Wonderwall

di SomethingWild
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo I

«Lexa, aspetta.»
Con le braccia piene di carte e la borsa che stava ormai cadendo per terra, la ragazza si fermò, girandosi verso Anya che, con un sorriso, le stava porgendo un bicchiere di Starbucks. 
L'aroma del caffè le accarezzò le narici. Sospirò esausta, mentre cercava di liberare una mano per accettare il caffè che la collega le stava porgendo. La ringraziò con un sorriso prima di riprendere a camminare verso l'ufficio. 
«Non vedo l'ora di tornare a casa» sbuffò, aprendo la porta con un ginocchio e tenendola aperta con un piede per far passare anche Anya.
«Sei sempre così noiosa» le fece notare la ragazza, mentre appoggiava delle carte sul tavolo, a cui si aggiunsero quelle che Lexa faticava a tenere tra le braccia. Anya si accomodò sulla poltrona di fianco alla libreria sorseggiando il caffè. 
Solo quando si sedette sulla poltrona di fronte alla sua, Lexa notò le occhiaie che l’amica aveva cercato inutilmente di nascondere con del correttore. Probabilmente Anya dovette accorgersi dello sguardo perplesso di Lexa che non si staccava da lei, perché chiese: «Che cosa?»
Lexa scosse la testa, divertita: «Nottataccia?»
Anya non rispose, ma preferì finire la tazza e appoggiarla sul tavolino. 
«Sai chi farà nottataccia, se non finisce quelle carte prima delle sette?» domandò retorica.
Lexa alzò gli occhi al cielo: «Potresti aiutarmi, invece di-»
Non riuscì a terminare la frase, perché l'amica la interruppe con un verso di totale disappunto: «No. Tu sei il capo: fai il capo. Io appoggerò il mio bel sederino su quella sedia e mi limiterò ad ascoltare le lamentele dei tuoi dipendenti che non riescono a chiudere nessuna trattativa perché il loro capo è troppo impegnato ad acquisire una società solo perché la segretaria dell'amministratore le sta simpatica.» Con queste parole Anya si alzò dalla poltrona e uscì dall'ufficio dopo essersi girata e averla salutata con un cenno della mano e un sorriso impertinente.
In effetti, doveva ammettere che Anya non aveva tutti i torti: erano ormai due settimane che la Woods Corp. non quotava azioni in borsa perché aveva messo sotto torchio tutti i suoi dipendenti affinché trovassero una soluzione, anche un piccolissimo cavillo legale, che le permettesse di appropriarsi della Blake&Co. senza spendere troppi soldi e creando meno danni possibili ad ambo le parti. Ad aggravare la situazione vi erano gli ingenti debiti che nel corso di soli due anni l'amministratore era riuscito a procurare alla società. Tante volte i soci anziani le avevano consigliato di farsi da parte e lasciar affondare la società o di prendersela con la forza per ricrearla da zero, lasciando a casa i dipendenti considerati superflui e abbandonando i fratelli Blake ai loro debiti. E probabilmente avrebbe fatto così, in qualsiasi altra occasione: Alexandra Woods era uno squalo in borsa, su questo non vi erano dubbi. Eppure l'idea di mollare ai loro debiti Bellamy e Octavia, che si erano ritrovati a gestire un'azienda troppo grande senza la minima esperienza per la prematura dipartita dei genitori, e di lasciare senza lavoro la "segretaria dell'amministratore che le stava simpatica", la faceva rabbrividire. Solitamente non guardava in faccia i dirigenti delle altre società, si limitava a riconoscerne l'incapacità nella gestione degli affari e dei fondi. Ma in questo caso ammetteva che i due fratelli si erano ritrovati nella famiglia sbagliata al momento sbagliato. Proprio come lei, che però era riuscita a non far crollare l'azienda, perché vi era cresciuta. Sin da quando era nata, l'avevano preparata a quel lavoro. 
Finì il caffè e si alzò dalla poltrona. Avrebbe dedicato tutta la giornata a chiudere i contratti rimasti in arretrato. Erano ormai giorni che la Woods Corp. spuntava sulla prima pagina dei principali giornali di economia. E non di certo per essere elogiata. Passandosi una mano sul volto e togliendosi la giacca del tailleur, Lexa si sedette alla scrivania e prese il primo fascicolo.
"Buon lavoro, Miss Woods" pensò, prima di iniziare a leggere il primo di tanti fogli.


Clarke bussò alla porta dell'amministratore, aspettando impaziente che chiudesse l'ennesima chiamata con l'ennesimo cliente a cui doveva ancora dei soldi: ormai era diventata routine. Appena fu sicura che la chiamata fosse finita, aprì la porta senza aspettare un invito.
«Queste sono le carte che mi avevi chiesto.» Appoggiò dei fascicoli sulla scrivania, prima di continuare: «Ha chiamato Octavia. Ha detto che è riuscita a trovare un cliente in Europa che potrebbe stanziare dei fondi sul vostro conto per ripagare i debiti più ingenti. Ma chiede la cessione dell'80% della società. Il restante 20% sarà rilevato gratuitamente qualora non restituiste i soldi entro tre anni.» Fece una piccola pausa per permettere a Bellamy Blake di assimilare le informazioni. Quando lo vide scuotere il capo, continuò: «Hanno chiamato dalla Woods Corp.» A quelle parole riuscì ad attirare l'attenzione dell'uomo, che fino a quel momento era rimasto con una mano sulla fronte e gli occhi chiusi.
«Miss Woods gradirebbe un colloquio con voi entro la fine della settimana. Dice che è urgente» aggiunse Clarke.
Vide Bellamy sospirare, prima di prendere parola: «Chiama Octavia. Fissa un colloquio con la Woods e avvisala.» 
Clarke si limitò ad annuire e ad avviarsi verso la porta. Bellamy attirò la sua attenzione: «Grazie Clarke.»
Lei si girò verso l'uomo sorridendo ed uscì dall'ufficio.
"Dovrei iniziare a cercare un altro lavoro" disse fra sé e sé Clarke mentre si sedeva e iniziava a digitare il numero di Octavia, che ormai sapeva a memoria. 
Non era stupida Clarke. Certo, non aveva studiato economia, ma non ci voleva una laurea per capire che la Blake&Co. sarebbe presto affondata e con lei Bellamy e Octavia. E anche la paga che le permetteva di pagare il corso d'arte del college che stava frequentando, sperando di portare avanti il suo sogno. Per quanto ci tenesse ai colleghi e ad Octavia stessa, non poteva di nuovo metterli prima dei suoi bisogni. Presto o tardi, l'avrebbero licenziata. E, se non l'avessero fatto loro, sicuramente lo avrebbe fatto Alexandra Woods o il pazzo che avrebbe acquistato la società. Il taglio al personale superfluo era scontato e lo era ancora di più il fatto che lei rientrasse in quella categoria. 


Lexa non poté trattenere un sorriso mentre leggeva il titolo del giornale che teneva fra le mani: era valsa la pena trattenersi in ufficio fino alle due di notte per concludere più contratti possibili. 
Salì i gradini che si trovavano di fronte all'entrata del palazzo bevendo il solito caffè di Starbucks. Il vento di novembre stava iniziando a farsi sentire prepotente,  scompigliandole i capelli, quindi fu sollevata quando, dopo aver salutato il portiere con un cenno del capo, varcò la soglia della Woods Corp.
"Alexandra Woods fa scacco matto. La Woods Corp. è di nuovo una delle prime a Wall Street." Poteva abituarsi a certi complimenti. Annuì fra sé mentre entrava nell'ascensore e continuava a leggere l'articolo. 
Quando finalmente raggiunse il ventottesimo piano, si avviò verso il proprio ufficio, gettando il bicchiere ormai vuoto nel primo cestino che incontrò.
Mentre sfogliava il giornale, si sentì chiamare da Anya: «Ehi Lexa!» Le si affiancò.
Sembrava tranquilla e felice. "Un'altra cosa positiva" pensò Lexa guardando di sottecchi l'amica. 
«Nottataccia?» le domandò Anya mentre le apriva la porta. 
Lexa la fissò fra lo stupito e l'offeso. Notando lo sguardo della ragazza, Anya non trattenne un sorriso: «Avanti. Stavo scherzando.» 
L'amica si avviò verso il tavolino prendendo lo scotch e riempiendo due bicchieri. Si avvicinò a Lexa porgendogliene uno: «Ad Alexandra Woods. Il Commander di Wall Street.»
Fecero scontrare i bicchieri prima di svuotarli in un sorso. Ormai era un'abitudine la loro: ogni volta che Lexa e la Woods Corp. finivano in prima pagina con feedback positivi dovevano brindare.
«Ora che abbiamo consumato quest'usanza possiamo tornare al lavoro, Anya?» il capo della Woods Corp. indicò l'uscita dell'ufficio.
Anya si schiarì la gola: «Certo. Per questo siamo qui.» Prese il bicchiere dalle mani di Lexa e lo riappoggiò sul tavolino. 
«L'incontro con Bellamy e Octavia Blake è fissato per domani pomeriggio alle quattro. Credo che anche questa notte la passerai insonne.» 
Lexa alzò le spalle: «Mi limiterò a mettere le cose in chiaro. Non indorerò la pillola: non possiamo incontrarci a metà strada.»
«Quindi hai trovato una soluzione?» le chiese curiosa e stupita Anya.
«Forse. Ci sto lavorando. Ora che ho guadagnato un po’ di tempo, posso dedicare la giornata a questo» rispose, indicando il grosso fascicolo titolato "Blake&Co.".
Vedendo Lexa sedersi ed iniziare a sfogliare le carte, Anya uscì dall'ufficio. 
Finito il lavoro avrebbe dovuto trascinarla a festeggiare o, per lo meno, a svagarsi. Da quanto tempo non uscivano insieme a bere qualcosa? Anya scosse la testa: Lexa aveva decisamente bisogno di staccare la spina.

Lexa distolse lo sguardo dal computer. 18.30. Sbuffò. Anche quella giornata stava per finire e non era stata meno pesante della precedente. Nonostante non avesse dovuto controllare così tanti fascicoli, i documenti che aveva rianalizzato per avere un quadro più completo della situazione finanziaria della Blake&Co. erano molti e averli riletti di nuovo, senza che il suo attento occhio critico si facesse sfuggire un numero o una clausola, le aveva fatto desiderare un letto. E, soprattutto, di non essersi mai messa in affari con i fratelli Blake: la situazione era più grave di quanto avesse inizialmente previsto. Motivo per cui quella mattina, prima Titus e poi Indra, entrambi soci anziani, erano passati dal suo ufficio intimandole di lasciare la società. 
A poco erano valsi i tentativi di Anya di fare in modo che nessuno la disturbasse, come le aveva chiesto di fare Lexa per telefono verso metà mattina, più per paura che la trovassero con gli occhi chiusi fra i documenti che perché avesse molto lavoro da fare. I due avevano ignorato le parole dell'amica ed erano entrati nel suo ufficio, e per l'ennesima volta in poche settimane avevano scosso la testa alla sua richiesta di pazientare. 
La loro reazione non era stata diversa quando aveva esposto a grandi linee l'idea che l'aveva colta la sera precedente mentre tornava a casa. Ovviamente non era perfetta e andava ancora affinata. I documenti che aveva riletto quella mattina rendevano l'operazione più difficile, ma non impossibile. Aveva solo bisogno di qualcuno che la appoggiasse professionalmente, sia per definire più adeguatamente il piano sia per presentarsi meglio di fronte ai fratelli Blake. 
Il suo pensiero volò a Lincoln. Sicuramente lui non le avrebbe negato un consiglio ed un eventuale appoggio. Annuì mentre decideva che lo avrebbe chiamato appena arrivata a casa.
«Gustus è arrivato. Ti aspetta di sotto.» Anya entrò nell'ufficio di Lexa.
«Vuoi un passaggio a casa?»
«No, tranquilla. Ti chiamo più tardi. Devo ancora sistemare un paio di cose.»
«Come vuoi.» Lexa scrollò le spalle mentre Anya spariva nuovamente.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia e si girò verso le vetrate. Aveva già iniziato a fare buio. Si prese qualche minuto per osservare lo skyline di New York. 
18.48. Un lungo sospiro accompagnò i suoi movimenti mentre si alzava e si infilava il cappotto. Prese la borsa ed uscì dall'ufficio trovando la scrivania di Anya vuota. O, meglio, senza Anya. La sua borsa ed il suo cappotto erano malamente gettati accanto al computer. Preferì non farsi domande ed avviarsi verso l'ascensore. 
Come le aveva detto la collega, Gustus la stava aspettando di fronte all'uscita del palazzo. Appena la vide, la salutò gentilmente e le aprì la portiera. Lexa lo ringraziò prima di salire e chiedergli di accompagnarla a casa.
Era tanto presa ad osservare fuori dal finestrino dell'auto che si accorse solo dopo qualche secondo che l'auto si era fermata e che Gustus le aveva aperto la portiera per scendere.
«A domani, Gustus.»
«Buonanotte, Miss Woods.»
Lexa si avviò verso la palazzina e varcò la soglia. Appena raggiunse il proprio pianerottolo iniziò a cercare le chiavi avanzando lungo il corridoio.
Quando il calore dell'attico la avvolse, Lexa si lasciò cullare dalla sensazione di pace. Non perse tempo: si tolse cappotto e scarpe e si avviò verso il bagno. Ignorò completamente il telefono e la posta che aveva recuperato. Prima si sarebbe concessa un po’ di riposo fra le bolle della vasca ed un bicchiere di champagne, poi avrebbe pensato a chiamare Lincoln e Anya. Per quanto volesse loro bene, il suo corpo e la sua mente reclamavano il silenzio e le telefonate con i due sarebbero durate parecchio. Per motivi diversi, ovvio, ma fra affari e ramanzine non sapeva cosa le avrebbe fatto peggio in quel momento.
Si immerse nella vasca e, dopo aver bevuto un sorso dal bicchiere, inevitabilmente il calore dell'acqua e il sonno ebbero la meglio e si appisolò per più di mezz'ora, ignorando il telefono che squillava. Non appena sentì tornare le forze necessarie per sostenere una chiamata di lavoro e di Anya uscì dalla vasca avvolgendosi attorno ad un asciugamano e tornò in salotto.
Ringraziò le luci automatiche che Anya aveva insistito si facesse installare -"Hai dei privilegi: sfruttali" le aveva continuato a ripetere per giorni, finché Lexa non aveva ceduto - in tal modo non dovette preoccuparsi di cercare gli interruttori o di camminare tentoni al buio. Arrivata di fianco al telefono riprodusse i tre messaggi in segreteria.
"Lexa, sono Aden. È molto che non ci sentiamo. So che l'azienda ti porta via molto tempo, ma io e Luna ci stav..."
Interruppe il messaggio prendendo un sorso dal flûte e riprodusse il successivo.
"Miss Woods, sono Murphy, del New York Times. Se si ricorda, mi aveva lasciato il numero con la promessa di un'intervista. Non si è fatta più sentire ed ho pensato di..."
Sbuffando sonoramente interruppe il secondo messaggio, sperando che il terzo non le provocasse noia, dal momento che aveva appena svuotato il bicchiere.
"Lexa, è un'ora che ti chiamo. - Il tono scocciato di Anya fece sorridere Lexa - Ti passo a prendere alle nove." Lexa stava per interrompere anche quel messaggio, ma il nome di Lincoln la fece desistere. "Lincoln ci aspetta al TonDc. Dice che è troppo tempo che non vede il tuo bel faccino e gli manca. Quindi ti conviene iniziare a prepararti. Il tempo scorre e la mia pazienza si sta lentamente esaurendo. Alle nove, chiaro? Non accetto scuse."
E Lexa non avrebbe provato a rifilargliene alcuna. Ci sarebbe anche stato Lincoln e la situazione non andava che a suo favore. 
Appoggiò il flûte vuoto sull'isola della cucina, guardando l'orologio. Anche quella sera non avrebbe cenato. Si passò una mano fra i capelli: aveva decisamente più bisogno di bere una birra in compagnia e lasciare la maschera di Alexandra Woods a casa per quella sera. 
Come promesso - o minacciato- Anya si presentò con un taxi alle nove in punto, sollevata dal fatto che non avesse dovuto supplicare l'amica per uscire: a volte era veramente irremovibile sulle sue decisioni. Non che lei fosse molto diversa, ma era sicuramente più incline a lasciarsi convincere.  

Vedendo TonDc non si sarebbe mai potuto dire che quello fosse un posto per Alexandra Woods: biliardo, tavolacci di legno abbandonati al centro del locale, pareti piene di foto e di pagine di giornale, atmosfera da venerdì sera e grandi altglass di birra che scivolavano sul bancone. Proprio per questo motivo Lexa amava andarci con Anya e Lincoln. Lì poteva essere una giovane donna qualsiasi a New York che si divertiva con gli amici e non Alexandra Woods. 
Appena la vide, Lincoln le si avvicinò abbracciandola affettuosamente. «Se non fosse che i giornali parlano di te in continuazione, penserei che tu sia spartita dalla circolazione» le disse ridendo.
«Lo so ma, come ben sai, è difficile allontanarsi dalle scartoffie.»
«Oh, certo, Lexa. Solo tu non ci riesci proprio» si intromise Anya, come sempre, mentre Lexa le rivolgeva un altro sguardo truce.
Lincoln indicò loro un tavolo in fondo alla sala e presero posto.
«Allora, ditemi un po’. Oltre ad aver quasi fatto affondare la Woods Corp. e ad averla riportata in auge in sole due settimane, cosa avete fatto?»
«Niente di che Linc. Sai, questa testa calda qui, pensa solo ai numeri. Io invece il solito -»
«Una sera di qui, una sera di là. Un letto di qui, un letto di là» la interruppe Lexa imitando il tono con cui l'amica era solita descrivere le sue avventure.
«Mi dispiace deluderti, ma no. Una sera di qui e una sera di qui. E nessun letto.» Ammiccò a Lexa con un occhiolino.
I due ragazzi, increduli, passarono lo sguardo sulla figura di Anya, per poi guardarsi e scoppiare a ridere.
«Non sto scherzando» li rimproverò offesa.
«Avanti non te la prendere.» Lexa le diede una spinta sulla spalla.
«Lexa era molto peggio al liceo» annuì Lincoln mentre il barista porgeva loro le birre.
Toccò ad Anya prendersi gioco di lei, ora: «Oh già. Ricordi la mora? Come si chiamava?»
«Le more» specificò Lincoln. «E le bionde» continuò.
«Ma le migliori erano le rosse. Quelle sì che facevano staccare Lexa dai numeri.»
Lexa li guardò offesa. Ricordava come il liceo fosse stato il periodo più tranquillo della sua vita: niente a cui pensare, nessuno a cui pensare tranne che a se stessa. Poi il liceo era finito. Anya aveva dovuto accontentarsi di un college statale: la società del padre era fallita pochi mesi prima e aveva consumato tutti i risparmi di una vita. L'amica aveva poi dovuto abbandonare il sogno di diventare avvocato quando neppure i pochi soldi che aveva messo da parte da sé le bastavano per coprire le spese. Invece lei e Lincoln erano andati ad Harvard, chi per proseguire la tradizione di famiglia, chi per una borsa di studio. 
Harvard. Il luogo che più le aveva donato e che più le aveva tolto.
Il suo sguardo si incupì all'improvviso, spostandosi ad osservare il fondo della bottiglia di birra.
Non notò gli sguardi preoccupati che le lanciarono Lincoln e Anya. Era troppo presa a ricordare una vita precedente. Una vita che, purtroppo, non le apparteneva più, che le era stata strappata via in pochi mesi e il cui spettro le ricordava continuamente il peso delle responsabilità che veniva abbandonato all'improvviso sulle sue spalle, senza che nessuno le chiedesse se fosse pronta ad essere veramente adulta, veramente responsabile. 
E Lexa era diventata solo Alexandra Woods. Solo un'anima a cui era stata strappata via l'altra metà. Solo il Commander di Wall Street. Solo l'ereditiera di una delle famiglie più potenti di New York.
Fu Lincoln a rompere il silenzio che era sceso: «Che ne dici di darmi la rivincita a biliardo?» le chiese con tono comprensivo.
«Per quanto odi ammetterlo, Linc, Lexa è troppo forte con la stecca. Anche se non si direbbe.» Anya tentò di virare la conversazione verso acque più leggere, ma ciò che ricevette in cambio non fu altro che lo sguardo di supplica di Lexa. 
Era uscita quella sera per svagarsi. Per non pensare troppo alla Woods Corp., ad Harvard, a ciò che aveva perso, a ciò che aveva guadagnato. Voleva solo essere Lexa, quella sera. Eppure in pochi istanti si era resa conto di essere tutto quello: Lexa era anche Alexandra Woods, ma Alexandra Woods era anche Lexa. 
Svuotò la bottiglia di birra e si alzò di colpo dalla sedia: «Ti concedo la rivincita.»
«Perfetto allora.»
Lexa lo interruppe: «A patto che se vinco io mi dai una mano con la Blake&Co.»
Vide Anya alzare gli occhi al cielo e sbuffare.
«Affare fatto» rispose Lincoln.





NdA 
Dopo vari - e non ancora del tutto risolti - ripensamenti l'ho pubblicato: il primo capitolo della long a cui lavoro da ormai mesi.
Più rileggo più non mi convince, soprattutto i primi capitoli, forse perché avevo uno stile un po' diverso, forse perché in realtà la forma finale non mi convincerà mai. 
E quindi niente, questo è il primo capitolo in cui vengono presentati alcuni dei personaggi principali. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.
Grazie mille per aver letto.
Grazie mille anche alla mia pazientissima beta che sopporta ogni mio sclero. 
A presto, 

Chiara 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

«Dovresti, Clarke.»
«Oh, certo. E poi?»
«Octavia capirebbe.»
«Ma Bellamy no.»
«'Fanculo Bellamy. Da quando dipendi da lui?»
«Da quando mi paga più di quanto dovrebbe per permettermi di coprire le spese del corso.»
«Pensi davvero che il merito sia suo e non di O'?»
«Non ho detto questo, ma sono in due. E in due decidono.»
Clarke sentì l'amica dall'altro capo del telefono sospirare: «Griffin. Prima o poi mi farai perdere la pazienza.»
«Non sono io quella che ha ignorato le mie chiamate per più di un'ora.»
«Te lo concedo. Ma, seriamente, Clarke: prendi in considerazione la mia proposta. Sinclair sarebbe più che disponibile ad offrirti un lavoro finché ne avrai bisogno.»
«Sinclair è più che disponibile a fare favori a te e a mia madre, non a me.»
«Dovresti accettare l'aiuto di chi deve qualcosa a tua madre.»
«Raven, ti prego, non ricominciare.»
«Sto solo dicendo che non puoi continuare a far finta di niente. Dovresti essere meno orgogliosa e farti aiutare di più.»
«Non lo so.»
Clarke fissò la matita che stava facendo girare fra le dita. Avrebbe dovuto veramente accettare quel lavoro? In fondo le avrebbe fatto comodo: orari non troppo pesanti e paga più che sufficiente. Eppure l'idea che Sinclair le stesse avanzando l'offerta solo perché era la figlia di Abby Griffin la turbava molto. Aveva sbattuto la porta in faccia a sua madre diverse volte negli ultimi anni: sarebbe stato da ipocriti accettare qualcosa che le veniva offerto in suo onore. 
«Clarke? Sei ancora lì?» Raven la chiamò dall'altro capo del telefono.
«Sì, stavo solo pensando.»
«Oh, lo avevo capito. Sento le tue rotelle che girano da qui.» Sentì la risata di Raven e non riuscì a trattenere la propria.
Approfittando del clima più tranquillo, Clarke cambiò discorso: «Allora, dimmi un po': cosa teneva così impegnata Raven Reyes da farle ignorare le mie chiamate?»
«Vuoi sapere troppo, Griffin.»
Clarke iniziò a muovere la matita sul foglio bianco disegnando dei cerchi, mentre pensava ad un modo per far sputare il rospo all'amica. 
«Quindi significa che non avevi le mani impegnate in qualche progetto super segreto di Sinclair» asserì con tono malizioso.
«Progetti super segreti di Raven Reyes ti basta come spiegazione?» le rispose l'amica, sospirando.
«A me? Forse sì. Ma non credo basti ad Octavia.»
«Fantastico. Ma sappiate che i miei segreti hanno un costo abbastanza elevato.»
«Sono sicura che non sarà una perdita offrirti una cena per sentire chi è la causa del tuo avere la testa fra le nuvole nelle ultime tre settimane.» Clarke rise di nuovo immaginandosi Raven ruotare gli occhi dall'altro capo del telefono. 
Dopo qualche secondo di silenzio, sentì Raven sbadigliare. 
«Spero che la tua nuova fiamma non ti annoi tanto quanto me.» 
«Buonanotte Clarke» le rispose Raven fingendo un tono scocciato.
«Buonanotte anche a te, Reyes.» Clarke chiuse la chiamata.
Si stropicciò gli occhi, prima di riportare l'attenzione sul libro che aveva di fronte. Mancavano pochi mesi all'esame finale del corso e approfittava delle sere in cui tornava a casa meno stanca per studiare. Ci teneva molto ad avere quel certificato: significava essere più vicina a lavorare in una galleria d'arte e, di conseguenza, più vicina al poter esporre le proprie creazioni. Inoltre il professor Wallace le aveva offerto un posto alla galleria dell'Università per quando avrebbe finito il corso. E ciò non faceva che rendere Clarke contenta di aver seguito le proprie aspirazioni - e non quelle che la madre aveva provato ad imporle - e orgogliosa di se stessa. Soprattutto se pensava alla frase che era solito ripeterle suo padre: "Nessuno ti dirà mai se hai talento. Devi credere in te stessa e fare del tuo meglio per dimostrare quanto vali. Forse allora sì che qualcuno riconoscerà il tuo talento". 
Clarke non aveva dimostrato niente a Wallace, se non la propria passione e sensibilità verso l'arte, ma, nonostante ciò, l'uomo aveva riconosciuto il suo talento, e aveva sentito per i corridoi dell'Università che era una cosa insolita da parte del professore, che, solitamente, si mostrava molto freddo verso gli studenti.  
Sospirando Clarke decise di non perdersi in futili pensieri e proseguì nella lettura del capitolo.

Bellamy si sistemò meglio sulla sedia cercando di nascondere una faccia perplessa: «È possibile una cosa del genere?»
«Non è facile, ma neppure impossibile» rispose atona Lexa, seduta dall'altro capo del tavolo. Lincoln confermò la versione della collega.
«Non metto in dubbio l'attuabilità del piano che ci ha esposto, quanto più la sua parola. Ci sarà un motivo se alcune voci sul suo conto girano con insistenza» rispose l'amministratore della Blake&Co., puntando lo sguardo in quello impassibile e freddo di Lexa. La donna dal canto suo si limitò ad alzare il mento e a squadrare l'uomo che le sedeva di fronte.
Lincoln non tentò neppure di entrare nel conflitto silenzioso che i due stavano combattendo da quando si erano seduti al tavolo, semplicemente lanciò alla sorella dell'amministratore uno sguardo complice ed imbarazzato, che venne ricambiato dalla ragazza, a cui la situazione non era passata inosservata. Motivo per cui, quando le sembrò che il silenzio fosse durato troppo, Octavia decise di prendere parola: «Quello che mio fratello vuole intendere è: come facciamo ad essere sicuri che il contratto che ci proponete non abbia clausole che ci penalizzeranno?» Quando fu sicura di avere di nuovo l'attenzione del capo della Woods Corp. continuò a parlare: «Quale ragione spingerebbe Alexandra Woods ad acquisire una società piccola come la nostra evitando di creare meno danni possibili ad entrambe le parti e non solo alla sua? Sappiamo bene che nessuno viene risparmiato nel mondo della finanza. Tanto meno da Alexandra Woods.»
Lincoln guardò Octavia stupito: la ragazza non aveva parlato per un'ora, limitandosi ad ascoltare, e quando lui e Lexa avevano esposto il piano gli era sembrato quasi che non fosse realmente attenta o che, comunque, facesse molta fatica a seguire gli schemi che stavano esponendo. Per la prima volta da quando era iniziato il meeting si domandò se non fosse lei la più ferrata dei fratelli Blake in quel campo.
«Sono dubbi ragionevoli» confermò Lincoln spostando lo sguardo da Octavia a Lexa. «Ma vi assicuro che Alexandra Woods è tanto uno squalo in borsa quanto una persona di parola.»
Bellamy Blake scosse nuovamente il capo: «Lei è dalla sua parte. Vorremmo una consulenza più oggettiva.»
«Consulenza di cui vi farete carico voi» lo interruppe Lexa.
«Il contratto verrà steso da noi il prima possibile e vi daremo l'opportunità di consultarlo nella vostra sede e non qui, in questo ufficio. Più di questo non possiamo offrirvi» proseguì Lincoln.
Octavia guardò il fratello cercando un segnale di approvazione, che, come temeva, non arrivò.
«Qualora trovassimo dei punti su cui non siamo d'accordo ci sarà possibile modificarli» propose Bellamy.
Lexa strinse la mascella e ruotò gli occhi. Le stava facendo perdere la pazienza: come faceva a non capire che il coltello dalla parte del manico non l'avevano loro? Un altro motivo per cui la Blake&Co. stava fallendo: l'arroganza di Bellamy Blake. Ignorò l'affermazione dell'uomo: «Mi sembra di avervi illustrato la proposta chiaramente. Aspettiamo la vostra conferma entro domani sera. Stenderemo il contratto entro lunedì. Me ne occuperò personalmente, se ciò la può rassicurare, Mr Blake. Ma non sarò tanto flessibile ad altre proposte.» Lexa si alzò dalla sedia imitata da Lincoln. «È un prendere o lasciare, non posso spingermi oltre. E, se mi permettete, neppure voi: siete all'ultima spiaggia» aggiunse allacciandosi il bottone della giacca del tailleur e passando di nuovo lo sguardo freddo sui due fratelli.
«Le faremo sapere entro domani» disse Octavia alzandosi a sua volta e porgendo la mano a Lexa e Lincoln, che le riservò un sorriso appena accennato. 
Bellamy imitò la sorella continuando a guardare Lexa con diffidenza.
«La ringraziamo per il suo tempo. Arrivederci, Miss Woods. Mr White» disse Octavia allontanandosi dal tavolo e avviandosi verso la porta.
Quando fu certa che i due fratelli si fossero allontanati, Lexa rilasciò un lungo sospiro: «Non credo la mia pazienza durerà ancora molto.»
Lincoln la guardò divertito: «Perdonalo. Si vede che non è il suo campo.»
«Non avrei mai pensato che sarebbe stato così tanto difficile.»
I due raccolsero i documenti e uscirono dalla sala meeting. 
«Mi auguro siano abbastanza svegli da capire che la mia proposta è quella che li danneggerà meno. Se vogliono uscire di scena a testa alta, io sono l'unica che può permetterglielo» commentò Lexa mentre si avvicinavano alla scrivania di Anya.
«Credo sia proprio questo il problema» rispose Lincoln sospirando.
Lexa lo guardò confusa.
«Bellamy Blake vuole uscirne a testa alta da solo, senza l'aiuto di nessuno» le spiegò.
«È infantile. L'orgoglio è segno di debolezza. Soprattutto se non te lo puoi permettere» rispose la mora con una smorfia irritata mentre si appoggiava alla scrivania di Anya.
Lexa e Lincoln erano tanto concentrati sulla discussione e sui documenti da non accorgersi che Titus si era affiancato loro: «Come la pietà e la compassione, Miss Woods.»
«Titus. Hai bisogno?» Lexa lo fissò freddamente alzando di nuovo il mento.
«Sì, passavo per consegnarti questo.» Le mostrò un fascicolo prima di proseguire: «Così si chiude un'acquisizione in poco tempo. Evidentemente lo hai dimenticato.»
Lexa inarcò un sopracciglio mentre l'uomo le porgeva il fascicolo e si allontanava.
«Dovresti licenziarlo. O fargli abbassare la cresta» le suggerì Anya alzando lo sguardo dallo schermo del computer. Lincoln annuì.
«Perché non licenziamo tutta la Woods Corp.?» commentò con una punta d'ironia Lexa aprendo il fascicolo e facendo passare l'occhio sul primo documento: «Proprio come ha fatto Titus per concludere il contratto con l'Azgeda.» Sospirò, passandosi una mano sulla fronte. 

Era ormai la dodicesima volta che Clarke provava a sommare tutti i valori sul foglio ed ogni volta o veniva interrotta o le usciva un risultato diverso. Si appoggiò allo schienale della sedia chiudendo gli occhi. 
"Mezz'ora. Manca solo mezz'ora" pensò, rilasciando un lungo sospiro.
Anche quella giornata l'aveva spesa al telefono cercando di calmare i creditori e di far guadagnare tempo ad Octavia e Bellamy. In tutta la sua vita non aveva mai sentito così tanti insulti e scatti d'ira come nel corso di quel pomeriggio. Le venne un'altra fitta alle tempie e aprì gli occhi, rovistando nel cassetto alla ricerca di qualcosa che potesse farle passare il mal di testa. Quando, dopo aver trovato ciò che cercava, alzò lo sguardo, vide Bellamy superare la sua scrivania con passo deciso ed entrare nel suo ufficio sbattendo la porta.
«Bellamy, aspetta.» Octavia le si avvicinò sbuffando.
«Tutto bene?» le chiese gentilmente Clarke, più in veste di amica che di dipendente. 
«No. Per niente.»
«Alexandra Woods l'ha fatto irritare di nuovo?» indagò la segretaria, aggrottando le sopracciglia. In qualsiasi altra situazione avrebbe riso di fronte all'irritazione che tutte le volte il capo della Woods Corp. riusciva a scatenare nel maggiore dei fratelli Blake.
«Direi piuttosto il contrario» rispose Octavia scuotendo la testa prima di proseguire: «Se mostri gli artigli ad Alexandra Woods, devi essere pronto a subire un attacco. Peccato che Bellamy non lo capisca.» Octavia si appoggiò alla scrivania di Clarke fissando la bustina per il mal di testa. «Non stai bene?» le chiese preoccupata.
Clarke scosse la testa e con un gesto della mano sminuì il problema.
La Blake sospirò di nuovo: «Come devo fare con voi due?» Le rivolse un sorriso forzato prima di allontanarsi per prendere un bicchiere e dell'acqua. 
Clarke la ringraziò.
«Mi ha mandato un messaggio Raven. Dice che stasera ha un impegno, ma che domani sarebbe più che contenta se le offrissimo una cena» la informò Octavia.
«Fantastico» rispose distrattamente Clarke, mentre faceva sciogliere la medicina nell'acqua. 
Bellamy aprì la porta dell'ufficio cercando la sorella: «Ehi, O', ho bisogno di parlarti.» Poiché Octavia non accennava a spostarsi dalla scrivania, aggiunse con tono perentorio: «Ora.» Sparì di nuovo dietro la porta del suo ufficio.
«Meglio che vada.»
«Sì, meglio.»
«Spero di riuscire a convincerlo. Alexandra Woods e Lincoln White ci sono venuti incontro il più possibile.»
«Quel Lincoln White?» la interruppe stupita Clarke.
«Già, proprio quello» confermò Octavia. 
Clarke non poté non notare il sorriso che era spuntato sulle labbra dell'amica prima che le desse le spalle ed entrasse nell'ufficio del fratello.
La segretaria svuotò il bicchiere e riprovò di nuovo a fare i calcoli, non riuscendo a trattenere un sospiro. 
Pochi minuti dopo, Clarke vide Octavia chiudersi la porta alle spalle e avvicinarsi a lei: aveva il volto scuro e gli occhi lucidi. Clarke odiava quando Bellamy si comportava da stronzo con la sorella. Sin da quando erano piccoli, per quanto volesse solo fare il fratello maggiore, non faceva altro che sminuire Octavia facendole notare il più piccolo errore o difetto. Clarke strinse i pugni alzandosi dalla sedia. 
«Vado io a parlargli» sibilò, superando l'amica e poggiandole la mano sulla spalla. Octavia annuì prendendo il suo posto alla scrivania e ringraziandola con il capo. 
Quando Clarke entrò nell'ufficio dell'amministratore senza bussare, lo trovò in piedi girato verso le vetrate e con le mani in tasca.
«Cosa vuoi, Clarke?» le domandò senza voltarsi.
Clarke non rispose, ma gli si affiancò cercando di mantenere le distanze e di apparire il più severa possibile. «Non dovresti trattare Octavia in questo modo. Lei ci sta veramente provando a salvare questa società e la vostra reputazione. Dovresti provarci anche tu.»
Lo sguardo di Bellamy si indurì mentre stringeva i denti. 
«Anche se ciò volesse dire accettare l'aiuto di chi odi» aggiunse la ragazza, voltando la testa nella sua direzione. L'uomo continuò a fissare il traffico di New York. 
Dopo qualche attimo di riflessione, Bellamy ricambiò lo sguardo di Clarke: «Non posso accettare la sua proposta.»
«Perché? Da quanto mi ha fatto capire Octavia, sta cercando di crearvi meno danni possibili.»
«È proprio questo il problema. Non mi fido di lei. Potrà anche abbindolare Octavia, ma non me. Inoltre è per persone come Alexandra Woods se ora siamo in questa situazione.»
«Mi sembra una persona di parola.»
«L'apparenza inganna, Clarke. Dovresti averlo ormai capito» le rispose avvicinandosi maggiormente a lei.
«Devi darle una possibilità. Accetta l'accordo e aspetta di avere in mano il contratto.» 
«La Woods Corp. ha già ingannato mio padre una volta. Credi che lei non sarebbe pronta a rifarlo?»
«Non dico questo. Semplicemente non ti prenderebbe in contropiede.» Appoggiò la testa sulla spalla dell'uomo prima di continuare: «Come amministratore di quest'azienda hai delle responsabilità: devi mettere i tuoi dipendenti e il loro futuro prima del tuo orgoglio.»
Clarke sentì Bellamy irrigidirsi a quelle parole. Motivo per cui decise di andare avanti a parlare: «Se non ti fidi di lei, fidati di me. L'ho guardata negli occhi e mi sembra sincera. Fredda, distaccata, apatica, non lo metto in dubbio, ma sincera.»
Bellamy chiuse gli occhi. «Lo spero» le disse prima di poggiare delicatamente le labbra sulla fronte di Clarke.

«Oddio, Clarke. Perché non chiedi a Bellamy un aumento la prossima volta? Magari anche di offrirmi una vacanza alle Bahamas.» Il tono di Raven rimarcava ironia ad ogni parola attraverso il telefono.
«Ora capisci perché non posso accettare l'offerta di Sinclair?» le chiese Clarke aprendo il frigo e prendendo una bottiglia di birra.
«Certo. Perché Bellamy ha una cotta per te e ascolta solo te» continuò a scherzare l'amica. 
Clarke ruotò gli occhi, scocciata. «Con te non si può intavolare un discorso serio.» Aprì la birra e prese un sorso. 
«Ti ricordo che ieri sera eri tu quella che continuava a tergiversare la conversazione sull'ironico. E poi se volessi reggerti il moccolo quel poco tempo che riusciamo a sentirci, Griffin, ti parlerei di Finn, Wick e di questa cazzo di gamba.» Ora Raven aveva decisamente cambiato il tono della voce e Clarke non poté fare a meno di sentirsi in colpa immaginando che l'amica, dall'altro capo del telefono, si fosse appena data un pugno sulla gamba. Infatti sentì un gemito strozzato pochi istanti dopo.
Clarke decise di cambiare argomento, sforzandosi di ignorare quella malsana abitudine di Raven: «A proposito di ieri sera. È ancora il tuo super progetto segreto che ti impegna stasera?»
«Può darsi.» Clarke si rasserenò sentendo il tono dell'amica tornare quello di sempre. Sorrise leggermente sedendosi sul divano e prendendo un altro sorso di birra. 
«Mi dai qualche indizio?» le chiese Clarke speranzosa.
«Anche gli indizi costano. Cosa credi?» 
Clarke sentì cadere qualcosa dall'altro capo del telefono e l'amica imprecare.
«Ehi, tutto bene?»
«Sì. Sì. Tranquilla. È tardissimo. Meglio che vada. Odia il ritardo.»
«Oh. Quindi è una persona.» Alzò un sopracciglio maliziosamente, come se Raven potesse vederla.
«Sta' zitta. Buona serata, Clarke.»
«Buona serata a te. Sei proprio cotta, eh, Reyes?»
«'Fanculo.»
Clarke sentì il beep che annunciava la fine della chiamata e scoppiò a ridere: si sarebbero divertite un mondo, lei e Octavia, la sera dopo a cena. Raven, forse, un po’ meno.





NdA
Qui succedono un po' di cose.
Prima di tutto conosciamo l'altra metà del "Team delle meraviglie" un po' meglio, e poi abbiamo lo scontro fra Lexa e Bellamy - e devo dire che scrivere di una Lexa così autoritaria è sempre divertente. Riguardo a questo: ho cercato di riprendere alcuni dei piccoli gesti che Lexa compie spesso nella storia originale, spero di esserci riuscita. 
La frase del padre di Clarke è una specie di citazione al film "Carol".
Grazie mille per aver letto, se vi va fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo.
A presto, 

Chiara

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

«Certo, riferirò a Miss Woods.» Dopo una breve pausa parlò di nuovo: «Buona giornata anche a lei.»
Lexa guardò Anya appoggiare la cornetta del telefono.
«Allora?» chiese, mal celando impazienza. 
«Ha detto che Octavia e Bellamy Blake hanno accettato la proposta» la informò Anya sorridendo leggermente.
«Bene.» Lexa guardò l'orologio sul polso. «Non voglio essere disturbata fino alle due.» Si avviò verso la porta dell'ufficio aggiungendo: «Passami Lincoln appena lo rintracci. Necessito del suo parere riguardo ad una clausola del contratto.»
«Non vuoi sapere chi era al telefono?» le chiese Anya con tono malizioso prima che Lexa potesse rifugiarsi nel proprio ufficio.
«No» le rispose alzando un sopracciglio e scuotendo la testa, come a sottolineare maggiormente la propria decisione. 
«Ne sei sicura?»
«Sì.»
«E se non ti credessi?»
Lexa si voltò verso l'amica, dopo un attimo di riflessione. «Quindi?»
«Era la biondina. "Clarke Griffin, della Blake&Co., volevo avvisare Miss Woods che i signori Blake hanno accettato la proposta. Porga i miei saluti ad Alexandra.".» Anya non ebbe modo di fuggire allo sguardo truce che Lexa le rivolse. 
«Non ti ha salutato solo perché sicuramente Bellamy Blake stava assistendo alla chiamata, altrimenti scommetto che l'avrebbe fatto più che volentieri: nessun sfugge al sex appeal di Alexandra Woods» continuò a canzonarla Anya.
«Direi che, se hai finito di fare la stupida, torno al mio lavoro» tagliò corto Lexa aprendo la porta. Anya mimò la frase appena pronunciata dal suo capo.
«Ti vedo» la apostrofò mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.
Anya sorrise di nuovo: si divertiva troppo a prendersi gioco dell'amica, solitamente così riservata per quanto riguardava quella parte della sua vita. Soprattutto dopo Harvard.
«Buongiorno, Miss Forest.» Un giovane ragazzo dai tratti asiatici si avvicinò alla sua scrivania. Anya alzò un sopracciglio invitandolo a parlare.
«Sono Monty Green. Sostituisco il mio capo. Aveva un impegno, quindi controllerò io il piano previsto per oggi» le riferì il ragazzo.
Anya tentò di mascherare una punta di delusione e si alzò dalla sedia, invitandolo a seguirla: «Da questa parte.»
Lo condusse verso l'ascensore: «Oggi tocca all'ala ovest del decimo piano. Chiedi di Becca, gestisce la sicurezza informatica dell'edificio, ti può dare indicazioni, se hai bisogno.» Chiamò l'ascensore premendo il pulsante. Quando le porte scorrevoli si aprirono, Anya salutò Monty Green con un cenno del capo e tornò alla propria scrivania. 
Digitò il numero di telefono di Lincoln e, dopo aver salutato l'amico, passò la linea a Lexa.

Clarke si mise il cappotto e prese la borsa, prima di voltarsi verso Octavia: «Dove andiamo?»
«Ho prenotato un tavolo al giapponese vicino a Central Park.»
«Oh. Non vi dispiace se porto questo con me, vero?» Clarke prese un blocco dalla scrivania e lo mise nella borsa.
«No, tranquilla. L'importante è che non mi lascerai da sola ad affrontare Raven: l'ultima volta non è andata molto bene.» Octavia si grattò la fronte mentre a Clarke sfuggiva una piccola risata al ricordo di Raven che versava il proprio mojito sulle scarpe della mora. 
Octavia ruotò gli occhi, decisamente meno divertita rispetto all'amica: «Tanto non erano le tue scarpe, no? Possiamo andare?»
Clarke annuì e seguì Octavia verso l'ascensore.
«Andate di già?» Bellamy richiamò la loro attenzione avvicinandosi velocemente.
«Sono le sette e mezza» osservò Octavia come se stesse constatando l'ovvio.
«Lo vedo. Intendevo se volevate unirvi a me e Miller per andare a bere qualcosa. Ha litigato con il suo ragazzo ed io non sono pratico di queste cose. Magari voi potete aiutarlo.»
«Mi dispiace per Nathan, ma dovrà farsi bastare i tuoi consigli: serata fra donne» replicò Octavia chiamando l'ascensore.
«Certo che voi siete così utili quando si tratta di aiutare un amico» commentò Bellamy ricevendo uno sguardo contrariato da parte di Clarke. «Stavo solo scherzando» si affrettò a chiarire alzando le mani.
Quando uscirono dal palazzo, Bellamy si preoccupò di fermare un taxi per loro. 
«Buon divertimento. Salutate Raven da parte mia» disse loro mentre salivano sull'auto.
«Non credo Raven voglia essere salutata da Bellamy» commentò Clarke ridendo.
«No, sono d'accordo con te» confermò Octavia ricevendo uno sguardo malizioso da parte della bionda. «Non mi ci far pensare, ti prego, Clarke. A distanza di anni me ne vergogno ancora.»
«Più che vergogna, mi sembra ribrezzo» sussurrò Clarke leggermente divertita, mentre spostava lo sguardo fuori dal finestrino.
Pochi minuti dopo erano scese dal taxi sperando che Raven fosse davanti al ristorante ad aspettarle. Ma, ovviamente, chiedevano troppo. 
«Prova a chiamarla» suggerì impaziente Octavia cercando con lo sguardo eventuali taxi che si erano fermati lì vicino. 
«Provo» rispose Clarke, con il telefono già all'orecchio.
Pochi istanti dopo sentì la voce affannata dell'amica: «Sì, lo so. Sono in ritardo pazzesco.» 
«Dove sei Reyes?» chiese scocciata Octavia con un tono abbastanza alto, affinché l’amica potesse sentirla. 
«Sono qui. Datemi due secondi.» Un'altra pausa. «Sono scesa prima dal taxi quando ho visto l'ingorgo e vi sto raggiungendo a piedi.»
«Tu cosa?» Il tono di Clarke tradiva sia rabbia che preoccupazione, Octavia lo notò e lanciò uno sguardo preoccupato all'amica.
«Tranquilla. Sono qui. Guarda.» Clarke fece passare lo sguardo lungo tutto il marciapiede finché non individuò una figura in lontananza che agitava un braccio in alto per attirare l'attenzione. 
«Sei stupida, Reyes» le rispose prima di attaccare. 
«Cos'ha fatto?» le chiese Octavia, osservando Raven avvicinarsi a loro, ansimante. 
«Chiedilo a lei.» Con un sopracciglio alzato e un cenno del capo indicò Raven che era ormai a pochi passi da loro. 
«Scusate il ritardo.» Si scusò abbracciando le due amiche.
«Tranquilla. Non avevamo dubbi» commentò Octavia facendo strada verso l'ingresso del ristorante.
«Spero che il tuo super segreto sia la causa di questo tuo ritardo e della tua incosciente corsa verso di noi» disse acida Clarke.
«Tu cosa?» disse Octavia spostando lo sguardo dal cameriere, che le aveva appena chiesto il nome della prenotazione, a Raven.
La ragazza si schermì leggermente alzando le spalle, prima di rispondere al posto dell'amica, nel tentativo di sviare la questione: «Blake.»
«Da questa parte.» Il cameriere le guidò verso un tavolo posto nell'angolo del locale e lasciò loro tre menù.
Le ragazze si accomodarono e Raven non perse tempo, anticipando le domande ed i riproveri delle due amiche: «Tranquille, non mi fa male.»
«Sicuramente. Lo dicevi anche prima che ti operassero la seconda volta» le fece notare Clarke.
«Vi dico davvero. Questa mattina sono andata da Abby.» Si interruppe per due secondi, sperando Clarke non avesse notato il nome, e si corresse subito: «Dalla dottoressa Griffin e ha detto che dai controlli risulta tutto in regola.»
«Non mi fido. Se fossi in te, Clarke, proverei a chiedere conferma a tua madre» rispose Octavia, chiudendo il menù.
«Già. Stavo proprio pensando di farlo.»
«Ma tu non eri quella che non voleva averci più niente a che fare?» le domandò scocciata Raven.
«Se si tratta di me. La chiamerò domani. E se ci stai mentendo - » Puntò l'indice sotto il naso dell'amica. « - ti assicuro che non la passerai liscia.»
«Fa' pure.» Raven alzò le spalle prima di tornare a leggere il menù. 
Octavia e Clarke si guardarono preoccupate nel notare l'apparente disinteresse dell'amica, che, quando se ne accorse, le fissò interrogativa.
«Lascia perdere. Godiamoci questa serata e inizia a sputare il rospo, Reyes. Non crederai che ci siamo scordate il fine di questa cena?» 
Clarke non aveva voglia di litigare con Raven o, comunque, di affrontare discorsi che riguardassero la madre o qualsiasi problema le affliggesse. No, solo ridere, senza pensieri, sperando di ricavare più informazioni possibili dall'amica.
«Sono d'accordo.» Octavia annuì mentre il cameriere si avvicinava al tavolo.
«All you can eat?» chiese Raven.
«All you can eat» confermarono le altre due.
Lasciarono prendere le ordinazioni a Raven, che era la più afferrata delle tre in fatto di cibo e a cui, dopo tutto, spettava il diritto di scegliere ciò che avrebbero mangiato, dal momento che le dovevano offrire la cena.
Quando il cameriere si allontanò dal tavolo, Octavia non perse tempo in convenevoli: «Allora? Com'è questa nuova fiamma?» Iniziò a gesticolare. «Moro? Biondo? Alto? Basso? Muscoloso? Insomma più un tipo come Wick o qualcosa di totalmente diverso?»
«Frena. Frena. Frena, Blake. Una domanda alla volta. Ti posso dire con certezza che è qualcosa di totalmente diverso.»
«Lo sapevo» intervenne Clarke scoccando le dita. «Moro, poco atletico, poco ingegnere, molto serio, e ciò spiegherebbe il suo astio verso i tuoi ritardi.» 
«Woah. Frena anche tu, Griffin.» Raven scoppiò a ridere. 
«Allora: parla. Di' qualcosa» la incoraggiò Octavia.
Raven sbuffò: «Cosa volete sapere?»
«Quando l'hai conosciuto?» domandò Clarke.
«Tre settimane fa, quando Sinclair mi ha affidato l'intero controllo dei dispositivi telematici della società per cui lavora.»
«Perché Sinclair dovrebbe relegare il suo miglior ingegnere a svolgere dei semplici controlli?» domandò Octavia stupita.
«Oh, è un'azienda importante. Vuole evitare problemi.» 
Il cameriere si avvicinò a loro portando l'acqua. 
Raven riempì un bicchiere, prima di continuare: «E poi diciamo che non gli ho risposto molto bene quella mattina.»
«Figuriamoci! Reyes non sa tenere la lingua fra i denti» commentò Clarke sarcastica.
«Credo sia un bene, no?» 
Il commento sarcastico di Raven fece ridere le altre due.
«Va' avanti.» la incoraggiò Clarke subito dopo essersi ripresa dalla pessima battuta di Raven.
«Uhm... vediamo. Cosa posso dirvi?» Raven si portò due dita sotto il mento, pensando e cercando qualcosa da dire. Alla fine concluse: «Ditemi cos'altro volete sapere.»
«Siete già andati in terza base?» le chiese Octavia.
Raven aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore per trattenere una risata. «Terza base, davvero? Quanti anni hai, O'? Sappiamo tutti che quella faccina pudica d'angelo è una farsa.»
«Parla, Reyes. Non sviare il discorso. Anche se hai ragione.» Clarke trattenne a stento un gemito quando Octavia le tirò un calcio sugli stinchi da sotto il tavolo, mentre faceva una faccia da "ma tu da che parte stai, scusa?".
«Diciamo che il primo approccio non è stato dei migliori. È una persona così autorevole, che vuole avere tutto sotto controllo, e il fatto che volesse controllare il mio lavoro costantemente mi dava molto fastidio.» 
Raven si fermò un attimo mentre il cameriere serviva i piatti e, dopo aver preso il primo pezzo di sushi, continuò a parlare: «Continuavamo a scambiarci sguardi di sfida, insomma: io so fare il mio lavoro, non ho bisogno della supervisione di nessuno.»
«Secondo me hai sempre bisogno della supervisione di un adulto» intervenne Clarke, agitando in aria il nigiri che teneva fra le bacchette.
Raven socchiuse gli occhi e lanciò uno sguardo di falso divertimento alla bionda, mentre Octavia nascondeva con una mano il sorriso che le era appena spuntanto.
«Stavo dicendo: ad un certo punto ho iniziato a sentire la necessita di cercare continuamente i suoi occhi, ero come attratta. Così abbiamo passato la prima settimana fra insulti sussurrati e sguardi rubati.»
«Che romantica. E poi?» la esortò Clarke, volendo arrivare subito al nocciolo della questione. Se Raven si perdeva nei dettagli, voleva dire solo una cosa: era cotta. 
«E poi è successo: stavo controllando il pannello elettrico all'ottavo piano e boom.» Mimò un'esplosione con le mani, stando attenta a non colpire Clarke con le bacchette. «E va avanti così. Non mi è mai capitato di desiderare qualcuno così tanto.»
«Come se la cava?» le chiese Clarke con tono malizioso.
«Oh, Griffin. Dire che è il miglior sesso della mia vita è un eufemismo.» Raven guardò un punto imprecisato dietro Clarke.
«Reyes è in paradiso» commentò Octavia.
«Reyes è cotta da morire. È proprio andata» aggiunse Clarke facendo ruotare l'indice accanto alla tempia.
«Potete dirlo forte.»
«Quindi non lo neghi?» le chiese la bionda abbastanza stupita.
«No, perché dovrei? Non ho mai sentito questa connessione con nessuno, prima d'ora. Neppure con Wick. Lui era così apprensivo nei miei confronti. A volte stavamo giorni lontani solo perché aveva troppo timore di farmi male o che mi stancassi per la gamba. Invece lei non - »
«Lei?» Ad Octavia andò di traverso l'urumaki che aveva appena messo in bocca.
«Reyes tasta nuovi terreni.» Clarke alzò un sopracciglio maliziosamente. 
«Ehi. Non è la prima volta! Per chi mi avete preso?» protestò offesa.
Clarke scoppiò a ridere, mentre Octavia tentava di riprendersi dandosi dei colpetti sul petto.
«Scusa, non volevo offenderti. Semplicemente pensavo preferissi la compagnia maschile, voglio dire: Finn, Wick, Bellamy e tutti gli altri» tentò di giustificarsi Octavia, mentre le due amiche ridevano della sua goffaggine.
Quando la tensione si allentò, Clarke incitò Raven a continuare.
«Lei non si fa problemi. Non mi fa pesare il fatto di dover passare due minuti a togliermi il tutore. E, Dio, lo rende così sensuale.»
«Ti toglie lei il tutore?» le chiese Clarke stupita.
«Sì, si è offerta sin da subito. Non le ho neppure dovuto mostrare come si facesse.»
«Wow. Reyes, hai trovato l'anima gemella.» Octavia annuì al commento di Clarke. Raven, improvvisamente, si rabbuiò portando lo sguardo sulla barca che era stata servita qualche minuto prima.
«Già» sussurrò.
«Qual è il problema?» le chiese gentilmente Octavia notando l'improvviso cambiamento.
«Ieri sera ho fatto un disastro.»
«Spiegati meglio» la incoraggiò Clarke, posando le bacchette e incrociando le mani sotto il mento.
«Sono tornata nel suo ufficio per farle una sorpresa: il pomeriggio era stata impegnata e non avevamo avuto modo di stare insieme. Quando mi ha visto arrivare era molto felice e sorpresa. Abbiamo cenato insieme lì, poi siamo andate nel suo appartamento. Me ne sono andata senza dire niente. Mentre dormiva.»
Un oh da parte di Octavia fu l'unico commento, prima che un pesante silenzio calasse sul tavolo. 
Clarke pensò bene a cosa dire prima di parlare: «Sono sicura che capirà. In fondo mi pare di capire sia un sentimento nuovo per entrambe. Probabilmente avrebbe fatto lo stesso al tuo posto.»
«Lo spero. Non le ho neppure detto che questa mattina non ci sarei stata per la visita medica. È così orgogliosa e testarda. Non sono sicura di riuscire a rimediare.»
«Sei sicura di stare bene? Sei così poco te in questo momento. Insomma non è da te partire in quarta verso la negatività. Secondo me il tuo super segreto ti ha proprio fritto il cervello.» Clarke tentò di alleggerire la conversazione e, quando notò un leggero sorriso farsi largo sul volto di Raven, continuò: «Questo lato nascosto di te lo sta portando a galla lei: faglielo sapere.»
Raven le sorrise, senza cercare di nascondere una profonda gratitudine, e riprese a mangiare con più piacere, mentre Octavia la guardava stupita: «Dove diavolo metti tutta quella roba?»

Durante il weekend Lexa si era dedicata alla stesura del contratto con la Blake&Co., prestando particolare attenzione alle clausole che Lincoln le aveva suggerito di aggiungere affinché in futuro la Woods Corp. potesse risultare tutelata: la procedura che stavano avviando non era semplice, motivo per cui avevano dovuto tentare di predire qualsiasi evoluzione dei rapporti con la società dei Blake. 
Poiché quel lunedì mattina la sveglia non aveva suonato e Anya non l’aveva chiamata per sapere se fosse successo qualcosa, consapevole del fatto che l'amica non aveva dormito molto nelle ultime settimane, Lexa aveva aperto gli occhi che erano già le undici di mattina. Dopo l'iniziale shock si era precipitata in bagno per fare una doccia veloce e si era vestita di fretta. Prima di uscire di casa aveva chiamato Gustus ed era andata nello studio di fianco alla camera da letto per stampare il contratto e metterlo al sicuro nella borsa. 
Mentre era in macchina aveva chiamato Anya, che l'aveva rassicurata: nessuno l'aveva cercata e nessuno si era accorto della sua assenza.
Arrivata davanti all'edificio e scesa dall'auto, salutando Gustus, si era immediatamente diretta verso l'entrata, rinunciando in tal modo al quotidiano caffè da Starbucks.
«Buongiorno, bell'addormentata.»
«Anya. Non è giornata.» Si chiuse la porta alle spalle ignorando l'amica, che, giustamente, non perse tempo a rincorrerla.
«Lexa. Può capitare a tutti di addormentarsi.»
«Non a me. Non a chi ha una giornata piena e delle scadenze da rispettare.» Si passò una mano fra i capelli, com'era solita fare da nervosa o angosciata.
«Mi spieghi come può rispettare le proprie scadenze una persona che non si regge neppure in piedi per il troppo sonno?»
Anya le si avvicinò poggiandole una mano sul braccio, in segno di silenziosa comprensione. 
«Grazie» le sussurrò Lexa, poggiando la propria mano sulla sua.
«Se non ci fossi io, chi si prenderebbe cura dei tuoi bisogni fisiologici?» le domandò sorridendo Anya.
Il calmo silenzio che era sceso nella stanza fu interrotto dal bussare alla porta.
«Avanti» dissero entrambe.
«Oh, buongiorno ragazze.»
«Linc, cosa ci fai già qui?» gli domandò Anya.
«Sono passato prima per controllare un'ultima volta il contratto.» Alzò le mani e solo in quel momento Lexa notò che reggeva un sacchetto. «E per mangiare. È già quasi l'una e mezza e il mio stomaco non resiste a lungo.»
«Bene, neppure quello di Lexa. Buona colazione, Miss Woods.»
«Anya.» Lexa si passò una mano sulla fronte in imbarazzo.
«Neppure quando facevi festa al liceo ti svegliavi così tardi» commentò Lincoln ridendo e appoggiando il take away sulla scrivania.
«Devi sempre ricordarci di quando eravamo giovani e pieni di energie, Lincoln?» Anya scosse la testa, simulando un aspetto stanco e saggio.
«Vuoi unirti a noi?» la invitò l'uomo ignorando il commento.
«No, Anya ha del lavoro da fare, vero?» disse Lexa, tornando ad assumere il solito atteggiamento autoritario e incrociando le mani dietro la schiena.
«Già. Diciamo che sono indietro con un paio di cose.»
«Un paio?» Lexa inarcò un sopracciglio.
«Più di un paio. Ma questo lo prendo comunque.» Anya rubò un panino dal sacchetto prima di fuggire dalla stanza e dallo sguardo severo di Lexa.
Lexa e Lincoln rilessero e ricontrollarono il contratto mentre mangiavano.
«Direi che manca solo la firma» disse soddisfatto Lincoln. 
Lexa annuì: «Spero lo pensi anche Blake. Non tollererò altre proteste o qualsiasi atto infantile da parte sua.»
Lincoln guardò l'orologio, cambiando discorso e non volendo far innervosire ulteriormente l'amica: «Sono già le due. Dovrebbero essere qui a momenti.»
Lexa si avvicinò al telefono, digitando il numero di Anya della linea interna. Mise il vivavoce e il beep del telefono iniziò a rimbombare in tutta la stanza. 
Quando Anya rispose, Lexa non perse tempo a dare l'ennesimo ordine della giornata: «Quando arrivano i fratelli Blake falli accomodare nella sala riunioni. Avvisaci solo dopo.» 
Lexa chiuse la telefonata e si sedette sulla poltrona, mentre Lincoln le chiedeva spiegazioni.
«Facciamoli attendere: deve instillarsi nella loro testa il dubbio che io abbia cambiato idea e che non sia più disposta a proporre il contratto. E, soprattutto, facciamo capire a Bellamy Blake che sono io ad avere le redini, non lui.»
«Come vuoi.»
Pochi minuti dopo il telefono squillò, annunciando loro che era arrivato il momento che tanto attendevano.
«Sono nella sala riunioni. Ho detto loro che saresti arrivata fra qualche minuto.»
«Bene. Arriviamo.»
Uscirono insieme dall'ufficio e si allontanarono dalla scrivania di Anya, che aveva alzato i pollici, augurando loro buona fortuna.
Prima di entrare nella stanza, dalle cui pareti in vetro era possibile vedere i due fratelli Blake intenti a discutere a bassa voce, Lexa prese un profondo respiro, cercando di non far notare a Lincoln il suo reale stato di agitazione. 
"Calma, Lexa. Ce l'hai fatta. Di nuovo" pensò prima di spingere la porta ed entrare nella stanza.
I due fratelli Blake si alzarono dalla sedia porgendo i saluti ai due e Lexa e Lincoln ricambiarono le strette di mano.
Lexa fece loro segno di accomodarsi prima di prendere posto sulla sedia di fronte a Bellamy, proprio come qualche giorno prima.
«Mi sono occupata personalmente di stendere il contratto. Con la consulenza di Mr. White.» Evitò di proposito di dire "con l'aiuto", non voleva Bellamy pensasse che Alexandra Woods necessitasse dell'ausilio di qualcuno. 
Lincoln porse loro il contratto.
«Questi sono i termini finali. Come potete vedere ci sono alcune clausole in più a fine contratto» aggiunse non appena fu certa che i due stessero guardando il foglio.
Lexa notò che la mascella di Bellamy si era leggermente stretta in una smorfia.
«Potete leggere tutto con calma. Ma in questa stanza.»
Bellamy fece per protestare, ma Lexa lo ignorò alzandosi dalla sedia ed imitata da Lincoln. Come si aspettava, il maggiore dei fratelli Blake ignorò il suo sguardo intimidatorio e proseguì, dando voce alle proteste: «Avevate detto che avremmo potuto leggere il contratto fuori da questa sede, con un consulto esterno.»
«Lo avevamo detto?» domandò retorica Lexa, voltandosi verso Lincoln. «Mi dispiace, signor Blake. Non ricordo di averlo detto. Verba volant, scripta manent. Mi pare di ricordare qualcosa del genere.» Portò le mani ad intrecciarsi dietro la schiena e alzò il mento, prima di continuare: «Avrete tutto il tempo che volete. Anche tutto il pomeriggio.» Si avviò verso la porta preceduta da Lincoln, che gliela aprì.
Senza cambiare posizione, ma girando leggermente la testa, proferì le ultime parole, prima di lasciare Octavia e Bellamy da soli: «Chiamate la mia segretaria appena avrete finito di consultarvi. Vi aspetto per firmare.»
Lexa e Lincoln raggiunsero di nuovo l'ufficio, ma Anya non era alla scrivania.
«Prima o poi la licenzierò» sibilò Lexa avvicinandosi al computer della segretaria cercando qualche indizio su dove potesse essere.
«Non essere dura con lei. È sicuramente qui in giro.»
«Su questo non ci piove. Ma l'ultima cosa che vorrei è proprio trovarla.»
Lincoln la guardò confuso e Lexa si diede della stupida: come poteva lui sapere dei suoi sospetti? Si spiegò meglio: «Diciamo che ho i miei sospetti. Che hanno ragione di non essere sospetti.»
«Oh, capisco.» Lincoln sorrise prendendo la ventiquattrore che aveva abbandonato accanto alla scrivania di Anya qualche ora prima. «Direi che è meglio che vada. Ho ancora del lavoro da fare in ufficio. Ci vediamo presto.»
«Grazie mille, Lincoln.»
L'uomo si avvicinò ad abbracciare l'amica e le diede un rapido bacio sulla guancia. 
«Saluta Anya da parte mia.»
Lexa annuì mentre l'amico spariva dietro le porte dell'ascensore. 
"Bene" pensò "ora Starbucks."

Clarke stava finendo di sistemare le ultime carte del fascicolo che Bellamy le aveva lasciato prima di andare alla Woods Corp. Era stata una giornata abbastanza tranquilla, si ritrovò ad ammettere. Da quando giovedì sera aveva parlato con Bellamy, convincendolo ad accettare la proposta di Alexandra Woods, in realtà, tutto era più tranquillo in ufficio: da Bellamy stesso al clima che si respirava.
Certo, quella giornata non si era prospettata rose e fiori sin dal mattino. 
Dopo aver passato il weekend a rimandare la telefonata con sua madre, proprio quella mattina aveva approfittato di un momento di pausa per uscire sulla terrazza all'ultimo piano e chiamarla. Raven non sembrava mentire, eppure il pensiero che anche prima che la operassero per la seconda volta apparisse sincera e tranquilla l'aveva spinta, alla fine, a premere il tasto verde del cellulare.
Avrebbe mentito se avesse detto che non le si era stretto il cuore nel sentire la voce stupita e calma della madre, che, dopo mesi, aveva pronunciato il suo nome. In tal modo quella che doveva essere una conversazione finalizzata unicamente a scoprire la verità su Raven si era trasformata in una conversazione fatta di "Come stai?", "Ho sentito che..." e "Mi farebbe molto piacere se passassi il giorno del ringraziamento con noi". Noi. Sua madre e il suo nuovo compagno, Marcus Kane, un collega del padre e un amico di famiglia. Non aveva mai biasimato sua madre per aver trovato qualcun'altro da amare e con cui condividere la vita, anzi, ne era estremamente felice, considerando anche il fatto che l'uomo era vicinissimo al padre e l'aveva supportata nel desiderio di intraprendere una carriera artistica. Eppure avrebbe mentito allo stesso modo se avesse detto che a volte non provava moti di gelosia, pensando a come suo padre meritasse quella vita accanto alla moglie e alla figlia tanto quanto Marcus, se non di più.
Alla fine si era ritrovata ad accettare l'invito e la questione Raven era passata completamente in secondo piano. Fece una smorfia al pensiero dell'amica che gioiva. Ora aveva capito perché non si era lasciata intimorire dalla minaccia di chiamare la dottoressa Griffin: lei sapeva già che la madre le avrebbe avanzato quella proposta. 
Il telefonò squillò e Clarke si ritrovò a chiedersi chi potesse essere. Alzò la cornetta.
«Clarke, sono Bellamy. Avrei bisogno di un favore.»
Sentì Octavia dall'altro capo del telefono inveire contro il fratello.
«Certo, dimmi.»
«Dovresti portarmi alla Woods Corp. i documenti che ho lasciato sulla scrivania.»
«Va bene.»
«Grazie mille.»
Attaccò il telefono e si alzò dalla sedia per recuperare i documenti. 
Sarebbe tornata alla Woods Corp. Dopo quasi un mese sarebbe tornata in quel palazzo. Avrebbe potuto rivedere Alexandra Woods. Sentì lo stomaco fare una capriola e il battito cardiaco accelerare. Ignorando queste sensazioni, che non sapeva a cosa fossero dovute - o,meglio, preferiva ignorare a cosa fossero dovute- entrò nell'ascensore.
Non avrebbe potuto dire quante ore aveva passato a pensare a quel verde particolare, senza saperlo mai definire correttamente. Lo aveva cercato in ogni albero di Central Park, in ogni quadro che vedeva alla galleria d'arte di Wallace all'Università, in ogni cosa che la circondava, ma non l'aveva mai trovato: le era bastato uno sguardo per esserne rapita completamente.
Mentre fermava un taxi e durante il tragitto verso la Woods Corp. non fece altro che tentare di ricordare ogni minimo dettaglio di Alexandra Woods e di controllare il tremolio che si era impossessato delle sue gambe.
Con ancora più fatica varcò la soglia dell'edificio ed entrò nell'ascensore premendo il tasto del ventottesimo piano. 
Non si stupì affatto quando, mentre aveva la testa persa in chissà quale pensiero poco pudico e innocente, urtò una persona.
Rossa in volto alzò subito gli occhi per scusarsi. 
Le parole le morirono in gola e, se possibile, divenne ancora più rossa: aveva appena rovesciato il caffè addosso ad Alexandra Woods.





NdA
Ed eccoci alla cena e alla rivelazione del super segreto di Raven, che in realtà avevamo già tutti intuito. Lo scontro fra Lexa e Bellamy continua e il capitolo si conclude così, con Anya scomparsa e Clarke che combina guai per la Woods Corp.
Grazie mille a chi ha deciso di leggere e seguire la storia e a chi si ferma a lasciare qualche riga. Come sempre, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. 
A presto, 

Chiara

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Lexa e Lincoln erano appena spariti dietro la porta della sala riunioni, quando il telefono sulla scrivania di Anya aveva iniziato a suonare. 
«Ufficio di Miss Woods.»
«Miss Forest, c'è una ragazza al ventesimo piano che la cerca.»
«Chi è?»
«Non saprei. Dice essere una situazione abbastanza urgente.»
Anya alzò gli occhi al cielo: la solita tattica dei giornalisti per accaparrarsi un'intervista con Lexa. Non avevano di certo trovato il giusto giorno per assillarla con la lunga lista di motivi che li aveva spinti ad intrufolarsi alla Woods Corp. sotto falsa identità e fingendo un'emergenza che richiedeva il suo intervento. Sì, suo. Quando Lexa era impegnata, spettava ad Anya ricoprire i ruoli della CEO: fra i corridoi e i dipendenti della Woods Corp., il suo nome era diventato una minaccia tanto quanto quello di Lexa. 
«A che piano hai detto si trova, quest'emergenza?» Se volevano scottarsi, Anya non glielo avrebbe di certo impedito: aveva decisamente bisogno di scaricare su qualche povera anima innocente la rabbia e la frustrazione accumulate nel weekend. 
«Ventesimo piano. L'ho fatta accomodare nella sala pranzo.»
«Bene.» E bene davvero: a quell'ora la sala pranzo era vuota e Anya avrebbe potuto dare libero sfogo al proprio tono astioso.
Riagganciò il telefono e si alzò dalla sedia, sfregandosi le mani. Stava diventando irritabile con il tempo, ma chi avrebbe potuto biasimarla? Sopportare Lexa e la sua strana indole le sembrava già un buon motivo per non farlo. In più si aggiungevano i soliti idioti di routine - per non usare termini peggiori - che non facevano altro che sfruttarla perché amica di Lexa o per quello che, a questo punto, doveva essere il suo fascino da "qualche botta e via".
Si sistemò meglio i capelli guardando il riflesso proiettato dallo specchio dell'ascensore. Sguardo da tigre, spunta. Espressione omicida, spunta. Portamento da altolocata, spunta. Abbigliamento da donna di potere, spunta - non che in realtà c'entrasse molto con la situazione, ma doveva ammettere che il vestito che indossava quel giorno le fasciava il corpo in modo molto provocante e ciò poteva darle un tocco ancora più autoritario, unito all'atteggiamento da prima donna che stava per sfoggiare.
"Guarda cosa ti perdi" pensò, uscendo dall'ascensore e dirigendosi verso la sala pranzo del decimo piano. L'avanzata nel corridoio, accompagnata dal rumore dei tacchi delle scarpe che impattavano sul terreno e dallo sguardo deciso e severo, attirò sulla segretaria l'attenzione dei dipendenti della Woods Corp., e Anya si concesse un piccolo sorriso sentendosi così tanto influente.
Prima che potesse raggiungere la porta della sala da pranzo, qualcuno le afferrò il braccio e la tirò in disparte, facendola entrare nella sala archivi che si trovava accanto alla sala pranzo. La porta si chiuse alle sue spalle e Anya venne appoggiata delicatamente contro il muro. 
Stava per protestare quando una mano le si posò sulla bocca, per evitare che potesse parlare e, abituandosi alla poca luce che filtrava nella stanza, si accorse di chi aveva di fronte.
Un'espressione di stupore e rabbia prese il posto di quella decisa che si era imposta pochi attimi prima. 
«Shh» le sussurrò la figura davanti a lei.
Anya la ignorò e mosse la testa per liberarsi dalla mano che le impediva di parlare e, quando riuscì a spostarla di qualche centimetro, non si fece problemi ad alzare la voce: «Cosa ci fai qui?» La voce risultò più irritata di quanto volesse, tanto che la persona di fronte a lei abbassò per qualche secondo gli occhi a terra, nel tentativo di trovare un rifugio all'imminente sfuriata che sapevano Anya avrebbe fatto. Stupendosi di se stessa, invece, la ragazza restò in silenzio, dando la possibilità all'altra persona di parlare.
«Ti avevo detto di non urlare. Sai che non potrei né dovrei essere qui» le disse, avvicinandosi alla faccia di Anya e appoggiando una mano sul muro, accanto al suo orecchio.
Anya si decise ad abbassare la voce, ma non a cambiare tono: «Hai detto bene: non dovresti essere qui.»
«Hai ragione, ho sbagliato.»
«So benissimo di avere ragione, non occorre tu me lo faccia notare» le ringhiò avvicinandosi a propria volta in un impeto di coraggio, che durò pochi secondi, infatti si allontanò posando gli occhi sul pavimento.
«Anya, ti prego. Ascoltami.»
«Sono qui. Sto aspettando che tu mi faccia capire dove ho sbagliato con te. Se ti ho fatto sentire un peso. Se io sono stata un peso.»
«No, non si tratta di questo.»
Anya alzò la testa di scatto cercando gli occhi della persona di fronte a lei in un disperato tentativo di capire: «Allora cosa?»
Anya non riuscì a trovare lo sguardo che cercava, rimasto, a differenza del suo, ad osservare le vie di fuga delle piastrelle. Era incredibile come potessero essere così interessanti delle linee sul pavimento, si ritrovò a pensare con un po’ di amaro divertimento. 
Divertimento che venne presto rimpiazzato da un senso di incompletezza e disagio, quando Anya si accorse che, se non avesse fatto lei la prima mossa, non avrebbero risolto nulla. Prese di nuovo coraggio: «Guardami, Raven.» Alzò il mento della ragazza di fronte a lei con due dita.
Quando incontrò gli occhi scuri di Raven velati dalle lacrime e afflitti, il cuore di Anya perse un battito nel rendersi conto della tempesta che si stava scatenando nella mente dell'ingegnere. 
Le incorniciò il volto con le mani: «Non devi avere paura di ciò che senti.» Le portò una mano sul proprio petto, prima di continuare: «Lo senti?»
Raven, visibilmente stupita, annuì.
«È una cosa nuova anche per me. Possiamo affrontarla insieme» le sussurrò Anya avvicinandosi maggiormente alle sue labbra. Sentire il respiro di Raven regolarizzarsi e vedere i suoi occhi calmarsi fecero rilassare Anya che, senza riuscire a controllarsi, attirò la ragazza in un abbraccio.
Raven le cinse i fianchi stringendola ancora di più al proprio corpo e appoggiando la testa nell'incavo del suo collo. Notando il gesto della ragazza Anya sorrise fra i suoi capelli, inebriandosi dell'ormai familiare profumo di cocco. 
Dopo qualche minuto, Anya sentì le mani di Raven allontanarsi dai suoi fianchi e risalire lungo la sua schiena, per quanto le fosse possibile data la differenza di altezza, resa ancora maggiore dalle scarpe che aveva deciso di indossare quella mattina.
Pochi attimi dopo le loro labbra si incontrarono, accendendo quel fuoco le cui fiamme, ormai, non riuscivano più a domare.
Anya sollevò Raven e si avvicinò ad un mobile abbandonato nella stanza, liberandolo dalle carte che vi erano posate sopra e che raggiunsero subito il suolo. Anya fece sedere Raven senza interrompere il bacio, mentre le mani scendevano verso le sue gambe in dolci carezze. Quando Anya sfiorò il tutore, si mise ad armeggiare con i lacci mordendo il labbro inferiore di Raven.
«Adoro quando lo fai» riuscì a sussurrare la mora, sorridendo fra le labbra di Anya prima di rimpossessarsi della sua bocca.

«Firmare il contratto di Alexandra Woods mi sembra la scelta migliore» disse Octavia con le braccia incrociate, girandosi verso il fratello e abbandonando la vista di New York. Il rumore del pendolo che scandiva il passare del tempo riempiva la stanza, rendendo il clima ancora più teso. 
«Non che ci abbia lasciato altra scelta.» Bellamy si passò una mano fra i capelli nervosamente, prima di continuare: «Insomma, hai letto le clausole, vero? Ci ha fregati. In pieno.»
«È comunque stata la meno severa.»
«La meno severa?!» La voce di Bellamy si alzò così tanto che, per un attimo, Octavia ebbe il timore che qualcuno avrebbe potuto sentirli. Lasciò vagare lo sguardo oltre le vetrate accertandosi che nessuno li stesse ascoltando o avesse sentito il fratello.
«Bellamy. Vuoi scendere dalle nuvole e stare con i piedi per terra?» gli chiese retoricamente, appoggiando le mani aperte sul tavolo. «Non troverai mai nessuno disposto a scendere a compromessi più accomodanti di questi. Devo forse ricordarti i numeri che girano attorno alla Blake&Co.?»
Bellamy strinse di nuovo i denti: «E tu definiresti compromessi accomodanti...» Fece passare lo sguardo sul contratto alla ricerca dei punti che voleva rileggere alla sorella: «”...la Blake&Co. verrà completamente incorporata alla Woods Corp...”»
Octavia alzò le spalle: «Mi sembra normale prassi.»
Bellamy alzò un dito prima di continuare: «”Allo stesso modo tutti gli affari e i debiti della Blake&Co. verranno rilevati dalla Woods Corp., che coprirà il 90% degli attuali debiti e che incasserà l'80% dei futuri guadagni.”»
«Ci stanno levando il peso di praticamente tutti i debiti. Mi sembrano giuste percentuali» protestò di nuovo Octavia.
E di nuovo Bellamy non le diede retta: «”Tutti i dipendenti della Blake&Co. saranno assunti per un periodo di prova di sei mesi, al termine del quale Alexandra Woods e i soci anziani della Woods Corp. analizzeranno i singoli casi per stabilire chi assumere a titolo definitivo e chi licenziare.”» Bellamy alzò un sopracciglio, guardando la sorella apprensivamente: «E sono solo tre delle infide clausole che tu vuoi firmare.»
Octavia scosse la testa passandosi una mano sugli occhi: per quanto suo fratello si fosse messo di impegno per non far cadere la società, non avrebbe mai capito che nel mondo della finanza ci vogliono anche strategia, furbizia e abilità. Farglielo notare in quel momento non le sembrava la scelta migliore per tentare di convincerlo, decise di puntare, quindi, ad utilizzare l'arma che sapeva non avrebbe mancato il colpo.
«Dovresti essere fiero di come hai gestito la situazione. Hai stretto i denti per mesi, non cedendo alle offerte delle società che puntavano a distruggere la Blake&Co. E ciò ti ha portato ad Alexandra Woods, che, per quanto possa essere la più stronza, cinica e fredda donna di tutta New York, ti ha proposto un contratto che ti ripaga dei tuoi sforzi.»
«No, Octavia. Anche noi siamo fra i dipendenti. Cosa credi, che fra sei mesi non ci lascerà a casa? Mi avete detto di fidarmi: tu, Miller, tutti. Anche Clarke.» Al nome della ragazza lo sguardo di Bellamy si addolcì. «E vi ho ascoltato, accettando la proposta. Ora siamo qui a discutere davanti ad un contratto che salva l'azienda, ma non noi.»
«Possiamo salvarci, se dimostriamo ad Alexandra Woods di poter essere dei buoni dipendenti. E nessuno ci impedisce di diventare soci anziani della Woods Corp. in futuro. È come se possedessimo già il...» Octavia mosse le dita in aria per una veloce stima. «...circa il 2,4% della Woods Corp.» Annuì soddisfatta. 
«Se deciderà di assumerci fra sei mesi.»
«Non pensare a ciò che succederà fra sei mesi. Pensa che per ora la Blake&Co. è salva. E lo siamo anche noi e i nostri dipendenti.»
«Non mi fido di lei. Potrete fidarvi tu e Clarke. Ma non io.»
«Clarke ha buon occhio con le persone. Dovresti saperlo.»
«No. Forse non te ne sei resa conto, ma non parlo delle persone che ho visto una sola volta nel modo in cui parla Clarke di Alexandra Woods.»
«Credi che si conoscano di persona?» Octavia tentò di celare il fastidio che la piega che la discussione stava prendendo le stava provocando. Dovevano parlare del contratto o di Clarke? Non che non volesse parlare della sua amica, semplicemente non in quel momento. Per di più sapendo quanto fosse una distrazione per Bellamy.
«No. L'ha vista solo quella volta che le ho fatto portare dei documenti.»
«Quindi?»
«Semplicemente non credo Clarke sia oggettiva nel giudicare Alexandra Woods. È una donna carismatica e affascinante, me ne rendo conto. Potrebbe stregare qualsiasi persona ma - »
«Stai dicendo che Clarke potrebbe...?» Octavia non riuscì a finire la frase, presa da una risata quasi isterica. «Questa è proprio buona. Se non riesci a tenerti il posto fra sei mesi, dovresti pensare ad una carriera nel mondo dello spettacolo.»
Bellamy le lanciò uno sguardo torvo: «Non dico questo. Dico che potrebbe essere semplice fidarsi dell'apparenza.»
Octavia tornò seria sedendosi di fronte al fratello e prendendogli le mani: «Ascolta: lascia perdere Clarke e tutta questa storia della fiducia. Firmiamo. Salviamo la Blake&Co. e andiamocene a casa, fieri di essere riusciti a portare avanti la baracca per quasi due anni e di aver salvaguardato l'eredità di nostro padre.»
Bellamy puntò gli occhi in quelli della sorella, annuendo.
Octavia sorrise e si alzò dalla sedia tornando ad osservare la vista fuori dalle vetrate. L'aveva convinto. Ora dovevano solo chiamare Alexandra Woods per firmare il contratto, poi sarebbe stata libera. O, per lo meno, non avrebbe più dovuto volare da un capo all'altro del Paese per cercare possibili acquirenti magnanimi. 
«Cazzo.» 
Sentì Bellamy imprecare e si voltò verso il fratello: «Cos'è successo?»
«Ho dimenticato i documenti da consegnare ad Alexandra Woods.»
«Ma che diamine aspetti? Chiama Clarke» Octavia lo rimproverò con tono scocciato. Aveva il presentimento che se qualcuno di loro due sarebbe stato licenziato da lì a sei mesi, non sarebbe stata di certo lei.
«Non è colpa mia. Erano documenti che andavano consegnati dopo aver firmato. E ti ricordo che i piani erano quelli di non firmare oggi.»
«Certo, come vuoi, ma chiama Clarke.»
Octavia non aveva voglia di discutere ancora con il fratello: liquidò la questione in fretta. Voleva solo andare a casa, sdraiarsi sotto le coperte e dormire, pensando, per la prima volta dopo mesi, che non avrebbe più avuto il peso di così tante responsabilità. 

«Devi già andare?» le chiese Raven baciandole il collo.
Anya a malincuore annuì: «Lexa mi starà cercando e odia aspettare.»
«Due minuti. Due minuti soltanto.»
Davanti alla protesta - o supplica - della ragazza Anya non riuscì a non accontentarla: «Due minuti.» Le cinse la vita attirandola maggiormente a sé e sentendo il respiro di Raven solleticarle il petto. 
Erano sdraiate sul pavimento, sopra i vestiti gettati di fretta a terra. Sarebbe stata un'impresa riuscire a rimettersi il vestito tentando di celare le pieghe create nella foga del momento. Non erano mai andate così tanto oltre al lavoro. Si erano sempre trattenute, ben consapevoli del fatto che chiunque avrebbe potuto scoprirle, anche solo guardando meglio le loro facce. Eppure quel pomeriggio, dopo aver chiarito ogni malinteso e aver capito che ad entrambe non bastavano più quegli attimi rubati, non erano riuscite a trattenersi, tentando comunque di mantenere un profilo basso. Altra cosa che ad Anya iniziava a calzare stretta: era divertente fuggire ed estraniarsi in quel modo dalla realtà, fuggendo dai doveri e dallo sguardo severo di Lexa, ma era altrettanto vero che voleva stare con Raven come qualche sera prima nel suo appartamento. Solo loro due, nessuno che avrebbe potuto scoprirle, che avrebbe potuto licenziarle. 
Il tocco di Raven sull'addome fece tornare Anya alla realtà. 
«Raven» le sussurrò allontanando la mano della ragazza e voltandosi alla ricerca del suo sguardo. 
«Scusa. Ma è impossibile resisterti.»
Anya alzò un sopracciglio maliziosa: «Lo so.» Si sporse a cercare le labbra di Raven. «Stasera nessuno ti farà resistenza» le sussurrò prima di morderle il labbro inferiore. 
Dopo qualche secondo Anya si allontanò, alzandosi e cercando di recuperare tutte le sue cose. Raven si alzò a sua volta, senza staccarle gli occhi di dosso mentre la segretaria si piegava a raccogliere gli indumenti. 
Prima di uscire Anya si avvicinò a Raven che, seduta sul mobiletto di poco prima, era intenta a rimettersi il tutore.
«Lascia. Faccio io» le sussurrò dolcemente Anya sfiorandole le mani. A quel contatto Raven sentì un brivido lungo la schiena e non represse un sorriso di gratitudine, mentre si perdeva, di nuovo, ad osservare ogni movimento della ragazza.
«Fatto.» Anya le porse la mano per aiutarla a scendere.
«Ci vediamo stasera» le sussurrò Raven all'orecchio prima di lasciarle un veloce bacio sulla guancia ed uscire dalla stanza.
Anya osservò la ragazza uscire con un sorriso ebete sul volto. 
"Se mi vedesse Lexa in questo momento, perderei tutta la mia credibilità" pensò avviandosi verso la porta e alzando le spalle: Lexa non l'avrebbe mai vista in quello stato, quindi il problema non sarebbe mai sorto.
Quando entrò in ascensore notò che erano già passate più di un'ora e mezza da quando Lexa e Lincoln erano entrati nella sala riunioni. Si passò una mano sul volto: Lexa l'avrebbe licenziata prima o poi, fregandosene totalmente della loro decennale amicizia. 
Anya raggiunse il ventottesimo piano e corse, per quanto le era possibile, verso la scrivania. Con immensa gioia e gratitudine notò che l'ufficio di Lexa era ancora vuoto: era proprio il suo giorno fortunato. Dovette cambiare idea non appena si accomodò sulla sedia e lo sguardo si posò su un post-it giallo attaccato sullo schermo del computer. Riconobbe la calligrafia scorrevole ed elegante di Lexa:
I Blake sono in sala riunioni. Stanno discutendo e credo ne avranno per molto. Ti chiameranno non appena saranno pronti a firmare. Intanto vado da Starbucks a prendere il caffè. Torno presto.
P.S. Dovresti lasciarmi TU degli avvisi quando te ne vai. Non IO.

Il modo in cui Lexa aveva messo in evidenza il "tu" e l'"io" sulla nota aveva fatto sorridere Anya: non l'avrebbe mai licenziata, le voleva troppo bene.





N.d.A.
So di essere un po' in ritardo, ma mi sono presa del tempo per proseguire con i capitoli futuri.
Ho deciso di sdoppiare il tempo per descrivere il rapporto fra Bellamy ed Octavia e quello fra Raven ed Anya e per cercare di creare un po' di attesa e tensione. Spero di esserci riuscita.
Grazie mille nuovamente a chi legge e segue la storia e a chi lascia qualche riga. 
A presto, 
Chiara

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

Chi non avrebbe abbassato lo sguardo di fronte a così tanta eleganza, a così tanto portamento? Chi sarebbe riuscito a proferire parola di fronte a quell'aurea di potere e grandezza che emanava una figura così piccola e forte? Chi non sarebbe stato attratto come una calamita da quegli occhi smeraldini che incutevano timore e rispetto, che trasmettevano sicurezza e decisione, ma anche dolcezza e incertezza. Chi avrebbe potuto biasimare il silenzio di Clarke, nella cui testa erano passati tutti questi pensieri nell'attimo stesso in cui i suoi occhi si erano posati su Alexandra Woods? Dal volto della quale sembrava essere sparito il fastidio, quando l'aveva riconosciuta. Quasi come se il blu delle iridi di Clarke avesse spento sul nascere il fuoco che stava per divampare nella foresta che erano i suoi occhi.
Un lungo silenzio gravò sulle spalle di Clarke, in evidente imbarazzo sia per il fatto di aver appena rovesciato del caffè sulla camicia della donna più potente ed influente di New York, sia per aver osato notare quella particolare luce che era passata nei i suoi occhi non appena l'aveva riconosciuta. 
Clarke pensò a quanto fossero assurdi i suoi pensieri, mentre abbassava lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe, sperando si aprisse magicamente un varco sotto i suoi piedi.
«Clarke?» 
Sentì il suo nome pronunciato da una voce flebile e decisa, che rimarcava il suono sulla "k". Un brivido le percorse la schiena.
Con tutto il coraggio che le era rimasto, sussurrò delle scuse a malapena comprensibili e una risata leggera le sfiorò l'orecchio. 
Confusa alzò lo sguardo: possibile che Alexandra Woods non solo si ricordasse il suo nome, ma addirittura trovasse divertente il fatto che le fosse stato appena versato del caffè addosso? Clarke vide l'espressione di Lexa tornare immediatamente seria non appena i loro sguardi si incrociarono.
«Miss Woods. Non era mia intenzione.» Clarke iniziò a gesticolare nervosamente con le mani, indicando la camicia della donna. «Intendo: le pagherò la lavanderia ed il disagio in qualunque modo. Sono immensamente mortificata.» 
Clarke odiò il fatto che Lexa non avesse neppure cercato di rassicurarla o di frenare il fiume di parole confuse che avevano preso ad uscire dalla sua bocca. E ancora di più odiò la postura che la donna aveva assunto non appena aveva iniziato a parlare: infatti aveva alzato il mento e aveva iniziato a scrutarla dall'alto al basso. Clarke si sentì improvvisamente a disagio: da quanto tempo la stava fissando in quel modo? E, soprattutto, perché le sembrava di essere nuda di fronte a quegli occhi che la stavano ispezionando da capo a piedi, che sembravano captare ogni sfumatura della sua anima in ogni respiro che esalava? 
In un tentativo disperato di far scomparire il disagio, Clarke parlò di nuovo: «Io sono mortificata. Mi permetta di risolvere con - » Una mano di Alexandra Woods, finalmente, le fece segno di fare silenzio. Per quanto avesse aspettato quel gesto dal momento stesso in cui aveva aperto bocca, il modo in cui la donna aveva alzato la mano le diede immensamente fastidio. 
«Cosa ci fa qui, Miss Griffin?» le chiese con tono autoritario.
Per quale diavolo di motivo Alexandra Woods non aveva inveito contro di lei? Sarebbe stato più semplice di quella pesante indifferenza che le stava, ora, mostrando. Provò a ricordarsi il motivo della sua visita alla Woods Corp.: i documenti, giusto. «Devo consegnare questi documenti ai signori Blake.» Clarke cercò nella borsa il fascicolo per mostrarlo alla donna.
Lexa alzò un sopracciglio, allungando la mano in una tacita richiesta.
«Non credo di - credo siano riservati. Confidenziali» tentò di spiegare Clarke allontanandoli da Lexa. Seriamente? Seriamente aveva appena messo in discussione quella che probabilmente da lì a pochi minuti sarebbe stata la sua nuova datrice di lavoro? 
«Intendo dire. Non-» provò a giustificarsi di nuovo la segretaria, ma ancora Lexa la interruppe, questa volta con la voce. E Clarke gliene fu immensamente grata. 
«Non importa. Li vedrò fra poco.» Lexa le fece segno di seguirla e Clarke si ritrovò a camminare verso quei corridoi che ricordava a malapena.
La schiena di Lexa si muoveva flebilmente davanti a lei, gli occhi di Clarke percorsero il profilo della donna. Clarke scosse la testa in imbarazzo: cosa diavolo stava facendo? Abbassò lo sguardo continuando a seguire la donna.
«Anya, sei tornata.» Clarke sentì la voce di Lexa, ma ci mise troppo tempo a capire che la donna si era fermata. Andò addosso alla sua schiena. Di nuovo. 
Clarke arrossì sentendo il proprio petto toccare la schiena di Lexa. Si allontanò immediatamente, farfugliando quelle che sarebbero dovute essere delle scuse.
Gli occhi di Lexa si posarono su di lei, e per un attimo le parve di notare una punta di divertimento. Ma, ovviamente, lo sguardo della Woods tornò immediatamente serio e autoritario.
Clarke sentì una risata provenire da dietro di loro. Lexa si girò verso quella che doveva essere la sua segretaria, fulminandola con lo sguardo e facendole abbassare la testa. 
«Seguimi» disse Lexa a Clarke, riprendendo a camminare verso una porta. 
Passando accanto alla scrivania di Anya, Clarke notò che la donna la stava fissando divertita con la mano davanti alla bocca nel tentativo di celare le labbra curvate in quello che le sembrava un sorriso malizioso.
Lexa aprì la porta e la fece entrare.
«Accomodati pure» le disse indicandole una poltrona. «Torno non appena ho recuperato una camicia pulita.»
Clarke la ringraziò, prendendo posto. Inevitabilmente il suo sguardo si posò di nuovo sulle curve di Lexa, finché la donna non scomparve oltre la porta. 
Per quale diamine di motivo non riusciva a staccarle gli occhi di dosso? Era come se ogni fibra del suo corpo la invitasse a posare lo sguardo su Alexandra Woods, alla ricerca di quelle forme che i vestiti lasciavano solo intravedere. Sfortunatamente. Clarke si diede un colpetto in testa, pregando la propria mente di smettere di vaneggiare. Decise di far vagare lo sguardo per l'ufficio della donna: ordinato, pulito, elegante. Era così tanto Alexandra Woods. Sbuffò annoiata, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi alle vetrate: lo skyline di New York che si poteva ammirare da quell'altezza era mozzafiato. 
"E non è neppure l'ultimo piano" pensò, voltandosi verso la scrivania di Lexa. In un attimo si immaginò la donna che, stanca da una giornata di lavoro, staccava lo sguardo dal computer e si concedeva una piccola pausa per osservare la città dal proprio ufficio.
Un prurito insistente si impossessò delle mani di Clarke.
Sapeva benissimo che non era né il luogo né il momento per mettersi a disegnare e che avrebbe piuttosto dovuto cercare Bellamy e Octavia, ma il desiderio di rappresentare la scena che si era appena immaginata fu più forte e pochi secondi dopo si ritrovò seduta sulla sedia della scrivania di Alexandra Woods, a disegnare sul proprio blocco.

Lexa si chiuse la porta alle spalle, tentando di ignorare gli occhi di Clarke che la fissavano con insistenza. Non le dispiaceva essere guardata in quel modo - non da Clarke per lo meno - ma l'idea che potesse farle notare, con qualche involontario gesto, che l'attenzione che la bionda aveva riservato alle sue curve non era passata inosservata, la irritava: Clarke avrebbe smesso di guardarla in quel modo e Lexa non poteva farne a meno. Pensò di essere stupida quando vide lo sguardo sornione di Anya. Evidentemente neppure il suo stesso atteggiamento era passato inosservato.
«Se la finissi di guardarmi come se volessi portarmi nella tua stanza da letto, mi faresti un grande favore» le sibilò Lexa, appoggiandosi con i gomiti alla scrivania.
Anya rise, aggiustandosi i capelli. «E tu la finirai di atteggiarti per mostrare la merce?» Le indicò la camicia bianca macchiata di caffè, che lasciava molto poco all'immaginazione.
Lexa si guardò confusa: non si era accorta di quanto fosse diventata attillata con il caffè. Si passò una mano fra i capelli. «Ti prego. Dimmi che c'è qualche camicia nascosta nell'ufficio.» 
«Mi dispiace» le sorrise Anya, come a volersi prendere gioco di lei.
Lexa alzò gli occhi al cielo. «Non posso presentarmi davanti ai Blake così. E non posso neppure girare per la Woods Corp. con solo la giacca del tailleur.»
«Conosco qualcuno che non ne sarebbe dispiaciuto.» Anya mosse la testa in avanti per indicare la figura di Clarke che si era avvicinata alle vetrate esterne. 
«Anya. Dico sul serio.» Lexa le lanciò un altro sguardo torvo.
«Anche io.» Anya alzò un sopracciglio.
Lexa si girò verso l'ufficio alla ricerca di Clarke: si era seduta alla scrivania e stava scarabocchiando su un blocco. 
«Ne ha di fegato per sedersi lì» commentò Anya.
Lexa ignorò l'amica - o, forse, non la sentì per niente - troppo concentrata ad osservare Clarke piegata leggermente sulla scrivania che teneva delicatamente una matita fra le mani: il profilo illuminato dalla luce del sole che stava scomparendo oltre gli edifici più lontani, gli occhi posati sul foglio che seguivano con cura i movimenti della mano, la bocca leggermente storta in una smorfia concentrata. Gli occhi di Clarke si alzarono improvvisamente incontrando i suoi. Lexa distolse subito lo sguardo per evitare ulteriore imbarazzo ad entrambe.
«Lexa» Anya la richiamò preoccupata.
«Sto pensando ad una soluzione.»
«E la troverai sicuramente nella biondina» le fece notare l'amica sarcastica.
Lexa la ignorò.
Forse se avesse trattenuto Clarke nel proprio ufficio per il tempo necessario affinché Anya raggiungesse l'attico per recuperare una camicia pulita, i Blake non si sarebbero accorti dell'arrivo della segretaria, immaginandola bloccata in mezzo al traffico.
«Anya, va' a casa mia e recupera una camicia. Io sto qui e cerco di non far notare la presenza di Clarke ai Blake.»
Anya annuì, alzandosi. 
«Torna il prima possibile» disse Lexa prima che l'amica si allontanasse.
Lexa si sedette sulla sedia di Anya, cercando una posizione che le permettesse di continuare ad osservare Clarke senza che lei lo notasse.
Quando fu certa dell'angolazione, Lexa iniziò a studiare i movimenti della segretaria. Si domandò cosa stesse disegnando, perché la cura che stava mettendo nel tratto sul foglio sembrava, a Lexa, la stessa che metteva un pittore davanti ad una tela, o uno scrittore davanti alla scelta delle parole.
Costia. Scosse la testa per tentare di scacciare quel pensiero. 
Sorrise con amarezza, continuando ad osservare in silenzio Clarke.

Era ormai passata mezz'ora da quando aveva incrociato lo sguardo di Alexandra Woods oltre le vetrate. Era stato strano, pensò Clarke, il modo in cui si era diffuso un leggero imbarazzo sulle gote della donna, che prontamente aveva abbassato lo sguardo. Cioè: Alexandra Woods, la donna più stronza, fredda e cinica di tutta New York - anche se, a questo punto, Clarke iniziava a dubitarne - aveva abbassato lo sguardo di fronte ad una segretaria qualunque, come se le avesse appena fatto notare un enorme errore o un irrimediabile difetto. Clarke aveva mosso il mouse del computer per vedere l'ora: possibile che non ci fosse neppure un orologio in quella stanza? Il salvaschermo del computer le fece perdere un battito: una foto non molto recente in cui un'Alexandra Woods di qualche anno più giovane sorrideva abbracciando una ragazza che rideva felicemente. Era bella, pensò Clarke, osservandola, e accanto a lei la dirigente della Woods Corp. splendeva di luce propria, quasi come se quella ragazza fosse in grado di sciogliere ogni sua barriera di ghiaccio. Per un attimo provò invidia verso di lei, ma osservando con più attenzione gli occhi verdi privi di sofferenza e pieni di affetto sentì uno strano calore scaldarle il petto. Avrebbe tanto voluto che Alexandra Woods le riservasse quello sguardo. Non sapeva darsi un motivo, sentiva solo questo immenso desiderio crescerle nel petto. Clarke sospirò: forse si era spinta troppo oltre in quell'ufficio. Stava letteralmente violando la privacy di Alexandra Woods. Si alzò dalla sedia e fece vagare lo sguardo lungo le quattro pareti della stanza. Accanto alla poltrona su cui l'aveva fatta accomodare Lexa era appoggiata al muro una grande libreria; non che prima non l'avesse notata, semplicemente aveva pensato - superficialmente ammise - che gli unici libri che avrebbe potuto trovare sarebbero riguardati unicamente la finanza e i numeri. Clarke si avvicinò, attirata da un libro dalla copertina rossa. Lo sfiorò con le dita: era "La teoria dei colori". Goethe.
Si ritrovò a captare sempre più dettagli dell'ufficio, a cui prima non aveva fatto caso. E più notava qualcosa che la potesse aiutare a capire la donna, più cercava altro. Era diventato un gioco, una gara contro se stessa a capire meglio Alexandra Woods dai pochi indizi da lei lasciati: la maniacale posizione delle penne, le candele su uno scaffale accanto alla scrivania, le bustine di tè riposte con cura in una piccola scatola di legno, una rose velvet delicatamente poggiata su un mobiletto con delle foto - fra cui riuscì a riconoscere Alexandra, la ragazza del salvaschermo, la segretaria di poco prima, Lincoln White e un ragazzo biondo. 
Quanto si poteva capire di una persona guardando solo il suo ufficio? Clarke, con un leggero sorriso, si risedette alla scrivania e riprese a disegnare. Ora avrebbe potuto rappresentare meglio la figura di Alexandra, avendone colto una piccola parte dell'anima. Molto piccola, pensò amareggiata. 
Mentre stava iniziando ad abbozzare la linea degli occhi, mordendosi leggermente il labbro inferiore per concentrarsi, il suo telefono suonò, riportandola alla realtà. Lasciò la matita sulla scrivania, senza accorgersi che stava rotolando sotto alcuni fascicoli. Prese il telefono: Bellamy. 
«Clarke, dove sei?»
«Oh, Bellamy, scusa io mi sono dimentic - Sono qui. Sono nell'uff -»
Un rumore fece sobbalzare Clarke. Alexandra Woods aveva aperto di scatto la porta con lo sguardo allarmato e si stava avvicinando a lei, facendole segno, con un dito sulla bocca, di non parlare. Clarke la guardò confusa: un attimo prima non c'era ed ora era lì, di fronte a lei, con la camicia ancora sporca e con un velo di panico sul volto. Panico? Clarke scossa la testa e rispose a Bellamy che, dall'altro capo del telefono, la chiamava preoccupato: «No, Bellamy. C'è un po' di traffico. Dammi - » Lexa fece un veloce gesto con la mano per suggerirle un orario. «Mezz'ora. Sì, mezz'ora. Penso che fra mezz'ora sarò lì.»
«Sei sicura Clarke? Non credo Alexandra Woods -  »
«Sì, ne sono sicura. Tranquillo. A dopo.»
Clarke attaccò senza salutare, fissando confusa Alexandra Woods che, invece, stava guardando un punto imprecisato sulla scrivania. Clarke seguì il suo sguardo e si ricordò di ciò che aveva abbandonato nella fretta di rispondere. Con un improvviso scatto si allungò verso la scrivania prendendo il blocco e chiudendolo di fronte agli occhi spaesati e stupiti di Lexa che, per fortuna di Clarke, ebbe la decenza di non fare domande. 
Clarke, invece, dopo aver riposto il blocco nella borsa, non trattenne la domanda che, ormai, era rimasta in sospeso: «Che cosa sta succedendo?» 
Dopo un attimo di incertezza da parte di Lexa, - e a questo punto Clarke era veramente confusa - la donna alzò il mento e, incrociando le mani dietro la schiena, tornò al solito atteggiamento glaciale: «Nulla di cui ti debba preoccupare, Clarke.»
Quel suo modo di liquidare le faccende importanti stava facendo innervosire Clarke, che non tentò di mascherare un certo fastidio: «Nulla di cui mi debba preoccupare? Ho appena mentito al mio capo.»
«Non è più il tuo capo.» Lexa le impedì di continuare a parlare.
Clarke non stava capendo niente: un attimo prima era la persona più dolce del mondo con quell'aria allarmata e supplichevole, un attimo dopo era tornata la persona fredda e cinica di cui tutti parlavano. 
«Lexa, sono arrivata. Qui c'è la tua camicia.» Anya era entrata nell'ufficio interrompendo e spezzando quell'attimo di tensione. Vide Lexa sospirare di sollievo prima di girarsi verso la segretaria. 
«Grazie Anya.» Lexa si avvicinò all'uscita prendendo la camicia. Anya uscì dalla porta rivolgendo un piccolo sorriso alla mora e un cenno del capo alla bionda.
Clarke, sentendosi di troppo si affiancò a Lexa: «Direi che ora posso andare.»
Alexandra Woods annuì leggermente. 
Clarke aprì la porta e, prima che potesse uscire, sentì la voce di Lexa raggiungerla: «Grazie, Clarke.»
Il tono gentile e riconoscente fece rabbrividire la bionda, che si limitò a varcare la soglia, mentre sentiva lo sguardo verde di Alexandra Woods sulla propria schiena.

Lexa finì di allacciare gli ultimi bottoni della camicia con le mani tremanti: era bastato così poco a Clarke per captare qualcosa di lei, e ciò la faceva sentire a disagio. L'aveva vista mentre ispezionava ogni angolo del suo ufficio, mentre sfiorava i libri che tanto amava perché le ricordavano tutti qualcosa.
Sorrise. Chissà che idea si era fatta di lei, Clarke, osservando quella stanza in cui aveva lasciato qualcosa di se stessa, si chiese, mettendosi la giacca del tailleur. Avrebbe dovuto sentirsi irritata, offesa da quel tentativo di valicare le sue difese, invece si sentiva sollevata dal fatto che qualcuno, dopo tanti anni, non si fosse fermato alla maschera da Commander: Clarke aveva provato a riprodurre la sua anima in quel disegno che Lexa aveva avuto modo di vedere per pochi secondi.
Il telefono suonò e Lexa si affrettò a premere un tasto. 
«Dimmi, Anya.»
«I Blake ti aspettano per firmare.»
«Arrivo.» 
Lexa riagganciò la chiamata e si avviò verso l'uscita, superando Anya senza guardarla, in fondo era ancora arrabbiata con lei per essere sparita per più di due ore. Chissà se Clarke era rimasta o se n'era andata. Questo pensiero la spaventò tanto che tornò sui propri passi avvicinandosi ad Anya.
La segretaria alzò lo sguardo, divertita. «Paura, Woods?»
Lexa scosse la testa, quasi pentendosi di essere tornata indietro. Anya le sorrise affettuosamente: «Vengo con te?» Sapeva che non glielo avrebbe mai chiesto per il troppo orgoglio, quindi la segretaria anticipò l'amica. Era diventata brava a farlo dopo tutti quegli anni, infatti Lexa annuì.
Camminarono insieme verso la sala riunioni e, quando raggiunsero la stanza, notarono che insieme ai fratelli Blake, oltre le vetrate, era seduta una terza figura. 
«Sarà una frima con la tua stupenda segretaria presente. Non vedo cosa ti possa andare storto» commentò Anya, tentando di tranquillizzare l'amica, inutilmente.
Lexa prese un lungo sospiro senza riuscire a nascondere l'agitazione ad Anya, che immediatamente le sfiorò la mano, rassicurandola: «Andrà tutto bene. Stai tranquilla.»
Ormai Lexa era un libro aperto per Anya, e di ciò le era molto grata. La mora si voltò verso la segretaria annuendo e sorridendo, in un tacito ringraziamento. 
Entrarono nella stanza senza bussare. Lexa aveva di nuovo assunto la solita espressione fredda. Anya tentò di imitarla: in fondo non erano così tanto differenti. 
«Vogliamo firmare» ruppe il silenzio la minore dei fratelli Blake.
«È per questo che siamo qui, no?» chiese retoricamente Lexa sedendosi di fronte a Clarke, immediatamente imitata da Anya. 
Bellamy le porse il contratto: «Prima lei, Miss Woods.»
Lexa prese la penna che Clarke le stava porgendo. Le loro mani si sfiorarono e Lexa fece fatica a reprimere un leggero brivido, celandolo agli altri presenti nella stanza. Con una punta di divertimento notò che anche Clarke aveva reagito a quel contatto. Scosse la testa mascherando il sorriso che aveva rivolto per pochi istanti solo a Clarke. 
Mentre apponeva il proprio nome sul contratto, Lexa sentiva lo sguardo blu di Clarke seguire i movimenti della sua mano. 
«A voi» disse Lexa ai Blake, girando il contratto e porgendolo loro.
Octavia Blake fu la prima a firmare, con un sorriso di ringraziamento. Bellamy Blake, più titubante, appose il proprio nome prima di guardare Clarke e sorriderle. L'azione non passò inosservata a Lexa: una fitta di gelosia per quello scambio di sguardi fugace e non celato, come quelli a cui era abituata con lei, le prese la bocca dello stomaco. 
"È questo l'effetto che mi fai, Clarke Griffin?" si domandò con la gola secca e tentando di riassumere il controllo, prima che qualcuno si accorgesse del suo tentennamento. 
«Bene, complimenti Miss Woods. Ha concluso l'acquisizione.» Octavia Blake si alzò dalla sedia porgendole la mano.
Lexa si alzò a propria volta ricambiando la stretta di mano: «Benvenuti alla Woods Corp.» Tentò un sorriso forzato.
Anche Anya, Clarke e Bellamy si alzarono, iniziando i convenevoli per i saluti. Lexa stava solo aspettando di stringere la mano di Clarke ed incrociare di nuovo i suoi occhi. 
Quando Clarke le porse la mano, Lexa la strinse delicatamente ma con decisione, cercando di controllare il calore che dalle guance stava passando allo stomaco e al ventre e puntando gli occhi in quelli di Clarke. Lexa si soffermò ad osservare la sfumatura delle iridi blu della bionda, mentre quel contatto veniva interrotto da Clarke, che aveva spostato gli occhi su Bellamy e poco dopo aveva sciolto la presa dalla sua mano, senza rivolgerle ulteriori attenzioni.
«Arrivederci, Miss Woods.»
I Blake e Clarke uscirono dalla stanza e si diressero verso l'ascensore.
Confusa Lexa uscì di corsa dalla stanza e si chiuse nel proprio ufficio. Stava impazzendo. Se non questo, cosa? Si passò una mano sulla fronte avvicinandosi alle vetrate cercando la figura di Clarke. 
La trovò subito: camminava accanto a Bellamy Blake, che le aveva circondato le spalle con un braccio. 
Lexa strinse i denti. Stupida, pensò di sé, ricordando Clarke intenta a disegnarla e a curiosare nel suo ufficio, pochi minuti prima. 
Esausta si avvicinò alla scrivania raccogliendo i documenti. Sentì qualcosa cadere a terra. Si piegò alla ricerca dell'oggetto. E, nonostante la scena appena vista, quando lo vide, si concesse di sorridere: la matita di Clarke era lì, a pochi centimetri da lei. La prese fra le mani con la sensazione del calore di Clarke a contatto con la propria pelle come quando si erano strette la mano, come quando era finita contro la sua schiena. 
"Debolezza". Lexa strinse forte la matita, su cui erano incise le iniziali di Clarke.




N.d.A
Ecco l'incontro fra Clarke e Lexa, a cui è dedicato tutto il capitolo. O, meglio, il capitolo è dedicato alle conseguenze del caffè rovesciato.
So che alcune cose potrebbero sembrare irrilevanti nella descrizione dell'ufficio, ma torneranno in seguito e servivano a Clarke - e magari anche a noi - per conoscere un pochino meglio Lexa, che invece non ha capito praticamente nulla della bionda, tanto da essere, a fine capitolo, confusa da ciò che ha visto e provato. 
Spero che l'attesa dell'incontro sia valsa la pena. 
Grazie mille di nuovo a chi legge e segue la storia e a chi si ferma a lasciare qualche riga.
Alla prossima, 
Chiara

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

«Grazie del passaggio.»
«Figurati, Clarke. A domani.» Octavia si sporse ad abbracciare l'amica, prima che questa uscisse dal taxi, Bellamy, invece, si limitò ad un cenno con il capo.
«Buona serata.» Clarke sorrise un'ultima volta e chiuse la portiera.
Bellamy la seguì mentre si avvicinava al portone della palazzina e riuscì a vedere che si chiudeva la porta alle spalle, quando il taxi ripartì per portarli alla Blake&Co., dove li aspettava ancora un paio d'ore di lavoro per sistemare i documenti.
«A che ora pensi finiremo?» chiese Octavia, richiamando l'attenzione di Bellamy.
«Puoi andare a casa, ci penso io.»
«No, ti aiuto.»
«Hai paura faccia altri danni? Stai tranquilla, non succederà.»
«Ma - »
«Va' a casa e goditi una serata libera, hai viaggiato per tutto il paese negli ultimi mesi solo per cercare qualcuno che ci aiutasse, quando quel qualcuno era proprio qui a New York.»
Octavia storse la bocca ed alzò un sopracciglio. «Stai forse ammettendo le tue colpe o dando ragione a me?»
«Direi proprio di no. Sono ancora convinto di ciò che ho detto fino a poco fa.»
«Vedremo» commentò Octavia, incrociando le braccia al petto. «E comunque una serata libera non cancellerà il jet leg accumulato in questi mesi, giusto perché tu lo sappia.» 
Bellamy accennò un sorriso, prima di sporgersi verso il tassista e dargli l'indirizzo di casa di Octavia, che pochi minuti dopo scese dall'auto, salutando il fratello.
Quando la portiera dell'auto si chiuse, Bellamy allentò la cravatta e sistemò la propria valigetta sul sedile accanto.
Il taxi raggiunse la sede della Blake&Co. mezz'ora dopo e Bellamy salutò cordialmente il tassista, con il quale aveva scambiato qualche parola sul tempo, mentre era rimasto da solo con lui. Quando raggiunse il suo ufficio, svuotò la valigetta e rilesse velocemente il contratto appena firmato, mentre continuava a scuotere la testa, sempre più convinto di aver commesso un errore di fronte alle lusinghe di Octavia e alle offerte di Alexandra Woods. 
Qualcuno bussò alla porta e Bellamy si affrettò a nascondere il contratto nel primo cassetto della scrivania: nessuno doveva sapere della clausola sul personale, altrimenti - ne era sicuro - si sarebbero allarmati tutti e avrebbero smesso di lavorare con serenità, risultando, alla fine, non adatti al posto nella nuova società di proprietà della Woods Corp.
«Avanti» invitò Bellamy, sistemandosi meglio sulla sedia.
«Bellamy, pensavo fossi andato a casa. Stavo chiudendo tutto, quando ho visto la luce accesa.»
«Nate. Vieni, siediti.»
Nathan si avvicinò alla scrivania e si sedette di fronte a Bellamy. «Com'è andata?»
Bellamy alzò le spalle. «Abbiamo firmato, alla fine.»
«Di già? Pensavo che fosse solo la presentazione del contratto.»
«Alexandra Woods ha deciso di raggirarci, ma alla fine siamo usciti tutti soddisfatti da quella stanza.»
Non stava dicendo una bugia, solo una mezza verità, si ritrovò a pensare Bellamy, mentre vedeva un sorriso calmo e sereno spuntare sul volto di Nathan.
«Bene! Sono contento siate riusciti a salvare la società. So quanto significa per voi.»
Bellamy sorrise, annuendo: «Grazie. Come va con Bryan?»
Nathan sorrise. «Diciamo che ci stiamo lavorando. Non mi piace molto il modo in cui Pike si approfitta di Bryan, ma a lui va bene e non vorrebbe mai deluderlo, quindi -»
«Quindi gli va bene fare straordinari tutti i giorni» concluse Bellamy.
«Già, ma non oggi. Gli ho espressamente vietato di accettare la richiesta di Pike questa sera.»
Bellamy corrugò la fronte ed invitò l'amico, che all'improvviso sembrava essere più raggiante ed agitato di quanto fosse mai stato, a continuare.
«Andiamo in un posto carino a cenare e ho pensato di fargli una sorpresa.» Nathan iniziò a muovere le mani in preda all'agitazione. «Sai, ultimamente non siamo andati molto d'accordo e vorrei fare un passo in più, per fargli capire che ci sono, completamente.»
Bellamy, stupito, sorrise: «Davvero?»
«Sì, sai, per ufficializzare le cose una volta per tutte. Così potrà anche prendersi qualche settimana di vacanza, senza sentirsi in colpa nei confronti di Pike.»
Bellamy si alzò. «Aspettami qui.»
Nathan annuì e Bellamy si recò nell'ufficio di Octavia, dove sapeva la sorella teneva una bottiglia di liquore, che usava quando Raven o Clarke la andavano a trovare in ufficio.
«So che sono contro l'alcol sul luogo di lavoro, anche se in piccole quantità, ma mi sembra un'ottima occasione per infrangere le regole.» 
Bellamy passò a Nathan un bicchierino di plastica che aveva rubato dalla macchinetta del caffè e aprì la bottiglia quasi vuota.
«Auguri, Nate. Sono felicissimo per voi.» Bellamy fece scontrare il proprio bicchierino con quello di Nathan e lo svuotò in un sorso.

«Dove mi porti?» Raven si avvicinò da dietro ad Anya, che si stava mettendo il cappotto, cingendole i fianchi e respirando sul suo collo, come sapeva adorava.
Raven sentì Anya sorridere, prima che si girasse nel suo abbraccio per guardarla.
«Non lo so. Dove vorresti andare?» le chiese Anya, soffiandole sulle labbra.
Raven alzò gli occhi al cielo, assumendo un'espressione pensierosa e portandosi un dito sotto il mento. «Non saprei. È così difficile scegliere quando si hanno così tante opzioni.»
«Qual è la migliore secondo te?» Anya le poggiò le mani sulle guance avvicinandosi per baciarla.
Raven si scostò. «Non vale distrarmi mentre penso.»
Anya rise leggermente, inarcando un sopracciglio: «Davvero? Non ti piacciono le mie distrazioni?»
Raven si soffermò troppo a guardare le labbra della donna che si muovevano per parlare. E Anya se ne accorse, perché non riuscì a trattenere un sorriso malizioso, prima di annullare completamente la distanza fra la bocca di Raven e la propria.
«Anya, vuoi un passaggio a ca - »
Lexa, stupita, si fermò e distolse lo sguardo, puntandolo a terra. I suoi sospetti che non avevano ragione di essere sospetti. Odiava non sbagliarsi mai.
Anya, in imbarazzo, si staccò da Raven, tentando di mascherare il rossore sulle guance. «Lexa. Pensavo fossi già andata.»
Lexa alzò gli occhi: Anya e l'ingegnere si erano allontanate e stavano aspettando che parlasse. «A meno che non abbia acquisito la capacità di volare, no» commentò la donna con freddo sarcasmo, notando l'imbarazzo delle due e mascherando il divertimento che l'espressione di Anya le stava provocando. «Direi che non hai bisogno di un passaggio. A domani.»
Lexa con un veloce cenno della mano si allontanò verso l'ascensore, sperando non tardasse ad arrivare.
«Dove eravamo rimaste?» chiese Raven ad Anya, avvicinandosi di nuovo, non appena le porte dell'ascensore si furono chiuse alle spalle di Lexa.
«Sei senza pudore, Reyes» le sibilò la segretaria, ancora in imbarazzo, pensando a come Lexa si sarebbe vendicata della situazione di disagio che le aveva appena provocato. La seconda nel giro di una sola giornata.
«Se vuoi posso riacquisire tutto il pudore perso negli anni. Anche se sinceramente non credo mi troveresti così tanto interessante.» Raven portò nuovamente un dito sotto il mento.
Anya si era accorta dell'abitudine della ragazza di portarsi un dito sotto il mento quando pensava o quando doveva rimarcare sarcasmo. Sorrise: da quando aveva imparato a leggere qualcuno che non fosse Lexa così tanto bene? Si avvicinò nuovamente a Raven, tirandole le maniche della giacca. «Direi che saresti comunque interessante.» Le morse il labbro inferiore. «Se non avessi provato alcune cose» le sussurrò a fior di labbra, prima di baciarla di nuovo.
Dopo qualche attimo, Raven si staccò. «Che ne dici se prendiamo del take away da qualche parte, più tardi?»
Anya sorrise: «Mi sembra un'ottima idea.»
Raven fece scivolare una mano in quella di Anya, tirandola verso l'ascensore. Anya fece intrecciare le loro dita, mentre un brivido le risaliva lungo il braccio. 
Chiamarono l'ascensore ed entrarono nella cabina.
Anya premette il tasto del piano terra, sentendo lo sguardo di Raven bruciarle addosso. 
«C'è un messicano nel tuo quartiere?» le chiese Raven mentre l'ascensore iniziava a muoversi.
Anya, confusa, si voltò a guardarla, mentre sentiva le dita di Raven stringere con più forza le sue. 
«Il tuo appartamento è più vicino, rispetto al mio» spiegò Raven.
Anya scosse la testa e sorrise, prima di sporgersi e lasciarle un veloce bacio sulla guancia.

Clarke salì le scale della palazzina, pensando che, forse, sarebbe stata una buona idea proporre ad Octavia e Bellamy di uscire a festeggiare con una birra.
Era contenta che i due avessero deciso di firmare l'acquisizione, alla fine. Certo: ora erano tutti in uno stato di precarietà alla Blake&Co., ma in sei mesi avrebbero avuto modo di trovare, o quanto meno iniziare a cercare, un nuovo lavoro. Fortunatamente lei lo aveva già trovato, eppure non riusciva a non biasimare Alexandra Woods: non capiva la sua scelta, non tanto sul piano finanziario - i dipendenti della Blake&Co. erano veramente tanti - quanto sul piano morale. Come poteva dormire la notte sapendo che delle persone avrebbero fatto fatica a mantenere la famiglia per causa sua?
Mentre rifletteva, Clarke era già arrivata davanti al proprio appartamento. Aprì la cigolante porta verde - avrebbe dovuto farla sistemare prima o poi -, si tolse la giacca e appoggiò la borsa sul tavolo, estraendo il blocco da disegno, su cui aveva preso qualche appunto durante la lezione della sera prima all’Università, ma senza riuscire a trovare la matita.
Passò qualche minuto alla ricerca della matita all'interno della sua confusionaria borsa, da cui aveva estratto, oltre a numerosi fazzoletti usati, la chiavetta USB che Raven aveva perso qualche settimana prima.
«Sei la persona più disordinata che io conosca, Raven Reyes» commentò, lasciandosi cadere sulla sedia, mentre riconosceva di aver perso la matita.
Probabilmente, pensò, le era caduta nell'ufficio di Alexandra Woods. Sbuffando, rimise nella borsa tutto ciò che aveva rovesciato sul tavolo, prima di aprire il blocco alla ricerca degli appunti, ritrovandosi a sfogliare le ultime pagine che aveva riempito. Quanti disegni aveva fatto negli ultimi mesi: due occhi incompleti, dallo sguardo freddo e inquisitore; un pastore tedesco che gioca con un ramo a Central Park; una barca che galleggia in lontananza durante il tramonto; una donna di profilo che osserva il traffico di New York dalle vetrate del proprio ufficio. Clarke scosse la testa. Non avrebbe mai finito quella specie di ritratto, non ora che stava letteralmente odiando il soggetto. Come aveva potuto convincere Bellamy a fidarsi di lei? In fondo non la conosceva neppure, ma quella stupida vocina nella testa le continuava a ripetere che di Alexandra Woods si poteva fidare, che era una persona sensibile e dolce, dietro a tutta quella formalità e freddezza. E lei tendeva a fidarsi fin troppo spesso di quella vocina che, in fondo, aveva sempre avuto ragione. Per questo, neppure questa volta, l'aveva messa in discussione e si era lasciata convincere a fidarsi di quella voce armoniosa - troppo armoniosa per una donna che doveva comandare - e di quegli occhi limpidi e verdi, che sembravano nascondere così tanto dolore. 
Clarke tentò di scacciare dalla mente l'immagine di Alexandra Woods, che continuava a tormentarla da quando le aveva rovesciato il caffè sulla camicia, sicuramente la peggior figuraccia che avesse mai fatto. Era come se, ora, la donna fosse proprio di fronte a lei, mentre le sorrideva, celando del divertimento, e si portava un dito sulle labbra per invitarla a fare silenzio. 
Clarke chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, pensando a quanto si sentisse ridicola a rivivere quella piccola crisi adolescenziale; perché era questo, vero?
Clarke sbuffò e si alzò dalla sedia, per dirigersi nel piccolo bagno accanto alla camera da letto. Si tolse i vestiti e aprì il getto della doccia. Chiuse gli occhi, mentre l'acqua iniziava a sfiorarle la pelle, e sospirò, iniziando a lavarsi i capelli.
I capelli di Alexandra erano molto più belli dei suoi: più morbidi, più curati, legati in quelle strane treccine o portati con immensa eleganza su una spalla, pensò, e, subito dopo, si ritrovò ad ammettere a se stessa che avrebbe voluto avere la possibilità di accarezzarli per averne la conferma.
Si sciacquò i capelli di fretta, iniziando a canticchiare una canzone, nel tentativo di pensare a qualcosa che non fossero i capelli o gli occhi di Alexandra Woods, o qualcosa che non fosse la donna stessa. Stava tentando di scacciare la donna dai suoi pensieri, eppure sentiva che una parte di lei non voleva che quell'immagine sfocasse, voleva che rimanesse esattamente lì dov'era, nella sua piccola perfezione. 
Si chiese come fosse la voce di Alexandra Woods quando cantava, sicuramente il suo timbro armonioso e un po' infantile sarebbe stato buffo da sentire in una di quelle canzoni che lei e Raven erano solite ascoltare in auto.
Clarke chiuse il getto dell'acqua, uscendo dalla doccia e cercando l'accappatoio. 
Si guardò allo specchio: era normale che provasse attrazione verso Alexandra Woods - pensò - era una bella donna, con un certo carisma e un portamento che avrebbero fatto invidia a chiunque. Aveva degli occhi particolari, con un bel taglio, che trasmettevano tante sensazioni, anche contrastanti. Era normale che Clarke, una giovane donna di New York, alla ricerca di se stessa, della propria realizzazione personale, provasse attrazione verso di lei. Era normale che Clarke volesse averla proprio lì, in quel momento, con gli occhi che vagavano sul suo corpo, che la esaminavano. Era normale. Doveva solo aspettare che quella piccola infatuazione le passasse.
"Il disprezzo verso di lei è più forte della sua bellezza" si disse, stringendosi nell'accapatoio. 
Quei pensieri le sembrarono vuoti e privi di senso, forse perché non capiva il motivo per cui avrebbe dovuto disprezzarla: ovviamente aveva ingannato i suoi amici, presentando loro un contratto con clausole intricate e complesse; ovviamente aveva detto loro una cosa, per poi farne un'altra; ovviamente l'aveva trattenuta nel suo ufficio per più di mezz'ora senza dirle nulla, solo per temporeggiare. Ed era ancora più ovvio il fatto che Alexandra Woods fosse stata l'unica ad offrire una vera possibilità di salvezza alla Blake&Co., che era stata la meno cinica di tutti, che era normale non avesse osato chiederle di aspettare prima di presentarsi davanti a Bellamy e Octavia.
Clarke si ricordò del senso di vuoto che l'aveva presa quel pomeriggio quando si era sforzata di apparire distaccata davanti ad Alexandra Woods, sfuggendo il suo sguardo, o quando aveva sciolto il contatto delle loro mani, che, invece, le aveva provocato un brivido lungo la schiena.

Raven sentì aprire la porta dell'appartamento e alzò la testa dal cuscino, aspettando che la testa bionda di Anya spuntasse dal corridoio con i sacchetti del take away. 
«Rae, sono tornata.»
Raven sorrise e si rotolò fra le lenzuola, finendo a pancia in giù e incrociando le braccia sotto il mento, attendendo l'arrivo di Anya, che si presentò pochi secondi dopo, con gli occhi assottigliati e un’espressione divertita e scocciata. 
«Non mangeremo lì.»
«Cosa? Vuoi davvero che mi sposti da qui?»
«Per quanto mi riguarda puoi anche non mangiare.»
«Ma è romantico.»
«Cosa? Mangiare tacos a letto e sporcare le lenzuola?»
Raven annuì, tentando l'espressione più dolce e convincente che avesse mai sfoderato.
«Non mi incanti. Ti aspetto di là.»
Raven sbuffò, mentre si alzava dal letto e recuperava i vestiti che si era tolta qualche ora prima, infilandosi in fretta la biancheria e una maglietta, e zoppicò verso il tavolo da pranzo, su cui Anya aveva sistemato il take away appena preso. 
Raven batté le mani, prendendo posto su una sedia. «Sembra buono!»
Anya sorrise, passando un tacos incartato a Raven. «Non l'hai ancora visto.»
Raven alzò le spalle e si picchiettò l'indice sulla punta del naso. «Ho fiuto per queste cose.»
«Se lo dici tu, ci credo» commentò Anya con tono divertito, sedendosi e osservando Raven addentare il primo pezzo di tacos.
Raven mugugnò, compiaciuta, qualcosa di incomprensibile, chiudendo gli occhi.
Anya sorrise, scossa da un moto di tenerezza di fronte a quel gesto così semplice e bambinesco. «Non ho capito niente, tesoro.»
Raven riaprì gli occhi di scatto, parlando a bocca ancora piena: «Come mi hai chiamato?»
Anya abbassò gli occhi. «In nessun modo.» 
Raven la squadrò, divertita. «Ho detto che non ho mai mangiato un tacos così buono.»
«Davvero? Pensavo tua madre facesse dei tacos deliziosi.»
Raven abbassò lo sguardo sulle proprie dita, senza sapere cosa dire: si fidava di Anya e sì, le avrebbe detto tutto, con lei poteva farlo, era il suo porto sicuro, gliel'aveva detto pochi minuti prima di alzarsi per uscire a comprare la cena. Le aveva lasciato un bacio e una carezza sulla spalla nuda, notando il suo sguardo amareggiato, causato proprio dal pensiero della madre che l’aveva colta alla sprovvista, e le aveva sussurrato quelle parole, prima di coprirla con il lenzuolo e sparire dalla stanza, con la promessa di tornare presto.
«Mia madre non è mai stata una madre molto presente» sussurrò piano Raven.
Anya allungò una mano su quella di Raven, posata sul tavolo, e le accarezzò il dorso della mano. 
«Non guardarmi così, ti prego» sussurrò di nuovo Raven, senza guardare Anya, che intrecciò le dita con quelle di Raven. 
«Guardami tu, Rae.»
Raven alzò lo sguardo, puntandolo in quello di Anya. 
«So che non ci conosciamo da molto, lo so. Ma dicevo davvero prima: puoi dirmi qualsiasi cosa, tutto. Quello che ti è successo, le persone che hai incontrato, le cose che hai vissuto, anche le peggiori, ti hanno reso la persona che sei oggi. La donna forte che sei. E questo non cambierà mai il tuo passato, ma può cambiarti la vita ed io sono qui anche per fartelo capire, per farti capire quanto tu sia speciale e importante, per tante persone. E anche per me.»
«Anya.»
Anya le sorrise. «Non sei obbligata a dirmi niente, se non vuoi. Non ti obbligherò mai.»
Raven le strinse le dita e sorrise, sussurrando un ringraziamento. 
Dopo qualche minuto, Raven posò sul tavolo quel poco che rimaneva del suo tacos. «E se volessi dirtelo? Per esempio ora?»
Anya diede l'ultimo morso al tacos e si sporse verso Raven, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte, come aveva preso l'abitudine di fare, prima di accarezzarle una guancia. «Sarei esattamente qui.»
Raven posò sulla mano di Anya la propria. «Non ho mai conosciuto mio padre, probabilmente neppure mia madre sa chi sia» iniziò Raven, con un sospiro. «Sinclair è la figura più vicina ad un padre che abbia mai avuto. A lui e ad Abby Griffin devo tutto.» La latina iniziò a giocare con le dita di Anya. «Me la sono sempre dovuta cavare da sola, mia madre spendeva sempre i pochi soldi che riusciva a mettere da parte per l'alcol.»
Anya si alzò e fece il giro del tavolo per circondare, da dietro, con un braccio il collo di Raven e lasciarle un bacio sull'orecchio. 
«Quando ho conosciuto Clarke, lei mi ha accolto in casa sua come se fossi sempre stata parte della sua famiglia. Ho conosciuto sua madre Abby, che ha sempre avuto riguardo per me, poi mi ha presentato Sinclair, quando al liceo capì che avrei potuto avere di più. E così Sinclair mi ha insegnato tutto quello che so, mi ha pagato gli studi e sono andata via di casa.» La voce di Raven tremò.
«Credi di aver abbandonato tua madre, vero?»
Raven annuì e Anya la strinse ancora più forte.
«Non è così» le sussurrò e continuò a farlo, finché i singhiozzi silenziosi di Raven non cessarono.
Anya si inginocchiò di fronte a Raven, tenendole le mani. «Sono qui e non ti lascio» le sussurrò, prima di baciarle le mani e poggiare la testa sulle sue gambe nude. 
Raven le accarezzò i capelli. «Sei bellissima.»

Octavia si sdraiò sotto le coperte, cercando sullo schermo del telefono il numero di Raven, per l'ennesima volta, quella sera. Aspettò di sentire la segreteria partire e riagganciò. Quando Raven faceva così era insopportabile: diceva una cosa, gliela prometteva anche, e poi all'ultimo, senza neppure preoccuparsi di giustificarsi, non faceva nulla di tutto ciò che aveva declamato.
«Vorrà dire che guarderò il profilo Instagram di Lincoln White da sola» disse mentre si sporgeva verso il comodino per prendere gli occhiali da riposo. 
Raven si sarebbe persa delle belle foto. Octavia ne era certa mentre digitava la password del proprio account.
Ne fu ancora più certa quando vide la foto del profilo dell'uomo. 
Mentre faceva scorrere la pagina, consapevole del fatto che sembrasse un'adolescente alla prima cotta - e al primo tentativo di spionaggio - pensò fosse un peccato non condividere quelle foto con qualcuno.
"Clarke. Clarke sicuramente non mi darà buca: abbandonerà i libri e si fionderà sul telefono non appena sentirà il nome di Lincoln White" pensò mentre chiudeva la finestra di Instagram e apriva quella delle chiamate.
Il telefono iniziò a suonare, e continuò per diversi secondi, tanto che Octavia stava già iniziando a perdere le speranze, quando una Clarke affannata e agitata rispose alla chiamata: «Ehi, O', dimmi. È successo qualcosa?»
Octavia alzò un sopracciglio: «Perché dovrebbe essere successo qualcosa? Piuttosto tu, tutto bene?» 
«Oh, sì. Tranquilla. Stavo solo - ho solo dovuto correre per rispondere.»
«Come se il tuo appartamento fosse un circuito d'atletica, Griffin. Inventa scuse migliori. Ho interrotto qualcosa?»
Sentì Clarke sospirare dall'altro capo del telefono: «No. Niente.»
«Bellamy è lì?»
«Cos... Cosa? Per quale motivo Bellamy dovrebbe essere... Oh, no. Octavia. Piantala di fare certe insinuazioni.»
Octavia rise.
Un altro sospiro di Clarke raggiunse l'orecchio di Octavia.
«Non vedi come ti guarda?» le chiese Octavia cercando di trattenersi.
«No. E poi dovresti difenderlo e sostenerlo, non prenderti gioco di lui. È tuo fratello!»
«Non cambiare discorso, Griffin.»
«Io - non sto cambiando discorso.»
Un verso di disappunto uscì dalle labbra di Octavia.
«Hai chiamato per un buon motivo o solo per vedere se tuo fratello fosse qui?»
«Non sarebbe un buon motivo?»
«O', di cos'hai bisogno?»
«Niente. Sai, Reyes mi ha dato buca e mi chiedevo se ti andasse di stalkerare qualcuno con me.»
«Lincon White?»
«Esatto.»
«Di nuovo? Ma non l'avevi stalkerato, non lo so, due mesi fa?»
«Gli stalker non vanno in pensione.»
«Oh, questo lo. Non sarebbero stalker. E tu non saresti Octavia Blake.»
Octavia sorrise, mentre accedeva al suo account Instagram dal laptop: «Allora. Ci sei?»
«Ci sono.»
Prima foto: Lincoln White ad una conferenza in una scuola.
«Noioso» sussurrò Clarke dall'altro capo del telefono.
«Solo perché odi le scuole.»
«No. Perché è noioso.»
Octavia e Clarke continuarono a scorrere le foto, commentandole e facendo battute sulle espressioni che Lincoln White assumeva in alcune.
«Oh. Sexy» commentò sarcastica Clarke, vedendo una foto dell'uomo in palestra.
«Oh, Griffin. Lo trovi ancora noioso?» scherzò Octavia, ingrandendo la foto.
«Sì.»
Octavia ignorò la risposta di Clarke ed iniziò a passare lo sguardo lungo il corpo tonico dell'uomo.
«Oh. Cazzo.»
Il commento improvviso di Clarke, ridestò Octavia: «Cos'è successo?»
Clarke liquidò in fretta la domanda: «Niente. Devo andare.»
«Come, devi andare? Ti stai annoiando troppo?»
«No, è che mi sono appena accorta di essere indietro con lo studio. Mi dispiace O'.»
«Tranquilla. Buonanotte Clarke.»
«'Notte.»
Octavia scosse la testa mentre la linea si interrompeva: era stata molto strana Clarke quella sera. In realtà anche il pomeriggio quando si era presentata alla Woods Corp. per consegnare i documenti che Bellamy aveva dimenticato.
Dopo qualche minuto speso a misurare con gli occhi i muscoli di Lincoln White, Octavia passò alla foto successiva.
Lincoln aveva i guantoni da boxe e si stava allenando con un'altra persona. Octavia ci mise un po’ a riconoscerla: non era abituata a vederla con dei pantaloncini corti, una canottiera e i capelli legati in una coda disordinata. Alexandra Woods. 
Octavia trattenne a stento una risata. Era così diversa in quelle vesti, eppure manteneva l'aria autoritaria piuttosto bene anche sul ring. Scosse la testa, prima di passare ad un'altra foto.




NdA
Prima che riscrivessi questo capitolo, la forma originale era alquanto impresentabile, ora è un pochino meglio, ma non mi convince completamente.
Comunque sia, il risultato finale è stato questo capitolo in cui possiamo notare un lato inedito di Bellamy e una Clarke confusa, ma anche un ulteriore avvicinamento da parte delle Ranya, grazie a Raven, che decide di confidarsi con Anya, dimostrandole che si fida e che è pronta ad iniziare una relazione stabile con lei, affrontando i suoi sentimenti.
Grazie mille a chi continua a seguire e leggere la storia e a chi si ferma a lasciare qualche riga. 
A presto,
Chiara

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