Smoke and Mirrors

di Shadow writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primo omicidio ***
Capitolo 2: *** Il secondo furto ***
Capitolo 3: *** Contra ad Amor ***
Capitolo 4: *** All day and all of the night ***
Capitolo 5: *** Larry Beaver ***
Capitolo 6: *** Contrasti ***
Capitolo 7: *** Renegade ***
Capitolo 8: *** Knockin on Heaven's Door ***
Capitolo 9: *** Goner ***
Capitolo 10: *** Imprevisti ***
Capitolo 11: *** Verità ***
Capitolo 12: *** «Tessie mi sta aspettando» ***
Capitolo 13: *** La resa dei conti ***
Capitolo 14: *** Perdono ***



Capitolo 1
*** Il primo omicidio ***


1_ Il primo omicidio
 
 






L'uomo aveva gli occhi sbarrati.
Erano di un azzurro delicato, vitrei come se fossero stati finti e fissi davanti a sé. Il resto del volto era paralizzato in una smorfia di terrore marmorea, le labbra dischiuse e le sopracciglia sollevate e avvicinate.
Pareva la statua di un sadico artista, che voleva generare una sensazione di disagio in chiunque avesse osservato la sua opera.
Ma quello era un uomo di carne, o almeno lo era stato, prima di diventare un freddo cadavere.
Il detective Graham era chino sul suo volto e lo stava scrutando con la fronte corrugata.
«Se si avvicina ancora, può baciarlo» commentò uno degli uomini della scientifica e il detective si sollevò rivolgendogli un sorrisetto glaciale.
«Quando avrò bisogno di chiedere come fare il mio lavoro, te lo farò sapere» replicò e l'altro riprese a lavorare, alzando gli occhi al cielo.
Il detective si guardò attorno, scrutando un'altra volta la stanza in cui si trovava. Si trattava di un salotto ben arredato, anche se vecchio stile, con le vetrinette che mettevano in mostra i servizi di piatti e bicchieri.
Il cadavere era riverso sul tavolino da caffè, con la gola tagliata e una pozza di sangue che si allargava sul tappeto sottostante. Intorno a lui la scientifica si stava dando da fare per trovare un qualsiasi segno che potesse aiutarli.
Il suono deciso di tacchi che battevano sul parquet della stanza attirò l'attenzione dei presenti. Dalla porta era entrata una donna di mezz'età in tailleur nero, con i capelli scuri che le circondavano il volto serio e deciso.
«Graham» esordì lei rivolgendo un cenno di saluto al detective «Devo ancora abituarmi a vederti lavorare a tempo pieno nella Omicidi. Aggiornami su quello che hai scoperto»
«Tenente Carter» replicò lui rispondendo al saluto «Sono arrivato anche io da poco. Per ora so solo che quest'uomo, Benjamin Collins, è morto dissanguato dopo che qualcuno gli ha tagliato la giugulare. Considerando i suoi abiti eleganti, o stava per uscire o stava rientrando, infatti l'allarme era disattivato. Dobbiamo aspettare l'esito dell'autopsia per sapere con maggiore precisione l'ora del decesso, ma si suppone sia avvenuto ieri sera. L'unico segno di combattimento è quella poltrona fuori posto» il detective indicò il mobile «Probabilmente Collins l'ha spinta per difendersi, ma la lotta non è durata molto. Suppongo fossero almeno due. Non hanno lasciato impronte, non evidenti almeno, e non hanno toccato la cassaforte»
Carter si guardò attorno: «Non è stato rubato nulla?»
Lui scrollò le spalle: «Aspettiamo i famigliari per sapere cosa manca»
L'uomo le indicò una fotografia appesa alla parete. Raffigurava Benjamin Collins accanto ad una donna e due ragazze più giovani: «La moglie e le figlie. Secondo i vicini erano fuori città ieri sera»
«Chi ha trovato il cadavere?»
«Un amico. Avevano un appuntamento per questa sera, ma Collins non si era fatto vivo. Non era da lui»
Il tenente fece un cenno di assenso con il capo: «Va bene. Lascio il caso nelle tue mani, so di potermi fidare»
Il detective accennò un sorrisetto sghembo.
«Ma togliti dalla faccia quell'espressione da spaccone, Graham, sono stufa di sentir lamentele per il tuo atteggiamento»
«Come il capo comanda» replicò lui e seguì con lo sguardo la donna che usciva dalla stanza.
Una volta rimasto solo -esclusa ovviamente la decina di altri uomini che lavoravano intorno a lui- lanciò un'occhiata all'orologio sulla parete del salotto.
Segnava le 20.12.
L'uomo prese velocemente il cellulare per assicurarsi che fosse corretto e imprecò quando realizzò che aveva perso la cognizione del tempo.
«Io devo andare» disse rivolgendosi ad uno degli altri agenti «Ma contattatemi per ogni novità» 
«Certo, detective»
Detto ciò, l'uomo si avviò a grandi passi verso l'uscita lanciando ultime occhiate alla stanza. Non c'era nulla di fuori dal comune in quel salotto e l'unico modo per aver altri indizi era aspettare che la scientifica facesse il proprio lavoro.
Il detective uscì nella strada già buia e raggiunse la propria auto, una Oldsmobile 88 rosso scuro.
Salì a bordo e guidò in fretta verso la propria meta, a più di mezz'ora di distanza. 
Fissò la strada con aria concentrata per tutto il viaggio, senza pensare ad altro che tornare a casa.
Cominciò a rallentare solo quando svoltò nella propria via e parcheggiò con cautela nel garage.
«Sono tornato!» annunciò entrando in casa.
«Papi!» trillò una vocina e una piccola figura comparve all'improvviso. L'uomo l'afferrò al volo e se la caricò in braccio.
«Ecco la mia piccola! Come stai, Emi?»
«Bene, papi, e tu?»
Prima che lui potesse replicare, nella stanza comparve una giovane donna dai corti capelli castani e l'espressione minacciosa negli occhi grigi.
«Sei in ritardo, Harrison» fece puntando con l'indice il detective.
Lui sbuffò: «Scusa, la prossima volta chiederò di anticipare l'omicidio»
Prima che Emi si mettesse a chiedere qualcosa sul suo lavoro e lui fosse costretto ad inventarsi di tutto al posto del cadavere dalla gola tagliata, Harrison rimise al bambina a terra e le sussurrò: «Perché non vai a metterti il pigiama, così poi vengo a leggerti una storia?»
Lei annuì, entusiasta, e corse via per fare come le era stato detto.
Una volta rimasti soli, Harrison si raddrizzò per fronteggiare la donna: «Avete già mangiato?»
«Sì, detective, secoli fa. È avanzato qualcosa per te, ma probabilmente è già freddo»
Lui scrollò le spalle: «Va bene comunque»
Si diresse in cucina, seguito dalla donna che continuò a parlare: «Emilia non la smetteva di chiedere quando saresti arrivato. Voleva raccontarti qualcosa che è successo all'asilo, ma tu non c'eri, così l'ha raccontato a me»
Harrison sbuffò mentre lanciava un'occhiata alla minestra avanzata nella pentola.
«Be', grazie, Nell» fece guardando di sottecchi la donna.
Lei alzò gli occhi al cielo: «Non lo faccio per te, lo faccio per Tess»
«Oppure per la mancia che ti diamo come babysitter?» commentò lui ironico mentre si versava la minestra in un piatto.
«Quei soldi bastano solo per comprare il regalo di compleanno di Tess, quindi consideralo come un investimento» continuò Nell sedendosi di fronte a lui.
Harrison si mise a mangiare la minestra, fredda, in silenzio, percependo lo sguardo di Nell su di sé. 
Non credeva che la sorella di Tess lo disprezzasse, ma era convinto che cercasse si dimostrare che se avesse fatto soffrire Tess, avrebbe dovuto vedersela con lei. Non si poteva certo dire che l'uomo le avesse fornito motivi validi per fidarsi di lui.
Tess si era trasferita in casa sua senza dire nulla ai famigliari, neanche alla sorella con cui condivideva tutto, almeno non inizialmente. E Nell era venuta a sapere la verità quando lui aveva deciso di scolarsi metà delle bottiglie del Rockin' Jokers, il pub vicino alla centrale, ed era toppo ubriaco per anche solo riuscire a capire dove si trovava.
Forse lo stava solo mettendo alla prova, ma lui odiava dover dimostrare qualcosa a qualcuno.
«È ancora buona la minestra?» domandò Nell interrompendo le sue rimuginazioni.
"Buona" non era esattamente l'aggettivo che il detective avrebbe utilizzato, considerando quando fosse fredda, ma rispose con un vago cenno di assenso del capo.
«Tess dice che sei un bravo cuoco, ma come puoi cucinare se torni sempre tardi?» continuò la donna. Harrison aveva notato che aveva la stessa lingua tagliente della sorella, ma molta più sfacciataggine ad utilizzarla rispetto a Tess.
«Sono solo stato molto impegnato con il lavoro ultimamente» replicò lui guardando la giovane con a fronte corrugata: «Hai intenzione di passare qui la notte o torni a casa?»
Lei mosse maliziosamente le sopracciglia: «Che proposta allettante! Ma credo che tornerò a casa, domani devo andare a lezione presto»
Harrison non aveva mai indagato a lungo, ma sapeva che Nell dormiva durante la settimana nell'appartamento vicino all'università e nei weekend in casa dei genitori. Questo non le impediva di trascorrere qualche notte fuori casa, come aveva fatto alcuni giorni prima, quando Harrison era tornato tardi dal lavoro e lei si era fermata a dormire nel divano-letto in camera di Emilia.
Da quando Tess era partita per la gita sulla neve con i suoi studenti, l'uomo aveva avuto bisogno di qualcuno che si occupasse della figlia mentre era al lavoro e così la scelta era ricaduta su Nell. 
«Bene, io vado» annunciò la giovane in quel momento «Buona notte, detective, salutami Emilia e anche Tess, quando la chiamerai su Skype»
«Perché non la chiami con il cellulare?» domandò lui perplesso e lei sgranò gli occhi, sorpresa dalla domanda: «Stai scherzando? Le chiamate costano! Buona notte»
Detto ciò, Nell uscì dalla stanza e poco dopo si sentì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi alle sue spalle.
Una volta rimasto solo, Harrison finì di mangiare, poi sparecchiò e lavò a mano le stoviglie.
La casa era immersa nel silenzio e gli ricordò il tempo in cui lui viveva solo con Emi. Loro due erano gli unici abitanti della casa e avevano bisogno di poche parole per capirsi. Tutto stava negli sguardi e nei gesti silenziosi.
Da quando Tess viveva nella casa, le stanze si erano riempiti di sussurri, risatine, passi, canzoni canticchiate. Tess era una cura per il buon umore di tutti e loro erano la cura per lei. La donna non amava contare sugli altri, ma aveva fatto un'eccezione per loro. Se lui ed Emilia vivevano in simbiosi perfetta, Tess sapeva scombinare quell'equilibrio e farne qualcosa di più eccitante ed entusiasmante.
Harrison finì di riordinare la cucina e salì al piano superiore, nella stanza di Emilia. La bambina era già seduta sul letto, con le gambe sotto le coperte e i capelli biondi che le circondavano il volto come un'aureola dorata.
«Mi leggi una storia, papi?» domandò, guardando l'uomo.
Lui annuì e si avvicinò al letto, prese un libro dallo scaffale accanto e si sedette sul materasso.
«Questo va bene?» chiese mostrando ad Emi la copertina. La bimba annuì e si sdraiò bene nel letto. Harrison le rimboccò le coperte, poi si schiarì la voce: «"Ogni pomeriggio, appena uscivano dalla scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un grazioso e vasto giardino, con erba soffice e verde...»
Mano a mano che l'uomo leggeva la storia, Emilia passava dall'essere attenta al racconto, a lasciarsi cullare dalle parole, fino a che le sue palpebre lentamente si abbassavano sugli occhi e prima ancora che il Gigante capisse di essere egoista, la bambina era già nel mondo dei sogni. 
Harrison chiuse il libro e lo ripose, poi si soffermò a guardare quella piccola creatura addormentata. 
Emi era sempre stata una bambina seria, ma mentre dormiva il suo volto era rilassato, le sue labbra distese in un sorriso sereno. La guardò per qualche istante, con affetto e tenerezza, pensando che era la cosa più bella che avesse mai visto e che in nessun modo avrebbe permesso che qualcosa o qualcuno la rendesse diversa da ciò che era.
«Tu sei la mia bambina» le sussurrò «E io ti amerò per sempre»
 
 
Un quarto d'ora più tardi, Harrison si trovava sul divano del salotto, con il portatile accesso sulle gambe.
Guardava lo schermo, in attesa, fino a che lo sfondo azzurro venne sostituito dall'immagine in diretta di un'altra webcam. Sullo schermo c'era una giovane donna sorridente, con i capelli castani raccolti in una coda scomposta e gli occhi grigi che guardavano lo schermo dall'altro capo.
«Buona sera, Tessie Bear» salutò lui senza riuscire a trattenere un leggero sorriso.
Il filmato era in bassa qualità a causa della connessione e la donna si muoveva a scatti.
La sua bocca cominciò a parlare, ma l'audio arrivò in ritardo: «Buona sera, detective»
«Sembra che qualcuno abbia preso il sole» commentò lui accennando al volto arrossato della donna.
«Diciamo che più che altro il sole ha preso me» replicò lei «Mi sono scottata tutta la faccia!»
«Ti avevo detto di portare la crema solare, ma tu hai continuato a ripetere che in montagna non ti sarebbe servita»
Nonostante i fotogrammi poco fluidi, Harrison riuscì ad intuire che la donna aveva alzato gli occhi al cielo.
«Sì, mamma» commentò lei infatti «La prossima volta farò come dici tu»
Chiacchierarono per una decina di minuti, raccontandosi a vicenda come avevano trascorso il tempo dall'ultima volta che si erano parlati. Tess era partita cinque giorni prima e ad Harrison sembrava mancasse da un'eternità.
Da quando si conoscevano, non erano mai stati lontani più di due giorni e se lei non sarebbe tornata di lì a poco, l'uomo era certo che avrebbe cominciato ad affliggersi seriamente per la mancanza.
«Ora ti devo salutare, detective» disse la donna «Domani mi aspetta un'altra giornata passata a correre dietro ai ragazzini per assicurarmi che tornino a casa sani e salvi. Fai il bravo»
«Stavo per dirti la stessa cosa» scherzò lui.
Tess sorrise e si avvicinò alla telecamera con le labbra, mandando un bacio virtuale.
«Ti amo, Tessie, e non vedo l'ora che tu torni a casa»
«Anche io, Harrison. Tu ed Emi mi mancate un sacco. Buona notte»
Lui sorrise, lasciandosi avvolgere dalle parole dolci della donna.
«Buona notte» disse a sua volta.
 
 
«Buon giorno!» salutò la mattina successiva Harrison entrando in centrale. Il saluto era rivolto principalmente a Sadie, che se ne stava al di là della propria scrivania, nella sala affollata.
Da quando la donna aveva partecipato come assistente al caso Davis, quattro mesi prima, aveva continuato a chiedere di poter avere mansioni che andassero oltre il suo semplice ruolo di segretaria. 
Harrison l'aveva sempre trovata troppo in gamba per occuparsi solamente di gestire le telefonate o le persone che arrivavano alla centrale in cerca di aiuto, ma dato che Sadie non aveva le qualifiche per lavorare come detective, si occupava generalmente di semplificare il lavoro ai colleghi, aiutandoli a raccogliere informazioni utili per i casi.
«Buon giorno, oggi sembri di buon umore» replicò lei guardando sorpresa l'uomo «Cosa ti è successo?»
Lui scrollò le spalle: «Ho solo voglia di tornare al lavoro. Hai qualcosa per me?»
La donna annuì energicamente e si allungò per prendere dei documenti sulla sua scrivania: «Sì, riguardo la morte di Benjamin Collins.  È morto tra le 11.40 e mezzanotte circa, in modo piuttosto doloroso secondo i medici, perché era ancora cosciente, anche se agonizzante, mentre perdeva litri di sangue. La moglie crede che non abbiano rubato nulla, almeno non gli oggetti di grande valore, ma era troppo sconvolta dalla perdita per poter ragionare lucidamente. Ti aspetta tra meno di un'ora a casa sua per poterla interrogare»
«Grazie Sadie, sei un angelo» replicò lui e senza neanche togliersi la giacca di pelle, uscì dalla centrale per tornare alla propria auto.
Ripercorse la strada che portava a casa Collins e parcheggiò davanti all'ingresso dell'abitazione.
Trovò la porta socchiusa e notò un chiacchiericcio soffuso all'interno, così suonò il campanello e spinse la porta, che si spalancò davanti a lui.
Sulla soglia comparve una donna sulla cinquantina con un gomitolo di capelli in testa e un'espressione afflitta.
«La signora Collins?» domandò lui corrugando la fronte.
L'altra scosse il capo: «No, sono un'amica. Clara è di là»
L'uomo mostrò il distintivo: «Detective Graham, ho bisogno di parlare con la sua amica»
La donna lo condusse all'interno della casa, superarono il salotto dove la sera precedente c'era il cadavere del signor Collins e raggiunsero la cucina. Nella stanza c'erano quasi una decina di persone, che sembravano prodigarsi per non far mancare nulla alla donna che stava seduta al tavolo, affiancata da due ragazze simili a lei. 
Harrison si avvicinò a quest'ultima e dopo essersi presentato, esordì: «Volevo farle le mie condoglianze per la perdita di suo marito. So che questo non servirà a riportarlo indietro, ma posso assicurarle che faremo del nostro meglio per scoprire chi è stato, ha la mia parola»
La donna annuì, riconoscente, e lui dovette trattenersi dall'esultare per il successo. Si era allenato per sembrare la persona sensibile che Carter voleva e non poteva rovinare tutto con un sorriso di trionfo davanti alla vedova piangente.
«Ho bisogno di farle alcune domande di routine, è un problema?»
La signora Collins scosse il capo e si raddrizzò: «No. È quello che devo fare» 
Harrison lanciò un'occhiata agli altri presenti, poi tornò a guardare la donna: «Le dispiace se andiamo in un luogo più tranquillo?»
Lei fece ancora cenno di no e si alzò in piedi per condurlo in un'altra stanza.
Entrarono in un piccolo studio, la donna si appoggiò alla scrivania e indicò al detective la poltrona per accomodarsi, ma lui scosse il capo e rimase in piedi di fronte a lei.
«Prima di tutto» esordì l'uomo «vorrei sapere se qualcuno avrebbe avuto un motivo di uccidere suo marito»
Lei sgranò gli occhi: «Non si tratta di ladri?»
«Se non è stato rubato nulla, forse qualcuno aveva motivo di volere suo marito morto. Hai idea di chi possa essere stato? Ci pensi attentamente»
La donna fece come le era stata detto, abbassando gli occhi stracolmi di lacrime verso il parquet, con una smorfia di dolore sul volto.
«Io, n-non credo» replicò «Ben lavora...lavorava per un'agenzia di assicurazioni e, come lei sa, quando si parla di denaro, la maggior parte degli uomini pone l'interesse prima di tutto. Mio marito ha dovuto spesso gestire situazioni non piacevoli, ma si è sempre comportato onestamente. Forse qualcuno può aver percepito la sua correttezza come un torto, ma non riesco a capire come questo possa averli portati a volerlo uccidere» soffocò un singhiozzo deglutendo e guardò il detective «Chi può fare una cosa del genere, detective?»
Lui scosse il capo: «Ancora non lo so, ma ho intenzione di scoprirlo»
Fece poche altre domande alla vedova, poi la congedò, chiedendole di poter parlare con altri conoscenti della vittima.
Lei annuì, ma prima di uscire dallo studio, si fermò sulla porta e guardò il detective.
«Posso chiederle una cosa?» domandò.
«Certo»
«Ben...ha sofferto?»
Harrison le rivolse uno sguardo indecifrabile attraverso gli occhi verdi, poi rispose: «No, non ha sofferto»
Il detective parlò con amici, parenti e vicini per le ore successive. Scoprì che Benjamin Collins era un uomo dai valori saldi e che metteva prima di tutto i propri principi morali, non aveva mai fatto un favore se questo andava contro le regole e le uniche critiche che erano state mosse nei suoi confronti, erano causate da un rancore perché l'uomo aveva preferito la giustizia all'amicizia. 
Le figlie ne parlarono come un uomo severo, ma anche gentile e amorevole, dedito alla propria famiglia, l'unica cosa per cui avrebbe anche trasgredito alla legge.
Dopo aver parlato con tutti i presenti, il detective si recò sul luogo di lavoro del signor Collins e parlò con i colleghi. Tutti riportarono ciò che già sapeva, ma il suo responsabile gli promise che gli avrebbe fatto avere una lista delle persone con cui aveva lavorato l'uomo e che non erano state particolarmente riconoscenti nei suoi confronti.
Senza aver ricavato nulla di interessante, Harrison tornò in centrale.
«Buona sera, detective» lo salutò Sadie quando passò davanti alla sua scrivania, senza staccare però gli occhi dal suo computer.
«Buona sera» replicò lui fermandosi davanti al tavolo.
«Scoperto qualcosa di interessante?» domandò lei continuando a non guardarlo.
«Non ancora, neanche la scientifica ha trovato alcun indizio»
«Non essere scoraggiato» commentò la donna facendo scorrere la pagina che stava leggendo con il mouse.
Lui sbuffò: «Non lo sono»
Nessuno parlò per qualche istante, ma intorno a loro si udivano i rumori delle altre persone.
«Hai controllato la moglie?» domandò Sadie dal nulla «Magari Collins aveva un'alta assicurazione sulla vita, considerando dove lavorava, e la signora ha voluto incassare in anticipo»
Harrison ripensò a ciò che a donna gli aveva detto riguardo gli interessi economici delle persone, ma scosse il capo: «No, ha riferito di non trovarsi a casa quella sera e il suo alibi è stato confermato»
«Dove si trovava?» domandò Sadie «Alla mostra?»
Il detective corrugò la fronte, perplesso: «Quale mostra?»
Finalmente la donna staccò lo sguardo dallo schermo e lo spostò su di lui: «Stai scherzando?»
«Neanche un po'»
Lei sbuffò: «A volte mi chiedo se oltre il tuo lavoro e tua figlia, sai di vivere su questa terra. Sto parlando della mostra d'arte che si è tenuta alla Galleria giovedì sera, quando Collins è stato ucciso. L'evento è stato così pubblicizzato che pensavo che la moglie fosse stata a visitarlo»
Harrison scosse il capo: «No, si trovava fuori città con le figlie per assistere un famigliare malato. Collins era rimasto per degli impegni»
Sadie era tornata a guardare il suo schermo, ma commentò: «Sai cos'è successo a quella mostra?»
«Ne ho appena scoperta l'esistenza, ma sono piuttosto impegnato al momento per pensare all'arte» replicò lui e la donna sbuffò: «So che sei insensibile verso ciò che non ti riguarda, ma questo è interessante. Durante la mostra, quando la Galleria era piena di persone, c'è stato un breve black out, al termine del quale un quadro era scomparso»
Harrison sollevò le sopracciglia: «Un furto?»
Sadie annuì: «Un furto perfetto. Nessuna traccia, nessun allarme, nessun sospettato. L'unico modo per trovare indizi è perquisire ogni singolo luogo della città, sperando che il quadro non l'abbia già lasciata»
L'uomo fece un cenno di assenso: «È un caso interessante, spero sia stato affidato a qualcuno in gamba» lanciò un'occhiata all'orologio «Ora devo tornare a casa, buona serata»
«Anche a te» replicò lei, riprendendo il proprio lavoro.
 
 
Harrison sbadigliò e si sfregò gli occhi con una mano, irritati dalla luce del computer.
Dall'altra parte del divano, scorse Emilia sbadigliare a sua volta, ma continuare a guardare la televisione.
Sullo schermo si muovevano i personaggi dei cartoni animati e la bambina non si perdeva un movimento, nonostante la stanchezza.
Harrison ritornò a guardare il proprio computer, cercando di concentrarsi sul proprio lavoro. Era sabato sera, quindi erano passati tre giorni dalla morte di Benjamin Collins, ma ancora non aveva alcuna pista che valeva la pena seguire.
Aveva controllato i clienti più litigiosi con cui l'uomo aveva lavorato, ma i pochi che era riuscito ad incontrare non sembravano avere intenzione di fare seriamente del male all'uomo. La lista del detective era lunga, ma qualcosa gli diceva che in quel modo non avrebbe ricavato nulla, e lui si fidava del proprio intuito.
Eliminando quell'unica pista, però, non gli rimaneva altro.
Sbadigliò ancora, poi si decise a chiudere il computer.
«È ora di andare a letto, Emi» disse alla bambina e lei fece un vago cenno di assenso, troppo stanca per rispondere.
Harrison spense la televisione e prese in braccio la figlia mezza addormentata.
«Domani torna Tess?» mormorò lei biascicando le parole.
Lui sorrise: «Sì, domani»
 
 
 
 
 
Angolo autrice
Ciao a tutti, sono contenta di poter finalmente pubblicare il primo capitolo del seguito di "Blink of an eye". Per chi non avesse letto il primo racconto, vi informo potrebbe risultare più difficile seguire le vicende dei personaggi senza prima conoscerli :) 
Per chi invece avesse già letto il primo racconto, spero che questo primo capitolo vi abbia incuriositi, anche se solo nel seguente si comincerà ad entrare nel vivo della storia!
Alla prossima! :)

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Capitolo 2
*** Il secondo furto ***


2_ Il secondo furto


 
 
Tess Graves era sempre stata una persona curiosa. I genitori le avevano insegnato a fare tesoro di ogni esperienza, perché ciò che nella vita non si smette mai di fare, è proprio imparare.
Così lei era sempre stata pronta ad affrontare ciò che non conosceva per farlo proprio. Forse il suo essere metodica la portava a considerare ogni esperienza come un immaginario nuovo quaderno pieno di appunti da aggiungere alla propria biblioteca mentale, che poteva sfoderare in caso di necessità. Questo suo atteggiamento ben si sposava con la sua passione per il teatro, perché più imparava, più persone poteva diventare sul palcoscenico.
Ma nonostante tutte queste convinzioni, realizzò che c'erano cose per cui non era ancora pronta. 
Come ad esempio gestire un gruppo di neoadolescenti che facevano affidamento su di lei.
Dopo aver capito che non era portata per gli sport di alta montagna, aveva realizzato che quelli che nell'aula scolastica sembravano docili alunni talvolta un po' annoiati, all'aria aperta si trasformavano in trappole legali per chi ne aveva la responsabilità. Aveva dovuto ricorrerli sulla neve stando attenta alla propria instabilità quanto a quella dei ragazzi, rimanere sveglia fino a tardi per assicurarsi che tutti stessero bene, quando lei stava per crollare dal sonno e gli studenti sprizzavano energia da tutti i pori. 
Quello che voleva in quel momento, era andare a casa e dormire per un'eternità o due, prima di dover tornare ancora tra quei ragazzi.
Ma come nel teatro, anche nella vita bisogna rivestire dei ruoli e lei non poteva scollarsi di dosso quello di insegnante fino a che non fosse stata fuori dalla portata dei suoi studenti. Così attraversava l'aeroporto con il proprio trolley fingendo di possedere ancora l'energia necessaria per avere un portamento dignitoso, quando avrebbe voluto crollare a dormire sulla prima panca libera.
Doveva ancora assicurarsi che i ragazzi tornassero a casa sani e salvi e lei doveva interpretare l'insegnante seriosa e professionale.
A rovinare tutti i suoi sforzi, ci pensò Harrison.
Tess non vedeva l'ora di riabbracciarlo, ma quando lo distinse dall'alto delle scale mobili, il primo impulso fu quello di balzare a terra come un'amazzone e strozzarlo.
L'uomo teneva in mano un cartello che recitava: "Ben tornata Tessie Bear", con tanto di lettere colorate -da Emilia, suppose la donna- e disegnini di caramelle e orsacchiotti. Come se non bastasse, Emilia, accanto all'uomo, teneva tra le mani due palloncini rossi a forma di cuore, come una bambina al luna park.
Tess sentì alcuni suoi studenti ridacchiare e indicare divertiti, ma la maggior parte dei commenti che giunsero alle sue orecchie erano di approvazione per Harrison da parte delle ragazzine, che sottolineavano quanto fosse carino il suo gesto.
L'uomo sorrideva come un bambino che ha fatto ciò che non doveva fare, ma non se ne pente per nulla.
Tess lo fulminò con lo sguardo, ma quando le scale mobili la depositarono a pochi metri da lui, non poté trattenere un sorriso e corse ad abbracciare entrambi.
Harrison la strinse a sé con forza e la baciò a fior di labbra, poi la donna prese in braccio Emi e la bambina si aggrappò al suo collo senza lasciare i palloncini.
«Bentornata Tess!» sussurrò lei nel suo orecchio.
«Grazie, sono contentissima di vedervi» replicò la donna sorridendo.
Harrison prese i suoi bagagli e Tess si ritrovò a dover portare solo un palloncino pieno di elio, mentre Emilia teneva l'altro.
Uscirono dall'aeroporto e raggiunsero l'auto dell'uomo parcheggiata all'esterno.
«Devi raccontarci tutto quello che è successo» informò Harrison mentre cominciava a guidare verso a casa.
Tess sbadigliò: «Facciamo tra qualche ora di sonno»
 
 
Tess entrò in cucina lunedì mattina sentendosi come se fosse rinata fisicamente e spiritualmente.
Nonostante fosse appunto lunedì, si sentiva più riposata che mai, e l'idea di trascorrere la giornata tra le aule di alunni all'improvviso non le sembrava poi così terribile, rispetto a quello che aveva passato nei giorni precedenti.
Harrison aveva già preparato la colazione ed Emi sedeva al tavolo disegnando con una mano e centrando la bocca con il cucchiaio di latte e cerali con l'altra.
Il profumo di caffè investì le narici della donna e si accorse di desiderarlo profondamente. Come se le avesse letto nel pensiero, Harrison gliene piazzò una tazza davanti al naso e lei gli sorrise di risposta. 
«Giornata impegnativa, oggi?» domandò guardando il detective.
Lui scrollò le spalle: «Il caso che sto seguendo è ad un punto morto. Devo darmi da fare. Anzi, devo controllare alcune cose prima di andare al lavoro. Emi, mi passi il computer?»
La bambina lasciò cadere il cucchiaio nella tazza e la matita sul foglio per allungarsi a prendere il portatile.
Lo aprì e lo schermo si illuminò subito, rivelando l'ultima pagina visitata dall'uomo.
Comparve la fotografia del dipinto di un viale alberato illuminato dalle luci della notte.
Emilia fissò l'immagine con gli occhi sgranati.
«È bellissimo» sussurrò «Voglio imparare a farlo anche io!»
«E lo imparerai, piccola» replicò Harrison prendendo il computer.
«Di cosa state parlando?» domandò Tess guardandoli mentre sorseggiava il proprio caffellatte. 
L'uomo ruotò il portatile per mostrarle la fotografia: «Si tratta del quadro rubato giovedì sera alla Galleria in città, non ci sono ancora indizi riguardo il furto»
«È stato rubato?» esclamò Emi «E tu lo ritroverai, papi?»
L'uomo sorrise: «Non è compito mio, ma qualcuno se ne occuperà di certo»
La bambina ci pensò su per un istante, poi commentò: «Magari al ladro piaceva così tanto che l'ha rubato»
Harrison rise: «Ai ladri interessano solo i soldi, Emi, a loro non piace l'arte»
Lei non parve convinta, ma corrugò la fronte e dall'altro lato del tavolo Tess ridacchiò, perché aveva davanti agli occhi la stessa espressione dipinta sul volto di padre e figlia.
«Quando cattureranno il ladro, potresti chiederglielo. Magari a lui piace» aggiunse pensierosa la bambina e l'uomo sorrise dolcemente: «Va bene, lo farò, piccola. Ma ora devi prepararti per andare all'asilo, finirai il tuo disegno più tardi, forza»
Lei ubbidì e così venti minuti più tardi, ognuno era in viaggio verso la propria meta, Tess ed Emi verso l'asilo e poi le scuole medie, Harrison verso la centrale.
Il detective entrò nella centrale con passo spedito, ma si fermò davanti alla scrivania di un collega.
«Buon giorno Bobby» salutò «Per caso sai chi si sta occupando del quadro scomparso?»
L'uomo alzò lo sguardo su di lui: «Intendi il quadro rubato all'asta privata ieri sera? Credo sia stato affidato a Gibson»
Harrison corrugò la fronte: «No, intendevo quello rubato alla Galleria...» le parole dell'uomo furono interrotte dal suono della suoneria del suo cellulare. Si allontanò da Bobby e rispose.
«Detective Graham» disse e ascoltò chi parlava dall'altro capo.
«Va bene» annuì poi «Arrivo subito»
Due minuti più tardi, era di nuovo a bordo della sua Oldsmobile 88, alla volta dell'indirizzo che gli era stato comunicato al cellulare.
Non impiegò molto a raggiungerlo: si trattava di una casa verde oliva, che non passava inosservata rispetto ai colori tenui delle altre abitazioni del quartiere.
L'uomo parcheggiò davanti alla casa ed entrò trovando le stanze già affollate di agenti. L'interno era arredato in modo stravagante, ricco di oggetti superflui ma artistici e anche i mobili più "normali", erano stati alterati da dettagli come fronzoli intagliati nel legno o gambe trasformate in zampe di animali.
Intravide il tenente Carter e le si avvicinò in fretta.
«Tenente, sono partito appena ho ricevuto la sua chiamata»
«Non ne dubitavo, Graham» replicò la donna rivolgendogli uno sguardo serio.
Harrison si guardò attorno e notò che la maggiore concentrazione di persone si trovava davanti ad una delle porte della casa. Si diresse in quella direzione e ne scoprì il motivo.
La stanza al di là era probabilmente uno studio, a giudicare dagli scaffali e dalla grossa scrivania, su cui stava ripiegato esanime un uomo. Harrison ne vedeva la testa ricciuta piegata sul legno e il sangue che si apriva intorno come un'aureola scura.
Quando sollevarono il capo della vittima, il detective intuì subito perché era stato chiamato lui. L'uomo aveva la gola tagliata e a giudicare da come si muoveva la scientifica per la casa, non era ancora stato trovato nulla.
Esattamente come per l'omicidio di Benjamin Collins.
Fermò un agente e domandò, accennando al cadavere: «Chi era?»
«Daniel Grisham, critico d'arte, non aveva famiglia. Per ora non sappiamo altro» 
Il detective fece un cenno di assenso e lo lasciò tornare al lavoro. Si guardò attorno a studiò la stanza, fino a che vide il tenente Carter avvicinarsi.
«Cosa sta succedendo, Graham?» domandò lei fermandosi accanto all'uomo.
«Me lo dica lei, tenente» replicò Harrison «Quest'uomo è stato ucciso dalla parte opposta della città rispetto a Collins, ma non ho bisogno di un conoscente per dire che non è stato rubato nulla. Se Grisham era un critico d'arte, tutti gli oggetti in casa sua devono valere molto più di quanto appaia al nostro occhio ignorante, eppure nessuno è fuori posto»
«Stai dicendo che c'è un legame tra i due omicidi?» domandò la donna scrutandolo attentamente.
«Omicidio senza furto. Sarei uno stupido a non considerarlo» replicò l'uomo scrollando le spalle.
Carter gli rivolse uno sguardo penetrante: «Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad un serial killer»
Harrison strinse le labbra, pensieroso, poi annuì con aria cupa.
«Non ho altro da fare qui» annunciò «Vado in centrale per cercare le informazioni che abbiamo sulla vittima»
La donna fece un cenno di assenso con il capo e lo lasciò andare via senza parlare.
Il detective salì in auto, raggiunse la centrale e si mise subito al lavoro per raccogliere informazioni su Daniel Grisham, consultando gli archivi. 
Nonostante il fatto che fosse un collezionista d'arte piuttosto eccentrico, il suo fascicolo non conteneva nulla al di fuori del normale.
Harrison tentò di confrontare il suo omicidio con quello di Collins, seguendo il proprio istinto, ma anche questo tentativo non dette alcun risultato significativo.
Dopo ore di lavoro, decise di concedersi una pausa e uscì nel piccolo cortile interno della centrale.
Accanto ad uno dei muri di cemento grigio, trovò l'ultimo uomo che avrebbe voluto vedere in quel momento, ovvero Paul Gibson. Il suo rapporto con il collega si era sempre ed esclusivamente basato su frecciatine saccenti e sarcastiche e in quel momento si sentiva troppo esausto per formulare battute pungenti ed originali.
Pregò che Gibson non lo notasse, invano.
«Graham, cos'è quell'aria afflitta?» lo apostrofò infatti l'uomo «Hai capito di essere destinato ad essere un numero due, un beta, una seconda scelta?»
Harrison alzò gli occhi al cielo, poi si voltò verso di lui: «No, Gibson, si dà il caso che io stia seguendo delle indagini piuttosto complicate e che quando risolverò tutto, perché lo farò, qualcuno potrebbe notare e lodare le mie prodezze. Te lo dico così cominci ad abituarti all'idea»
Il detective ammiccò con un'espressione divertita negli occhi verdi, ma l'altro non si lasciò scalfire. 
«Davvero? Be', si dà il caso» disse facendogli il vero «Che anche la mia indagine sia piuttosto complicata»
Harrison gli rivolse uno sguardo di sfida: «Mi sto occupando di due omicidi, nessuna traccia»
Gibson raccolse la sfida e sfoderò un sorrisetto arrogante: «Due furti in luoghi chiusi e affollati, neanche un indizio»
«Due assassinii programmati, ma senza alcun apparente corrispondenza. Le vittime non si conoscevano»
«I due oggetti rubati non erano i più famosi della collezione, quindi il motivo dei furti non è economico. Ho a che fare con dei professionisti»
Harrison strinse gli occhi: «Mi hai rubato le parole di bocca. Ora scusa, ma il lavoro chiama»
Voltò le spalle a Gibson e si avviò verso la porta, rimuginando sui propri casi.
Adorava esagerare le reali circostanze solo per sfidare il collega, ma in quel dialogo lui aveva semplicemente detto la verità: il caso pareva inverosimile. Ricordò ciò che gli aveva detto Bobby quella mattina e realizzò che Gibson stava seguendo i casi di due furti diversi, uno dei quali riguardava il quadro che aveva visto Emilia quella mattina.
Bobby aveva detto che l'ultimo furto era avvenuto la sera precedente, mentre lui aveva letto che il primo aveva avuto luogo giovedì sera.
L'uomo si bloccò di colpo, davanti alla porta a vetri che conduceva all'interno.
Nonostante l'aria fredda, cominciò a sudare e il suo cervello elaborò rapidamente tutte le informazioni che vi scorrevano all'interno.
Si voltò in tempo per vedere Gibson che veniva verso di lui. 
Si fermò poco distante e lo guardò negli occhi, rivolgendogli un'espressione eloquente.
Per quanto detestasse ammetterlo, Harrison sapeva che Gibson era in gamba, almeno quasi quanto lui. 
E in quel momento avrebbe preferito che non fosse così, non per un egocentrico desiderio di sapersi migliore di lui, ma perché sapeva esattamente cosa stava passando nella testa dell'altro uomo. E non era nulla di buono.
I due detective erano giunti alla stessa conclusione.
Omicidi e furti erano avvenuti negli stessi momenti compiuti dalle stesse persone.
 
 
Il tenente Carter aveva un'espressione perennemente seria che chi non la conosceva avrebbe potuto scambiare per perenne incazzatura. La motivazione più probabile era che la donna avesse deciso di indossare quella maschera per salvaguardarsi nell'ambiente in cui lavorava e per non cadere dal gradino che aveva raggiunto.
Mentre fissava Harrison e Gibson in quel momento, le sue iridi nere sembravano più cupe che mai, tanto da confondersi completamente con la pupilla, e questo non era di certo rassicurante.
«Quello di cui state parlando, richiede organizzazione, professionalità e anni di preparazione per i criminali» commentò la donna facendo saltare lo sguardo da un detective all'altro, come se volesse assicurarsi di fulminarli entrambi equamente.
«Esatto e questo significa che dobbiamo trovare questi pazzi prima che riescano a procedere con il loro folle piano» replicò Harrison sorreggendo lo sguardo del tenente. 
La donna guardò l'altro detective: «E tu Gibson credi a questa teoria? Capisco che Graham sia giovane e fantasioso, ma tu dovresti aver capito che questo non è un telefilm poliziesco, ma la vita vera!»
«Se devo essere sincero, tenente» cominciò lui «Mi offende il fatto che mi consideri così più vecchio di Graham, ma posso sorvolare solo perché mi ritiene più saggio di lui. In ogni caso, sì, credo che la corrispondenza tra questi crimini sia evidente. E credo anche che i colpevoli vogliano che lo sia»
Carter sollevò le sopracciglia e Harrison si affrettò a spiegare: «Se il loro unico scopo fosse stato far fuori quei due uomini e rubare i due quadri, avrebbero trovati delle tecniche originali per farlo, in modo da rendere più difficili i collegamenti. Invece sembra che ci stiano dicendo: "Guardate qui! E prestate attenzione"»
Prese la parola Gibson: «I due black out e le gole tagliate, troppo appariscenti per avere un solo scopo. Vogliono comunicare qualcosa»
La donna strinse gli occhi e si appoggiò allo schienale della propria poltrona, guardandoli. 
Nessuno parlò per qualche istante e l'aria pareva carica di elettricità.
«Va bene» disse infine il tenente «Ammettiamo che abbiate ragione, mi fido del vostro intuito. Qualcuno sta uccidendo persone con uno stesso modus operandi e nello stesso istante ruba anche delle opere d'arte»
«Grazie, tenente» fece Harrison abbozzando un sorrisetto sghembo.
La donna lo bloccò alzano l'indice della mano: «Ma...questo significa che il caso è molto più grande di quello che avevamo presupposto»
«Esatto» annuì Gibson.
Carter fece un cenno di assenso a sua volta: «Il caso è affidato a voi, entrambi. Voglio che collaboriate e che lo risolviate prima che diventi una questione pubblica e soprattutto federale, intesi?»
I due detective ammutolirono. 
Guardarono per qualche istante la donna, in silenzio, cercando di capire se fosse seria.
«Noi due...insieme?» domandò cautamente Harrison per chiedere conferma.
Lei fece un vigoroso cenno di assenso con il capo: «Sì, a meno che tu non voglia rinunciare al caso, Graham»
«No, è solo che...» cominciò lui e Gibson intervenne: «Quello che il mio collega vuole dire, è che noi due non siamo abituati a collaborare»
«Be', c'è sempre una prima volta, no?» domandò retorica la donna «Ora andatevene, devo tornare al lavoro!»
I due detective rimasero immobili.
«Siete sordi? Forza, uscite!»
Si alzarono in piedi insieme, con il rumore delle sedie strascicavate sul pavimento e si scontrarono mentre si avvicinavano alla porta.
Il tenente alzò gli occhi al cielo.
«Uomini» stabilì con un sospiro e tornò al proprio lavoro.
 
 
Gibson fissò l'ultima immagine alla bacheca con una puntina e si scostò per permettere agli altri presenti di osservare la sua opera. Aveva decorato la parete di sughero con tutte le informazioni che aveva trovato riguardo i due furti e i due omicidi, raccolte durante il pomeriggio.
Da una parte stava la fotografia del quadro del viale alberato nella notte e al suo fianco quella del cadavere di Benjamin Collins, mentre dall'altro lato della bacheca erano affiancate la fotografia di un altro quadro di arte moderna -ingranaggi oro e argento su uno sfondo giallo- e quella di Daniel Grisham accasciato sulla propria scrivania.
«Quello che sappiamo» cominciò Gibson guardando Harrison, comodamente stravaccato sulla sedia del proprio ufficio, e Sadie, che stava velocemente digitando qualcosa sullo schermo del suo cellulare, come se stesse chattando, «è che ogni volta che avviene un omicidio, contemporaneamente si verifica anche un furto in un luogo affollato, come una mostra o un'asta privata. Considerando l'evidenza dello stesso modus operandi, deduciamo che i colpevoli vogliono sottolineare i legami tra questi casi»
«Credi quindi che ci stiamo mandando un messaggio?» domandò Harrison scrutando con occhi critico le fotografie.
Gibson fece un cenno di assenso con il capo: «Il disegno è il mezzo di comunicazione più antico ed entrambi questi quadri possono caricarsi di molteplici significati» 
Nessuno parlò per qualche istante e l'unico rumore nella stanza era quello della dita di Sadie che picchiettavano sullo schermo del cellulare.
«Vuoi smetterla di usare quel coso per un istante?» sbottò Harrison rivolgendole uno sguardo bieco «Sei stata tu a chiedere di poter partecipare»
La donna replicò senza neanche alzare il capo: «Il primo quadro s'intitola "Notte" e l'autore non ha mai voluto darne spiegazione. Secondo alcuni critici la strada rappresenta la vita -sai che fantasia- e l'oscurità sarebbe sinonimo delle difficoltà da affrontare, mentre i lampioni accesi sono il supporto lungo la via. Il secondo quadro s'intitola "Denaro" e l'artista ha confessato che gli ingranaggi rappresentano degli orologi e in questo modo voleva raffigurare che anche il grande tiranno dell'uomo, il tempo, è diventato economia tramite la vendita degli orologi»
Harrison le rivolse un sorrisetto strafottente come risposta e si voltò a guardare le fotografie dei dipinti: «Certo che ce ne vuole di fantasia per anche solo concepire un quadro del genere»
«Io lo trovo carino» commentò Sadie fissando assorta la fotografia di "Denaro".
«Anche a me piace» si aggiunse Gibson guardando la donna e lei gli sorrise.
Harrison fece roteare gli occhi e tornò ad accasciarsi sulla propria sedia in una posa non proprio elegante.
«Quindi tornando ai significati, cosa vogliono dirci i nostri assassini amanti d'arte?» domandò il detective guardando gli altri due.
Gibson scrollò le spalle: «Nel primo quadro risalta molto la luce dei lampioni in confronto all'oscurità, quindi viene messo in primo piano il conforto che può nascere in qualsiasi situazione»
«Non ti facevo così sentimentale» ironizzò Harrison e l'altro gli rivolse il dito medio.
Sadie si schiarì la voce: «Nel secondo quadro è evidente la protesta dell'artista nei confronti della società moderna e sul suo modo di puntare sempre al guadagno»
Harrison fece una smorfia: «Non so voi, ma a me sembra che questi due quadri non abbiano nulla a che fare l'uno con l'altro»
Gli altri due tacquero e anche se sul volto di Gibson si vedeva un'espressione contrariata, l'uomo non sapeva come replicare, perché l'altro detective aveva fatto centro.
Harrison si alzò in piedi e si avvicinò con nonchalance alle fotografie.
«Si potrebbe presupporre che ci sia un legame tra i quadri e le vittime. Collins era un uomo onesto e amava più di tutti la propria famiglia, i lampioni del dipinto, mentre Grisham era un critico d'arte, quindi la criticità che si rispecchia nel dipinto» l'uomo s'infilò le mani in tasca e alzò le spalle: «Oppure trovate voi qualsiasi significato vi piaccia, ma non è questo ciò che importa»
Gibson incrociò le braccia al petto e assunse l'aspetto di un rottweiler che studia un intruso.
«Che cosa proponi di fare, piccolo genio?» gli chiese ironico. 
Harrison gli rivolse uno sguardo tagliente, trattenendosi a stento dal replicare con lo stesso tono pungente. Dato che aveva una decina di anni in meno di Gibson, il collega gli aveva affibbiato quell'appellativo da tempo, sempre accompagnato da una pesante dose di sarcasmo.
«Questi collegamenti ci aiutano a capire come ragionano i criminali, ma non chi sarà la loro prossima vittima. Collins e Grisham non avevano nulla in comune, abbiamo già controllato a fondo, quindi possiamo presupporre che lo schema di omicidi è a noi ignoto oppure casuale»
«Chi si premura di organizzare così degli assassinii non lascia nulla al caso» lo contraddice Gibson.
«Giusto» acconsentì Harrison «Ma il nostro scopo primario, al momento è impedire un altro omicidio e se possibile anche un furto»
«Per questo abbiamo bisogno di capire come ragionano» protestò l'altro detective «Al momento non sappiamo nulla per poter prevedere le uccisioni»
«Ma possiamo prevedere i furti» aggiunse Sadie con un'espressione di colpo attenta. Fissò lo sguardo sulla parete oltre gli uomini, ragionando.
«La mostra alla Galleria, era stata pubblicizzata a lungo, mentre l'asta privata era molto conosciuta tra gli interessati. Dobbiamo solo stabilire l'area di miglia entro cui agiscono questi criminali e cercare il prossimo evento»
Lo sguardo di Harrison s'illuminò: «Certo! Sei un angelo, Sadie!»
La donna accettò il complimento con un sorrisetto di soddisfazione e qualche istante più tardi si era già appropriata del computer sulla scrivania dell'ufficio.
Digitò velocemente sulla tastiera e cominciò a sfogliare le pagine che le si presentavano sullo schermo.
Harrison e Gibson si sistemarono dietro di lei e l'aiutarono a scartare o prendere in considerazione le notizie.
Un'ora più tardi si trovavano al punto di partenza. 
Nelle seguenti due settimane non c'erano eventi nell'arco delle miglia che avevano stabilito, più le altre aggiunte per sicurezza.
Nulla.

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Capitolo 3
*** Contra ad Amor ***


3_ "Contra ad Amor"  


 
 
Harrison entrò in casa annusando il profumo della cena.
Era stato solito essere lui il cuoco di casa e ogni sera usciva dalla centrale in anticipo per riuscire a preparare la cena ad Emi, ma da quando c'era Tess, lui poteva fermarsi al lavoro fino a quando era necessario e lasciare che la donna si occupasse di tutto.
Non lo faceva impazzire l'idea di rimandare il rientro a casa, eppure a volte, come quella sera, era necessario. Aveva trascorso ore parlando con Gibson e Sadie del caso e sentiva la testa esplodergli.
L'altro inconveniente di non essere più l'unico cuoco, consisteva nel fatto che Tess era una frana ai fornelli.
Per evitare cene comprate al supermercato da riscaldare nel microonde, l'uomo aveva dovuto insegnarle a cucinare qualcosa e lei aveva imparato solo due piatti, così ogni volta sapeva che la scelta ricadeva su quelli.
Quella sera, dal profumo, giudicò che Tess aveva preparato una minestra di zucca.
Infatti quando entrò in sala da pranzo, trovò la donna che serviva Emilia.
«Papi!» esclamò la bimba «Sei arrivato appena in tempo»
«Per fortuna, o avrei dovuto mangiare senza la compagnia di queste belle signore» replicò lui e si avvicinò a Tess, che gli stava sorridendo.
Le cinse il fianco con un braccio e attirandola a sé, le stampò un bacio sulle labbra.
«Buona sera, signorina Graves» sussurrò sul suo viso, guardando il proprio riflesso negli occhi grigi della donna.
Lei continuò a sorridere: «Buona sera, detective. La cena è in tavola»
«Non vedo l'ora di mangiare» replicò lui, si avvicinò alla propria sedia, scompigliò i capelli di Emi seduta a capotavola, poi prese posto a sua volta.
Quando anche Tess si fu seduta, cominciarono a mangiare tutti, chiacchierando tra loro.
«Le maestre hanno detto che ci faranno fare un succo con l'uva» stava dicendo Emilia, guardando come suo solito il cucchiaio e il piatto con espressione corrucciata mentre parlava: «ma Miles ha detto che con il succo d'uva si fa il vino, quindi le maestre ci faranno bere il vino, papi?»
Harrison aveva lo sguardo perso sui ricami della tovaglia e, sentendosi chiamare dalla figlia, annuì vagamente con il capo.
Vista la risposta del padre, Emilia sgranò gli occhi e Tess si affrettò a dire: «No, Emi, Miles si è sbagliato, il vostro succo non diventerà vino, non preoccuparti»
«Il papà dice che se si beve il vino, si muore» commentò candidamente la bambina.
«Harrison!» esclamò la donna fulminandolo con lo sguardo e lui sussultò.
«Cosa?» domandò come se riprendesse conoscenza all'improvviso.
Incrociò lo sguardo di fuoco di Tess e intuì di aver detto qualcosa che non andava.
Si passò una mano sul volto e replicò: «Scusatemi, sono solo stanco»
Tess continuò a guardarlo, con un'espressione che sembrava dire: "Non è finita qui", ma non parlò fino alla fine della cena.
Dopo che ebbero sparecchiato, rimasti soli in cucina, la donna si parò di fronte ad Harrison, pronta a fronteggiarlo.
Sapeva che c'erano alcuni argomenti che l'uomo non avrebbe mai affrontato di fronte alla figlia, neanche sotto tortura. Proteggere Emilia era ciò che contava di più per lui e se questo significava tacere su alcuni fatti, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
Harrison finì di caricare la lavastoviglie, chiuse l'antello e sollevandosi incrociò lo sguardo serio di Tess.
«Che c'è?» domandò, fingendo di non aver capito l'espressione della donna. 
Lei non si lasciò ingannare: «Non insultare la mia e la tua intelligenza, Harrison, lo sai perfettamente»
«Ero distratto a cena? Sì, certo, ma te l'ho detto, sono stanco, oggi è stata una giornata impegnativa» cercò di minimizzare lui, ma realizzò troppo tardi che questo aveva allarmato ancora di più Tess.
A volte desiderava che la donna non fosse così perspicace.
Lei alzò gli occhi al cielo: «Cosa l'ha resa così impegnativa? È quel nuovo caso che stai seguendo?»
L'uomo sbuffò, maledicendosi per essersi innamorato di una donna così intelligente e soprattutto con una così buona memoria. Aveva a malapena accennato al caso quella mattina, ma Tess lo aveva registrato come se fosse un archivio umano.
«Non fare quella faccia» commentò lei guardandolo negli occhi «Non ti farò uscire da questa stanza finché non mi avrai  spiegato»
Harrison sbuffò ancora e si appoggiò al ripiano della cucina, incrociando le braccia al petto.
Tess stava davanti a lui nella stessa identica posizione, irremovibile.
«Sì» ammise «Il caso che sto seguendo sembra essere impegnativo, molto, ma non ha senso che due persone in questa casa perdano il sonno per pensarci. Mi occuperò di tutto, Tessie, non preoccuparti»
Lei alzò ancora gli occhi al cielo, poi li piantò in quelli verdi del detective, come se volesse trapassarlo: «Sei entrato nella sezione Omicidi due mesi fa e sinceramente pensavo che avresti cominciato ad essere teso, insonne, angosciato, insomma come un qualsiasi persona che si trova ad affrontare casi di una crudeltà che supera la ragione, perché nessuno può capire realmente cosa spinga un essere umano ad ucciderne un altro» la donna fece una pausa, si mordicchiò nervosamente le labbra, poi continuò: «Tu non hai avuto nessuna di queste reazioni, almeno non fino ad oggi»
Tess avanzò verso di lui e l'uomo la seguì con gli occhi fino a che lei non fu sotto il suo naso.
«So che sei troppo cinico per poter essere definito sensibile e credevo che il tuo essere pragmatico e razionale ti spingesse a considerare il lavoro come tale, e non come altro» la donna era così vicina che le bastava sussurrare per farsi sentire «Mi sbagliavo. Sei semplicemente forte e abbastanza intelligente per poter razionalizzare in un qualche modo ciò con cui hai a che fare. Se questo nuovo caso ti ha sconvolto, non voglio immaginare di cosa si tratti, perché se anche tu ne sei spaventato, be'...» distolse per un istante lo sguardo, con un'espressione concentrata e quando ritornò a guardarlo, Harrison capì che era dannatamene seria.
Le posò le mani sui fianchi e la strinse a sé, abbracciandola.
«Mi dispiace, Tess» soffiò sui suoi capelli «È solo che non sono abituato a non sapere le cose»
La donna sollevò nuovamente il capo verso di lui e questa volta l'uomo notò un sorrisetto sulle sue labbra.
«Se è solo questo il problema, credo che potresti imparare a fartene una ragione» commentò lei con una punta di ironia nella voce.
Lui rise e Tess, appoggiata al suo petto, lo sentì vibrare.
L'uomo tornò poi serio: «No, non è solo questo il problema, Tessie. Il problema è che mi trovo davanti ad un caso che si prospetta troppo complesso per i mezzi a nostra disposizione»
«Nostra?» ripeté la donna perplessa e lui annuì: «Devo collaborare con Gibson e Sadie si è unita a noi. Può essere una risorsa preziosa»
Ancora Tess non riuscì a trattenere un sorriso flebile.
«Guarda il lato positivo, se anche il caso andrà male, magari questa collaborazione forzata con Gibson ti farà scoprire che in realtà non è così male»
L'uomo fece una risata secca e lei la sentì ancora vibrare dal suo petto attraverso le proprie ossa.
«Ne dubito. Soprattutto perché ho cose più importanti da fare che cercare di andare d'accordo con quell'idiota»
Lei alzò gli occhi al cielo: «Sei solo prevenuto!»
«Raramente sbaglio, Tessie, e tu lo sai bene»
Lei alzò ancora gli occhi al cielo, però si fece seria e Harrison capì che era arrivato il momento di smetterla di scherzare, e di parlare di cose da adulti.
«Allora, non mi hai ancora detto in cosa consiste il vostro nuovo caso» disse lei infatti, anche se la sua espressione era già eloquente di per sé.
L'uomo prese un respiro profondo e Tess venne mossa insieme al suo petto che si alzava e poi si riabbassava lentamente.
Poco alla volta, le raccontò tutto ciò che sapeva, i due omicidi che corrispondevano con i due furti, le loro ricerche durante tutto il pomeriggio, invano.
«Sadie ha capito che è sufficiente trovare l'evento più vicino per capire quando avverrà la prossima coppia di crimini» stava dicendo l'uomo.
Gli occhi di Tess, che era tornata di fronte all'uomo, s'illuminarono.
«Quindi v'infiltrerete alla mostra Thompson?» domandò e lui le rivolse uno sguardo perplesso: «Cosa?»
La donna sollevò le sopracciglia davanti alla sorpresa del detective.
«Ogni anno i Thompson organizzano un ricevimento con l'esposizione di oggetti d'arte, in cui l'accesso è solo su invito» spiegò «Ma voi siete detective, potete entrare senza problemi. Dovrebbe tenersi sabato questo»
Harrison la stava ancora guardando con gli occhi sgranati e le labbra dischiuse, come se fosse in trance.
Lei sventolò una mano davanti al suo naso e sbattendo le palpebre, l'uomo si riscosse.
«Io ti amo, Tess Graves» disse, poi le prese il volto tra le mani e la baciò appassionatamente.
Il volto della donna andò in fiamme, mentre sgranava gli occhi e non poteva far altro che ricambiare il bacio.
«Ti amo» ripeté Harrison, mentre si spostava a grandi passi verso il salotto, dove agguantò il proprio cellulare.
Quando Tess lo raggiunse, lui stava già parlando con chiunque ci fosse dall'altro capo.
«Esatto» stava dicendo «Abbiamo considerato solo gli eventi pubblici, senza renderci che anche l'asta che hanno colpito era privata...Sì, sabato questo...Giusto, l'ho pensato anche io...Va bene, m'inventerò qualcosa...Okay...A domani...sì, ciao»
Harrison terminò la telefonata e si voltò verso la donna che lo guardava dalla porta della stanza.
Le sorrise e si avvicinò.
Lei sollevò le sopracciglia, in attesa di spiegazioni, così lui disse: «Ora sappiamo che il prossimo evento che questi criminali potrebbero colpire sarà la mostra Thompson, ma il problema è che non possiamo introdurci in quanto detective»
La donna gli rivolse uno sguardo perplesso: «Perché no?»
«Perché attireremmo troppo l'attenzione. In un luogo privato, le voci corrono velocemente e i nostri "amici" potrebbero decidere di non presentarsi. Dobbiamo procurarci degli inviti in altro modo»
Tess sgranò gli occhi: «Ma è impossibile! Tutti quelli che partecipano appartengono a club di milionari e di certo non esistono inviti anche per i comuni mortali. Solo una ristretta elite può assistere all'evento»
L'espressione di Harrison si spense per un istante, poi ritornò a guardare la donna: «Aspetta, tu come fai a conoscere la mostra? Non c'era alcuna informazione su internet»
Lei scrollò le spalle: «Be', io ci sono andata con...» s'interruppe, come se avesse appena realizzato qualcosa di fondamentale. Rivolse al detective uno sguardo intenso, accennando un mezzo sorriso di trionfo: «So come procurarti quei biglietti»
Lui la guardò confuso per qualche istante, poi cambiò espressione.
«Assolutamente no!» esclamò scuotendo vigorosamente il capo.
«Harrison!» protestò la donna «Metti da parte il tuo orgoglio per un istante, credi di esserne capace?»
«Qui non sono io quello che deve mettere da parte qualcosa, Tess»
La donna arretrò di scatto, involontariamente, e s'irrigidì.
«Cosa vuoi dire?» sibilò fulminandolo con lo sguardo.
Lui sospirò: «Mi dispiace, scusami, non avrei dovuto dirlo. Intendo solo che non voglio che tu sia costretta a vedere quella testa di cazzo solo per fare un favore a me»
«Qui non si tratta di cosa io voglio, Harrison, ma di fare qualsiasi cosa possibile per impedire che un'altra persona innocente muoia. Dovrebbe essere il tuo lavoro, no?»
«È il mio lavoro» la corresse lui «Ma tu sei la mia famiglia, Tessie, e non lascerò che Elliot possa riavvicinarsi a te dopo tutto quello che ha fatto»
La donna prese un respiro profondo: «Non preoccuparti, sono una donna adulta e ormai ho superato la faccenda. Io ho te, ed Emi, e non tornerei indietro per nulla al mondo, capito?»
Harrison annuì, anche se non convinto.
«Domani cercherò di trovare degli inviti. Se non ci riuscirò, allora contatteremo Elliot» stabilì, come se stesse dettando delle condizioni.
Tess sorrise: «Andata» si sporse in avanti e lo baciò a fior di labbra.
«Ma ora andiamo a dormire, detective, prima che mi addormenti qui, in mezzo al salotto»
 
 
 
La caffetteria era pervasa dal profumo avvolgente del cacao e da quello fragrante di dolce appena sfornati. Il tepore della sala investì Tess non appena mise piede all'interno, sciogliendo il gelo che le era rimasto addosso. Lo sbalzo termico tra l'esterno e l'interno della caffetteria era consistente e la donna dovette togliersi la sciarpa e slacciare i primi bottoni del cappotto perché il suo volto non diventasse bordeaux. Fece scorrere gli occhi per la sala, arredata con piccoli tavolini rotondi affollati di persone. Avanzò lentamente, continuando a guardarsi intorno, fino a che i suoi occhi si posarono su chi stava cercando.
L'uomo aveva i capelli biondi ben pettinati, indossava una camicia bianca sormontata da una giacca blu, della stessa tinta dei pantaloni che sparivano sotto al tavolino rotondo insieme alle lunghe gambe.
Quando avvertì la presenza di Tess, sollevò il capo e cambiò espressione.
«Ciao» lo salutò lei accennando un debole sorrise di cortesia.
L'uomo fece per alzarsi in piedi, ma lei gli fece cenno che non era necessario e prese posto di fronte a lui.
«Come stai?» domandò slacciandosi i rimanenti bottoni del cappotto.
«Sto bene, grazie» rispose lui, in tono gentile, ma con una punta di freddezza nella voce «E tu?»
«Anche io sto bene» replicò la donna.
«Ho ordinato due cioccolate calde, spero non ti dispiaccia» fece lui mantenendo lo stesso tono distaccato.
«No, vanno benissimo» disse Tess e, anche se avrebbe detto lo stesso per qualsiasi cosa fosse stato ordinato, dovette ammettere che l'uomo aveva scelto bene.
Si schiarì la voce e piantò gli occhi in quelli che le stavano di fronte.
«Voglio essere completamente sincera con te, Elliot» cominciò con decisione «Non ti ho chiesto di incontrarci per altri motivi se non professionali»
L'uomo le scoccò un'occhiata indagatoria: «Hai bisogno di un lavoro?»
Tess si morse la lingua prima di replicare a tono e si ripeté che si trovava lì, davanti all'uomo che l'aveva tradita e le aveva mentito, non per se stessa, ma per l'indagine. Harrison e i suoi colleghi non erano riusciti a trovare alcun invito per l'evento, nonostante avessero impiegato tutto il martedì mattina per la ricerca, e avevano dovuto ripiegare su Elliot.
«No, non per me» scandì chiaramente «ma per un'indagine della polizia»
Elliot accennò un sorriso supponente: «Immagino che tu alluda al tuo nuovo fidanzato detective»
La donna sentì le guance scaldarsi, e decisamente non per il caldo, ma cercò di rimanere composta.
«Harrison è parte dell'indagine» spiegò «Ma si tratta di qualcosa che va al di là di lui, di me e perfino di te, Elliot»
L'uomo strinse gli occhi, attento: «E in che modo sarei coinvolto in tale indagine?»
«Il tuo ruolo è molto semplice» cominciò lei «Devi procurarti dei biglietti per la mostra Thompson senza far sapere a nessuno a chi li darai e soprattutto senza dire che la polizia si trova coinvolta in questo, sono stata chiara?»
Elliot parve sorpreso dalla richiesta, ma in quel momento una cameriera si fermò accanto al loro tavolo e nessuno dei due parlò mentre la donna sistemava le due cioccolate calde sul ripiano.
Sorrise ad entrambi, ed entrambi ricambiarono, poi si allontanò velocemente.
Appena furono di nuovo soli -se così si poteva dire in una sala colma di persone- Tess ritornò a guardare l'uomo dritto negli occhi.
«Perché ti servono quegli inviti?» domandò Elliot, in tono circospetto.
«Non servono a me» replicò lei, attenta alle parole «Ma alla polizia»
«La domanda rimane sempre la stessa» ribatté l'uomo senza cambiare espressione.
«E anche la risposta. Non sono autorizzata a dirti altro, mi dispiace ma è un'indagine riservata»
Tess vide l'animo da pubblicitario di Elliot emergere sul suo volto. L'uomo lavorava in un ambiente in cui le parole avevano un certo peso e sapeva bene che bastava formulare la frase in un modo leggermente differente, per creare un finale inaspettato.
«Perché un civile, tu, si trova coinvolto in un'indagine riservata?» domandò infatti, pungente.
Tess accennò un sorriso, ben sapendo come si comportava l'uomo.
«Non cercare di cambiare le carte in tavola» ribadì in tono fermo «Io sono solo un tramite. Mi è stato chiesto di riferirti questo messaggio»
«Non è la mafia che usa i tramiti di questo genere?» commentò lui.
Tess strinse i denti: «Sto perdendo la pazienza, Elliot» si sporse sul tavolino: «Diciamo che io sono qui per presentarti cin modo gentile la richiesta. Se non lo farai, verrai accusato di intralcio alla legge e dovrai cominciare a pensare da chi vorrai essere rappresentato in corte»
Il tono deciso della donna lo spiazzò e lo riscosse. Si raddrizzò e sostenne lo sguardo di Tess: «Quanti biglietti ti servono?»
Lei cercò di trattenersi dallo sfoderare un sorrisetto di trionfo.
«Tre» replicò in tono neutro.
Lui abbassò lo sguardo sulla propria tazza di cioccolata e quando lo rialzò, pareva pensieroso.
«Non riuscirò mai a procurarmene tre» constatò «Ma farò il possibile»
Lei gli sorrise, riconoscente, e lui abbassò nuovamente il capo.
Tess aveva deciso di presentarsi a quell'incontro in modo neutrale, lasciando fuori dalla caffetteria furto il miscuglio di emozioni che provava nei confronti di Elliot, e in quel momento realizzò che, invece, l'uomo non era stato in grado di fare lo stesso.
Quella sua freddezza nasceva dalla consapevolezza che era stato un uomo braccato, che era stato visto nel suo essere debole e voleva rimediare, dimostrando la propria prepotenza.
Dopotutto era solo un essere umano e la debolezza era tipica della sua stirpe.
 
 
Paul Gibson aveva sempre trovato che ci fosse qualcosa di magnifico nell'osservare le donne. Pareva che fossero state concepite dalla natura per essere il proprio fiore all'occhiello, un corpo che si armonizzava con ciò che le circondava, un volto che non avresti mai voluto smettere di guardare e un modo di ragionare molto più efficiente di quello maschile.
Forse per questa sua ammirazione nel genere femminile, tendeva a divinizzarle troppo, con la conseguenza che le donne gli sfuggivano via, più umane e concrete di quanto lui dipingesse nella sua mente.
In quel momento, nel piccolo ufficio della centrale, aveva capito che, nonostante l'importanza del caso a cui stavano lavorando, era molto più interessante studiare il profilo di Sadie Hart, piuttosto che ascoltare quel ragazzino di Graham che bratelava, probabilmente condendo frasi intense con auto elogi.
Sadie alzava e abbassava lo sguardo, socchiudendo le palpebre, ora verso Harrison, ora verso il blocco di fogli che teneva tra le mani, e intanto attorcigliava una ciocca di capelli biondi intorno alle dita della mano destra.
Ecco, Gibson amava questo, il fatto che una donna parlasse ancor prima di aprire bocca.
Sadie comunicava interesse e concentrazione, nonostante generalmente si fingesse disinteressata.
Il detective cominciò a prestare attenzione a quello che stava dicendo Graham quando notò che il collega gli stava lanciando alcune frecciatine mentre parlava.
«Dato che non abbiamo la lista degli invitati, ma solo gli inviti» stava spiegando Harrison, in piedi di fronte agli altri due «Dovremmo dare il massimo nell'improvvisazione»
Puntò il proprio sguardo su Gibson e quest'ultimo incrociò le braccia al petto con aria di sfida: «Non guardarmi così, piccolo genio. So che era compito mio procurarmi la lista degli invitati, ma dato che dovevo essere discreto, non ho potuto fare molto e quella famiglia ha un sistema di sicurezza troppo elevato per i nostri mezzi»
«Per i nostri o per i tuoi?» domandò Harrison stringendo gli occhi.
«Fottiti Graham» replicò l'altro «L'unica cosa che tu dovevi fare, era procurarti i biglietti, cosa che ha fatto la tua ragazza, e ne abbiamo ottenuti solo due. Quindi credo che tu non sia nella condizione di sparare insulti»
Le sue parole colpirono Harrison, perché il suo sguardo si fece più affilato, ma se la cavò stampandosi un sorrisetto arrogante sulle labbra.
Gibson strinse i denti, chiedendosi come fosse possibile che le donne impazzissero per quel genere di uomo che lui si trovava tra i piedi sotto forma di Harrison Graham.
«Il nostro problema, al momento, è decidere cosa farne dei due biglietti che abbiamo» continuò Harrison «Perché è fondamentale passare inosservati»
«Quindi non potete presentarvi come due single» commentò Sadie intervenendo nella discussione «ed escluderei anche come coppia gay. C'è troppa poca chimica tra di voi»
«Grazie a Dio» replicò Gibson con un ghigno e Harrison fece una smorfia: «Il sentimento è reciproco. Però mi è venuta un'idea»
«Illuminaci» lo incoraggiò ironicamente l'altro detective.
«Ci presenteremo io e Sadie come coppia. Siamo credibili e ad un evento del genere ognuno si presenta con una compagna»
Gibson strinse i denti. 
Sì, erano una coppia credibile, Harrison ne era consapevole e questo lo rendeva ancora più arrogante.
A smontare tutto, ci pensò la stessa donna: «Mi dispiace, ma ho già trovato un accompagnatore»
Entrambi i detective si voltarono stupiti verso di lei.
«Cosa?» esclamò Harrison «Tu hai dei biglietti?»
La donna li guardò come se le loro reazioni fossero assurdamente esagerate e rise, divertita: «Certo che no! Ma conosco qualcuno che ne ha uno anche per me, se lo accompagnerò»
«E quando pensavi di dircelo?» si aggiunse Gibson.
«Ragazzi, io sono solo la segretaria! Carter non mi farà mai andare su una probabile scena del crimine come rappresentante della legge! Dato che voglio esserci anche io, ho trovato un modo alternativo per esserci»
«Ma siamo una squadra!» protestò Gibson «Non puoi tenerci nascosti certi "dettagli"»
Lei sbuffò, facendo roteare gli occhi: «Va bene, la prossima volta vi racconterò tutti i dettagli delle mie conquiste amorose»
«No, grazie» stabilì Harrison e cercò di riportare l'attenzione sul caso: «Quindi ci presentiamo entrambi all'evento? In che veste?»
Gibson ci pensò un istante, poi scosse il capo: «No, qualcuno deve rimanere all'esterno per poter intercettare qualsiasi movimento nel momento in cui scatta l'allarme»
«Giusto» acconsentì Harrison, poi fece un sorriso sghembo: «Facciamo testa o croce per chi entra e chi resta fuori?»
Gibson fu tentato di assentire, ma realizzò che lo avrebbe fatto solo per vanagloria. Sapeva che nessuno dei due era particolarmente socievole con le altre persone, ma almeno Graham sapeva essere magnetico e attraente.
«No» disse «andrai tu, con un'accompagnatrice»
Harrison lo fulminò con lo sguardo: «Sarei andato con Sadie, ma non c'è nessun'altra donna da cui vorrei essere accompagnato»
«Questo potrebbe offendere la tua ragazza» commentò Gibson.
«Scordatelo!» sbottò l'altro «Non porterò Tess nel luogo in cui so per certo avverrà un furto»
Paul scrollò le spalle: «È l'unica persona di cui possiamo fidarci che è già stata all'evento, le sue conoscenze possono esserci molto utili. Perché non chiedi a lei cosa ne pensa?»
Harrison gli rivolse uno sguardo bieco: «È ovvio che Tess vorrà partecipare!»
«Partecipare a cosa?» domandò una voce proveniente dalla porta dell'ufficio.
Harrison si voltò di scatto e trovò Tess affacciata sulla stanza.
La donna aveva parte del volto affondata nella valorosa sciarpa che portava al collo e teneva le mani ficcate nelle tasche del cappotto.
«Cosa ci fai qui?» domandò lui sorpreso.
Lei lanciò uno sguardo a Gibson e Sadie, poi gli spiegò, sottovoce: «Stavo andando a prendere Emi a casa della sua amica e pensavo volessi venire con me. Di solito stacchi a quest'ora»
Lui sospirò e le si avvicinò, per poterla guardare meglio negli occhi.
«Mi dispiace, ma stiamo ancora lavorando» le disse dispiaciuto.
«Non è vero» esclamò Gibson alzandosi in piedi e guardando Tess negli occhi «In realtà abbiamo appena stabilito che accompagnerai Harrison sabato sera alla mostra Thompson. Tu ci sei già stata, giusto?»
La donna annuì, leggermente intimorita. Aveva sentito parlare di Gibson, ma non lo aveva mai incontrato di persona.
Harrison si voltò verso di lei, dopo aver fulminato il collega, e le disse: «Non è necessario che tu venga, Tessie, non preoccuparti»
Lei abbozzò un sorrisetto divertito: «Sul serio credi di cavartela in mezzo a tutti quei ricchi con la puzza sotto il naso? Cominceresti ad insultarli dopo dieci secondi. Hai bisogno di qualcuno che ti tenga buono»
«Ben detto, Tess» commentò Sadie sorridendole e anche Gibson le rivolse quello che sarebbe dovuto essere un sorriso, ma appariva come un ghigno.
Harrison si premurò di incendiare entrambi con occhiate di fuoco, poi condusse Tess nel corridoio, per poter parlare indisturbato.
«Ne sei sicura?» mormorò, con un'espressione seria. Nonostante apparisse spesso sconsiderato e saccente, Tess sapeva che l'uomo prendeva molto seriamente il proprio lavoro e voleva che ogni cosa filasse per il verso giusto.
«Assolutamente sì» replicò lei sorridendo.
Harrison corrugò la fronte: «Devi promettermi che farai qualsiasi cosa ti dirò di fare»
Lei si portò la mano sul cuore: «Lo giuro»
L'uomo sbuffò: «Lo faccio solo perché sei tu, e mi fido di te»
Tess sorrise, con aria maliziosa: «"Contra ad Amor pur fur perdente colui che vinse tutte l'altre cose
Lui alzò gli occhi al cielo.
«Sappiamo tutti che l'amore è la rovina per un uomo razionale come me, Tessie Bear» mormorò, guardandola negli occhi.
«Perché è un atto di fede» replicò lei sorridendo, prima che Harrison si chinasse per baciarla sulle labbra.

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Capitolo 4
*** All day and all of the night ***


4_ All day and all of the night



 
La casa in stile palladiano si ergeva al centro del parco, creando un gioco di contrasti con l'oscurità della notte grazie ai faretti che la illuminavano dal basso. La facciata principale, di un bianco candido, prendeva forma dalle colonne doriche e culminava nel timpano semplice e privo di decorazioni. 
La casa era circondata da una sorta di portico che ricordava i pronai dei tempi greci, accessibile tramite alcuni gradini dello stesso bianco del resto della casa.
Su questo si distinguevano le figure degli ospiti, eleganti nei loro abiti da sera, mentre porgevano gli inviti alle guardie e venivano accompagnati all'interno.
«Ricordati di rimanere sempre lucida e attenta alla situazione» stava dicendo il detective Harrison Graham, avvicinandosi all'ingresso con la propria accompagnatrice al braccio «così che al minimo cenno di pericolo...»
«...mi precipiterò verso l'uscita più vicina» terminò Tess alzando gli occhi al cielo «Quando smetterai di ripeterlo?»
«Quando sarò certo che tutto sia andato per il verso giusto» replicò lui, nervosamente.
Raggiunsero la guardia, un omone massiccio, che controllò i loro inviti.
«Benvenuti, signori, e buona serata» rivolse loro un sorriso accogliente e li fece entrare.
I due si trovarono in un ampio ingresso, non meno magnifico dell'esterno della casa. Le pareti ed il soffitto erano decorati con stucchi e affreschi che riprendevano soggetti della classicità, così che pavoni succedevano conchiglie e cigni e molto altro.
«Posso prendere i vostri soprabiti?» domandò un uomo guardandoli.
I due acconsentirono e consegnarono gli indumenti, che vennero depositi in un apposito stanzino, insieme a quelli degli altri invitati.
Tess scorse i loro riflessi in un vetro e si perse un istante nell'osservare l'immagine.
Non aveva mai visto Harrison così elegante, in completo nero in contrasto con la camicia bianca, e addirittura la cravatta nera al collo. Nonostante quello non fosse il suo solito stile, l'uomo faceva decisamente colpo.
Si era rasato del tutto la barba, cosa che faceva raramente, e aveva perso del tutto l'aspetto del trasandato detective che era tutti i giorni.
Anche lei stessa, dovette ammettere Tess, faceva la propria figura. Indossava un abito color neve, decorato da cristalli lungo il busto e le maniche, mentre la gonna scendeva fino ai piedi in morbidi svolazzi di chiffon candido. Il colore faceva apparire i suoi occhi più intensi e profondi, aiutati anche dal trucco.
«Siamo davvero sexy» constatò Harrison, ricambiando lo sguardo di Tess nella vetrata.
Lei gli sorrise, poi rivolse il capo verso il corridoio che conduceva nella sala successiva.
«Andiamo?» domandò e l'uomo aprì la bocca, come per aggiungere qualcosa, ma vista l'occhiata della sua accompagnatrice, decise di tacere e dirigersi dove gli era stato detto.
Si ritrovarono in una sala ampia, più lunga che larga, affollata di persone che ammiravano i quadri e gli altri oggetti disposti lungo le pareti. Il fondo della sala si biforcava, ampliando ancora lo spazio destinato alla mostra.
Tra gli invitati circolavano i camerieri con i vassoi di champagne o tartine, mentre il resto del buffet veniva servito nel punto d'incontro delle tre stanze.
Tess ed Harrison avanzarono lentamente, guardandosi intorno per studiare l'ambiente quanto i volti delle persone.
Era evidente il loro ritenersi appartenenti ad una classe sociale superiore, per la ricercatezza che utilizzavano in ogni gesto, discorso o anche nel semplice modo di camminare.
Tutti erano ben vestiti, ordinatamente pettinati e doverosamente profumati di colonie costose.
Al braccio di ogni uomo in giacca e cravatta, stava una donna altrettanto affascinante che sfoggiava abiti e gioielli come parte complementari della propria bellezza.
Tess ricordava di aver partecipare all'evento al braccio di Elliot, che si muoveva senza problemi in quell'ambiente e lei si era sentita a proprio agio di riflesso.
In quel momento, invece, Harrison le stava trasmettendo il proprio nervosismo, tanto per l'evento in sé quanto per il probabile furto che sarebbe avvenuto.
I due attraversarono la sala adattandosi alla falcata elegante degli altri presenti e raggiunsero velocemente il tavolo del buffet.
Harrison afferrò un bicchiere di champagne al volo da un vassoio e lo sorseggiò con una lentezza forzata.
«Non parlavi di "rimanere sempre lucidi e attenti"?» domandò la donna guardandolo di sottecchi.
Lui la fulminò con le iridi verde smeraldo: «Mi sto trattenendo, Tessie, ed è un grande sforzo»
Lei alzò gli occhi al cielo, ma non fece in tempo ad aggiungere altro, perché il suo sguardo fu attratto da una figura poco distante.
L'uomo che stava osservando, sollevò il capo e incrociò gli occhi di Tess. Questa impiegò un istante a realizzare che Elliot la stava fissando a sua volta, ma quando ne fu consapevole, accennò un cenno di saluto con il capo in sua direzione.
Elliot rispose, la fissò per qualche istante, poi tornò a parlare con la signora che aveva di fronte.
Tess espirò e si accorse che aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo.
Era stato inconsapevole, ma la sua mente sembrava non aver elaborato che lei si trovava lì con Harrison e non più con Elliot e le era sembrato strano vedere l'uomo lontano da lei.
«Hai visto qualcosa?» domandò il detective in quel momento, affiancandola.
Lei scosse il capo e, voltandosi verso di lui, realizzò che stava bevendo il secondo bicchiere di champagne.
Lo fulminò con lo sguardo.
«Harrison!» sibilò «Sei qui per lavorare»
Lui le rivolse uno sguardo scocciato: «Lo so, credimi. Io non comprometto mai il mio lavoro, mai»
Come per dimostrarlo, depose il bicchiere vuoto sul vassoio di un cameriere di passaggio e porse il braccio alla donna.
Lei sospirò, ma accettò la sua offerta e insieme ripresero a camminare per la galleria. 
Rallentarono per poter ammirare i quadri, un mix di arte moderna e classica, e alcuni degli oggetti esposti, come un orologio con decorazioni dorate e set di bicchieri in pregiati vetri colorati.
Harrison scorse Sadie accanto ad un uomo alto, dai capelli scuri, di qualche anno più vecchio di lei.
La donna indossava un abito rosso aderente, aveva i capelli biondi arricciati in boccoli e un trucco leggero sul volto.
Inizialmente il detective pensò che la vista gli stesse facendo qualche brutto tiro, perché quella non poteva essere la sua segretaria, ma dovette convincersi che invece ci vedeva benissimo.
La donna gli rivolse un accenno di sorriso e lui ricambiò con un mezzo sorrisetto ironico, ma per il resto s'ignorarono, come se non si conoscessero, perché questo era il piano.
Sadie doveva rimanere nell'ombra, in modo che se anche i criminali fossero stati informati della presenza di Harrison, sarebbe stato compito della donna cercare di individuarli, ovviamente mantenendo le distanze di sicurezza.
Nessuno doveva farsi male quella sera.
Una donna sulla sessantina d'anni, avvolta nel proprio abito dorato, fermò Tess e cominciò a chiacchierare con lei dimostrando di conoscerla.
La giovane le rispose con gentilezza e cortesia.
«Sei meravigliosa stasera, dolcezza» le stava dicendo la donna e l'altra arrossì lievemente. 
«Elliot Hooper non sa cosa si sia perso. Ben gli sta» sentenziò quella risoluta.
Tess sorrise e continuò a parlare fino a che la donna non si congedò.
«Mi dispiace» disse ad Harrison, una voglia rimasti soli «Incontravo la signora Ellison ogni anno»
Lui scrollò le spalle e commentò con un sorrisetto: «Non vedo nulla di male nel conversare amabilmente con una signora» 
«Pensavo non volessi distrazioni» commentò la donna, alzando gli occhi verso le iridi verdi dell'uomo.
Lui continuò a sorridere, sfacciato: «La banda colpisce sempre verso mezzanotte, abbiamo ancora tempo»
Le posò una mano sul fianco e l'attirò a sé, provocando una serie di brividi lungo la schiena della donna: «Intanto potremmo comportarci come tutti gli altri, godendoci la serata»
Tess gli posò una mano sul petto, senza distogliere lo sguardo dal suo.
«Non sei troppo nervoso per questo?»
«Forse è il momento di...sciogliere questa tensione» commentò lui e si chinò verso la donna per baciarla sulle labbra.
Tess aveva scorto altre coppie di invitati baciarsi, ma in quel momento si sentì improvvisamente vulnerabile, in mezzo a tutte quelle persone e al contempo carica di adrenalina nell'intero corpo.
Accarezzò con una mano la guancia liscia di Harrison e si staccò lentamente da lui, controvoglia.
Purtroppo, quella non era una serata di piacere.
All'improvviso qualcuno urtò bruscamente l'uomo da dietro, ma si allontanò senza chiedere scusa.
Harrison si voltò di scatto e fece per richiamarlo, ma Tess lo bloccò afferrandolo per un braccio.
L'ultima cosa di cui avevano bisogno era attirare l'attenzione.
L'uomo che l'aveva urtato, sentendo il leggero trambusto provenire dalle sue spalle, si voltò. Poi trasalì e, come se avesse visto un fantasma, il suo volto si fece pallido.
Si trattava di un uomo dell'età del detective, probabilmente non aveva ancora compiuto trent'anni.
Portava i capelli castano chiaro corti, ma abbastanza lunghi perché lasciassero intuire le onde che avrebbero formato.
Le sue guance magre erano ricoperte da una barba corta, dello stesso colore chiaro dei capelli e i suoi occhi azzurro-verde avevano un che di magnetico.
Le sue labbra rosa, in quel momento erano dischiuse in un'espressione di pure stupore.
Harrison lo squadrò con aria scettica, ma quando realizzò che quello sguardo non era rivolto a lui, si voltò.
Tess aveva assunto la stessa identica espressione dell'uomo: faccia impalata, occhi sgranati e labbra dischiuse.
«Tess?» 
A parlare era stato il misterioso giovane uomo, con uno sguardo simile a chi si riprende da uno shock.
La donna sbatté le palpebre, le sue labbra tremarono, come se cercasse di formulare una parola, ma qualcosa glielo impedisse.
«Sì» riuscì infine ad articolare «Sono io»
Sul volto dell'uomo si spalancò un grande sorriso accogliente.
Tess gli si avvicinò in un lampo e lo abbracciò, venendo a sua volta ricambiata. 
Harrison seguì i loro movimenti, il modo in cui l'uomo si chinava sul capo di Tess per posare il mento sui suoi capelli, lo slancio con cui lei l'aveva stretto.
Il detective non poté evitarsi una stretta al cuore, non per un'irrazionale moto di gelosia, ma perché era più che consapevole della riservatezza di Tess e non era da lei comportarsi in modo così caloroso. D'altra parte la donna era anche una persona piuttosto impulsiva, se si lasciava travolgere dai sentimenti.
In quel momento Tess si stava staccando dall'uomo, con le guance arrossate, probabilmente realizzando ciò che aveva appena fatto.
Lui non sembrava per nulla imbarazzato, anzi tenne le mani sulle spalle della donna, e continuò a guardarla negli occhi.
Harrison fece un passo avanti, rivolgendo un'occhiata indagatoria all'estraneo così avvenente.
Tess notò che si era avvicinato e si voltò verso di lui, con le guance ancora arrossate: «Harrison, ti presento Calvin. Io e lui siamo stati grandi amici anni fa»
L'altro uomo, accorgendosi solo in quel momento della presenza del detective, staccò le mani dalle spalle di Tess e lei fece un passo verso il proprio accompagnatore.
Calvin allungò una mano per stringere quella di Harrison e mentre si scambiavano una convenevole stretta di saluto, il detective notò che i suoi palmi non avevano calli e quindi, unito al suo completo firmato, l'uomo doveva occupare una posizione elevata nella gerarchia sociale.
«Non ci vediamo da...dieci anni?» domandò Tess, guardando Calvin.
«Otto» la corresse lui gentilmente. 
Come Harrison aveva già notato, l'uomo era dotato di un fascino magnetico che spillava dagli occhi, dalla postura, dal modo di sorridere e anche dalla voce.
Sapeva di essere realista quando ammetteva di saper fare colpo sulle donne, ma in quel momento trovò quello che sarebbe potuto essere un suo rivale, grazie ai suoi modi gentili, e di certo lo avrebbe aiutato anche il conto in banca.
«È davvero tanto tempo per due "grandi amici"» commentò Harrison, scrutando Calvin per non perdersi la sua reazione.
Contemporaneamente, vide con la coda dell'occhio, Tess voltarsi verso di lui e fulminarlo.
L'altro uomo accennò un sorriso: «Purtroppo otto anni fa mi sono trasferito in una scuola lontana che mi impediva di mantenere i contatti con le vecchie amicizie. Quando ne sono uscito, tutti quelli che conoscevo avevano intrapreso la propria strada e non ho più avuto modo di rintracciarli»
Gli occhi verde-azzurro si spostarono su Tess e la guardarono intensamente.
La donna sorresse lo sguardo per un istante, poi cominciò a sbattere le palpebre e si voltò verso Harrison.
«Credo che tra non molto scatterà la mezzanotte» gli disse, con parole ricche di sottintesi.
Il detective spostò i propri occhi color smeraldo in quelli grigi della donna, che lo stava fissando, e infine fece un leggero cenno di assenso con il capo.
«Scommetto che avrete un sacco di cose da dirvi» commentò poi, ritornando a guardare Calvin «Vi lascio un po' di privacy»
Si chinò per lasciare un bacio sulle labbra di Tess, poi si allontanò dai due, non senza una punta di fastidio.
Ma in quel momento doveva pensare al lavoro.
Sapeva che mancava ormai poco al furto e percepiva l'eccitazione accelerare il suo battito cardiaco.
Sentiva la pistola infilata nei pantaloni sul retro, il distintivo nascosto all'interno di un lato della giacca e la torcia nell'altro, per quando ci sarebbe stato il blackout.
Camminò per le stanze e si assicurò che tutti i quadri fossero sistemati solo in due di queste, mentre la terza conteneva esclusivamente oggetti di antiquariato.
Non sapevano quale tela sarebbe stata rubata e questo complicava le cose, perché avrebbe dovuto capirlo appena sarebbe saltata la corrente.
Notò che un drappello di persone si stava raccogliendo intorno ad un uomo, che identificò come il signor Thompson, il proprietario della villa. L'uomo stava raccontando qualcosa di particolarmente entusiasmante, perché la gente continuava a radunarsi per ascoltare.
Questo capitava a vantaggio del detective, perché le stanze si stavano liberando e lui riusciva a muoversi più agevolmente.
All'improvviso il brusio leggero e delicato della sala, fu squarciato da un acuto grido femminile.
Tutti ammutolirono di colpo mentre l'eco dell'urlo si propagava tra le pareti.
Harrison cominciò a correre nella direzione da cui era partito il grido e trovò, in mezzo alla sala semi deserta, una donna accasciata a terra che si aggrappava con un solo braccio ad un sostegno dell'esposizione.
La raggiunse rapidamente e si chinò al suo fianco.
«Signora, si sente bene?» domandò, assicurandosi che non fosse ferita.
Le palpebre della donna tremarono, insieme al resto del suo corpo e i suoi occhi si mossero verso la cima del sostegno, su cui avrebbe dovuto esserci esposto qualcosa, mentre in quel momento era vuoto.
«Il mio carillon...» biascicò la donna «Hanno rubato il mio carillon»
Harrison controllò l'espositore e notò che sul retro c'erano dei cavi, probabilmente collegati al carillon esposto, che però qualcuno aveva tranciato.
«Merda» imprecò tra i denti.
Afferrò il cellulare e chiamò Gibson.
«Il furto è avvenuto, non so quanto tempo fa, mandami la squadra e controlla ogni movimento esterno»
«Ricevuto» replicò l'uomo senza polemiche e chiuse la chiamata.
Nel frattempo, intorno alla scena del crimine erano accorsi tutti gli invitati che creavano una calca attorno alla donna ancora stesa a terra.
Harrison estrasse il distintivo: «State indietro per favore. Voglio parlare con il signor Thompson»
Un uomo dai capelli bianchi e il passo deciso si fece avanti.
«Cosa è successo a mia moglie, detective?» domandò, aiutando la donna a rialzarsi in piedi.
«Qualcuno ha rubato il suo carillon»
«Non è possibile, era collegato all'allarme!»
Harrison gli indicò i cavi tagliati: «A quanto pare i ladri lo sapevano» guardò l'uomo dritto negli occhi «Per una maggiore sicurezza, consiglio che nessuno abbandoni l'edificio prima che siano stati fatti degli accertamenti»
Il signor Thompson annuì: «Tutto quello di cui c'è bisogno»
«Quindi non ha problemi a far entrare la mia squadra e permettergli di perquisire tutti gli ospiti, giusto?»
L'uomo sgranò gli occhi, sorpreso dalla richiesta, ma quando realizzò che si trattava di una cosa più che ragionevole, annuì: «Per quanto spiacevole, riconosco che si tratta del vostro lavoro. Lei crede davvero che i criminali si nascondano tra i miei ospiti?»
Harrison tirò le labbra in un sorrisetto sghembo: «Come è riuscito ad entrare un poliziotto, non vedo perché un ladro dovrebbe avere difficoltà»
In quel momento si sentirono dei rumori provenire dall'esterno.
«Questa deve essere la mia squadra» commentò il detective «Li lasci entrare. Spiegherò io ai suoi ospiti cosa fare»
Il signor Thompson annuì ancora e si diresse a fare ciò che gli era stato detto.
Intanto il detective spiegò agli ospiti come disporsi, scusandosi per il disagio che stava loro arrecando.
«Vi prego di non allarmarvi» disse a gran voce «Si tratta di un controllo d'obbligo, al termine del quale sarete liberi di tornare a casa»
La squadra di agenti si mise subito all'opera perquisendo gli invitati alla ricerca del carillon accuratamente descritto dal signor Thompson.
Pur essendo un oggetto piccolo, non sarebbe stato difficile trovarlo tra quegli abiti da sera.
Harrison si occupò di dare indicazioni ai colleghi e ascoltare chiunque avesse potuto vedere la scena del crimine al momento del furto.
Nessuno però sembrava essere stato presente al momento clou.
Il detective incrociò Sadie, priva di accompagnatore, il quale però ricomparve poco dopo dal bagno degli uomini, così Harrison rivolse un semplice cenno del capo alla donna e tornò al lavoro.
Mentre era assorto nel lavoro, scorse Tess. Pur stando in mezzo alla folla, lei non ne faceva parte.
Si distingueva tra quelle persone come un diamante tra frammenti di onice nera.
Forse era l'abito di un colore così candido, o forse era proprio lei che irradiava quella luminosità o magari si trattava semplicemente di Harrison, di come l'immagine vista dai suoi occhi fosse trasformata nel suo cervello.
Certamente all'uomo non sfuggì la presenza di Calvin a fianco della propria compagna e si diresse con passo deciso verso di loro.
Rivolse a Calvin un cenno di saluto e gli domandò: «Ti dispiace se ti perquisisco?»
Tess tossicchiò, ma l'altro uomo annuì: «Certo, nessun problema»
Alzò le braccia e mentre Harrison si metteva all'opera, chiese a sua volta: «Quindi sei un detective?»
«Esattamente» rispose lui e nonostante fosse impegnato, non mancò di notare l'occhiata che Calvin rivolse a Tess.
La donna ebbe un micro cambiamento nell'espressione facciale, ma troppo impercettibile perché il detective riuscisse ad identificarlo.
Harrison impiegò più del dovuto a perquisirlo, ma, con dispiacere, dovette ammettere che Calvin era pulito. 
Gli rivolse un cenno di assenso, poi fece per andarsene e tornare al lavoro, ma si sentì afferrare per un braccio.
Tess lo aveva seguito a ruota e ora lo stava trattenendo.
«Perché diavolo lo hai fatto?» gli domandò fulminandolo con lo sguardo.
Lui scrollò le spalle: «Non mi sembra di aver fatto nulla al di fuori del mio ruolo»
«Non prendermi in giro, Harrison, so perfettamente che hai esagerato con Calvin. Sembra che tu ce l'abbia con lui!»
L'uomo ricambiò il suo sguardo penetrante: «Ho fatto quello che dovevo, Tess»
«Calvin è stato con me per tutto il tempo e tu lo sapevi perfettamente, quindi non può essere stato lui a rubare quel carillon. Penavo fossi qui per lavorare, non per comportarti da fidanzato geloso iper protettivo»
Lui strinse gli occhi, ma non replicò. Si voltò e tornò al lavoro, lasciando la donna alle proprie spalle.
Cercò di concentrarsi su ciò che doveva fare, ma le parole di Tess gli martellavano la testa.
Era geloso? Sì!
Era protettivo! Sì!
E Tess avrebbe dovuto capirlo, perché lei ed Emi erano tutto ciò che aveva al mondo e avrebbe fatto di tutto per proteggerle. Aveva già perso Marlene, non avrebbe commesso altri errori.
Prese il cellulare e chiamò ancora Gibson.
«Novità?» domandò appena sentì rispondere dall'altro capo.
«Nulla» replicò Gibson «Abbiamo setacciato l'intera zona ma non c'è stato alcun movimento. O sono ancora all'interno, o si sono volatilizzati»
Harrison imprecò a mezza voce, poi aggiunse: «Continuo a cercare, ci sentiamo tra poco»
Gibson chiuse la chiamata prima che potesse farlo lui e al detective non rimase altro che tornare al lavoro.
Interrogò altri ospiti, controllò i risultati dei colleghi, ma tutti i riscontri furono negativi e stavano impiegando troppo tempo.
I criminali avrebbero potuto compiere l'omicidio in ogni momento.
Mano a mano che gli invitati erano stati perquisiti, abbandonavano la casa, così le sale si stavano svuotando poco a poco.
Ad un tratto, Harrison vide una figura avvolta da un abito rosso avvicinarsi e realizzò che si trattava di Sadie. 
Finse di ignorarla, ma la donna si piazzò davanti a lui.
L'uomo aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei fu più veloce.
«Mi dispiace» disse e gli mostrò la schermata del suo cellulare «Ma è troppo tardi. Hanno trovato un cadavere»

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Capitolo 5
*** Larry Beaver ***


5_ Larry Beaver



 
Harrison si passò una mano sul volto assonnato, ascoltando il ronzio della macchinetta del caffè al lavoro. Quando il rumore si fermò, raccolse il bicchiere e si allontanò sorseggiando il terzo caffè della mattina.
Ed erano solo le 9.30.
Entrò nel proprio ufficio, dove trovò Gibson in condizione di certo non migliori delle sue. La sera precedente, dopo aver lasciato il ricevimento intorno all'una di notte, i due detective si erano dovuti recare nella casa di Mark Campbell. L'uomo, un dipendente statale, era stato ucciso nel salotto di casa sua, mentre la moglie dormiva in camera da letto.
Sempre lo stesso schema: gola tagliata, nessuna traccia e in contemporanea con il furto. Harrison e Gibson avevano analizzato la scena del crimine, interrogato la moglie e, come al solito, non avevano ricavato nulla. Harrison era rientrato in casa sua intorno alle quattro e aveva trovato Tess addormentata. Si era steso nel letto al suo fianco e, guardando il suo volto disteso, aveva sentito le palpebre calare. 
Gli sembrò di essersi appena addormentato, quando la sveglia prese a suonare furiosamente. Tess si era mossa tra le lenzuola, continuando a dormire, ma lui si era dovuto trascinare fuori dal letto, poi verso il piano inferiore.
Così, dopo poco più di tre ore di sonno, si era recato alla centrale per rimettersi al lavoro. 
«Nulla» la voce di Gibson riscosse l'uomo, che finì di bere il caffè bollente con un unico sorso e gettò il bicchiere nel cestino.
«Come?» domandò, cercando di mettere a fuoco il volto del collega.
«Ho controllato il fascicolo di Mark Campbell e non ho trovato nulla degno di nota» gli tese i documenti e Harrison li sfogliò rapidamente, confermando ciò che già sapeva.
«Così siamo a tre omicidi» commentò lasciandosi cadere sulla poltrona dietro alla scrivania «di tre innocenti»
«Potremmo ipotizzare che i tre nascondessero qualcosa e ciò li renderebbe colpevoli»
«Ma non si conoscevano neanche» concluse Harrison con un sospiro.
Il suo sguardo si perse sui fogli, pensieroso. Aveva ricontrollato tutto ciò che sapevano sulle vittime, ma nulla sembrava collegarli. Vivevamo in zone diverse della città, si occupavano di ambiti diversi, conoscevano persone diverse. Benjamin Collins lavorava per una compagnia di assicurazioni, ma nessuna delle altre due vittime ne era mai stata cliente, allo stesso modo Daniel Grisham era un critico d'arte, ma gli altri non era interessati di arte, infine Mark Campbell era un dipendente statale, ma si occupava di certificati che le altre vittime non necessitavano.
«Hai parlato con Sadie?» domandò Harrison guardando il collega.
Gibson annuì: «Sì, ma non ha ancora trovato nulla di significativo. Sarà meglio andare a parlarle»
L'altro fece un cenno d'assenso e lo precedette all'esterno dell'ufficio.
Sadie lavorava alla propria scrivania, spostando lo sguardo dallo schermo del computer ai fogli che aveva davanti a sé. L'ultima volta che Harrison le aveva parlato, la donna si occupava anche di rispondere alle telefonate, ma in quel momento il telefono era scomparso dalla scrivania e Sadie era completamente assorta dal lavoro.
«Novità?» domandò il detective affiancandola.
«Sì» rispose lei «se per novità intendi scoprire quali sono le occasioni adatte per regalare un carillon. Se intendi qualcosa utile al caso...»
«Fantastico» concluse con sarcasmo l'uomo.
«E se guardassimo questi omicidi da un altro punto di vista?» commentò Gibson.
Harrison si voltò verso di lui, con uno sguardo interrogativo.
«Prendiamo ancora in considerazione la mente dei criminali» spiegò l'altro «Il furto è avvenuto senza blackout e ciò significa che ormai sono certi di aver attirato l'attenzione. La vera domanda è: con chi stanno comunicando? E cosa vogliono dire?»
Harrison sbuffò: «Non sono certo domande facili»
«Già, ma se riusciamo a rispondere a queste, saremo un passo più vicini alla soluzione»
 
 
Tess rientrò in casa nel tardo pomeriggio, di ritorno da un lungo pranzo domenicale da Cassidy e Ron. 
Dato che Harrison era stato trattenuto al lavoro per tutta la giornata, la donna si era recata da sola dai genitori, dove l'attendeva anche Emilia.
Quando Tess mise piede nel salotto, trovò Harrison appisolato sul divano.
Emi entrò nella sala chiacchierando ad alta voce, così l'uomo si riscosse e sollevò di scatto il capo, stropicciandosi gli occhi.
«Oh, ciao papi» salutò la bimba e corse verso di lui per potersi accoccolare sulle sue gambe e gettargli le braccia intorno al collo.
Harrison la strinse a sé, accarezzandole i capelli.
«Ciao piccola» le disse sorridendo «Com'è andata dai nonni?» 
Mentre Emilia si lanciava nell'accurata descrizione di ciò che aveva fatto in quel weekend, Tess si spostò in cucina.
Poco dopo la raggiunse anche Harrison, da solo.
«Ehi» la salutò guardandola «Mi dispiace averti lasciata sola oggi. Il lavoro è stato molto...travolgente»
Tess fece un cenno di assenso: «Certo, capisco. Il tuo lavoro è molto serio al momento»
Harrison incrociò le braccia al petto, scoccandole un'occhiata accigliata.
«Cosa intendi dire?»
Lei scrollò le spalle: «Esattamente quello che ho detto. Ieri sera hai preso tutto molto seriamente»
«Tess...» replicò lui, continuando a fissarla. Sapeva con certezza che la donna stava tacendo qualcosa. 
Era parte del suo lavoro capire se qualcuno mentiva e Tess era più trasparente di Emilia.
Lei alzò gli occhi al cielo, poi tornò a fissarlo.
«Era proprio necessario comportarsi in quel modo con Calvin?» disse infine.
Harrison sollevò le sopracciglia: «Sul serio? Vuoi parlare di quello?»
«Be', la tua reazione mi è sembrata un poco eccessiva» commentò lei sarcastica.
«Non ho mai sentito parlare di lui e all'improvviso lo troviamo sulla scena di un crimine»
«Cosa?» esclamò lei «Stai parlando da detective o da fidanzato geloso?»
«Tess, per favore, non cambiare le carte in tavola»
«Sei tu che lo stai facendo!» protestò la donna.
«Tu sei la persona più riservata che io conosca, le uniche occasioni in cui lasci trasparire le tue emozioni sono quando sei travolta da queste. Ieri sera hai abbracciato quell'uomo come raramente hai fatto con me, non credi che sia normale che io mi ponga qualche domanda?»
Tess sospirò. Avere una discussione con Harrison era come averla con una donna che sa sfruttare tutti i punti a proprio vantaggio per distruggere l'avversario.
«È un vecchio amico, non ci vediamo da anni e quando l'ho visto ho pensato che fosse incredibile averlo ritrovato!»
Harrison corrugò la fronte: «E come è possibile che non vi vediate da otto anni se eravate grandi amici?»
Lei alzò gli occhi al cielo: «Calvin ha detto la verità. Suo padre lo ha costretto ad iscriversi ad una sorta di accademia militare e quando ne è uscito io mi ero trasferita lontano dai miei genitori. Non siamo più riusciti a metterci in contatto»
L'uomo continuò a scrutarla, ma sapeva che Tess era assolutamente sincera.
Forse aveva ragione, la sua era semplice gelosia, dopotutto. E forse era da tanto tempo che non si sentiva geloso di qualcuno. Emilia lo amava di un amore incondizionato, perché era come una parte di sé. 
Ma Tess era altro e in quanto tale aveva avuto una propria vita autonoma prima di incontrarlo.
Harrison le si avvicinò e la strinse a sé.
Lei gli circondò il collo con le braccia, guardandolo negli occhi.
«Io ti amo» gli disse sorridendo dolcemente «Non dimenticarlo»
Lui socchiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dagli altri sensi.
Il calore del corpo della donna appoggiato contro il suo, il profumo floreale della sua pelle, il respiro leggero che usciva dalle sue labbra e faceva alzare e abbassare il suo petto.
«Ti amo anche io» rispose lui e si chinò per appoggiare le proprie labbra su quelle morbide della donna.
Lei si lasciò baciare con dolcezza, mentre infilava la dita tra i capelli dell'uomo.
Le mani di Harrison scesero fino a stringerle i fianchi e l'attirò ancora di più verso di sé.
Il trasporto del loro bacio fu bruscamente interrotto dalla voce di Emi che chiamava dal salotto.
«Mi dispiace» sussurrò lui sulle labbra di Tess «Ma il dovere chiama»
La donna sorrise e a malincuore lo lasciò allontanarsi da sé.
Lo seguì però verso il salotto dove la bimba stava in piedi sul divano per cercare di prendere i libri nell'ultimo scaffale della libreria.
Harrison la raggiunse in fretta e la sollevò in modo che potesse raggiungere il proprio obiettivo.
Emi sfilò soddisfatta il libro dalla scaffale e lo tese al padre: «Me lo leggi?»
Lui rise: «Va bene, ma solo una storia, perché poi devo preparare la cena»
I due si accomodarono sul divano, Harrison con le gambe incrociate ed Emi seduta in grembo.
Tess li osservava dalla porta, sorridendo.
«Dopo cena leggiamo le altre storie insieme?» domandò la bambina spostando lo sguardo dal padre alla donna.
Lui stava annuendo, ma Tess lo bloccò: «Nell mi ha chiesto di incontrarci dopo cena, per bere qualcosa e chiacchierare. È da un po' che non ci vediamo»
«Allora saremo solo io e te, piccola» disse Harrison guardando la figlia.
«Se è un problema posso dirle di rimandare» aggiunse Tess velocemente.
L'uomo alzò gli occhi verso di lei e sorrise: «No, va benissimo. Oggi hai sopportato i miei genitori da sola, te lo meriti»
Lei rise, scuotendo il capo e si avvicinò al divano per unirsi a loro nella lettura.
 
 
Un paio d'ore più tardi, Tess entrò nel locale con aria guardinga.
Si trattava di un bar scarsamente illuminato, colmo di avventori dall'aria poco raccomandabile, che per la maggior parte avevano già bevuto troppi bicchieri per potersi definire lucidi o che comunque stavano per raggiungere quel livello.
Senza guardarsi intorno, la donna puntò direttamente verso il tavolo già occupato dal suo appuntamento per quella sera.
Camminò velocemente sul pavimento unticcio e raggiunse il divanetto sgualcito, che perlomeno appariva pulito.
Si sedette, senza togliersi il cappotto e guardò negli occhi la persona che le stava di fronte.
«Un detective, eh?» commentò Calvin con un sorriso di scherno, a mo' di saluto.
«Be', al cuore non si comanda» replicò lei a tono.
L'uomo rise: «Touché»
Tess gli rivolse un'occhiata penetrante: «Dubito tu mi abbia chiesto di incontrarci per parlare dei miei gusti in fatto di compagni, perché in tal caso, la conversazione potrebbe prolungarsi parecchio, visti i parerei contrastanti»
Lui continuò a sorridere, anche mentre scuoteva il capo, poi il suo volto assunse un'espressione seria.
«No, mia piccola Tessa» le disse e la donna sentì un brivido attraversarle la schiena.
Era da tempo che non si sentiva chiamare in quel modo, non dall'ultima volta che aveva visto Calvin, otto anni prima.
Lui parve rendersi conto della reazione che aveva suscitato in lei, e sorrise, come se ne fosse divertito.
«Mi chiamo Tess» replicò lei e il sorriso dell'uomo si allargò.
Questo gioco era nato tra loro da quando si erano conosciuti.
Calvin insisteva per chiamarla Tessa, dicendo che Tess poteva essere solo un soprannome di Theresa, e non il suo vero nome, con ogni volta lei ribadiva come si chiamasse.
«Che ne dici di parlare di cose serie ora?» domandò la donna stringendo le labbra.
«La solita puntigliosa Tessa» commentò lui, poi diventò improvvisamente serio.
«Ciò di cui ti voglio parlare riguarda il caso a cui sta lavorando il tuo fidanzato in uniforme»
Tess non cambiò espressione.
«Cosa sai?» gli chiese scrutandolo attentamente. 
Non era ormai una sorpresa per lei che Calvin riuscisse a recuperare tutte le informazioni di cui avesse bisogno, ma non si aspettava che fosse a conoscenza di un'indagine riservata della polizia. Non riusciva ad immaginare quali fossero i motivi che l'avessero spinto ad informarsi.
«Lascia che ti spieghi dall'inizio, così sarà tutto più chiaro» fece lui, poi si piegò a frugò nella ventiquattrore che teneva al suo fianco ed estrasse un figlio.
Lo mise sul tavolo e lo tese alla donna.
Conteneva la fotografia in bianco e nero di un uomo intorno ai cinquant'anni, con il volto solcato dalle rughe e un'espressione malinconica.
«Quello è Larry Beaver» cominciò Calvin con uno sguardo pesante «Morto circa dieci anni fa»
Tess annuì e abbassò il foglio, come se lo sguardo dell'uomo nella fotografia la facesse sentire a disagio.
«Era un antiquario, ma alla sua morte il suo negozio e tutto ciò che conteneva furono sequestrati alla famiglia a causa di debiti e rivenduti poi in varie aste»
Calvin estrasse un altro foglio dalla ventiquattrore e lo tese alla donna. 
Un'altra fotografia di un altro uomo.
«Quello è Benjamin Collins, morto  poco più di una settimana fa»
«Lo so, Harrison mi ha accennato della sua morte»
«Giusto, dimenticavo il fidanzato in uniforme. A quanto pare, lui non ha segreti con te»
La donna lo fulminò con lo sguardo, ma quando parlò, cercò di mantenere un tono neutro: «Cosa c'entra la morte di quest'uomo con quella di Beaver?»
«Ci stavo arrivando» replicò Calvin «La polizia sa sicuramente che Collins lavorava per una compagnia di assicurazioni, ma questo non è di grande aiuto. Se i detective avessero controllato con più attenzione, però, si sarebbero accorti che Collins ha lavorato anche come dipendente in una banca»
«Quindi cosa cambia?» domandò la donna, fremendo sul divanetto.
«Cambia per il fatto che quando era dipendente della banca, Collins ha avuto il "piacere" di occuparsi di Larry Beaver, a cui ha rifiutato un prestito. Per sei volte»
Calvin le tese un altro foglio, in cui erano annottati in modo molto formale alcuni dati, come se si trattasse di un registro attività. Di una banca.
«Quali sono state le conseguenze?» domandò Tess. Sapeva che l'uomo era solito raccogliere dati ed organizzarli in modo logico e coerente, così che nulla di ciò che le stava dicendo era superfluo o marginale.
Calvin la guardò negli occhi: «Alla famiglia di Beaver fu tagliato il riscaldamento per due mesi, d'inverno, e uno dei figli fu ricoverato in ospedale a causa di geloni»
«Scommetto che hai anche il certificato medico di più di quindici anni fa» commentò Tess e l'uomo sorrise.
«Ovviamente, ma per praticità eviterò di mostrarti anche quel documento. La storia non è neanche a metà»
La donna si sporse in avanti: «Sono pronta a sentire il resto»
Lui parve compiaciuto dalla risposta e, sorridendo, riprese a parlare: «Nella stessa sera in cui è stato ucciso Collins, un quadro è stato rubato. Indovina chi è stato uno dei precedenti proprietari»
«Direi Beaver» commentò Tess, seguendo la logica del compagno.
«Brava ragazza» 
L'uomo le tese un altro foglio, raffigurante la fotografia di un terzo uomo.
«Fammi indovinare» disse lei «Daniel Grisham»
Calvin sgranò leggermente gli occhi, impressionato dalla donna.
«Non fare quella faccia» commentò lei «Sappiamo entrambi chi è sempre stata la più intelligente tra noi due»
Lui alzò gli occhi al cielo, ma riprese subito a parlare: «Come avrai capito, anche Grisham era collegato a Beaver. Il nostro antiquario aveva una passione per la pittura e aveva tentato di vendere alcune sue tele, ma un critico d'arte aveva stroncato la sua carriera ancora prima che iniziasse con dure parole. Il suo nome era Daniel Grisham. Da quel fallimento Beaver rinunciò alla carriera dell'artista e rimase un semplice antiquario di scarso successo»
«Quindi anche il secondo quadro apparteneva alla collezione di Beaver?» domandò Tess.
Calvin annuì: «Esattamente e fu venduto come gli altri insieme alla sua morte»
La donna abbassò lo sguardo sul legno lucido del tavolo.
«La polizia credeva che i furti e gli omicidi fossero compiuti da dei pazzi che volevano giocare una sorta di caccia al tesoro, lasciando come indizi gli oggetti rubati, ma non è così. Ciò che accumuna i due quadri e il carillon non è il significato, ma l'appartenenza alla collezione di Beaver»
L'uomo fece un cenno di assenso: «Questo i detective non lo sanno ancora. E lo stesso schema si ripete per il terzo crimine. L'ultima vittima aveva sfrattato Beaver e famiglia dal suo appartamento, così si erano dovuti trasferire tutti nel negozio» 
Calvin concluse il proprio discorso e tra i due calò un istante di silenzio.
Tess rifletteva, pensierosa, e lui la guardava corrugare la fronte e spostare gli occhi grigi lungo le venature due legno del tavolo.
Ad un tratto, la donna alzò lo sguardo e incrociò quello dell'uomo.
«Questo significa che qualcuno si sta vendicando di chiunque abbia fatto un torto a Beaver e sta cercando di ristabilire autonomamente la giustizia secondo il proprio concetto» 
Calvin annuì.
«Hai idea di chi possa essere?» domandò ancora la donna.
Lui scrollò le spalle: «Al momento non ho abbastanza dati per confermare o smentire nulla, ma c'è una cosa ben più grande che mi preoccupa»
Il battito cardiaco di Tess era accelerato improvvisamente e ne sentiva il rombo nelle orecchie, così assordante da isolare qualsiasi altro rumore del locale.
Strinse i pugni, sentendo le unghie conficcarsi nei palmi, mentre ricambiava lo sguardo grave di Calvin.
Aveva già previsto le parole dell'uomo, ma quando uscirono dalle sue labbra, la trafissero ugualmente e con la stessa potenza di uno schiaffo.
«Questo significa» disse l'uomo, stringendo le labbra tanto da farle impallidire «che noi saremo prossimi»

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Capitolo 6
*** Contrasti ***


6_ Contrasti



 
 
Lunedì
Tess guardava i bambini davanti a sé, assorta.
Ha ragione chi considerava l'infanzia come un periodo magico, constatò la donna.
Lei era abituata a vedere gli studenti delle medie, che ormai avevano perso l'incanto dei bambini e conservavano i sogni dentro di sé insieme all'amaro realismo.
I bambini, invece, parevano non appartenere a questa realtà. I loro occhi avevano filtri speciali con cui guardare il mondo, la loro bocca era sincera e raramente c'era malignità nei loro gesti.
Erano spontanei, trasparenti e presi dalla curiosità per ciò che li circondava.
Tess aveva accompagnato Emi al compleanno di un suo compagno ed inizialmente la bimba le era rimasta incollata, troppo timida per unirsi agli altri. La donna l'aveva esortata a raggiungere i suoi compagni che giocavano e solo dopo parecchie insistenze, aveva acconsentito.
Tess l'aveva guardata mentre prima osservava gli altri bambini senza parlare, poi poco alla volta si avvicinava e infine entrava a far parte dei giochi.
A sua volta anche la donna si era dovuta inserire nel gruppo delle mamme che chiacchieravano tra loro.
«Ieri finalmente sono riuscita a convincere Jake a mangiare senza guardare i cartoni animati» stava dicendo una di loro e un'altra si aggiunse assentendo: «Anche Tom è fissato con la TV!»
Le altre riportarono a loro volta le proprie vicende e a Tess non rimase altro che ascoltare per dimostrare che non le stava ignorando.
Non poteva unirsi al discorso, perché si era resa conto che Emi non era una bambina con le altre. 
Non aveva mai conosciuto sua madre e la sua unica figura di riferimento era Harrison, che aveva dovuto ricoprire il ruolo di entrambi i genitori e proprio perché lui era uno solo, la bimba sapeva di dover essere autonoma.
Così non faceva mai troppe storie ed era ubbidiente. Da quando il padre le aveva detto che se voleva diventare davvero una pittrice doveva impegnarsi, la bambina passava le giornata a disegnare, preferendolo di gran lunga ai cartoni animati.
Adorava anche farsi raccontare o leggere storie e le ascoltava incantata dalla parole.
Se Tess avesse confidato queste cose alle altre donne, sarebbe stata ostracizzata immediatamente. 
In quel momento la bambina corse verso di lei e le sussurrò: «Devi vedere una cosa!»
Le prese la mano e la trascinò con sé verso la stanza dove gli altri bambini stavano giocando.
Su un tavolino erano sparsi alcuni fogli con dei disegni.
Emi gliene mostrò uno dicendo: «Lo ha fatto Josh, è bravissimo!»
Tess prese il foglio e annuì sorridendo: «Sì, è quasi bravo come te»
La bimba le mostrò altri disegni e quando si avvicinò un altro bambino, ammutolì e le sue guance si tinsero di rosso.
Tess la guardò sorridendo divertita.
«Cosa succede?» le sussurrò, cercando di non farsi sentire dall'altro bambino.
«Lui è Josh» bisbigliò Emilia.
«Perché non me lo presenti?»
La bimba arrossì ancora di più, ma cercando di nascondere l'imbarazzo si avvicinò a Josh e gli disse:
«Josh, ti presento Tess» 
Lui guardò Emi, confuso.
«Chi è Tess?» le chiese.
La bambina gliela indicò: «Lei è Tess, la mia mamma»
All'udire quella parola, la donna si paralizzò.
Emi l'aveva chiamata "mamma".
Mamma.
Sentì il cuore accelerare all'improvviso e gli occhi riempirsi di lacrime.
"Sono la sua mamma" avrebbe voluto gridare "Sì, sono io!"
La bambina sembrava inconsapevole della reazione che aveva provocato, anzi stava parlando con il suo nuovo amico con tranquillità.
Tess deglutì e si sfregò gli occhi per evitare che le lacrime le rigassero il volto.
Appena Emi si allontanò da Josh, la donna si chinò e la strinse tra le braccia.
La bambina ne fu sorpresa, ma ricambiò l'abbraccio con calore.
«Perché mi abbracci, Tess?» le domandò.
Lei sentì le lacrime premere ancora sugli occhi.
«Perché ti voglio bene» le disse, e sono la tua mamma.
 
 
 
«Ho avuto un'illuminazione» esordì Harrison entrando a grandi passi nell'ufficio di Gibson.
L'uomo, che sedeva al di là della propria scrivania, sollevò il capo dai fogli che stava esaminando, tirò le labbra in un ghigno e commentò: «Strabiliante!»
«Cosa?» replicò l'altro guardandolo di sbieco.
«Il fatto che tu abbia avuto un'illuminazione, piccolo genio»
«Ti direi di andare a farti fottere, Gibson, ma dubito ci sia qualche volontaria per la cosa»
Dopo aver pareggiato i conti in fatto di frecciatine, Harrison si decise a parlare.
«Mi sono accorto che abbiamo trascurato un dettaglio fondamentale: i fili tagliati per rubare il carillon» disse e Gibson sollevò le sopracciglia. L'altro proseguì: «I primi due quadri non erano allarmati, mentre il carillon sì. C'è la possibilità che i ladri non ne fossero informati e quindi abbiamo dovuto agire di conseguenza all'imprevisto. Il modo in cui sono stati tagliati, lascia presumere che si tratti di un professionista, non di un criminale improvvisato. Sapeva esattamente quali fili tagliare e come farlo»
Gibson lo scrutò, pensieroso.
«Molto ladri di arte sono già stati catalogati a seconda del loro modus operandi, anche se non sono ancora stati catturati»
Harrison abbozzò un sorrisetto sghembo: «È esattamente quello che intendevo. Possiamo risalire al ladro e avvalerci delle informazioni che già abbiamo»
«Davvero impressionante, piccolo genio» commentò l'altro sarcastico.
«Non impressionarti troppo, non vorrei che queste emozioni ti sconvolgessero dopo tutta quell'apatia»
Gibson assunse un'espressione a dir poco animalesca, ma non ebbe il tempo di dire altro perché Sadie entrò in quel momento nella stanza.
«Ti stavo cercando» disse rivolta ad Harrison e gli tese dei fogli «Ho trovato i fascicoli dei furti d'arte dell'ultimo decennio, ma non tutte le scomparse sono state denunciate, quindi il lavoro sarà più complicato del previsto»
Il detective prese i fogli e dopo aver lanciato un'occhiata rapida a questi, sorrise alla donna: «Grazie lo stesso. Ti ho già detto che sei un angelo?»
Lei fece roteare gli occhi: «Stai diventando noioso»
L'uomo abbozzò un sorrisetto sghembo, guardandola.
«Io controllo i furti e i criminali» annunciò poi.
«Io continuo a cercare collegamenti tra le opere d'arte» replicò Sadie e se ne andò facendo svolazzare i capelli biondi.
Quando Harrison si voltò verso Gibson, scoprì che fissava la porta da cui era scomparsa la donna come sognante.
Gli schioccò le dita davanti agli occhi: «Mi dispiace, amico, ma è già occupata e il suo compagno è abbastanza affascinante, se vuoi saperlo»
Gibson si riscosse e gli rivolse uno sguardo storto.
«Non sono interessato a lei» replicò secco «Ero solo pensieroso. Non hai niente di meglio da fare che infastidire gli altri, Graham?»
Harrison alzò le mani: «Va bene, mi metto al lavoro. Cerca di non distrarti troppo»
Ammiccò un'ultima volta guardandolo, poi uscì dall'ufficio.
 
Qualche ora più tardi, Harrison si affacciò nuovamente sulla stanza di Gibson, dove trovò l'uomo e Sadie intendi a confrontarsi su alcune informazioni.
«Io devo tornare a casa» annunciò «Ma non ho scoperto nulla di interessante»
«Stai lavorando da più di due ore e non hai alcun risultato?» replicò Gibson con un ghigno.
L'altro scrollò le spalle: «Pochi dei furti d'arte che ho esaminato presentano le caratteristiche che cerchiamo. Ho segnato quelli che meritano un approfondimento, lo farò più tardi a casa»
«Forse dovresti dormire, Harri» commentò Sadie «Non hai un bell'aspetto»
Lui scrollò ancora le spalle: «Nessun problema. Anzi, è abbastanza divertente analizzare questi casi»
Sadie sollevò le sopracciglia, scettica.
Lui ridacchiò: «Sapevate con un ladro famoso indossava dei tacchi a spillo durante il furto per far credere ai detective che si trattasse di una donna? Quando lo hanno colto sul fatto, non sapevano se arrestarlo o attendere l'arrivo della ladra che avevano immaginato»
«Interessante» commentò Gibson ironico.
«Da sbellicarsi dalle risate» replicò sarcastico Harrison «E sentite questa: un altro ladro si presenta sempre camuffato con il nome di un personaggio storico, ma nessuno si rende conto di trovarsi di fronte alla stessa persona se non dopo aver saputo del furto»
Gibson sollevò le sopracciglia e l'altro aggiunse, sempre ironico: «Mi divertirò un mondo stanotte»
Rivolse loro un cenno di saluto e scomparve nel corridoio.
Uscì velocemente dalla centrale, impaziente di tornare a casa.
Il cielo era già buio e soffiava l'aria gelida di fine gennaio.
Harrison salì a bordo della propria auto e si mise immediatamente in viaggio.
Quando raggiunse la casa, notò subito che le luci delle stanze erano spente e intuì che Tess ed Emi non erano ancora tornate dal compleanno.
Parcheggiò ed entrò nell'abitazione silenziosa, intenzionato ad occupare il tempo che gli rimaneva da solo per riprendere il lavoro che aveva interrotto.
Si era già stravaccato sul divano con il computer sulle gambe e i documenti a portata di mano, quando sentì il telefono squillare.
Con un verso contrariato si tirò in piedi e afferrò l'aggeggio che suonava poco lontano.
«Pronto?» grugnì.
«Ciao, sono io. Mi passi Tess?»
Harrison aveva imparato che c'era una sola persona così diretta e si trattava di Nell.
«Tess non è in casa» replicò lui con la stessa schiettezza.
Dall'altro capo si sentì uno sbuffo: «È tutto il giorno che cerco di chiamarla, ma parte la segreteria!»
«Ha accompagnato Emi ad un compleanno e probabilmente il suo cellulare è morto» ipotizzò lui, lasciando cadere sul divano.
«Okay, ma che palle» protestò la ragazza «ho bisogno di parlarle»
Lui alzò involontariamente gli occhi al cielo: «Cosa è successo di così urgente da ieri sera?»
Nell tacque un istante.
«Perché ieri sera?» chiese poi in tono guardingo.
Harrison colse quella sfumatura nella sua voce e non rispose subito.
«Nulla» disse «Cosa hai fatto ieri sera?»
Nell sospirò: «Ho praticamente passato l'intera notte studiando per il prossimo esame! La mia vita fa schifo! Non so come abbia fatto Tess a laurearsi così facilmente...» lei continuò a parlare, ma Harrison non la stava ascoltando.
Non le interessava più quel discorso, o almeno non tanto quanto la consapevolezza che Tess gli avesse mentito.
«Devo salutarti ora» disse, interrompendo la serie di lamentele della donna.
«Va bene, ci sentiamo» fece lei «E ricordati di dire a Tess che ho chiamato, è da un'eternità che non la vedo!»
«Non preoccuparti, glielo dirò di sicuro»
L'uomo chiuse la telefonata e la casa ripiombò nel silenzio.
Nella sua mente si stava già delineando lo schema che sviluppava di fronte ad ogni situazione. In quel momento lo schema era molto semplice e comprendeva una sola domanda: se non era stata con Nell, chi altri aveva incontrato Tess?
 
 
Emilia e Tess tornarono a casa mezz'ora dopo la telefonata di Nell.
La bambina era sfinita dal pomeriggio passato a giocare così che la donna dovette portarla tenendola tra le braccia.
Quando mise piede in salotto, trovò Harrison sul divano e lo salutò con un sorriso smagliante: «Ciao!»
Lui le rispose con un cenno del capo e si avvicinò per toglierle la bambina dalla braccia. 
Quando sentì il padre farsi vicino, Emi si lasciò afferrare da lui e gli circondò il collo, accoccolandosi contro il suo petto.
Lui la portò al piano superiore, la mise nel letto e tornò di sotto, dove nel frattempo Tess si era accomodata sul divano.
«Ehi, c'è qualche problema?» domandò lei, scrutando l'espressione contrita del detective.
Lui contrasse la mascella e ricambiò lo sguardo.
«Dove sei stata ieri sera, Tess?» chiese con voce dura.
La donna fu colta alla sprovvista dalla domanda. Aprì la bocca, la richiuse, tentò di formulare una parola.
«Io...» cominciò, ma fu bruscamente interrotta da Harrison.
«Non dire che eri con Nell» disse con un'occhiata tagliante «Perché ho appena parlato con lei»
Tess dischiuse involontariamente le labbra e la sua espressione si spense. Con lentezza nelle sue iridi si lesse la consapevolezza di ciò che aveva appena udito.
«Posso...posso spiegarti» replicò, cercando di mantenere un tono saldo.
Harrison era di fronte a lei, dall'altro lato della stanza.
Le luci giallastre del salotto illuminavano a sprazzi il suo volto, disegnando ombre scure dalle forme geometriche. I suoi occhi avevano una piega decisa, le sue labbra erano serrate.
«Sarà meglio» disse, pungente.
La donna deglutì, prese un respiro profondo, cercando di trattenere il tremore che la stava afferrando.
«Io...ho incontrato Calvin» annunciò.
Il viso di Harrison prese una piega ancora più affilata, se possibile, come se lei avesse appena ammesso ciò che lui già sospettava.
«Non è come può sembrare» si affrettò ad aggiungere la donna «Credimi»
«Io voglio farlo, Tess, ma devi provarmelo»
Lei annuì, senza staccare gli occhi dai suoi.
«Ti ho mentito, perché sapevo che avevi dei pregiudizi su Calvin e volevo evitare qualsiasi pretesto per una discussione»
«Una bugia non è esattamente una decisione innocua» replicò lui.
«Hai ragione, non avrei dovuto farlo, ma l'ho fatto a fin di bene»
«Il fine non giustifica i mezzi, Tess, non nel mondo reale»
La donna lo scrutò, perplessa: «Pensavo fosse ciò di cui vi avvalete voi detective»
«Noi dobbiamo rispettare delle leggi e non mentiamo...»
«Se non è strettamente necessario?» completò lei la frase per Harrison, facendo un passo in sua direzione. «Credevo che anche in questo caso lo fosse»
L'uomo fece una smorfia: «Vedere Calvin era una questione di vita o di morte?»
Lei scrollò le spalle: «No, non voglio esagerarla. Lui mi ha chiesto di poterci incontrare per parlare e volevo evitare discussioni, tutto qui. Se non fossi stato impegnato con il lavoro, te ne avrei parlato con calma...»
«Quindi ora è colpa mia?» sbottò Harrison rivolgendole uno sguardo obliquo.
«Non ho detto questo» protestò lei e quando si rese conto di aver usato un tono troppo squillante, tacque per qualche secondo.
Si avvicinò ancora, ma lui rimase impassibile.
«Mi dispiace, davvero» disse, specchiandosi nelle iridi verdi «Forse ti senti tradito e so cosa si prova, ma volevo evitarti ogni genere di preoccupazione»
Harrison continuò a guardarla, stringendo i denti.
«Tu e Calvin siete mai stati insieme?» domandò poi a bruciapelo.
Lei sgranò gli occhi, sorpresa.
«Questo non c'entra nulla con il presente! Tu credi davvero che avrei potuto tradirti con lui?» sul volto della donna era dipinta una smorfia interdetta.
«Non hai risposto alla domanda»
Tess alzò gli occhi al cielo: «Se fidanzatini per due settimane a sedici anni contano, sì, siamo stati insieme. Dopo a malapena qualche bacio ci siamo resi conto che eravamo molto meglio come amici che come fidanzati. Puoi chiedere a Nell se non ti fidi di me»
Harrison rimase impassibile per qualche secondo, poi si sciolse in un sospiro.
«Io mi fido di te, Tessie, e ti amo, ma non voglio che tu cominci a tenere segreti con me, okay? Dobbiamo essere aperti l'uno con l'altro e mai mentirci»
La donna annuì, con gli occhi lucidi: «Hai ragione, mi dispiace. E ti amo, ti amo tantissimo»
Gli prese il volto tra le mani e lui l'attirò a sé, baciandola delicatamente.
«Nessun segreto, okay?» domandò Harrison, guardandola negli occhi.
Tess sentì un nodo formarsi in gola e gli occhi riempirsi nuovamente di lacrime, ma simulò un sorriso e un'espressione dolce.
«Nessun segreto» rispose.
Harrison la strinse tra le braccia e lei appoggiò il capo sulla sua spalla, lasciandosi cullare da quelle sensazioni
 
Più tardi, mentre Tess riordinava il proprio materiale ed Harrison consultava i suoi documenti, l'uomo smise di lavorare e la fissò per qualche istante, senza parlare.
Sentendosi osservata, lei ricambiò lo sguardo e gli rivolse un'espressione interrogativa.
«Che c'è?» domandò.
Lui abbozzò un sorrisetto sghembo: «Mi stavo chiedendo se Calvin avesse mai incontrato i tuoi genitori»
La donna sollevò le sopracciglia, scoccandogli un'occhiata accigliata: «Sul serio?»
Harrison scrollò le spalle: «Lascia perdere, era solo una curiosità»
Lei incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo schienale della sedia, senza togliere lo sguardo da lui.
«No, tu stai cercando di far nascere in me l'idea che dovrei presentarteli»
L'uomo alzò gli occhi al cielo: «Seriamente, Tess, non m'importa. Era tanto per dire»
«Ma l'hai detto. E hai citato Calvin» precisò lei.
Harrison sbuffò: «Odio la puntigliosità delle donne. Spero che Emi non diventi mai così»
Tess alzò gli occhi al cielo: «Diventerà la tua copia femminile, ne sono certa»
Lui non replicò, ma sorrise in modo dolce, lasciando vagare lo sguardo come se si stesse immaginando ciò che sarebbe successo. 
La donna lo fissò in silenzio, sia contemplando la sua figura fiocamente illuminata, sia riflettendo sulla loro conversazione.
Avrebbe potuto tranquillamente considerarla conclusa, ma sapeva che la cosa non sarebbe stata corretta. Non dopo che lei aveva mentito all'uomo che amava.
«Dopodomani va bene?» esordì poco dopo «Per cena?»
Harrison si riscosse e sollevò di scatto il capo.
«Cosa?» domandò sbattendo le palpebre, confuso.
Tess accennò un piccolo sorriso: «Chiederò ai miei se possiamo cenare da loro. Dopodomani va bene?»
Lui sgranò gli occhi: «Tessie, non è necessario...»
«Lo so» replicò la donna «Ma voglio farlo»
Harrison si alzò in piedi, si avvicinò a lei e la fece alzare a sua volta, in modo da poterla guardare meglio negli occhi.
«Dopodomani è perfetto» le sussurrò prima di baciarla dolcemente.
 
 
 
 
 
Angolo autrice
Ciao a tutti, voglio scusarmi per la scarsa lunghezza di questo capitolo, ma vi assicuro che il successivo sarà molto più lungo e denso di avvenimenti! Aggiornerò in anticipo in modo da rendere più equa la distribuzione della lettura. Colgo l'occasione per ringraziare tutti quelli che seguono la storia, soprattutto Claddaghring8 per le sue fantastiche recensioni. :)
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate della storia, dei personaggi, dell'evoluzione della trama, ma anche le correzioni/critiche.
Grazie a tutti e alla prossima:)

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Capitolo 7
*** Renegade ***


7_ Renegade 

 
 
Mercoledì
L'abitacolo dell'auto era silenzioso, ad eccezione del rumore sordo della dita di Harrison che tamburellavano contro il volante.
Tess guardava fuori dal finestrino il paesaggio della città, illuminato dagli ultimi residui della luce del tramonto.
Dopo aver ascoltato per una ventina di minuti il ritmo nervoso delle dita contro il volante, la donna si decise ad accendere la radio e il suono piacevole della musica si diffuse nell'abitacolo.
Harrison sobbalzò e si affrettò a spegnerla.
«Non farlo più!» borbottò «La musica mi innervosisce»
Lei alzò gli occhi al cielo: «Certo, e da quando?»
«Da quando stiamo per incontrare i tuoi genitori, di cui non so assolutamente e che non sanno nulla di me. E da quello che io invece so, voi non siete in buoni rapporti»
Tess strinse le labbra: «Diciamo che più che altro mancano proprio i rapporti. È da un po' che non li vedo»
Harrison continuava a ticchettare con i polpastrelli sul volante.
«È che non sono abituato a questa cosa» continuò «Sono ancora giovane, ma non riesco più a considerarmi come un innamorato con tante speranze per il futuro. Quando mi chiederanno quali sono le mie ambizioni, risponderò parlando al presente. Ho un lavoro fisso e una figlia. E a ventotto anni ho realizzato le ambizioni della maggior parte della popolazione americana»
«Cosa vuol dire "ambizioni", papi?» domandò Emi dal sedile posteriore.
Harrison le lanciò un'occhiata attraverso lo specchietto e nel riflesso vide il volto accigliato della bimba. 
«Un'ambizione è qualcosa a cui aspiri, che vuoi diventare o fare»
«E la tua ambizione è diventare un papà?»
Lui sorrise: «Certo, ma lo sono già, grazie a te»
Prima che qualcuno potesse aggiungere altro, Tess indicò il bordo della strada: «Ecco, accosta qui»
Harrison obbedì e si avvicinò alla giovane donna che li stava aspettando.
«Siete in ritardo» sentenziò Nell salendo a bordo dell'auto.
«Questa volta non è stata colpa mia!» replicò Tess e lanciò un'occhiata al guidatore.
«E va bene, ero indeciso sulla scelta dei vestiti. Non potevo presentarmi troppo trasandato, ma neanche troppo elegante»
«Tu sai almeno cosa significhi "elegante"?» replicò Nell scettica.
«Dovrebbe essere quel genere di abiti che ti copre un po' più dei tuoi abiti "da sera"» commentò lui a tono, guadagnandosi una gomitata da parte di Tess.
La sorella, invece, sembrò divertita dalla risposta pronta dell'uomo e non aggiunse altro.
«C'è qualcosa che dovrei sapere sui vostri genitori prima che li incontri?» domandò Harrison, stringendo nervosamente il volante.
«Niente sarcasmo, mamma non lo sopporta» rispose Nell.
«È per questo che non andate d'accordo?» chiese lui ironico, guardando Tess.
La donna strinse le labbra, ma non ribatté.
«Cerca di essere cortese nel modo di fare, per quanto possibile» continuò l'altra.
«È per questo che abbiamo portato Emi» si aggiunse Tess «Ha una sorta di effetto calmante su Harrison» 
Nell ridacchiò e ammiccò alla bimba seduta al suo fianco, che nonostante la conoscesse ormai da qualche tempo, ne era comunque intimorita.
«Quando hai detto alla mamma che sareste stati in tre, mi ha chiamata per chiedermi cosa sapevo. Le ho risposto che avrebbe dovuto aspettare» aggiunse ancora Nell.
Tess alzò gli occhi al cielo e prese un respiro profondo.
Nonostante fosse immobile, al contrario di Harrison, anche il suo nervosismo era evidente, dal modo in cui spostava gli occhi sulla strada, dalle mani attorcigliate convulsamente e la mascella contratta.
«Curva a destra» spiegò poi indicando la via e seguendo le sue indicazioni, Harrison raggiunse una villetta di due piani preceduta da un giardino ordinato.
Stava ormai calando il buio e i lampioni erano accesi ad illuminare la strada.
I quattro scesero dall'auto e si avvicinarono alla porta d'ingresso, di legno chiaro. Ad Emilia era stata affidata la torta che avevano preparato insieme prima di partire e la bimba la sorreggeva attenta a non farla cadere.
Tess si fermò davanti alla porta, stringendo i pugni, poi si voltò e lanciò uno sguardo ad Harrison.
L'uomo abbozzò un sorriso che doveva essere d'incoraggiamento, ma risultò come il suo solito sorrisetto sghembo.
Lei prese un respiro profondo e tornò a guardare la porta, ma prima di potersi muovere, Nell scivolò davanti a lei e premette il campanello al suo posto.
La sorella la fulminò con un'occhiataccia e qualche secondo più tardi, la porta si aprì rivelando un uomo alto dallo sguardo placido e un paio di baffi ingrigiti.
«Ciao papino» salutò Nell ed entrò in casa senza tante cerimonie.
L'uomo la salutò senza guardarla, perché i suoi occhi erano fissi su Tess.
Lei si stava mordendo nervosamente le labbra.
«Ciao papà» disse in tono esitante.
«Ben tornata a casa, Tessie Bear» replicò lui e la strinse tra le braccia.
La donna si lasciò avvolgere dall'abbraccio caloroso, annusando il profumo di menta del padre.
Era come se nulla fosse cambiato. 
Tess ricordava quel profumo che percepiva sugli abiti dell'uomo e nel suo ambulatorio, quando andava a trovarlo al lavoro. Il profumo di quando la salutava prima di uscire di casa, con un bacio che le solleticava la guancia per i baffi, di quando si sedeva al suo fianco, di quando l'abbracciava.
L'uomo si staccò da lei, sciogliendo l'incanto e spostò lo sguardo alle sue spalle.
«Papà, loro sono Harrison ed Emilia» li presentò lei.
«È un piacere conoscerla, signor Graves» si affrettò ad aggiungere Harrison, allungando la mano verso di lui. Emilia si nascose imbarazzata dietro alla torta.
Tess cercò di trattenere un sorriso divertito.
Harrison si era già calato nella parte del compagno servizievole e pacato.
«Piacere mio» replicò l'uomo «Ma forza, entrate!»
Obbedirono e dopo aver attraversato l'ampio ingresso, si ritrovarono in una sala da pranzo luminosa, arredata con mobili dai colori chiari. Nulla pareva fuori posto, il tavolo al centro era già apparecchiato per sei, con una tovaglia panna dai ricami dello stesso lilla dei tovaglioli.
«Sono arrivati?» domandò una voce femminile proveniente dalla stanza accanto e subito una donna fece il proprio ingresso nel salotto. Si trattava di una signora dal volto che conservava ancora la bellezza giovanile, nonostante le sottili righe che circondavano occhi e bocca. I suoi lineamenti erano molti simili a quelli di Tess e Nell, così come gli occhi tendenti al grigio.
Indossava degli abiti semplici, pantaloni e camicia, ma evidentemente di buona qualità, a giudicare da come vestivano e dai ricami della stoffa.
Appena entrata nella sala, la donna si era immobilizzata, con la pentola che portava davanti al petto e la sua espressione era cambiata improvvisamente.
«Tess!» esclamò cercando di apparire spontanea.
«Ciao mamma» replicò lei a disagio.
La donna posò la pentola sul tavolo, mentre Tess proseguiva: «Mamma, ti presento Harrison ed Emilia»
L'altra rivolse loro uno sguardo penetrante, sia all'uomo che alla bambina.
«Piacere di conoscerla, signora Graves» disse Harrison, avvicinandosi per stringerle la mano.
Se Tess non avesse conosciuto l'uomo, sarebbe stata impressionata per i suoi modi gentili e amichevoli, ma in quel momento le parve ancora più a disagio di lei, mentre ripeteva quelle frasi che non gli appartenevano.
«È un piacere, Harrison» replicò la donna, e spostò lo sguardo sulla bambina al fianco dell'uomo.
Lei tese timidamente la torta incartata, risparmiandosi ogni parola.
«Abbiamo preparato un dolce» spiegò Tess, in soccorso della bimba.
La madre ringraziò, prese la torta sorridendo ad Emilia e la poggiò su di un mobile accanto al tavolo.
«Che ne dite di cenare?» domandò il signor Graves con voce squillante.
«Finalmente!» esclamò Nell, accaparrandosi una sedia al tavolo.
A causa della disposizione dei posti, Harrison e Tess si trovarono seduti uno di fronte all'altra, affiancati rispettivamente dalla figlia e dalla sorella, mentre i due padroni di casa sedevano a capotavola.
La signora Graves servì tutti, prima di sedersi al proprio posto e gli altri attesero prima di cominciare.
«Ti va del vino, Harrison?» domandò il padre di Tess, mostrando una bottiglia con un sorriso amichevole da sotto i baffi.
Alla vista del liquido rossastro, il detective sentì un moto di attrazione e contemporaneamente di repulsione. Sapeva che non poteva resistergli e allo stesso tempo avrebbe voluto privarsene.
Ma sapeva anche che se avesse rifiutato, avrebbe rischiato di fare un dispiacere al padrone di casa.
«Perché no?» replicò quindi sorridendo e tese il proprio bicchiere all'altro uomo.
Nel farlo, spostò lo sguardo su di Tess e incrociò gli occhi della donna che gli lanciavano un muto avvertimento. 
Il signor Graves gli restituì il bicchiere e lui lo sistemò davanti al piatto.
Cominciarono a mangiare senza ulteriori convenevoli.
Il cibo era ottimo, più raffinato di quello di Cassidy, ma anche un poco meno saporito.
Harrison lanciava occhiate a Tess, per assicurarsi che perdesse il colorito cereo che aveva da quando erano partiti di casa, e ad Emilia che, come al solito quando si trovava davanti ad estranei, si chiudeva a riccio e non lasciava spazio ad altro se non alla sua timidezza.
«Allora, Harrison» esordì il signor Graves, interrompendo il silenzio della tavola «Di cosa ti occupi?»
L'uomo deglutì il boccone che aveva in bocca e si pulì sul tovagliolo.
«Sono un detective» rispose e poté vedere chiaramente sul volto dell'interlocutore quanto fosse impressionato.
«Complimenti. In quale ambito lavori?»
Harrison sentì lo sguardo penetrante dei presenti su di sé e sapeva che la sua risposta non sarebbe piaciuta a tutti.
«Pochi mesi fa sono passato alla Omicidi. Prima mi occupavo di principalmente di scomparse»
«Omicidi?» ripeté la signora Graves, come per assicurarsi di aver sentito bene.
«Già» fece Harrison. "L'uomo con cui sta tua figlia studia cadaveri e menti criminali di lavoro" avrebbe voluto aggiungere.
«Niente male» ci pensò il signor Graves a rasserenare l'atmosfera «Ma impegnativo. Stai lavorando a qualche caso in particolare al momento?»
Prima che Harrison potesse rispondere, a Tess andò di traverso il sorso d'acqua che stava bevendo e cominciò a tossicchiare ripetutamente.
«Sto...bene» disse poi, ritornando a fissare lo sguardo sul proprio piatto.
Harrison continuò a chiacchierare con il signor Graves per qualche minuto, mantenendosi sul vago. Il padre di Tess era un medico, quindi non era estraneo all'ambito, ma evitarono entrambi di scendere nei dettagli.
«E tu, Emilia?» esordì la signora Graves, guardando con tenerezza la bambina: «Quanti anni hai?»
Emi arrossì, imbarazzata, ma mostrò la mano aperta con le cinque dita tese.
«Cinque? Quindi frequenti l'asilo?» continuò la donna.
La bambina annuì, senza parlare.
«Emi, perché non dici qualcosa?» cercò di incoraggiarla Harrison «Sono i genitori di Tess»
Lei raddrizzò la schiena e sollevò il capo, ma ancora non parlò.
«Che ne dite di andare a prendere il dolce?» Nell interruppe rapidamente il silenzio «Ho voglia di mangiare quella torta!»
La signora Graves annuì: «Certo. Vieni con me, Tess?»
La figlia, che sapeva di non avere scelta, si alzò in piedi senza parlare e la seguì in cucina.
La signora prese la torta che loro avevano portato, la sistemò sul tavolo.
«I piattini sono in quell'antello» disse all'altra indicando.
Tess prese ciò che le era stato detto e solo quando lei ebbe appoggiato i piattini sul tavolo, la madre cominciò a parlare.
«Quindi ti trovi bene con lui?» chiese, senza guardarla, ma continuando a muoversi per la cucina.
Tess rimase ferma, senza fare nulla.
«Sì» rispose.
L'altra donna fece un cenno di assenso: «Sembra una brava persona»
«Lo è» 
«Anche Emilia è molto carina» proseguì la donna e finalmente posò gli occhi sulla figlia.
«Già» constatò lei monosillabica.
Sapeva perfettamente che la madre l'aveva chiamata per parlare in privato e tastare il terreno senza farsi sentire dagli altri. Forse sperava di ricevere maggiori informazioni in quel modo, o forse semplicemente di avere un dialogo con lei.
«Sono una bella famiglia» continuò la signora Graves «Loro due»
Il dettaglio finale nella frase non sfuggì a Tess, che strinse gli occhi e continuò a fissare la donna.
«Cosa intendi dire?»
La madre distolse lo sguardo e finse di concentrarsi nel tagliare la torta a fette.
«Harrison ed Emilia possiedono un legame che è nato cinque anni fa, mentre tu li conosci da quanto? Tre mesi?»
«Cinque» la corresse con una nota dura nella voce.
L'altra scrollò le spalle: «Di certo rimpiazzare la figura materna non è una cosa facile. Sei sicura di potercela fare, Tess?»
Tess contrasse la mascella e strinse nervosamente i pugni.
«Emilia non ha mai conosciuto sua madre, non sa cosa significhi avere una figura materna. So che fare parte della sua vita non è un gioco, non significa solo farla giocare e divertire, ma anche dedicarle molte attenzioni e prendersi cura di lei ogni volta che ne abbia bisogno» Tess sentiva le guance accaldate e gli occhi accesi di una fiamma rovente.
Ma non aveva ancora finito: «Forse non ho tenuto nella pancia quella bambina per nove mesi e non l'ho partorita io, ma questo non presuppone che io non sappia cosa significhi volerle bene e essere al suo fianco, ogni giorno, in ogni momento, in ogni circostanza»
Detto ciò, voltò le spalle alla donna e tornò di gran carriera della sala da pranzo.
Si sedette al proprio posto, interrompendo le chiacchiere degli altri commensali.
Sentiva il volto ancora in fiamme, ma non le importava. 
Continuava a pensare alle parole di sua madre.
Era consapevole di scaldarsi troppo velocemente, ma non riusciva a trattenersi. Non ci era mai riuscita, a dire la verità.
Quando parlava con sua madre, tutto ciò che le sembrava di sentir uscire dalla sua bocca erano giudizi e pregiudizi affrettati che non includevano l'intera verità.
Questa era stata una delle cose che l'aveva spinta ad allontanarsi.
Incrociò gli occhi di Harrison, dall'altra parte del tavolo. L'uomo le stava silenziosamente chiedendo quale fosse il problema.
Lei scosse leggermente il capo e distolse lo sguardo, proprio mentre sua madre entrava nella stanza portando la torta.
«Ha un profumo delizioso» affermò la donna con una voce forzatamente calorosa.
Servì tutti e tutti mangiarono. Gli unici che tentarono di avere una conversazione furono Harrison e il signor Graves.
Parlarono di argomenti superficiali, come auto e sport.
Ad un tratto l'uomo si voltò verso la figlia maggiore: «Tess, l'altro giorno stavamo riordinando la tua vecchia camera. Credo che dovresti guardare se c'è qualcosa che vuoi portare con te»
La donna annuì: «Va bene, vado subito»
«Ti ricordi ancora dov'è?» domandò il padre ironico e lei sorrise, sincera, poi si rivolse ad Harrison: «Sei curioso di vedere la mia camera di adolescente?»
Lo spirito da detective permise all'uomo di cogliere i sottintesi di quella richiesta e si affrettò a seguirla, assicurandosi prima che la figlia rimanesse sotto il controllo di Nell.
«Grazie per avermi seguita» gli disse Tess, appena si trovarono sulle scale che conducevano al piano superiore.
«Figurati» replicò lui «Cosa è successo in cucina tra te e tua madre?»
La donna scosse il capo: «Le solite cose. Lei dà giudizi affrettati conoscendo solo metà della verità. Eccoci»
Tess abbassò la maniglia della porta davanti a loro e la spinse, rivelando una stanza ampia e colma di oggetti.
Al centro della camera stava un letto dal piumone azzurrino, al suo fianco una scrivania mentre la parete di fronte era occupata da una grade libreria e un armadio.
«Carina» commentò Harrison e Tess si voltò a guardarlo. L'uomo ne approfittò per chinarsi e stamparle un bacio sulle labbra.
Lei sorrise, si specchiò nelle sue iridi verdi, poi lo baciò a sua volta, questa volta con più passione.
Lui posò una mano sulla sua nuca e l'altra sulla schiena, per stringerla a sé. La donna si trovò contro il muro, circondata dalle braccia forti di Harrison.
«Come dicevo, non male la tua camera» commentò lui sussurrandole sulla labbra. 
Tess rise, scuotendo il capo, poi prese a camminare per la stanza.
Ricordava perfettamente la scrivania, dove aveva passato il tempo studiando, scrivendo, progettando, il letto, che l'aveva accolta nelle notti più insonni e aveva curato molti problemi, la libreria, colma di ogni genere di oggetti.
Si avvicinò a quest'ultima e prese in mano un cofanetto, chiuso da un lucchetto. Lo scosse e sentì muoversi un oggetto al suo interno. 
«Cosa contiene?» domandò Harrison, raggiungendola.
Lei scosse il capo: «Non ricordo e non ho la minima idea di dove possa essere finita la chiave»
«Per questo posso aiutarti io» commentò lui con un sorriso sghembo.
Mentre sondava gli scaffali con lo sguardo, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo a forzare il lucchetto, Tess si era tolta una forcina dai capelli e dopo averla lavorata per qualche istante, l'aveva infilata nel lucchetto.
Quando lo sentì scattare, Harrison si voltò, stupito, e guardò prima il lucchetto, poi la donna, che gli sorrideva.
«Tu...» cominciò indicando il cofanetto «Quando hai imparato?»
Lei rise: «Anni fa, non so quando di preciso»
L'uomo non riusciva a contenere lo stupore: «Io ho dovuto scassinare casa tua una volta!»
Lei rise, sollevando le mani in cenno di difesa: «Non mi hai lasciato il tempo di farlo»
«Ho scassinato casa tua!» ripeté lui «Il signorino Hooper avrebbe potuto denunciarmi!»
Tess continuò a ridacchiare: «Eri troppo impegnato a fare il detective-principe azzurro per lasciarmi fare»
Lui sollevò le sopracciglia: «Oh, sul serio?»
Prima che la donna potesse replicare, udirono dei rumori provenire dalle scale e qualche istante più tardi, Nell si affacciò sulla stanza, insieme ad Emilia.
«Stava iniziando a sentire la mancanza del suo papà» spiegò la giovane, riconsegnando la bimba ad Harrison.
Lui la prese tra le braccia e cominciò a parlare sottovoce con lei, per confortarla.
«Bel lavoro, Tessie Bear» disse Nell alla sorella, guardandola dalla porta «Siamo sopravvissuti tutti alla cena»
«Già» constatò lei rigirandosi il cofanetto tra le mani «Ma non mi sembra che sia andata molto bene»
Nell strinse gli occhi, pensierosa, corrugò la fronte, poi scosse il capo.
«No, è stata propria una merda»
 
 
Tess sbadigliò, davanti allo specchio del bagno, si sciacquò la faccia con l'acqua tiepida e uscì nel corridoio buio, pronta ad infilarsi nel letto. La cena dai suoi genitori era stata un disastro, ma fortunatamente era passata e ora l'aspettava solo una lunga dormita.
Si affacciò sulla camera di Emilia, per assicurarsi che la bimba stesse dormendo e infatti scorse il fagottino di bambina e coperte nel letto. Fece per andare verso al proprio stanza, ma sentì la suoneria del suo cellulare diffondersi dalla borsa che aveva abbandonato da qualche parte nel corridoio. Sbuffando si mise a cercarla, con l'intenzione di spegnere il cellulare.
La suoneria si bloccò, ma quando la donna riuscì a mettere la mano sull'oggetto, dopo aver frugato nella borsa, riprese a squillare.
Guardò lo schermo, accecata dalla luce nel corridoio buio.
Numero sconosciuto
«Pronto?» biascicò assonnata.
«Tess, ho bisogno di parlarti, è urgente»
«Ma chi...» cominciò lei, poi riconobbe la voce «Calvin? Perché diavolo mi chiami nel cuore della notte?»
«Ti assicuro che è importante, molto importante. So chi sarà la prossima vittima»
 
 
 
Giovedì si rivelò una giornata serena. Il sole brillava nel cielo turchino e i suoi raggi scaldavano l'aria rendendo piacevole anche il venticello invernale.
Tess camminava con le mani affondate nelle tasche del cappotto e il mento nella sciarpa. Al suo fianco stava, nella stessa posizione, Calvin. I suoi capelli biondi erano arruffati da un venticello leggero e il suo sguardo era fisso davanti a sé.
«Jason Shepard» esordì lui, voltandosi leggermente verso Tess.
«È l'uomo che dobbiamo incontrare?» chiese lei,
Calvin fece un cenno di assenso: «È un antiquario, specializzato in opere d'arte. Vive da solo da quando ha divorziato dalla moglie, sette anni fa»
«E come riguarda Beaver?» domandò la donna.
Lo sguardo dell'altro s'illuminò, come se aspettasse solo quella domanda.
«Mentre Beaver era in vita» cominciò «Jason Shepard ha sempre rifiutato di acquistare i suoi quadri, ma alla sua morte, è stato il primo ad ottenerli nelle aste» 
Calvin era così assorto nella spiegazione che si scontrò con una persona che veniva verso di loro. Si scusò velocemente e riprese: «Da quello che ho trovato, è poi riuscito a vendere i quadri al triplo del prezzo originale»
«Vorrei sapere come riesci sempre ad ottenere queste informazioni» commentò Tess lanciandogli uno sguardo perplesso.
Lui abbozzò un sorriso compiaciuto: «Anni di pratica, mia cara. Come in tutte le cose, bisogna prima fallire per poi avere successo»
«E tu di successo ne hai avuto tanto» proseguì lei.
Calvin rise: «Un mix di abilità e fortuna che mi ha portato ad accumulare un discreto patrimonio. Comunque ora siamo arrivati»
La casa di Jason Shepard era un'abitazione modesta, all'esterno, si sviluppava su due piani ed era preceduta da un ampio giardino ben curato, decorato da fenicotteri rosa che contrastavano con la sobrietà dell'abitazione.
La donna abbozzò un sorrisetto nervoso: «Davvero?» 
«Non perdi mai il tuo sarcasmo, eh?» commentò lui dirigendosi verso il viale d'ingresso, che serpeggiava tra l'erba verde smeraldo nonostante la stagione, e i fenicotteri.
Si fermarono entrambi davanti alla porta, Tess alzò lo sguardo verso l'uomo, poi fece per avanzare, ma lui la precedette e si allungò per suonare il campanello.
Sentirono il suono stridulo diffondersi all'interno, nient'altro.
Calvin suonò ancora un paio di volte, dopodiché si voltò verso la compagna.
Le indicò la porta, facendosi da parte: «È tutta tua»
Lei accennò un inchino chinando il capo, si avvicinò alla porta e si abbassò per poter lavorare con la serratura.
Dopo qualche secondo, Calvin commentò: «Ti stai arrugginendo»
«Ti ricordo che una volta tu sapevi arrampicarti agilmente e scavalcare qualsiasi ostacolo. Se preferisci puoi trovare un accesso arrampicandosi fino al secondo piano dal retro» replicò lei pungente e prima che l'uomo potesse aggiungere altro, si udì uno scatto.
Tess spinse la porta con la mano guantata e invitò Calvin ad accomodarsi con un cenno.
«Gentile» commentò lui entrando per primo. La donna lo seguì e si richiuse la porta alle spalle.
Si trovarono in un atrio ampio e luminoso: davanti a loro scendevano le scale candide che conducevano al piano superiore, mentre il piano inferiore si sviluppava intorno a queste.
«Cosa facciamo?» bisbigliò Tess.
Lui scrollò le spalle: «Diamo un'occhiata in giro. Se Shepard non è in casa, lo aspetteremo fino al suo ritorno e gli spiegheremo la situazione»
Lei annuì.
«Dobbiamo impedire che un'altra persona venga uccisa a causa di una mente deviata» sottolineò Calvin.
«Okay, io vado a destra, tu a sinistra?»
«Bene» fece lui e i due si separarono.
Tess entrò in un salotto molto spazioso, soprattutto considerando che in quell'abitazione viveva una sola persona. Due divani color tortora erano sistemati di fronte ad una TV a schermo piatto e un raffinato tappeto si stendeva tra i due arredi. A metà della stanza erano stati sistemati degli scaffali che creavano una sorta di muro tra le prima parte di salotto e la successiva, più intima.
Un odore acre le fece storcere il naso. Immaginò venisse dalla cucina, ma quando guardò dietro allo scaffale capì di essersi sbagliata.
Davanti a lei, accasciato a terra, stava un uomo. La sua pelle cerea era in contrasto con il sangue che era uscito dalla gola e si era sparso intorno al suo corpo come una pozzanghera scarlatta.
Tess represse un conato di vomito.
«Cal!» chiamò con voce strozzata e sentì i passi del compagno che si avvicinavano.
«Cazzo» imprecò lui quando vide il cadavere.
Strinse convulsamente i pugni: «Hanno colpito prima di quanto mi aspettassi. Cazzo!»
«Dobbiamo andarcene» replicò Tess e lanciò un'occhiata intorno: «Qui non c'è nulla che che ci interessi»
«A parte un fottuttissimo cadavere che dimostra quando determinati siano a portare a termine questa cosa!» ribatté Calvin nervosamente.
Tess si voltò verso di lui, lo prese per le spalle e lo guardò negli occhi: «Nel caso te ne fossi dimenticato, abbiamo illegalmente scassinato la serratura di questa casa, quindi ci conviene andarcene prima di peggiorare la nostra situazione»
Lui annuì: «Giusto...»
«Fermi dove siete!» una voce riecheggiò nel salotto, cogliendoli di sorpresa.
Una coppia di poliziotti stava sulla soglia dell'atrio, con le pistole puntate verso di loro.
«Cazzo» imprecò Calvin, guardandosi impercettibilmente intorno.
Ma giunsero entrambi alla stessa conclusione: non avevano vie d'uscita.
Intanto i due poliziotti si erano avvicinati: «Voltatevi, in ginocchio, mani sopra alla testa!»
Calvin e Tess si lanciarono un'occhiata, poi ubbidirono entrambi.
Si misero in ginocchio, sollevarono le mani, che vennero immediatamente ammanettate dietro la schiena.
«Una vicina ci ha chiamati dopo avervi visti introdurvi nella casa» commentò la poliziotta, mentre il suo compagno si parava davanti a loro.
«Immagino sarete soddisfatti» aggiunse quest'ultimo, guardando il cadavere.
«Quando siamo entrati era già morto» ribatté Tess guardandolo negli occhi.
«Certo» replicò lui ironico.
«Sta dicendo la verità» si aggiunse Calvin «La porta era aperta e qualcuno lo aveva ucciso!»
«Non è quello c'è risulta dalle nostre fonti» replicò il poliziotto.
«Stavo controllando se c'erano segni di effrazione sulla serratura» spiegò Tess «Jason non lascia mai la porta aperta»
Calvin la guardò ammirato. Tess aveva sempre avuto una buona spiegazione per ogni cosa, anche ricorrendo all'immaginazione.
«Oh, così eravate amici?» fece sempre più sarcastico il poliziotto.
«Lo conoscevamo» rispose Tess scaldandosi.
«Ora basta parlare, forza, in piedi!» esclamò l'altro.
Li costrinsero ad alzarsi e li perquisirono entrambi.
«Lei è pulita» disse la poliziotta, dopo aver controllato Tess, poi si allontanò, per poterli tenere sotto controllo con la mano accanto alla fondina, mentre il collega perquisiva Calvin.
«Non troverà nulla» fece l'uomo «Abbiamo già detto la verità»
«Oh, sicuro» replicò l'altro. Gli aprì la giacca e frugò nelle tasche interne, poi in quelle esterne. La sua mano si strinse su qualcosa e lo estrasse.
«Cosa abbiamo qui?» domandò retorico, mostrando un fagotto avvolto nella plastica. 
Calvin si voltò verso Tess, che seguiva la scena con gli occhi fissi sulle mani del poliziotto.
Quest'ultimo srotolò lentamente il fagotto e all'interno del sacchetto, rivelò una piccola lama macchiata di sangue.
Guardò Calvin, con l'aria di chi ha trovato la prova decisiva per abbattere l'avversario:
«Scommetto lo stipendio di un mese che questa lama corrisponde a quella che ha tagliato la gola della nostra vittima» 

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Capitolo 8
*** Knockin on Heaven's Door ***


8_ Knockin on Heaven's Door 
 



Non appena il poliziotto ebbe estratto la lama insanguinata, nel salotto era calato il silenzio.
«Quella non è mia!» esclamò Calvin «Non l'ho mai vista prima!»
Il poliziotto sbuffò: «Certo, ormai sono abituato a sentirlo dire da tutti. "Sono stato incastrato!", "Questa è una congiura!, "Lo giuro, quella non è coca!"»
«Ne parlerete in centrale, questa ora è una scena del crimine» si aggiunse la collega e afferrando Tess per le braccia, bloccate dietro la schiena per le manette, la spinse verso l'atrio.
Lei non poté far altro che assecondarla, concentrandosi piuttosto a elaborare le informazioni a proprio vantaggio.
Jason Shepard è stato ucciso e la lama si trovava nella tasca della giacca di Calvin.
Si fermarono davanti alla porta, mentre la poliziotta cercava un modo per continuare a tenerla saldamente ma contemporaneamente permettere ad entrambe di uscire.
La soluzione venne dall'esterno della casa, poiché qualcun altro aprì la porta.
Tess, davanti alla poliziotta, trasalì.
Di fronte a lei stava un volto ben conosciuto. 
La donna sentì il cuore in gola e le ginocchia cedere.
Harrison Graham era altrettanto confuso, ma dalla confusione passò allo stupore e poi all'ostilità.
Tess si sentì tremare e il tempo parve dilatarsi all'infinito, azzerando ogni suono e ogni persona intorno a loro.
C'erano solo loro due, che si guardavano negli occhi e lentamente realizzavano cosa stava succedendo e perché si trovavano l'uno di fronte all'altra.
«Detective Graham» la voce della poliziotta interruppe l'istante.
Harrison spostò gli occhi sull'altra donna, mentre lei aggiungeva: «Questa donna è stata vista mentre si introduceva nella casa insieme al compagno e nel salotto è stato trovato il cadavere del proprietario. L'altro uomo aveva con sé la probabile arma del delitto»
No! avrebbe voluto gridare Tess, Non è così, non è così semplice, c'è una spiegazione. C'è sempre una spiegazione.
Harrison annuì e avanzò per superarle, mentre la poliziotta la spingeva fuori dalla casa.
«Harrison!» gridò lei voltandosi e sfuggendo dalla presa della donna: «Aspetta!»
L'uomo si girò, incrociando il suo sguardo.
«Posso spiegarti! Te lo giuro, posso spiegarti, okay? Tutto questo ha un senso, so che ora ti sembra assurdo e che potresti giungere a conclusioni terrificanti, ma ha un senso, davvero. Per favore» lo supplicò, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime.
L'espressione sul volto di Harrison mutò.
«Detective, conosce questa donna?» domandò la poliziotta.
Tess continuò a guardarlo, pregandolo con gli occhi. Poi capì, l'espressione dell'uomo. Era passato dall'ostilità alla delusione.
Lui scosse il capo: «Portatela via. Portate via entrambi»
 
 
Quando Sadie Hart vide la fidanzata del detective Graham entrare nella centrale in manette, dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di realizzare che non era un'allucinazione. 
Tess Graves indossava il suo solito cappotto elegante, la sciarpa intorno al collo, le perle alle orecchie, ma i suoi polsi erano ammanettati dietro la schiena.
Sadie la seguì con lo sguardo mentre chiedeva di poter fare una telefonata, con aria angosciata. Glielo concessero e la donna compose velocemente il numero a memoria, prima di incollarsi la cornetta all'orecchio.
Sadie vide le sue labbra muoversi, ma era troppo lontana per sentire cosa stesse dicendo.
Quando la portarono via, dopo che ebbe terminato la chiamata, Sadie si riscosse e camminò velocemente fino ad uno degli uffici dei detective.
«Oh, eccoti» la salutò Gibson vedendola affacciarsi sulla stanza «C'è una novità. Un altro omicidio in contemporanea con un furto, ma questa vita sulla scena del crimine c'erano due persone. Le hanno portate qui»
«Lo so» replicò lei «Ne ho vista una. Sai chi era?»
L'uomo scrollò le spalle: «Dovrei?»
«Tess Graves» rispose Sadie guardandolo negli occhi.
«Quella Tess Graves?» replicò Gibson stupito.
«Esattamente»
L'uomo la superò velocemente, dirigendosi verso la stanza degli interrogatori. Sadie lo seguì a ruota, appena in tempo per vederlo entrare nella stanza al di là del vetro.
Tess era seduta al tavolo, con le mani ammanettate posate davanti a sé sul ripiano. Quando Gibson era entrato, aveva alzato il capo verso di lui e riconoscendolo, la sua espressione era cambiata, ma sarebbe stato impossibile definirla.
Un poliziotto entrò nella stanza, consegnando dei documenti al detective, poi tornò da dove era venuto.
Gibson guardò i documenti, la donna, poi si voltò ed uscì a sua volta dalla stanza.
«Cosa stai facendo?» domandò Sadie confusa.
Gibson contrasse nervosamente la mascella.
«Quella è la fidanzata di Graham» replicò.
La donna sollevò un sopracciglio: «Questo lo sapevo già»
«Cazzo, Sadie, quella ragazzina non può essere un'assassina!»
«Certo che no, idiota! Il tuo compito è quello di dimostrarlo infatti!» replicò lei puntandogli l'indice contro.
Gibson si accarezzò il mento, pensieroso, poi annuì a se stesso e ritornò nella stanza degli interrogatori, a passo nervoso.
Sadie riuscì a vedere che si sedeva di fronte a Tess, prima che qualcuno la chiamasse costringendola ad allontanarsi dalla stanza.
 
 
Dopo quasi tre ore di estenuanti interrogatori, Gibson si presentò alla scrivania di Sadie, sfinito.
«Tu non sai cosa sia il duro lavoro» sentenziò lei, senza staccare gli occhi dallo schermo del suo computer.
«Non sono venuto per cercare compianto, ma per aggiornarti»
Le dita della donna smisero di ticchettare sulla tastiera, segno che aveva rivolto la sua attenzione al detective.
«Li ho interrogati entrambi, Tess Graves e Calvin Ward e...» appoggiò i fogli che aveva con sé sulla scrivania della donna «le loro testimonianze combaciano. In modo troppo perfetto»
Sadie si voltò a guardarlo, perplessa.
«Cosa vuoi dire?»
«Non mi fraintendere, non credo che siano colpevoli, almeno non Tess, ma i loro alibi si completavano perfettamente l'un l'altro, come se fossero stati scritti da un giallista»
«Credi che abbiamo inventato?» domandò ancora la donna.
Lui lanciò un'occhiata alle carte, incerto: «Se lo hanno fatto, significa che consideravano la possibilità che sarebbero stati scoperti, cosa che mi sembra improbabile. Da quello che sostengono, entrambi, la loro intenzione era quella di fare visita al proprietario della casa, Jason Shepard, che hanno conosciuto insieme quando frequentavano le superiori. Hanno però trovato la porta aperta e l'uomo morto. È una storiella plausibile, se non fosse che Calvin Ward possedeva l'arma del delitto. A suo dire, è stata opera di un uomo che ha finto di scontrarsi con lui mentre si recava da Shepard, infilandogli l'arma nella tasca della giacca. Tess ha confermato la presenza dell'uomo e le descrizioni che hanno dato entrambi combaciano»
«Quindi qual è la tua idea?»
Gibson non rispose subito. Abbassò gli occhi, pensieroso, li rialzò, mantenendo un'espressione meditabonda, poi guardò Sadie.
«C'è qualcosa di vero nelle loro parole, ma non tutto. Se stanno mentendo, significa che vogliono proteggersi»
«E perché dovrebbero aver bisogno di protezione?» domandò la donna, perplessa. La situazione si stava facendo troppo intrecciata per poter ragionare lucidamente.
«Non lo so, ma sembrano entrambi intenzionati a non cedere. Sono due persone curiose. Giovani, all'apparenza ingenui, ma appena si sfiora un certo tasto, si mettono sulla difensiva e diventano impenetrabili. Quello che ci serve è un varco e solo Graham potrebbe capirci qualcosa»
Sadie guardò l'uomo stupita dalle sue parole: «Lo hai detto davvero?»
«Cosa?» chiese lui sollevando le sopracciglia.
«Hai bisogno di Harrison» rispose la donna con un sorrisino.
Lui alzò gli occhi al cielo e ritornò a guardare i fogli che aveva tra le mani. Lesse gli appunti per qualche istante, prima di alzare nuovamente lo sguardo sulla donna.
«C'è un solo modo per trovare il varco» le disse e lei lo guardò, incuriosita.
«Fare leva sul lato emotivo della donna: abbiamo bisogno di Graham»
 
 
 
Tess fissava il bicchiere di caffè, assorta.
Percepiva il chiacchiericcio intorno a sé, dopo le ore trascorse nel silenzio della sala degli interrogatori.
Prese il bicchiere e sorseggiò la bevanda, sperando che le restituisse la lucidità che stava lentamente perdendo.
Con la coda dell'occhio, scorse Calvin avvicinarsi accompagnato da un poliziotto. Questo gli permise di prendere un caffè e di sedersi accanto alla donna, poi si allontanò di qualche passo, per lasciare loro qualche minuto di privacy.
Tess lanciò un'occhiata all'uomo in uniforme. Fino a quando non avrebbero trovato prove per incriminare entrambi, non potevano far loro nulla, in teoria.
«Non abbiamo molto tempo per parlare» esordì Calvin cercando il suo sguardo.
Lei annuì.
«Hai seguito lo schema, giusto?» domandò lui e la donna fece ancora un cenno di assenso.
«È incredibile come mi ricordi tutti i codici nonostante il tempo» commentò poi. Calvin accennò un sorriso, annuendo. 
Era da quando si conoscevano che avevano stabilito dei codici per poter comunicare più velocemente in caso di necessità e infatti era bastato loro il tempo di uno sguardo per decidere cosa raccontare alla polizia. 
Jason Shepard era un loro vecchio conoscente e volevano solo incontrarlo, ma hanno trovato il suo cadavere.
Semplice.
E la polizia non poteva contraddirli in alcun modo.
«Chi ti ha interrogata?» domandò Calvin, guardando la donna che beveva il proprio caffè.
«Gibson» rispose lei, riappoggiando il bicchiere sul tavolo «Quello con i capelli rasati e il naso schiacciato»
«Anche io» replicò l'altro «Ma credevo che Harrison si occupasse del caso»
Il caffè andò di traverso alla donna e cominciò a tossicchiare nervosamente.
«È così» disse poi, asciugandosi le lacrime agli occhi «Probabilmente ha cercato di stare il più lontano possibile dalla centrale per tutto il pomeriggio»
«Credi voglia evitarti?» domandò Calvin, sondandola con lo sguardo. Le sue iridi azzurro-verde sembravano due specchi, due superfici d'acqua.
Tess strinse le labbra tanto da farle impallidire.
«Tu non hai visto la sua faccia, quando si è trovato davanti a me» la donna si strinse le braccia intorno al petto, nel tentativo di rintanarsi in se stessa: «Harrison non si fida mai di nessuno. Si è fidato di me e io l'ho tradito. Non posso fargliene una colpa»
«Tu stai facendo la cosa giusta, Tess» le disse Calvin, allungandosi per stringerle con fare confortante un braccio «È lui che non può capirlo»
«Tempo scaduto» annunciò il poliziotto, interrompendo la conversazione. «Ti vogliono nella sala interrogatori» aggiunse rivolto a Tess e la consegnò ad un collega che la condusse da dove era venuta.
Senza protestare, la donna rientrò nella stanza spoglia e si sedette al tavolo, sulla scarna sedia che le avevano concesso.
Pochi secondi dopo essersi seduta, vide la porta aprirsi e Gibson comparire al di là della soglia.
Ma prima che l'uomo potesse entrare, un'altra figura lo anticipò, piazzandosi con furore davanti alla donna.
Tess trasalì quando riconobbe gli occhi fiammeggianti di Harrison fissi nei suoi. Le iridi erano di un pericoloso verde elettrico e sembravano sprizzare minacce.
«Dove diavolo è mia figlia?» sputò lui, rabbioso.
La donna sentì gli occhi riempirsi di lacrime, alla vista dell'uomo che avrebbe dovuto proteggerla e aiutarla, mentre la guardava come se fosse feccia.
Harrison sbatté un pungo sul tavolo, facendola sussultare.
«Ti ho chiesto dove è mia figlia! Dove diavolo l'hai portata?» sbottò furiosamente.
Alle sue spalle sopraggiunse Gibson.
«Ehi, ragazzino, che ne dici di calmarti?» posò una mano sulla sua spalla, ma Harrison si allontanò di scatto.
«Sono andato a prendere mia figlia a scuola e mi hanno detto che una fottuttissima donna dagli occhi grigi l'aveva portata via!»
ringhiò «Giuro su Dio che se è successo qualcosa ad Emi, io...»
«Emi sta bene» lo interruppe Tess con voce salda. Aveva deciso che doveva ricacciare indietro le lacrime e impedire a quello che provava per l'uomo di offuscare tutto il resto.
All'udire quelle parole, Harrison si era voltato verso di lei, aspettando che aggiungesse altro.
«È più al sicuro di quanto probabilmente sarebbe stata all'asilo» guardò il detective, che però non sembrava aver diminuito minimamente l'ostilità nei suoi confronti. Ma Tess se lo aspettava.
«Quando hanno trovato la lama nella giacca di Calvin, ho pensato che qualcuno stesse cercando di incastrarci. Significa che sapeva che saremmo andati da Jason Shepard, significa che sapeva chi fossimo»
La donna guardò intensamente Harrison negli occhi: «Ero certa che tu te la saresti cavata, ma temevo per Emi. Così quando mi hanno arrestata, ho utilizzato la chiamata che mi spettava per chiedere a Nell di portare Emi dai suoi nonni. Non sapevo che altro fare e mi è sembrata l'alternativa più sicura»
Lo sguardo di Harrison vacillò, come se improvvisamente si fosse ricordato che non era più solo il detective garante della legge, ma anche il compagno della donna che gli stava davanti agli occhi.
Tess avrebbe voluto lanciarsi in avanti e perdersi nel suo abbraccio, ma sapeva che sarebbe stata miseramente rifiutata.
Il detective guardò lei, poi Gibson, che era rimasto al suo fianco per tutto il tempo, infine uscì dalla sala.
Incrociò Sadie, ma la ignorò e tirò dritto fino al parcheggio. Salì a bordo della sua Oldsmobile e cominciò a guidare, per strade che stavano cominciando a perdersi nel buio della notte incombente.
Quando giunse in vista della casa dei uomini genitori, parcheggiò velocemente e scattò verso l'abitazione. Spalancò la porta d'ingresso, non chiusa a chiave, e sentì delle voci provenire dal salotto, così si diresse a passi rapidi in quella direzione.
Quando irruppe nella stanza, Cassidy, seduta sul divano, balzò in piedi, allarmata.
«Oh, sei tu» sospirò sollevata «Come hai fatto ad entrare?»
«La porta» replicò lui «era aperta»
Il suo sguardo fu catturato da un movimento alla sua destra, si voltò di scatto, ma si sentì il nodo che aveva in gola quando riconobbe Emi.
«Tesoro!» sospirò sollevandola e stringendola tra le braccia.
Affondò il capo tra i capelli profumati della bimba e lei gli circondò il collo con le braccia: «Papi! Cosa ci fai qui?»
«Sono venuto per vedere come stai» rispose lui e, al di là dei capelli chiari di Emi, scorse il volto corrucciato di Cassidy.
Rimise la bimba a terra e guardandola negli occhi le disse: «Perché non vai a giocare, mentre io parlo con la nonna?»
Lei annuì e corse via trotterellando.
Una volta rimasti soli, Harrison seguì Cassidy, che si era spostata in cucina e si sedettero insieme al tavolo.
Per qualche istante non parlò nessuno. L'uomo tamburellava con le dita sul legno e lei lo guardava, in silenzio.
«Sai qualcosa di ciò che è successo?» domandò poi lui, spostando gli occhi verso la madre.
«La sorella di Tess ha portato Emi qui perché lei glielo ha chiesto. Non so altro» rispose Cassidy, anche se il suo sguardo arguto lasciava presagire che la donna avesse intuito cosa stava accadendo.
«Tess è stata arrestata» replicò Harrison senza troppi giri di parole. Le raccontò il più concisamente possibile quanto era avvenuto, aggiungendo che la scientifica aveva confermato che il sangue trovato sulla lama apparteneva alla vittima, incastrando in modo inequivocabile Calvin Ward.
Nessuno parlò per qualche istante, Harrison teneva gli occhi bassi e Cassidy scrutava il figlio cercando di capire anche ciò che non le era stato detto.
«Hai già parlato con Tess?» gli domandò poi.
Lui alzò lo sguardo, incrociando il suo, e scosse il capo.
«Non so cosa fare. Dicono che per amore si è disposti ad uccidere, o a difendere un'omicida, ma non io. Io non posso farlo. Vorrei poter rispondere solo per me stesso e agire egoisticamente secondo ciò che provo, ma ho giurato di proteggere questa comunità. Io sono la legge. E la legge punisce chi la trasgredisce. Anche se ama il trasgressore. Questo fottutissimo distintivo mi permette di essere ciò che sono e mi impedisce di essere ciò che vorrei»
Harrison tacque per un istante, lanciando alla madre uno sguardo carico di bisogno: «Non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Cosa devo decidere? Quale persona sono di più? Il detective rispettoso o l'innamorato incosciente? Per quello che ne so, lei potrebbe essere veramente l'assassina!»
«È questo che credi?» domandò la donna, rivolgendogli uno sguardo penetrante, come se volesse sondargli l'anima.
«No, forse sì, non lo so! Se lo fosse? Cosa dovrei fare? Cazzo. Cazzo!» l'uomo balzò in piedi, si mosse nervosamente per la stanza, prima di fermarsi accanto alla finestra. Appoggiò il capo al muro, stringendo le braccia intorno al petto.
Sussultò leggermente, quando sentì la mano di sua madre appoggiarsi sulla sua spalla.
«Devi solo guardarla negli occhi, senza parlare. Troverai una luce che ti dirà cosa fare»
Lui sorrise flebilmente: «Dimenticavo quanto sei romantica»
La voce della donna lo raggiunse come un caldo soffio vitale: «Semplicemente guardo la vita da un punto di vista diverso dal tuo. E a volte non è un male»
 
 
Harrison entrò nella centrale, accompagnato da un silenzio assoluto. Vedeva le altre persone che entravano ed uscivano dal suo campo visivo, ma qualsiasi cosa, qualsiasi rumore facessero, lui non li sentiva.
Gli pareva di camminare a rallentatore, senza suoni, circondato da fantasmi.
Entrò in una stanza e vide al di là della vetrata una donna seduta al tavolo, con la testa incassata nelle spalle, il capo chino, come senza speranza. Harrison aprì la porta della sala interrogatori, ignorò Gibson, che lo aveva raggiunto non appena lo aveva visto entrare.
Tess aveva alzato lo sguardo. I suoi occhi erano gonfi e arrossati.
Harrison la fissò negli occhi e nonostante vide le labbra della donna tremare, lei non parlò, ma lo guardò, in silenzio, con la vista appannata dalle lacrime.
Le sue iridi erano grigie, come il fumo dietro cui si nasconde un prestigiatore per non rivelare i propri trucchi. Come il cielo quando è carico di nuvole, ma ancora la pioggia non vuole scendere. Come l'oceano quando non riesce a stare fermo. Come un freddo metallo che riflette tutto ciò che incontra. Come la roccia di un fiume levigata dai secoli di flussi e correnti.
Harrison la guardò attraverso quelle iridi e, senza sorridere, senza cambiare espressione, le disse: «Andiamo a casa, Tessie»

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Capitolo 9
*** Goner ***


9_ Goner
 




Tess entrò nella casa silenziosa, percependo la muta presenza di Harrison alle sue spalle.
Nessuno dei due aveva spiccicato parola per tutto il viaggio dalla centrale all'abitazione, ma ormai non avevano più la scusa del paesaggio intorno a loro a distrarli. Niente più vetri dietro cui nascondersi.
Raggiunsero il salotto, Tess si spostò verso il divano, senza sedersi e si voltò per guardare l'uomo.
Lui la stava fissando, assorto.
La donna strinse le labbra, abbassò lo sguardo sulle mani che torturavano l'orlo del maglione, poi tornò a rivolgere a lui gli occhi.
«Mi dispiace» gli disse «Davvero»
Lui annuì: «Va bene»
Tess fece un passo verso di lui: «Avresti potuto lasciarmi nella centrale, farmi arrestare, ma non lo hai fatto»
«Qualcuno mi ha detto che non era la cosa giusta da fare» replicò lui, monotono.
La stava guardando come se temesse di vederla diversa da come era abituato, come se potesse scoprire con un'occhiata che quella donna era altro, che non era la sua Tessie.
«Grazie» aggiunse lei, con voce flebile. La donna sentiva la necessità di parlare, ma allo stesso tempo aveva paura di dire la cosa sbagliata.
«Emi?» domandò.
«Sta bene» fu la risposta, poi lo sguardo di Harrison si fece più vivido: «Credi davvero che qualcuno abbia cercato di incastrarti?»
Lei annuì, senza esitazione.
L'uomo prese il cellulare dalla tasca dei jeans e se lo portò all'orecchio.
«Cosa stai facendo?» domandò Tess, allarmata.
Lui le rivolse un'occhiata seria: «Chiedo di mettere una pattuglia nella nostra strada. Emi sarà al sicuro dai miei genitori, ma non voglio tu possa trovarti in pericolo»
«No!» lo bloccò Tess avvicinandosi di scatto, ma subito dopo si pentì della velocità con cui aveva reagito, e si arrestò.
Sentì una voce rispondere dall'altro capo del cellulare e il suo cuore accelerò improvvisamente.
Harrison la guardò, le sue iridi verdi la perforavano da tanto era intenso il suo sguardo.
Poi, senza rispondere, chiuse la chiamata.
Tess tirò un mentale sospiro di sollievo, ma realizzò che era arrivato il momento che per dieci anni aveva temuto e che credeva di aver ormai superato. Da qualche anno aveva rimosso quel ricordo, sperando che ormai appartenesse al passato.
Ma a volte i demoni non esorcizzati tornano a bussare alla tua porta.
«Devo raccontarti tutto» gli disse, cercando di trattenere il tremore nervoso che l'aveva presa «E non farò sconti»
Harrison l'afferrò e la strinse al proprio petto, circondandola con le braccia.
«Va bene, Tessie, ma non ora, okay? Ormai è tardi e dobbiamo entrambi riposare»
La donna alzò il capo dal suo petto e lo guardò, con gli occhi pieni di lacrime.
«Sei sicuro?» farfugliò.
Lui annuì e si chinò verso il suo viso.
Tess chiuse gli occhi, sentì le labbra di Harrison sfiorare le sue e baciarla dolcemente.
Lui è la mia casa, pensò, e non lo lascerò mai.
 
 
La strada era buia. Una via piccola, stretta dai muri delle abitazioni che la delimitavano, come un vecchio borgo medievale europeo. La luce era sufficiente per distinguere le forme delle cose, ma non per stabilirne i colori. Proveniva dagli unici due lampioni della strada, posti uno all'inizio e una alla fine.
Più si avanzava, più la via si faceva scura, le tenebre dense e il silenzio della notte assordante.
Ogni piccolo rumore era un tuono che poteva significare il battito d'ali di un gufo, come dei ladri che cercavano di introdursi in un'abitazione, approfittando della notte.
Sulla sinistra della strada, stava un alto cancello di ferro, chiuso da un catenaccio massiccio. Al di là di questo si distingueva un cortile cupo, dei ciottoli su cui si allungavano forme ritorte e lugubri.
Tess si svegliò di soprassalto, con il fiato corto. Si era addormentata sul divano nel salotto, avvolta da una coperta calda.
La luce della cucina era accesa, segno che Harrison stava ancora lavorando, nonostante fosse ormai tarda notte.
Le immagini del sogno le tornarono improvvisamente alla mente, accelerando nuovamente il suo battito cardiaco.
Cercò di rimuoverle e si alzò in piedi, senza togliersi di dosso la coperta, e raggiunse Harrison, che come aveva previsto era seduto al tavolo della cucina davanti al computer e ad una seria di documenti cartacei.
Tess si fermò a guardarlo dalla porta.
«Ehi» la salutò lui, staccando gli occhi dallo schermo.
«Ehi» replicò, appoggiando la testa allo stipite «È tardi, io vado a letto»
Lui annuì: «Va bene ti raggiungo tra un attimo»
La donna esitò, perché sapeva che quell'attimo aveva una durata piuttosto imprecisata. Ma non poteva fare altro, così annuì e tornò da dove era venuta, poi salì al piano per superiore, decisa di mettersi a letto.
Contrariamente da quanto pensava, Harrison la raggiunse poco dopo. Lo sentì entrare nella stanza e infilarsi sotto le coperte al suo fianco.
La donna si avvicinò e lui allungò una mano per stringerla a sé. Tess cercò le sue labbra nel buio e quando le trovò, lo baciò con passione, mentre lui l'accarezzava dolcemente.
«Mi dispiace» gli disse «Mi dispiace così tanto per quello che è successo»
«Shhh» la zittì lui «Ti amo comunque, Tess»
Aspetta a dirlo.
 
 
I sogni continuarono a tormentare Tess per il resto della notte, così che, ancor prima che il sole sorgesse, decise di rinunciare a dormire, e scivolò fuori dal letto caldo, lasciando Harrison ancora addormentato, e scese al piano inferiore.
Si diresse in cucina, per preparare un infuso. Mentre aspettava che l'acqua bollisse, prese il cellulare per vedere che ore fossero, ma a colpire la sua attenzione fu un messaggio che le era arrivato qualche minuto prima.
Ora, fuori da casa tua. Vieni, diceva.
La donna guardò la cucina, vuota, incerta.
Harrison stava ancora dormendo al piano superiore e non si sarebbe svegliato se non dopo qualche ora. Avrebbe davvero voluto lasciarsi tutta quella storia alle spalle, confidandosi con lui, raccontando la verità a qualcuno, per la prima volta.
Ma Harrison non sapeva ancora nulla, e non poteva aiutarla.
S'infilò il cappotto sopra il pigiama, prese le scarpe e uscì nella strada, ancora buia e fredda.
Si guardò attorno e scorse una figura sotto al lampione davanti alla casa. La raggiunse con pochi passi rapidi.
Nel vederla arrivare, Calvin si era voltato verso di lei e la seguì con gli occhi fino a che non le fu davanti.
«Mi dispiace averti svegliata» le disse, guardando i pantaloni del pigiama che sbucavano dal cappotto.
«Non sei stato tu» replicò la donna «Ma i sogni»
Lui fece un cenno d'assenso: «Ne so qualcosa, ma non sono qui per questo»
«Prima che tu dica qualsiasi cosa, Calvin, lasciami parlare. Ho intenzione di dire tutto ad Harrison»
Lui parve spiazzato dalla confessione. Sgranò gli occhi, colto in contropiede.
«Gli hai già detto qualcosa?»
Lei scosse il capo: «No, ma lo farò domani. Non voglio più mentirgli, in nessun modo. Se vuoi andartene, fallo subito, così non ti troveranno. Io accetterò le conseguenze»
Calvin accennò un sorrisetto a metà tra il nervoso e il sarcastico: «Per quanto nobile sia il tuo gesto, temo che dovremo andarcene entrambi»
Fu il turno di Tess di ritrovarsi spiazzata.
«Cosa?» chiese stupita.
Lui affondò le mani nella tasca della giacca e le rivolse uno sguardo grave: «Qualcuno si è introdotto in casa mia. Hanno simulato una rapina, sottraendo gli oggetti di valore, ma ovviamente lo scopo era un altro. Hanno trovato i documenti che ho raccolto in questi anni riguardo Beaver»
Tess sbiancò.
«Credi...» prese un respiro profondo «credi che sappiano qualcosa?»
Lui strinse le labbra, poi rispose: «Quando ci hanno visti interessati ad omicidi e furti, hanno deciso di indagare e così si sono introdotti in casa mia. I miei sistemi di sicurezza sono troppo sofisticati perché dei semplici ladri riescano ad eluderli»
«Il solito paranoico» commentò Tess.
«La solita saccente» replicò lui «Ma fare la sapientina non servirà a nulla. Dobbiamo andarcene e poi penseremo ad un piano. Al momento la priorità è non farsi ammazzare»
«Sai chi siano questi criminali?» domandò Tess nervosamente.
«Sto cominciando a farmene un'idea, ma te ne parlerò quando saremo almeno a cinquanta miglia da qui, che ne dici?»
Tess si voltò a guardare la casa, casa sua, con le luci ancora spente.
«Se stai pensando che la tua partenza li farà soffrire» disse Calvin, alle sue spalle «immagina che effetto potrebbe fare la tua morte»
Tess continuò a guardare l'abitazione per qualche secondo, sperando che Harrison corresse fuori dalla porta, la stringesse tra le braccia, dicendo che si sarebbe occupato lui di tutto.
Tornò a guardare Calvin.
«Va bene» gli disse «Ma si farà a modo mio, intesi?»
La sua espressione decisa, impose all'uomo di annuire senza esitazione.
«Devi prendere qualcosa?» le domandò poi.
Lei scosse il capo.
«No, andiamoce. Ora o mai più»
 
 
 
Harrison fece il proprio ingresso in centrale con mezz'ora di ritardo, attraversò la sala a grandi passi e si diresse verso il proprio ufficio.
«Buon giorno» lo bloccò Sadie, nel corridoio «Gibson sta esaminando il furto avvenuto ieri durante un'esposizione in un negozio, in corrispondenza con l'omicidio di Shepard. Ha chiesto di raggiungerlo appena puoi, così potete parlare dell'omicidio»
«Digli che dovrà fare da solo» replicò lui «Ho un'altra pista da seguire»
S'infilò all'interno dell'ufficio, ma la donna non mollò la prese e lo seguì rapidamente.
«E quale pista sarebbe?»
Harrison prese posto alla scrivania: «Una cosa su cui sono esperto» alzò lo sguardo verso di lei: «Una scomparsa»
Sadie incrociò le braccia al petto, decisa ad andare fino in fondo.
«Chi è scomparso?» domandò.
«Questo non importa, torna da Gibson»
«Non sono un cagnolino, detective Graham, e dato che vi ho aiutati in questo caso, il minimo che mi dovete è condividere le vostre informazioni con me» replicò Sadie piccata.
«Tess» rispose lui secco «Tess è scomparsa. Ora sappiamo definitivamente che è coinvolta nel caso. Vuoi correre a dirlo a Gibson?» 
«Perché non sembri triste, spaventato o preoccupato?» domandò Sadie rivolgendogli uno sguardo penetrante, come per sondare il suo animo.
«Ho attraversato quelle fasi» replicò lui «Questa mattina, mentre lentamente realizzavo che se n'è andata volontariamente. All'inizio ero disperato e non riuscivo a trovare un senso a tutto questo. Poi ho realizzato che Tess non è stupida, non lo è per niente e se sta facendo qualcosa, significa che c'è un motivo» si portò un dito sulla tempia: «Per poter seguirla devo ragionare come lei, in modo scaltro e intelligente, senza lasciare spazio a sentimentalismi inutili»
La donna fece una smorfia: «Mi dispiace per Tess» fece per uscire, ma si bloccò all'ultimo: «E sei un coglione»
 
 
«Dov'è Graham?» domandò Gibson, durante quella che doveva essere la sua pausa pranzo, ma che era costretto a trascorrere in centrale, a causa del troppo lavoro.
«Ha passato la mattina correndo avanti e indietro» replicò Sadie, pilucchiando la sua insalata «Sta cercando di saperne di più sulla scomparsa di Tess»
«Parli del diavolo...» commentò l'uomo, voltandosi verso l'ingresso della sala, dove era appena comparso Harrison. Questi, non appena li individuò, si diresse verso di loro, con aria imperterrita.
«Come sospettavo» cominciò «anche Calvin Ward è scomparso»
«Come lo hai saputo?» domandò Sadie, attenta.
«Il cellulare di Tess» replicò il detective «C'era un messaggio, spedito alle quattro di notte: "Ora, fuori da casa tua. Vieni". Secondo la mia ricostruzione Tess ha preso scarpe e cappotto -che mancano- e ha ubbidito. Il numero non era salvato in rubrica, ma sono riuscito a risalire al proprietario, ovvero Calvin Ward. I due hanno parlato e di comune accordo hanno deciso di andarsene. Ho controllato la strada, ma non ci sono segni di lotta, quindi nulla ha costretto Tess ad andarsene. Sono andato a casa di Ward per saperne di più e il maggiordomo non mi ha fatto entrare. Sapeva che non avevo un mandato ed è stato irremovibile»
«Molto fedele» commentò Gibson.
«Troppo» replicò Harrison «Sta sicuramente nascondendo qualcosa»
«Davvero brillante, piccolo genio» fece l'altro ironico.
«In questo momento i tuoi commenti sono l'ultima cosa di cui ho bisogno. Ci servono informazioni, prima che muoia qualcun altro. Tess mi aveva promesso che mi avrebbe raccontato tutto, ma qualcosa deve averle fatto cambiare idea»
«O forse ha semplicemente mentito» commentò Gibson.
Harrison lo incenerì con lo sguardo: «Qualsiasi siano le informazioni che ci servono, sono convinto che Tess le abbia. Per questo è fondamentale ritrovarla»
Gli altri due annuirono.
«C'è una possibilità di ottenere il mandato di perquisizione» aggiunse Gibson, pensieroso.
Gli occhi di Harrison si spostarono di scatto su di lui, impaziente che parlasse.
«Ward è stato rilasciato su cauzione con l'obbligo di non allontanarsi dalla città. Se entro sera riusciamo a dimostrare che non ha rispettato i patti, posso chiedere un mandato»
Harrison accennò un mezzo ghigno di riconoscimento e fece un cenno di assenso col capo.
Ad interrompere il silenzio, fu la suoneria del suo cellulare. Harrison lo prese e lesse velocemente il messaggio che era arrivato.
«La carta di credito di Calvin Ward ha appena prelevato cinquecento dollari ad alcune miglia da qui» annunciò, guardando i compagni: «Andiamo»
Senza farselo ripetere due volte, anche gli altri due lo seguirono all'esterno della centrale.
Guidando ad alta velocità, Harrison dimezzò i tempi del viaggio, ma impiegarono comunque due ore per raggiungere la cittadina indicata.
Era già stato informato che il bancomat segnalato non era dotato di dispositivi di sorveglianza, così erano stati costretti ad attrezzarsi in modo differente.
Raggiunsero la cittadina indicata, piuttosto anonima e comune, e parcheggiarono accanto al bancomat, che avevano stabilito come punto di ritrovo. Al loro arrivo, li stava già aspettando un gruppo di agenti di polizia, da loro convocati per il lavoro.
Harrison si avvicinò con passo deciso e distribuì ad ognuno di loro un foglio, su cui erano stampate le fotografie di Tess e Calvin.
«Il nostro scopo, oggi, è raccogliere quante più informazioni possibili riguardo queste due persone. Questi fogli non devono essere in alcun modo dispersi, perché potrebbero raggiungere i ricercati. Se sapranno che siamo sulle loro tracce, agiranno di conseguenza, sulla difensiva. La nostra è un'indagine che deve avvenire in sordina, senza lasciar trapelare alcuna informazione»
Alle spalle del detective, Sadie e Gibson ascoltavano il suo discorso.
«Si sta comportando in modo cauto» commentò l'uomo, piegandosi verso la compagna «Non è da lui»
«Anche le persone più impulsive frenano i propri istinti quando devono occuparsi di questioni delicate. La donna che ama è una di queste faccende» replicò lei, serafica.
«È per questo che mi ha fatto convocare gli agenti più fidati?» aggiunse ancora Gibson «Graham è già irritante di per sé, non oso immaginare se diventasse un maniaco»
Sadie alzò gli occhi al cielo e commentò: «Pensa a fare il tuo lavoro, Paul»
Mentre stavano parlando, a loro si era avvicinato un uomo alto, dall'aspetto distinto, con i capelli scuri pettinati e ben in ordine allo stesso modo dell'abbigliamento elegante.
Harrison si voltò a guardarlo, sorpreso, ma prima che potesse parlare, fu Sadie ad intervenire: «Vi presento Napoleon, sono stata io a chiamarlo. Avete detto che servono persone fidate, così ho pensato che un paio di mani in più avrebbero fatto bene»
Harrison lanciò uno sguardo all'uomo e fece un cenno di assenso: «Sì, hai fatto bene. Noi ci siamo già incontrati al ricevimento»
«Ecco dove ci siamo visti» replicò Napoleon con un sorriso, allungando una mano. L'altro uomo la strinse con un gesto secco e fece per tornare al lavoro, quando un'auto entrò bruscamente nella via e inchiodò in mezzo alla strada, a pochi metri da loro.
Ne scese una donna dai corti capelli castani, che si diresse come una furia verso il gruppo, coprendo la distanza con lunghe e rapide falcate.
Superò tutti fino a piazzarsi davanti ad Harrison e lo avrebbe certamente schiaffeggiato, se lui non avesse previsto la mossa e afferrato il suo polso, a mezz'aria.
«Calmati, Nell» le disse, intercettando anche l'altra mano «Non è colpa mia»
«Non è colpa tua?!» sbottò lei, livida: «Da quando ti conosce, Tess non ha avuto che problemi! Prima è rimasta senza una casa, poi ti sei ubriacato tanto da...» per impedirle di dire altro, Harrison le tappò la bocca con una mano e la trascinò lontano dal gruppo, non facendo altro che aumentare la sua rabbia.
«Ascoltami per un secondo, Nell, solo un secondo» le disse, guardandola negli occhi: «Se Tess se ne è andata, è stato per qualcosa che è successo in passato e su cui io non ho nessun potere. Ti ho chiamata perché mi aiutassi, anche se capisco che in ogni situazione ci sia la necessità di trovare un capro espiatorio. Lo sarò io, non è un problema, se vuoi considerarmi colpevole, puoi farlo, ma aiutami a ritrovare tua sorella, per favore» 
Nell lo guardò negli occhi a sua volta, con le labbra serrate. Sembrava una bambina indispettita, ma questa volta la sua risoluzione pareva molto più forte.
«Come al solito, detective» disse, senza cambiare espressione «non lo faccio per te, ma per Tess»
Lui annuì: «Lo so. Grazie»
La ringraziò con sincerità, poi tornarono insieme dagli altri, che nel frattempo si erano spartiti le zone della ricerca. Ognuno aveva la propria coppia di fotografie e un'area assegnata.
Nell e Harrison si misero subito al lavoro. La loro era una zona residenziale, poco trafficata a quell'ora del giorno, e quindi furono costretti ad attraversare le strade suonando ogni singolo campanello.
Lo schema era sempre lo stesso: si presentavano, facendo vedere il distintivo, poi mostravano le fotografie e chiedevano se i due erano stati visti. Anche se con toni diversi, la risposta era sempre la stessa, e sempre negativa. C'era chi sbatteva loro la porta in faccia, chi rispondeva con un secco: «No», chi con più gentilezza, chi pareva dispiaciuto di non poterli aiutare.
Nell sapeva essere ancora più sfacciata di Harrison, soprattutto quando facevano notare la sua somiglianza con la donna nella fotografia. Aveva sempre la risposta pronta per ogni affermazione e sapeva come non perdere tempo se capiva che non avrebbero ricavato nulla.
«Hai mai pensato ad una carriera da detective?» le chiese Harrison mentre camminavano sul marciapiede deserto della strada.
«Quando sarò un avvocato» replicò lei «potremmo trovarci a lavorare fianco a fianco»
L'uomo accennò un mezzo sorriso: «Suona come una minaccia»
Nell gli rivolse uno sguardo tagliente, ma non aggiunse altro.
«Da quello che mi risulta» riprese Harrison «Tess se n'è andata insieme a Calvin Ward. Cosa sai di lui?»
«È un interrogatorio questo, detective?» replicò lei con un'occhiata penetrante.
«Più che altro una conversazione confidenziale» la corresse l'uomo «Voglio saperne di più riguardo quell'uomo»
Nell scrollò le spalle: «Erano amici alle superiori, forse il più grande amico che Tess abbia mai avuto. La mamma lo detestava»
Ad Harrison non sfuggì il particolare e domandò: «Per quale motivo?»
La giovane ci pensò su qualche secondo, poi rispose: «Tess si comportava come una normale adolescente, ripensandoci ora. E i nostri genitori come dei normali genitori. Solo che al momento era difficile accettare il cambiamento di una figlia, mentre era più facile trovare qualcuno a cui dare la colpa»
«Tua madre pensava Calvin portasse Tess sulla "cattiva strada"?» chiese Harrison, attento.
«Credo di sì» ammise lei «Più Tess cercava di contraddirli e ribellarsi, più loro davano la colpa al suo amico»
«Ed era vero?» domandò ancora lui, voltandosi a guardarla.
Il profilo di Nell era più simile che mai a quello della sorella, anche se i capelli corti le davano un'aria da folletto birichino. 
«Ero una bambina, Harrison, e Tess era la mia sorella maggiore, ovvero la mia massima aspirazione. Per me era la migliore, qualsiasi cosa facesse»
«E cosa ne pensavi di Calvin?»
Lei sbuffò: «Un quindicenne troppo alto per la sua età che sorrideva sempre e mi portava via la sorella quando volevo giocare con lei»
Harrison alzò gli occhi al cielo: «Non hai ricordi più affidabili? E magari più recenti?»
«Il padre di Calvin lo iscrisse ad un'accademia militare quando aveva diciotto anni. Da allora non ne ho più saputo nulla, nessuno ne ha più parlato, fino a quando lui e Tess sono stati arrestati, e ora scomparsi»
L'uomo cacciò le mani nelle tasche della giacca, pensieroso.
«Se non ha mai parlato di Calvin a te, che sei sua sorella, credo che non lo abbia mai fatto con nessun altro»
Nell scrollò le spalle: «Questo non è detto»
Lui si voltò a guardarla: «Cosa vuoi dire?»
«A volte è più facile confessare qualcosa a chi è estraneo dalla faccenda, in questo caso, chi non ha mai conosciuto Calvin»
«Ma pur sempre qualcuno con cui Tess era in confidenza» completò Harrison, poi ebbe un'illuminazione, ma subito il suo volto si rabbuiò.
«Si tratta proprio dell'ultima persona con cui voglio avere a che fare ora» commentò subito.
La giovane gli rivolse uno sguardo bieco: «Mia sorella è dispersa chissà dove, detective, e tu ti rifiuti di parlare con una singola persona che potrebbe aiutarti a far luce su tutto questo?»
Lui affondò ancora di più le mani nelle tasche, razionalmente motivato dalle parole di Nell, ma irrazionalmente ancora avverso all'ipotesi.
Sapeva che lei aveva ragione, ma davvero avrebbe giovato alla loro situazione parlare con Elliot Hooper?

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Capitolo 10
*** Imprevisti ***


10_ Imprevisti


 
Harrison fissò lo schermo davanti a lui, con attenzione, come gli era stato detto.
«Ora, guarda, ma devi stare attento»
Lui ubbidì, senza distogliere lo sguardo dalle immagini che vi scorrevano. Rappresentavano un parco giochi colmo di fiori, come in primavera.
«Guarda» ripeté la voce «Credi che Coniglietto abbia mangiato il gelato di Rosella solo per farle un dispetto?» chiese la voce di Emi, sdraiata sul suo petto. La bimba gli indicò il cartone animato che scorreva sul televisore.
«Sei stato attento?» domandò, ancora.
«Certo, tesoro» replicò lui «Ma non credo che Coniglietto abbia voluto essere dispettoso. Magari non sapeva che quel gelato fosse di Rosetta»
«Oh» replicò Emi «Intendi che è stato un incidente?»
«Esatto» le disse lui sorridendo. Sentì la bambina muoversi sul suo petto e accoccolarsi sotto alla coperta che copriva entrambi.
Si trovavano sul divano del salotto dei genitori di Harrison. Avevano deciso che Emi sarebbe stata dai nonni dato che il lavoro avrebbe impegnato l'uomo a lungo e lui le sarebbe stato vicino il più possibile.
«È ora di andare a nanna, topolina» le disse, circondandola con le braccia.
«Mi hai chiamata come la nonna» replicò lei ridacchiando.
«Non ho ancora trascorso una notte qui e già mi ha contagiato» replicò lui, mettendosi seduto con la bimba tra le braccia.
Si alzò poi in piedi, stringendola a sé come un bozzolo, avvolta dalla coperta.
«Ora ti porto nella tua stanza» le sussurrò.
«Dormi con me, papi?» chiese lei, sbattendo le ciglia sugli occhioni verdi.
Nonostante la penombra della stanza, il colore delle sue iridi pareva rilucere.
«Dovrei dormire sul divano, per non disturbarti» rispose lui.
«Ma il letto è grande» replicò la bimba con una voce che cominciava a diventare assonnata «ti faccio spazio»
Harrison non riuscì a contraddirla e si trovò a condividere con la figlia il letto nella sua vecchia stanza. Emi era così esile che pareva una bambola delicata e quasi temette di schiacciarla dormendo al sua fianco.
Mentre cercava di prendere sonno, nella camera buia, gli tornarono in mente i ricordi di quando condivideva la stanza con la bimba, nella loro casa, e di come aveva faticato a convincersi che lei doveva dormire in una propria camera.
A volte aveva trascorso la notte nel corridoio per poter ascoltare il respiro della figlia e accorrere immediatamente se stava facendo un brutto sogno. Non aveva mai voluto essere oppressivo, ma all'epoca, Emilia era tutto ciò che gli rimaneva.
 
 
 
La mattina successiva Harrison si svegliò prima che suonasse la sveglia e la disattivò mentre usciva dalla stanza, per non disturbare la bambina.
Trovò sua madre in cucina e anche questa immagine lo portò indietro nel tempo, quando ancora frequentava le superiori e la figura di Cassidy di prima mattina era il monito vivente che non aveva scelta e sarebbe dovuto andare a scuola.
«Ciao» la salutò «devo correre subito al lavoro»
Lei sollevò un sopracciglio: «Senza fare colazione?»
«Berrò un caffè in ufficio, ora devo andare»
Prima che potesse fare altro, la donna gli aveva già cacciato in mano una fetta di torta e un toast.
«Come puoi lavorare bene per la tua comunità se non fai neanche colazione?» lo rimbeccò mentre usciva di casa «Devi essere onesto con le persone!»
Lui alzò gli occhi al cielo, ma non poté contraddirla.
Dato che il viaggio da casa dei suoi genitori alla centrale era più lungo del solito, Harrison ne approfittò, oltre che per mangiare torta e toast, per schiarirsi le idee.
Doveva parlare con Elliot Hooper, Nell era stata cristallina: sarebbe stata più temibile la vendetta della donna se non avesse incontrato Hooper, che l'incontro vero e proprio.
Cercando di nutrirsi con questa convinzione, raggiunse la centrale, si assicurò che Gibson e Sadie fossero al lavoro, e si diresse verso l'ufficio pubblicitario di Elliot.
Era stato in quel posto mesi prima, quando aveva incontrato Tess per la prima volta. La donna era stata glaciale con lui, chiusa ermeticamente nel suo cappotto e per nulla intenzionata a lasciarsi travolgere da quel detective che aveva solo incrociato, ma che già le dava sui nervi.
Harrison sorrise al pensiero, ma realizzò subito dopo che Tess era scomparsa e che tutto quello che sapeva su di lei, poteva essere contraddetto da segreti celati.
Lasciò l'auto nel parcheggio, entrò nell'edificio e si infilò nell'ascensore schivando la vista delle segretarie all'ingresso.
Ricordava perfettamente dove fosse l'ufficio di Hooper e si diresse con passo spedito in quella direzione. Nessuno sembrò fare caso a lui, così che poté muoversi indisturbato.
Si fermò davanti alla porta della sua meta, batté due colpi e senza aspettare risposta, entrò.
Rimase deluso dal trovare Elliot al lavoro come un normale dipendente, perché sperava di sorprenderlo all'improvviso in atteggiamenti più...compromettenti.
Elliot guardò l'uomo per un istante, prima di realizzare che si trattava innanzitutto di un intruso e poi di metabolizzare dove avesse già visto quel volto.
«Mi dispiace, ma oggi ricevo solo su appuntamento» gli disse, in tono forzatamente gentile.
Harrison gli mostrò il distintivo come se fosse un'arma: «Se questo non ti intimorisce abbastanza, sappi che ho anche una pistola»
Elliot lo guardò di sottecchi: «Credo che minacciare un innocente sia un reato da parte della polizia»
«"Innocente" è un termine relativo» replicò l'altro prendendo comodamente posto su una delle due sedie davanti alla scrivania «Posso trovare una condanna qualsiasi, Elliot Hooper, e affidarla a te. Ho abbastanza conoscenze per metterti nei guai anche se chiami papino, sai?»
Elliot gli rivolse un sorriso forzato, a denti stretti.
«Che cosa vuoi da me?»
Harrison fece roteare gli occhi: «Credimi, la mia presenza qui è spiacevole per te quanto per me, e non vedo l'ora di andarmene. Ma potrò farlo solo quando avrai risposto ad alcune delle mie domande»
«Di cosa sono sospettato questa volta?» domandò l'altro, stringendo gli occhi.
«Nulla» replicò il detective «Ma voglio chiederti alcune cose. Hai mai visto questo uomo?»
Gli tese una fotografia di Calvin, a cui lui diede una rapida occhiata.
«Perché?» ribatté poi.
«Questa non è una risposta» puntualizzò il detective «Stai solo prolungando la mia permanenza»
«Voglio sapere perché, ne ho il diritto?»
«No» Harrison incrociò le braccia al petto «questa è un'indagine riservata della polizia»
Elliot imitò la sua posizione, appoggiandosi allo schienale della poltrona.
«Temo che siano riservate anche le mie informazioni» replicò, con un sorrisetto arrogante sulle labbra.
Harrison lo trapassò con gli occhi, poi esclamò: «Bene, dato che insisti e io non ho tempo da perdere...Tess è scomparsa, insieme a questo uomo»
Il sorrisetto dell'altro si allargò: «Ora sai cosa si prova, ad essere lasciati da lei»
«Mettiamo le cose in chiaro» replicò il detective «Tu sei una testa di cazzo che ha messo incinta un'altra mentre stava con Tess. Lei se n'è andata perché la facevi soffrire»
«E tu, detective?» fece Elliot, in tono dispregiativo «Non credi che se se ne è andata, è perché anche tu, in un qualche modo, l'hai messa alle strette?»
Harrison si sforzò di ignorare la frecciatina e ripeté: «Hai mai visto quest'uomo? Dal tuo atteggiamento deduco di sì, ma voglio sapere dove, come, quando e perché»
La mascella di Elliot ebbe un guizzo, come serrata con troppa forza, ma l'uomo rispose: «In una fotografia, di Tess. Diceva che si trattava di un suo vecchio amico»
«Non l'hai mai incontrato?»
L'uomo scosse il capo: «Non so neanche il suo nome. Lei è sempre stata molto vaga»
«Ti ha mai parlato di qualcosa che la legasse a quest'uomo?»
Elliot tirò le labbra in una sorta di ghigno: «Mi stai chiedendo di riferirti ciò che Tess mi ha sussurrato dolcemente, nel buio della notte, coperto dalle lenzuola...»
«Non mi servono i dettagli» tagliò corto Harrison, sentendosi surriscaldare al solo pensiero che Tess aveva vissuto con Hooper proprio come ora viveva con lui.
Elliot capì di aver colto nel segno, perché il suo sorriso si allargò soddisfatto.
«Sto solo dicendo la verità» commentò infatti «Tess può anche essere la tua donna ora, ma è stata mia molto più a lungo»
«Non parlarne come se fosse un oggetto, perché ha dimostrato ad entrambi come sappia farsi valere» replicò Harrison, sempre più seccato.
Elliot parve intuire di dover tornare a parlare di cose serie, così proseguì: «Come ti ho già detto, non si è mai dilungata troppo riguardo il suo amico. Se anche condividevano qualcosa, di certo non lo ha detto a me»
«Considerando la tua empatia, la cosa non mi stupisce» ribatté il detective, non riuscendo a trattenersi.
«Considerando la tua ultima avventura con una donna scomparsa» replicò l'altro facendogli il verso «credo sia il caso che ritorni sulle tracce di Tess, prima che anche lei trovi un ponte da cui gettarsi»
Prima ancora che potesse finire di parlare, Elliot si sentì sollevare dalla sua poltrona e sbattere contro il muro, mentre il braccio dell'altro uomo premeva sulla sua gola.
Il volto di Harrison, distorto dalla rabbia, lo fece deglutire e spense sulle sue labbra il sorriso falso che vi era dipinto.
«La mia pazienza ha superato da un pezzo il limite» ringhiò il detective «ma se continui a metterla alla prova, ti mostrerò di cosa sono capace e non mi farò alcun riguardo per te. Ti ho studiato Elliot Hooper, so cosa pensi, so cosa fai, so cosa sei. Se provi a metterti sulla mia strada, non ci penso due volte a premere l'acceleratore. Sono stato chiaro?»
L'altro uomo annuì, livido per l'impossibilità di parlare.
Harrison lo lasciò e si allontanò di scatto da lui, come se all'improvviso ritornasse in sé.
Quella mattina si era svegliato come padre di una meravigliosa piccola creatura e ora era diventato un uomo violento e minaccioso. 
Lanciò uno sguardo ardente a Elliot, poi si voltò e lasciò a grandi passi l'ufficio, cercando di scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione di qualcosa che non andava. Qualcosa che non andava in lui. 
Mentre attraversava il parcheggio diretto verso la propria auto, sentì il cellulare suonare.
«Pronto?» rispose, cercando di togliersi il tono cupo dalla voce.
«Abbiamo ricevuto la segnalazione di un avvistamento» replicò la voce di Sadie «di Tess e Calvin»
Harrison percepì il battito cardiaco accelerare improvvisamente: «Mandami l'indirizzo. Vi raggiungo subito»
Due minuti più tardi era già in viaggio, con gli occhi fissi sulla strada e le mani salde sul volante. Non aveva avuto tempo di fare domande a Sadie e la necessità di sapere lo stava logorando.
Impiegò meno tempo del previsto e avvistò subito i colleghi fermi accanto all'auto di Gibson, in compagnia di una terza persona. Si trattava di una donna non molto alta, in carne, con abiti casual e i capelli tirati in una coda di cavallo.
Dopo aver parcheggiato, Harrison li raggiunse rapidamente.
Sadie presentò il detective alla donna, poi viceversa: «Questa è Lauren Carey, e si occupa come volontaria di portare assistenza ai senzatetto. Lauren, puoi raccontare anche al detective?»
La donna annuì e rivolse un'occhiata ad Harrison: «Spero di aiutarvi con il poco che so. Questa notte, tra l'una e le due circa, sono stata chiamata a causa di alcuni disordini che stavano avvenendo al centro aperto in cui si trovano i senzatetto. Dato che sono la responsabile, mi sono dovuta recare sul luogo e ho scoperto che il caos era dovuto a due nuovi arrivati. Credo che qualcuno dei miei ragazzi, anche se loro non l'hanno ammesso, li abbia infastiditi e che i due abbiano replicato»
«"Replicato" in che modo?» domandò Harrison, scrutando la donna.
«So solo che si è scatenata una rissa» rispose semplicemente lei.
L'uomo trattenne il fiato. La sua gracile Tess in una rissa tra barboni?
«Dove sono i due ora?» chiese allarmato.
Lauren scosse il capo: «Se ne sono andati, ma non so altro. Posso portarvi al centro, dove troverete chi è più informato di me»
Harrison fece un cenno di assenso: «Andiamo»
Il centro di cui parlava la donna era un edificio scarno e simile ad uno scheletro pallido. Sarebbe parso disabitato se non fosse che quando si furono avvicinati alla porta, cominciarono ad udire un borbottio confuso provenire dall'interno.
Entrarono in una stanza ampia, dalle pareti bianche e spoglia da ogni tipo di arredamento, ad eccezioni dei sacchi a pelo e delle coperte degli uomini presenti. Quando fecero il loro ingresso, Lauren si allontanò per tornare poco dopo con un uomo ben piantato dalla testa pelata e una barba arruffata.
«Alan era presente ieri sera» spiegò la donna.
Gibson gli mostrò la fotografia di Calvin e Tess: «Hai visto questi due?»
Il volto di Alan si contrasse in una smorfia: «Certo. Mi hanno impedito di dormire per tutta la notte»
Intervenne Harrison: «Puoi dirci esattamente come è andata?»
L'uomo spostò lo sguardo su di lui: «Quando sono arrivati, era già notte, ma tutti hanno subito capito che quei due avrebbero portato problemi»
«Perché?» domandò il detective.
«Perché cercavano di passare inosservati, ma non lo erano. Non erano dei senzatetto come noi, ma si stavano nascondendo»
«Cosa te lo fa dire?» chiese ancora Harrison.
Alan gli rivolse un'occhiata scettica: «Tante persone vengono qui per scappare, detective. Ma noi non vogliamo guai. Così, ieri sera, qualcuno ha detto loro che dovevano andarsene, ma non hanno ascoltato. Keith, che è un coglione, ha cominciato ad infastidirli. Ha insultato il biondo, ma lui li ha ignorato, allora si è avvicinato alla ragazza»
Harrison strinse i pugni e serrò la mascella.
Alan proseguì: «Le ha stretto un braccio e l'ha tirata verso di sé. La ragazza ha cercato di liberarsi, allora Keith l'ha schiaffeggiata» 
Harrison sentì la mano di Sadie posarsi sulla sua spalla, come per frenarlo.
«Il biondino si è messo in mezzo e allora è cominciata la rissa»
«Le hanno fatto del male?» chiese il detective, incapace di trattenersi.
«A chi?» chiese confuso Alan.
Harrison sollevò la fotografia: «A lei, questa donna»
Il petto dell'altro uomo tremò, come scosso dall'interno, e i tre colleghi dovettero fissarlo per qualche istante prima di capire che stava ridendo.
«Aspettate» fece Alan, notando le loro espressioni: «Voi non state scherzando!»
Harrison aprì la bocca per replicare, ma Sadie lo precedette: «Può spiegarci cosa trova divertente?»
L'uomo indicò la fotografia: «Mi avete chiesto se quella è stata ferita, ma la vera domanda è se gli altri si sono fatti del male. La ragazza li ha stessi tutti, come un ninja»
Harrison sgranò gli occhi e sollevò ancora a fotografia: «Sei sicuro che fosse questa donna?»
«Sì, ha preso Keith e l'ha sbattuto contro il muro, poi ha evitato i colpi di un altro...»
«Questa donna?» ripeté il detective.
«Sì, ha steso anche l'altro avversario, senza farsi un graffio e ha aiutato il biondino...»
«Questa donna?»
«Che c'è, parlo arabo, detective?» replicò Alan seccato.
Harrison scosse il capo e si voltò verso Sadie.
«Stiamo parlando di Tess?» le chiese «La mia Tess?»
La donna strinse le labbra, per la prima volta priva delle cose giuste da dire.
Prese la parola Gibson, facendosi avanti.
«Sai altro dei due? Come è finita la rissa?» chiese.
«Quando gli altri hanno capito che era meglio stare alla larga, nessuno ha più dato loro fastidio. Credo siano partiti questa mattina presto, forse quando il sole non era ancora sorto»
Dopo che Alan ebbe finito di parlare, fu congedato insieme a Lauren e i tre uscirono dall'edificio per confrontarsi su ciò che avevano appena sentito. Harrison cercò di riprendersi, cacciando fuori tutte le emozioni che gli impedivano di ragionare lucidamente.
«Se sono partiti prima dell'alba, hanno già un largo anticipo su di noi» cominciò Sadie guardando i due uomini.
«Non è detto» replicò Harrison pensieroso.
«Cosa intendi?»
«Il bancomat da cui hanno prelevato si trova più lontano da casa rispetto a dove ci troviamo ora»
«Significa che non si stanno allontanando» aggiunse Gibson «ma si stanno nascondendo»
«E da chi?» domandò Sadie «da noi?»
Gibson scosse il capo: «No, da qualcuno, o forse da qualcosa»
Harrison aveva lo sguardo perso, assorto. Troppe informazioni, troppe piste si stavano delineando davanti a loro ed era difficile riuscire a seguirle tutte. Sarebbe stato dispersivo e inconcludente. Sapeva di non poter continuare così, non era il suo modo di lavorare. Doveva tornare indietro, tornare in sé, a ciò che era.
«"Contra ad Amor pur fur perdente colui che vinse tutte l'altre cose"» mormorò.
«Cosa?» domandò Sadie.
Harrison alzò di scatto il capo e guardò i colleghi negli occhi.
«Devo andare» annunciò.
«Dove?» chiese Gibson, corrugando la fronte.
«A capire cosa sta succedendo. Occupatevi voi di...» fece un gesto vago con le mani «...questo»
Poi si voltò e cominciò ad allontanarsi. 
Gibson fece un passo avanti per richiamarlo, ma Sadie lo bloccò mettendogli una mano sulla spalla.
«Lascialo andare» gli disse «Ne ha bisogno»
 
 
Harrison guidò senza una meta, mentre la sua mente scorreva scandagliando pensieri, indizi, immagini e istinti. Prendeva le informazioni, le sezionava, le scartava, le rielaborava, tutto all'interno della sua scatola cranica, mandando impulsi nervosi al resto del corpo di conseguenza a ciò che riusciva ad ottenere. Poi cominciò a cambiare direzione, attingendo ai suoi ricordi. Aveva percorso quella stessa strada con Tess, prima di Natale, alla ricerca di un regalo per suo padre.
Parcheggiò davanti ad una vetrina, poi scese dall'auto ed entrò nel negozio. Si trovò in una stanza uguale a come la ricordava, distribuita di scaffali e armadi zeppi di stoffe e abiti. 
Harrison si guardò attorno nella penombra e scorse una figura dietro alla cassa.
Il proprietario del negozio indossava un completo maschile interamente decorato di paiettes dorate che catturavano la luce secondo i movimenti dell'uomo e la riflettevano. 
Harrison gli rivolse un cenno del capo come saluto e si parò davanti a lui. 
L'altro uomo lo scrutò: «Sei il fidanzato di Tess, giusto?»
Lui annuì: «Sì, sono venuto per parlarti, Oscar»
Oscar parve intuire l'importanza di ciò che stava per sentire, così gli fece cenno di accomodarsi sullo sgabello di fronte al bancone.
«Dimmi pure» lo esortò poi.
Harrison lo guardò negli occhi e con franchezza esordì: «Tess è scomparsa»
L'altro sgranò gli occhi e ascoltò attentamente il breve resoconto del detective. 
«Calvin Ward» fece Harrison allungando sul bancone una fotografia dell'uomo «Lo hai mai visto?»
Oscar annuì: «Una volta. Durante delle prove in teatro, è stato per tutto il tempo seduto in platea»
«Quando?» chiese Harrison.
«Credo circa...otto anni fa. Lui e Tess avevano diciotto anni»
«È stato quando si sono allontanati» commentò l'altro.
Oscar fece un cenno di assenso: «Ricordo che quel ragazzo era venuto per dire addio a Tess. È rimasto seduto per ore, al buio, come se non volesse perdersi neanche un istante»
«Tess ti ha mai detto altro di lui?»
L'uomo scosse subito il capo, poi il suo sguardo si fece pensieroso.
«In realtà, una volta, lei mi ha parlato del motivo per cui si è rivolta al teatro»
Harrison si raddrizzò, attento.
«C'è stato un periodo, mi ha raccontato, in cui aveva bisogno di uno sfogo. Aveva circa sedici anni quando decise di iscriversi ad un corso di arti marziali. La teoria base di quelle arti è la disciplina ferrea entro cui mantenere i propri istinti e credo fosse questo che Tess cercava: qualcosa che le desse un binario stretto da non lasciare mai, insieme a Calvin. Ma, a quanto pare, contenersi non era la soluzione migliore e per questo ha deciso di spostarsi nel teatro»
Harrison annuì. Lo schema si stava facendo più chiaro rivelando una donna non diversa da quella che conosceva, ma solo più ricca di sfaccettature. 
Sperava solo che nulla gli avrebbe fatto cambiare idea.
 
 
La luce colpiva le piastrelle lattiginose del bagno, riflettendosi per tutta la stanza e inondandola di chiarore.
Davanti al lavandino, Harrison si riempì le mani di acqua gelida e si sciacquò il viso. Quando sollevò il volto, incrociò il suo sguardo nel riflesso. Le iridi verdi parevano più cupe, più offuscate. Lasciò che le gocce gli rigassero il viso, prima di affondarlo nell'asciugamano soffice.
«Papi» lo chiamò una voce dalla porta.
Lui si voltò e scorse Emi sulla soglia della stanza.
«Ehi» la salutò «Perché sei già sveglia?»
Non erano neanche le sette di mattina e dato che la bambina non sarebbe andata all'asilo, poteva dormire fino a tardi.
«Mi manca Tess, papi»
Harrison aprì la bocca, ma non emise alcun suono. Non sapeva cosa dire.
«Avevi detto che non l'avresti fatta andare via» continuò lei con gli occhi pieni di lacrime.
Harrison si avvicinò e si accucciò davanti a lei.
«Lo so, piccola, lo so. Tess manca a me. Ma la riporterò a casa, te lo prometto Emi, te lo prometto» le sussurrò stringendola a sé.
Sentì la bambina piangere sulla sua spalla, mentre gli circondava il collo con le braccia sottili.
«Te lo prometto»
La sollevò, stringendola al petto e ritornò nella camera da letto. Adagiò la bimba sul materasso e la coprì con la coperta.
«Ci vediamo quando torno a casa» mormorò accucciato accanto al cuscino. Lei lo guardò, con il volto rigato di lacrime.
Harrison le accarezzò la guancia.
«Perché non posso avere una mamma?» singhiozzò lei.
L'uomo sentì un nodo in gola e, per la prima volta, si trovò senza una replica pronta. Le lasciò un'altra carezza sulla guancia, poi se ne andò, senza parlare. 
Gli sembrava di avere un macigno ad opprimergli petto, mentre guidava verso la centrale. Non riusciva a togliersi dalla testa la voce tremante di Emi e l'immagine di Tess, davanti a lui, che lo guardava con occhi sinceri. Avrebbe dovuto smettere di cercarla come se fosse scomparsa e invece catalogarla come criminale in fuga. Ma sapeva che non ci sarebbe riuscito, che non era giusto così. Tess gli aveva mentito, lo aveva abbandonato, eppure aveva smesso di sentirsi tradito, da molto tempo. Perché si fidava di lei, perché era sincera.
"Contra ad Amor pur fur perdente colui che vinse tutte l'altre cose"
Aveva ragione, chiunque avesse scritto quelle righe. Harrison avrebbe potuto essere l'uomo più potente del mondo, ma si sarebbe sempre chinato per cercare e proteggere chi amava.
Non appena mise piede nella centrale, ebbe la sensazione di essere osservato.
Incrociò lo sguardo di alcuni colleghi, che immediatamente, come colti sul fatto, abbassavano colpevolmente il capo ritornando al loro lavoro. Non scorse né Sadie né Gibson, così proseguì verso il suo ufficio, percependo ancora gli occhi degli altri su di sé.
Entrò nella sua stanza, la numero 5 e sussultò quando si accorse della presenza di altre persone all'interno.
Si trattava di due uomini in completi di giacca e cravatta scuri, dall'aspetto distinto.
«Detective Graham?» domandò uno dei due, facendo un passo avanti. Era di media altezza, con i capelli scuri tagliati corti e il volto ben rasato.
«Sì. Posso aiutarvi?» rispose lui rivolgendo loro uno sguardo penetrante.
«Siamo l'agente Donovan e l'agente Carson» replicò l'altro, mentre estraeva dalla giacca un distintivo e lo mostrava al detective: «FBI»

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Capitolo 11
*** Verità ***


 

 
11_ Verità



 
 
Harrison irruppe nell'ufficio del tenente Carter senza troppe cerimonie. La donna balzò in piedi, al di là della scrivania, prima di realizzare cosa fosse successo.
«Tenente» esordì «Ci sono due federali nel mio ufficio».
Lei sbuffò: «Temo che la disinfestazione non ci aiuterà in questa caso, Graham».
L'uomo strinse gli occhi, in uno sguardo affilato, così lei sospirò, lasciandosi cadere nuovamente sulla sua poltrona.
«Ti avevo detto di chiudere il caso prima che diventasse una questione federale».
«Che cosa me ne faccio di quei due ora?» replicò Harrison incrociando le braccia al petto con aria scocciata.
«Il tuo lavoro, Graham» rispose il tenente «E non comportarti come un bambino geloso dei propri giocattoli».
Non potendo ribattere a quegli ordini, l'uomo uscì dalla stanza e tornò nel suo ufficio, dove lo aspettavano gli agenti.
«Spero non ci saranno problemi nel far passare il caso sotto la nostra giurisdizione, detective» gli disse Donovan, non appena mise piede nella stanza.
Harrison prese un respiro profondo, ripensando alle parole di Carter.
«Ovviamente no» rispose, poi aggiunse, facendo implicitamente loro il verso: «Spero non ci saranno problemi nel mantenimento del mio ruolo e di quello dei miei colleghi all'interno dell'indagine».
L'agente parve colto in contropiede, ma si affrettò a replicare: «Come ho già detto, ora si tratta del nostro caso».
«Giusto» acconsentì Harrison «ma tramite le nostre informazioni. I miei colleghi ed io stiamo lavorando da settimane, abbiamo raccolto dati e seguito piste che voi non potete recuperare in poche ore. Voglio essere sincero con voi: avete bisogno di ciò che noi già sappiamo, quindi la nostra collaborazione è inevitabile. E non sto parlando di una collaborazione tra superiore e subordinati, ma tra pari».
I due agenti si scambiarono un'occhiata, poi Donovan fece un cenno di assenso: «Mi sembra una richiesta ragionevole».
Harrison rivolse loro un sorrisetto sghembo, poi si mise al lavoro per aggiornarli su ciò che non sapevano.
A loro si unirono Gibson e Sadie. Dalle loro facce si poteva intuire che avevano avuto entrambi una chiacchierata con Carter e avevano ricevuto la stessa risposta di Harrison.
«In questo fascicolo si parla della scomparsa di un uomo e di una donna» commentò Carson. «In che modo sono legati al nostro caso?» 
Harrison strinse i denti, ma Gibson intervenì anticipatamente: «I due si trovavano sulla scena del crimine dell'omicidio di Jason Shepard, prima che arrivasse la polizia. Il giorno seguente sono scomparsi e da allora sono cessati omicidi e furti. Crediamo sia fondamentale ritrovarli, perché potrebbero aiutarci».
«Aiutarci?» ripeté Carson perplesso. «E non credere possano essere loro i criminali che cerchiamo?»
«No» rispose Harrison in tono secco, «sappiamo che è impossibile».
L'agente Donovan si inserì nella conversazione: «Il detective Graham ed io seguiamo questa pista, mentre gli altri ricontrollano omicidi e furti. Solo procedendo in contemporanea e divisi possiamo ottimizzare i tempi».
Annuirono tutti, in cenno di assenso. Sapevano di non avere altra scelta.
Intervenì Sadie, consegnando ad Harrison e Donovan uno dei fogli che aveva con sé da quando era arrivata.
«Questa mattina sono arrivate tre segnalazioni di avvistamenti e alcuni agenti hanno effettuato i controlli» spiegò. «Due erano falsi allarme, ma il terzo richiede un maggiore approfondimento».
Harrison prese il foglio che gli veniva teso, mentre la donna proseguiva: «Si tratta di un video di sorveglianza di un negozio».
Il detective incrociò lo sguardo di Sadie e intuì ciò che non gli stava dicendo. Doveva essere lui a supervisionare quel video perché era l'unico in grado di riconoscere Tess e Calvin.
Fece un cenno in direzione di Donovan: «Andiamo».
Uscirono nel parcheggio e Harrison si diresse con decisione verso la sua Oldsmobile.
«Il lavoro ci impone l'utilizzo di un'auto di servizio» lo frenò Donovan, fermo accanto ad un'ordinaria vettura scura.
«Sono certo che potrà fare uno strappo alla regola, agente» replicò Harrison, ma lo l'altro gli rivolse uno sguardo penetrante, mentre si faceva più vicino.
«Sai perché ho scelto di lavorare con te, detective Graham?» gli chiese.
Harrison scrollò le spalle.
«Perché conosco quelli come te. Boriosi, arroganti, credono di non aver bisogno di nessuno e di non dover condividere nulla. Quelli come te, Graham, credono di essere un passo avanti agli altri e non sono disposti a rallentare, per nessuno».
«Stai dicendo che hai scelto di lavorare per me, per potermi tenere al guinzaglio?»
Donovan accennò un sorriso: «Puoi anche dirlo in quel modo».
Harrison lanciò uno sguardo alla propria auto, poi a quella dell'agente. Non aveva alcuna intenzione di darla vinta a Donovan, ma sapeva di essere in svantaggio. L'ultima cosa che voleva, in quel momento, era che lui scoprisse più del necessario riguardo Tess.    Doveva essere cauto.
Dieci minuti più tardi, Harrison si trovava sul sedile del passeggero, mentre Donovan stava dietro al volante.
«Le informazioni su Calvin Ward sono dettagliate e coerenti» disse ad un tratto l'agente, «ma quelle su Tess Graves sembrano frammentarie».

Harrison strinse involontariamente i pugni e replicò: «Le informazioni presenti sono quelle strettamente necessarie».
«Ho letto che la donna è scomparsa di notte. Viveva con qualcuno?»
Il detective maledì la memoria di Donovan. Aveva a malapena avuto il tempo di sfogliare i dossier e aveva già memorizzato tutto.
«Il suo compagno» rispose.
«Lo avete interrogato?»
«Sì».
Donovan gli lanciò un'occhiata perplessa: «Il fascicolo non riporta nulla».
«Perché lui non aveva nulla da dire» ribatté Harrison stringendo i denti.
L'altro si lasciò sfuggire una secca risata di scherno: «Come è possibile che non si sia accorto di nulla?»
«Forse perché dormiva» replicò il detective seccato, «come ogni persona di notte».
«Che tipo è la signorina Graves?» proseguì Donovan, ignorando il tono del passeggero.
«Ventisei anni, insegnante delle scuole medie».
«Sembra una persona innocente».
«È una persona innocente» lo corresse Harrison.
Donovan lo guardò per qualche istante attraverso lo specchietto, senza parlare e il detective si maledì mentalmente.
«Siamo quasi arrivati» avvisò, prima che l'agente potesse dire alcunché.
Si fermarono in un piccolo parcheggio davanti alla vetrina di un negozio di ferramenta.
Entrarono e si presentarono al proprietario, un uomo ben piantato dal cranio rasato e una barba corta.
«Vi mostro le registrazioni» disse loro, conducendoli in una piccola stanza dietro al bancone.
Su una scrivania erano posati due schermi, su cui erano trasferite le immagini delle telecamere. Mentre il proprietario prendeva posto davanti ai monitor, Donovan estrasse dal suo fascicolo una fotografia di Tess. La tenne davanti a sé, per poterla confrontare con le immagini del filmato. Dall'esterno venne il rumore di voci e passi, così il proprietario del negozio si alzò in piedi e, scusandosi, uscì per servire i clienti. 
Donovan occupò il suo posto alla scrivania e prese possesso del mouse. 
«Seguendo lo schema degli avvistamenti precedenti» esordì l'agente, «in questo filmato non dovrebbero essere loro. Inizialmente si sono allontanati, poi si sono riavvicinati di qualche miglia e ora sembrano aver cambiato completamente itinerario. Non ha senso».
«Crediamo si stiano nascondendo» replicò Harrison con un cenno d'assenso.
Appena il filmato fu pronto, Donovan lo avviò. Le due telecamere inquadravano l'interno del negozio da due angolazioni diverse. I colori erano sbiaditi, ma la qualità discreta. Dalla porta entrarono due persone, un uomo, con un cappellino da baseball in testa, e una donna, con una berretta di lana.
«Eccoli» disse Donovan indicandoli.
Harrison contrasse nervosamente la mascella e sentì il suo cuore accelerare velocemente. Studiò la figura femminile, cercando in lei ogni traccia di Tess.
Il suo cuore voleva che si trattasse di lei, ma il suo cervello non voleva che quella, camuffata e lontana da lui, fosse la sua Tessie. Nelle riprese, l'uomo uscì dalla prima inquadratura ed entrò nella seconda, vagando tra gli scaffali.
La donna, rimasta sola, cominciò a guardarsi intorno, da sotto la berretta. Poi parve notare la telecamera nell'angolo del soffitto. Si avvicinò, continuano a fissare la telecamera.
Donovan picchiettò sullo schermo.
«È lei?» chiese.
Harrison si concentrò sull'immagine. La donna era così vicina alla telecamera che il suo sguardo pareva trapassare lo schermo e trafiggere il detective. L'uomo si sentiva paralizzato da quello sguardo, perché quella era Tess e i suoi occhi gli stavano parlando.
Donovan bloccò il nastro e si voltò verso di lui, scuotendolo dalla sua aria inebetita.
«È lei» ripeté l'agente, e questa volta non era una domanda. Non c'erano più dubbi che quella fosse Tess, ma la sua espressione non era facile da interpretare. 
Donovan indicò il volto della donna sullo schermo. «Ho sentito dire che ti piace decifrare le persone» disse al detective, «Cosa ne pensi di lei?»
Harrison scrutò il viso della donna, studiandone ogni piega.
«Sta guardando la telecamera come se fosse una persona a cui fare una confessione»
«Quale confessione?» lo incalzò Donovan.
Harrison socchiuse gli occhi, concentrato. Sentiva un battito ritmico martellargli le tempie.
«È preoccupata, cerca aiuto».
«A chi rivolge la sua richiesta?»
Il detective fissò l'immagine, senza sbattere le ciglia. Il suo cervello lavorava, elaborando informazioni e convertendole in nuovi dati.
Si presentavano domande, cercava risposte in ciò che sapeva e scansava ciò che ignorava. Perché Tess era stata lì? Perché aveva guardato la telecamera? Improvvisamente ebbe un'illuminazione.
Il primo indizio che avevano avuto sulla fuga di Tess e Calvin, era stato un prelievo. Facile. Troppo facile, se da parte di due persone così attente e scrupolose. La casa di Ward era impenetrabile e perfino il maggiordomo sapeva come comportarsi con la polizia, quasi avesse ricevuto precise istruzioni. Non era concepibile che tali persone avessero commesso un errore tanto ridicolo come prelevare da una carta rintracciabile. 
Lo sapevano, ma lo avevano fatto lo stesso.
Perché era ciò che volevano. Essere trovati.
E in quel fotogramma, Tess sembrava supplicare: «Vieni da me. Trovami». 
 
 
 
 
 
 
 
La polvere sollevata all'interno del capannone volteggiava nei coni di luce dorata. Tutto il resto era immobile, come congelato. Gli scaffali semi svuotati, le macchine arrugginite, le sedie ribaltate.
Anche Tess era immobile, come tutto il resto, e fissava i corpuscoli di polvere illuminati dai raggi del sole. Li vedeva vagare nell'aria e li sentiva posarsi sui suoi vestiti.
L'unico rumore all'interno del capannone era quello dei passi di Calvin, avanti e indietro, di fronte a lei.
«Che tu sia fermo o in movimento, la situazione non cambierà» gli disse la donna, spostando lo sguardo dalla polvere a lui.
Calvin non si fermò: «Però mi fa sentire meglio, piuttosto che rimanere inerte».
Tess si alzò in piedi e lanciò un'occhiata all'ingresso dell'edificio. L'intero quartiere in cui si trovavano pareva disabitato, quindi si sarebbero accorti ad ogni minimo movimento. Ma in quel momento, l'unico a non stare fermo, era Calvin.
«Ci riuscirà» le disse l'uomo.
Lei si voltò a guardarlo, sollevando le sopracciglia con aria interrogativa.
Calvin si avvicinò: «Intendo il tuo detective. Riuscirà a trovarci».
Tess annuì, stringendo le braccia intorno al suo corpo.
Sapeva perfettamente quanto delicata fosse la loro situazione. Se i criminali si presentavano prima della polizia, potevano trattenerli il tempo necessario perché gli agenti li arrestassero, ma il piano saltava se la polizia si presentava in anticipo o se non si presentava affatto. Nel primo caso, la loro fuga sarebbe stata inutile, perché i criminali non avrebbero rischiato di avvicinarsi, nel secondo caso, loro due sarebbero morti.
«Pensavo che non ti avrei più rivista» le disse Calvin, distogliendola dai suoi pensieri. La donna alzò lo sguardo e scoprì che si era avvicinato ancora e la stava guardando negli occhi.
«Anche io» replicò «E credevo anche di aver eliminato dalla memoria quella parte della mia vita».
L'uomo si passò una mano tra i capelli biondi, scompigliandoli.
«Sai cosa ricordo di quel periodo? Ricordo le notti trascorse a vagare nel buio, i tramonti che abbiamo guardato da ogni angolo, i posti in cui ci rifugiavamo per scappare dagli altri».
«E da noi stessi» aggiunse Tess mordendosi le labbra. Alzò gli occhi e incrociò quelli acquamarina di Calvin.
«Stiamo facendo la cosa giusta» gli disse «È arrivato il momento di guardare in faccia il passato».
 
 
 
Dieci anni prima
 
La strada era buia. Una via piccola, stretta dai muri delle abitazioni che la delimitavano, come un vecchio borgo medievale europeo. La luce era sufficiente per distinguere le forme delle cose, ma non per stabilirne i colori. Proveniva dagli unici due lampioni della strada, posti uno all'inizio e una alla fine.
Più si avanzava, più la via si faceva scura, le tenebre dense e il silenzio della notte assordante.
Ogni piccolo rumore era un tuono che poteva significare il battito d'ali di un gufo, come dei ladri che cercavano di introdursi in un'abitazione, approfittando della notte.
Sulla sinistra della strada, stava un alto cancello di ferro, chiuso da un catenaccio massiccio. Al di là di questo si distingueva un cortile cupo, dei ciottoli su cui si allungavano forme ritorte e lugubri.
«Voglio entrare qui» sussurrò una voce levandosi tra gli altri suoni della notte.
Apparteneva ad una scura sagoma alta e sottile. La stessa figura che aveva parlato fece una risatina, mentre si avvicinava all'alto cancello.
Una seconda figura, più bassa della prima, camminava qualche poco più indietro, con passo esitante.
Teneva le braccia incrociate al petto, per difendersi dalla notte, e le conferivano un'aria di disappunto.
«Scordatelo» disse infatti quest'ultima «Questo posto mette i brividi».
La prima sagoma tornò indietro, per avvicinarsi all'altra.
«Ne vale la pena» cercò di convincerla «Mi hanno detto che contiene un sacco di tesori!»
Nonostante il suo tono euforico, l'altra non cambiò idea e rimase distante dal cancello.
«Guardiamo solo» le disse «Promesso».
Prima che l'altra potesse replicare, la figura più alta si arrampicò velocemente sul cancello e atterrò all'interno del cortile.
«Vieni fuori!» sbottò sottovoce l'altra «O giuro che ti ammazzo!»
«Hai paura?» la schernì la voce all'interno del cortile.
L'altra imprecò sottovoce, poi si decise a seguire il compagno e si arrampicò sul cancello.
Quando scese, si trovò in uno spazio delimitato da edifici su tre lati, ma solo su uno di questi si apriva una porta.
La figura più alta era accanto a questa e cercava di aprirla, invano.
«Oh, eccoti!» disse vedendo che anche l'altra era all'interno del cortile «Ho bisogno che tu apra la porta».
«Per favore».
«Per favore» ripeté sbuffando.
La figura più bassa si avvicinò alla porta, si accucciò, ma esitò, prima di mettersi al lavoro.
«Sei sicuro che non ci sia nessuno?»
«È un negozio» fu la replica «A quest'ora hanno chiuso da un pezzo».
Si udì un rumore metallico, poi uno scatto meccanico. Quella che aveva scassinato la porta si alzò in piedi e arretrò, lasciando al compagno l'onore di precederla.
Il più alto ridacchiò sottovoce, poi estrasse una torcia e illuminò l'interno dell'edificio. Davanti a loro si apriva un corridoio lungo e stretto, su cui si affacciavano molte porte.
Quello che teneva la torcia avanzò e l'altra, seppur esitante, decise di seguirlo, piuttosto che rimanere sola all'esterno.
«Questo posto sembra il set di un film horror» commentò poi, lanciando un'occhiata scettica alle porte di legno scuro e ai muri scrostati.
«Assapora l'adrenalina» replicò l'altro, in tono divertito ed eccitato.
Raggiunsero il fondo del corridoio ed entrarono in una stanza ampia, che sotto la luce della torcia si riempì di ombre scure e lugubri.
«C'è un'interruttore» disse il più alto, indicandolo con la luce della torcia. Si avvicinò e, quando lo fece scattare, la sua compagna sussultò.
Delle lampade tremolanti si accesero, rivelando nel loro fascio flebile gli oggetti che affollavano la stanza. Ovunque si trovavano antichi mobili, pieni di polvere, e su questi o sul pavimento, stavano gli oggetti più vari, da orologi a pendolo, set di ceramiche, a vasi e cornici.
«Guarda» disse la figura più bassa, ancora tremante, indicando il pavimento «Qualcuno lo ha lavato di recente».
Sulle mattonelle si vedeva infatti l'acqua che andava progressivamente asciugandosi.
«Cerchiamo di non lasciare impronte» fu la replica, mentre lui avanzava tra le cianfrusaglie. Aprì l'anta di un orologio a cucù e vi guardò all'interno.
«Ehi, guarda questo» chiamò euforico la compagna.
«Non è divertente» sottolineò lei, ferma vicino alla porta.
L'altro alzò gli occhi al cielo e continuò a girovagare tra gli oggetti. Apriva le ante due mobili, con le sue mani guantate, ammirava il suo riflesso distorto in specchi antichi, e scrutava dipinti secolari.
«Aspetta» lo bloccò la compagna, bisbigliando sottovoce «Ho sentito dei passi».
Lui rise, come se si trattasse di una battuta.
«Non è uno scherzo!» sibilò l'altra nervosamente.
Lui si fermò e tese l'orecchio, in ascolto.
Improvvisamente, la porta da cui erano entrati, si spalancò e ne emerse una figura scura che si lanciò sulla ragazza che era rimasta indietro.
Quella cercò di scrollarsi la persona di dosso, dimenandosi violentemente.
Quando ci riuscì, la spinse per allontanarla da sé. Solo in quel momento riuscì a vedere il suo volto. Si trattava di un ragazzino pallido e gracile.
A causa della spinta e del pavimento bagnato, quello si ribaltò indietro e picchiò la testa contro il termosifone alle sue spalle, poi stramazzò a terra. E non si mosse.
La ragazza era immobile, tremante, senza aver ancora compreso quello che era successo.
«Dobbiamo andarcene» le disse il compagno, raggiungendola velocemente. Prima che potessero uscire dalla stanza, qualcun altro varcò la soglia e si piazzò davanti a loro.
Si trattava di un uomo di media altezza, dalla pelle raggrinzita, con i radi capelli sul capo aggrovigliati in un gomitolo.
Guardò loro, poi il ragazzino steso a terra.
«Cosa gli avete fatto?» ringhiò con voce simile a quella di una bestia.
Il ragazzo intruso afferrò il polso della compagna per trascinarla all'esterno, ma l'uomo stava esattamente davanti alla porta. Improvvisamente questo estrasse dai suoi abiti un oggetto lucido e lo puntò verso i due.
I ragazzi trattennero il fiato ancora prima di realizzare che si trattava di una pistola.
«Cosa avete a mio figlio?» ripeté l'uomo, senza smettere di minacciarli.
«Signore, noi...» cominciò il ragazzo, ma il rumore di uno sparo lo interruppe. Lui si accucciò di scatto e un altro proiettile passò dove prima c'era la sua testa.
I due si lanciarono dietro ad un armadio. 
«Dobbiamo uscire di qui» mormorò la ragazza, tremando.
«Lo so, Tess, ma nel caso non te ne fossi accorta, quel tipo ha una pistola!»
Un altro sparo lo fece sussultare, così il ragazzo agì d'impulso. Afferrò un bastone che stava appoggiato accanto a loro e si risistemò bene dietro all'armadio, facendo cenno alla compagna, Tess, di non fiatare.
Lei annuì e trattenne il respiro.
Sentirono il rumore leggero dei passi dell'uomo che si avvicinavano all'armadio dietro cui si nascondevano.
Il ragazzo fece segno alla compagna di spostarsi dietro ad un altro mobile, per allontanarsi. Lei obbedì silenziosamente.
Lui rimase da solo dietro all'armadio, mentre i passi si facevano sempre più vicini.
Quando vide l'ombra dell'uomo allungarsi al suo fianco, lanciò una tazza in quella direzione e al movimento seguì uno sparo istintivo.
Il ragazzo approfittò della breve distrazione per balzare avanti e colpire l'uomo con il bastone.
L'altro lasciò cadere la pistola per la sorpresa, ma il suo avversario non gli diede il tempo di riprendersi, perché lo colpì ancora una volta con il bastone, poi ancora, e ancora, e ancora, e ancora.
«Basta! Cal!» la voce di Tess lo riscosse e solo in quel momento realizzò ciò che aveva fatto.
L'uomo si era ormai accasciato a terra, con il volto tumefatto e pieno di sangue.
Calvin guardò la compagna, che aveva le guance rigate dalle lacrime e non riusciva a smettere di tremare.
«Cosa abbiamo fatto?» domandò lei con la voce rotta dal pianto.
Il ragazzo cercò di ragionare lucidamente, invano. Come in trance, si abbassò verso l'uomo, per vedere che il suo petto non si muoveva. Allora si rialzò e si diresse verso il ragazzino. Sul pavimento bagnato, intorno alla sua testa, si era aperta una pozza di sangue.
Non aveva bisogno di controllare se il suo cuore batteva ancora, per sapere che, invece, si era fermato.
Si voltò verso Tess, alle sue spalle. La ragazza era piegata su se stessa, come se il dolore la lacerasse da dentro.
Calvin tornò verso di lei, più per istinto che per lucidità mentale. 
«Dobbiamo andarcene» le disse.
La ragazza alzò il capo. I suoi occhi erano rossi e gonfi, il volto era madido di lacrime e ancora non aveva smesso di tremare.
Aprì le labbra e ripeté: «Che cosa abbiamo fatto?»
 
 
Tess strinse le ginocchia al petto, cercando di scaldarsi. Il magazzino era ampio e la temperatura esterna stava calando velocemente. 
Lanciò un'occhiata a Calvin, che aveva ripreso a camminare avanti e indietro.
Era incredibile come la mente fosse così straordinariamente malleabile.
Quando si era separata da Calvin, otto anni prima, aveva involontariamente applicato un processo di rimozione di tutto ciò che poteva esserle dannoso. Si era poi allontanata per studiare e rimanendo lontana da casa, non c'era nulla che potesse legarla al passato. Elliot non sapeva nulla di lei ed era stata la sua occasione per ricominciare da capo. Aveva solo dovuto sbattere la porta in faccia agli incubi e ai sensi di colpa angoscianti.
E ci era riuscita. Ciò che era avvenuto in quel negozio tetro era diventato solo un ricordo offuscato e non troppo nitido, che aveva smesso di tormentarla nel momento in cui lei aveva smesso di ricordarlo a sé stessa. Elliot era tutto ciò di cui aveva bisogno, la  nuova famiglia per la nuova Tess. Tutto andava a gonfie vele. Le bastava rimanere lontana da casa, lontana dagli sguardi inquisitori dei suoi genitori che sembravano conoscerla troppo bene perché lei potesse mentire. Si era fatta quindi sempre più distante, aveva limitato i rapporti e ridotto i contatti e, per quanto soffrisse nel portare quel peso dentro di sé, sapeva di non poterlo condividere con nessun altro, al di fuori di Calvin, che credeva di aver ormai perduto per sempre.
Invece, da quando lo aveva incontrato, al ricevimento, tutti quegli anni di sforzi e rimozione di ricordi, si erano annullati, sotto il peso di un passato che richiedeva di essere guardato in faccia. Gli ultimi giorni trascorsi in fuga, l'avevano riportata a quei momenti in cui lei e Calvin, consapevoli di dividere lo stesso segreto, scappavano da tutti gli altri, rintanandosi in loro stessi.
Erano tornati i sedicenni pieni di paura, che cercavano consolazione nell'altro con la consapevolezza che non ve ne era alcuna.
Tess sapeva che si era trattato di un incidente, che non avrebbe mai consenzientemente anche solo ferito un ragazzino e che Calvin aveva agito per legittima autodifesa, ma aveva riesaminato a lungo gli eventi di quella notte, realizzando che neanche loro due erano innocenti. Si erano introdotti in quel negozio di nascosto, senza alcun diritto di farlo. Negli anni successivi a quell'avvenimenti, i due avevano raccolto informazioni sulle due vittime, sperando di riuscire ad aiutare in qualche modo la famiglia rimanente, ma ciò che avevano scoperto, li aveva terrorizzati ancora di più. La famiglia di Larry Beaver poteva essere descritta in ogni modo fuorché normale. Spaventati dal genere di persone in cui erano incappati, Tess e Calvin avevano preferito fingere che nulla fosse avvenuto, perché sapevano quali sarebbero state le conseguenze. La follia dei Beaver aveva portato i familiari rimanenti ad assassinare chiunque avesse mai ostacolato il capofamiglia, Larry, come dimostravano gli omicidi di Collins, Shepard, Grisham e i furti alle diverse esposizioni. Di certo sapevano come si organizzava ad arte una vera vendetta.
Tess spostò lo sguardo verso la porta del magazzino.
E ora, pensò, è sono una questione di tempo.
 
 
 
 
 
 
Angolo autrice
Ciao a tutti e grazie di essere arrivati fino a qui. Volevo scusarmi per il mega ritardo dell'aggiornamento ma sono stata molto occupata e ho preferito finire bene il capitolo prima di pubblicarlo. Di certo non è un capitolo "leggero" e spero che tutte le spiegazioni che contiene siano state sufficienti per compensare il ritardo! :)
Mi scuso ancora e ringrazio tutte le persone che stanno seguendo la storia, dai lettori silenziosi a quelli che hanno trovato i tempi per farmi sapere cosa ne pensavano. Grazie a tutti! :)
Cosa ne pensate della storia? La trama sta prendendo la piega che vi aspettavate o vi ha deluso? Fatemi sapere! 
Alla prossima :)

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Capitolo 12
*** «Tessie mi sta aspettando» ***


12_ «Tessie mi sta aspettando»

 
 
Il suono dei tacchi di Sadie Hard che picchiavano il pavimento di marmo si propagò nell'atrio di viola Thompson.
La seguivano Gibson e l'agente Carson, il primo guardandosi attorno con attenzione, il secondo leggendo i documenti che teneva tra le mani.
«Signor Thompson» salutò Sadie sorridendo al padrone di casa. «Grazie per averci ricevuti con così poco preavviso.»
L'uomo era ben vestito, anche se in modo meno formale rispetto al ricevimento.
«Nessun problema» replicò lui con gentilezza. «Ecco una copia dei documenti che mi avete richiesto» aggiunse tendendo loro alcuni fogli. Gibson li prese e li consultò velocemente sotto lo sguardo attendo di Sadie e dell'agente Carson.
Il detective fece una smorfia che doveva essere un sorriso di soddisfazione, mentre mostrava uno dei fogli ai colleghi.
«Larry Beaver» disse leggendo il documento, «ancora lui.»
Incrociò lo sguardo di Sadie, consapevole di aver trovato esattamente ciò che stavano cercando. Avevano trascorso la mattinata visitando i luoghi dei furti potersi procurare i fascicoli degli oggetti trafugati. Gibson era ancora convinto dell'esistenza di un collegamento tra le opere mancanti e aveva voluto operare un maggiore controllo, tramite i documenti dei singoli quadri e del carillon, che ne specificavano le caratteristiche e ne indicavano i precedenti proprietari. Era stato proprio l'elenco di questi nomi a far suonare un campanello, c'era infatti un'unica persona ricorrente in tutti i fascicoli: Larry Beaver.
Avevano già chiesto un'indagine sull'uomo e dovevano solo consultare le informazioni ottenute. Quella di Villa Thompson non era altro che un'ulteriore conferma di ciò che già sapevano.
«Torniamo in centrale» disse Carson e i due acconsentirono.
 
Gibson sfogliò il fascicolo per l'ennesima volta da quando era arrivato in centrale. Di fronte a lui, al di là debba scrivania, stava Carson, anche lui assorto dalla lettura.
Il detective fissò l'agente per qualche istante, da sotto le sopracciglia aggrottate, poi si decise ad alzarsi in piedi, annunciando: «Torno subito.»
Uscì nel corridoio e si diresse verso la scrivania di Sadie.
La donna lo accolse con aria ironica: «Già stufo del lavoro d'ufficio?»
Lui prese posto all'angolo del tavolo.
«Beaver è morto e i suoi unici parenti non sono rintracciabili» replicò lui.
Sadie fece un cenno di assenso: «Ho letto il fascicolo. È stato trovato morto insieme al figlio minore. La moglie e i due figli maggiori sono scomparsi qualche mese più tardi.»
«Non sembravano essere persone piacevoli» commentò Gibson, «solo Beaver aveva molte segnalazioni per le minacce che faceva alle persone che lo infastidivano.»
«Ho appena parlato con un suo vecchio vicino di casa» disse Sadie, «e ha confermato che a nessuno è mai piaciuta quella famiglia.»
Gibson corrugò la fronte, sorpreso.
Lei gli rivolse un sorriso zuccheroso: «Qualcuno deve pur darsi da fare, Paul.»
Il detective alzò gli occhi al cielo, ma la sia attenzione fu subito attratta dalla figura trafelata dell'agente Carson in arrivò.
«Ho riesaminato i dati degli omicidi con quelli di Beaver» annunciò l'uomo brandendo alcune carte. «E combaciano, combaciano tutti. Ogni vittima aveva in qualche modo danneggiato Beaver.»
«E se stanno dando la caccia a Tess e Calvin» proseguì Gibson, «significa che loro saranno le prossime vittime.»
 
 
Il salotto della casa era illuminato dalla luce delle lampade, mentre all'esterno calavano le tenebre della notte. Harrison aveva sistemato sul tavolino da caffè qualche snack e alcune birre, mentre aveva fatto accomodare Sadie e Gibson sul divano.
«Tutto questo è molto gentile da parte tua, ma non credo che una serata intima tra colleghi sia quello che ci voglia ora» commentò Gibson, già ben stravaccato sul divano.
«È l'ultima cosa che vorrei ora, credimi» replicò Harrison mentre sorseggiava nervosamente la sua birra. «Vi ho fatti venire qui per un motivo ben preciso. Non potevo parlarne con gli agenti perché...»
«Perché non hai ancora detto loro chi è veramente la donna scomparsa?» Gibson la frase al suo posto.
«Forse» ribatté Harrison. «O forse non sono bravo con il lavoro di squadra e meno siamo, meglio è».
«Hai intenzione di dirci cosa hai trovato o continuerai a tenerci sulle spine?» si intromise Sadie, trafiggendo il padrone di casa con uno sguardo penetrante.
Lui annuì, consapevole dell'impazienza della donna. Lei e Gibson lo avevano informato delle loro scoperte della giornata, come tutti gli oggetti e gli omicidi fossero legati ad un unico nome: Larry Beaver. Harrison capiva che tutti stavano cominciando a venire a capo della faccenda ed erano smaniosi di collegare ogni informazione con chiarezza.
«Tess non sta scappando» esordì Harrison, cogliendo alla sprovvista i compagni. «E non si sta nascondendo»
«Ti dispiacerebbe essere un po' più chiaro?» domandò Gibson sollevando un sopracciglio.
L'altro prese un respiro profondo.
«So che potreste non credermi, ma ne sono certo. Ho lavorato a lungo con persone scomparse e so che se qualcuno non vuole essere trovato, sa come passare inosservato. Noi siamo riusciti a seguirli facilmente, ma siamo stati troppo stupidi a pensare che fosse merito nostro. Tess e Calvin stanno giocando volontariamente al gatto e al topo. Pensateci: prelevare da un bancomat, recarsi in luoghi pieni di persone, scatenare una rissa. E poi, oggi, il video. Tess ha guardato dritto nella telecamera, come se stesse guardando me, come se stesse parlando con me!» Harrison enfatizzò l'ultima frase, picchiandosi il palmo sul petto. 
Gibson e Sadie si scambiarono un'occhiata poco convinta.
«Forza, sapete tutti quanto sia sveglia Tess!» continuò il padrone di casa.
«Non discuterò questo punto» replicò Gibson, «ma dobbiamo considerare che era spaventata. Le persone, quando hanno paura, non ragionano, pensano solo a mettersi in salvo. Se davvero lei e Calvin sono le prossime vittime, l'unica cosa a cui pensano è salvarsi la pelle. Lasciare indizi a te, significa lasciare indizi a chiunque. Questo rompe la regola dell'auto preservazione.»
Harrison emise un verso di frustrazione.
«Se avesse voluto salvaguardare se stessa, Tess avrebbe chiesto di entrare nel programma testimoni o qualsiasi altra cosa che non preveda essere là fuori da sola con un uomo che non vede da dieci anni!» la sua voce si alzò più del previsto e risuonò nelle stanze.
Sadie fece saltare lo sguardo tra i due detective.
«Mi sembra di aver capito che, in ogni caso, sia necessario trovarli il prima possibile» commentò pratica la donna.
«E come? L'ultima pista che abbiamo è quel video, non è che verranno a bussarci alla porta...» la voce di Gibson fu interrotta dal suono squillante del campanello.
Nessuno fiatò e rimasero tutti immobili.
«Aspettavi qualcuno?» bisbigliò Sadie.
Harrison scosse il capo, ma posò la birra sul tavolino e raccolse la pistola di servizio dal mobile su cui l'aveva lasciata. Nascondendo l'arma dietro la schiena, si diresse silenziosamente verso l'ingresso.
Si chinò per guardare attraverso lo spioncino. Scorse sul vialetto due figure scure, ma la scarsa luce gli impedì di vedere i loro volti. Si maledì mentalmente per non aver ancora sostituito la lampadina esterna.
Strinse con più decisione la pistola mentre con l'altra mano apriva la porta. Sentendo il rumore delle chiavi che giravano nella toppa, le figure al di là dello spioncino si raddrizzarono.
Harrison aprì la porta quanto bastava per distinguere i volti dei due uomini.
Imprecò in mezzo ai denti quando riconobbe gli agenti Donovan e Carson. Si infilò la pistola nella cintura sulla schiena e aprì completamente la porta.
«Agenti» li salutò rigidamente. «Cosa ci fate a casa mia?»
Donovan sorrise leggermente, un sorriso di chi sta per svelare ad un ignorante la verità.
«In realtà ci hanno detto che questa era la residenza di Tess Graves, la donna scomparsa.»
Harrison accusò il colpo impassibile.
«Questa è casa mia» ribatté, senza mentire. «Con chi avete parlato?»
Donovan sbuffò: «Risparmiaci la farsa, Graham, sappiamo che la signorina Graves viveva qui. Insieme a te e alla tua adorabile figlia. Emilia, giusto?»
Harrison strinse i denti.
«Sto solo facendo il mio lavoro» replicò, senza cambiare espressione.
«Nascondendo informazioni fondamentali all'FBI?» Carson rise di lui, parlando per la prima volta.
«Sei stato stupido a pensare che non l'avremmo scoperto» rincarò la dose Donovan.
«Cosa volete fare? Arrestarmi?» sbottò l'uomo. Stava cercando di mantenersi calmo, ma sapeva perfettamente che non avrebbe funzionato. Sentiva il battito cardiaco rimbombare nelle sue orecchie e tutto il suo corpo teso, come pronto a scattare.
«No» rispose con semplicità Donovan, «ma verrai sollevato dall'incarico. La tua posizione è tale da compromettere il caso.»
«Permettetemi di dissentire» replicò prontamente Harrison. «La mia posizione è tale che nessuno si occuperebbe del caso meglio di come farei io. Voglio ritrovare Tess a tutti i costi.»
Donovan sbuffò una risata di scherno: «E quando l'avrai ritrovata, cosa farai? La porterai davanti al tribunale per fare in modo che ottenga la pena che si meriti? O l'aiuterai a fuggire?»
L'uomo scosse il capo e si voltò verso il collega: «Ma questi detective provinciali li scelgono privi di senso logico e rispetto?»
«Sarò anche personalmente coinvolto nella faccenda, ma non sono un idiota» sputò Harrison, «e sollevarmi dall'incarico non mi renderà meno desideroso di scoprire la verità. Se Tess è colpevole, è giusto che sconti le sue pene, come ogni altra persona. Ma se è innocente...»
«"Innocente" e "colpevole" sono separati da una linea sottile. La verità, detective Graham, è che il giudizio sta negli occhi di chi guarda. Chi è innocente per i tuoi occhi, è colpevole per i miei.»
Harrison strinse i pugni fino a farli tremare. Avrebbe voluto colpire quel viso insignificante da impiegato del mese di Donovan, ma sapeva perfettamente che non sarebbe servito a nulla.
«Ci avvereremo ancora dell'aiuto del detective Gibson e della vostra segretaria, ma solo per le informazioni di cui sono in possesso. Per il resto, sarete tutti e tre allontanati dall'indagine» spiegò Donovan, con il tono di un professore che istruisce gli allievi disubbidienti.
Per la prima volta, Harrison si trovò senza nulla da dire. Ormai non avrebbe più potuto far cambiare idea agli agenti e sentiva la rabbia che gli montava nel petto sempre più feroce.
Optò per sbottare un: «Figlio di puttana» e gli sbatté la porta in faccia.
 
«Chi era?» domandò Sadie, quando l'uomo tornò nel salotto.
«Donovan e Carson» replicò lui secco, «siamo tutti sollevati dall'incarico.»
Gibson sgranò gli occhi e strinse i pugni: «Che diavolo significa? Cos'hai fatto Graham?»
Harrison sollevò le mani: «Io non ho fatto nulla, anzi non ho detto nulla. Hanno scoperto di me e Tess e credono che io non possa lavorare lucidamente. E voi mi avete coperto.» Lanciò uno sguardo al collega: «Quindi hai ragione, è colpa mia.»
«Ormai è troppo tardi per rimpiangere qualsiasi cosa» tagliò corto Sadie, poi piantò i suoi occhi in quelli del padrone di casa: «Dicci quello che possiamo fare.»
«Perché lo stai chiedendo a me?»
Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo: «Non fare il modesto, Harri. Tu sai sempre cosa fare.»
L'uomo sospirò, pensando a come dirle che si sbagliava, che in quel momento, anche lui era completamente perduto. Poi incrociò lo sguardo impassibile di Gibson. Il detective non sembrava felice di dover aspettare la decisione del giovane collega, ma non fiatava e attendeva che fosse l'altro a parlare e a decidere.
«Va bene, ecco cosa faremo.»
 
 
 
Il rumore delle nocche che picchiavano contro il finestrino della sua auto, risvegliò Harrison. Il detective spalancò gli occhi, ma fu accecato dalla luce di una torcia.
«Esca dall'auto» intimò una voce maschile, all'esterno del veicolo.
Lui si riparò gli occhi con una mano, mentre cercava di ricordarsi dove si trovava e cosa stava facendo. Il collo gli doleva terribilmente, segno che si era addormentato in auto in una posizione scomoda. All'esterno, tutto era ancora buio, come se fosse piena notte.
«Signore, non lo ripeterò un'altra volta. Scenda dall'auto.»
La voce maschile non sembrava scherzare, così Harrison fece come gli era stato detto. Aprì la portiera e si alzò in piedi. 
L'uomo all'esterno non era altro che un vigilante notturno, a giudicare dall'uniforme. Dimostrava una cinquantina d'anni, portava dei folti baffi ingrigiti e i suoi occhi erano di un colore chiaro.
«Lo sai che non si può dormire in questa zona, vero?» gli disse, guardandolo in pieno volto
«Sì, scusi, mi sono addormentato involontariamente» replicò Harrison e si passò una mano sul volto stanco, come per sottolineare ciò che aveva appena detto.
Il sorvegliante guardò lui, poi l'auto, puntando la torcia all'interno, e infine fece un cenno di assenso: «Nessun problema, figliolo. Ma non puoi rimanere in questo parcheggio. Perché non vai a casa?»
Harrison annuì, lo ringraziò e salì in auto. 
Per evitare di essere ripreso ancora, mise in moto e s'infilò nella strada poco trafficata.
Non aveva mentito al sorvegliante, il suo pisolino non era previsto. Dopo che i due agenti federali avevano allontanato lui e i suoi colleghi dal caso, aveva deciso insieme a loro di trascorrere la notte controllando i luoghi in cui Tess e Calvin avrebbero potuto trovarsi, basandosi sull'apparente logica del loro percorso. Le possibilità erano innumerevoli, così si erano divisi la ricerca: Harrison da solo e Gibson in compagnia di Sadie. Dopo ore trascorse a controllare vecchi palazzi disabitati e periferie fatiscenti, ogni tentativi era stato invano. Harrison aveva deciso di fermarsi per schiarirsi le idee e trovare un metodo più efficace per trovare Tess in fretta. Il risultato era stato solo quello di addormentarsi in auto e di essere poi svegliato da un sorvegliante notturno.
Mentre guidava, si rese conto che non era più piena notte, come aveva creduto poco prima, ma i colori dell'alba stavano già schiarendo il cielo, preparando la salita del sole. Forse aveva dormito più di quanto si aspettasse.
Trovò un messaggio di Sadie sulla segreteria telefonica, che gli indicava un luogo in cui trovarsi per fare colazione e decidere come procedere dopo quegli insuccessi. 
Raggiunse il locale dopo circa mezz'ora, un diner poco appariscente già occupato dai primi avventori della giornata. Harrison parcheggiò l'auto ed entrò nella sala.
Gibson e Sadie avevano già preso posto ad un tavolo vicino alla vetrata che si affacciava sulla strada, ma lo avevano aspettato per ordinare.
Entrambi apparivano stanchi, a giudicare dalle palpebre calanti e dallo sguardo poco vivace.
«Guardatevi, sembrate una coppia di sposi che non è riuscita a chiudere occhi perché il figlio sta piangendo per i dentini nuovi» li prese in giro Harrison, sedendosi al loro tavolo.
«È ironico come invece l'unico che abbia mai provato una cosa del genere, sia stato tu» replicò Gibson, in tono più scorbutico di quanto volesse sembrare. Se i due non si piacevano normalmente, forse dopo una notte insonne era anche peggio.
«Non posso sopportare voi due senza una tazza di caffè» protestò Sadie e alzò un braccio per attirare l'attenzione della cameriera.
Dopo aver ordinato, si decisero a parlare.
«È stato totalmente inutile» disse Harrison, «non ho trovato neanche la minima traccia del loro passaggio.»
«Lo stesso per noi» replicò Gibson.
Per un istante la conversazione cadde. Mangiarono con poco appetito la colazione e bevvero con ben maggiore avidità il caffè. 
Harrison aprì la bocca per parlare, ma il suono di un cellulare che squillava lo interruppe.
«Scusate è il mio» disse Sadie. Prese il cellulare, guardò lo schermo con leggera sorpresa, poi rispose.
«Pronto?...Sì...Cosa?...Sei sicuro?...Va bene...Sì, andiamo subito....Grazie.»
La donna chiuse la chiamata e, quando sollevò lo sguardo, i suoi occhi brillarono.
«Era Napoleon» spiegò.
«Intendi l'uomo che Gibson invidia più al mondo?» commentò Harrison rivolgendo un'occhiata ammiccante al collega.
Quello grugnì: «Fottiti, Graham. Non sai di cosa stai parlando.»
Sadie alzò gli occhi al cielo, ma per la prima volta, la donna parve imbarazzata. Il sorrisetto sghembo di Harrison dimostrò che la cosa non gli era sfuggita.
«Quando la smetterete di litigare, vi interesserà sapere cosa mi ha detto» replicò la donna. «Perché forse li abbiamo trovati.»
Harrison e Gibson smisero di guardarsi in cagnesco e si voltarono stupiti verso di lei.
«Cosa vuoi dire?»
«Napoleon ha distribuito i volantini che gli ho dato e qualcuno ha detto di averli riconosciuti. È il custode di un capannone abbandonato, loro non lo hanno visto, ma lui sì. È abbastanza sicuro.»
«Quanto dista?» domandò Gibson.
«Me ne frego della distanza» ribatté Harrison alzandosi in piedi. «Io vado, fate come volete.» 
Detto questo, si avviò verso l'uscita del diner.
Sadie guardò Gibson e sbuffò: «Quanto ci impiegherà per capire che non gli ho ancora dato l'indirizzo?»
L'uomo rise: «È ancora un ragazzino impulsivo.»
I due si alzarono in piedi e seguirono Harrison, che li aspettava fuori dall'uscita, con aria impaziente.
«Forza, Tessie mi sta aspettando.»

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Capitolo 13
*** La resa dei conti ***


13_ La resa dei conti
 



Il capannone era come lo si sarebbe immaginato: enorme e polveroso. 
Le luci delle torce tagliavano le tenebre rivelando alcuni dei vecchi macchinari lasciati ad invecchiare senza neanche la cura di coprirli. L'unico rumore udibile era quello dei passi dei tre colleghi che perlustravano l'ambiente. La luce dell'alba era ancora troppo fievole per illuminare a sufficienza l'interno, che risultava scuro e ombroso.
«Tess!» gridò la voce di Harrison, facendo vagare la torcia intorno a sé. «Sono io, Harrison!»
Attese un istante, ma gli rispose solo l'eco del suo grido.
Continuò a chiamarla, spostandosi per il capannone, entrando nelle stanze e forzando le porte chiuse a chiave.
«Tess!» tentò ancora, ma ancora gli rispose solo silenzio.
«Mi sento un idiota» commentò rivolgendosi a Gibson e Sadie, poco lontani da lui.
«È più che una sensazione, piccolo genio, te lo assicu...» la voce dell'uomo fu strozzata dalla gomitata che Sadie gli rifilò nelle costole.
Harrison finse di non averlo sentito. Guardò in alto, dove la luce stava cominciando a farsi più intensa.
«Ho visto un negozio qui fuori, prima era chiuso ma forse a quest'ora avrà aperto. Vado a fare qualche domanda.»
«Noi continuiamo a guardare, magari troviamo qualche indizio del loro passaggio» rispose Sadie e seguì con lo sguardo l'uomo che si stava allontanano.
Non appena fu uscito, Harrison realizzò che era ormai l'alba e le persone stavano cominciando a svegliarsi. Le case avevano alcune luci accese al di là delle tende e incrociò anche un uomo che correva sul bordo della strada.
Il detective raggiunse il negozio che aveva intravisto quando erano arrivati. Come aveva indovinato, la saracinesca era stata alzata e un uomo, il proprietario probabilmente, stava sistemando alcuni cartelli pubblicitari all'esterno.
«Buongiorno» lo salutò Harrison studiandolo con un'occhiata. 
L'uomo sembrava aver superato la sessantina, era alto e le spalle larghe gli davano un'aria robusta, anche se non massiccia. 
«Buongiorno» replicò quello, «posso aiutarla?»
«Sì» replicò schietto il detective, «mi chiedevo se quel capannone laggiù è abbandonato.»
Il venditore guardò l'edificio che gli veniva indicato, poi guardò Harrison, stupito dalla domanda.
«Be', è da anni che non si vede anima viva entrarci» rispose mentre riponeva un cartello pubblicitario che prometteva un nuovo prodotto all'intero.
«Ne è sicuro? Neanche vagabondi?»
L'uomo non nascose la sua perplessità alla domanda, ma replicò: «No. Una volta circolava una leggenda stupida, si diceva che portasse sfortuna entrarci, dal momento che il vecchio proprietario si era impicciato all'interno. Quando hanno chiuso la fabbrica non si sono neanche preoccupati di portare via i macchinari.»
Harrison rabbrividì e lanciò un'occhiata al capannone. Stagliandosi contro il cielo rosso dell'alba, l'edificio sembrava un vecchio scheletro abbandonato.
Cercò di scacciare la brutta sensazione che lo aveva afferrato, convincendosi che si era fatto suggestionare dalle parole del venditore.
«Aspetti» richiamò l'uomo, che stava per rientrare nel negozio. Quello si voltò e gli scoccò un'occhiata sempre più scettica.
«Se a nessuno importava dei macchinari, perché è stato messo un guardiano?» domandò.
L'uomo sollevò le sopracciglia, raggiungendo un livello superiore di stupore, come se si trovasse di fronte ad un pazzo.
«Guardiano?» ripeté, poi rise. «Ragazzo, quando ho detto che nessuno mette più piede in quella baracca, intendevo davvero nessuno. Non esiste nessun guardiano.»
La risposta colpì Harrison come uno schiaffo.
«...È il custode di un capannone abbandonato, loro non lo hanno visto, ma lui sì. È abbastanza sicuro.»
La voce di Sadie risuonò nella sua testa. La brutta sensazione che lo aveva afferrato cominciò a farsi più vicina e reale. 
«Napoleon ha distribuito i volantini che gli ho dato e qualcuno ha detto di averli riconosciuti.»
La testa di Harrison stava per scoppiare. Le informazioni vorticavano in cerca di fili che li collegasse le une alle altre.
«E sentite questa: un altro ladro si presenta sempre camuffato con il nome di un personaggio storico...»
Sembrava passata un'eternità da quando aveva cercato informazioni sui ladri d'arte, ma i ricordi affiorarono vividi alla sua memoria.
«...ma nessuno si rende conto di trovarsi di fronte alla stessa persona se non dopo aver saputo del furto»
Improvvisamente Harrison tornò in sé.
«Figlio di puttana!» sbottò e cominciò a correre verso il capannone.
Nel sentire la sua esclamazione, il venditore si affacciò sulla soglia del suo negozio in tempo per vedere la sagoma del detective che correva via. L'uomo lo scrutò, corrugando perplesso le sopracciglia. Non era ancora riuscito a stabilire se quel giovanotto con la giacca di pelle e gli occhi di un verde elettrico gli stava parlando seriamente o la stava prendendo in giro. Nel primo caso, doveva sicuramente mancargli qualche rotella.
Il venditore sbuffò una risata. Ormai la sagoma del giovane uomo era scomparsa all'interno del capannone. 
Lui fece per rientrare nel suo negozio, ma un boato squarciò l'aria e le sue vetrine tramarono. L'uomo si aggrappò alla porta, convito che sarebbe precipitato a terra. Al boato seguì un suono violento, come quello di un crollo.
«Ma che diav...» cominciò, prima che le parole gli morissero in gola quando ebbe alzato lo sguardo.
Del fumo scuro si alzava dal vecchio capannone e gran parte delle pareti era crollata, come in seguito ad un'esplosione.
Il cuore del vecchio venditore cominciò ad accelerare velocemente: era esattamente il punto in cui era scomparso quello strano giovane.
 
 
 
Tess si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola e madida di sudore, come se avesse appena avuto un incubo, ma il suo era stato un sonno senza sogni. Si guardò attorno, convinta che fosse successo qualcosa di terribile di cui si era dimenticata, addormentandosi. Invece si trovava ancora nello stesso posto, tra la polvere del vecchio capannone. 
Poco distante, Calvin le stava rivolgendo uno sguardo preoccupato.
«È successo qualcosa?» domandò lei.
L'uomo scosse il capo: «Oltre al tuo pisolino, nulla di che. Lo sai che russi ancora?»
«Non ho mai russato» lei lo fulminò con lo sguardo mentre si raddrizzava. 
La paura che l'aveva svegliata si stava lentamente dileguando, lasciandole comunque una strana sensazione negativa, come se fosse successo qualcosa di brutto. Il capannone era illuminato a giorno, segno che il sole era ormai sorto da un po'.
Per la prima volta da quando se n'era andata, provò un forte desiderio di tornare a casa. Di farsi una doccia calda, di indossare il suo pigiama pulito, di dormire nel suo letto. Ma soprattutto di rivedere Emilia, di assicurarsi che stesse bene, di dirle che, se la bimba era ancora d'accordo, lei sarebbe stata la sua mamma, oggi e per sempre e che le avrebbe sempre voluto bene e che non l'avrebbe mai più lasciata. E di rivedere Harrison, di stringersi a lui, di annullarsi nel suo abbraccio, di non sentire più nulla se non il suo calore confortante. Di sedersi a tavola con lui ed Emilia, di ascoltarli raccontare le loro giornate, di ascoltarli litigare scherzosamente, di lavare i patti insieme ad Harrison, che di sicuro l'avrebbe spruzzata con l'acqua calda come un bambino dispettoso, di leggere una storia ad Emi e di addormentarsi accanto al suo uomo. E di svegliarsi sempre vicino a lui. Quanto le mancava tutto questo...
«Tess.»
La donna si voltò verso Calvin. L'uomo le stava tendendo la pistola che aveva portato con sé dal primo giorno.
Lei scosse il capo: «Non la voglio, Cal, te l'ho già detto.»
«Ne hai più bisogno di me» insistette lui.
«Ma avrei meno coraggio di te e non premerei mai quel grilletto.»
Lui sospirò e ripose l'arma, poi le si avvicinò e le mise un braccio sulle spalle, a mo' di consolazione. Erano seduti su un container, e le loro gambe pendevano verso il pavimento, troppo lontani per toccarlo.
Un rumore fece scattare i loro occhi verso l'ampio portone.
Tess si sentì il cuore in gola e il braccio di Calvin non era di alcun conforto. Aveva voglia di vomitare, di correre, di strapparsi i capelli, ma si sentiva pietrificata.
La rigidità dell'uomo al suo fianco le fece intuire che anche lui aveva capito.
Era arrivata la resa dei conti.
Il portone si aprì leggermente, quanto bastava perché una figura si infilasse all'interno. Era vestita completamente di nero e mentre si avvicinava, Tess e Cal cominciarono a vederlo più nitidamente. Si trattava di un giovane uomo, i capelli scuri e unti incollati al capo, uno sguardo folle e un sorriso di chi sta per tagliare la gola della sua vittima. Nella sua mano destra luccicava una pistola.
Tess rimase come paralizzata, temendo che un qualsiasi movimento avrebbe potuto scatenare la sua follia.
Un rumore di passi alle loro spalle li fece sobbalzare. Nessuno due però si voltò per controllare quel qualcuno che era salito sul container.
«In piedi» ordinò quest'ultimo.
I due obbedirono, continuando a fissare quello con lo sguardo folle.
«Voltatevi.»
Di nuovo fecero come era stato detto e scoprirono che alle loro spalle stava un uomo non molto diverso da quello che era entrato dal portone. Questo sembrava più vecchio, a giudicare dalla barba ispida e irregolare che cresceva sulle sue guance.
Si avvicinò a Tess, le prese le mani e le legò i polsi dietro alla schiena con delle corde.
La donna lo lasciò fare come se fosse la sua bambola. Il complice li teneva entrambi di mira e la pistola di Cal non sarebbe servita a nulla, soprattutto dal momento che sapeva che i fratelli Beaver erano tre. In quel momento, infatti, scorse una terza figura nelle tenebre del capannone. Non riuscì a vedere il suo volto, ma le fu sufficiente notare la lucida canna del suo fucile puntato verso di loro.
Quello che sembrava più vecchio, dopo aver legato i polsi di entrambi, spinse Tess sul bordo del container, poi la colpì ancora. La donna perse l'equilibrio e cadde a terra, ma non riuscì a mantenersi in piedi e picchiò le ginocchia sul pavimento.
Riservò lo stesso trattamento a Calvin, facendolo cadere però dalla parte opposta del container.
«Complimenti» esclamò quello con lo sguardo folle. Al contrario del fratello, che aveva un tono profondo, quasi gutturale, questo aveva una voce fastidiosamente nasale.
«Davvero complimenti per il vostro piano ingegnoso» continuò quello.
Tess fissava il pavimento polveroso, incapace di alzare lo sguardo. Cosa pensava di fare? Perché era scappata? Perché si era fatta inseguire? Si insultò mentalmente, presa dal terrore.
«Devo ammettere che ci avete fatto perdere tempo» commentò ancora quello, «ma la vostra fuga è finita.»
«Perché ci avete seguiti?» la voce di Calvin si sollevò nitida contro quella dell'aggressore.
Quello si voltò rapidamente verso l'uomo, come infastidito dal sentirlo parlare.
«Perché siete degli assassini!» gridò lui, balzando verso Calvin.
Tess si sentì gelare il sangue nelle vene, prima di ricordare il loro piano: farli parlare era l'unico modo che avevano per guadagnare tempo e sperare che Harrison li avrebbe trovati.
«E voi cosa siete?» domandò la donna. Le sue parole le suonarono flebili e rotte, ma attirò comunque l'attenzione dell'uomo con la voce nasale.
Quello si allontanò da Calvin e si avvicinò a lei, puntandole contro i suoi occhi da folle.
Tess cercò di sorreggere il suo sguardo.
«Noi non abbiamo ucciso innocenti, ma solo colpevoli. Noi siamo giustiziatori, non assassini» sibilò lui e sputò a terra vicino alla donna, come per sottolineare il suo disprezzo. Lei distolse lo sguardo.
«E come sapete che siamo assassini?» la voce di Calvin riprese la conversazione.
Il folle alzò gli occhi verso il fratello, ancora in piedi sul container. L'altro non parlò, ma il più giovane scoppiò in una risata isterica.
«Come lo sappiamo?» disse. «Come lo sappiamo?» ripeté in tono rabbioso, avvicinandosi a passi lunghi a Calvin.
«Perché non provi ad indovinare, Calvin Ward? A questo punto dovresti saperlo, a giudicare da tutte le ricerche che hai fatto.»
L'uomo accusò il colpo senza replicare, ma non mantenne a lungo il silenzio, perché presto domandò: «Cosa sapete di noi?»
L'altro fece una risata isterica, a cui si unì anche l'altro fratello, quello in piedi sul container.
«Sappiamo che avete ucciso un uomo innocente e suo figlio. Come lo sappiamo? Siete stati voi a dircelo! Sapevamo che la polizia avrebbe cominciato a cercarci dopo aver cominciato a farci giustizia, ma non ci aspettavamo la partecipazione così attiva di due civili. E la visita a casa del caro Calvin Ward ci ha confermato tutto: chi raccoglie tutti quelle informazioni sulla morte di un uomo, se non perché ne è morbosamente ossessionato?»
L'uomo parlava bene, con un tocco di teatralità nella voce, come se si fosse ripetuto il discorso migliaia di volte.
Detto questo, si avvicinò a Tess, che se ne era stata in silenzio per tutto il tempo. La colpì con un calcio, facendola ribaltare a terra.
«E tu, che cos'hai da dire, signorina Graves, eh? Perché non parli?» l'uomo di abbassò, afferrò Tess per i capelli e la raddrizzò,  costringendola a guardarlo negli occhi: «So a cosa stai pensando, Tess. Stai pensando al tuo amato detective, sperando che entri da quella porta e che ti salvi, come ha sempre fatto...ma non succederà, non questa volta, cara Tessie.»
Sentendosi chiamare con quel soprannome, la donna non resistette e gli spuntò in faccia. Di risposta, l'uomo la schiaffeggiò violentemente, facendole sbattere il volto a terra.
«Come osi, cagna?» sibilò, chinandosi al suo fianco. L'afferrò di nuovo per i capelli e le sollevò il capo.
I suoi occhi folli erano fissi in quelli inespressivi della donna.
«Non preoccuparti, il tuo detective non può salvarti, ma sarete presto di nuovo insieme.»
L'uomo la lasciò e Tess si accasciò a terra, stordita dalle sue parole.
«No...» biascicò contro il pavimento polveroso. «No...»
Si raddrizzò, o almeno cercò di farlo come meglio poteva, a causa delle mani legate dietro alla schiena.
«Cosa significa?» gridò in direzione dell'uomo.
Lui fece un sorrisetto divertito, come quello di un bambino dispettoso, ma che, unito allo sguardo folle, gli conferì un'aria terrificante.
«Abbiamo fatto esplodere il detective e i suoi amici come fuochi d'artificio. Non ti sembra una fine originale?»
«No...» gemette Tess, sentendo un improvviso dolore lacerarla dall'interno. «No!» urlò verso l'uomo. La sua sagoma era sfumata per le lacrime che annebbiavano la vista della donna.
«Stai mentendo!» gridò ancora, soffocando i singhiozzi. Non poteva essere altrimenti, Tess ne era certa. Harrison era vivo, riusciva quasi a sentire la sua voce. Sarebbe entrato da un momento all'altro e le avrebbe detto: «Che ne dici di chiamarmi "Principe Azzurro" d'ora in poi? Ti piace l'idea, Tessie Bear?»
«Oh si si si si si» la voce nasale dell'uomo la strappò dai suoi pensieri, «è proprio andata così. Loro si fidavano, si fidavano, e come dei topolini ciechi si sono imbattuti nella nostra trappola.»
Tess boccheggiò, senza fiato.
Non era possibile. Non Harrison. Se n'era andata per proteggerlo, non per farlo...
Davanti ai suoi occhi comparve il volto di Emi. La sua piccola Emi. Non aveva alcun diritto di chiamarla "sua". L'aveva lasciata, l'aveva privata di suo padre. Una nuova fitta di dolore la trapassò e gridò, con tutto il fiato che aveva in gola.
L'uomo con lo sguardo folle si pose davanti a lei, Tess riusciva a vederne gli scarponcini sporchi.
«Spero ti piaccia questa sensazione, Tessie, perché dovrai sopportarla ancora per un po'.»
L'uomo si allontanò e si diresse verso Calvin.
Tess sentiva la sua guancia premuta contro il pavimento freddo e il suo corpo paralizzato accartocciato su se stesso.
Non riuscì a muoversi, quando vide l'uomo con la voce nasale piazzarsi a pochi passi da Cal. Quest'ultimo era seduto a terra, con le braccia dietro alla schiena, ma teneva il mento alto e guardava il suo aggressore.
«Il dolore fisico, be', sì...fa male» cominciò il folle, «ma nulla è paragonabile al dolore di guardare i propri cari morire e non poter fare nulla.»
La sua mano si sollevò. La mano che reggeva la pistola.
«No!» gemette Tess piangendo. «No!»
«Questo è il dolore di crescere senza un padre.»
«No, ti prego...» singhiozzò la donna.
Quello la guardò, con un sorriso vittorioso mai scalfito da alcuna compassione.
«Ascolta, possiamo parlare ancora, no?» tentò Calvin, ormai incapace di nascondere la paura nella voce.
«No» sentenziò Beaver, «è troppo tardi. Questa è la resa dei conti.»
«No!» gridò Tess e la vista le si appannò per le lacrime.
Poi udì lo sparo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Ciò che accadde nei secondi, o forse nei minuti successivi a quello sparo, Tess non lo capì con precisione. Sentiva la sua guancia premuta contro il pavimento freddo, un dolore dentro di sé che assordava tutti gli altri e gli occhi pieni di lacrime.
Udì altri spari, dei movimenti confusi e poi qualcuno che la toccava.
Si dimenò immediatamente, furiosa, tirò calci e schiaffi a chiunque si avvicinasse.
Solo in quel momento, però, realizzò che i suoi polsi non erano più legati dietro alla schiena.
Cercò di calmarsi, nonostante i singhiozzi che le facevano tremare il petto e, poco alla volta, la sua vista si fece più nitida.
Era circondata da diverse persone, ma nessuna di loro era un Beaver.
Un uomo le si avvicinò. Indossava un giubbotto anti proiettile nero, con una scritta gialla che recitava "FBI".
La prese per un braccio e l'aiutò ad alzarsi in piedi: «Tess Graves? Sono l'agente Donovan e sono venuto per portarti via di qui.»
Tess si guardò intorno. 
Il capannone era invaso da persone vestite come l'uomo che le stava di fronte. Alcune stavano scattando fotografie al luogo, altre stavano studiando qualcosa steso a terra. Tess impiegò un istante per realizzare che quel "qualcosa", era in realtà un corpo morto in una pozza di sangue.
La donna ribaltò gli occhi e perse conoscenza.

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Capitolo 14
*** Perdono ***


14_ Perdono
 



 
Tess si accoccolò sul materasso morbido, affondò la testa nel cuscino soffice e si scaldò sotto al piumino. Avrebbe potuto rimanere per ore in quel torpore, se non si fosse improvvisamente ricordata di ciò che era successo.
Come in un flash i ricordi la colpirono e la donna spalancò gli occhi all'improvviso.
Scoprì di essere una stanza di ospedale, dalle pareti azzurrine e i mobili bianchi. Era stesa in uno dei due letti della camera, mentre l'altro era vuoto.
Quando cercò di mettersi seduta, scoprì, con sua profonda sorpresa, che il suo polso destro era ammanettato al bordo metallico del letto. Il massimo movimento consentito era scegliere tra lo stare seduta o sdraiata, facendo scorrere le manette sull'asta metallica. Nel braccio destro, inoltre, era infilato l'ago della flebo.
La donna socchiuse gli occhi, cercando di schiarire la mente. 
Prima che potesse fare alcunché, sentì la porta aprirsi e nella stanza si infilò una giovane donna vestita da infermiera.
Non era molto alta e aveva un fisico sottile, che, insieme al viso gentile e gli occhi grandi, la facevano sembrare una ragazzina.
«Oh, signorina, si è svegliata» la salutò e si avvicinò per controllare che tutto andasse bene.
«Come si sente?» le chiese.
«Bene» disse Tess con voce roca, più come un riflesso automatico che come una risposta sincera.
«Perché sono ammanettata al letto?» domandò lei, pur sapendo di conoscere già la risposta.
L'infermiera parve a disagio: «È stato un ordine degli agenti, ma non hanno fornito alcuna motivazione.»
Tess annuì.
«Insieme a me, hanno portato un uomo?» le chiese ancora.
«Sì, un signore alto e biondo.»
«Come sta?» domandò nervosamente Tess. L'ultima cosa che ricordava era lo sparo, poi non aveva più visto Calvin.
«Sta bene» rispose l'infermiera. «Non ha alcuna ferita grave e quando è arrivato qui era cosciente.»
La donna tirò un sospiro di sollievo. Poi ricordò improvvisamente ciò che le aveva detto il folle con la voce nasale.
«Harrison!» esclamò di scatto, guardando l'infermiera con gli occhi sbarrati.
Quella le rivolse uno sguardo confuso.
«Signorina, si sente bene?»
«No! Cioè, io sì, ma...come sta Harrison?»
L'infermiera aprì la bocca, poi la richiuse, come se non sapesse cosa dire.
«Io...non so di cosa stia parlando...»
Tess sentì il suo cuore accelerare: «Harrison...hanno parlato di un'esplosione...»
Prese un respiro profondo, cercando di formulare una frase sensata.
«Si chiama Harrison Graham, ed è un detective. Come sta? Lei lo sa?»
L'infermiera scosse il capo: «Mi dispiace, ma non posso aiutarla.»
Tess ebbe un capogiro e cominciò a sentire la stanza che vorticava intorno a lei.
L'infermiera si avvicinò di corsa e la fece adagiare sui cuscini.
«Signorina, deve stare calma, è ancora debole.»
Tess afferrò il suo braccio con la mano libera e piantò gli occhi nei suoi.
«Per favore, voglio solo sapere come sta, per favore, dimmi che è vivo e che sta bene.»
L'infermiera deglutì: «Io...farò il possibile per aiutarla, signorina.»
Tess vide la donna uscire dal suo campo visivo e si ritrovò a fissare il soffitto bianco. Udì la porta della stanza aprirsi e poi richiudersi. 
La camera sprofondò di nuovo nel silenzio.
 
 
L'agente Donovan era così concentrato a leggere i documenti che teneva tra le mani, che non si accorse dell'uomo che gli si avvicinò.
«Com'è andata?» 
Solo quando l'altro parlò, l'agente alzò lo sguardo.
Carson era davanti a lui e gli stava rivolgendo un'espressione interrogativa.
Donovan gli tese i documenti e lanciò un'occhiata nel corridoio dell'ospedale, per assicurarsi che fossero soli. Gli unici presenti erano due malati che non sembravano prestare loro molta attenzione.
«Ward era praticamente incolume, i medici hanno confermato che sta bene, quindi ho interrogato lui per primo» spiegò Donovan.
«E cosa ti ha detto?» chiese Carson.
«Mi ha raccontato una storiella. Ha detto che lui e Graves si sono recati nel negozio di Beaver quando erano giovani per acquistare un orologio a cucù, che però non ha mai funzionato. Quando hanno chiesto di restituirlo, ne è nata una discussione con il proprietario del negozio. Ward lo ha minacciato che Beaver se ne sarebbe pentito, ma, a suo dire, era solo un ragazzino e si trattava di una minaccia vuota.»
«E tu gli credi?» domandò Carson scrutando il volto del collega.
Donovan sospirò: «È bravo a mentire, ma questa storia mi sembra ridicola. Tutti i fratelli Beaver sono deceduti durante lo scontro a fuoco, quindi non possono testimoniare.»
«Resta solo una persona che può confermare o smentire» intuì Carson.
«Sentiamo cosa ha da dire l'amante del detective. Dubito che sarà fantasiosa come il suo amico. Forse, da lei, sentiremo la vera storia.»
Donovan riprese i documenti che aveva teso al collega e si incamminò per i corridoi.
Quando raggiunse la stanza, bussò delicatamente sulla porta, come per informare della sua presenza, poi, senza attendere alcuna replica, entrò. 
L'unica persona nella stanza era una donna, accasciata tra i cuscini del suo letto. Aveva un volto pallido, gli occhi cerchiati da occhiaie scure e i capelli castani arruffati.
«Signorina Graves, sono l'agente Donovan» si presentò lui. Chiuse la porta alle sue spalle e fece un passo avanti.
«Mi ricordo di lei» annuì la donna.
Donovan accennò un sorriso: «Sì, be', possiamo dire che abbiamo salvato la sua vita e quella di Ward.»
«Suppongo di doverla ringraziare» continuò Tess, studiando l'uomo. Nonostante l'aspetto stanco, i suoi occhi erano attenti e vigili.
«Ho solo fatto il mio dovere» minimizzò Donovan, avanzano ancora, fino a che non fu ai piedi del letto. «Però ora mi aspetto che lei faccia il suo. Ho bisogno di sapere la verità su questa storia.»
Tess fece un respiro profondo e annuì, come se cercasse la risoluzione necessaria per parlare. Era scampata alla resa dei conti una volta, ma ora sapeva di non avere scelta.
«Voglio solo sapere una cosa prima» disse, rivolgendo uno sguardo preoccupato all'agente.
Lui tacque, segno che la stava ascoltando.
«Beaver mi ha detto che il detective Graham e i suoi colleghi si sono trovati in un'esplosione. Voglio solo sapere se stanno bene.»
Donovan non rispose subito, come se stesse soppesando le parole.
«Beaver non ha mentito. Il capannone in cui si trovavano Graham, Gibson e Hart è esploso.»
Tess trattenne il fiato.
«Nessuno di loro doveva trovarsi lì in quel momento, erano stati sollevati dall'incarico.»
«La prego, mi dica come stanno...» mormorò Tess con gli occhi nuovamente umidi. Credeva di aver esaurito le lacrime ormai.
Lo sguardo di Donovan cambiò, si fece più severo, più duro.
«Lo farò quando avrò ascoltato la sua deposizione, Graves. Se mi dirà la verità, io farò altrettanto.»
Tess ebbe nuovamente un capogiro e dovette appoggiare la schiena sui voluminosi cuscini del letto.
Sapeva che Donovan non avrebbe parlato, se non fosse stata lei la prima a farlo. E le manette che la incatenavano al letto di dimostravano che in quella situazione, lei non era considerata come vittima, come una criminale.
Sospirò e socchiuse gli occhi. Sapeva che le sue parole le avrebbero cambiato la vita. Non sarebbe più stata l'innocente insegnante di provincia, ma un'assassina con davanti molti processi da affrontare. E il carcere non era da escludersi.
Però sapeva che quella era la sua redenzione, era il suo momento di fare la scelta giusta, di dire la cosa giusta. E di cancellare i suoi peccato.
«Va bene...» disse, ma prima che potesse aggiungere altro, la porta della stanza si spalancò e fece il suo ingresso una donna vestita di nero, accompagnata da un dottore.
La donna lanciò un'occhiataccia a Donovan: «Agente, non mi sembra che lei abbia chiesto l'autorizzazione dei medici per parlare con la signorina Graves.»
Donovan cercò di trattenere il fastidio, e replicò: «Con tutto il rispetto, tenente, io ho bisogno di fare il mio lavoro.»
«Non porti rispetto a me, ma a questa povera donna che non si è ancora ripresa dal trauma e si vede trattata come una criminale» ribatté a tono il tenente Carter. «La lasci riposare fino a che i medici lo riterranno opportuno e poi potrà chiederle quello che vuole.»
«La signorina si è dimostrata disponibile a parlare» insistette Donovan, per nulla desideroso di lasciar perdere.
Carter rise: «La signorina è ancora confusa. Parli con il qui presente dottor Martinez e torni solo dopo aver studiato.»
Donovan guardò il medico, che a sua volta annuì e gli fece cenno di seguirlo all'esterno della stanza.
L'agente strinse i denti, incenerì Carter con lo sguardo e uscì suo malgrado dalla camera.
Il tenente, una volta rimasta sola con la paziente, chiuse la porta e si avvicinò al letto, dopodiché estrasse un fascicolo dalla giacca e lo tese alla donna.
«Questa è la confessione di Calvin Ward. Se vuoi uscirne salva, studiala bene e fai sparire i fogli prima che i federali li trovino. Hai circa trenta minuti di tempo» le disse, senza cambiare espressione.
Tess prese il fascicolo esterrefatta. Il tenente le aveva appena chiesto di mentire all'FBI.
«Perché lo sta facendo?» domandò allibita.
Carter alzò gli occhi al cielo: «Avevo un debito. Dì a Graham che ora siamo pari.»
La donna si voltò e fece per andarsene, ma Tess la bloccò.
«Aspetti. Harrison è vivo?»
Il tenente guardò la donna, senza cambiare la sua espressione impassibile, poi alzò nuovamente gli occhi al cielo.
«Neanche la dinamite può fermarlo. Credo che lo avremo tra i piedi ancora per un bel po', cara Tess.»
Detto ciò, la donna uscì dalla stanza e la lasciò sola.
Tess si sentì improvvisamente più leggera. Harrison stava bene. Harrison era vivo.
Guardò il fascicolo che le aveva dato la donna. 
Era pronta a dire la verità all'agente, ma ora le carte in tavola erano cambiate. Harrison aveva rischiato la vita per salvarla, non poteva rendere il suo sforzo vano. Aprì la prima pagina e cominciò a studiare la geniale bugia di Cal.
 
 
 
Non appena l'uomo mise piede fuori dalla sua stanza, gli sguardi di tutte le infermiere, furono su di lui. E ne era perfettamente consapevole.
Quando un detective giovane e affascinante, era entrato privo di sensi nell'ospedale, la notizia aveva fatto il giro del reparto e chiunque vi lavorasse, aveva cercato di fare capolino nella sua stanza per verificare ciò che le voci dicevano.
Nessuno era rimasto deluso, l'uomo era esattamente come lo descrivevano: alto e dalle spalle larghe, con un paio di magnetici occhi verdi e un sorrisetto ironico sempre stampato sul volto. Il braccio ingessato, sorretto da una fascia che passava intorno al suo collo, e le diverse ferite su tutto il corpo, come quella alla caviglia, che lo costringeva a zoppicare, erano solo un ultimo tocco a completare il fascino del detective. 
Qualcuno diceva che si era ridotto così a causa di un'esplosione, qualcuno che era stato rapito, qualcuno che lo aveva fatto per salvare la vita ad altre persone, ma non sapevano cosa lo avesse ferito.
Qualsiasi fosse la motivazione, l'uomo non passava di certo inosservato.
Quando Harrison mise piede fuori dalla sua stanza, quella sera, sentì parecchi sguardi su di sé. Rivolse un sorriso sornione alle infermiere che lavoravano nel corridoio, le ringraziò per come lo avevano aiutato a rivestirsi prima, augurò loro buona serata e zoppicò via. Dopo essersi assicurato che nessuno era pronto a fermarlo, aprì la porta di una camera poco distante dalla sua e si infilò all'interno.
La stanza era rischiarata dalla luce giallognola delle vecchie lampade sul soffitto, mentre all'esterno della finestra il cielo si faceva via a via più buio.
L'unica occupante della camera era una donna bionda dal volto pallido. La sua guancia era viola a causa di un'ematoma e il suo collo era stretto da un collare che la costringeva ad una posizione rigida, ma, nonostante questo, non sembrava avere altre ferite.
«Ciao» la salutò lui. La donna lo seguì con lo sguardo, ma le sue labbra rimasero serrate.
«Come stai?» chiese Harrison, prendendo posto nel letto al suo fianco.
Ancora una volta, la donna non rispose.
«Io sto bene, comunque, grazie per averlo chiesto» scherzò lui, ma lei non cambiò espressione.
L'uomo sospirò e si passò una mano sul volto stanco.
«Sadie, io...» cominciò, faticando a trovare le parole.
«Non ho aggiornamenti su Napoleon, o qualsiasi sia il suo vero nome. L'ultima volta che ho parlato con Carter non l'avevano ancora trovato, ma magari ora...» le sue parole rimasero sospese nell'aria, come se aspettasse qualcun altro per concluderle.
Si appoggiò ai cuscini del letto, imitando la posizione di Sadie.
«Paul è ancora in sala operatoria» continuò poi. «Sembra che le sue condizione siano buone, però. Si riprenderà. È troppo testardo per non farlo.»
Si voltò ancor a guardare la donna, ma lei continuò a non fiatare.
«Sadie, per favore, parlami» la supplicò.
Gli rispose solo il muto silenzio.
Lui sprofondò ancora sui cuscini e fissò insieme a lei la parete azzurrina di fronte ai letti.
«So che Tess sta bene, ma non mi fanno parlare con lei» continuò dopo poco. «Tutto ciò che mi importa è che sia salva, non chiedo altro. Ma non sai cosa darei per poterla riabbracciare, mi è mancata così tanto...»
Harrison si voltò verso la donna e vide che grosse lacrime le rigavano le guance.
«Oh no» mormorò, scendendo dal letto. Le si avvicinò e asciugò le sue lacrime con le dita.
«No, Sadie, no, va tutto bene, va tutto bene...» le sussurrò, accarezzandole i capelli chiari.
Lo fece con delicatezza, come avrebbe fatto con sua figlia, cercando di consolarla.
«È colpa mia» gemette la donna con voce strozzata. «È tutta colpa mia.»
«Non dire cazzate. Tu non hai sbagliato nulla.»
Lei tentò di scuotere il capo, ma si ritrovò immobilizzata dal collare.
«Sono stata una debole e una sciocca. Non ho capito che mi stava usando per farvi del male, non sono riuscita a capirlo.»
I suoi occhi erano pieni di lacrime.
«Non sono altro che una stupida segretaria che credeva di poter atteggiarsi da qualcosa di più.»
«Non dirlo, Sadie, perché stai mentendo a te stessa» replicò Harrison. «Il tuo aiuto è stato fondamentale e senza di te non ce l'avremmo mai fatta, non avrei potuto desiderare partner migliore.»
Lei non cambiò espressione. 
«Sei molto meglio di Gibson come detective, ma non dirgli che te l'ho detto» sussurrò Harrison sottovoce, in tono scherzoso.
Lei accennò un sorriso e si asciugò le lacrime, imbarazzata.
«Lui starà bene?» gli chiese apprensiva.
Lui annuì: «Sì, deve solo rimettersi.»
Sadie lasciò vagare lo sguardo, assorta nei suoi pensieri. Harrison si raddrizzò e tornò a sedersi sull'altro letto.
«Sai» aggiunse la donna, «quando tu sei entrato nel capannone gridando che era una trappola e che dovevamo andarcene, abbiamo cominciato a correre, ma era ormai troppo tardi. Non appena c'è stata l'esplosione, Paul si è gettato su di me per proteggermi.»
Lo sguardo di Sadie era vitreo, come se stesse vedendo davanti a sé ciò di cui parlava.
«Harri, capisci?» gli domandò la donna. «Ha avuto un nano secondo di tempo per registrare l'esplosione e il suo istinto è stato proteggermi. Se gli dovesse succedere qualcosa, mi sentirei responsabile.»
Harrison tacque un istante. 
«Anche lui avrebbe detto lo stesso se non fosse riuscito a proteggerti.»
Detto ciò si alzò in piedi e si piazzò davanti alla donna, in modo da poterla guardare negli occhi.
«Tu non sei colpevole delle scelte degli altri, ricordalo.»
La donna non riuscì a trattenere le lacrime.
«Hai detto che è ancora in sala operatoria» commentò guardando l'uomo. «Questo significa che non puoi sapere come sta.»
Harrison tacque, colpevole. Gli avevano detto che non si trattava di un'operazione troppo complicata, ma la certezza sulla riuscita non era mai assoluta. 
«Ti ho detto che starà bene» replicò fissando la donna negli occhi, «e io sbaglio raramente.»
 
 
 
Il giorno successivo al suo interrogatorio, Tess fu nuovamente raggiunta dall'agente Donovan, in compagnia di un altro federale. I due furono costretti a liberarla dalle manette, ammettendo implicitamente che in quelle ventiquattr'ore non erano riusciti a trovare nulla che smentisse la sua versione dei fatti, ovvero quella inventata da Calvin.
La donna non fece in tempo a gioire della sua liberazione, che subito un dottore fu da lei insieme ad alcune infermiere, per assicurarsi delle sue condizioni di salute.
Tutto ciò che Tess desiderava era uscire da quell'ospedale e tornare a casa dalla sua famiglia. 
Dopo i controlli medici, si presentò la polizia locale, per farle domande più precise riguardo i suoi assalitori. Gli agenti che la interrogavano erano due, il primo dal volto giovane, nonostante i folti baffi che portava ben curati, più per moda che per altro, mentre il secondo era vicino alla quarantina, parlava poco e si preoccupava soprattutto di ascoltarla.
Ad un certo punto, la porta della stanza si spalancò e una voce maschile interruppe l'interrogatorio.
«Cosa diavolo state facendo con la mia indagine?» sbottò in tono indignato.
I due agenti si alzarono in piedi, impedendo a Tess di vedere chi aveva parlato, che ora era entrato nella stanza, ma la donna aveva già riconosciuto la voce, ottenendo una serie di brividi lungo la schiena.
«Il tenente ha detto che eri stato stato sollevato, e comunque sei ancor convalescente» sentì l'agente con i baffi replicare.
«Convalescente un cazzo. Mi basta avere qualche neurone funzionante per fare il mio lavoro, quindi dite a Carter che sono di nuovo operativo.»
«Detective...» tentò ancora l'agente.
«Sparite» la voce dell'altro uomo suonò come un ringhio.
Il più vecchio sbuffò e fece cenno al collega di seguirlo all'esterno.
Tess, che era rimasta ferma sul letto per tutto il tempo, poté finalmente vedere il volto di Harrison fare capolino all'interno della stanza.
La donna si alzò in piedi e gli corse incontro. Per un attimo vide nero e rischiò di crollare addosso all'uomo, ma lui la sorresse con il braccio sano. 
Tess gli gettò le braccia intorno al collo e si strinse a lui. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non trovava le parole, così si limitò ad inspirare il suo profumo familiare.
«A piano, Tessie, mi stai soffocando» ridacchiò lui e la donna si staccò, realizzando in quel momento che l'uomo era ferito.
«Scusami» mormorò. «Stai bene?» gli chiese con uno sguardo preoccupato.
«Sono solo ammaccato, ma guarirò presto» rispose lui sorridendole. Poi la sua espressione si scurì: «E tu? Come stai?»
«Sto bene.»
«Sei sicura?»
Tess annuì e indietreggiò, fino a raggiungere il letto, dove si sedette.
«Che cosa è successo? So che c'è stata un'esplosione e...» cominciò la donna, scrutando l'uomo come per recuperare tutti i giorni passati senza poterlo vedere.
«Sì, ma guarirò, non preoccuparti per me. Anche Sadie sta bene, Gibson invece...impiegherà più tempo a riprendersi» rispose lui,  sedendosi sul bordo del letto.
Tess abbassò lo sguardo, colpevole.
«So che tutto questo è colpa mia» mormorò mentre torturava le lenzuola tra le dita.
Harrison alzò gli occhi al cielo: «Sono stufo di sentire le persone intorno a me prendersi la colpa per cose che non potevano controllare.»
Lei strinse le labbra, poi rialzò lo sguardo e lo fissò negli occhi.
«Puoi cercare di consolarmi in ogni modo, ma sappiamo entrambi che sono la responsabile.»
Lui sbuffò: «La tua unica colpa è avere rubato un orologio a cucù difettoso.»
Tess sgranò gli occhi, sorpresa.
«Tu hai letto il mio interrogatorio?» domandò confusa.
«Certo, dopotutto questa è la mia indagine.»
La donna aprì la bocca, ma per qualche istante non emise alcun suono.
«Tu...» cominciò, «sai che non è successo veramente? Che è tutto inventato?»
Harrison non cambiò espressione. Continuò a fissarla con un sorrisetto statico dipinto sul volto.
«Hai detto qualcosa?» domandò poco dopo, corrugando la fronte.
«Idiota, so che mi hai sentita» replicò lei e non riuscì ad evitare di sorridere.
«Sentito cosa?» continuò lui, con un'espressione fintamente ingenua. 
Lei alzò gli occhi al cielo: «Hai intenzione di parlare di ciò che è successo?»
Harrison scrollò le spalle: «Tutta questa faccenda mi ha annoiato. Preferisco parlare di altro.»
Tess lo guardò negli occhi: «Sei un idiota.»
«Sì, mi sei mancata anche tu, Tessie.»
 
Quello stesso pomeriggio, furono entrambi dimessi dall'ospedale. Tess aveva ricevuto poco prima di pranzo le visite di sua sorella e dei suoi genitori. Non era entusiasta di doverli affrontare, ma aveva cercato di fare buon viso a cattivo gioco e aveva cercato di tranquillizzarlo minimizzando su quanto accaduto. Sua madre non aveva particolarmente apprezzato la ricomparsa di Calvin, soprattutto dopo che entrambi erano stati arrestati in quanto presenti su una scena del crimine e in possesso dell'arma del delitto ed erano successivamente scomparsi. 
Nell era stata stranamente tranquilla, specialmente quando Harrison aveva messo piede nella stanza. Tess la sentì ringraziare l'uomo e scusarsi con lui. Non fu l'unica a riservare un trattamento di cortesia al detective. I suoi genitori lo riempirono di lodi e ringraziamenti, guardando ammirati le sue ferite. Inutile dire come gongolasse lui, lanciando occhiate ammiccanti a Tess.
Quando i medici comunicarono loro che potevano tornare a casa, Tess indossò gli abiti che la sua famiglia le aveva portato e si recò all'ingresso dell'ospedale per aspettare Harrison.
L'uomo non si fece attendere molto. Tess lo vide comparire da un corridoio, con un'andatura zoppicante e baldanzosa allo stesso tempo, che lo rendeva ridicolo. Indossava gli stessi abiti che portava quella mattina e teneva il braccio ingessato sostenuto da una fascia. Al suo fianco camminava una donna bionda con il volto pallido e gli occhi gonfi. Tess impiegò un istante per capire che si trattava di Sadie. Non l'aveva mi vista così trasandata, di solito era sempre vestita bene e truccata con cura. Ora indossava degli abiti sformati che potevano passare per un pigiama, i suoi capelli erano legati in modo disordinato e il suo viso era completamente truccato. Inoltre indossava un collare che rendeva i suoi movimenti rigidi.
Harrison si avvicinò a Tess, l'attirò a sé e le stampò un bacio sulle labbra.
«E questo per cos'era?» domandò lei sorridendo.
«Perché mi sei mancata» replicò lui, poi fece un passo indietro e abbozzò un sorrisetto sghembo: «E per dirti che se farai qualcosa alla mia macchina ne pagherai le conseguenze.» Le lanciò le chiavi al volo: «Guidi tu. Sei l'unica che può farlo.»
L'uomo fece cenno a Sadie di seguirli e si avviò verso il parcheggio dell'ospedale.
Raggiunsero l'auto senza parlare. Tess si sentiva a disagio. Sadie era sempre stata aperta e solare con lei, ma in quel momento si trovava davvero in brutte condizione e la colpa era stata sua.
La donna salì al posto del guidatore, sotto gli occhi attenti di Harrison.
«Pesavo fossi arrivato qui con l'ambulanza» commentò lei guardando l'uomo al suo fianco.
«È così, ma mio padre mi ha portato l'auto quando è venuto a trovarmi.»
Tess sgranò gli occhi, sorpresa.
«È stato quando ancora non mi permettevano di raggiungerti» spiegò Harrison.
"Quando eri ancora ammanettata al tuo letto" la donna immaginò che questo era ciò che significavano le sue parole.
Senza ulteriori esitazioni, mise in moto l'auto e s'infilò nella strada.
Harrison la guidò prima fino a casa di Sadie. Quest'ultima trascorse tutto il viaggio fissando il vuoto davanti a sé, dato che le era impossibile ruotare il capo.
Quando raggiunsero la sua abitazione, Harrison scese dall'auto e l'accompagnò fino alla porta di casa.
Tess vide che i due si misero a parlare e si trattennero per qualche istante. Non riuscì a capire la conversazione dalle loro espressioni, ma ad un tratto Sadie si voltò verso di lei e i suoi occhi la trafissero.
Tess distolse lo sguardo e lo puntò sulla strada fino a che Harrison non fu tornato.
«E ora» commentò l'uomo, «finalmente a casa.»
Lei guidò senza parlare, tenendo le labbra serrata.
«Non è colpa tua» Harrison interruppe il silenzio.
Lei non rispose, ma il modo in cui il suo volto si contrasse, indicò che lo stava contraddicendo.
«Fidati di me quando lo dico.»
«Credi che non abbia visto la faccia di Sadie?» sbottò lei. «È colpa mia se vi siete ridotti così.»
Harrison sbuffò: «Tessie, questo è il mio lavoro. Mi sarebbe successo anche con un'altra persona. Nel mio mestiere c'è una percentuale di pericolo più alta che nei mestieri comuni e l'ho accettato già molto tempo f...»
«Ho ucciso un uomo» Tess lo interruppe brutalmente.
Lui la guardò, con la fronte corrugata.
«Anzi, ancora peggio» continuò lei, «Calvin ha ucciso un uomo. Io ho ucciso un bambino.»
Harrison aprì la bocca, poi la richiuse.
Tess imprecò in mezzo ai denti, poi entrò nella piazzola di emergenza e fermò l'auto.
«Perché ci siamo fermati?» domandò lui.
«Maledizione, Harrison, perché sono un'assassina, ecco perché!» sbottò lei urlando.
Lui non parlò e la donna riprese fiato, poi sussurrò: «Avrei dovuto dire la verità è farmi sbattere in prigione...»
«Tess, quello non servirebbe a...»
«Tu non sai nulla!» gridò ancora lei. «Tu non hai idea...»
«Calvin mi ha detto tutto» la interruppe l'uomo.
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati pieni di lacrime.
«Cosa?» domandò, come se non fosse sicura di aver sentito bene.
«Sono andato da lui, ha cercato di rifilarmi la storiella dell'orologio a cucù, ma gli ho detto di non raccontarmi stronzate. Mi ha detto la verità, non è stato difficile. Credo cercasse qualcuno con cui confidarsi. Forse dovresti dirgli che un detective non è mai la persona migliore a cui fare confessioni pericolose.»
«Questo...non ha senso, Calvin è la persona più paranoica che io conosca, non te lo avrebbe mai detto.»
Harrison sospirò: «Temeva che ti saresti presa tutta la colpa, così voleva che qualcun altro conoscesse la verità, in caso di bisogno.»
Tess strinse il volante e guardò fisso davanti a sé. Per tutto quel tempo, Harrison sapeva.
L'uomo le strinse posò una mano sul braccio e lo strinse, come per confortarla.
«Se è perdono quello che vuoi, lo avrai» le sussurrò.
Tess si voltò a guardarlo. Gli occhi verdi del detective brillavano illuminati dai fari delle auto di passaggio. Le sorrise, per la prima volta non un sorriso storto, ironico e pieno di sarcasmo, ma un sorriso dolce.
«Sei perdonata.»

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