Cieli senza confini - Qunae Alramadi

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le caste di Kabu-Ealim ***
Capitolo 2: *** Maschera grigia ***
Capitolo 3: *** All'arrembaggio! (Prima Parte) ***
Capitolo 4: *** All'arrembaggio! (Seconda Parte) ***



Capitolo 1
*** Le caste di Kabu-Ealim ***


Capitolo 1
Le caste di Kabu-Ealim
 
 
 






L’enorme orologio della piazza picchettava i Ciclopi, una serie di prue di una lega liscia che colavano a picco sul mare; ai piedi c’erano le nocche del Dio Akteìr imprigionato, che sbucavano quando il mare si ritirava per poi tornare a caricare con più foga la costa. La schiuma ribolliva, e la gente di Kabu-Ealim diceva in un basso borbottio che erano gli sbuffi della grande divinità che ancora oggi tentava di spostare il grande macigno dallo stomaco; ed era per questo che la città era continuamente bersagliata da scosse di terremoto, e le sue coste erano insolcabili per tutti tranne che per i vascelli dei grandi Zaeim.
Le vele laterali erano come grandi remi che accarezzavano l’acqua e il vento, mentre le vele quadre infuocavano i ponti. Le coffe erano d’oro e le sartie rilucevano come perle, grazie anche al cordame di diams che le rendeva indistruttibili. La loro forma allungata fendeva l’acqua, lasciandosi dietro un filo di schiuma. Nonostante la loro leggerezza nel solcare i mari, i vascelli degli Zaeim erano fatti di una grigia lega, che cangiava al volgere delle fasi solari. Su quei ponti, solo gli uomini del tempio potevano passeggiare, gli Zaeim.
Jude Hauk, appoggiato con una spalla contro un muro, se ne stava rilassato ad ammirare uno di quei gioielli navigare in bolina, parallela alla costa, lanciando di tanto in tanto un’occhiata verso i piedi dell’orologio. Il capitano, senza più una nave e con un villaero che sonnecchiava sopra Kabu-Ealim, sogghignò nel vedere come le vele laterali facevano librare la nave sopra le alte onde, sospendendo per pochi attimi quella meraviglia nel cielo, il suo riflesso sul mare. Più avanti di lui di qualche passo, con la pelle scottata dal sole, se ne stava una figura slanciata, un’ombra che dava le spalle alla città e mostrava il volto all’alto orologio della piazza. Portava una maschera grigia sul volto, ma il torso era scoperto e i pantaloni a vita bassa si gonfiavano al vento. Dalla sua posizione, il pirata poteva vedere le due cicatrici che tagliavano la sua schiena come un enorme ʻxʼ. Qualcuno aveva giocato a freccette, usando come grande bersaglio la schiena di quel poverino. Anche quello sembrava dividere la sua attenzione tra il ticchettio dell’orologio e lo scroscio delle onde contro la poppa della nave, ora a spinta con un buffetto verso casa.
«Pss, capitano» lo fece sussultare il bisbiglio di Arci, «senti, capitano: o sgozziamo qualcuno, o torniamo a bordo. Sono stanco di tutta questa luce.»
«Ecco perché ce ne stiamo all’ombra» ghignò l’altro, finalmente voltando le spalle al suo panorama preferito.
«Non ti sei stancato di startene qui, Dio solo sa da quanto tempo? E come facciamo a sapere quanto tempo è passato? Questo diavolo di un sole non tramonta mai.» Alzò gli occhi in cielo, schermandoseli con una mano.
Jude ridacchiò nel vederlo ballare da un piede all’altro, al limite della sopportazione: Arci era un amico fedele ma un uomo impaziente, la rissa era il suo pane, e anche quando non c’erano problemi egli si lamentava della cosa. La pazienza non era mai stata una delle sue virtù. «Continuerò a guardare il mare fin quando anche lui lo farà.» E puntò con noncuranza un dito dietro le spalle.
Arci lanciò un’occhiata e ringhiò. «Allora vado a chiederlo a quello lì. Chi è?» aggiunse con cipiglio di guerra, per nascondere la sua confusione.
Jude mise una mano sopra la spalla del suo secondo e lo condusse verso il borgo della città. «Un nostro futuro amico.»
 
 
Per anni si era pensato che il mondo fosse una sfera circolare: una volta fatta una lunga passeggiata, si tornava al punto di partenza. Ed era stato così fin quando Allana aveva costituito il punto limite dello scibile nautico. Jude aveva scoperto che quella però non era la natura delle cose. L’universo era una strada in espansione, che puntava verso l’infinito. E che il mare più profondo era il cielo.
Dopo il crollo di Allana, l’ultima terra a guardia del Sesto Cielo, si erano aperte mille vie per il pirata e la sua flotta. La magia che circondava la città e che piegava la terra e i continenti conosciuti fino a quel momento si era dissolta, spiegando lo spazio intorno a loro e rendendo libero spaziare in avanti, senza limite; almeno per quanto ne sapesse Jude. Il generale Moris Lautner aveva rubato la sua amata nave – Jude se la sarebbe ripresa un giorno – e la ciurma aveva solcato il nulla al comando di Crowsand, il villaero dove il suo capitano era cresciuto. Erano iniziate le avventure, quelle che nessun’altro avrebbe potuto dire di aver condiviso; Jude stava scrivendo un nuovo capitolo, e lo stava facendo oltre le mire della regina Elzeth. Aveva visto luoghi e fatto la conoscenza di persone che, a raccontarli, un ascoltatore definirebbe fandonie da pirata di taverna. Tutto ciò che vi era di inesplorato nell’universo, il capitano Hauk lo stava scovando come due dita che camminano su una mappa. Il mondo era una carta spiegata davanti ai suoi occhi, lui doveva solo puntare la bussola e l’ago avrebbe indicato il sogno di qualunque cuore che batte per la libertà.
E poi gli ingranaggi di Crowsand avevano iniziato a scricchiolare, una specie di quadrupede volante aveva creato una falla al motore, e l’equipaggio con la sua gente si era dovuto arrestare sopra quella strana città.
Kabu-Ealim era… beh, era strana, e tanti saluti all’impassibilità di Hauk. Le carrozze erano trainate da cavalli, le strade e i borghi della città erano in mattoni rossi e la vita seguiva il ritmo dell’orologio. Ed era un orologio… strano. Una torre quadrata in mattoni rossi si ergeva per più di ottanta braccia sopra i tetti a padiglione; su ogni facciata, in alto, si rincorrevano le lancette di quattro orologi. Tre lancette per orologio e nessuno di questi ultimi segnava lo stesso orario. E se il tempo aveva una concezione strana, ancor più stravolgente era l’esistenza condotta dagli abitanti: la loro giornata non finiva mai! La luce del sole era perenne e abbagliava anche il più piccolo anfratto. Era difficile trovare un’ombra a Kabu-Ealim. Questo almeno era il vivere prima della scura proiezione di Crowsand sulla città.
I sacerdoti di Iilah, la divinità che aveva combattuto al fianco dei suoi prescelti per incatenare Akteìr, li consideravano dei messaggeri del Dio Nero, annunciatori della guerra e del caos, infestatori e profanatori, che avrebbero invocato il fuoco come punizione e poi portato le tenebre in alto.
Jude Hauk non aveva una fede. L’unica concessa a Midra era l’adorazione della Regina Elzeth, il potere più alto dello Stato. Inutile dire che il capitano, di quella fede, ne aveva fatto un ritaglio da prendere a sassate ogni qual volta si annoiava o perdeva la pazienza. Delle superstizioni di Kabu-Ealim se ne faceva poco, se non in misura dei problemi che stavano causando alla sua gente. Al momento Crowsand era al sicuro, gli Zaeim non avevano scoperto il modo di raggiungerla o distruggerla, e al suo interno l’equipaggio era protetto. Ma non potevano restare prigionieri del villaero per sempre. Jude aveva quindi iniziato a fare quello che lui definiva ʻun modo per ricordare gli inizi del mitoʼ: lui e Arci erano tornati a fare i semplici ladruncoli di strada, sgattaiolavano su e giù, da Crowsand a Kabu-Ealim, e poi si nascondevano per i borghi della città. Si concedevano un ciclo dell’orologio che spiccava sulla facciata nord e poi tornavano su.
Questo perché il capitano Hauk aveva scoperto che c’erano quattro tipi di individui a Kabu-Ealim: le Aimra, le Signore della Casa, che se ne andavano in giro per le strade sotto la sorveglianza dei Syd, mariti o guardie della dimora che sorvegliavano le donne del signore per cui lavoravano; poi c’erano gli Zaeim, i sacerdoti del Dio, che rappresentavano l’esercito e i capi del governo; e infine c’erano gli Alramadi, gli indegni che uscivano per le strade quando tutti gli altri riposavano o erano rintanati al fresco delle loro dimore, e che svolgevano le mansioni più umili e spossanti. La figura con la maschera grigia era uno di questi ultimi.
Jude non aveva impiegato molto a capire che ogni orologio scandiva il ritmo di vita di ogni casta sociale. Così contava le ore, in modo da sgattaiolare su e giù quando erano questi ultimi a poter lavorare per le strade, i quali, da buoni ultimi della società, se ne infischiavano di fare il lavoro sporco per la casta sacerdotale.
La vita a Kabu-Ealim era rozza e molto rigida, per certi versi gli procurava una tremenda nostalgia dei cieli sopra Midra. Ma Jude non poteva tornare indietro, non fino a quando non avesse riparato il danno ai motori del villaero e non avesse trovato un veliero con cui sfidare la flotta reale. E aveva intenzione di assolvere a entrambi i problemi proprio lì, nella piazza dell’orologio.
«Allora, quanto ancora dovrò credermi un insetto?» mugugnò Arci, le braccia sotto sforzo. Erano appesi a una corda, sospesi sopra la città, a una decina di braccia sotto Crowsand, e il sole era intollerabile. «Perché diavolo non facciamo quello che ci riesce meglio? Saccheggiamo questa fogna e andiamocene da qui. Non sono attrezzati per venirci dietro.»
Arci si fermò, le gambe strette intorno alla corda e lo sguardo che fulminava il suo capitano. Jude lo capì quando la punta del suo tricorno sfiorò lo stivale dell’amico. Sbuffò e una perla di sudore calò lungo la sua tempia. «Non ne potremmo parlare dopo?»
«Eh, no, Hauk. Non stavolta! Appena metteremo piede sulle passerelle…» Arci fu costretto ad azzittirsi. La corda ebbe uno strattone e poco dopo i due vennero issati verso l’alto. «Donne!» esclamò.
Il capitano Hauk sorrise sotto la bandana. Una mano entrò nel suo campo visivo e lui accettò l’aiuto per issarsi oltre lo strapiombo, lontano dalle ruote dei motori. L’attimo dopo era già con un piede dentro la soglia di casa.
«Allora?» gli ricordò Arci.
Jude si voltò e ammiccò verso l’amico. Poi si chiuse la porta dietro di sé e sparì nell’oscurità della sua casa.
«Lo sapevo!» sentì la voce di Arci sbraitare al vento.
Dalla casa, la risata di Jude si propagò spensierata.
 
 
Steso sul suo letto a castello, con Arapacis che faceva la guardia alla stanza della sua vecchia casa, Jude era sprofondato in un sonno profondo, le carte che stava studiando erano cadute sul pavimento bucherellato e le tendine sfilacciate, poste davanti all’unica finestra della catapecchia, filtravano i caldi raggi solari. Il suo corpo era rilassato e la bandana copriva una fredda mascella di ferro semiaperta. Il capitano sognava già la prossima avventura, certo che la situazione in cui si trovavano si sarebbe risolta per il meglio. Dopotutto, quale pirata dubitava mai dei suoi piani azzardati?
Un risucchio e la bandana venne strappata via dal suo volto. La mascella s’irrigidì e si serrò con uno schiocco. I suoi piccoli occhietti neri si spalancarono e fissarono quelli della sorella, due chiari cristalli che luccicavano di vita.
«Arapacis?» chiese.
Selene indicò il trespolo. «Uccellino intelligente. Mi adora, non mi tradirebbe mai.»
«Stupido ammasso di ferraglia. Non sa a chi deve la sua fedeltà» ringhiò con la voce impastata. Con le lacrime agli occhi, si concesse il piacere di ammirare ancora un po’ la tranquillità di Selene: era bello vedere la bellissima sorella di nuovo sana e piena di vita. Ancora non si capacitava di poterla avere di nuovo a gironzolare per casa.
Selene stava trafficando con le carte sul pavimento, piegata in equilibrio sulle punte dei piedi. Dopo i primi giorni di convalescenza, era subito tornata a indossare la sua vecchia tenuta – quella che lui odiava, perché gli procurava più problemi che altro in mezzo alla sua ciurma: la semplice maglia di cotone bianco aderiva al suo corpo formoso, risaltando le sue curve anche grazie al corpetto di acciaio e oro che si stringeva con i legacci proprio sotto il seno; la gonna verde era ampia, per facilitarne i movimenti, e aveva un vertiginoso spacco che saliva fino alla coscia; gli alti stivali, della stessa lega del corpetto, si arrampicavano fino alle sue ginocchia e tintinnavano con orgoglio sul vecchio pavimento di legno della loro casa.
Un particolare lo fece sobbalzare. «Che hai fatto ai capelli?» mise a fuoco la sua figura. I capelli biondi erano stati coperti da una tintura di odio e terra rossa, che aveva infuocato le ciocche di riflessi vermigli.
Selene fece spallucce, l’espressione angelica che infondeva innocenza da tutti i pori. «S’intonano bene con il mio viso. Il biondo fa troppo principessina, non trovi?» La sua risata si propagò come uno scroscio d’acqua pura.
Jude studiò con attenzione la sorella, mettendo da parte la sua gelosia. La sua pelle non era più cinerea, ma aveva riacquistato il suo colorito di porcellana, i suoi occhi brillavano di forza e la forma piena delle labbra rosee si apriva sempre più spesso e volentieri a enormi sorrisi.
«Hai finito?» lo richiamò alla realtà.
Jude stirò le braccia e ignorò il commento della sorella, non volendo darle soddisfazioni. Afferrò il tricorno e cercò la sua bandana. «Dove l’hai messa?»
«Perché ti ostini a portarla, io non lo so!» sollevò gli occhi al cielo lei, e gliela porse.
Jude le regalò un sorriso metallico prima di far sparire la mascella di ferro sotto il pezzo di stoffa. «Così, quando la mostro, incute sempre il giusto timore. Se la gente vi si abituasse…»
«Tu smetteresti di attirare la loro attenzione. Sempre il solito vanitoso! Passi sempre per le vie più vistose.»
«Che piacere c’è nel nascondersi nell’ombra?»
«Torna utile in momenti come questo.» Selene gli voltò le spalle e aprì le tendine della finestra.
«So riuscirci, se voglio, e lo sai.» Saltò giù dal letto e le tirò una ciocca di capelli, giusto per farla indispettire un po’.
«Jude! Per la miseria!»
«Ah! Non mi piace quando dici le parolacce. Se la mamma fosse qui…»
«E chi pensi me le abbia insegnate? Tornano utili quando si ha a che fare con te!»
Jude meditò sulle sue parole. Sbatté una mano sul tavolo, e quello scricchiolò. «Ecco perché Arci è sempre così… beh, sai com’è» se la rise.
«Mi sorprende che abbia ancora momenti di lucidità. A stare sempre al tuo fianco…»
Jude sghignazzò e Selene gli fece compagnia.
«Allora!» Selene fece il giro del tavolo e recuperò due bicchieri dal lavandino stracolmo di stoviglie; gli diede una sciacquata e gli posò sul tavolo. Versò da bere a entrambi un po’ di malto e si sedette sulla sedia libera. Quella a dondolo se ne stava accanto alla finestra, ormai inutilizzata da quella famosa sera. «Arci mi ha raccontato delle vostre passeggiate in città.»
«Ci avrei scommesso. Quindi ha mandato te?»
«Nessuno mi manda da nessuna parte, Jude» lo fulminò con lo sguardo, e l’espressione angelica per un attimo fu solo un’illusione. «L’ho sentito borbottare qua e là e ho pensato che fosse il caso di avvertirti: sta per esplodergli la testa.»
Jude mandò giù un sorso del liquido. «Il solito esagerato.»
«Sì, ma stavolta non ha tutti i torti. Siamo al limite, Jude. Il tuo equipaggio è abituato a essere braccato, ma non i vecchi e le famiglie di Crowsand. Le scorte stanno finendo, l’acqua scarseggia. Qui non piove mai!»
«Ah, è per questo che non c’è mai un piatto pulito in questa casa?»
«Se ti serve un piatto, te lo lavi» lo squadrò. E il fratello sollevò le mani, arrendendosi alla sua truce espressione. Faceva fatica a non ridacchiare, ma poi pensava a quanto fosse difficile tenere ferma la sorella e allora il suo entusiasmo colava a picco. «Ho fatto le mie ricerche, giusto per velocizzare un po’ i tempi» buttò lì lei.
Jude tese le orecchie e i suoi occhietti si restrinsero ancora di più. Ecco che ci risiamo! «Quali ricerche?»
«Non avrai pensato che me ne stessi rinchiusa quassù, come una prigioniera, vero?!» Il suo dito giocherellò con un forellino del legno.
Jude afferrò gli angoli del tavolo per evitare movimenti bruschi e impulsivi. «Fedrik doveva tenerti d’occhio» ringhiò.
Selene si riempì di nuovo il bicchiere e si sedette sul bordo del lavabo con le gambe incrociate. Alzò la mano occupata verso il fratello, i suoi modi sempre allegri ed esuberanti, un mignolo all’insù. «Il povero Fedrik tende a zoppicare troppo. Vuoi sentire cosa ho scoperto?» Lo soppesò con un sorriso intrigante, quasi a sfidarlo a rifiutare. Per tutta risposta, Jude appoggiò le spalle allo schienale e stese le gambe sotto il tavolo, le braccia e i piedi conserti. Selene ammiccò. «Visto che tu hai tenuto d’occhio gli alramadi, ho pensato che qualcuno dovesse avere una visuale differente. E poi è più facile per me nascondermi tra le aimra. E non sai quanto amino parlare e darsi alla pazza gioia quando è il loro turno di uscire pe le strade. A proposito, lo sapevi che la terza lancetta indica il tempo a disposizione per rientrare in casa? Un fanciulla stava per slogarsi una caviglia l’altro giorno. Ma posso dire che era l’altro giorno? Tecnicamente non finisce mai…»
Jude sollevò gli occhi in cielo. Sua sorella era davvero strana, a momenti più di quella città. Adorava la vita spericolata ed esuberante tanto da averlo costretto a portarla con sé durante i suoi arrembaggi. Non era superstizioso, ma cominciava a credere che avere una donna a bordo – che si navighi per mare o nei cieli – portasse veramente sfortuna. Selene attirava i guai come il miele faceva con le mosche. Che fosse un corsaro rivale invaghito della sua bellezza o una sua sconsideratezza, ormai aveva perso il conto di quante volte le aveva dovuto salvare la vita. In certi momenti, poi, era ancora più folle di lui, e un folle per ciurma era sufficiente. Selene non organizzava però piani assurdi: i suoi istinti erano assurdi e sconsiderati. Però c’era in lei anche la frivolezza di una donna: amava chiacchierare e darsi alle spese sfrenate; quanto vedeva qualcosa che desiderava, se la prendeva, con le buone o con le cattive maniere. Questa sua peculiarità si rispecchiava nei suoi modi a modo, che a volte sfociavano in stramberie e comportamenti sopra le righe, oppure nelle sue divagazioni quando doveva raccontare qualcosa. Amava tanto parlare, Selen, e lui si era quasi scordato di quanto odiasse non poterla azzittire.
«Selene, arriva al punto!»
«Ma questo è un punto che devi tener presente durante i tuoi amati piani.» Anche lei sollevò gli occhi al cielo. «Il sole è sempre lì, porterà allo scoperto tutto ciò che proverai a fare.»
Jude sollevò un angolo della bocca. «Le ore concesse agli alramadi ci daranno la giusta discrezione. Quelle povere anime sono le ultime della società. Non devono niente alle caste superiori.»
«Tu parti dal presupposto che in loro vi sia un’anima ribelle» lo contraddisse lei, «ma sono come schiavi, emarginati. Molti di loro hanno perso prestigio. La fanciulla di cui ti parlavo è la figlia di uno Zaeim e aveva un fratello, il quale doveva a sua volta ereditare la carica del padre. Ma ha fallito. Adesso è un alramadi.» Si tirò indietro una ciocca dei rossi capelli. «Vedi? Come fai a fidarti di gente che ha perso prestigio e tutto ciò che vuole è rifarsi agli occhi dei superiori. Molti ti tradirebbero alla prima occasione. Non puoi contare sulla loro indiscrezione. Forse c’è già chi ti tiene d’occhio. Non sottovalutarli, Jude.»
«Non lo faccio mai. Io.» Selene ignorò l’imbeccata. «Che altro hai scoperto?»
«Oh, sì.» I suoi occhi tornarono a luccicare. «Non sono poi così retrogradi laggiù. Lo sapevi che» tese il collo verso di lui con fare saccente, «hanno creato la pioggia? Solo nell’entroterra, nei quartieri degli Zaeim e nelle case dei Syd più importanti, ma è il come la parte interessante.» Lo guardò, incoraggiandolo a indovinare.
Jude era troppo incuriosito per stare al gioco. «Mi arrendo» soverchiò il suo orgoglio, ma solo davanti alla sua sorellina.
«Eliche! Di quella strana lega indistruttibile con cui hanno costruito i Ciclopi e le loro navi, e le corde. Diams. E sono abbastanza grandi da poter…»
«Far volare una nave della giusta grandezza e con il giusto equipaggiamento velico» finì la frase per lei. Piantò i palmi delle mani sul tavolo; la sedia tinnì sul pavimento. «E io ne ho in mente una.»




 
Midra era cambiata. Prima il cielo era una cupola scura dove i fumi vorticavano senza lasciare spiragli; il cielo era sempre grigio e rifletteva come specchio le fiancate delle imbarcazioni, anche a causa di tutto l’olio che ne lucidava la superficie; la città dalle bianche case e le strutture gialle della Marina che si affacciavano sul porto sembravano smarrirsi tra lo smog delle industrie, con le loro fornaci che parevano spettri e le cupole che avevano la stessa consistenza di miraggi nel deserto, tremolanti come candele davanti a una finestra. Adesso c’era un cono sopra l’intera capitale, da cui si poteva ammirare uno sprazzo d’azzurro; intorno a esso ruotavano le nuvole e i fumi, tentavano di inghiottirlo ma la luce che fuoriusciva dal forziere sottratto alle silfidi combatteva senza tregua contro il nero cancro.
Il generale Moris Lautner sospirò più volte, affaticato, prima di decidersi a lasciare il ponte attraverso la passerella e raggiungere la carrozza che lo attendeva sotto la Porta del Commercio. I cilindri ferrati erano alti quasi quanto l’abitacolo e anche quando non ruotavano a folle velocità emettevano un suono stridente che perforava i timpani.
Il generale salì a bordo e immise i comandi con la sua destinazione. Si lasciò alle spalle le vele della sua nave – la nave del pirata Jude Hauk, la quale era nelle sue mani come risarcimento dell’affondamento della Joyfall, in attesa di catturare il suo proprietario – e si appoggiò con le spalle dritte al rigido schienale, attendendo di raggiungere la sua meta.
Ad accoglierlo a palazzo c’erano i soliti inservienti, il solito maestro di cerimonia, ampolloso nella sua veste imbottita, i soliti freddi androni, stracolmi di rampolli e dame giunte dalle corti più esotiche, e la solita enorme porta che lo separava dalla sua regina.
La regina Elzeth era fasciata da un abito rosso scuro, con la gonna molto ampia e un corsetto con stecche dorate strette in vita. La sua pelle diafana impallidiva maggiormente sotto i riflessi di quel colore, e i capelli ribelli erano stretti in uno chignon scomposto, da cui riccioli facevano capolino con selvaggia bellezza. La sua regina era magnifica, come sempre, e lo stava accogliendo con il solito fare spiccio e informale, per quanto lo permettesse la circostanza.
«Generale! Sempre lieta di avervi al mio fianco. I vostri viaggi sono sempre più lunghi. Ancora a caccia del vostro fantasma?» mosse una delle sue mani sottili per invitarlo ad alzarsi. Si sedette di nuovo nello scranno e lo chiamò a sé.
Moris Lautner fece sei passi verso il trono e si fermò, a una distanza rispettosa. «Chiedo venia, mia regina. Navigo solo per servirvi.»
«Lo so, generale. E io l’ho sempre apprezzato. Ma un posto nel consiglio è di nuovo vacante, e ancora una volta vi chiedo di occuparlo?»
Sotto la corta barba rossiccia, il generale piegò le labbra all’ingiù, dispiaciuto. «Vi devo chiedere se il vostro è un ordine, mia regina.»
«No, solo il desiderio di un cuore che vi tiene caro» si addolcì la sua voce.
«Allora devo di nuovo rifiutare. Poiché la decisione l’ha lasciate a me, e io sono convinto di servirvi meglio su una nave, a difesa del vostro popolo.»
La regina Elzeth annuì in modo deciso, nessuna delusione che s’impresse nel suo cipiglio, solo accettazione e rispetto.
Una risata sguaiata interruppe l’incontro. «Ed è questo l’uomo migliore della vostra marina, signora? Allora via la sorpresa, adesso so’ sicuro del perché avete poi così tanto bisogno di me.»
Moris Lautner si voltò, e quando i suoi occhi incontrarono quelli del pirata Johanne la sua mano scattò rapida verso la cintura.
«Evitate idiozie, generale. Non sono un vostro nemico.» Johanne si tirò fuori dall’ombra della sala staccandosi dallo sfondo del drappeggio alle sue spalle e si avvicinò con una camminata svogliata e scomposta verso il trono; si appoggiò con un gomito all’alto schienale del trono libero, al fianco di quello occupato dalla regina, e si rigirò un coltello nella mano, con la cui punta inizio a pulirsi le unghie. «Sono stato invitato.»
«Il comandante Johanne ha collaborato per la liberazione dello scrigno» intervenne con voce sicura la regina, il viso fattosi di nuovo altero e inscrutabile, «ha quindi conquistato la libertà. Adesso serve la corona come voi, generale. Parlate apertamente» lo incitò, studiando bene il suo cipiglio arcuato.
«Sì, parlate, generale» rise il pirata, agitando il coltello nella sua direzione, «tanto io e voi sappiamo che pensieri vi frullano. Ah… non mi… scompongo» scrollò le spalle con un sorriso e un’espressione allegra sulla fronte, arrogante.
Moris Lautner non resistette dall’imbeccarlo. «Pensavo foste affondato con la vostra nave, abbattuto dalle silfidi.»
«Strategia» rispose, minimizzando con una piega delle labbra. «Mentre voi e quell’Hauk ve ne andavate a farvi una passeggiata, ho aggirato la città galleggiante e attaccato da sotto, rischiando di venire poi colpito da qualche zolla ferita quando quella è crollata» ammiccò e strinse le labbra in un sorriso sfrontato. «Piuttosto» ridacchiò borioso, «vi siete affezionato molto alla nave di quel pirata. Gli tenete i motori caldi?»
«Generale Lautner» lo richiamò la sua regina, mettendo fine all’alterco, «il comandante Johanne ha contribuito a suo modo alla riuscita dei nostri piani. Midra è sana e prospera senza alcun pericolo a disturbarla. Il mio regno è al sicuro adesso, mettete via quell’arma.» Gli occhi neri della donna gli imposero l’obbedienza. Annuì. «Molto bene. Vista il vostro desiderio, io non vi trattengo oltre sulla terra ferma.»
«Sì, si» lo liquidò l’uomo mentre tornava a occuparsi delle sue unghie, «tornate dai pesciolini e i vostri pirati a cui dare la caccia.»
Il generale non tollerò oltre la discussione con quell’uomo. «Mia regina, prenderò di nuovo il largo, per servirvi. Ma mi avete chiesto di occupare il posto di vostro consigliere, e visto che i miei piedi sono a terra obbedirò al vostro desiderio: diffidate da chi cade solo per poter attaccare alle spalle. Il regno è al sicuro, non ha più bisogno di agire nell’ombra.»
La regina Elzeth catturò i suoi occhi per un po’, poi si rifugiò di nuovo nella sua maschera indomita e lo congedò: «Terrò care le vostre parole. Ma un regno che riluce ha sempre un’ombra che si getta sulle terre vicine. Tanto meglio è sfruttarla.»
La città era cambiata, si stava ampliando, sì, ma sottoterra, nell’ombra, dietro i fili di broccato della reggia. Già una volta lo aveva accettato, aveva combattuto al fianco di un pirata ed era stato costretto a mettere in discussione il giudizio su quell’uomo. Forse, quindi, questo aveva cambiato lui. C’era dignità nei cieli, più di quella che si osteggiava tra le case bianche.
Moris Lautner s’inchinò davanti alla saggezza della sovrana e uscì dalla stanza. Un’ombra si era gettata sopra la pelle di porcellana della sua regina, offuscandone giustizia e purezza d’animo, e lui ne avrebbe sorretto a distanza la gravità, fino a quando non fosse stato nuovamente chiamato a servire la corona di Midra.




 
 
 
N.d.A.

A grande richiesta (quanto me la vanto, e per cosa? facciamo finta che...XD) torna il nostro pirata preferito (si vede che entrare nella testa di Jude Hauk mi rende troppo arrongante? Vizi da pirata!), stavolta alle prese con le spericolate idee della sorella, la quale non sembra poi essere così diversa dal nostro capitano ;)
E poi c'è il nostro generale, sempre uomo d'onore ma con una visione più ampia e meno pura della sua amata città. L'amore e la venerazione nei confronti della sua regina riusciranno a rimanere intatti? O l'incontro con Jude Hauk ha cambiato per sempre il suo destino?
Per chi fosse giunto qui e vuole recuperare le puntate precedenti, lascio il link alla storia principale:  Cieli senza confini
Spero che possa piacervi, e non dimenticate di lasciare un commento, giusto per gonfiare le vele... ops, il mio ego :P

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Capitolo 2
*** Maschera grigia ***


Capitolo 2
Maschera grigia
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capitano Jude Hauk aveva un diavolo per capello, e questo Arci lo doveva aver capito, perché si mantenne piuttosto silenzioso per tutto il tempo della loro perlustrazione. Selene gliel’aveva fatta sotto il naso, ancora una volta. Jude sbuffò e nascose le mani nelle tasche del suo soprabito. Non le era bastata l’ultima volta, in cui per una sua avventatezza si era fatta catturare l’anima dalle silfidi; adesso se ne andava a spasso con le sue nuove comari, con i capelli tinti di rosso e la pelle inscurita in un color miele solcata da strani disegni. Egli tirò una pedata a un sassolino, facendo sussultare alcuni uomini con le maschere grigie sul volto. Proprio non sopportava l’idea della sua sorellina in pericolo, eppure doveva ammettere che ci sapeva fare. Come sempre, del resto. Ripensò a come gli aveva tenuto nascosto il suo cambio di capelli e come aveva dissimulato la cosa con una faccia noncurante, quasi annoiata; invece lo aveva fatto per mischiarsi con le aimra, il cui colore delle chiome si manteneva su tinte di mogano o rosso. Doveva capirlo: sua sorella non si annoiava mai, non lo avrebbe permesso a nessuno. Bastava pensare a quella volta che…
«Hauk, dove stiamo andando?» domandò Arci, tastando il terreno con un tono remissivo. Non gli riusciva molto bene.
Jude era troppo di pessimo umore per mascherare la sua irritazione. «Andiamo a dare un’occhiata alle Pale.»
«Pale?»
«Pale.»
Vide Arci fare spallucce e incurvarsi, pronto a sopportare il non sapere per quieto vivere. Ecco cosa succedeva a non poter contare sui suoi uomini. Fedrik era inutile se non riusciva a tenera ferma una ragazzina – come se lui ci riuscisse – e Arci diventava più insostenibile quando tentava di stare zitto o calmo. Peggio se entrambi.
«Sapevi che Selene se ne andava in giro per la città?» domandò, forse con troppa enfasi.
«Tsk! E ti sorprendi?» si fece scappare. «Quella strega ha il pepe sotto il c… i piedi.»
Jude borbottò. Arci conosceva Selene da quando era in fasce, il termine ʻstregaʼ era un nomignolo affettivo detto da lui. No, quello che lo indispettiva era la naturalezza con cui Arci accettava la cosa. «Finirà che dovrò legarla all’albero maestro della nave.»
«A quale nave?» fece per far scomparire le sopracciglia sull’alta fronte, ma i capelli erano troppo corti per inghiottirle. Jude sogghignò ferinamente. Arci mugugnò a labbra chiuse, poi continuò: «Come intendi legarla? Perché l’ultima volta che ho provato a chiuderla nella stiva, ho rischiato di perdere un occhio. Donne!» sputò.
«Ti manca Sexstapor, eh, amico mio?»
«Quelle sì che sono fatte per gli uomini come noi. Ma tua sorella, Hauk, metterebbe in fuga un intero manipolo di uomini come il generale. Forse è per questo che quella carogna leccaculo se l’è data a gambe.»
«Vecchio mio, la cortesia non è qualcosa di stretta proprietà imperiale. Va coltivata anche tra le strade. Sta zitto!» lo ingiunse, arrestandosi di botto.
Arci, per tutta risposta, mise mano alle due corte spingarde a doppia canna, le dita sugli acciarini pronte a innestare i proiettili di stagno imbevuti di veleni chimici, e acuì lo sguardo, sul chi vive. Ma per quanto silenzio si fosse creato intorno a loro, nessun suono ruppe la bolla di solitudine che li permeava.
Jude alzò un sopracciglio mentre Arci faceva spallucce e riacquistava la sua postura rilassata. «Selene ha fatto amicizie interessanti quaggiù.» Continuarono a dirigersi verso le colline nell’entroterra, dove i tetti a padiglioni erano più grandi e complessi, a volte si potevano studiare strutture con più ali, sempre più isolati dalle altre, con un grande complesso di parchi e giardini intorno. Le mura non erano alte, tanto quanto bastava per far scorgere solamente la chioma degli alberi dai tronchi esili; i portoni d’ingresso erano squadrati e robusti, molti era sormontati da bassorilievi, e sopra ogni cardine vi erano piccole statue raffiguranti animali alati o elaborati geroglifici con i nomi delle famiglie. «Molte donne di questi quartieri le hanno raccontato quanto è piacevole vivere sulle colline, dove la terra dovrebbe essere più arida e il caldo più afoso.»
«In effetti comincia a fare caldo» borbottò quello.
«Ma è un caldo strano. Umido e appiccicoso. Nulla a che vedere con l’afa delle estati di Bellapor.» L’altro annuì. Si appiattirono lungo un muro imperioso e iniziarono ad arrampicarsi verso la grande strada che saliva a monte dei colli. «Questo perché gli zaeim hanno trovato un modo per fabbricare l’acqua piovana. Ci sono delle ruote a spirali» gli spiegò con un po’ di fiatone, «talmente potenti da perforare il terreno, e grandi pale che raccolgono e incanalano l’acqua. Da come me le ha descritte Selene, sono di buona lega.»
Non aggiunse altro, non ce n’era bisogno. La strada curvò d’improvviso verso sinistra e davanti ai loro occhi apparve lo strano complesso descritto dalla fanciulla. Alte aste di ferro innalzavano pale enormi, le quali ruotavano a una velocità tale che le vibrazioni si ripercuotevano sul terreno. Grosse buche e strani tralicci risucchiavano l’acqua e la raccoglievano in grosse cisterne; altri cavi la portavano, a seconda del fabbisogno degli zaeim, in alto, dove le pale la catapultavano a folle velocità sul terreno verdeggiante. Un rumore sibilante, che perforava i timpani, percuoteva l’intera zona. Arci gli diede di gomito e indicò, storcendo il muso, verso le buche. Il capitano Hauk gli fece segno di attenderlo lì e si avvicinò di soppiatto all’impianto. Ogni cosa era fatta di diams, e quella strana lega sembrava indistruttibile. Il terreno era stato martoriato da qualcosa che lui non riusciva a vedere; grossi fori avevano ferito l’intera collina e gli avvallamenti tra quelle e le altre sue sorelle. La zona sembrava deserta, nessun uomo muoveva le macchine. Hauk si avvicinò con facilità, i sensi in allerta, e gettò uno sguardo alla buca più vicina. Era vuota. Il buco era talmente profondo che non si riusciva a scorgerne la fine. Stringendo i piccoli occhietti, si diresse verso quelle da cui proveniva lo strano rumore. Un fischio sottile e fastidioso si alzava dal pozzo e quando Jude vi avvicinò la testa, dovette ritirarla in fretta. Un syd era al lavoro nella fossa, a cavalcioni su uno strano aggeggio. Assicuratosi che quello non si accorgesse di lui, il pirata si appiattì controvoglia sul terreno e sporse un po’ il capo. Un aggeggio trivellava il suolo, scavando con voracità la terra. Non uno zampillo fuoriusciva dal foro, ma lui poteva sentire l’odore di terra bagnata stuzzicargli il naso. Si ritirò e diede un’occhiata veloce alle buche abbandonate, nella speranza di trovare una di quelle macchine inattive, per poterla studiare con tranquillità. Ne trovò una alla settima buca che controllò, al centro di quell’impianto. Gettò uno sguardo verso il confine della “fabbrica” e, assicuratosi che Arci non fosse troppo in vista, si calò con un salto nella fossa. Non era molto profonda, probabilmente era una delle più recenti. Si era accorto che le fosse più vicine alla città erano abbandonate e che il lavoro dei syd si spostava sempre più verso l’entroterra. Anche quella riserva d’acqua sarebbe finita prima o poi.
Dentro il pozzo, acquattato sopra lo strano macchinario, il capitano Hauk ne studiò la strana forma: era a cono, con due grossi anelli tra cui un uomo si poteva facilmente sedere a cavalcioni, e terminava con una grossa punta che, se messa in azione, sarebbe stata in grado di perforare il fasciame di qualsiasi nave. Jude ghignò, prese nota dei particolari e s’issò fuori. Il sole caldo era più insostenibile a causa dell’umidità. Si asciugò la fronte con una mano guantata e lanciò nuovamente un’occhiata verso il muretto, in fondo al pendio. Un lampo si riflesse sulla maschera grigia di un alramadi prima che questi scomparisse dietro la pietra. Hauk rotolò a passo svelto verso valle e raggiunse Arci, il quale aveva già una mano sulla corta spingarda.
«È sparito, ma lo riprendiamo se…»
«Lascia stare. Se voleva lanciare l’allarme, lo avrebbe già fatto.» Gli piantò una grossa palmata sulla schiena che lo spinse in avanti di due passi. «Su, coraggio. Non avevi fretta di tornare su?»
«Sarà» borbottò quello una volta che furono sotto Crowsand, «ma io quello lì lo avrei fatto fuori. Non si sa mai.»
Jude tirò avanti, ignorando l’ombra deliziosa che il villaero proiettava sul quartiere, e si addentrò nuovamente tra i quartieri dei syd più poveri, quelli che vivevano sulla costa.
«Dove diavolo stai andando?» ringhiò come un cane ferito.
«A incontrare il nostro amico, che tu volevi uccidere.» Jude continuò a camminare e Arci dovette corrergli dietro per sentire le altre sue parole. «Ci parliamo, così fate conoscenza. E poi è ora di arruolarlo. Domani salpiamo via da qui.»
Arci sgranò gli occhi e si arrovellò per capire cosa lo sbalordiva di più: l’arroganza del capitano o l’idea di arruolare una maschera grigia. Tra le due, decise di iniziare a lamentarsi della seconda; alla prima, suo malgrado, c’era abituato.
 
 
Lo trovò lì, esattamente dove lo aveva lasciato. Una figura solenne di fronte alla sconfinata linea del mare. Eppure sulle sue spalle gravava un peso, Jude poteva scorgerlo dalla postura rigida con cui quello si ostinava a rimanere fermo lì, a un passo dall’ombra della torre dell’orologio, lo sguardo a perforare un segreto proibito.
Jude lo affiancò, lo sguardo in ammirazione verso quel tratto di mare che sfiorava il cielo, la sua casa. «Di un uomo mi affascina sapere solo una cosa» si voltò a guardarlo, «hai qualche rimpianto?»
Nessuna espressione poteva essere carpita da quella protezione di ferro, ma il pirata poté sentire il fiato raschiare il metallo, un suono che sembrava giungere da cavità di orrore. «Io non sono un uomo.»
Il capitano Hauk sorrise. Era pronto a quella risposta. «Oh, sì, ho studiato il caso della tua gente.» Scacciò la faccenda con la mano e un ghigno sotto la bandana. «Siete i reietti, la feccia della città. Nessuno vuole avere a che fare con voi e comunque servite ai loro giochi. Ma, è questo il punto, perché servire? Lascia sprofondare questo mondo nei suoi pantani di vana glorificazione di falsi dei e uomini avidi. Lascia che ti mostri il cielo, non ci sono limiti lassù.»
Le mani dell’alramadi scattarono come tenaglie verso il bavero del suo soprabito. «Straniero, fa arretrare la tua arroganza. Io ero destinato a essere ʻuomo avidoʼ prima di diventare niente.» Le sue mani ebbero un tremito che egli fu lesto a dissimulare dando una scrollata alla stoffa. «Vedi di riprendere la strada per l’arida terra azzurra, prima di essere dato in pasto alle fauci rabbiose di Akteìr.»
Jude tese prontamente un braccio alla sua sinistra. «Sta’ calmo.»
La stretta si fece serrata.
«Ehi, maschera grigia» lo apostrofò con la bava alla bocca il secondo in comando, l’arma già ben piantata verso il suo cranio fermata solo dall’ordine del capitano, «vedi di ritirare le corna. Così come sono adesso sono un facile bersaglio, latta avariata.»
Il capitano sbuffò con un’espressione di scuse sul viso. «Arci, il secondo in comando della mia nave. I suoi modi lasciano a desiderare, ma la sua mira è una vera chicca.» Con una minaccia velata e movimenti misurati, riacquistò la sua amata libertà. «Selene mi ha parlato di questo, non pensavo fossi uno dei ʻcaduti in disgraziaʼ. Destinato a grandi cose, eh? Come salpare per l’onorevole distesa blu?»
L’uomo piegò il capo di lato. Il suo collo si stava sgranchendo, i suoi muscoli erano un fascio di nerbi irati. «Uomo del cielo, tu bestemmi. Akteìr ha avvelenato le acque che ci circondano, e intanto la mia terra muore. Tanta acqua, e non poterla bere a causa del demonio che continua a perseguitarci, nonostante Iilah ci protegga con la sua luce.»
«O-oh, santa martire dei bordelli. È pazzo!» non riuscì più a trattenersi Arci. «Vuoi arruolare un pazzo. Chiedo la raccolta!» sbraitò con gli occhi di fuori e le mani preda di un attacco di convulsioni.
«Non essere stupido, vecchio mio. La raccolta lasciala a quelli che razziano senza dignità anche le tasche dei mendicanti» roteò gli occhi. «Il nostro amico sa quello che gli hanno detto. Ora ci parlo io.» Tornò a concentrarsi sul giovane, il quale non aveva pensato neanche per un attimo di abbandonare la sua postazione di vedetta. «Qui tutti hanno un compito. Perché tu te ne stai qui, a guardare il mare?» gli chiese. Non ricevette risposta, ma non gli serviva. Continuò: «Non sei arrabbiato? Non vuoi risentire i raggi del sole toccare il tuo viso?» Il fiato, dentro la maschera, ruggì come un leone in gabbia, nolente. Jude assaporò la vittoria. «L’acqua avvelenata è sempre stata salata. Ci sono corsi d’acqua, però, dove questa scorre limpida ed è buona da bere. Ci sono luoghi in cui Iilah non affoga tutto nella luce e c’è l’ombra, che non è nera, ma è fatta di pezzi di sole molto piccoli. Non vuoi vederli?»
«Il buio è il regno di Akteìr. Demonio chi osanna la sua terra» cambiò posizione, adesso in guardia da quelle infide parole.
«Oh, adesso basta, Hauk. Senti, maschera grigia» lo pungolò con la bocca della spingarda, «qui si crepa dal caldo, ed è quella stramaledetta luce, che non dà tregua, la causa. Il mare dà pesci, qualche tentacolo troppo grosso che rischia di rompere la prua delle navi, a volte una bella sirena con la coda che è meglio uccidere perché non ci puoi fare altro. Di certo, se non gli togli il sale, lui non ti toglie la bile. Quindi tieniti ferro» indicò con l’indice e il medio la maschera, «luce» le puntò verso il cielo, «e idiozia. Di scrofe, a bordo, ne abbiano già. Grazie.» Fece per girare sui tacchi, poi si ricordò di aggiungere: «Tu vedi solo di non seguirci più. La tua stupida maschera mi ha accecato un occhio.»
Il capitano Hauk afferrò l’amico da una spalla e si concentrò per non strozzarlo sul posto seduta stante. «Pensa alla mia offerta, uomo dal grande destino» non poté fare altro che concludere. Quante volte si era ripromesso di non portarsi dietro Arci quanto contrattava un affare? «Ormai, per te, qui, c’è solo quella maschera, non puoi toglierla. Con me vedrai molto più di quello che io possa dire a parole. Persino il mio amico qui non potrebbe raccontarti tanto.» Strattonò il suo secondo con tanta voglia di sballottolarlo, ma Jude non perse la sua naturale grazia. «Sei un ragazzo intelligente, hai visto cosa voglio» sorrise. «Se vuoi, sai dove trovarmi.»
Il pirata sfiorò il suo tricorno a mo’ di saluto e si trascinò dietro l’amico. Contò e arrivato a cinque la voce del ragazzo lo fermò. Meno del previsto, ghignò. «Sì?»
«Portare una maschera, ripetersi che sei niente, non funziona. L’uomo resta comunque uomo. E ci sono diversi tipi di uomini-che-sono-niente dietro le mascher: molti si annullano nel lavoro, altri cercano disperatamente un modo per risalire, anche se non c’è. Io non ero quello che ti ha seguito» concluse.
Il capitano Hauk stridette la mascella di ferro. «Hai ragione, un uomo resta un uomo. E tu, che tipo di uomo sei?» Con tranquillità, tornò verso la sua nave. Adesso però i suoi piccoli occhietti erano vigili e la sua mano guantata, ancora aggrappata al corsetto di Arci, si strinse con fare cospiratorio, maledicendo la fiducia riposta in quella gente maltrattata. Arci aveva provato a dirglielo, ma lui aveva dimenticato che non tutti riversano il proprio odio verso il giusto bersaglio.
Senza darlo a vedere, Jude si stava già preparando al peggio.
 
 
«Capitano, capitano.» La voce di Spike, il pirata che sulla Marsadde se ne stava sempre sulla coffa o arrampicato sopra qualche sartia, si catapultò ai suoi piedi appena Hauk fu salito sul villaero, incapace di stare fermo, zigzagando come un insetto a destra e a sinistra. «Capitano, brutte cose ho veduto, capitano.»
L’uomo aveva una benda sopra un occhio, ma solo perché era stato costretto da Arci a portarla. La palpebra che nascondeva aveva un fastidiosi tic che innervosiva il suo secondo. Ora tutto il corpo dell’uomo era un’irritante contrazione nervosa. «Spike, vieni al punto.»
«Ho veduto lontano, con l’occhio calmo, e poi l’ho aiutato un poco con quello coperto. Non c’era mastro Arci e ho pensato di vedere meglio, così che è bene. Ma male, capitano» si mangiò le mani dall’agitazione.
Arci lo afferrò dalla cinghia. «Giù le braghe o sputa anche sangue, idiota. Che hai visto?» domandò diretto.
«Madame Selene è stata presa» strepitò. «Ohi, capitano, ho veduto troppo bene…»
«Chi? Dove? Come? E Perché?» domandò con tono imperioso e sguardo attento, gli occhi neri che mandavano fulmini e invocavano tempesta.
Spike sembrò tremolare come colpito da una scossa. Rispose: «Quelli delle navi sono sbucati sulla terra e l’hanno ghermita, portando via anche una maschera grigia. Persone strane con respiratori d’oro e senza valvole d’ossigenazione. Sono spariti dentro la torre dell’orologio. Il perché… oh, capitano, non lo so, ma l’ho scorta poco fa su una scialuppa di quelle navi» si agitò.
Arci lo surclassò con il suo tono iroso e una bestemmia pronta sulla punta della lingua bucherellata. «E cribbio, se quella strega non mi farà perdere i capelli. Avevo giusto pensato di appendere la corda di salvataggio al chiodo. Senti, capitano, riguardo a legarla…»
«Ottima idea, Arci» sorrise il pirata, un pugno che frantumava il vuoto, «ci servono corde. Chiamate i pescatori del villaero, ci serviranno per una pesca speciale. Bait è riuscito a trovare un modo per spostarci almeno un po'?»
«Sì, capitano» gli urlò qualcuno.
Hauk inspirò, pensando a quale maniera fosse quella migliore. Poi rise, sorprendendo tutti. C’era una sola via che un uomo come lui poteva percorrere, e anche in quello Selene aveva avuto ragione. «D’accordo uomini. Tutto è dove deve essere. Adesso in posizione. Andiamo all’arrembaggio!»
 
 
 
 
Le molle della sedia cigolavano fastidiosamente. Il metronomo sopra la scrivania, ereditato insieme a tutto il resto dell’arredo dal pirata, era un costante ticchettio che scandiva il tempo a tutto: degli stralci passati sopra il ponte di coperta, delle canzoni stonate che giungevano dalla cucina, dei barili caricati nella stiva; della sua vita, del tempo infinitesimamente esiguo che gli restava, di quel maledetto tarlo che stava rodendo la sua coscienza. Il metronomo era nero, con gli ingranaggi a vista e le rifiniture placcate in oro di basso carato rappresentanti putti e donne ignude. I simboli parevano provenire dalle Terre Estinte e raccontare storie che non erano più conosciute da essere umano vivente.
Moris Lautner si chiese per quale motivo un pirata dovesse avere un metronomo nella sua cabina. Ma Jude Hauk non era un pirata qualsiasi, no, troppo semplice sarebbe stato il lavoro del generale altrimenti. Il capitano della Marsadde era un nemico giurato della corona di Midra, contrabbandiere e malvivente che rubava e saccheggiava le navi dei loro alleati o delle Congreghe delle Isole Minori, le cui fonti di ricchezza sembravano infinite; era anche un uomo d’onore e con una visione, dedito alla libertà che si era costruito nei cieli e protettore delle persone che amava e rispettava, e con le quali aveva contratto un debito.
No, per il generale era diventato davvero difficile dargli la caccia, anche perché non ne conosceva più un motivo valido.
Qualcuno bussò alla porta della cabina di comando.
«Avanti» si aggiustò nella sedia cigolante.
«Signore» entrò un subalterno. Si avvicinò al tavole e gli tese un rotolo di pergamena sigillato con il simbolo reale di Midra. «Un messaggero l’ha appena portato per voi» scattò quello, salutandolo.
Il generale aprì la missiva e iniziò a scorrere le poche righe vergate sopra. A ogni frase che leggeva il cipiglio rossiccio si arcuava sempre più e i muscoli facciali si tendevano, impietriti.
«Brutte nuove, signore?» osò chiedere il marinaio.
Moris Lautner giunse all’ultimo rigo e saltò sulla sedia. Strinse la mano a pugno, tanto che la pergamena si accartocciò. «Potete andare, ufficiale Sartez.»
Il marinaio salutò e uscì velocemente dalla cabina.
Il graduato della marina di Midra serrò le mani dietro la schiena, onde evitare movimenti bruschi e impulsivi, e si affacciò alla vetrata alle sue spalle, la quale si gettava direttamente sul ponte di comando. Da lì poteva vedere il nostromo del suo equipaggio appoggiato comodamente contro il timone, a guardare i marinai lucidare il ponte e sbrogliare le vele. In un attimo di melanconia, il generale pensò di star tenendo in tiro la nave per il ritorno del pirata. Scrollò il capo e tornò a rileggere la nuova missione assegnatagli dal comando della marina. Il pirata Johanne aveva scoperto, durante uno dei suoi liberi vagabondaggi per cielo, un piccolissima flotta di vascelli e zeppelin, sfuggiti al controllo reale, che aveva sedimentato tra gli alberi cavi sopra Falknear. L’uomo si era insospettito e, dopo accurate ricerche, fatte in nome dell’alleanza che lo legava alla regina, aveva scoperto che erano per lo più fuggiaschi e ribelli che si preparavo a fomentare una ribellione tra le colonie e le città più periferiche del regno. Così sua maestà invocava il suo intervento per distruggere, ancora una volta, quel popolo ingrato che minacciava la serenità del regno.
Ogni parola della missiva era una pallottola di piombo conficcata nello stomaco per il generale, il quale s’appoggiò con un braccio contro il vetro e pose sopra la fronte, preoccupato. La sua regina lo stava allontanando da lei, tenendo in conto i consigli e i pensieri di un pirata, e ignorando le sue riflessioni sulla corte e il popolo. Elzeth era una sovrana dal pugno di ferro, che serviva il regno ma che non aveva mai camminato veramente tra le sue strade. Poteva vivere in nome della nazione – e la sua regina viveva solo per essa sin dentro il suo cuore, solo lui sapeva quanto aveva sacrificato – ma questo non le permetteva sempre di fare la cosa giusta. Era anche una donna orgogliosa e testarda: non si sarebbe fatta abbindolare dal pirata, ma non avrebbe arretrato di un passo dalla decisione presa.
Chiamò nuovamente l’ufficiale Sartez e ordinò di preparare la partenza, poi restò nuovamente solo, dalla sua privilegiata posizione, a vedere i suoi uomini in fermento.
Il generale Moris Lautner pensò che era strano per uno del suo rango salpare in missione reale con una nave pirata sequestrata, ma visto il peso che gravava nel suo animo e ciò che si prestava a fare, non poté non pensare che quell’accoppiata era quantomeno adeguata alla situazione. Egli, dopotutto, si prestava ad assalire un piccolo agglomerato di uomini che avevano appena assaggiato la libertà. Quella stessa libertà che lo aveva reso prigioniero di un vortice contrastante di doveri e responsabilità.

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Capitolo 3
*** All'arrembaggio! (Prima Parte) ***


Capitolo 3
All’arrembaggio
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era pieno giorno e Iilah brillava alto in cielo; Arci aveva già bestemmiato due volte e mandato a gambe all’aria un frenetico Spike. Nessuna di queste cose, pensò con un sorriso arrogante Jude Hauk, era una novità o presentava un minimo cambiamento dalla solita routine; dopotutto, il sole non tramontava mai e Arci sbraitava anche quando la pacchia annichiliva tutto il resto dell’equipaggio. Però la luce del sole era un buono auspicio e la voce dell’amico una compagnia a cui non sapeva rinunciare. Negli anni aveva imparato a godere di quei momenti come se fossero un rituale che scongiurava il peggio e attirava la buona sorte. Al resto ci avrebbe pensato lui.
Il capitano Hauk strinse una corda di uno dei ponti sospesi tra le case e diede un’occhiata giù, con il suo solito ottimismo a gonfiare il suo soprabito. Crowsand era ancora sospeso poco al di là dell’alta torre dell’orologio, che in quel momento segnava la libertà per le Aimra; i suoi ingranaggi erano immobili e un leggero alito di vento faceva dondolare il legno delle passerelle. I pescatori erano pronti, le canne dalle lunghe lenze costruite per l’occasione al loro fianco. Doveva riconoscere che nessuno degli uomini del villaero, giovane o vecchio che fosse, si era tirato indietro da quell’avventura. Hauk aveva offerto loro un’alternativa alle tasse e al ruolo marginale che avevano come abitanti di Midra, e loro semplicemente avevano accettato, senza chiedere vantaggi o clausole. Si erano fidati. Il capitano guardò la sua ciurma, il suo popolo, e un angolo delle sue labbra metalliche si sollevò leggermente: lui si fidava di loro.
«Arci» chiamò con il venticello ad aprire, intorno alla sua figura, il suo soprabito, «vediamo se Bait ha fatto il miracolo.»
Il secondo in comando gli fece un cenno e si voltò verso i suoi uomini: «Rospi e ratti, vediamo di darci una mossa. Mi si stanno arrugginendo le palle a forza di star fermo in questo posto, lontano dalla società civilizzata. Muovetevi con quelle lenze! Spike, togliti dalla mia vista, mi dai ai nervi! Voglio sentirvi scattare, come scrofe in calore, adesso! Bait!»
Jude soffiò l’aria fuori dai polmoni: quell’uomo era capace di vanificare tutti i suoi sforzi d’ingentilire i cuori dei marinai. I motori ebbero uno scoppio preoccupante, gli ingranaggi scattarono per poi arrestarsi di botto. I tubi di scappamento ronfarono, ingolfati, e il villaero ebbe uno scossone. Il gong del grande orologio si propagò per tutta Kabu-Ealim proprio nello stesso istante in cui le ruote di sospensione iniziarono rumorosamente e faticosamente a girare. I motori erano sotto sforzo e minacciavano di dare forfait da un momento all’altro, ma gli ingranaggi resistettero allo sforzo fino a portarli nel cielo dell’entroterra, sopra le zone trivellate. L’ombra di Crowsand si allontanò dalla costa e risalì la collina, come una nuvola nefasta che conquistava il cuore della vittima. L’oscurità si fermò proprio ai confini delle strutture di trivellazione.
«Pronti, capitano» urlò un pirata.
«Questo lo dico io, razza di becchino.» Arci sputò per terra per scongiuro. «Pronti, capitano!» ripeté.
«Calate le lenze, signori. Che la pesca abbia inizio!»
Gli uomini di Crowsand azionarono le speciali canne: un semplice congegno di braccio meccanico e carrucola sporgeva oltre i camminamenti di legno, uno accanto alla facciata di ogni casa; attaccato a ognuno di essi, c’era una particolare lenza che Bait era riuscito magistralmente a fabbricare con un po’ di diams sgraffignato da vecchi blocchi dimenticati nelle periferie della città, e a questa era stato saldamente legato un membro dell’equipaggio.
«Calate quelle corde, non è certo una scusa per dare un’occhiata al paesaggio. Bah! Mi è venuto a noia» mormorò poi tra sé.
Gli uomini del villaero iniziarono a sciogliere le funi, mentre le carrucole striderono con un suono acuto. Jude ridacchiò nel vedere i suoi uomini venire calati verso il basso come goffi ragni appesi a un filo sottile di ragnatela, il quale catturava la luce e brillava, come se gocce di rugiada stessero scivolando per tutta la sua lunghezza. Non appena furono posizionati sopra le buche – vuote, poiché l’ora dei Syd non era ancora giunta – quelli iniziarono a trafficare con l’equipaggiamento: altre corde di diams e ganci di duracciaio. Con queste legarono le trivelle e i coni, vi si aggrapparono come meduse alla caviglia e fecero segno di issarli nuovamente a bordo. I pescatori del villaero cominciarono a riavvolgere manualmente le corde. Due uomini per lenza, il primo con un piede che faceva leva alla base del braccio meccanico, lavoravano a mani nude per tirare nuovamente sopra i propri compagni. Persino Arci continuò a borbottare mentre dava manforte a riavvolgere la lenza più pesante, quella a cui – chissà chi gliel’aveva permesso – era stato legato Parsiet, il cuoco della Marsadde. Pirata coi fiocchi, certo, e cuoco eccezionale visto che non aveva mai fatto ammalare nessuno per intossicazione o dissenteria, ma non si poteva dire di lui che fosse gracile o leggero. Il peso dell’elica, poi, contribuiva a rafforzare la sua possente mole.
«Opera di Spike, sicuro. Maledizione!» sputacchiò, affaticato, Arci.
«No, signore, non mia no, stavolta no, l’idea. Parsiet voleva buttarsi dai faraglioni di Chebe, io so, sempre desiderato. Adesso ha deciso di buttarsi da qui, puf» mimò il gesto giungendo le mani davanti al petto e facendo un saltello sul posto, «ha realizzato il suo sogno, signore, felice lui.»
Il viso del secondo in comando illividì, rischiando di diventare color prugna. «Capitano, per le Terre Estinte, levamelo davanti» ringhiò tra i denti sputando, chissà se per rabbia o l’enorme sforzo.
Il capitano, per tutta risposta, diede una pacca al marinaio elettrico e aiutò a tirare la corda. Con un ultimo strattone, Parsiet fu di nuovo al sicuro, sopra un ballatoio del villaero.
«Divertito, Parsiet?» lo accolse il capitano.
Il cuoco unì le dita e le portò alle labbra; poi, con uno schiocco, le baciò e le fece esplodere davanti al volto. «Bell’assai, capitano. Ed eccovi un ricordino.» Rotolò sulle ginocchia e si tirò su aggrappandosi al primo appiglio che riuscì a raggiungere.
Jude Hauk trattenne il suo secondo mentre questo, con una mano alla gola cercando di riprendere fiato, alzava i pugni verso il pirata della cambusa. «Hauk, lo affetto, stavolta affetto qualcuno» borbottò in un orecchio del capitano.
Quello rise e lo lasciò andare. Si sporse dalla fragile ringhiera di legno e disse: «L’ultimo carico è pronto. Tirateli su.»
Proprio in quel momento, la terra iniziò a tremare.
 
 
 
 
Selene sospirò facendo crollare la testa sul petto: suo fratello sarebbe andato su tutte le furie. Non lo sopportava quando incrociava le braccia al petto e iniziava con la paternale; da quando loro padre era morto sembrava sentirsi in obbligo a ricoprirne il ruolo, e dire che lo sapeva di non riuscire a inarcare le ciglia con quello spaventoso arco che le faceva tremare le gambe da piccola.
Drizzò la schiena e lanciò uno sguardo assassino alle funi che le stavano arrossando la pelle dei polsi. Quanta villania! D’accordo che forse gli abitanti della città non gradivano le chiacchiere, ma imprigionarla solo perché aveva cercato di dare un’occhiata all’interno della torre… Selene sospirò di nuovo, un suono sommesso che le sfuggì teatralmente dalle labbra.
I suoi occhi vennero calamitati sul giovane stravaccato al suolo, proprio di fronte a lei. Per quello che aveva potuto vedere – il mascalzone che l’aveva portata fino a lì era stato tanto cafone da calarle un sacco di iuta sulla testa – era stato stordito con una botta in testa. Come ogni alramadi, il suo volto era completamente avvolto dal ferro, ma grazie alla camicia stracciata e ai calzoni tagliati che poco lasciavano all’immaginazione, Selene ne poté valutare la prestanza fisica. Era un giovane dalla pelle scura, che riusciva a indorarsi anche a lume di quei tetri candelabri appesi alle colonne; i pettorali scolpiti non le dispiacevano – erano un’ottima distrazione dalla scomodità in cui versava la sua schiena. Con gli occhi, stuzzicò i disegni tracciati dalle vene gonfie sulle sue braccia e sulle sue mani; anche le gambe erano molto muscolose e nerborute. Sembrava un agnello sacrificale, troppo bello per essere accolto da una marmaglia di bifolchi.
Un fremito nelle dita l’avvertì che si stava svegliando, così riacquistò la sua aria da civetta inviperita e drizzò la schiena, sperando che i suoi capelli non fossero troppo in disordine. Il giovane tentò di alzare il capo e puntare le mani, ma scopri di averle saldamente legate dietro la schiena. Selene lo vide aprire gli occhi – riuscì a vedere che erano fulvi, un marrone che pareva striato da filoni di rubino – e guardarsi intorno. Poteva quasi immaginare la sua aria confusa e sorpresa.
«Spero non siano amici tuoi» si annunciò. Infatti i suoi occhi scattarono lesti su di lei. Selene distese i muscoli del viso, volendo apparire al meglio, sempre. «Ben svegliato.»
Il giovane non proferì parola. Contraendo i muscoli dello stomaco si mise seduto e avvicinò i piedi al corpo, a gambe divaricate. Un adone di cui non poteva vedere il volto!
Selene tirò fuori uno dei suoi sbuffi impazienti. «Immagino non siano molto comode quelle corde. A me stanno rovinando la pelle» si scoraggiò un po’ nel vedergli voltare lo sguardo. «Potresti aiutarmi?» strinse le labbra in un sorriso scettico e ruotò gli occhi a destra e a sinistra, quasi a voler enfatizzare l’ovvietà.
Per alcuni lunghissimi minuti nessun suono rispose alla sua richiesta.
«Siamo su una nave degli zaeim» lo sentì mormorare.
Una piccola ruga increspò la fronte di lei. «Devo averlo intuito qualche ora fa, a causa di questo fastidioso rollio. Pensi di liberarmi? Vedi, non amo molto il mare.»
Il giovane poggiò la schiena contro una delle colonne alle sue spalle e chiuse gli occhi.
Selene cominciava a perdere la pazienza. «Non che io abbia bisogno del tuo aiuto, mio fratello mi verrà a prendere. Ma nell’attesa, preferirei che queste corde non mi segnassero i polsi come se fossi una schiava.»
L’alramadi socchiuse gli occhi. «Non avete l’aspetto di una schiava, donna del cielo.»
Selene sussultò leggermente. «Come hai fatto a capirlo?» Il suo travestimento era perfetto, era riuscita ad abbindolare tutti coloro con cui aveva stretto conversazione, inventandosi un passato da contadina e il sogno di fare fortuna in città.
«Nessuna Aimra avrebbe il coraggio di risalire la piazzola per vedere il mare. Donna debole teme la vastità del blu.»
L’orgoglio bussò nuovamente al petto della donna. «Debole? Se hai capito chi sono, saprai anche chi è mio fratello e da dove veniamo. Tu chiami debole me, quando sei tu a temere la vastità del blu?»
«Prima di essere nessuno, ero destinato a combattere nel blu.»
«Oh, io non parlo del mare, ma dell’azzurro del cielo. Quella è vastità. Non ci sono porti sicuri, non ci sono isole dove poggiare i piedi, solo il cielo. E tu lo temi.»
L’alramadi la fulminò con lo sguardo, un luccichio che sotto il lucore delle candele le rimestò lo stomaco in una fitta di paura. Selene parve turbata da quella sensazione, abituata com’era ad averla vinta, ma lo mascherò subito con un arricciamento delle labbra. «Se non volevi aiutarmi, perché hai cercato di fermare quell’uomo?» Socchiuse gli occhi, assaporando il gusto familiare della vittoria. «O forse mi vuoi dire che l’inettitudine è dovuta a un’incapacità di liberarti? Perché, se è così… oh, santo cielo!» La barca ebbe uno scossone e il rollio si accentuò. «Vorrei tanto sapere chi sta guidando questa mostruosità!»
«Taci!» scattò lui.
Selene sgranò gli occhi e lo fissò a bocca semiaperta, inebetita. Nessuno mai aveva osato azzittirla. L’alramadi era abituato a comandare, poiché non notò la sua aria offesa e osservò con attenzione il tremolio delle ombre create dalle fiammelle.
Ad un tratto il mare sembrò venir risucchiato, trascinando con sé l’imbarcazione.
Selene mugugnò. «Non è il timoniere che si è ubriacato, vero?» Il suo voltò impallidì, assumendo connotati verdognoli. «Rimpiango il buon vecchio Fedrik.»
«Akteìr sta per sbuffare!» esclamò il giovane. Senza il minimo sforzo, ingrossò i muscoli e fece forza per spezzare le corde. Quelle si tesero fino a sfilacciarsi intorno ai suoi polsi, liberandolo con un secco schiocco. L’alramadi scattò in piedi e la raggiunse. «Taci» ripeté, e la liberò. «Dobbiamo uscire da qui prima che Akteìr ci ingoi.»
«Oh, non preoccuparti per me» incrociò le braccia, di nascosto sfregò i polsi contro le costole, «Jude sarà qui a momenti. Pensa che arrivando all’ultimo secondo, io mi spaventi e impari la lezione» sbuffò alzando gli occhi.
La mano del giovane si piantò sulla sua bocca e gliela chiuse. I suoi occhi fulvi la immobilizzarono: la guardavano con una tale intensità che il suo cuore iniziò a battere a mille, sobillato da più e più sensazioni. «Vostro fratello conosce navi che volano. Ma ha mai visto navi che affondano e si muovono sotto il livello del mare?» La sua mano scivolò lungo il mento e lo strinse con delicata forza. «Non ci troverà. Adesso tacete e seguitemi.»
Selene ubbidì, incantata dalla sicurezza con cui quello sgarbato ragazzo aveva avuto l’ardire di azzittirla. Se Jude lo avesse scoperto, lo avrebbe scuoiato vivo… con eleganza, s’intende! Beh, si sistemò la gonna e tergiversò alcuni istanti – giusto quanto bastava perché l’alramadi si voltasse a guardarla – c’erano molte cose che suo fratello non sapeva. Quella sarebbe stata una di esse.
 
 
 
 
Jude Hauk aveva visto molte cose nella sua vita da pirata, ma le potenti vibrazioni che sconquassarono la terra con gli strumenti ancora semisospesi nell’aria ebbe dell’incredibile.
Ecco il loro Dio, una forza della natura che si sta risvegliando, pensò entusiasta.
Mentre i suoi uomini urlavano e si davano da fare per tirare in salvo gli uomini e le macchine, e mentre gli abitanti di Kabu-Ealim si riversavano per le strade, per una volta dimentichi delle rigide regole di circolazione, il capitano Hauk spalancò le labbra metalliche in un enorme sorriso e allargò le braccia, quasi a bearsi di quell’evento naturale. Se avesse potuto portare quella forza con sé, a Midra, dove l’uomo non aveva dei se non una regina dispotica che si credeva padrona del mondo, allora la sua battaglia avrebbe finalmente conquistato un degno alleato e la resistenza dei cieli avrebbe potuto sferrare un attacco diretto al cuore di un regno malato.
«Capitano» ringhiò Arci. Il suo secondo difficilmente faceva trasparire sentimenti diversi da rabbia e impazienza, eppure il suo viso adesso era una maschera increspata da rughe di turbamento. «Ci muoviamo?»
«Abbiamo tutto?» Gli uomini più vicini annuirono frettolosamente. «Bene. Vedete di sostituire i motori con quella roba. Bait» lo avvertì, «giusto quella che serve per farci muovere come si deve. Il resto mi serve.»
Il macchinista annuì, rispingendo gli occhiali su per il naso. Poi sgattaiolò di nuovo sotto il villaero, per le scale di manutenzione, come un topo ritorna verso la sua tana.
«Adesso me lo spieghi, il piano?»
Hauk ignorò ancora una volta la voce del suo amico e ammirò lo spettacolo sotto di loro. La gente di Kabu-Ealim – come chiunque, se si fosse trovato nella loro stessa situazione – stava correndo per le vie, verso il centro della città. Molti avevano gli sguardi terrorizzati e si facevano forza. I Syd trascinavano Aimra isteriche fuori dalle case, a volte staccandole dai pilastri. Quelle sembravano temere più la vicinanza con il mare che la terra che si spaccava sotto i loro piedi. Anche da lassù, il pirata poté sentire voci rincorrersi e invocare il sole – quell’astro che aveva reso debole la loro terra – e gli zaeim, affinché combattessero l’insorgere del Dio Akteìr. Sembravano spaventati, incapaci di reagire; possedevano ingegnerie e innovazioni nel campo dello sfruttamento idrico, ma allo stesso tempo erano così primitivi, di mente ristretta. Ripugnavano il diverso e rifiutavano l’ineluttabile potenza della natura, trovando una spiegazioni in leggende e miti e, in essi, la forza per portare avanti le loro convinzioni.
«Hauk» gli bisbigliò Arci a pochi centimetri dal suo orecchio, riportandolo coi piedi per terra. Il suo amico non usava mai un tono colloquiale con lui davanti agli altri, per questo il pirata trovava divertente quando piegava le labbra di lato e soffiava fuori la sua impazienza, come in quel momento. «Ci diamo una mossa? Qual è il piano? Ne hai uno, vero?» parve allarmato.
Il capitano gli posò una mano sulle spalle e lo spinse contro il bordo della passerella. I ponti di legno traballavano sotto i loro piedi, ma per loro non era una novità. «Guarda i ciechi come corrono, amico mio. La luce del loro Dio li ha abbagliati.» Una luce perfida e vendicativa brillò negli occhi di Hauk, i suoi occhi parvero godere di quello scempio. Infine tornò a drizzare la schiena e a distendere i suoi lineamenti in un’espressione più gentile. «Bait ha finito?»
«Sì, sì, dice che i motori rombano che è una meraviglia» liquidò la faccenda l’altro, innervosito.
«Bene, allora. Che state aspettando?» sorrise. «Signori, per la vostra felicità, andiamo a riprendere quella strega di mia sorella.»
Arci sghignazzò, si voltò verso gli uomini e urlò: «All’arrembaggio!»
 
 
La nave degli zaeim era vittima delle forti correnti, il mare la stava risucchiando in vortici, allontanandola dalla costa. Presto un’onda si sarebbe innalzata come un muro d’acqua, l’avrebbe caricata e fatta sfracellare contro i Ciclopi. Sul ponte non c’erano marinai, la nave sembrava abbandonata e persino la coffa se ne stava, in solitaria, appesa come un cesto per i panni sporchi.
I pescatori di Crowsand calarono per la seconda volta le loro speciali lenze e i pirati della ciurma si fecero scivolare lungo di esse, calandosi sul ponte di coperta. Ralph e Parsiet brandirono le loro armi – fucile a doppia canna e la sciabola seghettata – e iniziarono a muoversi lentamente sulla nave deserta. Il mare era l’unico compagno, tanto bramoso dei suoi tanti amanti da separarli tra loro e corteggiarli uno alla volta. Anche se avessero voluto comunicare, i pirati non avrebbero sentito nemmeno la voce del compagno più prossimo: solo la seducente pericolosità delle onde che si infrangevano contro il fasciame. Arci tamburellò sulla spalla del cuoco, che sobbalzò saltando e fronteggiandolo con la sciabola, e gli fece un veemente segno di proseguire.
Con eleganza, tenendosi con una mano guantata alla lenza e gli stivali incrociati intorno a essa, il capitano si fece scivolare sul ponte e ammirò il vascello. «Può andare» mormorò tra sé, tranquillamente.
Si avviò con passo sicuro e sereno verso il ponte del castello di poppa. Una mano accarezzò la ringhiera d’acciaio e poi scivolò sul timone. Osservò la strana lega che costituiva il terreno sotto e intorno a lui e, compreso l’enigma, fischiò di stupore. «È lo scheletro di un megadonte.»
Appena l’intero equipaggio, meno Spike di vedetta sul villaero, fu sulla nave, Hauk si sporse dal corrimano e fece segno a Bait di avvicinarsi. Gli mise una mano sopra la spalla e, con fare cospiratore, avvicinò il viso al suo orecchio e disse ad alta voce, per superare il rumore delle onde: «Vedi quelle vele laterali? Quelle che servono a far balzare la nave sul mare? Che dici, possono reggere la forza dei venti?» Ammiccò mentre il macchinista, alzate le sopracciglia e socchiusa la bocca, iniziò a ridere come un folle. «Lo prendo come un sì, mio buon vecchio amico. Che dici di montare un paio di quelle eliche sugli alberi di mezzana e trinchetto, e magari aggiungere una trivella all’albero di bompresso? La corazziamo per bene, questa bellezza, e poi ce ne andiamo da qui. Lo considereremo la giusta ricompensa per la loro mancata ospitalità» gli schiacciò l’occhiolino.
«Sei un pazzo, capitano» gli urlò l’uomo, dandogli un paio di pacche sul braccio, il riso che non era ancora scomparso dalle sue labbra. «L’ho sempre saputo, dopotutto, da quando sgattaiolavi giù dal villaero, ricordi? Quand’eri piccino e non ti si poteva prendere, che scappavi come un’anguilla.»
«Sì» gli annuì Hauk, strizzando gli occhi a causa di una pioggia salata che investì tutti loro – il rollio della barca divenne un’altalenante sali e scendi, in cui poco mancava che si capovolgessero. «Ma che ne dici di metterti subito all’opera, mastro Bait? Più tardi parliamo pure di tutte le volte in cui mi hai rincorso tra gli ingranaggi, d’accordo?»
«Con piacere, capitano» acconsentì, e sgattaiolò di nuovo giù dal ponte.
Il capitano fece segno a un paio della sua ciurma di aiutarlo, mentre agli altri urlò: «Troviamo la mia cara sorellina adesso. Credo che vorrà proprio distendersi un po’ dopo tutto questo trambusto.»


 
 
N.d.A.

Questo è l'ultimo capitolo ma, visto che è venuto più lungo del previsto, ho deciso di spezzarlo in due parti. Spero di aver fatto bene^^
Jude non è il solo tipo pazzo nella sua ciurma, come potete aver letto. Che ne pensate degli altri tizi? È stato divertente scrivere di loro, danno il giusto tocco divertente e leggero a questo mondo così rigido e spietato. Fatemi sapere!

Prossimo aggiornamento: 30 Agosto

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Capitolo 4
*** All'arrembaggio! (Seconda Parte) ***











Dopo tutta la luce degli ultimi mesi, dopo l’incessante calura che calcava l’aria all’esterno, trovarsi nella penombra del ponte di batteria fu una sorpresa per Jude. Da uomini che adoravano la luce del sole e osteggiavano sfarzo, si aspettava luminari a ogni metro, grandi candelabri forniti di lampade a olio e una rifinitura interna elegante e raffinata, che rispecchiasse la loro nobile posizione. Invece, scese le scale d’osso, le pareti grigie si presentarono disadorne e spoglie, l’unico alone giungeva dalla botola che immetteva in quel piano della nave; in fondo, le pareti parevano degradare in un punto oscuro, come a congiungersi al centro di quell’anonimo recesso. Nulla si ricollegava allo sfarzo minaccioso dell’esterno
Il silenzio si richiuse su di loro, tanto che il pirata poté giurare di aver sentito deglutire il buon vecchio Scatt – uomo ingobbito a causa della combinazione tra un’altezza maestosa e il suo precedente lavoro da cani nelle fabbriche di Midra; e se Scatt aveva problemi di salivazione, allora Hauk si poteva permettere un sorriso di sbieco. La cosa puzzava di pericolo mortale, e questo lo eccitava. Se solo non avesse dovuto occuparsi di sua sorella…
Il capitano Hauk fece segno a due dei suoi di tenere d’occhio il passaggio, poi s’inoltrò nella semioscurità insieme al resto della sua ciurma, alla ricerca di quell’ingrata. Per un pirata come lui non era carino a dirsi, ma il rollio della nave lo stava irritando: i suoi piedi s’intrecciavano, osteggiandosi a vicenda, impossibilitati a camminare in linea retta; l’imprecisione dei movimenti scatenava rumori che, nel silenzio che spadroneggiava nella pancia di quello scheletro, rintronava come campane a festa.
«Ehi, capitano» soffiò Arci che, per quanto si stesse impegnando, non riusciva proprio a parlare a bassa voce. «Sta roba ci sta mangiando vivi. Diamoci una mossa.»
Arrivarono alla fine del lungo corridoio e scoprirono che, alla loro destra, una rampa di scale li costringeva verso il basso; sulla sinistra, un secondo corridoio conduceva agli appartamenti dell’equipaggio.
«Scatt, Fedrik» chiamò, «occupatevi degli alloggi. Noi scendiamo.»
«E perché?» si offese il secondo in comando.
«Non ho ancora visto dove si trovato gli alloggi del capitano» ghignò, e iniziò a scendere.
La prima cosa che lo colpì fu il ritorno dei suoni. Era stato inutile temere di essere uditi con tutto il frastuono di cilindri a pressione e tubi che incombeva là sotto. Le scale, superate la prima rampa, si profilavano verso il basso in una ripida serie di gradini di ottone, a chiocciola; in basso – sempre se c’era un fondo – la cacofonia di macchine e operai sbuffava verso l’apice delle scale come se lo stomaco del magadonte fosse ancora lì, a grugnire infastidito. Alti e grossi fusti di ferro e oro contenevano le caldaie e i forni di combustione, le fauci di quelle che si aprivano a metà dei tronchi di ferro, raggiungibili solo da piattaforme di marmo che giravano intorno a questi ultimi; varie sezioni dei cilindri s’avvitavano, immettendo automaticamente il lignite nelle bocche. La grande stanza delle macchine era immensa, con un soffitto a volta che si perdeva persino sopra di loro, con archi e tramezzi che reggevano e collegavano le pareti. C’erano altre scale che si dipanavano in alto e in basso, fatte d’ottone o di duro marmo ingiallito.
La seconda cosa che saltò ai suoi occhietti neri fu che, ovviamente, la scala era sorvegliata. Uno zaeim con un respiratore d’oro sulla mascella intercettò il loro arrivo e lanciò l’allarme. Ralph fu più veloce però, e lo stordì con un colpo alla testa, proprio mentre quello si girava ad affrontare il capitano. Il rumore ingoiò le sue urla e l’allarme si disperse, inascoltato. A un segnale del pirata, la ciurma si divise: ogni uomo s’infilò in uno dei piccoli spazi tra le macchine e avanzò per suo conto verso l’estremità di quell’androne. Jude tese le orecchie, vedendo solo a tratti i suoi uomini, ma lo sbuffo di un’enorme caldaia coprì qualunque altro suono. Arci era dietro di lui, che osservava con occhio diffidente quelle strambe diavolerie.
«Ehi, Hauk» gli confidò, visto che erano soli, «questi qua sono più forniti di quella diabolica regina. Mi chiedo come facciano con tutta questa roba ad avere lo stesso cervello di un indigeno delle Isole Minori.»
«Vuoi chiederglielo?» gli propose Hauk, i piccoli occhi che perforavano lo sfondo alle spalle del compagno. «Ne hai l’occasione.»
Afferrò la spalla dell’amico e lo catapultò di lato, mentre con l’altra mano tirava fuori la doppia colt. Il proiettile colpì lo zaeim alla spalla, lo scoppio e le sue urla allarmarono il resto dell’equipaggio, che stava già accorrendo alle sue spalle. Arci bestemmiò così forte che anche gli uomini della sua ciurma accorsero. Hauk sghignazzò e ringraziò la veemenza del compagno, mentre con un colpo di reni trascinava entrambi al riparo dietro a una griglia di rame.
I proiettili volarono tra i due schieramenti e alcuni rimbalzarono pericolosamente contro le macchine di ferro. Dei passi risuonarono sulle scale. Il capitano alzò gli occhi e notò la seta dei mantelli azzurri damascati, con la piuma bianca degli zaeim, scendere di corsa le scale: dovevano essere quelli rimasti negli alloggi. Il pirata digrignò i denti d’argento e socchiuse gli occhietti, pensando alla fine di Scatt e Fedrik: se quegli uomini stavano giungendo dal ponte di batteria, allora i suoi erano stati già neutralizzati. Si voltò, in preda alla collera, e afferrò un uomo dal lungo codino; si piegò e usò il suo corpo per lanciarlo alle sue spalle, dritto contro una griglia rovente. Quello strepitò come un folle, ustionato, staccò la pelle molle dal ferro e corse verso le scale. Il pirata fece lo stesso con il suo compagno, torcendogli il braccio e spingendolo contro i piedi di una caldaia. Della brace sprizzò in alto e gli finì sulla schiena; per rialzarsi, quello si afferrò con le mani alla bocca rovente e se le ustionò.
«Spingeteli nelle bocche» vociò, il suo tricorno che fumava a causa di un lapillo volante.
Gli zaeim saltarono il corrimano degli ultimi gradini e atterrarono tra le macchine di ferro. Lo sbuffo dei vapori, per un attimo, offuscò le loro figure. I mantelli azzurri divennero grigi e si gonfiarono come ombre ingigantite tra i fumi. Non avevano armi, tranne le loro mani letali.
Jude si stabilizzò suoi piedi.
Quando era arrivato a Kabu-Ealim aveva visto uno di quegli uomini ghermire uno degli alramadi più possenti nella piazza e spezzargli il collo come se fosse stato un fuscello. Quei sacerdoti praticavano un’arte antica, che dicevano esserli stata insegnata da Iilah stesso. Erano gli unici che ne conoscevano il segreto, e nessuno osava ammirarne neanche i movimenti. Il pirata ricordò come gli altri alramadi avessero voltato lo sguardo mentre la figura infiocchettata si dirigeva sicuro verso l’uomo. A detta dello zaeim, rammentò, lo stava punendo per aver violato il tempo che Iilah aveva concesso alla sua razza per beneficiare della sua luce.
Hauk si defilò tra le macchine e caricò la doppia colt. La punta del suo tricorno sbucò da dietro un tubicino di rame che portava l’idrogeno alle turbine sotterranee. Calò la bandana nera sul collo, in modo che la sua mascella si confondesse con la scura parete delle macchine, e gettò un’occhiata verso l’arena improvvisata. Osservò lo zaeim più vicino evitare le pallottole delle spingarde di Arci e mirare con le dita della mano tesa verso l’amico, per infliggere un cozzo al collo scoperto. La doppia colt di Jude, però, fu più veloce; e lo zaeim, concentrato sul suo nemico, non riuscì a salvarsi.
Il pirata alzò un angolo delle labbra, vittorioso, ma la sparatoria aveva identificato il suo nascondiglio. Gli zaeim lo presero di mira; altri ne stavano giungendo dalle altre scale a chiocciola. Fece una smorfia e si preparò a scaricare l’intera riserva di proiettili sui compagni di quello appena abbattuto. Dopotutto, non potevano evitarli per sempre! Uscì allo scoperto e puntò entrambe le colt sul gruppo azzurro.
«Attento, Hauk!» lo avvertì Arci.
Dietro di lui, l’uomo che aveva lanciato contro il ferro rovente e il suo bel compare con le mani ustionate avevano alzato due pale contro la sua testa. L’elsa curva della sciabola di Parsiet mandò il primo al tappeto. L’altro, vedendo l’omone, gli lanciò l’arma contro e cercò di arrampicarsi sopra uno dei cornicioni di marmo.
«Vah, capitano. Malo aspetto ‘sto qui. Poveraccio, c’ho fatto un bel favore» ammiccò, poi strinse l’elsa, si posizionò bene sui piedoni gonfi e si preparò ad affrontare a muso duro gli altri uomini.
Due mantelli azzurri con piuma bianca sbucarono dal cornicione sopra di loro.
«Circondati come galline, no!» s’arrabbiò Arci, che già stava mirando ai nuovi arrivati. Gli altri della ciurma si posizionarono in cerchio, ognuno prendendo per sé una rampa di scale.
Uno dei due arrivati saltò sul cornicione, prese la rincorsa e si lanciò contro il gruppo degli zaeim che aveva appena messo piede nella sala delle macchine. L’altro estrasse una lancgup con il caricatore a cilindro di legno e la puntò contro l’uomo che tentava la fuga. Sotto il mantello apparve una gamba di porcellana e una gonna verde; uno stivale d’oro si poggiò sul cornicione e la figura presa la mira. Il nemico urlò e si lasciò cadere a terra, impazzito.
«Rozzi e anche vigliacchi!» esclamò con noncuranza una voce femminile. Jude alzò gli occhi verso lo zaeim e vide i morbidi capelli rossi solcati dalle prime ciocche dorate di sua sorella. «Jude» lo rimproverò quella con un viso di porcellana e labbra dischiuse in un sorriso accennato, «sei di nuovo in ritardo.»
Il capitano Hauk sghignazzò scompostamente e finalmente guardò l’altro zaeim fare il vuoto intorno a sé e ai suoi uomini. Il mantello azzurro cadde a terra e rivelò una maschera di ferro a coprirne l’intero volto.
«Signori, che fate?» destò i pirati. «Non vorrete mica che si prenda tutti i meriti, vero?»
Arci digrignò i denti e iniziò a dare fondo alle munizioni. Con eleganza, i colpi di Selene danzarono intorno al corpo dell’alramadi. «Dovrebbero toglierti la licenza, Arci. È uno spreco di pallottole, il tuo.»
Quello sbuffò. «Ancora tutta intera. Ma come fai?»
«Qualità femminili.» Si rabbuiò e aggiunse: «Comunque, questi non sono stati molto gentili.»
«Oh, bella mia, mo’ ce penso io a sti cafoni» scattò il cuoco.
«Parsiet caro, un gentiluomo come sempre.» Lanciò un’occhiata di commiserazione ad Arci e si voltò verso il fratello, mentre quello, alle sue spalle, faceva una smorfia e continuava a mietere vittime al suo solito modo. «Jude, abbiamo un problema. Questa nave…»
«Capitano!» sovrastò ogni altro rumore la voce di Bait. «Stiamo affondando, capitano!» Il macchinista e gli altri uomini con lui, compresi Scatt e Ralph che aveva mandato negli alloggi, si precipitarono giù per la scala.
Selene li incendiò con lo sguardo. «La nave può nuotare sott’acqua» spiegò, voltando loro le spalle.
Nella confusione della mischia, Hauk si permise uno sguardo sbalordito. Lanciò uno sguardo all’alramadi. «Combatte per noi?»
Selene strinse le labbra e trattenne un sorrisetto compiaciuto. «Aveva un conto in sospeso con quei balordi. Certo» fece spallucce, «anche i suoi modi lasciano un po’ a desiderare, però…»
«Selene, entro oggi!»
«Posso farcela. Lascialo a me!»
Jude borbottò qualcosa d’indecifrabile, ma la risposta di Arci, che era indietreggiato fino a loro, gli impedì di rispondere in modo comprensibile. «Vedi di fare in fretta, streghetta. Non voglio fare la fine della sardina.»
Selene gli mandò un bacio e si avvicinò al ragazzo, che nel frattempo aveva spezzato il collo a uno zaeim ed era occupato a intrecciare un gioco di gambe con l’ultimo superstite.
«Una mano?»
Per tutta risposta, quello torse il busto e mandò l’altro giù. Poi calò il braccio e lo colpì esattamente tra le due clavicole, bucandogli la trachea.
«Oh, santo cielo. Che modi!»
«Sono i miei modi.»
«Ehi, adesso lo ammazza» storse il naso Arci.
Con sua sorpresa, la ragazza sorrise al giovane uomo e indicò lui e Hauk. Si scambiarono veloci parole, poi Selene tornò da loro, saltando Parsiet che stava facendo a pezzi un operaio delle macchine. «A pezzi te faccio, sì. Non se tocca la bella mia» stava dicendo il cuoco tra un colpo e l’altro.
«Allora?» domandò Hauk.
«Mai mandare un uomo a parlare con un bel guerriero» sorrise smorfiosa, sbattendo le ciglia.
Il capitano rimandò la ramanzina. «Impadronitevi della sala comando!»
Selene si fece raggiungere dall’alramadi, la flotta avversaria tenuta a bada dagli altri uomini della ciurma, e insieme fecero strada verso una porticina laterale, nascosta dietro a una grande fisarmonica a cilindro che serviva per pompare aria nel sistema di areazione. La sala di comando era lì, cinque zaeim che manovravano i comandi. Da quella sala, oblò lasciavano ammirare il fondale, e su quel panorama marino, proprio laddove c’erano le radici dei Ciclopi, si trovavano enormi trivelle che avevano bucato il sottosuolo, minando alla stabilità della pietra su cui poggiava la città.
«Abel» disse l’uomo in piedi dietro all’ufficiale seduto al posto di direzione, le mani incrociate dietro la schiena. «Questa nave è il tuo passato, insieme al tuo nome. Ora sei nessuno, ed è con loro che dovevi stare.»
L’alramadi avanzò, i palmi delle mani mostrate in avanti, come a invitare l’altro a farsi sotto. «Sono qui per mio padre e la tua testa! Gli altri sono vostri» disse poi loro, e tornò a ignorarli.
Arci tirò fuori le spingarde e le puntò verso i due uomini di servizio ai comandi delle “pinne” sottomarine della nave. «Mollate le corde, o vi faccio schiattare il cervello.»
«Suvvia, amico mio» lo redarguì Hauk, mettendo via le colt. «Non mi sembra il caso di minacciare questi nobili uomini con armi così obsolete per le loro capacità.» Si tolse il soprabito e scrollò le spalle. «Un duello leale, come ai vecchi tempi.»
Arci ghignò. «Bei vecchi tempi» sospirò, e lasciò scivolare le armi sul pavimento d’osso.
Lo zaeim più vicino lo caricò, cercando di colpirlo al volto con una gamba tesa. Il secondo in comando, semplicemente, si abbassò, lasciò sfilare il colpo e, prima che quello potesse voltarsi, gli sferrò un gancio destro sul naso facendolo svenire.
«Ah, adesso sì che mi riconosco» urlò di gioia.
Nella cabina di comando scoppiò la rissa. Uno zaeim, accorso dalla sala macchine, provò a dare manforte ai compagni, ma Selene lo stecchì piantandogli il calcio della luncgup nella tempia. Jude portò i pugni davanti al viso e iniziò a duellare contro quello che lui, tra sé, definì un saltimbanco. Per i suoi gusti, troppa scena e niente resa. Alla fine intercettò un suo braccio e lo attirò a sé, portando il suo petto a contrarsi con la sua spalla; gli lussò la clavicola e lo stordì con un pugno dietro l’orecchio. Poi si spazzolò il panciotto color fango e raddrizzò la schiena, soddisfatto.
«Mi mancava, in effetti.»
Nel frattempo, l’alramadi era impegnato contro due degli scagnozzi dell’equipaggio, che gli impedivano di mettere le mani sul comandante in comando. Spezzò il braccio al primo e, infilando una gamba tra quelle dell’avversario e ruotando il bacino, ruppe il ginocchio all’altro.
«Ora» disse solo.
«Nessuno, non osare opporti. Nessuno!» chiamò di nuovo il più alto in grado.
Al secondo richiamo, da una porta laterale che dava su una piccola cabina sbucò una seconda maschera grigia. Jude stava per prendere la mira e sparare ma, in un attimo, nel trambusto dello scontro disordinato, non riuscì più a riconoscere quale dei due alramadi era il nemico: la maschera sul volto e lo stesso colore di pelle scottata li rendeva pressoché identici.
«Uccidilo, nessuno!»
Una maschera grigia sbuffò, sdegnosa; poi i due cozzarono contro. A risuonare, nella cabina di comando, furono l’urtarsi delle maschere di ferro e i grugniti dei due, mentre il comandante degli zaeim, con sguardo freddo e distaccato, voltava loro le spalle e si dirigeva verso il timone che governava gli spostamenti sottomarini del vascello.
«Affondiamo, capitano! Minc…» La voce di Parsiet, che varcò la soglia con l’irruenza di una berala, si spense su quell’ultimo turpiloquio.
Lo scoppio di un proiettile fece voltare tutte le teste: Selene aveva mirato a uno degli alramadi con sicurezza disarmante, e aveva sparato. «Ecco, quello è colui che mi ha messo quel sacco grezzo sulla faccia» lo accusò con irritazione, come a sancire cosa capitava a chi le facesse uno sgarbo.
«Doveva essere anche quello che ha seguito noi alla fabbrica» mormorò Arci di nascosto. «Solo che noi non gli abbiamo sparato, eh, Hauk?»
Colui che una volta si era chiamato Abel si liberò del corpo e raggiunse il comandante. Lo zaeim non si fece cogliere impreparato: sferrò un calcio all’indietro, piegando in due l’alramadi.
«Nessuno ha smesso anche di vivere adesso.»
Abel drizzò di nuovo la schiena e avanzò. Lo zaeim lo colpì a metà clavicola, spezzandogliela in due. Il giovane subì il colpo e si piegò sul ginocchio, la spalla lesa e le mani a sfiorare inermi il pavimento. Il comandante ghignò ma subito esso sparì dal suo volto, mentre l’altro tornava ad alzarsi.
«Avete smesso di torturare la mia gente.»
«Sei uno sciocco, Abel. Potevi diventare grande, potevi avere il potere di un Dio.» Sputò per terra e lo guardò schifato. «Cosa hai avuto da quelli lassù? Ti hanno forse creduto quando hai detto loro che Akteìr è morto e non tornerà? Ti hanno creduto quanto hai detto che erano le nostre trivelle a causare i terremoti? Sei diventato nessuno, e per cosa?» Si abbassò e lo colpì alle costole. Il rumore di ossa incrinate fece accapponare la pelle. Jude trattenne la sorella dal prendere la mira, decidendo di restare in disparte. «Non sei più qualcuno, Abel. E nessuno ti ascolterà.»
La spingarda sparò un colpo in pieno petto, gli occhi dello zaeim si spalancarono. «Se nessuno non ha nome, chi è Abel?» Alzò la canna e fece fuoco contro la fronte. «Abel non ha più voce, ma a nessuno questo non importa più.»
L’uomo cadde come una bambola a terra, gli occhi teatralmente spalancati e la bocca aperta in una perfetta e comica ʻoʼ.
Prima che Jude potesse complimentarsi per la sua prestazione da vero pirata, la nave iniziò a capovolgersi, colpita in pieno da un’onda di maremoto.
 
 
Il cielo era limpido, il sole bruciava ogni cosa e Kabu-Ealim aveva smesso di tremare. Le grandi onde causate dal maremoto si stavano ancora abbattendo contro i Ciclopi, ma la barriera eretta secoli prima sulle nocche del Dio Akteìr non vacillava.
Dal mare, tra il cavo di una cresta e l’altra, il vascello degli zaeim fendette la superficie e saltò fuori dall’acqua; a contrario dei suoi soliti voli, stavolta le eliche montate sugli alberi di mezzana, trinchetto e bompresso la sollevarono sempre più, fino a farla attraccare a uno dei ponti di Crowsand. Dalla terra ferma, probabilmente gli uomini, ancora impegnati a pregare sotto l’orologio, guardarono con timore l’enorme scheletro del megadonte salpare per il dominio di Iilah, sfidando il Dio nel suo stesso suolo sacro. Jude, a quella idea, ghignò soddisfatto.
«Ehi, capitano» vociò Parsiet, seduto fiaccamente in uno dei gradini superiori del ponte di comando, «adesso posso portare la mia roba nella cambusa?»
«Che aspetti?! Corri!»
La ciurma rise. Parsiet si tirò su e rispose correndo: «Mo’, corro è grossa, ma un salto l’ho faccio assicurato.»
L’alramadi se ne stava in disparte, in silenzio, mano destra e gambe intrecciate in una sartia d’arrampicamento; il braccio sinistro con la clavicola fratturata era fasciato al collo.
«Come hai fatto a convincere quel muro di ferro?» s’insospettì Arci.
«Siete tutti uguali, voi uomini.» Selene si scostò i capelli dalla spalla. «Non riuscite a sopportare l’idea di essere secondi a una donna. E così, da stupidi, vi fate abbindolare dalle sue parole, come se questo non vi rendesse tali.»
Il giovane, sentendosi nominato, o forse solo perché si era stancato della posizione, saltò giù e li raggiunse con un balzo.
«Maschera grigia, ce l’hai un nome? Oppure te ne torni giù?» Arci sembrò sperare nella seconda.
«Certo che ha un nome…» s’agitò Selene, prendendo l’altro sotto braccio.
Quello rimase imperterrito al suo fianco, quasi indifferente al gesto affettuoso della donna. «Sono un esiliato» rispose con gravità, «e non ho più nulla da dire alla gente là sotto.» Lanciò uno sguardo oltre il parapetto del vascello e il suo corpo si mosse a disagio, forse a causa delle altezze o di un qualche funesto pensiero. «Ho provato a dire loro la verità: su come sfruttassero l’antica battaglia degli Dei per accrescere il loro potere; su come profanassero le reliquie di Akteìr per estrarre il diams. Nessuno mi ha creduto, così sono diventato nessuno pure io. Il mio nome non esiste più, per ora non mi serve. Un giorno tornerò a servire il mio Dio.» Prese un respiro profondo e il suo sguardo di rubini si posò, come gli occhi di un gatto accoccolato, sul volto arcigno di Selene. «Fino a quando non potrò essere Abel, sarò Qunae Alramadi.»
Arci ringhiò. «Che razza di nome è?»
L’alramadi voltò il volto verso il secondo in comando. Replicò con una semplicità disarmante: «Nella mia lingua vuol dire ʻmaschera grigiaʼ.»
Arci si bloccò, indeciso se scaricargli addosso un paio di caricatori o inveire contro se stesso. Si allontanò a passo di carica, senza prendere una decisione in merito. «Se pensa che sprecherò fiato per un nome così lungo e stupido… Bah! Ci mancava solo il religioso in questa ciurma di scrofe.»
«Benvenuto a bordo» lo accolse con un sorriso metallico Jude. Tirò su la bandana e posizionò meglio il tricorno sulla testa. Poi fulminò il giovane con uno sguardo, ancora preso sottobraccio dalla sorella. «Adesso vedi di trovarti qualcosa da fare. Altrove.»
Qunae annuì serio – chi poteva dirlo con quella maschera addosso? – e aiutò con il timone. Selene gli scoccò uno sguardo possessivo e poi andò a recuperare la sua roba dalla catapecchia.
Il vociare degli uomini si disperse in un andirivieni tra il villaero e il vascello. I primi uccelli, passata la tempesta, tornarono a svolazzare, come ai vecchi tempi, intorno ai ponti sospesi di Crowsand. A Jude parve di essere di nuovo sopra le sue amate terre, e stranamente provò nostalgia.
«Il nuovo colore s’intona di più al suo bel caratterino» mormorò qualcuno dell’equipaggio, commentando il fuoco acceso dei capelli della donna.
«Fedrik» si voltò con uno svolazzo di vesti Selene, un sorriso affettato sul viso, «potresti aiutarmi a portare su la mia roba? Mi si sgualcisce la gonna.»
«Ma certo!» saltò su quello e zoppicò sulla passerella, tirandosi dietro il grosso baule con le fibbie.
«Grazie, caro. E sta attento» lo minacciò con un sorriso ancora più sottile, «quella roba vale molte vite.»
Al che altri due uomini aiutarono il pirata a portare il baule nella cabina del capitano.
«Attenti voi!» vociò Jude con una risata. «Vedete di non rigare fin da subito il ponte. Voglio vantarmi di questo gioiellino con il generale.»
Selene lo raggiunse con due saltelli eleganti. «Hai intenzione di tornare verso Midra?»
Jude ignorò la domanda e ne fece una a sua volta. «Ti piacerebbe avere una nave tutta per te?»
«Con la cabina di comando nelle mie mani?» batté le mani lei.
«Certamente!»
Selene gli lanciò un’occhiata sbieca, l’espressione arguta. «Torniamo a Midra, vero?»
«Ma certo! Devo chiudere un conto. E poi» accarezzò con lo sguardo i cannoni e gli arpioni sulle fiancate, «hanno in consegna la mia nave. È il momento di riscuotere.»
Arci ghignò, afferrò una cima e sbraitò: «D’accordo, zitelle e musi grigi. Spiegate le vele e date fuoco ai motori. Si va all’arrembaggio!»
 
 
 
 
Moris Lautner era nato e cresciuto in un sobborgo, proprio al di fuori di quelle che, a Midra, venivano considerate le mura reali, dietro le quali risiedeva la corte con il suo seguito. La sua famiglia era agiata ma non nobile, e aveva sempre appoggiato la corona. Suo padre era un tenente dell’esercito, perito in territorio straniero per conquistare le Isole Minori; e lui aveva deciso di seguirne le orme. Aveva combattuto e obbedito agli ordini dei suoi superiori in nome dei suoi ideali e della corona che serviva, conscio del fatto di non poter mai raggiungere una posizione abbastanza elevata per onorare il suo rango. Poi era salita al trono la regina Elzeth: donna prorompente e dalla mente arguta, allontanò qualunque dottrina ecclesiastica pronta a consigliarle, poggiò il suo potere sulla sua figura, simbolo di fedeltà verso l’intero popolo e cambiò le regole che avevano retto il regno di Erice, suo padre. Il generare era stato scelto tra i tanti promettenti ufficiali dei ricchi sobborghi per ricoprire un ruolo sempre più elevato, fino a quello di generale del Corpo Armato, in modo da mediare tra l’Alto potere e le case della nuova classe emergente. Non importava più che non fosse un nobile, lui era stato scelto dalla regina per creare un ponte con il popolo, dare una figura di riferimento alla parte che restava fuori da quelle mura. Quando la flotta di Midra acquistò importanza e furono colonizzate le Isole Minori, vennero aperte nuove tratte e nuovi commerci, seguiti scrupolosamente dal regime reale. La regina Elzeth lo aveva chiamato di nuovo a ricoprire un ruolo fondamentale per i suoi piani: generale di una flotta. Così alta era la considerazione che aveva verso di lui che gli permise di scegliere da solo i suoi uomini. E lui seguì un solo criterio: uomini d’onore, uomini di fede e con una coscienza; non aveva guardato il loro rango o la loro provenienza, ma li aveva studiati e strappati da flotte più importanti o, in alcuni casi, dalle stesse strade in cui era cresciuto lui.
E fu con quelli stessi uomini che raggiunse gli alberi cavi sopra Falknear. Nessuno di loro era pronto a quello spettacolo. Le urla di paura agghiacciarono l’aria intorno a loro. Se dapprima qualcuno aveva festeggiato nel riconoscere la Marsadde, appena fu chiaro chi fosse il nuovo equipaggio il panico dilagò, ribalzando da un albero all’altro.
Moris Lautner strinse il pugno bionico sul parapetto del ponte di comando e aggrottò la fronte. Johanne aveva detto che avrebbero trovato zeppelin pronti a dar battaglia, che una popolazione di ribelli stava preparando la rivolta contro la corona. Davanti a lui, però, si proliferava una marmaglia di ragazzini e vecchi: molti se ne stavano aggrappati alle radici pendenti degli alberi; le donne erano corse a mettere al sicuro i più piccoli, nascondendoli all’interno dei tronchi.
La nave volteggiò come un relitto, quasi vergognandosi di se stessa, tra una zolla di terra e l’altra, tra un ramo di un albero e la radice di un altro, senza che un solo uomo della marina aprisse bocca o si decidesse a proclamare la soppressione.
Il generale abbandonò la sua postazione e si avvicinò al parapetto di babordo. «Generale.» La voce dell’ufficiale Sartez sembrò temere le sue stesse parole. «Quali sono gli ordini?»
Sopprimete la ribellione. Nessuno deve opporsi al comando di Midra. Era così chiaro il volere della sua regina.
Un ragazzino dai capelli scuri e il viso sporco di fuliggine lo guardò con sguardo vacuo. Fino a poco prima doveva aver lavorato in qualche fabbrica: aveva le braccia lunghe e sottili e un corpo gracile; le vesti erano stracci che si aprivano come un mantello tanto gli stavano larghe. Probabilmente la sua più grande speranza in quel momento era tornare a essere sfruttato in qualche miniera o nuovamente tra le macchine.
Moris guardò per bene ogni viso che si affacciava oltre la falchetta della nave: c’erano storpi, gente senza più un capello e probabilmente neanche un soldo; c’erano donne gravide e affannate, uomini stanchi e demoralizzati. Era gente povera, misera.
Moris Lautner era nato e cresciuto in un sobborgo, proprio a ridosso con le mura reali. Veniva dal popolo, aveva fatto carriera per servire un regno e una corona che prometteva prosperità e pace. Eppure quella gente, quei volti, erano una realtà che degradava proprio a un passo dal suo mondo, quello stesso mondo che egli si prefiggeva di proteggere e guidare. Per chi aveva lottato in quegli anni?
«Generale, gli ordini?»
Quali ordini? In nome di cosa?
La mano bionica si aprì, afferrò una mela mezza rosicchiata che qualcuno aveva lasciato sopra un barilotto e la porse al ragazzino. Quello allungò una mano screpolata a cui mancava un dito, afferrò il frutto e lo strinse come il più grande tesoro. Un sorriso complice parve per un attimo sbucare all’angolo della sua bocca. Lanciò uno sguardo alla bandiera ammainata della Marsadde, il simbolo del capitano Jude Hauk, e poi guardò di nuovo lui, speranzoso.
Moris Lautner drizzò la schiena e si voltò verso il suo ufficiale: aveva finalmente deciso di ricoprire il ruolo che la regina Elzeth gli aveva affidato. Alle spalle di questo, la ciurma restava in trepidante attesa. «Ammainate le vele. Gettate le funi di bordata. C’è un popolo da sfamare, ha atteso abbastanza il nostro aiuto.»

 
 
N.d.A.

E così finisce un'altra avventura del nostro capitano Jude Hauk. Sembra, però, che un'altra, tutta da scrivere, se ne prospetti per il generale. Staremo a vedere. Per il momento, che ne pensate del cambio di rotta di queste due figure? Jude, a modo suo, salva una terra dallo sfruttamento minerario dei fondali; Moris Lautner... beh, ditemi voi cosa ne pensate;)
Grazie a tutti coloro che hanno recensito, messo la storia tra le seguite, ricordate e preferite. Un grazie doveroso va a Ayr e Earth, le quali hanno letto la prima triade di questa storia e mi hanno invogliato a scrivere la seconda. Questa avventura è nata per voi e grazie a voi. Spero che non vi abbia deluso^^


N.B. Se siete curiosi di tenere d'occhio le novità su tutti i deliri originali che sforna questo account, vi informo che è finalmente disponibile la mia pagina d'autore su fb, potete trovarla cliccando sul bottoncino apposito nella mia pagina autore di EFP. Vi aspetto!^.^

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