quartetto d’archi intonava una melodia tranquilla che stava per far addormentare Will. 
«Oh, adesso vuoi ballare?» Rose incrociò le braccia al petto e lo guardò male. «Lo sai che io non ballo».
Will scosse il capo, le prese una mano e gliene posò una sul fianco, mantenendola però a una certa distanza da sé. Iniziarono a muoversi lentamente al centro della pista. Rose gli sorrise rigidamente e arrossì sulle guance. Will sapeva che non le piaceva stare al centro dell’attenzione, e probabilmente si sentiva a disagio ad avere gli occhi di tutti puntati su di sé, ma Will la stava solo aiutando: almeno non si sarebbe ritrovata a ballare con il vecchio Harold Highsmith.
«È il tuo compleanno» le sussurrò all’orecchio. «Sei obbligata a sorridere e a fare ciò che la gente si aspetta da te».
Le fece fare una giravolta e la intravide alzare gli occhi al cielo.
«Avrei preferito George» gli disse lei con un sorrisetto, tornando a posare la mano sulla spalla di Will. «Lui avrebbe passato tutta la serata con me in un angolo a prendere in giro i membri del Conclave, suo padre compreso».
«Mi ferisci, Rose» disse Will. «Posso prendere in giro mio zio Simon anche io».
Rose si mise a ridere e Will si unì a lei.  
«Meglio lasciare stare zia Isabelle, però» continuò Will, cercandola con lo sguardo e trovandola a ballare con Simon poco lontano da loro. «Non voglio che mi stacchi una mano con la sua frusta».
Will vide suo padre che si aggirava vicino al pianoforte, osservandolo di tanto in tanto. Quando alzò il capo, i loro sguardi si incrociarono e Jace gli rivolse un ghigno divertito, sollevando il bicchiere nella sua direzione in un brindisi immaginario. Will arrossì violentemente e iniziò ad agitarsi. Cominciarono a sudargli le mani e si rese conto che stava ballando con Rose. Con Rose.
Forse non era stata una buona idea.
«C’è qualcosa che non va?» Rose si voltò per vedere cosa avesse attirato la sua attenzione.
«No, va tutto bene». Will si schiarì la voce e le fece fare un’altra giravolta, così da non doverla guardare negli occhi.
Improvvisamente era diventato consapevole della presenza di Rose, della sua mano sulla spalla, del suo petto a pochissima distanza da quello di lui, e del suo respiro che gli sfiorava il collo ogni volta che parlava. Delle sue labbra così vicine da mandargli in cortocircuito il cervello.
Stai calmo, si disse. Per l’Angelo, William!
Prese un respiro profondo e fece per lasciarla andare e proporle di mangiare qualcosa, ma Rose si era sciolta un po’ e sembrava si stesse divertendo.
«Cosa dovevi dirmi?» gli chiese a un tratto, sollevando il capo. «È da un paio di giorni che devi dirmi qualcosa ma non ci riesci mai».
Will deglutì. Inspirò ed espirò lentamente, cercando di calmare i battiti del proprio cuore e rafforzando la presa sul fianco di Rose senza rendersene conto.
«Non so se è il momento giusto».
In quegli ultimi giorni Will aveva tentato di dirglielo, di confessarle i propri sentimenti, ma non ne aveva mai avuto occasione. Se fossero stati soli e non circondati dai loro genitori e da una trentina di altri Shadowhunters, Will le avrebbe detto tutto, ma non credeva che quello fosse il momento più adatto e non voleva rovinarle il compleanno.
«Dillo e basta». Rose lo stava scrutando con i suoi occhi del colore del mare e Will si sentì mancare. «Ti sei innamorato?»
Will aggrottò le sopracciglia e si bloccò in mezzo alla pista, le altre coppie che continuavano a ballare loro intorno. Non sapeva se avesse attirato l’attenzione, Rose era tutto ciò che riusciva a vedere.
Le tolse la mano dal fianco e la condusse lontano dal centro della sala, nell’angolo vicino alla porta dove nessuno avrebbe potuto sentirli parlare.
«Sì, lo sono da molto tempo in realtà» disse, voltandosi verso di lei e prendendo un respiro profondo.
Dopo tutto quel tempo non poteva credere che stesse succedendo per davvero. Avrebbe potuto rispondere che no, si era sbagliata e che non era innamorato di nessuno, ma era troppo stanco per mentirle ancora.  
Will vide qualcosa incrinarsi nell’espressione di Rose, ma lasciò correre, credendo di esserselo immaginato. Si appoggiò al muro, improvvisamente bisognoso di qualcosa che lo reggesse.
«E di chi?» chiese Rose con un sorriso. «La conosco? Era ora, comunque».
Sei tu, sei sempre stata tu.
Will si staccò dal muro e fece un passo verso di lei. Rose non indietreggiò ma non sollevò neppure lo sguardo, così che Will non riuscisse a leggere la sua espressione.
Lo avrebbe detto e basta, e poi sarebbe ripartito da lì.
Will fece per metterle due dita sotto al mento per farle alzare delicatamente il capo, quando George, il suo migliore amico George, il suo parabatai, colui che avrebbe dovuto sapere quand’era il momento di non interromperlo, sbucò fuori dalla porta.
«Buonasera» disse. «Se ho interrotto qualsiasi cosa, mi dispiace».
Will si bloccò con la mano a mezz’aria e si affrettò ad abbassarla. Rose si allontanò leggermente e si spazzolò il vestito con le mani, nonostante non ce ne fosse bisogno.
«Sei ubriaco?» chiese Rose.
George sventolò una mano nella sua direzione. «Non ancora, temo».
Will, dopo essersi ripreso dallo shock, avvertì qualcosa di profondamente sbagliato dal legame. Era come se George stesse provando un forte dolore fisico -Will riusciva a distinguere quando George era ferito da quando era solo triste o preoccupato- ma George era lì in carne ed ossa e non aveva nulla che non andasse.
«Ti sei fatto male?» si affrettò a chiedere, cercando di incontrare lo sguardo del suo parabatai, ma George fissava dritto davanti a sé, poco sopra la spalla di Will, così da non doverlo guardare negli occhi.
«No, mai stato più in forma». Aprì le braccia e fece un giro su se stesso per dare prova di non essersi fatto niente.
Indossava un paio di pantaloni neri e una giacca dello stesso colore, abbinati però a una camicia bianca. Aveva anche uno zaino con sé, e Will sospettava che avesse preso sul serio la richiesta di Rose di portare alcolici pesanti.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma» commentò Rose, dando inizio a quel gioco fatto di provocazioni al quale erano abituati.
George annuì e si passò una mano sul viso. Will notò che era pallido e sbattuto, come se qualcuno avesse spento tutti gli interruttori che lo rendevano sempre pungente e spensierato.
«Wow» fece Rose. «Niente commenti sul mio vestito? O sui miei capelli?»
George le sorrise triste. «Stai molto bene, Blackthorn».
«Okay?» Rose stava iniziando a preoccuparsi. «Chi sei e che cos’hai fatto al mio amico George?»
«Aspetta…» disse Will, iniziando a mettere assieme i pezzi del puzzle. «George, dov’è Cath? George!»
Alla menzione di Cath, George aveva girato i tacchi e si era diretto al tavolo più vicino per versarsi un bicchiere di vino. Lo bevve tutto di un fiato e poi se ne riempì un altro fino all’orlo.
Will e Rose si scambiarono uno sguardo colmo di preoccupazione e si affrettarono a raggiungerlo.
«Cos’è successo a Cath?» chiese Rose. «Sta bene?»
«Oh, lei sta molto bene» disse George. «Credo, almeno».
«Rose, tesoro!» La mamma di Will piombò loro addosso e strinse Rose in un abbraccio così forte che per poco non le mozzò il respiro. «Buon compleanno!»
Will notò compiaciuto che alla fine aveva messo il vestito verde chiaro che le aveva consigliato lui. Clary era indecisa tra quello e un abito rosso che avrebbe fatto a pugni con i suoi capelli. Per fortuna Will era intervenuto in suo aiuto: non potevi indossare il rosso con i capelli rossi, era la base del buongusto; solo Celine avrebbe osato tanto, e Celine non andava di certo presa a esempio in questo caso.
«Grazie». Rose ricambiò l’abbraccio in imbarazzo e le sorrise. Non le piaceva troppo contatto fisico.
«Il nostro regalo ti aspetta nella tua camera» continuò Clary, abbassando la voce e rivolgendo un’occhiata complice a Will. «Non credo dovresti aprirlo davanti a tutti».
Le avevano comprato un libro di programmazione lungo cinquecento pagine che Rose non era riuscita a trovare da nessuna parte a Los Angeles, ma non potevano darglielo davanti a tutti perché i membri più conservatori del Conclave non avrebbero approvato.
«Non dovevate farmi un regalo» disse Rose.
«Oh, ma smettila!» esclamò Clary. «Will ha anche un altro regalo per te».
Will le aveva disegnato una tavola periodica degli elementi. Aveva preso un cartone piuttosto grande e lo aveva dipinto di bianco, per poi disegnarci sopra la tavola periodica usando colori diversi e disegnando in ogni riquadro qualcosa che contenesse l’elemento, oltre al numero atomico e alla massa atomica. Si era fatto aiutare da Ty per quell’ultima parte, dato che Will neanche sapeva in che cosa fosse contenuto l’idrogeno. Ty gli aveva spiegato che era l’elemento più abbondante nell’universo e che era presente in grande quantità nelle stelle. Da quando Will lo aveva scoperto era diventato il suo elemento preferito. Aveva imparato molte cose grazie a Ty, nonostante non sempre capisse di che cosa lui stesse parlando; aveva anche cercato di impressionare Rose con qualche fatto curioso, ma era finito per fare una pessima figura la maggior parte delle volte.
Ci aveva impiegato mesi per realizzare il tutto, ma alla fine il risultato era stato più che soddisfacente e si era fatto aiutare da Julian ad appenderla nella camera di Rose quel pomeriggio, per farglielo trovare dopo la festa.
George gli aveva fatto notare che Rose avrebbe potuto comprarla o trovarla in un libro –come aveva fatto Will stesso; l’aveva vista per la prima volta in un libro della biblioteca dell’Istituto- ma George non coglieva il punto. Il punto era che, per prima cosa, Rose avrebbe potuto appenderla al muro in camera sua, proprio di fronte al letto e sopra alla scrivania, e secondo… Era il suo modo per dirle che rispettava i suoi interessi e che la accettava così com’era.
Rose si portò una mano alla bocca e Will dovette distogliere lo sguardo.
Clary si mise a ridere e le diede un buffetto sulla guancia, poi notò George, che se ne stava cupo lì di fianco senza dire niente.
«George». Clary allungò una mano verso di lui e gliela posò sul braccio. «Stai bene? Non hai una bella cera».
«Certo». George riuscì a sorridere. «Grazie. Bel vestito comunque».
E Will ebbe la conferma, nonostante non ne avesse bisogno, che qualcosa non andava, perché George, quando gli capitava qualcosa che lo turbava profondamente, si comportava in modo più educato del solito. Normalmente le persone quando stavano cadendo a pezzi innalzavano un muro di spine attorno a sé, ma George no, lui diventava improvvisamente gentile con tutti, credendo che in questo modo nessuno si sarebbe accorto di quanto stesse soffrendo. E invece Will lo aveva notato, sentendosi in colpa per non essersene reso conto prima, troppo assorbito dalla vicinanza di Rose per realizzare che qualcosa non andava.
Clary infatti lo guardò stupita, ma si riprese subito. «Lo ha scelto Will».
«Il buongusto di William». George sospirò e gli sorrise. «Me lo sarei dovuto aspettare».
«Buonasera a tutti. Rose, ancora buon compleanno». Jace li aveva raggiunti in quel momento e stava scrutando la borsa di George con occhio critico. «Che hai nello zaino?»
Aveva passato un braccio attorno alla vita di Clary e le aveva dato un bacio sulla tempia, facendo arrossire Will, che avrebbe preferito che i suoi genitori non si scambiassero effusioni in pubblico.
Rose fece un cenno di ringraziamento con il capo a Jace, che tornò subito a rivolgersi a George. «No, seriamente, che hai lì?»
George non fece una piega, seguì lo sguardo di Jace e poi piantò i suoi occhi scuri in quelli chiari di lui. «Caramelle».
Jace alzò un sopracciglio e ghignò. «Pensi davvero che io sia uno sprovveduto come tuo padre?»
«Jace». Clary gli batté piano una mano sul petto. «Lascialo stare».
George rimase serio, prese lo zaino, tirò fuori un pacchetto di caramelle e glielo lanciò. «Puoi tenerlo se vuoi» gli disse con un sorrisetto. «Ne ho molte altre».
Will intravide Rose sgonfiarsi con la coda dell’occhio: si era davvero aspettata la tequila.
Jace osservò gli orsetti di gomma con diffidenza. «No, puoi tenerlo, voglio troppo bene ai miei denti. William, stai lontano da quella roba. Bevi tutta la vodka che vuoi, ma niente caramelle».
«Jace!» esclamò Clary. «Niente superalcolici, voi tre! Siete impazziti?»
Will alzò gli occhi al cielo.
«Non abbiamo la vodka» disse George.
«Certo». Jace gli rivolse la sua tipica occhiata da non mi vendi le tue stronzate. «E io sono moro e meno bello di Simon. Vi prego».
Will non sapeva se George stesse dicendo la verità o meno, ma lo conosceva e sapeva che George non mentiva.
«Credi ciò che ti pare». George sventolò il bicchiere di vino nella sua direzione. «Sono maggiorenne e ho il diritto di bere ciò che voglio, nonostante nel mondo dei mondani io non possa ancora farlo. Legge molto stupida, se me lo chiedi».
Jace lo guardò con attenzione. «Dov’è Cath?»
George grugnì e non aggiunse altro. Un silenzio imbarazzante cadde su di loro e Jace si rese conto di aver posto la domanda sbagliata.
Bravo, papà, pensò Will.
«Sono arrivati Magnus e Alec» disse Clary, spezzando la tensione. «Sarà meglio andare».
Jace annuì e iniziò a dirigersi verso il suo parabatai, mentre Clary si trattenne un attimo e puntò un dito contro al petto di Will.
«Sarà meglio che non combiniate guai» gli sussurrò a bassa voce, così che Rose e George, che si erano messi a parlare tra di loro poco lontano, non potessero sentire. «È il compleanno di Rose, deve andare tutto liscio. Non mi interessa cos’è successo tra Rose e Logan, o tra George e Cath: fai in modo che non facciano sciocchezze, non oggi. Mi fido di te».
Will resse il suo sguardo per qualche istante, poi abbassò il capo e annuì, chiedendosi come diavolo avrebbe fatto a impedire a due delle persone più testarde che conosceva di non fare quello che volevano loro.
Essere quello responsabile faceva proprio schifo.
 
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«Ti hanno dato quel dannatissimo anello per il quale si fa tutta questa confusione almeno?»
«No» rispose Rose. «Tuo padre voleva aspettarti».
Rose si stava già annoiando e non erano neppure a metà della serata. Aveva stretto la mano a una decina di Shadowhunters dei quali a mala pena conosceva il nome e si era intrattenuta a parlare con l’Inquisitore in persona, desiderando di poter scappare via perché era un signore rinsecchito che trasmetteva inquietudine. Anche se sospettava che fosse quello l’obiettivo di un Inquisitore, cioè trasmettere… inquietudine?
Il Fratello Silente che le avrebbe consegnato l’anello di famiglia, fratello Enoch, era arrivato e Rose voleva solo che il tutto finisse presto, nonostante fosse consapevole che gli invitati si sarebbero trattenuti fino a tardi.
Non sapeva come facessero i suoi genitori a sopportarlo. Suo padre sembrava tranquillo e perfettamente a proprio agio, e anche sua madre per un occhio poco attento pareva si stesse divertendo, ma Rose sapeva che non era così e che condivideva la sua stessa preoccupazione.
Come potevano festeggiare quando le loro vite erano in pericolo? Come poteva Rose divertirsi quando sua madre l’indomani si sarebbe messa sulle tracce dei Riders di Mannan?
«Mi dispiace per aver fatto tardi» le disse George ad un certo punto.
Prese una sedia e la voltò verso di lei, per poi lasciarcisi cadere sopra poco delicatamente.
«Non preoccuparti». Rose si sedette di fronte a lui e gli prese la mano. «Vuoi dirci o no che cos’è successo con Cath?»
Will li aveva appena raggiunti, ma era rimasto in piedi accanto a Rose.
«Davvero, George» disse. «Che succede?»
«Cath ha rotto con me» confessò lui, la voce ruvida come carta vetrata. «Ha detto che ha bisogno di una pausa».
Rose spalancò la bocca senza accorgersene e non si curò di richiuderla. Non era possibile, doveva trattarsi di uno scherzo: Cath non avrebbe mai chiuso le cose con George senza un motivo valido e, se Cath avesse smesso di amare George, Rose avrebbe smesso di credere nell’amore.
George fece per liberare la mano dalla sua stretta, ma Rose gliela strinse più forte.
«Non è vero» disse Will, gli occhi verdi pieni di tristezza. «Non può essere vero».
George si limitò a scrollare le spalle.
«Cosa ti ha detto?» chiese Rose. «Ho bisogno delle sue esatte parole».
George alzò i suoi occhi scuri su di lei. Rivivere quel momento doveva costargli molta fatica, ma Rose aveva bisogno di comprendere meglio la situazione per poterlo aiutare.
«Ha detto che vuole prendersi una pausa, almeno fino a quando le cose con suo padre non si saranno sistemate. E che… non pensa di rendermi felice. Come può credere una cosa simile?» La sua voce iniziò a tremare e lo stomaco di Rose sprofondò, perché non aveva mai visto George in quelle condizioni. Non conosceva i dettagli della situazione familiare di Cath, ma doveva essere più grave di ciò che pensava. «Io la amo così tanto. Le ho chiesto se avessi fatto qualcosa di sbagliato, ma ha detto di no e se n’è andata».
«Non ha rotto con te!» esclamò Will. «Ti ha solo chiesto un momento per se stessa mentre cerca di rimettere insieme la sua vita».
George scosse il capo. «Ma perché? Andava tutto bene tra di noi… Voglio solo aiutarla. Come può affrontare tutto questo da sola?»
«Non lo so, ma non ha rotto con te». Will parlava con calma per cercare di tranquillizzarlo. «Mi hai capito? Cath ti ama».
«E tu che ne sai? Sei nella sua testa?»
«Io non sono un’esperta» si intromise Rose. «Ma penso che abbia ragione Will. Devi solo chiederle delle spiegazioni e sono sicura che te le darà. Ma le hai… uhm». Rose non sapeva come continuare.
«No, non le ho ancora chiesto di sposarmi. Ma ora… che senso avrebbe? In ogni caso, non voglio parlare di Cath» tagliò corto George. «È il tuo compleanno, Rose. Dovremmo prendere in giro Logan Ashdown. Oh, parli del diavolo…»
Logan si stava avvicinando loro con passo mellifluo e Rose dovette trattenersi dal fargli una smorfia. Rimase impassibile e quando lui le si piantò davanti alzò il capo per poterlo guardare negli occhi, ma non si alzò dalla sedia.
«Buon compleanno» le disse con un sorriso tirato. Poi aggiunse in fretta: «I miei genitori mi hanno costretto a venire qui a farti gli auguri, non credere che sia ancora interessato a te».
Rose alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Bene, grazie. Ora te ne puoi andare».
«No, non posso. Devo stare qui almeno un paio di minuti». Guardò George e Will con fare annoiato, e continuò. «Come ve la passate?»
«Non hai imparato niente dalla volta scorsa?» chiese George. «Non mi interessa cosa vogliono i tuoi genitori, possono anche volere che tu e Rose vi sposiate per quanto mi riguarda. Ma tu devi starle lontano almeno cinque metri. Nel mondo mondano lo chiamerebbero ordine ristrettivo».
«E indetto da chi, si può sapere?» chiese Logan, guardandolo con aria beffarda.
George strinse la presa sulla mano di Rose e lo incenerì con lo sguardo. «Da me».
Logan rimase fermo dov’era per qualche istante, come se stesse decidendo se prenderlo sul serio o meno. Fu Will a convincerlo.
«Mi sembra che George sia stato chiaro» disse. «Hai cinque secondi. Uno…»
Logan alzò le mani in segno di resa e si rivolse a Rose. «Ben due guardie del corpo» la sbeffeggiò. «Meglio che tagli la corda prima che mi diano una lezione. Che paura».
«Due…» stava continuando Will.
Logan se ne andò senza aggiungere altro, lasciando l’eco di una risata dietro di sé, le mani nelle tasche e l’andatura tranquilla di chi aveva appena avuto una normale conversazione tra amici.
Cavolo, è bravo, pensò Rose.
«Dovete smetterla» sbottò poi, rivolgendosi ai suoi amici, punta sul vivo dalle parole di Logan. «Dovete smetterla di fare i fratelli maggiori gelosi con me. So difendermi da sola».
«Noi siamo un po’ i tuoi fratelli maggiori gelosi» le fece notare George. «Be’, io almeno. Non posso parlare per Will».
Rose sentì il sangue salirle alle guance e lasciò andare la mano a George.
Non guardare Will, non lo guardare, si impose.
Fece per chiedere a George che cosa intendesse –perché cavolo doveva fare quelle maledette allusioni ogni volta?- ma George bevve un altro sorso di vino e fece una smorfia. «E questo dovrebbe essere il miglior vino di Idris? Dio, meno male che ho portato la tequila».
Rose si illuminò, trovando una buona occasione per cambiare discorso. «L’hai portata?»
«Certo, Blackthorn. Per chi mi hai preso?»
«Mio padre ci terrà d’occhio tutta sera» disse Will. «Avete visto che lo ha capito».
Rose si concesse di osservarlo: sembrava tranquillo, come se neppure avesse sentito ciò che George aveva detto poco prima. O forse era lei che si faceva problemi per niente.
«William». George girò il capo verso di lui. «Sai essere incredibilmente noioso delle volte».
«Credevo che tu non mentissi» disse Will.
«Ma io non mento». George gli sorrise dolcemente. «Non ho neanche un goccio di vodka con me, solo pura tequila».
 
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Alla fine le diedero l’anello. Come Rose aveva previsto, la cerimonia non durò molto. Simon fece un breve discorso che lasciò Rose piacevolmente sorpresa, dicendo che sarebbe diventata un’abile Shadowhunter e definendola una giovane donna intelligente e acuta. Nessuno le aveva mai detto qualcosa di così carino esclusi i suoi genitori, che però non facevano testo. Poi Fratello Enoch le consegnò l’anello, sottolineando il valore che quello aveva e facendole promettere che lo avrebbe portato con orgoglio e che avrebbe tenuto alto l’onore dei Blackthorn.
Il tutto si risolse velocemente, e Rose ne fu grata.
«Bene» disse George quando Rose tornò a sedersi con lui e Will. «La festa è finita. Ce ne possiamo andare».
«No che non possiamo» cantilenò Will, mangiucchiando delle patatine con fare depresso. «La festa non è finita e dobbiamo rimanere qui fino alla fine. Suppongo che io e te potremmo andarcene, ma non credo che Rose…»
«Non potete mollarmi qui!» esclamò lei. «Io sono rimasta con voi fino alla fine dei vostri compleanni. Dovete restituire il favore».
George mugugnò qualcosa che Rose non colse e sprofondò un po’ di più nella sua sedia. «Almeno non penso a Cath» aggiunse poi. «Dovrei chiamarla?»
«Domani» decise Rose, sistemandosi meglio il suo nuovo anello sull’indice.
«Sì» concordò Will. «Chiamala domani pomeriggio».
«Non posso credere che sto chiedendo consigli a te» disse George, rivolto a Rose. Poi spostò lo sguardo su Will. «E a te, soprattutto!»
Rose si chiese se George sapesse che Will era innamorato. Poi si diede della stupida perché George era il suo parabatai e doveva saperlo per forza.
«Parlando di Will» iniziò allora, cercando suonare tranquilla e di non far trasparire dalla sua voce tutto il dolore che provava. «A quanto pare lo scapolo d’oro ha finalmente perso la testa per qualcuna».
George si strozzò con il vino che stava bevendo e iniziò a tossire così forte che per poco non cadde dalla sedia, mentre Will si immobilizzò, come se fosse caduto vittima di un incantesimo.
Rose inorridì. Possibile che George non lo sapesse?
«Non lo sapevi?» chiese, portandosi una mano alla bocca. «Ti prego, dimmi che lo sapevi».
«Lo sapeva» sussurrò Will.
«Ah…» Rose iniziò a dare delle pacche sulla schiena a George, che piano piano si calmò e tornò a respirare normalmente. «Oh. Ma certo!» esclamò poi Rose. «È forse un ragazzo? Per questo George fa… così? Perché ho sbagliato sesso? Non credevo che i ragazzi fossero il tuo genere. Non che ci sia niente di male, s’intende».
Rose si rese conto che stava parlando a macchinetta, e si impose di stare zitta.
Taci, Rose.
George la guardò come se fosse uscita completamente di testa e Rose iniziò a innervosirsi.
«Ma che cavolo stai dicendo, Blackthorn?» chiese lui. I capelli di George parevano avere vita propria; solitamente li portava piuttosto corti, ma in quell’ultimo periodo gli erano cresciuti parecchio, diventando quasi indomabili.
«Will mi ha detto che si è innamorato di qualcuno. Vorrei sapere di chi si tratta, se non chiedo troppo» sbottò lei, non riuscendo più a trattenersi. Poi si voltò verso Will. «Seriamente, Will. Pensavo fossimo amici, e invece sono sempre l’ultima a cui dici le cose. So di non essere il tuo parabatai, ma credevo… Non lo so. Io ti dico sempre tutto».
Will sembrava essere stato appena preso a pugni in faccia, e Rose sentì la rabbia montare ancora di più dentro di sé. Non aveva il diritto di stare così, non ne aveva alcun diritto. Non poteva continuare a farle credere che forse tra di loro ci sarebbe potuto essere qualcosa, per poi rovinare tutto baciando un’altra o confessandole di essere innamorato di chissà chi.
Will stava guardando George come se questo fosse la sua unica salvezza nel bel mezzo di una tempesta, e Rose arricciò il naso.
«Fermi tutti» disse, alzando una mano davanti a sé. «Non ditemi che per qualche strano motivo vi siete innamorati voi due, perché ne ho avuto abbastanza con i miei genitori. Grazie, ma no grazie».
«Eugh!» esclamarono George e Will all’unisono.
«Ti ricordo il mio cuore è appena stato infranto da Cath» disse George. «È un po’ presto per trovare un rimpiazzo. E poi non potrei mai stare con Will. Lo strozzerei dopo due giorni».
«Io ti strozzerei dopo due giorni» precisò Will.
«Nah». George iniziò a dondolarsi su due gambe della sedia, rischiando di spezzarsi l’osso del collo, ma in quel momento Rose era così arrabbiata con entrambi che non le sarebbe importato se fosse caduto. «Hai troppa pazienza».
«Sì, okay. Va bene». Rose incrociò le braccia al petto. «Arriviamo al dunque o no?»
Will sembrava essersi ripreso leggermente. «Non posso dirtelo adesso».
«Per l’Angelo! Non dirmi che è Olivia». Rose la cercò con lo sguardo e la trovò seduta per terra contro il muro a giocare con Violet e Livia. «Oddio, è Olivia».
Olivia era sua cugina e aveva diciassette anni. Era bellissima, con lunghi capelli biondo chiaro, la carnagione abbronzata e gli occhi verde-azzurro dei Blackthorn. Era la figlia di zio Mark e zia Cristina e aveva ereditato i migliori tratti dei due; non guastava neppure il fatto che fosse alta e che portasse almeno due taglie di reggiseno in più di Rose.
Rose non si era mai fatta complessi sul suo aspetto e non si era mai preoccupata del fatto che Olivia fosse una delle ragazze più belle che avesse mai visto, ma il solo pensiero che Will fosse innamorato di lei le faceva venire la nausea.
«Siete troppo diversi» continuò. «Ma sei sicuro?»
«No, Rose. Non sono innamorato di Olivia!»
«O mio Dio». George si mise a ridere e riportò tutte e quattro le gambe della sedia per terra. «Non ci credo, non posso credere che stia succedendo davvero».
Will guardò altrove, ma Rose riuscì a intravedere che era arrossito alla base del collo.
«Okay, okay» disse George. «Abbiamo davvero bisogno di bere, tutti e tre. Andiamo».
«Non possiamo…» cercò di fermarlo Will, ma George si era già alzato e si stava stiracchiando. 
«Oh, ti prego». George afferrò lo zaino da terra e porse un braccio a Rose, come un lord del passato. «Mia signora».
Rose si alzò e prese George a braccetto. Non voleva guardare Will, non voleva neppure che andasse con loro, a dir la verità, ma si costrinse a voltarsi verso di lui.  «È il mio compleanno, giusto? Non dovremmo fare quello che voglio io?»
Will alzò lo sguardo e Rose dovette reprimere il desiderio di picchiarlo. Perché era bellissimo e si rese conto che lo amava così tanto che le veniva solo voglia di strapparsi il cuore dal petto e gettarlo via, in pasto agli squali nell’oceano: almeno avrebbe smesso di sentirsi in quel modo ogni volta che lui puntava i suoi occhi verdi su di lei.
«Non quando quello che vuoi tu è ubriacarti nella tua camera».
«E chi ha parlato della mia camera?» Rose scacciò via quei pensieri, li ripose nuovamente in quella parte di cervello e di anima riservata a Will, e tese la mano libera verso di lui.
Will rimase immobile per qualche istante, la mascella serrata e i gli occhi verde chiaro puntati nei suoi, e per un istante Rose temette rifiutasse. Invece sospirò e le prese la mano.
«Si può sapere dove stiamo andando?» chiese poi, guardandosi attorno preoccupato mentre si dirigevano tutti e tre fuori dalla porta.
Rose vide proprio sua cugina Olivia rivolgerle un cenno di saluto mentre le passavano di fronte e pregò tutti gli angeli del cielo che non facesse la spia. Olivia non era cattiva, era solo un po’ sbadata e non sapeva mentire. Non era capace. Ci provava a coprire Rose quando faceva qualche bravata, ma o non ci riusciva o si lasciava scappare la verità senza rendersene conto. Rose sospettava che c’entrasse quella piccola percentuale di sangue fatato ereditata da zio Mark.
«Tranquillo, William» sussurrò George. «Tuo padre è un tantino impegnato al momento. Non farà caso a noi».
Rose si voltò e intravide Jace seduto al pianoforte con le mani in grembo e gli occhi fissi sui tasti, come se stesse decidendo se suonare o meno. Alla fine optò per la prima opzione, e iniziò a suonare una melodia delicata che si intonava alla perfezione al suono dei violini.
«Non è di mio padre che mi preoccupo» borbottò Will. «È mia madre il problema».
Ma anche Clary sembrava non star prestando loro particolare attenzione, troppo presa a osservare Jace.
Rose vide i suoi genitori poco lontano, anche loro incantati dalla musica, la testa di Emma poggiata sulla spalla di Julian e il braccio di lui stretto attorno alle sue spalle.
A Rose sarebbe piaciuto fermarsi ad ascoltare, ma la vista dei suoi genitori le fece venire l’improvviso desiderio di mettersi a piangere. In quegli ultimi giorni Rose e Julian avevano passato ore in biblioteca all’insaputa di Emma a cercare un modo per sconfiggere i Riders, ma non avevano trovato niente di utile. Anche Kit e Ty si erano uniti a loro, ma neppure loro avevano avuto fortuna nelle ricerche. Rose, in preda alla disperazione, aveva cercato in tutti i modi di convincere sua madre a non partire e ad aspettare, ma lei era stata irremovibile.
«Andiamo sul tetto» decise Rose, iniziando a camminare un po’ più veloce, desiderosa di allontanarsi dai suoi genitori, da Logan e da tutte le brutte sensazioni che la loro vista suscitava in lei.
«Perché rinchiudersi in una camera quando c’è un meraviglioso tetto che ci aspetta?» George sembrava improvvisamente contento. «Lo dico sempre!»
Uscirono dalla sala dei ricevimenti con nonchalance, come se stessero andando a prendere una semplice boccata d’aria, e una volta che furono nell’atrio dell’Istituto si misero a correre.
Rose aveva lasciato andare sia George che Will e si era tolta le scarpe con il tacco, dando sollievo ai suoi poveri piedi doloranti.
Stava filando tutto liscio, fino a quando non trovarono Holly al primo piano, di fronte alla cucina.
«Che cosa fate?» chiese loro. Indossava un vestitino blu scuro che creava un bellissimo contrasto con i suoi capelli chiari, che erano stati acconciati in due treccine da Julian per l’occasione.
«Cose da grandi» disse George.
Will gli diede una gomitata e mimò con la bocca: cose da grandi?
«Oh». Holly sembrava confusa.
«Tu, piuttosto» disse Rose. «Perché non sei alla festa?»
Non si sentiva tranquilla a sapere sua sorella in giro da sola con tutto quello che stava succedendo, anche se si trovava all’interno dell’Istituto, perché sarebbe sempre potuta uscire.
«I gemelli mi hanno mandata a cercare uno spintoffio» disse Holly depressa. «Ma non l’ho trovato».
Si stava riferendo a Nicholas e a Violet, i fratelli di Olivia.
«Uno spintoffio?» fece Rose.
«Che cavolo è uno spintoffio?» chiese George. 
«Non ne ho idea». Holly si imbronciò. «Hanno detto che quando lo troverò capirò che si tratta di uno spintoffio. Adesso vado a controllare in giardino, ma…»
«No!» esclamò Rose con un po’ troppa foga. «No, Holly. No, no e no. Non puoi uscire da sola. Tu adesso torni da basso da mamma e papà».
Holly la guardò storto. «Perché no? Non andrei lontano, solo a cercare…»
«Holly. Ho detto di no». Rose la prese in braccio e si rivolse a George e a Will. «Voi iniziate ad andare, riporto questa dai miei genitori».
Holly aveva iniziato a muoversi e a gridarle contro, cercando di tirarle i capelli e riuscendo a rovinarle l’acconciatura. «Ma perché? Non voglio tornare là, mi annoio!»
«Ehi, Holly» le disse Will, prendendola dalle braccia di Rose e sorreggendola su un fianco. Holly gli passò le braccia attorno al collo e lo osservò in attesa, i capelli biondi di qualche tonalità più chiara rispetto a quelli di Will. «Te lo dico io che cos’è uno spintofacchio».
«Spintoffio» tossicchiò George.
«Spintoffio» si corresse subito Will.
«E che cos’è?» chiese Holly con gli occhi che brillavano.
«Hai presente tua mamma? Ha un braccialetto di perle al polso. Quello si chiama spintoffio».
Holly non sembrava molto convinta. «Davvero?»
«Davvero» la rassicurò Will. «Quindi devi andare di corsa da tua mamma, così lo avrai trovato».
Rose doveva ammettere che Will aveva avuto una buona idea. Sua madre aveva ragione, pensò infastidita: non c’era niente che gli Herondale non sapessero fare. A quanto pare erano anche bravi con i bambini.
Si rese conto che Holly la stava guardando in attesa, in attesa della sua approvazione.
«Esatto!» si affrettò a dire. «Will ha ragione. Quindi ora fila dalla mamma».
Will la rimise per terra e Holly si sistemò il vestito e le treccine.
«Holly, la prossima volta che ci vediamo ti porto del cioccolato» le disse George. «Te lo meriti».
«Perché?» chiese lei.
«Non fare domande se non vuoi che ti dica bugie» le rispose criptico George.
Holly aggrottò le sopracciglia, poi sembrò decidere che non gliene importava nulla -fintanto che le avesse portato il cioccolato- e scrollò le spalle, mettendosi a saltellare contenta verso la sala dei ricevimenti.
«Non correre sulle scale!» le urlò dietro Rose, ma lei era già sparita dietro l’angolo. Rose si voltò verso Will e per poco non lo abbracciò. «Grazie» gli disse. «Grazie per averla convinta a restare in casa».
«Grazie per aver mentito senza vergogna a quella povera bambina?» sussurrò George. «Non capirò mai perché la gente lo faccia. Mentire ai bambini».
«Avrei dovuto dirle che la sua vita e la vita dei suoi familiari sono in pericolo e che per questo non può uscire dall’Istituto?» chiese Will.
George alzò le spalle. «No, ma bastava dirle che non poteva uscire per il suo bene, che non è una bugia. Come può un genitore aspettarsi che suo figlio sia sincero se lui per primo gli ha mentito dal giorno in cui è nato? Cosa penserà Holly quando scoprirà che lo spintoffio non esiste?»
Rose e Will fissarono entrambi George ammutoliti.
«È una bambina, George» disse poi Rose. «Le ho mentito per il suo bene. Non penso che se la prenderà».
«Non lo so, suppongo tu abbia ragione». George lasciò cadere il discorso, e insieme si diressero sul tetto.
Rose si affacciò al parapetto e osservò l’oceano scuro incontrarsi con il cielo. Il sole era ormai tramontato da un pezzo e in lontananza si potevano distinguere con chiarezza le luci delle navi da crociera che stavano transitando davanti a Los Angeles.
Dietro di lei, dal lato opposto del tetto, si stagliava il deserto della California; a differenza di sua madre, a Rose aveva sempre fatto più paura dell’oceano. Perché se di notte l’oceano era illuminato dalla luna, il deserto no, e le trasmetteva un senso di inquietudine e disagio.
«Vieni qua, Rose» la chiamò George, facendole segno di sedersi accanto a lui. «Unisciti ai grandi».
Rose li raggiunse per terra e prese una bottiglia di tequila. La stappò e se la portò alle labbra, bevendo due grandi sorsate e beandosi della sensazione di bruciore alla gola che l’alcol comportava.
George fece per prenderle la bottiglia di mano ma lei la allontanò. «Prenditene un’altra».
«Blackthorn, non mi sarei mai aspettato questo comportamento da te» la prese in giro George, tirando fuori dallo zaino altre due bottiglie e porgendone una a un perplesso Will.
Will rimise la sua bottiglia nello zaino di George e si sdraiò a pancia in su, togliendosi la giacca e usandola come cuscino dietro la testa, rimanendo in camicia. Rose distolse lo sguardo dal suo addome piatto e dalle sue spalle larghe, bevendo dell’altra tequila.
«E io che ho anche pensato a te» disse George con disapprovazione in riferimento a Will. «Fa niente, Rose. Più roba per noi».
Rimasero in silenzio per un po’, Rose non seppe esattamente per quanto. Pian piano l’alcol iniziò a circolarle nel sistema, dandole momentanei attimi di sollievo: per un attimo non esistevano Cavalieri che volevano ucciderli, Will era innamorato di lei e non di qualche altra ragazza, Cath e George stavano ancora insieme e tutto andava bene.
La testa le girava piacevolmente e Rose iniziò a dondolare a destra e a sinistra, toccando dentro George quando si sporgeva dalla sua parte.
«La vita fa schifo» disse lui. «Non trovi anche tu?»
«Già. Fa assolutamente schifo» concordò lei.
«Che allegria» commentò Will, che era l’unico a essere ancora sobrio.
«No, dico sul serio» continuò George; era chiaro che l’alcol stesse avendo effetto anche su di lui. «Cath mi ha mollato. La vita può fare solo schifo».
«George» disse Will, continuando a osservare il cielo sopra di sé. «Cath non ti ha mollato».
La luna gli illuminava parte del viso e dei capelli, in un gioco di luce e ombre che li faceva sembrare più chiari, quasi dello stesso colore di quelli di Holly.
Rose fece appello a quell’ultimo briciolo di autocontrollo che le era rimasto per non guardarlo e per non parlare con lui, perché non si fidava più di se stessa in presenza di Will.
«Georgi, ascolta me» disse. «Cath ti ama, okaay? Non ti ha mollato. Altrimenti io smetto di credere nell’amore e nelle cose belle. E negli unicorni».
«Gli unicorni non esistono» rispose piatto George.
Rose sussultò e gli tirò uno spintone. «Non dire così. Non rovinarmi la festa».
George si scolò anche l’ultimo goccio di tequila e fece per raggiungere l’altra bottiglia, quella che Will aveva riposto nel suo zaino, ma quello era sparito.
«Eehi!» esclamò George. «Dove… dove diavolo…» parlare gli costava fatica, e Rose non poteva biasimarlo, perché iniziava a sentirsi davvero rintronata anche lei. «Dov’è il mio zaino? William!»
Will gli lanciò due pacchetti di caramelle. «Il tuo zaino è al sicuro. Mangiate quelle. Deve passarvi la sbornia, non potete scendere da basso in queste condizioni».
George guardò le caramelle depresso e poi aprì il pacchetto, ficcandosene in bocca una decina tutte assieme.
Rose ne rubò una e poi ci ripensò: iniziava a sentirsi male, le girava la testa e aveva la nausea. Cercò di alzarsi in piedi, ma non fu una buona idea perché perse l’equilibrio. Will cercò di prenderla per impedirle di cadere a terra, ma il risultato fu che Rose gli finì addosso, ritrovandosi completamente sdraiata sopra di lui.
«Ouch» borbottò, sollevando il viso e trovando gli occhi grandi di Will che la fissavano. Sentiva il cuore di lui battergli contro al petto e il suo respiro sfiorarle la guancia. «Scusa».
Will scosse il capo. Con il buio, illuminati soltanto dalla luce della luna, i suoi occhi erano più scuri del solito e sembravano quasi neri.
«Sei proprio bello Will» disse Rose, sfiorandogli la guancia con la mano. «Sei davvero tanto bello».
Non sapeva che cosa le stesse succedendo, sentiva solo l’urgenza di dirglielo. Tanto perché no? Era la verità e i complimenti facevano sempre piacere.
Will deglutì e Rose notò la sua vena giugulare pulsare ritmicamente. Se fosse stata la sua ragazza lo avrebbe baciato lì, sotto alla mandibola, ma anche da ubriaca si rendeva conto che non lo poteva fare, ed era così ingiusto.
«Perché non sei innamorato di me?» gli chiese, sentendo la sua stessa voce spezzarsi e gli occhi riempirsi di lacrime. «Una volta credevo fossi innamorato di me, ma hai messo in chiaro da tempo che non lo sei. Perché? Sono così tanto strana?»
Rose sentì il corpo di Will irrigidirsi sotto di sé. Will le racchiuse il viso con le mani e le fece appoggiare la fronte contro la sua.
«Ma io sono innamorato di te». Il respiro di Will sulle labbra la stava mandando in iperventilazione e Rose chiuse gli occhi, sentendo una lacrima scorrerle sulla guancia. «Ti amo così tanto, Rose. Ti prego, non te lo dimenticare domani mattina».
Rose tentò di aggrapparsi alle sue parole, di fissarle nella sua mente e nella sua memoria per sempre, ma queste le scivolavano via come sabbia tra le dita.
Will spostò le mani dal suo viso alle sue spalle, alle sue braccia, per poi fermarle sui suoi fianchi.
Rose non voleva allontanarsi da lui mai più, ma la testa le faceva così male che temette potesse scoppiarle da un momento all’altro, e la sensazione di nausea si era intensificata pericolosamente.
«Devo…» disse. «Devo davvero vomitare».
Si alzò e corse verso uno dei vasi di gerani che suo zio Mark aveva piantato con tanta cura. Li aveva portati sul tetto dell’Istituto perché sosteneva che la luce fosse migliore, e ogni giorno passava per controllare il loro stato. Rose si sentì malissimo a dover vomitare in uno dei suoi vasi, ma era sempre meglio farlo lì che addosso a Will.
«Ti credevo una dura, Blackthorn» le urlò dietro George.
«Come fai a tenere tutto nello stomaco?» sussurrò lei, sdraiandosi per terra poco lontano dai fiori, che con il loro profumo la facevano stare solo peggio.
«George Lovelace non vomita mai» asserì lui, continuando a mangiare caramelle.
Rose si voltò di lato e poggiò la testa sulle mani; osservò per qualche secondo Will, sempre immobile con lo sguardo rivolto verso le stelle, e si ritrovò a pensare che somigliasse a uno dei soggetti di quei dipinti che lui stesso le aveva mostrato tante volte. Avrebbe tanto voluto avvicinarsi a lui, ma non ne aveva le forze, perciò chiuse gli occhi e si addormentò.

NOTE DELL'AUTRICE
Ta ta ta taaaa. Will ha detto a Rose che è innamorato di lei, ma Rose se lo ricorderà? Sono aperte le scommesse!
Per il resto vorrei solo dire una cosa su George, ovvero: se state storcendo il naso perché si è ubriacato, vi posso assicurare che si sentirà una merda e che -spoiler- chiederà scusa a Cath (per aver bevuto troppo). 
Per il resto non ho altro da dire, spero vi sia piaciuto!

Francesca

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici. ***


Capitolo Dodici.
 
«Be’, eccoli qui» stava dicendo una voce, la voce di Jace. «Direi che sono sorpreso, ma sarebbe una bugia».
Rose sbatté le palpebre impastate di sonno un paio di volte e si mise a sedere. Si portò una mano alla tempia quando una fitta le attraversò il capo, come un fulmine che si abbatte sull’oceano. Stava da schifo. Non aveva più la nausea, ma era sicura che tra poco la sua testa sarebbe esplosa.
Will si era alzato e stava di fianco a suo padre con aria colpevole, il capo chino e le spalle incurvate come un bambino che l’ha combinata grossa, nonostante lui non avesse fatto niente di male. Jace e Will si somigliavano davvero tanto, notò Rose. I loro tratti erano chiaramente gli stessi: gli zigomi alti, la forma del viso, i capelli del colore del grano appena raccolto. L’unica differenza erano gli occhi, ma illuminati dalla luce della luna anche questi sembravano dello stesso colore.
«Sono un ragazzo dall’anima distrutta» disse George. «Ho il diritto di ubriacarmi».
«Non con metà Conclave due piani di sotto» commentò Jace. Poi spostò lo sguardo su Rose. «Anche tu, Rose?»
Rose borbottò qualcosa di sconnesso, incapace di formulare una frase di senso compiuto. Aveva la bocca secca e avrebbe pagato oro per un bicchiere d’acqua.
«Vi porto da basso, coraggio». Jace sospirò. «Non vorrei essere nei vostri panni quando Julian e Isabelle vi vedranno in questo stato».
«Sono messa così male?» chiese Rose, alzandosi da terra a fatica.
Jace la guardò e inclinò il capo di lato. «Se giro la testa, chiudo un occhio e poi chiudo anche l’altro, no, sei impeccabile. Ma qualsiasi persona con una vista e un olfatto medi può dedurre che cos’è successo qua. Si sente odore di alcol dal piano di sotto».
«Non c’è nessuna possibilità che, ipoteticamente parlando, tu decida di coprirci e non dire niente ai nostri genitori?» tentò George.
Jace ridacchiò. «Ormai si sono accorti tutti che mancate. E, davvero, io non devo dire proprio niente: il vostro aspetto parla da sé».
Rose si toccò i capelli e si rese conto che la sua acconciatura era ormai rovinata, e immaginava che non dovesse avere una bella cera. Anche George non era messo meglio di lei, con gli occhi arrossati e un colorito verdognolo che faceva quasi paura.
Seguirono Jace, consapevoli che i loro genitori sarebbero stati delusi dal loro comportamento. Rose iniziò a elaborare una strategia di difesa -suo padre non gliel’avrebbe fatta passare liscia- e per quando arrivarono davanti alla porta dell’ufficio di Julian aveva deciso che avrebbe dato tutta la colpa a sua madre e a Logan. Perché sì, era tutta colpa loro: di sua madre e della sua idea suicida di andare a uccidere i Riders di Mannan da sola, e di Logan e del suo essere uno stronzo.
Entrarono e a Rose sembrò che si stessero dirigendo verso il patibolo.
Tre sedie erano state disposte davanti alla scrivania, dietro la quale stava Julian con le braccia conserte; Emma era al suo fianco con l’espressione preoccupata e una mano sulla sua spalla, mentre Isabelle e Simon stavano parlando tra di loro a bassa voce.
«Sedetevi» disse Julian.
Obbedirono e nessuno di loro osò controbattere, neppure George. Jace si diresse vicino a Clary e le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Quando Isabelle si accorse della loro presenza, si voltò di scatto e incenerì il figlio con lo sguardo.
«George Maxwell Lovelace» iniziò, e persino Rose rabbrividì. «Si può sapere a che cavolo stavi pensando? Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere, soprattutto al compleanno di Rose!»
«In mia difesa» disse George. «È stata Rose a chiedermi di portare l’alcol».
Rose si mise una mano sul cuore. «Non mi sembra che ti sia dispiaciuto scolarti una bottiglia di tequila».
George le fece una smorfia e Rose incrociò le braccia al petto.
«Una bottiglia di tequila?» chiese Simon impressionato. «Roba leggera».
«In realtà erano tre» disse George. «Ma Will non ha voluto bere la sua. Uno spreco, davvero».
Isabelle gli puntò un dito contro. «Non un'altra parola, George. Non un’altra parola».
«Cath ha rotto con me!» esclamò lui, come se quello lo scagionasse da tutte le accuse.
«Oh, per l’amor dell’Angelo, George!» sbottò Will. «Cath non ha rotto con te!»
Simon e Isabelle si rivolsero uno sguardo preoccupato.
«Cosa vuol dire che Cath ha rotto con te?» chiese lei. «Stai scherzando, vero?»
«Io non mento» cantilenò George. «Ha rotto con me».
«Non è vero» disse Will.
«Oh, ma smettila!» George gli diede una spinta. «Tu non eri lì».
«D’accordo» li interruppe Julian. «George, mi dispiace tanto per Cath, ma non è questo il modo…»
«Aspetta» fece Rose. «Anche io avevo un buon motivo per ubriacarmi».
Julian alzò un sopracciglio e la guardò con sufficienza. «Che sarebbe?»
«Logan fa schifo» disse Rose, non riuscendo a dare la colpa anche a sua madre, che in quel momento la stava osservando in un modo che le fece contrarre il cuore. Era pallida e non sembrava neppure arrabbiata con lei, solo tanto dispiaciuta. Rose si sentì uno schifo. Avrebbe dovuto passare la serata insieme ai suoi genitori e a Holly, e invece era scappata sul tetto per ubriacarsi. Ma che cosa le era preso?
«Se mi fossi ubriacato ogni volta che tua madre usciva con Cameron Ashdown, ora non avrei più un fegato» rispose Julian.
«Io non sono ubriaco, comunque» disse Will, alzando una mano. «Per quel che vale».
Clary gli rivolse un’occhiata velenosa ma non disse niente, probabilmente rimandando una ramanzina a più tardi. Rose non poteva permettere che Jace e Clary se la prendessero con Will, che non aveva fatto niente.
«Will non ha colpa» disse. «Non arrabbiatevi con lui, non ha toccato la bottiglia».
Jace scosse il capo. «Sei proprio il disonore della famiglia, William. Almeno ti sei tenuto alla larga dalle caramelle?»
«Jace!» sibilò Clary, pestandogli di nascosto un piede.
«Volevo dire che sono fiero di te» si affrettò a correggersi lui. «L’ho sempre detto a Simon che sei il più responsabile».
Simon alzò gli occhi al cielo e lasciò perdere la provocazione.
Will si imbronciò e Rose si sentì male per lui. Non ricordava quanto successo sul tetto prima di perdere i sensi e addormentarsi: ricordava la bottiglia di tequila e George al suo fianco, le caramelle, l’odore e il rumore dell’oceano, ed era quasi sicura di aver vomitato a un certo punto; per il resto i suoi ricordi erano un caleidoscopio di colori e immagini sbiadite. Ma era sicura che Will avesse cercato in tutti i modi di convincerli a smettere di bere.
«Che ore sono?» chiese Rose, rendendosi conto che aveva perso la cognizione del tempo.
«È mezzanotte e sono tornati tutti a casa» spiegò Julian. «Avresti dovuto salutare, ma non ti si trovava da nessuna parte».
Rose abbassò il capo in imbarazzo, consapevole di non essersi comportata in modo educato. «Mi dispiace» disse, anche se in realtà non era per quello che era dispiaciuta: non le sarebbe potuto importare di meno di ciò che il Conclave pensava di lei.
«Sarà meglio andare» propose Clary, tirando fuori il suo stilo e iniziando a dare vita a un portale.
«Salutate da parte mia Magnus e Alec, e Max e Raphael» disse Rose. «E ringraziateli per essere venuti».
«Avresti dovuto farlo tu» continuò a infierire Julian.
Ho capito, basta! avrebbe voluto dirgli Rose, ma si morsicò il labbro e stette zitta.
«Certo, Rose». Simon le sorrise. Non sembrava arrabbiato con lei, forse la compativa.
«Muoviti, George. Non abbiamo finito io e te» disse Isabelle, prendendo George per il braccio e facendolo alzare. George era più alto di sua madre, anche se non di troppi centimetri, ma in quel momento sembrava ancora il bambino di sette anni che aveva combinato qualche guaio. «Buonanotte a tutti».
George fece un cenno di saluto a Rose e a Will, attraversando il portale assieme ai suoi genitori e scomparendo al di là di esso.
«Forza, Will» disse Jace. «Dopo di te».
Will sbiancò. «Non posso venire ora, vi raggiungo dopo».
«Non se ne parla» decise Clary. «Vieni via con noi adesso».
«Non posso!» continuò Will. «Devo parlare con Rose».
Un silenzio imbarazzante cadde nella stanza, e Rose intravide Will lanciare un’occhiata di sottecchi a suo padre.
Rose sapeva di essere arrossita, perciò cercò di non incrociare lo sguardo di nessuno.
«Will può restare per un po’» disse Emma. «Anche a dormire, se vuole».
Will guardò sua madre e Clary resse il suo sguardo decisa.
«Dobbiamo parlare ed è tardi» disse Clary. «Puoi venire qua quando ti pare e dire a Rose ciò che devi dire. Ora fila in camera tua» concluse, indicando il portale con la mano.
«Non sono un bambino, ho diciotto anni!» si arrabbiò lui. «Non potete continuare a…»
«Will» sussurrò Jace, scuotendo il capo. «Non ora, per favore. Rose deve passare del tempo con i suoi genitori».
Will ammutolì e si alzò impettito, rivolgendo un’occhiata di scuse a Rose.
Jace e Clary sapevano che cosa sarebbe successo l’indomani e volevano lasciarle quanto più tempo possibile con sua madre. Rose avrebbe voluto vomitare un’altra volta, ma si costrinse a sorridere. «Ci vediamo domani mattina, okay?»
Will si convinse e tutti e tre gli Herondale se ne andarono.
Rose rimase sola nella stanza con i suoi genitori e improvvisamente il peso di quanto accaduto quella sera si riversò su di lei, tutta la tristezza e la paura, la delusione e anche la rabbia vennero a galla, facendole salire un nodo alla gola.
«Mi dispiace tanto» riuscì a dire.
«Perché lo avete fatto?» chiese Emma, portandosi una mano al collo e stringendo l’anello dei Blackthorn. «Rose, era il tuo compleanno».
Rose distolse lo sguardo. «Non voglio che tu muoia».
Finalmente lo aveva ammesso, quello che la tormentava da più di due giorni, ciò che non la lasciava dormire la notte e che le impediva di pensare a qualsiasi cosa che non fosse l’immagine di sua madre morta il giorno del suo funerale.
«Rosie». Emma emise un verso strano che le fece venire da piangere. Poi le si inginocchiò di fronte e le prese le mani tra le sue. «Andrà tutto bene».
Rose scosse il capo e poggiò la testa sulla spalla di lei. Emma la avvolse in un abbraccio e la strinse a sé, dicendole che le voleva bene, che la amava più della sua stessa vita e che non si sarebbe dovuta preoccupare perché avrebbe pensato a tutto lei. Anche Rose avrebbe voluto dirle qualcosa, ma le parole rimasero impigliate tra i singhiozzi.
Prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi alle carezze di sua madre, Rose intravide suo padre passarsi le mani sul viso e distogliere lo sguardo, come se la vista di Rose e Emma che piangevano abbracciate fosse troppo da sopportare.
 
Rose tornò nella sua camera con un peso sul cuore, consapevole che quella notte non avrebbe chiuso occhio, nonostante avesse bevuto una tisana contro il mal di testa e si sentisse un po’ meglio almeno sotto quel punto di vista.
Si tolse le scarpe e le gettò in un angolo, per poi iniziare a disfarsi le trecce. Solo quando i suoi capelli furono liberi dalle forcine e le caddero morbidi sulle spalle, si rese conto che c’era qualcuno che la stava osservando.
Si trattava di Cath, seduta ai piedi del letto che la guardava con i suoi grandi occhi chiari.
Rose sobbalzò e si portò una mano al petto. «Che cosa ci fai qui?»
«Sono passata per farti gli auguri» rispose Cath. «Buon compleanno, Rose. Avrei voluto farteli prima di mezzanotte, ma sei tornata solo ora».
«Grazie, ma… come hai fatto ad arrivare a Los Angeles?» chiese Rose, sapendo che l’unico modo per farlo in così poco tempo era passare attraverso un portale.
«Conosco uno stregone che mi deve un favore» tagliò corto lei, per poi indicare con il capo il muro di fronte a sé. «È bellissima. Scommetto che indovino al primo colpo chi l’ha fatta».
Rose seguì il suo sguardo e per poco non finì per terra. Sopra al suo computer, appesa al muro, c’era una grande tavola periodica disegnata e colorata a mano. A Rose bastò un istante per sapere che era opera di Will e non di suo padre. Li conosceva entrambi troppo bene ed era perfettamente in grado di distinguere il tratto dell’uno da quello dell’altro.
Si avvicinò e allungò una mano per toccarla, come per assicurarsi che fosse davvero lì, e notò che Will aveva disegnato in ogni riquadro qualcosa che contenesse una gran quantità dell’elemento. Doveva aver fatto molte ricerche, pensò Rose con una fitta al cuore.
Sulla scrivania invece era stato riposto un pacchetto –probabilmente il regalo degli Herondale a cui faceva riferimento Clary- e una lettera verde.
«Io…» Rose sbatté un paio di volte le palpebre. «Wow».
«C’è anche un biglietto» continuò Cath con malizia. «Non l’ho letto, tranquilla. Ma tu dovresti».
Rose prese la lettera tra le mani, e un sorriso spontaneo le spuntò sulle labbra quando riconobbe la calligrafia di Will: Per Rose, diceva. Rose fece per aprirla ma si fermò, rendendosi conto che Cath era ancora lì con lei. Alzò lo sguardo sulla ragazza e tornò improvvisamente seria quando notò il suo aspetto.
Cath indossava un paio di jeans e una felpa di qualche taglia più grande della sua, probabilmente appartenuta a George, e aveva il viso stanco e sbattuto, con occhiaie violacee che le cerchiavano gli occhi, le labbra screpolate e l’espressione triste di chi aveva appena perso tutto ciò che di bello possedeva.
«Non adesso, lo farò più tardi» disse Rose, raggiungendola sul letto. «Tu, piuttosto. Che è successo tra te e George?»
Cath trattenne il fiato e si morsicò il labbro inferiore. «Te l’ha detto, vero?» sospirò. «Ma certo che te l’ha detto».
«Sta da schifo» disse Rose. «E tu non sembri passartela molto meglio».
«Sono un’idiota» decise Cath, le unghie che premevano nel materasso. «Una grandissima idiota».
«Vero» concordò Rose. «Ma credo tu sia un’idiota con delle motivazioni».
Cath alzò gli occhi su di lei e annuì. «Penso sia giunto il momento che tu sappia».
«Che io sappia cosa?»
«La verità su mio padre» rispose Cath, iniziando a raccontarle tutto: di come suo padre soffrisse di depressione da quando la madre era morta, di come cercasse di alleviare il suo dolore con l’alcol, con il risultato che erano più i giorni in cui era ubriaco che quelli in cui era sobrio, e di come la accusasse della morte della moglie. Le raccontò anche di quelle volte che lui aveva alzato le mani su di lei, definendosi una stupida per non aver reagito.
Rose sentì di aver mancato incredibilmente di rispetto a Cath per essersi ubriacata quella sera e le chiese scusa mentalmente.
George era a conoscenza di tutto e avrebbe voluto che lei lo dicesse ai suoi genitori, ma Cath non se la sentiva di denunciare suo padre al Conclave, nonostante tutto.
Rose si era aspettata qualcosa di simile dai vaghi racconti di George e dai comportamenti evasivi di Cath, ma non si era aspettata che la situazione si fosse spinta fino a quel punto.
«È solo che gli credo, quando dice che è colpa mia se mia madre è morta» concluse Cath con la voce spezzata. «Se una persona passa la sua vita ad accusarti di qualcosa alla fine inizi a credere che abbia ragione».
Rose sentì la rabbia montarle nelle vene, e immaginava che George dovesse sentirsi allo stesso modo, se non peggio. «Eri una bambina senza addestramento e rune. Non avresti potuto fare niente per aiutarla».
Cath annuì distrattamente e poi continuò. «La situazione sta uscendo fuori dal mio controllo. Credo che sia arrivato il momento di dirlo a qualcuno. Di più adulto di te e George, intendo».
Rose non sarebbe potuta essere più d’accordo. «Certo. I genitori di George possono aiutarti e, se chiederai loro di non denunciare apertamente tuo padre, sono sicura che riusciranno a trovare un compromesso diverso in modo che tu sia felice e al sicuro». Le scostò una ciocca di capelli biondi che le era ricaduta sul viso e gliela sistemò dietro all’orecchio con fare quasi materno. «C’è però ancora una cosa che non mi è chiara: come mai hai rotto con George?»
Gli occhi di Cath si riempirono di lacrime. Fece per dire qualcosa ma non ci riuscì e scoppiò a piangere, coprendosi il viso con le mani.
Rose la abbracciò e la strinse a sé, accarezzandole piano prima la schiena e poi i capelli, cercando di farla calmare, ma Cath continuava a singhiozzare e sembrava inconsolabile.
«Non vorrà vedermi mai più adesso» riuscì a borbottare tirando su con il naso. «Dev’essere così arrabbiato con me. Sai com’è lui».
«Lo so» disse Rose, allontanandosi un po’ da lei per prenderle un fazzoletto. «E ti ama più di qualsiasi altra cosa, Cath. Te lo giuro».
Cath si soffiò il naso e si asciugò le lacrime, ma continuò a piangere, incapace di fermarsi. «Stavo litigando con mio padre e mi ha detto una cosa… mi ha fatta pensare. George si merita molto meglio di tutto questo. Si merita una ragazza che lo inviti a cena tutti i fine settimana, con una famiglia normale. Prima o poi George si stancherà di me, di mio padre, e mi lascerà, è inevitabile. Non voglio che sprechi altro tempo prima di realizzare che gli causo solo dolore e che rovino ogni cosa che tocco».
«Per l’Angelo» sussurrò Rose, scuotendo il capo. «Hai proprio ragione: sei davvero un’idiota».
Cath emise un verso strozzato a metà tra una risata e un singhiozzo. «Non amerò mai più nessun altro in questo modo, lo so e basta. È così. Ma ho pensato che lui può innamorarsi di nuovo, magari tra un po’, e se io sarò distrutta per sempre non avrà importanza fintanto che lui sarà felice».
«E pensi che potrà esserlo senza di te?» chiese piano Rose.
Cath annuì e si soffiò di nuovo il naso. «Penso di sì. Credo sul serio che meriti di meglio, ma allo stesso tempo mi sento morire. George è tutto ciò che mi ha permesso di andare avanti in questi anni e io sto per chiudere ufficialmente le cose con lui... Sono passate solo un paio d’ore da quando ho deciso e guarda come sto. Non voglio essere egoista, voglio lasciarlo andare, ma… cosa devo fare, Rose? Non riesco a respirare».
«Te lo dico io che cosa devi fare» disse Rose con calma. «Domani lo chiami e gli dici tutto quello che mi hai appena detto; secondo me si mette a piangere perché hai pensato che ti ami meno di quanto tu ami lui».
Cath arricciò il naso e ridacchiò. «George non piange».
«Per te, Cath, lo farebbe. Ma credi davvero che ti lascerebbe andare così? Non vedi quanto ti ama?» La sua era una domanda sincera. Era così evidente, come poteva Cath non rendersene conto?
«Lo so che mi ama». Cath poggiò il capo sulla sua spalla. «Mi sento una stupida per aver pensato anche solo per un’istante che questa fosse una buona idea. Ora ho rovinato tutto, sono sicura che è furioso con me».
«No, è solo confuso» la rassicurò Rose.
«Vorrei chiamarlo adesso».
«Chiamalo».
«No, non posso. Starà dormendo». Cath si lasciò cadere con la schiena sul letto. «Deve dormire un po’».
Rose si sdraiò al suo fianco e si mise su un lato, così da poterla guardare in faccia.
«Puoi stare qui stanotte» le disse.
Cath voltò il capo verso di lei e incrociò il suo sguardo. «Davvero?»
«Certo. Will domani deve venire qui, puoi farti aprire un portale per andare da George».
Cath annuì e sorrise. «Grazie, Rose».
Rimasero in silenzio per un po’; Rose era ancora vestita e truccata di tutto punto, ma non aveva la forza per andare a cambiarsi, non dopo quello che le aveva raccontato Cath.
«E tu come ti senti?» le chiese ad un tratto lei. «Ho parlato tutto il tempo dei miei problemi, ma i tuoi sono certamente più grandi. Sei riuscita a convincere tua madre a non partire?»
«No, niente da fare» disse Rose. «E non scusarti. Anzi, ti ringrazio perché mi hai distratta».
Era la verità, pensare per un po’ alle preoccupazioni di Cath le aveva fatto dimenticare temporaneamente le proprie.
«Come mai Will viene qui domani?»
«Non lo so» sussurrò Rose. «Ha detto che mi deve parlare».
Rose non sapeva bene che cosa aspettarsi. In quell’ultimo periodo non lo capiva: prima si comportava in modo strano, come se la stesse tenendo a distanza di sicurezza, poi passava la notte con lei e la stringeva come se da quello ne dipendesse la propria vita, dicendole cose che nessuno le aveva mai detto prima, e infine le confessava di essere innamorato, ma senza dirle di chi. Probabilmente lo era di sua cugina Olivia e la cosa mandava Rose su tutte le furie. Ne aveva il diritto, certo, Olivia era bellissima e tutto ciò che un ragazzo potesse desiderare, ma non capiva perché allora Will si fosse comportato in modo così ambiguo con lei.
«Sei innamorata di lui, vero?» chiese piano Cath.
Rose si immobilizzò, lo sguardo fisso in quello di lei.
Non batté ciglio. Non lo aveva mai detto ad alta voce, a mala pena lo aveva pensato, e da quando lo aveva visto baciare quella fata due anni fa si era ripromessa che si sarebbe impegnata per vederlo solo come un amico. Ci aveva provato e aveva fallito miseramente.
«Ma certo che lo sei» sospirò Cath.
«Non l’ho detto» disse Rose.
«Non ne hai avuto bisogno». Cath le prese la mano e la scosse. «Sono convinta che anche lui sia innamorato di te».
«Lo dubito fortemente» grugnì Rose depressa.
«E invece sono convinta».
«Come fai a esserne certa?»
«È ciò che faccio, ciò in cui sono brava» disse lei. «So leggere le persone».
Rose era troppo stanca per ribattere o chiedere altre spiegazioni, perciò chiuse gli occhi e decise che, solo per quella notte, le avrebbe creduto. 
 
---

Devi venire qui. Subito.
George lesse il messaggio e lanciò il telefono sul comodino, per poi voltarsi dall’altro lato. Chiuse gli occhi e pregò di riuscire a riaddormentarsi, decidendo per una volta di ignorare il suo parabatai.
Will avrebbe capito.
Gli faceva male la testa –sua madre per punizione non gli aveva permesso di prendere nulla per alleviare il dolore- e non era pronto ad affrontare un mondo in cui Cath non voleva più stare con lui.
Cath.
Una fitta di dolore gli attraversò il petto, come se fosse appena stato pugnalato: ora capiva cosa intendesse la gente con l’espressione avere il cuore spezzato. Non era una metafora, George sentiva un vero e proprio dolore fisico.
Non aveva ancora realizzato, perché non poteva finire in quel modo, la amava troppo e sapeva che anche lei amava lui, e se i suoi sentimenti non fossero cambiati, George era sicuro che avrebbero superato ogni cosa. Non è ciò che ti dicono sempre? Che l’amore vince contro tutto e tutti e che è la forza più grande che esista? Prima di incontrare Cath George non ci credeva, ma ora come poteva non farlo?
George non poteva sopportare l’idea che lei non lo amasse più, gli faceva troppo male perché, se così fosse stato, si sarebbe dovuto fare da parte: voleva che lei stesse con lui per sua volontà e non perché si sentisse in qualche modo costretta.
Il suo telefono vibrò di nuovo.
Lo so che sei sveglio e che mi stai ignorando di proposito. Muoviti!
George si alzò dal letto con un grugnito e si diresse in bagno. Si buttò subito sotto il getto dell’acqua fredda nonostante fosse autunno inoltrato e la casa fosse tutt’altro che calda. Era una cosa che faceva spesso, la doccia gelata, per svegliarsi bene e schiarirsi le idee.
Se Will non avesse avuto bisogno di qualcosa di importante, si disse, non gliel’avrebbe fatta passare liscia, non quel giorno che il suo umore era così a terra. Non si era mai sentito così a pezzi, sia fisicamente che mentalmente.
Dopo una decina di minuti uscì dalla doccia e si infilò un paio di jeans e una maglietta, per poi tornare nella sua camera a prendere il cellulare e la giacca.
«Che cavolo, Will!» esclamò. Poi scosse il capo. «In realtà è colpa mia. Me lo sarei dovuto aspettare».
Will stava infatti seduto suo letto in tenuta da combattimento e con una spada angelica stretta tra le mani. Non aveva toccato alcol la sera precedente, eppure George credeva che avesse un aspetto peggiore del suo, con i capelli scompigliati –cosa strana per Will, che prestava loro un’attenzione quasi maniacale- e gli occhi arrossati. Sembrava che non avesse dormito, e forse era così.
«Ti ho detto di venire subito da me» fece lui, guardandolo dal basso verso l’alto con fare accusatorio. «E tu sei andato a… farti una doccia? E se fossi stato in pericolo di vita?»
«Lo avrei saputo. Siamo parabatai, genio. Tengo alla mia igiene». George alzò le spalle. «E poi ricordi cos’avevamo stabilito? Niente portali nella mia camera. Se fossi stato nudo?»
Will aggrottò la fronte, poi ghignò. «Ti ho già visto nudo».
«Vero» disse George con un brivido, ricordando uno degli episodi più imbarazzanti della sua vita. «Non il mio momento migliore».
Will scrollò le spalle e si alzò in piedi. «Guarda qui» disse, porgendogli la spada. Questa non era stata ancora nominata e quando George la prese giacque fredda tra le sue mani.
«Una spada angelica» disse. «Tutta questa confusione per una spada angelica?»
«Non per la spada!» esclamò Will con gli occhi che brillavano. «Per la runa che ho disegnato sulla spada».
George osservò la lama con più attenzione e notò che, oltre alle solite rune che conosceva a memoria, ce n’era anche una che non aveva mai visto.
«Non la riconosco» sussurrò, tracciandone il contorno con il dito. «È nel Libro Grigio?»
«No!» Will sembrava sul punto di esplodere per l’esaltazione. «Ho controllato e non esiste. Be’, non esisteva: l’ho appena creata io».
«Ma tu non sai creare nuove rune» disse George, ridandogli la spada. «Giusto?»
«Era ciò che pensavo anche io, ma mia madre e le mie sorelle dicono che le rune ti appaiono indipendentemente dalla tua volontà, succede e basta. E se semplicemente non mi fosse mai successo prima d’ora?»
George si prese qualche istante per metabolizzare la notizia. Era fantastico, perché significava che Will avrebbe potuto dare origine a nuove rune che avrebbero aiutato incredibilmente i Nephilim, ma non capiva che bisogno ci fosse di presentarsi nella sua camera di prima mattina come se avesse appena trovato una cura per la sifilide demoniaca.
«È molto interessante, William. Scusami se non sono dell’umore migliore per festeggiare» disse George. «Che cosa fa questa nuova runa, comunque?»
Will sbatté le palpebre un paio di volte, come se si fosse dimenticato della sua presenza. «Non ho avuto modo di provarla, ma ho questa sensazione…» Alzò lo sguardo su di lui. «Permette alle armi di trapassare i Riders di Mannan».
George lo fissò. «Porca miseria. E tu ne sei sicuro?»
«Lo so e basta» disse Will. «Mi è venuta in mente appena sono andato a dormire e ho passato la notte a cercare di darle un significato. Verso le sei mi sono addormentato e quando mi sono svegliato era tutto chiaro, come se l’Angelo mi avesse parlato nel sonno».
George non si lasciò sfuggire neppure un secondo; afferrò arco e faretra e provò a copiare la runa su una freccia.
«Come ti sembra?» chiese una volta terminata.
«Mmm» fece Will. «Dovrebbe andare. Forse dovresti provare a disegnare meglio…» George lo fulminò con lo sguardo. «Voglio dire, va benissimo».
«Dobbiamo dirlo a Rose. E a Emma». George afferrò la giacca e se la infilò. «Posso mettere la tenuta a Los Angeles, ora diamoci una mossa».
Will sfoderò lo stilo e nel giro di un paio di minuti si ritrovarono in California, nel corridoio dell’Istituto di Los Angeles davanti alla stanza di Rose.
«Però quando si tratta di Rose non crei un portale direttamente nella sua camera». George si guardò attorno indispettito. «A dir poco ingiusto».
Will lo ignorò e iniziò a bussare, ma non ricevette alcuna risposta. George lo spintonò di lato e prese in mano la situazione, iniziando a battere forte con il palmo contro la porta.
«Blackthorn» sibilò a voce abbastanza alta affinché lei sentisse, ma non da svegliare mezzo Istituto. «Alza il tuo fondoschiena dal letto, abbiamo…»
Quando la porta si spalancò, George si bloccò con la mano ancora a mezz’aria. Si era aspettato di trovarsi davanti il viso assonnato di Rose, con i suoi capelli scuri e gli occhi di quel colore così brillante da sembrare innaturale. Ma non era Rose che stava in piedi davanti a lui in quel momento, era Cath.
Catherine, fece per dire, ma le parole gli si bloccarono in gola.
Non riusciva a muoversi, a malapena riusciva a respirare, poteva solo osservarla come se quella fosse l’ultima volta che la vedeva. Che cosa mi hai fatto? si chiese con l’anima a pezzi.
Non si era aspettato di trovarla lì e la sua vista lo aveva colto totalmente impreparato, togliendogli la terra da sotto i piedi. Poggiò una mano contro allo stipite della porta, bisognoso di qualcosa che lo sostenesse; sentiva Will al suo fianco, teso e sorpreso quanto lui.
Anche Cath lo stava osservando, i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle come due tende chiare.
«Rose dorme» disse rivolta a George. «Ho sentito la tua voce e…». Ammutolì, come se si fosse resa conto di aver detto qualcosa di sbagliato.
George fu salvato dal dover rispondere proprio da Rose, che si era precipitata giù dal letto e li aveva raggiunti, il mascara sbavato e il vestito della sera precedente ancora addosso.
«Voi due dovete parlare» decretò, prendendo George per il polso e spingendolo nella sua camera, per poi chiudersi la porta alle spalle e lasciarlo solo con Cath.
George si sentiva come se fosse sott’acqua e tutti gli stimoli esterni gli arrivassero ovattati. Sentì le voci di Will e Rose sfumare lontano, segno che si stavano allontanando per lasciar loro un po’ di privacy.
Cath lo stava guardando in attesa, stropicciandosi le maniche della felpa che erano troppo lunghe per le sue braccia. Quella era la sua felpa, realizzò George con una stretta al cuore. Perché stava indossando proprio la sua felpa in quel momento?
«Hai deciso di uscire con Rose adesso?» chiese piatto, cercando di spezzare la tensione. «Un po’ crudele da parte tua».
Cath si morse il labbro e George fece per allungare un braccio nella sua direzione, ma si trattenne. Notò che gli occhi di Cath erano arrossati e brillavano, come se avesse appena smesso di piangere.
«Hai un aspetto orribile» le disse con un piccolo sorriso. In teoria stava dicendo la verità, Cath aveva davvero un aspetto orribile, occhiaie, capelli sfatti e unghie mangiate fino alla carne, ma per George era bellissima lo stesso. «Perché hai un aspetto orribile? Sei stata tu ha rompere con me».
«Non ho rotto con te» disse. «Ma stavo per farlo oggi».
«Allora fallo». George si schiarì la voce. «Dillo e basta, così possiamo farla finita. Non mi ami più?»
Cath si coprì il viso con le mani. «Ma certo che ti amo ancora, George. Ti amo così tanto che quasi mi spaventa. Non saprei come fare senza di te».
George non capiva. Provava così tanti sentimenti tutti insieme che temette di esplodere.
«È solo che penso che meriti molto meglio di me e di mio padre» disse Cath. «Meriti una ragazza con una famiglia normale, con un padre normale che ti minaccia di spezzarti le gambe se la fai soffrire ma che in realtà ti vuole bene come se fossi figlio suo. Mi sono resa conto che quello che ti ho fatto è imperdonabile: ti ho chiesto di mentire alla tua famiglia per me, e tu lo hai fatto e non hai idea di quanto io te ne sia grata, ma non avrei mai dovuto chiederti una cosa del genere. Per questo volevo rompere con te, perché speravo ti innamorassi di nuovo e potessi essere felice, ma… guardami, lo hai detto anche tu, ho un aspetto orribile ed è passata solo una notte da quando ho deciso. Mi ero ripromessa di non essere egoista e di essere forte, ma non ci riesco, non riesco a guardarti in faccia e mentirti dicendoti che non ti amo più, che non ti voglio più, perché la mia anima e il mio cuore vorranno sempre e solo te. E mi dispiace così tanto. Vorrei che le cose fossero diverse, vorrei poterti lasciare andare, ma come faccio? Sei tutto ciò che mi impedisce di impazzire».
George deglutì, incapace di parlare. Sentiva gli occhi bruciare e lo stomaco in subbuglio. Il solo pensiero che Cath credesse quelle cose lo distruggeva dall’interno.
Cath gli si avvicinò titubante, come se avesse paura che lui la respingesse.
«Ho deciso che è arrivato il momento di dire tutto ai tuoi genitori» continuò. «Avevi ragione tu, hai sempre avuto ragione tu: ho bisogno di aiuto».
George annuì, felice che finalmente lo avesse capito.
«Ho litigato con mio padre ieri sera» andò avanti Cath quando si rese conto che George non avrebbe aggiunto alcunché. «E mi ha detto che ti stavo rovinando la vita. È stato quello a convincermi a chiudere le cose. Ma ho sbagliato, mi sono lasciata condizionare da lui e mi dispiace. Mi dispiace tanto, se mi vuoi ancora…»
«Rovinarmi la vita?» George spalancò gli occhi. Gli tremava la voce ma non gli importava. «Catherine, io avrei voluto chiederti di sposarmi, come puoi pensare che tu non mi renda felice e che mi stia rovinando la vita?»
«Tu… cosa?» Cath trattenne il fiato e si portò una mano alla bocca, troppo sconvolta per parlare. George si maledisse perché aveva passato mesi a pensare a come chiederglielo, a fare in modo che fosse un momento intimo e romantico, e si era bruciato tutto in quel modo.
«Hai capito. Stavo aspettando il tuo diciottesimo compleanno per chiedertelo. Se ti voglio ancora?» George le si avvicinò e finalmente, finalmente, si concesse di toccarla. Le prese il viso tra le mani e piantò i suoi occhi scuri in quelli chiari di lei. «Adesso ascoltami molto attentamente. Sapevo a che cosa sarei andato incontro due anni fa quando ti ho baciato per la prima volta, perché ti sei fidata così tanto di me da dirmi subito di tuo padre. Il minimo che potessi fare era custodire il tuo segreto, perché è tuo e io non ho alcun diritto di confessarlo a nessuno. Non rimpiango niente, non un solo istante, rifarei tutto da capo. Ho sempre avuto la sensazione che mi mancasse qualcosa per essere davvero felice, provavo una costante sensazione di malessere che cercavo di colmare abbordando una ragazza diversa ogni sera. Ma non cambiava niente, la sensazione rimaneva. E poi ho incontrato te e tutti i pezzi sono andati al loro posto. Tra tutte, ho scelto te, e tu, per qualche combinazione cosmica fortunata, hai scelto me. E ti sceglierei di nuovo, per sempre». George le carezzò piano lo zigomo con il pollice. «Se ho mai fatto qualcosa per farti dubitare dell’amore che provo per te, mi dispiace».
Cath stava scuotendo il capo. «No, no, no. Era tutto nella mia testa».
«Ti amo, Catherine» le disse allora. «Ti amo nonostante tuo padre».
Cath si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò, e George si sentì morire e poi rinascere di nuovo. Le allacciò le braccia attorno alla vita e la sollevò da terra, così che i loro corpi si incastrassero alla perfezione.
«Ho mentito prima» le sussurrò sulle labbra, per poi baciarla ancora, il cuore che minacciava di uscirgli dal petto. «Ho detto che hai un aspetto orribile, ma era una bugia. Sei bellissima».
Cath rise e George pensò che non esistesse suono più bello della sua risata. Si era allontanata quando bastava per poterlo guardare in faccia. «Stai piangendo, George» gli disse, accarezzandogli piano la guancia.
«Io non piango» rispose lui in automatico, per poi rendersi conto che Cath aveva ragione e che c’erano delle lacrime sul suo viso.
«No». Cath gli sorrise. «Solo un pochino, non volontariamente».
George portò di nuovo le labbra sulle sue e la baciò con più trasporto. Cath gli morse delicatamente il labbro inferiore e anche l’ultima stilla di autocontrollo che pensava di avere lo abbandonò, partendo per la tangente. Voleva quello ogni mattina di ogni giorno, voleva potersi svegliare con Cath al suo fianco e stringerla a sé come se fosse un continuo del suo stesso corpo.
George rafforzò la presa sui fianchi di Cath e la fece sdraiare sul letto, reggendosi con i gomiti sul materasso per non gravarle con il suo peso.
Le tracciò una scia di baci dal collo alla clavicola, mentre raggiungeva con le mani l’orlo della felpa per sfilargliela.
«Aspetta» sussurrò Cath. «È il letto di Rose».
George alzò il capo e la guardò negli occhi. Avevano entrambi il fiatone, come se avessero corso per chilometri senza fermarsi. «Non me ne frega niente» disse. Poi fece per alzarle la felpa, ma si bloccò. «Pensi che a Rose importi?»
Cath si mise a ridere nervosamente. «Penso di sì, George».
George sbuffò e si allontanò, sdraiandosi a pancia in su di fianco a lei. Osservò il soffitto sopra di sé e prese un respiro profondo per calmarsi, ancora scosso da quanto era successo in quelle ultime dodici ore.
Cath gli prese la mano e gliela strinse. «Stai bene?» gli chiese.
George si girò di lato e le diede un bacio sulla guancia. «Adesso sì».
 
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Rose lo prese per il braccio e iniziò a trascinarlo lungo il corridoio. Quando furono abbastanza lontani dalla sua camera si fermò di botto e Will per poco non le finì addosso.
«Rose, non hai idea di quello che…» iniziò Will, ma Rose si era voltata verso di lui e aveva alzato il capo per guardarlo negli occhi. Si era sciolta i capelli, che ora le incorniciavano il viso e le ricadevano morbidi sulle spalle, e non si era cambiata: indossava ancora il vestito rosso scuro della notte precedente. Will fece appello a tutta la sua forza di volontà per non alzare la mano e toglierle con il dito il mascara sbavato attorno agli occhi.
«Cosa?» Rose lo stava fissando in attesa. «Cosa c’è?»
Will ripensò a quanto accaduto solamente poche ora prima, a come Rose gli fosse caduta addosso e a come il suo respiro gli avesse sfiorato la guancia facendolo rabbrividire. A come lei gli avesse chiesto con voce tremante perché non fosse innamorato di lei. Rivisse nella sua mente il momento esatto in cui le aveva detto che invece la amava e in cui l’aveva implorata di ricordarlo la mattina seguente. E invece Rose quella mattina pareva non ricordare nulla. Will si trovava ancora al punto di partenza, nonostante una nuova speranza si fosse impossessata di lui: anche Rose ricambiava per davvero i suoi sentimenti? O era solo ubriaca e le sue parole non significavano niente?
Will deglutì, odiandosi per dover rimandare ancora. «Penso di aver trovato un modo per ferire e uccidere i Riders di Mannan».
Rose spalancò gli occhi e Will la vide tendersi come una corda di violino. «Ma non…» Si schiarì la voce. «Non è possibile».
Will le raccontò della runa e di come avesse capito la sua funzione; Rose lo lasciò parlare senza interromperlo, coprendosi la bocca con le mani come per impedirsi di urlare.
«Capisci? Significa che possiamo trapassare la loro armatura!» esclamò Will, riuscendo a stento a contenere l’entusiasmo. «La runa ha effetto per un paio d’ore e poi scompare, quindi va riapplicata, ma penso sia sufficiente…».
«O mio Dio» sussurrò Rose, come se stesse realizzando solo in quel momento quanto appena scoperto. «O mio Dio! Ma tu non sai creare nuove rune».
Will alzò le spalle. «A quanto pare sì, invece. Probabilmente non me ne era mai venuta in mente nessuna, questa è la prima».
Rose scosse il capo e gli gettò le braccia al collo, stringendolo così forte a sé che Will si sentì mancare l’aria dai polmoni. Poi gli diede un bacio sulla guancia e gli prese il viso tra le mani. «Ti adoro, William Herondale. Ti adoro immensamente. Grazie».
Will rimase immobile sentendo un nodo all’altezza della gola. Rose era così vicina che l’avrebbe baciata, se solo la situazione fosse stata diversa. Commise l’errore di abbassare gli occhi sulle sue labbra, perché Rose lo notò e trattenne il respiro.
«Non mi devi ringraziare» riuscì a dire. «Abbiamo avuto fortuna, usiamola».
Rose si riprese, tolse le mani dal suo viso e si allontanò da lui. «Hai ragione. Sarà meglio andare a chiamare George e Cath. Spero abbiano risolto ogni cosa».
«Cath ti ha detto perché ha chiesto a George una pausa?»
Rose annuì. «Crede che George meriti meglio e che lei gli causi solo dolore».
«Ma è ridicolo» disse Will. «George la ama come non ha mai amato nessun’altra».
«Lo so» concordò Rose. «Ma se nella vita hai conosciuto solo dolore e sofferenza, arrivi a un punto in cui pensi di non meritare qualcosa di così bello».
Will le sorrise dolcemente. «Hai appena fatto un’analisi psicologica di Cath?»
«Analisi psicologica non è assolutamente il termine che userei» disse lei. «Però se intendi dire che ho capito ciò che prova, sì. Ho capito».
«Te lo ha detto, vero?» chiese allora Will, riferendosi alle condizioni del padre di Cath.
«Sì, mi ha spiegato tutto». Rose sospirò. «Non pensavo che la situazione fosse così grave. Vorrei poter fare qualcosa per aiutarla, ma non so che cosa. Mi sento così…»
«Impotente» concluse per lei la frase Will. «Inutile».
«Esatto». Rose lo guardò negli occhi. «Chissà come si sente George».
«Come se avesse una ferita che quando è sul punto di rimarginarsi riprende a sanguinare» sussurrò Will.
Rose fece per aggiungere qualcosa, però poi ci ripensò e sospirò. «Dobbiamo darci una mossa». Il suo viso ora era serio e la sua espressione determinata. «Andiamo a far vedere ai Riders di Mannan cosa succede quando ci fai arrabbiare». 
 

NOTE DELL'AUTRICE
Buon compleanno, Rose! 
Questo capitolo è un po' strano, nel senso che avrei dovuto pubblicare la prima parte con lo scorso, ma non potevo perché altrimenti sarebbe stato troppo lungo. Quindi questo capitolo mi sa un po' di minestrone, ma vabbe! 
Non ho molto da dire, vi ringrazio se continuate a leggere e vi abbraccio. <3

A presto,
Francesca 

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredici. ***


Capitolo Tredici
 
«George!» Rose iniziò a battere sulla porta della sua camera. «Mi dispiace interrompervi, ma dobbiamo andare. Vi giuro che se state violando in qualsiasi modo il mio letto…»
Non fece in tempo a terminare la frase che George stesso aprì la porta e le rivolse un ghigno divertito. I suoi capelli scuri erano più spettinati del solito, ma almeno era vestito. «Devi ringraziare Cath se non è stato violato».
Eugh, pensò Rose arricciando il naso. Era felice che le cose tra lui e Cath si fossero sistemate, ma il suo letto era sacro, la cosa più preziosa che possedesse dopo il suo computer.
Anche Cath li aveva raggiunti in corridoio, e come George e Rose sembrava appena uscita da una lavatrice. Rose rivolse un’occhiata di traverso a Will e si rese conto che, nonostante non avesse chiuso occhio per tutta la notte e avesse gli occhi cerchiati di viola, riusciva a risultare comunque bellissimo. Distolse lo sguardo infastidita, perché non era possibile che Will apparisse sempre impeccabile in ogni situazione.
Aggiornarono Cath sugli ultimi eventi e si divisero per l’Istituto alla ricerca dei genitori di Rose.
Rose si precipitò in cucina e trovò un biglietto sul tavolo scritto nella calligrafia di suo padre: Se ti sei già svegliata e non ci trovi, siamo a New York da Magnus con Jace e Clary. Ho preparato i biscotti con le gocce di cioccolato. Non farne mangiare troppi a tua sorella. Papà.
Rose afferrò il cellulare e provò a chiamarlo, ma non ricevette alcuna risposta. Non si stupì, perché suo padre non rispondeva mai al cellulare: o era scarico, o lo dimenticava a casa, o lo aveva in silenzioso. Rose lo insultò mentalmente e provò con sua madre, ma non ebbe fortuna neppure con lei.
Tornò in corridoio e lì vi trovò Will, Cath e George.
«Holly è nella sua camera e dorme» disse Will. «Non ho trovato i tuoi però».
«Non sono in casa» disse Rose, iniziando ad agitarsi. «Sono a New York con i tuoi genitori, da Magnus… Staranno pensando al da farsi senza sapere della runa. E se i Riders li attaccassero a New York? Se uscissimo, verrebbero da noi e li coglieremmo impreparati perché non si aspettano che abbiamo un modo per ferirli».
Rose non attese la risposta dei suoi amici e iniziò a correre verso l’armeria. Li sentì parlare dietro di sé, ma non riuscì a decifrare le loro parole. Scese le scale di corsa, saltando due gradini alla volta e sentendo la tensione e l’adrenalina iniziare a scorrerle nelle vene.
Le si strinse il cuore quando trovò Cortana appesa al muro dell’armeria. Sua madre non l’aveva ancora portata con sé, pensando di tornare a casa a salutare lei e Holly prima di partire.
Rose indossò la tenuta da combattimento e afferrò la spada, infilandosela sulla schiena e sentendola andare ad occupare il suo posto tra le sue scapole.
Will, George e Cath la raggiunsero, e Will fece vedere loro la runa che aveva creato così che la applicassero sulle proprie armi. Rose si infilò un paio di pugnali negli stivali e allacciò una spada angelica alla cintura per precauzione. Aveva Cortana ma non voleva rimanere disarmata.
Disegnarono anche delle rune su loro stessi per migliorare i riflessi, la vista, la forza e la precisione.
«Non posso lasciare Holly qua da sola» disse Rose mentre finiva una runa per l’agilità. «Zio Ty dovrebbe arrivare tra meno di mezz’ora per la lezione di demonologia. Ma se lei si svegliasse prima che lui arrivi?»
«Non può di certo venire con noi» le fece notare George. Anche lui si era cambiato e stringeva il suo arco tra le mani. «Sta dormendo. Non è mica te, non si sveglierà mai da sola».
«E poi qui è al sicuro» disse Will, che era già in tenuta da combattimento. Stava seduto su una panca con il cellulare tra le mani; probabilmente stava cercando di contattare Jace e Clary.
Rose mandò un messaggio a Ty chiedendogli di venire all’Istituto appena possibile e un altro ai suoi genitori spiegando brevemente l’accaduto.
Per fortuna suo zio le rispose quasi subito, dicendole che sarebbe arrivato nel giro di dieci minuti. Rose tirò un sospiro di sollievo: almeno Holly sarebbe stata al sicuro con lui e Rose non avrebbe dovuto pensare anche a lei.
«Pronti?» chiese Cath mentre si legava i capelli sul capo.
Rose annuì e fece strada fuori dall’Istituto. Decisero di non andare in spiaggia, perché quella mattina c’erano troppi mondani e non volevano metterli in pericolo; si diressero invece verso le scogliere che si estendevano a sud e che davano direttamente sull’oceano.
«Pensi davvero che arriveranno?» chiese Will a Rose, allungando una mano per aiutarla a salire sull’ultima roccia. Rose la accettò nonostante fosse in grado di farcela anche da sola.
«Sì, sono sicura» disse.
Erano arrivati in cima alla scogliera e si guardarono attorno, tenendo le armi a portata di mano. Rose alzò il capo e osservò il cielo azzurro, il vento le soffiava alcune ciocche di capelli negli occhi ma non le importava. George salì su una roccia più alta e scrutò l’orizzonte con attenzione.
«Lì» disse improvvisamente, indicando con la mano un punto davanti a sé.
Rose seguì il suo sguardo e li vide: tre dei Riders di Mannan in groppa ai loro cavalli volanti che si avvicinavano. Rose sperava che si presentassero tutti e sei, ma tre era meglio di niente. Riconobbe la donna che l’aveva guardata con tanto disprezzo, Ethna, e suo fratello Karn, che pareva il più ragionevole dei due. Con loro c’era un altro cavaliere che Rose non aveva mai visto e a cui sembrava essere stata tranciata la mano destra con qualcosa di molto affilato. Rose si chiese se fosse stata Cortana.
Indossavano sempre la maschera che copriva loro metà del viso e non avevano perso la loro imponenza e ferocia.
Atterrarono poco lontano da loro e smontarono dai loro destrieri con una grazia che non ci si aspetterebbe da creature di quella stazza.
«Ci rincontriamo, Shadowhunters» li salutò Ethna con disprezzo. «La vostra spada non ci spaventa più».
«Io non mi preoccuperei per Cortana, fossi in voi» disse Will con un sorrisetto.
Il terzo cavaliere fece per avvicinarsi. «Delan, aspetta» cercò di fermarlo Karn, ma quello aveva già sfoderato una lunga lancia e la stava impugnando abilmente con la mano sinistra.
George prese la mira e lo colpì al polpaccio, trapassando la sua armatura. Delan urlò di dolore e cadde al suolo. Karn sbiancò e fece un passo indietro, ma Ethna non sembrava intimorita, solo sorpresa.
«Non è possibile». Ethna lo raggiunse e lo aiutò a rialzarsi in piedi. «Che razza di magia è questa?»
«Wow» sussurrò George. «Ha funzionato».
«Certo che ha funzionato» ghignò Will, facendogli poi un occhiolino. «Ti aspettavi qualcosa di diverso?»
George scrollò le spalle e incoccò un’altra freccia; Rose invece fece un passo avanti e sfoderò Cortana.
«Hai capito bene» disse. «Anche noi possiamo uccidervi adesso. Quindi andatevene e promettete di lasciare in pace la mia famiglia e tutti i Nephilim, altrimenti non avremo pietà».
Ethna si mise a ridere. Aveva lasciato andare Delan –la sua ferita stava già guarendo- e le si era avvicinata, così che ora le separassero solo un paio di metri.
«Se credi davvero che ci facciate paura, ti sbagli di grosso, ragazzina». Il suo viso non aveva espressione, ma Rose percepiva il disprezzo che trasudava dalla sua voce. «Le somigli così tanto, cambiano solo i colori».
Rose suppose si riferisse a sua madre e lo prese come un complimento. «Hai ragione, le somiglio. Quindi immagino tu sappia a che cosa stai andando incontro».
Alzò Cortana e cercò di attaccare Ethna, ma questa si spostò di lato così velocemente che Rose non se ne rese neppure conto e rischiò di cadere.
Si voltò di scatto prima che lei potesse colpirla ed evitò un fendente per un pelo. Da vicino le spade dei Riders erano ancora più massicce e pesanti, e Rose sperò che la sua runa della forza la aiutasse. 
Ai lati del suo campo visivo intravide gli altri cavalieri scagliarsi contro i suoi amici e pregò silenziosamente che andasse tutto bene e che nessuno di loro si facesse male. Will si scagliò contro Karn, cogliendolo quasi di sorpresa, mentre Cath si lanciò contro Delan. George rimase indietro come al solito per coprir loro le spalle e poter prendere meglio la mira con l’arco.
Rose tentò di colpire Ethna, ma lei era troppo veloce e sorprendentemente agile.
«Siete degli sciocchi se credete di poterci battere». Ethna riuscì a ferirla sul braccio, aprendo uno squarcio nella sua tenuta da combattimento. Rose sentì il sangue impregnarle la giacca ma non provò alcun dolore grazie all’adrenalina. Quando si lanciò di nuovo contro Ethna, lei la bloccò con la sua lama e la disarmò. Rose cercò di riprendere Cortana ma Ethna le tirò un calcio nello stomaco che le mozzò l’aria dai polmoni e la fece cadere a terra.
Rose si rese conto che stava sbagliando strategia: non sarebbe mai riuscita a colpirla al cuore, era troppo alta per lei e troppo forte, avrebbe dovuto farla stancare e indebolire prima. Perciò decise di prenderla di sprovvista mirando alla gamba. Quindi, quando le si avvicinò per ucciderla, Rose le conficcò uno dei pugnali che aveva nascosto negli stivali nella coscia sinistra. Ethna emise un grido sorpreso e osservò la ferita con la bocca spalancata, come se, nonostante avesse visto la freccia conficcata nel polpaccio di Delan poco prima, ancora non riuscisse a credere che le loro armi potessero trapassare le loro armature.
«William, dannazione!» Rose sentì George imprecare e distolse l’attenzione da Ethna. «Almeno provaci, a non farti ammazzare».
Will si mise a ridere, come se non fossero nel bel mezzo di una battaglia, e Rose alzò gli occhi al cielo perché George aveva ragione: si sarebbe fatto ammazzare per davvero prima o poi.
Stava torreggiando su Karn, che era stato colpito alla spalla da una freccia di George ed era caduto in ginocchio. Rose immaginò che Karn fosse stato sul punto di avere la meglio su Will e che George fosse intervenuto in aiuto del suo parabatai.
Will alzò la spada sul Cavaliere e lo avrebbe ucciso, se solo Cath non si fosse messa a urlare: Delan l’aveva ferita e ora giaceva al suolo ricoperta di sangue, con le mani premute contro al fianco.
Delan stava per darle il colpo di grazia con la sua lancia e Rose si sentì mancare. Dimenticò Ethna a pochi passi da lei, dimenticò ogni cosa e si guardò intorno, rendendosi conto con orrore che né lei, né Will, né George sarebbero arrivati in tempo per salvarla.
Will lasciò perdere Karn e si mosse quasi più veloce di uno dei Riders. Un momento era lì, in piedi di fronte a lui, e quello dopo si trovava alle spalle di Delan e gli stava spingendo la spada tra le scapole.
Il grido di Delan si confuse con quello di Ethna, che avrebbe sfogato tutta la sua rabbia su Will se solo Karn non l’avesse presa per un braccio. «Ethna, andiamo via» le disse. «Siamo in minoranza».
«No!» Ethna cercò di liberarsi dalla presa del fratello, ma non ci riuscì. «No!»
Rose li ignorò. Recuperò Cortana e si precipitò da Cath, inginocchiandosi al suo fianco e cercando di non guardare il cadavere di Delan che giaceva poco lontano con gli occhi spalancati. La situazione era peggiore di quanto si fosse aspettata: la ferita si apriva in diagonale sul ventre Cath, che aveva già perso i sensi.
Avrebbe voluto sentirle il battito del cuore ma ci stava già pensando George, che teneva la mano stretta attorno al suo polso come se quella fosse l’unica cosa che gli impediva di dare di matto. Con la mano libera stava cercando di disegnarle un iratze sul collo, ma quella tremava così tanto che non riuscì a portare a termine la runa.
«Lascia fare a me» gli disse piano Will, prendendo il proprio stilo e cercando di far allontanare George.
George non si mosse. Il suo viso era dello stesso colore di un panno sporco e quando Rose incrociò il suo sguardo si sentì male. Non lo aveva mai visto così spaventato in tutta la sua vita.
«Continua a sentirle il battito» sussurrò lui con voce roca. «Non staccare la mano».
Will annuì e prese il posto di George, che si alzò e si passò le mani tra i capelli come se se li volesse strappare. Imprecò e poi lanciò il suo stilo nell’oceano per la frustrazione.
Nel frattempo Will aveva disegnato un paio di rune di guarigione sul collo di Cath, assieme a delle rune per il dolore e per il rinnovo del sangue.
«Non sta funzionando» disse Rose a bassa voce per non farsi sentire da George. Il panico stava iniziando a sopraffare anche lei. «Will, non funziona».
«La ferita è troppo profonda» disse lui. «Ha bisogno di un Fratello Silente».
George si era avvicinato di nuovo e stava iniziando a mostrare anche esternamente la sua angoscia.
«Cosa facciamo?» chiese. «Cosa... Non possiamo lasciarla…» Non concluse la frase e distolse lo sguardo.
Will si alzò e gli posò le mani sulle spalle. «Te lo dico io cosa facciamo. Ora tu vai all’Istituto con Cath e chiami aiuto, sia per lei che per noi, perché io e Rose inseguiremo Ethna e Karn».
«Will, non penso sia una buona idea» disse Rose.
Will la guardò dall’alto, non capendo. «Perché no? Hai visto che possiamo davvero ucciderli, non devono essere andati troppo lontano».
Rose si stava iniziando ad agitare per davvero. Sarebbe voluta andare con George e Cath, ma sapeva che Will avrebbe inseguito i Riders anche da solo, troppo acciecato dall’adrenalina e dalla foga della battaglia per pensare lucidamente. E non poteva permettergli di fare qualcosa di così stupido.
«D’accordo» sospirò. «Verrò con te».
«Prendi» Will diede il proprio stilo a George. «Ci vediamo all’Istituto».
«Non credo che Cath abbia fino all’Istituto» disse George con una smorfia.
Will lo guardò con serietà. «Allora sarà meglio che tu ti metta a correre».
 
---
 
George non sapeva come avesse fatto a raggiungere l’Istituto senza inciampare e far cadere Cath per terra, perché quando arrivò nell’atrio le sue gambe tremavano così tanto che dovette appoggiarsi al muro per calmarsi. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, poi guardò Cath che se ne stava inerme tra le sue braccia. Era più pallida del solito e con i capelli biondi incollati al collo e sporchi di sangue sembrava appena uscita da un film dell’orrore. George dovette distogliere lo sguardo.
«Ti prego, non morire» le aveva ripetuto per tutto il tragitto, sperando che riuscisse a sentirlo. «Resisti ancora un po’, Catherine. Per me, per favore».
Salì le grandi scale che portavano al primo piano, diretto all’ufficio di Julian dove avrebbe potuto contattare la Città di Ossa, e per poco non si scontrò con Emma.
Era in tenuta da combattimento e aveva un’espressione preoccupata sul viso. Quando lo vide si portò una mano sul petto e sbiancò.
«George!» esclamò. «Cos’è successo a Cath? E dove sono Rose e Will?»
George la superò senza rispondere, mettendosi quasi a correre perché non aveva tempo da perdere. Emma lo stava seguendo e stava dicendo qualcosa, ma lui non la sentiva.
Entrò nell’ufficio di Julian aprendo la porta con una spallata, aspettandosi di trovarlo vuoto, e invece ci trovò ben quattro persone al suo interno: Julian, che insieme a Jace e a Clary stava osservando una mappa aperta sulla scrivania, e suo zio Magnus, che stava guardando fuori dalla finestra con aria impaziente.
«Zio Magnus». A George mancò quasi la voce per il sollievo. Non poteva credere di aver avuto tanta fortuna e che fossero tutti già lì. «Ti prego, devi aiutare Cath».
Magnus alzò i suoi occhi felini su di lui e gli si avvicinò velocemente. Nonostante fosse vestito in modo più sobrio del solito, con un paio di pantaloni di pelle neri e una maglietta bianca con le borchie, i suoi capelli erano pieni di glitter e brillantini. 
«Cosa le è successo?» chiese, posandole due dita sul collo per sentirle il battito del cuore. Magnus aveva più di quattrocento anni, ma aveva l’aspetto di un diciottenne e George spesso dimenticava quanta esperienza avesse in realtà.
«Non… non lo so» balbettò George. «So solo che un momento era in piedi e quello dopo era ferita. Credo che uno dei Riders di Mannan l’abbia colpita al ventre».
«Lasciala a me» gli disse suo zio con gentilezza. «È viva. L’hai portata qui in tempo, ora ci penso io».
George esitò, non voleva allontanarsi da lei, ma alla fine le diede un bacio sulla fronte e lasciò che Magnus la prendesse tra le braccia e la portasse in infermeria.
George notò che i suoi vestiti erano impregnati del sangue di Cath e gli venne da vomitare. Era abituato a sangue e ferite, ma quella volta era diverso perché si trattava della persona che amava più di ogni cosa al mondo. Riprese a tremare e dovette appoggiare una mano sul tavolo per non cadere per terra. Sapeva che la vita di uno Shadowhunter era fatta di rischi, di sofferenza e anche di morte, ma non era mai arrivato così vicino a perdere una persona che amava e non credeva di poterlo sopportare.
Julian gli si avvicinò e lo aiutò a sedersi su una sedia.
«Abbiamo ricevuto solo ora i vostri messaggi» gli disse Jace. «Stavamo cercando di rintracciare i Riders e Magnus ha usato un tipo di magia molto potente che ha fatto saltare la corrente in tutto il quartiere».
«Cos’è successo?» chiese Clary. «Will e Rose stanno bene?»
George spiegò brevemente quanto accaduto poco prima, cercando in tutti i modi di non farsi venire un attacco di panico. Non voleva stare lì con loro, voleva andare da Magnus per sapere come stava Cath, ma si rendeva conto che non poteva. Intravide Clary sussultare e Jace prenderle la mano per tranquillizzarla. Era evidente che stessero cercando tutti di mantenere la calma per non farlo agitare ancora di più
«Per favore, trovateli» concluse con un sussurro. «Non lo sopporterei se anche uno di quei due idioti si facesse male».
«Li troveremo, George» gli disse Emma. «Ora pensa a stare vicino a Cath».
George annuì senza guardarla negli occhi, continuava a fissare dritto davanti a sé; non sapeva neppure dove trovasse la forza per continuare a parlare.
«Dove hai detto che li hai lasciati?» chiese Jace pratico.
Anche lui era armato e già in tenuta da combattimento. Tutti e quattro gli adulti lo erano, notò George con una punta di sollievo; almeno non avrebbero perso tempo a cambiarsi.
«Alle scogliere verso sud» rispose George. «Non so se si sono spostati da lì».
«Possiamo rintracciarli» propose Julian, lanciando un’occhiata a Emma. Lei annuì e scomparì nel corridoio, probabilmente alla ricerca di qualcosa che appartenesse a Rose.
Julian disse qualcos’altro ai suoi zii, ma il cervello di George non riuscì a decifrare le sue parole. Sentiva solo un insistente ronzio nelle orecchie che gli impediva di pensare lucidamente. Non era neppure totalmente consapevole di quello che gli stava succedendo attorno. Si rese conto che Julian e Clary avevano lasciato l’ufficio solo quando suo zio Jace gli si inginocchiò di fronte.
«Siamo pronti per andare» gli spiegò. «Volevo solo accertarmi che stessi bene».
«Se Cath muore…» iniziò George, incapace di continuare. Sentiva un nodo in gola che gli impediva di parlare.
«Lo so». Jace gli mise una mano sulla guancia e lo guardò con serietà. «Non morirà. Magnus sa quello che fa, fidati di lui».
«È colpa mia» disse infine George, confessando ciò che stava minacciando di divorarlo dall’interno. «Avrei dovuto accorgermi che era in difficoltà».
«Perché dovrebbe essere colpa tua?»
«Perché è il mio lavoro!» sibilò George. «Rimanere indietro e guardar loro le spalle è il mio lavoro. È ciò che faccio. Ma questa volta ero troppo impegnato a cercare di colpire uno dei Riders al cuore che non mi sono accorto che Cath avesse bisogno di me».
«Non puoi proteggere tutti» disse Jace. «Lo so che vorresti, ma non puoi».
«Posso provarci». Finalmente George alzò lo sguardo su di lui. Jace gli stava sorridendo con affetto.
«Tutti sostengono che somigli a Isabelle, ma io l’ho sempre detto che sei tutto tuo zio Alec».
George scrollò le spalle. «Dove sono i miei genitori, comunque?»
«Abbiamo lasciato loro a capo dell’Istituto mentre siamo qui».
Bene, pensò George. Non voleva che si preoccupassero per Cath prima del dovuto. Li avrebbe chiamati una volta che si fosse stabilizzata, perché George sapeva che si sarebbe ripresa in un modo o nell’altro. Non poteva neppure prendere in considerazione l’ipotesi che non ce la facesse.
Jace lo lasciò da solo nell’ufficio e raggiunse gli altri da basso, mentre George rimaneva lì a guardarsi le mani insanguinate e ad ascoltare i battiti del proprio cuore che minacciava di aprirgli il petto in due.
Dopo quelle che gli parvero ore, ma che probabilmente erano solo minuti, si alzò e si diresse lentamente in infermeria, sperando nel meglio ma preparandosi al peggio.
Trovò Magnus chino sul corpo privo di sensi di Cath e non disse niente per paura di disturbarlo. Afferrò una sedia e ci cadde sopra in modo sgraziato. Non riusciva a reggersi in piedi, tutte le sue forze lo avevano abbandonato. Si ricordò solo in quel momento che Will gli aveva dato il suo stilo, quindi lo prese e si disegnò un iratze e una runa per recuperare le energie, sentendosi subito un po’ meglio.
Magnus gli si avvicinò con un leggero sorriso.
«Cath si riprenderà» gli disse. «So che vorresti che si svegliasse subito, ma dovrebbe dormire un po’».
George si passò le mani sul viso e finalmente si concesse di respirare a pieni polmoni.
Grazie, avrebbe voluto dirgli, ma le parole gli rimasero incastrate in gola, perciò si alzò e abbracciò suo zio. Erano alti uguali e Magnus ricambiò l’abbraccio, dandogli gentilmente delle pacche sulla schiena.
«Lo so, Biscottino» gli sussurrò. «Non ti preoccupare. È andato tutto bene».
In condizioni normali, George si sarebbe lamentato del soprannome, ma in quel momento non gli importava: suo zio avrebbe potuto chiamarlo anche Batuffolino e lui glielo avrebbe lasciato fare.
«Portiamola in una delle stanze libere» disse poi Magnus, allontanandosi da George. «Almeno può stare più tranquilla quando arriveranno Will e Rose».
Magnus sventolò una mano davanti a sé e il corpo di Cath si sollevò dal letto, rimanendo sospeso a mezz’aria. George deglutì. Si fidava di suo zio, ma preferiva trasportarla lui.
«La prendo io» disse George, mettendole un braccio sotto alle ginocchia e l’altro sulla schiena.
«Come vuoi». Magnus fece un altro movimento con la mano e George sentì il peso di Cath gravare su di sé. Non che Cath pesasse tanto in ogni caso. Magnus le aveva lasciato addosso i pantaloni neri della tenuta da combattimento e le aveva infilato una maglietta azzurra troppo grande per lei -probabilmente appartenente a Rose- sotto alla quale George riusciva a intravedere il bianco delle bende.
Portarono Cath in una camera vuota di fianco a quella di Holly. Al suo interno vi era un semplice letto matrimoniale con un armadio e una scrivania.
Magnus scostò le lenzuola di lato e George depose Cath sul materasso. Poi prese lo stilo di Will e le disegnò sulle braccia scoperte due rune per il sonno e due per alleviare il dolore.
«Vi lascio da soli» disse Magnus, posando una fiala sul comodino. «Dalle questa quando si sveglia. Se ti serve qualsiasi altra cosa, mi trovi in biblioteca con Ty e Holly».
George annuì senza voltarsi. Quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle, si tolse la giacca della tenuta e si sdraiò sul letto di fianco a Cath, per poi coprire entrambi con le coperte. Rimase qualche istante a osservarla dormire, pensando che assomigliasse alla Bella Addormentata. I suoi capelli chiari disegnavano cerchi irregolari sul cuscino, e le sue ciglia erano talmente lunghe che quasi le sfioravano le guance. Rose aveva raccontato a lui e a Will quella favola mondana quando erano bambini, e George aveva sempre pensato che Cath somigliasse ad Aurora.
La avvolse delicatamente tra le sue braccia e le diede un bacio sulla tempia. Profumava di vaniglia, sangue e disinfettante, e George chiuse gli occhi, traendo conforto dal battito regolare del suo cuore.
 
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«È inutile, Will» stava dicendo Rose mentre saltava giù da una roccia. «Li abbiamo persi».
Will stava qualche passo avanti a lei e le dava le spalle, lo sguardo fisso sull’oceano. Rose gli si avvicinò e gli diede una leggera spinta con la spalla. «Torniamo all’Istituto, dai».
«Lì» disse Will, indicando un punto davanti a sé.
Rose seguì il suo sguardo e vide ciò che stava osservando: due macchie scure che si allontanavano in volo, dirette verso l’orizzonte. 
«Karn e Ethna» continuò lui. «Ce li siamo fatti scappare».
«Abbiamo fatto più che abbastanza» disse Rose. «Hai ucciso Delan».
Will si voltò verso di lei e sbatté le palpebre un paio di volte, come se si fosse appena svegliato da un sogno e si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. «Stava per uccidere Cath».
Rose sospirò. «Pensi che stia bene? Cath, intendo».
Will annuì, toccandosi la runa parabatai che aveva sull’avanbraccio. «Se fosse morta, me ne sarei accorto. George starebbe così male che lo sentirei dal legame».
Il mare sotto di loro rifletteva i raggi del sole, tanto che per Rose era difficile tenere gli occhi aperti. Sentì lo sguardò di Will su di sé e alzò il capo. La stava guardando con fare assorto, gli occhi verdi che sembravano quasi dorati grazie alla luce del sole e alcune ciocche di capelli biondi che il vento soffiava sul suo viso. Rose dovette trattenersi dallo scostargliele con la mano.
C’era qualcosa nel suo sguardo che la spinse ad avvicinarsi leggermente; Will lo notò e deglutì, per poi fare un passo indietro. Una fitta attraversò il petto di Rose, che per poco non si mise a urlare per la frustrazione di esserci cascata di nuovo. 
Stupida, Rose, si sgridò, arrossendo leggermente sulle guance.  
Che cosa si era aspettata? Che Will l’avrebbe baciata dal nulla di fronte all’oceano? Non erano mica in uno dei film mondani che piacevano a lei e a suo padre.
Stupida! Si disse di nuovo, promettendo che non avrebbe mai più guardato Titanic in tutta la sua vita.
«Hai ragione, sarà meglio tornare». La voce di Will la riportò alla realtà.
Saltò giù dal cumulo di rocce da dove stavano osservando l’orizzonte e atterrò su uno spiazzo poco più sotto.
«Dovresti disegnarti un iratze» le urlò dal basso, alzando il capo per guardarla. «Il tuo braccio sta sanguinando».
Rose sussultò, ricordandosi improvvisamente della ferita inflitta da Ethna. Iniziava a pulsarle dolorosamente, ma non ci aveva fatto caso fino a quel momento. Prese il suo stilo e si scarabocchiò un iratze sul polso, poi raggiunse Will.
Non appena toccò il suolo però, l’arenaria produsse uno strano rumore, come lo scricchiolio del ghiaccio che si spezza.
«Che cos’era quello?» chiese Rose. Stava trattenendo il respiro.
Will non fece in tempo a rispondere che la terra sotto ai loro piedi cedette e precipitarono entrambi nel vuoto assieme a una massa di rocce e detriti.
Rose atterrò sulla schiena e il colpo le tolse l’aria dai polmoni. Rotolò di lato e tossì per riprendere fiato.
Si trovavano in un’ampia grotta buia qualche metro sotto al livello del mare; l’unica fonte di luce era il buco in superficie dal quale erano precipitati. Will giaceva a pochi passi da lei e si muoveva, segno che era ancora vivo.
Rose cercò il suo stilo –lo aveva in mano mentre cadeva- ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. C’erano ben venti centimetri d’acqua nella grotta, segno che la marea si stava alzando e che nel giro di qualche ora quella caverna sotterranea sarebbe stata completamente sommersa.
«Will, dobbiamo andarcene da qui» disse Rose, osservando la parete rocciosa e alzandosi in piedi. «Non dovrebbe essere troppo difficile arrampicarsi».
«Lo farei volentieri» gemette Will. «Se solo riuscissi a muovermi».
A Rose si ghiacciò il sangue nelle vene. Si voltò e notò ciò di cui non si era resa conto prima: Will era sdraiato per terra, con un ammasso di rocce che gli bloccavano la gamba sinistra dal ginocchio in giù.
«Per l’Angelo». Rose cercò di spostare i massi che gli intrappolavano la gamba, ma questi erano troppi e troppo pesanti, e lei non aveva più nemmeno il suo stilo con sé.
«Dammi il tuo stilo» gli disse allora.
«Non ce l’ho» le rispose Will. «L’ho dato a George, ricordi? Perché non puoi usare il tuo?»
«Perché non lo trovo. Devo averlo perso durante la caduta».
I loro sguardi si incontrarono e Rose vide il proprio riflesso negli occhi di Will: aveva un taglio sulla guancia, la faccia sporca di terra e un’espressione di puro terrore dipinta sul volto.
Cercò di darsi una calmata e di pensare lucidamente.
«Proviamo così» decise. Prese Will da sotto alle spalle e tirò con tutta la forza che aveva, sperando di riuscire a liberarlo dalle rocce senza doverle spostare, ma non ci fu niente da fare.
«Se solo riuscissi a trovare qualcosa con cui fare leva sulle rocce, dovrei riuscire a liberarti».
«Rose…» tentò Will, ma Rose non lo stette a sentire e iniziò a guardarsi attorno.
«Un bastone, un ramo…» stava parlando tra sé e sé.
«Rose…» ripeté Will. «Dovresti andare».
Rose si bloccò e lo guardò come se fosse impazzito. «No» disse.
Will sbuffò. «Sì, invece. La marea si sta alzando, vai a chiamare aiuto».
«No» ripeté Rose, iniziando a farsi prendere dal panico. «Non farei mai in tempo ad arrivare all’Istituto e a tornare qui prima che tu…»
Non riuscì a terminare la frase e riprese a camminare avanti e indietro freneticamente. «Devo trovare un’altra soluzione, ci dev’essere un’altra soluzione».
Will era diventato dello stesso colore di un panno sporco: probabilmente stava iniziando a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che sarebbe potuto morire, cosa che invece Rose non era disposta a fare.
Nel frattempo l’acqua era arrivata quasi al ginocchio di Rose e al petto di Will, che era ancora sdraiato per terra.
«Andrà tutto bene» disse allora Rose, cercando di suonare calma. «Ci sono quasi, davvero…»
«Rose» la chiamò di nuovo Will. «Mi fai un favore?»
Rose chiuse la bocca e annuì.
«Vai via» le disse lui con serietà.
Rose gli si inginocchiò di fronte. «Forse non hai capito, ma tenendo da conto la velocità con cui si sta innalzando il livello dell’acqua, ti restano massimo quindici minuti prima di annegare. Non arriverei mai in tempo all’Istituto e non ho intenzione di…»
«Shh, fa' silenzio» la interruppe Will. La stava guardando come se fosse un miracolo, e Rose sentì un buco aprirsi all'altezza dello stomaco. Will allungò una mano verso di lei e gliela posò sulla guancia. Rose gli si avvicinò, tanto da riuscire a distinguere chiaramente le pagliuzze marroni delle sue iridi anche nella semioscurità.
«Mi baceresti?» chiese Will in un sussurro. Il suo respiro le sfiorò le labbra e un brivido le corse lungo la schiena.
Will. Il suo Will. Le aveva appena chiesto di baciarlo.
«È tutto ciò che desidero da anni» stava continuando lui. «Per favore...?»
Rose non se lo fece ripetere due volte, non si fermò neppure ad elaborare la richiesta: si limitò a chiudere gli occhi e a baciarlo. Dapprima fu un semplice sfiorarsi di labbra; era come se fossero entrambi paralizzati e nessuno dei due si rendesse conto di quello che stava succedendo. Poi Will le passò le mani tra i capelli e la attirò a sé e Rose gli allacciò le braccia attorno al collo, ricambiando il bacio con un trasporto che non credeva le appartenesse. Lo baciò profondamente, aggrappandosi a lui come se fosse lei quella sul punto di annegare. Aveva freddo, ma si sentiva come se qualcuno l'avesse ricoperta di benzina e le avesse dato fuoco. Will emise un gemito strozzato, un suono roco in fondo alla gola, e le passò le mani dai capelli al collo, sulle spalle e lungo le braccia. Stava mormorando qualcosa sulle sue labbra, e Rose si rese conto che stava sussurrando il suo nome. Rose.
Prima di allontanarsi, Rose lo strinse a sé un’ultima volta, nel disperato tentativo di memorizzare il suo respiro sulla pelle, le sue mani che la toccavano e il suono della sua voce che ripeteva il suo nome come se fosse l’unica parola che conosceva.
Si guardarono negli occhi per qualche secondo, senza fiato e senza sapere che cosa dire. Rose poggiò la mano sul petto di Will e sentì il suo cuore battere veloce contro la pelle, come se volesse uscire.
Calmati, si disse. Questa non è l'ultima volta che senti il suo cuore che batte.
Will le sorrise e le si avvicinò di nuovo per darle un leggero bacio a stampo, come se non ne avesse avuto abbastanza. Fu quella la goccia che fece crollare Rose. Scoppiò a piangere e lo abbracciò forte, per poi baciarlo sulla guancia mentre gli sussurrava tra i singhiozzi che non voleva lasciarlo lì.
«Lo so, Rosie, ma devi andare» le stava dicendo Will mentre le accarezzava piano la schiena. «Per favore, vai».
Rose scosse il capo e Will la prese per le spalle. «Pensa ai tuoi genitori. E a Holly. E a George. Non puoi rimanere qui».
Non sarebbe mai arrivata in tempo all'Istituto per chiedere aiuto, lo sapeva. L'acqua arrivava già al torace di Will e lo avrebbe fatto annegare nel giro di dieci minuti massimo. Come poteva andarsene consapevole che sarebbe morto? L'unica sua speranza era che George avesse avvertito i loro genitori così che fossero già nelle vicinanze, altrimenti Will sarebbe stato spacciato.
Si alzò e lo guardò. Stava per dirgli che lo amava, che aveva sempre amato solo lui e che avrebbe amato per sempre solo lui, ma si bloccò. Farlo avrebbe significato che si stava arrendendo e lei non si sarebbe mai arresa, non quando c'era in gioco la vita di Will. Will sarebbe stato bene e lei avrebbe potuto dirgli che lo amava una volta che fosse stato al sicuro.
«Ti tirerò fuori di qui» disse. «Fosse l'ultima cosa che faccio». Will fece per aggiungere qualcosa, ma sembrò ripensarci e stette zitto.
Rose si arrampicò sulla parete della caverna, cercando di stare calma e di non tremare. Non era una scalata particolarmente difficile –saranno stati a mala pena sei metri- ma a Rose parve quasi impossibile. Quando mancava ormai poco alla superficie, si aggrappò alla roccia sbagliata, che cedette sotto al suo peso. Rose cadde per qualche metro, ma riuscì ad aggrapparsi nuovamente. Dei detriti le caddero addosso e un sasso la colpì forte sulla fronte, mozzandole il respiro.
«Rose?» Will la stava chiamando, la sua voce era un suono distante. «Rose, dimmi che non era la tua testa».
Rose avrebbe voluto rispondergli che andava tutto bene, ma le parole non le uscivano dalla bocca. Il mondo attorno a lei aveva iniziato a girare e le veniva da vomitare. Will le stava urlando qualcosa, ma lei non lo sentiva più, sentiva solo un rumore assordante nelle orecchie che stava minacciando di spaccarle il cranio in due.
Si fece coraggio e si impose di andare avanti, una mano e un piede alla volta, cercando di non sbagliare più appiglio. In tutta sincerità però, Rose non si rendeva nemmeno più conto di quello che stava facendo, si stava limitando a pregare di riuscire ad arrivare in superficie senza svenire.
Ci riuscì dopo quella che le parve un’eternità. Il sole la accecò, e dovette alzare una mano per proteggere gli occhi. Sbatté un paio di volte le palpebre, prendendo due respiri profondi.
Non svenire, si ripeteva. Non vomitare. Respira, Rose.
Provò a fare un passò avanti, ma un senso di vertigini la costrinse a fermarsi e a piegarsi sulle ginocchia. Non poteva finire così, non poteva…
E quando credette che tutto fosse perduto ed era sul punto di abbandonarsi all’oblio, le mani di sua madre furono su di lei.
«Rose» le disse, stringendola tra le sue braccia. «Rose, per l’Angelo! Che cosa vi è saltato in mente?»
«Will» riuscì a sussurrare Rose contro la spalla di sua madre. «Devi andare a salvare Will».
«Dov’è Will?» chiese un’altra voce che Rose riconobbe come quella di Clary. «Sta bene?»
Rose si allontanò da Emma e indicò con la mano il buco dal quale erano caduti nella grotta.
«È bloccato là sotto» disse. «E la marea si sta alzando. Vi prego, andate a…»
Ma non fece in tempo a terminare la frase che Clary si stava già calando nella caverna, seguita da Jace. Rose riuscì a mala pena a registrare la loro presenza. In quel momento per lei erano solo due macchie di colore sfocate.
«Stai sanguinando. Rose, perché stai sanguinando?» quello era suo padre invece. Rose non si era neppure accorta che fosse lì. Le mise una mano sul viso e quando la ritrasse era sporca di rosso. «Dobbiamo portarti subito all’Istituto».
Rose fece per dire qualcosa, ma una fitta alla testa le impedì di parlare. Cercò di non far capire quanto stesse male per evitare di mandare nel panico i suoi genitori, ma quelli parvero capirlo lo stesso.
«Jules, ha bisogno di un iratze» disse Emma, guardando Julian. Prese il suo stilo ma non fece neppure in tempo ad avvicinarsi che Rose perse i sensi; sarebbe caduta, se solo non ci fossero state le braccia di suo padre a sostenerla.
 
NOTE DELL'AUTRICE
Ebbene sì, è successo. I due polli si sono baciati. In circostante piuttosto estreme ma sì, è finalmente successo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbia soddisfatto le vostre aspettative. Mi rendo conto che ci sono molti punti lasciati in sospeso e potete insultarmi liberamente mentre attendete la prossima settimana, siate clementi ahah.
Buon pomeriggio e alla prossima,

Francesca 

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici. ***


Capitolo Quattordici
 
Will stava iniziando ad avere freddo e a non sentire più la gamba sinistra; l’acqua gli arrivava quasi al collo e nel giro di poco tempo sarebbe annegato. Non riusciva a crederci. Essendo uno Shadowhunter, la morte aveva sempre fatto parte della sua vita. Aveva sempre saputo che sarebbe potuta arrivare all’improvviso, anche durante una semplice pattuglia; tuttavia, non avrebbe mai creduto che sarebbe morto in un modo così stupido… banale, quasi. Si era sempre cacciato in molti pericoli, fin da quando era bambino. Era sempre stato incauto e sua madre non aveva mai smesso di ripeterglielo, dal primo giorno in cui aveva impugnato una spada angelica; Will di solito si limitava a scrollare le spalle e a rassicurarla. D’altronde lui era uno Shadowhunter, era quello il suo compito: sconfiggere i demoni anche a costo della propria vita. Clary sembrava non capirlo, sempre preoccupata per la sua incolumità e a Will dispiaceva farla stare in pensiero, ma quando combatteva sentiva dentro di sé un’energia che lo faceva sentire davvero vivo. All’inizio c’erano stati suo padre e sua madre a salvare la situazione, sempre dietro di lui pronti a intervenire in caso di pericolo; poi era arrivato George, il suo parabatai. Erano cresciuti insieme, due cugini della stessa età che giocavano fin da piccoli a rincorrersi per l’Istituto e a combattere spalla a spalla demoni immaginari. Diventare parabatai era stato naturale, l’unico punto fisso della propria vita. Pensare a George gli scavò un profondo buco nel petto: si stava sempre più rendendo conto che probabilmente non lo avrebbe mai più rivisto. E, insieme all’acqua che lentamente saliva, arrivavano anche i volti della sua famiglia, dei suoi amici. Suo padre, sua madre, le sue sorelle… Pensare a Celine, a cui voleva tanto bene nonostante lo infastidisse sempre, e a Lizzie, la sua sorellina che si alleava sempre con lui, gli fece salire le lacrime agli occhi. Non voleva lasciarle. E poi nella sua mente apparvero le facce sorridenti degli altri membri della sua famiglia: zio Magnus, zio Alec, Max e Raphael, zio Simon e zia Izzy, i nonni. Persino Julian e Emma, insieme a Holly, gli fecero stringere il cuore. Eppure, mentre l’acqua saliva sempre di più fino a raggiungere il suo collo, sapeva già quale sarebbe stato l’ultimo volto a cui avrebbe pensato prima di chiudere gli occhi per sempre. Quello di Rose. La sua Rose. Scosse la testa e non riuscì a impedire a una lacrima di scorrergli sulla guancia. Gli sembrava incredibile, uno scherzo del destino: ora che finalmente era riuscito a baciarla, non lo avrebbe più potuto fare.
Chiuse gli occhi e rivisse nella mente il momento in cui Rose lo aveva baciato, stentando ancora a crederci. Certo, era stato lui a chiederglielo, ma lei non aveva esitato e lo aveva baciato con più trasporto di quanto si sarebbe aspettato. Will non voleva neppure prendere in considerazione la possibilità che si fosse immaginato tutto e che Rose in realtà avesse provato repulsione davanti a una simile richiesta; voleva illudersi che Rose lo desiderasse tanto quanto lui desiderava lei e che volesse baciarlo almeno la metà di quanto lui voleva baciare lei.
Era stato sul punto di dirle che la amava, ma aveva cambiato idea: non poteva farle questo, non poteva aprirle il suo cuore durante una situazione tanto tragica così che il sentimento più puro che avesse mai provato si trasformasse in motivo di dolore per lei, che sarebbe dovuta andare avanti senza di lui.
Il ricordo delle labbra di Rose sulle proprie, del suo profumo e del suo respiro sulla pelle era tutto ciò che lo stava tenendo ancorato alla realtà, impedendogli di dare di matto. Aveva creduto che baciare Rose avrebbe reso la morte meno terrificante, e invece non era stato così, perché adesso sapeva che cosa stava lasciando, sapeva che cosa si stava perdendo morendo.
In un ultimo scatto di protesta del suo corpo, tentò di liberare la gamba dalle rocce, ma quelle erano troppo pesanti. Imprecò ed emise un verso di frustrazione: non poteva finire così, non poteva morire. Non era pronto.
Ci doveva essere qualcosa che poteva fare, un modo per liberarsi. Ci doveva essere.
«Will!» si sentì chiamare. Quasi non ci fece caso, pensando che fosse uno scherzo della sua immaginazione; Rose era salita in superficie da pochissimo, era impossibile che avesse già raggiunto l’Istituto per chiedere aiuto.
Poi sentì una mano sulla spalla e le braccia di sua madre che lo stringevano forte e seppe che era tutto vero.
«Oh, Will» gli disse lei, dandogli un bacio sulla guancia. «Che spavento che ci hai fatto prendere!».
Will spalancò gli occhi e vide sua madre con le guance bagnate di lacrime e i capelli rossi che risplendevano anche nella penombra della grotta.
«Non c’è bisogno di piangere, mamma». Will le sorrise, cercando di non far trasparire quanto fosse felice di vederla e di sembrare tranquillo, per non spaventarla ulteriormente. La consapevolezza che sarebbe sopravvissuto iniziò a farsi strada dentro di lui, rischiando di mozzargli il fiato. «Sto bene. Avete visto Rose?»
«Sì, camminava e respirava. È di te che mi preoccupo». Clary gli poggiò le mani sul viso e gli diede un altro bacio, questa volta in fronte. «Hai freddo?»
Will annuì distrattamente e intravide suo padre dietro di lei che lo guardava con aria preoccupata. Gli si avvicinò e gli poggiò una mano sulla testa, accarezzandogli piano i capelli. Will si concesse finalmente di respirare: i suoi genitori erano lì e lo avrebbero portato in salvo.
«Ora ti tiriamo fuori di qui» disse suo padre, prendendo il suo stilo e inginocchiandosi al suo fianco. Si disegnò una runa della forza sul polso destro –era mancino come Rose- e sollevò i due massi più pesanti che gli bloccavano la gamba; poi sua madre lo prese da sotto le ascelle e lo trascinò via dalle rocce, riuscendo finalmente a liberarlo.
Will cercò di alzarsi in piedi, ma quando poggiò la gamba per terra sentì una fitta di dolore che gli mozzò il respiro. Jace gli si avvicinò e si fece passare il suo braccio attorno alle spalle per sostenerlo.
«Come va la gamba?» gli chiese.
«Non riesco a muoverla» disse Will a denti stretti. Il dolore stava iniziando a farsi sentire, era come se gli stessero battendo con un martello sul ginocchio.
Clary sfoderò il suo stilo e gli prese la mano, iniziando a tracciargli una runa sul palmo. «Hai bisogno di un iratze».
«E di una runa per il dolore» disse suo padre.
«E anche una che ti riscaldi» continuò sua madre.
«Sto bene» borbottò Will. «Sul serio. E se ce ne andiamo da qui, starò anche meglio».
«Non ce ne possiamo andare se non riesci a camminare» fece notare Jace ragionevolmente.
«Lo so, ma un iratze e una runa per il dolore possono bastare». Will allontanò la mano da quella di sua madre. «È sufficiente così, mamma».
«No» disse lei con il tono di voce che usava quando Celine ne combinava una delle sue. «Adesso stai in silenzio e ti fai disegnare quello che dico io».
Gli sollevò la manica della giacca e gli tracciò altre tre rune sull’avambraccio. Will neppure prestò attenzione a quali fossero, sapeva solo che stava pian piano iniziando a sentirsi meglio: il dolore alla gamba era quasi scomparso e non aveva più così tanto freddo.
«E ora andiamocene» disse Clary una volta terminato. «Dopo facciamo i conti, William».
Senza degnarlo di uno sguardo iniziò ad arrampicarsi con agilità sulla parete, lasciando Will e suo padre indietro.
«Sono quasi morto e lei è arrabbiata» sussurrò Will, così che solo suo padre riuscisse a sentirlo. «Non ci credo».
«Era preoccupata». Jace gli sorrise. «Ci sono passato anche io. Sai quante volte mi ha tenuto il muso perché mi sono fatto quasi uccidere?»
«Quindi tu non sei arrabbiato con me?»
«No» rispose suo padre. «Ma se fai di nuovo qualcosa di così stupido, ti chiudo nella tua camera e getto la chiave».
Will era sul punto di ribattere, ma suo padre lo precedette. «Ovviamente senza stilo. Per chi mi hai preso, un idiota?»
Will si imbronciò e stette in silenzio.
«Vi muovete o no?» urlò Clary, che era ormai arrivata in superficie. «Devo tornare giù a prendervi?»
«No!» risposero all’unisono i due uomini Herondale.
«Meglio che ci muoviamo, se non vuoi che si arrabbi ancora di più» sussurrò Jace a Will. Poi alzò la voce, rivolgendosi a Clary. «Sciogli i tuoi capelli, Raperonzolo».
Anche a sei metri di distanza era evidente che Clary lo stesse fulminando con lo sguardo e probabilmente insultando in modi indicibili.
«Grazie» disse Will. «Così le hai sicuramente migliorato l’umore».
Jace scrollò le spalle con un ghigno. «Ce la fai a camminare?».
«Credo di sì» rispose Will.
«Vai avanti tu, io ti sto dietro».
Will iniziò a scalare la parete con calma, cercando di non fare troppa pressione sulla gamba sinistra, che stava pian piano guarendo grazie agli iratze.
Una volta raggiunta la sommità, trovò sua madre seduta per terra con le ginocchia strette al petto. In quella posizione sembrava ancora più piccola.  
«Mi dispiace» le disse Will, uscendo in superficie e spazzolandosi i vestiti sporchi di polvere. «Non volevo farvi preoccupare. La roccia ha ceduto, non è stata colpa mia!»
Clary si alzò in piedi e gli puntò un dito contro al petto. Era molto più bassa di lui, ma Will doveva ammettere che incuteva comunque un certo timore. «È stata colpa vostra quando avete creduto di poter sconfiggere i Riders di Mannan da soli, ed è stata colpa tua quando hai deciso di inseguirli invece di tornare all’Istituto con George e Cath».
Will non capiva: quello era il loro lavoro. Sua madre non poteva pretendere che vivesse una vita priva di rischi. «Tutto si è concluso per il meglio. Sono uno Shadowhunter, questo è ciò che facciamo».
«E se non si fosse concluso tutto per il meglio?» Clary aveva alzato la voce. «Essere uno Shadowhunter non significa essere uno sprovveduto. Non mi interessa se credi di essere lo Shadowhunter migliore della tua generazione e pensi di dover salvare il mondo. Non mi interessa, William. Devi stare più attento».
Will si sentì punto sul vivo: sapeva di essere bravo ed era pronto a rischiare tutto per uccidere quanti più demoni possibile, ma non credeva di essere lo Shadowhunter migliore della propria generazione, o uno sprovveduto, anche se a volte si rendeva conto di essere incauto.
«Non penso di dover salvare il mondo!» esclamò indignato. «E io sono attento… la maggior parte delle volte».
«Dio mio, sei tale e quale a tuo padre» sbottò Clary.
Will ammutolì. Non era la prima volta che veniva paragonato a suo padre; spesso si era sentito dire che era la copia di Jace, ma lui non ci aveva mai creduto. Forse era abile quanto lui in combattimento, ma sapeva di non avere la sua stessa mira e di non essere altrettanto divertente o affascinante. Non era facile essere il figlio di Jace Herondale, uno degli Shadowhunters più famosi degli ultimi tempi, e spesso Will non si sentiva all’altezza. Però era bravo a disegnare, magra consolazione rispetto a tutto il resto.
«Clary». Suo padre li aveva raggiunti e stava guardando sua madre con un leggero sorriso. Le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla.
Clary prese un respiro profondo. «In realtà la colpa è tua. Lo sai, vero?»
Jace alzò un sopracciglio divertito. «Ah sì, e in che modo sarebbe colpa mia?»
«I nostri figli hanno ereditato la tua impulsività e la tua imprudenza» spiegò lei.
«Non mi pare che tu sia tanto più prudente di me, Fray. Dovresti ringraziarmi per aver tramandato loro il mio bell’aspetto» scherzò lui, ma Clary non stava ridendo; continuava a osservarlo con espressione seria.
«D’accordo». Jace sospirò e le passò un braccio attorno alle spalle, dandole un bacio sulla tempia. Poi allungò l’altro braccio verso Will. «Vieni qui, Will».
Will mugugnò una magra protesta, ma qualcosa nello sguardo di suo padre lo mise a tacere. Si avvicinò ai suoi genitori e si fece abbracciare da entrambi.
«Mi dispiace» disse di nuovo, permettendo loro di stringerlo e di assicurarsi che stesse bene.
«Quel che è fatto è fatto ormai» disse Clary, allontanandosi leggermente e asciugandosi le guance con le mani. «Ma se fai di nuovo qualcosa del genere, ti butto via tutte le matite colorate».
Will alzò gli occhi al cielo. «Chiuso in una stanza senza matite e senza stilo. Non pensate di essere un po’ troppo duri con me?»
Suo padre gli diede una pacca sulla schiena. «Se questo serve a non farti ammazzare, no, non siamo troppo duri. E potrei anche aggiungere che ti obbligherei a imparare a suonare il piano».
Will rabbrividì. Per quanto gli sarebbe piaciuto suonare uno strumento, era consapevole di essere completamente negato, con un misero senso del ritmo. «Insegnare a me come suonare il pianoforte sarebbe un insulto a Vivaldi».
«Vivaldi non era un pianista» fece notare Jace.
«Ecco, appunto».
Lasciarono perdere il discorso con una risata, e tornarono all’Istituto. Will raccontò loro tutto quello che era successo quella mattina, di come gli fosse venuta in mente la runa, di come avesse capito la sua funzione e di come avessero deciso di cogliere i Riders di sorpresa. Quando arrivò alla parte in cui aveva ucciso Delan sua madre sbiancò e si chiuse in un ostinato silenzio.
«Wow» sussurrò suo padre. «Lo hai proprio ucciso?»
Si vedeva che anche lui era turbato e Will si rendeva conto della gravità di ciò che aveva fatto, ma non gli importava: se non lo avesse ucciso, Cath sarebbe morta, e con lei anche parte dell’anima di George. Will non poteva permetterlo.
«Sì» rispose. «L’ho ucciso grazie alla runa che ho creato».
«No, no» disse Jace con un sorriso. «Lo hai ucciso perché sei bravo. Sei il degno figlio di tuo padre».
Will arrossì senza riuscire a rispondere, perché tutto ciò che desiderava era che suo padre fosse fiero di lui. Non glielo diceva spesso, ma quando lo faceva riusciva a migliorargli l’umore per almeno una settimana.
L’Istituto si ergeva ormai davanti a loro e Will riusciva a intravedere delle persone sul portico davanti all’ingresso: si trattava di Kit, Ty e Holly. Kit era seduto per terra con Holly seduta tra le sue gambe, mentre Ty stava davanti a loro con un libro aperto tra le mani.
Sarebbe stato un quadretto molto carino, se solo Holly non fosse stata in lacrime. Will salì le scale di corsa e si avvicinò loro titubante, cercando di capire che cosa stesse succedendo. I suoi genitori lo imitarono, anche loro incuriositi.
«Questo è un giglio» stava dicendo Ty, mostrando a Holly un fiore bianco. «Lilium, in realtà».
Holly tirò su con il naso. «Voglio mia sorella».
«Rose è con i tuoi genitori adesso» rispose Kit con gentilezza. «Guarda qui, invece. Questa è un’iris».
«Una viola» lo corresse Ty a bassa voce.
«Cioè, una viola» si affrettò a ripetere Kit. «Visto? È viola e si chiama… viola. Wow».
Holly si stropicciò un occhio con una mano e poi si girò verso Kit. «Voglio andare da mia sorella, per favore, per favore».
«Ehi» li salutò Will. «Tutto bene?»
«Will!» Holly si tirò su in piedi e gli corse incontro. Gli allacciò le braccia attorno alla vita e gli premette il viso contro allo stomaco. «Anche tu vuoi vedere Rose, vero? Fammi venire con te, ti prego, per favore».
«Certo, Holly. Scommetto che ora è impegnata con i vostri genitori, ma non appena avrà finito ti prometto che andremo a giocare con lei». Will le accarezzò i capelli. Poi incrociò lo sguardo di Kit e gli si congelò il sangue nelle vene, perché Kit stava scuotendo il capo nella sua direzione con espressione grave.
«Cos’è successo?» chiese Will. La sua voce suonava distante alle sue stesse orecchie. «Dov’è Rose?»
«L’ho vista» disse Holly, allontanandosi da lui e guardandolo con gli occhi pieni di lacrime. «Sembrava morta».
Will si voltò, alla ricerca di sua madre. Lei gli aveva detto…
«Mi avevi detto che Rose stava bene!» Non era stata sua intenzione urlare, ma lo aveva fatto comunque. «Cosa vuol dire che sembrava morta?»
Holly si mise a piangere ancora più forte e Will si sentì in colpa per averla fatta spaventare, ma anche lui era spaventato.
«Non capisco» sussurrò Clary, rivolgendosi poi a Jace. «Stava bene…»
«Julian e Emma l’hanno portata qui priva di sensi e Holly inavvertitamente l’ha vista» spiegò Ty. «Magnus si sta prendendo cura di lei. Sono sicuro che si rimetterà presto in sesto. Capito, Holly? Non devi preoccuparti».
Will non stette più a sentirli e corse dentro all’Istituto. Ora era tutto più chiaro: Rose aveva battuto la testa, era quello il rumore che aveva sentito nella grotta. Ed era tutta colpa sua. Sua madre aveva ragione quando diceva che era uno sprovveduto; la maggior parte delle volte non gli importava esserlo, ma quella volta aveva messo in pericolo la vita di Rose e non se lo sarebbe mai perdonato. Mai.
Salì i gradini che portavano al primo piano due per volta e si precipitò in infermeria come se avesse l’Inferno alle calcagna. Spalancò la porta e per poco non si scontrò con Julian.
«Dov’è?» chiese Will. «Sta bene? Vi prego, ditemi che sta bene».
«Magnus si sta prendendo cura di lei» sussurrò Emma.
«Ha picchiato la testa» disse Julian con aria assente. La sua giacca e le sue mani erano sporche di sangue. «Ha un trauma cranico. Non si cura con gli iratze».
Will realizzò che il sangue sulle mani di Julian doveva essere quello di Rose e si sentì male. Si sedette su uno dei lettini liberi e si passò una mano tra i capelli. Poco lontano stava Magnus, avvolto in una nube di scintille colorate e chino sul corpo inerme di Rose. Will voleva andare da lei e stringerle la mano, ma sapeva che non poteva farlo.
«Dov’è George?» chiese allora, distogliendo lo sguardo. L’odore del disinfettante e del sangue gli stava facendo venire da vomitare. «E Cath?»
«Sono nella camera di fianco a quella di Holly» rispose Emma. «Cath si riprenderà, sta dormendo».
«Anche Rose si riprenderà, vero?» chiese Will, non riuscendo a nascondere il terrore nella sua voce.
«Sì» disse Julian. «Certo che sì».
«È tutta colpa mia» sussurrò Will, facendo quasi fatica a respirare. «Sono stato io a voler inseguire i Riders, se solo…»
«Non è colpa tua, Will» sospirò Emma. Alcune ciocche di capelli le erano uscite dalla treccia e le ricadevano attorno al viso. Sembrava stanca. «Se è colpa di qualcuno è solo mia».
«Em, non iniziare» le disse Julian. «Anzi, non iniziate. Entrambi».
Emma e Will ammutolirono. Will non riusciva a darsi pace e voleva distruggere tutto ciò che gli capitava davanti. Julian, nonostante sembrasse il ritratto della calma fatta a persona, continuava a camminare avanti e indietro con le mani serrate, come se si stesse trattenendo dal tirare un pugno a qualcosa. Emma invece se ne stava immobile con le braccia conserte e la schiena appoggiata al muro.
Dopo qualche minuto anche Jace e Clary entrarono nell’infermeria, chiedendo notizie di Rose. Will non rivolse loro la parola perché ce l’aveva ancora con sua madre per non avergli detto che Rose perdeva sangue dalla testa quando era uscita dalla grotta. Sapeva che non lo avevano notato perché erano entrambi troppo preoccupati per lui e che era normale che non avessero perso tempo ad accertarsi che Rose non avesse nemmeno un capello fuori posto, cosa che lui invece avrebbe fatto. Era solo che spesso di dimenticava che non tutti erano innamorati di Rose.
«Basta così» sbottò Magnus, voltandosi verso di loro infastidito. Nonostante avesse l’aspetto di un adolescente, possedeva una serietà e un’autorità che mettevano in soggezione Will anche a distanza di tempo. Mosse una mano nella loro direzione e delle scintille spruzzarono dalle sue dita. «Ho bisogno di concentrazione. E di silenzio. Quindi tutti fuori, sciò».
Julian lo fulminò con lo sguardo e Will temette potesse davvero incenerirlo con la sola forza del pensiero. «Se credi di potermi dire che cosa fare nel mio Istituto quando mia figlia sta male…»
«Jules». Emma gli si avvicinò e lo prese per il braccio, intrecciando le dita alle sue. «Magnus ha ragione, lo stiamo deconcentrando e basta. Dovremmo andare da Holly, l’abbiamo fatta spaventare prima».
Julian la guardò e la sua espressione si addolcì. «È vero, povera bambina».
Lasciarono tutti l’infermeria, permettendo così a Magnus di lavorare con più tranquillità, e Will decise di raggiungere George. Sentiva il bisogno fisico di parlare con lui, di guardarlo negli occhi e di confessargli tutte le proprie preoccupazioni nella speranza che lo avrebbe tranquillizzato come solo lui era in grado di fare.
Bussò alla porta un paio di volte e rimase in attesa, il cuore che batteva così forte che era certo che tutti potessero sentirlo.
Dopo pochi secondi George comparve sulla soglia, i capelli scompigliati e gli occhi arrossati. Si era tolto la giacca della tenuta da combattimento e indossava una maglietta nera a maniche corte.
«William» sussurrò George con la voce spezzata, con quella fragilità che mostrava solo a lui. Si chiuse in fretta la porta alle spalle e lo abbracciò.
«L’hai salvata» disse. «Grazie, Will. Grazie, io non…».
«Non devi ringraziarmi». Will lo strinse più forte a sé, le dita che premevano nel tessuto leggero della sua maglietta. «Non devi».
Will chiuse gli occhi e poggiò la testa sulla spalla di George. Bastò la sua vicinanza per alleviare tutta l’ansia e la preoccupazione che provava per Rose. Era come se il suo parabatai si stesse facendo carico di quei sentimenti negativi senza neppure rendersene conto, Will li sentiva scivolare via da sé come acqua che si allontana dalla sorgente.
«Sei preoccupato» disse a un certo punto George, lasciandolo andare per guardarlo negli occhi. «Qualcosa non va?»
 Will fece per rispondere, ma a George era bastato incrociare il suo sguardo per capire ogni cosa. «Cos’è successo a Rose?»
Will raccontò brevemente quanto accaduto dopo che si erano separati e George ascoltò in silenzio. Man mano che Will andava avanti l’espressione di George si faceva sempre più dura; ormai aveva perso la vulnerabilità di poco prima ed era tornato il George pratico e diretto di sempre.
«Andiamo» disse, iniziando a incamminarsi verso l’infermeria.
«Non possiamo entrare» disse Will. «Magnus ha cacciato tutti».
Ma George parve non sentirlo, perché non accennò a fermarsi; al contrario, sembrava furioso mentre si dirigeva a passo veloce lungo il corridoio.
«Vi lascio da soli per dieci minuti, tu quasi affoghi e Rose si spacca la testa» stava dicendo. «Che cosa devo fare con voi due?»
Will abbassò il capo e si guardò i piedi. Desiderava solo sedersi per terra, prendersi il viso tra le mani e stare lì fino a quando Rose non si fosse svegliata.
Un piede davanti all’altro, si disse. Uno davanti all’altro, Will. Puoi farcela.
«So che sei arrabbiato con me» sussurrò. «Mi dispiace. È tutta colpa mia».
George scosse il capo. «Smettila. Non è colpa di nessuno».
Will alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Come se tu non ti stessi incolpando per quanto accaduto a Cath».
George si bloccò e sventolò una mano nella sua direzione. «D’accordo, allora suppongo che siamo due idioti».
George stava dando le spalle alla cucina, e Will che era di fronte a lui intravide Emma e Julian seduti al tavolo con Holly. Stavano cercando di farle mangiare qualcosa, ma lei continuava a scuotere il capo. Anche i suoi genitori erano lì, in piedi davanti ai fornelli a parlare tra di loro.
«Eccovi qua». Magnus si era avvicinato a loro, facendo cenno di seguirlo.
«Come sta…» iniziò Will, entrando in cucina.
«Shh» lo zittì Magnus. «Non davanti a Holly».
«Ma…»
«Ben trovati a tutti» disse lo stregone con i suoi soliti modi pomposi. «Ho portato Rose nella sua camera. Sta dormendo».
«Posso andare da lei?» chiese Holly. «Scommetto che non si arrabbia se la sveglio».
Will non si sentiva tranquillo. Era sicuro che Magnus stesse nascondendo qualcosa perché Holly era ancora lì e non voleva spaventarla.
«No, non si arrabbierebbe» rispose Magnus con un sorriso triste. «Ma è Rose che deve decidere quando svegliarsi, non puoi svegliarla tu».
Holly ammutolì e guardò suo padre. «Cosa vuol dire? Rose non vuole svegliarsi?»
«Certo che vuole» disse Julian, accarezzandole piano i capelli. «Ha solo bisogno di un po’ di tempo».
«Perché non raggiungi Kit e Ty in biblioteca?» continuò Magnus. «Scommetto che Livia vorrebbe giocare con te».
Holly sembrò pensarci un attimo. «Poi posso andare da Rose?»
«Lasciaci parlare un attimo con Magnus e poi ci andremo tutti insieme» disse Emma. «Okay?»
«Promesso?» chiese Holly seria.
«Promesso» disse Emma, dandole un bacio sulla guancia.
Holly saltò giù dalla sedia e si avviò lentamente in biblioteca. Emma la guardò allontanarsi con una mano stretta attorno all’anello dei Blackthorn che portava al collo, poi prese con l’altra quella di Julian sotto al tavolo. Era una cosa che facevano anche i genitori di Will, darsi la mano sotto al tavolo credendo che nessuno se ne accorgesse.
«Ho curato la ferita alla testa di Rose» disse Magnus, e Will si concesse finalmente di respirare. Rose sarebbe stata bene, tutto si sarebbe sistemato. «Dovrebbe risvegliarsi».
«Che diavolo vuol dire dovrebbe risvegliarsi?» chiese Julian, lo sguardo affilato come la lama di un coltello.
«Vuol dire che non lo so» spiegò Magnus. «E che, come ho già detto, dipende da lei».
Emma emise un verso strozzato e si coprì il volto con le mani. Julian le passò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé, sussurrandole qualcosa all’orecchio.
Will non riusciva a collegare il cervello. Era come se il mondo attorno a lui avesse preso a girare. Uscì dalla cucina, senza sapere nemmeno lui dove stesse andando, troppo confuso per pensare lucidamente. Si ritrovò davanti alla porta di Rose senza neppure rendersene conto. Entrò, consapevole che non avrebbe dovuto, che avrebbe dovuto chiedere il permesso, ma non gli importava, voleva solo vederla.
Se ne stava sdraiata sul letto, le labbra rosse e le ciglia scure che spiccavano ancora di più sul suo viso pallido come quello di un cadavere.
Will raggiunse il letto con due falcate, sorpreso che riuscisse ancora a reggersi in piedi, e si sedette accanto a lei. Le prese una mano e intrecciò le dita alle sue, per poi chinarsi e stamparle un bacio sulla fronte. 
«Rose» la chiamò. «Devi svegliarti. Ti prego, svegliati».
Ma lei non si mosse, l’unica cosa che gli assicurava che fosse viva era il suo busto che si alzava e abbassava regolarmente quando respirava.
Will avrebbe voluto mettersi a urlare e stringerla tra le sue braccia, ma non poteva ed era così stanco di non potersi comportare nel modo in cui avrebbe voluto con lei.
Dopo qualche minuto, la porta si aprì alle sue spalle. Will si voltò di scatto, come un ladro colto con le mani nel sacco, trovando Julian e i suoi genitori sulla soglia.
Julian, che era sempre perfettamente integro e calmo in ogni situazione, aveva un’espressione distrutta sul volto. Solitamente Will si sentiva quasi intimorito dalla sua presenza, ma in quel momento, con le spalle incurvate e lo sguardo di chi era sul punto di crollare, non incuteva timore; al contrario, Will lo capiva così bene che gli venne voglia di abbracciarlo. Non che si sarebbe mai permesso di abbracciare Julian Blackthorn. Continuava a fargli paura per altri motivi.
«Will, dovremmo andare» disse piano sua madre.
«No» rispose Will indignato. «Io non vado da nessuna parte».
«Dovresti lasciare Rose con la sua famiglia» continuò suo padre.
«George torna a casa?» chiese Will, cercando di mantenere la calma.
«No» rispose Clary. «Abbiamo chiamato il papà di Cath, ma…»
«Se George non se ne va, io non me ne vado».
«William» lo riprese sua mamma. «George e Cath…»
«George e Cath stanno insieme, lo so». Will si alzò in piedi e si voltò per fronteggiarli. «E quindi? Io amo Rose tanto quando George ama Cath e non è giusto che mi costringiate a tornare a casa solo perché…»
… solo perché lei ancora non lo sa.
Will si bloccò e si morsicò la lingua, rendendosi conto di quello che aveva appena detto e imponendosi di non guardare nella direzione di Julian.
«Ecco, siete contenti?» Alzò le braccia al cielo, ormai esasperato. «L’ho finalmente detto: sono innamorato di Rose, spero che siate soddisfatti».
«Oh, Will». Sua madre aveva gli occhi lucidi e fece per aggiungere qualcosa, ma Julian la interruppe.
«Will può restare tutto il tempo che vuole» disse. «A Rose farebbe piacere».
Will incontrò il suo sguardo. Non sembrava arrabbiato, o sul punto di ucciderlo, il che era una cosa più che positiva.
«Prometto che non darò fastidio, non posso tornare a casa senza sapere se si risveglierà o no».
Julian gli sorrise. «Capisco, Will. Non devi dare spiegazioni, e di sicuro non dai alcun fastidio. Anche a Holly farebbe piacere averti qui. Le mie figlie sembrano avere entrambe un debole per te».
Will deglutì, non sapendo come prendere quell’ultima parte. Era un complimento? Una minaccia?
Sua madre gli si avvicinò e lo abbracciò, dicendogli che gli voleva bene e che era fiera di lui. Anche suo padre lo abbracciò, stringendolo forte a sé.
«Promettimi una cosa» gli sussurrò piano all’orecchio. «Appena Rose si sveglia diglielo, che sei innamorato di lei». Poi si allontanò e gli fece l’occhiolino, seguendo Clary fuori dalla stanza.
Puoi scommetterci, che glielo dico subito, pensò Will. Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto una volta accertatosi che Rose stesse bene.
Will rimase da solo con Julian.
«Grazie» disse, leggermente a disagio. Conosceva Julian da tutta la vita e le cose tra di loro non erano sempre state così imbarazzanti. Erano cambiate quando Will aveva realizzato di amare Rose, perché aveva iniziato a sentirsi in dovere di impressionare suo padre per avere la sua approvazione, con il risultato che finiva per rendersi ridicolo la maggior parte delle volte.
Julian prese la sedia che stava davanti alla scrivania e la posizionò di fianco al letto di Rose. «Non devi ringraziarmi».
Will tornò a sedersi accanto a lei, dalla parte opposta rispetto a quella dove si era sistemato Julian.
«D’accordo» gli disse, sinceramente grato che gli permettesse di rimanere lì. «C’è qualcosa che possiamo fare adesso?»
«No» disse Julian. «Ora aspettiamo».
Will sospirò e prese di nuovo la mano di Rose, cercando di non pensare che Julian lo stava osservando. «Ora aspettiamo».

NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il nuovo capitolo, spero vi piaccia!
Will è un incosciente e giustamente è stato sgridato da quella povera donna di Calry. Poverina, non le bastava Jace, no, anche Will! 
Non succede molto, è un pov Will in cui si crogiola un po' per la povera Rose che è ancora incosciente. 
Buona lettura, spero vi piaccia!
Alla prossima,
Francesca 

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindici. ***


Capitolo quindici
 
George quel pomeriggio aveva passato un paio d’ore nella camera di Rose insieme a Will e a Holly; Julian e Emma avevano cercato di convincerla ad andare via con loro, ma lei era stata irremovibile. Si era messa nel letto di fianco a sua sorella con un album da disegno e delle matite colorate e aveva passato tutto il tempo a disegnare, parlando di tanto in tanto con George e Will che cercavano di tirarle su il morale.
George era spaventato a morte, perché se da un lato era convinto che Rose non li avrebbe mai lasciati e che in un modo o nell’altro sarebbe tornata, dall’altro non poteva esserne certo, ed era quell’incertezza che lo uccideva. Se non si fosse risvegliata, non credeva che sarebbe riuscito a superarlo, così come non era certo che sarebbe riuscito a rimettere insieme i pezzi del cuore di Will.
Will non aveva lasciato la mano di Rose neanche per un istante, e nonostante cercasse di sorridere e di fare qualche battuta per non far preoccupare troppo Holly, George sentiva nelle ossa il suo terrore, l’agonizzante consapevolezza che avrebbero potuto non risentire mai più la voce di Rose.
Verso sera, quando il sole stava per tramontare, George le aveva dato un bacio in fronte, sussurrandole di muoversi a svegliarsi e sperando di essere suonato abbastanza minaccioso, e poi era tornato nella stanza dove riposava Cath. L’aveva trovata esattamente dove l’aveva lasciata: anche lei continuava a dormire e, fino a quando non avesse riaperto gli occhi, George non sarebbe stato del tutto tranquillo.
Si era sdraiato di nuovo al suo fianco, addormentandosi nel giro di pochi minuti, cadendo in un sonno profondo e senza sogni.
Venne svegliato da qualcosa che si muoveva. Spalancò gli occhi e sbatté un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente circostante. Era buio, ma riuscì a riconoscere il profilo di Cath, che si era tirata a sedere e aveva appoggiato la schiena alla testiera del letto. George rimase immobile per un attimo, timoroso che si trattasse di un sogno, che non fosse reale. Non poteva permettersi di tirare un sospiro di sollievo, non prima di essersi accertato che non fosse uno scherzo della sua immaginazione. Fece per toccarla, così da assicurarsi che fosse davvero lì, ma Cath accese la lampada a stregaluce che c’era sul comodino e lo accecò. George si portò una mano al viso per proteggersi gli occhi, che avevano iniziato a lacrimare troppo abituati al buio.
«George» lo chiamò Cath. La sua voce si era alzata leggermente alla fine della parola, sembrava terrorizzata. «Che cos’è successo?»  
George riuscì finalmente a guardarla e seppe che no, non era un sogno, quella era davvero Cath in carne e ossa, viva e cosciente. Si tirò a sedere di scatto e le passò un braccio attorno alle spalle, attirandola a sé e premendo il suo corpo contro quello di lei. Prese un respiro profondo, sentendo il familiare profumo alla vaniglia che la accompagnava sempre.
«Va tutto bene» le disse, accarezzandole i capelli. Cath aveva iniziato a tremare e George la strinse un po’ più forte per cercare di calmarla. «Ti ricordi qualcosa?»
Lei scosse il capo, parlando contro al suo collo e facendogli il solletico. «Solo che uno dei Riders mi ha colpito. Credo di aver perso subito i sensi per il dolore».
George sentì una fitta al cuore al pensiero che avesse sofferto tanto. Si allontanò quanto bastava per prenderle il viso tra le mani e darle un bacio a stampo. «Ti amo, Catherine» le disse, dandole poi un altro bacio, prima sulle labbra, e poi sulla guancia. «Mi hai fatto prendere un colpo».
Cath sussultò e cercò di nasconderlo sorridendogli leggermente. Ma George lo aveva notato e si maledisse per non essere stato più attento.
«Cosa ti fa male?» chiese con apprensione.
«Tutto» confessò Cath, chiudendo gli occhi e appoggiandosi ai cuscini. Era come se tenerli aperti le costasse fatica. «Letteralmente tutto».
A George tornò in mente la fiala che gli aveva lasciato Magnus e si diede dell’idiota per non essersene ricordato prima.
Si voltò verso il comodino e la prese, per poi tornare a rivolgersi a Cath. La luce creava un gioco di ombre sul suo viso, mettendole in evidenza gli zigomi alti, l’arco delle sopracciglia e la curva delicata del naso.
«Tieni» George stappò la fiala e gliela mise nella mano. «Magnus mi ha detto di darti questo».
Cath poggiò le labbra al vetro e bevve due sorsate con una smorfia.
«Wow» sussurrò, spalancando gli occhi. Questi, illuminati dalla stregaluce, sembravano più chiari del solito, cristallini come l’acqua. «Funziona, sto già iniziando a sentirmi meglio».
George le prese la mano e Cath gliela strinse. Rimasero così per un po’ di tempo mentre Cath riacquistava le forze e George iniziava a realizzare che non era morta. Il sollievo di averla davanti a sé che si muoveva e respirava gli causava quasi dolore.
«Avrei dovuto fare qualcosa» disse a un tratto. «Will ti ha salvato. Non so come abbia fatto, so solo che nel giro di mezzo secondo era lì e stava piantando la spada nel cuore di Delan. Ma non sarebbe dovuto essere necessario, perché avrei dovuto colpirlo io prima. Mi sarei dovuto accorgere che ti stava per fare del male».
«Will ha ucciso uno dei Riders?» chiese Cath incredula. «E mi ha salvato?»
George annuì, la mascella serrata. Cath gli poggiò la mano libera sul petto, proprio sopra al cuore. George riusciva a sentire il calore della sua pelle anche attraverso il tessuto della maglietta.
«Non devi preoccuparti» gli disse con un ghigno. «Non mi innamorerò improvvisamente di Will solo perché mi ha salvato la vita».
George si mise a ridere e poi tornò serio. «Non me lo perdonerò mai».
«George, non devi sentirti responsabile per me». Cath lo stava guardando con espressione grave. George adorava il modo in cui pronunciava il suo nome; solitamente si sforzava di non marcare troppo sulle erre, ma quando era particolarmente stanca il suo accento si faceva più forte. «Siamo Shadowhunters, queste cose succedono. Adesso sto bene».
George odiava quella vita fatta di sofferenza e di lutti, di sangue e ferite. Più di una volta si era ritrovato a pensare che gli Shadowhunters fossero stupidi: se eri affetto da una malattia mentale, al posto che aiutarti, ti rinchiudevano o ti strappavano i marchi, non adoperavano la medicina mondana per curare delle malattie mortali come il cancro, e si rifiutavano di abbracciare la tecnologia. Però credevano di essere la razza migliore al mondo, Nephilim, e pretendevano che tu morissi in loro nome, mettendo costantemente a rischio la tua vita e quella delle persone che amavi per poi risolvere tutto con un “Siamo Shadowhunters, questo è ciò che facciamo”.
«Quando ti ho vista lì…». A George mancavano le parole. «Quando ho visto Delan alzare la lancia su di te… ho pensato davvero che ti avrebbe uccisa».
«Anche io». Cath deglutì. «Ma non l’ha fatto».
Lo prese per la maglietta e lo attirò a sé, premendo le labbra contro le sue. Lo baciò lentamente e George aprì la bocca per permetterle di assaporarla con la lingua. Cath gli mise le mani sulla schiena, aggrappandosi alle sue spalle come se stesse per essere strappata via da lui da una forza invisibile. George ricambiò il bacio con calma, cercando di non perdere il controllo, consapevole che Cath era reduce da una ferita mortale e che doveva stare attento a non farle male. La prese delicatamente per i fianchi e la fece sedere nel suo grembo, in quella posizione in cui gli piaceva tanto tenerla.
Cath raggiunse l’orlo della sua maglietta, ma George le afferrò i polsi e deglutì. «Aspetta» disse, non sapendo neppure lui dove stesse trovando la forza di volontà per fermarla. «Visto che siamo in argomento, devo chiederti scusa per un’altra cosa».
«Sono sicura che anche questa volta non sarà necessario» sussurrò Cath, chinandosi sul suo collo e posandogli un bacio alla base dell’orecchio.
«No, lo è» riuscì a dire George, reprimendo un sospiro di piacere.
La serietà nel suo tono di voce convinse Cath a dargli ascolto. Si allontanò leggermente da lui e lo osservò in attesa. «Dimmi, allora».
«La sera del compleanno di Rose ci siamo ubriacati» continuò lui, guardandola negli occhi e sentendosi un vero schifo. «Mi dispiace così tanto, Catherine. Così tanto. Ti ho mancato di rispetto e mi dispiace, ti giuro che se potessi tornare indietro non lo rifarei. Pensavo che non mi amassi più e so che i problemi non si affrontano in quel modo, ma…» Si interruppe, consapevole che quelle erano solo scuse su scuse. «Non voglio che tu abbia paura che io possa diventare come tuo padre. Non accadrà mai. Mai, capito? Non mi sarei dovuto ubriacare, non avrei dovuto farlo e ti prometto che non accadrà più. Lo giuro sull’Angelo».
Cath parve sgonfiarsi. Incurvò le spalle e sospirò, distogliendo lo sguardo da quello di lui. Rimase in silenzio per qualche secondo e George si sentì morire, temendo di averla offesa irrimediabilmente.
«Non mi piace che tu beva» disse infine lei. «Ma le situazioni sono diverse: tu hai diciotto anni e non ti ubriachi da quanto tempo? Da quando ne avevi sedici? Mio padre è un ultra quarantenne che ha sempre in mano la bottiglia. Gli adolescenti si ubriacano delle volte. Vedi, è di questo che parlavo ieri. A mala pena tocchi il vino da quando ci siamo messi insieme, ma so che in realtà ti piace e che lo fai per me. Non voglio che tu ti privi di certe cose solo perché…»
«Catherine». George la fulminò con lo sguardo e lei tacque. «Smettila. Ne abbiamo già parlato. Ti ricordi com’ero prima di incontrarti? Passavo da una discoteca all’altra ogni sera, Will e Rose non mi sopportavano più e il mio fegato ti è solo grato. Mi ero ripromesso che non mi sarei mai più ubriacato e invece ieri l’ho fatto. Ho sbagliato e mi dispiace».
Cath si morsicò il labbro inferiore, cosa che faceva quando le veniva da piangere ma non voleva farlo. «Grazie per avermelo detto. Il fatto che ti sia sentito in dovere di chiedermi scusa mi fa capire che tipo di persona tu sia».
George aggrottò le sopracciglia, non capendo se fosse una cosa positiva o meno. «Sei arrabbiata con me?»
«No, mon cher George, certo che no». Gli tracciò il contorno delle labbra con le dita e poi si chinò per baciarlo, ma George la bloccò di nuovo.
«Ultima cosa» sussurrò, odiandosi profondamente, ma c’era ancora una questione in sospeso.
«Stai scherzando?» Cath si fermò a un soffio dal suo viso e sbuffò.
George si mise a ridere e lei lo guardò storto.
«Non mi hai risposto questa mattina» disse lui, il cuore che minacciava di uscirgli dal petto.
Cath sembrava sorpresa. «Non mi pare che tu mi abbia chiesto qualcosa».
George doveva ammettere che aveva ragione: non glielo aveva chiesto chiaramente, ma era ovvio comunque, no?
«Sai di cosa sto parlando».
Cath gli sorrise e scosse il capo. «No, non lo so».
Era evidente che avesse capito, ma che non gliel’avrebbe data vinta così facilmente: voleva che lo dicesse.
«Non volevo chiedertelo così, adesso» iniziò. «Avevo pensato di farci aprire un portale da Will. Volevo chiedertelo a Parigi, sai… la città dell’amore. Però poi mi sono ricordato che sei nata e cresciuta a Parigi e che sarebbe stato stupido portarti lì di nuovo. Allora ho optato per…»
«George» lo interruppe Cath. «Si può sapere che stai dicendo?»
«Scusa, sto divagando». George si schiarì la voce. «Era solo per farti capire che è da mesi che ci sto pensando, che mi sto impegnando per rendere il momento perfetto, speciale. Ieri mi sono lasciato sfuggire qualcosa, ma avrei potuto comunque aspettare il tuo compleanno come avevo programmato. Però poi sei quasi morta e mi sono reso conto che non aveva alcun senso continuare a rimandare. So che non ci possiamo ancora sposare perché non sei maggiorenne e tuo padre non ti darebbe mai il permesso -e forse siamo anche troppo giovani- ma te lo devo chiedere lo stesso. Non posso vivere un altro giorno senza che tu sappia che ti amo, che voglio passar il resto della mia vita con te e che mi rendi davvero felice. Magari non mi credi, ma è la verità». George si sfilò l’anello dei Lovelace dal pollice e lo sollevò tra di loro. «Catherine, vuoi sposarmi?»
«Davvero?» Cath si portò una mano alla bocca. «Lo intendi davvero?»
George le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ti ho mai mentito?»
Cath emise un singhiozzo strozzato e lo abbracciò forte. «Sì, George. Certo che voglio sposarti».
George la strinse come se potesse fonderla dentro di sé e Cath gli passò le mani tra i capelli, sfregando la guancia contro la sua. George si rese conto che quella era bagnata e che Cath stava piangendo.
Cath si metteva a piangere quando provava delle emozioni troppo forti, che si trattasse di rabbia, gioia o dolore non era importante, lei piangeva. Più e più volte si era mortificata per questo, perché gli Shadowhunters non piangono e credevano che farlo fosse segno di debolezza. Anche George la pensava così prima di incontrare Cath, che piangeva spesso eppure era una delle persone più forti che conoscesse. Piangere era il suo modo per elaborare quello che provava.
Vedete? Gli Shadowhunters erano davvero stupidi.
«Vorrei dire un sacco di cose» gli lei sussurrò contro al viso. La sua voce era spezzata. «Ma non riesco a parlare».
«Non devi dire niente».
George le asciugò le guance con le mani, poi le prese quella sinistra e le infilò l’anello, che si adattò perfettamente al suo dito. Cath lo osservò incantata per qualche secondo, e George osservò incantato lei.
«Posso baciarti adesso?» gli chiese.
George non rispose, si limitò a passarle un braccio attorno alla schiena e a girare entrambi sul letto così che Cath fosse sdraiata sotto di lui. Si resse sui gomiti per sostenere il suo peso e si chinò per baciarla, questa volta senza trattenersi, cercando di trasmetterle con ogni bacio tutto l’amore che provava per lei.
Le mise le mani sotto alla maglietta, sui fianchi, ma al posto di sentire il calore della sua pelle trovò le bende che Magnus aveva usato per medicarla. Si bloccò e si diede dello stupido: a che cosa stava pensando? Cath era quasi morta, doveva riposare, riacquistare le forze…
«Catherine» disse, cercando di riprendere il controllo del proprio cervello, che sembrava aver smesso di funzionare.
Ma lei non parve sentirlo, perché stava cercando di sfilargli di nuovo la maglietta, le mani appiattite sul suo addome che gli rendevano molto difficile pensare lucidamente. «Puoi toglierti questa dannata maglietta, per favore?»
«Aspetta» le disse.
«E adesso che c’è?» George vide la delusione nel suo sguardo mentre gli posava una mano sul viso e lo guardava negli occhi. «Si può sapere chi sei e cos’hai fatto al mio George?»
«Sei stata pugnalata a morte».
«Sì, e sono sopravvissuta, ne abbiamo già parlato» liquidò la faccenda lei, attirandolo a sé e inarcandosi contro di lui. George emise un verso strozzato e le sue braccia cedettero, permettendogli finalmente di sentire il corpo di Cath contro al suo. Le mise le mani sulle scapole e la strinse a sé, baciandole la clavicola, il collo. Cath gli allacciò le gambe attorno alla vita e George temette di perdere i sensi proprio lì, in quel momento. Sapeva che stava sussurrando il suo nome e che le stava dicendo che la amava, cercando di fissare ogni istante, ogni sospiro, nella sua mente.
Fece per sfilarsi la maglietta, per la gioia di Cath, quando la sentì sussultare di nuovo.
George si immobilizzò e si mise a sedere. «Ti ho fatto male».
«No». Cath alzò gli occhi al cielo. «Non mi hai fatto male!»
George in tutta risposta si alzò dal letto e si allontanò da lei, passandosi le mani sul viso. Sapeva che se le fosse rimasto vicino non sarebbe più riuscito a fermarsi.
«George» lo chiamò Cath, aprendo le braccia verso di lui. «Torna qui».
George scosse il capo. «Dovremmo mangiare qualcosa».
«Ci siamo appena fidanzati» disse Cath. «E tu vuoi mangiare?»
George le sorrise allegro. «Appunto, abbiamo tutta la vita davanti, no?»
Cath non si mosse e George sospirò. «Devo sollevarti di peso?»
«Sei assurdo» sbottò lei, scostando le coperte di lato e scendendo dal letto. Emma aveva lasciato dei vestiti di Rose sulla sedia, e George vide Cath trattenere una smorfia di dolore mentre si infilava una felpa azzurro chiaro. 
«Hai bisogno di un iratze» le disse, prendendo lo stilo di Will dal comodino.
Cath allungò il braccio verso di lui infastidita, probabilmente più con se stessa che con lui. George le risvoltò la manica e le disegnò la runa poco sopra al polso. Poi aprì la porta e si fece da parte per farla passare.  
Cath alzò un sopracciglio. «Seriamente?»
«Muoviti, prima che cambi idea» le rispose lui con un ghigno.
Cath scrollò le spalle e uscì dalla stanza. George la seguì in corridoio.
Non si era dimenticato di Rose. Sapeva che avrebbe dovuto dirlo a Cath al più presto, ma quella sera era troppo debole e non voleva che svenisse per lo shock.
«Cosa vuoi mangiare?» le chiese mentre si incamminavano verso la cucina. «Ti prego, non cibo cinese».
«Cibo cinese» disse lei.
«D’accordo, ma io non divido i ravioli a vapore con te».
Cath gli sorrise angelicamente. «E chi ha parlato di dividere?»
 
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Julian appoggiò il gomito sul bracciolo della sedia e posò il capo sulla mano. Era stanco, ma sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere occhio fino a quando Rose non si fosse svegliata.
Si sarebbe svegliata. Doveva svegliarsi, doveva stare bene, perché Julian non ce l’avrebbe fatta ad affrontare di nuovo la perdita di una delle persone che amava di più al mondo. Non lo avrebbe sopportato, non un’altra volta, non dopo Livvy: perdere Rose lo avrebbe ucciso.
Almeno lui ed Emma erano riusciti a convincere Holly ad andare a dormire nel suo letto, si disse sconsolato. Anche se, a dir la verità, era stata Emma a convincerla promettendole che avrebbe dormito con lei. Holly aveva sempre avuto un debole per la sua mamma, e a Julian andava bene così perché Rose aveva sempre avuto un debole per il suo papà.
Anche Will era andato a dormire, ma convincerlo a lasciare Rose era stato molto più difficile. Sarebbe rimasto sveglio tutta la notte, Julian lo sapeva, ma non riposava da quasi due giorni e aveva bisogno di recuperare le forze. Gli ricordava se stesso da giovane, divorato da un amore che temeva non sarebbe mai stato corrisposto. Ma Julian conosceva Rose ed era certo che le preoccupazioni di Will erano senza fondamento, perché se Rose era innamorata di qualcuno, quello era proprio Will. Era evidente in ogni suo movimento, in ogni sguardo che gli lanciava quando lui non la stava guardando, nel modo in cui pronunciava il suo nome e nel modo in cui si illuminava quando parlava di lui.
La porta della camera di Rose si aprì e Julian sussultò. Holly comparve sulla soglia, illuminata dalla lampada a forma di luna che Rose aveva sul comodino. Julian l’aveva lasciata accesa così da poter leggere qualcosa, anche se la sua mente era altrove e non riusciva a concentrarsi.
«Holly?» disse Julian. «Holly, cosa ci fai qui?»
«Ho avuto un incubo» borbottò Holly, stringendo sotto al braccio il suo orsacchiotto. Con i capelli biondo chiaro e la camicia da notte bianca sembrava quasi un fantasma.
«Dov’è la mamma?» chiese Julian, iniziando a preoccuparsi.
«Sta dormendo» rispose Holly. «Non l’ho svegliata».
Holly salì sul letto e si infilò sotto alle coperte di fianco a sua sorella, per poi appoggiarle la testa sulla spalla. Quando notò che Julian la stava guardando con sguardo confuso sbuffò.
«Devo raccontare il mio sogno a Rose» gli spiegò, come se fosse ovvio. «Rose dice sempre che se glielo racconto smette di fare paura».
Julian annuì, incapace di aggiungere alcunché perché sentiva un nodo in gola che gli impediva di parlare.
Holly iniziò a raccontare a Rose il suo sogno, fatto di mostri e di demoni che volevano rubarle tutti i cioccolatini che aveva nascosto nell’armadio. Julian si ripromise di controllare appena possibile che nel suo armadio non ci fossero davvero così tanti cioccolatini.
Terminato il racconto, Holly diede un bacio a Rose e poi chiuse gli occhi, addormentandosi subito.
Dopo qualche minuto, la porta si aprì di nuovo. Si trattava di Emma. Aveva un’espressione terrorizzata sul volto che fece spaventare Julian quando la vide. Si alzò in piedi e mosse un passo verso di lei, temendo che fosse successo qualcosa di grave.
Emma guardò Rose e Holly ed emise un sospiro di sollievo. «Oddio» disse, appoggiandosi al muro. «Oddio, è qua».
Julian fece il giro del letto e la raggiunse.
«Em». Le prese la mano e le posò un bacio sul palmo. «Cosa succede?»
«Mi sono svegliata e Holly non c’era» spiegò lei. Posò la testa sulla sua spalla e lui la attirò a sé. Emma profumava di rose e di cioccolato. «Mi sono spaventata. So che siamo nell’Istituto e che è al sicuro qui, ma ho così tanta paura che possa succedere qualcosa anche a lei».
«Holly sta bene e nessuno le farà del male. Te lo prometto. Dovessi rinchiuderla in una torre».
Julian sentì Emma rilassarsi tra le sue braccia mentre lo stringeva a sua volta.
«Come Raperonzolo» sussurrò lei.
«Esatto. E dovrà farsi crescere i capelli così che un principe possa salvarla» disse Julian. Poi si bloccò e cambiò idea. «No, scherzavo. Niente principi. Assolutamente niente principi per almeno altri vent’anni».
Emma si mise a ridere contro al suo collo. Julian sentiva il suo respiro sulla pelle. «Lo sai che prima o poi crescerà anche lei, vero?» gli chiese Emma, alzando il capo per poterlo guadare negli occhi.
Julian fece finta di non capire. «Cosa intendi con anche lei? Rose non è cresciuta, nessuna delle due è cresciuta».
«Rose è maggiorenne, Jules».
«Shhh». Julian le diede un leggero bacio sulle labbra. «Se non lo dici ad alta voce non è vero».
Emma scosse la testa e gli sorrise. Poi distolse lo sguardo e si rattristì. «Si sveglierà, vero?»
Rose era in coma da quasi due giorni ormai. Magnus aveva detto che era normale dopo una ferita di quella portata, ma ogni ora che passava era per Julian una tortura.
«Certo» disse. La sua voce era sicura, ferma, doveva esserlo: doveva essere forte per Holly, per Emma e per Rose. «Sì. Si sveglierà. Deve svegliarsi, Emma. Non sopporterei il contrario».
«Lo so» disse lei. «Come mai Holly è venuta qui, comunque?»
«Ha fatto un incubo» spiegò Julian. «È venuta qui per raccontarlo a Rose».
«Oh». Emma si portò una mano alla bocca e guardò entrambe con occhi grandi. «Le manca sua sorella».
Si allontanò da Julian e salì anche lei sul letto, sistemandosi di fianco a Holly. Holly la sentì e si mosse un po’ nel sonno, borbottando qualcosa tra sé e sé.
«Shh, piccola» le sussurrò Emma, dandole un bacio tra i capelli. «Continua a dormire». Poi si rivolse a Julian e gli fece cenno di raggiungerle.
Julian non se lo fece ripetere due volte. Il letto di Rose era molto grande e li avrebbe ospitati comodamente tutti e quattro. Si sdraiò di fianco a Rose, dalla parte opposta rispetto a quella di Holly e Emma, e allungò un braccio sul suo petto, appoggiando la mano sulla spalla di Holly. Emma gliela prese e gliela strinse.
Julian chiuse gli occhi e finalmente riuscì ad addormentarsi.
 
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Rose aprì gli occhi. Prese un respiro profondo, un nome sulle sue labbra.
«Will» sussurrò, sbattendo le palpebre in confusione.
Intorno a lei tutto girava e non riusciva a capire dove si trovasse. In un letto. Il suo, forse? Non lo sapeva. Però sentiva qualcosa premerle sul torace e qualcos’altro sulla spalla destra. Un braccio? Una testa? Rose non riusciva a capire e non si sforzò di farlo, si limitò a pregare che la stanza smettesse di girare al più presto.
«Rose». Qualcuno le aveva messo una mano sul viso e la stava chiamando. Rose riconobbe gli occhi di suo padre e i suoi capelli marroni, tanto simili ai propri. Cercò di dirgli che andava tutto bene ma non riusciva a parlare; aveva la bocca secca come se avesse ingerito della sabbia.
«Rosie!» urlò Holly, che le si buttò addosso e la abbracciò. Rose la strinse a sé, dandole tanti baci sulla guancia.
«Holly, attenta a non farle male» disse sua madre preoccupata. Anche lei era sul letto con loro, ma Rose non riusciva a vederla, bloccata da sua sorella che sembrava non volerla lasciare andare più.
Holly si allontanò controvoglia e Rose sentì le mani di suo padre aiutarla a mettersi seduta. Sua madre le passò un bicchiere d’acqua. Rose lo accettò volentieri e lo bevve tutto d’un fiato, ma non fece in tempo ad appoggiarlo sul comodino che si ritrovò tra le braccia di suo padre.
«Non puoi farmi questo» le disse, accarezzandole i capelli con una mano e stingendola a sé con l’altra, come a volersi assicurare che non andasse da nessuna parte.
«Non posso farti che cosa?» riuscì a dire Rose.
«Morire».
«Ma non sono morta» rispose Rose.
Suo padre allentò la presa su di lei e le prese il viso tra le mani per assicurarsi che stesse davvero bene. «Lo so». Le diede un bacio sulla fronte e sospirò. «Brava bambina».
«Holly, fammi un piacere» disse sua madre. «Vai a chiamare Magnus. Digli che Rose si è svegliata e chiedigli di venire qui. È nella stanza vicino alla nostra».
«Ma…!» Holly si imbronciò. «Devo fare vedere a Rose i disegni che le ho fatto!»
«Puoi farlo più tardi» le disse Emma con voce gentile. «Per favore?»
Holly non sembrava molto contenta, ma fece come lei le aveva chiesto: prese il suo orsetto e scese dal letto con un salto, per poi scomparire dietro alla porta.
«Rose». Emma le si avvicinò e la abbracciò a sua volta, così forte che per poco le mancò l’aria dai polmoni. «Mi dispiace tanto. È tutta colpa mia, mi dispiace».
«Mamma, non è colpa tua» le disse Rose. «Mi è caduta una roccia in testa. Non è colpa di nessuno».
«Non fare mai più una cosa del genere, Rose» continuò sua madre. «Uscire senza aspettarci, affrontare i Riders da soli…» La prese per le spalle e la guardò fisso negli occhi. «Mai più, capito?»
Rose annuì e tirò su con il naso. Non ricordava nulla di quanto accaduto dopo che la roccia l’aveva colpita, ma si rendeva conto di aver fatto spaventare tutti.
«Quando tempo sono stata in coma?»
«Due giorni» rispose suo padre.
«E Will?» chiese Rose, improvvisamente agitata. «Lo avete tirato fuori da lì, vero
«Certo». Sua madre le sorrise. «Will sta bene. Lo abbiamo spedito a letto però. Ora dorme».
«È rimasto accanto a te tutto il tempo» sospirò suo padre. «Sarà furioso quando scoprirà che ti sei svegliata e lui non era qui».
Rose si sentì arrossire al pensiero di quanto successo nella grotta. Doveva parlare con lui al più presto.
«Quando posso vederlo?» chiese impaziente.
«Lascialo riposare un po’» disse Emma. «È andato a dormire solo qualche ora fa».
Rose si imbronciò. Aveva aspettato per troppo tempo e anche solo cinque minuti in più le sembravano troppi, interminabili.  
«Ti preparo qualcosa da mangiare per colazione» disse Julian. «Sono quasi le 8. Richieste particolari?»
Rose sorrise. «Pancakes, che domande».
«Già, che stupido». Le diede un altro bacio sulla guancia e se ne andò, lasciandola sola con Emma.
Sua madre le prese la mano. Aveva gli occhi lucidi e sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
«Se mi chiedi ancora scusa, me ne vado» le disse piano Rose. «Giuro. Parliamo di qualcos’altro».
Emma annuì e respirò profondamente. «D’accordo». Ci pensò un attimo e poi le sorrise con malizia. «Lo sai chi ti ha tenuto la mano per tutto il tempo?»
Ripensandoci, forse avrebbe preferito stare a sentire ancora le sue scuse.
«Mmm» iniziò Rose. «Papà?»
Emma scosse il capo. «William».
Rose trattenne un sorriso e arrossì ancora di più, facendo ridere sua madre.
«Ci siamo baciati nella caverna» confessò, senza sapere neppure lei perché lo stesse facendo. «Mi ha chiesto di baciarlo perché pensava di morire». Sua madre sembrava stupita non tanto per il bacio, quanto piuttosto per il fatto che gliene stesse parlando. Rose continuò: «Non è stato come baciare Logan. E Logan mi piaceva».
Emma le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e Rose si sentì improvvisamente a disagio a parlare della sua vita sentimentale con sua madre.
«Ti piaceva, ma non eri innamorata di lui» disse lei. «Sei innamorata di Will».
E non era una domanda. Non capiva come mai ne fossero tutti così convinti -prima Cath, ora sua madre- e sentirlo dire ad alta voce le faceva sempre un certo effetto.
«Pensi che lui sia innamorato di me?» le chiese senza stare a rifletterci troppo. Era troppo confusa, aveva bisogno di parere esterno.
Emma sembrava nervosa e abbassò il capo sulle loro mani intrecciate. «Dovresti chiederlo a lui».
«Dici di no?» Rose si sentì morire davanti alla reazione di sua madre; aveva davvero creduto per un attimo che lui fosse innamorato di lei. «Perché no?»
«No no no!» si affretto a dire Emma. «Cioè, sì. Certo che è innamorato di te. Voglio dire, credo. È ciò che credo io. Secondo me è innamorato di te. Non che io lo sappia».
Rose sbatté le palpebre, sospettando che le stesse nascondendo qualcosa. Poi si diede della stupida, perché che cosa avrebbe mai potuto nasconderle? Di certo Will non avrebbe mai detto ai suoi genitori se era innamorato di lei o meno. Semmai lo avrebbe detto a… Rose sentì il proprio cuore fermarsi.
A George!
«Devo parlare con George» disse. Si alzò dal letto di scatto e per poco non finì per terra a causa di un capogiro. Si portò una mano alla testa e chiuse gli occhi.
«Rose!» esclamò sua madre, raggiungendola e mettendole una mano sulla spalla. «Per l’Angelo, stai attenta!»
Rose prese un bel respiro e aprì la porta, andandosi quasi a scontrare con Magnus Bane, che indossava una camicia blu scuro e un paio di pantaloni beige con i brillantini. I suoi capelli neri sparavano in tutte le direzioni, facendolo sembrare ancora più alto.
«Ben svegliata, Fiorellino» le disse con un sorriso. Da quando Rose aveva memoria, Magnus l’aveva sempre chiamata Fiorellino. «Vedo che stai bene».
«Devo andare da George» disse Rose, impaziente. Stava fremendo, ci mancava poco che si mettesse a saltellare sul posto. «Puoi visitarmi dopo? Per favore?»
Magnus alzò un sopracciglio e guardò Emma.
«Non se ne parla» disse lei, mettendosi le mani sui fianchi.
Rose fu costretta a cedere e a permettere a Magnus di assicurarsi che si fosse rimessa al cento per cento. Si sedette di nuovo sul letto mentre Magnus le posava le mani sulle tempie. Non sentì male, anzi, non sentì proprio niente. Non che le importasse: voleva solo vedere George. E poi Will. Voleva capire.
«Tutto bene, Fiorellino» disse Magnus. «Continuerai a essere un genio».
«Perfetto!» Rose si precipitò fuori dalla camera, sventolando una mano per aria. «Grazie, Magnus!»
Sua madre la chiamò, ma lei non le diede ascolto. Si mise a correre lungo il corridoio, per poi rendersi conto che non aveva idea di dove fosse George.
Quel giorno però sembrava essere il suo giorno fortunato, perché George e Cath stavano uscendo proprio in quel momento dalla camera di fianco a quella di Holly.
Rose tirò un sospiro di sollievo quando vide Cath che camminava e respirava. Le corse incontro e la abbracciò, sollevandola da terra. Cath emise un verso stupito e si aggrappò alle sue spalle per non cadere.
«Grazie all’Angelo stai bene». Rose le stampò un bacio appiccicoso sulla guancia e la lasciò andare.
«Grazie all’Angelo tu stai bene!» le rispose lei, accarezzandole piano i capelli.
«Mi dispiace» disse Rose. Poi abbassò la voce. «Dopo ti devo parlare. Ma non adesso». Rose alzò il capo e fulminò George con lo sguardo. «Adesso devo dirne quattro al tuo ragazzo».
«Fidanzato» precisò George, un po’ troppo compiaciuto.
Rose sventolò una mano nella sua direzione per zittirlo. «Come ti pare». Poi si bloccò e spalancò gli occhi. «Che cosa? Stai scherzando?»
«No». George ghignò e passò un braccio attorno alle spalle di Cath. «Mai stato più serio in vita mia».
Rose spostò lo sguardo dall’uno all’altra non sapendo bene come reagire. Alla fine gettò le braccia al collo di George –stranamente non per strozzarlo- e lo abbracciò forte. «Oh, Georgi» disse. «Sono tanto felice. Davvero. Quando vi sposate?»
George le diede qualche pacca sulla schiena e si mise a ridere. «Una volta che Cath avrà compiuto diciotto anni. Non sappiamo esattamente quando. Almeno tra un anno».
Cath annuì e Rose abbracciò di nuovo anche lei.
«Congratulazioni. Sul serio». Rose prese un respiro per calmarsi. Provava troppe emozioni tutte insieme e non riusciva a distinguerle: gioia, incondizionato amore per la sua famiglia, per George e Cath, per Will. Rabbia per essere stata tenuta all’oscuro e aver fatto la figura dell’idiota. «Adesso però stammi a sentire, George Lovelace» sibilò, puntando un dito contro al suo amico. «Tu lo sapevi. Dovevi saperlo! E non mi ha detto niente».
«Ti sei appena svegliata e già ti ho fatto arrabbiare? Credo sia un nuovo record». George alzò gli occhi al cielo. «Devi essere più precisa, comunque. Non so ancora leggere nella mente».
«Will è innamorato di me?».
George ammutolì. Fece per parlare, ma dalla sua bocca non uscì nulla. Era chiaramente in stato di shock e non sapeva come reagire.
«Ecco!» esclamò Rose, sentendo una fitta attraversarle il petto. «Lo so che è il tuo parabatai, ma io sono tua amica, e…»
Quando George e Will avevano deciso di diventare parabatai era stato un duro colpo per Rose. Nel proprio cuore sapeva che prima o poi lo avrebbero fatto, che prima o poi sarebbero diventati parabatai, ma quella consapevolezza non l’aveva fatta sentire meglio quando le avevano dato la notizia. Aveva indossato un sorriso forzato e aveva fatto loro le congratulazioni, temendo che l’avrebbero esclusa, che avrebbero costruito qualcosa di talmente intimo che lei non ne avrebbe mai potuto far parte. Per fortuna non era successo niente di quello che temeva: le cose tra di loro non erano cambiate e i due ragazzi non l’avevano mai fatta sentire tagliata fuori. Tuttavia, nonostante Rose fosse davvero felice che fossero diventati parabatai, c’erano ancora delle voci nella sua testa che le sussurravano maligne che prima o poi si sarebbero stancati di lei e l’avrebbero lasciata sola. Razionalmente sapeva che erano preoccupazioni senza fondamento, ma la paura non è razionale.
«Perché non me lo hai detto?» chiese con un filo di voce.
George fece un passo verso di lei, gli occhi scuri pieni di tristezza. Aveva capito che dietro quella domanda c’era molto di più, che c’erano delle paure che non aveva mai confidato a nessuno.
«Ci ho provato» le disse. «Ho provato a fartelo capire».
«Non poteva dirtelo perché non era il suo segreto da dire» si intromise Cath. «Non era una sua decisione da prendere, era di Will».
Rose era consapevole che avesse ragione ma non le diede ascolto; tenne lo sguardo fisso su George.
«Io non so cosa gli faccio» disse, riferendosi a Will. La sua voce stava iniziando a tremare, ma Rose si sforzò per mantenerla il più ferma possibile. «George, lo sai che adesso lo strozzo. Vero?»
George sospirò. «Lo so. Non sai quante volte gli ho detto di dirtelo. Perché lo ami anche tu, no?»
Rose lo guardò come se fosse stupido. «Certo che lo amo anche io!»
Lo aveva finalmente detto ad alta voce. Si sentiva più leggera.
«Non merito la tua ira, Blackthorn» disse George. «Ho fatto del mio meglio. E lo avevamo capito tutti, stavo solo chiedendo conferma».
Rose si coprì il viso con le mani. George le si avvicinò e la prese tra le sue braccia, posando il mento sulla sua testa. «Non essere troppo dura con lui. Ti ama tanto, Rose. Davvero. Mettetevi insieme e fatela finita».
«Prima lo strozzo» borbottò Rose contro al suo petto. «Poi possiamo stare insieme».
«Basta che non lo uccidi. Che ti piaccia o no, abbiamo bisogno di lui». George la strinse un po’ più forte a sé. «E abbiamo bisogno anche di te. Mi hai fatto preoccupare». Le diede un bacio tra i capelli. «Non farlo più».
«La prossima volta che mi starà per cadere una roccia in testa le chiederò gentilmente di cambiare traiettoria». Rose alzò il capo per guardarlo negli occhi e gli arruffò i capelli. «Non sono arrabbiata con te, non ne ho alcun diritto. Se ti avessi detto che sono innamorata di Will non avrei voluto che glielo riferissi. Sono arrabbiata con lui».
«Voleva dirtelo, per quel che vale. È da una settimana che ci prova, ma c’è sempre qualcosa che glielo impedisce».
Rose alzò un sopracciglio, stentando a crederci: se avesse davvero voluto dirglielo, avrebbe trovato un modo. 

NOTE DELL'AUTRICE
Lo so, questa volta vi sto facendo penare, ma abbiate pazienza! Nel prossimo Will e Rose parleranno e vedrete che cosa succederà tra quei due salami. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Grazie mille se state leggendo ancora. A presto,
Francesca 

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedici. ***


Capitolo sedici
 
Dopo aver fatto colazione con George e Cath, Rose tornò nella propria camera. Si guardò intorno, come a volersi assicurare che tutto fosse al proprio posto: il suo letto, la sua lampada a forma di luna, il suo amato computer sulla scrivania e… Rose si bloccò. Di fianco al computer c’era una piccola busta verde con scritto Per Rose nella calligrafia di Will.
Si era completamente dimenticata della lettera che Will le aveva lasciato assieme alla tavola periodica come regalo di compleanno. La prese con mani tremanti e la lesse trattenendo il fiato.
Non si accorse di essersi messa a piangere fino a quando non si toccò la guancia con la mano e la trovò bagnata di lacrime.
Lo avrebbe ucciso, William Herondale.
Andò a farsi una lunga doccia per sciacquare via tutti i pensieri che la tormentavano; tornò nella sua camera e si infilò un paio di jeans, afferrando poi una canottiera che le aveva regalato sua sorella per il compleanno. Aveva un unicorno arcobaleno stampato sul davanti e George non aveva ancora smesso di prenderla in giro, nonostante fossero passati ormai due anni e lei in realtà la adorasse. Stava per indossarla, quando la porta si spalancò alle sue spalle. Rose si voltò e trovò Will sulla soglia. I suoi capelli erano tutti schiacciati da un lato come se si fosse appena alzato dal letto.
«Rose, per l’Angelo! George mi ha detto che…» Will spostò lo sguardo dal suo viso alla maglietta che stava stringendo tra le mani e chiuse gli occhi. «Oddio, scusa!» Si voltò e cercò di uscire dalla porta, ma questa si era richiusa alle sue spalle e lui ci andò a sbattere contro. «Ahia» borbottò, portandosi una mano sul viso.
Rose si mise la canottiera e scoppiò a ridere. «Si può sapere che stai facendo?»
Will tornò a fronteggiarla, continuando però a tenere gli occhi serrati. «Non ho bussato e tu ti stavi cambiando».
«Certo, come se non mi avessi mai visto in costume».
Will aprì un occhio per assicurarsi che si fosse rivestita; solo quando ebbe appurato che non era più in biancheria intima, si decise ad aprirli entrambi.
Le sorrise, quel sorriso che Rose odiava e amava allo stesso tempo perché era in grado di farle dimenticare ogni cosa, anche che era arrabbiata con lui.
«Sono così contento che tu stia bene». Will cercò di avvicinarsi ma lei afferrò un cuscino e glielo lanciò in faccia.
«No» disse. «Non fare un altro passo, William–posso fare quello che voglio perché tanto Rose è cotta di me–Herondale. No».
Will la guardò come se fosse impazzita. «Che stai dicendo?»
Rose era così arrabbiata che gli lanciò un altro cuscino. Will si abbassò e poi ghignò nella sua direzione. «Lo sai che non mi fai niente con i cuscini, vero?»
Rose alzò un sopracciglio e prese in mano il libro di fisica quantistica che aveva lasciato ai piedi del letto. «Magari posso provare con questo, che te ne pare? È abbastanza pesante secondo te?» sibilò, per poi alzare la voce. «Perché se vuoi posso usare quello di programmazione!»
Sbatté il libro sul comodino con un po’ troppa ferocia e chiuse gli occhi per calmarsi. Quando li riaprì si trovò Will davanti, a soli pochi centimetri da lei. Sobbalzò e fece un passo indietro, trovandosi con le spalle contro al muro.
«Mi spieghi cosa ti ho fatto?» le chiese piano Will. I suoi occhi verdi erano più scuri del solito, le pupille dilatate, se per la confusione o per altro Rose non lo sapeva. Sentiva il suo respiro sulla pelle e avrebbe desiderato così tanto riuscire a spingerlo via e essere arrabbiata con lui, ma non ci riusciva. Bastava che lui la guardasse in quel modo per farla sciogliere come neve al sole.
Deglutì e cercò di mantenere un tono di voce fermo, nonostante sentisse gli occhi bruciare per la frustrazione. «Non mi hai detto che sei innamorato di me». Se solo lo avesse fatto, le avrebbe risparmiato un sacco di sofferenza e paranoie.
Will deglutì. «Sono innamorato di te».
«Non vale dirlo adesso».
Will si mise a ridere e Rose non riuscì a fare a meno di sorridergli a sua volta.
«Se dobbiamo essere sinceri, neanche tu mi hai detto che sei innamorata di me».
Rose sentì di nuovo la collera montare dentro di sé. Cosa si era aspettato? Che dopo che lui aveva baciato quella fata proprio davanti al suo naso lei gli avrebbe confessato il suo amore?
Lo guardò seria, cercando di non far trasparire alcuna emozione. «E chi ha detto che sono innamorata di te?»
Will sbiancò, poi arrossì violentemente. Fece due passi indietro per allontanarsi da lei e si passò una mano tra i capelli. «Mi dispiace» disse. «Io credevo che…»
Rose scoppiò a ridere, piegandosi sulle ginocchia. «Dovresti vedere la tua faccia».
Will capì subito che si trattava di uno scherzo e tirò un sospiro di sollievo. «Dio, Rose».
«Te lo sei meritato!» esclamò lei. Gli si avvicinò e gli diede una piccola spinta. «Me lo ricordo quando due anni fa hai baciato quella fata nel locale a Beverly Hills, proprio quando credevo che provassi qualcosa per me. Ma forse ai tempi non provavi niente…»
«No» la interruppe Will. «No no no». Si passò una mano sul viso come se fosse stanco. «Lascia che ti spieghi. Non so cosa sia successo quella notte, so solo che è passata una ragazza con dei bicchieri pieni di un liquido dorato e io, credendo si trattasse di un normalissimo drink mondano, l’ho bevuto. Improvvisamente ogni ragazza nel locale aveva il tuo viso e la cosa non mi sembrava strana. Quando quella fata mi si è avvicinata credevo fosse te. È stato solo quando ti ho vista, quando ho visto la vera te, che l’incantesimo si è spezzato: mi sono reso conto che non era normale che ci fosse più di una Rose e che ero stato vittima di uno scherzo di cattivo gusto».
«Oh». Rose lo fissò con la bocca spalancata, incapace di aggiungere altro. Per anni aveva creduto che Will non la amasse, che quella sera avesse giocato con i suoi sentimenti, e ora scopriva che si era trattato di… un grosso malinteso? Lo avrebbe insultato, se solo non fosse stata così sotto shock. Si prese qualche minuto per metabolizzare la notizia, e quando lo ebbe fatto raddrizzò la schiena. Decise che era furiosa. «Perché non me lo hai detto subito?» chiese. «O anche dopo? Perché cavolo non me lo hai detto e basta?»
«Perché poi tu sei venuta da me con un sorriso e mi hai detto che avrei dovuto chiederle il numero» spiegò Will con una punta di disperazione nella voce. «E da quel momento mi sono convinto che non mi avresti mai visto come più di un amico. Ma più passava il tempo e più mi rendevo conto che mi sono convinto di questo perché volevo convincermi di questo. Era sicuramente più facile che confessarti i miei sentimenti, rischiando di rovinare tutto».
Rose alzò un sopracciglio. «Perché invece così le cose erano fantastiche!»
Will abbassò il capo e si guardò i piedi. Rose sentì un po’ della rabbia che provava scemare: si rese conto che non era arrabbiata con lui, era arrabbiata con il mondo in generale e con se stessa, perché aveva preferito rinunciare a Will piuttosto che dirgli ciò che provava.
«Quindi…» si schiarì la voce, arrossendo leggermente. Non sapeva come chiederglielo, ma doveva sapere. «Mi amavi anche allora?»
Will alzò lo sguardo su di lei. Il suo viso era aperto, limpido, come se non stesse nascondendo più niente e le stesse mostrando ogni cosa. «Certo» disse. «Sempre. Ti ho sempre amata e ti amerò per sempre. So che non credi in queste cose e che probabilmente pensi che l’amore sia solo un insieme di reazioni chimiche e che ci sia un modello matematico per descriverlo, ma io sono convinto che...»
«No, non c’è e odio che non ci sia» lo interruppe Rose a bassa voce. «Non c’è nessun modello mate…»
«Rosie». Will sorrise e le prese il viso tra le mani. «Lasciami finire».
Scusa, pensò Rose, maledicendosi. Stai zitta.
Era consapevole di essere un disastro e di riuscire sempre a rovinare tutto, ma Will non sembrò darci troppa importanza e continuò, ormai incapace di fermarsi. «Sono convinto che le nostre anime siano cresciute amandosi e per amarsi. Sin da quando eravamo bambini ci siamo modellati l’uno sull’altra, accettando ogni parte di entrambi, anche quelle che gli altri non accettano, che nemmeno noi stessi accettiamo. Come potremmo non amarci? Stare insieme per noi è naturale come il sole che sorge ogni mattina. E io amo tutto di te, Rose. Amo quando mi parli di informatica o di fisica nonostante io non capisca una singola parola; amo quando ti alzi alla mattina alle sei per andare a correre, amo la tua determinazione e costanza. Amo quando ti intrecci i capelli perché c’è qualcosa che ti preoccupa, o quando ti mordi il labbro perché sei nervosa. Amo le tue cicatrici, che tu cerchi sempre di coprire, e il fatto che non ti asciughi mai i capelli perché credi che sia estate ovunque. Non piangi mai, ma lo fai sempre per i film mondani che guardi con tuo padre e amo che tu abbia una mente tanto logica che però è anche capace di farsi toccare dall’arte e dall’amore. E amo che tu voglia salire così tanto sulla ruota panoramica a Santa Monica nonostante tu soffra di vertigini: ti prometto che ci saliremo assieme prima o poi». Will prese un respiro profondo come se stesse riuscendo a respirare per la prima volta dopo anni. «Ti amo davvero tanto, Rose».
Rose sentiva qualcosa premerle contro al petto, e realizzò che si trattava del suo cuore. Se avesse potuto, se lo sarebbe strappato e lo avrebbe donato a Will, perché era suo, era sempre stato suo, e Rose sapeva che non avrebbe mai potuto amare nessun altro in quel modo.
Appoggiò le mani sopra a quelle di Will e se le tolse dal viso, intrecciando le dita a quelle di lui.
Come rispondi a qualcosa del genere?
«Non sono arrabbiata con te» si ritrovò a dire con voce sottile. «Ti amo troppo per essere arrabbiata con te. Mi fai sentire così amata, come se non ci fosse niente di strano in me, e ti giuro che è la sensazione migliore del mondo».
«Ma non c’è niente di strano in te».
Rose lo prese per la maglietta e lo attirò a sé, premendo il proprio corpo contro il suo. Will le passò le mani tra i capelli e sospirò sulle sue labbra. Rose poteva sentire i suoi pensieri, e questi corrispondevano ai propri: finalmente. Finalmente posso baciarti, posso toccarti, finalmente sei mio e io sono tua. Finalmente.
Si baciarono come se non stessero aspettando altro da tutta la vita, la bocca aperta, le mani che esploravano il corpo dell’altro. Will la prese per la vita e la strinse a sé mentre Rose si alzava sulla punta dei piedi e gli allacciava le braccia attorno al collo.
Will rise leggermente sulla sua bocca, facendole il solletico e facendola ridere a sua volta.
«Non ci credo che sta succedendo veramente» disse, dandole un bacio a stampo, senza lasciarla però andare. «Ho paura che domani mi sveglierò per rendermi conto che si è trattato di un sogno».
«Sta succedendo invece». Rose gli poggiò le mani sul petto e lo allontanò leggermente, facendolo camminare all’indietro fino a quando le sue ginocchia si scontrarono con il bordo del letto. Lo fece sedere e gli si sedette sopra a sua volta.
«Rose» iniziò Will, ma lei lo bloccò con un bacio. Gli prese il viso tra le mani e tracciò il contorno delle sue labbra con la lingua. Will gemette e le posò le mani alla base della schiena, sotto alla maglietta.
«Toglila» sussurrò Rose, spostando le labbra sul suo collo e baciandolo lì, alla base della mandibola dove si sente il battito del cuore e dove aveva sempre desiderato baciarlo.
Will sospirò, ma le sue mani non si mossero. Allora Rose lo spinse all’indietro, facendolo sdraiare sulle coperte mentre si sfilava la canottiera e la gettava per terra. Will la guardò dal basso verso l’alto come se non l’avesse mai vista in vita sua e Rose si chinò su di lui, uccidendo sul nascere quello che stava per dirle con un bacio.
Sentì Will spostare le mani sui suoi fianchi, poi sulla schiena, su fino all’allacciatura del reggiseno, e Rose non poteva credere che il suo Will la stesse davvero toccando in quel modo.
Pensò a Logan per un attimo, a come si era sentita quando lui l’aveva toccata come Will la stava toccando in quel momento, e si rese conto che non riusciva neppure a mettere a confronto le due situazioni: perché se con Logan si era sentita come se lui la stesse soffocando, con Will si sentiva come se potesse respirare attraverso di lui, come se lui le stesse dando nuovamente vita.
«Ti amo, William» gli disse di getto, toccandogli il viso con la mano. «Ti amo così…»
Qualcuno bussò alla porta. Will si immobilizzò e trattenne il fiato.
«Rose, sbrigati» disse suo padre. Rose sentì la maniglia della porta iniziare ad abbassarsi. «Siamo tutti in biblioteca».
«Non entrare!» Si rese conto di aver urlato e si morsicò il labbro. «Per favore, non entrare».
Suo padre aveva quasi aperto la porta ma si bloccò. «Perché?»
«Perché Wi…» Rose stava per intimargli di andarsene perché c’era lì Will con lei, ma questo le mise una mano sulla bocca per fermarla, implorandola con gli occhi di non dire niente. A Rose non importava che suo padre sapesse che Will era lì, semplicemente non voleva che la vedesse completamente sopra di lui senza la maglietta.
Rose lo guardò male e Will le tolse titubante la mano dalla bocca.
«Perché mi sto vestendo» si inventò allora, solo per amore di Will.
«Ti ho vista nascere» commentò Julian piatto. Dopo un lungo momento di silenzio imbarazzante, lui sospirò. «C’è lì Will, vero?»
Will scosse freneticamente il capo.
«N-no?» disse Rose, consapevole che non era suonata per nulla convincente e che suo padre non se la sarebbe mai bevuta.
Will si coprì il visto con le mani, ponderando probabilmente l’idea di ammazzarsi.
Che tragico, pensò Rose.
«Ci vediamo in biblioteca» disse Julian. Poi si mise a chiamare Emma mentre si allontanava, la sua voce che diventava sempre più distante.
«Si può sapere che problemi hai?» chiese Rose a Will. Era ancora sopra di lui, il viso così vicino al suo che poteva contare le sue lentiggini.
«Mi uccide» sussurrò lui. «Mi uccide».
Rose gli baciò l’angolo della bocca e poi il naso. «Mio padre è…»
«… buono come il pane» concluse Will. «Me lo hai già detto, ma io non ci credo».
La fece spostare di lato e si alzò dal letto.
«Cosa fai?»
«Dobbiamo andare» disse Will. «In biblioteca, ricordi?»
«Vuoi andare in biblioteca?»
«Non voglio andare in biblioteca» rispose Will. «Ma hai sentito tuo padre: dobbiamo andare in biblioteca. Ci aspettano. Tu vai per prima e io vi raggiungo dopo qualche minuto. Per non dare nell’occhio».
«William» disse Rose, mettendosi a sedere dritta sul letto. «Stai scherzando? Non vuoi che i nostri genitori sappiano che siamo innamorati?»
«Lo sanno» disse lui, inginocchiandosi davanti a lei e prendendo le mani tra le sue. «Fidati, lo sanno. Non voglio dar loro motivi per prenderci in giro».
«I miei non ci prenderebbero in giro».
«Parlo di mio padre, infatti». Le diede un bacio sul dorso della mano e si alzò in piedi. «Adesso andiamo, forza. Non voglio che Julian ti venga a prendere per le orecchie e mi uccida».
 
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Will si stava dirigendo con calma verso la biblioteca. Sentiva un piacevole ronzio nelle orecchie e una strana sensazione all’altezza dello stomaco. Era come se il mondo continuasse a girare attorno a lui senza che se ne rendesse conto; percepiva ogni rumore come distante, ovattato, e la sua testa era altrove.
Non era sicuro di essere nelle condizioni per affrontare i suoi genitori, che lo avrebbero guardato con malizia, Julian, che lo avrebbe trattato in modo gentile facendolo sentire a disagio perché Will sapeva che in realtà lo voleva uccidere, George e Cath, che erano due delle persone più ficcanaso che conosceva quando si trattava della sua vita sentimentale, e Rose stessa.
Okay, si disse. Okay, smetti di sorridere come un deficiente. Ci provò, cercando di rendere la sua espressione il più naturale possibile, ma fallì miseramente.
Non poteva farne a meno. Rose lo aveva baciato. Lui aveva baciato lei. Di nuovo.
Rose Eleanor Blackthorn era innamorata di lui.
Riprese a sorridere. 
Era stanco, si sentiva come se gli fosse passato addosso un carrarmato, le ossa doloranti e i muscoli intorpiditi. Ma non gli importava, perché le mani di Rose avevano sciolto quella stanchezza e le sue labbra gli avevano ridato energia.
Il suo sorriso si fece ancora più grande, il che era un problema dato che era arrivato davanti alla porta della biblioteca.
Entrò silenziosamente, cercando di non attirare l’attenzione.
Il suo sguardo trovò subito Rose, seduta su un tavolo di fianco a Cath e George che stavano esaminando una mappa. Portava ancora la canottiera con l’unicorno arcobaleno e si era raccolta i capelli in un morbido chignon sul capo, lasciando scoperto il collo. Quella canottiera era oggettivamente bruttissima, a meno che tu non avessi sette anni e una passione per il rosa e gli unicorni, ma a Rose sembrava piacere, forse perché le era stata regalata da sua sorella. Se doveva essere sincero, adesso anche Will la adorava. Era diventata la sua maglietta preferita. Certo, se Rose non se la teneva addosso era anche meglio.
Will arrossì e si andò a sedere di fianco a George.
Vide i suoi genitori in piedi di fronte a un alto scaffale, probabilmente alla ricerca di qualche libro per Magnus, e Holly seduta su un tappeto a leggere un libro.
«Guarda chi abbiamo qui» lo salutò George con un ghigno. «Allora? Rose non vuole dirci niente».
Rose alzò gli occhi al cielo. «Perché devi farti gli affari tuoi».
Will sentì il sorriso spuntargli di nuovo sulle labbra e il desiderio di avvicinarsi a Rose, di toccarle la mano, di sfiorarle la guancia, si fece quasi insopportabile.
Non ebbe bisogno di dire niente, perché come al solito sapeva che il suo viso parlava da sé.
Cath lo stava guardando con gli occhi lucidi e Will si ricordò quando l’aveva conosciuta e aveva sperato di innamorarsi di lei. L’aveva invitata al concerto dei Dark Paradise -una band sconosciuta che piaceva solo a George. Aveva un biglietto in più perché Rose stava male e non sarebbe potuta andare con loro. Aveva sperato di iniziare a provare qualcosa per lei, ma alla fine era stato George a innamorarsi di Cath, e Will aveva continuato ad amare Rose in silenzio, credendo che quello sarebbe stato il suo destino: amare Rose senza che lei lo sapesse.
Ma ora lo sapeva, lo sapeva e ricambiava i suoi sentimenti. Quella consapevolezza lo stava divorando dall’interno, tanto che mandò all’aria il proprio autocontrollo e fece per avvicinarsi a Rose e stamparle un bacio sulle labbra davanti a tutti.
Aveva già fatto un passo verso di lei quando Julian entrò nella biblioteca. Will finì quasi per terra.
«Abbiamo parlato con il Console Gladstones» disse.
George, Cath e Rose si misero a ridere, perché Will aveva emesso un verso strano e si era aggrappato al tavolo per non cadere davvero.
Will si raddrizzò e rivolse a Julian un cenno di saluto con la mano. «Ehi».
Julian inclinò il capo e alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Ciao, William» disse. Poi continuò: «Abbiamo parlato con il Console Gladstones e vuole che andiamo a Idris per testimoniare davanti al Concilio».
Will annuì. Julian e Emma sarebbero dovuti andare per forza per raccontare quanto accaduto vent’anni addietro, quando Emma aveva ucciso Fal con Cortana, mentre lui, Rose, George e Cath avrebbero dovuto raccontare il resto.
«Partiamo per Idris domani mattina» disse Emma.
«Partite?» Holly aveva alzato gli occhi dal suo libro e li stava guardando dal basso verso l’alto.
«Dobbiamo andare a Idris a parlare con il Console» spiegò Emma. «Non ci vorranno più di un paio di giorni».
«Posso venire anche io?» chiese Holly con un filo di voce. Will sospettava che sapesse già la risposta.
Emma esitò un attimo, e fu Julian a parlare. «Non puoi, Holly. Mi dispiace. Passeremo tutto il tempo alla Guardia e nell’ufficio del Console, ti annoieresti. È meglio che tu stia qui».
Anche Will preferiva che Holly rimanesse a casa: avrebbero discusso dei Riders e ne sarebbe rimasta solo traumatizzata.
«Ma…» Il labbro di Holly aveva iniziato a tremare. «Anche Rose deve venire con voi?»
Holly alzò lo sguardo su sua sorella.
«Sì, Holly. Devo andare» disse lei. «Rimarranno zio Ty e zio Kit qui con te. Oppure puoi andare da zio Mark. Lo sai che hanno un nuovo cagnolino? Tra parentesi, non è giusto, ne voglio uno anche io».
Rose desiderava un cane da quando era una bambina. Church qualche volta andava a fare loro visita all’Istituto, ma quel gatto odiava Rose e Rose odiava lui.
«Non puoi andare» sussurrò Holly. Non stava piangendo, però delle lacrime avevano iniziato a bagnarle il viso. «Ti sei appena svegliata e devo farti vedere i disegni che ti ho fatto».
«Puoi farmeli vedere adesso» le disse Rose con un sorriso. «Sarò a casa prima che tu te ne renda conto».
Holly si alzò e andò via, camminando con la testa bassa e iniziando a piangere più forte. Rose incrociò lo sguardo di sua madre e poi corse dietro a sua sorella.
Julian osservò il punto in cui le sue figlie erano scomparse e sospirò.
«Magari Rose può stare davvero a casa» disse.
«Buona fortuna a convincerla» disse Jace. «Verrò anche io con voi. Devo aggiornare Samantha Gladstones sulla situazione a New York».
Will vide sua madre sospirare. Non le piaceva quando suo padre veniva trascinato a Idris senza di lei.
Decisero di trovarsi direttamente ad Alicante; avrebbero aperto un portale da Idris per i Blackthorn, mentre Will avrebbe potuto aprirne uno da New York per lui e suo padre. George e Cath li avrebbero raggiunti nel pomeriggio perché lei doveva tornare a casa a controllare che suo padre stesse bene, dato che non le rispondeva al cellulare da un paio di giorni.
Rose era ancora con Holly quando Will lasciò Los Angeles, quindi non riuscì a salutarla. Le inviò un messaggio per dirle che Sophia e Celine erano invitate a cena da loro e che si sarebbero visti l’indomani a Idris. Rose gli rispose dopo un paio di ore, dicendogli che Holly si era calmata e l’aveva tenuta impegnata tutto pomeriggio a giocare con lei.
Will era stato sul punto di chiederle se voleva che andasse da lei dopo cena, quando suo padre gli tese un agguato alle spalle.
«Scambi epistolari tra amanti?» gli chiese.
Will sobbalzò e per poco non gli cadde il telefono dalle mani. Erano in corridoio, a qualche metro di distanza dalla cucina. Will si era fermato lì per scrivere a Rose per evitare che sua sorella Celine facesse commenti sconvenienti, e ovviamente era arrivato suo padre a rimediare.
«No» rispose Will, cercando di non diventare rosso. «Fatti i fatti tuoi».
“Fatti i fatti tuoi” era la frase che usava di più con suo padre e sua sorella in quell’ultimo periodo.
Suo padre si mise una mano sul cuore. «Mai, William. Dovresti saperlo ormai».
«D’accordo, era Rose. E allora?»
Jace gli sorrise, rivolgendogli non il tipico ghigno di quando lo prendeva in giro, ma un sorriso sincero. «Era ora, non trovi?»
Will era sul punto di negare, di dirgli che si sbagliava, che non aveva capito. Il suo cervello era così abituato a nascondere quello che provava per Rose che partiva in automatico, non si rendeva ancora conto che poteva dirlo ad alta voce: io e Rose stiamo insieme e siamo innamorati.
«Sì». Will annuì. «Era decisamente l’ora».
 
---
 
A cena, i genitori di Will aggiornarono Lizzie, Celine e Sophia su quanto accaduto nei giorni precedenti. Will rimase taciturno per evitare di dare a sua sorella maggiore altro materiale per prenderlo in giro e si limitò a raccontare di come gli fosse venuta in mente la nuova runa e di come avessero deciso di inseguire i Riders.
«Fatemi capire, questa runa permette alle nostre armi di ferire i Riders?» chiese Sophia. I suoi occhi azzurri luccicavano. «Non mi abituerò mai a questa vostra capacità, è straordinario».
«Lo so» disse Celine, passandole un braccio intorno alle spalle e dandole un bacio sulla guancia. «Siamo straordinari. Io di più però».
Sophia le sorrise. Will si era ritrovato più volte a pensare che con i suoi capelli scuri e carnagione chiara somigliasse a Biancaneve - Rose gli aveva mostrato un libro di fiabe illustrate quando erano piccoli e lui le ricordava tutte molto bene.
«Ohw» fece Lizzie portandosi una mano sul cuore. «Siete così carine».
Celine si allontanò da Sophia e si schiarì la voce. «Io non sono carina. Sophia è carina».
«Anche tu lo sei quando stai con Sophia» ribatté Lizzie. 
Loro padre si era preso la testa tra le mani e stava mormorando qualcosa tra sé e sé. 
«Jace, stai bene?» gli chiese Clary, posandogli una mano sulla spalla.
Jace alzò il viso e guardò Celine. «Non mi sono ancora capacitato del fatto che la mia bambina si sposi».
Scoppiarono tutti a ridere, tranne Celine che diventò della stessa tonalità dei propri capelli.
«Sei fortunata che Sophia è la ragazza più gentile che io conosca e non un ragazzaccio come quel John con cui ti sentivi a sedici anni» continuò Jace. «Altrimenti non so se sarebbe ancora qui».
«Papà» sbottò Celine alzando gli occhi al cielo. «Lo dici ogni volta che Sophia viene a cena».
«Vero» concordò lui. «Ma non la ringrazierò mai abbastanza per averti fatto mettere la testa a posto».
«Non è neppure stato così difficile» disse Sophia con un sorriso.
«E Rose come sta?» chiese Lizzie preoccupata. «Si è svegliata, vero?»
Will sentì tutto il sangue che aveva in corpo andare a confluire sulla sua faccia. Sapeva che era diventato rosso, lo sapeva e sperava che nessuno se ne accorgesse.
Respira, Will. Respira.
Jace e Clary si scambiarono un’occhiata piena di sott’intesi –che non passò inosservata a Celine- e rimasero in silenzio, aspettando che fosse Will a dire qualcosa.
Ma Will non aveva intenzione di parlare, nonostante tutti lo stessero fissando.
«Che c’è?» sbottò dopo qualche minuto. «Rose sta bene».
«O mio Dio» esclamò Celine posando la forchetta di fianco al piatto con calma. «Non dirmelo».
Will voleva morire.
«Oddio!» Lizzie, al suo fianco, si coprì la bocca con le mani e lo guardò con gli occhi spalancati.
Sophia sembrava confusa, mentre i loro genitori divertiti, troppo divertiti per i gusti di Will.
«Mi sa che mi sto perdendo qualcosa» disse Sophia.
«Non ti stai perdendo niente» borbottò Will.
«Will e Rose si sono messi insieme!» Celine batté le mani e guardò suo padre per conferma.
«Non guardare me» fece lui. «La faccia di William parla da sola».
E infatti la sua faccia parlava da sola. Lizzie lo abbracciò, sulla soglia delle lacrime.
«Devi raccontarmi tutto!» gli ordinò. «Tutto! Ma vi siete baciati? Com’è successo?»
«Non ti dirò proprio niente» rispose Will, spostando poi lo sguardo su Celine. «Soprattutto con lei presente. Anzi, con lei e papà presenti».
«Ingiusto» commentò Celine. «Davvero ingiusto!»
«Dovresti parlarne con il tuo papà invece» disse Jace. «Posso solo darti buoni consigli. Vero, Clary?»
Will rabbrividì. Non ne avrebbe parlato con lui neppure se fosse stato disperato.
«Be’» iniziò sua madre. «Diciamo che avevi qualche asso nella manica».
Sia Will che le sue sorelle proruppero in versi disgustati pregandola di non andare oltre e di non elaborare.
«D’accordo, d’accordo». Clary ridacchiò. «Quindi è ufficiale?» chiese poi a Will.
«Sì». Will annuì, sentendosi un po’ in imbarazzo ma felice. «Però ora basta. Insomma, non ci stiamo mica sposando».
«Basta?» chiese Celine alzando le sopracciglia. «Sono anni che le muori dietro. Come minimo dobbiamo fare una festa».
«Stai scherzando» disse Will. «Stai scherzando, vero?»
Celine si mise a ridere e gli lanciò una pallina di mollica di pane. «Certo, scemo. Però devo parlare con Rose».
«Tu non parlerai proprio con nessuno».
«Oh, anche io devo parlare con lei» saltò su Lizzie. «Visto che tu non mi racconti niente».
Ci mancava solo che le sue sorelle si coalizzassero contro di lui. Solitamente erano lui e Lizzie contro Celine, o meglio, Celine contro lui e Lizzie, ma quella volta sua sorella minore aveva deciso di tradirlo.
«Ti prometto che ti racconterò tutto appena Celine se ne va» disse a Lizzie. «Non c’è bisogno che chiami Rose. Sarebbe… strano».
«Che cosa?» Celine lo guardò come se l’avesse appena pugnalata alle spalle. «Credevo di essere io la tua sorella preferita!»
«Che cos’è che ti ha dato questa impressione esattamente?» chiese Will con un ghigno.
Celine si finse estremamente offesa e distolse lo sguardo.
«Ragazzi, basta così» intervenne Clary per calmare le acque. «Lasciate in pace il povero Will. Solo una cosa, tesoro… quando ci viene a trovare Rose?»
Si misero tutti a ridere e Will questa volta si unì a loro, troppo contento per preoccuparsi di alcunché. Sua sorella e suo padre potevano prenderlo in giro quanto volevano, sapeva che erano felici per lui, che tutti lo erano.
«In ogni caso» riprese Celine. «Ho fissato la prova dell’abito da sposa per dopodomani, dato che sarete già a Idris».
Will si ricordò che Rose gli aveva chiesto se poteva andare con loro alla prova degli abiti, ma non lo aveva ancora detto a Celine per via di tutto quello che era successo.
«Rose mi ha chiesto se si può unire a noi» disse.
Forse però quello non era il momento più adatto per tirare fuori l’argomento, dato che sua sorella parve accendersi come una lampadina.
«Sì» gli rispose. «Certo che sì. Almeno potrò parlare con lei da donna a donna, se capisci cosa intendo».
Will non capiva e non voleva capire. «Mi accerterò che non rimanga da sola con te neppure per due secondi».
«Be’ posso tranquillamente parlarle di te anche se sei presente» gli rispose lei con un’alzata di spalle. «Mica mi faccio problemi».
Will bevve un sorso d’acqua, consapevole che prima o poi Celine avrebbe incontrato Rose e che lui se ne sarebbe dovuto fare una ragione. E onestamente? Non gli importava proprio per niente, ciò che gli importava era che lui e Rose stessero finalmente insieme. Quella era l’unica cosa che importava.

NOTE DELL'AUTRICE
Non so voi, ma io sento le campane che suonano! Finalmente i due polli ce l'hanno fatta! 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, io non ho molto altro da dire, se non che questa è la fine della seconda parte. Dal prossimo capitolo inizierà la terza e ultima parte che, purtroppo non è ancora conclusa perché purtroppo l'estate è finita e sono tornata all'università. Però cercherò di rimanere costante, ho ancora 3-4 capitoli pronti. 
Nulla, grazie mille se ci siete ancora. A presto!

Francesca 

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciassette. ***


Parte terza 
 
Capitolo diciassette

«Ma io dovevo dir loro di mio padre» disse Cath, passando il biglietto a George.
«Potrai parlarne con loro questo pomeriggio, o domani» disse George. «Non preoccuparti».
Cath aveva dormito a casa sua la notte precedente. I genitori di George erano stati così contenti di vederla che George e Cath non se l’erano sentita di rovinare il buonumore con brutte notizie, e avevano deciso che avrebbero raccontato loro della situazione a casa di Cath quella mattina.
Ma quella mattina Isabelle e Simon erano all’Istituto. Per George non era un problema: avevano aspettato anni, potevano aspettare anche un giorno in più.
«Ti accompagno a casa» disse, prendendo la propria giacca e porgendo a Cath il suo cappotto. «Tuo padre dev’essere preoccupato».
Cath alzò le spalle. «Non direi. Non risponde al telefono da giorni».
Non era strano che il padre di Cath ignorasse le sue chiamate. A volte era ossessionato dalla figlia e voleva conoscere ogni suo spostamento, arrivando anche al punto di non farla uscire con George, altre invece era come se Cath per lui non esistesse.
Presero un taxi verso Brooklyn e passarono il viaggio a parlare a bassa voce tra di loro, cercando di suonare i più normali possibili. Non menzionarono quanto accaduto qualche giorno prima, niente spade angeliche, o rune, o ferite mortali, e George ne era grato. Gli piaceva fare finta di essere un ragazzo mondano qualunque, la cui unica preoccupazione al mondo era la scelta del giorno delle proprie nozze.
«Non credo che lo dirò a mio padre». Cath si sistemò meglio l’anello sull’anulare. «Per adesso, almeno».
«Perché no?» chiese George.
«Ho paura che dia di matto, soprattutto dopo che sono stata via per tutto questo tempo senza dare mie notizie» spiegò Cath.
«È stato lui a non rispondere alle tue chiamate». George sentiva la familiare rabbia che lo attraversava ogni volta che pensava al padre di Cath farsi strada dentro di lui.
«Vero, ma non puoi prevedere le sue reazioni. Sai com’è fatto». George lo sapeva. Lo sapeva, ma non aveva ancora imparato ad accettarlo. «Dovremmo dirlo ai tuoi però».
George sorrise. «Mia mamma andrà su di giri».
«Ci preparerà una torta per festeggiare». Cath sembrava leggermente impaurita e George non la biasimava. Le torte di sua madre erano immangiabili, in qualche modo riusciva a farle uscire bruciate all’esterno e crude all’interno.
«Che l’Angelo ce ne scampi» borbottò George, dando una banconota al tassista e scendendo dall’auto.
Erano arrivati a Brooklyn, davanti al palazzo di Cath. Quella mattina il sole autunnale splendeva nel cielo, illuminando New York con i suoi tiepidi raggi.
«Ti faccio sapere come va» disse Cath, salendo sul primo gradino e voltandosi verso di lui.
George le si avvicinò e le posò un bacio sulla fronte.
«Se vuoi che salga con te, devi solo dirlo».
Cath scosse il capo. «Va bene così».
George non insistette e la guardò scomparire oltre il portone, pregando che andasse tutto bene, che suo padre non fosse ubriaco e che non si arrabbiasse con lei. Non vedeva l’ora di portarla via di lì e sperava che i suoi genitori le avrebbero permesso di rimanere a vivere con loro. Conoscendo sua madre, sapeva che era più che probabile: non l’avrebbe mai fatta ritornare a vivere con Augustin Bellefleur.
Dal momento che era una bella giornata, George decise di fare una passeggiata e di passare dal suo negozio di dischi preferito lì a Brooklyn per controllare se avessero il nuovo album del Black Diamonds. Almeno quella sera avrebbe potuto ascoltarlo con Cath nella speranza di sollevarle l’umore, nonostante i Black Diamonds fossero una band metal e i loro testi non fossero esattamente un distillato di felicità, ma a Cath piacevano.
Aprì la porta con una spallata e per poco non si scontrò con una ragazza con i capelli fucsia e un piercing al naso. George le chiese scusa distrattamente e sentì gli occhi di lei squadrarlo dalla testa ai piedi prima di uscire dal negozio. George era abituato ad attirare l’attenzione ovunque andasse, dopotutto quando eri alto un metro e novantacinque non potevi farne a meno. Se a questo aggiungevi anche una dose di bell’aspetto, allora non potevi davvero evitare che le ragazze, e anche qualche ragazzo, ti guardassero con approvazione. George sapeva di essere bello, ma da quando aveva incontrato Cath non gli importava più così tanto. Spesso però si era ritrovato a pensare che anche a Cath dovesse succedere spesso, che i ragazzi ci provassero con lei ovunque andasse, dato che era così bella che guardarla per troppo tempo ti faceva sentire debole e pieno di energia allo stesso tempo. Almeno era così che si sentiva lui ogni volta che la guardava.
George prese il telefono, aspettandosi di trovare il solito messaggio di Cath che gli assicurava che andava tutto bene. Non era mai successo che lei non gli avesse scritto dopo essere tornata a casa: anche se in realtà stava andando tutto male, lei gli mandava sempre un sms dicendo che invece la situazione era sotto controllo per non farlo preoccupare, George lo sapeva. Perciò quando non ebbe sue notizie, iniziò a preoccuparsi.
Si sarà dimenticata, si disse, cercando di rimanere calmo. Non ha senso agitarsi. Sentiva la voce di Rose nella sua testa che gli diceva che si stava comportando in modo ridicolo. La mise a tacere con una scrollata di spalle e decise di scrivere comunque a Cath.
Stai bene?
Infilò il telefono nella tasca dei jeans e iniziò ad avventurarsi tra gli scaffali del negozio. Non era molto grande, ma gli scaffali erano alti quasi quanto lui, pieni di CD vecchi e nuovi. Si diresse nella sezione nuovi arrivi e trovò con soddisfazione il nuovo album dei Black Diamonds. Dopo averlo comprato ed essere uscito dal negozio, prese di nuovo in mano il cellulare, sperando di trovare notizie di Cath. Non trovò nulla. 
Erano passati circa trenta minuti da quando si erano salutati; non era tanto tempo e doveva smetterla di essere paranoico, continuava a ripetergli la sua parte razionale, che ormai parlava con la voce di Rose.
E se invece le fosse successo qualcosa? Se suo padre le avesse fatto del male? Continuava a chiedersi l’altra parte di lui, quella che parlava con la voce di Will.
Le zittì entrambe e decise di chiamarla per stare più tranquillo.
Cath rispose dopo molti squilli, quando George era sul punto di riattaccare.
«George» disse, la voce ridotta a un sussurro. Stava piangendo.
«Cos’è successo?» chiese George, iniziando a correre verso casa sua.
«Puoi venire qui?» Cath singhiozzò e George si mise a correre più veloce. Sentiva il sangue pulsargli nelle vene e il sapore amaro del terrore in bocca.
«Catherine» disse. Aveva voltato l’angolo e vedeva il suo palazzo in lontananza. «Sei ferita? Cos’è successo?»
«S-sto… bene, ti apro la porta». Cath riagganciò il telefono e George imprecò, perché se c’era una cosa di cui era sicuro era che non stava bene.
Quella era la volta buona che se la caricava in spalla e la portava via da quella casa con la forza. Non l’avrebbe lasciata lì un secondo di più. Era stufo marcio di vederla soffrire in quel modo e di essere totalmente impotente di fronte al suo dolore.
Trovò il portone aperto e salì subito sull’ascensore, premendo il tasto del quattordicesimo piano più volte del necessario. Arrivato sul pianerottolo si precipitò nell’appartamento di Cath e si bloccò. C’era un odore nauseante di sangue misto a carne andata a male.
«Cath» la chiamò George. Non aveva portato armi con sé perché era giorno, ma nell’appartamento di Cath tutte le tende erano tirate e regnava l’oscurità. «Catherine!»
«Sono qui» rispose lei dalla cucina.
George la raggiunse e non riuscì a trattenere un verso strozzato quando la vide seduta per terra con le gambe strette al petto e un coltello abbandonato davanti a sé. Aveva un taglio sulla guancia e la sua maglietta era sporca di sangue e di icore. Il suo viso era bagnato di lacrime e quando alzò lo sguardo su di lui, George sentì il proprio cuore andare in mille pezzi.
Le si inginocchiò di fianco e le accarezzò i capelli.
«È morto» disse lei, guardando George senza però vederlo per davvero. Era come se stesse fissando nel vuoto. «Sono morti tutti e due».
George deglutì. «Chi è morto?» chiese, sapendo già la risposta.
Cath indicò con mano tremante davanti a sé. Per terra, dalla parte opposta del tavolo, era sdraiato Augustin Bellefleur, con il petto e il ventre completamente squarciati dalle zanne di un demone. Vicino a lui c’erano un paio di bottiglie di vino, segno che doveva essere ubriaco al momento dell’attacco. I suoi occhi chiari erano spalancati, pieni di terrore e confusione. Probabilmente era morto senza neanche capire che cosa stesse accadendo.
«L’ho trovato così quando sono tornata» iniziò a spiegare Cath. Stava tremando e faceva fatica a parlare. «Credevo che il demone se ne fosse andato ma era ancora qui. Mi ha colpita da dietro, non so bene dove. Non sento niente».
George le esaminò subito la schiena e vide un profondo taglio sulla sua scapola destra.
«Hai bisogno di un iratze» disse, tirando fuori lo stilo e iniziando a disegnarle la runa sul collo. «Il demone. Catherine, il demone dov’è?»
«L’ho ucciso» sussurrò lei. «Non credo ce ne siano altri».
George aveva finito la runa e la strinse a sé, dandole un bacio sulla tempia. «Dobbiamo andare».
Cath scosse il capo e iniziò a piangere più forte coprendosi il viso con le mani. «Non posso. Non ce la faccio, George, non un’altra volta. Era l’unica famiglia che mi era rimasta, non posso lasciarlo».
«Cath, tesoro». George le fece togliere le mani dal viso e gliele strinse. Il taglio sulla guancia si stava rimarginando. «Siamo noi la tua famiglia ora. Io, Will, Rose, i miei genitori. Non sei sola, non lo sarai mai».
Cath singhiozzò e prese a tremare ancora più forte. Era chiaramente sotto shock e George non sapeva come fare per calmarla. Scarabocchiò velocemente a entrambi delle rune per celarli ai mondani e inviò un messaggio ai suoi genitori, chiedendo loro di mandare un Fratello Silente al più presto. Poi prese Cath in braccio e la sollevò da terra. Lei non protestò, non ne aveva la forza, e gli allacciò le braccia attorno al collo, premendo il viso contro alla sua guancia.
«Dove andiamo ora?» riuscì a chiedergli a bassa voce.
«A casa» rispose George. «Ora andiamo a casa».
 
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Quella mattina Rose si era svegliata con un terribile mal di testa. Non aveva dormito bene; il suo sonno era stato tormentato da incubi, diversi da quelli che aveva avuto tutta la sua famiglia. Questi erano incubi in cui Will annegava e lei lo osservava dall’esterno senza poterlo salvare, come se stesse guardando la scena dall’altra parte di un vetro indistruttibile. Non importava quanto urlasse o cercasse di raggiungerlo, Will annegava ogni volta.
Avevano parlato al telefono per un po’ la sera precedente, lei e Will. Lui le aveva raccontato che la sua famiglia aveva capito immediatamente che era successo qualcosa tra di loro e che avevano iniziato subito a prenderlo in giro, in particolare Celine. Rose era scoppiata a ridere perché come biasimarli? Will era così facile da prendere in giro.
Anche Rose lo aveva detto ai suoi genitori. Sua madre aveva fatto una battuta sugli Herondale e suo padre le aveva detto che era contento perché se doveva stare con qualcuno, era felice che quel qualcuno fosse Will. Era stata Holly ad avere la reazione più strana.
«No!» aveva detto. «No no e no! Non potete sposarvi. Poi andrai a vivere a New York e non puoi andare a vivere a New York!»
Sia Rose che suo padre erano inorriditi davanti al verbo “sposare”.
«Nessuno si sposa» aveva detto lui.
«Holly, io e Will non ci sposiamo. Stiamo solo insieme. Non vado da nessuna parte» l’aveva rassicurata Rose.
«Ma…» Holly aveva fatto una faccia confusa. «Non stavate già insieme? Come Cath e George?»
Quella domanda aveva fatto ridere Will quando Rose glielo aveva raccontato al telefono.
«Dovrebbe aprirsi un portale a breve». La voce di suo padre la riportò alla realtà. Si trovavano nel suo ufficio, in attesa che venisse aperto un portale da Idris per loro.
Rose quella mattina era euforica e cercava di nasconderlo in tutti i modi per non sembrare impazzita. Non vedeva l’ora di rivedere Will, non le importava che lo avrebbe rivisto davanti ai loro genitori e al Console in persona. Voleva solo vederlo: la sera precedente le era sembrato così stanco che non si era sentita di chiedergli di andare da lei, nonostante lui glielo avesse proposto.
Non riusciva a smettere di pensare a quando si erano baciati e soprattutto al suo maledetto collo, a come volesse baciarglielo di nuovo, a come avesse sentito il battito del suo cuore sotto le labbra e a come la sua pelle fosse morbida in quella zona così delicata.
«Ecco qua» disse Julian.
Davanti a loro si era appena aperto un portale. Lo attraversarono e si ritrovarono ad Alicante, la città di Vetro. Rose era già stata a Idris un paio di volte, ma mai nell’ufficio del Console.
Samantha Gladstones sedeva dietro una grande scrivania di legno. Era una donna sulla quarantina con la carnagione e i capelli scuri come l’ebano. Era alta più di Rose e incuteva un certo timore.
«Ben arrivati» li salutò.
Rose notò con una stretta al cuore che Will e Jace erano già lì. Voleva raggiungere Will, prendergli la mano e stringersi a lui, ma non poteva farlo. Quando i loro occhi si incontrarono lui le sorrise e Rose lesse nel suo sguardo lo stesso desiderio, lo stesso bisogno che provava lei stessa.
Si sedettero di fronte al Console e le raccontarono quanto accaduto. Iniziarono i genitori di Rose: Emma spiegò quanto successo vent’anni addietro, come avesse ucciso Fal e come credessero che i Riders li avrebbero lasciati in pace. Poi fu il turno di Jace, che presentò brevemente la situazione di New York, facendo riferimento ai tre mondani uccisi, molto probabilmente dai Riders. Infine Rose concluse la narrazione parlando dello scontro che avevano avuto con i Riders e di come Will avesse ucciso Delan.
Una volta che ebbero terminato, Samantha Gladstones rimase in silenzio per qualche secondo, poi parlò.
«C’è una cosa che non mi è chiara» disse. «Se i Riders vogliono uccidere voi, i Blackthorn, perché prendersela con altri rischiando di inimicarsi tutto il Conclave?»
«Quando ho ucciso Fal il nuovo Re della Corte Unseelie, Kieran, ha fatto un incantesimo di protezione su Julian e me» disse Emma. «Così che i Riders avrebbero avuto più difficoltà a trovarci, ma non avevamo idea che avrebbero fatto strage di Shadowhunters e mondani nel tentativo di raggiungerci. Nemmeno pensavano che si trattasse di loro all’inizio, come avremmo potuto capirlo? Abbiamo iniziato a sospettare di loro solo quando sono incominciati i sogni».
«E perché non me ne avete parlato subito?» chiese il Console. «Sareste dovuti venire da me immediatamente».
«Non potevamo» disse Julian. La sua voce era così fredda da fare paura a Rose stessa. Non lo aveva mai visto così serio in tutta la sua vita. «Avete sentito Emma. Nel loro messaggio hanno scritto chiaramente di non cercare aiuto. Se vi avessimo contattato, lo avrebbero saputo. Abbiamo rischiato mandando Mark nella Corte Unseelie per avere udienza con il Re, non potevamo rischiare oltre».
Rose era abituata al lato mite e gentile di suo padre, ma più volte sua madre le aveva detto che Julian sapeva essere spietato e freddo come il ghiaccio quando si trattava della propria famiglia. Rose non le aveva mai creduto fino in fondo. Ora le credeva.
Il Console Gladstones annuì e si rivolse a Will.  «E tu, ragazzo?» Il suo tono era canzonatorio. «Anche tu sai creare nuove rune, quindi?»
«Sì» rispose Will. Quel giorno indossava una felpa verde scuro che gli metteva in risalto gli occhi. «Ho ucciso uno dei Riders con una normale spada angelica alla quale ho applicato la runa. Funziona».
Samantha Gladstones annuì di nuovo, portandosi le mani giunte davanti alle labbra come se stesse pregando. «Molto bene» disse infine. «Mostrami questa runa».
«Ha carta e penna?» chiese Will.
Samantha sventolò una mano per aria, indicandogli la propria scrivania e facendogli segno di usare quello di cui aveva bisogno.
Will prese un post-it e una penna nera e iniziò a disegnare. Era un maniaco della precisione e avrebbe voluto rendere la runa al meglio, Rose lo sapeva. Tracciò ogni linea con cura, come se stesse applicando la runa su un’arma e non la stesse solamente abbozzando su un post-it.
«Ecco qui». Diede il post-it al Console. Lei lo prese e lo osservò per qualche istante, una ruga di espressione che le solcava la fronte.
«Non ho mai visto una runa del genere» disse.
«No» concordò Will con calma. «Non l’ha mai vista perché l’ho creata io».
Rose trattenne una risata e intravide Jace fare lo stesso. I suoi genitori invece parevano troppo scossi per ridere.
Il Console sorrise e poggiò il post-it sulla scrivania. «Molto bene. Domattina mostreremo la runa al Concilio e penseremo a una strategia per sconfiggere i Riders di Mannan». Li guardò uno ad uno con espressione seria. «Non so come, non so quando, ma posso garantirvi che pagheranno per aver minacciato e ucciso dei Nephilim».
 
«Tutto ciò che possiamo fare ora è aspettare» disse Jace una volta che furono usciti dall’ufficio del Console.
Rose continuava a guardare Will, ma lui non ricambiava il suo sguardo. Probabilmente era scosso.
«Non mi è mai piaciuta Samantha Gladstones» borbottò Emma.
«Em» la riprese Julian. Le passò un braccio attorno alle spalle e l’attirò a sé. «Non qui, non davanti al suo ufficio».
Si avviarono lungo il corridoio verso l’uscita; Will si infilò le mani in tasca e fece per seguirli, ma Rose lo prese per il braccio e lo fece voltare verso di sé.
Gli sorrise. «Stai bene?»
Will finalmente la guardò. I suoi occhi verdi parvero brillare quando si posarono su di lei e il sorriso di Rose si fece ancora più grande.
Will abbassò leggermente il capo e la baciò, fregandosene che i suoi genitori fossero solo a qualche metro di distanza.
«Stanco» le sussurrò sulle labbra. «Mi hanno fatto dormire solo sette ore. Tu?»
A Rose venne da ridere perché Will avrebbe dormito anche dodici ore di fila se nessuno lo avesse svegliato. «Io dormo sette ore se sono fortunata».
Premette di nuovo le labbra sulle sue, gli posò una mano sul viso e gli passò l’altra tra i capelli, consapevole che glieli stesse scompigliando e che Will l’avrebbe maledetta non appena avesse visto il suo riflesso.
Will le baciò la guancia e la strinse a sé, abbracciandola forte. Rose seppellì il viso nell’incavo del suo collo e gli diede un bacio proprio lì.
Will rabbrividì e Rose sospirò. Finalmente.
«Per quanto mi dispiaccia interrompervi» disse una voce divertita, quella di Jace. «Dobbiamo andare».
Will lasciò andare Rose e si passò una mano tra i capelli per cercare di sistemarseli. Era arrossito sulle guance e Rose provò un moto di affetto nei suoi confronti così forte da farle male al petto.
«E poi la Guardia non mi pare proprio il posto più adatto a fare certe cose» commentò sua madre con un sorrisetto.
«Noi non…» iniziò Will. «Uhm…»
«Cosa?» chiese Julian piatto. «Non è come sembra?»
Will ammutolì e Rose scoppiò a ridere.
 
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George aveva riportato Cath a casa e l’aveva rimessa per terra, notando che aveva smesso di tremare. Durante il viaggio in metropolitana, George l’aveva stretta a sé più forte, sperando che si tranquillizzasse almeno un po’. Le ferite di Cath stavano guarendo ma i suoi vestiti erano ancora impregnati di sangue e i suoi capelli attaccati al collo e alle guance come una seconda pelle.
George le mise una mano sulla schiena e la portò in bagno.
«Devi lavare via l’icore» le disse.
Cath scosse il capo distrattamente, come se non lo stesse ascoltando e si guardò attorno come se non si rendesse conto di dove si trovava.
«Hai icore su tutta la schiena e le braccia, Cath». George cercò di usare il tono di voce più gentile che possedeva. «Aspetta un secondo che vado a prenderti qualcosa di pulito».
Corse fuori dal bagno e andò nella camera dei suoi genitori, con la vana speranza di trovare dei vestiti per Cath nel guardaroba di sua madre.
Isabelle Lightwood aveva molti vestiti, tanto che aveva invaso la parte di armadio che spettava al povero Simon, che si era ritrovato a dover appendere le camicie sulla maniglia della porta. Non sarebbe stato un problema trovare qualcosa per Cath, se solo Cath non avesse portato due taglie in meno di Isabelle e non fosse stata venti centimetri più bassa.
Come previsto, George non trovò niente che non avrebbe fatto sembrare Cath ridicola, perciò si limitò a prendere un asciugamano per poi dirigersi nella propria camera alla ricerca di una delle sue felpe.
Tornò in bagno cinque minuti più tardi e trovò Cath in biancheria intima mentre si toglieva con una smorfia la maglietta. La ferita si stava rimarginando ma stava facendo infezione per via del sangue demoniaco, che non solo le sporcava la schiena, ma anche le braccia e il collo.
George appoggiò i vestiti sul ripiano accanto al lavandino e le sorrise, osservandola per un secondo di troppo e pensando che una persona tanto bella esteriormente quanto interiormente non meritasse di soffrire in quel modo.
«Grazie» sussurrò lei senza però guardarlo. Aveva attentamente evitato il suo sguardo da quando avevano lasciato Brooklyn. 
George le si avvicinò e le prese le mani tra le sue. Erano gelate e la sua pelle stava iniziando ad arrossarsi là dove si era sporcata di sangue demoniaco.
«Devi ripulire la ferita». Le diede un bacio a fior di labbra. «Se vuoi mi faccio la doccia con te». Non c’era malizia nelle sue parole, solo il puro e semplice desiderio di farla sentire meglio. «Qualunque cosa tu voglia, Catherine. Devi solo chiedere».
Cath gli mise una mano sul petto. «Ce la faccio».
«Okay». George fece per aggiungere qualcos’altro ma non sapeva che cosa dire. «Mi raccomando alla ferita». Si allontanò da lei per aprire l’acqua della doccia, la temperatura al massimo.
«Grazie, George» disse di nuovo Cath. «Quello che stai facendo per me…»
George si voltò e le sorrise. «Non devi…»
«No, aspetta» disse lei. Gli si avvicinò e finalmente lo guardò negli occhi. C’era un’urgenza nella sua voce che George non le aveva mai associato. «Quando ho visto mio padre a terra morto, ho pensato di aver perso tutto. La verità è che ho permesso al demone di colpirmi, volevo che mi colpisse. Non mi importava se vivevo o se morivo, sono così stanca, mi sono sentita come se non mi fosse rimasto più niente. E poi ho visto l’anello». Cath abbassò lo sguardo sul suo anulare. «E mi sono resa conto che non potevo farti questo, non potevo lasciare che il demone mi uccidesse».
George trattenne il fiato. «Catherine».
«Sei l’unico motivo per cui non gli ho permesso di uccidermi». Gli occhi di Cath brillavano e parevano più chiari del solito. «Perché ti amo così tanto, George. Ti prego, non morire anche tu».
George sentì un nodo alla gola che gli impediva di parlare. Avrebbe voluto dirle che la amava più di ogni altra cosa al mondo, che era la miglior cosa che gli fosse mai successa, che il suo cuore, la sua anima e il suo corpo erano suoi e che poteva farne ciò che credeva, ma gli mancavano le parole. Voleva distruggere qualcosa, perché stare inerme davanti al dolore di Cath lo stava facendo impazzire. Lì, in quel momento, promise a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderla felice e che non avrebbe permesso più a nessuno di ferirla in quel modo, a nessuno. Avrebbero dovuto camminare sul suo cadavere prima di riuscire a farle di nuovo del male.
«Non ho in programma di morire». George deglutì. Stava cercando di farla ridere, ma gli tremava la voce. «Non nell’immediato futuro almeno, quindi dovrai sopportarmi ancora per un po’. Per il resto dei nostri giorni, temo».
Cath lo prese per la maglietta e lo fece chinare verso di sé per baciarlo. Fu un bacio lento e dolce con il quale George cercò di trasmetterle tutto ciò che provava.
«Catherine» sussurrò sulle sue labbra. «Ti amo anche io, lo sai. Vero?»
«Lo so» rispose lei, tracciandogli il contorno delle labbra con le dita.
Il bagno si era riempito di vapore grazie al getto dell’acqua calda e George sentiva i propri capelli iniziare ad appiccicarsi alla fronte e al collo. «Dovresti entrare in doccia prima che finisca l’acqua calda».
Cath parve risvegliarsi da un sogno. «Hai ragione».
George la strinse a sé un’ultima volta, le stampò un bacio sulla spalla e poi la lasciò andare. Si voltò e uscì dal bagno, cogliendo con la coda dell’occhio l’immagine di Cath che si slacciava il reggiseno.
Non fece in tempo a sedersi sul divano per metabolizzare quanto accaduto, che la porta di ingresso si spalancò e i suoi genitori si precipitarono nell’appartamento.
«Dov’è Cath?» gli chiese subito sua madre, togliendosi la sciarpa e il cappotto, e gettandoli sul divano accanto a George. I suoi lunghi capelli scuri erano legati in uno stretto chignon alla base del capo.
«In bagno. È stata colpita da un demone» spiegò George. «Ma ora sta bene» si affrettò ad aggiungere davanti alle espressioni preoccupate dei suoi. «Per quanto possa esserlo dopo quello che è successo».
 «Siamo andati anche noi a casa sua e abbiamo visto il cadavere». Suo padre si tolse la giacca e, al contrario di sua madre, la appese al suo posto sull’appendiabiti. «I Fratelli Silenti lo hanno portato alla Città di Ossa per esaminare le ferite. Una cosa però non mi è chiara». Suo padre si sedette accanto a George e lo guardò con i suoi grandi occhi nocciola. «George, perché ci sono così tante bottiglie di vino a casa di Cath? Ne abbiamo trovate tre vuote di fianco al cadavere. E ce n’erano almeno una decina piene nella credenza».
George sentì il sangue congelarsi nelle vene. Non sapeva come dirlo, non sapeva se spettasse a lui dirlo e, ora che era giunto il momento, non sapeva neppure se avesse davvero la forza per dirlo. 
Quindi rimase in silenzio.
«Che cosa c’è, George?» chiese sua madre. Stava in piedi davanti a loro e aveva incrociato le braccia al petto, osservandolo con espressione dura.
«Preferirei aspettare Cath» disse allora lui, con calma, cercando di non far arrabbiare troppo sua madre.
Isabelle gli lanciò un’occhiata assassina, ma Simon le impedì di sgridarlo.
«Va bene». Si passò una mano tra i capelli. Sembrava stanco. «Va bene così».
«Non va bene così» sibilò Isabelle.
«Izzy» disse lui. «Aspettiamo che Cath ci spieghi».
George sperò che sua madre lasciasse perdere, perché non credeva che sarebbe riuscito a tenersi tutto dentro se lei avesse insistito.
«D’accordo» acconsentì lei, per poi rivolgersi a George. «Che asciugamano le hai dato?»
George aggrottò le sopracciglia, non capendo che importanza potesse avere. «Non lo so, il primo che ho trovato».
Sua madre gettò le braccia al cielo e sbuffò. «Uomini! È importante. Gliene hai dato uno rosa?»
George guardò suo padre con aria confusa in cerca di sostegno, ma questo si limitò a scuotere il capo.
«No?» disse George. «Credo fosse un normalissimo asciugamano bianco. Si può sapere cosa c’entra?»
«Le piace il rosa». Isabelle alzò le spalle, come se fosse ovvio e lui fosse idiota per non esserci arrivato. «A Cath piace il rosa, lo indossa sempre».
«Mamma, non penso che le importi in questo…»
«E le hai dato dei vestiti puliti?»
«Sì, una mia felpa».
«Una tua felpa?» Isabelle scosse il capo e si diresse impettita nella sua camera, probabilmente alla ricerca di qualcosa di più adatto per Cath.
«Ma fa sul serio?» chiese George a suo padre. «È impazzita».
«Lo sai che deve avere qualcosa a cui pensare in queste situazioni. E che nasconde la sua preoccupazione cercando di rendersi utile in qualche modo. Sei stato bravo, George». Gli passò un braccio attorno alle spalle e lo attirò a sé. George glielo lasciò fare. «Sono fiero di te. Non era una situazione facile».
«No» sussurrò George, sapendo che suo padre aveva già capito tutto. «Non lo era».
«Cath, tesoro» stava dicendo Isabelle bussando piano alla porta del bagno. Il getto dell’acqua si era fermato, segno che Cath era uscita dalla doccia. «Posso entrare? Ti aiuto a bendare la ferita».
George non sentì la risposta di Cath, ma sentì la porta aprirsi e sua madre dirle qualcosa con un tono di voce allegro.
George sospirò e si passò una mano sul viso. «Lo odio. È orribile perché sta soffrendo e non posso fare niente per farla stare meglio».
«A volte basta solo far sapere all’altra persona che ci sei per lei».
«Non è abbastanza» rispose George. «Come può essere abbastanza?»
«Magari non lo è» disse suo padre. «Ma è tutto ciò che puoi fare».
Rimasero in silenzio per un po’, fino a quando Isabelle e Cath si unirono a loro. Cath aveva rimesso i suoi jeans, che non erano stati rovinati dall’icore, e George venne attraversato da una scossa di gioia quando vide che aveva indossato la sua felpa. Guardò sua madre con sufficienza: visto che ha preferito la mia felpa?
George le fece spazio accanto a sé sul divano e Cath gli si sedette vicino, così che si trovasse in mezzo tra George e suo padre. George le diede un bacio tra i capelli e le prese la mano.
«Mamma non ti ha aggredito verbalmente e psicologicamente, vero?»
Isabelle alzò gli occhi al cielo e si mise le mani sui fianchi.
«No». Cath sorrise e George esultò internamente per essere riuscito a suscitare in lei una reazione. «Certo che no».
«I miei vestiti sono tutti davvero troppo grandi» disse Isabelle. «Pomeriggio andiamo a casa tua a prendere le tue cose».
Cath annuì. «Grazie, io… mi dispiace tanto, immagino abbiate visto le bottiglie di vino».
George notò i suoi genitori scambiarsi un’occhiata piena di tensione. Cath gli strinse la mano, come se stesse cercando di farsi forza, e George si ritrovò a pensare che, se avesse potuto, le avrebbe donato tutta la propria energia per superare quel momento.
«Sì» disse Simon. «Le abbiamo viste».
Gli occhi di Cath si erano ormai riempiti di lacrime. George sapeva che non sarebbe riuscita a raccontare niente in quelle condizioni.
«Mio padre…». Si bloccò e prese un respiro profondo. «Lui era…». Si coprì il viso con le mani. «George, puoi dirlo tu? Io non riesco».
E quindi George raccontò ogni cosa, sentendo gli occhi dei suoi genitori fissi su di sé. Mentre spiegava di come il padre di Cath soffrisse di depressione da quando la moglie era morta e di come le sue condizioni fossero peggiorate dopo il trasferimento in America, intravide suo padre passare un braccio attorno alle spalle di Cath e darle un bacio sulla tempia.
«Non posso credere che tu non abbia detto niente!» esclamò sua madre furiosa. I suoi occhi scuri, uguali a quelli di George, sparavano scintille. «Non ci posso credere!» Poi si rivolse a Simon. «Te l’avevo detto che c’era qualcosa che non andava».
Simon si limitò ad annuire con aria triste, continuando ad accarezzare gentilmente i capelli di Cath.
«Che cos’avrei dovuto fare?» chiese George. Sapeva che i suoi genitori si sarebbero arrabbiati con lui, eppure non era pronto a sostenere lo sguardo deluso di sua madre.
«Dircelo. Pensavo ti fidassi di noi».
«Cath non voleva che ve ne parlassi». George non stava cercando né di scaricare la colpa su di lei, né di lavarsene le mani, voleva solo che sua madre capisse. «Stavo rispettando la sua volontà. Certo che mi fido di voi».
«Non è colpa di George» sussurrò Cath. «L’ho pregato io di non dire niente e vi giuro che ha tentato in tutti i modi di convincermi a parlarne con voi. E lo aveva finalmente fatto, mi aveva convinta e stavo per dirvi tutto prima che mio padre…» Cath sbiancò. «Mi dispiace tanto. Voi siete sempre stati fantastici con me, e io vi ho ripagato chiedendo a vostro figlio di mentirvi. È solo che non volevo che mio padre venisse rinchiuso, speravo potesse migliorare, tornare ad essere quello di un tempo e…»
«Cath» la interruppe Simon. «Cath, ferma. Non devi chiederci scusa, non siamo arrabbiati con te. Dev’essere stata una situazione orribile». Lanciò uno sguardo ammonitore a Isabelle, che parve sgonfiarsi come un palloncino.
«Cath, tesoro, non siamo arrabbiati con te» la rassicurò anche lei. «E neanche con George a dir la verità. Avrei solo voluto che ce lo aveste detto prima. Avremmo potuto aiutarti. Odio che tu abbia vissuto per tutto quel tempo con una persona che ti trattava male».
«Lo sai cosa potremmo fare?» le propose Simon. «Una maratona di tutti i film di Star Wars».
Cath iniziò a piangere e George scambiò un’occhiata allarmata con suo padre da sopra la testa di lei, temendo che stesse andando nuovamente in shock. Simon la attirò sé e Cath seppellì il viso contro al suo petto. «Preferisci Star Trek? No, dai, Cath. Ti credevo una tipa a posto».
Cath si mise a ridere e George mimò un grazie con le labbra nella direzione di suo padre.
«Ovviamente starai qui ora» decise Isabelle.
Simon lasciò andare Cath, che si asciugò il viso con le mani, e sospirò. «Non è così semplice».
George si allarmò e si mise a sedere dritto. «Cath non va da nessuna parte» disse. «Rimane qui con noi».
«Non possiamo tenerla qui» disse suo padre. «È minorenne, il Conclave non lo permetterà. Vuole avere la maggior parte di Shadowhunters possibile sotto al proprio controllo, proporranno certamente di mandarla in Accademia a Idris».
Cath divenne dello stesso colore di un panno sporco ma non disse niente.
«No!» esclamarono all’unisono George e sua madre.
«Non essere ridicolo, Simon» sbottò Isabelle.
«Non puoi lasciare che la mandino in quel posto!» iniziò George. «Tu stesso ci sei stato e hai detto che…»
«Non lascerò che la mandino in Accademia» disse Simon indignato. «Ho già una soluzione, che è mandarla all’Istituto con Jace e Clary. Cath, lo sai che ti voglio bene come se fossi mia figlia, ma purtroppo il Concilio non ci permetterà mai di tenerti qui con noi. Almeno sulla carta, deve risultare che tu vivi all’Istituto. È la soluzione più logica che tu venga assegnata all’Istituto della città, nessuno potrà muovere nessuna obiezione».
Cath annuì e George si sentì più tranquillo. Cath sarebbe stata con Will e Lizzie e i loro genitori, che le volevano bene. E George avrebbe potuto passare con lei tutto il tempo che voleva.
«È solo fino al tuo diciottesimo compleanno» continuò Simon. Poi sorrise. «Dopodiché sarai libera di fare ciò che vuoi, restare all’Istituto, venire a stare qua con noi, sposare George e andare a vivere insieme a lui…»
George sussultò. «Cosa?» decise di fingersi stupito, magari suo padre stava solo scherzando, ma lui ghignò e indicò le mani di Cath. «Pensi che non ci veda?»
«Simon, che stai dicendo?» chiese Isabelle. Seguì il suo sguardo e si portò una mano sul cuore. «O mio Dio».
Cath si guardò la mano sinistra, dove luccicava l’anello dei Lovelace, e impallidì.
«Oh, no» sussurrò tra sé e sé. «Ho dimenticato di toglierlo».
George e Cath avevano deciso di aspettare un paio di giorni prima di dare la notizia del matrimonio, perciò Cath la sera precedente aveva tolto l’anello per evitare domande a riguardo. Non le piaceva rimanere senza per troppo tempo, perciò quella mattina lo aveva indossato di nuovo e, con tutto ciò che era successo, si era dimenticata di toglierlo.
«Mi dispiace» stava dicendo Cath. «Io…»
Cath pareva mortificata e George le sorrise, perché non aveva niente per cui essere mortificata. «Lo sappiamo che non possiamo sposarci subito» disse, rivolto ai suoi genitori. George riusciva già a sentire la voce di suo padre. Cath è minorenne, non potete sposarvi ora e bla bla. George lo sapeva e non voleva sentirselo dire di nuovo.
«Aspetteremo che Cath diventi maggiorenne» si affrettò ad aggiungere. «O anche di più, se lei non si sente pronta».
Cath abbassò la testa sulle sue mani e si toccò l’anello. George notò che il suo viso aveva ripreso un po’ di colore, come se stesse arrossendo. «Non voglio aspettare» sussurrò piano, senza guardare nessuno in faccia. «Aspettare il mio diciottesimo compleanno mi sembra già troppo».
Da quando erano tornati i suoi genitori, George si era sforzato di non toccarla, di non guardarla troppo a lungo, perché sapeva che se si fosse concesso di farlo non sarebbe più riuscito a lasciarla andare. Ma in quel momento George non ce la fece più. Le prese il viso tra le mani e le stampò un bacio sulla bocca, forte, per poi sostare le labbra sulla sua guancia e sussurrarle all’orecchio che la amava, a bassa voce così che solo lei potesse a sentirlo.  
Sentì in lontananza sua madre dire qualcosa, probabilmente che era felice per loro, ma non riusciva a distinguere le sue parole.
Cath gli prese la mano e si rivolse ai suoi genitori con un leggero sorriso. «Volevamo dirvelo in modo diverso, una volta che tutto questo si fosse risolto. Mi dispiace che abbiate dovuto scoprirlo così».
«Siete impazziti?» chiese Isabelle. «Non vi avrei perdonati se aveste aspettato così tanto prima di dirmelo!» Si inginocchiò davanti al divano e li abbracciò contemporaneamente, un braccio attorno a Cath e l'altro attorno a George. «Dobbiamo fare una festa. Devo preparare una torta!»
«Mamma...»
«Non è necessario» disse Cath, dandole delle leggere pacche sulla spalla e rivolgendo un'occhiata preoccupata a George.
Anche Simon li abbracciò e diede un bacio in fronte a tutti e due. «Io propongo un matrimonio a tema Star Wars».
George grugnì. «Non se ne parla».
Cath si mise a ridere e Isabelle si alzò in piedi con un’espressione combattuta dipinta sul volto.
«Adesso non voglio davvero che Cath vada a vivere all’Istituto» disse. «Anche perché Cath all’Istituto significa George all’Istituto».
Simon sospirò e la guardò dal basso verso l’alto. «Li vedremo ancora, Iz, lo sai».
«Mamma» brontolò di nuovo George.
«D’accordo, d’accordo» sospirò Isabelle. «Cath, so che Clary cucina meglio di me e che tutti sono innamorati di Jace, ma promettimi che rimarrò la tua adulta preferita».
Cath la guardò con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta per qualche istante, poi si alzò e senza aggiungere una parola la abbracciò.
Isabelle chiuse gli occhi e la strinse a sé, accarezzandole piano i capelli come se fosse la figlia che non aveva mai avuto.

NOTE DELL'AUTRICE 
Buongiorno a tutti!
Solitamente aggiorno di pomeriggio ma oggi i miei piani sono stati ribaltati (?), quindi eccomi qua! 
Il capitolo è incentrato su George e Cath, ma nel prossimo vi prometto tanto Will-Rose e Will-Julian e anche Will-JAce. E' abbastanza deprimente come capitolo, me ne rendo conto, ma era necessario... Ripeto che con il prossimo mi farò perdonare!
Spero che vi sia piaciuto, nonostante tutto. <3 
(Nella raccolta di OS ne ho aggiunta una se la state seguendo e vi interessa!)
Nulla, me ne vado e vi lascio.

A presto e buona giornata!

Francesca 

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciotto. ***


Capitolo diciotto
Rose si rigirava nel suo letto e non riusciva a prendere sonno. Non aveva tirato le tende, e i raggi della luna illuminavano la stanza. Dalla finestra poteva scorgere la residenza degli Herondale, dove in quel momento stava Will.
Chissà se sta pensando anche lui a me, si continuava a chiedere.
Dopo pranzo avevano deciso di uscire a cavallo, costeggiando la foresta di Brocelind e raggiungendo addirittura le rive del lago Lyn. Le sarebbe piaciuto passare con Will tutto il pomeriggio, ma verso le cinque, quando aveva iniziato a fare buio e si era alzato un vento gelido, erano tornati a casa e avevano preso direzioni diverse. Will era rimasto con suo padre e Rose era rimasta con i suoi genitori.
Ora Rose avrebbe voluto chiedere a Will di raggiungerla, ma non si potevano aprire portali non autorizzati a Idris e Will non avrebbe mai bussato a quell’ora alla sua porta. Era quasi mezzanotte.
C’era una luce accesa nella casa degli Herondale, nella camera all’estremità sinistra dell’abitazione al secondo piano. Rose non ci aveva fatto caso, dando per scontato che si trattasse della camera di Jace. Vide però una figura tirare le tende, una figura che avrebbe riconosciuto tra mille altre. Alto, con il fisico asciutto e i capelli scompigliati. Era Will, lo vedeva. Era senza maglietta e il desiderio di averlo lì con lei si fece così forte da mozzarle il fiato.
Accese la luce nella sua camera e aprì la finestra, sperando che lui la raggiungesse. Si sdraiò sul letto, il sonno la stava pian piano reclamando a sé.
Ti prego, vieni qui, continuava a ripetere nella mente, come se a furia di pensarlo lui l’avrebbe sentita. 
Dopo quelle che parvero ore, sentì in lontananza una voce che la chiamava: «Rose?»
 
---
 
 
«Rose?» sussurrò Will.
Rose si girò su un lato e lo guardò come se stesse sognando e non credesse ai propri occhi.
«Will?»
Will rimase di fronte al letto di lei, non sapendo bene come comportarsi. Quando aveva visto la luce accendersi nella sua camera e la finestra aprirsi aveva creduto che Rose volesse che lui la raggiungesse, ma se non fosse stato così? Magari aveva solo caldo.
«Come sei arrivato qui?» biascicò Rose con gli occhi che stavano iniziando a chiudersi.
«Mi sono arrampicato» confessò Will leggermente in imbarazzo.
Rose ridacchiò. «Non ci credo».
«Allora ho volato fino alla tua finestra, se preferisci». Will continuava a stare in piedi, immobile. Doveva raggiungerla nel letto? Cosa doveva fare? Rose aveva ragione: perché diavolo nessuno aveva scritto un manuale per queste cose?
«Sai anche volare». Rose sospirò. «Mia mamma ha ragione: non c’è niente che voi Herondale non sappiate fare».
Si spostò sul lato del letto e tirò indietro le coperte. Aveva chiuso gli occhi e la sua voce si era ridotta a un sussurro. «Vieni qui».
Will spense la luce e la raggiunse. Il letto era piccolo, a una sola piazza, ma a lui non importava, e apparentemente neppure a Rose, perché gli si accovacciò di fianco e gli posò la testa nell’incavo del collo, passandogli poi un braccio sul petto.
«Buonanotte, Will». Il respiro di Rose gli sfiorò la guancia e un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Non poteva credere che stesse succedendo per davvero.
Will le diede un bacio sulla fronte. «Buonanotte, Rosie».
 
Nonostante Will avesse dormito poco la notte precedente, non riuscì a prendere subito sonno. Rimase sveglio molto tempo ad accarezzare la schiena di Rose e ad osservare lei: a osservare come i suoi capelli disegnassero cerchi irregolari sul cuscino, a come le sue ciglia le sfiorassero leggermente le guance. Osservò incantato i tratti delicati del suo viso pensando ai mille modi in cui gli sarebbe piaciuto dipingerla e realizzando che poteva finalmente farlo. Finalmente poteva concedersi di disegnarla. E non vedeva l’ora di poterlo fare.
Infine si addormentò, cadendo in un sogno senza sogni. Dopo quella che gli parve solo una manciata di secondi, si svegliò. Aprì gli occhi e ci mise qualche istante per rendersi conto di dove si trovava. Alcuni raggi di sole erano riusciti ad oltrepassare le tende e illuminavano leggermente la stanza. Will sentì Rose muoversi al suo fianco. Girò il capo di lato e trovò i suoi grandi occhi verde-azzurro che lo guardavano. Non sembrava essersi appena svegliata, al contrario, sembrava sveglia da molto.
«Finalmente ti sei svegliato, Bell’Addormentato». Gli diede un bacio sulla guancia ridacchiando e Will sentì una voragine aprirsi nello stomaco. Ma stava succedendo per davvero?
«Che ore sono?» chiese con voce roca.
«Quasi le nove» rispose Rose.
Will si passò una mano sul viso e sbadigliò.
«Hai sonno?» gli chiese Rose. «Ti lascio dormire ancora se vuoi».
«No, grazie». Will le sorrise. «Non è necessario, tanto io ho sempre sonno».
Rose gli poggiò una mano sul petto, sopra al cuore, e sospirò. «Vorrei riuscire a dormire quanto dormi tu».
«È un dono» le rispose lui. «Un dono dell’Angelo. Solo per pochi eletti».
Rose spostò la mano verso l’alto fino a quando raggiunse lo scollo della maglietta e le sue dita gli toccarono la pelle. Will chiuse gli occhi e rabbrividì. Rose gli accarezzò piano la guancia.
«Rose» sussurrò Will, ma Rose si era già chinata su di lui per dargli un bacio sulle labbra. Dapprima fu un qualcosa di delicato e gentile, come se gli stesse augurando il buongiorno, poi però si fece più intenso e famelico.
Will era convinto che prima o poi Rose lo avrebbe ucciso. La prese per i fianchi e girò entrambi sul materasso, così che lei fosse sdraiata sotto di lui, e per poco non caddero a terra perché il letto in realtà era troppo piccolo per poterli ospitare entrambi.
Rose gli passò le mani sotto alla maglietta e gli accarezzò prima l’addome, poi i fianchi, la schiena, inarcando il corpo contro al suo.
Will sospirò. Si stava sorreggendo sui gomiti per non schiacciarla, ma le sue braccia avevano iniziato a tremare leggermente. Si sentiva febbricitante, come un drogato al quale hanno concesso un ultimo assaggio della propria droga.
Allontanò leggermente il viso da quello di lei: i suoi occhi erano seri, più scuri del solito, e guardandoli Will seppe che anche lei lo amava, che anche lei lo voleva tanto quando lui voleva lei.
Rose lo attirò di nuovo verso di sé prendendolo per la maglietta e Will si abbandonò a lei. Si baciarono come se da quello ne dipendesse la loro vita. Will non poteva credere che dopo tutti quegli anni stesse succedendo per davvero, che lui e Rose stessero per davvero insieme e che potessero dormire insieme e baciarsi e stare insieme.
«Ti amo» le disse, baciandola con tutto ciò che aveva. «Ti amo, Rose».
Rose lo strinse a sé, così forte che le braccia di Will cedettero.
«Anche io, William» gli sussurrò all’orecchio, per poi dargli un bacio sulla guancia. «Tanto».
Will tornò a sostenersi sui gomiti e la guardò. «Credo che i tuoi genitori si siano alzati».
Si incominciavano a sentire delle voci nel corridoio e, per quanto Will avrebbe voluto continuare a baciare Rose per il resto della giornata, avrebbe anche preferito evitare che Julian li trovasse di nuovo insieme nella camera di Rose.
Rose si morse il labbro. «Lo so, li sento anche io».
Si guardarono negli occhi per un istante e Will dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non riprendere a baciarla, per non premere il proprio corpo contro il suo e dimenticarsi così di ogni cosa.
«Dovrei andare» disse, mettendosi seduto sul letto.
«No». Rose parve allarmata. «No, resta per colazione».
«Non credo che…» stava dicendo Will, ma Rose si era già alzata e lo aveva preso per mano, iniziando a trascinarlo verso la porta.
Will non osava immaginare lo stato in cui era: capelli scompigliati, labbra gonfie, sguardo da pesce lesso felice. Non poteva fare colazione con i genitori di Rose in quelle condizioni. O meglio, non poteva fare colazione con Julian Blackthorn in quelle condizioni.
Ma a Rose non sembrava importare e lo spintonò nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. Poi lo prese di nuovo per mano e insieme si diressero verso le scale che portavano al pian terreno, dove Will supponeva si trovasse la cucina.
«Rose, non credo sia una buona idea» disse Will. «Posso tornare a casa».
Rose alzò gli occhi al cielo. «Almeno usa la porta di ingresso! Non sei mica un ladro. Non devi nasconderti. Non capisco che problema hai visto che lo sanno tutti che stiamo insieme».
«No, Rose, non è quello» disse. «È solo che tuo padre mi odia e non voglio dargli altri motivi per farlo».
Rose spalancò gli occhi e lo guardò come se fosse un alieno con tre teste.
«Sei matto? Mio padre non ti odia» disse. «E poi sei il mio ragazzo. Cosa dovremmo fare? Giocare a carte?»
Il mio ragazzo. Will sorrise, incapace di farne a meno e di formulare una risposta di senso compiuto.
Poi scosse il capo e si rimise assieme. «È solo che è sempre così gentile, ma distaccato» spiegò, in riferimento a Julian. «Temo di non piacergli. E io voglio davvero piacergli».
«Stai scherzando?» Rose aveva smesso di camminare. Si era fermata in mezzo al corridoio e Will si voltò per fronteggiarla. «Tu piaci a tutti».
Will sbuffò. «Non è vero. Lo dite sempre, tu e George. Ma non è vero».
Rose gli mise le mani sulle spalle. «William Herondale, ti prometto che mio padre non ti odia. Anzi, è contento che stiamo insieme».
«Ma sei sua figlia».
«E allora?»
«Vorrà assicurarsi che tu stia con una persona che ti ami e che ti rispetti e che non ti faccia soffrire»
Rose scosse la testa. «E tu non sei questa persona?»
«Sì». Will inclinò il capo di lato. «Ma lui non lo sa».
«Lo sa eccome, invece» disse Rose. Gli allacciò le braccia attorno al collo e gli si avvicinò. Will sentiva il suo respiro sul viso. «Era probabilmente lì quando sei nato, ti conosce da tutta la vita e ti vuole bene come se fossi suo figlio, così come i tuoi genitori vogliono bene a me. Sa che sei buono e gentile, e che non ci potrebbe essere ragazzo migliore per me».
Will le credeva. Le credeva sul serio. Voleva solo che Julian sapesse quanto lui amasse Rose e voleva assicurargli che non l’avrebbe mai fatta soffrire e che l’avrebbe protetta in tutti i modi possibili. Ma non poteva dirglielo, sarebbe stato strano e avrebbe fatto la figura dell’idiota, perciò tutto ciò che gli rimaneva da fare era comportarsi bene davanti a lui.
Will annuì e Rose gli stampò un bacio sul naso.
Scesero le scale e trovarono Julian ed Emma in cucina, Emma seduta al tavolo intenta a leggere dei documenti e Julian davanti ai fornelli che dava loro le spalle.
Emma sembrava stanca, come se non avesse chiuso occhio tutta la notte, ma quando li vide parve illuminarsi. «Ciao, William» lo salutò con un sorriso. «Che piacere averti qui».
Julian sussultò e per poco non fece cadere il piatto che aveva in mano. Non si voltò subito, Will lo vide prendere un respiro profondo prima di farlo.
Will guardò Rose e le rivolse un’occhiata eloquente: visto che mi vuole uccidere?
Rose lo ignorò e lo fece sedere di fronte a sua madre, mentre lei prendeva posto al suo fianco.
Julian nel frattempo si era ripreso e si era girato. Sembrava calmo e tranquillo come al solito.
«Buongiorno» disse. «Uova?»
Rose allungò il proprio piatto verso di lui, mentre Will scosse il capo e prese una fetta di pane tostato.
Will sperava che non si capisse che aveva dormito lì con Rose, anche se le sue speranze furono spazzate via quando vide il proprio riflesso nella finestra. I suoi capelli erano un disastro –grazie, Rose- e sembrava appena uscito da una lavatrice. Per non parlare del fatto che indossasse il pigiama. Cercò di appiattirsi i capelli senza attirare troppo l’attenzione.
«Avete dormito bene?» chiese Emma con naturalezza, posando i documenti da parte e bevendo un sorso di succo di arancia.
Will si passò una mano sul viso e sprofondò nella sedia. Decise che non avrebbe aperto bocca, non se la sentiva di dire niente.
Rose guardò sua madre per qualche secondo. «Ti stai divertendo, vero?»
«Oh, tantissimo» rispose lei allegra. Julian si sedette di fronte a Rose e la guardò storto.
«Abbiamo dormito benissimo, comunque» disse Rose.
Will continuò a stare in silenzio, e così anche Julian. La cosa si stava facendo davvero imbarazzante. E Will odiava quando le cose tra di loro si facevano imbarazzanti.
Rose sbuffò sonoramente e poggiò la forchetta sul tavolo.
«Papà» disse. «Puoi per favore dire a Will che non lo odi?»
Julian si strozzò con il caffè che stava bevendo e Emma dovette dargli qualche pacca sulla schiena per farlo riprendere. Will, d’altro canto, prese in considerazione la via della finestra: poteva sempre scappare da lì.
Perché, Rose? Perché?
«Cosa?» riuscì a chiedere Julian.
«Non lo odi, vero?» chiese Rose, suonando leggermente titubante per la prima volta.
«No!» esclamò Julian. Poi si rivolse a Will. «Non ti odio, Will. Perché dovrei?»
Will si rese conto che non aveva aperto bocca da quando aveva messo piede in cucina.
«Perché sto con Rose». Julian spalancò gli occhi e Will si sentì un idiota. «Non vuoi uccidermi?»
Julian scoppiò a ridere. «No, non voglio ucciderti».
«Will, Julian ti adora» disse Emma. «Anche se fai bene ad avere paura di lui».
«Se farai soffrire Rose ti sarà riservato il trattamento che riservo a chiunque la faccia soffrire» disse Julian. «Ma tu non la farai soffrire, no?»
«No». Will scosse il capo. «Certo che no».
Julian gli sorrise. «Bene».
«Bene» ripeté Rose.
«Tra l’altro, Will è il motivo per cui Rose esiste» disse Emma, continuando a mangiare le sue uova, come se stesse parlando del tempo. «Ovvio che Julian lo adora».
A Will andò di traverso quello che stava mangiando, mentre Rose fece una smorfia. «Che cosa?»
«Già» continuò Emma, lanciando un’occhiata allusiva a Julian, che invece alzò gli occhi al cielo.
«Non esagerare, Em» la ammonì lui.
Will non era sicuro di voler sapere di che cosa stessero parlando.
«Cosa vuol dire che esisto grazie a Will?» chiese invece Rose, spostando lo sguardo da sua madre a suo padre.
«Vuol dire che la mamma voleva aspettare ad avere figli, poi Clary le ha messo in braccio Will e…» Julian sospirò. «Come dirlo senza farlo suonare inquietante? Voleva portarselo a casa e tenerlo lei».
Emma si mise a ridere. «Eri così carino, Will. Sei ancora carino, certo, ma appena nato eri particolarmente carino».
Will le sorrise anche se tutto ciò che desiderava era scomparire. «Grazie?»
«Quindi Emma ha scritto alla signora Cicogna e le ha chiesto di portarle una bambina» continuò Julian.
Questa volta anche Rose sembrava imbarazzata. «Lo so come si fanno i bambini».
«Bene» disse Julian, puntando la forchetta prima contro di lei e poi contro Will. «Quindi sarà meglio che prendiate precauzioni. Sai come si disegna una runa anticoncezionale? Se vuoi te la faccio vedere».
«Papà!» Rose era diventata dello stesso colore dei capelli della mamma di Will. «Sto a posto, grazie».
«Julian» sbottò Emma. «Guardali, li stai mettendo in imbarazzo. E poi per chi mi hai preso? Ho insegnato a mia figlia qual è la runa…»
«Ehm, forse dovrei andare…» tentò Will. Se fosse rimasto lì, sarebbe morto di vergogna, dato che non aveva mai fatto sesso con nessuna, mentre Rose lo aveva già fatto con Logan.
«No, Will» lo fermò Emma. «Julian ora la pianta. Vero?»
Julian annuì. «Volevo solo essere sicuro. Per quanto vorrei dei nipotini, siamo tutti troppo giovani».
«Papà». Rose scandì la parola mentre lo guardava con occhi spalancati. «Io e Will non abbiamo fatto niente e io ho già la runa. Non hai mai fatto questi discorsi quando stavo con Logan, smettila».
«Solo perché non lo hai mai portato a casa». Poi ci pensò un attimo e si rivolse a Will. «In realtà avrei dato molto più filo da torcere a lui. Scusa se ti sto mettendo in imbarazzo, Will, sono davvero contento che tu e Rose stiate insieme».
Will era felice di sentirlo. «Grazie» disse, e questa volta lo intendeva sul serio.
 
Quando Will tornò a casa, intravide suo padre e Celine seduti al tavolo della cucina. Suo padre aveva una tazza di caffè davanti a sé, mentre sua sorella, che era arrivata la sera precedente tramite un portale, stava mangiando dei biscotti con aria assonnata.
Merda, pensò Will, cercando di chiudere la porta d’ingresso silenziosamente.
Se avessero capito che non aveva dormito nella sua camera, non lo avrebbero lasciato in pace per settimane.
Will mise un piede sul primo gradino che conduceva al piano superiore, ma si bloccò quando la voce di Celine lo raggiunse.
«Guarda un po’ chi è tornato a casa». Se prima sembrava mezza addormentata, ora si era svegliata eccome.
Will chiuse gli occhi e imprecò, per poi dirigersi in cucina molto lentamente, cercando di posticipare il più possibile il momento della sua pubblica umiliazione. Sì, stava facendo il melodrammatico e sì, ne era consapevole. Ma quando si trattava di Celine e suo padre non c’era scampo. 
«Vergogna, William» lo riprese suo padre con un sorrisetto. «Te ne torni in camera tua come se niente fosse?» Batté piano con la mano sullo schienale di una sedia facendo segno a Will di sedersi accanto a lui. «Coraggio, racconta al tuo papà».
Will si sedette e rubò un biscotto a sua sorella.
«Non c’è niente da raccontare» disse. «E anche se ci fosse, non lo racconterei certamente a voi».
«Sì, certo» fece Celine con una smorfia. «Non ci credo».
Will alzò le spalle. «Non crederci».
Ma dove diavolo era sua madre quando aveva bisogno di lei?
«Tu mi vuoi dire che sei andato a dormire da Rose, la ragazza dei tuoi sogni, e che non è successo niente?» chiese suo padre, scuotendo il capo.
«Esatto!» Ora Will si stava arrabbiando, soprattutto perché conosceva la storia della prima volta di Rose e non si sarebbe mai permesso di spingerla a fare qualcosa che invece non si sentiva di fare. «Rose si stava praticamente addormentando, eravamo entrambi stanchi e abbiamo dormito e basta. Per chi mi avete preso, uno stronzo pervertito?»
Sia Celine che suo padre lo guardarono con gli occhi spalancati, ammutoliti per un secondo.
«Will, non era ciò che intendevamo» disse Jace, stranamente serio, posandogli una mano sulla spalla. «Va bene se volete aspettare e sinceramente non devi dare nessuna spiegazione, men che meno a noi».
Anche Celine sembrava leggermente in imbarazzo. «Stavamo scherzando, Will. Sei la persona più buona che io conosca, lo so che non metteresti mai Rose a disagio».
Will borbottò qualcosa, mangiando un altro biscotto, quando sua madre e Lizzie comparvero in cucina. Sua madre aveva probabilmente aperto un portale in salotto. Li avevano raggiunti perché quel pomeriggio si sarebbe tenuta la prova abito di Celine.
«Buongiorno a tutti» li salutò Clary, piegandosi per dare un bacio sulle labbra a Jace e uno sulla guancia a Will e a Celine. Will non si lamentò, mentre Celine si pulì di nascosto il viso con la mano.
«’Giorno» borbottò invece Lizzie. Si lasciò cadere in modo sgraziato sulla sedia accanto a Celine e prese anche lei un biscotto.
«Pensavo che sareste arrivate nel pomeriggio» disse Jace. «Non che non sia contento di vedervi, s’intende. È successo qualcosa?»
Quando Clary alzò lo sguardo su di loro, Will capì immediatamente che qualcosa non andava.
«Cosa?» chiese, sentendo un nodo alla gola.
«Ha chiamato George ieri sera» spiegò sua madre con aria triste.
Will si sentì quasi mancare. George. Se fosse successo qualcosa al suo parabatai lo avrebbe saputo, anche se si trovavano a Idris, anche se…
«George sta bene» disse, e non era una domanda. «Vero?»
«Sì, sta bene. Si tratta del padre di Cath». Clary prese un respiro profondo. «È morto».

NOTE DELL'AUTRICE 
Buonasera! 
Ecco qua il nuovo capitolo, questa volta incentrato su Will e Rose -ve lo avevo detto che mi sarei fatta perdonare!
Nulla, spero che vi piaccia e che vi abbia tirato un po' su di morale, dopo il capitolo triste della scorsa settimana. :/
Buona lettura e a presto!

Francesca 

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannove. ***


Capitolo diciannove
 
«Be’ non è andata poi così male, no?» fece Jace cercando di suonare allegro mentre uscivano dalla Guardia.
Julian e Emma non condividevano il suo buonumore, il braccio di lui stretto attorno alle spalle di lei. Rose sembrava sul punto di dare di stomaco e Will le prese la mano.
L’incontro con gli altri membri del Consiglio non era andato male; Will aveva mostrato a tutti la propria runa e persino gli Shadowhunters più anziani si erano dimostrati ben disposti ad ascoltarlo. Anche Emma aveva raccontato la sua parte di storia ma, una volta terminato, c’era stata una lunga discussione per decidere se e quali provvedimenti prendere per il comportamento di Julian e Emma vent’anni addietro. Joseph Rosewain, che aveva perso i figli e i nipoti a causa di uno dei recenti attacchi dei Riders di Mannan, aveva infatti dato loro la colpa per il ritorno dei Riders e per tutte le vittime che avevano mietuto.
«Se solo aveste informato il Conclave a tempo debito, tutto questo non sarebbe successo!» aveva esclamato. «Ce ne saremmo occupati vent’anni fa, li avremmo uccisi tutti. Il Conclave…»
«E con quali armi?» aveva sibilato Julian. «Anche se ve lo avessimo detto subito, che differenza avrebbe fatto? Erano scomparsi, pensavamo che Kieran, il nuovo Re, sarebbe riuscito a tenerli sotto controllo. E ci è riuscito. Fino ad ora almeno».
«Sta di fatto che il Conclave ne doveva essere informato!» aveva sbottato Sibilla Aspencross, dall’Istituto di Città del Capo.
«Il Conclave?» Julian le aveva rivolto uno sguardo che aveva fatto venire voglia a Will di rannicchiarsi in un angolo e di coprirsi il volto con le mani. «Intendi le stesse persone che hanno esiliato mia sorella Helen e abbandonato mio fratello Mark? Credo che anche tu possa capire che avevamo le nostre ragioni per non fidarci del Conclave, soprattutto con i Dearborn e la Coorte che stavano diventando sempre più potenti. Temevamo che avrebbero deciso di uccidere Emma per essere sicuri che l’ira della Corte Unseelie e dei Riders di Mannan non si abbattesse sui Nephilim».
Emma era stata in silenzio per tutto il tempo, lo sguardo fisso davanti a sé e la mano stretta in quella di Julian.
«Magari è ciò che avrebbero dovuto fare» disse Joseph sprezzante. «Magari è ciò che dovremmo fare adesso».
Will aveva sentito Rose trattenere il fiato al suo fianco e le aveva poggiato delicatamente una mano sul ginocchio. Julian non aveva staccato lo sguardo da Joseph Rosewain: muovi anche un solo passo per fare del male a Emma o a Rose e ti uccido, dicevano i suoi occhi. Will aveva già una mano sull’elsa della propria spada angelica. Grazie all’Angelo però, nessuno spargimento di sangue era stato necessario. Tutti i presenti erano prorotti in esclamazioni disgustate davanti a una tale proposta e Samantha Gladstones aveva ripreso severamente Joseph Rosewain, mostrandosi comprensiva per le sue perdite ma affermando che la morte dei Blackthorn non avrebbe riportato indietro i suoi cari. A quel punto Sibilla Aspencross aveva preteso che Julian ed Emma venissero almeno esiliati; il Console aveva indetto una votazione e sorprendentemente coloro contrari all’esilio erano risultati in netta maggioranza.
«Non devi venire questo pomeriggio se non te la senti». Will attirò Rose a sé e le diede un bacio tra i capelli. Quel pomeriggio ci sarebbe stata la prova d’abito di Celine.
«Sto bene» rispose lei, ma Will non le credeva. «È solo che...» Si guardò intorno spaventata, come se avesse paura che qualcuno potesse attaccarli. «Quell’uomo era davvero disposto a ucciderci tutti».
Si trovavano fuori dalla Guardia, sul sentiero che riportava ad Alicante. Era una bella giornata, il sole splendeva pacato nel cielo e l’aria era fredda e pungente.
«Ha perso la sua famiglia» disse Emma, stringendosi un po’ di più nel proprio cappotto grigio chiaro. «Ha perso tutto».
«Non preoccuparti, Rose». Julian era ancora scosso, nonostante stesse cercando di indossare un’espressione impassibile.
«Nessuno avrebbe mai permesso di farvi del male» disse Jace, incrociando le braccia al petto e lanciando un’occhiata verso i grandi portoni della Guardia. «Joseph è impazzito dopo la morte del figlio, lo sanno tutti».
«Dovresti andare alla prova d’abito di Celine, Rose» le disse sua madre con un sospiro. «Probabilmente è stato traumatico per te, ma è andato tutto bene, meglio di quanto sperassimo».
Rose distolse lo sguardo e annuì, osservando la città davanti a sé con aria assente.
Decisero di tornare a casa per mangiare qualcosa, Will e suo padre nella residenza degli Herondale e Rose in quella dei Blackthorn con la sua famiglia. A Will sarebbe piaciuto poter stare un po’ con lei, ma sapeva che in quel momento aveva bisogno di stare con i suoi genitori.
Will si chiuse in un religioso silenzio per tutta la durata del pranzo. Aveva perso l’appetito. Fu suo padre a raccontare a sua madre e alle sue sorelle quanto accaduto quella mattina alla Guardia
Nonostante tutto si fosse risolto per il meglio, Will non riusciva ad essere totalmente felice. Continuava a pensare al padre di Cath. Si era ritrovato a chiedersi se dirlo a Rose proprio prima della riunione del Conclave fosse stata una buona idea, ma aveva fatto bene perché non avrebbe mai potuto farlo ora, dopo tutte le atrocità che lei aveva dovuto sentire contro la propria famiglia. Sarebbe stato il colpo di grazia che l’avrebbe fatta crollare.
Non conoscevano Augustin Bellefleur e avevano sentito solo cose negative su di lui, ma conoscevano Cath e questo era sufficiente per essere in lutto, come se la sua sofferenza fosse anche la loro. Se c’era una cosa di cui Will era certo, era che Cath era devastata dalla perdita del padre. Lo sapeva grazie a George: riusciva a percepire il suo dolore attraverso il legame, il dolore che il suo parabatai provava nel vedere Cath soffrire senza essere in grado di fare qualcosa per farla stare meglio. George non si rendeva conto, invece, di quanto la stesse aiutando, di quanto il suo amore significasse per lei, e Will desiderò con tutto il cuore che a Idris funzionassero i cellulari. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter parlare con George, per fargli aprire gli occhi e fargli capire che lui era tutto ciò che la stava facendo andare avanti, che il suo amore era ciò che la stava tenendo in vita.
«Bene, direi che è ora di andare» annunciò Celine, guardando l’orologio che portava al polso.
«È il mio orologio quello?» chiese Will. Non lo trovava da un paio di giorni.
Celine lo ignorò. «Basta con questi musi lunghi, è ora di rallegrare gli animi con un po’ di bei vestiti». Poi guardò Will con il sorrisetto che Will definiva il suo sorrisetto malvagio. «Vai a chiamare Rose, fratellino. Scommetto che sarò in grado di migliorarle l’umore nel giro di cinque minuti».
Will fece una smorfia. «Rose ci raggiunge al negozio».
«Sicuro che non vuoi venire, Jace?» Clary gli posò una mano sulla spalla e lui tirò su col naso con fare melodrammatico. «No. Non voglio prendere atto della cosa finché posso, a meno che la mia bambina non mi voglia lì ovviamente».
Sia Celine che Lizzie alzarono gli occhi al cielo.
«Non mi interessa chi viene, mi basta Will» disse Celine impietosa. Lizzie le fece una linguaccia e Clary la guardò storto.

Il negozio di abiti da sposa di Alicante si trovava lungo la via principale, di fianco al negozio di armi di Diana Wrayburn.
Will non ci era mai entrato, e non si era neppure mai soffermato a osservare gli abiti da sposa esposti in vetrina. Quando mise piede nel negozio rimase affascinato dal numero di vestiti che uno spazio apparentemente tanto piccolo poteva contenere: non c’erano infatti solamente abiti da sposa delle più svariate tonalità di bianco e oro, ma anche normali abiti da cerimonia colorati.
«Benvenuti!» esclamò una vecchietta con i capelli bianchi. «Sono Margaret Stoneglass, voi dovete essere gli Herondale. Celine, giusto?»
«In carne ed ossa» rispose lei tendendo la mano alla signora, che era ben di una testa più bassa di lei.
«Ma che piacere, cara». La signora Stoneglass le mise una mano sulla guancia e le sorrise. «Sei proprio graziosa».
«Graziosa non è il termine che userei» sussurrò Lizzie a Will. A Will venne da ridere ma cercò di trattenersi. Celine era molto bella, persino lui che era suo fratello se ne rendeva conto, ma aveva la grazia di un facocero.
Celine si accorse che lui e Lizzie la stavano prendendo in giro e li incenerì con lo sguardo. La signora Stoneglass notò Will e parve accendersi.
«E questo bel giovanotto è per caso lo sposo?» si avvicinò a Will con gli occhi che brillavano e lo squadrò dalla testa ai piedi. «Che ragazza fortunata!»
Will inorridì, così come Celine, mentre Elizabeth scoppiò a ridere.
Gli Shadowhunters non erano superstiziosi e lo sposo spesso aiutava la sposa a scegliere il vestito, ma Will era cresciuto a New York ed era rimasto affascinato dalla tradizione mondana dei matrimoni, tanto che più di una volta si era ritrovato nel bel mezzo di un matrimonio a Central Park. Gli sarebbe piaciuto sposarsi lì e non avrebbe mai voluto vedere Rose prima del gran giorno, avrebbe voluto la sorpresa. Scosse il capo, riportando i piedi per terra: era decisamente troppo presto per pensarci.
«No, per carità, no!» stava dicendo Celine. «È mio fratello, William».
«Piacere di conoscerla, signora Stoneglass». Will le tese la mano.
«Il piacere è tutto mio, caro, ma potete chiamarmi Maggie». Strinse la mano anche a sua madre e a Lizzie, per poi fare segno a tutti loro di seguirla nella stanza accanto. «Venite con me, le amiche della signorina Celine sono già arrivate da qualche minuto e si stanno divertendo a provare gli accessori».
Li condusse in una stanza ancora più grande della precedente. Sul lato sinistro erano esposti gioielli, borsette e scarpe con dei tacchi vertiginosi che fecero venire a Will il mal di schiena solamente guardandole. Dalla parte opposta invece si trovavano due camerini e degli altri abiti color pastello, chiaramente non destinati alle spose. La terza parete, quella di fronte all’entrata, era ricoperta da specchi e al centro della sala c’erano due divanetti e due poltrone, davanti alle quali era stato steso un tappeto rosso scuro.
Sopra uno di quei divanetti erano sedute due ragazze che avevano più o meno la stessa età di Celine. Una di loro aveva lunghi capelli biondo miele che le cadevano in morbidi boccoli sulle spalle, mentre l’altra aveva i capelli color ebano raccolti in una treccia.
«Eccoci qua». Maggie iniziò a spiegare la disposizione dei vari capi di vestiario e di tutti gli accessori del negozio, ma Celine, avendo una soglia di attenzione davvero bassa, aveva già smesso di ascoltarla e si era diretta di corsa verso le sue amiche.
Queste quando la videro corsero ad abbracciarla, riempiendola di domande e iniziando a parlare con un tono di voce più alto del normale, tipico di alcune ragazze quando erano particolarmente emozionate per qualcosa.
«Sarà un luuungo pomeriggio» brontolò Elizabeth guardandosi attorno. Loro madre era l’unica che stava ancora ascoltando educatamente la povera Maggie. «Credi che potrò provare qualche vestito?»
Will alzò le spalle. «Certo, Liz. Niente abiti da sposa però. Altrimenti papà potrebbe rimanerci secco».
Elizabeth grugnì. «Papà non è qui».
«Allora io potrei rimanerci secco».
Celine prese le sue amiche per mano e le trascinò davanti a loro senza un minimo di delicatezza.
«Ragazzi, queste sono Samantha e Gwen».
«Ehi» disse Lizzie salutandole con la mano.
Will sorrise. «Piacere di conoscervi». Incrociò lo sguardo di Samantha, la ragazza con i capelli biondi, e questa arrossì violentemente. Will si affrettò a distogliere lo sguardo, sperando che quando arrossiva lui non fosse così tanto evidente.
Maggie iniziò a tempestare Celine di domande per cercare di capire che tipo di abito volesse. Celine non ne aveva la più pallida idea e Will cercò di aiutarla, spiegandole i termini tecnici usati a Maggie. Anche sua madre e le sue amiche provarono a darle consiglio, mentre Elizabeth sparì nei meandri del negozio, probabilmente alla ricerca di un vestito per se stessa. Dopo quasi mezz’ora, Maggie decise che aveva abbastanza informazioni per proporre un paio di modelli a Celine. Si diresse con la schiena dritta nella sala principale, lasciandoli soli nella stanza con gli specchi e i camerini.
«E se non trovassi niente?» Celine la osservò allontanarsi. «Il matrimonio è tra un mese».
«Tranquilla, Celine» la rassicurò sua madre. «Sono sicura che troverai il vestito perfetto».
«Te l’avevo detto che era tardi» disse Will. Sia sua madre che sua sorella gli lanciarono un’occhiata infuocata. Will scrollò le spalle. «Ma è per questo che sono qui, no?»
Samantha si mise a ridere con un po’ troppo entusiasmo e Celine alzò un sopracciglio nella sua direzione. Gwen invece le tirò una gomitata cercando di non farsi notare.
Will non fece in tempo a chiedersi cos’avesse detto di divertente che vide Rose riflessa nello specchio davanti a sé.
Un attimo prima non c’era e quello dopo era proprio lì, sulla soglia della porta, che si guardava attorno con gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta, meravigliata dalla bellezza di tutti quei vestiti, scarpe e gioielli. Will invece era meravigliato dalla sua, di bellezza. Indossava un semplice cappotto nero e un paio di jeans abbinati a degli stivali che le arrivavano al ginocchio, e i capelli le cadevano ai lati del viso arricciandosi leggermente sulle punte, segno che li aveva appena lavati e che non li aveva asciugati prima di uscire di casa.
I loro sguardi si incrociarono attraverso il vetro. Rose gli sorrise e gli fece un cenno di saluto con la mano, e Will sentì il proprio cuore fermarsi per poi riprendere a battere più veloce. Si voltò e la raggiunse con due falcate, come se non la vedesse da molto tempo e non solamente da un paio d’ore. La prese tra le braccia e la strinse a sé, seppellendo il viso tra i suoi capelli.
«Ve l’avevo detto che Will era occupato» sospirò Celine divertita, probabilmente rivolta alle sue amiche.
Will la zittì nella sua testa: taci, Celine.  
Rose non parve farci caso e gli diede un bacio alla base del collo che lo fece rabbrividire. Will si chiese quando Rose avrebbe smesso di fargli quell’effetto. Si rispose subito: mai.
Si allontanò leggermente, passandole le mani sulle braccia come se stesse cercando di riscaldarla.
Da vicino notò che i suoi occhi erano arrossati, più brillanti del solito: aveva pianto.
«Tutto bene?» le chiese.
Lei gli sorrise. «Certo».
Will le diede un casto bacio sulle labbra, imponendosi di non andare oltre e di darsi un contegno.
Sei in pubblico, William.
«Rose, tesoro!» la accolse Celine, andandole incontro con le braccia spalancate. Spostò con una spallata Will di lato e la abbracciò. «Ormai siamo praticamente sorelle! E abbiamo un sacco di cose di cui parlare». Lanciò un’occhiata di sottecchi a Will e le fece l’occhiolino. «Se capisci cosa intendo».
«Eh?» chiese Rose, aggrottando le sopracciglia.
Rose non sembrava turbata dalla minaccia di Celine, mentre Will voleva solo sparire.
«Hai capito bene». Celine la prese per mano e la trascinò verso il centro della sala per presentarla alle sue amiche.
Will riuscì a captare le parole Rose, anima gemella e mio fratello.
Meno male che Rose lo amava e lo conosceva da tutta la vita, altrimenti la sua famiglia l’avrebbe fatta scappare a gambe levate.
Lizzie aveva ragione, pensò Will. Sarà davvero un lungo pomeriggio.
 
---
 
Rose non riusciva a smettere di guardarsi attorno. I vestiti erano meravigliosi, delle più svariate tonalità e tessuti, dalla seta al tulle e al pizzo. Li voleva provare tutti.
Come ha potuto Celine ridursi all’ultimo? si chiese incantata mentre posava lo sguardo sugli abiti da sposa esposti poco lontano. Si ripromise che quando si sarebbe sposata, la scelta del vestito sarebbe stata in testa alla lista delle cose da fare.
«Lei è Rose» stava dicendo Celine. Sembrava particolarmente eccitata all’idea di presentarla alle sue amiche. «L’anima gemella di mio fratello».
La voce di Celine riportò Rose alla realtà, strappandola da quella fantasia fatta d’oro e occhi verdi.
La ragazza con la treccia sospirò e si presentò, rivolgendole un sorriso gentile, mentre l’altra, quella con i capelli biondo miele che Rose scoprì chiamarsi Samantha, non sembrava molto felice di fare la sua conoscenza. Rose si impegnò per cercare di capire il perché, ma non ci riuscì.
Will le raggiunse e si passò una mano tra i capelli. Aveva il fiato corto, come se avesse corso, quando invece aveva dovuto muovere solamente qualche passo.
«Celine» disse con voce sardonica. «Per favore».
Sua sorella alzò gli occhi al cielo e probabilmente avrebbe aggiunto qualcos’altro, se solo non fosse stata interrotta da una signora sulla sessantina sommersa da una valanga di vestiti.
«Ecco qua, cara». Appoggiò gli abiti sul divanetto più vicino e si guardò attorno sorridente. Delle rughe di espressione le si formavano ai lati degli occhi quando lo faceva. «Sono sicura che qui troverai qualcosa che ti piace. Prova questo». Porse un abito a Celine e lei la guardò come se fosse la sua salvatrice.
«E questa bella fanciulla invece?» La signora aveva notato Rose e la stava guardando con gli occhi che brillavano. «Un’altra amica della signorina Celine?»
«Sì» disse Rose. «Sono Rose».
«Ma che piacere! Sono la signora Stoneglass». Le diede un buffetto sulla guancia. «Ma puoi chiamarmi Maggie».
«No no no!» urlò Celine da dietro la tenda del camerino, la voce ovattata, segno che stava cercando di infilarsi il vestito. «Lei è l’anima gemella di mio fratello!»
Rose rimase in silenzio, non sapendo bene come rispondere. Sentì Will trattenere il respiro al suo fianco, ma non alzò il capo per incontrare il suo sguardo. Anche lui non disse niente.
«Vi sposate?» Maggie batté le mani esaltata e Clary scoppiò a ridere.
«No!» esclamarono all’unisono sia Rose che Will, per poi scambiarsi un’occhiata reciprocamente offesa.
«Stanno insieme solo da un paio di giorni» disse Clary. «È un po’ presto per parlare di matrimonio».
Maggie sbatté le palpebre e parve riprendersi. «Ma certo! Però avrai bisogno di un vestito lo stesso, no?»
Rose si rese conto che con tutto quello che era successo nell’ultimo mese della sua vita non aveva avuto tempo per cercare un vestito per il matrimonio.
«Sì, suppongo di sì…»
«Ho già in mente quello che fa per te! È tra i nuovi arrivi nel magazzino, aspetta qui e non scappare». Maggie sparì di nuovo, lasciandosi dietro una scia di profumo alla violetta.
Rose sbatté le palpebre un paio di volte e si rivolse a Will.
«Cos’è appena successo?» sussurrò.
Will stava guardando nel vuoto davanti a sé. «Non lo so». Poi scrollò le spalle. «Quindi non hai ancora scelto un vestito?»
Rose scosse il capo. Clary aveva iniziato a parlare con Samantha e Gwen, mentre Will e Rose stavano parlando tra di loro a bassa voce.
«Bene». Will sorrise. «Almeno possiamo vestirci abbinati».
Rose scoppiò a ridere, perché era proprio una cosa da Will. Quando si rese però conto che lui non ricambiava la sua risata, si bloccò, cercando di riprendere fiato.
«Aspetta, fai sul serio?»
Will alzò le spalle. «Certo. Pensa se dovessi scegliere una camicia viola scuro e tu dovessi vestirti di giallo. Di giallo, Rose. Rovineremmo tutte le foto se ci sedessimo vicini, e io voglio poterti stare vicino senza fare del male agli occhi di nessuno».
Rose ci rifletté un attimo, concludendo che Will non aveva tutti i torti. Non aveva mai avuto un ragazzo, e quindi non aveva mai dovuto pensare a questo genere di cose. Anche se era abbastanza sicura che né George né Cath si mettessero d’accordo su come vestirsi quando dovevano andare a una cerimonia.
«Hai ragione» disse infine. «Non ci avevo pensato. Ma niente rosa antico per me».
«Perché no?» chiese Will, aggrottando le sopracciglia.
«Perché mi fa sembrare ancora più pallida di quanto non sia già».
Will ghignò. «Una ragazza Californiana come te più pallida di un Newyorkese».
Will aveva la carnagione ambrata proprio come suo padre e Rose lo invidiava immensamente, perché lei, pur non essendo pallida quanto Cath, faceva fatica ad abbronzarsi e doveva riempirsi di crema per non scottarsi. In più d’estate le spuntavano le lentiggini non solo sul viso ma anche sulle spalle e sulle braccia e lei le odiava. Le odiava.
«Non vale. Tu hai la genetica dalla tua parte» si lamentò Rose. «Non è giusto».
Will le sfiorò il viso con la mano e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Io direi che la genetica ha fatto proprio un bel lavoro con te».
Rose si sentì arrossire leggermente sulle guance e venne salvata da Maggie, che era tornata con un abito di seta blu scuro.
«Coraggio, figliola. Provalo» Glielo mise in mano e iniziò a spingerla verso il camerino libero. «Si intona ai tuoi occhi».
Rose intravide Celine uscire dall’altro camerino con indosso un vestito dorato stretto in vita e molto principesco.
«Sembro una bomboniera» borbottò quella, incrociando le braccia al petto e guardandosi attorno a disagio.
Will alzò un sopracciglio e scosse il capo. «No, non ci siamo».
Maggie parve vagamente offesa. «Ma se sta benissimo! Tesoro, sei bellissima, non ascoltarlo, cosa pensi che ne capisca?»
Rose non riuscì a cogliere la risposta di Will perché stava cercando di capire da che parte infilarsi il vestito. Una volta trovato il buco per la testa e quelli per le braccia, uscì a piedi scalzi, sentendosi un po’ a disagio: quella era la prova abito di Celine, non la sua. Inoltre non se la sentiva molto di fare shopping, non quel giorno, non dopo aver appreso della morte del padre di Cath e non dopo aver dovuto sostenere lo sguardo pieno di odio di Joseph Rosewain e Sibilla Aspencross.
Maggie proruppe in un’esclamazione di giubilo quando la vide. Rose si guardò allo specchio e rimase piacevolmente sorpresa dal proprio riflesso.
L’abito aveva uno scollo a v e le fasciava la vita per poi caderle morbido sui fianchi. Era lungo e lasciava quasi tutta la schiena scoperta. Rose si scostò i capelli di lato e diede le spalle allo specchio per poter osservare meglio il retro del vestito, che era tanto bello quanto il davanti.
«Be’». Will deglutì. «Dovrò iniziare a cercare una camicia blu».
Rose si voltò verso di lui e rimase senza fiato davanti all’espressione con cui la stava guardando, come se la stesse vedendo per la prima volta nella sua vita.
«No!» Celine scosse suo fratello per il braccio. «No, William. Non ti distrarre, smetti subito di sbavare dietro a Rose e mettiti al lavoro: dobbiamo trovare un vestito che non mi faccia sembrare una bomboniera. Senza offesa, Maggie, e senza offesa, Rose».
«Non preoccuparti» cercò di rassicurarla sua madre. «Lo troveremo. Ma dove si è cacciata Elizabeth?»
Rose scosse le spalle e tornò a guardarsi allo specchio, appiattendo meglio la gonna con le mani. Era davvero un bel vestito.
Will le si era avvicinato da dietro. Non la stava toccando, si era fermato a qualche centimetro di distanza, ma Rose riusciva a percepire il calore irradiare dal suo corpo. Se solo avesse fatto un passo indietro avrebbe toccato con la schiena il suo petto. Era consapevole di Clary e di Samantha che cercavano di consolare Celine, le loro voci distanti come se si trovassero nell’altra stanza e non a soli pochi passi di distanza. In quel momento tutti i suoi sensi erano concentrati su Will: sentiva il suo respiro sfiorarle la pelle scoperta della schiena e del collo, il suo profumo e persino il suo cuore che batteva nel petto, nonostante non la stesse neppure sfiorando.
«Sono il primo a sconsigliare di comprare qualsiasi cosa senza prima essersi guardati un po’ in giro» disse con voce roca. Un brivido corse lungo la spina dorsale di Rose. «Ma questo mi piace davvero tanto».
Rose si girò verso di lui e nel farlo lo prese dentro con il braccio. Alzò il capo per guardarlo negli occhi e gli sorrise. «Sì, anche a me». Poi gli diede un colpetto sul petto. «Avevi ragione: sarà meglio che tu ti metta a cercare una camicia blu».
«William!» lo chiamò Celine. «Vieni subito qui o ti lancio una scarpa».
Will ghignò e andò ad aiutare sua sorella. Dopo più di due ore e almeno una decina di abiti scartati, Celine riuscì a trovare quello giusto per lei. Maggie si lamentò perché si trattava di un vestito pensato per una damigella, ma sia Celine che Will sembravano irremovibili in quella scelta. Si trattava di un vestito oro scuro con delle spalline sottili, stretto in vita e morbido sui fianchi; a Rose ricordava l’abito di una qualche divinità greca.
«Grazie, Maggie» la salutò Celine dandole un bacio sulla guancia.
«E di cosa, cara?» Maggie abbracciò anche Rose e le sussurrò all’orecchio. «Ti aspetto quando toccherà a te sposarti, mi raccomando!»
 
NOTE DELL'AUTRICE
Ciao a tutti!
Ecco qua il nuovo capitolo, spero che vi piaccia! Non è molto lungo e non succede praticamente niente, ma ho voluto tagliarlo qui così nel prossimo posso mettere solo il funerale del padre di Cath. Dopodiché avrò finito i capitoli che ho già scritto. Ne ho altri due quasi pronti e spero di riuscire a postare il venerdì come di consueto, ma la sessione invernale si avvicina e devo studiare, quindi vediamo come va. Vi darò altre info settimana prossima. :)
Grazie mille se continuate a leggere la storia e a presto,

Francesca 

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Capitolo 20
*** Capitolo Venti. ***


Capitolo venti
 
Quella sera George e Cath arrivarono a Idris tramite un portale aperto da Clary e autorizzato dal Console. Cath non voleva rimanere a Idris per troppo tempo, perciò decisero di fermarsi solo per il funerale, che si sarebbe tenuto il giorno seguente. Sarebbero stati a casa degli Herondale: non valeva la pena andare nella tenuta dei Lightwood, che non veniva usata da anni, per una sola notte.
Non appena Cath e George arrivarono nel salotto degli Herondale, vennero quasi assaliti da Will e Rose. Rose corse incontro a Cath e la abbracciò, mentre Will si diresse a passo veloce verso di lui e lo attirò a sé, stringendolo forte. George chiuse gli occhi e poggiò la testa contro quella del suo parabatai, traendo un sospiro di sollievo: finalmente riusciva a respirare.
«Lo hai sentito?» gli chiese Will a bassa voce.
«Cosa?» George non capiva.
«Ho cercato di mandarti energia positiva mentre non eri qui» spiegò Will. Si allontanò quanto bastava per guardarlo negli occhi: erano pieni di preoccupazione. «Cath si riprenderà. Andrà tutto bene».
George annuì, tenendo le labbra serrate per impedir loro di tremare. Will gli sorrise piano e gli diede una leggera pacca sulla spalla, per poi fare le condoglianze a Cath, assieme ai suoi genitori e alle sue sorelle.
George non perse di vista Cath neanche per un secondo; voleva essere sicuro che stesse bene, che non si sentisse sopraffatta dalla presenza di così tante persone e che non andasse di nuovo in shock.
La notte precedente era stata una delle notti più brutte della sua vita. Cath aveva pianto per ore, tanto che ad un certo punto aveva iniziato a tremare e a fare fatica a respirare. George era quasi andato nel panico. L’aveva stretta a sé fino a quando i suoi singhiozzi non si erano trasformati in leggeri sospiri, promettendole che sarebbe rimasto sveglio fino a quando lei non si fosse addormentata. E alla fine Cath era crollata su di lui, troppo esausta anche solo per continuare a tenere gli occhi aperti. George era rimasto vigile ancora per un po’ di tempo, accarezzandole i capelli e odiandosi per non essere in grado di fare di più, per non essere in grado di prendere su di sé tutto il suo dolore.
«Quindi verrai a stare con noi, Cath?» stava dicendo Will. «Non preoccuparti, sarà divertente. State solo attenti a mio padre: non bussa mai e trova ogni pretesto per prendervi in giro».
I genitori di Will erano andati a parlare in cucina con quelli di George, mentre Elizabeth e Celine erano sparite al piano di sopra, lasciando i ragazzi in salotto da soli.
«Io e Cath stiamo insieme da due anni e il prossimo ci sposiamo» disse George perplesso, passando un braccio attorno alle spalle di Cath e attirandola a sé. Cath sembrava essere più tranquilla quando lui la toccava. «Perché dovrebbe prenderci in giro? Perché dormiamo insieme?»
Will sembrò pensarci un attimo. «Hai ragione» disse, come se il suo amico gli avesse appena aperto un mondo. Poi si voltò verso Rose. «Forse dovremmo sposarci anche noi».
George era sicuro che Will fosse serio e che la sua non fosse una battuta, ma Rose si mise a ridere e così anche Cath. Will la guardò sorpreso e poi sorrise, felice di averla fatta ridere in un momento tanto brutto. George lo ringraziò con lo sguardo.
Will mostrò loro la camera dove avrebbero passato la notte: una stanza con un letto a una piazza e mezza e le pareti verde chiaro di fianco a quella di Will, e poi li lasciò soli.
Cath si sedette sul letto e si guardò attorno con occhi grandi. L’armadio aveva l’aria di essere piuttosto antico, così come la scrivania e le tende bianche che sventolavano di fronte alla finestra.
George appoggiò lo zaino per terra e si sedette vicino a Cath. Lei gli prese la mano e poggiò la testa sulla sua spalla. George osservò le loro dita intrecciate e rimase sorpreso, anche a distanza di tempo, di come quelle di Cath sembrassero ancora più piccole e delicate vicino alle sue.
«Non ti meriti tutto questo» sussurrò lei.
«Tu non meriti tutto questo» rispose George. «Me lo fai un favore, Catherine?»
Cath alzò la testa e lo guardò. Annuì. «Qualsiasi cosa».
«Smetti di pensare di essere un peso per me. Tutto quello che voglio è starti vicino e voglio che tu me lo lasci fare senza sentirti in colpa».
Cath aprì la bocca per dire qualcosa, però poi la richiuse.
«Hai detto qualsiasi cosa» continuò George. «Questo è tutto ciò che voglio».
Cath aumentò la pressione sulla sua mano. «Va bene».
George le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le diede un bacio sulla fronte, pregando che il tempo passasse in fretta e che guarisse almeno in parte le sue ferite.
 
George odiava i funerali. Niente, dal suo punto di vista, era più frivolo e disonesto di un funerale. Si trattava solo di una mera occasione per ripulirsi la coscienza e per sentirsi meglio con se stessi. Come se al povero defunto importasse qualcosa; come se una cerimonia in pompa magna potesse alleviare il dolore per la perdita subita.
Suo padre gli diceva sempre che era troppo cinico, ma secondo George era lui a essere troppo sentimentale. Nessuno avrebbe riportato indietro la persona cara appena perduta, e una frase fatta e un corpo bruciato non avrebbero fatto la differenza.
Come se non bastasse, George era stanco. La sera precedente erano rimasti svegli fino a tardi a parlare con Will e Rose. Cath si era addormentata addosso a lui intorno a mezzanotte e George l’aveva portata a letto cercando di non svegliarla. Lei però aveva percepito il movimento e aveva aperto leggermente le palpebre.
«George» lo aveva chiamato, spaventata quasi, come se temesse che l’avesse abbandonata.
«Sono qui» le aveva sussurrato lui, appoggiandola sul letto e infilandosi accanto a lei sotto alle coperte. «Dormi, Cath».
Cath aveva richiuso gli occhi e gli si era accovacciata accanto. George l’aveva stretta a sé fino alla mattina seguente, dormendo poco e male, troppo spaventato all’idea che Cath potesse svegliarsi e avere bisogno di lui. Ma Cath non si era svegliata; aveva dormito tutta la notte, troppo esausta per reggere un’altra notte in bianco. Quando il sole era iniziato a sorgere Cath aveva aperto gli occhi in quelli di George, e per un istante era sembrata tranquilla e felice, come se il mondo non le fosse appena crollato addosso. Poi il ricordo di quanto successo aveva oscurato la sua espressione facendole abbassare lo sguardo e George aveva fatto una battuta per cercare di tirarle su il morale. Cath aveva sorriso solo per fargli un favore, George lo sapeva.
Ora Cath se ne stava seduta di fianco a lui, le spalle incurvate e lo sguardo fisso sulle mani che teneva intrecciate in grembo. Aveva indossato lo stesso vestito grigio del giorno precedente e un cappotto bianco, il colore del lutto. Faceva freddo, il vento le soffiava ciocche di capelli oro pallido sul viso e le colorava le guance di rosso. George era diventato ipersensibile a ogni suo movimento, pronto a prenderla se fosse caduta, timoroso che potesse crollare da un momento all’altro. Sapeva che Cath era forte e che nella sua vita aveva dovuto affrontare situazioni orribili, ma sapeva anche che a volte il dolore arrivava a un punto tale da non essere più tollerabile. Era solo troppo. E George era terrorizzato che Cath avesse raggiunto quel punto. Si era ripromesso che non avrebbe più permesso a niente e a nessuno di farle del male; la felicità di lei sarebbe stata la sua priorità, rimette insieme i pezzi del suo cuore il suo obiettivo. Ma se fosse stato troppo tardi? Se non ci fosse stato più niente da fare? Non sarebbe stato in grado di sopportarlo.
Si trovavano fuori dalle mura di Alicante, davanti alla pira allestita per bruciare il corpo di Augustin Bellefleur. Alla sua sinistra era seduta Cath e alla sua destra stavano invece Will e Rose, entrambi in bianco per la cerimonia funebre; i suoi genitori qualche fila più indietro. Se Will non fosse stato lì, George sarebbe esploso. La sua presenza rassicurante lo teneva ancorato al terreno, alla sedia, così che non si alzasse e prendesse la parola al posto della sorella del papà di Cath.
«Augustin era un gran uomo» stava infatti dicendo quella. «Una bravissima persona, un padre amorevole che amava sua moglie e sua figlia più di ogni altra cosa».
Cath si portò una mano alla bocca per non scoppiare a piangere e George strinse i pugni così forte che sentì le unghie conficcarsi nella carne.
Come si permettevano? Con che coraggio se ne stavano lì come se niente fosse? George era consapevole che forse i parenti di Cath non erano a conoscenza della condizione di Augustin –sicuramente non erano a conoscenza della sua condizione a New York- ma possibile che non si fossero accorti di niente a Parigi? Possibile che non avessero colto i segnali? Magari li avevano colti e avevano deciso di fare finta di niente e di non accettare la cosa. Era più facile fingere di non aver visto, piuttosto che affrontare la realtà.
George era così arrabbiato, così arrabbiato che desiderava rompere qualcosa. Sentiva la rabbia bruciare nelle vene come elettricità. Will se ne accorse e gli mise una mano sulla spalla.
«George» sussurrò così piano che solo lui potesse sentirlo. «Stai calmo».
«Sono calmo» rispose lui a denti stretti, gli occhi fissi sulla zia di Cath, che stava continuando il proprio discorso con occhi lucidi, gli stessi occhi che George amava tanto intensamente.
«Dio, George» sibilò Will. «Sembra che tu voglia assassinarla con lo sguardo».
George abbassò il capo e prese un respiro profondo. Poi guardò Cath, e tutta la rabbia che stava provando lo abbandonò, lasciandolo in preda al dolore.
Cath aveva iniziato a piangere in silenzio e George le passò un braccio attorno alle spalle.
«Mi dispiace che tu debba assistere a tutto questo» le sussurrò piano all’orecchio. «Mi dispiace così tanto, Catherine. Se preferisci ti porto via, devi solo chiedere».
Cath scosse il capo ma gli prese la mano. Era fredda come il ghiaccio; George sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale ma non gliela lasciò.
La donna, una volta che ebbe terminato di parlare, si avvicinò a Cath e la guardò in attesa, aspettandosi che lei volesse dire qualcosa. Cath spalancò gli occhi e la guardò come se fosse un demone pronto ad attaccarla.
«No…» la sua voce era a mala pena un sussurro nel vento.
«Sicura che tu non voglia dire niente, cara?» le chiese la zia, una donna sulla quarantina con i suoi stessi occhi ma i capelli più scuri. «Potresti rimpiangerlo per il resto della tua vita».
«Sono sicura» disse Cath, ma la sua voce si perse con il soffiare del vento.
«Tesoro…» continuò la zia, ma George si era stufato.
«È sicura» tagliò corto lui, forse un po’ troppo ad alta voce e un po’ troppo duramente. Riusciva a immaginare suo padre, qualche fila più indietro, chiudere gli occhi e scuotere il capo in rassegnazione, ma non gli importava.
La donna gli rivolse uno sguardo perplesso, ma qualcosa negli occhi di George la convinse a lasciar perdere e a tornare al suo posto con una scrollata di spalle.
Un Fratello Silente si avvicinò alla pira, lo stilo in mano. Augustin Bellefleur era stato adagiato su di essa, gli occhi bendati con una fascia bianca e una spada angelica stretta tra le mani.
Pulvis et umbra sumus, disse il Fratello Silente mentre disegnava con fare esperto una runa davanti a sé –fuoco. La pira divampò, circondata da fiamme rosse e oro.
Ave atque vale, Augustin Bellefleur.
George strinse la mano di Cath, cercando di farle capire che lui era lì con lei, che non era sola e che non lo sarebbe mai stata.
 
Terminata la funzione, George avrebbe voluto darsela a gambe insieme a Cath, ma sapeva che non era possibile. Ci si aspettava che Cath rimanesse lì così che tutti le facessero le condoglianze e George non avrebbe mai potuto lasciare il suo fianco.
Dopo decine di abbracci e strette di mano, si avvicinarono due ragazze che gettarono contemporaneamente le braccia al collo di Cath, rischiando quasi di farla cadere per terra. Erano identiche, con i capelli marrone scuro e gli occhi nocciola.
Iniziarono a parlarle in francese, e George non capì nemmeno una parola. Aveva chiesto più volte a Cath di insegnargli il francese, ma non c’era stato niente da fare: lui, con le lingue, era proprio negato.
«Lui è George» disse Cath ad un tratto, indicandolo con la mano e tornando a parlare in inglese. «E, George, queste sono Giselle e Louise Verlac».
Le due ragazze lo guardarono stupite. George aveva già sentito parlare di loro, erano amiche di infanzia di Cath con le quali aveva mantenuto i rapporti anche dopo il trasferimento in America.
«Lui è George?» chiese quella con i capelli raccolti in una coda alta. «Stai scherzando?»
«Uhm…» Cath sembrava leggermente in imbarazzo.
«Non hai mai detto che fosse così bello» commentò l’altra, che portava i capelli sciolti.
George non riuscì a trattenere una piccola risata e anche Cath sorrise. Le due ragazze parevano assolutamente noncuranti del fatto che lui fosse proprio lì e che potesse sentire tutto quello che dicevano.
«È molte cose prima di bello».
George rimase senza parole, cosa che non succedeva spesso, perché lui Cath non se la meritava proprio. Era troppo buona, troppo pura, troppo gentile per poter stare davvero con lui.
«Certo, ma potevi dircelo! Sono Giselle Verlac, comunque» disse Giselle, tendendo la mano verso di lui. George ricambiò la stretta e si presentò anche alla sorella, Louise.
«Sono contenta che siate venute» disse Cath. «Mi ha fatto piacere rivedervi».
«E non è finita qui» disse Louise prendendo la mano di Cath. «Indovina chi viene a New York il prossimo anno?»
Cath spalancò la bocca. «Non dirmelo».
«Invece te lo diciamo!» Giselle batté le mani e poi cercò di darsi un contegno. «Avremmo voluto comunicarti la notizia in un momento migliore e ci spiace farlo ora, ma Louise e io passeremo il nostro anno all’estero proprio a New York. Così saremo ancora noi tre come ai vecchi tempi».
Il labbro inferiore di Cath aveva preso a tremare e George sapeva che nel giro di qualche secondo sarebbe scoppiata a piangere. E così fece, si prese il viso tra le mani e iniziò a singhiozzare quasi istericamente. George fece per tranquillizzare le due gemelle e dir loro che non c’era nulla di cui preoccuparsi, ma non ce ne fu alcun bisogno. Dopotutto erano state sue amiche per anni e conoscevano Cath: sapevano che se non si trovava tra il 3 e il 7 della scala emotiva, piangeva.
La abbracciarono di nuovo, dandole qualche pacca sulla schiena e stringendola forte, e George non poté sentirsi più sollevato di così nel sapere che neppure lui era solo e che c’erano ancora al mondo delle persone che amavano Cath quasi quanto la amava lui. 

NOTE DELL'AUTRICE
Sono in ritardo, lo so! Scusate, ma ieri è stata una giornata piena!
Questo capitolo è piccino, ma spero che vi piaccia anche se è un po' triste. Potrebbero esserci degli errori di battitura, in tal caso mi scuso, è colpa mia che l'ho riletto velocemente. Nulla, vi lascio e vi ringrazio per aver letto. <3 
Colgo l'occasione per augurarvi buon Natale e buone feste! 

A presto,

Francesca 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno. ***


Capitolo ventuno
 
«Rose, guardami un secondo».
Rose alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo –il manuale di programmazione che le avevano regalato gli Herondale per il compleanno- e gli fece una linguaccia.
«Molto carina». Will ghignò e tornò a disegnare.
Quel pomeriggio stava piovendo a New York e Will e Rose erano rimasti all’Istituto, nella camera di Will. Rose stava con la schiena appoggiata alla testiera del letto, mentre Will le si era seduto di fronte con un blocco da disegno sulle gambe e la schiena appoggiata contro all’altro lato di muro. Il letto di Will era infatti posizionato nell’angolo più lontano rispetto alla porta, così che due lati di esso fossero contro alla parete.
Will le aveva detto di rimanere il più ferma possibile e quando Rose aveva capito le sue intenzioni si era messa a ridere. «Disegnami come una delle tue ragazze francesi» gli aveva detto, citando Titanic e sdraiandosi su un fianco, ma lui non aveva colto il riferimento e aveva inclinato il capo di lato.
«Hai finito?» gli chiese lei dopo qualche ora, chiudendo il libro e appoggiandolo sul comodino.
Will si sistemò gli occhiali sul naso e scosse la testa. Era raro che Will mettesse gli occhiali, nonostante avrebbe dovuto portarli sempre quando leggeva o scriveva. Indossava una felpa grigia e dei pantaloni della tuta, altra cosa strana, ma quel pomeriggio sarebbero rimasti in casa quindi Will non aveva prestato troppa attenzione ai suoi vestiti.
Rose raddrizzò la schiena. «Posso iniziare a guardarlo?»
«No. Non finché non sarà terminato» rispose Will senza staccare gli occhi dal foglio.
Era una giornata cupa e fuori stava iniziando a fare buio, l’unica fonte di luce era la lampada a stregaluce sulla scrivania di Will.
«Sei sicuro che riesci a vedere bene?» continuò Rose. Non voleva che sforzasse troppo la vista. «Posso accendere la luce più grande se vuoi».
«No, sto a posto». Will la guardò e sorrise. «Grazie».
Rose si sdraiò sul letto e si mise su un fianco per poterlo osservare. Era completamente assorto dal disegno. Rose osservò i tendini della sua mano mentre impugnava la matita, il solco che gli si formava tra le sopracciglia quando si concentrava, le sue labbra socchiuse, i suoi occhi chiari dietro alle lenti…
«Ti stanno proprio bene gli occhiali» disse Rose. Si stava mordendo il labbro e non se ne era accorta. La smise subito. «Non capisco perché non vuoi mai metterli».
Will fece una smorfia. «Mi fanno la faccia rotonda».
«Non è vero». Rose si mise a ridere. «E poi sei bellissimo, Will. Staresti bene anche con degli occhiali di plastica color unicorno».
Will poggiò il blocco da disegno e la matita di fiancò a sé. Rose notò che era arrossito leggermente sulle guance. «E quale sarebbe il color unicorno?»
«Lo ha inventato Holly» spiegò Rose. «Dovrebbe essere una specie di combinazione tra rosa e viola. Con i brillantini».
«Non ho niente contro il rosa, io» disse Will. «Quello è George. A proposito, sai che cosa mi ha detto George ieri?»
«Che ha buttato via tutti i suoi vestiti neri e che si è convertito al rosa?»
«No». Will arricciò il naso. «Ti immagini George vestito di fucsia?»
Rose scoppiò a ridere e Will la seguì a ruota. George infatti si vestiva sempre di nero: jeans scuri, magliette e felpe nere, a volte indossava del blu, ma erano rare occasioni.
«Non me lo immaginavo fino a un attimo fa, ora me lo immagino e penso che non lo vedrò più allo stesso modo». Rose cercò di smettere di ridere. «Cosa ti ha detto, comunque?»
Will si ricompose. «Mi ha chiesto di scoprire come si vestirà Cath al matrimonio di Celine, così può vestirsi abbinato a lei. Vuole farle una sorpresa. Crede che a Cath farà piacere».
Cath si era trasferita da poco meno di una settimana all’Istituto di New York. Will aveva confessato a Rose di essere preoccupato per lei: quando c’era George sembrava stare bene, ma non appena lui se ne andava, quando pensava che nessuno la stesse osservando, pareva stanca, mangiava poco e non parlava molto.
«Ohw». Rose si mise una mano sul cuore e si inginocchiò davanti a Will. «Che cosa carina. Che dolce! Le farà tanto piacere».
Will aggrottò le sopracciglia. «Quando ti ho chiesto io di vestirci abbinati però ti sei messa a ridere».
Era vero, ma da Will ci si aspettava qualcosa del genere, da uno come George no.
«Stiamo parlando di George! Del nostro amico George!»
Will ci pensò un attimo. «Sì, hai ragione. È una cosa davvero dolce».
«Comunque il vestito di Cath è rosa antico. Lo ha già comprato».
«Chiedile di mandarti una foto» disse Will con fare pratico. «Devo vederlo».
Rose alzò gli occhi al cielo. «Abita nella camera di fianco alla tua. Possiamo andare adesso a chiederle di farcelo vedere»
«Non possiamo!» esclamò Will. «Così capirebbe tutto».
«Will» disse Rose. «Sei tu. Non c’è niente di strano in te che le chiedi di farti vedere il suo vestito».
Will fece per ribattere, poi sembrò cambiare idea. «Non è qui adesso».
«E dov’è?»
«Con George» disse Will. «Sono andati a casa sua a vedere uno di quei film strani che piacciono a loro. Star qualcosa».
«Star Wars» disse Rose, che grazie a internet era più aggiornata quando si trattava di mondani.
Sospirò e gli si avvicinò. Voleva davvero vedere il disegno che lui le aveva fatto.
Fece per prendere il quaderno ma Will fu più veloce. Lo afferrò prima di lei e lo sollevò sopra alla testa. «Non se ne parla!» esclamò. «Giù le mani».
Rose si mise a ridere e cercò di rubarglielo, ma Will si lasciò cadere sul letto e lei gli finì addosso.
«Non pensi che io abbia aspettato a sufficienza?» Rose era sdraiata su Will, che lanciò il quaderno per terra. Rose fece per alzarsi e andare a recuperarlo, ma lui la prese per i fianchi e la inchiodò a sé.
«No». Will la baciò, forte, sulla bocca.
In realtà credeva di aver aspettato fin troppo, perché Will le aveva spiegato che per anni si era imposto di non disegnarla, reprimendo ciò che provava per lei, e ora Rose fremeva dalla voglia di vedere finalmente un suo ritratto.
Will le allacciò le braccia attorno alla vita e Rose smise di opporre resistenza, abbandonandosi contro il suo corpo e ricambiando il bacio.
«Dillo, che lo stai facendo apposta» sussurrò, per poi morsicargli leggermente il labbro inferiore.
Will emise un verso strozzato. «A fare cosa?»
«A non farmi vedere il disegno» spiegò Rose, spostando le labbra sulla sua guancia. «Mi vuoi torturare».
«Ironico che sia tu a parlare di tortura» rispose Will con la voce roca e gli occhi socchiusi. Le stava accarezzando la schiena da sotto alla maglietta e Rose desiderava poter sentire il calore della sua pelle senza filtri. Si sollevò e si mise a sedere a cavalcioni sopra di lui, poi lo prese per la felpa e lo attirò verso di sé, facendolo sedere a sua volta. Raggiunse l’orlo con le mani e gliela sfilò, lanciandola per terra a fare compagnia al quaderno. Poi gli tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino.
Quando si voltò verso di lui, Will riprese a baciarla e la fece sdraiare di nuovo, questa volta però sotto di sé. Rose gli accarezzò il collo con la mano, là dove la pelle era morbida e delicata e lo sentì sospirare sulle sue labbra; fece per sfilargli anche la maglietta, quando sentì dei rumori provenire dal corridoio e si bloccò.
Spalancò gli occhi nello stesso istante in cui li spalancò Will, blu contro verde.
«Che cos’è stato?» chiese Rose.
Will aveva le pupille leggermente dilatate, le labbra arrossate e i capelli biondi spettinati. Rose gli poggiò una mano sulla guancia, pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto.
Will le diede un leggero bacio sul palmo e poi guardò verso la porta, dalla quale provenivano delle voci preoccupate; quando distinsero chiaramente quella di Clary, Will si precipitò giù dal letto e Rose lo seguì fuori dalla stanza.
In corridoio trovarono i genitori di Will che davano loro le spalle. Rose non capì quale fosse il problema fino a quando non furono loro di fronte. Erano entrambi bagnati fradici, i capelli impregnati di sangue e pioggia. Clary stava sorreggendo Jace, che si teneva una mano sul fianco. Rose notò con orrore che stava sanguinando copiosamente. Il sangue gli sporcava la mano, la giacca della tenuta da combattimento e gocciolava per terra.  
Will sbiancò e Rose si portò una mano alla bocca. 
«Will» disse Clary con la voce spezzata. Sembrava sollevata di vederlo, come se fosse un miraggio nel deserto. «Aiutami a portarlo in infermeria, ti prego».
Will sbatté le palpebre e parve sbloccarsi. Fu al fianco del padre un mezzo secondo e si portò il braccio di lui attorno alle spalle.
«Devo chiamare un Fratello Silente?» chiese Rose, cercando di rendersi utile in qualche modo.
Clary scosse il capo. «Ho già chiamato Magnus e Alec. Saranno qui a momenti».
Rose notò con una stretta al cuore che stava tremando e che probabilmente non sarebbe riuscita a sostenere il peso di Jace da sola ancora per molto. 
«Sto bene» disse Jace con un mezzo sorriso. «È solo un graffio».
«Solo un graffio» ripeté Clary sconvolta, iniziando a camminare verso l’infermeria, trascinandoselo dietro insieme a Will.
«Com’è successo?» chiese Will.
Rose li seguì, cercando di non far trasparire anche la propria preoccupazione.
«Dopo, te lo spiego dopo» sibilò sua madre. «Ora dobbiamo sbrigarci…»
Erano arrivati in infermeria. Rose aprì la porta e si spostò di lato per far passare gli altri. Clary e Will fecero sdraiare Jace sul primo lettino e questi gemette per il dolore.
«Sto bene, sto bene» si affrettò a dire, strizzando gli occhi e coprendosi il viso con le mani.
Rose andò a riempire una bacinella con dell’acqua e la appoggiò sul tavolino di fianco a Clary. La donna le rivolse un cenno di ringraziamento, prendendo delle bende sterili e passandole a Will. «Premi sulla ferita».
Will sollevò la maglietta di suo padre e obbedì, mentre Clary posò una mano sulla guancia del marito. «Jace» lo chiamò, immergendo un panno nell’acqua che le aveva portato Rose e poggiandoglielo poi sulla fronte. «Non chiudere gli occhi».
Jace annuì, ma li chiuse lo stesso.
Rose notò che sul torace di Jace, di fianco al cuore, c’era una grossa cicatrice; la riconobbe all’istante: quella era la cicatrice che Clary stessa gli aveva lasciato quando lo aveva pugnalato per rompere il legame che lo vincolava a Sebastian Morgenstern. I suoi genitori le avevano raccontato quella storia più volte quando era più piccola.
«Hai provato con degli iratze?» chiese Will. Anche lui aveva iniziato a tremare.
«Certo che ho provato con degli iratze!» sbottò sua madre.
«E perché non funzionano?» continuò Will nel panico. Clary non gli stava prestando attenzione, stava sussurrando qualcosa a Jace che Rose non riusciva a sentire. «Mamma» la chiamò di nuovo Will. «Mamma, perché non funzionano?»
«Non lo so, William». Clary stava cercando di mantenere i nervi saldi ma era chiaramente difficile farlo in quel momento. «Non lo so».
«Ma se gli iratze non funzionano…»
«Will, per l’amor del cielo, abbassa la voce!» gli intimò lei. «Non voglio che tua sorella…»
«Non litigate». Era stato Jace a parlare, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. «Va tutto bene, Magnus…»
«Papà?»
Ma nonostante gli sforzi di Clary, Elizabeth, i capelli biondi che le cadevano ai lati del viso e le si arricciavano sulle punte, era comparsa sulla soglia dell’infermeria. I suoi occhi verdi erano spalancati e colmi di orrore.
«Oddio» sussurrò, portandosi una mano alla bocca. «Cos’è successo?»
La voce di Elizabeth fece rinsavire Jace, che spalancò gli occhi e cercò addirittura di mettersi a sedere.
«Jace» sussurrò Clary, poggiandogli con delicatezza una mano sulla spalla. «Dovresti stare sdraiato». Ma lui non parve sentirla, la sua attenzione rivolta totalmente a sua figlia.
«È solo un graffio, Liz» disse di nuovo, nascondendo quanto stesse soffrendo dietro un sorriso tirato. «Forse mi rimarrà una cicatrice, ma mi dicono che alle ragazze piacciono le cicatrici».
Elizabeth non trovava divertente quella battuta. Gli si avvicinò con le labbra serrate e lui le prese la mano.
In quel momento Magnus e Alec si precipitarono nella stanza.
«Vedi?» continuò Jace, sempre rivolto a Elizabeth. «Sono arrivati i rinforzi».
Magnus si tolse il cappotto e lo gettò su un lettino libero, mentre Alec afferrò l’altra mano del suo parabatai senza neppure togliersi la giacca. «Che cavolo hai fatto?» gli chiese brusco.
Jace gemette e tornò a sdraiarsi. «Anche per me è bello vederti, Alec».
Magnus sventolò una mano davanti a sé. «Tutti fuori tranne Alexander».
Will e Lizzie proruppero in esclamazioni di protesta.
«Non se ne parla!» sbottò Will.
«Sei impazzito» disse invece Elizabeth.
«Magnus». Clary non aggiunse altro, si limitò a fissarlo intensamente. Magnus ricambiò il suo sguardo con i suoi occhi felini; era come se i due stessero avendo una conversazione silenziosa.
«Siete in troppi». Davanti agli sguardi oltraggiati degli Herondale, Magnus sbuffò. «Alec è il suo parabatai. Gli permetto di restare perché la sua vicinanza lo aiuterà a guarire». Poi si rivolse direttamente a lui. «Infatti, dovresti applicargli un iratze».
Alec sfoderò lo stilo e lo avvicinò alla pelle ambrata di Jace, che aveva ormai perso i sensi.
«Non lo ripeterò un’altra volta» fece Magnus, risvoltandosi le maniche della camicia. Era una camicia azzurra con i gattini. «Sciò!»
Clary fu la prima a dare il buon esempio. Senza aggiungere altro, diede un bacio sulla fronte a Jace e se ne andò, sbattendosi la porta dell’infermeria alle spalle.
Magnus si rese conto di essere stato un po’ troppo brusco e il suo sguardo si addolcì quando si rivolse a Will e a Elizabeth. «Vi prometto che lo rimetterò insieme» esaminò la ferita con occhio critico, per poi passarci sopra una mano. «Non rilevo tracce di veleno. È solo molto profonda. Qualche minuto di lavoro e qualche runa per il rinnovo del sangue dovrebbero farlo tornare come nuovo».
Le sue parole riuscirono a convincere i due Herondale più piccoli, che seguirono la madre senza aggiungere altro. Anche Rose andò con loro, non sapendo cosa dire o cosa fare per migliorare la situazione.
Trovarono Clary seduta contro al muro, di fianco alla porta dell’infermeria.
«Wow» fece Will. «Grande presa di posizione».
Clary alzò il capo e lo fulminò con lo sguardo. I suoi capelli rossi risplendevano in contrasto al suo volto pallido e delicato. «Non è divertente» disse. «Magnus ha ragione, per quanto mi costi restare qui senza poter far nulla, ha ragione e lo odio perché ha ragione».
Elizabeth le si sedette accanto e Clary le passò un braccio attorno alle spalle, attirandola a sé.
«Va tutto bene, tesoro». Le diede un bacio tra i capelli. «Starà bene. Non può mica lasciarvi stare così facilmente, no?»
Will scosse il capo e sì voltò, camminando veloce verso la sua camera.
Clary lo osservò mentre si allontanava con aria triste, mentre continuava ad accarezzare i capelli di Elizabeth.
Rose si mise a correre dietro di lui. «Will» lo chiamò. «Will, aspetta».
Will si voltò e Rose sussultò quando vide il suo viso. Si erano fermati davanti allo studio dei genitori di lui, nel corridoio poco illuminato dalle lampade a stregaluce. Fuori continuava a piovere copiosamente e la pioggia batteva ritmicamente contro i vetri e le mura dell’Istituto.
Will aveva gli occhi arrossati e un’espressione angosciata che Rose non era abituata a vedergli indossare, perché solitamente Will riusciva a sembrare sereno anche nel bel mezzo di una crisi mondiale.
«Rose» disse lui. La sua voce era roca, graffiata. «Mi sono spaventato. So che zio Magnus sistemerà tutto, ma…» si passò una mano tra i capelli e poi prese un respiro profondo, gli occhi chiusi e le labbra serrate.
«Lo hai detto tu, Magnus sistemerà tutto». Rose gli sorrise anche se sapeva che lui non la poteva vedere. «Sono sicura che…»
Un rumore provenne dallo studio di Jace, poi una voce.
«C’è nessuno?» chiese la voce, infastidita. «Insomma, ma che modi».
Will e Rose si scambiarono uno sguardo confuso e poi si precipitarono nella stanza. Lì vi trovarono una figura avvolta in un lungo cappotto di pelle nera.
«Chi sei?» chiese Will.
La donna si voltò e si mise le mani sui fianchi. Era una ragazza con gli occhi a mandorla e dei lunghi capelli neri, simili a quelli di Isabelle. Era molto minuta ma incuteva quella soggezione tipica dell’immortalità. Rose la riconobbe subito, era la proiezione del capoclan dei vampiri di New York.
«Era ora». Quando sorrise, due canini affilati le spuntarono dal labbro superiore. «Sono Lily Chen, capo clan dei vampiri di New York. Mi aspetterei di essere riconosciuta dagli abitanti di un Istituto».
«Scusaci» disse Will. «Ma eri girata».
Lily alzò le spalle e iniziò a camminare avanti e indietro, guardandosi attorno incuriosita, nonostante avesse probabilmente già visto quell’ufficio più di una volta.
«Dov’è il tuo super sexy padre?» chiese poi con nonchalance.
Will arrossì. «È impegnato al momento» decise di mentire. Anche se, a dirla tutta, non era una bugia.
Lily schioccò la lingua. «Peccato». Poi si mise a osservare Will da capo a piedi e parve decidere che ciò che vedeva le piaceva comunque. «Ripensandoci, fa niente. Tu vai più che bene».
Rose fece una smorfia e Lily lo notò. «E tu saresti?»
«Sono Rose Blackthorn» rispose lei. «Istituto di Los Angeles».
«Molto carina» decise Lily. «State insieme?»
Rose e Will si guardarono, entrambi non capendo come mai il capoclan dei vampiri di New York avesse tempo da perdere con la loro vita sentimentale.
«Perché sei qui?» chiese Will pratico.
«Giusto, giusto». Lily parve improvvisamente stizzita. «I licantropi stanno dando fastidio al mio clan». Poi gettò le braccia al cielo. «Che novità! Lucas non è in grado di tenerli a bada. Mi manca Maia».
Maia era il capo del branco dei lupi mannari di New York, ma Will aveva spiegato a Rose che in quel momento si trovava in Asia a fare un viaggio con il suo ragazzo, Bat. Lucas doveva essere il suo sostituto.
«È la quarta volta in quindici giorni» continuò Lily arrabbiata. «I miei protetti non li sopportano più, e nemmeno io. Oggi hanno superato il limite e due dei miei sono finiti coinvolti in una rissa. Stavano ancora litigando quando sono venuta qui. Pretendo che voi Shadowhunters facciate il vostro lavoro e mettiate a posto quei cagnacci pulciosi».
«Dove?» Will pareva determinato, la mascella serrata e lo sguardo puntato su Lily.
Lily ghignò, sembrava divertita dalla sua reazione. «East Harlem, Manhattan. Praticamente due isolati prima dell’Hotel Dumort. Avete presente quella pasticceria vegana all’angolo con la 115esima strada?»
Rose non la aveva in mente, ma Will sembrava sapere di che cosa la donna stesse parlando perché annuì.
«Ci penso io» disse. «Grazie per la segnalazione».
«Favoloso». Lily sembrava compiaciuta. Li salutò con la mano e sparì in una nuvola di fumo.
«Will». Rose lo prese per il braccio. «Non puoi andare. Dovresti chiamare tua madre».
«No. Deve stare con mio padre. Allontanarsi da lui in questo momento la ucciderebbe».
«Allora lascia perdere» continuò Rose, cercando di incontrare il suo sguardo. Will prese una giacca nera –probabilmente appartenente a Jace- dalla sedia e poi si diresse a passo di marcia verso l’armeria. Rose lo seguì, facendo fatica a mantenere il suo passo. «Will, rifletti. Non puoi uscire di casa, non con i Riders che…»
«I Riders stanno cercando la tua famiglia, non me, non la mia» disse Will.
Erano arrivati nell’armeria, una stanza asettica rifornita con le più varie tipologie di armi, da archi con frecce, a spade, asce e lance. Will prese una cintura e se la sistemò in vita, per poi agganciarci sopra due spade angliche e due pugnali. Poi si sedette su uno dei lunghi tavoli di legno e iniziò a infilarsi gli stivali.
«Will» ripeté Rose sconvolta. «Hai ucciso Delan! Pensi davvero che non vogliano la tua testa?»
Rose non poteva credere che Will fosse così incauto.
«Non mi ci vorrà molto». Will sembrava non la stesse ascoltando. Prese un coltello e lo sistemò nello stivale sinistro, poi mise un paio di guanti e riprese il proprio stilo. «È il mio lavoro. È il nostro lavoro».
«Tuo padre è ferito» tentò Rose, mentre Will iniziava a tracciare delle rune nell’aria davanti a sé. «Pensa a tua madre. Che cosa le succederebbe se venissi ferito anche tu?»
«Nessuno mi ferirà». Will terminò il portale, che si aprì brillante davanti a loro, e poi si chinò su di lei per darle un bacio a stampo. «Tu resta qui. Torno tra poco».
Col cavolo! pensò Rose. Afferrò al volo una spada angelica e lo prese per un braccio, attraversando il portale con lui.
Rose sentì la familiare sensazione di vuoto allo stomaco che accompagnava il teletrasporto e cercò di non perdere la presa su Will. Non sapeva dove fossero diretti, se avesse perso Will, sarebbe rimasta sospesa tra due dimensioni per sempre.
Quando finalmente sentì di nuovo la terra sotto ai piedi, aprì gli occhi e si guardò attorno. Si trovavano in un vicolo senza uscita, stretto tra due palazzi. Stava piovendo a dirotto e nel giro di pochi secondi Rose si ritrovò bagnata fradicia. Faceva freddo, il vento soffiava impietoso, facendola rabbrividire nel tessuto leggero della sua maglietta di cotone.
Era buio, l’unica fonte di luce erano i lampioni che costeggiavano la strada principale, dalla quale provenivano i rumori frenetici delle automobili e dei passanti.
«Rose!» urlò Will. Le gocce di pioggia gli bagnavano il viso come lacrime. «Che cosa ti è preso?»
«Eh no, William!» gli urlò di rimando lei, tirandogli un pugno sul braccio. «Tu puoi uscire come un idiota e rischiare la tua vita mentre io devo rimanere a casa? Non ci sto».
Will parve sgonfiarsi. La guardò come se lei lo avesse appena schiaffeggiato. «Non indossi neppure la giacca della tenuta da combattimento» disse con un filo di voce. «E non sei armata…»
«Ho questa». Rose gli mostrò la spada. «Ma non ho intenzione di usarla. Dovremmo entrambi tornare a casa, è troppo pericoloso rimanere…»
Un urlo li fece sussultare e voltare di scatto. Davanti a loro stavano tre figure, due uomini e una donna, chini su di un ragazzo magro e dall’aria impaurita. Dalla loro stazza fisica era chiaro che fossero licantropi.
«Michele».Will si fece avanti e sfoderò la propria spada angelica. «In nome del Conclave, fermatevi».
I tre alzarono di scatto il capo e li scrutarono attentamente mentre si facevano avanti.
«Mi hai sentito» disse Will. «Lasciatelo stare».
«E noi dovremmo dare ascolto a dei bambini?» chiese beffardo l’uomo più alto dei due, continuando a tenere per un braccio la propria vittima.
«Joseph» sibilò la donna. «Sono Nephilim».
«Lo vedo, che sono Nephilim, Catriona» rispose quello, apparentemente non intimidito. «Ma sono dei bambini».
«Non lo siamo» disse Rose, cercando di non far tremare i propri denti per il freddo. «Siamo Shadowhunters adulti».
«Credo che tu abbia dimenticato a casa la giacca» la prese in giro il più grosso tra i tre. Rose notò che uno dei suoi incisivi era scheggiato. «Da dove arrivi, dal parco giochi?»
«Lasciatelo andare» ordinò Will, accennando con il capo al ragazzino che stavano maltrattando. Rose non si era disegnata alcuna runa per migliorare la vista notturna, ma era quasi certa che si trattasse di un vampiro.
«Altrimenti?» chiese Joseph inarcando un sopracciglio.
Will lo guardò fisso negli occhi. Rose non lo aveva mai visto così arrabbiato in tutta la sua vita. Era chiaro che avesse bisogno di sfogare in qualche modo tutta l’ansia e la preoccupazione che stava provando per quanto successo a suo padre, ma quello non era il modo di farlo.
«Credimi» sibilò. «Non vuoi saperlo».
«Will» tentò Rose, ma Will si era già scagliato contro Joseph con tutta la forza che aveva.
Joseph gridò e si spostò di lato, evitando il fendente di Will per un pelo. Il terzo licantropo lasciò perdere il ragazzino, che scappò via, e si gettò contro Will con gli artigli sguainati. Will si piegò e scivolò via dalle sue grinfie con una risata.
Rose lo maledisse mentalmente e sfoderò la propria spada. «Raffaele» la chiamò, e questa prese vita nella sua mano, illuminando il vicolo davanti a sé. Catriona cercò di colpirla, ma Rose fu più veloce e riuscì ad evitarla, colpendola con l’elsa della spada sulla schiena. Sentì Will imprecare poco lontano e notò che si stava tenendo un braccio con la mano e che questa era coperta di sangue. Joseph e il terzo licantropo erano riusciti a metterlo con le spalle al muro; Rose fece per andare in suo aiuto, ma si bloccò quando cinque figure apparvero nel vicolo, smontando dai loro cavalli alati.
Rose sentì il cuore salirle in gola. Tutti i suoi timori si erano realizzati: i Riders di Mannan li avevano trovati. I licantropi lasciarono perdere Will e si rivolsero ai nuovi arrivati.
«E voi sareste?» chiese Joseph con fare beffardo.
«Noi siamo i figli di Mannan» rispose uno di loro. Rose non riusciva a distinguerli bene nella semioscurità del vicolo, ma sospettava che si trattasse di Karn. «Esistiamo da più di due millenni. Cerchiamo e troviamo, nella nostra lunga vita c’è stata una sola cosa che non siamo riusciti a trovare. Ora andatevene e lasciateci chiudere i nostri conti con i due Nephilim».
«Ma fate sul serio?» Joseph si mise a ridere, seguito a ruota dai suoi compagni. «No, cari miei, siamo arrivati prima noi. Smammate».
Rose trattenne il fiato, incapace di muoversi e di parlare.
Karn osservò Joseph con sufficienza per qualche istante, poi gli si avvicinò con due falcate, sfoderò il suo spadone di acciaio e gli trapassò il ventre con un movimento così rapido da non lasciare al licantropo neppure il tempo per accorgersi di quello che stava succedendo.
Catriona urlò, e l’altro licantropo cercò di attaccare Karn, che se lo scrollò di dosso come se fosse un moscerino, gettandolo contro al muro. Catriona si inginocchiò al fianco di Joseph, troppo sconvolta anche solo per scappare, ma i Riders non erano interessati a lei, erano interessati a Will e a Rose. Quando gli occhi di Karn si puntarono su di lei, freddi e spietati, Rose si riprese.
«Will!» Rose lo raggiunse e lo prese per il braccio, trascinandolo verso la fine del vicolo. «Dobbiamo andarcene. Subito».
Neppure Will era tanto sprovveduto da voler affrontare cinque Riders di Mannan con solo due spade angeliche e le spalle al muro, perciò prese subito lo stilo.
«Non avete scampo». Questa volta era stata Ethna a parlare, avanzando verso di loro con passo felpato, come un leone pronto ad attaccare. «A meno che non sappiate sciogliere la pietra».
Rose non stava guardando Will, il suo sguardo era fisso su di lei. Fece per rivolgerle un insulto colorito, ma Will l’aveva già presa per mano e trascinata oltre al portale.

NOTE DELL'AUTRICE
Ciao a tutti!
Questo è l'ultimo capitolo che avevo scritto per intero, quindi dalla prossima settimana non so cosa accadrà :/
Spero che vi sia piaciuto. :)
Non ho molto da dire e vi faccio tanti auguri di buon anno. :)

A presto

Francesca 

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue. ***


Capitolo ventidue
 
«Stai sanguinando» sbottò Rose non appena atterrarono nella camera di Will, bagnati fradici e infreddoliti.
Will si guardò il braccio e alzò le spalle. «È solo un graffio».
Rose emise un verso di frustrazione. «Sei uguale a tuo padre! Fammi il favore di disegnarti un iratze».
Will indietreggiò, come se Rose lo avesse insultato, e fece come lei gli aveva detto. Si portò la punta dello stilo sul polso e si scarabocchiò velocemente, ma con precisione, una runa di guarigione.
Il cuore di Rose continuava a batterle forte nel petto. Si allacciò le braccia attorno al busto per riscaldarsi e iniziò a tremare violentemente, sia per il freddo che per lo spavento: non voleva vivere di nuovo quello che era successo con Cath.
Si sedette sulla sedia della scrivania di Will, continuando ad evitare ostinatamente lo sguardo di lui.
«Okay, sei arrabbiata». Will aveva appoggiato lo stilo sul comodino e la stava guardando, i capelli più scuri a causa della pioggia e gli occhi colmi di preoccupazione. La ferita stava già iniziando a guarire.
«Certo che sono arrabbiata» sibilò Rose. «E tu sei un idiota. È stato talmente irresponsabile uscire in quel modo che è un miracolo se siamo ancora tutti interi».
Will alzò gli occhi al cielo. «Sembri mia mamma».
«Be’, magari tua madre ha ragione! Magari ha ragione quando dice che sei un irresponsabile, magari dovresti davvero stare più attento». Rose prese a tremare più forte per la rabbia. Com’era possibile che non capisse? «Cosa pensi che accadrebbe a George se tu morissi? Cosa pensi che accadrebbe a me
Will ammutolì e fece un passo verso di lei. «Mi dispiace. Non volevo farti preoccupare…»
«Voglio solo che tu ti renda conto che non sei invincibile» si affrettò ad aggiungere Rose. «Non voglio mettere freno alla tua indole, non voglio che tu smetta di essere coraggioso e impavido, perché è ciò che sei e io ti amo per questo. Ma non sei indistruttibile, Will, e io non voglio che tu ti faccia male, o che tu…» Rose lasciò la frase in sospeso, incapace di continuare, incapace di esprimere quel pensiero ad alta voce.
Non voglio che tu muoia, era stata sul punto di dire, ma non ci era riuscita.
Will rimase in silenzio per qualche istante, poi parve riprendersi. «Hai freddo» disse. «Dovresti fare una doccia calda».
Rose si alzò in piedi e iniziò a camminare avanti e indietro, intrecciando delle ciocche di capelli tra di loro. «Sto bene. Piuttosto, dovremmo pensare a come i Riders…»
Will la raggiunse con due falcate e le prese le mani tra le sue, allontanandogliele dai capelli per poi posarci sopra un leggero bacio. «Le tue mani sono congelate e hai le labbra viola».
Will aveva ragione: stava morendo di freddo. In condizioni normali, Rose avrebbe fatto una battuta, chiedendogli di andare a fare la doccia con lei solo per metterlo in imbarazzo, ma in quel momento non le andava neppure di scherzare. Voleva stare un po’ da sola a riflettere su quanto successo.
Annuì a Will e si diresse nel suo bagno senza aggiungere una parola, sentendo gli occhi di lui seguirla fino a quando non si chiuse la porta alle spalle.
 
---
 
Will si era seduto alla sua scrivania e stava cercando di terminare il ritratto di Rose per non pensare a suo padre, ai Riders, al terrore negli occhi di Rose, allo sguardo colmo di angoscia che gli aveva rivolto solo qualche minuto prima. Will si rendeva conto di essere stato incauto e di averla fatta preoccupare, ma non lo aveva fatto apposta; aveva visto suo padre ferito e si era sentito impotente, bisognoso di rendersi utile, di fare qualcosa.
Si era tolto i vestiti sporchi e li aveva gettati in un angolo della sua camera. Prima di lasciare il bagno a Rose si era lavato via il sangue dalle mani, e ora sentiva l’acqua della doccia scorrere; per un istante la immaginò sotto al getto dell’acqua, ma scacciò in fretta quel pensiero dalla sua mente, rendendosi conto che Rose avrebbe avuto bisogno di vestiti puliti da indossare una volta uscita dalla doccia. Will chiuse il blocco da disegno e andò nella camera di sua sorella Elizabeth. La trovò sdraiata sul letto con le cuffie nelle orecchie e il cellulare in mano, i capelli biondi sparsi sul cuscino.
La sua camera aveva le pareti color giallo chiaro e le tende rosa pallido che, a parer di Will, formavano un connubio terribile, ma a Lizzie piacevano.
«Liz» disse Will, chiudendosi la porta alle spalle. «Come sta papà?»
Sua sorella si tolse una cuffia da un orecchio e si mise a sedere sul letto. «Cosa?»
«Papà» ripeté Will, cercando di mantenere un tono di voce calmo. «Come sta papà?»
«Oh». Lizzie incurvò un po’ le spalle e iniziò a giocherellare con il filo delle cuffie. «Zio Magnus ha detto che si riprenderà. Sta dormendo ora, dormirà almeno fino a domani mattina. Mamma e zio Alec sono rimasti con lui».
Will le si sedette accanto e le mise una mano sul ginocchio. «Bene. Va tutto bene, visto?»
Elizabeth non sembrava molto convinta, ma si limitò ad annuire rigidamente.
«Dov’è Rose?» chiese ad un tratto. «È tornata a casa? E perché tu hai i capelli bagnati?»
«No, non è tornata a casa, si sta facendo una doccia». rispose Will. «E io ho i capelli bagnati perché... anche io ho appena fatto la doccia» si inventò. «A proposito, hai un pigiama da prestarle?»
Elizabeth lo guardò con malizia. Somigliava spaventosamente a Celine. «Wo oh» lo prese in giro, tirandogli un pizzicotto sul fianco che lo fece sobbalzare. «E perché mai vuoi un pigiama per Rose? Non dormite nu…»
«Ferma». Will chiuse gli occhi e alzò una mano per bloccarla. «Qualsiasi cosa tu stia per dire, non voglio sentirla».
Lizzie non sembrò scoraggiata e proseguì. «Perché, non avete già fatto sesso?»
A Will si accapponò la pelle nel sentire sua sorella, la sua dolce, piccola, sorella, dire sesso.
«Non dire mai più quella parola davanti a me» rabbrividì Will.
«Quale?» chiese Elizabeth. «Sesso?»
Will fece una smorfia.
Elizabeth gettò le braccia al cielo e sbuffò. «E perché no?»
«Perché sei piccola» decise Will, consapevole che in realtà Elizabeth non era più una bambina da un pezzo.
Elizabeth si indignò. «Ho praticamente sedici anni!»
«Appunto» disse piatto Will. Poi si alzò e si diresse impettito alla cassettiera di sua sorella, dandole le spalle così che non vedesse l’espressione sul suo viso.
Ovviamente ci aveva pensato. A dirla tutta, ci aveva pensato troppo e più di quanto avrebbe voluto. Aveva cercato più volte di parlarne con Rose ma non ne aveva mai trovato il coraggio. Inizialmente temeva che lei si aspettasse che lui facesse la prima mossa, poi però aveva deciso che non le avrebbe messo alcun tipo di pressione e che avrebbe aspettato che fosse lei ad aprire il discorso.
«Guarda nel secondo cassetto» gli disse Elizabeth con tono annoiato. «Dovresti darle una tua maglietta per dormire, non il pigiama di tua sorella».
Will fece come lei gli aveva detto e iniziò a rovistare nel cassetto. Sua sorella era abbastanza ordinata, al contrario di Celine, e teneva tutti i suoi pigiami impilati sul lato sinistro. Will li osservò e ne scelse uno blu con uno squaletto sorridente sulla casacca.
«Questo è simpatico» disse, voltandosi verso Elizabeth per farglielo vedere.
Lei fece una smorfia schifata. «Non fraintendermi, amo i miei pigiami, ma non vorrei mai che il mio ragazzo mi vedesse con uno di quei cosi addosso».
Will aggrottò le sopracciglia, non capendo. Conosceva Rose da quando era nata, l’aveva vista piangere, senza trucco, con i capelli sfatti e la fronte sudata durante gli allenamenti, che cosa c’era di male nel vederla in pigiama?
«Stiamo parlando di Rose».
Lizzie scrollò le spalle. «Come ti pare. Fossi in Rose ti avrei già mollato».
«Questa era cattiva» la ammonì Will, inclinando il capo di lato.
«È vero». Lizzie gli rivolse uno sguardo dispiaciuto. «Lo sai che non lo penso sul serio. Sono sicura che a Rose non importa. Però, ecco…» si alzò e iniziò a rovistare lei stessa tra i suoi cassetti, con molta meno cura di quanta ne avesse usata Will prima. «Forse è meglio questa?»
Gli porse una camicia da notte blu scuro. Will la sollevò davanti a sé per osservarla; immaginò Rose indossare quel pezzo di stoffa striminzito e sentì il sangue confluirgli alle guance. Era fatta di un materiale morbido e leggero che Will indentificò come un misto seta, e aveva una profonda scollatura bordata di pizzo bianco sul davanti. Le spalline erano sottili e un fiocco altrettanto esile la stringeva sotto al seno, facendola ricadere morbida fin poco sopra al ginocchio.
Will deglutì e si schiarì la voce. «Io credo che Rose preferisca il pigiama con lo squalo». 
Elizabeth sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
Will ripiegò la camicia da notte con cura e la restituì a sua sorella, che la rimise al suo posto.
«Aspetta» disse ad un tratto Will. «Come mai hai una cosa del genere? Non dirmi che ci dormi sul serio».
«Secondo te?» Elizabeth ghignò e Will inorridì.
«Lui chi è?» le chiese sconvolto. Non poteva credere che avesse un ragazzo e che non gliel’avesse detto. «Voglio solo sapere chi è».
«Peter» disse Lizzie. «E prima che tu possa iniziare l’interrogatorio, no, non stiamo insieme. Credo di piacergli, ma non so… comunque non l’ho comprata per lui, l’ho comprata perché mi piaceva».
Will però si era fermato a Peter e non la stava più ascoltando.
«Peter come?» La maggior parte degli Shadowhunters viveva a Idirs, solo poche famiglie decidevano di vivere nel mondo dei mondani, quindi Will doveva per forza conoscerlo.
«Non dovresti tornare dalla tua Rose?» cercò di evitare la domanda Elizabeth. Gli diede una pacca sul braccio e gli girò attorno per andare a sedersi sul letto. «Sarà ormai uscita dalla doccia…» Prese il cellulare e si infilò una cuffia con sguardo allusivo. «L’hai lasciata nella tua camera tutta sola e infreddolita».
Will le puntò un dito contro. «Non finisce qui. Non puoi prendermi in giro così senza vuotare il sacco!»
Lei però lo ignorò e si infilò anche l’altra cuffia, facendo partire la musica al massimo. «Non ti sento, passa una buona serata e divertiti!»

---
 
Will tornò nella sua camera pensieroso. Stava cercando di capire chi fosse il misterioso ragazzo con cui si sentiva sua sorella. Trovava strano che lei non gli avesse accennato nulla, perché lui e Lizzie si dicevano tutto. Certo, Will non le aveva mai confidato i suoi sentimenti per Rose, ma non ne aveva avuto bisogno. Lizzie in qualche modo lo aveva sempre saputo, proprio come Celine.
Invece Will non aveva idea di chi fosse questo Peter, e stava ancora passando in rassegna tutti gli Shadowhunters adolescenti che conosceva quando ritornò nella propria camera assieme al pigiama con lo squalo.
«Rose, ma tu conosci per caso…» Will si bloccò, senza terminare la domanda. Gli salì il cuore in gola e deglutì. Rose si stava asciugando i capelli e stava indossando una sua maglietta grigia che le arrivava a metà coscia, lasciandole scoperte le gambe. Will si richiuse velocemente la porta alle spalle. «Uhm…»
Rose si voltò e spense il phon. Fece per dire qualcosa, poi però notò la sua espressione e abbassò il capo, arrossendo sulle guance. «I miei vestiti erano bagnati» spiegò, leggermente in imbarazzo. «Spero che non sia un problema se ho preso questa… giuro che non ho ficcanasato in giro».
Will sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a trovare le parole. «No, no, nessun problema». Si schiarì la voce e appoggiò il pigiama sul letto. «Ero andato da Elizabeth a prenderti qualcosa da mettere, ma va bene così, non ti preoccupare».
Rose appoggiò il phon sul tavolo e indicò con il capo il disegno che Will aveva terminato poco prima. «È meraviglioso». Toccò il foglio con la punta delle dita, come se fosse un antico dipinto dal valore inestimabile. «Sembro molto più bella di quanto sia in realtà».
Will la raggiunse e le sfiorò la guancia con il naso. «Forse hai ragione, ma così è esattamente come ti vedo io». 
Rose non disse niente e gli appoggiò una mano sul petto. Aveva ancora i capelli bagnati, che le avevano lasciato delle chiazze sulla maglietta. Will cercò di non farci troppo caso.
«Mi dispiace per prima» disse. «Hai ragione. Dovrei stare più attento».
«Grazie». Rose alzò il capo e gli sorrise piano. Poi gli diede un leggero bacio sulle labbra. «Ho chiamato Taki e ho ordinato da mangiare. È pronto tra venti minuti».
«Sempre efficiente» le rispose lui con una risata.
Will andò a fare una doccia mentre Rose finiva di asciugare i capelli. Poi aprì un portale e andò a ritirare il cibo che aveva ordinato Rose: un piatto di ravioli vegetariani per lui e del pollo teryaki per lei.
Normalmente, non avrebbe mangiato nella sua camera, ma quella sera era troppo stanco per pensarci, quindi acconsentì a mangiare sul letto. Si sedettero vicini con la schiena appoggiata alla testiera e le spalle che si toccavano.
«Tu conosci qualche Peter?» chiese ad un tratto Will, mentre cercava di infilzare l’ultimo raviolo con le bacchette. Non era mai stato bravo.
«Mmm» Rose, che sapeva maneggiarle con una disinvoltura tale che sembrava le usasse tutti i giorni, ci pensò un attimo. «Peter Larskeeper».
Will arricciò il naso. «Ma ha cinquant’anni».
«E allora?» chiese Rose. «Mi hai chiesto se conoscessi un Peter, non hai specificato l’età».
Will le fece una smorfia e Rose gli tirò una leggera spallata. «Come mai?»
«Si tratta di Elizabeth» spiegò Will, appoggiando la scatola di ravioli, ormai vuota, sul comodino. «Credo che stia uscendo con un ragazzo di nome Peter».
Rose raddrizzò la schiena e sorrise. «Wo!» esclamò. «Wo! Sarà sicuramente di New York, io non conosco tutti a New York. Però io non conosco molta gente di mio… Dovresti chiedere a George o a Cath».
Will meditò per qualche secondo, muovendo il capo in segno di assenso. Poi afferrò il cellulare con fare risoluto. «Hai ragione. Adesso chiamo George».
«Will, non intendevo adesso
Ma Will aveva già composto il numero e si era già portato il telefono all’orecchio. Fece segno a Rose di stare in silenzio e rimase in attesa. Il suo parabatai rispose dopo pochi squilli.
«Will? È successo qualcosa?»
«No, va tutto bene» lo rassicurò lui. «Conosci qualcuno di nome Peter?»
George rimase in silenzio per qualche istante, non aspettandosi una domanda così a bruciapelo. «Peter? Peter Larskeeper?»
Rose, che riusciva a sentire nonostante non ci fosse il vivavoce, gli rivolse un’occhiataccia eloquente: visto?
Will alzò gli occhi al cielo. «No, deve essere un ragazzo giovane».
«Non lo so» disse George. «Cath, conosci un ragazzo di nome Peter?»
Will sentì la ragazza rispondere di no.
«Mi dispiace Will» disse George. «Come mai?»
Will sbuffò. «È Lizzie. Si sente con un ragazzo di nome Peter e non me ne ha mai parlato! Perciò i casi sono due: o è molto più grande di lei, o è uno stronzo».
«Elizabeth?» Geroge parve sorpreso. «Non mi pare il tipo che si innamora di uno stronzo».
«Ma perché non dirmelo allora?» sospirò Will.
«La vera domanda è: perché non lo ha detto a me!» esclamò Cath dall’altra parte del telefono. Lei e Lizzie erano molto amiche, e il fatto che sua sorella non si fosse confidata neppure con Cath non faceva che deprimerlo ancora di più.
«Will, mia madre dice che è pronto da mangiare, ti devo lasciare…» George sembrava piuttosto spaventato. «Se non moriamo avvelenati, tienici aggiornati. Mi raccomando».
Will salutò George e chiuse la telefonata. Rose nel frattempo aveva finito anche lei di mangiare e si era alzata a buttare le scatole di Taki nel cestino. Quando tornò al suo fianco gli mise una mano sulla spalla.
«Non ti preoccupare, Will» gli disse. «Magari pensa che non sia molto bello e che possiate prenderla in giro. Ma a lei piace comunque. È una cosa carina».
«Ma a me non importa» sussurrò Will. «Dovrebbe saperlo».
«È tua sorella» continuò Rose. «Non so se io parlerei con mio fratello della mia vita sentimentale».
Rose aveva ragione e Will lo sapeva: la cosa importante era che Lizzie fosse felice; gliene avrebbe parlato quando sarebbe stata pronta, Will si ripromise di non farle pressioni.
«Pensi che siano stati i Riders ad attaccare i miei genitori?» chiese ad un tratto Will, la voce ridotta a un sussurro, come se avesse paura a pronunciare le parole, e forse ne aveva. Quel pensiero lo aveva tormentato da quando erano rientrati all’Istituto. Se così fosse stato, se davvero fosse stata colpa dei Riders di Mannan, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Non lo so» rispose piano Rose prendendogli la mano. «Ciò che so è che li sconfiggeremo presto. Siamo in superiorità numerica, noi Shadowhunters. Ora tutti sanno come affrontarli grazie a te, grazie alla tua runa». Gli sorrise e il cuore di Will sprofondò. Gli si era inginocchiata di fianco sul letto e lo stava guardando con i suoi grandi occhi del colore del mare. Era bellissima e lui la amava così tanto…
«Vuoi…» Will si schiarì la voce, poi alzò gli occhi su di lei e cercò di non abbassare lo sguardo. «Vuoi che ti apra un portale per tornare a casa?» chiese tutto d’un fiato, pregando tutti gli angeli del paradiso e tutti i demoni dell’inferno che gli dicesse di no.
Ti prego, resta. Ti prego.
Sentiva il disperato bisogno di stringerla a sé, di passarle una mano tra i capelli e di baciarla fino a perdere il fiato. Voleva sentire il suo profumo e sfiorare la sua pelle là dove era più delicata e priva di cicatrici, voleva sussurrarle che la amava fino a quando non si fosse addormentata.
Rose trattenne il fiato, poi scosse la testa e si morse il labbro, un riflesso involontario. «No» disse.
«Grazie a dio». Will le prese il viso tra le mani e la baciò con urgenza, scollegando il cervello e cercando, per una volta in vita sua, di non pensare troppo. Rose ricambiò il bacio, facendolo sdraiare sotto di sé e passandogli una mano tra i capelli. A Will neppure importava che glieli spettinasse; per quando gli riguardava, in quel momento, Rose poteva fare di lui ciò che desiderava. Le passò le mani sui fianchi, poi su fino alla vita. Quando le lasciò riposare sulla sua schiena, poco sotto le scapole, si ricordò che Rose non portava il reggiseno e il suo cuore prese a battere più velocemente; improvvisamente gli mancò l’aria.
«Rose» sussurrò, allontanando le labbra da quelle di lei per prendere fiato e tempo per calmarsi. «Sei sicura?»
Rose spalancò leggermente gli occhi, le pupille dilatate che li facevano sembrare più cupi del normale. «Sì» disse lentamente, posandogli un bacio sul collo, dove si sente il battito del cuore e parlando contro alla sua pelle. «Assolutamente sì, William».
«Ma… Logan?» chiese velocemente Will.
Rose alzò il capo e lo guardò con le labbra leggermente socchiuse per qualche istante, come se stesse decidendo come rispondere. «Logan? Vuoi parlare di Logan…adesso?»
Per settimane Will era stato tormentato dal pensiero che Rose avrebbe avuto difficoltà a fidarsi completamente di lui a causa di quanto le era capitato con Logan; aveva cercato di parlargliene, di rassicurarla che non l’avrebbe mai costretta a fare qualcosa che non desiderava e che non l’avrebbe mai fatta sentire come se la sua volontà valesse così poco, ma non aveva mai trovato le parole giuste. E ovviamente doveva trovarle proprio in quel momento senza neppure essersi preparato un discorso.
Bel tempismo.
«No» disse Will. «È solo che non voglio che tu ti senta obbligata a farlo, non sono come Logan. Mi importa di ciò che vuoi, è la cosa più importante per me».
Rose si bloccò e Will temette di aver detto qualcosa di sbagliato. La sentì trattenere il respiro e irrigidirsi sopra di lui.
«Will». La stanza era illuminata solo dalla lampada a stregaluce che Will teneva sulla scrivania, il rumore della pioggia era l’unico suono che accompagnava quello dei loro respiri. «Will, non sei come Logan, non ho mai pensato che tu fossi come Logan. E sono innamorata di te. Sono sempre stata innamorata solo di te, anche quando non me ne rendevo conto». Gli poggiò una mano sul viso e lo baciò di nuovo. Le sue labbra tremavano leggermente.
«Quindi va tutto bene?» sussurrò Will.
Rose annuì e Will si convinse. Le passò un braccio attorno alla vita e invertì le loro posizioni così che lei fosse sdraiata sotto di lui. Rose ridacchiò piano e lo baciò di nuovo, con più urgenza, come se potesse respirare soltanto attraverso di lui. Gli poggiò le mani sull’addome e poi gli carezzò la schiena, inviando scosse di piacere a ogni sua terminazione nervosa. Will si allontanò leggermente così che lei gli potesse sfilare la maglietta, poi ritornò sulle sue labbra, come ferro attratto da un magnete.
Sapeva che stava sussurrando il suo nome, che la amava, ma non era più padrone del proprio cervello e delle proprie parole, troppo assorbito dalla vicinanza di Rose, dal suo profumo, dal modo in cui lei si inarcava contro il suo corpo, che la desiderava da quando aveva scoperto che cosa fosse il desiderio. Le mani di Rose sulla sua pelle nuda gli stavano facendo perdere cognizione della realtà; se qualcuno gli avesse chiesto il suo nome, non era sicuro che sarebbe stato in grado di rispondere correttamente.
Quando Rose si tolse la maglietta, Will si fermò per un istante ad osservarla, stentando a credere che stesse succedendo davvero. Quella era Rose. La sua Rose. E Will non poteva credere che la sua Rose lo stesse toccando e che lo desiderasse in quel modo.
Le baciò il petto, tracciandole una scia di baci sulla pancia, fino all’ombelico. Rose rabbrividì sotto al suo respiro e Will fu certo di morire. Anzi, era già morto e quella era la sua ricompensa per essersi comportato bene in vita.
Poi tornò sulla bocca di lei e si liberarono degli ultimi vestiti che stavano ancora indossando; Rose si aggrappò a lui per le spalle e poi gli passò le mani sulla schiena, attirandolo a sé così che non ci fosse più alcuna distanza tra di loro. Le braccia di Will cedettero e la strinse a contro al proprio corpo; le baciò il viso e di nuovo le labbra, lasciandosi sommergere da quel mare di sentimenti che stava minacciando di farlo annegare. Si guardarono per un secondo e poi i loro corpi si unirono.
«Stai bene?» sussurrò Will contro la guancia di lei, le parole mezze strozzate. Non riusciva a pensare e si sorprese di essere stato in grado di formulare la domanda.
«Sì» rispose Rose con gli occhi socchiusi.
Rose allacciò le gambe attorno alla sua vita e intrecciò le dita tra ai suoi capelli, e Will non si fermò; si abbandonò contro al suo corpo e si perse completamente in lei, seppellendo il viso nell’incavo del suo collo.
Non voleva che finisse, voleva rimanere sospeso in quel momento con Rose per il resto della sua vita, perché in quel momento tutto ciò che aveva sempre desiderato era diventato realtà. Cercò di fissare ogni istante nella memoria, di mantenere il controllo e di rimanere consapevole di quello che stava succedendo, ma non ci riuscì. Era tutto troppo intenso, e quando crollò su di lei sentì il proprio cuore fermarsi per un istante, per poi riprendere a battere così forte che temette potesse aprirgli il petto in due.
Fece per spostarsi di lato per non gravare su Rose con il suo peso, ma lei lo tenne fermo dov’era e lo abbracciò, baciandogli la guancia. Non voleva lasciarlo andare, non ancora, e nemmeno lui voleva lasciar andare lei.
Will rise piano e si sollevò leggermente sui gomiti per guardarla in faccia. Rose gli mise una mano sul cuore e gli sorrise. «Will, devi respirare».
«Sto respirando». Will sbatté le palpebre un paio di volte per sincerarsi che fosse tutto reale e che non si trattasse di un sogno.
Rose gli accarezzò i capelli, facendolo rabbrividire. Will si spostò di lato e si sdraiò sulla schiena, mentre Rose gli si rannicchiò vicino, poggiando il capo nell’incavo del suo collo. Rimasero abbracciati sotto alle coperte per parecchio tempo, Will che le accarezzava la schiena e Rose che gli tracciava con un dito il contorno della cicatrice a forma di stella che aveva sulla spalla.
«Buonanotte, Will» disse Rose a un certo punto, gli occhi che le si stavano pian piano chiudendo.
«Buonanotte, Rosie».

NOTE DELL'AUTRICE
Non so come ho fatto a pubblicare, ma ce l'ho fatta! In piena sessione! La verità è che avevo più di metà capitolo pronto, ahah. Quindi ho solo dovuto collegare dei pezzi... per questo, spero davvero che abbia senso e che non risulti troppo affrettato. Ma soprattutto, spero che vi piaccia! Rose e Will fanno l'amore insieme ed è un momento molto importante per entrambi.
E poi... chi sarà questo Peter? Ahah
Nulla, spero davvero che vi piaccia! Non so quando aggiornerò di nuovo, spero presto!
Buona serata

Francesca 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitré. ***


Capitolo ventitré
 
Rose si risvegliò il mattino seguente tra le braccia di Will. Erano ancora senza vestiti e Rose si sentiva al caldo grazie alla vicinanza del suo corpo. Era infatti sdraiata per metà sopra di lui, con la testa appoggiata sul suo petto e le gambe intrecciate alle sue.
Lo osservò per qualche istante mentre dormiva tranquillo, le guance arrossate per il sonno e le labbra leggermente socchiuse. Era così bello che a Rose mancava il fiato; voleva baciarlo di nuovo, sentirlo sospirare contro la propria pelle, e le venne quasi da piangere quando ripensò alla notte precedente e a come lui l’avesse stretta a sé come se non volesse lasciarla andare mai più.
Rose lo amava così tanto che temeva di esplodere da un momento all’altro.
Gli diede un bacio sulla guancia, incapace di trattenersi, e poi iniziò ad accarezzargli distrattamente il braccio, soffermandosi sulla cicatrice a forma di stella che aveva sempre avuto sulla spalla. Sentiva il suo cuore battere regolarmente sotto l’orecchio.
Rose riconobbe delle voci nel corridoio, probabilmente si trattava di Clary che stava svegliando Elizabeth, e sperò intensamente che la donna non aprisse la porta della camera di Will. La sveglia sul comodino segnava le nove della mattina e Rose pensò che si trattasse di un orario decente per svegliarlo, nonostante sospettasse che lui non si sarebbe detto completamente d’accordo con lei.
«Will» sussurrò, senza ricevere alcuna risposta. «William, svegliati».
Will grugnì qualcosa e la strinse un po’ di più a sé, dandole un bacio tra i capelli. «Dormi, Rose».
Rose si mise a ridere contro il suo collo. «È mattina».
«Che ore sono?» biascicò lui, continuando a tenere gli occhi chiusi.
«Le nove».
Will emise un verso strano. «È notte fonda».
Rose si sollevò su un gomito e lo osservò dall’alto verso il basso. «Tua mamma è sveglia».
Will aprì gli occhi di pochissimo, quanto bastava per incontrare il suo sguardo. «E tu come fai a saperlo?»
Rose ghignò, sapendo esattamente come fare per farlo svegliare per davvero. «È passata a salutare e mi ha chiesto se volessi del caffè».
Will si tirò a sedere come una molla. «Che cosa?» urlò.
Rose scoppiò a ridere e si coprì il viso con le mani.
«Oddio» disse lui, passandosi una mano tra i capelli. «Stai scherzando».
«Certo che sto scherzando» continuò a ridere Rose con le lacrime agli occhi.
«Ti odio» borbottò Will, lasciandosi cadere nuovamente sdraiato sul letto. «Ti odio, Rose».
Rose si sdraiò su un lato e gli mise una mano sul petto. «No, non è vero».
Will la osservò per qualche istante senza dire niente, i capelli biondi scompigliati e le pupille dilatate.
«No, non è vero» concordò lui, attirandola a sé e dandole un leggero bacio sulle labbra.
Rose sfregò il naso contro al suo e poi appoggiò la testa sulla sua spalla. Will la avvolse tra le sue braccia e sospirò. «Hai fatto bene a svegliarmi».
«Ah sì?» chiese Rose, guardandolo stupita.
«Sì, ma non ho intenzione di alzarmi per il resto della mattina» spiegò lui. «Lo sai, vero?»
«Vuoi davvero rimanere a letto?» chiese Rose.
Will ci pensò un attimo. «Esattamente» decise con un gran sorriso. Poi tornò serio. «Come stai?»
Il cuore di Rose perse un battito. «Bene» disse, cercando di non farsi venire le lacrime agli occhi per la gioia. «Sto benissimo, Will. Mai stata meglio».
Non voleva che si preoccupasse per lei, perché non aveva niente di cui preoccuparsi. Non si era mai sentita così felice e al sicuro nella sua vita.
Will arrossì leggermente ma sembrava contento e più tranquillo.
«Non devi preoccuparti per quello che è successo con Logan. La mia prima volta ha fatto schifo, fa niente. Spero che la tua sia stata meglio della mia» continuò Rose, poi aggiunse: «Non è che mi voglia fare i fatti tuoi, ma con chi è stata? Puoi dirmelo, sul serio. È stata forse con la cameriera di Taki che ti muore dietro? Com’è che si chiama…?»
«Rose». La mano di Will si era fermata tra i suoi capelli e lui aveva spalancato gli occhi. «Rose, questa è stata la mia prima volta».
Rose si bloccò e sollevò il capo. «Cosa?»
«Hai capito» disse lui, sembrava tranquillo. «Non c’è mai stata nessun’altra».
«Non è vero». Rose si stava agitando perché non lo sapeva, se lo avesse saputo…
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»
«No. No no no». Rose lo guardò fisso negli occhi. «No. Non hai fatto niente di sbagliato. Sono io che devo chiederti scusa. Mi dispiace, Will, non lo sapevo».
«Ti dispiace?» Will stava scuotendo la testa. «Sei impazzita? E per cosa?»
«Se lo avessi saputo, non lo so…» Rose non lo sapeva davvero. Cosa sarebbe cambiato se lei lo avesse saputo? Niente. «Non voglio comportarmi come si è comportato Logan».
«Non ti sei comportata come Logan» la rassicurò Will. «Fidati. Lo volevo».
«Quindi questa è stata la tua prima volta?» chiese Rose, per assicurarsi di non aver capito male.
«Sì. E tu hai una faccia troppo compiaciuta» borbottò Will.
Rose si mise a ridere perché Will aveva ragione. La cosa, nel profondo, la faceva sentire più felice di quanto avrebbe dovuto.
«Per quel che mi riguarda» disse poi, tornando seria. «Questa è stata anche la mia prima volta».
Will aveva gli occhi lucidi e distolse per un attimo lo sguardo, probabilmente nella speranza che lei non lo notasse. Poi le diede un bacio sulla fronte e la strinse a sé un po’ più forte. «Rimani qui oggi. Per favore?»
«Wow» disse Rose. «Non sei preoccupato che i tuoi genitori ti prendano in giro? Chi sei e che cosa ne hai fatto del mio Will?»
Will in risposta la baciò sulla bocca e girò entrambi sul letto così che lei fosse sdraiata sotto di lui. Rose sentì dei rumori nel corridoio, e temette che qualcuno potesse entrare.
«Will» sussurrò sulle sue labbra, facendo appello a tutta la sua buona volontà e cercando di non pensare alle mani di Will che le accarezzavano i fianchi. «Dovremmo alzarci. Vuoi davvero che tua madre entri e ci trovi così?»
«Oh». Will alzò un sopracciglio. «Quindi non sei poi così impavida quando dall’altra parte della porta non c’è tuo padre ma c’è mia madre».
Rose sapeva che stava scherzando e che dentro di sé sapeva che lei aveva ragione -dopotutto era pur sempre Will- quindi prese in mano la situazione.
«Coraggio, micetto». Gli diede un bacio sulla guancia e lo fece spostare di lato, così che riuscisse a scendere dal letto e ad afferrare la maglietta che indossava la sera precedente. «È ora di alzarsi».
                                      
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Una volta indossati dei vestiti puliti, Will mise la testa fuori dalla porta per assicurassi che non ci fosse più nessuno in corridoio. Sentiva delle voci provenire dalla camera di sua sorella, ma il corridoio era deserto. Uscì, chiudendosi la porta della propria stanza alle spalle così da lasciare un po’ di privacy a Rose mentre telefonava ai suoi genitori, e si guardò attorno, ancora senza riuscire a credere a quanto accaduto la notte precedente. Lui e Rose erano stati finalmente insieme. Gli sembrava impossibile, perché in tutti quegli anni si era autoconvinto che lei non lo amasse e che tra loro non ci sarebbe mai potuto essere niente di più che amicizia. E invece Rose ricambiava i suoi sentimenti e Will non poteva davvero crederci. Quando si era svegliato, per un istante, aveva creduto che niente di quello che era successo quella notte fosse accaduto per davvero e che si fosse trattato di uno scherzo meschino della propria immaginazione. Però poi aveva trovato Rose accanto a sé, intenta a toccargli il viso con delicatezza, e si era quasi messo a piangere.
Si rese conto che stava fissando il muro davanti a sé con aria inebetita, quindi si affrettò a distogliere lo sguardo e a raddrizzare le spalle. 
«Will?» Will si voltò e trovò sua madre dietro di lui che lo osservava con gli occhi spalancati. Portava una camicia bianca infilata in un paio di jeans scuri e sembrava stanca, come se non avesse chiuso occhio durante la notte. Gli si avvicinò e lo scrutò da capo a piedi. «Come mai sei già sveglio?»
Lizzie uscì in quel momento dalla sua camera e parve accendersi quando lo vide. «Will!» esclamò con gli occhi che brillavano. «Com’è andata?»
Will si sentì quasi soffocare e si limitò a sorridere come un idiota. In quello stesso momento, Rose li raggiunse con aria tranquilla.
«Mio padre era preoccupato. Mi ha mandato venti messaggi, spero abbia dormito stanotte…» alzò lo sguardo e trovò gli occhi di Elizabeth e di Clary che la osservavano con malizia. «Ehm, ciao?»
Clary annuì tra sé e sé e sorrise a Will. «Ah, ora ho capito». Gli diede un colpetto sul braccio, salutò Rose con un cenno del capo e poi se ne andò, probabilmente diretta in infermeria da Jace.
«Cosa non si fa per amore» sospirò invece Lizzie, rivolgendosi poi a Rose. «Lo hai fatto alzare prima delle undici. È un record». 
Rose sbatté le palpebre qualche volta e poi spostò lo sguardo su Will. Will le fece cenno di lasciar perdere.
Decisero di andare a fare colazione con Elizabeth. Will amava sua sorella, ma avrebbe tanto voluto che li lasciasse soli, perché Will odiava doversi impegnare per non toccare Rose e per non sorriderle come un’ameba. Più di una volta aveva dovuto reprimere l’istinto di darle un bacio sul viso, di dirle qualcosa di melenso e sdolcinato o di osservarla per più tempo del necessario. Si era però seduto alla sua destra, così che potesse darle la mano sotto al tavolo, dal momento che lei era mancina e quindi mangiava con la mano sinistra.
«Quindi…» Will bevve un sorso di caffè e si rivolse a sua sorella. «Peter come?»
«Shhh!» Lizzie lo fulminò con lo sguardo e lanciò un’occhiata di sottecchi a Rose. «Quando mai te ne ho parlato!»
«Non preoccuparti, Liz» la rassicurò Rose. «Non lo dico a nessuno».
Lei però la ignorò e continuò a fissare Will. «Non l’hai detto a Cath, vero?»
«Uhm…»
«Oddio» mugugnò lei. «Sei terribile! E a George? Ti prego dimmi che… Ma cosa te lo chiedo a fare, certo che lo hai detto a George!»
Si prese la testa tra le mani disperata.
«Lizzie, non succede niente…» tentò Rose.
«Mi preoccupo se fai così» disse Will.
Elizabeth emise un verso frustrato. «Niente. Va tutto bene. È solo un ragazzo carino con cui parlo ogni tanto e… Peter… Peter è un nome in codice, d’accordo? Non si chiama davvero Peter».
Will alzò un sopracciglio. Non le credeva. Sapeva che gli stava mentendo e odiava che gli mentisse. Aveva intravisto più volte il nome Peter comparire sullo schermo del suo cellulare quando lei lo lasciava incustodito sul tavolo. Non aveva mai letto oltre, ma il nome era abbastanza. Certo, avrebbe potuto salvarlo con il “nome in codice” anche sul telefonino, ma… a che pro?
Will poggiò la tazza sul tavolo e la guardò con serietà. «Elizabeth…»
Lizzie sbuffò. «Non mi importa se lo hai detto ai tuoi amici. Ma se lo dici a mamma e a papà, William Jonathan Herondale, giuro, giuro, che non ti rivolgerò mai più la parola».
Si alzò e se ne andò impettita, con la schiena rigida e il passo veloce, come se sentisse il bisogno fisico di allontanarsi da lui. Will si sentì ferito dal suo comportamento, perché voleva aiutarla. Percepiva la sua preoccupazione, sentiva che qualcosa non andava: voleva solo capire, così da poterla sostenere.
Rose gli si avvicinò e gli poggiò il mento sulla spalla, stringendogli più forte la mano. «Ha sedici anni» disse. Will sentiva il suo respiro sfiorargli il collo. «È normale che faccia così».
«Lo so». Will osservò il punto in cui sua sorella era scomparsa oltre la porta della cucina. «Sono solo in pensiero per lei».
«Sono sicura che sta benone» lo rassicurò Rose. «È una ragazza intelligente».
«Se ti sentisse, sarebbe felicissima». Lizzie aveva profonda ammirazione per Rose, diceva sempre che Rose è un genio.  
Rose si mise a ridere e sollevò il capo. Will, ora che erano finalmente soli, ne approfittò per baciarla. Rose gli passò una mano tra i capelli e Will la maledisse nella mente, senza però fare alcunché per fermarla. Si baciarono per quella che sembrò un’eternità, fino a quando qualcuno non si schiarì la voce alle loro spalle.
Si separarono velocemente, trovando la mamma di Will che apriva il frigorifero divertita.
«Scusate» disse mentre prendeva una bottiglia d’acqua. «Papà è sveglio, Will. Se volete andare a salutarlo, gli farebbe piacere vedervi».
Rose e Will non se lo fecero ripetere due volte, troppo imbarazzati per rispondere alcunché. Usciti dalla cucina, Rose gli fece una smorfia e Will si mise a ridere scuotendo il capo. Poteva andare peggio: almeno non era stata Celine a beccarli mentre si baciavano.
Arrivati in infermeria, suo padre li stava aspettando seduto sullo stesso lettino dove lo avevano lasciato il giorno precedente. Era appoggiato a molti cuscini e stava bevendo del caffè. Indossava una maglietta pulita sotto alla quale Will riusciva a intravedere le bende che Magnus aveva utilizzato per medicarlo.
Quando si accorse della loro presenza sorrise e poggiò la tazza sul comodino.
«Will» disse, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che Will lo aveva già abbracciato. Suo padre gli diede qualche colpetto sulla schiena e lo strinse forte.
Era vivo e respirava, continuava a ripetersi Will. Era passato.
Jace lo lasciò andare e fece cenno a Rose si avvicinarsi. «Rose» la salutò mentre la stringeva in un grande abbraccio. A Rose non piaceva troppo contatto fisico, ma non lo diede a vedere. «È sempre un piacere averti qui».
Will aggrottò le sopracciglia. Era forse un’allusione diretta a lui? Lo stava per caso prendendo in giro?
«Come mai in piedi a quest’ora?»
Will sbatté le palpebre, ritornando con i piedi per terra e lasciando da parte le proprie paranoie mentali. Fece per rispondere, ma Rose lo precedette.
«Oh» disse mortificata, posandogli una mano sul braccio. «È colpa mia in realtà. L’ho svegliato presto. È solo che non dormo tanto, e quindi…»
«Ah». Jace rivolse a Will un ghigno divertito che Rose non colse. «Dovresti fermarti a dormire qui più spesso».
Okay, pensò Will depresso, questa è decisamente una frecciatina a me.
Will mugugnò qualcosa di sconnesso e si sedette sul bordo del letto. Rose spostò lo sguardo da lui a suo padre confusa. Will le fece cenno che le avrebbe spiegato dopo che cosa era appena successo, e cioè che suo padre li stava prendendo in giro.
«Se Will mi vuole…» rispose lei con semplicità.
A Will venne da piangere ma si trattenne. Fosse stato per lui, l’avrebbe fatta rimanere a New York tutti i giorni, per sempre, ma sapeva che Julian e Holly Blackthorn non sarebbero stati molto d’accordo.
La prese per mano e la attirò a sé, per poi stamparle un casto bacio sulle labbra. Davanti a suo padre. Davanti a Jace Herondale.
Chissene frega.
«Certo che ti voglio» le lasciò la mano e le sorrise. Non l’aveva mai vista arrossire così tanto: era dello stesso colore dei capelli di sua mamma.
«Questa è la cosa più melensa che abbia mai visto in tutta la mia vita» si limitò a commentare Jace. Guardò Will e scosse il capo, ma si vedeva che in realtà era felice per lui.
Will si schiarì la voce e cercò di cambiare argomento. «Chi vi ha attaccato ieri?»
Suo padre parve colto alla sprovvista. La sua espressione cambiò, si indurì. Il sorriso sornione che sfoggiava di solito si trasformò in una linea dritta. «Will…» iniziò. Poi però il suo sguardo venne catturato da qualcosa alle loro spalle e il suo viso si addolcì nuovamente.
«Ciao, Cath» disse con un piccolo sorriso. «Come sta la mia pianista preferita?»
Will si voltò e trovò Cath con un’espressione preoccupata sul viso. Indossava un vestito grigio scuro dall’aria pesante che la faceva sembrare ancora più pallida. I suoi occhi chiari erano cerchiati di viola e i suoi zigomi parevano più pronunciati del solito. «Io sto bene. E tu?»
Cath suonava il piano e quando Jace lo aveva scoperto era stato sul punto di mettersi a piangere, dato che nessuno dei suoi figli condivideva quella sua passione. Cath si esercitava all’Istituto -a Brooklyn non aveva un piano– e spesso Jace si univa a lei, dandole qualche dritta o consiglio. Ora che Cath si era trasferita a casa loro, Will li sentiva suonare quasi tutte le sere.
«Mai stato meglio». Jace ghignò. «Non sono così facile da uccidere, dopotutto».
Will gli rivolse un’occhiataccia; non gli piaceva che scherzasse in quel modo sulla sua vita.
«Dov’è George?» chiese poi. «Mi ha detto che sarebbe passato stamattina».
Cath si rivolse a Will e inclinò il capo di lato. «Sta arrivando, ma tua mamma mi ha detto che ha bisogno di parlare con lui».
Will deglutì e guardò Rose, che ricambiò il suo sguardo con altrettanta confusione.
«E perché?» domandò Will, non capendo come mai sua madre volesse parlare a quattr’occhi con il suo parabatai.
Cath scosse il capo. «Non ne ho idea».
Anche Will non ne aveva idea, ma di una cosa era certo: non avrebbe portato a niente di buono.
 
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George era arrivato all’Istituto bagnato fradicio. Aveva dimenticato a casa l’ombrello, nonostante suo padre gli avesse ricordato più di una volta di prenderlo prima di uscire. George lo aveva elegantemente ignorato perché odiava usare l’ombrello; preferiva alzare il cappuccio della giacca, o della felpa, per ripararsi dalla pioggia: era più comodo, oltre che più sicuro nel caso avesse incontrato qualche demone. Era sempre meglio avere le mani libere. E poi non era mica Will, non gli importava se gli si arricciavano i capelli. Will era un tipo da ombrello, non George.
Tuttavia, era da quasi una settimana che continuava a piovere a dirotto, e neppure la sua giacca impermeabile era stata sufficiente per ripararlo dalla pioggia.
Forse avrei dovuto davvero prendere l’ombrello, pensò mentre scendeva dall’ascensore e si passava una mano tra i capelli bagnati. Si tolse la giacca e la appese sull’appendiabiti all’ingresso, per poi dirigersi verso la cucina. Aveva mandato un messaggio a Cath, dicendole che era arrivato. La sera precedente aveva insisto affinché lei restasse a dormire a casa sua, ma Cath aveva rifiutato con convinzione, così George aveva lasciato perdere.
A metà corridoio, incrociò Elizabeth, che camminava spedita con il cellulare in mano. Per poco non gli finì addosso. «Buongiorno» la salutò con un ghigno George.
Lizzie alzò il capo dal telefonino e sbatté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di metterlo a fuoco. A volte George si meravigliava di quanto lei e Will si somigliassero: avevano gli stessi occhi, gli stessi capelli e gli stessi tratti delicati del viso.
«Oh, ciao» lo salutò lei spiccia.
Fece per andarsene, ma George la trattenne. «Dove vai con tanta fretta?»
Lizzie era come una sorella per lui e si divertiva a prenderla in giro tanto quanto si divertiva a prendere in giro Will.
Lizzie alzò le spalle. «Da nessuna parte».
«Ah». George ridacchiò. «Quindi non stai uscendo con Peter?»
Se gli sguardi avessero potuto uccidere, George sarebbe stato già morto. Elizabeth Herondale lo stava guardando come se volesse staccargli la testa. Emise un verso frustrato, gli girò le spalle impettita e se ne andò, sventolando una mano per aria in segno di saluto mentre urlava: «Io, Will, lo ammazzo! Addio, George!»
George si mise a ridere e la osservò scappare via. Poi si voltò e notò che Cath lo stava raggiungendo a passo veloce. Quando gli fu vicino, tese le braccia verso di lui e George si chinò per abbracciarla. «Ehi» le sussurrò contro la guancia, mentre la sollevava da terra. Cath lo strinse forte e per un istante George temette di sentirla tremare. «Va tutto bene?» chiese, iniziando a preoccuparsi. Tirò indietro il capo quanto bastava per guardarla negli occhi -senza però lasciarla andare. Lei gli sorrise con un po’ troppa enfasi. «Certo. Tu?»
George non le credeva -ormai riusciva a capire quando mentiva: abbassava leggermente lo sguardo e inarcava le sopracciglia in un modo strano- ma non infierì. La mise a terra e le prese la mano. «Bene» le posò un bacio sul palmo e poi incrociò le dita alle sue. Nonostante le cicatrici, Cath aveva delle mani delicate per una Shadowhunter, con dita lunghe e sottili. «Mia mamma mi ha detto di Jace». George avrebbe dovuto fare un bel discorsetto al suo migliore amico: non era possibile che lo avesse chiamato poche ore dopo l’accaduto per chiedergli informazioni sul presunto ragazzo di sua sorella e che si fosse dimenticato di menzionare che suo padre era stato ferito.
Cath si rabbuiò. «Sono appena stata in infermeria. La ferita era profonda ma ora Jace sta bene… Will e Rose sono con lui. Ah, ho incontrato Clary poco fa e mi ha detto che vuole parlare con te».
George aggrottò le sopracciglia. «Con me?»
Cath annuì. «E’ in camera di Will. Dovresti raggiungerla, mi sembrava parecchio arrabbiata».
George pensò velocemente a un motivo per cui sua zia potesse essere arrabbiata con lui, ma non gli venne in mente niente. Per una volta, qualsiasi cosa fosse successa, era quasi sicuro che non fosse stata colpa sua. Quando lui e Will erano piccoli, invece, era sempre lui quello che spingeva Will a fare qualcosa di stupido, facendo arrabbiare i loro genitori.
Diede un bacio a Cath e si affrettò a raggiungere Clary. La trovò rannicchiata davanti al letto di Will, intenta a guardare sotto di esso.
«Ehm… ciao» la salutò George, chiudendosi la porta alle spalle. «Sei davvero quel tipo di genitore che ficca il naso tra le cose del figlio? Credevo che quello fosse zio Jace».
Clary si tirò in piedi velocemente e raddrizzò le spalle, facendogli una smorfia. «Mi servivano del bianco e del viola» spiegò, indicando la scatola delle tempere di Will, che ora stava aperta sulla scrivania. «Ma mi sono finiti tutti i colori per terra e alcuni sono rotolati sotto al letto. Mentre cercavo di recuperarli, ho trovato questa» afferrò una giacca nera e gliela sbatté contro al petto con foga. «Sai spiegarmi?»
George spalancò gli occhi e si rigirò la giacca tra le mani confuso. Sua zia doveva essere impazzita.
«So spiegarti che cosa?»
«Il sangue e la manica tagliata». Clary incrociò le braccia al petto. «E le spade angeliche sporche di sangue. Siete usciti ieri sera?»
«No!» esclamò George. «E anche se lo avessimo fatto... Che ti importa?»
Clary alzò un sopracciglio e gli rifilò un’occhiata spaventosamente simile a quella che gli aveva rivolto poco prima Elizabeth. Quel giorno non era un buon giorno per interagire con le donne Herondale.
«Non parlarmi così» lo rimproverò lei. «Non lo chiedo a Will perché mentirebbe». Clary sembrava disperata. «Ma dimmi la verità, George. Cos’è successo ieri sera?»
«Io e Cath eravamo a casa mia» disse lui. «Will e Rose non ne ho idea, credevo fossero qui».
«Ha chiamato Lily questa mattina» continuò Clary, sedendosi sulla sedia della scrivania e incurvando leggermente le spalle. Sembrava che tutta la rabbia e il fuoco che ardevano nei suoi occhi l’avessero abbandonata. «Voleva ringraziarci per come abbiamo gestito la sua lamentela riguardo i lupi mannari. Ma… io non ne sapevo niente. Allora lei mi ha detto che c’erano dei lupi mannari che infastidivano il suo Clan e che ci ha pensato Will. Non sta attento, George. Non sta attento e non mi dice quello che fa».
George si servì delle parole che più e più volte si era sentito ripetere, quelle parole che odiava con ogni cellula del suo corpo ma che era consapevole corrispondessero alla realtà: « È uno Shadowhunter. Ha fatto il suo lavoro, tutti avremmo fatto lo stesso».
Clary lo osservò con le labbra serrate per qualche secondo. I suoi occhi erano più verdi di quelli di Will, però avevano la stessa forma e le stesse ciglia scure.
George sbuffò e si sedette sul letto del suo parabatai. «Lo so, che non sta attento. Ma cosa dovrei fare? Incatenarlo e rubargli lo stilo? Lo sai che non posso e che non lo farei mai, andrebbe contro la sua natura. E poi erano solo lupi mannari, Will sa gestire dei lupi mannari».
Anche lui era preoccupato per Will. Odiava quando si metteva in situazioni pericolose, ma soprattutto odiava quando lo faceva senza dirglielo, senza portarlo con sé per guardargli le spalle. 
La stanza era debolmente illuminata dalla luce del giorno, nonostante il sole fosse coperto dalle nuvole cariche di pioggia. Nella camera di Will dominavano il verde e il bianco, ma quella luce grigiastra che rifletteva le nuvole ne smorzava la brillantezza.
Clary si agitò sulla sedia e guardò fuori dalla finestra con espressione grave.
«C’è qualcosa che non mi stai dicendo…» dedusse George. «Cosa succede?»
«Sono stati i Riders a ferire Jace» confessò Clary. «Eravamo fuori per una pattuglia e ci sono piombati addosso all’improvviso. Sono a mala pena riuscita a creare un portale per scappare. E mi ha chiamata anche Maia poco fa, dicendo che uno dei suoi è stato assassinato da loro».
«E Will lo sa?» Una fitta di paura attraversò George. Rivide il corpo di Cath squarciato dalla lancia di Delan davanti ai propri occhi; non avrebbe sopportato se fosse capitato anche a Will.
Clary scosse il capo. «Non volevo che si preoccupasse ulteriormente, era già abbastanza scosso per Jace… E invece lui è uscito, ed è già tanto che si sia messo almeno la giacca della tenuta da combattimento».
George avrebbe voluto sottolineare quanto fosse importante dire sempre la verità, anche quando così facendo si rischiava di ferire qualcuno: le bugie non ti proteggono mai, anche se dette in buonafede. Ma non era quello il momento per fare la morale a sua zia.
«… e non ti ha neppure portato con sé» proseguì lei con un filo di voce. «Non so cosa fare. Io mi arrabbio e lui ruota gli occhi al cielo, promettendomi che non lo farà più, ma ogni volta che esce di casa mi chiedo cosa diavolo stia combinando. Magari te e Rose potete farlo ragionare, vi ama così tanto».
«Ci parlo io» decise George. Lo avrebbe rivoltato come un calzino. Perché, indipendentemente dal fatto che sua madre non gli avesse detto dei Riders, Will sapeva che erano sulle loro tracce e non sarebbe dovuto uscire, soprattutto dopo aver ucciso Delan. E poi il non averglielo detto era imperdonabile.
Clary parve sollevata. Si alzò dalla sedia e gli diede un bacio sulla fronte. «Grazie, George».
George la osservò mentre si allontanava e lo lasciava solo nella stanza; si prese un momento prima di seguirla e di affrontare il suo migliore amico.
 
George andò a salutare suo zio in infermeria. Dopo essersi accertato che stesse bene, ne approfittò per chiedergli di Cath, così da avere un altro parere oltre a quello di Will, che gli aveva confidato di essere preoccupato per lei perché mangiava poco e sembrava spesso assente.
«Cath sta tirando avanti» gli disse Jace. «Dopo tutto quello che le è capitato non puoi aspettarti che stia alla grande dall’oggi al domani».
George lo sapeva, ma era comunque difficile non stare in pensiero per lei.
«Non ti preoccupare» continuò Jace. «Si rimetterà presto. Sono tutti ad allenarsi comunque».
George, ancora poco convinto, salutò suo zio e decise di raggiungere i suoi amici. Salì in fretta le scale che portavano all’attico, attraversò il corridoio che portava alla palestra, un’ampia sala piena di attrezzi e armi, e varcò la soglia indossando l’espressione più minacciosa del proprio repertorio: dopotutto doveva essere arrabbiato con Will, no?
In palestra però trovò solo Cath, intenta ad esercitarsi con i coltelli da lancio. Stava prendendo la mira con un coltello alzato dietro l’orecchio. L’espressione di George si addolcì. Le si avvicinò dal dietro, pensando di spaventarla; era una cosa che faceva spesso, senza però avere sempre successo, dato che Cath aveva i riflessi pronti. Non si era disegnato alcuna runa del silenzio, perciò Cath lo sentì arrivare: scagliò il coltello contro al bersaglio e poi si voltò di scatto, e lo gettò a terra, tirandolo per un braccio e facendogli lo sgambetto con la gamba. George non se lo aspettava, quindi finì al suolo come un sacco di patate.
«Ah!» esclamò soddisfatta lei, guardandolo dall’alto verso il basso, cosa che succedeva di rado. «Ti sta bene».
Aveva le guance arrossate per lo sforzo e i capelli raccolti in una coda scompigliata. Indossava i vestiti per l’allenamento: pantaloni elasticizzati e una maglietta larga per facilitare i movimenti.
Gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi e George la accettò. «Non vale» borbottò mentre si tirava in piedi, ferito nell’orgoglio. «Mi hai sentito arrivare».
«È questo il punto» gli fece notare lei. «Che ti ho sentito perché hai la delicatezza di un facocero quando cammini».
George si mise una mano sul petto. «Scusa se sono alto un metro e novantacinque».
Cath gli rivolse un sorrisetto e poi prese un altro coltello, rivolgendo nuovamente la propria attenzione al bersaglio.
George si guardò in giro e notò che erano soli in palestra.
«Dove sono Will e Rose?» chiese allora. Jace gli aveva detto che li avrebbe trovati lì con Cath.
Cath lanciò il coltello. Poi si girò verso di lui e fece una smorfia. «Non fraintendermi. Sono carini. Però fanno così da quando siamo arrivati».
George aggrottò le sopracciglia. «Così come?»
«Così». Cath indicò l’altro lato della palestra, dove si trovavano le alte travi di legno che venivano usate per migliorare l’equilibrio. Sotto di esse, sui tappetini che erano stati posizionati lì in caso di caduta, stavano Rose e Will. Erano avvinghiati l’uno all’altra e si stavano baciando.  
George sorrise. «Be’, potremmo prendere esempio da loro e sbaciucchiarci anche noi».
Cath gli diede una leggera spinta e poi incrociò le braccia al petto, con finta aria altezzosa. «Noi non abbiamo tredici anni».
George alzò un sopracciglio e lei si mise a ridere. Poi lo prese per la maglietta e lo fece chinare verso di lei per stampargli un bacio sulle labbra.
«Sei troppo bassa, Catherine» sussurrò George.
Lei lo ignorò e gli diede un altro bacio sulla guancia. «Cosa ti ha detto Clary?»
George raddrizzò la schiena, ricordando come mai stesse cercando il suo parabatai. «Devo dirne quattro a Will. Ti spiego dopo».
Si diresse a passo veloce verso i suoi amici e li osservò per un istante, aspettando che lo notassero, ma erano così presi l’uno dall’altra che sarebbe anche potuta scoppiare una tempesta e loro non se ne sarebbero accorti.
George si schiarì la voce, ma loro continuarono a ignorarlo. Rose era sdraiata sulla schiena e Will le stava per metà sopra, le braccia allacciate attorno alla sua vita. Rose aveva le mani nei suoi capelli e gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio. George sentì Will dirle che la amava, e gli si strinse un po’ il cuore, perché Will aspettava quel momento da anni.
Ma non poteva essere sentimentale, non quando doveva fargli la predica, perciò sfoggiò un’espressione indifferente e sospirò.
«So che William è un pappamolle» disse. «Ma mi sarei aspettato di meglio da te, Blackthorn».
Rose in risposta gli fece un gestaccio, mentre Will sembrava non averlo neppure sentito.
«Will» lo chiamò George. «Mi dispiace interrompervi, ma devo parlati di una cosa importante».
Will percepì l’urgenza nella sua voce e rotolò via da Rose, mettendosi a sedere sul materassino. Aveva le labbra gonfie e i capelli che sparavano in tutte le direzioni; George non lo aveva mai visto così spettinato, ma neppure così felice.
«Cosa succede?» gli chiese. Un velo di preoccupazione annebbiò il suo volto, e a George dispiacque dover smorzare l’atmosfera fatta di zucchero filato e di cuori nella quale i suoi migliori amici erano immersi, ma doveva farlo. Era importante che Will capisse di non essere invincibile.
«Vai via, George» mugugnò Rose, sollevandosi sui gomiti così da poterlo guardare negli occhi. Ciocche di capelli le erano sfuggite dalla treccia e anche lei aveva il viso arrossato e l’espressione sognante di chi aveva appena ottenuto tutto ciò che desiderava dalla vita.
«Mica a te non piaceva il contatto fisico?» le chiese lui.
Rose gli rifilò un sorrisetto compiaciuto, ma non replicò, così George si rivolse di nuovo Will. «Possiamo parlare un secondo? Da soli?»
Will annuì, ora era serio, e anche Rose si rabbuiò. Aveva capito che qualcosa non andava.
George fece strada e condusse Will nel corridoio davanti alla palestra. Will lo seguì e si chiuse la porta alle spalle, passandosi poi una mano tra i capelli per cercare di sistemarseli.
«George» iniziò, chiaramente preoccupato. «È successo qualcosa?»
«È successo che sei uscito senza di me».
Will ammutolì e si limitò a fissarlo.
«Me lo ha detto tua madre poco fa. Tua madre, che ha trovato le spade insanguinate e la giacca lacerata» spiegò George. «Non me ne hai neppure parlato una volta che sei tornato a casa. Perché?»
«Non volevo farti preoccupare».
«È il mio lavoro, Will» disse George. «Preoccuparmi per te, guardarti le spalle e assicurarmi che tu non ti faccia ammazzare. È ciò che faccio, ciò che voglio fare».
«È successo tutto velocemente, non ho avuto tempo per chiamarti».
George fece una smorfia. «Crei portali, William. Se avessi voluto, avresti trovato il tempo».
Will lo guardò negli occhi per qualche istante, poi parlò, la voce che tremava. «Mio padre era ferito in infermeria. Non sapevo che cosa gli sarebbe successo. Non potevo rischiare anche te».
Maledetto William, pensò George. Non riusciva a essere arrabbiato con lui neppure per dieci minuti. Ma era questo che faceva Will. Si faceva volere bene anche quando si comportava da idiota, perché era sempre mosso da nobili intenzioni: Will era buono.
«Pensi sempre a proteggere gli altri e mai a proteggere te stesso. Ma non pensi a come starei io se tu morissi? O Rose, o la tua famiglia».
«Lo ha detto anche lei». Will sorrise leggermente, con quel sorriso triste che era solito indossare quando parlava dei propri sentimenti per Rose. «Rose intendo. Ha detto la stessa cosa».
«Rose è intelligente» disse George. «E sa quello che dice. Devi smetterla di essere così imprudente».
«Lo so» disse Will. «Davvero, ti giuro che l’unico motivo per cui non ti ho chiesto di venire con me è che ero troppo preoccupato per coinvolgere altre persone. Rose mi ha seguito ma non volevo che lo facesse, e…»
«William» scandì lentamente George, mettendogli le mani sulle spalle e scuotendolo leggermente. «Sono il tuo parabatai. Dove vai tu, vado io».
«Hai ragione» concesse Will. «Mi dispiace. L’ho già detto a Rose e lo dico anche a te: starò più attento. Lo giuro sull’Angelo».
George decise di credergli; dopotutto un giuramento sull’Angelo era sacro per gli Shadowhunters, e Will non veniva meno alla parola data.
«Bene». George lo lasciò andare e gli sorrise compiaciuto. «E ora, parlando di cose serie: tu e Rose?»
Will distolse lo sguardo e divenne rosso alla base del collo; George dovette trattenersi dallo scoppiare a ridergli in faccia.
«Io e Rose cosa?»
«Ti prego» lo prese in giro George. «Ce l’hai scritto in faccia».
Will si mise a sorridere come un idiota. «Sono la persona più felice del mondo».
Anche George lo era, perché se Will era felice allora lo era anche lui. Odiava vederlo triste e abbattuto, schiacciato dalla convinzione che Rose non lo avrebbe mai amato.
George era sul punto di dirgli che era contento per loro, ma Will lo abbracciò all’improvviso. George lo tenne stretto per parecchi secondi, traendo conforto dalla sua presenza rassicurante, dal battito del suo cuore che gli diceva che Will era vivo e stava bene.
«Okay, Will». George gli diede qualche colpetto sulla schiena. «Sarà meglio tornare di là, non vorrei che Rose si ingelosisse e mi prendesse a pugni».
 
Rose per fortuna non lo prese a pugni. Al contrario, mentre Will si avviava a recuperare due spade angeliche per allenarsi, Rose prese George da parte e gli chiese che cosa fosse successo.
«Gli ho fatto la predica» le rispose a bassa voce lui per non farsi sentire dal suo parabatai. «Che novità. Ormai sono la mamma del gruppo».
Le pupille di Rose si dilatarono leggermente per la comprensione. «Hai saputo di quello che è successo ieri sera?»
George non voleva parlarne più. Essere stato lasciato indietro da Will era stato un duro colpo, non voleva pensare al fatto che il suo migliore amico avesse rischiato la vita senza di lui al suo fianco. Perciò rivolse a Rose un ghignò divertito. «Non ce n’è stato bisogno, ce l’aveva scritto in faccia. Vi siete divertiti?»
Rose non capì subito. Sbatté le palpebre un paio di volte e corrugò la fronte, come se stesse cercando la soluzione ad un qualche problema di fisica. Anche se, probabilmente, per Rose sarebbe stato più facile risolvere un problema di fisica piuttosto che un problema di cuore.
«No» rispose Rose. «Non ci siamo divertiti, i Riders…» poi sembrò capire e si zittì. «Ah… non parli dei Riders».
«No, non parlo dei Riders» la prese in giro George. «Anche se mia zia mi ha detto quello che è successo e ho già provveduto a sgridare Will. Ma no, mi riferivo a quello che è successo dopo. Bel modo per superare la cosa, davvero».
Rose stava arrossendo. Gli tirò uno spintone, cercando di non sorridere e di sembrare arrabbiata. «Dovresti davvero imparare a farti gli affari tuoi».
«Dopo tutto il tempo che ci avete messo per mettervi insieme, il minimo che possiate fare è permettermi de prendervi in giro».
Rose fece per ribattere, poi però parve concludere che George aveva ragione e lasciò perdere.
A metà mattinata Elizabeth li raggiunse e si mise a tirare di katana con Cath. A volte George dimenticava quanto le due fossero amiche. Le vide chiacchierare animatamente mentre si allenavano e sospettò che Cath le stesse facendo il terzo grado per cercare di scoprire chi fosse il misterioso Peter con il quale si sentiva. Anche George era curioso, nonostante sapesse che non erano fatti suoi, però Elizabeth era come una sorella minore per lui. Essendo figlio unico, le sorelle di Will erano un po’ anche le sue.
Finito di allenarsi, decisero di mangiare qualcosa e poi di guardare un film tutti insieme. Elizabeth rimase con loro per tutto il giorno: evidentemente il suo caro Peter doveva essere impegnato.
Rose voleva vedere Titanic, ma George glielo impedì.
«No» disse, e sapeva che il terrore era ben visibile nei suoi occhi. «Abbiamo visto Titanic con i miei genitori e Cath ha pianto tutta la sera».
«Non è vero!» esclamò lei indignata. Si sedette sul divano e incrociò le braccia al petto. George alzò un sopracciglio nella sua direzione e lei scrollò le spalle. «D’accordo. Forse ho pianto un po’».
«Un po’?» George si sedette al suo fianco e la fissò scuotendo il capo.
Alla fine, Rose scelse un film mondano che parlava di una ragazza che amava i matrimoni e che sognava di trovare l’amore della sua vita e di sposarsi anche lei come tutte le sue amiche. Dopo dieci minuti scarsi dall’inizio, questa povera sventurata era già caduta a terra per poi essere soccorsa dal belloccio di turno, un idiota che non faceva altro che mentirle. George odiava quel tipo di stronzate. Se un ragazzo, o una ragazza, non ti rispetta abbastanza da dirti la verità, allora non merita le tue attenzioni.
Dopo l’ennesima bugia, George smise di provare a seguire la trama e iniziò ad infastidire Cath. Le diede un bacio sul collo che la fece ridere e poi le tirò una ciocca di capelli.
«Shhh» gli intimò lei, presa dal film.
George alzò gli occhi al cielo. «Non dirmi che ti piace».
«Shhhhh!» lo zittirono subito tutti gli altri. Sia Rose, che Will, che Elizabeth, gli rifilarono un’occhiataccia e poi tornarono a rivolgere la propria attenzione al film.
«Anche tu, Blackthorn» borbottò sconvolto George. Si sarebbe aspettato di meglio da Rose, ma dopotutto lo sapeva che nel profondo anche lei era un’inguaribile romantica come Will e Cath.
George era insofferente. Non gli piaceva non avere niente da fare, quindi prese Cath in braccio e lei si accoccolò su di lui, continuando però a tenere gli occhi fissi sullo schermo.
Alla fine, il giovane stron… cioè, giornalista, capì di essersi comportato male e cercò di farsi perdonare dalla protagonista. George sperò invano che lei lo mandasse a quel paese, ma ovviamente non fu ciò che successe: lei decise di perdonarlo e di sposarlo. George non ci poteva credere. Ma soprattutto non poteva credere che Cath stesse davvero piangendo per quella robaccia.
Si guardò attorno e notò che Will aveva gli occhi lucidi, mentre Rose un’espressione strana dipinta sul viso. Elizabeth sembrava quella che stava meglio.
Sempre detto che Lizzie è una tipa a posto, pensò George sconsolato.
«Non capisco come facciate a essere miei amici» decretò lugubre.
Cath girò la testa e gli diede un bacio appiccicoso. «A me è piaciuto».
George appoggiò la fronte contro la sua. «Devo tornare a casa» sussurrò a malincuore.
Cath si irrigidì, ma cercò di non farglielo notare e gli sorrise. «Certo».
«Puoi stare da me se vuoi».
«No» rispose lei. «Non ti preoccupare, resto qui».
Quel giorno Cath sembrava stare bene, o almeno meglio del solito, perciò George non insistette: Cath non si sarebbe mai ambientata nell’Istituto se avesse continuato ad andare a dormire da lui; era giusto che la sua vita ricominciasse a prendere una parvenza di normalità.
George lanciò un’occhiata a Will e a Rose. Sembravano ancora persi nel loro mondo, Will seduto su una poltrona e Rose in braccio a lui con le gambe che penzolavano da uno dei braccioli e la testa appoggiata sulla sua spalla.
«Mah» disse Elizabeth alzandosi dal divano e stiracchiandosi. «Ricordatemi di non guardare mai più un film con voi se non ho un ragazzo con me. Siete terribili. Tutti quanti». George fece per ribattere ma lei gli puntò un dito contro. «Sì, anche tu, George».
«Invita Peter la prossima volta» le rispose allora lui. «Non vediamo l’ora di conoscerlo. Ti prometto che non ti prenderemo in giro se è brutto».
Elizabeth emise un verso strozzato e scappò via, esasperata.
«Meno male che non sei tu suo fratello» commentò Rose, guardandola sparire oltre la porta. «Saresti insopportabile».
«Sono solo curioso».
«E senza filtri» aggiunse Cath.
«Mio padre dice sempre che i filtri sono per le sigarette e per il caffè».
Will mugugnò qualcosa. «Io sono preoccupato. Cath, tu non sai niente?»
Cath si morsicò un labbro. «No, ma anche se sapessi non ve lo direi».
Tutti e tre proruppero in esclamazioni indignate. «Che cosa?» fece Will, paonazzo.
«Devi dirlo a me» disse George. «Io ti dico tutto».
Cath si voltò e gli rivolse un’occhiataccia. «Scusa? Ti ricordo che non mi hai mai detto che Will fosse innamorato di Rose. Anche quando era evidente! Lizzie è mia amica e se non vuole parlarvi di Peter ci sarà un motivo, non sarò certo io a raccontarvi i fatti suoi».
George ridacchiò, lasciando perdere il discorso, ma vide con la coda dell’occhio Will rabbuiarsi. Prese un cuscino e glielo lanciò.
«E quello per che cos’era?» esclamò lui, guardandolo con rassegnazione.
«Devi smetterla di preoccuparti per niente» spiegò George. «Lizzie sta bene e starà bene».
Will lo guardò negli occhi per parecchi secondi e poi scrollò le spalle. «Forse hai ragione» concesse, ma qualcosa nella sua espressione diceva che non ci credeva davvero.

NOTE DELL'AUTRICE
Buonasera a tutti!
Oggi è il compleanno di Will (17 febbraio, quando abbiamo creato i personaggi abbiamo scelto anche le date di nascita), quindi ci tenevo a pubblicare un capitolo! Sono in piena sessione -motivo della mia assenza- ma ce l'ho fatta. <3 
Spero che vi piaccia e vi ringrazio se ci siete ancora. Con la fine degli esami potrò scrivere di più e pubblicare più spesso. :) E sì, tutti i riferimenti a Jace e a Clary, o a Julian e a Emma, da giovani sono perfettamente voluti. :)
Grazie mille a tutti e buona serata.

Francesca 

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Capitolo 24
*** Capitolo Ventiquattro. ***


Capitolo Ventiquattro
 
George giaceva steso a terra con gli occhi spalancati e il ventre squarciato. Il suo viso era esangue, bianco come quello di un cadavere.
No, pensò Cath in preda al panico. George no.
Boccheggiò e si appoggiò contro al muro, sperando che questo potesse sorreggerla, invece le sue gambe cedettero e si ritrovò per terra. Si trascinò vicino al corpo inerme di George con quelle poche forze che le erano rimaste e lo toccò con una mano tremante, per assicurarsi che fosse reale. La sua pelle era spaventosamente fredda, e i suoi occhi, Dio, i suoi occhi…
No, ti prego, pensò di nuovo disperata, per poi accasciarsi su di lui tra i singhiozzi. Stavano rischiando di soffocarla, non riusciva a respirare. Non George.
Sentiva che nel giro di poco anche il suo cuore avrebbe smesso di battere. Voleva urlare, ma non ci riusciva. Voleva cercare un’arma, ma non riusciva a muoversi, era paralizzata. Si sforzò di muovere un braccio, di alzarsi da terra, ma non c’era niente da fare: il suo corpo non rispondeva. Continuò a piangere, sentendosi schiacciare a terra da una forza invisibile, e quando finalmente riuscì ad urlare, lo fece con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
Spalancò gli occhi e si ritrovò in un letto, in una stanza debolmente illuminata da una lampada a stregaluce. Non riconosceva né l’armadio a due ante, né la scrivania accanto ad esso: quella non era la sua camera a Brooklyn. Qualcuno era seduto accanto a lei e la stava scuotendo delicatamente per un braccio, ma Cath era disorientata, non capiva dove si trovava. George era… George…
«George» riuscì a rantolare con voce roca. Aveva urlato, lo sapeva perché le faceva male la gola, e aveva pianto, perché le sue guance erano incrostate di lacrime.
«Cath». Cath riuscì ad individuare la persona che l’aveva svegliata: era Rose. La prima cosa che riconobbe furono i suoi occhi. «Cath, va tutto bene. Sei a casa».
Casa? Poi capì: si trovava all’Istituto di New York, nella sua nuova camera. Gli Herondale erano stati nient’altro che gentili con lei, eppure Cath non riusciva ancora a vedere quel posto come casa sua. Era normale: dopotutto si era trasferita lì da poco più di una settimana. Anche se, a dir la verità, non vedeva come casa neppure l’appartamento che condivideva con il padre a Brooklyn. La cosa più vicina a una casa che aveva era…
«George… Dov’è George?» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Rose si voltò e guardò Will, che se ne stava sulla soglia della porta con sguardo preoccupato e i capelli tutti schiacciati da un lato. Cath si fece prendere dal panico e si tirò a sedere di scatto, iniziando a piangere istericamente. «Sta bene, vero? Vi prego, ditemi che sta bene».
«Sì, Cath» si affrettò a rassicurarla Will. «Lo saprei se gli fosse successo qualcosa».
Cath si portò una mano sul cuore e l’altra sul viso. Inspirò ed espirò con calma più e più volte, concentrandosi sulla mano che Rose le teneva sulla spalla.
«Lo chiamo» decise Will ad un certo punto, vedendo che Cath era sulla soglia di un attacco di panico.
«No!» urlò lei. Poi abbassò la voce, timorosa di svegliare qualcun altro. «No. Deve dormire. È tardi e ho già disturbato voi, non voglio disturbare anche lui».
«Ma…» iniziò Rose.
«Niente ma» la interruppe Cath, accarezzandole piano i capelli, come se fosse Rose quella che avesse bisogno di essere consolata. «Ho solo avuto un incubo». Rose le passò un fazzoletto e Cath si soffiò il naso. «Adesso… adesso mi rimetto a dormire». Ma sapevano tutti e tre che stava mentendo. Non avrebbe chiuso occhio per il resto della notte. Ormai si stava abituando a quella routine: andava a letto e rimaneva sveglia per ore a fissare il soffitto, poi, quando finalmente la sua mente le dava una tregua, si addormentava e arrivavano gli incubi. Incubi in cui riviveva la morte di sua madre, dove suo padre la picchiava e moriva davanti ai suoi occhi, e poi i peggiori, quelli in cui George era morto e a lei non rimaneva più niente per cui rimanere in vita.
Cath non stava guardando né Rose, né Will, ma notò con la coda dell’occhio che lui si era avvicinato. «Cath…» iniziò un po’ titubante. «Ti sto osservando in questi giorni. Lo vedo che non dormi. Lasciami chiamare…»
«No» lo bloccò lei risoluta. «No, per favore. Tornate a dormire».
«Posso rimanere qui con te» propose Rose. Le si avvicinò e la abbracciò, cosa che Rose non faceva mai. Profumava di menta e di mare, e stava indossando una delle magliette di Will. «Davvero, resto qui con te».
Cath tirò su con il naso. «No». Non seppe neppure lei dove trovò la forza per ridacchiare e fare una battuta. «Devi stare con Will».
Rose si mise a ridere, senza però lasciarla andare e continuando a stringerla a sé. «Penso che Will possa sopravvivere per una notte».
Cath appoggiò la testa sulla sua spalla e Rose iniziò ad accarezzarle la schiena. Rimasero così per parecchi minuti, in silenzio, senza dire niente. Poi Cath sentì il cuore tornare a rimbombarle contro la gabbia toracica come un martello che batte contro al muro.
Non riusciva a respirare. Perché la morte di George era un pensiero che la tormentava giorno e notte. Cath aveva perso tutto, aveva perso ogni cosa, il solo pensiero di perdere anche George non era tollerabile.
Riprese a piangere e Rose se ne accorse. «Va tutto bene, Cath» sussurrò. «Era solo un sogno».
Cath lo sapeva, ma sapeva anche che sarebbe potuto diventare realtà. E se lo fosse diventato, lei che cosa avrebbe fatto? Era così stanca. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere qualcun altro per un secondo, per poter avere la vita di Rose o quella di Will. Solo per un secondo, così da non doversi sentire in quel modo, così da poter respirare anche solo per un istante. 
Non riusciva a gestire tutto quello che provava e le sembrava di essere in cima a un precipizio, con un piede dall’altra parte del baratro. Non capiva come potesse George voler stare ancora con lei: era un disastro, la sua anima era stata distrutta in modo irreparabile, e George si meritava molto meglio di lei.
Romperà con te, disse impietosa la voce che abitava nei luoghi più oscuri e nascosti della sua mente. Sta solo aspettando che tu sia più stabile per chiudere le cose. Solo un matto vorrebbe stare con te, e George non è un matto.
E poi George era lì. Cath lo vide sulla soglia della porta e lasciò andare Rose, tendendo le braccia verso di lui.
Ti prego, fa’ che questo non sia un sogno.
Rose si alzò dal letto e si affrettò a lasciarli soli, chiudendosi la porta alle spalle con un leggero clic. George raggiunse Cath con due falcate. Indossava solo un paio di pantaloni del pigiama e aveva il viso arrossato per il sonno e segnato dalla preoccupazione. Will doveva averlo tirato giù dal letto, pensò Cath sconsolata.
«Catherine» sussurrò lui, prendendola tra le sue braccia e stringendola forte. «Mi dispiace tanto. Sono qui, non vado più da nessuna parte».
Improvvisamente, faceva tutto un po’ meno schifo: il mondo non era più un posto tanto oscuro, non sentiva più la voce nella sua testa sussurrare meschina e riusciva a vedere la luce. George era lì, era vivo. Cath appoggiò la testa sulla sua spalla e si abbandonò contro di lui. George le accarezzò i capelli e le diede un bacio sulla guancia. Tutti paragonavano Will a una giornata di sole e George a una notte tenebrosa, ma nulla poteva essere più lontano dalla realtà per lei. George era il suo sole, ciò che le dava pace quando tutto dentro di lei urlava.
«Non ho chiesto io a Will di venire a chiamarti» riuscì a mormorare Cath contro al suo collo. Riusciva a sentire il suo cuore battere ritmicamente. Alzò il capo e gli prese il viso tra le mani. «Non volevo che ti svegliasse, ma ho sognato…» le tremava la voce. «Ho sognato che morivi e per un istante quando ho aperto gli occhi ho creduto che fosse successo per davvero».
George fece per dire qualcosa poi si bloccò. I suoi occhi scuri brillavano e Cath realizzò che erano bagnati di lacrime. Odiava, odiava che lui stesse male a causa sua. «Mi dispiace tanto» ripeté, riprendendo a piangere più forte. «Mi dispiace, io…».
«Shhh». George le asciugò le lacrime con la mano e la baciò forte sulle labbra, fermando i suoi singhiozzi. «Non mi devi chiedere scusa. Se qualcuno deve scusarsi, quello sono io. Sono un tale idiota, sarei dovuto rimanere con te. Ti prego, dimmi che è la prima volta che succede».
Cath voleva dire di sì. Voleva dire di sì con ogni fibra del suo essere. Era il minimo che potesse fare per lui: dirgli questa piccola bugia.
Prese un respiro profondo e lo guardò negli occhi. «Sì, per favore non preoccuparti» disse. Stava tremando, sentiva ogni osso del proprio corpo tremare. 
Non abbassare lo sguardo, si intimò. Lo sa quando menti. Pensò a qualcosa da aggiungere, a qualcosa che rendesse quella versione più credibile, ma non trovò nulla. Non riusciva a mentire a George, neppure per il suo bene, perché lui era sempre onesto e sincero e non meritava alcun tipo di bugia.
George infatti emise un gemito a metà tra la frustrazione e la disperazione. «Stai mentendo, Catherine».
Cath lo osservò con la bocca leggermente spalancata, incapace di difendersi da quell’accusa, poi abbassò il capo sconfitta.
«Stai mentendo, vero?» le chiese lui con gentilezza, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mettendole due dita sotto al mento per farle alzare lo sguardo.
Cath strinse le labbra e annuì. «Succede quasi tutte le notti. Quando sono da sola è peggio. Se sono con te riesco a riaddormentarmi».
George le rivolse un sorriso triste. «Okay» disse. «Grazie per avermelo detto. Non lascerò più il tuo fianco».
Cath fece per protestare ma non ne ebbe la forza. Si sdraiarono sotto alle coperte e Cath si accovacciò contro di lui, sentendosi finalmente al caldo. Quando si era svegliata, aveva provato un freddo così pungente che le aveva toccato l’anima, ma ora quel freddo era stato spazzato via da George e dal calore del suo corpo. George le diede un bacio tra i capelli e iniziò ad accarezzarle la schiena per farla addormentare. «Voglio che tu sappia» sussurrò a un certo punto. «Che se io morissi, non saresti sola. Ci sarebbero Will e Rose, Lizzie, i miei genitori e un sacco di altre persone a volerti bene».
Cath lo sapeva, lo sapeva e li amava anche lei, ma amava George così tanto che il pensiero che non ci fosse più la faceva sentire come se avesse una lastra di ghiaccio piantata nel cuore. «Lo so» disse. «Ma non voglio vivere in un mondo senza di te, perché quando pensavo che non ci fosse niente di buono nell’universo, sei arrivato tu e mi hai ridato speranza».
Cath lo sentì annuire e seppe che aveva capito. Non doveva dire niente, non voleva che dicesse alcunché, perché Cath già sapeva che lui la amava e che, nonostante tutto quello che le era capitato, era una persona fortunata, perché era amata da un ragazzo buono e gentile come George.
«Ora prova a dormire, Cath».
Cath chiuse gli occhi e trovò quel secondo di pace che aveva tanto desiderato prima che lui arrivasse.
 
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George rimase sveglio tutta la notte, accarezzando Cath sulla schiena per farla dormire. A volte lei si svegliava e lui le dava un bacio sul capo per tranquillizzarla. Verso mattina, però, il sonno ebbe la meglio su di lui e George si addormentò senza rendersene conto. Gli parve di aver chiuso gli occhi solo per qualche secondo, ma quando li riaprì la stanza era meno buia e alcuni raggi di luce si intrufolavano da sotto le tende, segno che il sole era già alto nel cielo.
Cath era sdraiata su un lato e lo stava osservando in silenzio; i suoi grandi occhi erano chiari, trasparenti, anche nella semioscurità.
George fece per dire qualcosa, ma lei gli mise una mano sulla spalla, poi sulla guancia. «Shh, dovresti dormire ancora un po’».
Ma George non aveva bisogno di dormire. Si sentiva stanco, come se le sue ossa fossero fatte di piombo, ma non era quel tipo di stanchezza curabile con il sonno. Le prese la mano e le posò un bacio sul polso. «Non preoccuparti. Sto bene» disse, parlando contro alla sua pelle. «Tu come ti senti oggi?»
Cath lo guardò fisso negli occhi e gli sorrise debolmente. «Meglio. Sul serio. Grazie per essere venuto qui».
Non sembrava che stesse mentendo, e George le credeva. Fece per dirle che la amava con ogni cellula del suo corpo e che non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle del male finché fosse stato in vita, ma un fiotto di luce si riversò nella stanza, come se qualcuno avesse acceso la luce.
Sia George che Cath proruppero in un’esclamazione sorpresa e si coprirono gli occhi con la mano per proteggerli dalla luce. George, che stava dal lato del letto più vicino alla porta, voltò il capo per capire chi diavolo avesse fatto irruzione senza bussare, e la risposta stava proprio lì in piedi davanti a lui: Elizabeth Herondale in carne ed ossa, con i capelli sciolti ai lati del viso come due cascate dorate.
«Ma che cavolo…» iniziò George.
«Oh Cath!» esclamò Lizzie con un’espressione triste in volto. Poi salì sul letto, scavalcò George come se non esistesse, e si inginocchiò vicino a Cath, che nel frattempo si era messa a sedere; la abbracciò forte, sull’orlo delle lacrime. «Will mi ha detto quello che è successo».
Cath le diede qualche pacca sulla schiena, come se stesse cercando di consolarla, come se fosse Elizabeth quella che aveva bisogno di conforto. George scosse il capo perché Cath era fatta così, era nella sua natura prendersi cura degli altri, anche quando questi stavano cercando di prendersi cura di lei.
«Sto bene, Liz» sussurrò Cath contro la sua spalla.
«Potevi almeno bussare…» borbottò George.
«No. Non è vero» replicò Lizzie seria, ignorando George e allontanandosi quel poco che bastava per guardare Cath dritto negli occhi. «La prossima volta chiama me! Puoi dormire con me, non svegliare Will e Rose».
«Non ho svegliato…»
«Fa niente! Non ce ne sarà più bisogno. Stanotte sto qua io con te». Lizzie lanciò un’occhiata a George e al suo petto nudo e alzò un sopracciglio. «Certo, se preferisci George…»
Cath le sorrise. «Chiamerò entrambi la prossima volta».
George e Lizzie fecero una smorfia disgustata. «Ew!»
Cath li guardò e sbatté le palpebre, non capendo il motivo della loro reazione.
«Sì, certo» disse George, alzandosi sui gomiti e guardandola con un ghigno divertito. «Così poi Will ci uccide. Uccide sia me, che te, per aver violato la virtù di sua sorella».
Lizzie stava facendo finta di vomitare e Cath parve capire. «Oh» si mise a ridere. George provò un’ondata di sollievo nel sentirla ridere con tale spontaneità. «Non intendevo quello, intendevo che potete fare un po’ per uno, separatamente. Prometto che se starò male di nuovo lo dirò ad entrambi, questo intendevo».
«Non metto in dubbio che lo dirai a George» disse Lizzie. «Però prometti che lo dirai anche a me».
Cath le prese le mani e le strinse forte tra sue. «Lo giuro sull’Angelo, ma chère».
«Bene». Elizabeth la abbracciò di nuovo e le diede un bacio sulla guancia. «Allora vai a prepararti, è mezzogiorno ed è pronto da mangiare». La lasciò andare e iniziò ad avviarsi verso la porta. «Anche tu sei invitato, George. Will e Rose sono a Los Angeles, però…» Lizzie sospirò. «Sono così innamorati da dare quasi fastidio. Se dovessi diventare come mio fratello, tiratemi qualcosa in testa».
«Diceva così anche Rose». George le sorrise. «E guarda che fine ha fatto».
«Dicevi così anche tu, probabilmente» fece invece Cath, picchiettandogli piano con il dito sul braccio.
«Sono ai livelli di Will?» chiese lui, sinceramente preoccupato. Non lo era. Almeno non in pubblico, ne era sicuro.
Cath alzò le spalle, e George si rivolse a Elizabeth speranzoso.
«Be’...» iniziò lei. Poi sembrò pensarci e cambiò idea. «No. Nessuno è peggio di Will con Rose».
«George è tanto dolce invece». Cath gli si avvicinò e lo abbracciò, posando la testa sulla sua spalla.
«George?» chiese Lizzie scettica, incrociando le braccia al petto. «Davvero. George?»
George la guardò male. «Cosa intendi, scusa?»
«Be’, non mi sembri il tipico ragazzo dolce e romantico».
George sentì il sangue confluire alle guance. «Non lo sono, infatti. Decisamente, non lo sono».
«Lo sei invece» ripeté Cath. «Tanto».
«Okay, basta così! Ho sentito abbastanza e mi sta venendo la carie» decretò Elizabeth, mettendo la mano sulla maniglia della porta. «Muovetevi o si raffredda il pranzo, e io non vi aspetto». Elizabeth uscì dalla porta e se la sbatté alle spalle. «Perché sto morendo di fame!»
 
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Rose attraversò il portale e si ritrovò nel corridoio dell’Istituto di Los Angeles, di fronte alla propria camera. Dalle finestre entrava la luce del sole, che splendeva alto nel cielo. Rose chiuse gli occhi e si beò del suo calore: ogni volta che passava qualche giorno nella cupa New York sentiva la mancanza del clima mite di Los Angeles, del sole, della sua amata spiaggia, ma soprattutto del mare. Non ce la faceva più a rimanere chiusa in casa; avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare a correre sulla spiaggia come era sua abitudine fare ogni mattina. Si sentiva un topo in trappola.
Will si materializzò al suo fianco, dopo essere passato attraverso il portale, che si chiuse alle sue spalle. Rose amava molte cose di Will, se non tutto, ma adorava la sua capacità di creare portali. Era un dono che lo rendeva ancora più speciale.
Quella mattina Will era strano, distante quasi, perso tra i suoi pensieri. Rose lo aveva notato. Non era molto brava a leggere le persone, ma era molto brava a leggere Will. Per lei lui era come un libro aperto, ed era evidente che quanto successo la notte appena passata lo avesse scosso.
Quando si era svegliata, Rose lo aveva trovato sdraiato a pancia in giù addosso a sé, con le braccia attorno alla propria vita e il capo premuto contro al collo. Solitamente era lei che si addormentava addosso a lui. Sorpresa, aveva iniziato ad accarezzargli gentilmente i capelli, cercando di non svegliarlo. E Will aveva continuato a dormire tranquillo, abbandonato contro di lei. Rose sperava che stesse sognando qualcosa di bello. I suoi capelli erano morbidi, dello stesso colore del sole, e Rose avrebbe passato il resto della sua vita in quel modo ad accarezzarglieli mentre lui dormiva. Perché c’era qualcosa di meraviglioso nel vedere qualcuno dormire tra le tue braccia in modo così pacifico, pieno di fiducia, come se si sentisse completamente al sicuro.
«Cerchiamo i miei genitori» disse. Dopo aver visto Cath in quelle condizioni solo qualche ora addietro, Rose sentiva il bisogno di vedere i suoi genitori. Aveva sempre dato per scontato l’amore che loro le avevano dato, ma solo in quel momento si era resa conto che non lo era. Era un privilegio.
Will non la stava ascoltando. Stava fissando il pavimento, i capelli che gli ricadevano sulla fronte in ciocche dorate. Catturavano i raggi del sole e sembravano risplendere di luce propria, creando un brillante contrasto con i vestiti scuri che stava indossando quel giorno.
«Will». Rose gli tirò la manica della maglietta per attirare la sua attenzione. «Stai bene? Quello che è successo con Cath stanotte… ha scosso anche me».
Will sbatté le palpebre e riportò lo sguardo su di lei. Era come se la stesse guardando senza riuscire a metterla a fuoco. «Sapevo che la situazione non era delle migliori. Ma non pensavo fosse così grave. Non pensavo che Cath stesse tanto male. Non lo sapevo. Non sapevo che George stesse affrontando qualcosa di così grande. Io…»
«Vorresti poter fare qualcosa» concluse la frase per lui Rose. Will annuì e Rose sorrise triste. «Lo so. Anche io».
Will si rabbuiò nuovamente e deglutì. Rose aggrottò le sopracciglia. «Will…»
«Voglio che tu sappia» disse lui, con urgenza, prendendole le mani tra le sue. «Che io farei lo stesso per te. Quando ho visto in che condizioni era Cath mi sono chiesto come mi comporterei se fossi nei panni di George. Avrei la sua stessa forza? E la risposta è sì, Rose. Certo che è sì. Voglio solo che tu sia felice perché ti amo così tanto. E non sopporto neppure l’idea che tu possa stare così male».
«Will, io sto bene».
«Lo so» si affrettò a rispondere lui. «Dio, lo so. E ciò che sto dicendo è stupido, ma mi sono reso conto che non lo sopporterei, se tu stessi così. Ricordo quando stavi male per Logan e ti giuro che se lo avessi tra le mani lo farei a pezzi. Perché meriti il meglio e io voglio dartelo».
Rose gli si avvicinò e lo baciò, spingendolo piano contro al muro, così che avesse la schiena premuta contro di esso. Will la strinse a sé e la baciò più intensamente. Rose glielo lasciò fare, passandogli una mano tra i capelli e baciandolo come se da ciò ne dipendesse la propria vita. Spesso pensava di non meritare Will, che nessuno lo meritasse. «Tu sei così…» iniziò, senza riuscire a concludere la frase. Non riusciva a trovare le parole per esprimere il profondo bene che gli voleva. Era il suo migliore amico e il suo amore più grande.
«Oh, eccovi qui!»
Rose e Will si separarono, controvoglia, e trovarono Emma che si avvicinava con un sorrisone stampato sul viso. Aveva i capelli raccolti in una lunga treccia e portava un paio di jeans e una camicia azzurro chiaro. «Mi dispiace interrompervi. Però sono contenta di vedervi. Will, ti fermi a pranzo, vero?»
Rose la guardò per qualche istante, sbattendo le palpebre e rendendosi conto che aveva gli occhi pieni di lacrime. Spinta da un istinto irrazionale, mosse un passo verso di lei e la abbracciò.
Emma trattenne il respiro, chiaramente non si era aspettata una tale reazione da parte di Rose, che cercava sempre di evitare il contatto fisico. Quando si riprese, ricambiò l’abbraccio, dandole delle leggere pacche sulla schiena. Rose appoggiò la testa sulla sua spalle e sussurrò: «Ti voglio bene, mamma».
«Oh» fece lei, dandole un bacio sulla guancia. «Anche io, bambina mia». Poi si allontanò e le prese il viso tra le mani, chiaramente preoccupata. «Va tutto bene? È successo qualcosa?»
Rose fece per rispondere, ma vide suo padre uscire dal suo studio e dirigersi verso di loro. Rose si liberò dalla presa di sua madre e gli corse incontro. Julian la vide arrivare e aggrottò la fronte. «Rose, stai bene?»
Rose ignorò la domanda e gli gettò le braccia al collo. Julian la prese al volo e la strinse forte. «Rose…»
«Sto bene» disse lei, il viso premuto contro al suo collo. Non capiva cosa le stesse succedendo: la sua voce tremava e le veniva da piangere. «Ti voglio bene, papà».
«Lo so, tesoro» le rispose lui, accarezzandole piano i capelli. A Rose venne ancora più da piangere. «Anche io ti voglio bene». Non la lasciò andare e il suo tocco gentile e familiare riuscì pian piano a tranquillizzarla. Il suo cuore tornò a battere regolarmente e le sue labbra smisero di tremare.
Quando Rose sentì di essere tornata padrona delle proprie emozioni si allontanò da suo padre e si asciugò le guance bagnate di lacrime.
I suoi genitori si scambiarono uno sguardo preoccupato e poi guardarono Will, come se lui avesse le risposte a tutte le loro domande.
«È per caso un tentativo per farmi dimenticare che sei stata a New York per due giorni senza avvisarci?» chiese suo padre inclinando il capo di lato.
Rose si mise a ridere piano. «No». Poi sospirò. «E lo sai che se non sono qui, sono a New York».
«La prossima volta almeno mandaci un messaggio» disse sua madre. «Ma sembri scossa. Si può sapere che succede. Will…»
«È Cath» rispose Will piano. «Non sta bene. Le sono successe troppe cose in troppo poco tempo».
Raccontarono brevemente quanto accaduto quella notte. Julian ed Emma sapevano che Jace era stato ferito, ma chiaramente non potevano sapere di Cath. 
«Povera Cath» disse Julian, abbassando il capo.
«Per fortuna c’è George» disse Emma. «La ama tanto. E essere amati in quel modo fa tutta la differenza. Fa la differenza tra la pazzia e la guarigione».
Rose sperava che sua madre avesse ragione. Will era taciturno e Rose gli prese la mano.
In quel momento arrivò Holly. Non degnò né Rose, né Will, di uno sguardo e continuò a camminare impettita lungo il corridoio, chiaramente diretta verso le scale che portavano all’ingresso. Aveva il suo orsetto sottobraccio e un cappello rosa con i brillantini sul capo. Indossava dei pantaloni elasticizzati con gli unicorni e un giubbetto di jeans blu scuro.
«Holly» disse Julian, voltandosi per guardarla mentre si allontanava. La sua voce era diventata fredda come una lastra di ghiaccio mentre parlava lentamente, scandendo ogni parola. «Dove credi di andare?»
Holly si bloccò, la schiena dritta e la testa alta, poi si voltò e li fissò tutti con aria di sfida.
«Fuori» rispose.
Emma emise un verso strano e si portò una mano all’anello dei Blackthorn che portava al collo.
Rose sentì Will irrigidirsi al suo fianco.
«Tu non vai da nessuna parte» disse Julian, ricambiando il suo sguardo con altrettanta convinzione. «Se non nella tua camera».
«Ma io sono stanca!» esclamò lei, le lacrime agli occhi. «Mi annoio! Non ce la faccio più. E Adrian e il suo amico mi hanno detto che hanno visto un unicorno in spiaggia. Un unicorno, capite? Non posso lasciarmelo scappare, non posso!»
Emma le si avvicinò, aveva un’espressione angosciata in viso. Le si inginocchiò di fronte così che i loro occhi fossero alla stessa altezza. «Senti, Holly. Te l’ho detto, gli unicorni non vivono qui. Stanno nascosti. È davvero molto improbabile che Adrian ne abbia visto uno. Probabilmente non stava dicendo la verità».
A Holly iniziò a tremare il labbro inferiore. «Perché?»
«Perché lo sai come sono i ragazzi…» Emma alzò le spalle. «Sono stupidi. E si divertono così».
«Okay. Ma io voglio uscire comunque».
«Perché non vieni con me e Will a giocare, invece?» propose Rose con un sorriso. Ma sua sorella le fece una linguaccia. «No! Sei andata via senza dirmelo. Io ti ho fatto un disegno e tu non c’eri e non sapevo quando saresti tornata. Avevo paura che non tornassi più».
«Holly… tornerò sempre, lo sai. Non ti lascio sola con mamma e papà». Rose le fece un occhiolino e Holly le sorrise. «Allora esci con me! Magari con te mi fanno uscire».
Julian emise un verso esasperato e si passò una mano sul viso. «Non è sicuro, Holly. Ne abbiamo già parlato. Per favore».
Holly diventò tutta rossa come se stesse trattenendo il respiro, poi sbatté un piede per terra. «Ti odio! Vi odio!» urlò, per poi scappare via nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
Emma si alzò e guardò il punto in cui era scomparsa con occhi grandi. Julian le si avvicinò e le prese la mano.
«Andrà tutto bene, Em» sussurrò piano.
Emma annuì e poi guardò Rose e Will. «Vi fermate qui per un po', quindi?»
Rose scambiò uno sguardo con Will e lui annuì.
«Certo, mamma».
Sua madre parve sollevata. «Allora andiamo di là, abbiamo ancora molte cose di cui parlare».
 
«Il Console Gladstone ha detto che stanno lavorando a una strategia per attirare i Riders allo scoperto e coglierli di sorpresa».
Emma fece una smorfia. «Certo, come se i Riders di Mannan fossero tanto stupidi».
Si erano sistemati nella stanza della televisione, Rose e Will sul divano, Emma sulla poltrona e Julian seduto accanto a lei sul bracciolo.
«È assurdo» decise Rose. «Dovrebbero permetterci di uscire. Se io e papà uscissimo, arriverebbero subito. E poi Will potrebbe aprire un portale e far arrivare i rinforzi. È logico».
«No, non lo permetterei» disse sua madre con convinzione scuotendo il capo.
«E non lo permetterebbe neppure il Concilio. Gli Shadowhunters non usano altri Shadowhunters come esca. Ho mosso anche io questa proposta, ovviamente lasciando te fuori, Rose, ma è stata rifiutata».
Rose rivolse a suo padre un’espressione oltremodo offesa. «Ho diciotto anni! Sono un’adulta!»
Rose guardò Will come in cerca di supporto e lui alzò le spalle. Sembrava rassegnato. «Benvenuta nel club degli adulti non così adulti».
«In ogni caso, presto sarà tutto finito. E tu e Holly non dovrete più restare chiuse in casa». Emma si passò le mani sui jeans. Era evidente che anche lei stesse soffrendo per quella reclusione forzata; adorava la spiaggia e il sole, stare troppo in casa non le faceva bene.
«Avete fatto colazione?» chiese Julian guardando l’orologio e cambiando discorso. «È ormai ora di pranzo a New York».
«Sì, abbiamo mangiato qualcosa prima di venire qui» disse Rose. «Will non si voleva alzare».
Sentì Will trattenere il fiato e squittire al suo fianco. Rose lo guardò e lui le rivolse un’occhiataccia, i suoi occhi verdi sprizzavano scintille. Emma si mise a ridacchiare, mentre Julian aggrottò la fronte.
Rose non capiva che cosa avesse detto di strano. «Che c’è?» sbottò, spostando lo sguardo da Will a suo padre. Julian alzò le spalle, Will arrossì. «Niente» disse, fissando il tappeto imbarazzato.
Rose capì e alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma dai! Lo sanno che dormiamo insieme. Papà!»
«Io?» fece Julian spalancando gli occhi. «Ha fatto tutto Will. Io approvo la relazione».
«Mamma!» esclamò allora Rose.
«Come se fosse una tua decisione» disse Emma, guardando male Julian. Poi tornò a rivolgersi a Rose: «Lasciali fare».
«Io non ho fatto niente» ripeté Julian con convinzione.
Will rimase in silenzio e Rose gli tirò una leggera spinta. Aveva reso tutto imbarazzante quando altrimenti non lo sarebbe stato.
«Ti preoccupi troppo, Will» decise Emma, senza rendersi conto che così facendo lo stava mettendo ancora più a disagio. «Non ti preoccupare. Io e Julian…»
«No!» urlarono sia Rose che suo padre.
«Non lo vogliamo sapere» disse Rose, tappandosi le orecchie.
«No, non vogliono» concordò lui. Rose notò che era arrossito, non lo aveva mai visto arrossire. Ora era curiosa di sapere quale fosse la storia che sua madre voleva così tanto raccontare, ma non osò chiedere. Sapeva, in realtà, di non volerlo sapere.
Sua madre fece una smorfia. «Non era niente di scandaloso!»
Rose guardò Will. «Non ti lamentare mai più dei tuoi genitori, o di tuo padre. Hai visto come sono i miei? Sono tutti uguali, tutti ugualmente imbarazzanti».
Will si mise a ridere.
In quel momento George e Cath comparvero sulla soglia della porta. George, con il suo metro e novantacinque e i suoi vestiti neri, torreggiava su Cath, che stava al suo fianco i capelli biondi che le incorniciavano il viso. Sembravano il giorno e la notte.
«State parlando di genitori imbarazzanti?» chiese George. «Mi dispiace, ma i miei vincono il primo premio. Io e Cath facciamo un gioco la mattina che si chiama: indovina quale tra i genitori di George entrerà senza bussare». Si chinò a dare un bacio a Emma sulla guancia e poi strinse la mano a Julian, in quel modo strano che usavano i ragazzi per salutarsi. «Ci ha aperto un portale Clary, se ve lo steste chiedendo».
«I tuoi genitori sono fantastici» disse Rose.
Emma sembrava offesa. «L’hai sentita, Jules?»
Julian la guardò come se l’avesse colpito alle spalle. «Et tu, Brute?»
Rose rivolse loro un sorriso angelico. Lo sapevano che stava scherzando.
Dopo che anche Cath ebbe salutato i genitori di Rose, Will le fece cenno di avvicinarsi e lei si sedette vicino a lui sul divano. Senza dire niente, Will la abbracciò. Cath sembrava stare bene quel giorno, e nessuno la trattò in modo diverso dal normale, perché lei non avrebbe voluto, ma Rose non avrebbe mai dimenticato la sua espressione quella notte, e neppure le sue parole disperate.
George si lasciò cadere di fianco a Rose e le diede una piccola spinta con la spalla. Rose ricambiò la spinta.
«Tutto bene, Blackthorn?» sussurrò lui.
«Sì, tu?»
George si limitò ad annuire e a distogliere lo sguardo. Rose percepiva il suo stato d’animo: era turbato per quanto accaduto con Cath, preoccupato per Will e anche per lei. George voleva sempre prendersi cura di tutti.
«Vado a fare pace con Holly» decise Julian, alzandosi dal bracciolo della poltrona.
Emma gli rivolse uno sguardo preoccupato. «Vengo anche io?»
«Se andiamo in due si sentirà in minoranza. Meglio approcciarla uno per volta».
Emma annuì e Julian se ne andò.
«Che succede con la piccola peste?» chiese George.
Rose lo guardò male, mentre Emma non si scompose di una virgola davanti a quel nomignolo. «Vuole uscire, è stanca di restare chiusa in casa. Le abbiamo detto che è pericoloso, ma non ci crede. È convinta che siamo dei mostri senza cuore».
Rose si aspettava che George rispondesse che avrebbero dovuto dirle tutta la verità sin dall’inizio -George era quel tipo di adolescente che non si faceva problemi a fare la morale a persone con il doppio dei suoi anni- invece lui sorrise triste. «Classico. Basta distrarla un po’. Può allenarsi con noi pomeriggio».
«È arrabbiata anche con me e Rose» disse Will.
«Già, perché sono stata a New York qualche giorno senza dirglielo».
«Può tirare di spada con me, spada di legno ovviamente» si affrettò ad aggiungere George. «Ouch, me le darà di santa ragione se è arrabbiata, ma posso immolarmi per la causa».
«Emma». La voce di Julian arrivò dal corridoio, tesa. «Emma!»
Lo sguardo di Rose andò in automatico su sua madre. Ma Emma si era già alzata dalla poltrona, diretta verso il corridoio. Rose la seguì di corsa, gli altri dietro di lei.
Julian stava sulla soglia della stanza di Holly, la mano stretta attorno alla maniglia della porta così forte che le sue nocche erano diventate bianche.
Emma gli si avvicinò piano e gli mise una mano sulla spalla. Poi guardò nella cameretta e sbiancò.
«Cosa?» fece Rose, preoccupata. Sentiva il sangue rimbombarle nelle orecchie. «Cosa c’è?»
Sbirciò nella camera da dietro i suoi genitori e si sentì mancare. Era vuota, la finestra era aperta, e Holly non c’era.

Nei ricordi di Rose, suo padre era sempre calmo e aveva sempre tutto sotto controllo. Sua madre le aveva raccontato che quando aveva soli dodici anni aveva non solo cresciuto i suoi fratelli più piccoli, ma aveva anche gestito l’Istituto di Los Angeles. Da solo, quando era solo un ragazzino. Julian Blackthorn non si faceva toccare da niente e da nessuno, perché per lui non c’erano problemi, c’erano solo soluzioni. Rose non si era mai fermata a riflettere su quello che dovesse nascondersi sotto la superficie. Ora lo sapeva: suo padre sembrava distrutto, come se fosse sul punto di vomitare sangue. E Rose non poteva biasimarlo, perché si sentiva esattamente allo stesso modo.
«Andrà tutto bene» la voce di sua madre la riportò alla realtà. «Julian, mi hai sentito? La vado a prendere».
Suo padre sbatté le palpebre e parve riprendersi leggermente. Non disse niente, non guardò in faccia nessuno, si limitò a seguirla lungo il corridoio. Anche Rose e gli altri fecero lo stesso. Rose sentiva Will parlare al suo fianco mentre scendevano le scale che portavano all’ingresso.
«Come ha fatto a scappare?» stava chiedendo. «Siamo sicuri che non si sia solo nascosta nell’Istituto?»
«Possiamo cercarla io e Cath qui» propose George. «Mentre voi controllate fuori».
Will aveva ragione: magari Holly si era solo nascosta. Nell’attico, nella palestra, o nello studio di loro padre, in giardino… da qualche parte. Non poteva essere uscita. Il cervello di Rose non riusciva a processare quell’informazione; si sentiva come se stesse osservando la scena dall’esterno, come se non fosse più nel suo corpo. Non stava succedendo davvero.
Emma scosse il capo. «Sapete com’è Holly. Quando si mette in mente qualcosa…»
Si era fermata davanti alle grandi porte di legno dell’ingresso e si stava rigirando tra le mani l’orsetto di Holly. Prese lo stilo e si disegnò una runa sulla mano, poi strinse forte il peluche.
«Non è qui, sembra che sia sulla spiaggia. Vedo il mare. Devo solo capire dove si trova».
Rose emise un verso strozzato e Will le prese la mano e gliela strinse così forte da farle quasi male.
Rose aveva sperato che Holly si fosse nascosta, che fosse ancora in casa. Stupido da parte sua, conosceva sua sorella troppo bene.
Rose aveva pregato i suoi genitori per anni di darle un fratellino o una sorellina e, quando finalmente le avevano detto che stava arrivando, Rose, che anche da bambina faceva fatica ad esprimere le proprie emozioni, si era messa a urlare per la gioia. Ricordava ancora quando Holly era nata e suo padre gliel’aveva messa in braccio per la prima volta; era così piccola che Rose aveva avuto paura di farle male. Le aveva dato un bacino sul naso e lei aveva continuato a dormire tranquilla tra le sue braccia, come se già la conoscesse e si fidasse di lei.
La sua sorellina Holly, che nascondeva sempre il cioccolato sotto al letto, che quando aveva gli incubi andava a dormire con lei, che amava il rosa e che era ossessionata dagli unicorni.
Rose sentì un’ondata di rabbia attraversarla dalla testa ai piedi, come se fosse appena stata colpita da un fulmine. Non avrebbero fatto del male a sua sorella, non lo avrebbe permesso; sarebbero dovuti passare sopra al suo cadavere prima.
Julian si era appoggiato al muro, come se non riuscisse a rimanere in piedi.
«Em» disse, la voce ridotta a un sussurro. «Non ce la faccio, non un’altra volta, non dopo Tavvy, non dopo Livvy…»
Emma afferrò la cintura delle armi che veniva lasciata sempre accanto alla porta e se la allacciò in vita, poi lo raggiunse con due falcate e lo prese per le spalle. «Andrà tutto bene, Holly sta bene, non le succederà niente». Poi si rivolse a Rose. «Andate ad armarvi. Tenuta da combattimento e quante più armi riuscite a racimolare. Poi usate questo per rintracciare me». Si tolse l’anello dei Blackthorn dal collo e lo mise in mano a Julian. «Holly è in spiaggia, non molto lontano da qui. Will, puoi aprirmi un portale?»
Will annuì. Prese il suo stilo e iniziò a disegnare contro al muro.
«Non indossi nemmeno la tenuta da combattimento» disse Julian.
Emma si infilò una giacca nera e la allacciò. «Non c’è tempo».
«Mamma…» iniziò Rose, senza sapere come continuare. Non voleva lasciarla andare, voleva andare con lei, senza armi o tenuta, solo con Cortana con sé.
Sua madre fece un passo verso di lei. «Va’ a prendere le tue armi, Rose». La guardò fisso negli occhi e per la prima volta in vita sua Rose si sentì l’adulta che sosteneva sempre di essere. «E preparati a spargere del sangue perché ti giuro, ti giuro sull’Angelo, che nessuno dei Riders di Mannan sopravvivrà abbastanza da veder sorgere il sole domani mattina».
Rose resse il suo sguardo e annuì: era una promessa.
 
NOTE DELL'AUTRICE
Buonasera a tutti! 
Ecco qua il nuovo capitolo. Ho una bella notizia e una brutta (forse?) notizia. Quella bella è che domani posto un altro capitolo, mentre quella brutta è che manca solo un capitolo più l'epilogo. :(
Mi sembra incredibile essere arrivata fin qui, ma rimandiamo le lacrime per la fine ufficiale. 
Grazie mille se state leggendo ancora, spero che vi piaccia!
A domani!

Francesca 
 

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Capitolo 25
*** Capitolo Venticinque. ***


Capitolo Venticinque

Holly si era seduta sulla spiaggia, abbastanza lontana dal mare per non bagnarsi le scarpe e i pantaloni, ma non abbastanza da non sentire il rumore delle onde che si infrangevano sulla riva. Quelli erano i suoi pantaloni preferiti, non voleva rovinarli, ma voleva comunque stare vicino al mare. Adorava l’oceano e avrebbe voluto che sua madre non ne fosse tanto spaventata, così che non si preoccupasse ogni volta che suo padre e Rose la portavano a giocare tra le onde.
Alcune gocce d’acqua salata le bagnarono il viso e Holly si dimenticò per un istante di essere arrabbiata con i suoi genitori, soprattutto con suo padre. Holly non era stupida. Aveva otto anni, ma non era stupida. Sapeva che i demoni non potevano uscire allo scoperto durante il giorno, così come i vampiri: la luce del sole era letale per loro. E quella mattina di novembre il sole splendeva candidamente nel cielo. Perciò era chiaro per lei che suo padre fosse ancora arrabbiato per tutti i cioccolatini che qualche giorno addietro aveva trovato nell’armadio. Holly aveva commesso l’errore di raccontargli il suo incubo in cui un demone glieli mangiava tutti e lui era andato a controllare che non avesse davvero nascosto dei cioccolatini in camera. Ovviamente lo aveva fatto, e ovviamente lui si era arrabbiato. Quella era la sua punizione, nonostante né lui né la mamma lo ammettessero. Continuavano a ripetere che non era sicuro uscire. Ma era giorno, e Holly sapeva che di giorno l’unica cosa della quale si doveva preoccupare erano le macchine che sfrecciavano lungo la Pacific Highway quando attraversava la strada per raggiungere la spiaggia.
Aveva preso il suo blocco da disegno e si era messa a disegnare un unicorno, dal momento che non ne aveva trovato nessuno. Magari Adrian ne aveva davvero visto uno, ma Holly iniziava a dubitarne: non c’erano neppure le impronte.
La spiaggia di Santa Monica era enorme, si estendeva per chilometri sia alla sua destra che alla sua sinistra, dove terminava con il molo e il Luna Park. Non c’erano molti mondani, solo qualche coppia di anziani che passeggiava in riva al mare e qualche surfista che cavalcava le onde. Holly desiderava tanto imparare a surfare, ma né Rose né suo padre ne erano capaci -Rose odiava i surfisti- e figurarsi sua madre. Fosse dipeso da lei nessuna delle sue figlie si sarebbe potuta avvicinare al mare… forse neanche Julian.
Holly guardò il suo disegno e sbuffò. Il corno le era uscito male e non aveva portato una gomma con sé. Non voleva ritornare a casa. Ormai i suoi genitori dovevano essersi accorti che era scappata e Holly non era pronta per affrontare sua mamma arrabbiata. Era abituata con suo papà, lui si arrabbiava spesso con lei, però gli passava subito e poi la portava a disegnare nel suo studio per fare pace. Quando invece sua mamma si arrabbiava era orribile, perché era Holly quella che doveva chiedere scusa.
Proprio in quel momento, poco lontano da dove si era seduta Holly, si aprì un portale, un rettangolo di luce verde, azzurra e bianca dal quale emerse proprio sua mamma in carne ed ossa.
Emma si guardò attorno e quando la vide spalancò gli occhi, come se non si aspettasse di trovarla lì.
«Holly!» sibilò. Era furiosa, Holly lo percepiva da come aveva pronunciato il suo nome. Ma anche Holly era arrabbiata, non gliel’avrebbe data vinta così facilmente.
Si alzò di scatto e iniziò a correre, sapendo che sua madre l’avrebbe raggiunta in pochi secondi. E infatti Holly non fece in tempo ad allontanarsi di qualche metro che se la ritrovò davanti, i capelli dello stesso colore dei suoi. Emma la prese per un braccio e iniziò a trascinarla verso la strada. «Dobbiamo tornare a casa. Subito».  
«No no e no!» urlò Holly, spingendola via e liberandosi dalla sua presa. «No!»
Emma la riacciuffò e Holly puntò i piedi nella sabbia. Non si sarebbe spostata di un centimetro, era una questione di principio: era stanca di stare in Istituto, non ne poteva più e non era giusto che la tenessero rinchiusa come una prigioniera. Non era vero che non era sicuro stare fuori, non era vero e basta.
«Okay, d’accordo». Sua mamma aveva perso la pazienza. La sollevò di peso e se la mise in spalla, mentre lei si divincolava e urlava.
«Shhht, Holly!» le intimò Emma, ma non ci fu verso di calmarla. Holly iniziò a tirarle i capelli, così Emma fu costretta a rimetterla per terra. Poi si inginocchiò davanti a lei, tenendola ferma per le braccia. «Holly, per favore, guardami».
«No!» urlò lei, distogliendo lo sguardo. Qualcosa però nella voce di sua mamma la fece calmare: era paura. Holly aveva gli occhi bagnati per la frustrazione, però si calmò. Tirò su con il naso e la guardò. «Non essere arrabbiata» le disse. «Sono stanca di stare a casa, non è giusto!»
«Holly» ripeté lei, questa volta il suo viso era aperto e completamente terrorizzato.
«Che c’è?» Holly iniziò a piangere sul serio, perché qualcosa non andava. Si guardò attorno ma non vide niente di strano, a parte qualche mondano che rivolgeva loro un’espressione preoccupata prima di scuotere il capo e allontanarsi.
«Ci sono persone che vogliono farci del male» spiegò Emma. «Ti sto dicendo la verità. Dobbiamo tornare a casa».
Holly non capiva, però permise a sua mamma di prenderla per mano, e insieme iniziarono a risalire la spiaggia.
«Chi?» le chiese Holly, inciampando di tanto in tanto mentre cercava di mantenere la sua andatura.
Emma fece per risponderle ma si bloccò. Holly le finì addosso.
Non erano neppure a metà strada verso il lungomare che dei Cavalieri dalla pelle bronzea bloccarono loro la strada. Holly trattenne il fiato. Sembravano appartenenti al popolo fatato, ma Holly non ne era sicura: erano alti, possenti e con il viso coperto per metà da una maschera metallica. Avrebbe voluto disegnarli, se solo non le avessero fatto così paura. In realtà avrebbe voluto accarezzare i cavalli alati che stavano cavalcando, non ne aveva mai visto uno ed erano bellissimi.
«Stammi vicino, Holly». Holly non riusciva a vedere il viso di sua mamma perché lei l’aveva spinta dietro di sé, ma percepiva la sua tensione.
«Emma Carstairs» disse uno dei cavalieri, una donna con dei lunghi capelli rosso scuro. Smontò dal suo cavallo e si avvicinò. Se prima era spaventosa, ora lo era ancora di più. Holly nascose il viso contro la schiena di sua mamma e le allacciò le braccia attorno alla vita. La sentì estrarre la spada e desiderò che arrivasse Will con un portale per portarle via.
«State indietro» disse Emma. La sua voce era ferma, anche se Holly la sentiva tremare leggermente contro di sé. Vide che anche gli altri cavalieri avevano imitato la donna ed erano scesi dai loro destrieri.
«L’altra tua figlia ci è scappata ben due volte, ma lei sa come difendersi, questo te lo devo riconoscere. Stupido da parte tua portare fuori la bambina però».
Stavano parlando di lei, Holly se ne rese conto. Non era mai stata così spaventata in vita sua e chiuse gli occhi. Sua mamma l’avrebbe protetta, aveva completa fiducia in lei.
«Fai un altro passo e ti faccio a pezzi» la avvisò Emma. «Sono seria, non ti lascerò fare del male a Holly».
Holly sentì sua madre toccarle il braccio. Le stava tracciando delle linee sulla giacca, delle lettere.
S-C-A-P-P-A.
Holly le strinse la mano per dirle che aveva capito e poi fece un passo indietro, liberandola dalla sua presa.
In quel momento, una freccia si librò nell’aria e attraversò il petto di uno dei Cavalieri. Aveva i capelli dello stesso colore della donna, ma erano più corti e gli arrivavano solo alle spalle. Cadde per terra con gli occhi spalancati, un fiotto di sangue che gli colava dal petto, sporcando la sabbia chiara di rosso. Holly inorridì: non aveva mai visto nessuno morire.
Seguì la traiettoria della freccia e vide George, arco in mano e un’altra freccia pronta per essere scoccata. Al suo fianco c’erano Will, Cath e Rose, tutti e tre con in pugno una spada, l’ombra di un portale dietro di loro.
Holly non prestò attenzione a quello che accadde poi; iniziò a correre e ad allontanarsi dalla battaglia. Intravide sua madre scagliarsi contro uno dei Cavalieri con la sua spada. Holly non voleva lasciarla, ma l’unico modo per aiutarla era fare come le aveva detto e scappare via.
Holly corse lungo la riva del mare, dove la sabbia era bagnata e dove era più facile correre, fino a quando non sentì di aver messo abbastanza distanza tra sé e la battaglia. Poi iniziò a risalire la spiaggia, diretta verso il lungomare. Una volta raggiunta la strada, l’avrebbe attraversata e sarebbe arrivata a casa. Poteva farcela.
Holly stava correndo più veloce che poteva, ma non era abbastanza. Uno dei Cavalieri le piombò di fronte, a pochi passi da lei.
Holly squittì per lo spavento e cadde per terra. Quello la guardò con un ghigno malvagio e sfoderò un enorme spadone; Holly non aveva mai visto un’arma così grande e indietreggiò strisciando nella sabbia, che le graffiava le mani e le ginocchia.
«Ethna vuole prenderti viva» le disse quello. La sua voce era fredda, metallica quasi. Holly era paralizzata. «Ma penso sia più divertente ucciderti adesso e portare il tuo cadavere ai tuoi genitori». Alzò lo spadone su di lei e Holly era così spaventata da non riuscire neanche ad urlare.
E poi qualcosa trapassò il petto del Cavaliere, non una freccia come quelle di George, ma un pugnale. Un rivolo di sangue gli uscì dalla bocca mentre cadeva in ginocchio e si accasciava al suolo. Holly sapeva di doversi alzare in piedi e di dover scappare ma non riusciva a muoversi.
Alzò lo sguardo e vide suo padre che le si avvicinava e la prendeva in braccio, stringendola a sé così forte che le mancò l’aria per qualche secondo. Solo una volta che fu tra le sue braccia, Holly si concesse di piangere.
«Va tutto bene, Holly» le disse lui, continuando a stringerla a sé. «Non ti succederà niente, non lo permetterò. Sono qui». Holly continuava ad avere paura, però ora si sentiva al sicuro perché sapeva che suo papà l’avrebbe portata in salvo.
«Will!» urlò poi lui, così forte che quasi stordì Holly. Will era impegnato a combattere contro due dei Cavalieri fatati e non lo sentì. Holly vide che altri Shadowhunters vestiti di nero erano arrivati, ma non riuscì a riconoscerli da lontano. Suo padre emise un verso frustrato. «Dannazione!» Poi premette il viso di Holly contro al suo collo. «Holly, chiudi gli occhi. Hai visto abbastanza».
Holly fece una cosa che faceva raramente: ubbidì a suo padre e chiuse gli occhi, continuando a singhiozzare. Non riusciva a smettere, si era spaventata così tanto, e sua mamma e sua sorella erano ancora lì…
«Ma la mamma e Rose?» chiese. La sua voce era debole, sottile, non sembrava neppure la sua.
«Staranno bene» suo padre aveva il fiatone. «Andra tutto bene, Holly, hai capito?»
Holly si aggrappò a lui e lo strinse anche lei, forte, permettendogli di portarla via dalle grida e dalle urla della battaglia.
 
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La prima cosa che Rose aveva visto quando aveva attraversato il portale era stato il mare. Aveva chiuso gli occhi, incapace di trattenersi, e si era abbandonata alla sensazione del vento che le accarezzava i capelli e del sole che le baciava il viso. La spiaggia le era mancata durante quelle settimane di reclusione forzata e avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla riavere.
Il vibrare di un dardo che fendeva l’aria l’aveva però riportata bruscamente con i piedi per terra. Rose aveva aperto gli occhi e il peso della realtà si era riversato sulle sue spalle rischiando di schiacciarla al suolo. Al suo fianco George aveva scoccato una freccia, che si era andata a impiantare dritta nel petto di uno dei Cavalieri. Rose aveva visto sua madre sfoderare la spada e partire all’attacco, mentre sua sorella era scappata via. La vista di Holly era stata come una doccia fredda: Rose era tornata pienamente padrona di sé, la rabbia e l’adrenalina le uniche forze che la tenevano ancora in piedi e le impedivano di rannicchiarsi al suolo in preda all’orrore. Era stata sul punto di mettersi a correre verso di lei per portarla via, ma suo padre l’aveva preceduta e le stava già andando incontro con un pugnale in mano.
Rose aveva preso un respiro profondo, aveva sfoderato Cortana e poi aveva lanciato uno sguardo a Will. Se ne stava al suo fianco con gli occhi puntati sui Riders di Mannan e una spada angelica stretta nella mano destra, studiando il campo da battaglia ed elaborando la miglior strategia di attacco.
«George, tu resta indietro» aveva detto, i capelli biondi che risplendevano contro il cielo sereno. «Rose, vai ad aiutare tua madre. Cath, con me sul lato destro».
Avevano annuito tutti e tre senza discutere e poi tutto era diventato confuso.
Ora Rose stava correndo verso sua madre, che senza tenuta da combattimento e rune di resistenza e forza si trovava in evidente difficoltà. Ethna, la guerriera che sembrava nutrire l’odio maggiore nei loro confronti, l’aveva messa in ginocchio e torreggiava su di lei con espressione piena di odio. Il suo spadone rimaneva una delle armi più massicce e affilate che Rose avesse mai visto e, quando Ethna fece per abbassarlo contro sua madre, Rose si frappose tra loro con solo Cortana a proteggerla. Sentì il colpo vibrare attraverso Cortana e poi attraverso il proprio braccio, così forte che finì a terra per metà addosso a sua madre. Per un istante temette che Cortana si fosse spezzata, ma si diede subito della stupida, perché niente poteva spezzare Cortana. La spada infatti aveva incassato l’affondo senza piegarsi di un millimetro. Al contrario, Ethna venne sbalzata all’indietro ed emise un verso sorpreso. «Che cosa…?»
«Rose!» urlò invece sua madre. «Rose, vattene!»
Rose si tirò in piedi in fretta, Cortana sempre in pugno. Sentiva il braccio sinistro intorpidito, così passò la spada nella mano destra. Gli Shadowhunters avevano una mano dominante -la sinistra, nel caso di Rose- ma venivano allenati a usarle entrambe per qualsiasi evenienza.
«Si può sapere cosa ti è preso?» le urlò di rimando Rose. «Non hai nemmeno una runa! E per non parlare della tenuta da combattimento!»
«Sembri tuo padre» le rispose lei debolmente mentre si rimetteva in piedi a fatica e impugnava di nuovo la spada. Rose notò con orrore che i suoi jeans erano lacerati e impregnati di sangue sulla gamba sinistra. Senza fermarsi a riflettere, si sfilò lo stilo dalla cintura delle armi e glielo lanciò; lei lo afferrò e premette la punta sulla ferita, iniziando a dar forma a una runa di guarigione.
Nel frattempo, Ethna era tornata all’attacco e Rose parò un suo fendente, cercando di ritagliare a sua madre del tempo per applicarsi qualche runa che potesse aiutarla. Forza e resistenza, precisione e agilità, ma soprattutto degli iratze per curare la ferita alla gamba.
Vide con la coda dell’occhio Cath e Will tenere a bada i due Riders di Mannan restanti, e desiderò ardentemente andare ad aiutarli, ma non poteva lasciare sua madre in balia di Ethna, non in quelle condizioni.
«Se pensate davvero di poterci sconfiggere» sibilò quella, cercando di colpirla. «Siete degli sciocchi».
Rose parò di nuovo il colpo, arretrando verso il mare. Non poteva continuare a difendersi senza attaccare, perché Ethna la stava mettendo con le spalle al muro. Si spostò rapidamente di lato per evitare che lo spadone di Ethna le si conficcasse nello stomaco e le tirò un calcio nell’incavo del ginocchio, riuscendo a farla cadere per terra. Il prossimo passo sarebbe stato disarmarla, ma Ethna si stava già rialzando.
Emma però si era ripresa: la gamba non sanguinava più e lei sembrava più stabile sui propri piedi. Sollevò la spada per piantarla nel cuore di Ethna, ma quella fu più veloce e rotolò di lato per evitare il fendente, che andò a conficcarsi nella sua spalla. La guerriera digrignò i denti e lasciò andare il suo spadone. Rose gli diede un calcio e lo allontanò da lei. Poi alzò Cortana, come un boia pronto all’esecuzione, e improvvisamente le mancò la terra da sotto i piedi. Sentì sua madre urlare il suo nome mentre qualcuno la afferrava per il retro della giacca e la scaraventava via, lontano da Ethna.
Rose colpì il suolo con forza, provando una fitta di dolore alla tempia che le annebbiò la vista. Fortunatamente si trovavano in spiaggia e non sulle rocce, altrimenti avrebbe perso i sensi.
Tossì per cercare di riprendere fiato e si portò una mano alla testa per assicurarsi che non stesse perdendo sangue. Alzò lo sguardo e vide il suo assalitore, uno dei guerrieri che stava precedentemente combattendo con Cath e Will. Rose li cercò immediatamente con gli occhi, e li vide ancora presi dalla battaglia; Will teneva il braccio destro inerme lungo il corpo, segno che era stato ferito. Rose sentì il sapore metallico della rabbia in bocca.
Cadendo, aveva perso Cortana, che ora giaceva a qualche metro da lei. Rifletteva i raggi del sole e splendeva sulla sabbia come un gioiello dorato. Rose la riafferrò e si tirò in piedi, reprimendo un capogiro che rischiò di costringerla nuovamente a terra. Strinse più forte l’elsa della spada per riprendere l’equilibrio, ma quando riaprì gli occhi il Cavaliere si era voltato per raggiungere il suo compagno in difficoltà. Anche George aveva sfoderato una spada e aveva raggiunto gli altri, l’arco fissato sulla schiena.
Emma nel frattempo aveva estratto la propria spada dalla spalla di Ethna, e stava cercando di ucciderla, ma quella era riuscita ad alzarsi in piedi, armata di un coltello.
«Arrendetevi» disse Emma. «Siete rimasti solo in tre, e altri Shadowhunters stanno arrivando».
Prima di raggiungere la spiaggia, Rose e suo padre avevano mandato un messaggio di fuoco a Jace e Clary per informarli di quanto stava accadendo. Infatti, Rose non si stupì quando vide un portale aprirsi a pochi passi da lei. Da quello uscirono Simon e Clary, seguiti da Isabelle e il Console Gladstones in persona.
Ethna però non parve intimorita, alzò il capo con fare sprezzante e parlò con voce glaciale. «Mai».
Si gettò contro Emma e Rose represse un urlo. Emma però la schivò e la colpì alla gamba. Rose sfruttò quell’attimo di distrazione per farsi spazio verso il suo petto e piantarle la spada dritta nel cuore con tutta la forza che aveva. Ethna non gridò, si limitò ad emettere un verso strozzato e a spalancare gli occhi, incredula. Cadde sulla schiena, ma Rose non era soddisfatta. Era morta, e Rose era furiosa. La colpì di nuovo con la punta di Cortana, e poi ancora, e ancora, pensando alla sua Holly e alla paura che doveva avere avuto, agli incubi che i Riders avevano mandato alla sua famiglia, e a Cath morente sulle scogliere.
«Questo è per mia sorella» sibilò, colpendola di nuovo. «E questo per mia madre, e per Cath».
Era come se attorno a lei non esistesse più niente, solo il corpo di Ethna martoriato e il sangue che sporcava la sabbia e le schizzava sul viso. Continuò a colpirla in preda alla rabbia fino a quando non sentì le braccia di Will circondarle il petto e trascinarla via, sussurrandole qualcosa con voce gentile. Rose non capiva che cosa le stesse dicendo, ma lasciò che la stringesse a sé e che la portasse via. Si abbandonò contro di lui, premendo il viso contro al suo collo e sforzandosi di non mettersi a piangere.
«Va tutto bene, Rosie» le sussurrò Will. «È finita».
Quando si fu calmata, si allontanò leggermente. Will le tenne il braccio sinistro attorno alle spalle e Rose gli passò il destro attorno alla vita, così che si sostenessero a vicenda.
Mentre Rose e sua madre mettevano al tappeto Ethna, Will e Cath dovevano avere ucciso uno dei due Riders che stavano fronteggiando. Solo uno di loro era infatti rimasto in vita. Si trattava di Karn, uno dei Cavalieri che insieme a Delan ed Ethna aveva quasi ucciso Cath alle scogliere. Rose lo riconobbe dai capelli bronzei tagliati corti.
Stava in ginocchio davanti al console Gladstones, che lo guardava dall’alto verso il basso con fare sprezzante.
«Hai una scelta davanti a te» gli stava dicendo. «Puoi giurare fedeltà al re della Corte Unseelie e lavorare per lui, oppure morire adesso».
No, pensò Rose. Non meritava una scelta, sua sorella Holly non aveva avuto una scelta.
Anche sua madre pareva su tutte le furie, gli occhi che sparavano scintille e la mano sinistra stretta attorno all’elsa della spada. Una vena le pulsava sul collo.
Il Cavaliere però tacque, e Samantha Gladstones ringhiò tra i denti: «Non lo ripeterò un’altra volta…»
«No!» quella che Rose sentì però non era la sua voce, era quella di George. George durante i combattimenti restava sempre nelle retrovie per proteggere loro le spalle con le sue frecce. Ora li stava raggiungendo e sembrava un angelo vendicatore arrivato direttamente dall’Inferno.
Suo padre cercò di fermarlo, ma George se lo scrollò di dosso senza neanche degnarlo di uno sguardo, gli occhi scuri puntati su Karn. Incoccò una freccia sull’arco e, quasi senza neppure prendere la mira, gli trapassò il cranio con questa.
Il Console Gladstones parve oltraggiata, e guardò George a bocca aperta. «George Lovelace!» esclamò. «Come ti permetti di…»
«Hanno quasi ucciso Catherine» la interruppe lui, impassibile. «Hanno quasi ucciso Holly e hanno ucciso degli Shadowhunters. E' più sicuro così e non mi importa se finirò nei guai per questo».
Poi spostò lo sguardo su Cath, che lo stava osservano con gli occhi spalancati, e la sua espressione si addolcì. Le rivolse il più piccolo dei sorrisi prima di andarsene via, diretto verso l’Istituto.
Rose pensò di non avergli mai voluto così tanto bene in vita sua.
 
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Holly non seppe per quanto tempo rimase così, avvinghiata a suo padre come se fosse la sua ancora di salvezza nel bel mezzo di una tempesta, però in qualche modo riuscirono ad arrivare all’Istituto. Sentì suo padre aprire le grandi porte di legno ed entrare nell’atrio. Si mossero ancora, sembrava che stessero salendo le scale, Holly non ne era sicura. Forse la stava portando in infermeria. Non le importava.
«Puoi aprire gli occhi ora» le sussurrò gentilmente lui dopo una manciata di minuti. Si era fermato da qualche parte e a Holly sembrò che si fosse appoggiato al muro. «Guarda dove siamo».
Holly aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il suo viso, pallido per lo spavento e pieno di sollievo per essere riuscito a riportarla a casa, i suoi occhi dello stesso colore di quelli di Holly e i suoi capelli con i boccoli che le erano sempre piaciuti. Poi capì dove si trovavano: Holly riconobbe le pareti rosa chiaro con gli unicorni che proprio lui le aveva disegnato qualche anno addietro; i suoi giochi e il suo letto, il suo armadio e i suoi pastelli sparsi sul pavimento. Erano nella sua camera e lei non si era sbagliata, suo padre si era appoggiato al muro, come se non fosse più in grado di reggersi in piedi da solo. Stava tremando dalla testa ai piedi.
Sulla soglia della porta stavano suo zio Ty, Adrian, il suo amico Dan Ashdown e un altro ragazzo più grande, con i capelli scuri e la carnagione ambrata che Holly non aveva mai visto. Tutti e quattro la stavano guardando con espressione preoccupata.
«Sei al sicuro ora» disse di nuovo suo padre. Si lasciò scivolare contro al muro, fino a quando non furono seduti per terra, Holly a cavalcioni su di lui. «Dio mio, stai bene». Le prese il viso tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, poi la avvolse tra le sue braccia e la strinse a sé. Holly sentì le sue dita premerle nella giacca, il suo cuore batterle forte sotto all’orecchio.
Si rese conto che gli voleva tanto bene anche se la faceva arrabbiare.
«Papà…» gli disse, con il labbro inferiore che tremava. «Mi dispiace tanto. Scusa, mi dispiace. Non è vero che ti odio».
«Shh» fece lui, accarezzandole i capelli gentilmente. «Lo so, piccolina».
Holly iniziò a piangere più forte. Piangeva così forte che le mancava l’aria. Suo padre iniziò a cullarla avanti e indietro e Holly si abbandonò contro di lui, incapace di fermare le lacrime.
«Ty». Julian stava chiamando suo fratello. «Ty, dov’è Magnus?»
«È nel labirinto spirale. Non sono riuscito a contattarlo. Però ho parlato con Catarina, mi ha suggerito un altro stregone» disse Ty. «Questo è Isaac Kaine, vive qui a Los Angeles».
Holly non vedeva il signor Kaine, dal momento che aveva ancora il viso seppellito contro al petto di suo padre, ma suppose si trattasse del ragazzo sulla ventina che era lì con loro. Non sapeva perché fosse lì, ma suo padre parve innervosirsi.
«Non ti conosco» disse. «Perché dovrei fidarmi di te, stregone?»
«Perché sono tutto ciò che hai» rispose quello. Aveva una bella voce, pensò Holly. Solare, sembrava che parlasse sempre con il sorriso sulle labbra. «Vuoi che quella povera creatura vada in shock?»
«Jules» disse Ty. «Non è Malcom. Non tutti gli stregoni sono Malcom».
Suo padre rimase in silenzio per parecchio tempo, poi Holly lo sentì muovere. Holly alzò il capo e vide lo stregone dargli una fialetta contenente un liquido trasparente. Lui la stappò e poi se la portò alle labbra, ma non bevve tutto il contenuto, era come se volesse solo assaggiarla.
«Mi hanno detto che ti piace il cioccolato».
Holly ci mise un istante di troppo per capire che Isaac Kaine stesse parlando con lei.
«A chi? A me?» chiese. Faceva ancora fatica a respirare e continuava a singhiozzare, ma Isaac le sorrise.
«Sì, mi hanno detto che ti piace il cioccolato, quindi ho preparato quella pozione con fragranza al cioccolato. Spero che non ti dispiaccia».
Holly lo guardò per qualche istante ancora, poi tirò su con il naso. «I tuoi occhi sono rosa».
«Sì. Ti piacciono?» chiese lui con un sorriso.
Holly annuì, il rosa era il suo colore preferito.
«Holly, tesoro, berresti un goccio di questo?» le chiese suo padre, quasi implorante. «Ti farà calmare un po’…»
Holly prese la fialetta senza pensarci due volte e mandò giù il suo contenuto. Isaac aveva ragione, sapeva di cioccolato. Fece effetto quasi istantaneamente. Holly sentì il proprio cuore rallentare e tornare a battere regolarmente, riusciva a respirare meglio e finalmente smise di piangere.
Holly si appoggiò a suo papà, il capo sulla sua spalla. Era molto stanca, ma non voleva dormire.
«Grazie, Isaac» disse Julian. «Lascia il conto nel mio ufficio».
Isaac si mise a ridere. «Non dovete pagarmi per così poco. So che i miei compagni stregoni sono molto cari, soprattutto quando si tratta di Shadowhunters, ma quella bambina non ha fatto niente di male. Non dovete pagarmi».
«Non mi piace avere debiti con stregoni».
«Nessun debito» disse Isaac. «Se vuoi possiamo dimenticare di esserci mai incontrati».
Isaac fece un occhiolino a Holly e poi andò via.
Adrian la osservò per qualche istante, i suoi occhi Blackthorn brillavano. Poi prese coraggio e le si avvicinò. «Mi dispiace, Holly. Per l’unicorno».
«Non l’avete visto, vero?» chiese lei.
Adrian scosse il capo in imbarazzo e lanciò un’occhiata mortificata al suo amico. Dan teneva lo sguardo fisso sul pavimento. Aveva i capelli castano chiaro, ma Holly non riusciva a vedere i suoi occhi.
«Dan mi ha detto di non farlo e di lasciarti stare, non siate arrabbiati con lui. È colpa mia, siate arrabbiati con me. Non pensavo che saresti uscita, ma soprattutto non sapevo che fosse pericoloso uscire».
«Nessuno è arrabbiato con nessuno, Adrian» disse Julian. Il ragazzino parve leggermente confortato da quelle parole, diede un bacio a Holly sul capo e poi se ne andò, seguito da Dan.
«Sento delle voci nell’atrio» disse Ty. «Vado a vedere cosa succede».
«Sono la mamma e Rose?» chiese Holly. Voleva vederle più di ogni altra cosa al mondo.
Suo padre annuì, osservando la porta e accarezzandole distrattamente la schiena. «Credo di sì».
Le voci che provenivano dall’ingresso si intensificarono, Holly riusciva a sentirle più chiaramente adesso, le parve addirittura di riuscire a distinguere quella di sua madre.
E poi la sua mamma era lì, sulla soglia della porta con i capelli che fuoriuscivano dalla treccia e un taglio sulla guancia.
Holly si tirò in piedi di scatto e le corse incontro. Emma si lasciò cadere in ginocchio e la abbracciò.
«Oddio» fece sua madre, stringendola forte. «Stai bene».
Holly si abbandonò contro di lei, beandosi del suo tocco e del suo profumo familiare. Sua mamma profumava sempre di rose e a Holly piaceva tanto.
«Stai bene» ripeté lei, allontanandosi leggermente per guardarla negli occhi. Stava piangendo e venne da piangere anche a Holly. Non aveva mai visto sua mamma piangere e non voleva che piangesse. «Mi dispiace tanto, bambina mia. Mi dispiace».
Holly le mise le mani sul viso e le asciugò le lacrime, poi le tirò su gli angoli della bocca con le dita per farla sorridere. Emma scoppiò a ridere tra le lacrime e la abbracciò di nuovo.
«Non sarei dovuta uscire» mugugnò Holly contro alla sua spalla. «Io…»
«Shh» la zittì sua mamma. «Non saresti dovuta uscire, ma l’importante è che ora tu stia bene».
«Dov’è Rose?»
«Sono qui». Rose era appena comparsa alle spalle di Emma. Holly si allontanò da sua madre e tese le braccia verso sua sorella, che la prese in braccio e le diede un bacio sulla guancia.
«Stai bene, Rosie?»
Rose si mise a ridere. Aveva i capelli scompigliati e la tenuta da combattimento tagliata sulla spalla, ma per il resto sembrava essere illesa. «Io sì, e tu?»
Holly annuì e le diede a sua volta un bacio sulla guancia. Rose si girò per guardare fuori dalla porta, probabilmente per controllare se Will stesse arrivando, e Holly vide sua madre avvicinarsi a suo padre e tendergli una mano per aiutarlo ad alzarsi da terra. Lui la accettò e, una volta in piedi, la attirò a sé e le diede un bacio sulla bocca. Holly fece una smorfia e distolse lo sguardo.
Sentì una mano accarezzarle i capelli e trovò Will che le sorrideva debolmente. Le era sempre piaciuto Will, era gentile e simpatico, e le portava sempre i cioccolatini, e Holly sperava tanto che sposasse Rose e andasse a vivere a Los Angeles con loro.
Rose la rimise per terra e sua madre le si avvicinò di nuovo. Le si inginocchiò di fronte e le passò le mani sulle spalle e sulle braccia, come a volersi assicurare che fosse tutta intera.
«Potrai anche chiamarti Blackthorn, Holly» le disse. «Ma nelle tue vene scorre il sangue dei Carstairs e lo sai cosa mi diceva sempre mio padre? Diceva che gli Shadowhunters sono le armi dell’Angelo. Tempraci nel fuoco e cresciamo più forti. Quando soffriamo, sopravviviamo. Cortana è fatta dello stesso acciaio e della stessa tempra di Gioiosa e Durlindana, e nonostante la spada sia di Rose, lo stesso acciaio scorre nelle tue vene, lo stesso fuoco» la guardò dritto negli occhi. Holly non era sicura di aver capito cosa sua madre intendesse ma non abbassò lo sguardo. «Tu sei quel fuoco. Tu sei quell’acciaio. E lo so che sei spaventata a morte, ma sopravvivrai, più forte di prima».
Tu sei quel fuoco. Tu sei quell’acciaio.
Holly ancora non lo sapeva, ma da quel momento si sarebbe ripetuta quelle parole come un mantra per superare tutti i suoi momenti più bui.
 
NOTE DELL'AUTRICE
Sono un po' emozionata perché questo è l'ultimo capitolo di questa long. Manca l'epilogo che, siccome sarà parecchio lungo, verrà diviso in due parti!
Risparmio i ringraziamenti strappalacrime per più avanti, quando la storia sarà davvero conclusa, però sappiate che sono abbastanza emozionata per essere arrivata fin qui. Vi ringrazio molto per averl letto e spero che il capitolo vi piaccia! <3
A presto

Francesca 

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Capitolo 26
*** Epilogo - Parte 1. ***


Epilogo - Parte 1 
 
 
«Ripetimi ancora perché siamo venuti qui» disse Will leggendo la scritta al neon che brillava nella notte Newyorkese. «The Death Hour. Non suona molto promettente».
Sua sorella Celine ghignò. «Te l’ho detto. Una sera ho beccato Lizzie qui davanti. Dice che è un posto carino».
Will guardò sua sorella minore. «Cosa ci facevi qui? Non puoi neanche bere!» Gli Shadowhunters potevano bere legalmente dai diciotto anni, anche se non era inusuale che iniziassero prima.
Elizabeth alzò gli occhi al cielo. «Vengo qua a disegnare quando non mi va di stare in casa».
«Ma è pericoloso che tu esca da sola con il buio…»
«William!» sbottò Elizabeth, scocciata. «Smettila».
«Ha ragione, William» le fece il verso Celine. «Smettila».
Elizabeth entrò nel locale senza degnarli più di uno sguardo. Will fulminò Celine e lei scosse il capo con un sorrisetto.
«Dovreste lasciarla stare» disse Rose. Lei e Will si stavano tenendo la mano. «Anche tu, Will».
Will cercò Cath con lo sguardo. Lei e George se ne stavano in disparte a parlare a bassa voce tra di loro e parevano non essersi neppure resi conto di quello scambio di battute; Cath sapeva qualcosa, Will ne era sicuro: sapeva qualcosa e non glielo voleva dire per lealtà nei confronti di Lizzie. Se Cath non fosse stata ancora così scossa da quanto accaduto a suo padre, Will avrebbe insistito di più, ma viste le sue condizioni preferiva evitare di darle troppo fastidio.
Will diede un bacio sulla tempia a Rose e poi si rivolse a George e a Cath: «Andiamo?»
I due parvero ritornare alla realtà e annuirono. George mise una mano sulla schiena di Cath e insieme entrarono nel locale. George doveva aver fatto una battuta perché sul viso di Cath c’era un piccolo sorriso. Will, Rose e Celine li seguirono.
Il matrimonio di Celine e Sophia si sarebbe tenuto tra due giorni. Gli Shadowhunters non avevano l’usanza dell’addio al celibato o al nubilato, ma Celine quella sera li aveva trascinati tutti fuori per festeggiare lo stesso. Era anche riuscita a convincere i loro genitori a fare uscire Elizabeth.
«Non azzardarti a far ubriacare tua sorella. Capito?» le aveva detto loro padre.
Celine aveva sbuffato. «No, per chi mi hai preso?»
«Tuo fratello sì. Lui fallo ubriacare pure. Ma tua sorella no, è ancora piccola».
Will aveva fatto finta di non aver sentito. Odiava l’espressione far ubriacare. Se avesse voluto si sarebbe ubriacato, altrimenti no. Nessuno poteva costringerlo. E ubriacarsi non era nei suoi programmi: non gli piaceva perdere il controllo e rendersi ridicolo.
Il locale, a discapito del nome, era molto carino, intimo quasi. Sulla sinistra c’era un lungo bancone dove prendere da bere, mentre sulla destra c’era un piccolo palco dove una band stava suonando musica leggera. Le luci erano soffuse e il locale era immerso nella semioscurità.
Celine scelse un tavolo vicino al palco e si lasciò cadere su una sedia. Lizzie le si sedette di fronte, Cath e George presero posto di fianco a lei e Will e Rose di fianco a Celine.
Celine osservò i ragazzi che stavano suonando. Era una canzone melodica, acustica, che permetteva di parlare tranquillamente senza che il tuo vicino ti urlasse nell’orecchio per farsi sentire.
«Sono bravi, non trovate?» disse Celine. «Un po’ alternativi».
«Suonano bene» decise George. «Il basso non è molto a tempo, ma sono giovani». George era l’unico in grado di dare un giudizio sulla musica, dal momento che suonava la chitarra.
«Sembra un po’ la nuova canzone dei Dark Paradise» disse Cath, mettendosi poi a canticchiare.
George sorrise, il sorriso che rivolgeva solo a Cath e a pochi altri, e intonò un pezzettino di canzone con lei.
«Quello che suona la chitarra è carino» decise Celine inclinando il capo di lato come a volerlo osservare meglio. «Sì, decisamente. Ha quell’aria nerd-carina che piace a te, Liz».
Elizabeth non disse niente, a mala pena lo guardò, si limitò ad annuire.
«Mi piace la sua camicia» disse Will.
«Però il più figo è il cantante» continuò Celine. «Mi sono sempre piaciuti i capelli lunghi».
«Ecco, lui avrebbe bisogno di un restyling. Sembra George».
Cath e Rose si misero a ridere, mentre George ignorò il commento. Elizabeth sembrava essere sul punto di vomitare e Will notò Cath prenderle la mano da sotto al tavolo.
«Cosa fa Sophia questa sera?» chiese Cath.
«Probabilmente lei e i suoi amici stanno guardando film d’amore mentre si mettono lo smalto. Ugh».
«Non capisco cosa abbiate tutti contro i film d’amore» borbottò Cath.
«Nemmeno io» disse Will.
Rose alzò un sopracciglio nella sua direzione ma ebbe la decenza di stare zitta: a lei piacevano quanto a lui, solo che non lo ammetteva.
Celine sventolò una mano per aria per attirare l’attenzione di un cameriere. «Ehi, senti, puoi portarci la cosa più forte che avete?»
Il cameriere, un ragazzo sui venticinque anni con un taglio militare e un tatuaggio elaborato sul braccio, aggrottò la fronte. «Avete l’età per bere?»
Celine si tirò i capelli dietro una spalla e gli sorrise. «Certo».
Il ragazzo li osservò e poi puntò gli occhi su Lizzie e Cath. «Loro non hanno ventun anni».
«Io non bevo» lo rassicurò Cath.
«Io neanche» fece Lizzie con aria annoiata. «Portami una cherry coke».
«Non posso servirvi da bere se ci sono dei minori. Chi mi assicura che voi non ordinerete per loro? Anzi, non potrebbero nemmeno stare qui».
«Giusto» saltò su Lizzie. «Dovremmo andarcene». Fece per alzarsi ma Celine la prese per mano e la fermò. «Non essere ridicola. Ci penso io» sibilò. Poi raddrizzò la schiena e prese un respiro profondo. «Senti… com’è che ti chiami?»
«Sam».
«Senti, Sam. Dopodomani mi sposo. Okay? Spenderò un sacco di soldi e, se prometti di non fare storie, ti lascerò una mancia fenomenale».
Sam rimase in silenzio per qualche secondo, come se stesse decidendo se accettare o meno. Celine gli sorrise. «Affare fatto?»
«Se qualcuno mi chiede qualcosa, dirò che avevate i documenti».
Celine scrollò le spalle. «Come ti pare. E ora portaci i migliori Margarita che abbiamo mai bevuto, su!»
Sam se ne andò e Will scosse il capo. «Se fossi una mondana, saresti una delinquente, Celine».
Celine ghignò. «Voglio solo divertirmi e i mondani sono stupidi. Ventun anni per bere, bah».
«Non penso di riuscire a bere altra tequila dopo il mio compleanno». Rose poggiò la testa sulla spalla di Will e lui le passò un braccio attorno alle spalle con un sorrisetto.
«Oh, non va bene il Margarita?» Celine sembrava preoccupata. «Ti ordino qualcos’altro. Che rapporto hai con la vodka?»
Rose sembrava vagamente spaventata da Celine e Will non la biasimava. «No, io…» ma Celine stava già chiamando Sam a gran voce.
«Deve proprio flirtare con ogni cosa che cammina?» borbottò piano Will.
«Beata lei che ci riesce» disse Rose. Poi alzò il capo dalla sua spalla e lo guardò imbarazzata. «Cioè. Mi è uscita male. Intendevo che prima di stare con te mi avrebbe fatto comodo saper flirtare».
Will decise di lasciar perdere e di non dirle che non aveva bisogno di saper flirtare per attirare i ragazzi. La sua attenzione fu catturata da George e Cath, che si erano messi a discutere.
«Dovresti bere» stava dicendo lei. «Davvero, George».
George alzò gli occhi al cielo. «Per l’ennesima volta, Catherine. Non voglio».
«No, so che vuoi». Cath stava scuotendo il capo. «Vuoi ma…»
«Catherine» disse George. «Io non mento…»
«Non menti, lo so!» Cath si stava agitando ed era prossima alle lacrime. Will ormai aveva imparato a capire quando si stava per mettere a piangere. Quella sera si era messa un vestito blu con le maniche lunghe e i polsini ricamati con del filo argentato, e aveva lasciato i capelli sciolti. George invece indossava una delle sue felpe nere con la scritta Thrasher sul davanti.
George le prese le mani. «Cath, tesoro, va tutto bene. Se ti fa stare più tranquilla bevo una birra».
Cath chiuse gli occhi e prese qualche respiro. «No. Voglio che tu beva quello che vuoi senza pensare a me».
«Okay. Allora una cherry coke come Elizabeth andrà più che bene». Cath aggrottò le sopracciglia e arricciò il naso. George continuò: «Visto? Sono così sicuro della mia mascolinità che non mi faccio problemi a bere una bibita rosa».
Cath si mise a ridere e George le diede un bacio sul capo.
Will era sul punto di fare una battuta, quando si accorse che la sedia di Lizzie era vuota. La cercò con lo sguardo e la intravide mentre si faceva strada verso il bancone, passando di fianco a un gruppo di ragazzi più grandi che le lanciarono sguardi di apprezzamento. Senza pensarci un attimo, Will si alzò e la raggiunse, reprimendo l’istinto di prendere a pugni quei pervertiti. Prima doveva accertarsi che Lizzie stesse bene: non aveva una bella cera e non voleva che si sentisse male.
«Lizzie» la chiamò. «Liz».
Lizzie però non parve sentirlo e continuò a camminare spedita. Allora Will accelerò il passo e la prese per un braccio. La fece voltare verso di sé, le mani sulle sue spalle.
«Lasciami andare, per favore». Lizzie sembrava preoccupata. I suoi occhi verdi, tanto simili a quelli di Will, parevano pezzi di vetro. «Per favore, devo… prendere una boccata d’aria. Lasciami».
«Lizzie» la voce di Will era bassa, delicata, la voce che usava quando lei era più piccola e aveva avuto un incubo. «Cosa succede?»
«Ti ha detto di lasciarla andare» disse qualcuno alle sue spalle.
Will si voltò lentamente. Era stato un ragazzo magro e con i capelli biondo cenere a parlare. Will mollò la presa, più per la sorpresa che per fare un favore a lui. Lo osservò meglio e si rese conto che si trattava del chitarrista che indossava la camicia che gli piaceva.
«Credo ci sia stato un malinteso» disse Will con un sorriso tirato. Poi guardò sua sorella, aspettandosi che lei mandasse via quello sconosciuto, ma Lizzie lo stava osservando con gli occhi spalancati. Il ragazzo invece aveva aggrottato le sopracciglia. «Perché, tu saresti?»
Una voce, nei meandri più remoti della mente di Will, parlò: si conoscono.
Will si irrigidì. «Perdonami» disse, porgendogli una mano. «Non mi sono presentato. Sono Will Herondale. Il fratello maggiore di Elizabeth».
Sentì sua sorella trattenere il fiato e Will, se solo avesse potuto, avrebbe sbattuto la testa contro al muro.
«Oh». Il ragazzo pareva imbarazzato. Si passò una mano tra i capelli e poi guardò Lizzie. «Non mi avevi detto che avevi un fratello»
Si conoscono, ebbe la conferma Will. Com’è possibile che Lizzie conosca un mondano?
Il ragazzo prese la mano di Will e la strinse con un sorriso. Aveva le fossette ed era alto quanto lui. Gli ricordava suo zio Simon. «Sono Peter, piacere mio».
Il sorriso si congelò sulle labbra di Will. Peter. Quello era il famoso Peter? Un mondano?
P E T E R ? Mimò Will con le labbra a sua sorella, che si limitò a scuotere il capo e ad allacciarsi le braccia attorno al petto come a volersi proteggere dalla bufera che stava per abbattersi su di lei.
Will era furioso. Come poteva essere stata così stupida?
«Che figuraccia. Mi dispiace, Will» disse Peter. «Pensavo che Liz avesse bisogno di una mano».
Lizzie, che era stata in silenzio fino a quel momento, fece per dire qualcosa, ma Celine piombò su di lei con un bicchiere in mano.
«Guarda chi abbiamo qui, il chitarrista carino!» esclamò, allacciando un braccio attorno alle spalle di sua sorella. «Sono Celine, la sorella più bella di Elizabeth».
«Sei l’unica sua sorella» commentò Will.
«Però sono più bella di te».
Will fece una smorfia. «Rose non si direbbe d’accordo».
Celine lo ignorò e strinse la mano a Peter.
«Piacere, sono Peter» disse lui con lo stesso sorriso che aveva rivolto a Will poco prima. «C’è qualche festa di famiglia per caso?»
«Dopodomani mi sposo!» esclamò Celine. «Quindi pago io da bere. Dovresti unirti a noi».
Will non rimase per ascoltare la risposta di Peter. Tornò dagli altri con un diavolo per capello e il cuore che gli batteva all’impazzata nel petto. Si lasciò cadere di fianco a Rose, stentando a credere a quanto appena successo.
«Will». Rose gli mise una mano sulla spalla e lo scosse leggermente. «Ti senti bene?»
«No» rispose lui.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma» commentò Geroge mentre beveva contento la sua cherry coke. «Questa roba è davvero buona, comunque».
Will fissò il tavolo per qualche minuto, le braccia conserte e la mascella contratta. Gli era venuto mal di testa da quanto le sue meningi stavano lavorando.
«Tu lo sapevi» esalò infine rivolto a Cath.
Cath lanciò un’occhiata dietro di sé, verso Lizzie e Peter, e si coprì il volto con le mani. «Sì».
«Sì? E me lo dici così?» urlò Will. «Hai idea di cosa potrebbe succederle se il Conclave lo scoprisse? Potrebbero toglierle i marchi! Non ci credo che tu glielo abbia lasciato fare!»
«Ehi» ringhiò George. «Stai calmo, Will!»
Cath si era tolta le mani dal viso. Sembrava arrabbiata e Will non l’aveva mai vista arrabbiata. «Be’, e se te l’avessi detto, che cosa avresti fatto? Pensi che non abbia provato a farle cambiare idea? Credi davvero che non le abbia spiegato tutti i rischi che corre? Dio, per chi mi hai preso, Will? Ha un cervello e prende le sue decisioni da sola».
«È piccola!» continuò Will testardo. «Non sa quello che vuole, ha solo sedici anni!»
«Oh, ma piantala» Cath lo fulminò con lo sguardo. «Come se tu a sedici anni non sapessi di essere innamorato di Rose».
Will si accasciò contro lo schienale della sedia.
«Cosa…» iniziò Rose titubante, spostando lo sguardo da Will a Cath. «Cos’è successo?»
A Will non andava di elaborare quanto appena accaduto, perciò fu spiccio. «Hai presente Peter? Il ragazzo con cui si sente mia sorella? È un mondano».
Rose si portò una mano alla bocca. «No…»
«Sì».
Will prese il bicchiere che gli stava davanti e bevve tutto il contenuto, sentendo l’alcol che gli bruciava la gola e lo stomaco. George, Cath e Rose lo guardarono con apprensione, come se fosse impazzito. «Che c’è?». Posò il bicchiere e prese quello di Rose.
«Ehi, quello è il mio…»
«Voglio dimenticarmi questa serata» spiegò lui, bevendo una sorsata del drink di Rose. Questo era più dolce, ma altrettanto forte. «Mmm, buono, che cos’è?»
«Vodka alla….»
«Non ci credo che sia un mondano».
«Will...»
«Un mondano, capito? Neanche uno stregone, un vampiro… non ho niente contro i vampiri! L’importante è che non le lasci succhiotti sul collo…»
«Will…»
«Non sta succedendo davvero». Will si mise a ridere, ma la sua risata si spense quando si accorse che anche il bicchiere di Rose ora era vuoto. Com’era possibile? Aveva appena iniziato a bere.
«Celine!» urlò a gran voce. «Celine!»
«Sono qua, idiota» lo sgridò sua sorella maggiore. «Non c’è bisogno che urli».
«Ah, ciao». Will si mise a ridere di nuovo. Non si era accorto che le sue sorelle e Peter li avessero raggiunti. «Procurami qualcos’altro da bere».
Celine ghignò. «Volentieri, fratellino. Volentieri».
 
Qualche ora e qualche shot di tequila più tardi, Will era al settimo cielo.
Seriamente, era la serata più bella della sua vita. Sua sorella stava uscendo con un mondano? E che problema c’era? Fintanto che ci fosse stata la tequila, non ci sarebbero stati problemi nel mondo.
«George». Will aveva la testa appoggiata sulla sua spalla e lui gli stava accarezzando piano i capelli. «George, quando sei diventato così morbido?»
«Will» fece una voce femminile un po’ seccata. «Will, sono Rose. Cath e George sono andati a casa».
Will guardò la persona su cui si era appoggiato e, in effetti, era una ragazza. Una ragazza con gli occhi grandi e i capelli scuri. «Wow» disse, toccandole il viso con la mano per assicurarsi che fosse reale e non un sogno indotto dall’alcol. «Sei bellissima. Passerei il mio tempo a disegnarti. Di che colore hai gli occhi? Sono chiari, non azzurri, magari verdi… Hai un ragazzo?»
Rose alzò gli occhi al cielo. «Sì».
Will tirò su col naso. «Davvero? Sei sicura che lo hai? Non ti stai confondendo?»
«No».
A Will venne da piangere. «Ma certo che hai un ragazzo. Sei bellissima, come potresti non avere un ragazzo?»
«Sei tu il suo ragazzo, cretino!» gli urlò un’altra voce femminile. Questa apparteneva a una ragazza con i capelli rossi che Will riconobbe come sua sorella. Will non era particolarmente sobrio, se ne rendeva conto, ma anche lei non stava molto meglio di lui. Aveva messo le braccia sul tavolo a mo’ di cuscino e ci aveva appoggiato la guancia sopra, ridendo di tanto in tanto tra sé e sé.
«Sono io il tuo ragazzo?» Will tornò a rivolgersi a Rose, una rinnovata speranza che gli bruciava nel petto. «Davvero?»
«Purtroppo sì».
«Quindi posso baciarti?»
«No» disse Rose. «Puzzi di alcol».
Will aggrottò le sopracciglia e Rose si mise a ridere. Poi gli diede un bacio sulla guancia e Will tornò ad appoggiarsi a lei. «Voglio altra tequila».
«No» disse Rose. «Assolutamente no. Hai bevuto abbastanza».
Will si strinse di più a lei, sfregandole la testa contro al collo come un gatto, e Rose prese ad accarezzargli gentilmente il collo. Will stava per chiudere gli occhi, quando vide Lizzie e Peter che si baciavano. Sulla bocca.
Scattò a sedere dritto come una molla. «Che?» esclamò indignato. Poi incurvò le spalle. «Oh, no. È un mondano, Rose! Un mondano, capito?»
Rose iniziò a dargli delle pacche sulla schiena. «Sì, Will. Ho capito».
«E ora? Cosa facciamo?»
«Non lo so…»
Lizzie si era seduta in braccio a Peter e stava ridendo mentre lui le riempiva la faccia di baci. Per Will sarebbero anche stati carini, se lui non fosse stato un maledetto mondano e non avesse messo a rischio la sicurezza di sua sorella.
Disperato, appoggiò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi.
 
Quando Will li riaprì si ritrovò davanti all’ascensore dell’Istituto con un braccio attorno alle spalle di Rose.
«Rose?»
«Shhh» sibilò lei mentre le porte dell’ascensore si aprivano.
«Dove sono Lizzie e Peter?»
«Sono qui» fece Elizabeth. «Peter è tornato a casa».
Will grugnì qualcosa in risposta. Rose lo spintonò nell’ascensore, continuando però a sostenerlo. Will gliene fu grato, perché era sul punto di vomitare e non sarebbe riuscito a rimanere in piedi da solo.
«Sei proprio una mezza cartuccia, Will» lo schernì Celine. Se ne stava appoggiata alla parete dell’ascensore con gli occhi socchiusi, come se la luce le desse fastidio, ma almeno riusciva a stare in piedi.
Non ricordava come le sue sorelle e Rose avessero fatto a riportarlo a casa, ricordava solo quello che non voleva ricordare, e cioè che sua sorella stava con un mondano.
«Peter…» sbiascicò. «Mondano…»
Elizabeth sbuffò e incrociò le braccia al petto.
«Si sono solo baciati, Will, come la fai lunga!» sbottò Celine. «E’ figo, io approvo».
«Sei matta?» Will faceva fatica a parlare. «Se mamma e papà lo scoprissero…»
«Basta così» li zittì Rose. «Non è il momento di discutere adesso. Celine, aiutami a portare Will in camera sua». Erano arrivati sul pianerottolo dell’Istituto. Tutte le luci erano spente e Rose sfoderò la propria stregaluce per fendere l’oscurità. «E fate silenzio, per l’amor del cielo».
Celine si mise l’altro braccio di Will attorno alle spalle e insieme a Rose iniziò a trascinarlo verso la sua stanza.
«Mi fa male la testa» borbottò Will. «E penso di stare per vomitare».
«Dovreste uscire con me più spesso, entrambi» disse Celine.
«No» disse Rose. «Non se ne parla».
«Dov’è Lizzie?» chiese di nuovo Will. «E Peter?»
«Lizzie è andata a dormire» spiegò Rose paziente. «Va tutto bene».
Will scosse il capo. Come gli faceva male la testa… e sua sorella… «Ma Lizzie…»
«Che cavolo, Will» quella era Celine. «Vuoi darti una calmata?»
Celine aprì la porta della sua camera e aiutò Rose a sistemarlo sul letto.
«Lo spogli tu» le disse poi con fare malizioso. Will emise un verso strano e Celine arricciò il naso. «E se vomita, io non voglio saperne niente. Buonanotte, Rosellina».
Celine se ne andò e Rose si sedette vicino a Will. «Se devi vomitare, per favore, dimmelo prima».
«Mi sa che devo vomitare».
Rose sospirò e lo aiutò ad alzarsi.

NOTE DELL'AUTRICE
Salve a tutti <3
Questa è la prima parte dell'epilogo; la seconda parte, come prevedibile, sarà il matrimonio di Celine e penso che lo posterò ad agosto, il giorno che ho postato il primo capitolo perché sono sentimentale. Grazie a tutti per essere arrivati sin qui con la lettura. <3

Francesca 

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Capitolo 27
*** Epilogo - Parte 2. ***


Epilogo - Parte 2

Will non poteva credere che stesse succedendo davvero. Rose era più bella che mai nel suo vestito da sposa; il sole stava tramontando alle sue spalle e Rose pareva emanare luce propria. Will le prese le mani e le strinse. Il suo viso era tutto ciò che riusciva a vedere.
«Rose» le disse. «Aspetto questo momento da anni, e ora…»
«Will» lo interruppe lei. Sembrava preoccupata, le sopracciglia aggrottate e la voce affannata. «Will! William, per l’amor del cielo, svegliati!»
Qualcuno lo stava scuotendo poco delicatamente per la spalla. Will aprì gli occhi, ancora impastati dal sonno, e cercò di mettere a fuoco l’ambiente circostante. Riconobbe subito la camera di Rose nella residenza dei Blackthorn a Idris.
«Will» ripeté Rose. Era stata proprio lei a svegliarlo.
«Rose». Will sbatté le palpebre. «Non possiamo vederci il giorno del matrimonio. Porta sfortuna».
Rose si bloccò e lo guardò con gli occhi spalancati. «Perché non dovremmo vederci?» Poi parve capire e sbuffò. «Will. Non è il nostro matrimonio, è quello di tua sorella! E se non ci sbrighiamo, ti uccide. E poi uccide me per averti fatto fare tardi. Su, alzati! E non chiudere di nuovo gli occhi».
Will sprofondò nuovamente tra le coperte, rifiutandosi categoricamente di collaborare.
«Non vado da nessuna parte» borbottò. «Finché non mi dai un bacio».
Rose si inginocchiò sul letto e si chinò su di lui per stampargli un bacio sulla fronte. Will alzò il capo e le loro labbra si incontrarono. Poi prese Rose per i fianchi e se la tirò addosso, contento che Rose non avesse ancora indossato il vestito e fosse solo in biancheria.
«Dobbiamo andare» disse lei sulle sue labbra, continuando però a baciarlo. «Sei terribile».
Will sorrise, ma non mollò la presa; al contrario, la strinse di più a sé.
«Mio papà sta venendo qui» continuò Rose, parlando contro le sue labbra. Poi alzò il capo e gli diede un bacio sul naso. «Pensavo dovessi saperlo».
Will si bloccò, Rose ancora sdraiata sopra di lui che lo osservava divertita. «E quando pensavi di dirmelo?»
Will se la scostò di dosso e si alzò. In quel preciso istante, Julian Blackthorn fece per aprire la porta.
«Rose, ti sei messa il vestito?»
Anche Rose ebbe la decenza di agitarsi, dato che Will era completamente nudo nella sua stanza. «Non entrare!» urlò, così forte che Will si spaventò e cadde quasi per terra.
«Eh?» fece Julian.
«Will» disse Rose.
Will si schiaffeggiò una mano in faccia e iniziò a vestirsi. «Ciao, Julian» disse.
Julian rimase in silenzio per parecchi secondi. Poi parlò. «Rose, quante volte ti ho detto di dirmi quando Will si ferma a dormire?»
Rose alzò gli occhi al cielo e iniziò ad infilarsi il vestito. «Non era in programma».
«Certo, come no» sospirò Julian. Poi si rivolse a Will. «Ciao, Will. Ti preparo il caffè. Rose, sbrigati però, altrimenti ti lascio i capelli così. Tua madre ha già finito quelli di Holly».
«Grazie» fece Will. «E sì, Rose si muove. È da un sacco che le dico di andare. Vero, Rose?»
Rose prese il cuscino e glielo lanciò in faccia. «Sei proprio uno…»
«Rose» la ammonì suo padre, ancora dall’altro lato della porta.
«Ovviamente non è vero!» sbottò Rose. « È Will quello che non si vuole mai alzare».
Rose aprì la porta, indignata. Fortunatamente Will si era messo dei pantaloni della tuta.
Julian apparve sulla soglia e spostò lo sguardo da Will a sua figlia. Indossava già il completo per la cerimonia. «Lo so» sospirò. «Ora andiamo?»
Rose uscì dalla porta senza rivolgere mezzo sguardo a Will, mentre Julian gli sorrise. «Sarà meglio che tu ti dia una mossa. Riesco a sentire tua sorella insultarti da qui».
Julian non aveva tutti i torti. Rimasto solo nella stanza di Rose, Will si precipitò sotto la doccia, sperando che sua sorella non si fosse ancora accorta della sua assenza.
 
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«William Jonathan Herondale. Dove cazzo ti eri cacciato?»
Will non aveva fatto in tempo a mettere piede in cucina che sua sorella lo aveva aggredito.
Da Rose, Will aveva fatto la doccia e si era vestito. Julian gli aveva preparato del caffè e una fetta di torta al cioccolato, quindi Will aveva già fatto colazione e non capiva perché sua sorella fosse così arrabbiata con lui.
«Sono pronto, Celine» le disse lui. Poi guardò l’orologio. «Ed è prestissimo».
Sua sorella si sedette su una sedia e iniziò a tremare. Era ancora in pigiama, struccata, e i suoi capelli rossi le ricadevano morbidi sulla schiena. «Pensavo che fossi chissà dove. Per quanto ne sapevo, potevi benissimo stare ancora dormendo».
Will incontrò lo sguardo di sua madre, che scosse il capo e mise una mano sulla spalla della figlia. «Celine, prendi un respiro profondo adesso».
Celine, forse per la prima volta in vita sua, obbedì e respirò profondamente. Mise i piedi sulla sedia e poi si abbracciò le gambe con le braccia, poggiando il mento sulle ginocchia. Will non l’aveva mai vista così vulnerabile in vita sua. Senza trucco e con i capelli sfatti sembrava molto più giovane e Will notò una forte somiglianza con Elizabeth.
Sentendosi vagamente in colpa per averla fatta preoccupare, le si sedette di fianco e le diede un bacio sulla guancia. Celine fece una smorfia e si pulì la guancia con la manica del pigiama.
«Dimmi di che cos’hai bisogno» le disse. «Vuoi mettere il vestito? Truccarti? Farti i capelli?»
Celine si morsicò il labbro e lo guardò con occhi grandi. «È per questo che mi servi tu. Non ho idea di cosa sia meglio fare. Prima mi trucco o prima mi faccio i capelli? Pensavo di mettere il vestito poco prima di uscire, ma se poi lo sporco di rossetto? Ma se lo metto prima di truccarmi poi magari si rovina, e…»
«Cosa dice la mamma?» chiese Will.
«La mamma dice di mettere per ultimo il vestito» rispose Clary. «Ma non si fida».
Celine le sorrise angelicamente e poi guardò Will in attesa, come una bambina che aspetta l’approvazione del suo genitore preferito.
«Ha ragione. Anche io metterei il vestito per ultima cosa. Ora vai a sistemarti i capelli».
Celine annuì, poi scattò in piedi. «Perfetto!»
Clary la guardò preoccupata mentre usciva dalla porta, poi scambiò uno sguardo con Will. «Forse è meglio che vada ad aiutarla».
«Forse è meglio» concordò Will.
Clary fece per seguirla, e per poco non si scontrò con Jace che stava entrando in cucina in quel momento. «Attenta» le disse lui, mettendole una mano sul fianco e una sulla spalla per non farla cadere. Poi le diede un bacio sulla fronte. Clary sbatté le palpebre. «Celine…» borbottò, scappando via.
«Donne». Jace scosse le spalle. Anche lui si era già vestito, indossava un completo nero e una camicia bianca. «Ciao, Will. Tua sorella dice di aver bisogno di te».
A Will cadde la mascella. «Ma se è appena andata di sopra!»
«Non Celine. L’altra sorella».
«Elizabeth?» Will si buttò contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Aveva ancora sonno e non pensava di essere psicologicamente pronto per affrontare quella giornata.
«Oh, e già che sali di sopra mi prenderesti i gemelli? Li ho dimenticati in camera mia…»
Will lo fulminò con lo sguardo. «Ho bisogno di caffè».
Suo padre alzò un sopracciglio. «Julian non ti ha dato del caffè? Strano. Julian berrebbe caffè al posto dell’acqua».
«Ho bisogno di altro caffè». Will si alzò e se ne versò una tazza con fare drammatico.
«Fai come ti pare» borbottò suo padre. «Basta che me li porti giù».
Will, dopo aver bevuto il suo caffè, salì al piano di sopra. Passò davanti alla stanza di Celine e la sentì parlare con loro madre, ma tirò dritto verso la camera di Elizabeth.
Bussò un paio di volte e poi entrò lo stesso, trovando Elizabeth che stava cercando di allacciarsi il vestito.
«Will!» esclamò lei quando lo vide. «Aiutami, per favore».
Will si chiuse la porta alle spalle e la raggiunse. Le sistemò la lampo del vestito e poi si passò una mano sul viso, reprimendo uno sbadiglio.
«Hai una faccia da pesce lesso» commentò sua sorella.
«Molto simpatica».
«Ho un problema».
Will grugnì e si sedette sul letto.
«Non mi piacciono più le scarpe che mi devo mettere, vedi?»
Lizzie gliele sventolò sotto al naso, disperata.
Perché, si chiese Will, nella mia famiglia dobbiamo essere tutti così melodrammatici?
Erano un paio di sandali argento che si intonavano perfettamente al suo vestito verde scuro, quindi Will non capiva quale fosse il problema.
«Come mai non ti piacciono più?»
Lizzie iniziò a camminare avanti e indietro davanti allo specchio. «Non lo so! Mi fanno le caviglie strane, guarda».
Se li infilò velocemente, rischiando quasi di cadere per terra più volte, e poi si raddrizzò.
«Visto?»
Will aggrottò le sopracciglia e scosse il capo. «No, non vedo proprio un bel niente. Le tue caviglie sono normalissime».
«Sicuro?» chiese lei, guardandosi allo specchio. «Non lo so! E poi il colore sta bene con il vestito? Cioè…»
«Elizabeth» sospirò Will. «Sei bellissima».
Lizzie gli sorrise. «Anche tu. Ti sta bene il blu».
Poi gli si sedette vicino sul letto e rimase in silenzio per un po’.
«Non dire a mamma e a papà di Peter» sussurrò d’un tratto. «Ti prego».
Will continuò a guardare dritto davanti a sé senza dire niente. Sentiva che Lizzie lo stava guardando, ma non riusciva a incontrare il suo sguardo. Perché aveva passato il giorno precedente a chiedersi quale fosse la cosa giusta da fare per il bene di sua sorella, e ancora non aveva trovato una risposta.
«Ti prego» lo implorò di nuovo Lizzie, scuotendolo per il braccio. «Per favore».
«Non lo so» disse piano Will.
Sua sorella si ritrasse, come se l’avesse schiaffeggiata.
Will aveva sempre preso sul serio il suo ruolo di fratello maggiore, sin da quando erano bambini. Aveva sempre vegliato su di lei, facendo attenzione che non cadesse dalla trave o non si tagliasse con i pugnali. Ma ora Lizzie era cresciuta e sapeva camminare su una trave ad occhi chiusi e lanciare pugnali meglio di lui (aveva ereditato la mira da loro padre), e Will doveva accettarlo, doveva lasciarle commettere i suoi sbagli. Doveva lasciare che si ferisse.
«Non ci credo» sussurrò lei, i capelli biondi raccolti in un morbido chignon sulla nuca. «Non ci credo che lo diresti».
Will sbuffò, arrabbiato con se stesso. «È quello il punto» finalmente la guardò. «È quello il punto, Elizabeth. Che non lo farei mai. Ma non sono sicuro che non dirlo sia la cosa migliore per te».
Lizzie aggrottò le sopracciglia. «Quindi… non capisco, stai dicendo che mi copri?»
«Sì, sto dicendo che ti copro» decise Will; sapeva sin dal principio che sarebbe andata a finire così. «Ma credo davvero che dovresti dirlo a mamma e a papà per cercare di trovare una soluzione».
«Non c’è una soluzione» sibilò Lizzie. «Non pensi che io lo sappia? Non c’è e…»
In quel momento Celine comparve sulla soglia con l’aria contenta. «Ho fatto i capelli» disse pimpante. «Adesso?»
«Trucco» risposero all’unisono Will e Lizzie.
«Siete inquietanti». Celine li guardò a metà tra l’ammirazione e lo spavento. «Ma siete entrambi super carini, quindi vi perdono». Poi si mise a urlare: «Mamma! Will e Lizzie dicono trucco!».
«È ciò che ti ho detto anche io!» le urlò di rimando Clary.
Celine si mise a ridere e Will si unì a lei, dimenticandosi per un istante di Peter e di tutto il casino in cui Elizabeth si era cacciata.
 
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Rose amava i matrimoni. Non lo ammetteva, ma li amava. Adorava gli sguardi che gli sposi si scambiavano quando si vedevano per la prima volta nei loro abiti da cerimonia, e in generale l’atmosfera di amore e festività che si andava a creare.
Celine era bellissima, nonostante fosse chiaramente un po’ nervosa. Per fortuna a sostenerla c’era Jace, che sorrideva tranquillo e le batteva piano una mano sul braccio per calmarla. Rose non la biasimava: anche lei si sarebbe sentita allo stesso modo se fosse stata osservata da tutte quelle persone mentre camminava su dei tacchi a spillo.
Sophia fece il suo ingresso qualche minuto dopo, accompagnata da suo fratello maggiore. Indossava un abito principesco e portava i capelli neri sciolti sulle spalle; i suoi occhi azzurri brillavano e, non appena Celine la vide, si mise a piangere. Un coro di “ohw” si levò dalla sala, perché Celine non era un tipo sentimentale ed era dolcissimo vederla così contenta e innamorata.
Jace le passò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé dandole un bacio sulla tempia. Poi le asciugò le lacrime dalle guance e le diede un altro bacio sulla fronte che durò più a lungo, come se non volesse lasciarla andare.
Anche a Rose veniva da piangere, ma stava già piangendo Will, quindi lei si trattenne e cercò di darsi un contegno. Si limitò a prendergli la mano e a stringergliela.
Celine e Sophia, dopo aver recitato le loro promesse, si disegnarono le rune matrimoniali sul cuore e sul braccio, riscambiandosi poi gli anelli di famiglia.
«Adesso ci credi, che per me la nostra era una relazione seria?» aveva chiesto Celine a Sophia mentre recitava le sue promesse, facendo ridere tutti.
Rose era contenta, nella sua testa quel giorno non c’era spazio per pensieri negativi. La sala dei ricevimenti degli Herondale era stata allestita per il pranzo e Rose si ritrovò al tavolo con Will, George, Cath e anche con suo zio Tavvy e sua moglie Taylor. Tavvy era come un fratello maggiore per lei perché avevano solo dieci anni di differenza e lui era stato cresciuto dai genitori di Rose come un figlio. Solo che Holly si era impuntata che doveva sedersi di fianco a lei e non c’era stato verso di farle cambiare idea.
«Holly, dimmi la verità» sospirò Rose. «Te l’ha detto papà di sederti qui, vero?»
Holly le sorrise. «No, volevo stare vicino a te». Poi aggiunse, appoggiandosi al braccio di Will. «E a Will».
Quel giorno indossava un vestito bordeaux senza maniche e la loro mamma le aveva fatto le treccine. Come al solito, somigliava a un angelo, con i capelli biondi e gli occhi chiari, ma Rose sapeva che in realtà si trattava di una farsa: sua sorella sapeva essere terribile se si stava annoiando.
Rose levò lo sguardo e lanciò un’occhiata ai suoi genitori. Li trovò intenti a ridere tra di loro; Rose era sicura che ci fosse lo zampino di suo padre e che fosse stato lui a convincere Holly a sedersi tra lei e Will.
«Rosie» la chiamò lei, sbattendo le palpebre. «Mi prendi in braccio?»
«No, Holly, non posso. Mi rovini il vestito. Vai in braccio a Will».
Holly guardò Will seria e lui le sorrise. Poi tornò a rivolgersi a Rose, sull’orlo delle lacrime. «Non voglio Will. Voglio mia sorella».
«Vieni in braccio a me, Holly» le disse George.
Holly lo osservò qualche istante, poi scosse il capo. George parve vagamente offeso, ma scrollò le spalle e disse qualcosa all’orecchio a Cath.
Rose sospirò. «D’accordo».
Nell’ultimo periodo, a causa di quello che le era capitato, Holly aveva sviluppato un attaccamento ancora più forte nei suoi confronti. Dormiva spesso nel letto con lei e voleva sempre abbracciarla e starle vicino.
Holly le si sedette sulle gambe e Rose la avvolse tra le sue braccia, dandole un bacino sulla guancia che la fece sorridere.
«Quando arriva il dolce?» le chiese a bassa voce.
«Te l’ho detto, Holly» rispose paziente Rose, sempre con voce bassa. «Manca ancora un po’».
 «Spero ci sia la torta al cioccolato».
«Mi dispiace, Holly» disse Will. «È alla vaniglia».
Holly fece una smorfia. «Alla vaniglia? Chi l’ha scelta? Non può averla scelta Celine!» la cercò con lo sguardo tra i tavoli e poi si mise a urlare, sventolando una mano per aria e stordendo Rose. «Celine! Celine!»
«Sarà meglio che tu vada a dirglielo» la incoraggiò Rose. «Da qui non ti sente».
A Holly parve una buona idea e saltò giù dalle sue gambe, correndo verso il tavolo delle spose.
Will rivolse un ghigno divertito a Rose e si sedette sulla sedia ormai vuota di Holly; Rose appoggiò la fronte contro la sua spalla. «Scusala» mugugnò. «In questo ultimo periodo vuole stare sempre con me».
«Mi sta simpatica Holly» disse Will.
«È la mia Blackthorn preferita» disse George, che era seduto di fronte a Rose.
Rose si mise a sedere dritta. «Cos’hai detto?»
George ghignò. «Che è la mia Blackthorn preferita».
Rose gli rivolse un’espressione indignatissima e gli fece la linguaccia. Poi si sedette in braccio a Will e gli mise una mano dietro al collo, alla base del capo, attirandolo a sé. Will spalancò gli occhi, il viso a un soffio da quello di lei. Rose riusciva a contare le pagliuzze marroni nei suoi occhi verdi.
«Rose» disse. «Che stai facendo?»
«Sto facendo vedere al nostro Julian Blackthorn che è un idiota». Poi chiuse gli occhi e lo baciò.
 
---
 
«Stai bene?»
Cath sospirò e gli prese la mano. Quel giorno indossava un vestito rosa antico senza spalline e aveva lasciato sciolti i capelli. Sembrava serena, ma George in quell’ultimo periodo era diventato molto apprensivo nei suoi confronti, talvolta anche troppo. Cath stava passando uno dei momenti più duri della sua vita e lui voleva aiutarla.
«Sì, George. Va tutto bene».
George la fissò, alla ricerca di qualcosa che tradisse le sue parole. Si era messa un ombretto rosa chiaro e si era tracciata una linea sottile di eyeliner per contornare gli occhi, che in questo modo parevano ancora più chiari.
Cath corrugò la fronte e assottigliò lo sguardo. «Lo so che stai cercando di capire se ti sto mentendo» gli puntò un dito contro al petto divertita. «Ma no. Sto bene ora».
George appoggiò il gomito sul tavolo e poi il mento sulla mano, continuando a guardarla. «Ti credo».
Cath allungò il braccio e gli sistemò alcune ciocche di capelli che gli erano cadute sulla fronte.
«Dovrei tagliarli» disse George pensieroso.
Cath alzò le spalle. «Mi piacciono così».
George avvicinò la sedia di lei a sé così da poterle dare un bacio sulla guancia. E poi un altro dietro all’orecchio.
«George». Cath si tirò leggermente indietro e George in risposta le baciò le labbra.
«George…»
«Sì?» George la baciò di nuovo.
«Siamo in pubblico» sussurrò Cath.
George aprì gli occhi e trovò Cath che lo osservava. «Perché Will e Rose possono sbaciucchiarsi davanti a tutti e noi no?» chiese, indicando i due con il capo. Will e Rose erano infatti seduti di fronte a loro, Rose in braccio a Will e con le mani tra i suoi capelli. Non appena Holly era tornata dai suoi genitori, avevano iniziato ad amoreggiare mentre aspettavano il dolce.
Cath ridacchiò. «Possiamo. Ma non significa che dovremmo. E poi cos’è? Vuoi rovinare la tua reputazione da spaccone senza sentimenti?».
George le fece una smorfia. Non voleva una reputazione da spaccone senza sentimenti. Okay, forse la voleva, ma in quel momento era disposto a mandarla in fumo per poter prendere anche lui Cath in braccio e baciarla come Will stava baciando Rose.
Scocciato, George prese un pezzo di pane e lo lanciò contro a Rose, che si staccò da Will con aria trasognata e si voltò verso di lui. «Che vuoi?» gli chiese.
George scosse il capo. «Trovatevi una stanza, per l’Angelo».
Will alzò teatralmente gli occhi al cielo. «Sei solo invidioso».
«E di cosa, William?»
Will ci pensò un attimo ma non trovò niente da dire.
Cath si mise a ridere e George prese una decisione. «Bene». Si alzò e le porse la mano. «Usciamo».
Cath lo guardò dal basso verso l’alto, ancora seduta. «Ma fa freddo fuori».
«Zio Magnus ha fatto un incantesimo lungo il perimetro. Dovrebbe aver alzato la temperatura di parecchi gradi. Dai, andiamo».
Cath si convinse e gli prese la mano, permettendogli di trascinarla attraverso la sala dei ricevimenti e verso le portefinestre che davano sul giardino. Lungo il tragitto, George passò di fronte a Julian e a Tavvy che stavano parlando tra di loro vicino al muro.
«Capisci, adesso?» stava chiedendo Julian a Tavvy, che annuiva con vigore alle parole del fratello maggiore.
«Capisco» disse Tavvy, lanciando un’occhiata verso il tavolo di Rose e Will. «Che cavolo… per fortuna io e Taylor aspettiamo un maschio».
Julian si passò una mano tra i capelli. «E per fortuna si tratta di Will. Non oso immaginare chi mi porterà a casa Holly».
Tavvy divenne verde. «Holly è piccola. Non ci pensare, ti prego. Mi fai sentire vecchio».
George si fermò davanti a loro. «Comunque credo lo stiano facendo apposta» li informò, intromettendosi nella conversazione e guardando anche lui Rose e Will. Will aveva appena detto qualcosa di divertente e Rose gli aveva appena dato un bacio sul naso.
«Mi pare evidente che lo stiano facendo apposta» commentò Tavvy con aria frastornata.
Cath salutò con la mano i due Blackthorn e George continuò. «No, intendo…» ci pensò un attimo. «Apposta, apposta. Per far arrabbiare te, Julian».
Julian spalancò gli occhi. «Me? E perché?»
«Perché Rose è convinta che sia stato tu a convincere Holly ad andarsi a sedere tra lei e Will».
«È ridicolo» sbottò Julian. «Holly vuole sempre stare con Rose, non l’ho convinta a fare un bel niente… quando lei mi ha detto che voleva sedersi vicino a sua sorella le ho detto che secondo me era un’idea fantastica, e che un’idea ancora più fantastica sarebbe stata sedersi tra lei e Will. Ma scherzavo. Giuro. Non pensavo l’avrebbe fatto sul serio».
Tavvy lo guardò con una strana luce negli occhi, un misto di rispetto e riverenza. «Wow» disse.
George alzò le spalle. «Io gliel’ho detto di trovarsi una camera».
Julian e Tavvy lo guardarono storto e George alzò di nuovo le spalle. «E’ quello che stiamo facendo io e Cath, almeno».
Cath spalancò gli occhi. «Ah sì?»
George abbassò il capo e la guardò. «Be’, non proprio una stanza».
Cath era arrossita dappertutto come suo solito, non solo in faccia ma anche sul petto e sulle braccia. «Non penso che a loro importi».
A George di sicuro non importava ciò che pensavano Julian e Tavvy. Dopo averli salutati, aprì la portafinestra, portando Cath nel giardino sul retro della residenza degli Herondale. Come aveva previsto, la temperatura era piacevole: sembrava primavera e non inverno inoltrato. I rumori della cerimonia erano ormai un eco lontano e facevano da sottofondo al rumore del vento e della natura. Era buio, nonostante fossero da poco passate le sei del pomeriggio, e il cielo era limpido, puntinato di stelle splendenti come pietre preziose.
«Dovremmo ballare» decise George.
Cath lo guardò come se fosse impazzito. «Da quando balli?»
«Da oggi».
«Prima metti una camicia rosa e poi vuoi ballare, chi sei tu e che ne hai fatto di George Lovelace?» chiese Cath. «E come mai qui fuori? Non c’è neanche la musica».
George ghignò e Cath capì al volo. «Ma certo. Non balleresti mai davanti alla gente».
«Quello» disse George, tirandola a sé e facendo scontrare il suo corpo contro quello di lei. «E poi, se fossimo rimasti dentro, non avrei potuto fare così».
Le passò un braccio attorno alla vita e si chinò per baciarla. Ma questa volta non si limitò a un semplice bacio a stampo, la baciò con la bocca aperta, desideroso di sentirla sempre più vicino, e lei gli allacciò le braccia attorno al collo e si alzò sulle punte dei piedi per premersi meglio contro di lui. Indossava delle scarpe con il tacco alto, perciò la loro differenza di altezza non era marcata come al solito e George ne era contento perché in quel modo riusciva a baciarla con molta più facilità.
«Buona idea» sussurrò Cath, passandogli le mani dal collo al petto. «Ma mi fanno davvero male i piedi».
«Togliti le scarpe».
«Non posso togliermi le scarpe».
«Certo che puoi».
Cath lo fissava come se fosse fuori di testa, allora George si chinò e iniziò a slacciarsi le sue.
«Che stai facendo?» chiese Cath.
«Mi tolgo le scarpe» rispose George, come se fosse ovvio. «Dovresti farlo anche tu».
Cath si mise a ridere, ma alla fine lo imitò.
George le si avvicinò e la prese di nuovo tra le sue braccia, mentre Cath appoggiò la testa contro al suo petto e lo abbracciò a sua volta.
Iniziarono a ballare in cerchio, limitandosi a spostare il peso da un piede all’altro, beandosi della vicinanza e del profumo dell’altro. George posò un bacio tra i capelli Cath mentre le accarezzava delicatamente la schiena.
«La prima volta che siamo usciti» sussurrò Cath d’un tratto. La sua voce si intonava perfettamente alla musica che proveniva dal ricevimento. «Ho pensato: questo ragazzo porta guai. O mi spezza il cuore o me lo aggiusta».
George si fermò e si allontanò leggermente. Cath incontrò il suo sguardo. I suoi occhi brillavano illuminati dalla luna. George rimase in silenzio per parecchi secondi, incapace di formulare una frase di senso compiuto, e Cath continuò: «Dopo il nostro primo bacio, ero convinta che me lo avresti spezzato. E invece lo hai aggiustato».
«Catherine». George non sapeva cosa dire. Non gli sembrava di fare niente di straordinario. Si limitava ad amarla con tutto quello che aveva. Per lui era normale essere circondato da tanto amore -lui aveva i suoi genitori, i suoi zii, Will e Rose- e spesso dimenticava che per Cath non era la normalità, che per lei ogni gesto di affetto che lui le dimostrava era molto importante.
Cath gli accarezzò piano una guancia. «George, non piangere».
«Non sto piangendo».
«No», sospirò Cath. «Certo che no».
George la abbracciò e la sollevò da terra mentre Cath gli allacciava le braccia attorno al collo.
«Dovremmo davvero sposarci» disse George, baciandole la guancia.
«Lo so» rispose Cath piano. «Me l’hai già chiesto e ho detto sì».
«No», continuò George contro alla sua pelle. «Intendo adesso».
«Non possiamo sposarci adesso» si lamentò Cath, come se dirlo le costasse una gran fatica. «Sono minorenne».
George lo sapeva ma non gli importava. «Sì ma se…»
«Possiamo sposarci il giorno dopo il mio compleanno».
George la rimise a terra e la osservò. «Ma è a luglio!»
Cath parve confusa e lo osservò dal basso verso l’alto, inclinando il capo per poterlo guardare negli occhi. «E allora?»
«Muoio di caldo in smoking a luglio».
Cath spalancò gli occhi e si portò le mani alla bocca. «Ti metteresti lo smoking?»
George scoppiò a ridere. «Mi sono messo una camicia rosa per farti contenta, secondo te non mi metterei uno smoking per il giorno del nostro matrimonio? Ci sono davvero poche cose che non farei per te».
«Quindi ci sposiamo a luglio?» Cath sorrise angelicamente. «Non voglio aspettare».
George sospirò, ma un sorriso gli incurvò le labbra e una fitta di impazienza gli attraversò il cuore. «Sai già la risposta».
 
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Rose era seduta sulla spiaggia. Il sole stava tramontando, colorando di rosso e oro le onde dell’oceano. Spruzzi di acqua salata le bagnavano il viso e il vento le soffiava tra i capelli. Rose passò le mani nella sabbia, ancora tiepida grazie ai raggi del sole, e chiuse gli occhi; ancora faceva fatica a credere che fosse tutto passato, che potesse di nuovo correre sulla spiaggia e uscire di casa senza la paura di essere trovata dai Riders di Mannan. Era stata molto dura per Rose rimanere rinchiusa tra l’Istituto di Los Angeles e quello di New York, intrappolata in quella routine che aveva rischiato di farla impazzire. Come poteva biasimare Holly per essere scappata? Era una bambina ed era cresciuta all’aperto, tra le onde del Pacifico e le spiagge della California. Anche lei, come Rose, non era fatta per essere rinchiusa.
Il pensiero di sua sorella le fece venire una fitta al petto. Non riusciva ancora a metabolizzare quanto successo, non riusciva a capacitarsi che fosse stata così vicina all’essere catturata e uccisa dai Riders di Mannan. Quando Rose ci pensava, le veniva da vomitare.
Testimoniare a Idris era stato terribile per lei. Tutte quelle persone che le parlavano contemporaneamente pretendendo risposte che non era in grado di dare: da quanto tempo sapeva dei Riders? Come aveva fatto Will a creare la nuova runa? Perché George aveva ucciso l’ultimo Cavaliere superstite?
Alla fine, George se l’era cavata con una semplice ammonizione da parte del Console, che gli aveva intimato di rigare dritto pena una punizione più severa. Rose era stata così in pensiero per lui che non le pareva vero che fosse stato così sfacciatamente fortunato. Ma d’altra parte avevano perso troppi Shadowhunters negli ultimi mesi e non potevano perderne un altro.
Rose prese un respiro profondo, cercando di calmarsi e di assaporare il profumo del mare. D’un tratto, sentì dei passi dietro di sé e si voltò. Si trattava di Will, George e Cath, che la stavano raggiungendo parlando tra di loro.
«Sapevo che ti avremmo trovata qui» la salutò Will con un sorriso, sedendosi alla sua destra. Era bellissimo illuminato dalla luce della sole, i suoi capelli risplendevano e i suoi occhi brillavano.
«Non è stato così difficile» disse George, vestito completamente di nero come al solito, mentre si lasciava cadere alla sua sinistra.
«Ciao, Rose» la salutò Cath, sedendosi a sua volta vicino a George. «Mi era mancato venire al mare».
«Cath, ma hai messo la crema?» si preoccupò Rose. Cath aveva indossato un vestito leggero senza maniche e, siccome la sua pelle era molto delicata, Rose non voleva che si scottasse.
«Il sole sta tramontando, ma chère, non preoccuparti».
Rose annuì distrattamente. «Perché siete venuti qui?»
«Perché non rispondi al cellulare» disse George.
«Perché volevamo uscire» spiegò Will.
«E non eri all’Istituto» continuò Cath.
«Quindi abbiamo pensato» disse George. «Dove potrebbe essere Rose? Ed eccoci qui».
Will le diede un bacio sulla guancia e lei gli appoggiò la testa sulla spalla.
Rimasero in silenzio ad osservare il sole che tramontava. Poi, quando esso scomparve oltre l’orizzonte, George disse: «È bello vederti in spiaggia come ai vecchi tempi, Blackthorn».
«È bello essere tornati alla normalità» disse Rose. «Dove volevate andare stasera?»
«Parlando di normalità, ci è venuta voglia di Canter’s». Era la pasticceria preferita di Will e Rose non si stupì che volesse andare lì.
«D’accordo». Rose si alzò in piedi e poi porse la mano a Will per aiutarlo ad alzarsi. Lui la accettò.
George prese Cath per mano e poi passò un braccio attorno alle spalle di Rose, che a sua volta prese a braccetto Will.
«Andiamo, Blackthorn» disse George. «Oggi offro io».
Rose si mise a ridere e, stretta tra i suoi amici, si diresse verso le luci della città, pronta a ricominciare a vivere la sua vita.

NOTE DELL'AUTRICE E RINGRAZIAMENTI
Questo è l'ultimo capitolo di questa long, giusto in tempo per Queen of Air and Darkness. Io spero che vi sia piaciuta e vi ringrazio tantissimo per averla seguita e per aver lasciato una recensione. Davvero, grazie. Sono molto emozionata nel premere il tasto "storia completa", perché è la prima long che porto a termine.  Perciò grazie del supporto, spero che vi siate affezionati a questi personaggi perché sono stati una parte importantissima dell'ultimo anno e mezzo della mia vita. C'è davvero un mondo dietro a questi personaggi, e certamente scriverò ancora su di loro e vi renderò ancora partecipi.
Devo ringraziare anche la mia beta, che pazientemente mi ha corretto tutti gli errori di battitura e mi ha aiutata nei momenti di blocco: grazie Giada, senza di te non sarei mai arrivata fino alla fine.

Grazie mille a tutti, da parte mia e da parte di Will, Rose, George e Cath. <3 :D

Francesca 

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