Fixing it

di SalvamiDaiMostri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove eravamo rimasti ***
Capitolo 2: *** La fata Turchina ***
Capitolo 3: *** Una cosa importante ***
Capitolo 4: *** Condividere per ricominciare ***
Capitolo 5: *** Aldershot ***
Capitolo 6: *** Il tempo necessario ***



Capitolo 1
*** Dove eravamo rimasti ***


Bentrovati! Come dico nella descrizione questa sarà una fanfiction finalizzata ad aggiustare quelle parti del finale della quarta stagione che non mi hanno soddisfatta. Spero vi piaccia! 

Buio pesto. E gelo che penetra nelle ossa.
John non riusciva a vedere ad un palmo dal naso, immerso nell’oscurità del pozzo in cui era prigioniero, con i piedi incatenati al suolo. Era ormai da più di venti minuti che una cascata d’acqua si stava riversando all’interno della sua prigione riempiendola velocemente.
John poteva percepire il livello dell’acqua salire, secondo dopo secondo, millimetro per millimetro.  Ormai galleggiava da qualche minuto, non potendo più toccare il fondale; si era esteso per tutta la sua lunghezza e, nonostante quello sforzo, l’acqua gli lambiva ormai le orecchie e il mento alzato quanto più possibile. Si sforzava con tutte le sue forze di mantenere la calma, il panico non sarebbe stato che controproducente: doveva mantenere la calma e la fede nel fatto che Sherlock sarebbe arrivato e lo avrebbe salvato ancora una volta. Ma l’acqua continuava inesorabilmente a salire, e ormai stava perdendo ogni speranza di essere trovato in quel pozzo nascosto chissà dove. Stringeva i denti e lottava con ogni fibra del suo corpo per far si che il suo naso restasse fuori dall’acqua ancora un altro po’.
Sarebbe morto lì, continuava a pensare, affogato come il piccolo amico del piccolo Sherlock del quale aveva appena rinvenuto i resti più di trent’anni dopo dalla sua morte: anche il suo corpo si sarebbe decomposto sul fondo di quel pozzo per i prossimi trent’anni? Qualcuno lo avrebbe mai ritrovato?
Se si distraeva e faceva un movimento brusco o improvviso, gli toccava ingoiare una boccata d’acqua paludosa o riceverne una dolorosa quantità su per il naso, facendogli bruciare le cervella per una manciata di insopportabili secondi.
E i suoi pensieri volgevano sempre a Rosie.
Da quando lei era nata, Rosie era la priorità assoluta, colei per la quale era suo dovere rimanere in vita: da quando Mary era morta, alla sua bambina non restava che lui. Che cosa avrebbe fatto senza suo padre? Davvero era stato così stupido ed irresponsabile da farsi ammazzare in un modo talmente idiota? Aveva deluso sua figlia. La piccola Rosie non avrebbe mai ricordato la voce o il volto ne di sua madre ne di suo padre. Non era nemmeno certo del fatto che Sherlock sarebbe soppravissuto: se non fosse riuscito a sconfiggere la follia di Euros, nessuno sarebbe tornato dalla sua Rosie.
Pensò a lei, che in quel momento doveva trovarsi tra le braccia della signora Hudson che la cullava per farla addormentare, nella casa che aveva comprato insieme a Mary.
Che stupido era stato. Stupido, stupido idiota.
«Se muoio non me lo perdonerò mai.»
«Sherlock, stupido idiota che non sei altro, vedi di trovarmi cazzo o ti uccido. »
«Ti prego Dio, fammi tornare dalla mia bambina. »
«Ti prego Dio, fammi vivere per lei. »
Stringeva gli occhi bagnati dagli schizzi d’acqua e pregava di sopravvivere, perchè era tutto ciò che gli restava. Pregava di poter risentire la voce di quell’idiota del suo migliore amico, venuto per salvarlo.
Era buio, buio pesto. E l’acqua era gelida.
Poteva percepire il graduale irrigidimento e la perdita di sensibilità alle proprie estremità: i piedi, le caviglie, le dita, i polsi. Si sentiva sempre più debole, sempre più rigido. Era esausto. Non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto resistere. L’acqua lo avrebbe sommerso da un momento all’altro e sarebbe stata la sua fine.
«Non può finire così. »
Aveva così tante cose da fare... Cose da dire...
«Non doveva finire così. »
 
Improvvisamente un lampo di luce squarciò il buio di quel pozzo, riflettendosi sull’acqua accecandolo.
Abbagliato, si sforzó di aprire gli occhi, ma vide solo un soffitto di luce bianca. Inutile dire che il suo primo pensiero fu quello di essere definitivamente morto senza rendersene nemmeno conto e che quella fosse la famosa luce al fondo del tunnel di cui tutti parlano.
Ma poi udí una voce chiamarlo. Ed, anche se lui probabilmente ne sarebbe stato particolarmente lusingato, la voce che lo chiamava per nome non era quella dell’Onnipotente, ma quella di Sherlock. Il suo Sherlock lo aveva trovato.
«Grazie Dio. Grazie. »
“JOHN!” gridava Sherlock dall’alto.
“SONO QUI SHERLOCK!” gridava “SONO QUI!”
Non riusciva a vedere niente, ancora accecato dalla luce, ma udí lo schiocco di una fune che infrangeva la superficie dell’acqua: l’avevano calata. Disperatamente la cercó con le braccia e con le gambe per aggrapparvisi, ma non riusciva a trovarla.
“Sto arrivando, John!” La voce di Sherlock rimbombava all’interno del tunnel.
John continuava a sguazzare all’interno del pozzo per cercare un appiglio, perchè proprio ora che erano giunti i soccorsi non poteva permettersi di affogare, non ora che era così vicino a tornare da sua figlia.
Improvvisamente sentí qualcuno toccagli la testa: Sherlock si era calato nel pozzo.
John alzó entrambe le braccia e si ancoró saldo al suo corpo.
Sherlock si lasció cadere ed, essendo molto più alto di lui, toccava perfettamente il fondale restando senza problemi con tutta la testa fuori dall’acqua. Sherlock allora lo abbracció e lo tiró verso l’altro tutto il più possibile, cosí che non dovesse più sforzarsi per restare a galla. Stringendolo a sé, Sherlock sentí che il corpo gelido di John era scosso da terribili tremori. Lo guardó in viso: era pallido come un cencio, teneva gli occhi serrati e aveva le labbra cianotiche.
“Sono qui John, ce l’ho fatta. Sono qui, va tutto bene.” Continuava a ripetere.
Solo allora, John, nel calore di quell’abbraccio, trovó sollievo: era davvero giunto a salvarlo. Lo aveva trovato. Non doveva più lottare, perchè c’era Sherlock a sostenerlo.
«Grazie Dio. Grazie.»
Restarono così, abbracciati per qualche istante: dopo quella terribile avventura, si erano ritrovati: mai prima di allora avevano avuto tanta paura di perdersi l’un l’altro. Se non fosse stato per la furia dell’acqua e del gelo, sarebbero rimasti così per sempre.
Poi Sherlock tornò in sè e gli disse che si sarebbe immerso per rompere le catene che lo ancoravano al suolo con un martello che aveva portato con sè.
Mentre sott’acqua colpiva le catene che imprigionavano John, degli uomini che gridavano dall’alto gettarono due imbragature legate a delle corde.
Una volta che fu libero, Sherlock gli legó l’imbragatura ben salda, poi legó la seconda a se stesso e gli uomini di Lestrade li tirarono su fino a a far loro raggiungere la bocca del pozzo. L’aria fredda della sera li schiaffeggió sul viso e John prese una boccata d’aria limpida prima di cadere rovinosamente sulla terra umida del bosco: accolse la terra ferma in quel goffo atterraggio con estrema gratitudine.
Mentre, boccheggianti, tentavano di reggersi a carponi, qualcuno gettò loro addosso delle coperte.
Sherlock, che si era gettato ad un paio di metri di distanza, si avvicinò a John a gattoni. Gli gettò una mano sulla spalla e con l’altra gli accarezzò il viso:
“Stai... Stai bene?” domandó ansimante.
Solo allora John lo guardò in viso e potè vedere il panico nei suoi occhi sgranati che, era chiaro, quel giorno avevano visto davvero troppo. I suoi ricci corvini fradici incorniciavano incollati il suo viso pallido e sconvolto. La camicia bianca bagnata rivelava i suoi pettorali che fremevano per il freddo e l’adrenalina.  John si limitò ad annuire guardandolo fermamente negli occhi, ancora sotto shock. Sherlock lo abbracció con tutte le sue forze e lo strinse a lui sfregandogli vigorosamente i palmi sulla schiena e sulle spalle, per scaldarlo. John appoggiò il viso al suo petto e si abbandonò al calore del corpo di Sherlock, del suo abbraccio, e al tocco delle sue mani che, dopo quell’esperienza, lo rassiguravano e consolavano esattamente nel modo e misura di cui aveva bisogno.
“Mi dispiace, John. È tutta colpa mia, mi dispiace tanto. Mi dispiace.”
Continuava a ripetere, quasi cullandolo, ancora incredulo di averlo di nuovo con sè.
Entrambi  sembravano incuranti del fatto che li circondavano decine di uomini in divisa, indaffarati.
Un medico visitò dunque John, diagnosticando poco più che ipotermia e stato di shock.
“Rosie sta bene.” Disse d’un tratto Sherlock, avviluppato nella coperta termica, mentre il medico si allontanava “Lestrade ha due uomini nella cameretta insieme a lei e alla Hudson. E due fuori dalla porta d’ingresso della casa. Euros non le ha trovate, se ha provato a cercarle.”
John, che non aveva ancora proferito parola, tiró un sincero sospiro di sollievo.
Giunse Lestrade che parlò con Sherlock di Mycroft, ma John ignorò la conversazione, pensando soltando al fatto che la sua bambina era sana e salva: null’altro importava davvero. Solo quando l’ispettore si fu allontanato, John domandò a sua volta a Sherlock:
“Tu... Stai bene?”
E Sherlock sapeva che si riferiva ad Euros, si riferiva anche a Victor Trevor, e  al fatto che in un solo giorno aveva puntato una pistola verso suo fratello e verso se stesso ed era stato costretto a farsi dire “ti amo” dalla povera Molly e avevano assistito al suicidio di un uomo e alla morte di altre quattro persone. Si riferiva al fatto che il 221b era saltato in aria, al fatto che aveva ritrovato la sua vecchia casa e il luogo dove era morto il suo migliore amico. Ed era davvero troppo perchè lui potesse rispondere in modo semplice. Perció non rispose affatto alla domanda, ma disse:
“Torniamo da Rosie.”


Eccoci alla fine di questo primo capitolo! Per ora non mi sono discostata troppo dalla serie originale, ma se siete stati attenti è impossibile che Sherlock si sia calato nel pozzo in quanto dopo aveva i vestiti completamente aciutti ed è senza dubbio una cosa che non accetterò mai per nessuna ragione. Vi prometto che dal prossimo capitolo in poi le cose prenderanno un'altra piega.
Io vi ringrazio infinitamente per essere arrivati a leggere fino a qui, spero che vi sia piaciuto l'inizio di questa storia e vi invito a lasciarmi un commento qui sotto. Con affetto, un saluto. _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 2
*** La fata Turchina ***


John si precipitò verso la stanza della bambina; ne aprì la porta con delicatezza e la sentì respirare mentre dormiva profondamente nel suo lettino. Sapeva che avrebbe dovuto lasciarla dormire, ma quel giorno ne aveva passate talmente tante che desiderava davvero tanto poterle fare anche solo una carezza. Perciò le si avvicinò in punta di piedi, evitando i vari giochini sparsi per il pavimento della stanza buia, sforzandosi di fare quanto meno rumore possibile e giunse al lettino bianco con le sbarre alte. Lei era lì, splendida come sempre, con le mani distese sopra alla testa, i capelli biondi ad incorniciare il visino paffutello che mostrava un’espressione serena. La copertina verde che la copriva fino a mezzo busto si alzava ed abbassava insieme al suo respiro.
John non potè fare a meno di sorridere: aveva davvero creduto che non l’avrebbe mai più rivista ed in quel momento si sentiva l’uomo più fortunato del mondo. Allungò un braccio e le accarezzò i capelli bioni, così morbidi, e in silenzio le promise che non l’avrebbe mai abbandonata, che l’avrebbe protetta con la sua stessa vita e che avrebbe cercato di non essere più così idiota da finire quasi per affogare in un pozzo.
Dunque la lasciò dormire in pace e uscì dalla stanza, richiudendone l’uscio con estrema attenzione. Nel corridoio incontrò la signora Hudson che stava entrando nella stanza degli ospiti in vestaglia:
“Grazie per aver badato a lei mentre eravamo fuori, signora Hudson.”
“Oh, ma è un piacere per me John: è un piccolo angelo!” rispose radiosa, ma poi il suo viso si incupì leggermente “E poi è il minimo visto che mi ospiti in casa vostra dopo quello che è successo...”
“Al contrario: ospitarla in casa mia è un dovere e un onore per me.” Rispose scherzoso, poi sospirò ed appoggiandole una mano sulla spalla le disse in tono dolce: “Rimetteremo a posto il 221b, Signora Hudson, io e Sherlock. Glie lo prometto.” L’anziana signora gli sorrise “Buonanotte.” Lei ricambió il saluto ed entrò nella stanza che John le aveva preparato prima di partire per Sherrinford.
John sospirò di nuovo: era stata una giornata a dir poco logorante, ed in quel momento sentiva il bisogno di una cosa soltanto. Da un armadio in quella che era stata la stanza di lui e Mary, prese un paio di lenzuola e una coperta e si avviò verso il salotto.
Sherlock sedeva sul divano, con le mani giunte sotto al naso, immerso nei suoi pensieri.  Gli si avvicinó:
“Sicuro che non ti dispiaccia dormire sul divano?” domandò appoggiando le coperte accanto a lui.
“Ad essere sincero, non credo che dormirò affatto, ma in ogni caso starò comodo, non preoccuparti.” Rispose accennando un misero sorriso con l’angolo sinistro della bocca.
John si sentì costretto a fargli la più idiota e scontata delle domande da farsi in un contesto del genere:
“Sherlock, va tutto bene? Vuoi parlare di ció che è successo oggi?”
“Sta notte? Sorella segreta psicopatica, il 221b in fiamme, cane che in realtà era il mio migliore amico asassinato dalla sorella segreta psicopatica, un uomo si è suicidato davanti a me, tre uomini ed una donna sono stati uccisi sempre davanti a me sempre dalla sorella segreta psicopatica, Molly costretta a dirmi che mi ama, tu ad affogare in fonfo ad un pozzo eccetera, tutto sta sera? No, direi di no, John.” Non parlava con il solito tono arrogante, ma sembrava sinceramente incapace di gestire quella situazione, come se la sua fosse una richiesta d’aiuto mista alla supplica di non forzare la mano in un giorno in cui aveva visto più di quanto potesse sopportare. John allora si lasció cadere seduto sul divano accanto a lui:
“No, hai ragione: è troppo.”
“Domani passerò da Molly per spiegarle... e chiederle scusa.”
“Si, dovresti.” John cercó la sua mano e la strinse. Sherlock lo ricambió con un sorriso: “Cerca di dormire. Buonanotte, Sherlock.”
“Buonanotte.”
 
Si erano ormai fatte le tre del mattino e John non aveva chiuso occhio. Era stravolto, ogni fibra del suo corpo gridava per la necessità di un sonno ristoratore, ma quel giorno era stato talmente lungo e drammaticamente intenso che non riusciva a levarsi certi pensieri e certe emozioni dalla testa.
Decise di alzarsi, perchè stare disteso al buio non sarebbe servito a nulla, mentre invece parlare un po’ con Sherlock avrebbe potuto aiutare in qualche modo. Quando vide che la luce del salotto era spenta si intimorì, pensando che forse Sherlock era riuscito ad addormentarsi ed, entrando, lo avrebbe svegliato. Ma tentò comunque: aprì la porta a poco a poco...
“Questo spiega tutto.” Dichiaró improvvisamente d’un fiato Sherlock, al buio, seduto sul divano così come lo aveva lasciato diverse ore prima. John, evidentemente, trasalì del tutto colto alla sprovvista, poi sospirò, chiuse la porta dietro di sè e si avvicinò a Sherlock nell’ombra:
“A cosa ti riferisci?” domandó avvicinandosi al minibar. Prese una bottiglia si Scotch con la mano destra, due bicchieri con la sinistra e si avvicinò al divano.
“Non per me.” Disse Sherlock in merito al bicchiere che John aveva preso per lui.
“Preferisci una tazza di tè?” Sherlock annuì immerso nei suoi pensieri. John allora si allontanò e, pochi minuti dopo, tornò dalla cucina con una tazza di tè fumante. Mentre la porgeva al suo amico, questo continuava a dire:
“Ora tutto acquista un senso.” Farfugliava, soffió sulla sua tazza e susurró ancora: “È tutto chiaro.” E bevve un breve sorso. John lo osservava piuttosto perplesso:
“Sherlock, non mi stai aiutando.” Disse tentando di risvegliarlo da quella trance, versandosi nel mentre il bicchiere di scotch che desiderava.
“Ricordi cosa disse mio fratello quando lo obbligammo a parlarci di Euros per la prima volta?” domandò senza guardarlo
“Disse parecchie cose piuttosto scioccanti.” John bevve un sorso del liquore: “A che punto della conversazione ti riferisci?”
“Quando esclamai che non avevo alcun ricordo di questa sorella segreta, lui mi rispose l’uomo che sei oggi è il ricordo che hai di lei”. Scandì la citazione a suo fratello con un gesto della mano sinistra, libera dalla tazza calda tenuta saldamente dalla destra.
“Si, ricordo.” Rispose dirigendo lo sguardo in alto a destra, rievocando la scena nella sua mente.
“Subito non compresi cosa intendeva-”
“Beh” lo interruppe John “sembró intendere che condividete una buona memoria editetica, una malsana passione per i violini e una forte tendenza alla sociopatia...” sarcastico.
“Ma c’era di più!” bevve un altro breve sorso dell’infuso, poi continuò: “L’uomo che sei OGGI, disse. Come se prima fossi qualcos’altro. Prima di essere come Euros.”
“Dici?” bevve un altro po’ del suo scotch.
“E la risposta è Victor Trevor.” Dichiarò in tono quasi solenne.
“Non capisco.” Rispose assai confuso, ma intrigato.
“Era il mio migliore amico.” John, continuava a guardarlo perplesso. “John, io prima di te non avevo mai avuto nulla di simile ad un amico, o almeno non lo ricordavo. Avevo del tutto rimosso di poter essere in grado di formare alcun genere di legame affettivo con un altro essere umano. Perchè Euros mi aveva brutalmente privato del più forte e sincero che avessi. E questo mi ferì a tal punto da preferire diventare come lei e fingere che Redbeard fosse il cane che non avevo mai avuto.”
“Ok, ti seguo. Ma cos’è che si spiega?” posò il bicchiere quasi vuoto sul tavolino che aveva davanti alle ginocchia.
“John io... Non sono una macchina.” Improvvisamente John trasalí: erano state le ultime parole che gli aveva detto (sarebbe più corretto dire gridato) prima che salisse sul tetto del Saint Barth. Gli aveva gridato che era una macchina, quando lui stava solo cercando di proteggerlo. E poi lui era morto e John aveva sentito il peso di quelle ultime parole gravare sulla sua coscienza per i due anni consecutivi: non lo aveva mai pensato davvero. Il senso di colpa lo invase quindi di nuovo per un istante, ma Sherlock proseguí il suo ragionamento: “Mia sorella lo è, non io! A causa sua e del dolore che mi causò, mi chiusi in me stesso e rifiutai di essere come gli altri... Troncai ogni tipo di legame affettivo e creai una maschera da Euros da indossare per sempre.” John cominció a comprendere dove l’amico voleva arrivare  “Io ero un bambino normale, con un migliore amico con cui giocava ai pirati... Io adesso riesco a ricordare perfettamente quanto lo amassi... e ricordo anche quanto dolore provai nel rendermi conto che mia sorella lo aveva ucciso. Solo allora cominciai di proposito ad essere cinico, freddo e distaccato.” Fece una breve pausa “E lo sarei stato per sempre, se non avessi trovato te.” John avvertì un brivido corrergli lungo la schiena. “Prima di rincontrare Euros, erano anni che non ero più come lei. Perchè, grazie a te, avevo cominciato a tenere ad altre persone, a voler loro bene, a formare dei legami, a coinvolgermi. E credevo che fossi stato tu a cambiarmi, ma il punto è proprio questo! Tu non mi hai cambiato, bensì hai rievocato la persona che sono sempre stato, quello che giocava con Victor Trevor e che pianse la sua morte per lunghi giorni e notti consecutive. Ecco cosa si spiega.”
John restò sbalordito e attonito per un breve istante. Poi appoggiò il mento sul pugno, con il gomito piantato sulla coscia e rifletté per qualche momento su ció che gli era appena stato rivelato. Poi chiese:
“Io ho... rotto l’incantesimo?” serissimo.
“Se è così che vuoi metterla.” Rispose Sherlock facendo spallucce e bevendo un’abbondante sorsata di tè.
“Ho trasformato Pinocchio in un bambino  vero!” esclamó l’altro allora. Sherlock roteó gli occhi e puntualizzó:
“No, la tua metafora è imprecisa: Pinocchio è nato marionetta, mentre io-”
“SONO LA FOTTUTISSIMA FATA TURCHINA!” esclamò alzando le braccia e mettendosi in posa come un supereroe.
“Come vuoi John.” Sorrise dolcemente “Ma, grazie.” John trasalí di nuovo “Mi hai salvato così tante volte e in così tanti modi: questo è solo l’ennesimo.”
John sorrise, e, guardando il suo bicchiere vuoto che aveva ripreso in mano, disse con un filo di voce:
“Sherlock, io non ho fatto nulla di speciale e certamente non di proposito.”
“Questo non toglie che tu sia riuscito a vedere sotto alla maschera a cui tutti avevano creduto per oltre trent’anni e a dimostrarmi che mi importa, e molto, di molti. Di Molly, di Greg, dei miei, della signora Hudson... mi importava di Mary e soprattutto di Rosy e... di te, ovviamente.” John rimase in silenzio, con un accenno di sorriso sull’angolo destro delle labbra, con la tazza stretta tra le mani.
Sherlock, convinto che la conversazione fosse giunta al suo termine, appoggió la tazza quasi vuota al tavolo e si alzó in piedi per dirigersi verso il bagno.
“Per quel che vale-” disse improvviamente John, e Sherlock si bloccò prima di imboccare il corridoio “Tu puoi anche non crederci, ma tu hai fatto sì che io scoprissi aspetti di me dei quali non sapevo nulla. Aspetti migliori. In breve, penso di essere una persona migliore di quella che ero prima di conoscerti.”
Sherlock sorrise, ma decise di non voltarsi e proseguí verso la sua strada.
Quando fu di ritorno nel salotto, John non c’era più.

 


Oooh finalmente! Erano MESI che volevo dire questa cosa. Ecco, per me quest’ultima parte esplicita il senso della serie tv: è l’unico e il più sensato che sia riuscito a trovare. Sherlock non è una macchina, non lo è mai stato: era così perchè sua sorella aveva ucciso il suo migliore amico, ma con John è tornato ad essere l’essere umano che era sempre stato sotto a quella maschera. Cosa ne pensate?? Io vi ringrazio infinitamente di essere arrivati a leggere fino a qui, mi onora. Vi chiedo gentilmente di lasciarmi un commento qui sotto per sapere cosa ne pensate. Io vi abbraccio con tanto affetto e vi rimando al prossimo capitolo! _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 3
*** Una cosa importante ***


Ciao a tutti. Voglio scusarmi per aver tardato così tanto ad aggiungere i nuovo capitolo: vi giuro che era pronto da almeno un mese ma il computer si è fritto ed è stato dal tecnico fino ad un paio di ore fa. Ha fatto più male a me che a voi aspettare, ve lo assicuro. Spero che vi piaccia e che l’attesa sia valsa la pena!!
 



 

Molly si infilò il cappotto, ne chiuse la cerniera e si diede una sistemata ai capelli guardandosi allo specchio dell’entrata, poi prese le chiavi di casa, la borsa e aprì la porta per uscire di strada. Nonappena gettò un’occhiata verso la strada, si bloccò: in fondo ai tre scalini che conducevano al marciapiede attiguo alla sua casina, c’era lui, Sherlock, che la guardava negli occhi, con le mani dietro la schiena.
Mancò un battito, anche due. Abbassò lo sguardo. Le parole le uscirono di bocca da sole, perché proprio non riusciva a pensare:
“Che cosa ci fai qui?”
“Se avessi scritto, mi avresti ignorato. Se avessi chiamato, non avresti risposto. Se avessi bussato, non avresti aperto. Ho preferito aspettarti qui, piuttosto che cercarti al lavoro: quelle di cui dobbiamo parlare sono cose che preferiresti non discutere al lavoro.” rispose lui in modo davvero poco naturale, come se quella frase introduttiva l’avesse provata un paio di volte, aspettando davanti alla porta chiusa.
Molly davvero non voleva sentire quello che Sherlock voleva dirle: ciò che era accaduto il giorno prima era stato davvero troppo e non era minimamente pronta ad affrontarlo in quel momento; piangendo nel suo letto la sera prima, aveva pensato che non lo sarebbe mai stata, valutando opzioni radicali come trasferirsi in un atro ospedale per evitare di vederlo il più possibile.
“Non ho tempo per te, non adesso. Devo andare a fare la-”
“Spesa.” La interruppe lui, portando le mani davanti: reggeva una borsa della spesa del Tesco: “Il latte, il pane, quattro pomodori, dieci carote, una busta di piselli, la marmellata di fragole, le lasagne da micronde, due tavolette di cioccolato e i tamponi assorbenti.” mentre finiva di parlare si disegnò sulla sua bocca l’accenno di un sorriso, nel vedere la cara amica così sorpresa: Molly quella non se la aspettava minimamente. Quell’uomo era davvero straordinario, era impossibile evitare di pensarlo, ma questo non cambiava le cose. Fingendo noncuranza con scarso successo, si limitò a commentare:
“Ti odio.”
“Naturalmente offro io.”
“Non hai preso i biscotti alle nocciole.”
Sherlock strizzò l’occhiolino e ne tirò fuori un pacchetto dalla tasca del cappotto: sperava che Molly allora accennasse un sorriso, ma non fu così. Poteva anche averla sorpresa, ma lei era davvero profondamente ferita ed offesa ed aver indovinato la sua lista della spesa non avrebbe cambiato le cose. Ma Sherlock non demordeva:
“Posso entrare?” Domandò porgendole la borsa e i biscotti.
Molly non rispose, strappò la spesa dalle mani di Sherlock e rientrò in casa, ma non ne chiuse l’uscio. Dunque Sherlock entrò.
La seguì in cucina. Dopo aver malamente gettato la spesa sul tavolo da pranzo, Molly cominciò a mettere su il te con gesti violenti e carichi di fastidio, furiosa.
Sherlock attese qualche istante, ma non vedendo miglioramenti e temendo più o meno seriamente che, una volta diventata bollente, quell’acqua gli sarebbe stata gettata in faccia, decise di parlare finalmente:
“Molly, io ti devo delle scuse e una spiegazione.” lei non fece cenno di averlo nemmmeno sentito e continuò a fare quello che stava facendo “Ma sarà davvero difficile che tu mi creda... In ogni caso ho bisogno di raccontarti cosa è accaduto ieri. John e Greg confermeranno ogni mia parola se può servirti.”
Lei rispose immediatamente, perché era dal giorno prima che rimuginava sull’accaduto e le parole uscirono dalla bocca senza che nemmeno dovesse pensarle:
“Non mi interessa a che razza di gioco steste giocando tu e John ieri.” il suo tono era glaciale, non riusciva nemmeno a guardarlo “È stato crudele Sherlock, anche per i tuoi standard. Un esperimento?? È questo che sono io per te?? Una che puoi chiamare in ogni momento perché sai che qualunque cosa tu chieda io eseguirò senza battere ciglio??”
“No, non è così.” Lei sbuffò e continuò a preparare il tè “Molly, se permetti comincerò dall’inizio.” Siccome non ricevette obbiezioni, cominciò: “Io ho scoperto di avere una sorella... Segreta... Geniale... Psicopatica...”
“Sherlock, balle di questo genere sono davvero patetiche.” non poté fare a meno di commentare lei, facendo l’errore di sollevare lo sguardo.
“È la verità.” Replicò lui deciso, questa volta riuscendo ad incrociare lo sguardo di lei e sperando che Molly vedesse che nei suoi occhi non c’erano bugie. Lei sospirò, rassegnata. Sherlock prese quindi a raccontarle ciò che Mycroft gli aveva rivelato, che Euros aveva preso il controllo di Sherrinford, che aveva fatto saltare in aria il 221b e che lui insieme a John e Mycroft erano andati sull’isola per assicurarsi che fosse ancora lì. “Ma era una trappola. Ci ha attirati all’interno di un esperimento... antropologico. Voleva studiare le emozioni, ha detto. Eravamo in trappola ed eravamo costretti a fare i giochi malati ai quali ci sottoponeva, pena la morte di qualcuno. Per darti un’idea, prima che ti telefonassi abbiamo visto una donna morire, un uomo suicidarsi e tre uomini precipitare e affogare.” Lei ascoltava senza capire se poteva fidarsi del tutto di ciò che gli raccontava. Lui sospirò: “È essenziale che tu ti renda conto hce ci trovavamo in una situazione di estremo pericolo e stress psicologico, in cui erano in ballo le nostre vite e quelle di altri.” lei annuì con un brevissimo accenno del capo, dunque lui proseguì: “Ad un certo punto... ci ha fattti entrare in una stanza con una bara vuota ed anonima e ci disse che il problema era che qualcuno sarebbe morto. Sulla bara c’era scritto ti amo.” Molly cominciò a comprendere “Dovevo capire di chi fosse e fu semplice dedurre che la bara era per te. Euros confermò.” Molly avvertì un brivido lungo la schiena e il sangue le si gelò nelle vene: fu come se si fosse appena resa conto che era la prima volta che vedeva Sherlock da quando gli aveva confessato di amarlo “Ti prego, sta tranquilla: voglio solo raccontarti com’è andata.” Lei fece un respiro profondo “In poche parole, mi ha detto che se non fossi riuscito a farti dire quelle parole al telefono in meno di tre minuti, la tua casa sarebbe saltata in aria.” Molly sgranò gli occhi “Mi mostrò anche delle immagini di telecamere posizionate in casa tua, per provarmi che eri in pericolo...” Molly si portò una mano alla bocca, scioccata “E davvero, non avevo tempo per pensare ad altri modi per salvarti, se non obbedirle.”
“Telecamere?” domandò lei con voce tremante
Sherlock si alzò per frugare prima dietro la libreria, poi da dentro una lampada ed infine sotto ad un tavolino. Poi aprì il palmo della mano destra e le mostrò le tre telecamere che aveva appena prelevato:
“Volevo disinstallarle di persona, davanti a te. Spero sia una prova sufficiente di ciò che dico.” Gli occhi di Molly cominciarono ad inumidirsi “Naturalmente mi era stato proibito di rivelarti alcunché sulla situazione...”
“Ma perché avrebbe fatto una cosa simile?”
“Il suo obiettivo era osservare le mie reazioni ad una situazione del genere. Come Moriarty, probabilmente si aspettava che me ne infischiassi di te e che ti lasciassi morire piuttosto che espormi in quel modo.” Le prese la mano “Molly, io non avrei mai voluto costringerti in una situazione del genere. Voglio che tu sappia che è stato solo per salvarti la vita. Ti prego di perdonarmi.”
Allora lei non poté più trattenere le lacrime e i singhiozzi e, stringendo la mano di Sherlock, prese a far si con la testa. Cercò poi di darsi un contegno, si asciugò le lacrime con le mani e gli domandò:
“E adesso?” farfugliando tra un singhiozzo e l’altro. Sherlock la guardò confuso, e lei si spiegò meglio: “Adesso che... sai la verità...”
Sherlock le sorrise:
“Molly... Come ti ho detto, io non avrei mai voluto vederti in una situazione simile.” si prese una piccola pausa, per scegliere il modo migliore per risponderle: “Io l’ho sempre saputo cosa provi per me.” lei sgranò gli occhi, lui proseguì “E mi dispiace davvero, davvero tanto non poter ricambiarti. Molly, sei una ragazza speciale e ti rispetto immensamente come lavoratrice e come persona, e ti considero una cara amica. Spero che questo, con il tempo, possa bastarti.”
Lei annuì e sorrise, con il viso ancora bagnato di lacrime ed abbassò il capo:
“Capisco... Non ho mai preteso altro. Mi è sempre bastato esserci, per te. Non dovranno cambiare le cose.”
“C’è un’ultima cosa Molly, ed è importante: io non voglio che le cose restino come sono.” Molly sgranò gli occhi di nuovo “Tu non sei solo una persona che chiamo quando ho bisogno dell’assistenza di un medico legale. Voglio che tu smetta di pensarlo. Chiamo te perchè sei la migliore sulla piazza, e sei una persona alla quale affiderei ed ho affidato la mia stessa vita. Ti prego: non considerarti nulla di meno. Mi dispiace se non te l’ho saputo dimostrare.” Molly allora ricominciò a piangere e Sherlock si avvicinò a lei e la prese tra le braccia “Non permetterò mai più che qualcuno ti faccia una cosa del genere” la baciò sulal testa “Mai più”.
Molly si fece consolare da quell’abbraccio del quale aveva tanto bisogno. In quel momento lei potè percepire che un capitolo della sua vita (che lei stessa considerava piuttosto patetico) si stava chiudendo: era finita. Aveva smesso di soffrire per quell’amore che non l’avrebbe mai potuta ricambiare, e sarebbe andata avanti. Questa volta, per davvero.
Venne il momento di separarsi: Molly lo accompagnò alla porta, Sherlock le sorrise ancora una volta, poi aprì l’uscio e se ne andò senza voltarsi. La donna rimase un istante a guardarlo allontanarsi.
“Io sarei qui per confermarti quello che ti ha raccontato...” disse John, appoggiato alla parete esterna della casa, accanto a lei: Molly ebbe un sobbalzo:
“John! Quant’è che sei qui??”
“Saranno dieci minuti.. Sherlock prima di venire qui mi ha chiesto di venire per quando avrebbe finito di parlarti per confermarti quello che ti ha raccontato e chiarirti eventuali dubbi... C’è qualcosa che vuoi che chiarisca?”
“No John, non preoccuparti... credo a ciò che mi ha detto.” disse accennando un mesto sorriso.
“Perfetto dunque.” fece per andarsene
“John! Solo una cosa...” John la guardò “Sherlock ha parlato di esplosivi in casa mia, ma ha rimosso solo delle telecamere davanti a me... Gli esplosivi non ci sono più... vero? Li ha fatti togliere da degli esperti o che so io...?”
John fece cadere la testa rassegnato: era ovvio che non glie lo avesse detto. Era più che probabile che Sherlock gli avesse detto di andare da Molly solo perché non voleva raccontare i fatti nella loro frustrante interezza:
“Ecco. Immaginavo che non te lo avrebbe detto.” si passò una mano sul viso, quasi per dargli forza e nascondere un vekato imbarazzo “Alla fine Euros ci ha rivelato che si trattava di un bluff. Non aveva nessuna bomba in casa tua... È stato tutto inutile e senza senso.” Molly da un lato tirò un sospiro di sollievo, dall’altra si irritò parecchio. John annuì, comprendendo la sua reazione: “Sì, è normale che faccia questo effetto.” John riflettè un momento e poi le domandò incuriosito: “Immagino quindi che non ti abbia nemmeno detto come ha reagito dopo averlo saputo...” Molly lo guardava interrogativa “Ha richiuso la bara, si è sbottonato la giacca e ha sfasciato quella bara a mani nude.” Molly si portò le mani alla bocca “Era furioso... Mi disse che era stata peggio di una tortura per lui... Disse che era stata vivisezione. Volevo che lo sapessi. Credo che sia... Importante.” Molly annuì velocemente deglutendo. John fece un cenno con la mano per salutarla e se ne andò.
Mentre lo guardava allontanandosi, Molly si domandò se John sapesse quell’altra cosa importante che lei voleva che sapesse… Ma rientrò in casa: ci sarebbe stato il momento giusto anche per quello.

 



 

Dunque! Eccoci giunti alla fine di questo capitolo! Allora, anche questa era una cosa che avevo assoluta necessità di scrivere perché, sinceramente a me non basta proprio per niente vedere in quel troppo veloce flash-future che Molly è di nuovo amica loro al 221b etc etc. C’è qualcosa di bello grosso da risolvere con lei ed è giusto che Molly abbia la sua spiegazione e le scuse di Sherlock, anche se non è stata colpa sua. Non solo! Manca proprio la liberazione di Molly che, dopo tutti questi anni passati a morire dietro a Sherlock, ora è libera in quanto cosciente del fatto che lui sa e che non potrà mai ricambiarla.
Io spero che questo capitolo vi sia piaciuto, il prossimo arriverà tra brevissimo in quanto è già quasi finito. Di fatto questo è piuttosto breve e l’idea originale era quella di unirlo a quello seguente, ma alla fine avrei tardato troppo e forse sarebbe stato troppo lungo.
Vi ringrazio infinitamente di aver letto sino a qui, soprattutto se siete tra coloro che hanno aspettato dalla scorsa pubblicazione fino adesso. A tutti chiedo per favore di lasciarmi un piccolo commento qui sotto che è sempre molto gradito e molto molto utile! Vi mando un caldo abbraccio e vi rimando al prossimo capitolo! Con affetto _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 4
*** Condividere per ricominciare ***


John, dopo essersi congedato con Molly, passeggiò fino a casa: avrebbe potuto prendere la metro o un taxi, ma dopo gli avvenimenti dei giorni precedenti, aveva davvero bisogno di riflettere. La paura era stata così intensa, e lo stress psicologico talmente sconvolgente, che credeva di non poterlo smaltire in un anno di camminate per la fredda Londra, ma tanto valeva cominciare.
Senza nemmeno accorgersene, giunse alla porta di casa.
Inserì le chiavi nella serratura, accorgendosi solo in quel momento che ormai si stava facendo buio.
“Dov’è la mia principessa delle rose??” domandò posando il cappotto sull’attaccapanni dell’ingresso:
“Siamo qui!” rispose Sherlock dalla cucina. John allora vi si diresse e la scena con la quale si trovò davanti fu a dir poco memorabile:
Rosie se ne stava tutta felice seduta sul suo seggiolone verde, attiguo al tavolo della cucina, e Sherlock, seduto davanti a lei, la stava facendo mangiare quella che aveva tutta l’aria di essere una pappetta alle carote: la imboccava con un piccolo cucchiaio di plastica rossa facendo certe boccacce talmente idiote che avrebbero sbellicato dalle risate persino l’uomo di ghiaccio.
 Ma la cigliegina sulla torta era la signora Hudson che, appoggiata al muro alle spalle di Sherlock stava riprendendo la tenera scenetta con il suo cellulare: lei subito fece cenno a John di non dire nulla mettendosi l’indice sulle labbra, facendogli intendere che Sherlock non aveva idea di essere filmato. Il cuore di John non potè fare a meno di riempirsi di gioia di vivere davanti a quel quadretto.
“Di ciao a papà...” disse Sherlock raccogliendo con il cucchiaio un altro po’ di pappetta dal piatto. La bimba si girò verso il padre e si sbracciò contenta di rivederlo, allungando le manine appiccicose di pappetta verso di lui. John le si avvicinò e le diede un bacio sulla fronte: Rosie ne approfittò per spalmargli per bene le mani sulla faccia e riderne di gusto.
“Uh! Ma io quelle manine te le mangio!” grugnì John, prendendole fra le sue e fingendo di divorarle facendo versi buffi: Rosie rideva a crepapelle.
La signora Hudson stoppò il video:
“Visto che siete arrivati entrambi, vado a coricarmi...”
“Ha già cenato, signora Hudson?” domandò John. Lei annuì: “È così tardi...” realizzò lui “Mi spiace che abbia dovuto provvedervi ancora lei… Sono un pessimo ospite...”
“Sciocchezze, lo faccio con piacere. Vi ho lasciato dell’arrosto e dei fagiolini nella casseruola: potete scaldarli nel microonde.” disse avviandosi verso la sua stanza, ma prima di sparire disse loro con aria imperativa: “E mangiate le verdure, mi raccomando!”
“Si, signora Hudson...” risposero i due in coro. Ne risero tutti e tre, dandosi la buonanotte.
Concordarono di lavare, cambiare e mettere a letto Rosie prima di cenare insieme: era ancora piuttosto presto ed era certamente più urgente mettere a nanna la piccola peste piuttosto che cenareSe ne occupò John, ma Sherlock li accompagnò, standosene in disparte, sull’uscio della porta, osservandoli.
Sherlock si trovò a pensare che avrebbe trascorso con piacere serate del genere per sempre.
Le luci della cameretta erano abbassate, il carillòn suonava una ninnananna e John si cullava il piccolo fagotto biondo tra le braccia, passeggiando per la cameretta: ormai erano diversi minuti che se ne stava tranquilla, al sicuro, tra le braccia del suo papà.
Sherlock approfittò del fatto che John avesse lo sguardo totalmente perso in sua figlia, per poterlo osservare a sua volta. Quello era un momento di pace assoluta, di felicità semplice e perfetta, di puro sentimento eppure di immensa tranquillità, serenità, dolcezza.
Amava quell’uomo più della sua stessa vita.
Erano state poche le volte che lo aveva ammesso a se stesso, e quella volta non avrebbe potuto fare altrimenti: guardarlo mentre cullava la sua bambina, muovendosi piano per la stanza, i suoi tratti illuminati dalla luce rosa della lampada da dotte, le maniche della camicia tirate fino a sopra il gomito, per evitare che si bagnassero prima, durante il bagnetto... i suoi occhi pieni d’amore persi nel contare i capelli di Rosie, la sua bocca disegnata con un leggero ma sincero sorriso, la sua voce che, a labbra chiuse, canticchiava una ninnananna. Il tutto faceva sorgere in Sherlock sentimenti indesiderati, nascosti… Proibiti.
La paura di perderlo durante l’esplosione del 221b, poi il giorno prima, quando si era puntato la pistola contro, poi quando Euros lo aveva nascosto in quel pozzo, il terrore che affogasse, di non arrivare in tempo. Poi la gioia nel ritrovarlo, nel riabbracciarlo, nel riportarlo alla sua bambina. Tutto in così poche ore… Era impossibile sopprimere tutto quel carico di emozioni. Tiravano e spingevano nello stomaco, così forte da non poter essere ignorate.
“Si è addormentata...” disse John a bassa voce, adagiandola nel lettino con estrema delicatezza.
Sherlock allora si avviò verso la cucina e preparò e riscaldò i piatti nel microonde. John intanto apparecchiò la tavola con le posate e due bicchieri d’acqua. Si sedettero e presero a cenare.
“Sono molto fiero di te, Sherlock.” Sherlock fu del tutto colto alla sprovvista, ma John non lo stava guardando in quell’istante e non se ne rese conto “Oggi sei stato davvero coraggioso. Non deve essere stato facile affrontare Molly...” commentò John. Sherlock avvertì una scossa lungo la schiena
“Dovevo farlo.” fingendo di dargli poca importanza.
“In realtà no, non ne eri affatto obbligato.” Sherlock si fermò a guardarlo “Ma l’hai fatto comunque ed è questo a renderlo speciale.” Sherlock non ne sembrava molto convinto.
“Se lo dici tu… È che… Sapevo che per lei era stato terribile.”
Mangiarono per un minuto in silenzio.
“Tutta questa faccenda… È stata… Terribile...” commentò John. Sherlock smise di mangiare:
“Stai bene, John?” domandò perplesso.
“Io... No, non del tutto. Mi dispiace, non voglio rovinarti la cena.”
Diedero ancora un paio di bocconi, in silenzio. Si potevano contare colpi che le forchette davano ai piatti. Era palese che John stava facendo uno sforzo quasi doloroso nel cercare di non parlare. Ma quando i piatti furono quasi finiti, non riuscì più a trattenersi:
“È che... Non abbiamo ancora parlato di ciò che è successo a Sherrinford e... Io ho tante cose da dire…” disse, estremamente frustrato.
Sherlock sapeva che quel momento sarebbe dovuto arrivare.
“Sai che puoi parlarmene...”
“È stupido perché, insomma, io sono stato soldato e sono abituato ad un certo tipo di stress emotivo ma... Prima Magnussen, poi Moriartypoi Mary viene uccisa, poi compare Euros… E il 221b è distrutto… E poi quella specie di gabbia di pazzi assassini in cui hanno giocato con noi come si fa delle bambole! Insomma, è troppo… È troppo...”
“Mi dispiace non averne parlato prima… Anch’io ho molto da smaltire.”
John si prese il viso con una mano, appoggiandone il gomito al tavolo, sentendosi particolarmente stupido ed incomprensivo.
“Lo so, Sherlock, non volevo dartene la colpa… Ho solo bisogno di parlarne.” Sherlock si alzò e aprì un armadietto della cucina estraendone due bicchieri larghi e bassi e una bottiglia di Scotch:
“Penso che così sarà
 più semplice.” e John concordò pienamente.
Sherlock spostò i piatti nel lavello e versò due bicchieri di scotch. John ne prese uno e ne bevve un sorso. Partì con il botto:
“Secondo te, quella donna è morta a causa mia?” Sherlock sgranò gli occhi, sorpreso. Evidentemente si riferiva alla donna alla quale Euros aveva sparato il giorno prima, perché lui aveva scelto di non ucciderne il marito. Sherlock sospirò:
“John, come non smetti mai di ricordarci, sei un soldato. Sai che accade che gli innocenti cadano in guerra. Ma questa volta è stata Euros a premere il grilletto, tu hai fatto solo ciò che credevi giusto.”
Euros ha premuto il grilletto a causa della mia scelta.” tagliò corto, era la sua coscienza a parlare, senza filtri.
“Non posso negarlo, John. Non lo farò perchè non vuoi che lo faccia e perché non sarebbe giusto. Ma non è stata colpa tua. Fa male, ed è stato orribile, ma non è colpa tua. Fu quell’uomo ad interagire per primo con Euros e a diventarne succube: volendo, si può dire che sua moglie fosse lì solo a causa sua. Tu non c’entri.”
“A proposito di questo... Tu credi che io sia o sia stato sotto l’effetto dell’ipnosi di Euros?” Sherlock si prese un paio di istanti prima di rispondere:
“Ci ho pensato...” era innegabile.
“Ogni persona che parlasse con lei per più di cinque minuti diventava suo servo. Nessuna esclusa. E io ci ho parlato parecchio... Molto, molto più di cinque minuti! Ci messaggiavo da prima che morisse Mary, poi nelle sedute come psicologa abbiamo parlato così tanto...”
“Lo so.”
“Potrei essere una bomba ad orologeria! Appositamente preparata per ucciderti nel sonno... Magari tra degli anni!”
“John, non esagerare... Non credo.”
“Potrei fare del male a Rosie o alla signora Hudson o... Guarda cosa ho fatto a te all’ospedale!! Ti ho preso a calci alla bocca dello stomaco! Io! Non lo avrei mai fatto, sapevo che non ero in me.”
“Immagino che questo ti toglierebbe la colpa di aver colpito un amico in fin di vita.” John rimane di stucco: era questo che pensava Sherlock? Che fosse solo una scusa per pulirsi la coscienza? John pensò che forse era stato un illuso a pensare che Sherlock avrebbe perdonato quell’episodio così facilmente. In ogni caso, Sherlock proseguì con il suo ragionamento: “Può essere, John, non lo nego... Non è stata una cosa da te, certo. È possibile, se non probabile, che all’obitorio dell’ospedale tu mi abbia colpito perchè corrotto da EurosEd anche io ci ho chiacchierato per una serata intera quando si fingeva la figlia di Mr SmithE poi nella sua cella... Potrei essere anch’io sotto la sua ipnosi. Non credere che non ci pensi costantemente da quando siamo stati messi al corrente di questo simpatico dettaglio.”
“Questo non aiuta.” commentò John con aria sfinita, deglutendo un bel sorso di liquore.
“No, non aiuta. Non ho le risposte giuste John... Vorrei consolarti, ma non posso... È davvero, davvero una situazione complessa...”
I due se ne stettero per un paio di minuti ad osservarei bicchieri tra le mani. Poi John ruppe il silenzio:
“La affronteremo insieme.” quell’ultima parola fece fermare il cuore di Sherlock per un istante. John sembrava alquanto imbarazzato in quel momento e parlava a bassa voce, incoraggiato forse dall’alcol: “Non voglio più essere solo. E se dovessi impazzire, tu mi fermerai. Mi fermerai prima che faccia del male alla mia bambina o a te o chiunque altro. Giuramelo.”
Sherlock sbattè le palpebre un paio di volte, ma poi i fece più serio e rispose:
“Solo se tu farai altrettanto, John.”
John allora ammutolì, pensando improvvisamente all’ipotesi di ritrovarsi un giorno a doverlo uccidere per fare onore al giuramento che stavano per fare.
“Lo giuro.” disse con tono vagamente solenne.
“Siamo intesi allora. Questo ti fa sentire un po’ meglio?” John fece di no con la testa sorridendo “Lo immaginavo. Forza, chiudiamo questa bottiglia e andiamo a dormire.”
“Sherlock... Vuoi dormire nel mio letto questa notte?” per poco la bottiglia non scivolò dalle mani di Sherlock, doveva essere arrossito parecchio, ma senza farci caso John si chiarì: “Nel senso che io posso dormire sul divano… Il mio letto è molto più comodo e, infondo, sei mio ospite… Insomma, io posso dormire sul divano, se vuoi...”
“Non ti preoccupare, John. Starò bene in salone, non preoccuparti.” John annuì e si avviò verso la sua stanza, ma Sherlock lo fermò ancora un istante prima che se ne andasse “John… Domani devo fare una cosa. Si tratta di andare fuori città. Vorresti accompagnarmi? Non vorrei doverlo fare da solo, ecco.”
Nel suo sguardo, John poteva leggere una supplica non troppo velata: gli fu subito chiaro che Sherlock proprio non voleva dargli ulteriori dettagli, ma che sentiva la necessità di averlo accanto in ciò che stava per fare. John sbattè le palpebre, un po’ preoccupato, ma rispose:
“Certo...”
Sherlock sorrise:
“Allora buona notte...”

“Buona notte, Sherlock.”
 

 
Eccoci di nuovo qui! Finalmente! Una cosa che andava davvero davvero detta una volta per tutte: John ha il terrore di essere/essere stato vittima del controllo di EurosMa davvero vogliamo ignorare la faccia che ha fatto quando ha ripetuto tipo tre volte “chiunque abbia parlato con lei, NESSUNO ESCLUSO” nell’episodio?? Vogliamo proprio fare finta che lui non ciacolasse con lei da chissà quanto quando improvvisamente ha cominciato a prendere a calci in faccia Sherlock?? Per quanto mi riguarda, ho passato una settimana ad odiare John per quello che aveva fatto: può anche piangere a fine episodio ed essere pure tenero, ma mi ha uccisa in quel momento. E non sono riuscita a mandare giù ciò che aveva fatto finché proprio si scopre che chiunque parli con Euros diventa un suo burattino. Di qui fare due più due è semplice: le voleva fare del male a Sherlock e gli ha sguinzagliato contro l’uomo che ama. Perfetto. E cosa sorge da qui: un parziale sollievo per quanto riguarda i sensi di colpa di John, ma la folle paura di esserne ancora succube. Tadaaan! Finalmente l’ho detto.
Ah, e poi beh sì, quell’altra cosa. Talmente ovvia che non ci spenderò troppe parole. Mi sembra un insulto nei miei confronti e in quelli di tutti coloro che davvero credono in questa serie che non ci sia stata nemmeno sta volta la dichiarazione dei sentimenti di Sherlock per John: non volevo la grande scena di amore confessato tra le lacrime e i baci e trobe di angeli squillanti. Mi sarebbe bastato che lo ammettesse a se stesso, o alla telecamera. E invece niente, di nuovo. Quindi fanculo Moftiss: posso perdonarvene molte, ma questa proprio no.
Io vi ringrazio infinitamente per aver letto fino a qui! Vi chiedo cortesemente di lasciarmi un commento qua sotto, che sono sempre immensamente utili e anche molto molto graditi: siete sempre così gentili con me Ciao Ciao! _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 5
*** Aldershot ***


John attendeva il ritorno di Sherlock nell’auto parcheggiata presso al Saint Barth: quando erano partiti aveva detto al compagno che sarebbero dovuti passare dall’ospedale e che poi sarebbero andati fuori città. Volle entrare da solo, senza spiegazioni.
In pochi minuti Sherlock fu di ritorno: portava in mano una scatola di cartone marroncino, liscia, con diverse etichette sul coperchio; la depositò nel baule e risalì in auto, sedendo sul sedile del conducente. John, nonostante ignorasse del tutto quale fosse la loro meta, cominciò a maturare un’ipotesi, ma non volle dire nulla.
A poco a poco uscirono dalla città, passando dai quartieri più esterni della capitale, oltrepassarono la zona industriale fino ad arrivare nel pieno della splendida campagna inglese.
Era da poco passato il mezzogiorno e il sole prometteva uno splendido pomeriggio.
I due ascoltavano la radio nazionale in sottofondo, avanzando chilometro dopo chilometro in quello che era un viaggio piuttosto silenzioso, ma nonostante (John stesse capendo che) sarebbe stato discretamente lungo, il silenzio non pesava affatto: la sera prima si erano detti cose di un certo peso ed era innegabile che fossero ancora scossi dagli eventi dei giorni precedenti. Del sano silenzio era del tutto gradito ad entrambi che, senza il bisogno di parlare, comprendevano perfettamente i pensieri dell’altro e gradivano il rispetto reciproco delle loro esigenze.
John aveva inoltre la sensazione che Sherlock si stesse preparando a parlare di nuovo con qualcuno, a dover fare nuovamente un discorso come quello che aveva fatto a Molly il giorno prima e che doveva riuscire ad essere sincero, riuscendo comunque a dire tutto ciò che doveva in un ordine preciso.
Dopo un paio d’ore di viaggio lasciarono l’autostrada e John lesse da cartello sul ciglio della strada che stavano entrando nei confini di Aldershot, e dunque fu chiaro dove si stavano recando: fuori dai confini della cittadina, sorgeva Musgrave, la casa natale di Sherlock ed i soi fratelli.
John rabbrividì un istante nel pensare che stavano tornando in quella zona dove così poche ore prima avevano rischiato la vita: tornarono alla sua mente le immagini di quella notte, poteva sentire l’acqua gelida avvolgere il suo corpo, il gelo penetrargli nelle ossa, la paura paralizzante di non farcela. E nonostante tutto ciò, non disse nulla a Sherlock, non gli domandò perchè diavolo stavano tornando lì così presto, non gli disse che non voleva tornarci: la sua fede in lui gli prometteva che non sarebbe stato di nuovo in pericolo, che stavano andando in luogo sicuro. John si preoccupò quindi soltanto di mascherare bene il proprio timore, forse tradito da un paio di sospiri forse troppo profondi.
Ma non si avvicinarono a Musgrave.
Sherlock parcheggiò l’auto davanti alla recinzione di un piccolo giardino molto curato di una casina estremamente semplice, ma a modo suo molto carina, dagli infissi e la porta d’ingresso rossi.
Scesero entrambi dall’auto e, ancora senza dirsi una parola, si addentrarono nel giardino fino ad arrivare alla porta d’ingresso. Sherlock esitò un secondo davanti al legno rosso, gettò lo sguardo a terra e sospirò. Ma poi guardò John che gli sorrise dolcemente e riuscì a trovare il coraggio di suonare il campanello.
Dopo qualche istante una signora sugli ottant’anni aprì l’uscio: immediatamente le si illuminò il viso e, dirigendo la voce verso l’interno della casa, esclamò:
“Caro! C’è il piccolo William Holmes! Vieni a salutare!” Allora la signora si rivolse a Sherlock che le sorrise; lei sembrava sinceramente felice di vedere il consultive detective “Caro, come stai?? Ti abbiamo visto in televisione spesso…. E…. lei deve essere il dr John Watson, molto piacere...” John fece un cenno di saluto con il capo. Nel mentre si affacciò dalla porta anche un uomo, più o meno della stessa età della signora, altrettanto felice di vedere Sherlock:
“Piccolo dici cara? Ma guarda quanto è cresciuto... È un piacere rivederla William.” Disse porgendogli la mano; Sherlock la accolse con una vigorosa stretta. Poi disse:
“John, questi sono il Signor e la Signora Trevor.”
«Tesi confermata» pensò allora John.
“Molto piacere.” Disse allora il medico, piuttosto compiaciuto per aver dedotto da solo dove si stavano dirigendo, perché e chi fossero le persone che avrebbero incontrato.
La coppia invitò dunque gli inaspettati ospiti ad entrare in casa e li fecero accomodare sul divano del salotto, poi Sherlock cominciò a parlare:
“Signori Trevor, mi dispiace di non essere venuto prima per una visita...”
“Non ti preoccupare, figliolo... sappiamo che con il tempo avevi dimenticato... Tua madre venne a spiegarci tutto...” disse l’uomo.
“È normale che succedesse... Fu molto traumatico... E tu eri davvero molto piccolo...” proseguì lei.
“Io ho recuperato la memoria di Victor solo l’altro ieri, a seguito di una serie di eventi piuttosto complessi da spiegare ora...”
“Oh...” commentò la donna, compatendolo.
“Io sono venuto a scusarmi.” Disse secco Sherlock “Ebbene, mi dispiace di non essere riuscito a trovare Victor in tempo. Mi dispiace che mia sorella l’abbia ucciso. Vi prego di perdonarci.”
Ci fu qualche istante di silenzio in cui alla donna si inumidirono gli occhi, poi rispose:
“Caro, non c’è bisogno di fare delle scuse del genere... Eri un bambino: non hai colpa di nulla...”
“Sì, invece. Avrei dovuto risolvere l’indovinello di Euros e tutto sarebbe andato diversamente.” Fece una pausa per darsi il tempo di ordinare le idee e anche per dare all’anziana coppia modo di commprendere con chiarezza il suo discorso “Io, l’altro ieri, sono riuscito a risolverlo l’enigma. E... Ho trovato Victor.” La signora si portò le mani alla bocca sconcertata; il marito le strinse la spalla con la mano. Entrambi guardavano attoniti il giovane uomo che un tempo era stato il migliore amico del loro bambino disperso e, per un attimo, un assurdo raggio di vana speranza illuminò i loro cuori. Piuttosto messo in soggezione da quella situazione, Sherlock cercò di spostare l’attenzione sul suo compagno: “In realtà è stato il dottor Watson a rinvenirne i resti...” John sorrise imbarazzato, in fondo era stata una malaugurata coincidenza “Ecco... Li ho portati con me. Sono nell’auto. Sono venuto a riportarveli.”
Nuovamente, John confermò la propria ipotesi: la scatola di cartone che Sherlock aveva prelevato al Saint Barth conteneva i resti del piccolo Victor che avevano rinvenuto il giorno prima in fondo al pozzo. John si offrì di andarla a prendere dal baule dell’auto e così fece. Il medico la porse dunque con delicatezza tra le mani dell’uomo che, ancora sconvolto, la accolse con un fremito.
“È completo.” Aggiunse Sherlock “Mio fratello Mycroft ha fatto in modo che la scientifica procedesse il più velocemente possibile con le analisi obbligatorie in questi casi e che le ossa fossero disponibili quanto prima. Sono state ben ripulite e disposte in questa scatola.”
Le lacrime cominciarono a scorrere lungo le guance della signora:
“Il mio bambino... Lo avevamo cercato così tanto... Ovunque! Avevamo perso la speranza di trovarlo e... Dopo tutti questi anni... Tu, me l’hai riportato...” singhiozzò “Grazie… Grazie...”
“Grazie, figliolo...” disse anche l’uomo con voce rotta. Sherlock rispose con un cenno del capo, a labbra strette.
Gli ospiti lasciarono qualche minuto all’anziana coppia per sfogare le loro emozioni, l’uno tra le braccia dell’altra, accarezzavano quella scatola con le mani tremanti.
Poi, la signora si asciugò le lacrime e andò a preparare un tè e, davanti alla bevanda calda e qualche biscotto, la coppia cominciò a ricordare e a raccontare aneddoti riguardo a Victor. Parlarono a lungo dei giochi del figlio insieme a Sherlock, e quest’ultimo a sua volta riallacciava i ricordi e, poco alla volta, cominciava ad aggiungere dettagli segreti alle bizzarre storie che raccontavano.
John, piuttosto in disparte in tale conversazione, osservava la scena abbastanza insolita: le lacrime si mischiavano ai sorrisi, Sherlock e la sua mente brillante in così poche ore avevano recuperato ricordi straordinari di un infanzia dimenticata da oltre trent’anni, di mappe del tesoro disegnate a pastelli, spade forgiate con aste di legno trovate nel pollaio del vicino, tesori fatti di ciambelle sottratte a Mycroft... E John non poteva fare a meno di notare che quei ricordi dolci e allo stesso tempo terribilmente amari stavano avendo un particolarissimo effetto su Sherlock: era come se stesse cambiando, evolvendo, proprio davanti ai suoi occhi, come se quei ricordi di cui parlava lo stessero accrescendo come essere umano nell’atto stesso di raccontarli. Tutto ciò era a dir poco straordinario, e John ebbe l’impressione che per l’anziana coppia quello fosse un regalo inaspettato davvero molto speciale.
“Ho appena avuto un’idea...” disse ad un certo punto la donna rivolgendosi al marito “Se sei d’accordo, caro, io non farei una cerimonia per Victor...” l’uomo annuì vigorosamente “Stavo pensando che potremmo seppellirlo noi... Magari qui ad Aldershot dove giocavate insieme...” e nel dirlo si rivolse a Sherlock.
“Se lo desiderate, potreste farlo proprio nel giardino di Musgrave.” suggerì Sherlock “È lì che abbiamo vissuto le nostre più grandi avventure… E c’è già quel piccolo cimitero accanto alla casa. È un luogo pacifico...” la coppia sorrise con gratitudine. Lei poi aggiunse:
“Se non sbaglio, di sopra ho ancora uno dei suoi vecchi forzieri: dovrebbe essere grande abbastanza e possiamo inciderci sopra ciò che vogliamo...”
“Penso che sarebbe molto appropriato, cara!” esclamò entusiasta l’uomo
“Sarà il nostro tesoro nascosto...” disse lei.
“Il grande Red Beard non avrebbe voluto di meglio...” commentò Sherlock con un amaro sorriso.
 
Poco dopo, una volta cominciato a calare il sole, Sherlock cominciò a dire che lui e il suo compagno sarebbero dovuti tornare: la signora Hudson si stava di nuovo occupando di Rosie ed era ora che le dessero il cambio e, nonostante le insistenze della signora per restare a cena, si congedarono e ripartirono.
Mentre si dirigevano verso la capitale, John sentí la necessità di parlare all’amico, dopo tutte quelle ore che era rimasto spettatore del suo silenzio o del peculiare quadretto a casa Trevor:
“Sei stato bravo Sherlock, credo che tu abbia davvero fatto una bella cosa.” Sherlock annuì appena, molto serio “Ti chiamano William, lo trovo adorabile...”
“È il mio nome.”
John rimase impietrito: era vero. Glie lo aveva detto prima di salire su quell’aereo, sull’orlo di un’overdose: William Sherlock Scott Holmes, that’s the whole of it. Quasi non ci aveva fatto caso quel giorno... Sherlock aveva sempre usato il suo secondo nome, non aveva mai sentito nessuno chiamarlo William, nemmeno i suoi genitori o Mycroft.
“Giusto... E... Come mai, adesso...?”
“Perchè mi faccio chiamare Sherlock?" Sherlock, per ovvie ragioni, teneva gli occhi sulla strada, mentre John si prendeva la libertà di osservarlo di tanto in tanto. "Sinceramente fino ad un paio di giorni fa non lo ricordavo. Pensavo che mi avessero sempre chiamato così... E, infondo, William era un nome banale... Ma poi ho ricordato.” John lo osservava sin troppo coinvolto “Era stata mia madre a scegliere William, come Shakespeare, il suo preferito. E tutti mi chiamavano William o Will o... Billy. E siccome adoravamo i pirati... Così come Victor Trevor era Red Beard perchè aveva i capelli rossi, io ero-”
“Billy Kidd, il pirata scozzese.”
“Appunto.” Disse annuendo “E quando Red Beard morì, credo che il nome da pirata fu la prima cosa che volli strapparmi di dosso, forse l’unica che abbia rimosso volontariamente: era fisicamente doloroso sentirmi chiamare come lui mi chiamava per gioco, quel nome era qualcosa di nostro, quello che usavo in una realtà in cui lui era fondamentale. Non aveva più senso senza di lui. Ricordo che cominciai a sgridare mia madre ogni volta che mi chiamava William, o peggio Bill... Mi mettevo ad urlare... Io sono Sherlock! dicevo... Ed immagino di averli convinti, con il tempo... E poi dimenticai.”
“Capisco... Devo dire che ti si addice.”
“Direi che trent’anni con il nome più ridicolo del mondo non verranno gettati alle ortiche troppo facilmente. Direi che terrò Sherlock.”
“Ti ricordo che volevi che chiamassi così mia figlia.”
“Penso che lei sarà più che felice di aver tenuto i nomi della madre quando sarà più grande.” John rimase in silenzio, pensando al fatto che Rosie non avrebbe mai ricordato la donna di cui portava i nomi. Poi domandò:
“Come ti senti... dopo tutto questo?”
“Io... Beh, tutto d’un tratto ricordo tutte queste cose... Così tanti momenti che avevo seppellito... È come se fossero di qualcun altro. È disarmante. La mia mente è stato il mio più valido alleato, da sempre, uno strumento che conoscevo alla perfezione e che non aveva segreti per me... e, all’improvviso, scopro che mi ha tradito... Per cosi tanti anni... Non ho mai provato una sensazione del genere.” John avrebbe voluto dire qualcosa di confortante, ma non riuscì a trovare nulla di adatto, ma Sherlock proseguì “Grazie per avermi accompagnato, non ce l’avrei fatta da solo.”
“Ma se non ho fatto niente...”
“Il fatto che tu sia con me è sufficiente. Lo è sempre stato.” Nonappena ebbe pronunciato quelle parole se ne pentì terribilmente: tutte quelle emozioni e quei sentimentalisimi lo avevano portato a perdere il controllo durante un breve istante e aveva parlato più del dovuto.
 Arrossirono entrambi e decisero silenziosamente  di non guardarsi a vicenda per un bel lasso di tempo e fingendo di non aver inteso quelle parole con il vero significato con cui erano state pronunciate.
 


 
Dunque andiamo con ordine! In primis: Sherlock restituisce ai Trevor le ossa del piccolo Victor, e penso che fosse molto più che doveroso e necessario. Poi, la teoria del nome! Vi piace? Non è mia chiaramente, sono anni che è in giro la storia di Billy Kidd, sin da quando si sospettava che Red Beard fosse il cane-pirata morto, moltissimi pensavano che Sherlock avesse abbandonato il nome di William perchè troppo legato al mondo dei pirati e dei giochi con Red Beard: direi che adesso Red Beard sia un bambino vero in carne e ossa la rende ancora più plausibile. Davvero ci hanno lasciato senza alcuna spiegazione su sto nome?? Nella terza stagione buttano lì senza alcun ritegno il nome completo (che i fan dei libri già conoscevano) e ci vogliono far credere che una persona nata e cresciuta in questo secolo abbia scelto il secondo nome più astruso della storia da usare principalmente così a caso? Beh non mi va giù.
Ed infine, Sherlock, in vena di sentimentalismi, confessa a John che il fatto di essere anche solo fisicamente insieme è sempre stato abbastanza per lui. Abbastanza per riuscire nell’impossibile... e, anche se forse è un po’ ovvio, a me piaceva l’idea che venisse detto ad alta voce.
Io spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e vi chiedo cortesemente di lasciarmi un commento qua sotto: sono sempre molto utili e mi fa sempre tanto tanto piacere leggerli. Vi ringrazio infinitamente per essere arrivati a leggere fino a qui e vi rimando al prossimo capitolo. Con grande affetto, un abbraccio. _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 6
*** Il tempo necessario ***


È incredibile quanti danni un’esplosione possa causare all’interno di un appartamento.
È altrettanto incredibile che il periodo necessario a riparare suddetti danni possa essere altrettanto necessario a tante altre piccole cose che hanno bisogno di essere metabolizzate, normalizzate, prima di tornare alla vita di tutti i giorni. E questo tempo, in attesa della ristrutturazione del 221b, per Sherlock, John e la signora Hudson trascorre in modo diverso dal colito. Come se fosse contemporaneamente più veloce e più lento della normalità, come se mancasse qualcosa, come se fossero tutti fuori posto, sospesi, come se non potessero agire con totale naturalezza.
 
Il primo passo fu tornare al lavoro, quantomeno per John che riprese, poco alla volta, a lavorare in ambulatorio, affidando la piccola Rosemary a Sherlock e la signora Hudson durante il giorno: per lui lavorare non si trattava soltanto di una distrazione dalla fredda realtà dei fatti, per John era di un meccanismo necessario a ricominciare a vivere davvero, dopo tutto ciò che era successo. Doveva rendersi utile il più possibile per stare in pace con se stesso, non poteva in altro modo. Quindi le cose migliorarono per lui, un po’ alla volta.
 
Per quanto riguardava Sherlock, anche lui aveva grossi drammi da metabolizzare.
In quegli ultimi due mesi aveva dovuto affrontare momenti terribili. Come guardare negli occhi sua madre nell’istante in cui realizzava che il suo figlio maggiore le aveva mentito sulla morte della sua unica figlia, che ella era ancora viva, ma in uno stato vegetativo in una prigione in mezzo al mare. Aveva dovuto allontanare suo padre da Mycroft dopo non essere riuscito ad evitare che gli tirasse l’unica sberla che il povero uomo avesse mai dato a qualcuno, e cercare di calmarlo e rassicurarlo e guardarlo piangere per la prima volta nella sua vita. Li aveva poi accompagnati a Sherrinford per visitare Euros da dietro a quel vetro, li vide piangere entrambi, l’uno tra le braccia dell’altra nel vedere che la loro bambina era viva, ma che non reagiva a nulla. Aveva dovuto raccontare loro cos’era accaduto, cosa aveva fatto loro, cosa aveva fatto al piccolo Victor Trevor e come mai si trovava in quello stato.
Lei, nel sentire la sua voce, prese il suo violino, senza mai distogliere lo sguardo dal vuoto assoluto. Sherlock aveva dunque preso il suo e avevano cominciato a suonare insieme, ognuno dalla sua parte del vetro, senza parlarsi, una melodia che fuoriusciva direttamente dai loro cuori trasformandosi in musica: aveva trovato quell’ultimo barlume di coscienza che era rimasto in lei e il modo per potervi comunicare. Era ancora viva, nel profondo di quegli occhi vuoti.
Ci sono cose che necessitano di un certo tempo per essere metabolizzate.
È impossibile accelerarne il processo. Ma per Sherlock fu di grande aiuto il rapporto che stava creando con la piccola Rosie. Trascorreva con lei quanto più tempo possibile: giocavano insieme, facevano lunghe passeggiate nel parco, davano da mangiare alle papere, mangiavano insieme, dormivano insieme... E lui poteva osservare come cresceva a vista d’occhio, come ogni giorno imparava qualcosa di nuovo, come la sua memoria si rafforzava prepotentemente, rendendola capace di assimilare un’incredibile quantità di informazioni ogni giorno ed imparare ad applicarle. Il mondo la bombardava costantemente di stimoli e lei reagiva ad essi in modo del tutto spontaneo e meravigliato facendo di se stessa, giorno per giorno, un essere umano più complesso. Tutto ciò per Sherlock era semplicemente straordinario: non aveva mai avuto la possibilità di osservare così a fondo un neonato e seguirne lo sviluppo. Era il più incredibile degli studi che avesse intrapreso, l’esperimento più delicato ed interessante. E gli faceva tremendamente bene al cuore. Sherlock arrivò a pensare che se non avesse avuto accanto a lui la piccola Rosie in quel periodo, probabilmente non sarebbe riuscito a tornare ad essere l’uomo che era.
Si accorse presto di amarla profondamente. La amava, come parte di John.
Ci sono cose che necessitano di un certo tempo per essere metabolizzate, come quei sentimenti che Sherlock provava nei confronti di John che, per quel drammatico periodo appena trascorso, erano rimasti vagamente assopiti in lui per cedere spazio alla compassione, al lutto e a molta tristezza. Chiudeva gli occhi e pensava lui, sentiva il suono della sua voce risalire dal profondo del suo stomaco direttamente fino al cuore che, nei momenti meno opportuni, cominciava a battere furiosamente nel suo pallido petto. L’odore di John, i gesti di John, i suoi occhi, le sue mani... Tornarono ad essere oggetto di venerazione e desiderio costante da parte di Sherlock, che cercava in ogni modo di comportarsi normalmente. Nella sua mente balenavano troppo frequentemente immagini del compagno di avventure che lo facevano improvvisamente arrossire. Vivere di nuovo insieme, con quell’aggiunta di quel nuovo e terribilmente attraente lato paterno, era per il consultive detective uno struggente piacere che cresceva di giorno in giorno.
A volte a Sherlock pareva che John non lo avesse mai lasciato. Come se tutto il periodo dalla sua caduta in avanti fosse stato solo frutto di un brutto sogno: niente Moriarty, niente Mary, niente matrimonio, niente Magnussen, niente mr Smith, niente Euros. Solo loro due, insieme.
Certo, Rosie era la prova concreta del fatto che questo non era vero. E del fatto che anche dalle situazioni peggiori possono nascere cose meravigliose, ed anche per questo era importante. Lei era l’incarnazione del tempo che era passato, testimone dei terribili avvenimenti che li avevano tenuti lontani, che avevano minacciato le loro vite e la loro felicità. Rosie dava a tutto ciò un senso, uno straordinario perché.
Sherlock si ritrovò a pensare che nulla, in tutta la sua vita, lo aveva reso altrettanto felice quanto la consapevolezza che ora lui, John e la sua bambina vivevano insieme.
 
Ci sono cose che necessitano di un certo tempo per essere metabolizzate, ma quando questo tempo passa, arriva il momento di agire davvero.
 
Un pomeriggio, mentre se ne stavano entrambi a guardare la piccola giocare in salone nella palestrina per neonati, arrivò un sms al cellulare di Sherlock. John poté vedere il suo sorriso mutarsi in disagio:
“Che succede?” domandò
“I lavori al 221b sono finiti. Mi chiedono quando posso andare a vedere la casa con la signora Hudson...” rispose allore il consultive detective.
“Ma è grandioso Sherlock!” sorrise allora John, senza essere del tutto certo del motivo per cui Sherlock non fosse felice della noticia.
“Si... Certo.”
Tutto sarebbe finito, John sarebbe di nuovo uscito dalla sua vita e si sarebbe portato con sè la bambina. Perchè avrebbe dovuto fare diversamente? Lui era un ospite, come aveva fatto a dimenticarsene? Dormiva sul divano, per l’amor del cielo. Quella non era la vita vera, era stata una fase, sarebbe dovuto tornare con i piedi per terra prima o poi: lui sarebbe tornato al 221b e avrebbo continuato la sua vita solitaria, mentre John avrebbe vissuto la sua in quella casa, solo, con la sua bambina.
John vide nell’espressione di Sherlock il suo turbamento, ma non volle disturbarlo: sentì che nulla di ciò che sarebbe stato capace di dirgli lo avrebbe distolto dai pensieri che stava sperimentando. Perció lo lasciò in pace.
 
L’indomani andarono tutti insieme al 221b, John portava Rosie in un marsupio.
La porta di ingresso non era quella a cui erano abituati, ma qualcosa di poco più complesso di un asse di legno con un catenaccio: non era altro che qualcosa di temporaneo, ma ai vecchi coinquilini fece un brutto effetto non trovarsi davanti alla cara e vecchia porta nera e lucida, con quei numeri metallici impressi a fuoco nei loro cuori.
Li accolse un muratore. Li fece entrare, e si ritrovarono con un’immagine alla quale non erano del tutto preparati: ogni ambiente della casa era del tutto nudo, spoglio. Non c’erano mobili nè colori alle pareti, nessun oggetto, nessuna testimonianza del loro passato. Come se un’enorme gomma li avesse cancellati dalla storia di quelle mura. Sherlock si avvicinò al muro del salone e accarezzó la parete liscia e bianca, perfetta.
Mancavano i fori di proiettile che aveva fatto quel giorno, perchè il muro se l’era meritato.
E le poltrone... Cos’era quel salone senza quelle poltrone? Era stato Mycroft ad occuparsi della ristrutturazione, e Sherlock si rese conto di non sapere se le loro poltrone fossero sopravvissute all’esplosione. Di certo ne dubitava. Mancavano poi i libri, il teschio con le cuffie, il divano, la cucina piena di rifiuti tossici e strumenti da laboratorio. C’erano solo stanze nude e piene di polvere, e non della polvere eloquente, quella che parlava a Sherlock delle loro vite: era una polvere falsa, tutta uguale, muta. Tutto era diverso. Nulla di riconoscibile al di fuori delle finestre che davano su Baker street.
“C’è un bel po’ di lavoro da fare... Ma è sempre il caro vecchio appartamento...” concluse John sorridendo, cercando di darsi forza. Ma Sherlock non rispose, guardandosi intorno pensieroso. John decise che era arrivato il momento: “Quanto mi è mancato questo posto...” ancora nulla dall’amico, dunque decise di essere più diretto: “Ascoltami Sherlock...” lui si rivolse verso John, ancora incupito “Io ci ho riflettuto parecchio e... Io non credo di voler vivere più in quella casa.” Sherlock sgranò gli occhi: non poteva credere che lo stesse dicendo davvero. “Non credo che mi sia mai piaciuta davvero. E poi, penso che io e Rosie ci sentiremmo soli in una casa così grande... Lo so che è chiedere molto ma-”
“John, tu non devi chiederlo affatto.” Lo interruppe Sherock: “Questa è casa tua, non ha mai smesso di esserlo.” John sorrise, ma insistette:
“Ma certo che devo! Adesso siamo in due...” disse accarezzando la testolina di sua figlia “Non sarà più come prima...”
“Certo che no. Rosie sarà una coinquilina molto più stimolante di quanto tu sia mai stato.” Risero entrambi e John diede una sonora pacca sulla spalla a Sherlock stringendola poi forte:
“Grazie Sherlock, davvero...”
John proprio non si rendeva conto che, in quel momento, il più grato tra i due era proprio Sherlock.
 
Quando giunse il momento di riarredare l’appartamento, sia Sherlock che John furono felici di collaborare: era loro precisa intenzione ricreare gli spazi così come erano il giorno in cui avevano lasciato il 221b. Scoprirono a malincuore che le poltrone non erano sopravvissute all’esplosione, ma riuscirono a trovarne un paio simili alle originali, così come la così strana carta da parati ed un quadro raffigurante un teschio. Il cranio di bue che era sempre stato appeso alla parete del salone era stato quasi miracolosamente rinvenuto tra le macerie, l’unico degli oggetti tra i più iconici del loro passato ad essere sopravvissuto: fu il primo che sistemarono al suo posto dopo che le pareti si furono asciugate, con le cuffie.
Naturalmente furono necessari dei cambiamenti: Rosie avrebbe condiviso la stanza con John finché non sarebbe diventata abbastanza grande da poter dormire da sola, ma quando fosse arrivato il momento, lei o John si sarebbero trasferiti al piano di sotto, il 221c dove così tanti anni prima avevano trovato le scarpe di Carl Powers. Per lei, avrebbero evitato di comprare un tavolino troppo basso con spigoli appuntiti come quello che avevano un tempo, ma uno tondeggiante e leggermente più alto, per evitare che potesse farsi male. Allo stesso modo alla base e alla fine delle scale era necessario installare dei cancelli a prova di bimbo, per evitare che cadesse e così via.
Chiaramente, a lavori ultimati, Sherlock non potè resistere alla tentazione di sparare nuovamente al muro e John, dal canto suo, comprò una bomboletta di vernice gialla per disegnare, lí dov’era un tempo, lo simile giallo.
John avrebbe voluto vendere la casa che aveva comprato con Mary, ma Sherlock glie lo impedì: in futuro sarebbe potuta servire e nel frattempo avrebbe potuto affittarla ed avere così un’entrata fissa ogni mese, soprattutto quando avrebbero estinto il mutuo.
Quando tutto fu sistemato, fu una gioia poter tornare a vivere tutti insieme al 221b.
Per festeggiare, Sherlock pensò di comprare le cifre del numero cívico. Andò poi a prendere John dopo il lavoro insieme a Rosie e li affissero tutti insieme, con la Signora Hudson ed il propietraio dello Speedy’s che, grato dell’aiuto che Mycroft aveva dato anche a lui nelle riparazioni, aprì una bottiglia di spumante e ne servì a tutti.
Cenarono insieme alla signora Hudson con il camino acceso e la piccola Rosie che, seduta sul suo seggiolone, si spalmava pappetta di spinaci su tutta la faccia.
Finito di cenare, mentre John e la signora Hudson finivano un bicchiere di brandy ridendo dei tempi passati seduti sul divano, Sherlock prelevó la bambina che stava giocando sul tappeto con una serie di palline e animaletti di gomma, per portarla a fare il bagnetto.
Quando la signora scese per andare a dormire, John raggiunse Sherlock e sua figlia nel bagno: si trovò Sherlock inginocchiato a terra davanti alla vasca da bagno, con la camicia blu con le maniche raccolte fino alle sopra ai gomiti, tutta bagnata sul petto, che faceva giocare la bambina con una barchetta pirata nell’acqua piena di schiuma. Non essendo stato notato, restò per qualche minuto a contemplare la scena, sorridendo:
Non si sarebbe mai aspettato che Sherlock avrebbe potuto sviluppare un rapporto simile con un neonato. Realizzó forse proprio in quel momento, che sin da quando era morta Mary, Sherlock lo aveva aiutato tantissimo con Rosie, davvero non sapeva che cosa avrebbe fatto senza di lui, senza il suo appoggio.
Era in momenti come quello, in cui vedeva Sherlock giocare con la sua bambina, con quel sorriso e quel fare paterno, che non poteva evitare di tornare a pensare a lui a quel modo in cui tante volte si era proibito di pensare. La ferita della morte di sua moglie fosse ancora così viva e dolorosa, ma non poteva ignorare il tuffo al cuore che provava nel guardarlo, sempre più spesso. E si odiava per questo. Per scacciare quel pensiero si avvicinò alla coppia e contribuí a concludere il rito del bagnetto, che includeva uscire dall’acqua, asciugarsi per bene, mettere l’olio profumato, poi il pannolino, poi il pigiama, salire in camera da letto e con le luci abbassate e il carillón che suonava una ninnananna cercare di farla dormire.
Si diedero il cambio un paio di volte, fino a che la piccola si addormentó tra le braccia di Sherlock. Questo la adagió nel lettino con estrema delicatezza.
“Sei davvero bravo.” Sussurró John, Sherlock sobbalzò “Proprio portato, direi.” si avvicinò alla culla anche lui “È bellissima…” commentò.
“Quando dorme!” rispose Sherlock, alzando le sopracciglia sarcastico.
Risero entrambi.
“Somiglia a sua madre…” commentò John e Sherlock sospirò.
“Ha i tuoi occhi.” puntualizzò
“Lo so...” passò forse un minuto di silenzio in cui il carillon concluse la sua melodia. Sherlock sussurrò allora:
“Allora tolgo il disturbo.” fece per andare di sotto, ma John gli afferrò il braccio. Fece quindi scivolare la mano all’indietro fino ad arrivare a prendere la sua.
“Sherlock io…” lo guardò intensamente negli occhi, ma poi, arrossendo, distolse lo sguardo e disse solo “Buonanotte.” lasciando cadere la mano. Sherlock sospirò, di nuovo. Guardò a terra. Le parole gli uscirono dalla bocca senza che se ne rendesse nemmeno conto:
“È sbagliato che io sia felice per tutto questo, John?” domandò. L’altro lo guardò confuso “Stimavo immensamente Mary, ma… Averti di nuovo qui, a casa... Avervi entrambi qui... Mi rende così felice. È come se non avessi mai desiderato altro.” Sospirò “Questo è… Sbagliato?”
John proprio non sapeva cosa rispondere, perchè lui stesso si era spesso posto la stessa domanda negli ultimi mesi.
“Non lo so...” rispose tornando a guardare il viso angelico di RoseMary, assopita “Forse. Forse lo è. Anche se… Non credo che essere felici possa mai essere davvero sbagliato o irrispettoso.” Sherlock sospirò e fece per uscire dalla stanza di nuovo “Per quel che vale, Sherlock...” lo interruppe John “Non posso fare a meno di essere immensamente felice anch’io di essere tornato.”
Sherlock si voltò e gli sorrise:
“Buonanotte, John.”
“Buonanotte, Sherlock.”
 

 


Eccoci qui, di nuovo, scusate per il ritardo… Non è facile trovare il tempo per scrivere in questi giorni. Sta volta c’è poco da commentare: a dirla tutta sono più o meno cose che devono essere successe anche nella serie canon perchè Sherlock e John effettivamente mettono a posto il 221b, il cranio di bue è davvero sopravvissuto all’esplosione e John (VIVA DIO) torna a vivere al 221b insieme alla bambina. Persino il dettaglio del tavolino senza spigoli è vero: fateci attenzione la prossima volta che vedete quel flash future! Inoltre vediamo la sfuriata a Mycroft da parte dei genitori e loro che vanno ad ascoltarla suonare il violino insieme a Sherlock. Per il resto sono sentimenti non detti, quindi ci stanno tutti. Nulla di straordinario sta volta: spero di non aver deluso le aspettative di nessuno! Io come sempre vi ringrazio di aver letto fino a qui e vi rimando al prossimo capitolo. Fatemi sapere la vostra opinione in recensione, mi raccomando! Con affetto, un abbraccio _SalvamiDaiMostri

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