Crisalide

di Mizurai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Bocciolo ***
Capitolo 3: *** Un prezzo da pagare ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


INTRODUZIONE

Salve a tutti!
Questa storia nasce dal desiderio di mettere finalmente su carta (virtuale) il background di Enamor. Il personaggio che, fra tutti coloro nei panni dei quali ho giocando ai vari capitoli di The Elder Scrolls, ho amato di più ed al quale mi sento maggiormente legata. Il racconto sarà piuttosto lungo, forse una ventina di capitoli o più. Talvolta tratterà tematiche piuttosto forti e da ciò la scelta di partire da un rating arancione (che potrebbe aumentare al rosso nei capitoli successivi). Gli eventi narrati ed i personaggi, almeno per quanto riguarda i primi due terzi della storia, sono completamente frutto della mia fantasia e perciò non aspettatevi che seguano la trama di uno dei capitoli del gioco in particolare. Questa è la seconda fanfiction che pubblico e la prima abbastanza lunga da essere definita tale; è una sorta di esperimento per me perciò prendetela come viene. Spero possa piacere o quantomeno  incuriosire qualcuno ^^

Dedico questa storia ad un caro amico, che nonostante tutto mi ha sempre sopportata durante i miei sproloqui e lunghi monologhi in ambito "Elder Scrolls" e che ha sempre nutrito un odio immotivato per la mia adorata Enamor ;) 

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Capitolo 2
*** Bocciolo ***


bocciolo

Il mio nome è Enamor. Quando venni alla luce, nel pallido pomeriggio di un Middas di Stella del Mattino, correva l'ottavo anno della terza Era e nelle Isole di Summerset da lunghi anni regnava ormai la pace e la prosperità.

Enamor, nel linguaggio dunmer significa "fierezza", fu mia madre a sceglierlo per me. Non mi disse mai cosa la portò a preferire questo nome ad un altro, o come avesse appreso l'idioma parlato dai Mer delle grigie terre continentali, così distanti e diversi dai popoli dei verdi lidi di Summerset.

Ma d'altronde io non glielo chiesi mai.

Solamente molti anni dopo, quando ormai ineluttabili eventi mi avevano spinta ben oltre i confini delle Isole compresi a fondo la doppia accezione del termine Enamor. Secondo l'idioma delle Terre di Cenere infatti, esso simboleggia la fierezza ma in egual misura anche la superbia, racchiudendo in se valori positivi e negativi. Curioso come mia madre abbia potuto scegliere per me un nome tanto appropriato, nonostante ella non potesse ancora sapere che cosa il destino mi avrebbe riservato.

I primi anni della mia vita li trascorsi proprio con mia madre, nella casa che le avevano lasciato i suoi genitori. Una piccola capanna in legno in riva al mare, nell’Auridon, non molto distante dal villaggio di Potansa. Mio padre non lo ho mai conosciuto.

Nonostante ciò che aveva fosse ben poco e la gente del villaggio l’avesse bollata come sgualdrina, mia madre mi crebbe da sola, senza mai farmi mancare nulla. Doveva amarmi davvero molto, ma a quell’epoca ero ancora troppo cieca per rendermene conto.

Ricordo ancora il suo sorriso e le sue parole gentili, mi manca terribilmente.

Sebbene siano trascorse due Ere e lei ormai sia morta da tempo mi piace pensare che sia ancora lì; sotto il porticato della nostra casa, in piedi accanto alla porta ad aspettarmi. Proprio come quando ero bambina, i tiepidi raggi del sole al tramonto a baciare il suo dolce viso ed i suoi capelli dorati, mentre una brezza leggera le arriccia il bordo della lunga veste in tela grezza.

E ricordo bene il mare, i suoi colori e il suo profumo. Trascorsi la mia infanzia su quelle rive, lasciandomi cullare dal suono delle onde e dai caldi raggi del sole di Summerset. Era un luogo incontaminato, pregno di una grazia ancestrale. Il sole lambiva la superficie del mare facendola rifulgere di mille gradazioni di blu profondo, per poi tingersi di cremisi al sopraggiungere del tramonto.

Un lungo litorale, bagnato da limpide acque cristalline si estendeva per chilometri verso oriente. Lì la vegetazione cresceva incolta, in una natura che aveva un che di selvaggio e primordiale, una bellezza antica della quale oggi non mi rimane altro che uno sbiadito ricordo.

Un’immensa distesa di erba ricopriva l’intero lido; lunghi fili color verde smeraldo si muovevano sinuosi, trasportati dalla brezza leggera proveniente dal mare. Tra di essi crescevano numerose margherite e piccoli fiori dai petali color celeste chiaro dei quali ormai non rammento più il nome.

Ricordo però il loro dolce ed intenso profumo, mentre ne intrecciavo gli steli delicati in piccole ghirlande, seduta ai piedi del litorale.

E ricordo le farfalle. Così belle e leggiadre, mentre volteggiavano intorno a me come se danzassero sospese dal vento stesso. Le loro ali risplendevano di mille colori diversi; alcune pallide ed opalescenti, altre vivide ed attraversate da leggere venature, mentre altre ancora, al contatto con i raggi del sole parevano quasi esser state scolpite nell'oro.

Avrei voluto restare in quella piccola casa, accanto a mia madre, ad intrecciare ghirlande di fiori cullata dal dolce suono delle onde fino alla fine dei miei giorni. Ma a volte è la vita stessa a prendere pieghe inaspettate e per quanto indesiderate siano, spesso non vi è alcun modo di sottrarvisi; tutto ciò che ci è concesso è osservare impotenti gli eventi compiere il loro corso.

Allora avevo dieci anni circa, il pomeriggio era trascorso velocemente e giunto il tramonto mi affrettai a rientrare a casa. Mia madre mi attendeva sulla soglia sotto il porticato; accanto a lei una donna più anziana, dagli occhi verdi ed i capelli ramati attendeva immobile a sua volta. Era abbigliata in modo sontuoso, una lunga veste color porpora dalle maniche ampie le ricadeva fino ai piedi, stretta in vita da una cintura d’argento. I capelli ramati, attraversati solo da alcuni fili bianchi le incorniciavano il volto chiusi in una crocchia. Il suo sguardo gelido aveva un che di severo e nobile al tempo stesso.

Mia madre me la presentò come una sua zia, giunta da Alinor a farle visita. Prima d’allora non avevo mai visto qualcuno proveniente dalla Capitale, ma d'altronde non avevo mai lasciato i Lidi Orientali, se non una o due volte per recarmi con mia madre al vicino villaggio di Potansa.

La signora della Capitale era molto diversa dalle persone che avevo incontrato finora, i suoi gesti erano lenti e misurati, di una grazia quasi imperiosa. Per tutta la cena non riuscii a non distogliere lo sguardo dalla sua figura, rapita da tanta eleganza a me sconosciuta. 

Gestiva la servitù nella tenuta di una nobile e prestigiosa famiglia di Alinor, spiegò mia madre. Si sarebbe fermata da noi per la notte, per poi ripartire per la Capitale la mattina seguente, assieme a me.

Quando udii questa sentenza fu come se il tempo stesso rallentasse il suo corso fino a fermarsi, lasciandomi immobile come pietrificata mentre le parole di mia madre mi attraversavano simili ad una pioggia gelida.

La signora della Capitale mi avrebbe garantito una casa ed un futuro. Una vita dignitosa, lontano dalle spiagge dei Lidi Orientali, una casa dove non avrei più dovuto patire ne fame ne povertà. Desiderava di meglio per me della vita di miserie e privazioni che lei stessa aveva vissuto in quella casa, sola, costretta ai lavori più squallidi ed umilianti.

Mia madre proferì queste parole con il capo chino, quasi a non voler incontrare il mio sguardo. Io non dissi nulla, rimasi lì, seduta di fronte a lei, incapace di reagire. Rimanemmo così per un lungo istante, immobili, con solo il suono del vento autunnale a colmare il silenzio tra noi.

Quella notte piansi a lungo, in silenzio, rannicchiata in un angolo della mia stanza. Per la prima volta nella mia vita mi sentii davvero sola.

Il mattino seguente fui svegliata all’alba, le mie cose erano già state sistemate in un piccolo fagotto che ora giaceva ai piedi della porta d’ingresso. Mia madre si chinò per abbracciarmi un’ultima volta. La signora della Capitale mi attendeva fuori e una volta raccolto il mio fagotto, mi avviai al suo fianco verso il sentiero che conduceva al villaggio di Potansa. Mi voltai indietro ancora una volta, prima di vedere scomparire all’orizzonte quella che era stata la mia casa. Mia madre era ancora lì, accanto alla porta a guardarmi partire. Quella fu l’ultima volta che la vidi.

Il tratto a piedi fino a Potansa lo trascorsi in silenzio, camminando accanto alla signora della Capitale. Giunte al villaggio ci attendeva il cocchio che ci avrebbe condotte fino al porto di Silsailen. Il viaggio fu lungo e senza soste. Seduta in un angolo del cocchio, osservai in silenzio il paesaggio scorrere veloce sotto i miei occhi.

Quando infine giungemmo alle porte di Silsailen il sole stava ormai tramontando; le acque placide del mare sembravano ardere del medesimo fuoco mentre lambivano coi loro flutti le fiancate dell'immensa imbarcazione dalle vele dorate che ci aspettava ormeggiata al porto.

Non ero mai salita su una nave simile prima d'allora, né avevo mai attraversato il Mare Interno che separa l'Auridon dalla grande isola di Summerset.

Quando infine vennero mollati gli ormeggi e avvertii l'enorme vascello muoversi sotto i miei piedi cullato dalle possenti braccia del mare sussultai all'improvviso. Per quanto sul mio giovane cuore già gravasse il peso della lontananza, non potei che sgranare i miei occhi dalla meraviglia e sorridere incantata alla vista dello spettacolo che si aprì d'innanzi a me. Le acque profonde del Mare Interno, tinte di un color porpora acceso, circondavano l'imbarcazione estendendosi a perdita d'occhio fino a lambire la costa che emergeva all'orizzonte, avvolta dalla nebbia.

Non distolsi lo sguardo per un solo istante, persino quando il sole calò affogando fra le acque scarlatte del mare, lasciando così il posto alla fredda luce di Jone crescente, sola in cielo in quella notte di metà Stella della Sera. Trascorsi le ore a bordo del vascello che ci avrebbe condotte sulle rive di Shimmerene rapita dall'inquietante bellezza dell'immensa distesa d'acqua nera e profonda che si dispiegava d'innanzi ai miei increduli occhi, dimentica delle inclementi parole di mia madre, come anche dei dubbi e delle incertezze circa la nuova vita che mi attendeva oltre i confini dell'Auridon. Ma d'altronde allora non ero altro che una semplice bambina di provincia, che ad eccezione del piccolo villaggio di contadini e dei lidi che lo circondavano aveva visto e conosciuto ben poco del mondo.  

Quando la nave attraccò al porto poco distante dalla fiorente città di Shimmerene, era ormai notte fonda. Purtroppo rammento ben poco del breve tempo che trascorsi fra le mura di quel borgo, in compagnia della signora della Capitale. Probabilmente a causa della stanchezza e del lungo viaggio che aveva inevitabilmente finito col provare sia il mio corpo e la mia mente.

Passammo la notte nella piccola stanza di una locanda in città, per poi ripartire il giorno seguente alle prime luci dell'alba.

Il viaggio sarebbe stato lungo e senza soste, se non per rifocillare i cavalli.

Mi disse la signora della Capitale mentre i nostri pochi bagagli venivano assicurati al retro del cocchio.

Quando la carrozza partì al sorgere del sole, lasciandosi alle spalle il borgo di Shimmerene ed i porti poco distanti. Fu come se assieme ad essi vedessi svanire dietro di me a poco a poco anche la mia casa, i miei affetti e la mia vita ormai distanti. Fu come abbandonare una parte di me; nell'Auridon, accanto alla piccola capanna baciata dai caldi raggi del sole che per lunghi anni era stata la mia casa. Sentii un groppo alla gola, ed il sapore terribilmente amaro delle lacrime che già velavano i miei tristi occhi, scendere fino alla bocca dello stomaco, mentre osservavo in silenzio il paesaggio circostante.

Presto i verdi lidi costieri fecero posto a sterminate pianure, villaggi e campi coltivati, finche anche il mare non scomparve all’orizzonte. Ci inoltrammo sempre più nell’entroterra, attraversammo una fitta regione boscosa, conosciuta come Erilor. Un’immensa distesa di boschi frondosi, immersi in un’ombra cupa e malevola, circondava la strada polverosa per la Capitale. Il cocchio percorse quel tratto velocemente, in ansia, quasi a non volersi attardare tra quelle ombre. Usciti dalla zona boschiva il paesaggio cambiò radicalmente. Il sole, non più coperto dalle pesanti fronde degli alberi ora splendeva alto nel cielo, illuminando i verdi prati lontani ed il mare dietro di essi. Passammo accanto a numerosi villaggi prima di giungere infine alla vista della Capitale, la Grande Alinor, la Città della Luce.

Essa si ergeva dinnanzi a noi in tutto il suo splendore, circondata da tre grandi cinte murarie dalle cui sommità si potevano scorgere le cime delle alte torri dorate fendere il cielo come obelischi.

Alle sue spalle giganteggiavano le montagne, stagliandosi imponenti sul cielo limpido, baciate dai caldi raggi del sole pomeridiano. Le medesime alture si snodavano verso settentrione, tagliando diagonalmente l'entroterra fino a giungere alle pendici di Eton Nir la vetta più alta di tutta Summerset.

Giunti innanzi alle mura, il Primo Cancello D’oro fu aperto.

Percorsa la scala della Città Inferiore di fronte ai miei occhi presto apparve l’altra faccia di Alinor la Splendente. Ovunque intorno a noi regnava la desolazione e la miseria più triste. Numerose persone, sporche ed abbigliate di soli stracci, si trascinavano per le strade. Alcuni si avvicinavano ai passanti per chieder loro l’elemosina, altri si affacciavano dalle finestre di baracche e case in rovina o sedevano malati e morenti in un angolo, tra i detriti.

Un bambino scalzo a vestito solamente di una tunica logora si avvicinò a noi, era magro e si trascinava debolmente. All’improvviso si fermò e cadde in ginocchio.

Ricordo ancora i suoi occhi colmi di dolore e disperazione.

Tese le sue mani verso di noi e solo allora mi accorsi che erano coperte di piaghe. La pelle era grigiastra, raggrinzita e formava degli strati sovrapposti, dalle ferite violacee fuoriuscivano grumi di sangue e pus.

La signora della Capitale lo colpì violentemente alla schiena con il suo bastone più e più volte, lui urlò di dolore accasciandosi al suolo. Rimasi lì, in piedi, come pietrificata. Ad un tratto sentii la mano della signora della capitale stringere forte il mio braccio, affondando le unghie nella carne e costringendomi a proseguire con lei.

Quel bambino non era che un miserabile, un'inferiore.

Non dissimile ad un insetto o ad un ratto che infesta le strade della città, diffondendo malattie e nutrendosi di rifiuti, un parassita. Non dovevo provar pena per lui.

Mi disse la signora della capitale mentre percorrevamo l’alta scalinata conducente al livello superiore di Alinor.  

Varcato il Secondo Cancello ci addentrammo tra le strette e chiassose vie della Città Superiore. Era così diversa dal luogo di miseria e povertà nel quale aravamo state fino ad un’istante prima. Numerose case, alte e dal tetto in tegole rosse, occupavano entrambi i lati della strada. Erano abitazioni di piccole dimensioni, costruite in robusti blocchi di pietra grigia ed aperte da finestre rotonde dai balconcini in legno. Non erano poi molto dissimili dalle costruzioni in uso a Potansa, solo un po’ più alte e leggermente strette ai lati.

Intorno a noi numerosi passanti, abbigliati in vesti dai colori sgargianti, si affrettavano indaffarati. Alcuni si dirigevano verso le botteghe di mercanti ed artigiani, trasportando pacchi, grandi otri o casse in legno. Altri ancora contrattavano sui prezzi alle bancarelle del mercato o passeggiavano tra le vie, fermandosi di tanto in tanto ad osservare le merci esposte. Regnava un’atmosfera allegra e chiassosa e nell’aria aleggiava un piacevole profumo di pane, spezie e dolci appena sfornati.

Attraversammo rapide le bancarelle, fiancheggiando le alte case di pietra ricoperte dall’edera fino a giungere ai piedi della lunga scala conducente alla Corte Alta.

La percorremmo in silenzio, fino alla sua sommità. Il Cancello Interno fu aperto e davanti ai miei occhi splendette fulgida la luce e la bellezza della Corte Alta di Alinor.

Imponenti torri dorate si stagliavano sul limpido cielo azzurro, semi avvolte da morbide nuvole dalle sfumature rosate. Gli edifici, alti e maestosi, occupavano la Cerchia Esterna, costituita per la maggior parte dalle tenute delle Nobili Casate di Alinor. Circondata dalle abitazioni, la Cerchia Interna era invece occupata dalla grande reggia dei sovrani di Alinor, conosciuta come Palazzo D'Oro e dall'immenso Tempio dedicato al dio Auri-El.

Non dimenticherò mai le imponenti torri del Palazzo D'Oro, né le guglie di vetro intarsiato del Tempio, simili alle ali traslucide di mille farfalle, stagliarsi imponenti in cielo quasi a voler sfidare il sole stesso. In quel momento mi sentii davvero piccola ed insignificante di fronte a tanta grandezza.

La signora della Capitale mi condusse alla tenuta della Nobile Casata Eloran, situata al lato Sud della Cerchia Esterna, non molto distante dal tempio. L'edificio era alto ed imponente, costruito in marmo candido ed impreziosito da eleganti bassorilievi ed intarsi in oro ed in malachite. L'ingresso preceduto da un' alto porticato sormontato da possenti colonne in marmo si profilò innanzi a me.

La grande porta dorata si aprì e ne uscirono alcuni servitori, che con in leggero inchino ci invitarono ad entrare. La signora della Capitale mi guidò per le sale ed i corridoi senza fine della Tenuta Eloran, mostrandomi la locazione di ogni stanza ed il relativo ruolo della stessa, inoltre mi spiegò dettagliatamente i miei compiti, seguiti da un elenco interminabile di azioni e luoghi a me interdetti.

Infine, sul calar della sera fui condotta verso quello che sarebbe stato il mio nuovo alloggio. Si trovava nel piano inferiore dell’ala adibita alla servitù, scesa una scala di pietra ed attraversato un lungo corridoio aperto su entrambi i lati da numerose porte in legno. Era la quinta porta sulla sinistra, la ricordo ancora alla perfezione. Una stanza piccola dai muri in pietra, spogli e privi di finestre. L’interno era occupato per la maggior parte da un semplice letto in legno dal materasso in paglia e da un grosso baule sistemato davanti ad esso. A fianco del letto, su di un comodino in legno vi era poggiata una candela, unica fonte di luce nella stanza altrimenti buia. Sopra il letto trovai, piegata ordinatamente, la mia divisa: una veste in morbido tessuto azzurro fiordaliso, il colore della casata Eloran, ed un grembiule candido dal bordo orlato da un semplice motivo ricamato in filo nero.

«Dentro il baule vi sono altri due cambi. Dovrai provvedere a lavarli da sola, quindi cerca di non sporcarli. La sveglia per la servitù è alle 5.00 di ogni mattina, ma devi essere pronta per le 4.30, vedi di essere puntuale. Buonanotte.»

Disse la zia venuta dalla Capitale, richiudendo la pesante porta dietro di se.  

Quella fu la prima notte che trascorsi alla Tenuta Eloran. Non piansi, non più.

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Capitolo 3
*** Un prezzo da pagare ***


Un prezzo da pagare

I giorni che seguirono trascorsero rapidi, tra un’incombenza e l’altra. Ero stata assegnata al servizio di Ilewen Eloran, giovane figlia di Erendor e Talien, i capostipiti della nobile casata Eloran.

Ilewen era una ragazzina odiosa, piena di se ed altezzosa come tutti i giovani di alto lignaggio.

I miei compiti comprendevano principalmente la pulizia delle sue stanze ed i servizi come cameriera. Anche se saltuariamente ero addetta anche ad aiuto nelle cucine, o mandata al mercato della Città Superiore a far spese.

La tenuta Eloran era immensa, ricordo ancora i grandi saloni pavimentati in marmo candido. L’imponente scalinata conducente alle stanze da letto nobiliari e le finestre, ampie e dalle vetrate intarsiate, la cui luce rifulgeva tingendo di mille tonalità di oro pallido i pavimenti in pietra lunare.

Nonostante non fossi che una serva non potei fare a meno di sentirmi parte di tanta grandiosità.

Spesso, incurante delle ramanzine, mi attardavo nei giardini ai piedi dell’Alto Tempio di Auri-El. Quando, una volta calato il sole, la tenue luce di Jode e Jone indugiava sulla superficie dorata delle alte guglie del tempio  rifulgendo opalescente come un riflesso lontano, colmando il mio cuore di una gioia incontenibile.

Come promesso a mia madre mi venne impartita un’educazione, imparai a leggere e a scrivere. Fu la signora della capitale ad insegnarmi, in un certo senso credo che sia stata lei il mio primo vero Maestro.

Ma fu dai libri che imparai maggiormente; il libri dell'immensa biblioteca della Tenuta Eloran. Centinaia e centinaia di scaffali colmi di tomi sugli argomenti più vari, dalla storia alla botanica, la geografia, l’alchimia, la cucina, la filosofia, la mitologia e molti altri ancora. Spesso, approfittando di qualche distrazione, correvo a rifugiarmi tra quegli scaffali, pronta a viaggiare verso terre sconosciute ed a vivere straordinarie avventure.  Rimanevo lì seduta a terra, con la schiena appoggiata agli alti scaffali. Leggendo di luoghi che altrimenti mai avrei visitato, di piante che mai avrei osservato, di cibi che mai avrei assaggiato e di persone che mai avrei incontrato. In un certo modo mi sentivo libera, anche se solo per poche ore.

Ma in ogni luce vi è sempre un ombra, e per quanto Alinor la Splendente apparisse meravigliosa ai miei occhi, io restavo una serva. Presto dovetti imparare a metter da parte l’orgoglio e chinare la testa, accettando ogni cosa, per quanto ingiusta od umiliante. Non diversamente da quel mendicante dalle mani piagate che incontrai alla Città Bassa il giorno in cui giunsi ad Alinor; io restavo un inferiore, indegna del loro rispetto.

Ma io sono sempre stata una persona molto orgogliosa.

Accadde un Thurdas del Primo Seme, lo ricordo ancora perfettamente. Quella mattina si erano recati in visita alla Tenuta Eloran alcuni giovani di alto lignaggio provenienti dalle maggiori casate di Alinor. Ricorreva il tredicesimo compleanno della giovane Ilewen ed io ero stata assegnata alle mansioni di sua cameriera personale. Ilewen era una ragazzina viziata e capricciosa, avvezza ad umiliare e sminuire chiunque considerasse a lei inferiore. Spesso mi era capitato di divenire oggetto delle sue mire, ma col tempo avevo imparato a non dar peso alle sue parole, per quanto velenose fossero. Quel giorno, finito di sparecchiare la sala da pranzo fui chiamata a servire il tè alla radice canina ed il pane dolce nelle stanze della giovane Ilewen. Una volta preparato il vassoio salii le scale in marmo candido e percorsi il lungo corridoio conducente alle stanze nobiliari. Giunta innanzi alla porta diedi due colpi leggeri onde avvisare del mio arrivo, poi entrai. All’interno una quindicina di giovani, abbigliati in lunghe e preziose vesti dai colori tenui erano intenti a chiacchierare tra loro. Tra di essi Ilewen sedeva scomposta su di un ampio sofà foderato in broccato color porpora.

«Finalmente! Certo che ce ne hai messo di tempo eh serva!» Disse Ilewen sorridendo soddisfatta.

Senza rispondere, mi avvicinai in silenzio, sforzandomi di mantenere lo sguardo abbassato. Sentii calare su di me gli sguardi dei giovani nobili mentre avanzavo, reggendo ancora tra le mani il vassoio con il tè e i dolci.

Mi diressi verso il basso tavolino in mogano, ai piedi del sofà, quando all’improvviso una giovane dai lunghi capelli scuri e gli occhi verdi seduta al fianco di Ilewen spostò il suo piede nella mia direzione, facendomi perdere l’equilibrio. Tutto accadde in un istante. Il vassoio d’argento mi scivolò dalle mani cadendo a terra. Il prezioso servizio da thè in porcellana esplose in mille pezzi. Il pane dolce rotolò fin sotto al sofà lasciando dietro di se un leggero aroma speziato. Mentre il contenuto della teiera, ancora fumante, si spanse nel pavimento in marmo, inzuppando gli orli delle lunghe vesti dei giovani invitati.

Rimasi immobile, come pietrificata per alcuni istanti. Fu la voce melensa della giovane dagli occhi verdi a riportarmi alla realtà.

«Guarda cos’hai combinato! Inutile e maldestra...» sibilò. Non raccolsi la sua provocazione e mi chinai a terra a  raccogliere i cocci del servizio da tè in silenzio.

«Ma d’altronde cosa puoi aspettarti quando fai la carità? Ilewen, la tua famiglia è fin troppo prodiga verso questa gente...accogliere in casa vostra questo rifiuto. Figlia di una sgualdrina senza padre, incapace persino di reggere un vassoio...»

Sentii le risate di scherno degli altri giovani, ed i loro sguardi carichi di disprezzo gravare su di me. In quel momento nacque nel mio cuore una consapevolezza ancor più dolorosa dell’umiliazione, la consapevolezza che nelle parole di quella giovane vi fosse un fondo di verità. E per la prima volta nella mia vita mi sentii patetica, lì chinata a terra a strisciare ai loro piedi.

Così, lo dissi.

«Non è stata colpa mia...»

Calò improvvisamente il silenzio, solo dopo qualche istante la giovane dagli occhi verdi si avvicinò a me.

«Che sfacciata! come osi rispondere? Ilewen, dovresti insegnare alla tua serva a tenere a freno la lingua e ad aver maggior rispetto di chi le è superiore... »

«Fosse per me la rimanderei là da dove è venuta. Nella Città Inferiore a strisciare fra i suoi simili.»

Furono le parole che scivolarono come veleno dalle sue labbra.

Mi alzai di scatto e senza abbassare lo sguardo, mi avvicinai a lei. Era abbigliata in una lunga veste ricamata dalle maniche ampie color turchese, stretta in vita da una cintura dorata. I suoi capelli, lisci e scuri le ricadevano morbidi fino ai fianchi, intrecciati di perle. Il suo capo era cinto da un cerchietto dorato messo ancor più in risalto dagli occhi sprezzanti.

In quel momento non riflettei alle conseguenze che il mio gesto avrebbe portato.

Sollevai la mano e la colpii al viso con forza, facendola cadere a terra.

Riguardo a ciò che avvenne in seguito non ho che dei ricordi confusi. Accorsero in fretta molte persone, domestici e servitori.

Scoppiò il caos; i giovani invitati ed Ilewen, intenti a dare la loro versione dei fatti, parlavano uno sopra l’altro ed al baccano generale presto si unirono le grida isteriche della ragazza dagli occhi verdi. La zia della Capitale mi prese per un braccio e mi condusse ad una stanza piccola e buia, di solito adibita a ripostiglio. Mi spinse dentro con uno strattone e richiuse la porta dietro di me.

Soltanto in seguito seppi chi era la ragazza che avevo colpito. Melian Escaliot, figlia di Salian e Orentor Escaliot, nipote del Sovrano di Alinor.

La mia punizione venne discussa a lungo. Una mattina, dopo tre giorni passati rinchiusa in quel ripostiglio la porta venne aperta e la zia della Capitale mi condusse in giardino. Lì, abbigliate sontuosamente, stavano in attesa diverse persone. Riconobbi la ragazza dagli occhi verdi che avevo colpito al ricevimento di Ilewen, era in piedi a fianco di quelli che dovevano essere suo padre e sua madre.

Un servitore della Casata Escaliot, un uomo alto e robusto si avvicinò a me. In mano reggeva una pesante frusta di cuoio intrecciato. Fui spogliata e gettata a terra con uno strattone.

Nonostante mi fossi ripromessa di non piangere, in modo da privare quella maledetta della sua soddisfazione, nel momento stesso in cui la frusta colpì la superficie della mia pelle lacerandomi la carne, un dolore lancinante, simile ad una scarica elettrica attraversò il mio corpo, costringendomi a lanciare un’ urlo disumano.

Sentii un rivolo di sangue caldo scendere lungo la mia schiena. Con la vista annebbiata dalle lacrime posai lo sguardo sulla figura della ragazza dagli occhi verdi, sorrideva soddisfatta al fianco dei suoi genitori.

Non so di preciso per quanto tempo rimasi lì, né quante frustate mi vennero inflitte. Ad un certo punto smisi di contarle.

Quando venni riportata nella mia stanza era ormai calato il tramonto ed i miei vestiti erano zuppi di sangue.

Le ferite alla schiena pulsavano e mi dolevano terribilmente. Ma ancor più che nella carne ero ferita nell’orgoglio. Chiusi gli occhi e strinsi forte i pugni, mentre calde lacrime scendevano a rigare il mio volto. In quel momento non potei fare a meno di pensare alla mia casa, ormai così distante, mi sentii piccola e sola in un mondo a me avverso.

Poi rividi l’immagine di Melian, la ragazza dai lunghi capelli scuri e gli occhi verdi, in piedi davanti a me, sorridere soddisfatta ad ogni mio urlo di dolore.

Nel mio cuore si fece strada l’odio, un odio profondo che crebbe fino ad avvelenarmi. Un odio per tutti coloro che ogni giorno mi guardavano dall’alto al basso. Per quella ragazza dagli occhi verdi che infine era riuscita ad umiliarmi. Per mia madre, che avrebbe dovuto proteggermi, ed invece mi aveva abbandonata. Per quella donna crudele che si definiva mia zia e che non esitava a picchiarmi al minimo sbaglio, ed infine per me stessa, che ero troppo debole per reagire.                

Raggomitolata su me stessa, incurante del sangue che ancora caldo, scendeva lungo la mia schiena macchiando le lenzuola del letto, scoppiai in un pianto silenzioso. 

Le settimane successive trascorsero fiaccamente, tra un’incombenza e l’altra.

Il dolore alla schiena si affievolì poco a poco, e lentamente anche le ferite si rimarginarono. Il profondo solco ancora aperto nel mio animo invece, crebbe sempre di più.   

In me si fece strada una convinzione. Non avrei permesso mai più ad alcuno, ne uomo ne donna, di umiliarmi. Non sarei mai più stata una vittima, ne una debole.

Ma l’unico rispetto che una come me, di umili natali e per di più donna, avrebbe mai potuto ottenere era il rispetto scaturito dal timore.

Fu questa ragione, che mi indusse ad intraprendere il cammino della conoscenza.   

Incominciai a trascorrere sempre più tempo nella biblioteca della Tenuta Eloran, alla strenua ricerca di volumi riguardanti le principali scuole di magia.

Fu proprio durante una di queste mie ricerche che lo trovai.

Come ogni sera, terminate le mie mansioni in sala da pranzo, mi recai in biblioteca. Con passo silenzioso mi diressi celere tra gli scaffali, verso la sezione adibita alle Arti Arcane. Stavo cercando un libro in particolare, “Il Lorkhan lunare” di Fal Droon.

La biblioteca degli Eloran era immensa. Gli scaffali, alti ed in legno di mogano, si innalzavano fin quasi a sfiorare il soffitto a volta.

Scorsi rapidamente i titoli impressi in grandi caratteri dorati sui dorsi delle rilegature in pelle, alla ricerca del compendio di Alterazione di Droon. Spostai con cautela i volumi collocati più in fondo, e fu in quel momento, mentre ero intenta a raggiungere con la mano un tomo posto particolarmente lontano, che lo vidi.    

Si trattava di un grosso volume rilegato in cuoio consunto. Il titolo sbiadito dal tempo, recava vergato in caratteri scuri "Libro dei Daedra". Nonostante allora non comprendessi ancora appieno il significato di quella parola, non potei fare a meno di sentirmene attratta, come guidata da un desiderio di ineffabile curiosità. Tesi la mia mano e lo afferrai.

Se allora avessi saputo a quali dolori e sofferenze mi avrebbe condotta tale gesto, avrei riposto quel libro nel suo scaffale all’istante e sarei tornata correndo nella mia stanza, senza metter mai più piede in quella biblioteca.

Ma d'altronde credo che la vita di chiunque, rivista attraverso gli occhi dell’esperienza appaia colma di pentimenti e rimpianti.

Sollevai la copertina in cuoio con accortezza. La prima pagina recava impresso, sotto il titolo, un simbolo in una lingua a me sconosciuta.

Era un testo antico, risalente a prima della Chiesa di Auriel. Quando ancora nelle isole di Summerset si veneravano i Principi Demoni delle Sfere Esterne.

Un culto oscuro ed obliato da tempo; come lo era quel volume, dimenticato tra gli scaffali della grande biblioteca Eloran.

Lessi avidamente, di Piani dell’Esistenza lontani Eoni interminabili, abitati da Entità aliene alla natura umana come a quella elfica. Entità tanto dissimili da poter essere definite D-aedra nella lingua Aldmeri, i non-antenati.

Ma a differenza di Magnus, Trinimac e Auri-El i Gloriosi, Sommi e Splendenti nei cieli dell’Aetherius, tanto distanti dai comuni mortali, essi erano invece vicini alla nostra esistenza. Pronti ad ascoltare le nostre preghiere se chiamati e prodighi di aiuti, anche se come per ogni cosa, ad un prezzo.

Fu tra quelle pagine che lessi il Suo nome per la prima volta.

Hermaeus Mora, Principe Daedrico del Fato e della Memoria, guardiano delle scritture e custode di antiche conoscenze ormai dimenticate.

Colui che aveva irretito con le sue parole Xarxes, lo scriba del sommo Auri-El in persona, facendogli dono di saperi al di la della consapevolezza di dei e uomini.

Colui che leggeva nel passato e nel futuro, domando le maree del destino.

Colui il cui nome e potere si perdevano nelle origini stesse di Nirn.

Riflettei a lungo ed infine presi la mia decisione.

La notte di un quinto giorno del Primo Seme, mentre fuori imperversava il temporale, mi chiusi nella mia stanza e tracciai sul pavimento un ampio pentacolo irto di rune. Con voce tremante, pronunciai i termini dell’invocazione.

Attesi alcuni istanti, in silenzio, ma non accadde nulla. Il solo suono del rombo dei tuoni lontani riempiva il vuoto intorno a me, mentre ampie e leggiadre volute di fumo salivano lentamente dalle candele poste a circondare il cerchio d'Evocazione. Nulla si palesò al mio sguardo, le terribili fiamme ed il vuoto dell'Oblivion di cui tanto avevo letto prima d'allora non si mostrarono affatto, né tantomeno la più semplice apparizione o prova che potesse in qualche modo ricompensare i miei sforzi. Abbassai lo sguardo stringendo i pugni con forza.

Pensai di avere fallito, ed ancora una volta mi sentii patetica ed inutile, troppo incapace persino per chiedere aiuto.

Poi udii la Sua Voce.

Fredda e distante come giunta da Sfere Lontane, ma profonda e pregna di un potere antico e terribile.

Ed infine Egli mi apparve.

Un turbine come di acque torbide e pulsanti avvolte da lunghi tentacoli neri fluttuò innanzi a me, mentre lentamente prendeva forma l'orrida figura di un corpo abominevole, senza volto ed attraversato da svariati occhi opalescenti. Gli arti sghembi si protendevano verso l'alto, scheletrici ed affilati, simili alle tenaglie di un insetto.

Il Suo corpo informe, che nulla aveva di umano o elfico, terminava in una massa molle e viscida, contornata da numerosi tentacoli. I Suoi occhi vitrei erano spalancati ed immobili, dando come l'impressione che il Dio stesse scrutando attraverso d'essi il Tutto ed il Nulla al contempo.

Rabbrividii. Un lungo rivolo di sudore gelido scese lungo la mia schiena, mentre chinavo il capo prostrandomi innanzi al Signore della Memoria.

Meditai le mie parole con attenzione.

Non avevo molto da offrire. Tutto ciò che possedevo erano gli abiti che indossavo, e pochi altri miseri averi custoditi all'interno del pesante baule ai piedi del letto. Perciò gli offrii l'unica cosa che potesse avere per me un qualche valore.

La mia anima. Certo, per quel poco che potesse valere l'anima senza nome di una ragazzina misera e semplice qual'ero.

Ma essa, per quanto insignificante, era tutto ciò che avessi da offrire.

Infine pronunciai quelle parole.

Un’eternità di schiavitù nell’Oblivion. Sua nella vita e nella morte.  

Egli mi trasse a se; avvertii le spire dei Suoi tentacoli avvolgermi e stringere il mio corpo sempre più. La vista iniziò ad annebbiarsi, mentre il mondo intorno a me sbiadiva lentamente, lasciando posto a visioni di oscuri abissi ricolmi di atrocità innominabili ed orrori a lungo dimenticati.

Immensi corridoi e sale sconfinate si aprirono innanzi ai miei occhi, dimorate da creature abominevoli e terrificanti. L'aria verdastra e malsana di quel luogo infernale permeava ogni cosa, bruciandomi i polmoni ad ogni respiro.

Parole distanti, sussurrate in una lingua a me sconosciuta giunsero alle mie orecchie da lontano. Nonostante prima d'allora non avessi mai udito tali parole, una parte di me sentiva di averne comunque memoria, come se esse provenissero da un sogno dimenticato per lungo tempo.

Obbedii e tesi il braccio sinistro davanti a me, in silenzio.

Un dolore acuto e lancinante mi attraversò all'improvviso; come se mille lame arroventate incidessero la mia carne in profondità, all'altezza dell'avambraccio.

Sentii la mia pelle sciogliersi al Suo tocco, ed i tessuti sottostanti bruciare consumandosi fino alle ossa.

Non ebbi il coraggio di abbassare lo sguardo per vedere cosa restasse del mio arto sinistro; i Suoi gelidi occhi sembravano scrutare fin dentro la mia anima, paralizzandomi.

Mi chiesi se il Dio potesse leggere il terrore che cresceva sempre più nel mio giovane cuore, mentre i suoni intorno a me si facevano ovattati e distanti ed il buio calava avvolgendo ogni cosa.

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