In her shoes

di RandomWriter
(/viewuser.php?uid=526324)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La girovaga del liceo ***
Capitolo 2: *** Un vicino molesto ***
Capitolo 3: *** AAA: Pallone cercasi ***
Capitolo 4: *** Tiri mancini ***
Capitolo 5: *** Uno contro uno ***
Capitolo 6: *** Provocazioni ***
Capitolo 7: *** Ride bene chi ride ultimo ***
Capitolo 8: *** Un ricordo di cui vergognarsi ***
Capitolo 9: *** Il primo giorno di punizione ***
Capitolo 10: *** Musicisti clandestini ***
Capitolo 11: *** Sabato Sera ***
Capitolo 12: *** Sotto una nuova luce ***
Capitolo 13: *** Due contro due ***
Capitolo 14: *** Un disegno per Castiel ***
Capitolo 15: *** Il club dei disadattati ***
Capitolo 16: *** In her shoes ***
Capitolo 17: *** La ragazza di Jason ***
Capitolo 18: *** La lite ***
Capitolo 19: *** Erin VS Ambra: secondo round ***
Capitolo 20: *** Pioggia ***
Capitolo 21: *** Rapunzel non esiste più ***
Capitolo 22: *** Notizie da prima pagina ***
Capitolo 23: *** Padri ***
Capitolo 24: *** Indovina chi viene a cena? ***
Capitolo 25: *** Si va in scena ***
Capitolo 26: *** Aspettative e soddisfazioni ***
Capitolo 27: *** Ti presento i miei ***
Capitolo 28: *** Requiem for a dream ***
Capitolo 29: *** Notti insonni ***
Capitolo 30: *** Il concerto ***
Capitolo 31: *** Partenze ***
Capitolo 32: *** Chi non muore si rivede ***
Capitolo 33: *** Esito ineluttabile ***
Capitolo 34: *** Il mio pilastro ***
Capitolo 35: *** La speranza è un sogno fatto da svegli ***
Capitolo 36: *** Vigilia ***
Capitolo 37: *** Natale in famiglia ***
Capitolo 38: *** Il compleanno di Erin ***
Capitolo 39: *** Un intellettuale in mimetica ***
Capitolo 40: *** Adorabili idioti ***
Capitolo 41: *** Sogni realizzati e sogni infranti ***
Capitolo 42: *** Let's move! ***
Capitolo 43: *** Fantasmi del passato ***
Capitolo 44: *** Ragazze di ieri, ragazze di oggi ***
Capitolo 45: *** Verso la semifinale ***
Capitolo 46: *** Happy Valentine's Day ***
Capitolo 47: *** Tessere ***
Capitolo 48: *** Cardiopalma - Prima parte ***
Capitolo 49: *** Cardiopalma - Seconda parte ***
Capitolo 50: *** Mi sei mancato ***
Capitolo 51: *** Twin towers ***
Capitolo 52: *** T-Team ***
Capitolo 53: *** Welcome to Bahamas ***
Capitolo 54: *** Salvate il soldato Levine ***
Capitolo 55: *** Hailey ***
Capitolo 56: *** I misteri dell'arte ***
Capitolo 57: *** Lysandre in love ***
Capitolo 58: *** L'errore più giusto ***
Capitolo 59: *** Rimorsi ***
Capitolo 60: *** Fratture ***
Capitolo 61: *** L'unione tra le fratture ***



Capitolo 1
*** La girovaga del liceo ***


CAPITOLO 1: LA GIROVAGA DEL LICEO
 
Nonostante la stretta vicinanza tra il suo orecchio e la sorgente sonora, Erin sembrava ignorare l’allarme lanciatole dalla sveglia che, se avesse potuto parlare, avrebbe detto: “smettila di poltrire! Non vorrai fare tardi il tuo primo giorno di scuola!”. Finalmente la ragazza diede segno di vita, muovendo il braccio in un punto indefinito cercando di silenziare quel fastidioso oggetto ma intervenne zia Pam:
“Non ci provare Erin. Non ti permetterò di tardare il primo giorno! la colazione è pronta, sbrigati o si raffredda!” e rese ancor più efficaci le sue parole, rimuovendo con un rapido gesto le calde coperte che avvolgevano la nipote.
Erin mugulò una risposta che la zia interpretò come una resa. La vide trascinare i piedi sul pavimento con un’andatura incerta:
“e questo sarebbe il passo di una ex-ballerina? Sembri più una donna delle caverne!” borbottò allegra.
La ragazza aveva troppo sonno per protestare, si avvicinò all’armadio lasciando intendere alla zia che la sua presenza non era più necessaria. Evidentemente Pam non era dello stesso avviso.
“mettiti qualcosa di carino tesoro. È importante la prima impressione” commentò sedendosi sul letto. Erin fissò per un attimo la giovane zia. Pam lavorava come segretaria presso un ufficio legale ed era sempre impeccabile: era una donna molto bella, aggraziata e curata ma purtroppo a volte un po’ infantile e sognatrice. In certi momenti Erin si sentiva persino più vecchia, anche se almeno undici anni le separavano.
 “ok, ok ho capito… me ne vado… ma tu sbrigati” la ammonì la zia prima di richiudersi la porta alle spalle.
La ragazza fece un profondo sospiro e aprì l’armadio. Anche se fosse stata armata delle migliori intenzioni, le sarebbe stato impossibile scegliere qualcosa che sua zia potesse definire anche solo vagamente “carino”.
Nell’armadio c’erano solo capi scuri, t-shirt di concerti rock, jeans strappati e felpe. Frugò in un angolo da cui fece emergere una maglietta con una grande stampa frontale: “mi sento Alice in chains oggi” pensò fissando il logo del noto gruppo.
 
Scese le scale in silenzio e non appena la zia la vide, sospirò:
“quando potrò tornare a vederti con un vestito Erin? O per lo meno a intuire delle forme femminili sotto tutto quel rock?”
“quando tu accetterai di uscire con Jason” replicò Erin asciutta, svuotandosi una generosa quantità di caffè nel latte.
Jason era il vicino di appartamento di Pam, che da ormai un paio d’anni, manifestava palesemente il suo interesse per la giovane donna, la quale però fingeva di non accorgersene.
“Non è la stessa cosa!  Mi fa stare bene essere libera da relazioni sentimentali”
“e a me fa star bene indossare queste magliette” concluse Erin con un tono che non lasciava spazio ad ulteriori commenti.
Pam sospirò e alzò gli occhi al cielo. Quella era l’unica cosa che davvero Erin non sopportava nella zia e che tanto la rendevano simile al fratello, nonché padre di Erin.
Se Pam era davvero la persona che più di ogni altra la capiva, allora non doveva insistere a volerla cambiare. Erin si era trasferita nell’appartamento della zia appena due mesi prima. Non era stata una scelta facile, infatti le era stata più che altro imposta ed Erin aveva accettato quella convivenza solo quando aveva cominciato a rendersi conto di quanto la presenza della zia le fosse terapeutica: il suo modo di fare allegro e spensierato, così diverso dalla madre di Erin, la faceva stare meglio.
 
Si avviò verso la sua nuova scuola, consultando una piantina che ormai conosceva a memoria.
Una volta salita sull’autobus, trovò un posto libero accanto al finestrino e fu costretta ad aumentare il volume delle cuffie poiché il baccano le avrebbe impedito di leggere “la casa del sonno”. Quel libro la prendeva molto ed era uno dei pochi momenti in cui riusciva a distrarsi da tutto e da tutti. In questo modo non potè ascoltare i commenti meschini di una coppia di ragazze che l’avevano squadrata da capo a piedi malignando sul suo modo di vestire.
Una volta scesa, un sorrisino ironico si disegnò sulle sue labbra “Dolce amoris” borbottò tra sé “che nome del c-“ fu costretta a interrompersi perché venne urtata alle spalle da una delle due ragazze che, a sua insaputa, l’avevano derisa pochi minuti prima.
“a quanto pare il caso umano è un nuovo acquisto del liceo!” commentò la ragazza dai lunghi capelli corvini rivolta verso l’amica.
“per fortuna che nel test di ammissione non è richiesto di avere un certo stile” replicò l’altra. Aveva un fisico alto e ben proporzionato. I capelli erano minuziosamente raccolti in una coda di cavallo alta che la slanciavano ulteriormente conferendole un’aria da modella europea. La sua amica non era da meno: aveva dei lineamenti orientali molto delicati, e una pelle perfetta. I capelli neri erano assolutamente lisci ed estranei al concetto di “crespo”.
“oh magari Charlotte! Saremo sicuramente le prime in classifica!”.
“dopo di me ovviamente!” s’intromise una voce alle loro spalle.
Chi aveva parlato, era una ragazza con i capelli color oro e gli occhi di un intenso color zaffiro. Questo per lo meno fu ciò che vide Erin rivolgendole un’occhiata di sottecchi.
Sorpassandola, quella visione aveva lasciato un’ondata di profumo che aveva solleticato il naso di Erin facendola addirittura starnutire.
“ahah, sempre la solita modesta, eh Ambra?” scherzò la ragazza con i capelli neri.
“sono oggettiva Lin” puntualizzò Ambra “e senz’altro non puoi sperare di stare davanti a me in fatto d stile con quella squallida imitazione di Vuitton” commentò con un sorriso perfido alludendo alla borsa firmata che Lin teneva tra le mani.
Lin avvampò e trattenne a stento la rabbia e l’umiliazione mentre Charlotte sogghignava.
“in compenso i tuoi orecchini sono assolutamente d-e-l-i-z-i-o-s-i!” aggiunse Ambra con un sorriso ipocrita che bastò a rincuorare Lin.
Disgustata da quella scena, Erin si allontanò dal trio, osservandole a distanza. Aveva notato una Rolls-Royce fuori dal cancello e dal cenno che Ambra mosse all’autista capì chi ne fosse stata la passeggera fino a pochi secondi prima. Tenendo lo sguardo fisso sulla vettura che si stava allontanando, la ragazza non vide la persona accanto a lei e finì col urtarla.
“oddio!” esclamò. Poi alzò lo sguardo ad osservare chi fosse il malcapitato.
“non preoccuparti” le rispose la creatura che lei all’inizio scambiò per un angelo: capelli color oro e occhi color nocciola la portarono su un altro pianeta.
“scusami” farfugliò abbassando il viso per celare il rossore che le aveva incendiato il volto.
“ah, aspetta non ti ho mai visto prima… tu sei Erin?”
Sollevata dal sentirsi riconosciuta, annuì senza capire come potesse conosce già il suo nome.
“sono il segretario delegato del liceo. Benvenuta! E’ mio dovere farti fare un tour della scuola”
“delegato? Oh mi scusi pensavo fosse uno stud-“
“ahah frena frena, sono anche io uno studente, sono del quinto anno ad essere precisi!” replicò divertito il ragazzo “mi chiamo Nathaniel”
“piacere Erin” rispose prontamente la ragazza
“lo so” le ricordò Nathaniel facendole l’occhiolino e facendola sentire ancora più stupida.
 
Nathaniel guidò Erin per i corridoi dandole una mappa della scuola che si scoprì molto grande e riepilogandole le regole principali;
“come farò a ricordare tutto?” si chiese allarmata Erin.
“naa, non è difficile. Per ora sono due le cose a cui devi assolutamente pensare: l’iscrizione ad uno dei club, e portami al più presto una tua fototessera da mettere nell’archivio”
“fototessera? Ma sono sicura di averla già consegnata!” protestò Erin. E se lo ricordava bene: nonostante le proteste di Pam, alla sua domanda di iscrizione Erin aveva allegato una fototessera che risaliva a quattro anni prima; in quella foto era venuta davvero malissimo: aveva i capelli molto corti e all’epoca portava un orrendo paio di occhiali. Con il tempo era migliorata notevolmente, aveva maturato lineamenti più femminili e aveva smesso di indossare gli occhiali ma nonostante questo non aveva nessuna voglia di farsi fare una nuova foto. La zia si era così rassegnata al fatto che un’immagine così poco lusinghiera della nipote venisse deposta negli archivi scolastici.
“mi dispiace, ma ho voltato da capo a piedi il tuo fascicolo e non l’ho trovata” le spiegò Nathaniel.
“per la felicità di mia zia, dovrò farne una nuova”
“in effetti quella foto non ti rendeva giustizia!”
Erin rimase sbigottita e Nathaniel arrossì lievemente.
“e tu come fai a saperlo? Hai detto di non averla trovata!”
“scusa scusa!” replicò prontamente il ragazzo congiungendo le mani davanti al viso in segno di scusa “ma avevo portato il tuo fascicolo a casa per poterlo revisionare, e c’era tutto… non so perché, ma dopo cena la foto era sparita. Ho controllato sotto il tappeto, dietro alle riviste del tavolo, ho perfino rincorso il gatto per verificare se per caso…”
“ahah! Non avrei mai pensato che avessi  la faccia tosta di farmi credere che fosse colpa mia” commentò Erin divertita. Nathaniel anziché stare allo scherzo, si irrigidì e commentò lievemente seccato:
“mi dispiace ok? Se vuoi ti risarcisco i soldi per rifartela”
“n-no, ma cosa dici? Stavo solo scherzando! Mi hai sorpreso perché ti sei rivelato un tipo divertente!”
Nathaniel osservò sorpreso la ragazza che dal canto suo lo fissava con uno sguardo trasparente e sincero.
“beh, grazie… sei la prima persona che me lo dice” riconobbe massaggiandosi il collo con lieve imbarazzo.
Erin sorrise gentile e gli chiese ulteriori informazioni sui club:
“poiché l’anno scolastico è cominciato da un mese, non è rimasta molta scelta: c’è il club di giardinaggio” e a sentire quella parole Erin storse il naso “… e quello d basket”.
“Basket? Figo!”
“si ma il problema è che è praticamente impossibile entrarci”
“e perché?”
“vedi il capitano è un po’… come dire…selettivo”
“scusa ma deve per forza decidere solo lei?”
“no non mi sono spiegato: c’è un’unica squadra di basket che in teoria dovrebbe essere mista ma in realtà ci sono solo ragazzi. Formalmente le iscrizioni sono aperte a tutti, ma di fatto solo dieci persone ne fanno parte e, a meno che tu non sia un Michael Jordan in gonnella, è impossibile che tu venga accettata in squadra;  il capitano è il giocatore di basket più forte della scuola e, se devo essere sincero, anche piuttosto maschilista, quindi non ti accetterà mai in squadra… a meno che…”
“a meno che?”
“tu non convinca gli altri nove membri”
“cioè ho più possibilità di convincere 9 persone su 10 anziché 1?”
“direi che è un’ottima sintesi della situazione” ammise Nathaniel.
Erin increspò le labbra. Non aveva nessuna intenzione di iscriversi al club di giardinaggio ma del resto non poteva nemmeno restare tagliata fuori dai club. Su questo Nathaniel era stato categorico.
 
Il ragazzo la guidò fino alla soglia della sua aula 4C.
“ti devo abbandonare Erin. Devo tornare alla mia di lezione. Sarò anche un delegato, ma devo comunque seguire le lezioni come tutti gli altri studenti”
“grazie, sei stato molto disponibile” e con un certo rammarico, Erin varcò la soglia.
 
“e lei chi sarebbe?”. Una voce alterata le impedì di avanzare anche di un solo centimetro. Davanti a lei, un professore grassoccio, il cui sedere sforava dalla seduta della sedia, la scrutava da sopra i suoi occhiali.
“oh caspita, forse avrei dovuto bussare” pensò Erin quando ormai era troppo tardi “sono la nuova studentessa, Erin Travis” disse cercando di rimediare alla brutta figura. Sentiva su di sé lo sguardo dei presenti che stavano per diventare i suoi compagni di classe. Il silenzio che era calato le fecero temere di essere nell’aula sbagliata.
“oh la stavamo aspettando signorina Travis!” esclamò il professore con un entusiasmo che a tutti i presenti sembrò esagerato, specie per il modo in cui l’aveva accolta un attimo prima.
“lo vede quel banco laggiù in fondo?” disse indicando un punto in fondo alla classe.
Erin guardò il professore aspettando che proseguisse il discorso invitandola a sedersi ma lui sembrava aspettarsi una risposta affermativa:
“si lo vedo, cos’è? una visita oculistica?” chiese dopo un po’ con un’aria talmente perplessa che dai suoi compagni si levò qualche risata sommessa.
“non faccia la spiritosa! Si sieda laggiù!” le ordinò il professore visibilmente irritato.
“mi scusi” borbottò Erin accorgendosi troppo tardi che il suo nervosismo aveva finito per far trapelare la sua natura ironica e pungente.
“tutti qui i piantagrane!” borbottò tra sé e sé il professore talmente piano che nessuno lo sentì.
In quel momento Erin, guardandosi attorno, notò la presenza di Ambra e Charlotte. A quanto pare erano le sue compagne di classe e la cosa non poteva certo lusingarla.
Erin si accomodò al posto indicatole che, per sua fortuna, era accanto ad un banco vuoto. Almeno non doveva sforzarsi di fare amicizia. Inoltre era in ultimo banco così non avrebbe attirato su di sé sguardi curiosi.
La lezione di letteratura si rivelò terribilmente noiosa e la cosa le dispiacque molto: assieme alla biologia, letteratura era la materia che più adorava ma Mister Condor aveva un modo di spiegare apatico e incomprensibile. Dopo i primi cinque minuti, smise di prendere appunti perché convenne che non ne valesse la pena. Alla ricerca di un qualche diversivo, posò lo sguardo sul banco attaccato al suo: era pieno di scarabocchi, alcuni dei quali riconobbe come i loghi di band che da  qualche mese aveva cominciato ad ascoltare. Notò la presenza anche un piccolo pentagramma con abbozzate note ormai sfuocate. Aveva studiato musica fino a tre anni prima, e ricordava ancora come si leggeva uno spartito. Provò ad immaginare la melodia ma non riuscì a ricollegarla a nessuna musica che lei conoscesse.
Ed infine, quando ormai le sembrava che quel banco le avesse rivelato tutto ciò che poteva, sull’angolo in alto a destra, vide una parola che proseguiva sul suo banco: CASTIEL.
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un vicino molesto ***


CAPITOLO 2: UN VICINO MOLESTO
 
Al cambio dell’ora, Erin non si mosse dal suo posto, sperando invano che qualche compagno un po’ intraprendente si avvicinasse a presentarsi. L’aula si svuotò in appena due secondi, cosa che un po’ la sorprese: possibile che nessuno avesse pensato a lei? Si accorse però di una ragazza, seduta anche lei in ultima fila che non aveva aderito all’esodo. Se non ricordava male, si chiama Kim. Il professor Condor l’aveva ripresa durante la lezione perché masticava rumorosamente una chewing gum. Kim teneva appoggiato sulle gambe il libro di biologia, e lo sfogliava febbrilmente:
“la prima tappa della glicolisi… glucosio… sì… e viene aggiunto fosfato…ok…ci sono…e poi il… no merda, questo non me lo ricordo mai… fosfoenol-che? Ma è sempre esistito sto coso?”
Degludendo nervosamente, Erin tentò di interrompere quel monologo sommesso:
“scusa…”
Kim alzò lo sguardo talmente di scatto che Erin si spaventò:
“non vorrei disturbarti…” balbettò quest’ultima.
“ma lo stai facendo” puntualizzò l’altra con fare arrogante.
“ok scusa, continua pure…” replicò Erin frettolosamente.
“ormai mi hai interrotto. Cosa ti serve?”
Erin non sapeva più cosa dire. In realtà voleva solo scambiare due parole ma a quanto pare le ragazze di quella scuola erano tutte odiose.
“nulla di importante” e tornò a fissare fuori dalla finestra. Kim la fissò per un attimo poi la chiamò:
“senti bella non ce l’ho con te. Forse dopo la Joplin mi interroga, e continuerà a farlo finché non prendo una C. Sinceramente non vorrei che la cosa andasse avanti fino a giugno…intendi?”
Senza celare minimamente la sua perplessità, Erin annuì e lasciò che Kim proseguisse il suo disperato ripasso flash.
Lentamente i ragazzi cominciarono a tornare in aula e tutti sembravano seriamente intenzionati a ignorare Erin. Tutti tranne uno. Quando ormai la pausa era terminata, fece il suo ingresso un ragazzo alto, con un giubbotto in pelle e i capelli rosso sangue.
Sin da quando aveva varcato la soglia, aveva attirato l’attenzione dei presenti e ben presto Erin capì il perché. Evidentemente il banco vuoto accanto al suo ora aveva un proprietario. Potendo scegliere, Erin aveva optato per quello accanto alla finestra, ma dall’espressione contrariata del ragazzo capì che non era stata una buona scelta.
“e tu che ci fai qui?” e senza darle il tempo di replicare aggiunse perentorio “Sloggia”.
Erin rimase senza parole. Prima le amichette di Ambra, poi Kim e adesso anche quel tizio: era stufa di farsi trattar male.
“come scusa? Veramente non leggo il tuo nome scritto qua” replicò con aria di sfida.
“come no. CAS-TIEL” esplicò il ragazzo passando il dito sull’incisione del banco.
“ti serve come promemoria? Brutta bestia l’Alzheimer” lo stuzzicò la ragazza. Si ritenne soddisfatta di quella risposta. Non aveva nessuna intenzione di darla vinta ad un simile cafone.
Castiel fece un sorriso beffardo mordendosi il labbro; aveva trovato qualcosa con cui vivacizzarsi la giornata. Aveva un’espressione che ad Erin ricordò quella di un gatto che avvista una farfalla e che pregusta il divertimento sadico nel tormentarla. Nel frattempo il resto della classe aveva sospeso ogni conversazione per assistere alla scena.
“e così tu saresti la nuova? Certo che con quei capelli non passi inosservata Rapunzel”
“che buffo, ho pensato la stessa cosa di te quando ti ho visto entrare, Ariel”
Un gruppo di ragazzi alle spalle di Castiel scoppiò a ridere, ma lui li freddò con uno sguardo glaciale.
Il ragazzo buttò un occhio alla maglietta di Erin:
“Alice in chains eh? Almeno sai chi sono?” la canzonò.
Erin non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione per la risposta che gli avrebbe dato:
“a differenza di te, non passo le mie giornate a guardare le principesse Disney”.
Castiel sollevò il sopracciglio. Da quel semplice scambio di battute si stava divertendo parecchio.
“Cassss” s’intromise la voce mielosa di Ambra “oggi c’è l’assegnazione dei lavori di gruppo, lo facciamo… insieme?” chiese mettendoci un sentimento tale nell’ultima parola che i presenti si chiesero se non ci fosse una proposta indecente dietro. La ragazza gli aveva appoggiato la mano sulla spalla ma lui non ci fece caso. Continuava a tenere gli occhi fissi su Erin che, sentendosi a disagio, voltò lo sguardo verso l’esterno. Poteva fare la gradassa se provocata, ma sostenere lo sguardo di Castiel le risultava difficile.
“quale straordinaria scoperta ha destato il vostro interesse da farvi riunire tutti in fondo all’aula?” chiese una voce pacata.
I ragazzi si dileguarono, prendendo ognuno il proprio posto. La professoressa sistemò la borsa sulla cattedra, mentre Castiel si rassegnò a sedersi nel posto accanto ad Erin.
“la nuova studentessa” commentò compiaciuta l’insegnante di biologia.
“mi chiamo Erin Travis”
“lo so” disse con un sorriso dolce che a Erin ricordò quello di Nathaniel e per questo arrossì lievemente. Dov’era finito quell’angelo che era venuto in suo soccorso? Aveva così bisogno di vedere una faccia amica.
“in sala professori non si parla d’altro” la informò l’insegnante.
Erin e i compagni assunsero un’aria stupita ed Iris, una ragazza seduta in seconda fila intervenne:
“perché?”
“Diciamo che il professor Condor non ha molto senso dell’umorismo” commentò sibillina la professoressa. Erin assunse un’aria preoccupata ma la signorina Joplin aggiunge “ma fortunatamente io credo di averne abbastanza da apprezzare la sua battuta”  concluse con un sorriso conciliante.
Castiel guardò Erin con la coda dell’occhio, chiedendosi cosa si fosse perso.
“per la cronaca, sono Miss Joplin, insegno biologia e chimica”
“Joplin” ripetè sottovoce Erin pensando all’omonima cantante degli anni Settanta. Curiosamente un po’ le assomigliava, con gli occhiali tondi, i capelli arruffati. Anche lo stile non era poi molto diverso dall’intramontabile Janis Joplin.
“figo come cognome no?” commentò sottovoce Castiel che in quel momento era intento a posizionare del tabacco su una cartina.
“allora ragazzi, prima di interrogare Kim” alla quale la professoressa lanciò un’occhiata esaustiva “direi che sarà meglio comunicarvi l’organizzazione del lavoro a coppie” in quel momento l’insegnante intercettò Castiel intento ad arrotolare la sigaretta.
“Castiel”
Il ragazzo sollevò il capo e la guardò con aria innocente
“Penso che troverai incredibilmente istruttivo preparare una relazione sugli effetti del fumo. Farai coppia con”
“Perché non posso decidere io con chi stare?” la interruppe prontamente il ragazzo
“per evitare ogni polemica, questa volta le coppie le farò io, e non lamentarti prima ancora di aver sentito il verdetto finale. Visto che non sei mai stato molto collaborativo con i tuoi compagni, proviamo a vedere se l’accoppiata con la nuova arrivata è vincente”
“Castiel ha ragione prof!” protestò immediatamente Ambra “dovrebbe lasciarci la possibilità di scegliere”. Tutti poterono vedere il fumo uscire dalle orecchie della ragazza che aveva visto tramontare il suo piano.
“voglio assicurarmi che le coppie siano equilibrate. Non accetto proteste e se insisterai su questa linea, il tuo approfondimento sarà sulle malattie purulente a carico dei batteri” la ammonì l’insegnante.
Disgustata dall’idea, Ambra si serrò le labbra e incrociò le braccia davanti al petto mettendo il broncio.  Miss Joplin intanto continuava con l’assegnazione dei compiti.
“contenta piccola peste? Passeremo molto tempo insieme… si vede che è destino” disse dopo un po’ il ragazzo.
“sto trattenendo la gioia” replicò Erin sarcastica.
Castiel sorrise beffardo e sprofondò nella sedia. Erin lo guardò con la coda dell’occhio e lo vide abbassarsi talmente tanto da aver annullato la differenza di altezza tra di loro.
“non che mi importi, ma va giù un altro po’ e ti ritrovi con il culo per terra”
“vorresti vederlo eh?”
“che cosa?”
“il mio culo”
Sfortunatamente per i due interlocutori,  in quel momento la professoressa aveva appena finito di attribuire i compiti ed era calato il silenzio. Qualcuno rise e si alzò un borbottio che Miss Joplin sedò immediatamente. Si schiarì la voce e fissò con serietà Erin:
“Erin, non vorrei riprenderti già il primo giorno, ma da quando sono entrata non avete smesso un attimo di parlare”
“mi scusi” mugulò Erin.
“ e due” pensò rassegnata. Adesso anche Miss Joplin l’avrebbe presa di mira. E pensare che nella vecchia scuola era considerata una studentessa modello. O forse era in un’altra vita.
Castiel sembrava non condividere l’imbarazzo della vicina e aveva un’aria trionfante.
Appena l’attenzione si distolse, le sussurrò:
“eheh… chissà perché mi dai corda…”
“sono ottimista, magari ti impicchi” ribattè Erin che teneva gli occhi fissi sulla lavagna.
Se li avesse distolti in direzione di Castiel, avrebbe scorto l’espressione divertita con cui il ragazzo la stava fissando.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** AAA: Pallone cercasi ***



CAPITOLO 3:  AAA: PALLONE CERCASI
 
L’ora di biologia si rivelò una sorpresa per Erin: Miss Joplin era coinvolgente e le sue lezioni stuzzicanti. Proponeva quesiti scientifici ai suoi studenti che si potevano risolvere solo sulla base del ragionamento:
“pensateci un attimo: perché un eterozigote come questo dovrebbe trarre vantaggio dal suo genotipo? Rispetto ai due omozigoti intendo”
Ed Erin era una delle poche che riusciva a centrare il punto. I presenti si sorpresero della sua elasticità mentale, compresa l’insegnante. La ragazza aveva guadagnato qualche punto ai suoi occhi.
Finita l’ora, una sua compagna di classe le si avvicinò. Era una rossa naturale, a differenza di Castiel, e portava una treccia a lato; era seduta in seconda fila ed era stata piuttosto silenziosa durante le lezioni. Si chiamava Iris ed ispirava fiducia ad Erin anche se, fino a quel momento, non avevano mai scambiato due parole.
“Erin chiedono di te” le disse Iris indicando un punto alle sue spalle.
Erin spostò lo sguardo verso la direzione indicata dalla ragazza. Sulla soglia della porta era appoggiato Nathaniel.
“grazie Iris” rispose scattando in piedi e raggiunse il ragazzo. Castiel, dal canto suo, si alzò svogliatamente e passò tra lei e Nathaniel urtando quest’ultimo. Castiel non si scusò e il delegato lo ignorò. Il primo sparì nel corridoio e Nathaniel le disse:
“allora Erin come va?”
“bene grazie. Abbiamo appena avuto biologia con la Joplin. Davvero in gamba”
“penso sia la prof più amata del liceo, dopo la Robinson, quella di arte …”
Erin avrebbe voluto far proseguire la conversazione su quella scia, ma la curiosità di sapere il perché della visita del delegato prese il sopravvento:
“come mai da ‘ste parti? Devi dirmi qualcosa?”
Nathaniel alternò un’iniziale perplessità ad un’espressione di disagio:
“no no, è solo che ho pensato che ti avrebbe fatto piacere parlare con qualcuno che conosci. Immagino che essere la nuova alunna non sia facile…”
Erin avrebbe voluto baciarlo in fronte, ma si trattenne. Nathaniel incarnava il perfetto principe azzurro non solo fisicamente ma anche il suo animo era così nobile.
“infatti mi fa molto piacere. Anche perché il mio unico tentativo di fare amicizia è miseramente fallito” commentò pensando alla reazione di Kim.
“non ti scoraggiare. Fossi in te proverei a parlare con Iris, la ragazza che è appena venuta da te. È la presidentessa del club di giardinaggio, ci ho parlato in qualche occasione. È una persona alla mano”
“ah sì? È la presidentessa?” ripetè Erin con un certo stupore. Iris era una ragazza tranquilla, non se la immaginava in un ruolo di responsabilità
“perché quell’espressione?”
“beh, non l’avrei mai detto. Cioè mi sembra una persona così pacata, faccio fatica a immaginarmela a gestire un intero club”
“e invece lo fa molto bene. Magari ti può sembrare un po’ remissiva, ma se è necessario, sa far valere i suoi diritti. Direi che il club di giardinaggio è uno dei meglio organizzati proprio grazie alla sua leardership”
“stai cercando di convincermi a fare domanda per il suo club?” chiese Erin con un sorriso divertito.
“lo ammetto” replicò Nathaniel sorridendo a sua volta “è la seconda volta che mi becchi oggi”
“grazie, ma rimango dell’idea di voler provare con il club di basket”
In quel momento Castiel rientrò e passò loro accanto.
Erin lo seguì con lo sguardo. Nathaniel sbirciò l’ora sul cellulare e commentò:
“sarà meglio che vada, altrimenti arrivo tardi a lezione”. Erin lo guardò allontanarsi. Le sarebbe piaciuto  pensare che tutte quelle attenzioni le fossero state riservate perché il ragazzo era rimasto colpito da lei; in realtà, e lo sapeva perfettamente, si sarebbe comportato allo stesso modo con chiunque.
 
Erin riprese il suo posto accanto a Castiel che tamburellava le dita sul banco.
All’inizio la ragazza provò ad ignorarlo, ma dopo qualche minuto non si trattenne più:
“ne avrai ancora per molto?”
Castiel la guardò di sbieco e si fermò un attimo. Poi prese una matita e cominciò a farla oscillare sul banco.
Erin gliela strappò dalle mani e se la ficcò nel proprio astuccio ma il ragazzo restò apatico.
Il professore scrisse un esercizio alla lavagna, e la classe, silenziosamente, si adoperò a risolverlo.
“la derivata del logaritmo di (2x-3) alla seconda” pensò tra sé e sé Erin. Quanto odiava la matematica. Ci metteva un sacco di tempo a capire come risolvere un esercizio.
Sbuffò frustrata.
“mi deconcentri” la rimproverò Castiel. Erin lo guardò con fare saccente:
“vuoi farmi credere che stai provando a risolverlo?”
Castiel non la sentì e continuava a scarabocchiare nel quaderno. Erin allungò il collo e lui alzò di scatto il viso, tanto che i due si trovarono a pochi centimetri l’uno dall’altra.
“non copiare” la ammonì con fare infantile tanto da strappare un sorriso a Erin.
“Signorina Travis, ha risolto l’equazione?” la richiamò il professore.
“ci sono quasi”
Dopo qualche minuto il professore chiamò Ambra che risolse brillantemente l’equazione.
“oltre che bella è pure intelligente” pensò Erin con una punta d’invidia.
Il professore ne assegnò una seconda; questa volta Erin non provò minimamente a risolverla. Quando comparivano i moduli era una causa persa. Si mise a scarabocchiare sul banco una specie di tribale.
Castiel dal canto suo, continuava imperterrito a scrivere numeri e lettere. Stando attenta a non farsi scoprire, Erin sbirciò nuovamente, e le sembrò che il ragazzo si stesse davvero impegnando a risolvere l’espressione. Per giunta quando finì, tutti stavano ancora scrivendo.
“già finita?” bisbigliò Erin sottovoce.
“tu?” chiese il ragazzo, che riteneva troppo ovvia la risposta alla domanda.
“non ci ho neanche provato. Non ci capisco niente”
“infatti la matematica è per persone… come dire…” Erin lo guardò aspettandosi un’offesa “… di una certa intelligenza, senza offesa eh” ridacchiò Castiel confermando le previsioni della ragazza.
“oh non mi offendo, del resto detto da uno che sta ripetendo l’anno…”
Castiel si zittì e Erin incassò l’ennesima vittoria del giorno. Aveva sbirciato sul libro di Castiel e aveva notato che era segnato l’anno scolastico precedente.
Castiel però non sembrava aver percepito la frecciatina.
C’era qualcos’altro che gli balenava in testa.
Erin sentì un sogghigno e subito dopo il ragazzo cominciò:
“sai bella, fossi in te eviterei di sfottere troppo… non si sa mai di chi potresti avere bisogno…”
“di te non di certo!” affermò Erin con decisione. Per niente al mondo avrebbe chiesto a quell’individuo di aiutarla, a prescindere dall’urgenza della causa.
“ah sì?... eppure ho sentito che vuoi presentare domanda per l’ammissione al club di basket”
“e quindi?” Erin non riusciva ad immaginare come Castiel potesse presentare un problema per la sua richiesta. Il ragazzo aspettò qualche secondo e avvicinandosi all’orecchio di Erin le bisbigliò:
“si dà il caso che io sia il capitano della squadra” concluse il ragazzo, dopo aver aspettato qualche secondo prima di fare quella rivelazione.
Erin rimase talmente sbalordita che non si accorse del professore che giungeva nella sua direzione. Castiel il capitano! Poteva essere più sfortunata?
“signor Black, non è mai stato così loquace quanto oggi”. Erin sobbalzò sulla sedia mentre Castiel si infastidì per quell’interruzione.
“vedo signorina Travis che non ha neanche provato a svolgere l’esercizio” aggiunse il professore spostando lo sguardo verso il quaderno della studentessa.
“si lo so, infatti Castiel mi stava spiegando come risolverlo” mentì Erin.
“ah si? Beh, signor Black allora ce lo spieghi a tutti… su forza venga alla lavagna”
Lanciando uno sguardo fulmineo ad Erin, Castiel assecondò la richiesta dell’insegnante. Del resto gli sembrava giusto concederle quella piccola vittoria prima della guerra in cui l’avrebbe annientata.
 
Per tutta l’ora i due nemici non si rivolsero la parola: ormai la dichiarazione di guerra era stata ufficializzata. Erin sapeva che Castiel stava studiando un modo per impedirle l’accesso al club nel modo più umiliante possibile. Ma proprio per questo fece una promessa a se stessa: non gliel’avrebbe data vinta. Avrebbe convinto gli altri nove membri della squadra ad accettarla.
 
Prima che arrivasse il professore di storia, Castiel si alzò ed Erin lo seguì per i corridoi.
Castiel fece finta di non essersi accorto della sua presenza e raggiunse il campo esterno di basket. Erin si fermò a bordo campo aspettando che lui le rivolgesse la parola.
Castiel prese un pallone nascosto dietro una colonna dell’edificio e cominciò a lanciare a canestro. Era incredibile la precisione con cui andava a segno. Alcuni tiri sembravano senza mira, eppure il ragazzo non mancava un colpo. Il titolo che si era guadagnato era più che meritato ed Erin non osava immaginare come fosse abile anche nel gioco vero, dove era richiesta anche agilità e prestanza.
“intendi star lì a fissarmi? Mi dà fastidio” brontolò Castiel.
“voglio entrare nel club di basket. Che devo fare?”. Erin sbirciò l’ora e s’innervosì perché stavano tardando a lezione.
Castiel sogghignò, lanciò per l’ennesima volta la palla e la recuperò.
“la vedi questa palla?” chiese facendola rotolare in equilibrio sull’indice.
“se vuoi che prenda in considerazione la tua domanda, dovrà essere tra le tue mani. Hai un giorno di tempo”
“ok” accettò prontamente Erin. Non aveva ben chiaro come si sarebbe svolta la sfida, ma come poteva facilmente immaginare, si trattava di sottrarre la palla al ragazzo durante una partita 1 contro 1. Non poteva prolungare la conversazione, erano già in ritardo di cinque minuti alla lezione successiva.
“adesso andiamo, il prof sarà già arrivato”
“pensi di potermi dare ordini?” replicò Castiel asciutto.
“non vieni?”
“cerca di non deprimerti troppo senza la mia compagnia” la canzonò il ragazzo realizzando l’ennesimo canestro. Di tutta risposta, Erin alzò un dito medio.
 
Erin camminò di gran fretta nei corridoi. Non sapeva come giustificare il suo ritardo. Si fermò davanti alla porta e fece un sospiro con la mano sospesa pronta a bussare.
“Erin!” bisbigliò una voce.
“Iris! Anche tu in ritardo?”
“sì, dai muoviamoci!” si affrettò la ragazza entrando senza bussare, seguita da Erin:
“scusi professoressa, mi hanno chiamato urgentemente al club”
“ah non preoccuparti Iris, piuttosto mi chiedevo che fine avesse fatto la nuova studentessa…” biascicò la professoressa.
Erin stava per aprire bocca, ma Iris la anticipò:
“colpa mia. Le ho chiesto una mano e ho fatto tardare entrambe, un cane si è intrufolato nella scuola e ha mandato all’aria i bulbi che abbiamo piantato tre giorni fa”
“oh, gli iris?” chiese la professoressa Fraun con aria preoccupata. Come avrebbe poi scoperto Erin, la donna era più appassionata di piante che di eventi storici.
“si purtroppo”
“sedetevi intanto” concluse la donna con aria sconsolata.
“neanche oggi Castiel ci degna della sua presenza?” chiese la Fraun dopo aver consultato il registro.
“ditegli che se salta altre tre ore, può considerare la sua bocciatura una certezza per quel che mi riguarda… lei che dice signorina…Travis giusto? Visto che è la sua compagna di banco, incarico lei di farsi portavoce del mio avvertimento”
Erin si irrigidì.
“mi scusi ma credo che sia un compito che spetta ad un’insegnante”
Tutti si voltarono e la professoressa, alzò lo sguardo dal registro:
“può ripetere?” chiese chiudendolo e guardando Erin con aria ostile.
“secondo me se vuole che uno come Castiel  la rispetti, deve affrontarlo lei di persona, non affidare ad uno studente il compito di farlo rinsavire”. Le rughe che solcavano le labbra della donna diventarono ancora più marcate “è-è solo la mia opinione” aggiunse incerta Erin che non si era resa conto che la sua sincerità non era stata apprezzata.
“certo che è solo la tua opinione” replicò acida la Fraun “ora capisco il perché due professori su tre si sono già lamentati di lei”.
Erin avvampò e abbassò gli occhi mentre Ambra e Charlotte sogghignarono.
In quel momento qualcuno bussò alla porta, in modo talmente violento da far sobbalzare tutti.
Senza aspettare una risposta, Castiel entrò nell’aula e, ignorando esplicitamente l’insegnante, si accomodò al suo posto.
La professoressa rimase senza parole, sbattè gli occhi un paio di volte e sbottò:
“a cosa dobbiamo questa visita? Si è deciso a voler imparare qualcosa sulla storia?”
“fuori sta cominciando a piovere” rispose semplicemente Castiel.
Iris trattenne a stento un sorriso, mentre Ambra approfittò di quell’occasione per far capire a Castiel che approvava il suo umorismo e scoppiò a ridere.
“silenzio! Cominciamo la lezione”
 
Quella era l’ultima ora di lezione. Nel pomeriggio c’erano le attività dei club ed Erin era troppo nervosa all’idea di ciò che sarebbe potuto succedere da lì a poche ore.
“ci vediamo alle due al campo da basket” e detto questo, lasciò l’aula.
 
“tutto bene?”
Erin sollevò lo sguardo verso la voce gentile che le aveva appena rivolto la parola. Iris, con i suoi occhioni verde acqua, la stava fissando con aria un po’ preoccupata.
“sì, sì. Cioè… più o meno” farfugliò Erin sistemando il libro di storia nella borsa a tracolla con fatica. Era piena zeppa di materiale e il malcapitato faceva fatica ad inserirsi in quella giungla di libri e astucci.
“te ne porti dietro di roba” commentò Iris con un tono allegro.
“non sapevo di preciso cosa avremo fatto, così ho portato un po’ di tutto” si giustificò Erin.
“pranzi con qualcuno adesso?”
“no, ma mi sono portata il pranzo da casa”
“ottimo! Anche io. Se ti va, possiamo mangiare insieme”
Un enorme sorriso si disegnò sul volto di Erin. Iris era la seconda persona gentile della giornata e non a caso era stato Nathaniel a consigliarle la sua compagnia.
“di solito pranzo in compagnia di una ragazza del secondo anno che fa parte del club di giardinaggio” le spiegava Iris mentre Erin la seguiva nei corridoi.
“ti avverto, all’inizio con chi non conosce è un po’ timida, ma quando entra in confidenza con qualcuno è davvero una persona piacevole”
 
Le due ragazze si diressero sul retro della scuola, dove altri studenti avevano il loro angolo per pranzare;
“vedo che sono in molti a pranzare fuori” commentò Erin.
“sì, finchè il tempo è decente, ma vedrai che già dal mese prossimo qui non ci sarà quasi nessuno. La mensa sarà affollatissima”
Iris svoltò l’angolo sud dell’edificio ed Erin scorse una scala anticendio.
Un enorme album da disegno nascondeva il volto di una persona intenta a scarabocchiarlo.
“ehi Violet!” salutò Iris.
Lentamente l’album si abbassò ed Erin poté vedere il volto dell’artista: si trattava di una ragazza dai capelli viola a caschetto con una treccina laterale. Il suo volto era di una dolcezza da shoujo manga.
“oh, buongiorno Iris” rispose con voce gentile e cristallina. Poi spostò lo sguardo verso Erin che la fissava con curiosità.
“oh” commentò semplicemente Violet arrossendo e abbassando lo sguardo.
“lei è Erin, è in classe con me… ed Erin, come avrai capito, questa è Violet”
“piacere” rispose Erin cercando di risultare il più amichevole possibile.
“piacere mio” e quelle furono le uniche parole che Violet rivolse direttamente ad Erin durante il loro pranzo.
Iris sosteneva buona parte della conversazione, ottenendo qualche cenno monosillabico da Violet e qualche risposta vaga da Erin che era troppo tesa per riuscire a conversare.
“c’è qualcosa che ti preoccupa, non è vero?” chiese ad un tratto Iris rivolgendosi a Erin.
Erin la guardò di sottecchi con aria incerta.
“tra mezz’ora ho la prova per l’ammissione al club di basket”
“ahia, ora capisco” commentò Iris assumendo un’aria metadibonda. Dopo qualche secondo sbottò “male che vada c’è sempre il club di giardinaggio”
“non voglio passare i miei pomeriggi ad annaffiare le peonie”
Iris e Violet rimasero perplesse e solo in quel momento Erin si ricordò con chi stava parlando:
“oddio! Scusatemi, non volevo offendere il club… è che proprio non fa per me!” si giustificò Erin in imbarazzo.
“oh non preoccuparti “ sorrise Iris “mica me la sono presa. Anzi mi fai ridere quando dici la prima cosa che ti passa per la testa” aggiunse facendole l’occhiolino.
“pensa che sono riuscita a seccare una pianta grassa una volta” replicò Erin con un certo orgoglio.
Iris sorrise e Violet commentò:
“le piante grasse fanno dei fiori bellissimi”. Erin non sapeva se la ragazza si aspettasse una replica da parte sua così preferì non aggiungere nulla.
 
L’orologio della scuola segnava le 13.55. Erin salutò Iris e Violet e si recò nel luogo dell’incontro.
L’attesa era snervante. Non c’era nessuno in cortile.
Dopo un quarto d’ora, finalmente Castiel girò l’angolo:
“sei in ritardo!” lo rimproverò Erin.
Il capitano di basket si grattò l’orecchio visibilmente disinteressato dalla critica.
“e gli altri dove sono?” 
“non servono altri spettatori”
Erin lo guardò senza capire. Quindi solo lui avrebbe deciso cosa ne sarebbe stato della sua ammissione? Stava per protestare ma Castiel fu più veloce a replicare.
“te lo ricordi il pallone che ti ho mostrato prima? Quello bianco e blu?”
“non sono mica ritardata”
“bene. La scommessa era semplice: dovrai riuscire a prenderlo”
“si ho capito, allora dove vuoi giocare?”
“frena. Chi ha parlato di giocare?” chiese beffardo il ragazzo. Aveva un ghigno sprezzante e la fissava con un’aria di sfida e presunzione che spiazzò Erin
“devi prima trovarlo altrimenti la tua domanda di ammissione non verrà presa in considerazione”.
Di fronte a tanta arroganza, Erin non volle dargli la soddisfazione di vederla andare nel panico.
“d’accordo, del resto ho già accettato la scommessa. Entro domani alle due, avrò quel pallone tra le mani!” e girò i tacchi, dirigendosi impettita verso la palestra.
Il suo nervosismo era svanito ed era stato rimpiazzato da una grande carica e determinazione che a stento riusciva ad arginare.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tiri mancini ***


CAPITOLO 4: TIRI MANCINI
 
La maggior libertà di cui godevano gli studenti durante il pomeriggio giustificava il via vai e la rumorosità all’interno dell’edificio scolastico. Erin sfruttò questa situazione a suo vantaggio, chiedendo in giro se qualcuno avesse visto una palla da basket.
Chi le rispondeva con un cenno di diniego, chi scrollava le spalle, chi le rivolgeva un’occhiata perplessa, ma tutti erano unanimi nell’asserire di non aver mai visto palloni da basket al di fuori della palestra. L’unica consolazione per la ragazza era che in quell’occasione aveva conosciuto facce nuove tra le quali quelle identiche dei gemelli Alexy e Armin del quinto anno.  
Passata in rassegna tutta l’ala ovest, mensa compresa, l’esploratrice si spostò a est.
Passò davanti all’auditorio dove si riunivano i membri del club di teatro. Con il timore di disturbarli, aprì lentamente la porta per sbirciare all’interno chiedendosi se gli attori le avrebbero permesso di fare la sua ricerca indisturbata.
Sul palco di legno, che si ergeva ad un metro e mezzo da terra, una ragazza alta e dal viso scarno stava recitando un monologo. I dettagli del suo vestito erano di un’impressionante bellezza: complicati ricami dorati seguivano la forma del busto che era cucito con un’ampia gonna di raso color verde oliva.
“se vuoi assistere alle prove, devi prima chiedere il permesso”.
Nella penombra dell’ambiente, due occhi felini le si erano parati davanti con fare intimidatorio.
Appena riuscì a distogliere l’attenzione dal quello sguardo ipnotico, Erin ampliò il suo campo visivo su tutta la figura che aveva davanti: una ragazza dai lunghi capelli argentei, occhi talmente chiari da sembrare gialli e lineamenti simmetrici le aveva sbarrato la strada. Il suo primo pensiero fu rivolto alle ragazze che aveva conosciuto fino a quel momento: Ambra, Charlotte, Lin... possibile che in quel liceo ci fossero così tante potenziali vincitrici di Miss America? Anche Iris, nella sua semplicità e genuinità era una bella ragazza, con i suoi occhioni chiari e nemmeno Violet con i suoi lineamenti delicati non era da meno. Possibile che solo lei, Erin, dovesse essere così nella norma?
“Rosalya vieni qui!”
Una voce alle spalle della ragazza dagli occhi gialli la richiamò, ed Erin si ritrovò una porta sbattuta in faccia.
“per la serie, più sono belle più sono str***” pensò tra sé e sé.
Passò al club di musica, poi a quello di cucina ed infine per quello di basket. Quest’ultimo locale scolastico era talmente scontato, che Erin l’aveva tenuto per ultimo. Passando davanti ai distributori automatici, l’occhio le cadde sull’orologio appeso alla parete. Erano già le tre e quaranta.
Svoltò l’angolo ed entrò in palestra; la squadra si stava allenando ma nessuno prese in considerazione la sua presenza. Castiel stava parlando con un ragazzo di colore, mentre il resto della squadra era impegnato in una partita. Le era venuto il dubbio che Castiel avesse nascosto la palla nello spogliatoio maschile, ma non osava intrufolarsi là dentro.
“ti do un indizio: non è negli spogliatoi” la informò Castiel non appena si accorse di lei.
“adesso mi legge anche nel pensiero” borbottò Erin mentre frugava nel ripostiglio degli attrezzi.
In quell’occasione vide una trave appoggiata alla parete. Le venne un nodo alla gola pensando a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che c’era salita. Prima di fare danza, Erin da bambina, aveva frequentato un corso di ginnastica artistica per ben cinque anni. In quel genere di sport era davvero brava, era in quelli di squadra che faceva pena. Accarezzò la trave, ricordandosi quanto le sembrasse alta quando era piccola. Era tutto relativo: a quell’epoca quando ci saliva sopra, le sembrava di svettare sul mondo e le piaceva fare acrobazie su di essa, deliziandosi dell’attenzione che calamitava su di sé, soprattutto di quella voce così simile alla sua che la incitava:
“vai così Erin!”
Si morse il labbro e uscì dal ripostiglio. Strisciò fuori dalla palestra senza farsi notare e tornò nei corridoi con la consapevolezza che le possibilità di successo si stavano esaurendo inesorabilmente.
Aveva bisogno di fare un po’ il punto della situazione, ma prima doveva soddisfare i suoi bisogni fisiologici per cui si diresse verso il bagno. Una volta finito, andò a lavarsi le mani ma un odore inequivocabile la fece voltare: Ambra e Lin, appoggiate al termosifone, erano intente a fumare; tra le tre ci fu uno scambio di sguardi; Erin decise di ignorare le presenti, ma Ambra non era dello stesso avviso:
“come va la ricerca del pallone?”
La domanda non sorprese Erin. Tutta la scuola era ormai a conoscenza della sua missione. Prima di entrare in bagno un paio di ragazzi le avevano rivolto la stessa domanda.
“va’” rispose semplicemente Erin che non intendeva dilungarsi troppo a parlare con Ambra.
“e se io sapessi dov’è?” la stuzzicò la bionda.
Erin si girò di scatto. Aveva ancora il sapone tra le mani e smise di strofinarsele rimanendo immobile.
“beh, che ti aspettavi? Sono o non sono la ragazza di Castiel?” commentò Ambra sistemandosi le ciocche dorate.
Erin guardò Lin per cercare di capire se la stavano prendendo in giro, ma la cinesina aveva un’espressione neutra.
“allora? Non dici nulla? Non vuoi sapere dove si trova?”
“non lo troverò imbrogliando”
Ambra guardò Lin poi scoppiò a ridere:
“ahahah! la paladina della giustizia! Che senso dell’onestà ammirevole” e detto questo, la ragazza aprì la porta della toilette e gettò nel water quello che rimaneva della cicca.
Si voltò a dare un’ultima occhiata ad Erin e, evidentemente non ancora soddisfatta, squadrò con aria sprezzante i capelli della compagna di classe: erano lunghi fino a metà coscia, troppo lunghi, tanto da essere sfibrati.
“posso farti una confidenza? Non mi dispiacerebbe vederti con meno capelli in testa” e con una risatina acida uscì dal bagno seguita da Lin che nel frattempo aveva replicato il gesto di Ambra e si era sbarazzata dalla sigaretta.
Erin si guardò allo specchio. Per quanto detestasse ammetterlo, Ambra aveva ragione: aveva dei capelli orrendi. Troppo lunghi tanto che Castiel il primo giorno l’aveva battezzata Raperonzolo. Ma se non altro in quell’occasione era riuscito a zittirlo con la sua stessa moneta. Quelli di Ambra invece erano di una perfezione che solo una modella in copertina poteva avere.
“che faccia da profuga” disse Erin assumendo una posa in stile urlo di Munch.
“ahahaahaha”
Si voltò di scatto. Dietro di lei, una ragazza con i capelli castani e lunghi, vestita in modo molto femminile la stava osservando.
“scusa, non volevo prenderti in giro” si scusò con educazione “ma mi hai fatto ridere”
“ah non preoccuparti” replicò Erin osservandola con curiosità.
“mi chiamo Erin”
“si lo so”
Era già la terza volta nell’arco di una giornata che Erin riceveva quella risposta e la cosa cominciava a darle fastidio e la sua interlocutrice parve captare il suo disappunto.
“scusa, non volevo guardarti male!” si giustifico Erin grattandosi la nuca imbarazzata “è che sembra quasi che la mia identità sia di dominio pubblico: tutti sanno come mi chiamo e io non conosco quasi nessuno” spiegò alludendo a Nathaniel e alla professoressa Joplin.
“beh, non ci hai messo molto a farti notare. La notizia della tua sfida con Castiel sta facendo il giro della scuola”
“comunque non mi hai ancora detto come ti chiami” puntualizzò Erin con un sorriso conciliante.
“Melody”
Finiti i convenevoli, Erin salutò la nuova conoscenza e tornò alla sua missione. Stava per mettere mano sulla maniglia e uscire, quando la porta del bagno si aprì e sbucò la testolina di Lin:
“ehi Erin, se hai cambiato idea, posso dirti io dove si trova la palla”.
Erin rimase sorpresa ma mentre stava per ribadire il suo rifiuto, Lin la informò:
“è in presidenza. A quest’ora non c’è nessuno perché la preside non c’è mai di pomeriggio. La porta però la lascia sempre aperta”
Detto questo, guardandosi nervosamente intorno, Lin sparì con la rapidità di un furetto che rientra nella tana dopo aver avvistato un predatore.
Erin sospirò. Non era sua intenzione vincere così, avrebbe davvero voluto trovare da sola quella maledetta palla, ma ormai non poteva far finta di non sapere dove fosse. Contro ogni aspettativa, Lin si era rivelata gentile a dirle dov’era, e quell’informazione Ambra non gliel’avrebbe certo data gratis. Sin da quella mattina, Erin aveva avuto l’impressione che Lin non sopportasse l’amica o quella che avrebbe dovuto essere tale e a giudicare da quella cortesia nei suoi confronti, c’aveva visto giusto.
Salutò frettolosamente Melody, tanto da non accorgersi che stava per aprir bocca, e uscì nei corridoi.
 
Si diresse in gran foga verso la presidenza fantasticando su come avrebbe sfilato davanti a Castiel con il suo trofeo tra le mani.
Come aveva detto Lin, la porta era aperta. Erin entrò titubante ma ad ulteriore riprova delle informazioni che aveva ricevuto, l’ufficio era deserto.
“certo che è da irresponsabili lasciare incustodita la presidenza… con la porta aperta che chiunque possa entrare” riflettè Erin mentre apriva un pesante armadio. Ora che era dentro, la cosa le sembrò ancor più strana e la sua crescente perplessità cominciò a sfociare nella consapevolezza di essere caduta in una trappola.
“E LEI COSA CI FA QUI??”
L’urlo della preside arrivò quando Erin stava per richiudere l’anta di uno scaffale.
L’intrusa sbiancò per lo shock.
“i-io…” ma prima che potesse aggiungere altro la preside di voltò a parlare con una persona alle sue spalle:
“signorina Ambra, dal momento che non c’era nessuna siringa, può andare. Parleremo un’altra volta di quello che pensa di aver visto in cortile. Ora ho da fare”
Con le gambe che le tremavano, a quel punto Erin non sapeva più se la paura o la rabbia avessero preso il sopravvento. Ambra e Lin si erano messe d’accordo per farle quel tiro mancino e lei c’era cascata come un’allocca. Detestava fare la parte dell’ingenua. Prima Castiel con la sua scommessa del cavolo, ora Ambra: aveva forse stampato in faccia la parola “INGENUA: INFIERIRE A PIACERE”?
“glielo devo ripetere? Cosa ci fa lei qui?” tuonò la preside tornando a rivolgersi all’intrusa e sbattendo con violenza la porta alle sue spalle. Per quanto minuta e pagnottosa, quella donnina aveva una forza bruta pensò Erin sconvolta.  
“allora?!”
In quel momento bussarono alla porta:
“sono occupata!” sbottò la preside.
“Preside sono io”
Quando Erin udì quella voce, sentì nuovamente il sangue andarle al cervello e il cuore riprendere le sue funzioni.
Nathaniel entrò con passo deciso, avvicinandosi a Erin alla quale lanciò uno sguardo rassicurante.
“la scusi preside ma è tutta colpa mia. Vede, avevo chiesto ad Erin di aiutarmi a consultare l’archivio biografico degli studenti per ricercare il suo fascicolo, ma mi ero allontanato un attimo lasciandola da sola. Si fidi, non aveva nessuna cattiva intenzione. Del resto è appena arrivata… cosa potrebbe esserci qua dentro ad interessarla?”
La preside sembrò calmarsi, ma rimaneva ancora visibilmente irritata:
“non dovresti lasciare l’ufficio alla mercé degli altri studenti. Se manca qualcosa riterrò te responsabile”
“allora non avresti dovuto lasciarlo incustodito, vecchia babbiona” pensò Erin ma si morse il labbro per evitare di fare ulteriori danni.
Si concentrò sul suo principe azzurro del ventunesimo secolo. Guardarlo la rasserenava e le calmava il caratteraccio che nelle situazioni di stress esplodeva come uno tsunami.
“stia tranquilla, mi fido di Erin, altrimenti non avrei chiesto a lei”
“beh, ma la conosci da appena un giorno!” obiettò la vecchia.
“modestamente, ho un buon intuito nel giudicare le persone dalla prima impressione” ribattè Nathaniel con un sorriso conciliante.
Erin si chiese se poteva esistere un ragazzo più perfetto.
La preside sospirò:
“mi fiderò della tua parola Nathaniel… mi scusi signorina Travis per averla aggredita così, ma durante il pomeriggio il mio ruolo richiede una maggior attenzione perché gli studenti sono più indisciplinati.  A proposito Nathaniel, come si è conclusa la faccenda del rubinetto dello spogliatoio maschile? È venuto fuori il colpevole?”
 
Erin si congedò, ma nonostante il poco tempo che le rimaneva per portare a termine la sua ricerca, non poteva andarsene senza ringraziare il suo salvatore. Nathaniel uscì di lì a pochi minuti ed Erin gli afferrò il polso.
“grazie” disse con intensità.
“figurati” replicò il ragazzo un po’ sorpreso per quel contatto.
“come facevi  sapere che ero qua?”
“Melody è venuta da me ad avvertirmi di quello che ti ha detto Lin. Non le hai lasciato il tempo di informarti che non c’è niente di più falso del dire che la preside non è presente. Lei è onnipresente!” precisò Nathaniel con aria solenne.
“a volte sono troppo impulsiva” si scusò Erin mortificata.
“è anche per questo che mi sei simpatica”
Erin arrossì lievemente mentre Nathaniel si schiarì la voce:
“per caso con Lin c’era anche Ambra?” le chiese d’un tratto Nathaniel.
“erano in bagno insieme”
“lo immaginavo… queste sono il genere di trovate di Ambra”
“la conosci davvero bene. Si vede che sei il delegato degli studenti. Del resto una str*** del genere non può passare inosservata”
“come sorella poi è anche peggio”
“sicuramente, ma non credo che dopo di lei i suoi genitori abbiano voluto altri figli”.
“no, infatti lei è nata un anno dopo di me” disse Nathaniel con un sorrisetto divertito.
Erin ammutolì:
“ch-che? No dai mi stai prendendo in giro!” protestò incredula.
Nathaniel rise e in quel momento incrociarono Castiel.
Il ragazzo si limitò a tamburellare l’indice sul polso a simboleggiare la morsa del tempo che stringeva.
Tuttavia ciò che le aveva appena detto Nathaniel aveva la precedenza sui suoi pensieri:
“tu e Ambra siete fratelli?”
“a-ah” le rispose il ragazzo incapace di smettere di sorridere di fronte allo stupore della ragazza.
“oddio scusami, avrei evitato di insultarla se l’avessi saputo…che figuuura”
“non preoccuparti… del resto sono d’accordo con te”
Erin sospirò sollevata:
“siete così… diversi” farfugliò Erin scrutando gli occhi nocciola del ragazzo. In quel color così caldo e accogliente, in quello sguardo così gentile le era impossibile ravvedere una qualche somiglianza con l’arpia che chiamava “sorella”.
“i fratelli mica si devono sempre assomigliare” obiettò Nathaniel
“concordo” concluse Erin e assunse un’aria pensierosa.
“scusami Nathaniel ma devo assolutamente vincere una scommessa che ho in corso con Castiel e mi rimane poco tempo”
“posso aiutarti?”
Quel tono così gentile la commosse. Per l’ennesima volta l’impulso prese il sopravvento sulla ragazza: si alzò in punta di piedi e gli stampò un bacio sulla guancia. Nathaniel rimase impietrito.
“hai fatto anche troppo” e detto questo volò via perché sentiva il viso andarle in fiamme.
Dal canto suo Nathaniel si massaggiò la guancia e scompigliandosi leggermente i capelli, tornò in sala delegati con un sorrisino beato stampato in faccia.
 
Erano ormai le cinque. Erin era riuscita ad intrufolarsi nel teatro non appena era rimasto deserto, ma la sua ricerca si concluse con l’ennesimo insuccesso.
Gli studenti stavano uscendo e la scuola diventava sempre più silenziosa.
Di lì a poco il personale addetto alle pulizie dei locali scolastici avrebbe iniziato i lavori: la scuola sarebbe rimasta aperta fino alle sei e mezza e se stava attenta a non farsi beccare, Erin avrebbe avuto un’altra ora e mezza di tempo. Aveva intravisto Nathaniel allontanarsi alle 17.30 assieme a Melody. Vedendoli insieme, la ragazza sentì un tuffo al cuore: possibile che tra di loro ci fosse qualcosa? Del resto una persona dall’animo così gentile come Melody non poteva non stare bene in coppia con Nathaniel.
Era talmente assorta nei suoi pensieri, che anziché prestare attenzione a non farsi trovare, si mise a passeggiare per i corridoi. I bidelli ci misero cinque minuti a cacciarla fuori dall’edificio:
“questa è bella. In dieci anni che sono qua non ho mai visto uno studente trattenersi dopo le lezioni” borbottò una donna tenendo in mano una scopa
“a parte Nathaniel” puntualizzò la collega mentre teneva aperto un sacco della spazzatura.
“ma quello non è un normale studente. È un uomo fatto. Gli piace trattenersi dopo le cinque per ultimare ciò che non è riuscito a concludere durante la giornata… ah se avessi vent’anni di meno…”
Erin non poté sentire altro perché ormai era troppo lontana. Per uscire doveva passare per il cancello sul retro dal momento che quello principale era stato chiuso.
Passò per la pista di atletica e arrivò al cortile.
L’indomani avrebbe potuto approfittare della pausa pranzo dalle 12.30 alle 14 ma sarebbe stato inutile. Non aveva più idee, non sapeva dove potesse ancora cercare quella maledetta palla… forse… e l’unica alternativa che non aveva mai considerato, finalmente le balenò in testa. Era ormai certa che Castiel si fosse sbarazzato del pallone buttandolo fuori dalla scuola o in qualche altro modo cosicché per Erin sarebbe stato impossibile ritrovarlo. Chissà quante risate si sarà fatto alle sue spalle assieme alla sua fidanzatina Ambra. Come coppia non potevano essere più trovati.
Dal canto suo, Erin si era impegnata tanto per risparmiarsi l’umiliazione della sconfitta e ora invece scopriva di essersi resa ridicola agli occhi di tutta la scuola. Chissà quanti studenti, conoscendo Castiel, avevano intuito quanto concreta fosse la possibilità che il pallone fosse al di fuori delle mura scolastiche. Eppure nessuno aveva pensato ad avvertirla.
“stupida, stupida, stupida” ripeté a se stessa mentre passava accanto alla pista di salto in alto.
 ♪ ♫ “mhmmm”  ♪ ♫
Erin si guardò attorno: le sembrava di aver udito una melodia cantata a bocca chiusa. Il suono diventò più articolato e definito fino a trasformarsi in un vero e proprio canticchio.
 ♪ ♫ “nananaananna”  ♪ ♫
Erin si guardò attorno incapace di trovare la fonte di quella voce. A conferma di quanto sentivano le sue orecchie, il suono non proveniva da terra, ma dal cielo. Sollevò lo sguardo e vide una scala antincendio esterna che permetteva l’accesso ad una sorta di terrazzo la cui ringhiera era a filo con il tetto degli spogliatoi. Gli spogliatoi infatti erano in comunicazione con la palestra: quelli maschili al piano terra, mentre quelli femminili al primo. Il tetto di quel blocco quindi non distava più di sette metri dal suolo.
Erin salì la scala antincendio e sentì che stava avvicinandosi alla sorgente: con l’aumentare dell’intensità della voce, aumentava la sua curiosità.
Arrivò al piccolo terrazzo e allungò il collo verso il tetto.
Un ragazzo con i capelli bianchi teneva in mano un block-notes in cui stava scrivendo qualcosa.
Era talmente assorto nei suoi pensieri da non essersi accorto della presenza della ragazza, finché Erin, nel tentativo di scavalcare la ringhiera e salire sul tetto, fece rumore:
“oh, quale celestiale visione in questa giornata così scarlatta” commentò il ragazzo.
Erin non capì se ci fosse dell’ironia nelle sue parole. 
“è da molto che sei qui?” gli chiese.
“da quando gli altri studenti se ne sono andati. Di solito ci rimango per un’oretta”
Facendo attenzione a non fare passi falsi, Erin gli si avvicinò. Il tetto era poco inclinato e a giudicare dalla tranquillità con cui il ragazzo la osservava muoversi, stava tenendo un buon equilibrio.
“a cosa devo l’onore di questa compagnia?” chiese il ragazzo dopo un po’.
“alla curiosità che ha suscitato il motivetto che stavi canticchiando” replicò Erin. Ora che lo osservava da vicino, la ragazza notò l’eterocromia dei suoi occhi che tuttavia non erano il primo tratto che balzava all’occhio. Il ragazzo infatti vestiva in stile vittoriano ma anziché risultare ridicolo, era molto affascinante. La sua voce poi, bassa e calma, le aveva rasserenato l’umore.
“capisco” e tornò a scrivere qualcosa sul libricino nero che aveva in mano e quando ormai Erin si era convinta che fosse meglio lasciarlo in pace, lui lo richiuse e se lo ficcò in tasca.
“quassù si è immersi in un altro mondo, lontano da tutto. Ci si può concentrare sui propri pensieri. E tu, come mai sei ancora a scuola?”
“sto, o meglio, stavo cercando un pallone da basket, ma è una causa persa”.
“ ma se ce ne sono parecchi nel cesto in palestra” obiettò lo strano interlocutore con un’aria perplessa.
“si ma io ne cerco uno in particolare. È bianco e blu” spiegò Erin sorprendendosi dell’ovvietà di quella frase. Evidentemente quello strano tipo non era a corrente della scommessa.
“blu come? Oltremare? Di Prussia? Marino?” puntualizzò il ragazzo mentre Erin lo fissava sempre più spazientita. La stava prendendo in giro anche lui?
“ma che importa la tonalità! Comunque era un blu… tipo…tipo… “ e si guardò attorno ricercando il colore che facesse per lei
“tipo quello di quella palla laggiù!” esclamò indicando un pallone appoggiato al camino.
Tornò a guardare il ragazzo poi, sgranò gli occhi e ritornò a fissare il punto che lei stessa aveva appena indicato.
 “L’HO TROVATO!” esultò, mettendosi in piedi.
“attenta!” la ammonì il ragazzo, ma Erin, con il suo passato da ballerina, riuscì a rimanere perfettamente in equilibrio.
“NON CI POSSO CREDERE. L’HO TROVATO!” non poteva fare a meno di ripetere, avvicinandosi al pallone.
Si stampò in faccia un sorriso ebete e abbracciò il pallone come una bambina con il suo peluche preferito.
“in effetti è il posto più logico in cui può nascondersi un pallone” convenne l’altro con un sorriso.
“diciamo che non è finito qui di sua spontanea volontà” borbottò Erin pensando all’espressione malefica di Castiel mentre lo nascondeva.
“comunque grazie. Se non fosse stato per te, non l’avrei mai trovato. Sono Erin” disse la ragazza porgendogli la mano.
Il ragazzo afferrò con una delicatezza signorile la candida mano che gli era stata offerta e la sfiorò con le labbra.
“Lysandre. È stato un piacere conoscerti Erin”.
 
Nota dell’autore:
“Lo ammetto. Ci sto prendendo gusto. Mi sto imponendo di prendermi il mio tempo per sistemare i capitoli ma ogni volta che ne finisco uno, non riesco a trattenere l’impazienza di pubblicarlo per sentire cosa ne pensate. Spero che la lettura non vi risulti pesante perché, ahimè, tendo ad essere un po’ prolissa”

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Uno contro uno ***


Capitolo 5: UNO CONTRO UNO
 
C’erano ben pochi motivi per cui uno come Castiel potesse arrivare in anticipo a scuola ed evidentemente quel giorno ne aveva uno di molto valido. Mentre camminava per strada, cercava di immaginarsi l’espressione in viso di Erin: l’avrebbe insultato? L’avrebbe supplicato di ammetterla al club? L’avrebbe accusato di aver barato? Avrebbe semplicemente sventolato bandiera bianca?
Quale fosse l’epilogo, di una cosa era certo: lui aveva vinto.
Un sorriso idiota gli distese le labbra ma si trattò un momento fugace: qualcosa di duro lo colpì sulla nuca, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri.
“e tu saresti il capitano? Che riflessi del cavolo!”
“ero di spalle idiota!” replicò spazientito voltandosi verso il suo aggressore.
Erin era in piedi di fronte a lui con un’espressione che mai le avrebbe immaginato in volto: orgoglio allo stato puro. Il capitano fu costretto a spostare lo sguardo sull’oggetto che teneva in mano.
Era riuscita a trovare il pallone che lui aveva nascosto.
Rimase senza parole.
Sorpassandolo, Erin esclamò:
“1 a 0 palla al centro” e gli schiacciò la palla contro l’addome. Per lo meno quella era la sua intenzione, ma calcolò male la differenza d’altezza e nella rapidità del gesto, premette la palla sotto la cintura del ragazzo che trattenne un gemito. Convinto che il gesto fosse intenzionale, Castiel fulminò Erin. Lei però non diede minimante peso alla cosa: aveva stampato in viso un sorriso scemo poiché pensava al doppio senso che era scaturito dalla sua battuta.
 
“ho trovato la palla Iris!” le annunciò trionfante raggiungendola prima che varcasse il cancello della scuola.
 “davvero? Mi fa piacere per te!… anche se non mi sarebbe dispiaciuto averti nel club di giardinaggio” ammise.
“nel giro di una settimana avrei fatto morire tutto, fidati” replicò prontamente Erin facendole l’occhiolino.
“beh, allora adesso sei ufficialmente una cestista?”
“in realtà non so. Castiel aveva detto che avrebbe preso in considerazione la mia richiesta”
“si sta divertendo a tormentarti Erin. Sta’ attenta a non dargli troppa corda”. Iris aveva la fronte leggermente aggrottata: era in pensiero per la compagna di classe.
Erin invece era raggiante e non solo per il successo recentemente conquistato: era felice di essere nella stessa aula di una persona come Iris. Anche se si conoscevano da appena 24 ore, sentiva che tra di loro c’era un’intesa che aveva bisogno di poche parole per essere condivisa.
 
Una volta in classe, Castiel si fece notare per la sua assenza.
Non partecipò a nessuna lezione e questo mise ancor più sulle spine Erin che fremeva dalla voglia di sapere l’esito della sua richiesta di iscrizione al club.
Come se non bastasse, anche Nathaniel aveva fatto sparire le sue tracce ed la nuova studentessa dedusse sconsolata che tutte le attenzioni che le aveva dedicato il giorno prima erano giustificate dal suo dovere di delegato di accogliere i nuovi studenti.
Le lezioni trascorsero tranquille. Ora che cominciava ad ambientarsi, Erin riusciva a seguire i professori e a tenere a freno la lingua. Senza Castiel affianco poi, era più facile stare attenta. Tendendo a mente ciò che le aveva consigliato Iris prima di entrare in classe, doveva evitare di lasciarsi influenzare troppo da quel ragazzo.
 
All’ora di pranzo, Erin ed Iris si diressero al luogo di ritrovo del giorno precedente, in cui Violet le stava aspettando:
“la tua classe com’è?” le chiese Erin masticando il panino che costituiva il suo pranzo.
“simpatici e rumorosi” rispose educatamente Violet. Erin avrebbe voluto chiederle se oltre a Iris, avesse altre amiche, ma le sembrava una scortesia. Del resto nemmeno Iris sembrava molto inserita nel tessuto sociale. Pranzava solo con Violet e non aveva mai nominato altre amicizie.
La cosa dispiaceva ad Erin perché non riusciva a capire come due persone così in gamba potessero essere anche così isolate.
Aveva quasi finito il pranzo, quando un’ombra le si parò davanti, oscurandole il debole sole autunnale:
“Castiel vuole vederti” annunciò Kim con fare minatorio.
Violet sussultò mentre Iris squadrò Kim.
“e perché?” chiese Erin ricambiando l’ostilità con cui le si era rivolta la compagna di classe.
“e che ne so! E’ in cortile comunque… Io te l’ho detto, tu fa come ti pare” e detto questo si allontanò con la stessa rapidità con cui si era presentata.
“uff, Kim non imparerà mai” borbottò Iris imbronciata.
“a che ti riferisci?”
“ad essere più garbata con gli altri. Ti assicuro che dietro quell’aria arrogante, c’è una persona sensibile e premurosa” le spiegò Iris.
“parliamo un’altra volta della doppia identità di Kim che dici?” tagliò corto Erin nervosamente. Si alzò e buttò quel che rimaneva del suo panino “non ho più fame. Voglio vedere che cosa vuole da me quel bifolco” e dopo aver agitato la larga maglietta per far cadere ogni briciola superstite, si diresse verso il cortile”.
“sta attenta” la ammonì Iris.
“buona fortuna” aggiunse la vocina timida di Violet, talmente dolce e aggraziata da strappare un sorriso di ringraziamento ad Erin.
 
Quando il cortile entrò nel campo visivo di Erin, la ragazza sentì salire l’agitazione: Castiel non era solo ma con la squadra al completo.
Erano quasi le due e le attività dei club cominciavano a prendere avvio. Alcuni studenti di giardinaggio stavano tirando fuori gli attrezzi dal capanno, mentre quelli del club di atletica avevano cominciato una corsa di riscaldamento.
Una volta arrivata di fronte a Castiel e ai suoi compagni, la ragazza era talmente tesa da non salutare nessuno. Teneva lo sguardo fisso contro il nemico che per tutto il giorno non aveva dato segni di vita. La ragazza non osava pensare cosa quella diabolica testolina avesse macchinato mentre lei era concentrata sulle lezioni del mattino.
Un ragazzo di colore con i dreadlock si staccò dalla squadra:
“sono Dajan, Castiel ci ha detto che vorresti entrare in squadra”
Dajan era più alto e asciutto di Castiel. Incarnava alla perfezione lo stereotipo del cestista. Aveva un’aria simpatica ma non eccessivamente amichevole. Il resto della squadra era un insieme eterogeneo: alcuni osservavano Erin con curiosità, altri con completo disinteresse. Tra i primi c’era Trevor, un suo compagno di classe. Il giorno precedente si era rivelato l’elemento più rumoroso della classe, assolutamente incapace di concentrarsi e miglior candidato, dopo Castiel, alla bocciatura.
“Allora la prova è semplice: sfida 1 contro 1. Il tuo avversario sarà il capitano. Vincerai se riuscirai a mettere a segno un solo canestro prima che lui ne faccia 10… chiaro?”
10? Dov’era la fregatura? E se non c’era, allora l’orgoglio di Erin le impediva di accettare un simile favoritismo. Prima che la ragazza potesse obiettare, Dajan proseguì:
“sappi che sono passati due anni dall’ultima volta che uno c’è riuscito”
“ma sentilo, parla come se non fosse stato lui” commentò Trevor ad alta voce.
“e quindi hai vinto la scommessa contro Castiel?” concluse Erin lanciando al capitano un’occhiata significativa.
“non penserai di essere allo stesso livello di Dajan?” replicò il ragazzo immettendosi nel dibattito.
“no assolutamente. Ma non voglio neanche passare i miei pomeriggi a piantare carote” precisò la ragazza pensando a quello che stavano facendo Iris e Violet al club di giardinaggio. Non avrebbe mai permesso a Castiel di deriderla mentre lei era intenta ad annaffiare i gerani.
Dajan sorrise mentre Castiel sollevò le spalle con un sorrisetto rassegnato:
“pronta a perdere quindi?”
Erin finse di non sentirlo.
Doveva concentrarsi.
La squadra liberò il campo e Dajan lanciò in aria la palla.
Erin ne seguì il tragitto ma prima che avesse il tempo di ordinare alle gambe di mettersi in tensione per il salto, Castiel l’aveva sovrastata e aveva preso possesso della palla.
Solo in quel momento la ragazza concretizzò la differenza di prestazione tra di loro. Lei era alta almeno trenta centimetri in meno del ragazzo i cui muscoli erano più allenati e sviluppati.
Il percorso sportivo di Erin inoltre era completamente diverso da quello di un cestista. Si sentì stupida a non aver afferrato subito chi partiva svantaggiato. Del resto Nathaniel l’aveva avvertita appena il giorno precedente: Castiel era considerato il giocatore più forte della scuola. Ma quando lei aveva sentito la parola “basket” non aveva capito più niente e si era incaponita a volerne fare parte.
Castiel nel frattempo aveva già guadagnato campo ed era in linea di tiro. Erin tentò di soffiargli la palla, ma i suoi palleggi erano troppo rapidi.
Fu talmente veloce la sequenza di azioni che solo dalle esclamazioni di ammirazione, Erin capì che il lancio dell’avversario era andato a segno. 1-0.
Fu costretta a guardarsi attorno scoprendo che la loro sfida aveva attirato l’attenzione di una piccola folla di studenti curiosi.
Erin recuperò la palla e intercettò lo sguardo di Castiel e ne rimase folgorata: aveva il fuoco negli occhi e non le avrebbe permesso di avanzare di un metro. Rimase talmente intimidita che per il ragazzo fu uno scherzo soffiarle la palla e segnare il secondo punto. 2-0.
Solo lei sapeva perché si era cacciata in quella situazione. Non era solo perché odiava le piante.
No. Entrare nel club di basket l’avrebbe fatta stare bene.
Era un segno che proprio quel club fosse una delle alternative possibili.
Era presto per arrendersi. Sarebbe entrata ad ogni costo.
Ma nonostante i suoi discorsi motivazionali interiori, Castiel conduceva il gioco senza il minimo cedimento tanto che Erin perse il conto del numero di canestri che stava realizzando.
Come aveva notato il giorno prima, per lui andare a segno era una cosa spontanea. Sembrava non prendere neanche la mira. Era come se fosse la palla a sapere dove doveva andare.
Questo modo di giocare le fece venire in mente una persona… ma il ricordo che stava per evocare era troppo pericoloso. Doveva sbarrarlo prima che diventasse più concreto.
“GRANDE CASS!!!” la voce stridula di Ambra fu la giusta spinta che riportò Erin sulla Terra. Stava per partire all’assalto quando Dajan annunciò:
“decimo canestro. Vince Castiel”
La povera sfidante rimase di sasso.
Per tutto il lasso temporale della partita, non aveva coscienza di aver fatto alcunché. Si sentiva disorientata, come se si fosse appena teletrasportata in un luogo mai visto prima.
“non c’è stato neanche gusto. Dopo i primi due canestri, le si è spento il cervello” brontolò Castiel scazzato. Anche se sapeva di avere la vittoria in tasca, sperava che la ragazza avrebbe lottato con le unghie e con i denti, invece non era minimante concentrata sul gioco. Aveva la testa da un’altra parte.
“non c’è partita contro di te Castiel” commentò Dajan con rimprovero “potevi trattenerti almeno un po’”
“mica faccio la carità” disse allontanandosi.
Dajan spostò il suo sguardo su Erin e le posò una mano sulla spalla:
“se può consolarti mi sarebbe piaciuto averti in squadra Erin, anche se come giocatore fai pena, almeno sei l’unica che tiene testa al capitano”.
Erin sospirò delusa ma poi si sforzò di non sembrare troppo abbattuta. Del resto Dajan cercava solo di essere gentile.
 
Sconsolata, andò in bagno a sciacquarsi il viso. Era sempre stata una schiappa negli sport di squadra, chi voleva prendere in giro? Non era veloce, anche se aveva una grande agilità di gambe, eredità lasciatale da anni di ginnastica artistica. Sperava fosse sufficiente invece Castiel l’aveva semplicemente stracciata.
“ah,ah avete visto che schiappa?”
Il suo senso dell’udito fu sufficiente ad anticipare la vista della persona che stava per varcare la soglia del bagno: entrò Ambra seguita dalle immancabili Lin e Charlotte.
 “ops” sibilò verso le amiche facendo finta di essere dispiaciuta di essersi fatta sentire.
Le tre si appoggiarono al termosifone e si accesero le rispettive sigarette. Il regolamento scolastico vietava a studenti e professori di fumare sia dentro che fuori i locali scolastici pertanto i bagni erano spesso un escamotage per ovviare alla restrizione. Solo Castiel era abbastanza menefreghista da non dar peso al divieto e soleva fumare in cortile.
Erin sorpassò il trio senza guardarle.
“quindi adesso andrai a piantare margheritine con la tua amichetta Pel di carota?”
Erin si irritò per il commento denigratorio verso Iris ma preferì optare per la diplomazia: non degnò Ambra di un cenno e fece per aprire la porta quando Ambra le bloccò il braccio:
“ehi sfigata, sto parlando con te. Odio essere ignorata”.
Erin fu costretta a guardarla in faccia: Ambra aveva un’espressione carica di risentimento e cattiveria ingiustificata. Si conoscevano da appena un giorno e già sembrava che avesse un conto in sospeso con lei.
“vedi di farci l’abitudine allora, perché è l’unico modo che ho per non doverti guardare in faccia”. Non era riuscita a trattenersi.
La bionda sul primo momento rimase senza parole, poi però sul viso le si dipinse un’espressione trionfante:
“ah, e così dici che non vuoi vedere la mia faccia eh?” ripeté guardando Lin e Charlotte  “Pensi di essere tanto bella tu?” e le alitò in faccia il fumo della sigaretta.
Erin trattenne un colpo di tosse e lasciò il bagno.
 
In corridoio mille pensieri le affollarono la mente: ora che era rimasto solo il club di giardinaggio, si sarebbe dovuta iscrivere per forza, anche dopo aver ammesso spudoratamente di odiare le piante. La presenza di Iris e Violet erano l’unica consolazione alla penosa situazione in cui si trovava.
Mentre era impegnata ad annegare nella propria autocommiserazione, una voce richiamò la sua attenzione:
“ehi Erin!”
Voltandosi vide Dajan che le veniva incontro.
Una volta raggiunta, il ragazzo prese fiato dopo la corsa e le chiese:
“sei ancora dell’idea di unirti al club di basket?”
Erin rimase perplessa e mantenendo quell’espressione annuì.
“ottimo! La squadra ti vuole” la informò Dajan soddisfatto e divertito dalla mimica facciale della ragazza.
“che cosa?!”
“si è così. È girata voce della scommessa con Castiel del pallone scomparso… ce l’ha raccontato Trevor… e siamo tutti d’accordo che se non altro porteresti un po’ di allegria in squadra”
“ma mi sono dimostrata una schiappa…” obiettò Erin mortificata.
Dajan si massaggiò il collo in imbarazzo:
“eh, in effetti… l’idea è che faccia tipo da amministratrice visto che nessuno di noi dieci se la cava con “gli aspetti burocratici”” spiegò il cestista virgolettando nell’aria la parola “aspetti burocratici”… “vengono sempre fuori casini perché ci dimentichiamo di prenotare la palestra o il campo fuori… Castiel per queste cose è negato e nessuno di noialtri è meglio… insomma siamo un macello! Però avere una ragazza in squadra può far comodo per queste cose”
“e Castiel che dice?”
“Che si fotta! Allora, devo pregarti o ti unisci a noi senza tante storie?”
Il sorriso bianchissimo di Dajan sembrava riflettere la luce che Erin sentiva nascere dentro il suo cuore: si chiamava speranza.
 
“tutto chiaro Nathaniel?” chiese la Preside alzandosi dalla sedia.
“non si preoccupi” annuì il ragazzo.
“mi aspetto che buona parte degli studenti aderiscano, quindi vedi di proporre agli insegnanti un programma interessante. Lo so di non averti dato molto tempo ma non potevo…”
“non si preoccupi”
L’espressione sicura e affidabile del delegato fu sufficiente a tranquillizzare la vecchia preside.
 
Quando Dajan fece il suo ingresso in palestra, Erin lo seguì come un cane può seguire il proprio padrone in un posto sconosciuto di cui ha paura.
Il ragazzo le presentò il resto della squadra che fortunatamente si rivelò in linea generale alla mano e simpatica. Dajan e Trevor spiegarono sommariamente la situazione ad Erin che si mise al lavoro segnandosi i giorni in cui i membri della squadra si riunivano e li confrontò con le date segnate nello schedario disponibile su un banco in palestra.
Kurt, uno del terzo anno, portò un cesto di palloni a metà campo e i ragazzi cominciarono ad allenarsi a mandare la palla a canestro. Erin intanto continuava a segnarsi date e tabelle sulla sua agenda. Dopo cinque minuti circa una voce la chiamò.
“ehi raccattapalle, intendi passare tutte le giornate a fare la segretaria?”
Erin alzò lo sguardo in direzione di Castiel. Sin da quando era entrata in palestra, i due si erano deliberatamente ignorati.
“Castiel! Non fare il cafone” lo rimproverò Dajan interrompendo un’azione di gioco.
“le sto solo chiedendo di fare il suo lavoro”
“lascia che faccia quello che sta facendo” lo rimproverò Dajan “li abbiamo sempre raccolti noi i palloni, perché dovrebbe farlo lei?”
“perché è una donna e le donne puliscono no?”
A quelle parole, Dajan intraprese una campagna anti maschilismo contro Castiel mentre il resto della squadra aveva approfittato della discussione per fare una pausa e osservare Erin con curiosità. La ragazza, infatti, dopo l’ordine impartitole dal capitano, si era silenziosamente alzata dal suo posto e si era avvicinata ai palloni caduti ai piedi del canestro.
La distanza tra lei e il cesto dei palloni era di circa nove metri.
Prese il primo pallone e con nonchalance lo lanciò nel cesto, centrando a pieno il bersaglio. Ripetè l’azione per tutti e quattordici i palloni che erano per terra che si rivelarono tutti tiri eccellenti.
“WoOOOW!” le fece verso qualche membro della squadra.
Lei si limitò ad un profondo inchino e, sempre senza dire una parola, tornò a fare ciò che stava facendo prima di essere interrotta.
Dajan guardò Castiel con un’espressione esauriente ma il capitano era troppo occupato ad osservare Erin per accorgersene. Avrebbe voluto farle presente che centrare un cesto di palloni così grande non era un’impresa epica, ma una volta tanto, non voleva che le si spegnesse quel sorriso di soddisfazione che la ragazza cercava di contenere.
 
La giornata finì. Erin aspettò Iris fuori da scuola e presero l’autobus insieme.
Il nuovo acquisto del club di basket non risparmiò nessun particolare della giornata.
“sono felice per te Erin. Dajan è un ragazzo in gamba. Dovrebbero far lui capitano, del resto è praticamente allo stesso livello di Castiel”.
“e Trevor come se la cava?”
“non male, sono tutti molto forti per questo sono così pochi. Mentre in tutti gli altri club può aver accesso chiunque, almeno finchè il numero di studenti iscritti sia gestibile, quello di basket è molto esclusivo da quando Castiel ne è diventato il capitano e cioè da qui a due anni”
 
Iris scese alla sua fermata dopo aver salutato la compagna. Abitava in una zona residenziale molto carina e ben frequentata. Lo stesso non poteva dire Erin, dal momento che il condominio della zia era più in periferia. Pam del resto non poteva, al momento, permettersi niente di meglio.
 
“sono qui” annunciò Erin togliendosi le Converse all’ingresso. Era un’abitudine che la zia le aveva trasmesso in quanto grande stimatrice della cultura nipponica. Dopo aver inforcato un paio di ciabatte con ricamato il muso di un gattino, la ragazza varcò la porta del salotto.
“oh bene! Temevo saresti tornata tardi come ieri” le urlò la zia dalla cucina. Dall’odore che c’era nell’aria doveva aver tentato di cucinare il suo famoso pollo al curry.
Dopo un po’ fece capolino in salotto:
“eri talmente stanca ieri che non abbiamo neanche parlato” aggiunse con voce quasi infantile.
“adesso però devi dirmi tutto! Come sono stati questi primi due giorni? E la scuola? Com’è?”
“stimolante” disse Erin con un sorriso leggero pensando alle sfide con Castiel “e accogliente” rivolgendo i suoi pensieri a Nathaniel.
Pam non rispose ma rimase a fissarla sbalordita. Erin aveva un’espressione beata e al tempo stesso assorta:
“che c’è?” sbottò accorgendosi del silenzio della zia.
“e-è la prima volta che ti vedo così serena da quando…”
“non aggiungere altro!” la ammonì Erin incupendosi.
In quegli ultimi due giorni così ricchi di eventi, era quasi riuscita a non pensarci. Si era talmente immedesimata nella nuova quotidianità da sentirsi leggera. Il peso che si trascinava dentro da mesi si era alleggerito senza che lei se ne accorgesse… non poteva durare ancora un po’ quel sollievo?
“tesoro scusa, non volevo…” cercò di dire Pam con crescente senso di colpa.
“non ho fame” fu la risposta secca di Erin mentre saliva in camera sua.
Finiva sempre così. Era ancora troppo suscettibile all’argomento.
A scuola poteva fare finta di essere felice. Di essere forte.
A casa no. A casa sua zia, come la sua famiglia del resto, anche con la loro semplice presenza, le ricordavano che c’era un'altra realtà alla quale Erin aveva voltato le spalle.
Se ne vergognava perché non aveva nessun diritto di essere felice.
Le lacrime cominciarono ad offuscarle la vista tanto da non farle vedere  dove stava andando. Finì per sbattere contro lo stipite della porta.
Pam la sentì imprecare dalla cucina e sconsolata, tolse il piatto di Erin dalla tavola.
 



Nota dell’autore:
Spero non sia stata una delusione la figuraccia fatta da Erin durante la sfida con Castiel, del resto sarebbe stato troppo banale una vittoria così ho preferito optare per una sensata sconfitta… ma la sfida introduce a quello che sarà uno dei temi portanti della storia: il passato di Erin.
Questo capitolo (e altri a venire) giustifica la dicitura “drammatico” tra gli aggettivi che definiscono il genere di questa ff.
Mi dispiace per i più sentimentali, ma in questo capitolo non c’è stato spazio per la parte romantica (eheh Nathaniel poverino l’ho messo sotto a lavorare per la preside).
E’ mia intenzione, sperando che la perseveranza non mi abbandoni, scrivere una storia con un numero nutrito di capitoli e quindi ci vorrà un po’ per scoprire il passato di Erin… lascio a voi la formulazione delle ipotesi in attesa dello svolgersi degli eventi…. Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Provocazioni ***


Anticipazioni dell'autrice: Piccola sorpresina grafica verso la fine del capitolo;-) Buona lettura!
CAPITOLO 6: PROVOCAZIONI
 
Il giorno successivo, quando Iris salì sull’autobus, scorse Erin intenta a leggere. Teneva lo sguardo fisso su un punto, come se la lettura non fosse l’attività che la teneva impegnata in quel momento.
“che libro è?”
Erin sollevò gli occhi e la sua interloutrice rimase sorpresa nel vedere che aveva gli occhi gonfi.
“Jonathan Coe, la casa del sonno, l’hai mai sentito?”
“hai pianto?” replicò Iris ignorando la domanda.
“tutta la notte” sarebbe stata la risposta, ma Erin non era in vena di verità.
“no affatto, perché me lo chiedi?”
“ah... non offenderti, ma non hai una bella cera”
“in effetti ho dormito male” ridacchio Erin chiudendo il libro.
“allora dicevamo… la casa del sonno giusto?”
 
Quando Erin e Iris misero piede in corridoio, il mormorio abituale di voci si spense improvvisamente.
“ma che hanno tutti?” chiese Erin sperando, ingenuamente, che l’amica avesse una risposta.
Mano a mano che le due ragazze percorrevano i corridoi, alcuni studenti sospendevano le loro conversazioni e guardavano le due ragazze con interesse.
“ci stanno osservando” bisbigliò Erin.
“osservano te” puntualizzò Iris nervosamente. 
“me?”
“ma sì ti dico! Se non la smettono subito…”
Iris non finì la frase. Erano arrivate davanti all’armadietto di Erin. Appeso all’anta, c’era un ingrandimento A4 di una fototessera la stessa che Nathaniel aveva perso. Sotto un secondo foglio recitava
“NON PENSARE DI AVERE UNA FACCIA MIGLIORE DELLA MIA, SFIGATA”
Per Erin fu un attimo ricordare ciò che era accaduto in bagno appena il giorno precedente.
 
“quindi adesso andrai a piantare margheritine con la tua amichetta Pel di carota?”
Erin si irritò per il commento denigratorio verso Iris ma preferì optare per la diplomazia: non degnò Ambra di un cenno e fece per aprire la porta quando Ambra le bloccò il braccio:
“ehi sfigata, sto parlando con te. Odio essere ignorata”.
Erin fu costretta a guardarla in faccia: Ambra aveva un’espressione carica di risentimento e cattiveria ingiustificata. Si conoscevano da appena un giorno e già sembrava che avesse un conto in sospeso con lei.
“vedi di farci l’abitudine allora, perché è l’unico modo che ho per non doverti guardare in faccia”. Non era riuscita a trattenersi.
La bionda sul primo momento rimase senza parole, poi però sul viso le si dipinse un’espressione trionfante:
“ah, e così dici che non vuoi vedere la mia faccia eh?” ripeté guardando Lin e Charlotte  “Pensi di essere tanto bella tu?” e le alitò in faccia il fumo della sigaretta.
 
“e questa chi è?” chiese Iris.
“sono io” borbottò avvampando per l’imbarazzo.
“oh, hai ragione, osservandola megli-“
Con un rapido gesto Erin strappò il foglio e si guardò attorno. I presenti distolsero lo sguardo, fingendo di essere ignari dell’accaduto. Iris si zittì intuendo il disagio di Erin.
“è stata quella di stronza di” cominciò a dire Erin ad un certo punto.
“Ambra” concluse Iris “ma perché fare una cosa del genere? E poi questa foto dove l’ha presa?”
“L’ha sottratta a Nathaniel quando ancora non mi conosceva. Vedendola avrà pensato che sarebbe stato divertente fare uno scherzetto alla nuova arrivata” dedusse Erin prendendo un libro dall’armadietto.
“Che perfida! Cosa sperava di ottenere poi?”
“immagino che il messaggio sia qualcosa tipo: non metterti contro di me, sfigata” spiegò Erin imitando la voce della bionda.
“molto perspicace”
Al sentire quelle due parole, le ragazze si voltarono di scatto. Ambra, Charlotte e Lin camminavano dietro di loro. I loro sorrisetti perfidi mandarono a mille la rabbia della loro vittima. Lo sguardo trionfante di Ambra era fin troppo stomachevole.
Erin guardò il trio allontanarsi tra le risate di adulazione di Lin e i commenti di Charlotte.
“non darle retta Erin, ignorala… non sei una sfigata” cercò di consolarla Iris.
“non preoccuparti, è solo Ambra. Mica posso farmi abbattere per una stupidaggine del genere” rispose Erin con una certa sicurezza che lasciò sorpresa Iris.
“adesso però andiamo in classe, siamo già in ritardo”
 
“siete in ritardo!” le rimproverò per l'appunto dieci secondi dopo l’insegnante di matematica.
“per una volta che Castiel arriva in orario, cominciate voi a entrare dopo!”
Erin si sorprese nel vedere che il suo compagno di banco aveva già occupato il proprio posto, o meglio il suo, accanto alla finestra.
Rassegnata la ragazza dovette occupare il banco adiacente.
Tirò fuori il libro e aprendo l’astuccio scorse la matita che due giorni prima aveva sequestrato a Castiel.
“tieni” gli disse porgendogli l’oggetto.
Castiel sorrise, illudendo per un attimo la ragazza di sentire la prima parola gentile:
“sei fotogenica” la derise.
In tutta risposta Erin gli alzò il dito medio.
 
“è stata Ambra?” chiese Violet sorpresa “ma perché?”
Sedute al solito posto, Iris, Erin e Violet stavano consumando il loro pranzo.
“non lo so, ha trovato qualcuno da tormentare”.
Fino a tre giorni prima Erin non credeva nella cattiveria gratuita. Nessun essere umano felice della propria vita poteva provare piacere nell’infliggere dolore agli altri. Era disposta a credere che uno come Castiel avesse un passato che poteva, solo in piccola parte, giustificare il suo comportamento. Ma Ambra no: lei aveva tutto: bellezza, soldi, successo, intelligenza e sicuramente amore, poiché era sorella di un santo come Nathaniel che, per essere cresciuto così bene, doveva per forza condividere con lei una famiglia perfetta.
“forse è solo gelosa di te”. La vocina dolce di Violet suscitò una reazione immediata tra le presenti: Erin scoppiò a ridere mentre Iris spiegava pazientemente alla giovane artista che era impossibile.
Ambra non aveva motivo per invidiare Erin poiché aveva tutto: soldi, fascino e intelligenza.
“con questo non voglio dire che tu sia brutta o stupida” si affrettò a specificare Iris.
“no no, tranquilla, la penso come te: ad Ambra non manca nulla per essere felice”.
“ma non ha amici” obiettò Violet zittendo le due amiche.
Erin la guardò con sorpresa.  
“non ho mica tanti amici io. Sono arrivata solo da tre giorni” obiettò. Le dispiaceva contraddire la gentilezza di Violet e temeva di ferirla andando contro la sua tesi
“ma in tre giorni hai già fatto amicizia con Iris, Nathaniel e Castiel” insistette Violet
“non ho fatto amicizia con Castiel” borbottò Erin.
“però Violet potrebbe non avere tutti i torti!” esclamò Iris colpendo il pugno destro contro il palmo della mano sinistra.
“Ambra è semplicemente gelosa delle attenzioni che ti rivolge Castiel, anche se lo fa per tormentarti”.
“non è quello che intendevo io” mormorò Violet, le cui parole rimasero inascolate.
“beh, invece di prendersela con me, dovrebbe dire al suo ragazzo di smetterla così fa un piacere ad entrambe!” replicò indignata Erin.
“al suo ragazzo? E che c’entra? E poi non mi risulta che Ambra sia fidanzata, altrimenti perché le interesserebb-?”
“non è la ragazza di Castiel?” chiese Erin perplessa.
“no, perché lo pensi?”
Erin sospirò, passando oltre l’ennesima bugia di Ambra.
“ragazze sarà meglio che vada, i ragazzi cominciano ad allenarsi presto. Grazie per la chiacchierata. A dopo”
“a dopo!”
Iris e Violet guardarono la ragazza allontanarsi.
“Erin ha la capacità di farsi voler bene dalle persone” mormorò Violet ad un tratto. Aveva uno sguardo dolce.
Iris rimase in silenzio e, in linea con l’espressione dell’amica convenne semplicemente:
“già”.
 
Mentre la squadra era impegnata ad allenarsi, Erin, seduta sugli spalti, pensava ad un piano. Non aveva voluto dirlo alle ragazze perché temeva che l’avrebbero distolta dal suo proposito. Pur di non darla vinta ad Ambra, era disposta ad abbassarsi al suo livello, ma c’era un problema di attuazione: cosa poteva archietettare? Metterle dei ragni finti nell’armadietto non sarebbe stato male, ma lo scherzo si sarebbe esaurito troppo in fretta. Voleva inoltre qualcosa che lasciasse la sua firma, che facesse capire alla bionda che aveva umiliato la persona sbagliata. Tuttavia non poteva optare per un qualche atto vandalico perché si sarebbe potuta cacciare nei guai.
Era talmente assorta che nonostante l’avvertimento di Trevor, Erin non vide la palla arrivare nella sua direzione e che la centrò in pieno viso:
“Erin tutto bene?” le chiese il ragazzo. Era la prima volta che lo vedeva preoccupato.
Trevor era un ragazzo sempre allegro e spensierato, a volte fin troppo tanto da passare per irresponsabile e infantile.
Dietro le spalle del ragazzo, Erin potè notare che il gioco si era fermato.
“mhm...sì” mugulò toccandosi delicatamente il naso. Portandosi la mano vide che perdeva sangue.
“oh cazzo” borbottò Trevor.
“non preoccuparti. Vado in infermeria” e senza tante cerimonie, la ragazza di alzò e uscì dalla palestra.
 
Una volta entrata nella stanza, l’infermiera della scuola era impegnata a disinfettare il ginocchio di Kim. Era l’orgoglio del club di atletica, essendo la ragazza più veloce della scuola.
Erin, su ordine dell’infermiera, si sedette su una sedia e aspettò pazientemente tenendo il fazzoletto premuto sul naso.
La donna passò poi ad aiutarla:
“ho finito il ghiaccio. Vado a prenderlo in magazzino, voi aspettate qua”
Nella stanza calò il silenzio.
“hai preso una pallonata in faccia?” chiese Kim con tono sfottente.
“precisamente” rispose Erin con un’aria talmente neutra che la ragazza rise.
“sei proprio un soggetto” commentò dopo un po’.
“è un’offesa?”
“quello che ti pare” disse alzandosi. Non riusciva a scaricare bene il peso sulla gamba e si sbilanciò. Controvoglia, fu costretta a tornare seduta.
Le sembrò che Kim  quel giorno fosse un po’ meno rude rispetto al primo giorno di scuola. Stava per chiederle qualcosa, quando si aprì la porta, ma anziché entrare l’infermiera, fece capolino Dajan.
“tutto bene?” chiese rivolto ad Erin.
“sì, ho ancora 5 litri di sangue in circolo” scherzò la segretaria del club di basket.
“oro” sorrise Dajan il cui sguardo si spostò su Kim.
“club di pallavolo?”
“no atletica” replicò laconica la velocista.
Dajan annuì leggermente.
“ci vediamo in palestra allora” tagliò corto, rivolgendosi a Erin e si chiuse la porta alle spalle.
Tra le due ragazze calò il silenzio. Erin stava per aprire bocca, ma Kim la anticipò:
“così sei entrata nel club di basket”
“formalmente sì, ma sono troppo schiappa per giocarci”
“ti avranno presa per il tuo bel visino allora”
Erin si risentì. Altro che meno rude, Kim era proprio maleducata, anche più del primo giorno.
“ce l’hai con me?”
Kim sorrise sprezzante:
“non atteggiarti da sorella del ghetto”
“potrò pur rispondere se mi provocano no?” replicò Erin sempre più irritata.
“sarà per questo che Castiel si diverte con te” ribattè sprezzante Kim.
L’infermiera entrò e le due furono costrette a sedare la discussione. Erin prese il ghiaccio che le veniva porto e uscì alla svelta.
“Erin! Come stai?”. La ragazza si voltò di scattò verso la sua destra.
Nathaniel era appoggiato contro la parete e aveva un’aria preoccupata. La cravatta era leggermente allentata, conferendogli un’aria molto casual.
“come facevi a sapere che ero qui?”
“ho i superpoteri… sul serio, come stai?”
“bene, era solo una botta”
“che sollievo”
“eri preoccupato per me?” la ragazza non potè fare a meno di gongolare per quella che immaginava essere la risposta.
“no no, cioè… come lo sarei per qualunque studente” si giustificò Nathaniel guardando Kim chiudersi la porta alle spalle:
“tu tutto bene?” le chiese improvvisamente. Aveva agito d'impulso. Sia Erin che Kim rimasero sorprese per l'interesse, ma quest’ultima, tenendo fede al suo personaggio, non ricambiò quella immotivata premura: lo squadrò da capo a piedi e borbottò:
“non sono cazzi tuoi” e se ne andò con passo malfermo.
“ho dei soggetti piuttosto singolari in classe” commentò Erin guardandola allontanarsi “comunque, che fine avevi fatto? Ieri non ti ho visto…”
“sono molto impegnato ad organizzare un’uscita… la preside mi sta facendo pressione perché entro domani vuole la proposta di almeno tre itinerari”
“quindi la prossima volta che voglio attirare la tua attenzione, dovrò rompermi un braccio?” scherzò Erin. Le veniva così naturale parlare con Nathaniel. Non si preoccupava dell’effetto che potevano avere le sue parole, lasciava che esse uscissero spontaneamente perché con lui poteva essere se stessa. La ragazza che era sempre stata. Non il maschiaccio che teneva testa ad un bifolco come Castiel o si vendicava della cattiveria di Ambra. Era la vera Erin.
“se ti fa piacere, possiamo pranzare insieme qualche volta” le propose il ragazzo con un sorriso invitante.
Quella proposta la lusingò ma non potè fare a meno di pensare ad Iris e Violet. Le dispiaceva rinunciare alla loro compagnia, tra di loro stava nascendo una bella amicizia e i pranzi quotidiani erano un’ottima occasione per scambiare quattro chiacchiere. Quando spiegò la situazione a Nathaniel, il ragazzo si dimostrò comprensivo:
“allora facciamo una volta alla settimana” le propose come compromesso “del resto non credere che io sia un asociale che pranza da solo” aggiunse strizzando l’occhio.
“ora sarà meglio che vada. Sono contento che tu stia bene”
Erin sorrise lasciandolo andare per la sua strada. Tuttavia, dopo appena tre passi lo chiamò:
“Nathaniel..”
Lui si voltò, ed Erin percepì su di sé, occhi carichi di gentilezza e affetto. Avrebbe voluto chiedergli se aveva saputo dello scherzo della sorella, ma quello sguardo così innocente e premuroso non meritava di trasformarsi in un’espressione di rammarico.
Lui non aveva nessuna colpa dell’accaduto, aveva già la disgrazia di avere una sorella come Ambra.
“dimmi” la incitò Nathaniel
“niente. Buon lavoro”.
Tra i due ci fu uno scambio di sorrisi.
“ah! Buon nuoto per domani!” esclamò il delegato all'improvviso.
L’espressione beata di Erin si mutò rapidamente nel più completo disorientamento.
“non ti hanno avvertita? Domani la tua classe comincerà il corso di nuoto alla piscina comunale. Siete in due sezioni ad aver aderito a questa iniziativa perché avete Faraize come professore di ginnastica.”
“oddio no, non lo sapevo!”
“l’hanno deciso il mese scorso… per fortuna che te l’ho detto allora”
“si grazie… però come faccio? Non ho il costume” borbottò preoccupata Erin.
Nathaniel rimase in silenzio e le si avvicinò:
“vieni con me” e condusse Erin per i corridoi fino ad arrivare al teatro.
Aprì la porta, la stessa che Erin si era vista sbattere in faccia il primo giorno di scuola.
Nathaniel fece capolino e chiamò una persona.
Nell’arco di dieci secondi, Erin si trovò di fronte Rosalya, la bellissima ragazza dagli occhi felini con cui aveva avuto un incontro ravvicinato.
“ciao Rosalya, ti rubo solo un minuto. Questa è Erin, una mia amica. Avrebbe urgentemente bisogno di un costume da bagno per la piscina. Leigh gliene può procurare uno?”
Rosalya squadrò Erin con occhio analitico. Poi fece una cosa che sorprese i presenti, Erin più di tutti: senza dire una parola, la ragazza portò le mani sui fianchi di Erin che si rivelarono molto più sottili di quanto lasciasse intendere la maglia extralarge e, con disinvoltura, sollevò di quindici centimetri la maglietta osservando l’addome piatto; Nathaniel distolse discretamente lo sguardo mentre Erin era troppo allibita per reagire in alcun modo.
“con un fisico del genere sarà uno scherzo trovarle un costume” commentò la ragazza, giocando con una ciocca di capelli. Non si era minimamente accorta dello shock provocato ad Erin.
“sapevo di poter contare su di te” la ringraziò Nathaniel ancora un po’ a disagio per i strani modi dell’amica.
“ora devo proprio andare” disse rivolto ad Erin “ti lascio in buone mani” e detto questo si allontanò.
Rosalya incrociò le magre braccia al petto e si appoggiò allo stipite della porta. Ogni movimento sembrava di un’eleganza studiata ma, in realtà, le risultava naturale.
“e così tu saresti la cercatrice di palle”
“detto così suona male” mormorò Erin che studiava la ragazza con diffidenza. Temeva un altro attacco a sorpresa e pertanto si teneva a debita distanza.
“ahah, quello è un titolo che si addice meglio a gente come Ambra. Tu sei troppo naif”
Come era accaduto con Kim, Erin non capiva se la sua interlocutrice la stesse offendendo.
“io adesso devo andare. Ci vediamo fuori da scuola alle cinque ok?” e detto questo Rosalya sparì lasciando Erin in uno stato di totale angoscia e smarrimento.
 
Prima di tornare al club di basket, la ragazza pensò di passare per quello di giardinaggio.
“ehi” la accolse sorridente Iris, togliendosi i guanti da giardiniere.
“ciao. Come va qui?”
“bene. Stiamo predisponendo la serra per l’inverno. Siamo a buon punto. Come mai da ‘ste parti?”
“volevo chiederti una cosa al volo: conosci una certa Rosalya, del club di teatro?”
“sì, tanto bella quanto inavvicinabile”
“tanto inavvicinabile non direi. Nathaniel mi ha combinato un’uscita con lei. Dice che può aiutarmi a trovare un costume”
Iris la guardò stupita.
“non capisco perché.”
“neanche io, pensavo sapessi qualcosa di lei. Onestamente mi fa paura”
Iris scoppiò a ridere per l’espressione infantile dell’amica.
“non ti mangia mica! E comunque avrai l’onore di essere una delle poche persone a parlarle. Rosalya è una che sta per conto suo. Sono pochissimi gli studenti che frequenta”
“ma tu non sai nient’altro su di lei?”
Iris scosse la testa e dovette congedarsi dall’amica per tornare a svolgere le mansioni che le spettavano in quanto presidentessa del club.
 
Tornata in palestra, i ragazzi si sincerarono delle condizioni della ragazza:
“non state lì a perdere tempo! È viva no?” sbottò Castiel che era l'unico a non aver accolto la segretaria del club.
Trevor, sorrise verso il capitano e replicò:
“ma sentilo. Proprio lui che da quando è uscita avrà chiesto tre volte che fine avesse fatto!”
Erin rimase senza parole ma Castiel non lasciò trapelare nessuna emozione e tornò a lanciare la palla a canestro.
 
Per la quarta volta, Erin controllò l’ora sul cellulare: erano le 17.12. Rosalya stava tardando.
Forse aveva cambiato idea e non aveva nessuna intenzione di aiutarla. Visti i tiri mancini giocati da gente come Ambra e Castiel, ormai Erin non si sarebbe più sorpresa di nulla. Probabilmente la signorina aveva dedotto che Erin non fosse meritevole del suo aiuto e si era allontanata da scuola prima che lei si presentasse al cancello.
“e così ci rivediamo”
In un primo momento Erin non capì che quelle parole erano rivolte a lei. Era troppo concentrata a ricondurle alla persona che le avesse pronunciate. Aveva già sentito quella voce, ma non ricordava dove.
“ehi Erin, siamo qui!”
La ragazza fu costretta a voltarsi e a quel punto riconobbe Alexy, il ragazzo eccentrico che aveva conosciuto quando era andata alla ricerca del pallone scomparso.
“non ti ricordi di me?” chiese il ragazzo deluso, mal interpretando l’espressione di Erin.
“com-, eh, cosa?” farfugliò sorpresa “certo che mi ricordo di te, Alexy!” e in quel momento notò accanto al ragazzo, la figura divina di Rosalya.
Alexy aveva i capelli più assurdi della scuola, color azzurro cielo. Portava sempre appese al collo un paio di cuffie che gli conferivano un’aria molto alternativa. Il sorriso, allegro e disinvolto, lo portavano ad accaparrarsi la simpatia di tutti.
“Alexy viene con noi” la informò Rosalya “un parere maschile fa sempre comodo”.
Erin avvampò. Stavano andando a comprarle un costume, e non bastava la presenza di Rosalya a metterla a disagio. Ora si aggiungeva pure quella di un maschio.

In quella città i negozi chiudevano alle 17.30 e ormai non avevano più molto tempo. Arrivarono di fronte ad un negozio con esposti in vetrina alcuni abiti eleganti.
“stiamo cercando un costume” puntualizzò Erin perplessa.
“me lo ricordo, non preoccuparti” replicò Rosalya con voce rassicurante.
Per la prima volta, si rivolgeva ad Erin con un tono gentile.
I tre entrarono nel locale. L’interno si rivelò molto più grande di quanto Erin avesse sospettato ma nonostante le dimensioni, non c’era traccia di costumi di bagno.
Un ragazzo con i capelli neri, venne loro incontro. Aveva un viso molto elegante ma al contempo dai tratti decisi. Rosalya gli si avvicinò e, di fronte allo sguardo scioccato di Erin, gli stampò un bacio in bocca.
“hai trovato quello che ti ho chiesto?” gli bisbigliò Rosalya.
“ora vedrai. Cosa mi dai se ho portato a termine la promessa?”
Alexy richiamò l’attenzione e i due piccioncini furono costretti a sciogliere l’abbraccio.
“tu devi essere Erin. Vieni, ti do il costume”
Erin pretese una spiegazione ma si trovò spinta all’interno di un camerino in cui erano appoggiati tre costumi da bagno.
“sono per me?” chiese sorpresa.
“e per chi sennò? Per me?” chiese Alexy allegro.
Erin uscì immediatamente.
“posso almeno sapere da dove saltano fuori? Non vedo costumi da bagno in questo negozio” obiettò.
“Leigh lavora in questo negozio di abbigliamento e gli ho chiesto se, mentre noi eravamo a scuola, poteva procurarmi un paio di costumi da bagno. Lui ha un ottimo gusto visto che è un incredbile stilista” spiegò Rosalya con un sorriso mieloso. Erin non avrebbe mai immaginata che quegli occhi felini potessero sciogliersi all’amore.
“un mio amico lavora al Pentathlon, hai presente il negozio sportivo vicino allo stadio? Mi ha lasciato prendere questi tre costumi. Ne scegli uno, dai a me i soldi e per tutto il resto ci penso io” concluse il ragazzo.
“oh… grazie” fu l’unica cosa che riuscì a dire Erin.
“ora vai a cambiarti, non abbiamo tutto il giorno” le ricordò Rosalya.
 
Erin era in camerino. Scelse il costume blu scuro. Era quello più semplice e più adatto a lei. Ci mise un po’ a spogliarsi, ma fortunatamente il camerino era spazioso e attrezzato di appendini. Dopo averlo indossato, si osservò allo specchio. In quel momento, sentì Rosalya, che spazientita sbottò:
“insomma Erin quanto ci metti? Non fare la timida” e nel dire questo la ragazza scostò con violenza la tenda del camerino facendo sobbalzare Erin.
Erin sgranò gli occhi e poi arrossì violentemente:
“MA SEI SCEMA?!!?”
“ma di che ti vergogni scusa?”
“ci sono anche Leigh e Alexy!” obiettò Erin in preda all’ansia.
“punto primo Leigh è il mio ragazzo. Punto secondo: Alexy è gay”
Erin rimase a bocca aperta:
“è vero” rise Alexy vedendo l’espressione inebetita di Erin “lo sa tutta la scuola, tanto vale che lo sappia anche tu”
“comunque sia, domani ti vedrà tutta la classe, quindi tanto vale che tu esca ora. Il negozio è deserto, ci siamo solo noi quattro. Su muoviti!” ordinò scherzosamente Rosalya.
Controvoglia Erin fu costretta ad uscire.
“woooo! Che bel culetto che hai Erin!” scherzò Alexy.
“mezzo commento e ti uccido!” lo minacciò la ragazza in preda all’imbarazzo.
“stai considerando di tornare all’altra sponda Alexy?” lo punzecchio Leigh.
“vorrei avercelo io quel fondoschiena” borbottò Alexy invidioso “Erin dammi il tuo sedere!” piagnucolò Alexy.
“ma sei ubriaco?!”
“conquisterai uno come Castiel con un sedere così provocante!” continuò imperterrito il ragazzo.
La ragazza era rimasta sconvolta dal modo di fare così esuberante e chiassoso di Alexy. Se non fosse stato per il fatto di essere in costume davanti a gente che erano praticamente degli estranei, l’avrebbe trovato un tipo divertente e allegro.
“era proprio necessaria la sua presenza?” sbottò Erin verso Rosalya che fece spallucce.
“altrimenti non mi sarei divertita” e prima che Erin potesse aggiungere qualcos’altro aggiunse: “questo ti sta bene. Vediamo gli altri due”
“non è necessario. Questo mi piace molto. Lo prendo, non voglio vederne altri” esclamò Erin rifugiandosi nel camerino.
“non se ne parla! Devi provare anche gli altri!” protestò Rosalya.
“suvvia Rose, se a lei va bene così, non insistere come al tuo solito e lascia che faccia come crede”
“grazie Leigh” disse Erin con gratitudine.
 
Erin uscì dal negozio brandendo in mano il nuovo acquisto. Leigh era riuscito a procurarle anche una cuffia e un paio di occhialini.
“non so come ringraziarti Leigh”
“figurati. Per le amiche di Rose, questo ed altro” disse il ragazzo baciando i capelli della fidanzata che arrossì. Al suo fianco, Rosalya smussava ogni asprezza e assomigliava ad un gatto che fa le fusa.
“Alexy accompagni tu a casa Erin?” gli chiese con tono supplichevole.
“non c’è problema. Forza “culetto sodo” andiamo!”
Rosalya e Leigh guardarono i due che si allontanavano discutendo.  
Dopo un po’ Alexy disse qualcosa ed Erin scoppiò a ridere. Le loro sagome diventavano sempre meno nitide e più buie fino a scomparire nella notte.
 
 
Nota dell’autrice:
uff che capitolo lungooooo… beh spero abbiate apprezzato la sorpresina verso la fine del racconto: oggi ero in vena di disegnare, così ho pensato di realizzare un’illustrazione legata a questa mia ff.
Voglio riportare la vostra attenzione sul titolo poiché ha un duplice significato: da un lato la provocazione lanciata da Ambra con lo scherzo della fototessera: Erin la ripagherà con la stessa moneta, o preferirà non abbassarsi al suo livello? VIA ALLE SCOMMESSE!
L’altro significato è riferito alla prova costume in cui Erin, a detta di Alexy, ha rivelato che sotto i panni da maschiaccio di nasconde un fisico niente male ;-)
Per ora è tutto… alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ride bene chi ride ultimo ***


CAPITOLO 7: RIDE BENE CHI RIDE ULTIMO
 
Il professore Faraize non incarnava affatto lo stereotipo dell’insegnante di ginnastica.
Iris, non a torto, l’aveva definito simile a un bibliotecario e dopo averlo visto, Erin non poteva che condividere quell’opinione. Faraize era entrato in classe quasi in punta di piedi, passando pressoché inosservato e la sua voce bassa e tranquilla non era sufficiente a richiamare l’attenzione dei suoi studenti.
“ragazzi!” ripetè con più decisione arrossando la pelle diafana del volto.
Dopo aver ottenuto l’attenzione della platea, l’uomo si sistemò gli occhiali sul naso aquilino:
“prendete le vostre cose, il pullman è fuori che ci aspetta. Mi raccomando, non fate come al vostro solito quando siamo in palestra” si raccomandò “parlo soprattutto per i ragazzi” puntualizzò cercando di mettere un po’ di nervo in quella voce così flebile e incerta.
Non era in grado di sostenere lo sguardo di nessuno dei presenti, così parlava guardando fisso davanti a sé la parete in fondo alla classe.
 
Sul pullman Ambra, le sue amiche, Castiel e un gruppo nutrito di ragazzi si sedettero in fondo attirando le ire del professore i cui tentativi di sedare il chiasso furono inutili.
Iris ed Erin invece si sedettero in una posizione più centrale, circondate dalle altre ragazze in classe con loro. Fu un’occasione per la nuova arrivata per conoscere il resto della ciurma, e con sollievo, scoprì che Ambra, Charlotte, Kim e Castiel erano l’unico neo in una classe simpatica e gentile.
 
Una volta arrivate in piscina, Faraize rinnovò le raccomandazioni fatte in precedenza, volgendo il suo sguardo verso Trevor e Castiel. I due non finsero nemmeno di dargli retta e si diressero direttamente verso gli spogliatoi maschili, seguiti dal resto dei compagni.
Le ragazze guardarono il povero professore con un misto di compassione e pena:
“Prof, dove sono i nostri spogliatoi?” chiese Mayla, una ragazza con i capelli corti.
“laggiù, vicino agli armadietti delle scarpe” indicò l’uomo, consolato di quella minima considerazione che riceveva dalla fazione femminile dei suoi studenti.
“sono proprio curiosa di vedere Erin in costume” malignò Ambra mentre apriva la porta dello spogliatoio. Charlotte fece un sorriso malefico e, disgraziatamente per Erin, anche Lin era presente in quanto apparteneva all’altra classe che era stata coinvolta nel corso di nuoto di Faraize, la 4 F.
Intercettando le parole di Ambra, Erin si innervosì ed Iris parve cogliere il disagio dell’amica.
Ambra le aveva lanciato uno sguardo di superiorità, accentuando in Erin il ricordo del giorno precedente e dell’umiliazione che le aveva impartito.
“non darle retta Erin” le bisbigliò Iris.
“ci mancherebbe anche che dia retta a quell’oca” sbottò Erin sempre più a disagio.
Anche se il giorno precedente Alexy, mentre la accompagnava a casa, aveva ribadito più volte che il suo passato da ballerina e ginnasta le aveva scolpito un corpo tonico e asciutto, Erin odiava farsi vedere in costume.  Malediceva quell’iniziativa scolastica: mettersi in costume davanti ad Ambra e Castiel avrebbe fornito loro un’ulteriore occasione per deriderla su uno degli aspetti su cui era più vulnerabile e insicura.
La bionda del resto, vantava un fisico invidiabile, scolpito dal costante esercizio ed una pelle uniformemente dorata grazie ai due mesi che aveva trascorso alle Hawaii. Aveva un costume che lasciava poco all’immaginazione in quanto molto sgambato, in stile Baywatch. Delle linee astratte che decorrevano verticalmente lungo i fianchi, le snellivano ulteriormente la vita sottile.
L’unica consolazione di Erin era che, se non altro, con la cuffia in testa, Ambra avrebbe perso il 70% del suo fascino ed attese con una certa curiosità la visione di quella scena.
Quasi se ne vergognasse lei stessa, Ambra impugnò la cuffia e si richiuse nel bagno dello spogliatoio uscendo qualche minuto dopo.
Erin rimase sorpresa dalla tenuta della cuffia che era talmente stretta da comprimere enormemente la voluminosa massa di capelli. Così conciata, Ambra era piuttosto buffa perché l’assenza di capelli metteva in risalto il suo naso da koala e le orecchie leggermente a sventola.
Quella visione fu un’iniezione di autostima per Erin.
“andiamo?” le chiese Iris allacciandosi l’accappatoio.
Il brusio di voci della stanza stava pian piano scemando poiché le studentesse, sempre più eccitate e in ansia, cominciavano ad uscire.
Erin continuava a fissare Ambra con una certa curiosità:
“ehi Erin? Ti sei incantata?”
“ah sì scusa! Arrivo…”
“e gli occhialini?”
Erin notò che Iris portava al collo gli occhialini da piscina. Si voltò allora verso la propria borsa ma si bloccò.
“non ti capiterà mai più un’occasione così” pensò tra sé.
Tornò a prestare attenzione  all’amica:
“ho dimenticato gli occhialini!...sarà meglio che vada a chiedere alla direzione se ne hanno un paio da prestarmi” le comunicò mettendosi la tuta sopra al costume.
“d’accordo. Allora ci vediamo direttamente in vasca?”
“sì sì, faccio presto” la rassicurò Erin con una certa urgenza nella voce.
In spogliatoio erano rimaste solo loro due, il che significava che sarebbe arrivata in ritardo.
 
Il getto freddo dell’acqua sparato sui piedi nudi fecero rabbrividire Erin. Con le ciabatte bagnate, si diresse verso il bordo vasca dove il gruppo di ragazze della sua classe si era riunito. Anche le studentesse in classe della 4° F avevano formato un gruppo per conto loro, mentre il trio capeggiato da Ambra si era seduto a bordo vasca con le gambe in ammollo. La scelta della posizione era strategica perché da quel punto i ragazzi che erano dall’altra parte della piscina, potevano ammirarle in tutto il loro splendore.
I maschi però, in quel momento erano per lo più impegnati a fare una gara di staffetta non autorizzata tra le due classi. Lo schiamazzo era altissimo e Faraize si dimenava a bordo vasca per cercare di imporre la propria autorità. I ragazzi stavano facendo di testa loro. Nonostante la distanza, Erin intuì che il tentativo si era rivelato fallimentare e per questo l’uomo si stava dirigendo dalle ragazze dove sperava di avere maggior fortuna.
Erin raggiunse Iris che era piuttosto nervosa.
“odio farmi vedere in costume. Trovami una ragazza a cui piaccia!” brontolò.
“eccola là” indicò Erin divertita in direzione di Ambra.
“alla fine è tutta una questione di autostima: fregatene di quello che pensano gli altri”
“se la pensi così, perché hai l’accappatoio stretto fino al collo?” osservò Iris lanciandole uno sguardo sbieco.
“appunto io non ho autostima” ridacchiò Erin “cioè  non su questo… e poi… ho come la sensazione che Castiel non aspetti altro che avere un ulteriore pretesto per prendermi in giro”
“fa’ presto a parlare lui col fisico che si ritrova” commentò Iris
“dov’è a proposito?” dopo quel commento, Erin si era incuriosita.
“laggiù. Cuffia blu”
Castiel era in piedi sul trampolino, pronto a tuffarsi all’arrivo del compagno di squadra.
Come era facile immaginare per uno sportivo come lui, il fisico era tonico e asciutto. Nonostante la posizione flessa in avanti, Erin intuì gli addominali scolpiti ma non troppo accentuati.
Alle sue spalle, Erin sentiva le chiacchiere delle ragazze della 4 F che, tra risolini e borbottii, commentavano:
“quelli della 4 C sono proprio fighi! Guarda quello con la cuffia nera. Mi pare si chiami Trevor”
“sì è lui. È quello che gioca a basket”
“tutti quelli che giocano in quel club sono dei fighi dell’altro mondo” aggiunse un’altra.
“però Castiel è il meglio di tutti!” replicò una quarta voce “guardalo là. Che addominali. Io odio quelli troppo pompati. Lui ha proprio un fisico muscoloso ma asciutto” commentò trasognante.
“ma perché gli sfigati ce li abbiamo noi? Vi pare giusto?” piagnucolò la prima che aveva parlato.
“su ragazze che fate ancora qui? In acqua!” ordinò Faraize sempre più esasperato.
Da un lato aveva a che fare con ragazzi indisciplinati, dall’altro con ragazze più impegnate a fare boyswatching che swimming.
Titubanti, le ragazze si tolsero gli accappatoi e tentarono di mettere piede in acqua, ma vista la differenza di temperatura con l’esterno, ci misero un’eternità.
“una volta presa, vi sembrerà addirittura calda!” le rassicurò il professore controllando l’orologio. Erano già passati venti minuti da quando il pullman li aveva lasciati all’ingresso. Nessuna ragazza si azzardava a tuffarsi direttamente.
Una volta in acqua, tutte incrociavano le braccia al petto e battevano i denti dal freddo.
“che cazzo di idea fare un corso di nuoto ad ottobre!” fu solo una delle proteste che arrivarono all’orecchio di un sempre più demoralizzato professor Faraize.
Erin ed Iris nel frattempo, erano ancora a bordo vasca.
“dai forza Iris” la esortò Erin lanciandole un’occhiata di incoraggiamento.
Mentre appoggiavano l’accappatoio sulla panchina, dall’altro lato della piscina i ragazzi avevano concluso la staffetta con la vittoria della 4° C. Trevor e Castiel si erano appollaiati sul cordone che delimitava l’ultima corsia dove si trovavano loro, la quinta e osservavano le ragazze in corsia uno.
“guarda guarda. Chi l’avrebbe mai detto” disse Trevor emettendo un fischio di compiacimento.
“Iris sembra tanto magretta invece cosa avrà? Una quarta?”
“quarta di tette e prima di culo… ce l’ha proprio piccolo” commentò il rosso scrutando meglio l’oggetto della sua indagine.
“ah giusto, tu sei il feticista dei culi”
“oh, senti che paroloni. Feticista. E quando l’hai imparata?” scherzò Castiel.
“io leggo” replicò solenne Trevor ignorando lo sguardo beffardo dell’amico “comunque, visto che sei un intenditore, guarda quello di Erin” aggiunse con un sorrisetto.
Castiel, sorpreso per quel suggerimento, spostò l’attenzione verso Erin o più propriamente, verso il distretto anatomico che gli era stato indicato.
Osservò la ragazza in silenzio ma ad un certo punto Trevor commentò:
“ma ti pare. Sei diventato rosso. Vuoi vedere che non ti sia drizzato i-”
Castiel si spazientì e distogliendo lo sguardo dalla ragazza lo interruppe:
“ma cosa vuoi che abbia quella? Non vedi che è meno attrezzata davanti? Quando compri una macchina si guarda prima il cofano” spiegò imitando la forma di un seno davanti al petto.
In quel momento Erin spostò lo sguardo verso la scena e vedendo il gesto di Castiel unito al fatto che Trevor la stava fissando, sentì il viso andarle in fiamme. D’istinto, spiccò un salto e si tuffò in acqua come un sasso. Quando riemerse, rimase a pelo dell’acqua, facendo fuoriuscire a malapena il naso.
I due ragazzi scoppiarono in una fragorosa risata mentre Iris, che non aveva seguito l’intera dinamica, osservava l’amica con perplessità palpabile:
“ma che ti è preso?”
“meglio che tu non lo sappia” borbottò Erin fissando con una punta di invidia il seno generoso dell’amica.
Si sentiva un’idiota a rimanere nascosta nell’acqua e sapeva che avrebbe presto dovuto mettersi in piedi.
“prof, io non mi sento bene oggi”. Con voce titubante, assolutamente incompatibile con la sua personalità forte e sfrontata, Kim si era rivolta a Faraize.
“rimani a bordo vasca allora!” sbottò l’uomo “Tanto qua tutti fanno di testa propria”. Era arrivato al culmine della sopportazione. L’esperimento di portare le due classi in piscina era stato un completo disastro. La situazione era ancora peggiore che in palestra e per questo la Preside l’avrebbe sicuramente chiamato a rapporto. Per l’ennesima volta.
“chi di voi sa già nuotare?” chiese alle ragazze.
Si levarono solo tre mani alzate: Erin, Charlotte e Ambra.
“ok, dunque intanto nuotate a stile libero” e Faraize passò alla spiegazione teorica di come fare. Si rincuorò nel vedere come il gruppo gli prestasse attenzione ma non potè godersi a lungo quella pausa di soddisfazione perché già pensava a come avrebbe affrontato l’indisciplina dei ragazzi che erano dalla parte opposta della piscina.
Ultimata la spiegazione, diede le ultime indicazioni e, rassegnato si spostò dai ragazzi. Mentre si stava avvicinando, aveva notato che Castiel stava attraversando trasversalmente le corsie.
Ambra guardò Charlotte e Lin e le invitò a seguirla in un punto libero della vasca dove iniziarono a chiacchierare per conto loro.
“quando hai imparato a nuotare Erin?” le chiese una sua compagna di classe di nome Kelly.
“mi ha insegnato mio padre. È un istruttore di nuoto”
“davvero? Allora sei un’esperta” aggiunse con ammirazione Mayla.
“sì figuriamoci. Stramazzerà alla seconda vasca” s’intromise una voce alle sue spalle.
Castiel era appoggiato con non curanza sui galleggianti che dividevano la prima corsia dalla seconda.
“beh di certo non potrei competere con te, Ariel” lo rimbeccò Erin facendogli la linguaccia. Le presenti scoppiarono a ridere e il ragazzo si sentì chiamare alle spalle.
“Castiel! Torna con i tuoi compagni!” gli ordinò Faraize dal bordo vasca.
Il rosso odiava prendere ordini e l’idea di tornarsene buono buono alla sua corsia lo infastidiva.
“comunque, se vuoi una volta possiamo fare una gara” lo sfidò Erin.
L’idea solleticò il ragazzo:
“ah sì? Ci sto. Vedo che ti piace proprio perdere” sorrise beffardo pensando alla sua recente vittoria a basket.
“invece potrebbe essere la volta buona che sei tu a perdere” disse Erin lanciandogli uno sguardo di sfida. In quel momento, su ordine del professore, Trevor si stava avvicinando per richiamare il compagno.
“come no… a differenza di te sono uno che è abituato a vincere”  replicò.
“ovvio finchè ti misuri contro le donne” obiettò Erin ridendo. La sua battuta scatenò la risata generale, tanto che nemmeno Castiel potè trattenersi dal sorridere.
“ahah, te la sei presa sui denti vecchio” gli disse Trevor “ora però muovi il culo e andiamo. Faraize sta andando fuori di testa”
Una volta tornate all’ovile le pecore smarrite, il professore potè proseguire con la lezione.
A guardarlo, nessuno avrebbe scommesso sul suo passato da bagnino e anche come istruttore era piuttosto debole. Passava la lezione facendo sponda tra un lato e l’altro della piscina, ma ogni volta che si avvicinava a uno dei due gruppi, in quello che aveva appena lasciato, di instaurava la più completa anarchia.
Quando ormai mancavano cinque minuti alla fine, si sedette sconsolato sulla panchina accanto ad un’annoiata Kim che aveva trascorso un’ora a guardare i compagni divertirsi.
“ragazzi cominciate a uscire dall’acqua!” ordinò Faraize dopo un po’ poi guardando Kim disse:
“esco un attimo a chiamare l’autista e gli dico di farsi trovare fuori” e detto questo, con un certo sollievo, abbandonò il caos che regnava sovrano.
Quasi avesse delle antenne, Trevor colse al volo il venir meno di quel minimo di sorveglianza a cui erano sottoposti.
“ehi Kim! Che fai ancora là! Fatti un tuffo!” la chiamò Trevor dalla vasca. Tutti si voltarono in direzione della ragazza che immediatamente lo zittì:
“non se ne parla”. Sul volto del ragazzo si disegnò un sorriso furbetto che tutti, Kim compresa, colsero al volo. Con ampie bracciate, raggiunse il bordo vasca, e con un agile balzo si ritrovò fuori dall’acqua.
Trevor prese Kim tra le braccia, mentre lei cercava di divincolarsi ma l’asciugamano che aveva stretto in vita unito alla superiorità fisica del ragazzo, le impedirono di farsi valere.
Il ragazzo si avvicinò verso bordo vasca e, come se fosse un sacco di patate, lanciò Kim in acqua.
Tutti risero immaginando la reazione della sfortunata che avrebbe senz’altro rincorso Trevor una volta uscita dall’acqua. Kim era nota per i suoi modi violenti e vederla arrabbiarsi con Trevor, che molti consideravano il suo miglior amico, era una scena imperdibile.
La ragazza però era ancora in acqua e si sbracciava, senza guadagnare terreno.
Erin fu la prima a intuire che qualcosa non andava. Gettò per terra l’accappatoio e si tuffò in acqua. Quel genio di Trevor aveva lanciato Kim nell’acqua fonda e, a quanto sembrava, lei non sapeva nuotare.
Kim annaspava e Erin la raggiunse in poche bracciate. Cercò di sorreggerla prendendola sotto le spalle ma Kim era troppo agitata e sbracciandosi rendeva più complicata l’operazione di soccorso.
Erin rimase scioccata nel vederla in quello stato: le ricordava un gatto gettato in acqua.
 
 
“smettila di dimenarti porca miseria!” le ordinò la bagnina improvvisata.
“non mollarmi!” la implorò Kim aggrappandosi al collo della ragazza.
“YEAH E VAI COSI’! WOOOO” incitavano i maschi eccitati da bordo vasca e facendo gesti osceni, che manco a dirlo, erano stati Castiel e Trevor a far partire.
“ma siete… idioti!” sbottò Iris.
Erin nel frattempo aveva il suo bel daffare a cercare di aiutare la compagna di classe. Non avrebbe mai immaginato di vedere una come Kim in quello stato. L’acqua la terrorizzava.
“senti, se non stai ferma, ti mollo!” la minacciò Erin alzando le braccia verso l’alto e sprofondarono insieme sott’acqua.
Riemergendo sputarono fuori l’acqua.
“stronza!” le urlò Kim in preda al panico.
“idrofobica!” le gridò di rimando Erin.
Kim smise per un attimo di dimentarsi, restando aggrappata al collo di Erin.
Le due si guardarono negli occhi e poi scoppiarono a ridere.
Erin la riaccompagnò a bordo vasca e non appena Kim riuscì a toccare il supporto solido del pavimento, si scostò rapidamente dalla sua salvatrice.  
“sei morto Trevor” lo minacciò Kim a denti stretti ma il ragazzo non diede il minimo peso alle sue parole.
Erin recuperò l’asciugamano di Kim che era immancabilmente zuppo e cercò di stritolarlo per far uscire l’acqua.
“dammelo” le ordinò Kim strappandoglielo con violenza dalle mani. Le dava le spalle ed osservando le lunghe gambe da velocista, Erin non potè fare a meno di notare il tremore della ragazza per la paura appena passata.
“grazie” il bisbiglio flebile di Kim venne udito solo dalla diretta interessata. Il suo orgoglio era stato ferito profondamente e farsi vedere così impaurita e vulnerabile l’aveva messa a disagio.
Senza osare guardarla in faccia, con passo malfermo, Kim si diresse verso gli spogliatoi.
 
“sei stata incredibile Erin! Sei scattata che sembravi un ghepardo!”
“maddai! Non esagerare”
“no è vero! Altro che i maschi! sei stata un razzo a buttarti in acqua”
Seguita da uno stormo di compagne in adorazione, Erin e Iris stavano rientrando in spogliatoio. Non fecero in tempo ad aprire la porta che questa si spalancò con violenza.
“DOVE LI HAI MESSI?”
Il gruppo si trovò di fronte una furia scatenata: Ambra.
La ragazza aveva gli occhi fuori dalle orbite e il viso paonazzo. In testa aveva un asciugamano che le avvolgeva i capelli a mo’ di turbante.
“di che parli?” le chiese Erin, assumendo un’espressione perplessa.
“lo-sai-benissssimo” sibilò a denti stretti. Le era così vicina, che sentì su di sé il fiato della ragazza solleticarle il collo.
“sono rimasta in piscina sino adesso Ambra… cerca di calmarti…Cosa dovrei averti preso?” ripeté Erin dirigendosi verso la sua borsa.
Tutte le ragazze erano rimaste con il fiato sospeso.
Ambra era temuta dalle sue compagne e nessuna aveva mai osato prima mettersi contro di lei.
“FAMMI VEDERE LA BORSA!” le ordinò con la voce che si incrinava sempre di più verso l’isterismo.
“COSA? No! Non ne hai nessun diritto!” protestò Erin parandosi davanti alla sua roba ma Ambra era talmente fuori di sé che la spostò con violenza facendola cadere a terra.
“AMBRA CALMATI! STAI ESAGERANDO!” urlò Iris soccorrendo Erin.
“FATTI I CAZZI TUOI PEL DI CAROTA!”
E frugò istericamente nella borsa di Erin svuotandone il contenuto sul pavimento.
“INSOMMA RAGAZZE CHE STATE COMBINANDO?!?”. Per un attimo nello spogliatoio femminile calò il silenzio: dall’esterno, il professore cercava di richiamare l’ordine:
“se vuole prof vado dentro a controllare io” si propose Castiel tra le risate goliardiche dei maschi.
Ambra ne frattempo scrutava tra gli oggetti che aveva fatto cadere sul pavimento mentre Erin la guardava con aria furente:
“perché ce l’hai con me Ambra? Che ti ho fatto?”
Ambra allargò le narici come un toro che si prepara a prendere la carica.
Erin allora, trattenendo a stento un sorriso di soddisfazione, aggiunse:
“del resto, se non ci dici cosa stai cercando, come possiamo aiutarti?”
La foga di Ambra si sgonfiò all’istante: fissò per un attimo la ragazza e non riuscendo a replicare, girò i tacchi e si rifugiò nel bagno dello spogliatoio.
 
Mano a mano che le ragazze uscivano dallo spogliatoio, chi era fuori voleva essere aggiornato sulle novità, ma nessuna sapeva come giustificare il comportamento di Ambra.
Quando quest’ultima, fece il suo ingresso nella sala d’attesa, tutti osservarono con curiosità la sua testa.
 
In spogliatoio erano rimaste solo Erin e Iris. Appena la porta si chiuse alle spalle, Iris ruppe il pesante silenzio che era calato nella stanza.
Guardò Erin uno sguardo d’intesa e l’amica le rispose con un sorriso furbetto: aveva gli occhi che le brillavano:
“cosa stava cercando Ambra?” le chiese Iris.
L’amica aprì il borsone, frugò in un punto in cui si era scucita formando un doppio fondo:
“questi” replicò. In mano Erin teneva delle voluminose extension di color biondo. Lo stesso biondo dei capelli di Ambra.
Nel silenzio della stanza, le risate delle due ragazze riecheggiarono talmente forti da essere udite anche all’esterno.
 
Da quando era uscita dallo spogliatoio, Ambra aveva tenuto in testa un foulard a mo’ di turbante.
Tutti le chiesero il perché di quella orribile mise e lei aveva risposto qualcosa sul fatto che il cloro le aveva rovinato tutti i capelli.
“ah davvero?” le chiese Castiel con fare inquisitorio “allora voglio proprio vedere!” e con un rapido gesto, sfilò il foulard dalla testa di Ambra su cui ricasero delle stitiche ciocche di capelli naturali.
Non c’era traccia dei morbidi e voluminosi boccoli che tanto la valorizzavano. Al loro posto, la capigliatura era liscia, sottile e poco folta.
“ODDIO AMBRA! MA SEI PELATA!” esclamò Charlotte sconvolta ma al contempo con una vena di derisione.
“sta zitta cretina!”
Tutti scoppiarono a ridere e Ambra cercò Erin con lo sguardo.
La ragazza aveva appena raggiunto il resto della classe ed era l’unica tra i presenti a non ridere.
Aveva un’espressione che poteva essere descritta con un solo aggettivo: vittoriosa.
 
 
 
Nota dell’autrice:
Eccoci al capitolo 7. Alla fine Erin si è vendicata di Ambra… la bionda se ne starà buona buona? Chissà… 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Un ricordo di cui vergognarsi ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:

La classe di Erin va in piscina come attività sostitutiva all’ora di educazione fisica. La ragazza è in imbarazzo perché si fa complessi sul suo fisico, immaginando le battutacce di Ambra e Castiel. In spogliatoio, Erin si insospettisce per lo scarso volume di capelli sotto la cuffia della bionda e scopre che la ragazza indossa delle extension. È l’occasione che aspettava per vendicarsi della sua umiliante fototessera che Ambra ha esposto a tutta la scuola.
Al termine della lezione, tra le due sfocia una discussione ma alla fine il piano di Erin è un successo: Ambra è costretta a mostrarsi a tutti senza i suoi morbidi boccoli biondi.

 
Capitolo 8: UN RICORDO DI CUI VERGOGNARSI
 
Studi scientifici hanno recentemente dimostrato che la rapidità con cui viaggia un pettegolezzo succulento possa uguagliare quella della luce nel vuoto: non appena le due classi avevano rimesso piede al liceo Dolce Amoris, già mezza scuola sapeva di Ambra e delle sue extension. La ragazza dal canto suo si vide costretta a passare l’intervallo trincerata in classe, abbaiando insulti ai curiosi che facevano capolino.
Durante le lezioni del mattino, aveva lanciato occhiate fulminee ad Erin, consapevole tuttavia di non avere prove per accusarla del furto. Fortunatamente per lei, l’ora di pranzo arrivò presto. Infatti, differentemente dagli altri studenti, Ambra aveva un autista personale che veniva a prelevarla dopo le lezioni affinché la signorina non si abbassasse a mangiare il cibo squallido della mensa. Nathaniel invece, non approvando quell’abitudine, si adeguava a ciò che facevano tutti gli altri studenti. In quanto segretario delegato, sentiva di dover dare il buon esempio e adeguarsi alla routine scolastica.
Il ragazzo quindi cercò Erin in classe ma non la trovò, così chiese informazioni a Iris:
“mi ha detto che veniva a cercarti per chiederti di pranzare insieme” gli spiegò la ragazza. Nathaniel sorrise compiaciuto e ciò non sfuggì alla sua interlocutrice.
“e così ci porti via Erin” sorrise maliziosa “in meno di una settimana, sei già riuscito a combinare un appuntamento con lei”
“ma che appuntamento! Pranziamo solo insieme”
si difese il delegato arrossendo. L’innocenza del ragazzo aveva un che di adorabile. Iris sorrise pensando a come la personalità di Nathaniel si incastrasse perfettamente con quella intraprendente e pasticciona dell’amica. Erin era arrivata al Dolce Amoris lunedì e nell’arco di quattro giorni aveva già conquistato la simpatia di mezza scuola con la storia del pallone scomparso. Se si fosse diffusa la notizia che era l’artefice anche della “calvizie” di Ambra, allora avrebbe conquistato anche l’altra metà degli studenti.  Ma niente di tutto questo aveva colpito Nathaniel: il ragazzo aveva la capacità di andare oltre le apparenze e i giudizi altrui. Riusciva a scrutare l’animo delle persone e, quasi sempre, a trovarne il loro lato migliore.
 
Quando Nathaniel incrociò Erin, la ragazza aveva appena svoltato dal corridoio degli armadietti verso quello della palestra; il suo modo di camminare, nonostante l'abbigliamento da maschiaccio era di un'eleganza e leggiadria che raramente il ragazzo aveva visto. 
“finalmente ti ho trovata eh?” la chiamò. Al sentire quella voce, Erin si sciolse in un sorriso.
“anche io ti stavo aspettando”.
I due uscirono in cortile e Nathaniel occupò una panchina sotto un albero frondoso.
“in questo liceo non vi fate mancare nulla” commentò Erin ammirata:
“ci sono un sacco di club diversi, un giardino attorno alla scuola che è enorme, una biblioteca ben fornita, un teatro… mi chiedo perché non ci sia la pista di atterraggio degli elicotteri”
“c’è: è sul tetto”
replicò tranquillo Nathaniel deglutendo un boccone, ma di fronte all’espressione inebetita della ragazza, fu costretto a smentirsi:
“ahahah! scherzavo! Dovessi vedere che faccia hai fatto” e nel vedere Nathaniel che la imitava, anche Erin scoppiò a ridere.
“nella mia vecchia scuola non c’era niente di tutto ciò” commentò lei.
“com’era?”
“te l’ho detto, non c’era un tubo”
rispose masticando il proprio panino “ma scusa, tu non fai parte di nessun club?”
“no, in quanto delegato degli studenti, ho il mio bel daffare durante le attività pomeridiane”
“beh, ma quando sei stato eletto delegato? Prima che club frequentavi?”
“sono stato nominato l’anno scorso. Dunque, il secondo anno ho fatto parte del club di giornalismo, poi il terzo a quello di calcio”
“ed eri bravo?”
“me la cavavo”
sorrise Nathaniel con modestia.
“aspetta, non mi hai detto del primo anno! A cosa ti eri iscritto?”
Il ragazzo guardò in alto verso il cielo con fare vago:
“non mi ricordo…comunque speriamo non si metta a piovere. Hai visto le previsioni?”
“no, no! Adesso mi dici cosa avevi scelto il primo anno!”
protestò Erin divertita, non lasciandosi sfuggire quel maldestro tentativo di cambiare argomento.
Nathaniel sospirò:
“non è una cosa di cui vado orgoglioso” mugulò guardando Erin di sottecchi.
“no dai, dimmelo!” insistette la ragazza.
“-ito” borbottò:
“non ho capito”
ammise Erin candidamente.
“club di cucito”
Erin dapprima strabuzzò gli occhi, poi cominciò a rotolarsi su se stessa.
“ahahhaha, maddai!”
“te l’ho detto che mi vergogno!”
protestò Nathaniel.
“e perché scusa?”
“perché non è una cosa da maschi!”

“no, intendevo… perché ti sei iscritto a quel club? È assurdo!” specificò Erin senza smettere di ridere.
Il viso del ragazzo assunse un’aria pensierosa e con uno strano sorriso in volto le raccontò:
“perché all’epoca il mio migliore amico mi aveva convinto che potevamo prendercela comoda nella scelta dei club. Abbiamo aspettato troppo e così alla fine era rimasto disponibile solo quello. Cinque anni fa la scelta non era così ampia come oggi” si giustificò Nathaniel.
“beh, almeno eravate in due maschi. Chissà quante risate vi sarete fatti” lo consolò Erin divertita.
“già” replicò il delegato e dei ricordi allegri presero posto nella sua mente. La ragazza lo osservava incantata. L’espressione dolce dei suoi occhi, il viso liscio e curato... Erin si perse nel contemplare quell’immagine.
“con Castiel era impossibile non divertirsi” commentò tra sé e sé.
Nonostante il tono sommesso, Erin intese perfettamente quella frase.
Nathaniel vide gli occhi della ragazza dilatarsi.
“CASTIEL ERA IL TUO MIGLIORE AMICO?!”
“non serve urlare…”
obiettò Nathaniel leggermente divertito.
“m-ma siete così… diversi”
“è la stessa cosa che mi hai detto quando ti ho detto che Ambra è mia sorella”
puntualizzò.
“sarà perché sei unico” rispose immediatamente Erin. Sul momento non si rese conto di avergli fatto un complimento, ma una volta che ne prese consapevolezza, arrossì violentemente. Nathaniel fece finta di non cogliere l’imbarazzo della ragazza e proseguì:
“l’avrei ucciso quando ho scoperto che ci toccava andare nel club di cucito. Per fortuna che le ragazze del club ci lasciavano giocare a carte e cose così”
“beh, ma allora non è stato così tremendo…”
“aspetta a dirlo… Quando la preside scoprì che non ci stavamo applicando nell’attività del club, andò su tutte le furie, e insistette per assistere personalmente ad una lezione di cucito in cui io e Castiel dovevamo metterci all’opera. Abbiamo passato tre ore con la Preside che ci teneva d’occhio. Ho ancora la scena davanti agli occhi: io che mi pungevo di continuo con l’ago e Castiel che borbottava tutto il tempo delle imprecazioni che facevano infuriare ancor di più la preside.
Abbiamo passato dieci minuti solo per far passare il filo nella cruna. Il risultato finale è stato qualcosa di imbarazzante ma almeno la preside si era rabbonita e si limitò a raccomandarci di essere più responsabili l’anno successivo nella scelta dei club”.

Erin sorrise immaginandosi la scena ma soprattutto continuando a chiedendosi come due persone così diverse potessero essere state amiche in passato: Nathaniel era così educato e garbato mentre Castiel un cafone senza speranze. Era pur vero che conosceva entrambi da appena quattro giorni, troppo pochi per poter avere la presunzione di giudicarli.  E doveva rimediare a questa sua lacuna.
 
Erano le 13.51 quando Ambra si diresse verso il suo armadietto per recuperare il necessario per il club di cui era la presidentessa: teatro.
Passando per i corridoi sentì dei sogghigni sommessi e intercettò anche qualcuno che la indicava. Finché non avesse trovato le sue adorate extension, avrebbe dovuto sopportare quell’attenzione negativa e anche una volta trovate, il suo imbarazzante segreto di bellezza era comunque stato svelato. Il danno d’immagine che ne era derivato era di dimensioni abissali.
Con passo deciso, arrivò al suo armadietto. Fece per portare la mano sulla manopola, quando si bloccò: le sue amate extension erano appese al gancio con un biglietto in bella mostra:

 
“posso farti una confidenza? Non mi dispiacerebbe vederti con meno capelli in testa :-)”
(N.d.A: vedi capitolo 4, scena del bagno).

Si guardò attorno e vide che tra gli studenti presenti si era diffuso un sorriso di scherno.
Ambra alzò i tacchi fulminandoli tutti con lo sguardo. Quel biglietto era come una firma: ora aveva la prova che incriminava il colpevole.
 
“tu e Castiel amici” borbottò tra sé e sé Erin
“la cosa ti lascia tanto sorpresa?”
“siete incompatibili! Andiamo! lui è così rozzo e volgare, mentre tu sei…”
avrebbe voluto dire “il ragazzo perfetto” ma si trattenne.
“non ero così santarellino all’epoca sai” ammise Nathaniel.
“colpa di Castiel ne sono sicura! È una pessima influenza” sentenziò Erin con convinzione e solennità tanto che il ragazzo si lasciò sfuggire una risata.
“era quello che mi ripetevano gli inseganti. In ogni caso adesso è tutto diverso. Non ha più senso parlare del passato”
La perplessità del volto di Erin era lampante. Il ragazzo aveva completamente cambiato atteggiamento e aveva pronunciato quella frase con un tono perentorio e misterioso. Non le lasciava spazio a repliche o richieste di chiarimenti.
Quella volta Erin fu costretta ad accantonare la propria curiosità, che tuttavia, sentiva crescere man mano che il silenzio tra di loro aumentava. Nathaniel aveva uno sguardo pensieroso e fissava un punto davanti a sé senza lasciar trapelare nessuna emozione. Entrambi erano talmente persi nelle loro riflessioni, che non si accorsero della figura che stava sopraggiungendo come una furia.
Erin si accorse che una sagoma aveva improvvisamente impedito ai deboli raggi solari di illuminarle il vso e fu costretta ad alzare il volto.
Istintivamente pensò a Kim, a quando era venuta ad annunciarle che Castiel la stava cercando per la sfida. Questa volta però, si trovò di fronte la sua peggior nemica.
“non posso crederci! Ora te la fai anche con mio fratello!” tuonò Ambra con le mani ai fianchi.
“Ambra!” le riprese il biondo alzandosi furente, destandosi dai suoi ricordi “non sono affari tuoi!”
“non sono qui per parlare con te, Natty. Hai oltrepassato il limite sfigata”

La bionda brandiva nella mano destra le morbide extension e il biglietto che Erin aveva ben pensato di lasciarle per concludere l’opera in bellezza. Non le era bastato vendicarsi di Ambra: aveva voluto lasciarle un indizio affinchè la bionda capisse con chi aveva a che fare. Sapeva che Ambra avrebbe ricollegato quella provocazione a quella che lei stessa le aveva rivolto in bagno qualche giorno prima. Quello che Erin aveva trascurato di calcolare, era che Ambra l’avrebbe accusata di fronte a Nathaniel.
Il ragazzo dal canto suo, non poteva fare a meno di notare l’oggetto che la sorella teneva in mano e intuire quali fossero le sue intenzioni.
“che vuoi da me?” le chiese Erin scocciata. Per ora il suo unico obiettivo era non compromettersi davanti al delegato.
“indovina! Verrai dalla preside con me! Non puoi passarla liscia!” replicò la bionda afferrandole il braccio.
“Ambra! Smettila! Erin non ti ha fatto nulla. Ne sono sicuro” s’intromise Nathaniel svincolando la morsa della sorella.
Questa frase fece sentire Erin terribilmente in colpa. Nathaniel era convinto della sua innocenza quando in realtà lei non aveva saputo resistere alla tentazione di vendicarsi della sorella.
Era più meschina e infantile di quello che il ragazzo volesse credere. Non era degna di tanta fiducia.
“ne sei convinto eh?” chiese Ambra con tono beffardo “se è davvero innocente, non avrà problemi ad affrontare la preside”
“non ha senso che venga in presidenza se non è coinvolta in questa faccenda”
Erin era rimasta in silenzio e capì che era arrivato il suo momento di prendere parola.
“Nathaniel ha ragione Ambra. Andrò con lei dalla Preside e risolveremo questa faccenda. Mi dispiace”
Il delegato fece per protestare: “allora vengo con te” ma la ragazza lo bloccò:
“no. Devo sbrigarmela da sola questa volta. Tu sei fin troppo disponibile con me”.
Erin lo guardò con una tale intensità che dal suo sguardo trasparì un senso di colpa intriso di gratitudine.
“mi viene da vomitare” borbottò Ambra schifata “forza, andiamo!” le ordinò ed Erin, per una volta, fu costretta a seguire la bionda come un cagnolino.
 
Una volta lontana da Nathaniel, Erin si sentì più libera di aggredire la sua compagna, che puntualmente esclamò:
“almeno potevi evitare di lasciare questo pessimo biglietto!”
“quella frase ci cascava troppo a pennello”

“ah ah! lo ammetti eh?” esclamò la bionda con tono vittorioso.
“ma sei stupida o cosa? A questo punto è ovvio che sono stata io. Ammetterlo di fronte a te non fa nessuna differenza” replicò asciutta Erin facendo spallucce.
La tranquillità e il controllo della situazione si erano impadroniti della ragazza e ciò non faceva altro che far inviperire ancora di più Ambra.
“nel caso non l’avessi notato, non ci fai una bella figura davanti al mio fratellino” aggiunse dopo un po’ la ragazza. Osservando di sottecchi l’espressione di Erin, esultò dentro di sé, soddisfatta di aver trovato il punto debole della nemica.
“sei una serpe Ambra” ribattè Erin a denti stretti “Adesso siamo pari”
“siamo pari un corno!”
sbottò la bionda “il tuo scherzetto è stato molto più...”
“geniale”
le suggerì Erin con un sorriso sghembo facendola inviperire ancora di più tanto che, quando arrivarono di fronte alla porta della presidenza, Ambra la varcò con veemenza.
“preside!”
La preside fece un salto dalla sedia e rimase talmente scioccata da quell’aggressività che inizialmente, non riuscì a formulare nessun rimprovero per quella mancanza del rispetto dell’etichetta.
“Erin mi ha rubato le extension”
“e cosa sono?”

“queste!” esclamò Ambra sventolandole davanti al naso quella che una volta era la sua criniera leonina.
“innanzitutto vediamo di darci una calmata signorina Daniels. Non è questo il modo di entrare in presidenza!” tuonò la donnina recuperando un po' di contegno “E poi mi spieghi: perché avrebbe dovuto rubargliele, la signorina Travis ha i capelli castani, queste invece sono bionde” obiettò la preside, indicando i capelli finti.
“voleva farmi un dispetto!”
“e direi che c’è riuscita”
concluse la preside osservando con curiosità la capigliatura scarna di Ambra.
“tu Erin cosa hai da dire a tua discolpa?”
“non è colpa mia se Ambra è spelacchiata!”
protestò Erin strappando un fugace risolino alla vecchina che però, in veste di giudice imparziale, fu costretta a soffocare.
“ma se l’hai ammesso pochi secondi fa, prima che entrassimo qui!” protestò Ambra.
“Io? Te lo sarai sognato, anzi no, te lo sei proprio inventato. Si ricorda preside di lunedì quando Ambra le aveva detto di aver visto qualcosa in cortile?”
Erin ricordava perfettamente il primo scherzo che quell’arpia le aveva giocato appena quattro giorni prima quando le aveva fatto credere che il pallone da basket fosse stato nascosto in presidenza. In quell’occasione Ambra aveva raccontato una bugia alla preside per allontanarla dal suo ufficio.
“forse Ambra soffri di allucinazioni” concluse Erin deridendola.
“sarai tu a soffrire se non la smetti immediatamente” le bisbigliò Ambra approfittando del fatto che la preside fosse un po’ sorda. La donna però era al limite della sopportazione e cercò di portare il dibattito ad una conclusione.
“dunque signorina Travis, devo ripeterglielo: cosa ha da dire dell’accusa che le ha mosso Ambra?”
“che sono stata accusata ingiustamente visto che Ambra non ha prove. Anche a me è stato fatto un torto qualche giorno fa, ma non ho certo accusato lei di esserne la responsabile”.

Ambra guardò la nemica con astio. La storia della fototessera. Non aveva immaginato che Erin l’avrebbe usata a suo vantaggio. Quella ragazza era piena di risorse.
“che torto?” chiese la preside spazientita.
Erin proseguì a spiegarle dello scherzo della fototessera:
“detto questo. Nathaniel mi ha assicurato che la fototessera c’era quando ha visionato la prima volta il mio fasciolo a casa sua, ma dopo cena era sparita. Con questo non voglio certo dire che Ambra, dopo averla vista accidentalmente, abbia pensato che sarebbe stato divertente fare uno scherzo ad una persona che ancora non conosceva…” sospirò Erin con aria innocente.
La preside guardò Erin capendo perfettamente doveva voleva andare a parare.
“non le dia retta preside!” la interruppe Ambra “e comunque ha idea di quanto costino queste?” aggiunse indicando le extension che la preside teneva tra le mani “vengono direttamente dalla Francia, sono capelli veri!”
La preside che fino a quel momento li stava accarezzando, mollò la presa ed esclamò:
“che impressione!”
Erin sogghignò mentre Ambra andò su tutte le furie.
“deve punirla!”
A quelle parole la preside scattò in piedi:
“signorina Daniel! Non è nella posizione di darmi ordini! Ne ho abbastanza dei vostri scherzi idioti!”.
Le due ragazze si irrigidirono preoccupate:
“per una settimana, siete sospese dall’attività dei club. Lei signorina Daniel aiuterà il personale con le pulizie delle aule di didattica e dei bagni dell’ala ovest e badi che verrò a controllarla!  Lei signorina Travis dovrà occuparsi dell’ala est, palestra compresa. Oggi è giovedì giusto?”
Le due ragazze annuirono:
“Bene, oggi siete libere di frequentare i rispettivi club e informare i vostri compagni della vostra assenza forzata. Da domani fino a venerdì prossimo, voglio vedervi rimboccare le maniche. Chissà che un po’ di lavoro manuale vi faccia passare la voglia di perdere tempo a fare scherzi da ragazzine”.
 

Alle cinque, Erin uscì da scuola sconsolata. Aspettava Nathaniel, temendo la reazione del ragazzo.
Aveva tradito la sua fiducia comportandosi in modo meschino e vendicativo.
Forse non era una buona idea aspettarlo. L’avrebbe affrontato il giorno successivo, sperando che la cosa si risolvesse in fretta.
“ciao Erin” la distrasse Alexy sorridendo seguito da Rosalya. La ragazza le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla. Quel contatto stupì Erin, dal momento che non era così in confidenza con Rosalya. Ma quest’ultima era una persona diretta sia nelle parole che nei modi e l’approccio fisico diretto era per lei qualcosa di molto naturale e spontaneo.
“Ambra è venuta al club” la informò intendendo quello di teatro “ dicendoci che si assenterà per una settimana. Alla fine è venuto fuori che è in punizione per colpa tua” concluse sorridendo.
Erin non capiva il perché di quella soddisfazione
“grazie Erin. Non hai idea del favore che ci hai fatto a tutti: senza lei per una settimana sarà uno spasso...il club di teatro ti deve un favore” le disse facendole l'occhiolino. Quelle parole bastarono a giustificare l’affettuosità della ragazza.
“almeno qualcuno ci ha guadagnato da questa storia” commentò Erin notando in quel momento la presenza di Iris che le stava venendo incontro.
“Erin! Ho saputo della punizione”
“le voci corrono”
“mi dispiace tantissimo”
“naa, non preoccuparti. È giusto così”
“e quindi saresti in punizione?”
le interruppe una voce alle loro spalle.
I presenti si voltarono verso un ragazzo che procedeva verso di loro:Castiel.
“ecco il perché avevi il muso lungo prima”
Il ragazzo notò solo in quel momento la presenza di Rosalya ed Alexy. Li fissò di lato con uno sguardo inespressivo. Alexy abbassò gli occhi, evidentemente a disagio, mentre Rosalya sosteneva quell'espressione così dura che sentiva su di sè.
Erin percepì il disagio e la tensione che erano crollati tra i presenti. Da quando era arrivato Castiel, Alexy aveva spento la sua allegria e Rosalya era diventata fredda e distaccata.
“comunque si tratta solo di una settimana e poi potrò tornare al club” annunciò Erin a Castiel, per interrompere il pesante silenzio.
“non vedo l’ora” commentò l’altro sarcastico.
“fa’ meno la spiritosa Ariel. Senza nessuno da tormentare, alla fine mi implorerai di tornare”
Il clima che Erin stava instaurando sembrava dissipare pian piano le tensioni che si erano create pochi istanti prima.
eheh, dovresti ammettere Castiel che Erin è l’unica che ti tiene testa” aggiunse Iris.
“tenermi testa? Questa specie di cipolla con le gambe?” replicò rivolto ad Iris ed indicando la cipolla umana.
“cipolla? Ma che insulto è?” sbottò Erin.
“hai mai fatto caso alla forma del tuo bel visetto Raperonzolo?” le chiese Castiel ironico.
Erin si portò le mani sulle guance, quasi a cercare di intuirne la forma.
“non dargli retta” lo interruppe Rosalya “e comunque Castiel, vedo che non perdi le vecchie abitudini” aggiunse rivolgendo uno sguardo diretto al ragazzo. 
“in effetti hai sempre avuto la tendenza ad insultare le persone che poi sono diventate tue amiche” convenne Alexy, alleggerendo di tensione la frase pronunciata dall’amica.
Castiel guardò i due come se non avesse gradito la loro intromissione.
“di questo passo allora” commentò Erin “diventerò la tua migliore amica!”
A quelle parole i presenti si lasciarono sfuggire un sorriso ironico.
“non ci contare” tagliò corto Castiel.
“perché? Guarda che sono una persona molto socievole se mi ci metto”
“non sei socievole, sei invadente” puntualizzò il rosso allontanandosi dal gruppo per tornarsene a casa.
Era da molto tempo ormai che non rivolgeva la parola ad Alexy e Rosalya.
L’ultima volta la loro conversazione era stata più che altro una lite in cui erano volate parole poco lusinghiere da entrambe le parti. Da quell’occasione non aveva più rivolto loro la parola poiché non riusciva a sopportarne nemmeno la vista. Appena incrociava uno dei due in corridoio subito ripensava a quanto era successo l’anno prima e sentiva una tale rabbia montargli in corpo che solo mezzo pacchetto di sigarette era sufficiente ad annebbiargli il cervello.
Tuttavia ora che era stato così vicino, tanto da sentirsi rivolgere la parola, i suoi sentimenti negativi si erano attenuati. Non aveva sentito verso di loro quell'astio che da lì ad un anno aveva sostituito i sentimenti di amicizia che li legava. La loro presenza, seppure non gradita, era risultata più che altro sopportabile. Che cosa avesse determinato quel cambiamento non lo sapeva.
“si saluta maleducato!” si sentì chiamare alle spalle.
Si voltò a osservare fugacemente il gruppo da cui si era appena congedato: Alexy, che lo fissava con un sorriso conciliante. Sapeva quanto il ragazzo fosse amareggiato per quella situazione e la sua sensibilità gli impediva di fare il duro come invece si atteggiava Rosalya. La ragazza era sempre bellissima ma anche altrettanto dura e orgogliosa. Poi c’era Iris, sua compagna di classe da ormai un mese e mezzo. Fino a quattro giorni prima Castiel non ne aveva quasi nemmeno calcolato l’esistenza. Era una ragazza un po’ anonima, di quelle riservate e poco interessanti. Decisamente non il suo genere ma probabilmente come amica era una persona valida e in gamba. E poi c’era la nuova arrivata che l’aveva appena richiamato. Era chiassosa, invadente, scorbutica e sgraziata. Aveva i capelli talmente lunghi che la facevano sembrare ancora più bassa. Inoltre li teneva raccolti con una coda all’altezza della nuca che le dava un’aria decisamente trasandata. Il suo viso le ricordava quello di un personaggio manga, gli occhi in particolare che però erano nascosti da una frangia troppo lunga.
Le fece un cenno annoiato e lei si limitò ad alzare le spalle rassegnata, tornando a rivolgersi al resto del gruppo.
Sì, come ragazza non era un granché, ma da quando era arrivata al liceo, il sorriso di Castiel era diventanto un evento meno raro.
 
Spazio dell’autrice♨♨♨
Visto che non credo che pubblicherò i capitoli con una frequenza minore di una volta alla settimana, ho pensato che un piccolo riassunto all'inizio di ognuno non faccia male a nessuno☻ 
Altra novità è stata la "messa in grassetto dei dialoghi": l'ho visto in una ff qualche giorno fa e la trovo un'idea davvero buona per rendere più agevole la lettura... voi che ne pensate?
E veniamo ora al capitolo in sè: rispetto al precedente, mi sa che questo è un po’ fiacco… purtroppo non posso neanche incentrare la storia sugli scherzi tra Erin ed Ambra quindi la ragazza per un po’ se ne starà buona buona. Ora deve occuparsi di fare qualche pulizia ;)
Ci tenevo a pubblicare questo ottavo capitolo oggi visto che in una recensione l’avevo promesso però non ho ancora finito di colorare il disegno per questo capitolo, ma giuro di averlo già cominciato. Appena sarà pronto lo aggiungerò.
La rete di rapporti interpersonali che lega i personaggi comincia a tessersi: è venuta fuori una vecchia amicizia tra due dei protagonisti maschili, Nathaniel e Castiel… quanto vi farò aspettare per i dettagli? In realtà non lo so neanche io XD man mano che scrivo un capitolo mi vengono idee per i successivi quindi non posso fare previsioni, se non promettere che il prossimo lo caricherò sabato. Buon fine settimana



...e per i più curiosi...
 
☞☞Anticipazioni del capitolo 9:
Come si comporterà Kim dopo il salvataggio di Erin in piscina?
Un personaggio che Erin ha conosciuto durante la ricerca del pallone tornerà finalmente in scena... chi sarà? Cosa scoprirà la ragazza? …APPUNTAMENTO ALLA PROSSIMA SETTIMANA!!

{。^◕‿◕^。}
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il primo giorno di punizione ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin e Nathaniel pranzano insieme e la ragazza scopre che lui e Castiel sono stati ottimi amici in passato senza riuscire però ad avere ulteriori dettagli. Dopo aver trovato il messaggio provocatorio che Erin le ha lasciato sull’armadietto, Ambra la trascina dalla preside affinchè venga punita. La donna però, esasperata dai loro battibecchi, punisce entrambe assegnando loro una settimana di pulizie della scuola.
Uscendo, Erin incontra Alexy, Rosalya ed Iris con i quali inizia a chiacchierare finchè arriva Castiel. Tra lui, Rosalya ed Alexy è successo qualcosa in passato che ha incrinato i loro rapporti ma grazie all’allegria di Erin, il clima si alleggerisce della tensione.

 
Capitolo 9:
IL PRIMO GIORNO DI PUNIZIONE


“venerdì”.
Quella semplice parola riecheggiava nella mente di Iris come una sorta di mantra che la portava alla pace dei sensi. Anche quella settimana scolastica stava finendo e il weekend era alle porte. La giornata non poteva iniziare meglio.
Come ogni mattina, si alzò con calma dal letto e si diresse sbadigliando verso il bagno. Si stava lasciando alle spalle una settimana carica di novità grazie all’arrivo di Erin, una ragazza con cui aveva subito stretto amicizia. Iris ripercorse mentalmente gli eventi che avevano caratterizzato gli ultimi quattro giorni: Erin era arrivata lunedì e si impegnata alla ricerca di un pallone che valeva come ammissione al club di basket in cui era entrata ufficialmente martedì. Il mercoledì successivo Ambra le aveva giocato lo scherzo della fototessera ma Erin ci aveva messo poco a vendicarsi: appena il giorno prima, giovedì, le aveva sottratto le sue amate extension mettendo al corrente tutta la scuola dell’imbarazzante segreto della bionda.
Da quando quella ragazza aveva messo piedi al Dolce Amoris, le cose per Iris erano cambiate: sentiva di aver finalmente trovato l’amica che aveva sempre sognato di incontrare. Inoltre al suo occhio attento, non erano sfuggiti dei piccoli cambiamenti che l’arrivo di Erin aveva portato con sé: aveva parlato con Castiel, (cosa mai successa prima nonostante fossero compagni di classe da più di un mese), aveva conosciuto l’inavvicinabile Rosalya e aveva scambiato qualche parola in più anche con il segretario delegato degli studenti: Nathaniel.
Era come se Erin sprigionasse un’energia positiva che aveva contagiato tutti.
L’indomani al cinema proiettavano una commedia che da tempo voleva andare a vedere ed era l’occasione giusta per un’uscita tra amiche. Oltre ad Erin, avrebbe chiesto anche a Violet, anche se Iris non nutriva molte speranze a riguardo. La ragazza avrebbe con ogni probabilità declinato l’offerta ringraziandola. Violet aveva gusti un po’ particolari quel genere di uscite serali non le erano particolarmente gradite.
Iris si passò la crema idratante con movimenti circolari e poi si guardò allo specchio. Sarà stata la prospettiva della serata successiva, sarà stata la gioia che fosse venerdì, il suo viso quella mattina era particolarmente raggiante.
 
L’autobus aveva appena svoltato l’angolo così Iris si approssimò al marciapiede per far intendere all’autista che voleva salire. Vide Erin che la salutava dal finestrino con allegria.
Una volta salita, le due si salutarono e Iris non tardò a riferirle il suo progetto per il giorno successivo.
“lo sai che domani sera esce quel film con Sandra Bullock di cui ti parlavo l’altro giorno?”
“si mi ricordo. Ci andiamo?” propose immediatamente Erin.
Iris sorrise per essere stata battuta sul tempo. Il programma per l’indomani era deciso.
 
“ti sei già messa dei vestiti vecchi per le pulizie del pomeriggio?”
Erin non aveva neanche fatto a tempo a poggiare lo zaino sul banco che Ambra subito aveva trovato un pretesto per stuzzicarla. Quel giorno cominciava ufficialmente la settimana di pulizia, punizione inflitta dalla preside alle due ragazze. Erin inspirò preparandosi a ribattere, ma Kim la anticipò:
“insultare gli altri è l’unico modo che hai per parlare con qualcuno Ambra?”
La bionda si voltò di scatto verso la mora:
“fatti gli affari tuoi Kim. Non stavo parlando con te”
“se è per questo sei talmente sola che non parli mai con nessuno, a parte Charlotte e Lin” replicò asciutta Kim.
Le sue parole, cariche di disprezzo, riecheggiarono in una classe silenziosa e interessata al loro battibecco.
Ambra sgranò gli occhi per l’umiliazione che le era stata inflitta. Allargò le narici e ispirò profondamente preparandosi al contrattacco:
“ragazze dateci un taglio!” intervenne Iris, avvicinandosi a Kim “sta arrivando la prof”.
Nonostante il carattere pacifico e tranquillo, Iris sapeva quando imporsi per ristabilire l’ordine, capacità che le aveva valso la nomina di presidentessa del club di giardinaggio.
Erin aveva assistito a quel breve scambio di battute senza battere ciglio. Era rimasta basita dopo l’intervento di Kim: se non aveva frainteso la situazione, la ragazza aveva preso le sue difese ed Erin non potè fare a meno di pensare che fosse una forma di gratitudine per il salvataggio in piscina.
seduti”ordinò la professoressa Fraun posando il libro di storia sulla cattedra.
La donna scrutò l’aula e puntò il suo sguardo verso il fondo della classe dove il vuoto lasciato da Castiel era evidente:
“cominciamo l’appello” sospirò senza commentare ciò che aveva notato. Castiel Balck stava seriamente compromettendo il suo percorso scolastico per la seconda volta. Quell’assenteismo era una chiara provocazione nei suoi confronti in quanto insegnante di una materia che il ragazzo giudicava inutile.
Aprì il registro.
“Adams”
“presente” replicò Kelly, seduta accanto a Kim.
“Alvarez”
“presente”
“Barton”
“presente”
“Blac-“
“presente”
Senza lasciare il tempo all’insegnante di finire di pronunciare il suo cognome, Castiel, con un tempismo impeccabile, aveva fatto il suo ingresso in aula.
La Fraun si limitò a commentare con ironia:
“alla buon’ora” e proseguì con l’appello. In cuor suo però era contenta che lo studente si fosse presentato. Era la seconda volta dall’inizio dell’anno che si presentava in aula e sperava che non tornasse alle vecchie abitudini.
Erin ovviamente aveva occupato il posto vicino alla finestra e aveva lasciato a Castiel quello più esterno.
Il ragazzo appoggiò pesantemente la borsa sul banco e si accomodò sulla sedia.
“ciao” lo salutò educatamente Erin senza però ricevere nessuna risposta e proseguì solo quando fu sicura che il ragazzo la stesse ascoltando.
“quando cominciamo a fare quel lavoro di scienze sul fumo?”
Per tutta la settimana si era angosciata all’idea di dove collaborare con quello scansafatiche del suo compagno di banco per un progetto affidato loro dalla professoressa Joplin il lunedì in cui Erin era arrivata in quella scuola. Aveva rimandato continuamente l’argomento ma era arrivato il momento di cominciarlo.
“cominciamo?” ripetè Castiel. La sua espressione di infantile stupore lasciò perplessa Erin mentre il ragazzo esponeva le sue ragioni:
“io pensavo che ti saresti arrangiata tu. Metti anche il mio nome, e poi morta là” replicò con candore.
La ragazza strabuzzò gli occhi per quella risposta e per la naturalezza con cui era stata pronunciata. Era davvero convinto che fosse più che normale fare come aveva detto lui.
“mi stai prendendo in giro?” scandì Erin con scetticismo.
Castiel la guardò con un’espressione neutra e, avvicinandosi, le sussurrò:
“fidati, il mio contributo sarebbe più di impiccio che utile”
“non mi accollo tutto il lavoro per poi farti prendere il merito, mica sono stupida!” protestò la sua compagna di banco.
“Ambra l’avrebbe fatto” puntualizzò Castiel, convinto per qualche motivo che fosse un’osservazione a suo favore.
“infatti se non l’hai notato, non ho una grande stima di lei”
“signorina Travis! È la terza volta che la chiamo!”
“eh? Sì, ok… mi dica” farfugliò Erin sostando la sua attenzione verso l’insegnante:
“no mi dica lei! La stavo forse disturbando?” chiese con un tono di ironica gentilezza “Risponda all’appello!” le ordinò subito dopo alzando la voce.
“ah si…vabbè… ci sono” replicò Erin chiedendosi l’utilità di quella parole. Che senso aveva ormai rispondere all’appello?
Castiel sghignazzò.
“non si risponde “ci sono” “ la rimproverò la Fraun, facendole il verso “si dice -presente!-”aggiunse alterandosi sempre di più.
presente” ripetè Erin con poca convinzione, sentendosi un’idiota mentre i compagni a mala pena trattenevano un sorriso di scherno verso la Fraun.
“FA LA SPIRITOSA ADESSO?” sbottò frustrata la donna incapace di controllarsi.
Erin era completamente disorientata. Che caspita doveva fare allora?
“senta signorina Travis, vada a farsi un giro fuori e torni quando le sarà passata la voglia di fare la spiritosa!”
“m-ma…”
“FUORI!” urlò l’insegnante.
Mentre si alzava, Erin sentiva gli occhi della classe su di lei, così cercò gli unici da cui poteva trovare consolazione: Iris aveva un angolo della bocca piegato verso il basso, in una smorfia di dispiacere.  
 
“brutta megera in menopausa” borbottò tra sé e sé mentre passeggiava per i corridoi.
Miss Fraun aveva la fama di essere un po’ instabile e il suo comportamento assolutamente imprevedibile.
“dove vado adesso?” si chiese la ragazza guardandosi intorno sperduta.
Erano le 8.08 e quindi tutte le classi erano impegnate a lezione. In meno di un dieci minuti era riuscita a farsi sbattere fuori dall’aula: un record che forse nemmeno gente come Castiel o Trevor detenevano.
Prese il cellulare per scrivere un messaggio ad Iris, ma l’amica l’aveva preceduta:
“non preoccuparti, la Fraun è solo lunatica. Ci vediamo alle otto e mezza in bagno?”
Erin sorrise con gratitudine, pur sapendo che Iris non avrebbe potuto vederla.
Adesso doveva decidere come trascorrere i successivi venti minuti in attesa di incontrare l’amica. Non poteva continuare a vagare nei corridoi, prima o poi qualche professore l’avrebbe incrociata e chiesto spiegazioni. Pensò così di rifugiarsi all’esterno, dove lei, Iris e Violet erano solite pranzare.
Stava per svoltare l’angolo, quando sentì dei suoni digitali. Incuriosita, si affacciò con cautela.
Un ragazzo con i capelli neri, stava giocando con un Nintendo DS e sembrava molto preso, tanto da non accorgersi dell’intrusione. Erin lo fissò cercando di recuperare il ricordo del nome. Sapeva che era il fratello gemello di Alexy e che si erano presentati quando era andata alla ricerca del pallone.
“ciao Armed!” esclamò.
Il ragazzo alzò lo sguardo e vedendola replicò:
“ce l’hai come me?”
Erin tentennò poi scrutandolo aggiunse circospetta:
“ho sbagliato nome?”
“mi chiamo Armin” rise l’altro.
“scusami ma sono pessima con i nomi”
“e io con i visi a quanto pare perché non mi ricordo di te” replicò prontamente Armin lasciando di sasso la ragazza.
“ahah scherzavo! Mi ricordo di te, Irina”
“mi chiamo Erin” puntualizzò assumendo un’espressione scettica.
“oh non posso chiamarti Irina? È il nome del mio personaggi preferito in The light of the Shadow” spiegò Armin convinto in qualche modo della validità della sua giustificazione.
“è un film?”
“macchè film, è un videogioco della PSP3!” si arrabbiò il moro come se fosse stato offeso personalmente.
“ah ok, non me ne intendo molto sai…”
“me ne sono accorto!”
“non serve che ti offenda sta cosa” brontolò Erin.
Armin sospirò.
“sono rassegnato che voi ragazze e i videogame non andrete mai d’accordo”
“beh, non è detto. Ce ne sono di ragazze a cui piacciono”
“allora presentamene qualcuna Irina”
“non sono Irina, sono Erin”
Il ragazzo però ignorò la correzione.
“come mai all’aria aperta?”
“divergenze con la Fraun”
“la Fraun? Ce l’ho anche io. È girata voce che abbia fatto un esaurimento nervoso l’anno scorso tanto che quest’anno non erano manco certi che tornasse”
“non mi stupisce: è schizzata. Ma tu come mai sei qua?” chiese Erin con interesse.
“devo assolutamente finire questo livello! In classe il prof mi distraeva con le sue domande così non riuscivo a concentrarmi a dovere. Ah, a proposito, se te lo chiedono: io sono in infermeria” aggiunse con una tale serietà che Erin trattenne una risata.
Quando erano andati a comprare il costume, Alexy l’aveva avvertita che il gemello era un fissato dei videogame ma anche che, dietro quell’apparenza di affascinante nerd, si nascondeva un mago dei computer. La ragazza decise di non disturbarlo ulteriormente, così lo lasciò tranquillo ad ultimare la sua missione e si diresse verso il bagno. Erano le 8.25.
 
Una vola tornata nei corridoi, Erin aveva ancora cinque minuti prima dell’appuntamento in bagno con Iris. Pensò di passare davanti alla sala dei delegati, con la minima speranza che Nathaniel fosse lì anziché in classe.
Dal momento che gli dei quel giorno erano stati abbastanza inclementi con lei, decisero di accontentare questa sua debole speranza.
Il ragazzo stava per l’appunto chiudendosi la porta alle spalle, tenendo in mano una cartella blu.
“Erin! Che coincidenza” esclamò vedendola. Il viso di Nathaniel si era illuminato e quello di Erin di riflesso.
“Ciao! Come mai non sei a lezione?” indagò la ragazza incrociando le mani dietro la schiena e spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
Nathaniel aveva notato quel gesto in più occasioni e aveva dedotto con piacere che la ragazza lo facesse quando era di buon umore.
“ho appena finito di ultimare il programma per la gita delle quarte e delle quinte”
“sul serio?” chiese Erin incuriosita.
“oh yes”
“non puoi darmi qualche indizio?” lo pregò Erin con un sorriso invitante. Quel sorriso così contagioso e spontaneo lo spiazzava sempre.
Dopo una debole resistenza, il ragazzo si arrese:
“eh vabbè… solo perché sei tu. Staremo via tre giorni: si parte il 6 novembre e si torna l’8”
“ah quindi non è un’uscita in giornata! Figo! E la divisione delle classi? Non partiremo mica tutte insieme!?”
“dunque la tua classe è stata abbinata alla mia poiché siamo entrambi in sezione C”
“grande!” esultò Erin. Una gita con Iris e Nathaniel di lì ad un paio di settimane. Non stava già nella pelle. Stava per porre altre domande ma in quel momento li interruppe la preside:
“lei signorina Travis cosa fa fuori dall’aula?”.
Le ci erano voluti meno di due secondi per identificare la nuova studentessa che già aveva fatto parlare di sé studenti e insegnanti di mezza scuola. In appena quattro giorni dal suo arrivo, Erin Travis si era già accaparrata l’antipatia di Miss Fraun e del professor Condor che erano già stati in presidenza a manifestare la loro disapprovazione:
Abbiamo già Castiel Black, Trevor Smith, Kim Phoenix, Ambra Daniels… non c’erano classi meno problematiche dove inserire una simile piantagrane?” aveva protestato Mister Condor che era uno che non le mandava a dire.
La preside si era limitata a sospirare e a chiedere ai due insegnanti di dare il tempo alla ragazza di ambientarsi perché era convinta che non fosse una cattiva studentessa. Ma averla punita per indisciplina appena il giorno prima e averla appena beccata a bazzicare per i corridoi durante l’orario di lezione, non andava certo a suo favore.
“stavo andando in bagno…”si giustificò Erin con poca convinzione. La vecchia preside non era così vecchia per nulla e ormai era abituata alle bugie dei suoi studenti. Tuttavia a volte, recitava la parte della nonnina rincoglionita per evitare discussione. Fece così finta di credere alle parole della ragazza e non pretese ulteriori spiegazioni.
“allora ci vada. Nathaniel adesso serve a me” sentenziò la vecchietta entrando nella sala delegati.
Nathaniel alzò le spalle sorridendo alla sua interlocutrice e dopo averla salutata, raggiunse la preside.
 
“finalmente! Penseranno che ho la diarrea!” brontolò Iris quando vide Erin entrare in bagno. La stava aspettando da oltre dieci minuti. A quella frase, l’amica era scoppiata a ridere:
“non c’è nulla da ridere! Dove eri finita?”
“ho incontrato prima Armin, hai presente?… è il fratello di Alexy... e poi Nathaniel qua fuori”
Il nome Nathaniel ebbe un effetto calmante istantaneo su Iris che si sciolse in un sorriso canzonatorio:
“e così hai incontrato Natty” indagò
“ho detto Nathaniel” puntualizzò Erin in imbarazzo.
“parlate tanto voi due eh?” la punzecchiò l’amica senza smettere di sorridere. Tra l’amica e il delegato stava nascendo qualcosa e non poteva fare a meno di trovare il tutto molto stuzzicante.
“dimmi della Fraun piuttosto… si è data una calmata?” esclamò Erin, anche per distogliere l’attenzione di Iris.
“sì, infatti avevo pensato che potevi rientrare con me, così avresti attirato meno l’attenzione di tutti”
Erin alzò il pollice in segno di approvazione e le fece l’occhiolino.
 
Quando le due amiche rientrarono in classe, calò il silenzio più completo. Tutti fissavano Erin che però si limitò a guardare di sbieco l’insegnante aspettandosi una sua reazione:
“Erin può rientrare?” intercedette Iris. Sapeva di essere una delle preferite della donna e giocò a favore di Erin, questa sua debolezza.
La Fraun annuì senza aggiungere altro ed Erin raggiunse il proprio banco.
Vide Castiel con il viso appoggiato sulla mano. Sembrava che il sonno si sarebbe impadronito di lui da un momento all’altro e l’equilibrio della sua testa era piuttosto precario.  
Stando bene attenta a non farsi notare dal resto dei presenti, Erin passandogli da dietro, gli tirò uno scappellotto che gli fece schiantare la fronte contro il banco.
Il tonfo fece sobbalzare tutti.
“MA PORCA TROIA!” imprecò Castiel per lo spavento.
“CHE SUCCEDE!?” strillò la Fraun esasperata.
Erin fece la gnorri e guardò fuori dalla finestra.
“mi sono addormentato” ammise Castiel come se la cosa fosse perfettamente normale e giustificabile.
Inutile dire che, dopo Erin, fu il secondo studente ad essere sbattuto fuori dall’aula nell’arco della giornata.
 
Dopo pranzo, Erin si diresse verso la sala presso cui si riuniva il personale delle pulizie.
Fino a poco prima, Iris e Violet l’avevano consolata, dicendole che la giornata sarebbe passata in fretta. Contro ogni aspettativa, Ambra era già là:
“ansiosa di cominciare?” la schernì Erin appoggiando la borsa sul tavolo.
“ti conviene prendere appunti oggi, perché questo sarà il tuo futuro lavoro sfigata” replicò Ambra.
Qualcosa di indefinito colpì Erin. Non si seppe spiegare il perché ma quelle parole le sembrarono intrise di un’amarezza di fondo che non aveva mai colto prima.
Ambra non la stava guardando con disprezzo o astio. Nei suo occhi leggeva un sentimento diverso ma non sapeva come descriverlo. Ripensò alle dure parole che Kim le aveva rivolto quella mattina, ma allontanò l’idea che fossero riuscite a scalfire l’animo che si nascondeva sotto tutti quegli strati di fondotinta e cattiveria.
 “almeno siete puntuali!” osservò la preside varcando la soglia. La donna era seguita da una signora sulla quarantina con capelli poco curati e da un vecchietto con un’andatura incerta.
“dunque Patty, sai già cosa devi fare con Ambra” disse rivolgendosi alla prima “Mi raccomando, assicurati che faccia il suo dovere altrimenti interverrò personalmente!”.
Patty aveva un viso scavato e denti ingialliti dal fumo. Fece cenno ad Ambra di seguirla e la bionda, disgustata, eseguì le sue istruzioni.
“invece Erin, tu lavorerai con Tom” le spiegò la preside presentandole il vecchietto decrepito “non ho niente da aggiungere, ci penserà lui a te…e adesso all’opera!”
 
Quel modo di fare così sbrigativo aveva un po’ disorientato Erin che si trovò costretta a seguire il vecchio Tom per i corridoi. La sua andatura lenta ed incerta richiesero cinque minuti per raggiungere il primo luogo di lavoro quando delle gambe sane avrebbero percorso della distanza nella metà del tempo.
La condusse ai bagni dell’ala est, soffermandosi davanti a quelli maschili. Tom le fece segno di portare il carrello con il materiale per la pulizia al suo interno.
“non vorrà mica che entri là dentro!?” protestò Erin allarmata.
“e perché no? È solo un bagno” gracchiò l’uomo prendendo una scopa e mettendogliela in mano.
“m-ma…. se entra qualcuno!?” precisò Erin. Da un’occhiata fugace aveva intravisto gli orinatoi appesi alla parete.
“e allora?”
Erin era rimasta senza parole. Era pur sempre una studentessa. Evidentemente l’imbarazzo di farle pulire i bagni maschili (cosa che una volta risaputa in giro sarebbe stata fonte di derisione nei suoi confronti) faceva parte della sua punizione.
“non capisco proprio perché dovrebbe turbarti tanto la cosa” ammise l’uomo con perplessità.
 “ma se entrasse qualcuno…” scandì Erin a denti stretti sempre più nervosa.
“e che sarà mai! Mi chiedo cosa dovresti vedere che tu non abbia già visto!” obiettò l’uomo facendo avvampare Erin, dall’alto del suo virginale candore. A prescindere da quale opinione il vecchio potesse avere sulla precocità sessuale dei giovani, Erin apparteneva a quell’esigua minoranza che ancora guardava al mondo con infantile ingenuità.
“su! Al lavoro! Sennò chiamo la preside” la minacciò il nonnetto spazientito da tutte quelle (a suo avviso immotivate) resistenze.
Vedendo che le sue parole avevano sortito l’effetto desiderato, si spostò verso i bagni femminili.
“vecchio pervertito!” pensò tra sé e sé la ragazza.
Sbirciò all’interno del bagno maschile assicurandosi che non vi fosse nessuno. Una volta accertatasi che la via fosse libera, prese dal carrello uno strappo di carta assorbente e con un pennarello usato per siglare i detergenti scrisse:
“PULIZIE IN CORSO. NON ENTRARE”
Appese il foglio alla porta del bagno e si chiuse dentro sperando che quel divieto fosse sufficiente a tenere lontano eventuali fruitori del locale.
Aprì le finestre nauseata dall’odore che ristagnava all’interno. Vide scritte oscene sulle pareti, pezzi di carta igienica non utilizzati sparsi per terra vicino ai water che, non osò guardare attentamente, avevano chiazze di colore scuro qua e là.  
Stava per iniziare a scopare per terra quando la porta si aprì.
Rimase di sasso con gli occhi sbarrati mentre l’intruso si dirigeva verso gli orinatoi. Dalla divisa da basket e dai capelli, riconoscere Castiel fu immediato.
Il ragazzo si era portato le mani all’altezza dell’inguine per abbassarsi i pantaloni quando colse con la coda dell’occhio una presenza. Focalizzò lo sguardo in quel punto e sbarrò gli occhi:
“E TU CHE CI FAI QUI?!”
L’imbarazzo d Erin era tale che non riusciva a replicare ma in quel momento fece irruzione Tom:
“oh scusami Edith, ho confuso i bagni dei maschi con quelli delle femmine! Ora capisco perché hai fatto tutte quelle storie!”
Erin lo guardò come se avesse davanti l’idiota numero uno del mondo.
“non preoccuparti Tom, alla fine è nel suo ambiente naturale” intervenne Castiel che nel frattempo si era ripreso dalla shock. Il ragazzo la guardava beffardo ed Erin non vedeva l’ora di abbandonare quella stanza:
“se non ti dispiace, adesso avrei da fare… ma se vuoi restare qui a guardare...” disse malizioso
Avvampando, Erin esclamò “sei un cafone!”.
Uscendo urtò un altro ragazzo, ma nella fretta non lo guardò nemmeno in faccia. Si rifugiò nel bagno delle femmine in attesa di sbollire la rabbia.
 
Una volta terminata la pulizia dei bagni, Tom la guidò alla pulizia delle aule della didattica:
“vieni Emily”
“mi chiamo Erin” replicò la ragazza rassegnata. Era la quarta volta che lo correggeva. Si era sentita chiamare Edith, Ester, Helene e ora Emily. Se non altro l’iniziale era sempre giusta.
Tom la condusse in 5^ C, la classe di Nathaniel.
Incuriosita Erin cercò di indovinare dove fosse seduto ma non c’era nessun indizio che lasciasse intuire quale posto occupasse.
Si mise d’impegno e pulì al meglio delle sue capacità quell’aula, spazzando ogni residuo di gomma e pulendo due volte il pavimento. Su alcuni banchi c’erano dei disegni e delle annotazioni a matita ed Erin si prodigò nell’eliminare al meglio ogni residuo.
mica siamo in un laboratorio” scherzò Tom vedendo l’impegno della ragazza.
Passarono poi ad altre aule finché non arrivarono le quattro e un quarto:
“adesso Evelyn vai in biblioteca. Lì devi solo spolverare la scrivania, scopare e passare lo straccio, poi puoi andartene a casa… a passare per terra la palestra mi arrangio io dopo che gli studenti se ne sono andati”.
Erin ringraziò Tom e si diresse verso il suo ultimo luogo di lavoro. Tutto sommato, incidente del bagno a parte, quel pomeriggio non era stato così stressante come temeva.
Le passò accanto Ambra che sghignazzando, la informò che il suo turno era già finito e stava già rincasando. Passando davanti alla sala del personale però, Erin sentì Patty lamentarsi dello scarso rendimento della bionda:
mai vista un’oca così. E pensare che dovrò sorbirmela per una settimana. Più che d’aiuto è d’intralcio, così l’ho mandata via prima. Pensa che ho dovuto spiegarle come passare lo straccio!” si stava lamentando la donna.
 
Arrivata in biblioteca, Erin si mise subito all’opera.
Spolverò il banco per la prenotazione dei libri e scopò anche sotto gli scaffali.
In realtà c’era ben poca polvere, ma la stanza era grande e ben fornita di libri. Mentre passava il pavimento, Erin si accorse di un libro dalla copertina di velluto: “Cime tempestose”.
Più e più volte si era ripromessa di leggerlo ma nonostante questo buon proposito, non l’aveva ancora fatto.
Prese il libro tra le mani e si accomodò su una poltroncina accanto ad una lampada da tavolo. Aveva ancora un quarto d’ora prima della fine della attività pomeridiane, a quel punto tanto valeva aspettare le cinque così avrebbe fatto la strada del ritorno assieme ad Iris.
 
Il cellulare lentamente scivolava dalla tasca, che era sempre più incapace di trattenerlo al sicuro dentro di sé. Alla fine vinse la gravità e l’oggetto atterrò sul suolo facendo sobbalzare la sua proprietaria.
Erin si svegliò di soprassalto, confusa e disorientata.
Si guardò attorno.
Era in una biblioteca.
La biblioteca della scuola.
Le ci vollero un paio di secondi per orientarsi e capire cosa ci faceva lì.
Ricordava di aver cominciato a lettura di “cime tempestose” ma evidentemente il sonno aveva avuto la meglio. 
Raccolse il telefono e guardò l’ora: erano quasi le sette. Come se ciò non bastasse, ben dieci messaggi su Whatsapp e quattro chiamate perse facevano capolino sullo schermo.
Lesse un messaggio alla volta, partendo dal più vecchio:

ORE 16.57 – DA IRIS: farò un po’ tardi con il club? Mi aspetti? :)
ORE 17.05 – DA IRIS: sei già tornata a casa?
ORE 17.15 – DA IRIS: vedo che non hai ancora visualizzato i messaggi. Cmq io torno a casa. Ci vediamo domani


Il fatto che non avesse messo nessuno smile, fece intuire ad Erin che l’amica si era un po’ irritata per averla aspettata inutilmente.

ORE 17.17 – DA ZIA: cosa vuoi per cena? Sto andando a fare la spesa
ORE 17.35 - DA ZIA: che ne dici di una bella paella? Ci sono le cozze e i gamberoni in offerta!!
ORE 17.57 – DA ZIA: stasera si mangia paella. Tra venti minuti sono a casa
ORE 18.35 – DA ZIA: si può sapere dove sei?? Pensavo di trovarti a casa!
ORE 18.54 – DA ZIA: Erin mi sto preoccupando. Dove sei??????
ORE 18.56 – DA ZIA: sei senza soldi forse?


Ovviamente le chiamate perse erano una di Iris e le altre tre della zia. Dando la priorità al legame di sangue, Erin chiamò Pam. La risposta all’altro capo del filo fu immediata:
“Erin, si può sapere dove sei?!?”
La nipote già aveva pensato ad una scusa valida per prendere tempo nell’attesa di capire come uscire dalla scuola che ora la teneva prigioniera.
 “scusami, è che Iris mi ha invitata a cena a casa sua e ho dimenticato di avvertirti. Ho lasciato il telefono in camera sua e adesso che l’ho ripreso in mano ho visto i messaggi e le chiamate”
“mi sono proprio spaventata! Non farlo mai più!” si lamentò Pam facendo sentire ancora più in colpa Erin.
“lo so, scusa…”
Pam sospirò. Ora che la preoccupazione se n’era andata, era felice di sapere che Erin si sarebbe fermata dalla sua amica. In meno di una settimana aveva già fatto amicizia.
“mi dispiace per la tua paella… magari invita Jason a cena” le suggerì Erin maliziosa. Il loro vicino, innamorato di Pam, sarebbe morto dalla gioia per una simile proposta.
“non ho neanche cominciato tanto ero preoccupata” replicò asciutta la zia. Quando la nipote si divertiva a tormentarla parlandole di Jason, Pam si irritava e diventava acida.
“ok ok scusa ancora… scusami ma mi stanno chiamando…. Allora ci vediamo verso le nove… e mezza.. ” aggiunse Erin prendendola larga.
“d’accordo. Divertiti”
 
Erin uscì dalla biblioteca. Erano le sette di sera del 24 ottobre e le poche fonti di illuminazione naturale rendevano la scuola particolarmente buia e tetra.
Quel silenzio così irreale penetrava nelle ossa della ragazza, che pur non credendo a fantasmi e fenomeni paranormali, si guardava attorno circospetta, temendo un agguato nell’ombra.
Il suo obiettivo era dirigersi sul retro della scuola dove poteva tentare di scavalcare il cancello posteriore senza attirare l’attenzione dei passanti.
Passò davanti al teatro e raggiunse l’aula di musica.
Sentì una sorta di lamento soffocato che le fece venire la pelle d’oca.
Rimase immobile, tremando come una foglia.
♪ ♫ “mhmmm… there was a wonderful sunset that day  ♪ ♫
Riconobbe all’istante quella voce.
Aprì con veemenza la porta del club di musica, sorridendo sollevata.
In piedi accanto alla finestra, Lysandre aveva interrotto la sua canzone e la stava fissando. Nonostante l’irruzione improvvisa di Erin, non aveva dato segni di evidente sorpresa ma solo di un leggero stupore.
Proprio come dicevano le parole della canzone che stava cantando, il giorno in cui si erano conosciuti, c’era un meraviglioso tramonto il cui ricordo era rimasto indelebile nella mente di Erin.
 
SPAZIO DELL'AUTRICE:
Con un giorno di anticipo rispetto a quanto avevo previsto, ecco pubblicato il nono capitolo. Niente disegno questa volta perché non mi sentivo ispirata :-(
Mi rendo conto, senza volerlo, che i capitoli stanno diventando sempre più lunghi… tanto di cappello a chi riesce a leggerli tutti fino alla fine :-).
Dopo una fugace apparizione nel capitolo 4, finalmente anche Lysandre  è tornato in scena (in quello stesso capitolo in realtà Erin aveva anche conosciuto Armin ma la cosa era passata inosservata).
Visto che chi legge questa ff conosce il gioco a cui è ispirata, può facilmente intuire cosa ci faccia a scuola dopo la fine delle lezioni.
Nathaniel ha finito di organizzare la gita (il furbetto ha usato la scusa delle sezioni per andare in gita con Erin?) e questo significa che c’è del materiale per i prossimi capitoli…
Dell’incidente in bagno che dite? Quando andavo alle elementari, per una ragazza mettere piede nei bagni dei maschi era l’equivalente ad una dichiarazione di cambio di sesso -.-‘’ .
Beh, non ho altro da aggiungere, se siete arrivati fin qua in fondo, non posso che ringraziarvi :-)

 
Anticipazioni del capitolo 10:
Cosa ci fa Lysandre nella scuola a quell’ora? Ed Erin come farà a tornare a casa? …
...APPUNTAMENTO ALLA PROSSIMA SETTIMANA!! {。^◕‿◕^。}

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Musicisti clandestini ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin e Iris organizzano una serata al cinema per la serata successiva. Una volta arrivata in classe, Kim prende le difese di Erin durante un battibecco con Ambra. A seguito di un equivoco con l’insegnante di storia, la protagonista viene sbattuta fuori dall’aula e incontrerà prima Armin e poi Nathaniel. Quest’ultimo le anticipa di aver organizzato una gita di lì a due settimane, in cui parteciperanno insieme.
È il primo giorno di punizione per Erin ed Ambra e la prima si trova affidata ad un vecchietto un po’ rintronato che sarà la causa di un incontro imbarazzante con Castiel.
Addormentatasi in biblioteca, Erin si risveglia due ore dopo quando l’edificio è vuoto. Vagando per i corridoi alla ricerca di una via d’uscita, scopre che c’è qualcuno nell’aula di musica e scopre all’interno Lysandre.
Capitolo 10:
MUSICISTI CLANDESTINI
 
Il viso di Lysandre passò dal lieve sbigottimento ad un’accogliente sorriso:
“vedo che è una tua abitudine intrattenerti a scuola dopo le lezioni” commentò compiaciuto. Si allontanò dalla finestra facendo scivolare le dita affusolate sul marmo freddo del davanzale. I suoi movimenti così teatrali e raffinati ricordavano Rosalya.
“potrei dire lo stesso di te” sorrise Erin entrando nella stanza.
“oh ma oggi è un giorno particolare” la informò il ragazzo con un tono sibillino che incuriosì la ragazza “comunque… se non so indiscreto, come mai sei rimasta qui fino a quest’ora?”
“mi sono addormentata in biblioteca leggendo un libro” ammise Erin grattandosi la nuca in imbarazzo.
“che libro?”
“cime tempestose”
Lysandre si barricò in un silenzio che Erin interpretò come un tentativo di ricordare il nome dell’autore
“è un libro di-“ tentò di aiutarlo ma il ragazzo la precedette:
“Emily Brontë, lo so. È molto bello anche se personalmente preferisco i toni più melodrammatici di Jane Eyre”
Erin rimase impressionata da quel commento. Non aveva mai sentito prima un ragazzo che leggeva le opere delle sorelle Brontë e che aveva una sensibilità romantica tale  da poterle apprezzare.
“visto che sei un’esperta di oggetti smarriti, non è che potresti aiutarmi a trovare il mio block notes?” esclamò Lysandre d’un tratto guardandosi attorno con aria smarrita. Anche se Erin non lo sapeva, quell’espressione gliel’avrebbe vista stampata in viso ogni volta che si incontravano e non c’era verso che il ragazzo riuscisse a colmare quel senso perpetuo di disorientamento che lo contraddistingueva.
“intendi quello che avevi quando ci siamo visti l’altra volta?”
“proprio quello. Hai trovato un pallone nascosto sul tetto, non ti sarà difficile trovare un quaderno, anche perché non credo che sia uscito da questa stanza” la incoraggiò il ragazzo accomodandosi sopra uno sgabello posto dietro una tastiera.
Sentendosi un po’ ridicola, Erin attivò la “modalità segugio” e cominciò a spostare fogli e scatoloni alla ricerca dell’oggetto scomparso. Mentre era impegnata nella sua missione, gli chiese:
“scusa Lysandre, ma non mi hai ancora detto cosa ci fai qui. Quella pianola è un indizio che dovrebbe suggerirmelo?”
Lysandre sorrise:
“in effetti faccio musica”
“mi farebbe piacere sentire qualcosa allora” ammise Erin controllando sopra una mensola.
“come ringraziamento per il tuo aiuto si può fare” riconobbe guardando un punto imprecisato del soffitto. Erin dovette trattenersi dal ridere per quei gesti così caricaturali; trovava assurdo che il ragazzo non la aiutasse nella ricerca del quaderno dal momento che non era stata lei a perderlo, ma d’altro canto aveva la sensazione che non le sarebbe stato di grande aiuto.
“ma se sei uno studente di questa scuola, perché non ti ho mai visto in giro?”
“beh, passo gran parte del mio tempo in classe”
“ah capisco. Beh, se vuoi qualche volta possiamo pranzare insieme…se sei da solo…”
“a volte capita” ammise Lysandre perso a contemplare il vuoto. In quel momento, con quell’aria un po’ svampita, le fece venire in mente la timida Violet e per questo non poteva non provarne simpatia.
“comunque qua il quaderno non c’è. Vado a controllare nel club che frequenti, se mi dici qual è” si propose Erin avvicinandosi alla porta. Prima che Lysandre facesse in tempo a darle una risposta, la maniglia si abbassò ed entrò Castiel.
“e tu che ci fai qui?” sbottò sorpreso. Lui ed Erin erano l’una di fronte all’altro e il ragazzo la sovrastava di trenta centimetri, tanto che la ragazza fu costretta ad alzare la testa per poterlo guardare negli occhi.
“ehi! Si dal caso che sia anche la mia scuola!” ribattè Erin non meno sorpresa del compagno di classe.
“ma perché mi sei sempre tra i piedi? Prima in bagno, poi qui! Sei una stalker pervertita!”
“Il mondo non ruota mica intorno a te! Mi sono semplicemente appisolata e quando mi sono svegliata era tutto chiuso”
“vedo che conosci già Emily” li interruppe Lysandre rivolto verso  Castiel.
“e chi è?” chiese l’amico perplesso, mentre Erin guardava il ragazzo dai capelli bianchi con aria offesa. Era vero che anche lei quello stesso giorno aveva sbagliato il nome di Armin, ma sperava che Lysandre avesse memorizzato bene il suo.  
“sono io immagino” commentò Erin lanciando un’occhiata amareggiata al ragazzo “mi chiamo Erin, non Emily”
“mi sono confuso perché parlavamo del libro di Emily Bronte” si giustificò Lysandre.
“dì piuttosto che sei rincoglionito, vecchio” lo schernì Castiel “comunque sia, qua non puoi stare! Sloggia!” brontolò rivolgendosi ad Erin.
ma che fastidio vuoi che ci dia? Stare qua da solo con te mi mette una tristezza…” mormorò Lysandre mogio mogio, strappando una risata allegra ad Erin.
“prendi per il culo adesso?”
“ragiona Castiel. Mica possiamo mandarla a casa da sola a quest’ora” replicò conciliante.
“beh dipende. Dove vivi?” tagliò corto il rosso tornando a rivolgersi alla compagna di classe.
“nel quartiere dietro l’ex fabbrica di pneumatici”
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata esaustiva.
“posto un po’ più raccomandabile no eh?” sospirò Castiel mentre Erin lo guardava speranzosa “ eh vabbè resta. Tanto tra un’ora ce ne andiamo”.
Lysandre si alzò per sgomberare un tavolo pieno di fogli ma, alzandosi, esclamò:
“oh, ecco dov’era il quaderno! C’ero seduto sopra!”
Castiel alzò gli occhi al cielo mentre Erin rideva sotto i baffi.
Una volta che il piano di lavoro fu liberato di carte e spartiti, Lysandre invitò Erin ad accomodarsi. La ragazza ne approfittò per tirare fuori i suoi appunti di biologia. Immaginava che ai due ragazzi non sarebbe piaciuto sentirsi fissare da lei, così optò per un’attività che non le avrebbe impedito di ascoltare la loro musica. Era davvero eccitata all’idea di sentirli suonare. Lysandre si era accomodato dietro alla tastiera, mentre Castiel aveva impugnato una chitarra elettrica appoggiata sul relativo supporto. Se l’era appoggiata sulle gambe e non dava cenno di volerla usare nell’immediato.
Con l’amico, confabulava commenti e osservazioni e solo dopo venti minuti cominciò a strimpellare qualche nota solitaria:
“se ci metti qua una pausa…” insistette ad un certo punto il rosso “…sbalzi tutta la ritmica”
“no perché poi passi ad una nota più breve in questo passaggio” ribattè con convinzione il tastierista.
“proviamo così te ne rendi conto da solo” replicò Castiel pazientemente.
Erin si stupì per quel tono così pacato che poco aveva a che fare con il ragazzo che conosceva da ormai una settimana. Sembrava quasi che la chitarra esercitasse un influsso calmante sul suo brutto carattere. Castiel aveva uno sguardo così concentrato e allo stesso tempo sereno che Erin si incantò a guardarlo.
Il chitarrista trasformò in musica le note che erano scritte sul pentagramma e la melodia che ne derivò era unica.
“si hai ragione tu” convenne Lysandre annullando la sua correzione.
“l’avete scritta insieme questa melodia?” li interruppe Erin.
“in realtà è tutta opera di Castiel. Non c’è verso che le mie proposte vadano bene”
“guarda che non sono un tiranno”
“no, sto dicendo che sei bravo. Riconosco che le tue idee sono migliori delle mie” commentò Lysandre con sincerità “hai talento. Te l’ho sempre detto no?” aggiunse. L’amico però sembrò ignorare quell’ammissione ed Erin scoprì un pregio che non immaginava potesse avere: la modestia.
I ragazzi continuarono così a parlottare e strimpellare qualche nota sporadica facendo da sottofondo agli esercizi di genetica di Erin.
Verso le otto, Lysandre disse:
“senti che ne dici se proviamo quella canzone dei Skillet prima di andarcene?”
Don’t wake me? Ok” acconsentì Castiel alzandosi in piedi.
Erin sentì un nodo alla gola. Adorava quel gruppo e conosceva a memoria i loro testi ma quella canzone era così…sua.
Le note si diffusero nella stanza come un profumo che lentamente occupa ogni angolo disponibile. Castiel muoveva le corde con una delicatezza che non riteneva possibile per uno come lui mentre le dita di Lysandre scivolavano elegantemente sui tasti della pianola. Dopo qualche nota, il ragazzo dai capelli chiari cominciò a cantare:
“♪  I went to bed I was thinking about you 
Ain't the same since I'm living without you 
All the memories are getting colder 
All the things that I wanna do over
  “
Con il suo timbro così particolare, Erin ebbe la sensazione che quella canzone fosse ancora più bella dell’originale. Si serrò le labbra perché la tentazione di canticchiarla era troppa.
Went to bed I was thinking about you 
I wanna talk and laugh like we used to 
When I see you in my dreams at night 
It's so real but it's in my mind 

Ecco che stava cantando la parte che più la colpiva di quella canzone. Solo lei sapeva quanto sentisse sue quelle parole.
Don’t wake me
We’re together just you and me
Don’t wake me
Cause we’re happy like we used to be
I due ragazzi erano concentrati: Lysandre guardava la tastiera senza distogliere lo sguardo mentre Castiel teneva il capo abbassato verso la sua chitarra. Sembravano aver dimenticato la presenza della loro unica spettatrice.
Ricordi sconnessi cominciarono ad affollare la mente di Erin: le lacrime di sua madre, le luci dell’ambulanza, zia Pam che l’abbracciava talmente forte dal farle male come se il dolore fisico di quella stretta annullasse quello strazio che le stava lacerando il cuore.
 
Niente sarebbe stato più come prima, nessuno le avrebbe restituito ciò che aveva perso quel giorno.
 
Senza rendersene conto, le labbra di Erin si dischiusero e sottovoce cominciò a cantare anche lei. Le palpebre erano talmente abbassate che gli occhi sembravano chiusi.
it’s like a movie playing over in my head
Don’t wanna look cause I know how it ends ♫”
Per la sorpresa, i due ragazzi mancarono un passaggio ma si ripresero immediatamente. Lysandre smise di cantare ma non di suonare. Guardò Castiel che, come lui, aveva un’espressione strana: un misto di stupore e interesse.
All the words that I said that I wouldn’t say
All the promises I made that I wouldn’t break
It’s last call, last song, last dance
‘Cause I can’t get you back, can’t get a second chance ”.
Erin sembrava non essersi accorta di nulla: cantava immersa nei suoi pensieri, dimenticandosi che in quel momento non era sola nella sua stanza. Sentiva la sua voce ma era concentrata sul significato delle parole, quasi fosse una narrazione che facesse da sottofondo ad immagini che solo lei poteva vedere.
I ragazzi erano rimasti colpiti da quella voce profonda e per certi versi languida che ricordava il timbro di Lana del Rey.
Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Castiel vedeva Erin sotto una luce diversa.
Era talmente affascinato da quella scena che non si accorse dello scintillio che scorreva come una goccia di pioggia rigando le guance della ragazza.
I know I’ve gotta let you go
I don’t wanna wake up ♫”
La canzone era finita.
 
Castiel appoggiò delicatamente le cinque dita sulle corde per fermarne la vibrazione mentre le mani di Lysandre abbandonarono la tastiera su cui avevano danzato negli ultimi tre minuti.
Erin era in uno stato catartico: teneva ancora il capo abbassato e sembrava essersi dimenticata dove fosse. Lysandre si vide costretto a chiamarla per attirare la sua attenzione. Lei sollevò lentamente la testa e fissò i due ragazzi in modo inespressivo, come se loro non potessero vederla:
“stavi cantando” mormorò ancora perplesso Castiel. Solo in quel momento si accorse delle lacrime che le rigavano il viso.
“stai piangendo” osservò per l’appunto Lysandre.
Erin si portò meccanicamente una mano in viso e percepì solo allora quel contatto umido così spiacevole.
Non in pubblico. Si era ripromessa più volte che nessuno l’avrebbe vista piangere.
“non è niente” sussurrò con voce incrinata e senza osare guardare i due ragazzi, si alzò in piedi e cominciò a riporre in borsa, alla rinfusa, i libri e gli appunti.
I ragazzi la fissavano senza capire. Lysandre intercettò l’occhiata dell’amico che però era tanto confuso quanto lui. Per una volta il rosso era rimasto senza parole.
“devo andare” spiegò laconica la ragazza portando la mano sulla maniglia della porta.
“a-aspetta Erin!”
Il fatto che proprio lui, Castiel, l’avesse chiamata per nome, la sorprese tanto da bloccarla. Paradossalmente, in cinque giorni, era la prima volta che lo faceva.
“noi abbiamo finito qua” mormorò il ragazzo “e poi senza le chiavi, non puoi uscire”
“giusto” convenne Lysandre “dacci un minuto per mettere via la roba e usciamo insieme”
Erin annuì in silenzio e aspettò i due musicisti fuori dall’aula. Non sentì nessun commento provenire dall’interno, ma solo il rumore di zip che venivano richiuse e di oggetti appoggiati contro superfici dure.
Rimase lì in piedi, incapace di trovare l’energia per reagire. Ogni volta che quei ricordi si impadronivano di lei, non poteva fare a meno di lasciarsi dominare da essi.  
I due ragazzi uscirono in silenzio e Lysandre fu il primo a parlare:
“ovviamente Erin quello che hai visto stasera deve rimanere tra di noi. Sarebbe un bel guaio se la preside lo venisse a sapere”
Erin annuì passiva e seguì i due verso la porta vicino alla biblioteca.
Castiel estrasse un mazzo di chiavi e lo inserì nella serratura.
Nessuno dei presenti sembrava intenzionato a commentare quanto era appena accaduto.
Una volta all’esterno, Lysandre controllò l’ora:
“visto che sei di strada, accompagna tu Erin a casa” propose all’amico.
“ci vediamo lunedì” lo salutò il rosso sistemandosi la chitarra sulla spalla.
“non vieni domani sera al Black Drop?”
“no, ho altro da fare”
Deluso ma non sorpreso per il fare sbrigativo dell’amico, Lysandre rivolse la sua attenzione ad Erin.
“mi farebbe piacere se volessi venire alle prove anche venerdì prossimo”
Prima che la ragazza avesse il tempo di replicare, Castiel si intromise:
“cosa? Sin da quando è cominciata questa storia abbiamo detto che non sarebbero stati ammessi spettatori!”
“questa regola l’avevo proposta io, ma devo ricordati che l’anno scorso ho fatto un’eccezione proprio per te” replicò asciutto Lysandre. Il rosso lo guardò con serietà. Sapeva perfettamente a cosa si riferiva e non era intenzionato a rinvangare l’argomento.
“quindi stavolta sono io a chiederti di lasciare che Erin venga, tanto ormai l’ha scoperto” concluse la sua arringa l’abile oratore venuto dal periodo vittoriano. 
“fate come volete” borbottò Castiel di malumore incrociando le braccia al petto.
Lysandre spostò il suo sguardo su Erin che a quel punto si sentì libera di parlare:
“verrei volentieri”
“mi fa piacere” e detto questo il ragazzo le prese delicatamente la mano e la sfiorò con le labbra. Erin rimase basita, era ancora troppo poco abituata ai suoi modi galanti. Castiel continuava a fissare entrambi con aria scocciata.
“che c’è? Vuoi un bacetto anche tu Castiel?” lo canzonò Lysandre.
Di tutta risposta l’amico gli voltò le spalle mostrandogli il medio e si diresse verso casa.
“è solo geloso di me, ma gliel’ho detto tante volte che non posso ricambiare il suo amore” confessò con fare teatrale Lysandre portandosi una mano sul cuore.
Erin sorrise ma non quanto il ragazzo avrebbe sperato. Avrebbe davvero voluto vederla andare a casa serena, ma c’erano troppe cose che non sapeva di lei.
Da parte di Castiel invece, che aveva un udito finissimo, arrivò un’imprecazione e poi aggiunse rivolto ad Erin:
“se non ti sbrighi ti lascio qui”
La ragazza ringraziò Lysandre e si affrettò a colmare la distanza che la separava dal rosso.
 
“prendiamo l’autobus” esclamò Castiel in quella che più che una proposta, risuonò come un ordine.
Arrivarono alla fermata in silenzio e il ragazzo controllò l’ora.
“arriverà tra dieci minuti”
“ok” fu la laconica risposta di Erin.
Castiel la scrutò senza farsi notare.
Da quando Erin aveva cantato quella canzone, aveva perso la sua allegria ed energia. Non gli era mai capitato di assistere ad una scena del genere, di vedere una persona così rapita dai propri pensieri. E poi la voce della ragazza era così… magnetica. Non riusciva a darsi una spiegazione ma del resto non se la sentiva ancora di chiederglielo. Erin era seduta sulla panchina e teneva lo sguardo fisso su un punto lontano, totalmente inespressiva. In cuor suo avrebbe voluto provare a consolarla, il suo orgoglio gli impediva di addolcirsi a tal punto. Optò così per la cosa che sapeva fare meglio: provocarla:
“non sei di gran compagnia stasera sai?” commentò nel silenzio della notte.
per una volta che sto zitta non lamentarti” replicò asciutta Erin.
Castiel sorrise divertito. Se non altro era riuscito ad ottenere una reazione.
Le parole che lei stessa aveva pronunciato sortirono un effetto analogo sulla ragazza: senza che riuscisse a trattenersi, sentì i muscoli delle guance contrarsi in un sorriso sghembo.
Castiel, dal canto suo, fece finta di non accorgersene e non aggiunse altro.
 
L’autobus arrivò e una volta saliti i due occuparono posti separati. A parte un lavoratore stanco e una vecchia con un cane, non c’erano altri passeggeri.
Una volta oltrepassata la fabbrica di pneumatici, Erin prenotò la fermata e Castiel si alzò in piedi.
non voglio farti allungare la strada. Io sono praticamente arrivata. La tua fermata qual è?”
“quella dopo”
“beh allora ci salutiamo qua” concluse Erin ma quando le porte si aprirono, il ragazzo scese con lei.
“m-ma ti allunghi la strada di almeno venti minuti!” obiettò Erin.
“no, a piedi posso fare una scorciatoia, non è così lontana casa mia da qua”
“ah ok”
“di preciso dove abiti?” indagò il ragazzo.
“qua vicino” rispose Erin vaga.
questo l’avevo capito. Ma il nome della via”
“kennedy”
“la kennedy? Mica è vicina, stupida!” sbottò il ragazzo.
A quell’insulto Erin scattò.
Non era stupida. Semplicemente non voleva disturbare il ragazzo più del necessario. Era lui lo stupido a non esserci ancora arrivato. Detestava assumere il ruolo della ragazza indifesa che necessita della protezione di un uomo.
“forse perché hai il passo di una tartaruga! Io vado. Ci vediamo lunedì” e alzò i tacchi ma Castiel la seguì.
“dì piuttosto che non mi vuoi tra i piedi”
ma non ero io la stalker?” replicò prontamente Erin.
“cammina va’” borbottò Castiel facendole segno di proseguire.
“non darmi ordini!” reagì Erin.
“se non acceleri, arriverò a casa alle due!”
“non ti ho chiesto io di accompagnarmi!”
“potresti almeno ringraziare allora!” sbottò il ragazzo lasciando Erin di sasso.
Fino a quel momento non se ne era resa conto, ma nonostante i modi scorbutici,  Castiel le stava facendo un favore. E poi, da quando erano rimasti soli, era riuscito a farla reagire e a farle dimenticare i suoi problemi.
Nessuno c’era ancora riuscito.
“grazie” mormorò.
Il ragazzo si voltò sorpreso dal tono della ragazza. Aveva pronunciato quella semplice parola con una tale intensità che arrossì leggermente e, affinché lei non se ne accorgesse, tornò a guardare dritto davanti a sé. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che una persona l’aveva ringraziato di cuore.
Riuscì solo a farfugliare un “figurati” e ricalò il silenzio tra di loro.
La seguì fino al portone d’ingresso del complesso di appartamenti. L’edificio era piuttosto vecchio e, per quanto ne sapeva Castiel, quella zona era poco raccomandabile.
“sono arrivata” commentò Erin volgendo lo sguardo verso l’alto. Il suo appartamento si trovava al terzo piano e notò le luci accese. Erano le otto e mezza ormai.
“te la fai sempre a piedi questa strada?” le chiese d’un tratto.
“e come dovrei farla? Del resto hai visto anche tu quanto dista la fermata”
“questa zona non mi piace”
“mica devi viverci tu” rise Erin “comunque se hai paura a tornare a casa, ti accompagno io”
“vedo che ti è tornata la voglia di scherzare” commentò soddisfatto.
Erin sorrise e si passò la mano sul naso facendo involontariamente una smorfia buffa.
“posso chiederti una cosa? E’ vero che tu e Nathaniel siete stati amici? Perché non mi sembra che ora andiate molto d’accordo”
Castiel fu colto alla sprovvista.
“come mai questa domanda?”
“è una curiosità che mi è venuta parlando con Nathaniel”
“allora vai a chiederlo a lui… anzi no” si corresse “fatti gli affari tuoi”
“lo chiederò a lui allora. Visto che è più gentile di te” replicò Erin facendogli la linguaccia.
Castiel sogghignò:
“se  è così, allora perché non gliel’hai già chiesto?”
“è-è che non c’è stato tempo”
Castiel lasciò cadere l’argomento e cogliendo in Erin un miglioramento dell’umore, le chiese:
 “si può sapere perché piangevi prima?”
Erin abbassò lo sguardo, evidentemente a disagio
“non mi va di parlarne”
“allora siamo in due stasera a non essere in vena di grandi confessioni” tagliò corto Castiel. Immaginava che la ragazza gli avrebbe dato una risposta del genere ma era un pretesto per farle distogliere l’attenzione dalla domanda che gli aveva posto.
Erin si voltò verso il cancello:
“grazie per la compagnia”
Il ragazzo minimizzò alzando le spalle.
“entra che prendi freddo. Siamo a ottobre, mica a luglio”
La ragazza sorrise per quella premura espressa così goffamente. Castiel infatti non la guardava nemmeno in viso e teneva le mani ficcate in fondo alle tasche dei jeans.
“intenti stare qui a presidiare il portone?” lo prese in giro la ragazza.
“me ne vado, me ne vado” borbottò il ragazzo voltandole le spalle.
“ci vediamo lunedì” gli gridò Erin.
Castiel si limitò ad un cenno con la mano, senza voltarsi a guardarla.
“potresti anche salutare come si deve una volta ogni tanto” scherzò la ragazza.
Di tutta risposta, il ragazzo si fermò, si girò di tre quarti e con un sorriso complice esclamò:
“buonanotte Erin” e tornò a camminare per la sua strada.
La ragazza rimase per qualche istante a fissare quella figura che si perdeva nel buio della notte, il cui giubbotto in pelle nera si mimetizzava sempre più con le tenebre.
Quella sera era successa una cosa che mai avrebbe immaginato: lei e Castiel erano diventati amici.
 
SPAZIO DELL’AUTRICE:
Spero di avervi sorpreso con questo capitolo pubblicato in tempo record, ad appena un paio di giorni di distanza dal nono (di solito ci metto una settimana). Il fatto è che tutto sommato si è trattato di un capitolo poco impegnativo, molto incentrato sui dialoghi tra i personaggi piuttosto che sulla descrizione degli eventi.
Era arrivato il momento di far fare un salto di qualità al rapporto Erin-Castiel. Anche se non rinunceranno a punzecchiarsi a vicenda, potremo dire che questo capitolo è l’inizio di una lunga amicizia. Spero che il caratteraccio di Castiel abbia recuperato qualche punto (me lo confermi sabrinacaione?)…
Per quanto riguarda il disegno, devo alienarmi da ogni eventuale merito poiché il disegno non è mio (infatti non porta la firma janisfree, il mio ex account su efp e attuale account su deviant art) ma della mangaka Kaho Miyasaka… io mi sono solo limitata a colorarlo.
Non ho altro da aggiungere. Visto che il capitolo si conclude con l’augurio di buonanotte da parte di Castiel spero che vi siate goduti la lettura sotto le coperte e vi auguro una buona notte anche io ^^)

 
ANTICIPAZIONI DEL CAPITOLO 11:
Dopo il cinema, Iris propone ad Erin di uscire a bere qualcosa. Chi incontreranno tra gli studenti del Dolce Amoris? Comparirà anche un affascinante surfista australiano che mostrerà un evidente interesse per una delle due ragazze… chi sarà la fortunata?
Alla prossima!

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Sabato Sera ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin si intrattiene in sala prove dove Lysandre e Castiel stanno suonando  nonostante quest’ultimo all’inizio non gradisca la sua presenza. Mentre stanno provando una canzone dei Skillet, la ragazza comincia a cantarla senza però accorgersi di nulla. Solo al termine della musica sente le calde lacrime che le hanno rigato le guance. Si serra in un inspiegabile mutismo che lascia perplessi i ragazzi. I tentativi di Lysandre di tirarle su il morale si rivelano poco efficaci.
Il ragazzo la affida a Castiel affinchè la accompagni a casa. Tra i due nasce ben presto una vivace conversazione ed Erin recupera la sua energia e vitalità.
Anche se lei stessa stenta a crederlo, lei e Castiel stanno diventando amici.


 
CAPITOLO 11: SABATO SERA
 
“lo so, sono in ritardo!” urlò Erin spazientita. Nella sua camera era impossibile individuare un angolo libero: magliette sparse sulla scrivania o appoggiate sulla sedia, pantaloni buttati sul letto alla rinfusa, scarpe sparse sul pavimento. Era in piena crisi “non ho nulla da mettermi”.
“se lo sai, allora perché sei ancora in accappatoio?” protestò zia Pam appoggiandosi allo stipite della porta e osservando la nipote. Erano mesi che non vedeva Erin così vitale e la cosa non poteva che farle piacere.
“sto cercando di sbrigarmi, anche se non sembra” si giustificò la ragazza frugando nell’armadio.
Ogni suo tentativo di trovare qualcosa di adatto alla serata stava fallendo miseramente. La zia si era offerta di prestarle qualcosa ma ad Erin era bastata una rapida occhiata al vestito elegante che la donna indossava in quel momento per declinare l’offerta. Come se undici anni di differenza non fossero sufficienti a distanziarle, i gusti raffinati della zia erano del tutto incompatibili con la semplicità di Erin.
Quella sera Pam doveva uscire a cena e per l’occasione indossava un sofisticato abitino blu petrolio. Il vestito le aderiva perfettamente ai fianchi, sottolineando la vita esile e il corpo da modella.
Di fronte a quella visione, Erin non poteva che sentirsi un’anonima formica accanto ad una leggiadra farfalla.
Nel suo guardaroba non c’era nulla che potesse essere adatto ad una serata fuori. D’altro canto però, non sarebbe riuscita a vedersi con un capo femminile o elegante.
Rassegnata, prese un anonimo dolce vita rosso bordeaux e se lo ficcò velocemente addosso.
Iris sarebbe arrivata a momenti ed il film, differentemente dalla sua amica, non sarebbe stato così paziente da aspettarla.
“a che ora è lo spettacolo?”
“alle sette e mezza” borbottò Erin ficcandosi dei jeans morbidi.
“qualcosa di più elegante?” tentò la zia, ma l’occhiata fulminante che le arrivò la fece desistere da ogni tentativo.
DLIN DLON
Il fatidico timer: il campanello. Iris era arrivata ed Erin non era ancora pronta.
puoi farla salire, invece di stare qui a dare consigli di stile?” brontolò la nipote litigando con la zip incastrata.
“agli ordini!” replicò prontamente Pam con allegria. Scese le scale facendo attenzione a non inciampare sui tacchi vertiginosi.
Era incantevole e dallo sguardo soddisfatto che lanciò allo specchio, si capiva che ne era consapevole.
Aprì la porta sfoderando il suo miglior sorriso che però si raggelò all’istante. Anziché trovarsi di fronte la famosa Iris, c’era Jason, il suo innamoratissimo vicino di appartamento.
L’uomo rimase di sasso nell’ammirare la bellezza di Pam e su un primo momento non riuscì ad articolare nessun fonema.  
“oh, sei tu Jason… pensavo fosse un’amica di Erin” esclamò delusa

“s-sono venuto a chiederti se ti va di uscire stasera…” borbottò a disagio l’uomo.
Aveva solo due anni in più di Pam, ma l’abbigliamento da studente del college lo penalizzava particolarmente, conferendogli un’aria infantile e acerba. Per quanto Erin avesse ribadito più volte che, con i vestiti giusti, Jason potesse essere un gran bell’uomo, Pam non lo degnava della sua considerazione. Oltre al look, il povero Jason partiva svantaggiato poiché si era innamorato di una donna che aveva smesso di credere all’amore da un po’ di tempo ormai. Pam non era stupida, ma dava spesso alle persone l’impressione di essere una donna svampita. Il suo fascino e i suoi modi un po’ infantili avevano sempre attirato gli uomini sbagliati che l’avevano illusa e abbandonata, ferendo irrimediabilmente la sua dignità. Ne aveva quindi dedotto una statistica ineccepibile: tutti gli uomini erano dei porci e pertanto se ne teneva a debita distanza.
“stasera?” ripetè Pam come se fosse la parola più strana che avesse mai sentito “mi dispiace, ma ho già un impegno. Devo uscire da qua a dieci minuti” e voltandosi verso l’interno dell’appartamento urlò: “sempre che Erin si sbrighi!”
Jason scrollò leggermente le spalle:
“fa’ niente” e le rivolse un timido sorriso che la donna ricambiò solo per cortesia.
Erano vicini di casa da due anni, e in quell’arco di tempo era solo la terza volta che il ragazzo trovava il coraggio per invitarla. E come le due volte precedenti, anche questa si era rivelata un insuccesso.
Nel frattempo, una deliziosa ragazza dai capelli rossi stava salendo le scale del condominio. Iris guadò con curiosità le due persone che sostavano all’ingresso dell’appartamento.
Pam intercettò quella figura e subito ne approfittò per cambiare argomento:
“sei Iris?”
Iris rimase sorpresa dalla figura elegante della donna che l’aveva salutata. L’amica le aveva detto che sua zia era molto bella, ma aveva omesso di dire che fosse praticamente una dea.
“sì, ho trovato aperto il portoncino giù così sono salita…” si giustificò.
“la gente di questo condominio ha la brutta abitudine di lasciarlo socchiuso” brontolò Pam tra sé e sé “e poi spendono soldi per installare gli allarmi!”
“ah, io l’ho lasciato aperto visto che-“
“nessun problema, tanto tra un po’ scendiamo” la rassicurò Pam addolcendo il tono. Il fatto che alcuni condomini lasciassero socchiuso il portone principale la faceva innervosire. L’edificio si ergeva in una zona di periferia ed era preferibile adottare ogni precauzione per evitare disgrazie, come i ladri che avevano fatto irruzione in un appartamento del condominio accanto quattro mesi prima.
“entra pure. Erin arriva subito… almeno credo” aggiunse con scetticismo.
Jason nel frattempo era rimasto impalato davanti alla porta, indeciso sul come congedarsi. Iris lo salutò con un formale “buonasera” e lui, nonostante stesse parlando una ragazza di almeno dieci anni più giovane di lui, le rispose allo stesso modo.
anche con le ragazzine è un imbranato” pensò tra sé e sé Pam alzando gli occhi al cielo. Poi però sorrise dentro di sé, riflettendo sul fatto che almeno Jason non aveva quell’arroganza che accomunava tutti gli uomini che aveva conosciuto in passato.
“Iris, ci sono!” esordì Erin rotolando giù per le scale. Una volta in salotto, la ragazza afferrò un paio di Converse e in equilibrio su un piede, cercò di calzarle alla velocità della luce.
“ahaha tranquilla. Abbiamo ancora tempo” la rassicurò Iris controllando l’ora sul cellulare.
“la prossima volta Erin andiamo noi a prenderla” puntualizzò Pam chiudendo la porta d’ingresso “anche se sono solo le sette, non è il massimo per una ragazza andare in giro per queste parti”
“non si preoccupi, per strada ho incontrato solo vecchiette” raccontò Iris.
“dammi del tu ti prego! Mi fai sentire vecchia” rise civettuola la giovane zia “comunque visto che devo uscire anche io, vi do un passaggio in macchina fino al cinema. Per il ritorno chiamatemi, mi raccomando!”
“prenderemo l’autobus zia, non abbiamo dieci anni!” protestò Erin.
Pam guardò le ragazze dubbiosa: da un lato la sua anima giovane e spensierata le suggeriva di lasciare loro indipendenza e libertà, ma dall’altro il ruolo di zia adulta e responsabile le imponeva di essere previdente e accorta. Alla fine prevalse lo spirito libero e un po’irresponsabile:
“d’accordo, ma state attente” le ammonì “l’ultimo autobus passa alle undici”
“lo sappiamo” rispose prontamente Erin.
 
Una volta in macchina, l’argomento di conversazione cadde su Jason:
“non si chiede ad una persona di uscire la sera stessa! Un po’ di preavviso no?” stava borbottando Pam.
“ma così ti ha offerto un valido pretesto per rifiutare” osservò Erin “a meno che tu non volessi uscire davvero con lui” aggiunse sorniona.
“non dire stupidaggini! Dico solo che se avesse un minimo di vita sociale saprebbe come comportarsi! E poi uno a trent’anni dovrebbe aver imparato a pettinarsi! Sembra quel tizio dell’anime che guardi tu qualche volta su MTV” disse riferendosi ad Erin
“Gintama?” provò ad indovinare la ragazza.
“sì, una cosa del genere”
“che lavoro fa?” s’intromise Iris.
“non ne ho idea. Non abbiamo mai fatto conversazioni più lunghe di tre minuti e comunque lo incrocio raramente. Penso sia un tecnico informatico…”
“un tecnico? Ma va’! non mi sembra un tecnico informatico!” obiettò Erin “secondo me fa un lavoro molto più interessante”
Pam sbuffò infastidita: ogni volta che toccavano quell’argomento, le saliva l’irritazione.
La verità era che il suo status di single non le piaceva. Era una donna che, ormai sulla soglia dei trent’anni, in cuor suo sognava di sposarsi e costruire una famiglia ma aveva troppa paura delle delusioni. Una delle più grosse l’aveva ricevuta due anni prima, quando, dopo una relazione di sette mesi aveva scoperto che il suo compagno era sposato. In passato poi, in un paio di occasioni, i fidanzati delle sue amiche avevano confessato di essersi innamorati di lei e ciò aveva irrimediabilmente incrinato i rapporti di amicizia e le aveva fatto guadagnare una fama poco lusinghiera. Di fatto Pam era diventata una bellissima donna sola, con poche amicizie, alcune delle quali superficiali e buone solo per uscire la sera.
Sostò davanti all’entrata del cinema e prima di lasciar scendere i due passeggeri, si voltò verso di loro:
“siete sicure che non volete un passaggio dopo?”
“non ce n’è bisogno ma grazie” sorrise Iris mentre Erin afferrava la maniglia.
“mi raccomando allora… e divertitevi” concluse Pam.
La donna, partì sgommando, lasciando le due amiche sul ciglio della strada.
“tua zia è un fenomeno!” esclamò Iris con ammirazione “e poi è molto bella” spingendo la porta di ingresso del cinema.
“sarà, ma a volte si comporta da svampita. Ha quasi trent’anni e ragiona come se ne avesse sedici” sospirò Erin “a volte mi sembra di essere io l’adulta della situazione”
“lo snobba proprio quel Jason” commentò Iris.
“lui le sbava dietro da due anni ormai ma lei non lo caga minimante” spiegò Erin prendendo i biglietti che l’addetto le stava porgendo “popcorn?”
Alla proposta di Erin, Iris annuì ma non si staccarono dal loro argomento di conversazione:
“peccato, perché è davvero caruccio” commentò Iris figurandosi mentalmente Jason.
“vero? Sapessi quante volte gliel’ho detto, ma lei dice che Jason non ha speranze. Neanche con un completo di Armani sembrerebbe un uomo” rispose Erin scimmiottando la zia.
Le due ragazze si accomodarono in posizione centrale, in una postazione sollevata. I posti cominciavano a riempirsi gradualmente e il vocio aumentava sempre più di volume:
“scusa ma perché Violet non viene? Alla fine mica l’ho capito” disse Erin.
“eh” sospirò Iris “Violet è una pantofolaia timidona, è questa la verità. Ogni volta che le ho proposto di uscire mi ha sempre tirato fuori un sacco di scuse, eppure le farebbe bene aprirsi un po’”
“già, ma a proposito, non è che frequenta il club di giardinaggio solo perché ci sei tu che le fai da sostegno?”
“è proprio così, però non voglio forzarla a fare qualcosa che non si sente di fare, anche se sarebbe perfetta per il club di disegno”
“appunto!” puntualizzò Erin con foga.
“un passo alla volta” sorrise Iris “l’anno scorso, che era in prima, la vedevo sempre da sola, così l’ho invitata a pranzare con me e una mia amica che purtroppo si è trasferita tre mesi fa… così quest’anno siamo rimaste noi due, prima che arrivassi tu…secondo me è già un bel passo in avanti che abbia accettato anche la tua compagnia… con Violet dobbiamo andarci con i piedi di piombo”
“forse hai ragione, anche se di solito io sono una che prende le cose di petto”
“visti i guai in cui ti sei cacciata, non posso che essere d’accordo con te!” aggiunse Iris
“ma per fortuna ho il mio braccio destro che mi viene in aiuto… com’era quella dei bulbi? Ah sì… che ti avevo aiutato perché un cane li aveva dissotterrati” rise Erin ripensando alla scusa che Iris aveva rifilato alla Fraun.
“che fossero stati dissotterrati era vero! Però guarda che non potrò sempre farti da avvocato, anche se ti intrattieni nei corridoi per una buona ragione” replicò Iris sorniona.
“e sarebbe?”
“per scambiare effusioni romantiche con uno dei ragazzi più ambiti della scuola”
“ma che dici, scema!” protestò Erin arrossendo e sprofondando nella sua poltroncina.
“ssshhh dai che comincia!”
 
Una volta uscite, le ragazze stavano ancora ridendo per le scene che erano state proiettate:
“e quando lei ha capito che lui non stava parlando della salvaguardia delle balene?”
“ahahahah! Che faccia che ha fatto!”
Continuarono così finché la fredda aria autunnale sferzò i loro visi arrosati. Erano le nove e mezza passate e nessuna delle due aveva tanta fretta di tornare a casa.
“senti che ne dici se andiamo a berci qualcosa? Tanto nessuna delle due deve guidare”
Erin si rabbuiò all’istante. Serrò le labbra verso l’interno e se le mordicchiò nervosamente.
“ho detto qualcosa che non va?” si preoccupò Iris “sei astemia?”
“qualcosa del genere” convenne Erin.
Erano mesi che non toccava l’alcol e il solo pensiero che quel liquido inebriante le scorresse nella gola per poi diffondersi nel sangue la inorridiva. Il fatto poi che Iris avesse fatto cenno alla guida le aveva fatto aumentare i battiti.
“puoi sempre prendere qualcosa di analcolico” le suggerì l’amica “c’è un locale, il Black Drop, dove hanno un bell’assortimento di drink. Ce ne saranno sicuramente di analcoliche”
Erin sorrise grata. L’ultima volta che si era rifiutata di bere, era stata derisa ed etichettata come santarellina: Iris invece non l’aveva giudicata, ma le aveva offerto un compromesso per poter proseguire la serata. Il nome del locale riecheggiò in testa ad Erin: Black Drop. Era il posto che aveva nominato Lysandre la sera precedente.
“andiamoci” acconsentì. Se avesse incontrato il ragazzo, avrebbe potuto scambiare due parole e scusarsi per il suo comportamento in sala prove.
 
Quando fecero il loro ingresso nel locale, Erin apprezzò da subito lo stile, curato in modo da ricordare un vecchio pub irlandese ma anche con tocchi di moderno. Non le sfuggirono nemmeno le occhiate interessanti che un paio di ragazzi avevano lanciato all’amica che per quella sera si era messa in tiro. Anche se, rispetto al look scolastico, Iris di diverso aveva semplicemente una riga di matita viola e del mascara, la ragazza risultava davvero affascinante. Portava la sua amata treccia a lato e sotto il cappotto che si era tolta una volta entrata nel locale, rivelò un paio di jeans attillati e una maglia monospalla.
Si avvicinarono al bancone per ordinare:
“una birra analcolica” chiese Erin.
Un gruppo di ragazze accanto a loro, con in mano degli elaborati cocktail, sorrisero beffarde.
La cosa non sfuggì alle due amiche ed Iris, cogliendo l’imbarazzo di Erin, si affrettò ad aggiungere:
“una anche per me”
Erin la guardò con sorpresa:
“se vuoi bere qualcosa di più forte non farti problemi” la rassicurò guardando di sottecchi il gruppo che le aveva derise.
“naa, stasera preferisco così”
Iris aveva notato che, da quando aveva proposto di andare a bere qualcosa, Erin si era incupita e aveva perso il suo smalto. Quasi non la riconosceva con quell’aria passiva e insicura.
Sentiva che, in quell’occasione, era suo dovere fare la parte della tipa tosta.
Non osava chiederle se c’era qualche problema perché il suo istinto sapeva che non gliel’avrebbe rivelato. Tanto valeva far finta di nulla e cercare di riportare la serata sulla giusta corsia. Iris si guardò attorno per cercare una distrazione che facesse al caso loro, ma le bastarono appena due secondi per individuare quanto di meglio quella serata poteva offrire:
“sai Erin fossi in te non me ne starei tanto concentrata a guardare le decorazioni” disse mettendole una mano sulla spalla “guarda là”.
Erin spostò lo sguardo nella direzione indicata dall’indice di Iris.
Un ragazzo di spalle, alto e con i capelli biondi, stava parlando con un gruppo di persone. Non c’era bisogno che si voltasse per sapere di chi si trattasse.
Quasi Nathaniel avesse percepito la presenza alle sue spalle, si voltò distrattamente e appena i suoi occhi si posarono su Erin, si illuminarono.
Quell’espressione così spontanea e dolce sciolse il cuore della ragazza che dimenticò i brutti pensieri che l’avevano assalita fino a poco prima. Vide il ragazzo scambiare due parole con gli amici che si voltarono nella sua direzione e poi Nathaniel si avvicinò loro.
“ehi, anche voi qui” commentò compiaciuto “siete da sole?”
“sì, prima uscita serale per Erin a Morristown” lo informò Iris felice di vedere il ragazzo. A suo avviso, nessuna persona poteva essere più propedeutica per l’amica in quel momento.
beh allora devo ringraziare te Iris per averla portata qui” le fece l’occhiolino Nathaniel “di là ci sono dei miei amici, alcuni li conoscete già. Volete venire?” disse indicando il gruppo alle sue spalle.
Su tutti, primeggiava l’immagine di Rosalya. Per quell’occasione la ragazza aveva indossato un abito corto che metteva in risalto le lunghe gambe affusolate. Tutti gli uomini presenti nel pub quella sera non avevano potuto fare a meno di astenersi dal lanciarle delle occhiate fugaci. Purtroppo per loro, quella visione celestiale era sempre seguita da un altro ragazzo: Leigh. Erin lo riconobbe all’istante. Anche ad Iris quel volto non era nuovo poiché il ragazzo aveva frequentato il loro liceo fino all’anno precedente.
Tuttavia nessuna delle due aveva mai visto il ragazzo abbronzato che le fissava con curiosità. Aveva dei capelli chiari, raccolti dietro la testa. Sotto la maglia si intuiva un fisico modellato e delle spalle robuste. Nel complesso ricordava un surfista.
“Dake, queste sono Iris e Erin… voi immagino vi conosciate già” disse Nathaniel rivolto alla coppia formata da Rosalya e Leigh.
“di nome sì” convenne Leigh che con Iris non aveva mai parlato prima “mi ricordo che l’anno scorso eri in classe con Jim, Jim Gray”
“sì” confermò la ragazza appigliandosi a quella conoscenza comune.
Dake osservò attentamente le due novità presentate da Nathaniel.
Gli bastò un’occhiata per bocciare Erin.
La ragazza era vestita in modo anonimo e informe, e i lunghi capelli raccolti banalmente contribuivano a conferirle un’aria poco interessante. Inoltre alcuni ciuffi ribelli quasi le nascondevano gli occhi ma alla ragazza sembravano non dar fastidio.
Discorso completamente diverso meritava la sua amica: la ragazza aveva dei brillanti occhi chiari, messi in risalto da un trucco delicato e ben fatto. I livelli di testosterone di Dake però gli impedirono di apprezzare sul subito il viso della ragazza, ma gli fecero concentrare dapprima l’attenzione sulle forme generose che si intuivano sotto i vestiti, nonostante il fisico minuto della ragazza.
“così sei nella scuola di Nath?” disse Dake rivolgendo tutta la sua attenzione sulla rossa.
“sì”
“non mi avevi detto che c’erano ragazze così carine” scherzò il ragazzo in direzione di Nathaniel. Iris abbassò lo sguardo avvampando, mentre Erin fissò il ragazzo leggermente irritata. Non le piacevano i ragazzi che ci provavano subito, senza neanche conoscere la persona che avevano davanti.
 “quanti anni hai?” gli chiese per compensare il silenzio dell’amica.
“ventuno. Sono troppo vecchio per te” aggiunse con un sorriso ammaliante che venne ricambiato da Erin con un’occhiata poco lusinghiera.
“se è per questo lei ed Iris sono coetanee” precisò Leigh intuendo l’interesse del ragazzo per la rossa.
“e che c’entro io?” chiese ingenuamente Iris sulla difensiva.
“hai fatto colpo” le bisbigliò Erin guadagnandosi una fulminata. Una volta tanto era lei nella situazione di poter prendere in giro Iris.
“ho sete. Andiamo a prenderci qualcosa” si lamentò Rosalya trascinandosi dietro il fidanzato. A volte la ragazza era piuttosto infantile ed essendo abituata ad essere l’unica donna in un gruppo di maschi, mal tollerava la presenza delle due ragazze che le aveva rubato la scena. Non aveva nulla contro di loro, ma atteggiarsi da prima donna era uno dei suoi tratti più distintivi.
“Rosa non cambierà mai” rise Nathaniel “è troppo abituata ad essere al centro dell’attenzione”
“fa parte del suo fascino” convenne Dake sorseggiando una birra poi, osservando quella in mano a Iris, le propose:
“posso offrirti qualcosa di più… forte?”
“sono a posto così grazie” replicò la ragazza con un sorriso tirato. Non era abituata a sentirsi rivolgere tutte quelle attenzioni da un ragazzo e aveva appena scoperto che la cosa anziché lusingarla, la metteva a disagio.
“Rosa sa niente di Lysandre? Non doveva venire stasera?” chiese Dake rivolto a Nathaniel. Il ragazzo finì di bere la propria birra e replicò:
“inutile che lo chiedi a me, lo sai”
“come la fate lunga tu e quell’altro! Dicono delle donne, ma voi due siete proprio testardi”
“non è una questione di essere testardi. E comunque non sono cazzi tuoi Dake. È una faccenda che riguarda solo me e Castiel” tagliò corto Nathaniel.
Sentire il ragazzo usare quel tono sorprese sia Iris che Erin. Non era da lui essere così diretto, quando invece era la diplomazia fatta persona. Era strano vederlo in quella nuova veste, ed Erin intuì che qualcosa in lui si era incrinato. Doveva affrettarsi a trovare un altro argomento di conversazione:
“Ambra ti ha parlato del suo primo giorno da bidella della scuola?”
Nathaniel si sorprese per quella domanda che lo distrasse dai cattivi pensieri:
“di preciso no, ma ieri era di pessimo umore per tutto il giorno. A te invece com’è andata?”
Mentre Iris provvedeva ad aggiornare Dake sulle premesse che gli mancavano, Erin illustrò a Nathaniel il suo incidente con il bagno dei maschi omettendo l’ingresso di Castiel.
I ragazzi scoppiarono a ridere e nel frattempo tornò anche Rosalya.
“Lysandre ha detto che non viene più. Stasera si tromba Emmaaa” biascicò ubriaca tenendo in equilibrio precario un cocktail. Il contenuto del bicchiere ondeggiò pericolosamente, fino a traboccare un po’.
Iris ed Erin arrossirono per la volgarità del linguaggio della ragazza. Per camuffare il loro disagio, Iris commentò:
“non sapevo che Lysandre avesse una ragazza”
“non è una ragazza, è una vecchia ahahahah!” rise Rosalya ormai incapace di controllarsi e portandosi il bicchiere alla bocca ma Leigh soggiunse dietro di lei e le bloccò il braccio:
“Rose, hai bevuto anche troppo!”
“no, ma che vuoi? Io bevo quanto mi pare! Sai quanti ne trovo che vogliono offrirmi da bere?”
Leigh la guardò con severità e delusione ma il suo atteggiamento non sortiva l’effetto desiderato. La fidanzata si scolò tutto il contenuto in un colpo solo.
Nathaniel allora le afferrò il bicchiere, glielo strappò dalle mani e lo appoggiò su un tavolino:
“adesso basta Rosalya. Ti stai rendendo ridicola” le disse con una fermezza tale che la ragazza per un attimo acquistò lucidità. Rosalya fissò il biondo con un misto di rammarico e tristezza. Abbassò poi il capo e sentì la mano delicata di Leigh che si appoggiava sul suo braccio.
“noi due usciamo” e il moro la condusse all’esterno.
“quando beve, diventa ingestibile” commentò Nathaniel passandosi la mano sul mento. Quel gesto, per quanto semplice e tipico dei maschi, colpì Erin che lo trovò sexy e affascinante.
“cosa intendeva con –è una vecchia-?” chiese Iris incuriosita.
“perché sta con una di trent’anni” le spiegò Dake lasciando di sasso le due ragazze.
“Lysandre è un toy-boy??” esclamò Erin scioccata. I due ragazzi la guardarono perplessi poi scoppiarono a ridere:
“ahahah! Non l’avevo mai vista sotto questo punto di vista!” commentò divertito Dake.
“Non è un mantenuto! Non sarebbe da lui…” replicò Nathaniel
“invece sì. Tu tendi sempre a pensare bene di tutti. Ti assicuro che lui ci dà dentro, altro che me e te Nath!” aggiunse malizioso.
Il delegato gli lanciò un’occhiata fulminea e guardando Erin le disse:
“che ne dici se usciamo un po’? così vediamo come sta Rosalya”
Erin accettò di buon grado cogliendo però l’espressione di panico negli occhi di Iris. Ora Dake era tutto per lei… o meglio: lei era tutta per Dake.
 
Una volta all’aperto, Nathaniel condusse Erin su delle ampie scalinate in cui erano seduti altri ragazzi.
A poca distanza videro Rosalya con la testa appoggiata alla spalla del fidanzato. Entrambi convennero che non era necessario raggiungerli.
“è da tanto che vi conoscete tu e Dake?” gli chiese Erin.
“da…” Nathaniel ci pensò un attimo poi contò: “quattro anni”
“sembra un surfista”
“è così. Avrai notato l’accento australiano no? È arrivato in California sette anni fa, poi quattro anni fa si è trasferito nel nostro entroterra… però dice che gli manca l’oceano”
Anche se era stata Erin ad intavolare la conversazione in quella direzione, la ragazza non sembrava particolarmente interessata a passare la serata parlando di Dake. C’era un pensiero che la tormentava, e Nathaniel se ne accorse:
“che hai? C’è qualcosa che devo sapere?”
“stavo pensando a tua sorella. Non mi hai più chiesto come è andata dalla preside giovedì” sussurrò Erin. Il giorno prima non aveva osato parlargliene, ma era arrivato il momento di affrontare l’argomento.
“perché lo so già”
Erin lo guardò a disagio. Non riusciva a capire se il ragazzo fosse arrabbiato o meno.
“mi dispiace per aver tradito la tua fiducia ma ho davvero fatto io quello stupido scherzo ad Ambra”. Quando la bionda l’aveva aggredita, il delegato non aveva esitato un secondo ad affermare l’innocenza di Erin anche se, una volta tanto, Ambra non aveva mentito. Si era abbassata al suo livello, con uno scherzo che le era valso una settimana lontana dal club di basket a pulire i locali della scuola. In fondo in fondo però Erin non era del tutto pentita: aveva dato una bella lezione ad Ambra ma il destino aveva voluto che quel demone fosse sorella dell’angelo che ora sedeva accanto a lei.
Il ragazzo percepì tutta l’afflizione di Erin e sorrise dolcemente:
“non preoccuparti, non sono mica arrabbiato con te. E poi conoscendo mia sorella penso che se lo sia meritato”
“davvero non sei arrabbiato?”
“con te mi viene difficile esserlo” ammise il ragazzo e a quelle parole arrossirono entrambi.
 
Nel frattempo Dake cercava di intavolare una conversazione stuzzicando Iris:
“quindi sei del quarto anno? Hai… 18 anni?”
“ne faccio 18 il 18 aprile” puntualizzò la ragazza finendo la propria birra.
“18 aprile… allora sei anche tu dell’Ariete”
“leggi l’oroscopo?” chiese Iris scettica. Non poteva credere che il ragazzo potesse dar peso a quelle baggianate. Dake però era di tutt’altro avviso:
“di solito a voi ragazze queste cose piacciono: io e te amiamo il rischio, la competizione… poi sai… dicono che ci siano differenze a seconda che si tratti di un maschio o di una femmina”  le sussurrò.
“e cioè?” chiese Iris con poco interesse.
“dicono che agli uomini dell’ariete basti poco per accendersi” rispose malizioso, con un chiaro riferimento alla sfera sessuale.
Iris arrossì a disagio ma non si scompose:
“potresti lavorare come lampione allora”
 
Fuori dal locale cominciava a tirare un po’ d’aria. Erin rabbrividì leggermente mentre Nathaniel sembrava non percepire il cambiamento di temperatura.
Vedendo che la ragazza aveva affossato la testa tra le spalle, Nathaniel si tolse la sciarpa che portava al collo e gliela porse:
“tieni”
“ma così prendi freddo!”
“non preoccuparti. Sono abituato a temperature ben più polari di queste”
“e come mai? Grazie comunque” disse Erin sistemandosi la sciarpa. Appena cominciò ad avvolgersela attorno al collo, il profumo di Nathaniel le solleticò il naso. Adorava quell’odore e, facendola sembrare una cosa naturale, immerse la testa il più possibile in quel turbine di sensazioni, nascondendo completamente la bocca. Dalla sciarpa spuntava metà naso di Erin e la ragazza aveva un’aria così dolce e tenera che Nathaniel sorrise.
“mia madre è svedese” spiegò “sono cresciuto in Svezia fino agli otto anni. Anche se ora la mia famiglia vive in pianta stabile in America, torno in Svezia tutti gli anni”
Erin era rimasta sorpresa da quella notizia. Se non altro giustificava l’aspetto così affascinante del ragazzo che era nato dall’unione di due etnie.
“quindi parli svedese”
“Ja”
Di fronte all’espressione perplessa di Erin il ragazzo si affrettò a tradurre “significa sì”
“ooh!” replicò Erin ammirata “piacerebbe un sacco anche a me imparare una seconda lingua, ma sono negata… dimmi una frase in svedese” lo supplicò eccitata.
Nathaniel ci pensò un attimo, poi la guardò di sottecchi e arrossì. Tale sequenza non sfuggì ad Erin che si affrettò a chiedergli:
“cosa c’è?”
“niente… sto pensando a cosa dire…vediamo” disse il ragazzo sollevando gli occhi verso il cielo stellato. Mentre lui pensava a cosa dire (aveva escluso subito frasi didattiche della serie “la penna è sul tavolo”), la ragazza indagava i tratti di quel profilo così armonico ed elegante.
Nathaniel aveva un naso regolare e sottile. I capelli gli ricadevano morbidi sulla fronte e tra i vari ciuffi si intravedevano gli occhi che, sotto i raggi della luna, avevano un colore quasi verde, anche se in realtà erano di un caldo nocciola.
“eftersom du kom, tog kvällen en vändning till det bättre”
Erin rimase impressionata da quell’accento così gutturale e diverso dal suo. Ma nonostante questo la frase pronunciata da Nathaniel, e come l’aveva pronunciata, le era parsa quasi romantica e dolce.
“cosa significa?” chiese curiosa.
Nathaniel rimase in silenzio qualche secondo, poi arrossì lievemente:
“la penna è sul tavolo” mentì.
“tutta ‘sta pappardella per una frase del genere?” chiese Erin sorpresa e Nathaniel annuì divertito.
Se non fosse stato per la sua totale fiducia nel ragazzo, la mora avrebbe insistito per sapere quale fosse il reale significato di quella frase.
A quel punto l’avrebbe sentito ripetere, questa volta in inglese:
“da quando sei arrivata tu, la serata ha preso una piega migliore”
 
Nel frattempo la povera Iris era ancora impegnata a tenere a bada il focoso Dake. Da un lato non vedeva l’ora di raggiungere l’amica all’esterno del pub, ma dall’altro voleva che rimanesse il più possibile in compagnia del delegato. Aveva quindi stabilito di sacrificarsi come un kamikaze in nome di una buona causa. Il problema era che ormai le diventava sempre più difficile trattenere l’impulso di mandare Dake a quel paese.
“sbaglio o hai un accento australiano?”
“non sbagli piccola” rispose senza accorgersi del sopracciglio alzato da Iris: piccola? Decisamente la ragazza non gradiva quel tono.
L’australiano continuava a trangugiare alcol ed Iris non poteva fare a meno di chiedersi come riuscisse a reggerlo tutto.
“sono stupita. Trangugi alcol come fosse acqua” commentò Iris con un tono che Dake scambiò per ammirazione. In realtà il ragazzo cominciava a dare segni di euforia.
“toglimi una curiosità: ce l’hai il ragazzo?” le chiese fissandola con intensità.
“no” rispose Iris con serietà.
Non le piaceva la piega che stava prendendo quel discorso e si prodigò a trovare un modo per aggirare la situazione.
Dake sorrise compiaciuto:
“non sei fatta per stare da sola” le disse avvicinandosi pericolosamente.
“ma neanche per stare con chiunque” sorrise furba, sgattaiolando via verso l’esterno.
Finalmente se ne era liberata. Dake la guardò allontanarsi e aveva una smorfia divertita stampata in faccia. Più la preda era tosta da acchiappare, più la caccia sarebbe stata soddisfacente.
L’occhio gli cadde sul giornale appoggiato sul tavolino. Fatalità proprio la pagina dell’oroscopo era visibile:
 
“ARIETE
Lei: Incontro interessante all’orizzonte ma farete di tutto per celare il vostro gradimento: in amore vince chi fugge.
Lui: Agite, agite, agite. La vostra intraprendenza verrà premiata”

 
Dalla loro posizione, Erin e Nathaniel videro immediatamente Iris che usciva dal locale.
La ragazza si guardò attorno e appena li individuò fece per dirigersi verso di loro ma si bloccò. Guardò la borsa che portava sotto il braccio e cominciò a frugare all’interno finchè ne estrasse il cellulare.
La ragazza sbloccò la schermata e se lo portò all’orecchio. Anche se non potevano udire le parole, la conversazione fu concitata e rapida. Iris passò da un’espressione sorpresa, poi preoccupata ed infine rassegnata. Chiuse la chiamata e raggiunse i due amici:
“mi ha appena chiamato mia madre. Mio fratello Adam è al pronto soccorso. Devo raggiungerli là”
“che cos’è successo?” chiese Erin allarmata.
“appendicite. Si è svegliato mezz’ora  fa con un dolore all’addome. Scusami Erin, ma devo assolutamente raggiungere mia madre. Mio padre non c’è e lei è da sola con Adam…” farfugliò la ragazza preoccupata.
“andiamo subito” esclamò Erin scattando in piedi.
“e come pensate di andarci?” le distrasse Nathaniel “a quest’ora non è una buona idea prendere l’autobus”. Infatti, anche se le due amiche non ci avevano pensato, erano le dieci e tre quarti. Avevano completamente perso la cognizione del tempo.
“ho la macchina. Vi accompagno io” si propose il ragazzo.
Erin sorrise con gratitudine, ormai abituata alla sua gentilezza mentre gli occhi di Iris erano di pura adorazione:
“sul serio? Mi faresti un favore enorme”
“figurati. Datemi solo il tempo di avvertire gli altri che ce ne andiamo” e detto questo il biondo raggiunse Leigh. Mentre i due erano impegnati a parlare, Iris, rivolgendosi all’amica esclamò:
“non fartelo scappare”
“a che ti riferisci?”
“a Nathaniel. Non so dove potresti trovare un altro ragazzo del genere”
“non dire sciocchezze” arrossì Erin.
“sciocchezze un corno. Mi hai mollato là con quel lumacone di Dake per amoreggiare con il tuo principe azzurro”
“lumacone? Ma se Dake è un figo”
“intendo che è troppo appiccicoso e bavoso”
“beh, non posso darti torto. Mi sa che è uno abituato ad ottenere ciò che vuole”
“poco importa, tanto non lo vedrò più” concluse Iris sollevata.
In quel momento Nathaniel stava tornando da loro. Si ficcò la mano destra in tasca e ne tirò fuori un mazzo di chiavi tintinnanti. Le ragazze lo seguirono sul parcheggio sul retro e videro le luci arancioni di una Subaru che lampeggiarono al segnale del suo proprietario. Come aveva intuito Erin, il ragazzo veniva da una famiglia molto benestante, troppo benestante rispetto al suo livello socio-economico.
Iris si accomodò sul sedile posteriore, lasciando ad Erin il posto davanti:
“visto che scendo per prima…” aveva detto.
Nathaniel, avendo diciotto anni, era patentato da un paio d’anni ma da subito dimostrò la sicurezza alla guida di un veterano.
“ma tuo padre Iris dov’è?” le chiese Erin.
“lui è un generale dell’esercito” spiegò apatica.
“un generale?” ripetè sorpreso Nathaniel “quindi è nei posti di comando”
“sì… infatti non è stato molto presente nella nostra vita. Quand’ero più piccola ci trasferivamo di continuo per il suo lavoro e comunque era spesso lontano da casa”
“non dev’essere stato facile per voi…” commentò Erin.
“no... ed è per questo che non sopporto i militari!” esclamò con stizza. Era la prima volta che Erin e Nathaniel sentivano Iris parlare con quel tono “Sono troppo arroganti e insensibili. Non mostrano mai la minima debolezza o tenerezza, neanche verso i loro familiari. E pensare che Adam vuole diventare un ufficiale anche lui”
“suo padre ne sarebbe orgoglioso immagino” osservò Nathaniel.
“è proprio questo il punto. Mio fratello vuole solo attirare le attenzioni di nostro padre. Ma è piccolo, farà in tempo a cambiare idea dieci volte”.
“quanto anni ha tuo fratello?”
“nove”
 
Data l’ora, le strade erano scorrevoli, senza traffico e arrivarono all’ospedale in un batter d’occhio.
“davvero non so come ringraziarvi ragazzi. Mi dispiace per avervi guastato la serata” disse Iris scendendo dalla vettura.
“no anzi. Grazie a te Iris per la compagnia. La settimana prossima si fa il bis” sorrise Erin.
L’amica ricambiò il sorriso e dopo averli ringraziati nuovamente, si precipitò all’interno della struttura ospedaliera.
“fammi sapere!” le aveva urlato Erin prima di vederla sparire.
“vedrai che andrà tutto bene” la rassicurò Nathaniel “anche a me avevano tolto l’appendice anni fa”
“davvero?”
“sì, mi è rimasta la cicatrice a testimonianza se non mi credi”
Erin si immaginò quel taglio obliquo sull’addome scolpito di Nathaniel. In realtà non l’aveva mai visto a torso nudo ma la sua fantasia non poteva fare a meno di immaginare un corpo con la perfezione di una statua greca. Arrossì lievemente, rassicurata dal fatto che il ragazzo non potesse vederla.
“Nath… cioè volevo dire Nathaniel..” si corresse.
“chiamami pure Nath, non mi offendo mica” rise il ragazzo, gratificato dal tono con cui che gli aveva rivolto la ragazza.
“mi è venuto spontaneo” farfugliò Erin in difficoltà. Nemmeno lei sapeva spiegare perché le fosse sfuggito:
“c’è una cosa che vorrei sapere. Ma non vorrei sembrarti invadente…”
“tu chiedi…al limite non ti rispondo” replicò astutamente il ragazzo.
“si tratta della tua amicizia con Castiel. Mi ha incuriosita questa storia”
“cosa vuoi sapere?” il tono secco e freddo con cui il ragazzo aveva ribattuto le raggelò il sangue.
Il semaforo era diventato rosso e il biondo fu costretto a fermare la vettura. Ora che non c’era più nemmeno il rumore di sottofondo del motore, nell’abitacolo cadde il silenzio più completo.
Ormai era fatta. Erin non avrebbe potuto affrontare una seconda volta quell’argomento con lui, tanto valeva andare fino in fondo:
“cosa vi ha allontanati? Cosa è successo?”
Nathaniel tamburellò le dita della mano destra sul cambio. La mascella si era irrigidita e dalla timida occhiata che Erin gli lanciò, lo vide deglutire lentamente.
“se non vuoi dirmelo ti chiedo scusa. Evidentemente devo farmi gli affari miei”
Il biondo si voltò verso di lei e vedendola così mortificata, addolcì il suo sguardo:
“non è questo. È che sto ancora male per questa storia. Eravamo amici da molto tempo. È stato il primo amico che ho avuto quando sono arrivato in America e siamo sempre stati legati fino all’anno scorso”
Il semaforo tornò verde e Nathaniel proseguì la sua corsa:
“siamo quasi arrivati. Mi sa che questa storia la dovrai sentire un’altra volta Erin”
“ma me la racconterai davvero?” chiese speranzosa.
“caspita! Sei proprio curiosa!” rise Nathaniel.
“siete tu e Castiel che fate i preziosi!” protestò lei.
“hai detto che abiti in Kennedy Street giusto?” chiese il ragazzo allungando il collo in avanti “mi sa che siamo arrivati”
“grazie del passaggio”
“figurati. Mica potevo lasciarti tornare a casa da sola a quest’ora”.
A quel punto Erin sapeva di dover scendere. Ma non aveva nessuna intenzione di farlo. Voleva intrattenersi ancora qualche minuto in quella macchina.
“ti manca solo il cavallo bianco e saresti un perfetto cavaliere”
“beh, la mia macchina è bianca”
Erin sorrise:
“è stata una bella serata”
“allora vorrà dire che la prossima volta organizzeremo qualcosa insieme ti va? Anche se immagino che Iris non sarà molto entusiasta all’idea di rivedere Dake”
“ma Dake lo sarà senz’altro di rivedere lei” replicò divertita Erin. Si ripromise di non abbandonare più l’amica nelle grinfie di quella piovra di Dake.
“beh, grazie dal passaggio”
“me l’hai già detto” le ricordò Nathaniel sorridendo.
“giusto”  farfugliò a disagio “allora vado” e raccogliendo quanto più coraggio aveva in corpo, si sporse per dargli un bacio sulla guancia.
Il ragazzo reagì prontamente ma sul mentre Erin ebbe l’impressione che puntasse ad una zona diversa, più centrale.
TOC! TOC!
Qualcuno aveva bussato sul finestrino dalla parte di Erin, facendo sobbalzare i due ragazzi quando i loro visi erano a pochi centimetri di distanza.
Erin recuperò bruscamente la sua posizione mentre Nathaniel sembrava infastidito.
La ragazza guardò fuori dal finestrino e vide Jason, impalato fuori dalla macchina. Aveva sempre nutrito una grande simpatia per l’uomo ma in quel momento avrebbe voluto aprire la portiera di colpo e stenderlo a terra.
Jason dal canto suo sembrava essersi accorto troppo tardi di aver scelto il momento peggiore per attirare la sua attenzione:
“che c’è Jason?” gli chiese Erin cercando di celare la sua delusione.
“tua zia sta male. Mi ha chiamato un mio amico che era con lei. Devo andarla a prendere”
“cos’è successo?” chiese Erin allarmata, scendendo dalla macchina.
“niente di grave. Ha solo bevuto troppo. Bisogna recuperare la macchina visto che lei non è in condizioni di guidarla. Hai la patente giusto?”
“sì” confermò Erin sollevata. Per fortuna non era successo nulla di irreparabile.
“ok, allora vieni con me. Io carico Pam nella mia macchina mentre tu porti a casa la sua. Dovrebbe averla parcheggiata poco lontana dal ristorante”
Erin rimase sorpresa dal tono con cui le si rivolgeva Jason. Dopo l’iniziale smarrimento, l’uomo aveva acquisito l’autorità di un adulto. Quella che Erin aveva sempre sospettato potesse avere.
Nathaniel uscì dalla macchina e fece un cenno di saluto a Jason, poi si rivolse ad Erin:
“hai bisogno di qualcosa?”
“no grazie. È tutto sotto controllo. Andiamo a recuperare una zia che pensa di essere ancora una ragazzina” brontolò Erin.
Jason s’intromise:
“vado a tirar fuori la macchina dal garage” disse.
“devo andare sul serio adesso” sospirò la ragazza rivolgendosi verso il biondo.
“se hai bisogno chiama” insistette Nathaniel “buona notte Erin” e, dopo aver richiuso la portiera, sparì rapidamente da Kennedy Street.
 
SPAZIO DELL’AUTRICE:
Ecco qua quello che, al momento, è il capitolo più lungo. Temo che a seguire ce ne saranno anche di più prolissi perché la storia sta procedendo lentamente e non riesco ad accelerarla… ho troppe idee e fatti da raccontare e questo rallenta di molto lo svolgersi degli eventi.
Devo trovare il tempo di rivedere un po’ lo schema degli eventi (sono tantissimi fidatevi) in modo da avere una traccia più dettagliata sulla base della quale articolare la storia.
Intanto, limitandomi al capitolo appena concluso gli eventi più salienti sono stati: l’ingresso in scena di Jason (già citato nel primo capitolo), la serata Erin-Nathaniel e Dake-Iris. Quest’ultima è sollevata all’idea di non rivederlo più… penserete davvero che le renderò la vita così facile? Alla prossima:)

 
ANTICIPAZIONI CAPITOLO 12:
Cosa succederà dopo che Jason ed Erin avranno recuperato Pam?
Il trio solitario composto da Erin, Iris e Violet si allargherà con l’aggiunta di due nuovi personaggi… chi saranno? La preside avrà una comunicazione importante per il club di basket… di cosa si tratterà?

 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Sotto una nuova luce ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
E’ sabato sera: Erin ed Iris hanno in programma di andare al cinema. Prima di uscire, Jason, il dirimpettaio della zia della protagonista, invita la donna ad uscire ma lei rifiuta perché già impegnata. Quest’ultima rimane di cattivo umore per tutta la serata che invece per le due amiche va a gonfie vele. Decidono di andare a bere qualcosa in un locale chiamato Black Drop dove incontrano Nathaniel e Dake. Quest’ultimo palesa il proprio interesse (non ricambiato) per Iris mentre Erin e Nathaniel hanno la possibilità di stare un po’ da soli. Soggiunge Iris preoccupata: il fratellino è all’ospedale e il segretario si offre di dare un passaggio alle due ragazze. Accompagnando a casa Erin, tra i due c’è un quasi bacio interrotto dall’arrivo di Jason: lo hanno chiamato perché Pam sta male.
 
CAPITOLO 12: SOTTO UNA NUOVA LUCE
 
Twin Towers. L’imponenza dei due edifici gemelli che interrompevano il manto nero del cielo costrinse Erin e Jason a levare il naso all’insù. Si trattava di una coppia di palazzi altissimi in cui erano stati ricavati uffici, negozi e anche centri di ristorazione. La ragazza seguì il suo accompagnatore che scelse l’edificio alla loro destra.
“tua zia è al trentacinquesimo piano” le aveva detto prima di chiamare l’ascensore.
Durante l’ascesa che li avvicinava alle stelle, Jason non aveva distolto lo sguardo dalle porte della gabbia metallica che rappresentava una sorta di prigione momentanea. Più in là con gli anni, Erin avrebbe scoperto che l’uomo era un po’ claustrofobico.
Nonostante la preoccupazione mista a rabbia per il comportamento irresponsabile della zia, Erin non potè fare a meno di gustarsi il panorama notturno offerto da Morristown.
Il traffico cadenzato e regolato dai semafori interrompeva la staticità delle luci dei palazzi. Da quell’altezza, la città sembrava così silenziosa, quasi magica.
“dobbiamo cercare un tizio basso e grassoccio” la informò Jason appena le porte automatizzate lo liberarono da quella prigionia.
“è il tuo amico che ti ha avvertito?”
“sì, chiamiamolo così…” minimizzò sbrigativo.
Appena i due avevano messo piede nel ristorante, il concierge si era mosso nervosamente. Quegli ospiti inattesi non si confacevano alla normale clientela che era abituato ad accogliere.
“i signori desiderano?” aveva chiesto con una finta cortesia. Il modo in cui gli si era parato davanti, ostacolando il loro ingresso nella sala principale, era un chiaro messaggio di ostilità.
“ci hanno chiamato perché mia zia sta male. È Pamela Travis” spiegò Erin avvicinandosi al banco di registrazione. La superficie di granito finemente lucidata le permise di intuire il proprio riflesso.
Il concierge la squadrò con sospetto e si spostò a consultare il libro degli ordini.
“sì è qui” fu la sua inutile conferma.
“ci lascia passare o intendere provvedere lei?” sbottò Jason spazientito. Erin si voltò, turbata da quell’esclamazione, così poco consona al personaggio educato e schivo che era il suo vicino. Notò le folte sopracciglia leggermente aggrottate e gli angoli della bocca piegati verso il basso. Ogni muscolo del suo corpo era contratto in modo da manifestare palesemente la sua trepidante preoccupazione.
“potete andare” replicò l’uomo senza abbandonare la sua compostezza e il senso di disprezzo con cui guardava quelli che a suo avviso, non sarebbero mai potuti essere suoi clienti.
Una volta nella sala, Erin si sentì a disagio in quanto circondata dalla crème della società di Morristown. Il cliente meno elegante aveva solo la cravatta leggermente snodata.
Jason però, complice anche il suo sesso di appartenenza, tendenzialmente poco attento al look, sembrava non dar peso alla situazione: il suo unico obiettivo era recuperare Pam e andarsene.
Fortunatamente due uomini vennero loro incontro: come aveva anticipato Jason, uno dei due era basso e corpulento e fu il primo a parlare.
eccoti qui! Non sapevo chi chiamare visto che l’ho conosciuta appena stasera”
“dov’è ora?” tagliò corto il ragazzo guardandosi attorno con aria furente.
“in bagno con Francis”  il tono dimesso e colpevole del suo interlocutore irritarono ancor di più Jason.
“non potevi dirle di smetterla di bere, prima di ridursi a vomitare nella toilette?” sbottò
“c-ci ho provato”
Il balbettio e l’incapacità di sostenere lo sguardo accusatore che gli era stato lanciato, confermarono la colpevolezza dell’uomo. Sapeva di non aver fatto nulla per tutelare la ragazza ma si era limitato ad assecondare il suo amico mentre le riempiva il bicchiere. Quest’ultimo era un uomo molto avvenente, sulla quarantina che ad Erin ricordò un attore inglese di cui però non conosceva il nome.
“per fortuna che all’inizio della serata è saltato fuori che abbiamo te come conoscenza comune sennò non avrei saputo dove riaccompagnarla a casa” continuava a parlare il tizio tarchiato.
“come ti ho già detto Bob, non era un problema portarmela a casa” lo interruppe il sosia dell’attore. Dopo aver pronunciato quelle parole, scoppiò in una grassa risata che non accennava a voler fermare:
“una del genere me la sarei scopata tutta la sera” aggiunse passandosi il dorso della mano all’angolo della bocca per asciugare un rivolo di saliva.
“questa è sua nipote” scandì Jason a denti stretti indicando Erin. Era il modo più diplomatico che aveva trovato per suggerire all’uomo di darsi un contegno. Quest’ultimo spostò la sua attenzione verso quella che, a suo avviso era solo una ragazzina anonima:
“non le assomiglia per niente” biascicò, facendo abbassare il capo alla ragazza che si sentì a disagio.
“Erin, andiamo a recuperare tua zia?” tagliò corto Jason, frettoloso di liberarsi di quell’individuo così squallido. Aveva i muscoli del collo contratti e sentiva il sangue andargli al cervello.
 
Sulla soglia del bagno, la ragazza si offrì di entrare e l’uomo la aspettò all’esterno, spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro.
Trovò sua zia appoggiata sul water e la sua amica che le teneva di lato i capelli.
Doveva essere Francis. La donna aveva i capelli raccolti in uno chignon da cui alcuni ciuffi ribelli erano scappati via durante la serata. Emanava un forte profumo tanto buono quanto costoso. Squadrò Erin dall’alto in basso, come se la sua condizione fosse comunque migliore di quella della ragazzina che aveva davanti a sé. Non aveva gradito quell’intrusione, finchè Erin non si presentò:
“sono sua nipote”
L’espressione della donna allora mutò radicalmente e la fronte si distese nel più completo sollievo.
“per fortuna sei arrivata! È da mezz’ora che sono qua dentro” si lamentò Francis. Erin ignorò quel commento così egocentrico e aiutò Pam a rimettersi in piedi. La zia biascicò qualcosa di incomprensibile ed Erin si limitò a zittirla. Non sopportava di vederla in quello stato. Appena Francis potè scaricare la zavorra sulla ragazza, si affrettò a lasciare il bagno, con la stessa gratificazione di un carcerato a cui viene concessa un’ora d’aria.
Una volta varcata la soglia, fortunatamente Erin potè contare sull’indiscutibile aiuto di Jason: l’uomo provò a sorreggere Pam prendendola per il braccio che era rimasto vacante di sostegno ma la differenza di altezza tra lui e nipote rese l’operazione piuttosto goffa e difficoltosa.
Si frugò allora nella tasca posteriore dei pantaloni e prese il portafoglio che porse ad Erin:
“occupati tu di saldare il conto di tua zia. Chiedi al ragazzo che ci è venuto incontro quando siamo arrivati cosa ha preso Pam. I soldi dovrebbero bastarti. Io intanto la porto in macchina” e senza lasciare ad Erin il tempo di replicare, Jason prese in braccio Pam che, quasi in stato di incoscienza, non reagì minimamente.
Erin rimase impressionata dalla facilità con cui il ragazzo sorreggeva la zia e lo osservò con ammirazione mentre si dirigeva verso l’ascensore. Non potè fare a meno di notare le occhiate invidiose che alcune clienti dedicarono alla bella addormentata: la donna era, tra le braccia di quello che, presentatosi come uno sguattero, faceva un’uscita di scena da principe.
 
Una volta raggiunti i due adulti, Erin trovò sua zia accomodata sul sedile anteriore, completamente abbandonata a Morfeo. Jason invece teneva in mano la borsetta di Pam e gliela porse:
“ho visto che la macchina è laggiù” le disse indicando un punto a pochi metri di distanza. Erin la individuò e annuì. Frugò nella borsa e, al contatto con il portachiavi a forma di torre Eiffel, estrasse il mazzo di chiavi.
Salutò Jason e si affrettò a recuperare l’automobile.
 
Uscita dalla macchina, Erin si prodigò per facilitare il trasporto della zia che era a carico dell’uomo. Jason infatti aveva insistito per non svegliare la donna e si era preso l’incarico di portarla in braccio fino all’appartamento. Alla nipote non rimaneva che l’onere di antecedere la coppia per aprire le porte.
Guidò il salvatore della zia fino alla sua camera. L’uomo adagiò delicatamente Pam sul letto. La donna cominciava a destarsi e ad articolare frasi sconnesse:
“eh sì… sei venuto anche tu… altro che quel viscido… come una biscia… buone le escargot!”
Erin guardò Jason vergognandosi per il comportamento della zia. Per la prima volta, la ragazza realizzò quanto quella donna sempre così spensierata fosse in realtà fragile e volubile.
Solo vivendoci assieme l’aveva capito.
Sua zia odiava l’alcol, del resto era una costante della famiglia Travis reggere poco l’etanolo. Ma se era arrivata a ridursi in quello stato, i motivi potevano essere due ed entrambi penosi: aveva qualcosa da dimenticare oppure il tizio viscido l’aveva condizionata ad ubriacarsi a scopo moralmente discutibile. Mentre Erin contemplava quella visione così poco nobile della zia, Jason aveva un’espressione dolce e comprensiva che la nipote interpretò per indulgenza.
“beh Erin io vado. Non ti preoccupare ha solo esagerato con l’alcol e si vede che lo regge poco. Comunque se hai bisogno, batti un colpo… in tutti i sensi” aggiunse il dirimpettaio sorridendo.
Erin annuì con gratitudine ma prima che Jason abbandonasse la stanza, quest’ultimo si sentì tirare la maglietta. Sia lui che la ragazza si voltarono sorpresi: Pam si era sporta dal letto e, tenendosi saldamente al lembo che era riuscita a afferrare, mormorò:
“resta”
Aveva un filo di voce e non osava guardare un punto diverso dal pavimento della stanza.
I presenti rimasero di sasso. Erin non aveva mai visto sua zia così triste e depressa.
“m-ma zia!” protestò “Jason ha fatto anche troppo per te. Ti stai comportando da”
“resto. Non è un problema” concluse risoluto il ragazzo, sedendosi sul pavimento con la schiena contro il letto. Gli ci erano voluti meno di tre secondi per decidere il da farsi.
“almeno siediti sul letto” obiettò Erin, sempre più in colpa.
Odiava la fragilità della zia. Che ne era del suo orgoglio femminile? Della sua dignità? Supplicare così un uomo.
Erin non si sarebbe mai abbassata a tanto.
“mi piace stare seduto così. Non preoccuparti per lei Erin. La sua è solo una sbornia triste”
Lo sapeva che non era nulla di preoccupante, del resto lei aveva appena diciassette anni, non era estranea a quel genere di scene. Ma non poteva perdonare sua zia per essersi abbandonata così a tutto e a tutti come se non ci fossero conseguenze delle sue azioni.
“la vuoi una tisana?”. Era l’unica merce di scambio con cui Erin sentiva di poter in qualche modo ripagare la gentilezza di Jason.  
“volentieri” accettò il ragazzo.
 
In cucina Erin frugò nella credenza alla ricerca dei pregiati infusi che l’amico iraniano della zia le aveva portato tre mesi prima.  Prelevò delle foglioline di melissa e mise a bollire l’acqua.
 
Quando finalmente la tisana fu pronta, Erin sbirciò all’interno della stanza. Jason era nella posizione in cui l’aveva lasciato. Sembrava immerso nei suoi pensieri.
“la tisana è pronta” gli sussurrò.
 
Si spostarono in cucina, dove Erin aveva sistemato delle tazze. L’orologio segnava che la mezzanotte era passata e un nuovo giorno era ufficialmente iniziato. La prospettiva che fosse domenica fu l’unica consolazione alla stanchezza della ragazza.
per fortuna che ti ho beccata fuori...” iniziò Jason.
“non so come ringraziarti. Appena la zia si sveglia ti restituirà i soldi”
“non è necessario”
“invece sì! Ha speso esattamente 85,30 dollari. È stupida perché vive al di sopra delle sue possibilità” si sfogò Erin. Pam lavorava come segretaria in uno studio legale ma lo stipendio, seppur sufficiente per pagare l’affitto e i viveri, non era compatibile con gli articoli di lusso e le cene sofisticate che la donna talvolta si concedeva.
“tua zia non è stupida Erin. Semplicemente è insoddisfatta. Magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che lei cerchi disperatamente di colmare il vuoto che sente dentro di sé aggrappandosi ai bisogni materiali. C’è qualcosa di triste nel modo in cui si guarda attorno”
Erin rimase basita. Non poteva credere a quanto aveva sentito.
Jason, quel Jason che lei si era sempre divertita a deridere per i modi impacciati e per l’aria poco sveglia, si era rivelato un uomo di grande sensibilità e intuito. In meno di un’ora, Erin aveva cambiato radicalmente l’opinione su di lui: nel momento del bisogno, il ragazzo aveva dato prova di grande maturità e sicurezza. Il modo in cui aveva soccorso Pam, la dolcezza con cui l’aveva trattata, scalfirono la corazza dura di Erin, che era sempre stata disgustata da quelle attenzioni e premure maschili che sottolineavano la vulnerabilità delle donne.
Per la prima volta, desiderò incontrare una persona che riuscisse a capirla come Jason aveva capito sua zia. Una persona tra le cui braccia potesse sentirsi rassicurata e protetta.
“le farebbe bene cambiare un po’ aria. O provare qualche attività, che so, un corso di cucina per esempio, per evadere dalla routine” continuava a parlare Jason.
“quello le farebbe bene senz’altro perché è una pessima cuoca!” ribattè Erin deliziata da quella conversazione. Nonostante la stanchezza e il sonno che, come un nemico silenzioso, stava tessendo la sua trappola, la ragazza non voleva abbandonare quella tavola.
Jason rimase in silenzio guardando Erin con uno sguardo talmente dolce che le ricordò Nathaniel.
“che c’è?” gli chiese arrossendo
“te l’hanno mai detto che tu e Pam avete lo stesso sorriso?”
Erin avvampò ancora di più. Nessuno si era mai azzardato a trovare una qualche somiglianza tra lei e la zia. Pam era bellissima. Erin no. Punto.
La ragazza si grattò la guancia, chiedendosi quanto ci fosse di vero in quel complimento mentre Jason si alzava per riporre la propria tazza nell’acquaio.
“tua zia sta dormendo profondamente. Io non ho altro da fare qui. Grazie per la tisana, mi sa che sta sortendo il suo effetto” aggiunge Jason trattenendo uno sbadiglio.
Erin avrebbe voluto chiacchierare ancora, bearsi della compagnia di una persona così piacevole ma fu costretta ad assecondare la volontà dell’ospite.
Lo accompagnò alla porta e non la chiuse finché non fu lui ad entrare nel proprio appartamento sparendo dalla vista della ragazza.
 
Una volta richiusasi la porta alle spalle, Erin diede un’ultima occhiata alla zia. Anche se era scomposta, con i capelli che le scendevano disordinatamente sul viso, Pam era molto bella.
Erin passò davanti allo specchio del soggiorno e provò a sorridere. Non riuscì a cogliere la somiglianza tra la smorfia che vide riflessa e il sorriso radioso della zia.
Tornò in cucina dove recuperò il cellulare. Sulla schermata apparve un messaggio di Iris:

“mio fratello è stato operato. Ora sta bene. Grazie ancora per il passaggio e per la serata :)”

Il messaggio risaliva a pochi minuti prima. Cercò il numero dell’amica e la chiamò.
Dopo qualche secondo, Iris rispose:
“ehi, pensavo fossi già a nanna”
“è una storia lunga, ti racconto domani. Allora? Adam tutto bene?”
“sì sì. Adesso avrà cinque giorni di degenza poi lo rispediscono a casa”
“mi fa piacere. Tu sei ancora là in ospedale?”
“in realtà no, sto andando a recuperare la macchina al parcheggio per tornare a casa. Mia madre passerà la notte qui e nella fretta, non si è portata nulla per il nostro piccolo paziente”
“beh allora sarà meglio se ci salutiamo. Mi bastava sapere che è tutto ok”
“non pensarla di cavartela così furbetta. Domani mi devi raccontare di Nath!” brontolò allegra Iris.
Anche se Erin non poteva vederla, non faceva fatica ad immaginare il sorrisetto divertito dell’amica dall’altro capo del telefono.
 
Il lunedì successivo la testa di Erin non poteva fare a meno di ciondolare ad ogni sobbalzo del bus, incapace di opporre una minima resistenza al moto del mezzo. La ragazza aveva troppo sonno per tenere gli occhi aperti.  
Gli eventi degli ultimi giorni cominciarono ad affollare la sua mente e la ragazza fu costretta a mettere un po’ d’ordine.
Dopo quel sabato notte così turbolento, la domenica successiva sua zia era in uno stato pietoso: vagava per la casa come un zombie, massaggiandosi continuamente le tempie nel vano tentativo di trovare sollievo al mal di testa.
Quando Erin le aveva accennato agli eventi della sera prima, Pam era caduta dalle nuvole. Per quanto si sforzasse di ricordare, aveva solo ricordi annebbiati e immagini sfuocate. Tra queste, il profilo di Jason e la sensazione di essere sollevata dal suolo. Ad Erin tuttavia non aveva riferito di ricordare anche l’odore del suo cavaliere e di quanto quella percezione la avesse rassicurata.  
Dopo un pranzo fugace e misero, per non  sforzare uno stomaco già provato dall’alcol, Pam aveva passato la giornata distesa sul divano a guardare la TV. Era la prima volta che Erin la vedeva così silenziosa e assorta nei propri pensieri. In due occasioni la zia le aveva chiesto notizie di Jason, ma la nipote non si era rivelata una grande informatrice.
“va a suonare da lui così vedi se è in casa” le aveva risposto con semplicità prima di cercare il numero di Iris nella rubrica del cellulare. L’amica del resto era ancora ignara degli avvenimenti della sera prima e meritava di veder colmata questa sua lacuna.
“tornerà a casa per pranzo no?”
“non è detto. Forse aveva dei programmi per oggi, del resto è domenica” aveva replicato Erin dopo aver avvicinato il telefono all’orecchio.
Mentre era impegnata nella conversazione, Pam udì dei passi in corridoio seguiti da voci familiari:
“ce ne fossero ancora di giovani come te Jason..” stava dicendo Miss Plum, la vecchietta che viveva sul loro stesso piano. Tra zia e nipote ci fu uno scambio di sguardi immediati.
“eheh, si figuri, sono di strada” aveva risposto cordiale l’uomo.
A quelle parole, che valsero come uno sparo in una gara di velocità, Pam scattò in piedi con l’agilità di una gazzella. Il movimento fu talmente rapido che non si accorse che Erin aveva qualcosa da farle presente.
Aprì quindi la porta con foga, esclamando il nome di quella persona che aveva occupato i suoi pensieri nelle ultime ore:
“Jason!”
Sia Miss Plum che il diretto interessato avevano sussultato. In sincrono, dopo aver individuato la fonte di quell’esclamazione, avevano abbassato lo sguardo verso le gambe nude di Pam che, nella foga del momento, aveva dimenticato che stava girando per casa con una maglietta che, per quanto lunga, le copriva a malapena il sedere.
Jason, più per rispetto verso Pam che per celare il suo imbarazzo, aveva distolto lo sguardo, trovando improvvisamente un interesse smodato per i pulsanti dell’ascensore. La vecchietta invece le aveva lanciato un’occhiata di disapprovazione.
Non appena Pam aveva realizzato quale fosse la causa di quella reazione, si era affrettata ad abbassare il più possibile i lembi della maglietta, tendendola al punto che la stoffa rischiava di cedere in un rovinoso strappo.
Sentiva che la testa cominciava a girarle sia per la rapidità con cui era passata da una posizione supina ad eretta, sia per i postumi della sera prima così si era appoggiata allo stipite della porta:
“scusate…” borbottò confusa.
Jason aveva salutato Miss Plum che, senza rinunciare a quell’occhiata carica di disapprovazione verso Pam, era entrata nel suo appartamento. Non faceva mistero della scarsa stima che riponeva nella sua giovane vicina, a suo avviso disinibita e frivola. Aveva avuto un ricambio di uomini che l’anziana giudicava inaccettabile quanto le dimensioni microscopiche dei vestiti che Pam talvolta indossava la sera. Evidentemente di quel fisico mozzafiato serviva a compensare la mancanza di materia grigia. Anche se Pam non immaginava quanto Miss Plum la disprezzasse, non era così stupida da non essersi accorta del modo in cui la donna le si rivolgeva e pertanto cercava di interagire con l’anziana vicina il meno possibile.
Mentre Miss Plum si stava chiudendo la porta alle spalle, la ragazza aveva provveduto a recuperare il trench appeso all’entrata per darsi un aspetto più decoroso. Mettendo da parte il forte disagio che le aveva seccato la gola, cominciò:
“Erin mi ha detto di ieri sera. Mi dispiace di averti creato tutti quei problemi”  
Jason era tornato a prestarle attenzione. Le palpebre erano leggermente abbassate e la pelle sembrava meno luminosa.  Dava l’impressione di essere un po’ debilitato, conferma che arrivò dal profondo sospiro di stanchezza:
“stai bene?” aveva indagato Pam incerta.
“sì tutto ok. Ho solo avuto una giornata pesante, niente di che. Tu, piuttosto… va meglio?” le aveva risposto schivo, recuperando le chiavi del proprio appartamento.
“sì grazie. Grazie davvero… puoi aspettare un secondo che recupero i soldi?”
“non serve Pam”
“ma scherzi? Non esiste che dopo tutto quello che hai fatto ci rimetti pure!” aveva protestato la zia. In quel momento Erin, incuriosita dalla conversazione, si era avvicinata alla soglia stando attenta a non farsi vedere dai due. La conversazione con Iris era appena terminata. Aveva solo omesso il “quasi bacio” con Nathaniel ma per il resto aveva esaurito il racconto sull’avventura della zia. Non poteva immaginare che già ci fossero nell’aria nuovi sviluppi da riferire.
“sul serio non serve. Considerala la cena che avrei voluto offrirti ieri”.
Il sorriso triste dell’uomo spiazzò Pam che rimase con la bocca socchiusa incapace di replicare  
“Ora scusami ma sono proprio stanco. Buona giornata” e detto questo il ragazzo, dopo l’ennesimo sorriso gentile, si era richiuso la porta alle spalle.
Pam era rimasta sulla soglia a fissare la porta che era appena stata chiusa. Quelle parole l’avevano ferita, facendola sentire piccola piccola. I modi di Jason erano stati di una brutale gentilezza che le avevano ferito l’anima con una carezza.
“Considerala la cena che avrei voluto offrirti ieri”
Non poteva trovare formula migliore per congedarsi da lei e concedersi un’uscita di scena in grande stile.
 
 “e secondo te perché si è comportato così?” le chiese Iris al termine della cronaca.
Fortunatamente per Erin il suo viaggio in bus smetteva di essere una corsa in solitario non appena arrivava alla fermata dell’amica. Quando quest’ultima era salita, Erin si era destata dal suo torpore e si era affrettata ad aggiornarla sulle ultime novità.
“semplice: ha aperto gli occhi su mia zia. Lui l’ha sempre idealizzata invece sabato notte si è reso conto che è solo una donna infantile e fragile. Ne è rimasto deluso e quindi ora prende le distanze da lei”
“però non mi sembra che tua zia abbia gradito la sua reazione, anche se ti ha sempre detto che lui non era il suo tipo” osservò Iris.
“penso si siano invertite le parti: ora lei sta cominciando a capire che lui poteva essere quello giusto mentre lui ha capito che mia zia è una donna tanto imperfetta e dbole”
“sei un po’ dura con tua zia Erin” puntualizzò Iris con una certa nota di biasimo. Sapeva che l’amica, preferiva esprimere le sue opinioni senza mezzi termini, ma Iris ritenne eccessiva l’asprezza con cui giudicava la zia.
“dico solo le cose come stanno” replicò asciutta la ragazza mentre scendevano dal mezzo.
 
La prima ora di lezione con il professor Condor non passava mai. Erin ne approfittò per concordare con il suo vicino di banco, nonché compagno di ricerca di scienze, un giorno per svolgere il progetto assegnato esattamente una settimana prima.
Incredibilmente il ragazzo si era presentato alla lezione (che normalmente saltava) e anche se Erin avrebbe voluto indagare sulla causa di quella conversione mistica a studente responsabile, aveva altre priorità.  
Dopo una breve discussione, avevano optato per il sabato pomeriggio a casa di Erin.
Una volta venuto meno l’argomento di conversazione, Castiel si concentrò sulla composizione di uno spartito dal titolo “Two chairs” mentre Erin, in mancanza di un’attività con cui far passare il tempo, allungava l’occhio ogni tanto:
“non puoi trovarti qualcosa da fare invece di star lì a fissare quello che faccio io?” aveva sbottato dopo un po’ il ragazzo. All’inizio aveva cercato di ignorare quelle occhiate accompagnate dalle buffe smorfie della ragazza finchè non aveva realizzato che il suo obiettivo era proprio attirare la sua attenzione, tanto era annoiata.
“hai qualche attività da suggermi?” replicò Erin tediata.
“prendi appunti così poi me li passi” suggerì il rosso tornando al suo lavoro.
“scordatelo” ribattè perentoria ma dopo qualche secondo si corresse “comunque non hai tutti i torti. Mi metto a far schemi dal libro visto che Condor manco sa di cosa sta parlando”
Castiel si sentì sollevato nel poter tornare a lavorare al suo spartito ma dopo un po’ fu proprio lui a deconcentrare la vicina:
“bella scrittura” borbottò con ammirazione.
Erin sollevò la testa meccanicamente, fulminandolo con lo sguardo. Era un dato di fatto che la sua scrittura fosse pessima per cui colse immediatamente del sarcasmo in quelle parole.
“pensa alla tua” lo rimbeccò
“no dico sul serio” insistette il ragazzo con sincerità.
A quel punto la ragazza dapprima lo fissò perplessa poi borbottò:
“non posso credere che il primo complimento che mi fai sia una bugia”
“a me piace”
Erin non lo guardava, ma continuava a tenere gli occhi fissi sul foglio sotto di sé. In qualche modo sperava di ravvisare un qualche motivo per cui il ragazzo potesse apprezzare quella calligrafia così poco chiara. Anche se non ci riuscì, stava quasi per illudersi che le parole di Castiel fossero sincere che questo aggiunse, con un sorriso invitante
“ci studierei quasi volentieri su quegli appunti”
Erin trattene una risata nervosa. Ecco dove voleva andare a parare.
“pensi davvero che ti presterò questi schemi per un misero complimento, palesemente falso?”
“se vuoi qualcosa di più, possiamo parlarne” ribattè prontamente Castiel allargando le braccia in segno della più completa disponibilità.
La replica di Erin fu un dito medio alzato.
Certe volte quella era l’unica risposta alle provocazioni del ragazzo.  
 
Appena la lezione terminò, Kim si alzò agile come un gatto per evadere dall’aula. Detestava stare seduta troppo tempo e, a meno di non essere impegnata in un ripasso disperato in vista di un’interrogazione, era una delle prime ad abbandonare la classe.
“non così in fretta signorina!”
La voce stridula della preside la fece arrestare di colpo. La vecchietta le si era parata davanti impedendole di avanzare ulteriormente.
Tutti gli studenti della 4^ C sapevano (e anche Erin l’avrebbe imparato) che quando la preside si presentava personalmente in aula, allora o c’era qualcosa di grosso oppure qualcosa che non andava, o entrambi. A confermare quel “topos procedurale” furono le parole e il tono di rimprovero in cui vennero pronunciate.
“Sedetevi tutti. Vi ruberò solo due minuti anche perché non lascerò spazio a repliche. Mi è giunta voce del vostro comportamento indecoroso alla piscina comunale la settimana scorsa. Pertanto per questa classe le lezioni in piscina sono annullate e tornerete a fare lezione in palestra come è sempre stato”
Si levarono borbottii di protesta ai quali ovviamente non si aggiunse Kim. Non poteva aspettarsi niente di meglio.  
Come aveva assicurato all’inizio della comunicazione, la preside non diede la possibilità agli studenti di difendere le proprie ragioni.
“vi è stata data un’opportunità e ve la siete giocata male. Del resto non è la prima volta che questa classe viene segnalata per problemi disciplinari. Che vi serva da lezione. Al vostro posto andranno due classi della professoressa McGuire”
La donna non aggiunse altro. Si limitò a girare i tacchi lasciandosi alle spalle un crescendo di lamentele che sfociarono in qualche parolaccia e commenti poco lusinghieri alla sua persona.
 
Durante l’ora successiva, Miss Joplin fece il suo ingresso, puntuale come sempre. Quel giorno aveva i capelli raccolti in uno chignon che le sottolineava il collo lungo ed elegante.
Quella era l’ora che Erin attendeva con più trepidazione, non solo perché adorava quell’insegnante ma anche l’argomento che stavano trattando: la genetica mendeliana.
Erin frugò nella borsa, dapprima con calma ma poi i suoi movimenti diventarono frenetici e affannosi. Per quanto spostasse su e giù il contenuto, non riusciva a trovare ciò che stava cercando:
“l’hai preso tu il mio quaderno di biologia?” si voltò minacciosa verso Castiel.
Il ragazzo,che in quel momento era impegnato a parlare con Trevor, seduto davanti a lui, scrollò le spalle.
“merda! Forse l’ho lasciato al club di musica venerdì!” ipotizzò Erin guardando il compagno di banco che, in tutta risposta la fulminò.
Castiel se lo sentiva che la goffaggine di Erin avrebbe in qualche modo fatto trapelare l’esistenza dei suoi venerdì sera clandestini al liceo. Era proprio per questo che non aveva gradito che la ragazza lo avesse scoperto. La domanda da parte di Trevor intanto era sorta spontanea:
“e tu che ci facevi là venerdì?”
Erin aprì la bocca per parlare, alla ricerca disperata di una scusa valida, ma fortunatamente il suo affanno fu sedato all’istante poiché Miss Joplin richiamò l’attenzione della classe, Trevor compreso:
“correggiamo gli esercizi che vi ho dato la settimana scorsa…” e a cominciò a scrutare tra gli sguardi schivi dei suo studenti alla ricerca della sua vittima:
“Erin! Vuoi cominciare tu?” le disse con un sorriso incoraggiante. La ragazza, poiché ancora assorta nei suoi pensieri, era l’unica in classe che non aveva abbassato il capo. Questo atteggiamento era stato interpretato dall’insegnate come una manifestazione di sicurezza e intraprendenza.
Purtroppo la donna aveva equivocato completamente la situazione ed Erin era tutto fuorchè preparata.  Era agitata, nervosa e a disagio: non se la sentiva di ammettere di non avere il materiale poiché Miss Jopin le piaceva molto. Sapeva che quella semplice mancanza l’avrebbe delusa e l’avrebbe fatta dubitare della sua serietà e responsabilità come studentessa.
“passami il quaderno” bisbigliò a Castiel e, senza aspettare risposta dal rosso, lo fece scivolare di scatto sul proprio banco, approfittando di una distrazione dell’insegnante.
Il ragazzo non oppose la minima resistenza ma si limitò a guardare divertito Erin che realizzò troppo tardi quanto poco le sarebbe servito l’oggetto che aveva sequestrato al legittimo proprietario.
Su quel quaderno, infatti, nessun esercizio era stato svolto.
“non li hai fatti!” sussurrò arrabbiata voltandosi verso il ragazzo.
“e ti sorprendi pure” commentò lui tranquillo ammirandosi le unghie.
“allora Erin cominciamo?” la incalzò la Joplin.
La ragazza sospirò e annuì. Ci avrebbe provato.
“leggi il testo dell’esercizio” la esortò l’insegnante appoggiandosi alla cattedra e incrociando le braccia al petto.
“nel primo albero ginecologico-”
La classe scoppiò a ridere.
Erin realizzò la stupidaggine che aveva letto dal quaderno di Castiel che si era unito al resto della classe nella risata collettiva.
genealogico” si corresse prontamente “hai una scrittura di merda” bisbigliò in direzione di Castiel.
Inutile dire che quell’offesa gli scivolò via come una saponetta sul marmo.
“individuare la modalità di trasmissione della malattia. Dunque… io ho pensato che…” esordì Erin cercando di prendere tempo “dal momento che madri affette hanno sempre figli maschi affetti mentre i maschi malati…non hanno mai figli  affetti, dovrebbe trattarsi di un carattere legato all’X”
“molto bene” confermò Miss Joplin annuendo con convinzione mentre tra i banchi si levava qualche vocio:
“ah io pensavo fosse autosomica. Tu cosa avevi messo?”
“io l’ho sparata a caso”
Miss Joplin zittì il brusio tra due studenti e tornò a concentrarsi su Erin.
“e credo sia dominante perché una persona affetta ha almeno un genitore affetto” concluse la ragazza sperando in una conferma.
“tutto giusto. È chiaro per tutti?”
Arrivarono cenni di assenso, così la professoressa esortò Erin a fare anche l’esercizio successivo. La ragazza lo eseguì in modo eccellente come il primo, anche se molti compagni di classe ammisero di non essere riusciti a risolverlo.
Infine mancava solo il terzo esercizio.
Nello scorrere il testo Erin fu assalita dal panico. Dei due precedenti aveva un vago ricordo, ma quello non l’aveva certo risolto venerdì, quando si era messa a farei compiti mentre Castiel e Lysandre suonavano. Avrebbe dovuto improvvisare un ragionamento che si preannunciava più complesso dei primi due.
“prof quello dei fiori era impossibile da fare!” s’intromise Sonia, una ragazza grassoccia e alla sua protesta si aggiunsero cenni d’assenso da parte dei compagni.
Erin nel frattempo continuava a macchinare. Poteva nascondersi anche lei dietro la scusa di non essere stata in grado di risolverlo, ma forse non era necessario.
Castiel nel frattempo la scrutava con la coda dell’occhio, incuriosito dalla piega che avrebbero preso gli eventi.
Non l’avrebbe mai ammesso, ma se c’era un motivo per cui la sua presenza in classe nell’ultima settimana era stata più assidua, quel motivo era proprio seduto accanto a lui.
“nessuno è riuscito a farlo?” chiese Miss Joplin sinceramente sorpresa. Era quel tipo di insegnante che riponeva grande fiducia nell’intelligenza dei suoi studenti che solleticava con quesiti talvolta un po’ troppo impegnativi per la loro preparazione scolastica.
Sulla base delle lezioni che avevano fatto fino a quel momento sapeva che non sarebbe stato semplice per loro arrivare alla corretta conclusione, ma sperava che almeno qualcuno avesse provato ad avanzare un’ipotesi.  
“io lo so prof!” s’intromise Ambra, soffocando all’istante la delusione della professoressa. Ambra era una delle sue studentesse migliori, se non la più brava. Questo almeno prima dell’arrivo di Erin che in meno di una settimana aveva dimostrato che quanto a ragionamento e intelligenza, non le era seconda. Conoscendo Ambra e la stima che la ragazza nutriva per lei come insegnate, Miss Joplin non faticò a immaginare quanto la bionda studentessa lottasse per mantenere il ruolo di prima della classe nella sua materia. Lasciò quindi che la ragazza illustrasse la sua spiegazione, ascoltandola con attenzione e aspettativa:
“dunque abbiamo un fiore rosso che viene incrociato con un fiore bianco. Nascono fiori rosa. Questo perché la generazione parentale è omozigote dominante rispettivamente per l’allele “rosso” e per l’allele “bianco”. La progenie F1 avrà quindi un allele rosso e un allele bianco che combinati danno rosa” concluse soddisfatta la bionda. Dalla classe si levarono cenni d’ammirazione e d’assenso. Il ragionamento filava.
Erin però aveva corrugato la fronte, non convinta e tale espressione non sfuggì a Castiel. Il ragazzo sorrise divertito aspettando il momento in cui Miss Joplin avrebbe colto anch’essa quell’espressione; la professoressa nel frattempo era impegnata in un dibattito con Ambra:
“quindi la tua teoria Ambra è che venga prodotto un pigmento di colore bianco e uno di colore rosso che negli eterozigoti si combinino a dare come risultato il rosa”
“esattamente come succede quando si mescolano i colori a tempera” spiegò la bionda con orgoglio. La sua presunzione e sicurezza erano tali da impedirle di accorgersi che la professoressa non condivideva quella tesi. La donna spostò finalmente il suo sguardo su Erin, la cui espressione contrariata era rimasta congelata dopo la spiegazione della compagna di classe:
“sei d’accordo con Ambra, Erin?”
A parte il fatto che ad una domanda del genere Erin avrebbe risposto no per principio, a prescindere dal contesto, la ragazza aveva una spiegazione diversa. Miss Joplin aveva capito che non poteva essere diversamente, ma aveva posto la domanda come se non se ne fosse accorta. Intanto Erin aveva cominciato ad esporre la sua tesi:
“non credo che il fiore bianco produca un pigmento bianco. Piuttosto mi verrebbe da pensare quello che Ambra chiama “allele bianco” in realtà sia un allele non funzionante. I fiori bianchi sono tali perché non producono nessun pigmento. Quindi i fiori eterozigoti della popolazione F1 avranno cellule che, rispetto alle rosse parentali, esprimono la metà del pigmento totale … e quindi appariranno più sbiadite cioè rosa”
La classe rimase in silenzio aspettando che la professoressa, che il quel momento sembrava l’arbitro di un incontro di pugilato, decretasse la vincitrice.
Miss Joplin sorrise in direzione di Erin:
“complimenti Erin. È esattamente come dici tu”
La bocca dell’insegnate era distesa in un sorriso carico di compiacimento e soddisfazione. Non si era sbagliata sul conto di quella ragazza.
I compagni si scambiarono occhiate di ammirazione e stupore mentre Erin restituiva il quaderno a Castiel. Questa volta però non passò inosservata e Miss Joplin pretese immediatamente una spiegazione. Erin rimase in silenzio ma dopo l’ennesima esortazione dell’insegnante fu costretta a confessare:
“la verità è che ho dimenticato il quaderno” si giustificò. Sentiva di dover guardare in faccia Miss Joplin e non poté non notare la rapidità con la quale la donna era passata da un’espressione di stima alla più completa delusione:
“quindi gli esercizi li ha risolti Castiel” dedusse Miss Joplin mal celando una certa perplessità. Spostò lo sguardo verso lo studente più svogliato della sua classe chiedendosi se non ne avesse sottovalutato le doti. Il ragazzo, dal canto suo, sembrava disinteressato all’attenzione che gli era dedicata in quel momento mentre Erin si sentiva in trappola: o rivelava che Castiel non aveva fatto i compiti o gli lasciava prendersi ogni merito. Del resto non era colpa del ragazzo se lei aveva perso il quaderno.
“ah, io non ci ho nemmeno provato. Ha risolto tutto a mente”
Erin si voltò sorpresa verso il compagno di banco che aveva appena parlato.
Una volta tanto, la sua strafottenza le risultò persino affascinante. Evidentemente aveva sopravvalutato l’importanza che Castiel poteva dare alla sua reputazione scolastica, o per lo meno non era l’immagine dello studente in gamba quella che voleva dare.
“davvero l’hai risolto adesso su due piedi?” chiese conferma Miss Joplin, tornando a concentrarsi su Erin. La donna, anziché essere offesa, dimostrava di essere sorpresa. Piacevolmente sorpresa
Erin annuì e la donna si limitò ad un cenno di soddisfazione. Senza aggiungere altro, Miss Joplin aggirò la cattedra, tornando ad occupare il posto che le spettava come insegnante e aprì il libro pronta a spiegare un nuovo argomento.
 
“avessi visto Violet come ci siamo rimasti tutti” stava raccontando Iris all’amica artista.  
L’immancabile trio era seduto al solito posto per pranzare, abitudine che ormai, a distanza di una settimana dall’arrivo di Erin al Dolce Amoris, era ormai assodata.
“non esagerare Iris” minimizzò Erin, arrossendo lievemente.
“nessuno era riuscito a farlo quell’esercizio e tu l’hai risolto in quattro secondi!” puntualizzò l’amica con ammirazione “Ambra che è sempre stata la più brava l’ha addirittura sbagliato!”.
“sei portata per la genetica Erin” commentò dolcemente Violet.
“se ci sono portata non lo so, ma mi piace molto” ammise Erin “vorrei solo sapere che fine ha fatto il mio quaderno. Prima sono tornata al club di musica ma non c’era più” disse sconsolata.
“tranquilla, ti presto i miei appunti della scorsa settimana” la tranquillizzò Iris.
“non credo sarà necessario”
Le tre ragazze si voltarono verso un’unica direzione, trovandosi di fronte uno dei ragazzi più eccentrici e affascinanti dell’istituto. I capelli chiari riflettevano la luce solare che li rendeva ancor più brillanti e argentei.
“Lysandre!” esclamò Erin contenta. L’occhio le cadde immediatamente sull’oggetto che il ragazzo teneva tra le mani:
“è il mio quaderno!”
“l’hai lasciato venerdì al club di musica ma dopo averlo preso mi sono dimenticato di rendertelo” spiegò il ragazzo porgendoglielo.
Erin afferrò il quaderno, sperando che né Iris né Violet facessero domande sul perchè l’oggetto fosse stato smarrito al club di musica.
“grazie. Vuoi pranzare con noi?”
Lysandre sorrise gentilmente e replicò:
“volentieri” però anziché sedersi accanto alle ragazze sulla scalinata, si appoggiò su una sorta di muretto ad un metro da loro.
“Lysandre, ti presento Iris che è in classe con me, e lei invece è Violet”
“molto piacere” rispose il ragazzo ricambiando gli sguardi timidi delle due ragazze con un’espressione carica di fascino e carisma.
In particolare fu Violet a calamitare l’interesse del ragazzo: l’artista infatti, dopo aver consumato un fugace pranzo, stava dedicando quell’intervallo di tempo al suo amato album da disegno. Quando Lysandre aveva interrotto la loro tranquillità, la ragazza aveva smesso di disegnare, imbarazzata dalla presenza di un estraneo. Lei aveva difficoltà a concentrarsi sul proprio lavoro quando era tra persone che non fossero quelle con cui aveva più confidenza. La sua scarsa autostima e l’abbondante insicurezza la rendevano particolarmente vulnerabile alle critiche, anche a quelle più neutrali.
Tutto questo Lysandre non lo sapeva ancora così, staccatosi dal muretto, si sporse a sbirciare l’oggetto che Violet teneva appoggiato sulle gambe.
Istintivamente l’artista si affannò a proteggere fisicamente la sua opera, sollevando verticalmente l’album in modo da precludere la vista del disegno.
“n-n-no è ancora finito” balbettò arrossendo.
“non posso vederlo lo stesso?” patteggiò il ragazzo. Quegli occhi così magnetici e particolari inchiodarono sul posto Erin ed Iris. Nessuna di loro avrebbe saputo dire di no in quel momento.
Violet invece, che a mala pena era riuscita a guardarlo in faccia, teneva il capo chino e sbirciava incerta il soggetto ritratto.
Era raffigurata una ragazza dai lunghi capelli corvini che si intrecciavano con l’intricata meccanica di un macchinario alle sue spalle che sembrava tessere quelle ciocche. La ragazza era in una posizione poco consona ad una donna: era seduta al contrario su una sedia con le gambe a cavalcioni. Gli arti superiori erano lassamente appoggiati allo schienale e la colonna vertebrale era curva ad assecondare quella posizione.
“da quello che ho intravisto, sembra interessante” insistette Lysandre. Quella confessione fu sufficiente a convincere l’artista circa l’inutilità di continuare a proteggere la sua opera.
Girò lentamente il foglio, mostrandolo ai presenti.
“è molto bello. Mi piace lo steampunk” commentò il ragazzo compiaciuto.
“davvero?” chiese Violet speranzosa e gratificata.
“beh guardami” replicò il ragazzo indicando il suo abbigliamento. Tutto ciò che fosse in qualche maniera ricollegato all’epoca vittoriana lo affascinava incredibilmente.
“sei nel club di disegno quindi?”
“no, in quello di giardinaggio”
Lysandre cercò lo sguardo delle altre due ragazze presenti che ricambiarono la sua espressione perplessa con una leggera scrollata di spalle e un sorriso rassegnato.
“è un peccato. Ho visto le opere degli studenti di quel club e ti assicuro che non hai niente di  meno di loro” commentò il ragazzo.
“grazie” replicò commossa Violet.
In quel momento, sentirono una vibrazione e Lysandre estrasse il cellulare.
Il contrasto tra l’aggeggio tecnologico che teneva in mano e i suoi abiti era così lampante e stridente quanto può esserlo l’immagine del Dalai Lama con una camicia hawaiana; il ragazzo digitò freneticamente sullo schermo e se lo ripose in tasca.
Istintivamente Erin pensò ad Emma, la donna con cui il ragazzo aveva una relazione. Lei stessa l’aveva definito un toy boy quando l’aveva scoperto. La cosa l’aveva un po’ scioccata, soprattutto perché nella sfera delle relazioni personali si sentiva ancora troppo immatura e infantile rispetto ai suoi coetanei.
“tu Lysandre invece in che club sei?” gli chiese Iris.
Quello fu il La per l’inizio di una conversazione piacevole, dove persino la timidezza di Violet trovò il suo ruolo. Lysandre era un abile oratore, calamitando su di se l’attenzione ma capendo anche quando fosse giusto concederla alle sue interlocutrici. Il suo modo di parlare, così calmo ed educato, era ammaliante. Dopo un po’ Violet, incoraggiata dai presenti, ritornò al lavoro abituandosi gradualmente alla presenza di Lysandre mentre disegnava.
 
L’armonia che si era instaurata tuttavia non era destinata a perdurare:
“eccoti finalmente!”
Il tono di voce, lievemente scazzato poteva appartenere ad una sola persona: Castiel. Il rosso avanzava con passo sgraziato e baldanzoso.
“che ci fai qui?” gli chiese rivolto verso l’amico dai capelli argentei.
“sono venuto a restituire ad Erin il suo quaderno”
“è la prima volta che sei tu a trovare qualcosa che qualcuno ha perso” commentò Castiel, sedendosi sopra il muretto e accendendosi una sigaretta. L’accendino tardò un po’ a passare dalle misere scintille alla fiamma continua.  
“ogni scusa mi è buona per venire a trovare Erin” commentò malizioso Lysandre anche se i presenti colsero la vena scherzosa con cui parlava.
“comunque impara a scrivere Castiel: leggere i tuoi messaggi è un insulto alla lingua inglese”
“perché?” commentò Erin divertita.
“oh, lo scoprirai quando avrai la disgrazia di ricevere un suo messaggio”
“non è folpa mia. È ella merda di corretoe aufomafico” si giustificò Castiel a bocca piena
“a proposito Castiel… dobbiamo scambiarci i numeri” disse Erin cercando di richiamare la sua attenzione
“finalmente me l’hai chiesto eh Rapunzel?” replicò gonfiandosi come un galletto nel pollaio e passandosi la mano tra i capelli, in un gesto caricaturalmente vanitoso.
“non montarti la testa. È per il lavoro di scienze” lo smontò Erin.
Castiel ricambiò lo sguardo severo della ragazza con un’occhiata di disapprovazione.
“allora se devi rompermi per questo, non te lo do” tagliò corto.
“nessun problema Erin. Te lo do io” tagliò corto Lysandre mentre l’amico opponeva una inutile resistenza a quell’invasione della sua privacy. Del resto alla fine avrebbe dato il suo contatto alla compagna di classe, ma voleva solo divertirsi un po’ a tormentarla.
Erin nel frattempo aspettava che Lysandre ricacciasse fuori il telefono per scorrere la rubrica ma il ragazzo non fece nulla di tutto ciò; fissava Erin aspettandosi che fosse lei a dimostrarsi pronta a memorizzare il numero.
568 666 912” recitò a memoria il ragazzo lasciando basiti i presenti.
“lo sai a memoria” commentò Iris sorpresa mentre Castiel lo guardava perplesso.
“non so perché ma è l’unico numero che riesco a ricordare” ammise Lysandre con fare metadibondo “chissà, forse nel mio inconscio sono attratto da te” aggiunse serio rivolgendo un’occhiata all’amico che rabbrividì all’istante.
Le ragazze scoppiarono a ridere, prendendo la battuta per quello che valeva mentre il rosso, permaloso fino al midollo, non tollerò quella presa in giro e rispose con un insulto.
“pensavo di vederti al Black Drop sabato” disse Erin rivolgendosi a Lysandre.
“ci sei andata? Allora avrai trovato mia sorella” la informò il ragazzo. Erin assunse un’espressione interrogativa poi spostò la sua attenzione su Iris che non sembrava condividere la sua perplessità:
“ma sì Erin. Non ti ricordi che abbiamo incontrato Rosalya?”
Erin sgranò gli occhi.
“tu e Rosalya siete fratelli?” esclamò in direzione del ragazzo.
“perché ti sorprendi? Eppure tanti dicono che ci somigliamo” commentò Lysandre perplesso, portandosi una mano sotto il mento.
Poiché era l’unica ad essere rimasta sorpresa dalla notizia, la ragazza commentò:
“ero l’unica a non saperlo?”
“sei l’unica che è in questa scuola da una settimana” fu la sagace puntualizzazione di Violet.
“giusto” concordò Lysandre.
Castiel si frugò nelle tasche, controllando l’ora sullo schermo del cellulare:
“ehi, Rapunzel. Dobbiamo andare”
Le ragazze lo guardarono confuse e perplesse, mentre Lysandre era perso a contemplare il profilo definito di un albero ormai priva della sua chioma.
“ti ricordo che non posso venire al club. Sono in punizione” gli ricordò Erin amareggiata.
“lo so. Ma venendo qui prima ho incrociato la preside e mi ha detto di dirti di passare prima in palestra. Ha qualcosa da dire a tutta la squadra”
“di che si tratta?” chiese Iris con curiosità. Violet, che nonostante l’arrivo di Castiel, aveva proseguito a disegnare, fu costretta a interrompersi e seguire meno passivamente quello scambio di battute  (del resto il rosso non aveva manifestato il minimo interesse verso di lei che si era così sentita libera di proseguire indisturbata).
Alla domanda di Iris, Castiel aveva scrollato le spalle:
“non ne ho idea”
 
Quando Erin e Castiel varcarono la soglia della palestra, trovarono tutta la squadra riunita. La presenza di Erin fu sufficiente a strappare qualche sorriso e cenni di saluto più cordiali della sorta di muggiti afoni che i maschi si scambiavano tra di loro.
Nessuno sapeva con precisione cosa volesse da loro la preside, e ciò dava spazio ad ipotesi poco rassicuranti:
“che abbia scoperto che abbiamo rotto noi il rubinetto dello spogliatoio?” si chiese Trevor con una certa apprensione. Normalmente il ragazzo non dava troppo peso alle conseguenze delle sue (sconsiderate) azioni e nella maggior parte dei casi tendeva a minimizzarle. In quel caso però, il fatto di dover fronteggiare la preside lo rendeva nervoso.
“noi?” sottolineò Matt, uno del quinto anno “semmai TU HAI rotto”
 
Come in un film dell’orrore, dopo che si era creata una certa suspense, la maniglia si abbassò lentamente, cigolando.
La preside fece il suo ingresso in palestra tenendo in mano dei fogli.
I ragazzi si ricomposero all’istante: chi era seduto sul pavimento si alzò in piedi mentre altri come Castiel che si erano messi a tirare a canestro per ingannare l’attesa abbandonarono la loro attività.
“bene, mi pare ci siate tutti” commentò la preside contandoli uno per uno, soffermandosi in particolare su Erin.
“veniamo al dunque. Mi è arrivata questa mattina una comunicazione. Per la prima volta è stato organizzato un campionato scolastico nazionale di basket…”
A quelle parole, gli atleti cominciarono a gasarsi.
Dajan aveva gli occhi che mandavano scintille mentre Trevor saltellò nervosamente sul posto.
Patrick cominciò a sfregarsi le mani in trepidazione mentre altri come Matt si limitarono a versi di eccitazione.
Erin scrutò l’espressione di Castiel. Ricordava quello sguardo: glielo aveva letto in faccia durante la loro sfida della settimana prima. Il rosso fissava la preside ma non era veramente concentrato sulla donna.
Poche cose riuscivano ad eccitarlo e coinvolgerlo e la competizione era sicuramente una di queste.
“…come potete quindi immaginare, si tratta di un evento importante. L’iscrizione è aperta a tutte le scuole dello stato che abbiano un club di basket che abbia vinto almeno tre competizioni a livello statale negli ultimi cinque anni. Fortunatamente” e nel dire queste parole la bocca della preside si distese in un largo sorriso d’orgoglio “la squadra del nostro liceo, con le sue sette vittorie negli ultimi cinque anni, è più che qualificata per parteciparvi”.
 “e parteciperemo!” esclamò Trevor con l’entusiasmo che in quel momento era comune tra tutti i presenti.
“mi fa piacere che siate così entusiasti. Anche perché il primo premio non è affatto male: si tratta di un viaggio a Berlino di una settimana per tutta la squadra”
“andremo in Spagna?!” esultò Patrick guadagnandosi una terribile occhiata dalla vecchietta.
“veda di vincere allora signor Reeve: così almeno imparerà dove si trova Berlino” lo rimproverò la preside, irritata da quell’ignoranza.
Patrick si voltò verso Trevor che scosse la testa, sconcertato dalla carenza del compagno di squadra.
“glielo vuole dire lei così almeno vediamo di recuperare questa vergognosa lacuna?” lo esortò la preside intercettando l’occhiata.
Trevor però, che era uno specialista nel cercare di camuffare la propria impreparazione scolastica, in realtà manco lui aveva idea di dove fosse Berlino. Fissò la preside e sollevando leggermente le spalle, sparò a caso:
“è in Russia?”
La donna si portò la mano alla fronte e sospirò, incapace di arrabbiarsi. Sapeva di aver di fronte alcuni tra gli studenti i cui risultati scolastici era discutibili e per questo conosceva i nomi della maggior parte dei presenti. Del resto però si trattava di ragazzi con una grande prestanza fisica che, negli ultimi anni, erano riusciti a risollevare la reputazione del club di basket del liceo, ottenendo ottimi risultati nelle competizioni interne.
Tutto sommato, era davvero orgogliosa di loro anche se avrebbe voluto che si applicassero altrettanto nello studio.
“è in Germania, nel centro Europa. Comunque… in aggiunta al viaggio ci sarà un assegno per la scuola vincitrice pari a cinquantamila dollari”
“e per i secondi e terzi?” chiese Matt.
“per i secondi classificati l’assegno sarà di ventimila dollari e un viaggio di una settimana a Toronto e per i terzi un assegno di dieci mila dollari e una vacanza alle Bahamas”
“quando cominceranno le partite?” tagliò corto Castiel. Era totalmente disinteressato dal valore dei premi.
“dunque, dovrebbero cominciare l’anno prossimo, a fine febbraio e si concluderanno a fine marzo. Avete circa quattro mesi di tempo per prepararvi adeguatamente anche perché…”
La preside si zittì e tornò a parlare appena fu sicura di aver calamitato completamente l’attenzione dei presenti:
“hanno imposto una regola alla quale non si può trasgredire. La squadra deve essere mista”
“e che problema c’è? Siamo a posto con Erin in squadra” obiettò Dajan.
“punto primo: la signorina Travis non può limitarsi a stare in panchina. Deve giocare”
A quelle parole i ragazzi sbiancarono. Le loro espressioni, fino a pochi secondi prima sicure e determinate, caddero nel panico più totale. Tutti ricordavano la pessima figura che Erin aveva fatto durante la sfida con Castiel appena una settimana prima. Era sì entrata nel club ma il suo ruolo come giocatrice non era previsto. Ora invece si pretendeva che scendesse in campo… e vista l’eloquente occhiata che la preside aveva lanciato alla squadra, la donna dimostrò di essere al corrente delle discutibili capacità della ragazza in quello sport.
“punto secondo: Erin non basta…nella squadra ci devono essere almeno due ragazze e hanno imposto che ad ogni partita almeno una sia presente in campo”
I ragazzi rimasero ancora più basiti. Non solo era loro richiesto il miracolo di trasformare Erin in una cestista accettabile, ma dovevano anche cercare un’altra ragazza in cui ripetere quella magia. Durante i provini degli anni precedenti, nessuna delle poche aspiranti aveva dimostrato di poter uguagliare la preparazione atletica dei ragazzi e l’atteggiamento duro e arrogante di Castiel in primis aveva scoraggiato molte altre dall’idea di tentare l’accesso al club. Tutto ciò aveva agito come la falce della selezione naturale, selezionando accuratamente una squadra molto forte ma al contempo rischiava di precludere la partecipazione di quei ragazzi all’evento scolastico più importante dell’anno.
“m-ma come faremo? Dovremo trovare un’altra studentessa?” balbettò sconfitto Trevor.
“proprio così. E vi consiglio di darvi una mossa perché la scuola ha bisogno di quei soldi” concluse la preside.
Aveva pronunciato quelle parole con un tono quasi minaccioso che ad Erin ricordò quello di un mafioso italoamericano. La donna aveva aspettative molto, forse troppo, alte vista la portata dell’evento.
I ragazzi ancora non potevano immaginarlo, ma quella donnina così piccola e avanti con gli anni, era più eccitata di loro all’idea di vedere la squadra della sua scuola in una competizione nazionale: già si immaginava sugli spalti a tifare. Non poteva fare a meno di gongolare immaginando le finanze della scuola rimpolpate dal sostanzioso assegno del primo premio.
 
 
 
Nota dell’autrice:
Questo è un periodo un po’ full per me quindi per le prossime settimane non posso assicurare che riuscirò a mettere fuori i capitoli a cadenza settimanale :-( Altra cosa che mi dispiace è non aver più allegato disegni. Il fatto è che gli ultimi che ho realizzato erano piuttosto deludenti, anche perché fatti in mancanza di tempo e sinceramente il mio senso critico mi impedisce di pubblicare qualcosa che non mi piace. Ormai quelli che ho caricato li lascio, ma in futuro mi sono ripromessa di mettere solo quelli di cui sono, almeno in parte, soddisfatta.

Veniamo ora al capitolo: come avete letto, nella mia storia Lysandre è fratello di Rosalya e non di Leigh. Il fatto è che, sarà perché sono appena all’episodio 12, ma tra i due ragazzi non ho mai immaginato quel feeling che mi aspetto tra due fratelli così ho preferito optare per Rosalya che graficamente assomiglia un po' a Lysandre (per lo meno per il colore dei capelli e gli occhi).
Spero di aver accontentato _nuvola rossa 95_ e Manu_Green8 mettendo Castiel in questo capitolo ;-) in effetti è un personaggio che aggiunge un po’ di pepe alla personalità di Erin che altrimenti a fianco di Nathaniel dimostra il suo lato più dolce e femminile.
Oggi niente anticipazioni sul prossimo capitolo perché sono ancora in alto mare -.-‘’. Però come potete facilmente immaginare sarà incentrato sulla ricerca di una nuova ragazza per il club di basket…. A questo punto allora sono aperte le scommesse: secondo voi chi sarà? Si accetta un’ipotesi a testa XD Giusto per depistarvi, può essere o non essere un personaggio del gioco che non è ancora entrato in scena ;-) Sono curiosa di sentire su chi puntate, se non altro per capire quanto posso essere prevedibile XD
Alla prossima!
 
P.S. _nuvola rossa 95_ in bocca al lupo per la maturità ;-)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Due contro due ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
Dopo aver recuperato Pam da una rovinosa serata, Jason ed Erin la riportano al suo appartamento dove la donna, resa quasi incosciente dall’alcol, supplica il ragazzo di rimanere con lei. Il giorno successivo, Pam cerca di scusarsi con il vicino,  ma Jason si dimostra piuttosto sbrigativo e distaccato. Proprio quando la donna sta cominciando a vederlo sotto una nuova luce, Jason sembra volersi allontanare da lei.
Il lunedì successivo, Erin sorprende la classe durante l’ora di biologia, risolvendo brillantemente degli esercizi.
Prima di tornare alla sua punizione pomeridiana, viene convocata dalla preside in palestra con tutta la squadra di basket: la scuola parteciperà ad un torneo di pallacanestro a livello nazionale.
 
 
CAPITOLO 13: DUE CONTRO DUE
 
Prima di congedarsi definitivamente dalla squadra, la preside si era voltata verso Erin. Teneva gli occhi fissi sulla ragazza e la scrutò attentamente.
“signorina Travis. In virtù dell’eccezionalità dell’evento…” Erin trattenne il fiato, incrociando le dita dietro la schiena. Quell’incipit era molto promettente: le avrebbe tolto la punizione per permetterle di cominciare gli allenamenti
“… non pensi che la sua punizione sia annullata” proferì con autorità, spingendo Erin nel baratro della delusione “come da accordi, continuerà ad offrire il suo servizio alla scuola fino a giovedì, e poi potrà unirsi alla squadra” e dopo aver augurato “buon lavoro” si congedò dai suoi studenti.
 
Erano quasi a fine ottobre e le cinque del pomeriggio sembravano le sette di sera.
Erin abbandonò la propria schiena contro un pilastro all’entrata, vicino al cancello.
Era distrutta.
Tom le aveva prosciugato ogni pensiero felice come avrebbe fatto un Mangiamorte.  Nelle ultime tre ore avevano pulito aule che, nonostante fosse appena il primo giorno della settimana, erano già in condizioni indecenti. Come se ciò non bastasse, aveva fatto da sponda tra il magazzino e i locali della scuola per rifornirli del necessario almeno cinque volte, tre delle quali si erano rivelati viaggi a vuoto per colpa della demenza senile di Tom. Senza contare poi la pulizia dei bagni.
Erin si sentiva uno straccio. Poco prima che la campanella annunciasse la fine della sua prigionia, aveva incrociato Ambra; la bionda era impeccabile: i morbidi capelli erano raccolti in una coda e nemmeno un ciuffo era sfuggito da quella morsa. Le unghie, splendidamente laccate, non davano segno della minima sbeccatura, come se la ragazza avesse passato le ultime tre ore a contare le nuvole in cielo.
Del resto, era troppo prevedibile che Ambra non avrebbe rispettato i termini della punizione che le era stata inflitta. Quando Tom aveva inviato Erin da Patty, la donna che aveva il compito di sorvegliare Ambra, la scena che le si era presentata davanti agli occhi era quasi ridicola: la bionda teneva in mano uno straccio con due dita e con quello sfiorava la superficie di un tavolo.
“hai imparato a pulire così guardando Biancaneve?” la canzonò Erin.
Ambra si era voltata e l’aveva squadrata dall’alto in basso:
“e tu che ci fai qui?”
“Tom ha detto di chiedervi se avete altri stracci”
Prima che Patty avesse il tempo di rispondere, Ambra aveva replicato:
“potresti usare la maglietta vista la dozzinalità del tessuto di cui è fatta”  
Erin inspirò profondamente, storse la bocca alla ricerca di qualche argomento con cui renderle pan per focaccia.
“vedete di darci un taglio voi due… o volete che la punizione venga prolungata?” le minacciò Patty. Probabilmente in quella stanza era la persona a cui più di tutte pesava quella mansione. Da quando la preside le aveva affidato Ambra, rincasava di malumore e con un leggero mal di testa.
Erin si guardò la maglietta. Era vero, il tessuto era piuttosto scadente ma non era tanto ciò a preoccuparla. Estrasse l cellulare dalla tasca dei jeans e cercò di intuire il suo riflesso dallo schermo nero. Quel poco che vide non le piacque: aveva un aspetto orrendo. Stava aspettando una persona che era sempre impeccabile e accanto a lei si sarebbe sentita in netta inferiorità, come un barbone accanto a un regnante europeo. Nathaniel del resto aveva passato tutto il suo tempo in sala delegati, comodamente seduto dietro una scrivania e non aveva le mani che puzzavano da detergente per i bagni. 
Nell’arco di dieci minuti, Erin si era vista passare davanti amici e conoscenti che le avevano rivolto un saluto comprensivo e solidale. Il suo aspetto doveva essere davvero terribile se tutti l’avevano guardata come un caso umano. Tutti tranne Castiel che, passandole davanti aveva borbottato:
“ti manca solo una cassetta per le offerte”
Erin si era limitata ad allungare la gamba destra e il ragazzo, troppo preso per deriderla, non se ne era accorto ed era inciampato, rischiando di cadere a terra.
Si era voltato verso di lei con gli occhi ridotti a due fessure e la ragazza si era limitata ad un’infantile e buffa linguaccia. Il rosso era non aveva saputo trattenere una risatina divertita che aveva contagiato anche Erin. Anche se non volevano ancora ammetterlo, tra di loro si stava creando una sorta di complicità e amicizia che raramente si riscontra tra persone di sesso opposto.
 
Alle cinque e venti, Erin sentì un dolce tocco sfiorarle la spalla e rabbrividì immaginandosi chi ne fosse l’artefice.
 “stavo perdendo le speranze!” esclamò sollevata.
“a volte esco anche più tardi” rispose il ragazzo, come se la ragazza dovesse sentirsi fortunata per un’attesa che si sarebbe potuta prolungare.
“ma io speravo che avresti accorciato i tempi visto che ti aspettavo”. Nel suo commento non voleva esserci nessuna malizia ma dall’occhiata un po’ contrariata che ricevette dal volto che faceva capolino dietro Nathaniel, Erin si sentì a disagio. Melody, della cui presenza si era accorta solo in quel momento, la stava osservando.
“ciao Melody”
La ragazza ricambiò educatamente il saluto e si congedò dal biondo:
“io vado Nathaniel. Ci vediamo domani”
Erin la guardò allontanarsi rimanendo in silenzio. La settimana prima aveva parlato con quella ragazza solo una volta ma si era dimostrata gentile e disponibile nei suoi confronti. In quell’occasione invece, l’aveva trattata con freddezza e distacco. Non le sembrava di averla offesa o di essere stata scortese con lei. Ci fu una sola ipotesi che le attraversò la mente e che uscì dalla bocca:
“Melody è innamorata di te?”
Quella domanda, pronunciata con una sorta di ingenuità spiazzò Nathaniel che reagì arrossendo lievemente.
“non mi risulta. Perché me lo chiedi?”
“non so… ho avuto l’impressione che fosse… gelosa”
Nathaniel si ricompose e lanciò un’occhiata maliziosa ad Erin:
“perché ha qualcosa di cui ingelosirsi?”
La ragazza non seppe cosa rispondere e si limitò a distogliere lo sguardo dal ragazzo. Non si erano più parlati dopo che lui l’aveva riaccompagnata a casa e si chiese se il loro “saluto interrotto” sarebbe stato completato prima o poi. 
 
Il paesaggio autunnale colorava i viali della città dei toni dell’arancio e del marrone. Come se un pittore rimasto a corto di un’ampia varietà cromatica avesse optato per tinte calde e nostalgiche. Le foglie che ancora resistevano tenaci sui rami sembravano sul punto di cedere da un momento all’altro al minimo soffio di vento. Quelle che ormai si erano arrese, giacevano in silenzio sul marciapiede, appiattite da passi crudeli che le avevano uniformate ad un tappeto umido e scivoloso.
Circondati da un paesaggio così poetico, Erin e Nathaniel camminavano in direzione dell’autobus e una domanda sorse spontanea tra i pensieri della ragazza:
“toglimi una curiosità: perché non ti fai portare anche tu in macchina come fa Ambra?”
“non mi piace ostentare il benessere della mia famiglia. Preferisco comportarmi come qualsiasi altro ragazzo”
“caschi sempre in piedi tu” commentò compiaciuta.
Nathaniel però non seppe se interpretare quella frase come un complimento o come una sottile nota di scherno, così si limitò a non risponderle. Nelle parole della ragazza però non c’era una minima recriminazione o derisione: avrebbe voluto precisare quanto ai suoi occhi egli apparisse perfetto, ma ogni parola nella sua mente, si sarebbe trasformata in un’imbarazzante ammissione dei sentimenti che sentiva crescere dentro di sé.  
 
Quando arrivarono alla fermata dall’autobus, la trovarono deserta. Il flusso di studenti si era esaurito da almeno un quarto d’ora e per i lavoratori che frequentavano quella linea era ancora troppo presto per uscire dal lavoro. I due ragazzi avrebbero preso due autobus diversi: quello di Erin sarebbe arrivato nell’arc di dieci minuti mentre per il biondo ce n’erano almeno venti di attesa.
Intavolarono una conversazione dapprima parlando della novità del torneo di basket, passando poi all’imminente gita.
Mentre Erin stava per chiedergli quale fosse la destinazione, Nathaniel le fece cenno di zittirsi e prestare attenzione. La ragazza, non capendo cosa avesse destato il suo interesse, lo imitò e ispezionò l’area attorno a sé.
 
Miaooooooo
 
Questa volta l’inequivocabile verso venne udito anche dalla ragazza. I due si alzarono circospetti, cercando di tendere l’orecchio in direzione della fonte.
 
Miaooooooo
 
Quella richiesta di attenzione venne ripetuta un altro paio di volte e condusse Nathaniel verso un cassonetto della spazzatura alle sue spalle. Erin lo seguì tenendosi a distanza per non spaventare l’animale. Accanto al contenitore erano ammucchiati vecchi scatoloni e furono questi ad essere i primi candidati come nascondiglio del gatto. Proprio come la natura dell’animale che voleva scovare, Nathaniel si muoveva con passo felpato e lento, calibrando ogni movimento e tenendo gli occhi aperti per intercettare l’eventuale fuggitivo. Erin lo fissava senza parlare e lasciò che ci pensasse lui.
Il ragazzo scrutò l’interno dello scatolone per un istante e poi sorrise, quasi avesse atteso un cenno d’assenso da parte dell’ospite che Erin non poteva ancora vedere.
Allungò lentamente la mano sinistra alla quale venne poi in soccorso anche la destra e insieme sollevarono un grosso gatto. Il pelo era pezzato: su di esso si alternavano chiazze bianche, nere e arancioni. Docile come un agnello, l’animale non opponeva la minima resistenza. Erin osservò il collare, conferma che l’animale fosse addomesticato.
Nathaniel non smetteva di guardarlo con tenerezza e lo appoggiò a terra.
“è un bel gatto, ma mi sembra un po’ magretto. Ha sicuramente fame” ipotizzò accarezzandogli il musetto.
“aspettami qui!” si propose Erin scattando verso la strada “corro al supermarket laggiù a prendergli qualcosa” e prima che il ragazzo avesse il tempo di tornare a guardarla, lei era già di fronte alle porte automatiche.
 
Quando tornò, era carica di cibo in scatola. La borsa ecologica del supermarket sembrava essere sul punto di cedere sotto il peso del suo contenuto.
“ho preso un po’ di tutto: tonno, salmone, carni bianche, rosse, questo qua ha anche le carote…”
“così gli farai venire un’indigestione” rise Nathaniel, affascinato dalla generosità della ragazza. Era rimasto colpito dalla sua impulsività e da come Erin, senza esitare, era corsa in soccorso dell’animale. Il suo modo di fare un po’ avventato ma sempre motivato dalla bontà era uno dei pregi che più apprezzava in lei. A volte la invidiava per il suo modo di agire, senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.
“ma mica deve mangiarli tutti! Partiamo con il salmone va” e detto questo la ragazza aveva strappato un pezzo di scatolone in cui aveva versato il contenuto della bustina appena acquistata.
Il gatto si fiondò sul cibo non appena quell’odore così pungente gli solleticò il naso, mentre i suoi salvatori lo guardavano soddisfatti della riuscita della loro impresa.
Nathaniel continuava a sorvegliare l’animale come un padre che ammira il proprio figlio mentre si diverte sull’altalena.
 “ti piacciono i gatti?” per quanto scontata, Erin non potè fare a meno di rivolgergli quella domanda.
“li adoro” replicò il ragazzo accucciandosi verso l’animale. Per poter proseguire il dialogo, la ragazza fu costretta ad imitarlo e si portò alla sua altezza.
“anche io” e detto questo Erin si avvicinò ad accarezzare l’animale, che in quel momento era perfettamente indifferente a qualsiasi stimolo diverso da quello organolettico.
“i gatti sono così indipendenti” commentò Erin.
“e liberi da condizionamenti” aggiunse Nathaniel. La nota malinconica non sfuggì ad Erin che spostò lo sguardo verso il ragazzo. Il biondo osservava ora l’animale con aria pensierosa e triste.
“c’è qualcosa di personale in questa osservazione?” gli chiese d’un tratto. Il biondo esaminò la mora con la coda dell’occhio e sospirò debolmente, quasi rassegnato da una verità che non poteva essere negata.
Si rimise in piedi mentre Erin continuava a fissarlo dal basso verso l’alto, rimanendo accucciata all’altezza del micio.
“non è facile essere il primogenito di una famiglia come la mia”
“è molto ricca?”
Erin si pentì istantaneamente di quella domanda. La risposta era talmente ovvia da farla passare per una stupida. Ambra che veniva a scuola in Rolls Royce vestita con abiti che probabilmente costavano quanto un mese di affitto dell’appartamento della zia, aveva extension di capelli naturali… come indizi circa lo status economico dei Daniels non erano poi così oscuri.
“più che altro la vera questione è come tenere in piedi l’intero capitale. Un giorno toccherà a me gestirlo e per poterlo fare al meglio mio padre si aspetti che io faccia delle cose… e che non ne faccia delle altre”
“per esempio?”
La ragazza si sentiva intraprendente e coraggiosa. Piano piano avrebbe cominciato a scavare nella personalità del ragazzo, conoscerne la storia. Non doveva avere fretta e fargli pressioni. Voleva che il ragazzo cominciasse ad aprirsi a lei, a raccontarle qualcosa di sé.
Sulle labbra di Nathaniel si disegnò un sorriso triste:
“musica”
“ti piacerebbe suonare?” indagò Erin. La sua mente cominciò a macchinare freneticamente. Pensava ai venerdì sera a scuola dove Castiel e Lysandre si ritrovavano per le prove. In qualche modo la musica poteva essere la chiave per ricucire un’amicizia che si era strappata.
“ormai ci ho rinunciato” commentò Nathaniel frugandosi nelle tasche. Sotto lo sguardo sorpreso di Erin, estrasse un pacchetto di sigarette Camel.
“non pensavo fumassi” commentò leggermente perplessa. Teneva lo sguardo fisso su quel sottile cilindro che era intrappolato tra le morbide labbra del ragazzo.
Nathaniel scosse il capo come se avesse detto qualcosa di buffo e replicò:
“cerco di non farlo davanti agli altri, per lo meno non davanti a chi non fuma… sai, il fumo passivo… infatti sta arrivando il tuo autobus” indicò un punto in lontananza.
L’imminenza della partenza fece passare in secondo piano la questione a favore di una ben più pressante:
“e il gatto? Che facciamo?”
“non ti preoccupare mi arrangio io” rispose tranquillo il ragazzo avvicinando l’accendino all’estremità libera della sigaretta.
L’autobus si era fermato davanti a loro e la ragazza fu costretta ad affrettarsi. Salutò il ragazzo e scelse un posto da cui potesse continuare a guardarlo.
Nathaniel aveva le spalle leggermente incurvate nel tentativo di accendere la sigaretta e dopo qualche istante la sua tenacia venne premiata. Una tortuosa striscia di fumo cominciò a diffondersi nell’aria mentre il gattone, soddisfatto del pranzo, aveva cominciato a strusciarsi ai piedi del ragazzo.
Erin non dimenticò mai quella scena. In quel momento non poteva ancora capire cosa ci fosse dietro l’amarezza degli occhi di Nathaniel. C’erano ancora troppe cose che non sapeva.
 
Come ogni volta che rientrava nel suo appartamento, Castiel non potè fare a meno di inebriarsi di quella sensazione di pace che lo circondava. Lanciò lo zaino, troppo leggero per uno studente del liceo, contro il divano e raggiunse la sua stanza. Era il posto che preferiva in assoluto. Era spaziosa e funzionale. Con gli anni l’ambiente si era arricchito di poster dei suoi gruppi preferiti e nonostante l’avanzata irrefrenabile della musica in formato digitale, Castiel vantava una nutrita raccolta di CD.
Ogni angolo testimoniava l’unico amore corrisposto del ragazzo: la musica. Anche se non lo aveva mai ammesso, aveva talento e non tanto come musicista. Si era molto bravo ma di chitarristi in gamba al mondo ce n’erano troppi e tutti molto più preparati di lui. Ciò che lo distingueva era la sua capacità di scrivere musica, non di suonarla.
Gli capitava di addormentarsi e sentire un motivetto frullargli nella testa. Solo quando si decideva ad alzarsi a trascriverlo su carta poteva dormire sonni tranquilli.
Il suo estro creativo era facilitato dal silenzio di quell’appartamento.
Castiel era legalmente emancipato da due anni: suo padre si era impegnato a sostenerlo economicamente fino al diploma ma nulla di più.  Sua madre si era risposata e aveva tentato più volte di ricucire il rapporto con il figlio ma ogni suo tentativo era stato vano.
Il rosso si gettò pesantemente sul letto: dapprima il materasso rimbalzò per la velocità con cui quel peso morto si era abbandonato su di esso senza ritegno. Quando la sua visione si stabilizzò, Castiel guardò attorno a sé. L’occhio gli cadde sulla chitarra che era riposta con cura all’interno della sua custodia. Si stava ormai consumando, nonostante per quattro anni Castiel l’avesse trattata come una reliquia.
Lysandre gli ripeteva che era arrivato il momento di sostituirla, se non addirittura cambiare l’intero strumento, ma solo Castiel sapeva quanto gli sarebbe pesata quel rimpiazzo. Solo lui. E un’altra persona.
 
Nathaniel finì la sua sigaretta e la gettò in un tombino. Il lancio attirò il gatto che corse all’inseguimento del missile ma fu costretto a tornarsene deluso dal biondo, con la coda tra le gambe. Saltò sulla panchina e si accovacciò accanto al ragazzo che non potè fare a meno di accarezzarlo. Soddisfatto per il lauto pranzo, l’animale aveva socchiuso gli occhi e sembrava sul punto di addormentarsi.
Il biondo alzò lo sguardo verso il poster di un concerto dall’altro lato della strada. La musica.
Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva suonato con la sua band.
La scarica che si trasmetteva dalla mano che impugnava un microfono fino al cuore che batteva a ritmo con la batteria non l’aveva più provata. E ne sentiva una nostalgia immensa. L’oggetto amplificava la sua voce, come se il suo modo di cantare, alto e potente, non fosse abbastanza per gridare tutta la sua frustrazione. Era buffo pensare che tutto era cominciato per caso. Era buffo pensare che un’idea nata per aiutare un amico aveva finito per salvarlo lui stesso.
 
Quattro anni prima…
 
“CASTIEL! Non voglio ripeterlo ancora! Sputa quella chewing gum oppure esci dall’aula!”
“E tanto ci voleva? Poteva dirlo subito” e con non chalance, circondato dalle risate dei compagni, un Castiel quattordicenne si era alzato dal suo posto e aveva preso la strada dell’uscita dall’aula.
All’epoca, la tempesta ormonale stava lasciando pesanti tracce del suo passaggio: il ragazzino aveva la pelle punteggiata di foruncoli e qualche peletto nero, accenno di una barba poco convinta, facevano la prima comparsa sul suo mento. Non riscuoteva grande successo tra le ragazze della sua età che lo consideravano un immaturo sia sotto l’aspetto fisico che caratteriale. Di ben diverso aspetto era il suo migliore amico: Nathaniel già a quell’età era una garanzia dell’uomo meraviglioso che sarebbe diventato: il suo aspetto, anche se ancora acerbo, tradiva tratti eleganti ma sicuri, il suo rendimento scolastico era ineccepibile e metà classe era innamorata di lui. L’altra metà, essendo composta da maschi, si limitava ad invidiarne l’abbondanza di pregi.
 I professori si dividevano in due fazioni: coloro che approvavano l’amicizia tra lui e Castiel, confidando sull’influsso positivo che il biondo avrebbe esercitato sul moro e quelli invece che avevano il terrore che tanta perfezione sarebbe stata compromessa dalla pessima compagnia quale era Castiel. Dai ciuffi di capelli neri che gli nascondevano la fronte e talvolta gli occhi, si intravedeva talvolta uno sguardo carico di risentimento.
Nathaniel fece un sorriso furbo all’amico che, uscendo dall’aula, ricambiò.
Si conoscevano da anni e per certe cose non avevano bisogno di tante parole.
 
Come aveva intuito Castiel, dopo qualche minuto Nathaniel lo raggiunse fuori dall’aula.
“che scusa ti sei inventato stavolta?”
“scusa? Ma non vedi che sono pallido? Non mi sento bene” rise l’amico mentre si incamminavano verso l’esterno.
Passando davanti all’aula di teatro, sentirono qualcuno che brontolava:
“eppure erano qui! Li ho lasciati esattamente su questa sedia!” si trattava di Leigh uno studente del secondo anno. Il ragazzo era dotato di un’abilità incredibile per il cucito di cui dava dimostrazione preparando i  vestiti per il club più prestigioso della scuola.
“non so cosa dirti Leigh. Forse si è trattato di uno scherzo” cominciò a dire la preside che all’epoca aveva qualche chilo in meno e qualche capello scuro in più  “ma non preoccuparti, andremo in fondo a questa vicenda! …Aspetta!” e la donna spostò l’attenzione verso la porta socchiusa da cui Nathaniel e Castiel stavano sbirciando la conversazione.
“chi è là?” tuonò insospettita. La donna cominciò ad avvicinarsi a grandi passi verso la porta, determinata a far luce sulla vicenda. Del resto il colpevole torna sempre sulla scena del delitto.
 Castiel arretrò e scappò via come una preda inseguita da un cacciatore lasciando Nathaniel impalato.
“perché scappi?” gli chiese il biondo dopo aver deciso di seguirlo.
“non voglio altre rogne!” gli aveva urlato di rimando l’amico svoltando per un corridoio a sinistra.
Alle loro spalle sentirono la voce affaticata e affannata della preside:
“fermo! inutile che scappi! Mi basterà controllare quali studenti non sono rientrati in aula”
Castiel sentì quella voce farsi più vicina e si nascose nell’aula di musica seguito da Nathaniel.
“perché sei scappato? Non hai mica fatto niente” obiettò Nathaniel chiudendosi la porta alle spalle e cercando di recuperare un po’ di ossigeno da inviare ai polmoni.
“e che importa? Se mi avesse visto, avrebbe dato la colpa a me quella vecchia balena!” brontolò Castiel avvicinandosi alla finestra. Passò il suo sguardo sul cortile deserto, focalizzando la sua attenzione su uno scoiattolo che si stava arrampicando su un albero.
“le avremo spiegato come stavano le cose… che eravamo solo lì di passaggio”
“la fai facile tu. Con quel visetto venderesti il ghiaccio agli eschimesi” borbottò il moro sempre più di malumore. All’apparenza il ruolo di ribelle, insofferente alle regole sembrava calzargli a pennello ma la verità, di cui solo Nathaniel era a conoscenza, era che l’amico era molto più di quello. Era molto meglio di un ragazzino anarchico e immaturo. Il rapporto con i genitori non aveva mai funzionato davvero e Castiel era cresciuto con la convinzione che tra di loro non ci fosse amore. Suo padre si era trovato incastrato in un matrimonio riparatore con una donna che l’aveva avvicinato solo per i suoi soldi. A quell’epoca i due non erano ancora divorziati, ma vivevano da separati in casa. Il tutto influiva sulla stabilità psicologica del figlio che, chiuso nella propria sofferenza, trovava sfogo nel ribellarsi all’autorità di adulti che non erano capaci di capirlo.
“che schifo” sputò metaforicamente Castiel dopo un breve silenzio.
“che cosa?”
“la vita! Una merda che non vale neanche la pena essere cagata” sbottò allontanandosi dalla finestra e cominciando a camminare su e giù per la stanza.
“molto raffinato Castiel, complimenti. Questa massima passerà alla storia. Dirò di metterla sulla tua tomba”
Castiel guardò l’amico e provò, inutilmente, a trattenere un sorriso, immaginandosi la scena.
“verrebbe una tomba molto figa” commentò il moro riacquistando il buon umore. In momenti come quello, i suoi occhi tradivano quanto fosse legato all’amico. L’amicizia con Nathaniel era quanto dipiù prezioso gli fosse stato concesso dalla vita e avrebbe fatto qualsiasi cosa per non rovinarla. Si fidava ciecamente di lui ed era incredibilmente felice che quella fiducia fosse reciproca. Il biondo era l’unica persona che era riuscita a vedere qualcosa di buono in lui ed  aveva la capacità di zittire quella vocina interiore che lo istigava a deludere gli altri.
“non dovresti reagire così. La prossima volta che capita, invece di arrabbiarti e scappare…” cominciò a dire Nathaniel
“sentiamo Freud” lo interruppe l’amico con tono scherzoso “come consiglia di procedere?”
Nathaniel si guardò attorno in cerca di un valido consiglio. Aveva cominciato la frase senza sapere dove andare a parare. La reazione di Castiel era più che giustificata. Se il mondo ti volta le spalle, tu girati dall’altra parte. Non c’era modo di arginare la rabbia e la frustrazione che il ragazzo sentiva dentro di sé.
Improvvisamente un luccichio metallico solleticò l’occhio del biondo.
La sua attenzione venne calamitata da un oggetto che giaceva silenzioso in un angolo.
Castiel intanto continuava a parlare.
“è facile parlare per te. Sai controllarti. Io invece sento il sangue andarmi al cervello e mi viene voglia di spaccare tutto!” tuonò, battendo il palmo della mano contro la parete “mi viene voglia di prendere qualcosa tra le mani e-“
“allora suona questa”
Castiel si voltò sorpreso verso l’amico: Nathaniel reggeva in mano una chitarra acustica e lo guardava con aria di sfida.
“quella va bene per  le suore” disse Castiel, guardando l’oggetto con un misto di disprezzo e curiosità.
“tu prova a suonarla. Hai studiato chitarra per tre anni, ti ricorderai qualcosa no? O ti sei già dimenticato tutto?” insistette il biondo, facendo leva sull’orgoglio del moro.
Castiel prese lo strumento tra le mani. Il contatto con le corde lo riportarono indietro di due anni quando ancora era iscritto ad un concorso di musica.
Il suo insegnante gli piaceva perché gli aveva insegnato a suonare alcune canzoni dei gruppi che avrebbero poi caratterizzato la sua adolescenza, primi tra tutti i Nirvana. Il loro grunge depresso e di denuncia per una realtà disillusa e amara si sposava perfettamente con la visione della vita dell’adolescente.
“vediamo se la indovini” disse lanciando un sorrisetto di sfida a Nathaniel, che esultò interiormente vedendo l’effetto positivo della sua idea.
Le prime note, dapprima un po’ incerte non furono sufficienti a riconoscere la canzone. Castiel ogni tanto scrutava l’amico aspettandosi di sentire il titolo della canzone dei Nirvana. Il biondo non poteva non riconoscerla visto che era stato proprio lui a fargli conoscere quel gruppo.
Nathaniel rimase in silenzio i primi trenta secondi poi, anziché aprir bocca per parlare, cominciò a cantare a tempo con la musica:
My heart is broke
But I have some glue
Help me inhale
And mend it with you
We'll float around
And hang out on clouds
Then we'll come down
And have a hangover ...
Have a hangover
Have a hangover
Have a hangover”
 
“ehi Nath!” lo interruppe il moro sorpreso “ dobbiamo creare un gruppo! Tu canti e io suono!” esclamò entusiasta Castiel drizzandosi in piedi. I capelli si erano scostasti dal viso, permettendo agli occhi neri di brillare di una nuova luce. L’eccitazione e l’entusiasmo che pervasero il ragazzo erano uno spettacolo insolito. Troppo bello per non farsi contagiare.
 
Diavolo. Non fosse stato per lui, chissà quando avrebbe scoperto che la musica era il suo mondo.
Questo era solo uno dei pensieri che assediavano la mente di Castiel quando lasciava che i ricordi prendessero il sopravvento.
Gli eventi dell’ultimo anno avevano distrutto irrimediabilmente la loro amicizia, ma c’erano troppe cose per cui il ragazzo ancora la rimpiangeva. Una su tutte era la consapevolezza di quanto fosse stata preziosa per non farlo precipitare nel baratro della solitudine e dell’autocommiserazione.
 
Anche per Nathaniel il ricordo di quel giorno era nitido e impresso a fuoco nella sua memoria. La gioia di Castiel quando aveva scoperto un insospettabile amore per la musica, il luccichio di passione nei suoi occhi. Per la prima volta in vita sua, Nathaniel si era sentito davvero utile a qualcuno. Aveva illustrato a Castiel la strada per la sua realizzazione personale, gli aveva dato un motivo per sentirsi orgoglioso di se stesso. Per sentirsi libero.
Mentre in Nathaniel aveva accentuato la consapevolezza di essere prigioniero delle volontà altrui.
 
Il pomeriggio stava ormai esaurendo il tempo a sua disposizione per lasciare il posto alla sera. Castiel rimise in un cassetto cerebrale i suoi ricordi e lo serrò. Non era il caso di riaprirlo poiché avrebbe solo finito per pentirsi del suo orgoglio e della sua testardaggine.
 
“allora la notte ti ha portato consiglio?” chiese Pam versando del latte nella scodella della nipote “hai pensato a chi potrebbe subentrare nel club di basket?”
Il giorno precedente la nipote era tornata a casa con una grande notizia: la sua scuola avrebbe partecipato al campionato studentesco di basket che coinvolgeva tutte le scuole della nazione.
La sua squadra era molto determinata e sicura di sé finchè non aveva scoperto che il regolamento prevedeva la presenza in campo di almeno una ragazza. Inoltre all’interno dei membri della squadra, Erin non poteva essere l’unico elemento femminile. Bisognava trovare un’altra ragazza.
“e come faccio? Sono in quella scuola da poco più di una settimana. Non conosco tante ragazze. Iris mi ha già detto di no. A Violet non lo chiedo nemmeno…” cominciò a lamentarsi Erin. Provò ad immaginare lo sguardo spaurito di Violet in campo e non potè fare a meno di sorridere.
“lo so, lo so me l’hai spiegato ieri sera”
“dovrà pensarci il resto della squadra” concluse la ragazza con una scrollata di spalle. Masticava rumorosamente il suo biscotto al cioccolato e intanto fissava la zia.
Pam aveva un’aria assorta.
“che hai?”
Pam sembrò destarsi.
“niente. Mi chiedevo solo che fine avesse fatto Jason. Ieri non l’ho visto per tutto il giorno…”
“e come mai questo improvviso interesse?”
“non è interesse! è una semplice constatazione” scattò sulla difensiva Pam “e poi è stato talmente gentile con me, che mi sento in colpa ad averlo sempre trattato con sufficienza. Non se lo meritava”
“questo è vero” confermò Erin aspirando ciò che rimaneva nella tazza.
“comunque sabato pomeriggio verrà qui Castiel…”
“oh, il tuo vicino di banco?… sono proprio curiosa di conoscerlo” commentò Pam con un sorriso esagerato.
“non se ne parla! Non potresti lasciarmi la casa libera?” scattò Erin sulla difensiva. La zia sbarrò gli occhi ed esclamò titubante:
“e come mai tutta questa privacy? Erin! Non vorrai mica…”
“ma sei matta?!” urlò Erin avvampando. Lei e Castiel. Rabbrividì all’idea.
“perché? È brutto?”
“no anzi…” ammise Erin figurandosi mentalmente l’immagine del ragazzo. No, Castiel poteva anche avere tanti difetti, ma non era brutto. Aveva invece un bel viso, dai tratti più marcati e mascolini rispetto a Nathaniel e proprio per questo era affascinante. Tale flusso di pensieri si arrestò improvvisamente. Erin scosse la testa quasi a voler far uscire quelle riflessioni dalla sua testa. Ma che le era preso? Si trattava solo di… Castiel.
“dobbiamo solo preparare quella relazione di scienze” tagliò corto alzandosi dal suo posto per impedire alla zia di vedere il rossore che aveva invaso il suo viso.
“sarà ma io non mi prendo responsabilità con tuo padre”
Erin sollevò gli occhi al cielo e impungnò la borsa pronta ad iniziare una nuova giornata.
 
“a uno sconosciuto?” ripetè Erin incredula.
Durante una delle pause, Nathaniel l’aveva raggiunta e le aveva raccontato che mentre aspettava l’autobus era passato un uomo che aveva dimostrato interesse per il gatto.
“mi ispirava fiducia. Ha detto che gli è morto da poco il suo e che, se non avevo nulla in contrario, l’avrebbe preso lui”
“e di cosa è morto il suo gatto precedente?” indagò Erin sospettosa.
“vecchiaia” rispose prontamente Nathaniel mentre la ragazza indagava l’espressione del suo volto.
“mi stai mentendo”
Nathaniel sollevò le mani in segno di resa.
“okok, lo ammetto. Non gliel’ho chiesto. Ma com’è che fai a capire quando ti racconto una bugia?”
“intuito femminile” replicò Erin con un certo orgoglio.
Nathaniel sorrise e le diede un leggero buffetto sulla fronte. Erin sorrise di rimando, arrossendo leggermente.
 
La giornata passò tranquilla, finchè arrivò l’ora di pranzo.
Con sorpresa, quando Erin raggiunse Violet, la trovò impegnata in una conversazione con Lysandre, mentre Iris e Castiel soggiunsero più tardi:
“hai pensato a chi chiedere?” si rivolse Erin in direzione di Castiel.
“no. Non credo ci siano ragazze che se la sentono di entrare nel club”
“non fatico a immaginarlo. Con i tuoi modi da doberman, hai fatto scappare tutte le aspiranti cestiste dell’anno scorso” s’intromise Lysandre.
“il fatto che ci abbiano rinunciato così facilmente dimostra che non erano all’altezza” minimizzò Castiel masticando rumorosamente il panino.
“allora il fatto che Erin sia riuscita ad entrare nel club le rende particolarmente onore” s’intromise Violet lanciando una timida occhiata all’amica, strappando un debole sorriso all’interessata.
“questa tappa qua l’hanno ammessa solo perchè ha fatto pena al resto della squadra” ribattè Castiel.
“in effetti la sua performance è stata abbastanza deludente” confermò Iris
“forse non è proprio portata per questo sport…” aggiunse Lysandre.
“povera Erin” sospirò Violet.
“EHI! Guardate che sono ancora qui, la finite di prendermi in giro?” sbottò la ragazza, strappando una risata ai presenti.
 
Il giorno successivo era il penultimo giorno di punizione per Erin: Tom ormai riponeva in Erin la massima fiducia e, dopo averle dato le istruzioni circa le sue mansioni per la giornata, l’aveva lasciata da sola a sbrigarsela. Le aveva assegnato un’aula e lasciato tutto il materiale per pulirla. Prima di uscire, le aveva raccomandato di passare i vetri delle finestre poiché erano particolarmente sporchi.
La ragazza si avvicinò alla finestra e cominciò il suo lavoro. Il fatto di essere lasciata da sola la mise di buon umore: tirò fuori il suo iPod e scelse dalla lista l’ultimo album dei Linkin Park.
Avvicinò un banco al davanzale e lo usò come supporto per raggiungere ogni punto dell’ampio vetro. Sistemò il detergente sul piano di lavoro e un paio di stracci.
Mentre era concentrata sul suo lavoro, sentì la porta alle sue spalle che veniva aperta con violenza. Si girò di scatto e si trovò davanti Kim. La ragazza era entrata come una furia e, dopo averle fatto segno di tacere, si nascose dietro la cattedra.
Erin la guardò interrogativa mentre Kim sussurrò:
“io non sono qui”
Erin non riuscì a replicare poiché soggiunse una seconda ragazza. Sostò un attimo sulla soglia della porta e concentrò il suo sguardo verso Erin. Aveva i capelli corti con delle meches blu ed aveva una divisa con la scritta “Athletic Club Mason High School” :
“per caso hai visto Kim? È una ragazza di colore con la divisa del club di atletica” esclamò trafelata. Era a corto di fiato e parlò alla velocità della luce.
“so chi è ma…. Mi dispiace di qui non è passata” disse Erin, cercando di non tradire il suo nervosismo. Fortunatamente la sua performance come attrice non doveva essere prolungata ulteriormente. La ragazza schizzò via e sparì con la stessa fugacità con cui era comparsa.
Kim si guardò attorno furtivamente, prima a sinistra poi a destra e cercò lo sguardo di Erin.  La compagna di classe le fece un cenno rassicurante e la ragazza si alzò in piedi.
“fiuuu. Grazie”
“Figurati” replicò Erin e poi tornò ad suo lavoro. La sua indole la spingeva a chiederle spiegazioni di quello strano comportamento ma ormai stava imparando a conoscere Kim: Erin non si aspettava una risposta diversa da “fatti i cazzi tuoi”
Sorprendentemente però Kim non era intenzionata ad andarsene. Si avvicinò ad Erin, sedendosi sopra un banco e si mise ad osservare il diligente lavoro della ragazza:
“e così sei in punizione”
“fino a giovedì” specificò Erin.
“per lo scherzo ad Ambra?”
“e tu come lo sai?”
“lo sanno tutti bella!”
“ah” si limitò a dire Erin tornando a fissare la finestra. Notò un punto che le era sfuggito e si prodigò per renderlo impeccabile.
“mi passi quel detergente?” chiese dopo un po’, indicando un erogatore appoggiato sul davanzale.
Kim eseguì docilmente quella richiesta. Vederla così domabile e docile era qualcosa di nuovo per Erin.  Quasi quasi valeva la pena fare un tentativo e provare ad instaurare un dialogo.
“niente club di atletica oggi?”
Kim si sgranchì la schiena e commentò:
“hai presente la tizia di prima? Quella viene dall’altro liceo della città. Poiché qui abbiamo delle strutture migliori, ha il permesso della preside di venire ad allenarsi con noi una volta alla settimana… e ogni volta che viene vuole sfidarmi in qualcosa! Oggi voleva fare i mille metri e non ne ho nessuna vogliaaa” si lamentò la velocista reclinando il capo.
“non le puoi semplicemente dire che non ti va? E poi non mi sembri una che si fa tanti scrupoli quindi non capisco quale sia il problema…”
“fidati, quella non sa cosa sia la rinuncia. È talmente insistente che l’unico modo per farla stare zitta è assecondarla”
“o nascondersi sotto una cattedra” concluse Erin sorridendo.
“ti giuro non la sopporto più” ammise Kim prendendo dalle mani della compagna un pezzo di scottex che aveva finito di usare. Erin le fece segno di andare a buttarlo nel cestino in fondo all’aula. Kim però lo arrotolò tra le mani dandogli la forma di una pallina.
“mi verrebbe quasi voglia di cambiare club per un po’” confessò lanciando l’oggetto e centrando il cestino.
La mora tornò a guardare Erin, che dall’alto della sua posizione la guardava sbigottita.
“che hai? Sembri spiritata” commentò Kim interdetta.
Erin saltò giù dal banco e la afferrò per un braccio.
“vieni con me!” esclamò la ragazza trascinandosi dietro Kim. Quest’ultima, contro la sua natura, si lasciò guidare per i corridoi finchè Erin la condusse in palestra.
 
La ragazza varcò la soglia con foga interrompendo la squadra che era impegnata negli allenamenti:
“ho trovato la seconda ragazza!” esultò.
I ragazzi guardarono le due con curiosità e il primo a parlare fu Trevor, rivolto verso Kim:
“ehi Kim, quando te l’ho chiesto io mi hai detto di no!” sbottò offeso.
“aspettate un attimo!” protestò Kim rivolgendosi verso Erin “tu vuoi farmi entrare nella squadra di basket??”
“Ah-ah” annuì la ragazza giuliva.
“non se ne parla!”
“perché no? Scommetto che hai un’ottima mira. E poi sei atletica”
“non mi interessa” tagliò corto Kim facendo dietro front e apprestandosi ad uscire, sotto gli occhi attenti della squadra.
“eddai Kim, si tratterebbe solo di quattro mesi… solo finchè c’è il campionato… Trevor aiutami a convincerla visto che siete amici” lo supplicò Erin, trattenendo Kim per un braccio.
“amici un corno” borbottò la ragazza, liberandosi della presa. Ecco cosa succedeva ad abbassare la guardia e mostrarsi un po’ più gentili. Al diavolo Iris e tutti i suoi discorsi sull’essere più disponibile verso gli altri.
“ohoh, ce l’hai ancora per quella storia della piscina? Mica sapevo che andavi a fondo come un sasso” rise Trevor, sottovalutando l’effetto delle sue parole.
“non mi sei d’aiuto così” commentò acida Erin zittendo il cestista.
“senti perché non provi a giocare una partita?”  
Tutti si voltarono verso il ragazzo che aveva preso parola. Dajan si era staccato dal gruppo e aveva avanzato qualche passo in direzione di Kim. La ragazza in tutta risposta, aveva cambiato espressione e aveva uno sguardo meno duro e ostile. Ciò non sfuggì ad Erin, la cui mente cominciò a fantasticare sulla piega che avrebbero potuto prendere gli eventi.
“a meno che tu non sia troppo codarda per provare” la stuzzicò Castiel.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Chi meglio di Castiel, orgoglioso fino al midollo, sapeva come convincere una come Kim a sottoporsi alla sfida. Negli occhi della ragazza infatti cominciò a brillare la fiamma della competizione. Poteva anche essere piuttosto scarsa con lo studio ma se c’era un settore in cui Kim era imbattibile quello era lo sport. Non si era mai cimentata seriamente negli sport di squadra, il suo talento l’aveva sempre dimostrato nelle competizioni individuali. Era arrivato il momento di mostrare a tutti di che pasta era fatta.
“d’accordo. Ci sto” affermò spostandosi verso il centro campo.
“per rendere equa la cosa direi che si potrebbe fare una sfida due contro due” propose Trevor “sarai in squadra con Castiel mentre l’altra squadra potrebbe essere formata da Dajan ed Erin”
“eh?” esclamò la ragazza allarmata “io devo tornare a fare le pulizie” si giustificò, trovando per la prima volta un lato positivo nella sua punizione. La figuraccia che aveva fatto nella sfida contro Castiel aveva minato seriamente la sua autostima e la ragazza non poteva fare a meno di temere il momento in cui avrebbe dovuto misurarsi nuovamente con il basket.
“Trevor non ha tutti i torti Erin. Devi cominciare a giocare e ad allenarti anche tu perché sei un caso disperato” commentò Patrick, un altro elemento della squadra, ottenendo qualche cenno di assenso.
“sei molto incoraggiante Patrick” commentò la ragazza, consapevole che del resto, avevano ragione loro.
 
Al fischio d’inizio, Patrick lanciò la palla in aria: per un pelo, Dajan riuscì a soffiarla a Castiel. Se anche Erin avesse provato a saltare sarebbe arrivata sì e no all’altezza dei gomiti dei due ragazzi.
Anche Kim era rimasta lievemente impressionata da quella dimostrazione di abilità fisica ma cercò di rimanere concentrata sul gioco. Erin la imitò: questa volta non si sarebbe fatta distrarre. Convinse se stessa che la sua vergognosa performance era dovuta al fatto che aveva avuto la testa da un’altra parte. Se si fosse impegnata sul serio, avrebbe potuto ottenere un risultato diverso.
Dajan palleggiò e non appena vide un’apertura passò la palla ad Erin. La ragazza riuscì ad intercettarla facilmente poiché il passaggio era pulito e preciso. Palleggiò in direzione del canestro avversario. Castiel le si parò davanti ed Erin tentò di passare la palla al compagno ma il rosso fu più agile e intercettò il passaggio. Avrebbe dovuto essere più scattante e imprevedibile.
Il rosso, che aveva il numero 9,  passò la palla a Kim che, con l’agilità di una gazzella, schivò Dajan e scattò in direzione di tiro. Sotto gli occhi sorpresi del pubblico, il tiro andò a segno.
“grande!” esclamò Matt.
“pazzesco!” esultò Patrick.
Erin era rimasta senza parole. Con quell’azione Kim confermava il suo talento e il fatto che Erin era decisamente l’elemento più debole della squadra.
“siamo appena all’inizio”
Erin si voltò verso il compagno di squadra. Dajan le aveva lanciato un sorriso di incoraggiamento carico di fiducia.Ciò fu sufficiente a iniettare in Erin la carica di cui aveva bisogno. Recuperò la palla e questa volta riuscì a valutare il momento migliore per passare la palla a Dajan, tanto che Castiel non riuscì ad intercettarla.
“ottimo passaggio Erin!” si complimentò Steve, che era il più alto della squadra.
“grazie Steve” rispose Erin contenta, distraendosi un attimo per guardarlo. Quell’istante fu sufficiente per impedirle di vedere la palla che stava arrivando a tutta velocità nella sua direzione.
“ERIN!” la richiamò Dajan. La ragazza si voltò di scatto e la palla le arrivò in pieno viso.
“possibile che tu non abbia ancora capito che la devi prendere in mano e non in faccia?” la derise Castiel approfittando di quell’opportunità per recuperare la palla.
Differentemente dalla settimana prima, questa volta il naso della ragazza non aveva cominciato a sanguinare.
“tutto bene?” le chiese Dajan preoccupato avvicinandosi a lei.
Erin annuì anche se aveva ricevuto una bella botta. Si tastò il naso e le sembrò che fosse  tutto regolare. Incrociò lo sguardo di Kim e si accorse che le aveva lanciato un’occhiata dura e ciò bastò a confermare i suoi sospetti.
“e così siamo gelose di Dajan” pensò divertita Erin. Non immaginava che una come Kim potesse provare dei sentimenti verso qualcuno. La novità la mise di buon umore poiché era un’inguaribile romantica e fantasticava sul fatto che come coppia erano ben assortiti. I modi un po’ bruschi ma sinceri di Kim si sposavano perfettamente con il fare amichevole ma sicuro di sé di Dajan.
La palla nel frattempo era passata a Kim che si apprestava a tirare. Erin scattò e vedendola arrivare la mora non riuscì a prendere bene la mira. Lanciò la palla e, come previsto, questa non andò a canestro. Si precipitò a recuperarla ma Erin fu più agile e gliela soffiò da sotto il naso.
Rimontò cominciando a palleggiare. Intercettò Dajan, fermò il palleggio e si preparò a lanciargli la palla ma le si pararono davanti Castiel e Kim. Erin allora riprese a palleggiare ma Trevor urlò:
“infrazione!”
“che ho fatto?” chiese Erin perplessa mentre Dajan si grattava la fronte divertito.
“doppio palleggio” rispose Trevor in veste di arbitro.
“e allora?” chiese Erin portandosi le mani sui fianchi.
“ e allora?” le fece eco  Castiel “senti un po’ Rapunzel, toglimi una curiosità: le conosci le regole di questo sport?”
Erin lo guardò con determinazione:
“no” ammise candidamente mentre tutti scoppiavano a ridere.
“TI SEI ISCRITTA AD UNO SPORT DI CUI NON CONOSCI NEMMENO LE REGOLE? MA SEI PROPRIO CRETINA ALLORA!” sbottò Castiel perdendo la pazienza.
“quindi non posso palleggiare, smettere di palleggiare e poi tornare a palleggiare giusto?” tagliò corto Erin.
“sì è così” confermò Dajan, senza smettere di sorridere “passa la palla a Castiel e torniamo a giocare”.
Il gioco riprese ma il clima era diverso: tutti, dai giocatori agli spettatori si stavano divertendo. Tra le figuracce di Erin e il suo stile un po’ improvvisato, si trovava sempre qualcosa su cui ridere insieme.
Dopo dieci minuti di gioco, sia Erin che Kim sembravano entrate nell’ottica della sfida. Kim si stava rivelando una formidabile giocatrice poiché, pur non avendo nessuna preparazione in quello sport, aveva una mira precisa e una velocità incredibile. Anche Erin era stata una piacevole sorpresa poiché sembrava un’altra persona rispetto alla sfida con Castiel. Seguiva il gioco in modo molto più attento ed era recettiva ai movimenti del compagno di squadra con il quale era sempre in sincronia. Rispetto a Kim, Erin era sicuramente molto meno prestante, ma se non altro aveva rivelato del potenziale nascosto.
Decisero che il canestro successivo sarebbe stato quello decisivo: Castiel prese la palla e si apprestò a lanciarla a Kim.
In quel momento però la porta della palestra si aprì. Il rosso fu l’unico a non accorgersene e lanciò la palla alla compagna di squadra ad altezza viso mentre lei era distratta a vedere chi fosse entrato.
“attenta Kim!” la avvertì Erin che era diventata una specialista in pallonate in faccia.
Come un fulmine Dajan, che era a pochi passi da lei, scattò in avanti facendole da scudo. L’azione fu talmente improvvisa che il ragazzo non fece in tempo ad accogliere la palla tra le mani e questa lo centrò in pieno petto.
Kim rimase bloccata, fissando le spalle del ragazzo che si era parato davanti a lei.
Intanto una voce dietro di loro gridava:
“signorina Travis! Si può sapere cosa ci fa qui? Dovrebbe essere a fare le pulizie!”
Il viso paonazzo della preside fece tremare la ragazza che si affrettò ad abbandonare il campo da gioco, avvicinandosi alla donna.
“stavo solo”
“non voglio sentire scuse! Ha un impegno da portare a termine. Da venerdì potrà tornare al club”
Erin annuì. Era sudata e non aveva nulla con cui cambiarsi. Le sarebbe toccato rimanere in quelle condizioni pietose tutto il giorno.
“preside abbiamo trovato anche la seconda ragazza per la squadra. Può ufficializzare la partecipazione del liceo al torneo!” esclamò Dajan trionfante, massaggiandosi il petto. Kim intanto lo guardava di sottecchi, colpita da come il ragazzo non aveva esitato a proteggerla da una sicura pallonata in faccia. Perché con Erin non l’aveva fatto?
 “sul serio?” chiese la donna, osservando Kim. La mora però era talmente persa nei suoi pensieri che manco si accorse che la preside si aspettava una sua conferma. La donna allora commentò:
“molto bene signor Brooks. Vedo con piacere che avete preso molto seriamente questa competizione”
“eh già… il problema è che Erin avrebbe bisogno di molto allenamento per essere pronta” aggiunse il ragazzo con un sorriso.
La donna lo guardò sospettosa.
“mi sta suggerendo di sospendere la punizione della signorina Travis?”
“non sarebbe male” ammise Dajan. Il suo sorriso caloroso e bianco avrebbe potuto incantare chiunque. Tranne la preside:
“non se ne parla! Del resto alla signorina Travis rimane un solo giorno di punizione. Sarei una pessima educatrice se facessi marcia indietro. Comincerete oggi la preparazione senza di lei”
Dajan sollevò le mani in segno di resa e si voltò verso Erin quasi a volerle dire “io ci ho provato”.
 
Dopo che la preside se ne fu andata, la squadra si riunì:
“quindi Kim sei dei nostri” commentò compiaciuto Trevor.
“ormai l’avete detto alla vecchia, mi avete incastrata… allora a chi devo chiedere per la divisa?”
A quelle parole, tutta la squadra, ragazze escluse, puntò gli occhi su Castiel:
“te l’avevamo detto…” commentò Matt con una nota di biasimo.
“che cosa?” chiese Erin senza capire.
“è il capitano della squadra che si occupa di ordinare le magliette. Il regolamento della scuola vuole che si scelga tra le ditte che producono anche la versione femminile delle divise ma il genio qui ha pensato bene di sceglierne una che producesse solo quelle maschili”
“che ne sapevo io che sarebbero entrate delle ragazze?” si difese Castiel “e comunque per Erin il problema non sussiste: può usare la nostra divisa tanto è talmente piatta che sembra un uomo” il rosso non poté aggiungere altro poiché gli arrivò un pugno in pieno addome da parte della donna-uomo.
“allora che si fa? Il regolamento del torneo dice chiaramente che ogni squadra deve avere una divisa identificativa. Non possiamo ordinarle nuove anche quest’anno, la vecchia ci ammazza!” brontolò Patrick.
“si metteranno queste” semplificò Castiel. Le due ragazze guardarono con orrore la profonda scollatura a V della divisa dei ragazzi: perfetta per mettere in evidenza dei pettorali maschili e altrettanto per quelli femminili.
“metteremo un’altra canottiera sotto” propose Kim.
“look molto convincente” replicò Trevor con sarcasmo.
“sei diventato un esperto di moda adesso?” lo rimbeccò l’amica.
“senti Kim facciamo così: prendiamo la taglia più piccola che hanno e ci mettiamo sotto un top sportivo” propose Erin. Anche optando per una S, sapeva che la maglia sarebbe comunque risultata molto larga sopra i loro corpi minuti. Erin poi che era anche più bassa di Kim avrebbe avuto un’aria quasi tenera anziché da professionista.
Kim ci pensò un attimo e poi acconsentì. L’idea d’insieme non era male e in ogni caso non c’erano alternative migliori.
“adesso c’è un’altra cosa da dire: tenendo conto che siamo a fine ottobre, ci rimangono meno di tre mesi per prepararvi come si deve al torneo. Inoltre dobbiamo allenarci tutti quindi non sarebbe male se voi due vi allenaste anche durante il weekend, al sabato per esempio” propose Dajan.
“sono d’accordo” confermò Patrick.
“potremo allenarci insieme” propose Erin guardando Kim. La mora sembrava condividere quell’idea ma Dajan si intromise:
“io pensavo piuttosto che vi alleniate separate con uno di noi. Del resto manco conoscete le regole di questo sport e ci vuole qualcuno che vi insegni tutto”
Anche se quell’osservazione era per lo più riferita ad Erin, Kim non ebbe nulla da ridire. Nemmeno lei del resto conosceva il regolamento della pallacanestro e non poteva certo vantare una grande preparazione atletica. Era veloce e scattante ma non era allenata sulle dinamiche del gioco e questo durante la competizione avrebbe penalizzato la squadra.
“sì sono d’accordo, visto che sei stato tu a proporre la cosa, ti offri come insegnante?” esclamò Trevor rivolto verso Dajan.
“nessun problema” replicò il ragazzo scrollando le spalle.
Un sorriso furbetto si impadronì delle labbra di Erin. In veste di Cupido, esclamò prontamente:
“allora Dajan tu potresti allenare Kim. Io mi prendo Castiel visto che non abita distante da casa mia” commentò soddisfatta della piega che stavano prendendo gli eventi. Kim era straordinariamente mansueta e sembrava troppo presa a trovare un modo per non guardare in faccia Dajan. Faceva quasi tenerezza come cercasse di celare il suo imbarazzo.
“eh cosa? Mica sono un cane!” protestò immediatamente il rosso “non ho nessuna intenzione di allenarti!”
“allora ci penserò io. Passeremo molto tempo insieme Erin” si intromise Trevor con un sorriso invitante. Cinse le spalle della ragazza e la avvicinò a sé, lasciando senza parole Erin.
“sei un pessimo insegnante tu. Arriverebbe a febbraio più impedita di quanto non lo sia ora” borbottò Castiel dandogli un pacca sulla nuca “d’accordo Rapunzel. Ti allenerò io. Sabato mattina al campo sportivo vicino al Mc Donald. Non osare fare tardi”
 
Una volta arrivata a casa, Erin trovò la zia intenta a leggere una rivista. Era comodamente distesa sul piccolo divano rosso e aveva i piedi scalzi:
“sbaglio o torni a casa sempre prima da lavoro?”
“e tu non torni a casa sempre più tardi da scuola?”
Erin appoggiò la borsa sul divano e scrutò il viso della zia.
Decise che non era il caso di intraprendere una conversazione perché Pam sembrava proprio di cattivo umore.
 
Durante l’ora di cena, dopo aver passato le ultime ore rinchiuse nel proprio religioso silenzio, Erin osò chidere:
“novità con Jason?”
Senza staccare gli occhi dal piatto, mentre era intenta a sminuzzare la bistecca, Pam replicò atona:
“ha una ragazza”
Erin rimase con il boccone a mezz’aria.
“stiamo parlando di Jason il nostro vicino?”
“e chi sennò?” sbottò Pam lievemente irritata per la domanda della nipote.
“non può essere. Sono passati appena tre giorni da quando ti ha invitato a cena”
Pam si limitò a scrollare le spalle. Non voleva dire nulla quell’invito. Come evidentemente non voleva dire nulla il modo in cui il ragazzo le si era rivolto negli ultimi due anni. Non era innamorato di lei. Altrimenti non gli sarebbe bastato così poco per dimenticarla.
“te l’ha detto lui?” indagò Erin poco convinta.
“no. Però oggi mentre stavo rincasando ho visto una donna uscire dall’appartamento e questa ha detto – guarda che mi aspetto che mi chiami- e lui le ha risposto – come potrei non farlo?-“
Pam teneva lo sguardo fisso sul piatto in cui spostava a caso gli avanzi di cibo.
Erin stava per dirle che poteva trattarsi benissimo di un’amica ma il telefono di casa la precedette.
Scambiò una rapida occhiata con la zia, in una mutua conversazione che avrebbe stabilito che tra le due era la prescelta per alzarsi da tavola e impugnare la cornetta. Alla fine prevalse la pigrizia e il malumore di Pam, per cui fu la nipote a dover avvicinarsi all’apparecchio:
“Casa Travis”
L’espressione cordiale di Erin mutò rapidamente:
“ciao mamma…sì io bene… tu?... e papà?....mi fa piacere. Sì a scuola tutto bene… te l’ha detto la zia? Eh sì un campionato a livello nazionale…già… immagino immagino…”
Pam distolse l’attenzione dai suoi problemi per ascoltare la telefonata. Quando telefonava Susy, sua cognata, ogni altro pensiero passava in secondo piano.
Dopo un lungo silenzio Erin chiese:
“come sta?”
Erano mesi che non pronunciava il suo nome. Ogni volta che la madre chiamava, la domanda di Erin era sempre la stessa: “come sta”. Il soggetto di quella frase era sottointeso e ogni membro della famiglia lo conosceva per cui nessuno sentiva la necessità di pronunciare quel nome.
Erin annuì anche se la madre non poteva vederla.
“lo so….. ti passo la zia” e detto questo, Erin consegnò nelle mani della zia la cornetta.
Pam la seguì con lo sguardo e la vide sparecchiare una tavola in cui non avevano ancora finito di cenare. Ultimata la conversazione, Pam abbassò la cornetta e accese la TV.
Lei ed Erin fecero finta di guardare il talk show ma in realtà tutte e due stavano pensando alla stessa cosa. In quel momento Pam sapeva che la ragazza voleva essere lasciata sola nella sua tristezza.
 
Improvvisamente il cellulare di Erin si illuminò e il tavolino di vetro amplificò il rumore della vibrazione.
La ragazza allungò l’occhio e con sorpresa trovò un messaggio da parte di Castiel.
 
CASTIEL: “hai fregato mio quaderno di matematica?”
 
Erin lesse due volte quel messaggio, sorpresa dall’assoluta assenza di una grammatica corretta.
 
ERIN: “scrivi come un analfabeta…cmq no, non ce l’ho io”
 
CASTIEL : “controlla”
 
Erin sollevò un sopracciglio lievemente irritata. Prepotente e maleducato anche nei messaggi. Non c’era bisogno di memorizzare il numero di Castiel in rubrica. Avrebbe riconosciuto il suo modo di parlare in qualsiasi situazione.
La ragazza si alzò e frugò nella borsa. Dopo una sommaria ricerca, digitò:
 
ERIN: “ti ripeto che non ce l’ho io. Non dare la colpa a me se perdi le tue cose!”
 
CASTIEL: “no ho perso. Non sono mica Lysandre”
 
ERIN: “come mai ti affanni tanto? Non è da te :-/”.
 
CASTIEL: “c’era dentro uno sparviero”
 
ERIN: “e come hai fatto a mettercelo dentro? XD”  

chiese Erin deridendo l’errore di battitura del ragazzo.
 
CASTIEL: “*spartito…  sto cazzo di correttore di merda!”
 
Erin sorrise e ciò non sfuggì alla zia.
“è Iris?”
“no, non è lei… E’ Castiel”
“e riesce a farti sorridere così?” commentò Pam compiaciuta.
Erin ammutolì, non sapendo come replicare a quell’osservazione finché il cellulare vibrò nuovamente:
 
CASTIEL:  “trovato”
 
ERIN: “dov’era? Aspetta non dirmi che ti ci eri seduto sopra! XD”
 
CASTIEL :“te loggia detto. Non sono mica Lysandre”
 
ERIN: “magari lo fossi, almeno sapresti scrivere! Analfabeta, guarda come hai scritto “l’ho già! -.-‘’”
 
CASTIEL : “non rompere. Commettere errori è un diritto di tutti”
 
ERIN: “sì ma tu ne approfitti ;)”

 
Si stava divertendo a stuzzicare il ragazzo che per cinque minuti non diede più segni di vita finché finalmente non riapparve:
 
CASTIEL:  “immaginati di vedere il mio dito medio alzato”
 
ERIN: “ti ci sono voluti cinque minuti per ideare questa risposta geniale?”

e al messaggio Erin fece seguire tre simboli di mani che applaudivano.
 
Dopo quel messaggio, Castiel non rispose più. Arrivarono le undici e la ragazza fu costretta a chiedersi se non si fosse offeso o semplicemente si fosse rotto della loro conversazione. Nel dubbio però decise di fare un tentativo:
 
ERIN:  “sul serio, dove era il quaderno?”
 
Dopo venti minuti arrivò la risposta:
 
CASTIEL : “il quaderno boh, ho trovato lo sparviero”
A conferma di quanto immaginava Erin, al ragazzo non importava niente del materiale scolastico.
 
ERIN “sta attento che non voli via un’altra volta :)”
scherzò Erin.
 
CASTIEL “ah-ah simpatica”
 
Erin rimase un attimo immersa nei suoi pensieri poi scrisse:
 
ERIN: “me la farai sentire quella canzone venerdì?”
 
Ci sperava davvero. Era curiosa di sentire qualcosa scritto da Castiel perché dopo la serata di venerdì aveva intuito che il ragazzo componesse musica interessante. Sarebbe stato un modo per conoscerlo meglio. Per conoscere una parte di lui.
 
Castiel rilesse il messaggio di Erin. Si chiese se la sua fosse una proposta fatta tanto per, oppure se ci tenesse davvero. Alla fine optò per una risposta che più si confaceva al suo modo di fare, sostenuto e un po’ arrogante:
 
CASTIEL: “se proprio ci tieni…”
 
Erin si distese sul letto, sorridendo come una scema. In appena dieci giorni da quando si era conosciuti il loro rapporto stava migliorando sempre più. I sentimenti di amicizia che nutriva per lui, nonostante il suo atteggiamento, erano sempre più concreti. Decise che era arrivato il momento di salutarlo.
 
ERIN: Buonanotte ^^)
 
CASTIEL: notte

 
Quest’ultimo messaggio non soddisfò Erin.
 
Dopo essersi lavato i denti, Castiel tornò in camera sua dove vide un altro messaggio di Erin:
 
ERIN: potresti usare qualche smile ogni tanto >:(

 
La ragazza stava quasi per addormentarsi quando sentì il cellulare vibrare. Pigramente allungò la mano e sulla schermata dei messaggi era evidenziata l’icona degli MMS.
Quando la aprì trovò una serie infinita di faccine, tanto che il semplice SMS si era convertito in MMS. Subito dopo arrivò un messaggio di testo:
 
CASTIEL: Merda! si è convertito in MMS
 
ERIN: spero tu abbia speso soldi per inviarlo ;-)
Commentò perfida la ragazza
 
Poiché la risposta di Castiel non arrivò immediata ed Erin non vedeva l’ora di addormentarsi, lo anticipò:
 
ERIN: che c’è? Non sai come replicare?
 
CASTIEL: sto cercando tra le faccine che ti piacciono tanto se c’è un dito medio

 
Erin sorrise e visto che il ragazzo non poteva vederla, si limitò a mandargli un messaggio:
 
ERIN: :)
 
Castiel si distese sul letto, sorridendo tra sè.
Non valeva la pena aggiungere altro.
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Contro quanto avevo previsto, alla fine sono riuscita a pubblicare il mio capitolo settimanale ^^) il fatto è che sento proprio il bisogno di far proseguire questa storia e infatti sono arrivata a 17 pagine di WORD °__°.
Andiamo con ordine perché c’è un botto di roba da commentare: innanzitutto, prima di svelare cosa è accaduto tra Castiel e Nathaniel, ho ritenuto più opportuno fare un piccolo excursus sul loro passato, per far capire quanto per entrambi quell’amicizia fosse importante e perché nel momento in cui è ambientata la storia la ferita faccia così fatica a rimarginarsi.
Visto che Castiel è generalmente visto come il figo indiscusso della situazione, ho deciso che nella mia ff, almeno da ragazzino, abbia conosciuto sentimenti come l’insicurezza e l’incapacità di accettarsi per come si è.
Spero che vi sia piaciuta la parte del ricordo che torna alla mente in entrambi i ragazzi. Diciamo che così ho accontentato entrambe le fazioni che li sostengono anche se so che voi preferite che ci sia anche Erin in mezzo… e infatti l’ho messa all’inizio con Nathaniel e alla fine con Castiel.
Non dimenticatevi del gattone! Non era solo una scusa per creare una situazione un po’ diversa tra la ragazza e il delegato… tornerà fuori più avanti ;-)
Passiamo ora al torneo… devo lanciare un appello in particolare a due delle mie recensioniste più assidue e costanti: sabrinacaione e
_nuvola rossa 95_ … si lo so è la seconda volta che vi cito ma non posso farne a meno… avete indovinato :) sarà Kim la seconda ragazza della squadra… non solo, come ha intuito brillantemente _nuvola rossa 95_, Erin dovrà sottoporsi ad una sessione intensiva di allenamento… ma sei un hacker che sbricia nel mio pc le bozze?? XD Ahah, dovrò impegnarmi di più per sorprendervi allora ;-)
Ormai sta diventando una frase fatta, ma dopo 17 pagine di testo, se siete arrivati a leggere fin qua non mi resta che farvi i complimenti per la perseveranza :D Alla prossima!

 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Un disegno per Castiel ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Tornando da scuola, Erin e Nathaniel trovano un gatto che il ragazzo affiderà ad un buon uomo incontrato per strada. Il biondo rievoca un episodio del suo passato che lo lega a Castiel. Tale ricordo è ben impresso nella mente del ragazzo che si rivela rammaricato per la piega che hanno preso gli eventi e rimpiange l’amicizia perduta a causa del suo orgoglio.
Erin propone Kim come nuovo membro del club di basket e dopo le iniziali resistenze della ragazza, la sua partecipazione in squadra viene confermata.


 
CAPITOLO 14: UN DISEGNO PER CASTIEL
Una minacciosa zucca di plastica fissava Rosalya mentre, con la sua andatura da modella, sfilava davanti al negozio di articoli regalo. Quasi a voler ricambiare lo sguardo diabolico del finto ortaggio, la ragazza gli lanciò un’occhiata sprezzante. Odiava Halloween e per sua sfortuna quel giorno era proprio il 31 ottobre.
Le vetrine dei negozi erano decorate con dozzinali maschere di mostri e streghe. Queste ultime in particolare le davano sui nervi, con il loro aspetto da vecchie marcite e i loro denti ingialliti e storti. Storse il naso e si voltò dall’altra parte.
 
“siamo di buon umore oggi principessa” la accolse ironico Alexy, fedele presenza alla fermata dell’autobus davanti al parco. Accanto a lui faceva capolino il fratello, Armin, seduto svogliatamente sulla panchina. Era troppo occupato a completare il livello sul suo videogioco per rivolgere alla ragazza un’occhiata che durasse più di due secondi.
“mica si può essere sempre al settimo cielo come te Alexy” replicò la ragazza incrociando lo sguardo di Armin e scambiandosi reciprocamente un cenno del capo che equivaleva come un saluto.
Erano tre anni ormai che quel rituale si ripeteva: i gemelli aspettavano Rosalya alla fermata davanti al parco ma poi solo il più pigro dei due, Armin, raggiungeva la scuola in autobus. Il fratello infatti preferiva proseguire a piedi chiacchierando con la sua migliore amica. E quel giorno non era un’eccezione a quella routine.
 
Castiel spense la sveglia abbandonando pesantemente la mano sul pulsante superiore. La mancanza di controllo del movimento squilibrò l’oggetto che cadde a terra, perdendo la sua unica fonte di energia: le batterie. Il ragazzo sbuffò e lentamente, si levò rimanendo con le gambe distese davanti a lui. Appoggiò la schiena contro la testiera del letto alla ricerca della forza che gli avrebbe consentito di abbandonare il suo caldo rifugio. Ma gli bastò guardare l’unica fessura di finestra che non era occultata dalla tenda e il tempo uggioso fu una tentazione troppo forte: risprofondò la testa sul cuscino e si portò la coperta fino al naso.
 
Il profumo di vanillina aveva monopolizzato la cucina. Erano passati sei giorni dall’operazione di Adam e per tutto quel tempo sua madre si era prodigata in ogni genere di premura. Quella mattina toccava alla colazione con biscotti appena sfornati:
“devo operarmi anche io all’appendice per avere i biscotti fatti in casa?” scherzò Iris allungando la mano sulla teglia rovente che la madre aveva posto al centro della tavola.
“non dire sciocchezze. Cerca di sbrigarti piuttosto altrimenti perdi l’autobus” la ammonì la donna versandole del caffè in una tazza precedentemente riempita di latte.
Iris adorava sua madre. Era una persona molto forte che aveva saputo crescere i figli praticamente da sola, poiché il marito era un generale dell’esercito americano e il suo ruolo gli imponeva lunghi periodi di assenza dal nido familiare. Al pari del calore e dell’affetto che nutriva per sua madre, Iris contrapponeva nella stessa misura una sorta di distacco e freddezza verso il padre. Samuel Johnson era un uomo tutto d’un pezzo: un valido generale e un discutibile padre. Almeno questa era la spietata opinione della sua primogenita.
Iris si sistemò l’immancabile treccia che le incorniciava il viso ma la madre non sembrò approvare quell’accomodamento.  
“è disordinata. Aspetta che te la sistemo” fece per avvicinarsi alla figlia ma questa la anticipò:
“ma non avevi detto che dovevo sbrigarmi? E poi a me piace così” si difese Iris lisciandosi di capelli che sfuggivano all’intreccio. Non voleva un’acconciatura impeccabile, le avrebbe conferito un’aria troppo impostata.
 
“Nathaniel, tua madre si è raccomandata di ricordarti che questa sera devi raggiungere tuo padre a quella cena al Twin Towers”
Sulla soglia dell’ingresso di villa Daniels, una signora sulla sessantina stava porgendo al ragazzo la sua borsa a tracolla.
Il biondo la prese tra le mani e si guardò attorno:
“Ambra? È già partita?”
La donna trattenne una risata esasperata:
“mi sorprende che tu lo chieda. È ancora in bagno”
Nathaniel alzò gli occhi verso l’ampia scalinata davanti a lui e proseguì spostando la sua attenzione verso il piano rialzato.  
“allora io vado. Dovrei rientrare per le cinque e… quaranta”
“ricordati la cena” lo ammonì la donna.
“non preoccuparti Molly. Ci andrò”
 
Un tonfo seguito dal rumore di vetri infranti destarono il sonno di Erin. La ragazza, ancora in stato di incoscienza, si girò dall’altro lato del letto finchè un urlo disperato la fece sobbalzare.
“AAAAAAAAAAAAAHHHHHHHH! NOOOOOOOOOOOOOOOOO!!”
Con il cuore che le martellava in petto, balzò fuori dalle coperte e fece irruzione nella camera della zia dove la trovò accovacciata a terra di fronte al cadavere del suo profumo preferito.
“Ti sembra il caso di urlare così a quest’ora??” la rimproverò Erin stordita dal sonno e dalla velocità con cui si era alzata.
“si è rotta la boccetta del profumo! Quello nuovo capisci? Preso ieri! Il mio preferito!” riferì meccanicamente la donna in preda allo sconforto.
“il Flora di GUCCI” completò Erin che da giorni sentiva la zia descrivere ogni nota profumata di quell’essenza. Pam aveva ricevuto un campione di prova e se ne era innamorata. Aveva così deciso di risparmiare per comprarsi il formato più grande disponibile sul mercato alla modica cifra di 120 dollari.
“120 dollari buttati nel water” cominciò a piagnucolare la zia.
Erin avrebbe voluto farle presente che erano buttati comunque, perché non era normale spendere tutti quei soldi per un profumo, specie considerando le sue modiche entrate. Tuttavia non ritenne opportuno infierire. Il giorno prima Pam aveva incrociato per la seconda volta la misteriosa ragazza che usciva dall’appartamento di Jason e questo le era valso come conferma dei suoi sospetti: il suo vicino aveva trovato qualcuno degno del suo amore e per la prima volta dopo tanto tempo, Pam sperimentò il sentimento della gelosia.
Lasciandola immersa nelle sue pene d’amore e di cosmesi, Erin si limitò a tornarsene in camera, inspirando quell’essenza floreale e delicata che si stava diffondendo nell’ambiente.
Stava per rimettersi a letto quando l’occhio le cadde sulla sveglia digitale: 07.33.
Sbarrò gli occhi e alzò la voce:
“ti sei accorta che ora è?” e intanto si affannava a recuperare nella stanza qualcosa con cui vestirsi. Quando era scesa dal letto era convinta che fosse ancora presto invece quello spietato oggetto che giaceva il suo comodino sosteneva che Erin fosse in ritardo. E se ne stava lì silenzioso, senza aver lanciato il minimo avvertimento.
Pam tuttavia era troppo scioccata dal recente lutto per rispondere alle imprecazioni della nipote.
In meno di sette minuti, senza far colazione, Erin era fuori di casa.
 
Corse per strada, consapevole che l’autobus era già passato. Intravide il messaggio di Iris che, prevedibilmente, chiedeva sue notizie. Sapeva che alla fermata davanti al parco passava un autobus alle 7.50. Se fosse riuscita a prenderlo sarebbe arrivata a scuola per le 8.10, tamponando la gravità del ritardo che in alternativa sarebbe stato di un’ora. Del resto la scuola distava quindici chilometri da casa sua e non era fattibile farseli di corsa. Aveva dieci minuti per raggiungere la fermata e poca aria nei polmoni. Correva con la borsa che le sbatteva contro la coscia, rendendo ancora più impacciati i suoi movimenti. Quasi non guardò mentre attraversava la strada e per un paio di volte sfidò la sorte, guadagnandosi rumorosi clacson e improperi da parte di autisti stressati.
Respirare era sempre più difficile per lei, così poco abituata a correre. Ripromise a se stessa di cominciare a fare jogging il prima possibile, le avrebbe fatto bene anche in vista del torneo di basket.
Stava per attraversare la strada, quando un missile le sfrecciò sotto il naso.
Il ciclista si voltò arrabbiato, continuando a pedalare:
“non si corre così!”
“vale lo stesso per te!” lo rimbeccò Erin. Si bloccò e il suo sguardo sbigottito era esattamente speculare a quello con cui la stava guardando Castiel. Il ragazzo, non appena aveva riconosciuto nella figura della pedona spericolata la sua compagna di classe, aveva frenato bruscamente.
 “sei in ritardo oggi” la stuzzicò.
“a quanto pare siamo in due” rispose Erin tornando a correre. Ancora cinque minuti e avrebbe perso l’autobus.
Castiel, anziché proseguire per la sua strada, la seguì.
“stai andando alla fermata davanti al parco?”
“ne conosci una più vicina?” chiese Erin con il fiatone. Sentiva l’aria fredda entrarle nei polmoni e solleticarle la gola. Respirava con la bocca e le prese un piccolo attacco di tosse.
“dai, salta su” la invitò il ciclista sbarrandole la strada.
“e dove?” chiese sorpresa da quella galanteria.
“sul portapacchi”
Erin non ebbe molto tempo per pensare. Colse al volo quel passaggio improvvisato e si lasciò portare dal ragazzo alla fermata. Del resto era una sua caratteristica farsi guidare dall’istinto. Ma in quel momento era più che altro la ragione a parlare e le stava dicendo che solo così sarebbe arrivata in tempo alla fermata.
“grazie”
“non lo faccio mica per te. Se arrivi in classe sudata e puzzolente, poi tocca a me starti seduto vicino”
“ma sei proprio stronzo!”
Castiel sorrise beffardo e in un batter’occhio la portò a destinazione, in anticipo di un paio di minuti.
 
Il giorno prima si era conclusa ufficialmente la punizione di Erin.
Questo fattore non era l’unico a incidere sul suo buon umore (minato dal ritardo di quella mattina). Era venerdì e questo significava passare la serata in compagnia di Castiel e Lysandre.
Il giorno precedente aveva pranzato con Nathaniel e, per quanto adorasse la compagnia del biondo, non poteva fare a meno di rammaricarsi per il fatto di doversi sdoppiare tra lui e il resto dei suoi amici. A causa di vecchi attriti di cui non conosceva le dinamiche, Erin si trovava tra due fuochi, incapace di scegliere da che parte stare, così ora si trovava in un limbo indefinito. 
Con lei e Nathaniel avevano pranzato anche Rosalya e i gemelli Armin ed Alexy. Questi ultimi due avevano portato un allegria tale che Erin era tornata a fare le pulizie con le mascelle che le facevano male dal troppo ridere. Se fosse riuscita a unire le due compagnie, sarebbe risultato un gruppo di persone fantastico. Prima però doveva scoprire quali fossero le motivazioni che avevano separato i componenti e qualcosa le suggeriva che non avrebbe atteso ancora molto.
 
“ieri non ti ho vista fuori da scuola” cominciò a dire Castiel, girando a vuoto i pedali della sua bici. Diede loro un colpo all’indietro e questi cominciarono a roteare vorticosamente:
“perché sono andata in sala delegati ad aspettare Nathaniel. Voleva offrirmi qualcosa per festeggiare l’ultimo giorno di punizione”
Castiel fece un verso molto simile ad un grugno beffardo e commentò:
“avete festeggiato in sala delegati? E con cosa? Aranciata svampita che era avanzata dall’ultimo evento del liceo?”
“ah-ah. No… siamo andati a fare aperitivo fuori… anche se non parlerei proprio di aperitivo” borbottò tra sé e sé Erin. Si vergognò pensando che in fondo il rosso ci aveva quasi azzeccato visto che la ragazza aveva ordinato proprio un’infantile aranciata.
Castiel però non fece altre domande.
“Kim come se la sta cavando?”
“è una grande. Se non cominci a migliorare, dovremo mettere in campo solo lei, sperando che non si infortuni mai”
“ti ringrazio per la fiducia. Domani mattina vedremo come te la cavi come allenatore”
“sarà divertente una volta tanto vederti fare quello che voglio io” sghignazzò Castiel.
Erin lo guardò truce. Catalogò quel commento e aggiunse:
“perché ho l’impressione che tu debba dirmi altro?”
“perché è così Rapunzel. E non pensare che sia una buona notizia”
Da lontano sentirono il rombo soffocato di un motore. L’autobus stava arrivando.
“allora sbrigati a dirmela sta notizia, visto che sta arrivando il bus” esclamò Erin con una certa urgenza nella voce.
“oh, ma come si è fatto tardi!” la ignorò Castiel assumendo un’aria fintamente scioccata “sarà meglio che vada” e senza lasciare ad Erin il tempo per aggiungere altro, pedalò via, lontano da lei abbandonandola con una curiosità crescente di sapere di cosa stesse parlando.
 
Una volta in classe, Castiel si rifiutò di confessare ad Erin la novità. La ragazza torturò anche Iris, chiedendole insistentemente se il rosso ne avesse parlato durante il pranzo del giorno precedente a cui lei non aveva partecipato, ma nemmeno l’amica aveva idea di cosa si trattasse.
 
Al cambio dell’ora, l’immancabile delegato fece capolino sulla soglia della porta ed Erin non riuscì ad astenersi dall’aggiornare anche lui.
“potrebbe riferirsi al nuovo acquisto del club di basket. La preside mi ha detto che è inaccettabile che finora la squadra non abbia avuto nessun professore che si sia occupato di sorvegliare i ragazzi. In realtà in passato si sono alternati vari professori di ginnastica, ma negli ultimi tre anni è diventato sempre più difficile gestire la squadra, così tutti hanno rifiutato quel ruolo. I club scolastici dovrebbero sempre essere seguiti da un tutor, per la sicurezza degli studenti più che altro, ma quello di basket è l’unica eccezione. Si vede che questa situazione ora alla preside non va più, specie per via del torneo e perché ci sono stati degli atti vandalici…”
“ti riferisci al rubinetto rotto nello spogliatoio maschile?”
“esatto” confermò Nathaniel “tu ne sai qualcosa?”
Erin sentì il battito cardiaco accelerare pericolosamente. Certo che lo sapeva, era stato Trevor. Ma non poteva fare la spia così fu costretta a mentire. Realizzò in che scomoda posizione si trovasse il biondo a causa del suo ruolo. Era sua responsabilità riferire alla preside e ai professori fatti che in altre circostanze il cameratismo tra studenti avrebbe nascosto.
“no però ne avevo sentito parlare di questo fatto” replicò vaga, guardandosi attorno.
Le sembrava di essere risultata credibile eppure Nathaniel la scrutò poco convinto  e sorridendo, scosse il capo:
“farò finta di crederti”
“quindi da ieri il club ha un allenatore?” riepilogò la ragazza.
In quel momento passò loro accanto Castiel che squadrò il biondo:
“sempre il solito guastafeste tu” borbottò scocciato dal fatto che Erin avesse scoperto la verità.
“non vedo perché tenerla sulle spine per una cazzata del genere” replicò asciutto Nathaniel.
La mora rimase sorpresa dal linguaggio del delegato. Era come se si fosse portato a livello di Castiel ma il rosso non sembrò basito per questo.
La ragazza non riusciva ad immaginare come fosse stato il loro rapporto quando lei era ancora lontana da loro chilometri e chilometri. Già le risultava arduo concepire che tra due personalità così antitetiche si fosse sviluppato un’intesa, ma che ci fosse addirittura una sorta di complicità e affiatamento le sembrava altamente inverosimile.
Castiel passò oltre, tornando in aula.
A poca distanza Erin vide avvicinarsi Miss Robinson, la sua insegnante di arte. La settimana prima, quando aveva avuto la prima lezione con la donna, ne era rimasta piacevolmente sorpresa. Anche se la ragazza era completamente negata per il disegno, la professoressa aveva saputo creare un’atmosfera in aula che le aveva reso affascinante una delle materie che più odiava:
“adesso vado. Ci vediamo in giro”
 
“non capisco perché non possiamo fare come tutte le altre scuole americane” si lamentò Kim. Recentemente il nouovo acquisto della squadra di pallacanestro aveva cambiato posto e si era messa accanto a Trevor. La collocazione dei due amici in aula era quindi davanti ai banchi di Castiel ed Erin.
“a che ti riferisci?” le chiese Erin tirando fuori il libro di storia dell’arte.
“al fatto che dobbiamo sempre rimanere in quest’aula”
“a me piace così. Ha un che di europeo” ammise Erin “e poi non c’è quel via vai di gente che entra ed esce”
“di la verità Erin” la punzecchiò Trevor “ti piace avere il posto fisso accanto a Castiel”
“questo è l’unico inconveniente in realtà” scherzò la ragazza.
“ehi Rapunzel non pensare che io mi delizi della tua vicinanza” si difese prontamente il rosso “comunque credo che oggi sarai accontentata Kim. Mi sa che ci trasferiremo nell’aula di arte” e dopo aver detto quelle parole, indicò Miss Robinson. La donna si era fermata sulla soglia della porta anziché varcarla:
“forza ragazzi. Oggi si disegna. Andiamo in aula giù”.
 
Poiché la lezione della settimana precedente l’avevano passata in aula di didattica, Erin era eccitata dall’idea di scoprire un nuovo locale della scuola. Il Dolce Amoris si era dimostrato una scuola ben al di sopra degli standard nazionali, del resto si trattava di una scuola privata (ancora Erin non aveva chiaro come i suoi genitori potessero essersi permessi di iscriverla in un simile istituto). L’aula di arte di dimostrò all’altezza delle sue aspettative. Era molto luminosa e spaziosa, adatta ad accogliere una ventina di banchi molto grandi. Gli scaffali erano riforniti di fogli e materiale di ogni tipo.
Senza che se ne accorgesse, Erin si trovò accanto Castiel.
Si immaginava che avrebbe occupato il posto accanto a Trevor, così lei si sarebbe potuta sedere vicino ad Iris ma le bastò una rapida occhiata all’aula per notare che la disposizione dei banchi era esattamente la stessa dell’aula di didattica e che i suoi compagni avevano occupato i rispettivi posti.
“il lavoro di oggi porterà un po’ di subbuglio, lo so, quindi cercate di contenervi e fare meno rumore possibile” li avvertì la professoressa, appoggiandosi alla cattedra.
La classe guardò l’insegnante con curiosità: Miss Robinson era famosa per le sue idee un po’ bislacche e originali.
“oggi lavoreremo sul ritratto. Dovrete ritrarre il profilo del vostro compagno di banco”.
Erin e Castiel si scambiarono un’occhiata agghiacciante.
Evidentemente una volta tanto la pensavano allo stesso modo.
Come la ragazza, anche il rosso odiava disegnare poiché era completamente negato per la materia.
Sulla proposta di lavoro dell’insegnante la classe si divise tra chi ne era entusiasta (una stretta minoranza) e chi invece era a disagio a l’idea di dover fissare il compagno:
“non azzardarti a farmi il naso grosso!” fu il severo ammonimento di Ambra in direzione dell’amica Charlotte.
“vedrai che renderò al meglio il tuo nasino alla francese” la rassicurò con finta adulazione la mora. Charlotte era la migliore artista della classe, ma avere come soggetto Ambra avrebbe reso molto più difficile il suo lavoro e l’avrebbe esposta a continue critiche e osservazioni.
“ragazzi, disegnate quello che vedete. Non voglio capolavori” spiegò la Robinson distribuendo il materiale. Il disegno sarebbe stato svolto a pastelli su un foglio A4.
 
Erin si mise all’opera e disegnò senza alzare lo sguardo dal foglio per cinque minuti. Provava un certo imbarazzo a dover fissare Castiel anche se sapeva che non si sarebbero scambiati manco un’occhiata.
Tutto ciò non passò inosservato alla professoressa che si accucciò all’altezza della ragazza:
“sai Erin, per fare un ritratto realistico bisogna fissare attentamente il soggetto. Senza pudore e imbarazzo. Devi studiarne ogni angolo, calcolare le proporzioni, osservare dove cadono le ombre e quali punti vengono illuminati dalla luce”
Erin, pur condividendo a pieno quel commento, scattò sulla difensiva:
“penso di avere una buona memoria fotografica prof”
La donna non sembrò convinta, ma preferì non insistere e spostò la sua attenzione su Castiel.
“lo stesso vale per te Castiel”
Con la coda dell’occhio Erin sbirciò il disegno del compagno. Con orrore, constatò quanto impietosamente il ragazzo aveva reso la sua immagine, tanto che, allarmata, sbottò:
“ma mi vedi veramente così?”
Castiel arrossì lievemente, consapevole della scarsità delle sue doti artistiche.
“senti, meglio di così non so disegnare”
“invece puoi. Devi solo osservare più attentamente” lo incoraggiò la Robinson. Erin intanto guardava orripilata l’enorme naso che il ragazzo le aveva attribuito. Era talmente arcuato da ricordare quello di un pappagallo. Istintivamente si portò la mano sul naso cercando di tradurre lo stimolo del tatto in uno visivo.
“guarda dritto davanti a te Erin” le ordinò dolcemente l’insegnante e la ragazza, meccanicamente, ubbidì “osservala Castiel. Vedi che Erin ha un naso regolare? Non è così arcuato verso l’esterno ma invece cade dritto” Erin si sforzò di non arrossire troppo mentre sentiva su di sé quattro occhi che ne scrutavano ogni singolo difetto del viso.
“poi gli occhi. Non sono così in basso. Prendi le orecchie come riferimento”
Controvoglia, il ragazzo assecondò le indicazioni dell’insegnante, divertito se non altro dall’effetto che quella situazione suscitava in Erin: aveva infatti il viso paonazzo e si mordeva il labbro inferiore, come se il dolore distogliesse la sua attenzione dal disagio provato.
 
Quando finalmente l’insegnante esaurì le sue indicazioni, si spostò da un’altra coppia di studenti.
“non potresti sistemare quel ciuffo di capelli?” chiese Erin indicando il suo ritratto “tra questo e il naso di prima, sembro un cacatoa”
“ma ti sei vista come mi stai disegnando?” sbottò irritato Castiel “sembro una donna!”
“non è colpa mia se hai i capelli lunghi. Faresti meglio a tagliarteli!” ribadì Erin.
“senti chi parla” commentò acido Castiel lanciando un’occhiata fugace all’infinita chioma della compagna.
 
Alla fine dell’ora, il risultato di entrambi fu terribilmente scarso, tanto che, perfino Miss Robinson, tendenzialmente molto indulgente, fu costretta a ordinare ai due ragazzi di rifare tutto per il lunedì successivo.
Secondo l’opera di Erin, Castiel era la versione femminile di Nelson dei Simpson. Il ritratto fatto dal rosso era anche peggio: una sorta di incrocio tra il cugino It della famiglia Adams e Samara di The Ring.
 
“ahaha! O mio Dio! Sono trementi tutti e due!” rise a crepapelle Iris non appena Erin e Castiel glieli mostrarono. Le loro opere erano talmente brutte che i due studenti si erano rassegnati a buttarle, ma non prima di averle mostrate ai loro amici.
Erano seduti sulla scalinata intenti a pranzare e stavano aspettando che Lysandre e Violet li raggiungessero.
“adesso capisco perché vi ha detto di rifarlo” commentò la rossa incapace di controllare la risata isterica che l’aveva assalita.
“si vede che almeno qualcosa in comune ce l’abbiamo Castiel: siamo negati per l’arte” concluse Erin rassegnata.
In quel momento arrivò anche Lysandre che venne prontamente aggiornato da Iris sulla novità della lezione di arte:
“beh, direi che Erin ha colto la tua essenza un po’ grezza Castiel” commentò l’amico con un sorrisetto canzonatorio, che Erin ricambiò all’istante.
“vuoi che ti dia un assaggio della mia essenza grezza?” lo minacciò Castiel.
“è la prima volta che mi fai un’avance così spinta” commentò sconvolto Lysandre strappando un sorriso alle ragazze, lasciando perplessa Violet che stava timidamente giungendo nella loro direzione:
“mi sono persa qualcosa?” chiese con una voce talmente bassa, che risultò simile ad un sussurro.
Castiel spostò lo sguardo sull’album da disegno che la ragazza stringeva tra le mani e si morse leggermente il labbro, in un sorriso trattenuto.
“senti Violet, ti andrebbe di fare un disegno per me?”
La ragazza dai bizzarri capelli viola lo fissò basita, arrossendo per l’imbarazzo, mentre il resto del gruppo lo guardava con aria interrogativa.
“mi serve un ritratto di profilo di Erin per la Robinson” chiarì Castiel.
“non se ne parla! Non glielo fare Violet. La prof comunque capirà che non è farina del suo sacco” s’intromise il soggetto del quadro.
“e che male c’è? La Robinson vuole un lavoro migliore di quello che ho fatto ma meglio di così non mi verrà. A sto punto lo lascio fare a Violet” si giustificò l’artista incompreso.
“in realtà è da un po’ che volevo passare alla ritrattistica. Mi hai offerto uno spunto, grazie Castiel” sussurrò Violet, con aria un po’ svampita.
“non sei tu che lo devi ringraziare Violet”obiettò  Lysandre perplesso “semmai il contrario”.
L’artista però aveva già aperto il suo inseparabile album e si era messa all’opera, isolandosi dal resto della compagnia. Su un primo momento Erin, Castiel e Lysandre rimasero senza parole finchè Iris non intervenne:
“non fateci caso. Violet è un’artista e come tale è un po’ strana… a volte tende ad autoemarginarsi ma a lei va bene così”
Violet infatti non badò a quelle parole e continuò imperterrita il suo lavoro.
I ragazzi allora cominciarono a chiacchierare del più e del meno, buttando l’occhio ogni tanto al lavoro dell’artista. Erin non si sentiva così a disagio come in aula e non riuscì a spiegarsi il perché. 
 
“allora intendi darmi qualche informazione sul nuovo allenatore per il club?” iniziò il discorso Erin rivolgendosi al compagno di squadra.
“che senso ha? Tra cinque minuti lo conoscerai anche tu”
“eddai, dimmi almeno che impressione ti ha fatto…”
“raccapricciante” borbottò Castiel scendendo dal muretto e avviandosi verso la palestra.
“devo andare anche io. Non vorrei arrivare tardi al club” disse Violet uscendo dal suo isolamento.
“finchè sei con Iris, non vedo dove sia il problema” commentò Erin, gettando i rifiuti nel cestino ed imitando Castiel.
Iris osservò l’amica poi esclamò:
“oh giusto! Non te l’abbiamo più detto. Lysandre ha trovato una ragazza del club di disegno, Daisy, disposta a passare a quello di giardinaggio al posto di Violet. Si scambiano di posto e la preside ha detto che non c’è problema”
“ma è meraviglioso!” esclamò Erin guardando la timida amica. Violet si limitò a sorridere e a cercare lo sguardo di colui che le aveva offerto quell’opportunità. Lysandre aveva un’espressione soddisfatta; stava pensando che del talento della ragazza avrebbe beneficiato anche il club di cui era membro: quello di teatro.
 
Quando Erin varcò la soglia dello spogliatoio femminile, trovò Kim impegnata in un’accesa discussione con le sue ex colleghe del club di atletica:
“non ci si tira indietro così all’improvviso” le stava dicendo una ragazza del secondo anno che nonostante avesse due anni in meno di Kim non si sentiva affatto in soggezione.
“sono libera di fare quello che voglio Mandy” le abbaiò contro Kim. La scena che si era presentata di fronte ad Erin sembrava quella di un vecchio leone circondato da un branco di iene.
L’inferiorità numerica di Kim, che era fronteggiata da almeno sette ragazze, urtò Erin, che si sentì in dovere di intromettersi per chiarire la situazione:
Kim si è trovata costretta a dover accettare. L’evento è importante per la scuola e lei era la miglior candidata”
La ragazza del secondo anno si voltò di scatto verso Erin e sbottò:
“voi del club di basket! Vi credete tanto superiori solo perché avete ottenuto più successi di tutti… ma non ci si comporta così! Anche il nostro club ha bisogno di Kim e inoltre lei è ufficialmente iscritta ad esso”
“ti sbagli Mandy” la corresse l’ex velocista  “Oggi Nathaniel ha portato il modulo a Peter perché prendesse nota che non farò più parte del club”
Mandy sbarrò gli occhi dalla rabbia. Era ufficiale: Kim non era più un membro del club di atletica.
“c-c’è il campionato regionale di atletica e tu ci molli così?” articolò in preda ad un’incontrollabile nervosismo. Mandy guardava Kim con gli occhi feriti di un cucciolo abbandonato dalla madre.
“il campionato?” chiese Erin interrogativa ma evidentemente era l’unica nella stanza a non esserne al corrente.
“lo so quanto tu ci tenga Mandy. Ma non posso esserci sempre io a farti da balia! È ora che cominci a camminare con le tue gambe” e dopo aver girato i tacchi, Kim uscì dallo spogliatoio.
Consapevole di avere le occhiate delle ragazze rivolte contro di lei, Erin si cambiò alla svelta e raggiunse la palestra.
 
“ed ecco che finalmente ho l’onore di fare anche la tua conoscenza, Erin!”
La ragazza, appena aveva messo piede in palestra era stata assalita dall’esclamazione di benvenuto da parte dell’individuo più ambiguo che avesse mai incontrato. Un uomo palestrato ed abbronzato, con una ridicola canottiera da wrestler, le stava rivolgendo un sorriso esagerato. Come se il suo aspetto non fosse sufficiente a sconvolgerla, l’uomo le porse una rosa rossa facendole un profondo inchino. La ragazza non potè fare a meno di chiedersi se quella scenetta si fosse ripetuta con Kim il giorno prima e rimpianse non essere stata presente per accertarsene.
Erin aveva assunto un’aria talmente stupefatta e perplessa che il resto della squadra dovette trattenere qualche risata.
“sono Boris, la preside mi ha convocato come vostro nuovo allenatore, in vista dell’importante evento sportivo di febbraio. Spero che la mia fama non mi abbia preceduto” auspicò soddisfatto l’individuo.
Mentre l’uomo era impegnato a recuperare un registro finito per terra, Erin lanciò un’occhiata a Castiel e bisbigliò:
“è davvero raccapricciante”
Il capitano si limitò ad alzare le mani in un ineluttabile “te l’avevo detto”.
“bene ragazzi! Cominciamo! Lo spirito della gioventù che scorre nelle vostre vene non può rimanere sopito!”
Diede disposizione affinché i dodici membri di dividessero in due squadre e ciascuna si allenasse a far tiri al canestro.
Erin e Kim si erano messe sulla stessa squadra ma Boris non approvò quella scelta:
“Kim ed Erin, dividetevi una per ogni squadra. Non vorrete fare un torto al gruppo che rimane sprovvisto di ragazze”
Erin lo guardò con se stesse parlando con un UFO mentre Kim masticò a denti stretti:
“io lo picchio”
 
A dispetto dei modi da idiota, Boris si rivelò un valido acquisto per la squadra. Le sue osservazioni erano (quasi sempre) inappuntabili e pertinenti. La squadra lavorò sodo come mai era capitato prima anche perché la pressione della competizione stimolava tutti a dare il massimo.
Verso le tre e mezza, Boris si portò a centro campo ed esclamò:
“ottimo lavoro ragazzi! Prendetevi un quarto d’ora di pausa e poi si torna a lavorare qui”
A quelle parole Erin sgusciò immediatamente verso l’esterno, non prima di passare per lo spogliatoio per darsi una sistemata. Quando ritenne che il salvabile fosse salvato, si avviò verso la sala delegati.
Esitò qualche secondo davanti alla porta. Tanto per cambiare aveva agito d’impulso presentandosi lì senza invito. Ora si trovava di fronte una porta chiusa e non sapeva se sarebbe stata una buona idea interrompere Nathaniel in quel momento.
Si frugò nella tasca della tuta e, dopo aver sbloccato il cellulare, cominciò a comporre un messaggio. In quel momento però la porta si aprì ed Erin si trovò faccia a faccia con Melody.
Entrambe sussultarono sorprese dalla presenza dell’altra.
“scusami. Non volevo spaventarti” si giustificò Erin.
“che c’è Melody?” la voce di Nathaniel richiamò la collega che fu costretta a voltarsi.
“è Erin”
Dopo qualche secondo il delegato apparve sulla soglia:
“Erin, c’è qualche problema?”
“no, no… è che ho un quarto d’ora di pausa… ero venuta a vedere se avevi voglia di fare quattro chiacchiere… ma se sei impegnato non importa” farfugliò Erin.
“no anzi, ho giusto dieci minuti buchi” la rassicurò Nathaniel.
“ma dobbiamo ancora finire di prenotare le ultime cose per la gita” obiettò Melody dal cui tono scaturì una certa irritazione di cui Erin si sentì la causa.
“abbiamo detto di aspettare la conferma del museo. Non risponderanno prima di dieci minuti, quindi possiamo prenderci una pausa. Vai pure Melody, ci vediamo dopo” la liquidò Nathaniel e poi tornando a rivolgersi ad Erin propose: “caffè?”
“più che di un caffè ho voglia di un po’ d’acqua. Hai sentito parlare di Boris? Ci sta uccidendo”
I due si diressero alle macchinette dove il biondo pagò una bottiglietta d’acqua per Erin e si prese un caffè lungo.
 “il presidente del club di atletica è venuto a lamentarsi perché le avete portato via una delle atlete più promettenti”  la informò.
“in spogliatoio infatti c’è stata una piccola discussione in merito”
“comunque finchè la preside è dalla sua parte, non ci sono problemi. Quella vecchietta è molto competitiva, anche se non sembra” le rivelò il biondo.
“maddai?”
“scommetto che si metterà a fare il tifo per voi dagli spalti” ipotizzò Nathaniel immaginandosi la scena.
Erin sorrise, ansiosa di godersi quello spettacolo.
“si sa niente di quando ci sarà la prima partita?”
“non ancora. So solo che una si giocherà qui, nel nostro liceo”
“sul serio?”
“beh, non mi sembra poi così strano. L’hai detto tu stessa che la nostra scuola è molto attrezzata”
“in effetti è vero” ammise Erin.
“comunque avrò un allenatore personale: io e Castiel abbiamo deciso di trovarci una volta alla settimana per una sessione intensiva di basket” annunciò entusiasta.
Nathaniel fissava un punto dritto davanti a sé e commentò apatico:
“mi sembra una buona idea”
Erin rimpianse di averglielo detto. L’argomento Castiel doveva essere un tabù poiché ogni volta che nominava quel nome, il delegato diventava pensieroso o talvolta perfino scontroso. Del resto quando nominava Nathaniel, sortiva lo stesso effetto sul rosso.
“sono curiosa di vedere i costumi di Rosalya”
Il giorno prima infatti, la ragazza aveva informato Erin dello spettacolo teatrale che sarebbe stato messo in scena a dicembre. Aveva un gran bel daffare in quanto responsabile dei costumi e della scenografia. Erin aveva immaginato che per quest’ultima l’aiuto di Violet potesse essere prezioso ma normalmente quel genere di mansioni erano affidate al club di arte. Ora che l’amica artista ne era diventata membro, Violet poteva condividere il suo incredibile talento con il resto della scuola. Informò di quello scambio il delegato, che ovviamente ne era a conoscenza:
“non ti dispiace lasciare da sole lei ed Iris il giovedì per pranzare con me?” indagò il ragazzo.
“in realtà da qualche giorno si è aggiunto anche Lysandre, il ragazzo in 5^F” la ragazza omise volontariamente il nome dell’altra new entry dai capelli rossi.
“sì, ho presente”
Erin annuì ma non aggiunse altro ma fu Nathaniel a specificare:
“se c’è Lysandre, immagino ci sia anche Castiel”
Erin annuì e cambiò discorso.
“allora settimana prossima gita, non vedo l’ora” disse trepidante.
“speriamo vada bene. Invece puoi dire a Castiel di presentare in segreteria la domanda di esenzione? La sola comunicazione verbale non basta”
“che cosa? Castiel non verrà?” chiese Erin sconvolta.
“ma come, non te l’ha detto? Comunque no, però si è limitato a comunicarlo a Melody. Deve ritirare in segreteria il modulo per l’esenzione e restituirlo firmato”
Erin era rimasta molto male da quella notizia. Anche se sosteneva di non sopportare Castiel, lo dice in tono scherzoso poiché il ragazza stava diventando sempre più simile ad un amico per lei. In cuor suo aveva sperato che la gita potesse essere l’occasione per riavvicinarlo al ragazzo che ora era di fronte a lei.
“senti Erin ti va di andare a correre sabato?” disse tutt’a un tratto Nathaniel.
Erin rimase perplessa per quell’uscita ma si riprese ed acconsentì con entusiasmo. Entusiasmo che scemò non appena ricordò del suo precedente impegno.
“sabato?” chiese dubbiosa “sabato mattina devo allenarmi con Castiel e nel pomeriggio dobbiamo lavorare sulla ricerca di scienze”
“ah” Nathaniel sembrava leggermente infastidito da quella notizia.
“ma potremo andare domenica” barattò Erin al volo “ho visto che qui a Morristown c’è una bellissima pista pedonale ed giusto stamattina mi sono ripromessa di mettermi in forma. Ho bisogno di sviluppare un po’ di resistenza” spiegò..
Nathaniel annuì, recuperando il suo buon umore. Gli bastava una frase di Erin, un suo complimento o battuta e tornava di buon umore.  
 
Una volta tornata all’allenamento, Erin avvicinò Castiel.
“senti… per quella faccenda dei venerdì segreti… non è che potrei dirlo ad Iris e Violet?”
“ecco lo sapevo” sbuffò Castiel, sbagliando un canestro “lo sai da appena una settimana e già vuoi andare a spettegolarlo in giro”
“non è questione di spettegorlarlo. È che sono mie amiche e mi sento in colpa a tenerle all’oscuro. E poi le avete conosciute anche tu e Lysandre… sono due ragazze in gamba, sanno tenere la bocca chiusa”
“su questo punto di vista mi fido più di loro che di te” ammise Castiel beffardo, facendo un nuovo tentativo e questa volta il tiro andrò a segno.
“Erin! Capisco che tu sia attratta da una simile ondata di testosterone, ma sarebbe ora che ti rimettessi sotto con gli allenamenti” la rimproverò Boris bonariamente.
“se non la smette con questo genere di commenti…” cominciò a dire Erin cercando di trovare una minaccia valida “forza Erin a lavoro!” la esortò Boris e la ragazza si allontanò da Castiel per seguire le istruzioni dell’uomo.
 
“dimmi che sei d’accordo Lysandre” lo supplicò Erin guardando nervosamente l’ora.
Finito in anticipo l’allenamento, lei e Castiel avevano raggiunto l’amico all’uscita della sala teatro della scuola.
“Iris e Violet” ripetè meditabondo il ragazzo. Quando aveva invitato Erin a seguire le loro prove clandestine del venerdì sera non immaginava che la ragazza avrebbe proposto di allargare il pubblico presente.
“te l’avevo detto che non era il caso di far venire Rapunzel” sottolineò Castiel lanciando un’occhiata esaustiva all’amico.
“beh, stiamo parlando di Iris e Violet. Sono due brave ragazze…” convenne Lysandre.
Erin era sulle spine. Cinque minuti più tardi e la scuola sarebbe finita e non avrebbe rivisto le due amiche fino al weekend successivo.
“…per me non ci sono problemi Erin. Purchè sappiano tenere la bocca chiusa” concluse Lysandre con un sorriso gentile. Erin esultò, pronta a dirigersi all’esterno per aspettare le due ragazze e dal loro la notizia  ma il ragazzo aggiunse “ovviamente se Castiel non è d’accordo, non se ne fa nulla”.
Erin lanciò un’occhiata minacciosa al compagno di squadra che aveva già un ghigno beffardo stampato in faccia:
“non farmi questo Castiel! E poi devi farti perdonare la storia della gita” gli menzionò Erin.
“che storia?”
“per il fatto che non vieni e che non ti sei nemmeno degnato di dirmelo! L’ho dovuto sentire da Nathaniel” protestò indignata.
“non sentirai la mia mancanza fidati”
“questo è ovvio!” ribattè orgogliosamente Erin “comunque devi ritirare in segreteria il modulo per l’esonero alla partecipazione e restituirlo firmato”
“te l’ha detto il delegato?”
“certo, mica me le invento io ste cose”
Lysandre colse il malumore dilagante dell’amico che Erin, troppo presa dalla delusione per la mancata partecipazione di Castiel, non notò. In quello stato il ragazzo avrebbe rifiutato qualsiasi favore, compresa la richiesta di accogliere Iris e Violet nel gruppo. Bisognava optare per una diversa strategia e Lysandre aveva un talento naturale nel portare le persone dalla sua parte.
“senti Castiel, se accetti che Violet venga, può finire il ritratto ad Erin che ti serve per lunedì. Del resto senza soggetto, come avrebbe potuto ultimarlo? E sai benissimo che senza Iris, quella ragazza non si sente completamente a suo agio”
Erin rivolse un’occhiata grata a Lysandre. Adorava quando il ragazzo sfoderava il lato più maturo e diplomatico della sua personalità. Compensava con l’assoluta mancanza di quelle due qualità di Castiel.
“fate quello che vi pare. Io vado in segreteria. Ci vediamo sul retro”
 
Erin si appostò fuori dal cancello, aspettando l’uscita delle due amiche che non appena la incrociarono, si diressero da lei. La ragazza spiegò velocemente la situazione e le due furono subito entusiaste. La ragazza infatti dovette soffocare l’eccessiva allegria di Iris che era talmente elettrizzata dall’idea che aveva parlato a voce troppo alta, correndo il rischio che le sue parole raggiungessero le orecchie sbagliate. Violet dal canto suo, era molto contenta di poter ultimare il disegno di Erin in giornata poiché quel giorno si sentiva ispirata.
“avevo pensato di guardare qualche tua foto su Facebook, ma dal vivo è tutt’altra cosa”
“ah non ho Facebook. Mi sono tolta qualche mese fa” la informò Erin senza fornire ulteriori dettagli.
 
Il trio raggiunse i due ragazzi sul retro della scuola che era rimasto deserto. Il piano consolidato da ani era di aspettare fino alle sei per poi intrufolarsi nell’aula di musica. Quell’ala della scuola non era frequentata dal personale delle pulizie che in capo a mezz’ora se ne sarebbe andato.
Un po’ prima delle sei, Castiel andò in avanscoperta e dopo qualche minuto mandò il messaggio di via libera a Lysandre.
Per evitare di dare troppo nell’occhio, il ragazzo lo raggiunse assieme a Violet mentre Erin ed Iris aspettarono altri cinque minuti.
 
Quando finalmente fu il loro turno, ormai la scuola stava diventando buia. Era l’ultimo giorno di ottobre e il clima era più invernale che autunnale.
Erin appoggiò la mano sulla maniglia e mentre stava commentando con Iris la bravura di Castiel come musicista, aprendo la porta si trovò improvvisamente di fronte uno spaventoso mostro dal quale provenì un urlo spettrale.
Le ragazze strillarono in preda al panico ma una volta ripresesi dallo shock rimasero a guardare Castiel, che ancora con la maschera di Halloween in faccia, si contorceva dal ridere:
“i bambini delle elementari fanno questi scherzi” commentò Lysandre scuotendo la testa.
“sei un idiota!” urlò Erin ancora in preda all’agitazione.
“eddai, era così per ridere”
“che ci abbiano sentite?” chiese Iris allarmata.
“no, quest’ala è praticamente abbandonata dal personale” la tranquillizzò Castiel tornando di buon umore alla sua chitarra. Erin lo fissava con un misto di astio e divertimento. Odiava quel genere di scherzi ma vederlo così allegro non poteva che farle piacere.
Violet nel frattempo si era messa all’opera, mentre i musicisti sfoderarono gli strumenti. Come la settimana prima, Erin tirò fuori i libri ed Iris la imitò.
 
Nell’arco di cinque minuti, si era creata un’atmosfera estremamente tranquilla, dove la musica dal vivo faceva da sottofondo e conciliavano la concentrazione delle due studentesse e consolidavano l’ispirazione dell’artista.
Una delle musiche più belle del rock venne suonata quella sera. Let Down dei Radiohead si sposava perfettamente con lo stile dei due ragazzi, tanto che persino Violet distolse l’attenzione dal suo lavoro per ammirare il duo mentre lo eseguiva.
 
Ogni tanto Iris o Erin davano qualche opinione sul pezzo e i due musicisti realizzarono che in fondo un parere esterno era sempre utile.
Come promesso da Castiel, il ragazzo eseguì l’ultima musica che aveva composto e i presenti rimasero sbalorditi.
“è una delle migliori che tu abbia mai scritto!” apprezzò Lysandre.
“sul serio. E poi non ho mai sentito nulla di simile. È proprio… tua” commentò Iris che in realtà di musica nel capiva poco. Aveva gusti pop anche se non denigrava qualche canzone rock.
Erin invece era rimasta senza parole. Aveva studiato musica e in passato aveva anche provato a comporre qualcosa ma si era ritrovata a ripiegare sui soliti motivetti.
Ciò che la mente di Castiel aveva sfornato invece era assolutamente unico.
“beh, devo ammettere che ultimamente mi sento ispirato” e dopo aver fatto quel commento, quasi con timidezza, il musicista lanciò un’occhiata fugace verso Erin pensando di trovarla distratta. La ragazza invece lo stava guardando ammirata, ancora coinvolta dalla melodia che aveva composto. I due arrossirono lievemente e distolsero la loro attenzione reciproca guardando da un’altra parte.
 
Verso le sette, qualcuno bussò alla porta. I cinque sobbalzarono. Castiel guardò con rabbia le ragazze, chiedendosi chi di loro avesse tradito il loro segreto.
Per tre anni erano riusciti a farla franca, ma ad Erin era bastata una settimana per rovinare tutto.
“Lysandre, sono io”
Mai suono fu più rassicurante della voce di Alexy in quel momento.
Lysandre si avvicinò alla porta e andò ad aprire. Il gemello dai capelli azzurri sbirciò all’interno e commentò compiaciuto:
“era da un po’ che quest’aula non si riempiva così” i suoi occhi si coprirono di una patina di nostalgia che lo fecero apparire quasi commosso.
“ci sono quelli del club di musica” obiettò Lysandre.
“sai cosa intendo” replicò il ragazzo con un sorriso conciliante.
“come facevi a sapere che eravamo qui?” chiese Iris, immaginandosi colpevole di aver rivelato il segreto. Presa dall’entusiasmo aveva parlato a voce troppo alta quando Erin l’aveva invitata ad unirsi al trio. Evidentemente Alexy aveva sentito tutto.
“l’ho sempre saputo” rispose Alexy senza abbandonare il suo tono affabile, e un sorriso triste sostituì quello che aveva impostato di default. Iris si sentì contemporaneamente sollevata e confusa.
“sono qui per conto di tua sorella. Non le rispondevi al telefono” disse il ragazzo rivolgendosi a Lysandre “Voleva dirti di avvertire a casa che lei questa sera dorme da Leigh… o meglio… di ripiegare sulla solita scusa che dorme da un’amica. A casa non risponde nessuno”
“d’accordo. Grazie per averle fatto da messaggero” concluse il ragazzo con un leggero cenno del capo.
“come hai fatto ad entrare?” indagò Erin.
“non è difficile dalla finestra della 4^A. Si chiude male e non l’hanno ancora riparata”
“vuoi restare?” propose Erin. Lo sguardo di Alexy si spostò immediatamente sull’unica persona che non aveva osato guardare nella stanza e che, sapeva, sarebbe sbottato da un momento all’altro.
“senti Rapunzel... Chi ti ha dato il ruolo di responsabile del comitato accoglienza? Sei qui da una settimana e le persone in questa stanza sono già raddoppiate” si arrabbiò per l’appunto Castiel.
“e che problema c’è? È un’aula attrezzata per una capienza di 25 studenti. Lo spazio c’è a sufficienza” obiettò Erin placida.
“non è questo Erin” spiegò Alexy ma le parole gli morirono in bocca. Vederlo così mortificato urtò la sensibilità dei presenti, più di tutti Erin e meno di tutti Castiel. La prima, non riuscendo a trattenersi sbottò:
“senti Ariel! Non so cosa sia successo in passato, ma visto che nessuno si decide a dirmelo io mi comporto come se non fosse successo nulla. Non ho nulla contro Alexy  e se vuole restare, è il benvenuto. Del resto lo sapeva già che eravate qui. Tu Lysandre hai qualcosa in contrario?”
Il povero Lysandre si sentì conteso tra due fuochi: da un lato lo sguardo inceneritore di Castiel e dall’altro quello assassino di Erin. Alla fine giudicò che una donna infuriata fosse la sciagura più pericolosa.
“no, e Alexy lo sa. Forse sarebbe anche ora che mettessi da parte il tuo rancore Castiel non ti pare?”
“sentite non voglio creare tutto questo trambusto” parlò Alexy “quindi sarà meglio che”
“aspetta Alexy”
Tutti si voltarono verso la timida vocina che aveva preso parola. Violet, facendo capolino da dietro il suo enorme album chiese:
“posso chiederti un consiglio? Su un disegno…”
Erin, Iris e Lysandre trattennero a stento un ghigno di perplessità.
Violet era incredibile: come se non fosse stata presente durante la discussione, se ne era uscita con una frase assolutamente fuori luogo, che non aveva nulla a che vedere con quanto stava accadendo.
“è per il ritratto che sto facendo” specificò lanciando un’occhiata fugace a Castiel.
E in quel momento Erin capì.
Capì che Violet non era così svampita e disincantata come voleva far credere. Aveva un modo tutto suo di vedere la realtà e trovare una soluzione. Del resto Castiel era in debito con lei e non poteva negare ad Alexy di offrirle una mano:
“non serve che tu faccia un capolavoro Violet” borbottò Castiel tornando a strimpellare note a caso sulla chitarra “sennò capisce che non l’ho fatto io”
“ma io voglio farlo bene, altrimenti non te lo do” replicò tranquilla la ragazza. Aveva pronunciato quella frase un po’ autoritaria con una voce quasi infantile e capricciosa che mise di buon umore tutti, strappando una lieve smorfia persino a Castiel. Nella sala tornò a regnare l’armonia e tutti furono grati a quella fatina che era riuscita a creare quella magia.
Alexy si avvicinò alla ragazza che gli lasciò ammirare il disegno. La giovane artista poneva piena fiducia nel ragazzo in quanto quel pomeriggio aveva scoperto che era un suo compagno al corso d’arte. Alexy era stato l’unico a rivolgerle la parola e farla sentire a suo agio. Vedendola così serena e tranquilla, Erin gioì interiormente. La ragazza stava migliorando pian piano: ora rivolgeva la parola ad altre persone che non fossero lei ed Iris e aveva lasciato il club di giardinaggio per seguire la sua vera ispirazione.
Anche se Castiel non rivolse la parola ad Alexy per tutta la serata, si poteva considerare una conquista il fatto che fossero nella stessa stanza. Lentamente ogni frammento stava trovando la sua collocazione ed Erin era curiosa di scoprire, una volta assemblato l’insieme, quale opera si sarebbe presentata davanti ai suoi occhi.
 
Arrivarono le otto e, come da programma, i ragazzi si apprestarono ad andarsene. Violet aveva finito il disegno e, con un certo orgoglio, lo mostrò al gruppo, ricevendo un sacco di complimenti:
“ma è un capolavoro!” esclamò Iris.
“sembra fatto da una professionista” commentò Lysandre.
Erin era ammutolita poiché un po’ in imbarazzo mentre gli amici stavano osservando quella che era una sua raffigurazione.
“è troppo ben fatto Violet. La Robinson non crederà che l’ho fatto io, ma grazie” disse Castiel.
“Erin te l’aveva detto” gli ricordò Iris.
“il club di disegno ha avuto un ottimo acquisto. Spero che per te Iris l’arrivo di Daisy sia stato altrettando ben gradito” esclamò Alexy allegro.
“certo, del resto con il suo nome prometteva bene per il giardinaggio” scherzò la ragazza alludendo al significato del nome Daisy (=margherita).
 
Una volta all’esterno aspettarono che Castiel recuperasse la bici poi il gruppo si divise: Lysandre e Violet andarono in una direzione mentre gli altri quattro in quella opposta. Alexy avrebbe preso la stessa linea di Castiel e delle ragazze.
 
Dopo aver salutato Iris, che viveva a due passi dalla fermata prima di quella di Erin, i tre rimasti proseguirono la loro corsa. Ora che non aveva più il suo braccio destro, per Erin era diventato più problematico far proseguire la conversazione. Le toccava fare da tramite tra Alexy e Castiel. Il primo cercava di essere aperto al dialogo mentre il secondo rispondeva a monosillabi.
 
Scesero alla stessa fermata di Erin, anche se i due ragazzi si sarebbero allungati la strada. Questa volta Erin non protestò per quella premura, sperando in cuor suo che il resto del tragitto senza di lei avrebbe fornito ai due ragazzi l’occasione per riappacificarsi.
“la accompagnavo a casa io. Non serviva che scendessi anche tu” borbottò Castiel in direzione di Alexy.
Erin gli diede una comitata e tradusse:
“intende dire che è stato molto gentile da parte tua Alexy. Così almeno poi Castiel non farà la strada da solo e io potrò dormire sonni tranquilli sapendo che non è stato importunata per strada”
“non sono io quello che abita in una zona malfamata” replicò il rosso, accelerando il passo e distanziando i due.
“e che ne so di dove vivi Ariel? A quanto mi risulta dovresti avere un castello in fondo al mare”
Castiel la ignorò e proseguì senza decelerare. Alexy ed Erin camminavano l’uno a fianco dell’altra e quando Castiel aveva guadagnato dieci metri di distanza da loro, Alexy commentò:
“Ariel… è la terza volta che ti sento chiamarlo così”
“è una cosa tra noi” riconobbe Erin con una certa soddisfazione “anche se non credo che quel colore gli doni particolarmente, mi dispiacerebbe se cambiasse…non potrei più chiamarlo così”
Alexy sorrise e poi rivelò:
“lo sapevi che sono stato io a farglieli quei capelli?”
Erin rimase sorpresa e senza parole. Le capitava troppo spesso di fare quel genere di gaffe, specie con le persone che le stavano più simpatiche come Iris e Nathaniel.
“scusa, non volevo offendere la tua scelta” si giustificò guardandosi i piedi.
“in realtà si è trattato di un errore. Sarebbero dovuti venire più scuri…. Come del resto i miei capelli… sarebbero dovuti venire blu e non azzurri” ammise divertito.
“aahaha, ma dai” commentò Erin altrettanto allegra.
 
Camminarono un altro po’, entrambi guardando la figura davanti a  loro che imperterrita, continuava la sua avanzata solitaria.
“senti Alexy. So di sembrare un’impicciona, ma davvero vorrei cominciare a capire perché non siete più amici. Da quello che ho intuito finora eravate un gruppo una volta ma mi mancano troppe informazioni per capire le dinamiche. Anche se oggi ho aggredito Castiel, la verità è che ho paura di fare passi falsi e mettere le persone a cui mi sto affezionando in situazioni scomode…io mi trovo in mezzo capisci? … vorrei almeno sapere perché ce l’ha con te”
Alexy sospirò e sollevò lo sguardo verso il cielo nero. Erano appena le otto di sera e le stelle ancora non accennavano a fare la loro comparsa. Tornando a guardare Erin il ragazzo cominciò il suo racconto:
“d’accordo Erin. Ma non aspettarti che sia io a parlarti dell’intera faccenda. I diretti interessanti sono Castiel e Nathaniel e dovranno essere loro a fornirti i dettagli. Il fatto è che fino all’anno scorso erano grandi amici e insieme a me, mio fratello, Rosalya e Lysandre eravamo un gruppo molto affiatato. In un certo senso si può dire che fossimo tre coppie di fratelli perché era così che si consideravano Castiel e Nathaniel. Se li avessi visti non ti sarebbe sembrato così strano” specificò cogliendo l’occhiata perplessa della ragazza “quando ci siamo conosciuti, eravamo al secondo anno…”
 


NOTE DELL’AUTRICE

Ecco che i ricordi di Alexy stanno tornando a galla. Sulla scia del capitolo precedente, nel prossimo scopriremo qualcosa sul passato di Alexy  e (speriamo) anche su quello di due dei protagonisti della storia: Castiel e Nathaniel.  
Al di là dell’excursus sul passato di Alexy, sarà un capitolo dedicato al duo Erin-Castiel dal momento che è mio dovere rammentarvi che li aspetta una giornata in compagnia, prima per l’allenamento mattutino e poi per un pomeriggio di studio… che altro posso dirvi? Dal momento che il capitolo 15 è ancora tutto nella mia testa, non posso dare ulteriori anticipazioni;) visto il periodo di esami (di terza media, maturità, università…) faccio un in bocca al lupo a tutti gli interessati :-D poi avrete tutta un’estate per riposarvi della vostra fatica ;-) se ci saranno recensioni le leggerò molto volentieri! Che mi dite di Violet? Lo ammetto… è il mio personaggio femminile preferito, almeno per come me la immagino io. Per questo, nonostante la molteplicità di eventi di questo capitolo (nessuno particolarmente significativo lo ammetto) ho deciso di renderle omaggio dando un titolo al capitolo che richiami l’opera che ha svolto.
Mi piace interpretare Violet come la classica finta tonta, quel tipo di persona che sembra immersa in uno stato di perenne alienazione dal mondo ma che poi si rivela un’acuta osservatrice. E voi? Come ve la sarete immaginata? Alla prossima! ^^)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Il club dei disadattati ***


AVVERTENZA:
Il capitolo 15 si è rivelato più lungo del previsto (oltre venti pagine di Word) così, contrariamente a quanto avevo annunciato nel precedente, ho dovuto scomporlo... questo capitolo sarà quindi incentrato solo  sul passato di alcuni personaggi mentre per l’allenamento di Erin-Castiel dovrete attendere ancora >.<”. Pur essendo già scritto devo risistemarlo e in questo periodo non ho proprio tempo :S. Appena mi sarò liberata dagli esami dell’università, giuro che mi metterò d’impegno per pubblicare i capitoli con più regolarità. Visto che è passato un po’ dalla lettura del capitolo 14, sarà meglio aprire con il solito…
 
…RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE
La professoressa di arte assegna ai suoi studenti il compito di disegnare in classe il profilo del proprio compagno di banco. Dopo i risultati insoddisfacenti di Erin e Castiel la donna è costretta a chiedere ai due ragazzi di riprovare e presentarle il lavoro per la settimana successiva. Castiel però chiede a Violet di eseguire il lavoro al posto suo e la giovane artista, nonostante le proteste degli amici, accetta volentieri. Nel pomeriggio Erin conosce il preparatore atletico della squadra di basket che, nonostante l’aspetto ridicolo, si rivela un buon allenatore. Viene anche a sapere da Nathaniel che Castiel non parteciperà alla gita della settimana successiva. Riesce a convincere Lysandre e Castiel ad ammettere anche Violet ed Iris alle prove del venerdì sera e in quell’occasione fa irruzione Alexy. Nonostante le resistenze iniziali di Castiel, il ragazzo viene invitato a rimanere in compagnia del gruppo. Quest’ultimo, mentre sta accompagnando a casa Erin, comincia a raccontarle cosa è accaduto in passato, prima dell’arrivo della protagonista al Dolce Amoris.
 
CAPITOLO 15: IL CLUB DEI DISADATTATI
Era quasi un anno che Alexy era costretto a sopportare i commenti meschini dei suoi compagni di classe:
“ehi checca, vai nel bagno delle femmine?” lo provocò Pablo, un ragazzo di origini messicane non appena lo vide alzarsi. In mezzo ad una classe di studenti del secondo anno di liceo era impossibile non notare quella fastidiosa presenza. Pablo stava ripetendo l’anno per la terza volta e questo, unito ad una stazza imponente, gli conferiva un’aria intimidatoria e minacciosa. Nessuno osava mettersi contro di lui: la dura legge della giungla scolastica insegnava che quel tipo di persone andavano assecondate e non affrontate. Per questo Alexy, anche se intimamente apprezzato da tutta la classe, si trovava da solo di fronte a quel colosso. Molti suoi compagni, che fino all’anno precedente si erano dichiarati suoi amici, si erano fatti da parte per evitare uno scontro diretto con il bulletto messicano.
Solitamente la reazione di Alexy era una tacita indifferenza che ostentava allontanandosi da quel ragazzo ogni qual volta gli fosse possibile. Questo però non era sufficiente a scemare il senso di superiorità di Pablo che non perdeva occasione per lanciargli qualche battuta cattiva. L’unico motivo per cui non alzava le mani su di lui, gli aveva detto una volta, era che lui non picchiava le donne. Alexy si era limitato a rispondere:
“e io non do retta agli idioti”
Quella fu una delle poche volte in cui Alexy non era riuscito a resistere alla provocazione. Pablo sembrava sul punto di tradire i suoi principi, avventandosi sul ragazzo, ma era stato interrotto dall’arrivo dell’insegnante.
Nonostante le vessazioni quotidiane, Alexy non rimpiangeva nulla di quello che era. Non poteva essere diverso e non voleva esserlo. Sapeva che in fondo i suoi compagni gli volevano bene poiché era una persona spontanea e aperta. Questo era vero soprattutto per le ragazze. Quanto ai maschi, erano più che altro spaventati da Pablo e temevano che dimostrandosi amici di un gay, sarebbero stati additati allo stesso modo.
Dopo essere entrato in bagno, Alexy si specchiò controllando che i capelli fossero a posto. Non gli sembrava che quell’usanza fosse così tipicamente femminile, eppure più volte era stato deriso anche per quello e per l’eccessiva cura che riponeva nel proprio aspetto.
Era un bel ragazzo, ne era consapevole, tanto che un giorno aveva sentito due sue compagne commentare:
“Alexy è proprio bello. Peccato che non sia… normale” completò una delle due dopo una leggera esitazione dettata dalla scelta del termine più appropriato.
Passando loro accanto, Alexy sorrise e commentò:
“per fortuna che Armin è la mia fotocopia. Potete ripiegare su di lui, visto che, a differenza di me è… normale”
In quei momenti sì avrebbe voluto essere diverso: avrebbe voluto arrabbiarsi, alzare la voce e insultare tutti quelli che con le loro mezze verità, le occhiate compassionevoli, le frasi denigratorie lo consideravano un anormale. Ma tutto ciò avrebbe cozzato con la sua indole e soprattutto, cedere a quelle continue provocazioni, avrebbe significato ammettere quanto la loro ignoranza e insensibilità lo ferissero.
 
L’unica consolazione di Alexy era subentrata da pochi mesi, con l’inizio della scuola; questa novità aveva le fattezze di una ragazza dai capelli talmente chiari da sembrare bianchi e occhi così dorati che sembravano quelli di una tigre. Si chiamava Rosalya, e come Alexy, era iscritta al club di disegno. Era già nota in tutta la scuola non solo per l’eccentricità del suo aspetto ma anche per una famosa parentela. Rosalya infatti era la sorella minore di Lysandre uno dei ragazzi più strani e asociali della scuola.
Quest’ultimo era coetaneo di Alexy ma erano in due sezioni diverse. Per qualche motivo aveva sempre suscitato l’interesse di Alexy, che però teneva per sé qualsiasi commento positivo sugli individui del suo sesso per non attirare ulteriori prese in giro e derisioni.
Tra le ragazze, le malelingue sostenevano che Rosalya (all’epoca un po’ bruttina), non potesse essere imparentata con quel gentiluomo d’altri tempi; eppure quando l’aveva conosciuta, Alexy non aveva avuto dubbi sulla loro somiglianza: come il fratello, Rosalya emanava un’aurea di solitudine e un bisogno di autoemarginazione.  Durante le lezioni al club parlava pochissimo e sembrava che ci fosse sempre qualcosa di più interessante nella sua testa di quanto la circondasse.
Entrando nell’aula si sarebbe vista una ragazza dai capelli a caschetto e un fisico un po’ grassottello, concentrata sul foglio davanti a sé. Ogni tanto si distraeva per parlare con Alexy, l’unico che giudicava meritevole della sua attenzione. Come se il fisico non fosse già un punto a suo sfavore, Rosalya portava un vistoso apparecchio da cinque anni e che era ansiosa di levarsi.
 
In Alexy, Rosalya aveva scoperto un amico e un valido confidente. Il ragazzo la ascoltava pazientemente e sapeva come sedare il suo temperamento aggressivo e scontroso. Dal canto suo, Alexy non poteva non rimanere affascinato proprio da quelli che la ragazza considerava i difetti del suo carattere ossia la forza e la combattività.
Per quanto Alexy cercasse di sorvolare i dettagli delle angherie a cui era sottoposto in classe, la ragazzina finiva sempre per intuire le parole non dette, il dolore del ragazzo dietro i suoi sorrisi tristi. Il fatto era che nemmeno per Rosalya la vita scolastica era una passeggiata. A causa dell’eccezionalità dei suoi capelli e del colore dorato delle sue iridi era stata battezzata “la strega della 1^A”.
Il suo carattere non le rendeva semplice farsi delle amicizie, specie tra le femmine che lei finì per giudicare, indistintamente, delle oche ignoranti. Sotto l’esosrtazione di Alexy, una volta Rosalya aveva mostrato ad un paio di loro un suo disegno di cui era particolarmente orgogliosa: si trattava di un vestito d’alta moda poiché il suo sogno era sempre stato quello di diventare una stilista. Si era sentita rispondere che disegnava malissimo e che le proporzioni erano sbagliate:
“l’idea è geniale Rosalya!” aveva invece esclamato Alexy quando l’aveva visto “non capisco come abbiano potuto dire una cosa del genere. Quello che conta è l’abito, non come hai disegnato la modella. Le proporzioni comunque sono corrette, non sanno neanche quello che dicono”
E dopo quel tentativo di socializzazione, Rosalya non provò ulteriormente a costruirsi un ruolo di maggior considerazione all’interno del tessuto scolastico, le bastava seguire le lezioni e frequentare Alexy durante la pausa pranzo. A dire la verità, il titolo di “strega della 1^A” era partito proprio dalle ragazze della sua classe che erano alla ricerca di un capro espiatorio, di qualcuno da deridere alle spalle. Questo segnò profondamente la personalità di Rosalya che cominciò a nutrire una sorta di astio e disprezzo per le femmine, trovandole tutte ipocrite e meschine. Non che con i maschi andasse meglio: erano ancora troppo immaturi e insistevano a punzecchiare Rosalya per via del suo aspetto. Quando si avvicinava Halloween poi le prese in giro assumevano più forza:
“e la scopa dove l’hai lasciata?”
“è la tua festa! Tanti auguri”
 
“li odio tutti! Maschi e femmine” si sfogò un giorno parlando con Alexy che, trovandosi in una situazione analoga alla sua, non sapeva come consigliarla. Ogni tanto ai due si univa anche  Armin ma quest’ultimo era un po’ in imbarazzo a farsi vedere in compagnia del gemello. Infatti doveva affrontare il fatto non solo di essere fratello di Alexy ma di avere pure lo stesso DNA, motivo, secondo alcuni, che avrebbe dovuto giustificare lo stesso orientamento sessuale. All’inizio Armin reagiva difendendo sé stesso e Alexy ma con il passare delle settimane si era stancato e aveva deciso di prendere le distanze da quella parentela così scomoda. Questo aveva creato delle tensioni tra i due fratelli: la finta indifferenza di Armin verso Alexy feriva immensamente quest’ultimo che a sua volta, fingeva che ciò non gli importasse.
 Armin aveva scoperto nei videogiochi il suo rifugio e passava la maggior parte del suo tempo immerso tra console e joystick, guadagnandosi l’appellativo di “nerd”. Anziché offenderlo, si sentì soddisfatto poiché era sempre meglio degli epiteti che erano riservati ad Alexy.
 
Tuttavia quella situazione era destinata a cambiare.
 
Un pomeriggio di fine ottobre, mentre stava tornando al club di disegno, Alexy incrociò due suoi coetanei di 2^C.
Anche se si trattava solo di due ragazzi del secondo anno erano entrambi piuttosto popolari.
 Uno dei due si chiamava Nathaniel e aveva già fatto innamorare di sé buona parte delle conoscenze femminili di Alexy. L’altro era Castiel che, come la luna, brillava della luce riflessa da quel sole che era il suo migliore amico che in quel momento ce l’aveva con lui:
“sei un idiota Castiel e lo sono pure io che ti do retta! Altrimenti non sarei mai finito nel club di cucito l’anno scorso!”
“eddai, tanto non abbiamo fatto un cazzo Nath” minimizzò il rosso incrociando le mani dietro la nuca. Crescendo Castiel sarebbe cambiato molto fisicamente, abbandonando quell’aspetto adolescenziale così immaturo e acerbo ma sul suo viso un tratto sarebbe rimasto immutabile nel tempo: un sorriso asimmetrico di eterno ribelle.
Incedendo, i  due spostarono i loro sguardi verso Alexy e Nathaniel lo salutò.
Alexy rispose con un timido “ciao” e continuò a camminare, sentendosi quei quattro occhi addosso che sembravano infiammargli il collo. Il biondo era il ragazzo più popolare del secondo anno e accanto a lui, Alexy finì per sentirsi in soggezione. Castiel invece era un caso enigmatico per tutta la scuola: aveva una pessima condotta, pessimi voti, parlava quasi esclusivamente con l’amico eppure nonostante la sua mancanza di doti, sembrava che Nathaniel lo considerasse come un fratello. Alexy sentì una morsa allo stomaco nel vederli così complici e allegri, chiedendosi quando il rapporto con Armin sarebbe tornato a prendere quei connotati.
 
“fighe quelle cuffie! Sono dell’Apple?”
 
Alexy si voltò verso il ragazzo che aveva parlato: Castiel. Il moro aveva uno sguardo affascinato e incentrato sull’oggetto che cingeva il collo del gemello solitario. Si trattava di cuffie grandi che gli avvolgevano completamente l’orecchio. Alexy le adorava sia per una questione tecnica (la qualità del suono era pazzesca) sia perché gli permettevano talvolta di isolarsi dal mondo e dalle sue brutture.
Sorpreso per quell’interesse, il ragazzo fece marcia indietro:
“vuoi sentire com’è il suono?” chiese sfilandosele di dosso. L’espressione di Castiel era talmente chiara che non fu necessario tradurla in un fonema.
Alexy scorse nella playlist e scelse una canzone che uno come Castiel poteva apprezzare.
Scelse una canzone dei Tool e dagli occhi eccitati del moro capì di aver azzeccato i suoi gusti:
“si sente da favola! I bassi poi... uaho… pazzesco!… senti Nath” e dopo essersi separato da quel gioiello della tecnologia si rivolse ad Alexy.
“ascolti i Tool?”
“un po’ di tutto in realtà. Quelli mi piacciono per via della batteria… Danny Carey è un grande”
“te ne intendi?” replicò Castiel lasciando trasparire una leggera ammirazione. Alexy stava toccando le corde giuste e questo lo sorprese. Non aveva mai visto il moro intrattenersi in una conversazione con qualcuno che fosse Nathaniel e si sentì lusingato per essere riuscito a calamitare l’interesse di entrambi.
“beh suono la batteria da qualche anno” si giustificò Alexy. Fino a quel momento solo Rosalya ed Armin erano a conoscenza della passione del ragazzo. Era convinto che averlo fatto sapere in giro l’avrebbe esposto ad ulteriori derisioni. Quasi a conferma delle sue paure, Castiel e Nathaniel si scambiarono un’occhiata che fece pentire all’istante Alexy per la sua confessione.
Nathaniel però disse qualcosa che mai Alexy si sarebbe aspettato:
 
“ti piacerebbe entrare nel nostro gruppo?”
 
Alexy li guardò sbigottito. Si aspettava una frase di scherno invece ciò che era arrivato alle sue orecchie e al suo cuore era la consapevolezza di aver trovato due amici.
 
“e così Thelma e Louise hanno un gruppo” commentò Rosalya. Quel giorno era particolarmente di cattivo umore. In mensa aveva litigato con due sue compagne di classe che le avevano chiesto consigli su come creare una pozione d’amore.
“non essere così sarcastica Rosa. In fondo mi sembrano due tipi in gamba”
“come no. Nathaniel ha la spina dorsale di una platessa mentre quell’altro… Castiel…ha il cervello di un riccio”
Alexy si sforzò di non ridere per i commenti dell’amica e cercò piuttosto di moderarne i toni:
“sicuramente sono meglio di altra gente che c’è in questa scuola”
“non ci vuole molto” aveva replicato seccamente Rosalya.
 
Quello stesso pomeriggio, finita la lezione, Alexy e Rosalya uscirono come sempre insieme dall’aula.
“ma che bella coppia che siete, checca”
Alexy non ebbe bisogno di voltarsi verso il suo provocatore per sapere di avere dietro di sé Pablo. Rosalya invece, che ne aveva piene le scatole delle prese in giro, si girò di scatto e lo guardò minacciosa:
“problemi trippone?” gli chiese sfidandolo.
“Rosalya, ignoralo” le disse sbrigativo Alexy, tirandola per un braccio.
“un corno! Sarai anche gay Alexy ma le palle ce le dovresti avere” gli sussurrò la ragazza a denti stretti. Era ora di darci un taglio. Le dava fastidio il modo in cui la trattavano a scuola ma tutto sommato quelle battutine non la ferivano veramente. Ciò che davvero la faceva star male era vedere Alexy subire la sua stessa sorte. Lui era sensibile e gentile con tutti. Non se la meritava tutta quella cattiveria.
“non stavo parlando con te” replicò Pablo, sorpreso dalla reazione di Rosalya.
“e invece mi hai tirata in mezzo. Smettila di importunare Alexy” sibilò la ragazza avvicinandosi a Pablo. Gli arrivava appena sotto il mento ma la sua inferiorità fisica era bilanciata da uno sguardo fiero e combattivo.
“o?” la sfidò Pablo con un sorriso denigratorio:
Gli occhi di Rosalya cominciarono a spostarsi freneticamente da una direzione all’altra. Anche se impulsiva, Rosalya non era stupida: riusciva a ragionare anche nelle situazioni più stressanti e pericolose. In corridoio il via vai della fine delle attività pomeridiane garantiva un flusso costante di persone, alcune delle quali erano rimaste attratte dalla situazione.
Eppure nessuna avrebbe mosso un dito per aiutare una checca e una strega. Non poteva contare sull’aiuto di nessuno.
“non sei nella posizione di minacciarmi racchia. Faccio quello che mi pare intesi?” la derise Pablo. Era la cattiveria fatta persona. Persino la perfidia che avrebbe raggiunto Ambra durante il quarto anno di liceo era preferibile (all’epoca era un’innocente studentessa del primo anno). Negli anni passati, Pablo era stato sospeso da scuola per ben due volte e solo le entrate generose da parte dei genitori nelle casse della scuola gli garantivano la sua permanenza tra le mura del liceo.
Dopo essersi avvicinato ulteriormente a Rosalya, le diede una spinta talmente forte che la ragazza cadde a terra. Sentì che il sedere le doleva, le lacrime di rabbia rigarle il  viso e gli occhi di decine di studenti puntati su di lei. Nessuno aveva mosso un dito per aiutarla. Che si fottessero tutti quanti.
 
“ehi dacci un taglio!”
 
Tutti si voltarono in direzione di quella voce. Anche Rosalya fu costretta a direzionare il suo sguardo verso l’unica persona che si era schierata dalla sua parte.
 
Quel giorno sarebbe stato per sempre impresso nella sua memoria.
 
Nathaniel camminava facendosi strada tra la piccola folla e raggiunse la ragazza, che ancora a terra, non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Senza aggiungere una parola, il biondo si accucciò all’altezza di Rosalya e le rivolse un sorriso rassicurante. In quella scuola nessuno l’aveva mai guardata in quel modo.
 “fatti i cazzi tuoi Nathaniel” lo minaccciò Pablo, richiamando l’attenzione su di sè.
“ma sono affari miei. Alexy è un mio amico” replicò asciutto tornando in posizione eretta, mentre Rosalya faceva altrettanto.
Quelle parole colpirono Alexy con la violenza di un treno merci.
Il fatto che proprio lui, Nathaniel avesse ammesso davanti a tutti la loro amicizia era un evento senza precedenti. Nonostante il suo modo di fare così amichevole e disponibile, fino a quel momento solo una persona poteva bearsi del titolo di amico del biondo.
E quella persona stava appunto giungendo nella loro direzione.
Incuriosito da quell’affollamento, Castiel si era fatto strada e aveva raggiunto il focolaio della discussione. La scena che gli si era presentata davanti agli occhi era piuttosto interessante: Alexy aveva un’espressione basita, Rosalya non sollevava gli occhi da terra e Nathaniel fissava Pablo, il bulletto pluribocciato.  
“che succede?” chiese con tranquillità che sembrò eccessiva e fuori luogo a tutti i presenti.
Sapendo di non poter competere con Nathaniel (si sarebbe messo contro tutta la scuola), Pablo ripiegò sul nuovo arrivo.
Castiel aveva la fama di essere un piantagrane se provocato e chi aveva avuto a che fare con lui ne era sempre uscito male. Pablo non era così stupido da sfidarlo, piuttosto era abbastanza codardo da prendersela con le persone più deboli come Alexy. Tuttavia ora se lo trovava davanti, e il suo intento di schierarsi dalla parte del trio era piuttosto scontato. Eccitato dal pubblico presente, Pablo decise, per una volta, di misurarsi con uno al suo livello.
 “ma guarda chi è arrivato. Immagino che Alexy sia anche tuo amico”
Castiel guardò Alexy come se fosse la cosa più curiosa che avesse mai visto e commentò:
“non vedo dove sia il problema” replicò con una scrollata di spalle.
“c’era da aspettarselo da una checca come te. Del resto l’anno scorso eri iscritto al club di cucito”
Gli studenti guardarono Castiel, convinti che sarebbe balzato all’istante contro il bullo.
Tra lo stupore generale però, il ragazzo sorrise e scosse la testa, come se avesse sentito una battura divertente.
Contrariamente a quello che molti pensavano, Castiel non agiva mai d’impulso, ma ogni sua azione era pesata e pensata.
Alzò poi il mento, in una posizione fiera, senza levarsi il ghigno beffardo dal viso.
Si mordicchiò il labbro inferiore, eccitato dalla situazione.
“Castiel” lo ammonì Nathaniel “pensa a quello che stai per fare”
Castiel distolse l’attenzione dal suo bersaglio e, guardò l’amico con serietà. Nathaniel era il suo grillo parlante, l’incarnazione di una coscienza che non alloggiava dentro di lui:
“ok, hai ragione. Ci ho pensato” e, si voltò, dando le spalle a Pablo ma, cogliendo tutti di sorpresa, tornò a girarsi di scatto e  scagliò un pugno centrando l’addome flaccido del bulletto.
La vittima era stata colta alla sprovvista e l’aver abbassato la guardia gli era stato fatale. Sentì l’addome irrigidirsi, contorcendosi dal dolore, tanto da costringerlo a piegarsi in due e inginocchiarsi al suolo. Lo assalì un senso di vomito e cominciò a boccheggiare, sputando della saliva.
“chi è la checca ora?” lo provocò Castiel prendendolo per il colletto della maglia e costringendolo a guardarlo negli occhi.
Le pupille erano ristrette come quelle di un predatore che mette a fuoco la sua preda. Quelle due fessure trafissero Pablo come se proiettassero un laser mortale.
Castiel avvicinò il viso all’orecchio della sua vittima e gli sussurrò:
“non crederti tanto forte. Sei solo un ciccione, non hai muscoli. Ci sono andato leggero con te, ma se ti vedrò ancora dar fastidio in giro, sappi che ci sarà un secondo round”
Pablo non sapeva come replicare. Sentiva la gola secca, il battito accelerato.
 “e poi non vorrei mai che in giro si sapesse che anche tuo fratello è gay… non so se mi spiego” Castiel sussurrò pianissimo quell’estrema minaccia, confessando di essere a conoscenza dello scomodo segreto dell’avversario.
Soddisfatto, il ragazzo liberò Pablo e raggiunge l’amico, aspettandosi una nota di biasimo per il suo comportamento violento. In quell’occasione però il biondo si limitò ad un sorriso complice. Pur essendo un ferreo credente dell’uso della diplomazia per risolvere il problemi, non poteva negare che Pablo avesse avuto ciò che meritava.
“CHE COSA STA SUCCEDENDO QUI?!”
Evidentemente la preside non era dello stesso avviso di Nathaniel: quel genere di episodi non sfuggivano mai al suo occhio vigile tanto che sembrava dotata del potere dell’ubiquità.
Vide Pablo a terra che fissava Castiel. Quest’ultimo si voltò verso la donna e alzò le spalle come a dire “che vuoi che ti dica?”
“siete venuti alle mani?! Vi sembra questo il comportamento da tenere a scuola? Chi ha cominciato?”
Spostava lo sguardo alternativamente tra Castiel e Pablo. Indovinare chi fosse il colpevole sarebbe stato impossibile dal momento che si trattava di due degli studenti più problematici dell’istituto.
Sorprendentemente però Pablo non aveva la solita aria strafottente e ribelle. A contrario sembrava sconvolto e umiliato.
Nathaniel aprì la bocca ma Castiel non gli lasciò esprimere alcun suono poiché lo anticipò:
“che importa chi ha cominciato? Ormai è tutto risolto preside”
Non avrebbe lasciato che Pablo venisse sospeso un’altra volta. Sarebbe stata la soluzione più semplice per lui. Doveva invece affrontare le occhiate del resto degli studenti, l’umiliazione di sapere che ormai aveva perso i suoi poteri e non avrebbe fatto più paura a nessuno.
“risolto un corno! Te l’ho già detto Castiel ma non vuoi capire! Non è così che si risolvono i problemi. Bisogna parlarsi”
“certe cose non si possono esprimere a parole” commentò teatrale il ragazzo. Sapeva di essere il centro su cui si focalizzava l’interesse della folla studentesca e tale consapevolezza, a quell’età, non poteva che lusingarlo e accrescere la sua boria.  
“MA CHI TI HA EDUCATO COSÌ? SEI UN INCIVILE!” sbraitò la preside.
Quell’allusione alla sua educazione e quindi implicitamente ai suoi genitori, fece scattare una molla nel ragazzo. Nessuno doveva fare il minimo accenno alla sua vita familiare:
“si sieda con il resto delle persone che aspettano che me ne freghi qualcosa” borbottò guardando in direzione opposta alla sua interlocutrice.
Quella battuta fece scoppiare i presenti in una fragorosa risata mentre la preside, ormai paonazza, lo afferrò per il braccio e lo trascinò in presidenza.
 
Quel giorno il duo Nathaniel-Castiel raddoppiò. Quest’ultimo se l’era cavata con una nota di demerito non appena la preside, telefonando a casa, aveva scoperto la difficile situazione familiare del ragazzo e l’ormai ufficiale divorzio dei genitori. Impietosita, aveva lasciando andare Castiel che non poteva aspettarsi un epilogo peggiore. Preferiva essere disprezzato che commiserato.
Grazie al suo intervento però, Pablo smise di importunare gli altri studenti, specialmente Alexy, poiché sentiva su di se quella spada di Damocle dagli occhi feroci e minacciosi. Rosalya invece dovette sopportare ancora per un bel po’ i commenti alle sue spalle ma almeno nessuno aveva il coraggio di offenderla pubblicamente temendo le ire di Castiel. Il ragazzo era diventato una sorta di addetto alla sicurezza e, per quanto estraneo alla vita sociale del liceo, sembrava essere temuto e tenuto in considerazione da tutti. Anche se il suo personaggio era ben lontano da quello di un supereroe dei fumetti, la sua esistenza all’interno del liceo aveva creato una sorta di catena alimentare in cui lui si trovava al vertice.
Al gruppo si aggiunse ben presto anche Armin che sotto l’influenza (positiva?) di Castiel, imparò ad essere un po’ più spavaldo e il rapporto con il gemello venne pian piano recuperato. Non avrebbe più permesso a nessuno di dividerli.
Rosalya in primavera presentò agli amici il fratello Lysandre, in quanto il ragazzo sapeva suonare il piano. Con Nathaniel al microfono, Castiel alla chitarra, Alexy alla batteria e ora il nuovo tastierista, la band era completa.
Nell’arco di un paio di mesi, gli studenti più problematici e disinseriti della scuola si erano coalizzati in una sorta di gruppo esclusivo. Ogni tanto si divertivano a chiamarsi “il gruppo dei disadattati” anche se Nathaniel rappresentava più che altro l’eccezione che confermava la regola.
Nell’arco di un anno Rosalya migliorò notevolmente il suo aspetto, si tolse l’apparecchio e lasciò che i capelli le crescessero. I lineamenti del viso, dapprima un po’ infantili e paffuti si affusolarono secondo una perfetta simmetria. La ragazza passò dalla strega dai capelli bianchi, alla “regina delle nevi” tanto bella quanto glaciale. Alla fine del secondo anno, ricevette una lettera d’amore che cestinò all’istante senza nessun ritegno. Non rivelò mai a nessuno chi ne fosse l’artefice ma i giorni successivi a quell’episodio, Pablo aveva un’aria depressa e sconsolata.
Quando la ragazza era in terza, conobbe Leigh Barrymore al club di teatro e la loro comune passione per la moda li avvicinò al punto da farli innamorare l’uno dell’altra. Il “gruppo dei disadattati”, che ormai era formato da alcuni degli studenti più popolari della scuola, si riuniva sempre per pranzo.
 Anche Castiel, che sull’aspetto fisico era sempre quello che riscuoteva meno consensi, migliorò a vista d’occhio anno dopo anno, conquistando i cuori di qualche ragazza, senza però mai dimostrare interesse per quelle lusinghe. I suoi successi del resto non erano nulla se comparati alla strage di cuori operata da Nathaniel che nel frattempo era stato nominato segretario delegato.
Da quando si era formato, il gruppo aveva trascorso gli ultimi tre anni in perfetta armonia, con qualche discussione tra Rosalya e Castiel, troppo simili caratterialmente per andare d’amore d’accordo, con l’allegria di Alexy, la silenziosa attività da poeta di Lysandre , le sfide ai videogiochi tra Armin e Nathaniel.
 
A partire dal quarto anno, esattamente un anno prima dell’arrivo di Erin, sfruttando il potere che il ruolo di segretario aveva conferito a Nathaniel, i ragazzi avevano preso l’abitudine di riunirsi il venerdì sera per le prove del gruppo. Anche se non erano musicisti, Rosalya, Leigh e Armin si presentavano puntuali all’appuntamento e si dedicavano ad altre attività con la musica degli amici di sottofondo.  Nathaniel aveva accesso a tutti gli strumenti e questo permetteva ai ragazzi di usufruirne senza doverseli portare da casa anche se Castiel si lamentava del fatto che la chitarra elettrica della scuola fosse di bassa qualità”
 
“Castiel non è mai soddisfatto” commentò Erin divertita “comunque eravate un gruppo fantastico Alexy… avrei tanto voluto trasferirmi prima per conoscervi quando eravate così uniti” ammise con una nota di rammarico.
“poi però è cambiato tutto” chiarì Alexy e il suo tono da nostalgico divenne amareggiato “È cominciato quando Dake, un nostro amico che frequentava un’altra scuola ci presentò una ragazza. Solitamente le ragazze che ho conosciuto fino a quel momento impazzivano tutte per Nathaniel e se lui non le ricambiava, ripiegavano, senza successo su Castiel”
“aspetta… di preciso quante ragazze ha avuto Nathaniel?” chiese Erin con una certa urgenza nella voce. Certo non si aspettava che uno come lui fosse rimasto libero per diciotto anni ma il quadro che stava disegnando Alexy lo dipingeva come un rubacuori.
“solo due. Nathaniel non è uno che ha l’innamoramento facile” le rivelò Alexy leggendole nel pensiero “comunque sia, torniamo a noi…questa ragazza era diversa dalle altre: dimostrò sin da subito un vivo interesse per Castiel…e per la prima volta anche lui sembrava provare qualcosa per una ragazza. Non l’avevamo mai visto così felice. Era sempre di ottimo umore, nei limiti consentiti dal suo personaggio s’intende” ridacchiò Alexy, strappando un sorriso anche a Erin che aveva spostato lo sguardo verso l’amico che camminava davanti a lei, tenendosi a debita distanza.
 “quella ragazza aveva qualcosa di… particolare. Io la adoravo, era sempre piena di energia, esuberante… sotto questo punto di vista mi ricordava te” convenne Alexy facendo arrossire Erin. Il fatto che ci potesse essere una qualche analogia tra lei e l’ex ragazza di Castiel, la fece sentire strana, come se la notizia dovesse lusingarla.
“ma c’era qualcosa in lei che non convinceva né Rosalya né Lysandre. Nel caso di Rosalya non ci diedi particolarmente peso. Del resto lei ha sempre avuto un rapporto problematico con le ragazze e l’aggiunta di questo nuovo elemento femminile non le era particolarmente gradita. Tuttavia, mi lasciava perplesso l’opinione di suo fratello invece, che una volta la definì subdola. Castiel lo sentì e ne nacque una feroce discussione. Alla fine Lysandre fece un passo indietro e si scusò, permettendo a Debrah, così si chiamava, di avere accesso alle prove della band.
Quello fu solo il presagio di quanto sarebbe successo dopo.
Ripensandoci a distanza di tempo, mi chiedo come abbiamo fatto ad essere così ciechi: posso capire Castiel che se ne era innamorato… ma noi? Debrah era una manipolatrice, aveva una personalità molto possessiva che attraverso battutine sarcastiche e frasi lasciate a metà stava creando delle strane tensioni nel gruppo. La cosa peggiore è che, dopo Castiel, la persona che più la difendeva era Nathaniel e fu proprio lui a pagare il prezzo più alto del suo comportamento”
“ehi Rapunzel! Muoviti!”
Castiel interruppe la discussione sul più bello. Il racconto di Alexy aveva talmente affascinato Erin che la ragazza aveva camminato perdendo la cognizione di dove fosse.
Erano giunti davanti a casa sua e Castiel aveva un’espressione leggermene scocciata. Aveva camminato tutto il tempo da solo, immerso nei suoi pensieri, ignaro dell’argomento di conversazione tra Alexy e la sua compagna di squadra nonché amica. Quando avesse cominciato a classificarla tale non l’aveva ben chiaro, ma ormai era così che la considerava.
Erin si affrettò, maledicendolo sottovoce. Era a un passo dalla verità ma per quella sera si sarebbe dovuta accontentare di sapere dell’esistenza di quella Debrah, senza che le venissero forniti ulteriori dettagli.
“mi raccomando. Domani puntuale!” gli ricordò aprendo il cancello.
“ore 9.00 al campo dove abbiamo detto” completò il rosso.
“Alexy, te lo affido. Assicurati che se ne torni a casa sano e salvo” scherzò Erin di buon umore.
Da quando aveva scoperto dell’episodio accaduto tre anni prima in cui Castiel aveva difeso Alexy e Rosalya, non poteva che guardarlo con ammirazione. Aveva un atteggiamento il più delle volte brusco e antipatico, ma dietro quella maschera celava un buon cuore. Questa consapevolezza lasciava ben sperare per la riappacificazione dell’intero gruppo.
 
Dopo aver salutato Erin, Alexy e Castiel proseguirono.  
Il primo, insolitamente taciturno, aspettava dal compagno di viaggio, un segnale che lo autorizzasse a rivolgergli la parola. Senza la presenza di Erin, l’atmosfera era più tesa e pesante. Tra di loro era calato un imbarazzante silenzio che Alexy non aveva il coraggio di spezzare.
Castiel era consapevole di tutto ciò… e una volta tanto la cosa non lo infastidì.
Non aveva più senso perpetuare quella guerra fredda, del resto il tempo aveva sopito la rabbia che lo aveva infiammato quando aveva scoperto che Alexy e Rosalya non erano stati sinceri con lui.
Riappacificarsi con la ragazza, dopo gli insulti che le aveva rivolto mesi prima, non sarebbe stato immediato. Con Alexy invece sarebbe stato più semplice.
“se vuoi venire anche venerdì prossimo non è un problema”
Quando pronunciò quella frase, Castiel non lo guardò in faccia.
Quell’armistizio gli costava molto, poiché cozzava con il suo rancoroso orgoglio.
 
Quella semplice frase fu per Alexy un tuffo nel passato: si sentì trasportare indietro di tre anni quando Castiel aveva attirato la sua attenzione mostrando interesse per le cuffie. Quello era stato il pretesto per conoscersi e far poi nascere una grande amicizia. Ora che quel rapporto non c’era più, con quel semplice invito, ancora una volta, il ragazzo stava ponendo le basi per diventare amici. Di nuovo.
Le labbra di Alexy si distesero in un sorriso sereno:
“verrò sicuramente”.
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Ecco, siamo arrivati anche alla fine del capitolo 15! Nei prossimi capitoli vorrei riuscire a scomporre la storia in modo più omogeneo, evitando di pubblicare capitoli troppo lunghi per cui si perde anche il senso del titolo… questo non vuole dire che avrete meno da leggere (sapete ormai che sono piuttosto prolissa -.-): l’obiettivo quindi sarebbe quello di scrivere capitoli più brevi rispetto agli ultimi pubblicati finora messi in rete ma pubblicandone con una frequenza maggiore (verrà una storia infinita XD). Verso fine luglio avrò finito con gli esami e quindi spero di avere tutto il tempo per portare a termine i miei propositi (quindi anche per il 16 dovrò aspettare un po’ prima di finirlo).
 
E ora veniamo a voi: vi è piaciuto? Nella mia storia mi diverte immaginare e inventare varie sfaccettature della personalità dei protagonisti e questo mi ha portato a creare una Rosalya dal carattere forte e impetuoso che trova la sua armonia con la pazienza e la semplicità d’animo di Alexy. Quest’ultimo personaggio è particolarmente positivo perché incarna quelle qualità che creano armonia e allegria all’interno di un gruppo di amici.
Visto che “il club dei disadattati” era formato da elementi così diversi, ho voluto dare a ognuno un ruolo, perché leggendo non ci sia l’impressione che i personaggi stiamo insieme a caso.
Tuttavia se la mia tendenza a dilungarmi su dettagli inutili non fosse apprezzata, ditemelo che tenterò di correggermi ;-)
Vi lascio con i compiti per casa... rispondi alle seguenti domande (ahaha):
1)Vi è piaciuto il capitolo?
2)Cosa ne pensate del personaggio di Debrah del gioco? (io ho ancora avuto il piacere di fare la sua conoscenza perché sono all’episodio 13)
3)…
Scherzi a parte, grazie come sempre per aver letto il capitolo… alla prossima! :-)
 
P.S. sono così maleducata che non mi sono scusata per il ritardo nella pubblicazione del capitolo! Scusate e portate pazienza se mi ci vorrà un po’ per il prossimo 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** In her shoes ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Alexy ripercorre i ricordi del suo secondo anno di liceo, quando lui e Rosalya erano vittime di prese in giro da parte dei compagni. Un pomeriggio, Pablo, uno studente problematico che assilla Alexy, lo provoca, attirando l’attenzione degli altri studenti. Rosalya prende le difese dell’amico ma finisce a terra senza che nessuno dei presenti si preoccupi per lei, finchè arriva Nathaniel. Pablo sa che prendersela con il biondo gli porterà solo guai in quanto ben voluto da tutti, così ripiega su Castiel che soggiunge poco dopo. Alla minima provocazione del bulletto, il rosso scatta e lo colpisce all’addome, costringendolo ad un’umiliante sconfitta. Quell’episodio getta le basi per la formazione del club dei disadattati, un gruppo di amici di cui fanno parte Nathaniel, Castiel, Alexy, Rosalya, Lysandre, Leigh, Armin.  Il racconto di Alexy si interrompe prima che il ragazzo possa fornire ad Erin dettagli sull’ex di Castiel: Debrah. Dopo aver salutato l’amica, Alexy e Castiel tornano a casa insieme e tra i due c’è un piccolo scambio di battute che lascia intendere che il rosso è disposto a cominciare a ricucire i rapporti.





 
CAPITOLO 16: IN HER SHOES
 
Dopo essersi assicurata che le cuffie fossero stabilmente inserite all’interno del suo condotto uditivo, Erin uscì di casa di ottimo umore. Anche se era una mattina di novembre, il tempo soleggiato le aveva permesso di azzardare con un outfit sportivo che contemplava un paio di pantaloni che arrivavano appena sopra il ginocchio. Sentiva l’aria gelida sferzarle i polpacci ma la ignorò. L’allenamento con Castiel sarebbe stato intenso e il freddo l’ultimo dei suoi problemi.
Svoltò l’angolo della Terza Strada e prese l’autobus diretto verso la zona ovest della città. Quel sabato mattina non c’era molta gente per strada e la ragazza si augurò di non avere spettatori durante la sua sessione intensiva di basket.
 
Seguendo le indicazioni che aveva ricevuto, raggiunse il luogo stabilito per l’incontro. Si guardò attorno analizzando le dimensioni del campo. Lo spazio era quello regolamentare e i canestri erano posizionati alla stessa altezza di quelli della scuola. A lato del perimetro di gioco, Erin osservò con sollievo la presenza di una fontanella. Quella mattina le sarebbe stata di vitale importanza.
Era in anticipo di dieci minuti e conoscendo ormai le abitudini ritardatarie dell’amico, pensò di mettersi comoda, distendendosi su una panchina presente a lato del campo.
La notte precedente il sonno aveva faticato non poco prima di impadronirsi di lei, la cui mente era stata affollata dai ricordi di Alexy. Su quella panchina, in posizione supina, con la musica di Lana del Rey nelle orecchie, la ragazza chiuse gli occhi e si dimenticò di quanto la circondasse.
Sapeva di essere sola e questa consapevolezza acuì quella sensazione di libertà e mancanza di pudore.  “everytime I close my eyes… it’s like a dark paradise… no one compares to you
Erano mesi che non ascoltava quella canzone. Non che non ci avesse pensato. Ma le parole di canzoni come quella le portavano alla mente pensieri che lei cercava di tenere lontani. La sua forza avrebbe vacillato, la solitudine avrebbe preso il sopravvento e lei avrebbe dovuto guardare in faccia la realtà. Come quel venerdì sera di una settimana prima, quando aveva pianto davanti a Castiel e Lysandre.
Aveva provato un profondo disprezzo verso sé stessa, per la sua incapacità di affrontare i problemi. Se una semplice canzone bastava a metterla in crisi, allora lei non era altro che una persona debole.
Si portò l’i-pod davanti al naso e alzò il volume.
I'm scared that you won't be waiting on the other side
Eppure lei adorava cantare. Era liberatorio farlo.
Non solo non avrebbe dovuto intristirsi ascoltando quella canzone, ma avrebbe dovuto urlare le parole di quel testo, come a se la persona a cui erano dirette fosse lì a sentirla.
Erin cominciò quindi a cantare a voce alta, rimanendo distesa sulla panchina, con il viso rivolto verso un cielo che non poteva contemplare perché teneva gli occhi chiusi.
Puntualmente quel volto così familiare si materializzò nella sua mente ma questa volta non distolse lo sguardo. Era da qualche giorno che ci pensava. Aveva passato anche troppo tempo ad autocommiserarsi in solitudine, affogando la testa sul cuscino come se quei pensieri angoscianti non potessero penetrare ulteriormente dentro di lei.
everytime I close my eyes… it’s like a dark paradise… no one compares to you
Sì, negli ultimi mesi era precipitata in un paradiso oscuro, convinta che solo il ritorno di quella persona avrebbe potuto illuminare.
Ora però aveva capito. Non doveva aspettarla. Doveva essere lei a trovare la forza di uscire da quelle tenebre, anche se il buio l’aveva sempre terrorizzata.
 
Quando Erin entrò nel campo visivo del ragazzo, la sua voce non poteva ancora raggiungere le orecchie di Castiel. In rispetto della legge fisica secondo la quale la luce viaggia più velocemente del suono, il ragazzo potè valutare solo la scena che gli si era presentata davanti agli occhi: Erin distesa a pancia all’aria su una panchina con una mano abbandonata sulla fronte.
Castiel sentì il cuore accelerare e la preoccupazione salire con il numero di battiti. Per fortuna che una volta tanto si era presentato in anticipo. Quel giorno gli sarebbe stato impossibile fare tardi: era trepidante all’idea di  cominciare quell’allenamento, avrebbe punzecchiato Erin tutto il tempo, divertendosi a deriderla per la sua goffaggine. Ma tutta la sua allegria era scemata all’istante, quando l’aveva vista accasciata su quella panchina. Si precipitò verso di lei chiedendosi quale potesse esser stata la causa del suo malore.
Quando fu a pochi metri da lei però, la canzone che la ragazza stava eseguendo arrivò alle sue orecchie e lo immobilizzò. Era la seconda volta che ascoltava quella voce e per la seconda volta ne rimase ipnotizzato. Ma in quell’occasione non si trattava solamente del timbro di Erin.
Era proprio la canzone in sé a turbarlo.
Senza che potesse fare nulla per evitarlo, il profilo di Erin si trasformò sotto i suoi occhi in quello di Debrah.
La leggera somiglianza fisica tra le due ragazze inoltre rese ancora più immediata quella trasfigurazione mentale.
Dark Paradise. Era la sua canzone preferita, Debrah la cantava di continuo e nonostante ciò lui riusciva a trovare la pazienza per sopportare quelle ossessionanti parole. I sentimenti che provava per lei gli avevano reso sopportabili molte cose che altrimenti il carattere impaziente del rosso avrebbe trovato intollerabili.
Quasi avesse percepito un cambiamento dell’aria attorno a sé, Erin sollevò le palpebre e con la coda dell’occhio, individuò Castiel. Arrossendo in preda all’imbarazzo, si ricompose frettolosamente, mettendosi seduta. Spense l’i-pod ed esclamò sorpresa:
“non mi aspettavo che saresti stato in anticipo” si difese, quasi a voler colpevolizzare il ragazzo per averla interrotta in un momento inopportuno.
L’amico però non le rispose e la fissava con severità.
“che c’è?”
“niente. Muoviti che dobbiamo lavorare” borbottò arrabbiato dandole le spalle e andando a recuperare il pallone che nella foga del momento aveva abbandonato al suolo.
Tornò da Erin e glielo lanciò con violenza, tanto che la ragazza riuscì a intercettare il passaggio per un pelo.
“sei lenta. Devi migliorare i riflessi”
Più che una critica costruttiva, quella di Castiel suono come un commento dispregiativo. Era di pessimo umore e la ragazza non riusciva a spiegarsene la ragione. Il suo cervello cominciò a macchinare una motivazione che giustificasse quella situazione ma doveva anche concentrarsi su quanto il ragazzo le stava dicendo:
“mettiti di là” le ordinò perentorio.
Erin era talmente disorientata che si limitò ad assecondarlo. Forse era arrabbiato dalla sera precedente, quando aveva invitato Alexy a fermarsi in loro compagnia. Eppure era convinta che alla fine il rosso avesse accettato quella presenza. No, non poteva essere per quello.
“sei troppo lenta!” le urlò contro Castiel mentre le lanciava la palla in ogni direzione.
“devo ancora scaldare i muscoli” si giustificò Erin disorientata. Era abituata a tenergli testa ma in quell’occasione sembrava che la sua determinazione l’avesse abbandonata.
Castiel ignorò quella difesa e passò ad illustrarle un secondo esercizio, aumentando il ritmo e senza lasciarle il tempo di prender fiato. Non l’aveva mai visto in quello stato.
Era come se la sua presenza gli fosse insopportabile, infatti il ragazzo la guardava il meno possibile e sempre con occhi carichi di risentimento e disprezzo.
Per quanto cominciasse a sentire il petto esploderle per la mancanza di ossigeno e i muscoli bruciarle per l’accumulo di acido lattico, Erin non osò protestare. Pensò che la strategia migliore fosse assecondare il suo allenatore aspettando che sbollisse la rabbia per poi chiedergli cosa fosse successo.
Castiel però non manifestava alcun segno di cedimento e incrementò minuto dopo minuto il livello di difficoltà e il ritmo degli esercizi che lui stesso eseguiva. Ma mentre per lui si trattava di una pratica routinaria, Erin era fuori allentamento e stare al suo passo era impossibile.
Più volte era costretta a fermarsi per prendere fiato ma il rosso aveva deciso che per quel giorno l’ossigeno non fosse un gas vitale per un essere umano.
“non fare la femminuccia. Datti una mossa!”
Un po’ per orgoglio, un po’ per non deludere troppo le aspettative dell’amico, la ragazza cercava di fare l’impossibile affinché la sua performance non fosse del tutto scadente.
Il giovane allenatore continuava a farle pressioni perché si velocizzasse, fosse più agile e precisa nei passaggi.
 
Dopo venti minuti Erin era a pezzi. Con la manica asciugò il sudore che le colava sulla fronte facendole bruciare gli occhi.
Castiel afferrò il pallone e pretese che lei riuscisse ad intercettare dei passaggi impossibili: le lanciava la palla a interi metri di distanza e nelle direzioni più improbabili. La ragazza doveva riuscire ad intercettarla prima che toccasse il suolo:
“porca miseria, come pensi di giocare una partita se non riesci a individuare le traiettorie?!”
A quel punto, se avesse avuto ancora un po’ di ossigeno in circolo, Erin avrebbe trovato il coraggio per protestare. Ma fino a quel momento, nonostante le pesanti critiche di Castiel, la ragazza non aveva mai permesso alla palla di cadere e voleva che quell’esercizio si concludesse con un completo successo.
“almeno questo devo farlo bene” si era ripromessa tra sé e sé.
Ad un certo punto Castiel fece una finta e lanciò la palla in direzione opposta a quella che aveva intrapreso la ragazza. Determinata a non lasciarsela sfuggire, Erin invertì la rotta e riuscì a intercettarla accucciandosi al punto da sfregare le ginocchia al suolo come in una partita di pallavolo.
Disgraziatamente quello non era un campo liscio, ma il suolo era in cemento ruvido e i suoi pantaloncini erano troppo corti per rappresentare una qualche difesa contro l’escoriazione.
Sentì la fastidiosa e dolorosa sensazione della pelle che si scorticava e rimettendosi in piedi, vide la carne viva che brillava in contrasto con l’opacità dell’epidermide circostante. Le ginocchia erano come in fiamme e non potè impedire ad un piccolo rivolo di sangue di colarle lungo il polpaccio. Delle lacrime di dolore stavano per emulare quelle rosse che sgorgavano dalle sue ginocchia, ma lei le ricacciò dentro con orgoglio.
 
Castiel aveva osservato quella sequenza di azioni profondamente turbato. Come destatosi da un sonno letargico, realizzò quanto fosse stato duro e immotivatamente severo con Erin che nonostante tutto non aveva protestato. Era come se la ragazza avesse avuto paura di lui e quasi stentava a riconoscerla con quell’aria così mansueta e poco consona alla sua personalità.
Quando era arrivato e il ricordo di Debrah aveva monopolizzato la sua mente, aveva perso il controllo e aveva sfogato sull’amica tutta la sua rabbia repressa:
“scusa, ho esagerato”
Erin alzò lentamente il capo, per scrutare quell’anima così colpevole ma pentita. Castiel non osava guardarla tuttavia il tono di voce avvilito era una testimonianza della sua mortificazione.
Incapace di arrabbiarsi di fronte a quella disarmante costernazione, Erin cercò di sdrammatizzare:
“sei di cattivo umore oggi eh?”
La goccia di sangue sul ginocchio destro aveva raggiunto la caviglia colorandole di rosso un lembo del calzino. Castiel ignorò la frase della ragazza e le ordinò di andare a sedersi sulla panchina, distendendo le gambe. Erin eseguì quel comando senza fiatare mentre lui si allontanava, spostandosi verso la fontanella pubblica a tre metri da loro. Tirò in avanti il lembo inferiore della sua maglietta e lasciò che l’acqua la bagnasse.
Tornò dalla ragazza, che in quel lasso di tempo l’aveva osservato senza capire, e il ragazzo si sedette  anche lui sollevando le gambe di Erin, sistemandosele sopra le proprie.
Con enorme sorpresa di Erin, che aveva agito come un automa fino a quel momento, vide il ragazzo chino sulle sue ginocchia mentre cercava di tamponarle la ferita con la propria maglietta.
“m-ma te la imbratti tutta di sangue!” protestò imbarazzata.
“tanto andrà via. L’importante è pulire sennò si può infettare” replicò continuando meticolosamente il suo lavoro.
Erin protestò cercando di divincolarsi, ma il ragazzo le immobilizzò le gambe. La guardò con intensità e le disse:
“per una volta, fidati di me”
Quelle parole la lasciarono di stucco. Raramente il ragazzo la fissava in quel modo. Per la prima volta Erin potè così scrutare attentamente quelle iridi accorgendosi di non averle mai osservate per davvero. Era convinta che Castiel avesse dei comuni occhi castani, invece rivelavano un riflesso strano che la sua misera semantica cromatica non riusciva definire.
Assecondò la richiesta del ragazzo, sedando ogni resistenza sia fisica che verbale. Castiel tornò al suo lavoro mentre Erin teneva lo sguardo fisso sulla ferita e soprattutto sulla cura con cui il ragazzo la stava pulendo. Aveva un tocco estremamente delicato e controllato, come se temesse di farle male. Le sembrava quasi che le sue gambe fossero diventate la tastiera dell’inseparabile chitarra di Castiel da quanto amorevole era il tocco del ragazzo. Quella premura la fece arrossire e per qualche minuto la rese incapace di proferir parola.
 

 
Il silenzio durava da almeno un paio di minuti ed Erin cominciò a sentire che l’imbarazzo e il disagio tra di loro stavano raggiungendo un punto di irreversibilità.
Pensò a qualcosa da dire per stemperare la solennità del momento e la trovò:
“potevi prendere dei fazzoletti di carta”
Si sentì in colpa, consapevole che piuttosto che criticarlo avrebbe dovuto ringraziarlo.
“sono un maschio. Mica vado in giro con una borsa piena di roba” borbottò il rosso.
“e allora se ti devi pulire il naso come fai?”
“vuoi proprio saperlo?” le chiese Castiel fissandola con un sorriso beffardo.
Erin dapprima assunse un’espressione disgustata, poi però cominciò a ridere e il ragazzo seguì a ruota.
Era bastato un semplice commento per far tornare tutto alla normalità.
Quando le risate scemarono, ormai l’infermiere aveva finito il suo lavoro ed Erin si mise in posizione seduta,  accanto al ragazzo.
“anche la mia ex cantava spesso Dark Paradise”
La ragazza sgranò gli occhi e fissò l’amico. Appena dodici ore prima aveva scoperto l’esistenza di Debrah dalle parole di Alexy e ora Castiel l’aveva menzionata.
Forse era pronto a raccontarle quella verità che lei da due settimane aspettava di conoscere. Pensò che la cosa più saggia da fare fosse fingere di non sapere nulla, per non mettere in cattiva luce il suo informatore dai capelli del cielo.
“lei come si chiamava?”
Castiel la guardò divertito e sospirò:
“devo fare finta che Alexy non te l’abbia detto?”
Erin si sorprese per quell’uscita e sbattè gli occhi più volte, perplessa.
“devi avere un udito finissimo per aver sentito quello che ci siamo detti ieri. Eri a metri da noi!”
“in realtà ho solo sentito che Alexy pronunciava il suo nome” ammise Castiel grattandosi un sopracciglio.
“comunque Alexy è stato molto vago” lo giustificò la ragazza “sono io che ho insistito”
“lo immagino, ormai ti conosco Rapunzel” replicò Castiel con tono neutro. Talmente tale che Erin non capì se dovesse preoccuparsi o meno così chiese:
“e… non sei arrabbiato?”
Castiel sollevò le spalle e portò le braccia dietro lo schienale della panchina.
“visto che ci tieni tanto a conoscere questa storia, te la racconterò così la finirai di ficcanasare il naso in giro” ragionò il ragazzo.
Erin non riusciva a crederci. Rimase con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati.
In cuor suo era convinta che sarebbe stata la bontà di Nathaniel a cedere per prima, a raccontarle gli ultimi dettagli di quell’amicizia finita invece sarebbe stato il suo intrattabile compagno di banco a fare da cantastorie.
 
“come ti ha detto Alexy ieri, lei si chiamava Debrah”
Erano mesi che Castiel non pronunciava quel nome a voce alta. Anche quando pensava a lei si limitava ad immaginarsela senza articolare mai alcun pensiero che invocasse quel nome.
“Debrah… conosco una Debrah” commentò Erin.
“ah sì?” chiese disinteressato il ragazzo, per quell’interruzione senza importanza.
“sì è la migliore amica di mia sorella”
 
Il silenzio durò tre secondi. Castiel era rimasto basito:
“non sapevo avessi una sorella”
Anche Erin era rimasta senza parole.
 
L’aveva detto.
 
Finalmente aveva informato qualcuno dell’esistenza di sua sorella. E quel qualcuno era Castiel.
Dopo il trasferimento a Morristown, si era convinta che mai nessuno sarebbe venuto a conoscenza della sua situazione familiare. Avrebbe fatto l’impossibile per occultare il suo passato. Però quello rispuntava puntualmente: bastava una canzone, un’immagine, una frase ed Erin subito pensava alla sorella.
Non che si trattasse sempre di episodi sporadici: il più delle volte era stata lei stessa a cercare il suo ricordo. Come quando aveva deciso di entrare nel club di basket, lo sport preferito della sorella. O quando ascoltava canzoni che parlavano della separazione da una persona cara. Forse agiva involontariamente, la nostalgia prendeva il sopravvento e lei cercava di rivivere in quelle attività un’immagine che da mesi la tormentava.
Tuttavia in quel momento non volle che Castiel le formulasse altre domande perciò riportò la conversazione sul tema principale.
 
“dicevamo. Debrah”
Castiel la guardava con perplessità. Erano due settimane che si conoscevano e solo allora la ragazza l’aveva informato di non essere figlia unica. Del resto, anche lui non le aveva mai raccontato della sua storia familiare, così decise di proseguire a raccontare quella verità che tanto interessava all’amica.
“Debrah era… un vulcano. Aveva sempre mille progetti, metà dei quali irrealizzabili ma era impossibile non lasciarsi trascinare dal suo entusiasmo…”
Erin non dimenticò mai l’espressione di Castiel quel giorno. Gli occhi del ragazzo sembravano più luminosi e lo sguardo era di una dolcezza che la fece arrossire. Le venne in mente Jason e il modo in cui l’uomo aveva guardato sua zia fino all’inconveniente alle Twin Towers. Era convinta che solo la sensibilità femminile potesse lasciarsi tanto coinvolgere da sentimenti d’amore e invece sia Castiel che Jason erano la dimostrazione che gli uomini non erano così rozzi e insensibili come lei aveva sempre creduto. O per lo meno che, oltre a Nathaniel, anche il rosso sapeva essere dolce e tenero.  
 
Debrah era stata la prima ragazza a far sentire Castiel una persona importante. Per anni il rosso aveva visto l’amico Nathaniel calamitare su di sé l’interesse delle altre ragazze mentre lui si limitava al ruolo dell’amico buffone. Debrah invece, sin dal primo giorno in cui si erano conosciuti, si era diretta da lui, con passo deciso. Non si era lasciata distrarre da quanti la circondassero. Lei e Castiel avevano passato tutta la sera a parlare e lui si era innamorato del suo sorriso. Non aveva mai creduto al colpo di fulmine finchè non ne era stato investito in pieno. A detta dei suoi amici, in quei giorni era cambiato: era più sereno, disponibile, amichevole… in una parola, era felice. Debrah aveva la passione per la musica ed era la prima ad incoraggiarlo quando le insicurezze lo attanagliavano. Grazie alle sue conoscenze era riuscita a procurare alla band un ingaggio per una serata in un locale nella città d’origine della ragazza.
L’esibizione fu carica di energia e trepidazione. Anche se era la loro prima esperienza in pubblico, gli Untouchable, il nome che aveva scelto Rosalya per il gruppo, riuscirono a coinvolgere il pubblico. Ancora con l’adrenalina a fior di pelle, durante una pausa, Castiel si era precipitato dietro le quinte e, vedendo il sorriso trionfante di Debrah, non aveva resistito e l’aveva baciata con passione.
Il fatto di non essere a scuola insieme non faceva altro che incrementare il loro desiderio e la nostalgia reciproca, sentimenti che esplodevano ogni fine settimana, quando o Debrah raggiungeva Castiel a Morristown o lui andava da lei”.
Talvolta, il ragazzo aveva saltato le lezioni pur di fare un’improvvisata e poter stare anche solo qualche ora in sua compagnia. Quel suo attaccamento morboso per Debrah non era visto di buon occhio da Rosalya e Lysandre, entrambi poco convinti della trasparenza della ragazza. Tuttavia Castiel se ne rese conto solo quando avanzò la richiesta di ammettere anche Debrah alle prove del venerdì sera:
“Debrah?” ripetè Lysandre dubbioso.
“sì, Debrah… problemi?” chiese Castiel infastidito, intuendo che la sua proposta non riceveva l’accoglienza che si era immaginato.
Erano tutti riuniti in sala di musica come ogni venerdì. Approfittando di una pausa, mentre Nathaniel sorseggiava un po’ di birra portata da casa, riposando la voce, il rosso ne aveva approfittato per affrontare l’argomento.
“non credo sia una buona idea farla venire qui” si giustificò Lysandre, pigiando qualche tasto a caso della pianola. Non alzava lo sguardo verso il suo interlocutore, sapendo che le parole che avrebbe pronunciato non sarebbero state di suo gradimento.
“e perché?” sbottò Castiel sempre più irritato.
“ti distrarrebbe” intervenne Rosalya. Il rosso la guardò sprezzante. Diversamente dal fratello, la ragazza non aveva mai fatto mistero di detestare Debrah.
“impossibile! Quando suoniamo sono quello più concentrato di tutti! Non potete rinfacciarmi una cosa del genere. Non è così facile distrarmi!”
“per me non ci sono problemi… e poi è stata preziosa per la band: del resto è stata lei a trovarci quell’ingaggio” s’intromise Nathaniel, sistemando il volume del microfono. Castiel si voltò verso di lui e lo guardò con gratitudine. Poteva sempre contare sul suo appoggio fraterno.
“sentite, se proprio devo dirla tutta…” cominciò a dire Lysandre ma Armin, intuendo quali fossero le conclusioni a cui sarebbe giunto, lo interruppe:
“sentite chiudiamola qui la discussione. Se a parte Rosalya e Lysandre nessuno ha niente in contrario, direi che la maggioranza vince e Debrah può-“
“no, a me interessa invece! Cosa hai da dire Lys?” sbottò Castiel guardando il tastierista con rabbia. Quest’ultimo, che detestava tergiversare e non affrontare i problemi, spiegò:
“lei non mi piace. Non mi sembra una persona sincera ecco. E onestamente da quando vi siete messi insieme credo che ti abbia portato solo guai: salti le lezioni, sei distratto, fai battutine acide”
“quelle le ho sempre fatto” obiettò Castiel irritato.
“ma sono proprio cattive. Superano il limite dello scherzo. Sono proprio in stile Debrah” osservò Rosalya “da quando è entrata nel nostro gruppo, ha creato delle tensioni, degli attriti tra di noi che prima non c’erano”
“è entrata? Ma se state facendo l’impossibile per tenerla fuori!” imprecò Castiel, poi guardando la persona di cui più si fidava aggiunse “Nath, dì qualcosa tu, sennò spacco la testa a tutti e due”
Nathaniel, fino a quel momento accucciato davanti alle casse, si alzò e guardò i due fratelli:
“sono d’accordo con Cas. Non le avete dato la possibilità di farsi apprezzare da voi, specie tu Rosalya”
Quel gentile rimprovero agì come una miccia sull’unica ragazza del gruppo.
“darle una possibilità? Non ci vuole molto per inquadrare di che pasta è fatta una stronza del genere!”
A quelle parole, gli occhi di Castiel divennero due fessure e si avvicinò a grandi passi verso l’amica. Leigh, allarmato, le si parò davanti mentre Nathaniel accorreva trattenendolo per la giacca:
“non usare quel tono con lei chiaro? Chi ti credi di essere? La verità è che ti fa rabbia che lei abbia più palle di te Rose!”
“Castiel calmati” ruggì Leigh.
Lysandre guardava la scena turbato, Nathaniel tratteneva Castiel che fissava Rosalya in cagnesco mentre la ragazza, dall’atteggiamento molto simile ad un gatto, ricambiava quello sguardo con fierezza e coraggio. Armin si grattò la testa mentre Alexy, rimasto in silenzio fino a quel momento, riprese in mano le sue bacchette e, cogliendo tutti alla sprovvista, cominciò a batterle furiosamente sulla batteria. Tutti sobbalzarono, in preda allo spavento. Dopo qualche secondo s’interruppe e disse:
“per oggi il discorso finisce qui. Sono d’accordo con mio fratello, se la maggioranza è d’accordo, Debrah verrà qui al venerdì”
Il batterista raramente prendeva posizioni e quando ciò accadeva il messaggio era chiaro: non ne poteva più di discussioni e liti. Tutti si diedero una calmata e nell’arco di pochi minuti sgombrarono l’aula, pronti per tornare a casa a lasciarsi alle spalle quella giornata.
Da quel venerdì, Debrah venne ammessa alle prove e pian piano Lysandre ne accettò la presenza. L’unica che non riusciva ad essere cordiale era Rosalya ma a Castiel ciò interessava solo marginalmente. Era convinto che quella dell’amica fosse tutta invidia per il carattere di Debrah che aveva dimostrato di essere molto più determinata e caparbia di quella che era considerata la ragazza più bella della scuola.
La sua storia con Debrah procedeva alla grande, avevano raggiunto una grande intimità tanto che nei weekend lei si fermava spesso a dormire da lui, approfittando della sua libertà in quanto inquilino di una casa libera da genitori.
Verso marzo però, Castiel notò che qualcosa non quadrava: capitava spesso che il cellulare di Debrah fosse occupato, che lei gli rispondesse distrattamente, come se avesse altro per la testa. Non lo incoraggiava più per il suo talento musicale e aveva smesso di darsi da fare per la band ai fini di trovare qualche locale in cui suonare.
Quando gliene parlò, la ragazza scoppiò a ridere, prendendolo in giro per quelle paranoie infondate. Castiel si limitò a farsi contagiare da quella spensieratezza, dandosi dello sciocco per la propria apprensione.
Il giorno del loro mesiversario, Castiel stava tornando dal centro con in mano un sacchetto. Sperava che quel regalo le sarebbe piaciuto anche perché era la prima volta, dopo sette mesi che stavano insieme, che le regalava qualcosa. Ed era la prima volta in vita sua che comprava un regalo per una ragazza, e questo lo rendeva piuttosto insicuro.
Decise di deviare per Madison Street, uno dei suoi quartier preferiti: lungo la strada infatti sorgeva la JEX, la sede della casa discografica di Morristown. Erano lì che i sogni del ragazzo arrivavano al capolinea. Prima o poi, ne era sicuro, con la sua band avrebbe varcato quelle porte e ne sarebbe uscito con un disco in mano. Mentre era preso a fantasticare sul successo che avrebbero avuto, sulla sua immagine da rock star, acclamata e ricca, scorse un viso fin troppo familiare che stava uscendo dalla JEX.
Nathaniel spinse la porta davanti a sé ma non era solo: si voltò permettendo, da cavaliere qual era, alla persona dietro di lui di uscire per prima. Debrah gli passò davanti con un sorriso complice stampato in viso. Non appena furono all’esterno, la ragazza, incapace di contenere il suo entusiasmo, gli lanciò le braccia al collo e lo guardò con passione. Nathaniel sembrava piuttosto rigido e impacciato e delicatamente allontanò la ragazza. Debrah però disse qualcosa e lui replicò con una battuta di poche parole.
 
Anche mentre raccontava ad Erin quell’episodio, la mente di Castiel rivedeva la scena come se ce fosse gli occhi a comunicargliela. Il tempo non aveva cancellato nessun dettaglio né sentimento. Provava ancora tanta rabbia e rancore.
 
Quasi non si rese conto di aver attraversato la strada senza guardare. Raggiunse la coppia che, appena si accorse della sua presenza, assunse due atteggiamenti contrastanti: Nathaniel di panico, Debrah di disprezzo. E anche quelle espressioni erano destinate a restare indelebili nella sua memoria.
Evidentemente infastidita, Debrah sbottò:
“e tu che ci fai qui?”
“mi hai tolto le parole di bocca” commentò Castiel trattenendo a stento il nervoso. Diavolo, visto che c’entrava Nathaniel non poteva certo trattarsi di qualcosa di cui preoccuparsi, ma l’aria colpevole del suo migliore amico aveva instillato in lui il seme del dubbio. Che ci facevano insieme? E cos’era tutto quel mistero? E quell’abbraccio? Prima di allora, Debrah non aveva mai abbracciato nessuno che non fosse il suo ragazzo.
“senti Nath, se non vuoi dirglielo tu, a questo punto lo faccio io” esclamò Debrah.
Il biondo la guardò contrariato mentre Castiel spostava alternativamente gli occhi tra i due interlocutori:
“io ho sempre voluto dirglielo! Sei tu che-“
Senza dargli il tempo di finire la frase, la ragazza spiegò:
“ascolta Cas, due mesi fa John Greed, il produttore della JE-”
“so chi è” ruggì Castiel furente. Sentiva il sangue andargli al cervello. Certo che lo sapeva chi era John Greed. Erano anni che puntava ad attirare l’attenzione di quell’uomo con la sua musica.
“ecco lui, ha contattato Nathaniel, dicendogli che era interessato a lui come vocalist. Vi ha sentiti alla serata al Frozen Fire e a quanto pare è rimasto impressionato da Nath”
Castiel guardò l’amico che però non aveva il coraggio di ricambiare quello sguardo. Era la prima volta che succedeva. Tra di loro c’era sempre stata una complicità, un’intesa che le parole non potevano esprimere. Ora invece il rosso aveva l’impressione di avere di fronte a sé un estraneo.
“ho pensato che fosse meglio per Nathaniel non dirvelo. A te e a Lys s’intende. Alexy non l’avrebbe certo ostacolato…”
“aspetta… Alexy lo sapeva?”
“sì, e anche gli altri… solo tu e Lysandre non ne eravate al corrente”
Nathaniel guardò Debrah senza capire. Perché lo stava facendo? Perché stava gettando benzina sul fuoco?
“e pensavi davvero che ti avrei ostacolato?” sbraitò Castiel afferrando il braccio di Nathaniel. La morsa era talmente serrata da risultare dolorosa. Quanto la consapevolezza del torto che era stato commesso.
Il biondo finalmente alzò lo sguardo e lo puntò sull’amico.
“io… non lo so…”
Castiel mollò la presa sconvolto. Erano poche le cose in cui aveva sempre creduto. Una di queste era nella fiducia incrollabile che Nathaniel riponeva nei suoi confronti.
“e quindi? Ha detto che ti farà sapere se può produrre un tuo cd?” chiese Castiel sprezzante. Era tutto così assurdo. Nathaniel solista. Le canzoni che il rosso scriveva erano improntate sul timbro e la personalità dell’amico, ma ora lui era disposto ad abbandonarlo.
“ha firmato il contratto oggi Castiel” lo informò Debrah.
Il pugno che mesi prima aveva tirato a Pablo doveva essere stato meno doloroso. Ne era sicuro. Sentì la gola seccarsi, il cuore aumentare il battito e il pavimento cedergli sotto i piedi. Allora era già tutto fatto. non era stato minimamente coinvolto nella scelta.
Nathaniel continuava a mordersi il labbro e più Castiel lo guardava e più stentava a riconoscerlo. Il biondo era così insicuro e in colpa che Debrah aveva assunto il ruolo di suo avvocato. Il rosso non riusciva a capire la paradossalità di quella situazione: la ragazza che più amava al mondo si era schierata contro di lui e come se ciò non bastasse, lo stava trattando senza il minimo riguardo. Aveva rivolto a Castiel parole dure, come se fosse lui il colpevole di quella situazione scomoda.
Si era serrato in un mutismo tale che Nathaniel, non sopportando più quel silenzio si giustificò:
“tu ci credevi più di tutti nel sogno di diventare musicisti…non sapevo come-” si giustificò il biondo cercando disperatamente di difendere la sua posizione.
“era per il bene di Nathan-” s’intromise Debrah, ma Castiel la zittì. A lei avrebbe pensato dopo.
“se tu me l’avessi detto probabilmente mi sarei sentito ferito e abbandonato, ma alla fine avrei capito” riconobbe Castiel a denti stretti.
“non volevo deluderti…”
“E PENSI DI AVERMI DELUSO DI MENO TENENDOMI ALL’OSCURO DI TUTTO?” urlò, attirando l’attenzione di qualche passante.
“non… non doveva andare così… era il nostro sogno” mormorò Nathaniel.
Castiel lo guardò con intensità e dopo una breve pausa, commentò amaramente:
“sì… e a quanto pare ero l’unico che stava dormendo”
 
“dopo quella discussione me ne tornai a casa, cercando di sbollire la rabbia. Ma più il tempo passava e più sentivo crescere il risentimento verso quello che era sempre stato il mio migliore amico. Verso mezzanotte arrivò Debrah e quello che mi disse fu la goccia che fece traboccare il vaso e che fece crollare anche l’ultimo filo di speranza”
 
“mi dispiace Castiel. Ma è da un po’ che non provo più nulla per te ma non volevo farti soffrire così ne ho parlato con Nathaniel e mi ha consigliato di prendere tempo. Ma non è servito a niente… mi sono solo convinta di più che quello che avevo provato per te ora lo sento per Nathaniel”
Quelle parole investirono Castiel come un’onda gelida. Per uno come lui che aveva un’alta considerazione della fiducia, quelle ammissioni erano troppe per un solo giorno. Erano troppo e basta.
“c’è stato dell’altro tra di voi?” le chiese con un filo di voce. A quel punto, anche la peggiore delle ipotesi diventava la più plausibile.
Debrah abbassò lo sguardo, spostandolo verso la TV accesa.
“C’E’ STATO DELL’ALTRO TRA DI VOI?” urlò Castiel sconvolto e ferito. Sentiva che qualcosa era andato in pezzi dentro di lui. Tradito dalle due persone più importanti della sua vita.
Debrah perpetuò il suo colpevole mutismo e lui, impotente di fronte alla ragazza che ancora amava, le voltò le spalle dicendo:
“esci da questa casa e dalla mia vita”
 
Debrah sparì davvero. Tornò nella sua città lasciando solo tempesta dietro di sé: io non mi davo pace. Nathaniel venne a parlarmi dopo un paio di giorni ma non volli sentire ragioni. Anche Lysandre rimase sconvolto dalla novità del cd e l’unica cosa che potei fare, fu prendermela con Alexy e gli altri che ne erano al corrente. Ti risparmio i dettagli della discussione con loro, ammetto che ero davvero fuori di me e certe parole che ho usato, specie in direzione di Alexy e Rosalya sono irripetibili.
In classe io e Nathaniel non ci guardavamo neanche più finchè durante un intervallo venne da me dicendomi che se prenderlo a pugni mi avrebbe fatto sentire meglio, allora ero libero di farlo. Dopo un’iniziale indecisione, mi avventai su di lui, ma servì solo a farci sentire più vermi di quello che eravamo. Quell’episodio inoltre aggravò la mia già compromessa situazione scolastica e così la mia bocciatura divenne ineluttabile. Nel frattempo il rapporto con Alexy e gli altri era ormai disintegrato e solo Lysandre rimase dalla mia parte. Armin, imparziale per natura, tornò a chiudersi nel suo mondo virtuale, Leigh si diplomò e per lui fu più semplice chiamarsi fuori dalla situazione. Con Rosalya e Alexy… beh, l’hai visto anche tu. Non ho mai voluto sapere che fine fece il disco di debutto di Nathaniel ma il fatto che sia ancora un comune studente di liceo mi lascia intendere che non abbia avuto il minimo successo… ok… mi pare sia tutto Rapunzel. Soddisfatta?”
 
Erin era rimasta senza parole.
“non…” ma non riuscì a proseguire la frase. Le parole le morirono in bocca. Avrebbe voluto dire che non ci credeva ma era come dare del bugiardo a Castiel. Il ragazzo le aveva finalmente permesso di scrutare dentro di sé, di frugare nel suo passato e quello che Erin aveva scoperto la stava allontanando da Nathaniel. Non era da lui comportarsi così. Incarnava lo stereotipo del ragazzo perfetto, onesto e gentile.
“ci deve essere un’altra spiegazione Castiel!” sbottò mettendosi in piedi. Le ginocchia le facevano male ma le ignorò:
“deve esserci” ribadì con maggior convinzione.
No.
Non poteva credere che Nathaniel avesse davvero tradito in quel modo il suo migliore amico. Più ci pensava e più se ne convinceva.
“e quale?” replicò Castiel con un sorriso esasperato.
“gli hai mai parlato? Hai chiesto a Nathaniel la sua versione?” insistette Erin sempre più incapace di essere obiettiva.
“non era necessario. I fatti parlavano da sé”
Con un gesto improvviso e violento, Erin lo afferrò per la maglietta, la stessa che il ragazzo poco prima aveva usato pazientemente per medicarla.
“NON POSSO CREDERE CHE TU SIA STATO COSÌ CODARDO DA NON AFFRONTARLO. PRIMA DI MANDARE ALL’ARIA UN’AMICIZIA COSÌ IMPORTANTE, AVRESTI DOVUTO PRENDERTI LA BRIGA DI VERIFICARE I FATTI, IDIOTA!”
 
 
In un primo momento Castiel rimase senza parole. Quella reazione così aggressiva l’aveva spiazzato ma si riprese in fretta:
“EHI! Non mi aspettavo certo la tua pietà ma tanto meno che dessi la colpa a me per quello che è successo!” sbottò furente. Erin mollò la presa e mantenne fisso il suo sguardo truce.
“sto dicendo che avevi davvero poca stima di Nathaniel se ti sono bastate le parole di una troietta per dubitar di lui” sputò fuori.
Appena Erin si rivolse a Debrah con quell’appellativo poco lusinghiero, Castiel scattò in piedi. La sovrastava con il suo metro e ottantasette:
“CHI TI CREDI DI ESSERE PER GIUDICARLA? NON LA CONOSCI NEMMENO! Facile per te scaricare la colpa su di lei… sono stato un coglione a dirti tutto. Ora che sai la verità non la vuoi accettare perché in questa storia Nathaniel viene fuori per il traditore che è. Complimenti per la maturità! Almeno io l’ho accettato, ho aperto gli occhi su di lui e guardo in faccia la realtà. Tu preferisci prendertela con persone che non conosci” grignò.
“TU GUARDI IN FACCIA LA REALTÀ?” sbraitò Erin indignata “ma se da quando questa Debrah è entrata nella tua vita hai perso i tuoi amici! Ce l’hai un minimo di intelligenza? Perché non ammetti che è tutta colpa sua?”
Erin rimase in silenzio, con il cuore che le batteva a mille e il respiro che si faceva sempre più corto.
Castiel era ammutolito e aveva distolto lo sguardo, puntandolo verso un punto indefinito del suolo.
Poi finalmente Erin capì:
“Castiel… tu sei ancora innamorato di lei”
 
“e così sei tornato pappa e ciccia con Castiel?”
“pappa e ciccia” ripetè offeso Alexy “mi ha solo detto che non gli dà fastidio se il venerdì voglio intrattenermi con loro dopo le lezioni”
Mentre era impegnata in una conversazione telefonica con il suo miglior amico, Rosalya cercava di ritoccare i dettagli di un vestito per il club di teatro. Adorava rifinire i suoi pezzi e portarsi il lavoro a casa, la considerava una liberazione più che un obbligo.
“quindi hai già dimenticato le gentili parole che ci ha rivolto mesi fa?” replicò secca. Teneva il cellulare in bilico sulla spalla poiché le mani le servivano per la sua attività di sarta.
Dopo l’ennesimo mezzo infarto che la colpì, sentendo che il cellulare rischiava di schiantarsi a terra, attivò il viva voce e lo appoggiò su un tavolo.
“Rosa, ci sei?”
“Sì, sì Alexy… comunque sai come la penso. Io e te non abbiamo nessuna colpa, quindi mi aspetto le scuse di Castiel… Abbiamo insistito tanto con Nathaniel affinchè si sbrigasse a parlare della storia del cd con lui e Lysandre ma quella stronza si è sempre messa in mezzo trovando mille scuse per prendere tempo. Non potevamo certo dirglielo noi… dovevamo aspettare che fosse Nathaniel a farlo, non c’erano alternative”
“ma se tu facessi un qualche tentativo di riappacificarti con Castiel…” tentò di dire Alexy sperando intensamente in una risposta accondiscendente dall’altro capo del telefono.
“non vedo perché dovrei” replicò prevedibilmente la ragazza.
Alexy sospirò e, consapevole che Rosalya non poteva vederlo, sorrise:
“perché è molto amico di Erin… me ne sono accorto sai?”
“che cosa?” chiese lei interrompendo il suo lavoro e guardando il telefono come se avesse di fronte l’amico.
“che lei ti piace. È una persona in gamba e non hai mai avuto delle vere amicizie femminili… con Erin potresti interrompere questo tuo record”
“è una bella persona questo sì. Ma non vedo perché dovrei sentirmi obbligata ad andare d’accordo con Castiel”
“perché renderesti le cose più semplici a tutti. Loro due sono amici. Voglio davvero provare a ricucire i vecchi rapporti, ma senza di te non ce la posso fare”
Rosalya non obiettò e rimase in silenzio. Tornò a concentrarsi sul suo lavoro ma le veniva difficile. Nel tentativo di unire due lembi troppo distanti, applicò troppa forza e un piccolo strappo rovinò la stoffa del vestito. Dall’altro capo della linea, Alexy aspettava pazientemente una risposta, sapendo che alla ragazza serviva del tempo per riflettere sulle sue parole.
Rosalya, frustrata per l’inconveniente, direzionò involontariamente il suo sguardo verso la mensola della sua stanza.
Protetti da una cornice in legno scuro, un gruppo di ragazzi la guardavano, chi sorridente chi beffardo. Castiel con quell’espressione da duro arrogante, Lysandre enigmatico e misterioso, Alexy sorridente che la abbracciava, Armin in posa da supererore e Leigh che la guardava con adorazione. E poi c’era Nathaniel. Non guardava dritto nell’obiettivo, aveva la testa voltata di tre quarti, come se in quel momento con la sua mente fosse altrove.
Le mancava così tanto la loro armonia e complicità.
“eravamo un gruppo mitico” commentò amaramente, riavvicinando i due lembi strappati. Una stupida distrazione e il vestito rischiava di essere rovinato. Proprio come era successo con la loro amicizia “ma è bastata una ragazza per rovinare tutto”
Alexy, che in quel momento avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia per vedere l’espressione della sua migliore amica, replicò placidamente:
“è vero. Ma forse proprio per questo basterà un’altra ragazza per ricucire ogni strappo”
 
“Castiel… tu sei ancora innamorato di lei”
 
Dopo quella frase, il ragazzo non aveva aggiunto altro. Né una smentita né una conferma. Si era limitato a raccogliere il pallone e voltare le spalle ad Erin. La ragazza, passata la rabbia, si sentì a disagio.
Aveva rovinato tutto.
L’amico, le aveva raccontato una storia che l’aveva fatto soffrire e aveva saputo solo ascoltarlo per poi aggredirlo. Nessuna parola di conforto o comprensione.
“non tutti sono forti come te Erin” le disse d’un tratto.
Non osava nemmeno guardarla in faccia. Dal suo tono di voce traspariva tutta la vergogna, l’umiliazione di una persona orgogliosa che si sentiva ferita. Aveva mostrato il suo lato più vulnerabile e si sarebbe preso a calci in testa da solo per questa sua debolezza. Voleva raccontare una versione molto meno dettagliata e sentimentale della vicenda, invece aveva finito per farsi trasportare dai ricordi.
“non sono forte Castiel. Sono più fragile di quanto immagini. Quella che vedi non sono io… è Sophia”
 
Una folata di vento gelido li investì, come da copione in un film drammatico. La ventata portò con sé infatti anche qualche foglia secca che si adagiò sulla superficie ruvida del campo da basket e scivolando per qualche metro, riprodusse una sorta di lamento strisciante.
Erin rabbridì per il freddo e Castiel la scrutò confuso:
“chi è Sophia?”
“mia sorella. Ad essere precisi siamo gemelle”
Il ragazzo si avvicinò a lei. Fino a qualche istante prima, avrebbe voluto solo tornarsene a casa, dimenticarsi di quella discussione e non vedere Erin fino al lunedì successivo.
Ma l’espressione avvilita e al contempo dignitosa della ragazza, lo trattenne.
“non sto capendo niente…” ammise.
Erin sorrise debolmente e propose:
“facciamo due passi? Penso che per oggi basta con il basket”
Castiel annuì ed Erin aggiunse:
“adesso tocca a me dirti qualcosa del mio passato”
 
“se mi avessi conosciuto quattro mesi fa ti saresti trovato di fronte una persona completamente diversa: avevo una vaga conoscenza della musica rock, odiavo gli sport maschili e… ti sarà difficile immaginarlo ma ero piuttosto femminile… voglio dire… mi piacevano i vestiti, trucchi e cose così”
“difficile a credersi” ammise Castiel cercando di intuire le forme femminili dell’amica sotto il largo maglione che indossava. Erin gli lanciò un’occhiataccia offesa e si ficcò in bocca delle patatine.
Avevano scelto di fare uno spuntino al Mc Donald prima di tornarsene a casa e quel giorno il locale era insolitamente silenzioso.
e tua sorella? Com’è?”
Al ricordo di Sophia, Erin sorrise:
“lei è… incredibile: un vero maschiaccio, ascolta la musica rock, è determinata, piena di vita… un uragano!” mentre l’amica descriveva la sorella, Castiel non potè fare a meno di accorgersi di come le brillassero gli occhi. Lui era figlio unico e non poteva capire cosa fosse il legame fraterno ma quello che univa Erin a Sophia gli ricordava quello che un tempo c’era tra lui e Nathaniel
“è come te” osservò Castiel.
Erin rimase un attimo interdetta, arrossendo lievemente ma poi lo corresse:
“no, ti sbagli. Negli ultimi mesi ho cominciato a comportarmi come lei, a vestirmi come lei perché…”
Castiel aspettò che Erin completasse la frase ma la ragazza sentì solo il nodo alla gola farsi più stretto.
Inspirò, ringraziando mentalmente l’amico per la pazienza con cui la stava ascoltando. Il rosso la guardava senza giudicarla e senza lasciar trasparire nessun giudizio:
“…perché così facendo guardandomi allo specchio vedo lei, e il vuoto che ha lasciato viene riempito dall’illusione che vedo riflessa. Lo so che non è normale, ma mi fa stare bene. Sento meno la nostalgia”
Quelle parole spiazzarono Castiel, che dopo un’esitazione iniziale, borbottò:
“scusa Erin ma da come ne avevi parlato io avevo capito che tua sorella è viva…”
“infatti è così. Ma siamo state costrette a separarci” si affrettò a precisare la ragazza.
“perché?”
“non mi va di parlarne” tagliò corto Erin aspirando la Coca-Cola lungo la cannuccia. L’azione fu troppo rapida e rabbividì. Castiel dal canto suo, non ritenne opportuno intromettersi. L’amica lo scrutò con sospetto, chiedendosi se le sarebbe stato davvero così semplice archiviare la questione. Quasi Castiel le avesse letto nel pensiero, commentò:
“inutile che mi guardi così. Diversamente da te, so rispettare gli spazi altrui, non sono assillante e quindi non ti chiederò altro” a dopo aver dato un morso al suo hamburger aggiunse “fe non fuoi dirmelo non ti coftringerò”
“che schifo! Non parlare con la bocca piena!” rise Erin ricevendo dal suo compagno di pranzo un’occhiata divertita.
Gli era grata. Aveva saputo ascoltarla senza forzarla in alcun modo. E ora lei si sentiva più serena. Non era la prima volta che Castiel le faceva questo effetto. In almeno un paio di occasioni, quando l’immagine della sorella monopolizzava la sua mente, facendola precipitare nel baratro, lui riusciva a illuminarle la strada.
 “ti piacciono gli hamburger” commentò Erin vedendo come Castiel aveva divorato il cibo.
Castiel rispose con un grugnito incomprensibile.
“anche a Sophia”
“quanfo forna prefenfamela” biascicò a bocca piena il rosso, ignorando l’ammonimento che Erin gli aveva rivolto qualche secondo prima.
Erin lo guardò sorridendo, con una dolcezza che imbarazzò Castiel:
“perché mi guardi così?” borbottò a disagio.
“scusa… è che stavo pensando che saresti esattamente il tipo di ragazzo che piace a mia sorella” ammise candidamente. Castiel si sentì lusingato, finì la sua Coca-Cola e commentò:
“del resto, un uomo con la mia clasOAOOH” e la frase finì con un rutto involontario che fece scoppiare a ridere l’amica:
“sei un maiale, altro che uomo di classe!”
 
Quando uscirono dal McDonald, erano entrambi di umore decisamente migliore di come erano entrati:
“ti fa ancora male?” chiese Castiel alludendo alle ginocchia della ragazza.
“per niente” mentì Erin. Da come gliel’aveva chiesto sapeva che il ragazzo si sentiva in colpa e non trovava giusto infierire “tu dove abiti di preciso?” chiese per distrarlo.
“non lontano da qui. Vicino al negozio di cd di Madison Street”
“allora ti accompagno. Una volta tanto che posso ricambiare il favore”
“ma non sono mica una ragazza” obiettò il rosso, difendendo il suo virile orgoglio.
Come accadeva un po’ troppo spesso nelle ultime due settimane però, le sue proteste rimasero inascoltate. Curiosa di vedere la casa di Castiel, Erin lo seguì finché arrivarono di fronte ad un’abitazione su due piani. L’edificio aveva un giardino all’esterno diviso in due da una rete.
“ci sono quattro unità immobiliari” spiegò Castiel “il mio è questo” spiegò indicando uno al piano terra.
Erin si sporse a guardare dentro il giardino, mettendosi in punta di piedi poichè la siepe le nascondeva la visuale.
Improvvisamente, sentì un fruscio frenetico e, in un attimo, si trovò difronte una feroce bestia nera.
“AAAHAAHAHHAHHA!!” urlò schiantandosi addosso a Castiel che era scoppiato a ridere.
Sentendo quella risata così familiare, la belva si acquietò e lanciò dei gridolini felici.
“c-c-c-c-c-che cos’è questo coso?!” balbettò Erin in preda a spasmi di terrore.
“è il mio cucciolone” spiegò Castiel allungando la mano ad accarezzare l’animale. Un magnifico esemplare di pastore della Beauce stava ritto in piedi cercando di intercettare il più possibile con il muso la mano del padrone.
“c-cucciolone? Questo cavallo qui?”
“non è poi così grande. È perché è sulle zampe… dovresti vedere gli alani, quelli sì sono enormi”
Erin però lo ascoltava a stento e continuava a fissare terrorizzata l’animale che si era spostato in un punto in cui la siepe era più bassa. Aveva un manto marrone scuro, quasi da sembrare nero e il pelo era bello lucido. Si capiva che era un animale giovane e in buona salute.
Il cane intanto, quando Castiel aveva smesso di accarezzarlo e aveva cominciato a parlare con Erin, aveva ripreso ad abbaiarle contro:
“su, su sta’ buono Demon”
“Demon? Per la miseria non potevi trovargli un nome più azzeccato!”
Quasi il cane avesse avuto la facoltà di comprendere la lingua umana, abbaiò con più veemenza in direzione dell’intrusa che l’aveva offeso.
“strano che reagisca così. Di solito con la gente che è con me si comporta bene” commentò Castiel tornando a rivolgere le sue attenzioni a Demon. Il cane apprezzò e si acquietò. Erin continuava a fissare con orrore quella sottospecie di doberman pompato, per poi spostare l’attenzione sul suo padrone. Non aveva mai visto Castiel così tenero. Quando suonava era concentrato e al contempo sereno, completamente immerso nel suo elemento. Con Demon invece si comportava in modo affettuoso e adorabile:
“che c’è vuoi una carezza anche tu?” la schernì il ragazzo.
“di certo non da quella mano piena di bava” commentò Erin schifata. Quella fu una tentazione troppo forte per il ragazzo che si staccò da Demon e si avvicinò all’amica con la mano carica di contaminazione batterica canina. Quel gesto non fu apprezzato dal cane, che tornò ad abbaiare contro Erin.
“strano non è da lui tutto questo accanimento. Ti odia proprio”
“la cosa è reciproca se non la smette” disse Erin alzando la voce. Sovrastare le urla dell’animale era piuttosto problematico.
“che succede Demon?”
Una voce un po’ gracchiante attirò l’attenzione dei ragazzi. Demon si staccò dalla siepe e accorse verso la rete che delimitava il confine con il giardino del vicino:
“oh, ma sei tu Castiel. Mi chiedevo perché Demon facesse tutto questo baccano” commentò l’uomo.
Erin lo guardò con curiosità. Era un signore sulla sessantina, piuttosto basso. I radi capelli rimasti in testa erano grigio scuro e pesanti rughe solcavano un viso stanco ma sereno.
“salve Mauro” lo salutò Castiel guardando Demon che si era avvicinato a fare festa all’anziano vicino. L’uomo aveva spostato il suo sguardo verso Erin, e dopo averle rivolto un cordiale sorriso la salutò. Erin si limitò a rispondere educatamente.
“allora se è tutto a posto torno dentro. Buona giornata” disse loro l’uomo prima di sparire.
Quando Mauro entrò in casa, Erin si rivolse all’amico:
“Mauro? È italiano? Dall’accento non si direbbe”
“saranno quarant’anni che è in America”
“capisco”
Erin guardò l’ora, accorgendosi che si stava facendo ora di pranzo. Sua zia si sarebbe messa a tavola da un momento all’altro:
“senti Castiel… quello che ti ho detto di Sophia… non dirlo agli altri. Non vorrei che mi facessero domande a cui non voglio rispondere”
Castiel, che nel frattempo aveva frugato nelle tasche alla ricerca delle chiavi del cancello replicò semplicemente:
“d’accordo”
Erin spostò la testa di lato e osservò Castiel con interesse:
“che hai? È tutto il giorno che mi lanci occhiate inquietanti” borbottò Castiel.
La ragazza sorrise, abbassando il capo e scuotendo la testa divertita:
“niente. È che… oggi mi hai sorpreso Castiel Black… non sei così insensibile come credevo” ammise contenta.
Castiel dapprima rimase senza parole poi commentò:
“sarebbe un complimento?”
Erin non rispose alla domanda, ma esclamò:
“mi raccomando oggi. Puntuale alle tre”
Non ottenendo risposta dal ragazzo, Erin pensò che si fosse dimenticato del loro appuntamento pomeridiano.   
“dobbiamo fare la ricerca sul fumo ricordi?”
“e come posso dimenticarmi di una cosa del genere? Ti pare che mi priverei del piacere di passare un pomeriggio in tua compagnia?”
Erin lo guardò con un ghigno sospettoso:
“risparmiati il sarcasmo”
“e chi ti ha detto che era sarcasmo?”
Erin lo fissò incerta. Castiel scosse leggermente la testa, divertito dalla sua espressione inebetita. Le rivolse un sorriso enigmatico e varcò il cancello di casa.
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Finalmente sono riuscita a pubblicare uno dei capitoli più importanti della ff…
Ho deciso di intitolare questo capitolo con il titolo della storia per un paio di motivi: il primo perché è proprio in questo capitolo che (finalmente) si spiega il perché ho intitolato l’intera ff  “In her shoes”. Questa locuzione è l’equivalente di “nei suoi panni”. L’aggettivo “suoi” in questo caso si riferisce alla sorella gemella di Erin, Sophia di cui, dopo ben 16 capitoli, ne scopriamo l’esistenza. Per motivi che è ancora presto rivelare, le due ragazze sono state costrette a separarsi ed Erin soffre molto per questa lontananza. Sfruttando il fatto di avere lo stesso volto, la protagonista ha annullato la sua personalità e si è messa letteralmente nei panni della sorella (in her shoes).  Questo le permette di sentirne meno la mancanza e di illudersi inconsciamente di essere lei Sophia. Altro motivo per cui ho voluto riciclare il titolo dell’intera ff per questo capitolo è che in esso vengono scardinati alcuni dei punti fondamentali della trama e pertanto ho voluto sottolinearne l’importanza. Veniamo infatti a sapere la causa alla base della rottura tra Nathaniel e Castiel: prevedibilmente c’entra Debrah, anche se non possiamo certo addossare solo a lei la colpa di quanto è successo… voi che dite?. Visto che il classico tradimento amoroso mi sembrava troppo prevedibile, ho voluto aggiungerci anche il fatto che Nathaniel abbia tentato una carriera da solita all’insaputa di Castiel, che più di ogni altro credeva nel sogno di diventare musicisti.
 
Povera Erin: le ho messo contro Demon :3 del resto nemmeno il primo incontro tra la ragazza e il suo padrone era stato civile e pacato… Che altro posso dirvi? Ah giusto, grazie per aver letto il capitolo… alla prossima ^^)
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La ragazza di Jason ***


CAPITOLO 17: LA RAGAZZA DI JASON
 
Varcando la soglia dell’appartamento, Erin venne investita da un’invitante profumo. Sorpresa per ciò che il suo naso le stava comunicando, fece capolino in cucina dove vide Pam intenta ad estrarre dal forno una teglia fumante:
“ti sei messa ai fornelli?” commentò sbigottita in direzione della cuoca. Raramente aveva visto la zia impegnata in pietanze più complicate di una pasta al pomodoro o un’insalata condita.  
“oh sei già tornata? E io che stavo per telefonarti per chiederti se volevi invitare Castiel a pranzo”
“Castiel?” ripetè Erin inorridendo.
“perché no? È stato così gentile a offrirsi di allenarti” replicò Pam sistemando la teglia di lasagne al ragù sul piano di cottura.
“appunto per questo non è carino da parte tua tentare di avvelenarlo con la tua cucina” precisò Erin versandosi un bicchiere d’acqua.
“esagerata! Solo perché qualche volta ho confuso il sale con lo zucchero” minimizzò la donna.
“e sbagliato completamente la cottura della pasta” aggiunse la nipote sorridendo.
“io volevo solo essere gentile” si giustificò quasi mortificata.
“e te ne sono grata. Ma prima dovresti imparare a cucinare. Anche Jason mi aveva detto che ti farebbe bene fare un corso” la informò Erin.
“Jason? Ma se lui non ha mai assaggiato niente di mio!” protestò Pam disponendo due piatti sulla tavola.
“sì ma lui l’ha suggerito così, come idea per farti uscire un po’… per frequentare gente nuova…”
Pam rimase in silenzio, riflettendo su quella proposta. Si sentiva lusingata dal fatto che il suo vicino si fosse interessato alla sua vita sociale tanto da parlarne con Erin ma avrebbe preferito avere l’occasione per conversare direttamente con lui. Da pochi giorni infatti aveva cominciato a vederlo con occhi diversi e aveva bisogno di relazionarsi con lui, di conoscerlo meglio per capire cosa provasse realmente per lui.
Poi però un pensiero scomodo ma razionale le attraversò la mente: Jason era già impegnato sentimentalmente e anziché preoccuparsi di far luce nel suo cuore, lei avrebbe dovuto accantonare alla svelta qualsiasi pensiero romantico nei suoi confronti.
“comunque oggi la sua ragazza pranza da lui” commentò Pam mentre era impegnata a ricavare due porzioni di lasagne.
“non c’è nulla di male” osservò Erin, intuendo però quali fossero i reali pensieri della zia.
“no, lo dicevo così tanto per” si giustificò Pam, come se la cosa non la interessasse.
Erin prese il suo piatto e cominciò ad assaporare il cibo. Sua zia aveva ancora molta strada da fare come casalinga e l’idea di Jason di frequentare un corso di cucina era più che indovinata.
“comunque Castiel arriverà verso le tre. Tu non è che potresti…”
“lasciare libera la casa? D’accordo. Fino a che ora?” completò Pam.
“boh, facciamo fino alle sette nel dubbio”
“vi serve tutto quel tempo?” indagò la donna, maliziosamente sorpresa.
“dobbiamo fare la ricerca zia. Ci vuole tempo. Conoscendo Castiel, probabilmente si romperà dopo mezz’ora, ma voglio farla bene a costo di lavorarci da sola” giurò Erin. Quel progetto le era stato affidato da Miss Joplin, la sua insegnante preferita e per nulla al mondo le avrebbe consegnato un lavoro insoddisfacente.
Dopo un silenzio durato un paio di minuti, Pam commentò:
“basta che vi concentriate sullo studio”
“non c’è pericolo” replicò seccamente Erin. Colse il doppio senso di quella frase che la infastidì parecchio. Lei e Castiel erano diventati amici, vederlo in un’ottica diversa non solo le risultava difficile ma persino imbarazzante e la metteva a disagio.
Pam però non era intenzionata a lasciar cadere l’argomento:
“alla tua età era pericoloso lasciarmi da sola con un ragazzo” commentò divertita.
“infatti guarda come ti sei ridotta”
Nella stanza cadde un pesante silenzio.
Erin si pentì all’istante della sua battutina acida. Involontariamente in quelle parole era trasparita una forma di disprezzo verso la situazione sentimentale della zia, che era arrivata a vent’otto anni sola e senza ambizioni.
Pam poteva sorvolare sulle occhiate di biasimo della sua vicina bigotta, sui giudizi superficiali di chi non la conoscesse a fondo, ma non poteva sopportare che anche sua nipote avesse una così bassa opinione di lei.
Sapeva di essere stata un’inguaribile romantica, troppo ingenua e talvolta stupida, da non accorgersi degli uomini che si approfittavano di lei. Ma l’etichetta della donna facile e immatura proprio non le andava giù.
Masticò in silenzio, senza staccare gli occhi dal piatto mentre Erin la guardava mortificata.
Si sentiva un verme. In fondo viveva a scrocco dalla zia che le aveva offerto un tetto e soprattutto un ambiente tranquillo e sereno in cui affrontare un momento difficile della sua vita. E poi erano proprio la spensieratezza, e talvolta la frivolezza, di Pam a distrarla dal suoi problemi.
 “scusa zia, io non-“
Pam le fece cenno di tacere. Si alzò dal tavolo anche se il contenuto del suo piatto non era stato completamene svuotato. La nipote capì che l’unica cosa da fare era starsene in silenzio e scusarsi in un secondo momento.
La donna gettò nel tritatutto quanto rimaneva delle sue lasagne e, sempre senza dire una parola, abbandonò la cucina per dirigersi nella sua stanza.
 
Quando Erin uscì dal bagno, docciata e profumata, scoprì che Pam aveva già lasciato l’appartamento. La desolazione e il silenzio acuirono il senso di colpa della nipote. Era chiaro che voleva evitarla, almeno finché non le fosse tornato il buon umore. A questo proposito, Erin poteva fare qualcosa. Aveva ancora tempo prima che Castiel arrivasse, così frugò nella dispensa alla ricerca degli ingredienti necessari a dare forma alla sua idea: le avrebbe preparato una torta farcita al cioccolato, di quelle che Pam adorava.
Si mise subito all’opera ma mentre pesava la farina, pensò bene di raddoppiare le dosi, in modo da farne una anche per l’ospite che nell’arco di un paio d’ore avrebbe varcato la soglia.
Sperò che il risultato fosse buono visto che Castiel non le avrebbe risparmiato eventuali critiche. Infornò i due impasti e nell’attesa ripensò con calma agli eventi di quella mattina. In appena mezza giornata aveva ottenuto due grandi conquiste: aveva finalmente scoperto il perché della lite tra Castiel e Nathaniel e aveva parlato un po’ di Sophia quando fino ad un paio di settimane prima anche solo ricordare il suo nome le faceva venire un nodo alla gola.
torna presto Sophia” pensò la ragazza.
 
Una volta che le torte erano state cotte e farcite, sistemò quella per Castiel sulla penisola della cucina, coprendola con un coperchio a cupola.
Osservò attentamente la torta della zia: quella andava resa speciale, così, con la glassa al cioccolato, aggiunse la scritta I LOVE YOU.
Non le aveva mai detto di volerle bene ed era arrivato il momento di esternare tutta la sua gratitudine. Un “mi dispiace” sarebbe stato più appropriato viste le circostanze, ma erano parole che le avrebbe detto di persona, assumendosi la responsabilità di quell’uscita antipatica.
Terminata l’opera, contemplò con soddisfazione l’eleganza della scritta: nonostante Erin avesse una brutta calligrafia, le lettere erano venute straordinariamente bene, forse perché le aveva tracciate con il cuore.
Controllò l’orologio e calcolò che mancava ancora mezz’ora all’arrivo dell’amico. Si accomodò quindi sul divano e per ingannare l’attesa guardò la TV. Il sonno arretrato però non tardò a presentarle il conto e nell’arco di pochi minuti, Erin si addormentò.
 
DIN DON.
Rintronata, si alzò pigramente dal divano e andò al citofono dimenticandosi che aspettava ospiti.
“chi è?” biascicò.
“chi vuoi che sia. Apri” borbottò Castiel.
Erin rimase per un attimo interdetta. Ancora con la mente annebbiata dal sonno, faticò qualche secondo prima di ricordare il perché di quella visita.
Mentre aspettava che il ragazzo salisse, si diede un’occhiata fugace allo specchio: dopo la doccia aveva indossato dei comodi pantaloni della tuta, così da nascondere le ginocchia sbucciate dall’allenamento della mattina e aveva i capelli in disordine. Cercò di sistemarseli con le dita ma il risultato le sembrò peggiorare così ci rinunciò.
Attese Castiel sulla soglia della porta e lo vide risalire le scale:
“potevi prendere l’ascensore” commentò Erin trattenendo uno sbadiglio.
“tzè, figurati. Vecchio com’è ‘sto posto, non mi sono fidato”
Erin, ormai abituata ai commenti acidi dell’amico, lo ignorò e lo fece accomodare all’interno.
Il ragazzo entrò nel soggiorno e indugiò qualche secondo, guardandosi attorno leggermente sorpreso.
“a dispetto della zona è un bel appartamento”
“anche a me non dispiace” ammise Erin soddisfatta.
Dopo essersi sistemati sul tavolo del soggiorno, la ragazza accese il pc portatile:
“dunque dobbiamo fare una ricerca sugli effetti del fumo giusto?”
Castiel si grattò la testa, visibilmente poco interessato ma Erin continuò imperterrita. Avrebbero fatto una ricerca esemplare, a costo di comportarsi da tiranna.
“scrivi tu che io sono lenta a battere al pc. Apri internet e cominciamo a cercare”
 
Dopo un’ora erano già a metà dell’opera.
Dopo le iniziali resistenze, il suo compagno di lavoro si era rivelato molto più collaborativo di quanto Erin osasse sperare. L’argomento cominciava ad interessarlo, tanto che in diverse occasioni era stato proprio Castiel a suggerire le modifiche più opportune. Inoltre, ricercando informazioni sugli effetti dannosi della nicotina, il rosso era rimasto sconvolto dalle conseguenze della deposizione di catrame a livello polmonare.
L’alterazione anatomica di un polmone di un fumatore, rispetto a quello di una persona sana l’aveva colpito profondamente.
“del resto è proprio perché la Joplin ti ha visto rotolare la sigaretta che ti ha assegnato questo lavoro” commentò Erin, allegando l’immagine al documento.
Erano già passate due settimane da quell’episodio, avvenuto il primo giorno di scuola della ragazza.
Continuarono per un’altra mezz’ora poi la concentrazione del rosso cominciò a vacillare:
“aahhh che palle! Non abbiamo finito?” si lamentò, dondolandosi sulla sedia.
“quasi. Bisogna solo trovare qualche grafico che correli l’incidenza del tumore ai polmoni con il fumo… aspetta… forse ho qualcosa del genere in un giornale che ho in camera”
Erin si alzò per dirigersi nella sua stanza ma, prima di sparire si bloccò. Si voltò verso il suo ospite ed esclamò:
“scusa se non te l’ho ancora chiesto, ma hai fame? Ti ho preparato una torta… è in cucina, serviti pure” e si fiondò in camera, sperando che il disordine che regnava sovrano non rallentasse troppo la sua ricerca della rivista.
Castiel nel frattempo si era spostato in cucina, tenendo lo sguardo fisso sul fornello e ignorando completamente l’esemplare di torta che giaceva nascosto sotto il coperchio sull’isola centrale.
Sollevò delicatamente il tovagliolo messo a protezione del dolce e avvampò diventando un tutt’uno con i suoi capelli.
 
Intanto Erin era riuscita a trovare subito ciò che cercava, così tornò in cucina, ansiosa di sapere cosa Castiel ne pensasse delle sue doti culinarie. La torta che gli aveva preparato giaceva immacolata sull’isola centrale e del ragazzo non c’era traccia. Spostandosi, notò che era impalato davanti al piano cottura. Fissava impietrito la scritta che campeggiava sulla torta e che giustificava il colore porpora delle sue guance in quel momento. Di fronte a quell’imbarazzante equivoco Erin esclamò:
“NON È QUELLA LA TUA TORTA!”
Era talmente in imbarazzo chela voce le uscì più acuta di tre ottavi.
Castiel distolse lo sguardo dal dolce, e assumendo un’espressione più neutra, farfugliò:
“mi pareva strano”
La ragazza gli si avvicinò e tornò a coprire quell’imbarazzante messaggio che, indirizzato ad un ragazzo come Castiel, aveva un significato completamente diverso da quello rivolto alla zia.
“e per chi è allora? Per Nathaniel?” la schernì il rosso, seguendo Erin che era impegnata a ricavare due fette della vera torta.
 “no” replicò arrossendo “è per mia zia. Abbiamo litigato e devo farmi perdonare” spiegò mentre il ragazzo la seguiva in salotto.
Tornarono ai loro posti e dopo un breve silenzio, Erin osò chiedere:
“secondo te… sono il suo tipo?”
Era talmente a disagio nel fargli una simile domanda che, assieme alla torta, si masticò anche le parole.
Castiel tuttavia capì sia la domanda che il soggetto e, dopo aver inghiottito un grosso pezzo di dolce rispose laconico:
 “penso di sì”
“sul serio?” si stupì Erin.
Castile scrollò le spalle, poco interessato all’argomento. Notando però la trepidazione che quella notizia aveva suscitato nell’amica così le chiese:
“e lui? È il tuo tipo?”
Erin, dapprima lo fissò, sorpresa da quella domanda, poi sospirò, accasciandosi pesantemente sulla sedia.
“posso essere sincera?” disse dopo una breve esitazione.
“no, ti prego prendimi per il culo” replicò Castiel, strappando un sorriso divertito all’amica
la verità è che non lo so. Quando siamo soli sento che tra di noi c’è intesa, capisci? Lui è così…perfetto. Però appena comincio a cercare di fare chiarezza nella mia testa prevale il buon senso che mi indica che sto correndo troppo… voglio dire… lo conosco da due settimane e non è che ci siamo visti tutti i giorni… non ho avuto abbastanza tempo per…capire” farfugliò la ragazza, consapevole di aver espresso i suoi pensieri in modo piuttosto sbrigativo. Dentro di lei le emozioni erano molto più intense di quanto fosse riuscita ad esternare a parole.
“sono d’accordo” concluse Castiel, mentre scorreva una pagina web “ci rimettiamo all’opera?”
 
Una volta finita la ricerca, Erin annuì soddisfatta. Nonostante le premesse poco lusinghiere, avrebbero presentato un lavoro completo ben fatto in cui il contributo di Castiel era stato fondamentale.
Convinta che a quel punto il ragazzo si sarebbe congedato per tornarsene a casa, si alzò dalla sedia. Il rosso però non era dello stesso avviso:
“senti ci ho pensato… la Robinson non crederà mai che il disegno di Violet l’abbia fatto io. Tra l’altro è in formato A3 e invece lei lo voleva in A4…”
Sorpresa per quell’uscita, Erin incalzò:
“e quindi?”
“visto che ti ho a portata di mano lo rifaccio” concluse Castiel con un sorrisetto angelico che si stampò anche sul viso della sua modella.
“ok, così ne approfitto per rifare il mio. Ma con quello di Violet che ci fai? Potresti darlo a me”
“mi dispiace ma l’ho già buttato”
“l’hai buttato?” ripetè Erin sconvolta.
“e che ci dovevo fare? Ma tu non glielo dire sennò ci rimane male” la ammonì Castiel frugando nell’astuccio alla ricerca di una matita.
L’amica lo guardò delusa ed arrabbiata:
“a volte sei proprio un insensibile Castiel!...a me piaceva sul serio, avresti dovuto darlo a me” e si alzò per recuperare il materiale per il disegno. Il rosso, meravigliato per quella reazione la osservò e meditò un diversivo per allentare la tensione:
“mettiamo un po’ di musica?” propose quando Erin tornò in soggiorno con due fogli in mano.
“ok, clicca sulla cartella Music lì sul desktop e scegli quello che vuoi” borbottò Erin ancora irritata.
“mhm… Linkin Park, Skuns Anansies, Radiohead, QOTSA, Nirvana, Skillet, Perfect Circle, Nickelback…oddio, non dirmi che ascolti gli Imagine Dragons”
“mi piacciono solo due canzoni”
“ok, allora sei perdonata… ah, bene, vedo che ci sono anche i Tool” approvò il chitarrista.
“in realtà devo ancora quelli non li ho mai ascoltati. Quello che stai guardando è il repertorio musicale di Sophia”
Castiel la guardò con la coda dell’occhio e poi commentò:
“non sarebbe meglio che tornassi ad ascoltare quello che ti piaceva prima?”
“ascoltare le canzoni che piacciono a Sophia me la fa sentire più vicina però così facendo ho scoperto che il rock piace anche a me… oltre alle canzoni che ho sempre ascoltato”
“quindi? Dove lo trovo il tuo repertorio originale?”
Erin si sporse verso il PC, portando la mano sul mouse che in quel momento era impugnato da Castiel. Il ragazzo ritrasse la propria, mordendosi il labbro mentre Erin arrossì leggermente.
Aprì un paio di cartelle virtuali ed esclamò:
“ecco qua”
Castiel spostò la testa di lato ed elencò a voce alta:
“Adele, Norah Jones, Lana del Rey… ti piace la gente depressa” sorrise ironico.
“allora cosa vuoi sentire? Non possiamo stare tutto il giorno a passare in rassegna le canzoni”
“visto che queste qua non sono il mio genere, facciamo un 50 e 50: scegliamo una canzone a testa. Ecco questa è perfetta”
“quale?” chiese Erin seguendo il tragitto del cursore sullo schermo.
“Leave Out All the Rest”
Erin sorrise.
“direi che è dopo le rivelazioni di oggi, ci calza a pennello”
 
Tenere la musica come sottofondo era un abile escamotage per lavorare concentrati sul proprio lavoro, senza lasciarsi distrarre troppo da un’eventuale conversazione. Castiel era talmente di buon umore che Erin lo sentì canticchiare:
 
♪ ♫Help me leave behind some 
Reasons to be missed
♪ ♫


Il ragazzo era talmente preso dalla canzone che sembrava essersi dimenticato che doveva osservare la sua vicina per poter eseguire un ritratto il più fedele possibile. Questo però giocò a favore della ragazza, che si sentì più libera di scrutare ogni singolo tratto del ragazzo. Il rosso aveva dei lineamenti molto belli, una mascella mascolina e un naso dritto e regolare. In quella posizione china, i ciuffi di capelli gli nascondevano in parte gli occhi, tanto che la ragazza dovette resistere alla tentazione di scostarglieli. Non tanto per un’esigenza estetica del ritratto, quanto perché c’era qualcosa di estremamente misterioso e affascinante in quegli occhi.
 
L’atmosfera che si era creata in quella stanza era così tranquilla e rilassante che Erin si concentrò sui propri pensieri e riflettè su quanto la compagnia del ragazzo si fosse rivelata preziosa. Come diceva la canzone in quel momento…
 
♪ ♫ Leave out all the rest 
Leave out all the rest
 ♪ ♫


…pian piano Erin sentiva che si stava lasciando alle spalle il fardello che si portava dentro da mesi. Forse non proprio alle spalle, ma il carico si era alleggerito e questo perché aveva trovato un amico che le stava dando una mano a trasportarlo.

♪ ♫ I'm strong on the surface 
Not all the way through 
I've never been perfect 
But neither have you
 ♪ ♫
Quella mattina Castiel le aveva detto che lei era forte ma la sua era tutta apparenza e ora il ragazzo lo sapeva. Con lui non doveva più recitare la parte della persona spensierata, poteva parlargli di Sophia, di quanto desiderasse parlare con lei ancora una volta.

♪ ♫ Forgetting 
All the hurt inside 
You've learned to hide so well
 
Pretending 
Someone else can come and save me from myself 
I can't be who you are
♪ ♫

“non posso essere quello che tu sei, Sophia” pensò Erin. Non aveva senso perpetuare quell’illusione: fingere di essere Sophia solo per vedere l’immagine di sua sorella allo specchio non l’avrebbe riportata indietro. Ora finalmente si sentiva abbastanza forte da tornare ad essere se stessa. Doveva tornare ad essere Erin.
 
La musica finì e Castiel commentò:
“tocca a te Rapunzel. Stupiscimi”
“oh, so già che non ti piacerà, ma visto che devo cominciare a recuperare i miei vecchi interessi…” disse Erin andando su e giù con il mouse.
Nel frattempo Castiel buttò l’occhio sul disegno che la ragazza stava eseguendo.
“è meglio di quello dell’altra volta. Sono passato da Nelson a Secco Jones”
Erin scoppiò a ridere:
“beh, almeno è migliorato. E tu come sei preso?”
Si allungò verso il foglio del ragazzo che però era praticamente bianco.
“mi sono fatto prendere dalla canzone, adesso mi ci metto” promise.
“beh, non credo che la prossima ti piacerà… è di Adele” commentò Erin premendo play.
Le note di Don’t you remember si diffusero nella stanza e la ragazza tornò al suo disegno. Castiel, prevedibilmente, storse il naso e si concentrò sul suo lavoro.
 
♪ ♫I know I have a fickle heart 
and a bitterness
And a wandering eye, 
and a heaviness in my head
♪ ♫
 
Debrah. Ora che quel capitolo della sua vita era stato riportato alla luce, ora che ne aveva parlato con una persona completamente estranea ai fatti, il ragazzo riconsiderò la situazione da un’altra prospettiva: non era una tragedia.  Nessuna ragazza l’aveva mai ferito quanto lei ma ormai non aveva più ferite da leccare, erano completamente rimarginate. L’unica cosa che ancora non gli dava pace era il fatto di non capire. Se ne era andata senza spiegargli come i suoi sentimenti per lui fossero cambiati senza che lui se ne accorgesse:
 
♪ ♫ But don't you remember, 
don't you remember?
The reason you loved me before,
Baby please remember me once more
♪ ♫
♫The reason you loved me before♫”
Castiel sollevò lo sguardo verso Erin. Ecco che c’era ricascata. Senza pudore e percezione di ciò che la circondava, la ragazza aveva cominciato a cantare. La sua voce si fondeva con quella spettacolare di Adele eppure Castiel riusciva a distinguere le due e si concentrò su quella che stava ascoltando dal vivo. Erin cantava con le palpebre abbassate, posa che enfatizzava le lunghe ciglia. La bocca socchiusa che talvolta si allargava per pronunciare le note più alte. Come gli aveva fatto notare la Robinson, Erin aveva dei lineamenti regolari e il ragazzo si adoperò per trasferirli sul foglio.
Aveva una pelle uniforme, ma all’occhio attento dell’osservatore non sfuggì un brufoletto che faceva capolino sul mento. Mentre disegnava, la ragazza si mordicchiava le labbra, morbide e voluminose, rendendo più arduo il compito dell’artista.
Erin sembrava non essersi accorta dell’interesse che su di sè e continuava a disegnare senza alzare lo sguardo. Probabilmente aveva davvero una memoria fotografica, ma da quello che vide Castiel, lei non era realmente concentrata sul disegno. Muoveva la matita quasi a caso, intenta a tracciare il profilo dei capelli, operazione che non le imponeva nessuno sforzo di osservazione del soggetto.
Il rosso sorrise vedendola così assorta e presa dalla musica. Non che avesse una voce spettacolare, ma il suo modo di cantare, languido e quasi sensuale, lo rapivano ogni volta che aveva l’occasione di sentirla.
Verso la fine della canzone Erin si spostò i capelli, raggruppandoli e lasciandoseli cadere su una spalla, piegando di lato il collo affusolato. Castiel storse il naso contrariato e cercò di cancellare i capelli che, nel suo disegno, glielo nascondevano. Nel tentativo sbuffò, ed Erin si ricordò in quel momento della sua presenza.
“scusami, non mi ero accorta che stavo cantando”
“non è quello è che ti sarei grato se non spostassi i capelli a destra e a sinistra” borbottò il ragazzo.
“oh, hai ragione, allora li rimetto come erano prima”
“no, stai benissimo così!”
Erin lo guardò interrogativa, arrossendo lievemente mentre il ragazzo riabbassò il capo sul foglio.
Non voleva che la ragazza notasse la sua reazione.
 
Quando la canzone finì, Castiel protestò:
“adesso basta con le lagne. Mettiamo della buona musica” e scelse i Tool.
 
♪ ♫I know the pieces fit
‘Cause I watched them fall away

No fault, none to blame
It doesn’t mean I don’t desire to
Point the finger, blame the other
♪ ♫
Il testo della canzone richiamò nella mente di Castiel l’immagine del suo ex- migliore amico. Aveva scaricato addosso a lui la colpa di ogni cosa, senza lasciargli l’occasione per giustificarsi.  
 
♪ ♫Cold silence has
A tendency to
Atrophy any
Sense of compassion
♪ ♫
La rabbia gli aveva offuscato la ragione, anche se Lysandre aveva provato più volte a tentare di instaurare un dialogo tra i due. Dopo lo scisma, erano arrivate le vacanze estive e il rosso si era limitato a sparire dalla circolazione. Non aveva dato notizie di sé, se non a Lysandre che aveva mantenuto la bocca chiusa sugli spostamenti del ragazzo.
A settembre, un mese prima che Erin entrasse nelle loro vite, Castiel si era limitato ad un freddo silenzio che l’aveva reso insensibile a qualsiasi cedimento. Nathaniel non aveva più tentato una riappacificazione e, sotto gli occhi dell’intera scuola, apparì lampante che quello che era stato uno dei gruppi più uniti si era disintegrato in mille pezzi.
Il rosso non aveva più voluto avere notizie di Debrah, per quello che ne sapeva, lei e Nathaniel potevano ancora essere in contatto, non aveva motivo per escludere una simile ipotesi.
Erin sembrava così affascinata dal biondo che nonostante le sue titubanze, Castiel era certo che alla fine se ne sarebbe innamorata. Per anni era stato spettatore di quel genere di dinamiche: saltava fuori una nuova tipa, conosceva Castiel ma si innamorava di Nathaniel.
Del resto era inevitabile dal momento che il biondo era affascinante, educato, ricco e premuroso.
La sua amicizia con un simile dio l’aveva relegato al ruolo di Cupido, a cui il rosso aveva sempre cercato di sottrarsi. Debrah invece si era comportata diversamente dalle altre ragazze: si era avvicinata a lui, a Castiel, assolutamente disinteressata alla perfezione del suo amico. Quando Castiel gliel’aveva fatto notare lei gli aveva risposto:
“io amo le persone per i loro difetti… e Nathaniel non ne ha”
Come un allocco, lui aveva creduto a quelle parole e aveva abbassato le difese. Non sopportava di essere stato così debole e in balia dei suoi sentimenti per la ragazza, ma solo quando era con lei sentiva di aver trovato finalmente il suo posto nel mondo. Posto per poi però Debrah aveva occupato accanto a Nathaniel, lasciando Castiel seduto da solo.
 
Il ragazzo stava ormai per finire il suo disegno. Per la prima volta non era così dispiaciuto dal risultato. Anche se rispetto alla versione di Violet il suo sembrava eseguito da un ragazzino delle medie, l’opera era sicuramente più accettabile del suo primo tentativo.
Eppure, più lo guardava e più si sentiva inquieto. Non riusciva a spiegarsi il perché di quella spiacevole sensazione. Non era bello né particolarmente somigliante ad Erin anche se gli sembrava di aver colto alcuni dei suoi tratti più caratteristici come le lunghe ciglia e il viso tondo. Nonostante le palpebre abbassate, era riuscito a rendere una certa dolcezza nel modo in cui gli occhi della ragazza fissavano il basso. Più guardava quel disegno e più sentiva il battito accelerare. L’inquietudine dilagante cominciò a perfondere ogni organo vitale senza che lui potesse fare nulla per arginarla.
“l’hai finito? Posso vederlo?” chiese Erin sporgendosi.
Istintivamente Castiel coprì la sua opera. Non seppe mai perché reagì in quel modo ma la sua indole gli suggeriva di non mostrarlo. Per lo meno non in quel momento e non a lei.
“perché no scusa?” chiese Erin al contempo offesa e perplessa.
“troveresti senz’altro qualcosa da ridire” borbottò Castiel riponendo il foglio nello zaino, di fatto nascondendolo.
“quello che critica sempre sei tu. Comunque se la metti così, non ti mostrerò il mio” annunciò Erin.
“nessuno te l’ha chiesto” convenne secco Castiel.
La ragazza sbuffò mentre il rosso si alzava, sgranchendosi le gambe.
 “guardiamo un po’ di TV?”      
Quella proposta sorprese Erin. Incredibile a dirsi, ma il suo ospite si trovava a suo agio in quell’appartamento e non aveva nessuna fretta di lasciarlo.


Dal repertorio di film scaricati di Erin, scelsero Fight Club. Il film calamitò la loro attenzione al punto che non si accorsero che si stavano facendo le sette.
Sentirono il rumore di una chiave inserita nella serratura e, dopo qualche scricchiolio, fece il suo ingresso Pam, meravigliosa come sempre.
I due ragazzi erano comodamente distesi sul divano e Castiel, dimostrando un minimo di rispetto per la padrona di casa, tolse immediatamente i piedi dal tavolino.
Rimase talmente impressionato dalla bellezza della donna che si dimenticò di salutarla. Erin rise sotto i baffi per quell’espressione inebetita che per la prima volta gli vedeva stampata in faccia.
“tu devi essere Castiel. Piacere sono la zia di Erin” disse la donna porgendogli la mano. La nipote avvertì un’ondata di profumo di Gucci, lo stesso che la zia aveva mandato in frantumi il giorno prima. Evidentemente aveva rimediato all’inconveniente acquistando un’altra confezione.
Questo non sorprese Erin: era tipico della zia cercare consolazione alle sue pene emotive con i prodotti di lusso.
Castiel aveva la gola secca e biascicò un lamento simile a “piacere”.
Dopo un imbarazzante silenzio aggiunse:
“sarà meglio che vada, si è fatto tardi” disse il ragazzo recuperando a pieno le sue facoltà mentali e fonetiche.
Erin lo accompagnò alla porta e lo stesso fece Pam, a cui il ragazzo lanciò un’ultima occhiata, ancora impressionato dalla sua bellezza.
In quel momento anche la porta dell’appartamento di Jason si aprì e ne uscì una donna. Pam cercò di assumere un’aria indifferente quando in realtà avrebbe voluto incenerirla. La ragazza di Jason si voltò verso il trio e sgranò gli occhi. Prima che potesse aggiungere altro, i due studenti esclamarono in coro:
“professoressa!”
Miss Joplin, alquanto stupefatta, si avvicinò loro e indagò:
“e voi che ci fate qui?”
“io ci abito. Castiel è venuto per la ricerca che lei ci ha assegnato” spiegò Erin, un po’ disorientata nell’incontrare la donna al di fuori delle mura scolastiche.
“avevo letto infatti il cognome Travis sul campanello, ma ho pensato ad un caso” ammise la donna, portandosi la mano sotto il mento.
Scoprire che la sua insegnante preferita fosse anche la ragazza di Jason, lasciò senza parole Erin. Questo significava che l’avrebbe vista con una certa regolarità. Poi però ricordò il cognome di Jason e una smorfia sbigottita le distese le labbra. 
“spero che la ricerca ti sia stata illuminante Castiel” commentò la professoressa con un sorriso astuto.
“Beck, con chi stai parlando?”
Jason, interrompendo la conversazione, fece capolino e si trovò davanti il quartetto:
“vai a letto tu, che sei ancora febbricitante” tagliò corto Miss Joplin in direzione del nuovo arrivato.
“non sto così male” si giustificò il ragazzo tossendo.
“senta signorina” disse Miss Joplin rivolgendosi a Pam che rimase di stucco “le dispiacerebbe assicurarsi che mio fratello prenda l’antibiotico che ha prescritto il medico? Pur essendo anche lui un dottore è pessimo nel rispettare le scadenze”
“è tua sorella?!” quasi urlò Pam, confermando l’ipotesi a cui era giunta Erin.  
“sì” tossì nuovamente Jason, iniettando inconsapevolmente una dose di felicità nella sua vicina “comunque non darle retta Pam, non ho bisogno della balia” aggiunse, incurvando le spalle.
“ah tu sei Pam” commentò Miss Joplin annuendo compiaciuta. Il fratello le lanciò un’occhiata fulminante che sfuggì alla diretta interessata e alla sua vicina. La reciproca conoscenza tra le due donne aveva acceso in entrambe dell’interesse verso l’altra parte.
Erin spostava lo sguardo alternativamente tra l’insegnate e la zia, percependo come superflua la sua presenza e quella dell’amico. Così, dopo aver salutato sbrigativamente gli adulti, tirò via Castiel, prendendolo per un braccio.
 
Una volta all’esterno, Castiel si diresse verso la strada:
“ok Rapunzel, grazie per l’ospitalità”
“grazie a te per avermi ascoltata stamattina. Ma ha fatto bene parlarne con qualcuno” gli confidò Erin, sorridendogli con gratitudine.
Castiel sorrise a sua volta, scuotendo il capo come a voler allontanare un pensiero che si era formato nella sua testa:
“che c’è?” gli chiese Erin incuriosita.
“naa, niente… stavo solo pensando al nome di tua sorella… lo sai che Sophia era il nome del mio primo amore?”
“maddai!...non ti facevo così sentimentale” lo schernì Erin divertita.
Castiel scrollò le spalle e si grattò la testa, leggermente in imbarazzo.
“sfotti pure sai. Avevo nove anni ed ero in montagna con i miei a Rockville. Mio padre stava pescando in riva al lago ed io mi ero allontanato per esplorare un po’ i dintorni. Mentre stavo cercando di catturare una lucertola, arriva questa bambina in lacrime”
“una bambina in lacrime?” ripetè Erin.
“sì, non la finiva più. Una vera lagna. Mi pare ancora di vederla: due trecce, lentiggini e vestito giallo. Appena mi ha visto, mi è venuta incontro e senza smettere di frignare mi ha fatto una domanda. Era talmente scossa che all’inizio non ho capito cosa mi stava chiedendo così le ho chiesto di ripetere”
 
“u-un b-braccialetto. L’hai visto in giro? È mio, o meglio di mia sorella… e io gliel’ho perso” spiegò la bambina senza smettere di piangere.
Castiel dapprima la guardò un po’ sorpreso per quella reazione così esagerata ma poi si frugò nelle tasche. La bambina smise di singhiozzare e, asciugandosi gli occhi lo fissò. Quando Castiel dischiuse la manina paffuta, teneva in mano un braccialetto color arancione.
“l’ho trovato per terra prima, vicino a quel tronco laggiù” spiegò indicando un punto alle sue spalle.
Gli occhi della bambina si illuminarono di gioia. Gli lanciò le braccia al collo, sbilanciandolo.
“grazie” esclamò e gli stampò un bacio sulla guancia.
Castiel rimase di sasso, diventando dello stesso colore che avrebbero assunto i suoi capelli a diciassette anni.
SOPHIA!”
Da lontano la voce di un’altra bambina stava chiamando la sua nuova conoscenza.
Sophia si allontanò immediatamente dal suo piccolo principe e, dopo avergli lanciato un ultimo tenero sorriso, sparì nel bosco come un folletto.
 
“e ti è bastato questo per innamorarti?” scherzò Erin. Da quando Castiel aveva cominciato a raccontare quell’aneddoto, non riusciva a smettere di sorridere.
“sì ero un sempliciotto” ammise Castiel scrollando le spalle.
 
Quando Erin tornò in appartamento, sua zia e Miss Joplin si stavano salutando mentre Jason era sparito dalla circolazione:
“oddio Beck, ti prego la prossima volta che vieni a trovare tuo fratello fa’ un salto da me! Voglio sentirne altri di questi racconti. Non pensavo che Jason fosse così maldestro da piccolo!” rise.
Beck? Ripetè Erin con orrore prima di rifugiarsi nell’appartamento della zia.
In cuor suo però era felice che Pam avesse ritrovato la serenità.
Non appena la donna rientrò, Erin stava per andare in bagno. 
“zia! ti ho preparato una torta. È al cioccolato e crema”
Pam guardò in direzione del fornello e vide il dolce coperto dal tovagliolo.
Eccitata e trepidante per la conversazione appena conclusa con Miss Joplin, alias Beck, la donna afferrò la pietanza e uscì dall’appartamento.
Erin si affacciò in cucina, aspettandosi un commento per la sua iniziativa ma la trovò deserta.
 
Pam era di fronte all’appartamento di Jason e bussò con energia.
“Jason sono io”
Dopo qualche secondo il ragazzo venne ad aprirle e, un po’ sorpreso, spostò lo sguardo verso la forma rotondeggiante che si celava sotto il tovagliolo.
“ti ho fatto una torta” mentì Pam. Sua nipote l’avrebbe perdonata per quella piccola bugia.
Jason rimase senza parole e recuperò quella tenerezza e goffaggine che l’avevano sempre distinto:
“ah, ma io… cioè… grazie, non serviva”
“l’ho fatto volentieri. È il minimo dopo quello che hai fatto la settimana scorsa… per me” enfatizzò Pam arrossendo.
“mica devi sentirti debitrice a vita” ridacchiò Jason “ma la accetto volentieri” e prese la torta dalle mani di Pam, invitandola ad entrare.
“Ti posso offrire…” e il ragazzo si grattò la nuca in difficoltà “niente di più sofisticato di una coca aromatizzata al limone”
“non disturbarti” disse Pam con un sorriso dolce.
Le era mancato.
Quella sua aria un po’ naif e gentile che però coesisteva con una personalità matura e virile. In meno di una settimana aveva sviluppato per l’uomo dei sentimenti così profondi che solo ora che se lo vedeva davanti era sicura della loro autenticità.
Jason nel frattempo scoperchiò la torta per ammirarne l’aspetto ma ebbe la stessa reazione di Castiel: rimase senza parole e arrossì come un pomodoro.
Pam lo guardò senza capire e si sporse a guardare il dolce che tanto l’aveva sconvolto. Sbarrò gli occhi ed ebbe una reazione analoga al ragazzo.
“p-posso spiegare!”
Jason non riusciva a staccare gli occhi da quelle lettere.
In realtà non l’ho fatta io. Me l’ha fatta Erin e ho pensato di portartela visto che lei è un’ottima cuoca” farfugliò Pam in preda all’ansia “non sapevo avesse scritto quella frase!”
Sentiva il cuore galopparle in petto e il viso andarle in fiamme come non le succedeva da tempo.
 “ah, capisco. Mi sembrava strano” rise Jason “così ti ho beccata, ehehe…posso offrirtene una fetta?”
Pam ringraziò ma in realtà era sovrappensiero. Quella sera aveva capito che l’atteggiamento scostante di Jason della settimana prima era dettato semplicemente dalle sue condizioni di salute, compromesse da un’infezione che l’aveva debilitato. Mentre il ragazzo si gustava placidamente la sua fetta di torta, Pam era tormentata dai dubbi. Si chiedeva se non fosse il caso di approfittare di quell’equivoco per rivelare all’uomo i suoi sentimenti ma era combattuta dalla paura di essere ferita un’altra volta. Anche se Jason sembrava un bravo ragazzo, troppe volte si era sbagliata sul conto delle persone. Doveva imporre a se stessa di aspettare ancora.
 
Mentre era impegnata a preparare la tavola, Erin non poteva fare a meno di sorridere ripensando all’ultima rivelazione di Castiel. Da piccolo aveva conosciuto una bambina che aveva lo stesso nome di sua sorella, pensando ad una coincidenza.
Per quanto potesse essere assurdo, a distanza di otto anni Erin avrebbe saputo dirgli chi fosse quella bambina. Conosceva anche lei quella storia ma non aveva voluto dirglielo.
Se avesse voluto essere sincera fino in fondo, c’era un dettaglio che non avrebbe potuto omettere: quando lei e Sophia andavano in vacanza avevano un’abitudine bizzarra: si divertivano a scambiarsi i nomi.
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Innanzitutto: SCUSATE. Ho fatto proprio fatica a scrivere questo capitolo perché più lo continuavo e meno mi piaceva… e non so neanche perché, visto che di solito quando c’è Castiel poi mi diverto a scrivere. Questo capitolo non mi sembra molto diverso dagli altri, eppure ha qualcosa che proprio mi ha rallentato: ogni volta che lo prendevo in mano non riuscivo ad aggiungere più di mezza pagina.
Questo per giustificare il ritardo nella pubblicazione.
Ho infatti aspettato un po’ per metterlo su EFP in modo da modificarlo e rivederlo ma non c’è stato verso di migliorarlo. Non sono molto loquace oggi, quindi piuttosto che perpetuare una lagna sul fatto che sono proprio delusa da come mi è venuto, vi saluto e spero di essere più ispirata nel prossimo capitolo -.-‘’

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** La lite ***


CAPITOLO 18: LA LITE
 
“sei una fifona Erin! Ti spaventa tutto!” esclamò una bambina con i capelli raccolti in un codino.
“non è vero!” piagnucolò la sorella “sei tu che sei troppo spericolata!”
Sophia scoppiò a ridere, eccitata per quell’attributo che interpretò come complimento e, a conferma delle parole usate dalla sorella, si lanciò dall’altalena.
“attenta!” le gridò la sorellina che si stava dondolando dolcemente.
Sophia volò per un paio di metri per poi rotolare a terra sulla sabbia morbida. Erin preoccupata le corse incontro, scendendo cautamente dall’altalena.
“Sophia! Sophia! Rispondimi!” la supplicò con la tenera vocina di una bambina di otto anni.
Scosse la sorella per le spalle e quando la voltò, vide che stava trattenendo le risate.
“non prendermi in giro! Sei stupida!” borbottò Erin offesa, allontanandosi da quella piccola burlona.
“eddai Erin! Come sei permalosa” minimizzò la gemella, scrollandosi la sabbia di dosso. Rincorse la sorella, che, ferita per essere stata presa in giro, si dirigeva verso la madre.
Era una persona minuta, con occhi vispi e scuri che scrutavano apprensivamente le due bambine.
“che state combinando voi due?” chiese la donna, sollevando lo sguardo dalla rivista che stava leggendo.
“Sophia fa gli scherzi cattivi” mugolò Erin additando la sorella. La mamma spostò l’attenzione verso la sua figlia più scapestrata e sorrise:
“tesoro, lascia in pace tua sorella. Non vedi che la fai stare male?”
Sophia si avvicinò in silenzio, tenendo lo sguardo fisso sulla gemella. Per quanto vivace e peperina, aveva un animo buono ed evitava di prolungare i suoi scherzi, per non urtare troppo la fragile sensibilità di Erin.
Sophia abbassò il capo e la voce e biascicò:
“mi dispiace”
Sua madre la guardò amorevolmente ma poi si soffermò sui vestiti della figlia:
“come hai fatto a sporcarti così?”
Avvicinò a sé la bambina e cominciò a strofinarle i vestiti per scrollarle via la sabbia.
“è rotolata per terra!” esclamò Erin sedendosi accanto alla madre. La bambina aveva un sorriso dolce, di puro affetto e adorazione verso la sorella.
“invece tu Erin sei bella pulita” si complimentò la madre.
“perché sono una signorina per bene io!” scherzò la bimba, mostrando la lingua alla sorella che rispose allo stesso modo:
“una signorina non fa la linguaccia, specie se vuole diventare ballerina” la rimproverò amorevolmente la madre.
 
Erin scosse il capo e sorrise.
Da lontano una figura alta e slanciata la stava aspettando in piedi, accanto al distributore di bibite.
Era prevedibile che Nathaniel fosse già arrivato. Lui era diverso da Castiel che era un ritardatario cronico.
La ragazza gli si avvicinò raggiante. Da quando, appena il giorno precedente, aveva raccontato a Castiel di Sophia, si sentiva molto più leggera e di buon umore. Aveva chiesto all’amico di tenere per sé quel segreto e lui non aveva battuto ciglio. Poteva contare sulla sua discrezione.
“buongiorno. Mi sembri pronta per una maratona” la accolse Nathaniel.
“in effetti non vedevo l’ora. Sento proprio il bisogno di fare un po’ di jogging” ammise Erin.
 
Partirono con un buon ritmo, dirigendosi verso la pista pedonale che costeggiava il fiume Golden Fish. L’aria era fredda ma più i loro muscoli di scaldavano sotto l’esercizio fisico, più diventava piacevole e frizzante.  Nonostante la sua attività di segretario delegato lo obbligasse a restare dietro una scrivania, Nathaniel teneva un buon passo, calibrando la respirazione. Erin all’inizio riusciva a stargli dietro, ma dopo un po’ cominciò a sentire un dolore addominale e fu costretta a fermarsi:
“mi fai sentire una vecchietta Nath. Non riesco a starti dietro” ansimò la ragazza. Il biondo arretrò di qualche passo, per azzerare la distanza che aveva creato tra di loro.
“scusa. Avevo capito che volevi correre, non camminare” la prese in giro.
“ma sentilo!” ansimò Erin divertita “vedi di non montarti la testa! Appena mi sarò scaldata dovrai mangiare la mia polvere” si pavoneggiò, strappando un sorriso scettico al suo compagno.
Tra i due si era creato un clima scherzoso e rilassato, complice anche una bella giornata autunnale. La compagnia di Nathaniel le risultava sempre più piacevole e appagante.
Ripresero la loro corsa, puntando ai giardinetti alla periferia della città. Ogni tanto, per riprendere fiato erano costretti a fermarsi e quella era l’occasione per scambiare due chiacchiere.
“allora come è andato l’allenamento di ieri?” le chiese d’un tratto Nathaniel. Nel porre quella domanda, il suo tono si era fatto più serio e freddo, ma Erin sembrò non badarci.
“mah, distruttivo direi” sbuffò la ragazza, ripensando alla rovinosa caduta che le aveva scorticato le ginocchia.
Nathaniel non aggiunse altro, sorprendendola per quel silenzio di cui approfittò per inginocchiarsi e allacciarsi la scarpa. Il contatto del ginocchio contro l’asfalto le ricordò quanto spiacevole fosse quell’escoriazione che si era procurata il giorno prima ma cercò di non palesare il suo dolore.
Quando tornò in piedi, Nathaniel commentò:
“spero solo che Castiel non esageri con te”
“no affatto” mentì la mora, distogliendo lo sguardo. Per non offrire a Nathaniel un ulteriore pretesto per denigrare il rosso, preferì omettere il piccolo incidente e cambiò argomento “parlando d’altro: per la gita… quante ore di pullman sono?”
“tre ore e mezzo. Dovremo arrivare in hotel per ora di pranzo”
“non vedo l’ora!” esclamò Erin con entusiasmo “comunque Castiel mi ha detto di aver consegnato il modulo che mi avevi chiesto”
“sì ho visto” replicò laconico il ragazzo.
A questo punto la ragazza non poteva continuare ad ignorare il cambio d’umore del biondo. Evitò così di nominare ulteriormente Castiel e gli propose di riprendere la loro corsa.
Si trovarono a passare davanti ad un campo sportivo dove l’attenzione dei due ragazzi venne calamitata da delle figure in movimento: Dajan aveva appena superato Kim e aveva mandato la palla a canestro.
“giuro che il prossimo canestro sarà mio” proclamò Kim con gli occhi che le brillavano dall’eccitazione.
Erin inizialmente si sorprese nel vederla così di buon umore poi considerò la presenza di Dajan e l’atteggiamento della mora venne più che giustificato. Sin da quando aveva intuito l’interesse della sua compagna di classe per il cestista, aveva approvato quella coppia e sperava sinceramente che per loro ci fosse un lieto fine.
Erin stava per dire a Nathaniel di allontanarsi per lasciare i due giocatori da soli, ma il suo piano andò in fumo: Dajan si era voltato e li aveva notati.
Il giocatore sfoderò un sorriso smagliante e corse incontro ai due spettatori, con Kim si limitò a fare altrettanto, senza però emulare lo stesso entusiasmo:
“ciao ragazzi! Come mai da queste parti?” esortò Dajan, che aveva il fiato corto per via dell’azione che aveva appena concluso. Si passò il lembo inferiore della maglia sulla fronte, permettendo ad Erin di intravedere gli addominali scolpiti. Anche se da quando era entrata al club di basket quel genere di scene erano di ordinaria ricorrenza, per la ragazza rappresentavano sempre una piacevole vista.
“stiamo facendo un po’ di jogging” spiegò Erin, allungandosi oltre le spalle del compagno di squadra per intercettare il viso di Kim.
“ciao Kim” esclamò cordiale. La ragazza rispose con un cenno educato e si portò accanto a Dajan.
“hai cominciato l’allenamento con Castiel?” le chiese la cestista.
“sì, ieri. E il vostro allenamento come procede?” tagliò corto la ragazza.
“Kim è bravissima! Pensavo che al club avesse dato prova del meglio che sa fare, invece mi stupisce sempre di più!” sostenne Dajan soddisfatto. Erin sorrise, osservando i due ragazzi: erano perfettamente complementari dal punto di vista caratteriale. Dajan era estroverso, espansivo e solare mentre Kim che faceva tanto la sostenuta, era in realtà una brava ragazza.
Dopo il salvataggio in piscina, Kim aveva mutato il proprio atteggiamento verso Erin. Anche se c’erano state delle occasioni in cui la cestista sembrava mal tollerare la presenza della compagna di squadra, Kim sembrava nutrire un certo interesse per Erin, che rappresentava una delle poche ragazze con cui la mora parlava. Erin giustificò le iniziali ostilità come gelosia verso Dajan e si autoimpose di affrontare in futuro l’argomento per chiarire la sua posizione.
“senti Nath, sei sicuro che non controlleranno gli zaini?” chiese Dajan.
Erin guardò i due ragazzi interrogativa.
“non preoccuparti. Però per evitare ogni problema, non fate portare gli alcolici a Trevor o a Liam. Non escluderei che a loro facciano qualche controllo prima di salire in bus” gli consigliò il segretario.
“aspetta un attimo! Tu Dajan vieni in gita?” calcolò Erin con vivo interesse.
“non posso?” scherzò il ragazzo.
“sei in 5^C allora?”
“sì, sono in classe con Nathaniel”
Sentendo quella notizia, un sorrisetto furbo si dipinse sulle labbra di Erin che spostò lo sguardo alternativamente tra Dajan e Kim. Quest’ultima le rispose con un’occhiata perplessa.
“comunque, verrà anche Rosalya, anche se è in A” la informò Nathaniel, arrotolandosi le maniche.
Kim e Dajan non mostrano particolare interesse per quella comunicazione che in Erin invece aveva sortito tutt’altro effetto.
Rosalya era un tassello prezioso di quel puzzle di amicizie che lei voleva ricostruire. Il venerdì precedente era riuscita a convincere Alexy a intrattenersi con i vecchi amici, ora doveva pensare alla regina delle nevi. Negli ultimi giorni non aveva avuto occasioni per parlarle, ma la gita avrebbe rappresentato l’occasione ideale. Ora che Castiel e Alexy le avevano rivelato cosa fosse successo l’anno prima, Erin aveva un’idea più chiara di come muoversi in quell’intricata rete di rapporti personali. Una volta conquistata Rosalya, il percorso sarebbe stato tutto in discesa: Leigh non era più uno studente del Dolce Amoris ma si sarebbe adattato alle scelte della sua fidanzata e Armin a quelle del fratello.  
L’inserimento di Nathaniel nel gruppo rappresentava ancora un’incognita: Erin aveva bisogno di sentire la versione del ragazzo sugli eventi dell’anno precedente prima di tentare di riappacificarlo con Castiel.
I due cestisti tornarono al loro allenamento mentre Nathaniel ed Erin proseguirono con la loro sessione di corsa.
Dopo la chiacchierata con i due compagni di scuola, il biondo era di buon umore e cominciò a conversare allegramente:
“vedo che non stavi bluffando prima” ansimò, tenendo il passo della ragazza.
“posso fare anche di meglio!” replicò spavalda Erin accelerando.
Davanti a lei c’era uno steccato e presa dalla foga del momento, puntò contro di esso, con l’intento di scavalcarlo in corsa. In realtà l’ultima volta che si era cimentata nella corsa con ostacoli aveva finito per buttarne giù la metà ma, sentendo lo sguardo di Nathaniel puntato su d lei, pensava solo a far bella figura grazie al suo passato da ballerina e da ginnasta.
Sentiva la voce del biondo dietro di lei che le chiedeva cosa volesse fare e la invitava a rallentare.
“adesso vedi!” replicò lei, voltandosi per un attimo. Più si avvicinava allo steccato però, più questo sembrava crescere in altezza. Per un secondo riconsiderò che l’impresa non era alla portata delle sue capacità ma l’orgoglio le impediva di decelerare.
Spiccò un balzo, divaricando le gambe a spaccata. Vide lo steccato sotto di lei che stava planando sempre più rapidamente. Con la gamba posteriore urtò l’asse orizzontale e ciò la destabilizzò. Cercò di cadere in piedi ma la sua instabilità aerea le fece poggiare male il piede destro sul suolo erboso.
“ahi!” mugolò, ma Nathaniel era ancora troppo lontano per sentirla. Il ragazzo le corse incontro e, con agilità, oltrepassò lo steccato e si avvicinò ridendo alla ragazza:
“ahahah Erin, sei troppo buffa!”
La ragazza sorrise debolmente e cercò di mettersi in piedi. Si sentiva ferita nell’orgoglio e nel fisico. Al ragazzo non sfuggì la smorfia di sofferenza della ragazza e cominciò a preoccuparsi:
“ti sei fatta male?”
In tutta risposta, la ragazza provò a fare qualche passo che risultò un po’incerto.
“credo sia una piccola storta. Ce la faccio a camminare ma di correre non se ne parla”
Nathaniel la osservò zoppicare e sorrise teneramente:
“non fare l’orgogliosa. Dai forza, sali” e si accucciò all’altezza del suolo, dandole la schiena.
Erin osservò quelle spalle larghe e avvampò; il ragazzo non sembrava intenzionato ad accettare un rifiuto così l’amica cominciò a farfugliare:
“n-no posso, sono pesante! Ce la faccio a camminare”
“casa tua non è lontana da qui. Facciamo prima se ti porto io” insistette lui, senza schiodarsi dalla sua posizione.
Ogni minimo spostamento si traduceva in una fitta intensa che dalla caviglia si propagava al polpaccio. La sensazione di avere dei coltelli conficcati nella carne la costrinsero a mettere da parte l’orgoglio e accettare la cavalleresca offerta.
Sentì le braccia del ragazzo che passavano sotto le sue gambe e il contatto tra i loro corpi. Appena ventiquattr’ore prima era stata soccorsa da Castiel e ora toccava a Nathaniel. Alzò gli occhi al cielo maledicendo se stessa per il suo essere così imbranata.
“queste sono le classiche stupidate che farebbe Sophia” pensò tra sé e sé e quel pensiero bastò a farla sorridere un po’.
Da quando si era separata dalla sorella, le veniva istintivo non solo cercare di vestirsi come lei ma anche adottare i suoi comportamenti. La vecchia Erin non avrebbe mai tentato l’iscrizione al club di basket sfidando Castiel, non si sarebbe mai vendicata di Ambra,  non avrebbe lottato per l’ammissione di Alexy nel gruppo e non avrebbe certo saltato uno steccato troppo alto... eppure non rimpiangeva nulla. Comportandosi come Sophia, aveva finito per vedere le cose da un’altra prospettiva: aveva capito che nella vita vale la pena rischiare, mettersi in gioco. Un tempo la sua indole docile e fragile la rendeva vulnerabile ma da quando si era separata dalla gemella, Erin aveva scoperto che anche lei poteva essere forte e determinata. Aveva deciso di tornare pian piano ad essere sé stessa, tornando a vestirsi secondo i propri gusti, ma non poteva tornare ad essere remissiva e insicura; nelle ultime settimane aveva realizzato uno dei suoi sogni di bambina: diventare forte come Sophia.
 “a che pensi?” le chiese Nathaniel distogliendola dai suoi pensieri.
“nulla di particolare” mentì la ragazza. Per l’ennesima volta fu costretta a riconsiderare se parlargli della gemella ma decise di rimanere fedele a quanto aveva detto a Castiel: non voleva che qualcun altro le facesse delle domande a cui non voleva rispondere. Ci aveva pensato tutta la notte ed era giunta alla conclusione che quel segreto doveva restare tra lei e il rosso.
 
Per tutta il tragitto, Nathaniel non si lamentò mai dell’incarico che si era assunto. Erin fissava quelle spalle così forti su cui, con un certo imbarazzo, teneva posate le sue mani. Non si azzardava ad avvinghiare le braccia attorno al collo del ragazzo anche se era consapevole che in questo modo avrebbe stabilizzato la sua posizione.
Era rimasta sorpresa dalla prestanza del ragazzo che, nonostante non praticasse alcuno sport, aveva un fisico tonico e forte. Riusciva a sorreggerla senza dare il minimo segno di cedimento:
“sei sicuro che non ti sono di peso?” chiese Erin, sentendosi in colpa.

 

“macchè. Anzi sei fin troppo leggera. Dovresti mangiare di più”
“ma se mangio come un maiale!” protestò Erin.
“faccio fatica a crederti. Peserai come una ballerina di danza classica”
“beh, in effetti ho fatto danza da piccola”
“ah davvero?” esclamò Nathaniel. Nella mente del ragazzo si figurò l’immagine di Erin quando camminava: aveva notato in lei un’eleganza nei movimenti che l’aveva sin da subito affascinato. Aveva un passo molto leggero, che quasi sembrava sfiorare il suolo. Tutta quella grazia trovava ora un suo perché nel passato da ballerina della ragazza.
“sì, e poi sono passata alla ginnastica artistica”
A quell’affermazione, Nathaniel non rispose così Erin soggiunse:
“perché non dici niente?”
“stavo pensando che è strano che tu abbia fatto ginnastica artistica. Per quella ci vogliono muscoli” la punzecchiò il ragazzo divertito.
“stai dicendo che sono flaccida?” ribattè Erin con un misto di stizza e derisione.
Nathaniel cominciò a ridere ed Erin seguì a ruota.
Dalla sua prospettiva, la ragazza non poteva vedere l’espressione dolce del ragazzo quando le risate erano scemate. Le palpebre di Nathaniel erano socchiuse, conferendogli un’espressione incantevole.
Quando era in sua compagnia, Erin si sentiva in pace con se stessa, come se il suo umore fosse determinato da quello del suo biondo principe azzurro.
Mentre la sua mente era deliziata da fantasticherie ad indirizzo di Nathaniel udì alle sue spalle una specie di ruggito.
Si voltò di scatto, terrorizzata.
L’aveva riconosciuto.
Solo un animale poteva abbaiare in quel modo.
Presa dal panico cominciò ad urlare:
 “ODDIO! CORRI! CORRI!”
Nel dimenarsi, agitava le gambe, tanto che Nathaniel, dopo aver visto che il cane che stava giungendo nella loro direzione, scoppiò a ridere:
“mi hai preso per un cavallo?!”
“CORRI, TI PREGO! QUEL CANE MI ODIA!”  continuò ad urlare Erin terrificata.
La sagoma di Demon diventava sempre più grande e minacciosa. Correva acquistando sempre più velocità, mentre il destriero umano di Erin rimaneva immobile. Il terrore della ragazza cresceva secondo dopo secondo finchè Nathaniel fece qualcosa che la spiazzò: andò incontro alla belva.
“M-MA SEI MATTO! NATH QUEL BESTIONE CI SBRANA!” sbraitò sempre più incapace di contenersi.
“non preoccuparti” la tranquillizzò Nathaniel.
Erin si aggrappò ancor più saldamente alla maglia del ragazzo e cercò di nascondersi dietro di lui.
“mi preoccupo eccome! È un cerbero!” sibilò, affossando la testa dietro le spalle del biondo.
“esagerata” rise Nathaniel, mandando Erin su tutte le furie.
Ora più che mai aveva bisogno di “Nathaniel modalità principe azzurro” e invece lui si metteva a familiarizzare con il nemico.
Demon accorreva sempre più frettolosamente, con la lingua che penzolava fuori di lato.
“Demon! Vieni qui bello” lo accolse Nathaniel sorridendo.
Le proteste di Erin si spensero all’istante.
Il cane balzò su due zampe, facendo festa a Nathaniel che avendo le mani impegnate non poteva ricambiare le attenzioni che l’animale pretendeva. Quasi l’avesse capito, Demon tornò alla sua posizione naturale e cominciò a ringhiare contro la responsabile delle sue mancate carezze.
“lo vedi?” ribadì Erin puntandogli il dito contro “mi odia”
In tutta risposta Demon abbaiò ancora più forte ed Erin tornò a nascondersi dietro la schiena di Nathaniel che cercava di tranquillizzare l’animale.
“non ci posso credere!”
I due ragazzi sollevarono lo sguardo e videro il padrone dell’animale che si avvicinava. Castiel camminava tenendo una mano in tasca e nell’altra un guinzaglio.
Il rosso, dopo aver dato qualche carezza affettuosa al suo cane, fissò Erin.
“ti sembra il comportamento di una persona adulta? Salire sulla schiena della gente per difenderti da un cagnolino?” la derise stizzito.
“c-cagnolino? Ma se… lasciamo perdere… comunque non è come sembra… e poi proprio tu parli! Ti sembra il comportamento di una persona adulta lasciare in libertà quell’orso grizzly? Mettigli il collare!”
Castiel socchiuse gli occhi e la osservò seccato dalla critica mossa al suo cane, che in risposta, abbaiò contro la sua nemica giurata. Posò poi lo sguardo su Nathaniel e lo squadrò impassibile.
Senza dire altro, Castiel oltrepassò i due ragazzi e chiamò a sé Demon che era rimasto indietro:
“forza Demon andiamo”
Mentre lo guardava allontanarsi, Erin gli urlò:
“imparerai mai a salutare la gente prima di andartene? Comunque buona domenica” aggiunse cercando di risultare conciliante. Quello spiacevole scambio di battute tra di loro aveva rovinato l’atmosfera amichevole che si era creata appena il giorno precedente tra di loro. Del resto era stato Castiel a lanciare la provocazione e lei non aveva avuto modo per intrattenerlo e rimediare a quella conversazione.
Non capiva perché il rosso l’avesse accolta così male, pur essendo uno specialista nelle battutine acide e canzonatorie; quando l’aveva vista, si era arrabbiato e questo proprio Erin non riusciva a spiegarselo.
Nonostante il tentativo della ragazza di salutarlo, Castiel la ignorò e non si voltò nemmeno, proseguendo per la sua strada.
“uff, non capisco perché sia sempre così… grr… mi fa venire una rabbia!” borbottò la ragazza mentre Nathaniel tornava a camminare. Svoltò in corrispondenza della via in cui abitava Erin e rimase in silenzio per un paio di minuti poi sbottò seccato:
“non ti riesce proprio di non parlare di lui eh?”
Erin non seppe cosa dire, e rimase con la bocca socchiusa come un’ebete. Prima Castiel e ora Nathaniel. Erano stati punti tutti dalla zanzara dell’incazzatura istantanea?
Provò a dire qualcosa, confusa sul senso di quella conversazione:
“non l’ho chiamato io… è stato un caso se l’abbiamo incontrato”
“in due ore l’avrai nominato… diciamo… quattro volte” precisò Nathaniel fermandosi davanti all’edificio in cui abitava la ragazza. Quest’ultima lo liberò dal suo peso e potè finalmente guardarlo in faccia.
“credo di averlo nominato solo un paio di volte oggi… di mia iniziativa intendo. Tra l’altro sei stato proprio tu a tirarlo in ballo stamattina quando mi hai chiesto dell’allenamento di ieri!” obiettò Erin ”e poi scusa… stiamo solo parlando di Castiel, non ti ho mica detto che devi tornare ad essere suo amico”
Disorientata. Questa era la definizione più adatta a descrivere Erin in quel momento. Nonostante le parole le uscissero automaticamente, non capiva perché il biondo si fosse tanto accanito contro Castiel. Che non fossero più amici e che non si sopportassero non era certo un mistero, ma quella reazione era a dir poco esagerata. Non che Erin avesse una qualche responsabilità. Eppure Nathaniel aveva un’aria offesa e contrariata, quasi a voler colpevolizzare la ragazza per quella situazione.
“senti, lasciamo perdere” sospirò frustrato il biondo, ficcandosi le mani in tasca.
“e invece ne parliamo!” insisté Erin afferrandogli il braccio. Sorprese se stessa per quel gesto impulsivo ma ormai la sua confusione si stava tramutando in nervosismo che canalizzò trasformandolo in determinazione.
 “se ti riferisci a quello che è successo l’anno scorso so già tutto” lo avvertì guardandolo dritto negli occhi.
Vide la bocca di Nathaniel socchiudersi e le pupille restringersi.
Con quell’ammissione l’aveva letteralmente spiazzato. Il biondo provò a dire qualcosa ma non ci riuscì.
Ogni frase che gli passava per la mente gli sembrava inadeguata.
Quando infine si chiarì le idee, sibilò:
“e così sai già tutto? Perfetto! Immagino che tu non abbia bisogno di sentire altro allora. Castiel sarà stato molto bravo a raccontarti nel dettaglio come ho tradito la sua fiducia no?”
Aveva usato un tono sprezzante e sarcastico.
Non era Nathaniel.
Era un’altra persona.
Erin deglutì a fatica. La gola era terribilmente secca e il cervello a corto di frasi da suggerirle.
 L’irritazione di Nathaniel si era trasformata in autentica rabbia che non solo l’aveva spiazzata: l’aveva spaventata.
In quegli occhi ambrati, in cui lei aveva sempre letto dolcezza e tenerezza, ora esplodevano risentimento e delusione. E questi sentimenti erano diretti a lei.
“io non…” blaterò Erin disorientata ma il ragazzo non le lasciò spazio per ulteriori repliche.
“non capisco perché continui a volerti immischiare in questa storia. Non ti riguarda” ruggì il ragazzo.
Erin continuava a fissarlo incapace di obiettare:
“sai già tutto” ripetè Nathaniel “con che presunzione puoi dire una cosa del genere? Tu non c’eri!”
Nonostante l’espressione indifesa di Erin, il ragazzo non riusciva a controllare le frasi che gli vorticavano in testa:
“è una storia chiusa. Se proprio deve tornare a galla, non devi essere certo tu a fartene carico” le disse cercando di controllare la voce.
La diplomazia per cui era famoso cominciò a rimpossessarsi di lui e lentamente il biondo cominciò a calmarsi “e comunque” aggiunse “ormai il passato è passato”
Erin sentiva il corpo pervaso di brividi ma non riusciva a capirne la natura. Rabbia? Paura? Nervosismo?
Sentendo che il tono di Nathaniel si era abbassato e stava tornando ala normalità, trovò l’audacia per replicare:
“da come reagisci devo cominciare a pensare che ti vergogni di quello che hai fatto!”
A quel punto i tentativi di Nathaniel di riacquisire padronanza di sé vennero spazzati via con la violenza di un uragano.
Si avvicinò alla ragazza e inchiodandola con lo sguardo, urlò:
“TU NON SAI NIENTE ERIN!”
Erin rimase pietrificata.
Nathaniel distolse lo sguardo e dopo un disagevole silenzio disse con tono freddo e distaccato:
“meglio se vai a stenderti. Metti del ghiaccio su quella caviglia” e, dopo quella raccomandazione, il biondo voltò le spalle e se ne andò.
 
Erin era rimasta impalata, ferma immobile davanti al cancello del complesso condominiale. Si sentiva in uno stato catartico, come se avesse vissuto un’esperienza extracorporea.
Era confusa. Non era possibile che Nathaniel l’avesse aggredita verbalmente in quel modo.
Doveva trattarsi per forza di un incubo.
Quella conversazione tra di loro sarebbe dovuta avvenire in modo completamente diverso: avrebbe dovuto precisare che nella versione dei fatti di Castiel secondo lei c’erano delle falle che solo la sincerità di Nathaniel potevano colmare. Il biondo allora le avrebbe raccontato cosa era realmente accaduto e lei l’avrebbe spiegato a Castiel, mediando così la riappacificazione tra i due.
Invece Nathaniel non solo si era chiuso a riccio, ma le aveva sferzato contro dei velenosi aculei.
Riconosceva di essere stata invadente, di aver sempre cercato di toccare dei tasti dolenti che nessuno voleva più sfiorare, ma l’aveva fatto a fin di bene, non per assecondare un’infantile curiosità.
La figura di Nathaniel diventava sempre più piccola.
Chiamarlo sarebbe stato inutile.
Ma doveva raggiungerlo in quel momento. Se avesse atteso, stato troppo tardi e sarebbe subentrato l’imbarazzo.
Fece un passo per corrergli incontro ma sentì una fitta alla caviglia e si accasciò a terra. Le ginocchia, già martoriate dal giorno precedente, cominciarono a dolerle e sentì delle lacrime di frustrazione e commiserazione salirle in viso. Tornava a comportarsi come la vecchia Erin, che a quanto pare, esisteva ancora in un angolo della sua personalità. Non riusciva a fare altro che piangere.
Non si muoveva, giaceva lì per terra, immobile mentre lasciava andare il ragazzo più gentile che avesse mai incontrato.
 
“sei presa peggio di quello che pensavo!” commentò Iris entrando nella stanza dell’amica.
Si trovò di fronte Erin, stesa sul letto con la schiena appoggiata contro la testiera. Una borsa del ghiaccio color pistacchio era adagiata sul piede infortunato, adattandosi a quella forma.
“no, non è nulla di grave” minimizzò l’altra “e quella che cos’è?” le chiese, alludendo ad una borsetta che Iris teneva in mano.
“argilla verde. Ti aiuterà a ridurre il gonfiore. Vedrai che massimo entro mercoledì potrai tornare ad allenarti al club”
“oh, grazie. Non l’avevo mai sentita nominare prima” ammise Erin mentre l’amica l’aiutava a sistemare un asciugamano sotto la gamba.
“tende a macchiare, quindi meglio se proteggiamo la trapunta… te la metto io, non preoccuparti” le spiegò l’amica.
Erin lasciò che le mani amorevoli di Iris si prendessero cura della sua caviglia.
“hai mai pensato a fare l’infermiera Iris?”
“io? ahah no, non è la mia strada. Però sono abituata a prendermi cura di mio fratello che si fa male di continuo”
“e cosa vorresti fare?”
“aprire un negozio tutto mio”
“e di che?”
“di fiori no?” esclamò Iris distribuendo il composto sulla caviglia.
“direi che sarebbe il lavoro perfetto per te” commentò Erin mentre l’amica tirò fuori una lunga garza che aveva portato con sé e la avvolse stretta attorno alla caviglia.
“già, anche se risaputo il tuo odio per i fiori, mi sa che non ti vedrei mai” rise la rossa.
“no, non è vero che li odio, è solo che detesto prendermene cura… piantare, annaffiare e cose così. Ma se me ne regalano di già fatti, li adoro. Il mio fiore preferito è l’orchidea”
“sei di gusti raffinati” sorrise Iris pulendosi le mani su una salviettina umida.
“e tu?” si incuriosì Erin.
“secondo te sono venuta qui per parlare di fiori?” ribattè Iris lanciando un’occhiata d’intesa all’amica.
Erin ammirò la fasciatura eseguita ad arte dalla sua personale infermiera e, alzando le spalle borbottò sulla difensiva:
“dobbiamo proprio parlare di Nathaniel?”
“al telefono mi hai detto che avete litigato… ma non mi hai detto il perchè” continuò imperterrita la rossa.
Erin sospirò e, dopo aver fatto promettere all’amica di non rivelare nulla di quanto le avrebbe raccontato, le riportò la storia che Castiel le aveva raccontato il giorno precedente.
Iris ascoltò in silenzio e dopo un po’ commentò:
“mi dispiace interromperti Erin, ma io questa storia l’avevo già sentita”
L’amica strabuzzò gli occhi. Iris la guardava tranquilla, con i suoi occhioni chiari:
“lo sapevi già?” ripetè sconvolta, ripensando alla fatica che aveva fatto per scoprire la verità.
“sì, anche se nessuno dei diretti interessati ne parla volentieri, credo che tutta la scuola sappia la verità” ammise la rossa, mentre Erin era sempre più basita.
“E PERCHÉ NON ME L’HAI DETTO PRIMA?” sbottò la mora, lasciandosi sfuggire una nota acuta spazientita.
“non mi era mai parso di capire che ti interessasse…” si giustificò Iris, osservandola con curiosità.
Erin sospirò. Le sembrava assurdo aver atteso due settimane per scoprire una verità che era alla portata di tutti.
“beh, comunque sia… Nath è ancora molto suscettibile sull’argomento e io credo di averlo affrontato nel modo sbagliato..” ed Erin proseguì nel raccontare all’amica i dettagli della discussione che avevano avuto.
“tu comunque Iris confermi la versione che mi ha raccontato Castiel? Non sai niente altro?”
“no, tra l’altro conoscevo sommariamente la storia. I dettagli me li hai forniti tu” ammise la ragazza “sai, le classiche voci di corridoio. Del resto lo scioglimento di quel gruppo ha attirato l’attenzione dell’intera scuola”
Erin si rabbuiò. In lei cominciava ad insidiarsi il dubbio che non ci fossero altre versioni diverse da quella riportata dal rosso: il suo migliore amico era andato a letto con Debrah e aveva stipulato un contratto con la casa discografica all’insaputa del suo gruppo. Forse doveva cominciare ad accettare quella realtà, per quanto potesse essere incompatibile con l’immagine utopica di Nathaniel che albergava nel suo cuore.
 
Il giorno successivo, su consiglio di Iris, Erin si diresse verso la classe del segretario. Una volta arrivata a destinazione, si trovò davanti Melody che scoprì essere anch’essa una studentessa della 5 ^C.
 
Erin tornò nella propria aula, appena qualche secondo prima dell’arrivo del professor Condor.
Tra lei ed Iris ci fu uno scambio di gesti rapidi, fatti di cenni di diniego da parte della prima, seguiti da smorfie di solidarietà della seconda. La missione era fallita e del segretario delegato non c’era traccia.
“siamo di cattivo umore oggi Rapunzel” commentò Castiel, scrutando l’espressione scura della sua compagna di banco.
Erin lo ignorò e si perse nei suoi pensieri. Pensò a quello che avrebbe detto al biondo non appena lo avesse incontrato. Si sarebbe innanzitutto scusata e avrebbe chiarito la sua posizione: lei era dalla sua parte. Si era tormentata tutta la notte al pensiero che Nathaniel potesse non essere il ragazzo perfetto che lei credeva e alla fine aveva deciso di restare fedele alla sua iniziale posizione: aveva fiducia in lui, più di quanta ne avesse avuta Castiel, ma aveva bisogno di ascoltare il punto di vista del biondo per sincerarsi dei fatti.
Con la coda dell’occhio Erin scrutò il vicino di banco, chiedendosi cosa stesse pensando lui in quel momento.  Il musicista era impegnato ad abbozzare una melodia su un pentagramma. Scriveva qualche nota, mugolava sommessamente una melodia e apportava modifiche. Dopo due settimane di convivenza scolastica, Erin era ormai avvezza alle abitudini del ragazzo. Quando cercava di comporre musica in classe, Castiel si isolava da tutto tanto che spesso toccava a lei dargli una gomitata per rispondere alle domande degli insegnanti.
 
Al cambio dell’ora, prima che Erin si cimentasse nel secondo tentativo di trovare Nathaniel, Castiel la bloccò:
“dove vai?”
“devo parlare con Nathaniel”
Castiel accolse quella notizia con aria impassibile. Mollò la presa e replicò:
“ci andrai dopo. Dobbiamo andare dalla Robinson a consegnarle il disegno ricordi?”
“non potresti darle anche il mio? Ora ho da fare” lo liquidò la ragazza, fissando nervosamente l’uscita. Voleva intercettare Nathaniel appena finite le lezioni ma quel diversivo permetteva al biondo di sgattaiolare in qualunque angolo del liceo, vanificando le sue ricerche.
“non sono il tuo fattorino” ribattè il rosso stizzito e, afferrato malamente il proprio lavoro, uscì dall’aula.
Erin dimenticò istantaneamente la consegna del proprio disegno e sfrecciò fuori anche lei, sperando di essere più fortunata nella ricerca del segretario.
 
Durante l’ora di pranzo, Erin, Iris e Castiel raggiunsero Violet e Lysandre al loro solito ritrovo.
L’artista del gruppo questa volta non era accompagnata dal suo fedele album, ma si intratteneva in una pacata conversazione con il ragazzo venuto dall’Ottocento.
“vivi sempre di aria tu?” gli chiese Castiel, schifando il misero pranzo dell’amico.
“e di poesia” aggiunse l’altro con tono teatrale. Il ragazzo salutò poi Erin e Iris e aggiornò il trio sull’argomento della sua conversazione con Violet.
“una mostra degli artisti impressionisti qui a Morristown?” ripetè Iris entusiasta.
“sì. Al museo. È aperta fino alla fine del mese” confermò Violet. Iris si voltò verso Erin e Castiel le cui espressioni facciali palesavano il più completo disinteresse.
“non mi sembrate molto interessati a venire voi due” osservò la rossa. Prima che la sua amica potesse rispondere, Castiel la anticipò:
“ovvio che non sono interessato. Come fa a piacervi quella roba? Guardare quadri che sembrano fatti da uno schizzato di mente”
“ma almeno sai di cosa stiamo parlando?” lo interruppe Iris, leggermente irritata.
“ma cosa vuoi che me ne freghi? Già è uno strazio che ci facciano studiare storia dell’arte, ci manca solo che dobbiamo anche pagare per vedere quella roba”
Iris scosse la testa, mentre Lysandre sospirò, rassegnato all’insensibilità artistica dell’amico.
“e tu Erin? Non sarai mica d’accordo con lui?” le chiese Iris con tono intimidatorio.
Erin sorrise a disagio e si difese:
“non la penso esattamente come questo troglodita, ma sta di fatto che l’arte non mi ha mai interessato... ma potete andarci voi tre”
“quello sicuramente” confermò Lysandre, guadagnandosi un sorriso da Violet e Iris.
In quel momento passò loro davanti Alexy. Teneva le cuffie saldamente incollate alle orecchie e camminava tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Grata per quella distrazione, Erin lo chiamò a gran voce:
“ciao Alexy. Sei da solo oggi?”
Il ragazzo si voltò un po’ sorpreso per poi accorgersi della presenza del gruppetto alla sua sinistra.
“sì… Rosalya è fuori città, torna mercoledì” spiegò, avvicinandosi.
“beh, se vuoi puoi mangiare con noi” lo invitò Iris. Il nuovo arrivato scrutò rapidamente i volti dei ragazzi e concluse che nessuno trovasse sgradita la sua presenza. Del resto perfino Castiel, l’elemento più ostile del gruppo, aveva acconsentito alla sua partecipazione alle prove del venerdì.
“sai Alexy, io, Lysandre e Violet pensavamo di andare alla mostra degli impressionisti. Vuoi venire con noi?” lo invitò Iris.
Sorpreso per quell’invito, il ragazzo non si fece sfuggire l’occasione.
“quando?”
“non l’abbiamo ancora deciso… comunque abbiamo tempo ancora tre settimane”
“mi piacerebbe” ammise, annuendo felice. Non che fosse particolarmente interessato all’arte moderna, ma sapeva che quell’uscita rappresentava l’occasione per riavvicinarsi a Lysandre e conoscere meglio Iris e Violet.
“ottimo. Allora se vieni anche tu, posso chiedere anche a mia sorella di venire” commentò Lysandre, a cui Alexy rivolse un sorriso di gratitudine.
Quei piccoli gesti erano la conferma che pian piano le vecchie amicizie si stavano rinsaldando.
 
Il giorno successivo e quello dopo ancora, trascorsero esattamente uguali al lunedì. Nathaniel non si faceva trovare e, nonostante all’inizio Erin si era ripromessa di non risolvere la questione per telefono, alla fine si rassegnò e gli scrisse un messaggio. Il tentativo fu comunque inutile, così come la chiamata e il messaggio che lasciò in segreteria. Nathaniel non le rispondeva.  
Era arrivata persino al punto di chiedere ad Ambra notizie del fratello ma, prevedibilmente la bionda non aveva voluto esserle di alcuna utilità.
A parte Iris, non parlò con nessuno della loro lite, finché non arrivò il mercoledì, il giorno prima della fatidica gita a cui avrebbe partecipato anche la classe del biondo.
 
Durante il pranzo, uno degli argomenti di conversazione fu proprio la gita imminente:
“si può sapere perché non vuoi venire in gita domani?” esclamò Erin delusa, in direzione di Castiel. Cercò di mettere il broncio ma non le riuscì.
“non ne ho voglia. Non ti basta come risposta?” replicò il rosso infastidito.
“se è per questo tu Castiel non hai mai voglia di fare niente” commentò Lysandre.
In tutta risposta, il ragazzo si grattò l’orecchio con il mignolo, evidentemente disinteressato alle critiche che gli venivano mosse.
“è un peccato che tu sia in 5^B Lysandre… altrimenti saresti venuto anche tu” commentò Iris dispiaciuta.
“beh, almeno così io  e Violet ci faremo compagnia… a meno che Castiel non venga a scuola apposta per stare con me” lo stuzzicò Lysandre.
“dipende da cosa mi dai in cambio” patteggiò il rosso, ispezionando il proprio pranzo.
“vuoi un bacino?”
“fottiti Lys” borbottò l’altro, a bocca piena.
“immagino che se fosse da parte di Erin ti farebbe tutt’altro effetto” lo provocò Lysandre, facendo andare di traverso ad Erin un boccone.
“sarebbe un’esperienza agghiacciante in ogni caso” tagliò corto Castiel, addentando poi il proprio pranzo.
“la cosa è reciproca” dichiarò Erin offesa, non appena riuscì a deglutire.
“Alexy oggi non viene?” chiese Violet preoccupata. Poiché negli ultimi due giorni aveva pranzato con loro, stavano cominciando ad abituarsi alla sua presenza. Il ragazzo aveva riacquistato più fiducia in se stesso, diventando cosciente di quanto fosse gradito ai presenti e questo gli aveva permesso di tornare ad essere la persona allegra e un po’ chiassosa che tutti conoscevano.
“oggi torna mia sorella” spiegò Lysandre “finchè Castiel non si scusa con lei, Alexy è in una posizione un po’ scomoda”
“non fono io quello che defe fcufarfi” farfugliò Castiel con metà panino in bocca.
“vedo che hai ancora la pessima abitudine di parlare a bocca piena” commentò una voce melodiosa ma dal tono sprezzante.   
Seguita da Alexy, stava avanzando Rosalya, bellissima come sempre. Il suo migliore amico aveva sollevato gli occhi al cielo, evidentemente scocciato dal modo in cui la ragazza si era rivolta al rosso. Quest’ultima, spostò la propria attenzione verso il fratello:
“Lys, hai dimenticato il pranzo a casa” gli annunciò, porgendogli un sacchetto e, voltatasi verso Alexy replicò “contento ora Alexy?”
Il ragazzo in tutta risposta sospirò rassegnato. Le aveva chiesto di fare un tentativo e di scambiare due parole con quel pseudo-nuovo gruppo di amici e lei si era limitata a rivolgersi al fratello.
Intuendo le intenzioni di Alexy, Erin s’intromise:
“ti va di restare con noi?” disse rivolgendosi a Rosalya. Cercò di risultare il più cordiale possibile, nella speranza che ciò bastasse a compensare il brutto carattere del rosso.
Rosalya spostò lo sguardo verso di lei, così come fece Castiel:
“lo sai Rapunzel, dovresti trovarti un lavoro come agente per l’immigrazione. Continui a chiamare gente da ogni parte”
Erin gli lanciò un’occhiata inceneritrice: ecco che arrivava lui a buttar giù quel castello di carte che lei e Alexy stavano cercando di far erigere. L’equilibrio della struttura era molto precario e bastava quel genere di battutine per far crollare tutto, vanificando anche le migliori intenzioni.
“non vedo cosa centri l’immigrazione” replicò asciutta Rosalya, rivolgendosi al rosso.
“questo perché non hai senso dell’umorismo” ribattè lui, piegando la testa di lato.
“non mi pare che gli altri abbiano riso”
“comunque non mi pare che tu sia un’esperta di comicità” obiettò l’altro.
Mentre Erin si sentiva sconfitta da quello scambio di battute, Lysandre e Alexy sorridevano compiaciuti. Per anni avevano assistito a quel genere di diatribe tra Rosalya e Castiel e vederli ancora discutere insieme accese in loro la nostalgia. Quell’idilliaco quadretto dipinto davanti ai loro occhi però scomparve improvvisamente quando Rosalya sbuffò infastidita:
 “me ne vado. Tu Alexy fa’ come ti pare” annunciò girando i tacchi.
“aspetta Rosalya!” la chiamò Erin “non vorrai dare retta solo a Castiel?” tentò di convincerla.
“non impongo la mia presenza se so che non è gradita” replicò secca la ragazza, trattenendosi.
“ma noi vogliamo che tu rimanga qui “insistette Iris, sapendo di dover dare man forte alla sua amica.
“non mi pare che Castiel sia d’accordo” puntualizzò la ragazza dai capelli argentei.
“oh andiamo! Proprio per questo dovresti restare!” rise Erin “fossi in te, non perderei un simile pretesto per dargli fastidio” commentò facendole l’occhiolino. Castiel rispose dandole un leggero scappellotto sulla testa che fece sorridere Rosalya. Quella ragazza, un po’ impulsiva ma fondamentalmente gentile, l’aveva colpita sin da quando si erano parlate la prima volta. Alexy insisteva sul fatto che Erin meritasse una chance da parte sua e la regina delle nevi decise di concedergliela. Aveva smesso di credere da anni di poter ampliare la propria rosa di amicizie ma quel trio di ragazze di cui faceva parte Erin accendeva in lei un’ottimistica speranza.
Rosalya sorrise, assumendo un’espressione così dolce che risultò ancora più bella di quanto già non fosse. Era raro vederla così, quanto un fiore che sboccia nel deserto.
La ragazza spostò lo sguardo verso Alexy che la fissava speranzoso.
Se non altro glielo doveva a lui e a suo fratello, perennemente diviso tra lei e Castiel.
Rosalya si accomodò sulla muretta in cui era appoggiato Castiel e accavallò elegantemente le gambe.
Il suo silenzioso acconsentire mise di buon umore l’intera compagnia, compreso il rosso.
“ho saputo che verrai anche tu in gita con noi domani” esclamò Erin, ansiosa di introdurre il nuovo arrivo nella conversazione.
“te l’ha detto Nathaniel?” chiese la ragazza, sistemandosi i lunghi capelli.
Erin abbassò lo sguardo. Ormai con Nathaniel stava perdendo ogni speranza, tanto valeva rendere partecipi tutti della situazione e magari sperare di ricavarne qualche buon consiglio da parte di chi come Rosalya lo conosceva bene.
Raccontò così, a grandi linee, della loro discussione, omettendo però i riferimenti a Castiel che tanto avevano infastidito il biondo.
“Nathaniel è sempre stato molto permaloso” commentò Castiel beffardo.
“senti chi parla” lo silenziò Rosalya “perché ho il sospetto che questa situazione ti diverta?” aggiunse guardandolo sorniona.
Castiel fece spallucce e dopo aver gettato la carta che avvolgeva il suo panino si accese una sigaretta, isolandosi dalla conversazione.
“comunque domani verrà in gita anche lui no? Non può sfuggirti” aggiunse Rosalya strizzando l’occhio ad Erin.
Quella considerazione illuminò la ragazza. Giusto. In gita non poteva sfuggirle.
“a proposito, che ne dite di un po’ di shopping pre-gita?” propose Rosalya, rivolgendosi alle ragazze.
Quell’idea destò l’interesse delle due dirette interessate:
“e tu Violet? Vieni con noi?” le propose Erin, anche se si fatto Violet non avrebbe partecipato alla gita.
“grazie, ma sarà per un’altra volta” rispose la ragazza, grata dalla premura dell’amica.
“allora andremo noi tre. Alexy questa volta meglio se lasci fare a me. Con tutte le paranoie che si è fatta Erin a farsi vedere in costume davanti a te, non intendo sentire ancora le sue lamentele” annunciò la ragazza.
I presenti sorrisero, sollevati nel vedere quanto velocemente Rosalya si fosse ben amalgamata nel gruppo. Era quasi assurdo che appena un paio di minuti prima fosse seriamente intenzionata ad andarsene. Questa era la riprova di quanto lei stessa ci tenesse a ricucire i vecchi rapporti e crearne di nuovi.
“peccato. Sono un ottimo consulente d’immagine” commentò allegro il gemello.
“quand’è che siete andati a fare shopping insieme voi tre?” s’intromise Castiel, tornando ad interessarsi alla discussione.
“è stata Rosalya a procurarmi il costume per la piscina” gli spiegò Erin
“ah, il costume blu” borbottò tra sé e sé Lysandre, lasciando perplessi i presenti.
“e tu come lo sai? Mica c’eri in piscina” indagò Erin arrossendo.
“me l’ha descritto Castiel” rispose tranquillo l’amico, guadagnandosi un’occhiataccia dal rosso.
“oh, ma guarda guarda” soggiunse Rosalya con fare canzonatorio e osservando il rosso, commentò beffarda “il nostro Castiel è diventato un tutt’uno con i suoi capelli” lo derise, avvicinandosi a lui e affossandogli l’indice nella guancia destra.
Il ragazzo in tutta risposta si sottrasse a quel gesto e scosse via la cenere che era in bilico sulla sigaretta.
“e tu Erin che ti facevi mille paranoie! A Castiel è piaciuto vederti in costume!” si aggiunse Iris, facendo ridere tutti tranne i due interessati.
“ma non dire cagate Iris! Se ho più tette io di lei” obiettò Castiel scocciato per le risate di cui era l’oggetto.
Quella provocazione fu sufficiente a far uscire Erin dal suo stato di imbarazzo e replicare:
“ovvio Ariel! Le sirene hanno sempre un seno prosperoso”
Rosalya, Iris ed Alexy tornarono a ridere mentre Violet e Lysandre si limitarono ad un moderato sorriso.
“comunque ad essere precisi è stato Leigh a trovare il costume” lo avvertì Erin, incrociando le braccia al petto.
“è da un po’ che non lo vedo” commentò Castiel.
“chissà perché…” esclamò sarcastica Rosalya.
“quel ragazzo è un santo” sostenne il rosso.
Rosalya gli lanciò un’occhiataccia, irritata dal commento poco lusinghiero che sottintendeva quell’affermazione. Determinata a vendicarsi, dopo un po’ ribatté:
“proprio come Nathaniel che ti ha sopportato tutti questi anni”
“piantatela! Possibile che siate sempre i soliti?” sbottò esasperato Lysandre, sbattendo il palmo dela mano contro la fronte. La sensazione nostalgica era ormai stata rimpiazzata dall’esasperazione.
“non li rimproverare Lysandre. Io li trovo molto divertenti” ammise la vocina timida di Violet.
Rosalya guardò quella curiosa ragazza con una certa perplessità. Era un tipino decisamente sui generis,  eccentrico e proprio per questo le risultò simpatica:
“anche tu Violet sei molto buffa” le confidò dolcemente. La giovane artista si limitò ad un debole “grazie” pronunciato mentre le sue gote si coloravano di rosso.
 
Dopo essere uscita dalla palestra con la scusa di dover andare in bagno, Erin si diresse in sala delegati. Erano tre giorni che ripeteva quel viaggio ma questa volta era determinata a non lasciare che fosse a vuoto. Avrebbe costretto Nathaniel al confronto e, per male che fosse andata, avrebbe avuto i tre giorni di gita per rimediare.
Bussò alla porta e, come il lunedì e martedì precedenti, sentì la voce di Melody:
“chi è?”
“il lupo mangiafrutta… chi vuoi che sia Melody! sono ancora io” sbottò esasperata Erin. Anche se non riusciva a capire perché Nathaniel fosse così restio ad incontrarla, un concetto l’aveva afferrato: Melody la odiava. Ci aveva messo un po’ per rendersene conto poiché nel loro primo incontro, la ragazza era stata molto premurosa e gentile. Quando però era diventato palese l’interesse che era scaturito tra Erin e il segretario, Melody aveva cambiato atteggiamento, mostrandosi più fredda e indisponente.
“Nathaniel è molto impegnato. Vi vedrete domani” le riferì annoiata.
Stessa risposta del giorno prima. E di quello prima ancora.
In Erin montò una tale rabbia che, spalancò la porta, facendo sobbalzare i presenti nell’aula.
Oltre a Melody e Nathaniel, in sala delegati era presente un’altra ragazza. Una volta Iris le aveva detto che quella era un membro molto noto del club di giornalismo: Peggy. Nonostante fosse appena al secondo anno, infatti era in classe con Violet, Peggy era famosa in tutta la scuola per la sua onniscienza. Non c’era notizia che le sfuggisse e la sua intraprendenza nel ficcare il naso nelle faccende altrui non la rendevano una benvoluta tra gli studenti. Lei però non sembrava dare peso alla sua solitudine e per contro, sosteneva che l’ambizione non va mai a braccetto con l’amicizia. Il suo sogno infatti era quello di diventare una grande giornalista di cronaca e il club del liceo era un ottimo terreno di prova.
Peggy  guardò con vivo interesse quella nuova presenza e spostò lo sguardo sul segretario.
“dobbiamo parlare” annunciò Erin, infischiandosene delle due ragazze e puntando dritto al suo obiettivo.
“ora non posso” rispose Nathaniel senza staccare gli occhi dal computer.
Quella reazione così indifferente le mandò il sangue al cervello e, avvicinandosi a grandi passi, aggirò la scrivania e si piazzò di lato al ragazzo.
“ho aspettato abbastanza di questa storia”annunciò.
Nathaniel alzò finalmente lo sguardo su di lei, e, incrociando quell’espressione così determinata, si rivolse alle due astanti.
“torno subito” e si alzò, senza voltarsi a controllare che Erin lo seguisse.
Quest’ultima, ebbe un’esitazione iniziale, poi lo seguì, non degnando della minima attenzione Melody e Peggy.
 
Nathaniel camminò con andatura lenta passando davanti alla presidenza e svoltando verso il teatro. Si fermò in prossimità di una rientranza nascosta del corridoio e si voltò rapidamente verso Erin:
“non credo tu abbia il diritto di imporre agli altri quando starti a sentire. Comunque se è l’unico modo per porre fine a questa tua assillante intromissione, parla. Ti ascolto”
Quelle parole così dure e fredde la spiazzarono. Dov’era il Nathaniel gentile e garbato?
Era talmente disorientata da non riuscire a ricordare nemmeno cosa volesse dirgli:
“allora?” la incalzò sempre più irritato il biondo.
Non era possibile. Lei non aveva voluto ferirlo, eppure lui, seppur con tono controllato e fermo, le stava devastando il cuore. Sentì le lacrime inumidirle gli occhi.
Del resto l’aveva sempre pensato. Con lui non riusciva ad essere diversa da se stessa. Di fronte a Nathaniel, Erin perdeva ogni corazza e si comportava esattamente come Erin. Non era in grado di difendersi come avrebbe fatto Sophia. Perché Nathaniel riuscisse a farle quell’effetto non se lo spiegava, in ogni caso era un punto a proprio svantaggio. Solo con lui le succedeva.
Abbassò il capo sconfitta, per impedirgli di vedere le lacrime che da un momento all’altro le avrebbero rigato le guance.
“volevo solo chiederti se domani il pranzo è a sacco” mugolò.
Il biondo assunse un’aria sorpresa, poi finse di credere che fosse quello ciò che lei voleva dirgli:
“no, ci fermeremo in un locale lungo la strada”
Erin annuì lentamente, borbottò un “grazie” e si allontanò a grandi passi.
Era una codarda. Ecco cos’era. Tutta la sua determinazione era svanita in un istante.
Sperò che il ragazzo non la seguisse e la sua richiesta venne esaudita.
 
Tornò in palestra tenendo la testa bassa. Sentiva di sottofondo il rumore dei palloni e non osava alzare gli occhi. In bagno si era sciacquata il viso, nella speranza che il contatto con l’acqua fredda le scemasse il rossore. Improvvisamente nel suo raggio visivo comparve una rosa. Sollevò il capo e si trovò di fronte il sorriso smagliante di Boris.
“sei troppo bella Erin per tenere il broncio” la consolò porgendole il fiore.
“si può sapere da dove le tiri fuori queste rose Boris?” gli chiese Erin prendendola in mano. Era un mistero come riuscisse ad averne sempre a portata di mano.
“cosa c’è che ti affligge?” indagò l’uomo. Tutta quella dolcezza, concentrata in una stazza di un metro e novanta per novanta chili di muscoli risultava quasi buffa e ridicola.
“niente. Torno in campo” replicò sbrigativa la ragazza, appoggiando il profumato omaggio su un tavolo.
Raggiunse Trevor e si mise in coppia con lui per fare gli esercizi di allungamento:
“allora Erin, spero che domani sera tu ed Iris verrete nella stanza di noi maschi” esclamò malizioso il compagno di squadra.
“Trev, idiota. Più gente inviti meno alcol c’è per voi” s’intromise Castiel alle sue spalle.
“beh ma che festa è se non ci sono le ragazze?” insistette il cestista.
“perché tu questa tavola da surf la chiami ragazza?” la stuzzicò Castiel aspettandosi una risposta alla sua provocazione, ma Erin sembrò non sentirlo.
Aveva un’aria abbattuta, tanto che persino Trevor la notò:
“che hai Erin?”
La ragazza si morse il labbro e scosse la testa:
“niente niente”
Castiel interruppe l’esercizio con Dajan che si trovò senza colui che doveva essere il suo punto d’appoggio e, perso l’equilibrio, cascò a terra:
“Idiota! Avvertimi la prossima volta!” gli abbaiò contro anche se l’altro lo ignorò. Il moro si guardò attorno e chiamò:
“KIM! Potresti venire qui?”
Mentre Dajan e un’imbarazzata Kim erano impegnati nell’esecuzione di un esercizio di stretching, Castiel si era seduto davanti ad Erin, accanto a Trevor.
“è per il delegato?”
La ragazza si sorprese per quel tono così gentile ed estraneo al personaggio del rosso:
“non riesco a dirgli come mi sento. È frustrante” ammise Erin. Le sembrava strano parlare a Castiel di Nathaniel ma lui era stato così premuroso con quella semplice domanda che quasi si era commossa.
“stiamo parlando di Nathaniel? Lascialo perdere quello Erin!” esclamò Trevor “è una mezza checca, sempre vestito come un damerino”
Quel commento irritò Erin ma non fu lei a prendere le difese del biondo:
“mi risulta che si sia fatto molte più ragazze di te, vecchio” gli ricordò Castiel.
Trevor muggì un’imprecazione e tornò a rivolgersi ad Erin:
“fidati Erin. È meglio se ti cerchi dei veri uomini” insistette Trevor inspirando e gonfiando così il torace.
“tipo?” gli chiese la ragazza, sentendo che il buon umore tornava pian piano a impadronirsi di lei.
In tutta risposta, Trevor allungò un braccio attorno al collo di Castiel ed esclamò orgoglioso:
“tipo degli aitanti giocatori di basket”
Erin scoppiò a ridere mentre Castiel, divincolandosi da quella presa, borbottò beffardo:
“manco sai cosa vuol dire aitante”
Un sorriso spontaneo distese il volto, prima buio e triste della ragazza. I suoi occhi brillarono di fronte a quel duo che cercava di tirarle su il morale.
I due cestisti, dal canto loro, rimasero colpiti da quell’espressione così dolce della ragazza. Per la prima volta anche Trevor si rese conto di quanto Erin fosse carina e femminile.
“mi sono innamorato” esclamò teatrale, portandosi una mano sul cuore. Erin lo guardò senza capire mentre Castiel gli diede una pacca sulla testa.
“senti Cas, dopo non aspettarmi all’uscita. Io ed Iris aspetteremo Rosayla fuori dal suo club”
Quel nome destò Trevor che, in preda all’agitazione, realizzò:
“Rosalya? Quella figa?”
“quante Rosalye ci sono in questa scuola?” chiese Erin guardando Castiel.
“sei sua amica??” insistette Trevor avvicinandosi a lei carico di aspettativa. Sembrava essersi già dimenticato dell’effetto che aveva sortito Erin su di lui. I loro visi erano a distanza di pochi centimetri tanto che la ragazza si imbarazzò.
“penso di sì” farfugliò lei, un po’ per il disagio dovuto alla posizione del ragazzo un po’ perché Erin per prima non sapeva ancora che rapporto ci fosse tra lei e la regina delle nevi.
“Erin devi presentarmela!” le ordinò Trevor scattando in piedi.
“se proprio ci tieni… se vuoi anche domani” approvò l’altra.
“ma la sua classe non viene in gita con noi domani” obiettò Trevor.
“ma lei sì”
Quella notizia mandò in brodo di giuggiole il cestista che concluse la giornata carico di energie e aspettative.
 
“forse avresti dovuto dirgli che Rosalya è fidanzata” ammise Iris mentre aspettava con Erin l’uscita di Rosalya.
“era troppo su di giri. Non mi andava. Glielo dirò domani… eccola” e si diressero verso la ragazza che stava uscendo dal club. Passarono accanto ad Ambra che, platealmente, urtò Erin.
“che grazia Travis! Manco sai camminare” la punzecchiò la bionda.
“scusa ma sei una persona talmente insulsa che non ti avevo neanche visto” la rimbeccò Erin, sorpassando sul fatto che non fosse stata colpa sua.
“Erin…” la rimproverò Iris sottovoce tirandola via per un braccio “smettila di rispondere alle provocazioni di Ambra. Ignorala!”
“invece ha ragione a difendersi” esclamò Rosalya unendosi alle due amiche e allontanandosi insieme.
“vedi?” puntualizzò Erin soddisfatta di aver trovato un’alleata.
“ti caccerai un’altra volta nei guai” la ammonì Iris preoccupata.
“se l’effetto è quello di tenere lontano quell’arpia dal club di teatro un’altra settimana, allora Erin, hai la mia autorizzazione per dichiararle guerra” annunciò Rosalya dirigendosi verso il cancello di uscita.
“beh se posso unire l’utile al dilettevole…” scherzò Erin mentre Iris sollevava gli occhi al cielo.
 
Scesero alla fermata davanti al grande centro commerciale e, con Rosalya a capo della spedizione, il trio entrò in un negozio di intimo:
“non possiamo andare a comprare vestiti?” protestò Erin a disagio.
Se c’era un tipo di articolo che aveva sempre detestato di acquistare era la biancheria intima.
“già” le diede man forte Iris.
Di fronte alla loro reazione, Rosalya alzò il sopracciglio sinistro e le squadrò:
“proprio come immaginavo. Due verginelle pudiche e timorose del sesso. Ecco cosa siete” sentenziò salomonica, puntando l’indice contro le due ragazze.
“abbassa la voce!” la rimproverò Erin, accorgendosi che le parole di Rosalya erano state sentite da alcune clienti che avevano sorriso.
Del resto, appena erano entrate in negozio, con la sua sola presenza, Rosalya aveva destato l’attenzione d buona parte delle clienti.
“scommetto che adesso state indossando le classiche mutande della nonna” continuò imperterrita la ragazza assumendo un’aria di sufficienza “bianche, orrendamente semplici…”
“…comode” puntualizzò Iris.
“da vecchia” obiettò Rosalya.
“…resistenti” osservò Erin.
aggiungeteci anti stupro a questo punto!” esclamò Rosalya esasperata, scatenando una risata generale nel trio.
Creato un buon clima, la stilista cominciò a muoversi tra i capi appesi, alla ricerca di completini intimi per le due ragazze, le quali fecero altrettanto. Dopo un quarto d’ora, si riunirono tutte e tre e Rosalya esibì le sue proposte:
“questo è per Iris”
La rossa squadrò il reggiseno e le mutandine in pizzo viola.
“ci sono troppe trasparenze!” protestò avvampando, immaginandosi quel capo addosso a lei.
“con un seno come il tuo vengono valorizzate” spiegò Rosalya pazientemente.
“e io preferisco evitare di metterlo così in evidenza” biascicò Iris.
Imperterrita, Rosalya passò alla proposta per Erin:
“invece per Erin che ha un culetto da favola, ecco questo”
Il reggiseno non dispiacque alla mora che però notò con orrore il filo interdentale sottostante e che Rosalya chiamò perizoma:
“non penserai che vada in giro con quello spago in mezzo al…sedere” si contenne alla fine, basita per la scelta della ragazza.
Stizzita per il scarso successo riscosso dalle sue scelte, la stilista esclamò con scarso interesse:
“beh, allora vediamo cosa avete trovato voi”
Erin cambiò radicalmente espressione e sorrise allegra, tirando fuori orgogliosamente una confezione con all’interno sette paia di mutandine dei colori dell’arcobaleno. Le mostrò una ad una: erano un modello standard, coprente e comodo con stampato sul retro un animaletto. Tirando fuori il capo color giallo, mostrò la giraffa sulla parte anteriore e spiegò orgogliosa:
“guarda che carina! Non è un amore? E poi ci sono: il koala, il panda, la tigre, l’orso bianco, il pinguino e il gatto” enunciò mostrano tutto a Rosalya che si voltò sconvolta verso Iris che dal canto uso era sulla stessa lunghezza d’onda di Erin. Infatti subito dopo la rossa esclamò:
“io invece prenderò questa canottiera: mi piace la linea sportiva. E poi questa mucca disegnata davanti è così adorabile. Guarda che occhioni”
Erin e Iris fissarono Rosalya, guardandola con aspettativa. La ragazza era rimasta senza parole:
“allora? Piacciono anche a te? Le ho prese lag-“ cominciò a dire Erin, convinta che anche lei fosse stata conquistata dalle loro scelte.
“ma sei fuori? Ti pare che vado in giro con un pinguino sulle chiappe io?” sbottò Rosalya.
“cos’hanno che non va?” chiese Erin, guardando confusa il suo prossimo acquisto:
“avete diciassette anni o sette?”
“ma è carinissima questa mucca” contestò Iris.
“oh, ma certo! Con quelle lunghe ciglia accende le fantasie sessuali più sfrenate in un uomo!” replicò sarcastica Rosalya  “ecco perché non avete ancora un ragazzo voi due! ”
“e chi si è mai lamentato?” farfugliò Iris scattando sulla difensiva:
“ve lo dico da aspirante stilista: voi avete molto potenziale, ma non vi valorizzate… specie tu!” disse, puntando l’indice contro Erin.
Le due ragazze si guardarono basite. Nonostante la reazione di Rosalya, trovavano piuttosto buffa quella situazione.
“comunque sia, fate come volete. Questi ve li regalo io. Protestate quanto volete, ma un giorno questo intimo da battaglia vi farà comodo e tornerete a ringraziarmi!” annunciò perentoria Rosalya dirigendosi verso la cassa.
Erin ed Iris la osservarono mentre a grandi passi sfilava in direzione della cassa. Sollevarono le spalle, consapevoli che niente avrebbe fatto cambiare idea a quel tornado umano e, sorridendo, la raggiunsero tenendo strettamente in mano i loro articoli.
 
“era proprio necessario far quel commento prima a pranzo?”
“ti riferisci al costume di Erin?” precisò Lysandre, scarabocchiando qualcosa sul suo block-notes.
I due amici si erano appollaiati sul tetto in cui Castiel aveva nascosto il pallone da basket due settimane prima e che rappresentava il posto preferito di Lysandre. La scuola era ormai deserta e talvolta il rosso invadeva quell’angolo di paradiso che l’amico si era ritagliato.
“sì… non era il caso” confermò Castiel aspirando la sigaretta.
“ho solo detto che mi hai parlato del suo costume” puntualizzò Lysandre pacatamente “non ho mica specificato che ha un… aspetta… come avevi detto? …ah sì: un culo da sbavo” aggiunse divertito.
Castiel arrossì e stizzito promise:
“la prossima volta evito di raccontarti queste cose”
Tra i due cadde il silenzio. Lysandre era impegnato a scrivere i suoi pensieri nel taccuino che teneva in mano mentre Castiel era perso a contemplare l’orizzonte, lungo il quale il sole si stava ormai nascondendo.
Dopo un po’ Lysandre commentò tra sé e sé:
“dovresti darti una mossa”
Il rosso lo guardò senza capire.
L’amico aggiunse un paio di parole al suo appunto e poi chiuse il libretto, ficcandoselo nella profonda tasca del suo cappotto.
Alzò lo sguardo verso lo zenit e chiarì:
“se aspetti troppo Nathaniel te la porterà via”
“ma di chi parli?” sbottò Castiel irritato per quel modo sibillino con cui l’amico sembrava quasi prenderlo in giro. Lysandre teneva il mento rivolto verso l’alto, per cui Castiel vedeva solo il profilo del ragazzo.
Notò che lo sguardo dell’amico si era spostato su di lui e un sorrisetto furbo gli aveva disteso la bocca.
“parli di Erin?” indovinò il chitarrista “ma ti pare che vado dietro a quella?!”
Lysandre fece spallucce, accrescendo l’irritazione del rosso.
“e comunque, lei è ancora molto confusa sul segretario” lo informò Castiel, distendendosi sul tetto e portando le mani dietro la nuca.
“finchè continui ad insultarla di certo non ha dubbi su di te” commentò Lysandre osservando una nuvola a forma di fiore.
Castiel si voltò stizzito e si frugò nelle tasche alla ricerca del lettore mp3.
Lysandre aveva voluto dargli qualcosa su cui riflettere, lui invece voleva solo sentirsi la mente annebbiata e non pensare a cosa sarebbe successo in sua assenza durante la gita.
 
Quello che era iniziato come uno shopping movimentato si concluse al meglio: quando passarono al negozio di vestiti, Rosalya si dimostrò in grado di adattarsi allo stile delle due ragazze scegliendo per loro i capi più adatti. Erin, dal canto suo, accettò di buon grado di mettere da parte lo stile che aveva adottato nelle ultime settimane, ossia quello di Sophia, per tornare a vestire in modo più femminile.
In camerino indossò un vestito aderente in vita con una gonna che le arrivava al ginocchio. Aveva lo scollo  a barchetta e nel complesso la linea sottile della ragazza veniva valorizzata. Rosalya le aveva procurato anche dei braccialetti con cui adornare i polsi lasciati scoperti da una manica a tre quarti.
Quando uscì per mostrare il risultato, Iris e la stilista rimasero a bocca aperta.
Pur nella sua semplicità, Erin era elegante e raffinata. Il suo passato di ballerina era ora lampante e testimoniato da quel fisico snello e femminile. Prima che Erin potesse specchiarsi, Rosalya le si avvicinò e le raccolse i lunghi capelli in uno chignon disordinato. Mentre Iris non riusciva a smettere di complimentarsi con l’amica per il suo aspetto, Rosalya condusse la sua cliente davanti allo specchio e commentò dolcemente:
“lo vedi cosa intendevo Erin?”
Erin si specchiò e per la prima volta dopo molto tempo non vide il riflesso della sorella.
Per la prima volta quell’immagine così lontana da Sophia e così vicina ad Erin, la fece sentire in pace con se stessa.   
 
Il sole non dava segno di voler comparire all’orizzonte e una pioggia leggera batteva contro la carrozzeria della macchina.
“che peccato partire con questo tempo! Speriamo che quando arriverete a destinazione troverete un po’ di sole” sperò Pam, frenando di fronte ad un semaforo rosso.
“stando al meteo sembrerebbe di sì” rispose Erin guardando fuori dal finestrino.
Pam si era offerta di accompagnare la nipote davanti a scuola, anziché farle prendere l’autobus. Non l’avrebbe vista per i successivi quattro giorni e ormai disabituata alla convivenza solitaria, sapeva che avrebbe sentito la mancanza della nipote.
 
Dopo aver ringraziato la sua autista, Erin scese dall’auto e recuperò il proprio zaino dal bagagliaio.
Da lontano vide Iris e Rosalya che chiacchieravano allegramente e si diresse verso di loro.
Facendosi largo tra gli studenti sentì un profumo fin troppo familiare.
Sollevò lo sguardo e incrociò quello di Nathaniel.
Il ragazzo era impegnato in una conversazione con un gruppo di persone della sua classe e vedendola, distolse l’attenzione da lei.
Erin inspirò, facendosi forza e continuò a procedere in direzione delle sue amiche.
Mentre camminava, teneva il mento alto e aveva un’espressione fiera e determinata.
In quel momento nella sua mente si impresse una promessa infrangibile:
“quando torneremo da questa gita, le cose tra di noi saranno cambiate Nathaniel”.
 
 
 
NOTE DELL’AUTORE:
Per la gioia di chi ha la pazienza di leggere i papiri che scrivo, sono tornata con un capitolo lunghissimo -.-‘’. Niente da fare… proprio non mi riesce di essere di parola e frazionarli in lunghezze più gestibili. Del resto non mi andava di spezzarlo così eccovelo in tutta la sua infinita lunghezza.
Se non altro, rispetto al capitolo precedente, questo mi ha dato più soddisfazioni. Credo che la risposta sia nel fatto che ci sono alcuni eventi di una certa intensità (almeno spero di averli resi come tali) primo tra tutti quello che dà il titolo al capitolo: la lite tra Erin e Nathaniel. Riuscirà la ragazza a farsi perdonare? E come? (Nath, Nath… sei troppo permaloso però eh -.-‘).
Tra l’altro ecco le prime gelosie da parte dei due boys che cominciano a contendersi Erin: da un lato Castiel che si trova davanti la sua amica sulle amorevoli spalle di Nathaniel (e come ogni classica eroina shoujo, Erin non capisce che il rosso è geloso -.-) e poi il biondo perché si sente minacciato dalla complicità che c’è tra i due.
È sufficiente quest’ultima a giustificare la (esagerata) reazione di Nath? O c’è qualcos’altro dietro che lo corrode?
Altro fatto di rilievo è l’inserimento di Rosalya. In questo capitolo infatti lei e Alexy entrano ufficialmente a far parte del gruppo. Spero abbiate apprezzato il personaggio piccante e forte di Rosalya. mi sono fatta quest’idea di lei non tanto dal gioco, quanto leggendo altre ff, e penso che il ruolo di donna navigata le si addica. Infatti visto che vorrei differenziare il più possibile i vari protagonisti, la ragazza si presenta come molto sicura di sé e determinata… una persona che è uscita rafforzata dagli eventi del passato. Voi come la vedete? Che ruolo le immaginate nella storia?
Sono curiosa di sentire le vostre opinioni :-)
Prima di salutarvi, un grazie a chi recensisce/ha aggiunto la storia tra preferite/seguite/ricordate. Alla prossima!

P.S. scusate se questa volta non ho fatto il riassunto del capitolo precedente. Me ne sono appena accorta -.-'... magari lo aggiungerò prossimamente.
 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Erin VS Ambra: secondo round ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Quella che doveva essere una piacevole corsetta domenicale, si trasforma in un litigio tra Erin e Nathaniel quando la ragazza affronta l’argomento che ha portato alla rottura dell’amicizia del biondo con Castiel. Nonostante i tentativi di Erin di incontrare il segretario del liceo, quest’ultimo si fa negare. La ragazza si sfoga allora con i suoi amici e progetta di affrontarlo a viso aperto durante la gita.
 



 
CAPITOLO 19: ERIN VS AMBRA: SECONDO ROUND
 
Dopo un viaggio di tre ore e mezza, Erin non vedeva l’ora di arrivare in hotel. In pullman i professori, tra cui Miss Joplin, avevano organizzato la divisione delle camere e la ragazza era riuscita a farsi assegnare una tripla assieme a Rosalya ed Iris. Quella bella conquista però era stata precocemente guastata dalla notizia che Ambra e Charlotte avrebbero dormito nella camera accanto alla loro.
Le tre amiche si erano sedute a metà bus, anche se Erin avrebbe preferito restare in testa. Nathaniel infatti, in qualità di rappresentante degli studenti in gita, era stato monopolizzato dai professori per pianificare gli ultimi dettagli di quella lunga giornata.
 
Finalmente, davanti agli occhi dei trepidanti studenti, comparve la sagoma del loro alloggio; il pullman si inserì in una stradina circondata da un ampio giardino, illuminato qua e là da piccole lampade da esterno. La struttura aveva una forma a ferro di cavallo, alta nove piani, con un rivestimento color corallo.
Se la prima impressione dal di fuori era stata molto positiva, all’interno era anche meglio. I locali erano provvisti di mobili raffinati e l’arredamento era molto curato e di classe.
Miss Joplin si avvicinò al concierge e dopo una breve conversazione, si voltò per distribuire ad ogni gruppo di studenti la chiave magnetica per l’accesso alle stanze.
“siamo nella 407, quarto piano” esclamò Rosalya esibendo la tessera davanti agli occhi delle sue prossime compagne di stanza.
Erin cercò Nathaniel con lo sguardo chiedendosi in quale piano fosse dislocata la sua stanza, ma venne trascinata in ascensore da Iris prima che riuscisse a individuare il suo obiettivo.
 
Rosalya varcò per prima la soglia e si precipitò sul letto vicino alla finestra:
“questo è mio!” annunciò, buttandosi a capofitto sul morbido materasso.
Erin ed Iris avanzarono ispezionando l’ambiente: le pareti erano tinteggiante di un color pesca, tinta che si sposava alla perfezione con il mobilio. Il bagno era spazioso e fornito di una vasca e di una doccia.
“caspita, davvero niente male” commentò Erin ammirata, sedendosi sul letto centrale.
“già. Considerato che dormiremo qui per le prossime tre notti” approvò Iris aprendo lo zaino e frugandone il contenuto.
“beh, è stato Nathaniel a proporre l’alloggio” le informò Rosalya, aprendo la porta finestra che dava sul terrazzo. Erin abbassò il capo e diventò silenziosa mentre Rosalya tornò a sedersi sul proprio letto e la chiamò:
“Erin?”
La mora alzò lo sguardo e la fissò con l’espressione mogia di un cagnolino abbandonato.
“non essere triste. Vedrai che risolverete tutto. Ma non lasciare che questa storia ti rovini la gita”
Il suo tono fermo ma dolce rasserenò l’animo dell’amica che, rincuorata, annuì leggermente.
 
L’uscita del pomeriggio prevedeva la visita di un museo d’arte moderna della città.
Sin da quando era venuta a conoscenza del programma della gita, Erin non aveva potuto fare a meno di sospirare rassegnata. Il suo disinteresse per l’arte le impediva di distrarre la propria mente dal pensiero di dover parlare con Nathaniel. Nonostante l’urgenza di un chiarimento, la ragazza non era ancora riuscita a trovare l’occasione per avvicinarlo e in questo senso il segretario non le era di alcun aiuto.
Provò a distrarsi leggendo i volantini all’ingresso del museo, pensando che se almeno Castiel fosse stato lì con lei avrebbe avuto qualcuno con cui condividere quella noiosa attesa. Iris e Rosalya infatti erano prese da una conversazione con delle ragazze del club di disegno sulle opere che avrebbero ammirato di lì a pochi minuti.
“non fare quella faccia Erin!” la rimproverò d’un tratto Iris, salvando l’amica dall’autoemarginazione “l’arte non sarà la tua passione ma potresti anche trovare qualcosa di interessante”
La mora scrollò le spalle, poco convinta, attirando l’attenzione di Rosalya.
“non ti piace l’arte Erin?”
“diciamo che ho altri interessi”
La regina della nevi sorrise sorniona e commentò sibillina:
“non mi sorprende che tu e Castiel andiate d’accordo. Avete in comune più cose di quanto immaginiate”
Erin la guardò interrogativa, sentendo sulle spalle le mani di Iris che la spingevano nella prima sala.
 
Il museo era suddiviso in numerose stanze, piene di luce e molto spaziose. Ogni studente era stato munito all’ingresso di un’audioguida rappresentata da un lettore mp3. Una voce registrata, piuttosto nasale e monotona, li avrebbe guidati nel percorso tra le varie opere.
All’inizio Erin provò a prestare attenzione alla spiegazione ma il tutto le sembrava così freddo e didattico che spense il dispositivo, se lo mise in tasca e cominciò ad aggirarsi a caso per le stanze, senza soffermarsi su nessun’opera in particolare. La sua fretta di andarsene era tale da distanziare le sue amiche che invece osservavano scrupolosamente ogni quadro e scultura.
La ragazza si guardò attorno e notò che non era stata l’unica ad aver abbandonato le cuffie. Trevor, poco più avanti, insieme ai suoi amici stavano discutendo del torneo di basket di febbraio incuranti del professore della 5^C che li invitava ad ammirare le opere d’arte.
Mentre Erin osservava quella scena, una voce alle sue spalle la chiamò e si trovò di fronte Miss Joplin:
“non ti hanno dato l’audioguida all’entrata?” indagò la donna.
Erin arrossì a disagio. Quell’insegnante era troppo in gamba per sorbirsi le sue bugie.
“il fatto è che…”
Cogliendo l’imbarazzo della ragazza, la donna completò:
“non sei molto interessata all’arte”
La studentessa annuì ma la donna, anziché propinarle una tiritera sul fatto che si stava privando di una preziosa opportunità per la sua formazione culturale, le confessò sottovoce:
“se è per questo siamo in due. Non vedo l’ora di uscire da qua”
Erin rise per la sfrontatezza di quell’eccentrica insegnante. Non lo riteneva possibile, ma in quel momento scoprì di ammirarla ancora di più. Sentiva una sorta di sintonia tra di loro per modo di fare della donna nei suoi confronti.
Arrivò la professoressa Robinson ed Erin ne approfittò per allontanarsi.
Dopo qualche considerazione generale sull’andamento della visita, Miss Robinson commentò:
“Erin è una ragazza molto interessante. Mi dispiace però che Castiel non sia venuto in gita. Dopo il disegno che mi ha portato l’altro giorno ero curiosa di vedere in che rapporti sono quei due”
Miss Joplin sorrise ripensando alla conversazione che aveva avuto appena il giorno precedente con la collega.
 
“Jane disturbo?” chiese Miss Joplin facendo capolino nell’aula di arte. Con sollievo notò che la stanza era deserta e la collega era da sola, circondata da disegni.
“ah sei tu! Entra entra” la accolse l’artista.
“sono venuta a chiederti se ti va un caffè. Ho appena scoperto di non avere lezione in 3^ C” la informò la scienziata.
Miss Robinson ispezionò i fogli sparsi sulla cattedra e, dopo una breve esitazione, disse:
“certo. Però prima voglio farti vedere una cosa” e cominciò a frugare in quella montagna di carta alla ricerca di un foglio in particolare. Mentre era affaccendata in quella ricerca, Miss Joplin sorrideva per quella collega così disordinata ed eccentrica.
“guarda qua” le disse quest’ultima porgendole un disegno. Miss Joplin lo accolse tra le mani e lo scrutò.
“con questi capelli mi viene in mente una sola persona” riflettè osservando attentamente il ritratto “Erin Travis, della 4^ C”
“esatto” rispose soddisfatta la Robinson.
La collega le restituì il foglio senza capire cosa la donna volesse sentirsi dire.
“perché me l’hai mostrato?”
Miss Robinson si alzò e, guardando teneramente il ritratto replicò:
“l’ha fatto Castiel”
“in effetti non è proprio il massimo come disegno” rise la Joplin che era a conoscenza delle inesistenti capacità artistiche del ragazzo.
“sì ma non è la tecnica che mi ha colpito” chiarì l’altra “ma come ha realizzato certi dettagli” le spiegò la donna.
Miss Joplin riprese tra le mani il disegno, incuriosita da quel commento e ispezionò più approfonditamente l’immagine, cercando ciò che le era sfuggito dalla prima occhiata superficiale. Dopo qualche secondo però ammise rassegnata:
“mi dispiace Jane ma non ci arrivo. Cos’ha di particolare questo ritratto?”
Miss Robinson  sospirò e finì di ammucchiare gli altri disegni rimasti sul tavolo:
“osservando come sono stati disegnati i capelli, le ciglia, la bocca… sembra quasi che chi ha realizzato questo disegno sia innamorato del soggetto che ha ritratto”
 
Dopo che si era allontanata dalle due insegnanti, Erin trovò un corridoio secondario, seminascosto da un pesante tendaggio. Incuriosita, lo percorse ritrovandosi in una stanza più piccola rispetto alle altre del museo. Le venne il dubbio di essere finita in un locale in cui l’accesso al pubblico era vietato ma da una rapida occhiata in giro, niente le lasciò intendere di aver infranto qualche regolamento. Rassicurata, cominciò a scrutare i quadri, con lo stesso disinteresse e rapidità che aveva adottato fino a quel momento. Lesse qualche nome qua e là inciso sulle targhette metalliche ma nessuno di questi le risuonò familiare e ciò contribuì ad incrementare la sua apatia.
Stava ormai per fare dietro front e ricongiungersi al resto della comitiva quando un insieme confuso di colori la attirò. Focalizzò lo sguardo contro un quadro che non aveva visto e inclinò la testa, come se quella diversa angolazione le avrebbe aiutato a capire.
Il dipinto era di dimensioni medie e con una cornice modesta. In esso era rappresentata una donna dal viso afflitto e rigato dalle lacrime. I capelli si impastavano con esse e con la terra che si sollevava del suolo secco e polveroso. La posizione era incurvata in avanti, la testa affossata nelle spalle, quasi alla ricerca di protezione e conforto.
Nel complesso l’espressività e la drammaticità di quel volto aveva una carica emotiva tale da commuoverla.
 “ti piace?”
Erin sobbalzò: in primo luogo poiché era così assorta da non accorgersi della figura che era avanzata e si era messa alle sue spalle e in secondo luogo perché quella figura apparteneva a Nathaniel.
Gli auricolari dell’audioguida erano abbandonati sul collo del ragazzo e da essi non proveniva alcuna voce. In un primo momento la ragazza pensò che si trattasse di un guasto ma conoscendo Nathaniel avrebbe richiesto un altro lettore mp3.
Intanto il ragazzo si avvicinò alla targa metallica e memorizzò il nome dell’autore.
“è… molto bello” borbottò confusa. Con quella semplice domanda, il ragazzo l’aveva spiazzata. Le aveva parlato come se non avesse avuto motivo per non farlo.
“già”
Rimasero in silenzio ma mentre Erin era alla disperata ricerca di qualcosa da dire, Nathaniel osservava interessato il dipinto, studiandone ogni dettaglio.
Non sembrava badare alla presenza della ragazza che dal canto suo non sapeva come comportarsi.
“questa donna ha un che di dignitoso non ti pare?” commentò dopo un po’ il ragazzo senza staccare gli occhi dal quadro.
“ma se sta piangendo…” obiettò Erin con poca convinzione. Non si intendeva di arte e muoversi in un terreno che non conosceva la faceva sentire insicura anche delle proprie impressioni.
“sì, ma non lo fa davanti all’altra persona. Gli dà le spalle vedi?” le illustrò Nathaniel, indicando una sagoma indefinita alle spalle del soggetto principale.
Erin spostò lo sguardo nel punto descritto e realizzò la presenza di quel dettaglio che non aveva avuto il tempo di cogliere: a diversi metri di distanza dalla donna, quella che sembrava una figura umana, si stagliava contro un cielo dai colori dell’alba.
“non capisco se si sta allontanando da quella persona o se le si sta avvicinando” commentò Erin tra sé e sé.
Il biondo annuì e sorrise, decidendosi finalmente a guardare la sua interlocutrice. Quanto le erano mancati quegli occhi dolci e amorevoli. Si sentì sciogliere dalla gioia e un inaspettato amore per l’arte la pervase. Avrebbe passato ore a parlare con lui di quel dipinto.
 “fa parte del fascino del quadro. Ci puoi costruire una storia” riflettè Nathaniel “e poi guarda che dettagli nei capelli. È incredibile per un dipinto del 1300”
Mentre parlava, Erin spostò per un attimo lo sguardo sull’audioguida che il ragazzo continuava ad ignorare e quest’ultimo si sentì in dovere di giustificarsi:
“detesto questi cosi. Quando guardo un quadro ho bisogno di silenzio e pace attorno a me. Passerei ore in un museo come questo. Alcuni dipinti hanno qualcosa da raccontare se si ha la pazienza per osservarli. I dettagli tecnici o storici li trovo sui libri o su internet”
Ecco che ci ricascava: Nathaniel non poteva fare a meno di essere così maturo e affascinante. Non era un ragazzo come gli altri della sua età. Per esprimersi non usava solo la testa: ci metteva anche il cuore.
Erin sorrise debolmente. L’atmosfera tra di loro sembrava così assurdamente irreale: non capiva perché Nathaniel avesse abbandonato improvvisamente ogni ostilità e stesse fingendo che tra di loro non ci fosse stata alcuna discussione.
Vedendola così silenziosa il ragazzo però sembrò ricordare gli eventi recenti e le conseguenze che avevano lasciato dietro di sé. Aveva abbassato la guardia senza rendersene conto. Gli era bastato entrare e vederla là da sola, talmente affascinata da quel quadro da non accorgersi del suo arrivo. Aveva aspettato un minuto prima di distrarla e in tutto quel tempo Erin era rimasta immobile davanti a quella donna fatta di tela.
Gli aveva fatto tenerezza e l’istinto di tornare a parlarle serenamente aveva preso il sopravvento.
“ah siete qui?”
I due ragazzi si voltarono di scatto verso la porta della stanza da cui faceva capolino Miss Robinson:  
“gli altri sono più avanti, cercate di non restare troppo indietro” si raccomandò.
“arriviamo” soggiunse Nathaniel. Camminò a grandi passi, allontanandosi alla svelta da Erin, senza rivolgerle nemmeno un’ultima occhiata.
La ragazza invece, rimasta sola nella stanza, si voltò per l’ultima volta verso il quadro e pensò:
“non lo vedì Nathaniel? Siamo proprio come i due personaggi di questo quadro: non riesco a capire se ti stai avvicinando o se ti stai allontanando da me”
 
Dopo la visita al museo, i professori concessero due ore libere agli studenti, che Erin, Iris e Rosalya pensarono di trascorrere al parco lì vicino. Il posto era spazioso e nonostante l’inverno imminente, la vegetazione era ancora abbastanza folta e sugli alberi qualche foglia dorata resisteva tenacemente.  
Le tre amiche non furono le uniche a scegliere quel luogo per passare quel paio d’ore: diversi gruppetti si erano seduti su ciò che rimaneva del manto erboso e si intrattenevano chiacchierando e mandando messaggi.
“e così ti ha detto solo questo?” chiese Iris delusa, dopo che Erin le aveva riferito della sua fugace conversazione con il biondo. Erin strappò un ciuffo d’erba ormai ingiallito, mentre Rosalya era intenta a sistemare la treccia della rossa.
“non è male come inizio. Vuol dire che il nostro Nath sta abbassando le difese” fu la semplice riflessione dell’aspirante stilista, seguita da un occhiolino.
“il fatto è che non riesco più a parlare spontaneamente con lui. Non so come dirlo ma… è come se si fosse rotto qualcosa” spiegò Erin abbattuta “mentre eravamo da soli in quella stanza mi sono sentita… in imbarazzo” ammise, passando a torturare un eroico fiore che era sbocciato in una distesa di erba.
Iris sorrise e replicò dolcemente:
“davvero non l’hai ancora capito Erin?”
L’amica sollevò lo sguardo confusa:
“tu sei innamorata di Nathaniel” completò la rossa, posando la propria mano su quella dell’amica per interrompere il martirio del fiore innocente.
Erin aprì la bocca ma le parole le morirono all’istante.
 
Innamorata di Nathaniel.
 
Non che non si fosse mai interrogata prima suoi sentimenti per il biondo. Ne aveva sempre apprezzato le numerose qualità e perdonato i pochi difetti, ma non riusciva a capire se nell’insieme tutto ciò avesse scatenato qualcosa nel suo cuore.
A Castiel aveva detto di essere confusa a riguardo, e fu quello il termine che riportò anche alle sue amiche.
“non lo so Iris… sono confusa, specie dopo questa stupida lite” farfugliò Erin, abbracciando le ginocchia al petto e facendosi piccola piccola “oggi, mentre eravamo lì, da soli in quella stanza, ho sentito che il tempo si fermava. Lui mi fa sentire così… in pace con me stessa”
Rosalya si sistemò un ciuffo ribelle e guardando teneramente quell’amica insicura osservò:
“questo vorrà pur dire qualcosa, non ti pare?”
La ragazza arrossì mentre un gruppo di ragazzi si stava avvicinando al loro trio. Davanti a tutti figuravano Trevor e Liam, uno studente della 5^C.
Erin intuì le intenzioni del compagno di squadra e di classe e accantonò il pensiero di Nathaniel per prepararsi a mantenere fede alla promessa fatta in palestra il giorno prima.
Dietro ai due ragazzi, comparivano altri due suoi compagni di classe: Scott e un certo Gas, la cui origine del soprannome era ignota a tutti, compreso al diretto interessato.
“in che piano sono le vostre stanze?” chiese Erin, facendosi ombra in viso con la mano.
“al quarto, come voi. Ci hanno messo in una stanza da quattro anche se la Joplin non era molto d’accordo” riconobbe Trevor.
“infatti come un mastino si è acquattata in quella accanto alla nostra” osservò Liam.
“con quei capelli ricorda più un cocker” obiettò Trevor ridendo e la sua battuta strappò un sorriso alle ragazze che non faticarono ad immaginare le preoccupazioni avanzate dalla loro insegnante a mettere nella stessa stanza due individui come Liam e Trevor, notoriamente scalmanati.
“cercate di non distruggere la stanza anche quest’anno” si raccomandò scherzosamente Iris.
“sai che non mi ricordo più come era successo?” rispose Gas, inarcando le sopracciglia e fissando gli amici.
“Liam si era arrampicato sull’armadio per catturare lo scoiattolo che era entrato ed era saltato sul letto, sfondando le assi” riepilogò sbrigativamente Trevor che non staccava gli occhi di dosso ad Erin, aspettandosi che gli presentasse l’algida ragazza seduta accanto a lei che non aveva manifestato il minimo interesse per quella conversazione.
Cogliendo la trepidazione del ragazzo, Erin aspettò che calasse il silenzio per passare alle presentazioni:
“Rosalya questi sono Trevor, Gas, Scott e Liam”.
Rosalya fece un cenno silenzioso con la mano mentre i ragazzi si accomodavano sul prato. 
Trevor rimase ben presto deluso dai modi freddi e distaccati dell’oggetto del suo desiderio, delusione che sfociò nel più completo “arido vero” quando scoprì che la sua relazione con Leigh andava alla grande.
Il gruppo cominciò a chiacchierare del più e del meno, con i ragazzi che cominciarono ad insistere affinchè le tre amiche andassero nella loro stanza quella notte.
“e se ci scoprono?” chiese Iris con apprensione.
“non preoccupatevi. Pensiamo a tutto noi” la rassicurò Trevor, battendosi una mano sul petto. In quel momento vide passare da lontano Kim. La ragazza era da sola e teneva in mano una borsetta di plastica con il marchio di una nota ditta di supermercati.
“ehi Phoenix!” urlò, chiamando l’amica per cognome “dove sei andata?”
Kim si avvicinò, percorrendo con le lunghe gambe la distanza che la separava dal gruppo.
Si sedette accanto a Trevor, lasciando che la borsetta si accasciasse al suolo e finalmente rispose:
“mi sono dimenticata della roba a casa… sono andata a comprarla qua”
“tipo?” indagò Trevor allungando il collo verso la borsetta misteriosa.
Kim la accartocciò all’estremità, difendendola dall’invadente curiosità dell’amico e rispose secca:
“fazzoletti”
Trevor stava per protestare, quando la mora si rivolse alla sua compagna di squadra:
“allora Erin… come va con la caviglia oggi? Al club non hai potuto sforzarla molto”
Quell’interesse sincero sorprese la ragazza che esclamò:
“ormai non sento più nulla… è completamente guarita”
“ah giusto, avete il torneo di basket” ricordò Scott “quando inizierete?”
“beh intanto dobbiamo aspettare di avere la conferma di essere stati presi” chiarì una voce alle loro spalle. I presenti si voltarono e si trovarono di fronte Dajan.
Il ragazzo trovò posto tra Liam, suo compagno di classe e Kim. Una volta incrociate le gambe, si accese una sigaretta e venne imitato da Liam e Trevor.
“non è sicuro che parteciperete al torneo?” chiese Gas sconcertato.
“la preside dice che le vittorie che abbiamo ottenuto gli anni precedenti nelle competizioni nazionali ci rendono più che qualificati. Diciamo che la probabilità di passare la selezione è talmente alta che sarebbe stato stupido non cominciare subito l’allenamento per il torneo” spiegò Dajan.
“potremo venire ad assistere alle partite?” chiese Iris eccitata.
“immagino di sì. Il problema sarà che, essendo una competizione a livello nazionale, potremo finire in ogni angolo del paese. Almeno credo” ragionò Dajan. Quella notizia da un lato deluse i futuri spettatori, mentre dall’altro gasò i giocatori che cominciarono ad entusiasmarsi all’idea di poter girare il paese.
“beati voi. Salterete qualche lezione per questa storia del torneo”  sospirò per l’appunto Gas.
 
A parecchi metri di distanza dal gruppo, il solitario duo composto da Ambra e Charlotte, parlottava seduto elegantemente su una panchina:
“proprio non ci arrivo” stava dicendo Charlotte “con due come noi a disposizione, ti pare che quegli idioti debbano riunirsi tutti là da quella Travis? Cos’avrà di speciale poi?”
Anche Ambra era di cattivo umore per le mancate attenzioni maschili.
“se fosse venuto Castiel probabilmente in questo momento sarebbe seduto là, accanto a quell’acciuga piatta e sfigata” malignò Charlotte, stuzzicando l’amica.
Ambra però sembrò non prestare attenzione a quel commento. Tra le nove persone sedute davanti a lei, il suo sguardo si concentrava su un unico soggetto.
Aveva un sorriso spontaneo, degli occhi che brillavano ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola e quando camminava, anche se la bionda non l’avrebbe mai ammesso, aveva un’eleganza unica: Erin riusciva a calamitare attorno a sé le persone, che diventavano i pianeti di un sistema di cui lei era il sole.
Non doveva sforzarsi per attirare l’attenzione, né mettere in mostra il suo fisico, per altro meno attraente di quello prosperoso della bionda, eppure da quando quella ragazza aveva messo piede nel suo liceo, una parte dell’universo studentesco sembrava essere uscito dal caos, per realizzarsi in un modello ordinato. La timida e anonima Iris era diventata molto più aperta e spigliata, Castiel aveva cominciato a frequentare regolarmente le lezioni mentre Rosalya l’asociale era riuscita a trovare nuovi amici. Buona parte dell’ex gruppo di suo fratello si era ricomposto e tutto da quando era arrivata quella ragazza.
Nathaniel poi tornava a casa di ottimo umore come non lo vedeva da mesi. Solo negli ultimi tre giorni qualcosa non andava tra lui ed Erin ma l’assenza di un vero rapporto fraterno le impediva di conoscere i dettagli di quella faccenda. Quando la ragazza era andata da lei, nell’affannoso tentativo di rintracciare suo fratello, Ambra non solo non aveva aperto bocca ma aveva gioito interiormente: era gratificata dal fatto che, per una volta, anche Erin Travis avesse dei problemi.
“quanto mi dà sui nervi quella sfigata” petulava Charlotte nel tentativo di provocare una reazione in Ambra.
La mora era una persona subdola, più di quanto non lo fosse la sua bionda amica. Cattiva e codarda, Charlotte gioiva della sofferenza altrui ma temeva troppo le conseguenze delle sue azioni per sporcarsi le mani. Aveva imparato quindi a manovrare Ambra, per farle commettere dispetti e dire cattiverie che addossavano principalmente sulla bionda l’etichetta della “stronza”.
Ambra si alzò silenziosamente e Charlotte esultò tra sé e sé per l’ennesimo successo dei suoi tentativi. Mentre la seguiva, ripensò con sadico piacere alla punizione che aveva scontato Ambra appena una settimana prima: l’umiliazione di vederla pulire la scuola l’aveva ripagata di tutte le volte che si era vista mettere in ombra da quella scomoda amica.  
Il suo rapporto con Ambra, per quanto assurdamente ipocrita, era dettato dalla necessità: erano entrambe sole. Con il loro carattere (e cattiveria) era impossibile trovare qualcuno che fosse così sciocco da ricercare la loro amicizia, tranne l’ambiziosa Lin che ammirava lo stile sfarzoso delle due ragazze.
La cinesina però proveniva da una famiglia di origini umili se comparate a quelle di Ambra e Charlotte. Infatti il padre di Lin gestiva un piccolo ristorante orientale i cui guadagni, seppur sufficienti a mantenere la famiglia, non erano compatibili con le spese folli che la figlia avrebbe voluto concedersi (e che talvolta si concedeva) per stare al passo delle due amiche. 
Ambra continuava a camminare spedita verso il gruppo. Non sapeva di preciso cosa avrebbe fatto una volta lì.
Nei momenti come quelli voleva solo prendersela con qualcuno per non prendersela con sé stessa.
 
Davanti a sé, Erin vide Scott e Gas alzare il capo così si voltò per vedere l’oggetto del loro interesse.
Constatò con orrore la presenza di Ambra seguita dalla sua sanguisuga di nome Charlotte.
“avete da accendere?” chiese la bionda innocentemente, allungando una sigaretta.
Dajan si tolse la propria dalle labbra e le avvicinò l’estremità rovente.
Il cilindro di tabacco si infiammò e Ambra potè godersi l’inebriante fumo che perfuse i suoi polmoni. Nessuno aveva salutato le due ragazze e questo bastava a confermare che il loro arrivo non era stato gradito.
“ho sentito che ti eri slogata la caviglia” dichiarò Ambra in direzione di Erin.
La ragazza sentì su di sé gli occhi di Iris: la rossa voleva evitare che l’impulso dell’amica la cacciasse nuovamente nei guai.
“sono già guarita” replicò secca Erin.
Nessuno si stupì di quel tono freddo da parte della mora poiché dopo lo scherzo delle extencion, tutta la scuola era al corrente del rapporto burrascoso tra le due.
Più precisamente, proprio grazie a quell’episodio, Erin aveva conquistato la simpatia di chi non sopportava Ambra; in altre parole Erin era diventata l’idolo della scuola.
“sarei curiosa di sapere come hai fatto a farti male. Anche se non faccio fatica ad immaginarlo. Dopo aver visto la partita contro Castiel, sembra che tu abbia la prontezza di un bradipo” malignò la bionda mentre Charlotte ghignava trionfante.
“è molto migliorata dopo quella volta” la contraddisse spazientita Kim, che in quanto ex-membro del club di atletica, era stata presente durante quella sfida.
Ambra la guardò sprezzante, non tollerando quell’intromissione.
Erin invece aveva sorriso beffarda.
Nei momenti come quello, quando Ambra cercava di provocarla ed umiliarla, sentiva il corpo scosso da brividi di eccitazione. Non riusciva a non reagire a quegli attacchi e la sua impulsività la rendeva cieca alle conseguenze.
Con un ghigno sornione in viso che ricordava molto una tipica espressione di Castiel, Erin commentò:
“visto che parli di prontezza, sappi che ho fatto ginnastica artistica da piccola”
Tra i presenti arrivò qualche apprezzamento che Ambra non gradì.
Determinata a voler umiliare la sua nemica, la bionda rilanciò:
“scommetto che ora non sapresti fare neanche una ruota ora”
I ragazzi guardarono Erin eccitati da quello scontro verbale mentre le ragazze sperarono che non fosse causa di ulteriori guai per l’amica.
Erin si morse il labbro inferiore, evidentemente divertita dalla situazione. Alzandosi in piedi, fronteggiò Ambra e la sfidò:
“scommetti?” e sotto gli occhi avidi di colpi di scena dei presenti, si spostò da loro di qualche metro.
L’ex ginnasta era talmente concentrata che non si accorse dell’interesse che aveva destato tra le altre persone presenti nel parco quel giorno. Tra di queste c’erano alcuni degli studenti in gita e primo tra tutti Nathaniel, che non le aveva staccato gli occhi di dosso.
Nel frattempo Ambra aveva analizzato lo spazio circostante e qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Grazie alla sua mente calcolatrice e brillante, macchinò un’idea che concretizzò con la frase:
“forza mettiti qui” stabilì, indicandole un punto a poca distanza da lei vediamo cosa sai fare”
Erin acconsentì, posizionandosi accanto ad Ambra.
Altro che ruota.
L’avrebbe lasciata a bocca aperta quella vipera. Sperò che i muscoli non la tradissero nonostante fossero un po’ fuori esercizio.
Il livello di adrenalina saliva sempre più, unito alla consapevolezza di avere gli occhi dei suoi amici puntati su di lei.
Indietreggiò di dieci passi, fece una rincorsa ed eseguì una velocissima rondata seguita da uno spettacolare flic all’indietro.
Aveva sentito esplodere applausi e urla di apprezzamento da ogni parte e si era sentita ancora più carica. Tuttavia quando i suoi piedi cercarono il suolo erboso non lo trovarono: come aveva astutamente calcolato Ambra, l’orgogliosa Erin non si sarebbe limitata ad una semplice ruota e volendo strafare, avrebbe finito per percorrere una distanza tale da farla finire nel piccolo stagno del prato.
Erin perse l’equilibrio e mentre cadeva, intravide le facce dei ragazzi, alcune stupefatte, altre preoccupate per la sua incolumità:
“Attenta!” urlarono in coro Iris e Rosalya, manifestando tutta la loro ansia.
Erin si portò le mani dietro la schiena nel tentativo di attutire un ormai inevitabile urto. L’acqua melmosa le bagnò i pantaloni e per sua fortuna il punto in cui era caduta era profondo appena una decina di centimetri. Una volta che fu chiaro che non si era fatta male, sentì crescere delle umilianti risate ma più di tutte le diede fastidio fu quella di Ambra.
“ahahah Travis, quanto sei impedita! Una ginnasta dovrebbe sapere calcolare lo spazio che ha a disposizione” la derise la bionda a voce alta, assicurandosi che tutti la sentissero.
Troppo ferita nell’orgoglio per replicare, Erin si limitò a lanciarle lo sguardo più feroce che le fosse possibile. Quanto ad intelligenza non c’era dubbio: Ambra la batteva. Lei era stata talmente presa da quella sfida da non considerare l’ostacolo che quella vipera le aveva messo davanti. Un viscido rospo saltava a poca distanza dalla ragazza che fortunatamente non ne era terrorizzata.
“dovresti approfittare di questo stagno per trovare il principe azzurro. Quel rospo laggiù mi sembra un buon partito” la canzonò la bionda, guardandola dal basso verso l’alto.
Iris accorse ad aiutare Erin, mentre Rosalya era scattata in piedi e si era diretta verso la bionda.
Da quando erano arrivati i ragazzi, non aveva aperto bocca ma di fronte a quella scena non riusciva a trattenersi:
“senti un po’ tu bionda. Vedi di darci un taglio” la minacciò.
Ambra si voltò verso la ragazza la cui bellezza era irraggiungibile persino per una come lei.
“sennò che mi fai?” la sfidò, avvicinando sfacciatamente il viso a quello di Rosalya. Quest’ultima si schioccò le nocche delle mani, in un gesto tipicamente belligerante:
“vuoi vedere?” la sfidò beffarda.
“oh, rissa tra ragazze!” esclamò Trevor eccitato.
Iris ed Erin guardarono Rosalya preoccupate. Aveva uno sguardo determinato ed eccitato. Se non l’avessero fermata avrebbe davvero alzato le mani sulla bionda.
 
“Rose non fare la stupida”
 
Nathaniel si era avvicinato alle due contendenti e aveva appoggiato la mano sulla spalla dell’amica. Quel contatto agì da calmante su quest’ultima che però non potè trattenersi dal continuare a fulminare con lo sguardo Ambra. Erin ed Iris aveva già notato come il ragazzo esercitasse una certa influenza sulla loro amica in occasione di un’uscita serale di qualche settimana prima.
Rosalya era una persona tosta, se aveva un obiettivo lo perseguiva con tenacia e nessuno le poteva far cambiare idea. Nessuno tranne il biondo.
Ambra frattanto si allontanava infastidita, indirizzando un rimprovero al fratello impiccione:
tu farti i cazzi tuoi mai, eh Nath?”
Avrebbe ricevuto volentieri un pugno da quella tipa se questo avrebbe comportato una nota di demerito per la nuova amichetta di Erin.
 Nathaniel aveva ancora la mano appoggiata sulla spalla di Rosalya e la scostò via, senza però staccarle gli occhi di dosso:
“ti saresti messa nei guai” la ammonì per giustificare la propria intromissione.
“dì piuttosto che avevi paura che rovinassi il visino della tua sorellina” sbuffò la ragazza, incrociando le braccia al petto.
“pensa ad aiutare Erin ad asciugarsi, piuttosto che fare a botte” le consigliò Nathaniel e dopo aver lanciato un’occhiata fugace alla ginnasta finita nello stagno, si allontanò.
Erin aveva osservato quella scena senza battere ciglio.
Eccolo là, il suo principe azzurro. Accorso al momento del bisogno e smaterializzatosi improvvisamente.
Nonostante la figuraccia dello stagno, Erin si riunì al gruppo che non tardò a farle dei complimenti:
“Porca trota Erin, non sapevo fossi così brava! Ma quanti anni di ginnastica hai fatto?” le chiese Trevor ammirato.
“un po’” rispose vaga la ragazza mentre cercava di allontanare le gocce di acqua dalle gambe. Nonostante la temperatura quasi invernale e i pantanloni fradici, non sentiva freddo: ribolliva letteralmente dalla rabbia.
Chiese ad Iris qualcosa per asciugarsi ma Trevor fu più svelto e sequestrò la borsetta di Kim con i fazzoletti che la ragazza aveva detto di aver acquistato.
Frugò il contenuto e appena sentì il contatto con una confezione di plastica la tirò fuori porgendola ad Erin:
“toh, prendi qua”.
Se il ragazzo fosse stato dotato di un maggior spirito di osservazione, avrebbe intuito che l’amica gli aveva mentito quando aveva dichiarato di aver acquistato dei comuni fazzoletti.
Le ragazze riconobbero immediatamente il marchio di assorbenti intimi mentre per i ragazzi ci volle qualche secondo in più.
Trevor rimase con il braccio a mezz’aria, dal quale Kim, con la velocità di un predatore, sfilò via il suo personale acquisto.
“idiota” sibilò diventando paonazza. Ripose la scatola nella borsa, sentendo su di sé gli occhi dei presenti.
Si trattava di comuni assorbenti ma per una persona estremamente riservata e pudica come lei erano una fonte di imbarazzo. Casualmente sollevò lo sguardo e incrociò quello di Dajan accanto a lei. Il ragazzo arrossì, un po’ a disagio mentre Kim sprofondava maggiormente nella vergogna.
In momenti come quello cominciava ad insultare mentalmente il pagliaccio che considerava suo amico: Trevor.
“ma mi avevi detto di aver preso i fazzoletti” si giustificò quest’ultimo ma lo sguardo minaccioso della mora zittì ogni sua protesta.
Erin nel frattempo aveva rimediato un fazzoletto offerto da Iris e cercava di darsi un’asciugata.
“è meglio se passo in hotel. Non posso venire in giro in queste condizioni. Con questo freddo poi non si asciugherà mai” considerò.
Si staccò quindi dal gruppo e raggiunse Miss Joplin che, fortunatamente era rimasta anche lei in quel parco. La professoressa la accompagnò all’alloggio dove Erin si cambiò in fretta e furia per poi tornare ad unirsi al resto della classe.
Durante il tragitto, l’insegnante le ricordò la tappa successiva della giornata:
“andremo all’orto botanico. È uno dei più grandi della zona orientale”
Erin alzò gli occhi al cielo. Non si era resa conto di quanto le uscite di quella gita fossero compatibili con le cose che meno la interessavano: l’arte e le piante. Visto che buona parte di quelle proposte erano scaturite dal segretario delegato, Erin si chiese se Nathaniel si fosse impegnato per farle detestare quel primo giorno.
 
L’entrata dell’orto era delimitata da un arco in stile romanico e la professoressa Joplin spiegò che era stato progettato sulla base di un orto presente in una famosa città del Nord Italia.
Iris era su di giri. Trascinò le due amiche in ogni angolo del giardino, riuscendo addirittura ad affascinare le ragazze con le sue spiegazioni dettagliate.
“sai un sacco di roba sulle piante” commentò Trevor ammirato, sentendo la voce di Iris. La ragazza annuì orgogliosa e toccò ad Erin ricordargli che stava parlando con la presidentessa del club di giardinaggio.
“e questo che cos’è?” chiese Rosalya avvicinandosi ad un fiore bellissimo, dai petali bianchi.
Iris stava per risponderle ma Trevor la anticipò:
“è una passiflora detta comunemente fiore del frutto della passione. È stato introdotto dall’America Latina. Ha molte applicazioni in campo terapeutico”
Le ragazze guardarono il cestista ammirate e stupite, ma ci pensò Scott a smontare l’amico:
“l’ha appena letto sul dépliant”
“ma sta zitto” lo rimbeccò prontamente Trevor che vedeva così sfumare l’occasione di guadagnare qualche punto agli occhi delle ragazze.
Iris notò la comparsa di un sorrisetto furbo sul volto di Rosalya che infatti si rivolse a lei:
“secondo te se me lo prendo, si arrabbia qualcuno?”
Erin rise per quell’impudenza mentre Iris sbiancò per poi montare su tutte le furie. Mentre la presidentessa del club di giardinaggio rimproverava Rosalya, ad Erin venne spontaneo un parallelismo: per certi versi quella ragazza era molto simile a Castiel; entrambi erano irascibili e tremendamente orgogliosi ma, sotto quella scorza, nascondevano atteggiamenti dolci e protettivi. Probabilmente proprio perché erano così simili talvolta non riuscivano ad andare d’accordo.
Non che Erin credesse a fenomeni paranormali quali la telepatia, ma quando sentì il proprio cellulare vibrare ebbe un sussulto esagerato. Pensò immediatamente a lui e quando realizzò che la sua sensazione era corretta il cuore accelerò i battiti e per un attimo si sentì disorientata.
 
CASTIEL: allora Rapunzel la caviglia cm va?
 
La ragazza non potè fare a meno di sorridere per quella premura, che giungeva con tempismo a conferma della conclusione a cui era appena giunta. Magari Castiel poteva non avere i modi educati e signorili di Nathaniel, ma a modo suo, qualche volta, riusciva ad essere gentile e premuroso.
 
ERIN: una meraviglia. Pensa che poco fa ho provato a fare un’acrobazia ma sono finita in uno stagno -.-‘
 
Aspettò la risposta, sapendo di aver fornito all’amico il pretesto per burlarsi di lei. Invece il messaggio che le arrivò la spiazzò:
 
CASTIEL: ti sei fatta male?
 
Quella domanda l’aveva disorientata. Era convinta che a quel punto l’avrebbe punzecchiata con una qualche battutina acida, giusto per farla ricredere sulla premura che si celava dietro al primo messaggio. Invece era sinceramente preoccupato per lei e ciò la lusingava e al contempo la confondeva.  
 
ERIN: sono ancora tutta intera. Adesso siamo all’orto botanico :S
 
CASTIEL: ti starai divertendo un sacco
 
Erin sorrise divertita, riconoscendo in quella frase il Castiel di tutti i giorni e rispose:
 
ERIN: risparmiami il sarcasmo e togliti quel sorrisetto beffardo!
 
CASTIEL: e come sai che ce l’ho?
 
ERIN: sei prevedibile Ariel…. Ormai conosco il  mio pollo;)
 
CASTIEL: chicchirichì
 
Erin scoppiò a ridere, attirando l’attenzione delle due amiche bisticcianti. Iris era convinta di essere riuscita a far desistere l’altra dal suo vandalico intento ma non appena venne distratta dalla risata di Erin, Rosalya strappò furtivamente il fiore per metterselo in borsa.
“che ti prende?” chiese la rossa ad Erin.
“niente, niente. Castiel. Il solito scemo” borbottò Erin divertita, scuotendo il capo.
 
Iris riuscì a trasmettere la sua passione per i fiori anche alle altre due, raccontandolo loro aneddoti e curiosità. Anche Miss Joplin e il professore della 5^ C la sentirono e si complimentarono per la sua preparazione.
Prima di concludere la visita, Erin si staccò dal gruppo per cercare Nathaniel e ringraziarlo del suo intervento nel sedare la lite tra Rosalya e Ambra.
Cercando il biondo però, incappò nella sorella che era intenta a discutere con Charlotte:
“quanto vorrei fumare in questo momento!”
“a chi lo dici” sospirò Ambra, accarezzando una foglia della pianta di cacao.
Erin sollevò lo sguardo, stizzita dalle abitudini insalubri delle due ragazze: erano circondate dal verde e la loro preoccupazione era inebriarsi di nicotina.
“sei stata tu Charlotte a incastrare la porta finestra della nostra stanza? Ho provato a chiuderla, ma era bloccata”
“no, era già così quando siamo arrivate... beh ma lo spazio per uscire sul terrazzo ce l’abbiamo. Se fossimo due balene come Grace allora sì sarebbe un problema” spettegolò la mora, imitando con le mani la forma di un sedere ingombrante. Ambra scoppiò a ridere e commentò:
“beh, possiamo anche lasciarla così, tanto siamo al quarto piano, non corriamo rischi”
Erin si allontanò, tornando al suo proposito: cercare Nathaniel.
Il giardino botanico però era talmente grande che, combinato al suo pessimo senso dell’orientamento, la ragazza si trovò al punto di partenza, con Iris e Rosalya che le chiesero dove fosse stata.
 
Sulla strada del ritorno per l’hotel, gli studenti insistettero per fermarsi nuovamente al parco in cui si erano stati dopo la visita al museo poiché nelle vicinanze c’erano negozi dove acquistare souvenir.
Mentre Iris era intenta a scegliere un regalo per il fratellino, Erin aveva la testa da un’altra parte.
Il suo cervello macchinava idee e pensieri ad un ritmo serrato.
L’occhio le cadde su un assortimento di statuine a forma di animali e tra di essi individuò l’idea che stava cercando disperatamente.
Chiamò a sé Rosalya e le due cominciarono a confabulare, approfittando della distrazione di Iris.
“però Rose, mi raccomando. Non dire nulla ad Iris. So già che non sarà d’accordo” si raccomandò Erin.
Rosalya si portò la mano in fronte assunto la posizione di un ufficiale militare rispose:
“roger!”
“allora io vado. Tu coprimi nel caso” disse Erin allontanandosi mentre l’amica la guardava trattenendo a stento una risata allegra.
Non si era sbagliata sul conto di quella ragazza. Erin era davvero una tipa tosta.
 
Una volta tornati in hotel, gli studenti si recarono nelle loro stanze per prepararsi per la cena.
Rosalya ed Erin insistettero affinchè fosse Iris la prima a farsi la doccia e la rossa accettò volentieri. Una volta uscita dal bagno, toccò a Rosalya così, rimaste sole, lei ed Erin poterono chiacchierare un po’:
“sai non pensavo che Rosalya fosse così simpatica. Una volta che entri in confidenza con lei è una persona divertente” ammise Iris asciugandosi i capelli.
In quel momento sentì una sorta di muggito e si voltò disorientata.
“che è stato?” chiese Iris allarmata.
Erin la guardò interrogativa e Iris insistette:
“Non l’hai sentito? Era un rumore strano…”
“non mi pare. Forse saranno stati dei rumori della stanza accanto” ipotizzò Erin guardando la parete.
“magari me lo sono immaginato” liquidò la questione Iris e tornarono al loro argomento di conversazione.
“Rosalya mi piace molto come persona. Infatti credo abbia certi lati del carattere che la accomunano a Castiel” ammise Erin.
“hai ragione. Proprio per questo bisticciano di continuo. Sono troppo simili” concluse Iris.
Dopo qualche minuto anche Rosalya uscì dal bagno. L’asciugamano in testa era avvolto come un turbante e un grande asciugamano le fasciava la vita, lasciandole scoperte le gambe affusolate.
In quel momento suonarono alla porta ma la ragazza anziché nascondersi pudicamente, andò ad aprire sfrontata.
Si trovò di fronte Trevor che alla vista di quel bendidio divenne paonazzo ed il suo livello di testosterone si innalzò immediatamente.
“ti serve qualcosa?” gli chiese Rosalya tranquillamente.
Erin ed Iris erano rimaste sconvolte e sconcertate dalla tranquillità e dalla compostezza con cui la ragazza si presentava di fronte al loro compagno di stanza:
“è-è per stasera” balbettò Trevor “per farvi venire da noi dico” farfugliò guardando l’incavo del seno di Rosalya che per l’appunto, ebbe l’impressione che il ragazzo stesse parlando con le sue tette:
“la mia faccia è qui” gli ricordò, indicandosela.
Le due amiche sorrisero divertite, rassegnandosi a quei modi così estremi della loro compagna di stanza.
Dispiaciuto di dover sollevare lo sguardo, Trevor rimase inchiodato da quegli occhi felini. Troppo in difficoltà ed in imbarazzo, concluse:
“ci mettiamo d’accordo a cena” e si allontanò in fretta e furia, mentre l’oggetto del suo desiderio chiudeva placidamente la porta.
“non credo dovremo andare” cominciò a dire Iris che era la più responsabile del trio. Era preoccupata per le conseguenze di ciò che sarebbe successo se i professori le avessero beccate ad ubriacarsi nella stanza dei ragazzi. Inoltre sapeva che Erin non gradiva l’alcol, ragion per cui optò per una decisione da persona matura.
“sono d’accordo” concluse Rosalya, sorprendendo la rossa. Quella che doveva essere la più scalmanata del trio si era rivelata sua alleata. Erin non mosse alcuna obiezione quindi Rosalya sentenziò:
“stasera ce ne stiamo buone buone a spettegolare” e facendo l’occhiolino alle ragazze aggiunse “e poi c’è la via cavo”
 
Durante la cena, i professori comunicarono ai ragazzi che avrebbero fatto la ronda per i corridoi per evitare ogni problema. Miss Joplin, che era famosa per essere una donna di parola, promise che chiunque fosse stato beccato in una stanza che non fosse la propria, sarebbe finito dalla preside una volta rientrato al liceo. La donna, astutamente, si era fatta assegnare la stanza accanto a quelle degli elementi più indisciplinati e, passando accanto a Trevor e Liam sussurrò loro:
“se questa notte non chiuderò occhio, domani me la prenderò con voi”
Rosalya riuscì a convincere un dispiaciutissimo Trevor della sua assenza e di quella delle sue amiche, adducendo come scusa la preoccupazione per la minaccia della Joplin. Detto da una che in quella stessa giornata era stata sul punto di fare a botte, risultava poco credibile, ma Rosalya aveva la stessa capacità di persuasione di suo fratello Lysandre.
Per tutta la cena, Erin lanciò occhiate fugaci a Nathaniel, nella speranza che lui le ricambiasse, ma sembrava sempre troppo preso dalla conversazione con i suoi amici.
Delusa per quella infruttuosa giornata, al termine della cena salì in camera accompagnata dalle due ragazze e dopo aver fatto le due a forza di ridere e chiacchierare, si misero sotto le coperte.
 
Verso le tre meno un quarto, Erin si alzò e si avvicinò alla porta finestra che dava sul terrazzo. La loro stanza era completamente immersa nel buio e solo il chiarore della luna le permetteva di distinguere la sagoma dei mobili ed evitare di urtarli.
“Iris?” bisbigliò sottovoce “Iris?” ripetè ma la risposta le arrivò da Rosalya.
“si è addormentata”
“ottimo”
Anche Rosalya si alzò dal letto e le due si diressero in bagno.
Quando uscirono Erin teneva in mano qualcosa di scuro e flaccido.
Le due ragazze si avvicinarono quatte quatte alla porta finestra che Rosalya cercò di aprire facendo il minor rumore possibile.
Iris si mosse, facendole sobbalzare; rimasero immobili nell’oscurità e ben presto si tranquillizzarono, vedendo che l’amica era ancora abbandonata alle braccia di Morfeo.
Uscirono sul terrazzo e dopo essersi guardate, annuirono in sincrono.
Erin lanciò sul terrazzo accanto al loro l’oggetto che teneva tra le mani e se le strofinò poi l’una contro l’altra.
“che schifo, vado a lavarmi le mani”
“adesso non ci rimane che sperare che entri” commentò Rosalya e le due rientrarono nella stanza.
 
Ad Ambra bastavano dei rumori minimi per svegliarsi: aveva un sonno molto leggero. Lo diventava ancor di più quando poi dormiva fuori casa.
Avvertì un rumore indistinto, una sorta di lamento gutturale  e maledì dentro di sé Charlotte. Se la ragazza avesse cominciato a russare, lei avrebbe passato la notte in bianco.
Era ancora intontita dal sonno quando quel verso si ripetè, seguito da una sorta di tonfo.
“quegli idioti. Ubriacarsi così in gita” pensò tra sé, incolpando la compagnia di Trevor a cui, era sicura, si fosse aggiunta anche Erin e la sua gang.
Lei e Charlotte invece non erano state invitate da nessuno e avevano trascorso la serata da sole, chiuse in quella stanza di hotel, ben al di sotto degli standard a cui entrambe era abituate quando viaggiavano.
Stava per riprendere sonno quando qualcosa di pesante le saltò in grembo.
Terrorizzata dalla paura, accese tremante la luce, non capendo se fosse un sogno o la realtà.
Quando la debole luce artificiale illuminò la pelle viscida e melmosa della creatura davanti a lei, Ambra lanciò un urlo agghiacciante. Scaraventò le coperte all’aria, e con esse l’orribile rospo dagli occhi neri con cui si era trovata faccia a faccia.
Svegliata di soprassalto da quelle grida, anche Charlotte aveva acceso la propria luce e riuscì appena a intravedere la sagoma della terribile creatura che le centrava in pieno viso.
“AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!” strillò anch’essa saltando giù dal letto, agitando il corpo come in preda a spasmi incontrollabili nel tentativo di levarsi quel mostro. Involontariamente la mano le cadde sul tasto per le emergenze e un suono acuto si propagò nella stanza.
Tremando come foglie, le due ragazze si chiusero a chiave nel bagno della loro stanza, accucciandosi accanto alla vasca.
Inevitabilmente buona parte dell’hotel era stato svegliato da quelle urla.
Iris era balzata dal letto con la tachicardia mentre da ogni parte si sentivano serrature sbloccarsi e gli inquilini delle stanze uscire allarmati in pigiama.
La prima che accorse fu Miss Joplin, in vestaglia e con i capelli in disordine.
Bussò violentemente alla porta delle ragazze, gridò allarmata:
“RAGAZZE! CHE SUCCEDE?!?”
Anche il personale era accorso, in fretta e furia.
Iris aveva acceso la luce della stanza convinta di trovare le due amiche spaventate quanto lei, invece le due erano ancora sepolte dalle coperte.
Quando si avvicinò loro per svegliarle, sorpresa del fatto che fossero ancora addormentate, sentì un verso sommesso da parte di Erin.
Scostò la coperta e trovò l’amica raggomitolata su sé stessa nel tentativo di soffocare un sogghigno incontrollabile. Venuta allo scoperto, Erin abbandonò ogni resistenza e si lasciò andare ad una risata fragorosa. Seguì a ruota Rosalya che si sbellicò al punto da cadere dal letto.
“ma che avete?” chiese Iris basita.
Erin e la sua complice ci misero un po’ a riprendersi e a riuscire ad articolare una frase completa. Finalmente resero partecipe anche Iris del loro diabolico piano di vendetta, di come Erin fosse andata a recuperare il rospo dallo stagno, l’avesse nascosto prima in borsa, poi nel terrazzo dentro una scatola, successivamente in bagno ed infine l’avessero lanciato sul terrazzo di Ambra, sapendo che la loro porta finestra era aperta.
Ridendo a intermittenza, Erin riuscì a giustificarsi:
“ho pensato che non saresti stata d’accordo Iris. Quindi ho dovuto tenerti all’oscuro”
“infatti non sono d’accordo” confermò la rossa incrociando le braccia al petto “non hai imparato proprio niente dalla settimana di punizione?”
Erin tornò seria e replicò:
“hai ragione. Questa volta non devo farmi scoprire” e si nascose sotto il letto, fingendo di dormire mentre Rosalya tornava a scompisciarsi dal ridere.
Le risate della ragazza scemarono all’istante quando sentirono la voce di Miss Joplin dall’altro capo della porta. Iris sbiancò e anche Erin cominciò ad agitarsi. Non Miss Joplin. Qualunque professore, ma non lei.
Rosalya allora spense la luce e diede precise indicazioni:
“Iris rimettiti a letto, tu Erin rimani zitta. Me la sbrigo io” ordinò.
Si apprestò a dare dimostrazione del fatto che non era membro del club di teatro solo in veste di costumista: si arruffò i capelli, si stropicciò gli occhi e, controllandosi allo specchio, fece un finto sbadiglio. Era pronta per la commedia.
Riuscendo ad emulare una voce rauca dal sonno, Rosalya andò ad aprire la porta:
“oh, è lei prof. Abbiamo sentito delle urla che ci hanno svegliato di soprassalto. Si può sapere cosa è successo?”
Dietro alla Joplin, c’erano Charlotte e Ambra che la incenerivano con lo sguardo. Nonostante i capelli arruffati, l’assenza di trucco Rosalya era magnifica. Lo stesso non si poteva dire delle altre due: una senza extencion l’altra senza make up erano molto meno attraenti.
Oltre alle tre donne, Rosalya notò molti curiosi, tra studenti e ospiti dell’hotel che erano rimasti in corridoio, troppo eccitati per tornarsene a letto.
“siete state voi” ringhiò Ambra.
 “noi?” ripetè Rosalya con finto stupore  “a fare cosa?” aggiunse con ingenuità altrettanto artefatta.
La sua espressione risultò sinceramente sorpresa e innocente, convincendo la professoressa che tornò a guardare insicura le due studentesse:
“avete prove per accusarle?”
Ambra e Charlotte rimasero per un attimo senza parole e poi la bionda replicò:
“sono le uniche che potevano farlo. Il nostro terrazzo comunica con il loro. E poi Erin ce l’ha a morte con me”
“questo non ti dà il diritto di accusarci” la zittì Rosalya, incrociando le braccia al petto “poi scusa. Stai qui a dire che siamo state noi, ma ancora non ho capito cosa abbiamo fatto” aggiunse Rosalya sempre più spazientita e irritata, come lo sarebbe stata una persona ingiustamente accusata.
Sentendo la voce melodiosa di Rosalya, la porta dei ragazzi si aprì e uscì Trevor, ubriaco fradicio:
“ehi Rose!” la chiamò barcollando verso di lei poi cercando di mettere a fuoco biascicò “oh che peccato!” commentò deluso “niente asciugamano” farfugliò scuotendo la testa.
Era talmente brillo da accorgersi solo in un secondo momento dell’insegnate accanto a sé:
“oh, bella lì prof! Viene a fare festa con noi?” la invitò allungando una bottiglia di vodka.
A quella frase Gas uscì dalla stanza e trascinò dentro Trevor borbottando:
“non si preoccupi prof, lo mettiamo sotto la doccia e domani è come nuovo” la rassicurò alla velocità della luce, in preda all’agitazione.
La donna sospirò, abituata a quel genere di scene.
“con questa storia abbiamo svegliato tutto il piano e probabilmente anche tutto l’hotel. Però come vedete adesso devo occuparmi dei vostri compagni. Passerò sopra a quello che è successo dal momento che non ci sono prove per accusare nessuno. Tornate a dormire” e detto questo si guardò attorno rivolgendosi agli spettatori delle altre stanze:
“qui non c’è niente da vedere. Mi scuso con gli altri ospiti per l’inconveniente” e raggiunse la stanza dei ragazzi, pronta a dar loro una bella strigliata.
Gli ospiti tornarono delusi nelle loro stanze ma Rosalya, Ambra e Charlotte non si mossero dalla soglia della porta.
“non pensare di essere più furba di me White” le ringhiò contro.
A quel punto Erin si alzò da letto. Non poteva lasciare che fosse Rosalya a combattere la sua battaglia.
Affiancò l’amica ed esordì:
“Ambra, ti decidi a dirci cos’è successo? È tardi e vorrei dormire”
Gli occhi della bionda diventarono due fessure e si avvicinò minacciosa alla mora.
“non finisce qui Travis. Lo sai benissimo cosa hai fatto”
Erin sorrise beffarda e alzando il mento con atteggiamento di sfida replicò canzonatoria:
“sul serio Ambra. Dimmi cos’è successo. Forza… sputa il rospo”
A quella parole Ambra e Charlotte divennero paonazze e Rosalya, non riuscendo a trattenere le risate per quella battuta, sbattè loro la porta in faccia.
Lei ed Erin si accasciarono a terra dal ridere e a quelle risa si sommarono inevitabilmente anche quelle di Iris.

 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Ecco un capitolo che spero vi abbia divertito. Mi sento in dovere di anticiparvi che probabilmente sarà l’ultimo scherzo che Erin farà ad Ambra per cui volevo chiudere in bellezza, anche se, parlando di rospi, direi in bruttezza (pessima battuta scusate -.-‘’).
Questa volta non mi dilungherò molto in questo spazio, se non per ringraziarvi per le ultime recensioni:). Le leggo sempre troppo volentieri XD.
Alla prossima!!
 

 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Pioggia ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Il riavvicinamento tra Erin e Nathaniel si rivela molto più difficoltoso di quanto la ragazza avesse immaginato. Nel frattempo Iris suggerisce all’amica che i sentimenti che prova per il biondo si spingano oltre la semplice amicizia. Mentre le ragazze assieme ad altri studenti sono impegnati in una conversazione, soggiunge Ambra che, intenzionata a far sfigurare Erin, le propone una sfida: esibirsi in una ruota. La protagonista però decide di strafare e finisce rovinosamente in uno stagno, tra le burla generali. Con la complicità di Rosalya, realizza la sua vendetta, lanciando un rospo nella stanza della bionda e di Charlotte, svegliando di soprassalto tutto l’hotel.
 
 


CAPITOLO 20: PIOGGIA
 
Ravenclaw11: bella mossa!
 
Hydra_Silently: grazie.  
 

Quando Erin, Rosalya ed Iris misero piede nel salone per fare colazione, tutti gli studenti presenti si voltarono verso di loro. Sulle facce di ognuno, indistintamente, era stampata un’espressione divertita.
“a quanto pare lo sanno già tutti” bisbigliò Iris accomodandosi ad un tavolo per tre.
“l’importante è che non lo sappiano i prof” osservò tranquilla Rosalya sorseggiando del the fumante.
Durante la notte avevano riso talmente tanto che avevano faticato ad addormentarsi. Il loro divertimento si era ormai esaurito, ma non la curiosità degli altri studenti. Tuttavia Erin non sembrava particolarmente interessata al clamore che aveva attirato su di sé.  
“oggi abbiamo la visita alla sede del giornale?” chiese.
Iris annuì e si cacciò un biscotto in bocca.
“spero sia più interessante dell’uscita di ieri” borbottò la mora allungandosi verso la caraffa con il succo e in quel momento il suo sguardo si posò su Nathaniel, seduto a pochi metri da lei.
La ragazza arrossì, temendo che il segretario avesse sentito il suo commento deluso. Del resto era stato lui a proporre il programma della gita. La sua linguaccia e le sue battute inappropriate erano uno di quei difetti che doveva assolutamente correggere.
 
Il pullman si fermò nel parcheggio della sede del Daily Journal, una famosa testata giornalistica nazionale. Una volta all’ingresso, gli studenti vennero accolti da tre responsabili delle pubbliche relazioni che si misero alla guida di altrettanti gruppi. La suddivisione fu arbitraria e Rosalya fu costretta a dividersi dalle due amiche.
Nel suo gruppo notò subito la presenza di Nathaniel e si diresse verso di lui.
Mentre un giornalista illustrava la collocazione dei vari uffici e i loro ruoli, il biondo commentò:
“ci siete voi dietro lo scherzetto di ieri sera?”
Rosalya allungò il collo, fingendo di interessarsi all’esposizione, tanto da mettersi in punta di piedi per vedere davanti a sé:
“da qua non vedo un tubo” sbuffò contrariata.
“non far finta di non aver sentito” la rimproverò Nathaniel “comunque lo prendo per un sì”
“non ti arrabbiare con Erin. Si è trattato di uno scherzo innocente e, a dirla tutta, tua sorella se l’è meritato” lo liquidò Rosalya, incrociando le braccia dietro la schiena e sorpassando Nathaniel per seguire lo spostamento del gruppo.
Nathaniel anziché imbronciarsi per quella risposta, sorrise e la seguì:
“sono contento di vedere che ti sei fatta delle amiche”
Anche la ragazza sorrise e addolcì la propria espressione:
“è merito tuo che me l’hai presentata quella volta del costume” gli ricordò.
Nathaniel non aggiunse altro e tornò a prestare attenzione alla guida.
Il giornalista stava spiegando come era decollata la sua carriera: dopo una laurea in lettere conseguita in un prestigioso college, aveva mandato il suo curriculum a vari giornali finché non aveva ottenuto un colloquio e in seguito un impiego. Illustrò ai ragazzi il lavoro del giornalista, sia sotto gli aspetti positivi che sotto quelli negativi.
Nathaniel ascoltava tutto avidamente, senza perdersi una parola.
Tutto il suo interesse non passò inosservato all’occhio felino di Rosalya che, quando si spostarono in un’altra stanza, non esitò a commentare:
“non sapevo di questo tuo interesse per il giornalismo”
Più che un’osservazione la sua voleva essere una piccola derisione per l’eccessivo zelo con cui il ragazzo assecondava ogni proposta scolastica. Nathaniel invece scrollò le spalle e replicò:
e che ne pensi?”
 “che intendi?” sbottò la ragazza.
“mi ci vedi come giornalista?”
“davvero vuoi diventare un giornalista?”
Il ragazzo annuì, leggermente divertito dalla faccia perplessa dell’amica.
“da quanto ti frulla questa idea?” indagò la ragazza che aveva la vaga sensazione di essersi persa qualcosa.
“da un po’” rispose evasivo “ma tu non hai ancora risposto alla mia domanda” puntualizzò, determinato a sentire l’opinione di Rosalya.
La ragazza rifletté qualche secondo poi espose il suo punto di vista:
“quando facevi parte del club di giornalismo, i tuoi articoli erano pungenti e chiari. Mi piaceva molto leggerli” ricordò la ragazza “penso ci saresti portato. Sicuramente faresti un’informazione migliore rispetto a quella di Peggy”
Nathaniel ridacchiò, lusingato da quei complimenti.
La guida continuava a illustrare ai ragazzi vari aspetti di quel lavoro, portandoli da un ufficio all’altro e presentando loro colleghi molto indaffarati e talvolta stressati.
 
Il tour si stava ormai concludendo ma Rosalya era determinata ad affrontare un argomento prima di riunirsi alle sue amiche.
“Nathaniel, cerca di riappacificarti con Erin. Non mi piace vederla così giù di corda”
Aspettò di vedere l’effetto delle sue parole e notò compiaciuta l’espressione un po’ abbattuta del ragazzo “sei sempre stato troppo permaloso” lo punzecchiò.
Nathaniel stava per ribadire ma la ragazza lo anticipò “non dico di farlo subito, però vedi di non metterci troppo… altrimenti verrò a prenderti a calci” lo minacciò portando le mani a pugno, senza però risultare minimamente minacciosa.
Il biondo rise e si ficcò le mani in tasca, osservando di lato l’amica, che si sentì a disagio:
“che ti prende?” gli chiese disorientata, abbandonando l’aria da guerriera. L’amico la guardava teneramente e lei non sapeva come reagire a quello sguardo.
“stai cambiando Rose. E in meglio. Credo di non averti mai vista così” e si allontanò, lasciando Rosalya confusa e da sola.
 
Una volta che gli studenti si riunirono per il pranzo, Rosalya non aggiornò le due amiche sulla sua conversazione con Nathaniel. Meno parlava di lui, meno Erin si intristiva.
Iris si lamentò della visita che non aveva suscitato alcun interesse in un’amante della natura come lei. La sua opinione si scontrava con quella di Erin che invece l’aveva trovata molto istruttiva e più coinvolgente del programma del giorno prima:
“è davvero affascinante il lavoro del giornalista. Se ti occupi di cronaca estera poi, sei sempre in giro per il mondo” commentò la mora entusiasta.
“non riusciresti mai a costruire una famiglia con un lavoro del genere” la smontò Iris, tagliando un pezzo di carne.
“invece sì, molte persone lo fanno” ribattè Erin, versandosi dell’acqua.
“non sempre però il risultato è buono. Prendi mio padre” esemplificò la rossa, gesticolando animatamente.
“ma tuo padre è un militare, mica un giornalista” obiettò Erin.
“sì, ma è sempre stato lontano da casa. Che rapporto pensi che abbia con noi?”
Dopo aver pronunciato quella sentenza, Iris si abbandonò pesantemente contro lo schienale della sedia e cominciò a giocherellare con il cibo rimasto nel piatto. Era raro vederla di cattivo umore e quella era una di quelle occasioni.
Erin non sapeva come ribadire alle dure parole dell’amica ma le venne in aiuto Rosalya che riuscì a stemperare quel clima gelido che era sceso tra di loro:
“allora Iris il tuo uomo ideale come dovrebbe essere?” le chiese gentilmente Rosalya per distoglierla dai suoi pensieri “abbiamo capito che non vuoi un militare” scherzò subito dopo, sdrammatizzando la situazione.
“ragazzo?” chiese Iris interrogativa.
“porca miseria Iris! Sei asessuata per caso?” sbottò Rosalya di fronte alla perplessità della ragazza “ce l’avrai pure un modello standard di riferimento del genere maschile!”
Rosalya improvvisamente tacque, come se un pensiero sconcertante le avesse attraversato la mente. Di fronte al suo silenzio repentino, le due amiche non seppero se preoccuparsi o incuriosirsi. Dopo un paio di secondi la ragazza affermò:
“Iris… non è che sei lesbica?”
“ma che vai a pensare scema!” le saltò su Iris mettendosi in piedi.
Avvampò all’istante, rendendosi conto di aver attirato su di sé l’attenzione della sala per poi ricomporsi lanciando un’occhiataccia a Rosalya, mentre Erin ridacchiava.
“allora non hai un ragazzo ideale in mente?” concluse Erin, cercando di riportare la conversazione sull’argomento iniziale.
Iris sbuffò, ancora innervosita dal commento di Rosalya e spiegò:
“invece ce l’ho. Ma è solo una figura utopica che non esiste”
“si chiama ragazzo ideale proprio per questo” puntualizzò Rosalya “ti assicuro che i ragazzi non hanno nulla di ideale quando cominci ad uscirci” spiegò con aria da donna navigata.
“un po’ amaro come commento per una che è fidanzata” osservò Erin.
“ovviamente Leigh è un’eccezione” chiarì l’altra, ritrattando in parte la sua affermazione “allora sentiamo Iris: come è questo uomo?”
“beh, innanzitutto deve essere un ragazzo sensibile, intelligente… anche un po’ timido magari. Avete presente quell’aria un po’ intellettuale e imbranata?”
“ti piacciono quelli con gli occhiali?” chiese Rosalya con un’espressione dubbiosa e sconcertata.
“mica tutti quegli con gli occhiali sono così” obiettò Iris “e comunque se anche ce li avesse non sarebbe un problema”
Mentre Rosalya, il cui ideale di uomo non combaciava affatto con quello disegnato da Iris, cercava di capirne i gusti, Erin si frugò nelle tasche e afferrò lo smartphone. Cercò nella galleria e selezionò una foto che mostrò alle amiche:
“ti piacciono i tipi come lui?”
La foto ritraeva Kentin detto Ken, un ragazzo che frequentava la sua vecchia scuola. Occhiali a girella e capelli a scodella era il suo infamante binomio identificativo. Il ragazzo inoltre era penalizzato anche dall’altezza, non superiore al metro e sessantatré.
Aveva cambiato scuola quando Erin era in prima e da allora erano passati tre anni senza avere sue notizie.
Alla vista di quell’ impietosa rappresentanza dell’universo maschile, Rosalya scoppiò a ridere e Iris difese le sue convinzioni:
“non prendermi in giro!”
 
Il pomeriggio trascorse tranquillo, in visita ad un museo di scienze e tecnologia che appassionò Erin, tanto che le amiche dovettero trascinarla con la forza all’uscita. Quando uscirono infatti tutti stavano aspettando loro oltre alla professoressa Joplin, anch’essa dispersa nei meandri della struttura.
 
Mentre erano in pullman, dal ritorno del museo, Erin cominciò a giocherellare con il braccialetto che aveva al polso, attirando l’attenzione di Rosalya.
“te l’ho sempre visto addosso quel braccialetto. Non te ne separi mai?” le chiese.
“è speciale. Se lo perdessi andrei fuori di testa” sorrise l’amica.
 
Il sole estivo filtrava nella stanza di Sophia, illuminando le foto che la ritraevano con la sorella quando avevano sette anni. Ne erano passati quasi tre da quella gita ma i loro sorrisi erano rimasti gli stessi:
“Soffy?” chiese Erin facendo capolino nella stanza. Il vestitino azzurro con le margherite svolazzò lievemente al minimo spostamento d’aria creatosi.
“non chiamarmi così. Non mi piace!” le ricordò Sophia, intenta a disegnare distesa sul pavimento.
“che stai disegnando?” si incuriosì Erin accucciandosi all’altezza della sorella. In quella posizione, le gambe cicciottelle tipiche dei bambini risultavano ancora più paffute e pertanto adorabili.
“perché devi sempre impicciarti di quello che faccio io? Non hai mai niente da fare tu?” la allontanò la gemella sbuffando infastidita.
Erin mise il broncio, delusa per quei i modi poco gentili.
“volevo solo stare un po’ con te”
“stiamo anche troppo insieme. Mi soffochi”
“questa battuta l’hai copiata da Vento di Passione” ridacchiò Erin, pensando alla soap opera preferita della madre. Sperava di risultare conciliante e recuperare il buon umore della sorella ma il suo tentativo fallì:
“il fatto è che mi stai sempre appiccicata! Uffa Erin, possibile che tu non sappia stare un po’ da sola, senza di me?”
Di fronte a quell’accusa, Erin abbassò il capo mortificata.
“ok, ho capito. Vado a giocare” disse mogia mogia, uscendo dalla stanza a testa china.
Sophia la guardò, sentendosi in colpa per come l’aveva trattata, ma determinata a voler essere lasciata in pace.
 
Una volta all’aria aperta, Erin si imbattè in Kendra, la bambina di tredici anni che abitava nel suo stesso palazzo. Mentre Sophia passava metà del suo tempo a tener testa a quell’adolescente, Erin cercava in ogni modo di evitarla, consapevole di non avere la stessa determinazione della sorella per affrontarla.
“ehi Erin! Tutta sola oggi? Niente Sophia?” la canzonò Kendra, avvicinandosi a lei.
Erin nascose immediatamente la sua bambola dietro la schiena, sperando che l’altra non l’avesse vista. Purtroppo per lei le sue paure si stavano per concretizzare:
“che nascondi?” indagò Kendra, sporgendosi. Erin si strinse ancor di più nelle spalle e tenne più salda la presa sulla sua figlioletta di stoffa.
“niente” ma la sua insicurezza tradì una nota di tensione nella voce.
Kendra sorrise beffarda e improvvisamente esclamò:
“oddio! E quello che cos’è?!” urlò, indicando un punto alle spalle di Erin. Ingenuamente la bambina si voltò e Kendra riuscì a strapparle dalle mani la bambola.
“e così giochi ancora con le bambole” la schernì, facendo penzolare la bambola di pezza da una gamba.
“ridammela!” le ordinò Erin, con quanta più convinzione avesse nella voce.
“altrimenti? Chiami Sophia?” la derise l’altra, compiaciuta della reazione della bambina.
Erin cominciò a saltare nel tentativo di recuperare il suo prezioso tesoro ma i trenta centimetri di differenza rendevano la sua impresa virtualmente impossibile. Più si sforzava e più si sentiva umiliata e le lacrime cominciarono a rigarle le guance.
“ridammela” ripeteva piagnucolando.
Kendra però cominciò a correre ed Erin, terrorizzata dall’idea di non vedere più la bambola, la rincorse. La corporatura grassoccia dell’adolescente la rendeva piuttosto goffa nei movimenti e la bambina riuscì a raggiungerla in un batter d’occhio. Riuscì ad afferrare un lembo della bambola e, approfittando di una mossa sbagliata di Kendra, gliela strappò dalle mani. Stava per voltarsi e tornare a casa di corsa quando sentì l’elastico del braccialetto tendersi fino al punto di rottura.
Il rumore delle perline che sbattevano contro il metallo della fognatura la mandò nel panico e senza che avesse il tempo di fare nulla, vide quello che rimaneva del suo braccialetto venir risucchiato da quel buco nero.
 
Quando Sophia entrò in soggiorno, ebbe un sussulto: sul divano si ergeva una massa informe, una sorta di montagna rivestita da una coperta di pile. La gemella scavò una galleria, alzando leggermente un lembo di quel mantello e intravide il viso lacrimante della sorella.
“che c’è?” le chiese.
“va’ via!” le urlò Erin, serrando ancor di più la sua difesa.
Sophia, allergica di natura alle imposizioni, non eseguì quell’ordine. Tuttavia non forzò nemmeno la gemella ad uscire dal suo rifugio. Si sedette ai piedi del divano e rimase in silenzio.
Ad un certo punto sentì rotolare  una perlina sul pavimento di marmo. Raccolse quell’oggetto sferico e lo riconobbe immediatamente:
“si è rotto il braccialetto?” chiese sorpresa Sophia.
Erin non rispose, ma la sorella insistette:
“io so come ripararlo” le sussurrò.
Dopo qualche secondo di esitazione, Erin emerse dal suo nascondiglio:
“e come?” piagnucolò, massaggiandosi gli occhi con il palmo delle mani.
“le perline dove sono?”
“ho solo queste” disse Erin, mostrando alla sorella due perline “le altre sono cadute tutte nel tombino”.
Il braccialetto che la gemella aveva rotto era identico a quello al polso di Sophia, fatta eccezione per i colori: quello di Sophia era rosso mentre quello di Erin era azzurro.
“non possiamo rifare un braccialetto con solo due perline” obiettò Erin delusa.
Sophia riflettè in silenzio poi sparì dalla stanza per tornare poco dopo con una voluminosa scatola.
“ma sono gli attrezzi da pesca di papà! Lo sai che non vuole che li tocchiamo!” le ricordò Erin.
Sophia però fece un sorriso birichino e tirando fuori un filo da pesca spiegò:
“questo filo è resistentissimo. L’ho sentito dire da papà. Se facciamo i nostri braccialetti con questo, niente li potrà mai più spezzare! Saranno dei super braccialetti!”
“ma tu Sophia il tuo ce l’hai già” obiettò Erin guardando con invidia l’oggetto al polso della sorella.
“non per molto” replicò l’altra e con la forbice diede un taglio netto al filo del proprio braccialetto, liberando le perline sul tavolo.
 La sorella la guardava senza capire ma si fidava al punto di quella personcina così uguale a lei che non le chiese ulteriori spiegazioni.
Sophia tagliò un pezzo di filo da pesca dopo averne calcolato una lunghezza compatibile con il polso di Erin ed infilò delle perline nere che aveva trovato in casa e poi aggiunse una perlina rossa delle sue e una delle due azzurre superstiti di Erin per poi completare con altre perline nere. Fece un nodo all’estremità e sistemò orgogliosa il braccialetto sul tavolo, ripetendo il procedimento per realizzarne un secondo uguale. Il risultato finale era migliore del braccialetto che era andato perduto e Sophia, indicando la perlina azzurra sul proprio polso disse:
“così adesso io ho una parte di te” e indicando quella rossa sul polso di Erin “e tu hai una parte di me. Le ho messe vicine visto che mi stai sempre appiccicata”
Erin aveva dimenticato ogni lacrima e sorrideva, rapita dalla solarità e creatività della sorellina.
e poi” aggiunse dandosi aria di grande cartomante “ti prometto che questo rosso ti porterà fortuna”
Erin si scaraventò sulla sorella sommergendola con i suoi abbracci.
“e io ti prometto che la mia perlina azzurra ti farà trovare un principe azzurro!” ridacchiò.
allora il tuo deve essere il principe rosso!” scherzò Sophia “anzi, il tuo avrà i capelli rossi!” annunciò scoppiando a ridere mentre la gemella cercava di farle il solletico per vendetta.
Una volta rientrata dal lavoro, la madre era riuscita a convincerle a sostituire il filo da pesca di un arrabbiato papà con del filo comune elastico, più adatto allo scopo.
Anche se a tenere vicine la perlina azzurra e quella rossa non era più un legame indistruttibile, niente avrebbe mai spezzato quella coppia.
 
Questo era quello che Sophia le ripeteva e questo era quello che tornava alla mente di Erin ogni volta che guardava l’oggetto sul suo polso.
La ragazza custodì gelosamente dentro di sé quel ricordo e con esso l’esistenza di Sophia e tornò a chiacchierare con Iris e Rosalya.
Era riuscita a pensare alla sorella senza che questo le avesse demolito il morale e solo per questo la ragazza si sentì sollevata e serena. Ormai stava davvero cominciando a somatizzare quella lontananza e ad affrontarla con più forza e determinazione.
 
Erin si svegliò quel giorno con la consapevolezza che il suo tempo stava scadere. Era l’ultimo giorno della gita. L’indomani sarebbero ripartiti dopo pranzo alla volta di Morristown. Il conto alla rovescia per far pace con Nathaniel si esauriva sempre più ed Erin cominciava a sentirsi sempre più rassegnata e confusa.
 
Le due classi vennero portate in visita di un bellissimo acquario che entusiasmò tutti, tranne Rosalya: detestava i pesci e aveva una paura folle degli squali.
“Rose, avvicinati così lo vedi meglio” aveva provato a dirle Erin, scrutando oltre la teca la figura di uno squalo toro.
“ma sei matta? Non mi muovo da qui!” aveva annunciato perentoria la ragazza incrociando le braccia al petto.
 
Una volta al di fuori della struttura, Iris aveva osservato divertita:
“beh, alla fine c’è stato un giorno a testa che ci ha fatto schifo”
Dopo pranzo i professori lasciarono ai ragazzi il pomeriggio libero che accettarono tutti volentieri.
Dajan comprò una palla in un minimarket nelle vicinanze e ben presto si formarono le squadre di pallavolo: Dajan, Kim, Erin, Trevor, Scott, Gas contro Charlotte, Liam, Rosalya, Iris e altri due ragazzi della 5^ C.
L’ingresso in squadra di Charlotte era giustificato dal fatto che non erano riusciti a trovare un sesto giocatore e la ragazza era l’unica volontaria nei paraggi. Rimasta sola, Ambra si era seduta sul prato a seguire con disinteresse il match.
Gas le aveva chiesto di fare da arbitro ma la bionda aveva borbottato qualcosa sul fatto di non conoscere le regole del gioco. Trevor allora aveva replicato:
“beh allora controlla la nostra roba”
Prevedibilmente la bionda ringhiò:
“non sono mica un cane da guardia”
Dopo qualche secondo dall’inizio della partita, Erin chiese il time-out e si allontanò per riporre il suo prezioso braccialetto nello zaino e dopo quell’interruzione, la partita potè finalmente avviarsi.
Divenne presto chiaro che le squadre erano sbilanciate tanto che Rosalya, alta circa un metro e sessantacinque, quando le toccò il ruolo di attacco, si trovò a fronteggiare dall’altra parte della rete Dajan. Contrariata sbuffò:
“sì ma così non è giusto! Neanche se salto arrivo all’altezza di Dajan da fermo!”
Tutti scoppiarono a ridere e le squadre vennero riequilibrate, cercando di ripartire gli atletici giocatori del club di basket in modo più omogeneo.
Alla fine del quarto set, Miss Robinson corse loro incontro per avvertirli che sarebbero tornati in hotel. Il tempo stava cambiando e dei minacciosi nuvoloni facevano capolino sulle loro teste.
Conclusero così la partita con due set a testa e questo pareggio trovò l’accoglienza di tutti tranne quella della competitiva Charlotte.
 
Il parco distava pochi chilometri dall’hotel, per cui si mossero a piedi, arrivando in hotel giusto in tempo per scampare al temporale.
“Erin, questa è la tua ultima sera qui” esordì Iris mentre entravano nel salone per la cena “dobbiamo pensare ad un piano per farti parlare con Nathaniel”
La ragazza guardò le amiche sconsolata.
“ormai ho perso ogni speranza. Avete visto anche oggi: mai un momento in cui potessi parlare con lui con calma. Inoltre se in tutto questo tempo non ha mai dato segno di volersi riappacificare, allora vuol dire che si è proprio rotto di me” concluse sconsolata.
“ma tu sei innamorata di lui!” insistette Iris “glielo devi dire!” e poi voltandosi verso Rosalya “Rose, ti prego, aiutami tu” la implorò.
La stilista, finito di sorseggiare il suo bicchiere, si sporse verso la mora:
“hai portato il vestito che abbiamo comprato mercoledì?”
Erin annuì.
“perfetto. allora sbrighiamoci ad andare di sopra. Dobbiamo metterci subito all’opera!”
 
Una volta nella stanza, Rosalya illustrò il piano alle amiche: un restyling per Erin.
Iris si mostrò sin da subito eccitata mentre la mora seriamente preoccupata.
“fidati di me Erin” le disse Rosalya, facendole il suo famoso occhiolino.
La ragazza sospirò e le volse un sorriso grato. A prescindere dal risultato, le sue intenzioni erano nobili e solo per questo meritava fiducia.
Inoltre era certa che quell’intervento avrebbe segnato una svolta in lei: avrebbe recuperato quella femminilità che la distingueva da Sophia.
Si alzò per recuperare il braccialetto che aveva dimenticato nello zaino, ma non lo trovò. Cominciò a frugare più attentamente ma la sua ispezione si rivelò infruttuosa.
Una sensazione di panico cominciò ad assalirla, diffondendosi in tutto il corpo e rendendo più frenetica la sua ricerca. Capovolse violentemente il contenuto della borsa nel letto ma con terrore ciò si rivelò inutile.
“Erin che stai cercando?” le chiese Iris perplessa.
“il mio braccialetto”
“lo cercherai dopo. Adesso abbiamo altro a cui pensare” la liquidò Rosalya, trepidante di mettersi all’opera.
“devo trovarlo!” replicò secca Erin e dalla sua voce scaturì una tale rabbia che le amiche si preoccuparono. La ragazza ripensò all’ultima volta che l’aveva messo via. Era sicura di averlo riposto nella tasca interna della borsa, quando erano sul prato. Non poteva essere scivolato via. Mentre ripensava a quell’immagine, ricordò la figura che si trovava accanto alla borsa e i suoi morbidi boccoli biondi.
Uscì di corsa dalla propria stanza mentre un tremendo tuono squarciò il silenzio.
“AMBRA!” urlò, battendo violentemente il palmo della mano contro la porta.
“APRI!”
Dopo qualche secondo Ambra andò ad aprire.
La bionda non sembrava sorpresa di trovarsi di fronte la ragazza e il suo sorriso beffardo fu la conferma dei sospetti di Erin. Nel frattempo Iris e Rosalya erano accorse dietro all’amica.
“DOVE L’HAI MESSO?”  ringhiò Erin.
“che cosa?” chiese l’altra tranquillamente.
“il mio braccialetto!”
“cosa ti fa pensare che ce l’abbia io?” replicò asciutta l’altra.
“sei l’unica che poteva prenderlo!”
“come mi è stato detto un paio di giorni fa quando ti ho accusato dello scherzo del rospo, non puoi accusarmi se non hai le prove” esclamò vittoriosa la ragazza, sistemandosi i capelli. Era talmente presa da quel gesto che non vide arrivare le mani di Erin che la afferrarono per le spalle e la sbatterono contro il muro.
“DOVE CAZZO L’HAI MESSO?!” le urlò la ragazza. Ogni muscolo del viso tradiva una tensione esagerata.
La reazione così violenta sconvolse le presenti, prima tra tutte Ambra. Erin la fissava negli occhi con una tale rabbia e aggressività che sembrava volesse ferirla a morte.
“l-l’ho lasciato al parco dove siamo state prima” confessò la bionda, incapace di reagire.
“dove di preciso?!” la minacciò Erin a denti stretti.
“vicino alla quercia”
La mora mollò a presa e abbandonò la stanza, seguita dalle due amiche.
Una volta nella sua stanza Erin recuperò l’ombrello, il giubbotto e il cellulare.
“aspetta! Non vorrai mica andarci adesso? Con questo tempo!” protestò Iris turbata.
Erin però la ignorò e si diresse verso la porta.
“tu non ti muovi da qui” le ordinò Rosalya, sbarrandole la strada.
“per me è importante. Non posso aspettare domani” specificò Erin cercando di trattenere la rabbia.
Loro non potevano capire. Non sapevano nulla di quel braccialetto. Non sapevano nulla di Sophia.
“mi dispiace ma non hai scelta” insistette Rosalya, determinata a non lasciarla andare.
Erin aveva uno sguardo ostile e la ragazza continuò:
“è buio, piove e tu vorresti andare in giro da sola? È pericoloso!”
L’amica rimase in silenzio. Le obiezioni di Rosalya era più che ragionevoli.
La rabbia l’aveva accecata e il terrore di non rivedere più quel prezioso ricordo aveva preso il sopravvento.
Erin sospirò profondamente e si sedette sul letto levandosi il giubbotto.
Rosalya annuì sollevata mentre Iris continuava a guardare Erin con una certa ansia.
Non l’aveva mai vista in quello stato e ciò l’aveva turbata. La reazione dell’amica era stata talmente aggressiva che la rossa non osò chiederle perché quel semplice braccialetto fosse così importante.
“Iris, va pure tu in doccia, io devo passare un attimo dalla Joplin” disse Rosalya dopo aver constatato che Erin si era accesa la TV.
Quella proposta venne colta al volo da Iris in quanto ansiosa di sottrarsi da quella pesante atmosfera e pertanto si rifugiò in bagno.
 
Quando Rosalya rientrò vide immediatamente il post-it giallo lasciato sulla TV, ormai spenta. Bussò violentemente alla porta del bagno e chiamò Iris. La rossa uscì, ancora gocciolante, temendo che le insistenze dell’amica preannunciassero il peggio.
Rosalya infatti le mise sotto il naso il foglietto:
 
“sono andata a cercare il braccialetto. Copritemi voi con i prof”
 
 
La rossa guardò l’amica preoccupata, mentre quest’ultima impugnò il cellulare e, trovato il numero di Erin nella rubrica, se lo portò all’orecchio. Dopo qualche secondo sentirono una vibrazione provenire dal letto di Erin e, nascosto da una piega della trapunta, scoprirono che la fuggitiva aveva dimenticato lo smartphone in hotel
“Dannazione!” imprecò, lanciando il proprio apparecchio sul letto.
“e adesso che facciamo?” balbettò Iris.
Si sentì sciocca e colpevole ad aver lasciato Erin da sola, quando il suo istinto le suggeriva che non sarebbe stato così semplice farla desistere dal suo intento.
“aspettiamo” disse Rosalya e uscì sul terrazzo a guardare la città.
Ad aumentare le sue preoccupazioni si era aggiunta una pioggia scrociante e violenta.
 
Dopo mezz’ora Erin ancora non aveva ancora dato sue notizie.
Rosalya camminava nervosamente avanti e indietro per la stanza mentre Iris restava seduta sul letto battendo ritmicamente la gamba destra e guardando l’orologio.
Dei colpi improvvisi alla porta le fecero sobbalzare e accorsero, tirando un sospiro di sollievo per il rientro dell’amica.
“ora mi sente” promise Rosalya accingendosi ad aprire, mentre Iris aveva già pronta un’espressione indulgente per smorzare quella severa dell’amica.
Tuttavia, con grande delusione e sconforto, non si trovarono di fronte Erin bensì Ambra. La bionda aveva un’espressine dura che però tradiva un’aria sconfitta:
“dà questo ad Erin” borbottò, mettendo in mano ad Iris il braccialetto.
“ce l’avevi qui?” realizzò Iris sconvolta mentre Rosalya la assalì verbalmente:
“brutta stronza! Adesso per colpa tua Erin è da mezz’ora che è la fuori sotto la pioggia a cercare questo braccialetto!”
Quella notizia scosse Ambra, la cui sicurezza vacillò:
“è andata a cercarlo adesso?” ripetè turbata. Non poteva credere che Erin sarebbe stata così sciocca e impulsiva da fare un gesto del genere. La pioggia era insistente, era buio e si trovavano in una città sconosciuta
“sì. Va’ pure a fare la spia ai prof, a questo punto non abbiamo altra scelta” commentò arrabbiata Rosalya guardando Iris.
“ma così Erin si caccerà ancora nei guai” tentò di dire la rossa che però era sempre più consapevole che non potevano indugiare ulteriormente nel coinvolgere gli adulti.
Erin era sparita da più di mezz’ora e contattarla era impossibile. L’unica soluzione era andare a cercarla.
Ambra non aveva saputo cosa dire. La preoccupazione e l’ansia delle due ragazze cominciò a trasmettersi anche a lei, mandando in frantumi la soddisfazione che aveva provato vendicandosi di Erin.
Spesse volte la sua cattiveria l’aveva spinta ad azioni al limite ma aveva sempre saputo quando fermarsi: poteva trovare godimento nelle vicissitudini altrui ma non nella consapevolezza di aver messo a repentaglio l’incolumità di una persona.
 
Le sue lacrime, frammiste a quelle del cielo, le impedivano di usare la vista per cercare quel tesoro. Il buio avvolgeva completamente la scena attorno a lei ed Erin era sempre più disperata. Non l’avrebbe mai più ritrovato.
Non poteva neanche quantificare il tempo che aveva trascorso inginocchiata su quel suolo reso melmoso dalle scroscianti piogge. Sapeva solo che la sua speranza si era trasformata di disperazione. Impossibilitata ad usare la vista, si era affidata al tatto ma nessun contatto le aveva rivelato ciò che le mani attendevano con ansia. Talvolta dei lampi accecanti le illuminavano l’ambiente ma per un lasso temporale insufficiente a individuare il braccialetto. Se la prese con sé stessa, per non essersi assicurata di avere il cellulare prima di sfuggire di soppiatto dalla vigilanza delle sue amiche.
Il rombo dei tuoni che facevano seguito alle saette in cielo le impedivano di ascoltare i suoi singhiozzi che lei stessa trovava insopportabili e penosi.
Il giubbotto sembrava aver assorbito ogni goccia d’acqua e pertanto le gravava sulle spalle, rendendo più impacciati i suoi movimenti, mentre i lunghi capelli, analogamente sopraffatti dall’acqua, aderivano al suo viso, arrivando a confondersi con il terreno.
 
“Erin...”
 
Non sentì più alcuna goccia filtrare attraverso i rami spogli sopra di lei. Alzò gli occhi e vide la sagoma di un ombrello verde.
A sorreggerlo c’era Nathaniel che la guardava nel modo più dolce che gli avesse mai visto:
“per fortuna stai bene. Non preoccuparti per il braccialetto, è qui” e frugandosi nelle tasche lo recuperò per porgerlo alla ragazza.
Erin allungò la mano incerta, quasi aspettasse che il contatto fisico con quell’oggetto le rivelasse che era tutto vero.  
Aveva brancolato nel buio per chissà quanto tempo finchè un raggio luminoso l’aveva investita, rivelandole che niente era perduto.
“Ambra è venuta a dirmi cosa aveva combinato. Non ha mai nascosto qui il braccialetto, te l’ha solo fatto credere” spiegò il biondo, accucciandosi all’altezza della ragazza.
I singhiozzi di disperazione di Erin si tramutarono in lacrime di gioia. Lanciò le braccia al collo di Nathaniel, deliziandosi di quel contatto così piacevole e rassicurante.
Sì. Iris aveva ragione.
Non poteva non esserne innamorata.
Nathaniel cercò di scostarle i capelli dal viso, per rivelare quegli occhi verde bosco così intensi ed espressivi. “scusa, ma non credo di essere un bello spettacolo” sussurrò a disagio Erin, vergognandosi del proprio aspetto.
“invece non sei mai stata più bella di così” le disse dolcemente il ragazzo.
“allora devo essere proprio uno sgorbio” rise lei nervosamente, contagiando il suo salvatore.
Erin gli posò delicatamente una mano sulla guancia e, guardandolo intensamente negli occhi, disse:
“Nathaniel, io devo chiederti scusa. Ti prometto che non mi impiccerò più degli affari tuoi. Ma di qualsiasi cosa vorrai parlarmi in futuro, io ti ascolterò”
Il ragazzo sorrise teneramente e, senza esitazione, la baciò in fronte.
Fu un contatto delicato, in cui Erin avvertì le labbra calde del ragazzo contro la sua fronte bagnata e fredda. Le sembrò di aver ricevuto una sorta di benedizione, di segno propiziatorio che le avrebbe portato fortuna.
“anche io devo scusarmi. Ne ho fatto una questione di principio assurda” ammise il ragazzo, posando la sua fronte contro quella della ragazza.
Erin rise di buon umore e commentò:
“almeno ho scoperto che anche tu hai qualche difetto: sei troppo permaloso”
Nathaniel la guardò malizioso ed aggiunse:
“e non dimentico facilmente: sbaglio o un paio di sabati fa avevamo lasciato un discorso in sospeso?”
Erin dapprima lo guardò interrogativa poi nella sua mente si figurarono gli interni di una Subaru e Nathaniel seduto al post di guida che si sporgeva verso di lei.
Sorridendo la ragazza si avvicinò al biondo:
“forse dovresti rinfrescarmi la memoria…”
Anche Nathaniel non esitò a cercare quel bacio, portando una mano sotto il mento della ragazza.
Erin stava per dischiudere le labbra quando una luce accecante la investì.
Istintivamente il ragazzo si portò una mano sugli occhi per ripararsi da quel flash mentre Erin distoglieva lo sguardo.
per fortuna state bene!” esclamò la voce sollevata di Miss Joplin.
I due ragazzi arrossirono, confusi e disorientati da quella improvvisa interruzione.
Anche se il suo momento magico era sfumato, Erin riflettè divertita sul fatto che la prima volta era stato Jason ad interromperli, mentre ora sua sorella, Miss Joplin. Il DNA condiviso giocava brutti scherzi.
Differentemente dal fratello però, l’insegnante non sembrò minimamente a disagio e colpevole, del resto si trovava di fronte a due studenti che erano scappati dall’hotel di notte.
Mentre i due fuggitivi si alzavano, la donna liquidò ogni giustificazione o protesta con un:
“forza, c’è un taxi che ci aspetta laggiù”
 
Nella vettura, Miss Joplin raccontò che Iris e Rosalya, preoccupate per Erin, erano andate da lei e le avevano raccontato tutto.
La donna aveva così deciso di agire all’insaputa dei colleghi e pertanto dichiarò:
“visto che state bene, questa volta non prenderò provvedimenti”
Quella decisione li sorprese entrambi. L’indulgenza non era una delle caratteristiche più spiccate di quella professoressa che continuò “ma sia chiaro: non azzardatevi mai più a prendere certe iniziative in futuro. Mi sorprendi anche tu Nathaniel. Saresti dovuto venire subito da me!”
“mi dispiace, ma non volevo che Erin si cacciasse nei guai”
“lo immagino, ma la signorina deve cominciare a prendersi le responsabilità delle proprie azioni” la rimproverò la donna, voltandosi verso Erin. Sentendosi colpevole, quest’ultima abbassò il capo, strappando un sorriso di solidarietà a Nathaniel.
Tornando a guardare la strada davanti a sé, sul sedile del passeggero accanto al tassista, Miss Joplin continuò:
“Non si lancia un rospo nella stanza adiacente per poi fare le gnorri”
Erin alzò lo sguardo sorpresa verso la professoressa. Allora lo sapeva.
L’insegnante tornò a voltarsi per ammonirla:
“questa è l’ultima volta Erin. Non sarò più così indulgente in futuro”
 
Una volta rientrata in camera, Erin venne sommersa dagli abbracci delle amiche:
“non farlo mai più!” disse Iris con le lacrime agli occhi.
“la prossima volta ti metto un collare!” la minacciò Rosalya portandosi le mani sui fianchi. Erin le sorrise, consapevole di averla fatta preoccupare quanto Iris.
“ora fila in doccia!” le ordinò la ragazza dai capelli d’argento “sei impresentabile!”
L’amica avrebbe voluto ribattere, confessando il complimento che le aveva fatto Nathaniel ma rimandò quell’ammissione ed eseguì quel piacevole ordine.
 
Dopo una doccia rigenerante, Erin trovò Rosalya ed Iris che la guardavano con un sorriso furbo:
“non ti sarai mica dimenticata il nostro piano per stasera?” le chiese Rosalya melliflua.
“il restyling” mormorò Erin.
I tentennamenti di qualche ora prima vennero completamente abbandonati: del resto non solo sentiva di doversi far perdonare dalle amiche, ma voleva davvero presentarsi a Nathaniel in una nuova veste. Con questi pensieri che le vorticavano in testa, Erin non oppose quasi resistenza e si lasciò cullare dalle attenzioni delle sue amiche.
Tuttavia, perplesse per quel cambio d’atteggiamento, chiesero spiegazioni alla loro cavia che passò a raccontare loro quanto fosse accaduto sotto la pioggia.
 
Iris si lasciò sfuggire un gridolino eccitato, mentre Rosalya commentò:
“bene, bene… allora quella che serve al nostro Nath è solo un’altra spintarella”
Rosalya aprì la borsa e ne estrarre un paio di forbici affilate.
Ordinò ad Iris di portarle il cestino e la domanda sorse spontanea ad Erin:
“che vuoi fare?”
“accorciarti i capelli no? È da quanto ti ho vista la prima volta che sogno di farlo…Tranquilla, te li lascerò lunghi oltre metà schiena” le promise, imitando con un gesto la lunghezza che avrebbe raggiunto il nuovo taglio.
Quell’idea non convinse a pieno Erin che istintivamente si afferrò i capelli, così ci pensò Iris:
“Rosalya ha ragione. Hai dei capelli troppo lunghi Erin! È ora di tagliarli, anche perché sono molto sfibrati”
 Dopo un’iniziale esitazione, Erin lasciò carta bianca alle due che si sbizzarrirono con trucco e parrucco. Iris si dedicò al make up riuscendo a valorizzare gli occhi di Erin con un ombretto scuro e del mascara, mentre Rosalya le sistemò i capelli: dopo averli tagliati, gli raccolse con un elastico appena dietro l’orecchio destro, adagiandoli sulla spalla.
Iris accorse a prendere il vestito che avevano scelto insieme il giorno prima di partire ed Erin indossò un paio di stivali scamosciati.
Quando finalmente le sue fatine avevano finito di fare la magia, Erin non potè credere all’immagine che vedeva riflessa.
Non era più Sophia ma non era nemmeno la vecchia Erin.
“benvenuta nuova Erin” le bisbigliò dolcemente Rosalya, appoggiando la testa contro l’amica.
 
Mentre percorreva il corridoio, Erin sperò di non incrociare nessuno dei suoi compagni di classe. Sarebbe stato troppo imbarazzante vederla così, anche se l’eventualità che non la riconoscessero non era poi così remota.
Mentre lei si era fatta la doccia, Rosalya aveva contattato Nathaniel informandolo che l’amica l’avrebbe raggiunto sul terrazzo in cima all’hotel alle 23.00.
In ascensore la ragazza cercò di tirare dei respiri profondi sedare la tensione.
 
Dopo il loro intervento, nella stanza regnava il caos. Iris e Rosalya cominciarono a riporre i loro strumenti nel trolley e cercare di ripristinare l’ordine.
“è stato divertente” commentò la rossa, chiudendo la palette di ombretti della Urban Decay.
“già. E dobbiamo essere anche orgogliose del risultato”
“speriamo vada tutto bene”
Rosalya finì di sistemare le ultime cose e si sedette pensierosa sul letto.
“sei stanca?” le chiese Iris, immaginando la risposta, che però non corrispose alle sue aspettative.
Nonostante il leggero sorriso dell’amica, c’era qualcosa di malinconico nel suo sguardo.
Dopo qualche secondo di silenzio, Rosalya mormorò:
“Erin non poteva essere più fortunata a ricevere l’amore di uno come Nathaniel”
Iris rimase in silenzio, confusa e disorientata.
“Rosalya… ma tu sei” 
“la ragazza di Leigh” concluse amaramente l’amica, consapevole che non fosse quello ciò che voleva sentirsi dire Iris.
 
Erin arrivò sul terrazzo e trovò Nathaniel seduto per terra, appoggiato contro un muro.
Quella posizione era poco consona per un tipo a modo come lui ma del resto nel loro luogo d’incontro non c’erano sedie o panchine.
Il cielo era nero e la pioggia che l’aveva coperto fino a qualche ora prima era sparita, lasciando l’atmosfera limpida e sgombra da nuvole. Le stelle risplendevano luminose e ovunque attorno a loro c’era silenzio.
La ragazza si avvicinò cautamente ma il biondo si accorse della sua presenza prima di quanto lei sperasse.
E per la prima volta, Erin si sentì guardare come una donna.
Nathaniel aveva aperto la bocca nel tentativo di dire qualcosa, ma le parole non erano uscite. In quell’abbigliamento raffinato ed elegante, riconosceva a stento la Erin pasticciona e maschiaccio.
Quella deliziosa figura si sedette accanto a lui, dopo aver constatato che il suolo non fosse bagnato.
“Erin sei… magnifica”
“grazie” sorrise lei, arrossendo “Rosa mi ha anche tagliato i capelli”
“lo vedo. Era ora” commentò Nathaniel che aveva la gola secca per l’emozione e per questo la voce gli uscì un po’ roca.
“mi ci dovrò abituare” mormorò Erin accarezzandosi la coda.
“in fondo sei sempre la stessa persona. Solo che ora il tuo aspetto rispecchia quanto tu sia bella anche dentro”
La ragazza non riusciva ad controllare il colore del suo viso. Sperò che la tenue luce della luna smorzasse il rossore delle sue guance.
Rosalya le aveva prestato il suo elegante montgomery dal momento che il giubbotto di Erin era zuppo ma le aveva raccomandato di lasciarlo aperto per far intuire a Nathaniel il vestito sottostante.
Ormai soddisfatta dell’effetto che aveva sortito sul biondo, la ragazza se lo allacciò mentre Nathaniel cominciò a frugare in uno zaino accanto a lui.
Tirò fuori due contenitori con la scritta “HOTTER HOTTER CHOCOLATE” sull’etichetta.
“cosa sono?” chiese Erin incuriosita.
“non le hai mai viste? Sono delle bevande che si scaldano istantaneamente” e dopo questa sommaria spiegazione, Nathaniel passò alla dimostrazione pratica: premette una sporgenza sul fondo del contenitore, lo agitò un po’ e dopo qualche secondo, rimosse la pellicola di alluminio sul lato opposto.
Soddisfatto del proprio lavoro, porse la bibita fumante ad Erin.
La ragazza avvertì immediatamente il contatto caldo con le sue mani.
“cioccolata calda” esclamò Nathaniel ripetendo l’operazione con il proprio bicchiere.
Erin sorrise e i due sorseggiarono quel liquido che la rigida temperatura notturna rendeva ancor più piacevole.
“ci voleva proprio” commentò Erin, leccandosi le labbra.
“hai freddo?” le chiese il ragazzo.
“un po’” ammise la ragazza, finendo di sorseggiare la sua cioccolata.
Nathaniel tornò a frugare nello zaino e tirò fuori una coperta in pile rossa.
Lasciò che quel manto avvolgesse lui ed Erin, assicurandosi che fosse soprattutto quest’ultima ad essere coperta.
“grazie” mormorò la ragazza dolcemente “la prossima volta cosa tirerai fuori da lì? Una vasca idromassaggio?”
“se avessimo anche quella sarebbe tutto perfetto”
“no, ti sbagli” lo contraddisse Erin, guardandolo negli occhi “è già tutto perfetto”
 
Quella notte, al decimo piano dell’hotel, protetti dalla notte, niente e nessuno poteva rovinare quel momento. Del resto, per quanto ne sapeva Erin, Jason e Miss Joplin non avevano altri fratelli.
Lei e Nathaniel erano da soli, finalmente soli.
Il ragazzo portò lentamente la mano sulla nuca della ragazza, infilando le dita tra i suoi morbidi capelli. La attirò delicatamente a sé ed Erin assecondò quella direzione, sentendo che il suo respiro si fermava.
Le loro labbra si incontrarono a metà strada, fondendosi finalmente in un tenero bacio, tanto atteso quanto tentato. Dopo un po’ si sciolsero per poi tornare a cercarsi. 
 
 
 
NOTE DELL’AUTORE:
Lo so, lo so.
Alcune di voi starano sbattendo la testa conto lo schermo del pc -.-‘’ Erin ha scelto Nathaniel (e vi dirò di più… mi è anche piaciuta come mi è venuta questa parte)…ma vedetela così: la nascita di questa coppia complicherà le cose con chi “è rimasto a guardare”. A tal proposito lo vedi Castiel cosa succede a fare gli asociali e a non andare alle gite?
Altra cosa: se leggendo le prime due righe del capitolo avete pensato: “che roba è?? Cosa c’entra??” o qualsiasi analoga espressione di stupore e sconcerto, tranquillizzatevi… non si tratta di un errore da parte mia ;) sul loro significato però vi arriveranno delle delucidazioni prossimamente (se volete però fare delle ipotesi, prego, fate pure).
Ah una curiosità mia, a mo’ di sondaggio di quelli che fanno sui forum: che lavoro vi immaginate per il futuro dei personaggi? Io la mia idea me la sono già fatta ma mi piacerebbe sentire la vostra (ed eventualmente sfruttarla per la mia storia ;-)) Scegliete pure il/ i personaggi che volete^^)
Mi assenterò per tutta la settimana di ferragosto quindi spero di tornare con dei capitoli interessanti, degni dell’attesa:)… per questo vi lascio con l’anteprima del capitolo 21 e qualche “idea a caso” sui futuri sviluppi della storia, con la speranza che siano un incentivo a trovarvi ancora qui al mio ritorno XD
Prima di partire quindi, grazie per le recensioni, passate e future e per chi ha aggiunto la storia… è sempre una soddisfazione^^) Buona settimana di ferragosto!!
 

ANTICIPAZIONI DEL CAPITOLO 21: RAPUNZEL NON ESISTE PIU’

Riprende la routine scolastica ed Erin deve prepararsi ad annunciare la sua relazione con Nathaniel. Quali saranno le reazioni degli amici/ex-amici del biondo? Cambierà qualcosa nelle dinamiche del gruppo?
Qualcuno ferirà Erin con il proprio giudizio sulla sua scelta: chi sarà?



E POI ANCORA… PROSSIMAMENTE SU “IN HER SHOES”:

Erin in prima pagina sul giornalino della scuola…
Un concerto al liceo… (che fantasia eh -.-‘’)
Una recita che coinvolgerà anche altri studenti diversi da quelli del club di teatro…
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Rapunzel non esiste più ***


CAPITOLO 21: RAPUNZEL NON ESISTE PIU’


Erin cacciò un sospiro profondo.
Durante tutto il weekend lei e Nathaniel, diventato ufficialmente il suo ragazzo, si erano sentiti assiduamente. Le sembrava di aver vissuto in un sogno, in cui ogni cosa era perfetta: lui era dolce, premuroso e la faceva sentire più leggera.
Ora però era arrivato il tanto odiato lunedì e tutta la scuola sarebbe venuta al corrente della sua relazione.
Sistemò nervosamente l’orlo del maglione di lana che aveva abbinato ad un paio di jeans skinny.
Il giorno del ritorno dalla gita, tanto i suoi compagni di classe, quanto gli studenti di 5^C, avevano notato il suo nuovo look e il giudizio unanime era stato positivo. Ora anche il resto della scuola l’avrebbe vista letteralmente nei suoi nuovi panni.
Durante la colazione nel salone del hotel, le era stato difficile celare il disagio per l’attenzione che aveva calamitato su di sé, interesse che era aumentato esponenzialmente quando Nathaniel le si era seduto accanto.  Ogni dubbio o sospetto venne definitivamente sciolto quando, durante una sosta del bus sulla strada del ritorno, il biondo l’aveva baciata, incurante dello stupore degli spettatori.
 
Iris le rivolse un sorriso complice, invitando a seguirla e varcare il cancello del Dolce Amoris.
Le sembrò di essere tornata indietro di un mese, alla prima volta in cui aveva messo piede in quel cortile di ghiaia. Era una persona nuova e per certi versi sconosciuta persino a lei stessa.
Da quel momento in poi era Erin Travis, una ragazza femminile e dall’aspetto curato e soprattutto, fidanzata con Nathaniel, il ragazzo più ambito della scuola.
Pensò con sollievo che se non altro nella sua classe tutti erano al corrente delle novità che la riguardavano. Tutti tranne l’unico studente che aveva snobbato la gita.
In corridoio, mentre fingeva di ascoltare Iris, non riusciva a scacciare una strana inquietudine.
Quella sensazione la accompagnava da ventiquattro ore e non riusciva a levarsela.
Il fatto era che temeva la reazione di Castiel. Era l’unico dei suoi amici a disprezzare il suo ragazzo e questo avrebbe probabilmente creato delle tensioni anche all’interno della loro amicizia.
Il rosso si innervosiva anche solo al sentire il nome di Nathaniel. Le premesse non potevano essere meno incoraggianti.
 
Entrò in classe, convinta che il ritardo patologico del suo compagno di banco le avrebbe concesso del tempo extra per preparare quell’annuncio con le parole più adatte.
Invece, Castiel era già lì, seduto sul suo banco. Non lo vedeva da appena quattro giorni eppure avvertì un’esagerata felicità nel vederlo lì, in quella posa da ribelle e l’aria annoiata. Aveva una gamba piegata davanti al petto e l’altra lasciata a penzoloni. Davanti  lui c’erano Trevor e Kim, il primo impegnato a commentare una partita di basket trasmessa in TV il giorno prima.
Erin vide Castiel alzare distrattamente il capo, senza ricercare nessun punto in particolare finché non la incrociò. L’espressione del ragazzo dapprima apatica si trasformò in un leggero stupore che lo portò a dischiudere leggermente le labbra. Riconoscere in quel fisico femminile e armonioso i tratti della sua amica non era stata un’operazione immediata. Era abituato a vederla con larghi pantaloni da tuta e maglie informi. Era l’unico ad ammirarla in quel modo, il resto dei suoi compagni sembrava non dedicarle la stessa attenzione.
Dunque in gita era successo qualcosa e lui era l’unico ad esserselo perso.  Si rabbuiò, tornando a guardare Kim e Trevor senza rivolgere alcun cenno di saluto ad Erin. La ragazza dal canto suo, si era sentita inchiodare al suolo da quegli occhi così magnetici e penetranti ed era rimasta imbambolata al centro della classe.
Castiel cercava di allontanare quell’immagine così fresca nella sua mente: il maglione di lana rossa le metteva in risalto la carnagione mentre i capelli, scalati a dovere, le incorniciavano il viso e scendevano lungo la schiena. La loro lunghezza però non era più chilometrica come la ricordava, ma si fermavano prima di arrivare al sedere.
La ragazza aveva arrotolato le maniche all’altezza del gomito e adornato il polso con il suo solito braccialetto accanto ad uno di cuoio molto largo.
Non l’aveva mai vista vestita così bene e curata. Al suo occhio analitico non era sfuggito neanche lo sguardo reso intenso dal mascara.
Erin era rimasta lì, senza accennare ad un saluto o a una smorfia. Forse aveva realizzato la reazione che era riuscita a sortire in lui ma era talmente ingenua che Castiel non poteva esserne sicuro.
Iris la chiamò ed Erin tornò a prestare attenzione all’amica, accompagnandola al suo banco.
Dopo qualche minuto, il rosso sentì i passi della ragazza farsi sempre più vicini, ottenendo la conferma della presenza della sua vicina di banco quando Kim si complimentò:
“bel maglione Erin. Ti sta davvero bene”
La ragazza ringraziò gentilmente ed appoggiò la borsa sul banco lasciato libero.
L’insegnante entrò in quel momento, prima che lei o Castiel potessero scambiarsi due parole e il ragazzo fu costretto a ricomporsi e tornare seduto.
 
Da quando era iniziata la lezione, i due non avevano aperto bocca.
“conoscendo la superficie laterale abbiamo tutti i parametri che ci servono per risolvere l’esercizio”
In classe riecheggiava solo la voce del professore di matematica. Non era da Castiel barricarsi in quel mutismo e quel silenzio così snervante stava torturando Erin che dopo un po’ bisbigliò:
“allora non vuoi sapere di come è andata la gita?”
In quel momento il professore di matematica si voltò verso il duo, lanciando loro un’occhiataccia.
“me lo dirai dopo a pranzo” la liquidò il rosso con disinteresse, tenendo lo sguardo fisso verso il cono disegnato sulla lavagna.
“non posso. Pranzerò con Nathaniel”
Castiel acquisì quella notizia senza battere ciglio e tirò fuori dall’astuccio un portamine. Ricopiò l’equazione che il professore stava scrivendo e ribatté:
“e come mai? Di solito non pranzi con lui solo al giovedì?”
Erin si morse il labbro e arrossendo vistosamente gli sussurrò:
“io e Nathaniel ci siamo messi insieme”
CRACK
La punta della mina si era spezzata.
Il rosso rimase bloccato, tenendo il portamine a mezz’aria. Fissava inespressivo quel minuscolo pezzo di carbonio che giaceva sul suo foglio bianco su cui aveva lasciato un solco piccolo ma profondo.
 
Durante la pausa Nathaniel andò a salutare la sua ragazza, salvandola dall’imbarazzante silenzio che era calato tra lei e Castiel.
“che hai? Sembri un po’ giù di morale” indovinò Nathaniel, accarezzandole la guancia.
“niente” mentì Erin, che non voleva correre il rischio di litigare con il ragazzo. Non poteva raccontargli di Castiel, del fatto che non aveva preso bene la notizia della loro unione.
Del resto il biondo poteva facilmente immaginare che il suo ex migliore amico, in quanto tale, non poteva dirsi entusiasta della scelta di Erin.
Nathaniel e Castiel erano in una situazione di stallo in cui nessuno dei due sembrava intenzionato a ricercare un chiarimento.
“senti, non odiarmi, però dopo non possiamo pranzare insieme” si scusò Nathaniel.
“e perché?” chiese Erin dispiaciuta.
“la preside vuole che vada da lei per un resoconto sulla gita”
“ma non ti lascia neanche il tempo per mangiare!” protestò Erin.
“pranzerò quando ho finito con lei. Il pomeriggio deve incontrare il consiglio di amministrazione per l’organizzazione del torneo di basket dal momento che alcune partite si giocheranno qui”
Erin annuì comprensiva e si apprestò a tornare in aula, non prima di aver rubato un bacio stampo al suo impegnato ragazzo.
 
“Jason, c’è una certa Pam al telefono”
Una donna sulla cinquantina aveva sollevato il ricevitore per inoltrare la telefonata all’interno dello studio del ragazzo. In quel momento Jason era impegnato con un gatto con la setticemia.
Il giovane veterinario alzò la cornetta, con un sorriso stampato sulle labbra:
“sì?”
“Jason, sono io”
“ciao Pam. Come stai?”
“bene grazie. Tu?”
“tutto ok. Allora hai provato a cucinare le lasagne con la nuova ricetta?”
Il giovedì precedente, mentre Erin era in gita, Pam era riuscita a convincere Jason ad accompagnarla ad un corso di cucina. I due si erano divertiti molto insieme ed erano talmente affiatati che gli altri partecipanti li avevano scambiati per una coppia vera.
“è proprio questo il punto” sospirò Pam “voglio prepararle per stasera, ma non ricordo più come preparare quella cremina bianca”
“intendi la besciamella?”
“esatto. Ho sempre usato quella già pronta per cui non mi ci raccapezzo. Ho le dosi ma non ricordo il procedimento. Ho sciolto il burro nel latte e poi ho messo la farina”
“frena frena” rise Jason accarezzando il pelo corto del gatto “devi prima creare una specie di palla solida di farina e burro fuso. Poi ci aggiungi il latte caldo”
“hai ragione! Che stupida. Provo subito. Grazie. Se viene bene questa sera sei invitato a cena”
“grazie. Accetto volentieri”
Dopo essersi salutati, il veterinario riagganciò senza smettere di sorridere. La settimana precedente aveva realizzato, con una certa tenerezza, quanto le doti culinarie dell’affascinante vicina fossero scarse. Tuttavia il suo impegno e umiltà nel voler imparare la rendevano adorabile. Mentre pensava a lei però, gli nacque un sospetto. Alzò lo sguardo verso l’orologio ed ebbe la conferma che erano ormai le dieci. A quell’ora Pam avrebbe dovuto essere al lavoro.
Il telefono suonò nuovamente e Jason sentì per la seconda volta la voce della sua segretaria che gli annunciava:
“è ancora Pam”
Alzò la cornetta, stupito per quell’insistenza.
“è piena di grumi” si lamentò la donna.
“la besciamella?”
“e cosa sennò?”
Jason scosse la testa e le consigliò:
“hai uno sbattitore elettrico? Prova a sbatterla con quello”
“eseguo immediatamente” rispose Pam, riacquistando immediatamente la speranza e mettendo il cellulare in vivavoce si raccomandò “ma tu rimani lì”
Un po’ di difficoltà, con la cornetta in equilibrio sulla spalla e le mani occupate a tenere fermo il gatto, Jason sentì il rumore delle fruste elettriche che venivano azionate.
Allontanò l’apparecchio per staccarsi da quel rumore assordante. Per sua fortuna non durò molto.
“è venuta una meraviglia! Grazie per i consigli” esclamò Pam entusiasta, assaggiando il composto.
“sono contento. Ne va anche della mia cena del resto” scherzò il ragazzo.
“non serve neanche passarla sul fuoco. Ha la giusta consistenza”
“meglio così”
“adesso cosa devo aggiungerci oltre al sale?”
“la noce moscata”
“ah, quella non ce l’ho”
“pazienza, verrà buono lo stesso”
Pam sembrò delusa e Jason approfittò di quel silenzio per chiederle:
“scusa se sono indiscreto Pam, ma non dovresti essere al lavoro a quest’ora?”
Quella domanda lasciò la donna senza parole e cominciò a giustificarsi:
“eh, il fatto è che… oggi mi hanno dato un giorno libero”
“beata te” sorrise il ragazzo.
“già”
Anche se al veterinario quell’esclamazione sospirata risuonò sospetta, decise di non approfondire la questione e dopo aver salutato Pam, tornò a dedicarsi al suo peloso piccolo paziente.
 
Per Erin la situazione in classe con Castiel era sempre più insostenibile: il ragazzo si era chiuso in un impenetrabile silenzio e i suoi tentativi di scalfirlo erano stati infruttuosi. Dietro la sua calma apparente, lei era certa che si nascondesse un vulcano pronto ad eruttare. Iris invece era tutta eccitata all’idea di raccontare a Violet i succosi sviluppi della gita.
Mentre i tre amici si dirigevano al loro ritrovo abituale, la rossa era l’unica che parlava, mentre Castiel fumava una sigaretta e Erin lo fissava di nascosto.
Una volta arrivati, scoprirono che la settimana precedente anche Armin erano tornato a popolare le file del gruppo. Quella fu una piacevole novità per Erin, che per un attimo la distrasse dalle sue preoccupazioni: ora che anche il gemello di Alexy si era unito al gruppo, mancava solo il suo Nathaniel.
“è da un po’ che non ci si vede Irina” la accolse.
“Erin” lo corresse la ragazza sedendosi accanto a Rosalya.
“allora Erin? Rosa ci ha detto che hai una grossa novità da dirci” esclamò Alexy eccitato e squadrando il nuovo look della ragazza.
La mora diventò paonazza e lanciò un’occhiata di traverso a Castiel. Il rosso non esternò alcuna emozione e continuò a fumare la sigaretta, come se non avesse altro da fare, seduto in disparte dagli altri sul muretto.
“io e Nathaniel stiamo insieme”
Si sarebbe aspettata che Alexy, in quanto rimasto amico del biondo, esultasse per quella notizia, invece la sua reazione la spiazzò:
“ah” fu l’unico fonema che riuscì ad articolare.
Erin lo guardò dubbiosa. Non era quella la risposta che aspettava dall’esuberante amico.
Il ragazzo però non ricambiò l’interesse che la ragazza gli dedicava e fissava sconcertato Rosalya. Quest’ultima a sua volta si limitò a controllare lo stato della sua impeccabile manicure.
“non sono poi così sorpreso. Si era capito che c’era qualcosa nell’aria” commentò piatto Lysandre lanciando un’occhiata impercettibile a Castiel che solo il rosso colse. Il ragazzo si limitò a sollevare un sopracciglio e togliere un po’ di cenere dalla sigaretta.
Armin, disorientato per quelle reazioni e vedendo Erin mortificata, esclamò:
“beh mi accodo a questo dilagante entusiasmo e ti faccio i complimenti!” le disse sorridendo spontaneo. Erin avrebbe voluto baciarlo in fronte. Lo ringraziò mentalmente e cercò di infondere nel suo sorriso complice tutta la sua gratitudine.
Era il primo a dimostrarsi allegro per quella notizia.
Il fratello perpetuava il suo silenzio mentre Lysandre non si staccava da un educato disinteresse. Quanto a Castiel continuava a tenere il muso.
“oh insomma! Cosa sono quelle facce? Nathaniel è un bravo ragazzo, non poteva scegliere di meglio!” protestò Iris, delusa da quelle facce apatiche. Non si accontentava delle congratulazioni di Armin, era convinta che anche gli altri avrebbero palesato la loro soddisfazione per quella notizia.
Il fidanzamento di Erin e Nathaniel era un primo importante passo per l’ingresso del biondo nel gruppo  a cui solo Castiel si opponeva. Da parte di quest’ultimo infatti Iris aveva previsto uno scarso entusiasmo, se non addirittura una certa irritazione, ma non da parte di Alexy e Lysandre.
La rossa si rivolse allora verso la persona che più di tutte era rimasta in disparte e si appoggiò a lei per ottenere maggiori soddisfazioni:
“Violet, tu non dici niente? Non sei contenta per Erin?”
L’artista posò l’album che fino a quel momento aveva tenuto davanti a sé quasi come uno scudo. Non osò alzare lo sguardo, ma sentì che solo Castiel in quel momento non la stava osservando.
“non proprio” ammise timidamente.
Dopo quell’ammissione, persino il rosso si era voltato di scatto verso la ragazza. Violet era famosa per essere imprevedibile e in quanto tale non poteva fare a meno di stupire i suoi amici.
“perché?” chiese Erin quasi sconvolta. La domanda le uscì quasi strozzata e un senso di disagio la pervase. Non era sicura di voler sentire la risposta.
 
“perché ho l’impressione che tu abbia confuso la gentilezza di Nathaniel con l’amore”
 
Quelle parole sortirono in Erin lo stesso effetto di una doccia fredda.
Nel gruppo scese il gelo. 
Nessuno aveva smentito o confermato le parole di Violet.
Erin scattò in piedi e sbottò:
“ma se neanche lo conosci! E non conosci me!” la assalì, avvicinando il viso a quello dell’artista.
Istintivamente Violet indietreggiò la schiena, spaventata dagli scontri verbali.
Non era così che doveva andare. Erin poteva capire Castiel, che aveva una bassa opinione di Nathaniel, ma non tutti gli altri, soprattutto non Violet.
Di fronte a quella reazione, fu proprio il rosso ad intervenire, rompendo il silenzio in cui si era barricato:
 “non ti sembra di essere superficiale nelle tue scelte? Meno di una settimana fa avevi detto di essere confusa sui tuoi sentimenti per lui ed ora ti ci sei pure messa insieme”
Ecco un’altra pugnalata.
Non si aspettava però che il ragazzo le rinfacciasse questo. Pensava che l’avrebbe criticata per aver scelto uno “sporco traditore” come fidanzato invece Castiel biasimava la volubilità dei suoi sentimenti. La credeva una persona superficiale e frivola.
Quella era l’opinione che Erin aveva maturato su sua zia, era quel lato del carattere della donna che lei aveva sempre disprezzato e biasimato. Sentirsi accusare di quei difetti la feriva enormemente.
Forse Castiel aveva ragione, del resto lei conosceva il biondo da appena un mese… no, non poteva lasciare che i dubbi la attanagliassero. Aveva fatto una scelta e non aveva motivo per fare marcia indietro.
Il suo castello di felicità però era crollato sin da quanto aveva varcato il cancello del liceo.
 Violet era convinta che lei fosse una stupida e Castiel la riteneva una ragazza superficiale.
“mi è passata la fame” mormorò Erin gettando un pranzo pressoché intatto nel cestino.
Si allontanò dal gruppo a grandi passi, seguita subito dopo da Iris che cercava di richiamarla indietro.
La tensione che era scesa nel gruppo fece sì che ben presto ognuno tornasse alle proprie attività, senza aggiungere altro su quella conversazione.
Alla fine Alexy e Rosalya rimasero soli. La ragazza non sembrava intenzionata a parlare ma l’amico non attendeva che il momento più opportuno per affrontarla:
“questa me la devi spiegare” mormorò il ragazzo con serietà.
La regina delle nevi si sistemò i capelli e afferrò una ciocca e cominciò ad accarezzarsela, consapevole che Alexy non avrebbe sopportato ancora a lungo quel silenzio:
“con Nathaniel ormai mi sono rassegnata. Non è destinato a restare single e se proprio deve avere una ragazza accanto, voglio che quella ragazza sia Erin”
Quelle amare parole erano intrise di tristezza e rassegnazione che  Alexy sentì spegnersi ogni tentativo di protesta.
 
Durante l’allenamento, Erin evitò qualsiasi interazione con Castiel. Non riusciva a guardarlo in faccia e lui del resto era troppo impegnato a rispondere ai rimproveri di Boris.
“insomma Castiel! Non hai mai giocato così male! Che ti prende?”
“era impossibile tirare a canestro da quella distanza” si difese il capitano.
Kim dal canto suo, aveva notato quel cambio di atteggiamento tra i due. Dopo che Erin si era fidanzata con Nathaniel, la cestista aveva finalmente avuto la conferma che la compagna di squadra non era minimamente interessata a Dajan e questo era bastato per sentirsi più vicina a lei.
Era una delle poche ragazze con cui avesse legato e se non avesse sospettato l’interesse del cestista per lei, probabilmente sarebbero diventate amiche molto prima.
“sei sicura di stare bene? Mi sembri pallida” indagò mentre stavano eseguendo un esercizio di stretching.
“sì, tutto ok” borbottò Erin, che a contrario si sentiva debole.
Lo stomaco le rinfacciava il mancato pranzo e il cervello protestava per il ridotto apporto di zuccheri.
Più si allenava, e più sentiva le forze esaurirsi. La testa cominciò a girarle e nelle orecchie sentì una sorta di brusio. Finito l’esercizio, cercò il sostegno della parete ma non riuscì a trovarlo.
Sentì che le gambe le stavano cedendo quando un paio di braccia la sostennero:
“Boris!” chiamò la voce di Castiel, a cui appartenevano le mani che le circondavano le spalle, costringendola a restare in piedi. Quella fu l’ultima sensazione avvertita dalla ragazza prima di perdere completamente i sensi.
 
Al club di giornalismo c’era fermento. L’indomani sarebbe uscito il numero di novembre e gli studenti erano impegnati ad apportare le ultime disperate modifiche prima di mandare tutto in stampa.
Meredith, una ragazza di 4^C si avvicinò a Peggy, allungandole il proprio cellulare.
Quest’ultima lo afferrò e ingrandì la foto visibile sullo schermo.
Un sorrisetto trionfante si disegnò sulle labbra e commentò:
“ottimo lavoro Meredith”
 
Quando riaprì gli occhi, Erin si trovò di fronte il viso preoccupato di Nathaniel.
Il ragazzo la guardò sollevato, rilassandosi sulla sedia.
“mi hai fatto preoccupare. Oggi ti avevo vista strana…”
Erin si mise seduta sul letto dell’infermeria e ispezionò l’ambiente. Era la seconda volta che finiva lì ma nella prima occasione era stato per una banale pallonata in faccia. Uscita aveva trovato Nathaniel ad aspettarla e anche ora era lì, accanto a lei.
“che ci faccio qui?” biascicò ancora intontita.
“non ricordi? Sei svenuta” le spiegò Nathaniel.
Erin lo guardò interrogativa e in quel momento risuonò nella sua testa la voce di Castiel.
“Castiel dov’è?” esclamòimprovvisamente.
“ti ha portato qui di peso e poi è venuto a chiamarmi. Ora è in palestra” le spiegò il biondo, leggermente sorpreso dall’interesse della ragazza.
Erin rimase in silenzio. Castiel l’aveva soccorsa eppure lei non ricordava nemmeno la sensazione di essere sollevata dal suolo. Si sentì arrossire e sperò che Nathaniel non se ne accorgesse.
Inoltre avrebbe voluto assistere allo scambio di battute tra i due ragazzi anche se poteva facilmente immaginare di non essersi persa nulla di significativo. Ma era rimasta colpita dal fatto che l’amico avesse pensato di chiamare Nathaniel. L’aveva fatto per lei e questo gesto l’aveva commossa.
Mentre scendeva dal letto, soggiunse l’infermiera.
“mi pare che tu stia bene. Voi ragazze ossessionate dalla linea!” la rimproverò “dovete mangiare di più, altrimenti il corpo non regge. Ti misuro la pressione e poi Nathaniel portala a prendere qualcosa alle macchinette prima di riportarla in palestra” gli ordinò la donna preparando lo sfigmomanometro.
Il biondo annuì e lasciò che la sua ragazza si sottoponesse al rapido esame, aspettandola fuori dalla stanza.
 
Rosalya alzò gli occhi al cielo. Ambra quel giorno era più intrattabile del solito.
Prima aveva avuto da ridire sulla scenografia realizzata con l’aiuto di alcuni studenti del club di disegno e ora era passata a lamentarsi dell’intensità delle luci del palcoscenico.
Persino Lin, che solitamente assecondava ogni richiesta della principessa, sembrava non poterne più:
“Ambra! Datti una calmata”
La bionda si voltò verso la ragazza e sibilò:
“non darmi ordini Lin! Sono la presidentessa di questo club e ogni cosa deve essere al top!”
“ma tu ti limiti a criticare, senza proporre nessuna miglioria!” protestò Lin.
Tutti erano sorpresi dalla reazione della cinesina. Normalmente assecondava la bionda, tollerando ai limiti della dignità umana le cattiverie che le riservava l’amica. Quello che non potevano sapere era che anche Lin aveva raggiunto il limite di sopportazione. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato il comportamento delle sue cosiddette amiche durante la gita a cui lei non aveva partecipato; infatti, nonostante i messaggi che aveva inviato a Charlotte ed Ambra, nessuna delle due si era degnata di risponderle. Avevano così fornito alla ragazza l’ennesima prova della bassa considerazione che avevano della sua amicizia. Non era raro per Lin sentirsi trattare dalle due come una persona di uno status inferiore.
“dipende da qual è il tuo concetto di miglioriamalignò Ambra, insistendo sull’ultima parola “quel dozzinale telo azzurro va bene solo per pulire per terra… altro che cielo” esclamò denigrando una precedente proposta dell’amica.
Lin sbuffò e si allontanò dalla presidentessa, rifugiandosi dietro le quinte. Sapeva cosa avesse innescato il cattivo umore di Ambra ma questo non la autorizzava a prendersela con tutti, meno che meno con lei.
 
Il pennello scivolava agile sul foglio mentre la mano che lo guidava sembrava seguire una coreografia di danza. I tratti non erano riconducibili ad alcuna forma e il disegno era l’emblema più concreto dell’astrattismo.
“che cos’è?” chiese Alexy, piegando la testa di lato.
“la mia mente” spiegò Violet, prendendo un altro colore.
Il ragazzo aspettò che l’artista aggiungesse qualcos’altro ma si vide costretto a intervenire lui stesso:
“stai pensando a quello che è successo oggi?”
Violet posò il pennello sulla tavolozza e annuì sconsolata.
“non volevo ferire Erin. Però non volevo neanche mentirle” sussurrò mortificata.
Alexy sorrise e la consolò:
“lo sai Violet? A me piacciono le persone che dicono la verità, anche se non sempre corrisponde a ciò che gli altri vogliono sentirsi dire. Il fatto che tu l’abbia fatto con Erin vuol dire che tieni davvero a lei”
 
“ottime notizie ragazze! La preside mi ha appena detto che sono arrivate le vostre divise” annunciò Boris, rientrando rumorosamente in palestra e rivolgendosi alle sue due giocatrici. In mano teneva un pacco e le due dirette interessate si avvicinarono incuriosite, seguite dal resto della squadra.
Il loro allenatore scartò l’involucro e porse alle sue giocatrici il contenuto. Le due ragazze ammirarono orgogliose quel pezzo di stoffa che rappresentava la conferma finale della loro adesione alla squadra.
Ad Erin era stato assegnato il numero 12 mentre a Kim il 6.
“chi ha scelto i numeri?” chiese Kim esaminando per nulla entusiasta il simbolo numerico sulla sua maglia.
“il capitano” replicò Boris.
Kim lanciò un’occhiataccia a Castiel:
“ti avevo chiesto, qualsiasi numero, tranne che il 6”
“ah avevo capito il contrario” sostenne l’altro per nulla turbato. La ragazza ebbe la vaga sensazione che l’avesse fatto apposta.
“perché non vuoi il 6?” chiese il numero 5 della squadra, ovvero Dajan.
“mi ha sempre portato sfortuna. Ogni volta che nelle gare mi hanno messo in corsia 6, ho perso”
Trevor le diede una pacca sulla spalla, deridendola per la sua paranoia.
Erin invece considerò il numero scritto sulla schiena di Castiel: 11. Una volta il cestista le aveva detto che l’aveva scelto perché si considerava due volte il numero 1 e lei aveva ribattuto che pertanto Dajan avrebbe dovuto avere il 111.
Negli ultimi giorni trascorsi in gita le erano mancate molto le loro conversazioni, oltre alla tendenza del ragazzo di stuzzicarla di continuo, incentivandola a tirar fuori il lato più sarcastico del suo carattere.
“dobbiamo metterle adesso?” chiese Kim guardando dubbiosa Boris.
“mettetevele qui. Per noi non ci sono problemi” scherzò Matt a cui si accodò qualche giudizio analogo di altri ragazzi.
Erin e Kim in tutta risposta fecero una smorfia e uscirono dalla palestra per raggiungere il loro spogliatoio.
 
Al termine delle lezioni, Erin andò in sala delegati ad attendere Nathaniel. Non aveva voglia di vedere nessun’altro che non fosse il suo ragazzo. L’unica persona che quel giorno riusciva a farla stare bene.
Finto l’allenamento, aveva lasciato la palestra senza degnare Castiel di uno sguardo. Quest’ultimo dal canto suo era rimasto da solo a fare qualche tiro libero, con il benestare di Boris che l’aveva rimproverato tutto il giorno per non essersi impegnato a dovere.  
 
Il flusso di inchiostro si interruppe e, uno scocciato Lysandre, cominciò a vorticare la penna contro la carta. Quando finalmente l’oggetto tornò a scrivere, ormai la pagina del suo block-notes era piena di solchi invisibili. La strappò e la ripose in tasca poiché era troppo educato per gettarla a terra.
Era seduto sul tetto della scuola, di fronte a quel tramonto che ogni volta conciliava la sua vena poetica.
“so che sei lì, inutile che ti nascondi” disse d’un tratto, senza staccare gli occhi dal foglio.
Dietro al parapetto sbucò Castiel che, scavalcandolo agilmente, raggiunse l’amico.
“ti metti a fare gli agguati come i gatti adesso?” lo accolse Lysandre.
“che scrivi?” chiese Castiel.
Dal suo tono di voce, il poeta colse che era di pessimo umore e la cosa non lo sorprese.
“una canzone. Si intitola –l’idiota che per prendere tempo perse l’amore-
Il rosso si lasciò sfuggire un verso stizzito e replicò:
“non dire cazzate Lys. Te l’ho già detto. Non mi piace Erin”
“allora perché non ti sei congratulato con lei?”
Castiel mise il broncio e obiettò:
“se è per questo a parte Armin, non mi risulta che voi abbiate fatto i salti di gioia”
“io ero solidale nei tuoi confronti” chiarì il poeta.
“mica sono in lutto”
“ti scriverò un requiem” mormorò tra sé e s Lysandre, ignorando l’amico e perdendosi nei suoi pensieri.
Castiel si accese una sigaretta per colmare quell’irritante silenzio. Lysandre aveva sempre avuto quella saccenteria (che lui chiamava saggezza) che gli permetteva di giudicare tutto e tutti. L’aveva fatto in passato con Debrah e, ciò che più scocciava a Castiel, era stato, con il senno di poi, ammettere l’esattezza del giudizio dell’amico.  
Il poeta dal canto suo aspettava il momento in cui il chitarrista, incapace di contenere i pensieri che gli vorticavano in testa, sarebbe sbottato.
Quel momento non tardò ad arrivare e Lysandre sorrise tra sé e sé per la prevedibilità del rosso:
“è che mi fa incazzare la sua mancanza di coerenza! Prima mi dice che non è sicura di quello che prova per Nate e poi si mette con lui” si lamentò il ragazzo, incrociando le gambe.
“Nate” ripetè Lysandre dolcemente.
“eh?”
“l’hai chiamato Nate” osservò compiaciuto “eri l’unico a chiamarlo così”
Castiel distolse lo sguardo, puntandolo sul cortile dove in quel momento vide Erin che lo stava attraversando.
“parli del diavolo” commentò lasciandosi sfuggire un sorriso.
Anche se era arrabbiato con lei, non riusciva a non prestarle attenzione. Specie ora che emanava grazia e femminilità da ogni poro. In momenti come quelli dimenticava ogni arrabbiatura e gli bastava l’immagine della ragazza per sentirsi più sereno.
“di chi parli?” chiese Lysandre sorgendosi a guardare verso il cancello posteriore.
“vicino alla colonna c’è Rapun-“ cominciò a dire Castiel ma fu costretto ad interrompersi. Quel soprannome ormai non aveva più ragione di esistere perché con esso era scomparsa la lunga chioma della ragazza.
Lysandre sembrò leggere nella mente dell’amico e non aggiunse altro, limitandosi ad osservare quella scena.
La scuola era deserta, tutti gli studenti se ne erano andati e c’era solo una persona che Erin poteva aspettare. Poco dopo infatti fece capolino Nathaniel che, con un’andatura sicura, raggiunse la ragazza. Le portò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé per regalarle un bacio dolce che entrambi attendevano con trepidazione. Erin sorrise felice e si sciolse da quell’abbraccio per afferrare la mano del suo ragazzo ed allontanarsi, camminando fianco a fianco.
I due spettatori avevano assistito a quella tenera scena restando in silenzio, finché Lysandre mormorò:
“ormai non è più la tua Rapunzel…è la principessa di qualcun altro”
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Sono tornata ^^)
Felice e riposata. In realtà ho in programma un ultimo esame all’università ma poi avrò tutto il mese di settembre per dedicare più tempo alla ff.
Questa volta più delle altre lasciatemi scrivere un GRAZIE gigante per le ultime recensioni. Evidentemente il capitolo precedente è stato particolarmente sentito perché c’è stato un record di opinioni: 9! Quando le ho viste non ci credevo O.o. il capitolo di oggi ha posto le basi per ciò che succederà nel prossimo e di cui vi fornirò qualche anticipazione più in basso ;)
Questo chapter pensavo di pubblicarlo nel fine settimana poiché volevo allegare un disegno che ho abbozzato ma mi sono resa conto che mi ci vorrà troppo tempo per ultimarlo, quindi ecco intanto il capitolo^^)
Anche se non ci sono stati grossi eventi, spero vi sia piaciuto. Del resto il prossimo si annuncia carico di novità a partire da… beh ve lo dico più in basso. Alla prossima ^^)

 

 
ANTICIPAZIONI SUL CAPITOLO 22: NOTIZIE DA PRIMA PAGINA
Ambra e Lin litigano animatamente nei corridoi… cosa ne sarà della loro “amicizia”?
Erin e Nathaniel in prima pagina: come reagirà la ragazza?
Castiel e Violet cambieranno idea e accetteranno la nuova relazione della loro amica?
Il club di teatro cerca nuovi membri per una recita…. A tal proposito ecco un estratto del capitolo 22, spero lo apprezzerete:

 
“Rosalya passò in rassegna il suo gruppo di amici: Iris aveva appena rifiutato, Alexy e Violet già collaboravano per la scenografia, Lysandre era già nel club di teatro, Armin aveva già dato prova in passato delle sue pessime abilità di attore e pertanto andava scartato. Una macchietta rossa però era a lato del suo campo visivo; con un sorriso mellifluo, Rosalya sussurrò sensuale:
“Casssy…”
Prima che potesse aggiungere altro, l’amico sbottò:
“non ci pensare neanche! Non mi metto in calzamaglia davanti alla scuola!”
“ma non c’è nulla di male!” obiettò  Lysandre.
Il rosso gli lanciò un’occhiata stizzita e replicò:
“forse a te piace anche andare in giro vestito da piccolo lord, ma io preferisco evitare di rendermi ridicolo”
“e quel colore di capelli come lo consideri?” lo canzonò Armin, ricevendo dal rosso un calcio sotto il tavolo che accolse con un sorriso.
“ti daremo la parte del contadino zoticone” tentò Lysandre.
Castiel rimase interdetto, chiedendosi se l’amico lo stesse insultando o aiutando, mentre Armin aggiungeva:
“beh, così gli sarà più facile calarsi nel personaggio”
In risposta Castiel gli lanciò contro una patatina fritta ma l’amico intercettò al volo, prendendola con la bocca.
“neanche Demon è così bravo” si complimentò Castiel.
“wof! Wof!” replicò Armin”
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Notizie da prima pagina ***


CAPITOLO 22: NOTIZIE DA PRIMA PAGINA


 
Ravenclaw11: mannaggia! Se non fosse stato per quel laser mortale, avrei vinto io. Adesso voglio la rivincita!
 
Hydra_Silently: non posso che accettare. Con(tro) te è sempre un piacere ;)
 
 


Ignorare una persona quando si è costretti a restale accanto per quattro ore, seduti dietro un banco, può rivelarsi una situazione pesante. La discussione con i suoi amici risaliva a due giorni prima e in tutto quell’arco di tempo, Erin e Castiel avevano limitato il più possibile lo scambio di battute.
Le uniche persone che beneficiavano di quella situazione erano gli insegnanti, che finalmente potevano godersi l’immagine di Castiel Black silenzioso e tranquillo.  
La sua compagna di banco però aveva già raggiunto il limite di sopportazione. Non riusciva a perpetuare quel mutismo. Era consapevole che non sarebbe stato il rosso a fare il primo passo per scusarsi quindi se voleva uscire da quella fase di stallo, doveva essere lei a prendere l’iniziativa.
Ciò che lui e Violet le avevano detto, l’aveva offesa terribilmente ed era uno dei motivi per cui non aveva più pranzato con il gruppo. Del resto ora stava insieme a Nathaniel e voleva passare il poco tempo a disposizione per restare con lui anche se questo non le aveva impedito di sentire la nostalgia per l’allegria dei suoi amici.
Sospirò, riflettendo per l’ennesima volta sul fatto che se Castiel e Nathaniel si fossero riappacificati, lei non si sarebbe trovata in quella scomoda situazione.
L’unica cosa che poteva fare al momento era convincere il rosso e Violet della sincerità dei suoi sentimenti per il segretario, in modo da farli ricredere sulla loro spietata opinione. Castiel l’aveva accusata di essere una persona superficiale e, anche se l’impulsività era una caratteristica del suo carattere, Erin era ormai sicura dei suoi sentimenti per Nathaniel. Il suo amico non era presente in gita, non sapeva tutto quello che il biondo aveva fatto per lei, quindi non poteva capirla.
Ciò che davvero aveva turbato la ragazza era stata l’opinione di Violet.
 “TRAVIS!” chiamò più forte la professoressa Fraun, ormai esasperata.
Erin si destò dai suoi pensieri e realizzò i ripetuti tentativi da parte dell’insegnante di catturare la sua attenzione. Si scusò e rispose alla domanda ma la donna non sembrò soddisfatta, anzi, si inalberò ancora di più:
“adesso non stiamo più parlando della guerra di Secessione!” la rimproverò infuriandosi per la disattenzione dell’alunna “ci siamo spostati sullo scenario europeo!”
La studentessa non aveva la minima idea di cosa avesse spiegato la donna fino a quel momento e tutto il suo smarrimento passò attraverso lo sguardo. Contrariata la donna scrollò il capo e tornò alla sua spiegazione.
 
Al cambio dell’ora, Lia, in quanto membro del club di giornalismo, posizionò un plico di copie del giornalino scolastico sulla cattedra. Gli studenti si avventarono su di esso mentre Erin, seduta in fondo alla classe non ebbe il tempo di procurarsene una copia. Era la prima volta che assisteva alla circolazione del giornalino e sarebbe stata curiosa di leggerne il contenuto. Per sua fortuna le venne incontro Iris che brandiva due copie.
“Erin… c’è una cosa che dovresti vedere” le disse sibillina, facendo scivolare l’oggetto sul banco della ragazza.Incuriosita, lo raddrizzò e cominciò ad ispezionarlo.
In prima pagina, con tanto di foto a colori, erano immortalati lei e Nathaniel, avvinghiati nel tenero bacio che si erano scambiati in gita, durante il viaggio di ritorno, davanti a tutti.
La ragazza rimase a bocca aperta, mentre il resto della classe, tra risatine e commenti, la fissava divertita.
Il pezzo si intitolava: “PREPARATE I FAZZOLETTI: NATHANIEL NON E’ PIU’ SINGLE”
Erin non riuscì ad evitare di lanciare un’occhiata furtiva a Castiel che si alzò e uscì dall’aula.
Sentendo il sangue ribollirle nelle vene, la ragazza passò alla lettura dell’articolo:
 
“Erin Travis? Vi dice nulla questo nome? Molto probabilmente sì, ma se appartenete a quell’esigua minoranza di studenti a cui questo nome non dice nulla, allora vi forniremo qualche dritta sull’ultimo interessante acquisto del nostro liceo: Erin Travis, 4^C, è una ragazza arrivata meno di un mese fa e sin dal primo giorno ha fatto notizia (come potete leggere nella sezione “l’angolo dei club” di questo numero). Erin infatti è stata ammessa al club di basket, capitanato da uno dei leader più sessisti che la squadra abbia mai avuto: Castiel Black. L’ultimo individuo di sesso femminile ad aver fatto parte del team è stata Cindy Crawford, ben tre anni fa. Questo evento eccezionale tuttavia non è stato un caso sporadico. Erin infatti ha trascorso una settimana di punizione per aver svelato il mistero che si celava sotto la bionda chioma di Ambra Daniels… se non ne siete ancora al corrente, vi invitiamo a scorrere pagina 12, vi garantiamo una lettura alquanto interessante.
Ora mi rivolgo alle ragazze: se questi due episodi vi hanno portato a pensare che Erin Travis sia una ragazza simpatica e in gamba, aspettate di leggere quanto segue: rimarrete (spiacevolmente) sorprese nel sentire che l’irraggiungibile Nathaniel (abbiamo ritenuto inutile inserire il cognome) sia stata agguantato proprio da questo uragano umano. Eh sì, mie care: il nostro segretario delegato non è più single, come testimonia la foto in basso. Erin e Nathaniel si sono frequentati nelle ultime settimane, approfittando di pause pranzo, cambi dell’ora e, secondo alcuni testimoni, anche durante i weekend. Tuttavia è stata la gita conclusasi qualche giorno fa ad aver fatto scoccare la scintilla. Per quelle ragazze che ancora perdevano tempo e sospiri a pensare a questo ragazzo, abbiamo un solo messaggio: è finita.”


L’articolo era firmato da Peggy Guggenheim, la studentessa di seconda che Erin ricordava di aver incrociato la settimana prima in sala delegati. Anche Iris aveva terminato di leggere il pezzo e sollevò gli occhi verso l’amica per capire quale reazione avesse suscitato in lei.
Erin schizzò in piedi, brandendo la propria copia e si precipitò nella classe della giornalista, impersonando quell’ “uragano umano” di cui aveva parlato.
 
Sulla soglia della porta trovò Violet, in quanto compagna di classe della giornalista. Vedendo l’espressione mortificata della ragazza, per un attimo Erin sospettò che l’artista avesse avuto un ruolo nel fornire informazioni su quell’articolo, ma allontanò ben presto quella cattiveria. Quello che Violet le aveva detto l’aveva ferita ma non la riteneva capace di umiliarla così.
Si diresse a grandi passi verso Peggy che sorrideva beffarda, come se fosse in attesa di quella visita.
La mora sbatté il giornale sul tavolo e indicando la foto, protestò:                         
“queste sono cose private!”
Peggy non si scompose e replicò:
“allora evitati certe smancerie in pubblico”
Erin rimase per un attimo senza parole di fronte a tanta freddezza poi si difese:
“non abbiamo fatto nulla di male. Non avevi nessun diritto di sbatterci in prima pagina!”
“tutto ciò che fa notizia vale la pena condividerlo con gli altri”
Di fronte a quella sicurezza incrollabile, Erin non sapeva come reagire. Il cinismo e la sfrontatezza della ragazza erano insopportabili e la tentazione di prenderla a sberle diventava sempre più incontrollabile.
“come ti sei procurata la foto? Manco c’eri in gita!”
“ho i miei informatori. Una volpe come me aveva intuito che ci fosse qualcosa tra te e il segretario così ho avvertito una mia collega che ti tenesse d’occhio in gita. Scrivere l’articolo poi è stato facile, è bastato il weekend”
“ovvio, per fare un giornalismo così scadente basterebbero anche cinque minuti” ribatté Erin.
Quella provocazione finalmente scalfì la corazza di Peggy che si alzò dal suo posto, fronteggiando la sua vittima. I loro visi erano vicinissimi ma nessuna delle due ragazze sembrava intimidita dall’avversaria.
 “sei finita in prima pagina! Di cosa ti lamenti?” inveì Peggy, schiacciando il palmo della mano contro il giornale.
Facendosi coraggio, Violet si avvicinò e, cercando di dare un tono fermo alla sua voce, comunicò:
“ragazze sta arrivando la prof”
Erin si voltò e, sorpresa e al contempo irritata, scoprì che si trattava dell’insegnante che più odiava: la Fraun. Dal momento che quel sentimento era reciproco, appena la vide, la donna sbottò:
“TRAVIS! Cosa ci fai qui? Torna immediatamente nella tua aula!”
 
Quando Erin si riaccomodò al suo posto, Castiel era impegnato nella lettura del giornalino.
Quella scena la sorprese poiché era iniziata una delle poche lezioni che il ragazzo seguiva con attenzione: matematica. In quel momento però sembrava più interessato ai pettegolezzi scolastici.
Allungando l’occhio tuttavia, Erin scoprì che il ragazzo non stava leggendo il pezzo che la vedeva come protagonista. La rabbia che le era montata in corpo dopo aver letto la prima pagina le aveva impedito di sfogliare quelle successive. Prese la propria copia e si portò alla stessa pagina del ragazzo.
Lesse il titolo ed esclamò a gran voce:
“CI SARÀ UN CONCERTO QUI AL LICEO!”
Il professore sobbalzò e con lui, il resto della classe, compreso il rosso.
“TRAVIS! Le sembra questo il modo di comportarsi?”
“mi scusi, mi è sfuggito” replicò Erin avvampando.
Quella notizia però accese l’interesse degli studenti, primo tra tutti Trevor.
“che concerto Erin?” le bisbigliò voltandosi verso di lei. Era stato talmente preso dall’articolo di Peggy da non aver badato al resto delle notizie scolastiche. La curiosità che cominciò a dilagare tra le facce degli studenti confermarono che non era l’unico.
“a dicembre. Prima delle vacanze. Leggi a pagina 7”
Altri avevano seguito quel suggerimento e appena il professore terminò di scrivere alla lavagna, si trovò di fronte un’intera classe con la testa china sulle ginocchia.
Montando su tutte le furie, l’insegnante ritirò tutte le copie, dichiarando di restituirle al termine della lezione. Le sbattè violentemente sulla cattedra ma nonostante la sua irritazione, Erin non riusciva a smettere di sorridere. Era su di giri. Quella notizia era troppo per non condividerla con il musicista seduto accanto a lei. Era una notizia troppo importante per lasciare che il loro battibecco le impedisse di affrontare quell’argomento. Avrebbe messo da parte l’orgoglio e sfruttato quella novità per riappacificarsi:
“parteciperete?” bisbigliò.
“scordatelo” replicò Castiel asciutto cominciando a prendere appunti.
“perché no?” mormorò Erin dispiaciuta.
“TRAVIS! Un altro richiamo e ti sbatto fuori!” la riprese il professore, voltandosi infastidito dal brusio.
Erin si incurvò nelle spalle, mordendosi il labbro.
Visto che le chiacchere l’avrebbero cacciata nei guai, intraprese una corrispondenza ravvicinata con Castiel.
Strappò un foglio, facendo un rumore tale che l’insegnante si girò nuovamente lanciandole un’occhiataccia inceneritrice. Erin sorrise come un ebete, sperando che quell’espressione fosse interpretata come una richiesta di perdono. Stava camminando su una lastra di ghiaccio molto sottile e ogni volta che il professore si voltava verso di lei sentiva un crack.
Scarabocchiò qualcosa e fece scivolare il biglietto sul banco di Castiel.
 
E: Eddai! È un’opportunità per farvi conoscere come band! E poi così potete reintegrare Alexy alla batteria ^^)
 

Castiel scrisse velocemente qualcosa e le ripassò il foglio.
 
C: No
 

Incaponitasi, Erin rispose:
 
E: perché?
 
C: Non ne ho voglia. Discorso chiuso
 
Di fronte alle parole scorbutiche del ragazzo, la ragazza pensò di reagire con l’ironia. Provò a disegnare una bambina in stile chibi con le braccia conserte e l’aria imbronciata e passò l’opera d’arte a Castiel.
Con la coda dell’occhio studiò la reazione del suo vicino di banco. Dapprima ebbe un’espressione confusa, poi ritirò le labbra come a voler trattenere una risata, diventò rosso e alla fine, incapace di trattenersi abbandonò ogni difesa e scoppiò a ridere.
Il professore si voltò, ormai sull’orlo dell’esasperazione:
“BLACK! Non cominciare anche tu!”
Castiel però era molto più insensibile di Erin a quel genere di richiami e non accennò ad una minima mortificazione. Appena l’uomo era tornato a concentrarsi sulla lavagna, chiamò Trevor.
“pss, Trevor? Cosa ti sembra questo sgorbio?” gli disse mostrandogli il disegno di Erin.
Il cestista si voltò divertito e rise:
“è una papera?” chiese mettendo a fuoco l’immagine. Anche Kim, seduta accanto a lui si era voltata incuriosita.
“non ti sembra un maiale?”
Offesa per quello scambio di battute, Erin si allungò per sottrarre il foglio a Castiel. Si sporse verso il banco del vicino ma le sue braccia erano troppo corte per raggiungere la mano del rosso.
In quel momento però il professore si voltò e cogliendo in fallo i due studenti, scoppiò:
“ADESSO BASTA! BLACK! TRAVIS! FUORI!”
Erin rimase di sasso, avvilita per quella decisione mentre Castiel recuperò il pacchetto di sigarette e uscì tranquillo dall’aula.
 
Una volta in corridoio, Erin commentò scrollando le spalle:
“beh, almeno è servito per tornare a parlarti”
“mi commuoverò per questo” replicò Castiel sarcastico, camminando lungo i corridoi, con le mani in tasca e una sigaretta ancora spenta in bilico sulle labbra.
Erin lo seguì, intenzionata a non rimanere da sola. Il ragazzo passò davanti alla palestra e lei gli chiese dove fosse diretto.
“perché? Intendi seguirmi?” e raggiunse la porta del bagno dei maschi. Le rivolse un sorrisetto canzonatorio e la punzecchiò:
“qui non puoi più venire. Sei una signorina fidanzata adesso”
Erin gli rivolse una smorfia e fu costretta a cambiare i suoi programmi, optando per una passeggiata all’aria aperta. Si diresse verso il luogo in cui lei ei suoi amici erano soliti pranzare e lì incontrò Armin:
“possibile che tu sia sempre preso dai videogiochi?” scherzò.
“e tu? Ti hanno cacciata un’altra volta?”
Erin arrossì e questo valse come conferma per il ragazzo che scoppiò a ridere:
“ahaha! Sei tremenda Irina!”
I due studenti rimasero un po’ a chiacchierare del più e del meno, attendendo il cambio dell’ora.
Quando finalmente arrivò il segnale acustico della campanella, si spostarono nei corridoi, confondendosi con gli altri liceali.
Mentre salivano le scale per raggiungere le loro classi, i due amici si avvicinarono Ambra, Lin e Charlotte. Tra di loro sembrava esserci in atto una discussione che interruppero quando passarono loro accanto.
Appena vide Erin, la bionda inspirò profondamente e la guardò con astio. Paradossalmente la mora aveva pensato di ringraziarla per aver confessato al fratello dello scherzo del braccialetto, tuttavia quell’occhiata la fece desistere da ogni buon proposito. Intenzionata a non cacciarsi in altri guai, tirò dritto, ignorando il trio. Mentre Erin ed Armin si allontanavano, Lin esclamò:
“sinceramente non se posso più di voi due! Sempre a parlare di borse, scarpe, vacanze da favola!”
“dici così perché non ti puoi permettere tutte queste cose” malignò Ambra, appoggiata da un sorriso derisorio di Charlotte.
“non è questo Ambra. Ci sono cose molto più importanti dei soldi e dell’ostentare il proprio benessere economico ma di queste cose voi non potete farvene vanto perché non le avete”  le provocò Lin.
Gli occhi di Ambra diventarono due fessure mentre la ragazza continuava ad infierire:
“certo, avrai anche una famiglia molto più benestante della mia ma a giudicare da come ti comporti, deve essere tanto ricca quanto disinteressata a te”
La bionda serrò la mascella, scossa da brividi di rabbia.
“non parlare di cose che non sai!” ringhiò.
“che non so?” ribattè Lin, mentre Charlotte si gustava quella discussione “pensi che non mi sia accorta di come ti trattano i tuoi quando vengo a casa tua? Di quanto ti roda vedere le amicizie che è riuscita a crearsi una come Erin in così poco tempo? La verità è che tu sei insoddisfatta di te stessa cara mia e la cosa più penosa è che lo sarebbe chiunque al tuo posto!”
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Certe azioni vengono compiute senza che si abbia la percezione di averle pensate. Fu quello che successe ad Ambra quel giorno: diede una spinta a Lin, accecata dalla rabbia e dimenticandosi della rampa di scale alle spalle della cinesina. Quest’ultima vacillò, portando le mani di lato nel tentativo di intercettare il corrimano ma riuscì solo a vedere l’espressione sconvolta della bionda che aveva realizzato troppo tardi la gravità del suo gesto. Ambra aveva istintivamente allungato le braccia verso Lin ma non era riuscita ad afferrarla. La piccola folla di studenti che si era radunata guardò quella scena senza avere la prontezza per intervenire.
Rosalya però stava salendo le scale proprio in quel momento.
Appena vide Lin perdere l’equilibrio, riuscì a portarsi dietro di lei nel tentativo di attutire la caduta. Si afferrò al corrimano sperando di riuscire a frenare la ragazza ma il peso di quest’ultima fece ruzzolare entrambe giù per le scale, scaraventandole a terra. Qualcuno accorse a chiamare gli insegnanti mentre Ambra era rimasta paralizzata in cima alle scale.
Le gambe le tremavano incontrollabili, come in preda a degli spasmi e una mano altrettanto scossa, nascondeva una bocca spalancata dal terrore. Anche il sorriso mellifluo di Charlotte era scomparso, sostituito da un’espressione sconvolta.
C’era un limite per tutto e la bionda l’aveva pericolosamente superato.
Dopo qualche secondo interminabile di panico, Lin si alzò ma appoggiando la mano destra al pavimento per alzarsi, sentì una fitta. Rosalya invece non si era ancora mossa.
Incuriositi da quel trambusto, Armin ed Erin avevano fatto marcia indietro e non appena videro Rosalya a terra in fondo alle scale, accorsero allarmati.
Erin provò a sorreggerla e l’amica la guardò intontita. La ragazza stava per parlare quando sentì la voce di Nathaniel:
“CHE DIAVOLO È SUCCESSO QUI?”
Il delegato alzò lo sguardo verso la sorella, la cui espressione equivaleva ad un’ammissione di colpa. Rosalya nel frattempo riacquisì conoscenza e cercò di mettersi seduta.
“come stai?” le chiese Erin con apprensione.
Nathaniel si voltò di scatto verso la ragazza e si accucciò a terra.
“Rose, stai bene?” si preoccupò a sua volta. La ragazza si toccò la testa, sentendo un dolore che le pulsava.
“la porto in infermeria” concluse Nathaniel non ottenendo risposta ma a quel punto la ragazza reagì.
“sto bene. Ci vado da sola” disse, allontanando malamente la mano che le aveva porto l’amico. Il biondo rimase senza parole per quei modi così bruschi e lasciò che fosse la sua ragazza ad occuparsi della malcapitata. Erin la aiutò ad alzarsi e rinnovò la richiesta di accompagnarla personalmente in infermeria. La sua gentilezza, diversamente da quella di Nathaniel, venne accolta da Rosalya che si limitò a ringraziarla.
 
Rapidamente, tutta la scuola era venuta a conoscenza dell’incidente ma soprattutto delle conseguenze che aveva portato con sè. La preside, una volta aggiornata sui fatti, era montata su tutte le furie contro Ambra, convocandola seduta stante in presidenza. Erano anni che non andava così in escandescenze.
Una volta nel suo  ufficio, faccia a faccia con la studentessa, la aggredì verbalmente, accusandola di essere irresponsabile e scriteriata. Passò poi ad enunciare le disgrazie ben peggiori che potevano scaturire da un simile incidente.
Per tutto il tempo Ambra non fiatò. Teneva il capo basso e lo sollevava solo quando la preside le ordinava di farlo.
“sarai sospesa per 30 giorni esatti, senza contare i sabati e le domeniche! Il provvedimento è immediato. Vai in aula a prendere le tue cose!”
Di fronte all’apatia della ragazza, la donna strillò:
“IMMEDIATAMENTE!”
Quell’urlo destò Ambra che, mogia mogia, lasciò la stanza, mentre la preside alzava il ricevitore per contattare i genitori della studentessa.
La ragazza uscì dall’ufficio e si guardò attorno. Il corridoio era deserto.
Nessuno, nemmeno Nathaniel o Charlotte erano lì ad aspettarla.
Era sola.
 
Per il pranzo, Erin e Nathaniel optarono per la mensa, poiché il clima cominciava a diventare sempre più rigido. Da lontano vide che anche i suoi amici avevano avuto la stessa idea come del resto buona parte degli studenti.
“ti giuro, l’avrei presa a sberle!” inveì Erin riferendosi a Peggy.
“lascia perdere” minimizzò il delegato “ora che lo sanno tutti vedrai che non ci troveranno neanche gusto a spettegolare”
“ma intanto mi dà fastidio che gli altri studenti parlino di noi”
“e allora diamogli qualcosa di cui parlare” replicò divertito il ragazzo, allungandosi verso Erin, seduta davanti a lui e baciandola delicatamente. Un paio di studentesse intercettarono quella scena e assunsero un’espressione contrariata.
“scemo” lo schernì lei arrossendo.
“quando sei arrabbiata sei ancora più bella”
“cliché. È il classico escamotage che usate voi maschi per far sbollire la rabbia alle donne” proferì la ragazza, portandosi il bicchiere alle labbra. Nathaniel sorrise, gustandosi il piatto mentre Erin sembrava persa nei suoi pensieri. Dopo un po’ sussurrò:
“hai parlato con Ambra?”
Nathaniel negò con il capo e si allungò per prendere il sale.
“sono troppo arrabbiato con lei. Aveva già passato il segno con quello che ti ha fatto in gita ma oggi ha messo in pericolo la vita di due persone”
Anche se Erin aveva sempre sperato di liberarsi di quella vipera, ora che il suo sogno si era realizzato non si sentiva soddisfatta. Ambra era la sua antitesi e senza di lei, era come se fosse stata privata di qualcosa.
Mentre la classe era in palestra per l’ora di educazione fisica con Faraize, la bionda era rientrata in aula e aveva riunito le sue cose. Quando la 4^C era rientrata in aula, aveva notato solo un banco vuoto accanto a quello di Charlotte.
L’assenza di Ambra si avvertiva quasi più della sua presenza.
Quella che era considerata la più brava attrice teatrale della scuola, aveva abbandonato il palco in silenzio, senza ricevere alcuna gratificazione o riconoscimento dal pubblico.
 “non può averlo fatto apposta. È troppo anche per lei” la giustificò Erin d’un tratto.
Il biondo la guardò perplesso:
“la difendi? E da quando in qua?”
“cerco di essere obiettiva. Lin l’avrà anche fatta arrabbiare, ma da qui a…”
“non parliamone più” tagliò corto Nathaniel mentre Erin avrebbe voluto continuare quella discussione. Ecco che il biondo si chiudeva a riccio e le rendeva impossibile ogni comunicazione. Era tipico del ragazzo liquidare ogni questione ed Erin concretizzò quel pensiero proprio mentre era seduta davanti a lui. Era una di quelle cose che fatica a tollerare nel suo comportamento.
“beh, allora visto che vuoi parlare d’altro, c’è una cosa che mi incuriosisce”
“spara”
“le tue ex”
In quel momento al biondo andò di trasverso la Coca-Cola e cominciò a tossicchiare. Erin lo rimirò divertita, aspettando di capire se quella domanda fosse considerata sgradita dal ragazzo.
“hai avuto delle storie in passato no? Me l’ha detto Alexy” lo informò.
“cosa vuoi sapere?”
“come erano le tue ragazze”
“è un po’ strana la tua curiosità” considerò Nathaniel sorridendo divertito.
“forse” ammise Erin, sollevata dalla reazione positiva del ragazzo.
L’argomento infatti sembrò non aver urtato Nathaniel che rispose placidamente:
“la prima si chiamava Rachel e con lei sono stato” il biondo cominciò a contare mentalmente poi affermò “sette mesi. L’altra storia invece è durata appena un mese”
“e chi ha mollato chi?”
Nathaniel si prese del tempo per contare mentalmente poi rispose:
“Rachel ha mollato me, mentre con Melody sono stato io a rendermi conto che non stava funzionando”
Questa volta toccò ad Erin evitare il soffocamento alimentare:
“sei stato insieme a Melody?!”
“sì, mi pareva di avertelo detto” commentò tranquillamente Nathaniel.
“direi proprio di no! Quando ti chiesi se lei era innamorata di te, mi avevi risposto <<non mi risulta>>” borbottò scimmiottando la voce del biondo.
Il ragazzo sorrise mellifluo e replicò:
“sei gelosa?”
Erin arrossì e si voltò da un’altra parte borbottando qualcosa sulla sincerità.
“e tu allora?”
“io?”
“sì. Io ti ho detto delle mie storie passate. Adesso tocca a te”
“ma non avevi detto che era una curiosità strana?”
Nathaniel assunse un’espressione beffarda:
“non fare la furba”
Erin sorrise e si alzò dal posto per riporre il vassoio del pranzo sul nastro trasportatore:
“sei il mio primo ragazzo Nath”
Quell’ammissione lasciò dapprima sorpreso il biondo ma poi arrossì lusingato. Sistemò gli avanzi e seguì la sua ragazza tenendo in mano il proprio vassoio.
 
“non se ne parla! Io mi occupo già dei costumi! E poi mi fa anche un po’ male il polso e questo rallenterà moltissimo il lavoro! Non posso accollarmi anche al ruolo della protagonista!”
Mentre erano seduti al tavolo della mensa, Kimberly, una ragazza del terzo anno aveva interpellato Rosalya per ridefinire i ruoli all’interno del club di cui erano membri:
“ora che non c’è più Ambra, abbiamo perso la protagonista e lo spettacolo è tra sole due settimane! Tu sei l’unica che può recitare a dovere quella parte” sottolineò con una certa urgenza nella voce.
“ma io mi devo già occupare dei vestiti” ribadì la costumista, sempre più esasperata “non posso anche recitare la parte principale. Non ce la farei mai!”
“allora dobbiamo mettere in scena quell’altra commedia. Ci sono più personaggi, ma i dialoghi sono più distribuiti e corti. E possiamo adattare i vestiti che hai già cucito per quel contesto” propose Kimberly.
“non abbiamo abbastanza membri per mettere in scena quella commedia” osservò Lysandre.
“basterebbe trovare altre cinque persone!” si intromise Ben, del secondo anno.
Castiel, che si era trovato attorniato da membri del club di teatro, stava perdendo la pazienza. Odiava pranzare in quel luogo, circondato dal brusio e dalle chiacchiere. Preferiva di gran lunga consumare panini al solito posto ma i suoi amici, in nome della salute del suo stomaco, gli avevano imposto di seguirli all’interno della scuola.
In aggiunta erano impegnati a parlare di un argomento di cui non gliene fregava niente.
“non sarà facile trovare studenti che vogliano partecipare: quelli del club di basket ci diranno che devono allenarsi per il torneo, quelli di musica devono prepararsi per il concerto, quelli di disegno già collaborano per la scenografia, quelli di atletica hanno il campionato, quelli di giornalismo sono sempre impegnati…” cominciò ad elencare Rosalya.
“posso chiedere a quelli del club di giardinaggio” si propose la volenterosa Iris.
L’amica la guardò supplichevole:
“ti prego vieni tu allora!” la esortò, facendole gli occhioni dolci e prendendole entrambe le mani.
“mi dispiace Rosa, ma sono la presidentessa. Non posso mollarli così”
Rosalya sbuffò e passò in rassegna il suo gruppo di amici: Iris aveva appena rifiutato, Alexy e Violet già collaboravano per la scenografia, Lysandre era già nel club di teatro, Armin aveva già dato prova in passato delle sue pessime abilità di attore e pertanto andava scartato. Una macchietta rossa però era a lato del suo campo visivo; con un sorriso mellifluo, Rosalya sussurrò sensuale:
“Casssy…”
Prima che potesse aggiungere altro, l’amico sbottò:
“non ci pensare neanche! Non mi metto in calzamaglia davanti alla scuola!”
“ma non c’è nulla di male!” obiettò  Lysandre.
Il rosso gli lanciò un’occhiata stizzita e replicò:
“forse a te piace anche andare in giro vestito da piccolo lord, ma io preferisco evitare di rendermi ridicolo”
“e quel colore di capelli come lo consideri?” lo canzonò Armin, ricevendo dal rosso un calcio sotto il tavolo che accolse con un sorriso.
“ti daremo la parte del contadino zoticone” tentò Lysandre.
Castiel rimase interdetto, chiedendosi se l’amico lo stesse insultando o aiutando, mentre Armin aggiungeva:
“beh, così gli sarà più facile calarsi nel personaggio”
In risposta Castiel gli lanciò una patatina fritta che l’amico intercettò al volo, prendendola con la bocca.
“neanche Demon è così bravo” si complimentò Castiel.
“wof! Wof!” replicò Armin.
Al rosso era tornato il buon umore così Rosalya tornò ad insistere:
“ti prego!”
“l’hai detto tu che quelli del club di basket devono pensare al torneo e il caso vuole che io sia il capitano”
“ma a occuparsi di tutto c’è Boris e poi tu sei già un fenomeno” lo adulò astutamente la ragazza “puoi anche permetterti di perdere un paio di allenamenti, sei giù un campione”
Castiel stava per replicare scocciato quando intervenne Lysandre.
“la parte che ti ho proposto è perfetta per te. Tutto sta nel trovarti la giusta spalla… e io ho già pensato anche a questo”
Il ragazzo guardò la sorella e tra i due ci fu uno scambio di cenni d’intesa.
“di che parlate?” chiese Erin avvicinandosi agli amici. Nathaniel era tornato in sala delegati, così la ragazza ne aveva approfittato per passare da loro. Del resto ormai con Castiel si era riappacificata e con gli altri non aveva davvero litigato. Le restava solo da chiarirsi con Violet.
Rosalya fece un sorriso esagerato, che risultò quasi buffo sul suo viso perfetto e Castiel, realizzando i pensieri della stilista, sbottò:
“Erin da spalla? Assolutamente no!”
La ragazza guardò interrogativa il gruppo che prontamente la aggiornò sulla situazione.
“per la verità nemmeno io sono così entusiasta all’idea di recitare” ammise al termine della spiegazione.
“ma si tratterebbe solo di un piccolo scambio di battute” minimizzò Rosalya “ti prego Erin! Gli abiti che ho fatto si possono adattare solo a questa commedia, altrimenti tutto il mio lavoro andrà in fumo e comunque non avrei sufficiente tempo per realizzarne degli altri”
Erin sapeva quanto l’amica avesse lavorato a quel progetto. Era rimasta sveglia intere nottate per finire gli abiti, arrivando al punto di coinvolgere l’abilità di sarto di Leigh, il suo ragazzo.
Rassegnata e in nome della recente amicizia che la legava alla ragazza, Erin pattuì:
“d’accordo, ma solo se Castiel lo fa con me”
Il rosso incrociò le braccia al petto e sbottò:
“ti ricordo Rap-“ e si bloccò. L’istinto a chiamarla così era difficile da eliminare  “abbiamo un torneo da preparare. E poi io sono il capitano della squadra”
“si occuperà Boris di dirigerla” propose Erin, appoggiando a sua insaputa le giustificazioni avanzate poco prima da Rosalya.
“tu hai bisogno di allenarti” le ricordò Castiel guardandola con rimprovero.
“vorrà dire che intensificheremo gli allenamenti del sabato” semplificò la cestista.
Castiel la guardava poco convinto così intervenne Kimberly, supplicandoli:
“si tratterà solo di tre pomeriggi. Venite oggi, poi faremo due prove generali. Tutto qui”
Erin continuava a fissare l’amico con un’espressione simpatica, quasi comica mentre gli altri membri del club erano sulle spine.
“ragazzi vi prego. È veramente una parte molto piccola la vostra, non dovrete fare altro che recitare un paio di battute a testa” insistette Ben
“vi porterà via pochissimo tempo” promise Rosalya sbattendo le lunghe ciglia.
Il rosso sbuffò, irritato e sentendosi a disagio per le molteplici paia di occhi concentrate su di lui:
“e va bene!” sbottò esasperato, mentre tra i presenti si distendeva un sorriso divertito.
 
Dopo aver spiegato a Boris la situazione, l’allenatore acconsentì a concedere ai suoi due giocatori tre pomeriggi per le prove a patto che compensassero con allenamenti individuali durante il weekend.
Erin si sentiva su di giri. Senza fatica, lei e Castiel si erano riappacificati. Per qualche motivo il ragazzo non riusciva a tenerle il muso a lungo, per lo meno non quanto aveva fatto Nathaniel.
“e il segretario cosa ha detto del tuo nuovo ruolo?”
“che sarò una magnifica attrice” si pavoneggiò Erin, ondeggiando per il corridoio. Il rosso replicò sarcastico e varcò la soglia del teatro.
 
Appena Rosalya li vide, andò loro incontro saltellando allegra.
“ecco le vostre parti. Le abbiamo riscritte in modo che siano il più brevi possibili” li rassicurò, porgendo loro i copioni. I due amici scorsero le pagine fino al punto indicato da un post-it che sporgeva e diedero una rapida lettura alla loro parte.
Dopo un po’ Castiel sollevò il capo e, trattenendo a stento il nervoso e con la sensazione di essere stato incastrato, protestò:
“Lys!” lo chiamò “perché devo chiamare questa qui tesoro?” borbottò indicando Erin.
Lysandre, senza staccare gli occhi dal proprio copione, rispose placidamente:
“perché siete sposati”
Erin sbarrò gli occhi, mentre Castiel cominciò ad arrabbiarsi:
“non esiste che io dica battute del genere! Ma poi chi l’ha scritta ‘sta porcheria?”
“qualcosa non va con il mio copione?” domandò Tara.
Quest’ultima era una ragazza di un metro e ottanta per centotrenta chili di massa corporea. Praticava lancio del peso a livello agonistico e si stava avvicinando minacciosa a Castiel.
Il rosso per un attimo ebbe un tentennamento: gli sembrò di avere di fronte un lottatore di sumo.
“devo proprio dire questa parte: <<Tesoro è scappato il maiale>>?”  moderò i toni, temendo l’ira della drammaturga. Rosalya sghignazzava, divertita dal cambio di atteggiamento dell’amico mentre Erin continuava a scorrere il suo copione. Senza lasciare il tempo a Tara di replicare, la ragazza intervenne:
“di cosa ti lamenti? A me tocca: <<oh no che sciagura! Come è mai potuta accadere una simil sventura?>>”
Di fronte al tono eccessivamente melodrammatico e volutamente canzonatorio dell’amica, Castiel dimenticò l’inquietante presenza vicino a lui e diede corda alla sua partner:
qualcuno deve averlo liberato!” replicò portandosi una mano sulla fronte.
“non c’è altra spiegazione!” soggiunse Erin con un’eccessiva enfasi.
I due scoppiarono a ridere ma la mole minacciosa di Tara si stagliò contro di loro. Il colosso umano quasi li coprì con la sua ombra e tra i due scese per un attimo il silenzio più totale.
“avete problemi con le battute che ho scritto?” sibilò minacciosa.
Con la consapevolezza che quella ragazza da sola pesava più di loro due messi assieme, i due ragazzi cominciarono a sudare freddo:
“oh no, no, è magnifica!” esclamò Castiel battendole una mano sulla spalla.
“ci stavamo calando nei personaggi” mentì Erin grattandosi la guancia.
Rosalya e Lysandre si lanciarono un’occhiata complice. Aver tirato dentro i loro amici aveva reso molto più divertenti le prove.
 
Quando passarono alla prova costumi, Castiel constatò con sollievo che il suo era il costume meno appariscente dell’intera compagnia: un paio di pantaloni verde militare bucati, realizzati con un tessuto grezzo e pesante, una maglia e un gilet con degli stivali.
“se non fosse per quel colore assurdo dei capelli, saresti credibile come contadino” lo canzonò Alexy mentre dipingeva lo scenario.
“ti ricordo Tabatha che sono opera tua” replicò divertito il rosso indicandosi la curiosa capigliatura.
Erin intanto aspettava che Rosalya finisse di vestire un’altra attrice. Spostò lo sguardo tra gli studenti del club di disegno impegnati con lo scenario e finalmente individuò Violet.
A distanza di due giorni dalla loro discussione Erin si era resa conto che, sebbene l’opinione dell’artista fosse sbagliata, non meritava di essere aggredita in quel modo da parte sua e pertanto doveva scusarsi.
Si accucciò all’altezza del supporto di legno che la ragazza stava decorando e sussurrò:
“è molto bello Violet. Da lontano sembra quasi vero” le disse dolcemente. L’artista annuì arrossendo e continuò la sua opera.
“mi dispiace per quello che ti ho detto lunedì. Scusami” continuò Erin, sperando che la ragazza interrompesse il lavoro. Così fu e Violet spostò l’attenzione sull’amica.
“non preoccuparti. Ho sbagliato io. Sono stata presuntuosa. Solo tu Erin puoi sapere quali sono i tuoi sentimenti per Nathaniel e nessuno ha il diritto di giudicarti. E poi è un bravo ragazzo, quindi la tua scelta non può che essere quella giusta”
Erin sorrise comprensiva e aggiunse:
“Iris mi ha detto che avete annullato la visita al museo degli impressionisti…”
“già, peccato. Ci tenevo ad andarci”
“lo so. Quindi per farmi perdonare, verrai con me sabato” la invitò Erin con un sorriso amichevole.
L’artista la guardò sorpresa.
 “ma tu odi l’arte” obiettò Violet.
“diciamo che in gita l’ho rivalutata” ammise Erin ripensando alla conversazione con Nathaniel nella galleria “anzi se sei d’accordo, potrei chiedere a Nath di venire con noi. Mi piacerebbe che lo conoscessi”
Violet sorrise ed annuì.
“ehi Erin, vieni qui!” la chiamò Rosalya da lontano.
Dopo essersi congedata dall’amica, Erin raggiunse la costumista.
Passando per il retro del palco vide un magnifico vestito verde, lo stesso che aveva adocchiato il primo giorno di scuola quando aveva sbirciato nel club durante le prove.
Da lontano quell’abito l’aveva colpita, ma da vicino era ancora più bello. Era riccamente decorato, con dettagliatissimi ricami in oro e stoffe dai riflessi meravigliosi. Rimase incantata a guardarlo, tanto da non accorgersi di Rosalya che giungeva alle sue spalle.
“BU!” la spaventò l’amica, facendola sobbalzare “ti piace?” investigò mentre l’altra cercava di riprendersi dallo spavento.
“l’hai fatto tu?”
Rosalya annuì orgogliosa.
“è meraviglioso” commentò Erin accarezzando il velluto.
“grazie.  Vuoi provarlo?”
“ma non devo vestirmi da contadina?”
“sì, ma solo così. Giusto per vedere come ti sta. Gli altri stanno provando la loro parte, nessuno baderà a noi” la rassicurò la stilista.
Erin tornò a guardare quel vestito e sorrise:
“sarebbe un onore indossarlo”
 
Dopo aver provato l’abito di scena, Castiel non sapeva come occupare il tempo. Tutti gli altri attori erano impegnati con la costumista oppure a imparare la parte, cosa che lui al momento non era intenzionato a fare. Si era avvicinato a Lysandre per scambiare due parole ma l’amico non voleva essere disturbato mentre memorizzava le battute. Tutti gli attori erano nervosi per quel cambio di programma dell’ultimo minuto ed erano alle prese con i nuovi ruoli. Solo lui era indifferente a tutto quel fermento. Cercando allora Erin, Rosalya gli indicò un paravento dietro il quale la ragazza si stava cambiando e il rosso la raggiunse:
“senti Erin, già è un martirio star qui a blaterare frasi assurde, se poi ti ci metti anche tu a prolungare questa agonia… non potresti darti una mossa?”
“sì lo so, scusa. È che volevo provare questo vestito”
“quanto ti ci vuole per mettere un vestito da contadina?” sbottò spazientito Castiel, studiando l’ombra della ragazza che si stagliava contro la carta del separé.
“quello lo provo dopo. No, sto provando un altro costume”
Castiel sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo, grattandosi il capo:
“per la serie, ne abbiamo di tempo da perdere! Se ci sbrighiamo riusciamo a passare mezz’ora in palestra. Datti una mossa, non ne-”
Ogni lamentela del ragazzo si spense all’istante. Erin era uscita dal camerino improvvisato con il magnifico abito realizzato da Rosalya.
Mentre la ragazza ne analizzava i dettagli allo specchio, Castiel ammirava l’indossatrice.
“sei bellissima Erin” esclamò Lysandre, facendo sobbalzare il rosso che per un attimo pensò che la frase nella sua mente si fosse concretizzata in un fonema.
Arrivò subito dopo Rosalya che si accodò al giudizio del fratello:
“caspita Erin! Mi fai venire voglia di cambiarti il ruolo”
“non se ne parla!” sbottò Erin allarmata “il vestito è favoloso, ma non voglio una parte più impegnativa”.
Nel dire quelle parole, la ragazza spostò lo sguardo su Castiel, che ancora la guardava imbambolato. Di fronte a quell’espressione, lei arrossì confusa, mentre Rosalya ne approfittò per stuzzicarlo:
“Erin ha fatto colpo eh Castiel?”
“ma ti pare? Con quel vestito sembra un carciofo capovolto!”
Lysandre sollevò gli occhi al cielo mentre Erin cambiò radicalmente espressione e gli lanciò un’occhiata offesa.
“vado a cambiarmi, prima che trovi un altro modo per offendermi” brontolò prima di nascondersi in camerino. Rosalya tornò a occuparsi dei vestiti, mentre Lysandre avvicinò l’amico e gli sussurrò:
“lo sai Castiel, a volte è più facile dire quello che si pensa piuttosto che sparare battute idiote”
Il chitarrista rispose con un verso stizzito e si allontanò, scegliendosi un posto appartato dove ascoltarsi un po’ di musica in attesa che cominciassero le prove.
 
La performance teatrale dei due nuovi attori fu un disastro: Castiel non riusciva a memorizzare le battute e così finiva per improvvisare dialoghi inesistenti mentre Erin, esasperata dalla poca serietà del suo partner aveva finito per rassegnarsi e recitare senza convinzione. I membri del club si guardarono disorientati e preoccupati. Anche se avevano affidato una piccola parte a quella strana coppia, temevano che avrebbe rovinato l’intera rappresentazione.
Nonostante ciò Lysandre convinse tutti a non rinunciare e assicurò che i due avrebbero fatto un figurone, incaricandosi lui stesso della loro preparazione. Castiel però, una volta salito sul palco, si era reso conto di quanto fosse imbarazzante per lui quella situazione e aveva ritrattato la propria disponibilità.
“non sei nella posizione di obbligarmi Lys” obiettò il rosso ad un certo punto, incrociando le braccia al petto.
Gli altri membri si guardarono preoccupati. Non sarebbe stato facile trovare un altro studente che si prestasse a recitare. Lysandre però non si era scomposto: rivolse un sorriso inquietante all’amico e gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla. Quando gli fu abbastanza vicino, gli sussurrò all’orecchio:
“chiamati fuori da questo spettacolo, e dico ad Erin cosa ne pensi del suo sedere”
Il rosso si irrigidì, ammutolendo all’istante. Fissò con sguardo truce l’amico che per contro, aveva un sorriso diabolico stampato in faccia.
 
All’uscita della scuola, Erin trotterellò verso la sala delegati. Non vedeva l’ora di aggiornare il fidanzato sulle novità del teatro e proporgli l’uscita con Violet. Le risultava un po’ strano che il suo primo appuntamento con il biondo si sarebbe svolto con la partecipazione della sua timida amica, ma per lei quell’uscita significava molto.
Bussò alla porta della saletta ma non ottenne risposta, così la varcò.
Si trovò di fronte l’espressione contrariata di Melody, seduta dietro la scrivania. Ora che sapeva che la ragazza era un’ex di Nathaniel, Erin non poteva fare a meno di sentirsi a disagio davanti a lei.
“il fatto che ora Nathaniel sia il tuo ragazzo non ti autorizza a entrare quando ti pare” la accolse acida la ragazza.
Erin storse la bocca, infastidita da quei modi poco garbati. In linea di principio non poteva darle torto, ma non poteva sopportare quel tono cosi seccato.
“è già uscito?”
“qui non c’è” fu l’ovvia oltre che inutile informazione fornitale dalla ragazza.
Erin non si trattenne ulteriormente. Era evidente che la ragazza fosse ancora innamorata del biondo ma era altrettanto palese che per Nathaniel Melody fosse una parentesi chiusa.
 
Trovò il ragazzo all’esterno, appoggiato contro una colonna.
“questa volta sei tu che fai aspettare me” le sorrise.
“sono passata in sala delegati, ma non c’eri”
“una volta tanto volevo essere io ad arrivare per primo” le disse mettendole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a sè.
Erin sorrise ma in quel momento le passò accanto Castiel ed Iris. Poiché il suo ragazzo era uscito presto, avrebbero finito per prendere l’autobus tutti insieme e la situazione sarebbe stata decisamente pesante.
Tuttavia la ragazza notò con sollievo l’oggetto che il rosso sta spingendo: quella mattina era venuto in bici e quindi solo Iris sarebbe salita sul loro stesso autobus.
 
Durante il tragitto insieme, Erin informò Iris e Nathaniel del programma per il sabato, sottolineando quanto fosse importante per lei riappacificarsi definitamente con Violet. Iris capì la posizione di Erin e la rassicurò che non aveva nulla in contrario. Quell’uscita a tre avrebbe stimolato la timida ragazza ad aprirsi di più e mostrarsi più socievole.
“comunque devi tenerci proprio se sei disposta ad andare ad una mostra di quadri” osservò Iris.
Nathaniel guardò interrogativo la sua ragazza che, a disagio, spiegò:
“in realtà non vado matta per l’arte”
Il biondo sorrise comprensivo e rispose:
“vedrò di farti cambiare idea”
 
Una volta varcata la soglia di casa, Nathaniel sentì i passi affrettati di Molly. La donna ricordava la domestica della Carica dei 101 sia per l’abbigliamento che per l’aspetto fisico. Anche i modi premurosi e affettuosi si confacevano al personaggio scaturito dalla fantasia di Walt Disney. Appena raggiunto il ragazzo, Molly esalò:
“Nathaniel! Finalmente sei a casa! Cos’è successo con Ambra? Questa mattina ha chiamato la scuola e tua madre l’ha mandata a prendere”
“lo so”
“certo che lo sai, eri a scuola” obiettò la donna sempre più sulle spine “allora? Cos’è successo?” chiese apprensiva.
“Ambra ha spinto Lin giù per le scale…”
Molly si portò una mano sulla bocca sconvolta e prima che il biondo potesse aggiungere altri dettagli, una voce acida lo richiamò:
“Nathaniel!”
I due interlocutori furono costretti a sollevare lo sguardo verso la cima dell’ampia scalinata al centro del salone. Una donna vestita con un completo tanto elegante quanto costoso, li guardava con biasimo. Aveva un trucco impeccabile e una pelle diafana. Arricciò le labbra, perfettamente contornate da un vistoso rossetto. Quell’espressione era ben conosciuta tanto da Nathaniel quanto da Molly.
La signora Daniels non tollerava che i figli rivolgessero troppa confidenza ai domestici, relegati ad un livello socialmente inferiore.
Nathaniel fece un cenno comprensivo a Molly che si ritirò mentre lui saliva le scale.
“dov’è ora?” tagliò corto, senza salutare la madre.
“in camera sua. Domani le cercherò un insegnante privato in modo che rimanga al passo. Pagheremo eventuali spese per quella cinese che si è fatta male”
“si chiama Lin ed è un’amica di Ambra” sottolineò il ragazzo, irritato dalle parole sprezzanti della donna.
“bel modo di trattare gli amici allora” commentò sarcastica la signora Daniels, ammirandosi le unghie “sono molto delusa da Ambra. Se continua a comportarsi così, come può pensare di trovare un marito? Eppure glielo dico sempre che una come lei può realizzarsi solo nel matrimonio”
Anche se gli atteggiamenti di Ambra indisponevano particolarmente il fratello, c’era una persona all’interno della sua famiglia che più di tutte non sopportava. E la cosa assurda era che si trattava di una figura che avrebbe dovuto essere centrale per lui in quanto figlio.
La signora Daniels era la classica arrampicatrice sociale, venuta dalla gelida Svezia, che aveva sposato il magnate americano dell’informatica, Gustav Daniels.
“Ambra è abbastanza intelligente da non aver bisogno di un uomo per fare strada nella vita” replicò il ragazzo irritato.
Da quello sfortunato matrimonio erano nati i due figli, ma ben presto Gustav si era reso conto di essere rimasto ammaliato da una donna che oltre alla bellezza non poteva vantare altre qualità. La sua Ingrid non era fatta per essere madre e la sua assenza come figura genitoriale era stata compensata dalla materna Molly.
Dopo aver ascoltato le parole del figlio, Ingrid sorrise come se avesse di fronte un bambino che non può capire. Scuotendo il capo rispose:
“sei sempre così indulgente verso tua sorella, ma credimi, è per il suo bene che sono così spietatamente sincera”
 
Dopo cena, Molly attraversò la sala dove il signor Daniels riceveva i propri ospiti, salì le scale, percorse il lungo corridoio e svoltò a destra, bussando ad una porta di legno di quercia.
Ambra non era uscita dalla sua stanza da quando Gregor, l’autista, l’aveva riaccompagnata a casa e con quell’isolamento aveva finito per saltare pranzo e cena.
“tesoro sono io. Posso entrare?”
“va via Molly. Non voglio vedere nessuno” rispose una voce dura dall’altra parte.
“allora dovresti chiudere la porta a chiave… ma penso che non basterebbe neanche questa a impedirmi di entrare” osservò la donna varcando la soglia.
Entrò quasi in punta di piedi nella stanza e con altrettanta delicatezza si chiuse la porta alle sue spalle. Al posto dell’elegante vassoio in ceramica usato per circostanze analoghe, Molly teneva in mano un dozzinale sacchetto in plastica, con disegnato un ideogramma cinese e un gatto obeso.
 “sono andata a prenderti il tuo piatto preferito” disse, sollevando leggermente l’oggetto.
Conosceva quella ragazza meglio di chiunque altro. Del resto, l’aveva cresciuta lei.
Anche se l’etichetta le imponeva la scelta di un determinato tipo di piatti, Ambra prediligeva il cibo etnico, quello cucinato nei locali rumorosi e affollati.
La bionda si voltò verso la donnina, come un animale affamato che avverte l’odore del cibo. Molly ne scrutò l’espressione e come immaginava, nessuna lacrima stava rigando quel viso così bello e fiero.
Ambra riconobbe lo stemma del suo ristorante cinese preferito, nonché gestito dai genitori della ragazza che quella mattina aveva spinto giù per le scale.
“grazie” sussurrò, scoperchiando il contenitore dei ravioli al vapore.
Molly si sedette accanto a lei sul letto, dopo averle porto la cena.
Ambra masticava in silenzio, dando piccoli morsi alla pasta e al suo ricco contenuto.
“sono stata poco fa al ristorante di Lin. Lei sta bene, si tratta solo di una semplice slogatura, guarirà in pochi giorni”
Ambra mise di masticare, tenendo il capo abbassato e portando le mani in grembo.
Dopo qualche silenzioso secondo, Molly vide una pesante goccia atterrare sul polso della ragazza, seguita da una seconda. E poi da una terza.
Delicatamente, le portò una mano sulla testa, costringendo Ambra ad avvicinarsi alla sua spalla, dove la ragazza sfogò in lacrime tutto il rimorso e il senso di colpa che aveva trattenuto fino a quel momento.
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Spero che il titolo del capitolo sia stato all’altezza delle aspettative.
Che Erin e Nath stessero assieme, lo sapevamo già tutti ma era giusto dare risalto alla notizia a livello dell’intera scuola e poi volevo far saltare fuori Peggy quindi ecco il perché del giornalino.
Della recita vi avevo già dato qualche anticipazione, quindi su questo punto di vista non posso certo avervi sorpreso… mi era rimasto però questo asso nella manica: l’espulsione di Ambra… spero che fosse un evento inatteso ;) a questo proposito, pensate che se lo sia meritato, o vi fa un po’ pena? In ogni caso ecco spiegato il perché della frase sibillina che scrissi qualche capitolo fa riferendomi all’ultimo scherzo di Ambra…alla prossima!
 

P.S. Devo assolutamente ringraziare NuvolaRossa95 per il fantastico disegno che avete trovato nel capitolo ^^). Quando me lo sono ritrovato nella posta il mio primo pensiero è stato proprio quello di pubblicarlo, dal momento che rende perfettamente la comicità della scena XD. Grazie ancora Nuvola :* !!!!
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Padri ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
Peggy pubblica un articolo sul recente fidanzamento tra Nathaniel ed Erin, mandando su tutte le furie quest’ultima. Nel frattempo circola anche la notizia di un concerto al liceo che fornisce l’occasione alla ragazza per riappacificarsi con Castiel. Tuttavia il rosso è categorico: non parteciperà ma la ragazza non demorde e si impunta, finendo per essere cacciata dall’aula assieme al ragazzo. Mentre è in giro per i corridoi con Armin, incrocia Ambra e il suo duo, la quale, in un eccesso d’ira, spinge Lin giù per le scale, trascinando nella caduta anche la malcapitata Rosalya. Ambra viene sospesa ed Erin sembra essere l’unica ad essere dispiaciuta per la nemica. Durante il pranzo, Rosalya convince l’amica e Castiel a prendere parte allo spettacolo teatrale dal momento che hanno bisogno urgentemente di nuove leve. La coppia si rivela assolutamente inadatta, specie Castiel che non si impegna come dovrebbe. Nel frattempo Erin organizza un’uscita a tre per far conoscere Nathaniel a Violet con la speranza che la ragazza cambi opinione sulla sua relazione. Il capitolo si conclude con il rientro di Nathaniel a casa, dove una signora altezzosa e acida gli comunica i provvedimenti presi per la sorella. Si tratta della madre dei due ragazzi. Ambra nel frattempo viene raggiunta dalla materna Molly che la consola, lasciando che la ragazza sfoghi tutta la sua afflizione.
 


 
CAPITOLO 23: PADRI
 
“vuoi stare concentrata sul gioco, porca miseria?” sbottò Castiel spazientito.
Nonostante il recente fidanzamento dell’amica, il cestista si era dimostrato intransigente di fronte alla proposta di saltare l’allenamento settimanale:
“già lo vedo poco Nathaniel… se poi devo passare il sabato ad allenarmi…” aveva brontolato sommessamente Erin.
“allora togliti dal club di basket! Voglio vincere quel torneo ma se preferisci pomiciare con il delegato, allora non perderò tempo con te!” aveva dichiarato il capitano, innervosendosi sempre di più.
Sospirando, Erin si era rassegnata ad accettare le condizioni di Castiel, trovando consolazione nel fatto che lei e Nathaniel si sarebbero visti nel pomeriggio al museo.
“hai visto come è di ottimo umore Charlotte ultimamente?” chiese Erin per cambiare argomento.
“non l’ho notato. Vai dall’altra parte del campo” replicò Castiel sbrigativo.
Irritata dal disinteresse dell’amico, la mora cominciò ad assecondarne gli ordini ripensando alla situazione che si era venuta a creare dopo l’espulsione di Ambra. La bionda era stata sospesa due giorni prima e sin da subito la sua amica Charlotte sembrava non sentirne la mancanza. Anzi. In classe era sempre di ottimo umore e addirittura in un’occasione aveva chiamato Erin “cara”. Dopo un iniziale disorientamento, la ragazza era rabbrividita, immaginandosi al posto di quel sorriso angelico, le lame letali di una mantide religiosa. Charlotte girava nei corridoi a testa alta, come una celebrità che calca la scena. Anche se era sempre sola, sembrava pienamente soddisfatta di sé.
Lin invece era tornata a scuola con una fasciatura al polso ma lei e Charlotte non si rivolgevano più la parola. Se si incrociavano nei corridoi, la prima abbassava il capo mentre la seconda tirava dritto. Anche la cinesina era sempre sola ma, diversamente da Charlotte, quella situazione le pesava: aveva un’espressione triste e si isolava in classe durante l’ora di pranzo, come Erin fece notare a Castiel.
“non sognarti di invitare anche lei a mangiare con noi!” la aveva ammonita il rosso.
“ma cosa dici? Perché dovrei farlo poi?”
“perché hai un’irritante tendenza a chiamare la gente da ogni angolo”
Erin bloccò il palleggio e si portò la palla sotto il braccio:
“senti un po’ Ariel! Non mi pare che ti dispiaccia esserti riappacificato con i tuoi amici”
Castiel fece una smorfia, avanzò di scatto verso Erin e le soffiò la palla, per poi tirarla a canestro.
 “e dovrei ringraziare te per questo?”
“di certo non è merito tuo” osservò Erin, rimpossessandosi della palla e portandosi a metà campo.
Il rosso la rincorse mentre un sorriso divertito gli distendeva gli angoli della bocca.
“se l’impegno che ci metti nell’andare incontro alle persone lo mettessi nel basket, supereresti Michael Jordan” commentò il ragazzo.
Erin rise leggermente e si spostò per evitare l’attacco.
“piuttosto dovresti ammettere che sono molto migliorata. Guarda, non riesci neanche a prendermi” lo sfidò la ragazza sorridendo beffarda.
Castiel, troppo competitivo per non accettare quella provocazione, scattò verso di lei ad una velocità tale che Erin non riuscì a distanziarlo e in pochi secondi le circondò i fianchi con le braccia, sollevandola da terra.
La ragazza, dopo un attimo di turbamento, cominciò a divincolarsi, cominciando a ridere:
“mettimi giù! Dai Castiel!”
Soffriva terribilmente il solletico e il solo sentire le mani del ragazzo sui suoi fianchi la faceva contorcere. Tra una risata e l’altra, Erin notò la presenza di Armin a bordo campo.
“Castiel” lo richiamò, guardando il nuovo arrivato e invitando l’amico a rivolgere gli occhi nella sua stessa direzione:
“è così che vi allenate?” urlò il moro divertito per farsi sentire.
Castiel scaricò Erin con poca grazia, avvicinandosi all’amico mentre la ragazza lo rimproverava per i suoi modi grezzi.
“come mai da queste parti?” indagò il rosso posandosi contro la recinzione.
“devo fare un salto in centro a prendere un nuovo hard disk”
“finché ci sei, non potresti dare un’occhiata al costo degli amplificatori?”
“andiamo con lui no?” s’intromise Erin, nella speranza di sottrarsi al suo allenamento.
Castiel la guardò malissimo e replicò:
“hai già saltato l’allenamento della settimana scorsa quindi non ci provare”
Erin sollevò gli occhi al cielo sbuffando mentre Armin sorrise.
“piuttosto hai cominciato a studiare le regole del basket?” le chiese Castiel spazientito.
Erin assunse un’aria metadibonda e dopo un po’ esclamò:
“potremo andare in centro con Armin così mi consigli un buon libro sull’argomento” tentò nuovamente, nella speranza di sfuggire all’allenamento ma guadagnò solamente l’ennesima occhiata truce dall’amico.
“sono un cestista, non uno sfigato di libraio” sputò il ragazzo “piuttosto te le spiego io”
“meglio di no Irina. Se si tratta di teoria, Castiel è un pessimo insegnante” la informò Armin mentre aggirava la recinzione metallica e si portava vicino ai suoi due amici.
“tu non stavi per andartene?” sbottò infastidito l’altro.
Armin guardò distrattamente l’ora sullo schermo del cellulare e scrollò le spalle.
“ho tempo. Resto qua con voi un po’”
“grande” replicò soddisfatta Erin “allora, cosa devo sapere?”
Castiel sospirò e si grattò la testa.
“e che ne so, fa’ tu le domande”
“boh, magari quali azioni sono considerate infrazioni”
“ahaha Irina sei tremenda!”
“perché?” replicò Erin confusa. Quell’esclamazione di Armin gliela sentiva usare fin troppo spesso.
Anche Castiel la guardava basito e sospirando, spiegò:
“prima dovresti informarti su quali siano le regole, non le procedure per infrangerle”
“in effetti ha senso” ammise l’altra senza scomporsi “comunque sia, torniamo alla mia domanda” ordinò imperterrita “può succedere che un giocatore venga espulso durante la partita?”
Castiel si grattò la guancia mentre Armin sorrideva sornione:
“ovvio che è possibile. Di solito a causa di brutti falli volontari, o addirittura possono essere espulsi due giocatori se giungono a risse, verbali o manuali che siano”
“perché Armin ride?” chiese Erin distratta dal moro.
“perché è idiota” sbottò Castiel infastidito.
“rido perché hai di fronte il giocatore con il record di espulsioni della storia della scuola” spiegò Armin indicando l’amico.
Erin spostò lo sguardo sul rosso e commentò:
“bell’esempio che mi dai, capitanopuntualizzò applaudendolo sarcasticamente.
“non ho mai messo le mani addosso a nessuno” precisò Castiel, facendo rotolare il pallone sull’indice.
“e l’occhio nero a quello della High Mountain School come se l’era fatto? Con l’ombretto?” gli ricordò Armin.
“sei un elemento di disturbo Armin, vattene. Mi stai facendo perdere tempo” sbottò Castiel facendoli segno di andarsene.
“mi sta sbattendo fuori dall’aula prof?”
“beh sei più abituato di me a star fuori dalla classe”
“non credo, ma intraprenderò la via che mi hai indicato” completò sorridendo il ragazzo “Irina quando hai finito qua, se vuoi ci vediamo al centro commerciale”
“grazie ma probabilmente sarò in condizioni pietose, dovrei passare prima per casa a farmi una doccia”
Armin si avvicinò alla ragazza e le sorrise malizioso. Avvicinò incredibilmente il suo viso a quello di lei che arrossì, spalancando gli occhi dalla sorpresa.
“oh no, la mia Irina non è mai in condizioni pietose” la lusingò, scompigliandole i capelli.
Castiel si lasciò sfuggire un verso stizzito, mentre Armin, guardandolo, allungò un sorriso fin troppo beffardo e malizioso.
 
Dopo che il ragazzo li aveva lasciati soli, Castiel incontrò parecchie difficoltà nel suo ruolo di insegnante: le domande di Erin lo interrompevano in continuazione, facendogli venire dubbi sul regolamento:
“dici tanto a me e poi nemmeno tu conosci le regole!” l’aveva accusato divertita.
“ma va’, le so, sei tu che mi fai fare casino. Stare zitta mai eh?”
Erin arricciò il naso e il capitano dichiarò spazientito:
“senti, facciamo che della parte teorica si occupi Dajan. Ha molto più pazienza di me e con te ce ne vuole a bidonate”
“dì piuttosto che non sai spiegare”
Castiel la fulminò con gli occhi mentre lei gli faceva la linguaccia.
Il ragazzo si spostò al centro del campo, intenzionato a riprendere l’allenamento ma Erin non sembrava dello stesso avviso.
“allora ci hai pensato a quel discorso?”
“quale?” chiese distrattamente Castiel lanciando la palla a canestro.
“del concerto no?”
“certo. E mi pareva di aver anche risposto. Per tua informazione l’ho già detto a Lysandre che non se ne parla”
“e lui?”
“è d’accordo con me”
“non ci credo”
“come ti pare” concluse il rosso con una scrollata di spalle.
Erin lo guardò sospettosa e si avvicinò alla panchina a recuperare il cellulare.
“che fai?” le chiese Castiel in lontananza.
“lo chiamo. Voglio sentirlo dire da lui”
Castiel si avvicinò a grandi passi e intercettò il cellulare che la ragazza aveva portato già all’orecchio.
“ehi! Non ne hai nessun diritto!” protestò lei, allungandosi verso l’alto nel tentativo di recuperarlo ma il suo svantaggio in altezza le impediva di raggiungere il suo obiettivo.
“con quell’elevazione non arriveresti a sfiorare neanche la rete del canestro” la canzonò il ragazzo, allungando sempre più verso l’alto il telefono dell’amica.
Erin allora indietreggiò di qualche passo, prese la rincorsa e si scagliò contro Castiel.
Per stabilizzare la posizione e darsi un’ulteriore spinta, premette una mano contro la spalla del ragazzo ma così finì per fargli perdere l’equilibrio. Castiel indietreggiò con una gamba per compensare lo spostamento del baricentro mentre Erin allungò ulteriormente il proprio braccio per raggiungere quello di Castiel. Il tentativo la sbilanciò al punto che stava per riatterrare sbattendo le ginocchia contro il suolo ma sentì una salda presa afferrarla per il braccio, costringendo i piedi a toccare il suolo per primi.
Alzò lo sguardo e trovò il suo viso vicino in modo imbarazzante a quello del ragazzo che si era chinato su di lei.
I due si ritrassero rapidamente ed Erin mugolò a disagio:
“idiota”
“io almeno so stare in equilibrio”
“ridammi il cellulare” ordinò Erin ancora rossa in viso.
Castiel ubbidì. Il gusto che aveva provato nello stuzzicare l’amica si era esaurito improvvisamente.
Andò a sedersi sulla panchina, mentre Erin lo guardava offesa. Dopo un po’ però lo raggiunse, sedendosi per terra davanti a lui.
“guarda che c’è posto” osservò il ragazzo, accendendosi una sigaretta.
“mi piace stare qui. Così posso guardarti negli occhi mentre mi spieghi perché non vuoi che suoniate davanti a tutti”
“sembri un cane”
Erin lo ignorò e continuava a fissarlo negli occhi.
Dapprima il rosso fece finta di nulla, poi però quell’occhiata diventava sempre più insostenibile e sbottò esasperato:
“ok, ok. Porca miseria come sei assillante!” si lamentò, reclinando il capo all’indietro.
“non ho neanche aperto bocca” si difese lei innocentemente.
Castiel assunse un’aria sarcastica e proseguì:
“mi sorprende che tu non arrivi da sola. Ci sono almeno due ragioni più che valide per non suonare: la prima è che siamo solo in due”
“appunto per questo ti ho proposto di rinserire Alexy nel gruppo” lo interruppe Erin.
Castiel la ignorò e continuò:
“la seconda ragione, nonché più importante, è che ci siamo esibiti dal vivo una sola volta e risale a quasi un anno fa. Non siamo pronti”
Erin rimase per un attimo basita, poi replicò:
“stai scherzando vero? È questo che ti frena?”
“mi sembra un motivo più che valido”
“col cavolo! Se hai una band si suppone che tu voglia farla conoscere” obiettò Erin.
“si suppone che non sia così nel mio caso”
“non ha senso Castiel. Vuoi farmi credere che tu suoni solo per il gusto di farlo?”
“ti sembra strano?” replicò l’amico, sorpreso dalla perplessità di Erin.
“tu e Lys siete troppo bravi per non aspirare alla notorietà!”
Castiel rise esasperato mentre Erin rimaneva seria. Non stava scherzando né tanto meno cercare di lusingarlo. Le sue parole erano sincere.
“senti l’idea di sfondare con la musica c’è stata d’accordo? Fino all’anno scorso ci credevo, anche troppo. Poi non è andata quindi ora mi va bene così” dichiarò il rosso.
“non è andata? Castiel quel discografico avrà anche detto un sì a Nathaniel, ma non ha detto di no a te”
“il fatto che abbia voluto solo Nate dalla sua, indica che tutti noi altri non eravamo alla sua altezza” concluse acido. Erin rimase sorpresa per come aveva chiamato l’ex amico. Avrebbe voluto puntualizzarlo ma preferì rimanere sull’argomento che più le premeva.
“ma tu provaci. Il concerto della scuola è pur sempre un modo per farsi conoscere. Di cosa hai paura?”
Castiel staccò la schiena dalla panchina e piegò il busto in avanti avvicinandosi all’amica seduta per terra.
“chiariamo una cosa: io non ho paura” scandì, difendendo il suo orgoglio maschile.
Erin storse la bocca, poco convinta e continuò:
“stai buttando via un’opportunità… te lo dico io cosa ti spaventa: la paura del fallimento. Ma non arriverai da nessuna parte così” obiettò gesticolando animatamente.
“ha parlato la donna realizzata” la interruppe sarcastico, tornando ad appoggiarsi contro lo schienale.
“fa meno il saccente. Anche io ho avuto momenti in passato in cui avrei voluto tirarmi indietro, farmi proteggere da quel senso di tranquillità che deriva dal non mettersi mai in gioco. Ma il fallimento è fondamentale se vuoi migliorarti e questo concerto è l’opportunità per capire i tuoi limiti”
Castiel sembrava non dedicarle eccessiva attenzione, ma non aveva fatto altri commenti e tanto bastò ad Erin per proseguire:
“ricordo una volta, da piccola, quando facevo ginnastica artistica in cui avrei voluto scappare via davanti a tutti durante un saggio…”
L’incipit di quell’aneddoto sembrò calamitare l’attenzione dell’amico che spostò finalmente lo sguardo sulla narratrice.
 
Una bambina con un tiratissimo chignon era in piedi, in disparte dal resto delle sue compagne. Continuava a sistemarsi l’attillato body, come unica distrazione per la solitudine a cui l’aveva costretta il resto del gruppo. Sin da quando era passata alla ginnastica agonistica, la piccola Erin aveva faticato non poco ad inserirsi. Le altre bambine e ragazze erano più spavalde e determinate di lei, che finiva per restare sempre in disparte, isolata. Il suo talento in quello sport non l’aveva certo avvantaggiata, anzi aveva concorso ad attirare su di sé invidie e antipatie.
Sollevò lo sguardo sugli spalti, dove vide sua madre che le sorrideva dolcemente e suo padre che la fissava attraverso il monitor della videocamera. Nonostante il conforto derivato dalla vista di quelle due figure, era un’altra quella che Erin ricercava. Appena Sophia si accorse di essere osservata, cominciò a sbracciarsi entusiasta e urlando parole che la gemella non riuscì a sentire. Erin le rispose con un timido cenno.
Oltre al balletto di gruppo, l’insegnante le aveva assegnato un esercizio individuale sulla trave, incarico di cui si facevano peso solo le ginnaste più preparate.
“visto che cadrai sicuramente Erin, cerca di non urtare contro la trave. Potresti farti male” malignò Ebony, una sua compagna. Quest’ultima era la migliore ginnasta del gruppo, fino all’arrivo di Erin. Nonostante la bambina avesse due anni in meno, era molto più agile e veloce di lei.
Per la maestra non era stato difficile scegliere a chi affidare l’esercizio alla trave.
Un’altra ginnasta, che chiamavano Pony ridacchiò e aggiunse:
“fossi in te non mi presenterei neanche”
Il volto di Erin diventò paonazzo e sentì che le lacrime cominciavano ad offuscarle la vista. Se al suo posto ci fosse stata la gemella, avrebbe risposto per le rime a quelle antipatiche ma lei, per quanto lo desiderasse, non era Sophia.
La maestra la chiamò.
Toccava a lei.
Suo padre le puntò la telecamera contro ma Erin non si mosse dalla panchina. Cominciò a fare cenni di diniego con il capo mentre l’insegnante la fissava dapprima perplessa poi contrariata.
Dagli spettatori cominciò a levarsi un brusio. Non era difficile immaginare cosa stesse dicendo l’insegnante.
La piccola ginnasta rimaneva impalata sulla sua posizione, mentre le sue compagne ridacchiavano alle sue spalle.
Nell’ambiente era calato il silenzio più totale finché si udirono dei passi affrettati ed Erin avvertì distintamente la voce di sua madre che chiamava:
“SOPHIA!”
Alzò lo sguardo e vide la gemella che quasi rotolava giù dalle scale per avvicinarsi agli spalti, portandosi a pochi metri da lei.
“Erin lo so che puoi farcela! Non mi deludereeee!!”
“m-ma  cadrò” obiettò Erin che in quel momento notò la presenza di un foglio grande che la sorella brandiva tra le mani.
“se cadrai ti rialzerai” la liquidò Sophia “guarda cosa ho fatto per te” mostrò la bambina, esibendo orgogliosa un disegno che ritraeva la gemella con la medaglia olimpica. Tra la platea si diffuse un mormorio divertito di fronte a quella tenera coppia di bambine.
Erin sorrise, incoraggiata dalla sorella che non si staccò dalla sua posizione. Sophia rimaneva lì sulla ringhiera degli spalti, aggrappata come una scimmietta.
Emanava un’energia positiva che investì anche la piccola ginnasta.
Quest’ultima uscì dalla penombra della panchina e si diresse a testa alta verso la trave, lasciandosi alle spalle i commenti circostanti.
Salì con agilità e iniziò l’esercizio. La prima piroetta venne eseguita perfettamente e questo allentò un po’ la tensione. Tuttavia cominciò a insidiarsi subito il tarlo dell’insicurezza: era la sua primissima esibizione da solista in pubblico. Inevitabilmente si innervosì e nel salto successivo portò il bacino troppo in avanti così quando cercò di riatterrare sulla trave, uno dei due piedi non trovò l’appoggio, facendola cadere a terra.
Dalla folla si levò un “oooh” dispiaciuto ma la ginnasta lo ignorò.
Ecco, ora che era caduta si era resa conto che non era poi così grave.
Si sarebbe semplicemente rialzata, come aveva detto Sophia.
Ritornò subito sulla trave e senza indugi completò l’esercizio, tornando a toccare il suolo con un’ultima bellissima acrobazia. Mentre faceva un leggero inchino sentì esplodere gli applausi e sollevando lo sguardo, rimase sbigottita nel constatare che il pubblico si era addirittura alzato in piedi.
Non era mai successo con le esibizioni precedenti.
Sophia le sorrideva complice e per la prima volta in vita sua, Erin si sentì orgogliosa di se stessa.
 
“se ce l’ho fatta io a esibirmi su una trave quando ero bambina, tu sei abbastanza grande da poter salire su un palco”
“non è la stessa cosa” protestò debolmente il ragazzo, poco convinto della solidità della sua obiezione.
Erin sorrise, cogliendo la sua insicurezza e si allungò posandogli una mano sul ginocchio.
Lei non se ne accorse, ma Castiel rimase turbato da quel delicato contatto. Guardava quelle dita sottili appoggiate sulla sua gamba come se fossero qualcosa di totalmente estraneo alla sua esperienza. Spostò allora lo sguardo su Erin che, soddisfatta di aver calamitato l’attenzione, sorrise dolcemente:
“non sto dicendo che la vostra performance sarà sicuramente impeccabile, ma che se non lo sarà, io sarò lì a sostenerti”
Erin lo guardava in modo così tenero che Castiel rimase spiazzato. Distolse lo sguardo, temendo che il volto tradisse le emozioni che vorticavano violentemente in lui. In quei momenti lei riusciva a farlo sentire così importante, così prezioso, toccando dei tasti con una delicatezza tale da farlo sentire in imbarazzo. Non aveva mai avuto un’amica così. Forse nemmeno Nathaniel era riuscito a suscitare in lui quel genere di sensazioni. A quel punto allora, nel rosso sorse una domanda: e se era come sosteneva Lysandre? Che si stesse davvero innamorando di Erin?
Appena materializzò quel dubbio, subito lo allontanò con convinzione. No, non poteva essere. Era solo colpa di quella particolare atmosfera che si era creata e soprattutto di Lysandre e dei suoi discorsi idioti.
“ci credo che sei molto legata a tua sorella” commentò d’un tratto, per distrarre sé stesso dai suoi pensieri.
Erin incrociò le gambe e replicò con una triste dolcezza:
“è per questo che mi manca così tanto”
Castiel rimase in silenzio finendo la sigaretta che spense contro la superficie della panchina e replicò:
“Nathaniel cosa ha detto quando gli hai parlato di lei?”
Vide gli occhi di Erin accendersi di un iniziale sconcerto, per poi abbassarsi, quasi tradissero una sorta di senso di colpa:
“sei l’unico a cui l’ho detto finora. Non voglio che lo sappiano altre persone, nemmeno lui, anche se è il mio ragazzo”
“perché proprio io?”
“perché sei il mio migliore amico”.
 
“Violet dovrebbe arrivare da un momento all’altro” commentò Erin nervosamente guardando l’orologio al lato della piazza. Non aveva mai frequentato prima Violet fuori dalla scuola e non ne conosceva le abitudini ma sperava che essere in ritardo non rientrasse tra queste ultime.
“non preoccuparti” la rassicurò Nathaniel, sedendosi su una lastra accanto ad una colonna del museo. Quel pomeriggio aveva un look casual, con una felpa con il cappuccio e un paio di jeans. Erin lo squadrò compiaciuta e il biondo, accortosi di quello sguardo indagatore, arrossì leggermente:
“che hai?”
La ragazza si avvicinò a lui, sorridendo teneramente:
“non sono abituata a vederti così informale. Ti preferisco così” confessò, stampandogli un bacio in bocca.
Passarono un paio di minuti a baciarsi e a sussurrarsi parole dolci finché sentirono dei passi e videro Violet a pochi metri da loro. Erin si alzò e le sorrise, andandole incontro.
Dall’orlo della giacca dell’artista, spuntava un’adorabile gonna a pois.
La condusse verso Nathaniel che sfoderò il migliore dei suoi sorrisi. La sua ragazza l’aveva preparato psicologicamente a quell’incontro, confessandogli la tenera timidezza dell’amica che la ostacolava nell’aprirsi alle persone.
“è solo introversa, ma sono sicura che la conquisterai” lo aveva rassicurato Erin con ottimismo.
“sembra che tu voglia presentarmi tua madre” aveva replicato il ragazzo facendola sorridere.
Erin passò velocemente alle presentazioni e poi si rivolse all’artista:
 “allora Violet pronta? Ho letto che è previsto lo sconto per noi studenti” la accolse Erin.
“mi sembra una bella cosa” sussurrò timidamente la ragazza.
 
Il trio cominciò a farsi strada tra i saloni. La mostra era incentrata sulle opere di Van Gogh e Nathaniel si impegnò a fare da cicerone alle due ragazze.  Violet rimase sorpresa e affascinata dalla cultura del ragazzo, al punto da azzardare a fargli qualche domanda. Il biondo si lusingò per quell’attenzione e seppe sciogliere i suoi dubbi, mentre Erin li guardava sollevata. L’uscita non poteva prendere una piega migliore. Era talmente rincuorata per il successo di quell’incontro che quasi non ascoltava il biondo. Lo ammirava mentre parlava con passione, illustrando dettagli dei quadri e formulando opinioni che forse solo uno studente universitario poteva maturare.
Si avvicinarono alla vera attrazione della mostra, recapitata direttamente dal MOMA di New York: la notte stellata. Quel capolavoro sarebbe rimasto al museo di Morristown appena due settimane per poi tornare alla sua legittima e ben più famosa sede.
“è meravigliosa” sussurrò Violet estasiata.
“se la guardi da distante i colori si fondono e sembra ancora più bella” commentò Erin.
“no. Devi guardarla da vicino per apprezzarla” la contraddisse l’artista “perché così puoi apprezzare le pennellate maniacali, l’accostamento di colori così diversi eppure così…”
“armonici” commentò una voce alle loro spalle.
I tre si voltarono e si trovarono di fronte Lysandre.
“che sorpresa! Anche tu qui!” commentò felice Erin. Quella giornata non poteva evolvere in modo migliore.
Il ragazzo sorrise educatamente e spiegò:
“non potevo perdermela. A quanto pare anche voi avete cambiato idea”
Erin annuì e guardando oltre le spalle del ragazzo chiese:
“sei da solo? Perché altrimenti potresti unirti a noi”
“mi dispiace, ma non sono solo” smentì Lysandre, deludendo le aspettative dell’amica “ma grazie comunque. Continuate a godervi la mostra”
E dopo essersi congedato in modo teatrale, il ragazzo si avvicinò ad una donna.
L’abbigliamento e il portamento non ingannarono Erin. Era proprio una donna. Probabilmente dell’età di sua zia Pam se non più vecchia di qualche anno.
“quella è…” cominciò, cercando di ricordare il nome che aveva pronunciato Rosalya settimane prima.
“Emma” completò Nathaniel per lei.
Videro i due confabulare e la donna voltarsi nella loro direzione. Erin si irrigidì, mentre Violet abbassò il capo. Nathaniel invece continuò a osservare la scena. Rosalya gli aveva raccontato della crisi in atto all’interno di quella coppia e la faccia scura di Emma non prometteva nulla di buono.
La donna cominciò a gesticolare animatamente, mentre Lysandre voltava il capo da un’altra parte, scocciato. Quel gesto la irritò e portò la sua mano sul mento del ragazzo, costringendolo a guardarla. Quella veemenza lo innervosì e la allontanò in malo modo, aggiungendo qualcosa che, a giudicare dal volto di Emma, doveva averla ferita nel profondo. Inspirò profondamente e gli tirò uno schiaffo in pieno viso per poi allontanarsi  a grandi passi, lasciandolo lì, da solo nella grande sala.
Erin, Nathaniel e Violet, basiti per quella scena, si voltarono di scatto, fingendo di osservare “la notte stellata” e sentirono alle loro spalle i passi del loro amico che abbandonava il locale.
“devo andare da lui” esclamò Erin, incapace di trattenersi.
Lysandre era sempre così gentile con lei che non riusciva a ignorare quanto fosse accaduto. Probabilmente avvicinarlo nel tentativo di consolarlo non era un’idea geniale ma nel dubbio preferì accertarsene. Nella peggiore delle ipotesi si sarebbe limitata a tornare dal suo ragazzo e dalla sua amica.
 
Trovò il poeta all’esterno, seduto su una panchina del parco del museo. Il vento freddo gli sferzava il viso e il collo lasciato scoperto. Un po’ per l’eccentricità dell’abbigliamento e un po’ per la pelle delicata e pallida, Lysandre sembrava proprio un giovane nobile dell’Ottocento rimasto intrappolato in un viaggio nel tempo.
“prendi la mia sciarpa Lys, ti verrà il mal di gola e in quanto vocalist non puoi permettertelo” gli disse Erin, porgendogli la sua lunga sciarpa. Il ragazzo sorrise e commentò:
“questo nobile gesto si addice ad un cavaliere verso una dama, non il contrario”
“tu accetta il dono senza fare storie che io ho il giubbotto già bello pesante” lo liquidò Erin, sedendosi accanto a lui.
Rimasero in silenzio, entrambi consapevoli che quello stallo poteva protrarsi per un tempo indefinito. Erano a metà novembre e l’inverno alle porte. Gli alberi erano completamente spogli rendendo il paesaggio un po’ malinconico.
“è vero che neanche tu vuoi esibirti al concerto del liceo?” annunciò Erin d’un tratto.
Lysandre la guardò perplesso e ripetè:
“concerto?”
Forse non era quello l’argomento che si aspettava di dover affrontare con la ragazza o forse non ne era davvero al corrente.
“sì quello del liceo. Era scritto sul giornalino. Non ne avete parlato durante il pranzo in questi giorni?” indagò Erin che per tutta la settimana aveva pranzato con il suo Nathaniel.
“no non me ne ha parlato nessuno. E comunque il giornalino l’ho perso prima di trovare il tempo per leggerlo”
Erin si grattò il sopracciglio, irritata dalla piccola bugia di Castiel, e spiegò:
“a me risulta che Castiel te l’abbia detto e la tua risposta sia stata che non vuoi partecipare”
“se ti ha raccontato questa menzogna, devo supporre che nemmeno lui ci tenga ad esibirsi”
“lascia perdere quello che pensa lui! Lo convincerò io” lo rassicurò, portandosi una mano sul petto “ma tu piuttosto: cosa ne pensi? Lo faresti?”
“perché no. Visti gli eventi precedenti organizzati dalla scuola si tratterà sicuramente di una cosa ben organizzata”
“dici sul serio?” replicò Erin entusiasta.
“altrochè. Per queste cose la nostra scuola non bada a spese. Del resto è anche un modo per farsi pubblicità per le future iscrizioni”
“se mi dici così, allora dovete assolutamente partecipare!” esclamò Erin, balzando in piedi.
“Castiel dovrebbe saperlo visto che quando eravamo in prima ne avevano organizzato uno simile” la informò Lysandre “poi però ci sono stati dei problemi organizzativi e la preside non ne ha più voluto sapere. Per fortuna il tempo attenua ogni ricordo ed evidentemente in questi anni le è passata l’arrabbiatura per ciò che era successo”
“e di preciso cosa?” indagò Erin.
“le solite cose: persone ubriache e un po’ fatte, strumenti rubati…”
“non mi sembrano cose tanto normali” obiettò Erin.
“in una scuola grande come la nostra e con il materiale che mette a disposizione ti assicuro che non è tanto strano. In quell’occasione l’evento richiamò gente anche da altre scuole e il liceo si trovò ad ospitare molte più persone del previsto. Le esibizioni tuttavia furono piuttosto deludenti: partecipò solo il club di musica e purtroppo, per quanto sublime, non tutti possono apprezzare la musica classica. Annoiati gli studenti hanno cominciato a procurarsi roba da bere e altro e consumare il tutto all’interno del perimetro della scuola. Quando alle due di notte è finito tutto, erano sparite tre chitarre, una tastiera e i tom tom della batteria”
Erin era rimasta senza parole. Non immaginava la piega che potessero prendere quel genere di eventi, dal momento che erano organizzati dalla scuola.
“comunque questa volta all’organizzazione dell’evento partecipano anche Miss Joplin e  Miss Robinson, sono due professoresse molto in gamba” annunciò Erin.
conosco Miss Robinson, ce l’ho anche io. Sì, in effetti con lei nel comitato organizzativo potrà venire fuori qualcosa di interessante. Ma immagino che avranno coinvolto anche Patterson, il professore che segue il club di musica. E’ una persona vecchio stampo, odia le novità e vorrebbe che le cose fossero sempre fatte con un certo rigore. Spero che le due professoresse non lo assecondino”
“ti assicuro che Miss Joplin non è una che che asseconda gli altri” dichiarò Erin, pensando alla sua insegnante preferita.
Lysandre sorrise, senza aggiungere altro mentre l’amica tornò a sedersi accanto a lui.
“mi hai seguita per dirmi questo? Chiedermi del concerto?”
“beh, questa è sicuramente una cosa a cui tengo molto. Sai, vorrei tanto che il vostro talento venisse allo scoperto”
“il nostro, o quello di Castiel?” indagò Lysandre.
Erin rimase senza parole, osservando confusa l’amico. Che domanda. La risposta era ovvia.
Ma quell’obiezione di Lysandre la costrinse a pensare che non lo era quanto pensava e riflettendoci ammise a se stessa che era soprattutto per Castiel che si dava tanta pena.
“hai un buon orecchio Erin, quindi dovresti sapere che, anche se ho una bella voce, non è niente di che” e prima che Erin lo interrompesse, Lysandre proseguì “ma del resto non ho l’ambizione di diventare un cantante. Sono stato solo un ripiego dopo che Nathaniel è uscito dal gruppo. Lui sì poteva sfondare e infatti c’ha provato” considerò il poeta “tuttavia, se parliamo di talento, nel nostro gruppo c’è una persona che ne ha sempre avuto più di tutti: Castiel… e le canzoni che riesce a comporre…diamine…è un genio ma è anche così idiota da non accorgersene!” sospirò Lysandre con un misto di esasperazione e rassegnazione.  
Quel discorso aveva colpito profondamente Erin.
Le parole di Lysandre testimoniavano tutta l’ammirazione e la stima per l’amico. Ogni volta che, durante i loro ritrovi del venerdì sera, i suoi amici si complimentavano con il chitarrista per la qualità delle sue musiche, quest’ultimo minimizzava o scrollava le spalle, come se non fosse convinto della sincerità di quelle parole. Raramente aveva riconosciuto di essere soddisfatto della sua opera e in un’occasione, tempo addietro, aveva commentato di sentirsi particolarmente ispirato. Dopo aver pronunciato quella frase, Erin si era accorta che il musicista aveva spostato lo sguardo su di lei e quella situazione l’aveva messa a disagio, anche se sapeva che si era trattato solo di un caso.
“dobbiamo assolutamente farvi esibire, farvi conoscere!” esclamò Erin d’un tratto, balzando in piedi per la seconda volta.
Lysandre alzò gli occhi verso la ragazza che lo fronteggiava e il suo tenero sorriso assunse una piega amara:
“così dicendo mi fai venire in mente una persona Erin… e purtroppo non è un ricordo piacevole”
La mora rimase spiazzata, quasi ferita e decisamente confusa poi ricordò le parole di Castiel: era stata la sua ex ad incentivarlo a sfondare come musicista ed a spronare la band, trovando loro un ingaggio.
“Debrah” mormorò tra sé e sé.
Lysandre annuì, consapevole del fatto che Castiel aveva parlato ad Erin della sua ex.
“ma diversamente da lei, di te sento che mi posso fidare” ammise il ragazzo.
Erin gli sorrise, rimanendo in piedi davanti a lui.
“non c’è altro che vuoi dirmi Erin?” indagò per la seconda volta Lysandre.
“beh… in realtà…” tentennò la ragazza, ricordando il vero motivo che l’aveva spinta a seguire Lysandre.
“mi dispiace ma non ho potuto fare a meno di notare quello che è successo prima con Emma. Volevo solo chiederti come stai…”
Di fronte all’espressione preoccupata e a disagio della ragazza, il poeta non potè che intenerirsi.
“non preoccuparti. Con lei era finita da tempo. Ormai bastava un niente per litigare. In realtà sto meglio adesso che dieci minuti fa”
“sono contenta di sentirtelo dire” ammise Erin sollevata.
“sai, credo di essermi avvicinato a lei perché aveva un modo di fare molto materno”
Quella strana considerazione spiazzò Erin che sul momento non seppe come commentarla.
“forse uno psicologo direbbe che è stato un modo per compensare la mancanza di mia madre”
Erin spalancò gli occhi, perpetuando il suo mutismo che ora era giustificato dallo shock:
“pensavo che Rosa te l’avesse detto” replicò asciutto, invitando l’amica a tornare seduta accanto a lui, che ubbidì senza fiatare “io e mia sorella non abbiamo mai conosciuto i nostri genitori e viviamo tutt’ora con i nonni materni”
“mi dispiace Lysandre, non lo sapevo”
“ah, non preoccuparti”
“non ne senti mai la mancanza?”
“per sentire che ti manca qualcosa, devi prima conoscere la sensazione di avere quel qualcosa” rifletté il poeta “e io non so cosa significhi essere figlio di qualcuno. So solo cosa significhi essere un nipote”
Quelle parole avevano intristito enormemente Erin. Non immaginava che dietro il sorriso gentile di Lysandre e il carattere forte di Rosalya si celasse un passato così triste. Lei invece poteva contare sull’amore incondizionato dei suoi splendidi genitori, premurosi e affettuosi. Anche ora che era lontana da loro, la chiamavano tutte le settimane, insistendo talvolta per andare a trovarla.
“sai, in un certo senso il fatto di avere un rapporto problematico con i genitori è sempre stata una cosa che ha accumunato noi, che ci definivano il club dei disaddattati” sorrise Lysandre.
“come sai Castiel è legalmente emancipato, io e Rosalya non abbiamo mai conosciuto i nostri genitori, il padre di Alexy e Armin non ha ancora accettato del tutto la diversità di suo figlio, il padre di Leigh è morto quando lui era piccolo mentre quello di Nathaniel…”
“ah sei qui. Ti avevamo dato per dispersa”
Erin si voltò di scatto, vedendo sopraggiungere il suo ragazzo seguito da Violet.
Il dialogo con Lysandre le aveva fatto completamente dimenticare dei due e si sentì in colpa per questo.
“scusate. Il fatto è che parlare con Lysandre è sempre così piacevole…” si giustificò la ragazza, grattandosi la guancia. Nathaniel le sorrise e commentò:
“allora che dite? La finiamo questa mostra?”
 
Il sole era già sceso all’orizzonte quando i quattro ragazzi uscirono. Nonostante le insistenze di Erin e Nathaniel per riaccompagnare a casa Violet, la ragazza aveva ribadito che preferiva camminare. Desiderosa però di trascorrere più tempo con la sua amica, Erin aveva proposto di accompagnarla a piedi per poi tornare a recuperare la macchina del biondo. Ai tre si unì Lysandre che intraprese una conversazione con Nathaniel, mentre la mora poteva finalmente parlare anche con Violet:
“allora? Cosa ne pensi di Nath?”
La timida artista sembrava piuttosto dubbiosa ed Erin si affrettò a precisare:
“sii sincera, come lo sei stata l’altra volta. Ti prometto che, qualunque cosa dirai, ti ascolterò senza aggredirti. In quell’occasione ho sbagliato io, quindi ti prometto che non ripeterò lo stesso errore”
Rassicurata da quelle parole, l’amica ammise:
“è molto premuroso. Credo che ti adori Erin. Ci sono dei momenti in cui tu non lo stai guardando e lui ti fissa in modo talmente dolce che è quasi commovente”
Erin arrossì, sorpresa da quell’informazione. Spostò lo sguardo verso il biondo che camminava davanti a lei, affiancato da Lysandre e ne intuì dal profilo, gli occhi espressivi, i capelli chiari, la bocca sottile. Amava vederlo gesticolare come faceva in quel momento. Gli sembrava un uomo, non un ragazzo di diciotto anni.
“e a quanto pare anche tu guardi lui allo stesso modo” concluse Violet.
Erin si voltò sorpresa, arrossendo.
“forse il mio giudizio è stato solo affrettato Erin. Non conoscevo Nathaniel di persona e non ti avevo mai vista con lui. Siete carini insieme”
La gioia le schizzò alle stelle, e incapace di contenere la trepidazione, Erin abbracciò con foga l’artista che dal canto suo diventò paonazza.
“che combinate voi due?” le richiamò divertito Nathaniel. Erin trotterellò verso il suo ragazzo e lo prese a braccetto.
“allora? Voi di cosa avete parlato?” chiese raggiante, ignorando la domanda che le aveva posto il ragazzo e facendo cenno a Violet di raggiungerla.
Era troppo felice che quest’ultima avesse approvato la sua scelta.
“Lysandre mi stava dicendo del concerto. Finchè Castiel non si convince a partecipare, non se ne fa nulla”
“ma noi lo convinceremo!” s’impuntò Erin, sbattendo la mano destra chiusa a pugno contro il palmo dell’altra.
“meglio se lasci perdere” la smontò Lysandre.
“perché?” chiese Erin sorpresa.
“Castiel è molto insicuro, almeno per quanto riguarda la sua musica” rispose Nathaniel, al posto del poeta “solo una persona è riuscita a convincerlo a salire sul palco”
“Debrah” pensò Erin, ma si cucì le labbra.
Anche se era stato il suo ragazzo a nominarla implicitamente, non voleva correre il rischio che rinvangando quell’argomento scoppiasse nuovamente una lite tra di loro. Eppure in lei non era ancora sopita la curiosità e la necessità di scoprire come fossero realmente andati i fatti.
“se lo forzi a esibirsi, si arrabbierà di brutto” ragionò Lysandre, deludendo Erin. Sperava che il poeta fosse dalla sua parte e l’avrebbe aiutata a convincere l’amico.
“finchè si tratta di fare una rappresentazione teatrale, non ha fatto tante storie: del resto non gliene importa nulla della recitazione, la prende per un gioco in cui non vale neanche la pena impegnarsi più di tanto… se anche fa brutta figura, può sempre buttarla sul ridere… ma con la musica è diverso: è il suo mondo. La prende molto seriamente, si impegna e come tutte le cose in cui ci metti l’anima, esporti al giudizio degli altri ti rende vulnerabile alle critiche e alle umiliazioni” spiegò Lysandre.
Erin rimase in silenzio, mentre Violet la guardava di sottecchi. D’accordo che i due ragazzi conoscevano meglio il rosso di quanto non lo conoscesse lei, però non potevano essere così sconfitti in partenza. Quell’evento era troppo importante per tutti: sarebbe stato un pretesto per far conosce la musica di Castiel, i testi di Lysandre e far reintegrare Alexy alla batteria.
“forse siete solo troppo negativi” s’intromise Violet, sorprendendo tutti “io ho molta fiducia in Erin e sul fatto che possa convincere Castiel”.
La ragazza si commosse e per la seconda volta, lanciò le braccia al collo all’amica. Non era mai stata prima così espansiva però con Violet sentiva il bisogno di esplicitare anche con i gesti tutto il suo affetto.
Nathaniel e Lysandre si limitarono a sorridere, sperando nell’ottimismo dell’artista.
 
Una volta arrivati davanti al negozio di dolciumi, Lysandre si prese l’incarico di accompagnare lui Violet per i resto della strada, evitando a Nathaniel ed Erin di allungare ulteriormente il tragitto. Il quartetto allora si dimezzò e rimasta sola, la coppia tornò sui suoi passi, dirigendosi verso il museo dove aveva lasciato la macchina. Nathaniel la prese per mano e rabbrividì leggermente:
“hai le mani ghiacciate”
“eh lo so, scusa”
Nathaniel sorrise e, senza mollare la presa, portò la mano della ragazza nella tasca del suo cappotto. L’interno era foderato con un materiale morbido e caldo ed Erin si beò di quella piacevole sensazione.
“non posso mettere anche l’altra mano?” scherzò.
Passarono di fronte al teatro e il ragazzo le chiese se stava studiando per la parte nella recita.
“sì, non è difficile. I dialoghi sono pochi”
“spero che al termine della rappresentazione mi concederai un autografo” riconobbe il ragazzo.
“dovresti parlare con il mio agente” si pavoneggiò Erin, dandosi arie da gran diva.
Rimasero per un po’ in silenzio, poi la ragazza esclamò:
“Ambra come sta?”
Nathaniel si sorprese leggermente e rispose:
“si comporta normalmente. Sgarbata e di cattivo umore. Adesso ha un’insegnante privata che la segue”
“e con i compiti come fa? Voglio dire, come fa a stare al passo con il nostro programma?”
“beh, visto che siamo entrambi in C, le ho passato il mio materiale dell’anno scorso anche se in effetti è un problema il fatto che non sia identico. Ma del resto Charlotte non si è fatta viva e mia sorella è troppo orgogliosa per chiederle cosa state studiando”

Di fronte al silenzio della sua ragazza, dopo un po’ Nathaniel chiese:
“a che pensi?”
“sinceramente non mi sorprende quello che mi hai raccontato. Charlotte non sembra particolarmente avvilita per la sospensione di Ambra” ammise Erin, addolcendo il fatto che la ragazza a contrario sembrava godere della punizione della bionda “e ho immaginato che tua sorella avrebbe avuto qualche difficoltà senza nessun riferimento sul nostro programma… e quindi stavo pensando che potresti passarle i miei appunti”
Nathaniel rimase senza parole, poi riconobbe:
“è molto gentile da parte tua, ma non li accetterà mai da te”
“lo so è per questo che non le dirai che te li ho dati io. Dì che sono da parte di… Kelly Bray” ragionò Erin, pensando alla persona che potesse risultare più credibile.
Nathaniel era ancora impressionato dalla premura della sua ragazza ma acconsentì di buon grado. Sorrise e avvicinandosi al viso di Erin disse:
“sei troppo buona” e la baciò con passione.
“solo perché è tua sorella” minimizzò lei e tornò a posare le sue fredde labbra su quelle del ragazzo.
 
Pam era seduta in cucina, con lo schermo del pc che le illuminava il viso mentre la penombra della stanza lasciava al buio ogni altra parte del suo corpo. Accanto a lei c’era un plico di carte con riportati leggi e codici. Digitò il nome della sua banca e aprì il sito. Dopo aver effettuato l’accesso alla sua area personale, inserì i codici segreti richiesti, riportati su uno dei fogli che teneva accanto a sé e visualizzò il proprio conto corrente.
Come se il segno meno davanti al numero non fosse abbastanza, il colore rosso del carattere sottolineava la sua situazione economica.
Amareggia effettuò il log out e spense il pc.
 
 
 
 
 
 
 
NOTE (INFINITE) DELL’AUTRICE:
Devo innanzitutto ringraziare ManuGreen per i consigli sul regolamento del basket^^) non sono assolutamente ferrata in materia ma l’aver scoperto un’addetta ai lavori mi sarà di grande aiuto per evitare di scrivere incongruenze su questo sport in futuro (differentemente dalla protagonista, io cerco di documentarmi). La domanda di Erin per esempio era uno dei miei dubbi e probabilmente me ne sorgeranno altri in futuro… Manu, tieniti pronta!
 
Anche in questo capitolo un altro pezzo del passato Erin-Sophia. Come avrete ormai capito il passato di quasi tutti i miei personaggi (tranne Sophia) è stato caratterizzato da momenti difficili vuoi per la situazione familiare (come nel caso di Nathaniel, Lysandre…) o per la scarsa autostima (Erin) o per entrambe (Castiel). Diciamo che in questo senso ho risentito molto dell’influenza di uno dei pochi shonen che leggo che è Naruto ^^) di cui adoro certe frasi e scene “ad effetto”.  Mi piace molto fare un confronto tra i personaggi da bambini e vedere come sono cambiati crescendo (per chi conosce la trama, diciamo che per Erin da bambina mi ispiro vagamente alla piccola Hinata XD mentre Sophia vorrei che avesse lo spirito combattivo del protagonista di questo manga :D).
In questo capitolo ci sono state alcune parti piuttosto cariche di emozioni, direi “più serie” rispetto alla comicità del precedente. Per esempio la scena in cui Erin confessa a Castiel di considerarlo il suo migliore amico rappresenta un passo molto importante della storia… ci sarebbe da discutere come lui veda (realmente) Erin… e in effetti in questo capitolo almeno lui comincia a farsi qualche domanda a riguardo…
 
Una parte che spero vi sia piaciuta è questa:
 
“ […] tuttavia, se parliamo di talento, nel nostro gruppo c’è una persona che ne ha sempre avuto più di tutti: Castiel… e le canzoni che riesce a comporre…diamine…è un genio ma è anche così idiota da non accorgersene!” sospirò Lysandre con un misto di esasperazione e rassegnazione.  
 
Non so perché ma è una frase che mi piace molto (perdonate l’autocompiacimento), sarà perché mi sto affezionando a Lysandre ^^)(….un altro po’ e supererà quel testone di Castiel o l’affascinante Nathaniel) . Il poeta ha molte sfaccettature e quello che volevo che vi arrivasse in questo caso era la sua stima per il talento dell’amico.
 
Altra cosa che ritengo di dovervi sottolineare: i miei personaggi hanno dei genitori, alcuni dei quali sono già saltati fuori (la dolce mammina di Nath) e altri che verranno… ma sono diversi da quelli disegnati e pensati da ChiNoMiko. Quindi se le descrizioni non vi tornano, sappiate che li ho volutamente stravolti ;)
 
Cos’altro dovevo dirvi? Ah sì…come avrete (credo) notato il rating della mia storia è aumentato… di nuovo -.-‘’(se non sbaglio, agli inizi l’avevo pubblicata con il verde!). Il fatto è che mi sono cimentata nella scrittura di alcune scene “hot” … e pensate che quando ho cominciato questa storia in aprile ero convinta che non sarei mai riuscita a scriverle invece boh… ci ho voluto provare… e al termine del primo tentativo, mi sono resa conto che la mia passione per i dettagli mi aveva portato di fronte a un bivio: o “censuro” queste scene, trattandole in modo più implicito e sommario, oppure aumento il rating e le lascio così. Alla fine ho scelto quest’opzione anche se ora come ora non so quanto in là e fino a dove posso spingermi … mi farò un’idea leggendo storie di altri autori che hanno molta più esperienza, talento e maturità di me ;).
Non mancano molti capitoli prima che possiate leggere la prima che, in base alle vostre recensioni e (spero) consigli, mi servirà come bussola per orientarmi nelle (eventuali) future scene… se scrivere le parti comiche mi viene abbastanza naturale, sappiate che per le parti più mature e spinte sono molto più in difficoltà… beh, mi saprete dire quando arriverà il momento di pubblicare il capitolo incriminato;).
 
Che dire, sono passati 23 capitoli che corrispondono a più di un mese nella storia… d’ora in poi darò un’accelerata (nel senso che nella storia cominceranno a passare i giorni, non le ore XD) per arrivare ad una parte piuttosto carica di eventi che comincerà con il concerto e si chiuderà con… beh lo vedrete… per ora sappiate che avrete ancora mooooooolto da leggere e che non siamo neanche a metà dell’intera fanfiction...onestamente non ho proprio idea di che punto siamo -.-‘’. Il problema è che sono partita con una trama piuttosto semplice ma le idee hanno cominciato a sommarsi, le modifiche ad apportarsi e così ora ho mille eventi da incastrare. Spero di riuscire a completare questo puzzle e che il risultato finale sia buono.
Ok, è tutto.
Alla prossima!
 
P.S. Caspita, avrei dovuto aprire un capitolo solo per queste note  finali -.-‘’

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Indovina chi viene a cena? ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
Durante l’allenamento in vista del torneo di basket, Erin cerca di convincere Castiel a partecipare al concerto organizzato dal liceo. Con l’occasione, lei gli racconta un episodio del suo passato e gli confessa di considerarlo il suo migliore amico. Nel pomeriggio dello stesso giorno, la ragazza ha appuntamento al museo con Nathaniel e Violet, allo scopo di far ricredere quest’ultima sulla sua relazione con il biondo. Vengono interrotti da Lysandre che, davanti a tutti, viene mollato dalla sua ragazza: Emma. Erin accorre per consolarlo ma finiscono per parlare del concerto e dei motivi che frenano Castiel dal tentare l’impresa. Lysandre racconta poi all’amica la sua triste storia familiare, segnata dall’assenza di genitori che né lui né la sorella hanno mai conosciuto. Ai due si ricongiungono Nathaniel e Violet e i quattro concludono insieme la giornata. Tornando a casa, l’artista ritratta la propria opinione sul delegato e sulla sua relazione con l’amica, suscitando sollievo e gioia in Erin. Rimasta sola con Nathaniel, la ragazza si offre di prestare gli appunti ad Ambra, senza però che la bionda venga a sapere che sia proprio la sua nemica giurata a mostrarsi solidale verso di lei.



 
 
CAPITOLO 24:
INDOVINA CHI VIENE A CENA?
 

Ravenclaw11: ahahah mi fai morire XD
Hydra_Silently: invece tu mi fai vivere

 
“non vedo l’ora che arrivi il concerto” commentava Trevor tenendo le braccia incrociate dietro alla testa.
“tzè, figuriamoci. Sarà una suonata melensa di musica classica organizzata da quelli del club di musica” lo smontò Kim calciando un sassolino, finito sotto il suo piede.
“probabile” commentò Dajan. Il ragazzo buttò l’occhio sull’insegna luminosa della farmacia. Era il 25 novembre, il giorno prima della recita del club di teatro.
Erano passate quasi due settimane dalla clamorosa espulsione di Ambra e nel frattempo la vita del liceo non aveva subito altri violenti scossoni. Gli unici eventi di rilievo erano stati la conferma dell’ammissione del suo club al campionato nazionale di basket e il concerto del liceo. Tuttavia, mentre il primo evento era atteso con una certa trepidazione dall’intera scuola, il secondo era passato decisamente in sordina. Dopo l’entusiasmo iniziale, derivato dalla novità, molti avevano concluso che si trattasse di una noiosa esibizione di musica classica da parte degli studenti del relativo club e per questo avevano finito per snobbare l’iniziativa. Di fatto quindi erano pochi quei ragazzi che condividevano l’entusiasmo di Trevor. 
 “voi non c’eravate quando hanno organizzato l’ultimo concerto” esordì Dajan.
“ne hanno già organizzato uno in passato?” si stupì Kim.
“ah-ah” confermò Dajan, sorprendendo anche Trevor “solo che in quell’occasione ci furono dei problemi di organizzazione, tipo gente sbronza, strumenti della scuola scomparsi… un casino insomma. Mi ha sbalordito infatti che la vecchia abbia autorizzato l’evento”
“probabilmente quest’anno staranno molto più attenti” meditò Kim.
“comunque in quell’occasione le esibizioni erano aperte solo al club d musica. Quest’anno da quello che ho capito sarà diverso” li informò il cestista.
“peccato però che nessuno degli altri studenti si sia ancora fatto avanti” proseguì Kim.
beh, allora speriamo che ci sia qualcuno che suona un po’ di rock da qualche parte” sperò Trevor, ignorando che quella persona era seduta dietro di lui in classe e aveva un look che testimoniava un vivo interesse per quel genere di musica.
“parlando di rock” esordì Kim ricollegandosi per l’appunto ai gusti musicali di Castiel “sono proprio curiosa di vedere Black ed Erin sul palco domani”
“oh, ci sarà da divertirsi. Ieri dopo le prove ho incrociato Kimberly e mi ha detto Castiel era stato un disastro. Chissà cosa hanno combinato oggi lui ed Erin” ridacchiò Trevor guardando il sole che stava ormai colorando il cielo dei toni dell’arancio.
“in ogni caso tutta la squadra sarà lì a far loro da supporto” dichiarò Dajan.
“dì piuttosto che siete pronti a prenderli per il culo, soprattutto Castiel” lo smentì  Kim divertita.
Dajan e Trevor sorrisero furbescamente, pregustandosi la scena che si sarebbe presentata davanti ai loro occhi quando il compagno di squadra avrebbe fatto il suo ingresso in scena.
 
Una volta entrati nel negozio di articoli sportivi, Trevor presentò agli amici il commesso nonché vecchio amico: Dake. Da buon venditore, il ragazzo li accolse con un sorriso smagliante, soffermandosi per un istante sull’unica ragazza del trio:
“è da un po’ che non ci si vede Trev” lo salutò. Quest’ultimo passò a presentargli i suoi amici e il motivo che li aveva portati da lui. Dajan era alla ricerca di una maglia termica con cui fare jogging durante il periodo invernale.
“capito. Seguimi” lo invitò Dake, facendogli un cenno mentre Kim, anziché seguire i tre, cominciò a guardarsi attorno. Adorava quel genere di negozi. Per una sportiva come lei, ogni dispositivo tecnologico aveva un suo fascino e ogni capo sportivo era più attraente di un vestito da gran sera.
Calamitò la sua attenzione una fascia nera, confezionata all’interno di un involucro con raffigurato un cuore. Sulla parte anteriore lesse che si trattava di un cardiofrequenzimetro.
“ne ho venduti un sacco di quelli” le annunciò Dake, appoggiandosi sul bancone. Kim si stupì, chiedendosi da dove fosse spuntato. Spostò lo sguardo verso i camerini davanti ai quali sostava Trevor e immaginò che all’interno ci fosse Dajan.
“i tuoi amici sono ancora lì tranquilla” la rassicurò il commesso con un sorriso malizioso.
“non avevo dubbi” replicò secca Kim “quindi come funziona esattamente?”
Dake le si avvicinò, più di quanto fosse necessario, e spiegò:
“questo va messo al petto” illustrò indicando il proprio torace piatto e proporzionato “e poi, grazie alla tecnologia bluetooth, comunica i dati relativi al battito al tuo smartphone”
Kim quasi non lo ascoltò, troppo a disagio per tutta quella vicinanza e abbassò il capo; voltò la confezione dall’altro lato e finse di leggere con interesse le istruzioni riportate sul retro, anche se il suo tentativo risultò alquanto ridicolo poiché erano riportate solo in cinese.
“se vuoi posso sempre mostrarti come si usa. Per esempio adesso. Sarebbe interessante sentire quanto forte batte il tuo cuore” le sussurrò il biondo ammiccando.
“prendo questa” li interruppe Dajan, appoggiando in malo modo il nuovo acquisto sul bancone.
“oh, hai già fatto?” chiese Dake con un misto di delusione e sorpresa, scivolando via dalla ragazza.
Kim ripose il cardiofrequenzimetro e si voltò verso i due amici: Trevor sembrava divertito mentre Dajan di cattivo umore.
“tu Kim devi prendere qualcosa?” le chiese il primo.
“no, sono a posto così”
“ok, allora andiamo” tagliò corto Dajan leggermente seccato.
“beh, voi due andate pure, io resto ancora un po’ qui. Ci vediamo domani” li salutò Trevor dopo che Dake aveva passato al cestista il suo acquisto.
Guardando Kim e Dajan uscire all’esterno e passare di fronte alla vetrina, Dake chiese:
“allora? Era quel tizio che volevi far arrabbiare?”
“arrabbiare? No beh, volevo solo fare un esperimento” precisò Trevor giocherellando con una delle palline antistress in vendita.
“ed è servito?”
“ah-ah. Ha confermato la mia ipotesi” attestò Trevor sibillino, sorridendo malizioso.
 
Dajan camminava spedito per strada, come se fosse solo. Da quando erano usciti dal negozio, non aveva scambiato mezza parola con la sua compagna di squadra che per questo si sentiva terribilmente a disagio. Eppure durante i loro allenamenti del sabato le sembrava che tra di loro ci fosse una certa intesa; quei pesanti silenzi non li avevano mai divisi. Odiò Trevor per averla abbandonata così su due piedi, proprio quando, per un motivo a lei ignoto, l’umore di Dajan era peggiorato.
Dopo cinque minuti buoni senza parlare, Dajan aprì bocca:
“senti Kim, per caso hai da fare? Devi tornare a casa?”
Incapace di celare la propria perplessità, la ragazza balbettò:
“n-no no, ho tempo”
Dajan rilassò i muscoli del viso, illuminandolo con uno di quei sorrisi bianchissimi che lo contraddistinguevano e che ogni volta la facevano sciogliere come un gelato al sole d’agosto.
“ottimo. C’è un’altra cosa che dovrei prendere ma ad essere sincero lì alla Pentathlon non mi ispirava di comprarla” le confidò.
“di che si tratta?”
“un cronometro. Una velocista come te saprà sicuramente consigliarmi al meglio”
Lusingata da quella fiducia, Kim annuì e passò a delineare le qualità indispensabili che caratterizzavano un buon dispositivo mentre il ragazzo la ascoltava con interesse.
 
“allora  come sono andate le prove oggi?” si incuriosì Nathaniel.
Lui e la sua ragazza avevano preso l’autobus assieme ma questa volta l’aveva accompagnata fino a casa.
“beh, dopo il disastro di ieri, oggi sono state un successo incredibile! Non so cosa sia preso a Castiel ma… aspetta, ti racconto dall’inizio. Appena siamo entrati in teatro, Lysandre subito ci ha fatto una ramanzina sulla nostra performance di ieri. A quel punto Castiel si è innervosito, sai come è fatto no? E ha cominciato a blaterale qualcosa sul fatto che Lys non poteva lamentarsi, che in fondo siamo noi che facciamo un favore a lui e bla bla bla… allora Lys gli si è avvicinato e gli ha sussurrato qualcosa. Non ho idea di cosa gli abbia detto ma da lì, stranamente, Castial ha cominciato ad impegnarsi! Vedessi che convinto! Kimberly si è quasi commossa” rise Erin.
“quindi domani farete una rappresentazione coi fiocchi?” dedusse fiducioso Nathaniel.
“per forza. Non ho nessuna intenzione di rendermi ridicola” dichiarò la sua ragazza “già con i vestiti da contadina non sarò un bello spettacolo”
Il biondo sorrise e le portò una mano sui fianchi, avvicinandola a sé. I due si fermarono a pochi passi dal portone d’ingresso:
“tu non sei un bello spettacolo? Saresti irresistibile anche vestita da tartaruga ninja”
Erin rise e il ragazzo silenziò quella dolce risata con un bacio. Stavano insieme da due settimane e tra di loro la sintonia aumentava di giorno in giorno. Le passò una mano tra i capelli sorreggendole la testa che la ragazza aveva reclinato di lato per accogliere quelle labbra.
“ERIN!”
La ragazza sbarrò gli occhi riconoscendo quella voce sin troppo familiare. Familiare in modo imbarazzante. Si staccò bruscamente da Nathaniel e guardò oltre la spalla di quest’ultimo.
Un uomo dal fisico ben piantato la fissava con stupore mentre una donna, dietro di lui, lo tirava furtivamente per la manica.
“PAPÀ!” esclamò Erin sconvolta, arrossendo vistosamente. Una reazione analogia contagiò Nathaniel “voi che ci fate qui?” li accusò basita.
Spostò lo sguardo verso sua madre che, inutilmente, aveva tentato di evitare quell’imbarazzante incontro.
“siamo venuti a trovarti no? Ci hai detto di questa recita e poi è da più di un mese che non ci vediamo! Anzi sono quasi due” calcolò sbrigativamente il padre avvicinandosi. I due ragazzi nel frattempo avevano aumentato la distanza tra i loro corpi e il biondo cercava di recuperare l’autocontrollo che lo contraddistingueva.
“potevate avvertire” li biasimò la ragazza.
“volevamo farti una sorpresa tesoro” si scusò la madre, sistemandosi gli occhiali sul naso. Nathaniel rimase sorpreso dal suono dolce e paziente della sua voce, che strideva accanto alla figura minacciosa del marito.
“direi che ci siete riusciti” commentò Erin ancora perplessa. Dentro di sé in realtà, fremeva dal desiderio di abbracciarli ma la presenza del suo ragazzo la tratteneva dal dimostrarsi troppo affettuosa.
“beh sei tu che hai fatto la sorpresa a noi” obiettò la madre, con un sorriso amichevole rivolto al ragazzo della figlia. Erin tornò a voltarsi verso quest’ultimo e lo guardò teneramente. Intrecciò la sua mano con quella di lui e lo presentò:
“lui è Nathaniel. Il mio ragazzo”
“si era capito” sentenziò secco il padre, stritolando la mano che il povero ragazzo aveva ben pensato di porgergli. Fortunatamente per lui, ben diversa fu l’accoglienza della madre di Erin che era tutta un sorriso.
“molto piacere Nathaniel” gli aveva detto.
Dopo aver recuperato un po’ di coraggio, il biondo riuscì ad articolare qualche frase:
“quanto vi fermerete a Morristown?”
“che c’è ragazzino, la cosa ti crea problemi?” lo sfidò l’uomo mentre Erin e sua madre lo richiamarono in coro:
“PAPÀ!”
“PETER!”
Peter sbuffò mentre Nathaniel, senza scomporsi, sorrise conciliante:
“era solo per sapere. Mi sarebbe piaciuto farvi fare una visita della città”
Erin sogghignò orgogliosa. Il suo Nathaniel, dall’aspetto così educato e misurato, sapeva come relazionarsi con chiunque, anche con un padre geloso e possessivo. Con un’eleganza e diplomazia da fare invidia ad un politico, usciva brillantemente a testa alta da ogni discussione o provocazione. Studiando l’espressione dei genitori, la ragazza colse che anch’essi ne erano rimasti piacevolmente impressionati, anche se suo padre faceva l’impossibile per non darlo a vedere.
“mi farebbe molto piacere Nathaniel” lo ringraziò la madre di Erin “ma noi ripartiamo dopodomani, il giorno dopo la recita… ho dei pazienti che mi aspettano… però che ne diresti di salire con noi? Vorrei tanto conoscerti prima di andare via”
 
Una volta all’interno dell’appartamento, Erin intercettò la zia e, una volta isolata dal resto dei presenti, le sussurrò offesa:
“potevi almeno avvertirmi che sarebbero arrivati!”
“volevano farti una sorpresa e poi ben ti sta!” replicò Pam, annuendo convinta “sono due settimane che voglio conoscere Nathaniel e tu trovi sempre fuori scuse”
Erin sbuffò e tornò in salotto mentre Pam apriva un pacco di biscotti da servire agli ospiti.
Trovò il suo ragazzo seduto sul divano mentre l’altro uomo di casa lo squadrava da capo a piedi.
“dunque lei signora di cosa si occupa?” chiese educatamente Nathaniel mentre la ragazza trovava posto accanto a lui.
“io?” chiese la madre di Erin, deliziata da quei modi così garbati “ma chiamami Amanda ti prego!” lo esortò, gesticolando animatamente “sono una psicologa mentre questo scorbutico di mio marito è un insegnante di nuoto”
Nathaniel annuì e fece un commento positivo sull’atteggiamento paziente della donna, che testimoniava la sua attitudine ad ascoltare le persone mentre Erin annunciava con orgoglio:
“Nathaniel invece è il segretario delegato del nostro liceo”
Amanda annuì ammirata, guardando la cognata che almeno sul piano teorico conosceva perfettamente il fidanzato della nipote.
“e una volta finito il liceo quali sono le tue prospettive ragazzo?” gli chiese Peter adottando un tono fin troppo ostile.
“papà! Lo stai mettendo in imbarazzo!” protestò Erin offesa per quei modi indelicati.
Il biondo però le accarezzò una mano per rassicurarla e senza scomporsi replicò:
“per la verità non ho ancora deciso”
“non mi sembra una buona risposta” commentò acido il genitore.
“è la più sincera che posso darle in questo momento”
Le tre donne della stanza trattennero delle risatine di fronte a quel ragazzo che, con educazione e intelligenza, teneva testa al colosso genitoriale davanti a lui. Sconfitto dalla diplomazia di Nathaniel, Peter borbottò qualcosa e si alzò per uscire sul terrazzo a fumare una sigaretta.
“è solo geloso di sua figlia. Sai sei il suo primo ragazzo e quindi non ha molta familiarità con questo genere di situazioni” lo giustificò Amanda.
Nathaniel sorrise comprensivo e rivolse un’occhiata complice ad Erin.
Finita di fumare la sigaretta, Peter si riunì al quartetto e, incredibilmente, sembrava aver mutato la sua opinione sul ragazzo.
Gli chiese con interesse quali mansioni gli spettassero al liceo e arrivò addirittura a complimentarsi per l’eccellente rendimento scolastico. Le donne rimasero disorientate da quell’imprevedibile inversione di rotta, ma si limitarono ad ascoltare deliziate la conversazione tra i due uomini.
Dopo una mezz’oretta, Nathaniel tolse il disturbo, non prima di aver promesso alla famiglia della sua ragazza di rivederli alla recita il giorno successivo.
“avresti dovuto essere gentile con lui sin dall’inizio” sbuffò Erin incrociando le braccia al petto e sprofondando sul divano.
“non sei contenta di vedere il tuo vecchio?” cambiò discorso Peter, con un sorriso fin troppo largo. Ora che Nathaniel aveva lasciato l’appartamento, era libero di sfogare tutto il suo affetto paterno.  Non vedeva l’ora di abbracciare la figlia e averla trovata avvinghiata al corpo del biondo non era stata una bella scena per il suo cuore geloso. Si avventò su di lei, facendole il solletico e nonostante le proteste di Erin, ci mise un po’ a smettere.
“eddai papà! Non ho cinque anni!” protestò ancora ridendo.
 
Mentre Pam preparava la cena, Erin e sua madre si ritagliarono un momento per loro. Erin le mostrò la sua stanza e le foto dei suoi amici. Poi si sedettero sul letto e Amanda, con un tono serio e al contempo un po’ apprensivo, cominciò:
“tesoro, Nathaniel mi piace molto. È davvero un bravo ragazzo…e poi è così bello”
Erin arrossì e la madre proseguì:
“però c’è un discorso che non abbiamo mai fatto e credo che ora-”
“mamma!” la interruppe Erin avvampando. È vero, non avevano mai fatto quel discorso ma di questo la ragazza non se ne era mai lamentata.
“Erin è importante” ribadì la psicologa “ogni giorno nel mio studio arrivano genitori disperati perché temono che i loro figli abbiano rapporti non protetti e-”
“sono vergine” tagliò corto Erin.
“e vedi di restarlo!” urlò suo padre, passando davanti alla porta aperta della stanza.
Erin gli lanciò un’occhiataccia, sentendosi al contempo imbarazzata e arrabbiata. Peter entrò in bagno e la figlia, rivolta alla madre, proseguì:
“io e Nathaniel ne abbiamo già parlato, tranquilla. Stiamo insieme da sole due settimane. È presto per me… e lui ha detto che aspetterà quando sarò pronta… però questa cosa riguarda solo noi due, non sono una bambina, so quali precauzioni prendere, quindi non preoccuparti d’accordo? Questo discorso è più imbarazzante per me che per te”
Amanda sospirò lievemente e, con un sorriso rassegnato, passò a chiederle dell’imminente recita.
 
“Peter, posso parlarti?” chiese Pam rivolgendosi al fratello che era appena entrato in cucina.
Il tono serio e pesante lo insospettì:
“certo, di che si tratta?”
La sorella sospirò, finì di pelare l’ultima patata e si voltò verso l’uomo:
“si tratta della presenza di Erin qui, a Morristown. Non potrò restare ancora a lungo in questo appartamento. Devo trasferirmi”
“che cosa? E perché?” sbottò Peter sorpreso.
“il punto non è il perché, il punto è che devo farlo… e visto che andrò a stare in un appartamento più piccolo non c’è spazio anche per lei”
“più piccolo? Già è un buco questo Pam!” obiettò il fratello sconcertato “in che guaio ti sei cacciata questa volta? Ti servono dei soldi?”
“non voglio i tuoi soldi Peter! Mi hai aiutato anche troppo in passato” si irritò Pam.
“sono tuo fratello, ovvio che ti aiuto e continuerò a farlo. Dimmi solo quanto ti serve” continuò lui imperterrito.
“PETER!” lo rimproverò Pam esasperata. Temeva che il loro discorso avrebbe preso quella piega, ma d’altro canto non poteva non avvertirlo. Quando Erin si era trasferita da lei, Pam non aveva voluto un soldo dal fratello, sentendosi fin troppo in debito verso di lui per i prestiti che le aveva fatto in passato e che ancora lei non aveva restituito. Preferiva che Erin tornasse con loro in città, piuttosto che chiedergli altri soldi. Del resto la nipote sembrava essersi ripresa e, anche trasferendosi, sarebbe comunque riuscita a vedere il suo ragazzo tutti i weekend. In altre parole, Pam era determinata a risollevare la sua situazione senza chiedere l’appoggio del fratello.
“zia, c’è Jason” annunciò Erin facendo capolino in cucina. Percepì della tensione nell’aria ma una volta tanto, sedò la propria curiosità e non fece domande.
“arrivo” replicò la donna, togliendosi sbrigativamente il grembiule. Invitò la nipote a continuare a preparare la cena e uscì sul pianerottolo.
“ehi Pam, scusa se ti disturbo… ho visto solo ora che avevi ospiti” la salutò il giovane.
“figurati, tu non disturbi mai. È mio fratello con sua moglie” lo rassicurò sorridendo. Era incredibile come nell’arco dei venti passi che l’avevano portata a trovarselo di fronte, il suo animo si fosse già rasserenato. Jason, con quell’aria da eterno ragazzo, la faceva sentire più leggera e le permetteva di dimenticare i suoi problemi. Lasciare quell’appartamento le sarebbe costato molto perché non avrebbe più potuto dormire con la consapevolezza che dall’altra parte della parete c’era l’uomo che lei aveva scoperto di amare.
“ah quindi i genitori di Erin… proprio per lei sono qui…. non ricordo più a che ora avevi detto per la recita”
“lo spettacolo inizierà alle otto quindi direi che potremo partire da qua verso le sette e un quarto”
“perfetto, allora andiamo con la mia macchina” propose Jason.
“sono io che ti ho invitato, quindi lascia che usi la mia” protestò educatamente Pam.
“e tu lasciami fare il cavaliere, una volta tanto” patteggiò divertito Jason ma lei anziché assecondare quell’allegria, lo guardò con dolcezza:
“ma tu sei sempre un cavaliere”
Jason arrossì e stava per aggiungere qualcosa quando sentì un’inquietante presenza sulla soglia dell’appartamento di Pam. Alzò lo sguardo e vide la testa di un uomo che lo stava letteralmente fulminando con gli occhi. Questi ultimi erano ridotti a due fessure e le sopracciglia erano aggrottate, rendendo quel volto particolarmente inquietante e minaccioso. Intercettando lo sguardo e l’esitazione del suo interlocutore, Pam si voltò e appena realizzò la presenza dell’intruso, sbottò, sollevando gli occhi al cielo:
“e che diamine Peter! Non sono più una ragazzina!”
Il fratello tornò a cuccia, borbottando frasi incomprensibili mentre Jason era ancora perplesso:
“quindi è lui tuo fratello?”
“sì. Scusalo sai, ma è sempre stato molto protettivo con me. Con le sue figlie è anche peggio”
 
Durante la cena, con enorme sollievo di Erin, non fu Nathaniel l’argomento di conversazione, bensì Jason.
“da quando lo conosci?” interrogò Peter.
“da quando sono arrivata” borbottò Pam, guardandolo in cagnesco. Non sopportava quel terzo grado ed erano passati parecchi anni da quando ne aveva subito uno.
“che lavoro fa?”
“veterinario”
“ha animali in casa?”
“no”
“fuma?”
“cosa c’entra? Anche tu fumi!”
protestò Pam.
“allora fuma” concluse Peter, soddisfatto di aver trovato un difetto.
“in realtà non l’ho mai visto fumare” lo difese la donna “Amanda, come hai potuto sposare questo elemento!” sbottò esasperata rivolgendosi alla cognata che, come era solita fare, sorrise senza prendere posizioni.
 
Dopo cena, Pam invitò i due ospiti a prendere il suo letto, mentre lei avrebbe dormito sul divano. Le dimensioni ridotte del mobile però suscitarono le proteste di Amanda che non poteva permettere alla cognata di riposare su una simile scomodità. Quando allora Pam suggerì di trasferirsi per la notte dal vicino Jason, toccò a Peter rifiutare la proposta: l’hotel che avevano prenotato venne così confermato come soluzione per la notte.
 
Mentre sua moglie stava indossando la vestaglia di seta, Peter guardava fuori dalla finestra il panorama notturno di Morristown.
“davvero non capisco come Pam faccia a vivere qui, in mezzo a tutto questo caos” borbottò.
“a me sembra una bella città. Se solo ci fermassimo di più, avrei accettato volentieri l’invito di Nathaniel…  a proposito” disse, calamitando l’attenzione del marito “si può sapere perché poi ti sei fatto più gentile? Che c’è, il fumo ti fa rischiarato le idee?” scherzò.
Peter si mise seduto sul letto e rispose:
“ho riflettuto cara. Quel ragazzo è davvero in gamba, educato, diplomatico… però non è adatto ad Erin e lei se ne accorgerà” annunciò trionfante “non sarà lui a portare via il cuore della mia bambina ed è per questo che poi mi sono rabbonito. Non è una minaccia”
Di fronte a quel tono così solenne e sicuro, Amanda ridacchiò, spalmandosi la crema alle mandorle sulle braccia.
“trovo commovente il tuo ottimismo caro, ma dovresti cominciare ad accettare l’idea che la nostra Erin stia crescendo e io mi auguro che tra di loro le cose funzionino. Sono molto simili perché anche lei quando vuole sa essere diplomatica e riflessiva. Era sempre lei quella che spegneva l’impulsività di sua sorella”
“lo so è per questo che il suo ragazzo ideale dovrà avere un temperamento più impetuoso del suo. Per Erin ci vuole un uomo più… impulsivo ma che lei, con la sua dolcezza, sappia come prendere. Insieme a Nathaniel risultano una coppia un po’noiosa”
Amanda scoppiò a ridere e commentò:
“non ti facevo così esperto di questioni di cuore. Io però ci rimarrei molto male a perdere un genero come Nathaniel. Riconoscilo che è il principe azzurro delle fiabe”
“lo so… e per fortuna che non conoscerà mai Sophia”
“e che c’entra Sophia adesso?”
“c’entra perché seguendo il mio ragionamento, se è vero che Nathaniel non è adatto ad Erin, sarebbe perfetto per quel terremoto di sua sorella”
Per la terza volta nell’arco di pochi minuti, la moglie scoppiò a ridere, questa volta più fragorosamente delle altre.
“Sophia? La nostra Sophia? Oddio tesoro, lei li ha sempre odiati quel genere di personaggi. Sin da quando era bambina e le leggevo le fiabe, si arrabbiava ogni volta che la principessa veniva salvata dal principe. Protestava dicendo che se era per lei, avrebbe affrontato da sola il drago, altro che principi azzurri”
Rievocando quel dolce ricordo, dapprima i genitori risero insieme, poi però le loro risate si affievolirono e una patina di nostalgia velò i loro occhi:
“vorrei tanto sentire la sua voce adesso. Mi manca così tanto Pete” sussurrò.
Il marito le si avvicinò e le cinse le spalle, baciandole i capelli.
“lo so tesoro, lo so”
Rimasero in silenzio, abbracciati nella penombra della stanza per qualche minuto finché Amanda si staccò:
“comunque tesoro, tu le nostre figlie non le conosci quanto le conosco io e poi…” chiarì guardandolo negli occhi “ti ricordo che la psicologa sono io”
 
Anche Erin quella sera pensava a lei: Sophia. L’aver riabbracciato i suoi genitori aveva reso automatico il collegamento alla sorella. Eppure sia sua madre che suo padre sembravano più sereni rispetto a quando li aveva salutati due mesi prima. Forse stavano cominciando ad abituarsi a quella situazione. Quanto a lei, non passava giorno che non pensasse, almeno per un istante alla gemella.
“se non fosse stato per quell’incidente ora lei non…”
Bloccò subito quella frase che si era formulata nella sua testa. Quello che era stato era stato. Compiangere il passato non le sarebbe stato di alcun confronto. Si portò la coperta fino a sotto il naso e cercò di pensare ad altro.
 
L’indomani, come tutti i mercoledì, Erin si unì al suo gruppo di amici per pranzo. Si era accordata con Nathaniel per pranzare con lui tutti i giorni eccetto il mercoledì e il giovedì, così da non trascurare le sue amicizie. Del resto anche il biondo aveva legato con alcuni suoi compagni di classe per cui quell’accordo venne accettato di buon grado da entrambe le parti.
“e così Nathaniel ha conosciuto i genitori di Irina” commentò divertito Armin guardando Castiel che, come al solito, era di pessimo umore. A nulla erano valse le sue proteste, gli amici continuavano a trascinarlo in mensa contro la sua volontà.
“sarei curiosa di conoscerli anche io” affermò Iris.
“beh, verranno stasera” annunciò Erin cercando di tagliare una fetta di bistecca dura come il marmo “ma parliamo d’altro va... Castiel!” lo chiamò puntandogli il dito contro “ho rispettato il patto di non parlare del concerto per una settimana e ora finalmente posso tornare a farlo. Ci hai pensato?”
Il rosso sollevò gli occhi al cielo e replicò scocciato:
“per l’ennesima volta, sì e la risposta è sempre la stessa!” Erin mise il broncio mentre l’amico si rivolgeva alla ragazza seduta accanto a lui  “Violet mi passi il ketchup?”
Mentre distribuiva il liquido rosso sulla pietanza, s’intromise Rosalya.
“tanto per cominciare, dovremo pensare ad un nome per la band”
“ohi! Ho detto che non suonerò!” protestò Castiel, offeso dalla scarsa considerazione che aveva sortito la sua decisione.
“e allora? Ho solo detto di pensare ad un nome per la vostra band. Quello dell’anno scorso faceva pena”
“ehi!” replicò risentito Alexy che era stato proprio lui a proporlo.
“potreste chiamarvi i Musicisti per casoipotizzò Erin
“ho tre aggettivi per descrivere la tua proposta: banale, idiota, ridicola” tagliò corto il chitarrista.
Erin lo fulminò con lo sguardo, allora tentò Armin:
“i Trez
“e questa da dove l’hai tirata fuori?” gli chiese il fratello, mal celando un certo scetticismo.
“è il nome di una popolazione guerriera del videogiogi-“
Gli amici non lo lasciarono finire la frase e lo ignorarono deliberatamente.
“magari qualcosa che richiami la poesia” suggerì Lysandre “ad esempio, i poeti della musica
“oppure il duo solitariosuggerì Iris.
“se fosse i vermi solitari? Sarebbe buffo” propose Alexy ridendo.
“chiamatevi Tenia solium!” esclamò Erin,
“e che roba è?” sbottò Rosalya.
“un verme parassita intestinale”
Castiel stava perdendo la pazienza. Un altro po’ e i presenti avrebbero potuto vedere la vena che gli pulsava in fronte dall’irritazione. Anche se sapeva che i suoi amici stavano solo scherzando, sentire tutti quei nomi assurdi peggiorava il suo umore. Per lui la band era una cosa seria mentre loro si stavano divertendo a prenderlo in giro.
“comunque, se continua così, il concerto sarà un flop” commentò Alexy cambiando argomento.
“a che ti riferisci?” indagò Rosalya sorpresa.
“per ora l’evento non ha riscosso grande successo. Si esibiranno gli studenti del club di musica più un altro gruppo di seconda. Hanno proposto di fare un karaoke ma chi vuoi che sia così idiota da esibirsi davanti a tutta la scuola?” spiegò Erin che aveva ricevuto le informazioni da Nathaniel “per evitare gli episodi di quattro anni fa, questa volta bisogna pagare un biglietto di ingresso di cinque dollari: questo è un sistema adottato dalla scuola non solo di rientrare delle spese, ma anche per tenere sott’occhio il numero di partecipanti… e per ora sono davvero pochi” concluse la ragazza del segretario.
“beh, nessuno di noi qui mi pare abbia dato la sua adesione” osservò per l’appunto Iris, ricevendo segni di conferma dagli amici.
“ovvio, io ci andrei solo se questo testone qui si decidesse!” comunicò Erin esasperata, puntando il dito contro il rosso.
Irritato da quell’insistenza, Castiel fece per liberare il suo posto, ma Alexy lo bloccò per il braccio.
“ok, ok, chiudiamo qui il discorso. Ma tu resta Cas” lo esortò “allora? Pronti per stasera?” chiese rivolgendosi ai quattro attori.
“faremo un figurone!” promise Erin ottimista, aprendo le spalle in un atteggiamento fiero e combattivo.
“vi conviene” puntualizzò Lysandre, lanciando un’occhiata minacciosa al suo amico dai capelli rossi.
 
Erin era pronta. Erano ormai le sei e da lì a un paio d’ore sarebbe cominciata la recita. Le altre attività pomeridiane erano concluse da un pezzo e solo gli studenti del club di teatro erano presenti all’interno dell’edificio.
Riprese in mano il copione e ripetè più volte le battute. In quel momento le sembrava di ricordarle alla perfezione ma temeva che l’ansia del palcoscenico l’avrebbe tradita. Mentre lei cercava di impegnarsi e dare credibilità al proprio personaggio, Lysandre assillava Castiel con mille raccomandazioni:
“scandisci bene le parole e se proprio dimentichi le battute, aspetta il suggerimento di Rosa. E per l’amor del cielo: non improvvisare!”
Castielo sollevò le spalle, incurante di quelle raccomandazioni, incrementando così il nervosismo dell’amico. Quest’ultimo allora si voltò e chiamò la controparte del ragazzo nella commedia:
“Erin! Devo dirti una cosa che mi ha riferito Cast-“ il rosso gli tappò prontamente la bocca e, vedendo l’amica soggiungere incuriosita, la cacciò in malo modo:
“devi sempre ficcare il naso dappertutto tu? Sloggia!”
“è stato Lys a chiamarmi” obiettò la futura contadina, incrociando le braccia al petto.
“e adesso sono io a cacciarti. Su, sciò, sciò… torna nella stalla, tesorola sfottè il futuro finto marito.
Dopo avergli risposto con un gestaccio, la ragazza allontanò di pessimo umore e tornò a ripassare la parte.
 
Pam ricontrollò per l’ennesima volta la sua figura allo specchio. Jason sarebbe arrivato entro pochi minuti e lei non era mai stata tanto insicura sul suo look. Temeva che l’abito che aveva addosso fosse troppo corto e provocante. Analizzò quello che aveva provato fino a poco prima e che ora giaceva sul letto e considerò che era fin troppo coprente e austero.
Il campanello suonò e accorse trafelata ad aprire.
“lo so, non dire nulla, sono in ritardo!” annunciò trovandosi di fronte Jason.
“veramente volevo farti i complimenti per il vestito” ammise il ragazzo ridacchiando.
“ti piace davvero?”
“beh a te starebbe bene di tutto” la lusingò arrossendo timidamente.
Anche le guance di Pam si imporporano a sua volta, facendo sentire entrambi alla stregua di ragazzini inesperti. Avevano quasi sessant’anni in due eppure non riuscivano mai a spingersi oltre dei complimenti misurati e gentilezze educate.
“meglio andare, così ci becchiamo i posti migliori” la esortò il ragazzo.
Pam annuì e dopo aver recuperato le chiavi di casa, uscì dall’appartamento.
 
Erin era in piedi dietro al pesante tendone.
“nervosa?” la stuzzicò Rosalya che indossava un bellissimo abito da nobildonna.
Oltre il pesante tendaggio si sentivano le voci del pubblico in sala che crescevano sempre di più. Quel locale era uno dei più grandi del liceo e il numero di posti a sedere molto nutrito considerato anche se si trattava di una scuola.
“si vede tanto?” scherzò Erin.
“non preoccuparti. Andrai benissimo” la tranquillizzò Rosalya, stampandole un bacio sulla guancia.
“ehi, fidanzatine, che ne dite se cominciamo?” le richiamò Castiel, appoggiato contro un pilastro.
Le due ragazze si spostarono dal palco e tornarono dietro le quinte con il resto della compagnia.
Per quanto cercasse di controllare la tensione respirando normalmente, Erin si sentiva un fascio di nervi.
“come la prendi seriamente” la canzonò Castiel.
“cuciti la bocca” lo zittì.
L’amico sogghignò divertito e osservò:
“pensala così Erin. Male che vada, la figura di merda la faremo in due”
Quell’espressione beffarda e al contempo rassicurante, allentò un po’ della tensione nella ragazza che sorrise complice.
“ragazzi siamo tutti pronti?” disse Kimberly ricevendo cenni d’assenso “e sia… si va in scena!”
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Questa volta sarò breve: tanto per cominciare, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Visto che si parla di teatro, è doveroso da parte mia ringraziare ancora una volta _nuvola rossa 95_ per un disegno che ha realizzato tratto da una scena del capitolo 22 ^^). Mi sono sentita onorata nel ritrovarlo nella mia posta di EFP quindi non potevo non pubblicarlo nella parte a cui si riferisce :)
 
Non vi farò domande specifiche sul capitolo perché nelle recensioni mi piace che siate voi a dirmi se e cosa vi ha colpito di più… e poi devo dirvelo, ultimamente è sempre più un piacere leggere le vostre recensioni perché sono ricche di commenti e osservazioni ^^).
 
Bene, davvero oggi non ho tanto da dirvi, sarà perché in questo periodo sto esaurendo la mia vena creativa nel prendermi avanti con questa never ending story… ho scritto un po’ di capitoli ma mi riserbo di pubblicarli ogni 5/6 giorni. Davvero è tutto ^^) Alla prossima!
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Si va in scena ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Trevor, con la collaborazione dell’amico Dake, trova conferma del fatto che Dajan provi qualcosa per Kim. Mentre sta rincasando da scuola in compagnia di Nathaniel, Erin si trova di fronte i genitori. L’incontro è piuttosto imbarazzante a causa dell’atteggiamento iperprotettivo del padre, Peter, verso la figlia. Il biondo riesce comunque a conquistare i favori dei “suoceri” anche se poi Peter ammette di non considerarlo il ragazzo giusto per la figlia.
Il giorno successivo, Erin e gli amici discutono del concerto a cui Castiel si ostina a non voler partecipare e la ragazza informa il resto del gruppo sull’insuccesso dell’iniziativa: le adesioni sono scarse e l’evento non ha riscosso l'interesse sperato. Quella sera stessa i ragazzi si preparano per la recita. La protagonista è piuttosto nervosa ma Castiel, a modo suo, cerca di tranquillizzarla.





CAPITOLO 25: SI VA IN SCENA
Quando si aprì il sipario, gli occhi del pubblico si calamitarono sugli unici due attori presenti sulla scena: Lysandre, vestito da stalliere, aveva un atteggiamento talmente distinto ed elegante che ricordava più un principe, mentre la sorella, sembrava l’incarnazione della bella Cenerentola. Come nella realtà, i due dovevano essere fratelli e il loro scambio di battute fu impeccabile: non una parola pronunciata erroneamente, non un’esitazione. Il pubblico era rapito già dopo un paio di minuti. La trama girava attorno alle loro avventure per il mondo alla ricerca del padre scomparso.
Dopo esser venuta a conoscenza della storia familiare dei due ragazzi, Erin si era stupita che avessero accettato una simile parte. C’era un che di tragicomico in quella situazione, dal momento che anche nella vita reale i due ragazzi non avevano mai conosciuto i genitori.
La scena si spostò poi su Ben e Kimberly ed Erin ne approfittò per distogliere l’attenzione dal palco.
La ragazza sbirciò quindi tra il pubblico e subito i suoi occhi vennero colpiti da Nathaniel seduto accanto ad Iris. Il ragazzo era concentrato sulla scena e non batteva ciglio. Iris accanto a lui, notoriamente poco interessata all’ambito umanistico, seguiva un po’ distrattamente, guardando talvolta il cellulare. Alexy e Violet ascoltavano con attenzione, indicando ogni tanto la scenografia a cui loro stessi avevano lavorato mentre Armin, incorreggibile, aveva il capo chino ed illuminato da uno schermo digitale; non fu difficile per Erin indovinare quale attività intrattenesse in quel momento quell’amico fanatico di videogiochi.
Passò poi alla ricerca dei familiari: individuò sua madre impegnata a strattonare il marito, la cui testa, già dopo un quarto d’ora di spettacolo, aveva cominciato a ciondolare dal sonno in modo imbarazzante. In aggiunta al fatto che suo padre odiasse quel genere di rappresentazioni, Erin immaginava che la notte prima non avesse dormito a causa di Nathaniel: era stato un duro colpo per lui scoprire che la sua bambina non era più sua, né tantomeno più una bambina.
Riuscì poi a intercettare il volto di Pam che in quel momento era distratta da Jason: quest’ultimo stava riponendo il cellulare in gran fretta nella tasca, bisbigliandole qualcosa. Evidentemente aveva ricevuto una chiamata a cui non poteva rispondere.
Infine la ricognizione di Erin si assestò sulle ultime file dove, in tutta la loro vivacità di maschi baldi e giovani, si erano accomandati i membri della squadra di basket. Trevor stava chiacchierando con Liam, a tre posti di distanza da lui, Dajan con Kim e addirittura le sembrò di vedere volare qualche popcorn, snack che come ogni altro era stato vietato. Erano piuttosto chiassosi, tanto che il professor Condor prima e la Fraun poi, andarono più volte da loro per ammonirli a prestare attenzione alla scena. Del resto c’era un solo motivo che aveva spinto quella decina di persone ad assistere all’evento e ben presto la loro curiosità sarebbe stata appagata.
“pronta Erin? Tocca a noi” la chiamò Castiel, cogliendola di sorpresa. Aveva perso completamente la cognizione del tempo e si sentì talmente confusa da avere un vuoto. Notò Kimberly avvicinarsi a lei, sistemarle il microfono sul vestito e sussurrarle qualche consiglio che non udì. Era completamente disorientata. Castiel, cogliendo il suo sconcerto, l’afferrò per il polso e senza tante cerimonie, la trascinò sul palco non appena il sipario era stato calato. Erin si guardò attorno e vide il resto dei membri del club, impegnati ad allestire la scenografia: comparve una casa di cartone, uno steccato, delle sagome di animali da cortile e dei filoni di paglia.
Appena la tenda si aprì, una luce accecante investì la ragazza per un paio di secondi. Quando le pupille si adattarono a quella luminosità, l’attrice constatò sconcertata quanto risultasse più numeroso il pubblico da quel nuovo punto di vista.
Cominciò a sentire il cuore in gola e le gambe tremare, sperando che la lunga gonna contribuisse a nascondere il panico in cui era precipitata.
Sbirciò il compagno accanto a lei, guardandolo di sbieco: Castiel sorrideva beffardo e non trapelava alcuna insicurezza o agitazione. Le rivolse uno sguardo fugace, allungando quel sorriso fin troppo divertito e tanto bastò ad Erin per scandire la tensione.
Appena la luce illuminò anche il ragazzo, i due attori videro tutta la squadra di cestisti agitarsi e gasarsi:
“VAI BLACK!” urlarono quasi in coro.
Kim, in quanto unica ragazza del gruppo, sprofondò per la vergogna, cercando di non farsi vedere dal resto degli spettatori che si erano voltati verso di loro, chi contrariato, chi divertito.
Immancabilmente, arrivò correndo trafelata la preside, la cui andatura combinata alla corporatura, resero la sua corsa piuttosto goffa e comica:
“questa non è una partita! Cosa sono queste urla da stadio? Siamo a teatro! Contegno ragazzi, contegno!” ripetè indignata.
I ragazzi si ricomposero, senza abbandonare le espressioni beffarde che tanto fecero infuriare la vecchietta. Appena nell’ambiente tornò il silenzio, Castiel cominciò:
“Tesoro è scappato il maiale”
Armin scoppiò a ridere sonoramente, facendo vergognare gli amici seduti accanto a lui. Alexy gli diede un pizzicotto ma ormai il danno era fatto: anche Castiel, deconcentrato da quella reazione, non aveva potuto fare a meno di ridacchiare complice, sentendosi ridicolo lui stesso.
La preside si voltò minacciosa verso la squadra di basket: la maggior parte dei ragazzi avevano già le lacrime nel tentativo di reprimere commenti e risate e delle smorfie da ebeti. Vedere il loro capitano sul palco, vestito da contadino, era già di per sé una scena esilarante, ma quando aveva aperto bocca, era risultato fin troppo ridicolo con quella battuta. La donna pertanto era seriamente intenzionata a presidiare quel fronte, almeno finché Castiel Black sarebbe stato presente su quel palco.
“oh no che sciagura! Come è mai potuta accadere una simil disgrazia?recitò Erin.
“Sventura” puntualizzò Castiel.
“Eh?”
Da dietro le quinte, Lysandre si portò una mano sulla fronte mentre il resto del club di teatro era ammutolito.
“Hai sbagliato parola: era sventura” osservò Castiel, incurante del fatto che non erano alle prove.
Dalla platea si sentì un sogghigno ed Erin, lanciando un’occhiataccia al suo finto marito precisò:
“È la stessa cosa tesoro. Disgrazia e sventura sono sinonimi”
Lysandre aveva supplicato l’amico di non improvvisare, ma aveva dimenticato di raccomandarsi ad Erin di non assecondare le battute del rosso.
“Oh scusa, un contadino zoticone come me non può saperle queste cose”
Tra il pubblico qualcuno cominciò a guardarsi intorno confuso, non capendo se i due stavano seguendo il copione oppure no.
Cogliendo lo sguardo severo di Lysandre, Erin cercò di rimediare:
“Sei perdonato ma sta di fatto che il maiale è scappato”
Dopo quell’esclamazione, calò il silenzio.
Secondo il copione, la battuta successiva toccava a Castiel, ma il ragazzo era ammutolito. Si grattò la sommità del capo, con un’aria assolutamente tranquilla e pacifica anche se quel diversivo che lui stesso aveva creato, l’aveva deconcentrato.
Ad Erin ricordò gli scimpanzé che aveva visto tempo addietro su un documentario ma tenne per sé quell’osservazione. Non cogliendo segni dall’altro lato, gli bisbigliò:
“come faremo ora?”
Anche se aveva cercato di coprire il microfono, tutti sentirono quel suggerimento e per questo sogghignarono mentre Castiel, anziché approfittarne, trovò da ridire:
“guarda che me la ricordo” mentì e ripetè “come faremo ora?”
Rosalya a quel punto lo richiamò sottovoce:
“non è questa la tua battuta idiota!”
Erin e Castiel si girano in sincrono a guardarla, dando palesemente le spalle al pubblico. Non c’era un minimo di credibilità nella loro interpretazione. Sembrava che entrambi non si fossero accorti di avere di fronte un pubblico. Castiel guardò l’amica perplesso e chiese schietto:
“che ha detto?”
“che non era questa la tua battuta idiota” ripetè lei, ormai rassegnata al fatto che non poteva controllare la voce e che pertanto venne udita da tutti.
“ehi!”
“ho solo ripetuto le sue parole” si difese l’attrice, alzando le mani in segno di resa.
La platea scoppiò a ridere e nonostante le proteste della preside, la maggior parte del chiasso veniva dal club di basket. Trevor era partito a fare un video ma per il ridere aveva dovuto lasciar perdere.
“come suggeritore lasci a desiderare” commentò Castiel con tono acido, rivolgendosi ad Erin.
“beh allora arrangiati” replicò lei incrociando le braccia al petto.
Castiel cominciò a guardarsi attorno e sbottò:
“qualcuno deve aver liberato il cavallo”
“ma non era un maiale fino a cinque minuti fa?”
“ok, rifacciamo” semplificò Castiel mentre le risate del pubblico tornavano a dominare la sala.
Lysandre si portò contro una parete e cominciò a sbattere contro la testa mentre Rosalya stava torturando il copione.
“qualcuno deve aver liberato il maiale!” dichiarò il rosso convinto, guadagnandosi l’applauso dei suoi amici per aver finalmente pronunciato la battuta corretta. L’intera squadra di basket si era addirittura alzata in piedi, eccetto Kim che ormai stava sparendo dietro gli schienali delle poltrone.
“complimenti per l’arguzia Sherlock” replicò Erin che aveva scordato completamente la sua parte. Visto che Castiel improvvisava, lei si era rassegnata a fare lo stesso.
“io almeno propongo” si difese il contadino.
“lo faccio anche io ma trovi sempre qualcosa da ridire!”
A quel punto Castiel la fissò confuso, chiedendosi se stavano ancora recitando o se erano usciti definitivamente dai personaggi.
Entrò improvvisamente in scena un personaggio non previsto dalla trama, vestito da mendicante. I due la guardarono sbigottiti e riconobbero Rosalya:
“oh gentili signori, non sareste così gentili da indicarmi la via più breve per raggiungere il castello?”
Ancora disorientati da quella novità, i due contadini si guardarono senza capire.
“ma tu non dovevi entrare in scena dopo? Che ci fai vestita così?” dichiarò Castiel, uscendo definitivamente dal personaggio.
Il pubblico scoppiò nuovamente a ridere, ormai con le lacrime agli occhi mentre Rosalya gli sussurrò, a denti stretti:
“sto cercando di salvare la commedia idiota”!”
Nonostante le incredibili doti di attrice della ragazza, le era difficile celare l’impulso di picchiare il contadino che aveva davanti.
“vogliate perdonare mio marito, vossignoria” s’intromise Erin, sperando di salvare la situazione “non sa come ci si rivolge ad una signora”
“sarà perché sono abituato a stare in mezzo alle galline” replicò beffardo il contadino, malignando sull’ultima parola.
L’allusione alla moglie venne colta all’istante da tutti i presenti che scoppiarono a ridere.
Erin allora inspirò e aprì la bocca per dirgliene quattro, quando improvvisamente il palco diventò tutto buio. A mala pena vedeva i tratti dell’amico accanto a lei. Si sentì una voce calma e calda diffondersi: Lysandre cominciò a narrare:
“la coppia di contadini invitò la ragazza a passare la notte nella loro umile casetta. L’indomani le illustrarono la strada per il castello e la salutarono dopo averle regalato un po’ di pane per proseguire il viaggio”
Tornando dietro le quinte e convinto che ormai il suo microfono fosse stato spento, Castiel commentò:
“beh dai non è andata tanto male”

A parte lo sketch indesiderato di Erin e Castiel, gli altri attori se la cavarono egregiamente e la rappresentazione venne conclusa senza nessun altro intoppo.
Quando alla fine vennero presentati gli attori, ai nomi dei due contadini, tutti i loro amici, la loro classe e la squadra di basket si alzò in piedi per applaudire e fare fischi. Tra gli studenti che lo acclamavano, il rosso notò anche alcuni dei suoi vecchi compagni di classe e tutto quell’entusiasmo nei suoi confronti lo lusingò.

Erin rotolò giù dal palco in cerca dei suoi amici e soprattutto di Nathaniel, ma furono i suoi genitori a incrociarla per primi.
“allora? Vi è piaciuta?” chiese con trepidazione.
Sua madre stava per replicare ma Peter la interruppe bruscamente:
“e quel tizio che era con te chi è?”
“ah, è Castiel, un mio amico” sorvolò Erin, scrollando le spalle.
“è uno sbruffone” la corresse il padre. La figlia stava per replicare quando il ragazzo passò loro accanto.
“Castiel!” lo chiamò Erin afferrandolo per il braccio e trascinandolo a sé. Il rosso si trovò di fronte Peter che, seppure più basso di lui, aveva una stazza decisamente più massiccia e minacciosa.
“questi sono i miei… e lui è Castiel”
“molto piacere” sorrise Amanda, mentre Peter manteneva un’espressione dura.
Castiel si limitò ad un cenno del capo rivolto alla psicologa, gesto che irritò ulteriormente il padre di Erin.
“non ti hanno insegnato a salutare come si deve ragazzo?”
Quella critica indispose Castiel che in lampo passò da una posizione di disagio a una di sfida.
“papà!” protestò Erin, prima che il ragazzo potesse rispondere a quella provocazione “non vorrai fare storie anche con lui! È un mio amico” puntualizzò focalizzandosi sull’ultima parola.
“e come mai prima ti ha dato della gallina?” obiettò l’uomo riferendosi alla battuta infelice del finto contadino.
“era così per scherzare” minimizzò Erin.
“a me non ha fatto ridere” lo informò Peter.
“beh, era uno dei pochi” s’intromise Castiel, beffandosi dell’opinione dell’uomo. Quest’ultimo cominciò a sentir pulsare le tempie e le mani a prudergli. Ardeva dall’impulso di levargli quel sorrisetto canzonatorio, sin da quando l’aveva visto sorridere la prima volta sul palco.
“Castiel perché non vai da Trevor e gli altri? Scommetto che vorranno complimentarsi con te” gli suggerì Erin, pentendosi di averlo richiamato a sé, ma il ragazzo la ignorò.
“non ascolti mai le persone tu eh?” sbottò Peter, infastidito dalla scarsa considerazione che il rosso teneva della figlia.
“Peter andiamo a prendere qualcosa da magiare” lo esortò Amanda tirandolo per un braccio ma nemmeno lui si mosse.
“a quanto pare neanche lei” lo provocò Castiel sogghignando.
In quel attimo, passarono loro accanto Violet e Alexy, impegnati in una conversazione.
“vedo che da voi è una moda colorarsi i capelli in modo assurdo” commentò canzonatorio l’uomo, fissando la chioma fiammante del rosso, dopo aver notato quella altrettanto bizzarra dei due ragazzi.
“sa com’è. Non tutti hanno abbastanza capelli da poterselo permettere” lo rimbeccò il ragazzo, beffandosi della rada capigliatura dell’uomo.
Erin sollevò gli occhi al cielo mentre Amanda ridacchiò divertita:
“Papà, ti assicuro che Castiel non è così. È perché avete cominciato con il piede sbagliato” disse, posando una mano sull’avambraccio dell’amico. Appena percepì del contatto, per un attimo, il ragazzo si irrigidì impercettibilmente.
“sei tu che l’hai aggredito e comunque se lo conoscessi vedresti che non è un cattivo ragazzo. Non mi manca di rispetto” chiarì, sorvolando sui commenti poco lusinghieri che erano alla base del loro rapporto di amicizia.
“a parte quando racconta che sua figlia ha un culetto da sbavo”
I quattro si voltarono verso Lysandre che era passato loro accanto. Il poeta non si era neanche fermato ma si era solo limitato a seminare zizzania e allontanarsi come se nulla fosse.
Castiel lo incenerì con gli occhi mentre l’altro aveva stampato in volto un’espressione di soddisfatta vendetta. Lo aveva avvertito di non combinare casini durante la recita.
Erin era avvampata e aveva guardato Castiel incredula.
“e quello chi era?” chiese Amanda, che più che turbata dalla frase pronunciata, era rimasta colpita dall’aspetto eccentrico di Lysandre.
Peter era tornato a fissare Castiel in cagnesco, in un’espressione che alla figlia ricordò il diabolico Demon.
“andiamo dalla squadra!” insistette Erin, spingendo via l’amico. Salutò con un cenno rapido i genitori, promettendo di tornare da loro più tardi e cercò di porre la maggior distanza possibile tra il suo migliore amico e suo padre.
Quando i due giovani si furono allontanati, la moglie ironizzò:
“un uomo impulsivo sarebbe adatto ad Erin eh?”
“sta’ zitta Amanda” replicò seccato Peter, mentre la moglie ridacchiava allegra.

“allora? Ti è piaciuta la rappresentazione?” chiese Pam uscendo dal teatro. Dopo aver fatto dei fugaci complimenti ad Erin, i due si erano diretti all’esterno. Trovarono posto a sedere in quello che, a loro insaputa, era il ritrovo preferito della ragazza e dei suoi amici quando pranzavano all’aperto.
“tua nipote e Castiel sono stati fenomenali” affermò Jason ridendo.
“ha sorpreso anche me” confessò Pam “Erin è decisamente cambiata in questi ultimi due mesi. Stento quasi a riconoscerla. Così combattiva, sicura di sé… non pensavo sarebbe maturata tanto”
“da qualcuno avrà pur preso no?”
“da me non di certo” giudicò amaramente la donna.
“anche tu sei molto forte Pam”
“non dire stupidaggini Jason!” sbottò lei. Non voleva risultare così acida ma cominciò a ribollirle nelle vene un enorme disprezzo verso se stessa “non ho più un lavoro, sono in rosso in banca, tutti gli uomini con cui sono stata mi hanno usata e scaricata, dove la vedi tu tutta questa forza?”
Aveva cominciato a sputare quelle parole senza trovare la lucidità per fermarle. Si era ripromessa di non confessare mai a Jason quanto fosse penosa la sua situazione ma quelle parole avevano cominciato a scaturire prima che potesse fermarle.
“Te lo dico io cosa sono: sono … patetica”
Prima che potesse completare l’ultima parola, sentì un groppo alla gola e lacrime di frustrazione cominciarono a rigarle il viso.
Jason le cinse le spalle e le sussurrò:
“no, non sei patetica Pam… tu sei…”
“non dire bellissima” lo supplicò mentalmente la donna. Quell’aggettivo era l’unico complimento che gli uomini riuscivano a farle. Per loro lei non era mai intelligente, spiritosa o interessante.
“…sei buona” completò Jason.
Pam non alzò lo sguardo e l’uomo le spiegò:
“hai ospitato tua nipote adolescente prendendoti delle responsabilità che non ti competono e se Erin è venuta a stare da te, vuol dire che sei stata in grado di creare un ambiente accogliente dove si sia sentita bene. Sei una bella persona Pam, l’unica cosa patetica in te è che non te ne rendi conto”
Attorno a loro non c’era nessuno. Dopo lo spettacolo, la maggior parte dei genitori e parenti era tornato a casa mentre gli studenti era ancora all’interno del teatro della scuola.
Pam tirò su con il naso e Jason si alzò, porgendole la mano.
“ti va se andiamo a fare due passi?”

“questo costume ti dona” scherzava Armin, indicando l’abbigliamento di Castiel. Sia lui che Erin infatti, non si erano ancora levati di dosso i costumi di scena.
“capitano, sei sprecato per il basket, la tua vocazione è il teatro!” annunciò Steve un suo compagno di squadra.
Castiel sorrise beffardo ma in realtà aveva altro per la testa. Dopo che Erin l’aveva trascinato via dai suoi genitori, aveva girato i tacchi ed era sparita alla ricerca di Nathaniel, senza fare alcun commento circa la frase pronunciata da Lysandre.
Sentì arrivargli uno scappellotto sulla nuca e si voltò irritato.
“chi cerchi?” gli chiese Rosalya, responsabile della brutalità di quel gesto. Dietro di lei fece capolino Iris, che lo interrogò circa Erin.
“dovrebbe essere con il delegato” borbottò lui.
“finalmente Castiel ci presenti un po’ di ragazze!” commentò mellifluo Steve, avvicinandosi a Iris. La rossa si irrigidì mentre Rosalya lo fulminò con lo sguardo.
“chi si rivede”
Quella voce giunse alle loro spalle, ma Iris non aveva bisogno di voltarsi per riconoscerne il proprietario. Avanzando sicuro, con un sorriso accattivante, Dake si stava facendo largo tra la gente.
L’espressione di Iris tradì il suo sconcerto che non turbò affatto l’ottimismo del ragazzo.
“ah sei venuto?” lo accolse Trevor, passandogli un braccio attorno al collo. Passò a presentarlo un po’ a caso finchè l’amico lo informò:
“noi ci conosciamo già” riferendosi a Castiel, Rosalya e Iris.
A quel punto Trevor costrinse il biondo a voltare le spalle ai presenti e indignato gli sussurrò:
“tu conoscevi Rosalya White e non me l’hai mai presentata?!”
Dake scrollò le spalle e tornò a cercare la sua preda. Iris era ancora più carina di quanto ricordasse, e cosa che lo attizzò particolarmente, aveva un’aria molto più ingenua. Accanto a quella pantera di Rosalya, Iris sembrava una tenera gattina indifesa.

Dopo essersi appartati dal resto degli studenti, Erin e Nathaniel si erano ritagliati un momento per loro, fatto di baci e parole dolci:
“siamo sicuri che Peggy non sia dietro quella colonna?” si insospettì Erin, scrutando un punto alle sue spalle.
“no tranquilla. Si è appostata dietro quel cespuglio” scherzò Nathaniel tornando a baciarla.
“mio padre voleva uccidere Castiel” sussurrò Erin tra un respiro e l’altro.
“non parliamo di Castiel” replicò il biondo, accarezzandole il viso con il dorso delle dita.
“giusto” convenne Erin sorridendo “allora, un nobiluomo come lei cosa prova a baciare un’umile contadina?”
“credo di aver bisogno di una maggior pratica per scoprirlo” rispose Nathaniel, aumentando l’intensità dei suoi baci.
In quei momenti la ragazza dimenticava ogni cosa e si lasciava trasportare da quella favola in cui i principi esistevano e avevano gli occhi del colore del miele.
Dopo un po’ si staccarono e prendendole la mano, il ragazzo la condusse verso il teatro per riunirsi con i suoi amici.
“prima che torniamo dagli altri, c’è una cosa che devo dirti” le annunciò solenne.
“ti ascolto” inghiottì Erin, sentendo un improvviso disagio. Temeva che il ragazzo sarebbe tornato sul quell’argomento che sua madre aveva cercato di affrontare con lei appena il giorno precedente.
“beh, visto che ho conosciuto i tuoi genitori, che ne diresti di venire a cena a casa mia?”
Quell’invito la colse in contropiede, del tutto impreparata. Rispetto al discorso che si aspettava da parte del ragazzo, accolse quella proposta con evidente sollievo.
“davvero? E quando?”
“domenica 14 dicembre”
Erin si prese qualche secondo per far mente locale e si rese conto dell’eccessivo preavviso con cui giungeva quell’invito:
“ma mancano quasi tre settimane Nath!” sbottò divertita e al contempo sconcertata.
“te l’ho detto per tempo”
“non ho un’agenda così fitta di impegni da aver bisogno di tutto questo preavviso” rise la contadina.
“ma mio padre sì e ci tiene a conoscerti” replicò il ragazzo con tono neutro “Allora? Verrai?”
Erin annuì felice e gli stampò un bacio sulla guancia.

Nel tragitto in macchina, Jason non fiatò mentre Pam cercava di ricomporsi. Le luci dei ristoranti e dei lampioni scorrevano rapide mentre la vettura attraversava il centro città.
Non c’era bisogno di aggiungere altro a quanto aveva confessato Pam poco prima. Gli aveva vomitato addosso tutta la sua amarezza, il disprezzo verso sé stessa e la sua penosa condizione. Non c’erano parole che potessero consolarla o farle cambiare idea, anche se quanto le aveva detto l’uomo le aveva fatto piacere.
Jason guidò fino ad un parcheggio antistante uno dei più bei parchi della città e invitò la donna a scendere.
“è da tanto che non vedevo questo parco di notte” commentò Pam, guardandosi attorno. In giro c’erano molta calma e tranquillità, anche se il luogo non era ancora deserto. Su una panchina una coppia di giovani erano talmente avvinghiati da ignorare quanto li circondava mentre poco più in là un tizio era impegnato in una sessione di jogging serale.
“io da due giorni. Vengo spesso qui la sera” la informò Jason, sedendosi su una panchina, davanti ad una fontana di pietra.
“beh, tu sei un uomo, puoi anche permettertelo. Io non potrei mai andare in giro da sola” convenne Pam.
“è per questo che hanno inventato gli uomini” dichiarò lui pavoneggiandosi.
“è proprio dagli uomini che una donna deve difendersi” osservò sagacemente la ragazza, con un sorriso amaro. Jason non seppe come replicare così decise di passare direttamente al nocciolo della questione.
“allora, come è successo che non hai più un lavoro?”
Pam sospirò. Temeva quella domanda e ma sapeva che sarebbe stato inevitabile formularla.
“semplice. Taglio del personale e io non ero certo indispensabile” spiegò “non mi dispiace per il lavoro in sé, detestavo stare dietro una scrivania ma il problema è che senza soldi non si tira avanti. Non posso più permettermi l’affitto dell’appartamento e così mi toccherà cercare un alloggio più economico”
“ti trasferisci?” chiese Jason sorpreso.
“cosa posso fare?” sbottò Pam rassegnata.
“non credo troverai un posto a prezzi più economici di quello in cui ci troviamo ora”
“qualcosa troverò” concluse sbrigativamente lei “intanto sai per caso se qualcuno cerca una cameriera o una commessa? Mi va bene qualsiasi lavoro, ho solo bisogno di soldi”
Nel frattempo si erano alzati e avevano cominciato a camminare diretti verso le vie del centro. Passarono di fronte ad un locale con affisso il cartello CERCASI LAVAPIATTI.
“ecco, quando si dice la fortuna!” esclamò Pam; nelle sue parole c’era un misto di sollievo ed amarezza.
“vuoi davvero fare la lavapiatti?” obiettò Jason.
“che altra scelta ho Jason? È un mese che sono alla ricerca di un lavoro e le spese si accumulano. Devo pur ricominciare a guadagnare nel frattempo”
“sì ma puoi anche aspirare a qualcosa di più gratificante” precisò lui, tirando dritto e impedendo a Pam di appuntarsi il numero del ristorante “sei ancora giovane Pam, avrai pur dei sogni, dei progetti”
“oddio Jason, ragioni come un adolescente!” scherzò la donna “la vita non è un campo pieno di speranze e buoni propositi”
“questo perché non sai coglierne i fiori giusti. Guarda qui!” la esorto, potandola davanti un negozio con il cartello AFFITTASI.
“cosa vedi?” le chiese.
“un locale abbandonato?”
Jason sospirò pazientemente, come se avesse di fronte una bambina un po’ tonta.
“cosa ci vedresti dentro? Usa l’immaginazione… cosa manca qui a Morristown, in questa zona?”
Pam sbirciò all’interno, anche se poteva contare solo sull’illuminazione urbana per indovinare l’interno. Il locale era quasi spoglio e proprio per questo ne potè valutare le dimensioni. Non era troppo grande ma per una piccola attività in proprio era l’ideale. Non aveva angoli nascosti ma viceversa un perimetro piuttosto squadrato. La facciata dal lato della strada era data da vetrine in buono stato.
“una boutique sarebbe molto bella. In città non ce ne sono molte. Potrebbe offrire un abbigliamento per clienti giovani e per questo più abbordabile economicamente. Del resto questa è la zona vicino alle scuole, c’è un buon passaggio di studenti”
“e tu ci lavoreresti in un posto del genere?” indagò Jason, illuminandosi.
“e me lo chiedi? Certo!”
“allora è fatta! Siamo in affari” concluse il ragazzo con un sorriso smagliante.

Iris sollevò gli occhi al cielo. Dake era più insistente di quanto ricordasse e come se non bastasse, la sua cara amica Rosalya si divertiva a punzecchiarla per questo. Si guardava intorno sperando di individuare presto Erin, ma la ragazza non dava ancora segni della sua presenza.
“non posso fare nulla per farti passare quel broncio?” le sussurrò il ragazzo.
“sì” affermò Iris decisa.
“e cosa?” chiese l’altro malizioso.
“evaporare”
Il suo umore stava peggiorando sempre di più e con esso le buone maniere. Tuttavia, più i suoi modi diventavano esplicitamente scorbutici, più Dake sorrideva. Evidentemente non la stava prendendo seriamente.
Finalmente Erin e Nathaniel fecero il loro ingresso nella sala e la rossa accorse loro incontro:
“qui comincerà a scorrere del sangue” annunciò.
“Dake non demorde?” chiese divertito Nathaniel.
“non capisco perché poi! Cos’avrò di tanto speciale?” sbottò Iris infastidita.
Non era abituata a calamitare su di sé tutta quell’attenzione. Si era sempre tenuta lontana dagli uomini e per tutta la sua adolescenza sembrava che quel disinteresse fosse reciproco. Quando era una ragazzina, Iris era consapevole di non essere particolarmente graziosa ma crescendo il suo aspetto era cambiato notevolmente, trasformandola in una bella ragazza. Ciò che non era affatto mutata, era la sua concezione di sé: Iris si vedeva ancora come una persona anonima, senza nessuna qualità né fisica né caratteriale che potesse attrarre un uomo.
“mi sa che sei la prima che non cade ai suoi piedi” valutò il biondo.
“è per questo allora che adesso ci prova con Kim?” chiese Erin, indicando la compagna di squadra.
Anche gli altri due si voltarono per assistere alla scena: con sollievo di Iris e panico di Kim, Dake stava proprio flirtando con lei.
“si vede che era destino” le stava dicendo il ragazzo, riferendosi al loro secondo incontro nell’arco di due giorni.
“io la chiamo sfiga” puntualizzò Kim infastidita.
Dake si ammutolì e Trevor scoppiò a ridere, tirandoselo da parte.
“capisco vecchio che questa sera non riesci a battere chiodo, ma sta alla larga da Kim. È una mia amica e si dà il caso che sia già occupata”
“con chi? Con lo spilungone che mi hai presentato ieri? Farà meglio a darsi una mossa perché una con delle gambe del genere non passa inosservata”
Dake gettò un’occhiata fugace in giro e intercettò proprio Dajan. Dire che il cestista lo stava fulminando con lo sguardo era a dir poco un eufemismo.

Dopo la proposta di Jason, Pam era rimasta di sasso. Guardava l’amico che, da quando erano arrivati davanti alle vetrine di quel negozio abbandonato, non la smetteva di sorridere.
“ti finanzio io. Prenderemo in affitto questo locale, io ci metto i soldi tu l’impegno e pattuiremo come dividere la cifra” le spiegò.
Pam sgranò gli occhi, come se avesse appena assistito ad un miracolo e reagì in maniera analoga. Scosse il capo incredula e sul suo viso, apparve una smorfia infelice:
“non illudermi Jason” quasi lo supplicò “non mi va di scherzare su una cosa del genere”
“non sto scherzando Pam!” si difese lui offeso per la scarsa considerazione che riceveva.
“tu ce li hai i soldi per una simile impresa?” osservò cinica.
“secondo te? Vivo da solo in uno degli edifici più economici della città. Non ho nessuno da mantenere se non io stesso. Se c’è una cosa che non mi mancano, sono i soldi”
“beato te” ridacchiò Pam scrollando le spalle. Ancora non voleva dargli retta. Affossò le mani nelle tasche del cappotto e lo guardò con tenerezza. Era conforme al carattere un po’ sognatore e ottimista di Jason lanciare una proposta del genere, e lei non poteva credere che ci fossero davvero gli strumenti per realizzarla.
“Pam” la richiamò con serietà, costringendola a guardarlo in faccia “non sto farneticando. Io ci credo in questa cosa. E ti assicuro che ci ho pensato a lungo”
“ma se l’hai deciso un minuto fa!” protestò Pam esasperata. Tutta quell’insistenza cominciava a infastidirla. E a illuderla.
“no. Avevo intuito che fossi stata licenziata così ho pensato a come potevo aiutarti… e ho trovato questo locale”
Pam socchiuse le labbra e spalancò gli occhi. Sentì la gola seccarsi e per dieci secondi buoni non fiatò. Jason non stava fantasticando, stava parlando di un progetto, non di un sogno.
“mi hai portato qui intenzionalmente?” chiese con voce roca.
“certo” sorrise l’altro “erano giorni che aspettavo il momento giusto per parlarten-“
Non riuscì a completare la frase che Pam lo abbracciò violentemente.
Lui rimase basito, non aspettandosi quello slancio d’affetto e, dopo un’iniziale sorpresa, le restituì quella stretta.
Restare avvinghiata a lui, di notte, la faceva sentire così sicura, così protetta che non avrebbe mai voluto sciogliere quell’abbraccio. Avrebbe voluto spingersi molto più in là, puntare al suo viso ma non poteva sperare che lui ricambiasse i suoi sentimenti. Era troppo tardi per quello, lo sapeva. Jason ormai conosceva tutta la sua debolezza, la sua inconsistenza aprendo gli occhi sul fatto che meritava molto di più di una donna fallita come lei. Poteva avere chiunque, era solo questione di tempo prima che un’altra si accorgesse di lui. Pam non poteva far altro che accontentarsi di quella preziosa amicizia che le aveva appena indicato la via per uscire dal buio e che si era offerta di guidarla lungo la strada.

Erin quella sera chiacchierò con molte persone, con alcune delle quali non aveva mai parlato prima. Parecchi si complimentarono con lei per aver regalato risate e allegria in modo così spontaneo. Tornò dai genitori che si congedarono da lei e si salutarono sapendo che si sarebbero visti durante le vacanze di Natale.
Verso le dieci, quando ormai la maggior parte degli spettatori se ne era andata, notò che Castiel era rimasto da solo e ne approfittò per avvicinarlo. Da quando il rosso si era scontrato con Peter, lei non l’aveva più cercato, ma c’era una faccenda che doveva assolutamente chiarire, anche se la metteva parecchio a disagio:
“Castiel…” lo chiamò, avvicinandosi a lui.
cos’era quella storia che diceva prima Lys?”
Il rosso capì immediatamente a cosa si riferiva l’amica: il suo atteggiamento imbarazzato, il capo chino a fissare ogni punto eccetto il suo interlocutore, erano segni piuttosto evidenti:
“non mi dire che sei così ingenua da averci pure creduto!” la derise sarcastico “ti pare che vado a pensare una cosa del genere di te? Sei sexy quanto un San Bernardo e poi-“
Castiel non fece in tempo a finire la frase che Erin gli assestò un colpo in pieno addome:
“sei stato sufficientemente chiaro” sputò prima di girare i tacchi offesa. Sentì il viso andarle in fiamme per la figura da sciocca che aveva fatto. Con il senno di poi era abbastanza ovvio che si trattasse di una bugia. Se anche il suo amico avesse mai formulato pensieri sul suo conto come donna, non sarebbero mai stati lusinghieri. Se la prese con sé stessa per aver voluto approfondire la questione e scoprì che, in fondo, si era illusa che il ragazzo potesse trovarla attraente, almeno per quanto riguardava il suo lato B.
“oh-oh, Castiel al tappeto” sorrise Armin avvicinandosi al rosso “cosa hai fatto questa volta per far arrabbiare Irina?”
Castiel replicò con un verso stizzito, che risuonò come un grugnito fornendo il pretesto all’amico per prenderlo in giro:
“ti rendi conto che tre quarti delle tue risposte sono ghigni astiosi? Credo che una conversazione con Demon sarebbe più stimolante”

Dopo una breve conversazione con Armin, Castiel si diresse all’esterno. C’era una persona con cui non aveva ancora parlato e che doveva assolutamente affrontare.
Come aveva immaginato, trovò Lysandre seduto sul suo posto preferito, il tetto della scuola. Il rosso si avvicinò guardandolo con un’espressione nera ma fu il suo amico il primo a sbottare:
“non cominciare Castiel! Sono io ad essere arrabbiato con te” lo anticipò Lysandre.
“non era necessario che facessi quel commento. In fondo la recita non è andata male. Ho fatto ridere ma almeno non ho fatto pena” si difese Castiel rimanendo in piedi in equilibrio sul tetto che era quasi pianeggiante.
“ti avevo chiesto di impegnarti e tu mi hai ignorato” puntualizzò l’attore.
“per la miseria Lysandre! Ti comporti come una femmina. Neanche con Erin ho questo genere di discussioni”
“a proposito, come ha commentato?” sorrise sadico.
“non ci ha creduto… però potevi risparmiarti di dirlo davanti a suo padre”
“e da quando in qua ti importa di fare bella figura? Pensi di trovartelo come suocero?” lo schernì l’amico.
Castiel rispose con un’imprecazione e si frugò nelle tasche per accendersi una sigaretta. Non si era ancora seduto e fronteggiava Lysandre, indeciso se far compagnia all’amico e tornarsene dagli altri.
“sta diventando sempre più difficile per te vero? commentò il poeta all’improvviso.
“che cosa?” borbottò Castiel incurvato nel tentativo di far funzionare l’accendino da cui provenivano solo insufficienti scintille.
“far finta che Erin non ti piaccia”
Il rosso si innervosì visibilmente, un po’ per quella sparata, un po’ per l’incapacità di accendersi la sigaretta. Ancora spenta, se la tolse dalle labbra ed esclamò spazientito:
“ricominci con i tuoi discorsi del cazzo. Me ne vado a fumare in pace da qualche altra parte” annunciò voltandogli le spalle.
“Castiel” lo richiamò Lysandre “ammetto che in certi momenti mi diverto a stuzzicarti, ma il fatto è che vorrei davvero che tu capissi”
L’amico tornò a guardarlo e, fissandolo direttamente nelle iridi eterocromatiche, chiarì:
“no, Lys, sono io che vorrei che tu capissi…ammettiamo anche che tu abbia ragione, che lei mi piaccia… e poi? Che dovrei fare? Mi considera il suo migliore amico!” annunciò esasperato.
“te l’ha detto lei?” chiese Lysandre evidentemente sorpreso.
Castiel annuì e l’amico rimase in silenzio.
Lysandre sbattè gli occhi un paio di volte, incredulo.
Era rimasto senza parole, finché trovò quelle più adatte a quella circostanza:
“allora siete proprio due idioti”





NOTE DELL’AUTRICE:
Sorpresa! Immagino che non vi aspettavate un nuovo capitolo così presto :D. Il fatto è che:
1)Dopo le vostre ultime recensioni avevo proprio voglia di pubblicare già un altro capitolo (grazieeee :3)
2)Non vedevo l’ora di chiudere con voi il discorso recita, per passare al capitolo 26 in cui cominceremo a dedicarci al concerto ^^).
Doveva risultare un capitolo leggero, per lo più comico, fatta eccezione ovviamente sulla parte di Pam, ma non sono poi così sicura di aver raggiunto l’obiettivo -.-‘’. Spero che, anche se non vi sarete piegate in due dal ridere, almeno di avervi strappato un sorriso:).
Questo capitolo comunque è stato un po’ corto, lo ammetto… ma non temete… visto che alcune di voi apprezzano quelli più lunghi, ne ho in serbo uno davvero, davvero, lungo (sarà più del doppio di questo). Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Aspettative e soddisfazioni ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Sin dalla prima battuta, Castiel comincia a improvvisare dialoghi inesistenti, uscendo completamente dal personaggio che deve interpretare. Erin, a sua volta, asseconda l’amico, rispondendo a tono alle sue affermazioni; i due finiscono per bisticciare davanti a tutti, finchè interviene Lysandre, spegnendo la scena. Erin presenta il rosso ai genitori ma l’atteggiamento scontroso di Peter urta Castiel e tra i due si crea un’evidente tensione. Nel frattempo arriva Dake che, nonostante l’impegno, non riesce a far cambiare idea sul suo conto ad Iris. Nathaniel, una volta appartatosi con la sua ragazza, la invita a cena per conoscere anche i suoi genitori, invito ben accolto da Erin. Quest’ultima cerca Castiel, per chiarire una frase pronunciata da Lysandre, ma il ragazzo nega di averla detta. Il rosso raggiunge poi il poeta sul tetto e gli racconta che Erin lo considera il suo migliore amico.
 


 
CAPITOLO 26:
ASPETTATIVE E SODDISFAZIONI

 “Iris! Fa’ star zitta la tua amica o qui finisce male!” sbottò Castiel spazientito.
Erano passati due giorni dalla recita e come ogni venerdì sera, i ragazzi si erano uniti nella sala del club di musica. Ormai era diventato un appuntamento fisso a cui nessuno degli otto ragazzi mancava di partecipare.
“ti ricordo che è anche amica tua” lo rimbeccò Iris mentre era impegnata ad intrecciare i lunghi capelli di Rosalya.
“Castiel lunedì scadono le iscrizioni delle band per il concerto, ti prego!” lo supplicò Erin.
“quale parte della parola NO non ti è chiara?”
La ragazza sbuffò pesantemente e il rosso tornò a strimpellare a caso le corde della chitarra, segno che non intendeva assecondarla.
“suvvia Cas, sarà divertente” tentò Alexy, seduto accanto a Violet. Entrambi avevano adottato l’abitudine di “prendere in prestito” il materiale dall’aula di disegno per passare la serata dedicandosi al loro hobby preferito. Il chitarrista si voltò verso Lysandre, cercando il suo appoggio:
“diglielo tu a questi che non siamo pronti”
Prima che l’amico potesse replicare, s’intromise la sorella:
“sei solo un cagasotto Castiel!”
“ok, sono un cagasotto, soddisfatta? Discorso chiuso” la liquidò.
“e io invece insisto!” s’impuntò Erin.
“porca miseria, parli sempre tu!” esclamò esasperato Castiel, reclinando il capo all’indietro “mi sembri quello scoiattolino dalla voce stridula… com’è che si chiama?” chiese rivolto a Lysandre che gli restituì un’occhiata eloquente. Poteva avere molti interessi, ma decisamente i cartoni animati non rientravano tra questi.
“Hamtaro?” tentò Iris.
“ti sembro uno che guardava Hamtaro? E comunque quello era un criceto” precisò Castiel.
“almeno sai chi è” lo schernì Armin “ma forse intendi Cip, di Cip e Ciop”
“esatto” concluse soddisfatto il rosso, schioccando le dita.
“invece di perdere tempo a inventarti soprannomi, esercitati a suonare per il concerto” borbottò Erin con una leggera irritazione.
“se ci tieni tanto a quel cazzo di concerto, perché non ti esibisci tu? C’è il karaoke”
“col cavolo, sei tu la sirenetta Ariel” borbottò la mora alludendo al mitologico canto delle sirene. Non si sarebbe mai proposta di cantare davanti a tutti. L’ultima volta che aveva fatto un’esibizione simile, accanto a lei c’era… Sophia.
Come accadeva fin troppo regolarmente, il ricordo della sorella la intristì e si ammutolì.
Accantonò la discussione con Castiel e tornò a concentrarsi sui propri compiti.
“ti sei mangiata la lingua?” le chiese il rosso dopo un po’.  Anche se non lo dava a vedere, il silenzio improvviso della ragazza, unito a quell’espressione malinconica, l’aveva turbato un po’.
“certo che sei proprio contorto tu!” sbottò Erin, recuperando la sua vitalità.
In quei momenti si sorprendeva lei stessa della facilità con cui Castiel riusciva, involontariamente, a tirarla su di morale. Le bastava una frase del ragazzo, una sua provocazione e subito lei trovava lo spirito per reagire e lasciarsi alle spalle i cattivi pensieri.
“se parlo non va bene e se sto zitta pure. Cosa devo fare?” protestò lei incrociando le braccia al petto.
Castiel rispose con un verso stizzito e i presenti sorrisero di buon umore.
Finalmente le prove iniziarono e per una buona mezz’ora nessuno parlò più di tanto. Il silenzio veniva interrotto solamente da qualche commento dei due musicisti per scambiarsi opinioni e correzioni. Rosalya ed Iris si erano invertite i ruoli e ora era la prima ad acconciare i capelli alla seconda. La ragazza glieli raccolse verso l’alto, formando un intreccio con delle ciocche che poi avvolse nascondendo l’elastico. Armin si complimentò con la rossa per il nuovo look facendola arrossire, mentre Erin si rifiutava di sottoporsi allo stesso trattamento. Stava finendo i compiti di biologia, la sua materia preferita e aveva bisogno di concentrazione.
Lysandre e Castiel nel frattempo passarono all’esecuzione di una delle ultime canzoni composte dal chitarrista. L’esecuzione fu impeccabile tanto che nessuno degli amici osò disturbarla. Al termine, Armin, Alexy e Rosalya, che non l’avevano mai sentita prima, si complimentarono:
“porca miseria Castiel! Sei migliorato un botto dall’anno scorso!” si sorprese Armin.
“questa è in assoluto la migliore che tu abbia mai composto!” rincarnò la dose Alexy. Tuttavia, il diretto interessato non ringraziò per quei complimenti, ma si limitò a scrollare le spalle, come se non prestasse particolare considerazione alle loro opinioni.
“ti prenderei a sberle quando fai così!” lo rimproverò Rosalya.
Castiel si grattò il mento, cosa che faceva abitualmente quando qualcosa non lo interessava e questo acuì l’irritazione della ragazza.
“in effetti Castiel sei proprio tonto” ammise Iris “fai delle canzoni bellissime e non vuoi che nessuno lo sappia”
Tutti la applaudirono mentre il rosso, dopo averla fulminata con lo sguardo, la minacciò.
“senti un po’ rossa, non prendere la piega delle tue amichette perché non oggi è aria”
“almeno i miei sono naturali” obiettò Iris giocherellando con una ciocca di capelli.
Armin ridacchiò e rincarnò la dose:
“ti conviene stare zitto Cas. Sei circondato da donne che te la danno sui denti”
“ma figurati” minimizzò l’altro e, intercettato il cenno di Lysandre, passò all’esecuzione del pezzo successivo, una canzone dei Queen of the Stone Age.
Una volta finito, Erin stava per aprire bocca, quando la porta si spalancò all’improvviso.
 
La ragazza rimase sconvolta, con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite.
Il cuore di Iris cominciò a martellarle in petto, Violet divenne paonazza, Rosalya sgranò gli occhi, Lysandre e Castiel allontanarono le mani dagli strumenti, Alexy dal disegno e Armin nascose la console dietro la schiena.
 
Sulla soglia della porta, con un’espressione sorpresa e al contempo furente, sostava Miss Joplin.
 
La donna spostava lo sguardo alternativamente sugli otto membri del gruppo, ancora troppo stupefatta per trovare le parole con cui rivolgersi a loro.
Erin sapeva che quella donna non l’avrebbe aiutata, non un’altra volta. In gita, dopo la sua fuga alla ricerca del braccialetto, era stata chiara. Il suo cuore cominciò ad accelerare e la tensione le inumidì gli occhi. Si era giocata definitivamente il rispetto della sua insegnante preferita.
“SI PUÒ SAPERE CHE DIAVOLO STA SUCCEDENDO QUI?” proruppe infine la donna, dopo uno snervante silenzio.
Nessuno osò fiatare e Lysandre cercò di adoperarsi per trovare le parole più adatte per giustificare i presenti. Sperò che nel frattempo, tutti gli altri, specie Castiel, non prendessero l’iniziativa e lasciassero che fosse lui a farsi da portavoce dell’intero gruppo.  
“intrattenervi nei locali della scuola, dopo le lezioni, quando ormai è buio! E SE VI FATE MALE? Lo sapete vero che per il regolamento questo significa che la scuola ne è responsabile?!”
Nessuno aveva mai visto Miss Joplin più furiosa e agitata.
“ma come facciamo a farci male così?” obiettò Castiel.
Lysandre alzò gli occhi al cielo, vedendo andare in fumo le sue speranze di riuscire ad instaurare un dialogo diplomatico con l’insegnante.
“NON È QUESTO IL PUNTO CASTIEL!” sbottò Miss Joplin “la questione è che avete fatto una cosa molto grave e pertanto vietata. E poi si può sapere come avete fatto ad entrare?”
Castiel si zittì. Se si fosse parlato delle chiavi che Nathaniel aveva recuperato l’anno prima e che aveva lasciato ai suoi ex amici, anche il delegato sarebbe finito nei guai.
“c’è una finestra che si chiude male in 4^ A” mormorò Alexy, che l’aveva usata in un paio di occasioni.
La professoressa sospirò esasperata e spostò lo sguardo sugli strumenti.
Dopo una decina di secondi passati ad osservare la stanza e i suoi abitanti chiese con un tono secco:
“fate musica?”
Lysandre annuì e la donna obiettò:
“e allora perché non c’è il vostro nome nel foglio d’iscrizione del concerto?”
Inevitabilmente sette teste si voltarono simultaneamente verso quella rossa del chitarrista:
“non esiste che ci esibiamo” chiarì quest’ultimo con determinazione “non siamo pronti”
Miss Joplin non si scompose minimamente e voltò loro le spalle.
“che sia l’ultima volta che vi becco qui” dichiarò minacciosa.
“n-non prenderà provvedimenti?” balbettò Iris la cui speranza di non essere puniti cominciava a infonderle coraggio.
La professoressa tornò a fissare gli studenti con un sorriso astuto che li fece trasalire:
“questo dipende da voi ragazzi” commentò sibillina, soffermandosi in particolare su Castiel “come insegnante non posso obbligarvi a partecipare al concerto, questo è certo…però posso proporvi un patto: io non prenderò provvedimenti, né tanto meno comunicherò alla preside quello che è successo questa sera ma voi in cambio…”
A quel punto tutti i presenti capirono dove voleva andare a parare quella donna.  
Gli occhi di Erin si illuminarono dalla gioia e dalla gratitudine. La amava. Amava quell’insegnante.
“… in cambio la vostra band si iscriverà al concerto” concluse la professoressa, nonché membro del comitato per l’organizzazione dell’evento “da quello che vedo siete in due” contò soffermandosi su un incredulo Lysandre e un pietrificato Castiel.
“c’è anche Alexy con le percussioni!” s’intromise Rosalya raggiante.
 “ottimo. Magari trovate un ruolo anche ad Armin, così da sembrare una vera band” ordinò Miss Joplin.
I musicisti erano rimasti senza parole, ma la donna attendeva una loro conferma:
“allora?”
Castiel si sentì incastrato. Fosse stato per lui avrebbe rifiutato quel patto e affrontato le conseguenze della sua trasgressione ma così facendo si sarebbe tirato dietro tutti i suoi amici. Quella proposta prevedeva una sola risposta.
“lo prendo per un sì” concluse la Joplin soddisfatta “ah” aggiunse prima di uscire definitivamente dalla stanza “chiaramente mi aspetto che anche le ragazze partecipino… al karaoke nel loro caso. La fatica non la devono fare solo i maschi”
Tutto l’entusiasmo di Erin svanì all’istante. Il suo sorriso radioso mutò in una smorfia di panico. Doveva cantare anche lei, davanti a tutti.
Castiel era ancora troppo inebetito per godersi l’espressione basita dell’amica e delle altre ragazze: Violet diventò paonazza, Iris si sentì mancare un battito mentre Rosalya sorrise soddisfatta.
“bene. Vedo che tutto sommato questa vicenda ha portato a dei lati positivi… mi arrangerò io stessa a inoltrare l’iscrizione della band lunedì mattina. Adesso vi do dieci minuti per mettere tutto in ordine e vi aspetto fuori dalla scuola” ordinò la donna, prima di chiudersi la porta alle spalle.
 
Appena Miss Joplin fu sufficientemente lontana, Rosalya cominciò ad urlare euforica:
“AMO QUELLA DONNA! VORREI ESSERE LESBICA PER SPOSARLA!”
Alexy ridacchiò mentre tutti gli altri erano ancora perplessi.
“non abbiamo altra scelta Castiel” lo consolò Lysandre mettendogli una mano sulla spalla.
“non far finta che ti dispiaccia” rispose acido il chitarrista.
“pensa piuttosto che almeno tu non sarai da solo. Guarda Erin per esempio. È rimasta di stucco. Salirà lì sul palco, da sola, completamente in balia del pubblico…”
“grazie mille Lys! Adesso sì che la pressione mi è salita alle stelle” farfugliò la mora.
“non possiamo esibirci insieme?” suggerì Iris.
“beh, sarebbe d’aiuto” commentò Erin.
“eh no, Cip!” la richiamò Castiel stizzito “non fare la cagasotto. Mi hai talmente tanto rotto le palle con questa merda di concerto che mi aspetto che come minimo tu canti da sola!”
L’amica lo guardò con odio, riducendo gli occhi a due fessure.
“dì piuttosto Castiel che vuoi goderti la voce cristallina di Erin” lo punzecchiò Armin che in realtà non aveva mai sentito cantare prima la ragazza.
“ti assicuro che la sua voce è tutto tranne che cristallina” precisò il rosso.
“grazie Castiel” lo zittì Erin sarcasticamente.
Lysandre sorrise indulgente e mentre riponeva la pianola all’interno della custodia, spiegò:
“quello che sta dicendo non è che la tua voce è brutta Erin, anzi…è particolare. Hai un timbro molto caldo quasi sensuale”
Quei complimenti la fecero arrossire vistosamente mentre il cantante del gruppo proseguiva “me ne sono accorto il primo venerdì che sei rimasta con noi e Castiel è d’accordo con me”
Sorpresa, la ragazza spostò lo sguardo verso Castiel che aveva un’espressione infastidita. Si ricordò poi della battutina di Lysandre fatta dopo la recita e a come lei gli avesse ingenuamente creduto. Era quindi impossibile che Castiel apprezzasse realmente la sua voce.
“oh, voglio sentirla anch’io questa voce!” esultò Rosalya.
Irina, hai un sacco di assi nella manica!” si complimentò Armin.
“calma calma! Non è niente di che” li smontò Erin “diamoci una mossa su, che la Joplin ci sta aspettando fuori”
 
Verso le dieci il telefono di casa Robinson squillò. La professoressa, corse trafelata chiedendosi chi fosse a quell’ora. Raccolse la cornetta e rispose:
“pronto?”
“buonasera. Sono la professoressa Joplin. Potrei parlare con Jane?”
Jane ridacchiò:
“ehi, non mi riconosci? Sono io”
“oh scusa Jane, ti avevo scambiata per tua sorella. A proposito è ancora lì da te?” chiese la collega.
“parte domani”
“capito... Intanto scusa se ti disturbo a quest’ora ma dovrei chiederti un favore. Lo sai che sono negata con Photoshop e quindi avrei bisogno del tuo aiuto…è per il concerto…”
 
Il weekend di Erin era trascorso tranquillo. Sabato mattina aveva mantenuto l’impegno dell’allenamento settimanale con Castiel mentre la domenica era uscita con il suo Nahaniel e gli aveva raccontato le novità relative alla partecipazione degli amici al concerto.
Il lunedì, quando rivide Iris in autobus, fu proprio il patto sancito con Miss Joplin a monopolizzare la loro conversazione.
Varcarono il cancello della scuola, senza distogliere il loro interesse da quell’argomento.
“se ci pensi Erin, il lato positivo è che hanno raccolto pochissime adesioni. Così almeno non ci esibiremo di fronte a tutta la scuola!”
“hai ragione” convenne l’amica rincuorata. L’insuccesso di quell’iniziativa aveva decisamente un risvolto positivo per loro che dovevano cantare.
Prima di attraversare la porta che conduceva all’interno dell’edificio, l’attenzione delle ragazze venne calamitata da un poster appeso su un pilastro lì accanto.
Il foglio pubblicizzava il concerto studentesco ma in particolare dedicava la maggior parte dello spazio ad una band in particolare: i nomi di Castiel Black, Alexy e Armin Evans, Lysandre White balzavano immediatamente all’occhio. La grafica era in perfetto stile rock, molto graffiante e grintosa, con colori scuri tanto da sembrare un poster professionale.
Nel poster era indicato anche il programma con il karaoke aperto a tutti gli studenti e l’esibizione di musica classica del relativo club ma i due eventi impallidivano al confronto del risalto che era dato alla performance dei quattro ragazzi. L’orario indicava inoltre che l’iniziativa sarebbe cominciata alle cinque ma la band di Castiel si sarebbe esibita solo alle nove e mezza, come nei veri concerti.  
“questo poster è una figata!“ si elettrizzò Erin, portandosi le mani davanti alla bocca.
“sembra un concerto di una band famosa!” si entusiasmò Iris, seguendo l’amica che stava varcando l’ingresso. La rossa teneva ancora lo sguardo voltato verso il poster e non si accorse che Erin si era arrestata di colpo, tanto che finì con sbattere contro la sua schiena.
Tornò a guardare davanti a sé, per rimproverarla per quell’arresto improvviso, ma rimase senza parole.
 
Davanti alle due ragazze, una calca impressionante di studenti, era appostata in piedi, fuori dall’ufficio di Nathaniel.  
 
Solo nel loro campo visivo erano presenti oltre un centinaio di ragazzi e ragazze, un vero e proprio fiume di persone, chi con il portafoglio in mano, chi con cinque dollari branditi stretti.
“c-che sta succedendo?” balbettò Erin avvicinandosi a Kim e Trevor che erano in coda.
“e me lo chiedi? Si è sparsa la voce che Castiel ha un gruppo quindi figurati! Speriamo solo di trovare i biglietti perché da quello che so, ne hanno stampati un numero limitato” spiegò la cestista, saltellando nervosamente sul posto e mettendosi sulle punte per sbirciare davanti a sé.
Erin ed Iris si guardarono incredule.
Qualcuno cominciava a protestare che la campanella sarebbe suonata a momenti, altri a spingere, altri ancora cercavano di farsi strada tra la folla. Tutta quella scena aveva dell’incredibile.
Improvvisamente si levarono dei borbottii e tutti si voltarono a guardare in direzione di Erin ed Iris, che però intuirono di non essere l’oggetto di tutto quell’interesse.
Le due ragazze quindi si voltarono a loro volta e videro sopraggiungere una testa di capelli rossi che in quel momento aveva lo sguardo puntato verso il pavimento: venendo da una frenetica corsa in bici, Castiel si stava risistemando i ciuffi ribelli e pertanto non guardava dritto davanti a sé.
Quando finalmente alzò gli occhi, rimase di sasso. Un’espressione che nessuno mai gli aveva visto prima.
“c-che è questo casino?” balbettò, per la prima volta in vita sua.
“ecco la celebrità!” urlò Trevor accompagnato da qualche altro schiamazzo e applauso.
“mi raccomando Castiel, vedi di non deluderci!” lo ammonì Liam.
“vedi di suonare roba buona, sennò mi rimborsi i soldi!” lo minacciò allegro un suo ex compagno di classe.
Castiel era rimasto senza parole, incapace di replicare.
Tutto quell’entusiasmo, quella frenesia, quelle aspettative verso di lui e la sua band l’avevano spiazzato. Il concerto era partito come un fiasco ma ora sembrava che tutti volessero assolutamente prendervi parte.
Era talmente sconcertato che quasi non si accorse di Erin che gli si avvicinò sorridendo:
“sono tutti qui per te” gli sussurrò con dolcezza.
L’amico stava per replicare, ma in quel momento notò Nathaniel farsi strada, con enorme difficoltà, tra la folla. Appena il biondo vide la sua ragazza ed Iris, si illuminò:
“oh, finalmente siete arrivate!” esclamò fin troppo sollevato “vi prego datemi una mano perché solo io e Melody ci stiamo mettendo troppo e quando suonerà la campana sarà un’impresa mandare via tutti”
“cosa dobbiamo fare?” chiese prontamente Erin.
“prendere i cinque dollari e consegnare un biglietto” le spiegò sbrigativamente il delegato e afferrò per il polso sia la sua ragazza che la sua amica, trascinandosele dietro.  
Prima di sparire del tutto, il biondo si arrestò e dopo essersi voltato verso il rosso lasciato da solo, gli disse con un sorriso:
“ah Castiel…Non vedo l’ora di sentirti suonare”
 
L’evento di quel giorno era stato talmente inaspettato che Erin rinunciò a pranzare con Nathaniel e si unì agli amici che per festeggiare avevano risparmiato a Castiel l’odiata mensa. Tornarono quindi ad occupare il loro solito posto all’esterno, incuranti del freddo di inizio dicembre.
Per tutto il giorno c’era stato un via vai di studenti per la sala delegati e già dopo tre ore si era sparsa la notizia che i biglietti erano stati tutti venduti. Di fronte alle proteste dei ragazzi rimasti esclusi, Miss Joplin spiegò che ne erano stati stampati un sottonumero nell’eventualità, verificatasi all’inizio, che l’evento non accogliesse sufficiente interesse da parte del popolo studentesco.  Aveva quindi assicurato che la struttura scolastica era capace di contenere altri cinquecento studenti e quindi ci sarebbe stato spazio per tutti e anche per gente da fuori. Come raccontarono Alexy, Armin e Rosalya infatti, per strada avevano intravisto dall’autobus altri poster analoghi a quello appeso all’ingresso, locandine che si scoprì esser state realizzate da Miss Robinson nel weekend.
“non posso credere che tutto questo perché si è sparsa la voce che suoniamo” ripeteva tra sé e sé Castiel, ancora incredulo. Quella mattina non aveva ascoltato mezza parola durante le lezioni e anche se questo non costituiva certo una novità per uno come lui, era paradossale lo stato di completo sconcerto in cui era imprigionato da ormai cinque ore. Sentiva un’ansia pazzesca per le grandi aspettative che gravavano su di loro, specie su di lui che sembrava essere riconosciuto come leader della band. Tutto ciò da un lato lo lusingava parecchio, ma dall’altro gli mandava i nervi a fior di pelle.
“oddio, non vedo l’oraaaa!” squittiva Iris trattenendo a stento l’eccitazione. Non le importava più di doversi esibire anche lei. Avrebbe cantato insieme a Rosalya e Violet e tanto bastava a tranquillizzarla.
Erin invece si era fatta condizionare dagli amici che, in un certo senso, l’avevano forzata a proporsi come solista; questo la metteva talmente sottopressione, da non riuscire a dedicare alla band l’attenzione che meritava dopo quell’inaspettato successo.
“sì ma io che cazzo suono?” si allarmò Armin.
“potresti prenderti il triangolo” suggerì Castiel beffardo.
“non sfottere Cas. È anche colpa tua se siamo in questa situazione. Se tu ti fosse iscritto subito non-”
“se così fosse stato, la Joplin non avrebbe potuto ricattarci e a quest’ora saremo tutti a casa sospesi per una settimana” lo zittì il rosso.
“ma scusate, visto che immagino che suoneremo anche canzoni famose-” cominciò a dire Alexy.
“anche?” lo interruppe il rosso allarmato “suoneremo solo le canzoni famose. Non esiste che facciamo sentire anche quelle che compongo! Fanno pena a confronto!”
“non è vero, ma ne riparleremo” lo liquidò Alexy “però suonando gruppi tipo i Linkin Park avremo bisogno di una piattaforma elettronica e Armin è il nostro uomo”
“ti sei buttato sull’elettronica?” chiese Castiel sorpreso.
“guarda che durante la pausa di riflessione del club dei disadattati la vita è andata avanti” commentò Armin masticando una patatina, poi rivolgendosi al fratello, indagò:
“ma tu credi davvero che posso farcela? Non sono ancora del tutto esperto con la console”
“faremo le prove apposta” lo tranquillizzò il fratello con un sorriso rassicurante “comunque oggi è il primo dicembre giusto? Abbiamo esattamente diciotto giorni prima del concerto. Sarà meglio cominciare a fare qualche prova con il gruppo al completo”
“e dove?” chiese Armin.
“beh a casa nostra no? Lo spazio c’è e così non devo spostare la batteria” ragionò Alexy.
“d’accordo, allora dopo le lezioni veniamo da voi” concluse Castiel, accartocciando la carta del panino che aveva acquistato in mensa.
“oh quanto mi piacerebbe assistere” piagnucolò Erin.
“oh sì, che nostalgia rivedervi tutti insieme che suonate” mugolò melliflua Rosalya, pur sapendo che in realtà quello non era esattamente il vecchio gruppo.
“poi non vedo l’ora di ammirare la batteria di Alexy” rincarnò la dose Iris.
Lysandre sorrise pazientemente, Castiel emise un verso stizzito mentre Alexy ridacchiava:
“ok, ok ho capito” tagliò corto Armin rassegnato “siete tutte invitate, tanto lo spazio c’è”
Prevedibilmente, Violet declinò l’offerta ma il resto della ciurma si diede appuntamento fuori dal cancello al termine delle attività pomeridiane.
 
Dopo un’ora di intenso allenamento, Erin riuscì ad ottenere il permesso da Boris per sgattaiolare fuori dalla palestra. Corse verso la sala delegati, sollevata nel trovare la porta aperta. Il suo sollievo aumentò quando notò che a parte l’oggetto del suo interesse, non c’erano altri occupanti nella stanza.
Si avvicinò a Nathaniel che era talmente concentrato a fissare lo schermo del pc da non accorgersi della sua presenza. Entrò di soppiatto e, senza farsi notare, riuscì ad arrivargli alle spalle.
Gli mise le mani sugli occhi facendolo trasalire.
“indovina chi sono?” squittì lei.
Dopo il leggero spavento, il ragazzo si voltò e si mise seduto sulla scrivania.
“mi hai fatto prendere uno spavento” sorrise cercando di farla sentire in colpa ma perdonandola all’istante.
“quando sei concentrato su qualcosa non c’è verso di distrarti” commentò Erin con ammirazione e cominciò a lisciargli la cravatta che si era un po’ allentata “mi dispiace che oggi non siamo rimasti molto insieme” farfugliò
figurati, lo capisco” la consolò il biondo “poi oggi è stata davvero una giornata infernale, credimi. Ora che abbiamo raccolto più di 1800 adesioni, ci sono un sacco di fondi per organizzare l’evento al meglio…e quindi il triplo del lavoro per me”
“mi raccomando Nath, conto su di te, deve essere tutto perfetto” lo avvertì la ragazza baciandolo in bocca.
“oh, Nathaniel per fortuna sei qui” sorrise Miss Joplin entrando nella stanza. Si era accorta troppo tardi che lo studente era impegnato in attività non inerenti al suo ruolo di segretario.
Dal canto suo, Erin sorrise divertita, pensando che era già la seconda volta che quella professoressa irrompeva nel momento più inopportuno.
“tutta oggi non ho avuto un attimo di tregua!” si lamentò la professoressa, posando dei fogli sulla scrivania “comunque volevo solo ringraziarti. La tua proposta di aprire il concerto anche agli studenti non iscritti al club di musica ha salvato l’evento!”
Nathaniel sorrise educatamente mentre Erin rimaneva senza parole.
Dopo aver scambiato due parole, Miss Joplin abbandonò la stanza e la ragazza esclamò:
“l’hai fatto per…”
“Castiel” completò prontamente il biondo.
In tutta risposta, Erin tornò a baciarlo con passione. Nessuno poteva capire quanto lei agognasse una riappacificazione tra il suo ragazzo e il suo migliore amico. La premura di quel gesto non solo confermava il buon animo di Nathaniel, ma anche testimoniava che il biondo fosse ancora legato al suo vecchio amico.
“per la verità signorina, contavo su di lei per convincerlo ad iscriversi” la rimproverò il segretario amabilmente, cingendole i fianchi.
“ma se mi avevi detto di lasciar perdere!” si difese lei.
“sapevo che non mi avresti dato retta” sorrise diplomatico il biondo, guadagnandosi un pizzicotto a cui rispose con un bacio.
 
Miss Joplin fece capolino in palestra, passando visivamente in rassegna i giocatori finché individuò il suo bersaglio.
“Castiel! Vieni un attimo qui!” esclamò, attirando la curiosità di tutti i cestisti “Boris ti dispiace se ti sequestro il capitano un secondo?”
“oh fa pure. Come posso negare un favore ad un’affascinante collega?” esternò l’allenatore.
Il giovane cestista corse verso la sua professoressa di scienze che gli annunciò:
“lo dico a te intanto così poi lo comunichi al resto della band…c’è sempre stata una tradizione al liceo sin da quando si sono organizzati questo genere di eventi e sin da quando la nostra preside è qui…”
Più Miss Joplin parlava e più gli occhi di Castiel tradivano preoccupazione e diffidenza.
“ahaha, dovresti vedere la tua faccia Castiel” scoppiò a ridere la Joplin “comunque sia” si ricompose, tornando seria “hai presente quella canzone degli anni quaranta che fa” e qui la professoressa arrossendo, si schiarì la gola è canticchiò: “bella contadina dove vai, i fiori del campo raccoglierai e al soldato sul fronte li porterai…”
“sì, è una porcata che di solito suonano nelle case di riposo per i vecchi” commentò Castiel cinico, chiedendosi cosa c’entrasse con la sua musica.
ah, attento a come parli di questa canzone” lo ammonì la donna, sorvolando sul termine inappropriato usato dallo studente “si da il caso che sia la preferita della nostra amata preside e, in quanto ultima band della serata, dovrete suonarla in chiusura”
Castiel, per la seconda volta in quella giornata, si trasformò in una statua di sale.
Lui, il cui aspetto dalla sommità del corpo fino alla punta dell’alluce gridava la sua fede rock, si sarebbe dovuto esibire in una spensierata e ridicola musica country.
Quando finalmente si riprese, patteggiò:
“senta, ho capito che vuole punirmi ma non può direttamente sospendermi per un mese? Oppure faccio il bagno al cane della preside, lo porto a spasso... che so… qualcosa del genere. Ma non mi chieda di suonare una mer…aviglia del genere” si corresse all’ultimo fulminato dal cipiglio dell’insegnante.
“non prenderla sul personale Castiel” gli sorrise comprensiva la donna, battendo una mano sulla spalla nuda del cestista “è semplicemente una richiesta della preside a cui non potete sottrarvi. Ecco tieni, questa è la musicassetta” e gli allungò un oggetto di cui solo in quel momento il ragazzo realizzò l’esistenza.
“musicassetta? Non so neanche se esistano più dei dispositivi per riprodurla!” sbottò il rosso.
“dovete trovarli. In un modo o nell’altro quella canzone la dovete suonare” concluse Miss Joplin, con un tono che non lasciava spazio ad ulteriori proteste.
 
Dopo essere scesi tutti e sette dall’autobus, Armin e Alexy guidarono gli amici verso casa loro. Per Castiel e Lysandre ripercorrere quel viale alberato fu un tuffo nel passato, a molti mesi prima. Il poeta adorava la zona in cui vivevano i gemelli perché immersa nel verde e lontana dal traffico del centro e dal degrado della periferia. Per Erin che viveva appunto in una zona un po’ squallida, il contrasto fu evidente. Morristown era davvero una bella città, doveva solo imparare a conoscerne anche gli scorci più belli come quello.
Alexy ed Armin si fermarono davanti ad una piccola villetta su due piani, immersa in mezzo al verde.
“venite” li accolse Alexy.
A parte Iris ed Erin, tutti gli altri conoscevano perfettamente l’abitazione dei gemelli, specie Rosalya che era sempre la benvenuta.
Dopo aver spiegato che i genitori sarebbero rientrati solo per ora di cena, i due ragazzi condussero i loro ospiti su per una rampa di scale.
“ahah, ancora non ci credo che suonerete o mia bella contadina!” ridevano Rosalya ed Erin.
“non nominate quella merda” le minacciò Castiel a denti stretti. Quando aveva raccontato agli amici dell’umiliazione a cui erano costretti a sottoporsi, tutti l’avevano presa con ironia. Era stato l’unico a reputare quella richiesta una provocazione da parte di Miss Joplin, oltre che un’occasione inevitabile per umiliarsi pubblicamente.
Alexy aprì la porta della sua stanza in cui troneggiava una scintillante batteria nera.
“è una figata!” commentò Erin ammirata, accarezzandone la superficie liscia.
“oh la mia Dolly fa sempre una bella figura” si vantò il gemello.
“Dolly?” ripeterono in coro Erin ed Iris.
“oh sì. È il suo nome. Anche la chitarra di Castiel ha un nome” le informò il ragazzo, posando la borsa sulla scrivania e liberando una sedia.
“e quale sarebbe?” chiese prontamente Erin.
Dal momento che il rosso non si degnava di soddisfare la sua curiosità, rispose Armin.
“Sophia”
“bel nome” convenne Iris.
Erin non commentò in alcun modo e Castiel le lanciò un’occhiata fugace. Non ci voleva un genio per intuire cosa stesse pensando l’amica. Del resto quel nome era stato scelto molto tempo prima e tra l’altro non era nemmeno stato lui a farlo.
“allora? Che scaletta proponiamo?” iniziò Lysandre.
Per quel giorno si sarebbero accordati solo sul programma, quanto alle prove, erano costretti a rimandare al weekend a causa del trasporto degli strumenti, che sembrava non rappresentare un problema solo per Castiel. A conferma del fatto che ormai il rosso sentiva l’atmosfera dei vecchi tempi, si stravaccò sul letto di Alexy, tenendo gambe a penzoloni fuori dalla testiera.
“i Tool” mugolò.
“non credo sia una buona idea. Secondo me dovremo scegliere qualcosa di più commerciale” lo contraddisse Alexy.
“non vorrai farci suonare i One Direction?” sbottò il chitarrista, tirando su la testa allarmato.
L’occhiata perplessa e cinica del batterista lo tranquillizzò:
“visto che abbiamo Armin, io suonerei qualcosa dei Linkin Park, tipo Shadow of the dayribattè il gemello.
“quella verrebbe benissimo cantata solo con la chitarra e la voce Lys!” si entusiasmò Erin.
“Cip ha ragione!” s’intromise Rosalya.
“come mi hai chiamato?” la riprese la mora con una lieve irritazione nella voce.
“oh è un soprannome carino, una volta tanto sono d’accordo con Castiel” ammise l’amica ridendo “e poi se tu sei Cip lui  è quel tontolone di Ciop”
“ti pare che assomiglio a Ciop?” si agitò il rosso.
“Castiel, non ti distrarre” lo richiamò Lysandre spazientito “la proposta di Erin può funzionare. Dovremo lavorarci su, ma credo verrà bene…bene,  una canzone sarà quella” confermò prendendo appunti sul suo block notes “poi?”
“parlando di rock commerciale ci sono i Nickelback” menzionò Armin.
“allora facciamo Burn into the groundfarfugliò Castiel sbadigliando. Aveva incrociato le braccia dietro la nuca e fissava il soffitto.
“è una delle meno commerciali che abbiamo mai fatto” osservò Lysandre.
“appunto. Non dico di suonare Marilyn Manson ma neanche roba troppo soft” puntualizzò il chitarrista.
Burn into the ground comunque non si addice al mio stile” insistette Lysandre “l’energia di quella canzone la poteva trasmettere solo”
“lo so” lo interruppe secco Castiel. Quella precisazione non era necessaria.
“Lysandre lo vedo perfetto per le canzoni di Damien Rice” s’intromise Iris.
“oh, conosci Damien Rice! Sono stupito” commentò ammirato Armin.
“beh in realtà solo una…” ammise la ragazza, grattandosi la guancia “devo ammettere di ascoltare per lo più musica pop… però pensavo a The blower’s daughter
“non ce l’ho presente” riconobbe Alexy.
Iris allora attivò la connessione dati al telefono e la cercò su Youtube. Dopo qualche secondo per il caricamento, le note di Damien Rice si diffusero nella stanza.
 
♪ ♫  I can’t take my eyes off you
 I can’t take my eyes off you
I can’t take my eyes off you ♪ ♫ 
 
Tutti erano rivolti verso il cellulare in mano alla rossa da quale proveniva la musica. Tutti tranne Castiel.
 
♪ ♫  I can’t take my eyes off you
 I can’t take my eyes off you
I can’t take my eyes off you ♪ ♫ 
 
Il suo sguardo si era posato su Erin e non riusciva a staccarsi dal profilo della ragazza. Aveva le palpebre leggermente abbassate e un’espressione dolce e delicata, completamente assorta dalla musica.
“direi che è perfetta!” giudicò Lysandre con impeto, spaventando il chitarrista che era distratto dai suoi pensieri.
Il cantante gradì particolarmente quella canzone tanto da stupire tutti per l’entusiasmo con cui aveva accolto quel suggerimento di Iris.
“abbiamo fatto bene a chiamarvi” approvò soddisfatto rivolgendosi alle ragazze che sorrisero orgogliose mentre Armin aggiungeva:
“e la voce femminile alla fine potrebbe essere quella di Erin, se è così sensuale come dite”
La ragazza si irrigidì e scattò subito sulla difensiva:
“che cosa? No, no, non esiste!  Devo già pensare al karaoke”
“sarà solo una strofa Erin, una riga… l’hai sentita anche tu” minimizzò Alexy.
La ragazza scuoteva il capo ma nessuno sembrava prestarle particolare attenzione. In un modo o nell’altro l’avrebbero convinta.
“torniamo ai Nickelback. Secondo me ci starebbe bene Far Awaydichiarò Lysandre.
“può andare, ma facciamo anche qualcosa di meno melenso? Che so, In the End? La conosco tutti e piace a tutti” propose Castiel annoiato.
Lysandre nel frattempo continuava ad appuntare.
“i Skillet! Dobbiamo farli. Quale suoniamo?” scattò Armin.
Don’t wake me!” rispose Rosalya.
Castiel teneva ancora le braccia incrociate dietro la testa e, alla proposta della ragazza, aveva lanciato un’occhiata distratta ad Erin. Mal celando un certo imbarazzo, scoprì che anche l’amica in quel momento lo stava guardando. Quella canzone dei Skillet rappresentava la prima volta che aveva sentito Erin cantare… e piangere.
“facciamo One day too latetagliò corto il rosso, tornando a fissare il soffitto.
Erin lo guardò confusa, mentre Rosalya si arrabbiò:
“mai una volta che tu sia d’accordo con me!” lo rimproverò prendendo sul personale una questione che in realtà riguardava solo l’amica.
“ok andata” tagliò corto il fratello annotando anche quella proposta.
“ma scusa Lys, quante dovremo tenerne pronte secondo te?” lo interpellò Armin.
“la Robinson mi ha detto che la Joplin ne vuole una ventina”
Castiel cadde dal letto per lo shock:
“stai scherzando?”
Anche il resto dei presenti erano rimasti sorpresi da quel numero.
“secondo la Joplin siamo l’attrazione della serata. Vuole farci suonare per minimo un’ora e mezza tra pause comprese”
“non scherzare” lo ammonì il rosso, facendosi minaccioso.
“sono serio”
Castiel rimase immobile a fissare l’amico senza battere ciglio; quando finalmente realizzò che non stava scherzando imprecò:
“odio quella donna!”
 
Verso ora di cena, rincasò la madre dei gemelli e dopo qualche minuto il padre. La prima si dimostrò talmente felice di rivedere Castiel e Lysandre, da invitare l’intera comitiva a cena. Il gruppo tuttavia, consapevole di aver approfittato anche troppo dell’ospitalità degli Evans, declinò a malincuore quel caloroso invito. In quella casa si respirava un’aria felice e spensierata, complice il carattere solare dei due gemelli.
Andrew, il padre dei due ragazzi, si illuminò nel notare la presenza di due nuove ragazze nel gruppo, con la segreta speranza che tra di loro ci fosse quella che avrebbe conquistato il cuore del figlio che, sperava, continuasse a dichiararsi eterosessuale. Quanto al suo rapporto con Alexy, Andrew ancora fatica ad accettare la sua natura e non riusciva a comportarsi in modo naturale in sua presenza.
Dopo essersi congedati dalla famiglia Evans, Castiel tornò a casa a piedi, Lysandre e la sorella con l’autobus numero 9 mentre Iris ed Erin con il 4.
“i gemelli sono fortunati” disse Iris una volta trovato posto sul mezzo accanto ad Erin “hanno una madre amorevole”
“peccato però che il loro padre sia così rigido con Alexy” puntualizzò l’amica.
“ma loro almeno un padre ce l’hanno” commentò amaramente la rossa.
Teneva il viso appoggiato sulla mano e rivolto verso il finestrino, come se non volesse che Erin la guardasse in faccia.
“stai pensando al tuo?” le sussurrò la mora.
L’amica sospirò e si girò verso la sua compagna di viaggio, annuendo leggermente.
“è di nuovo in missione” sospirò “anche se ha fatto carriera e nella sua posizione, dovrebbe occuparsi per lo più di faccende burocratiche, va a combattere in prima linea in Iraq”
Erin incassò piuttosto male quella notizia. Non immaginava che la situazione familiare in casa dell’amica fosse così angosciante.
“mi dispiace Iris, non avevo capito che…”
“non te l’avevo mai detto” la tranquillizzò con un sorriso triste “sono sempre stata vaga sull’argomento perché mi fa stare troppo in pena… l’ultima volta che è andato in missione, l’anno scorso, non abbiamo avuto sue notizie per settimane…lo stress ci stava uccidendo, in quei momenti pensi ad ogni cosa: che sia ferito, che sia stato rapito… o peggio…. io ero talmente in ansia che ho saltato il ciclo. E il mese dopo anche. Poi finalmente è riuscito a mettersi in contatto con noi ma da allora non mi sono più arrivate le mie robe”
“da un anno? Sei stata da un ginecologo?” chiese Erin un po’ preoccupata.
“sì, e nemmeno la ginecologa riesce a spiegarselo. Secondo lei ha inciso l’enorme stress psicologico e quindi mi ha detto di non preoccuparmi e che la cosa si risolverà da sé. All’inizio l’ho presa con filosofia, niente ciclo evvai” disse cercando di mettere un po’ di allegria in un tono di voce piatto “ma la verità è che mi sento una donna a metà”
Iris teneva ora il capo chino e torturava l’orlo del giubbotto. Erin fissò quelle mani tormentate e vide una goccia bagnarle.
Istintivamente, portò un braccio attorno alle spalle dell’amica e la tirò a sé, posando il capo della ragazza contro la propria spalla.
 “vedrai che si risolverà tutto” le sussurrò teneramente.
Più conosceva i suoi amici e più si affezionava a loro.
Ognuno aveva una sua storia e pian piano lei stava scoprendo quella di ognuno: Castiel  prima, Lysandre e Rosalya poi e ora Iris. Il fatto che tutte quelle persone per lei sempre più preziose, le avessero confidato una parte del loro passato, la commuoveva.
Per questo il ricordo della sorella si materializzò nella sua mente. Non era giusto verso Iris e verso tutti gli altri che lei chiamava amici, continuare a non parlarne. Non era giusto soprattutto verso Nathaniel, in quanto suo ragazzo. Avrebbe dovuto farlo, aprirsi a tutti loro, non solo a Castiel.
Castiel. L’unico a sapere dell’esistenza di Sophia. Non l’aveva mai forzata in alcun modo a parlarne e questo rispetto verso il suo silenzio, l’aveva dapprima sorpresa poi commossa. Non a caso, lo considerava il suo migliore amico.
Tornò a concentrarsi su Iris e sulla condizione che tanto la faceva soffrire. Raccontarle di Sophia e della verità dietro la loro separazione, forse avrebbe aiutato l’amica a distrarsi dai cattivi pensieri.
“sai Iris io…”
Nell’autobus risuonò il bip di una fermata che veniva prenotata, richiamando l’attenzione delle due ragazze. Iris si asciugò frettolosamente gli occhi con il dorso della manica e si alzò:
 “sono già arrivata… grazie per avermi ascoltata Erin” le sussurrò con un sorriso dolce che rincuorò l’amica “devo scendere… me lo dici dopo per messaggio?”
La ragazza sorrise a sua volta e, scuotendo leggermente il capo, mormorò:
“non preoccuparti…non era nulla di importante”
 





 
NOTE DELL’AUTORE:
Ad appena un giorno di distanza dalla pubblicazione del precedente capitolo, ecco a voi il 26.
Prima però, vi invito a tornare al capitolo 25, solo per apprezzare un altro bellissimo disegno realizzato da _nuvola rossa 95_ che se continua così dovrò promuovere come mia vignettista ufficiale XD (grazie :3).
Alzi la mano chi aveva capito che sarebbe stata la Joplin a convincere (obbligare) Castiel ad esibirsi… spero di non vederne nessuna alzata e che vi sia piaciuta questa idea :).
Come spero anche che la scena di Castiel che realizza quanto gli altri si aspettino da lui sia stata della giusta intensità. Per lui che è molto insicuro circa il suo talento come musicista è stata una bella iniezione di sana autostima (anche se per ora è solo teso come una corda di violino).
Giusto per fare un po’ di ordine temporale alla storia, prima ci sarà la cena con Nathaniel (14 dicembre) e poi il concerto (il 19)… il che significa che per la gioia delle fan del biondo il prossimo capitolo sarà proprio ambientato a casa Daniels… e vi assicuro che… no basta spoiler! Alla prossima!!
 
P.S. Grazie mille alle recensioniste :3. Se ho pubblicato questo capitolo così presto è anche merito vostro (oltre ovviamente alla disponibilità di tempo che ho in questo periodo;))… dopo ogni recensione ero così ispirata e entusiasta che non potevo fare a meno di mettermi al pc per arricchire il capitolo. Graazzieee!! ^^)

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Ti presento i miei ***


 
RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE
Dopo aver scoperto gli incontri clandestini dei ragazzi al venerdì sera, Miss Joplin li ricatta, proponendo loro di esibirsi al concerto in cambio del suo silenzio con la preside. Il lunedì successivo, quando Erin, Iris e Castiel arrivano a scuola, si trovano di fronte una folla incredibile di studenti, tutti eccitati  e curiosi nel sentire l’esibizione del ragazzo e dei suoi amici. Il rosso, in parte lusingato, è soprattutto teso, specie quando Miss Joplin gli commissiona una canzone country per la preside e l’esecuzione di una ventina di brani. Erin scopre che è grazie ad un suggerimento di Nathaniel che le iscrizioni al concerto quest’anno sono state aperte anche a studenti estranei al club di musica. Dopo un pomeriggio trascorso a casa dei gemelli, Iris racconta ad Erin la sua situazione personale, segnata dall’assenza del padre impegnato in operazioni militari e dallo stress che grava su di lei, tanto da averle bloccato il ciclo da un anno. Commossa per quelle parole, l’amica si convince a confidarle l’esistenza di Sophia e la loro separazione che tanto la fa soffrire, ma proprio in quel momento la fermata di Iris viene prenotata ed Erin liquida la questione come una cosa di poca importanza.




 
CAPITOLO 27: TI PRESENTO I MIEI
 
Ravenclaw11: è vero che non ti conosco ma ho la certezza che tu sia una brava persona
Hydra_Silently: come fai a dirlo?
Ravenclaw11: perché hai salvato l’orso mistico dall’oblio nero
Hydra_Silently: Grazie…posso dire la stessa cosa di te
Ravenclaw11: ma io non ho salvato l’orso -.-‘’
Hydra_Silently: No, però hai salvato me
 

Erin si sistemò nervosamente il vestito, lisciandone il tessuto.
Due settimane prima, quando era rientrata da casa di Alexy ed Armin, la zia l’aveva ricevuta in salotto comunicandole che doveva parlarle. Il tono serio della donna fu di pessimo auspicio e i sospetti della ragazza erano stati confermati quando la donna aveva parlato del suo licenziamento e del conto in rosso in banca. Tuttavia, prima che la nipote potesse farsi prendere dall’agitazione, Pam l’aveva tranquillizzata, raccontandole del progetto della boutique, che grazie a Jason si sarebbe presto realizzato.
Se fino a quel momento Erin provava una forte simpatia per il vicino, dopo quella rivelazione la simpatia si era trasformata nella più totale stima e ammirazione, tanto da cominciare a fare pressioni alla zia perché si decidesse a farsi avanti. Non ne avrebbe trovato uno uguale, ne era certa.
Da un paio di giorni gli operai avevano finito con gli intonachi e la tinteggiatura della boutique, quindi la ragazza aveva trascorso il weekend ad aiutare Pam con le pulizie, in vista dell’arredamento che sarebbe arrivato l’indomani. Nel frattempo alcuni capi che Pam aveva ordinato, a seguito di un disguido, erano stati recapitati prima del tempo e, in mancanza di spazio, la donna aveva sovraffollato con quei vestiti il suo già piccolo appartamento.
Proprio quella sera, l’inconveniente aveva finalmente rivelato un lato positivo: Erin avrebbe cenato a casa Daniels e Pam, rovistando tra i capi che avrebbero adornato il futuro negozio, riuscì a procurarle uno adatto alla serata.
“tesoro sei meravigliosa” si complimentò la zia, orgogliosa dell’aspetto elegante e raffinato della nipote. Aveva ondulato i capelli con la piastra e si era truccata in modo semplice ma adatto all’uscita.
Erin annuì, lanciando un’occhiata fugace allo specchio. Sorrise pensando che l’ultima volta che aveva indossato un abito, si era ritrovata fidanzata con il ragazzo più ambito della scuola.
“se tutti i vestiti che venderai saranno belli come questo, avrai un successone zia. Hai sempre avuto buon gusto”
Quelle parole sincere e spontanee commossero Pam al punto che emise un gridolino di gioia e lanciò le braccia al collo alla nipote. Da quando la donna aveva intrapreso l’attività della boutique, era tornata a comportarsi come la zia spensierata e affettuosa che Erin ricordava. L’esperienza del licenziamento tuttavia l’aveva segnata profondamente, avviando in lei un processo di maturazione personale che l’aveva resa una donna di cui la nipote si sentiva orgogliosa.   
“giovedì sei libera?” le chiese Pam sciogliendo l’abbraccio e lisciando le spalline del vestito.
“ho la scuola”
“intendo… la sera. Vorrei invitare Jason a cena qui con noi per ringraziarlo per tutto. Se non fosse per lui, a quest’ora tu saresti tornata dai tuoi genitori e io sarei… meglio che non ci pensi”
Erin sorrise sentendo nominare il vicino. Più tempo rimaneva a Morristown e più se ne affezionava.
Quando la zia le aveva descritto la drammaticità della sua situazione finanziaria e l’impossibilità di continuare ad ospitarla, la ragazza aveva sentito crollarle il mondo sotto i piedi. Tutti i suoi amici, la scuola, il suo ragazzo… avrebbe dovuto rinunciare a tutto. E invece Jason era arrivato in loro soccorso, proponendo quel meraviglioso piano B che sua zia aveva, ovviamente, accettato. Le aveva prestato molti soldi e Pam si era impegnata per restituirglieli una volta che l’attività avrebbe ingranato.
Che la zia fosse innamorata di Jason ormai era fin troppo lampante ed Erin si chiedeva come l’oggetto del suo amore fosse così cieco da non rendersene conto. Tutto era cominciato quando era andato a prenderla alle Twin Towers, salvandola da una nottata con un individuo squallido, e quei sentimenti nella donna erano cresciuti pian piano ma inesorabilmente. Quanto a ciò che Jason provava per la zia, nemmeno Erin era poi così sicura che ne fosse ancora innamorato. Nelle ultime settimane l’aveva visto raramente e pertanto non avrebbe saputo giudicare l’atteggiamento dell’uomo verso Pam. Era certa che le fosse molto legato, altrimenti non le avrebbe offerto quell’ancora di salvezza rappresentata dalla boutique ma, secondo la zia, si trattava di un commovente gesto di generosa amicizia.
“Nath verrà a prendermi a momenti” annunciò Erin guardando l’ora.
“d’accordo. Quando esci, farò un salto alla boutique, credo di aver lasciato lì la lista dei fornitori” ragionò Pam, cercando le chiavi della macchina sul tavolino all’ingresso.
Il campanello suonò ed Erin, raggiante, si precipitò all’esterno.
“allora ci vediamo più tardi zia, non aspettarmi in piedi” si raccomandò allegra.
Pam seguì con lo sguardo la sua meravigliosa nipote mentre scendeva le scale e sorrise felice.
Sentì aprirsi la porta accanto da cui uscì Jason. Indossava una felpa della NBA e un paio di jeans strappati. Quel look che una volta la donna tanto criticava, sostenendo che fosse da ragazzino, ora lo trovava addirittura affascinante. Del resto Jason aveva appena trent’anni, quel modo di vestire gli si addiceva e lei era sempre stata troppo severa nel giudicarlo.
“è arrivato Nathaniel devo supporre” sorrise l’uomo, ormai a conoscenza della relazione e degli impegni di Erin.
“già. Erin era su di giri. Quel ragazzo è un tesoro, sono tranquilla quando è con lui. Comunque, farò un salto alla boutique, credo di aver dimenticato la lista dei fornitori. Quando torno, se vuoi passo da te per il nostro appuntamento settimanale con Lost” dichiarò allegra.
“preparo i popcorn” replicò prontamente l’altro.
 
Tornato in appartamento, Jason si spostò in cucina e recuperò i semi di mais dalla dispensa. Mentre stava per aprire lo sportello del microonde, l’occhio gli cadde sulla mensola poco distante. Ricordò solo allora che la lista che era andata a cercare Pam, l’aveva presa lui. Corse sul pianerottolo con la speranza di intercettarla ma era troppo tardi. Rotolò giù per le scale, uscendo dall’edificio ma fece solo in tempo a vedere la macchina di Pam che sfrecciava davanti al cancello.
Rassegnato, stava per richiudersi il portone alle spalle per tornare di sopra a telefonarle, quando si accorse della presenza di un ragazzo che si stava avvicinando.
Il colore eccentrico dei capelli non lasciava spazio a equivoci: era l’amico di Erin, quello che aveva intravisto la prima volta che Pam e sua sorella si erano conosciute.
“sei Castiel giusto?” azzardò il veterinario, vedendo il rosso avvicinarsi.
“Jason” completò l’altro “Erin è in casa?”
“mi dispiace, ma è già uscita”
Castiel assimilò quella notizia rabbuiandosi per un attimo, reazione che non sfuggì al suo interlocutore.
“fa’ niente” replicò infine il ragazzo scrollando le spalle.
“devo dirle qualcosa da parte tua?”
“beh, mi faresti un favore se le ridai questo” gli annunciò allungandogli un quaderno con la scritta STORIA  “è suo e mi sono accorto di avercelo io”
La scarsa considerazione per la materia della Fraun sia da parte di Castiel che di Erin aveva ritardato di una settimana il ritrovamento di quel reperto.
“nessun problema”
“ok grazie” mormorò Castiel, facendogli un cenno di saluto e avviandosi verso casa.
“aspetta, ti interessa per caso un gatto?”
“un gatto?” ripetè Castiel talmente perplesso che Jason ridacchiò.
“sì, sì un gatto. Faccio il veterinario e oggi è venuto da me un vecchietto con una gatta incinta. Pressappoco partorirà tra un mese o un mese e mezzo... Sto già cercando qualcuno che possa prendersi cura dei cuccioli quando saranno pronti a staccarsi dalla madre”
“hai scelto la persona sbagliata mi dispiace. Preferisco i cani, infatti ne ho già uno”
“ah sì?” chiese incuriosito Jason.
“un pastore del Beauce”
Jason emise un fischio di approvazione:
“bella razza”
Castiel sorrise lusingato. Era orgoglioso del suo Demon e chiunque ne facesse un apprezzamento, era ben accolto dal padrone.
“dov’è che hai lo studio? Magari uno di questi giorni te lo porto per un controllo generale” gli propose il rosso.
“volentieri, vieni quando vuoi. Sono all’incrocio tra Grace Boulevard e Book Street”
“vicino alla scuola guida?”
“di fronte” precisò Jason.
Castiel annuì. Quel tizio gli ispirava simpatia e fiducia. Anche se ricordava perfettamente che era per colpa di sua sorella se lui quella settimana si sarebbe esibito davanti a tutta la scuola, per giunta con una canzone imbarazzante, non poteva non ammettere che quel veterinario fosse in gamba. Aveva un modo di fare amichevole e spontaneo, per nulla affettato. Lo ringraziò con un sorriso misurato e, dopo avergli augurato una buona serata, il ragazzo tornò a casa, lasciando a Jason una buona impressione di sè.
 
In macchina, Erin stava tempestando Nathaniel di domande:
“allora? Tua mamma com’è?”
“non adorabile come la tua” replicò il biondo.
“visto quanto impeccabile sei tu, sono convinta che i tuoi genitori sono assolutamente deliziosi”
L’entusiasmo e l’eccitazione della ragazza le impedivano di notare che il fidanzato quella sera era piuttosto teso. Nathaniel fermò la macchina sotto la luce rossa del semaforo e guardò Erin negli occhi:
“senti Erin, sono settimane che devo dirtelo ma ho continuato a rimandare… la verità è che ti ho invitata solo perché loro hanno insistito ma sinceramente non sono entusiasta all’idea che tu li conosca”
Quell’ammissione fu una doccia gelata per la ragazza, talmente fredda da far evaporare all’istante il suo ardente entusiasmo.
“non ho un bel rapporto con loro” continuò Nathaniel “niente a che vedere con quello che hai tu con i tuoi e mi dispiacerebbe che ci rimanessi male per questo”
La mora esitò prima di chiedere, con una certa insicurezza nella voce:
“davvero non vuoi che li conosca?”
Le era impossibile far finta di non esserci rimasta male. Non se l’aspettava una simile affermazione.
“si, ma il problema non sei tu, sono loro” ribadì Nathaniel con serietà. Il biondo si pentì per il modo in cui si era rivolto alla ragazza: era stato fin troppo diretto e schietto, lasciandola turbata e delusa.
La ragazza infatti cominciò a sentirsi insicura e dubbi che prima non l’avevano nemmeno sfiorata, cominciarono a presentarsi tra i suoi pensieri: forse i genitori del biondo non l’avrebbero considerata all’altezza del figlio oppure semplicemente l’avrebbero trovata insignificante.
Nathaniel ingranò la marcia e proseguirono il viaggio in silenzio.
Più si avvicinava verso casa, più il biondo sentiva crescere la tensione mentre Erin continuava a tormentarsi in vista di ciò che sarebbe successo una volta varcata la soglia di casa Daniels.
 
Il ragazzo parcheggiò la Subaru nel vialetto ed Erin scese titubante.
Alzò lo sguardo verso la villa e ne rimase folgorata: l’abitazione si ergeva su tre piani e la facciata era decorata con lesene e bassorilievi. Il ragazzo però le impedì di apprezzare l’architettura dell’edificio e la guidò verso l’ingresso.
Vennero accolti nel salone principale da una signora dall’aria simpatica che Nathaniel chiamò Molly e che li condusse in una stanza dai soffitti altissimi e il mobilio ricercato. Il locale era circondato da ampie porte finestre, aggettanti su un terrazzo dal quale si godeva della panoramica dell’intricato giardino della villa. Due elaborati lampadari pendevano dal soffitto, uno dei quali si trovava esattamente sospeso sopra un bellissimo pianoforte a coda.
“hai una casa pazzesca” gli sussurrò Erin quando Molly li lasciò soli.
“in effetti è un po’ grande” minimizzò lui.
“solo un po’?”
Dopo qualche minuto, la porta della stanza si aprì e fece il suo ingresso una donna dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi. Aveva un fisico minuto, quasi scheletrico e un trucco impeccabile. Entrando nella stanza, aveva diffuso un profumo costosissimo e sorridendo si era avvicinata alla sua giovane ospite.
“suppongo tu sia la famosa Erin” la accolse, tendendole teatralmente il braccio sottile. La ragazza per un attimo rimase incapace di parlare di fronte a tanta artificiosità, poi confermò la sua identità.
“sono la madre di Nathaniel, Ingrid. È un piacere averti come ospite” continuò la donna, dando prova delle sue abilità nelle pubbliche relazioni.
“vi ringrazio per l’invito” riuscì a dire Erin, a disagio per quei modi di fare. Le venne automatico pensare alla madre dei gemelli e mettere in contrasto la spontaneità di quest’ultima con i modi artefatti della signora Daniels.
La donna annuì sorridendo melliflua e spostò l’attenzione sul figlio che la guardava con un certo distacco:
“tua sorella non scende? Non ci si comporta così quando ci sono ospiti”
Prima che Nathaniel potesse aprir bocca, qualcuno mosse il pomello della porta ed Ambra fece il suo ingresso nella sala.
Era passato un mese dall’ultima volta che lei ed Erin si erano viste e la punizione della ragazza stava ormai per scadere. Il suo rientro a scuola sarebbe avvenuto esattamente l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie, nonché giorno del concerto.
“dovresti salutare gli ospiti” la ammonì la madre con severità, spazientendosi per l’eccessivo silenzio della figlia.
Erin guardò la ragazza: aveva un trucco molto delicato, nulla a che spartire con gli eccessi con cui si presentava in classe e indossava un elegante abito lungo di colore blu che le esaltava gli occhi e i capelli chiari. Come unico accessorio, la bionda si era concessa una fila di bracciali d’argento e aveva raccolto i capelli verso l’alto. Che Ambra fosse una bella ragazza, Erin l’aveva sempre pensato, ma quella sera era assolutamente magnifica. Senza le sue extension e gli strati di fondotinta, la ragazza risultava più naturale e per questo più attraente.
“piacere di rivederti Erin” commentò secca Ambra, senza guardarla in viso. Quel modo di fare, così impostato, corrispondeva all’etichetta e, come ogni ragazza dell’alta società, la bionda si sedette educatamente sul divano, accavallando elegantemente le lunghe gambe. Per la sua ospite era strano vederla così remissiva e posata. Non aveva di fronte la sua nemica dallo sguardo fiero e combattivo. Ambra non prestava attenzione alle persone presenti nella stanza e si era chiusa nei suoi pensieri.
“come stai?” le chiese Erin.
Quella domanda banalissima spiazzò Ambra.
Solo Molly era così premurosa da chiederglielo e sentire la sua ospite interessarsi a lei, la disorientò. Non sembrava una domanda formulata per cortesia. Lei avrebbe ascoltato la risposta.
“bene” rispose.
“mi fa piacere” replicò a sua volta la mora, sentendo la situazione farsi sempre più pesante.
Non era abituata a quei silenzi. A casa sua era tutto uno schiamazzo, un’allegria continua, specie quando c’era Sophia. Allontanò prontamente il ricordo della sorella e tornò a concentrarsi sui Daniels.
Fortunatamente subentrò Molly annunciando l’arrivo del padrone di casa. Dopo qualche secondo infatti, entrò un uomo non troppo alto ma dai lineamenti marcati e mascolini. A quel punto per Erin fu lampante osservare che i due fratelli avevano preso i loro lineamenti delicati dalla madre.
L’uomo aveva un passo deciso e teneva il capo dritto, guardando davanti a sé e vedendolo camminare, Erin capì che anche lui, in fondo, aveva trasmesso qualcosa alla sua discendenza, in particolare ad Ambra: gli occhi di Gustave Daniels tradivano una mente attenta e sveglia, come quelli della figlia, e il passo fiero e orgoglioso, era lo stesso di Ambra:
“Erin, devo supporre” le disse, allungandole la mano.
La ragazza annuì, sentendosi ancor più in soggezione. Era una mano morbida, di una persona estranea ai lavori manuali ma che occupa una posizione di prestigio e di superiorità, posizione sottolineata da una stretta vigorosa. Erin sentì le spalle irrigidirsi per la tensione così Nathaniel le accarezzò leggermente la schiena, tranquillizzandola un po’.
“piacere” ingoiò la ragazza, guardando timidamente il padre del suo ragazzo. Gustave rivolse poi un cenno al figlio e alla figlia e, solo per ultima, alla moglie. Si scusò per il ritardo e invitò i quattro a seguirlo nel salone in cui avrebbero cenato.
Guidata dai padroni di casa, Erin si ritrovò in una sala ancor più maestosa di quella che si era lasciata alle spalle: al centro della stanza dominava un bel tavolo in legno massiccio e lungo una parete opposta a quella con le finestre, era appeso un quadro enorme di un pittore rinascimentale italiano.
Su un’altra parete era inserito un magnifico camino che riscaldava l’ambiente e i soffitti erano decorati con degli affreschi. Tuttavia, nonostante la presenza del fuoco, Erin percepiva un’atmosfera gelida attorno a sé.
Si accomodò accanto a Nathaniel, mentre Ambra era davanti a lei dall’altro capo della tavola. Alla destra della mora c’era Gustave, prevedibilmente seduto a capo tavola, mentre la moglie lo fronteggiava dal lato opposto.
“i tuoi genitori Erin di cosa si occupano?” chiese Gustave educatamente, sorseggiando del vino rosso d’annata.
“mia madre è psicologa, mentre mio padre lavora come istruttore di nuoto”
Gustave annuì senza aggiungere altro mentre il figlio gli lanciava un’occhiata severa. Non era difficile intuire cosa passasse per la testa del genitore, così il biondo si premurò di aggiungere:
“i genitori di Erin sono molto in gamba. Sono stati a Morristown tre settimane fa”
“lo so” gli ricordò il padre “è anche per questo che ci tenevo a conoscere la tua ragazza Nathaniel. Sono contento di vedere che sia così carina”
Erin arrossì e guardò di sottecchi il ragazzo che però non sembrava essersi rilassato dopo quella lusinga. Sin da quando erano entrati i genitori, il ragazzo si era irrigidito ancor di più, assumendo un’espressione seria in cui Erin a stento lo riconosceva. Il suo Nathaniel raramente si dimostrava ostile verso gli altri e la ragazza era rimasta spiazzata nel constatare che fosse proprio la presenza dei genitori a farlo reagire in quel modo.
“Nathaniel dice che hai ottimi voti” s’intromise Ingrid affettando la carne.
“beh, per la verità ottimi solo in biologia e chimica” si imbarazzò Erin. Il suo rendimento scolastico, paragonato a quello di Nathaniel ed Ambr,a non era affatto invidiabile.
“e in matematica come te la cavi?” chiese Gustave.
“non è il mio forte” ammise la ragazza sempre più a disagio.
Anche se i due adulti le rivolgevano quelle domande con un tono neutro, lei non potè fare a meno di sentirsi sempre più in difficoltà e soprattutto, sotto esame.
“Nathaniel invece non può permettersi di trascurarla” commentò il padrone di casa tra sé e sé, ma era evidente che quell’affermazione fosse un messaggio diretto al figlio.
Erin non seppe come replicare e, nel tentativo di scaricare un po’ la tensione, spostò lo sguardo verso Ambra. Quest’ultima non aveva aperto bocca da quando si erano seduti e continuava a mangiare in silenzio. Sembrava totalmente disinteressata alla conversazione, come se in quella stanza non ci fosse nessun altro a parte lei. 
“tu Erin ci capisci qualcosa di computer?” le chiese d’un tratto Gustave, cogliendo Erin di sorpresa.
Nathaniel si irrigidì e deglutì a fatica.
“computer?” ripetè la ragazza, come se avesse sentito una parola estranea al suo patrimonio linguistico.
“lo sai vero che la nostra famiglia è nel settore dell’informatica?” chiese retorico l’uomo.
“non vedo come questo dovrebbe interessare Erin” tagliò corto Nathaniel, evidentemente scocciato.
“è la tua ragazza, non vedo perché non dovrebbe cominciare a pensare al suo futuro con te” spiegò Ingrid.
Erin sentì irrigidirsi tutta la muscolatura: era un fascio di nervi. Lei e Nathaniel stavano assieme da esattamente cinque settimane, parlare già di un futuro insieme era troppo avventato e imprevisto.
“stanno insieme da poco papà. Lascia che vivano la loro storia in pace”
Erin alzò lo sguardo verso la ragazza seduta davanti a lei. Era stata proprio Ambra a parlare e, inspiegabilmente, aveva preso le sue difese.
“invece dovresti darti una mossa anche tu Ambra e trovarti un ragazzo come si deve” la rimproverò la madre, approfittando di quell’occasione per conversare con la silenziosa figlia “altro che quell’assurda infatuazione per quel tizio… come si chiama?” domandò canzonatoria guardando il marito “Evans?”
A quelle parole, Ambra scattò in piedi, fissando la madre con astio mentre Erin la guardava sbigottita.
C’erano solo due ragazzi di sua conoscenza che avevano quel cognome e uno dei due aveva il fratello gay.
“mi è passata la fame” commentò secca la bionda.
“Ambra siediti e tu Ingrid vedi di non ricominciare. Nostra figlia non è così sciocca da fare scelte così sbagliate” la liquidò Gustave.
Erin alternava lo sguardo tra la coppia di adulti sentendosi sempre più disorientata. Erano così freddi, artefatti, ipocriti. Dietro i loro sorrisi, si celava una mente spietata e calcolatrice.
“sono solo preoccupata per il futuro di nostra figlia Gus. Non ha nessun futuro con un nerd fallito” concluse Ingrid, pulendosi educatamente la bocca con il tovagliolo.
I sospetti di Erin avevano appena trovato conferma: Ambra era innamorata di Armin.
La bionda, che nonostante l’invito del padre era rimasta in piedi, intercettò l’espressione dell’ospite. A quel punto anche la ragazza aveva sicuramente capito di chi stavano parlando. Ambra si morse il labbro e uscì dalla stanza, mentre il padre la richiamava alzando la voce, irritato:
“AMBRA! Torna subito qui!”
La ragazza però avanzò fiera, senza voltarsi indietro e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Erin trovava tutta quella scena assurda ma se non altro ora capiva tanti comportamenti di Ambra.
Sentì montarle una tale rabbia verso i genitori della bionda, che questa volta toccò a lei scattare in piedi:
“non ti senti bene?” le chiese Ingrid stupidamente.
“Armin è un ragazzo molto in gamba” affermò decisa la ragazza, difendendo il suo amico. Non osava guardare i due adulti in faccia e teneva gli occhi puntati contro il proprio piatto “scusatemi, ma preferisco andare da Ambra. Continuate pure senza di me”
Nathaniel fece per alzarsi ma Erin lo bloccò. Aveva bisogno di stare da sola con la sorella.
 
Uscì dal salone e, appena abbandonò quell’ambiente, si sentì incredibilmente più leggera. Cominciò a spostarsi per quel labirinto rivestito di arazzi e dai soffitti infiniti alla ricerca di Ambra, sentendosi sempre più disorientata. Per sua fortuna, trovò Molly, la donna che l’aveva accolta all’entrata.
“mi scusi signora Molly, ha visto Ambra?”
Il sorriso gentile e sincero della governante, rasserenò Erin che cominciò a seguirla. La donna la guidò fino all’esterno, indicando una fontana di pietra. Dopo aver recuperato il proprio cappotto e ringraziato la donna, la ragazza si avvicinò e vide che la bionda era seduta sulla fredda roccia.  
“non voglio la tua pietà Travis” dichiarò la bionda non appena si accorse dell’intrusa.
“non ti ho seguita per compatirti”
“allora che vuoi?”
“parlare con te”
“e di cosa vuoi parlare? Di Armin? Beh ora lo sai! Sfotti pure, questa volta ce l’hai tu il coltello dalla parte del manico!” la sfidò Ambra guardandola negli occhi che Erin notò che erano bagnati dalle lacrime.
Era la prima volta in vita sua che vedeva quel volto rigarsi di quel liquido salato.
“non lo dirò a nessuno” promise la mora “solo che mi sorprende che tu…”
“mi sia innamorata di lui?” completò Ambra “la verità è che tu non mi conosci Travis. Non sai un cazzo di me!”
Erin non si scompose e replicò:
“è per questo che vorrei conoscerti” ammise “per come sei realmente” precisò infine.
Dopo un mese di lontananza, rivedere Ambra così afflitta e sola, aveva turbato profondamente Erin. Per quanto in passato avesse detestato quella ragazza, ora non poteva fare a meno di interessarsi a lei.
La bionda, dal canto suo, la guardava diffidente. A parte Molly, nessuno l’aveva mai vista così fragile e vulnerabile e si detestava per essere crollata di fronte alla ragazza che aveva odiato sin dall’inizio.
La sua situazione non poteva essere più patetica di così: farsi consolare dalla sua nemica giurata.
Una ranocchia piccolina saltellò sulla ninfea della fontana e osservandola, Erin ridacchiò:
“pensavo avessi paura delle rane”
Aveva imparato da Castiel, che in alcuni casi, il modo migliore per consolare una persona era la provocazione.
Ambra infatti, ricordando lo scherzo della gita, sorrise beffarda:
“devo ammettere Travis che sei stata un osso duro” mormorò asciugandosi sbrigativamente le lacrime “mai avuto un anno più movimentato da quando ti conosco” ammise, grata per quel cambio di argomento.
“posso dire lo stesso di te Ambra. La verità è che in queste settimane mi è mancata la tua dolcezza” scherzò Erin, trovando posto accanto a lei. La bionda ridacchiò, sorprendendo la mora per quanto potesse risultare più graziosa quando sorrideva in modo così naturale.
Dopo qualche secondo di silenzio, Ambra parlò:
“allora? Cosa ne pensi di questo castello di fiaba il cui re e la regina sono in realtà i due mostri che tengono prigionieri i suoi abitanti?” domandò sarcastica indicando la propria villa.
“i tuoi non sono dei mostri…”e  Ambra stava per obiettare “…di simpatia” completò Erin sorridendo.
“dì pure che sono due stronzi” la liquidò la padrona di casa senza mezzi termini “fanno un sacco di pressione a Nathaniel affinché si prenda sulle spalle l’azienda di famiglia mentre io sono la povera idiota che non ha cervello e l’unica mia fonte di successo, sarà sposare un uomo facoltoso” riassunse la bionda.
“ma hai mai provato a spiegargli come ti senti?”
“oh sì, e l’ultima volta che l’ho fatto mi sono ritrovata una lametta tra le mani” ridacchiò amara.
Erin la guardò con serietà e replicò:
“stai parlando seriamente? Non scherzare su una cosa del genere… è una cosa seria”
Ambra la fissò negli occhi, con una perplessità che ad Erin sembrò esagerata. Dopo qualche istante, la bionda commentò tra sé e sé:
“le sue stesse parole”
La sua interlocutrice le restituì un’occhiata confusa mentre Ambra scosse il capo:
“no, non sto scherzando Erin. Un anno fa ho davvero provato a suicidarmi” dichiarò, senza osare indagare l’espressione di Erin dopo quella confessione “avevo cominciato un anno prima a tagliarmi i polsi, così, solo per provare qualcosa che mi impedisse di pensare a quanto miserabile fosse la mia esistenza… o forse era solo un modo per provare qualcosa di diverso da quella costante apatia a cui sei costretta quando vivi una vita senza affetti… ti ho sempre invidiata sai? Sin dai primi giorni in cui sei arrivata a scuola, sei riuscita a farti degli amici, quando io, in anni, ero riuscita solo a circondarmi di due ragazze che sfruttavano la mia popolarità a beneficio della propria”
Un flash back si presentò istantaneo nella mente della mora. Era uno dei primi giorni di scuola, quando ancora lei, Iris e Violet pranzavano da sole. Lei si stava lamentando dell’accanimento di Ambra nei suoi confronti:
 
“[…] ad Ambra non manca nulla per essere felice
ma non ha amici” obiettò Violet zittendo le due amiche
 (N.d.A capitolo 6)
 
In quell’occasione né lei né Iris avevano dato retta alle parole dell’artista, reputando la sua opinione improbabile. A distanza di un mese invece, Erin aveva scoperto che Violet non si era sbagliata.
Questa consapevolezza la spiazzò: e se avesse avuto ragione anche sulla sua relazione con Nathaniel? Cercò di tranquillizzarsi, pensando che comunque la ragazza alla fine aveva ammesso che lei e il biondo erano carini insieme. Con il senno di poi però non le sembrò un granchè come riconoscimento, ma prima che la sua mente potesse arrovellarsi in ulteriori riflessioni, Ambra continuò:
“comunque sia, un giorno, mentre ero in bagno, la lametta è penetrata più in profondità… troppo in profondità. Ricordo di aver visto il sangue uscire in modo più abbondante del solito eppure rimasi lì, ad osservarlo senza reagire. Era come se quel corpo ferito non fosse il mio. Ti sembrerà strano, ma ancora adesso mi chiedo se l’aver premuto così a fondo la lama sia stata un incidente oppure no. Non pensavo al suicidio ma quando ho visto quel sangue uscire, mi sono detta che in fondo non stavo rinunciando a nulla. Nessuno avrebbe pianto la mia scomparsa… ma in quel momento stavo dimenticando l’unica persona a cui davvero importava di me: Molly entrò in bagno e mi soccorse all’istante. Aveva notato il mio strano comportamento dell’ultimo periodo e faceva l’impossibile per non lasciarmi sola”
Erin deglutì a fatica sentendo la gola farsi sempre più secca, mentre Ambra continuava a raccontare:
“poi c’è stata la svolta: mi sono innamorata di Armin, sin dalla prima volta che mi ha parlato” e il ricordo del loro primo incontro addolcì il volto di Ambra, che custodì gelosamente per sé quell’episodio “per avere una qualche chance con lui e potergli parlare ancora, ho cercato di avvicinarmi al suo mondo, quello dei videogiochi e, sorprendentemente, ho finito per appassionarmene!” ammise ridacchiando “del resto nella realtà virtuale potevo essere chiunque ma più che altro, potevo non essere quella ragazza forte e prepotente dalla quale non riuscivo più a liberarmi. Recitare la parte della stronza era una difesa: nessuno mi poteva umiliare e francamente per questo già bastava mia madre. Nessuno, a parte Molly, pensava che ci fosse dell’altro dietro quella ragazza così odiosa. Ovviamente a quel punto non avevo nessuna chance con Armin e tanto valeva portare fino in fondo quella commedia. Dopo che mio fratello e Castiel litigarono, finsi di essermi infatuata di quest’ultimo, solo per provocare Nathaniel”
“io ero convinta che ti piacesse” affermò Erin con convinzione.
“oh andiamo! Quello sbruffone può piacere solo a una come te” replicò stizzita la bionda.
“io sto con tuo fratello!”
Ambra sorrise divertita e commentò:
“avresti dovuto rispondere che sei innamorata di Nathaniel. Il fatto che tu ci stia assieme non significa nulla”
La mora rimase spiazzata ma la sua interlocutrice non sembrava intenzionata a soffermarsi su quell’argomento.
“a forza di fingere, ho finito per perdere di vista me stessa: a scuola ero Ambra Daniels la stronza, a casa Hydra_Silently”
“Hydra Silently?” ripetè Erin dubbiosa.
“è l’anagramma di Lady Slytherin (N.d.A Lady Serpeverde). Era il nickname che usavo quando entravo in un gioco chiamato The Owl. Pensavo che nessuno se ne sarebbe accorto e invece…”
“e invece?”
“invece un’utente riuscì a scoprire l’anagramma che si celava dietro Hydra Silently. Conobbi così Ravenclaw11 (N.d.A. Corvonero11). Da lì, un messaggio ha cominciato a tirare l’altro. I primi erano relativi al gioco, poi però abbiamo cominciato vere e proprie chat. Ho scoperto che dall’altra parte dello schermo stavo parlando con una ragazza e con lei pian piano mi sono aperta. Aveva un modo di scrivere, così spontaneo, allegro che con il tempo finii per affezionarmene. Pensa che smisi di tagliarmi i polsi solo perché così era più semplice per me digitare la tastiera. Le raccontai di me, della mia famiglia e lei mi aiutò ad uscire da quel periodo così buio della mia vita… anche se non l’ho mai conosciuta di persona, la considero tutt’ora la mia migliore amica, l’unica che abbia mai avuto”
Presa dalla narrazione, Ambra non si era accorta del mutismo di Erin.
“è buffo che ci siamo dette tutto, a lei ho raccontato cose che nessun altro sa eppure non saprei rintracciarla perché l’unica cosa che so di lei è il nome”
“si chiamava Sophia” mormorò Erin, come in trance.
Ambra voltò meccanicamente il capo verso la sua interlocutrice che in quel momento teneva lo sguardo fisso verso il suolo:
“e tu come lo sai?” indagò inquieta.
“Sophia è mia sorella”
Ambra scattò in piedi.
CHE COSA?” strillò incredula. Sentì il cuore martellarle in petto per l’agitazione e lo shock.
“sì… lei giocava spesso a The Owl sotto lo pseudonimo di Ravenclaw11. Per la verità non so altro, Sophia è una persona molto riservata non mi ha mai parlato di Hydra Silently” chiarì Erin.
Ambra era rimasta senza parole.
Aveva appena scoperto di aver aperto il suo cuore alla sorella della sua nemica. O per lo meno alla sorella di una ragazza che considerava sua nemica fino a poche settimane prima. Sophia però non aveva tradito le sue confessioni, tenendole per sé ed evitando di condividerle con Erin. Questo riserbo era un’ulteriore conferma di quanto quella ragazza fosse così preziosa e unica.  
“dov’è ora?! È sparita dal gioco e non sono più riuscita a rintracciarla!” esclamò Ambra appoggiando violentemente le mani sulle spalle della ragazza “ti prego Erin… ho bisogno di trovarla” la supplicò, guardandola intensamente negli occhi.
“anche io” commentò lei amaramente, distogliendo lo sguardo.
Ambra si zittì, allontanando quel contatto. Fissava la ragazza davanti a lei con un’espressione confusa finché questa le rivelò:
“Sophia è scappata di casa”
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Requiem for a dream ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin è invitata a cena a casa Daniels, anche se prima di entrare, Nathaniel le confessa di non essere entusiasta per quella serata, innescando nella ragazza una serie di dubbi e preoccupazioni. Una volta conosciuta la famiglia, Erin rimane sconvolta nel constatare quanto i genitori del ragazzo siano freddi e meschini, specie verso Ambra che la madre umilia davanti all’ospite, deridendola per la sua infatuazione per Armin. Offesa dalle parole della madre, la bionda abbandona il tavolo della cena e viene raggiunta poco dopo da Erin. Dopo un’iniziale resistenza, Ambra racconta alla ragazza la verità dietro il suo carattere odioso: ferire è un modo per non essere feriti. In passato ha affrontato un momento difficile dalla quale è uscita grazie ad una ragazza conosciuta tramite un videogioco: Ravenclaw11. Tra le due nasce una bella amicizia ed Erin, sconvolta per le parole di Ambra, le racconta che quella è sua sorella Sophia. Quando Ambra le chiede di rintracciarla, la mora le confessa che la ragazza è scappata di casa.
 





 
CAPITOLO 28:
REQUIEM FOR A DREAM


“scappata di casa?” ripetè Ambra incredula.
Erin annuì in silenzio. Intorno a loro era piombato il silenzio più totale. Deglutì a fatica, preparandosi a raccontare una storia che nessuno a Morristown aveva ancora sentito.
quattro mesi fa, io e Sophia eravamo uscite insieme. Era un venerdì sera e avevamo un po’ bevuto. Nonostante questo, ci siamo messe in macchina, Sophia era alla guida. Ti sarà facile prevedere l’epilogo: non ha rispettato una precedenza ed io mi sono vista arrivare una macchina dal mio lato. È successo tutto in un attimo. Ricordo vagamente il sangue, Sophia al telefono, mia madre che arriva poco dopo, le luci dell’ambulanza…poi persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai di fronte il viso di due estranei che si presentarono come i miei genitori. Di fronte al mio disorientamento, sono stata subito sottoposta a un esame e mi diagnosticarono un’amnesia retrograda post traumatica.
I medici rassicurarono i miei, dicendo di non preoccuparsi e che, stimolandomi con delicatezza a ricordare, avrei recuperato la memoria. Così è stato, e a distanza di nove giorni dall’incidente, ho riesumato il ricordo dei miei genitori, dei miei amici e di mia sorella… la quale, in nove giorni di ospedale, non avevo mai visto. Quando chiesi che fine avesse fatto Sophia, mia madre mi spiegò che era uscita quasi illesa dall’incidente e che li aveva convinti a lasciarla sola: aveva bisogno di stare lontana da tutti… di stare lontana da me. Il senso di colpa per quello che era successo la stava divorando” spiegò Erin sentendo le lacrime offuscarle la vista “non ho più rivisto mia sorella dal giorno dell’incidente… ho cercato in tutti i modi di mettermi in contatto con lei ma non c’è stato verso. Con il passare dei giorni ero io quella che si sentiva in colpa: ero stata io a insistere perché guidasse lei, anche se era la più ubriaca delle due… e tutto perché quella sera avevo messo i tacchi… e poi eravamo a pochi chilometri da casa” ricordò avvilita “Sophia chiamava i miei quando io non c’ero, e se provavo a parlarle, riattaccava…  se mi lasciasse parlarle, le spiegherei che non deve sentirsi in colpa, che ho solo bisogno di lei… di averla accanto. Ma non c’è modo per me di avvicinarla. I miei genitori non sanno dove sia ma visto che lei li chiama con regolarità, per ora accettano la sua decisione… del resto con Sophia è così, non è una a cui si può imporre qualcosa. Visto che con me non vuole parlare, ho detto a mia madre di spiegarle che non ce l’ho con lei, ma non è servito a nulla. Semplicemente mia sorella, ora come ora, vuole starmi lontana… e io non riesco ancora ad accettarlo.
Cominciai a chiudermi in me stessa, trascurando le amicizie. Una mattina, indossai per errore una maglietta di Sophia e, guardandomi allo specchio, per un attimo pensai di averla davanti. Del resto siamo gemelle sai? Da quella volta ho realizzato che, anche se non potevo averla accanto, lei poteva in qualche modo rivivere in me, bastava solo fare finta di essere lei”
Ambra non aveva fiatato. Lasciò che Erin, la ragazza che un tempo aveva deriso per il look da maschiaccio, le vomitasse addosso tutta quella verità.
“per il mio bene, circa un paio di mesi fa, i miei riuscirono a convincermi a trasferirmi da mia zia Pam, cambiare aria mi avrebbe fatto bene… e devo ammettere che avevano ragione. Qui ho conosciuto tante persone che sono diventate importanti per me ma, a parte Castiel, nessuno sa dell’esistenza di Sophia. Qualche settimana fa stavo per raccontare tutto ad Iris, ma poi mi sono trattenuta e da lì non ho più tentato di aprirmi con nessuno. Mi fa ancora troppo male. Io non ho nessun diritto di essere felice mentre mia sorella è lontana, dilaniata dai sensi di colpa. Non riesco quasi neanche più a cantare perché ogni canzone, ogni testo mi ricorda lei” gemette, ormai incapace di aggiunge altro. Del resto non c’era niente dipiù da dire.
Le sue spalle s’incurvarono in avanti e le lacrime abbondanti, sembravano gravare ancora di più su quel viso così bello. Erin non riusciva a riprendersi dalla tristezza che le aveva invaso il corpo.
Quel pianto era irrefrenabile.
Improvvisamente, sentì un tocco delicato cingerle le spalle.
Ambra avvicinò il capo, posandolo dolcemente contro quello di Erin e rimase ad ascoltare quei singhiozzi che cercava disperatamente di trattenere.
   

Le due ragazze non seppero quantificare il tempo trascorso avvolte in quell’abbraccio. L’ultima ragazza a cui Erin avrebbe mai pensato di raccontare la sua storia, era lì accanto a lei e, con grande rispetto e tatto, la stava consolando. In quel momento entrambe pensavano alla stessa persona e a quanto fosse importante per loro.
“vedrai che tornerà” sussurrò finalmente Ambra con dolcezza.
Erin inspirò rumorosamente e si asciugò le lacrime.
“grazie” mormorò, sorridendo a fatica.
Dopo un attimo di esitazione la bionda si staccò e commentò secca:
“questa cosa rimane tra me e te Travis”
La mora, dapprima un po’ perplessa per quel cambio di atmosfera, ridacchiò leggermente, mormorando:
“non sia mai che gli altri sappiano che sei una bella persona”
Ambra sorrise e alzò lo sguardo verso la notte buia.
Era il momento della giornata che più adorava: il manto nero del cielo in cui si stagliavano piccoli punti luce chiamati stelle. La razionalità della scienza li definiva enormi masse di gas che bruciano nello spazio, ma per lei erano semplicemente degli incantevoli nei luminosi.
Abbassò poi il capo e scrutò le luci della sala da pranzo dove i suoi familiari stavano ultimando la cena:
“mio fratello è un bravo ragazzo. Mi dispiace solo che non abbia le palle per opporsi a mio padre”
Erin nel frattempo era riuscita a darsi un contegno e recuperare un po’ di serenità:
“perché dici così?”
“Nath sin da piccolo è sempre stato caricato di grandi responsabilità, in previsione del fatto che avrebbe ereditato la società di famiglia, ma questo ha soffocato ogni sua ambizione”
“compresa la musica?”
“te ne ha parlato?”
“in realtà no. È molto suscettibile sull’argomento” specificò Erin, dispiacendosi del fatto che più volte avesse tentato, inutilmente, di capire cosa fosse realmente successo al ragazzo prima che si conoscessero.
“ci credo. È stato alla base della separazione dal suo migliore amico” raccontò Ambra “lui e Castiel erano come fratelli… sapessi quanto li ho invidiati” ammise “non capivo come facessero ad andare così d’accordo, ma del resto credo che nessuno lo sapesse tranne loro due”
“Castiel è convinto che Nath si sia fatto la sua ragazza” puntualizzò Erin, desiderosa di chiarire la questione una volta per tutte.
“e secondo te? Qual è la verità?”
“Nathaniel non può averlo fatto” asserì la ragazza con decisione.
“risposta corretta. Ho conosciuto Debrah solo in un paio di occasioni ma non ci vuole molto per inquadrare un simile personaggio. Era una ragazza subdola, calcolatrice…quel tipo di persona che non puoi mai sapere cosa pensi. Quando mio fratello è stato avvicinato da quel discografico, ricordo che lei si era precipitata a casa mia ed è riuscita a convincerlo a tenere Castiel all’oscuro di tutto. Nath insisteva per dirglielo a lui e al resto della band, ma lei riuscì a manipolarlo convincendolo a starsene zitto e intanto perorare la sua causa”
“e tu non hai fatto nulla?” la accusò Erin con tono fermo. Fosse stato per lei, si sarebbe intromessa senza tanti scrupoli. Non sarebbe rimasta a guardare mentre una simile arpia rovinava i rapporti d’amicizia del fratello.
“non dovevo neanche essere a conoscenza di questa conversazione… quella volta ho origliato. Inoltre con mio fratello non c’è mai stato quel rapporto di complicità e aiuto reciproco. Nath quindi non avrebbe tollerato una mia intromissione che tra l’altro, dopo anni di reciproca indifferenza, sarebbe risultata fuori luogo. Comunque…” continuò Ambra “com’era inevitabile, Castiel scoprì la verità e montò su tutte le furie. La difesa di Nathaniel fu alquanto debole ma prima o poi si sarebbero riappacificati, era chiaro… e questo lo sapeva anche Debrah.
Credo che si fosse montata la testa per mio fratello: ora che aveva un contratto, aveva un fascino tutto suo, il fascino del successo ma lei stava con Castiel e il modo più rapido per lasciarlo e sperare che mio fratello si mettesse con lei, era isolarlo dai suoi amici, far passare Nathaniel dalla parte del torto. Così raccontò a Castiel che lei e Nath avevano fatto sesso e, capirai, una cosa del genere non si può perdonare, specie se ti chiami Castiel Black e hai scritto in fronte orgoglio al 100%. Mio fratello si trovò così da solo, persino Alexy e Rosalya all’inizio si allontanarono da lui perché entrambi avevano insistito affinché raccontasse anche agli altri la storia del cd. Lui non li ascoltò e Castiel se la prese anche con loro per non aver parlato, quando in realtà sono d’accordo con quei due, toccava a mio fratello affrontare l’argomento.
Il cosiddetto club dei disadattati, che tutta la scuola ammirava e invidiava per l’amicizia dei suoi membri, si disintegrò all’istante.
Nathaniel si trovò così isolato: aveva solo Debrah al suo fianco e la prospettiva di sfondare nel mondo della musica. Prospettiva però che non si concretizzò in realtà”
Erin aggrottò le sopracciglia. Quello era un pezzo mancante della storia di cui nemmeno Castiel era a conoscenza. Dopo aver tagliato i ponti con il suo migliore amico, non aveva voluto sapere che fine avesse fatto la sua carriera da solista.
“il disco venne distribuito sul mercato, ma nonostante la dispendiosa campagna pubblicitaria, non ebbe un quinto del successo sperato. Le radio si rifiutarono di trasmetterlo come pure i negozi di dischi di acquistarlo. Già dopo due mesi, la casa discografica annunciò a mio fratello che poteva fare i bagagli ed andarsene. Non aveva futuro come artista musicale”
Erin era rimasta sconvolta.
Quell’epilogo così miserabile le spiegava molte cose, come l’amarezza che era scaturita dagli occhi del ragazzo la prima volta che aveva parlato della musica.
“e non hai sentito la parte migliore” aggiunse Ambra, sorridendo sarcastica, smorfia che poi divenne puro disprezzo “una volta che comunicò a mio padre il fallimento della sua iniziativa, lui non si scompose. Non ci aveva mai creduto e anzi era l’epilogo che si aspettava.
Due settimane dopo esser stato liquidato, Nathaniel, a mente fredda, realizzò che quell’accanimento nei suoi confronti non aveva nessun senso così cominciò a fare delle ricerche e ciò che scoprì lo segnò profondamente”
“cosa ha scoperto?”
Nonostante avesse formulato lei stessa quella domanda, Erin temeva di scoprirne la risposta.
“che mio padre, dall’alto del suo potere economico, aveva corrotto ogni negozio della zona, ogni stazione radio affinché non acquistassero o trasmettessero l’album di suo figlio”
Erin aveva sgranato gli occhi e spalancato la bocca, incapace di commentare mentre la bionda continuava:
“prova anche solo a immaginare come ci si possa sentire sapendo che tuo padre ha pagato per non farti realizzare i tuoi sogni”
Non era necessario che Ambra aggiungesse quella riflessione: la sua interlocutrice aveva colto perfettamente cosa avesse significato per il biondo.
Erin ripensò ad una conversazione avuta settimane prima, quando lei e il ragazzo avevano soccorso un gatto abbandonato:
 
“i gatti sono così indipendenti” commentò Erin.
“e liberi da condizionamenti” aggiunse Nathaniel. La nota malinconica non sfuggì ad Erin che spostò lo sguardo verso il ragazzo. Il biondo osservava ora l’animale con aria pensierosa e triste.
“c’è qualcosa di personale in questa osservazione?” gli chiese d’un tratto. Il biondo esaminò la mora con la coda dell’occhio e sospirò debolmente, quasi rassegnato da una verità che non poteva essere negata.
Si rimise in piedi mentre Erin continuava a fissarlo dal basso verso l’alto, rimanendo accucciata all’altezza del micio.
“non è facile essere il primogenito di una famiglia come la mia”
“è molto ricca?”
Erin si pentì istantaneamente di quella domanda. La risposta era talmente ovvia da farla passare per una stupida. Ambra che veniva a scuola in Rolls Royce vestita con abiti che probabilmente costavano quanto un mese di affitto dell’appartamento della zia, aveva extension di capelli naturali… come indizi circa lo status economico dei Daniels non erano poi così oscuri.
“più che altro la vera questione è come tenere in piedi l’intero capitale. Un giorno toccherà a me gestirlo e per poterlo fare al meglio mio padre si aspetti che io faccia delle cose… e che non ne faccia delle altre”
“per esempio?”
La ragazza si sentiva intraprendente e coraggiosa. Piano piano avrebbe cominciato a scavare nella personalità del ragazzo, conoscerne la storia. Non doveva avere fretta e fargli pressioni. Voleva che il ragazzo cominciasse ad aprirsi a lei, a raccontarle qualcosa di sé.
Sulle labbra di Nathaniel si disegnò un sorriso triste:
“musica”
“ti piacerebbe suonare?” indagò Erin. La sua mente cominciò a macchinare freneticamente. Pensava ai venerdì sera a scuola dove Castiel e Lysandre si ritrovavano per le prove. In qualche modo la musica poteva essere la chiave per ricucire un’amicizia che si era strappata.
“ormai ci ho rinunciato” commentò Nathaniel frugandosi nelle tasche.

 
(tratto dal capitolo 13 – Due contro due, N.d.A)
 
Ora ogni cosa aveva un suo perché. Capiva perché Nathaniel fosse tanto amareggiato quando si parlava del suo passato come musicista, perché si fosse infuriato con lei quando l’aveva accusato di aver davvero tradito Castiel.
“e Debrah?” mormorò Erin avvilita.
“quando, nonostante tuti i suoi sforzi, realizzò che Nathaniel non l’avrebbe mai amata, Debrah sparì, insieme alla speranza di mio fratello di diventare una star della musica”
Così Nathaniel si era davvero ritrovato solo. Chissà quanto doveva essere stato duro per lui quel periodo.
Castiel gli aveva vomitato addosso tutto il suo disprezzo, ma ignorava quanto il suo avesse sofferto a sua volta. Erin sentì una grande pena per Nathaniel e non potè fare a meno di chiedersi come facesse a tenersi tutto dentro.
Poi considerò il proprio atteggiamento verso Sophia e capì che, analogamente a lei che non parlava della sorella per non soffrire, Nathaniel non voleva condividere con altri quella storia, così da non riesumare un episodio che l’aveva ferito in modo irreparabile il suo cuore.
Per la prima volta, Erin si rese conto di quanto lei e il suo ragazzo fossero simili. Reagivano allo stesso modo alle batoste della vita, chiudendosi in sé stessi, con la differenza che lei aveva scoperto in Castiel una persona con cui aprirsi.
“cominciavo a darti per dispersa” la destò una voce dolce che apparteneva alla persona a cui stava pensando in quel momento. Alzò lo sguardo e vide Nathaniel venirle incontro sorridendo. Quell’espressione la fece sentire più sollevata, chiedendosi cosa fosse accaduto mentre lei parlava con Ambra.
Quest’ultima, non appena il fratello aveva rivelato la sua presenza, si era alzata dalla fontana. Avanzò di qualche passo ma poi si fermò e si voltò un attimo verso Erin:
“comunque Travis, grazie per gli appunti”
La compagna di classe rimase senza parole e cercò gli occhi di Nathaniel. Anche lui però sembrava condividere la sua perplessità. Non aveva rivelato alla sorella la fonte del materiale scolastico che le recapitava puntualmente a casa.
“come hai capito che ero io? Dalla pessima scrittura?” ridacchiò la mora, grattandosi la guancia e ancora scioccata dal fatto che Ambra l’avesse ringraziata.
“no” sorrise Ambra “dal fatto che gli esercizi più impossibili della Joplin erano tutti completati prima della correzione in classe”
Dopo aver pronunciato quelle parole, la ragazza era tornata a darle le spalle e si era allontanata, dirigendosi verso la villa.
Nathaniel si sedette accanto alla sua ragazza, accarezzandole delicatamente le nocche della mano:
“mi dispiace per questa serata Erin, non poteva andare peggio” sospirò amareggiato.
“non è colpa tua”
Il biondo sorrise debolmente e lei intuì che dietro quella smorfia, in parte c’era del sollievo. Sollievo per una serata finalmente conclusa:
“senti, che ne dici se ce ne andiamo da qualche parte? Non mi va di restare qui” le propose infatti il ragazzo. Erin annuì e, stringendogli la mano, lo seguì verso l’interno della casa.
 
Ambra salì le scale del salone ed entrò nella sua stanza. Accese il PC e nel frattempo guardò fuori dalla finestra: vide Nathaniel ed Erin scendere nel vialetto, seguiti da Molly. Quest’ultima disse qualcosa alla ragazza che rispose sorridendo. La coppia poi si congedò e salì in macchina, ancora visibile nella notte grazie alle luci posteriori.
Ambra tornò a dedicare la sua attenzione al computer: sfogliò una serie di cartelle fino ad aprire un documento di testo nominato Ravenclaw11 chat.
Da quando aveva conosciuto Sophia, aveva preso l’abitudine di fare copia incolla delle loro conversazioni, che a forza di rileggerle, ormai conosceva a memoria. Tuttavia, l’effetto che quelle frasi sortivano in lei era sempre il medesimo: un sorriso nostalgico.
Dopo aver riletto l’intero documento, Ambra si loggò a The Owl, in cui non entrava va parecchie settimane e cercò tra le amicizie, nel gioco chiamate alleati, il nome Ravenclaw11.
Entrò nel suo account, scegliendo poi la casella di posta interna al gioco e lasciò l’ultimo messaggio di una serie che non aveva più ricevuto risposta. Ma mentre nei precedenti, chiedeva spiegazioni alla ragazza circa il suo allontanamento, in quest’ultimo si limitò a digitare:
“quando tornerai, sarò qui ad aspettarti, Sophia”
 
Quando Erin e il suo ragazzo erano rientrati nel salone, avevano trovato solo Ingrid a riceverli. Nonostante fosse domenica sera, Gustave era impegnato in una telefonata nel suo ufficio così toccava alla moglie concludere quella disastrosa serata. L’ospite non sapeva cosa dirle ma fu Nathaniel a tagliare corto, comunicando alla madre che sarebbero usciti.
Ingrid non si scompose, finì di sorseggiare la sua tisana alla menta peperita e salutò freddamente Erin.
Appena quest’ultima aveva sentito chiudersi il portone d’ingresso alle sue spalle, un’incredibile sensazione di sollievo l’aveva pervasa.
 
“avevo bisogno di stare un po’ da solo con te” aveva ammesso Nathaniel mentre guidava. Anche su di lui si poteva notare che tutta la tensione provata fino a poco prima se n’era andata.
In Erin però, il disagio aveva lasciato ora il posto ad un senso di inquietudine per ciò che aveva scoperto. Essendo la sua ragazza, avrebbe voluto che lui si aprisse con lei, che le confidasse quello che sentiva dentro, ma il biondo sembrava aver chiuso a chiave quel cassetto del suo passato. Non poteva forzarne l’apertura perché temeva che avrebbero finito per litigare, di nuovo, come in passato.
Inoltre, i suoi pensieri caddero inevitabilmente sul suo silenzio circa Sophia, di cui ancora si ostinava a non parlarne con nessuno. Con Ambra le era venuto spontaneo: indirettamente la bionda conosceva la sorella e, una volta rivelata la sua parentela con Ravenclaw11, per Erin era stato inevitabile raccontarle della scomparsa di Sophia.
Mentre era assorta nei suoi pensieri, vide sul ciglio della strada un grosso cane nero che la distrasse: si ricordò di Demon e da lì il collegamento mentale al suo padrone fu immediato: con Castiel, i suoi modi erano così spontanei, con lui sapeva quale era la cosa giusta da fare e non temeva le conseguenze, perché sapeva di agire nell’interesse dell’amico.  Quando si era intromessa nella sua vita, insistendo per conoscere il passato del rosso, dopo le prime resistenze, lui le aveva aperto il suo cuore, avevano discusso animatamente ma si erano anche incontrati a metà strada.
Lei a quel punto aveva realizzato che lui fosse ancora innamorato di Debrah e, per rispetto a quei sentimenti, non aveva più sfiorato la questione.
“andiamo al parco Queen’s Victoria?” propose Nathaniel, destandola dalle sue riflessioni.
 
Dopo un quarto d’ora di guida, i due si trovarono seduti su una panchina del parco.
Videro passare solo un uomo che faceva jogging e che fornì ad Erin lo spunto per iniziare la conversazione.
“correre sarà anche bello, ma alle dieci di domenica sera la gente farebbe bene a darsi una calmata”
“vedo che hai recuperato la lingua” commentò Nathaniel compiaciuto.
“forse dovresti accertartene” replicò Erin che, rincuorata dal buonumore del biondo, si sentì improvvisamente audace.
Si avvicinò a lui che le cinse una mano dietro la nuca e avvicinò il loro contatto.
Continuarono a baciarsi per un po’, dimenticarono i pensieri che avevano affollato le loro menti: Nathaniel si lasciò alle spalle la penosa cena mentre la sua ragazza, le avvilenti rivelazioni di Ambra.
Quella notte, su quella panchina, in quel parco, esistevano solo loro.
“Erin” la sussurrò il ragazzo, staccandosi da lei “c’è quel discorso che abbiamo lasciato in sospeso”
Nonostante l’approssimazione di quelle parole, la ragazza capì perfettamente cosa intendesse Nathaniel. Stavano insieme da più di un mese eppure non avevano ancora fatto il salto di qualità come coppia e quella carenza non dipendeva certo dal ragazzo. Lei avrebbe presto compiuto diciotto anni, a gennaio mentre lui saliva per i diciannove, non erano due ragazzini.
“lo so” ammise con voce roca, tradendo un certo nervosismo “ma io non…”
“ho capito” tagliò corto il biondo, mordendosi le labbra e staccandosi da lei.
Imbarazzata e preoccupata, temette di averlo fatto arrabbiare, così patteggiò:
“ne riparliamo dopo le vacanze?”
“sarà cambiato qualcosa?” replicò lui con tono neutro, guardando il cielo.
La ragazza cominciò a sentirsi sempre più a disagio. Lei lo amava eppure non riusciva ad abbandonarsi completamente. Qualcosa dentro di lei la frenava e la invitava a prendere tempo.
“quando lo faremo, voglio esserci al 100%” disse infine, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. Il ragazzo sorrise e le accarezzò la schiena.
“aspetterò”
 
Rosalya si girò nel letto guardando Leigh.
Quando dormiva sembrava un angelo. Gli accarezzò la guancia con il dorso della mano e rimase lì ad ammirarlo. Avevano fatto l’amore poco prima e lei sentiva il suo corpo pervaso da quel senso di stanchezza e appagamento che sono conseguenti all’atto.
Troppe volte si era trovata ad immaginare che quei capelli scuri si schiarissero sotto i suoi occhi, fino a diventare d’oro e gli occhi neri diventassero del color dell’ambra. Leigh era l’antitesi di Nathaniel e proprio per questo, quando il primo le si era dichiarato, aveva accettato il suo amore. Come sperava Rosalya, da quando si erano fidanzati, il suo interesse per il biondo era scemato ma il fatto che a distanza di due anni ancora ci pensasse, la confondeva.
Era arrivata al punto di spingere una delle sue più care amiche tra le braccia del ragazzo, sperando che anche questo la aiutasse a dimenticarlo una volta per tutte.
La vergognosa verità era quindi che, per salvare se stessa, aveva coinvolto persone innocenti come Erin e Castiel. Era solo questione di tempo prima che quest’ultimo ammettesse di essere innamorato della ragazza ma ora che lei stava con Nathaniel, Rosalya aveva fatto bruciare ogni speranza nel rosso. Conosceva l’insicurezza di Castiel, il suo eterno senso di inferiorità rispetto al biondo e spingendo Erin a sceglierlo, aveva condannato il rosso all’inossidabile convinzione che mai la ragazza avrebbe ricambiato i suoi sentimenti.
Aveva sbagliato tutto: non aveva ancora dimenticato Nathaniel, aveva negato a Castiel la possibilità di essere felice e aveva sfruttato Erin; non ne era sicura, ma probabilmente nemmeno la mora era la ragazza giusta per Nathaniel, anche se all’inizio non la pensava così.
“e saresti tu quella giusta?” malignò una voce nella sua testa.
Rosalya staccò gli occhi da Leigh e cominciò a guardare il soffitto.
E che dire del ragazzo che dormiva beatamente accanto a lei? Anche lui aveva tradito. Non che non ne fosse innamorata ma evidentemente non lo era quanto di Nathaniel, altrimenti il ragazzo non avrebbe continuato ad affollare la sua mente. Leigh non si meritava quell’ipocrisia, doveva avere accanto una persona che lo amasse quanto lui meritava.
Eppure, nonostante il senso di colpa, Rosalya non riusciva ad essere sincera con nessuno, tranne che con Alexy.
“cosa aspetti a dichiararti?” le aveva chiesto più volte il gemello in passato, quando ancora lei era single.
“aspetto che sia Nathaniel a farlo” rispondeva placida lei, consapevole che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Lei era solo un’amica, Nathaniel non poteva vederla diversamente. Ne aveva avuto la prova quando aveva conosciuto Rachel, la prima ragazza del biondo: così a modo, matura, riflessiva.
Rachel era una donna, lei una ragazzina vivace e impulsiva.
 
La stanza era bombardata da spartiti sparsi ovunque: sul pavimento, sulla scrivania, sulla trapunta, sulla sedia, così che Demon fu costretto ad accucciarsi in silenzio nell’unico spiazzo della camera rimasto libero, ai piedi del letto. Il suo padrone intanto passava in rassegna ogni foglio, studiandolo febbrilmente per pochi secondi. Canticchiava qualche motivetto per poi apportare delle modifiche di cui si pentiva all’istante.
Mancava così poco a quel concerto ed era dannatamente teso e insicuro dei propri pezzi. Alla fine i suoi amici l’avevano convinto a eseguirne alcuni e, dopo tante insistenze, Castiel si era arreso alla loro volontà.
Si ritrovò tra le mani la canzone Under the stars. L’aveva composta un anno prima ed era una di quelle di cui era più orgoglioso. Eppure, durante l’ultima prove con la band, l’esecuzione di Lysandre non lo aveva convinto. I suoi amici, le ragazze in particolare, sostenevano che invece il vocalist fosse perfetto, ma non c’era stato verso di convincere il compositore.
Del resto solo lui sapeva a chi pensava quando l’aveva composta: non era una canzone concepita per una voce maschile.
Dal pavimento raccolse un altro foglio e dopo averlo studiato, si allungò a recuperare la chitarra:  
“che dici Demon, questa ti piace?” gli chiese, mostrandogli lo spartito.
Il cane alzò il capo, destato dall’interesse che gli veniva rivolto, facendo così ridacchiare il padrone:
“hai ragione. Te la faccio sentire” e così Castiel cominciò a strimpellare qualche nota.
Dopo un minuto circa si interruppe e posò poi lo sguardo sull’animale, ripetendo la domanda:
“allora amico?”
La coda del cane si strusciava concitata contro il pavimento e il musicista rispose soddisfatto:
“lo prendo per un sì”
Mancavano cinque giorni al concerto, quasi quattro ormai visto che la domenica stava lasciando il posto al lunedì. Ormai aveva ricontrollato ogni canzone, ogni battuta, alla ricerca di errori. La band si era ritrovata svariate volte dopo la scuola, alcune delle quali senza le ragazze che, per quanto utili, erano pur sempre una fonte di distrazione.
Soprattutto Erin.
Nell’ultimo periodo, non riusciva a non guardarla, a non perdersi una sua smorfia o gesto.
Una melodia cominciò a materializzarsi improvvisamente nella sua mente così recuperò la chitarra e cercò di riprodurla. Sorpresosi lui stesso per quell’idea, impugnò allora un foglio e trascrisse in note quella musica, per non dimenticarla.
Da quando aveva conosciuto Erin, la sua musica era stata la prima a trarne beneficio.
Non che lui fosse rimasto impermeabile a quell’ondata di aria fresca: anche se non l’aveva mai ringraziata per questo, era stato solo grazie a lei se pian piano il gruppo si era ricostruito… e probabilmente non mancava molto che anche lui e Nathaniel deponessero l’ascia di guerra.  Tuttavia, l’idea di dover sopportare la vista del biondo e dell’amica insieme lo nauseava. Con questa consapevolezza, preferì pensare ad altro, senza interrogarsi ulteriormente sul perché di quella sensazione; la risposta sarebbe giunta istantanea e non aveva nessuna intenzione di ascoltarla.
Guardò la chitarra, la sua Sophia, e sorrise:
 
Castiel si alzò di mala voglia e abbandonò il letto. Svegliarsi con il suono martellante e acuto del campanello di casa non rappresentava certo un buon risveglio. Il suo ospite inatteso si era puntato contro il pulsante  da almeno due minuti e non dava segno di staccarsene.
Castiel aveva compiuto sedici anni il giorno prima e, secondo quanto sancito dal giudice, era diventato ufficialmente una persona legalmente emancipata. Nell’appartamento che suo padre gli aveva regalato, lui e Demon godevano della massima libertà e indipendenza.
“chi è quel coglione che rompe le palle a quest’ora?” biascicò cercando di mettere a fuoco  l’ora. Sbadigliò sonoramente, realizzando che erano le undici del mattino ma questa consapevolezza non lo aiutò a sentirsi meno assonnato. Incurante del proprio abbigliamento, rappresentato unicamente da un paio di bermuda del pigiama a causa del caldo estivo, il padrone di casa andò ad aprire.
Spalancando la porta si trovò di fronte Nathaniel con Demon,  all’epoca più piccolo, che gli trotterellava accanto.
“era ora!” lo accolse il biondo, tra il derisorio e lo scocciato.
“potrei dire lo stesso. Grazie per il regalo” rise sarcastico Castiel, rinfacciando scherzosamente all’amico il mancato pensierino per il suo compleanno. Il giorno prima infatti, il biondo si era limitato ad un messaggio di auguri, pur sapendo che all’amico serviva un pretesto per sottrarsi da una pesante giornata con compagnia con i genitori che, almeno per quel giorno, volevano passarlo tutti insieme,
“sono qui proprio per questo” lo informò Nathaniel “sono venuto a presentarti Sophia”
Castiel strabuzzò gli occhi e guardò con panico la sua mise. La stampa dei procioni sulla stoffa dei pantaloncini del pigiama non era esattamente l’ideale per far colpo su una ragazza. Avvampando esclamò:
“m-ma che cazzo di regalo hai pensato?!”
“ma che hai capito idiota, sempre a pensar male” lo canzonò il biondo, allungandosi a prendere un oggetto posato contro la porta e che Castiel non poteva vedere dalla sua prospettiva:
“questa, è Sophia” spiegò Nathaniel, tamburellando la mano contro una custodia dalla forma inconfondibile. Una chitarra elettrica.
Il moro era rimasto senza parole, tenendo la bocca aperta e gli occhi sgranati.
Quella chitarra se sognava anche di notte. I dettagli cromati, le corde tese e che vibravano al minimo tocco: fino a quel momento, Castiel Black non aveva mai desiderato tanto qualcosa in vita sua quanto quello strumento.
Nathaniel ridacchiò e si accomodò in casa mentre l’amico lo fissava incredulo:
“non ne potevo più di sentirti lamentare del fatto che la chitarra della scuola fa schifo, che le corde si allentano con niente e bla bla bla” commentava il biondo facendo il verso al suo migliore amico, mentre si spaparanzava sul divano.
“l’hai comprata per me?” mormorò Castiel incapace di riprendersi.
“no, l’ho rubata per Demon, sai… fa di quegli assoli canini da paura, gli ci vuole una chitarra…. Ovvio che è tua, scemo!” scherzò Nathaniel, porgendogliela.
“ti sarà costata un botto”
“non per tirarmela, ma uno dei pochi vantaggi di avere una famiglia come la mia è che puoi comprare una chitarra elettrica e nessuno se ne accorge… insomma, ti decidi ad aprirla o devo riportarla in negozio?”
A quel punto, Castiel non se lo fece ripetere due volte e sganciò velocemente la custodia.
Si trovò di fronte una magnifica Fender nero lucido, con inserti metallizzati in argento.
“è-è pazzesca” mormorò Castiel, sentendo le lacrime salirgli agli occhi.
Ammutolì nella speranza che l’amico non se ne accorgesse. Quel regalo era troppo. L’aveva desiderata così tanto ma era troppo orgoglioso e arrabbiato con i suoi genitori per chiederglielo.
“a black guitar for Castiel Black” commentò Nathaniel per stuzzicare l’amico e risparmiagli l’imbarazzante situazione di piangere davanti a lui dalla gioia.
“battuta di merda” replicò per l’appunto Castiel sentendo sciogliersi il groppo alla gola.
Quella chitarra era semplicemente magnifica.
“com’è che l’hai chiamata? Sophia?” chiese d’un tratto.
“già, mi piace come nome”
“sembra quello di una principessa” protestò il ragazzo.
“a me piace” insistette Nathaniel “è molto di classe” si difese, accarezzando Demon che accorreva a fargli festa. L’amico sorrise e dichiarò:
“e Sophia sia, del resto sei tu il finanziatore”
Nathaniel sorrise a sua volta e lasciò che l’amico si godesse il suo regalo. Castiel accarezzava le corde come fossero i capelli di una ragazza e le faceva vibrare delicatamente, diffondendo nella stanza suoni irregolari.
Dopo un po’ il festeggiato  chiamò il suo benefattore:
“Nate…”
Il biondo sollevò il capo, distogliendosi dalle attenzioni che aveva riservato a Demon.
“grazie” disse con il cuore “ti sarò debitore a vita”.
 
Come ogni sera, Alexy preparò i vestiti per l’indomani. Detestava trovarsi a scegliere cosa indossare la mattina stessa. Optò per un paio di pantaloni in tessuto rosso e una maglia color blu. Talvolta il fratello lo prendeva in giro, sostenendo che fosse daltonico ma la condivisione dello stesso patrimonio genetico era la prova più che lampante del fatto che non potesse essere vero.
Armin fece capolino sulla soglia della stanza e commentò:
“non mi ricordo più se alla fine suoniamo i Nickelback”
“mah, è tutto da vedere” sospirò Alexy, ponendosi davanti allo specchio con la maglia in mano “la scaletta serve solo a noi per avere un’idea delle possibili canzoni, mica le suoneremo tutte. Secondo me già dopo otto nove pezzi la gente si romperà”
“si, lo penso anche io” ammise il gemello, sedendosi sul letto dell’altro.
Alexy ne indagò l’espressione e commentò:
“cominci a sentire la tensione?”
“non sono mai salito in vita mia su un palco, sai com’è... giusto un pelo di agitazione ci sta” ammise Armin mentre osservava Alexy ripiegare l’indumento.
“se ti consola, ogni volta che ci penso, me la faccio sotto” gli confessò quest’ultimo.
“non sei di incoraggiamento fratellinoreplicò sarcastico il gemello.
Alexy ripose i vestiti sulla sedia, piegando anche i pantaloni con cura. Il fratello aveva trovato una pallina e si divertiva a lanciarla contro la parete, prendendola al rimbalzo:
“venerdì tornerà Ambra” commentò d’un tratto Alexy senza guardare il suo interlocutore.
Armin non replicò subito. Continuò a giocare distrattamente con la pallina tanto che il fratello cominciò a sospettare che non l’avesse sentito.
Prima che il gemello potesse ripetere il suo commento, Armin rispose semplicemente:
“lo so”
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Volutamente nello scorso capitolo non ho inserito le note finali. Il fatto è che in quel capitolo per la prima volta, sono riuscita ad arrivare a uno di quei generi di finali per cui prenderei a calci chi li scrive: quelle conclusioni che ti lasciano senza parole, a bocca asciutta, quando tu invece saresti avida di sapere (fortunatamente dalle vostre recensioni ho capito di aver raggiunto questo sadico obiettivo :3).
Quindi, ciò che non vi dissi lì, ve lo riporto qua: il titolo “TI PRESENTO I MIEI” si rifà ad una commedia con Ben Stiller di qualche anno fa e l’ho volutamente scelto per ricollegarmi a “INDOVINA CHI VIENE A CENA”, titolo di un meraviglioso film e del capitolo in cui è Nathaniel a conoscere i genitori di Erin. Tralasciando il mio amore per questo vecchio film degli anni Sessanta, capolavoro del cinema americano, anche per il 28, ho scelto il titolo di un film:: in questo caso il requiem è per il sogno di Nathaniel che, dopo le rivelazioni di Ambra, capiamo aver appeso il microfono al chiodo. Ho immaginato quanto sia difficile per un figlio non trovare l’appoggio dei genitori per quanto riguarda i propri interessi, quindi se addirittura questi ti mettono i bastoni in mezzo alle ruote, è ancora più avvilente. Nathaniel poi è un personaggio che ha molti punti in comune con la sua Erin e spero che in questo capitolo ciò si sia visto: mentre Castiel (o Sophia) spaccherebbero il mondo, loro due hanno la tendenza a tenersi tutto dentro. Qui allora c’è da chiedersi: sono una sostenitrice della teoria “gli opposti si attraggono” oppure “il simile scioglie il suo simile”? Ok, quest’ultima frase non ha senso ma spero abbiate capito cosa intendo.
La parte in cui Castiel si commuove per il regalo di Nathaniel è un po’ autobiografica ^^) quando ero in seconda liceo ho sbavato per mesi su una tavoletta grafica che però i miei, in quel periodo, non potevano permettersi. Quando finalmente me l’hanno regalata, ricordo di essermi commossa e di aver capito solo allora quanto ci tenessi. Quella è stata la mia prima tavoletta grafica tanto che ora non è più compatibile con gli ultimi sistemi operativi e attualmente ne uso una più professionale, ma nonostante questo, non riesco ancora a gettarla (e sì che io non sono una che si lega particolarmente ai beni materiali).
 
Devo prendermi un po’ di tempo per il prossimo capitolo perché è quello su cui ho creato un po’ troppe aspettative sulle fan di Castiel,
Manu_Green8 e  _nuvola rossa 95_ in particolare (l’ho notato ora che avete entrambe un colore nel vostro nickname XD, buffo :3… tra l’altro sono i miei due colori preferiti…aspettate un attimo che coloro i nomi)… quindi portate pazienza qualche giorno… voglio rileggerlo e correggerlo più volte.
Grazie a tutte ma soprattutto alle recensioniste dello scorso capitolo che oltre alle due già citate e colorate, si aggiunge
caionesabrina, LiaLoveCat, SuperfanShiho, cioccolatina15, JulietLove <3.
 
In questi giorni sto rileggendo i vecchi capitoli visto che finalmente nella storia sono saltati fuori i retroscena del passato della protagonista e voglio essere sicura di non aver lasciato niente in sospeso (o per lo meno di non aver dimenticato nulla)… e devo ammettere che è divertente tornare indietro di così tanti mesi, quando ancora tra i vari personaggi non c’era la confidenza che c’è ora (per esempio mi ero dimenticata che la prima volta che Erin incontra Rosalya, quest’ultima le sbatte la porta in faccia -.-‘’)… questo per dire che, anche per questo, da oggi in poi rallenterò un po’ il ritmo frenetico con cui ho pubblicato gli ultimi capitoli… ma comunque , finché non riprenderò l’università, non intendo farvi aspettare più di quattro/cinque giorni.
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Notti insonni ***


 
Non vi allarmate (in effetti l’immagine che ho messo non è d’aiuto -.-‘’) comunque voglio solo avvertirvi che questo capitolo mi è letteralmente sfuggito di mano… si è allungato sempre più, inesorabilmente, senza che potessi fermarlo: attualmente è in assoluto il capitolo più lungo che ho scritto finora (anche se si vedrà sottrarre l’oro dal prossimo, il 30)… colpa vostra che mi avete sempre detto che vi piacciono lunghi :P… quindi vi chiedo di armarvi di tempo e pazienza per arrivare fino alla fine ^^). Buona lettura!


 
RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin racconta ad Ambra che dietro la separazione dalla sorella c’è stato un incidente da cui Sophia è uscita illesa, mentre lei ha perso momentaneamente la memoria. Quando torna in sé, scopre che, dilaniata dal senso di colpa, la ragazza se n’è andata tagliando i ponti con lei.
Ambra la consola e tra le due c’è un riavvicinamento, in nome di Sophia, che rappresenta così tanto per entrambe. La bionda racconta poi ad Erin che dietro il fallimento della carriera musicale di Nathaniel, c’è il padre Gustave.
Amareggiata per quelle rivelazioni, la ragazza accetta l’invito del biondo di lasciare la casa e concludere la serata al parco. Rosalya riflette sui suoi sentimenti che si rivelano piuttosto complessi.
Castiel, mentre sta controllando gli spartiti che ha scritto, ripensa al giorno successivo al suo sedicesimo compleanno, quando Nathaniel gli regalò la sua attuale chitarra, battezzata “Sophia” proprio dal biondo. Il capitolo si conclude con i gemelli, Alexy ed Armin in cui il primo accenna al rientro al liceo di Ambra dopo il mese di punizione.

 
 




 
CAPITOLO 29: NOTTI INSONNI
 
Lysandre contemplò la propria immagine riflessa allo specchio e si portò la mano sulla gola, avvolgendola attorno a quella delicata morsa. Deglutì a fatica e una smorfia di dolore gli stravolse i delicati lineamenti facciali.
“che hai?” chiese la sorella, entrando in bagno.
“temo di avere la gola infiammata” rivelò il ragazzo, con un certo sforzo.
Rosalya sbarrò gli occhi e picchiò con veemenza il palmo contro la superficie marmorea del lavabo.
“non esiste Lys! Domani sera c’è il concerto! Che cazzo di band siete se il vocalist non ha voce?” sbraitò, quasi colpevolizzandolo per quell’increscioso inconveniente.
Il fratello la scrutò con severità, alzando il sopracciglio destro, segno caratteristico associato ad una leggera irritazione:
“modera il linguaggio Rosalya, non si addice ad una ragazza… e poi non è colpa mia” dichiarò.
“devi avvertire subito Castiel!”
“perché subito?” domandò perplesso.
“boh, mi è venuta così” ammise la ragazza scrollando le spalle e sentendosi stupida.
Recuperò la spazzola in legno e cominciò a passarla sui lunghi capelli, mentre il vocalist annunciava:
“comunque sia, hai ragione, gli scrivo ora… meglio che lo sappia finchè è a casa, piuttosto che a scuola”
“giusto” lo appoggiò Rosalya “meglio che gli venga l’infarto a casa sua, piuttosto che in classe, così almeno nessuno chiama i soccorsi”
Lysandre le lanciò un’occhiata carica di biasimo alla quale la sorella rispose con una linguaccia dispettosa.
 
Ci sono alcuni odori che si possono associare ad un’aula scolastica: qualcuno può pensare alla polvere bianca del gesso, altri al detersivo usato per pulire il pavimento, altri all’olezzo che si respira quando venticinque persone si concentrano in una stanza. Quel giorno gli alunni della quarta C avrebbero preferito uno qualsiasi di questi aromi, pur di non sentire il fetore che continuava a insultare le loro narici.
Appena Erin ed Iris misero piede nella stanza, storsero il naso disgustate, omologandosi alla reazione del resto dei loro compagni.
“cos’è questa puzza?” si lamentò la rossa.
Il suo sguardo cadde involontariamente su Charlotte, seduta su un banco poco distante:
“chiedetelo al vostro amico” replicò acidamente l’altra, spruzzando profumo ovunque. Teneva in mano una boccetta campione di Kenzo e ne vaporizzava il contenuto nell’aria.
“smettila con quella merda Charlotte!” la redarguì Trevor “preferisco la puzza dell’intruglio di Castiel a questa roba”
“finirò per puzzare da fiori” piagnucolò un altro ragazzo, annusandosi la felpa con un’espressione schifata. Nonostante le proteste dei maschi, Charlotte continuava la sua attività di disinfestazione odorifera ma i suoi tentativi servirono solo a peggiorare la situazione. Nella classe, si creò un miscuglio dolciastro di odori che nel complesso risultava a dir poco nauseante.
Nonostante fosse il 18 dicembre, gli studenti si erano visti costretti a spalancare le finestre e permettere al gelido clima invernale di invadere la loro classe.
Erin camminò verso il suo posto e si accomodò accanto al suo compagno di banco. L’occhio le cadde immediatamente su una bottiglietta da mezzo litro dal colore imprecisato ed esclamò:
“che diavolo c’è lì dentro per fare tanta puzza?”
“ricetta segreta contro il mal di gola” rispose sibillino il rosso, dondolandosi sulla sedia.
“perché hai mal di gola?”
“non io, Lys”
“Lysandre?!” sbottò Erin montando nel panico. Il concerto era il giorno successivo e il caso voleva che fosse proprio il vocalist ad essere rimasto a corto di voce.
“vedo che hai afferrato il punto Cip. Comunque no problem: con questo intruglio vedrai che guarirà” la tranquillizzò fiducioso l’amico, tamburellando le dita contro la bottiglietta di plastica.
“è chiusa e fa tutta questa puzza?” osservò la ragazza, sconvolta.
“no, l’odore non viene da questa” precisò Castiel “è perché ho finito di prepararla in classe” e da sotto il banco estrasse una sorta di radice voluminosa.
Si frugò nella tasca della giacca e tirò fuori un coltellino svizzero, vietato dal regolamento scolastico, e cominciò ad incidere quella specie di tubero. Ad ogni scaglia che si depositava sul banco, l’odore diventava sempre più acre, tanto che Erin fu costretta a tapparsi il naso:
“cos’è quella cosa?” si informò, con le lacrime agli occhi. Le sembrava che nemmeno l’amico fosse indifferente a quel tanfo.
“kren” rispose, inserendo alcune scaglie all’interno della bottiglia “si usa per estrarre una salsa color nocciola. Noi in America non la usiamo infatti me ne ha parlato Mauro” aggiunse, riferendosi al vicino italiano “mi ha spiegato che si usa soprattutto nel Nord Italia”
“senti un po’ Gordon Ramsay, le lezioni di cucina rimandiamole ad un’altra occasione. Per ora getta via quella cosa puzzolente” gli ordinò la ragazza.
L’odore era sempre più pungente e insopportabile e le solleticava il naso al punto da farle lacrimare gli occhi.
“davvero ti dà così fastidio l’odore?”
“fino alle lacrime”
“non è che la nostra Erin qui è in dolce attesa?” scherzò Trevor, voltandosi verso i due ragazzi seduti dietro di lui. Castiel cambiò espressione e cominciò a incidere più in profondità la dura radice mentre la mora replicava:
“non mi pare di essere l’unica a lamentarsi” obiettò, muovendo l’aria davanti al suo naso nel tentativo di allontanare quel tanfo “comunque sia Castiel” continuò, cercando di richiamare l’attenzione dell’amico “non penserai mica che Lysandre beva una simile porcheria”
“no no, berla no. Deve solo fare i gargarismi” semplificò l’altro mentre Erin lo guardava poco convinta. Si chiedeva come l’amico potesse essere così fiducioso sul fatto che il loro cantante si sarebbe sottoposto ad un simile trattamento.
Quando il professor Condor varcò la soglia dell’aula, inevitabilmente, brontolò:
“e questa puzza cos’è?”
“viene da fuori prof” rispose prontamente Castiel strappando un sorriso a tutti per la sua faccia tosta.
“allora chiudete le finestre” ordinò il professore, posando la valigetta sulla cattedra.
A quel punto ventiquattro teste dapprima sorridenti si voltarono con un’espressione carica di astio verso il rosso che li aveva appena condannati ad un’ora di soffocamento.
 
Quando raggiunsero il loro ritrovo per il pranzo, Erin e Iris non riuscivano a strapparsi un sorrisetto divertito per la scena che si preannunciava ai loro occhi.
“mi chiedo come tu faccia ad essere così convinto che Lysandre berrà quella roba” commentò la rossa.
“ancoraaa! Non la deve bere, deve solo fare dei gargarismi” ripetè Castiel spazientito.
“fa’ schifo comunque Castiel” lo liquidò Erin.
Svoltarono l’angolo dell’edificio e trovarono tutti i loro amici: chi come Rosalya, Armin e Alexy aveva trovato l’appoggio del muretto, gli altri degli scalini.
“perché diavolo ti ostini a farci pranzare qui fuori che si gela?” protestò Armin in direzione del chitarrista.
“non ti lamentare vecchio, è solo per oggi” lo tranquillizzò Castiel volgendo un sorriso sornione a Lysandre.
Intercettando quello sguardo, l’amico sgranò gli occhi come un cerbiatto abbagliato dai fari di una macchina.
“che cos’è quella roba?” chiese tenendo lo sguardo fisso e timoroso verso la bottiglia di plastica che il chitarrista teneva in mano. La sua voce era uscita piuttosto roca e affaticata, sorprendendo Erin ed Iris per quanto fosse presa male.
“ricetta segreta di casa Black contro il mal di gola” annunciò sicuro di sé il rosso.
“ma ci sono delle cose che galleggiano dentro” osservò Violet preoccupata, riferendosi alle scaglie di kren.
“ha il colore del vomito” aggiunse Alexy schifato.
E dopo che Castiel aprì la bottiglia:
“ed emana una puzza allucinante” completò Armin, voltandosi dall’altra parte dopo essersi avvicinato per annusarla.
“si può sapere che dovrei farci con que-?” sussurrò infine Lysandre, sempre più in ansia.
 La voce gli mancò sulle ultime parole ma tutti colsero la domanda.
“tre o quattro gargarismi dovrebbero bastare” pronosticò il medico improvvisato.
“non esiste che bev-” il ragazzo a quel punto non riuscì ad aggiungere altro perché la voce gli venne meno. Nell’arco di cinque ore era peggiorato in modo fin troppo evidente e preoccupante.
“non fare la femminuccia” lo smontò Castiel, allungandogli l’intruglio sotto il naso, mentre il resto dei loro amici assisteva a quella discussione con un certo sadico divertimento.  
“non mi metto a fare i gargarismi qua dav”
Niente da fare, la voce non gli usciva.
“davanti a tutti?” completò Castiel “mettiti dove ti pare. Basta che li fai”
Lysandre scosse la testa con decisione. Era risoluto sul fatto che le sue labbra non avrebbero sfiorato quella disgustosa pozione. Era convinto che se l’avesse fatto, l’indomani avrebbe dovuto esibirsi seduto su un water. In passato aveva avuto modo di testare la cucina di Castiel e l’esperienza gli era costata, per i due giorni successivi, una dieta a base di patate lesse e riso in bianco.
“Armin braccalo!” ordinò Castiel mentre il moro rideva, incapace di prendere seriamente dell’esortazione.
Lysandre si alzò di scatto allarmato, allontanandosi di qualche passo dal suo aggressore.
“non ci provate” sussurrò il cantante afono, cercando di risultare minaccioso ma la voce da nonnino che regala le caramelle non gli fu d’aiuto.
“fallo per il gruppo Lys” lo schernì la sorella, ricevendo un’occhiata truce dal vocalist.
“non possiamo fare un’esibizione muta” convenne Armin, più divertito che preoccupato per le sorti del concerto.
“ma non potete neanche obbligarlo a prendere quella porcheria” lo difese Erin a cui Lysandre sorrise con gratitudine e sollievo. Il suo handicap vocale lo svantaggiava nell’esecuzione della sua arringa difensiva, così l’aver trovato un’alleata gli era più che mai vitale.
“allora non c’è altra scelta Erin, canterai tu” dichiarò risoluto il rosso.
“LYS, BEVI QUELLA ROBA!” ordinò prontamente la ragazza, terrorizzata da quell’eventualità. Immediate furono le risate degli amici a cui solo Lysandre rimase estraneo, realizzando di essere ormai da solo a combattere quella battaglia. Si schiarì la gola meglio che potè e fissando i membri della band uno a uno, proclamò:
“costringetemi a bere quella roba e vi assicuro che domani non mi vedrete sul palco” e al termine di quella frase che gli era costata uno sforzo immane, cominciò a tossicchiare.
Castiel gli allungò la bottiglietta di Coca-Cola che aveva rimediato alle macchinette e lo soccorse:
“fa i gargarismi con questa, dicono che aiuti”
L’amico però si limitò a trangugiarne parecchie sorsate e ignorare le indicazioni fornitegli. Quello che Castiel si ostinava a non capire è che mai lui, Lysandre White, personificazione dell’eleganza e della teatralità, si sarebbe esibito in volgari gargarismi davanti a tutto quel pubblico.
Il rosso si rassegnò a riprendere la bottiglia che l’amico gli stava restituendo, per appoggiarla accanto alla pozione che aveva preparato quella mattina.
“vedrete che per domani gli passerà” li tranquillizzò Violet, guardando Lysandre con un sorriso dolce.
“speriamo” sospirò Alexy, tradendo un certo nervosismo “però male che vada, l’idea che si esibisca Erin non mi dispiace affatto!”
“a me sì!” protestò la ragazza.
“in ogni caso domani ti toccherà farlo per il karaoke” la tormentò Armin, ricordandole un impegno a cui la ragazza cercava di non pensare da settimane.
“non me lo ricordare” mormorò afflitta.
COF! COF! COF!
Colpi di tosse convulsi, seguiti il rumore di un liquido che veniva sputato, spaventarono i ragazzi. Tutti si voltarono verso Castiel che, tra una smorfia di disgusto e l’altra tentava di espellere l’intruglio che, evidentemente, aveva ingerito per errore. La bottiglietta di Coca-Cola, suo reale obiettivo, giaceva accanto a lui mentre il liquido che lui stesso aveva creato si era riversato sull’erba stepposa.
Tutti scoppiarono a ridere fragorosamente, mentre lui cercava di riprendersi. Il suo viso si contorceva in buffe smorfie di disgusto, muovendo la lingua in ogni direzione e trangugiando tutta la Coca-Cola che era rimasta nella bottiglia.
Quando finalmente, il malcapitato sommelier, riuscì a fornire una sua valutazione circa le proprietà organolettiche della bevanda, dichiarò con l’estrema finezza che lo contraddistingueva:
“Dio, che merda!”
 
Anche quella giornata era conclusa. I ragazzi della band quel pomeriggio si sarebbero trovati per l’ultima prova prima del grande concerto.
Ad Erin dispiacque terribilmente non potervi assistere perché non aveva ancora assistito alla loro esecuzione della canzone country voluta dalla preside. Infatti quella sera, lei e sua zia avrebbero avuto Jason come ospite, per festeggiare l’imminente inaugurazione della boutique.
Inoltre era da un po’ che lei e le ragazze non prendevano parte alle prove e questo perché, a parte Alexy, gli altri membri erano unanimi nell’asserire che costituivano una fonte di distrazione. Per quella volta in via eccezionale, la band aveva consentito loro l’accesso, ma erano state le ragazze a declinare: Erin per via della cena, Iris era a casa da sola con il fratellino e Rosalya doveva andare da Leigh. Quanto a Violet, che mai prima aveva preso parte alle prove, di certo non si sarebbe avventurata da sola in quella compagnia esclusivamente maschile.  
 
Varcando la soglia dell’appartamento, Erin si era già figurata la scena che avrebbe trovato ad accoglierla e le sue aspettative non vennero deluse: la cucina era piena di padelle, mestoli e ciotole fumanti, mentre Pam incarnava lo stereotipo della casalinga alle prese con mille faccende. Aveva i capelli raccolti in una coda disordinata e scomposta, il grembiule da cucina macchiato di ogni sorta di salsa e un’espressione indaffarata e concentrata. C’era una tale confusione e frenesia, che ad Erin venne in mente una scena di uno dei suoi film d’animazione preferiti: la città incantata di Hayao Miyazaki.
Quella cena per sua zia significava così tanto; a causa delle sue ristrettezze economiche, non aveva potuto permettersi di invitare Jason a cenare fuori, in un ristorante di lusso, come avrebbe meritato per tutto ciò che aveva fatto per lei.
“oh tesoro, finalmente sei qui!” la accolse con enfasi, appena vide il viso della nipote far capolino in cucina.
“ti posso aiutare?”
“certo! Lì ci sono le verdure da lavare” la guidò la cuoca, indicando il lavello. Erin, dopo essersi cambiata, si mise prontamente all’opera e le due cominciarono a chiacchierare dell’imminente concerto.
“questa volta mi assicuri che mamma e papà non verranno? Un’altra sorpresa come l’ultima volta non riuscirei proprio a digerirla” chiarì la nipote, passando una carota sotto l’acqua corrente.
“tranquilla no, del resto nel weekend torni da loro, non ha senso che vengano anche domani” la rassicurò Pam. Le vacanze natalizie erano alle porte e il venerdì del concerto era venuto a coincidere con l’ultimo giorno di scuola. Alla notizia che i genitori non avrebbero partecipato, la ragazza sospirò sollevata. Quell’evento era troppo importante per lei e voleva goderselo fino in fondo, senza preoccuparsi di dover tenere a cuccia suo padre.
“comunque Jason mi ha confermato che verrà domani” annunciò Pam, regolando la fiamma.
“mi fa piacere. A proposito zia, quando ti deciderai a dichiararti?”
Il cucchiaio che Pam teneva in mano le scivolò a terra, sporcando il pavimento piastrellato.
“m-ma cosa dici Erin?”
“oh andiamo zia! Non fare finta di niente. Sono settimane che gli muori dietro. Dovresti darti una mossa finchè è ancora single” la esortò.
Pam recuperò l’oggetto metallico dal pavimento, pulendolo con l’orlo del grembiule.
“ma se lui non ricambiasse?” sussurrò insicura.
“è un rischio che devi correre” asserì la nipote “nelle ultime settimane è un po’ cambiato rispetto a quando l’ho conosciuto… ed in meglio. Ha acquisito più sicurezza in se stesso e sinceramente, non credo troverai un altro uomo come lui. Dovresti darti una mossa”
“lo so” riconobbe la zia, caricando di intensità quell’ammissione. Lo sapeva fin troppo bene e infatti continuava a rimpiangere il fatto di non esserne accorta quando ancora era evidente dell’interesse da parte dell’uomo “ma che dovrei fare Erin scusa? Poi proprio stasera? Ci sei anche tu!” quasi la accusò, adottandola come scudo difensivo.
“potete andare nell’appartamento di Jason” suggerì maliziosa la ragazza facendo avvampare la donna.
“Erin!”
 
L’orologio segnava con precisione la fatidica ora x: le otto di sera. La lancetta dei secondi aveva da poco superato il numero 12 ed era pronta a ripetere il sempre eterno giro, quando il campanello di casa Travis suonò. In soggiorno era presente solo Erin, mentre la zia era impegnata con gli ultimi preparativi, così toccò alla ragazza andare ad accogliere l’atteso ospite:
“spero tu non abbia trovato traffico venendo qui” scherzò la ragazza.
“solo un semaforo rosso” replicò divertito il vicino d’appartamento. In effetti era una bella comodità essere letteralmente a due passi da casa.
“te lo dico ora finchè non c’è mia zia” sussurrò Erin guidando Jason verso il salotto “il secondo è un tacchino, anche se, non ho idea di come abbia fatto, ma l’ha cucinato che sembra un pollo”
Jason trattenne un risolino e dichiarò, facendole l’occhiolino:
“non preoccuparti. Mi limiterò a fare commenti generali sulla cena, per non incappare in qualche gaffe”
“mi sembra una buona strategia. Comunque continua a portarla ai corsi di cucina… devo ammettere che, anche se piano piano, ma sta migliorando”
“che confabulate voi due?” li interruppe la donna, facendo il suo ingresso in salotto. Per l’occasione, aveva indossato un raffinato vestito corto con manica a tre quarti e una fantasia a righe dai colori autunnali. Il vitino sottile della donna veniva messo in risalto dal taglio fasciato dell’abito e le gambe lunghe e affusolate da un paio di decolté. I capelli erano raccolti in una coda che le slanciava ulteriormente un collo già di per sé sottile.
Jason rimase incantato mentre Pam arrossiva timidamente. Erano quasi due mesi che non si metteva così in tiro e scoprì che quel breve lasso temporale era stato sufficiente a farle perdere la sua sicurezza. Erin invece era l’unica ad essere teneramente divertita da quel quadretto. A quel punto, non aveva più dubbi sui sentimenti del vicino per la zia, la quale, per spezzare l’imbarazzante silenzio propose:
“allora? Mangiamo?”
 
Nonostante la qualità discutibile dei piatti, quella sera i tre si gustarono una serata piacevole e in armonia. Jason si rivelò un ottimo intrattenitore, sempre con la battuta pronta ed Erin scoprì in un paio di occasioni che la zia lo guardava estasiata. Teneva il mento appoggiato sul palmo della mano e sorrideva ogni volta che lo sguardo del ragazzo si posa su di lei.
Anche se la reazione dell’uomo appena aveva visto Pam vestita di tutto punto era stata assolutamente impagabile, era evidente che per la donna quella sera Jason fosse affasciante come mai l’aveva visto: una volta tanto, aveva rinunciato alle sue amate felpe e aveva optato per un completo dal taglio classico e dalla stoffa scura, con una camicia bianca e una cravatta abbinata alla giacca. Con il passare della serata, tra risate e battute, il ragazzo si era tolto la giacca, aveva allentato il nodo della cravatta e arrotolato le maniche all’altezza dei gomiti, mise che gli conferiva un aspetto più casual e in cui si sentiva decisamente più a suo agio.
Pam aveva così potuto notate la presenza di un fisico vigoroso e tonico dietro quell’aria da eterno ragazzino, osservando le braccia forti che, dopo la disastrosa serata alle Twin Towers, l’avevano sollevata da terra.
“non mi sembra possibile che sabato inaugureremo il negozio” commentava Pam su di giri.
“a proposito zia, sei sicura di voler venire al concerto? Il giorno dopo hai l’inaugurazione” obiettò Erin, masticando con difficoltà un pezzo di tacchino un po’ bruciacchiato.
“non preoccuparti. Resterò lì finché non si sarà esibita anche la band del tuo amico e poi me ne torno dritta a casa. Tu vai con Nathaniel giusto?”
Erin annuì, deglutendo a fatica il pennuto che era stato cucinato. Le sembrava di avere in bocca una chewing-gum ma per non urtare la buona volontà della cuoca, aveva preferito astenersi da ogni critica. Jason dal canto suo, sembrava scarsamente interessato al cibo e, dalla compostezza con cui mangiava, scegliendo porzioni misurate, Erin sospettò che avesse optato per una cena preventiva prima di sottoporsi alla cucina di Pam.
“Castiel da quanto tempo suona in una band?” chiese il veterinario.
“mah, almeno da quattro anni mi pare. Ma quella di domani sarà solo la loro seconda esibizione in pubblico” precisò la ragazza.
“è venuto nel mio studio qualche giorno fa con il suo cane” raccontò Jason, versandosi del vino.
“Demon? Sta poco bene?” esclamò Erin. Odiava quel cane ma non era così insensibile da non interessarsi a quella notizia.
“no anzi, è in ottima salute. È un cane molto affettuoso” la tranquillizzò il veterinario.
“più che un cane, per me quello è un vitello” malignò la ragazza ora che la sua preoccupazione era evaporata all’istante. Non aveva mai fatto mistero del suo astio verso l’amico peloso di Castiel.
Jason ridacchiò e commentò:
“è un bellissimo esemplare. È una razza che abbaia poco e solo in caso di necessità”
Erin si lasciò sfuggire un verso stizzito che il veterinario non colse e continuò: “è un cane molto intelligente ma dal temperamento molto forte, infatti non poteva avere un padrone migliore di Castiel”
“perché?” domandò Pam con curiosità.
“per questi cani ci vuole una persona di carattere che loro possano identificare come guida, che abbia un polso fermo e sappia inquadrare i ruoli gerarchici” spiegò l’uomo.
Pam annuì ammirata e rivolgendosi alla nipote, squittì:
“Castiel mi sembra proprio un ragazzo interessante”
“sarà, ma il più delle volte si comporta da idiota” brontolò la ragazza.
Sentir parlare di Demon l’aveva messa di cattivo umore, soprattutto dopo che era venuta a sapere che la bestia si era rivelata affettuosa alle cure del veterinario. Anche con Nathaniel, Demon non aveva esitato a fargli festa in passato. Dunque era proprio una questione personale: quel mastino odiava solo lei.
 
Finita la cena, Erin si congedò, chiedendo a Jason di avvertirla prima di andarsene e lasciò i due adulti da soli, rifugiandosi nella propria camera.
“è stata una bella serata. Se continui a migliorare così potrei anche venire a cena più spesso” scherzò Jason.
“a me farebbe solo piacere” replicò Pam con un sorriso dolce che lasciò per un attimo confuso il ragazzo.
Lei arrossì e abbassò gli occhi.
Da quando la nipote aveva abbandonato la stanza, l’atmosfera era cambiata. I due facevano fatica a sostenere lo sguardo reciproco e si percepiva una sorta di elettricità nell’aria.
Cadde così un imbarazzante silenzio, finché Jason riuscì a spezzarlo:
“senti Pam io…”
Dalla stanza di Erin si sentì un tonfo violento che rovinò la scena, facendoli sobbalzare dalle sedie. Pam si voltò allarmata e la chiamò:
“Erin? tutto bene?”
“sì sì” rispose distrattamente la nipote “tutto ok, tranquilla”
Jason sorrise rassegnato, consapevole che, con Erin nei paraggi, la situazione risultava ancora più disagevole di quanto già non fosse. Si alzò dal suo posto e Pam, delusa e dispiaciuta, lo seguì verso la soglia della porta.
“allora ci vediamo domani…” cominciò a dire Jason portandosi sul pianerottolo.
“non stavi per dirmi qualcosa poco fa?” insistette Pam, tenendo gli occhi bassi. Anche se in quel momento non lo stava guardando, percepì il disagio dell’uomo, sentendolo grattarsi il collo.
Forse Erin aveva ragione.
Doveva almeno provarci, anche perché, se non aveva mal interpretato i gesti dell’uomo quella sera, lei non gli era indifferente.
“in effetti…” tentennò Jason cercando di raccogliere un po’ di coraggio.
“zia!” la importunò Erin. I due adulti trasalirono, vedendo sfrecciare la ragazza sotto i loro nasi. Teneva sotto braccio un borsone capiente che stava cercando di chiudere.
“devo correre da Iris!” annunciò trafelata, precipitandosi verso le scale.
“a quest’ora?” indagò Pam preoccupata, sporgendosi verso la rampa. La nipote sembrava davvero di fretta dal momento che non aveva voluto aspettare l’ascensore.
“non preoccuparti. Posso prendere la tua macchina?”
“certo…” confermò la zia che avrebbe voluto puntualizzare quanto retorica fosse quella domanda visto che Erin aveva già le chiavi in mano.
“sua madre e suo fratello sono corsi all’ospedale e lei non vuole rimanere a casa da sola” spiegò sbrigativamente Erin fermandosi un attimo.
“ah” replicò Pam un po’ perplessa.
“dormo da lei se non ti dispiace. Ci vediamo domani dopo scuola!” la salutò la ragazza sparendo definitivamente. Dopo qualche secondo la sentirono urlare un “buonanotte Jason” che si diffuse nella tromba delle scale e null’altro.
Pam era rimasta stordita e confusa da tutta quella frenesia.
“ti giuro che quando fa così mi pare di vedere sua sorella” commentò ancora basita “stessa carica, stessa energia”
“è molto cambiata da quando è arrivata qui il mese scorso” osservò il vicino.
“già” sorrise Pam “sembra molto più serena. Mi chiedo di chi sia il merito”
 
Dopo aver guidato con la musica di Norah Jones in sottofondo, Erin parcheggiò la macchina della zia accanto ad una Volvo grigia e recuperò la borsa. Diversamente dalla sua zona, quel quartiere era davvero carino e ben illuminato. Forse era uno dei suoi preferiti, dopo l’angolo di paradiso in cui sorgeva la casa dei gemelli Evans. Passò di fronte alla fermata dell’autobus della linea urbana e svoltò l’angolo.
Costeggiò una siepe alta tenendosi a debita distanza da essa, come se qualcosa la preoccupasse. Con la coda dell’occhio infatti, scrutava quel fogliame scuro, come se ne avesse terrore.
Arrivò davanti ad un cancello in ferro battuto e cercò il nome sull’etichetta illuminata del campanello.
Dei quattro pulsanti, scelse quello con la scritta Castiel Black.
 
“mi dispiace parlare di cose serie a quest’ora, però abbiamo continuato a rimandare la questione del prestito ed io non ti ho ancora detto della banca…” cominciò a dire Pam, nella speranza di trattenere ancora un po’ il ragazzo “mi sono accordata su come riuscire a ripagarti”
Avrebbe parlato anche della salvaguardia del grizzly della California pur di restare ancora con lui, specie ora che Erin si era volatilizzata.
“shh” la silenziò Jason, posandole un dito sulle labbra. Si pentì all’istante per l’audacia di quel gesto e ritrasse la mano, in evidente imbarazzo.
“non ne parliamo adesso” borbottò a disagio.
La donna, dapprima piacevolmente sorpresa, sorrise:
“e di cosa dovremo parlare?” indagò con un sorriso mellifluo.
“in effetti c’è una cosa che sto cercando di dirti”
“ah sì?” chiese Pam avvicinandosi ancora di più.
Da quando Erin era uscita, si sentiva sempre più intraprendente e temeraria.
Anche l’uomo davanti a lei sembrava essersi rilassato e sorridendo, accorciò la distanza tra i loro visi. Ormai non c’erano più dubbi riguardo ai pensieri di Pam e non poteva che esserne lusingato. Fino ad un paio di mesi prima, poteva solo sognare una simile scena.
“oh insomma! Vi sembra questa l’ora di mettersi a parlare!” sbottò Miss Plum irrompendo sul pianerottolo. Aveva una vestaglia color verde acido e una cuffia sotto la quale i suoi capelli erano stati intrappolati nella morsa di antiestetici bigodini.
Sobbalzando violentemente per quella sgradita interruzione, i due si allontanarono all’istante.
“chi è lei?” chiese brutalmente la donna che, senza occhiali, faceva fatica a mettere a fuoco il ragazzo. In passato era abituata a rimproverare Pam per la sua tendenza a chiacchierare sul pianerottolo, specie quando si trattava degli uomini che si portava a casa.
La vecchietta però, complice la grave miopia e il look inusuale di Jason, non potè riconoscere il suo vicino che tanto adorava. Quest’ultimo aveva ormai raggiunto il limite di sopportazione e, forse anche a causa del vino che aveva assaporato durante la cena, sbottò esasperato:
“SENTA, SONO APPENA LE DIECI! CHE CAZZO ROMPE LE PALLE LEI A QUEST’ORA? Sono venti i minuti che sto cercando di dire a questa ragazza che mi piace ma tutto il mondo cospira per prolungare la mia agonia!”
Miss Plum, spaventata da quella reazione, sparì furtivamente dentro casa, serrandosi la porta alle spalle, come un topolino che dopo essere uscito dalla tana, si trova di fronte la fauci di un gatto famelico.
Jason sospirò seccato mentre Pam lo fissava incredula.
La reazione del ragazzo l’aveva lasciata senza parole, lui sempre così educato e controllato, ma quella passava comunque in secondo piano se confrontata con il contenuto della frase.
Jason si massaggiò il collo in imbarazzo, guardandosi la punta delle scarpe:
“che confessione di merda”
Pam sorrise intenerita e gli portò una mano sul suo braccio, vincolandolo a spostare lo sguardo su di lei:
“a volte le parole non sono necessarie… basterebbe un semplice gesto” e si mise in punta di piedi, perché, nonostante i tacchi, ancora non riusciva a raggiungere il volto dell’uomo.
Sfiorò le sue labbra, quasi avesse paura di sciuparle e le premette con eccessiva delicatezza contro le proprie.
Si staccò da lui per un secondo, aspettando una sua reazione, che arrivò istantanea: insoddisfatto per quel contatto così poco appagante, l’uomo riavvicinò con foga il viso di Pam al suo, sorreggendole la testa e trascinandola con sé in un bacio che con il precedente condivideva solo i soggetti che se lo scambiavano.
 
Dopo aver suonato due volte, e con una certa insistenza, Erin non aveva ottenuto ancora risposta.
Cercò di sporgersi, scrutando oltre le inferriate del cancello ma un’ombra nera si avventò su di lei, strappandole un urlo lancinante: il temutissimo Demon, il suo arci nemico, si era accorto della sua presenza e aveva adottato un modo tutto suo per accoglierla.  
Erin era indietreggiata di tre passi, finendo quasi in strada tanto era il terrore suscitato dalla vista di quelle zanne lucide. Il cuore le martellava freneticamente in petto e l’adrenalina era schizzata a mille.
Ripresasi dallo shock, cominciò ad inveire contro il cane.
“MA SI PUÒ SAPERE PERCHÉ CE L’HAI CON ME?” lo apostrofò, furente.
Tutto quel chiasso aveva destato l’interno della casa, in cui Erin vide accendersi una luce.
Dopo qualche secondo uscì Castiel, visibilmente sorpreso. Nonostante il rigido clima invernale, indossava solamente una t-shirt dei Pokèmon e un paio di pantaloni della tuta.
Quando il rosso realizzò la presenza di Erin, il suo volto fu ancora più deformato dallo stupore:
“e tu che ci fai qui a quest’ora?” e lesse dallo schermo del cellulare che erano le 22.08.
Alla vista del padrone, Demon si acquetò e cominciò a trotterellargli attorno.
“sono venuta a chiederti ospitalità” rispose Erin congiungendo i palmi delle mani e mo’ di supplica “visto che vivi da solo, sei l’unico che potevo disturbare a quest’ora”
“e come mai hai bisogno di ospitalità?”
“ti ricordi Jason? Il vicino di casa di mia zia? Beh, ho la sensazione che stasera sarei stata di troppo così ho inventato una scusa per andarmene. Ufficialmente adesso dovrei essere da Iris”
“e perché sei venuta proprio qui?” formulò il ragazzo, incapace di seguire il ragionamento dell’amica.
“te l’ho detto. Vivi da solo, mica posso presentarmi a quest’ora dalla famiglia di Iris! Non ci avrei fatto una bella figura” spiegò Erin convinta della sua logica inattaccabile.
Castiel trattene a stento una risata beffarda e commentò:
“beh non è che presentarti qua all’improvviso e pretendere che ti dia un posto letto sia il comportamento da persona educata. Il fatto che tu non ci abbia pensato ti rende piuttosto infantile”
“detto da uno che indossa la maglia dei Pokèmon non ha molto valore come offesa” lo derise prontamente Erin, indicando la stampa di Charmender. Il draghetto arancione, con i suoi occhioni tanto enormi quanto adorabili, erano in ridicolo contrasto con l’espressione arcigna del ragazzo.
“offendere il padrone di casa non ti aiuterà a perorare la tua causa” osservò sagacemente quest’ultimo.
Erin si zittì, convenendo con sé stessa che in fondo l’amico non aveva tutti i torti.
Il rosso, cercando di accantonare la sua perplessità per quell’improvvisata, si fece venire un’idea per stuzzicarla un po’:
“lascerò scegliere a Demon” annunciò risoluto, godendosi l’espressione conseguente di Erin.
“COSA?” sbraitò lei per l’appunto “no Castiel ti prego! Quel gramo mi odia!” protestò terrorizzata.
“come l’hai chiamato?” ribattè offeso, spegnendo all’istante il sorrisetto furbo che gli aveva illuminato il viso.
“non hai mai visto Harry Potter? Che infanzia triste la tua”
“ti rendi conto vero che da quando sei arrivata non hai fatto altro che insultarmi?” puntualizzò il rosso.
Erin alzò gli occhi al cielo e dopo aver osservato con un certo disappunto l’abbigliamento scarno del ragazzo, si giustificò:
“è il freddo che mi sta facendo sragionare. Mi chiedo come fai a resistere qua fuori in quelle condizioni!” Mettersi una maglia a maniche corte quanto fuori il termometro segnava i due gradi non sembrava una cosa sensata, o per lo meno poteva esserlo se la persona in questione era un idiota.
“hai freddo?” indagò il ragazzo, sorpreso. Erin a sua volta avrebbe voluto ribadire che semmai era lei quella che doveva sorprendersi dell’assoluta insensibilità termica del ragazzo, ma optò per una strategia che più volte aveva visto adottare da Rosalya.
“shi” mugulò Erin cercando di fare gli occhi dolci, sbattendo le lunghe ciglia.
“quell’espressione da piccola fiammiferaia risparmiamela. Non ti viene bene come a Rosalya” la smontò istantaneamente Castiel, ferendo la sua misera dignità come donna.
“cosa devo fare per evitare di morire assiderata qua fuori quindi?”
“devi riuscire ad accarezzare Demon” replicò prontamente il ragazzo, con un ghigno sadico in volto.
“parli sul serio?” scandì Erin sconvolta.
“non ti morde mica”
“certo che no… mi stacca direttamente la mano” ribattè lei con un tranquillo sarcasmo.
A quella battuta, Castiel rise di gusto, in modo talmente spontaneo che per un attimo la ragazza dimenticò la paura che era scaturita da quella rischiosa proposta.
Castiel tendeva ad essere monotematico nel suo modo di ridere, generalmente associato ad una vena di sarcasmo e derisione ma quella era la prima volta che lo vedeva semplicemente allegro.
“no sul serio” affermò lui, tornando serio “questa è anche casa di Demon, deve essere d’accordo anche lui”
Il cane abbaiò, quasi a voler affermare la propria presenza.
Spostò poi gli occhi neri sull’intrusa, percependo tutta la sua aurea negativa.
Erin aveva dapprima lanciato un’occhiata truce al padrone per poi indirizzarla al mastino. Il suo orgoglio le impediva di darla vinta a quei due maschi sbruffoni:
“d’accordo Snoppy. Non mi fai paura” sfidò la belva, fissandola negli occhi.
Deglutì vistosamente e, dopo aver inspirato a fondo, allungò la mano oltre il cancello, che, a dispetto delle sue parole, tradiva della paura. Le dita non fecero nemmeno in tempo a trovarsi nella proprietà di casa Black che il peloso guardiano cominciò ad abbaiare paurosamente, come in preda ad un raptus di rabbia.
Terrorizzata a morte, Erin la ritrasse urlando mentre Castiel scoppiava a ridere:
“IDIOTA! D’ACCORDO, SE NON VOLEVI OSPITARMI POTEVI DIRLO SUBITO” gli ringhiò contro, ferita per essere stata oggetto del suo sadico divertimento.
Girò i tacchi e cominciò a frugare nella borsa alla ricerca delle chiavi della macchina. Le toccava davvero andare a Iris a quel punto. In effetti, ora che ci pensava, la ragazza era in casa da sola con il fratellino. Maledì se stessa per aver pensato subito a Castiel, senza considerare altre opzioni prima.
“eddai scema!” la richiamò l’amico “ovvio che ti ospito, volevo solo divertirmi un po’”
Sorpresa per quell’inversione di rotta, Erin accantonò i proprio pensieri:
“hai uno strano senso dell’umorismo” lo criticò, tornando a guardare il ragazzo che in quel momento aveva preso ad accarezzare l’animale.
“come la tua idea di educazione del resto, cara la mia -ospitami e non fare tante storie-
Erin increspò le labbra, poi non riuscì più a trattenere una risata e scuotendo il capo, tornò ad approssimarsi al cancello. Il padrone di casa si frugò nelle tasche e tirò fuori un mazzo di chiavi tintinnanti dalla quale ne scelse una dalla forma bizzarra:
“aspetta! Che fai?” lo interruppe Erin terrorizzata. Castiel alzò lo sguardo verso di lei e la fissò perplesso:
“pensi di entrare scavalcando?”
“prima lega quella belva! O vuoi usarmi come pasto?”
“non avrebbe molto da mangiare. Sei tutta pelle ossa” contemplò il rosso, volgendo un sorrisetto complice al cane. Sembrava quasi che i due si capissero poiché quest’ultimo cominciò a scodinzolare allegro, indisponendo ancora di più la ragazza.
“sul serio Castiel, legalo” lo supplicò Erin tradendo un po’ di preoccupazione.
L’amico però sembrò non curarsi di quella nota di panico, e, fissandola negli occhi replicò:
“non ti farà del male, fidati”
Quella frase la inchiodò.
Non era la prima volta che il ragazzo le rivolgeva quelle parole con una tale intensità. L’ultima volta che era successo, Erin si era ritrovata seduta su una panchina mentre lui le medicava le ginocchia sbucciate. Come in quell’occasione, anche quella notte ogni sua protesta si esaurì all’istante.
L’avrebbe preso a calci per la facilità con cui riusciva a manipolare il suo umore e a far sì che lei si piegasse alla sua volontà.
Cogliendo l’arrendevolezza della futura ospite, Castiel sbloccò la serratura, aprendo lentamente il cancello. Erin esitò un paio di secondi prima di farsi strada. Era molto titubante e teneva d’occhio Demon, senza staccare la sua vigile attenzione dal cane.
Fece un passo lento e cauto, riuscendo finalmente a toccare il suolo erboso del giardino e, notò con evidente sollievo, che l’animale non aveva reagito minimamente. Rilassò le spalle e ragionò sul fatto che comunque, per precauzione, Castiel stava trattenendo Demon per il collare.
Rincuorata, avanzò con il secondo passo ma non fece neanche a tempo ad esultare per quel guadagno di posizione,  che Demon si eresse sulle zampe posteriori, abbaiandole contro furiosamente.
Erin fu colta da un attacco di panico trovandosi a distanza così ravvicinata con quelle zanne e sfrecciò terrorizzata all’interno della casa, stabilendo un record di velocità che nemmeno Usain Bolt avrebbe mai potuto superare. Si lasciò alle spalle i versi minacciosi e iracondi dell’animale e la risata fragorosa del suo sadico padrone.
Se quella sera, la ragazza aveva pensato a quanto fosse bello vedere Castiel ridere di gusto, dopo quella scenetta, si era decisamente ricreduta.
 
Nessuno dei due ricordava come si fossero spostati dal pianerottolo alla camera di Pam. In ogni caso, né alla giovane donna, né tanto meno a Jason importava di ricostruire quel percorso.
Lei si era ritrovata distesa sul letto, supina, con le gambe piegate mentre lasciava che l’uomo la spogliasse. Con estrema calma, lui le fece scivolare via le calze, beandosi del contatto di quella pelle perfettamente depilata e liscia e tornò a baciarla intensamente, mentre lei gli passava le mani tra i capelli.
Pam staccò la schiena dal letto, permettendo al ragazzo di far scivolare via la cerniera dell’abito che, con estrema facilità arrivò a destinazione. Sentì il vestito farsi più morbido e, con gesti rapidi e decisi, se ne liberò. La vista di quel corpo che man mano si scopriva sotto i suoi occhi, mandò alle stelle il livello di testosterone dell’uomo, che prese ad esplorare con il tatto ogni lembo di pelle lasciato scoperto.
Una volta rimasta in intimo, fu Pam a prendere le redini della situazione, per recuperare lo svantaggio a cui l’avevano costretta i modi impazienti del suo compagno.  Tirò a sé Jason, costringendolo a stare sotto di lei, sovvertendo quindi le posizioni. Lo liberò dalla camicia, desiderosa di toccare quell’addome piatto e così diverso dal proprio. Si piegò su di lui cosicché i loro busti aderirono perfettamente l’uno all’altra e lo riempì di inebrianti baci.
“perché ci hai messo tanto?” gli sussurrò, mordicchiandogli leggermente l’orecchio.
“sono un idiota” si giustificò l’altro sentendo il sorriso della donna contro la sua pelle.
“risposta sbagliata. Sono io l’idiota” si colpevolizzò, passandogli la mano sul torace nudo e mettendosi a cavalcioni.
“allora siamo una coppia perfetta” concluse l’uomo, ribaltando la situazione e tornando sopra di lei. Avrebbe voluto dare un’accelerata a quel ritmo cadenzato che aveva impartito la ragazza, ma dal momento che non era più un ragazzino inesperto, aveva imparato a rispettare i tempi della sua partner, che accrescevano in lui la voglia.
Pam si eccitò ancora di più per la veemenza dell’uomo e cercò le sue labbra. Mentre era distratta dal bacio, lui le sganciò abilmente il reggiseno che scivolò via lungo le sue braccia affusolate.
La luce fioca della stanza era sufficiente per distinguere i loro corpi e quello che Jason riusciva a vedere lo eccitava sempre di più. Pam lo vide liberarsi frettolosamente dei pantaloni, muovendo con agilità la cintura e rimase in boxer, indumento che fu lei a togliere. Continuarono a baciarsi con passione, finché, quasi leggendo l’uno le intenzioni dell’altra, si fermarono per guardarsi negli occhi con intensità e trasporto.
Pam chiuse gli occhi per un attimo, mentre finalmente Jason entrava in lei ed inarcò la schiena. Per un attimo, prima di proseguire con l’atto, lei tornò a cercare il suo sguardo complice e ciò che vide, quasi la commosse: era la prima volta in vita sua che, dagli occhi di un uomo, poteva leggere quell’amore romantico a cui aveva sempre aspirato.
 

Quando anche Castiel era rientrato in casa, stava ancora ridendo per lo sketch tra il suo cane e la sua ospite. Trovò Erin seduta sul divano, con le braccia conserte e un’espressione imbronciata:
“questa me la paghi” lo avvertì, ferita nell’orgoglio.
“è stato un piacere ospitarti Erin, o no, ti prego non ringraziarmi” recitò Castiel con teatrale sarcasmo “non hai invaso la mia privacy, la mia porta è sempre aperta alle dieci di sera” .
Nonostante l’irreprensibilità di quell’appunto, Erin era ancora troppo offesa per manifestare la sua gratitudine e riconoscere che il padrone di casa non aveva affatto torto.
Ignorò l’amico che era rimasto in piedi accanto al divano e cominciò a studiare l’ambiente.
“davvero carino qui. È sicuramente più grande dell’appartamento di mia zia”
“beh, non ci vuole molto”
Lei gli lanciò un’occhiataccia fulminatrice e si ammutolì.
Castiel allora sparì in qualche angolo dell’appartamento, lasciandola da sola in soggiorno. La ragazza, patologicamente curiosa di natura, allungò il collo per accertarsi di poter agire indisturbata e cominciò a ispezionare l’ambiente.
Con rammarico, constatò che in quella stanza non c’erano foto. Aveva sempre desiderato rivedere quel visetto paffuto e dall’aria teneramente imbronciata del bambino che le aveva ritrovato il braccialetto.
Sopra la TV al plasma c’erano due mensole di legno. Su una alloggiava un imponente impianto stereo e su quella sotto, erano ordinatamente allineati dei CDs.
Quando Castiel tornò nel salotto, trovò Erin sulle punte, intenta a leggere i titoli degli album:
“non pensavo che ci fosse gente che tiene ancora le raccolte di CD. Ormai è tutto in formato digitale” si espresse, voltandosi verso il padrone di casa.
Il rosso si accomodò sul divano, posando sgraziatamente i piedi nudi sul tavolino basso di fronte a lui. Erin rimase in piedi, accanto alla TV, aspettando la risposta alla sua osservazione, che arrivò poco dopo.
“che vuoi che ti dica? È come quelli che dicono che preferiscono leggere dai libri piuttosto che dagli ebook. Ovvio che è più comodo quando sono in giro usare il lettore mp3, ma almeno quando sono a casa, adoro il contatto con la superficie liscia del CD, il rumore che fa quando lo si inserisce sulla piattaforma. Mi ha sempre affascinato come da un oggetto apparentemente così insignificante, liscio, possa scaturire della musica”
Erin annuì ammirata, un po’ sorpresa dal fatto che anche Castiel potesse avere delle opinioni interessanti, ma del resto la musica era il suo mondo e, con il senno di poi, la cosa non avrebbe dovuto sorprenderla più di tanto.
Era un’altra persona quando a parlare e muoversi era il musicista e non il ragazzo sbruffone.
Tornò quindi a sedersi sul divano, dopo aver spostato il borsone che si era portata dietro per la notte.
“che stavi facendo prima che ti disturbassi?”
“TV”
Erin spostò lo sguardo sul monitor dove fino a quel momento, c’era la pubblicità. Si chiese allora perché il ragazzo ci avesse messo tanto ad andare ad accoglierla, ma preferì non indagare ulteriormente.
In alto, a destra dello schermo, si intravedeva il logo di MTV.
Quando spuntò la faccia di JD, la ragazza esclamò:
SCRUBS! Lo guardi anche tu?”
“no lo guarda Demon” replicò sarcastico il rosso.
“che risposta idiota” sbottò Erin offesa.
“potrei dire lo stesso della domanda” la punzecchiò Castiel apatico.
Rimasero allora in silenzio, concentrando la loro attenzione sull’episodio mentre J.D. diceva:
 
“Forse bisogna decidere cosa siamo disposti a rischiare, alcuni mettono in gioco i propri sentimenti, altri il proprio futuro, quanto a me dovevo imparare a rischiare, punto. Anche se questo significava fare il primissimo passo”
 
Per i primi minuti, Erin concentrò tutta la sua attenzione sulla serie televisiva ma più durava il silenzio tra lei e il rosso, e più si sentiva strana. Anche se Castiel era il suo migliore amico, aveva trascurato di considerare che si trattasse pur sempre di un ragazzo.
“Cas”
“che c’è?” borbottò lui.
“forse ho reagito un po’ d’impulso venendo qui” ammise, arrossendo leggermente “credo sia meglio che questa cosa rimanga tra me e te. Non vorrei che Nathaniel pensasse male”
Castiel non si scompose e mantenne lo sguardo fisso sullo schermo:
“come vuoi. Per quanto mi riguarda ci sono più probabilità che salti addosso all’inquilina del piano di sopra”
“è carina?”
“ha ottantasette anni”
“idiota!” lo insultò Erin, scagliandogli contro il cuscino del divano mentre lui si sbellicava per la serietà con cui l’amica gli aveva rivolto la domanda.
La mora osservò che mai prima d’allora, l’aveva visto così allegro e si compiacque per questo, non potendo fare a meno di pensare che la causa di quella sospetta felicità fosse l’imminente concerto.
Dopo aver sbuffato per la provocazione che era sottesa dalla frase del rosso, Erin aveva incrociato le braccia al petto ed era tornata a seguire il telefilm. Lui invece si alzò pigramente dal divano, portandosi alle spalle della ragazza:
“dove vai?”
“a farmi la doccia” spiegò e, non riuscendo a trattenere un’espressione da sbruffone la provocò “vuoi venire con me?”
Per replicare a quell’ennesima beffa, l’amica si limitò ad innalzare il dito più lungo della mano.
 
Erano passati meno di dieci minuti da quando il rosso si era chiuso in bagno.
Scrubs era passato al secondo episodio ed Erin non aveva più cambiato la sua posizione, comodamente seduta sul divano verde con le gambe accavallante.
All’improvviso sentì degli strani guaiti provenire dall’esterno.
Turbata, si alzò e si sporse a guardare dalla finestra. Non osava uscire in giardino, sapendo che la belva era in libertà, ma non poteva resistere alla curiosità e alla preoccupazione di capire cosa stesse accadendo. L’esterno dell’abitazione non era illuminato e la luce di lampioni era troppo lontana per raggiungerlo. La ragazza quindi non riusciva a vedere nulla di diverso da un manto nero.
I versi diventavano sempre più acuti e lamentosi e a quel punto, Erin decise di agire: si precipitò verso la porta del bagno e cominciò a picchiarla con foga:
“CASTIEL! CREDO CHE DEMON STIA MALE!” gli urlò sentendo crescere l’ansia.
Non dovette attendere neanche cinque secondi dopo aver pronunciato quella frase, che la porta del bagno si spalancò, sfiorandole pericolosamente il naso.
Si trovò di fronte Castiel, ancora gocciolante a torso nudo, con un asciugamano avvolto attorno alla vita. Il ragazzo non calcolò minimante la presenza della ragazza e si diresse verso l’esterno, incurante della temperatura invernale. Scossa dalla sua reazione, Erin lo seguì con il cuore che accelerava sempre di più il ritmo. Il padrone di casa accese la luce della veranda e raggiunse il suo cane.
La scena che si parò di fronte lo immobilizzò.
Appena la ragazza si sporse a guardare, realizzò all’istante la causa di quella reazione.
Il caro Demon poteva dirsi tutto tranne che sofferente. In qualche modo, una graziosa cagnetta era riuscita ad intrufolarsi nel giardino e ora i due erano nel pieno di un atto di copulazione canina.
Erin avvampò mentre Castiel, ripresosi dal terrore che l’aveva pervaso, sentiva pulsargli una tempia per l’irritazione scaturita dal falso allarme lanciato dall’amica.
Lei lo vide trattenere una smorfia che era un misto tra la rabbia e la beffa e si preparò ad incassare il colpo:
“d’accordo che non sei molto sveglia, ma devo anche spiegarti cosa stanno facendo?” borbottò tornando sulla veranda. Non sapeva neanche lui se scoppiare a ridere o insultarla per lo spavento che gli aveva provocato. Ora che l’adrenalina si stava esaurendo, cominciò ad avvertire sulla pelle ancora bagnata, il freddo pungente di metà dicembre.
“era buio, non riuscivo a vedere!” si giustificò Erin ancora imbarazzata per la tremenda figuraccia.
Castiel si arrestò prima di aprire la porta e la guardò stizzito.
Tuttavia, per quanta collera trasparisse dal viso del ragazzo, l’amica era distratta da tutt’altro per prestargli attenzione: davanti agli occhi, assolutamente ignaro dell’effetto che sortiva sulla ragazza, Castiel era a petto nudo, rivelando un fisico scolpito e asciutto, degno di un cestista in piena forma.
 
 
La ragazza arrossì di colpo mentre lui la accusò:
“mi hai fatto venire un infarto!”
“rientra sennò ti verrà una broncopolmonite! Altro che infarto” lo rimbeccò Erin, ancora a disagio e chiedendosi come facesse a resistere in quelle condizioni. Tra l’altro il suo corpo era ancora gocciolante dopo la doccia che era stato costretto ad interrompere in fretta e furia.
“ehi non pensare di darmi ordini a casa mia!” si inalberò il rosso “io vado in giro come mi pare e se mi andasse, potrei anche mettermi nudo qui in giardino!” affermò, portandosi le braccia sui fianchi.
Che Castiel non fosse un ragazzo particolarmente fortunato lo sapevano tutti i suoi amici: era come se un’entità superiore (quella che il personaggio di Hachiko del manga NANA avrebbe chiamato il grande demone celeste), trovasse un gusto sadico nel tormentarlo; quella particolare circostanza, unita alla frase che aveva pronunciato il rosso, rappresentava un’occasione troppo irresistibile per non approfittarne.
Così, prima che il ragazzo potesse accorgersene, il nodo al lato dell’asciugamano, già allentato dalla corsa verso il giardino, si sciolse definitivamente, catturando inevitabilmente l’attenzione di Erin su un punto cruciale del corpo del ragazzo.
La ragazza distolse troppo tardi lo sguardo, diventando paonazza dopo aver ammirando Castiel, come mamma l’aveva fatto, davanti a lei.
Come se non bastasse, il tempo di risposta dell’inconsapevole nudista non fu immediato e solo quando constatò l’espressione dell’amica, in aggiunta alla gelida brezza invernale che gli accarezzò il suo timido amico, si precipitò a nasconderlo con le mani, mentre il viso gli prendeva fuoco.
A peggiorare una situazione già di per sé fin troppo imbarazzante, entrò in scena il vicino: Mauro infatti, destato da tutta quella confusione, si era sporto oltre la recinzione che divideva la sua proprietà da quella del ragazzo. Fortunatamente, (e, almeno questo, il grande demone celeste lo risparmiò a Castiel), dalla sua prospettiva l’uomo poteva vedere solo Erin.
 “Castiel. Tutto bene?” si premurò il vicino che aveva riconosciuto la voce del ragazzo.
Il vecchietto si stupì per la reazione della ragazza che era impalata sulla veranda e non si era nemmeno degnata di salutarlo. Si ricordava di lei, l’aveva già vista settimane prima e ci rimase un po’ male per quella scarsa considerazione. Quello che il gentile vecchietto non poteva sapere, era quanto Erin fosse turbata in quel momento.
“tutto a posto” borbottò Castiel, stringendo talmente forte l’asciugamano da bloccargli la circolazione del sangue alle gambe, e fuggì dentro casa.
 
I due ragazzi rientrarono nell’appartamento senza dire una parola e senza guardarsi in faccia.
Erin aveva ancora le guance in fiamme e non sapeva come fare per sopire quel fuoco. Si sedette sul divano e provò a portarsi le mani sul viso, sperando che quel contatto freddo fosse sufficiente ad attenuare l’imbarazzo che le si leggeva in faccia. Probabilmente neanche l’azoto liquido, che scende sotto i 190 °C, sarebbe stato sufficiente allo scopo.
Era la prima volta che vedeva un uomo completamente nudo e la sua innocenza ne era uscita piuttosto scossa.
Senza contare poi, che la vista ravvicinata del busto dell’amico non l’aveva di certo lasciata indifferente. Gli addominali definiti e piatti, il torace largo e ben proporzionato, erano impressi a fuoco nella sua mente.
Le gocce d’acqua che gli scivolavano via lungo la pelle, seguendone la forma dei muscoli.
Non poteva negare che fisicamente Castiel fosse molto, forse troppo, attraente.
Scosse violentemente la testa, quasi a voler far uscire quei pensieri. Si sentiva confusa e stordita, come se non sapesse cosa pensare.
Sentì uno starnuto provenire da una delle stanze in fondo al corridoio e, recuperando un po’ di coraggio, cercò di stemperare il disagio esclamando:
“ben ti sta. Chissà che ti becchi un raffreddore!”
“riesci a dirmi qualcosa di gentile stasera o devo sbatterti fuori?” fu la risposta acida che attraversò l’appartamento.
Dopo qualche minuto, Castiel riemerse, questa volta completamente vestito e impegnato a strofinarsi i capelli con un asciugamano.
Erin lo osservò in silenzio. Cercava di non pensare a quanto era accaduto pochi minuti prima ma, per quanto ci provasse, si trattava di quel genere di immagini che rimangono indelebili nella mente di una persona, a maggior ragione in quella di Erin che era dotata di una buona memoria fotografica.
Forse il suo viso, o meglio, la direzione in cui era puntato il suo sguardo, tradì quali fossero i suoi pensieri in quel momento, perché Castiel era diventato viola e seccato, sbottò:
“la smetti di fissarmi il pacco?”
Erin sussultò, vanificando così i precedenti tentativi di smorzare il suo rossore.
“MA CHE DICI PERVERTITO!”
“LA PERVERTITA SARAI TU!”
La ragazza sbuffò e fu costretta a trovare un improvviso interesse per la raccolta di CDs sopra la mensola.
Sentiva la figura di Castiel in piedi accanto a lei, e dopo un minuto buono in silenzio, scoprì che non riusciva a non guardarlo. Questa volta però la sua attenzione si era spostata sul viso, chino sotto l’azione dell’asciugamano.
“hai mai pensato ad accorciarti i capelli?” gli suggerì “staresti meglio”
L’ultimo commento risuonò più come un sussurro, tanto che sembrava più una riflessione che avrebbe voluto tenere per sé.
Il ragazzo però non rispose al commento e continuò l’operazione reclinando leggermente il capo verso il basso così che Erin non ne potesse indagare la sua espressione. Lei sorrise per la poca grazia con cui si asciugava la chioma rossiccia. Forse era troppo abituato ai gesti vigorosi con cui faceva il bagno a Demon, vista l’energia che adottava per asciugare i propri capelli.
Ora che avevano rotto il ghiaccio, l’imbarazzo per la scena svoltasi qualche minuto prima si stava affievolendo ed Erin potè godersi quell’atmosfera così familiare che si respirava.
Demon a parte, sin da quando era entrata in quella proprietà, aveva provato una sensazione di calore e accoglienza. Tale percezione era piuttosto strana, considerando le iniziali resistenze del padrone di casa che si era divertito a tormentala, eppure lei si sentiva bene.
Mentre dai Daniels era stata trattata come un’ospite e per giunta, sgradita, lì con Castiel si sentiva a casa. Vedere poi l’amico nel suo regno, così di buon umore, l’aveva colpita e al contempo affascinata.
“niente più Pokèmon?” considerò la ragazza, osservando la t-shirt blu della Nike che il ragazzo aveva indossato.
“qualcosa contro i Pokèmon?” reagì, finendo finalmente di massacrare il proprio cuoio capelluto “guarda che quella maglietta ha un tessuto morbidissimo, me la metto sempre per casa” la difese il rosso, mentre Erin ridacchiava per l’ardore con cui difendeva quel capo d’abbigliamento.
“è che mi fa ridere vederti girare con Charmender. Quel draghetto ha un’espressione troppo dolce per uno come te… piuttosto potevi prendere la versione con Charizard”
“in effetti volevo quella, ma non l’ho trovata” riconobbe il ragazzo, pensando a quel lontano acquisto.
“a me invece piaceva Eevee … hai presente quello che sembrava una piccola volpe?”
“classico Pokèmon da femmina” mormorò Castiel cinico.
Erin gonfiò le mascelle e quella buffa espressione fece sorridere il ragazzo.
“comunque se vuoi farti una doccia, il bagno è la seconda porta sulla destra” la informò indicando il corridoio alle tue spalle e mettendosi finalmente seduto sul divano.
“non osavo chiedertelo per non sembrare approfittatrice ma visto che me l’hai proposto tu…” confessò l’ospite mostrando la borsa capiente che si era portata con sé e che fino a quel momento, aveva riposato silenziosa ai piedi del divano.
 
Una volta in bagno, Erin chiuse la porta a chiave e si guardò attorno. La sua vena curiosa e decisamente ficcanaso, le fece aprire l’armadietto dove trovò una schiuma da barba, dei rasoi usa e getta e un dopobarba. Era talmente abituata agli articoli femminili che sovrabbondavano nel bagno di sua zia che le fece uno strano effetto osservare quegli articoli personali da uomo.
Notando la schiuma da barba, le affiorò il ricordò di quando suo padre, dopo essersi rotto il braccio, era stato costretto a farsi radere da sua madre. Quella scena l’aveva talmente affascinata da bambina che si era promessa di fare lo stesso con il suo futuro marito. A costo di rompergli a sua volta il braccio. Inconsciamente, senza che fosse la sua volontà a guidarla, si presentò alla sua mente l’immagine di Castiel e di lei che cercava di fargli la barba, mentre lui borbottava frasi incomprensibili e stizzite.
Alzò lo sguardo verso lo specchio e vide il riflesso della sua espressione. Era allibita.
Non capiva cosa le stava succedendo quella sera.
Perché diavolo le era venuto in mente Castiel? Semmai avrebbe dovuto essere l’immagine di Nathaniel quella che doveva comparire nella sua mente. Forse era solo l’atmosfera generale, il fatto di essere entrata per la prima volta in un ambiente così intimo come la casa del suo migliore amico. Senza contare poi quanto l’avessero scombussolata gli eventi accaduti poco prima.
Si convinse che non c’era altra spiegazione se non quella. Era stato solo un caso.
Aprì la doccia e dopo essersi spogliata frettolosamente, lasciò che il getto d’acqua la investisse. La manopola era rimasta settata sulla temperatura che aveva scelto il ragazzo che si rivelò troppo fredda per lei. Per l’ennesima volta, si trovò a interrogarsi sulla percezione del calore dell’amico ma preferì poi evitare di focalizzare ancora i suoi pensieri su di lui.
Spostò così la maniglia sul segno rosso e attese che l’acqua si portasse ad una temperatura più compatibile con l’epidermide umana. Più rilassata, si lasciò colpire dal getto, confidando nella sua azione depuratrice da ogni strano pensiero che quella sera albergava nella sua mente.
 
Una volta uscita dalla doccia, Erin aveva tamponato la pelle con l’asciugamano portato da casa e l’aveva appeso accanto a quello di Castiel. Recuperò dalla borsa la sua crema all’aloe vera e se la spalmò su tutto il corpo. Si sciolse i capelli che aveva raccolto verso l’alto per non bagnarli e si vestì in bagno, indossando il suo pigiama con i procioni che Rosalya avrebbe sicuramente bocciato.
Tornò in salotto e trovò che il divano era esattamente come l’aveva lasciato, fatta eccezione per una coperta in pile.
Non poté celare che la cosa la lasciò piuttosto perplessa, aspettandosi come minimo un cuscino diverso da quello del divano, su cui dormire. Poi considerò che forse Castiel non ne aveva altri così si rassegnò a farsi andare bene quello. Del resto quella sera era stata fin troppo invadente e non poteva avanzare ulteriori obiezioni.  
Tuttavia, si tranquillizzò quando vide l’amico emergere dal corridoio, tenendo in mano un guanciale, che lanciò con poca grazia sul divano.
Erano le undici e mezza passate e Scrubs aveva terminato anche l’ultimo episodio. Castiel spense la TV e, con un cenno del capo, la esortò:
“ok, seguimi”
Senza capire, la ragazza si limitò ad assecondare quell’ordine e il ragazzo aprì la porta davanti al bagno che, per forza di cose, doveva essere la sua stanza.
Le pareti erano color grigio polvere, una tonalità che Erin adorava tranne una parete che era rigorosamente nera e corrispondeva a quella a contatto con la testata del letto. La ragazza pensò subito alla sorella e alle mille battaglie fatte con i suoi genitori in passato per ottenere il permesso di colorarsi la camera di nero. Probabilmente se la gemella avesse visto la stanza del ragazzo, gliel’avrebbe invidiata a morte. Nel complesso anche ad Erin quella camera piacque molto, pur avendo gusti più femminili. Le pareti scure infatti mettevano in risalto la cassettiera in legno chiaro, dall’aspetto un po’ grezzo e che sprigionava un leggero profumo, in ricordo degli alberi che ne costituivano la materia prima. Sul pavimento era steso un enorme tappeto dalle righe bianche, nere e rosse. Sul muro erano appesi svariati poster che andavano dalle band preferite del ragazzo, le moto fino a qualche foto di partite dell’NBA. Se Erin era rimasta sorpresa dalla nutrita raccolta di CDs del salotto, quella che troneggiava in quella stanza era a dir poco smisurata. Le risultava difficile persino farne una stima.
C’erano pochi libri ma questo non la sorprese. Ciò che invece la lasciò piacevolmente colpita, era l’ordine relativo che regnava nella stanza. Sospettò che il ragazzo avesse approfittato della sua assenza mentre era sotto la doccia, per conferire un aspetto più presentabile alla camera.
Il letto era ad una piazza e mezza e sembrava particolarmente comodo, tanto che Erin si dispiacque di dover passare la notte sul divano, che non poteva assolutamente reggere il confronto quanto a comfort.
 “ti ho cambiato le lenzuola e, se eviti di frugare in giro, non dovresti trovare boxer o calzini” la informò Castiel.
Erin, che fino a quel momento aveva trascurato di chiedersi perché il ragazzo le avesse mostrato la stanza, esclamò sorpresa:
“aspetta! Io dormo qui?” 
“pensavi di dormire in cuccia con Demon?” chiese beffardo il ragazzo.
Lei lo guardò sarcastica poi tornò ad insistere, anche se a malincuore:
“no sul serio, il divano andrà benissimo. Ho già approfittato anche troppo della tua ospitalità”
Castiel alzò le spalle, insensibile ad ogni scrupolo o protesta da parte della ragazza:
“tu dormi qui, discorso chiuso” la liquidò.
L’amica stava per replicare quando l’occhio le cadde sulla scrivania, sulla quale erano impilati degli spartiti. Si avvicinò e leggendo il titolo di quello in cima al plico, mormorò:
“under the stars”
Castiel la osservava impassibile, appoggiato contro lo stipite della porta, mentre lei, incuriosita chiese:
“è la canzone che non ti convinceva giusto?”
Il compositore scrollò le spalle, gesto che valse alla mora come una conferma.
“non capisco il perché. Non te l’ho mai detto ma è la canzone che preferisco tra tutte quelle che hai composto finora” ammise Erin, guardandolo negli occhi.
Tra di loro c’era la distanza di cinque passi, lei accanto alla scrivania, lui appoggiato contro copriprofilo della porta, eppure gli sembrò di sentirla vicina a sé.
Ogni tanto lei se ne usciva con frasi che lo disarmavano, in cui non poteva neanche usare il sarcasmo per celare le reazioni che suscitavano in lui.
“l’avevo composta per Debrah” mormorò.
Erin rimase in silenzio, mantenendo lo sguardo fisso sulle note. Castiel nel frattempo, resosi conto della propria vulnerabilità, abbandonò la stanza prima che lei potesse accorgersi della patina di tristezza che gli aveva velato gli occhi.
Lui amava ancora Debrah e di questo Erin ne era convinta. Eppure quella ragazza non meritava l’amore del suo amico, era per questo che ogni volta che ci pensava, lei se ne rammaricava.
“è davvero per questo?” le chiese una vocina subdola nella sua testa.
La ragazza rimase per un attimo interdetta, poi la ignorò.
Uscì anche lei dalla stanza, spostandosi in corridoio da cui poteva intravedere il divano su cui si era spaparanzato l’amico.
Il rosso si era sistemato il guanciale sotto la testa e la coperta in pile, troppo corta, gli copriva solo le gambe.
“Castiel…”
“che vuoi?” borbottò lui, ergendosi sui gomiti per poter guardare la sua interlocutrice. Quest’ultima sorrise dolcemente e sussurrò:
“grazie per stasera”
Il padrone di casa arrossì e tornò immediatamente supino, rispondendo con un gesto sbrigativo della mano a simboleggiare che non era necessario che si formalizzasse a ringraziarlo.
Divertita, Erin rientrò nella stanza del ragazzo mentre un sorriso sereno illuminava il viso del padrone di casa.
 
La ragazza si stese sul cuscino e le sue narici vennero immediatamente solleticate da un profumo familiare. L’odore di Castiel. Di solito non le piaceva dormire su un cuscino che non fossero il proprio, ma quell’aroma era inebriante.
Il materasso poi era così comodo e confortevole. Il suo corpo sprofondava, facendola quasi sentire avvolta da un abbraccio.
Per la felicità, sgambettò un po’ emettendo una risatina allegra, poi sentendosi stupida, si ricompose e cercò di non pensare al povero padrone di casa che era stato costretto a rinunciare a quel giaciglio paradisiaco.
 
Castiel non riusciva ad addormentarsi, ma non per i motivi che poteva immaginare Erin.
Certo, il fatto di non essere abituato a passare la notte sul quel divano non giocava a vantaggio del suo sonno, ma non di rado riusciva ad “appennicarsi” davanti alla TV.
Accantonata quindi la giustificazione della relativa comodità di quel giaciglio, c’era un altro motivo che poteva giustificare la sua insonnia: il concerto. L’indomani si sarebbe esibito davanti a tutta la scuola e se avesse fatto una figura di merda, la prospettiva di dover trascorrere un altro anno e mezzo in quel liceo, avrebbe reso ancora più penosa la sua situazione. Eppure, ora che il concerto era così imminente, si riscoprì molto meno teso rispetto alle settimane precedenti. Forse era subentrata la rassegnazione per l’ineluttabilità del suo destino, oppure, anche se gli costava non poco ammetterlo, si stava facendo strada l’ottimistica speranza che sarebbe andato tutto bene. Nel pomeriggio Lysandre gli aveva telefonato, dimostrandogli che, miracolosamente, la sua gola era guarita. Quello era un ottimo segno tanto che, più ci pensava e più il rosso si sentiva fiducioso: l’indomani sarebbe filato tutto liscio.
Concluse quindi che nemmeno il concerto fosse la causa della sua insonnia.
Alzò lo sguardo verso il corridoio, trovandosi costretto a valutare quell’ipotesi che aveva continuato ad ignorare, scartandola fintanto che gli era stato possibile: il fatto che in quella casa ci fosse Erin, lo faceva sentire strano.
Nonostante avesse fatto di tutto per non darlo a vedere, quella sera era rimasto piacevolmente sorpreso nel trovarsi di fronte l’amica.
 
“amica” ripeté nella sua mente con un certo disprezzo.
 
Almeno quando era perso nei suoi pensieri poteva abbondare l’ipocrisia di chiamarla così.
Che Erin gli piacesse era una cosa che aveva sempre cercato di negare con tutte le sue forze. Probabilmente gli era sempre piaciuta ma era talmente impegnato a convincersi che non fosse così, da finire per ingannare se stesso.
Finalmente però era uscito dalla fase della negazione. Lysandre sarebbe stato molto orgoglioso di lui in quel momento, se solo avesse posseduto la capacità di leggergli nel pensiero.
Era buffo che proprio quando l’amico aveva rinunciato a fargli pressioni perché fosse sincero con se stesso, Castiel aveva capito.
Ripercorse nella sua testa, come un film visto a velocità aumentata, i ricordi che lo legavano ad Erin: la prima volta che si erano conosciuti, lei era appena arrivata al liceo e aveva occupato il suo posto. Nonostante le sue proteste, la ragazza non aveva abbandonato la posizione e questo in fondo l’aveva divertito. Quando poi aveva scoperto l’interesse della ragazza per il club di basket, non aveva potuto non cedere alla tentazione di punzecchiarla, proponendole quella prova assurda di trovare il pallone dalla quale però lei era uscita vittoriosa. Si spostò poi a pensare alla sfida in cui l’aveva umiliata davanti a tutti e se ne rammaricò. Con il senno di poi, il suo comportamento non era stato encomiabile e la mortificazione della ragazza in quell’occasione acuirono il suo senso di colpa. Tuttavia Erin non si era fatta abbattere e alla fine, era riuscita ad inserirsi nella squadra, guadagnandosi l’affetto e il rispetto degli altri cestisti.
Quando poi la sua rivalità con Ambra aveva raggiunto livelli comici, Castiel non aveva potuto fare a meno di ammettere che in fondo, quella ragazza era davvero tosta.
La vera svolta però, era stato il primo venerdì sera da quando era arrivata al liceo.
Si sorprese per la nitidezza di quel ricordo: nella sua mente vedeva Erin, con gli occhi socchiusi mentre, dimenticandosi di non essere sola, cantava Don’t wake me.
Ora ne era convinto. Era stato da lì che aveva cominciato a guardarla con occhi diversi.
Quella sera in cui l’aveva accompagnata a casa, in cui aveva cercato goffamente, di strapparle un sorriso. Quanto adorava vederla sorridere teneramente.
Con la scusa dell’allenamento personale, si era ritagliato un appuntamento fisso con lei il sabato mattina, impegno che non aveva voluto cedere a Trevor quando questo si era offerto come insegnante.
C’era stata poi la lezione d’arte, in cui la Robinson l’aveva costretto a studiare attentamente i tratti del volto della ragazza e lui non aveva potuto non notare quanto li trovasse belli.
Mentre la raffigurava, quella volta nell’appartamento della zia della ragazza, non disegnava quello che vedevano i suoi occhi, ma il suo cuore e, dopo aver contemplato il risultato finale, il suo inconscio l’aveva capito… e per questo aveva provato quel senso di inquetudine.
Si complimentò con sé stesso per aver finalmente, a distanza di tante settimane, realizzato il perché quel ritratto l’avesse tanto sconvolto. In effetti Lysandre aveva proprio ragione a definirlo un idiota: Castiel si lanciava i suggerimenti lui da solo eppure manco li coglieva.
Quando Erin e Nathaniel poi avevano litigato, gli era stato impossibile nascondere la soddisfazione per quell’evento, tanto che Rosalya l’aveva puntualizzato. Come il fratello, era un’attenta osservatrice e probabilmente aveva capito cosa lui provasse per la sua amica. Nel buio di quella stanza, quella sera, Castiel la maledì in silenzio, realizzando per la prima volta che in fondo, era anche per colpa di Rosalya se Erin non era più single. Quanto ad Iris, sembrava abbastanza ingenua quanto la sua amica mora, quindi non potè colpevolizzare anche lei.
Aveva lasciato che Erin partecipasse a quella gita senza di lui, nonostante quel senso di inquietudine che l’aveva accompagnato per tutto il tempo, tanto da spingerlo una volta a chiederle sue notizie mentre era via.
Quando finalmente era tornata, aveva portato con sé la peggiore delle novità, ma anche il più prevedibile degli epiloghi: si era messa con Nathaniel. Su un primo momento ci era rimasto di merda poi si era arrabbiato con lei, giustificando la sua reazione come irritazione verso l’incoerenza della ragazza che in pochi giorni si era tolta ogni dubbio circa i suoi sentimenti per il biondo.
Ora che stava riflettendo a mente fredda, si sorprese lui stesso del fatto che, all’epoca dei fatti, era davvero convinto che fosse questa la motivazione dietro la collera.
In realtà la spiegazione era molto più banale e scontata ma ammetterlo a se stesso, anche il quel momento, gli costava un certo sforzo: era pura e semplice gelosia.
In qualche maniera poi avevano fatto pace, del resto lui non avrebbe resistito a lungo senza rivolgerle la parola. Era subentrata la recita in cui, ancora non se ne capacitava, era riuscita a convincerlo a prendervi parte. Se non avesse partecipato anche lei, probabilmente a nulla sarebbero valse le suppliche di Lysandre, Castiel non sarebbe mai salito su quel palco.
Tuttavia nel suo cuore si era rassegnato alla scomoda etichetta di migliore amico e, anche se la consapevolezza di essere l’unico a sapere di Sophia lo lusingava, di fatto sentiva che quello status gli andava sempre più stretto, come una  maglietta della dimensione sbagliata.
Non aveva fatto nulla per recuperare qualche punto agli occhi di Erin, aveva addirittura bisticciato con suo padre. Del resto il modo minaccioso e indisponente con cui Peter lo aveva squadrato, anziché intimorirlo, l’aveva solleticato. Sicuramente Nathaniel gli aveva dato tutt’altra impressione, ma questo era talmente ovvio che non valeva neanche la pena chiedersi cosa si fossero detti lui e i genitori della ragazza.
Il biondo l’aveva sempre battuto in tutto, ragazze comprese.
Questa considerazione, lo portò quindi ad un’amara conclusione: l’unica cosa che poteva fare era cercare di rassegnarsi il prima possibile; c’era un che di tragicomico nel fatto che, quei sentimenti che aveva appena compreso di aver maturato verso Erin, già dovevano essere soffocati per non prolungare la sua agonia.
Sospirò, infastidito per la piega che avevano preso le sue riflessioni e la consolazione di aver dato un volto alla causa della sua insonnia, non fu sufficiente a farlo sentire meno inquieto.
 
Erin, nonostante i suoi apprezzamenti per il letto e la grande stanchezza che sentiva addosso, non aveva ancora preso sonno. Del resto valutò che fossero trascorsi approssimativamente solo venti minuti da quando si era distesa sul letto, così lo abbandonò e si diresse in salotto:
Fece capolino sulla soglia della porta e sussurrò:
“Castiel sei sveglio?”
Stupido per quell’intromissione da parte della ragazza, prima nella sua testa e ora nella realtà, borbottò sarcastico:
“no, sto dormendo”
“scemo” ridacchiò Erin “non ti ho detto buona notte”
Castiel a quel punto si mise seduto, fissandola con curiosità che la fece sorridere.
Con un misto di ironia e perplessità, domandò:
“e tu svegli le persone per un buonanotte?”
“sei a letto da poco, come potevi esserti già addormentato?” obiettò lei divertita.
“è passata più di un’ora” puntualizzò il rosso, guardando l’orologio.
Erin fu costretta a spostare lo sguardo sull’oggetto e realizzare che la sua personale percezione del tempo non corrispondeva a quella misurata dal dispositivo.
“scusa” sussurrò “beh, allora notte”
“’notte” mugolò il ragazzo, ancora interdetto.
Tornò a stendersi, sorridendo tra sé per i modi bizzarri della sua ospite. Se non altro l’aveva messo di buon umore. A quel punto doveva solo cercare di rilassarsi e attendere che il sonno arrivasse.
Dopo cinque minuti, ci pensò Erin a vanificare nuovamente i suoi buoni propositi.
La ragazza infatti tornò sulla soglia del salotto, allungando il collo per farsi notare dal rosso, che, frustrato per la propria crescente incapacità di addormentarsi, si spazientì:
“che vuoi adesso?”
“ti giuro che questa è l’ultima” promise la ragazza congiungendo le mani davanti al viso “ma non è che potresti aiutarmi ad abbassare la tapparella? Non ci sono riuscita e mi fa paura dormire con quella tirata su”
Castiel si destò pigramente, rimanendo seduto.
“vuoi che ti abbassi la tapparella?” ripeté sconcertato.
“sì” ribadì Erin, annuendo con convinzione.
“guarda che la finestra è chiusa, di che hai paura?”
che un eventuale aggressore possa rompere il vetro” ipotizzò Erin “e invece con la tapparella abbassata non corro rischi”
“non corri rischi in ogni caso” la liquidò Castiel, incapace di condividere i timori della ragazza “e comunque non posso, è bloccata. Dovrei star lì a smontare il cassone sopra”
Quella giustificazione venne accolta da Erin con impassibilità poi sussurrò supplichevole:
“non puoi proprio farlo ora?”
“mi stai davvero chiedendo di mettermi a fare riparazioni nel cuore della notte?”
Erin annuì sorridendo stupidamente ma ciò non le bastò a guadagnarsi il favore di Castiel.
“scordatelo. Cerca di dormire. Notte” la zittì, tornando supino e mettendosi su un fianco.
Non sapeva più cosa pensare.
Vedendo il corpo del ragazzo rimanere rigido e immobile, Erin tornò sconsolata nella sua stanza.
Fissò titubante la finestra dalla quale proveniva la debole luce della strada. Erano al piano terra dell’edificio per cui non trovava poi così assurda la sua paura.
Si accese la luce sul comodino e si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse conciliarle il sonno.  Aveva notato che il repertorio di libri di Castiel era piuttosto scarso ma in mancanza di meglio, dedicò il suo interesse a quello.
Un titolo attirò la sua attenzione e sgranò gli occhi trattenendosi dal ridere: sulla mensola, in mezzo a qualche opera di Stephen King, autore che non le era mai piaciuto, seminascosto, c’era il dvd di Biancaneve e i sette nani.
Cercando di non scoppiare a ridere, stava per prenderlo quando notò che nel titolo mancava una lettera fondamentale e che cambiava completamente il contenuto della pellicola: la prima N di nani.
Arrossendo vistosamente, una volta tanto non assecondò la sua curiosità e preferì non cercare conferma di quella scoperta guardando la copertina sul fronte. Per quella sera, la sua pudica innocenza era già stata sufficientemente intaccata. E pensare che Castiel aveva dato a lei della pervertita.
Sospirò, rassegnata al fatto che per un ragazzo fosse normale trovare interesse per quel genere di film e si chiese se fosse lo stesso anche per Nathaniel. Ciò che avrebbe scoperto anni più tardi, era che era stato proprio il biondo a prestare quel capolavoro del cinema a luci rosse al suo amico, che però non gliel’aveva più reso.
Nel timore di fare qualche altra imbarazzante scoperta, Erin si allontanò dalle mensole e passò in rassegna la scrivania. L’occhio le cadde nuovamente sullo spartito che l’aveva colpita un’ora prima.
Dopo che Castiel le aveva confidato di aver composto quella canzone per Debrah, Erin aveva intuito perché non lo convincesse la versione di Lysandre. Non era una canzone dedicata ad una donna, era una canzone cantata da una donna. Il testo parlava di un amore vissuto con intensità e struggimento dai due amanti, in una notte buia, sotto le stelle.
 
Castiel non ne poteva più. L’indomani avrebbe dovuto esibirsi e passare la notte a fissare il soffitto non gli sarebbe stato d’aiuto.
Mentre se la prendeva con se stesso per aver realizzato giusto la sera prima di quell’importante evento i suoi sentimenti per Erin, sentì una voce sommessa provenire dalla sua stanza.
 
Only in the dark you can see the light
Every step makes me feel so blind
 
Rimase in ascolto di quella voce, disteso sul divano.
Erin cantava sottovoce, sottovalutando l’udito finissimo del musicista. Lui, dapprima sbigottito, sorrise, alzandosi meccanicamente dal divano e avvicinandosi alla fonte di quella melodia.
Non volle che la ragazza si accorgesse della sua presenza, così appoggiò la schiena contro la parete del corridoio, accanto alla porta della sua stanza, lasciata socchiusa:
 
And why are you waiting under the stars?
There wasn’t a better place for us?
 
Ecco. Era quella la sua canzone. Esattamente come l’aveva ascoltata nella sua testa prima di comporla.
Dalla sua prospettiva, non poteva vedere la ragazza, ma riusciva a immaginarsela con le palpebre abbassate e un po’ curva, verso quel foglio che per lui aveva rappresentato così tanto.
 
La canzone finì e Castiel sentì il click dell’interruttore della lampada da tavolo che veniva spento e la debole luce proveniente dallo spiraglio della porta, sparì.
Ciò che non poteva intuire, era che la ragazza, ancora preoccupata per la finestra senza tapparella, si era ficcata sotto le coperte, quasi usandole come scudo dalle sue fobie.
Colpa di sua sorella e delle storie dell’orrore che le raccontava quando erano bambine. Il ragazzo si staccò dal muro e tornò in salotto, con quella dolce ninna nanna che gli echeggiava in testa.
 
Alle 3.52 Castiel realizzò con frustrazione di aver cambiato posizione almeno settantacinque volte.
Esasperato, si mise seduto sul divano e sospirò sconfitto.
Nonostante la temperatura nella stanza non superasse i 21 °C e il suo pigiama fosse rappresentato unicamente da una t-shirt a maniche corte e un paio di pantaloni della tuta, stava morendo di caldo.
Andò in cucina e si versò un bicchiere d’acqua, trangugiandola d’un fiato.
Ci mancava anche la storia della tapparella. Come le venissero in mente certe trovate, proprio non lo sapeva. Tuttavia, trovava che quella piccola fobia la rendesse ancora più adorabile.
Ora che non aveva problemi ad ammettere a se stesso ciò che provava per lei, si stupiva della facilità con cui certe considerazioni si formulassero nella sua mente.
Si chiese se lei fosse riuscita ad addormentarsi e, intravedendo la porta socchiusa della sua stanza, si decise a sbirciare.
Allungò il collo, sperando che la ragazza fosse davvero nel mondo di Morfeo. Se fosse stata sveglia, insospettita dai movimenti furtivi del ragazzo, in aggiunta alla sua fissa per i serial killer notturni, sarebbe morta di paura, svegliando i vicini.
La testolina del rosso fece furtivamente capolino nella camera e, non ottenendo alcuna reazione, fu seguita dal resto del corpo. Castiel entrò di soppiatto in quella stanza che conosceva fin troppo bene, riuscendo quindi a muoversi agevolmente nonostante la scarsa luminosità. Il chiarore della luna si rifletteva su oggetti metallici e lucidi, facilitandogli l’incursione. Che Erin stesse dormendo ormai era più che lampante ma, anche se accertarsene era stato il suo iniziale intento, scoprì che non gli bastava più.
Da quel momento in poi, si mosse involontariamente, senza chiedersi il perché di quello che stava succedendo in lui.
Si portò davanti alla ragazza, accucciandosi alla sua altezza.
Lei era lì, distesa su un fianco e se avesse sollevato le palpebre, si sarebbero trovata davanti quegli occhi così magnetici che la osservavano. Erin teneva una mano sotto il cuscino e l’altra davanti alla bocca, leggermente socchiusa.
Castiel sentiva il profumo della sua pelle, deliziandosi per quanto fosse buono. L’addormentata aveva le spalle leggermente incurvate in avanti e qualche ciocca le era scivolata scomposta davanti al viso.
Con una delicatezza esagerata, il ragazzo gliela scostò e ammirò quei tratti così belli e dolci. Anche se si era addormentata con la coperta tirata fin sopra la testa, i movimenti notturni l’avevano fatta scivolare fino a metà schiena. Castiel ne afferrò un lembo e coprì amorevolmente il corpo della ragazza fino alle spalle.
Aveva un respiro regolare e lui si era talmente avvicinato al suo viso, da poterlo sentire contro la sua pelle.
Era troppo vicino.
Si allontanò di scatto, realizzando solo in quel momento i movimenti inconsci che l’avevano spinto a così pochi centimetri dalle labbra della ragazza.
Pochi centimetri e avrebbe sentito il loro sapore.
Si rimise in piedi, massaggiandosi la fronte, confuso, e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle cercando di non far rumore.
Tornò sul divano, cadendo quasi a peso morto, gesto che la sua povera schiena non gli perdonò.  
Ormai era ufficiale.
Avrebbe passato la notte in bianco.
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
Eccolo qui…. Beh, intanto complimenti per essere arrivati fino in fondo :) Dopo un capitolo pieno di colpi di scena, ecco che ve ne ho proposto uno di una prevedibilità pazzesca: che Jason e Pam si sarebbero messi insieme era chiaro come il sole e ancora di più che Castiel è innamorato di Erin.
Credetemi se dico che mentre scrivo queste note mi sto maledicendo per avervi creato tante aspettative su ciò che avreste trovato -.-‘’… adesso non mi tocca far altro che sperare di non averle deluse e aspettare i vostri giudizi.
L’unica cosa che posso dirvi è che ho cercato di metterci il cuore perché lo ritengo uno dei più importanti della storia: l’ho riletto talmente tante volte per perfezionarlo che ad un certo punto ne ho avuto la nausea  e mi sono trovata al punto di dirmi: pubblicalo e che sia finita!
Anche se questo capitolo segna l’inizio della relazione Jason-Pam (alleluia) è fin troppo ovvio che questo evento passa in secondo piano rispetto al vero protagonista: Castiel… non ho mai scritto un capitolo più Castielcentrico di questo e capirete bene il perché: gli ci sono voluti 29 capitoli per ammettere che è gli piace Erin quindi non potevo liquidare la cosa con un “oh merda, mi piace Cip!”… (in effetti però ci stava, conoscendo il tipo -.-‘’).
Insomma fatemi sapere la vostra sincera opinione, così almeno posso capire cosa migliorare in futuro.
Finchè non avrò un feedback da parte vostra non so cosa pensare :S
 
Ah, visto che mi piace raccontarvi i “retroscena” di quando scrivo la storia (oddio, in realtà non so se a voi interessi saperli, nel caso saltate in tronco la sezione che segue) per quanto riguarda la scena iniziale di Castiel che si cimenta nel tagliuzzare la radice di kren, ho sperimentato in prima persona l’odoraccio nauseabondo di quella cosa: ho sempre detestato la puzza di quella salsa, ma la radice da cui deriva è dieci volte peggio o.o.
Quanto alle supposte proprietà lenitive per il mal di gola… tutto frutto della fantasia di Castiel -.-‘’.
Poi… uno dei film preferiti di Erin è “la città incantata”, nonché uno di quelli che l’autrice adora… lo conoscete? Mi piace molto anche “il castello errante di Howl” per via della vena romantica, ma “la città incantata” ha un’atmosfera ancor più surreale.
Quando Jason spiega le caratteristiche che deve avere il padrone di un cane della razza di Demon, ho fatto copia incolla da Wikipedia, scoprendo che calzavano a pennello con il rosso^^) in effetti nemmeno io avrei mai messo un carlino ad un personaggio come Castiel.
A proposito, adoro quel cucciolone (parlo di Demon, non di Castiel) anche se sono un’amante dei gatti come Nathaniel *.*… mi diverto a descriverlo assieme al padrone ma mi diverto ancora di più ad aizzarli contro Erin (qualcuno mi definirebbe sadica)…
Questo è uno dei capitoli per cui settimane fa ho aumentato il rating della mia storia da giallo ad arancione: adesso vi chiedo, in merito alla scena tra Jason-Pam:
A)Potevo spingermi più nel dettaglio ed essere più esplicita (tenendo conto il rating arancione)?
B)Dovevo allungarla di più quella parte?
Diciamo che questa scena, combinata alle vostre opinioni a riguardo, mi servono come cartina tornasole per le future scene di questo genere.
Altra cosa: se qualcuno aveva ancora dubbi sull’ingenuità di Erin, direi che questo capitolo è stato pieno di “frasi da facepalm”… eccone un paio di esempi:
 
La mora osservò che mai prima d’allora, l’aveva visto così allegro e si compiacque per questo, non potendo fare a meno di pensare che la causa di quella sospetta felicità fosse l’imminente concerto (certo Erin, il fatto che tu sia a casa sua lo lascia perfettamente indifferente -.-’’).
 
Lui amava ancora Debrah e di questo Erin ne era convinta (e il premio per la sagacia dell’anno va a…)
 
Con una protagonista del genere, potete ben capire perché gli eventi della mia storia scorrono con la calma di un ruscello in un giardino giapponese (?).
Poi, quanto alla scena di Demon e della cagnetta, mi è successa una cosa analoga l’estate scorsa, sentendo dei rumori strani dalla strada e quando mi sono sporta mi sono trovata ad assistere ad una sorta di orgia canina -.-‘’… almeno capite da dove mi vengono certe idee…
Ah, quanto alla scoperta di Erin del dvd porno, sappiate che in passato mi è capitato una scena analoga con la differenza che io pensavo di aver trovato il dvd della fiaba della principessa sul pisello-.-‘’… in confronto ad Erin è andata bene.
Altra cosa: sappiate che se per villa Daniels mi sono ispirata a foto di abitazioni lussuose tratte da internet, per la descrizione della stanza di Castiel ho consultato il catalogo dell’Ikea che ho trovato nel bagno di casa mia:)… non sto scherzando, sul serio:)!
Ed infine, sempre per la sezione retroscena, la fobia di Erin per la tapparella l’ho copiata da una mia amica che, in vacanza, ci ha fatto dormire nonostante il caldo soffocante con tutto chiuso. Al che, visto che sono una persona che cerca sempre di trarre massimo beneficio da ogni disgrazia, mentre annegavo in un bagno di sudore, mi è venuto in mente che sarebbe stato carino riciclare l’idea e da lì è nato questo capitolo :3.
 
Per il prossimo aggiornamento, per un capitolo intitolato “Il concerto”, non posso farvi alcuna previsione (anche perché quando le faccio non le rispetto mai -.-‘’) … intanto aspetto di sentire come è andata con questo! Grazie a tutte per le meravigliose recensioni della scorsa volta ^^) e anche alle lettrici silenziose che è da un bel po’ che non ringrazio (che pessima padrona di casa che sono -.-‘’).
Alla prossima!
 
P.S. in questi ultimi giorni c’è stato un’intensa opera di collaborazione artistica da parte mia e di
_Nuvola Rossa 95_ il cui disegno di Castiel vi ha accolte all’inizio del capitolo, mentre in quello precedente la mia personale vignettista si è dedicata ai due gemelli^^) un grazie di  <3 da parte mia :*…
(L’immagine di Jason e Pam invece è pigramente tratta da internet).
 
Vi lascio qua sotto una piccola animazione su quella che è stata una delle scene clou del capitolo ^^).

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Il concerto ***


Anche qui vi do il benvenuto con un’altra premessa: dal momento che il capitolo è dedicato al famoso concerto, qui sotto vi metto i link a YouTube delle canzoni che vengono cantante ^^).
Magari non saranno compatibili con i vostri gusti musicali, in tal caso lasciate perdere la mia proposta, altrimenti potete ascoltarle in sottofondo nelle parti in cui vengono cantate:):
A thousand years di Christina Perri:  
https://www.youtube.com/watch?v=rtOvBOTyX00
Against all odds di Mariah Carey: https://www.youtube.com/watch?v=aHtdR2ahIGo
Castle of glass dei Linkin Park: http://www.youtube.com/watch?v=B-He6EzP5zY
Burn into the ground dei Nickelback : http://www.youtube.com/watch?v=xqBNw4WSBQU&list=RDxqBNw4WSBQU
The blower’s daughter di Damien Rice: http://www.youtube.com/watch?v=esK3BUomejQ
Shadow of the day dei Linkin Park: http://www.youtube.com/watch?v=hzNRl6emK90
Uprising dei Muse: http://www.youtube.com/watch?v=HYRGjMSUoU8
Closer to the edge dei 30 Seconds to Mars: http://www.youtube.com/watch?v=M4zigrgH-_k
Quando alla lunghezza del capitolo, non la commenterò se non per dirvi che sono risultate 33 pagine di Word. Il numero si commenta da sé.


 
RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Lysandre si presenta a scuola con la gola infiammata ma Castiel escogita un rimedio per farlo guarire. Tuttavia, la soluzione si rivela inutile poiché il vocalist si rifiuta da sottoporsi al trattamento.
Quella sera stessa, Pam ed Erin hanno Jason come ospite per festeggiare l’imminente apertura della boutique e, sentendosi di troppo, la nipote inventa una scusa per lasciare da soli i due adulti che passano la loro prima notte d’amore.
Erin nel frattempo si reca a casa di Castiel, chiedendo ospitalità all’amico. La serata tra i due trascorre all’insegna di situazioni imbarazzanti e comiche finchè al momento di coricarsi, Castiel sente la ragazza cantare una canzone che lui aveva composto per la voce di Debrah.
Rimase ad ascoltarla in silenzio e quella stessa sera, ammette a sé stesso i sentimenti che prova per Erin, i quali si spingono ben oltre la semplice amicizia.

 

 


CAPITOLO 30: IL CONCERTO

“rilassati Erin, in fondo si tratta solo di una canzone” la tranquillizzò Nathaniel.
“due” lo corresse la ragazza “devo fare anche quella di Damien Rice… vabbè che si tratta solo di una strofa” riconobbe, cercando di distendere i nervi.
Il fatidico giorno del concerto era arrivato.
L’evento era iniziato alle cinque, ma dal momento che ad inaugurarlo sarebbe stata l’esibizione di musica classica da parte del relativo club, Erin e Nathaniel avevano posticipato di mezz’ora il loro arrivo al liceo.
“poteva andarti peggio: se Lysandre non avesse recuperato la voce…”
“non voglio neanche pensarci” lo interruppe la ragazza mentre Nathaniel svoltava ad una curva  “pensiamo solo che, in qualche maniera, la sua gola è guarita e oggi riuscirà ad esibirsi”
“forse aveva solo bisogno di riposarla un po’, del resto l’ha affaticata molto nell’ultimo periodo a causa delle prove” ipotizzò il biondo.
“colpa di Castiel. Hanno fatto prove su prove perché voleva che fosse tutto impeccabile… quando si tratta di musica, è un maniaco perfezionista”
“lo so” convenne Nathaniel con un sorriso tenero ma triste.
Erin non aggiunse altro, intuendo i pensieri nostalgici del ragazzo e guardò fuori dall’abitacolo della Subaru. Ancora pochi minuti e finalmente quell’attesissima serata, avrebbe preso il via.
 
Pam si vaporizzò un po’ di profumo sul collo e lo distribuì fino a dietro le orecchie.
Si rimirò allo specchio e sorrise smagliante. Dopo la scorsa notte, non riusciva ad abbandonare quell’espressione così allegra.
Addirittura, quando all’ora di pranzo, aveva incrociato Miss Plum, l’aveva salutata cordialmente, scusandosi poi l’inconveniente della sera prima. Spiazzata per la gentilezza della vicina, che di solito la ignorava, la vecchietta si era poi ammorbidita e aveva borbottato qualcosa di incomprensibile, prima di sparire nel suo appartamento.
Quella mattina, Pam si era svegliata, con accanto il suo uomo. Ancora non le sembrava possibile di essere stata destinata a tanta fortuna, dopo una serie interminabile di scelte sbagliate: Jason era quanto di meglio una donna potesse sperare: era una persona generosa e protettiva, oltre che un uomo di sani principi e affidabile. Contrariamente a quanto aveva sempre pensato, era lei la più infantile dei due e l’aver trovato in lui il suo complementare, la faceva sentire pienamente realizzata.
Quando i primi raggi di sole avevano fatto incursione nella stanza, lei era stata la prima a destarsi dal sonno. Si era allungata accanto al suo compagno che dormiva beatamente a pancia in giù. Quei movimenti però l’avevano svegliato e, socchiudendo le palpebre, aveva sbirciato l’espressione estasiata della ragazza, sorridendole complice.
 
Nathaniel fu costretto a parcheggiare la macchina in un parcheggio diverso da quello della scuola, poiché era già tutto pieno. In quanto segretario delegato, era a conoscenza del numero di biglietti che erano andati venduti per il concerto, per cui quell’inconveniente non lo sorprese.
 
Una volta entrati in palestra, Rosalya venne loro incontro, saltellando come una pulce impazzita: in quell’enorme locale, nessuno era vestito in modo più appropriato del suo: sotto una giacca di pelle nera con le borchie, la ragazza portava una t-shirt dai bordi irregolari e con una stampa aggressiva. I jeans erano un po’ chiari, ma rigorosamente strappati e indossava un paio di anfibi. Aveva caricato il trucco, passando dell’audace ombretto nero che metteva ancora più in risalto i suoi occhi felini.
“Rosa, sei magnifica!” si entusiasmò Erin, che non sapeva come altro descrivere quell’incredibile visione.
“grazie” squittì lei orgogliosa, sorridendo radiosa in direzione dell’amica.
“Leigh dov’è?” le chiese Nathaniel.
A quella domanda, Rosalya cambiò radicalmente espressione, diventando più seria, e rispose seccamente:
“non è venuto” senza fornire ulteriori motivazioni.
Erin rimase interdetta: era da un po’ che aveva notato un cambiamento nell’atteggiamento della sua amica verso Nathaniel e non riusciva a capire quale fosse il motivo. In fondo i due erano amici prima che lei li conoscesse, eppure Rosalya aveva cominciato a trattarlo con distacco.
La prima volta che aveva notato questo cambio d’atteggiamento risaliva a più di un mese prima, quando Ambra aveva spinto Lin dalla scale: in quell’occasione la malcapitata amica era rotolata anch’essa giù per la rampa e quando il biondo si era offerto di soccorrerla, lei ne aveva rifiutato l’aiuto in modo piuttosto sgarbato.
Tuttavia quella sera non era di certo la più appropriata per affrontare la questione, così Erin la archiviò nella propria mente, promettendosi di affrontare l’argomento in futuro, qualora quella situazione si fosse perpetuata.
“i ragazzi?” le chiese, guardandosi attorno.
In quel momento trotterellò nella loro direzione Iris, seguita da Violet.
“Castiel e Armin sono sul tetto a bere…” spiegò la rossa, dopo aver salutato la coppia appena arrivata.
“a bere?” ripetè l’amica sconcertata.
“si beh, loro si esibiranno tra più di quattro ore e non ce li vedo proprio a sorbirsi la musica classica” ridacchiò Rosalya, pensando a Castiel in piedi davanti all’orchestra, sulle note di Mozart.
“che non esagerino, sennò rischiano di rotolare giù” ragionò Erin un po’ preoccupata, preoccupazione che la sadica Rosalya sembrò non condividere:
“Castiel ha la testa dura, se anche cade non se la rompe, tranquilla. Quando Armin… è talmente magro che peserà meno di me: se perdesse l’equilibrio, atterrebbe al suolo come una piuma”
Le ragazze ridacchiarono, all’immagine del ragazzo trasportato dal vento come una foglia, mentre Nathaniel chiedeva:
“Alexy?”
“è con Lysandre nella palestra B. Loro apprezzano qualsiasi genere musicale, per cui si sono messi su un angolino ad ascoltare il club di musica” spiegò Violet, sorprendendo tutti per l’audacia del suo intervento.
“avranno anche finito ormai” calcolò Erin, controllando l’ora.
“sì, hai ragione, credo che ora tocchi al gruppo di seconda, che si esibiranno qui” spiegò uno degli organizzatori dell’evento, nonché segretario delegato del liceo “io Erin vado a cercare della gente in classe mia, ci vediamo in giro, d’accordo?” le annunciò poi, stampandole un bacio in fronte:
“dì pure che devi assolvere i tuoi doveri di segretario” borbottò Erin offesa per essere lasciata sola.
“beh anche” ammise “per ora che giudizio dai all’organizzazione?”
La ragazza studiò l’ambiente: la palestra era stata attrezzata con un palco spazioso su cui presto la prima band avrebbe fatto la sua esibizione. Dietro di esso, un maxi schermo proiettava delle immagini surreali che catturavano l’attenzione degli spettatori. Le casse di amplificazione erano state sapientemente distribuite in ogni angolo della palestra, mentre quelli che pendevano sopra il palco avevano la caratteristica forma incurvata, in modo da sparare il suono verso il basso. Dall’intricata struttura metallica, sporgevano delle luci che ben presto sarebbero diventate attive. Gli strumenti erano già stati posizionati sul palco, mentre uno staff professionista stava procedendo con gli ultimi ritocchi.
Erin ridacchiò eccitata: sapeva che l’evento in sé aveva permesso di raccogliere molti fondi per autofinanziarlo ma non avrebbe mai immaginato che si sarebbe raggiunto un simile livello di organizzazione. A dispetto del nome idiota dell’istituto, il Dolce Amoris era una scuola di tutto rispetto e lei non poteva che sentirsi orgogliosa di fare parte.
“sembra di essere ad un concerto di professionisti” si complimentò la ragazza, baciando fugacemente, sotto gli occhi delle amiche, le labbra del suo eroe.
Nathaniel sorrise e lasciò le ragazze da sole mentre Erin annunciava:
“io vado a cercare Castiel e Armin. Non vorrei che arrivassero ubriachi sul palco”
 
Come le aveva detto Iris, i due ragazzi erano sul tetto, luogo che ormai costituiva uno dei preferiti di quel gruppo di amici. Castiel teneva in una mano una lattina di birra, mentre nell’altra una sigaretta.
Comprensibilmente il regolamento scolastico aveva vietato l’introduzione di qualsiasi tipo di alcolici e aveva messo a disposizione degli studenti un buffet, ma questi non erano assolutamente intenzionati ad accontentarsi di Coca-Cola e aranciata. Così, grazie ad un incredibile sforzo organizzativo, i ragazzi di varie classi, erano riusciti a coordinarsi per portare ciascuno qualcosa e nascondere la loro refurtiva in punti strategici che erano stati battezzati con il nome di codice di “punti di abbeveraggio”. Uno di questi era lo spogliatoio maschile, un altro uno dei bagni dei maschi dove, grazie all’idea di Trevor, era stato appeso un foglio con scritto “GUASTO” in modo che nessuno si avventurasse ad usare quel water.
“finalmente Irina! Stavamo aspettando proprio te” la accolse Armin allegro, guadagnandosi un’occhiataccia dall’amico seduto accanto a lui: come temeva la ragazza, il moro cominciava risentire di una certa euforia giustificata dall’etanolo in circolo. Gli sottrasse così la bottiglia che teneva in mano e la allontanò dalla sua portata, nonostante le deboli proteste del ragazzo.
Erin scrutò poi Castiel, che non aveva ancora detto una parola.
Quella mattina, dopo essersi svegliata di ottimo umore sul letto del ragazzo, l’aveva trovato già in piedi con delle vistose occhiaie. Si sentì in colpa per avergli fatto passare proprio la notte prima del concerto sullo scomodo divano del salotto, tantoché il ragazzo le aveva annunciato che non si sarebbe presentato a lezione per recuperare un po’ di sonno.
Avevano così fatto colazione in silenzio, con Erin sempre più a disagio: avrebbe preferito che l’amico la punzecchiasse per la sua invadenza, invece lui si limitava a masticare apatico il toast che aveva preparato.
Sembrava assorto nei suoi pensieri e non alzava lo sguardo su di lei, che, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, non sapeva come comportarsi. Lui era strano e la ragazza pensò che fosse il suo modo di reagire alla tensione, unita alla frustrante stanchezza per non aver riposato adeguatamente.
Dopo averlo ringraziato, era uscita da quella casa, sperando di rivederlo nel pomeriggio più carico che mai.
Aveva atteso con ansia quel momento e quando finalmente era arrivato, Castiel non sembrava aver migliorato il proprio umore, o meglio, era ancora imperscrutabile:
 “allora? Siete pronti?” tentò Erin.
“beviamo per dimenticare” scherzò Armin sollevando verso l’alto la lattina di birra che il rosso aveva appena posato. Quest’ultimo reagì di scatto, minacciandolo:
“prova a far cazzate Evans, e giuro che vengo a casa tua a segarti il cavo del modem”
Di certo Castiel non poteva trovare un’intimidazione migliore per un nerd come Armin, legato visceralmente al mondo virtuale. Il moro infatti, cogliendo immediatamente la gravità della situazione, replicò:
“signor sì! Sarà tutto inappuntabile”
Erin lo guardò perplessa e rivolgendosi a Castiel chiese:
“ma è già ubriaco o”
“è solo idiota” commentò Castiel, ricevendo una gomitata dall’amico che gli mandò di traverso la birra che era tornato a sorseggiare.
Erin si sedette accanto al moro e, sollevata dal crollo del mutismo di Castiel, cercò di intavolare, con successo, una conversazione. La presenza della ragazza infatti, combinata all’allegria di Armin, riuscirono a stemperare un po’ la rigidità del chitarrista, che finalmente tornò a comportarsi come era solito fare.
 
Il cellulare di Erin vibrò e lesse a voce alta il messaggio di Iris:
“torna dentro, tra poco comincia il karaoke”
La ragazza si irrigidì, mentre Armin, che da quando era arrivata l’amica, non aveva più trangugiato alcol, la rassicurò:
“vedrai Irina, andrà tutto bene. Pensa che una canzone dura solo tre minuti”
 
Quando i tre rientrarono in palestra, Nathaniel venne a fare l’in bocca al lupo alla sua ragazza e alle sue amiche: Violet teneva continuamente lo sguardo basso, Iris continuava a rosicchiarsi le unghie mentre Rosalya era l’unica a sembrare tranquilla. Visto che Erin era stata praticamente vincolata ad esibirsi da sola, aveva ottenuto come attenuante che le tre la precedessero sul palco.
Il karaoke era composto da due microfoni e da uno schermo piatto, posto ai piedi dei volenterosi cantanti. Su di esso sarebbero scorse la parole che venivano a sua volta proiettate anche sul maxi schermo rivolto al pubblico.
Guardando il palco, Erin ebbe un’illuminazione e si chiese come avesse fatto a non pensarci prima: si voltò di scatto verso il suo ragazzo ed esclamò:
“Nath, canta anche tu!”
Il biondo dapprima sgranò gli occhi, poi scosse la testa divertito. La sua ragazza stava per protestare, quando vide giungere Miss Joplin, nella loro direzione. Facendosi largo tra la folla, che diventava sempre più soffocante e nutrita, la donna finalmente arrivò alle sue vittime e dichiarò:
“ragazze siete pronte? Tra pochi minuti mi aspetto di vedervi là”
Le quattro studentesse annuirono intimidite mentre la sadica donna sorrideva sorniona.
Il professor Patterson, uno dei collaboratori dell’evento, salì sul palco per annunciare l’apertura del karaoke, ma, prevedibilmente nessun studente fu così audace da proporsi.
L’insegnante di biologia tornò a guardare le sue studentesse che si rassegnarono ad essere le prime a rompere il ghiaccio.
Capeggiate da Rosalya, Iris e Violet la seguirono, vergognandosi come delle suore in una spiaggia di nudisti.
Si levò un vocio sorpreso, borbottii indistinti specie da parte dei maschi che si chiesero di quale classe fossero le due ragazze in compagnia di Rosalya la quale, differentemente dalle sue amiche, godeva di una popolarità universale.
Le due sconosciute si posizionarono davanti ad uno dei due microfoni, lasciando alla star il secondo, tutto per lei.
Il deejay fece passare sul monitor una canzone: A thousand years di Christina Perri. Rosalya si voltò verso le ragazze, annuendo con decisione mentre Iris sgranava gli occhi, terrorizzata:
“non si potrebbe cantare Jingle Bells?” patteggiò, dimenticando che il microfono davanti a lei era aperto. Una risata divertita si diffuse nella palestra mentre lei avvampava. L’amica tornò a rivolgersi al deejay, incurante delle proteste della rossa e gli fece cenno di far partire quella musica.
Una canzone valeva l’altra per lei, l’importante era sbrigarsi a scendere da quel palco. Differentemente dal fratello, Rosalya sapeva di non avere una gran potenza vocale, ma almeno non era stonata.
La musica partì e con essa la solista, che era perfettamente a tempo.
 

ROSALYA: ♪ Heartbeats fast 
Colors and promises 
How to be brave 
How can I love when I'm afraid to fall 

 
Il cuore batte veloce
Colori e promesse
Com’essere coraggiosi
Come posso amare quando ho paura di cadere








Sin dai primi versi, Rosalya era riuscita a creare un’atmosfera surreale grazie al suo timbro delicato, simile a quello dell’autrice del pezzo. Tutti gli studenti erano rimasti spiazzati nel vedere quella ragazza, notoriamente acida e dai modi bruschi, cantare con tanta malinconia e dolcezza.
Anche le due compagne di sventura, la guardavano basite, finchè furono costrette a fissare il monitor davanti a loro per fondere le loro voci con quelle della solista:
 
TUTTE E 3: I have died everyday waiting for you 
Darling don't be afraid I have loved you 
For a thousand years 


ROSALYA: I love you for a thousand more 
 

Sono morta ogni giorno aspettandoti 
Tesoro, non aver paura 
Ti ho amato per mille anni 

 
E ti amerò per altri mille

 
Istintivamente Rosalya cantò quella frase pensando ad una persona ma non era l’immagine di Leigh quella che si era materializzata nella sua mente e non poteva fare nulla per cambiarla.
Quanto alle voci delle due coriste, risultarono teneramente adorabile: Iris aveva un tono un po’ graffiante mentre Violet languido, più simile a quello di Erin e nel complesso, l’armonizzazione suonò interessante e piacevole; le due, risultando alquanto buffe, anziché tenere lo sguardo fisso sul monitor, si guardavano la punta delle scarpe, cercando di ricordare a memoria quel testo che già conoscevano.
 

ROSALYA: ♪ Every breath 
Every hour has come to this 
One step closer
 
 
Ogni respiro
Ogni ora è arrivata
Un passo in avanti

Il silenzio nel locale si perpetuava mentre le due coriste acquisivano sempre più sicurezza, decidendosi finalmente ad alzare lo sguardo. Osservarono Rosalya e videro quel velo di malinconia che traspariva dal suo profilo: lei cantava come se la canzone fosse sua, come se la sentisse nel cuore. Tuttavia, cogliendo quella vena di tristezza, nessuna delle due amiche ebbe l’impressione che la cantante stesse pensando al suo Leigh ed Iris in particolare, non riusciva a staccarsi dall’idea che si trattasse di Nathaniel. 
 
TUTTE E TRE:And all along I believed I would find you 
Time has brought your heart to me 
I have loved you for a thousand years 
I love you for a thousand more 

One step closer 
One step closer 

I have died everyday waiting for you 
Darling don't be afraid I have loved you 
For a thousand years 
I love you for a thousand more 

And all along I believed I would find you 
Time has brought your heart to me 
I have loved you for a thousand years 
I love you for a thousand more

 

E per tutto il tempo ho creduto di trovarti
Il tempo ha portato il tuo cuore da me
Ti ho amato per mille anni
Ti amerò per altri mille


Un passo in avanti
Un passo in avanti


Sono morta ogni giorno aspettando te
Tesoro non aver paura ti ho amato
Per mille anni
Ti amerò per altri mille


E per tutto il tempo ho creduto di trovarti
Il tempo ha portato il tuo cuore da me
Ti ho amato per mille anni
Ti amerò per altri mille



 

E sull’ultima frase, gli occhi di Rosalya si posarono definitivamente sulla persona a cui aveva pensato durante tutta la canzone: Nathaniel era lì, in piedi tra la folla ma era impossibile non notarlo. Con grande amarezza nel cuore, la cantante constatò che il ragazzo in quel momento non stava ricambiando il suo sguardo. Sorridendo teneramente, gli occhi del biondo erano posati sulla sua Erin che invece fissava il palco. Pensando che Rosalya stesse osservando lei, la mora allargò il proprio sorriso, ma l’amica non riuscì a trovare la serenità per restituirglielo.
Quando la musica cominciò a scemare, abbassandosi fino a scomparire, gli applausi esplosero fragorosi.
Le tre ragazze si inchinarono arrossendo, reazione dalla quale nemmeno Rosalya fu immune. Era stata lei la vera protagonista dell’esibizione e tutto quel successo la lusingò. Ripensò al suo primo anno di liceo, quando per tutti era solo una ragazzina dall’aspetto inquietante e sorrise orgogliosa di quanto la sua immagine fosse cambiata in quegli anni; tuttavia ciò che davvero la allontanava dalla Rosalya di un tempo, era la consapevolezza che ora aveva trovato delle amiche e non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Nemmeno per Nathaniel.
“forza Erin” le sussurrò Alexy, spingendola in avanti tutto eccitato.
Nathaniel le accarezzò la testa dolcemente per incoraggiarla mentre lei si voltava. Per qualche motivo, le era venuto spontaneo cercare Castiel. Non l’aveva guardato per tutta l’esibizione e si sentiva quasi in dovere di lanciargli un’occhiata fugace prima di salire sul palco.
Lo trovò accanto a Lysandre e, accorgendosi di essere osservato, l’amico sorrise leggermente.
Le bastò quella semplice smorfia, della quale aveva sentito la mancanza per tutto il giorno, per farla sentire meglio. Accarezzò infine la mano del suo ragazzo e avanzò quindi tra gli studenti, cercando di portarsi ai piedi del palco. Lì incrociò le amiche che stavano scendendo con espressioni di evidente sollievo.
“buona fortuna” la incoraggiarono prima che prendesse posto davanti al microfono.
Come era accaduto durante la rappresentazione teatrale, solo una volta lì in piedi, di fronte a tutti, Erin potè realizzare quanta gente era presente quella sera. Troppa per i suoi gusti, e quest’ammissione fece vacillare la sua già instabile sicurezza.
Sullo schermo davanti a lei cominciò a scorrere la prima proposta e la ragazza si augurò che il testo non le ricordasse la sorella. Ogni volta che cantava, lei ci metteva il cuore e non poteva fare a meno di identificarsi nelle parole. Se la canzone avesse parlato della separazione da una persona amata, la ragazza non poteva dirsi sicura di riuscire a portarla a termine.
Dire che le sue preghiere rimasero inascoltate, sarebbe stato un eufemismo poiché il primo titolo che Erin lesse fu il peggior inizio possibile e contribuì ad aumentare la tensione: Let her go.  
La ragazza sgranò gli occhi. Quella era una chiara presa in giro da parte del grande demone celeste.
Scosse energicamente il capo, rifiutandosi di cantarla mentre tra la folla, che aveva letto quel titolo dal maxi schermo, si levavano dei versi delusi tra chi voleva sentire proprio quella canzone.
Il tecnico allora passò alla seconda opzione: Wish you were here di Avril Lavigne.
Erin non potè fare a meno di squadrarlo e pensare:
“mi stai pigliando per il culo?”
Rifiutò per forza di cose anche quell’opzione e valutò la successiva: How you remind me dei Nickelback.
Esaltati per il nome del gruppo, molti ragazzi cominciarono a fare pressioni perché Erin cantasse quella, ma lei fu irremovibile e rifiutò quel pezzo assieme ai successivi: Where are you now, Come back to me, I won’t forget you e I miss you.
Quella situazione era a dir poco ridicola oltre che spaventosamente assurda. Neanche se si fosse messa a cercare, avrebbe trovato dei testi più calzanti con la sua condizione.
Cantare quelle canzoni senza pensare a Sophia sarebbe stato impossibile e non voleva correre il rischio di scoppiare a piangere davanti a tutti. Cercò allora di tranquillizzarsi, pensando che in passato era riuscita a eseguire Dark Paradise senza scoppiare in lacrime, ma quella consapevolezza le valse a poco: ora era davanti a centinaia di studenti e l’agitazione era salita a mille: non poteva contare sullo stesso autocontrollo di quando l’aveva cantata da sola.
“TRAVIS! Smettila di dar spettacolo!”
Erin si voltò verso il deejay, riconoscendo la voce familiare della persona accanto a lui la quale l’aveva ripresa: la professoressa Fraun aveva un’aria esasperata, al limite della sopportazione e continuò:
“perché devi sempre dare problemi? Canta questa e che sia finita e se anche non la sai, inventa!” le ordinò indicando al deejay una canzone sul monitor: sullo schermo apparve immediatamente Against all odds.
Ricordava bene la melodia ma un po’ meno le parole. Sapendo di non poter continuare a tergiversare, puntò gli occhi sullo schermo ai suoi piedi mentre la musica cominciava.
Dischiuse le labbra appena vide arrivare le prime parole:
 
How can I just let you walk away? 
Just let you leave without a trace? 
 
Ma come posso farti andare via, 
farti andare via senza lasciar traccia? 

 

Quelle parole però erano rimaste mute sullo schermo. Dopo aver aperto la bocca, Erin si era bloccata, lasciando scorrere indisturbato il testo. Nessuna di quelle parole era stata trasformata in suono.
Ecco che tutte le sue paure si materializzarono all’istante: sentiva il cuore accelerare il battito, il corpo irrigidirsi e sudare freddo.  
Allora era proprio destino che quella sera si umiliasse davanti a tutti, piangendo per una sorella che non voleva più vederla.
Mentre lei era lì, immobile, di fronte al microfono, ai piedi del palco si levò un mormorio confuso: tra le teste degli studenti infatti si distinse il movimento di una dai lunghi capelli dorati; incurante delle reazioni di chi la circondava, Ambra riuscì a farsi largo e salire sul palco, posizionandosi davanti al secondo microfono. 
AMBRA: You're the only one
who really knew me at all 
 
Tu sei l'unica che
mi ha conosciuto davvero 
 
Dopo aver cantato quella frase, la nuova comparsa si voltò finalmente verso la sua compagna, lanciandole un sorriso complice e incoraggiante. Non erano necessario specificare a chi stavano pensando entrambe e proprio in virtù di quel collegamento, potevano contare l’una sul sostegno dell’altra.
Rincuorata da quell’inaspettato aiuto, Erin sorrise a sua volta e, facendosi coraggio, partì un po’ in sordina:
 
ERIN: How can you just walk away from me? 
When all I can do is watch you leave? 
Cuz we shared the laughter and the pain 
and even shared the tears 
Ma come puoi andartene da me 
quando tutto ciò che posso fare è guardarti che te ne vai? 
Perchè noi abbiamo condiviso le risa e il dolore,
persino le lacrime 

La sua voce acquistava sempre più sicurezza, pronta ad alterarsi con quella della ragazza accanto a lei:
 
AMBRA: ♪ So take a look at me now 
Cause there's just an empty space 
And there's nothin left here to remind me 
ERIN: Just the memory of your face

 
Così, guardami un attimo;
perché  c'è solo uno spazio vuoto 
Non c'è più niente qui che mi può far ricordare, 
solo la memoria del tuo viso
 
 
La voce di Ambra era cristallina, nitida mentre quella di Erin più languida e profonda e tale diversità sembrava valorizzarle reciprocamente.
In quella palestra, nessuno fiatava, tutti troppo coinvolti dalla scena per azzardarsi a rovinarla con qualche commento.  

ERIN: Take a look at me now 
Cuz there's just an empty space 
AMBRA: And you coming back to me is against the odds 
ERIN: and that's what I've gotta face
 
Oh, guardami un attimo;
beh c'è solo uno spazio vuoto 
E tu che ritorni da me é contro ogni probabilità; 
e questo è ciò che devo affrontare 

 
Le due voci si susseguivano in perfetta sincronia, come se quell’esibizione fosse stata preparata anziché improvvisata. Nathaniel era rimasto di sasso nel vedere la sorella, lì, su quel palco trovando ironico come i loro ruoli si fossero invertiti: era convinto di essere lui il cantante di famiglia. Sorrise, deliziato da quella scena, vedendo finalmente un’Ambra diversa da quella con cui era cresciuto.
Era fin troppo chiaro che la sorella era salita su quel palco per aiutare Erin, anche se il suo orgoglio le avrebbe impedito di ammetterlo.
Dopo un mese di assenza da scuola, causato da un gesto ignobile, Ambra Daniels era tornata al Dolce Amoris a testa alta:
 

ERIN: I wish I could just make you turn around 
INSIEME: Turn around and see me cry 
AMBRA: There's so much I need to say to you, 
INSIEME: So many reasons why 
ERIN: You're the only one who really knew me at all 

 
Vorrei proprio poter farti voltare indietro 
voltare indietro e vedermi piangere 
Ci sono così tante cose che ho bisogno di dirti, 
così tanti perchè, 
Tu sei l'unica che mi ha conosciuto davvero 

 
Da quando Erin era salita su quel palco, Castiel non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Già gli veniva difficile nelle situazioni normali, ma quando la sentiva cantare, la ragazza calamitava ineluttabilmente la sua attenzione. Quel suo stile canoro, per quanto immaturo, lo stregava; da diverse settimane ormai si era accorto che quando Lysandre aggiungeva le parole alle canzoni che lui componeva, nella sua testa Castiel sentiva la voce di Erin: era su quel timbro che modellava la sua musica. 
 
INSIEME: Take a good look at me now 
Cuz I'll still be standing there 
And you coming back to me is against all odds 
It's the chance i gotta take

 
♫  Guardami bene un attimo,
perchè io starò ancora qui
E che tu ritorni da me è contro ogni probabilità
è l’eventualità che devo accettare
Facendosi prendere dalla canzone, le due ragazze conclusero con un acuto finale degno di un professionista. Dopo un paio di secondi di silenzio, causato dalla sbigottimento generale, gli spettatori insorsero in grida e applausi fragorosissimi: quell’improbabile coppia, nota a tutta la scuola per i precedenti screzi, li aveva spiazzati con un’esibizione sensazionale.
Erin sorrise verso Ambra, che cercava disperatamente di non dare a vedere quanto fosse felice in quel momento: cantare insieme era stato esaltante.
Ora che la musica era finita, Erin si sentì più leggera: era come se il grosso peso sul suo cuore fosse svanito.
L’ultima strofa della canzone che lei e Ambra avevano gridato al microfono era la dichiarazione rivolta a Sophia. Ormai si sentiva forte abbastanza da poter accettare quella situazione e accettare la volontà della sorella, qualunque essa fosse.
Si sentiva talmente sicura di sé, da essere pronta a parlare anche al resto degli amici dell’esistenza della gemella e della storia dell’incidente.
Tuttavia, fu costretta a riflettere sul fatto che quell’ammissione non andava fatta quella sera dal momento che era la serata dei ragazzi.
Avrebbe rimandato tutto alle vacanze, quando sicuramente avrebbe avuto l’occasione per rivederli.
Mentre ancora gli studenti applaudivano, Erin ed Ambra scesero dal palco per lasciare il posto ad altri che, incoraggiati dalle prima esibizioni, cominciavano a mettersi in gioco.
La mora guardò di sbieco la bionda e le sussurrò dolcemente:
“grazie Ambra”
La ragazza non rispose, tanto che Erin pensò che non l’avesse sentita a causa del frastuono che le circondava, ma prima che potesse ripetere, la bionda sbottò stizzita:
“mica potevo lasciare che mi rubassi la scena”
Anche se Ambra le volgeva le spalle, la mora ridacchiò, immaginandosi il sorrisetto sornione della sua salvatrice che sparì tra il resto degli studenti.
“ERIN SEI STATA GRANDISSIMA!” si complimentò Alexy, abbracciandola con trasporto. Dietro di lui avanzavano il resto dei loro amici. Quando Castiel vide la reazione affettuosa del gemello, lo ammonì infastidito:
“guarda che la strozzi”
Alexy lo guardò perplesso per un nano secondo, poi illuminandosi in un sorriso da Stregatto, intensificò la stretta:
“ma che bella pelle liscia che hai Erin” commentò posando la sua guancia contro quella dell’amica, che avvampò a disagio per quell’eccessiva manifestazione d’affetto.
Armin, che nelle ultime ore aveva recuperato la sua lucidità, non si lasciò sfuggire quell’occasione per tormentare il rosso:
“oh, hai ragione! Irina sei un puppazzotto” incalzò, strattonandole le mascelle come avesse cinque anni ma guardando Castiel. Quest’ultimo replicò con il suo solito verso stizzito mentre Erin protestava, svincolandosi dalle esagerate attenzioni dei perfidi gemelli.
“Erin, tu e Ambra siete state strepitose!” si complimentò Iris euforica.
“avessi saputo prima che cantavi così e ti avrei obbligato a provare con noi!” si entusiasmò Armin a cui la mora lanciò un’occhiataccia, ancora risentita per la mascella dolorante.
“caspita Erin, le vostre voci così diverse si sono armonizzate alla grande” squittì Rosalya.
“non immaginavo avessi questa voce Erin!” incalzò Violet.
Tutti quei complimenti non lasciarono il tempo alla ragazza di ricambiarli verso le sue amiche, altrettanto meritevoli quanto lei.
“Castiel, perché non ti complimenti anche tu con la nostra Erin?” lo schernì Armin, abbracciandole la testa e scompigliandole i capelli come se stesse accarezzando Demon.
Il ragazzo fece una smorfia incomprensibile e si voltò dall’altra parte mentre la ragazza si divincolava. Tra tutte le persone a cui voleva bene, nel gruppo ce n’era una che si stava facendo notare per la sua assenza. Dopo aver salutato gli amici, Erin partì quindi alla ricerca del suo Nathaniel, trovandolo poco distante:
“non ho parole” commentò il ragazzo appena li vide.
“non servono” sussurrò lei.
Mentre dal palco una coppia di studenti cantava Fix You, Erin si lasciò cullare da quelle note mentre baciava con trasporto il suo principe. Lui sarebbe stato il primo a sapere di Sophia.
 
Il karaoke si concluse con un successo insperato: grazie alle prime esibizioni che avevano rotto il ghiaccio, altri studenti, chi prendendosi un po’ seriamente, chi sul ridere, si presentarono sul palco.
Miss Robinson si gonfiò come un tacchino, poiché era stata lei ad avanzare quell’idea.
“avevo dei seri dubbi sul fatto che gli studenti si sarebbero buttati, e invece…” ammise Miss Joplin.
“oh, io non avevo dubbi” la contraddisse la professoressa d’arte, che in quel momento aveva accanto a sé il marito, anch’egli un artista “anche se devo ammettere che in alcuni casi ho dovuto un po’ forzare la mano”
La collega la guardò stranita, mentre Miss Robinson spiegava:
“oh sai com’è: le ore di arte sono quelle in cui gli studenti fanno più chiasso, così non è stato difficile trovare qualche cavia che, al posto di una nota sul registro, accettasse di esibirsi questa sera”.
La scienziata scoppiò a ridere, riuscendo finalmente a trovare una giustificazione alle esibizioni da parte di alcuni degli studenti più improbabili. Tuttavia, non le confessò che, avvalendosi dello stesso sistema, anche lei era riuscita a portare sul palco alcuni tra i ragazzi più interessanti e popolari dell’istituto.
 
Ambra si faceva largo tra la gente in palestra alla ricerca di Lin ma s’imbattè prima in Charlotte.
La mora era circondata da altre due ragazze di un’altra sezione e squadrò la bionda davanti a lei. Per un attimo, Ambra vide il riflesso di sé stessa: ecco come appariva quando girava per i corridoi con Charlotte e Lin al seguito. La prima aveva un’aria altezzosa e stava attenta a essere sempre un po’ più avanti rispetto alle sue damigelle, quasi ad affermare il suo ruolo di capobranco.
“ciao” la salutò la bionda.
Charlotte arricciò il naso e non si degnò di ricambiarla. Era fin troppo chiaro che ora era lei a sentirsi in una posizione di superiorità rispetto all’amica. I ruoli si erano irreversibilmente invertiti.
Tuttavia non era nella natura di Ambra farsi intimorire, perciò continuò:
“hai visto Lin in giro?”
“no” replicò Charlotte con dsinteresse.
La bionda sospirò leggermente: l’atteggiamento freddo e meschino di Charlotte non la facilitava per quanto stava per fare. Tuttavia, se si fosse tirata indietro, non se lo sarebbe mai perdonato:
“senti Charlotte, mi dispiace per come mi sono comportata in passato. In queste ultime settimane ho avuto modo di riflettere su me stessa e capire quanto ho sbagliato. Vorrei ricominciare da capo”
Tradendo un’iniziale disorientamento, Charlotte su un primo momento non seppe come replicare: Ambra Daniels che ammetteva di essere nel torto era una scena da imprimere nella memoria. Le aveva parlato in modo così diretto ma al contempo genuino, che veniva quasi da chiedersi se non stesse recitando.  Tuttavia, per quanto Ambra fosse riconosciuta da tutti come la migliore attrice della scuola, la sua sincerità traspariva dai suoi occhi azzurri.
Godendosi quindi quell’ammissione di colpevolezza, la ragazza dichiarò:
“forse dovresti chiederti quello che voglio io. Ci penserò su”
La bionda sorrise con gratitudine, volgendo poi un’occhiata fugace alle due ragazze che circondavano l’amica. Queste due la fissavano con disprezzo, come se fosse uno straccio unto lasciato sul pavimento. Seguendo la loro guida, superarono Ambra che, dopo pochi secondi tornò a sentire la voce di Charlotte:
“ehi Ambra”
La bionda si voltò:
“ci ho già pensato…” disse con serietà “non venirmi più a cercare”
Le due oche scoppiarono a ridere mentre Ambra e Charlotte si guardavano serie.
Nelle parole della mora non voleva esserci alcuna presa in giro: il suo era l’ultimo addio, prima di intraprendere strade diverse. Non l’aveva mai considerata davvero una sua amica, le serviva solo avere accanto qualcuno che brillasse al punto da poterne riflettere la luce. Ora Charlotte era convinta di essere diventata il sole di se stessa mentre Ambra si era ridotta ad essere una solitaria meteora.
 
Lysandre e Castiel si erano staccati dal resto del gruppo, per approfittare della pausa di due ore prima del loro intervento. Il compositore aveva recuperato alcuni spartiti e il cantante li stava ripassando:
“Show me how to be whoo-“
Le ultime lettere della parola non uscirono dalla bocca del cantante.
Meccanicamente lo sguardo del rosso si posò su di lui, seguito poi dalla testa, che di voltò di scatto. Negli occhi di Castiel si poteva leggere un terrore puro:
“Lys…no” lo minacciò, come se fosse colpevole.
Il vocalist si portò una mano alla gola deglutendo a fatica, mentre il ragazzo montava sempre più nel panico. Mancavano due ore alla loro esibizione, non potevano tirarsi indietro.
A quel punto, incapace di trattenersi, Lysandre scoppiò a ridere:
“ahahah, rilassati, è tutto a p-”
Questa volta il motivo per cui non riuscì a finire la frase, fu il cazzotto che gli era arrivato in pieno addome dall’amico.
 
Dopo aver chiesto in giro, Ambra aveva scoperto che nessuno aveva visto Lin quella sera. Parlando con alcune compagne di classe della cinesina, aveva scoperto che la ragazza nelle ultime settimane si era chiusa in sé stessa, isolandosi da tutti, al punto da restare da sola durante il pranzo. Nessuna l’aveva più vista in compagnia di Charlotte ma questo non sorprese la bionda, specie dopo aver parlato alla sua, ormai ex, amica.
A quel punto non le fu difficile dedurre che Lin quella sera non avesse partecipato all’evento. Per lei sarebbe stato troppo penoso venirci da sola.
Uscì in cortile ma prima di arrivare al cancello, sentì una voce alle sue spalle che la chiamò:
“bella esibizione Ambra”
Si voltò di scatto e, dopo qualche secondo, vide Armin appoggiato contro il muro esterno della palestra. Teneva in mano una console portatile dalla quale proveniva una luce abbagliante ma aveva staccato l’attenzione dallo schermo per rivolgerle la parola:
“ti rovinerai la vista a stare al buio con la luce sparata sugli occhi” replicò secca la bionda. Era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che si erano parlati.
Il ragazzo sorrise beffardo e senza scomporsi, commentò:
“la prendo per una premura nei miei confronti”
Ambra rimase senza parole, poi girò i tacchi. Aveva qualcosa di più urgente da fare, ma mentre si allontanava, non trattenne un sorriso felice che le illuminò quel viso dai tratti angelici.
 
Quando Castiel e Lysandre tornarono in palestra, si unirono ai gemelli che erano impegnati a chiacchierare con altra gente.  
Notarono del movimento attorno al palco, con addetti all’organizzazione che cominciavano a muoversi avanti e indietro, finchè non fu chiaro ciò che stavano facendo: il palco veniva smontato completamente. I quattro ragazzi si guardarono confusi e partirono subito alla ricerca di Miss Joplin prima intercettarono prima la professoressa Robinson.
Di fronte alla perplessità degli studenti, la donna spiegò con calma:
“abbiamo previsto questa pausa di un’ora prima della vostra esibizione per spostare il palco all’esterno”
“all’esterno?” ripetè Castiel sconvolto.
“lo so che è freschetto” minimizzò “ma non c’era altro modo per far stare tutta la gente che sta arrivando” replicò Miss Robinson “quasi tutti gli studenti dell’istituto hanno acquistato i biglietti per sé e per amici e fidanzati. Fate presto a farvi un’idea di quanta gente ci sarà”
Castiel deglutì a fatica. Alexy espirò profondamente nel tentativo di allentare la tensione e Armin strinse i pugni. A parte Lysandre, sembravano tutti un fascio di nervi:
“RAGAZZI VI ESIBIRETE ALL’APERTO! CHE FIGATA!” strillò una voce fin troppo entusiasta alle loro spalle, smantellando all’istante la tensione che era scesa.
Si voltarono verso Erin che stava trotterellando nella loro direzione, seguita a poca distanza da Violet.
Appena realizzò di avere di fronte la sua professoressa di arte, la ragazza si ricompose ma la donna colse la palla al balzo:
“dovreste farvi contagiare dall’entusiasmo di Erin invece di avere quelle facce scure!”
Salutò quindi i ragazzi, incoraggiandoli e battendo una mano sulla spalla di Alexy, uno dei suoi studenti preferiti. Miss Robinson quindi si allontanò assieme al marito che quella sera, la seguiva come un’ombra.
“vedo che ti è passato il cagotto di esibirti” commentò Castiel.
Erin annuì euforica “all’aperto, sotto le stelle! È una cosa fighissima Castiel!”
“forse” convenne il chitarrista lasciandosi sfuggire un sorriso sghembo.
Da quando aveva sentito l’urlo della ragazza arrivare alle sue spalle, il ragazzo aveva percepito un senso di leggerezza, come se ogni preoccupazione fosse stata lavata via.  
Anche gli altri membri della band sembravano risentire di quella carica di ottimismo, dopo l’iniziale shock per la loro esibizione di fronte ad un numero di persone che superava la capienza della palestra. Con il passare dei minuti, l’ottimismo della band, si trasformò in una vera e propria scarica di adrenalina: Castiel in particolare, mano a mano che vedeva il palco assemblarsi sotto i suoi occhi, tratteneva a stento la trepidazione all’idea di salirci.
 
Prima di unirsi al resto degli amici, Iris aveva preso da parte Rosalya. Erano settimane che un dubbio la tormentava e dopo l’esibizione della ragazza, ne aveva avuto la conferma.
La notte in cui Erin e Nathaniel erano diventati una coppia, l’amica le aveva lasciato intendere di essere innamorata del biondo. Iris aveva cercato più volte di dare senso al comportamento della ragazza ma non era arrivata ad alcuna conclusione: se era innamorata del biondo, perché stava ancora con Leigh e soprattutto, perché aveva spinto una sua amica tra le braccia del ragazzo che amava?
Le due ragazze si inoltrarono nel giardino del liceo, avvicinandosi ad un pioppo. La rossa aveva scelto appositamente quel luogo, in quanto più appartato. Erano talmente lontane dal resto della folla, che quasi non se ne sentivano le voci.
“perché mi hai portata qui?” domandò Rosalya.
“Rosa, c’è una cosa che non riesco a capire… rispondimi sinceramente: a chi pensavi quando hai cantato quella canzone?”
A dispetto dei suoi modi gentili e remissivi, Iris era una ragazza tosta e decisa: detestava tergiversare e quando si trattava di questioni importanti, andava subito al punto.
Rosalya, rimase spiazzata da quello sguardo così diretto e penetrante.
Non si aspettava certo che la rossa tirasse fuori un simile argomento e che lo affrontasse con tanta determinazione.
A quel punto, pensò che forse era giusto dirlo ad Iris, contando sulla sua discrezione. Magari sentire un’opinione diversa da quella di Alexy, le sarebbe stato d’aiuto.
Stava per rispondere alla domanda che le era stata rivolta quando una voce maschile le fece sussultare:
“certo che questo liceo si merita la fama che ha”
Iris e Rosalya si voltarono verso due ragazzi che, evidentemente brilli, si stavano avvicinando a loro. Avevano un sorriso inquietante ma soprattutto uno sguardo voglioso che non lasciava presagire niente di buono.
“che fama?” indagò Rosalya secca, mentre Iris cominciò a tirarla per il braccio. A parte i due tizi non c’erano altri studenti attorno a loro e il posto in cui si trovavano era mal illuminato. Non era una buona idea dal loro corda, anche se i modi bruschi della ragazza erano un chiaro messaggio di ostilità.
“di avere un sacco di ragazze fighe” completò lezioso quello che aveva parlato, facendo sorridere l’amico.
“non siete di questa scuola giusto?” chiese Rosalya “comunque girate al largo, stavamo parlando”
“oh, e cosa c’è di male se parliamo tutti insieme?” chiese il suo interlocutore, canzonando la ragazza per la scelta del verbo. Evidentemente i due avevano frainteso la situazione, eccitandosi nel notare le due ragazze appartarsi. Il modo lascivo con cui il ragazzo le guardava era fin troppo disgustoso. Il suo amico non parlava, ma si limitava a tenere gli occhi fissi su Iris che era sempre più intimorita.
L’estraneo si avvicinò a Rosalya che indietreggiò di qualche passo, finché sentì la schiena sbattere contro la dura corteccia dell’albero. Le afferrò i polsi mentre lei cercava di divincolarsi.
Lui però era troppo forte per lei e puntandole contro il peso del suo corpo, le immobilizzò le gambe. Iris stava per intervenire quando sentì un braccio afferrarla per il bacino e immobilizzandola. Terrorizzata si voltò verso il suo aggressore silenzioso che era indifferente alle sue proteste.
“lasciateci o mi metto ad urlare” lo minacciò Rosalya, dalla cui voce però trasparì il panico crescente. La morsa sulle sue mani era sempre più forte e il panico che si era impadronito di lei, l’aveva neutralizzata.  Sentì lacrime di rabbia salirle in volto ma le ricacciò dentro: non poteva piangere davanti ad un simile verme:
“ho in mente un modo per cucirti la bocca, bella” replicò viscido il ragazzo e avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza, che si voltò dall’altra parte, come unica difesa.
“NATHANIEL!” urlò Iris con sollievo, vedendo arrivare il biondo. Il suo aggressore, distratto da quell’arrivo allentò la presa e la rossa ne approfittò per sfuggirgli.
Notò in quel momento la presenza di Dake e, istintivamente, si portò alle spalle del surfista.
Rosalya non era stata altrettanto fortunata ed era ancora tenuta prigioniera.
“lasciala andare” ruggì Nathaniel, fissando minaccioso il ragazzo.
L’altro non si scompose, valutando che il biondo aveva all’incirca la sua stessa stazza:
“o?” lo canzonò.
Nathaniel sorrise e in quel sorriso la ragazza riconobbe Castiel. Unflash back istantaneo si presentò nella sua mente, quando lei era una ragazzina di prima, messa a terra da un bulletto. In quell’occasione, il suo aggressore era stato messo al tappeto da Castiel, ma ora, a distanza di tre anni, era destinata a rivivere quella scena, con protagonista Nathaniel.
Senza lasciare il tempo all’avversario di reagire, il biondo gli fiondò un colpo secco, talmente rapido che quasi Rosalya non riuscì a seguirne il movimento. Sentì subito che la morsa sui suoi polsi si era allentata e vide il ragazzo accasciarsi davanti a lei, spuntando un grumo di saliva per terra.
Nathaniel, l’emblema della diplomazia e della calma, aveva appena colpito una persona.
Aveva i muscoli del collo contratti e la mascella rigida, in evidente tensione.
“è chiaro il messaggio, o dobbiamo ripeterlo?” ringhiò Dake, puntando lo sguardo sull’altro ragazzo rimasto in disparte. Quest’ultimo, resosi conto della sua inferiorità numerica ora che l’amico faticava a rialzarsi, preferì tagliare la corda, seguito poco dopo dal compare.
Rimasti soli, Nathaniel si voltò verso Iris:
“non dire ad Erin di questo”
La rossa annuì, ancora scossa per quanto accaduto. Non riusciva a credere di aver visto il ragazzo reagire in quel modo. Non era da lui ma del resto era l’unica soluzione in quel momento.
Il biondo allora si avvicinò a Rosalya:
“tutto bene?” le chiese con apprensione:
Quella premura, anziché consolarla, la fece scattare. Incapace di trattenere le lacrime di frustrazione che prima era riuscita a cacciar giù, urlò:
“SMETTILA DI PREOCCUPARTI PER ME! Non sono la tua ragazza!” e corse via, lasciando i presenti, Nathaniel più di tutti, sconvolti.
Odiava piangere, ma soprattutto, detestava che fosse proprio lui a vederla così vulnerabile poiché solo lui era responsabile della sua debolezza.
 
Ambra scese dall’autobus e dopo aver camminato per un paio di isolati, si trovò di fronte un’insegna luminosa, ai lati della quale pendevano delle lanterne cinesi.
Inspirò e facendosi coraggio, varcò la soglia del ristorante.
Anche quando lei e Lin erano amiche, o per lo meno facevano finta di considerarsi tali, aveva messo piede raramente in quel locale. Eppure ne adorava la cucina, infatti spesso e volentieri, Molly si recava lì per recuperare i piatti preferiti della sua padroncina.
Stando alla descrizione della donna, il ristorante cinese brulicava ogni sera di giovani ospiti, informazione che non trovò riscontro in Ambra in quell’occasione: il locale infatti era quasi deserto, con appena qualche tavolo occupato.  
Le venne incontro una donna sorridendo affabile, finchè non riconobbe nella cliente appena giunta, la figlia di Gustave Daniels. La sua espressione facciale quindi cambiò radicalmente:
“oh Ambla, sei tu” commentò con un marcato accento cinese.
“buonasera signora Yang” la salutò educatamente la ragazza che aveva conosciuto la madre di Lin in un paio di occasioni “c’è Lin? Al concerto del liceo non c’è”
“ma sembla che ci sia il lesto della città” commentò acida la donna guardando con rammarico il ristorante quasi deserto. La serata era partita male con un numero di tavoli prenotati ben al di sotto dello standard ma prendeva una piega decisamente peggiore ora che aveva davanti la signorina Daniels, nonché la responsabile dell’infortunio della figlia del mese scorso.
La signora Yang e suo marito avrebbero voluto farle causa, ma le modiche entrate del ristorante non avrebbero permesso loro di affrontare una causa legale contro un colosso come Gustave Daniels. Era la legge della vita: con i soldi si può comprare qualsiasi cosa, giustizia compresa.
Accantonando l’orgoglio, Ambra pronunciò una frase che spiazzò la ristoratrice.
“devo scusarmi con sua figlia”
In quel momento Lin fece capolino e si avvicinò alle due interlocutrici. Alla vista dell’ex amica, aveva ssunto un’espressione molto dura e fiera. Non c’era traccia di quella ragazza insicura che fino a un mese prima, spariva dietro le spalle della bionda.
Ora Lin teneva il capo eretto, con grande dignità. Non le avrebbe più permesso di farla inchinare al suo cospetto. Mai più.
“mamma… c’è bisogno di te in cucina”
La signora Yang annuì e, dopo un’esitazione iniziale, lasciò le ragazze da sole, senza salutare Ambra. le due rimasero in silenzio, finchè l’ospite, guardandosi attorno commentò:
“avete cambiato l’arredamento? Mi piace”
“sei venuta qui per questo? Se vuoi ti faccio vedere la sala da thè, quella sì che merita”
Ambra rise sommessamente:
“non conoscevo questo tuo lato sarcastico”
“non conosci molte cose di me Ambra” puntualizzò Lin, senza abbandonare la sua compostezza e rigidità.
La ragazza annuì impercettibilmente e si preparò a formulare quel discorso che nell’ultima mezz’ora aveva sentito solo nella sua testa:
“è vero… ed è stata solo colpa mia per questo. Non mi sono mai comportata da amica. Charlotte mi ha fatto capire chiaramente che ormai è troppo tardi per rimediare, quindi non mi stupirò se per te sarà lo stesso. Solo accetta le mie scuse Lin… per tutto, non solo per l’incidente. Quello poi è stata la cosa peggiore che ti abbia mai fatto: se ti consola, ho passato intere nottate a tormentarmi su come sarebbe potuta finire… ti assicuro che è stato un raptus di rabbia”
Lin rimase in silenzio, ascoltando quelle parole cariche di rammarico:
“voglio provare ad essere un’altra persona. Nessuno ha colpa del fatto che mi faccia schifo la mia vita, quello che mi hai detto quel giorno era pura verità, per questo mi ha fatto così male: tu aveva capito tutto di me, senza che io ti raccontassi nulla. Saresti stata una buona amica che io non fossi stata così impegnata a maltrattarti”
Ambra finì il suo discorso con Lin che non lasciava trapelare alcuna emozione. Tra di loro non c’era mai stato un dialogo del genere e per questo erano entrambe un po’ a disagio, anche se cercavano di non darlo a vedere. Ma le parole di Ambra erano sincere e genuine. Aspettava pazientemente che lei aprisse bocca ed infine, Lin la accontentò:  
“a quest’ora non dovresti essere al concerto?”
Non era mai stata una ragazza stupida. A contrario, la ragazza era un’acuta osservatrice e sapeva giudicare le persone per quello che valevano. Diversamente da Charlotte, Lin non aveva ricercato la compagnia della bionda per sfruttarne la popolarità: lei la ammirava, voleva assomigliarle per la sua forza e determinazione.
“ero venuta anche a chiederti di venire con me” tentò la bionda, ritraendo il labbro inferiore.
A quelle parole, la cinesina abbandonò ogni ritrosia e sorrise leggermente.
Forse ci sarebbe voluto un po’ di tempo per costruire un rapporto di amicizia tra loro due, ma l’inizio era piuttosto incoraggiante. Non sarebbe stata lei a mandare tutto all’aria senza neanche provarci:
“dammi un quarto d’ora per cambiarmi e arrivo”
 
Poco prima delle nove, la folla davanti al palco era incommensurabile.
Rosalya ed Iris si erano aggregate ad Erin e Violet riuscendo a nascondere quanto era accaduto tra gli alberi della scuola. La prima cercava di celare il suo cattivo umore, concentrandosi sul concerto, mentre la rossa era impegnata a parlare con l’artista. Accanto alle ragazze si ergevano, in tutta la loro statura, i cestisti della squadra del liceo.
“questo è proprio l’anno di Castiel” commentò Trevor rivolto ad Erin che lo guardò senza capire:
“prima la recita, ora il concerto e a febbraio il torneo di basket” spiegò il ragazzo.
“vero” convenne a quel punto la ragazza sorridendo. Era orgogliosa del suo amico e della sua crescente popolarità: ne aveva decisamente bisogno dopo anni di insicurezze e carenze di autostima, all’ombra di Nathaniel.
“durante le vacanze che ne dici se ci troviamo?” chiese d’un tratto Dajan, rivolgendosi a Kim. Sorpresa e soprattutto confusa da quell’invito, la ragazza avvampò:
“così ci teniamo in allenamento per il torneo” aggiunse il fanatico dello sport. La ragazza a quel punto si rilassò, realizzando di avere equivocato le sue parole.
“certo, magari chiamiamo anche Trevor, Castiel e Erin” propose contenta.
“veramente io pensavo a solo noi due” ammise un po’ deluso il cestista.
Kim sgranò gli occhi mentre il ragazzo arrossì leggermente e cominciò a guardare in un’altra direzione.
“c-cioè intendo” borbottò grattandosi la guancia “devi ancora perfezionarti. Gli allenamenti di gruppo rimandiamoli ad un’altra volta”
“hai ragione” convenne Kim che era troppo inesperta per capire che il cestista si stava arrampicando sugli specchi pur di non ammettere che avrebbe voluto passare le vacanze solo in sua compagnia.
 
Erin si sentì tirare per un braccio e si trovò di fronte sua zia Pam:
“finalmente! Stavo perdendo ogni speranza di rintracciarti!” sospirò la donna. Dietro di lei c’era Jason che rivolse un sorriso gentile a Nathaniel. I due si presentarono e cominciarono a conversare mentre le due donne, li osservavano soddisfatte:
“devo dirti una cosa Erin” le sussurrò la zia, tutta eccitata.
“dimmi che gliel’hai detto” tagliò corto la nipote speranzosa.
Pam annuì allegra e la ragazza emise un gridolino di gioia. Guardò poi Jason e esclamò:
“sono proprio contenta di averti in famiglia, zio”
L’uomo scoppiò a ridere e con lui anche la sua ragazza.
I due adulti, dopo aver parlato un po’ con la giovane coppia, indietreggiarono, sostenendo che preferivano godersi l’esibizione da lontano, nonostante le proteste di Erin che sosteneva che quello era un comportamento da vecchietti.
 
Alle nove passate, ancora non c’era traccia della band. Tutti si erano accalcati vicino al palco, pronti a saltare e scatenarsi ma l’essere così pressati non contribuiva ad aumentare la pazienza della folla.
“le nostre star si stanno facendo attendere” commentò Dajan.
In quel momento nella mente di Erin balenò la consapevolezza che toccava anche a lei salire sul palco. Lysandre le aveva spiegato che volevano partire proprio con la canzone di Damien Rice in modo che poi la ragazza potesse tornare tra il pubblico a godersi il resto dello spettacolo.
Quasi tremando, frugò nella borsa, dove trovò il cellulare: vide 34 messaggi e 12 chiamate perse. Il mittente era soprattutto Castiel e scorrendo velocemente la conversazione, Erin lesse:

“Cip vieni dietro le quinte”
“muoviti”
“ti stiamo aspettando”
“dove cazzo sei?”
“Cip, muovi il culo o vengo a prenderti io!”
“rispondi porca miseria!”
“se ti è di troppo disturbo, potresti portare il tuo sederino dietro le quinte?”


Questi erano solo alcuni degli educati messaggi che il rosso aveva rivolto all’amica che, nonostante l’urgenza, perse del tempo per scorrerli tutti fino all’ultimo:

“senti un po’: se non rispondi entro due minuti giuro che stasera ti farò piangere”

“mi ammazzano” dichiarò sbiancando.
Afferrò Nathaniel per il polso che in quel momento stava parlando con Iris e lo trascinò con sé, costringendolo ad interrompere bruscamente la conversazione.
“stanno aspettando me! Devo salire sul palco per la prima canzone! Ti prego aiutami a farmi strada!”
Cogliendo il panico della ragazza, il biondo dall’alto della sua carica riuscì a creare un varco e consentire ad Erin di scavalcare la folla.
 
Appena arrivarono nel dietro le quinte, Castiel le inveì contro:
“UN ALTRO MINUTO E”
“lo so lo so, scusate!” li supplicò la ragazza.
“stiamo ancora aspettando l’ok della Robinson” la tranquillizzò Alexy.
“allora che cacchio mi metti addosso tutta quell’ansia?!?” sbottò Erin esasperata, accusando il rosso che la ignorò.
“comunque a momenti arriverà” mediò Lysandre, schiarendosi la gola. Quel gesto non passò inosservato a nessuno dei presenti, tanto meno a Castiel che si voltò:
“tutto ok?”
“a meraviglia” lo rassicurò il vocalist, guardandolo di lato. Il chitarrista però non sembrò convinto così Lysandre si esibì nella prima strofa di The blower's daughter di Damien Rice.
“grande” commentò Erin ammirata.
“cominciate con quella?” s’intromise Nathaniel guardando il vocalist.
Inaspettatamente però non fu quest’ultimo a rispondergli.
“non sei d’accordo?” domandò Castiel incuriosito.
Non c’era alcuna nota di recriminazione o risentimento nelle sue parole.
“fossi in voi partirei con il botto. Quella lasciatela a metà concerto per creare la giusta atmosfera” suggerì il biondo.
“tu quale suoneresti?” incalzò il rosso.
“dipende da quali vi siete preparati” convenne Nathaniel conciliante.
“toh, questa è la scaletta” replicò Castiel, allungandogli un foglio.
I due ragazzi sembravano non essersi resi conto della reazione dei loro amici. Era ammutoliti nel vederli conversare così spontaneamente come un tempo.
Erin quasi si commosse e alternava lo sguardo tra i due ragazzi più importanti della sua vita. Aveva sognato talmente tante volte una scena del genere che non riusciva a capacitarsi del fatto che fosse reale.
Burn into the ground?” commentò Nathaniel divertito, passando in rassegna  titoli “volete davvero suonarla?”
“sarebbe perfetta vero?” concordò Castiel, che era l’unico della band ad insistere affinché la eseguissero.
Nathaniel sorrise complice dal momento che si trattava di una delle canzoni che entrambi adoravano eseguire, quando ancora appartenevano allo stesso gruppo.
“peccato che Lys non sia d’accordo” borbottò il chitarrista con ironia.
“il problema è che non è adatta alla mia voce” precisò il vocalist, puntualizzando la parola “mia”.
Anche se fin troppo chiaro dove volesse andare a parare Lysandre, né Nathaniel né Castiel gli diedero retta.
“beh, allora potreste partire con i Linkin Park… che ne dite di Castle of glass? Quella è un crescendo e poi sicuramente la conoscono tutti… vi verranno dietro di sicuro se riuscite ad essere carismatici” ragionò il biondo, portandosi l’indice sulle labbra, mentre rifletteva.
Castiel sorrise soddisfatto.
Era passato tanto tempo eppure il biondo non era cambiato affatto: era sulla sua stessa lunghezza d’onda e lo capiva al volo.
Per quella sera, il rosso dimenticò di avere davanti il ragazzo della persona di cui era innamorato.
Per lui era solo Nathaniel, il migliore amico che avesse mai avuto.
Forse era destino che proprio quella sera, prima di salire su un palco a fare ciò che più adorava, riscoprisse con tanta nostalgia quell’amicizia.
Si voltò verso il resto della band e chiese:
“siete tutti d’accordo?”
Gli altri annuirono ed Erin tirò un sospiro di sollievo, sentendo che la sua esibizione era stata rimandata. Era ancora spiazzata per quanto era accaduto tra Nathaniel e Castiel e non si sentiva pronta per affrontare il pubblico.
“tu Cip te la senti di aspettare qui finchè non abbiamo bisogno di te?” domandò il rosso.
“certo” sorrise. Era talmente su di giri, che avrebbe anche accettato di cantare vestita da pinguino pur di non spezzare l’armonia che si era creata.
Finalmente arrivò il tanto atteso segnale:
“ragazzi, ci siamo. Siete pronti?”
Le parole di Miss Robinson sortirono l’effetto di una scarica elettrica sui ragazzi.
Erin e Nathaniel sorrisero, mettendosi accanto ad un complicato quadro elettrico mentre la band si preparava: il grande momento era arrivato.
 
Castiel sentiva il cuore martellargli in petto e il sangue andargli al cervello. Gli facevano quasi male la mani da quanta adrenalina aveva in circolo.
Quella notte il cielo era avvolto da un manto nero pece e l’aria era frizzante. Non faceva eccessivamente freddo, del resto per lui non era mai stato un problema. Come il resto dei membri del gruppo, Castiel non indossava il giubbotto: sapevano che una volta lì fuori, il freddo non sarebbe stato un problema tanta era l’agitazione.
Alexy fu il primo a fare la sua uscita sul palco: mentre il ragazzo si accomodava dietro alla batteria, esplosero le grida dei suoi amici. Era molto popolare sia tra i ragazzi che tra le ragazze per via del suo modo di fare allegro e socievole. Anche il club di disegno, generalmente formato dagli studenti più timidi e introversi del liceo, quella sera gli fece da supporto. Agli applausi e schiamazzi per Alexy si fusero quelli per il fratello Armin che si piazzò dietro la piattaforma elettronica da deejay. Il moro fece un saluto che ricordò la regina Elisabetta d’Inghilterra e tutti scoppiarono a ridere.
Quando una fin troppo nota testa di capelli rossi andò alla chitarra, ormai la gente era fin troppo esaltata. Castiel sorrise tra sé e sé, cercando di non darlo a vedere. Il tutto gli sembrava esagerato dal momento che non erano una band famosa come quelle delle canzoni che avrebbero suonato, ma la cosa non poteva che lusingarlo.
Individuò facilmente gli altissimi compagni della squadra di basket, accanto a quali c’erano Rosalya, Iris e Violet. Non gli sfuggirono i gesti della 5^ C, la sua ex classe. Negli anni aveva costruito un bel rapporto con quei ragazzi e dopo la bocciatura, gli era dispiaciuto non trovarsi più assieme a loro. Tuttavia, non poteva lamentarsi della sua attuale classe, all’interno della quale c’erano persone alla cui compagnia non avrebbe mai rinunciato.
Ed infine uscì anche Lysandre, lasciato per ultimo in quanto vocalist che si presentò al pubblico, meritandosi la sua dose di applausi.
“buonasera gente” esordì, mentre tra il pubblico si diffondeva un relativo silenzio “questa sera per voi i-“
Lysandre si interruppe e si voltò verso il chitarrista:
“mi sono dimenticato come ci chiamiamo”
Alexy si potrò una mano in fronte, a Castiel scoppiò una vena per l’irritazione mentre Armin esplose in una risata assieme al resto degli spettatori:
“non l’abbiamo mai deciso idiota” ringhiò il chitarrista “usa il nome vecchio”
Lysandre annuì:
“ok, scusate questo piccolo inconveniente: noi siamo i”
Per la seconda volta il vocalist si interruppe e assunse un’aria metadibonda nel tentativo di ricordare il vecchio nome del gruppo.
Sollevando gli occhi al cielo, Castiel li posò poi sulla sua Sophia e attaccò con la musica e gli altri musicisti si affrettarono a seguirlo. Il pubblico esplose in urla entusiastiche riconoscendo sin dalle prime note la famosa canzone dei Linkin Park.
Lysandre scrollò le spalle e dopo aver rivolto un sorriso adorabile ad alcune ragazze in prima fila, cantò:
 
♫  Take me down to the river bend
Take me down to the fighting end
Wash the poison from off my skin
Show me how to be whole again

Lysandre cantava con voce sicura, senza tradire la minima esitazione. La sua voce era perfetta e non aveva alcuna traccia della raucedine del giorno precedente. Gli spettatori aveva cominciato a muoversi in base alla musica, chi muovendo le braccia, chi l’intero corpo, al ritmo di Castle of glass.
 Al ritornello, le luci del palco cominciarono a vorticare in ogni direzione e farsi più intense mentre centinaia di altre voci si fusero con quella del cantante:
 
♫  Because I’m only a crack in this castle of glass
Hardly anything left for you to see
For you to see

Si notò da subito la professionalità dello staff che era stato ingaggiato. Tutto, dall’acustica alla scenografia era perfetto. Gli effetti scenici non avevano nulla da invidiare ad un evento di professionisti.
Nonostante la ripetitività del ritornello, la canzone risultava sempre più emozionante.
Come aveva predetto Nathaniel, il pubblico cominciò a cantare con Lysandre che si muoveva sul palco in modo appropriato alla ritmica della canzone.
 
Quando questa finì, il vocalist concluse con un teatrale inchino e la band venne investita da applausi scrocianti. Tutti erano su di giri e gli studenti più ancora della band sul palco.
L’inizio non poteva essere dei migliori.
Castiel si voltò euforico verso Lysandre ma non trovò nell’amico l’espressione che si aspettava: il vocalist si era portato una mano alla gola e aveva le sopracciglia aggrottate, nello sforzo di deglutire.
Gli restituì uno sguardo colpevole e rammaricato, quasi a dirgli “mi dispiace”.
 
A quel punto la reazione di Castiel quel giorno fu qualcosa di talmente immediato e istintivo che lui stesso non si capacitò dei suoi movimenti.
 
Forse perché non c’era altra soluzione, forse per l’adrenalina che sentiva in corpo, oppure e forse soprattutto, per quella nostalgia che gli diventava sempre più intollerabile, tanto da surclassare il suo orgoglio, Castiel si liberò velocemente dalla chitarra.  Quella stessa chitarra che lui gli aveva regalato:
“Nate” lo chiamò, irrompendo dietro le quinte “il microfono è tuo. Lysandre non ce la fa”
Nathaniel rimase di sasso.
Davanti a lui Castiel, con il fiatone per l’agitazione, lo fissava intensamente negli occhi dopo averlo chiamato con quel nomignolo che solo lui usava.
Non c’era molto tempo per pensare e se anche ci fosse stato, probabilmente il biondo avrebbe agito allo stesso modo: un sorriso complice, di quelli che solo Castiel riusciva a strappargli, gli piegò un angolo della bocca e vide quella smorfia riflettersi nel chitarrista.
Non avevano mai avuto bisogno di scambiarsi tante parole: non erano necessarie le parole per capire che ogni rancore e recriminazione erano ormai stati accantonati.
Nathaniel sollevò la mano stretta a pugno e si limitò a rispondere:
“fammi cantare roba buona”
Castiel sorrise divertito e imitò il gesto dell’amico, scontando le nocche della propria mano contro quelle del biondo. 
Quel giorno, quella semplice azione rappresentò la saldatura di un legame che si era spezzato ma che ora sarebbe rinato più saldo che mai.

Erin aveva assistito a quella scena da mera spettatrice.
Persino Nathaniel, prima di salire sul palco, si era dimenticato della presenza della ragazza. Se si fosse voltato avrebbe visto le lacrime di commozione che le avevano bagnato gli occhi.
Quando gli altri tre membri della band videro arrivare Nathaniel erano increduli, guardandosi l’un l’altro, mentre tra il resto del pubblico da cui si levò un vocio sbigottito.
“se non ti dispiace Lys, prendo il tuo posto al microfono” gli comunicò Nathaniel, portandogli una mano sulla spalla.
Il ragazzo sorrise luminoso:
“non chiedo altro” gracchiò con difficoltà.
Il nuovo vocalist annuì e con una carica che era stata del tutto estranea al personaggio di Lysandre, si presentò:
“GENTE! Dopo questa fantastica esibizione lasciamo che Lysandre riposi un po’ la voce. Nel frattempo…” Nathaniel lanciò a Castiel un’occhiata esaustiva.
Erano passati mesi eppure si era ritrovati più fratelli di prima.
Al chitarrista non serviva altro per capire le intenzioni del biondo così si lanciò sulle note di Burn  into the ground.
Riconoscendo quegli accordi, anche Alexy cercò di accantonare lo stupore per quel colpo di scena e cominciò a picchiare sulla batteria, mentre il gemello si concentrava sugli effetti elettronici.
Quanto a Lysandre, era stato ben lieto di dedicarsi alla sua tastiera.
 
♫   Well it's midnight, damn right 
We're wound up too tight 
I got a fist full of whiskey 
The bottle just bit me 
That shit makes me 
Bat shit crazy 
We got no fear, no doubt 
All in, balls out
 ♫ 

Il pubblico impazzì letteralmente. Specie i maschi cominciarono a saltare e agitare le mani in avanti andando a tempo, come se fossero ad un concerto di musica hard rock.
All’inizio tutti erano rimasti un po’ spiazzati: il misurato segretario delegato sul palco si era trasformato in una belva, tanto da renderlo irriconoscibile. Dal microfono si diffondeva una voce forte, carica, da vero rocker.
Ambra e Lin erano soggiunte in quel momento e la prima sorrideva orgogliosa del fratello.
Fino a diversi mesi prima, era solita sentirlo nella sua stanza, con la musica sparata a tutto volume, mentre cantava quelle canzoni che a lei invece davano solo fastidio.
Frequentemente irrompeva nella camera ma le sue proteste restavano inascoltate, specie quando il fratello era in compagnia di Castiel.
Dopo la rottura trai due, vedendo Nathaniel chiudersi in sé stesso, Ambra aveva sperato, anche solo per una volta, di tornare a sentire quella musica al massimo che un tempo riusciva a dargli la carica.
Castiel sbirciò tra il pubblico e sorrise divertito quando notò il casotto che stavano facendo i suoi compagni di squadra. Si agitavano come scalmanati e ad un certo punto vedere emergere  Kim che, nonostante le sue proteste, era stata caricata sulle spalle di Trevor.
Cercando di non deconcentrarsi, il chitarrista continuò a suonare mentre la ragazza, morendo per la vergogna, cercava di opporre resistenza affinché potesse tornare a toccare terra.
 
♫  We're going out tonight 
To kick out every light 
Take anything we want 
Drink everything in sight 
We're going til the world stops turning 
While we burn it to the ground tonight ♫ 

Per quanto Lysandre fosse stato impeccabile, Nathaniel non lo fece rimpiangere.
La musica era altissima e il dinamismo dei ragazzi si portava a livelli sempre più elevati.
Da dietro le quinte, Erin sentiva il cuore batterle a tempo con la batteria di Alexy, come se fosse lo strumento a stabilirne la contrazione.
 
Finita la canzone, le urla erano assordanti e dopo un rapido consulto tra il nuovo vocalist e il chitarrista, si decise di passare ai Skillet.
Gli altri tre membri della band, anziché risentirsi per quell’esclusione, si godevano quella scena che per troppo tempo era loro mancata: vedere Castiel e Nathaniel andare così d’accordo, scambiarsi pacche sulle spalle, quasi isolandosi dal resto del mondo, con quell’invidiabile complicità di due fratelli, era un sogno.
 
Tick tock hear the clock countdown
Wish the minute hand could be rewound
So much to do and so much I need to say
Will tomorrow be too late

Feel the moment slip into the past
Like sand through an hourglass
In the madness I guess I just forget
To do all the things I said

Time passes by
Never thought I'd wind up
One step behind
Now I've made my mind up

Nathaniel aveva una presenza scenica spettacolare: non restava mai rigido, ma si muoveva con una carica e un’energia insospettabili in una persona all’apparenza misurata come lui. Sembrava un professionista, più che un liceale come tanti.
Castiel non riusciva a togliersi quel ghigno di soddisfazione: era passato talmente tanto tempo da quando suonava per lui, da dimenticarsi quanto la sua voce lo caricasse. Se se ne fosse ricordato prima, probabilmente non avrebbe indugiato così tanto a riallacciare i rapporti.
 
Today I'm gonna try a little harder
Gonna make every minute last longer
Gonna learn to forgive and forget
'Cause we don't have long, gonna make the most of it

Today I'm gonna love my enemies
Reach out to somebody who needs me
Make a change, make the world a better place
'Cause tomorrow could be one day too late
One day too late
One day too late

In fondo Castiel lo sapeva: per quanto apprezzasse la voce di Lysandre, era su quella di Nathaniel che aveva sempre modellato le sue canzoni in passato, e aveva continuato a farlo finchè non aveva sentito Erin cantare.
La potenza vocale del ragazzo, la sua energia erano ideali per l’hard rock, anche se stridevano con il suo faccino da bravo ragazzo. Nell’insieme quindi, risultava ancora più eccitante e sorprendente.
 
Per il pezzo successivo dovettero optare per una delle vecchie canzoni della band:
 
No fear, no blame
I only hope in tomorrow
When the sun will wake up
And you will fade away
 
Anche se si trattava di una delle canzoni preferite di Nathaniel, Castiel rimase piacevolmente sorpreso nel constatare quanto bene l’amico la ricordasse. Ancor di più, lo lusingò vedere le espressioni degli spettatori che, pur non conoscendo il pezzo, lo ascoltavano rapiti.
Già al terzo ascolto del ritornello, qualcuno provava ad intonarlo, fondendo la propria voce con quella del vocalist sul palco.
 
Dopo aver suonato sei canzoni, i musicisti fecero una pausa tornando dietro le quinte.
Si lasciarono alle spalle gli applausi fragorosi del pubblico che era fin troppo carico. Quella band non aveva rispettato le loro aspettattive: le aveva largamente superate.
Una volta nascosti dal palco, Castiel fu il primo a venir investito dall’abbraccio di Erin che per tutto il tempo era rimasta dove Nathaniel l’aveva lasciata.
“ragazzi siete stati grandissimi!” esultò sciogliendo l’abbraccio da un imbarazzato chitarrista, poi rivolgendosi al vocalist:
“tu sei…” ansimò cercando un termine per definirlo.
“prendi fiato” sorrise Nathaniel, ridendo dell’entusiasmo della sua ragazza:
“Nath sei… oddio… neanche lo so cosa sei” ammise Erin orgogliosa.
“adesso ragazzi” sussurrò Lysandre la cui voce faticava a tornare “ci starebbe bene The blower’s daughter… ma accompagnata solo dalla chitarra di Castiel”
“solo noi due sul palco?” chiese Nathaniel indicando se stesso e il rosso.
“la conosci quella canzone?” s’informò Alexy.
“sì, credo di ricordarmi il testo… però magari se ce l’avete qui, sarà meglio che ci dia un’occhiata”
Castiel recuperò un foglio da una pila appoggiata sul tavolo e, assieme al vocalist, cominciò a studiare la canzone. Teneva in mano la chitarra e strimpellò qualche accordo mentre Nathaniel ne seguiva il testo.
“in realtà questa canzone dovrebbe cantarla anche Erin” ricordò Armin con un sorriso astuto ma la ragazza, dopo avergli assestato un calcio micidiale, chiarì:
 “assolutamente no, ho cambiato idea ora che c’è Nath sul palco. Voglio godermi il concerto” dichiarò irremovibile.
Voleva vederli lì fuori da soli, godersi la scena come una qualsiasi spettatrice.
Sembrò quasi che il resto della band la pensasse allo stesso modo poiché nessuno protestò.
Lysandre quindi annuì mentre Miss Joplin faceva il suo ingresso dietro le quinte. Dopo i doverosi e meritati complimenti ai ragazzi, incitò la band a rientrare.
Prima però Lysandre aggiunse:
“ragazzi facciamo così: quando avete finito con la canzone di Rice, passate a the Shadow of the day. Noi rientreremo dopo il primo ritornello”
“mi sembra una buona idea” convenne Nathaniel, prima di tornare sul palco.
Quel luogo lo richiamava, come se fosse il suo elemento naturale e anche Castiel condivideva quella sensazione.
Quando i due ragazzi tornarono a presentarsi alla folla, furono accolti da un applauso e da mormorii curiosi giustificati dall’assenza degli altri tre membri.
Nathaniel e Castiel recuperarono due sgabelli e si sedettero a poca distanza l’uno dall’altro. Una volta che il biondo si portò il microfono davanti alle labbra, ogni rumore svanì e attaccò:
 
And so it is
Just like you said, it would be
Life goes easy on me
Most of the time

 
Ed è così 
proprio come tu hai detto che sarebbe stato
la vita è facile per me 
la maggior parte del tempo 

 
A quel punto, anche la musica di Castiel cominciò a diffondersi, rendendo ancora più magica l’atmosfera.
And so it is
The shorter story
No love, no glory
No hero in her sky
♫ 
 
♫  ed è così 
la storia più corta: niente amore nè gloria 
niente eroe nei suoi cieli 


 
Erin non riusciva a staccare gli occhi da Castiel. Anche se la canzone e il fatto che il chitarrista fosse seduto, non gli consentivano la mobilità che aveva avuto nelle precedenti esecuzioni, era impossibile non trovarlo carismatico.
Era nel suo mondo, chino su quello strumento che nelle sue mani acquisiva vita propria. Anche se poteva solo vederne la schiena e intuire solo marginalmente il profilo del viso del ragazzo, Erin riusciva ad immaginarsi perfettamente la sua espressione.
“il tuo ragazzo sta facendo un figurone” disse una voce alle sue spalle.
La ragazza si voltò e si trovò accanto Miss Robinson, per una volta senza il marito al seguito.
“oh sì, sono molto orgogliosa di Nathaniel” ammise Erin sorridendo.
“Nathaniel?” ripetè la professoressa con perplessità “veramente io stavo parlando di Castiel”
Erin sgranò gli occhi confusa.
“scusami, Miss Joplin mi ha appena detto che il tuo ragazzo è lì sul palco e ho pensato che si trattasse di Castiel visto come l’hai guardato finora” si giustificò la donna.
“come lo guardo?” si chiese Erin senza capire. Poi realizzò che, da quando i due ragazzi erano usciti sul palco, non aveva mai posato lo sguardo su Nathaniel.
Per un attimo era come se lì fuori ci fosse stato solo il suo migliore amico.

♫   I can't take my eyes off you 
I can't take my eyes off you 
I can't take my eyes off you 
♫ 
 
♫  non riesco a levarti gli occhi di dosso
non riesco a levarti gli occhi di dosso
non riesco a levarti gli occhi di dosso♫  
La professoressa di arte nel frattempo si era allontanata, lasciando la sua studentessa persa nei propri pensieri.
“sta andando meglio di quanto pensassi” commentò Lysandre con un tono di voce un po’ alto per farsi sentire dalla ragazza.
Lei si voltò ed esclamò sbigottita:
“ma tu non eri senza voce?”
“un muto non può far finta di parlare ma al contrario…”
Erin sgranò gli occhi, incredula per quanto aveva appena intuito. Per quanto le sembrasse impossibile, c’era un’unica spiegazione:
“tu Lysandre non hai mai perso la voce!” lo accusò stupefatta.
Un sorriso furbetto venne nascosto dall’indice del ragazzo che faceva cenno ad Erin di non dirlo a nessuno.
“ammetto che dopo aver visto l’intruglio di ieri di quel beota” spiegò riferendosi a Castiel “ero seriamente tentato a porre fine alla commedia… comunque, l’importante è aver raggiunto lo scopo… allora che dice signorina Travis delle mie doti di attore?” si ruffianò Lysandre, meritatamente orgoglioso per il successo della sua impresa.
In tutta risposta Erin gli lanciò le braccia al collo, stringendolo con foga ed emettendo un gridolino esagerato. Questo verso non passò inosservato per i due ragazzi sul palco che voltandosi in quel momento, si distrassero per la scena: Nathaniel sbagliò a pronunciare una parola mentre Castiel saltò un’intera battuta. La ragazza non si accorse di nulla mentre Lysandre, deliziato da quell’abbraccio, rispose rivolgendo un sorriso canzonatorio ai due amici.
I due ragazzi, ancora perplessi, cercarono di tornare a concentrarsi sul pezzo che stavano eseguendo.
 
Did I say that I loathe you? 
 
ti ho detto che ti disprezzo? 
 
Quando cantò quella frase, che avrebbe dovuto eseguire Erin, Nathaniel pensò a Rosalya e senza poterci fare nulla, continuò a pensare a lei anche per le strofe successive:

♫   I can't take my mind off you 
I can't take my mind... 
My mind...my mind...
 

'Til I find somebody new ♫ 
 
non posso smettere di pensarti 
non posso smettere di pensarti 


..fino a quando non troverò qualcun altro ♫   
Castiel smise di suonare e alzò lo sguardo verso l’amico che però si era rabbuiato. Pensò si trattasse della scena vista prima ma era fin troppo ovvio che non potesse aver equivocato quel semplice abbraccio. Certo, anche lui ne era rimasto un po’ spiazzato, non capendo quale slancio di affetto avesse portato Erin a lanciare la braccia al collo di Lysandre, ma del resto non c’era nulla di cui ingelosirsi.
Erin nel frattempo annunciò a Lysandre che preferiva tornare tra il pubblico, a godersi con concerto con il resto dei suoi amici. Salutò sbrigativamente i gemelli e sparì dalla loro vista.
 
Riuscì facilmente a ricollegarsi alle sue amiche, usando come punto di riferimento l’altezza statuaria dei suoi compagni di squadra.
“cos’è questa storia che Nathaniel e Castiel cantano insieme?” le chiese Iris non appena la vide, trascinandola a sé.
“non è bellissimo?” le rispose Erin con entusiasmo.
Nel frattempo Castiel e Nathaniel avevano cominciato l’esecuzione del pezzo successivo:
 
I close both locks below the window
I close both blinds and turn away

Sometimes solutions aren't so simple
Sometimes goodbye's the only way

And the sun will set for you
The sun will set for you

And the shadow of the day
Will embrace the world in grey


And the sun will set for you
 
A quel punto anche Lysandre, Alexy ed Armin tornarono sul palco posizionandosi davanti ai rispettivi strumenti. Il loro ritorno venne accolto con grande calore e fervore dalla folla, mentre la musica, grazie al loro contributo acquisiva più tridimensionalità.

In cards and flowers on your window
Your friends all plead for you to stay

Sometimes beginnings aren't so simple
Sometimes goodbye's the only way


Mentre eseguivano quel pezzo, Erin si sentì tirare per una manica. Si voltò e si trovò di fronte una ragazza che non aveva mai visto prima:
“tu sei Erin Travis giusto? L’amica di Castiel?” le gridò all’orecchio per farsi sentire.
La ragazza annuì, confermando la propria identità e guardò con curiosità la sua interlocutrice, notando dietro di essa una sua amica che non osava alzare lo sguardo.
“posso chiederti un favore?” continuò l’altra.
“non è che potresti darmi il numero di Castiel? È per la mia amica” spiegò l’altra, cercando di essere amichevole.
Erin rimase spiazzata.
“sai, lui le piace molto, ma non sapevamo a chi chiedere e”
“scusa ma non ti sento” replicò Erin mentre la musica si faceva sempre più assordante.
La band infatti aveva appena annunciato l’esecuzione di Uprising dei Muse e gli spettatori avevano lanciato un urlo fortissimo.
La ragazza allora provò a ripetere la domanda, ma Alexy aveva ripreso a picchiare con foga la sua batteria. 

The paranoia is in bloom, the PR
The transmissions will resume
They’ll try to push drugs
Keep us all dumbed down and hope that
We will never see the truth around
(So come on!)

 
Erin cominciò a fare gesti che non riusciva più a sentirla così le due ragazze, rassegnate furono costrette ad allontanarsi deluse.
Nonostante la pessima performance durante la recita scolastica, quando voleva, Erin sapeva essere un’ottima attrice. Vedendole allontanarsi, si chiese cosa l’avesse spinta a mentire, del resto sembravano due brave ragazze.
Si convinse allora che Castiel non l’avrebbe perdonata facilmente se lui si fosse presa la libertà di dare il suo numero a chiunque glielo chiedesse. Era solo per questo che aveva agito in quel modo.
 
They will not force us
They will stop degrading us
They will not control us
We will be victorious

 
“sono tutti miei studenti!” strillò orgogliosa Miss Robinson all’orecchio del marito.
“ma li ho scoperti io!” rivendicò il proprio merito Miss Joplin, gridando all’uomo per sovrastare la musica assordante. Il timpano del poveretto, era ormai sull’orlo dell’autodistruzione.
 
Per accontentare Alexy, la canzone successiva era dei Thirty Seconds to Mars: Closer to the edge.
 
I don't remember one moment I tried to forget 
I lost myself yet I'm better not sad 
Now I'm closer to the edge 

It was a a thousand to one and a million to two 
Time to go down in flames and I'm taking you 
Closer to the edge 

No I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No, no, no, no 

Can you imagine a time when the truth ran free 
A birth of a song, a death of a dream 
Closer to the edge 
This never ending story, hate 4 wheel driving fate 
We all fall short of glory, lost in ourself 

No I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No, no, no, no 



Contenere la folla era impossibile. In quel pezzo c’era ancora più dinamismo del precedente e tutte le file più vicine al palco cominciarono a saltare e cantare. Anche Erin, Iris e Rosalya cominciarono ad agitarsi, dimenandosi insieme ai cestisti che erano parecchio scalmanati, mentre Violet e Kim, restando rigide, cercavano di non farsi investire da gomitate o spallate.
 
No I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No, no 
No, I'm not saying I'm sorry 
One day, maybe we'll meet again 
No, no, no, no 

Closer to the edge 
Closer to the edge 
No, no, no, no 
Closer to the edge 
Closer to the edge 
No, no, no, no


Le luci stroboscopiche puntavano in ogni direzione. Gli altoparlanti sembravano pulsare da quanto era alto il volume della musica che veniva emessa.  Nonostante la temperatura invernale, i musicisti erano sudati e Nathaniel più di tutti a causa dei continui movimenti.

Il concerto continuò tenendo sempre alto l’interesse e il fervore del pubblico fino alle undici e mezza, quando Miss Joplin fece cenno ai ragazzi di finire con l’ultima canzone.
Terminato quindi il pezzo, Nathaniel parlò al pubblico:
“grazie a tutti. Siete stati un pubblico fantastico. Questa era l’ultima canzone”
Dagli spettatori si levò un no deluso mentre Miss Joplin si faceva consegnare il microfono dal vocalist:
“in realtà ragazzi, la nostra preside ha richiesto alla band una canzone, per cui sarà con quella che ci saluteranno”
Erin e le sue amiche si guardarono ridendo. Era tutta la sera che aspettavano di assistere alla scena di Castiel e degli altri che si muovevano sulle note di “o mia bella contadina”.
Intanto Nathaniel veniva aggiornato sul pezzo:
“ma io non lo conosco” si difese.
“ci mancherebbe anche che lo conoscessi” lo derise Castiel “saresti proprio uno sfigato”
“io comunque quella porcheria che hai scritto non la canto” gracchiò Lysandre.
“per forza, sei senza voce” obiettò Alexy, inconsapevole del fatto che il loro amico stava perpetuando a suo vantaggio quella commedia.
“io nemmeno. Mi sospenderanno” chiarì Armin.
“a te non lo chiedo nemmeno Alexy” esclamò il chitarrista, guardando il batterista che fece spallucce.
“quindi tocca a me?” concluse il rosso.
Nel frattempo anche la preside era salita sul palco e aveva richiamato a sé i musicisti che si erano isolati nel loro complotto.
“dunque ragazzi” esordì rivolgendosi al pubblico “intanto vi ringrazio per essere venuti così numerosi. L’organizzazione quest’anno è stata impeccabile e uno dei meriti va proprio a questo caschetto biondo” commentò la donnina, arrampicandosi fino alla spalla di Nathaniel “credetemi, non l’avrei mai detto cosa sapesse fare con un microfono” aggiunse facendo arrossire l’interessato e ridere il resto degli studenti “ma ovviamente devo ricordare anche i professori Joplin, Robinson e Patterson, oltre che tutti coloro che si sono esibiti questa sera. L’evento ha riscosso il doppio, anzi no, il triplo del successo che speravo, per cui non posso che esservi riconoscente” disse facendo un inchino che venne accolto con un applauso “finchè sono qui, ne approfitto per ricordarvi che quest’anno la nostra squadra di basket e quella di atletica ha bisogno del vostro tifo in vista rispettivamente del torneo Interhigh a febbraio e dei campionati”
Dalla folla esplosero delle urla di incoraggiamento e la donnina sorrise:
“e ora, come vi ha accennato la professoressa Joplin, ho chiesto espressamente alla band di deliziarvi con un capolavoro del country: o mia bella contadina”
Nonostante la serietà con cui la donna aveva pronunciato quelle parole, molti ragazzi scoppiarono a ridere: vedere Castiel Black, emblema del rock genuino, strimpellare le note di quella musichetta, sarebbe stata una scena impagabile.
Nathaniel si allontanò dal palco, riunendosi alla preside che, al termine del suo discorso, si era nascosta dietro la quinte.
Quando la vecchietta lo vide arrivare, rimase spiazzata; prima che potesse protestare, il delegato spiegò:
“purtroppo preside non conosco questa canzone… Castiel si è incaricato di cantarla”
La donna spostò con apprensione lo sguardo sulla testa di capelli rossi che in quel momento aveva impugnato la propria chitarra.
Ripristinando l’altezza dell’asta del microfono, il nuovo vocalist, fece un cenno alla sua band: i gemelli trattenevano a stento una risata mentre Lysandre non riusciva ad abbandonare un’espressione di disapprovazione.
Quando attaccarono, tutti, la preside più di ogni altro, rimasero interdetti: la melodia non aveva nulla di country, il riarrangiamento era decisamente rock e la batteria di Alexy era la vera protagonista del pezzo.
La vecchietta si portò le mani sul volto mentre Nathaniel, accanto a lei, cercava di non dare a vedere quanto si stesse divertendo.
Alla povera donna venne inflitto il colpo di grazia, quando Castiel cantò il testo che lui stesso aveva curato, oltre ovviamente all’arrangiamento in stile hard rock:  
 
“bella f***dove vai, chissenefrega dei fiori, sai cosa se ne fa un uomo?”
 
Quella parodia rockeggiante della canzone originale, piegò in due gli spettatori, tanto erano incontrollabili del risate. Erin e le ragazze, dapprima incredule, si erano unite all’ilarità generale, trovando conferma che mai uno come Castiel si sarebbe abbassato a eseguire un pezzo come quello che gli era stato commissionato.
 
Quando finalmente la canzone finì, prima che esplodesse un applauso fragoroso, la preside si precipitò sul palco e con voce stridula urlò:
“CASTIEL BLACK!!!!!!!!!!!!!”
A quel richiamo seguirono prontamente risate, applausi, schiamazzi e fischi di apprezzamento di cui però il ragazzo non potè bearsi perché era troppo impegnato a sfuggire all’ira funesta della vecchietta.
 
La band tornò dietro le quinte, riunendosi a Nathaniel. Mentre Castiel riponeva la sua Sophia con cura all’interno della custodia, il biondo gli si avvicinò.
“mi è mancato tutto questo” mormorò in modo che solo lui potesse sentirlo.
“anche a me” ammise il rosso, caricandosi la chitarra sulle spalle.
Armin arrivò a dietro, portando le braccia dietro il collo di entrambi, frapponendosi tra i due.
“ora possiamo dirlo: siamo stati dei grandi!” si pavoneggiò mentre tornavano ad unirsi al resto dei loro amici, giù tra il pubblico.
Una volta lì in mezzo, vennero letteralmente investiti dalla folla composta da amici, conoscenti e compagni di classe. Erano circondati da un frastuono di complimenti e parole entusiaste che, accavallandosi, impedivano loro di distinguere quanto veniva detto.
Lysandre era stato trascinato via da un gruppetto di ragazze adoranti a cui il tastierista volgeva sorrisi gentili, Alexy e Armin dai loro numerosi amici.
Anche Castiel e Nathaniel erano stati accerchiati e non riuscivano a raggiungere Erin e gli altri.
Ad un certo punto, con difficoltà, videro farsi strada un uomo piccoletto, non più alto di un metro e sessantacinque. Era vestito con un pesante cappotto in lana e una sciarpa color viola scuro:
“sono un agente discografico” si presentò, mostrando un biglietto di visita.
Quella semplice frase bastò a catturare l’interesse dei due ragazzi, tanto che persino Alexy, cogliendo quel gesto, si era avvicinato, lasciando il gemello da solo a destreggiarsi tra la folla.
I ragazzi si guardarono e poi tornarono a fissare quell’individuo.
“vorrei parlare con lei” spiegò l’uomo rivolgendosi solo a Nathaniel.
Il biondo sentì martellargli il cuore in petto.
Era la seconda volta che viveva una scena del genere e non poteva dirsi lusingato.
L’epilogo amaro del suo tentativo di sfondare nel mondo della musica era stato sufficiente ad annientare in lui ogni speranza. Inoltre non poteva accettare che proprio quella sera, quando finalmente era riuscito a riappacificarsi con il suo migliore amico, il destino fosse così beffardo, da creare nuovamente delle tensioni tra di loro.
Guardò dubbioso Castiel, temendo di incontrare lo sguardo ferito dell’amico, invece, con sua enorme sorpresa, il ragazzo gli sorrideva. Non c’era rabbia o rammarico nella sua espressione, solo una resa.
In fondo il rosso non l’aveva mai recriminato per aver voluto sfruttare l’opportunità che gli era stata concessa. Si era arrabbiato solo per essere stato escluso da quella scelta così importante.
Battè una mano sulla spalla del biondo, incoraggiandolo a seguire il discografico.
 “buona fortuna” gli disse semplicemente mentre l’agente invitava il biondo a seguirlo. Quest’ultimo annuì incerto, incapace di aggiungere altro.
Castiel li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano e Alexy, che per il chiasso non era riuscito a capire chi fosse lo sconosciuto, chiese:
“dove sta andando Nath? E chi è quello?”
“il suo passaporto per il paese dei sogni” replicò Castiel.
Non poteva farci nulla: lui era destinato a vivere all’ombra di Nathaniel, riflettendo la luce che il biondo emanava.  Anche se sapeva di essere portato per la musica, Castiel era convinto che il proprio talento, se così lo si poteva chiamare fosse niente in confronto alla presenza scenica dell’amico.
In una sfida contro di lui, qualsiasi ne fosse la natura, lui avrebbe perso. Sempre.
Lui ed Alexy rimasero a guardare quella muta discussione, poi improvvisamente, Nathaniel cominciò a fare cenni di diniego con la testa e sorridere comprensivo. Aggiunse qualche parola e indicò l’amico poco lontano.
Castiel vide la testa del discografico voltarsi verso di lui, annuire e salutare sbrigativamente il biondo. In pochi secondi, l’uomo tornò davanti a lui e, questa volta, guardando dritto negli occhi il chitarrista, annunciò:
“c’è stato un equivoco. Intendevo parlare con lei signor Black”
 
Alexy e Nathaniel cercarono gli amici per comunicare loro quell’incredibile novità.
“ma perché ha chiamato prima te?” chiese Alexy mentre camminavano concitati.
“pensava che fossi io il compositore”
Li trovarono tutti in palestra, intenti a riempirsi i bicchieri con della birra nascosta nello sgabuzzino. L’idea di comprare i bicchieri colorati per nascondere il contenuto del bicchiere era stata una proposta che Armin aveva suggerito al segretario delegato.
“ragazzi, abbiamo una notizia bomba!” urlò Alexy agitatissimo. Nathaniel seguiva a breve distanza, sorridendo felice.
“e Castiel dov’è? Vi stavamo aspettando per festeggiare tutti insieme” gli comunicò Erin esaltata. Abbracciò con foga il suo ragazzo, saltellando per la gioia e non vedeva l’ora di fare lo stesso con il suo amico.
“è proprio Castiel la novità” annunciò Nathaniel trepidante.
Tutti lo fissarono incuriositi:
“è venuto a cercarlo un discografico. È rimasto sorpreso dai riarrangiamenti delle canzoni famose e da quelle del gruppo. È interessato a Castiel come compositore!”
Tra i ragazzi, per un paio di secondi, scese il silenzio più completo.
Quella notizia era pazzesca.
Esplosero allora in grida e manifestazioni di gioia esagerate, facendo sussultare il resto degli studenti che li circondava.
Rosalya cominciò a saltare sul posto, Armin e Lysandre avevano la bocca spalancata mentre Iris e Violet sorridevano incredule.
Solo Erin non reagì in modo evidente, dando per qualche secondo le spalle agli amici in modo da poter spazzar via con un rapido gesto della mano, le lacrimi di gioia che erano affiorate all’improvviso.
Sapeva quanto quella proposta fosse importante per Castiel: era la realizzazione di un sogno.
“e adesso dov’è?” chiese Lysandre.
“sta parlando con il discografico” spiegò Alexy, tradendo un certo nervosismo.
Il poera alzò gli occhi al cielo e mormorò:
“ti prego, fa’ che non dica cazzate”
Sentendolo usare un linguaggio così lontano dalla natura, tutti scoppiarono a ridere.
 
Dopo quell’incredibile notizia, i ragazzi si precipitarono in massa all’esterno della palestra, per ricongiungersi al chitarrista.
Erin era nervosissima.
Non avevano ancora la certezza matematica che Castiel sarebbe stato preso. In fondo l’uomo aveva solo chiesto un colloquio con lui e il ragazzo non era certo quel tipo di persona che lascia una buona prima impressione. Cercò di tranquillizzarsi, pensando che invece, con Jason, il suo amico era riuscito a far trasparire il lato migliore di sé per cui la ragazza si augurò che con il discografico la scena si ripetesse.
Anche se il concerto era finito da almeno dieci minuti, davanti al palco c’era ancora parecchia calca e trovare Castiel era decisamente un’impresa epica.
Dopo cinque minuti, Alexy propose:
“aspettate qui, io chiedo in giro e ci troviamo qui”
Sparì tra la folla, mentre gli amici continuarono a chiacchierare eccitati:
“sei stato formidabile stasera Nath” gli disse Erin, posando la testa contro il petto del ragazzo.
“ne sentivo la nostalgia” ammise il biondo, stampandole un bacio in fronte.
Passarono appena cinque minuti da quando Alexy li aveva salutati, che sentirono la sua voce provenire dal palco, che gli addetti all’organizzazione dell’evento avevano appena cominciato a smantellare.
Mentre il batterista collegava il microfono, Erin notò la presenza di Castiel venire nella loro direzione.
Lo chiamò agitando le braccia, attirando l’attenzione del resto dei loro amici che finalmente lo videro:
“quell’idiota” masticò Castiel nervosamente, alludendo ad Alexy “non sono riuscito a fermarlo. Non so come faccia, ma sguscia via come un’anguilla”
Erin sorrise ignorando deliberatamente quanto aveva appena detto l’amico. La curiosità di sapere come si era concluso l’incontro con il discografico era incontenibile.
“come è andata?” tagliò corto mentre il resto dei loro amici li accerchiavano.
“temo che ve lo dirà Alexy” commentò il chitarrista rassegnato, indicando il palco.
L’espressione di Castiel era impagabile: si notava che stava facendo l’impossibile per non tradire una felicità incontenibile.
Con il cuore che le martellava in petto, Erin stava per esortarlo a parlare, quando la voce di Alexy si diffuse in tutto lo spazio aperto:
“BUONASERA GENTE!” urlò richiamando l’attenzione di tutti “prima che questa magnifica serata sia ufficialmente conclusa, c’è un’ultima importante comunicazione. Il nostro Castiel Black, il chitarrista della band, è stato assunto , questa sera stessa, dalla RMB!” si levarono dei mormorii confusi ed eccitati.
I suoi amici si voltarono verso di lui, sorridendo esagerati.
Armin e Trevor, soggiunto da poco, scompigliarono i capelli del rosso, costringendolo a chinarsi, Steve e Dajan gli diedero delle sonore pacche sulle spalle mentre Alexy continuava “per chi non lo sapesse, la RMB è una nota casa discografica. Castiel collaborerà all’album dei Tenia, una band che farà il suo esordio in giugno!”
Tutt’attorno si levarono voci d’ammirazione e applausi rivolti al rosso. Mentre i ragazzi manifestavano la loro gioia strapazzando l’amico, le ragazze emettevano gridolini entusiasti ed euforici.
Erin in particolare sorrideva orgogliosa guardando il suo migliore amico.
Quella sera era tutto così perfetto: prima Nathaniel e Castiel si erano riappacificati e ora quest’ultimo aveva trovato qualcuno che aveva riconosciuto il suo talento.
“e quindi” continuò Alexy “anche se mi dispiace dirlo ma questa sarà l’ultima sera di Castiel al liceo”
 
Tutti si ammutolirono all’istante. Il che risultava alquanto irreale considerata la massa di persone.
 
Erin sentì mancare un battito e guardò Castiel che, in quel momento, si era voltato verso di lei, quasi si aspettasse di trovarla lì, a fissarlo. Il ragazzo aveva un sorriso triste, di una persona che ha dovuto fare una scelta difficile.
“la band lavorerà all’album in Germania e il nostro Castiel si trasferirà lì per sei mesi a partire da gennaio”
 
Dopo l’iniziale sconcerto, gli applausi ripresero, sovrastati da complimenti e frasi d’esortazione.
Lysandre, ripresosi dalla notizia, riuscì a formulare:
“sono proprio contento per te Castiel. Te la meriti una simile opportunità” gli disse con sincerità.
“mi raccomando, tieni le mani a posto con le tedesche” lo schernì Armin.
“invece cerca di tenere alto l’onore americano!” lo minacciò Steve.
“ero sicuro che prima o poi ti saresti fatto riconoscere” gli confessò Nathaniel con orgoglio.
“appena ti sarai ambientato verremo a trovarti. Vedi di ospitarci chiaro?” pretese Rosalya con un sorriso.
“avvertici appena uscirà l’album!” lo ammonì Iris.
“Erin dov’è andata?” chiese Violet. Tutti si voltarono perplessi.
Non c’era più traccia della ragazza.
Nemmeno Nathaniel si era accorto del suo allontanamento.
Castiel, ancora stordito dal coro di voci, stava per partire alla ricerca dell’amica, quando Dajan lo bloccò. Dietro di lui, tutta la squadra di basket, compresa Kim, lo fissavano tradendo una certa delusione:
“e il torneo?” chiese il moro, andando dritto al punto.
Il rosso si grattò a sommità del capo, in difficoltà. Abbandonare così la squadra, ad un mese dall’inizio del torneo, proprio lui che era il capitano era un gesto ignobile, ma non poteva rinunciare ad una simile opportunità.
“mi dispiace ragazzi” gli disse, guardandoli tutti negli occhi “ma non ho potuto rinunciare ad una simile occasione. Per me la musica viene prima di tutto, anche prima del basket” confidò con sincerità.
“dopo quello che abbiamo visto stasera capitano, non può che essere così” affermò con stima un compagno di squadra. Castiel sorrise, mentre Dajan tese la mano al chitarrista:
“allora capitano, a nome di tutta la squadra, in bocca al lupo”
Castiel sorrise e dopo aver risposto alla stretta, gli battè una mano sulla spalla:
“sei tu adesso il capitano Dajan”
 
Erin aveva raggiunto la palestra e di soppiatto, come facevano buona parte degli altri studenti, si era intrufolata furtivamente nella sala degli attrezzi. Sullo scaffale metallico, dietro gli scatoloni delle divise, erano nascosti svariati liquori. Grazie alla calca di persone, per i professori era stato impossibile notare il continuo e sospetto via vai degli studenti anche se, più la serata avanzava e più diventava difficile nascondere l’euforia di certi soggetti.
Dopo l’incidente, si era ripromessa di non toccare mai più un goccio di alcol ma quella notte sembrava l’unica soluzione per riempire il grande squarcio che le aveva lacerato il cuore.
 
Quando la ragazza uscì dalla stanza, si era scolata mezza bottiglia di rum e teneva in borsa una lattina di birra. Sentiva la testa girarle ma almeno quella percezione la distraeva da altri pensieri.
Camminò fino ad uscire all’esterno della palestra.  
Non voleva tornare dagli altri, non per sentire i mille progetti di Castiel una volta atterrato in Germania.
Incrociò Melody che le chiese dove fosse Nathaniel.
Erin la guardò piegando la testa di lato, con un’aria impassibile, tanto che la ragazza, rimase un po’ spiazzata nel vederla in quello stato.
Perché diavolo le chiedeva di Nathaniel?
Non era lui quello che se ne sarebbe andato.
Scrollò le spalle e si allontanò da Melody che la fissava con crescente perplessità.
 
Castiel era seduto sul tetto, consapevole che la notte avrebbe impedito al resto degli studenti e insegnanti di accorgersi della sua presenza in un simile posto.
La sua chitarra era appoggiata accanto a lui e la sigaretta che teneva tra le labbra ormai si era esaurita. La spense contro una tegola e la lanciò lontano.
Gli sembrava tutto così assurdo.
Neanche voleva salirci su quel palco e ora, proprio grazie a quell’esibizione, un sogno che neanche più pensava di avere si era materializzato. Era un momento talmente bello della sua vita, che aveva sentito il bisogno di isolarsi e riflettere a fondo su quanto stava accadendo.
I suoi pensieri vennero distratti da un tonfo e alzò lo sguardo.
Barcollando leggermente, Erin stava giungendo nella sua direzione.
“toh, guarda chi c’è” commentò la ragazza divertita.
Teneva in mano la lattina di birra e ne trangugiò un sorso, asciugandosi un angolo della bocca con il dorso della mano.
“ma come? Qui in solitudine, quando tutti giù vorrebbero festeggiare la stella nascente della musica rock?” borbottò lei salendo sul tetto.
“attenta” la avvertì Castiel, cercando di aiutarla a non cadere. Le prese il braccio e stabilizzò quella posizione precaria.
Per la verità, anche lui era un po’ alticcio a causa del susseguirsi di brindisi a cui era stato sottoposto ma diversamente dalla ragazza, tollerava meglio i livelli di etanolo nel sangue.
Erin si sedette accanto a lui, rimanendo in silenzio per un po’ poi esclamò:
“facciamo un gioco!” propose allegra.
“gioco?”
“sì. Hai mai visto Memorie di una geisha? Dunque: bisogna fare due affermazioni, una vera e l’altra falsa. L’altro deve indovinare qual è quella vera”
“e cosa si vince?”
Erin esibì orgogliosa la propria lattina di birra che Castiel le sequestrò con prontezza.
“ne hai bevuta fin troppa tu” e, ignorando le proteste dell’amica, se ne scolò l’intero contenuto.
“che noioso che sei” borbottò la mora che, recuperando subito la vivacità continuò “sono ubriaca”
“verità” tagliò corto Castiel.
“aspetta! Devi sentire anche l’altra affermazione prima di rispondere!”
Il rosso la ignorò, sentendo che la testa cominciava a ronzargli. Era passato un po’ dall’ultima volta che aveva bevuto così tanto mentre Erin completava:
“la matematica è il mio forte”
“che gioco idiota” mormorò Castiel sconfitto.
“tocca a te” insistette Erin, tirandogli il lembo della giacca.
L’amico sospirò e, complice il suo stato poco lucido, si rassegnò ad assecondarla:
“amo gli hamburger”
“eddai! Così è facile” protestò Erin, senza considerare il fatto che nemmeno le sue frasi erano state particolarmente geniali.
“credo di essermi innamorato di te”
La ragazza ammutolì.
Castiel si voltò a guardarla negli occhi, con un’espressione talmente seria che per un attimo Erin sembrò riacquistare un po’ di lucidità. Quelle pupille nere la trafiggevano da parte a parte, provocandole una ferita profonda.
Il suo cuore aveva cominciato a battere forte e il viso le era andato letteralmente in fiamme.
Cercò di ricomporsi e, abbassando il capo, per non dover sostenere quegli occhi così penetranti, mormorò:
“non dovresti scherzare su queste cose”
Lui non rispose e tornò a guardare il cielo, nel quale le stelle avevano finalmente fatto la loro comparsa.
Tra i due era sceso un silenzio pesante, scandito dai rumori e dal vocio che veniva dal cortile. Ormai era passata la mezzanotte e molti avevano cominciato ad abbandonare la scuola.
Dalla loro prospettiva sopraelevata, potevano vedere il profilo nero degli alberi, le luci delle strada e il brusio indistinto delle persone sotto di loro.
Improvvisamente, Castiel sentì qualcosa appoggiarsi pesantemente contro la sua spalla.
Con la coda dell’occhio, vide che era stata la testa di Erin ad abbandonarsi contro il suo corpo.
La ragazza aprì la bocca, e, con una voce roca, rotta dal pianto, sussurrò:
“non partire”
Il battito del rosso cominciò ad accelerare all’improvviso. Si voltò verso di lei che alzò lo sguardo.
Nonostante il buio che li avvolgeva, quegli occhi erano resi luminosi dalle lacrime che riflettevano la luce della luna.
Lentamente Castiel si curvò verso di lei, annullando la loro differenza di altezza. Le portò una mano sulla sommità del capo e le si avvicinò, come aveva fatto la sera precedente.
Questa volta però, il suo autocontrollo non fu così saldo da farlo desistere: sentì il contatto con quelle labbra morbide, che sapevano di mandorla, merito del burrocacao della ragazza.
Aveva passato l’intera nottata a sognare quella bocca, chiedendosi come sarebbe stato sfiorarla.
Fu un bacio delicato, fugace, rubato alla notte per non essere condiviso con nessun altro. 
Sarebbe rimasto un segreto tra di loro.
Si staccò da lei che aveva un’espressione insondabile.
“posso dare la colpa all’alcol per questo?” le sussurrò.
Erin abbassò il capo, rimanendo in silenzio mentre lui cercava di capacitarsi di quello che aveva fatto.
“FINALMENTE TI HO TROVATA!” esclamò la voce preoccupata di Rosalya “eravamo preoccuparti per te Erin!” la rimproverò, portandosi le mani sui fianchi.
La ragazza scrollò le spalle, come se non le importasse affatto e vedendola in quello stato, l’amica fulminò Castiel:
“è pericoloso che lei stia qui in queste condizioni. Potrebbe cadere giù!”
“ci sono io con lei” si difese apatico il rosso.
Erin si alzò lentamente e, tenendo il capo chino affinchè Rosalya non potesse vedere tutta la sua tristezza, mormorò:
“ma poi non ci sarai più”



 
NOTE DELL’AUTRICE:
Ehm, se non fosse che questo capitolo è stato infinito e quindi ci sono troppe cose che voglio puntualizzare, giuro che preferirei farmi piccola piccola per non dover affrontare i vostri “oh no, ma come hai potuto farci questo?? Castiel se ne va D’X!”
Ebbene sì, dopo un capitolo così puccioso come quello precedente, mi ha sorpreso che non aveste sospettato che ci fosse la fregatura dietro :(.
Ero quasi tentata a prepararvi psicologicamente ma poi mi sono detta che non era giusto rovinarvi la “sorpresa”… comunque se serve a tranquillizzare gli animi, sappiate che non sparirà definitivamente, in un modo o nell’altro vedrò di farlo partecipare alla storia, anche se per un (bel) po’ distoglieremo l’attenzione da lui.

Quindi, mettendo da parte la partenza di Castiel, che ve ne è sembrato del capitolo più lungo della mia storia? (non credo che ce ne saranno altri così chilometrici!)... anzi, dopo l'estenuante trattazione di questo, è probabile che il prossimo avrà il record per essere il più corto -.-''... 
A proposito, scusa ma non ce l'ho fatta a rileggerlo per più di una volta... se ci sono degli errori quindi scusatemi tanto :(.
Quanto ai disegni, beh quanto al primo (è l'unico che mi interessa sottolineare visto che è di 
_Nuvola Rossa 95_) ovviamente voglio ringraziarla di cuore per aver reso i due personaggi al meglio^^) sappiate che è proprio così che me li immagino :3.

Passando poi al concerto in sè, beh, sappiate che sono quel tipo di ragazza a cui non piace l’ambiente delle discoteche ma che risparmia i soldi per andare ai concerti rock… quindi volevo cercare di trasmettervi quell’energia che respiro in quei meravigliosi momenti ^^)… infatti ho sicuramente calcato la mano sullesibizione dei ragazzi, ma visto che probabilmente sarà l’unico nel corso della storia, ci tenevo perché fosse un evento con la E maiuscola.
 
ManuGreen, nella sua precedente recensione, mi ha suggerito un termine di cui ignoravo l’esistenza: bromance. Se anche voi, come me, non l’avete mai sentito nominare prima, ecco qui la definizione tratta da Wikipedia:
Una bromance è uno stretto rapporto, non sessuale, tra due o più uomini. È una forma di intimità 
omosociale, cioè un rapporto sociale non erotico tra persone dello stesso sesso. La parola bromance è una parola composta delle parole bro o brother (fratello) e romance (romanticismo). “

Ecco Manu, non avresti potuto trovare termine migliore per descrivere il rapporto tra Castiel e Nathaniel; questo capitolo infatti, volevo che fosse dedicato proprio al loro ricongiungimento, dopo mesi di allontanamento. 
 
Per farmi forza a sistemare questo capitolo mi sono riletta più volte le ultime recensioni: mi sono di ispirazione, oltre che una fonte di motivazione. Inoltre a-d-o-r-o quando vi sento soffermarvi su alcuni dettagli del capitolo che vi hanno colpito ^^), così capisco quali scene sono venute meglio e ho più soddisfazioni :3… no sul serio, grazie infinitamente per le recensioni, ogni volta le leggo con un sorriso eccitato :)

Ok, possiamo dirlo a questo punto: se il capitolo precedente ha segnato la svolta per il personaggio di Castiel, che finalmente ha compreso i sentimenti di Erin, potete facilmente intuire come  questo 30esimo capitolo rappresenti una chiave di volta anche per la ragazza: tuttavia, vi posso anticipare che nel suo caso sarà un processo più lento, anche a seguito di un altro evento… non dico altro:).
Comunque per dare una scossa ad un personaggio come la protagonista, sono stata un po’ vincolata a pensare ad un evento che le risultasse un po’ traumatico e ora che c’è in programma la partenza di Castiel, c’è da vedere a quali conclusioni arriverà.

Quanto a Nathaniel… voglio tranquillizzare chi simpatizza per lui: non intendo lasciarlo in un angolino a leccarsi le ferite, anche se, analogamente a Castiel, dovrò un po’ metterlo da parte ad un certo punto e per un certo numero di capitoli (non ho ancora deciso di preciso quando e quanto). Diciamo che il biondo sarà una sfida interessante perché appartiene alla sfera più nebulosa della mia storia, quella fatta dai “e se?” e da mille dubbi. Devo infatti ammettere che lo trovo un personaggio più complesso di Castiel (che è un sempliciotto) e questo mi stimola a pensare come farlo evolvere nei prossimi capitoli (oddio detta così sembra che stia parlando di un pokèmon -.-‘’).

Ok sono convinta di avere molto altro da dirvi, ma di fatto tra il capitolo precedente e questo, mi trovo davvero a corto di forze :S.... quindi, sperando di non aver deluso le aspettative, grazie per averlo letto ^^)
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Partenze ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
E’ la serata del concerto: durante il karaoke, Rosalya fa un’esibizione commuovente, pensando al suo amore non corrisposto per Nathaniel.
Quando tocca ad Erin salire sul palco, la ragazza si blocca e non riesce a cantare perché aggredita dal ricordo della sorella, finchè non riceve un inaspettato aiuto da Ambra.
Eseguono il pezzo in modo impeccabile guadagnandosi la loro fetta di applausi. La bionda cerca poi Charlotte ma quest’ultima le annuncia la sua ferma intenzione di tagliare i ponti con lei. Ambra si reca poi al ristorante cinese dove chiede scusa a Lin, la quale, diversamente da Charlotte, è disposta a credere in quell’amicizia.
I ragazzi scoprono che si esibiranno all’aperto a causa del gran numero di spettatori e nel dietro le quinte c’è un primo riavvicinamento tra Castiel e Nathaniel, anche se i due ne sembrano inconsapevoli. Dopo la prima canzone, Lysandre accusa problemi alla gola. Senza pensarci due volte, il chitarrista si precipita dal biondo e lo incita a salire sul palco. Nathaniel accoglie quella richiesta, sancendo la fine di ogni ostilità.
Il concerto è un successo strepitoso, grazie all’abilità dei musicisti e alla presenza scenica del cantante. Il riarrangiamento musicale curato da Castiel è talmente apprezzato che viene avvicinato da un produttore discografico.
Prima che quest’ultimo possa annunciare l’esito del colloquio, Alexy sale sul palco e rivela che il rosso è stato assunto per lavorare all’album di una band emergente in Germania, per sei mesi. Dopo un iniziale sconcerto, tutti accolgono la notizia con entusiasmo, tranne Erin che si allontana silenziosamente dal gruppo.
L’idea di non vedere l’amico per tutto quel tempo l’ha sconvolta al punto da buttarsi sull’alcol per non pensarci. Lo raggiunge poi sul tetto dove, dopo una chiacchierata allegra, la ragazza si lascia assalire dalla malinconia e lo supplica di non partire.
In tutta risposta, Castiel non riesce a trattenersi dal baciarla.

 
 
 
   
 
CAPITOLO 31: PARTENZE
 

Mai il trillo della sveglia fu più insopportabile per Erin.
Le risultò quasi assordante, rimbombando nella sua testa come se fosse stato portato a un volume incompatibile con l’oscillazione del timpano umano. Nel tentativo di alzarsi, avvertì una forte emicrania e un fastidioso senso di nausea che la costrinsero a restare seduta.
Era colpa sua se si trovava in quello stato pietoso: la notte precedente si era ubriacata come non accadeva da tempo e ora il suo fisico le presentava il conto, fin  troppo salato e ingiusto a suo avviso.
Cercò di ricordare cosa l'avesse spinta a bere così tanto e le comparve istantaneamente l'immagine di Castiel.
Giusto. Il suo amico avrebbe lasciato l'America per sei mesi.
Avrebbe lasciato tutti.
Avrebbe lasciato lei.
Riuscì a portarsi in posizione eretta e si diresse verso il bagno, camminando con un’andatura incerta, tanto da sbatacchiare un paio di volte contro le pareti del corridoio. Sentiva la gola talmente secca che avrebbe bevuto tutto d'un fiato due litri di acqua e forse ancora non le sarebbero bastati.
Mentre incespicava verso la toilette, ricordò tutta la scena che tanto l'aveva turbata: Alexy che saliva sul palco attirando l'attenzione dei presenti, che annunciava l'ingaggio offerto al rosso e che aggiungeva che questo nuovo lavoro comportava la sua partenza per la Germania.
A quel punto Erin rimembrò la rapidità con cui la sua esplosione di gioia si era tramutata in una dilaniante inquietudine. Le pareva che il cuore avesse saltato due battiti quasi a prendere la rincorsa per l’accelerata che aveva poi dato, martellandole il petto.
Teneva lo sguardo fisso su Castiel, che come se avesse avuto la percezione di essere osservato, si era voltato verso di lei. Il ragazzo aveva un'espressione indecifrabile, che l’aveva confusa e sconvolta, più di quanto già non fosse.
Più aumentavano gli schiamazzi entusiasti verso il chitarrista, e più lei aveva sentito il suo animo lacerarsi in mille pezzi.
Sarebbero spariti i loro battibecchi, i sabati mattina sul campo da basket, le chiacchierate fugaci durante le lezioni.
Accanto a lei, da quel giorno fino alla fine dell’anno scolastico, ci sarebbe stato solo un banco vuoto.
Mentre tutti erano impegnati a complimentarsi con l’aspirante celebrità, lei si era staccata silenziosamente dal gruppo aveva raggiunto lo stanzino con gli alcolici.
Da quel momento in poi, nella sua mente aleggiavano solo immagini confuse.
Gli venne in mente, ancora una volta, lui, Castiel.
Per qualche motivo che non riuscì ad afferrare, avevano parlato del film Memorie di una geisha ma non era in grado di riesumare altro di quella serata.
Non riusciva a ricordare nemmeno come fosse riuscita a tornare nell’appartamento della zia.
"ti ha accompagnata Nathaniel" le spiegò Pam mentre facevano colazione "comunque sia, non dirò nulla a tuo padre delle condizioni in cui ti sei presentata a casa ieri. Ma che sia l'ultima volta"
"ci puoi giurare" promise Erin che sentiva pulsarle le tempie.
Nonostante l’abbondante colazione preparata dalla zia, la nipote si limitava a mangiucchiare il bordo di un biscotto al cioccolato.
"e terrò per me anche quel pianto"
Erin la scrutò senza capire. Studiando l’espressione sorpresa della ragazza, sua zia la liquidò:
"beh, meglio così se non te lo ricordi" commentò, spennellando un po’ di marmellata su una fetta biscottata.
"che pianto zia?" insistette Erin.
Pam appoggiò il coltello sporco di marmellata, avendo cura di non macchiare la tovaglia di lino e le raccontò:
"dopo che Nathaniel se ne era andato, ti sei precipitata in camera tua e quando sono venuta a vedere come stavi, continuava a singhiozzare.
Eri inconsolabile.
Chiamala sbornia triste, ma non ti ho mai vista così e devo ammettere che mi hai pure un po' spaventata. Continuavi a ripetermi "non andartene" eppure io insistevo con il rassicurarti che sarei rimasta accanto a te"
Erin incassò quella notizia cercando di non apparire particolarmente turbata.
Non ricordava assolutamente di aver pronunciato ossessivamente quella frase, ma sapeva perfettamente a chi l’aveva rivolta.
"Comunque sia, cerca di riprenderti per oggi pomeriggio. Voglio vederti in piena forma” tagliò corto la donna, versandosi del caffè nella tazza del latte.
Per la seconda volta, la nipote la guardò senza capire così la zia fu costretta a ricordarle che quel pomeriggio c’era l’inaugurazione della boutique.
“hai ragione” mormorò Erin, massaggiandosi le tempie.
“e domani mattina, partiamo alle undici va bene? Così posso salutare Jason e per pranzo saremo a casa”
Per un attimo Erin rimase interdetta ma, prima che Pam si rassegnasse a rinfrescarle la memoria, ricordò:
“sì d’accordo. Se non troviamo troppo traffico arriveremo ad Allentown poco dopo mezzogiorno”
La sua città natale. Erano passati tre mesi dall’ultima volta che l’aveva vista e un po’ ne sentiva la nostalgia. Tuttavia non era sua intenzione passare in famiglia tutte le vacanze natalizie: sarebbe tornata a Morristown almeno altre tre o quattro volte: la viglia per vedere Nathaniel e qualche altro giorno per stare con i suoi amici, d’altronde Rosalya e Alexy si erano già organizzati per una seduta estrema di shopping con lei ed Iris.
 
Il cellulare di Lysandre squillò quattro volte prima che il ragazzo rispondesse:
"Lys, devo parlarti"
Il ragazzo riconobbe all’istante la voce di Castiel ma decise di risparmiargli l’appunto sulla sua mancanza di buone maniere. L’amico infatti aveva esordito con un tono talmente serio e grave che Lysandre preferì passare subito al nocciolo della questione.
"dimmi"
"ci vediamo da te tra venti minuti?"
Preso in contropiede per quella proposta, l’amico si limitò ad acconsentire, chiedendosi il perché di tutto quel mistero:
"ti aspetto"
 
Sotto le direttive di Jason, nelle settimane che avevano preceduto l’apertura della boutique, Pam si era impegnata in un notevole sforzo pubblicitario, appendendo volantini e sponsorizzando l’evento anche tramite i social network.
Tutto il suo impegno dimostrò i suoi frutti quando il locale cominciò a riempirsi inesorabilmente di potenziali clienti. Si trattava per lo più di donne, molte delle quali si complimentarono con lei per il successo della sua impresa e per il buon gusto con cui era stato arredato il locale.
La proprietaria non poteva fare a meno di sorridere e presentare a tutti il suo benefattore, che un po’ in difficoltà per tutti quei complimenti, aveva finito per isolarsi con un paio di amici, a parlare dell’ultima partita di baseball.
Erin sbirciò oltre la vetrina, vedendo arrivare, Iris, Rosalya, Alexy e, Violet. Quest’ultima sembrava a disagio in mezzo alla calca di persone, così la mora si precipitò ad accoglierli:
“allora signorina? Come va con la post sbornia?” le sorrise Rosalya.
“ero presa proprio male?” chiese la ragazza, invitando gli amici a seguirla al tavolo dove era stato organizzato un aperitivo.
“mi hai salutata chiamandomi Cappuccetto Rosso!” protestò Iris offesa facendo ridere Alexy e Rosalya.
“sempre meglio che sentirsi chiamare Fata Turchina” rise il gemello, alludendo evidentemente al soprannome che Erin gli aveva affibbiato la sera prima.
La ragazza spalancò gli occhi con un’espressione interrogativa stampata sulla fronte. Non aveva il minimo ricordo di quello scambio di battute, come del resto non ce l’aveva di molte altre cose accadute quella sera.
“Castiel l’hai sentito?” indagò Rosalya, ammirando un vestito in chiffon grigio perla.
Erin scosse il capo. Se anche l’avesse chiamata, non sapeva cosa dirgli. Era ancora troppo scossa dalla sua partenza, per riuscire a congratularsi con lui.
“partirà a gennaio giusto?” indagò, rivolgendosi ad Alexy.
“così pare” confermò il ragazzo, deludendo l’amica che sperava di aver capito o ricordato male.
In quel momento soggiunse Pam, ansiosa di conoscere il resto degli amici di Erin.
Si ricordava di Iris ma le mancavano all’appello il resto del quartetto.
Sin dal prima scambio di battute, Pam si innamorò della vivacità di Alexy, si intenerì per la timidezza di Violet, ma soprattutto, si interessò a Rosalya.
Erin infatti le spiegò che l’amica era un’aspirante stilista e che aveva curato i costumi della recita.
“ma erano meravigliosi! Pensavo che la scuola li avesse comprati!” esclamò Pam ammirata.
Rosalya sorrise leggermente, cercando di non dare a vedere quanto fosse arrossita.
In quattro e quattr’otto la donna sequestrò la stilista e si misero a parlottare, isolandosi dal resto degli ospiti.
“Castiel e gli altri non vengono?” chiese Iris, rivolgendosi ad Alexy.
“no, mi avevano già detto che avevano altro da fare… e poi non è che lo shopping sia la loro passione”
Erin si sentì sollevata per quella notizia.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricostruire gli eventi della sera precedente, ma il suo istinto le suggeriva che era meglio lasciar passare un paio di giorni prima di rivedere l’amico.
 
L’inaugurazione fu un successo e solo verso ora di cena gli ospiti cominciarono ad abbandonare il locale, promettendo di ritornarci non appena avesse aperto ufficialmente, dopo Natale.
Alexy e Violet si congedarono per primi, augurando ad Erin buone vacanze e promettendo di rivedersi non appena quest’ultima fosse tornata a Morristown.
Pam aveva presentato a Rosalya un venditore di stoffe e la ragazza era impegnata in una conversazione con l’uomo, confrontando le loro opinioni circa la qualità di determinati tipi di tessuti.
Iris e Erin erano così riuscite a restare un po’ da sole, mentre scrutavano la loro amica e il suo interlocutore. Nonostante la differenza di età, la stilista non si era fatta mettere in soggezione e conversava con disinvoltura. Mentre la mora la osservava con ammirazione e tenerezza, Iris attirò la sua attenzione:
“Erin” la chiamò.
L’amica si voltò, distogliendo la sua attenzione da Rosalya:
“che ti è preso ieri? Quando usciamo non bevi mai”
Dopo la prima serata in cui avevano conosciuto Dake e Leigh, Erin era uscita molte altre volte con i suoi amici e in ogni occasione, la mora si era sempre rifiutata di toccare anche solo un goccio d’alcol.
“volevo solo dimenticare la partenza di Castiel” ammise con sincerità che spiazzò lei stessa.
“ci sei rimasta così male?” chiese Iris sorpresa “e se fosse stato Nathaniel ad andarsene, cosa avresti fatto? Ti saresti buttata giù dal tetto?” sdrammatizzò.
Anche se Iris aveva sottovalutato la dichiarazione dell’amica, deridendola, Erin considerò quel nuovo punto di vista: se al posto di Castiel ci fosse stato Nathaniel, come avrebbe reagito?
“comunque sai, sto iniziando a rivalutare un po’ Dake” sbottò Iris, distraendola dalle sue riflessioni. L’amica la scrutò con crescente perplessità:
“Dake?” ripetè dubbiosa, temendo di aver capito male.
La rossa annuì:
“ieri sera, c’era anche lui al concerto, ma è rimasto per lo più con quelli di 5^ C… aveva dei suoi amici in quella classe”
“d’accordo, ma come mai questo cambio di opinione su di lui?”
Iris scrollò le spalle e dopo aver sorseggiato un po’ del punch che era stato offerto al buffet, dichiarò:
“beh, semplicemente ieri è stato molto più discreto delle altre volte… meno appiccicoso… penso si sia rassegnato e questo è un sollievo per me. Frequentandoci da amici, potrei andare molto d’accordo con lui”
Pur non conoscendo da molto Dake, Erin aveva qualche dubbio sul fatto che il surfista si fosse rassegnato così facilmente, ma d’altronde, non le andava di intaccare quella pacifica sicurezza in cui si era rifugiata l’amica. Forse aveva ragione lei dal momento che non aveva esitato un secondo a far capire al ragazzo di non essere interessata alle sue morbose attenzioni.
 
Verso ora di cena, i clienti cominciarono a lasciare il locale, così come Iris e Rosalya.
Quest’ultima era su di giri, dal momento che Pam aveva deciso di darle un’opportunità più unica che rara: le aveva chiesto di fabbricare un vestito e, se il risultato l’avesse soddisfatta, avrebbe provato a venderlo all’interno del negozio.
“hai delle amiche strepitose” commentò la zia, mentre le guardava allontanarsi. Le due ragazze furono le ultime ad abbandonare il locale, nel quale quindi erano rimasti solo Erin, Pam e Jason, impegnato a sistemare degli scatoloni sul retro.
“lo so” ammise Erin.
“tesoro, che c’è che non va? E’ tutto il giorno che sei strana… devi ancora riprenderti dalla sbornia?”
“sì è per quello” mentì, gettando nella spazzatura i residui di cibo.
“Jason qui finiamo noi” lo chiamò Pam appena lo vide rispuntare e, nonostante le proteste del ragazzo, riuscì a zittirlo con un bacio.
Erin si allontanò con discrezione, intrufolandosi nel retro bottega, mentre la zia eliminava la traccia di rossetto che aveva stampato sulle labbra del suo compagno:
“è stato un successo, che dici?”
“dico che dovremo concludere i festeggiamenti da qualche altra parte… e questa volta noi due da soli” sorrise malizioso, accarezzandole la schiena, dopo che lei gli aveva cinto le braccia al collo.
“allora aspettami a casa… io ed Erin finiamo qui e poi vengo direttamente da te”
“se lasci che vi aiuti, finiamo prima” replicò impaziente.
Pam sbuffò divertita, sollevando per un attimo gli occhi al cielo:
“mai sentito dire che l’attesa accresce il desiderio?”
“appunto… mi pare di avere aspettato anche troppo” convenne Jason baciandola con passione. Le portò una mano dietro la nuca, sorreggendole la testa, mentre Pam gli posava una mano sulla spalla mentre faceva scivolare l’altra lungo il fianco.
“davvero Jason… io non so come ringraziarti”
“io un’idea ce l’avrei” insistette il ragazzo, con una smorfia carica di desiderio che fece ridacchiare la donna:
“ho capito, ho capito. Allora bando alle ciance e lasciami finire qua” e dopo qualche altro svenevole scambio di battute, la coppia si divise.
Erin tornò nella stanza giusto in tempo per salutare il fidanzato della zia, la quale tornò a risistemare la merce sugli scaffali. La nipote allora recuperò una scopa e cominciò a spazzare il pavimento.
Dopo una decina di minuti passati a svolgere in silenzio i rispettivi compiti, Pam la chiamò:
“Erin…”
La nipote staccò lo sguardo dal pavimento, interrompendo le pulizie:
“Rosalya mi ha detto che Castiel partirà”
“lo so”
“ovvio che lo sai” si indispettì Pam “voglio dire… c’entra qualcosa questo con la tua malinconia di oggi?”
“mi dispiace che parta, tutto qui” rispose vaga.
“beh, ma c’è ancora tempo no? Parte a gennaio”
La ragazza annuì leggermente. Era vero, c’era ancora tempo.
La zia però sembrò insoddisfatta di quella reazione. Era da troppe settimane che non vedeva Erin così passiva e temeva che quel suo atteggiamento si perpetuasse nei giorni successivi. Appena Pam si era accorta del miglioramento caratteriale della nipote, diventata molto più forte, ecco che questa smentiva la sua osservazione, chiudendosi in se stessa, un po’ come era successo quando Sophia se n’era andata.
“e poi tesoro, se devo dirla tutta” continuò la zia “è egoistico da parte tua tenere il muso in quel modo. Per Castiel questa è probabilmente la più grande opportunità che la vita gli abbia mai riservato… e proprio per questo tu dovresti essere contenta per lui”
“se fosse stato Jason a partire, tu saresti stata felice?” replicò seccamente Erin, quasi senza dare il tempo alla zia di finire la frase.
Pam la fissò perplessa per poi obiettare:
“ma Erin, Castiel non è il tuo ragazzo”
La mora sospirò e appoggiò la scopa contro la parete.
“sì scusa, hai ragione… pessimo esempio” mormorò, accucciandosi verso un secchio posizionato accanto ad un spigolo del muro. Recuperò una confezione di detersivo per pavimenti e ne dosò una piccola quantità che si disciolse nell’acqua, diffondendo nell’aria circostante un’aroma di lavanda.
La zia sospirò osservando quella silenziosa nipote mentre, mestamente, passava lo staccio sul pavimento lucido.
Anche se aveva incrociato Castiel solo una volta, Pam era convinta che buona parte del merito per il cambiamento di Erin fosse imputabile a quel ragazzo.
Spesso e volentieri aveva scoperto la nipote mentre rispondeva ai messaggi dell’amico con un tenero sorriso sulle labbra, anche se appena due minuti prima si era rabbuiata al ricordo della gemella.
Lui sapeva rasserenarla come nessun’altro prima.
Per quanto Nathaniel fosse un ragazzo adorabile e impeccabile, la zia non riusciva a scacciare l’idea che sua nipote avesse scelto la persona sbagliata.
Specie dopo che Jason le aveva raccontato di quanto Castiel si fosse rivelato un ragazzo gentile quando era andato nel suo studio. Con il suo cagnolone accanto, il rosso si era molto ammorbidito, sorrideva e faceva anche battute divertenti.
 
“devo cominciare ad essere gelosa di Castiel?” l’aveva punzecchiato lei, la prima notte che avevano trascorso assieme, dopo che avevano fatto l’amore per la seconda volta.
Quella sera erano talmente su di giri che il sonno aveva tardato parecchio ad arrivare e quindi avevano trascorso tutta la notte a chiacchierare.
Jason era scoppiato a ridere ed aveva replicato:
“sai, non conosco questo Nathaniel, ma a me sta proprio simpatico Castiel… ce lo vedrei bene con tua nipote”
 
“sai cosa diceva Victor Hugo sulla separazione?”
Erin alzò gli occhi verso la zia, scrollando poi le spalle con evidente disinteresse, il quale però non bastò a scoraggiare la donna, che proseguì:
“in amore, la separazione avvicina” 
La ragazza non replicò e Pam si accontentò della speranza che quelle parole le fossero per lo meno di consolazione.
 
Il giorno successivo, Erin era in piedi accanto al letto, imbambolata a fissare lo schermo del cellulare. L’ultimo messaggio che le aveva mandato Castiel risaliva alla sera del concerto e aveva un che di profetico “…giuro che stasera ti farò piangere”
C’era riuscito eccome, anche se nemmeno il ragazzo aveva potuto prevedere la piega che avevano preso gli eventi.
La ragazza teneva lo sguardo ancorato sul riquadro bianco della casella messaggi, arrovellandosi sul come riempirla: non aveva idea di cosa scrivergli.
Voleva salutarlo prima di partire alla volta di Allentown, ma ogni frase le sembrava inopportuna.
Sospirò sconfitta e spense lo schermo, riponendo poi il telefono nella borsa.
 
Lysandre chiuse il voluminoso saggio di Kant e assunse un’aria pensierosa. Nella sua mente, rivisse la conversazione avuta il giorno prima con l’amico:
 
“avevi ragione Lys. Lei mi piace”
Il poeta aveva incassato quella notizia senza battere ciglio. Castiel lo guardava con serietà e dal suo tono di voce traspariva una grande amarezza:
“dì pure che te ne sei innamorato Castiel. Ti prenderei a calci se non fosse così lontano dalla mia natura. Sono settimane che cerco di fartelo capire e dovevi arrivarci proprio ora che te ne vai?”
Castiel si grattò il capo in difficoltà:
“beh, se dobbiamo dirla tutta, non potevo scegliere momento migliore: non ce l’avrei fatta ancora a lungo a vederla con Nate. Così questi sei mesi mi serviranno per dimenticarla. Vedrai, quando tornerò, Erin sarà solo un’amica come le altre”
“ne sei sicuro?”
“ne sono convinto” asserì il rosso, guardandolo con determinazione “lo sai come sono fatto no? Se mi metto in testa una cosa…”
“quanto ci hai messo per dimenticare Debrah?” lo interruppe Lysandre.
Di fronte al disorientamento dell’amico, il poeta proseguì:
“ammesso che tu non pensi più a lei”
“qualche volta ci penso” riconobbe il ragazzo, frugandosi nelle tasche alla ricerca del pacchetto di Marlboro “ma lei è solo un ricordo senza amore… e sarà lo stesso per Erin. Devo solo trovarmi una ragazza che non conosca Nathaniel, tutto qua” rise amaro.
Dopo una breve esitazione, seguita da un sospiro sconfitto, Lysandre replicò:
“è così impossibile per te, credere che esista qualcuno che possa preferire te a lui?”
“sarei un povero illuso se credessi una cosa del genere, non ti pare?”
Il poeta si zittì. Discutere con Castiel di certi argomenti era un’impresa che gli prosciugava ogni energia ma non poteva demordere:
“sai, ho sempre pensato che il tuo problema più grande fosse l’incredibile stima che nutri verso Nathaniel che ti ha fatto maturare una sorta di complesso di inferiorità verso di lui… adesso mi rendo conto che, semplicemente, tu sei un codardo Castiel. Tu hai solo paura di rischiare, nascondendoti dietro patetiche scuse… non sopporti di essere ferito nell’orgoglio ma non ne hai neanche un po’ visto che continui a comportarti da ragazzino”
 
Nonostante quella provocazione, Castiel non aveva reagito.
Si era acceso la sigaretta, tenendola in bilico sulle labbra e aveva sollevato il mento verso il cielo. Quell’arrendevolezza non era da lui e fu questa a turbare Lysandre: il suo amico era come un soldato che aveva perso una guerra senza avervi preso parte.
Il poeta chiuse gli occhi e cercò di pensare ad altro.
Sentiva però crescergli ineluttabilmente l’irritazione per quell’amico tanto orgoglioso quanto idiota e cominciò a torturare il gatto della sorella che giaceva inerme accanto a lui.
“lascia stare Romeo!” lo riprese Rosalya, evidentemente sorpresa per lo strano comportamento del fratello “si può sapere che ti prende? Cos’è, un nuovo disturbo della tua demenza senile?”
 
Nel viaggio in macchina, Erin non parlò, e la zia rispettò quel suo silenzio.
Conosceva la nipote e sapeva che aveva bisogno del tempo per riflettere. Dopo la loro discussione del giorno precedente, aveva deciso di provare a darle fiducia, intervenendo solo qualora il mutismo della ragazza si fosse prolungato.
Durante la notte aveva concluso che, se Erin era davvero cambiata, non si sarebbe lasciata abbattere a lungo da quella situazione e avrebbe trovato il modo per reagire.
Dal canto suo, Erin si sentiva frustrata: anziché abituarsi all’idea che Castiel se ne andasse, la sua mente sembrava sempre più ossessivamente incentrata sul pensiero che lei sarebbe rimasta sola. Prima Sophia, ora lui.
Ma diversamente dal caso della sorella, il suo amico sarebbe partito con la gioia nel cuore. Era questa l’importante differenza tra i due casi ed era su questo punto che lei doveva focalizzarsi.
Non doveva compiangere se stessa, al contrario doveva essere felice per lui: Castiel aveva bisogno di quell’iniezione di fiducia, aveva un’estrema necessità che qualcuno riconoscesse il suo talento.
In lei cominciò finalmente allora a farsi strada la consapevolezza di aver sbagliato tutto, con il suo atteggiamento immotivatamente vittimista.
Era maturata molto da quando si era trasferita a Morristown, era diventata una persona forte e determinata, che non si lasciava abbattere facilmente.
Avrebbe deluso tutti se continuava a tenere quel muso lungo; le balenò così una mezza idea che pian piano si completò in un intero: avrebbe organizzato per Castiel la miglior festa a sorpresa possibile, per salutarlo degnamente prima del suo sbarco in Germania.
Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per vederlo partire con un sorriso stampato sulla labbra; avrebbe fatto l’impossibile per quella smorfia che in lui era così rara e peratanto così carismatica.
 
La macchina percorse un lungo tragitto tra i boschi che tanto Erin adorava, costeggiando il Little Lehigh Park. Era molto affezionata a quel luogo in cui lei e la sua famiglia trascorrevano spesso i fine settimana. Era stato proprio tra quegli alberi che, una domenica, un bambino con i capelli neri e un’espressione un po’ impacciata, le aveva restituito il prezioso braccialetto che aveva perso.
Non aveva ancora detto a Castiel che era lei la bambina con il vestitino giallo ad avergli stampato il bacio sulla guancia, ma per qualche motivo, le piaceva custodire tutto per sé quel ricordo. Dall’alto della sua innocenza, aveva sempre considerato quello il suo primo bacio, anche se si era trattato di un castissimo segno lasciato sulla guancia di un bambino di nove anni.
Quando cominciarono a lasciarsi la foresta alle spalle, Erin cominciò a intravedere il profilo familiare della città: in tre mesi, Allentown non poteva certo aver stravolto la propria immagine, tuttavia la semplice aggiunta delle decorazioni natalizie e delle luci non ancora accese, bastarono a sottolineare in lei un senso di estraneità.
“Allentown ci accoglie” scherzò Pam, passando sotto un arco con la scritta Welcome.
Imboccò la Martin L. King Dr e sfrecciarono accanto al famoso parco di divertimenti Dorney Park & Wildwater Kingdom in cui Erin e Sophia andavano spesso assieme ai loro amici.
Le sembrava fossero passati secoli dall’ultima volta che era uscita con loro. Ormai a Morristown si era ricostruita una vita e aveva cancellato quella precedente.
Dopo la sua chiusura al mondo, a seguito dell’incidente, persino la sua amica Leticia non si era più fatta viva.
Dopo essersi spostati dal centro urbano, Pam si inoltrò nella campagna svoltando infine per una stradina sterrata. Al termine della via, imboccò il vialetto di ghiaia di una graziosa casetta a due piani.
La muratura era in mattoni faccia a vista, di colore chiaro mentre gli infissi erano stati verniciati di verde bosco. L’abitazione era di modeste dimensioni ma vantava un bellissimo giardino. Sulla cassetta della posta, in metallo rosso era inciso il nome Travis.
Sentendo il rumore degli pneumatici contro il suolo, Amanda si precipitò all’esterno, squittendo per la gioia.
Indossava un grembiule da cucina, macchiato in un angolo da sugo di pomodoro, con la scritta la cucina di mamma è sempre la migliore perché fatta con amore. Era molto affezionata a quell’oggetto, poiché si trattava di un regalo delle sue figlie.
Asciugandosi frettolosamente le mani umide, cominciò a sbracciarsi verso la vettura.
"non vedevo l'ora che arrivaste!" le accolse, appena Pam aprì la portiera.
Abbracciò quest’ultima, mentre Erin scaricava le valigie.
"tesoro, le valigie prendile dopo! Sono tre settimane che non ci vediamo!" la rimproverò amorevolmente, allargando le braccia e attendendo che la figlia le si fiondasse contro.
Erin però si limitò ad un timido abbraccio passivo, lasciandosi cullare per un attimo, mentre la psicologa, si insospettì:
"Erin stai bene?"
"certo" la tranquillizzò
“e con Nathaniel?”
“a meraviglia…ora mamma scusa, ma c’è una cosa che devo fare" la liquidò, precipitandosi in casa.
Amanda ricercò lo sguardo della cognata, che sorrise indulgente, mentre si accingeva a recuperare i bagagli.
 
Erin varcò la soglia di casa e attraversò il salotto, senza curarsi di salutare prima suo padre, disperso in qualche angolo del bosco attorno alla loro proprietà.
Salì le scale e si trovò di fronte una porta chiusa con quel nome appeso all’esterno e che non era il suo. Passò oltre e si precipitò nella stanza accanto, la sua vecchia camera, trovandola esattamente come l’aveva lasciata.
Si sedette pesantemente sul letto e tirò fuori il cellulare dalla borsa.
Da quando aveva pensato alla festa a sorpresa per Castiel, la trepidazione era aumentata sempre più. Era riuscita a canalizzare tutta la sua tristezza in energia positiva.   
Con gesti rapidi, cercò il numero di Lysandre e avviò la chiamata.
 
È universalmente noto che per una nonna, un nipote non sia mai adeguatamente nutrito. Per quanto fosse una persona fuori dagli schemi, nemmeno la nonna White sfuggiva a questo stereotipo e aveva riempito lo stomaco del povero Lysandre ben oltre la sua capienza massima.
Ciondolando come un ippopotamo e abbandonando la leggendaria eleganza dei movimenti che lo contraddistingueva, il ragazzo si era abbandonato sul divano, in attesa che il sonno si impadronisse completamente di lui.
Il suo programma però era incompatibile con le intenzioni del resto del mondo: il cellulare cominciò a vibrare fastidiosamente, costringendolo ad allungarsi sul comodino:
"Ciao Lys, hai un minuto? Mi è venuta un'idea per festeggiare Castiel: una festa a sorpresa! Ma tu sai quando parte? Immagino dopo le vacanze"
La voce eccitata di Erin lo spiazzò, specie dopo averla vista così abbattuta la sera del concerto. Rosalya inoltre gli aveva raccontato che il giorno prima l’amica era piuttosto silenziosa, nonostante tutti attorno a lei fossero di ottimo umore.
"Erin" le sussurrò.
"poi dovremo decidere dove farla… secondo te è da maleducati se la organizziamo a casa sua?"
"Erin" la richiamò con tono fermo.
“beh, ma è per il suo bene! Sono sicura che alla fine gli farà pi-“
“Erin!” la riprese Lysandre seccamente.
Finalmente sentì silenzio dall’altra parte del ricevitore.
Si massaggiò la fronte, sospirando sommessamente mentre lei sbottava:
"che c'è?"
"Castiel è già sull’aereo per la Germania"
 



 
NOTE DELL’AUTRICE:
Dopo due capitoli davvero pieni, eccone uno più tranquillo… tranne il finale direi.
Niente scene strappalacrime, Castiel se ne è andato così, in silenzio e solitudine…
Perché? Beh, mi sembrava che ci stesse, visto il personaggio -.-‘’…
Vi avverto (almeno questo ve lo devo): i prossimi capitoli vorrei che fossero tra i più deprimenti della storia (quello di oggi è stato solo l’antipasto)… visto che a me piace l’elemento malinconico/drammatico, non potevo non inserirlo anche nella mia storia…
Tralasciando l’ultimo paragrafo, spero di essere riuscita a trasmettervi un po’ di malinconia (non è cattiveria, giuro, è per immedesimarsi meglio nello stato d’animo di Erin)… per sforzarmi di rendere questa tristezza mi sono messa di sottofondo un video con musica deprimente… l’unico risultato di cui ho la certezza di aver raggiunto è che ora sono depressa -.-‘’…
 
Tuttavia devo accantonare la depressione per segnalare, come sempre, il disegno che mi ha spedito  
_Nuvola Rossa 95_ (in realtà sarebbero due ma per il secondo mi ci vorrà qualche giorno per colorarlo). Lo trovate al capitolo precedente, nella parte in cui Rosalya si preoccupa (?) del fatto che Armin possa cadere dal tetto ^^)… visto che questa santa donna (parlo di Nuvola) sembra leggermi nel pensiero, devo ringraziarla, perché ha rappresentato una delle scene che avrei voluto disegnare io (ma mi ero rifiutata per una questione di tempo)… e l’ha rappresentata in una versione decisamente migliore di quella che si era figurata nella mia testa, perciò:
 
GRAZIE! \(^^)/
 
Ah, ultima noticina prima di andarmene: Morristown ed Allentown esistono veramente, sono due città della zona orientale degli USA che distano circa un’ora di macchina l’una dall’altra. Per descrivere la città di Erin mi sono affidata a Google Maps (ovviamente alcune cose le ho inventate) e all’omino giallo (non so come altro chiamare quella funzione per vedere la strada in 3d -.-).
 
That’s all^^) Alla prossima e grazie per aver letto il capitolo^^)
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Chi non muore si rivede ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Erin si risveglia senza avere alcun ricordo di quanto accaduto dopo aver saputo della partenza di Castiel per la Germania. È molto triste e non se la sente di affrontare il ragazzo, né tantomeno complimentarsi con lui.
Nel pomeriggio la zia inaugura con successo la boutique, accordandosi con Rosalya circa la possibilità di vendere dei capi creati dall’aspirante stilista.
Nel frattempo Castiel incontra Lysandre e gli confessa di aver realizzato i suoi sentimenti per Erin, con la consapevolezza che lei non potrà mai ricambiarli, dal momento che ha scelto Nathaniel.
La ragazza nel frattempo parte con la zia alla volta di Allentown e durante il viaggio in macchina riflette sul quanto sia stato infantile il suo comportamento, decidendo così di organizzare una festa a sorpresa per l’amico.
Appena arrivata a casa, si affretta a contattare Lysandre ma il ragazzo frena il suo entusiasmo: Castiel è già partito.

 


 
CAPITOLO 32:
CHI NON MUORE SI RIVEDE

 
“c-come sarebbe a dire?” balbettò Erin sconvolta, stritolando il primo oggetto che le era capitato a tiro: il suo povero coniglietto di peluche.
Dall’altro capo del telefono, sentì Lysandre sospirare:
“mi ha chiamato dopo aver passato il controllo bagagli. Ha detto che odia gli addii e quindi-”
“come ha fatto a trovare un biglietto per l’Europa in così poco tempo?!” lo interruppe Erin montando su tutte le furie.
“avrà approfittato di uno di quei voli last minute” ipotizzò il ragazzo, massaggiandosi il collo.
La ragazza rimase in silenzio, cercando di capacitarsi di quello che le stava dicendo l’amico.
Castiel era già partito. Il concetto era molto semplice da capire ma impossibile da accettare.
“come ha potuto andarsene così? Senza salutare nessuno?” mormorò ferita.
Anche se Lysandre non poteva vederla, percepì dall’incrinatura del tono di voce della ragazza, tutta la sua delusione e cercò di attenuarne lo sconforto:
“si farà sentire quando atterrerà a Berlino”
Appena aveva pronunciato l’ultima parola, il poeta si morse il labbro contrariato: detestava regalare illusioni alle persone. Sapeva perfettamente che Castiel non l’avrebbe fatto.
Il rosso infatti l’aveva salutato al telefono, annunciandogli la sua ferma intenzione di non farsi vivo per un po’ con Erin e di fatto, affinchè lei non la prendesse sul personale, anche con il resto degli amici.
Aveva bisogno di stare da solo e concentrarsi sulla musica per non deludere le aspettative di chi l’aveva ingaggiato.
“ma non ha nessun senso che sia partito Lys!” protestò Erin “avrebbe dovuto cominciare a lavorare lì a gennaio!”
“che vuoi che ti dica Erin?” sospirò Lysandre, a cui sorse spontanea la risposta “la verità” ma non formulò a voce alta quel suo pensiero.
Castiel non lo avrebbe mai perdonato se si fosse azzardato a dire ad Erin con quali sentimenti il loro amico fosse partito. D’altronde il rosso era stato molto risoluto quando aveva annunciato che l’avrebbe dimenticata.
Ormai non aveva più nessun senso fare pressioni ai due, specie su Erin la cui storia con Nathaniel proseguiva senza intoppi.
Tuttavia, in cuor suo, Lysandre era convinto delle proprie idee, sin da quando aveva fatto la conoscenza con quella ragazza sul tetto della scuola. All’epoca Erin stava cercando un pallone che il rosso aveva nascosto e in quella circostanza, al poeta aveva ricordato Debrah.
Diversamente da quest’ultima però, la nuova arrivata emanava un’aurea di ingenuità e tenerezza, quasi fosse stata la controparte angelica della vipera che aveva circuito Castile e Nathaniel.
“vorrei solo che gliene fregasse qualcosa dei suoi amici!” esclamò irata “guarda, mi sei da testimone: giuro che non gli scriverò finchè non sarà lui a farlo e si sarà scusato come si deve! Questa proprio non doveva farmela! Lo odio!” e dopo aver continuato a stordire un altro po’ il povero orecchio di Lysandre, che in fondo non aveva nessuna colpa del carattere impulsivo dell’amico, Erin riattaccò.
Si distese pesantemente sul letto, guardando il soffitto con aria imbronciata.
“maledetta testa di pomodoro!” imprecò, sbuffando sonoramente.
Portò un braccio sul viso, nascondendo gli occhi con il polso della mano e rimase per un po’ in silenzio.
Era partito davvero.
All’improvviso, senza dirle nulla, come aveva fatto Sophia.
Perché le persone a cui voleva più bene la escludevano dalle loro scelte? Contava così poco per loro?
Si mise seduta, inspirando profondamente.
Era stanca di commiserare se stessa. Era finito il momento delle lacrime: che andassero tutti dove cavolo volevano, lei non sarebbe più rimasta lì ad aspettare il loro ritorno, piangendosi addosso.
 
Durante il pranzo, quando Pam annunciò il suo fidanzamento con Jason, per poco Peter non si strozzò con il cibo. Abbassò il volume troppo alto del telegiornale e squadrò la sorella:
“ti sei messa con quello?” ringhiò appena la sua trachea si liberò dall’ostruzione.
Pam lo fulminò con lo sguardo e gli abbaiò contro:
“non ti permettere di fare alcun commento offensivo nei suoi confronti: punto primo, non lo conosci, punto secondo, non esiste uomo migliore di lui”
Prima che il padrone di casa avesse il tempo per ribattere, si intromise sua figlia, informando entrambi i genitori sul ruolo giocato da Jason nell’apertura della boutique:
“come vedi papà, la zia non poteva trovare una persona migliore” concluse conciliante.
“sono d’accordo” convenne Amanda, alzandosi a sparecchiare.
“questo è tutto da vedere Erin” borbottò l’unico uomo di casa che tuttavia, dopo la narrazione della figlia, si era visto costretto a ritrattare la sua opinione.
“se vuoi invitarlo da noi uno di questi giorni, mi farebbe piacere conoscerlo Pam” dichiarò Amanda con un sorriso accondiscendente, mentre la donna la aiutava, sistemando i piatti nell’acquaio.
Sconfitto sul fronte Jason, Peter tentò un attacco sulla linea Nathaniel:
“e con il piccolo lord come va?” indagò.
“si chiama Nathaniel, inutile che ti inventi soprannomi… sembri Castiel” masticò con stizza la figlia.
non me lo nominare neanche quello! Il giorno in cui permetterò a quel ragazzo di entrare in casa mia, giuro che andrò a giocare a canasta con tua nonna!”
“non vedo perché dovresti invitarlo qui” borbottò Erin inacidita.
“e poi smettila di usare mia madre per le tue pessime battute!” lo richiamò la moglie dalla cucina.
“a proposito, dille che passiamo il Natale a Morristown, non voglio sorbirmi un altro dei suoi pasticci di salsiccia e melanzane” replicò l’uomo a sua volta. Il solo pensiero della pesantezza di quella prelibatezza culinaria gli fece venire un senso di nausea.
Dopo qualche secondo, comparve Amanda sulla soglia della sala da pranzo: aveva un paio di guanti di gomma arancioni, ricoperti di schiuma sulle dita. In sottofondo si sentiva il rumore dell’acqua corrente:
“senta un po’ signor Peter Travis” lo riprese minacciosa “le ricordo che nemmeno sua madre è infallibile” lo ammonì, agitando un cucchiaio in legno a cui era precariamente attaccata della schiuma del detersivo per piatti.
“mia madre fa sempre la cosa giusta” la difese Peter risoluto.
“basta vedere che capolavoro di figlio ha cresciuto” sbottò la moglie, dapprima seria, poi sorridendo lei stessa.
Anche il marito si rabbonì, intenerito dal sorriso di quella donna di cui, a distanza di tanti anni da quando l’aveva conosciuta, era ancora innamorato come un ragazzino.
Ad Erin erano mancati i loro battibecchi pseudo-seri, specie dopo essere stata ospite dai Daniels.
Tra i suoi genitori c’era un rapporto di complicità e comprensione reciproca: si divertivano a stuzzicarsi a vicenda ma solo in poche occasioni litigavano seriamente. In casa si respirava sempre un clima sereno, talvolta frizzante, soprattutto quando ci pensava l’esuberanza di Sophia ad agitare le acque.
Erin aiutò la madre e la zia a liberare il tavolo, mentre suo padre si spaparanzava sul divano, in attesa della partita di basket.
“allora tesoro, la prima partita dove sarà?” chiese, rivolgendosi alla figlia.
“ce lo diranno quando torneremo a scuola”
“vuoi che chieda anche alle nonne di venire?” si informò Amanda, mentre apriva una finestra per liberare all’esterno un insetto sgradito.
La mora sgranò gli occhi, incredula:
“mamma ti prego! È fin troppo imbarazzante! E poi nonna Sophia è”
Il figlio della donna in questione si voltò minaccioso: intercettando l’occhiataccia del padre, Erin corresse il tiro:
“…una carissima nonnina. Ma vi prego, le nonne lasciatele a casa… anzi no, non potete restare anche voi a casa? Verranno la zia e Jason” patteggiò, cercando di risultare il meno sgarbata possibile.
Prima che Peter protestasse, lo precedette la moglie:
“non preoccuparti Erin, ci metteremo in un angolino in alto sugli spalti e faremo finta di non conoscerti”
Erin sospirò rassegnata, rimandando quell’angosciosa questione.
“vieni a fare un giro in città con noi?” le chiese d’un tratto la madre, indicando se stessa e la cognata.
Pam però anticipò la risposta della nipote:
“meglio di no. Devo ancora comprarle il regalo”
La ragazza si sorprese per quell’obiezione, dal momento che la zia pensava ai regali di Natale quando Halloween non era ancora passato:
“non è da te prenderti all’ultimo” puntualizzò per l’appunto il fratello che la conosceva meglio di chiunque altro. Sullo schermo della TV troneggiava ancora la pubblicità e questa giustificava la loquacità dell’uomo che altrimenti non avrebbe permesso alle chiacchiere delle sue donne di interferire con la voce del telecronista.
“ho avuto molto da fare per via della boutique in quest’ultimo periodo” si difese la donna.
Erin nel frattempo si guardò attorno e commentò:
“noto che non avete ancora fatto l’albero di Natale”
“di solito ti piace occupartene tu e…” si giustificò Amanda, tentennando sulla conclusione della frase.
“Sophia” concluse Erin “puoi anche pronunciare il suo nome davanti a me, non è mica Voldemort” sdrammatizzò la mora, mentre Peter si interrogava sull’identità dell’oscuro signore che era stato nominato.
La psicologa rimase un po’ sorpresa da quell’affermazione ma poi sorrise sollevata.
Sua figlia era davvero cambiata rispetto a tre mesi prima.
 
Nel pomeriggio, Erin si trovò da sola in casa: le due donne erano uscite a fare shopping mentre il padre era andato in piscina. Salì le scale e si avventurò in soffitta, dove recuperò uno scatolone alto e stretto, al cui interno era contenuto l’albero di Natale.
Con qualche difficoltà, riuscì a portarlo al piano di sotto e posizionare il finto pino in salotto, in un angolo ben visibile. Dovette fare altri tre giri per rimediare agli scatoloni con le palline e le varie decorazioni.
Quando finalmente aveva recuperato tutto il materiale, sentì suonare il campanello.
Sbuffò contrariata, augurandosi che si trattasse della zia che, sbadata com’era, poteva aver dimenticato qualcosa.
Cercò di liberarsi dei residui di polvere che si erano depositati sulla sua vecchia felpa  e andò ad aprire.
Davanti ai suoi occhi, sorridendo come dei folletti, erano apparsi Iris e Nathaniel:
“buongiorno” aveva esordito il biondo, lasciandola a bocca aperta.
Anche l’amica era allegra, vedendo l’espressione di Erin che era rimasta senza parole.
“e voi che ci fate qui?” li accolse poco elegantemente la padrona di casa, tale era il suo sbigottimento.
Si trovò costretta a valutare la sua penosa mise, rappresentata da un paio di vecchi pantaloni in pile e una felpa bucata e impolverata. Lo sforzo fatto per recuperare albero e annessi le era costato una fronte sudata e dei capelli in disordine.
“sono impresentabile! Potevate avvertirmi” mormorò a disagio.
e che sorpresa era scusa? E poi sei sempre bellissima” le disse Nathaniel, baciandola sul naso mentre Iris si schiariva la gola, come a voler ribadire la sua scomoda presenza.
“a-accomodatevi” balbettò Erin, cercando di sistemare alla bell’e meglio almeno i capelli.
Nathaniel ed Iris entrarono in salotto guardandosi attorno ammirati.
Il soggiorno era tinteggiato con un caldo color crema, che ben si sposava con il mobilio in legno chiaro. Una credenza in stile classico era posta in una rientranza della parete e sulle sue mensole erano sistemati con cura vasi e barattoli di marmellata fatta in casa.
Il pavimento era in legno di noce e si stagliava contro il tessuto chiaro dei divani, disposti in modo da circondare la TV al plasma, unico elemento moderno all’interno di un contesto rustico e classico.
“hai una casa molto accogliente Erin… prima di arrivare qui ero convinta che vivessi in appartamento”
“come avete fatto ad avere l’indirizzo?”
Iris sorrise furbescamente:
“l’ho chiesto ieri a tua zia” le confessò, facendole l’occhiolino “l’idea comunque è di Nath”
Erin si voltò verso il ragazzo.
“tu con quell’aria da santerellino…” ridacchiò, puntandogli il dito contro.
“beh, non ti fa piacere vederci?” mediò.
“fin troppo. Mi ci voleva oggi” sorrise amaramente, spostandosi verso il centro del soggiorno.
“perché?” chiese Iris accomodandosi sul divano accanto alla padrona di casa, mentre Nathaniel prendeva posto sulla poltrona di Peter.
“Castiel… Lo sapevate che è già partito?”
“che cosa?” ripeterono quasi in coro i due ospiti, mentre Erin annuiva.
“ma non doveva partire a gennaio? E poi scusa, è partito così, di punto in bianco?” sbottò Iris.
“non so cosa dirti. Io l’ho saputo da Lysandre qualche ora fa che a sua volta ha ricevuto la chiamata da Ariel quando aveva già passato il controllo bagagli”
“forse c’è stato un imprevisto, ed è dovuto partire in fretta e furia” ragionò Nathaniel.
Erin lo guardò sorpresa:
“eh no caro mio! Mi fa piacere che vi siate riappacificati, non sai quanto, però non azzardarti a giustificarlo!” lo ammonì severamente.
“beh se ci fossimo davvero riappacificati, non sarebbe partito così, senza salutarmi, non ti pare?” commentò amaro il biondo.
“non ha salutato nessuno Nathaniel” gli ricordò Iris ma il ragazzo non sembrava convinto.
Il Castiel che conosceva lui non sarebbe partito così, di punto in bianco, senza  guardarsi indietro. Ci doveva essere qualcosa che l’aveva frenato dal congedarsi da tutti.
Erin nel frattempo si era spostata in cucina, per offrire qualcosa ai suoi ospiti.
Tornò con un vassoio pieno di biscotti, tre bicchieri e una bottiglia di Coca-Cola.
“parliamo d’altro ragazzi. Castiel è solo un idiota e non voglio più parlare di lui, almeno finchè non si farà vivo per scusarsi” tagliò corto.
Iris la squadrò con perplessità, poi commentò:
“vedo che ti sei ripresa”
Sia Erin che Nathaniel ricambiarono l’occhiata interdetta, rivolgendola alla rossa.
“a che ti riferisci?” le chiese l’amica.
“ieri eri così depressa per la sua partenza … oggi mi sembri molto più combattiva”
“ti eri depressa per questo?” indagò Nathaniel.
Il ragazzo non riuscì ad impedire al suo tono di voce di assumere una sfumatura leggermente irritata che scombussolò la mora.
“no, sì… cioè… mi aveva un po’ spiazzato, tutto qui” borbottò Erin in difficoltà, mentre Iris si chiedeva perché la sua osservazione potesse aver scatenato tutta quella tensione nella coppia.
“vorrei vedere la tua stanza Erin!” la supplicò, per stemperare il disagio dell’amica.
La padrona di casa accolse ben volentieri quella richiesta, sorridendo sollevata e invitò i due ragazzi a seguirla. Cercava di non guardare Nathaniel ma sentiva su di sé gli occhi ambrati del ragazzo.
La sua reazione dopo aver saputo che lei si era intristita per la partenza di Castiel l’aveva confusa al punto da non sapere come comportarsi.
“forse Nathaniel è più sveglio di te Erin, e sta sospettando cose che tu non ti azzardi neanche a considerare” malignò una vocina nella sua testa, ma la ragazza la scacciò, come fosse una zanzara in una sera d’estate.
Si posizionò davanti alla porta della sua stanza voltandosi verso i due ospiti. Tuttavia i ragazzi non erano al suo seguito: erano rimasti indietro di una decina di passi, impalati davanti ad un’altra porta.
Quella che, appesa all’esterno, aveva una targhetta in legno con inciso il nome Sophia.
Erin sentì il cuore accelerarle, come se sbattesse contro la gabbia toracica.
Si era completamente dimenticata di considerare che i suoi ospiti sarebbero passati davanti a quella scritta.
“chi è Sophia?” chiese Iris dubbiosa.
Non avrebbe voluto che lo scoprissero così, per caso. Doveva essere lei a dirglielo di sua iniziativa.
“mia sorella”
L’amica incassò quella notizia senza scomporsi più di tanto e commentò in tono neutro:
“non mi avevi mai detto di avere una sorella”
“neanche a me”
La voce di Nathaniel risuonò come una piatta accusa.
Nelle loro voci non c’era sorpresa o sconcerto e questo la spiazzò. Si stavano sforzando di non dare a vedere quanto quella notizia li avesse lasciati perplessi.
Erin stava per replicare, quando suonò il campanello e fu costretta a correre dabbasso per aprire alla zia:
“oh, vedo che sono arrivati” commentò con un sorriso allegro osservando i due ospiti mentre scendevano le scale del piano di sopra.
“Erin ci stava raccontando di Sophia” la aggiornò Iris. Aveva un’espressione incerta, da un lato indurita a causa di un’amica che le aveva nascosto quel legame, dall’altro, cordiale verso Pam che con lei era sempre stata molto gentile.
“Sophia? Beh, era anche ora Erin che lo dicessi a qualcun altro!” commentò ingenuamente la zia con evidente sollievo.
Il corpo della nipote si irrigidì mentre la donna, ignara delle conseguenze della sua frase, recuperava il portafoglio dimenticato a casa:
“scappo, tua madre mi sta aspettando in macchina. Mi sono accorta solo ora di averlo lasciato qui” spiegò recuperando l’oggetto appoggiato sulla credenza “ragazzi vi saluto, spero di rivedervi al ritorno, ciao!” e con la stessa rapidità con cui si era presentata, Pam sparì, lasciando dietro di sé fuoco e distruzione.
Non aveva la minima idea della bomba che aveva sganciato.
Erin si voltò verso i due ragazzi.
“avevi già parlato a qualcuno dell’esistenza di Sophia?”
Questa volta a parlare era stato Nathaniel. La voce gli era uscita talmente dura da spaventare Erin.
“sì” ammise sentendosi colpevole.
a chi?”
“a Castiel… e ad Ambra..”
Iris sgranò gli occhi quando sentì il secondo nome, mentre Nathaniel aveva socchiuso gli occhi udendo il primo. Rimase in silenzio poi mormorò:
“perché tutto questo mistero dietro questa sorella?”
Erin era sempre più nervosa. Non le piaceva affatto il modo in cui le si stava rivolgendo il ragazzo ma, consapevole di essere lei ad aver sbagliato, non riusciva a biasimarlo:
“Sophia è scappata di casa e ho preferito non dire a nessuno di lei perché non volevo parlare di questa storia” rispose, cercando di usare al meglio la sua capacità di sintesi.
“a nessuno tranne a Castiel” puntualizzò Nathaniel, sempre più offeso “ti rendi conto Erin? Mi hai tenuto all’oscuro dell’esistenza di una sorella, ma non ti sei fatta problemi a dirlo a Castiel! Come credi che mi sarei sentito ad essere escluso in questo modo?”
La ragazza non sapeva come replicare e anche Iris era rimasta spiazzata dalla reazione del biondo.
Aveva già sentito dire che Nathaniel era un tipo un po’ permaloso, ma non immaginava che, quando si arrabbiava, potesse risultare addirittura spaventoso.
Fissava la sua amica con rabbia e risentimento, come se il torto che gli era stato fatto andasse ben oltre la semplice omissione di verità. C’era qualcosa che gli rodeva dall’interno e la rossa, solo a quel punto, capì che Nathaniel non poteva accettare il fatto che la sua ragazza avesse preferito confidarsi con Castiel anziché con lui.
 “Iris” la chiamò il biondo, facendola sobbalzare “lasciaci soli”
La ragazza guardò incerta l’amica, poi annuì in silenzio. Abbandonò la stanza e si sedette sui gradini della veranda.
La situazione era degenerata troppo rapidamente, prendendo una piega assurda.
 
In soggiorno un silenzio che sembrava gravare sulle piccole spalle di Erin.
Si sentiva dalla parte del torto e non riusciva a trovare giustificazioni all’accusa che le era stata rivolta: qualsiasi spiegazione avrebbe solo aumentato la rabbia del biondo: semplicemente le era venuto spontaneo aprirsi con Castiel. Quel lontano sabato mattina l’amico le aveva rivelato tutta la propria fragilità, confidandole ciò che si portava dentro da mesi e lei aveva avvertito una sorta di empatia, che l’aveva spinta a parlargli della sorella.
Con lui c’era sempre stato quello strano feeling, una sorta di sincronia che non aveva con nessun’altro. Era qualcosa di diverso dal rapporto con il resto dei suoi amici; quella con il rosso era un’amicizia speciale, forse talmente speciale che sbagliava a considerarla una semplice amicizia.
“allora?” incalzò Nathaniel, disturbando le riflessioni di Erin.
Era in piedi, davanti a lei, inchiodandola con quegli occhi arrabbiati e feriti.
Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: anche se solo in poche occasioni aveva visto la sua ragazza in compagnia del rosso, quando capitava, percepiva tra di loro uno strano legame, diverso da quello con il resto della compagnia.
Più volte Nathaniel aveva fatto finta di non vedere i sorrisi dolci di Erin rivolti all’amico, la sua tendenza ad incentrare molte loro conversazioni sul rosso, attribuendo quelle osservazioni ad un atteggiamento paranoico da parte sua; ora invece aveva ricevuto la conferma di quell’inquietante sospetto.
“perché non ammetti Erin che ti stai innamorando di Castiel?”
Sputò quell’accusa con una tale rabbia da pietrificare l’imputata.
 Erin sgranò gli occhi e sentì il suono delle sue certezze che andavano in frantumi.
 
La voce di Nathaniel era talmente alta, che persino Iris all’esterno aveva seguito quella discussione.
Erin innamorata di Castiel.
A quell’insinuazione non era seguita alcuna protesta da parte dell’amica e fu questa passività a sconvolgere Iris; non capiva perché Erin non rispondesse dal momento che Castiel era solo un caro amico.
Quel silenzio però si perpetuava e la rossa cominciò a riconsiderare tutte le volte che aveva visto i due insieme, i loro scambi di battute, i sorrisi sereni dell’amica quando era con il rosso… e solo quel giorno, seduta su quei gradini, Iris si sentì improvvisamente un’idiota, poiché era chiaro come il sole che aveva spinto Erin tra le braccia della persona sbagliata.
 
“è avvilente che sia proprio io a dirtelo non ti pare?” proruppe Nathaniel frustrato, massaggiandosi il collo, teso fino allo spasmo. La sua ragazza continuava a non parlare e lui non sapeva più come interagire con lei.
Era da un po’ che nella testa le frullavano mille pensieri su Castiel, ma si ripeteva che non era possibile che provasse qualcosa di speciale per lui: era già sorprendente il fatto che fossero diventati così amici, loro due, così diversi e incompatibili caratterialmente.
Sin dal primo giorno, il rosso era stato sgarbato nei suoi confronti, si era divertito a tormentarla, umiliandola con sfide assurde come quella del pallone da ritrovare.
Con Nathaniel invece si era creato un rapporto diverso: lui era il ragazzo perfetto, il principe azzurro che sognava da bambina.
“io ho scelto te Nathaniel” mormorò insicura.
“non significa nulla se poi è un altro ad essere al centro dei tuoi pensieri Erin!” sbottò spazientito, sollevando gli occhi al cielo “e non guardarmi in quel modo…”
Pronunciò quell’ultima frase, quasi supplicandola. Non avrebbe permesso a quegli occhi dolci di ammorbidire la sua collera.
Si sedette sul divano mentre la ragazza rimaneva in piedi. Nathaniel teneva lo sguardo chino per non doverla guardare in faccia. Cercò di calmarsi per poter fare mente locale e finalmente si decise a tornare ad affrontarla:
“davvero non ci arrivi?” sondò esasperato “questa è solo l’ennesima conferma, una delle tante dimostrazioni di qualcosa che finora ho avuto sotto gli occhi ma che non volevo vedere! È stato un comportamento immaturo da parte mia, lo so, ma credevo davvero che tu fossi quella giusta… la ragazza che mi avrebbe fatto dimenticare…”
A quel punto il biondo si interruppe, cercando ancora una volta di darsi un contegno, mentre Erin deglutiva a fatica. A mala pena era riuscita a seguire il discorso del ragazzo, essendo rimasta imprigionata da quella profetica dichiarazione: lei innamorata di Castiel.
Nathaniel espirò pesantemente, per poi cominciare a torturarsi le mani, muovendo freneticamente le dita:
“sai penso di aver insistito affinché facessimo quel grande passo come coppia perché, stupidamente, credevo che questo ci avrebbe uniti in qualche modo… ho aspettato che tu fossi pronta ma ormai ho capito che non lo sarai mai perché io non sono lui
Per quanto ci provasse, quelle amare parole non gli uscivano in forma più attenuata di quella che si presentava nella sua testa. Le stava vomitando addosso tutto il suo risentimento, frutto di cattivi pensieri che avevano arrovellato la sua mente in silenzio per poi esplodere davanti a lei.
Non si era neanche reso conto di quanto fosse stanco di far fina di nulla. Aveva creduto in un’illusione che lui stesso aveva creato.
 
Iris, seduta al freddo e in solitudine, maledì la sua amica Rosalya per non essersi aggregata a lei e a Nathaniel, dopo che loro l’avevano invitata. La rossa era convinta che sarebbe bastata la sua presenza per convincerla, invece la ragazza si era rifiutata categoricamente di accompagnarli ad Allentown.
Dei tre, probabilmente proprio la stilista era la più curiosa di vedere casa Travis eppure aveva declinato l’offerta del biondo in malo modo.
Mentre salivano in macchina, alla volta di Allentown, Iris aveva osservato che il ragazzo aveva cambiato il suo umore, irrigidendosi. Solo dopo una mezz’oretta, la rossa era riuscita a stemperare un po’ la tensione e appena il navigatore aveva segnalato la presenza della loro destinazione, Nathaniel si era rasserenato completamente.
Iris si chiese come l’amica avrebbe preso la notizia dell’esistenza della sorella di Erin. Per quanto la riguardava, ci era rimasta malissimo.
 
In quella stanza, la discussione tra i due ragazzi era diventata ormai un monologo: Erin non riusciva a replicare, come era già accaduto la prima e unica volta in cui lei e il ragazzo avevano litigato.
“la verità è che non c’è mai stato posto per me, perché quel posto è sempre stato occupato da un altro”
Nathaniel non riusciva neanche più a pronunciare il nome del suo migliore amico. Era la prima volta che provava per lui un sentimento di tale rancore.
I loro ruoli si erano invertiti: in passato era Castiel quello che doveva rassegnarsi al fatto che le ragazze preferissero Nathaniel, ma si trattava di banali infatuazioni, cose di poco conto, per le quali nessuno dei due avrebbe sacrificato la loro amicizia.
Erin era diversa: anche se in circostanze differenti, la storia si stava ripetendo e, a causa di una ragazza, il ragazzo vedeva vacillare quel rapporto così importante che sperava di aver ricucito.
Lei non parlava, quasi non avesse voce in capitolo:
“allora?” la incalzò sempre più frustrato “davvero non hai nulla da dirmi?”
Osservandone il viso, quel viso così dolce di cui si era innamorato, notò che sui suoi occhi cominciavano a fare capolino delle lacrime. Distolse lo sguardo, a disagio, poiché sapeva che quell’arma silenziosa lo avrebbero ferito più di ogni altra.
“…mi dispiace…” sussurrò Erin abbassando il volto.
Oltre a scusarsi, non sapeva come altro replicare.
Era come se negli ultimi tre mesi avesse vissuto in una bolla di sapone che era improvvisamente esplosa, facendola precipitare in un abisso buio.
Fino a pochi minuti prima, lei era la ragazza di Nathaniel mentre Castiel il suo migliore amico mentre ora non era sicura né dell’uno né dell’altro.
Il suo ragazzo le aveva rinfacciato di essere innamorato di un altro mentre il rosso se ne era andato senza preoccuparsi di salutarla.
In un lampo, le sue certezze erano state disintegrate.
“quindi finisce così?” mormorò Nathaniel ferito, alzandosi dal divano.
Una piccola parte di lui, quella più irrazionale, sperava che lei smentisse tutto ciò che le aveva detto, affermando di amarlo e, forse, sarebbe stato disposto a credere a quella bugia pur di non perderla per sempre.
Tuttavia solo allora Nathaniel si rese conto che lei non gli aveva mai detto “ti amo” e, per quanto fosse convinto dei suoi sentimenti, nemmeno lui le aveva mai rivolto quelle parole.
Il mutismo della ragazza non mostrava segni di cedimenti, così il ragazzo si rassegnò ad uscire dalla stanza in silenzio. Sentiva di aver liberato tutto ciò che si portava dentro e a quel punto non aveva altro da aggiungere.
Erin però era ancora stordita e disorientata. Era successo tutto troppo in fretta, senza darle il tempo di capire.
“Iris, andiamo”
Udì la voce del ragazzo all’esterno e la consapevolezza che con lui ci fosse l’amica, la destò. Si era dimenticata di lei.
Corse in giardino, riuscendo a vedere appena in tempo Nathaniel che saliva al lato del guidatore.
Iris si era alzata in piedi e aveva spostato lo sguardo sulla padrona di casa:
“Iris io…” cominciò con le lacrime agli occhi.
“non dire che ti dispiace Erin” la interruppe l’amica alzando una mano quasi potesse fermare le parole con quel gesto.
“non ti biasimo per averlo detto a Castiel, anzi lo capisco… quello che non riesco a mandar giù è che, se per te era un segreto così importante, tu possa averlo detto ad Ambra… bel quadretto al karaoke… quand’è che siete diventate così amichette voi due?”
“Iris andiamo?” la chiamò la voce di Nathaniel dall’abitacolo, ma la rossa non si mosse.
“non è così Iris” mormorò Erin con la voce incrinata dal pianto.
“e allora com’è?” sbottò piatta “te lo dico io: io ti consideravo una persona seria e affidabile, un’amica alla quale confidare cose che non direi a nessun altro, fidandomi ciecamente della tua comprensione e sensibilità… tu invece vedi nel nostro rapporto solo un’amicizia superficiale, fatta di chiacchiere frivole, uscite serali e complicità per scherzi idioti”
Erin non ebbe il tempo di spiegare poiché Iris, ormai spazientita dall’insistenza del suo tassista, si era voltata e l’aveva raggiunto nella vettura.
La ragazza non riuscì a muoversi dalla veranda. Vide la Subaru indietreggiare per poi, con una sgommata, partire in direzione Ovest, sollevando una nube di terra polverosa.
Il rombo del motore si attenuava sempre di più mentre in Erin aumentava il rumore dei suoi disperati singhiozzi.
 
Quella sera Erin si rifiutò di cenare, nonostante le preoccupanti insistenze dei familiari.
Si chiuse in camera sua e a nulla valsero le minacce del padre o le suppliche di Amanda.
Rassegnati, si riunirono a tavola e Pam spiegò che quel pomeriggio Iris e Nathaniel erano stati da lei:
“se è per colpa di quel damerino che ora è così giuro che-“
Amanda lo zittì, posandogli una mano sul braccio mentre Pam giocherellava sovrappensiero con un angolo del tovagliolo.
 
Erin aveva sprofondato la testa nel cuscino, inondandola con pesanti lacrime salate.
Tra lei e Nathaniel era finita.
Per sempre.
Non avrebbe mai potuto fargli cambiare idea dal momento che non era più così sicura dei suoi sentimenti.
Il motivo principale allora per cui non riusciva a smettere piangere, era il torto che gli aveva fatto: non poteva perdonare se stessa per averlo ferito in quel modo. Lui era sempre stato così gentile con lei.
 
“[…]ho l’impressione che tu abbia confuso la gentilezza di Nathaniel con l’amore”
 
Quella frase, che svettò in cima ai suoi ricordi, la spiazzò per la seconda volta, ma in quel momento si trattò di acquisire la consapevolezza che, quella volta, Violet avesse centrato il punto.
Erin non ne sapeva nulla dell’amore, si era sempre limitata a guardarlo con gli occhi di una bambina; nella sua infantile visione, l’amore doveva essere fatto di sorrisi e baci rivolti ad un ragazzo premuroso e affascinante. A Nathaniel mancava solo un drago da uccidere per poter incarnare lo stereotipo del principe ma questo non significava necessariamente che fosse il suo.
Il ragazzo, sin dal primo giorno che l’aveva conosciuto, si era dimostrato talmente disponibile e carino con lei che, lusingata per quelle attenzioni, aveva finito per infatuarsi di lui, deliziarsi di quelle attenzioni che la facevano sentire speciale… ma non era amore, o per lo meno non si trattava di un sentimento sul quale edificare una storia.
Come poteva essere stata così stupida da confondersi? E da non capirlo in seguito?
Eppure, seduta nella sua stanza, lasciando che i pensieri a lungo trattenuti, fluissero senza interruzione, le sembrava tutto così logico: gli voleva bene, lo ammirava ma non lo amava.
Non lo aveva mai amato anche perché se quello era il suo modo di amare un uomo, allora si poteva considerare capace di sentimenti piuttosto tiepidi.
L’amore narrato nei libri, recitato nei film, era fatto di passione, desiderio, bisogno dell’altro: quali di questi aspetti descrivevano il suo rapporto con il biondo?
Bisogno dell’altro. Castiel.
Ancora non poteva credere a quello che aveva sostenuto Nathaniel.
Se da un lato quella sera, Erin era finalmente giunta alla conclusione di aver chiamato amore quello che in realtà era affetto, ora non riusciva a capire se l’affetto per l’amico fosse invece amore.
 
Aveva già sbagliato una volta, non poteva correre il rischio di rovinare quella preziosa amicizia per un errore frutto della sua ingenua stupidità.
 
Inoltre se anche, come sosteneva Nathaniel, lei fosse stata davvero innamorata di Castiel, il rosso non avrebbe mai potuto ricambiarla: lui pensava ancora alla sua ex, Debrah.
Sospirò rassegnata e tornò a stendersi sul letto, cercando di asciugarsi le lacrime.
Doveva far ordine nella sua testa.
Aveva ferito quello che ormai era diventato il suo ex ragazzo e con lui anche Iris.
Era stato un duro colpo per lei sentire che la sua amica aveva preferito raccontare ad Ambra qualcosa che invece a lei aveva tenuto nascosto. Alla bionda poi, che Iris considerava ancora un’arpia senza cuore.
Presto anche Rosalya e gli altri avrebbero saputo la verità e sarebbe valsa a poco come giustificazione sostenere che era nelle sue intenzioni parlare anche a loro di Sophia.
Erin immaginava che il problema non sarebbero stati i ragazzi: avrebbero certamente manifestato la loro perplessità, ma non si sarebbero offesi particolarmente e anche Violet sarebbe rimasta neutrale.
La reazione che la mora temeva era quella dell’irascibile Rosalya. L’avrebbe preso come un affronto personale.
Sentì bussare alla porta e dopo un po’ la voce di sua zia le sussurrò dolcemente:
“tesoro, posso entrare?”
Per qualche motivo, ad Erin stessa inspiegabile, Pam era una delle poche persone che riuscivano a penetrare nella sua corazza nei momenti come quello. In fondo era proprio per questo dono della zia che la nipote aveva accettato di trasferirsi da lei a Morristown.
Non le serbava rancore anche se era stata proprio la frase di Pam a scatenare quel litigio tra lei e gli altri.
Erin sapeva che doveva prendersela solo con se stessa per aver tanto temporeggiato a parlar loro della sorella.
Si alzò e sbloccò la serratura, tornando a sedersi sul letto.
La zia entrò in silenzio e si chiuse la porta alle spalle.
“ti ho portato la Ritter Sport alle nocciole” esordì allungando una tavoletta del cioccolato preferito della nipote.
Erin la accolse tra le mani e la appoggiò sul comodino.
“tra me e Nathaniel è finita” tagliò corto, nascondendo alla vista ciò che rimaneva delle lacrime che aveva versato.
Pam non rispose e si limitò ad accarezzarle la schiena. La ragazza però rifuggì a quel gesto, spostandosi leggermente così la zia rinunciò a quella consolazione.
“non capisco: mi sembrava che andasse tutto bene tra di voi”
“lo pensavo anche io” mormorò Erin e sentì nuovamente il bisogno di piangere.
Detestava farlo davanti alla zia, quella stessa persona di cui lei in passato aveva biasimato la vulnerabilità, pur tuttavia era proprio quell’aspetto a renderle così simili.
La ragazza si morse il labbro, sperando che il dolore la distraesse dal pianto.
Pam non si lasciò sfuggire quel tentativo e le sussurrò dolcemente:
“non avere paura delle lacrime Erin, è solo acqua: servono a lavare via tutto quello che ci rimane dentro e che ancora ci fa soffrire”
Le cinse le spalle, tirando a sé quella nipote che in poco tempo era diventata così forte eppure così fragile.
 
Erano da poco passate le tre del mattino quando la famiglia Travis venne svegliata dalla suoneria del telefono. L’apparecchio suonò cinque volte prima che Peter si decidesse ad allungare il braccio per recuperare il cordless che teneva nella stanza da letto.
“pronto?” biascicò con la voce ancora impastata dal sonno, con la minacciosa intenzione di insultare chi si azzardava a disturbarlo a quell’ora.
Amanda si voltò, sbadigliando vistosamente. Nonostante il sonno, era curiosa di scoprire chi potesse mai telefonare in un orario così inopportuno.
Vide il volto del marito deformarsi in una smorfia di panico, socchiudendo le labbra e spalancando gli occhi.
“CHE COSA!? DOVE?” urlò, spaventando la moglie.
Dall’altro capo il suo interlocutore aggiunse qualcos’altro e l’uomo replicò:
“arriviamo subito!”
Riagganciò con foga, balzando in piedi.
Amanda accese l’abat-jour e una tenue luce giallognola illuminò il profilo del marito mentre si toglieva il pigiama.
“P-Peter che ti prende? Chi era?” domandò in preda all’ansia, incrementata dai gesti frenetici dell’uomo:
“hanno chiamato dall’ospedale di Fogelsville… Sophia è lì da loro… ha avuto un incidente”
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Gente ci siamo: finalmente è arrivato il momento di presentarvi Sophia :D
Scusate, pessimo smile, stride parecchio con la conclusione del capitolo :S
 
Diciamo che, in attesa dell’inaugurazione “sad section” della mia storia, qui vi ho presentato un capitolo “fatto di rabbia” soprattutto da parte di Nathaniel che, checché ne dica Castiel, ha realizzato che la sua ragazza non lo amava.
Erin però fatica a credere di poter essere innamorata nel rosso, specie dopo il granchio che ha preso con il biondo… senza contare che, come potete facilmente intuire, il ritorno di Sophia metterà un po’ da parte le sue riflessioni… specie a causa di questo incidente: nel prossimo capitolo scopriremo se è grave oppure no…
 
Nel capitolo precedente ho allegato sotto il riassunto il secondo disegno che mi aveva spedito _Nuvola Rossa 95_ su quello che è stato il protagonista, suo malgrado, di questo capitolo: Nathaniel.
Grazie alla mia disegnatrice ^^)
 
Ok, io non aggiungo altro per ora, lascio che siate voi, se volete (spero di sì), a dirmi cosa ne pensate di questo capitolo… credo che il prossimo si intitolerà “ESITO INELUTTABILE” dal momento che l’ho abbozzato e questo titolo mi sembra azzeccato… lascio a voi le conclusioni -.-‘’…
 
Grazie per aver letto fin qui e alla prossima ^^)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Esito ineluttabile ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
Dopo aver ricevuto la notizia della partenza di Castiel, Erin promette di non scrivere più al ragazzo, offesa per il suo comportamento.
Nel pomeriggio, Nathaniel ed Iris le fanno una visita a sorpresa durante la quale, accidentalmente, scoprono l’esistenza di Sophia. Complice l’intromissione di Pam, Erin è costretta ad ammettere che Castiel ed Ambra erano già al corrente della sua vicenda familiare e questo fa arrabbiare i due ospiti, specialmente Nathaniel. Il biondo, dopo aver invitato Iris a farsi da parte, sfoga su Erin tutta la sua frustrazione per non poter più accettare di essere messo dopo Castiel, capendo che la ragazza si sta innamorando dell’amico.
Quest’ultima è terribilmente confusa e incapace di giustificarsi o di replicare quando Nathaniel la lascia. Anche Iris è molto amareggiata poiché Erin ha preferito confidarsi con Ambra anziché con lei.
La protagonista allora si isola nella sua stanza, disperata, mentre la zia cerca di consolarla.
Nella notte, i Travis ricevono una sconvolgente chiamata da un ospedale dei dintorni: Sophia è stata ricoverata.

 



 
CAPITOLO 33:
ESITO INELUTTABILE
 
Dopo il suo incidente, Erin si era chiesta più volte cosa avessero provato i suoi genitori quella notte maledetta quando erano stati avvertiti che lei e la sorella erano seriamente ferite.
Ora poteva sentirlo lei stessa sulla sua pelle: il corpo era dominato da tremori incontrollabili, il cuore sembrava spaccarsi per la foga che aveva nel batterle in petto e l’agitazione le aveva reso particolarmente difficili gesti quotidiani come togliersi il pigiama.
Non era certo di ordinaria routine l’irruzione della madre alle tre di notte nella stanza della figlia, urlando disperata:
 
“ERIN SVEGLIATI! SOPHIA HA AVUTO UN INCIDENTE!”
 
Suo padre continuava ad andare su e giù per la casa, ripetendo sempre la stessa frase:
“le ho sempre detto di andare piano!” e se avesse rivolto a lui stesso quella raccomandazione, avrebbe visto lo spigolo del tavolo contro il quale cozzò il proprio alluce.
Un grido di dolore seguito da un’imprecazione si diffusero nella casa ma nessuna delle altre abitanti se ne curò.
Pam aveva assunto il comando della situazione, cercando di calmare la cognata e impartendo ordini alla nipote:
“Erin, tu che sei già pronta, va’ ad aprire il garage. Noi arriviamo subito”
A distanza di meno di dieci minuti dalla fatidica telefonata, i Travis erano in macchina, in direzione dell’ospedale che distava un quarto d’ora.
Quindici minuti e avrebbero rivisto Sophia.
Quindici minuti e forse l’avrebbero vista per l’ultima volta.
 
Stare lì seduta composta nella sala d’attesa di quel piccolo ospedale era troppo per la capacità di sopportazione di Erin. Sua madre e suo padre erano spariti nei corridoi, alla ricerca di informazioni, dopo aver intimato lei e Pam di aspettarli lì.
Aveva sognato troppe volte il momento in cui avrebbe riabbracciato la sorella e mai aveva immaginato che una simile circostanza le avrebbe ricongiunte. Un incidente. Lo stesso fattore che aveva causato la loro separazione.
Grazie alla guida sicura e scattante di Pam erano arrivati in un batter d’occhio in quella struttura ma il panico cresceva più passava il tempo senza avere notizie.
In quel corridoio c’era un silenzio assurdo, interrotto qualche volta dal ciabattare di qualche infermiera o dal suono lontano di un campanello attivatosi in qualche stanza da un paziente bisognoso.
Quella notte tutti quei pensieri che avevano ritardato il sonno di Erin vennero accantonati: non pensò alla rottura da Nathaniel, alla partenza di Castiel, alla delusione di Iris.
C’era solo lei. La sua Sophia.
“se la caverà” mormorò Pam, cercando di risultare convincente, tentativo fallimentare poiché non aveva idea di quale fosse la gravità dell’incidente. Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa: la nipote non le avrebbe dato retta.
“non ne posso più di stare qui ad aspettare!” si spazientì Erin, alzandosi in piedi e cominciando ad avanzare a grandi passi verso il fondo del corridoio in cui aveva visto sparire i genitori.
“siediti, non possiamo fare altro. Ci sono già tua madre e tuo padre a correre su e giù per l’ospedale, noi saremo solo d’intralcio. Vedrai che saranno qui a breve”la richiamò severamente Pam con un tono che era estraneo alla sua natura.
Aveva solo undici anni più della nipote e non si sentiva così forte da poterla sostenere. In quel momento avrebbe voluto avere accanto Jason ma non poteva chiamarlo a quell’ora della notte e pretendere che si mettesse alla guida per lei.
Intrecciò saldamente le dita affusolate con quelle più paffute della nipote, sperando che interpretasse quella morsa come un’affermazione di forza anziché di nervosismo.
Da quando aveva preso la patente, sua nipote Sophia era stata una fonte continua di preoccupazioni per il fratello, a causa della sua tendenza a premere troppo sull’acceleratore.
Dopo l’incidente con la sorella, Pam sperava che la ragazza avesse imparato la lezione e invece, a distanza di più di tre mesi, si trovavano in una situazione analoga, a sperare e pregare che fosse ancora tutta intera.
 
Finalmente sbucarono Peter e Amanda, seguiti da un dottore non molto alto con l’inconfondibile camice bianco. Era una persona piuttosto anziana, con delle rughe marcate e un’espressione terribilmente seria.
Peter si sforzava in tutti i modi di darsi un contegno, sorreggendo le spalle della moglie le cui lacrime sembravano scavare in profondità i segni del tempo lasciati sul suo viso.
Pam e Erin andarono incontro a quel trio, tremando per l’agitazione.
“questa è mia figlia” spiegò sbrigativamente Peter, indicando Erin “e lei è mia sorella” passando a Pam.
Il medico annuì gravemente e alternando lo sguardo tra le due donne, spiegò:
“sono il dottor Hogan…come ho già spiegato ai signori Travis, Sophia è grave, molto grave. Abbiamo riscontrato una piccola lesione nell’atrio destro, tale da compromettere l’efficienza della pompa cardiaca. Il suo cuore non può reggere a lungo-”
“bisogna operare?” lo interruppe Pam.
“è l’unica cosa che possiamo fare, ma purtroppo non è necessariamente una soluzione”
“perchè?” continuò la zia, ripentendo inconsapevolmente le stesse domande che pochi minuti prima il fratello aveva rivolto al chirurgo.
Quest’ultimo sospirò. Erano anni che combatteva con il lato più amaro e oscuro del suo lavoro: la sconfitta dell’uomo dinanzi alla morte. In quei momenti tutta la sua esperienza non avrebbe consentito di nell’alleviare il dolore di quella famiglia.
“in letteratura la percentuale di sopravvivenza per questo genere di interventi è inferiore al 2%”
Pam sbiancò, mentre la cognata cominciò a piangere più forte, nonostante i tentativi del marito di sedarla.
Erin sentì degli artigli affilati come lame strapparle il cuore dal petto per gettarlo in un angolo.   
Ora si l’avrebbe persa. Per sempre. Era quel senso di irreversibilità a sconvolgerla tanto.
La sensazione di abbandono e solitudine che aveva provato quando Sophia era sparita, era nulla se confrontata alla prospettiva di un futuro in cui la gemella non sarebbe mai esistita.
“non c’è davvero nessuno speranza?” non si rassegnò Pam con un’espressione sconvolta “un trapianto di cuore per esempio?” farneticò in preda all’ansia.
Il medico sospirò rassegnato. In quei momenti gli sembrava che l’aspetto cruciale del suo lavoro consistesse nello smentire le speranze delle famiglie:
“non è così semplice trovare un donatore e comunque Sophia non sopravviverà abbastanza a lungo da poterlo aspettare”
“STA DICENDO CHE SOPHIA MORIRÀ IN OGNI CASO?” urlò Erin con il viso stravolto dalle lacrime.
Non riusciva più a mettere a fuoco il profilo del dottore ma in fondo era meglio così, altrimenti le si sarebbe impresso nella memoria come l’uomo che non era riuscito a strappare la sorella dall’abbraccio della morte.
Passarono due infermiere, spingendo un carrello cigolante in acciaio. Le due donne si guardarono in silenzio per poi volgere un’occhiata solidale all’ennesima famiglia distrutta da un incidente.
“cosa ci consiglia di fare?” singhiozzò Amanda disperata e confusa.
“riflettete sul fatto se volete autorizzare l’esecuzione dell’intervento toracico di cui vi ho parlato, aggrappandovi alla misera probabilità di successo. Tuttavia la decisione deve essere effettuata entro 48 massimo 72 ore, poi il danno a livello sistemico renderà inutile qualsiasi terapia chirurgica” replicò il dottore, approfittando della lucidità della donna.
“senza l’intervento, quanti giorni rimangono a Sophia?” indagò Peter, con voce tremante.
“non si può dire a priori con certezza, ma a mio avviso non più di sette. Il cuore si sta affaticando sempre di più e i tessuti riceveranno sempre meno ossigeno. L’area necrotica del tessuto cardiaco si estenderà anche…”
Erin non lo ascoltava più.
Il suo cervello era saturo di informazioni: Sophia sarebbe morta in ogni caso, senza che lei potesse fare nulla.
“possiamo vederla?” tentò Pam, stringendo a sé la nipote accanto a lei. Si era ripromessa che non le avrebbe mai più permesso di precipitare ancora una volta in quell’abisso di disperazione ma in quella terribile circostanza, non sapeva come impedire una simile fatalità.
“la stanno trasferendo in terapia intensiva, tuttavia non possono far entrare più di tre persone” specificò il dottore “vi chiedo solo di aspettare una mezz’oretta che le infermiere finiscano di prepararla e poi vi verranno a chiamare. Nel frattempo signori Travis, so che in questo momento sarà molto dura per voi, ma devo parlarvi nel dettaglio dell’intervento, in modo che possiate fare le vostre valutazioni. In ogni caso, ne riparleremo anche domani mattina, quando sarete più lucidi, ma è fondamentale che cominciate a pensarci sin da ora. Il tempo a nostra disposizione non è molto”
Amanda e Peter annuirono mestamente, seguendo quindi il dottor Hogan nel suo studio, mentre Pam ed Erin si erano rassegnate ad attenderli in quella sala così asettica e fredda.
 
In un momento come quello, neppure Pam sapeva come consolare la nipote: non si trattava più di un battibecco tra adolescenti, si trattava di farle accettare un esito tremendamente ineluttabile.
Nemmeno un’ottimista come lei poteva aggrapparsi ad una percentuale così bassa: meno di due casi su cento sopravvivevano all’intervento a cui sarebbe stata sottoposta la loro Sophia.
La statistica era una scienza infame: significava tutto e niente perché la nipote avrebbe potuto rientrare nell’esigua minoranza che usciva con un cuore pulsante dalla sala operatoria come pure, andare a popolare la schiera degli insuccessi.
 
Erin era a pezzi.
Sophia era una parte di lei e non per quel viscerale legame che gli studiosi attribuiscono alle coppie di gemelli: lei era semplicemente e meravigliosamente sua sorella.
Voleva solo piangere come una bambina, senza ritegno né pudore ma la presenza accanto a sé della zia la frenava, come una diga che centellina l’acqua, lasciandola sgorgare un poco alla volta.
Si alzò in piedi, mormorando che aveva bisogno della toilette. Pam finse di crederle e si limitò a rassicurarla che l’avrebbe attesa lì. In quel momento la nipote aveva bisogno di stare sola e lei si impose di rispettare quella sua volontà.
 
Percorse il lungo corridoio che puzzava di fenolo ed entrò nel bagno delle donne, riservato ai visitatori dell’ospedale.
Erano quasi le quattro di notte o del mattino, lei non avrebbe saputo dirlo con certezza. Per quello che la riguardava il sole poteva anche non sorgere affatto quel giorno, non le avrebbe fatto né caldo né freddo.
Si chiuse la porta alle spalle, sostando davanti ad essa.
Aveva il capo chino, facilitando così le lacrime in caduta libera verso il pavimento. Qualche goccia le cadde anche sulla punta delle scarpe, quelle scarpe che aveva infilato di tutta fretta, allacciandole in malo modo.
Erin si spostò, sbattendo la schiena contro la parete piastrellata e accasciandosi lungo essa.
Voleva urlare a pieni polmoni, imprecare, sfogare tutta la sua disperazione ma quel minimo di razionalità che ancora albergava nella sua mente la tratteneva dal farlo.
“perché… perché...” continuava a mormorare tra un singhiozzo e l’altro.
Doveva prepararsi dire addio a Sophia, la sua prima amica, il fulcro di tutte le sue certezze.
Quella metà di lei necessaria per definire per antitesi se stessa. Se veniva cancellata la gemella, punto di riferimento per ogni confronto, sentiva che si sarebbe persa anche lei.
Le lacrime non accennavano a scemare e continuavano a irrompere con la foga di una cascata.
I singhiozzi, a lungo trattenuti, divennero incontrollabili ma non si vergognò dell’eventualità che qualcuno li sentisse.
Ripeteva sommessamente quel nome, come una mantra, ma più lo pronunciava e più lo sentiva svanire, come una goccia d’acqua che evapora lentamente ma ineluttabilmente.

 
 

Il dottore Hogan fece accomodare i coniugi Travis sulle sedie posizionate davanti alla sua scrivania, mentre recuperava un fazzoletto di carta dal cassetto. Lo porse ad Amanda che gli rispose con un cenno di gratitudine e cominciò:
“purtroppo signori Travis il mio lavoro mi impone di essere franco e parlare senza mezzi termini: non possiamo indugiare in situazioni come questa. Procederò quindi a spiegarvi i dettagli dell’intervento in modo che possiate decidere se autorizzarlo o meno. Se non avete chiaro qualcosa, vi prego di interrompermi”
Peter annuì gravemente, mentre la moglie continuava a singhiozzare.
Il dottor Hogan recuperò da un cassetto sotto la scrivania, una scheda plasticata con il disegno anatomico di un cuore. Teneva quel genere di fogli proprio per le terribili evenienze come quella che si era verificata quella notte:
“questo è l’atrio destro, una delle quattro camere del cuore umano. La parete di questo spazio, nel caso di vostra figlia, ha subito una lesione in questo punto” precisò indicando con la penna un punto specifico “anche se la lesione non è profonda, è in un punto troppo cruciale. Il sangue infatti, per poter fluire in circolo, deve essere mantenuto sotto pressione all’interno della rete vasale… mi segue?” si interruppe, guardando incerto Peter.
L’uomo annuì e il medico proseguì:
“il cuore di sua figlia però,  a seguito di questo danno, non sta lavorando al massimo dell’efficienza, anzi si sta lentamente ma inesorabilmente sovraccaricando. In altre parole la muscolatura cardiaca deve contrarsi con una forza maggiore rispetto a quella normale, in modo da compensare la perdita di pressione provocata dalla lesione. La conseguenza di tutto questo, come le accennavo prima, è che progressivamente il cuore si affaticherà al punto da non poter più irrorare adeguatamente i tessuti e con essi, tutti gli organi vitali. Il primo che risentirà gli effetti del malfunzionamento della pompa cardiaca sarà il cervello e a quel punto, Sophia entrerà in coma vegetativo. Nel frattempo i tessuti sempre più carenti di ossigeno e nutrienti cominceranno a morire. Vostra figlia si spegnerà lentamente, come una candela che non ha abbastanza cera”
Il medico non aggiunse altro, consapevole di aver bombardato di informazioni quei due poveri genitori che cercavano disperatamente di farsi forza.
“e l’intervento?”
Quella domanda, pronunciata con voce incrinata, era venuta dalla donna seduta davanti a lui.
Il medico fissò quella figura incurvata che quasi non osava guardarlo. Il fazzoletto che le aveva allungato era ormai impregnato di lacrime e disperazione che avevano stravolto un volto altrimenti dolce e solare.
“l’intervento consiste nel suturare la lesione” le spiegò il dottor Hogan, sperando che riuscisse davvero ad ascoltarlo “concettualmente non c’è molto da capire anche se in un secondo momento provvederò ad illustrarvi i dettagli tecnici di tale operazione. Intanto, ai fini di prendere una decisione, ciò che dovete sapere è la probabilità di successo. Se facciamo riferimento alla letteratura medica, andando quindi a stimare la percentuale di successi sul totale di interventi eseguiti, in operazioni come questa la sopravvivenza del paziente non supera il 2%, come vi dicevo prima”
“quanto possiamo fidarci di questo numero dottore?” sbottò Peter, deglutendo a fatica.
“è solo un valore indicativo signor Travis… racchiude casistiche molto diverse, dalle più disperate e quelle più lievi. Nel caso di Sophia si tratta di una lesione meno seria rispetto ad altre verificatesi in circostanze analoghe, ma rimane il fatto che stiamo parlando di un intervento a cuore aperto. Il rischio che non ce la faccia rimane altissimo”
Peter si accasciò pesantemente contro lo schienale della sedia.
“quindi, dovremo scegliere se rischiare il tutto per tutto con un intervento che, con ogni probabilità ci strapperà via nostra figlia oppure decidere di lasciarla vivere qualche giorno in più senza tentare nulla”
Il dottor Hogan annuì gravemente.
“un intervento del genere comunque non possiamo certo eseguirlo qui, non siamo attrezzati. Questo è un piccolo ospedale e poi è necessario un cardiochirurgo. Sophia dovrebbe quindi venir trasferita all’ospedale di Allentown”
“è la nostra città”
“bene. In tal caso provvederò io stesso a mettermi in contatto con il primario della struttura. Sentiremo anche la sua opinione”
“e se ci rifiutassimo di autorizzare l’operazione?”
La voce bassa di Amanda sconvolse il marito che si voltò di scatto verso quella figura così fragile.
Stava per replicare, ma il dottor Hogan lo precedette:
“in tal caso signora, ritengo inutile spostare Sophia da qui”
“per morire un posto vale l’altro giusto?” commentò amaramente la donna alzandosi barcollando.
Peter scattò in piedi ma non trovò la forza per rimproverare la moglie per l’amarezza di quella frase. L’aveva sempre considerata il pilastro di marmo della sua vita, il suo sostegno inossidabile… ora invece vedeva che quel materiale così solido e di cui aveva sempre ricercato l’appoggio, era fragile come la terracotta.
 
Erin non sarebbe riuscita a fornire una stima del tempo che aveva trascorso accucciata sul pavimento freddo di quel bagno. Sapeva solo che doveva alzarsi per poter vedere finalmente la sorella, almeno finché ne aveva la possibilità.
Entrò in una delle toilette e recuperò un pezzo d carta igienica dalla cui estremità strappò un paio di pezzi; se li passò sul viso, cercando di prosciugare ciò che rimaneva delle lacrime salate che le avevano seccato le guance e gli occhi.
Si guardò allo specchio e vide riflesso un inquietante volto apatico: aveva gli occhi terribilmente arrossati, i capelli in disordine e il solco dove le labbra si appoggiavano l’una sull’altra tracciava una linea retta.
Niente di quel viso poteva ricollegarsi a quello allegro di Sophia, eppure Erin sapeva che, ogni volta che avrebbe visto la propria immagine, avrebbe pensato alla gemella.
Il ricordo della sorella l’avrebbe perseguitata per sempre.
Non avrebbe mai potuto dimenticare i suoi occhi verde bosco, il naso un po’ a patatina, i capelli color mogano o le lunghe ciglia perché li avrebbe sempre ritrovati nel riflesso di se stessa.
Questa volta non le sarebbe bastato tornare a fingere di essere lei perché aveva spezzato l’illusione di quel rassicurante inganno già da molto tempo.
L’unica cosa che lo specchio non avrebbe mai potuto restituirle, era il sorriso spontaneo della sorella perché Erin sentiva di aver perso per sempre la voglia di imitarlo.
 
Sentì vibrare il cellulare e lo estrasse lentamente.
Sul display comparve un messaggio da parte della sua compagnia telefonica:
“Fortunato cliente, per lei 1 GB di navigazione a 4 $ al mese. Chiami il 43060 per ulteriori informazioni”
Ripose il telefono in tasca, senza chiudere la finestra degli sms.
Per un attimo aveva sperato che fosse lui.
In quel momento, chiusa in quel bagno in solitudine, non le interessò chiedersi il perché dopo aver sentito la vibrazione, avesse pensato a Castiel. Avesse sperato fosse Castiel.
Sentiva che solo lui avrebbe potuto consolarla, esserle di sostegno o se non altro, sapeva che quella dell’amico era l’unica presenza che riusciva ad accettare.
Meno di ventiquattrore prima aveva fatto una promessa a Lysandre ma era già disposta a dimenticarla; attivò il traffico dati e, non appena vide il simbolo che la connessione al web era attiva, aprì la sua casella di posta.

 
A: castiel.black11@gmail.com
OGGETTO: nessun oggetto
 
Sophia ha avuto un incidente.
Il medico ha detto che non ce la farà poiché l’intervento al cuore è troppo rischioso.
Vorrei solo che tu fossi qui, anche senza dire una parola.
In questo momento sei l’unica spalla su cui vorrei piangere.
 
Erin
 

 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Il mio pilastro ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Dopo una corsa frenetica all’ospedale vicino ad Allentown, i Travis ricevono una notizia agghiacciante: le condizioni di Sophia sono talmente gravi che anche l’esecuzione di un intervento chirurgico si associa ad una bassissima probabilità di sopravvivenza. I genitori della ragazza sono disperati ma sono chiamati a prendere una decisione, mentre Erin si rifugia in bagno dove dà libero sfogo alle sue lacrime. Pam cerca di farsi forza per gli altri ma vorrebbe avere Jason accanto a sé.
Inconsolabile, Erin decide di rompere la promessa che aveva fatto a sé stessa e contatta l’unica persona che vorrebbe aver vicino in quella terribile circostanza: Castiel.

 



 
CAPITOLO 34: IL MIO PILASTRO
 
Ormai conosceva a memoria le stampe che aveva alle sue spalle. Non c’era più alcun modo attraverso il quale Pam potesse distrarre la mente dal dolore che, come un cancro, si stava metastatizzando nel suo corpo. Fino a quel momento era riuscita ad incanalare l’ansia e la frenesia per prendere il comando della situazione e cercare di sorreggere la sua famiglia.
Tuttavia le fragili speranze che avevano abitato nel suo cuore prima di sentire le spietate parole del dottor Hogan erano andate in pezzi; l’autoimposizione di non chiamare Jason era una sfida contro se stessa che non poteva vincere. Si odiava, ma aveva bisogno di lui. Disperatamente.
Erano le quattro del mattino e prima di attivare la chiamata, cercò di calmarsi in modo da non fargli trasparire tutta la sua angoscia. Si sentiva in colpa ad approfittare così della bontà del suo ragazzo ma non poteva fare a meno di appoggiarsi a lui. Le sarebbe bastato sentire la sua voce calma e qualche frase a cui avrebbe fatto finta di credere come: “vedrai che andrà tutto bene”
 
Jason sbadigliò sonoramente, maledicendosi per aver lasciato il cellulare acceso. Lui era quel tipo di persona costantemente irreperibile fuori casa o fuori dal suo studio, proprio per l’abitudine di tenere costantemente spento quel fastidioso apparecchio.
A conferma di quanto fosse disinteressato alla tecnologia, il veterinario disponeva di un vecchio modello con i tasti e il cui accessorio più avanzato era il registratore di suoni incorporato.
Quando vide il mittente della chiamata, sgranò gli occhi.
“Pam che c’è?” tagliò corto preoccupato, dopo aver controllato l’ora.
Rimase in silenzio mentre dall’altro capo del telefono la sua ragazza gli stava riepilogando i fatti di quella terribile notte, che stava lasciando il posto al giorno.
L’uomo ascoltò attentamente poi affermò risoluto:
“tra un’ora sono lì, anche meno perché non troverò traffico”
“Jason no, ti prego, avevo solo bisogno di sentirti” lo bloccò Pam, combattuta tra il desiderio di averlo accanto a sé e il senso di colpa per condizionarlo a raggiungerla a quell’ora assurda.
“in che ospedale sei?”
“Jason veramente…”
“Pam! In che ospedale sei? Sono già in piedi e mi sto vestendo” mentì, quando in realtà era ancora al caldo sotto le coperte.
La donna sospirò:
“all’ospedale di Fogelsville… però Jason…davvero…. mi basta solo parlare un po’ con te qua al telefono, poi tornatene a letto”
“ti chiamo dopo allora, mentre sono in macchina” tagliò corto l’uomo, travisando volutamente le parole di Pam.
Dall’altro capo dell’apparecchio seguì un silenzio di qualche secondo, poi sentì la voce commossa della donna:
“grazie…”
 
Quando Erin tornò in sala d’attesa, la zia aveva appena terminato la chiamata. Intercettando il suo arrivo, la donna le andò incontro, informandola dell’arrivo del suo ragazzo di lì a un’ora.
Poco dopo anche i coniugi Travis si unirono alle due donne, senza dire una parola.
La figlia non osò chiedere i dettagli della conversazione che avevano avuto nello studio medico, sia per non sconvolgere ulteriormente il precario equilibrio psicologico dei genitori, sia per non far vacillare il proprio.
Dopo aver scritto quella mail a Castiel, in lei era subentrata la rassegnazione, un sentimento di tacita accettazione di una realtà che non poteva essere cambiata.
 
L’orologio segnava le quattro e un quarto del mattino quando un’infermiera grassoccia li invitò a seguirla.
Come aveva anticipato il dottor Hogan, solo tre persone erano ammesse in terapia intensiva, così Pam si fece da parte, annunciando che avrebbe aspettato l’arrivo di Jason in quella sala d’attesa così deserta e inospitale. Peter annuì. Per una volta le circostanze gli impedivano di fare alcun commento sul fidanzato della sorella, anche perché se l’avesse fatto, dalle sue labbra sarebbero solo uscite parole di gratitudine per un uomo che non aveva esitato un secondo a mettersi al volante nel cuore della notte.
I Travis seguirono la loro guida vestita di bianco fino a una pesante porta color antracite che l’infermiera spinse con un certo sforzo. Si trovano così in un corridoio bianco e asettico, illuminato a giorno, tanto che ai visitatori ci volle qualche secondo per abituare gli occhi a quella luce. La donna li guidò in uno stanzino dove porse loro dei camici verdi, delle cuffie per capelli e dei guanti, spiegando brevemente il comportamento da tenere nel locale dove era stata sistemata Sophia. L’infermiera aprì una seconda porta e così la famiglia Travis, dopo mesi, si trovò tutta riunita in un’unica stanza.
Amanda fu la prima ad avvicinarsi alla ragazza, seguita da Peter, il cui sguardo si era addolcito nel momento stesso in cui aveva posato gli occhi sulla silenziosa paziente. Cominciò ad accarezzarle delicatamente la mano, alla vista di quella figlia scapestrata che tanto lo faceva preoccupare.
Quella stanza veniva rimpicciolita dal gran numero di complicate apparecchiature elettroniche che la sovraffollavano e che in un modo o nell’altro si collegavano al corpo di Sophia.
Quando toccò ad Erin farsi avanti, avvertì una fitta al cuore.
Eccola finalmente, dopo mesi di lontananza.
La sua Sophia era molto diversa da come la ricordava: la sorella si era sbarazzata della sua lunga chioma con un taglio corto e disordinato. Sulla spalla, le scendeva una treccina di tessuto colorata, una testimonianza dell’originale lunghezza dei suoi capelli che apparivano più rossicci.
 
 
La gemella sembrava dormire beata, ignara delle preoccupazioni che stava causando alle persone attorno a lei. In effetti era insito nella sua natura quello spirito libero da ogni condizionamento affettivo.
Sophia era così: agiva d’impulso, viveva ogni giorno al massimo e lasciava che fossero gli altri a preoccuparsi delle conseguenze.
Per un po’, dopo il loro allontanamento, anche Erin era diventata così, stupendosi della facilità con cui era riuscita a plasmare e modificare la propria personalità ma poi, da quando aveva parlato a Castiel dell’esistenza della sorella, aveva pian piano recuperato la propria identità.
Tuttavia non poteva dire di essere tornata esattamente quella di prima: era diventata più forte e sicura di sé, almeno così aveva creduto fino a quando non si era trovata in macchina, in una corsa impazzita verso Fogelsville.
In quella stanza di ospedale, in cui il tempo era scandito dai tik tik regolari dei macchinari, non era più così convinta che il suo animo si fosse fortificato.   
Sophia aveva una mascherina attaccata al viso, così la madre le baciò la fronte, dopo averle scostato un ciuffo ribelle.
“possibile che tu debba essere sempre così scapestrata tesoro?” la rimproverò dolcemente, continuando ad accarezzarle la pelle liscia.
Peter accarezzò la schiena della moglie, consapevole degli sforzi che stava facendo nel trattenere un pianto disperato. Era da più di tre mesi che non si incontravano e, all’afflizione di trovarla in quello stato, si sommava la nostalgia per quegli occhi vispi e intelligenti che ancora non potevano ammirare.
Le palpebre di Sophia erano irrimediabilmente abbassate a causa del sedativo che le era stato somministrato.
“domani ti trasferiranno ad Allentown” le disse Peter, fingendo che la figlia potesse sentirlo “lì l’ospedale è più grande… almeno passerai il Natale nella tua città… del resto immagino fosse quello il tuo desiderio visto che ti hanno trovato a pochi chilometri da casa”
Erin inspirò a fatica.
Anche lei era giunta alla stessa conclusione: Fogelsville distava poco più di nove miglia da Allentown ed era improbabile che la ragazza si fosse trovata a passare di lì per caso.
Sophia aveva finalmente deciso di ritornare a casa ma il destino era stato così beffardo da ostacolarla quando era ormai al traguardo.
Amanda le accarezzò i capelli che in altre circostanze avrebbe criticato per il look troppo alternativo che conferivano alla figlia:
“sei bellissima tesoro. Te l’ho sempre detto che tutto quell’ombretto nero nascondeva il tuo viso angelico” mormorò, accarezzandole la guancia.
Le infermiere infatti avevano provveduto a pulire il corpo della ragazza, rimuovendo ogni traccia di sangue e con esso, anche di trucco.
Erin non aveva ancora parlato, così il padre la cinse per le spalle:
“tu non dici niente a tua sorella?”
La ragazza si morse il labbro:
“posso restare da sola con lei?” mormorò sommessamente.
Amanda e Peter si zittirono. Per loro era così difficile separarsi dalla figlia, dopo averla vista così pochi minuti ma sapevano che era la cosa giusta da fare.
La madre passò una mano sulla schiena di Erin, quasi volesse trasmetterle una forza che non aveva e seguì il marito, all’esterno della stanza.
Prima che la porta si chiudesse, Erin la sentì esplodere in un pianto che davanti alle figlie aveva trattenuto fino all’ultimo.
Quel colpo era stato troppo duro per lei, specie perché si era verificato a così breve distanza dal primo incidente che aveva coinvolto anche Erin.
La ragazza tornò a fissare la sorella.
Dormiva così tranquilla e serena. Un ricordo che più volte le tornava alla memoria, le affiorò anche il quel momento.
 
“sei una fifona Erin! Ti spaventa tutto!” esclamò una bambina con i capelli raccolti in un codino.         
“non è vero!” piagnucolò la sorella “sei tu che sei troppo spericolata!”             
Sophia scoppiò a ridere, eccitata per quell’attributo che interpretò come complimento e, a conferma delle parole usate dalla sorella, si lanciò dall’altalena.  
“attenta!” le gridò la sorellina che si stava dondolando dolcemente. 
Sophia volò per un paio di metri per poi rotolare a terra sulla sabbia morbida. Erin preoccupata le corse incontro, scendendo cautamente dall’altalena. 
“Sophia! Sophia! Rispondimi!” la supplicò con la tenera vocina di una bambina di otto anni.
Scosse la sorella per le spalle e quando la voltò, vide che stava trattenendo le risate.
“non prendermi in giro! Sei stupida!” borbottò Erin offesa, allontanandosi da quella piccola burlona. 
“eddai Erin! Come sei permalosa” minimizzò la gemella, scrollandosi la sabbia di dosso.

 
“perché devi sempre farci preoccupare così Fia?” la rimproverò teneramente, stringendole delicatamente la mano abbandonata lungo il fianco.
Seguì con lo sguardo il percorso del tubicino della flebo che dal braccio arrivava fino al contenitore sospeso in alto, accanto al letto della sorella.
ti ricordi quello scherzo stupido che facevi spesso quando eravamo bambine? Mentre giocavamo, fingevi di ferirti seriamente e di essere in punto di morte. Tonta e ingenua come sono sempre stata, ci cascavo ogni volta e mi mettevo a frignare per te. Tu poi scoppiavi a ridere ed io mi arrabbiavo.
Dopo un po’ ho smesso di crederti e di piangere, perché ero stanca delle tue burle… però ora non sai quanto vorrei che mi prendessi in giro un’ultima volta”
Sophia non si mosse, né reagì in alcun modo.
Nemmeno la lacrima solitaria che le bagnò il dorso della mano sortì alcuna reazione nella paziente.
Il suono regolare dei macchinari e le indicazioni incomprensibili sui vari monitor, confermavano che nulla era cambiato.
Erin asciugò con un gesto delicato ma deciso quella goccia salata che sparì all’istante. Magari sarebbe così semplice cancellare anche lo strazio che le impregnava il cuore.
L’elettrocardiogramma segnava un battito regolare ma, Erin lo sapeva, sempre più insufficiente per la sorella.
Rimase lì per qualche altro minuto, in silenzio, accarezzando con dolcezza quella mano così simile alla sua. Aveva così tanto da dirle eppure ogni parola le sembrava inappropriata in quella circostanza.
Dopo un po’ entrò l’infermiera, così Erin fu costretta a salutare la sorella, posandole delicatamente le labbra sulla fronte, come aveva fatto sua madre poco prima.
 
Quando tornarono in sala d’aspetto, trovarono Pam impegnata in una conversazione con Jason. L’uomo era davanti a lei e le sorrideva colpevole mentre lei manifestava tutta la sua preoccupazione:
“si può sapere quanto hai corso?”
Proprio a causa dell’alta velocità si trovavano in quell’ospedale e non avrebbe potuto sopportare che anche al suo ragazzo accadesse qualcosa del genere, anche perché era stata proprio lei a chiamarlo.
“non preoccuparti. Non c’era nessuno per strada” la tranquillizzò lui mentre la ragazza affossava il viso nelle larghe spalle del suo compagno.
Sapeva di averne bisogno ma solo quando si sentì cingere dal suo abbraccio, capì quanto quella necessità fosse disperata. Ora poteva permettersi di sfogare anche lei le sue lacrime.
I Travis assistettero all’intera scena da lontano:
“aspettiamo un po’ qui. Lasciamoli soli” mormorò Peter.
Né Erin né Amanda si sorpresero per quella richiesta. In un momento del genere, persino l’uomo riusciva ad accantonare la sua incredibile gelosia verso le donne della sua famiglia.
In cuor suo cominciava ad accettare che un altro uomo fosse entrato nella vita della sorella e da quello che poteva vedere, avrebbe lasciato Pam in buone mani.
 
Una volta a casa, Jason e la sua ragazza si ritirarono nella stanza della donna dove lei gli raccontò per filo e per segno ciò che non aveva potuto dirgli in ospedale; tale scelta fu motivata anche dalla necessità di lasciare da soli i coniugi Travis che si erano riuniti attorno al tavolo da pranzo. Nonostante fossero le cinque del mattino, nessuno dei due aveva sonno e discutere dell’eventuale intervento della figlia era la loro priorità.
Erin invece salì al piano superiore, consapevole che non avrebbe potuto dare alcun contributo in merito a quella scelta. Entrò nella sua stanza e si abbandonò di peso sul letto, facendo scricchiolare le assi lignee della rete. Si collegò ad internet dal cellulare e controllò la posta: nessuna risposta.
Verificò poi il fuso orario e calcolò che a quell’ora a Berlino erano le undici del mattino.
Chissà cosa stava facendo Castiel e chissà cosa le avrebbe risposto. Non poteva credere che in un momento del genere, il rosso fosse così insensibile da non farlo.
Rilesse la mail che gli aveva mandato nell’apice del suo sconforto e si stupì lei stessa per quelle parole che le erano venute dal cuore:
 
“in questo momento sei l’unica spalla su cui vorrei piangere”
 
Quelle parole spaventosamente vere e frutto della sua fragilità ma non le avrebbe mai pronunciate se fosse stata in sé. Ormai la mail era stata inviata e non aveva bisogno di sommare altre preoccupazioni a quelle che già sovraffollavano la sua mente.
C’era un che di paradossale nel fatto che l’unica persona che potesse alleviare la sua depressione fosse anche l’unica che non potesse raggiungerla.
 
“Erin smettila di frignare! Possibile che tu non sappia fare altro?”
La bambina si strofinò gli occhi umidi, incespicando verso la sorella che come lei, aveva da poco compiuto dodici anni.
“come fai a non piangere mai Soffy?”mormorò, osservando rammaricata i gomiti sbucciati.
“non chiamarmi Soffy!” la rimproverò la gemella portandosi le mani sui fianchi “non lo sopporto! Già mi devo cuccare ‘sto nome da vecchia”
Erin sorrise, dimenticando all’istante il motivo per cui le lacrime le avevano attraversato il viso.
“solo perché hai lo stesso nome della nonna non significa che sia da vecchia, anzi è un nome bellissimo!… e poi nemmeno a me piace il mio nome però non mi lamento quanto fai tu”
“allora scambiamocelo!” ribattè Sophia, illuminandosi come una lampadina.
“ma lo facciamo già quando siamo in vacanza” obiettò la gemella, guardandola con perplessità.
“e io dico di farlo per sempre!” insistette l’altra.
“per sempre?”
“sì, vedrai, mamma e papà non se ne accorgeranno” le promise facendole l’occhiolino.
“perché queste idee strampalate vengono solo a te?” rise Erin.
“perché sono la più intelligente”
“non è vero, hai dei pessimi voti”
“perché non mi applico, lo dice sempre la prof!” ripeté Sophia con un ingiustificabile orgoglio.
Cominciò ad incamminarsi verso casa, poiché ormai si era stancata di giocare nel cortile del condominio in cui abitavano. Erin si affrettò a seguirla per non rimanere indietro.
“perché non ammetti invece che sono più brava di te a scuola?” la stuzzicò.
“beh, io allora sono più brava nello sport di squadra!” si difese Sophia aprendo il cancello.
Insoddisfatta per quel pareggio, la gemella aggiunse:
“io sono più perspicace”
“e cosa vuol dire?” chiese la sorella candidamente, ammettendo spudoratamente la propria ignoranza.
“che vedo le cose prima degli altri”
Sophia scoppiò a ridere ed esclamò:
“tu così? Ma se hai due fette di salame sugli occhi! Non riconosceresti mai il famoso principe azzurro di cui parli sempre neanche se ci sbattessi contro!”
“e invece sì, perché so esattamente come è fatto…”
“biondo, occhi color oro, gentile, premuroso bla bla” recitò a memoria Sophia, canzonando la sorella per le sue fantasie di bambina.
“e il tuo com’è?”
“il mio? Ma ti pare che io credo a queste cose qua! Sei proprio una sempliciotta Erin”
“non è vero!”
“invece sì! I principi azzurri non esistono… e poi scusa… chi ha bisogno di loro?”
Erin aprì la bocca per replicare ma non seppe cosa aggiungere, mentre Sophia si allungava sulle punte per suonare un campanello posto in alto:
“ma Sophia, quello non è il nostro, è quello della signora Dixon!” la avvertì la gemella con apprensione.
La sorella si voltò con un sorriso furbetto ed esclamò, spingendola via di gran fretta:
“appunto, quindi…. CORRRIAMO!”
Le due ragazzine scapparono ridendo, lasciandosi alle spalle una voce gracchiante che proveniva dal citofono:
“chi è?”
 
“allora hai capito? Tu sei me e io sono te”
“magari” sussurrò Erin con un sorriso triste.
“hai detto qualcosa?” chiese Sophia incuriosita, voltandosi verso la sorella.
La vera Erin scosse il capo e la seguì.
Quella stessa sera, Sophia riuscì a convincerla a mettere in atto il suo piano. Le due gemelle avevano lo stesso taglio di capelli, lo stesso viso, la stessa corporatura. Gli unici elementi che permettevano di distinguere l’una dall’altra erano il carattere e l’abbigliamento; quest’ultimo nel caso di Erin era più femminile e curato mentre nel caso di Sophia era rappresentato rigorosamente da tute da ginnastica.
“ma come fai a vestirti così?” borbottò la finta Erin, stropicciando la gonna che era stata costretta a mettersi.
La gemella schioccò le labbra, offesa e si rassegnò ad assecondare Sophia mentre faceva il suo ingresso nella sala da pranzo.
 “mamma che c’è da mangiare?” chiese la finta Erin con non curanza.
Amanda, sin da quando le aveva viste entrare, fissò con curiosità le figlie, alternando lo sguardo dall’una all’altra:
“te l’ho detto dieci minuti fa Sophia”
“ma io sono Erin!”
La donna ridacchiò, intuendo le intenzioni delle due:
“immagino quindi che tu sia Sophia” convenne, rivolgendosi ad Erin.
Quest’ultima annuì, sorridendo con gli occhi per il fatto che la madre non le avesse confuse.
Amanda conosceva le sue figlie, non sarebbe bastato un semplice scambio di vestiti per metterla in difficoltà.
Sophia però continuò imperterrita la sua recita. Se c’era una cosa in cui non era mai stata brava, era capire quando doveva arrendersi:
“Sophia dopo giochiamo a Memory?”
“va bene Erin”
La madre sorrise pazientemente senza dare minimamente corda a quello scambio di battute.
Delusa da quel primo fallimento, Sophia fu ben felice di notare l’ingresso del padre.
In quegli anni Peter era stato da poco assunto alla piscina comunale come istruttore e rincasava all’ora di cena. Salutò sbrigativamente le gemelle che risposero a modo loro a quel saluto e si accostò alla moglie.
“papà, dopo io e Sophia giochiamo a Memory, giochi con noi?”
“va bene Sophia”
“ma io sono Erin!” protestò la finta Erin, sempre più delusa dall’insuccesso della sua trovata.
Il padre rise sommessamente:
“pensate davvero che vi basti scambiarvi gli abiti perché il vostro papà non vi riconosca?”
Sophia si accigliò mentre Erin era divertita dall’ennesimo progetto naufragato della sorella. Ma non solo. Era orgogliosa dei suoi genitori che, senza esitazione, avevano saputo distinguerle. Diversamente da Sophia, Erin si aspettava un epilogo del genere, tuttavia c’era una cosa che non aveva chiara:
“come fai a distinguerci?” chiese al padre con curiosità.
“beh ci sono tante piccole cose che vi rendono diverse tesoro: in questo caso per esempio, appena sono entrato tu ti sei  voltata verso di me sorridendomi dolcemente invece tu, piccola peste” disse scompigliando amorevolmente i capelli di Sophia “mi hai risposto con quella zampetta alzata… mica sono un cane”
“a proposito papà, comprami un cane ti prego!” lo supplicò la ragazzina arrampicandosi sul collo dell’uomo, abbandonando completamente il suo piano bislacco.
“NO! quante volte devo ripetertelo? “
“talmente tante che ti stancherai e alla fine cederai!”
Amanda ed Erin scoppiarono a ridere, mentre Peter cercava di mantenere un atteggiamento serio e inflessibile. Distratta da quelle risate, Amanda non si accorse del sugo che stava bruciando e tolse rapidamente la padella dal fuoco. Con il cucchiaio di legno cercò di eliminare l’incrostazione e si assicurò che non avesse rovinato il sapore della salsa.
Nel frattempo Peter aveva cominciato a giocherellare con Sophia, alzandola di peso per scaricarla sul divano. Con le risate di sottofondo della bambina, Amanda sentì che l’orlo del grembiule da cucina veniva tirato a intermittenza verso il basso.
Abbassò lo sguardo e incrociò gli occhi teneri della sua figlia più timida e introversa:
“mamma” la chiamò Erin “e tu come fai a distinguere me da Sophia?”
La donna sorrise dolcemente e dopo aver controllato la fiamma, si accucciò all’altezza della figlia:
“vedi Erin, quando entrate in una stanza, Sophia è sempre un passo davanti a te”
A quelle parole, Amanda vide chiaramente che il volto della figlia si era rabbuiato: Erin aveva annuito comprensiva, si era allontanata dal fornello per poi sedersi in tavola ad aspettare pazientemente che la cena fosse servita.
Anche se cercò di non darlo a vedere, alla psicologa non sfuggì che c’era qualcosa che impensieriva la ragazzina e ne ebbe la conferma quando, finito di cenare, si rifiutò di giocare con la sorella per starsene da sola in camera. Sophia, che di natura detestava impicciarsi degli affari altrui, lasciò alla sorella il suo spazio e monopolizzò le attenzioni del padre che a malincuore, accettò la sfida a Memory. Contro le sue figlie, il padre perdeva sempre perché non aveva trasmesso loro quell’incredibile memoria fotografica che accumunava le due gemelle.
 
Peter sospirò rassegnato.
Non riusciva a riconoscere la donna che era seduta davanti a lui.
Amanda aveva uno sguardo perso nel vuoto e ripeteva sempre le stesse parole:
“la perderemo comunque Peter. Almeno lasciamola vivere qualche giorno in più, così da poterla salutare. Non posso accettare di mandarla a morire sotto i ferri. Preferisco esserle accanto quando si spegnerà”
Il marito non riusciva a ragionare.
Da un lato gli sembrava che sua moglie avesse ragione: se avesse autorizzato l’intervento, questo sarebbe stato eseguito subito, lasciando appena pochi minuti alla famiglia per salutare la ragazza prima di anestetizzarla.
D’altro canto, se non l’avesse fatto, non avrebbe più considerato lo scorrere del tempo quale percorso in avanti ma come un angoscioso conto alla rovescia.
In una parola, Peter Travis era sconfitto. In passato era sempre Amanda quella che riusciva a sorreggerlo nelle situazioni più tragiche, come quando era morto suo padre.
Ora Peter si trovava da solo a combattere una battaglia che non aveva nessuna forza per affrontare.
 
Amanda salì le scale e fece capolino nella stanza della figlia:
“tesoro, che c’è? Sei stata molto silenziosa a cena”
Erin richiuse il diario che stava scrivendo e lo nascose in un angolo della scrivania.
“niente”
“lo sai vero che non mi si può nascondere niente?”
Erin perpetuò il suo mutismo, mentre Amanda finse di trovare qualcosa da fare in quella stanza. Dapprima sistemò il cuscino, poi distese per bene le lenzuola, riordinò i peluche di Sophia e mise comodamente seduto il vecchio bambolotto di Erin.
Sapeva che prima o poi la figlia sarebbe sbottata, doveva solo trovare delle occupazioni che le permettessero di prendere tempo.
“io sono l’ombra di Sophia mamma?”
Amanda si voltò, sorpresa non tanto per la velocità con cui Erin aveva rotto il silenzio, quanto per la frase che era uscita dalle sue labbra. Sua figlia era seduta davanti alla scrivania e la guardava con intensità, quasi volesse supplicarla di indovinare la risposta che voleva sentirsi dire:
“l’ombra di Sophia?” ripeté la psicologa incerta.
“hai detto che sono sempre dietro di lei… è così che mi vedi?”
 
La povertà del suo linguaggio di ragazzina l’aveva ostacolata nello spiegare alla madre come si sentiva. Dalle parole di Amanda, Erin ne aveva dedotto che la donna la considerasse una proiezione sbiadita e incolore della sorella. Niente di speciale e niente che potesse essere riconoscibile, a meno che non fosse paragonato a Sophia, la sua luce.
 
 Amanda smise di destreggiarsi per la stanza e invitò la bambina a sedersi sul letto accanto a lei, invito però che Erin ignorò. Si rassegnò allora a mantenere quella distanza tra di loro:
“non mi sono spiegata bene tesoro” cominciò, portando le mani in grembo “è vero che quando siete insieme, lasci sempre che sia Sophia a precederti, ma questo non significa che io ti veda come la sua ombra. Tu sei Erin e sei speciale a modo tuo”
“e in che modo?” incalzò la ragazzina, poco convinta. Amanda sapeva cosa stava cercando di fare: sua figlia aveva bisogno di certezze e lei sorrise sapendo di potergliele dare.
“tu Erin sei quella che nei momenti difficili non crolla mai”
“ma io piango spesso!” obiettò Erin frustrata. Non voleva che la madre si abbassasse a dire delle assurdità pur di consolarla.
“è vero, ti capita di piangere per delle sciocchezze” riconobbe Amanda, spiegando con pazienza il suo punto di vista “spesso gli altri bambini si approfittano della tua bontà e speri che intervenga tua sorella a difenderti” continuò, mentre Erin abbassava il capo, sentendo elencare tutti i lati del suo carattere di cui più si vergognava “ma tutto questo non ha a che fare con la vera forza tesoro…ciò che dice di te il tuo comportamento è che sei una ragazzina sensibile, che hai un animo troppo nobile e ingenuo per credere nella cattiveria delle persone e che ti fidi ciecamente di tua sorella…”
“questa è debolezza mamma! Finchè tutti mi vedranno come quella che si appoggia a Sophia, sarò sempre e solo la sua brutta copia” sputò con tono recriminatorio, quasi la donna ne avesse colpa.
 Amanda sospirò sorridendo dolcemente.
“il tuo vero ostacolo Erin è che vorresti essere Sophia, eppure sei una persona meravigliosamente diversa da lei. Lo so che la ammiri molto ma anche tu hai qualcosa che suscita l’ammirazione di tua sorella… ti ricordi cos’è successo quando è morto il nonno?”
“siamo andati al cimitero?” mormorò Erin senza capire a quale conclusione volesse giungere la madre.
“sì certo, ma non mi riferisco a questo: alla veglia del nonno tua sorella era inconsolabile. Non la smetteva di piangere e disperarsi finché non ti sei avvicinata tu e l’hai abbracciata in silenzio.
Mi avete fatto una tenerezza immensa quella volta tesoro… proprio tu, che normalmente piangi per ogni cosa, avevi quell’aria così dignitosa, forte e facevi l’impossibile per trattenere le lacrime perché in quel momento dovevi raccogliere quelle di tua sorella.
Da lì ho capito Erin: tu sei quel tipo di persona su cui si può contare nel momento del bisogno, quando davvero le lacrime sembrano l’unica alternativa e a quanto pare non solo io la penso così”
La figlia la guardò incerta così Amanda proseguì:
“quella sera stessa trovai Sophia in camera, intenta a disegnare. Era molto più serena e questo mi rincuorò così cominciammo a chiacchierare”:
 
“è tutto merito di Erin mamma. Per una volta non sono stata io a consolare lei”
La donna accarezzò la schiena della figlia e replicò amorevolmente:
“oggi siete riuscite a farmi sorridere anche se non ne avevo nessuna voglia tesoro”
Sophia si voltò, con una smorfia dolce che era raro vedere in quel viso dall’aria perennemente canzonatoria.
“sai mamma oggi ho scoperto una cosa molto importante…”
“e che cosa?”
“che potrò sempre contare su mia sorella… Erin è il mio pilastro”
 
Dopo che sua madre le aveva riferito quelle parole, Erin era arrossita, sorridendo leggermente.
Per la prima volta nella sua vita si era sentita apprezzata dalla sorella e quella sensazione, oltre che appagante, era stata un’iniezione di autostima.
Tuttavia custodì dentro di sé quella consapevolezza, senza mai parlarne con Sophia.
Riconosceva che in passato c’erano state delle occasioni in cui era riuscita a tirare fuori una forza che aveva sorpreso lei stessa, quando invece la gemella si era abbandonata allo sconforto, ma Erin non pensava di meritarsi tutta quella fiducia da parte di Sophia.
Sentì dabbasso dei mormorii indistinti e ricordò che in quel momento i genitori stavo discutendo sulla sorte della sorella, mentre lei si era defilata nella sua stanza, chiudendosi all’interno come se la questione non la riguardasse.
Non era questo il comportamento che Sophia si sarebbe aspettata da lei: ora più che mai Erin non poteva permettersi di essere quella persona piena di dubbi e insicurezze che deve ricercare l’appoggio di qualcuno.
Era arrivato il momento di dimostrare che sua sorella non si era sbagliata: lei, Erin, l’avrebbe sorretta.
Balzò in piedi, ignorando il giramento di testa dovuto al cambio repentino di posizione e rotolò giù per le scale. Stava per entrare in cucina, quando le parole della madre la trafissero come un proiettile:
“morirà in ogni caso… almeno lascia Peter che lo faccia tra le mie braccia” singhiozzava Amanda disperata. Il marito non sapeva più dove sbattere la testa, arreso di fronte alla rassegnazione della madre di sua figlia.
“dobbiamo farla operare!” dichiarò Erin con il cuore in gola.
Peter e Amanda sussultarono, voltandosi verso la ragazza che avanzò, portandosi davanti a loro. mentre negli occhi dei due coniugi si leggeva la sconfitta, in quelli di Erin c’era la determinazione a scendere in campo e affrontare l’ultima pericolossissima battaglia:
“Sophia avrebbe voluto questo ne sono sicura! Non avrebbe mai accettato di rinunciare senza tentare il tutto per tutto. Se anche l’operazione non andasse come speriamo, almeno non dovremo vivere con il rimorso di non aver tentato”
“ma tesoro, le probabilità sono” boccheggiò Amanda.
“non mi interessano le probabilità mamma!” ringhiò la mora, sbattendo le mani sul tavolo.
La madre sgranò gli occhi, incapace di riconoscere nella donna davanti a sé quella figlia così fragile e dolce “so che il terrore di perderla ti sta facendo sragionare, ma la perderemo comunque se non facciamo nulla” continuò Erin risoluta.
Anche Jason e Pam, destati da quella discussione, uscirono dalla stanza in cui si erano rifugiati e ascoltarono senza intervenire le parole della ragazza
“preferisco scegliere l’improbabilità di allungarle la vita per altri sessant’anni che la sicurezza di lasciarle un paio di giorni in mezzo a noi… nemmeno il dolore di averla persa sarà più straziante del dubbio di non aver tentato di salvarla”
In cucina piombò il silenzio.
Erin era paonazza, il cuore le batteva a mille e gli occhi le brillavano, quasi a riflettere la sua lucidità di pensiero. Amanda aveva le labbra socchiuse, spiazzata da quella reazione così inaspettata e risoluta mentre il marito, dopo un iniziale sbigottimento, si alzò in silenzio.
Aggirò il tavolo e si portò davanti alla figlia. Abbracciò Erin come non aveva mai fatto in vita sua, quasi invertendo i ruoli stabiliti dalla gerarchia familiare: le parole della ragazza gli avevano infuso un senso di sicurezza comparabile a quello che può trasmettere un adulto ad un bambino insicuro.
Peter non aveva bisogno di parole per spiegarle cosa pensasse in quel momento.
La figlia rispose a quella stretta aggrappandosi al maglione del padre e si staccò da lui solo quando ebbe la percezione che anche sua madre volesse ricevere la sua attenzione:
 “sei cresciuta così tanto tesoro” mormorò Amanda “scusatemi, tutti e due. La disperazione mi ha fatto uscire di senno… tutta questa situazione mi ha distrutto”
Le lacrime della donna avevano smesso di rigarle il viso e il suo sguardo era determinato e risoluto:
“le parole di Erin sono le più sensate che ho sentito nelle ultime ore” riconobbe, avvicinandosi anche lei alla figlia. Le sorrise con gratitudine e le portò una mano sulla spalla:
“forse sarebbe bastato ricordarmi chi è il vero pilastro di questa famiglia”.

 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Temo che questo titolo alla Scrubs sia stato piuttosto forviante :-/… qualcuna di voi pensato che Castiel sarebbe tornato a sostenere Erin?
Mi dispiace se vi ho deluso però con questo capitolo (e titolo) volevo segnare una “pietra miliare” del cambiamento della protagonista, la cui maturazione è stata un crescendo per tutta la storia.
È stata quindi Erin a giocare un ruolo determinante nella scelta se operare Sophia o meno.
 
Come mi avete fatto notare nelle recensioni, nel capitolo precedente è stata Pam a tirare fuori una forza inaspettata ma non potevo lasciare che si addossasse il peso dell’intera faccenda… penso sia molto più attinente al suo carattere che prima o poi crollasse e quindi ecco che chiama il suo Jason.
 
Comunque ora che è ufficialmente finito il mio “periodo di cazzeggio puro”, devo ammettere che questo venerdì ha fatto presto ad arrivare e se non fosse perché avevo già il capitolo pronto, (mi bastava solo sistemarlo qua e là), non so se sarei riuscita a rispettare la scadenza che mi ero imposta di pubblicarlo entro oggi.
Per il prossimo mi sono venute talmente tante idee che non so se scomporlo in due di corti o mettere tutto in uno lungo [so già la vostra risposta, ma non ci provate: un capitolo come quello del concerto non lo faccio più, mi ha distrutto XD)… mah… magari intanto lo comincio così nelle risposte alle recensioni (ormai su alcune di voi ci conto ;) potrò azzardare qualche previsione se mi chiederete quando lo metto (vero Lia? ;)]…
Ok dai, preparatevi perché il prossimo sarà un capitolo “impegnativo” (almeno spero di renderlo tale)…
Grazie per aver letto fino a qui :3
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** La speranza è un sogno fatto da svegli ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE
 
Il dottor Hogan mette i coniugi Travis di fronte ad una scelta: far affrontare a Sophia un rischiosissimo intervento a cuore aperto oppure lasciarle qualche giorno in più di vita, con la consapevolezza dell’inesorabilità della morte. Peter e Amanda sono disorientati: la donna non riesce ad accettare l’idea che nell’arco di un paio di giorni non vedrà più la figlia, così propende per tenerla in vita finchè sarà possibile; Erin invece ripensa alla sorella e ricorda un fatto accaduto anni prima che aveva portato Sophia a battezzarla “il suo pilastro”. Riscoprendo in sé una determinazione e forza insospettabili, la ragazza si precipita dai genitori e riesce a persuaderli a tentate l’intervento.

 
 


 
CAPITOLO 35:
LA SPERANZA È UN SOGNO FATTO DA SVEGLI

 
“siamo stati compagni di stanza all’università. Già all’epoca si vedeva che era uno sopra la media”
“pensi che accetterà di addossarsi la responsabilità di un simile intervento? Del resto dovresti contattarlo subito affinché domani la ragazza possa essere sotto i ferri”
“beh, New York dista un’ora e mezza di auto da qui… se accettasse, il problema non sarebbe il tempo quanto la burocrazia: bisognerebbe sentire se la struttura in cui opera in Inghilterra gli concederà l’autorizzazione per questo intervento”
Il dottor Hogan sospirò pesantemente:
“non so se valga la pena avvertire i Travis di questa possibilità dal momento che è così remota”
Il suo collega si sporse dall’altro lato della scrivania, schiacciando entrambe le mani contro la superficie liscia.
“senti Edward, facciamo così” affermò risoluto il “io lo chiamo e vediamo cosa mi dice. Tu nel frattempo senti cosa hanno scelto i Travis… verrò a riferirti la risposta di Wright appena sarò riuscito a mettermi in contatto con lui”
 
Quella mattina, nonostante il deficit di sonno che accumunava quelle cinque persone, la famiglia Travis si presentò alle dieci in punto in ospedale.
Pam e Jason erano saliti con la macchina del ragazzo e si erano adattati ad attendere i familiari nella sala d’attesa. Erin seguì i genitori fino allo studio del dottor Hogan, in cui il medico li stava aspettando.
 
Il medico guardò intensamente le tre persone davanti a lui. Il capofamiglia gli aveva appena concesso l’autorizzazione ad operare la figlia.
 “è quello che avrei fatto io” affermò Hogan e dopo qualche ulteriore scambio di battute, si congedò dalla famiglia Travis per predisporre le procedure finalizzate al trasferimento di Sophia all’ospedale di Allentown che sarebbe avvenuto nel pomeriggio.
L’operazione sarebbe stata eseguita l’indomani mattina, alle dieci, esattamente a ventiquattr’ore di distanza da quel colloquio.
 
Una volta ricongiuntisi a Pam e Jason, i Travis li aggiornarono su quanto era stato loro comunicato e stabilirono di recarsi tutti insieme nel pomeriggio a trovare Sophia all’ospedale di Allentown.
“il dottor Hogan ci ha assicurato che sarà sveglia, l’importante è non farla affaticare” si raccomandò Peter poi guardò la moglie e la figlia e le esortò a seguirlo in macchina per tornare a casa. Non c’era altro che potessero fare in quell’ospedale che presto anche la loro Sophia avrebbe lasciato.
Jason e Pam invece, che quella mattina non erano riusciti a fare colazione, affermarono che si sarebbero intrattenuti al bar e li avrebbero raggiunti successivamente.
Alla coppia allora si unì anche Erin, dal momento che doveva andare in bagno, così i suoi genitori si incamminarono verso il parcheggio, con la speranza di riuscire a recuperare qualche ora di riposo una volta a casa.
 
Erin percorse i corridoi, quegli stessi che poche ore prima aveva attraversato con il cuore dilaniato. L’inquietudine non l’aveva di certo abbandonata ma ora che era stata presa una decisione, sentiva che in lei era germinata una piccola speranza.
 
Una volta uscita dal bagno, passò per la sala d’attesa del secondo piano da cui avrebbe preso l’ascensore per raggiungere la zia al bar.
Superò un poster appeso alla destra del suo campo visivo ma anziché tirare dritto, si arrestò: il manifesto pubblicizzava un’importante fondazione di privati nata per sostenere la ricerca scientifica. Nella seconda parte del foglio si elencavano le varie linee di ricerca in cui erano destinati i fondi raccolti e la ragazza li lesse con attenzione:
“per fortuna che c’è ancora qualcuno che presta attenzione a queste cose” commentò una voce maschile alle spalle di Erin.
La ragazza si voltò, trovandosi davanti un uomo non particolarmente alto, sotto il metro e settantacinque che la guardava con curiosità. Non poteva definirsi bello ma nei suoi occhi c’era qualcosa di tremendamente affascinante e carismatico, così come nei lineamenti virili del volto. Aveva una mascella squadrata, un mento largo e la fronte spaziosa, solcata da due segni orizzontali.
 “l’ho spaventata?”
“n-no… spaventata no” chiarì Erin “mi ha preso alla sprovvista… diciamo che mi ha sorpresa” ammise infine, cercando di riprendersi dall’imbarazzo.
“veramente è lei che ha sorpreso me. Stava osservando con molto interesse questo poster. Si è addirittura avvicinata a leggere le parole qui in basso” spiegò l’uomo, indicando dei caratteri in piccolo.
Erin si grattò la guancia, incapace di giustificare l’interesse che quello strano tizio le stava dedicando.
Non sembrava avere più di cinquant’anni ma quella differenza di età più che allarmarla, la metteva in soggezione. Era decisamente una persona singolare se si fermava a parlare con una ragazza solo perché aveva scoperto quest’ultima a fissare un poster.
“la verità è che questo è un settore in cui mi piacerebbe lavorare” spiegò Erin. Anche se avevano scambiato appena un paio di battute, quell’uomo aveva un’aria rassicurante al punto da concederle una certa confidenza.
“la ricerca scientifica?” ripetè lui piacevolmente sorpreso.
“esatto”
L’uomo annuì e le diede le spalle, allontanandosi verso il corridoio:
“allora le auguro di realizzare il suo sogno signorina”
Erin si morse il labbro e ribatté:
“non è un sogno”
A quell’obiezione l’uomo fu costretto a girarsi, tornando a fissare la sua giovane interlocutrice.
“come prego?”
“non è un sogno” ripetè la ragazza con convinzione “è un’ambizione… è il traguardo a cui arriverò. Non sono più così piccola da potermi permettere di parlare di sogni”
Lo sconosciuto rimase senza parole, poi sorrise leggermente, confondendo la ragazza per quella smorfia così affettuosa, quasi familiare.
“è stato un piacere scambiare quattro chiacchiere con lei signorina” concluse con un sorriso gentile e tornò a incamminarsi nella direzione che aveva intrapreso.
Erin fissò quelle larghe spalle farsi sempre più piccole man mano che la figura si allontanava da lei. Spostò poi lo sguardo verso il manifesto e sorrise leggermente.
 
Anche se le quattro del pomeriggio sembravano non arrivare mai, finalmente i Travis si trovarono di fronte alla porta della stanza di Sophia.
Nell’ospedale di Allentown era stata trasferita in una stanza speciale di cardiologia dove ogni macchinario era predisposto per interventi analoghi a quello a cui sarebbe stata sottoposta la paziente il giorno successivo.
La famiglia inspirò profondamente.
Prima di entrare l’infermiera che aveva preparato la ragazza li aveva avvertiti che Sophia era sveglia ma che non poteva affaticarsi troppo.
La prima ad entrare in quella stanza fu Erin.
Oltre la parete del bagno, finalmente la vide.
 
Distesa su quel letto bianco e anonimo, c'era Sophia. La sua Fia.
Il materasso era stato rialzato in corrispondenza della zona toracica in modo che la paziente potesse stare comodamente seduta.
Dietro ad Erin comparvero i genitori che a stento trattenevano l'emozione mentre Pam chiudeva le fila.
Il quartetto era un crogiolo di sentimenti che andavano dalla commozione alla gioia. Nessuno sapeva cosa dire o forse, aspettavano tutti che fosse la paziente a parlare.
“yo!” li salutò scherzosamente Sophia, lasciando per un attimo basiti i suoi visitatori.
Era la ragazza di sempre: con il sorriso perennemente stampato sulle labbra e una leggerezza nei comportamenti che rasentava la sfrontatezza.
“ti sembra questo il modo di salutare la gente?” ridacchiò Erin.
In quella particolare circostanza tutte le domande e le accuse che per mesi aveva indirizzato alla gemella erano scomparse. Le mani le sembravano prudere tale era il desiderio di lanciare le braccia al collo, tuttavia doveva desistere dal compiere azioni avventate, che potessero compromettere la delicatissima salute della sorella. Nonostante il suo viso allegro infatti, Erin notò gli occhi stanchi circondati da occhiaie violacee.
Sophia scrollò le spalle.
“embè, che dovrei fare? Quelle facce da funerale che avete voi? Su con la vita!” sdrammatizzò.
La sorella rise e con lei il resto della famiglia. Sembrava che tutti avessero dimenticato di sollevare lo sguardo verso quella tremenda spada di Damocle che pendeva sopra il corpo della giovane paziente.
“come stai amore?” le chiese Amanda accarezzandole i capelli.
“ho il cuore a mille”
La madre le lanciò un’occhiataccia, incapace però di rimproverarla.
“sei sempre un vulcano Sophia” commentò Pam.
“a proposito zia, di chi era la voce con cui stavi parlando prima?" si incuriosì  "ti ho sentita salutare qualcuno prima di entrare”
Pam arrossì mentre Erin la aggiornò con tono malizioso:
“la zia si è trovata il ragazzo”
La gemella spalancò gli occhi e con essi anche la bocca, tale era la gioia che una simile notizia aveva suscitato in lei:
“oh, quindi mi hai portato uno zio? Perché non me lo presenti?”
“i dottori si sono raccomandati di non farti affaticare tesoro” intervenne il padre, che per tutto quel tempo non aveva aperto bocca.
“mica devo fare un incontro di sumo contro di lui” obiettò la figlia, facendo sorridere tutti “mi basta vedere come è fatto”
“è molto carino” le sussurrò la madre, guadagnandosi un cipiglio alzato da parte di Peter.
Pam sorrise e uscì dalla stanza per andare a recuperare Jason. Dopo un rapido scambio di battute, i Travis sentirono dei passi e il rumore della porta che veniva aperta.
Quando il veterinario entrò nella stanza, Sophia emise un fischio di apprezzamento, osservando quel giovane uomo alto e affascinante accanto alla zia.
Jason sorrise lievemente in imbarazzo a causa di tutte quelle attenzioni che si erano concentrate su di lui e si presentò:
“piacere di conoscerti, sono Jason”
La paziente sollevò l’avanbraccio, gesto tipicamente suo per salutare le persone e ricambiò i convenevoli:
“Sophia… tu Jason che lavoro fai?”
“sono un veterinario”
La ragazza si voltò istantaneamente verso il padre e affermò convinta:
“papy, mi iscriverò a veterinaria!”
Le donne risero sommessamente, mentre Peter sbottò:
“quando la smetterai di prendere decisioni a caso?”
“non mi hai mai voluto comprare un cane, così almeno ne avrò sottomano quanti ne voglio”
“non ha senso come ragionamento Fia” commentò Erin divertita.
Le sembrava assurdo, al limite del paradossale, quel clima allegro e sereno che sua sorella era riuscita a creare in quella stanza, nonostante la gravità dell'imminente intervento.
“allora diciamo che se tutti gli studenti di veterinaria sono come Jason, troverò sicuramente la motivazione per andare ai corsi” replicò prontamente Sophia.
Jason arrossì, spiazzato dai modi così diretti e spontanei della ragazza a cui invece la sua famiglia era fin troppo abituata. Tuttavia, nonostante il dono naturale della paziente di creare attorno a sé un’atmosfera festosa, Amanda non riuscì a trattenere una smorfia amara e ansiosa:
“non sei preoccupata tesoro? Il dottore è venuto a spiegarti-“
“so già tutto” la interruppe la figlia, guardandola dritta negli occhi “so quanto è rischioso ma lo voglio fare… anche se quel 2% di probabilità mi sta un po’ sulle palle” ammise, ma questa volta nessuno dei presenti ridacchiò o la rimproverò per quel linguaggio.
Indistintamente, tutti scrutavano la giovane paziente con un'espressione rammaricata e solidale.
“eddai! Se non sono preoccupata io, non dovete esserlo voi!” li incoraggiò, gesticolando animatamente “e poi lo sapete che io odio omologarmi alla massa, mi piace essere l’eccezione… vedrete… rientrerò in quel piccolo 2% che ce la fa” promise, facendo l’occhiolino.
Avrebbero voluto credere che il destino di quella ragazza fosse davvero nelle sue mani e che bastasse la sua eccentricità a strapparle dalla morte, ma non potevano certo lasciarsi convincere da una simile battuta.
Se non altro Sophia era serena: era pronta ad affrontare l'imminente intervento con coraggio e ottimismo, tali da contagiare in parte anche i suoi familiari.
 
Dopo un po' entrò nella stanza un'infermiera e li invitò a lasciar riposare la giovane paziente.
A turno abbracciarono Sophia che, approfittò della situazione per guadagnare una stretta anche da Jason.
L’avrebbero rivista l’indomani, prima di essere anestetizzata per l’operazione.
Prima che scomparisse dal loro campo visivo, la ragazza lasciò impressa nella mente della sua famiglia la luminosità di un sorriso che in diciassette anni non era mai cambiato.
 
Peter fu l’ultimo a chiudersi la porta alle spalle e cercò lo sguardo della moglie:
“ce la farà. È forte” le disse, stringendola a sé. I due coniugi non avevano bisogno di parlarsi per capire cosa pensasse l'uno e l'altra. Jason e Pam si incamminarono in testa a quella piccola processione, mentre Erin fungeva da silenziosa chiudi fila.
Non avevano fatto neanche dieci passi che richiamò l'attenzione della madre:
“mamma… ho dimenticato una cosa nella stanza di Sophia”
La psicologa si voltò e con lei il resto della compagnia:
“d’accordo, va pure a prenderla, ti aspettiamo qui”
“no, ci vediamo in sala d’attesa” li liquidò, tornando sui suoi passi.
Non aveva il tempo per spiegare alla madre che ciò che aveva dimenticato non poteva essere recuperato materialmente: Erin aveva semplicemente scordato quanto Sophia odiasse far preoccupare gli altri.
 
La ragazza aprì lentamente la porta.
Nella stanza non c’era traccia dell’infermiera ed Erin non pensò di annunciare la sua visita. In lei era annidato il presentimento che sua sorella si aspettasse di vederla nuovamente lì.  Era una sensazione indefinibile dalla logica ma solo chiamando in causa quel sentimento fraterno che lega persone cresciute insieme.
Sophia aveva la ginocchia al petto e la fronte appoggiata su di esse. Scrutarne l'espressione era impossibile, oltre che inutile: era disperata.
La giovane paziente avvertì un tocco delicato sfiorarle la schiena ma non alzò il capo. Non aveva bisogno di farlo per sapere che sua sorella era lì accanto a lei.  Sapeva che in un modo o nell’altro Erin avrebbe sentito le sue lacrime:
“perché fai sempre la dura Sophia?” la rimproverò dolcemente,  mentre la sua mano si muoveva con grazia su quelle spalle così curve e fragili.
Nella stanza quel silenzio così malinconico cominciò ad essere interrotto da singhiozzi intermittenti da parte di Sophia.
“ho paura Erin” mentre la sua schiena sussultava in modo irregolare.
“lo so” ammise la sorella, senza smettere di accarezzarla.
Sophia si asciugò gli occhi e finalmente sollevò lo sguardo.
Aveva gli occhi arrossati a causa di quelle lacrime salate e disperate, che si era sforzata di non versare davanti ai genitori:
“non lo dire a mamma e papà” le raccomandò.
“certo” la rassicurò Erin, sedendosi di lato sul materasso.
"perché a me Erin? Cosa ho fatto di male?" sbottò Sophia ad un certo punto "non sarebbe stato meglio morire sul colpo? A questo punto cosa vuoi che sia un 2% di speranza? Serve solo a prolungare l'agonia"
"non dire così Fia"
"cosa dovrei dire allora?" replicò la gemella, fuori di sé "la mamma può fare tutti i discorsi che vuole sulla religione e la fede, ma la verità è che se sono qui vuol dire che qualcuno vuole che io smetta di vivere e francamente questa realtà ineluttabile non la accetto"
Le lacrime e i singhiozzi le impedirono di proseguire, così Erin si limitò a stringerle la mano:
"ti sbagli Sophia... il fatto che tu sia ancora qui vuol dire che ti è stata data un'altra possibilità"
"è una possibilità inutile visto che non posso giocarmela Erin!"
"per te sarà anche inutile, ma per noi è l'unico scoglio al quale possiamo aggrapparci per non annegare nella disperazione... non mi vedrai piangere né disperarsi finchè non sarai uscita da quella sala operatoria"
Erin guardava la sorella dritta negli occhi, con determinazione. Aveva già versato le sue lacrime ora il suo dovere era quello di asciugare quelle della sorella.
"ricordati che ti sono vicina Fia. Lo dici sempre che ti sto troppo addosso... e non sono ancora pronta a lasciare la tua mano, perciò se cercherai di mollare la presa, ti stringerò più forte"
 


 
 
“mi scusi, sto cercando il primario”
L’infermiera alzò annoiata lo sguardo dalle cartelle che stava consultando. Ai pazienti e visitatori dell'ospedale non era chiaro che lei non era una segretaria e quel genere di informazioni non erano di sua competenza.
Bastava che la vedessero impegnata dietro quel banco e subito la trattenevano con richieste che non avrebbe potuto soddisfare.
L’uomo che aveva davanti la fissava dritta negli occhi, aspettandosi una risposta e lei si voltò verso un impiegato, quasi a scaricarli simbolicamente l'onere di occuparsi di quel visitatore.
Aveva altro di molto più importante da fare: il primario l'aveva avvertita che si sarebbe presentato il noto dottor Wright, un’eminenza del settore cardiochirurgico.
Appena si era diffusa la voce che l’illustre medico avrebbe varcato la soglia dell'ospedale di Allentown, tutto il personale era andato in fibrillazione. Voci di corridoio parlavano di un uomo basso e un po'ingobbito, ma dalla mente sveglia e attenta.
“mi dispiace ma è molto occupato” venne liquidato l'anonimo ospite dall'impiegato.
Di certo si trattava di un visitatore molto ingenuo se sperava di poter incrociare una simile autorità ospedaliera. L'impiegato venne poi distratto da una seconda figura che con non noncuranza, passò davanti al primo interlocutore.
Quest’ultimo però non si arrese né palesò l'irritazione per essere stato trattato in modo così sbrigativo:
“posso facilmente immaginare quanto sia occupato, ma vede, ho un appuntamento con lui” insistette, accavallando le sue parole su quelle della donna accanto a lui. Quest’ultima gli lanciò un'occhiata infastidita ma si limitò a tacere, consapevole di non essersi assicurata che l'uomo che la precedeva avesse chiuso la conversazione.
“ne dubito altamente” replicò acidamente l'infermiera “il primario oggi solo un appuntamento e si da il caso che sia con un noto dottore”
L’uomo sorrise pazientemente e replicò:
“mi scusi, mi rendo conto solo ora di non essermi presentato: sono il dottor Wright”
 
“quanto ci mette Erin? Sono dieci minuti che è lì dentro” calcolò Peter sedendosi su una delle sedie disposte nella sala d'attesa del reparto.
“evidentemente c’era qualcosa che doveva dire a Sophia” spiegò Amanda. Aveva ormai capito che sua figlia le aveva rifilato una scusa per poter restare un po' da sola con sua sorella. Anche Jason e Pam seguirono l'esempio di Peter e si accomandarono accanto a lui, mentre la moglie continuava a scrutare il corridoio. A quell'ora c'era un via vai di amici e familiari che avevano approfittato dell'orario delle visite mattutino per salutare i propri cari.
Jason fu il primo ad accorgersi delle due figure che stavano puntando dritto verso di loro e toccò il ginocchio di Pam. La donna dapprima lo osservò senza capire, poi seguì lo sguardo del suo ragazzo. Quella sequenza di azioni non sfuggì ai due coniugi che si concentrarono sui due uomini che si stavano avvicinando.
Il più vecchio dei due indossava un camice bianco e aveva un atteggiamento autoritario, di chi è abituato ad essere trattato con una certa riverenza. L'individuo accanto a lui invece era più giovane e aveva un'espressione poco amichevole. Indossava anch'egli il camice ma diversamente dal suo panciuto collega, lo teneva sbottonato, lasciando intravedere il maglione sottostante.
“i signori Travis?” indagò il più vecchio, rivolgendosi a Peter.
Quest'ultimo annuì e si alzò in piedi, seguito dal resto dei presenti.
“sono il primario di questa struttura: dottor Jones" si presentò, stringendogli sbrigativamente la mano e volgendo un cenno altrettanto fugace al resto dei familiari "mentre questo signore è il dottor Wright, uno dei migliori cardiochirurghi in circolazione”
Agli occhi dei quattro, quella seconda figura era passata in secondo piano, poiché eclissata dall'austerità del vecchio accanto a lui.
Era un uomo sulla cinquantina, con un fronte spaziosa e dai tratti facciali molto marcati. Non aveva i lineamenti che potevano definire un uomo bello, ma sicuramente carismatico. Il modo in cui fissava le persone davanti a lui era diretto e senza alcun pudore o timore, quasi riuscisse a leggere gli aspetti più reconditi della loro personalità.
“il dottor Wright è stato contattato da un suo ex compagno di università, il dottor Cooper, collega del dottor Hogan che vi ha assistito nell’ospedale di Fogelsville” spiegò il primario.
“il dottor Cooper sapeva che in questi giorni ero a New York per un convegno internazionale di cardiochirurgia, ma in realtà lavoro a Londra” spiegò il dottor Wright, intromettersi nella conversazione.
Aveva una voce profonda e calma, che infondeva un sentimento analogo in chi la ascoltava. “fortunatamente l’ospedale di Allentown è sotto la gestione di quello di New York con cui l’ospedale in cui lavoro io ha da sempre adottato uno stretto rapporto di intercollaborazione"
Il dottore venuto dall'Inghilterra era consapevole che tutti quei dettagli erano secondari per le persone che aveva davanti così andò dritto al punto:
"i miei superiori mi hanno dato l’autorizzazione ad eseguire questo intervento e se voi non avete nulla in contrario, non intendo sottrarmi al mio dovere di medico”
 
Fu sulle ultime parole che Erin fece il suo ingresso nella sala d’attesa.
Riconobbe all’istante nell’uomo che stava parlando con i genitori, lo sconosciuto con cui aveva scambiato qualche chiacchiera quella mattina stessa, nell’ospedale di Fogelsville. Diversamente dal loro primo incontro però, indossava un immacolato camice bianco nelle cui tasche teneva ficcate le mani.
Peter si voltò verso la figlia e la esortò ad unirsi al gruppo. Erin affrettò i passi, attirando l'attenzione dei due medici.
“lei è mia figlia Erin”
I due annuirono e si presentarono:
“è un piacere rivederla signorina” commentò poi il dottor Wright.
Appena aveva visto giungere la ragazza, aveva abbandonato l'espressione burbera e sostenuta con cui si era presentato alla sua famiglia “come stavo spiegando ai suoi genitori, mi sono proposto per eseguire l’intervento di sua sorella”
“metteremo Sophia nelle sue mani dottore” esclamò prontamente Amanda.
Laddove la logica non possa trovare terreno fertile, è l’istinto a dominare la mente di una persona e quel giorno tutti sentirono che quell’uomo, dall’aria così distinta e riservata, era degno della loro fiducia.
“non sappiamo come ringraziarla” aggiunse Pam.
“è il mio dovere come medico” commentò asciutto Wright.
Erin rimase a guardare affascinata quell’uomo: avrebbe avuto in mano le sorti della sorella, quelle mani così grandi e virili avrebbero determinato se il cuore della sorella sarebbe tornato a pulsare in modo normale.
 
Ormai erano più di ventiquattr’ore che non riusciva a riposare come il suo fisico avrebbe voluto: l’angoscia per quanto sarebbe accaduto alla gemella era quasi soffocante. Nell’arco della giornata le era capitato di appisolarsi, ma si trattava di appena un paio d’ore durante le quali le era concesso il privilegio di non tormentarsi per l’indomani. Quando però veniva strappata da quel rassicurante mondo onirico, in Erin tornava la consapevolezza che quell’incubo perdurava.
Il suo animo era dilaniato tra la necessità di credere nel dottor Wright, nella sua fama come chirurgo e la logica spietata imposta dalla statistica che le imponeva di prepararsi al peggio.
Si rigirò più volte nel letto, chiedendosi cosa avrebbe dovuto dire a Sophia quando erano rimaste sole, se avrebbe dovuto consolarla in qualche altro modo, se poteva tranquillizzarla con parole più appropriate.
La verità era che lei stessa stava morendo di paura. Davanti alla gemella aveva nascosto tutta la sua disperazione, ma dentro di sé sentiva solo la voglia di urlare al mondo quanto fosse ingiusto.
Incapace di addormentarsi, accese la luce del comò e recuperò il cellulare.
Dopo qualche rapido gesto, arrivò alla casella della posta.
Nessuna mail da Castiel.
Notò solo allora l’icona dei messaggi e vide che Rosalya le aveva scritto qualche ora prima.
Erano passati appena pochi giorni da quando aveva lasciato Morristown eppure alla ragazza sembravano trascorsi mesi. Lesse frettolosamente il messaggio:
 
“so cosa è successo con Iris ma per caso oggi ho incontrato Ambra. Mi ha spiegato come stavano le cose: lei conosceva già tua sorella giusto? Allora perché in questi giorni non ti sei fatta viva?”
 
Erin sospirò rassegnata. A quel punto non aveva più senso celare la verità così la sua risposta fu schietta e immediata:
 
“perché Sophia sta morendo”
 

Inviò il messaggio e lasciò scivolare il cellulare sul materasso, sfuggendo alla sua presa.
Chiuse gli occhi inspirando profondamente e sentì il profumo della madre che quella mattina le aveva cambiato la federa del cuscino.
Il telefono vibrò pochi minuti dopo, facendola sobbalzare: era Rosalya.
Sorpresa che l’amica fosse sveglia alle due di notte, Erin afferrò immediatamente l’apparecchio.
In realtà non sapeva cosa dirle, troppe cose erano accadute in così poco tempo:
“Erin come stai?” si preoccupò Rosalya, dalle cui parole scaturì una tale ansia ed apprensione che sembravano estranee alla sua personalità.  
“come mai sei sveglia a quest’ora?” aggirò la domanda l’amica.
“mi è preso un attacco di diarrea ed è un’ora che sono seduta sul water” sbottò l’altra, mentre la mora non sapeva se ridere di una pessima battuta o se stesse parlando seriamente. Poco dopo sentì il rumore di uno sciacquone che veniva tirato e i suoi dubbi svanirono all’istante “manco avessi bevuto quella poltiglia schifosa che aveva fatto Castiel per mio fratello”
Erin dapprima cercò di trattenersi, poi scoppiò a ridere. Rise come non le capitava da giorni, come non succedeva da quando l’amico aveva annunciato la sua decisione di partire. Non che le parole di Rosalya fossero state particolarmente buffe ma semplicemente la mora sentiva un disperato bisogno di ridere.
L’amica rimase alquanto perplessa, incapace di giustificare quella reazione esagerata. Stava per obiettare irritata, il messaggio di Erin risultava una presa in giro a quel punto, ma poi la risata della sua interlocutrice si deformò in un singhiozzo, fino ad arrestarsi definitivamente in un pianto inconsolabile.
Pianse con il telefono appoggiato sul cuscino, quasi dimenticandosi che dall’altra parte c’era qualcuno che la stava ascoltando:
“Erin…” la richiamò la voce preoccupata di Rosalya.
La mora inspirò profondamente cercando di calmarsi e riavvicinò il cellulare all’orecchio.
“cosa è successo?” sussurrò Rosalya, mentre rientrava nella sua stanza.
Erin si inumidì il labbro inferiore, assaporando il gusto salato delle lacrime che avevano raggiunto la sua bocca.
Riuscì infine a raccontare all’amica ciò che era accaduto negli ultimi due giorni, chiudendo la narrazione con l’epilogo che gli attendeva l’indomani:
“e che ora sarà l’intervento?” precisò Rosalya.
“alle undici”
La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo poi ripetè la domanda che aveva fatto all’inizio della telefonata:
“e tu come stai?”
“meglio ora che ho parlato con te Rosa” replicò Erin con gratitudine.
Quando era precipitata nello sconforto, aveva subito pensato a Castiel ma l’amico non si era degnato di risponderle… eppure la ragazza sapeva di essere circondata da amici preziosi come Rosalya che in una situazione del genere sarebbero stati pronti a consolarla.
“avresti dovuto chiamarmi scema… a proposito… hai sentito qualcuno dopo che Iris è stata da te?”
“no”
“neanche Castiel?”
replicò sorpresa l’amica.
“gli ho scritto ma non ha risposto”
“gli hai scritto cosa?”
“che Sophia sta morendo”
“e lui non ti ha risposto?” incalzò Rosalya sempre più basita.
Erin mugugnò un’affermazione e le parve quasi di vedere inarcare la schiena come un gatto e cominciare a soffiare:
“QUELLA MALEDETTA CONSERVA DI POMODORO AMMUFFITA! NON HO MAI PENSATO CHE AVESSE UN CERVELLO, SIA CHIARO, MA ALMENO UN CUORE SÌ! QUANDO DISTRIBUIVANO LA SENSIBILITÀ, QUELLO ERA ALLA FILA DELLE PATATINE, TE LO DICO IO! STUPIDO KETCHUP UMANO! SE AVESSI I SOLDI, GIURO CHE PRENDEREI IL PRIMO VOLO PER BERLINO SOLO PER SCOVARLO E PESTARLO A SANGUE, ALMENO FAREBBE PENDANT CON I CAPELLI! CHE CAZZO VUOL DIRE CHE NON TI HA RISPOSTO? SPERO PER LUI CHE GLI ABBIANO TAGLIATO LE MANI, ALTRIMENTI CI PENSERO’ IO E FINCHE’ CI SONO, MI ASSICURERO’ DI CASTRARGLI ANCHE QUALCHE ALTRA PARTE: NON RIUSCIREI A SOPPORTARE DELLE SUE COPIE IN MINIATURA IN FUTURO!”
Rosalya continuò con la sua filippica per altri cinque minuti finchè Lysandre cominciò a picchiare sulla porta della sua stanza:
“Lya stai parlando di nuovo nel sonno!” la rimproverò, pensando di svegliare la sorella.
Quest’ultima scattò in piedi e si fiondò alla porta, sorprendendo il fratello:
“quanto idiota è il tuo amico?”
“che ti prende?” le chiese assonnato e incapace di intuire chi fosse il soggetto della frase:
“Castiel, rispondi: quanto è idiota?”
“non credo esista una scala dei valori che comprenda il suo livello di idiozia… comunque calmati: domani devo svegliarmi presto” la rimproverò il ragazzo, trattenendo uno sbadiglio.
“ah sì giusto… ma scusa non puoi dire a Violet di trovarvi più tardi?” obiettò lei, continuando ad ignorare l’interlocutrice dall’altro capo del telefono.
“sono stato io a proporre quell’orario”
La sorella scrollò le spalle, quasi a dirgli “fatti tuoi” e liquidò il fratello.
Dal cellulare sentì dei versi e subito riportò il telefono all’orecchio:
“scusami stella… mi sono fatta pr-“
Erin stava ridendo.
Per la seconda volta, quell’amica così impulsiva e collerica le aveva scatenato una risata spensierata che questa volta, fortunatamente, non sfociò nelle lacrime.
“mi sei mancata Rosa… tu e tutti gli altri” ammise infine.
L’amica sorrise, poi commentò:
“almeno Nathaniel si sarà fatto vivo immagino no?”
Erin si zittì. Evidentemente Iris aveva trascurato di raccontarle che tra lei e il biondo era finita. Da un lato la ragazza apprezzò la sua amica per aver rispettato la sua privacy, ma dall’altro avrebbe preferito non doverne parlare in quel momento:
“Rosalya…”
“sì?”
“Nathaniel mi ha lasciata”
Non arrivò nessuna risposta dall’altro capo del telefono.
Erin rimase in attesa, mentre Rosayla aveva cominciato a torturare un lembo della coperta:
“mi dispiace. Quando è successo?”
“quando lui e Iris sono venuti qui due giorni fa”
“e tu come stai?”
“me lo chiedi un po’ troppo spesso oggi” ridacchiò Erin.
“Erin… sul serio… come l’hai presa?” insistette la stilista.
Tenendo lo sguardo fisso sul soffitto, l’amica spiegò:
“Nathaniel mi ha aperto gli occhi… non era innamorata di lui. Mi sono resa conto che avevo una concezione molto infantile dell’amore. Mi sono sbagliata su di noi, su quello che provavo per lui…sono un’idiota” concluse con un sospiro amaro. Dentro di sé, la mora era piuttosto sorpresa per la reazione dell’amica. Si aspettava per lo meno un po’ di stupore, invece la ragazza sembrava più che altro amareggiata.
Rosalya si mise seduta sul letto, grattandosi le sopracciglia.
“Erin…”
“dimmi” la incoraggiò l’amica, perplessa per l’enfasi con cui aveva accentato il suo nome.
“quando torni a Morristown, c’è una cosa che devo dirti”
 “non puoi dirmela ora?”
“preferisco guardarti in faccia”
“d-d’accordo” replicò incerta.
Le due ragazze rimasero per qualche istante in silenzio, ognuna persa nelle proprie riflessioni, finchè Erin cominciò:
“Rosalya, posso chiederti un favore? È una cosa che mi è venuta in mente poco fa parlando con te”
“spara” incalzò l’altra, sollevata nel sentire che avevano spostato la conversazione su un altro argomento.
“potresti avvertire tu Ambra dell’operazione di Sophia?”
“Ambra?” ripetè delusa e allarmata, intuendo dove volesse andare a parare l’amica.
“sì… lei e mia sorella non si sono mai viste di persona e domani potrebbe essere l’ultima occasione. Dille che venga per le dieci”
“non ho il suo numero però”
“nemmeno io. Potresti quindi chiederlo a Nathaniel? Io non me la sento ancora di scrivergli”
Rosalya deglutì a fatica.
Ecco che si era trovata incastrata in una posizione alquanto scomoda: contattare Nathaniel, specie dopo il modo brusco con cui aveva declinato il suo invito ad accompagnarlo ad Allentown, era fuori luogo ma non poteva neanche negare un favore ad Erin.
“in un modo o nell’altro la avverto, non preoccuparti”
“grazie Rosa”
Ci avrebbe pensato con calma una volta ultima la conversazione con l’amica ma intanto, preferiva non pensare a quella spinosa questione.
“vuoi che domani venga in ospedale anche io?”
“ti ringrazio, ma se le cose dovessero andare male, odio piangere davanti alle persone” chiarì la mora, accarezzando il coniglietto di peluche.
“andrà tutto bene Erin” affermò decisa l’amica.
“speriamo”
Rosalya sospirò mentre l’amica venne attraversata da una curiosità che le offrì l’occasione per sdrammatizzare:
“cos’è questa storia che tuo fratello e Violet hanno un appuntamento?”
“non è un appuntamento” la freddò “in centro hanno aperto una casa del tè e sono gli unici a volerci andare, tutto qui… chi invece ha delle novità interessanti è Iris”
“Iris?”
“ha conosciuto un tizio ieri”
“davvero?”
Quella notizia, oltre che sorprendere Erin, le migliorò l’umore. Conosceva l’amica e ormai sapeva quanto fosse selettiva e categorica nel giudicare l’altro sesso.
“beh, conosciuto è una parola grossa in realtà” ammise Rosalya soppesando le parole “diciamo che l’ha visto, ecco”
“è ancora arrabbiata con me?” indagò Erin, accantonando la rivelazione che era appena giunta alle sue orecchie.
“sì, ma perché non ho avuto modo di spiegarle quello che mi ha detto oggi Ambra. Vedrai che le passerà”
“e tu? Ci eri rimasta male quando Iris ti ha detto di Sophia?”

“no”
“davvero?”
“non sei tu quella che deve farsi perdonare Erin”
La mora rimase in silenzio mentre Rosalya chiudeva gli occhi:
“c’entra con quello che vuoi dirmi quando ci vedremo?” tirò ad indovinare l’altra.
“esatto”
“non vuoi proprio dirmelo ora?”
Rosalya si morse il labbro: era combattuta. Non le piaceva discutere al telefono, lei era quel tipo di persona che risolveva la questioni guardando in faccia chi aveva davanti, anche quando aveva qualcosa da farsi perdonare. Tuttavia la sua amica le aveva appena rinnovato la possibilità di scaricarsi la coscienza una volta per tutte.
“io sono innamorata di Nathaniel… da sempre”
Finalmente si era decisa ad ammettere quella scomoda verità di cui, fino a quel momento, aveva fatto parola solo con Alexy. Non le fu difficile immaginare la reazione dell’amica dall’altro capo del telefono: gli occhi di Erin si spalancarono e la ragazza si mise seduta sul materasso, facendo cigolare le assi del letto.
“cosa?”
“è così. Ma per lui sono solo un’amica” riepilogò secca.
“gliel’hai mai detto?”
“no, ma è sempre stato lampante: pensa che è stato lui a fare da cupido tra me e Leigh”
Erin si grattò la nuca, ancora senza parole per quella rivelazione:
“e il tuo ragazzo? Non l’hai mai amato Rosa?” quasi la recriminò.
Li aveva visti insieme, erano affiatati, innamorati, fatti l’uno per l’altra; evidentemente Rosalya non la pensava allo stesso modo:
“io amo Leigh e dopo che ho tagliato i ponti con Nathaniel a causa della lite con Debrah, ero convinta di averlo davvero dimenticato... poi sei arrivata tu e per un motivo o per l’altro, mi sono trovata ad averci a che fare di nuovo. Così, ho ricominciato a pranzare con Nathaniel, parlare con lui e soprattutto, rendermi conto che ne ero ancora innamorata, pur volendo bene anche a Leigh… la cosa assurda però è che ho finito per affezionarmi a te Erin… e non riuscivo a vederti come una rivale… così ho pensato che se tu fossi diventata la sua ragazza, io avrei potuto metterci davvero una pietra sopra. Sembravi la persona giusta per Nath”
Erin stava per obiettare ma Rosalya continuò:
o meglio, è quello che pensavo prima di vederti con Castiel”
Sentendo pronunciare quel nome, la mora si irrigidì.
Non aveva scordato l’accusa che le aveva rivolto il biondo ma non aveva ancora dedicato del tempo per riflettere sulla questione: Sophia e il suo incidente avevano avuto la precedenza e lei non si sentiva abbastanza lucida da poter fare chiarezza nel suo cuore. Intanto la confessione di Rosalya proseguiva:
“quando in gita Iris ti ha suggerito che secondo lei ti eri innamorata di Nathaniel io ho agito solo nel mio interesse… lo so, sono stata una stronza… perdonami… Iris sarà anche una cara amica ma quanto a ragazzi ci capisce quanto me di fisica nucleare… così l’ho appoggiata, ho voluto sperare che tra te e Nath funzionasse, così anche il mio rapporto con Leigh sarebbe migliorato”
“ e invece…” mormorò Erin.
“e invece amo troppo Nathaniel da non riuscire più a stare con Leigh”
La mora scosse il capo sollevandolo verso l’alto.
“ti sbagli Rosa” la corresse “il punto è che non ami abbastanza Leigh da dimenticare Nathaniel”
L’amica rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole, pronunciate con una tale serietà da farla rabbrividire. Aveva sempre pensato che il problema fosse il suo amore non corrisposto per Nathaniel ma Erin le aveva appena indicato una diversa prospettiva: erano i suoi sentimenti per Leigh a non essere abbastanza stabili da poter tenere in piedi la loro relazione:
“per essere una con una vita sentimentale incasinata, fai delle osservazioni sagaci Erin” ridacchiò amaramente.
Erin sorrise leggermente, mentre Rosalya, un po’ titubante, indagò:
“non sei arrabbiata con me?”
“non mi hai mica obbligata a stare con Nathaniel, è stata una mia scelta Rosa, non hai nulla di cui sentirti in colpa”
Le sue parole sincere bastarono a tranquillizzarla. Forse era a causa dell’imminente operazione della sorella che Erin si dimostrava così arrendevole e accomodante ma a prescindere dal motivo, finalmente Rosalya cominciava finalmente a sentirsi in pace con sé stessa.
“senti Cip” la chiamò affettuosamente “che ne dici se da oggi in poi basta con i segreti? Ci diremo tutto, senza peli sulla lingua?”
Erin sorrise, dapprima per il soprannome di cui scoprì di sentire la nostalgia, poi per la piega che stava prendendo la loro chiacchierata:
“affare fatto
Rosalya staccò per un attimo il cellulare dall’orecchio e sbirciò l’ora:
“stella sono le tre… forse dovrei lasciarti andare a nanna: il fatto che io non abbia sonno non mi autorizza a privarti del tuo”
“nemmeno io riuscirò a dormire stanotte” sospirò Erin “invece parlare con te mi sta facendo un sacco bene”
Un sorriso dolcissimo illuminò il viso di Rosalya: quell’espressione tanto bella quanto rara era la manifestazione di quanto quella ragazza fosse affezionata alla persona all’altro capo della linea telefonica. Per lei era una gratificazione indescrivibile sentirsi d’aiuto per qualcuno: in passato Alexy era l’unico a farla sentire così importante, ma da quando Erin Travis si era intrufolata nella sua vita, Rosalya aveva capito che anche lei poteva guadagnarsi l’affetto altrui.
“allora continuiamo” squittì allegramente.
E così fu per tutta la notte.
Le due amiche continuarono a chiacchierare del più e del meno, senza mai sfiorare i nomi di Sophia, Nathaniel o Castiel. Rosalya le raccontò della sua idea circa il vestito che avrebbe sottoposto al giudizio di Pam quando questa sarebbe rientrata a Morristown mentre Erin le descrisse la sua città, con la promessa di ospitare lei, Iris e Violet per un futuro pigiama party.
Si salutarono dopo tre quarti d’ora quando il fisico spossato della mora pretese di essere risarcito dell’enorme carenza di sonno che stava accumulando; anche la stilista sentiva che finalmente Morfeo era venuto a prenderla per trascinarla nel suo mondo.
Quella notte spensero la conversazione ma non il sorriso sereno che l’una era riuscita a regalare all’altra.
 
Il mattino successivo, mentre i deboli raggi di un sole invernale colpivano silenziosi il pavimento in legno, Erin sentì il contatto delicato di una mano sulla sua spalla:
“tesoro è ora” le sussurrò dolcemente Pam.
La ragazza aprì pigramente gli occhi che cominciò a strofinare con una certa insistenza. Nel suo corpo si combatteva una strenua battaglia tra il suo bisogno fisiologico di tornare a dormire e l’ansia per ciò che sarebbe accaduto di lì a poche ore.
Alla fine fu quest’ultima ad uscirne vincitrice e così Erin si alzò dal letto, mentre Pam abbandonava la stanza.
Controllò il cellulare trovando un messaggio da un numero sconosciuto.
 
“ciao Erin, sono Ambra.
Mi ha appena chiamato Iris. Mi ha detto dell’intervento di Sophia. Vorrei vederla prima dell’operazione. Pensi sia possibile?”
 

L’sms era stato inviato appena pochi minuti prima, così Erin, ancora con la bocca impastata dal sonno, chiamò la bionda; dopo un paio di squilli a vuoto, sentì che dall’altro capo Ambra aveva accettato la chiamata:
“Ciao Ambra. Ho appena letto il messaggio” la informò la mora.
“Ciao. Grazie per avermi chiamato” mormorò la bionda “come sta Sophia?”
“tra un’ora saremo da lei. L’abbiamo vista ieri e sembrava serena” mentì la mora. Non poteva certo confessarle quanto il realtà la sorella fosse terrorizzata per l’intervento a cui sarebbe stata sottoposta. Tuttavia, nonostante il tentativo di Erin di occultare la verità, Ambra commentò:
“chissà come sta veramente dentro di sé”
Quella semplice frase l’aveva spiazzata: quella ragazza, che solo da poche settimane aveva cominciato a conoscere per davvero, aveva un acume e una sensibilità insospettabili.
“comunque sei la benvenuta. Sono sicura che anche a mia sorella farà piacere vederti… del resto”
“non lo dire” la interruppe la ragazza, intuendo la conclusione della frase “ce la farà. Ne sono sicura”
Erin annuì. La risolutezza della bionda quasi la commosse. Aveva bisogno di essere circondata da persone positive e forti, che le infondessero quella sicurezza che, quando era da sola, cominciava a vacillare pericolosamente.
 
“ehi Rosa, ho chiesto a Nathaniel il numero di Ambra e l’ho avvertita, come mi avevi chiesto. Secondo te dovremo andare anche noi all’ospedale?”
Iris inviò il messaggio all’amica e sospirò. Faticava a credere a quanto era successo quella sera stessa in cui lei ed Erin avevano litigato e si sentiva terribilmente dispiaciuta per non esserle rimasta accanto in un momento così difficile.
 
Ambra era lì.
Secondo Google Maps, Allentown distava un’ora di macchina dalla sua città eppure lei era riuscita a ricoprire quella distanza in un tempo molto inferiore.
Dietro quella porta grigia che le sbarrava la strada, c’era Ravenclaw11, la ragazza che mesi prima l’aveva salvata dall’abisso della solitudine. Le sembrava assurdo essere così vicina dal raggiungerla e al contempo dal perderla. Ce l’avrebbe fatta. Era ciò che continuava a ripetere da quando Iris quella mattina le aveva raccontato ciò che aveva saputo da Rosalya.
Accantonato lo stupore nel riconoscere la voce della sua compagna di classe, Ambra aveva cercato di rimanere calma ragionando sul da farsi: aveva dapprima avvertito Erin per poi organizzare la sua partenza alla volta di Allentown. Alla volta di Sophia.
Anche se Erin le aveva detto che oltre che sorelle, erano pure gemelle, la bionda non riusciva a figurarsi Sophia con un aspetto identico alla mora: Ravenclaw11 doveva avere un’aria più sbarazzina, eccentrica, alternativa: qualcosa che testimoniasse la sua personalità fuori dagli schemi.
“Ambra…” si sentì chiamare da lontano.
La bionda si voltò e notò che era stata la sua compagna di classe a chiamarla. Anche la voce di Sophia sarebbe stata uguale a quella che aveva appena pronunciato il suo nome. Dietro alla mora, facevano seguito i suoi familiari.
“mamma, papà, lei è Ambra, un’amica di Sophia” la presentò Erin mentre la ragazza salutava educatamente.
“grazie per essere venuta” la abbracciò Amanda commossa.
Ambra rimase spiazzata per quel gesto d’affetto: nella sua vita poteva contare le volte in cui la madre l’aveva abbracciata, mentre ora quella sconosciuta si era presa tutta quella libertà con lei, senza pudore o indecisione. Avvertì sulla sua pelle quanto quella donna stesse soffrendo e rispose a quella stretta, cercando di incoraggiarla a modo suo.
Erin sorrise cercando di non farsi vedere dalla bionda: non capiva perché continuasse a nascondere quel lato così sensibile e dolce del suo carattere dal momento che rappresentava uno degli aspetti più belli della sua personalità.
Peter fu il primo a varcare la soglia della stanza, seguito dal resto della compagnia.
“Susy adesso comincia la processione”
Ambra udì quel commento divertito riconoscendo un timbro vocale simile ma non identico a quello di Erin: in quel tono di voce c’era una cadenza più acuta e allegra rispetto a quello della sua compagna di classe: era un modo di parlare che si sarebbe aspettata da Sophia.
Quando finalmente quest’ultima si materializzò davanti ai suoi occhi, la bionda la vide voltata verso l’anziana compagna di stanza, distesa anch’essa sul letto d’ospedale.
Sophia teneva la schiena appoggiata contro la testiera e sorrideva allegra.
Appena si accorse della presenza di Ambra, la giovane paziente corrugò la fronte e la fissò incuriosita.
La nuova arrivata arrossì a disagio e rispose con un cenno imbarazzato della mano, sollevando le prime tra dita a formare un tre:
“Lady Serpeverde!” esclamò Sophia sbigottita mentre la bionda avvampava.
“sempreverde?” ripetè Peter confuso, guardando la moglie aspettandosi da lei una spiegazione per quella curiosa uscita.
“sei tu vero?” insistette la paziente entusiasta “quello è il saluto dei personaggi di The Owl!”
“sei più nerd di quello che sembri Ambra” scherzò Erin mentre la bionda cercò di fulminarla con lo sguardo ma finì per lasciarsi sfuggire una smorfia divertita.
“sì, sono Ambra” confermò la ragazza, con un sorriso imbarazzato.
“finalmente ci conosciamo!” proruppe Sophia contenta “mi dispiace però che sia in circostanze così poco simpatiche”
“parleremo dopo l’operazione vedrai”
“questa tua vena ottimistica non l’avevo mai colta” ammise Sophia divertita.
La presenza di Ambra era decisamente un’eventualità che non aveva considerato. Sapeva che era fuori discussione che quel giorno ricevesse la visita di altri parenti al di fuori della famiglia dal momento che erano tutti troppo lontani da Allentown. Quella comparsa fuori programma era una graditissima sorpresa ed era proprio a causa sua che Sophia non riusciva a smettere di sorridere.
“sei di ottimo umore tesoro” commentò Amanda.
“oh beh, quando mai non lo sono?” replicò prontamente la figlia.
“a che ora verranno a prepararti per l’intervento?” chiese Pam.
Sophia si voltò verso Susy, la signora che occupava il letto che il giorno prima era vuoto, e chiese:
“tu Susy hai capito quello che ha detto l’infermiera? Io le ho detto “sì, sì” ma in realtà non capisco niente di quello che dice quella là”
“Sophia, non ci si rivolge così alle persone più grandi” la rimproverò Peter per il modo in cui si era relazionata con la sua anziana compagna di stanza.
“oh, non si preoccupi, a me fa solo piacere” lo tranquillizzò la vecchietta “mi fa sentire giovane… comunque tesoro, nemmeno io l’ho capito… sono anche un po’ sorda”
Gli ospiti sorrisero indulgenti. Nessuno era sorpreso dal rapporto armonioso che si era instaurato tra le due pazienti: il carattere solare e spigliato della giovane aveva finito per contagiare anche una persona conosciuta appena ventiquattr’ore prima.
“quell’infermiera parla con uno strano accento” si giustificò Sophia, tornando a rivolgersi ai familiari “le prime volte le chiedevo di ripetere quando mi parlava, poi mi sono arresa e ho finito per dirle sempre di sì… anche se questa strategia si è rivelata controproducente ieri sera”
“perché?” chiese Erin divertita. Conosceva fin troppo bene la capacità della sorella di cacciarsi nelle situazioni più buffe e ridicole.
“è venuta dirmi che c’era un problema con la cena e ha aggiunto una cosa che non ho capito, chiedendomi se mi andava bene lo stesso. Le ho detto di sì ed è tornata con una pappetta della Plasmon! E voleva pure che la mangiassi!”
Tutti scoppiarono a ridere mentre la paziente continuava a protestare circa l’ingiustizia di cui era stata vittima. Il gruppo si trattenne un altro po’ finchè comparve un’infermiera dall’aria burbera e poco socievole. Borbottò qualcosa di incomprensibile, confermando ai presenti che si trattava proprio della donna di cui aveva parlato Sophia. Anche se le parole non erano state articolate in modo chiaro, era intuitivo quale fosse il messaggio che era incaricata di trasmettere: dovevano congedarsi dalla paziente.
Peter e Amanda riuscirono a capire che il dottor Wright li stava aspettando nel suo studio per delle ultime indicazioni così si strinsero attorno alla figlia.
Peter la abbracciò nel tentativo di dirle qualcosa ma la voce gli uscì roca e Sophia, tamburellandogli il palmo sulla schiena, lo anticipò:
“lo so papà… grazie”
L’uomo si staccò a malincuore, chiedendosi se quello era il loro ultimo abbraccio e passò il testimone alla moglie; Amanda inspirò l’odore della sua bambina, imprimendolo nella memoria come un marchio a fuoco. Le passò la mano lungo la colonna vertebrale, avvertendo il contatto con le costole sotto la stoffa.
“non avere paura Sophia. Pregherò per te” le sussurrò con le lacrime agli occhi.
La ragazza, che generalmente si irritava per quel genere di discorsi, si limitò a sorridere.
Ora che porta dell’aldilà era così vicina, non riusciva a mantenere il suo atteggiamento cinico e spavaldo. Sorrise dolcemente e guardando la madre negli occhi, bisbigliò:
“allora potrò dormire sonni tranquilli”
I coniugi furono costretti ad uscire per primi e vennero ben presto raggiunti anche da Pam e Jason. Quando toccò alla zia avvicinarsi alla nipote, quest’ultima si raccomandò:
“tienitelo stretto zia” facendola sorridere e con lei anche il suo ragazzo.
Il tempo era sempre meno, poiché l’infermiera attendeva sulla soglia così Sophia posò lo sguardo su Ambra:
“grazie per essere venuta”
“sono contenta di averlo fatto” le sorrise Ambra. Avrebbe voluto abbracciarla anche lei ma quel gesto era così estraneo e sconosciuto alla sua natura, così ci pensò l’amica a rompere il ghiaccio:
“e tu un abbraccio non me lo dai?”
Le difese della bionda svanirono all’istante e accantonando l’imbarazzo, restituì a Sophia quella stretta di cui entrambe avevano bisogno.
“cavoli, mi sarebbe piaciuto disegnare un po’ adesso. Mi sento ispirata” mugolò poi la ragazza “peccato che non ci sia manco una penna in giro”
“lo farai dopo l’operazione” la consolò Ambra. Sophia non rispose ma sul suo viso si materializzò un dolce sorriso. Erin ne poteva facilmente intuire i pensieri e si limitò ad imitare l’espressione della sorella: era commovente, oltre che incoraggiante, quanto Ambra credesse nel successo di quell’operazione. Quando anche lei lasciò la stanza, le due gemelle si trovarono sole, l’una accanto all’altra.
“come hai fatto a trovarla?” le chiese Sophia.
“è una storia lunga … ci sarà tempo dopo per raccontartela”
La gemella cambiò posizione e si distese supina sul materasso. Sentiva che la schiena cominciava a farle male poiché era rimasta seduta a lungo contro la testiera del letto.
Teneva lo sguardo fisso sul soffitto sopra di lei, sapendo che in quel momento Susy si era appisolata e che solo la sorella poteva sentirla:
“sai, dopo che sei stata qui ieri, mi sono sentita più serena. Credo davvero nelle tue parole. Andrà tutto bene, lo sento”
La sorella si commosse e intrecciò le sue dita in quelle della ragazza accanto a lei.
allora Fia, ti aspetto”
“non lasciarmi andare Erin” la supplicò Sophia, voltando lo sguardo verso la sorella.
Il colore delle loro iridi era così simile eppure i loro occhi non erano uguali, non lo erano mai stati: Sophia aveva un modo tutto suo di osservare le persone, mirando dritto alla parte più nascosta dei loro sentimenti.
“te l’ho promesso Fia… non mollerò mai la presa” e strinse quanto più intensamente potè quella mano così saldamente abbracciata alla sua.
 
Erin si chiuse la porta alle spalle e raggiunse la zia e Jason, pochi passi più avanti. Il cellulare vibrò e si trovò nella casella dei messaggi un sms di Ambra:
 
“sono venuta con mio fratello. Nathaniel è fuori dall’ospedale, vicino alla fontana. Se vuoi parlargli, lui è lì”
 
Nel messaggio della ragazza, era implicito il fatto che fosse a conoscenza della rottura del loro rapporto.
Nonostante la frenesia degli ultimi giorni, Erin aveva riflettuto sui suoi sentimenti per il suo ormai ex ragazzo e aveva maturato la consapevolezza di quale fosse la loro vera natura.
Finalmente aveva le idee chiare e la bionda le aveva offerto l’occasione per scusarsi con il fratello e per dirgli quelle parole che l’ultima volta non volevano uscire dalla sua bocca.
“tu dove sei?” le messaggiò mentre usciva dalla struttura ospedaliera.
Dopo qualche minuto, arrivò la risposta:
 
“sto andando a comprare un album da disegno per Sophia”
 

La superficie fredda e ghiacciata della panchina in pietra scoraggiava chiunque dal sedersi su di essa. Nathaniel quindi si era rassegnato a restarsene in piedi con la sigaretta in bilico tra le labbra.
Fumava raramente e soprattutto quando era solo. Il fumo gli dilatava le vie aeree facendolo sentire più leggero. Quando Ambra gli aveva raccontato dell’incidente della sorella di Erin, era rimasto disorientato: si sarebbe sentito fuori luogo a presentarsi davanti alla sua ex ragazza per darle il suo appoggio, eppure la sua natura premurosa e gentile lo spingeva a comportarsi da uomo. Di fronte alla sua indecisione, era stata la sorella a trascinarlo in macchina e a spronarlo ad incontrare Erin: se non l’avesse fatto, se ne sarebbe sicuramente pentito.
Ora però si trovava da solo, al freddo, nel giardino fuori dall’ospedale e senza macchina, poiché la sorella l’aveva sequestrata per fare una commissione in centro, ordinandogli di aspettarla lì.
Nonostante i modi decisi e autoritari di Ambra, Nathaniel aveva sorriso remissivo: nel suo tono di voce non c’era più quell’antipatia che allontanava le persone. Dopo l’incidente di Lin, la ragazza era cambiata e, anche se si sforzava di non darlo a vedere, aveva cominciato a preoccuparsi anche per chi la circondava.
Sospirò, aspettandosi di vedere Erin da un momento all’altro: era facile intuire il piano della sorella, così si sbrigò a finire di aspirare la sigaretta della quale si sbarazzò gettandola per terra.
Pensare alla mora l’aveva innervosito e quel gesto non era conforme al suo atteggiamento rispettoso delle regole. Guardò quel mozzicone appiattito dalla suola della sua scarpa e sbuffò: non riusciva a lasciarlo lì per cui lo raccolse e lo gettò nell’apposito contenitore.
 
Stando attenta a non scivolare sul suolo ghiacciato, Erin percorse la rampa esterna e finalmente, a cinquecento metri di distanza, lo vide.
Indossava un cappotto largo e scuro, dal taglio sportivo e con un cappuccio. La ragazza aveva sempre pensato che il biondo fosse più affascinante con quel genere di look rispetto allo stile che lo identificava come segretario delegato dell’istituto. Si avvicinò in silenzio ma tenendo la testa alta:
“Ciao Nathaniel”
Il ragazzo si voltò, senza mutare la sua espressione.
 “mi dispiace per tua sorella Erin” esclamò diretto, non appena lei gli fu accanto. Non aveva nessun motivo per tergiversare o indugiare nell’esprimere la sua solidarietà.
“grazie per aver accompagnato Ambra”
“figurati”
Un soffio gelido li investì, ma nessuno dei due se ne curò. Il cielo era bianco, confermando le previsioni meteorologiche che avevano annunciato l’arrivo della prima neve mentre le cortecce degli alberi erano talmente scure, che il contrasto con lo sfondo era quasi pittoresco.
“Nath… devo chiederti scusa. Avevi ragione tu” mormorò Erin, guardandolo dritto negli occhi.
“su Castiel?” precisò il biondo, tracciando un arco con il piede sul suolo di ghiaia.
“su me e te” puntualizzò la ragazza con decisione “quanto a Castiel… non so… sono confusa e sinceramente non ci ho riflettuto abbastanza…ma non è di lui che voglio parlare ora”
Il ragazzo annuì e si ficcò le mani gelate nelle tasche foderate in pile.
 “credo di aver frainteso quello che pensavo di provare per te… mi sono aggrappata ad un’idea romantica e infantile dell’amore ma non credo che siamo fatti l’uno per l’altra”
La ragazza concluse quell’ammissione e attese che il biondo commentasse le sue parole. Nathaniel ispirò profondamente, sentendo l’odore del tabacco che aveva impregnato il bavero del cappotto.
“ci ho pensato anche io in questi giorni… e sono arrivato alla conclusione che non sei l’unica ad aver sbagliato Erin”
La mora aggrottò la fronte e attese che il ragazzo le esponesse le sue considerazioni:
“mi sono reso conto che nemmeno io ho fatto chiarezza con i miei sentimenti. Anche quando sono stato con Rachel e Melody, in realtà c’era sempre un’altra ragazza nella mia testa. Speravo di dimenticarla, ma non è mai stato così. Poi sei comparsa tu e credimi, ero davvero convinto che fossi quella giusta”
Erin era allibita: appena poche ore prima aveva sentito un ragionamento analogo: quell’idea del chiodo scaccia chiodo non era una strategia adottata solo dal biondo.
“questa ragazza è Rosalya?”
Aveva tirato ad indovinare, senza fare alcuna previsione su quale potesse essere la risposta che avrebbe ricevuto dall’altra parte. Vide Nathaniel sgranare gli occhi e arrossire colto alla sprovvista:
e tu come lo sai?”
La mora avrebbe voluto urlargli contro che i suoi sentimenti erano ricambiati e chissà da quanto tempo. Da sempre, le aveva detto Rosalya.
Trovava assurdo che i due fossero innamorati l’uno dell’altra e non si fossero mai resi conto della reciprocità di quei sentimenti.
“devi dirglielo! Nathaniel lei” e su quella parola Erin si morse la lingua.
Affondò talmente tanto i denti su di essa, da sentire dolore: non poteva essere lei a confessargli che l’amica era sempre stata innamorata di lui. Era la dichiarazione di Rosalya ed Erin non aveva nessun diritto di intromettersi.
“lei sta con Leigh” le ricordò il biondo “e lui è un mio amico”
Mentre Erin cercava di trovare un modo per replicare, il ragazzo pensò a Castiel: era quasi certo che la ragazza di fronte a lui fosse innamorata del suo migliore amico, ma aveva troppi pochi elementi per capire se lui la ricambiasse. In cuor suo sperò non fosse così: conoscendo l’amico, il fatto che Erin fosse diventata la sua ex, avrebbe spento nel rosso ogni speranza di poter essere ricambiato.
“e poi tra qualche settimana partirò quindi-”
“partirai?” lo interruppe Erin sconvolta.
Doveva ancora riprendersi per quanto il biondo le aveva appena confessato ma sembrava che lui non fosse soddisfatto dell’effetto che aveva sortito su di lei e pertanto aveva aggiunto un’altra novità alla lista degli argomenti di conversazione:
“sì a gennaio. Tempo fa ho aderito ad un progetto nazionale che permette agli studenti che vengono selezionati di entrare a far parte di un progetto convenzionato con l’Università della California. Si tratta di passare un breve periodo all’interno dell’ambiente del college, seguendo un paio di corsi di proprio interesse. Nel frattempo dovrò tenermi anche in pari con il programma del liceo ma quest’esperienza mi aiuterà a capire cosa voglio fare nel mio futuro”
Che Nathaniel sembrasse più maturo della sua età, era sempre stato un dato di fatto, ma la professionalità con cui spiegò ad Erin le direttive di quell’iniziativa, la colpirono profondamente: anche se non ne innamorata, non riusciva a non guardare con ammirazione l’uomo che le stava davanti.
“partirai anche tu quindi?”
Il ragazzo annuì mentre Erin abbassò il capo. Per lui era un’opportunità incredibile e si sarebbe sicuramente dimostrato all’altezza di quel privilegio. Era sinceramente orgogliosa per lui, così sorrise dolcemente:
“te la meriti una simile opportunità”
“mah, se lo dici tu” sorrise a sua volta il biondo, intenerendo la ragazza per la gentilezza di quella smorfia.
Erin lo guardò di sottecchi, poi sussurrò:
“posso abbracciarti Nath?... da amici”
Il biondo non replicò ma, senza smettere di sorridere, le restituì la stretta:
“da amici” ripetè.
Mentre si scioglievano l’uno dall’altra, Erin lo fissò dritto negli occhi e affermò:
“Nath ti prego, fammi una promessa”
Il ragazzo la guardò senza capire e la mora sussurrò:
“prima di partire devi dire a Rosalya quello che provi per lei”
 
“ehi amore, ci siamo sentiti dieci minuti fa? Tutto bene?”
Leigh sistemò un paio di vestiti sullo scaffale e ripiegò una maglietta abbandonata sul ripiano sbagliato. Durante le feste il lavoro triplicava ma almeno il giorno successivo l’avrebbe trascorso con la sua bellissima ragazza.
“Leigh… dobbiamo parlare”
L’espressione del ragazzo si corrucciò, stentando nel riconoscere in quella voce metallica, il timbro sensuale della sua Rosalya.
 
Quando Erin rientrò all’interno dell’ospedale, Ambra era giunta con un blocco da disegno e dei pastelli e aveva convinto il fratello a tornare a casa. Nella sala d’attesa fuori dalla sala operatoria, infatti non potevano sostare più di sei persone così mentre Nathaniel  tornava a Morristown, la sorella sarebbe rientrata in treno, una volta conosciuto l’esito dell’operazione.
Si presentò il dottor Wright che comunicò ai familiari che la paziente era stata sottoposta all’anestesia generale e che era già stata portata in sala operatoria. L’operazione sarebbe cominciata di lì a pochi minuti.
Ambra si sedette accanto a Pam, mentre Jason era impegnato in una telefonata con la sorella.
Peter cominciò a camminare avanti a indietro per il corridoio, mentre la moglie pregava in silenzio, tenendo gli occhi socchiusi.
Erin dapprima cercò di leggere una delle riviste lasciate a disposizione degli astanti ma nessun articolo le sembrava così importante da destare la sua attenzione.
Ripose il giornale al suo posto e chiuse il occhi: nel buio della sua mente, cominciarono a vorticare dei flash che la illuminarono a tratti: erano i suoi ricordi, alcuni di quei preziosi momenti trascorsi con la sorella:
 
“Sophia fa gli scherzi cattivi” mugolò Erin additando la sorella. La mamma spostò l’attenzione verso la sua figlia più scapestrata e sorrise:
“tesoro, lascia in pace tua sorella. Non vedi che la fai stare male?”
Sophia si avvicinò in silenzio, tenendo lo sguardo fisso sulla gemella. Per quanto vivace e peperina, aveva un animo buono ed evitava di prolungare i suoi scherzi, per non urtare troppo la fragile sensibilità di Erin. 
Sophia abbassò il capo e la voce e biascicò:
“mi dispiace”
 
“Soffy?” chiese Erin facendo capolino nella stanza. Il vestitino azzurro con le margherite svolazzò lievemente al minimo spostamento d’aria creatosi.
“non chiamarmi così. Non mi piace!” le ricordò Sophia, intenta a disegnare distesa sul pavimento.
“che stai disegnando?” si incuriosì Erin accucciandosi all’altezza della sorella. In quella posizione, le gambe cicciottelle tipiche dei bambini risultavano ancora più paffute e pertanto adorabili.
“perché devi sempre impicciarti di quello che faccio io? Non hai mai niente da fare tu?” la allontanò la gemella sbuffando infastidita.
Erin mise il broncio, delusa per quei i modi poco gentili. 
“volevo solo stare un po’ con te”
“stiamo anche troppo insieme. Mi soffochi”
“questa battuta l’hai copiata da Vento di Passione” ridacchiò Erin, pensando alla soap opera preferita della madre. Sperava di risultare conciliante e recuperare il buon umore della sorella ma il suo tentativo fallì:
“il fatto è che mi stai sempre appiccicata! Uffa Erin, possibile che tu non sappia stare un po’ da sola, senza di me?”
 
“va’ via!” le urlò Erin, serrando ancor di più la sua difesa.
Sophia, allergica di natura alle imposizioni, non eseguì quell’ordine. Tuttavia non forzò nemmeno la gemella ad uscire dal suo rifugio. Si sedette ai piedi del divano e rimase in silenzio.
Ad un certo punto sentì rotolare  una perlina sul pavimento di marmo. Raccolse quell’oggetto sferico e lo riconobbe immediatamente:
“si è rotto il braccialetto?” chiese sorpresa Sophia.
Erin non rispose, ma la sorella insistette:
“io so come ripararlo” le sussurrò.
 
Nell’ambiente era calato il silenzio più totale finché si udirono dei passi affrettati ed Erin avvertì distintamente la voce di sua madre che chiamava:
“SOPHIA!”
Alzò lo sguardo e vide la gemella che quasi rotolava giù dalle scale per avvicinarsi agli spalti, portandosi a pochi metri da lei.
“Erin lo so che puoi farcela! Non mi deludereeee!!”
“m-ma  cadrò” obiettò Erin che in quel momento notò la presenza di un foglio grande che la sorella brandiva tra le mani.
“se cadrai ti rialzerai”
 
“allora hai capito? Tu sei me e io sono te”
“magari” sussurrò Erin con un sorriso triste.
 
“sai mamma oggi ho scoperto una cosa molto importante…”
“e che cosa?”
“che potrò sempre contare su mia sorella… Erin è il mio pilastro”
 
"ti sbagli Sophia... il fatto che tu sia ancora qui vuol dire che ti è stata data un'altra possibilità"
"è una possibilità inutile visto che non posso giocarmela Erin!"
"per te sarà anche inutile, ma per noi è l'unico scoglio al quale possiamo aggrapparsi per non annegare nella disperazione... non mi vedrai piangere né disperarsi finchè non sarai uscita da quella sala operatoria"
Erin guardava la sorella dritto negli occhi, con determinazione. Aveva già versato le sue lacrime  ora il suo dovere era quello di asciugare quelle della sorella.
"ricordati che ti sono vicina Fia. Lo dicevi sempre che ti stavo troppo addosso... e non sono ancora pronta a lasciare la tua mano, perciò se cercherai di mollare la presa, ti stringerò più forte"
 
“sai, dopo che sei stata qui ieri, mi sono sentita più serena. Credo davvero nelle tue parole. Andrà tutto bene, lo sento”
La sorella si commosse e intrecciò le sue dita in quelle della ragazza accanto a lei.
allora Fia, ti aspetto”
“non lasciarmi andare Erin” la supplicò Sophia, voltando lo sguardo verso la sorella.
Il colore delle loro iridi era così simile eppure i loro occhi non erano uguali, non lo erano mai stati: Sophia aveva un modo tutto suo di osservare le persone, mirando dritto alla parte più nascosta dei loro sentimenti.
“te l’ho promesso Fia… non mollerò mai la presa” e strinse quanto più intensamente potè quella mano così saldamente abbracciata alla sua.
 
Erin si alzò, attirando l’attenzione dei presenti. Quella successione di scene le aveva fatto perdere la cognizione del tempo. Controllò sull’orologio e calcolò che erano già trascorse due ore e mezza dall’inizio dell’intervento.
Lo stomaco brontolava per la fame ma la ragazza lo ignorò. C’era un altro problema che doveva risolvere: la sonnolenza che si stava metastatizzando nel suo corpo. Non voleva dormire, non in quel momento. Doveva restare vigile per tenersi psicologicamente accanto alla sorella.
Annunciò che sarebbe scesa all’entrata dell’ospedale dove aveva notato la presenza delle macchinette e calcolò i soldi per un caffè. Si trattava di tenere duro ancora un altro po’: Sophia poteva uscire da un momento all’altro.
 
Un liquido scuro uscì con un flusso regolare e si depositò sul fondo del bicchiere di plastica marrone. Le palpebre cominciavano a chiudersi da sole e lo sforzo di tenerle sollevate sembrava immane.
Sentiva le spalle pesanti, il corpo spossato e sfinito. Per quanto ci provasse, non riusciva a ribellarsi da tutta quell’improvvisa e indesiderata stanchezza. Cercò di non pensare a tutte le ore di sonno che l’ansia le aveva rubato negli ultimi giorni e si concentrò sull’aroma inebriante del caffè.
Lo inspirò a fondo ma nemmeno questo fu sufficiente a destare i suoi sensi.
Anche se era nella hall dell’ospedale, non c’era anima viva e quel silenzio si conciliava perfettamente con il suo bisogno di dormire.
Tenendo saldamente il bicchiere in mano, si sedette su una delle sedie, sorseggiando un po’ di caffè il quale però era talmente bollente, da farla desistere dal continuare la degustazione; lo ripose su un ripiano accanto a lei, in attesa che si raffreddasse e si impose di chiudere gli occhi, solo per qualche istante.
Rimase lì seduta, aspettando di trovare la forza per alzarsi ma più passavano i secondi e più il suo corpo le risultava pesante.
“non dormire” ripeteva a sé stessa. Era solo questione di minuti, ne era sicura.
 
Sentì dei rumori e il cuore cominciò a martellarle in petto: il sonno era sparito all’istante. Aveva riconosciuto subito quel passo affrettato e il rumore dei tacchi di sua madre.
Amanda stava giungendo nella sua direzione, percorrendo un corridoio deserto e silenzioso.
Qualsiasi rumore o suono ad Erin sarebbe bastato, pur di non sentire quei singhiozzi silenziosi e al contempo assordanti che provenivano dalla figura che si stava avvicinando. Il suo corpo venne pervaso da un tremore incontrollabile e con un gesto involontario, la ragazza rovesciò il caffè posto accanto a lei.
Il volto di Amanda era stravolto dalle lacrime che scendevano copiose, annullando ogni dolcezza nel suo viso.
Il cuore di Erin continuava ad accelerare il battito, un pulsare che nella sorella non c’era più.
Quella tremenda maschera di dolore e lacrime era sempre più vicina ed Erin chiuse gli occhi, incapace di sostenerne la vista.
Nemmeno Amanda la guardava: teneva il capo chino con il terrore di vedere specchiata la sua espressione disperata nel volto di quella figlia che le avrebbe sempre ricordato quella che aveva appena perso.
 
“te l’ho promesso Fia… non mollerò mai la presa”
 
Le aveva mentito.
Sophia non ce l’aveva fatta.
Le era bastato distrarsi un attimo e non si era accorta della mano della sorella che le era scivolata via.
Non era stata abbastanza forte dal trattenerla.
 
“…non sono ancora pronta a lasciare la tua mano…”
 
Quella frase era carica di una tremenda e intollerabile verità: non era in grado di dirle addio, non poteva accettare di separarsi da lei per sempre. Non ce l’avrebbe fatta.
“Fia…” mormorò Erin con la voce invischiata nell’angoscia e nella disperazione.
Il suo corpo tornò a farsi pesante tanto da non riuscire a sostenere il peso della testa: sentiva che le forze la stavano abbandonando, soverchiate da una schiacciante sofferenza.
Sua madre era ancora lontana ma Erin non poteva più vederla a causa delle lacrime; serrò gli occhi e sperò di non udire le inevitabili parole che le avrebbero confermato che Sophia non c’era più.
Il busto della ragazza si sbilanciò di lato ma anziché accasciarsi sulla la sedia accanto, venne bloccato da qualcosa di solido e morbido:
“andrà tutto bene Erin”
Quella voce così bassa e calda sembrò bloccare il tempo.
Erin avvertì una carezza delicata sfiorarle i capelli e, incapace di sollevare le palpebre che le lacrime e la depressione avevano sigillato, rimase in ascolto.
“andrà tutto bene” ripetè quella voce, rassicurandola “fidati di me”
Sua sorella non c’era più eppure lei si sentiva un po’ più serena: una sensazione di protezione e sicurezza la pervase e sentì che il battito del suo cuore si stava normalizzando.
 
Dopo un po’ riaprì gli occhi e si staccò dal suo appoggio.
Disorientata, capì di essersi addormentata e scrutò la figura accanto a sé, sorprendendosi nel vedere suo padre.
Peter la guardava con dolcezza ma non c’era traccia di lacrime o tristezza nel suo volto.
“Sophia?” gli chiese più confusa che mai.
“è ancora in sala operatoria. Sono arrivato qui una decina di minuti fa e ti ho trovata che dormivi”
Con quella semplice frase, suo padre non solo le aveva fornito una spiegazione di quanto era accaduto ma le aveva appena restituito la speranza per poter tornare a credere. Sophia poteva ancora farcela.
Il caffè non si era mai rovesciato ma giaceva, ormai freddo, sul ripiano in cui Erin l’aveva riposto.
“torniamo Sophia?”
 
Arrivarono in sala d’attesa ed Erin scoprì che erano passate più di tre ore.
Recuperò il cellulare dalla borsa e trovò un accavallarsi di messaggi:
Il primo era di Iris:
 
“mi dispiace per tutto Erin, scusami. Sono stata una sciocca e non ti ho lasciato il tempo per spiegare. Ti prego, fammi sapere come sta tua sorella… e non esitare a chiamarmi se ne hai bisogno”
 
Alexy: “vedrai che ce la farà Erin. Facci sapere”
 
Lysandre: “quando vuoi, noi siamo qui”
 
Rosalya: “tu chiama che io arrivo”
 

Armin: “i miei superpoteri da gemello mi dicono che andrà tutto bene… ma del resto lo sai perché ce li hai anche tu no?”
Erin sorrise per la pessima ironia dell’amico e passò al messaggio più recente, quello di Violet:
 
“comunque vada Erin, non sarai mai sola”
 
“s-stanno uscendo” balbettò Amanda, notando del movimento oltre il vetro quadrato della porta.
Tutti si alzarono in piedi di scatto.
Ambra ed Erin si guardarono con apprensione e istintivamente, si strinsero la mano, l’una accanto all’altra.
Si intravedevano gli spostamenti dello staff medico impegnato ad abbandonare la sala operatoria e per ultimo il dottor Wright.
Tutto il personale sostò nell’anticamera per liberarsi dai guanti e dai camici sui quali c’erano delle macchie rossastre. Il cardiochirurgo guardò fugacemente all’esterno, oltre il quadrato di vetro e si tolse la mascherina.
Con il cuore in gola, i familiari della ragazza si avvicinarono ancora di più alla porta, nella trepidante attesa di sentire quale fosse l’esito.
Ancora pochi secondi e avrebbero avuto una risposta.
Wright comunicò qualcosa alla ferrista che annui mentre lui spinse la porta, trovandosi finalmente faccia a faccia con la famiglia della paziente. Le uniche sensazioni che si potevano leggere nel suo volto erano la stanchezza e lo sforzo che gli avevano procurato un simile intervento.
Sospirò profondamente, per scacciare la tensione che aveva accumulato e, finalmente, sorrise. Quella semplice smorfia bastò a inumidire gli occhi dei familiari che si abbandonarono ad un pianto di gioia quando sentirono le parole:
“l’intervento è andato bene: Sophia è salva”
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Tanto per cominciare, è passata più di una settimana dal capitolo 34, eppure mi sembrano mesi  -.-‘’… giuro che non pensavo di avere così poco tempo da dedicare alla mia storiella :’(… spero di non aver perso per strada qualche lettrice :S
 
Passiamo ora al capitolo: prima di essere accusata di avervi fatto venire un infarto quando Erin sogna che l’intervento è andato male, sappiate che ero tentata a chiudere il capitolo con “ancora pochi secondi e avrebbero avuto una risposta” XD.. cioè della serie, posso essere davvero davvero sadica XD… ammesso poi che abbiate pensato che fosse vero, mi aspetto di tutto da voi, quindi non posso neanche escludere che abbiate capito che fosse un sogno -.-‘’.
Come avete potuto leggere, non ce l’ho fatta a “uccidere Sophia” e così ecco che anche questa volta l’ha fatto franca… è piuttosto fortunata questa ragazza.
Alla fine ho deciso di optare per un capitolo lungo visto che si tratta di un passo importante della storia. Con questo capitolo, si chiude ufficialmente questa prima sezione drammatica di In her shoes (non so ancora se ce ne saranno altre più avanti, visto che siamo ancora lontane dalla fine) però diciamo che nei prossimi capitoli cambieremo registro (ma non pensate che abbandonerò facilmente l’aspetto malinconico… finchè non torna Castiel non mi diverto u.u… -allora che cacchio aspetti a farlo tornare?!? N.d.Lettrici).
 
La frase che dà il titolo al capitolo : LA SPERANZA È UN SOGNO FATTO DA SVEGLI è un aforisma di Aristotele. Non sono stata lì ad indagarne il senso, ma ho pensato che calzasse con il fatto che mentre dorme, le speranze di Erin naufragano miseramente, al punto da materializzarsi nell’incubo che la sorella non ce l’abbia fatta; il fatto che dopo aver saputo che Sophia è morta, le basti una voceper tranquillizzarla, rientra nella “logica del sogno”: non so se sono io, ma i miei sogni non hanno né capo né coda, così ho pensato che potesse essere credibile che alla ragazza sia bastato sentire quella voce per tranquillizzarsi (nella realtà non sarebbe fattibile);  come avrete (credo) capito, ha sognato Castiel… quel “fidati di me” è una delle sue massime (alla Aladdin aggiungerei io) e, tanto per cambiare, anche nell’inconscio, il rosso sortisce un effetto calmante su Erin… con questo, ora che la gemella è salva, la nostra protagonista dovrà cominciare a guardare in faccia la realtà e con lei altri personaggi come Rosalya, Nathaniel… beh… come vedete ci sono ancora molte cose da chiarire, che “ci terranno occupate” nell’attesa del ritorno di Castiel ;).
Grazie per aver letto il capitolo ^^)
 
P.S. Credo avrete riconosciuto lo stile ma giustamente ci tengo a sottolineare che il disegno iniziale è di _Nuvola Rossa 95_ il quale secondo me è perfetto inserito in questo capitolo, in cui c’è stato un momento molto tenero tra le due gemelle ^^. Grazie L. :3
 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Vigilia ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE
 
Un collega del dottor Hogan si propone per contattare un suo ex compagno di università: il dottor Wright, diventato un rinomato cardiochirurgo. Nel frattempo i Travis comunicano la loro decisione di sottoporre Sophia all’intervento e le fanno visita: nonostante l’imminente operazione, la ragazza è un vulcano di energie e riesce a sollevare il morale a tutti. Solo la gemella non si lascia abbindolare da quella commedia ma, rimasta sola con lei, accoglie tutta la sua disperazione. Nel frattempo il dottor Wright ha raggiunto l’ospedale di Allentown e, guidato dal primario del reparto, si presenta alla famiglia della sua futura paziente. L’uomo ritrova poi Erin, con cui poche ore prima aveva avuto una conversazione stimolante.
La notte prima dell’intervento, la protagonista non riesce ad addormentarsi, ma riceve un’inaspettata telefonata da Rosalya che, tra le varie chiacchiere, le confessa di amare Nathaniel. Le due amiche trascorrono parecchio tempo al telefono, finchè il sonno le costringe a riattaccare.
Grazie ad Iris, Ambra viene avvertita dell’intervento di Sophia e si precipita all’ospedale, dove la famiglia Travis la accoglie a braccia aperte. Finalmente lei e la paziente si conosco ed Ambra dimostra una grande forza e ottimismo nel credere che avrà altre occasioni per parlare con l’amica, che finalmente ha un volto.
La bionda rivela ad Erin che Nathaniel è fuori dall’ospedale così la ragazza si precipita da lui per chiudere la discussione che avevano avuto qualche giorno prima. Il biondo, dopo averle confessato di essere innamorato di Rosalya e di non riuscire a dimenticarla, le comunica che partirà per la California, per seguire un progetto scolastico.
Erin rientra in ospedale e, stremata dalla stanchezza, si addormenta nella hall, sognando che Sophia non ce l’ha fatta. Quando si risveglia, scopre che il padre è accanto a lei e insieme tornano nella sala d’attesa.
Esce finalmente il dottor Wright che annuncia ai presenti la riuscita dell’intervento.



 
CAPITOLO 36: VIGILIA
 
Dajan rigirò nervosamente il pacchetto che teneva tra le mani. Nonostante le spigolosità dell’oggetto, sembrava che maneggiasse un pallone da basket. Erano tre giorni che se lo portava dietro e ancora non era riuscito a consegnarlo alla sua destinataria: Kim.
Sospirò frustato, prendendosela con sé stesso: era la Vigilia di Natale e, pur di non confessare alla ragazza ciò che provava per lei, continuava a nascondersi dietro la scusa dell’allenamento per poterla vedere.
Trevor continuava a punzecchiarlo sull’argomento sostenendo che, di quel passo, sarebbe diventato un grandissimo cestista sfigato.
Eppure non era da Dajan quel comportamento così insicuro ed esitante. Lui amava le sfide, specie quelle che richiedevano una certa prestanza atletica, ma affrontare Kim Phoenix era tutta un’altra questione.
Si erano parlati per la prima volta la scorsa primavera, quando la sua squadra di basket aveva giocato un’amichevole contro la scuola di Allentown. Al termine della partita, aveva seguito Trevor che l’aveva così presentato alla sua amica. Kim, anziché dimostrarsi socievole e gentile, come qualsiasi altra ragazza che il cestista conosceva, li aveva liquidati sostenendo che non aveva tempo e che doveva allenarsi per le imminenti gare di atletica. La prima impressione che la velocista aveva dato di sé lasciava alquanto a desiderare, tanto che il ragazzo, tradendo una leggera irritazione, la etichettò come fanatica dello sport e antipatica.
Non capiva come il suo compagno di squadra potesse andare d’accordo con lei, per quanto lo riguardava, non aveva nessun motivo per approfondire quella conoscenza. Tuttavia una settimana dopo, Trevor lo convinse ad accompagnarlo alla gara di Kim e, controvoglia, Dajan aveva accettato.
Pur amando lo sport, non impazziva per le discipline individuali: preferiva di gran lunga il gioco di squadra, mirato all’ottenimento di una vittoria comune, piuttosto che l’obiettivo del singolo di battere un record o aggiudicarsi il primo posto sul podio.
Anche se le premesse non erano state per nulla incoraggianti, fu proprio in quell’occasione che rivalutò completamente Kim; Trevor aveva trovato posto sugli spalti in un punto rialzato, in cui si godeva di un’ottima visuale della pista. Il pubblico non era particolarmente numeroso, poiché si trattava di prove di qualificazione per il grande evento che si sarebbe tenuto l’anno successivo.
Dagli altoparlanti una voce atona annunciò l’inizio delle finali dei 200 metri.
C’erano in tutto sei ragazze, ma Kim spiccava su tutte grazie alla sua altezza. Sin dal loro primo incontro, Dajan aveva notato il suo fisico slanciato che in quel momento veniva messo ancor più in risalto dai pantaloncini cortissimi.
Le ragazze cominciarono a posizionarsi nella corsia che era stata loro assegnata e Kim piazzò sul punto in cui era tracciato il numero 4.
 
 “oddio, se la sta facendo sotto” mormorò Trevor , attirando l’attenzione dell’amico, che per tutto quel tempo era rimasto concentrato sulla velocista “Kim è così: se non è concentrata sin dall’inizio, non dà il massimo e fa solo casino”
“a me sembra molto determinata” obiettò l’altro cestista.
“fidati che quando è così tesa, può succedere di tutto: alle medie io e lei eravamo nella squadra dei quattro che correvano per la staffetta, in rappresentanza della nostra classe; Kim era talmente nervosa che non si accorse di avere una scarpa slacciata, così dopo pochi secondi che le avevo passato il testimone, perse la scarpa sulla pista”
“sul serio?” scoppiò a ridere Dajan, spostando lo sguardo sul loro argomento di conversazione.
“sì, e la cosa buffa è che io le correvo dietro per restituirgliela!” incalzò l’amico divertito.
Kim nel frattempo si accorse della reazione dei due ragazzi e fulminò Trevor: non poteva certo sentire cosa stesse raccontando al compagno di squadra, ma aveva la sensazione che riguardasse lei e la cosa la irritò parecchio.
“e lei cosa ha fatto?” continuò Dajan.
“ha continuato a correre!” esclamò Trevor mentre il ragazzo sgranava gli occhi. Decisamente quella Phoenix era una ragazza fuori dal comune. Intanto il cantastorie continuò:
“eravamo quelli più indietro di tutti… e la cosa assurda è che abbiamo vinto proprio grazie a lei, l’unica ragazza della squadra” commentò con orgoglio, come se il merito dell’impresa fosse suo.
Dajan non aveva aggiunto nulla e aveva cominciato a osservare con ammirazione la moretta che si stava riscaldando sulla pista. Kim era impegnata a scaldare i muscoli, incurante del frastuono che la circondava. Non sembrava più tesa come aveva notato Trevor poco prima. Nei suoi occhi si leggeva la determinazione di chi vuole vincere.
 
Kim inspirò l’aria che le dilatò gli alveoli e la espirò, calibrando attentamente il respiro. Si sarebbe occupata dopo di Trevor e della sua linguaccia che se non altro le avevano regalato un po’ di irritazione che lei cominciava ad incanalare in determinazione. Il cuore le batteva in petto e dei brividi di eccitazione percorsero il suo corpo. Le atlete accanto a lei si scambiavano qualche parola di incoraggiamento e di conversazione, ma Kim non prese parte a nessun dialogo; quel suo comportamento asociale non era dettato tanto dalla sua volontà, quanto dalla sua natura: aveva sempre avuto problemi nei rapporti interpersonali, specie con le ragazze.
Cominciò ad allungare le gambe per completare l’ultimo esercizio di stretching che durò pochi secondi: era pronta a scattare.
 
 “è da tanto che vi conoscete?” indagò Dajan.
“dall’asilo. Kim è sempre stata un maschiaccio e quindi ha sempre fatto più facilmente amicizia con i maschi. Mi ricordo che una volta alle elementari, le bambine della nostra classe si erano incaponite a volerla integrare nel loro gruppo e lei, sotto la pressione delle maestre, si lasciò convincere.
Eh eh, mi pare ancora di vederla, seduta imbronciata sui gradini a guardare con invidia noi che giocavamo a calcio”
“calcio?”
“sì, da noi non è mai stato popolare come sport, ma in quel periodo, nella classe prima della nostra, era arrivato Nathaniel dalla Svezia e ci aveva insegnato le regole. Direi che è stato grazie a quello sport che lui e Castiel sono diventati amici anche se era davvero brocco” ammise Trevor scoppiando a ridere “aveva veramente una pessima mira: ha rotto tre volte la stessa finestra, ma visto che si trattava dell’aula degli insegnati, nessuno ha mai capito se la cosa fosse davvero involontaria”
“conoscendo il soggetto” ridacchiò Dajan.
“beh, ma da bambino Castiel non era così tremendo, anzi. Faceva quasi tenerezza: era sì un po’ burbero, però alla fine se gli chiedevi una mano non si tirava mai indietro… anche se durante l’intervallo la mia classe giocava contro la sua, in realtà siamo diventati amici solo al liceo, quando si è unito alla squadra. Comunque, proprio in quel tentativo fallito di convertire Kim all’universo femminile, Castiel calciò per sbaglio il pallone centrandola in pieno viso. Si precipitò a scusarsi e ad assicurarsi che non si fosse fatta male”
“Castiel che si scusa è uno spettacolo inimmaginabile” commentò Dajan, rammaricandosi per non avervi preso parte .
“lo so, infatti conservo gelosamente questo ricordo” puntualizzò Trevor “ma Kim, anziché tranquillizzarlo, gliene disse quattro, prendendosela per la sua pessima mira. AHAHA, quante gliene ha dette quel giorno! Castiel allora si arrabbiò e, orgoglioso come è sempre stato, la sfidò ad un uno contro uno”
A quel punto Trevor ripensò divertito alla sfida di basket che il rosso aveva lanciato ad Erin quando quest’ultima era arrivata al liceo e il loro piccolo bisticcio in piscina mesi prima: era proprio connaturato nella sua indole quella tendenza a misurarsi con le ragazze.
“e Kim?”
Trevor sghignazzò:
“non chiedeva altro. Lo stracciò, lasciandoci tutti a bocca aperta. Kim è una saetta c’è poco da fare. Ha un’agilità pazzesca quando corre, oltre che una predisposizione assurda per gli sport. E’ un somaro a scuola, ci mette una vita per memorizzare un concetto, ma se si tratta di abilità atletiche, è un genio”
Dajan tornò a guardare quella curiosa ragazza che ormai si era posizionata sulla linea di partenza.
Non potè frenare il suo istinto di maschio adolescente dall’osservare con un certo piacere le curve e le lunghe gambe della velocista, messe in risalto dalla posizione di partenza:
“Dio quanto è figa” commentò affascinato Trevor accanto a lui. Dajan sgranò gli occhi ed avvampò:
“ma che dici? E’ amica tua!”
“stavo parlando della 6. Non hai visto che tette?”
Il cestista borbottò qualcosa e tornò a fissare la pista, questa volta concentrandosi sulle atlete in generale.
Appena venne dato il segnale, le sei ragazze sfrecciarono.
“VAI KIM! FALLE NERE!” urlò Trevor dagli spalti.
Kim correva talmente veloce che i suoi piedi sembravano sfiorare l’asfalto: teneva il mento in alto, fiera della prova che stava conducendo. Nonostante lo sforzo, non riusciva a non sentirsi esplodere dalla felicità: amava correre, si sentiva così libera e spensierata quando vedeva il paesaggio scorrere rapidamente sotto i suoi occhi, che sarebbe scoppiata a ridere.
Come aveva previsto Dajan, fu la prima a tagliare il traguardo e, con il petto che alternava rapidamente cicli di dilatazione e compressione, si voltò a cercare lo sguardo di Trevor: aveva un sorriso radioso e soddisfatto: il più bel sorriso che Dajan avesse mai visto:
“ha staccato la seconda di un bel po’ questa volta. Sarà al settimo cielo” commentò Trevor compiaciuto alzandosi. Dopo un paio di passi, aggiunse qualcos’altro ma non ottenendo risposta, si voltò: Dajan era rimasto seduto e aveva lo sguardo rivolto alla pista:
“ehi, ti sei imbambolato? Andiamo?”
Dajan scrollò la testa e seguì l’amico.
 
Kim sbuffò, vaporizzando il suo respiro nell’aria gelida.
Aveva appena terminato di discutere con la madre e nessuna delle due era uscita vincitrice da quello scontro; la donna aveva espresso la sua perplessità sull’assiduità con cui sua figlia si recava agli allenamenti di basket, che negli ultimi giorni si erano intensificati:
neanche quando avevi le gare di atletica ti allenavi così tanto! E poi hanno chiamato neve oggi”
“solo nel tardo pomeriggio”
“comunque è la Vigilia! Dovresti passarla con la tua famiglia”
“starò via solo poche ore. Per pranzo sono a casa”
La donna aveva sospirato irritata e aveva aggiunto:
“se non ti conoscessi, penserei che è una scusa per passare del tempo di nascosto con un ragazzo che non vuoi presentarmi”
In fondo sua madre ci aveva pure preso, ma non nel senso che avrebbe sperato: erano diversi anni che Lois sognava che la figlia si trovasse qualcuno di speciale, ma, pur abbondando di amicizie maschili, sembrava che nessuno fosse in grado di intaccare la dura scorza di Kim:
“ha preso tutto da te” accusava scherzosamente il marito “stesso orso grizzly”
“non ti arrabbiare mamma orsa” le aveva risposto una volta l’uomo, sistemando un’anta cigolante di un armadio “a me nostra figlia va più  che bene così… che le piaccia correre”
“anche a me va bene che le piaccia correre… ma non sarebbe male se cominciasse anche a correre dietro anche a qualche ragazzo” aveva borbottato Lois, strappando un sorriso ironico al marito.
Quello era il genere di discorsi che allontanavano la loro unica figlia dalla stanza e che la spingeva al parco oppure, come accadeva spesso nelle ultime settimane, sul campo da basket.
In cuor suo le sarebbe piaciuto tranquillizzare la madre, confessandole che finalmente, dopo diciassette anni, aveva conosciuto quel ragazzo speciale di cui lei parlava, ma era invischiata in una logorante friendzone. Non aveva nessun motivo per pensare che Dajan fosse interessato a lei in un’ottica diversa da quella dell’amica. Anzi, già quella era una grossa conquista per un’asociale patentata come lei.
Poche settimane prima, il ragazzo le aveva portato l’opuscolo di un college del Kentucky che elargiva borse di studio a studenti atleti. Il campus offriva strutture attrezzate che andavano dall’atletica al basket e Dajan l’aveva scelto come college per l’anno successivo. Lasciandosi contagiare dal suo entusiasmo, anche lei aveva valutato quell’opzione, pur avendo ancora un anno di tempo in più rispetto a lui, e alla fine avevano deciso che si sarebbero rivisti proprio in quel campus.
 
Dajan fece un altro paio di tiri e si sedette sulla panchina. Il tempo a sua disposizione si stava esaurendo, ma non il nervosismo. Kim sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Nell’attesa, preferì tornare al ricordo che aveva appena riesumato dalla soffitta della sua mente.
Quel giorno aveva seguito Trevor fino alla pista, dove Kim era venuta loro incontro.
Contrariamente alla volta precedente, Kim  si comportò in modo molto più affabile, scusandosi addirittura con lui per i modi bruschi:
 
“ah Dajan, scusa per l’altra volta, ma ero un fascio di nervi a causa di questa gara”
Il ragazzo sollevò le sopracciglia, sorpreso da quella premura mentre Trevor s’intrometteva:
“allora andiamo a festeggiare. Devi pagarci da bere Kim”
Kim non protestò, ma continuava a sorridere gratificata e quella soddisfazione le impedì di notare il modo in cui Dajan aveva cominciato ad osservarla.
 
Kim trotterellò fino alla fermata dell’autobus numero 14.
Le era bastato allontanarsi da casa e pensare al fatto che avrebbe rivisto il cestista, per vedere scomparire tutto il suo cattivo umore.
Passò davanti ad una vetrina e, vedendo riflesso il suo viso allegro, cercò di darsi un contegno. Non poteva reagire in quel modo, saltellando felice come Candy Candy nella prateria ogni volta che doveva incontrare il ragazzo: aveva pur sempre un’immagine da difendere.
Salì sull’autobus che nel suo percorso, oltrepassò un locale al quale la ragazza era molto affezionata. Più volte si era recata lì con Trevor e altri suoi amici ma nel suo cuore, c’era un altro motivo che la sportava a sorridere ogni volta che vedeva l’insegna Roxy:
 
“un brindisi a Kim!” esclamò Trevor, tintinnando il proprio bicchiere contro quello dell’amica e di Dajan.
I tre si erano seduti su uno dei tavoli all’interno del Roxy che quel giorno aveva una clientela piuttosto nutrita.
“dovremo fare il bis” riflettè scolandosi d’un fiato il contenuto del suo bicchiere
“tanto pago io” ridacchiò Kim tra l’amaro e il sarcastico.
Le pareti tinteggiate di rosso mattone, insieme al mobilio di legno scuro, conferivano all’ambiente un’atmosfera calda e raccolta. Ovunque erano appese insegne di latta dall’aspetto vintage e una leggera musica di sottofondo, rallegrava l’ambiente.
Trevor buttò distrattamente l’occhio sull’orologio a forma di bottiglia e si spiaccicò la mano in fronte:
“merda! Devo andare a prendere mia sorella a scuola! Ragazzi ci vediamo domani, sono già in ritardo”
In meno di un minuto, il ragazzo si era volatilizzato, lasciando Kim e Dajan da soli.
La velocista scosse il capo divertita: era tipico dell’amico ricordarsi all’ultimo degli impegni che aveva preso, piantandola in asso.
“beh, allora come se la cava Castiel come nuovo capitano?” chiese al moro.
Per fortuna davanti a lei c’era un ragazzo, altrimenti la conversazione avrebbe fatto fatica a decollare. Relazionarsi con l’universo maschile era la cosa più naturale per lei in quanto veniva sempre trattata come una rappresentante di quel mondo.
“all’inizio dell’anno bene, ma ultimamente deve avere qualche problema con la sua ragazza: salta spesso gli allenamenti e il fatto di non avere un prof che ci segue durante l’allenamento non è d’aiuto… poi è di cattivo umore… non è più lo stesso di questo inverno”
“forse dovreste sostituirlo” suggerì Kim, giocherellando con il lembo di un tovagliolo.
“si riprenderà” replicò Dajan con convinzione.
“sei un ottimista tu”
“siamo una squadra” puntualizzò il cestista, guardandola direttamente negli occhi. Kim sussultò impercettibilmente, sorpresa dalla sicurezza che traspariva da quegli occhi “abbiamo eletto Castiel capitano per una serie di motivi e non basterà certo un periodo no togliergli il titolo. Vorrei solo capire come aiutarlo, ma non si apre con nessuno tranne che con Nathaniel e quel tipo strambo della 4^ B”
“Lysandre White?”
“esatto”
Kim si accasciò contro lo schienale della sedia e allungò le gambe sotto il tavolo con poca grazia. Quel tipo di gesti tradivano la sua tendenza a preferire la compagnia dei maschi, finendo per assimilarne inconsciamente i comportamenti.
“secondo me sbagli ad assecondare Black” sbottò “ hai visto all’ultima partita no? Ha fatto un occhio nero ad un altro giocatore. Fosse per me, l’avrei cacciato dalla squadra”
“ma non è questo lo spirito che deve alimentare un gruppo: nello sport di squadra, se uno ha un problema, va aiutato, non isolato”
Kim rimase in silenzio, riflettendo sulle argomentazioni avanzate da Dajan ed infine commentò:
“belle parole ma sarà per questo che preferisco gli sport dove posso competere da sola. Non sono fatta per stare in una squadra”
“tu sei fatta per correre da sola” sorrise il ragazzo, piegando il busto verso di lei.
Aveva cambiato tono, non era più severo ma accondiscendete e gentile.
“sono fatta per essere libera” precisò Kim, lasciandosi contagiare da quel candore. Aveva sentito il cuore accelerare e aveva abbassato lo sguardo non appena aveva incrociato gli occhi scuri del ragazzo.
Dajan aveva un modo diverso di relazionarsi a lei: mentre i suoi amici la trattavano come una di loro, senza vergognarsi di fare certi commenti volgari o comportamenti analoghi in sua presenza, il cestista le parlava con educazione e garbo.
Non le era mai capitato prima di trovarsi di fronte ad un ragazzo e sentirsi così in soggezione. Per la prima volta in vita sua, desiderò essere più femminile ed essere oggetto delle attenzioni che solitamente vengono riservate alle ragazze. Arrossì e si prese a calci mentalmente per la frivolezza di quei pensieri.
“sei sempre stata un’atleta?”
Alzò lo sguardo verso il cestista che l’aveva distratta dalle sue sciocche riflessioni.
 “mio padre è un personal trainer. Diciamo che lo sport ce l’ho nel sangue. Però non mi sono mai cimentata nel gioco di squadra”
“saresti un’avversaria interessante”
Solo una sportiva orgogliosa come Kim poteva lusingarsi per quel complimento, al punto da arrossire vistosamente e abbassare lo sguardo. Era terribilmente a disagio, non sapeva come replicare per rompere quell’imbarazzante silenzio.
Dajan nel frattempo sorrideva intenerito: quella ragazza era davvero buffa e contradditoria. All’apparenza sembrava acida e fredda, ma, grattando un po’ la superficie, veniva alla luce una personalità dolce ed emotiva.
 “è stata una bella chiacchierata” mormorò finalmente Kim, alzandosi dal suo posto. Aprì il borsone di atletica e recuperò il portafoglio.
“aspetta” la fermò il ragazzo allungandosi e bloccandole la mano. La velocista sussultò per quel contatto mentre lui ritirava velocemente la mano “non esiste che mi faccia pagare il conto da una ragazza”
Kim sbattè più volte gli occhi sorpresa e imbarazzata:
“non si fanno questo genere di problemi i miei amici, specie Trevor che è persino in debito con me, figurarsi se ti devi fare questi scrupoli tu. Eravamo d’accordo che vi avrei offerto io da bere”
Borbottò quella spiegazione a disagio, grattandosi la guancia ed incapace di sostenere lo sguardo del suo interlocutore.
Nel profondo del suo animo però, era lusingata: scoprì che quel genere di premure non la infastidivano o, per lo meno,  non la infastidiva il fatto che fosse Dajan a riservargliele.
“non me ne frega niente di quello che fanno gli altri” asserì perentorio il cestista avvicinandosi alla cassa. Si voltò verso di lei e, con un sorriso incantevole concluse “ad una ragazza come te mi fa piacere pagare da bere”
Kim rimase imbambolata a fissarlo mentre il cestista saldava il conto.
 
La ragazza sorrise mentre scendeva dall’autobus e si incamminò verso il campo da basket.
Dopo quella chiacchierata al pub, era tornata a casa di ottimo umore e da quel giorno, aveva cominciato a pensare a lui, a quel ragazzo che con lei era stato così premuroso e gentile. Aveva cominciato a interessarsi a Dajan, sfruttando il tontolone del suo amico Trevor. Aveva così scoperto che il cestista non aveva una ragazza ma che era anche piuttosto disinteressato alla questione. Trevor sosteneva che nessuna corrispondesse ai suoi canoni e che avesse gusti piuttosto eccentrici, senza però avere chiaro quali fossero. Tuttavia, nonostante l’interesse maturato per Dajan, tra lui e Kim non ci fu più alcun incontro, poiché nessuno dei due sembrava intenzionato a cercare l’altro. Anziché alimentare quella debole scintilla che si era accesa nel locale, i due l’avevano lasciata spegnersi: da parte della ragazza, il problema era la sua insicurezza combinata all’orgoglio: non sarebbe mai riuscita ad avvicinarlo con una scusa qualsiasi  e, peggio ancora, non si sarebbe mai abbassata a chiedere a Trevor di farle da cupido.
Si era così rassegnata all’evidenza che Dajan non fosse interessato e lei e lasciò alle vacanze estive il compito di farle dimenticare i sentimenti che era riuscito a smuovere in lei.
L’anno scolastico era ricominciato ed erano diventanti due estranei: se si incrociavano in corridoio, lei fingeva di non vederlo e si voltava da un’altra parte, convinta che se si fosse fermata a chiacchierare con lui, sarebbe risultata solo una palla al piede. Questo contribuì ad accentuare il suo atteggiamento burbero e sostenuto, almeno finchè Erin Travis era entrata nella sua classe.
Sorrise pensando che era proprio lei era stata la prima persona a cui la nuova arrivata si era rivolta:
 

senti bella non ce l’ho con te. Forse dopo la Joplin mi interroga, e continuerà a farlo finché non prendo una C. Sinceramente non vorrei che la cosa andasse avanti fino a giugno…intendi?”
Senza celare minimamente la sua perplessità, Erin annuì e lasciò che Kim proseguisse il suo disperato ripasso flash.

(tratto dal capitolo 2 – Un vicino molesto)
 
Di certo le aveva dato la dimostrazione del lato più sgarbato di sé ma per fortuna questo non aveva impedito alla ragazza di avvicinarsi a lei, al punto da catturare la sua simpatia.
Poco dopo l’ammissione di Erin alla squadra di basket, l’aveva ritrovata in infermeria e dopo un rapido scambio di battute, ecco che era ricomparso lui:
 
 “hai preso una pallonata in faccia?” chiese Kim con tono sfottente.
“precisamente” rispose Erin con un’aria talmente neutra che la ragazza rise.
“sei proprio un soggetto” commentò dopo un po’.
“è un’offesa?”
“quello che ti pare”
disse alzandosi. Non riusciva a scaricare bene il peso sulla gamba e si sbilanciò. Controvoglia, fu costretta a tornare seduta.
Le sembrò che Kim  quel giorno fosse un po’ meno rude rispetto al primo giorno di scuola. Stava per chiederle qualcosa, quando si aprì la porta, ma anziché entrare l’infermiera, fece capolino Dajan.
“tutto bene?” chiese rivolto ad Erin.
“sì, ho ancora 5 litri di sangue in circolo” scherzò la segretaria del club di basket.
oro” sorrise Dajan il cui sguardo si spostò su Kim.
“club di pallavolo?”
“no atletica”
replicò laconica la velocista.
Dajan annuì leggermente.
“ci vediamo in palestra allora” tagliò corto, rivolgendosi a Erin e si chiuse la porta alle spalle.

(tratto dal capitolo 6 – Provocazioni)
 
L’ingresso di Dajan in infermeria l’aveva spiazzata. Erano passati mesi dall’ultima volta in cui si erano parlati ed evidentemente quel tempo era stato sufficiente al ragazzo per dimenticarsi completamente di lei.  
 
Dajan sospirò. All’inizio dell’anno scolastico aveva sentito dire che Kim si era iscritta al club di pallavolo per questo le aveva rivolto quella domanda, facendo quella gaffe imbarazzante.
 
Anche se aveva cercato di non darlo a vedere, la velocista si era irritata non poco: possibile che già si fosse dimenticato di lei? Club di pallavolo? Ma se gli aveva detto che non era fatta per gli sport di squadra! Inoltre vederlo preoccuparsi per Erin l’aveva stizzita non poco e aveva scaricato tutto il suo nervosismo sulla malcapitata ragazza.
 
Quella volta Dajan però non si era recato in infermeria per controllare la compagna di squadra. Poco dopo che Erin era uscita dalla palestra, si era presentato da Nathaniel per avvertirlo di quel "ricovero", in quanto segretario del liceo, e il biondo a sua volta, aveva commentato che anche Kim Phoenix si era infortunata.
Il cestista non ci aveva pensato due volte a correre ad assicurarsi che stesse bene, ma una volta fatto capolino nella stanza, l’imbarazzo aveva preso il sopravvento e aveva finito per concentrare una finta preoccupazione sulla persona sbagliata.
 
Finalmente cominciò ad intuire da lontano la sagoma della ragazza. Controllò nella tasca dei pantaloni che il regalo fosse ancora lì e le sue mani sudate entrarono in contatto con la carta da regalo, ormai stropicciata a causa delle continue torture a cui l’aveva sottoposta il ragazzo nella snervante attesa di consegnare il pacco.
Era troppo teso. In fondo si trattava di un semplice regalo, poteva sempre dirle che era in amicizia, anche se questo non l’avrebbe portato da nessuna parte. Più lei si avvicinava e più si sentiva un codardo.
 
“facciamo progressi capitano. È la prima volta che compri un regalo ad una donna che non sia tua sorella”
Trevor ridacchiava allegro, mentre una porta automatica si apriva davanti ai ragazzi, consentendo loro il passaggio.
“appunto per questo ti ho chiesto consiglio. Dici sempre che conosci Kim meglio di chiunque altro” puntualizzò Dajan, guardandosi attorno poco convinto.
“ecco perché ti ho portato qui”
Lo sguardo dei due ragazzi cominciò a studiare le boccette di vetro, le confezioni eleganti e colorate, così estranee al loro habitat naturale: erano in profumeria.
“mi spieghi perché diavolo mi hai portato qui?” chiese il cestista a disagio.
“le regali un profumo no?”
“Kim non mi sembra tipa da profumo” obiettò Dajan.
“beh, tu a cosa avevi pensato?” replicò prontamente il compagno di squadra, offeso per il scarso successo che aveva riscosso la sua idea.
“a qualcosa di sportivo”
“lascia perdere” tagliò corto Trevor, sventolando la mano destra “così non le trasmetti il giusto messaggio. Le faresti un regalo da amica. Devi puntare a qualcosa che le faccia capire che la consideri una donna”
Dajan passò la mezz’ora successiva ad ascoltare le motivazioni di Trevor che si dava arie da grande conoscitore della psiche femminile. Un po’ per la sua discutibile capacità di persuasione, un po’ per l’insensatezza di alcune sue considerazioni, uscirono dal negozio a mani vuote.
Dajan non era convinto che fosse quello il genere di regali adatti a Kim e, dopo aver bocciato una lista di opzioni proposte da Trevor, quest’ultimo sbottò con un arrendevole:  
“prendile quello che ti pare”
 
Il quello che ti pare si era concretizzato in un cardiofrequenzimetro. Il ragazzo aveva notato quanto Kim fosse interessata a quell’apparecchio quando lo aveva accompagnato alla Pentathlon settimane prima.
Ciò nonostante, cominciò ad avere mille ripensamenti e si convinse di aver fatto una scelta idiota. Non poteva darle un simile regalo. Trevor aveva ragione: lei era una ragazza, doveva prenderle qualcosa di più femminile.
Kim però era troppo vicina e già lo salutava con la mano:
“ehi, non si saluta più?” scherzò avvicinandosi.
Dajan cercò di nascondere il rigonfiamento della tasca, sortendo l’effetto contrario: Kim indirizzò la sua attenzione in quel punto e la domanda sorse spontanea:
“che cos’è?”
“n-niente”
La ragazza sbattè le ciglia, perplessa ma non provò ad insistere. Non era da lei supplicare le persone.
Dajan dal canto suo si sentiva un imbecille e mentre lei si era chinata per raccogliere la palla da terra, riuscì a formulare tutto d’un fiato:
“èperte”
Kim alzò lo sguardo trovandosi sopra la testa un pacchetto con un incarto natalizio, un po’ sgualcito. Tornò in piedi e studiò l’oggetto, accogliendolo tra le mani:
“è un regalo?” chiese come se non ne avesse mai visto uno prima in vita sua.
Dajan annuì in imbarazzo mentre il viso della ragazza attraversò tutte le sfumature, dal rosso al viola, ed infine riuscì ad articolare:
“m-ma io non ti ho fatto niente”
“non voglio niente in cambio” chiarì Dajan che non aveva previsto quella reazione:
“no sul serio, sono pessima! Non ci ho neanche pensato” si colpevolizzò Kim, sentendosi sempre più in difficoltà. L’imbarazzo le era costato parole che, non solo non avrebbe dovuto pronunciare, ma che erano pure false: aveva passato una settimana a torturarsi nel dubbio di regalare qualcosa a Dajan per Natale, ma temeva di metterlo in difficoltà, convinta che lui non avesse nulla per lei.
Il cestista  sorrise, cercando di recuperare un po’di compostezza:
“non preoccuparti Kim… però potresti dirmi subito se ti piace? In realtà non sono convinto che sia stato una grande idea” mentre il cestista parlava, la mora aveva cominciato a liberare l’incarto “cioè, voglio dire, per una ragazza non è il massimo come regalo”
Gli occhi di Kim cominciarono a brillare dalla gioia e dallo stupore. In cuor suo temeva di trovarsi di fronte un profumo che, a prescindere dalla qualità, avrebbe trovato nauseante. A quel punto le sarebbe stato difficile mentire e fingere di apprezzare quel pensiero. Odiava ogni genere di articolo femminile, dai profumi ai trucchi, preferendo un look naturale e acqua e sapone, che ben si sposava con la sua indole atletica e semplice.
“è meraviglioso Dajan!” esclamò quasi commossa. Gli occhi sembravano lucidi tale era la sua contentezza. Non osava chiedersi quanto il ragazzo l’avesse pagato dal momento che si trattava di un modello migliore di quello che aveva adocchiato lei.
Il ragazzo rimase senza parole mentre Kim era tutta un sorriso.
“davvero ti piace? Cioè so che ti sarebbe stato utile però non pensavo che”
“lo adoro” lo interruppe “ti bacerei se solo potessi” pensò lei tra sé e sé.
“grazie” mormorò invece con un sorriso luminoso.
Dajan arrossì leggermente e le suggerì:
“così puoi usarlo quando ti alleni”
“per il basket?” chiese Kim dubbiosa.
“per le gare di atletica” replicò lui con un’espressione eloquente. La ragazza dischiuse le labbra, stupefatta. Quando aveva accettato di entrare nella squadra di basket, era stata costretta a rinunciare al club di atletica e con esso, alla partecipazione alle gare in primavera.
Anche se aveva cercato di non darlo a vedere, quella decisione era stata molto sofferta, al punto che, durante il weekend, andava spesso a correre dopo gli allenamenti con Dajan.
“è da un po’ che mi sono accorto che continui ad allenarti” le confessò il ragazzo, sorvolando sul come avesse fatto a scoprirlo “vorresti tornare al club di atletica?”
Kim deglutì e inspirò:
“ho il torneo. Non intendo tirarmi indietro ora”
“ma una volta finito il torneo?” insistette il cestita.
La ragazza abbassò il capo e non rispose, così fu lui a proseguire:
“se dopo il torneo vorrai lasciare la squadra, lo capiremo Kim” mormorò il ragazzo, accucciandosi a recuperare la palla e cominciando a palleggiare “del resto, siamo stati noi a vincolarti a farne parte. È un tuo diritto tornare al club che preferisci”
“non credo sarà possibile, non solo perchè ormai l’anno è inoltrato, ma anche perché non sarei più la benvenuta. Del resto ho voltato loro le spalle” borbottò Kim dispiaciuta.
Non aveva mai detto a nessuno, nemmeno a Trevor, quanto le bruciava il fatto di non poter gareggiare quell’anno.
“non dire così” la consolò Dajan con un sorriso incoraggiante “e poi credimi: qualsiasi club sportivo farebbe carte false pur di averti in squadra”
Il ragazzo le sorrideva ma in quella smorfia, c’era una piega amara che la ragazza non riusciva a giustificare. Ciò che Kim non poteva immaginare era quanto al ragazzo sarebbero mancati i loro allenamenti settimanali e la possibilità di vederla tutti i pomeriggi scolastici.
 
Ambra controllò nervosamente l’ora sullo schermo del cellulare: erano le cinque e mezza e aveva un treno da prendere. Voleva disperatamente parlare un’altra volta a Sophia prima di tornare a casa ma il tempo stringeva.
“guarda che saremo ben felici di averti ospite da noi. Finchè Sophia rimane qui, la sua stanza è libera” le ricordò Amanda, rinnovando un invito che le aveva posto pochi minuti prima. La bionda scosse la testa e sorrise educatamente:
“la ringrazio, ma preferisco tornare a casa”
In quei momenti le sue abilità di attrice rivelavano tutta la loro utilità: anche se qualsiasi posto era preferibile a villa Daniels, non poteva approfittare di una simile gentilezza.
Pur avendo sepolto l’ascia di guerra con Erin, le sembrava ancora troppo strana la piega che aveva preso il loro rapporto, piegato dalle circostanze. Essere ospite a casa sua avrebbe contribuito ad aumentare la sua confusione e disagio.
“mi sa che farò meglio ad incamminarmi. Ho il treno alle sei, così arriverò a casa per ora di cena” commentò la ragazza, rassegnandosi alla volontà del destino. Non avrebbe parlato con Sophia quel giorno.
“allora ti chiamerò appena si riprende dall’anestesia” le promise Erin.
Ambra sorrise e dopo aver rinnovato la propria gratitudine alla famiglia della ragazza, li salutò.
Amanda volle abbracciarla ancora una volta, al punto che la bionda sfruttò un ciuffo biondo di capelli per nascondere le emozioni che quel gesto avevano fatto esplodere in lei: l’aveva abbracciata più volte quella donna sconosciuta che sua madre nell’arco di tutta la sua vita.
“aspetta Ambra ti accompagno io in stazione” si propose Erin, alzandosi anch’ella in piedi.
“non serve. Chiamerò un taxi”
“non fare sempre l’orgogliosa!” la rimproverò allegramente, recuperando dal padre, le chiavi della macchina.
 
Erin accompagnò Ambra fino al binario. C’erano persone di ogni tipo: chi con pacchetti regalo, mamme con figli chiassosi, lavoratori stanchi e frustrati per essere stati costretti a lavorare anche il giorno della Vigilia. La stazione dei treni diffondeva di sottofondo un jingle natalizio che, nonostante la commercialità del pezzo, instaurava nell’ambiente caotico un’atmosfera allegra. Finalmente anche Erin potè assaporare il gusto della sua festa preferita che l’incidente della sorella aveva guastato.
“grazie per essere venuta Ambra”
“me l’hai già detto sette volte Travis” commentò la ragazza cercando di infondere un tono seccato nella sua voce.
“non far finta che ti dia fastidio, bionda” la rimbeccò allegramente Erin.
Ambra sorrise divertita e si ficcò le mani in tasca:
“salutami tua sorella” e, arrossendo leggermente aggiunse “e dille che prenda un fagiolo di Balzàr
Erin la guardò interrogativa:
“cos’è? Una parola in codice tra nerd?”
Ambra sbuffò imbarazzata, mentre una voce atona richiamava i passeggeri a salire sul treno.
“devo andare”
“allora ci vediamo al liceo… graz-” la bionda la interruppe:
“ringraziami un’altra volta e ti picchio”
Le due risero divertite e, finalmente, si salutarono.
Ambra scelse un posto lontano dal finestrino, in modo che Erin non potesse vederla mentre il treno si allontanava. Ora che finalmente era sola, poteva lasciare che delle timide lacrime di gioia le rigassero quel viso solitamente freddo e inespressivo.
 
La ragazza scese dal treno e controllò il cellulare. Anche se erano quasi le sette, né sua madre né suo padre l’avevano contattata. Trovò un messaggio del fratello a cui rispose sbrigativamente.
La neve che aveva cominciato a cadere un’ora prima,  aveva avvolto la sua Morristown. Per la prima volta in vita sua quella città non le sembrò così insignificante e fredda. C’era un che di fiabesco nel silenzioso manto bianco che aveva ricoperto i tetti e i rami secchi degli alberi.
Non aveva fretta di tornarsene a casa: rientrare in quell’ambiente, le avrebbe solo rovinato l’umore. Decise così di passare per il centro, guastandosi un po’ le vetrine e cenare al ristorante della famiglia di Lin, sperando che l’amica non fosse così impegnata da non potersi fermare a chiacchierare un po’ con lei.
Dopo il concerto del liceo, il loro rapporto era andato migliorando sempre più, tanto che la bionda le aveva raccontato tutto ciò che aveva detto ad Erin, dalla sua passione per i videogiochi, passando per il periodo buio della sua vita, fino ad arrivare a Sophia. La cinesina l’aveva ascoltata in silenzio, senza giudicarla, rivelandosi dotata di un’insospettabile sensibilità. A quel punto Ambra le aveva confidato di essere segretamente innamorata di Armin Evans e Lin, anziché scomporsi, le rivelò che si era accorta da tempo di quella sua infatuazione, lasciandola alquanto sorpresa.
Varcò la soglia del ristorante, spingendo la pesante porta di vetro, su cui troneggiava un’insegna con ideogrammi illegibili.
Appena mise piede nella hall, notò una certa frenesia. La sorella maggiore di Lin, Haily, le sorrise da dietro il bancone e le chiese di pazientare perché c’era molto lavoro quella sera:
“Lin arriverà a momenti. Puoi aspettarla qui?”
“c’è parecchia gente stasera” commentò Ambra guardandosi attorno.
“e questo è niente. Appena cominceranno ad arrivare tutti quelli che hanno prenotato, sarà un inferno… e siamo anche senza lavapiatti”
“posso aiutare?”
Haily guardò la ragazza con evidente perplessità e le chiese di ripetere. La bionda arrossì e rinnovò la sua generosa offerta.
“sei sicura? Guarda che ti prendo seriamente” esclamò la ragazza, incapace di capire se la ragazza si stesse beffando della sua ingenuità.
La bionda annuì convinta: era andata lì con l’intenzione di cenare ma era evidente che sarebbe stato piuttosto patetico farlo in solitudine dal momento che Lin sarebbe stata occupata tutto il tempo ad aiutare al ristorante. L’idea quindi di poterle dare una mano era sorta spontanea: aveva troppo da farsi perdonare da quella famiglia. Di fronte alla determinazione della ragazza, Haily abbandonò momentaneamente la sua posizione e la guidò nelle cucine.
 
Le due entrarono in un locale spazioso e dai soffitti bassi, se paragonati a quelli del ristorante dove i clienti venivano serviti. Sui fuochi erano disposte pentole basse e larghe, da cui provenivano intensi vapori biancastri..
"papà, abbiamo trovato un altro lavapiatti"
Il capo cuoco, che diversamente dagli altri lavoratori indossava una divisa nera, alzò lo sguardo dal tagliere su cui affettava agilmente una cipolla, riducendola a pezzetti piccolissimi.
Appena riconobbe Ambra, sbottò irato:
"ti sembla questo il momento di schelzare Haily? Pensa piuttosto a chiamale quello scavezzacollo che abbiamo assunto ieli e digli di sbrigalsi"
"ha detto che sta arrivando e comunque il lavoro è troppo per lui. È stata Ambra ad offrirsi di aiutarci" protestò la figlia, mentre da dietro una porta a battenti compariva Lin, che guardò l'amica con aria interrogativa.
"Farò del mio meglio" insistette la bionda, sentendo addosso a sé gli sguardi curiosi di tutti i presenti. Guardava il signor Yang con determinazione, intuendo facilmente i suoi pensieri: aveva di fronte l’ereditiera dell’impero informatico Daniels desiderosa di abbassarsi al degradante lavoro di lava piatti.
A quel punto, di fronte al tentennamento del padre, Lin s’intromise:
“dalle questa possibilità papà,  e poi non può certo essere peggio di quello che abbiamo assunto"
“ma se sei stata tu ad insistere perché lo prendessi!” sputò furente il proprietario, che vedeva accumularsi gli ordini. Non poteva concedersi il lusso di intrattenersi ancora a discutere e poi, la necessità di avere qualcuno che lavasse piatti e stoviglie diventava sempre più urgente.
Delegò quindi alla figlia minore il compito di istruire la neoassunta e tornò a concentrarsi sui fornelli.
Lin portò Ambra alla sua postazione, chiedendole il perché di quella strana proposta. Ambra fece spallucce e borbottò qualcosa sul fatto che era curiosa di provare sulla sua pelle cosa fosse il lavoro.
Lin finse di crederle  e le spiegò che a momenti sarebbe arrivato anche un altro ragazzo ad aiutarla.
"anche lui è alla prima esperienza quindi cerca di fare del tuo meglio per compensare… è piuttosto impedito. Tuttavia, per ora non abbiamo ricevuto altre richieste di lavoro visto che nessuno intende cercarsi lavoro sotto le feste" spiegò la ragazza.
La bionda annuì e, dopo qualche altra sommaria indicazione, Lin fu costretta a lasciarla per andare a servire in sala.
Ambra cominciò ad ordinare i piatti nell'acquaio. Alla sua destra venivano scaricati con non curanza piatti sporchi e stoviglie e se non si fosse messa subito all’opera, quella mole ingente di materiale l’avrebbe sepolta viva. Tuttavia, nonostante la frenesia e la pressione che si respirava nell’aria, si sentiva eccitata: proprio lei, la ragazzina viziata e ricca, che non aveva mai lavorato in vita sua, era diventata una lavapiatti per una sera. Come una fiaba di Cenerentola al contrario.
Il fatto che poi che nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza di quel lato così particolare del suo carattere, volenteroso e intraprendente, la eccitava non poco.
"insomma Evans! È il tuo secondo giolno e già sei in litaldo!"
Quel rimprovero così furioso la fece sobbalzare, distogliendo lo sguardo dal piatto che teneva tra le mani, al punto da scivolarle nell’acqua sporca.
Facendosi strada con il fare furtivo di un topolino, era appena entrato Armin. Armin Evans.
Il ragazzo sgattaiolava agilmente tra un cuoco e l’altro, borbottando qualcosa che fece ridere tutti meno che il suo datore di lavoro.
Solo quando arrivò alla sua postazione, si accorse che era già occupata.
Non si era accorto della presenza della ragazza, tanto era occupato a tentare di passare inosservato.
Sgranò gli occhi incredulo quando realizzò di avere davanti a sè Ambra Daniels, con un grembiule e i guanti in lattice. Forse la causa di quella incredibile visione, era il tempo trascorso fino a poco prima davanti al computer a giocare. Quell’ologramma però era dotato anche di sonoro:
"ciao" mormorò lei arrossendo a disagio.
Si sarebbe scavata una buca per la vergogna in quel momento: non solo non voleva essere vista da nessuno che la conoscesse, ma soprattutto non da lui.
Capì finalmente perché Lin avesse insistito affinchè il padre assumesse quel lavapiatti: l’ovvio obiettivo era farlo parlare prima o poi con l’amica. Ciò che la cinesina non aveva previsto, era quanto precoce sarebbe stato il loro incontro.
Armin era troppo basito per rispondere, così la bionda cominciò ad irritarsi:
"Non ti hanno insegnato a salutare?"
"Quello è il saluto di The Owl" mormorò il moro, ancora perplesso.
Inconsapevolmente, nel salutarlo, la ragazza aveva sollevato il braccio e aveva disposto le dita, nel gesto caratteristico di quel videogioco. Aveva incorporato quella curiosa posa nella sua routine, dal momento che, a parte con Sophia, nessuno aveva mai ricollegato quella strana gestualità, ad quel videogame praticamente sconosciuto.
"dimmi che giochi anche tu a The Owl!" la supplicò il ragazzo su di giri.
"ALMINIO!" lo rimproverò il capo cuoco "smettila di chiacchielale e mettiti al lavolo!"
"Armin" lo corresse il ragazzo, borbottando risentito per la storpiatura del suo nome.
"sentito? Non siamo qui per perdere tempo" lo liquidò Ambra “mi sorprende vederti qui”.
"senti chi parla! Comunque resterò qui solo finché arrivo a potermi pagare la nuova Play"
“o finché ti cacciano” lo schernì Ambra che non aveva potuto fare a meno di osservare quanto il rgazzo fosse inadatto a quel lavoro: Armin si era avvicinato ad una voluminosa pila di piatti e con un incredibile sforzo, aveva tentato di sollevarla. Era riuscito a fare appena tre passi, poi era stato costretto ad appoggiarla su un piano di lavoro e riprendere fiato.  
"non ti offendere, ma hai proprio le braccia di ricotta"
"diciamo che la mia specialità sono le dita" spiegò il ragazzo senza scomporsi.
Era più forte di lei maltrattarlo: non gli avrebbe mai permesso di capire che era proprio lui il suo punto debole. Era sicuramente un controsenso, visto che era innamorata di lui da diverso tempo, ma il suo orgoglio le impediva di comportarsi diversamente. Inoltre, vedendolo così buffo e ridicolo, si chiese se in lui esistesse ancora quel lato più maturo che l’aveva affascinata.
La bionda si avvicinò alla pila di piatti che Armin aveva abbandonato e la spostò agilmente all'interno dell'acquaio.  Sorrise tra sé e sé sentendo lo sguardo allibito del moro, evidentemente risentito. Nemmeno lei aveva familiarità con i lavori domestici ma la costanza con cui andava in palestra le aveva permesso di sviluppare un fisico forte e tonico. Invece il tempo che trascorreva Armin davanti ad uno schermo gli aveva valso un corpo flaccido e pigro.
Risentito per il velato insulto alla sua virilità, il moro aggiunse altri piatti ad una pila già pronta e si preparò a spostarla: la sua buona volontà non bastò a compensare l’assenza di muscoli e, inavvertitamente, alcuni piatti sul fondo si sfracellarono a terra, risuonando nella cucina.
"ALMINIO!" urlò dall'altro lato della cucina il signor Yang, con una vena sulla tempia che gli stava esplodendo.
"come diavolo fa a sapere che sono stato io e non tu?" borbottò il ragazzo mentre Ambra ridacchiava.
Aprì l'acqua e cominciò a sciacquare le stoviglie.
"non dovresti metterci il detersivo?" indagò il ragazzo, osservando l’acquaio.
"ah giusto che sciocca.. dov’è?"
“qua sotto”
Ambra aprì una confezione di detersivo per piatti e, dopo averne svitato il tappo, ne svuotò l'intero contenuto, mentre Armin era troppo basito per fermarla in tempo. Quando più di metà detersivo blu aveva colorato l’acqua, il moro esclamò:
"ma quanto ne metti? Guarda che ne basta solo un po'!"
Il getto d’acqua corrente cominciò a creare una nuvola biancastra di schiuma che si ingrossava sempre più man mano che i due ragazzi discutevano.
"ma così si puliscono bene" si difese debolmente Ambra che non aveva idea di come dovesse muoversi. Non pensava che lavare i piatti fosse un'operazione così complicata. Armin le aveva allungato la bottiglia di detersivo, per cui le era sembrato ovvio usarla tutta.
"facciamo che tu carichi la lavastoviglie e io li pulisco con la spugna" ordinò lui autonominandosi direttore dei lavori.
Gettò nel tritatutto i residui di un pasto poco gradito e si mise all'opera mentre Ambra fissava confusa lo strano apparecchio con cui doveva interagire:
"non c'è un tasto play da qualche parte?" chiese dubbiosa, dopo aver passato un minuto buono a studiare la macchina. Il suo collega scoppiò a ridere e commentò:
"mica è una console! Devi premere start"
"ah, adesso l'ho visto"
La ragazza premette il pulsante e aprì lo sportello, finendo per essere investita da un getto d'acqua rotante. Le pale dell'apparecchio cessarono di ruotare quasi subito mentre Armin aggiungeva ironico:
"... dopo averla caricata"
 
La serata cominciò a decollare e in cucina si accumulavano sempre più piatti sporchi e con essi, le stoviglie che erano state impiegate per prepararli.
“ma quanta roba è?” sbuffò Armin “perché tu non ti lamenti?”
Ambra non avrebbe mai ammesso quanto in realtà fosse felice in quel momento. Le piaceva avere accanto a lei il ragazzo ma era bravissima nel camuffare la sua gioia in sopportazione. Armin sparava una battuta dietro l’altra e nonostante le risposte acide e sarcastiche della sua interlocutrice, il ragazzo non aveva perso la sua allegria.
“se devo fare un favore, almeno evito di farlo pesare”
Armin fischiò ammirato:
“allora lo ammette signorina Daniels che anche lei ha un cuore”
“ovvio che ce l’ho: come pensi che mantenga il sangue in circolazione?”
 “perché sei sempre sulla difensiva? Non ti si può mai fare un complimento” sbuffò, mettendo il broncio come un bambino.
“mi irritano i complimenti che non condivido”
“trovami qualcosa che non ti irriti”
Ambra recuperò una pila voluminosa di piatti e la spostò verso l’acquaio.
“di certo tu non sei nella lista” sbottò per lo sforzo, mentre il ragazzo, anziché aiutarla, rimaneva con le mani in mano.
“sei qui per aiutare la famiglia di Lin no?” insistette il moro giocando con la schiuma del detersivo.
ALMINIO! Vuoi una papelella?” lo rimproverò il proprietario passando dietro di lui.
Per lo spavento, ad Armin cadde una ciotolina di ceramica che teneva in mano e che si schiantò a terra. Il signor Yang si voltò furente mentre Ambra interveniva:
“è tutta intera. Non si è rotta” mentì.
Il capo cuoco non tornò a verificare la veridicità di quelle parole poiché aveva altro a cui pensare.
Ambra si chinò a raccogliere i cocci, accucciandosi al livello del ragazzo, che sorrideva sornione:
“che faccia tosta”
“se comincia a sottrarti dalla paga tutte le stoviglie che rompi, andrai in perdita, altro che Play Station”
Armin ridacchiò e i due complici, cercando di non farsi scoprire, occultarono il cadavere della ciotolina frantumata.
 
La serata trascorse quindi con quel clima festoso e allegro, grazie alla simpatia di Armin che fece crollare un po’ le difese solide erette dalla sua collega di lavoro, arrivando al punto da farla ridere, come non accadeva da tempo. Il ragazzo era riuscito ad annullare la sua tendenza a prendersi troppo seriamente e contagiarla con la sua, quasi infantile, spensieratezza. Inoltre, anche se come lavapiatti, Armin era decisamente pessimo, si era conquistato la simpatia di tutto il personale che lavorava al ristorante.
 
Era ormai l’una passata quando finirono di lavare anche l’ultimo piatto.
Il ristorante era già chiuso e la famiglia Yang era impegnata nelle pulizie del locale. Il proprietario insistette affinchè Ambra accettasse una retribuzione, ma la ragazza fu irremovibile mentre Lin e Armin sorridevano per i modi impacciati con cui la ragazza cercava di nascondere la sua generosità.
 
"vai a casa a piedi?"
Ambra si voltò verso Armin che le aveva aperto la porta del ristorante.
"no, penso che chiamerò la nuvola speedy" replicò sarcastica.
"non avrei mai immaginato che anche Ambra Daniels fosse una fan di Dragon Ball" la schernì divertito il ragazzo, affiancandola.
"non sono una sua fan. Mica sono infantile come te"
"guarda che ti lancio contro un'onda energetica"
La bionda ridacchiò e con lei anche il ragazzo. Casa sua non distava molto dal centro e non si preoccupava minimamente del fatto che avrebbe camminato da sola, nel buio della notte.
"mica penserai che ti lascerò andare a casa da sola a quest'ora?"
"che c'è? Vuoi che ti accompagni? " lo sfottè Ambra.
"ah-ah, guarda che sono un campione di arti marziali"
"guarda che non stiamo giocando a Tekken"
Armin rimase allibito e poi commentò:
"ma quanti videogiochi conosci?"
Ambra arrossì e si difese:
"beh… piacciono a mio fratello "
"balle! Nathaniel li ha sempre odiati... " e assumendo un'aria divertita, il moro la stuzzicò "e così Ambra Daniels è una nerd"
In tutta risposta lei sbuffò e accelerò il passo.
“che permalosa! Dai, vieni, ti do un passaggio in macchina” si offrì il ragazzo conciliante.
La bionda si arrestò e lo guardò titubante. Il ragazzo si era fermato accanto ad un pick-up e aveva estratto delle chiavi:
“tanto non ti lascerò andare a casa da sola. Quindi, a meno che tu non preferisca allungare il tempo in mia compagnia, ti conviene salire”
La bionda non se lo fece ripetere due volte e accettò l’offerta ma Armin sembrava risentito:
“uffa, avresti dovuto dire ma certo Armin! Pur di passare ancora un po’ di tempo in tua compagnia, attraverserei a piedi tutta la città”
Ambra lo guardò stizzita, irritata dalla pessima imitazione che il ragazzo aveva appena realizzato di lei. Inoltre la infastidiva quel sarcasmo dal momento che, sotto sotto, non le sarebbe dispiaciuto intrattenersi ancora a chiacchierare con lui.
Il guidatore accese la radio e la settò su una stazione che trasmetteva prevalentemente musica elettronica. La passeggera si sforzò di non protestare ma quel genere musicale proprio non riusciva a digerirlo.
"ho saputo che la sorella di Erin sta bene" commentò d'un tratto il ragazzo, facendosi serio.
Dopo ore passate l’uno accanto all’altra, ridendo e scherzano, Armin aveva cambiato espressione. Era concentrato sulla strada e il sorrisetto sornione che lo contraddistingueva, era scomparso.
"sì, l'intervento è stato molto delicato ma ce l'ha fatta"
"è una tua amica?"
"sì... una cosa del genere”
Il semaforo diventò giallo e da lontano Armin cominciò ad accelerare.
“non serve che corri così. Io non ho nessuna fretta di tornare a casa” lo frenò la ragazza “più tardi ci torno e meglio è"
"come mai?" chiese incuriosito.
"preferisco non incrociare mio padre. .. ultimamente è di pessimo umore a causa di Nuvola Rossa"
"di chi?" ripetè Armin, la cui voce uscì più acuta.
"Nuvola Rossa... l'hacker che sta violando i principali server del paese: la mia famiglia si occupa anche della messa a punto di antivirus, ma non possono nulla contro i virus informatici che produce Nuvola "
Di fronte all'espressione perplessa di Armin, la ragazza contestò:
"possibile che tu non l'abbia mai sentita nominare?"
"è una donna?" puntualizzò Armin sconvolto.
"secondo me sì: non mi sembra un nickname da uomo e poi mette di quei nomi così infantili ai virus... uno l'ha chiamato Gossip Girl... mi sorprende che un fanatico della tecnologia come te non l'abbia mai sentita nominare"
“il mio mondo è quello dei videogiochi, mica dei computer" obiettò il ragazzo.
"comunque sia, questa qui sta veramente mandando mio padre su tutte le furie... e non ti nascondo che la cosa non mi dispiace affatto" ammise la ragazza con una risatina che Armin trovò adorabile.
Si distrasse qualche secondo ad osservarla, dimenticandosi che la sua attenzione doveva essere concentrata sulla carreggiata.
"che c'è? " gli chiese Ambra
"niente" mentì il ragazzo avvampando, tornando a guardare la strada "stavo solo pensando che sei sempre stata stramba"
"senti chi parla"
"no sul serio! Sei un mistero per me”
“non vedo cosa c’entri con il discorso di prima” ribattè lei, cercando di celare il rossore che le aveva infiammato le guance. Quel ragazzo sembrava dire sempre la prima cosa che gli passava per la testa, senza curarsi degli effetti che le sue affermazioni potevano avere su chi li ascoltava.
“ti ricordi quando ti sei presa la colpa al posto di Molly?”
La bionda aprì leggermente la bocca, interdetta per quella frase, mentre Armin continuava:
“me lo ricordo perfettamente: era l’inverno scorso. Eravamo venuti io, Castiel e Lysandre a trovare Nathaniel. Mi sono allontanato da loro per cercare il bagno e ho finito per passare di fronte al salotto principale”
 
Molly era disperata.
Quel vaso era stata acquistato dalla signora Daniels nell’ultimo viaggio in Europa e si trattava di una pregiatissima ceramica spagnola. Per ripagarlo avrebbe dovuto rinunciare a due mensilità del suo stipendio, mettendo in ginocchio la propria famiglia che, rimasta senza il capofamiglia venuto a mancare l’anno prima, dipendeva da quei soldi.
Singhiozzò disperata davanti ad Ambra che goffamente, cercava di consolarla. Quella donnina così dolce e tenera, la persona che l’aveva cresciuta con l’amore e l’affetto che sua madre non aveva saputo darle, non meritava quella sofferenza.
Tuttavia, proprio in quel momento, Ingrid fece il suo ingresso nel salone: proveniva direttamente dal giardino della villa, in cui amava intrattenersi in ogni stagione dell’anno.
“che succede qui?” era sbottata con la sua voce stridula. I suoi occhi saettarono sui residui della pregata ceramica.
Guardò severamente Molly che cercava di darsi un contegno.
La governante cominciò a balbettare, sotto il cipiglio furente della padrona di casa:
“ho rotto quell’orribile statua che hai portato dalla Spagna” s’intromise Ambra, parandosi davanti alla donna.
“tu l’hai rotta? E perché?”
“te l’ho detto. Era brutta. Ti ostini ad esporla in bella vista ma è solo la dimostrazione del tuo cattivo gusto”
Molly stava per intromettersi ma Ingrid, avvelenata dalla rabbia, mollò un sonoro ceffone alla figlia, facendole voltare la testa.
Ambra incassò quel colpo mordendosi le labbra, mentre la madre sbottava:
“sei una delusione Ambra. Non è così che si comporta una signora ben educata”
“evidentemente non sei un grande esempio mamma” sputò la figlia, massaggiandosi la guancia dolorante.
Ingrid inspirò a fondo, mentre gli occhi diventavano due fessure. Girò i tacchi per evitare di ripetere quell’ignobile gesto davanti alla governate.
Lasciò sole le due donne e Molly abbracciò intensamente la sua salvatrice:
“oh Ambra, non dovevi”
“non preoccuparti Molly”
“ma perché l’hai provocata così?”
“se non l’avessi fatto, si sarebbe insospettita vedendoti piangere. Così almeno è andata fuori di testa e non ha avuto il tempo per riflettere… e poi è vero che quell’oggetto era orribile” aggiunse la bionda con un sorriso che non convinse la sua ex balia.
Il rossore sulla guancia diventava sempre più intenso e lei cercava di trattenere le lacrime di dolore:
“ti ha fatto tanto male?” si premurò la donna.
“non più di quanto me ne abbia fatto negli ultimi sedici anni”
 
“hai battute da eroe dei manga” ridacchiò Armin.
“ma hai origliato tutto!” esclamò Ambra indignata e al contempo imbarazzata.
Adorava Molly ma non accettava di farsi vedere così nobile e protettiva. Pian piano la rigida corazza che si era costruita stava cadendo in pezzi, rivelando tutta la sua fragilità e vulnerabilità.
"solo perché si trattava di Molly. Non sono una samaritana"
"e allora la tua esibizione al concerto di Natale accanto ad Erin che cos' era?"
"pensala come ti pare”
Il pick-up si fermò davanti a casa Daniels, sostando davanti l’ingresso principale.
Ambra scese dalla vettura e, prima di salutare il suo accompagnatore, commentò dolcemente:
 “era bello avervi per casa…  quando venivate a trovare Nathaniel”
Il ragazzo sorrise e non aggiunse altro.
In cuor suo, pensava che, da quando aveva scoperto quel lato misterioso e gentile del carattere di Ambra, aveva trovato un altro motivo per fare visita a villa Daniels.
 
Alexy si alzò scocciato, vagabondando per la stanza alla ricerca della porta. Non solo era stato svegliato dal fratello che rientrava dal lavoro, ma quest’ultimo stava facendo più rumore del dovuto.
Attraversò il corridoio ed entrò nella camera del gemello:
“che fai Army?”
La sua domanda venne deformata da un sonoro sbadiglio. Appena riuscì a mettere a fuoco l’immagine davanti a sé, strabuzzò gli occhi incredulo. Sicuramente stava sognando.
In diciotto anni non aveva mai visto il fratello impegnato a terra a fare addominali: Armin teneva le mani intrecciate dietro la nuca e sollevava il busto incurvandolo in avanti, risultando alquanto ridicolo.
“che stai facendo?” chiese Alexy più sconvolto che divertito.
“addominali, non si vede?”
“non si vedranno mai se li fai in quel modo… al massimo ti verrà il torcicollo”
Sconfitto, il moro sbuffò e cambiò posizione: si mise a pancia in giù, premendo i palmi delle mani contro il suolo; cercò di sollevarsi ma finì per inarcare la schiena in una sorta di posa yoga. Alexy scoppiò a ridere e si sedette sul pavimento:
“a parte l’ora assurda, si può sapere perché ti è venuta tutta questa voglia di fare fitness?”
“ti sembro uno smidollato?”
Alexy, sorpreso per quell’uscita, scrollò le spalle:
“per parlare nella tua lingua, direi che non sei esattamente Hulk… diciamo che assomigli di più a uno dei fantastici quattro”
“Mr Fantastic?” chiese il fratello speranzoso.
“la donna invisibile”
“ma vaffanculo Al!” imprecò Armin che, dopo quattro pseudo-flessioni, era già esausto.
Alexy ridacchiò mentre il fratello si metteva seduto:
“stasera ho incontrato Ambra al ristorante”
“davvero?”
“non ci crederai, ma mi ha aiutato a lavare i piatti”
Il ragazzo trattenne una risata e ammise:
“conoscendoti, mi verrebbe da dire che ha fatto il lavoro al posto tuo…ma stiamo pur parlando di Ambra Daniels… sei sicuro che fosse lei?”
“oltre che pappamolle mi ritieni pure idiota?”
“non vedo perché la cosa ti sorprenda tanto”
Armin gli lanciò una cuscinata e proseguì:
“Nuvola Rossa ti sembra un nome femminile?”
“di certo non è il massimo della virilità” riconobbe Alexy, senza capire il filo logico di quelle domande.
Armin boccheggiò spiazzato:
“m-ma, avresti dovuto dirmelo prima!”
“perchè ti importa scusa? Ti sei fatto una fama di tutto rispetto con quel nickname. Non mi pare che nessuno abbia mai denigrato la scelta di quel nome”
“Ambra pensa che io sia una donna!”
Alexy scoppiò a ridere ma dovette trattenersi per non svegliare i genitori, mentre il fratello assumeva l’aria di un cagnolino abbandonato sul ciglio della strada. Quella sera la sua virilità, o quel poco che ve ne era, era stata miseramente annientata:
“spiegami meglio: pensa che tu sia una donna o che lo sia Nuvola Rossa?”
Il moro scrollò le spalle e candidamente, ammise:
“beh, direi entrambi”
Il gemello rotolò dal ridere, mentre Armin gli stampò una pedata in faccia, irritato per essere oggetto dell’ilarità del fratello.
“non ti verranno gli addominali dall’oggi al domani Army. Non è mica come uno dei tuoi videogiochi”
“magari bastasse premere ALT e F5” sospirò sconsolato il ragazzo, riferendosi ad una sconosciuta combinazione di comandi.
“quindi vorresti diventare più virile?”
“mi sono già rassegnato. È una causa persa”
“sei troppo abituato ad avere tutto e subito. La vita non è un gioco virtuale”
“se lo fosse sarebbe molto più semplice” si lamentò il moro, distendendosi sul letto. Alexy sorrise pazientemente e, visto che ormai il sonno se ne stava andando, domandò allegramente:
“allora dimmi… quanti piatti hai rotto stasera?”
 


NOTE DELL’AUTRICE

Eccomi.
Davvero cominciavo a perdere le speranze -.-‘’. La mia voglia di pubblicare un nuovo capitolo è stata inversamente proporzionale al tempo che ho avuto per scriverlo. Tant’è che, come qualcuno di voi sa (*coff *coff Nuvola.. a proposito… piaciuta la sorpresa? XD), avevo pensato a mettere un disegno ma se aspettavo di realizzare anche quello, mi sarei rifatta viva ad Halloween. Vediamo se riuscirò a farlo più avanti (si trattava di disegnare alcuni dei personaggi alle elementari;))
Tuttavia sono riuscita ad allegare il disegno che mi ha inviato Nuvola Rossa (quella vera, non Armin XD) e che trovate al capitolo precedente: grazie L. <3.
Ok dai è tutto per ora. Lascio a voi eventuali commenti su un capitolo decisamente diverso dai soliti dal momento che è stato incentrato su personaggi che non sono i principali :). Si è aperto in modo un po’ tenero con la coppia Dajan-Kim e chiuso in maniera (spero) buffa con Armin-Ambra…
Alla prossima!
 

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Natale in famiglia ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Mentre aspetta Kim per il loro allenamento settimanale, Dajan ripensa a quando l’ha conosciuta e ha cominciato ad interessarsi a lei. La scia dei ricordi lo riporta alle gare di atletica dell’anno precedente che avevano valso la qualificazione della velocista al campionato primaverile. In quell’occasione era rimasto da solo con lei, chiacchierando in un bar e, pur non sapendolo, quell’episodio era impresso altrettanto bene anche nella memoria dell’amica. Quando quest’ultima lo raggiunge sul suolo del campo da basket, il cestista le allunga un regalo di Natale, mandandola al settimo cielo.
Ambra rientra a Morristown e, andando a trovare Lin al ristorante, si ritrova ad aiutare come lavapiatti. Con enorme stupore e sconcerto, scopre che con lei ci sarà Armin e passa una serata all’insegna dell’allegria che il ragazzo riesce a trasmetterle. Quando quest’ultimo la accompagna a casa, gli racconta dell’esistenza di un’abilissima hacker che sta mettendo in difficoltà l’azienda di famiglia, ignara che la vera identità di Nuvola Rossa sia proprio il moro seduto accanto a lei.



 
CAPITOLO 37: NATALE IN FAMIGLIA
 
"sei sicura Rosalya che sia una buona idea? Sophia è stata operata ieri. Non potevamo aspett-"
"insomma Iris, quante volte devo ripetertelo? Non ha senso rimandare! L'operazione è andata bene e poi tu ed Erin dovete assolutamente fare pace"
"perché avete portato anche me?" sussurrò una vocina timida, intromettendosi tra le due belligeranti.
"perché sei sempre rintanata in casa, ecco perché! " la rimproverò Rosalya, tornando a premere per la seconda volta sul campanello di casa Travis, mentre Violet abbassava il capo.
Iris si sporse di lato, cercando di sbirciare all’interno dell’abitazione. La finestra del salotto era l’unica da cui si poteva intravedere l’interno della casa, di cui la ragazza ancora ricordava l’arredo rustico e accogliente.
"forse sono all'ospedale" ragionò la stilista, osservando il garage.
"che facciamo allora capo?" le chiese la rossa mentre una ciocca ribelle sfuggiva dalla stretta dell’elastico.
"aspettiamo qui" dichiarò l'amica e si accomodò sugli scalini della veranda. Sentì il contatto gelido del legno contro il suo sedere e allontanò con i piedi un leggero strato di neve che era riuscito a depositarsi sull’ultimo scalino. Iris e Violet sostarono indecise davanti all’ingresso ma, di fronte all’imperituro silenzio dei suoi abitanti, si rassegnarono a cercare posto accanto a Rosalya.
 
"come stai amore?" si premurò Amanda non appena incrociò il viso della figlia appena operata.
Sophia era stata sistemata in terapia intensiva per un paio di giorni, per poter poi ultimare la riabilitazione nel reparto di cardiologia.
"ma come, niente lacrime? Mi deludi mamma" scherzò la paziente, sorridendo radiosa.
Ancora non riusciva a capacitarsi di essere stata così vicina alla morte eppure di averla scampata. Da quando era venuta a conoscenza delle gravità delle sue condizioni, aveva passato l’inferno.
Ora invece il sollievo che le alleggeriva l’animo, la faceva volare ad un metro da terra.
"è tutta ieri che piange di gioia, scema. Perché sei sempre così egocentrica?" la rimproverò scherzosamente Erin.
Sophia si voltò verso la gemella. Era diventata più forte, molto più di quanto avesse mai osato sperare. Del resto sua sorella era sempre stata così, ma aspettava i momenti più difficili per manifestare tutta la sua solidità, proprio nei momenti in cui era lei a crollare.
"allora? Avete novità? Quando mi dimetteranno?"
"è presto per dirlo... i medici dovranno controllare che sia tutto a posto… comunque credo meno di una settimana" calcolò il padre, senza smettere di sorridere.
"così tanto?" sbottò la figlia, sconvolta e contrariata.
"non ti lamentare, è per la tua salute"
"mi toccherà passare l'ultimo dell'anno in ospedale? Già non mi va giù che oggi dovrò starmene qui" brontolò la ragazza, fissando la data sul calendario. Accanto a quel 25, una scritta in rosso le ricordava che si stava perdendo la sua festa preferita, quella che lei e sua sorella aspettavano con trepidazione tutti gli anni.
"ci rifaremo il Natale prossimo. Non vuoi vedere il tuo regalo?" la distrasse Amanda, rivelando un pacchetto che era stato loro concesso di portare nella stanza.
"me ne avete preso uno?" sì stupì Sophia "quando l'avete comprato?"
"ancora a fine novembre... Eravamo sicuri che saresti tornata per Natale" commentò Peter dolcemente, allungandole un pacchetto di carta dorata.
"in effetti l'idea era quella... ma c'è stato un incidente di percorso" ridacchiò la mora, mentre il padre, tra il divertito e l’offeso, borbottava:
"mi fa piacere vederti ridere su questa cosa, ma per noi non sarà facile lasciarsi tutto alle spalle"
"il peggio è passato papy, non essere sempre così melodrammatico"
"e tu non fare sempre la spavalda"
Le donne ridacchiarono. Tutta la tensione che era gravata su di loro nelle ultime ore si era volatilizzata ed era stata sostituita da un clima sereno e allegro.
Pur trovandosi in un ambiente asettico, bastava la presenza di Sophia a farli sentire tutti a casa.
"dove sei stata tutto questo tempo Fia?" le chiese Erin d'un tratto.
Aveva rimandato a lungo quella domanda, correndo il rischio di non riceverne mai la risposta qualora la sorella non fosse riuscita a superare l’intervento. La sera prima, aveva ricacciato in un angolo la sua curiosità, per lasciare che Sophia usasse le poche energie per salutare la zia e Jason che dovevano ritornare a Morristown.
Ora però era arrivato il momento della verità.
Il sorriso della gemella si era spento, incurvando gli angoli della bocca verso il basso.
"in ospedale" replicò con teatralità, lasciando per un attimo interdetti i presenti, poi Erin sbottò offesa:
"ma vaffanculo! Hai capito benissimo cosa voglio dire!"
"non ha importanza dove sono stata, ciò che conta è che intendo tornarci"
"che cosa?" ripeterono quasi in coro i familiari.
"non resterai con noi?" si allarmò Amanda.
"solo per le vacanze, poi a gennaio ripartirò" spiegò risoluta la ragazza. Non c’era cenno di esitazione o indecisione nelle sue parole. Aveva fatto una scelta, e come era tipico del suo carattere, farle cambiare idea sarebbe stato impossibile.
"per andare dove? Basta con questo mistero Sophia!" si spazientì la gemella, gesticolando animatamente. Ripensava a tutti i mesi in cui era stata in pena per lei, torturandosi per il senso di colpa e vederla così indifferente alla sua afflizione la mandava su tutte le furie. Non riusciva a capacitarsi del perché fosse così egoista dal tagliarla fuori dalla sua vita.
"non voglio che tu mi venga a cercare Erin"
"perché?" incalzò con crescente frustrazione. Sophia si abbandonò contro lo schienale del letto e, senza guardarla in faccia, mormorò:
"perché mi saresti d'intralcio"
Le due si conoscevano troppo bene per non sapere quale fosse il modo più diretto per ferire l’altra. Nonostante la maturazione della sua personalità, in un angolino infido e nascosto della mente di Erin, sopravviveva quell'insicurezza che la faceva sentire inadeguata rispetto alla sorella. Poteva dimostrarsi una persona forte quando le circostanze glielo imponevano, ma Sophia sapeva quali tasti toccare per farla vacillare.
"tua sorella non è una bambina" la difese Peter, osservando con severità la figlia più testarda.
"ma è invadente e curiosa” protestò quest'ultima, lanciando un'occhiata di sbieco ad Erin.
Sapeva che stava soffrendo, ma non poteva ancora raccontarle tutta la verità.
“ti prometto che mi farò sentire Erin” le disse, prendendole la mano, ma la sorella rifiutò quel contatto “giuro che non scomparirò un'altra volta, ma devi lasciarmi il mio spazio"
Erin non fiatava e non osava posare più gli occhi sulla sorella. In quel momento più che mai, si rese conto di quanto Sophia somigliasse a Castiel: anche lui se ne era andato, senza degnarla di una spiegazione per il suo silenzio. Dopo aver saputo dell'incidente della sorella, era riuscita a non pensare a lui più di tanto, ma ora che la sorella stava meglio, avvertiva sempre di più quanto la nostalgia la stesse attanagliando. Erano passati solo sei giorni dall'ultima volta che si erano visti, ma a lei sembravano molti di più. Detestava sé stessa, per quel ruolo che aveva umilmente accettato di personaggio statico e annichilito, il cui destino era quello di legarsi a persone che poi le voltavano le spalle. Si era ripromessa che non avrebbe più pianto per loro, e così sarebbe stato, ma ciò non impediva al suo animo di sentirsi profondamente ferito e umiliato.
"c'è una persona che mi sta aspettando"
Amanda e Peter ammutolirono mentre Erin sollevava lo sguardo sbigottita. Ci fu un attimo di esitazione, giustificata dallo spiazzamento generale. Era stata davvero Sophia a pronunciare quelle parole.
"è-è un ragazzo?" indagò Amanda ancora incredula. Differentemente da Erin, la gemella aveva avuto qualche storia in passato, ma non aveva mai dato l’impressione di essere capace di legarsi sentimentalmente ad un ragazzo.
Sophia non rispose a quella domanda e si voltò a guardare un punto indefinito della stanza. Quel gesto accentuava ulteriormente lo stupore dei presenti che non riuscivano a realizzare di avere di fronte la stessa ragazza solare e indipendente. Era la prima volta che Sophia prendeva una decisione lasciandosi vincolare dalle necessità di un’altra persona. Proprio lei che detestava quelli che definiva i ricatti affettivi.
"è una persona importante per me… ha bisogno di me" insistette.
"e non pensi a noi?" intervenne Peter, cercando di trattenersi "a tua sorella?"
In quel momento le sue parole non erano dettate da un paterno istinto protettivo: a parlare era un padre che faticava ad accettare che esistesse qualcuno di più importante di lui nella vita di sua figlia.
"Erin non ha più bisogno di me” asserì Sophia, incrociando lo sguardo della mora “ti vedo molto cambiata sorella"
Il silenzio della ragazza era durato abbastanza. Doveva accettare quello che sarebbe diventato il suo nuovo mantra: rassegnati.
Perché qualsiasi cosa avesse detto o fatto, Sophia non avrebbe cambiato idea.
"tu invece non cambierai mai Fia" sospirò infine "tranne che per il colore dei capelli... sbaglio o sono più rossi? "
"te li sei colorati?" si stupì Peter, l'unico a non essersi ancora accorto di quella differenza. L’osservazione di Erin era bastata ad alterare completamente l’atmosfera nella stanza che era tornata sui binari della spensieratezza e quotidianità.
"ma cosa dici, sono i miei naturali!" si difese debolmente la ragazza, giocherellando nervosamente con la treccina colorata.
"naturali un corno, guarda qui" obiettò la sorella, accostando una sua ciocca bruna con quella più rossiccia di Sophia. Con quella giustapposizione, la differenza era evidente e Peter, eterno sostenitore della bellezza naturale delle sue figlie, cominciò a protestare contro la ragazza, sostenendo che il suo colore originale era migliore. Amanda dal canto suo, sorrise pazientemente, asserendo invece che erano molto più adatti alla personalità anticonformista della figlia che aveva cominciato a bisticciare con la sorella per la sua irritante abitudine a fare la spia.
 
Rosalya sbuffò annoiata:
“mi verrà un raffreddore a stare qui fuori”
“è quello che sto dicendo da venti minuti!” protestò Iris, strofinandosi una mano contro la punta gelata del naso.
“n-non fa così freddo” minimizzò Violet, cercando di fare da paciere tra le due ragazze.
“ma se stai tremando!” obiettarono irritate, quasi in coro.
“io tremo sempre” rispose incerta l’artista. Dapprima le ragazze la fissarono perplesse, poi scoppiarono a ridere:
“dici un sacco di cose assurde Violet” commentò Rosalya “ma è anche per questo che mi piaci”
La ragazza arrossì e abbassò il capo, mentre Iris proponeva:
“senti Rosa, capisco che vuoi fare una sorpresa ad Erin, ma a questo punto abbiamo aspettato fin troppo: chiediamole a che ora sarà a casa e nel frattempo andiamo in un locale al caldo”
“non potevamo almeno restare in macchina?” avanzò timidamente Violet, formulando una richiesta che la stilista si sentiva rivolgere per la quarta volta.
“no, voglio vedere la faccia di Erin nel trovarci qui, schierate davanti a casa sua!”
“a questo punto tanto valeva vestirsi da nani e metterci in posa in giardino” commentò sarcastica Iris.
“perché non me l’hai detto subito? Questa sì che era è un’idea originale!” si entusiasmò Rosalya mentre la rossa smontava sul nascere la sua allegria:
“scordatelo” replicò perentoria.
Rosalya emise un verso stizzito e commentò tra sé:
“di certo tu saresti stata Brontolo”
Iris le lanciò un’occhiataccia mentre Violet sorrise e precisò:
“in realtà è più adatto a Castiel”
“hai ragione” convenne la ragazza, felice di aver trovato un modo per passare il tempo e sedare il cattivo umore, così continuò “Iris è Dotto”
“perché?” protestò l’altra, dimostrando di non gradire quel parallelismo:
“sei la più coscienziosa di tutti noi. Invece Violet è decisamente Cucciolo”
La rossa ridacchiò mentre l’artista sorrideva, concorde circa il personaggio che le era stato attribuito.
“e tu Rosa che nano saresti? Gongolo?”
“nano? Beh, nessuno mi si addice e di certo non Gongolo: quello è Alexy”
Iris stava per aprire bocca, quando sentirono il rumore dei pneumatici contro il suolo sterrato e finalmente videro la tanto attesa vettura imboccare il vialetto.
Le tre ragazze sorrisero educatamente incrociando lo sguardo perplesso del guidatore e della moglie al suo fianco e finalmente, dopo che la donna aveva mosso le labbra, videro far capolino nell’abitacolo, la testolina della loro amica che le fissava sbigottita.
 
Erin distribuì alle amiche tre avvolgenti coperte di pile mentre la madre era impegnata a preparare delle cioccolate calde.
“hai proprio una bella casetta Erin” commentò Rosalya studiando l’ambiente per la prima volta. Se non fosse stato per la presenza di Nathaniel, quella sarebbe stata la seconda volta che metteva piede nel nido dei Travis.
“avreste dovuto avvertirmi, invece di rimanere al freddo” le rimproverò dolcemente la padrona di casa, guardando ad una ad una le amiche, che avevano ancora le guance arrossate a causa dello sbalzo termico.
Iris lanciò un’occhiataccia all’amica stilista che però non si scompose e sviò quell’obiezione:
“piaciuta la sorpresa?”
“molto” sorrise Erin, prendendo posto accanto a Violet.
Rosaly annuì soddisfatta mentre Iris prendeva parola:
“io e Violet temevamo di disturbare. Del resto è Natale… sei sicura che non preferisci passarlo da sola con la tua famiglia?”
“è proprio questo il punto” intervenne Amanda, appoggiando un elegante vassoio con quattro cioccolate fumanti sul tavolino in mogano “dal momento che Sophia è ancora all’ospedale e che ormai i suoi amici sono tutti a Morristown, Erin avrebbe passato proprio un Natale da sola. Avete avuto una bellissima idea a venire a trovarla”
La figlia sorrise a conferma di quanto appoggiasse le parole della madre che nel frattempo aveva distribuito la calda bevanda. Dopo essersi assicurata che le sue giovani ospiti godessero di ogni comfort, si allontanò e cominciò a sbrigare le faccende domestiche.
“come sta Sophia?”
“è in ottima forma. Mi piacerebbe farvela conoscere però rimarrà per qualche giorno in terapia intensiva quindi temo che non sarà possibile”
“peccato, ma l’importante è che stia bene. Iris ha sentito Ambra prima di venire qui e ci ha detto che le avevi mandato un messaggio ieri notte” disse Rosalya, ammirando l’albero di Natale.
“sì, lei e mia sorella sono molto amiche”
Iris nel frattempo aveva abbassato il capo e mormorò:
“mi dispiace per quello che è successo l’ultima volta Erin, ma avresti dovuto dirmi come stavano le cose: avrei capito”
“lo so, ho sbagliato ma quel giorno ero troppo confusa… comunque non preoccuparti: mettiamoci una pietra sopra. Da oggi in poi, basta con i misteri” le fece l’occhiolino l’amica.
“e proprio perché dobbiamo cominciare a dirci tutto, Iris… devi informare Erin del tuo ragazzo misterioso” gongolò Rosalya, tamburellando vivacemente le dita contro la superficie liscia della porcellana.
“ah giusto! Rosa mi ha detto che hai conosciuto uno” esclamò Erin su di giri, deglutendo frettolosamente la cioccolata rovente.
“conosciuto! Sempre la solita esagerata… l’ho visto”
“e dove?”
“in biblioteca”
Erin si zittì un attimo e poi obiettò:
“ma scusa Iris: che ci facevi là? Tu odi leggere”
“infatti non ero lì per prendere un libro per me” spiegò la ragazza, mentre Rosalya sghignazzava e Violet sorrideva compostamente.
“che avete voi due?” indagò Erin spostando lo sguardo sulle due amiche.
“niente niente. Lasciala raccontare e lo saprai” commentò Rosalya sibillina.
“la smetti di prendermi in giro su questa cosa? Guarda che non la racconto più!” la rimproverò Iris, irrigidendosi.
“continua Iris” la incoraggiò Erin, che era sempre più curiosa di conoscere i dettagli di quell’incontro.
Iris sospirò e proseguì:
“ero alla ricerca di un libro per mia madre e lo individuai nel ripiano più alto di uno scaffale. Per quanto cercassi di mettermi sulle punte, non riuscivo manco a sfiorare la mensola. Improvvisamente vedo un braccio scavalcarmi la testa e raggiungere con facilità il punto in cui dovevo arrivare io. La mano prende un libro dalla copertina blu e me lo porge”
 
“è questo che ti serve?” le chiese un ragazzo alto, dalla voce gentile.
Iris avvampò nel trovarsi a così poca distanza da quello sconosciuto e sbirciò la copertina del libro che teneva tra le mani:
“i-in realtà no. Mi serve quello accanto”
Il ragazzo tornò a sollevare lo sguardo mentre lei precisava:
“quello con la copertina verde” puntualizzò la ragazza, sollevata dal fatto che il titolo non fosse leggibile sulla parte rilegata. Lui allora recuperò l’oggetto ma, anziché porgerlo subito alla ragazza, come Iris sperava, lesse piuttosto sorpreso il titolo dell’opera”
 
“che titolo era?” chiese Erin mentre Rosalya e Violet stavano trattenendo le risate.
“non ha importanza” borbottò così fu la stilista a rispondere al posto suo:
la sessualità spiegata ai bambini”
Iris diventò viola, stessa reazione che aveva avuto di fronte a quel ragazzo in biblioteca il giorno del loro incontro. Anche Erin si unì alla risata goliardica di Rosalya e quella più misurata di Violet.
“s-smettetela di prendermi in giro!” le ammonì la rossa minacciosa, facendo vacillare pericolosamente l’orlo della sua cioccolata “non era mica per me!”
“sì, ma è quello che avrà pensato lui” commentò Rosalya divertita e aggiunse “se hai dei dubbi sull’argomento Iris, possiamo aiutarti noi: Erin che è brava in biologia ti spiegherà la teoria, Violet ti aiuterà con qualche disegnino e io ti darò consigli pratici”
Iris aspettò che l’amica poggiasse la cioccolata sul tavolino per poi lanciarle un cuscino, mettendo il broncio:
“dai Iris! Non fare così! E poi cos’è successo?” insistette Erin con trepidazione crescente.
 
Il ragazzo prese il libro tra le mani e, arrossendo leggermente, lo porse ad Iris che per l’imbarazzo non riuscì a dire nulla di diverso da:
“g-grazie”
Lui sorrise mentre lei notò che teneva tra le mani un voluminoso libro di Tolstoj.
“ti piacciono gli autori tedeschi?” trovò il coraggio di dire lei.
 
Le amiche scoppiarono a ridere per la seconda volta, Erin reclinò la testa all’indietro, mentre Rosalya cadde dal divano, sbattendo il gomito contro il tavolino.
“AHAHAHA, d’accordo Iris che non ti piace la letteratura, ma Tolstoj tedesco?” rise Erin.
“guarda che non ti racconto più nulla!” la minacciò la rossa, incrociando le braccia al petto.
“ok ok.. scusa”
“veramente è un autore russo” precisò il ragazzo, accomodandosi gli occhiali sul naso.
“aveva gli occhiali?”
“sì”
“beh, del resto Iris ce l’ha detto che le piacciono gli intellettuali” precisò Rosalya divertita.
 
“ah giusto, che scema” mormorò Iris sempre più a disagio “i libri non sono la mia passione”
“io invece non posso fare a meno di leggerli”
La ragazza si sorprese per la spontaneità di quell’ammissione. Quel ragazzo aveva un’aria così tenera e gentile che le riempiva il cuore di gioia.
 
“non mi dire che ti sei innamorata di uno dopo averlo visto dieci secondi?” ridacchiò Erin.
Prima che l’amica potesse rispondere, intervenne Rosalya:
“sempre meglio di certa gente che ci mette mesi a capire di essere innamorata”
"ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale?" sbottò Erin con sarcasmo. In quel momento non aveva nessuna voglia di affrontare l’argomento.
"casuale un corno! Ora che con Nathaniel è finita e Sophia sta meglio, sarai pur giunta a qualche conclusione riguardo a Castiel!" sbottò Rosalya spazientendosi.
“non stavamo parlando di Iris?” sviò l’amica guardandosi nervosamente intorno. Suo padre non avrebbe certo apprezzato l’argomento di conversazione proposto dalla stilista.
“non pensare di cavartela così” la ammonì la rossa “poi verrà anche il tuo turno”
“sei riuscita a scoprire come si chiama?” le chiese Erin, sorvolando su quel minaccioso avvertimento.
“Kentin, però poi non ha aggiunto altro, mi ha augurato una buona giornata e se n’è andato”
“beh se vive a Morristown lo incontrerai di nuovo” commentò speranzosa la mora.
“sì, lo penso anch’io”
Rosalya alzò gli occhi al cielo, sospirando pesantemente:
“cosa devo fare con voi due? Ma possibile che devo spiegarvi sempre tutto? Queste occasioni vanno colte al volo! In amore bisogna buttarsi!”
Erin si trattenne dall’obiettare che era piuttosto incoerente da parte della stilista sostenere una simile tesi e poi tirarsi indietro nella pratica. Se avesse applicato quelle parole anche alla sua esperienza personale, a quell’ora sarebbe stata lei la ragazza di Nathaniel.
“tesoro, oggi pomeriggio tu e le tue amiche proferite restare a casa o volete accompagnarci a cercare quella cosa?” s’intromise Amanda, facendo capolino in salotto.
Le ospiti guardarono interrogative Erin, che spiegò:
“i miei vogliono fare un secondo regalo di Natale a Sophia… però sai mamma, ci ho pensato: non credo che lo apprezzerebbe”
“ma come? A lei piace disegnare”
“sì, ma fidati. Meglio se le regaliamo un set di pennelli professionali, così si abbina agli acquarelli che le avete dato oggi”
“cosa pensavate di regalarle?” intromise Rosalya.
“una tavoletta grafica” spiegò Amanda “ce l’ha consigliata un amico di mio marito”
Erin riflettè sul motivo per cui aveva bocciato quell’idea: sua sorella era come Castiel.
Entrambi avevano un animo artistico, il rosso per la musica, Sophia per l’arte e tutti e due erano piuttosto distaccati dalla tecnologia. Così come l’amico preferiva i vecchi cd ai formati digitali, la gemella amava il contatto diretto con la carta, le mani sporche di grafite e i trucioli di gomma trascinata sul foglio.
“fidati mamma. Sophia non è fatta per un simile dispositivo. Le piace fare le cose alla vecchia maniera”
Amanda ci riflettè un po’, poi annuì. Invitò le ospiti a fermarsi a pranzo e le tre accettarono di buon grado: la madre di Violet era di turno in ospedale mentre quella di Iris, insieme al fratellino, erano andati a trovare i nonni paterni. A maggior ragione Rosalya, la cui prospettiva era passare il Natale con i vecchi nonni, aveva accolto fin troppo volentieri quell’invito.
Dopo che la padrona di casa le aveva lasciate nuovamente sole, fu proprio la stilista a riprendere la conversazione:
"a proposito di gente che fa le cose alla vecchia maniera: hai più sentito Black?”
“e da quando in qua lo chiami per cognome?”
“pronunciare il suo nome di battesimo mi fa solo aumentare l’irritazione. Bada bene alla risposta che mi darai Erin, perché ne va della sua sopravvivenza”
L’amica sorrise rassegnata e fu costretta ad ammettere l’amara verità:
"non l'ho mai sentito da dopo il concerto. Questa mattina ho mandato anche lui gli auguri, ma non ha ancora risposto"
“ok, allora è deciso. Quando torna lo gonfio di botte” asserì la ragazza, cercando di sedare il suo nervosismo "vorrei solo sapere perché diavolo non ti risponde. Nemmeno mio fratello sa che fine abbia fatto"
"e se gli fosse successo qualcosa?"
Tre teste di voltarono in sincrono verso quella da cui era provenuto quel sussurro preoccupato.
Era stata Violet a parlare e, come accadeva fin troppo spesso, le sue parole erano tanto rare quanto profetiche.
Erin sentì il cuore sussultarle in petto nel realizzare quell'eventualità che non aveva mai preso in considerazione.
Era terribilmente inquietante quanto fosse plausibile quell’osservazione. Quanto fosse realistica.
Se davvero gli fosse accaduto qualcosa, come poteva avvertire i suoi amici in America? Chi l’avrebbe fatto al posto suo.
"non credo sia possibile" mormorò Rosalya poco convinta, notando subito l’espressione sconvolta di Erin.
"come fai a dirlo? Sarebbe la spiegazione più logica al suo silenzio" sbottò la mora, con la voce incrinata dall’ansia.
"Castiel ha la pellaccia dura, credimi. Ha sette vite come i gatti"
Ciò non bastò a tranquillizzarla. Violet aveva un sesto senso: aveva indovinato quando aveva sostenuto che Ambra fosse una ragazza sola, che Erin avesse equivocato i suoi sentimenti per Nathaniel… su quante cose poteva averci visto giusto quella pittrice silenziosa?
Le sembrò assurdo non aver valutato prima quell’ipotesi, eppure, le sembrava la cosa più ovvia e scontata a cui pensare.
"se fosse successo qualcosa, la scuola verrebbe avvertita dai genitori e tramite Nathaniel verremo a saperlo" ragionò Rosalya, cercando di calmare Erin. Erano tutte preoccupate ma era l’agitazione della mora a prevalere sui sentimenti delle altre.
L’amica alzò il capo di scatto e, come se fosse posseduta da uno spirito, si precipitò fuori dalla stanza senza dire una parola. Tornò dopo pochi secondi con il cellulare all’orecchio:
“rispondi dannazione” sussurrò nervosamente, ficcando le unghie nella carne. Se lo sentiva. Doveva essergli successo qualcosa. Non era possibile che l’amico la ignorasse così, che non rispondesse a nessuno.
Finalmente qualcuno rispose dall’altro capo e subito la ragazza esclamò:
“Nathaniel! Hai novità di Castiel?”
Il ragazzo rimase per un attimo interdetto, spiazzato dalla veemenza della ragazza.
“Erin?” chiese incerto, ricontrollando il nome che era comparso sullo schermo dell’iPhone “sbaglio o sei un po’ agitata?”
“hai saputo niente di Castiel?” insistette la ragazza.
“so solo che ha ricevuto il programma che mi ha consegnato la preside… sai, per tenersi in pari con lo studio”
“quindi ti ha risposto? E quando l’hai sentito?” lo martellò Erin, volgendo uno sguardo sollevato verso le amiche.
“ieri pomeriggio. Mi ha solo risposto grazie e poi non ha aggiunto altro”
“quindi sta bene?”
“non ho motivo per credere il contrario ma mi vuoi spiegare perché sei così in ansia?”
“gli ho scritto un paio di mail ma non ha mai risposto. Temevo che gli fosse successo qualcosa”
Nathaniel si grattò il capo mentre Erin aspettava una risposta. Questa arrivò, ma non era quanto la ragazza si aspettava di sentire:
"per un attimo ho sperato che volessi parlare di noi... alla fine c'è sempre lui di mezzo"
Quella frase la spiazzò: non sapeva come replicare mentre Nathaniel, pentendosi all’istante delle sue parole, si giustificò:
"non ho nessun rimpianto Erin, scusami... è stato un commento infelice. Anche se ho capito di essere ancora innamorato di Rosalya, faccio ancora fatica ad accettare l'idea che tu non mi abbia mai amato. Io credevo davvero alla nostra storia"
Rosalya vide il volto dell’amica sbiancare e le chiese:
“che c’è?”
Dall’altro capo del telefono, il biondo riconobbe quella voce e scattò sulla difensiva:
“è lì?”
“sì” confermò Erin “con Iris e Violet. Sono venute a farmi una sorpresa”
“hanno avuto una bella idea”
“tu dove sei?”
“in città con Tony e Colin” spiegò, alludendo a delle amicizie che la ragazza aveva sentito nominare in qualche occasione. Non la sorprese che il ragazzo passasse il Natale lontano dalla famiglia.
“e Ambra?”
“è stata invitata a pranzo dalla madre dei gemelli”
“maddai” ridacchiò Erin, recuperando finalmente il buon umore. Si voltò verso le amiche, sorridendo divertita. Non poteva dire loro della bionda e della sua cotta per il loro amico così si limitò a gongolare in solitudine per quella notizia.
 
“spiegami meglio come hai fatto a trovarti in una situazione del genere” esclamò allegra Lin, salando l’acqua.
“questa mattina sono andata a casa degli Evans per restituire a quello scemo la console che aveva dimenticato al ristorante. L’avevo vista quando abbiamo finito di lavorare e mi sono affrettata a nasconderla prima che la vedesse tuo padre. Se l’avesse notata, Armin avrebbe sperimentato personalmente un lancio alla Angry Bird”
La cinesina ridacchiò, mentre Ambra continuava a raccontare:
“solo che poi mi sono scordata di restituirgliela. Spero non sia già morto per l’astinenza” commentò guardando l’abitazione davanti a lei. Era così diversa da villa Daniels e anche se ciò bastava a renderla preferibile, si aggiungeva anche quello stile così accogliente che nessun architetto avrebbe potuto progettare. Un tecnico può dare la forma ad un edificio, ma sono le persone che vi abitano a costruire l’ambiente chiamato casa.
“mi sono presentata alla porta stamattina verso le nove e mezza con la console in mano e mi ha aperto suo fratello” proseguì la bionda, affondando gli stivali nel manto nevoso. La zona in cui abitavano i gemelli era suggestiva, resa quasi fiabesca dall’inverrno.
“Alexy?”
“mi risulta che abbia solo quello. È rimasto un po’ sorpreso nel vedermi lì, così ho tagliato corto, gli ho allungato la console e l’ho salutato”
“dobbiamo lavorare di più sul come ti relazioni con le persone” ragionò Lin, sollevando gli occhi al cielo per i modi bruschi dell’amica, che ignorò la sua osservazione:
“prima che Alexy potesse aggiungere altro, vedo fare capolino il padre. Mi fissa con curiosità così lo saluto e quando il figlio gli dice che sono un’amica di Armin, vedo gli occhi dell’uomo dilatarsi per lo stupore. Diventa improvvisamente allegro, rumoroso. Direi che mi ha praticamente trascinato dentro casa per presentarmi alla moglie”
“forse sei la prima ragazza che varca la soglia di casa Evans”
“non so, quello che è certo è in qualsiasi posto in cui vada ultimamente, mi sento in famiglia, tranne che quando sono a casa mia” commentò amaramente la ragazza, mentre Lin, cercò di trattenere l’impulso di pronunciare una frase di consolazione. Ambra era troppo orgogliosa per permetterle di commiserarla.
“comunque. Ho conosciuto la madre dei gemelli: è una donnina piccolina ma tutta pepe. Si chiama Evelyn mentre il marito Andrew. Armin era ancora sotto le coperte così mi sono ritrovata a chiacchierare con tutti tranne lui. Devo ammettere che Alexy è proprio in gamba. Dopo mezz’ora ho fatto per congedarmi ma quando hanno scoperto che i miei sono in vacanza in Europa mentre Nathaniel pranzava da degli amici, hanno insistito affinchè mi unissi a loro. In teoria hanno invitato anche Lysandre White”
“sarà un pranzo interessante” concluse Lin, godendosi la scena come se fosse davanti ai suoi occhi.
Ambra aveva il dito a pochi millimetri dal campanello. Cacciò fuori un profondo respiro e disse:
“Lin ti saluto. Sono arrivata. Buon Natale ancora e anche alla tua famiglia. Ti chiamo dopo d’accordo?”
La corvina sorrise e si congedò con un:
“grazie. Buon pranzo”
 
Ambra premette il pulsante e attese che qualcuno andasse ad accoglierla. In pochi secondi si trovò di fronte il viso arrossato di Evelyn che, trafelata, la salutò:
“come sono contenta di rivederti Ambra! Prego tesoro, vieni pure”
La bionda ringraziò e varcò l’ingresso. Mentre la donna le indicava dove appendere il cappotto, la ragazza cominciò a guardarsi attorno con interesse. L’interno era stata addobbato con un altissimo pino vero, decorato sui toni dell’oro e del rosso. Sbirciando nella sala da pranzo vide una tovaglia rossa e un centro tavola di pigne e rami di pino.
In salotto troneggiava un maxi schermo al plasma accanto al quale una Play Station e una raccolta infinita di videogame.
“Armin è ancora a letto. In vacanza è un’impresa farlo alzare prima di mezzogiorno. Figurati adesso che lavora fino a tardi”
 
“Armin! Sveglia! Non immaginerai mai chi c’è giù!” annunciò entusiasta Alexy, irrompendo nella camera del fratello.
“lo scherzo di Babbo Natale questa volta non regge” bofonchiò una montagna umana, nascosta sotto calde coperte “non ho più cinque anni”
“ma se ne avevi undici quando ci sei cascato” lo derise il gemello, ricordando l’ingenuità del moro “comunque c’è Ambra”
Armin si destò pigramente e, con le palpebre semichiuse e un’espressione poco intelligente, borbottò:
“se avessi detto Babbo Natale saresti stato più credibile” e tornò a mettersi supino. La coperta gli coprì completamente il capo ma il fratello non demorse:
“non ti sto prendendo per il culo! Forza! Sveglia” insistette cominciando a tirare un lembo della trapunta blu. Appena percepì uno spiffero freddo, il moro reagì afferrando saldamente la coperta e vincendo una sorta di tiro alla fune con Alexy.
“sbrigati” lo ammonì il ragazzo, ormai sconfitto, uscendo dalla stanza. Era troppo curioso di incontrare la bionda che, dopo il loro incontro poche ore prima, si era rivelata una persona molto diversa da quella che tutti conoscevano.
 
In casa Travis non c’era mai stato un tale sovraffollamento di donne. Erin ed Iris furono assegnate alla cucina, mentre Violet ad apparecchiare. Rosalya, le cui capacità domestiche erano alquanto discutibili, si accomodò sul divano a discutere con Peter dell’ultima partita di football.
L’unica nota stonata in quel perfetto quadretto familiare, era l’assenza di Sophia, ma i familiari si sforzarono di non pensarci.
 
Armin scese le scale, ancora imbambolato dal torpore in cui l’aveva coccolato il suo letto fino a quel momento. Aveva un fabbisogno giornaliero di sonno che superava quello di un bambino e durante l’inverno, un po’ come gli orsi, entrava in letargo. Non si era minimamente preoccupato di cambiarsi il pigiama, del resto Lysandre era abituato a vederlo in condizioni al limite della decenza. In aggiunta, si trattava del suo regalo di Natale da parte di Alexy che il fratello gli aveva consegnato la notte prima per tirarlo su di morale dopo le ripetute figuracce fatte con Ambra.
Scartando il voluminoso incarto, Armin si era trovato per le mani un pigiamone tutto unito a forma di Olaf, il personaggio del film che il fratello e Rosalya lo avevano costretto a vedere l’anno prima. Armin aveva finito per addormentarsi, sognando di essere all’interno di una sorta di videogame ambientato in Siberia e nel sonno, aveva cominciato a borbottare frasi sconnesse, prima di essere svegliato di soprassalto da un’irritata Rosalya e un divertito Alexy.
Nonostante l’aspetto ridicolo che gli conferiva, il moro aveva instaurato un rapporto d’amore sincero con quel capo, così caldo e avvolgente, tanto da calarsi sulla testa il cappuccio che rappresentava la faccia di Olaf.
Fu proprio a causa di quest’ultimo che ci mise un po’ ad accorgersi della figura che sostava ai piedi delle scale.
Dapprima vide degli stivaletti bassi da donna e la sua mente volle convincersi che quei polpacci così sottili e femminili appartenessero a Lysandre. Poi passò al bacino e notò l’orlo di un vestito che arrivava al ginocchio e sperò che quel giorno l’amico avesse optato per un inquietante look transgender ma quando infine i suoi occhi notarono quelle curve troppo femminili per appartenere al poeta, il suo viso era ormai in fiamme.
“Buon Natale Olaf” commentò Ambra divertita.
Armin era talmente in imbarazzo che non vide gli ultimi scalini e rotolò giù per le scale, ricordando alla ragazza un’enorme palla di neve.
Per quel poco che era riuscito a scorgere, la ragazza quel giorno aveva intrecciato i lunghi capelli in una pettinatura che assomigliava molto a quella di Elsa, una delle protagoniste del film e come quest’ultima, anche Ambra era di una bellezza che lo aveva lasciato senza parole.
 
Dopo il pranzo, Erin mostrò la casa alle amiche ma più di tutto, fu la stanza di Sophia a incuriosire le sue ospiti. Dal momento che Peter si era opposto strenuamente alla richiesta della figlia di tinteggiare di nero le pareti, queste ultime erano di un colore deciso ma meno soffocante: arancione. Era arredata in stile etnico con mobili scuri e una bellissima giraffa africana lignea alta un metro, posta in un angolo. La scrivania abbondava di colori e materiale da disegno vario: Violet era in paradiso, tanto che le amiche ridacchiarono di fronte alla sua espressione.
L’artista non si lasciò sfuggire nessun disegno appeso alle pareti, analizzando ogni dettaglio e tecnica. Infine si spostò su un quadro che era appoggiato a terra, contro una cassettiera.
“e questo?” chiese rivolgendosi ad Erin.
“non so quando l’abbia fatto, ma credo sia recente”
“non l’ha fatto lei” commentò l’artista con decisione.
Le ragazze la guardarono sorprese, mentre Violet raccoglieva il quadro da terra. Sembrava un’altra persona, sia nel modo di muoversi che di parlare. Era nel suo mondo, fatto di disegni e colori, e quel senso di adeguatezza la faceva sentire più sicura di sé.
“lo stile è completamente diverso da quello degli altri disegni. E poi guarda meglio: tutti i suoi disegni hanno una firma, questo no”
Le tre si avvicinarono per scrutare attentamente il dipinto e convennero che la loro amica avesse ragione.
“sarà un regalo” ragionò Iris.
“è un po’ strano come regalo. Cioè chi regalerebbe un quadro senza firma?” obiettò Rosalya, mentre Violet lo riponeva dove l’aveva trovato.
Sentirono la voce di Amanda che li chiamava così le quattro furono costretta a lasciare da parte la loro curiosità e raggiungerla.
Ad aspettarle, c’era una giornata di shopping natalizio per Allentown.
 
Il pranzo in casa Evans rimase impresso nella memoria di Ambra come il Natale più allegro della sua vita. Evelyn continuava a rimpinzarla di cibo mentre Peter la tempestava di domande, comportamento insolito in un uomo. Anche Lysandre, solitamente noto per essere un ragazzo taciturno, chiacchierò con lei, aggiornandola sulle novità del club di cui erano membri. Addirittura, quando la ragazza affermò di volersi dimettere dal ruolo di presidentessa, era stato proprio l’attore ad insistere affinché mantenesse quell’incarico. Alexy era quello che manteneva la conversazione su un piano allegro e stuzzicante, raccontando aneddoti e chiacchierando con tutti, come un abile direttore d’orchestra che riesce a coordinare strumenti molto diversi. L’unica nota stonata era la sua controparte mora: Armin era piuttosto silenzioso e lanciava fugaci occhiate ad Ambra che dopo un po’, cominciò a sospettare di non essere la benvenuta.
“Ambra è venuta a restituirti il tuo giocattolo Armin, dovresti ringraziarla” commentò Andrew sorseggiando il vino.
“non è un giocattolo” borbottò il ragazzo mettendo il broncio come un bambino “è una console”
“sei stata molto gentile a venire. Lavori anche tu dai Yang?” indagò candidamente Evelyn, mentre la ragazza rischiava di strozzarsi con il cibo. Lysandre sgranò gli occhi sorpreso, mentre i gemelli ridacchiavano:
“Lin Yang è mia amica” spiegò Ambra, aggirando abilmente la domanda.
“ah capisco, è stata lei quindi a consegnartelo. Ti ha detto come se la cava Armin? Faccio ancora fatica a capacitarmi del fatto che l’abbiano assunto” ammise Evelyn servendo un’abbondante porzione di tacchino a Lysandre.
“ti ringrazio per la fiducia mamma” bofonchiò il ragazzo a bocca piena.
“e tua sorella Lysandre?” s’intromise Andrew “perché non è venuta?”
“aveva già un impegno. È andata a trovare una nostra amica ad Allentown?”
“è andata da Erin?” esclamarono in coro Armin ed Ambra.
“sì, con Iris e Violet. Mi ha chiamato poco fa dicendomi che si fermavano lì a pranzo”
 
Sophia cercò di cambiare posizione ma i fili elettrici che le erano stati sistemati sul petto le impedivano movimenti troppo accentuati.
Aveva appena conosciuto il medico che le aveva salvato la vita, il dottor Wright e ne era rimasta affascinata. Anche se non aveva lineamenti molto belli, nel complesso in quell’uomo c’era qualcosa di irresistibile nel modo in cui parlava e l’aveva fissata negli occhi. Il chirurgo le aveva annunciato che sarebbe tornato in Inghilterra, affidandola alle mani dei colleghi ma che si sarebbe tenuto aggiornato circa le condizioni della paziente. Fu felice di comunicarle che in meno di ventiquattr’ore, i dati erano concordi nell’asserire che si stava riprendendo rapidamente e che nell’arco di quattro giorni sarebbe stata dimessa completamente.
La ragazza aveva sorriso con gratitudine e l’uomo si era congedato da lei.
 
Al termine del pranzo gli Evans avevano costretto Armin a fare la lavastoviglie, dando prova delle sue abilità come lavapiatti:
“sfottete pure, tanto non cambio idea. Continuerò a fare quel lavoro finché non comprerò i soldi per la Play”
“ti licenzieranno prima che tu possa permetterti il joystick” lo canzonò Alexy mentre aiutava la madre a sparecchiare. Andrew prese da parte Lysandre e insieme cominciarono a discutere di poesia, una grande passione che accumunava entrambi.
Ambra si spostò in cucina dove trovò il moro che, tra borbottii e imprecazioni, era impegnato a strofinare una teglia particolarmente incrostata.
“vuoi una mano?” si offrì. Si sentiva un po’ a disagio a mostrarsi così volenterosa e disponibile ma in quanto ospite, non sapeva come muoversi all’interno di quella casa. Inoltre, anche se non l’avrebbe ammesso neanche a se stessa, voleva chiacchierare un po’ da sola con Armin, che per tutto il pranzo sembrava essersi mangiato la lingua.
“sei un’ospite, mica sono così pessimo da farti pure lavorare”
Un’altra ragazza avrebbe pensato che quelle parole fossero un modo per allontanare una persona sgradita, ma Ambra era troppo sveglia per non notare il rossore delle guance del ragazzo, l’espressione adorabile e corrucciata dovuta alle piccole prese in giro di cui era stato l’oggetto fino a poco prima. Armin non ce l’aveva con lei, semplicemente era in imbarazzo per le pessime figure che aveva collezionato da quando era rotolato giù per le scale.
“beh ormai in fatto di piatti da lavare siamo una squadra” commentò Ambra, prendendo del detersivo e gettandone il giusto quantitativo nell’acqua.
Armin sorrise radioso, recuperando all’istante la sua vitalità:
“gli Ambrin: i supereroi delle pentole incrostate”
“non inventarti nomi idioti” lo zittì Ambra, strappandogli la spugna dalle mani e sforzandosi di non rider per la stupidità della frase pronunciata dal ragazzo.
Ad un certo punto, il ragazzo cominciò ad annusare l’aria ed infine avvicinò in modo imbarazzante il naso ai capelli biondi di Ambra, curvandosi verso di lei.
La ragazza rimase interdetta, mentre il viso le andava in fiamme. Non capiva quali fossero le intenzioni del collega, quando quest’ultimo si ritirò di scatto con un’espressione disgustata:
“ma allora sei tu! Che cavolo ti sei messa addosso?” criticò, senza peli sulla lingua.
“a che ti riferisci?” sbiancò lei con una leggera apprensione ed imbarazzo.
“a questo nauseante profumo che hai usato”
Ambra arricciò il naso e mollò la spugna nell’acquaio. Girò i tacchi e tornò in sala da pranzo mentre Armin, sorpreso per quella reazione, la fissava in silenzio. La ragazza ricomparve dopo qualche secondo, tenendo in mano una pila di piatti che sistemò su un piano d’appoggio e cominciò a gettare i residui nel tritarifiuti. Non scuciva una parola così il ragazzo, a disagio, si scusò:
“non volevo offenderti”
“è una tua opinione, la rispetto” commentò placidamente la ragazza, sistemando le stoviglie all’interno dell’acquaio. Prima che sparisse nuovamente, Armin ammise candidamente:
“il fatto è che non hai bisogno di profumi. Mi piace l’odore della tua pelle al naturale”
Ambra diventò viola, sentendo i battiti raggiungere una frequenza incompatibile con i normali valori fisiologici. Non osò voltarsi per vedere l’espressione con cui il ragazzo aveva fatto quel commento. Era abbastanza eccentrico da averlo pronunciato senza malizia o doppi sensi.
“certo che ne dici di cose strane tu” borbottò prima si precipitò in salotto. Si era dovuta affrettare, altrimenti il ragazzo avrebbe scoperto il sorriso lusinghiero che le aveva illuminato il viso.
 
 



 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Allora intanto mi scuso per il ritardo… ma per farmi perdonare, esordisco con una buona notizia: per il prossimo capitolo non vi farò aspettare molto perché ho una settimana a casa dall’università ;).
Inoltre spero che il prossimo capitolo sarà migliore, perché questo è stato molto incentrato sui dialoghi e per questo non mi è piaciuto granchè -.-‘’. Cioè, vorrei migliorarmi nella scrittura, renderla “meno commerciale”… non so come spiegarmi… vabbè, tengo per me le mie paranoie sullo stile (ma anche no, vero Kiri? XD).
Poi poi… era da un sacco che volevo arrivare a scrivere quanto vi sto per dire: Manu dove sei? Ah eccoti lì, ce l’ho proprio con te! Nella tua recensione sul capitolo 28 avevi scritto (spero non ti dispiaccia se l’ho riportato):
 
“[…] E questo episodio inoltre mette in mostra un altro aspetto del carattere di Sophia: nonostante abbia questo carattere così forte, non appena ha messo in pericolo Erin è risultata alquanto fragile (aah, quanto è simile al nostro Castiel) e per il senso di colpa è scappata di casa. Anche se (e io comprendo perfettamente l'amore fraterno, da sempre) mi chiedo se la ragione della sua fuga sia solo quella. Insomma, io se avessi messo in pericolo mia sorella sarei rimasta accanto a lei e avrei aspettato che si svegliasse”
 
Ecco, quando lessi questa frase, il mio primo pensiero è stato circa questo:
 
Sì, perché a quel tempo non potevo rispondere “oh cacchio Manu! È proprio così: più avanti verrà fuori il reale motivo che ha allontanato Sophia da Erin”… avrei spoilerato troppi capitoli XD (infatti quando nelle recensioni indovinate il corso degli eventi, faccio la gnorri e tiro dritto Sabrina, tu sei una di quelle che mi vorrebbe far anticipare troppe cose XD)… ma non potevo non ricordarmi di questa tua sagace osservazione :D.
Ecco allora che (finalmente) con questo capitolo si apre una nuova sezione della storia, che si rifà ad uno dei generi letterari preferiti dall’autrice: il giallo. In realtà la sequenza di eventi mi è ancora oscura, ma conto di ingarbugliarli strada facendo… speriamo che non capirete subito quale sarà la soluzione del mistero visto che vorrei rivelarla alla fine della storia.
Per fare questo, accanto alle indagini di Erin, sarà immancabile la quotidianità dei personaggi, visto che abbiamo molti eventi di cui parlare.
Ok, non mi premeva dirvi altro di particolare… lascio a voi la libertà di lasciare un commento se volete ^^)
Alla prossima!
 
P.S. Credo che il prossimo capitolo si intitolerà “Il compleanno di Erin”
 
Vi lascio con l’immagine del pigiama di Armin ^^
 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** Il compleanno di Erin ***


RIASSUNTO DEL CAPITOLO PRECEDENTE
 

Le amiche di Erin le fanno una sorpresa, andando a trovarla a Allentown mentre la ragazza è in visita all’ospedale. Qui scopriamo che Sophia si sta riprendendo bene dall’intervento, annunciando la sua ferma intenzione a tornare nel luogo in cui si è stabilita negli ultimi mesi. Dopo iniziali proteste, i familiari accettano di lasciarla partire, anche se a malincuore.
Rincasando, Erin trova le amiche, quasi congelate, ad attenderla all’uscio di casa. Una volta al caldo, la tempestano di domande e novità: tra queste ultime, l’incontro fortuito di Iris con un ragazzo chiamato Kentin. Parlano anche di Castiel e Violet avanza l’ipotesi che il suo silenzio possa essere giustificato da un inconveniente serio. Allarmata, Erin chiama Nathaniel che la tranquillizza, rivelandole che, anche se per un misero “grazie”, il chitarrista gli ha risposto.
Nel frattempo Ambra si prepara per uno dei pranzi di Natale più insoliti della sua vita: è ospite a casa Evans. Armin ci mette un po’ ad abituarsi alla presenza della ragazza, complice la serie di figuracce collezionate in poco tempo. Alla fine del pranzo, i due rimangono soli e il ragazzo, ignaro dell’effetto che sortiscono le sue parole, fa un complimento ad Ambra che le strappa un sorriso compiaciuto.
 



CAPITOLO 38: IL COMPLEANNO DI ERIN
 
Il calendario non mentiva: erano passati due giorni da quando Sophia era stata dimessa dall'ospedale. Questa sua posizione portava con sé non pochi vantaggi tra cui il monopolio indiscusso del divano, che comprendeva nel pacchetto anche il diritto inappellabile del controllo del telecomando. In quelle circostanze, persino l’uomo di casa era stato costretto a cedere.  
I medici si erano raccomandati che la paziente non facesse sforzi eccessivi ma non avevano idea che quell'impresa era alla portata di un domatore del circo: Sophia aveva sempre qualcosa da fare che nessuno poteva eseguire al posto suo, un oggetto da recuperare che sua madre non sarebbe riuscita a trovare, un disegno da realizzare con materiale che non era mai quello che la sorella le metteva a disposizione; per quanto i familiari si prodigassero per non farle mancare nulla, Sophia si alzava continuamente dal suo giaciglio e, con la grazia di un elefante, scorrazzava da un angolo all’altro della casa .
La monotonia a cui l’aveva costretta la sua condizione era stata infranta dalla visita di alcuni suoi vecchi amici. Era stato proprio durante uno di quegli incontri, che Erin si era trovata di fronte una persona che non vedeva da mesi: Leticia.
Dopo aver lasciato la sorella in compagnia dei suoi vecchi compagni di classe, Erin e la sua ospite si erano spostate nella stanza della ragazza, per poter chiacchierare in tranquillità.
Quando erano rimaste sole, la mora aveva avvertito una sorta di imbarazzo, giustificato dal periodo trascorso senza sentirsi. La Leticia che sedeva sul letto, davanti a lei, aveva un’aria molto diversa da quella che ricordava l’amica e il suo modo di vestire era molto più trasgressivo. Ma non era solo una questione estetica: Leti era diversa e l’amica glielo leggeva negli occhi. C’era un che di timoroso e al contempo di fiero nel suo sguardo, come di una persona che teme il giudizio dell’altra, pur essendo convinta delle proprie idee.
"sono contenta che tu sia venuta Leti"
Quell’espressione le era venuta dal cuore. Leti era stata la sua prima vera amica quando era passata alla Hardy, la scuola superiore che frequentava ad Allentown. Tuttavia, da quando Erin, arrivata al Dolce Amoris, aveva ampliato la sua cerchia di amicizie, aveva realizzato quanto il suo rapporto con quella ragazza non fosse poi così profondo: confrontandolo con il legame che aveva instaurato con Iris e Rosalya, l’amicizia tra lei e Leti sembrava un rapporto di convenienza, dettato dalla paura di restare sole.
"tornerai alla Hardy l'anno prossimo?"
La gola le si seccò all’istante, rendendo ancora più disagevole formulare una risposta. Quella domanda era tanto attesa quanto sgradita. La sua indecisione bastò a tracciare un solco sulla fronte liscia di Leti, grinza che si approfondò quando finalmente la sua interlocutrice mormorò un deludente:
"non so"
"che senso ha che tu rimanga a Morristown? Ti eri trasferita per cambiare aria ma mi pare che ti sia ripresa: Sophia è tornata e poi casa tua è qui!"
Quell’avverbio di luogo monosillabico venne pronunciato con una tale intensità, da riecheggiare come un’imposizione, come se alla ragazza non fosse consentita alcuna libertà di spostamento.   
"vedi Leti il fatto è che lì ho degli amici e..."
"e qui hai solo me” tagliò corto la ragazza “perdo per inferiorità numerica" sentenziò con amarezza.
Diversamente da Erin, che teneva il capo chino, Leti aveva inchiodato il suo sguardo su quel viso dall’aria colpevole e dispiaciuta.
"è inevitabile che le strade delle persone si dividano" masticò la padrona di casa, alzandosi lentamente dal materasso. Strisciò i piedi sul pavimento di legno e si portò alla finestra. Una coltre biancastra aveva avvolto completamente la radura attorno alla sua accogliente abitazione, accentuando il senso di calore e protezione di quelle quattro mura.
“questo lo so anch’io, cosa credi? Il fatto è che ci sono persone con cui non riusciremo mai a tagliare i ponti”
Quella frase disorientò Erin. Fu più forte di lei pensare ad un ragazzo disperso in un paese straniero, dall’altra parte del globo.
“evidentemente io non sono tra queste per te. Devi aver trovato qualcuno di speciale in quella scuola, se intendi diplomarti lì”
“possiamo comunque restare in contatto” tentò la ragazza, appoggiandosi alla scrivania.
“come abbiamo fatto in questi ultimi mesi?” commentò sarcastica l’amica, alzando gli occhi al cielo frustrata.
“la stai mettendo come se fosse solo colpa mia. Nemmeno tu ti sei fatta viva” la recriminò Erin.
“e ti sei chiesta perché?” sbottò l’altra “non era che non volessi sentirti, era che avevo paura del tuo giudizio”
Le guance di Leti si imporporarono e cominciò a intrecciare nervosamente le dita paffute.
“a che proposito?” chiese Erin sorpresa per quell’uscita.
“esco con una ragazza”
“non c’è niente di male, me l’aspettavo che ti saresti fatta altre amiche”
Leti rimase per un attimo basita, guardando quell’amica di cui, in momenti come quello, metteva in discussione la sagacia. L’ingenuità di Erin era talmente spiazzante che scoppiò a ridere, al punto da dover asciugare una piccola lacrimuccia all’angolo dell’occhio destro.
Sospirò infine divertita e si affrettò a cancellare l’espressione confusa della ragazza, pronta a sostituirla con lo stupore più totale:
“diciamo che mi sono fatta un’altra amica in un altro senso: da un paio di mesi sto insieme ad una ragazza”
Erin sbattè le palpebre più volte, incredula. Si conoscevano da anni eppure non aveva mai messo in discussione i gusti sessuali dell’amica.
“non dici nulla?”
“beh, sono spiazzata. Non l’avevo mai capito”
“diciamo che è una cosa fresca. Anche io ci ho messo un po’ a realizzare il tutto”
Erin tornò a sedersi sul letto:
“ok, mi hai sorpreso, cioè, probabilmente devo metabolizzare la cosa, ma quello che è certo è che non cambierà assolutamente l’opinione che ho di te, Leti. Mi dispiace che tu abbia pensato il contrario”
La ragazza fece spallucce, come se non credesse completamente alla veridicità di quell’affermazione.
“perché dovrei giudicarti Leti? Non l’ho mai fatto e non comincerò certo a farlo ora. Sono solo un po’ disorientata ma cosa c’è di sbagliato nell’esserti innamorata di una ragazza?” insistette la mora.
Le dita dell’amica cominciarono a disegnare dei cerchi immaginari, scivolando lentamente sulla trapunta lilla.
“l’unica cosa sbagliata è il timore che le persone a cui vuoi bene non ti capiscano” mormorò insicura.
“me la presenterai un giorno?” sviò Erin, sperando di risultare conciliante.
“quando? Quando ti degnerai di tornare ad Allentown per salutare i tuoi?”
Più una persona si sforza di non apparire ferita e più le sue parole finiscono per affermare il contrario. Leti non teneva più gli occhi puntati verso quell’amicizia che fino a qualche mese prima giudicava così importante. Non era delusa solo da Erin. Era delusa anche da se stessa per non essere riuscita a tenere vivo il loro legame. Samantha era solo una scusa come un’altra per non ammettere il proprio imbarazzo di non essere riuscita a restare accanto all’amica nel momento del bisogno: dopo la scomparsa di Sophia, Erin non aveva voluto vedere nessuno e lei si era limitata ad accettare passivamente quella richiesta. Solo quando la ragazza aveva lasciato la città, si era resa conto che il suo compito in quanto amica era farla reagire.
“tornerò più spesso qui ma solo se, oltre ai miei, ci sarà qualcun altro che aspetta di vedermi”
Leti sollevò finalmente il capo e incrociò il sorriso sincero dell’amica.
Si era presentata alla soglia di casa Travis consapevole dell’eventualità di dare il colpo di grazia ad un’amicizia che era ormai talmente sbiadita da aver cancellato i sentimenti che l’avevano edificata. Era sicura che il disagio e il tempo passato senza vedersi, avessero aperto una voragine tra di loro, distanziandole al punto da non riconoscersi più. Era certa che avrebbe avuto davanti un’estranea e invece Erin le stava tenendo una mano; non si sarebbero più viste spesso come un tempo, ma da parte sua c’era il desiderio di non gettare tutto alle ortiche.
“ti aspetterò” concluse infine Leti con un’espressione serena.
 
Nonostante le proteste della sorella e le obiezioni della madre, Erin trascorse il resto delle vacanze rintanata nella loro casa ad Allentown. I suoi amici l’avevano invitata a tornare a Morristown per uscire con loro l’ultimo dell’anno, ma aveva declinato anche quell’offerta; Sophia fingeva di essere infastidita per quella premura tuttavia non poteva ammettere quanto fosse grata alla gemella per la sua solidarietà.
Tornarono più volte sull’argomento partenza, anche quando Ambra andò a trovarle. In quell’occasione lei e Sophia si erano rifugiate in camera e avevano parlato per ore.  Cosa si dissero quella volta, rimase un mistero per Erin, conscia che se avesse tentato di invadere la privacy della sorella, ne sarebbe uscita una discussione.
"un giorno mi spiegherai il perché di tutto questo mistero? Mi sembra di vivere in un romanzo di quart'ordine" sbottò un pomeriggio Erin, mentre in TV mandavano un film dalla comicità scadente e banale.
Sophia sorrise leggermente e tornò a concentrarsi sul suo dipinto. Le setole del pennello si intinsero di un liquido grigiastro che l’artista trasferì sulla carta con pochi semplici tocchi. Fece una smorfia soddisfatta: i nuovi acquarelli erano di ottima qualità.
"perché non inviti qui Nathaniel per Capodanno?" s’intromise Amanda, guardando Erin da sopra la montatura dorata degli occhiali. Fino ad un attimo prima, la sua attenzione era calamitata da un voluminoso tomo di psicologia infantile.
Erin deglutì mentre la sorella la guardò interrogativa:
"chi è costui?" domandò Sophia, ponendo il pennello nell’acqua torbida del bicchiere.
"ma come Erin, non gliel'hai ancora detto?" si stupì la madre e poi, voltandosi verso l’altra figlia, spiegò "tua sorella si è trovata un ragazzo"
Sophia sgranò gli occhi emettendo un fischio di apprezzamento mentre la gemella sussurrava mestamente:
"In realtà è già finita"
Questa volta toccò alla madre tradire un'espressione basita, mentre Sophia protestava:
"ma insomma Erin! Per una volta che ti trovi un ragazzo, non faccio neanche in tempo a conoscerlo!"
"tanto non ti sarebbe piaciuto" asserì la sorella, abbassando il volume della TV.
"e tu che ne sai?" s’impuntò l’altra, portando le mani sui fianchi.
"perché è un ragazzo educato e gentile"
"stai dicendo che mi piacciono rozzi e volgari? "
"beh, ammettilo: quelli che ti sei scelta sinora non erano esattamente dei lord inglesi"
"come è fatto?" continuò imperterrita Sophia che non aveva alcuna intenzione di lasciar cadere l’argomento.
"ma che ti frega?" scattò Erin.
“assomiglia a Peter O’Toole” dichiarò Amanda con un’espressione trasognante. Di fronte alle facce confuse delle figlie, la psicologa protestò “ma come? Non sapete chi è? Ha fatto Lawrence d’Arabia, 007 Casinò Royale…”
“ma almeno la nonna era nata quando ha fatto ‘sti film?” scherzò Sophia.
Amanda replicò con un verso impermalito:
“dovreste guardare quei vecchi film piuttosto di quella porcheria che fanno adesso” replicò indicando stizzita una scena volgare che andava in onda in TV.
“comunque io non ho ancora capito come è fatto questo Nathan”
“si chiama Nathaniel” la corresse Erin
"alto, biondo e occhi nocciola. Gentile oltre ogni misura e molto garbato" rispose Amanda, ancora amareggiata per aver perso un potenziale genero così a modo. Sophia rise sommessamente e commentò:
“e l’armatura scintillante ce l’aveva sempre addosso, oppure ogni tanto se la toglieva?”
“ecco perché non volevo dirtelo: trovi sempre da sfottere con questa storia del principe” velenò Erin, incrociando le braccia al petto.
“perché vorrei che abbandonassi questa fissa!” esalò la gemella, alzando le braccia impotente e risultando alquanto buffa “non esistono ragazzi del genere Erin e se anche fosse, mi chiedo come possano piacerti!”
“in effetti a te Sophia piacerebbe più uno come Castiel” commentò Amanda mentre i suoi occhi scorrevano veloci sul paragrafo la dislessia nei bambini.
“e chi è?”
Erin si era irrigidita. In fondo lo pensava anche lei.
“diciamo che è la tua versione al maschile cocca” replicò Peter, varcando la soglia del salotto. Cercò il giornale in una pila di carta accatastata e, dopo aver riesumato la gazzetta sportiva, si accomodò sul divano.
“non sono poi così uguali” mormorò Erin per nulla convinta delle sue parole.
“come è fatto questo Castiel?” s’incuriosì la gemella, incrociando le gambe sopra il divano, mentre il padre la guardava di sbieco.
Erin intercettò quell’occhiata ma non seppe come giudicarla: Peter non sembrava particolarmente infastidito da quell’argomento e la cosa la lasciò un po’ disorientata. Fino a qualche giorno prima gli bastava sentire il nome del rosso per innervosirsi.
“beh, ha i tuoi stessi interessi: il basket, la musica…” elencò vagamente Erin.
“suona qualcosa?”
“la chitarra. Ha un gruppo”
“allora potrei proporgli di entrare come bassista”
“ma se sono mesi che non suoni il basso!” protestò Amanda “ogni volta che spolvero la tua camera, mi chiedo se non sia il caso di venderlo”
“ammetto che mi sia un po’ scemata la passione… ora preferisco di gran lunga disegnare”
“meglio così, i miei timpani ringraziano” borbottò Peter, leccandosi il dito per passare alla pagina successiva.
“comunque il genere rockettaro anticonformista mi ha rotto” bocciò Sophia, alzandosi in piedi. Andò a svuotare l’acqua del bicchiere che colorò l’acquaio con un liquido scuro.
“allora Erin....” esordì tornando nella stanza “hai detto che giochi a basket no? Andiamo a fare due tiri” propose allegramente, mettendo via il dipinto.
Peter e Amanda, troppo ansiosi di natura per cogliere quella provocazione, cominciarono ad inveirle contro per ricordarle la gravità dell’operazione a cui si era sottoposta mentre la gemella, scuoteva la testa divertita. Sophia non sarebbe mai cambiata.
 
C’è un detto “le cose belle durano poco”. I giorni trascorsi con la sua famiglia riunita furono tra i più sereni nella vita di Erin ma erano destinati ad esaurirsi rapidamente: arrivò così il giorno della partenza di Sophia. I suoi familiari sperarono che la tormenta di neve che aveva avvolto Allentown concedesse loro di temporeggiare, rimandando il volo della ragazza, ma le loro speranze rimasero inascoltate: il due gennaio c’era un sole così luminoso e caldo, che sembrava uscito apposta per augurare buon viaggio alla giovane esploratrice.
“saresti potuta rimanere almeno per il compleanno. Un giorno in più che ti cambia? Ti avrei fatto conoscere i miei amici” tentò per l’ultima volta Erin, appoggiandosi lateralmente allo stipite della porta. Osservava Sophia mentre, con gesti frettolosi, sbirciava il contenuto del trolley. La valigia era già pronta da un pezzo, mancavano solo gli ultimi controlli finali del bagaglio a mano.
“sono rimasta qui anche troppo Jordan”
“la smetti di chiamarmi così?” si arrabbiò la sorella. Qualche giorno prima, Erin aveva dato una dimostrazione della sua abilità come cestista, affrontando il padre in un uno contro uno. Per Amanda era stato difficile trattenere Sophia che avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di prendere parte a quella partita. Nonostante ciò, si era divertita parecchio a studiare i movimento della sorella, da sempre negata per lo sport di squadra:
“comunque sei migliorata molto. Ti ricordi i consigli che ti ho dato per il torneo o dove ripeterteli?”
“non darti tante arie da coach” la zittì Erin offesa. Di certo in quel momento il basket era l’ultimo dei suoi pensieri.
Poiché era andata distrutta la macchina con cui aveva avuto l’incidente, Sophia era stata costretta a ripiegare sull’aereo, sorprendendo i familiari per la distanza che aveva percorso con la vettura per raggiungerli.
“sei un’irresponsabile! Come hai fatto a fare tutte quelle miglia per venire fino a qui?” si era infuriato Peter, quando la figlia aveva menzionato lo stato in cui soggiornava. La rossa aveva fatto spallucce, minimizzando la questione e sostenendo che aveva viaggiato da sola unicamente nell’ultimo tratto di novanta miglia, dopo aver lasciato un paio di amici a Harrisburg.
Erin gettò l’occhio sul biglietto aereo in cui era scritta la città in cui sarebbe atterrata la sorella. Era un indizio troppo misero circa la sua locazione e insufficiente a rintracciarla.
Non aveva più insistito: aveva accettato la sua richiesta di libertà, rassegnandosi ad aspettarla come aveva fatto fino a quel momento.
Era un’altra assenza quella che, giorno dopo giorno, le diventava sempre più insopportabile.
“Castiel ha risposto ai tuoi auguri di buon anno?” indagò Sophia serrando la valigia. Anche se non le aveva confessato le inquietudini e i dubbi che le attanagliavano l’animo, Erin le aveva accennato di quell’amico così atipico che non voleva farsi sentire.
“no, ma ormai non mi interessa più” mentì “devo farci il callo a voi e al vostro menefreghismo”
Sophia sorrise pazientemente e si frugò nelle tasche. La mano si invaginò fino al punto più profondo della fessura dei jeans e riemerse con un pezzettino di carta in mano:
“cos’è?”
“l’indirizzo di dove abiterò nei prossimi mesi: via, numero civico, città… c’è tutto”
Erin rimase esterrefatta, mentre la gemella precisava:
“questo ti servirà solo in caso di emergenza. A parte ciò, promettimi che aspetterai che sia io a chiederti di venire da me”
“era così difficile da dire?” borbottò la gemella, riponendo il prezioso foglietto in tasca, ancora incredula per quel gesto “non voglio più che mi consideri una palla al piede Fia, ma rimango tua sorella ed è normale che mi preoccupi per te. Mi basta sapere dove sei, che stai bene e sentirti di tanto in tanto. Non chiedo altro”
Sophia annuì, umidificando leggermente il labbro inferiore e si chinò a recuperare il trolley, mentre la sorella provvedeva alla valigia che era più pesante:
“sei davvero cambiata. Quasi non ti riconosco” le disse, sostando sulla soglia della propria stanza. Erin fu costretta ad arrestarsi a sua volta e, appoggiando per un attimo la valigia per terra, spiegò:
“sai, quando passi tutta la vita a compatire te stessa per ciò che non puoi essere, realizzando che accanto a te c’è sempre qualcuno migliore di te, approdi all’annichilimento più completo: ti convinci che non sarai mai niente di diverso da un’ombra, da una proiezione sbiadita di qualcun altro. Ti ho sempre considerata il mio Yang, Sophia.
Poi però è scattato qualcosa in me: è arrivato un momento in cui semplicemente ho detto “basta!” e ho cominciato a reagire. Ho avuto il coraggio di affrontare chi ero e, soprattutto, chi non volevo essere, sforzandomi di accettare ciò che non potevo cambiare e cambiando ciò che non potevo accettare di me stessa”
“SOPHIA! SBRIGATI O FARAI TARDI!”
La voce di Peter aveva percorso il vano scala, arrivando fino alla stanza in cui si trovavano le due sorelle. Non fu difficile sentirlo e non tanto per il tuo timbro tuonante, quanto per il silenzio profondo che era sceso tra le ragazze.
Sophia ricontrollò che le ruote del trolley girassero correttamente e si spostò in corridoio. Mentre percorrevano l’anticamera, mormorò:
“non ti ho mai considerato la mia ombra Erin” e anche se c’era dell’altro che avrebbe voluto dirle, ricacciò le parole in gola perché il suo orgoglio le impediva di dare prova di quanto si fosse commossa.
 
Dopo un viaggio in macchina, all’insegna dell’allegria e delle battute di Sophia, i Travis arrivarono finalmente all’aeroporto. Al momento di salutarsi, nessuno sapeva cosa dire. Lasciarono parlare gli abbracci e i baci teneri lasciati su quei capelli un tempo castani.
“fai buon viaggio tesoro”
Gli occhi lucidi di Amanda erano una punizione sufficiente per la figlia che spostò lo sguardo verso Peter.
“torna presto” si raccomandò lui.
“talmente presto che non farete in tempo a sentire la mia mancanza” replicò la figlia con allegria e infine, concentrò la sua attenzione sull’ultima persona rimasta; Erin emise un sospiro lieve, seguito da un sorriso rassegnato: ormai non aveva nient’altro da dirle.
Guardandola, Sophia pensò:
“questa volta mi è più difficile partire Erin”
Quasi la sorella le avesse letto nel pensiero, dichiarò a voce alta:
“questa volta mi è più facile lasciarti andare Fia”
Il sorriso di sua sorella aveva una piega amara ma al contempo dai suoi occhi traspariva una tenera determinazione. Per quanto Sophia ci provasse, in quella ragazza mora, dai lunghi capelli e gli occhi così espressivi e dolci, non riusciva a riconoscere la sorella a cui aveva detto addio mesi prima. Se la lontananza da lei l’aveva fortificata a tal punto, allora forse, al suo ritorno, avrebbe potuto raccontarle quella verità che teneva per sé.
Amanda volle abbracciare un’ultima volta la figlia e le sussurrò:
“tua sorella è forte, fidati di lei Fia”
“lo so” mormorò l’altra con un nodo alla gola.
Si era sempre considerata lei la più debole delle due, anche se Erin la pensava in modo diametralmente opposto.
Proprio per quella forza che non aveva, Sophia non voleva ancora scaricare sulla sorella quel pesante fardello che si portava dentro da mesi; sapeva che, se quel momento fosse mai arrivato, lei non sarebbe stata in grado di essere quel sostegno che Erin era per lei.
 
 
 
Nonostante la stretta vicinanza tra il suo orecchio e la sorgente sonora, Erin sembrava ignorare l’allarme lanciatole dalla sveglia che, se avesse potuto parlare, avrebbe detto: “sveglia diciottenne! Ti aspetta una lunga giornata!”
La ragazza si mise seduta e guardò oltre il vetro della sua stanza di Morristown. Il giorno precedente, dopo aver salutato Sophia, i genitori avevano accompagnato la seconda figlia dalla zia, in modo che trascorresse il compleanno in compagnia degli amici. Tuttavia nel pomeriggio, Rosalya l’aveva chiamata per dirle che, a causa di un inconveniente, i gemelli erano ancora in montagna e che i festeggiamenti erano rimandati alla domenica, il giorno prima di tornare al liceo. Si era quindi rassegnata a quel un noioso sabato in solitudine, all’insegna del divano e la TV.
La vibrazione del cellulare attirò la sua attenzione e, senza alcun stupore, la ragazza scoprì che era sua madre a chiamarla:
“tanti auguri tesoro!” si entusiasmò Amanda, gridandole nell’orecchio.
“grazie mamma” sbadigliò la figlia, allontanando il ricevitore dall’orecchio “ma non potevi chiamarmi più tardi?...mi sono appena svegliata” si lamentò con un sonoro sbadiglio.
“già ci tocca passare il compleanno lontane, almeno voglio assicurarmi di essere la prima a farti gli auguri!” protestò la psicologa, cercando lo sguardo del marito che era impegnato al telefono con l’altra figlia. Per non fare torto a nessuna delle due, i genitori avevano deciso di chiamarle contemporaneamente.
“sei la prima” la tranquillizzò Erin, mettendosi in piedi. Sapeva già quale sarebbe stata la domanda successiva della madre, così si accostò alla scrivania dove sostava un pesante pacco che i genitori le avevano consegnato il giorno prima.
“allora? Che ne dici di aprire il nostro regalo?”
“lo sto facendo giusto ora” la avvertì la festeggiata, tenendo il cellulare in bilico sulla spalla. Rimuovere l’incarto si rivelò incredibilmente complicato, nonostante la geometria definita del pacco, così Erin attivò il vivavoce e appoggiò il telefono sulla scrivania, in modo da avere entrambe le mani libere.
Appena riuscì ad accartocciare la carta con le renne, la ragazza realizzò il contenuto della scatola: un microscopio:
“m-ma state scherzando?” balbettò, studiando le quattro facce laterali del cubo. Non riusciva a capacitarsi dell’oggetto che aveva di fronte:
“oh, quanto vorrei vedere il tuo viso in questo momento tesoro! … ma hai insistito così tanto per aprirlo oggi” si rammaricò Amanda “comunque visto che il regalo di Natale è stato un po’ miserello, ci siamo rifatti per il compleanno”
“è-è meraviglioso mamma” replicò con gratitudine Erin. Non avrebbe mai immaginato un regalo del genere, anche perché la sua passione per la biologia era stata una scoperta recente che aveva condiviso solo con la sorella
“è stata un’idea di Sophia…” confermò per l’appunto la madre “a proposito… ti passo papà che ha appena finito di parlare con lei. Sono contenta che ti piaccia amore”
Mentre aspettava di sentire la voce di Peter, Erin cercò di immaginare il viso della gemella mentre scopriva il regalo che lei aveva scelto: una reflex.
 
Dopo aver ringraziato e salutato i genitori, Erin si spostò in cucina: trovò la tavola imbandita di croissant, succhi di frutta, caffè, biscotti, marmellate:
“abbiamo ospiti?” borbottò tra sé e sé, non accorgendosi dell’agguato che la zia le stava tenendo alle spalle. Pam arrivò da dietro, abbracciandola con enfasi e facendo sussultare la nipote:
“TANTI AUGURI TESORO!”
Cercando di sfruttare l’ultimo orecchio rimasto udente, Erin tentò di capire se tutto quel ben di Dio fosse stato preparato per degli ospiti.
“macché ospiti! È il tuo compleanno! Ti meriti una colazione del genere!”
“ma ci sono sei brioche zia! Come faremo a mangiarle tutte? Tu ne mangi sì e no mezza” protestò ridendo la nipote, versandosi del succo all’ace.
“in realtà volevo chiamare Jason, ma questa mattina è uscito di fretta e furia” ammise la donna rammaricata “uffa, dopo le ferie si è trovato tanto di quel lavoro arretrato che temo che oggi non verrà neanche a pranzo qua. Comunque mi ha detto di darti io il regalo da parte sua”
“me ne ha fatto uno anche lui?” si sorprese Erin.
La zia annuì orgogliosa della generosità del suo ragazzo mentre la nipote accoglieva tra le mani un pacco morbido.
Era stato facile per la ragazza affidarsi al tatto per prevederne il contenuto, ma la sua mente non poteva immaginare quanto quel vestito sarebbe stato bello: lo afferrò per le spalline e sollevò verso l’alto un meraviglioso abitino nero, aderente al corpo. Era dato da due strati sovrapposti di tessuto di cui quello più esterno era rappresentato da un tulle con ricamate delle forme astratte che ricordavano dei fiori. Sfregano i polpastrelli contro il tessuto, la ragazza capì che si trattava di un capo di qualità e scoprì che era uno dei più belli presenti nella boutique della zia.
“mi pare che ti piaccia” commentò compiaciuta la donna, deliziandosi dell’espressione della nipote.
“non ho mai avuto un vestito più bello zia! Lo metterei anche per dormire!”
“non è mica fatto per stare nascosto sotto le coperte!” sbottò Pam, indignata per quell’eresia “questo è fatto per essere visto! Comunque, non è finita qui” le disse, porgendole un pacchetto più piccolo  
“questo è il regalo da parte di Jason”
Erin scartò avidamente la confezione e si trovò tra le mani un meraviglioso braccialetto placcato in argento. Prima che la ragazza potesse complimentarsi per il buon gusto dell'uomo, la zia le fece l’occhiolino:
“gliel’ho consigliato io”
 
Mentre sistemava il nuovo abito nell’armadio, il cellulare cominciò a suonare le note della sigla di Spongebob. Sapeva che si sarebbero succedute una serie di telefonate e messaggi, così la ragazza aveva tolto la modalità silenziosa che normalmente teneva impostata.
Appena lesse il nome sullo schermo, sorrise istintivamente e prima di accettare la chiamata, tenne il ricevitore a parecchi centimetri di distanza dal condotto uditivo.
“AUGURIIIIII CIPYYYYYYYYYYYYY!”
“Cipy?” ridacchiò, sentendo la voce di Rosalya e accostando finalmente il cellulare all’orecchio.
“mi è venuta così. Come va oggi? Che ti hanno regalato i tuoi?”
“un microscopio”
“ah” commentò l’amica. La sua perplessità era talmente palpabile che Erin sogghignò :
“ti assicuro che non potevo desiderare regalo migliore. E’ come se regalassero a te un biglietto per la settimana della moda”
“allora è un regalo fenomenale!” si entusiasmò la stilista, cogliendo perfettamente il paragone.
“esatto”
“ascolta, sei sicura che non ti dispiaccia restare da sola oggi?”
“non preoccuparti, mi preparo psicologicamente alla festa di domani”
“maledetto Armin! Quanto è impedito quel ragazzo! Se non fosse rotolato giù dalla montagna, a quest’ora gli Evans sarebbero già a casa”
“pensa piuttosto a che scena ci siamo perse Rosa” rise Erin, immaginando l’amico incastrato sotto una coltre di neve.
“a proposito di scena, dovresti vederlo con il pigiama di Olaf che gli ha regalato Alexy: non lo credevo possibile, ma sembra ancora più idiota”
“AHAHAHAH, sei cattiva” la rimproverò allegramente l’amica, sedendosi sul letto.
La ragazza dall’altro capo sorrise ed finalmente si decise a fare la fatidica domanda:
“Castiel ti ha mandato gli auguri?”
Il silenzio di Erin fu fin troppo eloquente. La giovane stilista sospirò e si grattò la fronte:
“prima o poi risponderà” disse infine, trattenendo l’impulso di insultarlo.
“è il poi che mi spaventa Rosa”
“non devi avere fretta Erin. Se n’è andato da appena due settimane… io sono tre anni che aspetto Nathaniel” concluse ridendo amara.
L’amica però non si lasciò contagiare da quell’amara ironia. Innervosendosi per la superficialità con cui la sua interlocutrice trattava la questione, sbottò:
“c’è poco da scherzare. Oggi pomeriggio parte per la California!”
Rosalya si zittì e cominciò ad accarezzare il suo Romeo, grattandolo sotto il mento bianco. Il biondo non si era degnato di comunicarle la sua partenza, era stata Erin a dirglielo qualche giorno prima. Quella le valeva come l’ennesima conferma di quanto poco lei contasse per lui.
“Rosa, ci sei?”
“si scusa… che vada dove gli pare”
La ragazza sentì sbuffare e poi la voce di Erin alterarsi:
“insomma! Sei così occupata a cancellare i tuoi sentimenti per lui, da non accorgerti di quelli che lui prova per te”
Appena pronunciate quelle parole, la ragazza si morse la lingua. Si era ripromessa che mai avrebbe invaso la privacy del ragazzo: non stava certo a lei dichiararsi al posto suo. Ma ormai il danno era fatto: il desiderio di ricongiungere quelle due anime in pena aveva preso il sopravvento sui suoi propositi.  Dopo un silenzio che sembrava durato anche troppo, Rosalya mormorò mestamente:
“non illudermi Erin”
“me l’ha detto lui Rosa! Possibile che in tutto questo tempo tu non ti sia accorta di niente? Sono tre anni!”
La ragazza spostò lo sguardo sulla foto che la ritraeva insieme al suo vecchio gruppo di amici.
 
“ […] Voglio davvero provare a ricucire i vecchi rapporti, ma senza di te non ce la posso fare”
Rosalya non obiettò e rimase in silenzio. Tornò a concentrarsi sul suo lavoro ma le veniva difficile. Nel tentativo di unire due lembi troppo distanti, applicò troppa forza e un piccolo strappo rovinò la stoffa del vestito. Dall’altro capo della linea, Alexy aspettava pazientemente una risposta, sapendo che alla ragazza serviva del tempo per riflettere sulle sue parole.
Rosalya, frustrata per l’inconveniente, direzionò involontariamente il suo sguardo verso la mensola della sua stanza.
Protetti da una cornice in legno scuro, un gruppo di ragazzi la guardavano, chi sorridente chi beffardo. Castiel con quell’espressione da duro arrogante, Lysandre enigmatico e misterioso, Alexy sorridente che la abbracciava, Armin in posa da supererore e Leigh che la guardava con adorazione. E poi c’era Nathaniel. Non guardava dritto nell’obiettivo, aveva la testa voltata di tre quarti, come se in quel momento con la sua mente fosse altrove.
Le mancava così tanto la loro armonia e complicità.

“eravamo un gruppo mitico” commentò amaramente, riavvicinando i due lembi strappati. Una stupida distrazione e il vestito rischiava di essere rovinato. Proprio come era successo con la loro amicizia “ma è bastata una ragazza per rovinare tutto”
Alexy, che in quel momento avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia per vedere l’espressione della sua migliore amica, replicò placidamente:
“è vero. Ma forse proprio per questo basterà un’altra ragazza per ricucire ogni strappo”

(tratto dal capitolo 16: In her shoes)
 
“scusami Erin… devo andare” scattò Rosalya, recuperando la borsa accantonata in un angolo della stanza.
“e dove?”
Un sorrisetto irriverente distese le labbra dell’amica e, con fare complice, la sfidò:
“secondo te?”
 
Nell’attesa di avere notizie da Rosalya, Erin ricevette le telefonate di tutti i suoi amici, eccetto Lysandre che le mandò una poesia per messaggio e Violet che le inviò un disegno. Armin le disse che zoppicava un po’ ma che ciò non gli avrebbe impedito di divertirsi l’indomani.
 
Dopo un lauto pranzo, in cui Erin rimase piacevolmente sorpresa dai progressi culinari della zia, la ragazza si trovò in casa da sola. Pam era corsa alla boutique e le aveva consigliato di farsi un giro in città. Poiché il palinsesto televisivo non offriva niente di accattivante e il suo repertorio di film era trito e ritrito, Erin si rassegnò ad assecondare quel suggerimento.
 
La neve era stata rimossa dai marciapiedi e l’agibilità delle strade era ineccepibile. Non c’era traccia di lastre di ghiaccio sulla banchina, se non in qualche innocua pozzanghera in punti in cui non potesse essere pericolosa. Tirava un venticello leggero così Erin fu costretta a serrare la morsa della sciarpa attorno al collo sottile. Il naso era congelato, ma a quello poteva solo rispondere con la rassegnazione. Si accomodò il berretto di lana, sbuffando a causa di un ciuffo che non voleva saperne di entrare dove lei l’aveva indirizzato. Il suo alito caldo si concretizzò in una nube di vapore acqueo che aleggiò per un attimo davanti alla sua bocca. Da piccole lei e Sophia si divertivano a sfruttare quel fumo illusorio per darsi arie da adulte, fingendo di tenere una sigaretta tra l’indice e il medio.
Ripensò al pacchetto di Marlboro che aveva intravisto nella borsa della sorella poco prima che partissero per l’aeroporto e sollevò le iridi verdi al cielo, ripetendosi che alla prossima occasione, avrebbe tentato di far desistere la sorella da quel nuovo vizio.
La sua andatura cadenzata e agile, la condusse al campo di basket senza che se ne accorgesse. Spostò lo sguardo sul metallo arrugginito del canestro e sulla rete ormai logora. C’era solo un ragazzo impegnato con dei tiri liberi. Lanciò la palla descrivendo una parabola molto alta eppure il tiro andò a segno; sorrise beffardo manifestando tutta la sua sicurezza di atleta.
In quella smorfia sardonica, per un attimo Erin lo vide: vide Castiel.
Il cestista sconosciuto si voltò improvvisamente verso la spettatrice che, accorgendosi di non essere più invisibile, accelerò il passo. Aveva fretta di allontanarsi da quel luogo, prima che i ricordi prendessero il sopravvento. Svoltò per una via molto affollata, sperando che il brusio dei passanti le impedisse di sentire quella voce maschile ferma e canzonatoria:
 
“pronta a perdere quindi?”
(capitolo 5 – Uno contro uno)
 
Si ritrovò ben presto al parco Queen’s Victoria, insolitamente silenzioso e tanto spoglio di vegetazione quanto di persone. Aggirando il laghetto ghiacciato, individuò una figura minuta, china su un enorme album. Era seduta con le gambe compostamente allineate e sollevava ogni tanto il visetto dolce per osservare attentamente un acero a pochi metri di distanza.
“disturbo?” la interruppe Erin con un sorriso dolce.
Violet alzò rapidamente il viso, arrossendo per l’agitazione:
“Erin…”
“come stai? È da Natale che non ci vediamo” esordì l’amica, trovando posto accanto all’artista, sulla panchina lignea.
“bene… ehm… tanti auguri” sussurrò in difficoltà.
I modi impacciati della ragazza la fecero sorridere e, per distoglierla da ogni disagio, cambiò argomento:
“posso vedere cosa stai disegnando?”
L’amica allungò l’album, affidandolo alle mani dell’osservatrice.
Era uno schizzo a matita ma il talento della disegnatrice aveva saputo mettere in evidenza le rugosità del legno e l’intrico dei rami. Il contrasto tra il legno scuro della pianta con il foglio bianchissimo rendeva quella semplice bozza, un piccolo quadretto.
Dopo i complimenti di rito, tra le due calò il silenzio completo; Violet continuava a disegnare mentre Erin sembrava persa nei suoi pensieri.
“hai novità su Castiel?”
Quella domanda non la sorprese, anche se a formularla era stata la timida vocina di Violet. Forse quella ragazza riusciva a leggerle in faccia ciò che stava pensando. Poteva imporsi di non soffermarsi su di lui, ma la tua determinazione durava pochi secondi: Castiel continuava a tornarle in mente.
“mi mette ansia il fatto che non risponda”
“perché?”
Quella poteva sembrare una domanda senza senso, dalla risposta talmente scontata che per un attimo Erin sollevò gli occhi al cielo. Per la miseria, era il suo migliore amico, se non addirittura qualcosa di più come sosteneva Nathaniel… tuttavia, non aveva ancora formulato la risposta.
“non so se gli manco” farfugliò infine, frustrata.
“o forse, hai paura che si dimentichi di te”
La mora sentì il cuore accelerarle: non aveva mai concretizzato quale fosse la sua vera inquietudine ma ora lo sapeva: l’idea che, al ritorno di Castiel, si sarebbero scoperti due estranei l’uno per l’altra, la terrorizzava. Se erano bastati pochi mesi per sopire l’amicizia con Leti, cosa sarebbe rimasto del suo rapporto con Castiel dopo centottanta giorni di lontananza?
Mentre meditava, turbata per la piega che avevano preso i suoi pensieri, Violet disse:
“ci sono delle persone che entrano nelle nostre vite senza che noi possiamo impedirglielo e ci cambiano al punto che tornare quelli di prima è impossibile. Quando una persona ce l’hai dentro Erin, non hai nessun posto in cui scappare”
Pur essendo la più giovane del suo gruppo di amici, Violet era la personificazione della saggezza degna di un santone tibetano: se ne usciva con frasi pronunciate con disincanto, una sorta di bombe a orologeria che sganciava con la più totale serenità, come se lei per prima fosse inconsapevole della devastazione che avrebbero portato nell’animo di chi veniva attaccato.
Era questo l’effetto che sortiva in Erin.
“quindi stai dicendo che ormai Castiel è entrato nella mia vita e ha avuto un ruolo talmente importante che non riuscirò mai a dimenticarlo?”
La replica di Violet fu qualcosa di talmente inatteso, che all’amica vennero i brividi:
 
“in realtà Erin hai invertito l’oggetto con il soggetto: io parlavo di come tu sia riuscita a scuotere il cuore di Castiel” precisò, sottolineando quel pronome personale “lui non potrà mai dimenticarti… tu sarai sempre quell’addio che non riuscirà mai a dire”
 
La ragazza era un brivido. Percepiva che sotto gli strati di tessuto con cui si proteggeva dal gelo, la pelle aveva assunto la caratteristica increspatura definita “d’oca”.
Eppure non sentiva freddo.
Erano state quelle parole a scuoterla fino al midollo. L’artista era l’unica tra i suoi amici che riusciva a scavare a fondo in lei al punto da farla sentire così nuda e fragile.
Violet continuava a disegnare, come se fosse completamente ignara della tempesta che aveva scatenato accanto a sé. Alzava e abbassava il capo, spostandolo alternativamente tra il foglio e l’oggetto da ritrarre.
 
Dopo aver salutato l’amica, Erin proseguì la sua passeggiata. Si era ripromessa che prima o poi avrebbe affrontato quei sentimenti così ingarbugliati e ora non aveva più scuse. I suoi amici, Nathaniel, le avevano dato fin troppi spunti su cui riflettere.
Appena i suoi pensieri si spostavano sul rosso, avvertiva una sensazione di disagio: per settimane l’aveva etichettato come il suo migliore amico ma da parecchi giorni, se non di più, quella certezza era andata in frantumi.
Ripensò a quella sera prima del concerto, in cui si era presentata a casa sua, alla serenità che aveva provato nel trascorrere del tempo con lui; c’era un’atmosfera familiare, accogliente, protettiva. Quando era in sua compagnia, Erin si sentiva a casa. Ricordò l’entusiasmo con cui trotterellava agli allenamenti settimanali del sabato, pur con la snervante certezza che il cestista l’avrebbe massacrata di esercizi.
Le sue battute pungenti e antipatiche, le sue sfide impari, la sua assoluta indifferenza alle regole, il suo assurdo colore di capelli: le mancava tutto.
I pensieri cominciarono ad accavallarsi gli uni sugli altri senza darle tregua.
Quel suo rimuginare non la stava portando da nessuna parte.
Poteva sempre trattarsi di un errore da parte sua, del resto era già successo con Nathaniel: aveva completamente equivocato i propri sentimenti e aveva finito per rovinare quella che poteva essere una splendida amicizia.
Non si sarebbe mai perdonata se avesse commesso lo stesso errore la seconda volta e di certo, non con Castiel. Quell’amicizia, se come sosteneva Violet, era bilaterale, era troppo preziosa per rovinarla a causa della propria stupidità in amore.
Sempre più confusa, si sedette sulle gradinate del museo della città, incurante dello sguardo dei curiosi. C’era una sola cosa che la aiutava in momenti come quello: trasformare le sue riflessioni astratte in un testo concreto. Prese quindi un piccolo block che teneva in borsa e cominciò a scrivere:
 
Caro Diario,
sono patetica. Mi sento stupida perché sto scrivendo come una ragazzina ad un interlocutore che non esiste
 
Si fermò. Realizzò subito che quell’incipit non le era di nessun aiuto.
Aveva bisogno di immaginare una persona a cui rivolgersi e tra tutti, quella con cui si sentiva più libera di aprirsi, era anche quella che la mandava più in confusione. Annerì la parola Diario e la sostituì con Castiel. Anche la riga che aveva scritto subì la stessa sorte e venne annullata da una barra orizzontale.
 
Ciao Castiel,
nel caso in Germania ci fosse una diversa suddivisone del tempo, sappi che sono passate due settimane dall’ultima volta che ci siamo visti.
Non so il perché del tuo silenzio, o meglio, preferisco non immaginarmelo.
Ora come ora sto cercando di capire il mio: perché quando mi chiedono di te abbasso gli occhi e mi intristisco? Perché mi fa così male non sentirti? È la nostalgia di non vedere un amico, o è qualcosa di più?
Guardiamo in faccia la realtà: che motivo avresti per non rispondermi? Nessuno che non sia “non me ne frega un cazzo di te”… eheh, sai dove sta la fregatura? Che a me invece importa eccome di te, più di quanto meriti, oserei dire.
Vorrei sapere cosa stai facendo, come ti trovi, com’è questo gruppo, che figure di merda hai fatto (ne hai fatte sicuramente conoscendoti).
Fino a qualche giorno fa ero davvero arrabbiata con te ma ora ce l’ho come me stessa. A te riserbo solo la delusione per non aver corrisposto alle mie aspettative. Pensavo di essere qualcosa per te anche se non so esattamente cosa.
Mi odio perché continuo a cercarti nei volti di sconosciuti anche se so che non ci sei.
Prima mi basta pensare a te per sorridere senza motivo, anche mentre ero per strada. Eri l’unico che mi faceva questo effetto.
 
La scrittrice si interruppe e rilesse quella frase. Le sembrava quasi impossibile di averla concepita lei. Più le leggeva e più realizzava quanto fosse vera.
 
Ora però, per quanto possa essere diventata più forte, sei rimasto l’unico che riesce ancora a farmi piangere.
 
Scrisse quelle parole mentre delle lacrime salate inzupparono quella carta  dalla filigrana sottile.
 
Vorrei che mi dicessi che ti manco, anche se sarà una bugia… io farò finta di crederci, come ho fatto quando mi sono convinta che ci tenessi alla nostra amicizia.
 
Le passò accanto uno studente di musica, tenendo sulle spalle la custodia di una pianola.
Erin tornò ad abbassare il capo sul suo block e proseguì:
 
Ti ricordi la prima volta che ho incontrato te e Lysandre in aula di musica? Quel venerdì sera mi hai riaccompagnato a casa e, a modo tuo, hai cercato di tirarmi su il morale. Salutandomi, mi hai augurato buona notte con un’espressione talmente bella che mi ha fatto sorridere lo stomaco.
Ecco: quella notte mi ci sono volute ore per addormentarmi… e ti sorprenderà (o probabilmente no, dici sempre che sono poco sveglia) ma solo ora ne capisco il perché: sono innamorata di te Castiel e la cosa peggiore è che lo sono sempre stata.
 
Era come se il gelo avesse pietrificato le deboli lacrime che le avevano rigato il viso.
Era riuscita a concepire ed accettare quella scomoda verità che era annidata in fondo al suo cuore.
Rilesse una volta quella lettera, poi una seconda, una terza, una quarta, finché le sembrò di saperla a memoria.
Non aveva più dubbi ormai. Non aveva scuse per la sua ottusità. Aveva lasciato partire il ragazzo più importante della sua adolescenza senza muovere un dito.
Afferrò un angolo di quel foglio e lo strappò dal blocco: guardò per un’ultima volta la lettera più sincera e amara che avesse mai scritto e la accartocciò, gettandola poi in un cestino. Gli allenamenti di basket dimostrarono i loro frutti visto che il calcolo della traiettoria fu impeccabile.
Si alzò dalla sua postazione, perché stava ormai perdendo la sensibilità cutanea nella zona del sedere.
Tornò a camminare e riflettè su quanto fosse inutile la conclusione a cui era appena giunta: Castiel era innamorato di Debrah e di lei, Erin, non gliene importava nulla. In fondo, era anche per quello che il suo inconscio le suggeriva di non scoperchiare quel vaso di Pandora: ora che sapeva di provare qualcosa per lui, a che le serviva la consapevolezza dei suoi sentimenti? Rendeva solo più penosa la lontananza e miserabile la sua condizione di amica abbandonata.
Castiel aveva la sua musica ora e quella bastava a distrarlo da ogni altro pensiero. Le parole di Violet erano state tanto belle quanto false; per un attimo era stato confortante credere di essere qualcuno di importante per lui. 
buongiorno!”
Erin non capì quella parola che era stata appena esclamata a voce alta, anche perché era troppo presa dai suoi pensieri angosciosi. Si guardò attorno e scoprì di essere arrivata davanti a casa di Castiel. Ad attirare la sua attenzione era stato il vicino italiano dell’amico, Mauro, che Erin aveva intravisto per l’ultima volta la notte prima del concerto del liceo.
“sei l’amica di Castiel giusto?” proseguì l’uomo, tornando a parlare in inglese.
La confusione della ragazza era tale che a quel punto rispondere affermativamente sarebbe stata una bugia: per Castiel lei non era niente e per lei Castiel era tutto.
“ti dispiacerebbe entrare un attimo?” incalzò Mauro, inclinando il capo verso l’interno dell’abitazione “ieri è arrivata della posta dalla Germania: sono dei documenti firmati da lui e che vanno consegnati a scuola. Mi aveva chiesto di contattare Nathaniel, ma l’ho chiamato stamattina e mi ha detto che sta partendo per la California”
“può darli a me” confermò Erin avvicinandosi alla recinzione. Non la sorprese che Mauro conoscesse il biondo, del resto era stato il migliore amico del suo vicino.
“ti ringrazio. Aspetta che vengo ad aprirti” la accolse l’uomo. Con un’andatura goffa, il vecchietto attraversò il vialetto e sbloccò la serratura del cancello. Invitò Erin ad entrare e le consegnò un paio di buste con dei timbri in tedesco; la ragazza ripose con cura il materiale nella borsa e dopo averlo ringraziato, si diresse verso l’uscio.
“ah sono le cinque” mormorò Mauro tra sé e sé “è l’ora della pappa”
Erin lo guardò interrogativa, così il vecchietto chiarì:
“devo passare da Demon”
“posso venire?”
La proposta le era uscita prima che riuscisse a concretizzare di averla pensata. Mauro la fissò un po’ sorpreso, così la ragazza balbettò:
“ho dimenticato una cosa da Castiel l’ultima volta che sono stata qui”
 
Mentre Mauro si recava in cucina, Erin entrò nella stanza del ragazzo.
La tonalità grigio polvere delle parete, con il riflesso lucente della neve all’esterno sembrava più brillante di quanto Erin ricordasse. I primi raggi del tramonto riscaldavano l’ambiente, conferendo una cromaticità aranciata al mobilio.
La ragazza sfiorò le mensole, su cui già si era depositato un leggero velo di polvere. Quel comune pulviscolo bastò ad acuire il senso di lontananza e di abbandono che regnava in quella stanza. Il tappetto bianco e rosso era un po’ ammucchiato e la ragazza si chinò a sistemarlo, immaginando il ragazzo che lo lanciava via in malo modo con il piede. C’erano dei cd sparsi per terra e, da brava donna di casa, non si lasciò sfuggire nemmeno quelli. Li impilò in ordine e li appoggiò sulla scrivania. La prima volta che era entrata in quella camera si era sorpresa dell’ordine che vi regnava ma aveva appena avuto la conferma che si trattava solo di un episodio eccezionale, dettato dalle circostanze; tuttavia quel subbuglio, anziché irritarla, la intenerì. In fondo Castiel era un artista e in quanto tale, il disordine non poteva essere una sorpresa. Spostò lo sguardo sul letto e su quel materasso così morbido in cui aveva dormito settimane prima.
Si avvicinò al cuscino e lo accarezzò con una delicatezza che sembrava sfiorare la testa di un neonato. Quella stanza le parlava di lui.
Pur sentendosi stupida e ridicola, non resistette alla tentazione di annusare il cuscino su cui lei stessa aveva poggiato il capo settimane prima.
Appena avvertì il suo odore, sentì inumidirsi gli occhi, che serrò per evitare di giungere ad un punto di non ritorno. Inspirò con il naso cercando di darsi un po’ di contegno e ripose il cuscino al suo posto, sistemandolo con cura come se qualcuno dovesse usarlo di lì a breve.  
Si sedette a terra, con la schiena contro il letto.
 
Quando una persona ce l’hai dentro Erin, non hai nessun posto in cui scappare
 
Ormai le lacrime erano inarrestabili: le immagini cominciarono ad ondulare, otticamente distorte dall’effetto provocato da quel liquido salato.
Era talmente isolata da quanto la circondava che non si accorse che in quella stanza non era più sola.
Con un passo felpato, scandito da un’andatura lenta, stava avanzando una creatura pelosa e scura. Dalla bocca dischiusa, scintillava una dentatura affilata e letale, pronta ad azzannare.
Fu solo quando sentì un peso morto sulle gambe, che Erin si accorse che si trattava del cane che più la terrorizzava al mondo. Demon si era accasciato ai piedi del letto, abbandonandosi contro quella ragazza che aveva sempre considerato un’intrusa.
La coda era immobile e appoggiata contro il pavimento mentre nei suoi occhi si leggeva un profonda malinconia. Emise un mugolio talmente triste che la impietosì, al punto da accantonare anche l’ultima goccia di panico che l’aveva assalita, lasciandola pietrificata.
Non aveva mai visto Demon così abbattuto e le si strinse il cuore nell’immaginarlo tutto il giorno nella solitudine della sua cuccia, senza capire perché il suo padrone era sparito.
Il cane alzò lo sguardo verso di lei e finalmente, la ragazza trovò il coraggio per dargli l’unica consolazione che era alla sua portata: gli accarezzò delicatamente la sommità del capo, scivolando con la mano fino a metà della spina dorsale dell’animale.
Per la seconda volta il cane mugolò un verso sommesso e languido.
Con la bocca impastata di lacrime e tristezza, Erin gli rispose:
“manca tanto anche a me”
 
Dopo un paio di minuti, arrivò Mauro trafelato. Non appena vide Demon, lo sgridò:
“non ti si può perdere di vista un attimo che mi sparisci! Hai mangiato tutto?” gli chiese, mentre Erin sorrideva leggermente per la serietà con cui il vecchio interloquiva con l’animale.
Mentre lei si alzava in piedi, Demon la imitò e raggiunse il suo fornitore di cibo, che in quel momento stava osservando la finestra della stanza:
“prima di uscire, puoi abbassare quella tapparella? Non è sicuro tenerla sollevata”
“è incastrata. Bisogna smontare il cassone sopra” gli spiegò Erin, ricordando di aver rivolto la stessa richiesta all’amico due settimane prima.
“allora mi arrendo. I lavori manuali non fanno per me” liquidò la questione l’uomo “hai trovato quello che cercavi?”.
Erin stava per scuotere il capo in segno di negazione quando l’occhio le cadde su un punto della scrivania in cui era appoggiato un libro. Da esso spuntava un triangolino scuro che lei afferrò per tirarlo verso l’esterno. Era una foto: ritraeva Castiel con la sua aria eternamente imbronciata per uno scatto fatto a tradimento insieme ad Armin che l’aveva trascinato ad una fiera del fumetto. Con i due ragazzi c’era un cosplay di Gintama.
Nella foto i capelli di Castiel erano più corti e del suo colore naturale e, come sospettava Erin, quel look gli donava di più. Anzi. Nonostante la smorfia di disapprovazione, era innegabile quanto il ragazzo fosse carismatico e affascinante.
Prese la foto e dopo averla impressa nella memoria, se la mise in borsa.
Guardò Mauro che per tutto quel tempo l’aveva osservata in silenzio e asserì:
“sì, ho trovato quello che mi serviva”
 
Arrivò davanti alla porta dell’appartamento della zia che erano quasi le sette. Aveva camminato moltissimo quel pomeriggio ma non si sentiva stanca.
Non aveva voglia di recuperare la chiave dalla sua borsa, l’impresa avrebbe richiesto troppo tempo, così suonò il campanello, aspettando che Pam accorresse ad aprirle.
Mentre attendeva la risposta, sentì dei borbottii strani provenire dall’interno e restò di sasso. C’era un che di furtivo in quei movimenti e di certo non si trattava di sua zia.
Il suo condominio non sorgeva in una zona raccomandabile e in passato, i furti erano stati una triste novità che aveva spezzato la routine degli inquilini.
“chi è che mi sta toccando il culo? Armin pervertito!”
Erin sgranò gli occhi, incredula e al contempo sollevata nel riconoscere dall’altro capo della porta, la voce di Rosalya.
“perché dovrei essere io scusa? Non vedo un tubo!” seguì la lamentela del moro.
“di certo non posso pensare che sia stato Alexy… e mio fratello tanto meno!”
“volete stare zitti? Guardate che ci sente!” si spazientì Iris.
Erin avvertì poi un bisbiglio e la voce allegra di Alexy che replicava:
“hai ragione Violet. Cosa aspetta Erin ad entrare?”
“sicura Iris che fosse la sua macchina quella che è appena arrivata?” intervenne la voce suadente di Lysandre.
“sì certo. Ci sono anche salita qualche volta. Non posso essermi sbagliata”
“qualcuno accenda la luce, mi sento un idiota a parlare immerso nel buio” sbottò Armin.
“solo quando sei al buio ti senti idiota?” lo sfottè Rosalya, assecondando la sua richiesta e convincendosi che si fosse trattato di un falso allarme.
Invece fu proprio quando la luce illuminò la stanza che Erin, trattenendo a fatica le risa, aprì la porta, lasciando spiazzati gli amici.
Tutti rimasero senza parole, sconvolti e delusi per la malriuscita sorpresa.
Erin continuava a sghignazzare felice mentre il resto dei presenti cercava di riprendersi dal fallimento del loro piano. A quel punto, si udì la vocina timida di Violet che, con scarsa convinzione, tentò un:
“sorpresa”
Dopo due secondi di perplessità, tutti scoppiarono in una risata fragorosa mentre l’artista avvampava per quell’uscita troppo audace per la sua personalità.
“Armin! Rovini sempre tutto!” lo rimproverò allegramente il fratello, abbracciando Erin per farle gli auguri a modo suo.
“non è colpa mia se Rosalya soffre di allucinazioni. Ti pare che vado a palpare un Cerbero del genere?”
Mentre Armin si riprendeva dalla violenta scazzottata, il resto degli amici circondò la padrona di casa.
“non potevate avere un’idea migliore ragazzi. Quindi, la festa di ieri era tutta una scusa?”
“esatto, sarebbe stato troppo strano che non festeggiassimo il tuo compleanno, così abbiamo preso tempo dicendoti che l’avremo rimandata a domani” spiegò Iris pimpante.
“e mi avete anche fatto credere che Armin fosse rotolato giù sulle piste” ridacchiò Erin.
“appunto! Ne vogliamo parlare?” protestò il moro visibilmente offeso “perché quando vi serve qualcuno che faccia la figura dell’impedito, scegliete sempre me?”
“perché sei il più credibile nella parte” lo zittì Rosalya con un’occhiata glaciale che tramutò istantaneamente in uno sguardo angelico verso la festeggiata.
“ci sono cascata come un’allocca” ammise quest’ultima.
“l’idea è stata di Lysandre” riconobbe Iris.
Erin si voltò, rivolgendo un sorriso complice al ragazzo:
“ne sai una più del diavolo tu. Sei uno stratega nato Lys”
Il ragazzo sorrise orgoglioso intuendo a quale precedente si riferisse la ragazza che la sorella stava trascinando davanti al tavolo:
“tua zia ci lascia casa libera fino a mezzanotte”
“sai dov’è adesso?”
“da Jason, anche se lui non è ancora arrivato” le annunciò la stilista, mentre il resto dei loro amici le circondava.
“allora, vuoi aprirli questi regali?” si intromise Alexy trepidante.
Il primo regalo che le capitò a tiro era quello di Violet e Lysandre. Erin lesse il bigliettino che la fece arrossire per la dolcezza delle parole usate dal poeta e si complimentò con l’artista per come l’aveva confezionato, usando la carta di riso. I due artisti avevano optato per un set di infusi, corredato da un infusore a forma di fiore.  
Dopo averli ringraziati, Erin passò poi al regalo dei gemelli:
“in realtà questo è solo da parte di Armin” si affrettò a precisare il fratello.
“ma se ci hai messo pure tu i soldi” obiettò il moro
“sì, ma non era quello che ti avevo detto di prendere! Mi rifiuto di regalare una cosa del genere ad Erin, prenditi tu la responsabilità! Io gliene ho fatto un altro”
Cogliendo l’espressione disorientata della ragazza, Armin si affrettò a tranquillizzarla:
“oh, lo adorerai Irina, vedrai!”
“non l’hai preso in un sex shop giusto?” si allarmò. L’ansia nella sua voce era tale che tutti scoppiarono a ridere, mentre il donatore borbottava indispettito.
“perché questa poca fiducia in me? I miei regali sono sempre una figata di originalità”
“è questo il problema” commentò Alexy. Erin nel frattempo aveva liberato il regalo dall’incarto e le sue mani si erano posate su della stoffa colorata
“è un costume?” chiese mentre cercava di sollevarla in tutta la sua lunghezza.
“è un costume per cosplay” spiegò elettrizzato Armin alla cui voce si sovrappose quella identica del fratello che ripetè le stesse parole ma con un’inflessione irritata.
La festeggiata sbattè le lunghe ciglia, incapace di aggiungere alcun commento mentre il moro aggiungeva:
“è il costume del personaggio di Irina! Così adesso puoi accompagnarmi alla fiera del fumetto di questa primavera”
“scordatelo” replicò fin troppo categorica e acida l’interessata “non vado in giro con questo coso” protestò.
“ma come? Io devo vestirmi da procione delle sette vie, se ci vado senza Irina sembrerò un idiota!”
Rosalya si morse la lingua per non dire l’ennesima cattiveria della giornata e tutti scoppiarono a ridere, mentre Armin le lanciava un’occhiataccia esaustiva.
“solo tu Armin puoi avere delle idee del genere” ridacchiò Iris.
“beh è carino” patteggiò Violet.
“te lo metti tu?” scherzò Alexy mentre l’artista scuoteva energicamente il capo.
Anche se stavano scherzando, Erin in quel momento si accorse che l’amico cercava di nascondere quanto in realtà avesse creduto a quel regalo. Nessuno dei suoi amici, nemmeno il fratello, sembrava aver notato che, dietro quell’aria bonaria, Armin celasse la propria delusione. Non voleva farsi vedere ferito, ma in fondo era così che si sentiva.
Erin si mordicchiò il labbro inferiore:
“beh, vediamo come mi sta” annunciò con ottimismo, mentre tutti la guardavano sorpresi, Armin per primo “del resto è carino con questa gonna bianca e nera. Ricorda un po’ le divise scolastiche giapponesi”
Lysandre e Violet furono i primi a interpretare il significato del gesto di Erin e le restituirono un’occhiata eloquente mentre la ragazza frugava nella confezione, facendo emergere una lunga parrucca color verde acqua, con dei lunghi capelli raccolti in due codini in alto.
“ahahah, voglio proprio vederti con quella!” squittì Iris elettrizzata.
Erin sparì nella sua stanza e dopo pochi minuti, apparve la personificazione della protagonista del videogame preferito di Armin: Irina.
Tutti scoppiarono a ridere e lei, Armin in modo più chiassoso degli altri e lei lo maledisse mentalmente per essersi lasciata impietosire dai suoi occhioni delusi di poco prima.
Irina scartò allora il pacchetto che le aveva allungato Alexy.
questo era il regalo che avevo detto di comprare” proferì il ragazzo, squadrando il fratello.
La festeggiata si trovò tra le mani un braccialetto in tessuto, composto da vari fili neri con appesi dei piccoli ciondoli metallici
“ho notato che hai sempre quel braccialetto addosso” spiegò Alexy, indicando quello al polso di Erin, inconsapevole di quanto fosse legata sentimentalmente a quel semplice oggetto “così ho pensato che ti piacessero i braccialetti”
“è bellissimo Al” confermò la ragazza, studiando uno ad uno i ciondoli appesi che l’amico si affrettò a giustificare:
“il quadrifoglio è il simbolo di buona fortuna, poi c’è questo ideogramma giapponese, un timone perché tu abbia sempre in mano la direzione che deve prendere la tua vita e un’ancora affinchè tu trovi un posto dove fermarti”
“sei un poeta Alexy” esplicitò Iris con ammirazione “questo discorso me lo aspettavo da Lysandre”
“in effetti mi ha aiutato lui a scegliere i ciondoli. Io ho scelto solo l’ideogramma”
Il ragazzo stava per aggiungere qualcos’altro, ma s’intromise Rosalya.
“e dulcis in fundo, i nostri regali!” esclamò impaziente, porgendo ad Erin due pacchi e alludendo a sé stessa e ad Iris. Il primo pacco era a forma di scatola bassa e larga e, come ben presto capì la ragazza leggendo il rating di età a cui era destinata, si trattava di una burla.
“d’accordo che mi piacciono le scienze” cominciò a brontolare divertita “ma… il piccolo chimico?” commentò, rendendo visibile la copertina della confezione.
Le amiche, dopo essersi gustate la reazione per quel regalo scherzoso, si prepararono all’ultimo pacco, che si rivelò essere un’originale borsa di una nota marca spagnola.
 
La serata trascorse in allegria, tra schiamazzi, battute e risate. Fortunatamente Miss Plum non si presentò a protestare per il chiasso ed Erin potè godersi la sua festa.
Aveva preso da parte Rosalya, chiedendole come fosse andata con Nathaniel ma l’amica aveva risposto facendole l’occhiolino e ricordandole che non era lei al centro dell’attenzione della sera.
La festeggiata si accontentò quindi di vederla serena, anche se rodeva dalla curiosità di conoscere i dettagli del loro incontro.
 
Mentre era impegnata in una conversazione con Iris e Armin, l’occhio di Erin cadde sulla borsa che aveva abbandonato sul divano. Pensò al suo contenuto, a quella foto che ardeva dalla voglia di rivedere.
Con una scusa, afferrò la borsa e si rifugiò in camera. Si chiuse la porta alle spalle e finalmente i suoi occhi tornarono a posarsi su quell’immagine.
Sorrise, maledicendo al contempo la sua fragilità e nascose quel prezioso rettangolo di carta nel primo cassetto della scrivania.
Tornò con il resto dei suoi compagni, passando per la cucina, dove incrociò Alexy, intento a prendersi un bicchiere d’acqua.
“siete stati così teneri a fare tutto questo per me” commentò Erin, appoggiandosi contro il ripiano della cucina.
“era il minimo dopo tutto quello che hai fatto per noi”
La ragazza lo guardò senza capire, mentre Alexy riponeva il bicchiere nell’acquaio.
Nonostante l’ampia scelta di bevande alcoliche e non che avevano portato nell’appartamento, il ragazzo continuava a preferire l’acqua del rubinetto.
Dal salotto provenivano le voci allegre dei loro amici e il gemello si accorse dell’espressione malinconica della festeggiata.
Senza distogliere lo sguardo da un punto imprecisato, la ragazza mormorò d’un tratto:
“ti è mai capitato di sentirti solo in una stanza piena di persone?”
L’amico la guardò con intensità, poi le sorrise pazientemente.
“ti manca Castiel?”
“più di quanto vorrei”
Il ragazzo le si avvicinò e le prese la mano, ruotando il braccialetto che lui stesso le aveva regalato quel giorno.
“questo è stato l’unico ciondolo che ho scelto senza l’aiuto di Lys” esordì, indicando il simbolo giapponese composto da due linee oblique “lo sai perché ho scelto questo ideogramma?” domandò retorico.
“in giapponese significa persona: sono due linee che si sorreggono, perché nessuno può essere una persona senza che nessuno sia al suo fianco e lo sorregga”
“è un bellissimo significato Alexy”
“e quindi” proseguì “ti auguro di trovare quel tipo di persona che ti faccia sentire completa Erin”
L’amica sentì il cuore riempirsi di commozione, colpita per la sensibilità del ragazzo.
“… poi vabbè, il fatto che Castiel abbia lo stesso simbolo tatuato dietro all’orecchio non c’entra assolutamente nulla” concluse con un’espressione birichina.
Erin sgranò gli occhi esterrefatta:
“non mi ero mai accorta che avesse un tatuaggio!”
“beh è piccolo e comunque è sempre nascosto dai capelli. È stato lui a spiegarmi il significato dell’ideogramma”
“non lo facevo così poetico”
“è piena di sorprese la nostra Ariel” ridacchiò Alexy mentre invitava l’amica a tornare in salotto con tutti gli altri.
Quelle parole trovarono l’appoggio di Erin che però solo in futuro scoprì quanto fossero vere.
 
Verso mezzanotte, dopo aver aiutato l’amica a riordinare la stanza, i ragazzi lasciarono l’appartamento di Pam, soddisfatti della riuscita della serata.
Erin si tolse finalmente il costume, che raggiunse la parrucca alla quale aveva rinunciato già da qualche ora. Mentre avviava la lavastoviglie, si chiese se la zia sarebbe tornata da lei, oppure se avrebbe passato la notte da Jason.
Buttò l’occhio sull’orologio e scoprì che erano le 23.56. Ancora quattro minuti e non sarebbe stato più il suo compleanno.
Riluttante, controllò il cellulare, ma nessun altro messaggio si era aggiunto a quelli che aveva ricevuto dagli amici.
Le bastava anche solo un “auguri”, che testimoniasse il fatto che lui si era ricordato di lei.
Il campanello suonò e a quel punto il suo cuore avviò un battito impazzito.
“non può essere lui” cominciò a ripetersi ossessivamente “non può essere lui”
Nonostante la convinzione con cui quelle parole uscivano dalla sua bocca, la ragazza non riusciva a ignorare la speranza che, una volta aperta quella porta, si sarebbe trovata di fronte… lui. Perché ora che aveva finalmente aperto gli occhi, anche solo pronunciare mentalmente il suo nome, le faceva venire i brividi.
Portò la mano sulla maniglia e sospirò, cercando di prepararsi psicologicamente alla delusione.
Tuttavia, nonostante la razionalità con cui cercava di dominare i suoi istinti, quando vide la figura di Jason, il viso di Erin manifestò una cocente frustrazione.
L’orologio ormai segnava le 23.58.
“scusami se vengo ora” tagliò corto il ragazzo in difficoltà “ma ho preferito aspettare che uscissero i tuoi amici”
“non preoccuparti, anzi sono contenta che tu sia venuto: volevo ringraziarti per il regalo” lo tranquillizzò la ragazza, accantonando a fatica il rammarico.
“sono qui per questo” disse il veterinario, allungandole uno scatolone che teneva in braccio. Solo allora la ragazza spostò l’attenzione sul voluminoso contenitore di cartone che Jason teneva tra le mani.
Confusa, obiettò:
“un altro regalo? Ma me l’hai già fatto Jason, non serviva!”
“infatti non è da parte mia” spiegò l’uomo mentre Erin sbirciava il contenuto.
Il veterinario poggiò a terra lo scatolone e osservò compiaciuto la figura della ragazza che si chinava, nel tentativo di scoprire cosa celasse al suo interno.
I suoi occhi verde scuro incrociarono quelli tondi e impauriti di un micetto dal pelo rosso.
“è stata un’idea di Castiel… cioè, questo regalo è da parte di Castiel”
Erin sollevò lo sguardo verso il veterinario, tenendo le labbra socchiuse.
L’orologio aveva appena segnato la mezzanotte.
“è venuto a cercarmi il giorno dopo il concerto. Settimane fa gli chiesi se voleva un gatto e mi ha chiesto di regalarne uno a te per oggi. Ha pagato lui tutte le spese, ha già acquistato una cuccia e una lettiera solo che le ho dimenticate nel mio studio… ma te le porto domani” si affrettò ad assicurarla l’uomo, esprimendosi in modo concitato.
La ragazza lo ascoltava a fatica: il suo interesse era calamitato da quella morbida massa di pelo che, appena aveva incrociato i suoi occhi, aveva incominciato ad emettere dei versetti rauchi e di una tenerezza commovente.
Con la maggior delicatezza possibile, la ragazza allungò la mano all’interno dello scatolone e, cercando di non spaventare troppo la bestiolina, riuscì ad afferrarla delicatamente.
Sotto quel batuffolo aranciato, sentì l’impalcatura della gabbia toracica e la presenza di uno scheletro sottile. Quella creaturina era un concentrato di tenerezza e fragilità che risvegliavano in lei un insospettabile istinto materno.
Degli artigli ancora troppo piccoli per ferire, cercavano di aggrapparsi tenacemente al tessuto del maglione, diffidando di quelle braccia umane.  
“è una femmina” le spiegò Jason “spero ti piaccia”
Erin annuì commossa, mentre la gattina, ancora stretta nel suo amorevole abbraccio, miagolava affamata.
Jason allora le diede qualche suggerimento da esperto del settore e, dopo essersi assicurato che la nuova padrona non avesse bisogno di altro, tornò dalla sua Pam che lo stava aspettando in appartamento.
Erin rientrò in salotto, tenendo in mano il regalo più bello della giornata.
Amava i gatti e il fatto che Castiel se ne fosse ricordato era sufficiente a farla volare a un metro da terra.
 
Mentre la gattina divorava una fetta di prosciutto che Erin aveva precedentemente sminuzzato, la nuova padrona la guardava innamorata.
Sin da quando aveva scoperto chi fosse il mittente di quel dono, aveva deciso quale sarebbe stato il nome dell’animale:
“benvenuta in casa Travis… Ariel
 
 




 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Ecco uno di quei capitoli a cui tengo particolarmente ^^. Perché? Beh perché rientrano tra quei capitoli che ho in testa sin da Aprile, quando ho cominciato questa fic.
Diciamo quindi che questo è stato un capitolo pensato a lungo e che, più o meno, corrisponde all’idea che avevo mesi fa, tranne per la presenza di Leti e il dialogo con Violet.
Quanto a Leti, ero partita con un’idea e cioè quella di parlare di quelle amicizie che si perdono nel tempo e nello spazio, quei rapporti che si lasciano affievolire perché non si fa il tempo (o la voglia) di tenere in piedi… ma non so come sono arrivata a tirar fuori la scoperta dell’amore tra ragazze XD
Comunque, prima di arrivare a Morristown, Erin aveva comunque un suo passato e Leti rientra in questo ma il fatto che non possano vedersi quotidianamente, ha messo in bilico un’amicizia già fragile.
Cosa ben diversa con il suo rapporto con Castiel: lo vedrà tra mesi eppure non riesce a dimenticarsi di lui, anzi, spero che questo capitolo sia stato abbastanza malinconico, perché l’idea era quella u.u.
Penso che in questo capitolo la mia Violet abbia dato il meglio (brava tesoro, la tua mammina è proprio orgogliosa di te^^).
Altra scena a cui sono affezionata, è quella di Demon ed Erin che si consolano a vicenda. L’ho riciclata da una vecchia storia (sono una narratrice ecologista u.u) che scrissi anni fa, dove in quell’occasione era il gatto della protagonista a deporre l’ascia di guerra con il ragazzo di cui era innamorata la sua padroncina.
 
Ho volutamente lasciato in sospeso l’incontro Rosalya – Nathaniel… ne riparleremo al prossimo capitolo ;).
 
Poi vabbè c’è una parte, quella in cui Erin si risveglia a Morristown, in cui si parla della sveglia che suona… ecco… è una frase copiata dall’incipit della storia (ultimamente mi sento nostalgica u.u).
Sono curiosa di sentire cosa pensate della lettera che Erin ha scritto (e gettato via) per Castiel (AAHAHA mi viene da ridere solo a pensare cosa ritroverò in alcune recensioni XD).
 
Ultima cosa e poi vi lascio, giuro.
Da qualche giorno rompo le palle un po’ a caso ad alcune di voi per avere un feedback circa un’ideuzza bislacca che mi è venuta.
Scambiando dei messaggi con alcune di voi sulla storia, ho pensato a fare una OS che sia una sorta di intervista all’autrice e ai personaggi.
Premetto che il genere sarà demenziale, quindi non aspettatevi risposte serie (specie da parte di certa gente come Castiel che in via eccezionale farò venire apposta dalla Germania u.u) quindi, se volete assecondare la mia pazzia, sbizzarritevi ^^)
Alla fine selezionerò alcune delle domande che (spero) arriveranno, per ora vi faccio un esempio di alcune che mi sono già state recapitate:
 
Per Castiel
  • Qual è il voto migliore che hai preso?
  • Allora, come abbiamo potuto constatare dalla storia, la cattiva sorte (alias RandomWriter) ti ha scelto spesso come suo bersaglio preferito. Come ti senti a riguardo? Credi ci sia qualche spiegazione possibile a questo fenomeno? 
 
Per RandomWriter:
  • Quale personaggio della tua storia ami particolarmente descrivere? E quale ti piace di più?
  • Come ti è venuto in mente il personaggio di Erin e la sua storia?
 
Le domande le pubblico anonime, ma cercherò di selezionarle in modo da sceglierne almeno una per utente, poi ovviamente dipende tutto da quante richieste arrivano ;) (nel senso che considero anche l’eventualità che non ne arrivino altre XD). Diciamo che la scadenza è per il 16 novembre e poi da lì, userò il materiale che mi è arrivato.
 
Ok è tutto, grazie per l’attenzione e per aver letto il capitolo^^. Alla prossima!
 

 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Un intellettuale in mimetica ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Leti, un’amica d’infanzia di Erin, si presenta a casa sua e, dopo una piccola discussione, le due si salutano con la consapevolezza che quell’amicizia un po’ sbiadita potrà tornare ad essere più salda di prima. Sophia scopre dell’esistenza di Nathaniel ma la gemella è costretta ad ammettere che la sua storia d’amore sia già finita, lasciandola delusa per non aver conosciuto il primo ragazzo della sorella. Il giorno prima del suo compleanno Sophia lascia Allentown, mentre Erin torna dalla zia. Mentre per la prima, staccarsi dalla sorella è più dura, l’altra ammette di essere diventata più forte e indipendente.
L’indomani Erin riceve gli attesi regali e parlando con Rosalya al telefono, le confessa che Nathaniel ricambia i suoi sentimenti per lei. La ragazza quindi interrompe la chiamata, lasciando l’amica a bocca asciutta.
Nonostante la gentilezza degli amici, Erin si sente infelice: Castiel non si è sprecato nemmeno a farle gli auguri. Passeggiando per la città, si imbatte in Violet che, indirettamente, la porta a guardare in faccia quei sentimenti che per settimane ha cercato di ignorare. La ragazza arriva quindi ad ammettere di essere sempre stata innamorata dell’amico ma abbandona la sua confessione ad una pagina strappata di un block notes. Camminando sovrappensiero, si ritrova davanti alla casa di Castiel, dove viene invitata ad entrare dal vicino, Mauro. L’uomo le consegna una busta e con l’occasione la ragazza ruba una foto del rosso dalla sua stanza, conservandola gelosamente.
Arrivata a casa, scopre la festa a sorpresa organizzata dagli amici che riescono a regalarle un po’ di allegria. Quando se ne vanno però, torna a farsi spazio in lei, il senso di solitudine e nostalgia per l’unica persona che quel giorno si è dimenticata di lei; quando suonano alla porta e va ad aprire si trova di fronte Jason. Su richiesta di Castiel, il veterinario le ha portato il regalo da parte dell’amico: una gattina dal pelo rosso che, inevitabilmente, la nuova padrona battezza con il nome di Ariel.

 
 
 


 
   
CAPITOLO 39:
UN INTELLETTUALE IN MIMETICA


 
“giuro che se non parla oggi, gliele tiro fuori io le parole!”
“eddai Erin, lo sai come è fatta Rosa… le piace fare la preziosa”
“ho capito, ma tu non sei curiosa di sapere cosa si sono detti lei e Nathaniel?” replicò la mora scendendo dall’autobus.
L’umidità che si era depositata sulla banchina rischiò di farla scivolare, così la ragazza cercò di riaggiustare la propria posizione, ondeggiando leggermente le braccia.
“ovvio” replicò la rossa, prestando attenzione a dove poggiava i piedi “però ci ha detto che ce l’avrebbe detto oggi, quindi porta pazienza e una volta tanto… tieni a freno la curiosità!” concluse, rimproverandola allegramente.
L’espressione di Iris si distingueva da quelle del resto dei presenti per la sua vivacità fuori luogo: il rientro dalle vacanze di Natale rappresentava uno dei giorni più psicologicamente devastanti per gli studenti del liceo. Il vento gelido, la neve che si accumulava a ridosso delle strade, le nocche delle mani secche al punto di rottura: ogni dettaglio scoraggiava qualsiasi essere umano dall’uscire dal tepore delle trapunte invernali.
Le due studentesse varcarono il cancello, superandone l’insegna dal nome imbarazzante e sulla quale si erano formate delle piccole stalattiti ghiacciate.
Le facce assonnate confermavano quanto i ragazzi sentissero già la nostalgia di quei giorni passati a svegliarsi ad orari più prossimi al pranzo che alla colazione. Trattenendo per l’appunto un sonoro sbadiglio, Iris domandò:
“allora, la piccola Ariel come sta?”
“oh, non me ne parlare! Stamattina è stata dura per me lasciarla a casa da sola” cominciò Erin, illuminandosi al ricordo del suo piccolo batuffolo di pelo “lo sai che già mi viene dietro quando la chiamo? E la cosa buffa è che ignora completamente mia zia”
“maddai!”
“giuro. È un concentrato di tenerezza e dolcezza, me la sarei portata a scuola… non vedo l’ora di tornare a casa per ammazzarla di coccole”
La ragazza sorrideva, rivivendo le emozioni che quella piccola bestiolina scatenava in lei. Non aveva mai avuto un feeling particolare con gli animali ma con Ariel era stato amore a prima vista; in parte per quegli occhioni così grandi e profondi e in parte perché, ogni volta che la guardava o la chiamava, Erin ripensava alla persona che gliel’aveva regalata.
Pensare alla sua gattina sortiva l’effetto di uno sciroppo lenitivo per una gola infiammata: era un rimedio passeggero, perfetto per darle un momentaneo sollievo ma non poteva curare completamente l’amarezza della sua padroncina.
Quella mattina aveva cercato di distrarre la mente parlando di Rosalya, ma in realtà la mora temeva il momento in cui, una volta entrata in classe, avrebbe visto quel banco vuoto accanto al suo.
Nei suoi primi giorni al Dolce Amoris aveva sperato più volte che, per un imprecisato motivo, Castiel Black si volatilizzasse e la lasciasse libera di seguire le lezioni.
A distanza oltre tre mesi, si rese conto di quanto la facesse sentire sola la concretizzazione di quel desiderio.
Iris fu la prima ad entrare, mentre Erin avanzava tenendo il capo chino. Allineò un piede davanti all’altro, osservando le punte degli stivaletti camosciati, inumidite dalla neve la cui umidità aveva conferito loro un gradiente di colore.
Il suo corpo urtò improvvisamente contro quello di Iris, scatenando un déjà-vu che la portò indietro di settimane, quando entrambe erano rimaste inebetite nel vedere la folla di studenti che voleva acquistare i biglietti per il concerto del liceo.
“Iris, ma che cavolo fai? Fermarti così all’improvviso” si lamentò Erin, massaggiandosi il setto nasale indolenzito. L’amica era rimasta immobile, tenendo lo sguardo fisso verso il fondo dell’aula, verso quel punto dove la mora non voleva guardare. Prima che Erin avesse il tempo di puntare lo sguardo nella stessa direzione, sentì la rossa mormorare:
“Kentin…”
L’amica si spostò di lato e notò che il posto accanto al suo, anziché essere vuoto, era occupato da un ragazzo alto, con i capelli castani. Da sotto il banco, si intravedeva un paio di pantaloni pesanti in stile militare mentre il petto era protetto da un caldo maglione di lana nera. Il nuovo arrivato le stava scrutando con un certo interesse, costringendo le due ragazze ad abbassare lo sguardo. Sentendo il nome pronunciato da Iris, Erin collegò immediatamente l’intruso al ragazzo che l’amica aveva conosciuto in biblioteca durante le vacanze ma in quell’aria un po’arrogante con cui lui le stava studiando, la mora non riuscì a intravedere quella gentilezza di cui aveva parlato Iris.
Si avvicinò al ragazzo, seguita a poco distanza dalla rossa. Trevor e Kim sembravano aver già fatto amicizia con il nuovo studente, del resto il primo aveva un carattere molto estroverso mentre la seconda legava facilmente con i maschi. I due cestisti erano voltati verso Kentin che esordì:
“spero non ti dispiaccia avermi come vicino di banco Erin. Trevor mi ha detto che questo posto resterà libero fino alla fine dell’anno scolastico”
Sorpresasi per quell’uscita così spontanea, la mora assunse poi un’espressione indecifrabile: non aveva nulla contro quel ragazzo, ma non era Castiel e tanto bastava a metterla di cattivo umore. Iris nel frattempo osservava il moro disorientata: occhiali e abbigliamento a parte, era sicuramente il Kentin della biblioteca, eppure non aveva accennato ad un saluto nella sua direzione. Evidentemente non si ricordava di lei e questo fatto, pur non cogliendola impreparata, le dispiacque parecchio.
Rispetto a Rosalya ed Erin, Iris si sentiva anonima e insignificante, ragion per la quale non poteva biasimare il ragazzo per il suo disinteresse verso di lei.
“allora Erin, il nostro vecchio capitano come sta?” esclamò Trevor, dondolandosi sulla sedia.
La ragazza si inumidì le labbra ma in quell’istante il professor Condor varcò la soglia della classe:
“buongiorno ragazzi! Ai vostri posti!”
Famoso per i modi burberi, l’uomo aveva accolto i suoi studenti nel peggiore dei modi, accentuando in essi lo sconforto e il malumore per essere tornati dietro i banchi scolastici.
I suoi occhi porcini scrutarono sbrigativamente l’aula finchè si soffermarono sul vociferato nuovo studente:
“ah eccola lì” esclamò senza troppo entusiasmo “il nuovo acquisto della 4^ C. Prego signor Affleck, si presenti alla classe”
Impartì quell’invito con una certa austerità che suggerì a Kentin di alzarsi in piedi, seppur riluttante all’idea di mettersi così in mostra.
“cosa dovrei dire oltre al nome?” borbottò perplesso.
Le labbra di Condor si assottigliarono, al punto da allungarsi in una linea retta.
Quando la preside gli aveva annunciato che Castiel Black non avrebbe concluso l’anno al Dolce Amoris, aveva pensato ad un regalo di Natale recapitato in ritardo. Tuttavia, non aveva potuto gioire di quella notizia che già aveva di fronte quello che si prospettava un degno erede.
Nella sua lunga carriera ne aveva visti anche troppi di studenti insolenti e arroganti, ma questo non contribuiva ad accentuare la sua rassegnazione, semmai soffiava sul fuoco della sua insofferenza:
“le sembra una risposta da dare questa?” lo rimproverò “dica da dove viene per esempio”
Erin, seduta accanto a lui, con le braccia intrecciate sul tavolo lo guardava di sottecchi: c’era qualcosa di strano in quel ragazzo; ad una prima occhiata le era sembrato un po’ arrogante ma ora che lo studiava con più attenzione, si rese conto che era diverso dal Castiel sbruffone che lei conosceva. Anziché associarlo al rosso infatti, Kentin le fece venire in mente il suo primo giorno in quel liceo in cui il suo nervosismo aveva tradito un comportamento che non le era naturale.
Come scoprì successivamente, in quel momento il moro era particolarmente teso e quella che Condor aveva colto come una provocazione, era in realtà una domanda ingenua. Sentiva gli occhi di tutti puntati su di lui che come nuovo studente non poteva sottrarsi al loro interesse.
Anche Iris lo fissava perplessa, confusa da quell’atteggiamento così diverso da quello del ragazzo che aveva conosciuto qualche settimana prima.
“ho p-passato gli ultimi tre anni e mezzo circa ad Harrisburg” farfugliò Kentin alla velocità della luce e si risedette pesantemente sulla sedia, nascondendo un viso che si stava colorando rovinosamente di viola. Non solo non era abituato ad essere al centro dell’attenzione, ma aveva appena scoperto quanto la cosa lo infastidisse.
 
La voce monotona del professore di letteratura riempì il silenzio dell’aula, strappando ad Erin un sospiro annoiato. In cerca di una qualche distrazione, buttò l’occhio sul suo nuovo vicino, convinto di trovarlo ancora troppo spaesato per prestare attenzione alla lezione. Sbirciò quindi alla sua destra ma ciò che vide era una mano che danzava freneticamente sul foglio, graficando parole ad una velocità inconcepibile per l’occhio umano: Kentin appuntava ogni spiegazione del professor Condor, schematizzava i concetti collegandoli con frecce che fungevano da ponte tra i punti lontani del foglio. Nell’insieme il tutto risultava alquanto caotico, ma il ragazzo sembrava non curarsene; annuiva di tanto in tanto, come a dare un tacito assenso non richiesto.
L’interesse e la concentrazione con cui Kentin seguiva il discorso di Condor erano inconcepibili per la sua vicina di banco: sin dal suo primo giorno di scuola, aveva rinunciato a prestare attenzione a quell’insegnante così apatico e cattedratico nel modo di esprimersi e preferiva passare quelle ore a farsi dei riassunti dal libro. Il suo impegno di rendere meno infruttuose le ore di letteratura tuttavia, veniva messo a dura prova da Castiel che aveva l’irritante tendenza a distrarla per ogni sciocchezza: una volta la esortava a osservare un bisticcio in corso tra passeri, un’altra volta le faceva scivolare sul banco il testo di una nuova canzone per chiederle un parere, un’altra ancora erano i suoi pacchiani tentativi di falsa adulazione per ottenere i suoi appunti.
Quelle stupidaggini la infastidivano ma al contempo la facevano sorridere: l’amico le ricordava un bambino vivace e iperattivo, disabituato a stare seduto composto e dalla mente troppo artistica per restare concentrato in silenzio ad ascoltare una singola persona per lungo tempo.
 
Erano passati dieci minuti e Kentin non dava segni di cedimento. Aveva già riempito due pagine di appunti, scrivendo fitto fitto, tantochè la mora nutriva serie perplessità nel credere che quei fogli potessero rappresentare un materiale di studio. Per tutto quel lasso di tempo, il ragazzo non aveva spiccicato un commento e lei cominciò a sentirsi in colpa per la freddezza con cui si era approcciata a lui; in fondo non era colpa sua se non aveva i capelli innaturalmente rossi e uno stile da rockettaro. Kentin era completamente diverso da Castiel e questo, fu costretta ad ammetterlo, era un bene dal momento che l’avrebbe aiutata a non pensare a lui più di quanto già non facesse.
“ma come fai ad ascoltarlo?” gli sussurrò ad un tratto, inclinando la testa di lato verso il professor Condor.
Senza staccare gli occhi dal foglio e perpetuando la corsa della penna sulla carta, Kentin replicò:
“starà anche una testa di cazzo, ma ha una preparazione incredibile. Non sono abituato a questo genere di lezioni”
Quel risolino sardonico con cui aveva pronunciato l’ultima frase colpì Erin, che percepì una sorta di eccitazione nelle sue parole.
“io non capisco un tubo di quello che dice” ammise dopo un po’; era molto rammaricata per il modo spiegare di quell’insegnante: prima di trasferirsi al Dolce Amoris, letteratura era una delle sue materie preferite, anche se in particolare, il suo amore era rivolto alla scrittura.
Sin da piccola, Erin amava riempire pagine e pagine di diario con i suoi pensieri, mentre Sophia preferiva di gran lunga esprimersi con i disegni. Quel vecchio burbero e arcigno era riuscito a sopire in lei la sua passione per la narrativa, oltre che a guadagnarsi l’antipatia di ogni suo studente.
“esprime dei concetti un po’ difficili in effetti e a dire la verità, neanche tanto bene, ma mi pare di capire abbastanza quello che intende” sorrise il ragazzo, tracciando l’ennesima freccia alla parte alta del testo.
Condor aggiunse un commento che lasciò Kentin per un attimo interdetto, sostando indeciso con la penna davanti alla parola che aveva appena scritto. Disegnò infine un punto di domanda mentre Erin sogghignava:
“forse hai parlato troppo presto”
Il ragazzo sorrise a sua volta, guardandola finalmente negli occhi. Incastonato in quel viso dai tratti affilati e mascolini, c’erano due iridi color verde oliva, macchiate intorno alla pupilla, da dei raggi color nocciola. Le guance della mora si imporporarono, ammaliata da quello sguardo, ravvisando in esso la dolcezza di cui le aveva parlato l’amica un paio di settimane prima. Mentre lei cercava di recuperare un colorito più naturale, il ragazzo aveva ripreso a prendere appunti, incurante dell’effetto che aveva sortito.
“Sophia come sta?” chiese d’un tratto.
“EH?!” squittì Erin a voce talmente alta da farlo saltare dalla sedia. Anche il resto dei compagni, per la metà assopiti e distratti, sobbalzarono per quel verso imprevisto. Condor allargò le narici come un toro pronto alla rincorsa e sbraitò:
“Travis! Ho sopportato finché c’era Black ma non pensi di fare combriccola anche con Affleck!”
“mi scusi” mormorò la ragazza i cui occhi esprimevano tutto tranne rammarico. Non capiva come il ragazzo potesse conoscere la sorella dal momento che, in quella stanza, solo Iris era a conoscenza di Sophia.
“colpa mia prof” s’intromise Kentin, grattandosi la sommità del capo con la penna. Sembrava sinceramente dispiaciuto per aver messo in difficoltà Erin ma nonostante questo, sosteneva lo sguardo del professore senza tradire alcun insicurezza o senso di pentimento.
“mi pareva di essere stato chiaro all’inizio della lezione: voglio silenzio. Se per lei la mia spiegazione è così noiosa da concedersi il lusso di distrarsi, devo supporre che sappia già tutto”
“no affatto, la stavo ascoltando” replicò Kentin con una sicurezza talmente spiazzante, che solo una coscienza tranquilla poteva giustificare. Condor tuttavia, per la seconda volta in poco tempo, equivocò le intenzioni del suo studente e lo sfidò:
“ottimo! Allora mi riassuma quella che stavo dicendo”
Kentin abbassò lo sguardo, mentre in classe alcuni cominciarono a sogghignare mentre altri provavano pena per l’ennesima vittima del caratteraccio di Condor.
Il silenzio del nuovo arrivato cominciò a pesare nell’aula ma il professore sembrava intenzionato a godersi ancora un po’ quella piccola vittoria sull’ennesimo studente arrogante con cui aveva a che fare. Kentin continuava a tenere lo sguardo basso ma sbirciandolo di traverso, Erin notò come gli occhi del ragazzo si muovessero freneticamente da un capo all’altro degli appunti che il ragazzo aveva abbozzato.
Condor stava per schioccare la lingua soddisfatto, quando Kentin finalmente rialzò il capo:
“negli ultimi dieci minuti ha illustrato il Naturalismo francese, contrapponendolo ad un movimento letterario nato in Italia con il nome di Verismo, precisando però che non ci soffermeremo sulla letteratura europea. Ha quindi menzionato i principali esponenti del Naturalismo che sono Flaubert e Balzac. Quest’ultimo è l’autore di Commedia umana, un fedele ritratto della società francese nell’età della Restaurazione. Balzac analizza, con la precisione di uno scienziato, la natura umana, considerandone anche le eccezioni patologiche. Tuttavia, nonostante il contributo fondamentale dato al movimento letterario che stiamo studiando, ci soffermeremo su Flaubert. La sua opera più famosa è Madame Bovary, una storia di grigia quotidianità provinciale, ispirata ad un comune fatto di cronaca”.
Tutti erano rimasti senza parole. Anche tra quei pochi studenti riuscivano a seguire le lezioni di Condor, nessuno avrebbe saputo esporre in modo più esaustivo e tecnico quei dieci minuti di lezione. Le parole usate da Kentin sembravano la bella copia di quelle usate dal professor Condor. Quest’ultimo era rimasto senza parole, con la bocca grinzosa leggermente socchiusa e gli occhi pietrificati dallo spiazzamento.
Iris aveva tenuto lo sguardo puntato sul ragazzo e riuscì a distoglierlo solo quando i suoi occhi caddero incidentalmente su di lei, che tornò  voltarsi verso la cattedra. Sentiva delle strane palpitazioni in petto, proprio lei che odiava i libri e tutto ciò che riguardasse la narrativa. Eppure, mentre Kentin parlava, nonostante il linguaggio difficile, lei ne era rimasta rapita: finalmente aveva riconosciuto il ragazzo dall’aria intellettuale e gentile che aveva incontrato in biblioteca.
Tutto il resto della 4^ C era ancora concentrato sulla nuova stella della letteratura, la quale però non gradiva particolarmente tutta quell’attenzione. Più passavano i secondi, e più si sentiva nervoso:
“e che cazzo ho detto?” pensò tra sé e sé, ingenuamente stupito e confuso dallo stupore generale.
“ha g-già letto il libro per caso?”
Lo sforzo di deglutire del professore fu fin troppo evidente, come l’incertezza che gli aveva incrinato la voce. Inossidabile scontrosità che contraddistingueva Anthony Condor sembrava essere stata accantonata.
Lo studente annuì in silenzio e la domanda successiva uscì ancora più incerta:
“e-e cosa ne pensa del personaggio di Emma?”
Kentin storse il labbro cercando di raccogliere le idee. Incrociò le braccia al petto e fissò un punto a caso verso l’alto, per poi tornare a fissare l’adulto dall’altro lato della stanza:
“beh” borbottò “onestamente mi fa pena… cioè… è l’esponente della società piccolo-borghese di provincia, insofferente al vuoto e al grigiore della sua esistenza e per questo cerca rifugio nella letteratura sognando su romanzi sentimentali di discutibile livello. In un certo senso trovo piuttosto spietata la visione che Flaubert dà di lei, perché il suo personaggio sembra quasi…” e qui Kentin tentennò nell’indecisione di usare una determinata parola che però alla fine si rassegnò a pronunciare “stupido”. 
Poiché i suoi compagni erano sempre più spiazzati, il ragazzo non osò aggiungere altro e pregò che tutta quella soffocante attenzione si distogliesse da lui. Avrebbe voluto aggiungere molto altro, ma ormai la sua carnagione doveva aver raggiunto un colore talmente ridicolo da farlo rassomigliare ad Elmo.
Anche Erin non riusciva a smettere di fissarlo, tanto era sbigottita da quell’insospettabile sensibilità letteraria che si celava dietro quel nuovo ragazzo.
Anthony Condor non poteva dirsi una perla di sensibilità, ma nella sua lunga carriera scolastica, aveva incontrato raramente studenti con Kentin Affleck.
Liquidò quell’elettrizzante situazione senza esprimere alcun commento e invitò gli studenti a tornare a prestargli attenzione, voltandosi verso di lui. Dentro di sé però, l’uomo lottava tenacemente per nascondere un’incredibile soddisfazione che gli aveva riempito un cuore ormai demotivato e rassegnato: quel giorno, non solo era iniziato senza uno dei suoi peggiori studenti, ma aveva segnato l’ingresso di un ragazzo che ogni insegnante sogna di incontrare almeno una volta nella vita.
 
Al termine dell’ora, quasi tutta la classe si affollò attorno al banco di Kentin. Erin però, nonostante la curiosità di conoscere meglio il suo nuovo vicino, fremeva dalla voglia di rivedere Rosalya. La sua eccitazione era tale da farle dimenticare che il ragazzo conosceva Sophia, così lo abbandonò proprio quando Charlotte si stava facendo strada tra la folla e afferrò Iris per un braccio:
“andiamo da Rosa?” le propose trepidante.
L’amica tuttavia teneva gli occhi puntati su Kentin che si stava alzando dal suo posto, grattandosi imbarazzato la guancia.
“sei un genio tu” aveva miagolato Charlotte con voce suadente.
Il ragazzo aveva sorriso in difficoltà e, alzando lo sguardo, aveva finito per incrociare quello di Iris, scoprendo che lei lo stava fissando.
“Iris, andiamo?” la strattonò Erin, che non si era minimamente accorta di quella dinamica di occhiate fugaci.
La rossa si voltò verso l’amica e la seguì, alla volta della 4^ A.
 
“ma tu non dovevi consegnare quei documenti per Castiel?”
“si ma mi hanno detto che vanno consegnati a Melody, ora che Nathaniel non c’è e quindi mi toccherà passare questo pomeriggio, durante le attività dei club, così almeno sono sicura di beccarla” spiegò sbrigativamente Erin.
Gli studenti cominciavano ad uscire dai corridoi per godere dei dieci minuti di pausa tra una lezione e l’altra. Passarono davanti ai gemelli che salutarono sbrigativamente, lasciandoli alquanto sorpresi.
Le due ragazze fecero finalmente capolino in 4^ A e trovarono la loro amica impegnata a disegnare su un foglio. Non si sorpresero nel vederla così isolata dal resto della classe ma questo non impedì loro di dispiacersene. Non c’era verso per l’aspirante stilista di mostrarsi socievole con ragazze che non fossero loro due o Violet. Quando videro Erin Travis, divenuta ormai nota grazie all’articolo pubblicato sul giornale qualche mese prima, alcuni cominciarono a mormorare ma la mora non prestò attenzione all’interesse che aveva calamitato su di sé.
“ehi Rosa” la salutò Erin allegramente “se hai finito di tenerci sulle spine, sputa il rospo”
La ragazza sorrise melliflua e, dopo aver cancellato un tratto indesiderato, commentò:
“che nostalgia, quanto è passato dall’ultima volta che ti ho sentito usare quest’espressione. Chi l’avrebbe mai detto poi che con Ambra avresti deposto l’ascia di guerra”
“non cambiare argomento furbetta” la rimproverò Erin mentre lei ridacchiava alzandosi dal suo posto.
“forza, allora, andiamo in bagno” le esortò, reclinando il capo.
Iris, che nel corso di quello scambio di battute non aveva aperto bocca, si limitò a seguire le due ragazze, ma il suo silenzio non era destinato a perdurare a lungo:
“che hai Iris?” indagò Rosalya, disorientando Erin che non aveva notato nulla di strano nell’amica.
La rossa scosse il capo leggermente, sorridendo gentile:
“nulla” mentì “forza sbrighiamoci che voglio sapere cosa è successo con Nathaniel”
 
Una volta in bagno, Rosalya si assicurò di non essere ascoltata da altre studentesse e cominciò:
“dunque, sabato, dopo la nostra telefonata” chiarì, rivolgendo un cenno d’intesa ad Erin “mi sono precipitata a villa Daniels”
 
Rosalya schiacciò l’indice contro il pulsante dorato del campanello. Saltellava nervosamente sul posto sperando che la sua tempistica non fosse così pessima da non riuscire a parlare con Nathaniel. Non conosceva esattamente l’orario di partenza per cui sperò che la corsa impazzita che aveva fatto per raggiungere villa Daniels potesse bastare a compensare i tre anni di ritardo.
Faticava ancora a capacitarsi delle parole che le aveva detto l’amica al telefono poco prima:
 
“insomma! Sei così occupata a cancellare i tuoi sentimenti per lui, da non accorgerti di quelli che lui prova per te”
 
Riconobbe subito il viso tondo e paffuto di Molly, quando quest’ultima venne ad aprirle. La donna sorrise stupita nel rivedere quella ragazza che mesi prima era solita frequentare la casa.
“Rosalya! Come stai?”
“una favola. E tu Molly? Nathaniel è già partito?” la martellò la ragazza, troppo in ansia per intrattenersi con i convenevoli.
“no, però è già pronto. Partirà per l’aeroporto tra mezz’ora”
“devo parlargli”
“c-certo cara” annuì Molly, sorpresa per quella determinazione. Fece accomodare la ragazza e la guidò fino al salotto principale.
Quando la governante aprì la porta, Rosalya lo vide: disteso sul divano, con le gambe svogliatamente sopra i cuscini, era spaparanzato Nathaniel.
L’ospite sorrise divertita: in più occasioni in passato lo aveva sorpreso in situazioni lontane dall’indole educata e posata che trasmetteva a chi non conosceva. In fondo lui e Castiel erano come fratelli e uno degli aspetti che più il rosso apprezzava nell’amico era proprio la dualità dei suoi comportamenti.
Appena si accorse dell’ospite, il ragazzo si sistemò in fretta e furia mentre le guance gli si arrossarono leggermente.
“Natty, hai visite” squittì Molly, facendo segno alla ragazza di accomodarsi.
“grazie Molly, puoi andare” mormorò il ragazzo, cercando di apparire meno confuso.
Mentre la governante lasciava la stanza, Rosalya avanzò, portandosi accanto all’ampia finestra. Mirò la vista del giardino della villa, talmente intricato e coperto di neve, da ricordarle la fiabesca Narnia.
“come mai da queste parti Rose?” le chiese il biondo.
Era l’unico a chiamarla così ma proprio per questo era particolarmente affezionata a quel nomignolo: lui era l’unico che poteva rivolgersi a lei in quel modo, perché era l’unico che riusciva a farle sorridere il cuore con quel semplice bisillabo.
“è così difficile da indovinare? Stai partendo no? Volevo salutarti”
“mi fa piacere che tu ci abbia pensato”
“mi stupisce invece che tu non mi abbia anticipato. Potevi venire a fare un saluto ai tuoi vecchi amici no? Sei più simile a quell’idiota del tuo amico di quanto sembri” commentò, mentre sul viso di Nathaniel si disegnava un sorriso complice, sentendo nominare indirettamente Castiel.
“c’entra Erin con questa decisione di partire?” gli domandò, trascinando l’indice contro la superficie marmorea del davanzale che risultò prevedibilmente estranea alla polvere.
“no affatto. Avevo fatto la domanda per questo progetto ancora prima di conoscerla”
“quindi parti solo perché pensi che frequentare tre mesi in California, studiando per il liceo e frequentando al contempo qualche corso universitario, ti aiuterà davvero per la tua carriera professionale?” domandò Rosalya con sarcasmo.
“è un’iniziativa più utile di quello che sembra Rose, mi chiedo perché devi essere sempre così disfattista e cinica” commentò il biondo con una punta di rimprovero.
La ragazza mise il broncio e tornò a guardare fuori dalla finestra, perdendosi la vista del sorriso che aveva illuminato il volto di Nathaniel:
“… del resto è anche per questo che mi sono innamorato di te”
La ragazza sentì un brivido percorrerle la schiena: si era precipitata da lui proprio con la speranza di udire quella confessione, ma questo non aveva impedito al suo cuore di sussultare per l’emozione:
“e ho davvero dovuto aspettare anni prima di sentirtelo dire?”
Preso in contropiede, il biondo non sapeva come replicare, se non con:
“tu lo sapevi già?”
“me l’ha detto Erin, un quarto d’ora fa” ammise la ragazza, con gli occhi felini che risplendevano dalla gioia.
Nathaniel sorrise scuotendo la testa:
“è più forte di lei farsi gli affari degli altri”
“è uno scoiattolino impiccione”
 
“ehi!” protestò Erin offesa “se non fosse per me non si sarebbe mai tenuto questo dialogo”
“esatto, ed è per questo che ti sono grata Cip” le sorrise Rosalya conciliante, che tornò a raccontare:
 
La ragazza si avvicinò al corpo del ragazzo e mormorò:
“è dalla prima superiore che sono innamorata di te scemo, ma tu mi hai spinto tra le braccia di Leigh: quanto puoi essere idiota?”
Il biondo ridacchiò ma non era intenzionato a prendersi tutte le colpe:
“eri imperscrutabile Rose! Non mi era neanche passato per l’anticamera del cervello di piacerti. Un giorno Leigh mi ha preso in disparte e mi ha chiesto di aiutarlo con te. Voi due eravate molto affiatati, così ho pensato che ricambiassi i suoi sentimenti per lui e che io avrei finito per dimenticare quelli che provavo per te”
La ragazza sollevò gli occhi al cielo, mimando una finta frustrazione:
“oh mio Dio, ma quanta pazienza dobbiamo portare con voi uomini!”
Nathaniel sorrise e si avvicinò ancora di più a lei.
“non che voi ragazze siate proprio un libro aperto”
“da te mi lascerei leggere senza opporre alcuna resistenza”
 
“ma senti che frasette smielate tira fuori la nostra Rosetta quando è innamorata” la punzecchiò Iris divertita. Il racconto dell’amica le aveva permesso di accantonare quei pensieri che le avevano avvelenato l’animo quella mattina.
“dovrebbe fare la scrittrice di romanzi rosa” la canzonò Erin mentre la narratrice si offendeva:
“la smettete di prendermi per il culo? Non vi racconto nulla!”
“eh no cara mia. Quando vi ho parlato del ragazzo della biblioteca sei andata avanti a prendermi in giro per giorni!” protestò la rossa.
“a proposito Rosa, sap-” cominciò Erin ma Iris l’anticipò:
“lasciamola finire Erin. Tra poco dobbiamo tornare in classe”
 
“non credi che per ora dovrei lasciare questo libro sul comodino?”
Quelle parole lasciarono di stucco Rosalya, raffreddando l’ambiente all’istante.
Di fronte al suo disorientamento, il ragazzo si scostò da lei di pochi centimetri, ma le circostanze sembravano sottolineare una distanza di metri interi. In evidente difficoltà, il biondo spiegò:
“mi sono lasciato da poco con Erin, ho ancora un gran casino in testa Rosa e soprattutto, tra pochi minuti parto per la California. Non posso pretendere che per tre mesi tu mi aspetti”
“ti ho aspettato per tre anni, cosa vuoi che siano tre mesi” mormorò la ragazza, confusa e disorientata.
A quelle parole, Nathaniel si riavvicinò a lei, sostando a pochi centimetri dalle sue labbra:
“l’unico motivo per cui non voglio baciarti ora Rose è che poi salutarti sarebbe ancora più difficile”
“questa vale come la promessa di un bacio Nath” mormorò lei.
 
“e?” incalzò Erin.
“e basta. Non c’era altro da dire” concluse Rosalya soddisfatta, scrollando le spalle.
“tu ci stai prendendo in giro!” sbuffò Iris contrariata.
“affatto! Quando tornerà riprenderemo il discorso e finalmente potremo stare insieme” squittì la ragazza.
“ma che senso ha Rose? Perché non vi siete già messi insieme?” insistette Erin. Non riusciva a capacitarsi della decisione dell’amica: Nathaniel aveva ammesso di amarla, lei pure, di conseguenza l’ufficializzazione del loro rapporto le sembrava la cosa più naturale.
In cuor suo cominciò a montarle un po’ di rabbia per l’occasione che la ragazza si era lasciata sfuggire: se si fosse trovata in una situazione analoga con Castiel, non avrebbe esitato un secondo a lanciargli le braccia al collo; purtroppo solo nella sua fantasia più irreale, il rosso poteva confessarle un amore spassionato per lei.
“ok, ammetto che anche io all’inizio ci sono rimasta un po’ così nel vederlo così reticente… però poi ci ho pensato…” farfugliò la stilista “in quel momento non era il caso… voglio dire… sarebbe partito da lì a pochi minuti… quando tornerà affronteremo l’argomento come si deve”
Iris ed Erin si guardarono poco convinte. Quei temporeggiamenti non erano tipici dell’amica che avevano imparato a conoscere negli ultimi mesi. Era come se, nell’approcciarsi al biondo, Rosalya manifestasse una fragilità e insicurezza che altrimenti erano estranee alla sua vera natura.
“tutto qui quindi?” concluse la rossa, un po’ delusa.
“e che vi aspettavate? Che mi sbattesse contro il muro e facessimo sesso in salotto?” sbottò l’altra cominciando ad irritarsi.
“aspetta Rosa” patteggiò Erin, mettendo le mani in segno di conciliazione “non scaldarti. Capisco che sia un grosso passo in avanti dopo tre anni a far finta di essere amici ma da una persona decisa come te mi aspettavo che avresti voluto mettere in chiaro la questione”
L’amica puntò lo sguardo su un angolo del bagno, mordicchiandosi il labbro inferiore e non replicò in alcun modo a quell’obiezione finché non fu l’intuizione di Iris a smuoverla:
“lo fai per Leigh?”
Erin strabuzzò gli occhi, sentendo nominare un’opzione della cui esistenza si era completamente dimenticata. Del resto, Rosalya non le aveva ancora raccontato di cosa aveva detto al suo ex quando si erano lasciati mentre Iris ne era stata informata durante le vacanze; il moro in sintesi aveva intuito che fosse proprio Nathaniel la causa della loro separazione, sentendosi ferito ancora di più.
“ci siamo lasciati due settimane fa… se venisse a sapere che sto già con Nathaniel gli darei l’ennesima batosta” mormorò mestamente la ragazza “cercate di capirmi… per me in fondo è come se io e lui stessimo già insieme è solo che aspettiamo il suo ritorno per ufficializzare la cosa… e nel frattempo spero che Leigh riesca a dimenticarmi”
La campanella suonò, salvando la ragazza dal perpetuarsi di quegli sguardi dispiaciuti delle amiche: fu la prima ad uscire dal bagno, seguita in silenzio da Erin ed Iris che si scambiavano occhiate solidali.
 
Erin si accomodò al suo posto, mentre Kentin la fissava con un certo interesse. Da quando era arrivato, non la smetteva di squadrarla in quel modo, con quella smorfia appena accennata di beffa e curiosità.
Solo allora si ricordò della domanda che le aveva posto e che tanto l’aveva sconvolta:
“tu conosci mia sorella?” gli chiese mentre la Fraun cercava di fare un riassunto dell’ultima lezione che risaliva a prima delle vacanze.
“ah-ah” sussurrò Kentin che si era già attivato in modalità amanuense.
“e come fai a conoscerla?” insistette la ragazza.
“Travis! Non è possibile! Prima con Black e ora anche con il nuovo arrivato! Non riesci a stare zitta a lezione?” velenò la donna con acidità, ricalcando il rimprovero che la studentessa aveva ricevuto un’ora prima da Condor.
Dal momento che recuperare il rispetto di quell’insegnante era un’impresa impossibile, la studentessa le rispose con un’occhiataccia e nessuna parola di scuse uscì dalla sua bocca.
L’unico motivo per cui non tornò a martellare di domande Kentin era l’impegno che il ragazzo metteva nel seguire la lezione e non voleva certo essere lei la sua fonte di distrazione. Ricacciò giù, come un boccone troppo grosso, la curiosità di sapere come potesse conoscere la gemella, e finse di ascoltare la spiegazione.
Arrivò il cambio dell’ora e finalmente potè chiacchierare con lui in santa pace. Vide Iris voltarsi e le fece cenno di raggiungerla, ma la ragazza scosse il capo con un sorriso gentile e annunciò che doveva ripassare biologia.
La mora rimase alquanto sorpresa perchè si era ormai convinta che l’amica avesse una sorta di allergia allo studio. Nonostante l’aria da studentessa modello, educata e diligente, Iris faticava a concentrarsi sui libri e, per certi versi, le ricordava Castiel:
“senti cervello” pensò tra sé e sé “già e abbastanza penoso che abbia capito dopo tre mesi di essere innamorata di quella cipolla rossa, ma potresti evitare di tirarlo fuori in ogni confronto? Non è mica un’unità di misura
Abbandonò quella conversazione tanto assurda quanto unidirezionale con il suo inconscio e tornò a concentrarsi su Iris: non capiva perché la rossa non si avvicinasse a Kentin, dal momento che si erano già incontrati una volta. Era la sua occasione per rinfrescargli la memoria e conoscersi come si deve.
Stava allora per rivolgersi al ragazzo quando notò la figura di Melody alla sua destra.
“sei il nuovo studente?” chiese la nuova segretaria delegata, guardandolo dall’alto in basso. Senza lasciargli il tempo di confermare la sua identità, la mora si presentò “sono Melody. Questa mattina non sei venuto in segreteria così non ho potuto illustrarti il regolamento scolastico”
Il ragazzo la guardò con curiosità, inclinando la testa di lato, come se avesse di fronte uno stravagante esemplare di uccello del paradiso e borbottò:
“pensavo bastasse presentarsi a lezione”
“no” puntualizzò la mora, mentre il sopracciglio sinistro si innalzava irritato “ci sono delle regole e il mio ruolo mi impone di spiegartele”
“non hai una specie di foglio? Così me lo leggo e ti risparmi il disturbo”
Erin dovette trattenersi dal ridere nel vedere l’espressione indignata di Melody. Pian piano cominciava a conoscere quel ragazzo e il suo modo di fare: Kentin era la quintessenza dell’innocenza e dell’ingenuità. Esprimeva i suoi pensieri senza malizia eppure finiva spesso per essere equivocato. Non intendeva allontanare la segretaria, voleva solo risparmiarle del tempo per qualcosa che poteva fare benissimo da solo.
“questa è la lista dei club” attestò a denti stretti la ragazza, sottoponendogli un foglio in cui era disegnata una tabella “poichè l’anno è già iniziato, ti ho segnato solo quelli che sono rimasti disponibili”
Kentin notò per l’appunto che alcune righe erano evidenziate e concluse:
“quindi questi sottolineati in giallo sono le mie opzioni”
“no” lo smentì Melody, sempre più spazientita “ quelli sono i club che hanno già anche troppi iscritti”
“non è molto intuitivo così. Potevi cancellarli con una linea orizzontale, anziché metterli in evidenza”
Erin stava facendo l’impossibile per non scoppiare a ridere: era vero che l’antipatia reciproca tra lei e Melody era andata aumentando, ma scoppiare a riderle in faccia sarebbe stato troppo.
“se sei tanto bravo, fallo tu il segretario allora” sbottò la ragazza, girando i tacchi.
“ma che le è preso?” commentò lui confuso, guardando verso Erin che sghignazzava.
“lasciala perdere. Allora vediamo, che club ti sono rimasti?” chiese, allungandosi verso di lui.
Iris si voltò e osservò la sua amica che aveva sporto il busto verso il ragazzo, sbirciando il contenuto del foglio che lui teneva tra le mani. Si era persa la scena con Melody, tanto era concentrata a far finta di studiare e avvertì una punta di invidia e fastidio nell’essere esclusa da quella complicità. D’altronde, non era colpa di Erin se lei era una banalissima ragazza, insignificante e insicura.
“giornalismo, basket, giardinaggio, atletica” recitò il ragazzo “siete pieni di attività qui”
“sei fortunato. Quando sono arrivata qui avevo la metà delle opzioni che hai tu”
“è da tanto che ti sei trasferita?”
“tre mesi”
“il club di giornalismo com’è?”
“ci lavora una sanguisuga di nome Peggy. Se vuoi posso portarti il numero di dicembre così ti rendi conto della spazzatura che pubblicano” raccontò la mora, sorvolando sui contenuti del numero di Novembre, che l’aveva vista come protagonista.
“se mi dici che parliamo di giornalismo scadente allora non fa per me”
“tu saresti stato perfetto per il club di letteratura” commentò Trevor, voltandosi verso i due compagni di classe. Girò la sedia e si mise a cavalcioni su essa e poi disturbò la sua compagna di banco:
“eddai Kim! Che cazzo ti metti a ripassare adesso? Tanto non ti entra nulla in testa, specie se parliamo di scienze”
“ha parlato Einstein” lo rimbeccò sarcastica la velocista, girandosi rassegnata verso i due ragazzi seduti dietro di lei; rivolgendosi a Kentin, esclamò “allora genio, quale club sceglierai?”
In cuor suo, la cestista sperava che il posto del club di atletica rimanesse vacante ancora per un altro mese.
“beh sicuramente non basket. Non sono granchè negli sport di squadra” confessò il nuovo studente.
“peccato, stai parlando con tre dei migliori giocatori della squadra del liceo” si pavoneggiò Trevor.
“parla per te” mormorò mestamente Erin, amaramente consapevole di essere l’elemento più debole del team.
“ah, quindi fai parte della squadra Travis?” le chiese evidentemente sorpreso Kentin. La ragazza, un po’ indispettita per essere stata chiamata per cognome, stava per replicare, quando Kim soggiunse con una leggera apprensione:
“e il club di atletica?”
 “naa… ne ho piene le scatole di fare attività fisica” si lamentò il ragazzo, senza spiegare cosa intendesse di preciso mentre Trevor incalzava impaziente:
“allora, cosa hai deciso?”
“boh, ci devo pensare. Dove la trovo quella ragazza? Com’è che si chiama? Sinfony?”
“no, Doremì” ridacchiò Erin “ si chiama Melody. La trovi nell’ufficio accanto alla segreteria prima delle otto e durante le attività dei club del pomeriggio”
“non sarà molto felice di vedermi” previde il ragazzo, grattandosi la nuca.
Miss Joplin varcò la soglia dell’aula e gli studenti, Trevor e Kim compresi, tornarono a sedersi compostamente. Diversamente dal professor Condor, salutò i ragazzi con allegria e si concentrò sul nuovo arrivato:
“sono contenta di avere un nuovo studente. Una testa in più fa sempre comodo all’interno di un gruppo di menti” commentò la donna compiaciuta.
Erin, eccitata alla vista della sua insegnante preferita, si preparò a prendere appunti: si portò su una nuova pagina del suo block notes, scrisse la data e ordinò la cancelleria sul banco.
Miss Joplin, dopo un breve riepilogo finalizzato a rinfrescare la memoria dei suoi studenti, cominciò ad esporre il nuovo argomento: la fotosintesi clorofilliana. A quelle parole, la ragazza udì uno sbuffo infastidito e si voltò sorpresa verso lo studente modello seduto accanto a lei:
“ma che palle di argomento!” si lagnava Kentin.
Cogliendo l’occhiata perplessa della compagna di classe, esternò:
“odio imparare le cose a memoria. Sai che due palle imparare tutti i nomi di questi composti?”
“ben detto” sussurrò Kim, nota per il suo odio per la biologia.
“non è poi così male” mormorò Erin insicura, sentendosi una pecora nera in un gregge di bianchi pecoroni. Per lei che amava scoprire il meccanismo biologico che animava la natura, era inconcepibile il disprezzo che traspariva dalle parole del vicino di banco.
“che cacchio c’è da dire delle piante poi? Buttavano fuori ossigeno e basta. Non c’è altro che vale la pena sapere” continuò il ragazzo, senza accorgersi che la sua irritazione lo portava ad aumentare inesorabilmente il volume della voce.
“vuoi parlare piano? Guarda che ti sente!” lo zittì Erin.
La loro sarebbe stata una convivenza interessante: quando lei avrebbe voluto ascoltare la lezione, lui si sarebbe distratto tutto il tempo, viceversa, durante le materie umanistiche, Kentin non le avrebbe consentito di disturbarlo un secondo.
 
La lezione della Joplin trascorse quindi tra i commenti annoiati di Kentin e i rimproveri sempre più spazientiti di Erin: aveva accanto un ragazzo completamente diverso da quello che aveva seguito le prime due ore e la cosa la infastidì non poco dal momento che per colpa sua, si stava distraendo dalla sua materia preferita.
Al cambio dell’ora, Charlotte tornò a importunare il vicino, così Erin si alzò e raggiunse Iris. Si era rassegnata al fatto che avrebbe dovuto aspettare il pranzo prima di parlargli con tranquillità di Sophia e inoltre, doveva assolutamente chiarire con Iris il perché del suo strano comportamento.
Le due si diressero verso il bagno ma si fermarono prima a scambiare due parole con Ambra. Tornata al liceo la bionda aveva scoperto che la sua ex amica Charlotte aveva scambiato il suo posto con un’altra ragazza e la cosa non le dispiaceva affatto. Le due ragazze le chiesero di Nathaniel e delle vacanze, mentre Ambra ricambiava l’interesse domandando di Sophia.
 
Una volta alla toilette, Erin affrontò Iris:
“insomma, si può sapere che ti prende? Perché non vieni a parlare con Kentin?”
“ma non hai visto che non mi ha neanche riconosciuto?” articolò sconsolata  “mi ha ignorato completamente. Non ho nessuna intenzione di andare da lui per dirgli ehi ciao, ti ricordi di me? Sono quell’idiota che era convinta che Tolstoj fosse tedesco”
Erin sospirò pazientemente, non cogliendo a pieno il malessere dell’amica:
“basterebbe dirgli che vi eravate incontrati in biblioteca… che senso ha mettere il coltello nella piaga?”
“per te è facile parlare Erin. Sei una ragazza che non si dimentica. Io sono una persona anonima e insignificante. La classica studentessa gentile che va d’accordo con tutti ma che non ha un briciolo di personalità”
La mora rimase senza parole, poi protestò:
“ma che stai dicendo Iris? Cos’è questa storia?”
La campanella suonò e fornì alla rossa il pretesto per interrompere una conversazione portata ad un piano a cui non voleva arrivare. Tornò quindi in classe, seguita dall’amica, che continuava a lanciarle occhiate confuse.
 
Sedutasi al suo posto, Erin trovò Kentin intento a studiare la lista dei club che gli aveva fornito Melody.
“ma, questa Iris Levine è per caso quella ragazza?” chiese indicando la rossa seduta in seconda fila. Il nome della ragazza era segnato sotto la voce “presidenti” ed era associato al club di giardinaggio.
“sì esatto” confermò la vicina, anche se, a causa dello strano comportamento dell’amica, non sapeva se menzionare la fatto che già si fossero conosciuti.
Kentin non replicò, ripiegò con cura il foglio e sollevò leggermente il sedere per riporre il foglio nella tasca posteriore dei pantaloni.
 
Prima di andare in mensa con i suoi amici, Erin e Kentin si recarono da Melody: la prima doveva consegnarle i documenti da parte di Castiel, il secondo comunicarle la scelta del club, che rimaneva ancora un mistero per la mora.
I due entrarono nella stanza, trovando la segretaria intenta a consumare il suo pranzo. Quella vista interì Erin, che per una volta provò compassione per la ragazza. Riflettè sul fatto che non l’aveva mai vista in compagnia di una persona che non fosse Nathaniel. Ora che il biondo era lontano, Melody era ancora più sola.
In fondo quando l’aveva conosciuta, la ragazza le aveva dato un’ottima impressione di sé: era stata gentile e premurosa finchè non aveva colto la simpatia reciproca tra lei e il biondo.
“Melody, sono venuta a portarti dei documenti da parte di Castiel” annunciò, allungandole il pacco.
“c’è tutto?” domandò, deglutendo un boccone e alzandosi in piedi.
“non ne ho idea. Non so neanche cosa ci sia dentro”
La segretaria annuì e prese in consegna la busta gialla. Erin allora si congedò, assicurando a Kentin che gli avrebbe tenuto un posto in mensa.
 
Il ragazzo camminò per i corridoi con un sorrisetto soddisfatto e, dopo aver chiesto informazioni ad un gruppo di ragazzi, riuscì a raggiungere la mensa. Si trovò di fronte una fila infinita di studenti, costretti a mangiare al chiuso a causa del clima gelido. Tuttavia, i ragazzi erano incolonnati secondo un ordine relativo e i vassoi scivolavano veloci sulla griglia del self service. Sbirciò l’aspetto dei piatti e constatò che era decisamente migliore rispetto alla vista a cui era abituato nella vecchia scuola.
Una volta procacciatosi il pranzo, cercò Erin tra la folla di ragazzi che avevano già occupato il loro posto ma il suo sguardo cadde su una testa di capelli rossi: sorrise riconoscendo Iris, accanto alla quale individuò la sua vicina di banco.
“ragazzi, vi presento Kentin” annunciò Erin, mentre il ragazzo trovava posto tra lei e Rosalya.
In quel momento la conversazione era tenuta in piedi da Alexy, che raccontava allegramente dell’avventura sulla neve con il fratello. Appena vide il nuovo ragazzo, le parole gli morirono in gola e sgranò gli occhi, arrossendo leggermente. Rosalya, seduta davanti a lui ridacchiò, scrutandolo con i suoi occhi felini che cominciarono a brillare per l’eccitazione. Lysandre allora esordì con un accogliente:
“benvenuto al Dolce Amoris”
“grazie… ho una domanda” affermò il nuovo arrivato, cogliendolo alla sprovvista “ma questa scuola ha davvero un nome ufficiale così patetico, oppure ne ha uno più serio?”
I presenti rimasero un po’ perplessi, mentre Erin, ormai abituata ai modi spontanei del ragazzo, replicò placidamente:
“non mi risulta”
“e invece sì Cip” la corresse Rosalya “questa è la Atlantic High School”
“è un nome quasi più idiota dell’altro. Perché chiamarla Atlantic? Distiamo più di trenta miglia dall’oceano!”
“forse perché chi l’ha pensata non aveva tanta voglia di rompersi le palle a pensare ad un nome più originale” ipotizzò Armin divertito “per la cronaca, io sono Armin… Irina, sei proprio pessima con le presentazioni” la rimproverò “non ci hai presentato”
“hai la lingua, usala!” protestò lei. Il ragazzo allora, in risposta, le fece una linguaccia dispettosa mentre Lysandre interveniva:
“io sono Lysandre, lei è mia sorella Rosalya” disse, indicando la ragazza seduta all’altra estremità della comitiva “poi c’è Alexy e lei è Violet. Immagino che Iris tu già la conosca”
Kentin spostò lo sguardo verso la ragazza seduta esattamente davanti a lui. Appena intercettò quell'occhiata, la ragazza arrossì timidamente e in preda all'imbarazzo, farfugliò:
“b-beh non so se lui si ricorda di me”
“ma non siete in classe insieme?” la interrogò Lysandre dubbioso, temendo per un attimo che la sua pessima memoria gli avesse giocato l’ennesimo tiro mancino.
“ah, sì… giusto… è così” borbottò la rossa ancora più a disagio. Teneva lo sguardo basso, a fissare con un interesse spropositato un pasticcio di carne dall’aria poco invitante.
“allora Kentin, che club hai scelto?” s’intromise Rosalya “Erin ci ha detto che sei stato da Melody”
“beh… l’unico che era rimasto disponibile”
“ma come? Se stamattina erano quattro!” protestò Erin.
“mi ha detto che ha sbagliato. Ne era rimasto solo uno”
Armin sghignazzò mentre Lysandre tratteneva a stento un sorriso ironico.
“questo mi ricorda quando quei due beoti si sono ritrovati nel club di cucito” esclamò goliardico Armin.
“che scena” commentò Lysandre con un’espressione nostalgica.
“i due beoti chi sono?” s’incuriosì Kentin, masticando la più buona bistecca servita in una mensa che avesse mai assaggiato.
“due nostri amici. Uno si chiama Nathaniel e adesso è in California, era il delegato del liceo… mentre l’altro, Castiel è in Germania” spiegò Armin.
“per caso lavora con i Tenia?”
“e tu come lo sai?” sbottò Erin sorpresa, mentre la voce le saliva più acuta del normale. Le bastava davvero poco per scattare o più precisamente, qualsiasi riferimento al rosso, sortiva in lei l’effetto della puntura di un ago.
“qualche giorno fa sono stato al negozio di CD di Madison Street”
“allora eri vicino a casa di Castiel” lo interruppe Armin mentre Erin lo zittiva infastidita, in modo che Kentin potesse continuare a spiegare:
“ho sentito il titolare che parlava di un liceale che era stato preso a lavorare con loro in Germania. Sono una band esordiente a quanto ho capito”
“le voci girano” commentò Lysandre compiaciuto. Anche se non gli era difficile rispettare il silenzio dell’amico, sperava che prima o poi si facesse vivo, se non altro per condividere con lui le emozioni che scaturivano da quell’incredibile esperienza.
“sarei curioso di conoscerlo. Ne parlavano proprio bene di questo Castiel” confessò Kentin.
“beh, uno dei pochi ambienti dove Castiel dà il meglio di sé è quello musicale.. e poi in quel negozio di dischi ci è praticamente cresciuto” illustrò il poeta, ripensando a tutte le volte che aveva cercato di trascinarlo fuori, dopo intere ore passate in quel locale.
“praticamente si mangiava tutti i soldi che gli passava il padre comprando cd” commentò Armin “ti credo che il titolare lo ami”
“infatti non capisco perché quello scemo non scarichi la musica da internet come tutte le persone normali” s’intromise Rosalya, che per Castiel aveva sempre una parola gentile.
Erin sorrise tra sé, ripensando alla conversazione avuta a casa del ragazzo settimane prima; non voleva condividere con gli altri la spiegazione del perché per l’amico fosse così importante collezionare CD: avrebbe dovuto rivelare un lato sensibile di lui che preferiva custodire per sé.
“comunque, questo è Castiel” intervenne Armin, esibendo sotto gli occhi di Kentin, una foto dal cellulare.
Erin si allungò verso lo schermo, invidiando a morte il moro per quel prezioso monile. Si sentiva un po’ idiota per quella sensazione, ma ogni immagine di Castiel era ormai diventata preziosa.
Kentin studiò con curiosità l’aspetto del ragazzo e, restituendo lo smartphone al moro, domandò:
“perché indossa una parrucca?”
Rosalya ed Armin si piegarono in due dal ridere, mentre anche tutti gli altri sfuggì un sorriso ironico.
“AHAHHAHAA, mi fai morire, giuro” esclamò Armin con una risata grassa, sbattendo il pugno sul tavolo e reclinando la testa all’indietro.
In quel momento passarono dietro di lui Ambra e Lin e il moro rimase in quella strana posizione, guardando la bionda dal basso verso l’alto.
“stai facendo un casino Armin che ti si sente dall’altra parte delle mensa” lo rimproverò mentre riportava il vassoio al nastro trasportatore.
“riconosceresti la mia voce ovunque eh?” la punzecchiò il ragazzo con allegria, mentre lei gli lanciava un’occhiataccia e tirò dritto, per non palesare l’espressione divertita che lui riusciva sempre a strapparle.
Mentre le due si allontanavano, Erin tornò a spiegare:
“sono i suoi capelli veri. Ma non chiederci perché si ostina a portare questo colore assurdo”
“beh, parliamo del taglio?” intervenne Rosalya.
“ragazzi, non sta bene parlare di chi non c’è” intervenne Lysandre.
“ma tanto glielo diciamo anche in faccia” si difese la sorella.
“non stavamo parlando dei club?” intervenne Violet, decidendosi finalmente a far sentire la sua voce.
Kentin si guardò attorno atterrito.
“che hai?” gli chiese Armin.
“ma non l’avete sentita anche noi? Una vocina sussurrata e bassa?”
I ragazzi scoppiarono nuovamente a ridere, di fronte all’espressione terrorizzata del nuovo arrivato mentre Violet si schiariva la voce e alzandone un po’ il volume, ripetè:
“sono io che ho parlato”
Sporgendosi alla sua sinistra, guardando oltre Erin, finalmente il ragazzo individuò l’artista, della cui presenza si era completamente dimenticato. Sollevato che non ci fosse nessuna natura paranormale dietro quel fenomeno, le rispose:
“sono iscritto al club di giardinaggio”
Armin, nonostante la bocca piena, scoppiò in una risata fragorosa, sputacchiando del cibo alla malcapitata Erin seduta davanti a lui. La ragazza lo guardò con odio, manifestando tutto il suo disgusto mentre tutti gli altri ridevano divertiti. Era davvero un flash back a quattro anni prima, quando Castiel e Nathaniel, in circostanze analoghe, si erano ritrovati nel club di cucito.
L’unica a non ridere era Iris: il suo volto era l’espressione più lampante dello sbigottimento: le sue labbra di era dischiuse, la gola le si era seccata all’improvviso e le sopracciglia si erano incurvate nel descrivere un arco morbido sopra quelle iridi così chiare.
“non ci posso credere!” lo canzonò Erin dopo essersi ripulita la faccia “è tutto il giorno che ti lamenti di quanto ti facciano schifo le piante e ti sei ritrovato nel club di giardinaggio?”
Kentin scrollò le spalle, come se la cosa non gli pesasse quanto poteva immaginare la ragazza, mentre Violet e Lysandre lo scrutarono con vivo interesse.
“ehi Alexy, ti sei mangiato la lingua?” intervenne il fratello, lanciandogli una patatina. Il gesto fu particolarmente sgradito dal gemello che gli restituì un’occhiataccia. Rosalya sorrideva complice così cercò di liberare l’amico dall’imbarazzo e dall’attenzione generale che si era focalizzata su di lui.
“quindi Kentin, che scuola hai frequentato?”
A quella domanda, il moro migliorò la postura, distendendo leggermente il collo e allargando impercettibilmente le spalle.
“sono andato all’accademia militare di Harrisburg” annunciò con un certo orgoglio. Pronunciò quella frase osservando di sottecchi la reazione di Iris e rise sotto i baffi nel vedere la forchetta della ragazza scivolarle nel piatto. Tuttavia la reazione più esagerata fu quella di Erin che, sorseggiando della Coca-Cola finì per annaffiare Armin, restituendogli l’esperienza provata poco prima.
“t-tu non sarai mica il Ken che era in classe con Sophia in prima liceo?” esclamò sconvolta.
“finalmente ci sei arrivata Travis” commentò con un sorriso sardonico il ragazzo. Da un lato era soddisfatto dell’effetto sorpresa che aveva sortito in Erin, mentre dall’altro era lusingato al pensiero di ciò che potevano pensare di lui le persone sedute a quel tavolo. Del resto, un militare, anche se solo adolescente, ha pur sempre il suo fascino.
“lo conoscevi già? E te ne sei accorta solo ora?” la derise Rosalya.
“ovvio che non l’ho riconosciuto subito!” si difese l’amica “era quel ragazzo di cui vi ho fatto vedere la foto in gita”
“il ragazzo con gli occhiali?” tentò Iris, parlando per la prima volta da quando Kentin si era seduto davanti a lei.
 
“allora Iris il tuo uomo ideale come dovrebbe essere?” le chiese gentilmente Rosalya per distoglierla dai suoi pensieri “abbiamo capito che non vuoi un militare” scherzò subito dopo, sdrammatizzando la situazione.
“ragazzo?” chiese Iris interrogativa.
“porca miseria Iris! Sei asessuata per caso?” sbottò Rosalya di fronte alla perplessità della ragazza “ce l’avrai pure un modello standard di riferimento del genere maschile!”
Rosalya improvvisamente tacque, come se un pensiero sconcertante le avesse attraversato la mente. Di fronte al suo silenzio repentino, le due amiche non seppero se preoccuparsi o incuriosirsi. Dopo un paio di secondi la ragazza affermò:
“Iris… non è che sei lesbica?”
“ma che vai a pensare scema!” le saltò su Iris mettendosi in piedi.
Avvampò all’istante, rendendosi conto di aver attirato su di sé l’attenzione della sala per poi ricomporsi lanciando un’occhiataccia a Rosalya, mentre Erin ridacchiava.
“allora non hai un ragazzo ideale in mente?” concluse Erin, cercando di riportare la conversazione sull’argomento iniziale.
Iris sbuffò, ancora innervosita dal commento di Rosalya e spiegò:
“invece ce l’ho. Ma è solo una figura utopica che non esiste”
“si chiama ragazzo ideale proprio per questo” puntualizzò Rosalya “ti assicuro che i ragazzi non hanno nulla di ideale quando cominci ad uscirci” spiegò con aria da donna navigata.
“un po’ amaro come commento per una che è fidanzata” osservò Erin.
“ovviamente Leigh è un’eccezione” chiarì l’altra, ritrattando in parte la sua affermazione “allora sentiamo Iris: come è questo uomo?”
“beh, innanzitutto deve essere un ragazzo sensibile, intelligente… anche un po’ timido magari. Avete presente quell’aria un po’ intellettuale e imbranata?”
“ti piacciono quelli con gli occhiali?” chiese Rosalya con un’espressione dubbiosa e sconcertata.
“mica tutti quegli con gli occhiali sono così” obiettò Iris “e comunque se anche ce li avesse non sarebbe un problema”
Mentre Rosalya, il cui ideale di uomo non combaciava affatto con quello disegnato da Iris, cercava di capirne i gusti, Erin si frugò nelle tasche e afferrò lo smartphone. Cercò nella galleria e selezionò una foto che mostrò alle amiche:
“ti piacciono i tipi come lui?”
La foto ritraeva Kentin detto Ken, un ragazzo che frequentava la sua vecchia scuola. Occhiali a girella e capelli a scodella era il suo infamante binomio identificativo. Il ragazzo inoltre era penalizzato anche dall’altezza, non superiore al metro e sessantatré.
Aveva cambiato scuola quando Erin era in prima e da allora erano passati tre anni senza avere sue notizie.
Alla vista di quell’ impietosa rappresentanza dell’universo maschile, Rosalya scoppiò a ridere e Iris difese le sue convinzioni:
“non prendermi in giro!”
 
(tratto dal capitolo 20 – Pioggia)
 
 
Kentin Affleck era incarnazione di tutto ciò che Iris amava e al contempo odiava: era un ragazzo intelligente  e con una sensibilità raramente riscontrabile nell’universo maschile che lo portava ad apprezzare i grandi classici della letteratura, cosa che a lei risultava alquanto ostica. D’altro canto però, aveva appena ammesso, e con una certa boria, di aver ricevuto la peggiore educazione a suo avviso possibile: quella militare.
“voglio vederla anche io questa foto!” aveva cominciato a protestare Armin.
Erin stava per recuperare il cellulare, quando Kentin le bloccò il braccio con veemenza.
“fa vedere in giro quella foto ancora una volta Travis, e ti giuro che sarà la volta buona che picchio una donna”
La ragazza rimase sconvolta: non aveva nulla del Ken che ricordava lei, mentre il resto della comitiva, scoppiava in una risata.
Iris però non rideva. Anche se si trattava di una battuta, la rossa vide in quelle parole la concretizzazione dei modi grezzi e bruschi con cui talvolta si esprimeva suo padre. Le era bastato un niente per veder crollare tutti i suoi castelli in aria.
“quindi hai davanti la tua futura capa” commentò Rosalya, riferendosi ad Iris.
Kentin spostò finalmente lo sguardo verso la rossa, la cui espressione era imperscrutabile. Non era più imbarazzata o in difficoltà. Dal suo viso non traspariva alcuna emozione chiara e definibile.
“è-è da molto che sei a capo del club?” chiese il ragazzo, riabbassando subito gli occhi.
Quel gesto la fece vacillare, chiedendosi come la sicurezza manifestata poco prima fosse già evaporata. Prima di formulare quella domanda, le labbra del ragazzo sembravano aver tremato un po’, ma solo lei ed Alexy se ne erano accorti.
“da quest’anno. Però è dal primo anno che faccio parte di questo club, non ho mai voluto cambiare” spiegò la ragazza.
“e come mai?” indagò Kentin, allungando il braccio per prendere l’olio.
“beh mi piacciono i fiori” borbottò Iris a disagio.
La sua risposta non brillava di originalità e si sentiva alquanto stupida per questo. Le capitava spesso, quando era al centro dell’attenzione, di non riuscire a pensare a nulla di interessante da dire. Il suo cervello si bloccava e le risposte migliori le uscivano quando ormai non c’era più nessuno disposto ad ascoltarle.
Era anche questo ad acuire il suo senso di inferiorità rispetto ad Erin e Rosalya, che risultavano molto più a loro agio tra i ragazzi.
“non fa una piega” riconobbe Kentin, anch’esso incapace di rendere più accattivante la discussione.
“perché Iris non gli spieghi cosa dovrete fare oggi?” le venne in aiuto Erin “non avete quei bulbi di piantare?”
“beh, glielo spiegherò dopo”
“no no, voglio sapere” protestò Kentin.
Un po’ perplessa, Iris proseguì:
“beh vedi, c’è un cane che si intrufola ogni tanto in questa scuola e manda all’aria alcune delle piante”
“un cane? E non vi sembra strano che venga apposta in questo liceo per cagare?”
Iris non apprezzò lo scivolone gergale del ragazzo e lo rimbeccò:
“complimenti per la finezza”
Non voleva risultare così acida, ma era stato più forte di lei: a uno come lui, con una padronanza linguistica invidiabile, non poteva perdonare un gergo così scurrile.
“scusa…” mormorò Kenti a disagio, mettendo lei ancora più in difficoltà “cioè, volevo solo dire che non è un comportamento normale nemmeno per un cane quello di entrar-“
“non devi essere così nervoso Kentin” lo schernì Armin, alquanto divertito da quell’impacciato scambio di battute.
“ma non sono nervoso!” sbottò il ragazzo avvampando, che per tutto il tempo aveva tenuto il capo chino come un bambino e aveva masticato le parole.
“allora perché ti stai versando l’olio nel bicchiere con la Coca-Cola?” chiese Violet con sincero interesse.
Kentin alzò lo sguardo e si accorse di aver mosso il braccio inconsapevolmente, centrando per giunta il bersaglio sbagliato.
Tutti scoppiarono a ridere, tranne Iris e Alexy che risposero con un’espressione molto simile, quasi di tenerezza verso quel ragazzo all’apparenza tanto sicuro di sé, eppure così imbranato.
 
Erin entrò in palestra, trepidante all’idea di rivedere tutta la squadra.
Tutta non era certo l’aggettivo più adatto, ma non poteva passare i successivi mesi ad angosciarsi per la mancanza di Castiel. Era una frase che si ripeteva di continuo, con la speranza che, insieme al cervello, anche il suo cuore di rassegnasse a quell’amara realtà.
I giocatori la salutarono con affetto, senza interrompere ciò che stavano facendo: c’era chi si esercitava nei tiri liberi, chi palleggiava svogliatamente e altri, come Kim, Trevor, Dajan e Liam che chiacchieravano.
Fu proprio da questo quartetto che la ragazza si diresse.
“almeno studia tu un po’ di francese!” stava dicendo l’unica cestista donna del gruppo.
“perché dovrebbe studiare francese?” s’intromise Erin.
“Trevor si è trovato una ragazza” spiegò Liam con un sorrisetto sardonico “il problema è che si esprime solo francese e non capisce un tubo di quando lui parla e viceversa”
“non è che non capisce un tubo” la difese il cestista “diciamo che non afferra esattamente tutto quello che le dico… e poi credimi amico… con una come lei, ci si capisce al volo per certe cose” spiattellò senza pudore, lanciando ai due maschi presenti un’occhiata eloquente che le due ragazze biasimarono.
“come si chiama questa tua nuova perla?” chiese Erin.
“Brigitte” sospirò il ragazzo, con gli occhi dai quali salivano mille cuoricini innamorati.
“e dove l’avresti conosciuta?”
“in Quebec, mentre ero in vacanza con i miei”
Il confronto tra le abitudini vacanziere della sua famiglia e quelle di alcuni degli studenti del Dolce Amoris era stridente: fin da quando lei e sua sorella erano piccole, Peter e Amanda, le portavano in escursione in qualche parco naturalistico delle vicinanze ma non potevano permettersi viaggi così costosi che implicassero l’uscita dai confini nazionali. Trevor invece era solo uno dei tanti studenti del liceo che aveva trascorso delle vacanze da favola, in posti lontani ed interessanti. D’altronde, nonostante la pateticità del nome, il Dolce Amoris godeva di un certo prestigio e l’ampia e variegata offerta formativa era alla base del successo della scuola; per poter sostenere tutte le spese, la retta scolastica era un po’ più alta rispetto agli altri istituti privati ed Erin ancora non si capacitava del come la sua famiglia potesse permettersi di mantenerla a Morristown.
“ragazzi, c’è una cosa di cui dobbiamo parlare” annunciò Boris, varcando la soglia della palestra.
Per un tipo rumoroso ed esibizionista come lui, quell’ingresso così tetro e sbrigativo, non lasciava presagire nulla di buono. I cestisti si allinearono davanti a lui, aspettando di sentire le ultime novità:
“come sapete, tra un mese esatto, inizierà il torneo e tutti e undici parteciperete, chi come riserva chi come titolare… tuttavia la partenza di Castiel ha lasciato un posto vacante”
Erin si irrigidì. Temeva quale sarebbe stata la continuazione di quel discorso.
“io sono dell’idea di trovare un sostituto anche se so perfettamente che tutti i giocatori di basket più forti della scuola sono qui. Ma non ha nessun senso presentarsi senza aver a disposizione il numero massimo di giocatori: le partite sono molto ravvicinate e se riusciamo a guadagnare una vittoria dopo l’altra, il vostro fisico ne risentirà; più giocatori ho per le mani, e più potrò darvi il cambio, diminuendo il vostro affaticamento. In particolare, l’idea sarebbe quella trovare una terza ragazza”
“è impossibile Boris! È stato un miracolo trovare Kim!” protestò Steve.
“qualcosa dobbiamo inventarci” lo liquidò Boris “opterei proprio per le file del club di atletica, almeno sceglieremo una ragazza che sia in forma fisica… Kim, ti viene in mente qualcuna delle tue ex compagne che potrebbe unirsi alla squadra?”
Mentre la mora rifletteva, Erin esclamò:
“aspetta Boris! Non è giusto rimpiazzare Castiel”
Dodici teste si voltarono sorprese mentre lei si sentiva percorsa da brividi. Non potevano sostituirlo:
“so che non potrà partecipare fisicamente al torneo, però rimane un membro della squadra. Anche se sarà solo una formalità, non sarebbe giusto da parte nostra iscriverlo comunque?”
“che senso ha Erin? Giusto oggi a pranzo sono stati recapitati i documenti che ufficializzano la sua assenza da scuola fino a giugno” le raccontò Boris, svelando il contenuto della carte che lei stessa aveva consegnato un’ora prima “da allenatore che punta alla vittoria, per me la tua obiezione non ha nessun senso”
All’inizio Erin rimase spiazzata dal modo in cui Boris si rivolgeva a lei, freddo e spazientito, ma poi capì: anche lui era rimasto scottato dalla partenza del giocatore più promettente della squadra. L’uomo non sapeva quanto il sogno di Castiel fosse importante per lui e il suo animo semplice, non riusciva a non palesare la delusione di partecipare ad un torneo del genere senza un simile elemento.
Si sentiva stupida perché, al di là dell’amarezza dell’allenatore, in fondo il ragionamento di quest’ultimo non faceva una piega: il regolamento della competizione prevedeva che almeno una ragazza fosse schierata durante ogni partita e presentarsi solo in due, era un rischio troppo grande.
Tuttavia, come le accadeva fin troppo spesso, il cuore non voleva dare retta al suo cervello: tenere il posto in squadra di Castiel, per lei equivaleva a dirgli “non importa se non ci sei, per me è come se fossi qui”.
“sono d’accordo con Erin”
La mora si voltò verso chi era appena intervenuto: a parlare era stato colui che aveva ricevuto da Castiel il titolo di capitano: Dajan.
“non è una questione di buon senso Boris, chiamiamolo piuttosto senso di lealtà: è stato soprattutto grazie alle vittorie dell’anno scorso che la squadra si è qualificata per il torneo e la nostra impennata c’è stata soprattutto da quando Castiel è diventato capitano. Se non fosse per lui, probabilmente non ci saremo mai qualificati. Era la sua voglia di vincere che ci ha portato al livello attuale, quindi come Erin, anch’io voglio che il suo nome compaia nell’elenco dei dodici iscritti… anche se non giocherà”
Boris studiò l’espressione determinata dei suoi giocatori: ciò che l’aveva colpito sin da subito era il cameratismo tra quei ragazzi, apparentemente immaturi e scapestrati. In fondo, nonostante le sue motivazioni, nemmeno lui era convinto a voler rimpiazzare il numero 11 e toccare con mano quella solidarietà tra compagni di squadra, l’aveva profondamente colpito.
“e sia” asserì infine, strappando un sospiro di sollievo alla giocatrice più bassa di tutti “comunque ragazzi, la preside mi ha comunicato che, in vista del torneo, questo mese dovrete rinunciare a due ore alla settimana di lezione alla mattina per allenarvi”
Inutile dire che quella comunicazione destò l’esuberanza generale mentre il coach continuava:
“ho consultato i vostri orari e i giorni papabili sono il martedì e il giovedì, le ultime due ore”
“facciamo martedì!” propose Erin mentre Kim, che non riusciva a ricordare mai l’orario, le chiese:
“che abbiamo martedì?”
“saltiamo le ultime due ore della Fraun!” si entusiasmò la ragazza.
“col cavolo! Sono le mie ore di pennichella quelle!” protestò Trevor “facciamo giovedì!”
“non voglio saltare le due ore di biologia!” toccò ad Erin impuntarsi.
“saltare la Joplin? Dio benedica il basket!” commentò Kim, la cui gioia era tale da farla risultare alquanto buffa, strappando un sorriso generale.
“frenate un attimo!” li richiamò Boris “dal momento che non intendo inimicarmi le mie colleghe, faremo una settimana il martedì e quella dopo il giovedì e così via”
“se vuoi Boris io vengo tutti i martedì” si propose Erin, ma il coach replicò:
“te l’ho detto Erin, non voglio problemi con Melinda”
“e chi è?” chiese Liam.
“Melinda non è il nome della Fraun?” incalzò Dajan.
Gli undici giocatori guardarono il loro allenatore con un sorrisetto canzonatorio:
“ti piace quella vecchia babbiona Boris?” lo canzonò Trevor.
“vecchia? Guarda che ha la mia età!” protestò l’omone, arrossendo.
“nessuno qui ha mai detto che sei giovane” sbottò Kim, sommersa dalle risate goliardiche del resto della squadra.
 
Nonostante fosse nato e cresciuto in un paese gelido come la Svezia, Nathaniel non poteva considerarsi un amante del freddo. Era atterrato a San Francisco e subito si era reso conto di aver sottovalutato la mitezza del clima della costa occidentale. La temperatura non scendeva sotto i dieci gradi quando invece a Morristown la neve ancora imbiancava le strade.
Era partito con una settimana di anticipo rispetto alla data di inizio del progetto che aveva vinto. La decisione era motivata dalla voglia di allontanarsi dalla sua famiglia e, in principio, anche da Rosalya.
Quando però la ragazza si era presentata in casa sua, aveva dovuto cambiare completamente prospettiva: lei lo avrebbe aspettato e di questo fatto ancora faticava a capacitarsene.
Camminò per le strade affollate, cercando di non farsi investire da ciclisti particolarmente lanciati e skater spericolati. San Francisco era un concentrato di caos e rumore, ben lontana dalla tranquilla Morristown in cui aveva trascorso la tarda infanzia e adolescenza.
Stava per svoltare l’angolo, quando venne distratto da un “EHI!”; si voltò di scatto senza capire però da chi provenisse quell’esclamazione; scrollò le spalle e tornò a guardare dritto davanti a sé, appena in tempo per udire un:
“PISTAAAAAA!”
Il ragazzo non riuscì a schivare il proiettile umano che l’aveva appena scaraventato a terra, facendolo atterrare con il sedere. Per sua fortuna, i suoi riflessi da ex calciatore gli avevano fatto portare le mani all’indietro, attutendo la caduta.
“eppure avevo detto pista” brontolò la voce femminile della roller, finita anch’essa con il sedere contro il suolo.
Ancora disorientato per l’imprevisto, Nathaniel non replicò ma si limitò a guardare davanti a sé, e ciò che vide contribuì a enfatizzare la sua perplessità:
“uff, ti pare che devo ancora cadere come una bimba di cinque anni” farfugliava indispettita la ragazza.
Aveva un viso terribilmente familiare, talmente tanto che al biondo uscì spontaneo un solo nome:
“Erin…”
La roller si zittì e lo guardò sorpresa. Aveva dei bellissimi occhi verdi, del colore dei pini di montagna, forse un po’ più scuri di quanto il ragazzo ricordasse.
Tuttavia non poteva essere Erin: la sua ex si trovava a più di 2800 miglia di distanza, a Morristown. E poi non aveva i capelli corti e rossi. Eppure non poteva confondere il suo viso con quello di un’altra ragazza. Quello era il viso di cui credeva di essersi innamorato.
Non poteva quindi che essere lei. L’unica persona che poteva sembrare Erin senza esserlo per davvero.
“Sophia”
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Allora, prometto che questa volta sarò breve e procederò schematicamente (come mi succede un po’ troppo spesso, sono uscita molto provata da questo capitolo):
-È entrato in scena Kentin: visto che ormai avete capito che mi diverto di più a modificare la personalità dei protagonisti del gioco, ecco a voi la mia versione di questo ragazzo (ah, ho il Lov’o metro al massimo con lui, ma non è che di questa cosa vado granché fiera -.-‘). Visto che sono troppo stanca per parlare di lui, spero nelle vostre recensioni per commentarlo insieme :).
-Poi abbiamo Iris: per me è sempre stata un personaggio anonimo ma questo solo perché aspettavo di arrivare qui nella storia per presentarvela in modo più completo. Mi diede molto da pensare una recensione passata dove una ragazza mi disse che non apprezzava particolarmente il personaggio della rossa… il problema era che nemmeno a me in quel momento piaceva, perché non le prestavo attenzione XD…. Ora che finalmente mi sono decisa a tirare fuori anche lei, spero che comincerà a piacere (spero che cominci a piacere anche a me -.^).
-Scusatemi se metto di continuo dei riferimenti ai vecchi capitoli :(… è che la storia è talmente lunga che temo che pretendere che vi ricordiate ogni dettaglio e dialogo è davvero troppo XD… ma nel caso vi diano fastidio, ditemelo che in futuro cercherò di limitarli allo stretto necessario ;)
È tutto! Grazie per aver letto :3… alla prossima!
 
P.S. penso che ormai avrete riconosciuto lo stile di _nuvola rossa 95_ nel primo disegno sotto il riassunto ;) quanto al secondo invece, è opera di caionesabrina ^^…. Un grazie ad entrambe :)
 

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** Adorabili idioti ***


 
RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE
 
Erin scopre l’arrivo di un nuovo studente, al posto di Castiel: si tratta di Kentin, un vecchio compagno di classe della sorella il quale, dopo aver passato gli ultimi anni in un’accademia militare, si presenta come una persona completamente diversa. Il ragazzo si rivela lo stesso che aveva colpito Iris durante un incontro fortuito in biblioteca ma, diversamente da quella volta, tra i due non c’è dialogo. Rosalya racconta alle amiche che lei e Nathaniel si sono quasi baciati, dopo aver confessato l’uno all’altra ciò che provano, con la promessa di riprendere il discorso quando il biondo tornerà dalla California.
Kentin annuncia che entrerà nel club di giardinaggio in quanto unica opzione possibile. Boris motiva la scelta di cercare un sostituito per Castiel, ma Erin si oppone alla richiesta, trovando l’appoggio del resto dei cestisti.
Il capitolo si conclude in California, con Nathaniel in giro per San Francisco quando s’imbatte in una roller spericolata. Appena si riprende dalla caduta, fatica a credere quanto vedono i suoi occhi: la ragazza di fronte a lui assomiglia incredibilmente ad Erin.



 
CAPITOLO 40: ADORABILI IDIOTI
 
“sei Sophia?” ripetè Nathaniel incerto, alzandosi in piedi.
La ragazza si mise in equilibrio sui roller, ondeggiando le braccia per stabilizzare la sua precaria posizione. Si scostò via lo sporco che le si era impresso sulle mani, cancellando quella fastidiosa sensazione tattile. In quel tentativo di mettersi eretta però, si sbilanciò: Nathaniel si affrettò ad aiutarla, afferrandole un braccio ma lei lo redarguì seccata:
“ce la faccio da sola biondino
Il ragazzo sollevò il sopracciglio, irritato per quell’appellativo così poco gratificante.
“potresti anche rispondere se ti fanno una domanda” replicò acido, aspettando che Sophia confermasse la sua ipotesi, di cui era praticamente certo. Fisicamente parlando, era sicuramente la gemella di Erin, ma quanto a buone maniere, quella ragazza non aveva nulla in comune con la mora.
“e tu potresti guardare dove cammini” ribattè lei, sistemandosi il braccialetto che le era scivolato fino a metà dell’avambraccio. Nathaniel osservò quell’oggetto a lui sin troppo familiare: era stato proprio per recuperare quell’accessorio che, mesi prima, Erin era uscita in piena notte, durante la gita.
“comunque sì, sono Sophia. E tu chi saresti?” confermò infine, guardandolo dritto negli occhi.  Il ragazzo rimase per un attimo interdetto dal contrasto stridente tra quel viso su cui era abituato a vedere uno sguardo dolce, con quello fiero e ostile che lo stava squadrando in quel momento. La differenza era tale che, più osservava la ragazza, e più faticava a vedere in lei il riflesso della sorella che conosceva lui.
“Nathaniel” borbottò.
Sophia sgranò gli occhi che cominciarono a spostarsi dall’alto verso il basso, indagando quella figura che si era appena rivelata essere l’ex ragazzo della sorella. Nonostante i pattini la sollevassero da terra, il biondo risultava molto più alto di lei che, improvvisamente, scoppiò in una risata beffarda, lasciandolo alquanto perplesso:
“avrei dovuto capirlo subito” commentò infine, trattenendo per sé una battutina sui principi delle fiabe. Nathaniel non poteva che essere l’incarnazione più fedele di quello stereotipo di eroi sui quali le bambine sono solite sognare. Non capiva come la sorella potesse davvero essersi fatta ammaliare da tanta artificiosità e perfezione; fu così che il giudizio che Sophia Travis formulò quel giorno, la prima volta che incontrò Nathaniel, fu quello di un ragazzo noioso.
Visto che il principino non si decideva ad aggiungere altro, a causa della situazione di disagio in cui lo avevano costretto le occhiate indagatrici di Sophia, la ragazza notò che dalla tasca del giubbotto, spuntava l’angolo di una cartina.
“hai bisogno di indicazioni?” gli chiese.
Quella frase, anche se pronunciata con una certa arroganza, lo sorprese e al contempo lo rincuorò. Era da un po’ che girava a vuoto in quella città sconosciuta:
“beh, in realtà mi sarebbero d’aiuto. Devo andare al Campus”
“quale? Quello lungo la costa o quello in centro?”
“quello lungo la costa immagino” replicò Nathaniel insicuro, venendo a sapere per la prima volta dell’esistenza di due sedi.
“ah, non guardare me, se non lo sai tu…” lo liquidò Sophia alzando le mani.
Nathaniel sollevò le spalle e ragionò:
“dovrebbe essere il campus vicino alla costa… c’era il mare sulla locandina”
“siamo in California bello” lo schernì la ragazza “il mare è ovunque”
Proprio quando aveva cominciato a ricredersi sul carattere della sua interlocutrice, questa era tornata a fargli salire l’irritazione. Non gli era mai capitato di incontrare una ragazza così poco raffinata e dai modi così grezzi. Era la prima volta che si parlavano, eppure lo trattava come se fossero vecchi amici di osteria.
“senti, facciamo che ti spiego come arrivare lì, d’accordo?” si propose lei, divertita dalle smorfie di disapprovazione del segretario e strappandogli la cartina dalle mani. Adorava stuzzicare e irritare le persone, poiché a questo suo talento, se ne accompagnava uno ben più prezioso: la capacità di farsi perdonare.
Rimanere in collera con Sophia, a prescindere dalla gravità del litigio, era un’impresa in cui nessuno era mai uscito vincitore.
 
“ragazzi, lui è Kentin, è in classe con me. Da oggi sarà un nuovo membro del club di giardinaggio” lo presentò sbrigativamente Iris.
In quella serra erano concentrati tutti gli studenti del club di giardinaggio e la temperatura era molto confortevole, tanto da non richiedere la protezione dei giubbotti. Il nuovo arrivato però sembrava essere addirittura insofferente al caldo, togliendosi il maglione di lana e rimanendo solo con una t-shirt a maniche corte.
La preponderante componente femminile del club, aveva inizialmente accolto di buon grado quel nuovo acquisto, ammaliata da quelle braccia scolpite dagli ultimi anni di un duro addestramento militare. Il ragazzo però sembrava ignaro dell’effetto che sortiva sulle sue nuove compagne, poiché era estraneo a quel genere di situazioni. Cercò di analizzare velocemente le facce che aveva davanti a sé, per individuare qualcuno che gli ispirasse abbastanza simpatia da poter tentare una conversazione. 
“ho parlato con la preside Iris” intervenne un ragazzo, avvicinandosi alla presidentessa. Aveva dei tratti molto femminili e la sua statura superava di poco le spalle di Kentin.
“a che proposito Jade?”
“del cane. Penso di aver capito da che parte entra: c’è una fessura nella rete dietro la palestra”
“e la preside che ti ha detto?”
“che la farà chiudere, così il problema si risolverà”
Iris annuì e andò a recuperare dei guanti sullo scaffale, lasciando Kentin impalato al centro della serra, mentre il resto degli studenti si impegnava nelle loro mansioni abituali:
“ehm… Iris… io che dovrei fare esattamente?” borbottò Kentin in difficoltà, raggiungendola. Dopo il pranzo, quando erano rimasti soli, la ragazza le era sembrata più fredda e schiva nei suoi confronti, e non riusciva a capirne la ragione. Non le sembrava di averla offesa in alcun modo ma, a giudicare dalle figuracce che aveva involontariamente collezionato quella mattina, non poteva esserne certo.
La rossa si guardò attorno, stando ben attenta a non incrociare il suo sguardo con quello dell’aspirante militare e individuò un gruppo di ragazzi in un angolo della serra.
“vai da loro. Stanno potando quelle piante laggiù. Ti spiegheranno come fare”
“ah… non c’è qualcos’altro di più stimolante?” patteggiò il ragazzo, con un sorriso conciliante.
“tipo?” ribattè Iris, sospirando rassegnata. Sapeva perfettamente che, qualsiasi cosa gli avrebbe proposto, niente sarebbe stato di gradimento per uno come lui.
“boh, ingegneria genetica vegetale?” scherzò Kentin, sperando di strapparle una risatina, ma la rossa non gradì affatto il suo umorismo.
“d’accordo che ti fanno schifo le piante” chiarì “ma ormai questo è il club a cui sei stato assegnato: vedi di fartelo piacere”
Era ufficiale: lei lo odiava. Non capiva cosa avesse fatto per guadagnarsi tutto quel disprezzo... a parte il fatto di aver passato un’ora intera di lezione della Joplin a criticare quella che era la più grande passione della ragazza. Anni prima, quando era solo un ragazzino insicuro e sfigato, era abituato a farsi trattare male, convincendo sé stesso che fosse colpa del suo carattere se gli altri non lo apprezzavano. Da allora era cambiato molto e la scuola militare gli aveva permesso di forgiare una personalità forte e decisa: da quando il vecchio Ken aveva lasciato posto al nuovo Kentin, nessuno l’aveva più guardato con quel disprezzo che ora invece riviveva a causa di Iris.
Toccò un fiore, stuzzicandone un petalo sovrappensiero, finchè questo si staccò. Iris si voltò proprio in quel momento, cogliendolo sulla scena del delitto.
“l-lo riattacco” balbettò Kentin, avvampando e borbottando una giustificazione talmente insensata che la presidentessa si convinse che volesse prenderla in giro. Lo fulminò con lo sguardo e tornò al suo lavoro.
 
Kentin appoggiò la testa contro il muro di mattoni, all’esterno dell’edificio: a distanza di mezz’ora da quando era entrato in quella serra, era già stato sbattuto fuori.
In quel lasso di tempo era riuscito a sfracellare al suolo cinque vasi di terracotta, manomettere una tubatura dell’impianto di irrigazione e avvelenare con il diserbante il piccolo orto. Il suo pollice verde, più che pessimo, era stato decisamente amputato alla nascita. Quella mezza calzetta di Jade gli aveva soffiato contro, caldeggiando quanto fosse inadatto per quel club e, dal momento che Iris era stata convocata dalla preside, aveva approfittato del suo ruolo di vicepresidente per allontanarlo.
Non conosceva ancora l’edificio per sapere dove andare, così si era rifugiato all’esterno, con la speranza che nessuno l’avrebbe disturbato mentre si accendeva una sigaretta.
All’accademia aveva acquisito quell’abitudine, anche se era costretto a limitarla il più possibile a causa del rigido regolamento dell’istituto.
“toh, ti hanno già sbattuto fuori Ken?” commentò una delle poche voci amichevoli della giornata.
“che ci fai qui?” farfugliò il ragazzo, con il cilindro di tabacco che ondeggiava al movimento della sua bocca.
Erin gli si avvicinò sorridendo, forse fin troppo a suo avviso. Non poteva immaginare cosa passasse per la testa alla ragazza quando l’aveva visto; lui infatti, con quella postura appoggiata contro la parete, un piede piegato contro di essa e la sigaretta in bilico sulle labbra, le ricordava troppo quel Castiel di cui gli avevano parlato in mensa.
“la squadra uscirà a momenti per una corsetta tonificante al freddo” annunciò la ragazza, saltellando sul posto per scaldarsi. Aveva indossato il giubbotto sopra la tuta ma questo era ancora insufficiente a ripararla dal freddo.
“capisco. Beh, diciamo che non potevo finire nel club più sbagliato” ridacchiò il ragazzo, allontanando un po’ di cenere.
“è andata tanto male?”
“esiste il pianticidio?” replicò il ragazzo.
 
Iris stava cercando di rimettere in sesto la piantina sopravvissuta a quello che era appena stata battezzato l’ “uragano Kentina” ma i suoi tentativi si stavano rivelando alquanto fallimentari. Jade, accanto a lei, continuava a farle un antipatico resoconto dell’operato del nuovo arrivato.
“non potevamo avere una palla al piede peggiore” malignò il ragazzo, concludendo soddisfatto la sua arringa.
La rossa, dopo averlo ascoltato con attenzione, scoprì che la propria arrabbiatura stava pian piano scemando. Nonostante quell’aria da duro, Kentin aveva dei modi impacciati che lo rendevano per certi aspetti quasi adorabile:
“è il suo primo giorno. Siamo stati troppo bruschi con lui”
Jade aprì la bocca ma non riuscì a replicare, preso in contropiede da quell’inaspettata difesa
“dov’è ora?” gli chiese la presidentessa, togliendosi i guanti.
“lascia perdere Iris. Meglio che si cerchi un altro club, sono sicuro che lo troverà”
“sono la presidentessa Jade, non posso permettere che uno studente rinunci dopo appena mezz’ora. Io per prima non mi sono comportata bene con lui. Vado a cercarlo, qui pensaci tu”
 
Uscì dalla serra, sorprendendo sé stessa per la propria allegria: quel giorno si comportava in modo strano, passava dalla gioia alla depressione con la rapidità di un battito di ciglia.
Doveva cercare di accantonare la propria insoddisfazione personale perché di certo Kentin non ne era responsabile. Lui non poteva farci nulla se lei si era fatta dei castelli in aria dopo il loro primo incontro. Quando si erano rivisti quella mattina, non doveva sorprenderla il fatto che lui, non solo non l’avesse riconosciuta, ma che pure la ignorasse: non aveva nulla che la portasse a spiccare sulle altre ragazze… lei non era come Rosalya o…
“Erin” pensò tra sé e sé, riconoscendo l’amica in cortile, intenta a ridere con un interlocutore la cui vista era ancora preclusa alla rossa. Iris si avvicinò ma appena riconobbe la figura di Kentin, si arrestò: tra i due c’era una complicità tale che il volto del ragazzo era disteso in un sorriso luminoso.
Una smorfia che lei non sarebbe mai riuscita a strappargli.
Gli angoli delle sue labbra si piegarono verso il basso, schiacciati dal peso di quell’amara verità. Unirsi ai due sarebbe stato assolutamente fuori luogo e inappropriato.
 
“aspetta Erin! Non hai sentito un rumore?” la interruppe Kentin, guardandosi attorno furtivo.
“a che ti riferisci?” replicò la mora, imitandolo.
Il ragazzo si staccò dal muro e cominciò a studiare l’ambiente circostante, avvicinandosi infine alla recinzione metallica che separava i confini dell’istituto da un campo incolto e abbandonato.
I due si misero in ascolto e sentirono dei rumori di terra che veniva smossa e un respiro affannoso. Le fronde di un voluminoso cespuglio cominciarono a muoversi, mosse da un’energia sconosciuta finchè due iridi brillanti fecero capolino tra di esse, provocando un sussulto in Kentin e strappando un’esclamazione spaventata ad Erin.
“m-ma… Demon!” esultò infine lei, riconoscendo in quella massa di pelo che stava prendendo forma, il cane del rosso.
“lo conosci?” la fissò il suo amico, titubante.
“è il cane di Castiel” si entusiasmò la ragazza mentre l’animale, approfittando di una falla nella recinzione, attraversava il confine e si portava dal lato dei due ragazzi.
Erin si accucciò a terra, accarezzandolo con energia, mentre il cane cercava di leccarla, nonostante le sue proteste. Il giorno prima la ragazza si era presentata a casa di Mauro, il vicino che aveva in custodia Demon, con una richiesta singolare: portare a spasso il cane di Castiel.
“quindi sarebbe questo il cane che s’intrufola e manda all’aria il lavoro del club di giardinaggio” commentò Kentin, studiandolo con divertito interesse.
“cattivo Demon” lo rimproverò Erin senza convinzione, ridendo per la gioia di rivedere l’animale. Ora che tra di loro il rapporto era così migliorato, riusciva a capire perché il rosso gli fosse tanto affezionato
“in effetti, ora che ci penso, anche il giorno in cui sono arrivata qui c’era stato un simile episodio: parlavano di un cane che aveva mandato all’aria dei fiori”
“probabilmente questo cucciolone viene a trovare il suo padrone” ridacchiò il ragazzo, accarezzandogli la testa.
Erin guardò il cane, immaginando Castiel che, durante le sue passeggiate fuori dalle lezioni, uscisse a giocare con l’animale. Era incredibile come nessuno si fosse mai accorto di quella presenza, ma come scoprì tempo dopo, quelle visite erano piuttosto sporadiche.
“non possiamo tenerti qui Demon… devi tornare a casa” gli parlò Erin, ma ovviamente il cane non si mosse.
Sentirono un vocio alle loro spalle e, con terrore, si accorsero che l’intera squadra di basket stava uscendo in cortile, per unirsi all’unica giocatrice che era già pronta per la corsa:
“mi si gelano le palle qua fuori!” stava protestando Trevor
“che cazzo di idea è quella di farci correre con la neve?” gli diede man forte Matt, strofinandosi le mani contro gli avambracci per generare un minimo di torpore.
“smettetela di lamentarvi!” li zittì Dajan “hanno spalato via la neve dalla pista”
Appena si accorsero della figura bassa e scura ai piedi di Erin e del nuovo studente, i cestisti esplosero in esclamazioni di stupore:
“e questo mastino da dove salta fuori?” urlò Liam, che era un grande amante dei cani.
“m-ma morde?” balbettò Kim che non condivideva questa passione con il suo compagno di squadra. I ragazzi accerchiarono l’animale, facendogli festa e Demon, che da tre settimane non era più abituato a tutta quell’attenzione, cominciò a scodinzolare allegro.
“che succede? Perché non state correndo?” tuonò Boris, facendo sussultare Erin. L’uomo si fece strada tra i suoi cestisti e appena vide il cane, sgranò gli occhi, cacciando un urlo portentoso.
“posso spiegare!” s’intromise Erin.
“e questo che ci fa qui?” si arrabbiò, indicando Demon.
“è il cane di Castiel. È venuto a cercarlo”
“di Castiel?” ripetè incredulo l’allenatore, grattandosi il mento “ma è possibile? Quel ragazzo riesce a crearmi problemi anche quando non c’è!”
 
“grazie Francis, ci vediamo domani”
La donna dietro alla cassa rispose con un sorriso: Sophia era una delle poche clienti da essere così gentile e solare da chiamarla per nome e salutarla ogni volta che andava a fare la spesa da lei. Le altre persone si limitavano a pagare il conto, senza neanche guardarla in faccia, mentre la rossa, se non c’era coda alla cassa, si intratteneva volentieri a chiacchierare con quella donna che aveva l’aria di una persona molto sola.
La borsa che teneva in mano era carica quasi al punto di rottura, così la ragazza decise di prenderne una seconda per precauzione.
Appena le porte automatiche le liberarono il passaggio, si trovò di fronte una scena alquanto ridicola, ma soprattutto imprevista: Nathaniel stava camminando tenendo aperta davanti a lui la cartina ed era vestito esattamente come poche ore prima, quando si erano salutati dopo che lei gli aveva dato le indicazioni. Il ragazzo aveva un’espressione frustrata e irritata, che gli arrossava quella pelle altrimenti diafana.
 “si può sapere che ci fai ancora qui tu?” esordì, facendolo trasalire per la sorpresa. Si voltò meccanicamente, scoprendo dietro di lui proprio l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare:
“s-sto facendo un giro nei dintorni” mentì, pur di non ammettere quanto fosse pessimo il suo senso dell’orientamento. Chi lo conosceva era convinto che il biondo fosse assolutamente impeccabile in tutto e che fosse praticamente esente da difetti; la verità era che, se c’era una cosa in cui spiccava, era la capacità di nascondere le sue debolezze.
Quando lui e Castiel erano ancora amici infatti, non di rado durante le gite, il biondo si perdeva in città sconosciute, costringendo il rosso a cercarlo nelle vie più improbabili. Diversamente da lui infatti, Castiel sembrava nato con la bussola in mano.
Sophia guardò sospettosa il biondo, finchè un sorriso canzonatorio si dipinse sul suo volto:
“ti sei perso?” lo sfottè.
Il ragazzo non le rispose e tornò a guardare la cartina per nascondere un’espressione corrucciata. Era imbarazzante da ammettere ma, in due ore non era riuscito ad arrivare alla sua destinazione che richiedeva un quarto d’ora a piedi da quando Sophia gli aveva fornito le indicazioni.
La ragazza ridacchiò e accantonò la tentazione di infierire sulla sua povera vittima:
“quindi sono più di due ore che giri a vuoto? Vuoi che ti rispieghi come arrivarci?”
Nathaniel tentennò un po’, ma alla fine, sospirando pesantemente, si arrese:
“sarebbe meglio”
 
Da quando era tornato al club, Iris non gli aveva rivolto una parola e così Kentin si era messo in un angolino a trafficare con il cellulare. Jade si era avvicinato alla presidentessa e le aveva sussurrato:
“vuoi che vado a chiedergli io di cercarsi un altro club? Non ha nessun senso che rimanga qui se deve comportarsi in quel modo”
“no, lascia stare. Il nostro è l’unico club con posti disponibili. Non abbiamo alternative né noi, né lui”
Quella notizia contrariò alquanto il giovane giardiniere che si lasciò sfuggire un verso stizzito.
“eddai Jade, non capisco perché ce l’hai così tanto con lui” lo rabbonì la rossa, appoggiandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo le sorrise dolcemente, lasciando svanire all’istante il suo nervosismo:
“sei tu che sei troppo buona Iris”
Un vaso di plastica venne appoggiato pesantemente sul tavolo davanti ai due studenti, che sollevarono lo sguardo, stupiti da quell’interruzione.
“Amy mi ha detto di metterlo qui” sibilò Kentin, lanciando un’occhiata truce a Jade che a sua volta ricambiò con altrettanta carica nervosa.
“non c’era bisogno di sbatterlo così contro il tavolo” lo rimproverò.
sapessi dove avrei voluto sbattertelo io” pensò tra sé e sé il moro, allontanandosi di pessimo umore.
Iris aveva seguito quello scambio di battute senza fiatare. Quel Kentin era decisamente un ragazza strano.
 
In autobus, dopo l’ennesimo commento a cui Iris non aveva risposto, Erin si spazientì:
“sono le mie battute che fanno proprio pena, o non mi stai minimamente ascoltando oggi?”
La rossa sollevò lo sguardo, realizzando di aver seguito fin troppo distrattamente le parole dell’amica.
“scusami… ero sovrappensiero”
“è tutto il giorno che sei strana Iris… da quando hai visto Kentin, ad essere precisi”
L’amica arrossì e non aggiunse altro, mentre Erin ridacchiava:
“la vuoi sentire una cosa interessante? Mentre ero in cortile con Kim e il resto della squadra, si sono avvicinati a noi alcuni del club di atletica e parlandoci insieme, è venuto fuori che hanno ancora posto per un nuovo studente”
“strano” commentò Iris sorpresa “non è quello che Melody ha detto a Kentin”
“o forse è Ken a non aver detto a noi la verità: scommetto che se chiediamo a Melody, ci dirà che non è vero che il club di giardinaggio era l’unica alternativa”
La rossa fissò perplessa l’amica, poi scosse il capo:
“non dire stupidaggini Erin. Perché mai Kentin avrebbe mentire? E poi lui odia le piante quindi se è finito nel mio club vuole dire che non aveva altre opzioni. Se ce le avesse avute avrebbe optato per il club di basket”
“no, dice che non è portato per gli sport d squadra”
“di certo sarebbe meno impedito di quanto non lo sia con le piante… e comunque ci saresti stata tu. Mi sembra un motivo più che valido”
“farà presto a farsi altri amici, vedrai. Non ha certo un brutto carattere”
“non sto parlando di amicizia Erin” borbottò Iris a disagio. Lasciò andare un sospiro rassegnato e controllò di sbieco l’espressione dell’amica, in piedi davanti a lei.
Quel giorno l’autobus era particolarmente pieno e la mora aveva acconsentito a rimanere aggrappata al sostegno metallico, lasciando il posto a sedere per Iris.
Quest’ultima la vide passare dallo smarrimento, poi alla sorpresa ed infine ad un’ilarità irrefrenabile:
“aspetta! Stai dicendo che secondo te Kentin mi viene dietro?”
“non vedo perché la cosa sia così assurda: c’è un buon feeling tra di voi” si difese Iris, offesa dalla reazione superficiale dell’amica. La mora non si rendeva conto di quanto quella questione le stesse a cuore.
“ma non dire sciocchezze! È il suo primo giorno e, oltre ad essere vicini di banco, ci conoscevamo già da prima. Vedrai che nei prossimi giorni si aprirà un po’ anche con te” le promise, facendole l’occhiolino.
Iris arrossì e abbassò il capo. Non era dell’umore per parlare all’amica di tutto ciò che le frullava per la testa in quel momento. Inoltre, meno di tre minuti e sarebbe arrivata a casa: quell’intervallo di tempo era insufficiente per riepilogare e concentrare tutte le sue insicurezze.
“non hai nulla di cui preoccuparti Iris” mormorò Erin guardando fuori dal finestrino. La rossa notò che gli occhi dell’amica si erano addolciti e il viso celava un tenero imbarazzo “mi sono accorta che ti piace, quindi non proverei mai a mettermi tra di voi… e come se ciò non bastasse, c’è anche il fatto che ho capito che a me piace Castiel” le sussurrò.
“CHE COSA!?!” strillò Iris, facendo sobbalzare tutti. Le mani dell’autista ebbero una sorta di spasmo sul volante, tanto era stato improvviso e acuto l’urlo della passeggera.
Tutti si voltarono verso le due ragazze, chi scrutandole con biasimo, chi con curiosità.
“ma sei impazzita?” le bisbigliò Erin avvampando.
“sei tu che te ne esci con queste confessioni di punto in bianco!” ribattè Iris, sconvolta.
“e come dovevo dirtelo scusa?” mormorò la mora, guardandosi i piedi.
La rossa era la prima a venire a conoscenza di quella verità che aveva richiesto così tanto tempo per essere realizzata da parte della diretta interessata.
“finalmente ci sei arrivata quindi” commentò infine.
“tu l’avevi capito?”
“diciamo che dopo che ti sei lasciata con Nathaniel, lui mi ha spiegato come stavano le cose… ma fino ad allora, ero convinta che per te fosse solo un amico” si giustificò.
Nell’autobus si diffuse il suono della fermata prenotata e le due ragazze constatarono che era arrivato il momento di separarsi.
“senti, ne parliamo un’altra volta, d’accordo?” patteggiò Erin. Iris però aveva ancora il volto pietrificato dallo shock, così l’amica scoppiò a ridere:
“eddai scema, non fare quella faccia! L’hai detto anche tu che Nathaniel-“
“sì, ma non pensavo l’avrei ammesso così candidamente” la interruppe la rossa, il cui tempo a disposizione si stava esaurendo sempre più “ti ci sono voluti mesi prima di parlarci di Sophia, ero convinta che, anche se avessi capito quello che provavi per Castiel, te lo saresti tenuto per te, negando l’evidenza”
“ho promesso a Rosa che tra di noi non ci sarebbero stati più segreti, e sei compresa anche tu nel pacchetto” le spiegò Erin, sorridendole teneramente.
Il giorno del compleanno della sua amica, Iris aveva fatto finta di non vedere i momenti in cui lei si rabbuiava e si isolava dal resto della compagnia. Aveva preferito lasciarle i suoi spazi perché si sentiva incapace di consolarla. La persona che aveva di fronte in quel momento invece sembrava molto più forte e serena. Prima che un’amica, Erin era diventata il suo esempio, la sua fonte di ispirazione per la persona che sarebbe voluta diventare.
Istintivamente, Iris le si avvicinò e le stampò un bacio sulla guancia:
“ti ho mai detto quanto sono felice di essere tua amica?” e con un sorriso dolcissimo, scese dall’autobus, mentre Erin rimaneva alquanto sorpresa da quello slancio di affetto.
 
Erano quasi le sette. Sophia stava rientrando dopo aver trascorso l’ultima ora in un pub con degli amici. Era stata una serata come tante, in cui fingeva di divertirsi per non dover pensare a tutto ciò che le gravava dentro.
Si trovò a chiedersi se Nathaniel fosse riuscito a trovare il campus, anche se era talmente improbabile che non ce l’avesse fatta, che solo in un manga quella situazione poteva verificarsi.
Eppure, quella figura appoggiata stancamente contro il palo sembrava proprio il biondino: stesso giubbotto nero, jeans scoloriti e scarpe da ginnastica verdi.
“non può essere così impedito” mormorò tra sé e sé la ragazza, avvicinandosi tanto divertita quanto perplessa.
Nathaniel riguardò per l’ennesima volta quella maledetta cartina. A forza di aprirla e ripiegarla, i lembi erano consunti, in alcuni punti si era addirittura strappata.
Quella città era un labirinto e le indicazioni dei passanti poco chiare. Il cellulare era morto da un pezzo, dopo aver resistito ore con il navigatore acceso. Doveva presentarsi al Campus verso mezzogiorno, invece erano le sette di sera.
Quello era decisamente il suo record: in passato si era già perso altre volte, ma mai per più di due ore.
Si ricordò di quella volta in gita al parco naturalistico in cui si era staccato dal gruppo, per inseguire una lepre. Gli era bastato allontanarsi di pochi passi per perdersi completamente nella foresta. All’epoca era solo un bambino delle elementari, trasferitosi da appena un paio di giorni dalla fredda Svezia e non era riuscito a calamitare l’interesse di nessuno dei suoi compagni.
Stava ormai per disperarsi, quando sentì la vocina del bambino che il giorno prima aveva protestato con la cuoca della scuola per una porzione troppo piccola di pizza. I capelli neri di Castiel erano sempre stati un po’ lunghetti, ricordando la pettinatura del personaggio di Benji, del suo cartone animato preferito. Era un bambino vivace e rumoroso, incontrollabile per le maestre e un pieno di energia per i suoi amici.
“perché corri dietro ai conigli? Sei stupido per caso?”
Nessuno dei due bambini poteva immaginare che quella semplice e per nulla gratificante frase avrebbe segnato l’inizio di una grande amicizia.
“lo stupido sarai tu”  lo aveva rimbeccato Nathaniel offeso, cercando di non dare a vedere quanto si fosse agitato “era una lepre”
Castiel aveva corrucciato la fronte e replicato stizzito:
“se sei tanto intelligente, arrangiati da solo a tornare dagli altri”
Nathaniel sorrise, accantonando quel ricordo.
Quand’era partito, sapeva che l’amico non aveva dato notizie a nessuno della sua permanenza in Germania. Lo conosceva fin troppo bene per capire cosa gli passasse per la testa: Castiel stava cercando di tagliare i ponti con Morristown e con l’unica persona che poteva prendere il posto di Debrah.
Con il senno di poi, il biondo rimpianse di essersi fatto avanti con Erin: aveva sempre avuto il dubbio che anche l’amico fosse interessato alla ragazza, ma aveva agito da egoista, pensando solo a sé stesso, cercando di convincersi che i suoi sospetti fossero infondati.
Ora Erin era un capitolo chiuso, ma non era troppo tardi per rimediare: appena avrebbe avuto sottomano un computer, avrebbe scritto all’amico, annunciandogli che non stavano più insieme.
“non ci posso credere!”
Nathaniel sobbalzò e alzò lo sguardo verso quel viso che ormai era fin troppo familiare:
“ma sei peggio di Ryoga!” lo schernì Sophia.
“e chi è?”
“lasciamo perdere. Possibile che tu sia così… idiota? Pensavo che ad Erin piacessero quelli un po’ svegli” commentò candidamente la ragazza, affondando le mani nel cappotto.
Nathaniel sospirò contrariato, riponendo via la cartina, come se fosse l’arma di un delitto:
“mi sei venuta incontro solo per mettere il coltello nella piaga?”
“mica sono così stronza principino” lo rimproverò Sophia, con un sorriso malefico “ero venuta ad offrirle il mio aiuto, accompagnandola personalmente alla sua meta ma a quanto pare non si merita i miei servigi” concluse girando i tacchi soddisfatta.
“aspetta!” la richiamò il ragazzo, guardando le spalle di Sophia e finalmente si accorse cosa c’era in lei che tanto lo aveva colpito: certi atteggiamenti della ragazza, specie quei toni un po’ arroganti, le ricordavano quelli di Castiel.
“accetto la tua offerta. Sono anche disposto a pagarti” le disse, raggiungendola. La rossa scoppiò a ridere e lo tranquillizzò, dicendogli che per quella sera il servizio era gratis.
 
“e così tu e mia sorella ora non state più insieme?” indagò Sophia, intrecciando le dita dietro la schiena.
“da un paio di settimane ormai” calcolò il biondo.
Camminavano per le vie della città, illuminata da insegne al neon e dalle luci dei ristoranti.
“sei stato tu a lasciarla?”
Il ragazzo annuì mentre sul volto della sua interlocutrice si disegnava una smorfia di disapprovazione:
“sei un idiota allora. Non troverai mai una ragazza come mia sorella”
“lo so, ma non avevo altra scelta. Lei è innamorata di un altro e anche io, a quanto pare, non riesco a dimenticarmi di una ragazza”
Sophia lo studiò con interesse, mentre Nathaniel la scrutava con la coda dell’occhio. Rimasero un po’ in silenzio, finchè il ragazzo sbottò:
“vuoi chiedermi qualcosa?”
“e di che?”
“di quello che ti ho appena detto” specifico, sorpreso dal suo totale disinteresse.
“del fatto che tu e Erin siete innamorati di altre due persone? Sono fatti vostri, io che c’entro?”
Nathaniel rimase talmente basito, che smise di camminare. Sophia se ne accorse solo quando l’aveva distanziato di cinque passi.
“che ti prende ora?” lo destò “guarda che io non sono mica un’impicciona come mia sorella! Se vuoi parlarmene ti ascolto, ma se pensi invece che verrò a supplicarti di raccontarmi delle tue pene d’amore, hai sbagliato persona”
Decisamente non assomigliava alla sorella.
Nathaniel ricordò che alla base del loro primo litigio c’era stata proprio la curiosità e l’insistenza con cui Erin cercava di fargli raccontare cosa fosse realmente accaduto con Debrah.
Sophia invece era quel tipo di persona che rispettava gli spazi altrui, con una tale tranquillità che sembrava non le importasse minimamente di chi aveva accanto.
Il ragazzo affrettò la camminata e si riportò accanto alla rossa.
“sei molto diversa da tua sorella” commentò stranito.
“non sai quanto” ridacchiò l’altra, sorridendo amaramente, senza approfondire cosa si celasse realmente dietro quella semplice battuta.
Inoltre le mancava molto la gemella ma il suo orgoglio le impediva di concedersi una simile ammissione.
“lei come sta?”
“bene… ma tu non la senti mai?”
“la chiamo qualche volta da quando sono qui”
“sei stata un mistero per tutti questi mesi. Ancora oggi non capisco perché Erin non mi abbia parlato di te”
“si vergognava troppo di avere una sorella del genere” scherzò l’altra, calciando un malcapitato sassolino.
“conoscendo la mia di sorella, di certo non era questo il suo problema” commentò il ragazzo, pensando a come si comportava Ambra fino ad un mese prima.
“hai una sorella?”
“sì, l’hai anche conosciuta” ammise divertito il ragazzo “è Ambra”
Questa volta toccò a Sophia bloccarsi, con la mascella ridicolosamente spalancata:
“tu sei il fratello di Ambra?” e dopo aver ottenuto un cenno di approvazione, la ragazza sbottò:
“prova ad azzardarti di parlare male di lei in mia presenza, e ti gonfio di botte!” lo minacciò, parandosi davanti a lui e portandosi in un’assurda posizione di attacco.
“credo che tu sia la prima persona che sento prendere le sue difese”
“se il resto del mondo è così idiota da non accorgersi quanto vale quella ragazza, non spetta certo a me abbassarmi alla stupidità generale” sentenziò Sophia, tornando a camminare indispettita “comunque siamo arrivati alla tua nuova reggia Lowell”
“la smetti di darmi soprannomi di gente che neanche conosco?”
“era un personaggio di Georgie… non l’hai mai visto questo anime?”
“ho presente il cartone ma… ti sembro uno che guardava quel genere di anime?”
“non si sa mai. Potresti sempre aveva qualche lato nascosto, magari inquietante e insospettabile”
Nathaniel ignorò quella ragazza che si divertiva a farsi beffe di lui e ammirò la costruzione che lo fronteggiava.
L’edificio era costituito da mattoni rossi, secondo un’architettura che ricordava le antiche chiese romaniche che aveva ammirato nell’ultimo viaggio in Italia con la sua famiglia. Nonostante fosse ora di cena, c’era un certo via vai nel viale, contornato da un giardino le cui piante erano favorite dal mite clima californiano.
“beh, grazie. Non fosse per te sarei ancora per strada” sospirò, sollevato di essere finalmente arrivato a destinazione.
“pensa che comiche se fosse la sede sbagliata!” replicò Sophia divertita. I due scoppiarono a ridere, poi però Nathaniel si fece serio all’istante e, tradendo una palpabile ansia, domandò.
“l’altra sede è tanto lontana da qui?”
La nota apprensiva della sua voce suscitò nuovamente l’ilarità della ragazza.
“ma insomma, un perfettino come te non sa neanche dove dovrà alloggiare?”
“avevo guardato la via: dovrebbe essere la Lyon”
“allora è questa la tua sede, sta tranquillo. Per oggi finisce qui la puntata, Dora
Il biondo la guardò interrogativo, così la rossa sollevò gli occhi al cielo:
“Dora l’esploratrice! Ma non l’hai mai sentita nominare? Il fatto che tu non capisca i mie riferimenti mi fa proprio sentire patetica e sfigata”
“non sei un po’ grandicella per guardare i cartoni?” obiettò Nathaniel.
“non ho detto che guardo Dora… ho detto che so chi è” si difese la ragazza, borbottando infastidita “allora, intendi entrare, o salti anche la cena?”
“si adesso vado… ma per te non è un problema tornare a casa da sola?” si preoccupò il ragazzo, osservando il cielo nero.
“di certo non posso chiedere a te di accompagnarmi” lo punzecchiò “finiresti per vagabondare tutta la notte per la città”
Nathaniel non aveva modo per replicare, così scrollò le spalle e le rivolse uno dei sorrisi più gentili che lei avesse mai incrociato:
“grazie ancora. Buonanotte Sophia”
“’notte” farfugliò lei “e cerca di non perderti per i corridoi del campus”
 
Il giorno seguente, tre ragazze erano impegnate a confabulare in bagno, finchè da una di esse, si sprigionò un’esclamazione esagerata:
“L’HAI SENTITA ANCHE TU?”
Rosalya si era voltata euforica verso Iris, che sorrideva divertita.
“L’HA DETTO! SIAMO TESTIMONI!”
“non urlare! Ci sentono tutti!” la rimproverò Erin, guardandosi attorno circospetta. In bagno c’erano solo altre due ragazze, ma non sembravano prestare attenzione al trio.
“oddio, come sono contenta! La mia bambina sta crescendo!” gongolò la stilista, saltellando sul posto “ti prego, ripetilo!”
“eh? Ma ti si è liquefatto il cervello? L’ho detto una volta, è più che sufficiente”
“invece no! Devi ripeterlo, così poi trovi il coraggio di dirlo anche a lui”
“scordatelo! Manco si fa vivo, figurati se vado a rovinare quel poco che potrebbe essere rimasto della nostra amicizia”
“ma sono sicura che lui ricambia!” sbottò Iris.
Erin scoppiò in una risata tale, anche quando uscirono dal bagno, le sue mascelle le dolevano per quanto aveva riso.
 
Quel sabato pomeriggio Iris si era recata a casa di Erin. La prima settimana dal rientro delle vacanze si era conclusa con l’inserimento ufficiale di Kentin, al loro gruppo di amici.
Nel club di giardinaggio, lui e Iris interagivano lo stretto indispensabile e la ragazza era costretta ad intervenire quando la scarsa manualità del moro comprometteva gli sforzi di tutti gli altri membri. Tra i due c’era una strana tensione, che invece il ragazzo non aveva con il resto dei suoi nuovi amici. Parlava addirittura in modo più spontaneo con Violet, ma con la rossa, l’interazione era molto più complicata e intermittente.
Quanto ad Erin, Boris aveva chiesto a Dajan di assumersi la responsabilità di allenare anche lei e, dall’occhiata malefica che il capitano le aveva lanciato, la cestista non riuscì a capire se era un preludio di quanto l’avrebbe fatta sgobbare, oppure un avvertimento di quanto il suo essere da terzo incomodo tra lui e Kim, fosse sgradito. Quest’ultima invece, si era dimostrata entusiasta di avere la compagna di squadra con lei, proponendo anche a Trevor di unirsi a loro, in modo da cominciare ad esercitarsi sugli schemi di gioco.
“Dajan è un mostro!” si lamentò Erin reclinando la testa all’indietro.
“infatti ti vedo particolarmente distrutta” ridacchiò Iris, mentre passava in rassegna una serie di siti internet. La settimana successiva, le due studentesse avrebbero dovuto affrontare un compito di matematica, materia particolarmente odiata da entrambe. Poiché non riuscivano a risolvere i quesiti, avevano pensato di unire le loro menti e, con l’ausilio di internet, cercare qualche esercizio svolto.
“e sapessi quante parole mi ha detto!” protestò Erin e, cercando di imitare la voce di Dajan, riportò “ma insomma Erin! Si può sapere cosa avete fatto tu e Castiel tutto questo tempo? Giocato a carte?”
Iris sorrise, mentre Erin sbuffava infastidita.
“sai Erin” le disse d’un tratto, mentre tamburellava a caso i tasti del pc “sono felice di vedere che ti sei abituata all’assenza di Castiel. Ti ho sempre vista allegra ultimamente… possibile però che non ti manchi?”
“ogni giorno” replicò secca, con un sorriso amaro “ma non posso scrivergli ancora… l’ho già fatto martedì, dopo che Rosalya mi ha obbligato e ancora non mi risponde. Se continuassi ad insistere, accentuerei la consapevolezza che non gliene frega un tubo di me”
“se gli avessi scritto quello che ti ha detto di dirgli Rosa, sta pur certa che ti avrebbe risposto”
“ma figurati se avrei fatto una cosa del genere”
“ti aveva anche preparato la mail” ridacchiò la rossa, cancellando l’ennesima equazione non risolta.
“beh, secondo me avrebbe riconosciuto lo stile di Rosalya e avrebbe pensato ad uno scherzo”
“me la rileggi? Era troppo forte” la spronò Iris, che di concentrarsi sulla matematica non ne aveva nessuna intenzione.
Erin sorrise e aprì la casella di posta, ricercando la mail dell’amica:
“ehi Castiel, anche se sei così idiota da non rispondere ai miei messaggi, c’è una cosa che devo dirti… in realtà manco io capisco come sia possibile una cosa del genere visto che hai la capacità cerebrale di un piccione, ma sta di fatto che mi piaci”
“la confessione più dolce e romantica della storia” sghignazzò Iris.
“ti pare che gli avrei mandato una cosa del genere? E comunque, a prescindere dalla forma, come vi ho già detto martedì, nessun’altro deve sapere di questa cosa, lui in primis… chiaro?”
La rossa sollevò le spalle:
“lo sai come la pensiamo Erin, ma non possiamo neanche obbligarti a fare ciò che non vuoi. È la tua vita, te la devi gestire tu”
“grazie” concluse la ragazza sollevata “senti, visto che qui non riusciamo a carburare” disse, indicando il quaderno “che ne dici di uno spuntino? Vado a prendere le patatine”
“ok grazie” sorrise l’amica, mentre la mora si alzava.
Iris nel frattempo, tentò per l’ultima volta di cimentarsi con le derivate. Almeno un’espressione doveva risolverla, era una questione personale: non poteva essere così stupida da non riuscire a spuntarla.
Non pretendeva di essere un geniaccio come Kentin, ma almeno di portarsi a dei voti migliori di quelli che aveva collezionato fino a quel momento. Sbuffò infastidita: era tutta la settimana che cerca di non pensare a lui, eppure più si imponeva di non farlo e più il ragazzo le veniva in mente.
Tornò a picchiettare le dita sui tasti del pc, strano vizio che si manifestava in lei quando era particolarmente nervosa.
Improvvisamente, sentì una sorta di tu-tu e, prima che potesse avere il tempo di alzare lo sguardo sullo schermo, aveva premuto Invio.
Sullo schermo vide apparire un ragazzo con un berretto di pile in testa e un’inconfondibile espressione.
Non poteva sbagliarsi.
Solo una persona aveva quegli occhi così scuri e penetranti e quell’espressione eternamente corrucciata:
“C-Castiel” borbottò sbattendo le ciglia più volte e avvicinandosi allo schermo, incapace di credere a quanto stava vedendo.
Il ragazzo sgranò gli occhi, alternando sul suo viso già arrossato, un turbine di sentimenti che andavano dallo stupore al disorientamento.
Sembrava particolarmente agitato, al punto da balbettare confuso:
“I-Iris?” ma prima che potesse aggiungere altro, un secondo ragazzo si frappose, allontanando in malo modo la faccia del compositiore dallo schermo:
“ALLORA? E’ lei Erin?” urlò eccitato all’orecchio del ragazzo.
La diretta interessata, accorse in quel momento, incuriosita dalle voci che aveva sentito provenire in salotto. I due ragazzi videro il volto di Iris sollevarsi e la sentirono rispondere meccanicamente:
“non immaginerai mai chi c’è qui”
Erin aggirò il tavolo, incapace di comprendere perché l’amica fosse così sconvolta.
Non fece neanche a tempo ad accomodarsi davanti alla webcam che già l’aveva riconosciuto; anche se la qualità del video non era delle migliori, l’illuminazione della stanza non era ottimale e non poteva vedere la caratteristica chioma rosso fuoco, non aveva dubbi su chi ci fosse dall’altra parte dello schermo.
“Castiel…” mormorò incredula.
“allora? È lei Erin?” tornò a ripetere il secondo ragazzo, indicando questa volta la mora. Aveva i capelli rasati e un paio di piercing sul sopracciglio destro, oltre che alcuni anche sui lobi delle orecchie e sotto il labbro inferiore. Portava un dilatatore sull’orecchio sinistro e non sembrava molto alto di statura. Aveva un sorriso contagioso ed esagerato, con dei canini un po’ accentuati.
“deve essere la mora!” s’intromise una terza voce maschile.
Le due amiche videro avvicinarsi uno dei ragazzi più belli della loro vita: aveva dei capelli biondi, pettinati in modo non convenzionale e con ciuffi direzionati in modo da lasciar vedere le meravigliose iridi, che nonostante la qualità del video, si intuivano essere verdi, con delle strane sfumature sul giallo. Era vestito in modo molto casual, con una semplice tuta da ginnastica, ma la sua mise non bastava a penalizzare la sua bellezza. Il suo sorriso, diversamente da quello dell’altro sconosciuto, era ammaliante e carismatico e le due ragazze arrossirono talmente tanto che i tre ragazzi se ne accorsero.
“levatevi dalle palle idioti!” li cacciò Castiel in malo modo, ma i due sorrisero beffardi.
Il primo che aveva fatto la sua comparsa, si allungò sopra la schiena del rosso, piegandolo con il proprio peso e costringendolo a sbattere la fronte contro la tastiera:
“piacere di conoscervi ragazze! Io-sono-Chester!” urlò scandendo le parole e avvicinandosi talmente tanto alla webcam che le due ragazze potevano vedergli solo la punta del naso:
“idiota, guarda che ti sentono e poi parlano la nostra lingua, che Castiel scandisci le parole?” lo rimproverò l’altro ragazzo, rimasto senza nome.
Mentre il rosso si dimenava nel tentativo di scrollarsi Chester di dosso, nel campo visivo delle ragazze, comparve una quarta figura molto alta e con gli occhiali.
“con chi state parlando?” chiese.
Il nuovo ragazzo aveva un’espressione molto seria e sembrava avere poco meno di trent’anni.
“è la ragazza di Castiel” rispose il ragazzo biondo con candore.
“non è la mia ragazza!” sbottò il rosso, inviperito, riuscendo finalmente a scrollarsi di dosso Chester, che volò sul pavimento.
“quella di cui parlava sempre nel sonno quando è arrivato qui?” indagò il nuovo arrivato con curiosità, accomodandosi gli occhiali sul naso, mentre Erin ed Iris si guardarono confuse perché non erano riuscite a sentire cosa avesse detto.
Videro il biondino annuire e avvicinarsi alla webcam mentre il compositore cercava di ricomporsi.
“piacere, sono Ace”
Le due amiche avevano assistito a quello scambio di battute, senza battere ciglio. Erano spaesate da quel trio che non lasciava il tempo al loro amico di interagire con loro.
Ace si voltò verso l’unico che non aveva ancora rivelato il suo nome e lo schernì:
“Damien, ti presenti o fai sempre il solito coglione?”
“a differenza vostra, sto lasciando al nostro piccolo Mozart il suo spazio” replicò Damien, con le braccia incrociate al petto.
“grazie” replicò Castiel stizzito ma non fece in tempo ad aggiungere altro che Chester si intromise:
“vi dispiace ragazze se restiamo qui?”
“ma quanto morti di figa siete? Non avete le prove adesso?” sbottò Castiel esasperato, urlando quasi in faccia al suo amico.
“c’è Jun che fa il palo, tranquillo brother” lo informò Ace battendogli una mano sulla spalla e senza staccare lo sguardo dal monitor.
Chester nel frattempo aveva approfittato della distrazione di Castiel per rimediare una sedia e trovare posto accanto a lui. Era un personaggio alquanto buffo poiché, nonostante l’aria da duro, aveva degli occhioni enormi, che sembrano luccicare per la fibrillazione di parlare con le due ragazze dall’altra parte del mondo.
“Jun il palo? Avrà preso sonno in piedi!” protestò Castiel.
Aveva appena pronunciato quelle parole, che si sentì un rumore di fondo e i quattro ragazzi si voltarono in sincrono. Erin e Iris non potevano vedere cosa avesse attratto la loro attenzione, finchè sentirono Ace sbottare:
“e tu che ci fai qui? Non dovevi essere in saletta?”
Avanzò un ragazzo dai lunghi capelli scuri, tali da nascondergli metà viso. Aveva un’aria terribilmente apatica e sembrava quasi sonnambulo, tanto che sbattè addosso a Ace, senza fare una piega.
“vieni qua Jun-chan, ci sono le amiche di Castiel!” lo chiamò Chester, tutto eccitato e procurandogli una sedia accanto a lui, cominciando a battere ritmicamente il palmo della mano su di essa.
Le due ragazze notarono subito i tratti orientali del nuovo ragazzo che, non appena si accorse di loro, si inchinò educatamente.
“sei giapponese?” chiese Erin sorpresa, riuscendo finalmente a trovare lo spazio per parlare anche lei. Il ragazzo sorrise leggermente ma non replicò, così toccò a Chester rispondere per lui:
“Jun-chan non parla quasi mai, comunque no, è tutto made in China
“tutto un corno, sua madre è canadese” lo corresse Damien.
Chester si voltò sconvolto verso il cinese e, con un’espressione tradita e offesa, lo rimproverò:
“e non me l’hai mai detto? Allora sei un cinese tarocco Jun-chan!”
Erin ed Iris si stavano sforzando di non ridere.
Quella situazione stava prendendo una piega sempre più assurda.
Jun scrollò le spalle ma anche se non interagiva con il resto dei presenti, sembrava a perfetto agio, seduto accanto a Chester, che a sua volta era spalla a spalla contro un sempre più furente Castiel.
Ace si sporse ancora di più verso lo schermo, gravando sulla schiena del compositore, mentre Damien cercava di occupare l’ultima zona rimasta libera del campo visivo della webcam.
Erano settimane che non lo vedeva e, berretto a parte, il rosso non era cambiato affatto: Erin non riusciva a smettere di sorridere e non tanto per la vivacità dei suoi nuovi amici, quanto per l’effetto che la vista di quel ragazzo suscitava in lei. Proprio perché la sua attenzione era tutta concentrata su di lui, notò chiaramente che l’irritazione del rosso stava raggiungendo livelli comici e l’avrebbe fatto esplodere da un momento all’altro.
Il compositore infatti, si voltò di scatto verso i ragazzi e sbottò esasperato:
“SI PUÒ SAPERE CHI CAZZO VI HA DETTO CHE POTEVATE RESTARE!?”
Chester mise il broncio e si difese.
“uffa Cas quanto rompi i coglioni! Stiamo solo facendo conversation
“voi siete i…Tenia giusto?”
I quattro ragazzi tornarono a prestare attenzione alle due ragazze sullo schermo, constatando che a parlare era stata Iris.
“esattamente” confermò Ace facendole un occhiolino ammiccante che ammaliò entrambe.
Castiel sbuffò grattandosi la testa ma il berretto che teneva sul capo rendeva difficoltosa quell’operazione:
“perché hai il berretto?” indagò Erin.
Il rosso sviò lo sguardo della ragazza, mentre Chester e Ace cominciarono a sghignazzare.
“non vuole farsi vedere con il nuovo look” mormorò beffardo Damien, verso il quale il rosso si voltò, furente:
“ti ci metti anche tu adesso?”
“suvvia Cassy, non fare la preziosa” lo schernì Ace “del resto hai un pelato accanto a te, i tuoi capelli a confronto sembrano lunghi”
“non sono pelato!” sbottò Chester irritato “sono rasati”
Jun non partecipava minimamente a quello scambio di battute, ma rimaneva in silenzio ad osservare le ragazze, con un leggero sorriso stampato sulle labbra.
“ti sei tagliato i capelli?” chiesero quasi in coro le due ragazze, costringendo la band a prestare loro attenzione.
“e vedessi che bell’ometto che è adesso” commentò Chester schioccando la lingua.
Gli arrivò una sberla talmente fissa sul collo che per i successivi cinque minuti sparì sotto il tavolo.
“infatti non ho mai capito perché ti ostinassi a tenere quel colore assurdo… mi vergognavo a farmi vedere in giro con te… tu Erin gliel’hai mai detto che lo cambiasse? Magari a te avrebbe dato retta” interagì Ace.
Castiel stava per esplodere, avventandosi anche sul biondo quando Erin un po’ in difficoltà, commentò:
“non è uno che dà retta facilmente alla gente”
“che non lo so? Appena gli fai un appunto ti morde”
“come sta Demon?” lo interruppe Castiel, sperando di sviare l’argomento.
“bene, ma io voglio vedere il nuovo look” lo stuzzicò Erin impaziente, anche se avrebbe voluto sapere il perché di quella domanda.
“non esist-“ e prima che il rosso facesse in tempo a completare la frase, Ace gli strappò il berretto.
Non c’era più traccia della fulgida chioma rossa: al loro posto, si presentavano dei corti capelli neri. Il contrasto con l’immagine precedente dell’amico era talmente forte che le due ragazze scoppiarono in una risata fragorosa.
“sembri uno studentello delle medie Cas” lo derise Iris, incapace di trattenersi. Quel commentò eccitò Chester in particolare che esclamò:
“qua la mano bella, dammi il cinque” e avvicinò il palmo alla webcam. La rossa assecondò divertita quel gesto, nascondendo per un attimo la webcam con il palmo della sua mano, mentre Castiel tornava a nascondere il suo nuovo look.
Erin dal canto suo, pensò che, se l’amico avesse lasciato crescere un po’ i capelli con il loro colore naturale, sarebbe stato persino più affascinante di Ace, ma di certo non poteva ammettere una cosa del genere in quel momento.
“perché non racconti ad Erin come mai ti trovi con questo bel look?” lo schernì Chester.
“c’è un motivo particolare?”
“oh sì, una scommessa che Castiel ha perso miseramente” ridacchiò Ace.
“diciamo che è stato sfortunato… credo che la sfiga sia insita nella tua natura Cas” osservò Damien.
“che scommessa?” insistette Erin, sempre più curiosa.
La band guardò il loro compositore con un sorriso idiota e quest’ultimo, avvampando borbottò:
“lascia perdere, comunque appena ricresceranno, li farò tornare rossi”
“in effetti ti crescono ad una velocità che ha dell’incredibile” osservò Damien “Chester te li aveva rapati a zero settimane fa e sono già abbastanza lunghi”
“quanto è che sono lunghi adesso?” indagò Jun, parlando per la prima volta mentre gli altri, eccetto Castiel scoppiavano a ridere. Aveva una voce molto bassa e silenziosa oltre che sorprendentemente grave nella timbrica.
Gli amici scoppiarono in una risata goliardica che li portò alle lacrime mentre le ragazze non riuscivano a capire la causa di tutta quella vivacità. Evidentemente doveva essere accaduto un episodio di cui loro non erano a conoscenza.
Sommerso dalle prese in giro dei suoi compagni, Castiel commentò scocciato:
“Erin ci sentiamo un’altra volta”
“no, ti prego!” replicò ansiosamente, sentendo il cuore andarle in gola.
Non era quasi riuscita a parlare con lui, non poteva lasciarlo andare così.
Per la prima volta da quando era iniziata quella videochiamata, calò uno strano silenzio e la mora, cercò di rimediare all’imbarazzo che aveva creato. I Tenia la guardavano perplessi, mentre Iris, consapevole dei sentimenti dell’amica, teneva lo sguardo fisso sulla tastiera:
“v-volevo dire, sono simpatici i tuoi amici. Mi fa piacere conoscerli” mediò la mora, gesticolando nervosamente con le dita.
“il piacere è nostro Erin. Speriamo di conoscerci a giugno quando torneremo in America” replicò con solarità Ace, ripristinando l’allegria generale.
“lì le cose come vanno? Obama ha fatto qualche riforma?” intervenne Chester mentre il resto dei ragazzi rimaneva basito.
“ma che domanda del cazzo è questa?” sbottò Damien irritato per la stupidità dell’amico.
“ma come? Dici sempre che devo apparire più intelligente!” protestò Chester.
“così confermi solo quanto sei scemo… e se proprio ti interessa, leggiti le notizie in internet”
“il tempo?” s’intromise Ace.
“ragazzi vabbè che la connessione qui fa schifo però non siamo isolati dal mondo” sospirò Damien alzando gli occhi al cielo.
“avete problemi con la rete? Ma non siete a Berlino?” indagò Iris.
“nì… siamo a non so quanti chilometri da Berlino, in una paesello sperduto in mezzo alle montagne” chiarì Ace “e da domani sarà anche peggio”
“è domani che andiamo ad Hogwarts?” esclamò sconcertato Chester, apprendendo quella notizia per la prima volta.
“Hogwarts?” ripeterono in coro le due amiche.
“sì, è un posto che abbiamo battezzato così perché ricorda vagamente il castello di Harry Potter” illustrò Chester con saccenteria.
“la somiglianza l’hai vista solo tu Ces” puntualizzò Jun, intervenendo per la seconda volta.
“INSOMMA! SONO QUINDICI MINUTI CHE VI ASPETTO IN SALETTA! CHE STATE COMBINANDO QUI?”
I cinque ragazzi trasalirono all’istante, voltandosi in un’unica direzione.
Sul monitor comparve una ragazza dai lunghi capelli rosa ondulati, che sembrava uscita da un anime giapponese. Nonostante la bassa statura, aveva una voce autoritaria e sicura:
“eddai! Non ti scaldare Bree” la rabbonì Ace, con uno dei suoi sorrisi spiazzanti “stiamo chiacchierando con la ragazza di Castiel che non vede da più di tre settimane!”
“infatti Mozart può chiacchierare quanto vuole, il suo lavoro oggi l’ha fatto… siete voi che siete degli scansafatiche! Avanti.. marsch!” ordinò inviperita, portandosi le mani sui fianchi.
Chester e Jun si alzarono rassegnati dalla loro postazione, mentre Damien ed Ace si allontanarono dallo schermo. A malincuore salutarono le due ragazze: Ace uscì di scena lanciando loro un bacio con la mano, Damien e Jun fecero un cenno con il capo mentre Chester si sbracciò.
Mentre la porta si chiudeva, anche se Erin ed Iris non potevano sentire, Bree borbottava maliziosa:
“allora, è carina questa Erin?”
Nella stanza era rimasto solo Castiel e il silenzio che si era impadronito della stanza sembrava quasi irreale.
“così sono quelli i Tenia… sono…” tentennò Erin.
“degli idioti” completò l’ex rosso.
“sono fuori di testa, ma sono simpatici” convenne Iris divertita.
“presi singolarmente. Li metti insieme e sono devastanti”
“ma vedo che ti sei integrato bene Mozart… carino il tuo nuovo soprannome” lo sfottè Erin, mentre Castiel replicava con un verso stizzito.
Iris alternò lo sguardo tra i due e, con un sorriso rassegnato, si alzò dal suo posto.
“scusami Castiel, ma devo fare una telefonata… è stato bello rivederti, magari cerca di non far passare altre tre settimane senza farti vivo”
Il ragazzo scrollò le spalle e un ghigno poco convinto gli tese il viso. Erin ringraziò l’amica per la sua premura e non appena questa lasciò la stanza, spostandosi in cucina, tornò a guardarlo.
Ora che finalmente erano rimasti soli, senza distrazioni, potè concentrarsi su di loro.
Le era mancato più di quanto ne avesse la reale consapevolezza. Quell’ultima settimana le sembrava di aver imparato a stare senza di lui ma ecco che compariva, smentendo ogni sua più ottimistica convinzione.
Sentiva di avere gli occhi inumiditi dall’eccitazione e dalla gioia di rivederlo e sperò che lui non potesse accorgersi dell’effetto che suscitava in lei. C’erano troppe cose che doveva chiedergli e cercò di dare loro un ordine di priorità, partendo dalla domanda più pressante:
“perché ti sei fatto vivo solo ora? Ti avevo scritto in un paio di occasioni”
Aveva un tono neutro, quasi disinteressato, ma in realtà cercava disperatamente di non dare a vedere quanto fosse ferita.
“lo so. Ma qui la connessione fa davvero pena, cioè è da poco che ci siamo spostati qui dove qualcosa prend-“
“Castiel, siamo nel ventunesimo secolo” lo interruppe la mora “se avessi voluto rispondermi l’avresti fatto, ti bastava andare in un internet cafè o qualcosa del genere. E poi vuoi farmi credere che vi isolano per sei mesi dalle vostre famiglie? Senza la possibilità di contatto? Sei finito in un gulag russo?”
Castiel ridacchiò nervosamente, ma l’amica non sembrava intenzionata a lasciar cadere l’argomento:
“se ti dà fastidio che ti scriva, non lo faccio più, ma devi dirmelo”
Si pentì all’istante delle sue parole, temendo di essersi data la zappa sui piedi. Castiel non le rispondeva, sembrava concentrato a pensare ad altro, ma lei non demorse. Doveva recuperare in qualche modo quella proposta infelice, così optò per una sincera constatazione:
“però sai… non riesco neanche ad arrabbiarmi con te… mi fa troppo piacere rivederti”
Il ragazzo si morse il labbro e staccò gli occhi dallo schermo, guardando un punto indefinito della stanza in cui si trovava.
Erin non poteva notare l’impercettibile rossore che gli aveva tinto le guance, così ipotizzò che ormai l’amico fosse totalmente disinteressato a lei, confermando una volta per tutte, i suoi sospetti più pessimisti.
“non mi aspetto che tu dica che per te sia lo stesso, ma almeno mi vuoi dire perché ti sei deciso solo ora a farti vivo?”
“diciamo che è stato un caso” replicò vago.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Non aveva nessun senso portare avanti quella conversazione: lui non voleva parlare con lei, mentre lei avrebbe passato anche ore davanti a quel pc, anche se gli occhi avessero cominciato a lacrimarle o la testa a dolerle.
“quindi vuoi che chiudiamo qui la videochiamata?” mormorò mestamente, con un’irrefrenabile amarezza.
“no” la fermò il ragazzo, con convinzione “sono contento di vederti Erin”
La ragazza sentì una gioia commovente scorrerle nelle vene, iniettata con troppa rapidità perché potesse metabolizzarla.
“anch’io” replicò con un sorriso dolce, mettendo più enfasi di quella che avrebbe voluto in quell’ammissione che le aveva sciolto il cuore.
Castiel sorrise, cercando di stemperare tutta la tensione che sentiva addosso. Non sarebbe mai riuscito a dirle cosa stava provando in quel momento.
“allora la Germania? Com’è?” esclamò Erin, sgambettando sotto il tavolo.
“è una figata di posto. Non mi dispiacerebbe viverci, se non fosse per la lingua: il tedesco fa proprio schifo”
“e il lavoro come procede?”
“bene, da quando sono qui mi sono buttato anima e corpo sulla musica”
“e i Tenia? Come gruppo intendo… come sono?” lo martellò Erin.
“diciamo che sono tanto idioti come persone, quanto fenomenali sul palco”
“non mi sembrano così idioti Castiel, anzi. E poi insieme a loro mi sembri quasi… felice”
Il ragazzo si zittì, arrossendo leggermente. Non voleva ammettere che Erin ci avesse preso in pieno. Continuava a criticare quel quartetto solo per non ammettere quanto si sentisse bene in loro compagnia.
“Mauro mi ha detto che hai portato a spasso Demon la settimana scorsa” esordì d’un tratto.
“quindi le telefonate al tuo vicino le fai, mentre ai tuoi amici no?” lo stuzzicò indispettita, capendo il senso della domanda che le aveva rivolto poco prima: era stato Mauro a dire a Castiel del nuovo rapporto tra lei e il suo cane.
“Demon è il mio cucciolone, ovvio che voglio sapere come sta” si difese Castiel “comunque grazie. Mi piacerebbe vedervi a spasso insieme… anche se mi mancherà vedervi litigare”
Erin sorrise; era talmente presa dal guardare il moro che non si accorse di una piccola massa di pelo aranciato che stava zampettando sulla tavola. Ariel arrivò a camminare indisturbata sulla tastiera, facendo sobbalzare Erin e sorprendere Castiel.
“cos’era quella cosa che è passata?” domandò perplesso che, a causa della vicinanza con la webcam, aveva intuito solo una nuvola di pelo rossiccia.
“questa cosa” cominciò Erin, afferrando delicatamente la gattina “è il migliore regalo di compleanno che io abbia mai ricevuto” spiegò, mostrandogli l’animale.
“mi fa piacere che ti sia piaciuto” sorrise orgoglioso l’amico.
“ti presento Ariel”
“Ariel? Perché diavolo le hai dato il mio nome?” borbottò offeso.
Erin ridacchiò e commentò:
“ormai lo consideravi il tuo nome? Però sai, mi dispiacerà non chiamarti più così, ora che hai quei capelli”
“te l’ho detto, li farò tornare rossi” la tranquillizzò il ragazzo, indicandosi ciò che il berretto teneva celato alla vista.
“non capisco perché ti sei incaponito con quel colore” sbuffò Erin “stai così bene con i capelli neri”
Castiel rimase senza parole, accentuando il crescente imbarazzo dell’amica. Sorrise beffardo e commentò:
“allora Nathaniel aveva proprio ragione. Mi ha detto che non riuscivi più a stare senza di me” scherzò, inconsapevole di quanta verità ci fosse dietro quell’affermazione.
“Nathaniel ti ha scritto?”
“qualche giorno fa: mi ha detto della California e di voi due. Sei proprio scema Erin, ti sei lasciata sfuggire il miglior uomo del mondo”
“se ti piace tanto, sposatelo tu” replicò offesa, strappandogli un sorriso “e poi quando mi ci ero messa insieme, non ti sei certo complimentato con me”
L’amico storse il labbro, voleva replicare ma evidentemente non sapeva come fare mentre la mora soggiungeva:
“quindi avete cominciato a sentirvi?”
Castiel tentennò. La verità era che, in quell’ultima settimana, era proprio con Nate che aveva riallacciato i rapporti. Dopo che il biondo gli aveva scritto dalla California, incitandolo a contattare Erin, i due avevano cominciato a tenersi in contatto per mail, raccontandosi le reciproche esperienze. Castiel tuttavia non poteva rivelare ad Erin che, mentre era impegnato ad ignorare i suoi messaggi, chattava spensieratamente con il suo migliore amico.
“solo una mail” mentì.
“Erin, posso rientrare?” le sussurrò Iris, che si era stancata di aspettare in cucina.
L’amica le sorrise e le fece cenno di accomodarsi. Non poteva lasciarla impalata per tutto il tempo.
“allora, voi che novità mi raccontante?” le chiese il rosso, appena la ragazza prese posto accanto alla mora.
“c’è un nuovo studente che ha preso il tuo posto” annunciò Erin.
“accanto a te?” chiese spontaneamente il ragazzo, con un’espressione indecifrabile:
“sì, si chiama Kentin Affleck”
“è carino?”
Le due ragazze si guardarono perplesse per poi tornare a guardare l’amico:
“Castiel ma… sei passato all’altra sponda?” chiese la rossa in titubante difficoltà.
“ma non dire idiozie!” avvampò il ragazzo, incrociando le braccia al petto “volevo solo sapere com’è fisicamente”
“dovresti chiederlo ad Iris” la canzonò Erin, lanciandole un’occhiata esaustiva.
“perché?” domandò il ragazzo, la cui irritazione cominciò a vacillare; Iris nel frattempo diede una gomitata all’amica e replicò:
“quando tornerai Castiel? Non intendi mica rimanere in Germania fino a giugno?”
Erin spostò lo sguardo sullo schermo, attendendo con trepidazione quella risposta:
“perché, si sente tanto la mia mancanza?” si pavoneggiò.
“fa’ pure lo sbruffone, ma pensa che persino Rosa si annoia senza di te” lo ammonì Iris.
“sicuramente per un altro mese non mi potrò muovere da qui”
“ma allora c’è la possibilità che torni prima?” si illuminò Erin.
“beh, magari un salto in America lo posso fare una volta, ma con quello che costa il biglietto, non ci sperate troppo”
“faremo una colletta tra di noi” scherzò la rossa.
“Castiel! Teeger vuole parlarti”
Erin riconobbe la voce di Bree che fece poi capolino alle spalle di Castiel.
“adesso?” chiese il ragazzo.
“sì, mi dispiace. Gli ho detto che eri tutto love-love, ma non mi ha dato retta”
La ragazza fece un cenno di saluto allegro alle due ragazze, scrutandole con curiosità. Aveva un visetto molto dolce, che per certi versi ricordava quello di Violet, ma diversamente dall’artista, Bree era dotata di una personalità forte e decisa. Diede una pacca al giovane compositore e lo incitò a seguirla:
“digli che arrivo… e comunque smettila di dire stupidate”
Erin si morse il labbro.
Era arrivato il momento di lasciarlo andare.
“non far passare altre tre settimane senza dare tue notizie capito?” lo minacciò Iris “e ritieniti fortunato che non ci fosse qui Rosa”
“in tal caso, avrei messo giù all’istante” sghignazzò il ragazzo.
Iris sorrise, aspettando che anche Erin dicesse qualcosa. Nonostante l’affollamento di pensieri nella sua mente, l’unica esclamazione che l’amica riuscì a esternare fu:
“beh, allora buon lavoro”
Castiel sorrise leggermente e, dopo l’ennesimo richiamo da parte di Bree, fece un cenno sbrigativo con la mano.
La videochiamata venne chiusa e sullo schermo delle ragazze tornò la finestra di Skype che annunciava che il moro non era più in linea.
Erin si appoggiò contro lo schienale della sedia, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, dove fino a qualche secondo prima c’era il ragazzo di cui era innamorata.
“ehi Iris” le disse d’un tratto, rompendo il silenzio calato nella stanza “secondo te, è Castiel che è cambiato, o è cambiato il modo in cui io lo guardo?”
L’amica sbattè le palpebre un paio di volte, poi sorridendo, replicò dolcemente:
“direi entrambe le cose”
“allora sono proprio nella merda”




 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Eccomi. Dunque, innanzitutto, lasciatemi scaricare la coscienza ammettendo che, dal punto di vista della forma, non sono soddisfatta di questo capitolo -.-‘’.
Sarà per la sovrabbondanza dei dialoghi diretti, ma rispetto agli ultimi capitoli, questo non mi sembra granchè, è scritto proprio in modo banalotto :(… se non altro spero che il contenuto sia stato più interessante XD… lo ammetto: io amo i Tenia ^^
Pensate che la parte in cui compaiono per la prima volta, facendo andare fuori dai gangheri Castiel, l’avevo scritta almeno due mesi fa, sull’ispirazione del momento.
Il fatto è che io adoro il mondo degli artisti *^*: ecco quindi che nella mia mente questa band doveva essere composta da gente un po’ strana ma affascinante. In queste note non mi soffermo troppo sugli altri eventi come quelli di Nathaniel o di Kentin, se non per spiegarvi il titolo del capitolo: diciamo che questa parte è stata una dedica ad alcuni dei protagonisti maschili della mia fic che, descrivendoli, li ho trovati, nella loro “idiozia” (Nathaniel che si perde, Kentin che stermina la piante, Castiel che si fa rapare a zero) adorabilmente teneri *^*. Ero quasi tentata a mettere qualcosa anche su Dajan e Armin con le rispettive consorti, ma poi avrei messo troppa carne al fuoco -.-‘’.
Ma torniamo a quelli che per me sono i veri protagonisti del capitolo (che nella versione iniziale per l’appunto, si intitolava “i Tenia”): questi quattro ragazzi, ah, aspettate, vi metto qua sotto il disegno, così andate meglio a immaginarli ;)
 
Scusate se non l’ho colorato, ma ultimamente il tempo scarseggia che è già tanto che questa settimana sia riuscita ad essere puntuale con la pubblicazione del capitolo :(.
Vi rinfresco la memoria: quello con gli occhiali si chiama Damien (in onore a Damien Rice), il pelato è Chester (stesso nome del frontman dei Linkin Park, al quale mi sono ispirata anche come immagine), il più figo al centro è Ace (creato grazie ad un’indicazione di Sabrina), mentre quello a lato è Jun (che Chester chiama Jun-chan anche se il suffisso è un vezzeggiativo femminile usato in Giappone, mentre Jun sarebbe per metà cinese -.-… ma Chester è idiota e quindi ci sta).
Ovviamente, quel visetto così felice e solare al centro del gruppo, con la maglietta con la scritta e il berretto, è il nostro Castiel ^^.
Ok, a questo punto devo dirvi una cosa: ho una notizia buona e una meno buona; quale volete prima?
Io opto di solito per la cattiva, così poi mi consolo con la buona: allora, visto che scrivo sempre durante il weekend, mi prendo una pausa di due settimane, perché il prossimo weekend sono in trasferta da una mia amica… ergo, non prima di fine Novembre mi metterò a lavorare sul 41.
La buona invece è questa: dunque, come vi dicevo, io amo questi quattro matti che sono usciti fuori (alias i Tenia) tanto che ho pensato di cimentarmi in una sorta di spin-off sull’arrivo di Castiel in Germania.
Tutte voi vi siete chieste “che Castiel sta facendo Castiel in Germania??”
Ecco, visto che non intendevo dedicare un capitolo del genere della storia “ufficiale” a questa cosa, ho pensato a questa mega one shot ;). Verrà fuori quale è stata la scommessa che Castiel ha perso, il perché i ragazzi sono scoppiati a ridere quando Jun gli ha chiesto dei capelli, e molto altro ^^
Visti i tempi biblici che ci metterei a realizzarla, ho deciso di darmi la scadenza entro Natale, quindi consideratela un regalino da parte mia ;) (avrei voluto farvi una sorpresa, ma la mia linguaccia ha finito per straparlare e ad un paio di ragazze aveva già accennato a questa idea, quindi non potevo continuare a tenerla ancora segreta -.-)
Accennerò a questa cosa anche sull’ “intervista” che dovrei mettere fuori tra oggi e domani, appena finisco di revisionare e pubblicare questo capitolo.
 
n questa OS che uscirà a Natale comunque, verranno fuori al meglio i Tenia, il personaggio di Bree dedicato a Sabrina (che mi ha suggerito il nome e l’aspetto fisico;)) e tutto lo staff con cui si è trovato a lavorare il rosso ;). In realtà avevo talmente tanta voglia di mettermi al pc, che ho già scritto due pagine… finendo per divagare XD
Vi metterei volentieri l’anteprima, ma poi sono sicura che la cambierei -.-‘’… insomma, verrà una cosa lunghetta e anche un po’ diversa dal mio solito stile narrativo… non dico altro, su questo ci risentiremo a Natale ;)
 
Ok, spero di avervi incuriosito un po’, perché, diversamente dalla OS “intervista”, su questa di Castiel ci tengo davvero parecchio, lo ammetto -.-‘’… più di quanto dovrei, quindi sarò molto dura con me stessa se il risultato non sarà soddisfacente :S… basta, la smetto di lamentarmi.
 
Grazie per aver letto e, recensioni a parte, ci si sente tra due settimane ^^
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** Sogni realizzati e sogni infranti ***


RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
 
Nathaniel si scontra per caso con Sophia ma la prima impressione che riceve della sorella della sua ex, non è delle migliori. Nel frattempo Kentin viene introdotto nel club di giardinaggio: il suo primo giorno si rivela un disastro ma Iris rimane soprattutto amareggiata per l’interesse che il ragazzo rivolge ad Erin. Sophia incontra più volte Nathaniel, che si rivela dotato di un pessimo senso dell’orientamento e si offre di accompagnarlo a destinazione, scoprendo che egli è il fratello della sua cara amica Ambra.
Un pomeriggio, mentre Erin e Iris stanno studiando, le due si trovano accidentalmente collegate a Skype e dall’altro capo dello schermo riconosco Castiel e i Tenia. I ragazzi si rivelano particolarmente chiassosi e allegri, ma alla fine, Erin e il ragazzo rimangono soli, anche se nessuno dei due confessa all’altro ciò che prova davvero.

 




 
CAPITOLO 41: SOGNI REALIZZATI E SOGNI INFRANTI
 
“si può sapere quanto ci mette?” sbuffò Kim contrariata.
L’alito caldo sfuggito alle sue labbra si vaporizzò nella gelida aria invernale. Allungò il lembo della pesante sciarpa di lana viola fino alla punta del naso, mentre Trevor ridacchiava:
“sembri una beduina!”
“fa freddo porca miseria! Se la tua ragazza non si sbriga, mi congelerò qui”
L’amico alzò le sopracciglia, sorridendo malizioso. Si chinò verso la ragazza, avvicinando la propria bocca in modo che potesse sentire il suo sussurro.
“perché non chiedi a Dajan di scaldarti lui?”
La mora sussultò, avvampando e voltandosi di scatto allarmata verso il cestista, impegnato nel frattempo in una conversazione telefonica a pochi passi da loro; fortunatamente per lei, non aveva seguito minimamente quello scambio di battute.
Il loro treno sarebbe arrivato da un momento all’altro e Kim non vedeva l’ora di essere seduta al caldo, dentro al vagone.
 
"non ho parole Rosalya... è un abito meraviglioso!"
L'esclamazione ammirata di Pam liberò nell'aspirante stilista una tale soddisfazione che sulle guance rosate fecero la loro comparsa un paio di fossette che solo i suoi sorrisi più luminosi riuscivano a mettere in luce.
"davvero ti piace?" indagò, mescolando nelle sue parole titubanza e trepidazione.
"e come potrebbe non piacermi?” chiese retorica, continuando a studiare ogni angolo di stoffa “la fattura è perfetta e non c'è una cucitura che non sia eseguita a regola d'arte. Non sei solo una bravissima stilista, ma anche un'ottima sarta!"
Rosalya non riusciva a smettere di sorridere: da quando la zia della sua amica le aveva proposto di confezionare un abito per la sua boutique, aveva lavorato con impegno a quel progetto e ci aveva messo settimane prima di convincersi a mostrarle il risultato finale. Pam si era spostata davanti allo specchio d’entrata che le permetteva di vedere la sua figura in tutta la sua altezza. Si voltò verso Jason, seduto sul divano. Il veterinario, alquanto indifferente alla moda, giocherellava con la gattina che lui stesso aveva recapitato in quella casa parecchi giorni prima. Le faceva roteare l’indice davanti al naso e Ariel, zampettava da una parte all’altra nel tentativo di afferrarlo.
"amore, non è una favola?" squittì la sua ragazza, costringendolo a focalizzare la sua attenzione su di lei.
"credo di sì" borbottò, incapace di fornire un qualsiasi aggettivo di apprezzamento per il capo di vestiario.
Pam sbuffò, delusa per lo scarso interesse suscitato e tornò a rivolgersi alla sua fatina dalle mani d'oro.
"fammi sapere quanto hai speso per confezionarlo, così possiamo pattuire il prezzo di vendita. Se sei d'accordo Rosalya, io stabilirei che mi spetti un 10% del guadagno. Cosa dici?"
"Un 10%?" ripetè la ragazza quasi offesa "non mi sembra giusto, non è troppo poco per te?"
"apprezzo molto la tua onestà tesoro, ma se ti accolli tu tutte le spese di confezionamento e la manodopera, non mi sembra giusto chiederti di più. Già esporre in vetrina un articolo del genere richiamerà sicuramente l'attenzione dei passanti, quindi diciamo che un'altra fetta di guadagni la prendo quanto a pubblicità"
Il sorriso della nascente stilista si distese ancora di più: non vedeva l’ora di lasciare quell’appartamento per mettersi di fronte ad un foglio di carta e disegnare il prossimo abito.
 
Una figura di un imprecisato color verde acquamarina stava camminando con passo affrettato sul marciapiede innevato. Dajan fu il primo a notarla, voltandosi alla sua destra.
"per caso è quella Brigitte?" chiese, interrompendo l'ennesimo battibecco tra Trevor e Kim. Quella domanda sortì l’effetto di zittirli all’istante, distraendoli dalla loro diatriba.
Il sorriso che si disegnò sulle labbra di Trevor valse come una conferma: la sua ragazza li aveva finalmente raggiunti. Erano reduci da un viaggio in treno di circa un’ora, con direzione New York, dove Brigitte si era da poco trasferita. Lei e Trevor si erano conosciuti in Quebec, durante le vacanze natalizie e la ragazza si era talmente infatuata del cestista, da convincere i genitori a concederle il permesso di trasferirsi nella grande mela, dove avrebbe cercato lavoro come modella.
I due innamorati erano riusciti così a rendere più sopportabile il loro amore a distanza, ravvivato dai weekend alternati tra Morristown e New York.
Gli Uggs della canadese affondavano nella neve, inumidendoli e colorandoli di una gradazione più scura. Indossava un capottino dal colore vivace, quasi stridente contro il biancore circostante. Dalla messa in piega perfetta dei suoi ricci color caramello, all’andatura sicura, quella ragazza urlava fashion da ogni poro della pelle. Un senso di soggezione affiorò istantaneamente nell’unica componente femminile del trio: Kim considerò, con una certa riluttanza, il proprio giaccone verde militare, troppo largo rispetto alle sue spalle sottili, il jeans felpato e la sciarpa dalla lunghezza chilometrica, che aveva avvolto per più giri attorno al collo lungo, come se un enorme pitone la stritolasse.
Studiò di sottecchi l’espressione dei suoi amici, ma anziché soffermarsi sull’espressione inebetita e innamorata di Trevor, si rattristò per il sorriso cordiale che Dajan aveva sfoderato, tenendo lo sguardo fisso sulla modella in avvicinamento.
Quando Brigitte fu a due passi da loro, Kim osservò il colore dorato della sua pelle, che metteva in risalto le sue iridi verde acqua. Alla ricerca disperata di qualche imperfezione, l’ex velocista osservò che gli occhi erano leggermente distanziati, ma l’uso intelligente dell’eyeliner marrone sembrava smorzare quel piccolo neo, rendendo anzi più interessante quel viso. Le labbra erano voluminose e morbide, colorate da un rossetto viola borgogna, che si intonava perfettamente sulla carnagione della giovane modella.  
"mon amour" esordì la canadese, stampando un bacio casto al suo eroe americano.
Trevor le sorrise mentre Kim, di sottecchi, gli fece segno di pulirsi dai residui di rossetto lasciati dalla sua dolce metà.
"Kim e Dajan" commentò allegra la ragazza, guardando i due amici del suo ragazzo.
"sì sono loro" confermò Trevor raggiante.
Dajan allungò la mano, ma Brigitte, abituata ai modi europei, approfittò della stretta per avvicinarlo a sé e stampargli un bacio per guancia. La reazione di Kim fu alquanto evidente, tradendo una smisurata irritazione, congiunta ad uno stupore generalizzato. Il cestista dal canto suo, cercò di ricomporsi, anche se la sua espressione manifestava un palese imbarazzo per essere stato colto così alla sprovvista. Decisamente quel tipo di saluto non rientrava nel suo repertorio classico, fatto di amichevoli strette di mano o di più espansive pacche sulle spalle.
Brigitte fece per avvicinarsi a Kim per dare anche a lei un assaggio del calore europeo ma la mora indietreggiò, scattando sulla difensiva.
"non sono una tipa da bacini" borbottò.
Brigitte la guardò senza capire, sbattendo più volte gli occhi, enfatizzati dalle lunghe ciglia. Come aveva loro anticipato Trevor, la sua ragazza aveva non poche difficoltà a capire l'inglese, anche se più passava il tempo, e più il suo inglese migliorava: vivere a New York le aveva imposto di approcciarsi ad una lingua in cui aveva sempre rifiutato di applicarsi.
"non preoccuparti tesoro, Kim è fatta così" sdrammatizzò il ragazzo, brandendole la mano infreddolita. Sentì il contatto freddo dell’anello che lui le aveva regalato e si deliziò nel constatare che Brigitte non trascurava di indossarlo.
Tuttavia, nonostante il suo tentativo di rassicurarla, anche le parole del cestista non furono colte a pieno dalla francofona che se ne uscì con:
"je ne comprends pas" mormorò mortificata tra sé e sé.
"in Quebec non parlavi mai inglese?" intervenne Dajan, cercando di scandire la pronuncia il più possibile.
A quella semplice domanda, gli occhi di Brigitte si illuminarono e, presa da un esagerato entusiasmo, esclamò, in inglese:
"molto pochino perché la mia famiglia e amici parlano in francese solo. A scuola lo studiavo, ma ho mollato gli studi l’anno scorso per cercare la carriera di modella"
A dispetto delle sue carenze in fatto di comprensione, Brigitte si era espressa in modo piuttosto fluente, incappando in qualche piccolo errore che però non ostacolò certo i suoi interlocutori dal capirla. L’accento francese era piuttosto marcato e particolarmente stridente sulla erre, ma nel complesso rendeva la lingua quasi più musicale.
"ma quanti anni hai?" si interessò Kim, realizzando di non aver mai posto quella domanda a Trevor.
La canadese in tutta risposta guardò proprio quest’ultimo, con aria smarrita.
"ti ha chiesto l’età" mediò lui.
Per la seconda volta, sul viso di Brigitte si manifestò la perplessità più totale.
"vi mangiate troppo le parole voi due” ridacchiò Dajan e puntando lo sguardo sulla canadese, scandì “quanti-anni-hai?”
"oh si" intervenne lei "parlano davvero troppo veloci!" lo appoggiò la ragazza, sollevata di trovare un po’ di sostegno e sorridendo amabile verso Dajan.
La palpebra di Kim aveva cominciato a tremare in modo incontrollabile mentre la ragazza, dopo aver confermato di essere coetanea del suo ragazzo, aveva ben pensato di sequestrare per sé l’unica persona che riuscisse a capirla. Aveva cominciato a camminare parlando solo con Dajan al suo fianco, mentre Kim e Trevor li seguivano, fissando l’uno perplesso, l’altra scocciata, quell’insolito duo.
 
"e quindi oltre a Kim, c'è anche questa Erin in squadra?" riepilogò Brigitte guardando storto Trevor.
I quattro aveva trovato rifugio in una tavola calda e stavano aspettando che il loro pranzo fosse servito.
Trevor e Kim si erano sforzati di scandire al meglio le parole, in modo da poter coinvolgere anche Brigitte nella conversazione ed erano riusciti a farsi capire, raccontandole della scuola e dell’imminente torneo di basket. Tuttavia, nonostante la trepidazione dei tre cestisti nel descrivere quell’evento, la modella sembra più interessata alla presenza di un secondo elemento femminile in squadra.
"oui" confermò Trevor, rispondendo alla domanda che gli era stata posta.
"è fidanzata?" incalzò Brigitte, scrutando una ad una le espressioni dei presenti. Disorientati da quella domanda, Dajan e Kim fissarono Trevor, che si affrettò a spiegare.
"Brit è un po' gelosa... sapete, con un ragazzo con il mio charme..." e le cinse le spalle, avvicinandola a sé, mentre Kim borbottava velocemente:
"mi chiedo di cosa si preoccupi: quale ragazza sana di mente verrebbe dietro a uno come te?"
"intanto una c'è l’hai davanti” la rimbeccò Trevor divertito.
“infatti non sono sicura che questa sia tanto a posto” malignò la mora, mentre Dajan ridacchiava.
Trevor, indispettito, rispose indirizzando un piccolo calcio sotto il tavolo che però finì per urtare la gamba del capitano della sua squadra.
"non ho capito Kim, potresti ripetere?" chiese Brigitte, con una certa nota di ansia nella voce.
"diceva che Erin ha già un altro per la testa" sviò Trevor, allungando la schiena all’indietro.
"ma va'?" sbottarono in coro Kim e Dajan, lasciando ancora più perplessa la canadese, che non riusciva ad afferrare il nesso della conversazione. Il trio non si era accorto di aver accelerato il ritmo di conversazione e lei faticava non poco a interpretare le parole che usavano.
"ma come, non ve ne siete accorti?” si stupì Trevor “pure tu Kim... ce li abbiamo anche in classe!"
L’amica piegò la testa di lato e, guardando incerta il ragazzo seduta davanti a lei, mormorò basita:
"dici che le piace Affleck?"
Trevor rimase per un attimo di sasso, poi quando realizzò quanto la ragazza potesse essere ingenua, lasciò ciondolare la testa verso il basso, sconfitto. Anche se la conosceva da anni, quel genere di affermazioni lo spiazzavano al punto da lasciarlo per un po’ senza parole.
"il nuovo studente?" intervenne quindi Dajan, aspirando la Coca-Cola con la cannuccia.
"beh, non mi sorprenderebbe… Kentin è carino" commentò candidamente Kim.
A quelle parole, il flusso di Coca attraverso la cannuccia si arrestò poichè Dajan aveva cominciato a tossicchiare istericamente, nel tentativo di liberare le vie aeree.
"ma non capite proprio un cazzo voi due!" si esasperò finalmente Trevor, riprendendosi dallo shock e alzando gli occhi al cielo "del resto non mi sorprende che siate ancora single" quasi li accusò.
Si guadagnò un’occhiataccia da ciascuno dei due amici ma prima che potesse aggiungere dell’altro, fu la voce di Brigitte, alta e squillante, a farli sobbalzare.
"UFFA! Non sto capendo più nulla! " e cominciò a masticare delle lamentele in francese.
"Kim! Vieni in bagno con me!" aggiunse subito dopo, alzandosi di scatto. Si portò all’altro lato del tavolo e afferrò saldamente il polso della mora. Quest’ultima era talmente confusa che si limitò ad assecondarla, senza opporre la minima resistenza.
"m-ma che le è preso?" balbettò Dajan sconvolto, guardando le due ragazze sparire dietro la porta dei servizi.
Trevor, dapprima anch’egli basito, cercò di riprendersi:
“lei è fatta così: cambia umore all'improvviso. Un momento è dolce e accondiscendente, quello dopo invece diventa una tigre... non ti dico a letto poi" sogghignò malizioso, rivolgendo un’occhiata d’intesa al ragazzo, che però sembrò disinteressato a quel genere di dettagli.
"allora, vuoi dirmi chi piace ad Erin?"
Trevor intrecciò le mani dietro la nuca e rispose compiaciuto:
"il nostro vecchio capitano"
Dajan imitò l’espressione adottata da Kim poco prima e, con evidente perplessità, replicò:
"e come fa a conoscere Paul? Si è diplomato due anni fa"
La vena d’irritazione sulla tempia di Trevor cominciò a pulsare ad un ritmo frenetico, aumentando l’irrorazione sanguigna al cervello.
"ma allora sei più indietro di Kim!" sbraitò l'amico, perdendo la pazienza "le piace Castiel!" urlò, attirando l'attenzione della clientela.
"Castiel?" ripetè Dajan come se fosse una parola estranea al suo vocabolario.
"adesso non venirmi a dire che non si capiva"
"ma se sono amici…"
Trevor scosse il capo, sconfitto e rassegnato. Adagiò la schiena contro la poltroncina e, guardando dal basso l’amico, esordì chiamandolo per cognome:
"senti un po' Morgan… per quanto riguarda il basket, lo sai, sei un asso e per questo ti stimo… ma in fatto di questioni amorose sei un grandissimo imbecille”
Il sopracciglio sinistro di Dajan si sollevò, accigliando l’espressione del ragazzo, mentre Trevor continuava:  "e ti dirò di più: era ancora più palese il fatto che anche a Castiel, Erin piacesse davvero"
Soddisfatto della sua affermazione, il ragazzo attese la replica del suo capitano che appariva piuttosto scettico e diffidente verso quanto aveva appena sentito:
"il giorno in cui sentirò Black dichiararsi ad Erin, mi farò avanti con Kim" proferì infine.
Trevor, in parte sorpreso per quell’uscita, increspò le labbra:
"mi piacerebbe fare questa scommessa con te vecchio, ma il fatto è che se aspettiamo che sia Castiel a mettersi con Erin perché tu ti faccia avanti con Kim, il Polo Nord si sarà sciolto da un pezzo"
 
"no ti sbagli Brigitte, non c'è niente te tra Erin e Trevor!"
Erano cinque minuti che la cestista ripeteva quella cantilena, ma convincere una furente canadese che aveva equivocato il senso della conversazione, si stava rivelando un'impresa ardua.
"davvero? Perché se Trevor mi tradisce, io devo sapere Kim!" insisteva l’altra, afferrandole le braccia con veemenza, quasi ad ostacolare un’eventuale tentativo di fuga da parte della mora.
"certo, ma sta tranquilla... se anche avesse dei strani grilli per la testa, penso che nessuna se lo prenderebbe, tanto meno Erin che è una abbastanza intelligente"
Presa dall’imbarazzo, Kim borbottava giustificazioni che fortunatamente Brigitte non intendeva, dal momento che erano un’implicita offesa alla sua persona. Fortunatamente, il suo modo di vedere il ragazzo, alla stregua di un fratello, l’aveva resa cieca all’interesse che invece riscuoteva tra una non indifferente rappresentanza femminile. Così la mora si era ritrovata in un bagno di un locale di New York a convincere la ragazza del suo migliore amico che non c’erano possibilità che lui la tradisse, anche perché non c’erano ragazze a cui lui potesse interessare.
Cercando di scandire al massimo le parole, infine Kim concluse:
“senti Brigitte: Trevor-non-ti-tradisce e, visto che lo conosco bene, ti assicuro che non lo farà mai. Erin è innamorata di un altro, ma non so di chi e di certo non-di-lui! Hai capito ora?”
La modella studiò gli occhi sinceri della sua interlocutrice e lo sguardo determinato con cui le comunicava che non c’era altro da aggiungere. Sollevata e rincuorata dalla fiducia che le suscitava quella ragazza, annuì soddisfatta.
 
Nathaniel esitò un attimo sulla tastiera del computer ed infine scrisse:
E quindi da due settimane che sono qui, finora ho conosciuto solo quattro persone, inclusa la sorella di Erin ma non l'ho più vista in giro
 
Castiel lesse quel messaggio apparso sullo schermo e, storse il labbro:
Perché sei sempre il solito asociale. Va a qualche festa, che cazzo fai la sera scusa? Risolvi gli integrali composti?
 
Nathaniel: Non sfottere! Anche tu hai detto che non ti eri mosso dall'alloggio quando sei arrivato in Germania... devo acclimatarmi…
 
Dopo tre minuti da quando aveva premuto invio, il biondo non aveva ancora ricevuto una risposta. Intuendo cosa stesse combinando l’amico, digitò con un sorriso ironico:
 
Se stai cercando il significato della parola, sappi che significa "adattare il corpo al clima e alla temperatura locale"
 

Dopo quel messaggio, la risposta di Castiel non tardò ad arrivare:
E cosa sei? una foca che è stata trasferita in un acquario? Che cazzo hai da acclimatarti! Esci fuori e vai a divertirti!
 
Nathaniel: una volta tanto forse hai ragione... Erin l'hai più sentita?
 
Castiel: mi sa che la linea se ne sta andando...
 
Nathaniel: non fare il coglione!
 
Castiel: ok, ok, non ti scaldare.... no, è da un bel po’ che non la sento. Solo quella volta in cui mi hanno obbligato Ace e Chester.
 
Nathaniel: e pensi che non sentirla ti aiuterà a dimenticarla? Ma perché invece di fare l'orgoglioso non provi a darmi retta: ti dico che le piaci...

 
Castiel: Sì, come a un gatto piace l'acqua
 

Nathaniel sospirò rassegnato:
Dio quanto sei testardo
 
Castiel: Abbastanza da farmi trovare irresistibile <3

 
Il biondo scoppiò a ridere fragorosamente, ringraziando di essere solo in quel momento. Era rintanato nella sua stanza del campus, che condivideva con un ragazzo di nome Spencer.
 
Nathaniel: da quando sei tra i tedeschi ti sei parecchio sciolto Cas. Comincio a pensare che faticherei a riconoscerti
 
Castiel: Sicuramente il nuovo taglio non aiuta -_-
 
Nathaniel: Toh!  Come mai adesso usi le faccine? O.o
 
Castiel: sono simpatiche... ho trovato un sito dove ce ne sono elencate un po' ~_~
 
Nathaniel: Non hai proprio un cazzo da fare oggi eh?
 
Castiel: I ragazzi sono ad incidere, ma tra poco dovrebbero uscire, così andiamo a bere

 
Nathaniel puntò lo sguardo nell’angolo in basso a destra del pc. A quell’ora a Morristown era arrivato il momento di cenare: era l’occasione perfetta per mettere a frutto il piano che da un po’ di giorni macchinava nella sua mente. Impugnò il cellulare ed entrò nell’applicazione di Whatsapp, scorrendo i contatti nella rubrica, finchè trovò il nome di Erin.
"Castiel è in linea su Gmail. Ce la fai a connetterti ora?"
 
In casa Travis, Pam aveva appena controllato la cottura dell’arrosto. Il corso di cucina aveva migliorato notevolmente le sue abilità come cuoca, tanto da farle azzardare dei piatti più complicati di quelli che costituivano il suo abituale menù. Da pochi giorni inoltre anche la sorella di Jason, nonché insegnante di biologia di Erin, si era unita al corso, sostituendo il fratello i cui impegni lavorativi gli impedivano una frequenza costante. Pam aveva raccontato alla nipote di quanto Miss Joplin fosse buffa tra i fornelli e impacciata quanto lo era lei pochi mesi prima. Inevitabilmente, anche complice la vicinanza di età e la presenza di Jason nelle loro vite, le due donne  avevano legato moltissimo.
Erin stava messaggiando con Rosalya, la quale le stava raccontando della mail che aveva spedito quel giorno a Nathaniel, per aggiornarlo sulle ultime novità. I due si tenevano in costante contatto, l’uno parlando della sua esperienza al campus e l’altra raccontandogli delle ultime novità del liceo.
Quando vide comparire il messaggio da parte del suo ex, Erin aprì la cartella con tranquillità: di certo non si aspettava di leggere:
"Castiel è in linea su Gmail. Ce la fai a connetterti ora?"
 
Cominciò ad agitarsi, alzandosi in piedi di scatto. Sentì un’ansia pazzesca, come se non sapesse cosa fare: erano passate due settimane da quando l’amico aveva fatto la sua comparsa su Skype e da allora, non si era più fatto vivo. Aveva provato più volte a controllare dal pc se il ragazzo fosse in linea, ma ogni suo tentativo si era rilevato una speranza mal riposta. Forse Castiel l’avrebbe mandata a quel paese, ma valeva la pena provarci lo stesso. Del resto l’aveva sempre detto che lei era invadente:
"zia, devo assolutamente andare al pc! Mangio dopo" farfugliò, correndo in camera.
Pam fece capolino dalla cucina, ma ormai della nipote non c’era più traccia.
 
Nathaniel: Non riesci proprio a tornare per il torneo di basket?
 
Castiel: Tu tornerai?
 
Nathaniel: No
 
Castiel: Allora non rompere le palle a me. Il biglietto per l'America non costa 5 euro.
 
Nathaniel: Ah giusto, non usi più i dollari. Come ti trovi a usare gli euro?
 
Castiel: Sono proprio colorati, altro che le nostre banconote, ma non bastano mai. Qua costa tutto tanto... o porca troia!
 
Nathaniel: Che c'è?
 
Castiel: Erin mi ha scritto...
 

Nathaniel sorrise malefico; il suo semplice ma efficace piano era andato a buon fine:
Allora ti saluto Black, non vorrei mai fare da terzo incomodo :P
 
Senza dare il tempo all’amico di replicare in alcun modo, Nathaniel chiuse la pagina di Gmail e si distese soddisfatto sul letto.
 
Erin: Posso approfittare di questa tua fugace apparizione, per disturbarti un po'?
 

Castiel cominciò a sentirsi sempre più nervoso. Nelle ultime due settimane, l’assenza della ragazza aveva cominciato a pesargli di meno. Il detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, sembrava funzionare per lui, ma ora che lei aveva stabilito un contatto, le sue certezze cominciavano a vacillare. Decise di optare per un atteggiamento il più naturale possibile, così digitò:
 
Castiel: E da quando in qua ti fai tutte queste formalità?
 
Erin: Da quando qualcuno ha ben pensato di non farsi più vivo... ovvio che poi mi faccio delle paranoie -.-‘’
 
Castiel: Come sta andando l'allenamento?

 
Erin sorrise irritata. Castiel stava platealmente cambiando discorso. Tuttavia, decise che non era il caso di arrabbiarsi con lui: da quando era partito, gli perdonava molte più cose di quante avrebbe dovuto.
 
Erin: Sono quasi due settimane che Boris mi sta allenando personalmente
 
Castiel: Boris? Ma non ti stava allenando Dajan?
 
Erin: E tu come lo sai?

 
Castiel: Io so tutto u.u
 
Erin: Non prendermi in giro! Come lo sai?

 
Erano passati cinque minuti e Castiel, pur risultando on line, non le aveva ancora dato una risposta. La ragazza si spazientì e scrisse:
 
Erin: Sto aspettando...
 
Castiel: Io e Nate ci sentiamo ogni tanto… me l’ha detto lui
 
Erin rilesse quella frase più e più volte; in cuor suo voleva arrabbiarsi, protestare sul perché l’amico avesse riservato il suo prezioso tempo solo a Nathaniel, ma dall’altro era troppo eccitata nel sentire che finalmente i due erano tornati amici. Quell’amicizia così unica era l’ultimo tassello mancante di un puzzle che ormai era perfetto: quando il biondo sarebbe tornato dalla California, lui e Rosalya avrebbero ufficializzato la loro unione, sarebbe stato reintegrato nel gruppo e niente e nessuno li avrebbe più divisi. La sua gioia era tale che sentì gli occhi inumidirsi per la commozione.
 
Castiel: Ci sei ancora?
 
Erin: Si, scusa, è che mi hai lasciato senza parole... non ci speravo quasi più… quindi è per questo che Nathaniel oggi mi ha avvertito che eri on line?

 
Castiel sorrise beffardo, trovando la conferma dei suoi sospetti. Con quell’aria da santarellino, il suo amico poteva ingannare tutti, eccetto lui. La velocità con cui si era defilato dopo che Erin si era connessa erano suonate strane agli occhi del moro, ma non aveva avuto il tempo di protestare perché il ragazzo era già sloggato.
 
Castiel: non aveva più senso tenergli il muso. È sempre stato il mio migliore amico...
 
Prima di premere invio, tentennò qualche secondo sulla tastiera. La barretta verticale lampeggiava instancabile, quasi a spronarlo ad aggiungere quel pensiero che negli ultimi giorni ripeteva più volte a se stesso:
 
Castiel: non aveva più senso tenergli il muso. È sempre stato il mio migliore amico...... come del resto lo sei tu…  
 
Non le aveva mai detto di considerarla sua amica, ma era un passo dovuto se voleva mettere una pietra sopra a ciò che provava per lei. Premette invio, sospirando pesantemente.
Erin lesse quella frase e la felicità che aveva provato poco prima, venne brutalmente rimpiazzata dallo strappo del suo cuore che si lacerava in due. In quel momento l’inconscia e improbabile speranza che lui potesse ricambiare i suoi sentimenti, era stata annientata per sempre: con parole intrise di miele e dolcezza, confessando quanto lei fosse importante per lui, il ragazzo di cui era innamorata, aveva tracciato un confine molto nitido e soprattutto invalicabile: quello dell’amicizia.
Eppure lei stessa, tempo prima aveva usato parole analoghe, definendolo il suo migliore amico.
Se avesse potuto tornare indietro di due mesi, ritrovarsi lì, con le gambe incrociate a terra davanti a lui, in quel freddo campo da basket, avrebbe forse cambiato ogni cosa? Chiuse gli occhi, figurandosi nella sua mente quella scena. Castiel era seduto davanti a lei, sulla panchina e la guardava con serietà, dall’alto verso il basso. Le aveva appena chiesto perché si fosse aperta solo con lui, perché era l’unica persona a cui lei avesse raccontato di Sophia:
perché ti amo” sarebbe stata la risposta giusta, ma anche se all’epoca fosse stata consapevole dei suoi sentimenti, Erin fu costretta ad ammettere che quelle parole non sarebbero mai uscite dalla sua bocca.
Osservò l’ora indicata accanto all’ultimo messaggio inviatole da Castiel e realizzò di aver lasciato trascorrere ben dieci minuti senza dare segno della sua presenza. Non sapendo cosa scrivergli, ammise:
 
Erin: Mi fa uno strano effetto sentirtelo dire...
 
Castiel: Perché? Forse volevi sentirti dire dell’altro?
 

Il cuore di Erin, nonostante la ferita infertagli da poco, cominciò ad accelerare.
La gola le si era seccata in un batter d’occhio e faticò non poco a credere a ciò che il ragazzo le aveva appena chiesto. Non poteva vederlo, ma era sicura che non ci fosse dello scherno dietro quelle parole. Le mani tremanti sorvolarono la tastiera, cominciando poi a digitare una serie di parole delle quali però non era soddisfatta. Continuava a cancellarle e riscriverle, ma la sua insicurezza cresceva in misura proporzionale alla sua ansia. Stremata per lo stress a cui stava sottoponendo se stessa, optò per un:
 
Erin: C’è qualcos’altro che devo sentire?
 
Dopo aver inviato il messaggio, cominciò a torturarsi le unghie, facendole schioccare contro le dita.
Non voleva sbilanciarsi poiché aveva il terrore di aver mal interpretato le intenzioni di Castiel e ammettere di essere innamorata di lui era un rischio troppo grosso.
 
Castiel: Dipende da cosa vuoi sentirti dire Erin… anche se ammetto che non è il massimo confessartelo in questo modo. Vorrei essere lì, prenderti la mano e guardarti negli occhi per dirti che io ti aafagdsgshreoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooog5g6G/98.FAGG—AGERRERQ
 
Erin era diventata color porpora: aveva letto tutto d’un fiato quella frase, finchè non era arrivata alla fine. Non capiva.
Semplicemente non riusciva a darsi una spiegazione: l’amico le stava confessando di provare qualcosa per lei, ma quella serie finale di caratteri senza senso non trovava una motivazione plausibile.
 
Erin: ???
 
Dopo tre minuti buoni, Castiel scrisse:
 
Castiel: scusami, mi ero assentato convinto che si trattasse di un secondo, invece mi hanno trattenuto. Ace si è messo in mezzo e ha scritto solo stronzate per divertirsi un po’.
 

In quel momento Erin aveva appena trovato la persona che, giurò a se stessa, avrebbe odiato fino alla morte. Proseguì nella lettura del messaggio di Castiel:
 
Castiel: scusami, mi ero assentato convinto che si trattasse di un secondo, invece mi hanno trattenuto. Ace si è messo in mezzo e ha scritto solo stronzate per divertirsi un po’. Lascia perdere quello che ha scritto, ma vedo che ti sei resa conto da sola che era solo un mucchio di stupidate
 
“ma perché non mi hai lasciato andare fino in fondo Cassy?” mugolò Ace, massaggiandosi il capo dolente per il colpo che aveva ricevuto dal compositore.
“MA COS’HAI NEL CERVELLO?! AZOTO LIQUIDO?” abbaiò Castiel furente.
“avrei fatto il lavoro sporco al posto tuo, di che ti lamenti?”
“mi lamento del fatto che vai in giro a fare dichiarazioni non autorizzate”
“ah, ma allora volevi dirglielo tu? Sei proprio un romanticone” lo schernì il biondo, torturandogli una guancia come se fosse un pupazzo di pezza. Castiel lo allontanò in malo modo e replicò seccato:
“non c’è niente da dire! E’ una mia amica adesso”
“ma non quando sei arrivato qui” puntualizzò il suo compagno di camera, maliziosamente.
“porca troia Ace! Chi cazzo sei, uno spicologo?”
“un che? Guarda che si dice psicologo”
Castiel era talmente fuori di sé che ormai non riusciva neanche ad articolare bene le parole: poiché queste gli venivano sempre meno, spinse il ragazzo fuori dalla porta e si chiuse a chiave nella stanza. Tra Ace e Chester, non avrebbe saputo dire quale dei due fosse il più irritante.
Tornò a guardare sullo schermo del pc e lesse il messaggio di Erin:
 
Erin: Beh, non sono così scema da averci creduto… ormai ti conosco no?
 
E invece non lo conosceva affatto, perché altrimenti la sua mente avrebbe capito subito che non poteva essere Castiel quello che le stava scrivendo dall’altra parte del mondo. “Prenderti la mano e guardarti negli occhi”… avrebbe dovuto realizzare immediatamente che mai e poi il ragazzo le avrebbe rivolto simili parole.
Per l’ennesima volta, si ritrovò a maledire Ace e gli augurò un attacco di diarrea notturno, per compensare l’enorme delusione a cui l’aveva sottoposta.
Castiel dal canto suo, sorrideva amaro. La reazione di Erin era più che prevedibile e diventava l’ennesima conferma del fatto che la decisione che aveva preso settimane prima, fosse la migliore: doveva sopprimere quello che provava per lei e in quel senso, la lontananza l’avrebbe aiutato. Si era buttato a capofitto nella musica, svolgendo il lavoro di due mesi in appena dieci giorni e la casa discografica, i Tenia, lo staff, tutti, erano orgogliosi di quello che avevano battezzato “il loro piccolo Mozart”.
L’unico inconveniente a cui il musicista non aveva fatto fronte era l’emozione che ancora provava quando la sentiva. Era combattuto tra il bisogno di starle lontano e il desiderio di non lasciare sfumare del tutto la loro amicizia, perché se avesse continuato ad ignorarla, al suo ritorno non l’avrebbe certo trovata pronta ad accoglierlo nemmeno come amica.
 
Castiel: Discorso chiuso… si parlava di Boris…
 
Erin: sì, diciamo che alla fine ho capito che per Dajan sono più un impiccio che altro per i suoi allenamenti settimanali con Kim… lei è arrivata ad un livello pazzesco O.o… durante le vacanze si deve essere allenata tantissimo… e io invece sono rimasta indietro perché il mio personal trainer ha ben pensato di prendere un aereo per la Germania >:-(
 
Castiel: non dare la colpa a me se sei un caso disperato. Comunque non mi hai ancora spiegato di Boris
 
Erin: adesso ci arrivo! Dammi il tempo di digitare, porca miseria!

 
Castiel passò i successivi secondi a bombardarla di messaggi della serie:
 
Castiel: sei lentaaaaaaa
 
Castiel: muoviti
 
Castiel: me ne vado
 
Castiel: ma quanto ti ci vuole?
 
Castiel: le capre puzzano
 
Erin: ma la smetti?! 
 
Castiel: mi sto annoiando…
 
Erin: sono desolata di essere la fonte del suo tedio monsieur, tuttavia dovrà pazientare ancora, e soprattutto, smetterla di interrompermi!
 
Castiel: tedio? Ma come scrivi?
 
Erin: esiste nel vocabolario…
 
Castiel: sì, come no… non mi sorprende che Condor ti dia voti bassi sui temi
 
Erin: Condor non mi capisce
 
Castiel: se è per questo neanche io
 
Erin: siete due uomini, per questo porto pazienza
 

Castiel sorrise e finalmente, come sperava Erin, le lasciò il tempo per spiegargli del suo nuovo allenamento.
 
Erin: Dopo aver visto che le mie abilità erano alquanto deludenti, Dajan ha proposto a Boris di allenarmi lui. Dice che è l’unico modo per recuperare qualcosa… e sono due settimane che il coach mi sta sottoponendo a un allenamento speciale… dice che è una cosa che posso fare solo io, e così potrò rendermi utile per la squadra, dal momento che non so saltare, schiacciare...
 
Castiel: Sì lo so, sei una giocatrice abbastanza inutile
 
Erin: Non ti rispondo come meriti perché sono una signora
 
Castiel: In cosa consiste la strategia di Boris quindi? Ti mette a fare la ragazza pon-pon per sollevare il morale della squadra?
 
Erin: al prossimo commento sarcastico, giuro che mi tolgo dalla chat
 

Prima di inviare il messaggio però considerò che quella minaccia valesse davvero a poco per Castiel: era ovvio che l’interesse a restare lì, a chiacchierare, non era reciproco. Stava per correggere il messaggio, ma accidentalmente, premette il tasto Invio.
A quel punto la risposta del ragazzo era alquanto scontata, dal momento che non era uno che cedeva ai ricatti, né tanto meno supplicava le persone. Eppure, nonostante la prospettiva poco incoraggiante, il moro scrisse:
 
Castiel: d’accordo la smetto. Allora, seriamente, di cosa si tratta?
 
Erin sorrise radiosa e si affrettò a spiegargli il piano di Boris, ma appena le sue dita si spostarono sulla tastiera, realizzò una sconcertante verità che fu costretta a riferire all’amico:
 
Erin: ma sai che mica l’ho capito?
 
Castiel reclinò la testa all’indietro, e cominciò a ridere sguaiatamente.  Se la immaginava, con quell’espressione smarrita e al contempo adorabile, mentre cercava di afferrare il senso degli esercizi a cui la sottoponeva il suo allenatore. Tuttavia quel genere di pensieri erano veleno per lui e cancellò dalla sua mente l’uso dell’aggettivo adorabile. Intanto Erin scriveva:
 
Erin: è quasi un mese che non ci vediamo, ti rendi conto? Sembra passata una vita dal concerto…
 

Quel messaggio turbò alquanto il ragazzo. Per quanto potesse imporsi di non pensare a lei, c’era un dubbio che lo tormentava da settimane: cosa ne pensava Erin del loro bacio. Non sapeva come introdurre l’argomento, ma di certo l’approccio diretto era da evitare.
 
Castiel: Ti ricordi di cosa abbiamo parlato quella volta sul tetto?
 
Erin: Abbiamo parlato di qualcosa in particolare? Avevo bevuto troppo, ho i ricordi ancora annebbiati.
 
Castiel: Non ti ricordi niente?
 

La ragazza esitò, cercando di rispolverare la memoria. Aveva ricordi molto annebbiati di quella situazione, così gli riferì:
 
Erin: Abbiamo parlato di film? Tipo di memorie di una geisha... può essere? Non mi ricordo altro... perché questa domanda?  C'è qualcosa che dovrei ricordare?
 
La mascella di Castiel si schiantò contro il tavolo.
Non poteva credere di essersi dannato ore e ore, notte dopo notte, al pensiero di cosa pensasse di lui Erin e del loro bacio, quando in realtà quella scema aveva rimosso ogni cosa a causa dell'alcol. Avrebbe voluto chiederglielo la prima volta che si erano sentiti su Skype, due settimane prima, ma si vergognava troppo; finalmente aveva scoperto la verità, ma era un’opzione così remota, che l’aveva scartata quasi subito.
In fondo però era meglio così: tra di loro non doveva essere accaduto nulla, lui non avrebbe dovuto fornirle alcuna spiegazione e al suo ritorno non ci sarebbero state strane tensioni tra di loro.
 
Castiel: no niente di particolare… te lo chiedevo solo per capire quanto fossi ubriaca
 

“abbastanza da non opporti a quel bacio” pensò tra sé e sé il ragazzo, ma inviò solo il messaggio che aveva appena digitato.
Da lontano sentì la voce di Damien che lo chiamava:
“ehi Cas, noi abbiamo finito. Muovi il culo che usciamo”
L’amica nel frattempo gli aveva risposto:
 
Erin: e pensare che da quella sera è cambiato tutto… non saresti lì se non fosse per il concerto
 
Castiel stava per aggiungere qualcos’altro, ma il richiamo dei suoi amici divenne più insistente:
 
Castiel: mi stanno chiamando. Scusami ma devo disconnettermi. Ci sentiamo un’altra volta, d’accordo?
 
Erin: farò finta di crederti -.-
 
Castiel: a cosa?
 
Erin: al fatto che ci sentiremo… dovranno passare altre due settimane immagino no? Dovrò ripiegare sui miei informatori (Nath) per beccarti on line… ma si può sapere perché caspita fai così il prezioso? Lys mi ha detto che gli hai scritto una volta sola!
 
Castiel: Cip, non rompere le palle… sono un uomo impegnato
 
Erin: lo so… però visto che il tempo per scrivere a Nathaniel lo trovi, potresti dedicarne un po’ anche al resto dei tuoi amici, non ti pare? Sono contenta, non sai quanto, che voi due vi siate riappacificati, ma secondo te, come ci sentiamo noi a non avere tue notizie? È come se non te ne importasse nulla…
 
Castiel: non è così, è solo che

 
Il ragazzo esitò, indeciso sul come concludere la frase.
Non poteva dirle che sentirla, acuiva quei sentimenti che da giorni cercava di soffocare.
Non poteva dirle che ogni volta che pensava a lei sentiva un peso sullo stomaco.
Non era vero che aveva scritto una sola volta a Lysandre: lui e l’amico avevano cominciato a sentirsi nell’ultima settimana, anche se Castiel gli aveva chiesto di non dirlo ad Erin.
Era solo lei il suo problema.
 
 Castiel: non è così, è solo che sono un idiota, porta pazienza
 
Quando lesse quel messaggio, Erin pensò immediatamente ad una persona: Sophia. La sorella aveva sempre avuto un talento particolare nell’impedirle di tenerle il muso. Non riusciva a serbarle rancore a lungo, e così era con Castiel. Di fronte a loro, Erin era costretta a sventolare bandiera bianca e perdonare loro ogni sgarbo. Del resto, si trattava delle persone a cui voleva più bene in assoluto.
 
 
A: nathaniel_daniels@gmail.com
OGGETTO: Incredulità al 100%
 
“guarda, ancora fatico a crederci! Le è davvero piaciuto ^^. Grazie per i complimenti, ma io avevo davvero paura che non le piacesse :S… e invece… oddio, non sto più nella pelle XD Ma ti sembra possibile Nath? Prima Castiel, poi tu e ora a me!!!!! Cioè, voglio dire… è come se la fortuna stesse girando finalmente. Queste opportunità che ci vengono concesse, con Cas in Germania, tu all’università della California, io che vendo le mie creazioni… non è tutto troppo bello per essere vero?? :D
Deve esserci sicuramente una fregatura da qualche parte, però per ora voglio solo godermi questa felicità gratuita ^^).
Baci
Rosa
 
Il mattino successivo Nathaniel rilesse più volte quella mail con un sorriso stampato sulle labbra. L’energia di Rosalya, il suo entusiasmo erano per certi versi contagiosi. Adorava quel suo lato così esuberante ed entusiasta, enfatizzato dalla recente opportunità che la zia di Erin le aveva concesso.
Lei e Castiel stavano sicuramente realizzando il loro sogno, ma lui? Poteva davvero dirsi soddisfatto di dove era arrivato?
Si stiracchiò, allungando la schiena e si guardò attorno: libri riposti in perfetto ordine sulle mensole, un letto completamente rifatto e manuali di informatica: era quella la vita che voleva?
Quella domanda lo ossessionava da ormai troppo tempo.
Nel tentativo di darle una risposta, aveva cercato di deviare dal percorso tracciatogli da suo padre, ma si era perso per strada, trovandosi costretto a tornare sui suoi passi. Aveva letteralmente appeso il microfono al chiodo, dopo aver realizzato quanto potesse essere spietata la logica di Gustave Daniels.
Non era destinato a diventare un vocalist e, a distanza di mesi da quella cocente delusione, si accorse che era rimasto talmente annichilito da quell’esperienza, che ormai non gli importava più nulla.
Aveva finito per assecondare le volontà della sua famiglia, senza reagire in alcun modo o tentare di ribellarsi: la sua passione per la musica, il sogno di fondare una band con il suo migliore amico erano svaniti e non era rimasto nulla a rimpiazzarli. Solo un vuoto abissale in cui era impossibile trovare una minima traccia di speranza per il futuro.  
Nathaniel Daniels, direttore esecutivo della DDC, la Daniels Dreams Company. Quel nome sembrava farsi beffe di lui, che proprio a causa di quell’azienda, aveva dovuto annullare i suoi sogni
“ma che sogni ho?” rifletteva amareggiato il biondo, distendendosi sul letto “Rose ha sempre sognato di diventare stilista e si sta impegnando anima e corpo per diventare qualcuno un giorno, Cas sfonderà sicuramente nella musica, è un genio…  ma io? Che cazzo mi è rimasto?”
Sbuffò innervosito, mettendosi seduto.
Erano molti i motivi che portavano i suoi coetanei a invidiarlo. Tra i tanti, la sicurezza economica garantitagli dal nome che portava, dal posto di lavoro che lo avrebbe atteso una volta concluso il suo percorso di studi… eppure erano privilegi che avrebbe ceduto al primo passante per strada, pur di non essere Nathaniel Daniels.
Si spostò sulla scrivania, dove era rimasto fino a poco prima per leggere la mail. Guardò la foto dei suoi vecchi amici, dalla quale non si separava mai. Non vedeva l’ora di tornare da loro, al liceo, ora che con Castiel ogni cosa era risolta. Anche se Erin era la sua ex ragazza, Rosalya gli aveva raccontato di come fosse stata la mora ad insistere perché si facesse avanti. Non ci sarebbero state tensioni tra di loro e se il suo migliore amico si fosse deciso, probabilmente all’interno di quel gruppo, le coppie sarebbe state addirittura due: Castiel con Erin e lui con Rosalya.
Era tutto perfetto, era quel genere di epiloghi che aveva sempre sognato, o per lo meno, in cui sperava da quando Debrah era riuscita a rovinare tutto. Ripose la foto al suo posto e guardò fuori dalla finestra.
Non poteva dare la colpa solo alla ragazza: anche lui si era fatto circuire, si era lasciato convincere dai suoi discorsi che solo successivamente, gli apparvero in tutta la loro insensatezza.
Era stato semplicemente stupido ma rimarginare sul passato era inutile.
Ora era tutto risolto e non avrebbe commesso lo stesso errore una seconda volta: Castiel era come un fratello per lui e non avrebbe permesso a nessuno di dividerli ancora.
Afferrò il giubbotto e uscì dalla stanza. Era stanco di restarsene rintanato all’interno: era una giornata soleggiata e la temperatura sfiorava i dieci gradi.
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Eccomi finalmente ^^. Non per fare un patetico tentativo di captatio benevolentiae, ma devo dire che mi siete mancate in queste settimane :’)… mi è mancato il controllare assiduamente EFP per vedere se avrei trovato recensioni/messaggi, che solo un nuovo capitolo fresco di stampa può calamitare^^. Quindi intanto lasciatemi dire, BUONGIORNO <3 (in realtà adesso sono esattamente le 23.25, ma sono bazzecole -.-).
Allora, devo dirlo: non ho più tempo per fare nulla u.u… il fatto è che vi avevo promesso che sarei ricomparsa dopo 15 giorni ma se non fosse per la mia mania autolesionista di fare promesse, penso che anche questa settimana non avrei pubblicato il capitolo :S… davvero, mi si stanno sommando un sacco di impegni vari, e la cosa mi scoccia tantissimo, perché le voglia di scrivere non è scemata :(.
Se avessi voluto rispettare il mio intento iniziale, il capitolo sarebbe risultato molto più lungo, con una parte che dovrete aspettare la settimana prossima per leggere… e questa parte riguarda uno di quei personaggi che mi ha sempre messo in croce: Nathaniel; è un personaggio che nel gioco mi mette un nervoso assurdo ma che nella mia storia ho cercato di descrivere nel modo più imparziale possibile, nel senso che non volevo portarvi a condividere la mia “mal sopportazione” nei suoi confronti… e con questo capitolo, devo dire che sta cominciando a fari simpatia o.O… Sarà perché sto immaginando le scene del prossimo chapter, oppure perché comincia a prendere più spessore anche il suo punto di vista (qualcosa aveva raccontato Ambra a durante la cena di Erin dai Daniels), ma credo che d’ora in avanti non mi dispiacerà parlare del biondo ;).
Ok, mi fermo qui. Grazie per aver letto! Alla prossima :).
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** Let's move! ***


CAPITOLO 42: LET’S MOVE!
 

Il contatto dei piedi nudi con la sabbia tiepida era una sensazione completamente estranea a Nathaniel e per questo, ancora più piacevole ed elettrizzante; quando andava al mare in estate infatti, era abituato a sentire il fuoco sulla pelle.
Era la prima volta che visitava San Francisco in inverno e, contrariamente a quanto immaginava, era quasi più bella della versione estiva che aveva conosciuto in passato. In fondo era per metà svedese ed in quel momento gli sembrava che la sua natura per metà scandinava volesse fuoriuscire.
La sera prima Castiel l’aveva caldamente invitato a non restarsene rintanato nel campus e cercare qualche distrazione, ma poiché dopo due settimane l’ex segretario del liceo non aveva ancora una compagnia fissa di amici, non sapeva bene come impiegare quella giornata.
Su consiglio di Andrew, che alloggiava nella stanza accanto alla sua del dormitorio, Nathaniel aveva optato per una passeggiata sulla spiaggia di Baker Beach, dalla quale si godeva di una favolosa vista del più famoso ponte californiano. La temperatura sfiorava i 12 gradi e i raggi luminosi del sole che picchiavano sulle creste delle onde, sembravano cospargere il mare di diamanti iridescenti.
Il ragazzo sorrise leggermente, deliziato da quella vista, anche se si rammaricò del brusio attorno a lui: ovunque si girasse, c’erano persone che avevano avuto la sua stessa idea: chi camminava in solitudine, chi si intratteneva con gruppi di amici e c’era anche chi, contrariamente alla legge della contea, era tranquillamente seduto a fumare.
Continuò a camminare, cercando di isolarsi dal mondo, cosa che per altro che non richiedeva un grande sforzo da parte sua. Ripensò per l’ennesima volta a Rosalya, cercando di convincersi che aver lasciato tutto in sospeso tra di loro, fosse stata la scelta giusta.
Eppure la amava, l’aveva sempre amata. Ma proprio per questo, quando lei si era presentata a casa sua, sostenendo di ricambiare i suo sentimenti, la sua reazione avrebbe dovuto essere diversa. L’aveva desiderata così tanto che quando il suo sogno si era materializzato, lui si era tirato indietro, come se temesse che fosse troppo bello per essere vero.
Sospirò, più intensamente di quanto avrebbe dovuto, tanto che una bambina alzò lo sguardo incuriosita verso quel bellissimo ragazzo dai capelli dorati e lo ammirò sognante. Nathaniel continuò il suo percorso, meditando su quell’indole che voleva disperatamente cambiare: più passava il tempo e più aveva la sensazione che la mentalità di suo padre si impossessasse di lui, privandolo delle emozioni e della spontaneità dei ragazzi della sua età.
Gustave aveva sempre aspirato e mirato alla conformazione di un erede dotato di un’eccellente capacità di raziocinio e analisi della situazione, ma queste doti dovevano essere accompagnate anche da una certa insensibilità emotiva che, a suo avviso, avrebbe agevolato il figlio nella scalata al successo; secondo la logica paterna, i sentimenti erano un terribile ostacolo, accecando l’uomo e distraendolo dal suo obiettivo. Del resto, il signor Daniels aveva sperimentato in prima persona quanto anche una semplice infatuazione potesse essere fatale: si era innamorato perdutamente di una bellissima svedese, avevano passato due settimane a fare l’amore chiusi in un albergo circondati dalla neve, sussurrandole dolci promesse che avrebbero coronato quella relazione apparentemente perfetta. Tornato in America però, si era accorto di non amare Ingrid, che rappresentava solo una fin troppo appagante avventura sotto le lenzuola: lei lo aveva fatto sentire vivo come non era mai accaduto prima, a causa di un’adolescenza difficile fatta di rinunce e duro lavoro, ma non poteva darle niente di più. Di certo non quell’amore romantico che lui non aveva ancora conosciuto.
Era tornato al suo lavoro, rappresentato all’epoca da una piccola impresa di progettazione software che era riuscito a mettere in piedi dopo anni di sacrifici e si era dedicato anima e corpo nella sua realizzazione, dimenticando Ingrid e la fredda Svezia in cui l’aveva lasciata.
A distanza di un mese però, la sua segretaria era entrata nel suo ufficio, tenendo in mano il cordless. Aveva un’espressione sconvolta e, quando Gustave cercò di carpirne la motivazione, la donna si limitò ad allungargli la cornetta, sostenendo che una donna dallo strano accento aveva una cosa molto importante da riferirgli.
Riconobbe all’istante il timbro di Ingrid ma ci mise molto più tempo a metabolizzare quanto la donna gli vomitò addosso: era incinta.
La prima reazione dell’uomo fu di rabbia, come se gli fosse appena stato fatto un torto irreparabile, di cui lui non aveva alcuna colpa o responsabilità. Non aveva mai desiderato un figlio, non sapeva cosa significasse essere padre poiché non ne aveva mai avuto uno e soprattutto, non l’avrebbe voluto da quella donna; da quando era partito dalla Svezia infatti, più passavano i giorni e più si rendeva conto di quanto in basso si fosse spinto a lasciarsi abbindolare da una simile persona. Solo una volta lontano da lei aveva realizzato quanto la sua bellezza servisse a celare delle irreparabili pecche quanto a capacità intellettuali.
L’opinione deplorevole che il padre nutriva verso la madre era cosa ben nota tanto al figlio maschio, quanto alla sorella: sia Ambra che Nathaniel erano consapevoli di vivere all’interno di un matrimonio che era fallito sul nascere.
Gustave aveva sposato Ingrid solo perché spinto dal senso del dovere e la secondogenita era nata da un’infantile capriccio da parte della madre di avere una figlia femmina, dono che la natura fu così magnanima da concederle. Mentre Ingrid era quel tipo di persona a cui la vita sembrava esaudire ogni desiderio, la figlia era cresciuta con il rammarico che sin dalla sua nascita le era stato fatto un torto: anno dopo anno infatti, realizzava quanto il suo essere femmina fosse agli occhi della società benestante, sinonimo di figura frivola e inutile, come del resto lo era la madre.
Tuttavia i due fratelli non erano pienamente coscienti di tutti i retroscena della loro famiglia. Uno dei segreti che i genitori custodivano con più attenzione era che, dopo la nascita di Nathaniel, Gustave avesse preteso l’esecuzione di un test di paternità sul suo potenziale erede; non si sarebbe legato in matrimonio ad Ingrid, con il dubbio che nelle vene del neonato scorresse il sangue di uno sconosciuto. D’altronde la sua fortuna aumentava di mese in mese e la personalità opportunistica della svedese lasciava alito a ipotesi poco encomiabili.
Anche se la donna sapeva di avere la coscienza pulita, inevitabilmente quella condizione inappellabile spezzò l’ultimo filo di speranza per un amore che a quel punto non sarebbe mai sbocciato e che neanche la nascita di un figlio avrebbe creato; Nathaniel venne riconosciuto come figlio di Gustave Daniels ma questo non bastò all’uomo per sentirsi un papà. I Daniels divennero ufficialmente una famiglia, ma dietro un’apparenza di benessere e felicità, si nascondevano quattro persone insoddisfatte.
Sin da bambino, Nathaniel aveva vissuto in quell’ambiente così artefatto e freddo che aveva finito per reprimere i suoi sentimenti, cercando di mostrarsi sempre posato e misurato. Non biasimava chi lo considerava un ragazzo noioso e purtroppo per lui, frequentemente era stato così etichettato.
 
La prima persona che era riuscita a vedere qualcosa di diverso in lui aveva otto anni e un viso che spesso e volentieri si corrucciava: Nathaniel sorrise rimembrando la prima volta che vide Castiel.
 
“bambini, fate silenzio!” si arrabbiò la maestra Paula, battendo le mani un paio di volte per richiamare l’attenzione nell’aula. Venti testoline si voltarono verso di lei, per poi abbassare lo sguardo verso il loro coetaneo che quasi sembrava nascondersi dietro la gonna scozzese dell’insegnante.
“lui è Nathaniel. Da oggi sarà il vostro nuovo compagno. Viene da un posto molto lontano… la Svezia!”
Alcuni dei piccoli scolari aggrottarono le sopracciglia e una bambina dall’aria saputella, intervenne:
“e dov’è questo paese?”
“nel Nord Europa, Evelyn” spiegò pazientemente la maestra Paula, accomodandosi gli occhiali sul naso “lì fa molto più freddo che qui a Morristown”
“ci sono anche i pinguini là?”
Nathaniel spostò lo sguardo verso l’alunno che aveva appena formulato quella domanda tanto sciocca. Non veniva dal Polo Sud, per cui non capiva se chi aveva appena parlato volesse solo prenderlo in giro.
“no, non ci sono i pinguini in Svezia…Castiel” precisò la donna con un sorriso “perché ti sei fissato con i pinguini ultimamente?”
 
Come scoprì successivamente Nathaniel, il suo nuovo compagno di classe aveva visto un documentario su quegli strani uccelli e ne era rimasto talmente colpito che ogni volta che sentiva il nome di un paese sconosciuto, interrompeva il discorso con “ci sono i pinguini là?”. Quella stranezza durò per un paio di mesi, ma a distanza di tanti anni il biondo se ne ricordava ancora.
Due giorni dopo il suo arrivo a Morristown, il piccolo Nathaniel non era ancora riuscito a farsi degli amici. Non aveva difficoltà ad esprimersi in inglese dal momento che il padre, essendo americano, gli parlava nella sua lingua nativa anche quando vivevano in Svezia, ma ciò di cui il bambino era completamente sprovvisto, era la capacità di aprirsi agli altri. Durante la ricreazione era rimasto sempre da solo, sperando con tutto il cuore che qualche bambino lo invitasse a giocare. Mangiucchiava il suo panino al burro di arachidi amorevolmente preparato da Molly, cercando di farlo durare il più possibile, in quanto pretesto per non restarsene con le mani in mano.
Non si era accorto delle bambine parlavano di lui, lasciandosi sfuggire dei risolini divertiti e sciocchi, troppo elettrizzate dalla novità rappresentata da quel bambino così carino. Nonostante questo però, nessuna di loro si era mai fatta avanti. I suoi primi due giorni di scuola era passati così, in solitudine, ma poi era arrivata la gita al parco naturalistico di Allentown:
 
Nathaniel chiudeva la fila di bambini, annoiandosi terribilmente. Non aveva nessuno con cui chiacchierare, i suoi compagni lo ignoravano e lui non riusciva né provava ad inserirsi nelle loro conversazioni. Improvvisamente, con la coda dell’occhio, notò un movimento tra le fronde e scrutò il punto incriminato. Vide spuntare due lunghe orecchie biancastre: una lepre. Era la prima volta che ne vedeva una dal vivo e il suo colore così singolare per quella zona, attirò talmente la sua attenzione, che si dimenticò del resto della scolaresca e si precipitò a inseguirla.
Gli era venuta in mente la storia di Alice nel paese delle meraviglie e, nel suo cuore di bambino, qualcosa gli diceva che seguendo quella versione selvatica del Bianconiglio, sarebbe arrivato anche lui in un mondo magico. Diversamente però dall’eroina creata da Carroll, Nathaniel perse di vista l’animale e si trovò al centro di una radura. Si guardò attorno avvertendo un’ansia crescente che sfociò ben presto nel terrore: si era perso. Aveva già scordato da quale direzione fosse arrivato e la barriera naturale rappresentata dagli abeti attorno a lui gli impedivano di avere una visuale più profonda.
Le lacrime cominciarono a salirgli in gola, finchè avvertì una voce che il giorno prima l’aveva particolarmente divertito in mensa, distinguendosi come sobillatrice di cori di protesta: facendosi spazio tra la fitta vegetazione emerse Castiel, intento a levarsi un ramo secco che si era impigliato nei capelli. Borbottava parole che il biondino non riusciva a decifrare, finchè se lo trovò a pochi passi da lui:
“perché corri dietro ai conigli? Sei stupido per caso?”
 
Ogni volta che ripensava a quella scena, Nathaniel doveva trattenersi dall’esplodere in una risata. Gli sembrava quasi di rivedere quella sensazione di un’ansia che svaniva, seguita dall’irritazione scaturita a causa del tono piccato con cui gli si era rivolto il suo compagno di classe. Faticava quasi a credere che la loro amicizia fossse nata con un piccolo bisticcio.
 
“lo stupido sarai tu… era una lepre”
Con un passo incerto, il biondino si era affrettato a colmare la distanza tra lui e il suo simile, unica speranza per tornare sulla retta via. Diversamente da lui, Castiel sembrava perfettamente sicuro di sé e padrone della situazione. Teneva in mano la cartina che la maestra Paula aveva dato ai suoi scolari con raffigurate tutte le specie animali e vegetali che avrebbero osservato quel giorno e portava al collo un binocolo che sembrava troppo grande per il suo corpicino di bambino. Offeso per la parole che gli aveva rivolto il piccolo svedese, aveva replicato:
se sei tanto intelligente arrangiati da solo a tornare dagli altri”
Il piccolo esploratore aveva così voltato le spalle, facendolo precipitare nel panico.
 
“a-aspetta!” lo aveva richiamato Nathaniel, correndogli dietro.
Castiel si fermò di colpo, sorridendo beffardo. Quella smorfia, che già in tenera età lo contraddistingueva, sarebbe diventata negli anni il suo marchio di fabbrica.
“non sai come tornare indietro eh?” lo canzonò.
“no” ammise l’altro con un candore tale da lasciarlo per un attimo spiazzato “tu invece?” soggiunse speranzoso.
Castiel si portò una mano sul capo e se lo grattò, guardandosi attorno.
“non ne ho idea”
Nathaniel sgranò gli occhi di fronte a quella notizia e alla tranquillità con cui gli era stata comunicata.
“andiamo un po’ in giro a caso e prima o poi sentiremo le loro voci” propose, assolutamente rilassato e sottovalutando la gravità della situazione.
“assolutamente no!” si impuntò il biondino “quando ci si perde bisogna rimanere fermi in un punto”
Castiel scrollò le spalle e, con una pacatezza che rasentava l’apatia, replicò:
“allora rimani pure qua tu… io vado”
Il panico deformò l’espressione del suo compagno di classe:
“vengo con te!” gli urlò dietro, correndogli appresso. Castiel ridacchiò divertito e insieme, i due bambini si inoltrarono nel bosco.
 
“PALLAAAAAA!”
La tempia sinistra di Nathaniel venne colpita da un oggetto sferico e piuttosto rigido, destabilizzandolo. Il suo collo fu costretto a sporgersi di lato, rischiando quasi di fargli perdere l’equilibrio.
“EPPURE TI AVEVO DETTO PALLA!” lo rimproverò canzonatoria, una voce irritantemente familiare.
Strappato violentemente dall’onda di nostalgici ricordi, il ragazzo fu costretto a cercare la fonte di quella prepotenza: con un’espressione tra l’irritato e il beffardo, gli si stava avvicinando una ragazza dai corti capelli rossicci.
“quindi adesso sarebbe colpa mia, Sophia?” la rimbeccò, scrollandosi la sabbia che la palla aveva lasciato sui suoi capelli.
“finchè non guardi dove vai, direi proprio di sì” replicò placidamente lei, raccogliendo il missile sferico che gli aveva lanciato. Gli si avvicinò, guardandolo dritto negli occhi, quasi a sfidarlo.
“ero sovrappensiero” si giustificò lui.
stella, se continui così prima o poi ti tireranno sotto per strada”
Nathaniel si irritò alquanto per l’appellativo derisorio con cui gli si era rivolta la ragazza ma non fece in tempo a replicare che una seconda figura soggiunse, interrompendo la loro conversazione:
“è un tuo amico?”
Il biondo osservò la corporatura robusta e la treccia alla francese che intrecciavano i capelli corvini della sconosciuta.
“no Carly, è il fratello di una mia amica” la corresse Sophia.
Carly analizzò il ragazzo, sorridendogli amichevole:
“vuoi unirti a noi? Ci mancherebbe giusto un quinto giocatore”
Nathaniel spostò lo sguardo in un punto alle spalle delle due ragazze e notò la presenza di altre sette persone, divise da una rete di pallavolo.
“beach volley?”
“no, hockey su ghiaccio” rispose sarcastica Sophia.
Il sopracciglio di Nathaniel cominciò a tremare per la stizza, come raramente gli accadeva. Quanto a Sophia invece, non riusciva a tenere lo sguardo fisso su quel ragazzo senza sentire crescere in lei una certa insofferenza. La prima e ultima volta che l’aveva visto, si era sforzata di essere più gentile possibile con lui, in nome dell’amicizia che la legava ad Ambra. Quel giorno però, si era svegliata con il piede sbagliato e le buone maniere erano state accantonate senza possibilità di appello… e inoltre sapeva di avere un ottimo motivo per serbare del rancore al ragazzo.
“simpatica” borbottò acido il biondo, mentre altre due figure maschili si unirono al trio.
“problemi?” chiese un ragazzo con un viso allungato e il mento sottile. Nonostante i dieci gradi, portava una t-shirt a maniche corte, dalla quale si potevano osservare dei vistosi tatuaggi. Accanto a lui, un suo amico, più basso di una spanna e dall’aria decisamente più cordiale:
“è uno che conosco Adrian” lo freddò Sophia, rivolgendosi al ragazzo più alto “mi sa che abbiamo trovato il quinto uomo, così lasciamo in pace Space”
“non capisco perché continui a portartelo dietro Merida” farfugliò Adrian, rivolgendo un’occhiata fugace alle sue spalle. Nathaniel notò allora la presenza di un ottavo elemento seduto a bordo campo. Era seduto sulla sabbia, con la schiena incurvata in avanti, intento a leggere un voluminoso tomo.
“è un po’ particolare, per questo mi piace” lo difese Sophia “e comunque smettila con quel soprannome del cavolo!”
“parli proprio tu che affibbi soprannomi a destra e a manca” s’intromise il secondo ragazzo.
“i nomignoli che invento io sono carini, Junior”
Junior scrollò le spalle e si rivolse a Nathaniel:
“quindi vieni anche tu dalla Pennsylvania”
“no, sono del New Jersey, ma non abito lontano da Allentown”
“è da tanto che vi conoscete?” indagò Carly.
“ci siamo visti per la prima volta due settimane fa” spiegò Sophia, facendo cenno ai presenti di tornare al campo di pallavolo.
Nathaniel si era così trovato coinvolto come giocatore in una partita di gente che, fatta eccezione per la rossa, non aveva mai visto prima. Cercò di fare mente locale dei nomi: Carly era la ragazza grassottella, con la treccia e i capelli neri, Junior era il ragazzo basso con i capelli tinti di biondo sulle punte, mentre Adrian era quello tatuato.
Fu Carly a presentargli il resto della compagnia, ma disorientato dalla numerosità di informazioni che riceveva, Nathaniel cercò di concentrarsi soprattutto sui nomi dei suoi prossimi compagni di squadra: oltre a Carly, gli aveva stretto la mano una ragazza molto carina, dalle gambe chilometriche messe in evidenza da dei pantaloncini attillati. Si era presentata con il nome di Daphne, giustificando le sue origini greche. Aveva raccolto scompostamente i capelli in uno chignon basso, lasciando che qualche ciocca ondulata le sfuggisse davanti al viso. Continuava a sorridere al nuovo arrivato, mettendolo in evidente disagio, mentre Cedric, che si era posizionato sotto la rete, si era limitato solo ad un cenno con il capo. Non sembrava un tipo particolarmente loquace di suo, ma da quando Daphne aveva posato gli occhi sul biondino venuto dalla costa orientale, il giocatore pareva essersi ancora più irrigidito. Ed infine c’era un certo Gerard, un tipo tranquillo, che non spiccava per alcuna caratteristica particolare.
“cominciamo?” sbottò spazientito Adrian, dall’altra parte della rete.
“Space tieni i punti” intervenne Junior, guardando il ragazzo seduto in solitudine sulla sabbia.
Aveva un taglio che a Nathaniel ricordò quello di Castiel, ma i capelli di Space erano talmente lunghi da coprirli anche gli occhi. Sollevò pigramente il capo, distogliendo con una lentezza da bradipo quei ciuffi che gli precludevano la vista, rivelando un viso lentigginoso e adornato da un paio di occhiali neri.
“teneteveli voi i punti, io sto leggendo” replicò, senza lasciare spazio ad ulteriori proteste, e rifondò il naso tra le pagine del libro che teneva appoggiato sulle ginocchia.
Sophia ridacchiò, mediando:
“lasciatelo in pace, lo sapete che è allergico allo sport… e poi è solo un’amichevole”
“e da quando in qua sei così poco competitiva tu?” chiese una sua compagna di squadra di cui Nathaniel non era sicuro di ricordare il nome. Forse era Alisa o qualcosa di analogo.
“abbiamo un ospite oggi Alysha” sorrise Sophia guardando divertita il biondo “dobbiamo andarci leggeri”
Nathaniel sorrise, mentre l’eccitazione di cominciare a giocare si faceva strada in lui. Erano passati due anni dall’ultima volta che aveva disputato una partita, la quale risaliva al terzo anno di liceo, in cui giocava nella squadra di calcio della scuola. Pallavolo non era mai stato il suo forte, ma la dimestichezza che aveva con i piedi, riusciva a compensare la sua scarsa abilità come pallavolista.
La partita iniziò.
Junior si posizionò a fondo campo e lanciò la palla in aria, schiacciandola con veemenza oltre la rete. Con un bagher perfetto, Daphne ammortizzò il colpo, convogliando la sfera verso Cedric che la palleggiò in aria mentre Carly spiccava un salto. Nonostante la stazza, rivelò un’elevazione discreta e schiacciò la palla contro il suolo avversario. Sophia intercettò rapida il passaggio, buttandosi sulla sabbia, evitando così di concedere  il punto agli avversari e Alysha migliorò la traiettoria, orientando la palla verso Adrian. Il ragazzo spiccò un salto e, con quanta più forza gli era possibile, la lanciò contro il nuovo arrivato.
Disorientato per la velocità con cui si era svolta quella sequenza di azioni, Nathaniel era completamente impreparato. Vide la palla sfrecciare alla sua destra ma le braccia non furono così rapide da seguirne il movimento. Ormai la sfera era a pochi centimetri dal suolo quando il suo piede destro scattò di lato, colpendola con l’interno. L’oggetto rimbalzò, descrivendo una parabola perfetta la cui traiettoria venne prontamente intercettata da Carly. Gli avversari, presi alla sprovvista, quando ormai erano certi di aver concluso l’azione, non furono abbastanza svelti da attuare una difesa e la giocata si concluse con il primo punto segnato dalla squadra di Nathaniel.
“sei stato fortunato amico” dichiarò, quasi minaccioso Adrian. Aveva un sorriso strano, in cui, nonostante le premesse di un gioco tra amici, si leggeva la determinazione di vincere.
“così pare” minimizzò l’altro, sorridendogli con aria di sfida.
“ricominciamo!” intervenne Sophia. Nella sua voce c’era una nota di fastidio, come se quel semplice 1-0 a sfavore della sua squadra fosse un intollerabile affronto.
La battuta toccò a Carly che lanciò la palla dal basso, intercettando lo spazio tra Sophia e Junior. Quest’ultimo si sporse di lato, congiungendo le mani e facendo rimbalzare su di esse la sfera. La palla volò sopra la testa di Sophia, arrivando a Alysha: la ragazza alzò la palla verso Adrian ma il ragazzo non riuscì a schiacciarla sul campo avversario grazie al muro creato da Cedric.
Fu così che venne segnato anche il secondo punto.
Space aveva sollevato il viso, e con un’espressione annoiata, aveva studiato le espressioni dei giocatori: la squadra di Sophia sembrava innervosirsi mentre in quella del nuovo arrivato si respirava un clima di trepidante allegria.
Daphne raccolse la palla e si mise alla battuta. Il tiro risultò pulito, mirando l’angolo sinistro a fondo del campo avversario. Junior si precipitò ma il quinto giocatore della squadra, Mark, lo redarguì:
“è fuori, lasciala andare!”
Junior si fidò di quell’esortazione, ma proprio per pochi centimetri, la palla rimase nell’area del campo, tracciata in precedenza, consentendo agli avversari di segnare il terzo punto.
“ma cacchio Junior! Potevi buttarti!” lo criticò Sophia, cercando di trattenere la rabbia.
“calmati Meri” ridacchiò Alysha, storpiando il soprannome dell’amica “siamo appena all’inizio”
“non credevo ci sareste andati leggeri sul serio” li derise Nathaniel seguito a ruota dal resto della sua squadra, che al momento stava conducendo il gioco.
La ragazza cacciò un lungo sospiro e puntò le iridi verdastre contro il fratello di una delle sue più care amiche:
“d’accordo fratellino” pensò tra sé e sé “se vuoi la guerra, che guerra sia”
 
La signora Phoenix si assicurò che il portafoglio fosse saldamente chiuso in borsa e riprese con la sua camminata accelerata:
“mamma” la richiamò Kim con voce lamentosa, strisciando quasi sul marciapiede “perché hai tutta questa fretta? Rallenta!”
“parli proprio tu! Corri sempre per niente, adesso che c’è da andare a fare spese fai il bradipo? Tutta tuo padre” la rimproverò Lois, decelerando.
“lo sai che io e lo shopping non andiamo molto d’accordo” farfugliò Kim, lanciando occhiate fugaci attorno a sé. Non solo odiava fare shopping, odiava pure farlo con sua madre. Lois era sempre troppo chiassosa, troppo esuberante per i modi più schivi e riservati della figlia. Del resto la ragazza non aveva una vera e propria compagnia femminile con cui dedicarsi a quell’attività e portarsi al seguito Trevor e i suoi amici maschi era assolutamente fuori discussione:
“andrai in giro per il paese a giocare e ti vuoi presentare con i vestiti che hai?” insistette Lois, facendole segno di seguirla mentre il semaforo per i pedoni segnava il via libera.
in giro per il paese” le fece il verso Kim “Boris ha detto che cercheranno di organizzare le partite in modo che da minimizzare gli spostamenti… e poi scusa, cosa c’entra come sono vestita? In campo devo indossare la divisa”
“ma cioccolatina mia” pazientò la mamma, che con quel vezzeggiativo si era appena giocata quel poco di buonumore che restava alla figlia “ti rendi conto che incontrerai centinaia di ragazzi? In mezzo a loro potrebbe esserci l’uomo della tua vita!”
“ma perché diavolo sei così ossessionata da questa storia!” protestò Kim, avvampando per il nervoso.
“non voglio che tu resti sola tesoro… e poi io voglio diventare nonna un giorno!”
Per un pelo Kim non piantò il naso contro il palo che, lo shock per l’affermazione di sua madre, le aveva impedito di notare.
“potresti almeno evitare di urlare per strada” le bisbigliò furente, notando dei risolini da parte di alcuni passanti.
“oh, ma che te ne frega tesoro? Sono una persona allegra io!”
“anche troppo” farfugliò tra sé e sé la ragazza. Lois nel frattempo si era fermata davanti ad una vetrina di vestiti. Kim sbirciò oltre il vetro, convinta che avrebbe notato solo quel genere di capi molto femminili che la madre sognava di farle indossare. Contrariamente alle sue aspettative però, i manichini erano vestiti con abiti dal taglio casual, senza pizzi o strass, accessori che facevano arricciare il naso alla giovane cestista.
Interpretando correttamente il silenzio della figlia, Lois le sussurrò, finalmente a bassa voce:
“allora? Conosco o no i tuoi gusti?”
 
Le due donne entrarono nel negozio, notando la presenza di altre tre clienti. C’era una sola commessa, che si spostava abilmente tra le tre donne, regalando a ciascuna dei preziosi consigli. Volava agilmente da un angolo all’altro del negozio, recuperando gonne e camicette a seconda delle necessità di chi doveva accontentare. Kim rimase quasi incantata nel leggere i movimenti della commessa e la grazia con cui si destreggiava; aveva due occhi molto chiari, color del grano e un sorriso bianchissimo, che la velocista ricondusse a quello di una persona che da settimane era diventata il suo chiodo fisso.
“posso aiutarvi?” le accolse la donna, chinandosi quasi verso le due donne.
Le labbra di Lois si socchiusero, come se avesse bisogno di qualche secondo di silenzio per formulare un discorso, poi, con un tono decisamente più alto del necessario, strillò:
“OH MIO DIO! WHITNEY!”
La commessa sgranò gli occhi e studiò con più attenzione la cliente che aveva appena indovinato il suo nome:
“Lois?” chiese incerta. Di fronte all’espressione affermativa e solare della donna, anche Whitney si lasciò sfuggire un gridolino entusiasta; le due si lanciarono le braccia al collo e, saltellando sul posto come due ragazzine, cominciarono a sovrapporre le parole dell’una su quelle dell’altra, tale era la frenesia di parlarsi:
“non ci posso credere! Whitney! Cosa saranno? Dieci anni che non ci vediamo?”
“anche di più. Non sapevo vivessi a Morristown!”
“io e mio marito ci siamo traferiti qui dopo la nascita di Kim” spiegò Lois, strattonando a sé la figlia, che cercò di fare buon viso a cattivo gioco. La commessa spostò lo sguardo verso Kim, che superava entrambe in altezza, e commentò compiaciuta:
“complimenti Lois, è una gran bella ragazza”
La cestista ringraziò la propria carnagione scura che le impediva di mostrare il rossore che le era esploso in faccia, mentre le due donne continuavano a chiacchierare, sull’onda dei ricordi:
“ma pensa. Scopro solo ora che sei qui. Ma non è da tanto che hai aperto questo negozio, vero?”
“no, sono un paio d’anni” la tranquillizzò Whitney, invitando le due donne a seguirla al centro del locale.
“tu Kim guardati un po’ in giro” la liquidò la madre e, prendendo da parte quella vecchia conoscenza, le due cominciarono a parlottare tra di loro.
La ragazza, rimasta sola, potè studiare tranquillamente la vasta scelta di vestiti proposti dal negozio e si sorprese del fatto che molti di questi fossero di suo gusto. Aveva appena adocchiato un maglione con fantasie a zig-zag, quando sentì la voce acuta della madre che la chiamava:
“KIM! LO SAI CHE WHITNEY HA UN FIGLIO CHE VIENE A SCUOLA CON TE?” strillò, in preda a un esagerato entusiasmo che sembrò divertire le altre clienti.
La ragazza annuì per educazione, disinteressata dall’argomento, ma Whitney non sembrava altrettanto staccata.
“vai al Dolce Amoris?” le chiese sorpresa.
Kim annuì e vide sul volto della donna distendersi un sorriso radioso, troppo simile a quello del capitano della sua squadra. Talmente uguale che, prima che donna completasse la frase, Kim aveva già fatto il fatidico collegamento, quello che giustificava la familiarità di quel sorriso:
“allora tu devi essere la famosa Kim che si allena con Dajan tutti i sabati. Mi ha detto che sei bravissima a basket”
La ragazza sentì mancarle un battito e scrutò quella donna che sin dal primo sguardo le aveva ispirato simpatia. Più la osservava, e più riscontrava in lei delle somiglianze con il figlio. Non era solo il sorriso, era anche quello sguardo, quelle sopracciglia scure e ben delineate.
“ma non ci posso credere!” aveva enfatizzato Lois, spalancando esageratamente la bocca.
“dopo che l’hanno nominato capitano, l’ho visto un po’ più teso” continuò a parlare Whitney, rivolgendosi con orgoglio all’amica.
“capitano” ripetè ammirata Lois, annuendo in direzione della figlia, quasi a voler puntualizzare qualcosa a cui Kim non prestava sufficientemente importanza.
La figlia sollevò gli occhi al cielo ma, anche se da un lato voleva allontanarsi da quell’imbarazzante situazione, dall’altro era troppo curiosa di scoprire qualcosa di più sul ragazzo. Si avvicinò quindi furtivamente alle due signore e finse di provare dell’interesse per un vestito color rosa confetto.
“e tuo marito? Che lavoro fa?” chiese Lois, mentre l’amica congedava una cliente che aveva appena acquistato uno scialle di seta.
La donna sospirò, lasciando che un sorriso triste anticipasse la risposta alla domanda che le era stata posta:
“Dajan non ha mai conosciuto suo padre. Se n’è andato prima che nascesse e da allora non l’ho più visto”
Lois si intristì mentre Kim si torturò il labbro inferiore.
Non immaginava che il ragazzo fosse orfano di padre, dal momento che lo vedeva sempre allegro e solare.
“ma io e Dajan ce la siamo sempre cavata alla grande” spiegò Whitney, tirando fuori un’energia e una positività ammirevoli “crescendo lui è diventato molto protettivo verso di me. Temevo che senza un padre, sarebbe cresciuto senza il rispetto per le gerarchie e invece non potrei essere più orgogliosa di mio figlio” concluse, dopo aver restituito il resto alla seconda cliente.
Kim sorrise tra sé e sé.
Non poteva essere più d’accordo.
 
12-7.
Sophia continuava a ripetere quel numero dentro di sé, sentendo il sangue andarle al cervello. Appena riuscivano a segnare un punto, gli avversari replicavano segnandone due di seguito. La partita non aveva preso la piega giusta e l’unica direzione che doveva intraprendere per una come lei era quella della vittoria.
Quando cercavano di mirare il pallone in punti irraggiungibili del perimetro di gioco, Nathaniel riusciva sempre a intercettarne la traiettoria e deviare il colpo con un abile tocco di piede. Se in tutta la partita aveva fatto cinque bagher, erano già tanti.
Al tredicesimo punto, segnato per l’ennesima volta grazie all’intervento del calciatore, Sophia non riuscì a trattenersi:
“ehi Ronaldo! Stiamo giocando a pallavolo!” sbottò in direzione del biondo “non puoi usare sempre i piedi!”
“il regolamento non lo vieta” s’intromise Daphne, portando le mani sui fianchi.
“questa è pallavolo” rinfrancò Sophia, lanciando saette all’avversario.
“invece di arrabbiarti” intervenne Nathaniel “perché non provi anche tu ad intercettare qualche palla con i piedi? Se lo facessi, non perdesti così miseramente”
La sua squadra scoppiò a ridere mentre la ragazza lasciava che del vapore ad alta pressione le fuoriuscisse dalla orecchie.
Nathaniel invece non riusciva a togliersi quel sorrisino divertito: stuzzicare Sophia lo faceva tornare indietro di un anno, quando a rispondere alle sue provocazioni era un ragazzo dai capelli assurdamente rossi.
 
Armin accettò di buon grado la busta con i contanti frutto delle ultime settimane di lavoro al ristorante cinese del signor Yang.
“non ti ho detlatto i piatti che hai lotto Alminio altlimenti salesti stato in debito con me” gli ricordò l’uomo, guardandolo quasi con fare minaccioso.
Il moro ridacchiò nervosamente mentre il fratello, che si differenziava da lui solo per il colore dei capelli, commentò divertito:
“mi sorprende che mio fratello non abbia mandato a fuoco il locale”.
Il ristoratore guardò l’altro ragazzo, cliente abituale del suo locale e precisò:
“tuo flatello è un blavo lagazzo, pelò è un flagello”
“concordo” ammise Alexy, mentre Armin gli mollava un pizzicotto. Il moro si era rassegnato a rinunciare al lavoro di lavapiatti, proprio perché era risultato troppo pesante per la sua natura svogliata e poco propensa agli sforzi fisici. Inoltre, dopo la notte della Vigilia, Ambra non l’aveva più affiancato davanti all’acquaio, così anche quel poco di buona volontà e incentivo che aveva, erano sfumati.
“Lin è in casa?” chiese Alexy, vedendo passare la sorella maggiore della cinese. La recita scolastica organizzata qualche mese prima, gli aveva fornito l’opportunità per conoscere meglio Lin: inizialmente Alexy aveva pensato di sfruttarla come aggancio per arrivare ad Ambra, oggetto delle attenzioni del fratello, ma in quel periodo la bionda e la mora aveva litigato pesantemente. Tuttavia il gemello artista aveva scoperto che dietro l’apparenza di una ragazza sciocca e frivola, viveva una persona sveglia e sensibile. Andavano molto d’accordo e gli era dispiaciuto vederla isolata e in solitudine dopo la sospensione di Ambra, così ogni tanto cercava di andarla a trovare durante i cambi dell’ora.
“sì, è di sopra con Ambra… vi faccio strada?” si propose Haily. Le orecchie di Armin sembrarono quasi vibrare, come se un impulso elettrico le avesse attraversate in quell’istante.
Sorridendo sornione, Alexy replicò che sarebbe stato ben lieto di scambiare due chiacchiere con la ragazza.
 
“Iris che ti prende?”
Lysandre si voltò sorpreso verso l’amica, che era rimasta a pochi passi di distanza da lui e Violet. Fino a qualche secondo prima, i tre stavano camminando per strada, diretti verso la biblioteca, dove avevano appuntamento con Kentin. Quel giorno era stata organizzata una lettura di poesie e la rossa, di malavoglia, si era lasciata trascinare in quell’uscita. Non aveva una gran voglia di vedere Kentin al di fuori della scuola. Erano passate ormai tre settimane dal suo arrivo e in tutto quel lasso di tempo, il loro rapporto non era minimamente cambiato: l’ex militare aveva legato con tutti i suoi amici, tranne che con lei. Durante l’attività del club di giardinaggio si parlavano lo stretto indispensabile e, cogliendo il fastidio e il disagio che riusciva a scaturire in lui, la ragazza preferiva che fossero gli altri membri del club a istruirlo.
Per contro, il suo rapporto con Dake era migliorato moltissimo: dopo il concerto, Iris aveva notato un raffreddamento nell’atteggiamento del surfista e la cosa, anziché deluderla, l’aveva sollevata: sapeva che il suo interesse per lei non poteva durare a lungo, non era certo una ragazza interessante e la certezza che non nutriva più secondi fini verso di lei, aveva fatto sì che si sentisse molto più a suo agio con il surfista.
Si era fermata per chinarsi ad annusare uno strano esemplare di fiore: era cresciuto su un muretto di mattoni, sfidando il rigido clima invernale. Aveva dei petali rosati e un pistillo bianco:
“questo deve essere un…” riflettè tra sé quando Lysandre tornò a chiamarla:
“allora?”
L’insistenza del ragazzo la divertì, poiché non era consono nella sua natura essere così insistente e impaziente. Sapeva quanto il giovane poeta ci tenesse a non tardare a quell’appuntamento letterario, così dimenticò il suo fiore e raggiunse i due amici.
 
“se posso permettermi, quello non fa per te”
Kim spostò lo sguardo verso la voce gentile di Whitney che, senza che la ragazza se ne accorgesse, si era portata accanto a lei. La cestista teneva ancora in mano un vestito di un colore che neanche sotto tortura avrebbe mai accettato di indossare. Mollò imbarazzata la presa da quel rosa confetto, mentre la commessa sorrideva comprensiva. Fino a qualche secondo prima, Kim era talmente sovrappensiero che non si era accorta che le due donne avevano interrotto la loro conversazione: Lois aveva cominciato a spostarsi tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa di adatto alla figlia, mentre Whtiney era giunta in aiuto alla ragazza.
“che gusti hai? Preferisci qualcosa di semplice?”
“direi proprio di sì” confermò Kim, sollevata nell’apprendere che la donna avesse indovinato le sue preferenze. Lois aveva appena riesumato una camicetta colorata, molto aderente in vita e l’aveva sollevata per mostrarla alla figlia. Di fronte all’espressione eloquentemente schifata che aveva ricevuto come risposta, ripose amareggiata il capo sullo scaffale. Whitney, che era di spalle, non si era accorta di quella comunicazione muta, e presentò alla giovane cliente tre proposte:
“se cerchi un capo invernale, che sia pratico, potresti provare questo maglione” e le mostrò esattamente lo stesso indumento che Kim aveva adocchiato appena entrata. Di fronte al sorriso della ragazza, la donna intuì di avere fatto centro e, con ottimismo, le mostrò la seconda proposta: era una maglia a pipistrello, nera con uno scollo a barchetta. Non aveva decori particolari, era una tinta unita che scendeva lunga fino al sedere.
Kim studiò quello che le sembrava un telo nero e di fronte alla sua perplessità, la donna le spiegò pazientemente come indossarlo.
“sono sicura che addosso a te farà un figurone”
Kim arrossì e spostò l’interesse verso l’ultimo capo: era maglia ancora più larga della precedente che una volta indossata avrebbe lasciato le spalle scoperte. Assomigliava quasi ad una mantellina ed era di un bel grigio perla.
“immagino che non ti piacciano molto i colori troppo vivaci”
Kim sorrise, compiacendosi di quanto quella donna fosse abile nell’intuire la sua personalità: a meno che non si trattasse delle divise sportive, la ragazza faceva l’impossibile per optare per colori neutri e il più possibile monocromatici.
Accolse i tre capi dalle mani della donna, mentre Lois si univa alle due:
“quindi tuo figlio verrà qui a momenti?”
Kim trasalì. Avrebbe visto Dajan in una delle situazioni per lei più disagevoli possibili: mentre comprava vestiti.
“sì, è andato a fare la spesa. Tra venti minuti chiudo così andiamo a casa a pranzo” spiegò la commessa, indicando a Kim i camerini.
Quest’ultima era un fascio di nervi. Si barricò dietro il drappo rosso e alla velocità della luce si spogliò. Se fosse stata abbastanza rapida, prima che il capitano arrivasse, lei e sua madre sarebbero già state fuori da quel negozio.
Indossò alla svelta il primo maglione e senza neanche specchiarsi, affacciò la testa fuori dal camerino:
“mi piace il maglione mamma. Prendiamo questo”
“provati anche gli altri capi tesoro!” la rimbeccò Lois, che, a contrario della figlia, voleva intrattenersi fino all’ultimo in quel negozio.
Kim ricacciò dentro la testa, rimuginando infastidita mentre la madre protestava sul fatto che avrebbe voluto vedere come le stavano quei vestiti.
Afferrò il capo color grigio e dopo neanche un minuto, già faceva capolino fuori dal camerino:
“lascia che ti vediamo Kim” ridacchiò Whitney, ed essendo lei l’autrice di quella proposta, la cestista questa volta non potè sottrarvisi. Scostò la tenda del camerino e, cercando di camuffare tutto il suo disagio, si sottopose al giudizio delle due donne:
“con quel fisico ti sta bene ogni cosa Kim” commentò deliziata Whitney, alzandosi per accomodare al meglio il vestito della cliente. La ragazza la lasciò fare, sentendosi come una bambina.
“eppure finisce per mettersi sempre le solite tute la ginnastica!” si lamentò la madre.
“oh beh, quelle sono molto comode” mediò la commessa, guadagnandosi un sorriso di gratitudine da parte di Kim.
“ah beh certo, anche tu andavi sempre in giro in tuta da ragazza” ricordò Lois, ripensando all’abbigliamento della sua ex vicina di casa. Quest’ultima aveva fatto voltare Kim verso lo specchio, invitandola a osservarsi con attenzione.
“ti sta molto bene, ma io punto tutto sulla maglia nera”
“nera?” si insospettì la donna “ma alle carnagioni scure stanno meglio i colori vivaci”
“il nero va benissimo mamma” la zittì Kim, ansiosa di tornare a nascondersi dietro la tenda del camerino. Mancava un solo capo e poi sarebbe stata libera.
Whitney assecondò la sua trepidazione e la lasciò andare. Una volta all’interno, Kim effettuò l’ultimo cambio; prima di uscire allo scoperto però, l’occhio le cadde sullo specchio interno: pur essendo un capo casual, aveva un che di elegante e molto raffinato. Non si era mai vista così e, ripensando allo stile di Brigitte, ipotizzò che un simile articolo non avrebbe fatto brutta figura nell’armadio della modella. Decisasi su quale fosse il suo articolo preferito dei tre che aveva passato in rassegna, si mostrò alle due donne, questa volta con la consapevolezza che ormai il pericolo era scampato: non aveva sentito nessuna voce maschile entrare in negozio e da lì a due minuti, sarebbe uscita da quel campo minato. Mentre abbandonava il camerino, con una mano cercò di pettinarsi i capelli che i continui cambi avevano ormai elettrizzato. Teneva lo sguardo puntato verso il basso e fu proprio a causa di questa posa che si accorse solo all’ultimo dell’arrivo di una terza persona: Dajan aveva appena varcato la porta del negozio.
Appena riconobbe Kim, il sacchetto della spesa gli scivolò dalle mani, sbattendo contro il suolo, mentre la ragazza divenne una statua di sale:
“ah tesoro, sei arrivato finalmente” lo accolse Whitney, raggiungendo il figlio “guarda un po’ chi è venuta qua oggi…”
Decisamente quell’esortazione era inutile dal momento che il ragazzo non aveva staccato gli occhi di dosso dalla cliente più giovane sin da quando aveva messo piede nel locale. Dajan non aveva mai visto Kim vestita così bene, motivo per il quale ci aveva messo qualche secondo a riconoscerla.
Quest’ultima stava già battendo in ritirata, borbottando giustificazioni incomprensibili, ma Whtiney la bloccò:
“aspetta Kim, sentiamo un parere maschile visto che ce l’abbiamo a disposizione”
La ragazza cominciò ad affondare le unghie nella carne, tale era l’imbarazzante situazione in cui si trovava. Lei e Dajan sul campo da basket si sentivano a loro agio, ma aveva notato che al di fuori, c’era sempre una strana tensione tra di loro, probabilmente a causa dei sentimenti romantici che lei nutriva verso il ragazzo.
Il capitano si grattò il mento in imbarazzo e, senza guardare in faccia la modella, farfugliò:
“ti sta bene”
La madre lo guardò in silenzio, finchè un largo sorriso le illuminò il viso.
Cercò lo sguardo dell’amica che sembrava pensare esattamente la stessa cosa.
“direi allora Kim che la scelta è facile”
 
Mentre la ragazza si rivestiva, Dajan andò nel retro del negozio a sistemare alcuni scatoloni, così Lois si avvicinò all’amica, approfittando dell’occasione per parlarle a quattr’occhi:
“ma tu ne sapevi niente?” indagò, senza specificare alcunché. La donna intuì perfettamente il riferimento implicito e facendo spallucce, ammise:
“io e Dajan abbiamo un bellissimo rapporto, comunichiamo molto; sulla sua vita sentimentale però è sempre stato molto riservato... tuttavia, quando mi parla della tua Kim, gli si illuminano gli occhi”
A quel punto erano le iridi di Lois a brillare per la gioia: l’aver visto quell’orso di sua figlia sciogliersi come un ghiacciolo appena era entrato il ragazzo le aveva regalato un’ondata di ottimismo circa le sue future speranze.
Guardò la maglia nera che la figlia aveva scelto e commentò:
“ma non è il caso che Kim provi un altro colore? Che so, il rosso per esempio?”
Whitney sorrise furbescamente e, facendole l’occhiolino, spiegò:
“il nero è il colore preferito di mio figlio”
 
Lin cominciò a picchiare furentemente i tasti della calcolatrice, esasperata dall’ennesima espressione non risolta.
“non serve a nulla rifare gli stessi passaggi dieci volte” osservò Ambra divertita.
La pazienza della cinesina era ormai agli sgoccioli e il libro di matematica stava rischiando seriamente di volare dalla finestra.
“non capisco perché non deve venirmi giusta! Guarda qua: 2x alla seconda più tre x meno quattro è l’equazione della parabola, e fin qui ci sono” scandì, guardando l’amica come a voler trovare una conferma che l’autorizzasse a proseguire il suo ragionamento “quindi se ci metto questo qua dentro, poi gli butto sotto quest’altro, dovrebbe venire fuori questa roba qua no?”
“non ti esprimi così quando sei interrogata, vero?” indagò la bionda un po’ preoccupata.
“oh no, gesticolo anche!” aggiunse l’amica, strappando una risatina alla sua insegnante. Ambra infatti si era offerta di aiutarla a prepararsi per l’interrogazione di matematica del giorno successivo, anche se l’impresa si stava rivelando alquanto complessa.
Si allungò a controllare il testo dell’esercizio, abbozzandolo su un foglio mentre la mora domandava:
“hai parlato con tuo padre? Ti ha dato per il permesso per andare a San Francisco?”
“alla fine ho deciso di pagarmelo io il viaggio, con i soldi che ho da parte”
Lin rimase basita, mentre Ambra ripensò alla conversazione avuta con il padre il giorno prima:
 
Molly stava spolverando il prezioso mobile in legno massello del corridoio principale quando vide Ambra avvicinarsi a lei. La ragazza aveva una strana luce negli occhi e, come scoprì successivamente la sua ex balia, una delle sue più care amiche l’aveva appena invitata ad andarla a trovare dall’altra parte del paese.
“mio padre è nel suo ufficio?”
“credo di sì tesoro”
Ambra ringraziò e proseguì, trovandosi davanti alla porta che più di tutte odiava aprire in quella villa enorme.
Entrando, notò che il padre era talmente assorto ad analizzare il foglio che teneva in mano, da non accorgersi della sua presenza. La figlia si schiarì la voce e solo quando lo chiamò, Gustave si accorse di lei.
La scrutò con misurata curiosità e aspettò che fosse Ambra a formulare la sua richiesta.
“posso parlarti un minuto?”
L’uomo annuì, imitando la stessa espressione pensierosa del ritratto alle sue spalle, che lo rappresentava dieci anni prima.
“siediti”
“preferisco restare in piedi” replicò la figlia, che non intendeva intrattenersi in quella stanza più del necessario. Gustave sembrò leggerle nel pensiero e sorrise amaro, scambiando con lei un’occhiata di intesa, che spiazzò la figlia. Quegli atteggiamenti gli ricordavano lui da giovane.
“v-volevo chiederti se non hai nulla in contrario che vada in California una settimana” tentò Ambra.
Normalmente si rivolgeva al padre affrontandolo con la massima freddezza e distacco, ma quel giorno c’era qualcosa di diverso in lui, anche se non riusciva ancora a concepire di cosa si trattasse.
“quando?” valutò Gustave, andando dritto al puntoe gettando preventivamente l’occhio sul calendario da tavolo.
“pensavo a febbraio, nel periodo in cui non avrò verifiche o interrogazioni”
“e come mai questa richiesta?”
“mi ha invitato una mia amica”
Gustave cambiò espressione, scrutando la figlia con una strana luce negli occhi:
“amica?” ripetè quasi sconcertato.
“non la conosci” tagliò corto Ambra, che intuiva perfettamente i pensieri del padre. A parte Lin e Charlotte, Ambra non gli aveva mai presentato altre persone e durante il suo mese di punizione, nessuno era andato a trovarla, confermando nel padre il sospetto che la figlia fosse una ragazza molto sola.
“se è per questo sono parecchie le cose che non conosco di te Ambra”
Quella frase così sibillina la disorientò per un attimo: non era abituata a vederlo affrontare quel genere di discussioni.
“e sarebbe colpa mia?”
“che importanza ha ormai?” chiese sconfitto. Roteò sulla sedia girevole, dando le spalle alle figlia. Cominciò a osservare i libri che adornavano la libreria, come se in quel momento fosse l’unica presenza umana della stanza.
Disorientata per la strana piega che aveva preso la loro conversazione, Ambra ne approfittò per sbirciare i fogli sulla scrivania. I caratteri erano scritti in piccolo ma, analizzando rapidamente l’andamento di alcuni trend economici, il segno negativo davanti a certi numeri, fecero balenare un sospetto nella sua mente; poteva sempre sbagliarsi, del resto non conosceva il significato di quei documenti, ma nel dubbio, decise che per quel viaggio non gli avrebbe chiesto soldi:
“comunque sono venuta più che altro per avvertirti. Il viaggio me lo pago io, quindi se anche hai qualcosa in contrario, non è un mio problema” e con quella formula di chiusura, si congedò sbrigativamente dal padre; più restava in quell’ufficio e più si sentiva a disagio: era una sensazione nuova per lei e di certo, non intendeva prolungarla più del necessario. Quando Ambra chiuse la porta, Gustave non si era nemmeno voltato verso di lei. Continuava a tenere lo sguardo fisso sulle costine pregiate dei suoi libri. Sua figlia gli assomigliava più di quanto avesse mai immaginato: gli angoli della bocca gli si incurvarono verso l’alto e, sorprendendosi lui stesso, nel riflesso della vetrina del mobile, vide un sorriso stanco.
 
“comunque credo di andarci a Febbraio. Dopo la chiamo e le dico se può andare”
“sarà molto contenta di-“
“Lin! Hai visite!”
Le due ragazze si voltarono verso Haily che aveva appena fatto capolino nella stanza.
“e chi è?”
surprisal!” replicò in cinese Alexy, entrando nella stanza. Dietro di lui, manifestando un imbarazzo maggiore, si stava facendo strada il gemello. Quando Ambra identificò Armin, cominciò a sorridere, senza capacitarsi di quanto fosse cambiato il suo viso. I suoi occhi zaffiro avevano cominciato a brillare, come la pietra di cui ne ricordavano il colore.
“siete venuti per la paga?” indovinò Lin, accogliendoli nella stanza.  Fece accomodare i due ragazzi sul suo letto, mentre lei e Ambra giravano le sedie verso di loro.
“matematica?” indagò Alexy.
“sì, mi interrogano. Ambra mi sta dando una mano”
L’espressione incuriosita con cui i due ragazzi cominciarono a studiarla mise parecchio a disagio Ambra: sapeva che i suoi conoscenti faticavano ad abituarsi al suo cambio di personalità e in un certo senso, lei per prima aveva ancora qualche difficoltà ad accettare di mostrare il lato più nobile del suo carattere.
“Erin mi ha detto che sei una secchia Ambra” iniziò Alexy “se non fosse che sei un anno più indietro di me, ti chiederei volentieri una mano. Questo idiota è troppo egoista per aiutare il suo fratellino” scherzò, scompigliando i capelli ad Armin.
“non hai bisogno di nessun aiuto” borbottò l’altro “basterebbe semplicemente che non passassi le ore di matematica a scaricarti musica e leggere fiabe”
“leggi fiabe?” ripeterono le due ragazze sorprese.
“mi piacciono molto” ammise Alexy, senza pudore.
“anche alla tua amica Sophia piacciono tanto, non è vero?” chiese Lin, rivolgendosi ad Ambra.
“la sorella di Erin?” indagò il gemello con gli occhi azzurri “so che siete molto amiche”
“già, andrò a trovarla in febbraio”
“ah sì? Vai a San Francisco?” intervenne Armin.
“sì, probabilmente durante il torneo”
“aspetta Ambra, ma in quel periodo non hai la serata annuale di gala?”
I due fratelli tornarono a fissare la bionda che, gesticolando nervosamente con le dita, spiegò:
“sì, e non mi dispiacerebbe affatto saltarla… però la faranno dopo il torneo, quindi ci dovrò andare”
“e Nathaniel verrà?”
“no, non credo proprio: si giocherà la scusa che è lontano per non venire”
“ma tu allora con chi ci vai scusa? Mi hai sempre detto che una ragazza non si presenta da sola a questo genere di eventi” obiettò Lin, consapevole del fatto che Nathaniel era l’unico partner maschile che Ambra poteva prendere in considerazione per quel genere di iniziative.
“ci andrò da sola e che si fotta pure l’etichetta” sbottò Ambra, facendo sogghignare i due ragazzi.
“però è un peccato” osservò Alexy “voglio dire, se già è una serata noiosa, non è giusto che la passi da sola” e dopo aver concluso quella frase, lanciò un’occhiata eloquente al fratello moro che, improvvisamente vide raddoppiare gli occhi puntati su di lui: anche Lin infatti, con un sorriso mellifluo lo stava fissando, quasi a volergli comunicare mentalmente le sue intenzioni.
Ambra invece alternava lo sguardo da un elemento all’altro, sentendosi sempre più a disagio. Lin era consapevole dei suoi sentimenti per il moro ma non voleva che questi fossero fatti trapelare, così sviò:
“non è detto che ci vada, inventerò una scusa e piuttosto quella sera vengo a cena qui con Molly visto che ci teneva”
Ma né Lin né Alexy sembravano aver dato retta al piano proposto dalla bionda.
“allora potremo venire anche io e Alexy, così posso rivedere Molly!” se ne uscì Armin, che faceva finta di non cogliere la situazione in cui voleva cacciarlo il fratello.
“penso che tra gli amici di Nathaniel, tu e tuo fratello foste i suoi preferiti” commentò Ambra.
“non cambiamo discorso!” si impuntò Lin con decisione:
“qui Ambra ti serve un cavaliere e Armin è un nullafacente cronico: ti accompagnerà lui”
“esatto” approvò Alexy “è la volta buona che si stacca dai videogiochi e impara a comportarsi da ometto”
Armin lo strattonò e a denti stretti gli sussurrò:
“mi stai mettendo in difficoltà. So cosa stai cercando di fare ma lascia che faccia le cose secondo i miei tempi”
“i tuoi tempi sono letargici. Tra te, Castiel e Nathaniel non so chi sia preso peggio”
Mentre i due confabulavano, anche Ambra aveva cominciato a protestare con Lin:
“non puoi obbligarlo a sorbirsi una serata del genere!”
“oh, sono sicura che in fondo ci verrà volentieri”
Intanto Armin era sempre più infastidito dall’insistenza del fratello:
“smettila Al. Non me la sento di mettermi in mezzo a tutti quei ricconi… preferisco di gran lunga l’idea della cena di Ambra”
“ma se vai al galà sarete da soli, scemo!”
“appunto! E se faccio la figura dell’idiota?”
“di certo non sarebbe una novità per lei”
Irritato per la battutina del fratello, Armin si indispose al punto da asserire:
“io non ci vado. Discorso chiuso”
Alexy lo guardò minaccioso e, a denti stretti, ribattè:
“tu prova a tirarti indietro e io ti assicuro che Ambra verrà a conoscenza della tua doppia identità, nuvoletta mia
Il fratello sbiancò, mentre Alexy sorrise vittorioso, rivolgendosi alle due donne.
“Armin ha detto che verrà molto volentieri Ambra, problema risolto!”
La bionda lo guardò sospettosa e cercando la verità nello sguardo di Armin, indagò:
“veramente?”
Quel semplice avverbio era stato proferito con una certa ansia e speranza, tali da urtare non poco il ragazzo. Sentendosi in una posizione alquanto imbarazzante e, senza riuscire a specchiarsi negli occhi di lei, mugolò un esclamazione affermativa.
 
Aveva perso. Lei che in ogni gioco di squadra puntava sempre alla vittoria.
Ciò che più le bruciava era che quella sconfitta le fosse stata inferta da un ragazzo come Nathaniel. Così a modo, misurato e in una parola: perfetto. Non sopportava i tipi come lui e sapeva di avere una ragione in più per non vedere di buon occhio quel soggetto.
I suoi amici, diversamente da lei, avevano abbandonato lo spirito di competizione che aveva alimentato la partita e avevano cominciato a chiacchierare amabilmente con il ragazzo.
Persino Adrian e Cedric, che si erano dimostrati un po’ ostili nei suoi confronti, si erano lasciati vincere dalla curiosità e avevano preso parte alla conversazione.
Nathaniel sembrava destreggiarsi abilmente tra i molteplici interlocutori, rivolgendo alternativamente la parola a tutti, senza lasciare nessuno escluso.
“e questo dove l’hai tirato fuori?”
Sophia si voltò verso il suo amico Space che, come sempre, era rimasto in disparte rispetto al resto del gruppo. Il ragazzo aveva chiuso il libro di fantascienza e si era portato accanto a lei:
“è il fratello di Ambra”
“ah sì? A proposito, ti ha detto quando verrà a trovarti?”
Sophia tracciò un arco sulla sabbia con la punta del piede e sospirò:
“spero il prima possibile”
Dopo un po’ i suoi amici cominciarono a dileguarsi, chi per andare a lavorare, chi all’università e chi semplicemente a bighellonare da qualche altra parte. Nathaniel aveva scoperto infatti quanto fosse eterogeneo quel gruppo di persone, faticando a capire quali dinamiche li rendessero uniti come gruppo. Dedusse quindi che avevano un concetto molto elastico di amicizia e potevano passare anche settimane senza avere notizie gli uni degli altri.
Era rimasto solo con Sophia e con il suo silenzioso amico Space. La prima, per qualche imprecisato motivo che poteva forse attribuirsi all’umiliazione recente sconfitta, era determinata a non rivolgergli la parola, fatta eccezione per commenti sarcastici; Space invece sembrava non considerare Nathaniel più interessante di una cozza attaccata ad uno scoglio.
Rassegnato di fronte al disinteresse che suscitava nei due, il biondo annunciò che sarebbe tornato al campus e quella notizia venne subito accolta dai due, con un tale sollievo che fornì al ragazzo un pretesto in più per andarsene.
Si salutarono ma appena Nathaniel e i due amici fecero tre passi, realizzarono che si sarebbe spostati nella stessa direzione:
“ma come!” sbottò Sophia “dici che vuoi andartene e poi ci segui?”
“ma io devo andare di qua!” protestò il ragazzo.
“puoi fare anche il giro di là!” spiegò lei, indicando una pista pedonale che collegava la spiaggia al centro città.
“ma sarò pur libero di fare il giro che mi pare no?”
Sophia mise il broncio, finchè un pensiero le attraversò la mente e, a giudicare dal risolino che si lasciò sfuggire, doveva essere alquanto buffo; con un’aria beffarda, che il biondo conosceva fin troppo bene, lo stuzzicò:
“non è piccolo lord che hai paura di perderti?”
“m-ma cosa dici!” si arrabbiò l’altro che del resto, non intendeva intraprendere un percorso diverso da quello dell’andata.
Mentre bisticciavano, i due continuavano a camminare, lasciando in disparte Space.
“dovresti fare come Pollicino e provare con le briciole di pane” lo schernì Sophia.
“si può sapere perché sei così irritante tu? È tutto il giorno che ce l’hai con me!”
“ho i miei buoni motivi!” lo rimbeccò l’altra.
“ma se ci siamo visti una volta sola prima di oggi!”
“e spero che questa sia l’ultima, mi dai troppo sui nervi”
“non che tu sia esattamente un mostro di simpatia”
Space continuava a guardare i due, allungando sempre di più la distanza. Non c’era modo per uno come lui di immettersi in quel dibattito, tanto era serrato.
“di certo non sarò io a venirti a cercare, anche se sarei curioso di capire cosa ti ho fatto di male”
“a me niente, è a tua sorella che ne hai fatto”
“io?” ripetè Nathaniel basito.
Sophia si bloccò, puntandogli uno sguardo duro contro i suoi occhi nocciola.
“perché non hai aiutato Ambra l’anno scorso? Stava affrontando un periodo durissimo e tu non ti sei accorto di nulla! Quanto sei insensibile?”
Sputò quell’accusa con una tale rabbia e rancore che il ragazzo non sapeva come replicare. Era completamente disorientato perché non immaginava che simili parole sarebbero uscite da quella ragazza. Del resto quando si erano conosciuti la prima volta, due settimane prima, non era stata così ostile nei suoi confronti.
Non sapeva come replicare perché in fondo, Sophia aveva perfettamente ragione: era stato così cieco e indifferente verso Ambra, da non accorgersi di quanto avesse somatizzato il dolore per la loro situazione familiare. Aveva preferito credere che sua sorella fosse forte e insensibile, invece lei era semplicemente troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno di qualcuno che la sollevasse da quella terribile depressione. Lui aveva fallito nel suo ruolo di fratello, quando invece quella fastidiosa ragazza accanto a lui in quella spiaggia della California, era riuscita dove lui non aveva neanche tentato.
Voleva giustificarsi, ma ogni scusa suonava vuota e debole.
 
NOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!!!
 
Un urlo disperato li fece sobbalzare, facendo loro puntare lo sguardo verso il mare.
Sull’acqua salata, in cui ribollivano delle onde impetuose a causa del vento che si era levato, si distingueva la sagoma di un bambino che si agitava terrorizzato. A tre metri di altezza, su una sporgenza della roccia si trovava la madre, evidentemente incinta,  che tremava e sbraitava senza controllo, mentre assisteva impotente all’affogamento del figlio.
Nathaniel non fece neanche in tempo a togliersi le scarpe che vide sfrecciare Sophia accanto a lui.
Con uno scatto fulmineo, la ragazza si tuffò nel gelido oceano e sfidò le onde, raggiungendo il ragazzino. Il freddo era quasi doloroso per i suoi muscoli, impedendole quell’agilità che normalmente aveva in acqua. La vittima continuava a dimenarsi, e nonostante l’arrivo della sua salvatrice, non riusciva a calmarsi. Sophia lo afferrò ma aveva l’impressione che le onde fossero sempre più violente, rendendo meno salda la sua presa sul ragazzino. Anche incamerare ossigeno si stava rivelando un’operazione più complicata del previsto. Le sembrava che stessero passando interi minuti senza fare alcun progresso se non quello di lasciarsi andare sempre di più alla fatica: sentiva un dolore sempre più forte al torace e le gambe sempre più atrofizzate dal gelo. Il bambino aveva smesso di agitarsi, facendole temere il peggio.
Cercò con un estremo sforzo di portare entrambi con la testa fuori dall’acqua ma l’ennesima onda vanificò il suo tentativo, ricacciandola con veemenza sott’acqua. Aprì gli occhi e vide la sagoma del bambino, che come lei, era vestito pesantemente. Il loro abbigliamento invernale infatti rendeva enormemente più limitato e faticoso ogni suo movimento.
Ripensò alle raccomandazioni del dottor Wright, di non affaticare il cuore e tale consapevolezza contribuì a incrementare la sua rassegnazione. Per l’ennesima volta l’impulso l’aveva tradita e non le sarebbe stata concessa un’altra opportunità: come nei videogiochi che tanto amava, aveva esaurito le vite.
Era talmente paralizzata dal freddo, che quasi non avvertì la morsa che le aveva afferrato il braccio e che l’aveva costretta a tornare a tenere la testa sopra l’acqua.
Socchiuse gli occhi e vide una chioma bionda e delle mani, che le sembravano addirittura calde, che si portavano sul suo viso, per poi schiaffeggiarlo:
“forza, resisti!”
Istintivamente la ragazza serrò la presa sul bambino che realizzò di stringere ancora attorno a sè. Si lasciò strascinare verso la baia, spostamento che era agevolato dalle onde che però non la smettevano di sommergerla alternativamente. Tuttavia, in quel percorso contrario, la sua testa non rimaneva a lungo sott’acqua, poiché c’era qualcuno che si assicurava di lasciarla respirare.
Sentì il contatto con la sabbia, quasi bollente rispetto al gelo che la attraversava.
Poi delle mani.
Come delle carezze troppo frenetiche ed energiche per essere tali.
Le sue braccia erano sfregate da quei palmi che scivolavano convulsamente contro di esse e finalmente, Sophia riuscì a mettere a fuoco il viso preoccupato di Nathaniel: con le gocce salmastre che scendevano copiosamente dai suoi capelli che l’acqua aveva reso più scuri, e il labbro inferiore che tremava, il ragazzo cercava di scaldarla.
Lei avvertì poi il peso di qualcosa di asciutto coprirle le spalle e fu proprio il biondo ad accomodarglielo stretto, avvolgendola completamente; lentamente, un’ondata di calore cominciava a diffondersi nel suo corpo, riscaldandola dall’interno; tutt’attorno a loro si era formata una piccola folla: c’era chi accorreva con asciugamani, altri con delle bevande calde o altri semplicemente si informavano sulle condizioni di salute dei tre. La madre del bambino era appena giunta sulla spiaggia, correndo il più velocemente possibile data la sua delicata condizione. Aveva abbracciato stretto il pargolo e lo teneva avvolto nel suo giubbotto, ignorando le voci dei presenti.
“tieni ragazzo” disse un vecchietto, allungando a Nathaniel il proprio cappotto. Il biondo accettò con un sorriso, mentre Sophia tornava a riprendere un po’ di colore e lucidità.
Lo guardava di sottecchi, ancora troppo stremata e infreddolita per riuscire a dirgli qualcosa. Il suo corpo era ancora percorso da brividi ma questi si attenuavano sempre di più.
Lui sorrideva modestamente, mentre un sacco di mani e voci si accavallavano per complimentarsi per il suo eroico gesto. Alcuni degli spettatori cercavano di interagire anche con Sophia, informandosi circa le sue condizioni, ma quest’ultima era troppo presa dal profilo del biondo per accorgersene.
Nathaniel ringraziava chi a sua volta lo elogiava e cercava di minimizzare tutte le lodi che gli venivano rivolte. La ragazza notò che, diversamente da lei, si era tuffato in mare senza l’ingombrante cappotto e con l’accortezza di togliersi le scarpe.
Il biondo non sembrava quasi sentire il freddo, come se il semplice giubbotto che gli era stato prestato sprigionasse un calore intrinseco. Non mancava di lanciarle qualche occhiata fugace, quasi ad assicurarsi che si stesse realmente riprendendo.
Sophia, per la prima volta in quella giornata, gli sorrise leggermente, rivolgendo il suo primo pensiero alla sorella:
“lo sai Erin… forse avevi ragione tu: questi principi azzurri non sono poi tanto male”
 
“etciù!”
“non hai il tempo per starnutire Erin!” la rimproverò Boris, mentre la ragazza si strofinava l’indice contro il naso.
“sei un Cerbero Boris!”
“io il Cerbero? E quella bestiaccia che ti sei portata dietro?” la rimbeccò l’allenatore, indicando una massa di pelo scuro, seduta a bordo campo. Con la lingua che gli penzolava di lato e uno strano ghigno divertito, Demon assisteva ansimando rumorosamente, al dibattito tra la ragazza e l’uomo.
“spiegami di nuovo perché te lo sei portato dietro” inveì il coach, recuperando la palla da basket.
“si sente solo senza Castiel e posso stare con lui solo durante il weekend… che tu hai ben pensato di monopolizzare per l’allenamento” replicò la cestista, con tono piccato.
Demon cominciò ad abbaiare, quasi volesse appoggiare le parole della sua alleata.
“a proposito, il suo padrone l’hai più sentito?”
“ieri sera, ma temo che passeranno altre due settimane prima che riesca a parlare di nuovo con lui”
“come se la sta cavando?”
“bene, ma non è che mi abbia detto molto”
“ma di cosa avete parlato allora?”
“bah, un po’ di tutto” spiegò vagamente la ragazza. Mancavano circa una decina di giorni al torneo e l’ansia crescente aveva contribuito ad accantonare un po’ i suoi pensieri dall’amico. Era fin troppo evidente che Castiel non fremesse dalla voglia di sentirla, così Erin aveva cominciato ad abituarsi all’idea di rispettare gli spazi del ragazzo… anche se, quando pensava a lui sentiva una nostalgia angosciante.
“facciamo un po’ di suicidi” le ordinò Boris.
“perché usi il plurale se poi alla fine sono solo io a correre?” osservò con cinismo la ragazza.
“ma ti lamentavi così tanto anche con Castiel?”
Erin sorrise, ripensando agli allenamenti con il rosso che, in fondo, equivalevano ad una mattinata di relax se paragonati ai ritmi che le imponeva Boris.
“non pensi che sia arrivato il momento di spiegarmi la tua strategia Bors? Dici che mi stai sottoponendo ad un allenamento speciale e ancora non ho capito quale sarà il mio ruolo nella squadra!”
L’allenatore le fece segno di tacere e si iniziare l’esercizio che le aveva ordinato. Erin tuttavia sembra determinata a non lasciar cadere l’argomento.
“non è che per caso non c’è nessuna strategia?” indagò pensierosa.
“Erin corri!”
“no” si impuntò la ragazza “dimmi la verità! So di essere una palla al piede per la squadra, quindi non illudermi con finte promesse. Non sarò mai utile, altro che piano segreto!”
La cestista guardava Boris con determinazione che però sembrava vacillare sotto il peso dell’insoddisfazione personale: era una schiappa, non c’era altro modo di dirlo.
Boris non replicò, così lei capì di aver centrato il punto.
Delusa, si allontanò dal campo, dirigendosi verso Demon che le trotterellò incontro, felice di essere finalmente oggetto delle sue attenzioni.
“dove pensi di andare?”
La voce severa con cui Boris la richiamò le fece venire i brividi. Anche se l’allenatore si arrabbiava spesso, era difficile prenderlo seriamente e c’era sempre qualcosa di comico nel suo modo di rimproverare i ragazzi; ma quella volta, Erin capì che doveva dargli retta.
Si arrestò, con Demon che fremeva dal desiderio di essere accarezzato:
“l’allenamento non è finito Erin” chiarì l’uomo, scandendo le parole “intendevo parlarti proprio oggi della mia strategia, visto che ormai abbiamo concluso la preparazione muscolare, ma volevo farlo al termine degli esercizi, mentre ti riposavi”
L’allenatore la osservava con durezza, indizio della sincerità della sua ammissione e proseguì:
“ma dal momento che non riesci a fidarti di me, siediti che ne parliamo”
La ragazza lo fissò sospettosa e mormorò:
“quindi hai davvero in mente un piano?”
Boris non replicò ma si accovacciò sul pavimento della palestra del liceo. In qualità di preparatore della squadra del liceo, la preside gli aveva consegnato le chiavi della struttura, invitandolo ad usarla anche durante il weekend, se ciò si fosse reso necessario.
Erin lo imitò e con lei, Demon, della cui presenza all’interno dell’istituto, la vecchia preside non sarebbe mai venuta a conoscenza.
“analizziamo i tuoi punti deboli Erin” esordì Boris “sei bassetta per fare basket, di conseguenza non sai schiacciare, sei scarsissima nel gioco sotto canestro e soprattutto, in campo non ti si vede”
Sentendo elencare tutte quelle pecche, l’autostima di Erin le scivolò sotto i piedi. Sapeva di essere impedita, ma ascoltare qualcuno che ammetteva candidamente tutta la sua incapacità era come rigirare il coltello nella piaga.
“tuttavia” precisò alzando l’indice “ho fatto in modo che una di queste cose diventasse il tuo punto forte”
La cestista lo guardò senza capire, aspettando un ulteriore chiarimento:
“ti ho fatta diventare una sorta di tweener
“una che?”
tweener” ripetè l’allenatore, prima di passare alla spiegazione del ruolo “è una posizione non ufficiale della pallacanestro riferita a giocatori che combinano gli attributi di una guardia tiratrice e di un playmaker, ma che non hanno per intero le caratteristiche di uno dei due ruoli. Come il play è più orientato ai passaggi che alla realizzazione, voglio sfruttare la tua visuale di gioco;  tuttavia il tweener manca dell'atteggiamento offensivo di cui un playmaker puro dispone e non ha l'altezza per rientrare nell'ambito del ruolo di guardia tiratrice”
“non c’ho capito granché ma diciamo che sono una specie di ibrido?”
“diciamo così: in un certo senso ti ho creato un ruolo tutto tuo Erin, su misura per te, sfruttando la tua statura e la tua agilità. Avrai un ruolo per lo più difensivo, hai dei riflessi molto buoni quindi riesci a rubare la palla con grande velocità. In campo ti muovi con una scioltezza che passa quasi inosservata, complice anche il fatto che sembri un folletto se paragonata ai giganti che ti giocano attorno. I tuoi compagni sono abituati alla tua presenza e a tenerti d’occhio, ma sono convinta che per i tuoi avversari sarà molto più difficile: il fatto che tu sparisca durante la partita, sarà uno degli assi nella manica della nostra squadra”
La ragazza lo guardò poco convinta:
“sarò anche piccolina ma mica sono un fungo”
Boris ridacchiò e continuò:
“tu Erin non ti rendi conto di come giochi”
“perché come gioco?”
“diciamo che il tuo comportamento in partita riflette la tua personalità: non pensi mai a concludere tu l’azione, lasci sempre che sia qualcun altro a farlo, anche se ti trovi in un’ottima posizione. Passi sempre la palla, hai una visione completa del gioco e della posizione dei giocatori, non riesci a dimenticarti di nessuno. In una parola, sei troppo generosa quando giochi…”
Erin stava per controbattere ma Boris non aveva finito:
“… e quando c’era anche Castiel in squadra ti distraevi a guardarlo un po’ troppo spesso” la rimproverò bonariamente chiudendo gli occhi e inarcando le sopracciglia. La mora dimenticò ciò che voleva dire, sentendosi colta in flagrante, mentre l’allenatore proseguiva:
“comunque sia Erin, non voglio che ti butti giù perché ti sembra di non essere all’altezza di Kim” le disse, affrontando un argomento che tormentava Erin sin da quando aveva visto come la ragazza si muoveva in campo “lei è  un fenomeno, non si discute, ha lo sport nel sangue, ma anche tu a modo tuo sei speciale. Sono molto orgoglioso delle mie ragazze e sono sicuro che saranno determinanti per ottenere un buon piazzamento” e dopo aver pronunciato quelle parole incoraggianti, Boris si alzò, allungando un braccio verso Erin.
La sua cestista lo scrutò dal basso verso l’alto: quando l’aveva visto la prima volta era rimasta sconvolta da quella figura muscolosa e al contempo ridicola. Con il passare delle settimane però, Boris, che ormai i ragazzi chiamavano Bors, era diventato una sorta di zio per la squadra, che riusciva a sollevare il morale degli atleti quando lo sconforto prendeva il sopravvento. Si era affezionata a lui e le parole con cui l’aveva incoraggiata quel giorno iniettarono in lei un'ondata di entusiasmo: Accettò la sua stretta e, stringendogli la mano, esclamò:
“allora? Dicevamo i suicidi?”
 
La testa di Iris ciondolava pesantemente. Erano due ore che era seduta su quella sedia, la cui scomodità era diventata un pretesto per non addormentarsi. Annoiata, si guardò attorno, analizzando per l’ennesima volta l’espressione estasiata con cui Lysandre e Violet ammiravano il famoso poeta Kirot che quel giorno deliziava i lettori con l’interpretazione delle sue poesie.
Non c’era verso che alla rossa tutta quella letteratura andasse a genio. L’uomo aveva una voce terribilmente piatta, priva di intensità ed emozione. Kentin non si era presentato all’appuntamento con gli amici e per questo lei si trovò ad invidiarlo non poco.
Appena Kirot annunciò il termine dell’incontro, la ragazza scattò immediatamente in piedi, fin troppo entusiasta che la sua agonia fosse conclusa.
Lysandre infatti le lanciò un’occhiataccia biasimevole, ma lei lo ignorò ed esortò i due amici ad affrettarsi a seguirla all’esterno. Tutti quei libri che la circondavano le regalavano una sensazione di claustrofobia e non vedeva l’ora di tornare all’aria aperta, ambiente in cui si sentiva più a suo agio. Sin da bambina Iris amava stare in mezzo alla natura e la sua passione dei fiori era scaturita proprio dall’interesse con cui osservava le piante più colorate.
“ti è piaciuto Iris?” chiese ingenuamente Violet che non si era minimamente accorta della totale apatia con cui l’amica aveva seguito la lettura.
“diciamo che non è proprio il mio genere di attività… sono venuta solo per la compagnia” spiegò, facendole l’occhiolino.
“invece di sbadigliare tutto il tempo” la rimproverò gentilmente Lysandre “potevi provare a concentrarti un po’ di più su quello che stavi ascoltando: quella era arte”
“se mi fossi concentrata troppo mi sarei addormentata Lys, è stato meglio aver lasciato che la mia mente si facesse in giro”
Violet sorrise conciliante, mentre l’unico maschio del trio sollevava il sopracciglio:
“ho l’impressione che l’amicizia con mia sorella ti stia influenzando troppo Iris”
“magari” esclamò l’altra “comunque la prossima volta che la vedo mi sente! Non si tira pacco così all’ultimo! Almeno avrei avuto qualcuno con cui lamentarmi”
“a proposito di gente che non si presenta, novità da Kentin?” le domandò il poeta. Iris tentennò, farfugliando qualcosa sul fatto che non aveva il suo numero.
“non ce l’hai?” chiese Lysandre perplesso, tirando fuori il proprio cellulare e controllando la casella messaggi “ero convinto del contrario, anche perché tra di noi, siete quelli che passano più tempo insieme”
La ragazza si irrigidì e si giustificò:
“beh, non siamo sempre insieme durante l’attività del club, anzi… lavoriamo in gruppi diversi”
“chi è che lavora in gruppi diversi?”
I tre si voltarono e riconobbero una figura che Lysandre e Violet non vedevano dai tempi della recita; quanto ad Iris invece, erano settimane che rimaneva in contatto con quello che era diventato uno dei suoi più cari amici:
“Dake!” si elettrizzò “mi avevi detto che non saresti venuto!”
“alla lettura delle poesie” precisò il ragazzo avvicinandosi “infatti spero sia finita, no?”
Iris sorrise, mentre Lysandre riservò anche al nuovo arrivato la stessa espressione corrucciata che aveva rivolto alla rossa poco prima.
“giusto qualche minuto fa” spiegò quest’ultima.
“hanno finito?” chiese una voce ansimante.
I quattro si voltarono verso una figura piega in avanti per la corsa che aveva appena fatto e che cercava disperatamente di prendere fiato. Kentin era uscito di casa in fretta e furia, lasciando il giubbotto aperto e la sciarpa al calduccio dentro il cassetto.
“come mai arrivi solo ora?” gli chiese Lysandre, osservandolo con curiosità.
“quella cazzo di sveglia” farfugliò il militare, mettendosi dritto. Aveva le guance imporporate per lo sforzo di quella sorta di maratona che aveva corso. Nonostante la sua preparazione atletica, ricevuta dall’addestramento militare, aveva preteso troppo dal suo fisico.
Dake sbirciò casualmente l’espressione di Iris e si accorse dello strano sorriso con cui fissava il moro. Non gli aveva staccato gli occhi da quando era arrivato, nemmeno per un attimo.
“siamo sicuri che sia stato un problema della sveglia?” scherzò Dake, dando una piccola gomitata di intesa alla ragazza, per scrollarla dai suoi pensieri. Quel banale gesto non passò inosservato a Kentin che, anche se cercò di non darlo a vedere, si inasprì:
“se così non fosse, sta pur certo che non sarei arrivato correndo come un idiota” replicò a denti stretti.
“potevi prendere l’autobus, avresti fatto prima” osservò Dake placidamente.
“cosa ti fa credere che non l’abbia fatto?”
“allora perché non ti ho visto? Sono sceso alla fermata laggiù un minuto prima che arrivassi”
I due ragazzi si scambiavano quelle frecciatine, ignorando completamente il resto del gruppo: Dake aveva un sorriso quasi beffardo, celando dietro un’apparente gentilezza, un intento provocatorio, mentre Kentin, meno abile a nascondere le proprie emozioni, tradiva una certa tensione e irritazione.
“comunque questo è Kentin” tagliò corto Iris “ e lui è Dakota, ma per gli amici Dake”
“ah, sei il nuovo giardiniere?” si beffò il surfista, stuzzicando il ragazzo.
Quest’ultimo si morse la lingua, come se fosse una punizione per non essere in grado di replicare. Non aveva mai sentito parlare prima di quel ragazzo e il modo in cui si relazionava a Iris non gli piaceva affatto.
“andiamo a casa?” tagliò corto Violet.
I quattro si voltarono e, dopo che Lysandre confermò che era ormai ora di pranzo, decisero di congedarsi.
“mi dispiace che siate venuti per niente” commentò la vocina gentile dell’artista, mentre si incamminavano. I due ritardatari rimasero per un attimo senza parole, ma fu Dake il più abile a trovare quelle giuste:
“per niente? A me non interessavano le poesie, sono venuto solo per…” e cercò Iris prima di concludere la frase “…voi”
La rossa però non si accorse di quell’intesa che invece non sfuggì a Kentin:
“tu lavori Dakota?” domandò, per cambiare argomento.
“Dakota? Chiamami Dake” replicò amabilmente l’altro cogliendo perfettamente il motivo per il quale il militare l’avesse chiamato così: di certo non lo considerava già suo amico “comunque sì, ho finito la scuola qualche anno fa e ora lavoro alla Pentathlon in centro”
“ah” commentò laconico Kentin, calciando un innocente sassolino incappato sul suo percorso.
Lysandre osservò quella strana dinamica tra i due ragazzi e sorrise:
“a proposito Dake, è aperto ora il negozio?”
“sì, facciamo orario continuato. Dovrebbe esserci Pratt di turno”
“ottimo, perché io e Violet dobbiamo farci un salto. Vieni con noi che ci dai un consiglio”
La giovane artista guardò interrogativa il poeta che le rivolse un sorriso complice il quale bastò a sopire in lei ogni perplessità.
“che dovete prendere?” e prima che Lysandre potesse rispondere, Dake si affrettò “comunque Pratt è bravissimo, fatevi consigliare da lui”
“ma io mi fido solo di te” insistette Lysandre, il cui sorriso diventava sempre più inquietante “non ti preoccupare per Iris, la lasciamo in buone mani” aggiunse, iniettando nel ragazzo il sospetto che ci fosse dello scherno in quella frase.
“cosa devi comprare?” tornò a ripetergli Dake.
“te lo spiego per strada, è una sorpresa” e, prendendo il ragazzo per il braccio lo trascinò via.
“aspetta Lys!” protestò l’altro “mica ti ho detto che ci vengo!”
Lysandre si bloccò, voltando meccanicamente il capo. Gli occhi eterocromi erano diventati due fessure, talmente taglienti da rassomigliare all’espressione inquietante di un serial killer. A rendere il tutto ancora più spettrale, era il capo leggermente chinato verso il basso e il sorriso mellifluo, troppo tirato per essere spontaneo:
“e invece tu verrai” gli sussurrò in tono convincente.
Dake trasalì, cacciando giù un grumo di saliva e in pochi secondi, si trovò a dover salutare distrattamente Iris.
La ragazza aveva seguito quella scena senza battere ciglio, non capendone le motivazioni, così come Kentin che da un lato era sollevato nell’assistere all’evaporazione di Dake, ma dall’altro era sempre più nervoso all’idea di restare da solo con la ragazza.
In due settimane il loro rapporto non aveva dato cenno di migliorare e lei gli sembrava sempre più ostile.
“ehm… casa tua dov’è?” le chiese il ragazzo, un po’ in imbarazzo.
“non lontano da qui” replicò l’altra, demoralizzando il suo cavaliere “ci arrivo da sola, non disturbarti, vai pure direttamente a casa tua”
“ma sono di strada… ti accompagno”
Iris lo guardò dubbiosa e obiettò:
“ma se non sai nemmeno dove abito, come fai a dire che sei di strada?”
Kentin si grattò il capo in difficoltà, vergognandosi della figuraccia che aveva appena aggiunto alla lista, mentre la rossa lo scrutava con sincera curiosità. Non ricevendo risposta, cominciò a camminare, così il ragazzo si ingegnò per cambiare argomento:
“è da tanto che conosci Dake?”
Iris riflettè un attimo e pensò:
“da ottobre circa”
“pensavo da più tempo”
“beh all’inizio non mi stava granchè simpatico, ma ora ci vado molto d’accordo… sono sicura che anche per te sarà così”
“sì sì come no” farfugliò il moro, affondando le mani nelle tasche.
“scusa?”
“no niente”
Iris non insistette e continuò ad avanzare, mentre il ragazzo si affannava a trovare qualcosa con cui riempire quell’imbarazzante silenzio. Passarono davanti ad una serie di vetrine, alcune delle quali erano di negozi che stavano chiudendo per la pausa pranzo. Kentin era talmente immerso nei suoi pensieri che quando parlò, non si accorse che Iris non era più accanto a lui. Aveva cominciato una frase sul tempo ma non ricevendo alcun segno di risposta, realizzò che la ragazza era rimasta indietro di pochi passi.
Aveva incollato il naso sulla vetrina di una fioreria e analizzava ogni singola pianta esposta. Il ragazzo ritornò sui suoi passi e commentò quasi apatico, manifestando il suo totale disinteresse per quel settore:
“ti piacciono proprio tanto le piante”
Iris si staccò dal vetro, lasciando l’impronta della punta del naso e gli sorrise; quel sorriso fece collassare il povero Kentin, che era completamente disabituato a vedere quel genere di espressione sul volto della ragazza:
“le amo. Quando sono in mezzo al verde mi estraneo da tutto, e poi i fiori in particolare sono qualcosa di naturalmente meraviglioso, con i loro colori e profumi”
Kentin la ascoltava in silenzio, mentre lei si lasciava trasportare dalla sua passione:
“lo sai che ogni fiore ha un suo significato?”
“e tu li conosci tutti?”
“alcuni” ammise Iris. Kentin scrutò i vegetali e, ignorandone il nome, indicò un fiore appariscente:
“quello cosa simboleggia?”
“il giglio?” chiese conferma Iris “quello è la purezza”
“e quello?” ritentò Kentin
“la dalia? È la riconoscenza”
“e quello là in fondo?”
Iris ridacchiò commentando:
“sembri un bambino”
Sollevato nel vederla allegra e per essere riuscito finalmente ad instaurare una conversazione piacevole con lei, il ragazzo insistette nel sapere il significato di una pianta semi nascosta da un pannello.
“quale dici? Quella con i petali gialli accanto alla margherita?”
“no, il contrario: quella con i petali bianchi accanto ai gialli”
Iris scoppiò a ridere e commentò:
“ma quelle sono margherite! Dopo due settimane al club di giardinaggio, almeno questo fiore dovresti saperlo riconoscere”
Kentin fece spallucce mentre la rossa spiegò:
“rappresenta la semplicità e l’innocenza”
Il ragazzo rimase in silenzio, pensieroso, tenendo sulle spine la ragazza.
“che ti prende?” commentò lei dopo qualche secondo.
“stavo pensando che sei proprio come le margherite tu”
La rossa lo guardò senza capire, così Kentin, riprendendo a camminare, le spiegò:
“voglio dire: semplicità e innocenza sono parole che ti descrivono no?”
“temo di essere più una bocca di leone” sospirò amara.
“perché?”
“è il simbolo dell’indifferenza” spiegò Iris “penso che il mio passare inosservata sia la caratteristica più distintiva”
Kentin sembrò non cogliere a pieno il peso dell’amarezza che gravava su quella considerazione, semplicemente perché non la condivideva affatto.
Per lui Iris era sempre la prima ragazza su cui, involontariamente, finivano per posarsi per primi i suoi occhi. Era convinto che anche se entrando in una stanza ci fosse stato un elefante, la sua attenzione sarebbe stata sempre e comunque calamitata per prima dalla rossa.
“tu passi inosservata? E io che dovrei dire?” disse infine, senza accennarle minimamente a quali pensieri si arrovellassero nella sua mente. Di fronte alla perplessità della ragazza, il moro la accusò ridendo:
“non ti sei neanche ricorda che ci eravamo già conosciuti durante le vacanze di Natale!”
L’indifferenza di Iris nei suoi confronti l’aveva urtato non poco il primo giorno di scuola. Solo con lei si sentiva irritantemente timido e impacciato e non era riuscito a farsi avanti e parlarle del loro primo incontro, deducendone che lei si fosse completamente scordata di lui.
“m-ma io ero convinta che fossi tu a non ricordarti di me” commentò Iris, presa in contropiede.
Dentro di sé sentiva crescere un’eccessiva gioia, mista a sollievo: non aveva rimosso il loro prima incontro dalla sua memoria. Anche il ragazzo era rimasto alquanto sbigottito da quella confessione.
“beh” convenne lui con un sorriso dolcissimo “non sei una che si dimentica facilmente” e, dopo aver pronunciato quella verità, si fece prendere dall’imbarazzo e accelerò il passo; decisamente, si era spinto oltre l’audacia consentitagli dalla sua personalità.
 
Il nove febbraio.
Erin ricontrollò l’agenda del cellulare, chiedendosi come potesse essere già arrivata quella fatidica data segnata sul calendario più di tre mesi prima.
Erano ormai due ore che erano in viaggio ma, più passavano i minuti e più si sentiva nervosa. Anche il resto della sua squadra era insolitamente silenziosa. Dajan si era seduto da solo, ficcandosi le cuffie bianche nelle orecchie da cui, avvicinandosi si riconoscevano le musiche dei Metallica.
Trevor era impegnato a messaggiare con la sua Brigitte, che non cessava di incoraggiarlo e sostenerlo.
Steve, il più alto della squadra, fingeva di dormire e con lui, anche tutti gli altri sembravano poco inclini alla conversazione. In testa al pullman solo Boris e Faraize erano impegnati a chiacchierare. Ancora Erin non riusciva a capire come, tra tutti i professori di ginnastica del liceo, la preside avesse potuto scegliere il più smidollato in qualità di secondo accompagnatore.
Sbirciò l’espressione di Kim, seduta accanto a lei. Era ormai mezz’ora che non spiccava parola e sembrava completamente immersa nei suoi pensieri. Il paesaggio autostradale scorreva rapido sotto i suoi occhi, senza colpire in modo particolare l’interesse della cestista.
Era surreale l’atmosfera che si respirava in quella vettura, soprattutto per una come Erin che non era abituata alle competizioni sportive. I saggi di ginnastica artistica o di danza erano tutt’altra cosa.
 
Dopo altri venti minuti di viaggio, la corriera imboccò una stradina ciottolosa e arrivò in un piazzale di cemento. L’autista spense il motore, volgendosi verso i due adulti.
Boris fu il primo ad alzarsi dal suo posto e, guardando i suoi ragazzi, sorrise, carico di eccitazione.
Erano tutti tremendamente concentrati: nulla gli ricordava la squadra chiassosa ed esuberante con cui aveva lavorato negli ultimi mesi.
In silenzio quasi spettrale, uno ad uno i cestisti scesero i gradini del mezzo e sostarono sul piazzale.
Tutti e undici puntavano lo sguardo in un’unica direzione: al centro dello spiazzo, si ergeva un edificio a forma cilindrica, sviluppato in più piani.
Anche se erano piuttosto lontani, sembrava loro di sentire il rumore dei palloni sbattuti ritmicamente contro il pavimento del campo. Quella suggestione era forse provocata dalla trepidazione e dall’eccitazione che quasi faceva vibrare i loro muscoli allenati.
L’attesa era finalmente finita: il torneo era iniziato.
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Buongiorno ^^
Mi preme chiedervi una cosa, rivolgendomi in particolare a quelle lettrici che erano rimaste (comprensibilmente) un po’ deluse dal capitolo precedente: questo capitolo è venuto meglio? (Non è una ricerca subdola di complimenti)
Le vostre osservazioni della scorsa volta mi hanno fatto incredibilmente piacere, perché mi hanno dato prova della vostra capacità critica e le ho usate come riferimento mentre scrivevo questo capitolo. Spero che il 41 sia stato solo uno scivolone episodico e che con questo, di essere tornata a quel genere di narrazione che piace a voi ^^ (se così non fosse, attendo consigli e suggerimenti ;).
Riconosco che il precedente l’ho fatto in modo piuttosto frettoloso e privo di particolari emozioni… cioè era una cosa di cui mi ero resa conto anche io, quindi chiedo perdono >. Veniamo ora alla spiegazione del titolo: LET’S MOVE!. Come credo sappiate, e correggetemi se sbaglio, è il titolo della campagna mossa da Michelle Obama contro l’obesità in America; ecco… non c’entra una benemerita cippa con il capitolo XD  Ho scelto questo titolo solo perché tra la partita di pallavolo, il salvataggio in acqua  e l’allenamento di Erin, c’è stato un po’ di movimento ;) a quello fisico si sommano le esortazioni da parte dei cupidi di questo capitolo (da una parte Lin e Alexy, mentre dall’altra Lysandre) i quali hanno cercato di smuovere un po’ la situazione tra le varie coppie di cui si occupano (Lysandre in realtà era destinato alla coppia Erin-Castiel, ma era una situazione talmente disperata che ora ha puntato tutto su Iris u.u)…a tal proposito, il fatto che il poeta preferisca Kentin a Dake per la rossa, non implica necessariamente che sia una convinzione condivisa dall’autrice, dal momento che Iris sta cambiando sempre di più la sua opinione sul bel surfista :3… ecco allora un sondaggio: chi preferite stia con Iris? E perché? È solo una mia curiosità ^^.
Finalmente signore, siamo arrivati al secondo evento più atteso, dopo il concerto del liceo: IL TORNEO DI BASKET! Visto che richiederà un bell’impegno narrativo, devo ringraziare in anticipo una fida collaboratrice, che fa della pallacanestro il suo pane quotidiano: Manu_Green8, che è stata così gentile da darmi una mano già in questo capitolo, facendomi delle correzioni tecniche e precise nel dibattito tra Erin e Boris. Diciamo che il ruolo che Boris dice di aver creato per Erin è frutto di un consulto sportivo tra me e Manu XD ;) (quindi, ti ringrazio anche da qui :3).
 
È tutto: grazie per aver letto il capitolo… alla prossima :D
 
P.S. perdonate se non ho fatto il riassunto del capitolo prima ma non ne avevo proprio voglia XD (W la sincerità)
P.S.S: il disegno in basso è opera di una ragazza che ormai non ha quasi più bisogno di presentazioni, ma che non posso fare a meno di ringraziare: _nuvola rossa 95_ ^^
 

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** Fantasmi del passato ***


RUOLI PRINCIPALI DELLA PALLACANESTRO
 
Playmaker: Normalmente si tratta del giocatore con il miglior trattamento di palla. Essenzialmente ha il compito di guidare l'attacco della squadra, portando avanti il pallone e controllandolo, assicurandosi di far partire l'attacco e lo schema al momento giusto; è quello che ha la maggior visione di gioco all'interno della squadra.
 
Guardia tiratrice: Si tratta solitamente del miglior tiratore della squadra, che sia però anche in grado di penetrare verso il canestro quando serve.
 
Ala piccola: L'ala piccola, o "tre", è quasi una guardia aggiunta, con un'ottima capacità sia di penetrazione sia di tiro. La differenza è ancora più marcata quando la squadra gioca in difesa attuando la zona: se è una fronte pari (due giocatori in punta e tre vicino al canestro) l'ala piccola funge da lungo aggiunto, vista la sua particolare conformazione fisica (alto ma longilineo e rapido).

Ala grande: L'ala grande, gioca invece solitamente vicino al canestro per aiutare il centro nella conquista dei rimbalzi. .
 
Centro: Il centro o pivot ("perno" della squadra) è uno dei ruoli standard della pallacanestro. Il centro è generalmente il giocatore più alto della squadra e preferibilmente il più massiccio dal punto di vista muscolare. Solitamente, ad un centro si richiede di saper sfruttare la sua grande massa soprattutto nei pressi del canestro. All'interno dell'area dei tre secondi deve saper segnare, difendere, 'stoppare' i tiri degli avversari, cioè spazzare via con le mani il pallone mentre vola verso il canestro, "tagliare fuori" il pari ruolo avversario (facendolo restare dietro la propria schiena) e catturare rimbalzi. Un centro deve possedere prevalentemente un buon movimento spalle a canestro e nel pitturato, ma un valore aggiunto può essere un buon tiro dalla media distanza.
 
(tratto da Wikipedia – Ruoli della pallacanestro)
 
 



CAPITOLO 43: FANTASMI DEL PASSATO
 
I cestisti avanzavano lentamente e in silenzio, calpestando quasi con timore il suolo cementificato. A pochi metri di distanza sorgeva la loro meta: il palazzetto sportivo. Era strutturato su più livelli e la costruzione sembrava di recente edificazione.
Nessuno fiatava, nemmeno Trevor e Benjamin, due degli elementi più chiassosi. Il primo, appena sceso dal pullman, si era quasi isolato in un mutismo serrato, in cui l’unica comunicazione era mediata dallo smartphone che teneva in mano. Dal sorriso dolce che accompagnava i suoi messaggi, si capiva che dall’altra parte la sua Brigitte lo stava sostenendo.
Benjamin alternava cicli di contrazione e distensione delle dita, come in un disperato tentativo di recuperare un controllo motorio completo. Era evidentemente teso, più di quanto si potesse vedere dall’esterno.
Clinton apriva e chiudeva nervosamente il borsone, ogni volta alla ricerca di un oggetto diverso. Era assalito dal dubbio di aver dimenticato qualcosa: una volta era il ricambio, un’altra le scarpe, l’altra il bagnoschiuma. Era il più sbadato della squadra e proprio a causa delle sue continue dimenticanze, in parecchie occasioni si era trovato sprovvisto di indumenti vari. La sera prima però aveva controllato ripetutamente il contenuto della borsa, riempiendola e svuotandola tre volte, ripetendo a voce alta la lista di cose che gli servivano. Non c’erano dubbi che quella volta non avesse dimenticato nulla, ma la tensione gli impediva di assumere un comportamento meno nevrotico.
Fortunatamente per lui, il resto della squadra era talmente assorto da non accorgersi dei suoi irritanti gesti. Nessuno sembrava badare ai compagni. Nessuno tranne Dajan.
Il capitano fissava con leggera preoccupazione la tensione che serpeggiava tra i suoi amici. Sentiva gravare su di sé la responsabilità come leader e non riusciva a scrollarsela di dosso; pensò istintivamente a Castiel e alla sua capacità di alleggerire l’atmosfera nei momenti come quello. Era proprio per questo suo talento, unito all’abilità come giocatore, che due anni prima l’avevano nominato capitano.
In quel momento Dajan non si sentiva all’altezza del suo predecessore, non riusciva a rompere quel silenzio con qualche frase d’incoraggiamento o di sprono. Lui per primo era un fascio di nervi.
“ehi capitano, non te la starai facendo sotto?”
Dajan si voltò, accorgendosi che Kim gli si era avvicinata. La ragazza lo guardava con un sorriso beffardo, ma i suoi occhi tradivano tutta la tenerezza che suscitava in lei. Il suo banale tentativo di ridestarlo da quella prigione di paure sembrò funzionare poiché il capitano rispose con uno dei suoi sorrisi più luminosi:
“non abbiamo mai avuto un evento più importante di questo” replicò infine, aggirando la provocazione.
“e non senti l’adrenalina correrti in circolo?” si entusiasmò Kim; i suoi occhi cominciarono a brillare dall’eccitazione: le sembrava di essere tornata sulla sua amata pista di atletica, in attesa del via. Misurarsi con i propri limiti, affrontare persone che come lei si erano impegnate duramente, puntare alla vittoria erano stimoli a cui la sportiva non sarebbe mai riuscita a rinunciare. Amava lo sport, nella sua connotazione più profonda e affascinante.
La trepidazione della ragazza la resero cieca all’ammirazione e alla gratitudine con cui aveva cominciato a osservarla il capitano. Dajan infatti sentì i muscoli delle spalle che si scioglievano, il corpo farsi più leggero e un’irrefrenabile voglia di scendere in campo.
A quell’impulso però se ne accompagnava un altro ben più difficile da trattenere: sentire Kim accanto a sé, con quell’energia che solo lei riusciva a trasmettergli, lo portava a desiderare ardentemente di stringere la ragazza tra le braccia.
Più passavano i giorni insieme e più il cestista sapeva che non avrebbe potuto continuare a far finta di nulla. Se solo avesse avuto un segnale da parte della velocista che quell’interesse era ricambiato, avrebbe azzardato il primo passo.
Rimaneva lì, a osservarla con la coda dell’occhio mentre aveva ripreso a camminare in silenzio, accanto a lui.
ETCIU’!
Tutti sobbalzarono, colti alla sprovvista dal sonoro starnuto che era partito dall’elemento più minuto della squadra; i ragazzi si voltarono verso Erin, guardandola con curiosità, come se solo in quel momento si fossero ricordati della sua presenza in squadra.
Gli occhioni vispi della ragazza passarono in rassegna i silenziosi compagni ed infine la sua bocca commentò:
“salute Erin!”
Quell’auto risposta strappò risate più o meno divertite tra i ragazzi; quel semplice diversivo bastò a lenire la loro ansia e soprattutto, ruppe il gelo che si era creato tra di loro:
“starnutisci come un uomo” la derise Trevor “fai degli starnuti più potenti di quelli di Steve!”
“starnutire con forza fa bene, sennò si rischia un ictus al cervello” si difese il ragazzo più alto della squadra.
“e questa cagata dove l’hai letta?” intervenne Wes, un ragazzo con i capelli a spazzola.
“comunque non puoi controllare quanto forte starnutisci” obiettò Erin.
Mentre la conversazione prendeva piede su un argomento futile, Boris si rivolse all’unico adulto che si era preso l’incarico di accompagnare la squadra del liceo:
“lo sai Faraize, cominciavo quasi a preoccuparmi. Fin a due secondi fa non li riconoscevo neanche più”
Il professore di ginnastica annuì, quasi sconsolato: per uno come lui, la scena dei cestisti in silenzio era la rappresentazione utopica degli studenti con cui si misurava tutti i giorni. Attorniato dal chiasso di quegli undici ragazzi, Faraize già sentiva la nostalgia del mutismo di pochi istanti prima.
“così chiusi in sé stessi e preoccupati… pensavo che quelli veri li avessero rapiti gli alieni!”
Circondati dal brusio e dal parlottio dei ragazzi, i due adulti varcarono la struttura. Si trovarono nel mezzo di uno spiazzo molto ampio e luminoso. Boris individuò sulla destra la segreteria e così ordinò a Faraize di restare con i ragazzi mentre lui avrebbe ultimato le ultime formalità per la partecipazione dei ragazzi.
Erin si guardò attorno sorridendo entusiasta. Quanto avrebbe voluto che sua sorella fosse al posto suo, del resto il basket era lo sport di Sophia. Quella mattina l’aveva chiamata per darle tutto il suo sostegno e incoraggiamento, visto che la distanza le impediva di raggiungerla. Anche tutti i suoi amici le avevano mandato messaggi, alcuni come Rosalya ed Iris erano state talmente insistenti da intasarle la casella degli sms.
Eppure Erin avrebbe scambiato mille di quei messaggi per riceverne uno da una persona in particolare. Le bastava anche un “in bocca al lupo” e avrebbe cominciato la partita con uno spirito più combattivo. Voleva solo che lui le dimostrasse che non si era dimenticato della squadra. Che non si era dimenticato di lei.
“ehi, mi ha scritto Castiel!” urlò Wes, facendo voltare verso di lui tutta la squadra.
Erin sgranò gli occhi e socchiuse la bocca per lo stupore.
“mi sa che ha scritto a tutti” sorrise Dajan fissando il proprio cellulare. Uno ad uno i ragazzi estrassero i rispettivi smartphone e si deliziarono della raffinata oratoria di Castiel che si era espresso con un “In bocca al lupo raga, fategli un culo così!”
Anche Erin tirò controllò sul proprio telefono e accese la connessione dati. Ma il suo messaggio non era uguale a quello del resto della squadra:
 
“ehi Cip, vedi non farmi fare brutta figura! Che almeno tutti gli allenamenti che abbiamo fatto siano serviti a qualcosa… scherzo, pensa solo a divertirti”
Erin sorrise ma non comunicò al resto della squadra il contenuto personalizzato del suo messaggio, custodendolo gelosamente tutto per sé.
Boris nel frattempo ritornò dal gruppo e annunciò:
“bene ragazzi, seguitemi che vi mostro dove sono gli spogliatoi” poi rivolgendosi alle sue ragazze, le guidò “voi due invece andate fino in fondo al corridoio, poi a destra. Dritte poi a sinistra. La seconda porta è quella del vostro spogliatoio.
Kim guardò Boris storcendo leggermente il naso: si era persa dopo il primo corridoio. Erin invece annuì convinta e trascinò con sé la compagna di squadra. Con le parole di Castiel che le riecheggiavano in mente, non vedeva l’ora di portarsi sul campo da basket.
Alla fine del percorso rettilineo usando Erin come navigatore, le due svoltarono a destra ed infine a sinistra.
“ecco, dovrebbe essere questa” disse la guida, indicando la prima porta.
Kim non esitò e portò allora la mano sulla maniglia, aprendo la porta con veemenza.
Dieci giovani corpi maschili, metà dei quali mezzi nudi, si voltarono di scatto verso le due. Kim fece appena in tempo a intravedere la visione posteriore di un sedere che veniva nascosto da un paio di boxer neri. Le due avvamparono in preda alla vergogna, sbattendo violentemente la porta, mentre una voce dall’interno le schernì:
"no dai ragazze, non fate le timide: potete cambiarvi qui con noi”
Immancabilmente seguì un coro di risate goliardiche, mentre Kim, allontanandosi paonazza, sbottò:
"idiota"
Erin non capì se quell’insulto fosse rivolto al ragazzo oppure a lei che le aveva suggerito la porta sbagliata. Nel dubbio, preferì difendersi:
"non l'ho fatto a posta" mormorò ancora in preda all’imbarazzo.
"la prossima la apri tu" le ordinò Kim, indicando la seconda porta. L’amica allora la superò e questa volta, adottò ogni misura possibile che le impedisse di ripetere la recente brutta figura. Controllò l’eventuale presenza di indicazioni, ma sfortunatamente all’esterno c’era solo una scritta SPOGLIATOIO.
In quel corridoio non c’erano altre porte, così fece l’unica cosa sensata che poteva fare: bussare.
Dall’altra parte udirono delle voci femminili che valsero come conferma: avevano trovato la stanza giusta.
Appena Erin e Kim varcarono la soglia, cadde il silenzio. Notarono la presenza di sole due ragazze; una era seduta sulla panca e si era già cambiata: aveva un’aria molto androgina, con i capelli corti sulla sommità del capo e rasati sopra la nuca. Si stava levando un voluminoso orecchino di legno, che ripose con cura in una scatolina. I suoi occhi erano talmente chiari da sembrare glaciali e le labbra sottili erano affilate come coltelli. In quella figura, la più evidente dimostrazione del suo sesso di appartenenza, era il seno generoso che riempiva la divisa blu della Berrytown High School. Erin e Kim scoprirono così che avrebbero condiviso lo spogliatoio con le loro prossime avversarie.
La seconda ragazza si stava allacciando le scarpe; non prestò particolare attenzione alle due arrivate e finì di sistemarsi l’alta coda di cavallo che contribuiva ad allungarle i lineamenti ovali del viso.
La cestista dallo sguardo glaciale, aveva attirato l’attenzione di Erin, non tanto per la sua eccentricità, quanto per la particolare sensazione che evocava in lei: una sensazione di familiarità.
"non era necessario bussare" quasi le rimproverò la ragazza con i capelli corti, osservando la divisa rossa delle due avversarie. Quel tono sgarbato e acido indispose Kim mentre Erin cercò di dimostrarsi più diplomatica e socievole:
"è che abbiamo sbagliato porta venendo qui" ridacchiò portandosi una mano dietro la nuca.
Appena la ragazza con i capelli corti aveva sentito la voce di Erin e l’aveva vista muoversi, cambiò espressione, spalancando la bocca per lo stupore.
"aspetta... tu sei Sophia Travis?"
Erin sobbalzò. Aveva di fronte una persona che conosceva sua sorella, ma non fu tanto questo a colpirla; ciò che davvero realizzò, da quella semplice domanda, era perché quella ragazza le fosse vagamente familiare. L’ultima volta che si erano viste risaliva a molti anni prima, quando lei era ancora un’impacciata ginnasta. Era davvero passato troppo tempo affinché potesse ricollegare quei tratti puerili che le avevano dato il tormento con i lineamenti più squadrati della ragazza che quel giorno incontrò nello spogliatoio:
"Ebony" mormorò Erin, spiazzata.
Quella ragazza, da bambina, praticava anch’ella ginnastica artistica e non cessava di darle il tormento, facendo sì che l'allenamento le risultasse un inferno; Ebony si metteva a capo delle altre piccole ginnaste, invidiose del talento della piccola Erin, per deriderla per la sua timidezza e, nel migliore dei casi, emarginarla. Il carattere debole della bambina si era lasciato piegare da quelle cattiverie, al punto da giungere ad una decisione sofferta: Erin aveva abbandonato la ginnastica e cominciato a dedicarsi alla danza, dimenticandosi di Ebony che tuttavia, dopo pochi mesi, si era trasferita in un’altra città. La stessa contro cui avrebbero giocato quel giorno.
Erano passati anni ma quest’ultima ancora non aveva riconosciuto nella ragazza mora dai capelli lunghi, la bimba a cui aveva rovinato i pomeriggi di ginnastica.
Del resto, Sophia aveva sempre giocato a basket per cui era scontato che il nome della gemella fosse il primo che aveva attraversato la sua mente; convinta di avere quindi di fronte un'avversaria temibile, con tanti anni di pallacanestro alle spalle, Ebony fissava Erin con aria intimidatoria e minacciosa. Ci mise pochi secondi però a realizzare chi avesse realmente di fronte: non era la fortissima Sophia quella che aveva davanti ma la persona più patetica e fragile che avesse mai incontrato in vita sua.
"Erin?" ripeté incredula. Il suo stupore durò poco e venne sostituito da un sorriso canzonatorio. Si avvicinò alla mora, come a volerla guardare meglio per accertarsi della sua identità. Piegò il busto in avanti, azzerando la differenza di altezza con la ragazza e, senza cambiare espressione, commentò: "mi sorprende vederti qui"
"potrei dire lo stesso di te" replicò secca la ragazza, appoggiando il borsone sulla panca. Non voleva guardarla in faccia perché non riusciva a sopportare quell’atteggiamento borioso e di superiorità con cui la squadrava. Abbandonare ogni carineria e diplomazia era a quel punto inventabile e Kim, per la prima volta, vide un’altra faccia della sua compagna, diventata un blocco di marmo quanto a emotività e gentilezza.
"e da quanto giochi a basket?" s’incuriosì Ebony, appoggiando una mano sull’appendi abiti sopra la testa della ragazza.
"da un po'" rispose vaga quest’ultima, cominciando a tirar fuori l’occorrente e a prepararsi.
Ebony continuava a sorridere, sempre più soddisfatta e trionfante: ai suoi occhi, Erin Travis non era cambiata affatto: non riusciva a sostenere il suo sguardo, era remissiva, codarda, insicura. Umiliarla era talmente facile che era un peccato non punzecchiarla.   
"immagino che resterai tutto il tempo in panchina. Del resto era una tua abitudine" la schernì. Non aveva dimenticato i saggi di danza, uno in particolare, in cui Erin si era rifiutata di esibirsi finché non era intervenuta la sorella a spronarla.
Kim nel frattempo seguiva quello scambio di battute, ignara delle dinamiche antecedenti, che riguardavano il passato delle due ragazze. Non sapeva cosa fosse accaduto tra di loro ma vedere Erin così passiva e apatica, la mandava letteralmente in bestia:
"senti bella, vedi di darci un taglio. Siamo qui per giocare"
La seconda avversaria, quasi non volesse sentirsi da meno, manifestò la sua presenza con una minaccia rivolta alla cestista:
"vedi di abbassare la cresta tu"
"sta calma Sam" la sedò Ebony, che sembrava l’unica che riusciva a divertirsi in quella situazione; rivolse poi il suo sguardo verso la sua vecchia conoscenza. L’angolo della bocca allungato verso l’alto, che permetteva di intravedere il canino destro, era un’espressione che Erin aveva sempre odiato e che presagiva l’ennesima cattiveria "se i nostri avversari non hanno saputo trovare niente di meglio di Erin Travis, batterli sarà uno scherzo"
Sam sorrise maliziosa mentre Kim inspirò profondamente, montando su tutte le furie; la sua compagna di squadra poteva pure starsene zitta a farsi insultare, ma lei di certo non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da quella spilungona:
"UMILIARVI SARÀ UN PIACERE" sibilò a denti stretti, serrando i pugni. Quella minaccia le uscì però con un volume più alto di quanto avesse desiderato, tanto che da fuori seguirono dei commenti eccitati da parte della componente avversaria maschile:
"uuhuh, rissa tra ragazze!”
Erin posò una mano sul braccio di Kim e le sussurrò:
"lasciala perdere. Vuole solo provocare"
Ebony sorrise e replicò:
"Non sei cambiata affatto Travis. Sempre la solita cagasotto” commentò, facendo segno a Sam di seguirla fuori dallo spogliatoio. Prima di aprire la porta, la salutò con l’ultima meschina osservazione:
“mi dispiace solo che la squadra non ti schiererà in campo: saresti più inutile della R di Marlboro"
Chiudendosi, la porta soffocò le risate cattive delle due avversarie, lasciando Erin e Kim nel silenzio più completo: la seconda guardava l’amica, indecisa su cosa dirle. Fosse stato per lei, avrebbe preso a pugni quella Ebony, scaraventandola al suolo. Erin invece appariva disinteressata allo scambio di battute che si era tenuto in quella stanza e non spiccava parola.
"perché ce l'ha con te?" indagò infine Kim, irritata dalla calma della mora. Quest’ultima si sistemò la divisa sopra al top sportivo e si assicurò che la coda di cavallo avesse una presa salda sui suoi lunghi capelli.
"sette anni fa eravamo nella stessa associazione sportiva di ginnastica artistica” spiegò, controllando la propria immagine allo specchio “e lei si divertiva a tormentarmi. Tutto qui” concluse, continuando a fissare il proprio riflesso.
Le sue parole uscivano piatte, senza alcuna incrinatura o insicurezza.
"non vorrai dargliela vinta spero?" la spronò Kim, quasi con rabbia, battendo la punta della scarpa destra contro il pavimento. Erin chiuse la zip del suo borsone e, senza abbandonare quell’espressione imperscrutabile, disse semplicemente:
“andiamo”
 
Mentre percorrevano i corridoi, le due ragazze non fiatavano. Kim non riusciva a capire cosa passasse nella testa della sua compagna di squadra e quest’ultima sembrava diventata l’ombra di sé stessa. L’ex velocista non sapeva se Erin fosse dannatamente concentrata o terribilmente sconsolata. Niente sembrava turbarla o destarla da quell’apatia.
Improvvisamente, le due ragazze avvertirono una musica di sottofondo. Il volume diventava sempre più alto e le ragazze si accorsero della figura che giungeva dalla loro destra: camminando tenendo le mani in tasca e un cappuccio calato in testa, avanzava una ragazza. I fili bianchi delle cuffiette spuntavano ai lati della testa e si congiungevano fino ad una delle tasche.
Dalle note che si diffondevano, Erin riconobbe The Fighter, una canzone dei Gym Class Heroes. Le gambe della sconosciuta sembravano quasi molleggiare al ritmo che pervadeva il suo corpo, amalgamandosi alla melodia, intercalata dal rap.
Passando accanto alle due cestiste, la ragazza lanciò loro un’occhiata fugace, per poi proseguire nella sua direzione. Da sotto il cappuccio si intravedevano dei capelli chiari e tagliati secondo uno stile molto alternativo che solo ad un viso regolare e dai tratti decisi e simmetrici poteva donare. La ragazza emanava una sorta di aurea di sicurezza che colpì profondamente le due ragazze, tanto che smisero di camminare, guardandola allontanarsi.
“ma chi era quella?” chiese Erin, voltandosi verso Kim.
“e che cacchio ne so io?” sbottò l’altra. C’era qualcosa di particolare in quella ragazza, ma nessuna delle due sapeva spiegarsi di cosa si trattasse.
 
Arrivate sul campo, Boris le rimproverò, accanendosi su Kim:
“KIM! Non metterti ad attaccar briga con gli avversari!” la redarguì arrabbiato.
“e come fai a saperlo scusa?” si difese l’altra, mentre Trevor e Steve ridacchiavano.
“ho sentito il discorso tra le due giocatrici dell’altra squadra”
“e che ne sai scusa che sono stata io a cominciare?” borbottò l’altra, incrociando le braccia al petto.
“ti sto dicendo di non rispondere alle provocazioni, signorina! Rimani concentrata come sta facendo Erin”
La ragazza guardò di sbieco la compagna, scettica sul fatto che fosse davvero focalizzata sulla partita.
“il talent scout l’hai visto?” chiese Dajan, rivolgendosi a Boris.
“un talent scout?” si incuriosì Kim.
Il capitano annuì leggermente eccitato, mentre il coach spiegò:
“in un evento così importante, con le migliori squadre di basket scolastiche, è il minimo che ci sia qualche talent scout. Avevo sentito dire che ci sarebbe stato un certo Grown, ma non lo vedo in mezzo a tutta questa gente”.
Quell’osservazione costrinse Erin e Kim a considerare l’ambiente che le circondava: erano in una palestra dai soffitti altissimi e con una platea enorme. Delle luci forti illuminavano a giorno il campo, mentre un tabellone segnapunti elettronico indicava il nome della loro scuola, l’Atlantic High School, accanto a quello della Berrytown HS.
Il pubblico non aveva ancora riempito gli spalti, poiché mancava ancora mezz’ora all’inizio della partita.
La squadra avversaria aveva già iniziato il riscaldamento, ma non sembrava impegnarsi particolarmente. Un gruppetto di maschi infatti, lanciava occhiate fugaci a Kim ed Erin, accompagnate da commenti poco galanti. Cercando di non farsi distrarre ed innervosire da quegli atteggiamenti, le due ragazze seguirono la loro squadra nell’esecuzione degli esercizi.
Uno degli avversari però fece volare il pallone dall’altra metà del campo, andando a recuperarlo a pochi passi dalla cestista avversaria più alta.
“è un peccato che abbiate trovato lo spogliatoio giusto” commentò malizioso, raccogliendo la palla e rivelando a Kim il suo numero di maglia e cognome: era un certo Barry e aveva disegnato sulla schiena un 6.
La mora gli lanciò un’occhiata gelida e replicò acida:
“di certo non c’era niente di interessante da vedere lì dentro”
Il cestista ridacchiò, stuzzicato da quella battuta:
“invece nel vostro, di roba interessante da vedere ce n’era eccome”
Presa in contropiede, Kim avvampò, incapace di replicare. Il ragazzo stava per aggiungere altro quando una pallonata sullo stomaco gli impedì di proseguire.
Fissò con odio la sfera che gli era costata quella figuraccia davanti alla ragazza e cercò subito di individuare chi fosse il colpevole; vide avvicinarsi quello che gli era stato indicato con il capitano dell’Atlantic High School, che raccolse il pallone:
“dovresti stare più attento a dove tiri!” si arrabbiò il ragazzo “non ce l’hai il controllo palla, capitano?”
“e chi ti dice che non abbia centrato il bersaglio?” replicò canzonatorio Dajan. Aveva un sorriso tirato, che strideva con le due fessure intimidatorie al posto degli occhi.
“bene bene” commentò Boris compiaciuto dalla panchina, osservando la scena a pochi metri da lui.
“a cosa ti riferisci?” chiese Faraize, lisciandosi i pantaloni. Seduto accanto a quel muscoloso omone si sentiva alquanto a disagio, oltre che particolarmente ridicolo.
“siamo passati dall’apatia totale alla carica più completa. Quel ragazzo che è andato a importunare Kim ci ha fatto un bel favore”
Faraize osservò Barry che si allontanava, riunendosi alla sua squadra, mentre Kim e Dajan proseguivano il riscaldamento. Conosceva il capitano da cinque anni ed era senz’altro uno dei suoi studenti migliori: qualsiasi attività proponesse quell’impacciato insegnate di educazione fisica, Dajan Brooks era uno di quelli che s’impegnava di più e soprattutto, uno dei pochi che gli dava retta. Non l’aveva mai visto perdere il controllo o arrabbiarsi, riusciva sempre a dominare la situazione e talvolta, persino i suoi compagni di classe, quando la situazione sfuggiva al controllo del professore. Evento assolutamente non sporadico. Faraize era molto affezionato a quel ragazzo, sua unica consolazione.
Kim Phoenix invece era di tutt’altra pasta: sempre disinteressata a ciò che lui aveva da dirle, con le braccia incrociate al petto in segno di ostilità e chiusura. Fino a qualche mese prima, durante l’ora di ginnastica, non di rado si isolava dal resto della classe con la scusa che gli sport di squadra non facevano per lei e preferiva andare a correre all’aperto, anche quando il termometro sfiorava lo zero. Negli ultimi mesi però, quella ragazza era cambiata notevolmente: inizialmente Faraize aveva attribuito il merito all’unica variabile introdotta quell’anno, Erin Travis, ma non poteva non considerare che il cambiamento vero e proprio della velocista era venuto a coincidere con il suo passaggio alla squadra di basket.
“hai una bella squadra” commentò infine il professore, con un sorriso flebile.
“ne sono molto fiero” ammise il coach con  orgoglio, poi aggiunse “quando ho saputo della partenza di Castiel, ci sono davvero rimasto male. È uno dei miei giocatori migliori, lo avevo allentato per formare un duo pazzesco con Dajan invece quel tonto si è andato a imboscare in Germania” sospirò con una nota di amarezza “del resto me l’ha sempre detto che il suo vero amore è la musica”
“la musica?” ripetè sconvolto Faraize, non riuscendo ad associare la seconda delle sette arti ad uno dei suoi studenti più indisciplinati e cinici.
Boris sorrise sornione e ridacchiò:
“eh eh, lo so, non si direbbe per uno come lui, ma quando passi tre ore al giorno in mezzo ai ragazzi, impari a conoscerli” e strizzando l’occhio al collega, concluse sibillino “non hai idea di quante cose interessanti si possano osservare dalla panchina"
Faraize corrucciò le labbra, desideroso di capire cosa intendesse Boris, ma l’omone si alzò, gesticolando verso Wes e dandogli delle indicazioni tecniche.
Ancora pochi minuti e la partita sarebbe iniziata.
 
Si versò il caffè con tale velocità che il liquido bollente quasi rimbalzò sulla superficie lattea e sgocciolò sulla superficie del tavolo. Con un’imprecazione masticata, Sophia asciugò la macchia e si sedette ad assaporare la sua colazione.
Erano due settimane che si svegliava di pessimo umore e non riusciva a capirne la causa. Non aveva voglia di uscire tanto che, diversamente dal solito, era Space a dover insistere con lei. Complice anche le giornate uggiose e tristi, Sophia aveva perso il suo entusiasmo.
Finita la colazione, si recò nella sua camera e passò in rassegna dei fogli di appunti che più volte aveva impugnato: c’erano scarabocchi di varia origine, dati appuntati in modo disordinato e persino dei volantini vecchi. Era arrivata ad un punto morto e finché non fosse riuscita a risolvere quel mistero, non poteva tornarsene a casa.  
“ti troverò” sussurrò, accarezzando un foglio ingiallito dal tempo. Doveva riuscirci.
Del resto, l’aveva promesso.
 
Erin aveva il cuore in gola. Ora che mancavano pochi secondi, la tensione la stava logorando.
Anche se era in panchina, sentiva un’ansia pazzesca. Guardava la sua squadra, allineata davanti a quella avversaria con la divisa blu.
La strategia di Boris prevedeva l’esordio con i migliori rappresentanti della componente offensiva del Dolce Amoris. Dajan teneva il mento alto e sembrava si stesse caricando per prepararsi al salto iniziale. Kim era accanto a lui e fronteggiava Ebony, che non la smetteva di sorridere spavalda. Tra le due uniche ragazze in campo era lampante una sorta di tensione elettrica.
Trevor non aveva la sua solita aria spensierata, ma era talmente concentrato che a stento Erin riusciva a riconoscerlo. Dagli spalti c’era Brigitte che lo guardava con ammirazione. Steve, che svettava sui due metri di altezza, sovrastava tutti, avversari compresi, mentre Wes sembrava troppo distratto dalla folla femminile sopra di lui.
“se non la smette di guardare le ragazze, giuro che dopo la partita lo castro” sibilò Boris, che cominciava ad accusare lo stress.
Dopo una frettolosa stretta di mano, i giocatori cominciarono a distribuirsi sul campo, mentre Dajan e Barry si posizionarono all’interno del cerchio centrale. L’arbitro si avvicinò, mentre le due squadre tenevano lo sguardo fisso su quell’oggetto sferico in equilibrio sulle mani dell’uomo. Da quel momento in poi, non avrebbero posato gli occhi su nient’altro.
L’arbitro, dopo essersi assicurato di essere esattamente a metà campo per non favorire l’uno o l’altro giocatore, lanciò la palla in aria, facendosi immediatamente da parte.
Dajan spiccò un salto, con una tempistica migliore di Barry riuscendo a soffiargli la palla.
Dalla folla si sprigionarono delle urla di ammirazione ed eccitazione.
La partita era iniziata.
Il capitano della Atlantic direzionò la sfera verso Kim che intercettò perfettamente il tiro. La ragazza cominciò a palleggiare, scambiandosi un cenno d’intesa con Trevor che cominciò a correre verso il canestro avversario. Le si parò davanti un giocatore nemico che cercò di rubarle la palla così la ragazza temporeggiò, maneggiandola con agilità tra le gambe finché riuscì a beccare un’apertura e passarla a Trevor. Il ragazzo però trovò un ostacolo: un certo Florrick lo marcava stretto, impedendogli di avanzare ulteriormente; si accorse della presenza di Wes alle sue spalle che era pronto a ricevere la palla. Distratto da quest’ultimo, Florrick si spostò, convinto di anticipare le intenzioni di Trevor. Il cestista però, con un sorriso vittorioso, lo dribblò e con una schiacciata portentosa, riuscì a mandare la palla a canestro.
Dalla folla esplosero urla e applausi esagitati, accompagnati dalla reazione della panchina della Atlantic School. Erin aveva dimenticato tutto il nervosismo dei secondi che avevano preceduto l’inizio della partita: le facevano quasi male i muscoli, tanta era l’adrenalina in circolo, ma era una sofferenza dannatamente piacevole.
Trevor dal canto suo, continuava a pavoneggiarsi per la sua splendida azione, così Dajan pensò di farlo tornare con i piedi per terra:
“abbassa la cresta Trev, rimani concentrato invece di fare l’esibizionista”
Il ragazzo, che stava gesticolando a Brigitte che quel canestro era per lei, corrugò la fronte, assumendo un’espressione infantile e offesa:
“dici così solo perché non hai una ragazza a cui dedicare i canestri visto che Kim è sul campo”
Dajan lo ignorò, tornando a prestare attenzione al gioco: gli avversari avevano guadagnato la metà campo e correvano verso il canestro della sua squadra. Steve fronteggiò Barry che si stava rivelando un ottimo playmaker, con la sua visione completa del gioco. Il numero 6 tenne la palla bassa, sfruttando il punto debole del ragazzo più alto della Atlantic: palleggiò tenendo la sfera molto bassa e riuscì a superarlo facilmente. Passò la palla al numero 8, Frey ma la traiettoria venne intercettata da Kim che deviò il colpo verso Wes. Il ragazzo partì in contropiede ma si trovò subito di fronte la guardia tiratrice avversaria, Florrick. Quest’ultimo riuscì a penetrare il palleggio, cercando i suoi compagni. Individuò Barry, in posizione fuori dall’area dei tre punti e riuscì a passargli la palla. Prima che Trevor tentasse di sottrargliela, il capitano avversario riuscì a fare un tiro:ne uscì una tripla perfetta, che mandò il punteggio a vantaggio della sua squadra. Erano 3 a 2 a favore della Berrytown High School, ed erano passati appena centoventi secondi di gioco.
Erin era allibita: il gioco era di tutt’altro livello a quello a cui era stata abituata durante gli allenamenti; cominciò così a capire il perché delle insistenze di Castiel, Dajan e Boris nel sottoporla a cicli estenuanti di esercizi. Ingoiò un grumo di saliva che le sembrò depositarsi in fondo allo stomaco con il peso di un macigno.
“tieniti pronta Erin” le disse Boris, senza staccare gli occhi dal pitturato.
La ragazza allungò il collo in avanti e dilatò gli occhi fuori dalle orbite:
“p-perché?” balbettò, temendo la risposta.
“perché tra poco ti farò entrare” le rivelò l’allenatore. Gli angoli della bocca del mister erano curvati verso il basso e le folte sopracciglia aggrottate per il nervosismo.
“m-ma Boris, sei matto? Perché farmi giocare? Quelli mi mangiano!” protestò terrorizzata. Fino a quel momento, non aveva capito in che guaio si era cacciata partecipando ad un torneo di quella portata. Lei, che giocava a basket da pochi mesi, si sarebbe misurata con dei veri e propri mostri.
“oh, non essere sempre così catastrofica” minimizzò l’uomo, mentre alla paura di Erin si sommava la perplessità di Faraize.
“ma Boris” mediò “credo che Travis abbia ragione”
“non l’ho allenata tutto questo tempo per lasciarla in panchina!” si arrabbiò l’uomo, mentre anche il resto dei ragazzi rimasti in panchina lo guardavano confusi.
Con la testa bassa e le gambe che le tremavano, Erin si avvicinò al tavolo dove ad attenderla c’era la sedia per le sostituzioni. Si accomodò, sperando di entrare il più tardi possibile. La sua squadra stava perdendo qualche colpo e le maglie blu erano passati in vantaggio.
Quando la squadra sul campo realizzò lo scambio che sarebbe stato effettuato impallidì.
“Erin?” borbottò perplesso Trevor.
Era inutile chiedersi chi, tra i cinque giocatori in campo sarebbe stato sostituito così, appena la palla uscì dal perimetro di gioco, l’arbitro autorizzò la sostituzione.
Kim sfrecciò furibonda verso il tavolo, lanciando un’occhiata fulminatrice a Boris. Mentre Erin, rigida come un palo, faceva un ingresso robotico verso il campo, la velocista si fiondò contro il suo allenatore:
“perché diavolo mi hai sostituita Bors? Sono passati solo cinque minuti!”
Il mister si accigliò, replicando seccamente:
“devo far finta di non vedere che ti fa male la caviglia?"
La ragazza ammutolì, poi abbassò lo sguardo, frustrata; Boris nel frattempo proseguiva:
"se la sforzi troppo, potresti restare fuori dal campo per una settimana e non posso permettermi di correre il rischio di fare la seconda partita solo con Erin"
Il regolamento del torneo parlava chiaro: ad ogni partita doveva essere schierata almeno una ragazza. Tutti si erano chiesti il senso di quella particolare imposizione e la spiegazione era arrivata dalla risonanza mediatica che aveva riscosso l’evento: parecchie università potevano contare su squadre di basket molto forti e il torneo Interhigh rappresentava l’occasione per scovare potenziali studenti e validi giocatori. Erin intanto, era sul campo. Le gambe non la smettevano di tremarle: assistere al gioco dalla panchina era un’emozione completamente diversa.
“non potevano darti un numero migliore” la schernì Ebony, osservando il 12 sulla schiena dell’avversaria “è l’ultimo numero della serie”
Erin la ignorò, perché distratta da ciò che accadeva nella panchina della Berrytown: l’allenatore infatti, a seguito della sostituzione effettuata dal collega, impose a Ebony di rientrare e schierò al suo posto Samantha Jones.
"sottovalutano Erin" commentò Boris, seguendo con lo sguardo l’arrivo di Sam sul pitturato.
"cosa te lo fa credere?” chiese Faraize, seduto accanto ad un’imbronciata Kim. Gli spettatori guardarono Ebony allontanarsi protestando ma a nulla servirono le sue lamentele: come un predatore che, appena avvistata la preda, si vede costretto a lasciarla ad un altro animale.
“quella Jones è meno forte di quella che è uscita. Ho raccolto del materiale su questa squadra, come del resto per le altre che eventualmente affronteremo, e ti assicuro che non è una minaccia seria. Evidentemente l’uscita di scena di Kim l’hanno interpretata come una mia strategia per risparmiarle un po' di affaticamento ed essere pronta per i successivi quarti. Quindi, per evitare a sua volta di stancare Ebony che dovrebbe poi tenerle testa, hanno schierato quella ragazza”
“quindi Erin ce la può fare tranquillamente?” sovvenne Kim, accantonando il malumore.
“se la smettesse di tremare come una foglia, magari anche sì” sospirò Boris, lanciando delle occhiate preoccupate alla sua giocatrice più mingherlina.
La mora infatti aveva un’espressione terrificata, come se potesse essere sbranata da un momento all’altro.
“ERIN! MUOVI QUEL CULO E NON STARTENE IMPALATA!” le urlò contro Kim, facendo sobbalzare tutti e la diretta interessata per prima.
“m-ma” sussurrò Erin con voce tremante e con un’espressione che ricordava terribilmente un chibi manga. La velocista invece emanava energia da tutti i pori: fremeva dalla voglia di tornare in campo e avrebbe donato un rene pur di essere al posto della compagna. Per lei era inconcepibile quella paura che la paralizzava.
“KIM! NON SEI D’AIUTO!” la richiamò Trevor dal campo.
“NEANCHE TU STANDOTENE ZITTO A GUARDARLA!”
Nel frattempo la panchina avversaria assisteva basita a quello scambio di battute: di certo i giocatori della Atlantic avevano tra le loro file dei soggetti alquanto particolari.
“datevi una calmata voi due” li riprese Dajan, zittendo i due amici e avvicinandosi ad Erin, la esortò:
“pensa solo a divertirti”
Gli occhi della mora cominciarono a brillare e ricordò il messaggio che quella mattina le era arrivato dalla lontana Germania. Non poteva farsi frenare dalla paura. Castiel si era ricordato di lei, si era impegnato per prepararla a quell’evento.
Non poteva fare brutte figure. Annuì quindi con convinzione, riprendendosi giusto due secondi prima della rimessa in gioco.
Prevedibilmente, Jones doveva marcarla ma non si trovò di fronte la ragazza apatica e remissiva che aveva conosciuto in spogliatoio e che era entrata in gioco come se dovesse andare al patibolo: Erin la guardava dritto negli occhi, senza lasciarsi intimorire.
Jones ricevette la palla da Barry e si apprestò a superare l’avversaria.
Quest’ultima sbilanciò il busto verso destra, lasciandole libero il passaggio alla sua sinistra; Sam sorrise soddisfatta: era troppo facile. Fece per sfruttare quell’apertura ma il pallone le venne portato via: allungando il braccio sinistro, Erin aveva agganciato la palla e gliel’aveva soffiata da sotto il naso.
“era una finta” digrignò Jones, trattenendo l’umiliazione. La mora nel frattempo aveva già ceduto il pallone a Dajan che palleggiava dando indicazioni a Trevor e Steve.
In quanto ala grande, il primo riuscì a intercettare il passaggio del capitano e cercò di trovare un modo per arrivare al pivot. Quest’ultimo, Steve, si era posizionato nei pressi del canestro avversario, pronto a ricevere la palla. Attorniato dagli avversari, Trevor preferì mirare a canestro ma il tiro rimbalzò sul ferro: Steve allora spiccò un salto, assieme al centro avversario. Entrambi riuscirono a toccare la sfera volante ma fu grazie alla presa più prepotente del pivot della Atlantic che la palla scivolò all’interno della rete conica.
“EVVVAI COSI’!!” esultarono dalla panchina i compagni.
Steve diede una pacca sulla spalla ad Erin, complimentandosi per la palla rubata, mentre lei sorrideva imbarazzata. Anche Boris le sollevò un pollice alzato, in segno di approvazione.
Florrick aveva ripreso a palleggiare, guardando nervosamente il tabellone: mancavano ancora due minuti alla fine del primo quarto e, nonostante il punteggio a loro favore, sapeva che l’entrata in campo di Sam li aveva penalizzati. Gli avversari non avrebbero impiegato molto tempo a portarsi in vantaggio.
Proprio come aveva previsto il pivot, il gioco della Berrytown subì un arresto: Jones perdeva continuamente il pallone, non riusciva a passarlo a nessuno e non era assolutamente in grado di concludere un’azione. Per contro invece la ragazza della squadra avversaria sembrava rilassata e tranquilla. Non aveva mai segnato un canestro, si limitava a passare la sfera e a correre da una parte all’altra del campo, pronta a intercettare passaggi fondamentali. Florrick non aveva chiaro qualche fosse il suo ruolo, sapeva solo che, forse per la modesta statura della ragazza, spesso si dimenticava di lei o non riusciva a individuarla subito sul campo.
Diversamente da Phoenix infatti, che aveva un gioco molto tecnico e persino affascinante, che riusciva a calamitare l’attenzione di giocatori e spettatori, la giocatrice numero 12 maglia rossa, sembrava più un fantasma che fluttuava sul campo.
 
Il primo quarto si concluse con un pareggio che portò il tabellone segnapunti a indicare per due volte il numero 22.
Boris accolse i giocatori mostrandosi entusiasta dei loro primi dieci minuti.
“sono più tosti di quello che immaginavo” si lamentò Trevor, asciugandosi il sudore con la maglietta e mostrando degli addominali scolpiti.
“meglio così no? C’è più da divertirsi” sorrise Dajan.
“questa è una frase da Castiel” osservò Clinton, allungandogli una borraccia.
“su, su, restiamo concentrati ragazzi!” li richiamò Boris, battendo le mani “la difesa va bene, è l’attacco che dovrebbe essere più efficace: Dajan, non restare fossilizzato sul ruolo del playmaker, fa uscire il centro che è in te; sfrutta le tue capacità di elevazione e fa qualche canestro, mentre da te Wes” disse, spostandosi sul suo giocatore più distratto “voglio almeno sette triple al prossimo quarto”
“sette?” ripetè la guardia, esterrefatta “ma se riesco a farne in media appena quattro a quarto”
“non mi interessa. Mancane anche solo una e ti faccio giocare in mutande”
“beh, va tutto a beneficio delle mie ammiratrici femminili” si pavoneggiò il moro, passandosi una mano tra i capelli.
Irritato per lo scorso successo della sua minaccia, Boris cambiò strategia:
“e se ti dicessi che c’è una persona che, se fai il bravo, potrei presentarti?”
Gli occhi di Wes cominciarono a brillare per l’eccitazione. Aveva sentito girare voci su una presunta nipote australiana di Boris, bionda e dalla pelle baciata dal sole. Esattamente il suo tipo di ragazza.
“questa persona ha detto che verrà al torneo, solo se arriveremo in finale” gli spiegò il mister, intuendo i pensieri del ragazzo. Erano due mesi che lo martellava con la richiesta di conoscere questa fantomatica nipote e l’uomo aveva finalmente trovato un modo per usare a suo vantaggio quella parentela. A quel punto Wes sembrò avere una missione da compiere a costo della vita: dopo aver unito le mani a quelle dei compagni, fu il primo a tornare sul campo e mettersi in posizione. Aveva il fuoco negli occhi.
Faraize, sconvolto da quel cambio di atteggiamento, guardò l’uomo seduto accanto a lui, mentre anche il resto della squadra prendeva posto sul pitturato:
“si può sapere chi è questa persona che Scottdale vuole tanto conoscere?”
Boris sogghignò, assumendo l’aria d una vecchia volpe:
“si è convinto che io abbia una bella nipote da presentargli”
“perché, non è così?”
Il coach scrollò le spalle e, borbottando divertito tra sé e sé:
“forse con una gonna e un fiocco in testa, magari Dake può passare per una donna”
 
Una volta all’interno del perimetro di gioco, Erin cercò Jones ma non la vide. In compenso stava avanzando, con il passo felpato di una pantera, la ragazza che era uscita insieme a Kim.
“dovrai vedertela con me ora, Travis” le annunciò con tono di strafottenza Ebony.
La mora si limitò a mettersi in posizione.
“parli sempre tu?” sospirò, irritata.
Ebony ghignò e si concentrò sul gioco. La palla era in mano della sua squadra e così la ragazza partì all’attacco del canestro avversario. Sorpresa per quella manovra, Erin la seguì. Non era stato quello il ruolo dell’avversaria durante il primo quarto: Ebony infatti si era limitata a restare in difesa, marcando Kim, mentre in quel momento sembrava svolgere un ruolo più offensivo.
Intercettò la palla, accogliendola tra le braccia, e senza curarsi minimamente della presenza di Erin, la scartò. Vittoriosa, sfrecciò verso il canestro, trovandosi davanti Steve. Tenne la palla bassa e, con un passaggio rapido, portò la sfera nelle mani di Barry che realizzò una splendida tripla.
Dajan recuperò la palla mentre Ebony sogghignava:
“non ti si vede neanche sul campo Erin. Sei invisibile” e si allontanò ridendo.
Erin la fissò, ricordandosi di quando era bambina.
Fino ad un attimo prima, era convinta di essere cresciuta, di avere abbastanza autostima da mettere al suo posto una come l’avversaria e che i suoi commenti perfidi non la ferissero. E invece, le facevano ancora male, riuscivano ancora a farla sentire vulnerabile; in sette anni non era cambiato nulla, dentro di sé era rimasta la stessa bambina insicura e debole.
“senti Bors, ce la faccio. Lascia che sia io a vedermela con quella lì” si propose Kim “Erin sembra avere qualcosa in sospeso con quella lì che continua a punzecchiarla”
“perché dovrei farti entrare scusa? Hai un tendine infiammato e non intendo sostituirti. Devi avere più fiducia in Erin: questa è la sua partita” commentò Boris. La cestista lo osservò con curiosità e vide quello sguardo, quasi paterno, che si posava sulla sua giocatrice più fragile.
Tuttavia, diversamente da quanto sosteneva il mister, nel secondo quarto, la difesa di Erin non era più efficace quanto nel primo. Ebony riusciva a sfrecciarle accanto senza che l’altra opponesse alcuna resistenza. Da quando era entrata in campo quella vecchia conoscenza, Erin si era spenta: la ragazza che era riuscita a mettere in ginocchio Samantha Jones era sparita.
“lo dicevo io a Sam che non potevi essere così forte. Hai avuto solo fortuna a rubarle qualche palla Travis. Mettiti da parte che mi sei d’intralcio” e la superò senza difficoltà.
Trevor guardò Erin preoccupato: così non andava. Il punteggio era tornato a loro sfavore: 32-24.
Quel Frey stava puntando al canestro e non aveva il tempo per pensare alla ragazza. In qualche modo l’amica avrebbe dovuto reagire, nel frattempo loro dovevano cercare di portare avanti il gioco.
“Erin!” la chiamò Dajan frustrato, dopo l’ennesimo passaggio intercettato da Ebony, dopo che Erin aveva tentato di passare la palla. Il suo era stato un errore tattico talmente stupido, che persino la pazienza del suo capitano stava cominciando ad esaurirsi. La mora lo guardò smarrita, mentre l’avversaria ridacchiava:
“sei sempre stata insignificante, ma adesso stai rasentando il ridicolo Travis” la schernì con disprezzo “senti un po’ Casper, sarà meglio che cominci a farti notare, altrimenti saresti davvero la persona più inutile sul campo” e dopo aver pronunciato quelle parole, la ragazza superò Erin che non tentò minimamente di bloccarla.
Era rimasta lì. Immobile.
Venne fischiata la fine del secondo quarto e le due squadre rientrarono negli spogliatoi.
 
Boris si avvicinò minaccioso alla sua giocatrice:
“Erin! Ti sei arresa?”
Le urlò contro, chinandosi verso la mora che era seduta sulla panchina dello spogliatoio dei ragazzi. La squadra la fissava in silenzio, lasciando a Boris il compito di darle una scrollata. La ragazza però non osservava nessuno, sentendosi colpevole.
“guarda i tuoi compagni!” le ordinò il mister “ci stanno mettendo l’anima in questa partita e tu invece che fai? Ti fai sovrastare da una che non ha la metà delle tue qualità!”
Quella frase non sortì l’effetto che Boris sperava: Erin infatti scattò in piedi, furente:
“la smetti con questa storia Bors? Non ho quel talento che tu dici! Riconoscilo: Ebony è più forte di me e io non ci posso fare nulla! Smettila di volermi mettere in testa queste patetiche assurdità! Schiera in campo Kim e che sia finita! È l’unica speranza per vincere, perché io sono solo inutile!”
Terminato il suo sfogo, la ragazza si diresse verso la porta dello spogliatoio:
“dove pensi di andare?” la redarguì Boris, tra il silenzio attonito della squadra.
“dove mi pare, tanto non avete bisogno di me” sentenziò la ragazza, sentendo le lacrime montarle in gola. Sbattè la porta e corse via, prima che gli altri si accorgessero di quanto fosse sconvolta. Sentì alle sue spalle che anche l’allenatore era uscito e il suo vocione si propagò per il corridoio:
“ERIN! TORNA SUBITO QUI!”
 
La ragazza svoltò diversi angoli della struttura, cessando la sua corsa solo quando fu sicura che nessuno della sua squadra potesse trovarla.
Non era solo per Ebony. Ebony era solo uno dei tanti motivi che sottolineavano quanto lei fosse inadatta a trovarsi lì. Appena aveva cambiato avversario, era crollata e non era riuscita a rendersi competitiva sul campo. Si appoggiò al davanzale di una finestra e guardò all’esterno.
Se solo ci fosse stato Castiel, lui e i suoi commenti beffardi che riuscivano a farla reagire. Ne aveva proprio bisogno in quel momento. Provò ad immaginare cosa le avrebbe detto in quella circostanza e lo immaginò arrivare trafelato dal corridoio urlandole contro, con la finezza che lo contraddistingueva:
“Cip, smettila di frignare e porta quel sedere flaccido sul campo, altrimenti ti porto io a forza!”
Esalò un sospiro triste e tirò fuori il cellulare, che aveva recuperato appena rientrata in spogliatoio.
Nella galleria cercò quell’immagine che solo guardarla la metteva di buon umore: aveva fatto la foto della fotografia del rosso che era custodita nel cassetto della sua camera.
Erano passati giorni interi da quando l’aveva sentito l’ultima volta, eccezion fatta per qualche sporadico messaggio che serviva a testimoniare che non era passato a miglior vita.
“quando torni idiota di un Castiel?” borbottò tra sé e sé, fissando lo schermo del cellulare.
“è il tuo ragazzo?” chiese una vocina alle sue spalle.
Erin sobbalzò, perdendo la presa sul dispositivo, mentre la figura dietro di lei si chinava a raccoglierlo.
“non volevo spaventarti” si scusò quella che si rivelò essere una ragazza. La stessa persona che lei e Kim aveva incrociato nei corridoi qualche ora prima. Aveva le cuffie abbandonate sul collo e masticava rumorosamente una chewing gum che odorava di fragola.
Erin recuperò dalle mani della sconosciuta il cellulare, ringraziandola; quest’ultima sorrise e scrutò l’abbigliamento della ragazza:
“sei della Atlantic? Non è quella scuola con quel soprannome un po’ assurdo?”
“dì pure idiota” ammise Erin “vorrei tanto sapere chi diavolo l’ha battezzato Dolce Amoris”
La ragazza alzò leggermente le spalle e, inclinando la testa di lato, indagò:
“come mai sei qui? Non dovresti essere sul campo?”
Erin ricordò il motivo per cui non era a correre sul pitturato, motivo che aveva per un attimo dimenticato grazie al diversivo rappresentato dalla sconosciuta.
“non servo alla squadra, quindi mi sono chiamata fuori” sbuffò, appoggiando i gomiti sul davanzale.
“te l’ha detto la squadra?” chiese dubbiosa la bionda, arrotolando le cuffie e mettendosi in tasca il lettore mp3.
“no, ma solo perché sono troppo premurosi per farlo. Lo si vede lontano un miglio che sono solo un peso”
“finché stai qui a lamentarti, di certo non servi proprio a niente” commentò placida l’altra.
Erin le restituì uno sguardo incuriosito. Di certo non voleva compatirla, ma nemmeno la consolazione sembrava contemplata tra gli obiettivi che si era posta quella ragazza.
“in campo ti assicuro che non faccio alcuna differenza: è come se fossi invisibile” la avvertì la mora.
“e chi l’ha detto che questo è uno svantaggio?”
Un solco leggero attraversò la fronte di Erin, che fissava con interesse la sconosciuta:
“ho visto come hai giocato la fine del primo quarto. Il fatto di passare inosservata è il tuo punto di forza” le spiegò la ragazza, avvicinandosi anch’ella alla finestra.
 
“[…] in un certo senso ti ho creato un ruolo tutto tuo Erin, su misura per te, sfruttando la tua statura e la tua agilità. Avrai un ruolo per lo più difensivo, hai dei riflessi molto buoni quindi riesci a rubare la palla con grande velocità. In campo ti muovi con una scioltezza che passa quasi inosservata, complice anche il fatto che sembri un folletto se paragonata ai giganti che ti giocano attorno. I tuoi compagni sono abituati alla tua presenza e a tenerti d’occhio, ma sono convinto che per i tuoi avversari sarà molto più difficile: il fatto che tu sparisca durante la partita, sarà uno degli assi nella manica della nostra squadra”
 
Solo in quel momento, appollaiata sulla finestra, accanto a quella ragazza sconosciuta ma dall’aria socievole, Erin capì a fondo le parole che Boris aveva pronunciato due settimane prima. Lei stessa, fino a quel momento, non si era accorta di cosa era riuscita a fare nel primo quarto; la presenza di Ebony l’aveva distratta ma non aveva motivo per temerla. Aveva tutte le capacità per sovrastarla e farla tacere una volta per tutte.
“e poi il primo premio è troppo allettante per non provarci, non ti pare?” aggiunse la bionda, staccandosi dal marmo bianco.
“primo premio?” domandò Erin, non cogliendo il senso di quell’affermazione.
“ma come? Non te l’hanno detto? La squadra che vince il torneo partirà per un viaggio di una settimana a”
“BERLINO!” completò Erin urlando.
“allora lo sapevi” ridacchiò la ragazza.
Come aveva potuto non pensarci prima. Eppure la preside l’aveva comunicato chiaramente alla squadra. Tra tutte le città al mondo, l’organizzazione sportiva aveva scelto quella in cui più di ogni altra Erin avrebbe voluto trovarsi. Avrebbe cominciato a credere nel destino se ciò fosse servito ad aumentare le chances di raggiungere quella certa persona.
No, ora che si era ricordata di quel premio così prezioso, assolutamente non poteva lasciarsi sfuggire una simile opportunità. Se quello che le serviva per tornare sul campo era una motivazione valida, ne aveva trovata una che le era vitale.
“che ore sono?” chiese trepidante, sbirciando l’orologio della ragazza.
Quest’ultima intuì i pensieri della mora e rispose:
“se ti sbrighi, riesci ad arrivare prima dell’inizio dell'ultimo quarto”
 
Kim cercò di raggiungere Ebony dopo che questa, con una finta, era riuscita a smarcarsi. Aveva giocato tutto il terzo quarto dando il meglio di sé, ma, come aveva previsto Boris, la caviglia era sempre più dolorante. La squadra si era arenata ad un punteggio di 54 a 33 a loro sfavore e ogni volta che la mora osservava il tabellone segna punti, sentiva montarle dentro una rabbia pazzesca: la sua condizione fisica le impediva di dare il meglio di sé, e al contempo, era furente per la codardia che Erin aveva dimostrato. Non pretendeva che fosse una giocatrice impeccabile, ma non poteva perdonarle di averli abbandonati. Quella non era la ragazza che aveva conosciuto e a cui si era affezionata.
La palla era passata a Drake, la miglior guardia tiratrice avversaria che, con una meccanica di tiro impeccabile, aveva centrato il canestro.
57 a 29 ed erano già passati due minuti dall’inizio dell’ultimo quarto.
“ti fa tanto male?” le chiese una voce alle sue spalle. La cestista si voltò di scatto, intercettando lo sguardo preoccupato di Dajan:
“pensa a segnare capitano” borbottò, in preda all’imbarazzo. Nel frattempo, dopo la rimessa dal fondo da parte di Trevor, la palla era stata intercettata dagli avversari, in particolare dal capitano Barry.
“BLOCCA QUELLA CAZZO DI PALLA STEVE!” urlava Wes dalla panchina. Il coach era stato costretto a sostituirlo con Clinton, ala piccola, per tentare un cambio di strategia che però non stava sortendo i risultati sperati. Steve spiccò il salto troppo tardi e l’elevazione pazzesca dell’avversario gli consentì di aggiungere altri due punti, raggiungendo un lodevole 50.
Ebony ghignò divertita, rivolgendosi a Kim:
“certo che tra te e la tua amica non so chi sia la più impedita”
La cestista strinse i pugni e si avvicinò minacciosa all’avversaria, afferrandole il bavero della divisa:
“senti un po’ cretina, se cerchi qualcuno con cui attaccar brighe, hai trovato la persona giusta!”.
Un sorriso strafottente aveva tirato verso l’alto l’estremità destra della bocca di Ebony:
“voglio proprio vedere se ne hai il coraggio” la istigò.
Nel frattempo nell’area sotto canestro, dopo la rimessa in campo, c’era stata un’azione poco pulita e Dajan e Barry si trovavano a discutere con l’arbitro sul possesso palla.
Kim teneva i pugni stretti, affondando le unghie nel palmo, al punto da sentire dolore; la provocazione della ragazza però l’aveva spinta oltre il suo limite di sopportazione: la afferrò per il bavero della divisa e sollevò il gomito, inchiodandola con gli occhi iniettati di sangue. Ebony non solo non era affatto intimidita, ma sembrava sperare in un atto di violenza. Prima che Kim commettesse qualche sciocchezza, la mora avvertì una morsa bloccarle ogni movimento:
“KIM! A CUCCIA!” le impartì Trevor, tenendo d’occhio l’arbitro. L’uomo era ancora impegnato con i due capitani e non sembrava essersi accorto della zuffa tra le due ragazze.
“non sono un cane” ringhiò la mora, recuperando abbastanza lucidità da lasciare la presa sull’avversaria.
 
Il respiro era corto e le usciva a fatica: correva più velocemente che poteva tra i corridoi, con la suola delle scarpe che strideva contro il pavimento liscio.
Non si sarebbe mai perdonata se non fosse riuscita ad arrivare in tempo.
Si era comportata da immatura ma poteva rimediare. Quella era la sua occasione per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stessa, quanto potesse essere determinata e forte; ma non era solo per quello che le sue gambe non la smettevano di spingerla sempre più avanti. Alla lista si era aggiunta una motivazione che era svettata in cima alle sue priorità e continuava a ripeterla a sé stessa, come una promessa infrangibile:
“verrò a Berlino… aspettami Castiel”
 
Ebony, insoddisfatta per la conclusione che aveva preso la discussione con Kim, insistette:
“lo sapevo che non ne avevi le palle”
Trevor si trovò così a trattenere l’amica per le spalle, mentre quest’ultima si divincolava:
“lasciami! Se proprio dobbiamo perdere, che almeno se ne torni a casa con la faccia tumefatta, questa stronza!”
L’amico serrò la presa e insistette:
“smettila di fare l’idiota Kim, o ti squalificano”
 
Erin arrivò in palestra, portandosi davanti alla panchina. L’ultimo quarto era già iniziato.
“sono qui” ansimò, portandosi una mano all’altezza della milza e cercando di recuperare fiato.
Sentiva addosso gli occhi dell’intera squadra ma era solo su una persona che era concentrata la sua attenzione. Boris annuì in silenzio, ancora troppo deluso dal suo comportamento. Aveva un’espressione imperscrutabile ma Erin era determinata a proseguire:
“mi dispiace per prima” mormorò mortificata. L’uomo si alzò dalla panchina proprio mentre gli avversari segnarono l’ennesimo punto.
“l’unico modo per farti perdonare è farci vincere questa partita. Pensi di poterlo fare?” quasi la sfidò l’uomo, chinandosi a guardarla negli occhi.
Erin non abbassò lo sguardo e ricambiò la compostezza con cui lui la stava fissando:
“sì!” esclamò convinta.
Le labbra di Boris si incurvarono leggermente verso l’alto e, con un cenno del capo, ordinò alla giocatrice di andarsi a sedere sulla sedia per il cambio.
Erano quegli gli occhi che voleva vedere in campo, era quella la giocatrice che si aspettava.
L’arbitro aveva appena stabilito che la palla toccasse a Barry e approfittò di quell’interruzione per eseguire lo switch.
“Kim, lascia posto ad Erin” le disse Trevor, indicando la compagna seduta accanto al tavolo segnapunti. L’amica spostò il suo interesse sul bordo campo e sorrise con orgoglio:
“era ora” borbottò tra sé e sé, raggiungendo la collega.
“scusa per il ritardo” minimizzò Erin.
In tutta risposta, Kim le battè una mano sulla spalla:
“l’importante è che ora sei qui”
La sostituzione venne ufficializzata ed Erin entrò in campo. Questa volta le sue gambe non tremavano e il mento era dritto e puntato verso il canestro avversario.
“oh-oh” esordì Ebony, elettrizzata da quella new entry “ma così ci rendete le cose troppo facili”
Erin però la ignorò. Aveva trovato un obiettivo talmente importante che non avrebbe permesso a nessuno, tanto meno ad una persona insignificante come Ebony, di ostacolarla nel suo raggiungimento.
“hai intenzione di fare l’invisibile anche in questo ultimo quarto, Casper?” la canzonò.
Barry effettuò la rimessa in campo, direzionando la palla verso Drake. Il ragazzo era pronto a riceverla ma, a pochi centimetri dalle sue mani, la sfera sparì. Una mano sottile era riuscita a soffiargliela da sotto il naso e, quando il ragazzo si era accorto che era stata la nuova giocatrice a rubargli la palla, questa l’aveva già passata a Dajan. Il playmaker aveva palleggiato fino alla linea del tiro libero e aveva cercato Steve, pronto ad accogliere la palla. Il capitano aveva allora inscenato un passaggio verso il compagno, cambiando all’ultimo la traiettoria di lancio. Quella finta aveva distratto la difesa, che si era concentrata su Steve, lasciando la linea di tiro perfettamente sgombra per il capitano.
“FORZA!” urlarono dalla panchina della Atlantic, esultando per il loro primo canestro del quarto tempo.
Florrick, nel frattempo, aveva recuperato la palla ed era partito alla conquista del canestro. Si trovò di fronte Trevor a sbarrargli la strada, costringendolo a temporeggiare con il palleggio. Doveva decidersi in fretta sul dove direzionare la sfera ma la sua indecisione venne sfruttata da Erin: con la furtività di un topolino, la ragazza gli arrivò da dietro e colpì la palla, facendogliela scivolare via dalle dita. Clinton la recuperò da terra e prima che Frey perfezionasse la marcatura su di lui, la fece tornare verso il canestro avversario. Lì la palla trovò Steve pronto ad accoglierla e, dopo aver avanzato di qualche passo portandosi vicino al canestro, con una bellissima schiacciata, la palla centrò la circonferenza metallica.
La panchina del Dolce Amoris si sollevò eccitata, mentre Faraize palesava la sua perplessità:
“ma non sarebbe stata meglio una tripla? Almeno avremo guadagnato un punto in più”
“sì” convenne Boris che, da quando Erin aveva rubato la prima palla non la smetteva di sorridere “però una schiacciata del genere serve a caricare tutta la squadra: è la dimostrazione che l’inerzia della partita è cambiata e vedrai che non tornerà mai più in mano agli avversari”
“li stracceremo” pensò Dajan tra sé e sé, sorridendo per l’eccitazione.
Ebony effettuò la rimessa in gioco, cercando Barry. Individuò subito Erin, così pensò di descrivere una parabola altissima, in modo che la ragazza non riuscisse ad intercettare la palla. Tuttavia, proprio a causa dell’arco descritto, il tiro non risultò molto preciso e il capitano stesso faticò a prevedere il punto esatto in cui la palla sarebbe caduta. Erin invece sfruttò l’ottimo calcolo della traiettoria di cui era dotata e si mosse un secondo prima dell’avversario, accogliendo la sfera tra le mani. Ebony sgranò gli occhi per la rabbia, mentre la mora passava la palla a Trevor che a sua volta, con una mezza rotazione, la deviò verso Steve. Questa volta il pivot si esibì in una tripla, proprio come sperava Faraize. Barry, allarmato da quell’azione, tentò di stopparlo, ma nella foga, urtò il proprio corpo con il busto del ragazzo, disturbando il tiro. L’arbitro fischiò il fallo ma, nonostante quell’interferenza, la palla riuscì a centrare il bersaglio. Il pivot recuperò quindi la palla e si preparò ad eseguire il tiro libero che gli spettava di diritto.
Prevedibilmente, la sfera, per la terza volta nell’arco di pochi secondi, finì a canestro.
Il punteggio era ora a 54 a 42.
In meno di tre minuti, la Atlantic High School aveva segnato nove punti e non aveva permesso agli avversari di incrementare di una sola cifra quel distacco.
L’inerzia della partita era ora tutta nelle loro mani.
Proprio con questa consapevolezza, pur essendo in vantaggio, la squadra della Berrytown cominciava ad accusare la pressione: dall’entrata in campo della giocatrice numero 12, le sorti dello scontro erano state ribaltate e quella vittoria che erano convinti di avere a portata di mano, non era più così scontata: gli avversari erano più agguerriti, motivati e non sbagliavano un colpo.
Una volta che la sfera ritoccò terra, Drake la recuperò, ma si trovò di fronte Steve a sbarrargli la strada. Il centro rosso sorrise: aveva uno sguardo completamente diverso da quello di poco prima, quando si era lasciato sfuggire palle preziose.
Il numero 4 maglia blu provò a distrarlo con una serie di palleggi, passando con dimestichezza la palla da una parte all’altra, indeciso sul da farsi:
“attento Drake!” gli urlò Barry. Fu troppo tardi quando il ragazzo si accorse che non c’era più la sfera a passare da un palmo all’altro delle sue mani. Si voltò e vide Erin lanciare la palla all’unico giocatore smarcato: Clinton. Il ragazzo era all’esterno dell’aria dei tre punti. Tentò una tripla, anche se non erano la sua specialità. La palla infatti si curvò verso l’alto, ma non sembrava destinata a entrare a canestro. Dajan allora, in prossimità del ferro spiccò un salto, contemporaneamente a Florrick, che puntava alla stoppata. Il capitano della Atlantic però poteva contare su un’elevazione migliore e intercettò la palla: ne derivò un alley-oop spettacolare, che fece alzare l’intera panchina dei compagni e scatenare il visibilio degli spettatori.
Fino a quel momento nessuna delle due squadre si era esibita in simili prodezze e quella mossa iniettò un tale entusiasmo tra la folla che il loro chiasso divenne assordante.
Il capitano poteva godersi solo marginalmente quell’acclamazione e si concesse come unica distrazione quella di cercare lo sguardo di Kim: la cestista sorrideva orgogliosa, senza staccargli gli occhi di dosso.
Barry, sempre più frustrato, recuperò la palla, ma si trovò davanti Trevor e Clinton. Mentre palleggiava, cercò con lo sguardo i compagni rimasti liberi. Individuò l’unica a non essere marcata, così tentò un passaggio verso Ebony. La cestista controllò velocemente l’area attorno a sé, assicurandosi che non ci fosse alcuna interferenza con la ricezione del tiro.
“non permetterò ad un fantasmino del cazzo di vincere” pensava tra sé e sé, mentre aggiustava la propria posizione sulla base della direzione intrapresa dalla palla in volo.
Allungò le braccia verso l’alto, ma prima che la sfera sfiorasse le sue dita, vide una mano piccola scacciare via la palla: si voltò furente, incrociando l’espressione neutra di Erin. La sfera nel frattempo era volata in mano a Trevor e insieme ai compagni, si stavano impegnando in un serrato gioco sotto canestro.
Ebony era sul punto di esplodere: non riusciva a giustificare la metamorfosi della sua avversaria; non solo era diventata il pilastro della squadra, ma era diventata pure impermeabile a tutte le sue offese:
“non montarti la testa” ruggì, correndo a dare man forte ai compagni. La mora però si dimostrò molto più scattante, e raggiunse prima di lei il canestro della Berrytown HS, lasciandola di stucco. Erin infatti riuscì a portarsi di lato a Florrick che, allarmato dalla presenza della ragazza, si dimenticò di Trevor a pochi centimetri da lui e in quell’occasione, toccò al ragazzo il ruolo di ruba palle.
L’ala grande della Atlantic calcolò la distanza dal canestro e lanciò per una tripla. Florrick si era già portato sotto canestro per stoppare la palla e riuscì a deviarne il colpo. La sfera volò quindi verso Drake che partì in contropiede ma Dajan gli serrò ogni via di fuga. Bloccando il palleggio, Drake cercò Barry ma finse di passare la palla ad Ebony. Fu proprio verso quest’ultima che si sporse allora il capitano, ingannato dalla finta. Lasciò così un’apertura a Drake che, soddisfatto della buona riuscita del finto passaggio, puntò al suo capitano. Barry era pronto a ricevere la palla e continuare la corsa a canestro quando Erin si frappose tra i due, proprio un mezzo secondo dopo che il pallone aveva abbandonato le mani dell’ala piccola avversaria. La ragazza accolse la palla tra le mani e la palleggiò velocissima verso Dajan, che nel frattempo era partito all’insegna del canestro.
La sfera sfrecciò nelle mani del capitano, grazie ad un tiro pulito e preciso da parte della ragazza; riusciva a individuare, con una velocità incredibile, i punti migliori in cui tracciare le traiettorie di lancio. Il capitano della Atlantic HS si portò sulla linea del tiro libero, ma trovò Florrick a sbarrargli la strada: quel giocatore non gli dava tregua.
Saltarono in sincrono e l’avversario allungò un braccio verso l’alto, nel tentativo di intercettare la palla: Dajan allora, sorridendo sornione, si incurvò all’indietro, e sempre mentre era in volo, riuscì a passare dietro la propria schiena, la palla a Steve; il pivot, che era  stato lasciato libero da marcature, ci mise meno di due secondi a percepire il passaggio e segnare una tripla.
Frey, rimasto in disparte per tutta la partita, venne destato dai rimproveri del suo coach e ricette il passaggio della rimessa di fondo campo. Era rimasto senza parole per il gioco serrato a cui l’avevano costretto gli avversari ma soprattutto, la loro giocatrice; aveva un’agilità pazzesca, favorita dal suo fisico minuto e sgattaiolava via con la scioltezza di un’anguilla.
Il cestista, troppo occupato a fare considerazioni su Erin, non si accorse che proprio l’oggetto dei suoi pensieri, in combinazione con Dajan, gli avevano teso una trappola: il capitano lo marcò stretto e nel tentativo di girarsi, la ragazza gli strappò la palla arrivando da destra.
Passarla a Steve fu un attimo e Barry gli fece da scudo alzando le braccia. Il centro allora optò per Clinton dietro di lui che, prima che Florrick si mettesse in mezzo, cercò Trevor. Lo trovò pronto ad accogliere il tiro e mandare la palla a canestro con una violenta schiacciata: a un minuto dalla fine della partita, il liceo Dolce Amoris aveva pareggiato.
“VAI COSI’ AMORE!” urlava Brigitte dagli spalti.
In sessanta secondi si sarebbero decise le sorti della competizione.
Fino alla selezione delle quattro migliori squadre, quel torneo veniva giocato per eliminazione diretta: chi perdeva era fuori ed Erin lo sapeva meglio di chiunque altro. Se fossero stati sconfitti, il sogno della Germania sarebbe naufragato.
La ragazza scrutò rapidamente i numeri rossi segnati sul tabellone elettronico: i secondi scorrevano inesorabili.
“CHE CAZZO VI PRENDE?” urlava il coach della Berrytown HH “DATEVI UNA SVEGLIATA!”
Il pubblico quasi scalpitava: appassionati di basket, familiari, amici, studenti delle rispettive scuole… chiunque fosse presente al palazzetto quel giorno non avrebbe mai dimenticato la frenesia e l’elettricità che dominava l’aria.
“CONTINUATE COSI’ RAGAZZI! SONO SOLO DELLE MEZZE PIPPE!” esortava invece Boris i suoi.
Colpiti nell’orgoglio, i giocatori a maglia blu cominciarono ad incanalare tutto ciò che rimaneva delle loro energie nello spirito competitivo. Barry afferrò la palla e partì come una scheggia, diretto verso il canestro avversario; il gioco della Atlantic aveva praticamente impedito alla sua squadra di avvicinarsi alla loro area di tiro.
Clinton provò a bloccarlo, ma il capitano blu lo aggirò facilmente; si erano lasciati soverchiare come formiche, umiliandoli con uno schema offensivo improvvisato ma efficace. Era arrivato il momento di far tornare l’inerzia della partita nelle loro mani. All’umiliazione di aver lasciato segnare ben 17 punti di fila, non poteva aggiungersi quella di perdere la partita.
“Florrick!” chiamò il compagno, che era già pronto nell’area dei tre punti.
Ancora cinquantatré secondi.
Il cestista prese la sfera al volo ma Dajan gli era già alle calcagna: temendo di essere stoppato, il ragazzo tentò il tiro, ma lo scarso tempo di preparazione della meccanica di lancio inficiò sulla sua precisione. La palla volò in aria.
Quarantanove secondi.
Florrick e Barry si posizionarono sotto canestro, pronti a prendere il rimbalzo e lo stesso fecero Dajan e Steve, con l’obiettivo opposto. I quattro ragazzi si trovarono a fronteggiarsi attorno al ferro e sulla sfera si posarono, con una presa più o meno salda, quattro mani diverse, due spingevano in una direzione, due in quella contraria.
Quaranta secondi.
La palla mancò il ferro, cadendo a terra assieme ai quattro. Frey recuperò la palla, mentre Erin e Clinton serrarono la difesa: l’avversario diede loro le spalle, continuando a palleggiare, mentre i due attuarono una sorta di scudo umano.
Trentacinque secondi alla sirena.
Frey individuò con la coda dell’occhio la presenza di Barry ed effettuò un lancio basso. Erin sfruttò allora la sua altezza che le rese più agevole l’intercettazione della traiettoria, mentre Barry rimproverava il compagno per l’errore madornale che aveva commesso.
Alla ragazza si parò di fronte la giocatrice che in quegli ultimi istanti di gioco era rimasta in disparte.
Ebony la fissava agguerrita, determinata a soffiarle la palla.
Il punteggio era stabile in pareggio ma non i secondi che si erano portati a ventitré.
Erin guardò a destra, portando l’avversaria a direzionare lo sguardo nella medesima direzione. In quel punto però, gli occhi di Ebony si accorsero troppo tardi che non c’era nessun giocatore a cui passare la palla. La mora infatti eseguì un furbissimo no look: passò la palla a Dajan che era alla sua sinistra, avvertendolo:
“DAJAN! TUA!”
Era la prima volta che la ragazza faceva sentire la sua voce da quando era entrata in campo.
Ebony rimase senza fiato, disorientata dalla sua concentrazione e sicurezza.
Il numero cinque nel frattempo, analizzando rapidamente la situazione, individuò Trevor.
Meno di quindici secondi.
Passò la palla all’amico, senza calcolare la presenza di Ebony dietro di lui: decisa a far vincere la sua squadra, la cestista disturbò il passaggio e prese il possesso palla; non fece in tempo a farla rimbalzare due volte contro il pitturato che sentì mancare il palleggio della palla contro le mani.
Erin gliel’aveva soffiata e, approfittando del campo lasciato libero sul canestro avversario, si stava dirigendo come una scheggia verso di esso.
“IDIOTI! AVETE LASCIATO SCOPERTO IL CANESTRO!” urlava il coach, guardando terrorizzato quella che sembrava una pulce impazzita se confrontata ai giganti che la circondavano.
Meno di dieci secondi.
Poiché era la più vicina alla metà campo, Ebony fu la prima a raggiungere Erin e sorrise soddisfatta nel constatare che i compagni dell’avversaria non sarebbero riusciti a raggiungerla in tempo: la mora non aveva nessuno a cui passare la palla, nessuno che potesse mandare la sfera a canestro.
Sei secondi.
“è finita Casper” sibilò, parandosi davanti a lei e pronta a rubarle il pallone.
Erin, senza smettere di palleggiare, abbassò il busto e sorrise con aria di sfida.
Non c’era la minima rassegnazione nei suoi occhi. Sentendo arrivare dietro di sé Drake, la ragazza effettuò una mezza giravolta, con l’eleganza che solo una ex ballerina come lei poteva avere, quella stessa che da bambina Ebony le invidiava tanto. Disorientata dalla posizione di Erin, l’avversaria puntò nella direzione sbagliata, sbilanciandosi al punto da cadere a terra. La cestista nel frattempo, anziché voltarsi verso i compagni in avvicinamento, interruppe il palleggio e, prima che Drake potesse raggiungerla, lanciò la palla a canestro.
La sfera volò in alto, descrivendo una parabola perfetta.
Tutti rimasero a bocca aperta, persino i suoi compagni, mentre Boris sorrideva orgoglioso: aveva impiegato intere giornate a perfezionare i tiri della ragazza e ormai non nutriva più alcun dubbio su quale destino fosse riservato a quella palla.
La sirena nel frattempo suonò, proprio mentre il pallone, dopo aver centrato pienamente la circonferenza del ferro, ondeggiò attraverso la rete: un buzzer beater non poteva che essere la miglior conclusione di una partita così avvincente, specie se eseguito dalla giocatrice mingherlina e alta come un fungo che era riuscita a ribaltare le sorti dell’incontro.
Dalla panchina della Atlantic scattarono tutti in piedi, correndo verso quell’esserino minuscolo che sostava appena fuori dall’area dei tre punti. Ancora a terra e troppo sconvolta per alzarsi, c’era Ebony: fissava esterrefatta, dal basso verso l’alto, l’avversaria che la sovrastava; aveva gli occhi sbarrati e la bocca spalancata dallo sbigottimento. Aveva provato in tutti i modi a demolirla, l’aveva derisa per il suo essere inesistente durante il gioco, ma ironia della sorte, quella sua capacità di passare inosservata era stata vitale per la vittoria della sua squadra. Il fantasmino di cui si era fatta beffe, era riuscito a spaventarla oltre ogni previsione.
Chinando ilo sguardo verso di lei e con un sorriso beffardo, che senza accorgersene finì per imitare quello di Castiel, Erin commentò semplicemente:
“che c’è Ebony? Hai visto un fantasma?”
Non potè aggiungere altro perché nel frattempo si sentì braccare da sotto e in un attimo, si trovò a due metri la terra, seduta sulle spalle di Steve e Trevor.
Tutta la squadra era accorsa sul campo e festeggiare, urlando ogni possibile complimento o frase e anche il pubblico sembrava per lo più gioire per quell’epilogo.
“SEI STATA FENOMENALE ERIN!” si complimentò Wes, scompigliandole i capelli, mentre i suoi piedi tornavano a toccare terra. Il ragazzo non fu l’unico che si sbilanciò in quella manifestazione di affetto e poco dopo, una serie di mani agguantarono la sommità del capo della povera vittima, per spupazzarla un po’.
Quando Boris si fece largo tra i suoi ragazzi per complimentarsi, si trovò di fronte un barboncino con la divisa da basket della Atlantic HS:
“cerca di tornare un po’ presentabile Erin” ridacchiò, mentre anche il resto dei giocatori si godeva i meritati complimenti dai compagni “perdi tutto il tuo fascino così”
La ragazza ignorò quel commento che in altre circostanze l’avrebbe irritata: sentiva il cuore esploderle dall’orgoglio e dalla gioia. Sapere di essere stata preziosa per la sua squadra, proprio lei che si era sempre considerata l’anello debole, rilasciava in lei un carico di adrenalina che avrebbe impiegato giorni per smaltire.
Ma non era solo quello.
Quando le due squadre si allinearono per la stretta finale, decretando la vittoria della Atlantic HS, Erin sapeva di essersi avvicinata un po’ di più a quella città che, negli ultimi due mesi, aveva acquisito un’importanza fondamentale per lei.
“non muoverti da lì Castiel” annunciò mentalmente a quell’interlocutore che non poteva sentirla “sto arrivando”.
 
 
 
 NOTE DELL’AUTRICE:
 
Allora, dunque… scusate ma sono un po’ su di giri che non riesco a fare bene il punto della situazione. Molte di voi lo sanno quanto ci tenessi a questo capitolo, per cui spero che vi sia arrivata la trepidazione che provavo io quando ne immaginavo le scene.
Devo fare una serie di precisazioni a partire da quella più importante: buona parte del capitolo (tranne le ultime pagine) sono passate sotto la revisione di quella che ormai l’avete capito, è il mio guru del basket **: quindi Manu, grazie, grazie, grazie ^^.
Poi la seconda è che, alcune scene e forse anche un po’ lo stile delle azioni, ricalca un manga che lessi mesi fa per entrare nell’ottica di questo sport (di cui mi sto innamorando perdutamente… Manu, presentami un cestista!): Kuroko no Basuke. Io che generalmente prediligo gli shoujo, mi sono innamorata di questo manga e lo consiglio vivamente a chi apprezza generi tipo Naruto (Nuvola, qui mi rivolgo direttamente a te ;)).
Poi poi… a parte una piccola parentesi su Sophia (che pur essendo corta è di importanza vitale, poiché legata al mistero dietro IHS), il capitolo è stato tutto concentrato sulla partita. Spero che questo non vi abbia annoiato, ma visto che si è trattato di una delle partite più importanti del torneo, volevo focalizzarmi su di essa… mentre prevedo che il prossimo capitolo lascerà un po’ di spazio anche gli altri personaggi.
Invece, per quanto riguarda il bellissimo disegno del ragazzo che spiega alcuni aspetti del basket, ci sono due cose di fondamentale importanza:
  • È opera di Kiritsubo83 (quando arriverai a leggere qui cara Kiri, sappi che amo quel disegno^^)
  • È Trevor XD
Bene, non ho altro da aggiungere ^^. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, soprattutto, che stiate trascorrendo un periodo sereno :).
Buon Natale quindi e ci si vedrà l’anno prossimo :D!

Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** Ragazze di ieri, ragazze di oggi ***


CAPITOLO 44: RAGAZZE DI IERI,
RAGAZZE DI OGGI
 

Quando si cerca di individuare una persona tra le decine di volti sconosciuti su cui si posa lo sguardo, si finisce inevitabilmente per confondersi, anche se solo per qualche attimo.
Erano venti minuti che il cuore di Sophia la tormentava con sussulti istantanei, che si affievolivano non appena realizzava che l’ennesima ragazza bionda e alta non era Ambra Daniels. A dispetto della memoria fotografica di cui si faceva tanto vanto, la sua sicurezza cominciava a vacillare, instillandole il dubbio di non aver riconosciuto la vera Ambra tra i passeggeri che stavano abbandonando l’aeroporto.
“non è che hai qualche problema di vista, Sophia?”
La rossa si voltò, con la stessa velocità con cui sentì scorrere la gioia nelle vene. Riconobbe all’istante la voce di cui aveva tanto ricercato il volto:
“Ambra!” esclamò, lanciandole le braccia al collo “ma da dove sbuchi?”.
L’amica le sorrideva impacciata, ancora troppo disabituata a quelle manifestazioni d’affetto, ma si abituò volentieri a quella morsa.
“non ho preso le scale mobili… comunque, non ha importanza” la liquidò, sistemandosi meglio la tracolla sulle spalle e attirando a sé la pesante valigia “allora? Pronta a farmi da guida per San Francisco?”
 
“ahi!” piagnucolò Armin ritirando di scatto la mano “smettila con quella bacchetta!”
“no, almeno finchè continuerai a sbagliare” lo zittì Rosalya, tamburellando contro il palmo una piccola asta di legno, che nell’ultima mezz’ora, era diventata l’incubo dell’amico.
“non vogliamo che tu faccia figuracce Armin” cercò di mediare il fratello, i cui tentativi di apparire solidale vennero interpretati dal moro come un pretesto per deriderlo ulteriormente “lo facciamo per il tuo bene”
“pestarmi a sangue sarebbe fare il mio bene?” piagnucolò il ragazzo, massaggiandosi il dorso della mano dolorante. Un piccolo eritema di forma allungata testimoniava il passaggio dell’arma letale brandita da Rosalya, che non esitò a riaffermare il suo ruolo di carnefice.
“non lamentarti!” lo redarguì, direzionandogli una bacchettata sul capo e strappandogli inevitabilmente l’ennesima protesta. Purtroppo per lo studente, anche quella rimase inascoltata dalla sua aguzzina.
“riproviamo” ricominciò quest’ultima, spazientendosi. Inspirò profondamente, dilatando le narici del naso sottile e ipotizzò: “Ambra ti presenta un noto industriale: come ti porgi a lui?”
Gli occhi di Armin la guardavano con sospetto o forse, nel tentativo di leggere in quelli della ragazza, la risposta corretta; pochi secondi prima gli era stata formula la stessa domanda e aveva scoperto che un colloquiale “piacere” non era ciò che la sua insegnante di galateo considerava una formula accettabile.
“lieto di fare la sua conoscenza?” indugiò, incurvandosi sulle spalle, come in un goffo tentativo di proteggersi. Il suo timore affievolì non appena vide Rosalya sorridere soddisfatta ma appena il moro abbassò la guardia, tirando un sospiro di sollievo, lei lo colpì con una piccola frustrata di bacchetta:
“ma Rosa, è giusto!” protestò Alexy, non potendo fare a meno di ridere della malasorte del gemello.
“sì, ma non doveva metterci quell’accezione interrogativa e soprattutto quell’espressione terrorizzata”
“sei tu che mi terrorizzi! Ha ragione Castiel quando ti definisce un Cerbero!” si arrabbiò Armin massaggiandosi il capo dolente. Sentendo nominare quell’appellativo con cui il rosso più frequentemente si riferiva a lei, gli occhi della ragazza divennero due fessure e un sorriso diabolico le allungò le labbra:
“vuoi che ti dia una dimostrazione di quanto possa esserlo realmente?”
L’espressione da pazzo omicida, mimica che solo suo fratello Lysandre riusciva ad emulare con altrettanta credibilità, fece sì che Armin ricacciasse giù un grumo di saliva rimastogli intrappolato in gola.
Il compiacimento di Rosalya divenne evidente e, vittoriosa per l’influenza che esercitava su Armin, proseguì:
“adesso passiamo al come si intrattiene una conversazione”
 
“sì, Natty mi ha detto che vi siete incontrati” la informò Ambra, leccando via la schiuma del cappuccino dal labbro. Le due ragazze si erano accomodate in uno dei locali preferiti di Sophia, con le pareti rivestite da carta da parati color crema e arredato in stile art deco.
“e non ti ha detto altro?” indagò l’amica, quasi con timore.
“no, cioè, mi ha detto che vi siete visti quando è arrivato qui e che vi siete rincontrati due settimane fa circa, in cui avete fatto una partita sulla spiaggia”
Sophia annuì, con un misto di sollievo e soddisfazione, che non sfuggì ad Ambra:
“doveva dirmi qualcos’altro?”
“n-no” le motivò la ragazza, affogando una patatina nel ketchup. Le scivolò dalle dita, guardandola affogare in quella pozza rossa e viscosa. Un po’ come era successo a lei, in quell’Oceano che tanto amava, se il ragazzo non fosse intervenuto. Erano passati giorni da quell’episodio ma Sophia non riusciva a levarselo dalla testa. Dopo che la folla attorno a loro aveva cominciato a scemare, Nathaniel si era alzato e aveva raccomandato a Space di prendersi cura di lei, senza aggiungere altro. In modo alquanto impacciato, lei aveva borbottato un grazie, ma non poteva dirsi certa che lui l’avesse colto. Le aveva rivolto un ultimo sorriso gentile e se ne era andato, mentre Space continuava a martellarla di domande e commenti apprensivi, che lei, involontariamente, quasi ignorava.
“ehi, mi hai sentito?” le chiese Ambra, destandola dai suoi pensieri.
“eh? Ah sì scusa, mi ero un attimo… spenta” mentì, quando invece la sua mente era attiva ma distratta da altre immagini.
“dicevo che domani è il compleanno di mio fratello, così venendo a trovare te ho preso due piccioni con una fava” la aggiornò Ambra, pazientando sul fatto che stava ripetendo per la seconda volta quella frase.
“andrai a trovarlo al campus?”
“sì, vuoi venire con me?”
Quella proposta mise in difficoltà l’amica: Sophia si grattò la guancia, a disagio. Probabilmente era a causa dell’incidente in mare che si sentiva così in imbarazzo all’idea di rivederlo, ma in quanto fratello di Ambra, non poteva concedersi di ignorarlo.
Accettò quindi l’invito e introdusse un nuovo argomento di conversazione, parlando della  persona che in quei giorni Sophia aveva sentito con più assiduità: sua sorella.
 
Erin fece rimbalzare la palla di gomma contro la parete, recuperandola al volo. La sfera volava instancabile dalla sua mano al muro, ripetendo quel noioso tragitto da ormai dieci minuti. La ragazza era distesa di trasverso sul letto, con le piante dei piedi appoggiati contro la parete.
“avresti dovuto esserci Iris! È stata una partita fantastica…” raccontò, spostando il telefono sull’altro orecchio, a lasciando a terra la pallina. Ariel rincorse l’oggetto, trotterellandole attorno eccitata, finché questo non si mosse più, perdendo ogni fittizia vitalità.
“sapessi noi che voglia avevamo di venire Erin! Ma c’era la scuola e poi giocavate un po’ lontano da Morrisotwn… però, sai cos’ha detto la preside no?”
“l’avrà detto solo spinta dall’euforia del momento” ridimensionò la cestista, guardando la gattina mentre allungava una zampetta verso la pallina.
“no, davvero. Tu non l’hai mai vista alle gare del liceo! Quella donna si trasforma, deve avere una doppia personalità o qualcosa del genere… oppure ha anche lei una gemella segreta” scherzò la rossa, strappando un risolino all’amica. L’indomani dell’incredibile vittoria che la squadra di basket del liceo, la voce della direttrice aveva fatto irruzione nelle aule, diffondendosi tramite gli altoparlanti. Dopo aver comunicato quale fosse stato l’esito della partita, la donna aveva annunciato che, se la squadra del liceo si fosse qualificata per la finale, il giorno della partita tutti le lezioni sarebbero state sospese.
“non so perché non sia venuta alla vostra partita, ma sta pur certa che prima o poi verrà” concluse Iris.
Erin osservò la foto scattata dopo la partita che era diventata il salvaschermo del suo smartphone. Trevor aveva un sorriso sguaiato e il braccio intorno al collo di Liam e l’altro attorno a quello di Dajan. Kim invece aveva un’espressione più composta, ma decisamente la più fiera di tutte. Steve aveva preso in braccio Erin, dopo che la ragazza di era lamentata di essere la più tappa del gruppo. Adorava quei ragazzi e proprio lei che non pensava di essere portata per lo sport di squadra, si era appassionata al basket.
“farà meglio a sbrigarsi, perché ogni partita potrebbe essere l’ultima” commentò cinica.
Iris chiuse il libro di fotografie che stava ammirando e mentre lo riponeva nella libreria, sbottò:
“come mai tutto questo pessimismo? Non eri tu quella che l’altro ieri, dopo la partita, diceva che avreste vinto perché vuoi andare da Castiel?”
“p-per andare a Berlino” la corresse l’amica, arrossendo.
“ehi, mica sono scema! Hai detto proprio Castiel!” ridacchiò la rossa, spostandosi verso la cucina. Trovò il fratellino intento a guardare la TV in salotto ma era talmente calamitato dai cartoni che non la degnò di uno sguardo.
“non mi sembrava di averlo detto” mormorò in preda all’imbarazzo la sua interlocutrice, richiamando l’attenzione della gattina. Ariel zampettò allegramente verso di lei, strofinando il musetto contro la mano che la padrona le aveva allungato. Era passato solo un mese e mezzo da quando Jason, quella sera, si era presentato a casa sua con quel batuffolo di pelo ma era bastato alla bestiola per crescere in fretta. Ad Erin bastava guardarla per ricordarsi di chi fosse il mittente, affogando i suoi pensieri nelle pupille nere della gattina.
“eddai, inutile che fai la finta tonta ora. Sono settimane che io e Rosa sappiamo che ti piace Castiel”
“hai ragione” sospirò Erin “è che è imbarazzante sentirselo dire” confessò, spingendo con un dito la pallina che aveva abbandonato sul pavimento. Ariel immediatamente si affrettò a rincorrerla, mentre Erin sorrideva divertita.
“se ti imbarazzi per questo, non oso immaginare quando tornerà e dovrai dirglielo”
A quelle parole, la mora si mordicchiò il labbro inferiore, tornando poi a sedersi in modo più composto sul letto. Fissò il cassetto della scrivania, quello che nelle ultime settimane era diventato il custode di uno degli oggetti a cui teneva di più in quella stanza. Non resistette alla tentazione di osservare, per l’ennesima volta, la foto di Castiel. Quasi la accarezzava, tale era la delicatezza con cui le sue mani la tenevano davanti alla vista.  
“non ci sarà niente da dirgli Iris. Te l’ho detto di Debrah, no?”
La rossa si strinse nelle spalle. Per giorni lei e Rosalya aveva insistito con l’amica affinché aprisse il suo cuore al ragazzo, ma per un motivo o per l’altro, Erin non dava loro retta; Debrah era la scusa più convincente che la ragazza riusciva ad avanzare durante quelle loro discussioni:
“senti Erin, te l’ho già detto: io questa qui non la conosco.. sì, ok, l’ho presente di persona, ma niente di più. Rosa invece l’ha conosciuta ed è convinta che lui non la ami più! E lei gli uomini li capisce meglio lei di io e te messe insieme”
“me l’ha fatto capire lui mesi fa… quante volte dovrò ripetervelo?” si spazientì Erin, incrinando la voce. Cercò di calmarsi, perché sapeva che Iris non intendeva metterla in difficoltà, ma ripetere sempre le sue giustificazioni cominciava a stancarla “lo so che lo dite per incoraggiarmi, ma devo guardare in faccia la realtà: per lui non sono altro che un’amica, tra l’altro neanche in quel campo mi considera granchè, visto che preferisce di gran lunga Nathaniel”
“però ti ha mandato un messaggio di incoraggiamento prima del torneo” tentò Iris.
“non sono stata l’unica a riceverlo, e poi mi sembra il minimo… o no? Era il capitano della squadra!”
“non ti arrabbiare” ridacchiò l’amica.
Erin sospirò e sorrise:
“hai ragione. Ariel vieni qui”
La gattina si voltò verso la ragazza e saltò sul letto. Iris ripensò a quell’animaletto che lei e i suoi amici avevano conosciuto giorni prima: non era affatto adorabile come sosteneva la sua padrona; la gattina era inavvicinabile e soffiava contro qualsiasi persona che non fosse Erin, zia della ragazza inclusa. La mora non riusciva a spiegarsi il perché di quel bizzarro comportamento, ma si accontentava del fatto che la bestiola fosse ubbidiente e coccolona con lei. In qualche modo, quell’esclusiva la lusingava e la faceva sentire speciale.
“a proposito di amici” esordì Erin, grattando sotto il mento beige dell’animale “come mai ieri tu e Kentin non vi parlavate in autobus?”
 
sessanta” contò mentalmente Kentin, tornando a distendere la schiena contro il pavimento. Il contatto freddo della superficie liscia del suolo fu quasi uno shock per il calore che si irradiava dalla sua pelle.
Fare addominali a ritmo serrato, controllando la respirazione, era uno dei pochi sistemi che aveva escogitato per non torturarsi al pensiero di quanto era accaduto il giorno prima.
Più sforzi faceva per impressionare positivamente Iris, e più otteneva l’effetto opposto.
In palestra quel sabato mattina c’era molta gente e un brusio tale che il moro non si accorse di una coppia di ragazze che, dai loro tapis roulant, lo spiavano ammirate, commentando il suo fisico modellato.
Era davvero convinto che il bonsai fosse così minuscolo solo perché non adeguatamente annaffiato.
Quando Iris si era accorta dell’inondazione a cui era stato sottoposto negli ultimi tre giorni il suo piccolo protetto, aveva perso la pazienza: ci aveva messo molta cura e impegno a farlo crescere ed era bastato l’intervento di Kentin a vanificare tutti i suoi sforzi; Jade non aveva perso occasione per punzecchiarlo e per sottolineare, per l’ennesima volta, quanto fosse inadatto per quel club.
Frustrato e demoralizzato, il moro aveva abbandonato la serra, evento che si verificava almeno due volte a settimana, ed era uscito al freddo a fumare. Era talmente di pessimo umore, che solo una persona poteva tirarlo su, quella tra tutti i suoi nuovi amici che più aveva la pazienza per ascoltarlo e consigliarlo:
 
“ehi Al, vieni fuori a fare un tiro?” aveva digitato velocemente sulla tastiera del telefono.
 
Poco dopo, imberrettato come un eschimese, aveva fatto la sua comparsa Alexy, sorridendo radioso. Sulla punta delle sue dita si intravedevano dei residui di colore a tempera verde e azzurro che si erano seccati:
 
“che hai combinato stavolta Kentin?” esordì allegro il ragazzo “hai demolito la serra?”
“fa meno lo spiritoso, che a buttarmi giù ci penso già io”
Alexy aveva ridacchiato e si era posato contro la parete.
“allora questa sigaretta?” gli chiese. In realtà il ragazzo non era abituato a fumare, ma nelle ultima settimane, pur di compiacere l’amico, era disposto a sacrificare una piccola parte della sua salute.
“eh, mi sono appena accorto che era l’ultima” borbottò Kentin in difficoltà, con il cilindro in bilico sulle labbra. Spesse volte si esprimeva con l’ingenuità puerile di un bambino ed era proprio la sua trasparenza ad aver tanto colpito il ragazzo. Anche a se volte, risultava un po’ irritante per la maggior parte delle persone. Alexy non sapeva se ridere o offendersi per la sbadataggine del moro, finchè non si trovò le dita dell’amico davanti al naso: tenevano salde la sigaretta, da cui si dipartiva un’elegante scia di fumo argentea
“toh, fatti un tiro”
Alexy arrossì, colto alla sprovvista ma Kentin non se ne accorse. Con le dita che gli tremavano un po’, inspirò del fumo e restituì al ragazzo la sua generosa offerta.
“stavo pensando di cambiare club, tu che dici?” gli spiegò il moro, scavando una piccola buca con la punta delle scarpe. Aveva borbottato quella frase con la sigaretta in bilico sulle labbra, masticandosi le parole. Alexy era abituato a quel modo di parlare perché anche Castiel aveva quell’abitudine, che invece Rosalya non sopportava.
“non ti ci vedi proprio in mezzo alle piante?”
“quelle le ho sempre odiate in realtà”
“allora perché sei ancora lì?” indagò Alexy guardando l’erba ghiacciata.
Se in quel momento Kentin non si fosse limitato a prestare attenzione solo al contenuto della domanda, ma anche al tono con cui l’amico l’aveva posta, avrebbe alzato gli occhi verso di lui, accorgendosi della tristezza che li rabbuiava. Quel genere di situazione non era estranea ad Alexy, ci era già passato altre volte in passato, ma temeva che con il moro sarebbe stato più difficile fingere indifferenza sentimentale. Kentin gli piaceva sempre di più, lo trovava un ragazzo intrigante, divertente e imbranato, aggettivi che nel complesso lo affascinavano incredibilmente.
“beh, non ci sono altri club” tentennò il moro, ripetendo una bugia che usava come giustificazione da più di un mese. L’amico si limitò a sospirare, indulgendo sulla chiusura dell’altro, consapevole che non avrebbe di certo ammesso cosa lo trattenesse davvero all’interno della serra del liceo. Il vento soffiava leggero ma gelido, arrossando le guance dei due, ma Kentin non ne era infastidito. Quanto ad Alexy, anche se odiava il freddo, avrebbe trascorso ore e ore in quelle condizioni, pur di chiacchierare con l’amico; erano circondati dal silenzio e dalla tranquillità, con il fumo del tabacco che si frammistava ai loro respiri, condensati in una nube di vapore.
“mi sento così sfigato” esalò Kentin all’improvviso, quando il perdurare del suo mutismo cominciava a mettere l’altro ascoltatore a disagio.
“è come se fossi rimasto il solito ragazzino impedito da compatire” si sfogò, schiacciando la sigaretta contro il suolo erboso e abbandonandola lì, gesto che Alexy non approvò.
“in che senso?”
Kentin si grattò il capo: da un lato si pentiva di essersi sbilanciato con un simile commento, dall’altro però sentiva il bisogno di confidare a qualcuno tutti i pensieri che gli arrovellavano la mente. Alle medie era troppo imbranato e considerato una nullità per essere avvicinato dai compagni, così si era rassegnato al ruolo di secchione emarginato. Da quando era entrato all’accademia, molte cose erano lentamente cambiate in lui ma non aveva mai avuto un vero amico con cui aprirsi e confidarsi: i suoi compagni erano troppo occupati a fare i duri, riflesso dei militari tutto d’un pezzo che volevano diventare, per concedersi di mostrare qualche forma di sensibilità. Per evitare di apparire debole, Kentin aveva finito con il tenersi tutto dentro, temendo che esternando le sue insicurezze e riflessioni, sarebbe apparso una mammoletta. Con Alexy era diverso: per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, il ragazzo gli aveva ispirato fiducia sin dal primo giorno di liceo, sentiva che poteva aprirsi a lui, senza il timore di essere giudicato. Anche Erin sarebbe stata una valida confidente, se non fosse stata così amica di Iris.
“alle medie ero un tappo occhialuto e sfigato. Hai presente il classico secchione che pensa solo a studiare, goffo e negato per lo sport? Le ragazze poi manco mi calcolavano, a meno che si trattasse di passare loro le soluzioni delle verifiche”
Alexy si trovò impreparato a quell’uscita e, indeciso su cosa dire, mormorò:
“è un po’…”
“patetico” concluse amaramente Kentin, chiedendosi se fosse il caso di ridere di  se stesso o affliggersi al ricordo di quella parte della sua adolescenza “mio padre poi, un ufficiale dell’esercito, non sopportava di avere un figlio rammollito e senza spina dorsale, così decise di farmi entrare all’accademia militare. Le mie proteste non furono certo convincenti anche se mi terrorizzava l’idea di andare là: uno come me l’avrebbero sbranato, visto che ero anche basso e mingherlino”
“quindi tuo padre pensava che così saresti diventato più… uomo?” sdrammatizzò sarcastico Alexy. Ripensò al proprio di genitore e ai goffi tentativi che aveva attuato, durante la sua infanzia, di appassionare lui e il fratello ad attività maschili: li aveva portati a pesca, a vedere partite di baseball e a caccia ma il risultato era stato alquanto deludente per il signor Evans: Armin, che già da bambino affermava la sua passione per i videogiochi, borbottava infastidito tutto il tempo, lamentandosi di una presunta “allergia alla natura” mentre Alexy aveva un’espressione annoiata. Non ci volle molto che la famiglia si accorgesse che i gusti del gemello più sensibile erano incompatibili con quelli del padre, tanto quanto le aspettative che nutriva l’uomo verso di lui. Mentre per Evelyn, la madre di Alexy, prendere atto dell’orientamento sessuale del figlio fu qualcosa di naturale, per il marito fu più difficile ma non per questo non lo amava; Alexy sapeva benissimo che a frenare il padre era la consapevolezza delle difficoltà che il figlio avrebbe incontrato nella vita per l’ottusità e la stupidità di alcune persone che, probabilmente, avrebbero incrociato la sua strada.
Kentin però non poteva immaginare il turbine di pensieri che vorticavano nella mente di Alexy, così continuò il proprio discorso, precisando gravemente:
“tu non sai cosa significhi essere ogni giorno al centro di prese in giro. Alle medie ero trattato come se non avessi sentimenti, come se, il fatto di essere sempre disponibile e gentile fosse una debolezza che autorizzava gli altri a farsi beffe di me”
Alexy sorrise smaliziato. Contrariamente a quanto pensava il suo amico, lui lo sapeva perfettamente cosa significasse essere ferito dal comportamento altrui, anche se per ragioni diverse da quelle con cui si era rapportato Kentin. Tuttavia non approfittò di quell’occasione per parlargli un po’ di sé: quel giorno lui era stato scelto come confidente e intendeva portare a termine il ruolo che gli era stato assegnato.
“l’importante è che quella fase si sia conclusa no? Adesso sei una persona diversa quindi non c’è ragione per cui tu debba farti angosciare pensando al passato, perché non si ripresenterà”
Il moro non rispose subito, ma poi si lasciò sfuggire un sorriso timido, lanciandogli un cenno d’intesa. Alexy allungò lo sguardo verso il mozzicone che ancora giaceva ai piedi del ragazzo il quale, come se gli avesse letto nel pensiero, si chinò a raccoglierlo per poi gettarlo nel cestino poco lontano da loro.  
 
Il suono computerizzato e scoppiettante di un videogioco destò Kentin dai suoi pensieri. Si voltò verso l’amico di cui aveva scordato l’esistenza:
“Armin!” lo rimproverò.
Il moro cercò di nascondere il cellulare dentro la tasca della tuta, ma il suo tentativo servì solo a rafforzare i sospetti di Kentin; anziché fare addominali a ritmo serrato, era beatamente disteso contro il pavimento e solo i muscoli delle sue dita, negli ultimi minuti, si erano attivamente impegnati in una qualche forma di attività fisica:
“gli addominali non ti verranno mica standotene disteso a giocare”
“ehi, non darti tante arie da personal trainer” borbottò il ragazzo, osservando con una punta di invidia le braccia toniche dell’ex studente dell’accademia. Appena Kentin aveva cominciato a fare lo stesso esercizio che avrebbe dovuto fare lui, si era scoraggiato: il tempo di sollevare il busto, inspirare, distenderlo, espirare e tornare su, il compagno aveva già realizzato cinque piegamenti. Amareggiato per la sua scarsa performance, Armin aveva preferito ripiegare sull’attività in cui era infallibile e si era intrattenuto con essa fintanto che l’amico era distratto:
“sei stato tu a chiedermi di darti una mano con gli allenamenti” si difese Kentin.
“in realtà è stata Rosalya ad obbligarmi a venire qui” precisò il ragazzo, rabbrividendo al pensiero della mattinata infernale che aveva trascorso con la ragazza.
“e tu ti fai comandare così?” lo schernì l’altro, alzandosi per recuperare un sorso d’acqua. Le due ragazze che da quando l’avevano adocchiato, non avevano smesso di staccargli gli occhi di dosso, assaporarono l’immagine di Kentin mentre allungava il collo verso l’alto, sorseggiando la bevanda fresca.
“ci sono due cose di cui un uomo deve aver paura” replicò Armin con gravità, portandosi anch’egli in pozione eretta, mentre l’amico lo ascoltava con attenzione “la prima” continuò, alzando l’indice “è la morte”
“e la seconda?” lo incalzò l’altro, divertito.
“Rosalya White”
Kentin scuotè il capo ridendo e, non lasciandosi abbindolare dalle distrazioni del moro, lo esortò a spostarsi su uno degli attrezzi per potenziare i bicipiti.
 
L’indomani, Erin si presentò davanti al liceo alle otto in punto. Il pullman prenotato da Boris era già pronto e lei non vedeva l’ora di salirci. Avrebbero giocato la seconda partita a Detroit, a più di otto ore da Morristown. Gli organizzatori dell’evento avevano optato per un metodo di selezione delle partite che era stato alquanto discusso tra i partecipanti, dal momento che non si era operato il classico sorteggio. Per questioni di budget e praticabilità, avevano cercato di accorpare le scuole più vicine, almeno nelle prime eliminatorie. Le dieci squadre che avevano superato la prima manche venivano da ogni angolo del paese, ma soprattutto dagli stati orientali.
Avrebbero dormito una notte fuori, in modo da essere freschi per la partita dell’indomani. Si vociferava che la preside sarebbe stata presente, ma dalla diretta interessata non era giunta alcuna voce di conferma. Boris sosteneva che, per quanto la donna fremesse dal desiderio di essere parte del pubblico, i suoi doveri di direttrice dovevano essere anteposti e non riusciva a delegare al vicepreside le responsabilità che le spettavano, anche se si trattava di un giorno solo.
“dobbiamo arrivare in finale ragazzi, solo così riusciremo a stanare quella donna dal suo ufficio” aveva scherzato l’allenatore.
Per quanto Erin fosse curiosa di vederla nei panni della tifosa sfegata, quel pretesto per vincere, impallidiva a confronto di quello che animava la sua determinazione. Aveva deciso di non scrivere a Castiel, al limitegli avrebbe risposto, qualora si fosse degnato di farsi vivo. La sua decisione non era motivata dall’amarezza per il perpetuarsi del silenzio del ragazzo, ma dalla convinzione che la crescente nostalgia avrebbe fomentato la sua voglia di vincere. Più di una volta aveva esitato sulla tastiera del pc, torturandosi dalla tentazione di scrivergli una mail piccina, ma poi aveva preso la meglio la sua forza di volontà.
“più ti mancherà” ripeteva a se stessa “e più ti impegnerai nelle partite”
 
Sophia tamburellò la matita sul foglio di carta, sospirando frustrata.
Era stata una pessima idea pensare ad un disegno come regalo di compleanno per Nathaniel, ma se ne era resa conto troppo tardi. Quel pomeriggio i negozi erano tutti chiusi, a causa di un’ordinanza comunale e non c’era possibilità per fare marcia indietro. Durante la colazione, Ambra l’aveva rassicurata, dicendole che poteva presentarsi a mani vuote, del resto l’aveva avvertita all’ultimo, ma Sophia non se la sentiva di assecondare quell’esortazione.
“cosa piace a tuo fratello?” indagò, reclinando la testa, verso il divano su cui l’amica era intenta a leggere un libro:
“i gatti”
“gli disegno un gatto?” chiese la rossa, insicura.
Ambra le sorrise, confermandole che qualsiasi proposta era valida. L’amica controllò l’ora e calcolò che aveva esattamente quattro ore prima di uscire. Corse a prendere il set di acquarelli che aveva ricevuto dopo l’operazione e, chiudendosi nel più completo isolamento artistico, lasciò che le setole del pennello scivolassero leggiadre sul foglio, aspettando che fosse il suo inconscio a suggerirle il tema da rappresentare.
 
“secondo me quel disegno è bellissimo” si complimentava Ambra, mentre attraversavano la via ciottolosa del campus.
“a me sembra solo confuso”
“affatto. Si capisce perfettamente che è un mare in tempesta, con la spuma bianca e i riflessi quasi argentei… a proposito, quelli li hai fatti a tempera?”
“a olio. Mi serviva un bianco più intenso da quello lasciato dal fondo del foglio”
Mentre era all’opera, la sua mente si era svuotata e aveva pensato unicamente agli eventi che, negli ultimi mesi, la tormentavano, impedendole di concentrarsi su qualcosa di diverso. Sentiva che non poteva restare in California ancora a lungo e che prima o poi avrebbe dovuto accettare l’idea che la sua ricerca si concludesse con un insuccesso.
“tu non conosci nessuno di quelli che ci saranno stasera?” indagò, per non lasciarsi rabbuiare dalle sue stesse riflessioni.
“Natty mi ha detto che la sua ex, Rachel, verrà a trovarlo. Sono rimasti in ottimi rapporti e poi lei frequenta l’università a San Jose, quindi ha approfittato del fatto che lui fosse in zona per rivederlo”
“è da tanto che si sono lasciati?”
“eh un bel po’, lei è stata la sua prima ragazza. Mi piaceva molto, si vedeva che era più grande di lui di due anni… una tipa in gamba”
“e come mai si sono lasciati?”
“ah, questo non lo so… te l’ho sempre detto che io e lui non ci parlavamo granché. È negli ultimi tempi che stiamo cercando di recuperare il nostro rapporto”
Mentre attraversavano indisturbate il giardino, molti studenti fissavano con un certo interesse Ambra, ma la ragazza sembrò non curarsene. Fino a pochi mesi prima quel genere di attenzioni l’avrebbero lusingata e inorgoglita, ma non era più quella persona.
 
Arrivarono davanti alla caffetteria del campus che era ora di cena, e si guardarono attorno, cercando di individuare l’unica faccia che potesse essere loro familiare.
Sophia lo vide per prima, in mezzo a un gruppo di studenti con cui stava chiacchierando. In quel mentre, anche Nathaniel si accorse delle due e, dopo aver detto qualcosa agli amici, li invitò a seguirlo.
“è da molto che aspettate?” parlò per primo il biondo.
“siamo appena arrivate” lo tranquillizzò la sorella.
Nathaniel spostò lo sguardo su Sophia che si limitò ad un cenno di silenzioso assenso, lasciandolo alquanto disorientato per la sua remissività. Accanto ad Ambra, la rossa sembrava quasi un agnellino, mansueta e docile, tanto che a stento riconosceva la ragazza che si era divertita a punzecchiarlo ogni volta che l’aveva visto.
“vi presento un po’ di gente” esordì, nominando uno ad uno i suoi amici. La sorella rimase alquanto sorpresa dal folto gruppo di persone davanti a sé: anche se suo fratello era una persona socievole, non si era mai circondato di amici da quelli che avevano rappresentato il suo gruppo storico del liceo. Vederlo andare così d’accordo ed essere così a suo agio anche tra quei ragazzi sconosciuti, le fece immensamente piacere cercò di dimostrarsi altrettanto affabile, o per lo meno quanto le consentisse il suo carattere. Sophia invece era assorta nei suoi pensieri e fingeva di ascoltare le conversazioni in cui, per sua fortuna, nessuno chiedeva il suo diretto intervento.
Nathaniel aveva un sorriso carismatico, per nulla lezioso o affettato. Aveva un cappotto invernale della Slam, color marron scuro che metteva ancora più in risalto i capelli biondo grano. Non si era stupita quando l’amica le aveva riferito che la sua prima ragazza fosse più grande di lui: sia nell’aspetto che nel comportamento, il ragazzo aveva qualcosa che lo faceva apparire molto più maturo della sua età.
“comunque, tanti auguri” disse Ambra d’un tratto, ricordando a Sophia che non gli aveva ancora rivolto la frase di rito. Infatti il neo diciannovenne si voltò istintivamente verso la rossa che, spaesata da quella situazione, rimase indecisa sul come approcciarsi. Per non metterla a disagio, il ragazzo distolse lo sguardo ma a quel punto, Sophia cercò di rimediare allungandogli goffamente la mano:
“eh già, auguri”
Nathaniel si limitò a sorriderle, annuendo leggermente mentre un suo amico, Tunner, attirò l’attenzione con una battuta. Dopo dieci minuti passati a chiacchierare, il gruppo si spostò nel locale in cui intendevano passare la serata: erano previste circa una quindicina di persone in tutto, cifra che aumentò la piacevole perplessità della sorella: in quei quarantacinque giorni di lontananza da villa Daniels, Nathaniel era rinato.
 
Ambra e Sophia salirono in macchina con il festeggiato e con il ragazzo che aveva la stanza accanto alla sua, Phil. Mentre i due chiacchieravano per conto loro, la bionda sussurrò all’amica:
“Sophia, tutto ok?”
La ragazza sollevò lo sguardo, fissando Ambra come se le avesse appena posto una domanda insensata.
“s-sì” mentì “è che quanto vedo tante facce nuove in un colpo solo sono sempre un po’ disorientata”
L’amica annuì comprensiva e tornò a rivolgere la sua attenzione all’affermazione che aveva avanzato il fratello in quel momento:
“quindi Rachel ci raggiunge direttamente al locale?” domandò, per intromettersi nella conversazione.
“già, dice che ha grosse novità da raccontarmi”
La sorella assimilò quel dato, analizzandolo con la scrupolosità di un elaboratore informatico e considerò:
“non è che è incinta?”
Nathaniel ridacchiò, colto alla sprovvista da quell’ipotesi:
“non sarebbe da lei. Rach ha sempre avuto grandi obiettivi nella vita e un figlio a ventun anni non rientra di certo tra quelli”
“potrebbe essersi trattato di un… incidente” ragionò Ambra.
“si vede che non la conosci quanto io”
Nel pronunciare quella frase, il fratello si era voltato verso le due ragazze, lanciando alla bionda un’occhiata carica di intesa e di quel fascino che si confaceva più ad un modello che ad uno studente quasi ventenne.
Il quel sorriso sghembo, nel luccichio dei suoi occhi, Sophia lesse quanta complicità c’era stata, e forse c’era ancora, tra il biondo e la sua ex… e quella consapevolezza, le fece provare una sensazione strana, che non riusciva a definire.
“Sophia, non ti conviene dare subito a Nathaniel il suo regalo? Così poi può lasciarlo in macchina” ragionò Ambra. La rossa tentennò poiché si sentiva ancora troppo stranita per fargli vedere il suo operato. Borbottò una scusa sul fatto che gliel’avrebbe mostrato al termine della serata, prima di essere riaccompagnata a casa e, nonostante le proteste di Ambra, Nathaniel rispetto la sua decisione.
 
Il locale era pieno di gente, e appena cominciarono ad arrivare anche il resto degli amici per festeggiare, il frastuono aumentò. Di sottofondo veniva diffusa una musica rock dalle cadenze metal, che rendevano ancora più chiassoso l’ambiente. Alcune della ragazze del gruppo presero in simpatia Ambra, monopolizzando la sua compagnia. La ragazza cercava di inserire Sophia nelle conversazioni ma l’amica non le rendeva facile l’impresa: si limitava a rispondere con poche parole alle domande che le venivano rivolte e non si intratteneva con nessuno.
Dopo mezz’ora dal loro arrivo, tutti si voltarono incuriositi verso l’entrata del locale.
Quelle reazioni sincrone furono un pretesto per destare l’attenzione della rossa che vide Nathaniel farsi strada tra i suoi amici.
Davanti alla porta, intenta a sistemarsi l’acconciatura, sostava una ragazza bellissima, dai lunghi capelli castano ramato, raccolti alla spalla da un elegante chignon spettinato. Due fori neri al posto degli occhi calamitavano l’attenzione su di essi, complice anche la maestria con cui erano state truccate le palpebre.
“Rach!” la salutò Nathaniel, anche se chiunque aveva già capito di chi si trattasse. Il biondo l’aveva accolta sorridendo, divaricando le braccia in cui Rachel non aveva esitato a tuffarsi, stringendolo con affetto:
“tanti auguri Nate, ti trovo bene” gli sussurrò, sciogliendosi dalla stretta.
Il ragazzo fece spallucce e scambiò qualche battuta con la ragazza che non vedeva da quasi due anni. Dopo la rottura, erano passati tre mesi senza sentirsi, finchè entrambi non avevano trovato un’altra persona al loro fianco; per Nathaniel si era trattato di Melody anche se la storia era durata appena trenta giorni.
Dimentico della presenza del resto dei suoi amici, il ragazzo continuò a tempestarla di domande e lei non fu da meno, finché non intervenne la sorella, seguita da il resto della ciurma:
“Ambra!” si sorprese Rachel. Quando stava con il fratello della ragazza, interagiva poco con quest’ultima, ma non le stava antipatica, nonostante la brutta reputazione che aveva al liceo.
“come stai?” le chiese la bionda, intuendo la celata perplessità della nuova arrivata.
Rachel si limitò ad un sorriso stanco, che solo la sua interlocutrice riuscì a cogliere: sul volto di Ambra si disegnò una piccola voragine e, per quasi tutta la sera, fissò sospettosa la ragazza davanti a lei.
 
La serata trascorse in allegria: gli amici di Nathaniel erano socievoli e alla mano, così per Ambra e Rachel non fu difficile integrarsi; quest’ultima si abituò presto alla nuova personalità della ragazza, tanto che fu una delle persone con cui chiacchierò di più.
Dal canto suo Sophia, non riusciva a scacciare una sorta di apatia che l’avrebbe resa irriconoscibile persino a sua sorella Erin. Masticava appena qualche parola, nelle conversazioni si faceva da parte, al punto che spesso e non volentieri, qualcuno finiva per mettersi davanti a lei, dimenticandosi della sua esistenza.
Ambra non sapeva più come comportarsi, così decise di prenderla da parte, utilizzando il pretesto di uscire a fumare. La sua idea sembrò funzionare, poiché l’aria invernale risvegliò la rossa dal suo torpore, mentre l’amica si accendeva una sigaretta:
“se non ti va di stare qui possiamo anche andare a casa, sai? Non voglio che ti annoi, sono venuta in California per stare con te”  le disse, guardandola preoccupata.
Sophia le sorrise con gratitudine, commossa dalla gentilezza dell’amica, qualità di cui si guardava bene dal dare eccessivo sfoggio.
“no, no” la freddò, accendendosi anch’essa una Marlboro “sono solo un po’ frastornata. Forse stare un po’ qui al freddo mi farà stare meglio. Tu torna pure dentro, io vi raggiungo tra un po’”
Ambra invece si intrattenne all’esterno con l’amica ma, appena il tabacco venne esaurito, Sophia la esortò nuovamente a lasciarla in solitudine, riuscendo a convincerla.
 
La ragazza si allontanò di qualche passo dall’entrata del locale, trovando una panchina dove sedersi. Lo schiamazzo delle voci era lontano e arrivava ovattato alle sue orecchie.
Non era solo quella sera, in generale era da parecchi giorni che si sentiva nervosa ed a tratti assente: all’inizio aveva pensato fosse per una sorta di sindrome pre mestruale ma il perdurarsi di quella situazione anche dopo il ciclo le aveva fatto scartare quell’ipotesi; non riusciva a non pensare al motivo che la tratteneva in California, che sembrava non venire mai meno, eppure non poteva restare lì per sempre. Aveva un lavoro per mantenersi, ma i soldi bastavano appena e quella situazione di stallo le pesava sempre di più. Inoltre, da quando aveva avuto quell’incidente con Nathaniel, si sentiva strana, irascibile e non capiva perché. A quel punto voleva conoscere meglio il fratello della sua cara amica e capire cosa sua sorella Erin ci avesse visto in lui al punto da sceglierlo come suo primo ragazzo. Nathaniel sembrava aveva una sorte di luce all’esterno che accecava gli altri, in modo che non si accorgessero dell’oscurità dentro di lui. Sophia conosceva la situazione della famiglia Daniels, Ambra gliene aveva parlato a lungo in passato ma, diversamente dalla sorella, il biondo sembrava voler fingere che non gli avesse lasciato cicatrici.
“disturbo?”
Sophia alzò lo sguardo e vide l’unica ragazza che, dopo Ambra, aveva compiuto numerosi tentativi per farla inserire nel giro.
“prego” mormorò, scostandosi leggermente per fare spazio a Rachel.
“grazie” squittì l’altra, sedendosi composta. Sophia notò subito il contrasto tra di loro, sciogliendo prontamente le gambe che aveva incrociato sopra la panchina. La grazia non era mai stata la sua qualità più distintiva ed era una delle tante caratteristiche che la differenziavano da Erin.
La mora nel frattempo sollevò il mento verso le stelle, che risplendevano nel manto nero della notte di un cielo senza nuvole:
“le stelle questa sera sono meravigliose”
“già” convenne Sophia.
“quindi mi pare di aver capito che vivi qui” incalzò Rachel, cercando di avviare per l’ennesima volta una conversazione.
“sì, ma sono di Allentown”
“ah, ma allora vivi vicino a Morristown, dove vivevo fino a due anni fa”
“eri al liceo con Nathaniel?”
“già, è lì che ci siamo conosciuti” la informò Rachel, lasciando che un sorriso nostalgico enfatizzasse la vivacità dei suoi occhi. Ripensava sempre con affetto al suo periodo da liceale, alla meravigliosa classe che aveva, alle lezioni di scienze di Miss Joplin, ma soprattutto, alla sua storia con Nathaniel.
“è stato amore a prima vista?”
Rachel si sorprese per quell’interesse ma, del resto, era l’incipit dello scambio di battute più lungo che fosse riuscita ad ottenere da quella ragazza, così decise di assecondare la sua curiosità. In fondo, l’aver rivisto Nathaniel di persona, le aveva fatto tornare a galla dei teneri ricordi e sentiva il bisogno di condividerli con qualcuno:
“direi di no, è stata una cosa molto graduale. Lui a quei tempi era un ragazzo di terza superiore, mentre io ero in quinta. Ero la segretaria delegata del liceo e per questo avevo avuto a che fare con lui in un paio di occasioni”
“come mai?” si incuriosì Sophia.
“per via di un suo amico, che si cacciava sempre nei guai”
“Castiel?”
“lo conosci?” si stupì Rachel.
“solo di nome” ammise la ragazza, ripensando alle confidenze che le aveva fatto la sorella. Mentre Erin si era aperta con lei e l’aveva aggiornata su tantissime cose che le erano accadute dopo la loro separazione, la gemella non era stata altrettanto loquace.
“comunque sì, lui. Castiel si cacciava continuamente nei guai e in quanto segretaria e rappresentante degli studenti, in certe circostanze dovevo fare da intermediaria tra lui e la preside. Ma a lui non gliene importava niente delle note o delle sospensioni; in alcuni casi, si faceva sbattere volentieri fuori dall’aula per andare a fumare in qualche angolo del cortile. Nathaniel allora veniva da me e, con l’abilità di un avvocato, mi tirava fuori un sacco di attenuanti, che alla fine mi ritrovavo a giustificare Castiel davanti alla preside. Non ho mai capito come facessero andare così d’accordo quei due, avrebbero dovuto essere come il diavolo e l’acqua santa”
“mi chiedo come facesse a convincerti, visto la debolezza della causa che perorava”
“tu non hai idea di quanto sia furbo quel ragazzo: ha quel viso da angioletto, ma una mente molto attenta a intelligente e sa portarti dove vuole lui; Castiel invece, sembra arcigno e indisponente, ma in fondo, molto in fondo” puntualizzò Rachel ridacchiando “ha un cuore d’oro. Quando dico che erano come il diavolo e l’acqua santa, non sono certa di chi sia chi”
Quelle parole sorpresero Sophia, che si chiese quanto potesse essersi sbagliata sul conto del biondo. Quanto a Castiel, anche sua sorella le aveva raccontato che il ragazzo aveva dei momenti di generosità, dei flash in cui affiorava, quasi con timidezza, una natura più premurosa e gentile. La rossa aveva finto di non notare come lo sguardo della gemella si addolciva ogni volta che parlava dell’amico, poiché sapeva di non avere nessun diritto per intromettersi nella sua vita, almeno finché lei non le avrebbe concesso di farlo nella propria.
“Nate è sempre stato così. Credo che sia per questo che lui e Castiel andassero così d’accordo, perché l’uno non aveva misteri per l’altro. Sono praticamente cresciuti insieme. È qualcosa che solo dei fratelli con un rapporto molto stretto possono capire… e per me che sono figlia unica, resteranno sempre un mistero”
Rachel parlava con grande affetto del suo ex, al punto che in Sophia cominciò ad annidarsi un sospetto. Scacciò l’idea, ma fu la ragazza a leggerle nel pensiero, rispondendo alla domanda non esternata:
“oggi che l’ho rivisto, ho provato una sorta di nodo allo stomaco. A volte mi chiedo se lasciarlo sia stata la scelta giusta”
“sei stata tu a lasciarlo?”
Rachel alzò le spalle, come se la sua scelta fosse stata una conseguenza ineluttabile di una situazione su cui non aveva alcun potere.
“c’era un’altra ragazza…” esalò infine, rassegnatasi ad ammettere una verità che l’aveva fatta soffrire. Sophia aggrottò le sopracciglia, mentre la mora proseguì:
“me ne resi conto quando ormai ero persa per lui e stavamo insieme da cinque mesi. Tuttavia, sono sicura di non essere mai stata un ripiego per lui, un tentativo di dimenticarla. Penso che fosse davvero convinto di esserle solo amico, infatti sono stata io ad accorgermi per prima che come guardava Rosalya, non guardava nessun’altra… nemmeno me”
Il nome di una delle migliori amiche della sorella, fecero trasalire Sophia. Aveva sentito più volte Erin nominare la sua cara amica Rosalya e non poteva essere un caso, data la particolarità del nome. Le era stata descritta come una ragazza bellissima, a detta della gemella, la più bella che avesse mai conosciuto. Rosalya incarnava ogni ideale di grazia e femminilità, oltre ad essere dotata di un carattere molto forte e volitivo.
“dopo di me, Nathaniel ha avuto un’altra storia, ma è finita per lo stesso motivo che ci aveva portati alla rottura, solo che a quel punto è stato lui a troncare il rapporto: Nathaniel ha sempre amato Rosalya e amerà sempre e solo lei” concluse amaramente Rachel.
Sophia deglutì a disagio, non sapendo come replicare a quell’affermazione.
La mora teneva le labbra serrate e non dava segni di voler aggiungere altro. Dopo aver saputo della presenza del biondo a pochi chilometri da lei, non aveva resistito alla voglia di rivederlo, di riabbracciare quel ragazzo di cui si era innamorata così tanto. Voleva guardarlo negli occhi e, in modo quasi masochista, scoprire se riuscivano a suscitare ancora qualcosa in lei; non aveva previsto però che incontrare Nathaniel l’avrebbe tanto destabilizzata. Lui era cambiato e, finalmente, seduta su quella panchina, lontana da lui, Rachel capì in cosa fosse diverso: non percepiva più quel muro invisibile, quella patina impercettibile di distacco e freddezza ereditata dalla sua famiglia. Nathaniel aveva abbandonato ogni difesa, aveva imparato ad aprirsi anche ad altri ragazzi, rinunciando al ruolo di ragazzo impeccabile e posato; sorrideva spontaneo e riusciva a ribattere in modo che un tempo solo con Castiel riusciva a fare. Il vero Nathaniel a cui tanto il rosso era legato, non era più una sua esclusiva, ma era finalmente uscito anche a tutto il resto del mondo. Non era più il primogenito dell’industria informatica Daniels della costa orientale, era semplicemente uno studente dell’ultimo anno di liceo, spensierato e allegro.
“almeno, per quello che mi ha detto, lui e Rosalya si sono finalmente dichiarati” sospirò infine Rachel.
“quindi stanno insieme?”
“no” puntualizzò l’altra “in effetti è strano, ma è successo pochi minuti prima che lui venisse qui e non gli sembrava il caso di ufficializzare la cosa in fretta e furia; ne parleranno con calma quando tornerà a Morristown; inoltre Rosalya usciva da poco da una storia durata più di un anno e aveva qualche scrupolo verso il suo ex”
Le pause silenziose di Rachel cominciavano a protrarsi sempre più, accrescendosi di pari passo all’amarezza e al rimpianto. La sua interlocutrice non sapeva come comportarsi, come e se consolarla: non era mai stata brava in quel genere di situazioni; era Erin quella che riusciva, con la sua dolcezza, a lenire le ferite altrui, sussurrando le parole più adatte. Lei invece, se non poteva usare il sarcasmo o l’ironia come arma, era incapace di tirare sul il morale agli altri. Mentre rimuginava tra sé e sé, l’altra ragazza si alzò, sgranchendosi le gambe:
“sarà meglio che me ne torni a casa. Più resto qui, e peggio sto. Rivederlo mi fa più male che bene. Non era così che immaginavo il mio futuro”
“ma sei ancora giovane!” tentò Sophia “sono sicura che troverai altri ragazzi e poi hai tutta una vita davanti per realizzare i tuoi sogni. Concentrati su di essi”
La mora abbassò il capo e la guardò di sottecchi, sorridendo rassegnata, come se avesse accanto a sé una bambina troppo ingenua per capire:
“sono incinta”
Le labbra di Sophia si dischiusero per lo stupore.
Quando Ambra aveva avanzato quell’ipotesi, Nathaniel aveva liquidato la questione sostenendo che non sarebbe stato da Rachel: un bambino alla sua età avrebbe compromesso tutti i suoi progetti per il futuro, o per lo meno, ne avrebbe ritardato la realizzazione e ciò era imperdonabile per la ragazza.
“però ho deciso che non glielo dirò. Ero arrivata qui convinta che sarei riuscita a guardarlo in faccia, dimostrare a me stessa che appartiene al passato e che è diventato solo una persona che ricordo con affetto. Invece non riesco a non pensare che, se non fosse stato per Rosalya, io e lui staremo ancora insieme. Con lui non mi sarebbe mai successo…questo” sospirò, indicando un ventre ancora piatto “invece mi sono messa con un perdigiorno… uno che, giorno dopo giorno, disprezzo sempre più perché è così diverso da lui”
La rossa era sempre più disorientata. Aveva la gola secca e mille pensieri in testa.
“non dirgli nulla” esclamò Rachel, guardandola con intensità “non voglio la sua pietà. Voglio che continui a pensare a me come ad una ragazza coscienziosa e rigorosa” concluse infine.
Dall’altra parte le arrivò solo un tacito cenno d’assenso; non era con quello scopo che si era avvicinata a Sophia, la sua iniziale intenzione era quella di provare a farla sentire meno sola e isolata. Invece aveva finito per sfogare tutta l’amarezza che, davanti a Nathaniel, aveva cercato di celare.
Prima di andarsene, le sorrise debolmente:
“grazie, mi ha fatto bene parlare con te”
“quindi, che progetti hai per il bambino?” la trattenne Sophia.
“lo crescerò da sola, non butterò via una vita per un mio errore. Non è che io sia contro l’aborto o l’adozione, ma non fanno per me. Questo bambino è una mia responsabilità e, anche se sarà difficile, farò del mio meglio perché cresca bene. Suo padre del resto non vuole saperne di lui e, chi lo sa, come dici tu, magari un giorno troverò anche io la persona giusta… perché a quanto pare non è destino che sia Nathaniel”
Rachel si voltò, lasciando intendere a Sophia che intendeva congedarsi definitivamente. Prima di lasciarala andare però, la ragazza la chiamò:
“Rachel…” e indugiò, aspettando che l’altra tornasse a fissarla “sono sicura che sarai un’ottima mamma”
La mora incurvò le spalle e le restituì l’ultimo sorriso, che, almeno così piacque pensare a Sophia, mostrava per la prima volta, un po’ di speranza per il futuro.
 
La squadra arrivò all’alloggio all’ora di cena; i ragazzi protestavano per la fame, dopo tutte le ore trascorse in corriera. Vennero fatti accomodare attorno ad un’enorme tavolata, preparata appositamente per loro nella sala da pranzo dell’ostello. C’erano anche altri clienti presenti, ai quali era già stata servita la cena e i ragazzi fissavano i piatti altrui con la bava alla bocca.
Appena si trovarono davanti al naso un’abbondante porzione di patate e tacchino, cominciarono a sbranarla, lasciando alquanto interdette le uniche due ragazze del gruppo:
fuello non lo manfi?” biascicò Dajan a bocca piena, indicando il contenuto del piatto di Kim, che non si svuotava alla stessa velocità del suo. La ragazza era rimasta troppo sconvolta dai modi del ragazzo, normalmente misurati e educati, per ricordarsi che doveva nutrirsi. Si chiese se quella domanda le fosse stata rivolta per interesse personale o per cogliere l’occasione per scroccare una seconda porzione di tacchino.
“Dajan, mangi come un maiale!” lo rimproverò Boris, dando una violenta pacca sulla spalla al ragazzo, che aveva appena ingoiato vistosamente un pezzo di carne.
“è il tacchino più buono che abbia mai assaggiato” si giustificò il capitano e notando che a parte Erin e Kim, anche il resto della squadra aveva praticamente leccato il proprio piatto. L’ex velocista in particolare, continuava a fissarlo esterrefatta, tanto che a quel punto anche il distratto playmaker se ne accorse. Quello sguardo trasparente, puntato su di lui lo mise a disagio ma non sapeva come far sì che lei lo distogliesse.
Più volte si era ripetuto che quella situazione non poteva durare, che doveva dirle cioè che provava per lei, ne andava anche della sua performance agonistica dal momento che sempre più spesso pensare a lei lo deconcentrava durante gli allenamenti. La notte, quando era disteso sul letto in attesa di addormentarsi, era sempre Kim l’ultimo pensiero della giornata, come se fosse un buon augurio per un riposo sereno. Fantasticava su cosa avrebbe rappresentato addormentarsi con lei accanto e, quando i suoi pensieri non erano così casti, si spingeva a chiedersi come sarebbe stato avere un rapporto più intimo con la ragazza, loro due sotto le lenzuola.
“allora sei fortunato amico” gli bisbigliò Trevor “con gli uccelli Kim se la cava alla grande”
Dajan equivocò il senso di quella frase, distratto dalla piega che avevano preso le sue riflessioni: si voltò di scatto verso Trevor e, in preda all’imbarazzo più totale, lo apostrofò:
“MA CHE CAZZO DICI IDIOTA! Ti sembra il caso di dire simili oscenità?”
Trevor sbattè le palpebre visibilmente perplesso, mentre tutto il resto dei presenti, che non aveva udito la presunta provocazione dell’ala grande, fissava curiosa il loro capitano.
“non mi sembra una cosa oscena” ribattè Trevor, sempre più confuso e scrutando il rossore che, nonostante la carnagione scura, aveva imporporato il viso del playmaker “che cazzo hai capito?”
Dajan allora lo fissò incerto, notando che non c’era alcuna malizia nello sguardo dell’amico. Gettò fugacemente lo sguardo sui residui della sua cena, ricordando quale fosse l’argomento della conversazione e, avvampando ancora di più, realizzò che si trattava di tutt’altro genere di uccelli.  
Anche l’amico intuì il doppio senso che era scaturito dalla sua osservazione, e sorridendo beota, lo punzecchiò sottovoce:
Dajanino porcellino!”
Il pugno che ricevette di lato gli strappò un lamento di dolore, mentre tutti gli altri continuavano a non capire cosa si fossero detti i due per scatenare una simile reazione da parte di uno dei membri più misurati della squadra.
 
“in gita a ottobre con chi eri in stanza?” chiese Erin, infilandosi il pigiama bianco con una buffa fantasia a macchie nere. Quella notte avrebbe condiviso la stanza con Kim, che in quel momento aveva appena rinunciato a guardare video da YouTube. Infastidita dalla scarsità del segnale wi-fi, la mora aveva chiuso il tablet e si era rifugiata sotto le coperte:
“in teoria con Kelly, ma poi ha dormito dal suo ragazzo che sta in 5^ C”
“ah, quindi hai passato tutta la gita in camera da sola?”
Kim scrollò le spalle, mentre Erin spegneva la luce della stanza e accendeva quella del comodino.
“se non l’hai notato, non sono una che ha bisogno di tanta compagnia”
Erin ridacchiò e ammise:
“questo l’ho capito sin dal primo giorno di liceo. A proposito… posso essere sincera? Ho pensato che fossi una stronza colossale”
Kim anziché offendersi, scoppiò a ridere di gusto; ricordava perfettamente la prima volta che si erano parlate:
“diciamo che l’inizio dell’anno non è stato dei migliori. Mi hai semplicemente conosciuta nel momento sbagliato”
“è vero, avevi l’interrogazione di scienze” considerò Erin, affidandosi alla sua incredibile memoria.
“non è per quello” le spiegò Kim, sorridendo paziente.
“allora perché?”
La ragazza non replicò. Avrebbe dovuto confessarle di Dajan, del fatto che, dopo essersi innamorata di lui la primavera precedente, erano tornati a scuola e lui si era dimenticato come di lei. Era rimasta molto ferita da quell’atteggiamento, ma era troppo orgogliosa per ammetterlo. Questo l’aveva resa ancora più scorbutica e restia a farsi nuovi amici, così quando la mora aveva tentato un dialogo, si era trovata di fronte un muro ostile. Probabilmente Erin le sarebbe andata a genio molto prima, se non fosse stata per la sua iniziale convinzione che Dajan fosse interessato alla nuova arrivata. Eppure era proprio grazie a quella ragazza che lei e il ragazzo erano tornati a parlarsi. Era stata Erin, quel pomeriggio, mentre lei era intenta a sfuggire all’ennesimo agguato della sua rivale sulla pista di atletica, a trascinarla in palestra, presentandola a tutti come nuovo membro della squadra. Una volta messo da parte il titolo di velocista, per indossare la divisa da basket, Kim aveva capito che Dajan non era interessato ad Erin e di certo lei non lo era a lui. Da lì il suo rapporto con la ragazza era migliorato e, anche se non potevano considerarsi vere e proprie amiche poiché non si vedevano al di fuori della scuola, la stimava molto e si era affezionata a lei. Anche Trevor una volta aveva ammesso quanto fosse piacevolmente sorpreso da Erin e dalla sua capacità di rapportarsi alle persone: secondo lui, era stato grazie a quella ragazza minuta se anche uno con la scorza dura come Castiel si era ammorbidito negli ultimi tempi.
“sogni d’oro Erin” le disse con una dolcezza che faceva trasparire tutta la tenerezza che riusciva a suscitare in lei. La compagna stava ancora aspettando la risposta alla domanda che le aveva formulato, ma capì che non era il caso di insistere; inoltre, quell’augurio così gentile, pronunciato da una come Kim, le sciolse il cuore, facendola sorridere di felicità:
“buona notte Kim”
 
Il piede destro cercò a tentoni una delle due pantofole, che doveva per forza essere a pochi centimetri dal letto, dove era stata lasciata la notte prima. Appena avvertì il tocco morbido della stoffa, si rifugiò all’interno, mentre tutto il resto del corpo si rassegnava ad alzarsi. Kim si stiracchiò verso l’alto, sbadigliando sonoramente. La poca luce che filtrava nella stanza, illuminava la sua compagna di squadra, ancora beatamente addormentata.
Cercando di non fare rumore, la mora si liberò a malincuore dal pigiama e si vestì per fare colazione. Erano da poco passate le sette ed era sicura che il resto della squadra fosse ancora sotto le coperte.
Scese le scale, incapace di trattenere l’ennesimo sbadiglio. Aveva dormito poco quella notte, un po’ per l’ansia pre partita, un po’ perché riposava a fatica su un materasso che non fosse il proprio. Erin invece aveva ronfato di gusto, dormendo come una bambina e parlottando ogni tanto nel sonno. Kim sogghignò tra sé e sé, ripensando a quando, ad un certo punto, la ragazza aveva cominciato a borbottare insulti rivolti al suo migliore amico:
“con i soldi che guadagni potresti prendere l’aereo e venire ad una partita… sei proprio tirchio Castiel… e idiota, ma questo lo sapevo da un pezzo”
Fortunatamente, il monologo di Erin era durato appena qualche battuta, ma aveva divertito Kim, rendendo ancora più complicata la fase di addormentamento.
Arrivò nella sala da pranzo dell’ostello, in cui la colazione era servita a buffet. Non si curò degli altri clienti, dirigendosi direttamente verso la sua fonte di cibo: agguantò per prima una brioche spolverata di sottile zucchero filato e la ripose nel proprio vassoio. Passò poi a versarsi un abbondante porzione di latte che annerì con il caffè. Sorpassò le uova poiché a casa era abituata a fare una colazione all’italiana, dal momento che era la sua cucina preferita, perfetta per una sportiva come lei. Si procurò delle fette biscottate e un bicchiere di succo all’ACE; si era svegliata con una fame pazzesca e non vedeva l’ora di sbranarsi in santa pace quel ben di Dio.
Appena si voltò a cercare un tavolo libero, notò un braccio che gesticolava: non si era accorta che in quella sala, un suo compagno di squadra l’aveva battuta sul tempo e si trattava del capitano. Dajan diede sfoggio del suo intramontabile sorriso bianchissimo, che neanche il caffè riusciva a spegnere. La ragazza non potè fare a meno di lasciarsi contagiare da quella solarità e rinunciò al proposito di mangiare da sola.
“devi avere un sonno allucinante se non mi hai visto quando sei entrata”
“in effetti ho dormito poco” ammise la ragazza, notando che il vassoio del cestista era ancora più abbondante del suo; di certo aveva un metabolismo ultra rapido se poteva permettersi di ingurgitare abitualmente tutte quelle calorie senza assimilare un filo di grasso.
“chiacchiere tra donne?” indagò divertito.
“non sono il tipo” replicò lei, mandando giù un sorso di succo.
“in effetti è vero”
Kim era diversa dalle altre ragazze che conosceva, e proprio per questo gli piaceva così tanto. Lei era sempre disinteressata agli argomenti tipicamente femminili, non aveva quella curiosità un po’ invadente che caratterizzava la maggior parte delle ragazze che lui conosceva. Come lui, era in fissa lo sport, anche se in passato avevano scoperto di avere concezioni molto diverse: Kim si definiva un corridore solitario, mentre Dajan amava il gioco di squadra; per questo non aveva osato sperare che la ragazza si unisse a loro per il torneo. Per fortuna ci aveva pensato Erin e, per l’ennesima volta, in cuor suo il capitano ringraziò l’elemento più imbranato ma adorabile della squadra.
“in compenso, Erin ha parlato da sola nel sonno. Ha insultato Castiel per tre minuti buoni”
Dajan scoppiò a ridere, facendo voltare alcuni degli ospiti presenti in sala:
“avresti dovuto registrarla, così poi la mandavamo a Castiel”
“pensi che non riuscirà davvero a venire a nessuna partita? So che prima di giugno non è previsto che torni in America, ma una piccola pausa se la potrà pur prendere no?”
Dajan sospirò amareggiato. Da quando Castiel era entrato nella squadra di basket, quello sport era diventato ancora più avvincente. Era il compagno di squadra ideale, tra di loro in particolare c’era una sintonia pazzesca, anche se fuori dal pitturato avevano altre amicizie. L’uno riusciva a coordinarsi sulla base delle azioni dell’altro, anticipandone le mosse. Nella prima partita aveva sentito incredibilmente l’assenza del numero 11, infatti avevano raggiunto la vittoria per un soffio. Dopo la cena di meritati festeggiamenti, Boris l’indomani della partita, li aveva riuniti tutti per discuterne insieme. Erano concordi nell’asserire che non avevano affrontato una squadra fortissima, e il fatto di essere stati così vicini alla sconfitta testimoniava che anche il loro gioco aveva presentato delle grosse falle.
“l’attacco è stato molto al di sotto dello standard” li aveva rimproverati Boris, visto che la ramanzina ad Erin era già stata fatta tra il secondo e il terzo quarto. Era inevitabile che la parte offensiva fosse sottotono: dovevano riuscire a sopperire alla mancanza dell’elemento più aggressivo che avevano a disposizione.
“non credo che Castiel verrà mai ad una partita. L’ho sentito per mail, perché voleva sapere l’esito ma poi abbiamo parlato di altro e di tutto il lavoro che deve sbrigare. È buffo ma è la prima volta che ci sentiamo per qualcosa che non riguardi il basket. In passato, quando ci scrivevamo era sempre come compagni di squadra, tanto che io non so praticamente niente di lui e lui di me… probabilmente ciò che sappiamo l’uno dell’altro lo dobbiamo a Trevor”
“Trevor è peggio di una casalinga disperata” bofonchiò Kim, la cui risata vaporizzò dello zucchero filato davanti a sé. La brioche era buonissima e la gustò con delizia, mentre Dajan ridacchiava:
“ti sei sporcata” la informò.
“dove?”
“a sinistra”
Kim si portò la mano sinistra sulla guancia, cominciando a strofinarsi la pelle.
“alla mia sinistra” chiarì il ragazzo, sorridendo paziente.
La mora cambiò allora braccio e passò frettolosamente le dita sulla guancia.
“è andato via?” indagò, ma in quell’ultimo tentativo si era infarinata ancora di più. Sulla sua carnagione scura, la polvere bianca dello zucchero filato risaltava ancora di più.
“magari la prossima volta che cerchi di pulirti il viso, assicurati prima che le dita siano pulite” la canzonò il cestista, con uno dei suoi immancabili sorrisi. Kim ridacchiò, cercando di immaginare quanto potesse essere buffa e non si accorse di come la stava guardando la persona seduta davanti a lei.
“è andato via?” riprovò.
Una leggera strisciolina aveva resistito all’attacco, lasciando una leggera traccia sullo zigomo. Allora Dajan allungò istintivamente un braccio e, delicatamente, rimosse quel residuo sfregandolo via con il pollice. Sentì il contatto con quella pelle liscia e morbida, esitando mezzo secondo prima di staccarsi da essa. Lei lo stava guardando dritto negli occhi, attonita per quel gesto così audace e che aveva portato a quella sorta di carezza.
Ritrasse immediatamente la mano, avvampando per l’imbarazzo, mentre lei borbottava un ringraziamento masticato.
“t-ti alzi sempre presto?” farfugliò il ragazzo, per cercare di ovviare alla situazione.
“beh sì, non mi piace dormire fino a tardi”
“neanche a me”
“ah”
E tra i due cestiti ripiombò il silenzio più totale. Kim gesticolava sotto il tavolo con l’orlo delle maniche, mentre Dajan si grattava la guancia. Quando realizzarono entrambi che avevano una colazione da ultimare, si fiondarono sul cibo, usandolo come pretesto per non dover aggiungere altro.
 
Dopo cinque minuti scesero Trevor e Liam e si unirono all’impacciata coppia.
“ti sbagli, la Brown non ha una squadra di basket” sosteneva l’ala piccola “mi sono informato anche io”
“tu alla Brown? Guarda che non è facile entrarci”
“ha parlato Einstein” malignò Liam.
“parlate di college e università di prima mattina?” sbuffò Kim.
“noi di quinta dobbiamo sbrigarci a inoltrare le domande di iscrizione” si giustificò Liam, accomodandosi al tavolo e guardando Dajan, in quanto compagno di classe.
“non fai colazione?” indagò quest’ultimo. Solo dopo essersi seduto, il ragazzo si accorse che era previsto un buffet:
“e che cazzo, devo pure alzarmi?” si voltò verso Trevor che, diversamente da lui, si era diretto subito verso i tavoli imbanditi “eh Trev, prendi qualcosa anche per me” urlò.
Una coppia di anziani squadrò malissimo il rumoroso cestista, irritati dalla sua maleducazione. In quella sala, ogni cliente parlava sottovoce e con rispetto verso gli altri, mentre i due giovani che erano appena giunti si era distinti per il loro chiasso. Del resto anche la cena del giorno prima, era stata caratterizzata dal fracasso della squadra di basket al completo.
“tu Dajan, hai già mandato la domanda per il college del Kentucky?” indagò.
“sì” confermò il ragazzo “ speriamo solo di vincere quella benedetta borsa di studio”
“ma spedisci solo quella domanda?”
“ne valuterò anche altre di opzioni. Per ora quella è quella che mi ispira di più”
Dajan aveva passato in rassegna diverse università del paese alla ricerca di quella in cui fosse tenuta in grande considerazione la preparazione atletica degli studenti. Il college del Kentucky vantava un’ottima squadra di basket e, condizione imprescindibile al momento della scelta del ragazzo, anche una squadra di atletica. Il campus era attrezzato in modo che, accanto alla preparazione intellettuale degli studenti, fosse data loro la possibilità di tenersi allenati e partecipare a competizioni nazionali a nome dell’ateneo.
Con enorme sollievo, anche Kim sembrava interessata a quella proposta e i due avevano stabilito che si sarebbero impegnati per farsi ammettere in quel college. Ormai per Dajan non c’erano alternative migliori, di quella di giocare per i Kentucky Wildcats e poter vedere Kim tutti i giorni. Avrebbe dovuto aspettare un anno prima di vedere anche lei aggirarsi per il campus, ma era sempre più convinto che sia lui che lei ce l’avrebbero fatta: sarebbero stati ammessi.
 
Uno ad uno, anche il resto della squadra scese a fare colazione. Gli altri clienti, dopo aver consumato una veloce colazione, abbandonavano la sala, così alla fine, quando anche Boris si unì ai suoi ragazzi, li trovò intenti a unire cinque tavoli, senza chiedere il permesso ai gestori dell’ostello.
Il coach li squadrò uno a uno e sbottò:
“ed Erin dov’è?”
Appena realizzò che la ragazza stava ancora poltrendo beatamente sotto le lenzuola, si arrabbiò con Kim perché non l’aveva ancora svegliata. La ragazza scattò in piedi per assolvere ai suoi doveri come compagna di squadra, ma Trevor e Wes insistettero per accompagnarla. Non vollero dirle cosa avessero in mente, ma la pregarono di non intralciarli nel loro diabolico scherzetto.
Quando infatti i tre furono davanti alla porta della stanza, camuffando la propria voce, Wes urlò:
“SIGNORINAAA!!!” esordì, con una voce stridula “MI HANNO DETTO DI AVVERTIRLA CHE LA SQUADRA È GIÀ SUL PULLMAN PRONTA A PARTIRE E LA STA ASPETTANDO!”
Erin strabuzzò gli occhi e si alzò di scatto dal letto, spalancando la porta sconvolta:
“COME SAREBB-“ e appena vide Trevor e Wes piegarsi in due dal ridere, inveì contro di loro “CHE SCHERZO DEL CAZZO! IMBECILLI!... mi avete fatto venire un infarto!”
Kim scrollò le spalle, rassegnata all’immaturità dei ragazzi che se non altro, portavano un po’ di allegria nella squadra. La povera Erin li fissava furente, con il viso arrossato dalla rabbia mista al terrore che aveva provato, mentre Wes rincarnò la dose:
“carino il pigiama”
La ragazza spostò lo sguardo sulla parte superiore del pigiama che aveva delle macchie simile a quelle di una mucca. Per evitare di insultarli ulteriormente, serrò la porta e si affrettò a prepararsi.
Avevano una partita a cui pensare da lì a un paio d’ore ma se non altro, quel risveglio un po’ insolito, le aveva iniettato una tale carica che non vedeva l’ora di sfogarla sul pitturato.
 
 



 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Sono tornata ^^.
Cominciavo a perdere le speranze, ma alla fine sono riuscita a non prolungare ulteriormente l’attesa per il nuovo capitolo. Purtroppo più si avvicinano gli esami e meno tempo ho, per cui scusatemi se in futuro ci metterò anche più di tre settimane prima di pubblicare un nuovo capitolo :(.
Perdonatemi anche se non faccio più i riassunti di inizio capitolo ma la verità è che sono troppo pigra per rimettermi a dare una scorsa al capitolo precedente e riassumerlo… mi appello alla vostra memoria ^^ (ma se proprio erano una cosa utile, fatemelo sapere che farò uno sforzo e dalla prossima volta proverò tornare a farli u.u).
 
Ok, dopo aver esordito prostrandomi ai vostri piedi, posso passare ad altro: spero che il rientro a scuola/università/lavoro non sia stato traumatico e che abbiate passato in serenità le vacanze :D.
 
Passando al capitolo, beh è stato caratterizzato da una pluralità di personaggi e spero che la cosa sia stata gradita visto che nel prossimo sarà pure così. Vedete, il fatto è che, ora come ora, solo con Castiel riesco a scrivere pagine e pagine incentrandole su un unico personaggio (infatti temo che mi odierete un sacco nel prossimo che sarà ambientato il giorno di San Valentino e lui non ci sarà *si nasconde sotto il tavolo per evitare sassate e insulti*).
 
Bene, concludo invitandovi a farmi qualsiasi osservazione, puntualizzazione su scene o modo di scrivere che non vi abbia convinto. Ne farò tesoro (งಠ_ಠ)ง!!!
Alla prossima!!

 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** Verso la semifinale ***


CAPITOLO 45: VERSO LA SEMIFINALE


Avevano ancora il respiro corto e il sudore che imperlava le loro tempie quando rientrarono nello spogliatoio. I cestisti della Atlantic High School, nonostante l’ottimo punteggio con cui avevano concluso il secondo quarto, sembravano troppo concentrati per concedersi di esultare.
Restare seduti su quelle panche, mentre il loro allenatore illustrava i successivi schemi di gioco, era necessario, ma non per questo facile da sopportare: da Erin, la giocatrice di un metro e sessantasette ai quasi due metri di Steve, tutti i ragazzi non vedevano l’ora di tornare a schiacciare le suole contro il pitturato.  
« state giocando alla grande! » si sgolò Boris; l’arteria che correva a fior di pelle all’altezza del collo, convogliava sangue verso il cervello, sembrava pulsare a ritmo con la sua voce “non c’è paragone con l’altra partita! Persino gli spettatori sono rimasti senza parole!”
I complimenti, per quanto dovuti, non erano una sorpresa per i cestisti, consapevoli del diverso spirito con cui avevano affrontato quell’incontro; la tensione della prima gara era svanita, lasciando il posto ad un’inarrestabile carica. Il coach aveva persino avuto difficoltà a contenere le insistenze di alcuni giocatori come Erin o Trevor che avrebbero voluto prolungare il loro tempo di permanenza sul terreno di gioco.
« KIM! » esclamò euforico Boris, additando la giocatrice « non ti ho mai vista così forte in difesa! Non lasci aperture tanto che percepisco addirittura la frustrazione degli avversari! »
La ragazza sorrise modestamente, ricevendo un colpetto affettuoso da Trevor mentre l’allenatore proseguiva:
« Dajan, continua così, attento però a non affaticarti troppo: certi tuoi spostamenti non sono necessari, concentrati più nel gioco sotto canestro. Gordon, Benjamin e Liam… ottimo lavoro! » e, battendo violentemente i palmi, l’uomo si alzò.
I ragazzi risposero con un urlo liberatorio che incrementò, più di quanto non fosse necessario, la loro determinazione e la voglia di far mangiare la polvere agli avversari.
Avrebbero vinto quella partita, Erin lo sapeva: poche volte in vita sua si era sentita così sicura come in quel momento; ormai era riuscita a trasformare la paura di fallire nella paura di perdere ed aveva realizzato come quest’ultima fosse il miglior sprono per costringerla a lottare. Durante il primo quarto, prima di essere sostituita da Kim, aveva dato prova di quanto la sua agilità potesse rappresentare una minaccia per gli avversari.
Ogni volta che riuscivano a segnare un punto, per lei era un passo in direzione dell’Europa mentre ogni volta che erano gli avversari a fare canestro, rappresentava un passo indietro. Con questa visione della partita, non poteva concedere loro alcuno spiraglio, alcuna possibilità di sopraffarli. Tuttavia Boris aveva voluto sostituirla con Kim, nonostante le sue proteste. A zittire ogni ulteriore replica, era stato uno sguardo orgoglioso che l’allenatore le aveva rivolto, prima di sussurrarle:
« lascia che si diverta un po’ anche Kim ».
 
Una volta iniziato il terzo quarto, Boris ricominciò ad agitarsi dal bordo campo, gesticolando con veemenza indicazioni ai suoi giocatori. I cestisti rimasti in panchina, fomentati principalmente tra Wes e Trevor, berciavano un tifo talmente chiassoso che più volte Boris fu costretto a chiedere di ridimensionarlo, per consentire ai compagni presenti sul campo di cogliere i suoi ordini.
Faraize, pur essendo un professore di ginnastica, non riusciva a lasciarsi contagiare dall’entusiasmo dei suoi ragazzi e si occupava per lo più della preparazione atletica e del riscaldamento dei cestisti che dovevano entrare in gioco. Il pubblico, anche se meno numeroso rispetto alla precedente partita, fremeva eccitato dagli spalti, applaudendo ad ogni azione, sia che fosse da parte della Atlantic che da parte degli avversari.  
« non ho mai visto Kim così determinata » mormorò Wes con fierezza, facendosi sentire da Erin « sembra che abbia giocato a basket tutta la vita ».
La ragazza si muoveva sul campo senza tradire alcun affaticamento: i suoi scatti erano sempre al massimo, non perdeva mai di vista la palla e una volta nelle sue mani, non sbagliava un passaggio.
« Kim ha lo sport nel sangue » commentò Trevor con ammirazione. Era estremamente fiero della sua migliore amica e non perdeva occasione per lasciarlo intendere. Allo scambio di battute, prima che Erin potesse replicare, si sommò anche l’opinione di Steve:
« credo che siamo una delle poche squadre ad aver beneficiato dell’introduzione di ragazze sul campo. Se le giocatrici delle altre squadre sono come quelle che abbiamo affrontato nella prima partita, allora possiamo stare tranquilli: Erin e Kim sono i nostri assi nella manica » e scompigliò i capelli alla mora seduta accanto a lui, che ridacchiò imbarazzata.
Non aveva più bisogno di quel genere di apprezzamenti per capire quanto la sua squadra la adorasse: amava quei ragazzi e faticava a capacitarsi di quanto uno sport come il basket potesse essere appassionante, proprio per lei che fino a pochi mesi prima, prediligeva attività individuali come la danza.
Il coach, pur tenendo lo sguardo puntato sul pitturato, non si era lasciato sfuggire quello scambio di battute: aveva un’aria pensierosa e le braccia incrociate al petto.
« se vinciamo questa partita, dopo devo farvi vedere una cosa… » annunciò d’un tratto, sibillino.
Quella dichiarazione sollevò l’interesse dell’intera panchina e il primo ad esternarla con una domanda, fu Clinton:
« di che si tratta? ». Il ragazzo era intendo a eseguire un esercizio di riscaldamento per poter poi sostituire l’altra ala piccola presente sul campo, Liam.
« ne parleremo una volta che li avrete stracciati » negoziò Boris, facendo segno al giocatore di accomodarsi al banco dei cambi.
Mentre i cestisti lo fissavano perplessi, Kim aveva appena intercettato la palla ed era riuscita a farla volare in direzione del capitano: Dajan, con un agile salto, l’aveva mandata a canestro, segnando altri due punti.
I numeri indicati sul tabellone aumentavano inesorabilmente ed erano a favore della Atlantic HS.
Più accresceva il divario di punteggio, più diminuiva la motivazione degli avversari: nei loro occhi cominciava a leggersi la rassegnazione di chi smette di combattere, perché soverchiato da un esito considerato ineluttabile. Persino il loro capitano, non riusciva a reagire: non aveva la stessa carica di Dajan e finiva per comportarsi alla stregua di tutti gli altri giocatori, creando ancora più confusione nello schema di gioco.
Già alla fine del terzo quarto, la partita era decisa: la squadra del Dolce Amoris avrebbe vinto e, come accadde dopo dieci minuti, quella previsione si rivelò inevitabilmente corretta.
 
Aprì leggermente le palpebre, lasciando che un debole fascio di luce comunicasse al suo cervello che un nuovo giorno era iniziato. Stiracchiandosi verso l’alto, con i muscoli del torace che si allungavano nell’assecondarne il movimento, Ambra si godette il suo secondo risveglio a San Francisco.
La notte prima lei e Sophia erano state riaccompagnate a casa da Nathaniel, dopo aver trascorso una serata in allegria. Seppure l’inizio non fosse stato dei migliori, con l’amica che si era chiusa in un inspiegabile mutismo, dopo l’arrivo di Rachel, Sophia si era sciolta un po’ ed era riuscita a recuperare un po’ dello smalto e della vitalità che la contraddistinguevano.
La bionda si voltò verso destra, sorridendo alla vista della posa scomposta della sua compagna di stanza: una gamba era sfuggita all’abbraccio caldo delle coperte e penzolava giù dal letto, mentre le braccia erano piegate ai lati della testa, in una posizione di resa. In una rivista, qualche tempo prima, aveva letto che quel modo di dormire era tipico delle persone altruiste e aperte, in grado di fare facilmente amicizia.
Ambra staccò la schiena dal materasso del divano letto in cui aveva riposato, avvertendone il molleggio contro il sedere. Tentando di fare meno rumore possibile, abbandonò la stanza, recandosi in cucina.
Sin da quando aveva varcato la soglia di quell’appartamento un paio di giorni prima, l’aveva adorato: l’ambiente era composto da due camere da letto, un bagno e una sorta di open space con annessa cucina. Nell’insieme, ogni locale non era molto spazioso, percezione che in Ambra era accentuata dagli enormi saloni a cui era abituata. Eppure, anziché avvertire un senso di claustrofobia, avrebbe scambiato volentieri quell’accogliente rifugio per l’inospitale villa Daniels. Oltre a Sophia, che occupava la camera singola, c’erano altri due inquilini, che però non si trovavano a San Francisco durante il soggiorno di Ambra. Di loro lei sapeva solo che erano fidanzati e che, quando Sophia era fuggita da Allentown, le avevano offerto la possibilità di ospitarla per qualche tempo.
La rossa era rimasta comunque molto vaga sull’argomento, lasciando intuire ad Ambra che tutto ciò che riguardava la sua permanenza in quella città doveva essere avvolto nel mistero.
L’ospite si spostò in cucina, dove lasciò che dell’acqua di rubinetto le riempisse un bicchiere con una deliziosa fantasia di fragole. Tutto in quell’ambiente era piena di personalità, a partire dalle pareti color arancione, tappezzate di cartoline, poster di eventi, foto. Tra queste, la ragazza notò una foto che ritraeva Erin, quando i capelli delle due gemelle erano dello stesso colore. Sophia abbracciava la sorella, sorridendo sguaiata, mentre l’altra aveva una smorfia più contenuta.
La foto risaliva a circa tre anni prima, come potè dedurre dal calendario alle spalle dei sue soggetti; a quei tempi la somiglianza tra le due era impressionante, fatta eccezione per gli occhi: quelli di Erin erano leggermente più scuri. A distanza di così tanto tempo, pur mantenendo la stessa fisionomia, le due ragazze erano diventate molto diverse: Sophia aveva i capelli rossicci, corti, una pelle più abbronzata, uno stile completamente diverso da Erin, che era dotata di un aspetto molto più romantico della sorella.
Si staccò dal murales di foto e tornò vicino alla cucina: la padrona dell’appartamento l’aveva invitata più volte a fare come se fosse a casa sua, ma ciò non era  di certo nelle intenzioni di Ambra; a villa Daniels, avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di Molly con una fumante tazza di caffè, rimanendo seduta compostamente nella sala da pranzo. A San Francisco aveva quella libertà che aveva sempre desiderato, la libertà di non vincolare quella degli altri: nessuno avrebbe dovuto servirla, nessuno doveva svolgere mansioni al posto suo.
Una bella caffettiera americana giaceva silenziosa vicino ai fornelli e aspettava solo di essere usata. Sulla teoria era preparatissima, le mancava solo la pratica: aprì una delle ante sopra la sua testa, allungando il collo alla ricerca del caffè:
« alla tua destra » sbadigliò una voce, talmente assonnata da contagiare la volenterosa Ambra.
« beccato » esultò la bionda, individuando una confezione dorata « comunque, buongiorno » le sorrise.
« ‘giorno » biascicò Sophia, appoggiando i gomiti sul ripiano di granito. Teneva ancora gli occhi semichiusi e aveva la bocca impastata dal sonno. Mentre Ambra cercava di dosare la polvere scura, l’amica cominciò a stropicciarsi gli occhi e guardarla con un misto di perplessità e stanchezza:
« ma ti sei già messa in piega i capelli? » indagò, analizzando ogni singolo e impeccabile riccio dorato. L’amica, armeggiando con il macchinario, borbottò concentrata:
« no, mi sono appena alzata anche io »
La rossa non le rispose, ma si voltò verso il piccolo specchio alle sue spalle; quando sulla sua superficie comparve l’immagine della sua chioma leonina che le dominava il capo, Sophia se ne uscì con un’esclamazione di disappunto:
« possibile allora che io debba avere questi capelli mentre tu quelli? » la accusò, fingendosi offesa.
« beh, per quei quattro peli che ho in testa, non ci vuole molto a farli stare a posto » si ridimensionò Ambra, sorridendo comunque lusingata per l’implicito complimento.
« mica sei pelata» obiettò Sophia, sedendosi sul bancone. Il contatto freddo della pietra attraverso la stoffa del pigiama, la fece desistere da quella posizione e tornò a poggiare i piedi per terra. Ambra nel frattempo era riuscita ad avviare la macchina e stava pregando mentalmente per non aver appena innescato una bomba.
« vorrei averne di più. Pensa che fino a qualche mese fa, andavo in giro con le extencion » le confidò, mentre l’amica recuperava due tazze e tirava fuori una padella per le uova.
« secondo me non ne hai bisogno… comunque sia, come mai non le usi più? »
Ambra nel frattempo aveva recuperato le uova dal frigo e, con l’aiuto di Sophia, era pronta a farle cuocere. Misero la padella sul fuoco con un po’ di burro e appena questo cominciò a sfrigolare, la padrona di casa ruppe i gusci. La domanda che aveva rivolto ad Ambra obbligava la bionda a rivivere, come in un flashback, un episodio accaduto mesi prima, quando solo sentire il cognome Travis la mandava sui nervi. Sospirò sovrappensiero, riflettendo su quanti rapporti erano cambiati da allora: aveva rotto la finta amicizia con Charlotte, ne aveva scoperta una più autentica in Lin e aveva maturato un certo affetto e stima verso Erin. Era assurdo quanto l’avesse odiata per quell’umiliante scherzetto; eppure, a distanza di più di quattro mesi da quell’episodio, si trovava a raccontarlo con leggerezza e auto ironia.
« beh » cominciò a narrare « questa storia te la saprebbe dire meglio tua sorella. Però posso raccontarti la mia versione; l’Ottobre scorso, la scuola ha organizzato un’uscita in piscina e quella volta… ».
 
In spogliatoio il chiasso dei cestisti era assordante: nonostante la vittoria fosse scontata, non riuscivano a trattenersi dall’esultare per la grande prestazione atletica di cui erano stati protagonisti; Trevor, i cui tiri da fuori dell’area dei tre punti erano stati micidiali nell’ultimo quarto, era salito in piedi sulla panchina e stava improvvisando una sorta di discorso per il momento in cui avrebbero sollevato la coppa dei vincitori.
« idiota, porti sfiga! » lo redarguì Benjamin, che era particolarmente superstizioso.
« “e adesso, Dajan paga da bere a tutti! » urlava Trevor, incurante degli avvertimenti scaramantici del suo compagno di squadra.
« te lo scordi! » protestò il capitano, le cui finanze erano sempre di modesta entità. Riusciva a raggranellare qualcosa lavorando il sabato e la domenica sera in un locale come cameriere, ma ciò che guadagnava era spesso di sostegno all’economia familiare.
« Castiel una volta ci ha pagato un giro di birre! » protestò Wes, divertendosi a tormentare il povero capitano.
« perché avevamo vinto il torneo regionale » precisò Dajan che, cercando di ignorare ciò che il suo buon senso gli stava suggerendo, infine si arrese:
« se arriviamo alla finale, offro io »
I ragazzi esplosero in cenni di apprezzamento, mentre il capitano cominciava a convertire mentalmente i soldi che avrebbe speso in termini di numero di ore lavorative. Nonostante il rammarico economico, sapeva che tutto sommato non sene sarebbe pentito: quello era il suo ultimo anno come membro della squadra di basket del Dolce Amoris e doveva goderselo fino in fondo.
« comunque raga, Boris ha detto che prima di tornarcene a casa deve farci vedere una cosa » li interruppe Steve, calamitando la curiosità dei compagni, specie di quelli ignari della notizia. Quell’affermazione fece passare immediatamente in secondo piano i loro festeggiamenti e diede il via ad una serie di supposizioni sulle misteriose intenzioni del coach.
 
« cioè? » chiese Kim.
« non ce l’ha detto » le rispose Erin, allungandole una spazzola di legno. La compagna asciugò velocemente i capelli con il piccolo phon da viaggio, beneficiando della loro lunghezza. L’operazione infatti non le costò più di cinque minuti.
Per Kim lo sport era una priorità assoluta e, in quanto tale, le imponeva di sacrificare un po’ di femminile vanità, a vantaggio della praticità: non si truccava mai, teneva un taglio di capelli corto, in modo che asciugarli non le portasse via troppo tempo e prediligeva un look sempre comodo e confortevole. Da quando era iniziato il torneo, aveva notato quanto la sua routine fosse diversa da quella delle altre ragazze, a seguito dell’inevitabile confronto con Erin; la sua compagna di squadra, al termine delle partite, era costretta a dedicare molta più attenzione al suo aspetto, insaponando i lunghi capelli e applicando su di essi dello shampoo per districarne i nodi. Tuttavia era con la loro asciugatura che la mora veniva maggiormente rallentata. Non soddisfatta, dopo aver ottenuto una chioma liscia e luminosa, Erin non riusciva a rinunciare ad una passata di mascara nero sulle sue già lunghe ciglia.
Quel giorno aveva giocato talmente poco che non aveva ritenuto necessario lavarsi i capelli, risparmiando a Kim preziosi minuti di attesa. Del resto, entrambe fremevano all’idea di scoprire quali intenzioni avesse il loro allenatore così, anche se Erin doveva ancora chiudersi la zip del giubbotto e Kim quella del borsone, si precipitarono fuori dallo spogliatoio.
 
Trovarono Boris ad attenderle all’entrata del palazzetto e, stranamente, i maschi non si erano ancora aggregati a lui.
« dove vuoi portarci Bors?” tagliò corto Kim, accomodandosi la spallina della borsa.
« a un’ora e mezza di autobus da qui. Ad Adrian… »
« Adrian? » ripetè Clinton, sbucando da dietro l’angolo del corridoio. Al suo seguito cominciarono a fare la loro comparsa anche tutti gli altri componenti maschili della squadra:
« non è dove giocano gli studenti della  Saint Mary High School? »
A quella domanda, il coach rispose con un sorriso malizioso, mentre le labbra di Erin si arricciarono nella più totale perplessità:
« e chi sono? » esternò.
Ci fu un attimo di silenzio, nell’arco del quale tutti gli sguardi di focalizzarono su Boris: quella sincronia di occhiate scaricava su di lui il compito di rispondere a quel quesito. L’uomo fece segno all’intera squadra di seguirlo verso il pullman che aveva già il motore acceso e intanto dichiarò:
« è una delle squadre da battere per poter andare a Berlino ».
 
Rosalya ricontrollò nuovamente i documenti che aveva con sé: il check-in era stato fatto e la fotocopia della carta di identità era a portata di mano. Con i soldi che aveva guadagnato dalla vendita di cinque vestiti nella boutique di Pam, in aggiunta ai risparmi messi da parte, era finalmente riuscita a realizzare l’obiettivo che si era prefissata un mese prima.
Chiuse con decisione il trolley nero, assicurandosi poi di bloccarne l’apertura impostando una combinazione numerica nota solo a lei.
Ancora sette giorni e lo avrebbe riabbracciato.
Ancora sette giorni e lui la avrebbe riabbracciata.
Se c’era qualcosa di cui aveva un disperato bisogno, era stringere a sé il ragazzo che amava e sentire la sua stretta attorno al proprio corpo. Più volte si era chiesta come Erin riuscisse a sopportare la lontananza di Castiel. Per quanto la riguardava, quella da Nathaniel era sempre più intollerabile.
L’unica risposta sensata che la stilista era riuscita a darsi era che solo chi ha provato la sensazione rassicurante di un caldo abbraccio, ne può sentire la nostalgia. Non riusciva a dimenticare il tenero saluto tra lei e il biondo l’ultima volta che si erano visti, quando si era precipitata a casa sua e si erano dichiarati, sorprendendosi a vicenda della reciprocità di quei sentimenti.
Ancora sette giorni e sarebbe tornata a bearsi di quella felicità.
Solo sette giorni.
 
Per i cestisti non fu semplice trovare dei posti a sedere ravvicinati: lo stadio della città di Adrian era occupato per buona parte, con un afflusso di pubblico decisamente maggiore di quello che aveva assistito alle due partite del Dolce Amoris. Gli occhi di Boris saettavano da un punto all’altro con rapidità, alla ricerca di un punto da cui i suoi ragazzi potessero godere di una buona visione del campo.
« ehi Bors, andiamo là? » propose Steve, indicando uno spiazzo di posti vuoti a parecchi metri da loro:
« e brava la nostra torre! » farfugliò allegramente il coach, riferendosi all’altezza da record del ragazzo.
In modo più o meno confusionario, i ragazzi seguirono come in processione, il loro allenatore che li guidò verso la loro meta. Boris insistette affinchè Erin e Kim si sedessero nei posti davanti, accanto a lui, insieme a Dajan. Il resto della squadra si distribuì nelle altre due file dietro, ricevendo qualche protesta da parte degli spettatori alle loro spalle: una coppia in particolare, fu costretta a spostarsi, appena realizzò l’improvvisa formazione di una muraglia umana dall’altezza media di circa un metro e novantacinque.
Per Erin, in quanto cestista, quella prospettiva del campo era del tutto nuova: sembrava così piccolo e luminoso dal momento che tra gli spalti c’era una parziale oscurità. Tutti i riflettori erano puntati sul pitturato, esaltandone il legno chiaro e le linee di gioco.
« voglio che osserviate come giocano della Saint Mary » esordì Boris, rompendo finalmente il silenzio in cui si era barricato da circa un’ora « sono quelli che avranno la maglia verde ».
« perché vuoi che li guardiamo? » chiese Kim.
« dovete cominciare a studiarli. Dopo la partita di oggi, ho realizzato che avete ottime possibilità di arrivare in semifinale, ma a quel punto è estremamente probabile che i vostri avversari saranno loro »
« intendi la Saint Mary? » lo interruppe Erin.
« esatto. È vero che vi mancano ancora parecchie partite prima della semifinale, ma le squadre che affronterete non sono una minaccia per voi » esplicò l’allenatore. Le sue parole palesavano una certa sicurezza che infuse nei cestisti un grande ottimismo. Tuttavia, l’espressione di Boris divenne sempre più scura:
« saranno loro il vero ostacolo » proseguì, allungando il mento in avanti, quasi ad indicare quei giocatori che non erano ancora scesi sul terreno di gioco « quindi è meglio che cominciate sin da ora a studiarli, del resto… ».
Più passavano i secondi, e più cresceva la curiosità dei ragazzi; la pausa di Boris si stava protrando troppo, poiché rispondeva alla necessità da parte dell’uomo di enfatizzare la propria orazione. Spazientita, Kim fu la prima a sbottare:
« del resto? » lo incalzò adombrata.
« … loro hanno già iniziato a studiarvi » concluse l’uomo, gustandosi l’effetto di quella rivelazione sulle facce dei cestisti. Quella notizia, infatti, lasciò di sasso tutta la squadra, mentre l’allenatore, soddisfatto di quella reazione, proseguì:
« durante la vostra prima partita, ho notato la presenza di un tizio dagli spalti che filmava la partita. Ho pensato che fosse il padre di uno dei giocatori, ma mi è venuto il dubbio che non fosse così quando ho notato che non filmava un giocatore in particolare: a lui interessava la partita in generale e, appena avete cominciato ad imporvi, si è concentrato su di voi. Anche oggi era presente e ha ripreso tutti e quaranta i minuti di gioco. La conferma dei miei sospetti ce l’ho avuta dopo il primo tempo: l’ho visto parlare con l’allenatore della Saint Mary e fargli vedere alcune scene direttamente dalla telecamera »
« si dice videocamera Bors» ridacchiò Clinton «solo i vecchi la chiamano telecamera!»
« shhh » lo zittì Trevor. Aveva un’espressione estremamente seria, come i compagni attorno a lui. Se anche uno spensierato come lui riusciva a carpire la gravità della situazione, allora era chiaro che fosse doveroso da parte tutti, cominciare a preoccuparsene.
« quella squadra può vantare alcuni dei giocatori più forti dell’intero torneo » continuò il coach, lanciando un’occhiataccia a Clinton « il loro capitano, Julius Lanier è considerato una promessa dell’NBA. Pensate che è già stato contattato da diverse squadre professionistiche, come del resto altri due i giocatori della Saint Mary. E’ incredibile come in una sola scuola si siano concentrati dei simili talenti »
« e gli altri due chi sono? » indagò Dajan. Faraize, seduto dietro di lui, lo scrutò con attenzione, cogliendo tutta la tensione del suo studente preferito. Quel torneo gli aveva offerto l’occasione di scoprire un altro lato di quel ragazzo, lato di cui ignorava l’esistenza; quando si trattava del suo sport preferito, Dajan abbandonava l’espressione cordiale e solare e diventava una maschera di serietà e tensione.
« uno è Isiah Reed, guardia tiratrice » illustrò Boris « ha una precisione di tiro pazzesca, tanto che si dice che non abbia mai sbagliato una tripla durante una partita. È il miglior clutch shooter che abbia mai visto da quando alleno le squadre liceali »
« e quand’è che l’avresti visto giocare? » obiettò Wes.
« quando ero io ad allenare la Saint Mary » replicò placidamente l’uomo.
Le mandibole dei cestisti si schiantarono contro il suolo e ci misero tre secondi buoni per metabolizzare quell’informazione:
« t-tu hai allenato i nostri futuri avversari? » balbettò Steve sconvolto.
« embè, pensavate che la preside mi avesse chiesto di allenarvi solo perché sono estremamente affascinante? » si pavoneggiò l’uomo, aprendo le larghe spalle.
« non diciamo stupidate » si infastidì Dajan, con i nervi a fior di pelle.
La stima che traspariva dalle parole del loro allenatore valeva più di ogni dichiarazione: quei ragazzi erano pieni di talento e, con esso, avevano in tasca un biglietto di sola andata per la finale. Rubarglielo, sarebbe stata un’impresa epica.
« comunque li ho allenati fino a due anni fa, poi mi sono licenziato » confessò Boris.
« perché? » si incuriosì Erin.
Il capitano sollevò gli occhi al cielo. Seppure non potesse dirsi disinteressato dal conoscere il perché del licenziamento del coach dalla Saint Mary, non era quello genere di informazioni di cui aveva bisogno in quel momento. Voleva che parlasse loro degli avversari, delle loro caratteristiche e dei loro punti deboli… ammesso che ne avessero qualcuno.
« non mi piaceva quella scuola » replicò vago l’uomo « comunque ora sarà meglio che vi concentriate sul pitturato: la partita avrà inizio a momenti »
« ehi, un attimo! » protestò Erin, anticipando le intenzioni dei suoi compagni di squadra « e il terzo giocatore miracoloso? Hai detto che sono tre no? »
Tutti tornarono a guardare l’allenatore che, incrociando le braccia al petto muscoloso, sospirò leggermente.
« ti dico solo che è oggetto di interesse da parte della WNBA »
Sui volti dei ragazzi si dipinse lo stupore, di cui Erin non riusciva però ad afferrarne la motivazione. Fu solo con l’esclamazione di Wes che capì cosa li avesse tanto sconvolti:
« m-ma…stai parlando di una donna?! »
Boris sorrise astuto e annuì, godendosi nuovamente, nell’arco di pochi minuti, il contraccolpo delle sue parole. Da quando era entrato come coach in quella squadra, quella era la prima volta che i ragazzi lo ascoltavano con tanta attenzione.
All’epoca Erin non sapeva che la WNBA fosse la lega professionistica di pallacanestro femminile del suo paese, ma aveva comunque intuito che rappresentasse un’opportunità unica per un cestista.
« guardate. Stanno uscendo ora le squadre » commentò Boris compiaciuto.
Dodici volti si voltarono anch’essi, fremendo dalla curiosità, verso il pitturato.
Anche se Boris non aveva comunicato loro il numero di maglia del capitano della Saint Mary HS, l’interesse della Atlantic HS si concentrò su un giocatore in particolare.
Era un ragazzo di colore, alto all’incirca un metro e novanta con i capelli rasati cortissimi. Aveva una muscolatura ben sviluppata ed era in testa al gruppo di compagni che lo seguiva.
Nonostante la distanza dal pubblico, si poteva percepire una sorta di aurea di reverenziale timore attorno a lui. Al posto degli occhi, aveva due iridi nere come la notte più profonda e un’espressione minacciosa e combattiva. Non appena la sua figura si era materializzata sul campo, l’atmosfera era come raggelata: Julius Lanier era una macchina da guerra. Una macchina del basket.
Quando i cestisti cominciarono a levarsi le felpe, apparì il loro cognome sulla divisa e i ragazzi del Dolce Amoris, ricevettero l’inutile conferma di aver individuato correttamente il capitano della Saint Mary.
Anche se tra di loro non si parlavano, le loro azioni pensieri erano comuni: il loro interesse infatti si spostò su Reed, la guardia tiratrice. Tra tutti i nomi che passarono sotto i loro occhi però, nessuno corrispondeva a quello nominato da Boris.
« Reed hai detto? » cercò conferma Faraize, unendosi alla silenziosa ricerca visiva dei suoi studenti.
« è quello laggiù » illustro l’allenatore, indicando la panchina.
L’interesse generale shiftò verso il punto segnalato e videro un ragazzo accovacciato davanti ad una persona seduta in panchina. Aveva ancora la felpa addosso, tanto che Lanier gli si avvicinò e Reed, rispondendo con una scrollata di spalle, si mise eretto. Scosse la testa e assecondando il probabile ordine del suo capitano, si preparò alla partita, togliendosi la felpa.
Prima di portarsi a bordo campo, si rivolse per l’ultima volta alla persona seduta in panchina: quest’ultima teneva un cappuccio calato sulla fronte e il mento reclinato verso il basso. Dai lati del viso, si dipartivano due fili bianchi che si congiungevano fino a nascondersi nella tasca destra della felpa.
Dopo le parole di Reed, una mano staccò lentamente gli auricolari e, con un’espressione annoiata, si calò il cappuccio; appena Erin e Kim riuscirono a vedere quei lineamenti, si voltarono l’una verso l’altra.
Avevano già incontrato quella ragazza.
« ed infine, ecco a voi Melanie Green » dichiarò Boris con un certo orgoglio « la giocatrice che è stata contattata dalla WNBA »
Erin stentava a riconoscere nell’espressione quasi assente della giocatrice presente sul campo, quella della persona che l’aveva in qualche modo consolata quando si erano conosciute. La Melanie che aveva chiacchierato con lei era molto più vitale e sorridente rispetto alla figura apatica e minuscola che vedeva ai lati del perimetro di gioco.
La ragazza si spostò al centro del campo, rispettando la posizione che le spettava.
« osservala attentamente Erin » le sussurrò Boris, chinando il busto verso la mora « Melanie ha uno stile di gioco perfetto. I suoi tiri sono di una precisione millimetrica, riesce a segnare sulla lunga distanza e come playmaker è inappuntabile. Ha una visione completa del gioco, non si fa mai rubare la palla »
Erin era troppo sconvolta da quella scoperta per riflettere sulle informazioni che aveva appena ricevuto. Quella ragazza, che le aveva ispirato tanta simpatia al primo incontro, era appena diventata sua nemica.
Come aveva predetto Boris, la Saint Mary aveva una divisa verde, ironia della sorte quel colore ricordava una sorta di tributo ad una delle sue migliori giocatrici. Gli avversari invece avevano una maglia nera e rappresentavano la Roger High School.
La differenza di atteggiamento tra le due squadre era palpabile: mentre i verdi erano tutti estremamente calmi e concentrati, i neri erano molto più tesi e si scambiavano occhiate nervose.
Il fischio acuto dell’arbitro accompagnò il volo della palla in verticale, facendo scattare dieci teste verso l’alto. Tra i due contendenti che erano stati designati dalle rispettive squadre per la conquista della palla, c’era Lanier: la sua elevazione fu di gran lunga superiore a quella dell’avversario e in questo modo la sfera passò direttamente nelle mani della Saint Mary. Era stata Melanie, che portava sulle spalle il numero 8, a intercettarne la traiettoria.
Erin lo notò subito: da quando l’arbitro aveva fischiato, lo sguardo della cestista era mutato drasticamente: era combattivo, determinato a vincere. Con un’agilità indescrivibile, tanto che persino per gli spettatori risultava difficile seguirne i movimenti, riuscì a guadagnare terreno e passare la palla a Reed; la guardia, senza esitazione, lanciò la palla verso il canestro. Il tiro descrisse una parabola incredibilmente alta, la più alta che tutti i giocatori della Atlantic avessero mai visto. Eppure, anche se questo avrebbe dovuto inficiarne la precisione, il canestro venne centrato in pieno segnando la prima tripla.
Gli avversari, che non avevano neanche fatto a tempo a realizzare il cambio di mano, si trovavano ora costretti a subire i primi tre punti di svantaggio.
Quell’umiliazione era bruciante poiché il tabellone segnava che erano trascorsi appena cinque secondi.
« m-ma » balbettò Wes, considerato la miglior guardia tiratrice della Atlantic « non ha praticamente preso la mira! » protestò sconvolto, quasi arrabbiandosi con Boris.
« l’ha presa eccome » sottolineò l’allenatore, che era l’unico del gruppo a non avere un’espressione spiazzata « solo che l’ha fatto in un tempo infinitesimale. Hai visto che meccanica di tiro? La sua è perfetta, da manuale »
Wes ingoiò a fatica un grumo di saliva che gli era rimasto in gola. Si era allenato a lungo per perfezionare la sua precisione nel centrare il canestro ma il livello raggiunto da Reed sembrava sbeffeggiare tutta la sua fatica. Era semplicemente inarrivabile.
Dopo il canestro, gli avversari recuperarono la palla, ma quel possesso non era destinato a durare a lungo: Melanie rubò presto la sfera, sottraendola ad un giocatore maglia nera e, prima che quest’ultimo potesse riappropriarsene, la deviò verso Sharman, l’ala piccola.
I passaggi della cestista erano di una precisione millimetrica; in aggiunta, un po’ come aveva fatto Reed con la sua tripla, Melanie non esitava un secondo in ogni sua azione: sembrava non aver bisogno di guardarsi attorno per capire a chi passare la palla, era come se avesse avuto gli occhi dietro la testa. Sharman palleggiava verso il canestro, incontrando un contrasto avversario serrato. Gli diede man forte il capitano e, con dei rapidi passaggi, i due riuscirono a portarsi sotto canestro, senza alcuna ulteriore difficoltà. L’ala puntò al ferro, mentre Lanier si apprestò a prenderla al rimbalzo. La sfera infatti toccò il metallo così sia il capitano che il pivot avversario saltarono, il primo nel tentativo di mandarla dentro, il secondo per impedirglielo.
A confronto con il fisico più longilineo dell’avversario, la massa muscolare di Julius Lanier era impressionante e le sue lunghe dita arpionarono la palla con una tale presa che a nulla valse l’opposizione contraria. Con una forza impressionante, fu Lanier a segnare per la sua squadra.
Il gioco continuò con quel ritmo serrato, tale che alla Roger High School non fu quasi concesso di toccare palla.
La triade di giocatori nominata da Boris era invincibile.
Gli altri due giocatori della Saint Mary, pur essendo molto bravi, venivano eclissati dal talento di quelli che Boris ben presto battezzò scherzosamente la triade divina.
Essa bastava per schiacciare ed umiliare degli avversari del livello dei Roger.
Mentre tutta la Atlantic era impegnata in commenti, chi di ammirazione, chi di sconcerto, Dajan era l’unico che non fiatava. Teneva lo sguardo fisso sul pitturato e non riusciva a non pensare che se volevano avere qualche speranza di battere quei mostri del basket, l’unica possibilità era far tornare Castiel.
Strinse i pugni, frustrato all’idea di quanto avessero bisogno di lui ma impotente di fronte alla possibilità di pretendere che li raggiungesse. L’ex capitano era stato molto chiaro circa la molteplicità di impegni che lo assillavano e il fatto che fosse sotto contratto con la casa discografica, lo vincolava a rimanere ancora in Germania.
« ce la faremo » gli sussurrò una voce.
L’attenzione di Dajan si spostò a sinistra, incrociando il sorriso incoraggiante di Kim. Diversamente da lui, lei non sembrava affatto preoccupata. Nelle sue pupille anzi, si rifletteva una strana luce:
« non è eccitante sapere che esistono avversari del genere? » esclamò su di giri. Era davvero unica quella ragazza, ed era per questo che gli piaceva così tanto. Anziché deprimersi e angosciarsi per il talento degli avversari, Kim era elettrizzata all’idea di affrontarli.
Con lei accanto, Dajan riusciva a ricordare cosa lo appassionasse tanto di quello sport meraviglioso che inoltre, era diventato il pretesto per non separarsi da lei.
Da quando era iniziato il torneo, gli era capitato in alcune occasioni di farsi assalire dall’ansia, dimenticandosi lo spirito che doveva animare la sua determinazione. Avere quindi accanto una persona come Kim era una garantita iniezione di fiducia. La ragazza riusciva, con una semplice frase, a far svanire tutte le sue preoccupazioni, come se nessun problema fosse così grande da non poter essere superato.
« sono bravini » scherzò lui, sentendo la tensione sciogliersi.
« ammettiamolo: sono dei geni del basket » pattuì Kim « arriveranno sicuramente in semifinale e sarà lì che ci troveranno ad aspettarli » sentenziò con determinazione. Le sue pupille saettavano fiamme alimentate dalla competitività e dalla trepidazione.
Dajan in quel momento le avrebbe stampato un bacio appassionato, se non fosse stato così codardo e circondato da una decina di ragazzi particolarmente chiassosi. Si limitò quindi a sorriderle, mentre Trevor ragionava:
« quindi Boris se vinciamo tutte le partite e loro pure, ci troveremo ad affrontarci in semifinale? »
« esatto, ho controllato i gironi e questo è quello che risulta. Tra l’altro, poiché loro vengono da Trenton, a circa un’ora e mezza da Morristown, probabilmente sceglieranno una struttura a metà strada tra le due città per giocare la semifinale. A quel punto, vi immaginate in che condizioni saranno gli spalti? »
Due intere scuole avrebbero popolato l’arena in cui si sarebbe giocata quella partita.
La smorfia eccitata dell’uomo si trasferì su tutto il resto della squadra: nessuno pensava più alle partite che li distanziavano dalla semifinale. Quella era diventata una tappa scontata e l’idea che tutta la scuola accorresse per fare il tifo li gasava oltre ogni misura.
Erano talmente presi da quell’immagine, che solo il fischio dell’arbitro li destò: il primo quarto era concluso. Appena Clinton puntò lo sguardo sul tabellone, si lasciò sfuggire un’esclamazione poco fine.
39 - 7.
Dalle espressioni pietrificate del resto della squadra, capì di non essere stato l’unico a non aver tenuto sotto controllo il punteggio negli ultimi tre minuti. Erin guardò i giocatori della Roger HS e lesse nei loro volti rassegnazione e sconcerto; nessuno di loro interagiva con i compagni, tenevano tutti il capo chino, chiusi nella loro personale vergogna. Il loro capitano sembrava persino il più disorientato, quasi fosse stato scaraventato a forza su un ambiente con cui non aveva alcuna confidenza.
Erano bastati appena dieci minuti alla Saint Mary per annichilirli.
Rientravano a testa bassa verso la panchina, accolti dagli insulti dei compagni di squadra e del loro allenatore: sicuramente al secondo quarto, buona parte di quella formazione sarebbe stata sostituita.
Il campo venne abbandonato nel più completo silenzio, quasi spettrale.
Nemmeno tra le file della Saint Mary si sollevava qualche esclamazione di gioia, nonostante il dignitoso risultato con cui avevano concluso il quarto. Nel caso di quei cinque giocatori tuttavia, l’atteggiamento era radicalmente diverso rispetto a quello degli avversari: tenevano il mento alto e fiero, assumendo un’espressione determinata e seria, come se la schiacciante umiliazione che avevano appena inflitto agli avversari non fosse una garanzia di vittoria; non potevano permettersi di perdere la concentrazione, né di sottovalutare il nemico, nonostante l’innegabile abisso agonistico tra le due squadre.
Julius Lanier fu il primo a raggiungere la panchina. Sharman si sgranchì il collo, allungandolo all’indietro, mentre Melanie cercò dell’acqua per idratarsi. Il coach dei Roger era un uomo alto, con un probabile passato da cestista alle spalle. Teneva le braccia conserte e batté una mano sulla spalla della sua giocatrice, con un leggero sorriso compiaciuto. C’era qualcosa di estremamente professionale e calibrato all’interno del quella squadra, ed Erin non potè non notare quanto fosse diversa dalla propria; per quanto a volte fossero ingestibili e immaturi, non avrebbe mai rinunciato all’allegria dei suoi compagni di squadra, neanche per giocatori più forti che potessero assicurarle una maggior probabilità di vittoria al torneo.
Ingoiò un groppo di saliva, sentendo crescere l’ansia e al contempo l’eccitazione, dentro di sé.
« sono quelli da battere » ribadì Boris e dopo quella esclamazione, la Atlantic High School, potè tornare a seguire la partita, ammirando e temendo in silenzio i tre mostri del basket che correvano sul pitturato.
 
Il joystick passò dalle mani di un’annoiata Sophia a quelle trepidanti di un ragazzino che le arrivava sì e no all’altezza del gomito. Il logo della GameShop era stampato sul retro della maglia nera della giovane dipendente, la cui giornata lavorativa era particolarmente frenetica quel giorno: il numero di clienti era stato maggiore del solito, specie per lei che lavorava part time nel turno del mattino.
« mi dispiace di non poter chiedere altri giorni di permesso » si scusò, tornando al bancone dove c’era Ambra ad aspettarla.
Era quasi ora di pranzo e, nell’arco di venti minuti, anche il turno di Sophia si sarebbe concluso, lasciandole la libertà di trascorrere il pomeriggio con l’amica venuta da Morristown. La bionda scrollò le spalle, rassicurandola. Per una persona indipendente e autonoma come lei, non era un problema cercarsi un modo per ammazzare il tempo, del resto era da anni che era abituata alla solitudine.
« questa mattina che hai fatto? » le chiese la rossa, passando il codice a barre di un articolo attraverso un impercettibile laser rosso.
« sono stata da Nath »
« ah » commentò laconica Sophia, restituendo ad un giovane cliente il suo nuovo acquisto. Scrutò con una certa invidia la confezione di plastica in cui era raffigurato un personaggio dai capelli viola. Era un videogame uscito da poco e uno dei più attesi dell’anno. Purtroppo per la ragazza, i soldi che riusciva a mettere da parte lavorando, servivano per pagare l’affitto e le altre spese, in cui non erano contemplati quel genere di capricci.
« dice che è rimasto molto colpito dal quadro » la informò Ambra.
L’amica la guardò interrogativa finché riuscì a ricordare che, la sera prima, aveva scordato il regalo che aveva realizzato per il biondo, sul sedile posteriore della vettura con cui erano state riaccompagnate a casa.
« mi fa piacere » borbottò distrattamente. Quella risposta, unita al suo sguardo apatico, indispettì Ambra: arricciò le labbra e cominciò a fissare la ragazza con sospetto:
« che ti prende? » si trovò costretta a chiedere l’altra appena se ne accorse.
« me lo vuoi dire tu? Da quando abbiamo incontrato mio fratello, sei strana Raven »
« smettila di chiamarmi con quel nome, Lady Serpeverde » ridacchiò l’amica, innvervosendosi.
« dimmi la verità, ti sta antipatico Nathaniel, non è così? » insistette Ambra, determinata a non sviare dall’argomento. Di fronte a quell’accusa, Sophia rimase interdetta, incapace di replicare.
No, antipatico no. Ma per qualche motivo, da quando l’aveva strappata dalla gelida morsa dell’oceano, la presenza del ragazzo la metteva a disagio.
« non mi offendo sai, vorrei solo capire » la tranquillizzò Ambra, mettendo quanta più dolcezza possibile nella voce. Space emerse dal retro del negozio, portando in mano un voluminoso scatolone: lanciò un’occhiata fugace alla bionda, indeciso sul da farsi. Sophia intercettò la sua difficoltà e s’intromise:
« ehi Space, vieni qui… questa è la famosa Ambra di cui ti ho sempre parlato ».
Era grata all’amico perché, anche se involontariamente, le aveva appena offerto un pretesto per evitare una conversazione che non aveva nessun desiderio di sostenere. Il ragazzo appoggiò lo scatolone per terra e si limitò ad un cenno del capo, così la bionda completò:
« e tu dovresti essere Timothy, per gli amici Space »
Timothy, che non era avvezzo a ricevere attenzioni dalle ragazze, specie del calibro di Ambra Daniels, annuì impacciato, mentre l’amica sollevava gli occhi al cielo:
« santa pazienza Space! Non potresti provare ad essere più cordiale, una volta tanto? Perché devi essere sempre così sociofobico? »
« non ti scaldare Sophia » la sedò Ambra, appoggiandosi al bancone « si vede che il tuo amico è solo un po’ timido »
Al sorriso complice di Ambra, Space arrossì, fornendo all’amica l’occasione per deriderlo:
« ma guarda un po’, sei diventato tutto rosso »
« ma sta’ zitta » gracchiò in preda all’imbarazzo il moro, prima di sparire nuovamente nel retro. L’incontro con il ragazzo, unico amico di Sophia di cui Ambra era venuta a conoscenza, era durato pochi secondi, ma erano bastati per scatenare nel ragazzo un turbine di emozioni. Sophia ridacchiò, tornando a rivolgersi verso l’affascinante amica:
« non dovresti lanciare queste occhiate ai miei amici. Si montano la testa per una come te »
« ma va’ scema, per così poco » minimizzò Ambra, ignara delle occhiate fugaci che, da ormai una decina di minuti, le venivano rivolte da un gruppo di ragazzi vicino alle confezioni della X-box.
« e comunque tu hai già Armin… a proposito, ci sono stati progressi? » domandò Sophia, controllando l’ora. Ancora quindici minuti e il negozio avrebbe chiuso. Era sollevata che il “diversivo Space” avesse sortito l’effetto di distogliere l’attenzione di Ambra dal fratello. La bionda nel frattempo si era staccata dal bancone, incurvando la schiena.
Sophia era stata la prima persona ad essere venuta a conoscenza dell’esistenza, oltre che dell’identità, della cotta segreta della signorina Daniels:
« la settimana prossima, quando torno a casa, andremo insieme alla serata di gala della città »
La rossa emise un fischio di compiacimento e commentò:
« e che aspettavi a dirmelo? » la rimproverò bonariamente « quando di preciso? »
« il quattordici »
« ma il quattordici è San Valentino! » esultò la rossa, con un sorriso smagliante.
« ci andiamo da amici » sottolineò Ambra, sollevando l’indice. Sophia accantonò un articolo che doveva controllare e fissò dritta negli occhi la ragazza:
« che aspetti a dirgli ciò che provi per lui? »
« dovresti conoscermi ormai Raven, io sono una che odia correre rischi… a contrario di te »
« a volte bisogna buttarsi Ambra… mettere cinque secondi di pura follia nelle nostre azioni »
« peccato che non ne bastino altrettanti per riprendersi da una figura di merda » commentò acida la ragazza « vorrei vedere te al mio posto, Sophia: innamorarsi di uno che non ti ricambia »
La ragazza sollevò le spalle:
« io mi butterei »
« ti butti solo quando non hai niente da perdere. All’amicizia con Armin, o come diavolo lui la considera, ci tengo e non voglio rovinarla per una stupida cotta »
« che dura da più tre anni » puntualizzò sagacemente Sophia, con aria di sufficienza. La bionda la fissò con cinismo e, nel tentativo di soppesare una risposta adatta, si accorse di non trovarla.  Preferì allora cambiare discorso, optando per un classico e intramontabile:
« che si mangia oggi? »
 
 
Il calendario segnava il quattordici febbraio.
Nathaniel uscì dal bagno, asciugandosi i biondi capelli svogliatamente. Detestava usare il phon, preferiva non occuparsi della sua capigliatura, approfittando anche del fatto che non richiedesse particolari cure da parte sua. Si sedette sul letto, curvando la schiena in avanti per leggere i messaggi.
Rilesse con un sorriso sulle labbra la chat che da poco aveva concluso con Rosalya: era strano, ma entrambi continuavano a far finta che, la conversazione che era avvenuta prima della sua partenza non fosse avvenuta. Parlavano di tutto, ma mai di quell’episodio, comportandosi da amici come avevano sempre fatto. Sapeva che era molto presa da dei nuovi vestiti che la zia di Erin le aveva commissionato e quel nuovo progetto le aveva infuso una tale carica, che a volte, nell’allegria che metteva nei suoi messaggi, quasi non la riconosceva. Da quando si era lasciata con Leigh, Rosalya era cambiata; quella vena di malinconia e chiusura che l’avevano colpito di lei, si era attenuata. Il fatto che ora fosse una ragazza più solare e socievole, l’aveva portata ad aprirsi anche con altre ragazze, cosa mai accaduta da quando la conosceva.
A patire da quella considerazione, Nathaniel realizzò che il cambiamento nella giovane stilista si era realizzato molto prima, quando Erin era entrata nelle loro vite. Era stato proprio lui a far conoscere le due ragazze, adottando il pretesto di fornire alla mora un costume per la piscina. In fondo, avrebbe anche potuto chiedere a Molly di procurarglielo, ma quella ragazza venuta da Allentown gli aveva ispirato talmente tanta fiducia sin da subito, che aveva visto in lei l’ultima speranza per tentare di far aprire Rosalya all’universo femminile.
L’esito del suo piano aveva superato positivamente le sue più rosee aspettative: le due ragazze, nell’arco di poche settimane erano diventate inseparabili, tanto che più volte Rosalya gli aveva confidato di sentire per Erin una sorta di affetto fraterno. Con quella ragazza, Rosalya era sbocciata: l’asprezza e la scontrosità del suo carattere, seppur ancora presenti, erano state smussate, portando alla luce un’inattesa dolcezza in lei. Complice di quel miglioramento, anche la grande iniezione di fiducia che aveva ricevuto da Pamela Travis, titolare di quella che stava diventando una rinomata boutique di Morristown, anche se aperta da appena un mese e mezzo. I vestiti di Rosalya facevano un figurone in vetrina e Pam non esitava a raccontare alle clienti, della giovane età della talentuosa stilista. Alcune inizialmente snobbavano i capi, quando venivano a conoscenza che era stata una liceale a realizzarli, ma alla fine erano costrette a cedere al fascino dei vestiti che, una volta indossati, facevano un figurone su chiunque.
« un giorno questi capi costeranno un occhio della testa » attestava con decisione Pam, in quanto prima sostenitrice della grande carriera che avrebbe perseguito Rosalya.
Anche Nathaniel ne era convinto: la ragazza era sul treno diretto verso il suo obiettivo, il sogno che coltivava da anni e per il quale aveva lottato e si era impegnata.
In quel periodo gli veniva spontaneo riflettere su quanto il destino dei suoi amici fosse diverso dal suo: oltre alla stilista, c’era un’altra persona che si stava godendo i frutti del proprio lavoro e talento. Mentre ritornava in bagno per riporre l’asciugamano, l’occhio gli cadde sulla copertina di Rolling Stones, che in qualche modo sembrò vincolarlo a soffermare i suoi pensieri proprio su quell’amico lontano.
Negli ultimi giorni i suoi contatti con Castiel erano diventati molto sporadici, a causa dei crescenti impegni del compositore. Beccarlo in chat era diventata un’impresa, esacerbando nel biondo la consapevolezza di essere lasciato indietro. Ad ogni conversazione con l’amico, il rosso aveva sempre avventure buffe e goliardiche da raccontare, nuove conoscenze su cui aggiornarlo mentre lui, Nathaniel, proponeva il solito piattume.
Appena arrivato in California, più un mese fa, tutto ciò che lo circondava, rappresentava una novità e si deliziava nel riportare a Castiel la descrizione del campus, delle lezioni e della vita del college. Tuttavia, la monotonia era subentrata ben presto: il giro di amici era più o meno costante, le feste tutte uguali e, più passavano le settimane, più nel ragazzo si affermava la consapevolezza che niente fosse cambiato. Per giunta, nell’arco di un mese e mezzo, sarebbe tornato a Morristown dove suo padre si aspettava di sentire che i progetti del suo primogenito erano conseguire una laurea in economia, in modo da amministrare in futuro il patrimonio familiare.
Non c’erano altre opzioni.
Qualche giorno prima, parlando con Rosalya, era venuto a sapere che Erin puntava a iscriversi all’università di Standford, al dipartimento di genetica umana, mentre Iris, che non faceva mistero della sua scarsa propensione per i libri, puntava a mettere da parte dei soldi per aprire una propria serra.
Lysandre sognava di diventare scrittore, mentre Violet, in quanto la più giovane del gruppo, sosteneva di non avere ancora le idee chiare anche se il suo indiscutibile talento artistico, sembrava suggerirle quale fosse la strada per perseguire. I gemelli invece erano stati una fonte di sorpresa: Armin, nonostante l’approssimarsi delle scadenze per le iscrizioni ai college non aveva ancora deciso, mentre Alexy era quello con le idee più chiare di tutti e che avevano lasciato senza parole gli amici: voleva diventare pediatra.
Con il senno di poi, tutti convennero che il suo carattere solare e allegro, unito alla sua adorazione per i bambini, lo avrebbero reso un ottimo medico.
A prescindere da quali fossero i progetti dei suoi amici, tutti qualcosa che a lui, Nathaniel, era sempre stata negata: la libertà.
Sin dai primi anni di liceo, quando era in mezzo a loro, aveva la percezione di quanto la sua vita fosse prevedibile e insignificante; guardava Lysandre scarabocchiare distrattamente frasi segrete sul suo taccuino, immaginandoselo un giorno a recitare nei teatri. Quanto a Leigh e Rosalya, all’epoca era convinto che avrebbero debuttato come coppia di stilisti e se non altro, al cinquanta per cento, aveva azzeccato quella previsione. Alexy e Armin potevano essere ciò che voleva, se solo avessero capito ciò che volevano essere. Ed infine c’era Castiel, la più grande certezza e al contempo, la più grande fonte di apprensione per Nathaniel. Il talento dell’amico per la musica, per ciò che riusciva a comporre con le sue note, era invidiabile e, con i giusti agganci, al rosso poteva solo presentarsi un tappetto dello stesso colore dei suoi capelli. A dispetto di ciò, il caratteraccio da mastino che talvolta l’amico non riusciva a trattenere, poteva mandare in fumo qualsiasi possibilità di successo.
Era anche per questo che il biondo si era lasciato abbindolare dalle parole di Debrah: l’anno prima aveva tenuto all’oscuro Castiel dal suo contratto con il discografico solo per prendere tempo e capire se c’erano speranze di introdurre anche l’amico in quel mondo che forse il rosso agognava più di lui.
Castiel era sempre stato uno che si faceva castelli in aria facilmente e, a dispetto dei suoi atteggiamenti, anche un gran sognatore. Nathaniel non poteva rischiare di illuderlo, facendogli intendere che esistessero delle possibilità anche per lui.
Doveva essere il primo ad esplorare quel mondo sconosciuto e valutare il modo per far sì che anche il compositore si unisse a lui in quel viaggio. Su questo punto di vista, Debrah non aveva poi tutti i torti, ma la sincerità era il pilastro su cui lui e Castiel avevano costruito la loro amicizia, quindi anche a costo di regalargli una falsa speranza, avrebbe dovuto avvertirlo il giorno stesso in cui il discografico della JEX lo aveva contattato la prima volta.
Debrah però era stata davvero abile a cancellare nel biondo ogni remora: si era giocata una seconda carta per accertarsi che non ne parlasse con il suo ragazzo. Secondo lei, se il rosso avesse saputo che quella sera al pub il discografico aveva notato solo Nathaniel, la sua autostima ne sarebbe uscita distrutta.
« quanto ancora vuoi che Castiel si senta inferiore a te? » gli aveva recriminato con rabbia la ragazza. Quella frase era stata una doccia fredda. Non era solo una sua impressione che l’amico si considerasse un gradino sotto di lui, era qualcosa visibile agli occhi di tutti.
Nathaniel chiuse gli occhi, sospirando profondamente: per quanto potesse rimpiangere la piega che aveva fatto prendere agli eventi, per quanto quella situazione avesse fatto soffrire entrambi, quel capitolo della loro amicizia era chiuso definitivamente e Debrah solo un detestabile ricordo.
Quell’anno però non si era chiuso solo quel capitolo: era andato in frantumi anche il suo fragile sogno di diventare musicista. Eppure, per quanto quell’idea un tempo lo solleticasse e gli facesse percorrere dei brividi in tutto il corpo, ormai non gli importava più.
Sua sorella sosteneva che fosse colpa dell’annichilimento del suo spirito, dovuto alla scoperta che fosse stato il loro padre il responsabile del naufragio del suo progetto. Era stato un colpo talmente duro per Nathaniel che la sola idea di cercarsi un altro interesse, diverso dalla musica, gli faceva accapponare la pelle: Gustave Daniels gli avrebbe fatto perdere la passione anche per quello.
I suoi tentativi di ribellarsi all’egoismo paterno erano serviti solo per riaffermare quanto lui fosse impotente di fronte alla volontà della sua famiglia. Si sentiva come un carcerato che continua a cambiare cella: per quanto spostamenti faccia, ciò non toglie che la sua esistenza sia all’interno di una prigione.
Eppure Ambra, la cui sorte non era molto più rosea della sua, nell’ultimo periodo sembrava felice. In lei, specie da parte della loro madre, si era cercato di inculcare l’idea di quanto fosse insignificante a meno che non fosse accompagnata da un marito facoltoso. Ingrid, sin da quando la figlia era una ragazzina, si era sforzata di cercarle il miglior partito in circolazione, istigandola a socializzare, ponendo l’accento unicamente sulle sue qualità fisiche, a discapito di quelle intellettuali. Nonostante gli ottimi voti, nessuno in famiglia aveva mai lodato l’intelligenza di Ambra, ritenendola una dote inutile per una ragazza nella sua posizione.
« penserà a tutto tuo marito » la rassicurava la madre, che evidentemente si riferiva all’unica realtà che conosceva. La propria.
Sin da bambina, crescendo in un ambiente così ostile alla sua personalità, Ambra era stata in collera con il mondo, finché qualcosa in lei si era spezzato: era come se avesse abbattuto un muro, dimostrandole che in quel mondo tanto avverso, c’era un angolo di felicità anche per lei.
Mentre suo fratello si era chiuso e disperato, nell’impossibilità di evadere dalla prigione, lei aveva trovato uno spiraglio di luce, al quale affacciarsi verso la libertà.
 
« se proprio vogliamo rimanere in ambito di metafore… » gli spiegò Ambra « mettiamola così: non ci sono molti modi per scappare da un carcere Natty, ma sicuramente tra questi il più efficace è avere un aggancio all’esterno… e io ho trovato qualcuno per cui valeva davvero la pena uscire e che mi ha aiutato a farlo »
« stai parlando di Sophia o Armin? »
Ambra sorrise enigmatica e si limitò a sorseggiare il thè che aveva ordinato, mentre un leggero rossore le imporporava le guance. Quella mattina, tra i due fratelli era avvenuta la conversazione più lunga e sincera della loro vita, che li aveva portati a confidarsi l’uno all’altra, scoprendo quasi con commozione, un affetto che non pensavano di provare.
 
Il ragazzo si era reso conto, a dispetto dell’opinione materna, di quanto Ambra fosse intelligente e sensibile; notava tutto, non si lasciava sfuggire nulla. Se in passato non fossero stati così occupati a ignorarsi reciprocamente, sarebbe stato più facile per entrambi crescere in quella casa così priva di amore.
All’improvviso, venne destato dai suoi pensieri: il suo cellulare suonò puntuale, secondo la sveglia che il ragazzo aveva impostato; era arrivato il momento di prepararsi, il volo della sorella sarebbe partito prima di pranzo ed erano già le dieci.
 
« Nath sta arrivando » asserì Ambra, riponendo l’i-phone nella borsa. Sophia annuì, recependo distrattamente quell’informazione.
I sette giorni in cui l’amica era stata sua ospite, erano volati, senza che riuscissero a fare metà delle cose che la ragazza aveva preventivato e per questo, se ne rammaricava parecchio. Era stato un po’ strano all’inizio adattarsi alla presenza di una persona con la quale era così amica solo dietro uno schermo. Frequentare Ambra, la mitica Lady Slytherin in carne e ossa, era stata un’esperienza quasi surreale come del resto lo era stato per la bionda che era abituata a interagire con Sophia solo per mezzo della tecnologia.
« non fare quella faccia da carlino abbandonato » scherzò Ambra « quando tornerai dai tuoi, potremo vederci molto più spesso »
« già » convenne l’altra pensierosa.
L’amica non digerì quell’espressione. Era la sua ultima occasione per affrontare un argomento che l’altra, per un motivo o per l’altro, era sempre riuscita ad evitare. Ambra le mise una mano sulla spalla e guardandola dritta negli occhi, tentò con decisione:
« ascolta Sophia, è l’ultima volta che te lo chiedo, poi giuro che non insisterò più : sei sicura che non vuoi parlarmi del perché ti ostini a restare qui? »
Ambra vide gli occhi della rossa ingrandirsi in un’espressione spiazzata, per poi distogliersi dai suoi che la scrutavano con intensità. La sua interlocutrice sembrava sfuggente e, diversamente dal solito, particolarmente riservata:
« sto cercando una persona, e non me ne andrò finché non l’avrò trovata » borbottò infine, con un filo di voce.
« una persona » ripetè Ambra.
« sì »
La bionda metabolizzò quell’informazione in silenzio, poi obiettò:
« non puoi pagare un detective? »
La risposta non le arrivò istantanea. La rossa tergiversava, soppesando le parole migliori con cui esprimersi, come se temesse di rivelare troppo.
Dopo cinque estenuanti secondi di silenzio, la ragazza spiegò:
« a mala pena riesco a tirare fuori i soldi per l’affitto e il resto… »
« se è per questo, ti aiuto io »
Sophia scosse la testa  con decisione, appena udì quella generosa offerta:
« non se ne parla… è una cosa che devo fare io in prima persona, non deve occuparsene nessun altro…e poi… »
« e poi? » incalzò Ambra.
«… ho fatto una promessa »
« che genere di promessa? »
« di quelle che non vanno mai infrante » concluse l’amica con un’espressione criptica.
Ambra sospirò delusa. Da un lato avrebbe voluto insistere, strappare a Sophia quella verità che stava nascondendo a tutti i costi, ma dall’altro, si imponeva di rispettare la sua privacy e la volontà che non venisse violata:
« nient’altro? Mi dici solo questo? » riepilogò amareggiata.
« è abbastanza » precisò Sophia e, assicurandosi che l’amica la fissasse dritta negli occhi, le strappò una promessa:
« tu però non parlarne con mia sorella, ti prego. Lei non sa niente di questa storia »
Non aveva mai visto Sophia con un’espressione tanto greve e scura. Tutto il mistero che avvolgeva quella questione, per quanto angosciasse e incuriosisse Ambra, andava dimenticato, in nome dell’amicizia che le legava.
« d’accordo » convenne infine la bionda, sospirando rassegnata « spero almeno che tu sappia quanto ad Erin pesi questa situazione »
« lo so » tagliò corto Sophia « ho solo bisogno di altro tempo »
Ambra annuì, anche se quella conversazione l’aveva lasciata ancora più confusa; stava per aggiungere dell’altro quando vide giungere nella sua direzione una figura che gesticolava. Si sorprese nel vedere che si trattava di suo fratello, dal momento che non era da lui essere così espansivo ed esagerato nei movimenti.
Nathaniel arrivò sorridendo affabile, con le mani affondate nel caldo giubbotto di marca.
I due fratelli Daniels si abbracciarono frettolosamente, un po’ per l’imbarazzo provato per un gesto a cui non erano avvezzi.
« un altro po’ e ti avrei rivisto a Morristown » finse di rimproverarlo la sorella.
« questo aeroporto è un labirinto! » si difese il biondo.
A quella frase, Sophia non riuscì a trattenere un’istintiva esclamazione:
« ti sei perso di nuovo? »
Nathaniel si grattò la guancia in difficoltà e borbottò una negazione poco convinta, lasciando intuire alle due ragazze che la rossa avesse centrato il motivo del suo ritardo.
« assicurati che non combini guai » commentò Ambra guardando prima il fratello poi l’amica, tanto che i due ragazzi non capirono a chi fosse rivolta quella richiesta. La ragazza aveva provato un’immediata sensazione di sollievo nel vedere che la rossa aveva interagito con il fratello e sperò che dopo la sua partenza, il loro rapporto migliorasse.
Ambra e Sophia si abbracciarono per l’ultima volta, sentendo in quella morsa una fitta di nostalgia. La prima si augurava che il ritorno della seconda ad Allentown non si facesse attendere ancora a lungo e, del resto, la rossa si trovava a sperare la stessa cosa.
Ambra si presentò al check-in, salutando per l’ultima volta, con un sorriso radioso, i due che la videro sparire tra la folla.
« Ambra è molto cambiata » mormorò il biondo, dirigendosi verso le scale mobili.
« no, non è vero » lo contraddisse prontamente Sophia, che, lo precedeva lungo la scala. Non si era nemmeno voltata a guardarlo, ma si sentiva gli occhi di lui addosso.
« che ne sai? » si indispettì l’altro, risentito per essere stato così scontrosamente contestato « la conosco da molto più tempo di te »
« in cosa sarebbe cambiata quindi? » replicò asciutta la rossa, senza scomporsi.
Non si era neanche resa conto che l’imbarazzo che aveva provato in presenza del ragazzo una settimana prima, durante il suo compleanno, era svanito inspiegabilmente. Era bastato vederlo in aeroporto, con quell’espressione disorientata ma sincera e affabile, per recuperare quella sorta di strana complicità che si era creata tra di loro. Era tornata a parlare normalmente con lui, puntualizzando e contestando ogni sua osservazione, come aveva fatto prima dell’incidente in mare.
« è molto più gentile e sensibile » argomentò Nathaniel.
Sophia inarcò le sopracciglia verso l’alto e, con aria di sufficienza, asserì:
« è sempre stata così… come diceva Lynch, le persone non cambiano: si rivelano »
In tutta risposta, Nathaniel ridacchiò, ostentando una finta ammirazione:
« che filosofa che sei, non l’avrei mai sospettato »
« che fai sfotti? » replicò Sophia, voltandosi di scatto verso di lui. Non si accorse però che il nastro mobile delle scale era arrivato al capolinea e per un attimo rischiò di perdere l’equilibrio. Si trovò a saltellare sul pavimento, per sua fortuna immobile, mentre Nathaniel la sorpassava, con un sorriso divertito:
« lo sai, per certi versi mi ricordi qualcuno… » commentò.
« Erin? » replicò sarcastica la gemella, notando il risolino sulle labbra del ragazzo.
Il biondo la fissò per un attimo con intensità, facendola trasalire e rispose sibillino:
« no, tua sorella mai. Non so perché, ma non riesco a guardare te e vedere lei »
Dopo aver ascoltato quelle parole, l’espressione accigliata di Sophia svanì all’istante.
Nathaniel vide le labbra della ragazza assottigliarsi, fino a scomparire in una smorfia amara; il suo sguardo si era appiattito, venendo sostituito da un’espressione amara:
« già… e io non posso farci niente »
Sbattè le palpebre più volte, come se quel ritmo lo aiutasse a mettere meglio a fuoco la situazione: in quel momento la riconosceva a stento; la Sophia che aveva appena mosso la bocca era molto diversa da quella con cui era abituato a interagire. I suoi occhi si erano intrisi di malinconia ma non permettevano a nessuno di leggere al loro interno, l’animo dilaniato della loro padrona. Aveva uno sguardo schivo, rivolto verso il basso e non accennava a volerlo rialzare.
Continuarono ad avanzare in silenzio, finché raggiunsero l’esterno dell’aeroporto, nel mezzo di un via vai di persone:
« non era un’offesa la mia » si giustificò Nathaniel, messo in crescente difficoltà dal perdurare di quel mutismo « dico solo che non vi assomigliate affatto, caratterialmente parlando… e non so perché, ma questo fa passare in secondo piano anche la somiglianza fisica »
La ragazza non replicò, tanto che al biondo venne il dubbio che l’avesse completamente ignorato. Si decise a fare un secondo tentativo, quando udì la sua voce cristallina, abbassata al livello di un sussurro:
« lo so… eppure a volte vorrei essere lei »
Quel commento lo zittì definitivamente.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire come replicare, ogni frase gli sembrava sbagliata e inoltre, era parecchio spaesato da quel lato così introspettivo e malinconico che mai avrebbe attribuito ad una ragazza solare come Sophia.
Fu così che tra di loro piombò nuovamente il silenzio che veniva però colmato dal frastuono che li circondava.
Seguendo il percorso del marciapiede, uscirono dalla struttura recintata, trovandosi per le strade della città. Mentre il biondo si affannava alla ricerca di un argomento di conversazione con cui spezzare quella tensione, dallo stomaco della ragazza si sprigionò una sorta di muggito lamentoso, più simile ad un rutto soffocato; Nathaniel scoppiò a ridere, quasi sollevato e indagò divertito:
« fame? »
« cosa te lo fa credere? » borbottò imbarazzata Sophia, portandosi le braccia sull’addome, quasi a voler silenziare le sue chiassose membra. Anche se cercava di non darlo a vedere, si intuiva che le stava tornando il buon umore, così il ragazzo ne approfittò:
« dai vieni, conosco un posto qui vicino dove si mangia da favola »
« sei qui da un mese e mezzo e pensi di farmi da guida? » si risentì la rossa. In tutta risposta, Nathaniel alzò gli occhi al cielo:
« ma quanto sei polemica! Possibile che non ti vada mai bene niente di quello che dico? »
« sei tu che sei troppo permaloso. Con Ambra non ho di questi problemi »
Continuarono a punzecchiarsi per strada, discutendo animatamente, al punto che quanto era avvenuto pochi minuti prima sembrava essere stato dimenticato da entrambi. Completamente dimenticato.
Dopo aver camminato per un bel po’, con il vento freddo che sferzava le loro guance, Nathaniel cominciò a guardarsi attorno, visibilmente spaesato. Fu costretto a fermarsi, grattandosi il mento; anche Sophia si bloccò e lo osservò in silenzio, finché la sua ironia, che cercava disperatamente di trattenere, non riuscì a trovare una via di fuga:
« fammi indovinare Dora, ti sei disorientata un’altra volta? Che cacchio di esploratrice sei? »
« ma riesci a stare zitta un minuto? » si spazientì Nathaniel. La ragazza roteò gli occhi all’indietro e patteggiò:
« senti, dimmi il nome di questo posto e ti ci porto io »
Sophia aveva le braccia incrociate al petto e lo scrutava con un’espressione che era un misto tra il beffardo e lo spazientito. Il biondo si vide così costretto ad ammettere il fallimento della sua buona volontà e sventolò bandiera bianca:
« è il Maison Pub »
« IL MAISON PUB?! » ripetè Sophia, esterrefatta. Aveva alzato la voce al punto da far voltare alcuni passanti, che sussultarono sorpresi.
« ma dista quindici chilometri! Con cavolo che è vicino! »
« ah sì, così tanti? » replicò con un’espressione poco sveglia il ragazzo.
La rossa stentava a capacitarsi di quanto Nathaniel fosse incapace di capire in che angolo di mondo si trovasse e, cercando di trattenere l’irritazione e l’incredulità, pattuì:
« senti, facciamo una cosa molto più saggia: dietro l’angolo c’è un Mc Donald: mangiamo lì… sempre che sua maestà non prediliga del cibo più raffinato” lo sfottè, mentre gli occhi dorati del biondo diventavano due fessure.
« con Ambra non sei così acida, vero? » domandò Nathaniel, rassegnandosi a seguire la rossa.
« non è necessario, perché tua sorella non è schizzinosa come te »
« non mi sembra di esserlo » obiettò l’altro risentito.
« non mi sembra di esserlo » gli fece il verso Sophia, i cui morsi della fame cominciavano a renderla intrattabile.
« ti hanno mai detto che sei piuttosto antipatica? »
« sì, ma di solito me lo dicono persone della cui opinione non me ne sbatte un tubo » lo zittì.
Nathaniel strinse i pugni: era sempre stato un ragazzo pacifico e, proprio per questo, mai in vita sua aveva avuto l’istinto di picchiare una donna… ma con la sorella di Erin, quella certezza stava vacillando pericolosamente.
 
Entrarono nel locale, il cui arredamento non era molto diverso da quelli a cui era abituato; nonostante la posizione strategica in cui era stato costruito l’edificio, non c’erano molti clienti. I due si misero in coda davanti alle casse senza fiatare; il biondo non riusciva a motivare l’aggressività della ragazza nei suoi confronti che per contro, pensava unicamente al cibo che avrebbe sbranato entro pochi minuti. Preferiva restarsene in silenzio, dal momento che il digiuno l’aveva messa di pessimo umore e riconosceva di essersi comportata maluccio con il biondo:
« io mi metto in fila per di qua » le disse, spostandosi davanti alla cassa adiacente « così facciamo prima »
Lei sorrise sarcastica, pensando che cercasse di tenere le distanze dai suoi modi da mastino ma non fiatò. Gli aveva già fornito fin troppi pretesti per trovarla insopportabile. Tornò quindi a fissare gli invitanti piatti esposti in alto, lasciandosi tentare dalle ultime novità, pur essendo consapevole che quelle immagini non corrispondevano alla realtà.
Dopo poco, Nathaniel avvertì dietro di lui l’arrivo di una coppia con un rumoroso e irritante chihuahua: il cagnolino abbaiava selvaggiamente, sgolandosi in un verso isterico e inutile, che metteva a dura prova i nervi del biondo. Spiò Sophia con la coda dell’occhio e la vide ridere sotto i baffi, burlandosi della malasorte che gli era toccata. Dai discorsi dei due, capì che l’uno era un avvocato, mentre l’altra era la sua compagna, acida quanto la bestiaccia che teneva in mano. Erano vestiti in modo molto elegante rispetto allo standard della clientela che frequentava abitualmente il fast food, constatazione che li faceva apparire decisamente fuori luogo.
Dopo un paio di minuti, quando mancava poco al suo turno, Nathaniel vide entrare un senzatetto. Aveva un pesante berretto di lana calzato male sul capo, come se una mano invisibile fosse in procinto di levarglielo. La pelle, nonostante il pieno inverno, era bruciata dal sole e solcata da profonde rughe. Gli abiti erano scoloriti e punteggiati di macchie di natura sconosciuta. Calcolando la coda di persone, l’uomo aveva fatto una smorfia in cui si era intravista una dentatura rovinata e per metà inesistente.
Nonostante il suo profondo disagio, si mise in coda dietro la coppia di snob e attese il suo turno. La donna gli lanciò un’occhiata truce e schifata, arricciando il naso per l’odore acre che emanava il nuovo cliente, mentre l’uomo si limitò ad allontanarsi di più da quest’ultimo, arrivando quasi ad urtare Nathaniel.
Il barbone teneva in mano una manciata di buoni sgualciti con stampe sbiadite di promozioni della catena di fast food in cui era entrato.
Sophia era l’unica che lo guardava con tenerezza, chiedendosi se fossero realmente validi o se il tentativo dell’uomo si sarebbe concluso come un insuccesso. Valutò se fosse il caso di pagargli il pranzo ma si sentiva in difficoltà sul come approcciarsi a quella persona sfortunata.
La coda davanti a Nathaniel si era svuota più velocemente rispetto a quella di Sophia, così il ragazzo, mentre dettava l’ordine alla cassiera, sorrise vittorioso verso la rossa, decretando il suo trionfo in una non dichiarata gara a chi avrebbe ricevuto il pasto per primo. La sua soddisfazione però non era destinata a durare a lungo: la commessa fu costretta a farlo aspettare a lato del bancone, nell’attesa che fosse pronto il suo Crispy Mac Bacon. Questa volta toccò alla ragazza arridere alla vittoria, ma fu altrettanto sfortunata da dover aspettare qualche minuto in disparte, nell’attesa che il suo panino venisse preparato:
« siamo pari » commentò Nathaniel con un sorriso pacificatore.
« non esiste! Il pareggio è quasi peggiore della sconfitta » decretò la ragazza, prendendo seriamente quell’infantile sfida. Il biondo ridacchiò, scuotendo il capo:
« ti ricordi quando prima ti ho detto che, per certi versi mi ricordi qualcuno? »
La rossa annuì interrogativa:
« hai alcuni comportamenti che sono tipici di un mio amico »
« sarà mica Castiel? »
Quella risposta prese in contropiede il ragazzo, che ammutolì, mentre Sophia si giustificava:
« ultimamente ‘sto Castiel lo sento nominare da chiunque: da Erin, da Rachel… »
« Rachel ti ha parlato di lui? » soppesò Nathaniel.
« sì, mi ha detto qualcosina. Se mi assomiglia, deve essere proprio un tipo interessante… altro che te » scherzò la rossa, pregustandosi la reazione del ragazzo.
Nathaniel però non si offese, né tanto meno sdrammatizzò su quel commento. Assimilò quella battuta senza fiatare e, dopo aver fissato inespressivo Sophia, distolse lo sguardo, concentrandolo sul listino dei prezzi.
Quel comportamento la spiazzò, rendendola incapace di replicare. Sin da quando si erano conosciuti, si era divertita a stuzzicarlo, ma non aveva mai avuto l’impressione di esagerare; evidentemente aveva superato il limite.
Oppure, aveva appena toccato un tasto delicato.
Mentre tra i due era sceso un silenzio gelido, il barbone si era allungato a chiedere alla donna davanti di lui se i coupon che teneva in mano fossero validi. Il chihuahua riprese ad abbaiare furiosamente, mentre la sua padrona, disgustata dal fetore emanato, abbaiò a sua volta, trattenendo il respiro:  
« e che ne so? »
« non potrebbe leggere? Io non ci vedo da vicino » si spiegò l’uomo, mortificato e abbassando il capo per la vergogna.
« chiedilo alla commessa quando sarà il tuo turno » tagliò corto la donna, nel tentativo di far cadere subitaneamente quel dialogo. Il senzatetto non osò insistere, chiedendosi se gli strani segni che la sua vista miope vedeva sfuocati, racchiudessero la possibilità di nutrirsi di un caldo panino, seppur misero per la fame che aveva.
« faccia vedere »
A parlargli era stata una voce ferma eppure molto gentile. L’uomo alzò il viso, incrociando lo sguardo del ragazzo che stava aspettando da un paio di minuti l’arrivo del suo menù. Nathaniel gli sorrise cordiale, tendendogli una mano, ad incoraggiarlo a consegnargli i buoni che teneva in mano.
Il clochard glieli allungò timidamente e il biondo, dopo una minuziosa occhiata, fu costretto ad annunciargli:
« mi dispiace ma questi buoni non sono validi »
Non puntualizzò che erano scaduti ben due anni prima, solo per non umiliare ulteriormente quell’uomo, più di quanto già non facessero le occhiate sprezzanti degli altri clienti del fast food.
« li avrà rimediati nella spazzatura » bisbigliò la donna verso il compagno avvocato, senza però avere il riguardo di farlo il più piano possibile. Sophia la fulminò con rabbia, diversamente da Nathaniel che finse di non sentire quel commento; la delusione del senzatetto era palpabile, poiché preceduta dall’illusione di potersi permettere un pasto decente. Accartocciò i buoni nella tasca del cappotto troppo largo, appartenuto a chissà quale persona prima di lui e raccattò la roba che si era portato appresso:
« aspetti! » lo bloccò Nathaniel, trattenendolo per un braccio. Quel contatto sorprese l’uomo, normalmente tenuto a distanza dalla gente, come se fosse affetto da una patologia contagiosa:
« ho sbagliato ad ordinare… se vuole le do il mio pranzo » gli propose, mentre la commessa arrivava con un vassoio pieno di roba. A quella vista, gli occhi del senzatetto cominciarono a luccicare per la felicità. Il suo volto era l’espressione più totale della gratitudine, della cui vista, il suo salvatore si deliziò per poco: si girò verso Sophia, che lo fissava allibita:
« contenta ora? Niente più pareggio. Ho perso » osservò con tranquillità.
La ragazza non era affatto d’accordo. Nathaniel non aveva perso un bel niente. Aveva appena conquistato la sua più totale stima. Per quanto si divertisse a tormentarlo, a sottolineare i suoi difetti, la verità era che quel biondino era pieno di qualità di cui lei preferiva negarne l’esistenza.
Mentre lui invitata la giovane commessa a riporre il tutto in una borsa da asporto, Sophia ne contemplava ammirata il sorriso gentile che quasi distoglieva l’attenzione da quello sguardo fiero e intelligente, così simile a quello della sorella.
Il senzatetto se ne andò, continuando a ripetere i suoi ringraziamenti al ragazzo, quasi fossero un mantra e chinandosi, in segno di massima prosternazione.  
Quando la sua figura lasciò il fast food, l’avvocato, per nulla impressionato positivamente da quella scena, replicò stizzito:
« tsk! Non dovrebbero neanche consentire a certi soggetti di entrare nei locali, quando è evidente che non hanno contanti per pagare… meritano di restare per strada. Non ce ne sarebbero così tanti in giro se la gente non si intenerisse a far loro l’elemosina” accusò, lanciando una frecciatina diretta verso il ragazzo accanto a lui « un uomo con un po’ di dignità non dovrebbe mai elemosinare dagli altri »
Sophia sentì il sangue andarle al cervello e inspirò profondamente; Nathaniel poteva anche tenersi la sua diplomazia, sarebbe stata lei a ribattere a tono alle affermazioni spregevoli dello sconosciuto. Il biondo però era molto più interessato alla lotta che si stava svolgendo tra la commessa e la carta di credito che l’avvocato le aveva allungato dopo che lei aveva riempito i vassoi con quanto aveva ordinato. Era già la terza volta che ripeteva lo stesso gesto, ma ogni tentativo risultava fallimentare. Sconfitta, la ragazza squittì timidamente:
« mi dispiace signori, ma la vostra carta viene respinta »
Quell’affermazione sorprese tutti, in primis l’intestatario della tessera:
« non è possibile! » sentenziò perentorio l’uomo « riprovi » le ordinò bruscamente.
« ho già provato quattro volte, ma risulta bloccata »
Nathaniel sogghignò, mentre la donna chiedeva stupidamente:
« e che facciamo? »
La commessa si sentiva un po’ in difficoltà a suggerire la risposta più ovvia, ossia il pagamento in contanti, così attese che fosse l’uomo a tirare fuori il portafogli. Quest’ultimo però non era munito di contanti.
Come aveva previsto Nathaniel, quell’uomo aveva utilizzato la carta proprio per ovviare a quella mancanza, altrimenti non si sarebbe spiegato il senso di pagare con un bancomat un conto così irrisorio rispetto al tenore di vita a cui era probabilmente abituato. Accidentalmente, l’occhio dell’avvocato cadde proprio sul biondo vicino a lui, che non aspettava altro che quel genere di interazione visiva per replicare:
« le offrirei volentieri io dei soldi, ma so che è contro le elemosine per cui… »
Sophia scoppiò a ridere e con lei, anche il resto dei clienti che non si erano persi un secondo della sedia. L’uomo divenne livido di rabbia, mentre la compagna, la cui massa cerebrale era paragonabile a quella del cane che teneva in braccio, cominciò a insultare il locale, seguendo imbufalita l’uomo.
La commessa rimase spiazzata, guardando confusa il vassoio ricolmo davanti a lei, finchè Nathaniel le propose:
« può dare a me quello che hanno ordinato loro » le sorrise, facendola sciogliere per quanto fossero caldi e angelici quegli occhi d’ambra. Il ragazzo buttò lo sguardo su Sophia che, solo in quel momento, vide arrivare il panino che aveva ordinato tre minuti prima.
« si direbbe che ho vinto io » la sfottè con un sorrisino ironico.
La ragazza però rispose a quella piccola provocazione. Afferrò il proprio vassoio e, scuotendo la testa divertita, seguì il biondo alla ricerca del tavolo.
 
 






NOTE DELL’AUTRICE:
 
Salve a tutti ^^
Eh *sospira*… ahimè, pubblicando oggi questo capitolo, di fatto ho battuto il mio record personale di intervallo di tempo tra un aggiornamento e il successivo. Ecco allora che realizzo che è passato quasi un mese dall’ultimo capitolo e per i miei standard è davvero tantissimo >. Tantè che, come alcune di voi hanno notato, avevo inizialmente preventivato di pubblicare dieci giorni fa ma ho dovuto rimandare per mancanza di tempo ç_ç.
Altra cosa: ad alcune lettrici avevo anticipato un capitolo di oltre trenta pagine… il problema è che non ho fatto in tempo a correggerlo -.-‘’. Quindi, per non rimandare ulteriormente la pubblicazione, e per non buttare fuori un capitolo infinito, ecco che ho deciso di spezzarlo in due.
Questo significa che la seconda parte è già stata parzialmente scritta, quindi sicuramente ci metterò meno di un mese per caricarla ^^. Inoltre, è in quella parte che ho concentrato la giornata di San Valentino… quindi, scusatemi, ma vi farò aspettare un altro po’ per leggere qualche scenetta romanticosa :3
Finita questa lunga parentesi, passiamo al capitolo in sé  (mi faccio la recensione da sola XD XD): dunque, la descrizione delle partite è stata molto marginale negli ultimi capitoli e la cosa è voluta: preferisco tenere le scene più dettagliate per le partite importanti come lo è stata la prima e lo sarà/saranno un’altra/le altre in futuro...
In questo capitolo ho voluto mettere un piccolo scorcio del rapporto Ambra-Sophia, visto che rappresenta uno dei rapporti di amicizia più importanti della storia. La descrizione dell’appartamento di Sophia, anche se molto approssimativa, ricalca un po’ il mio ideale di appartamento (sicuramente per quanto riguarda le pareti arancioni!).
Passiamo ai giocatori della Saint Mary: volevo trasmettere una certa tensione e competitività con questa squadra, così ho pensato a questa missione speculativa, capeggiata da Boris che porta i suoi cestisti a vedere una partita degli avversari. Spero che quella parte vi sia piaciuta, poiché la sfida Atlantic HS – Saint Mary HS, sarà una partita dove cercherò di metterci ancora più impegno della prima nel raccontarla ;). È quindi venuto fuori, come molte di voi sospettavano, chi fosse la ragazza misteriosa^^. A questo punto devo spiegare un po’ di riferimenti che solo la diretta interessata può aver colto in pieno: non dico nulla di nuovo se sostengo che per scrivere la parte del torneo, ho prima chiesto un sacco di consigli ad una vera esperta in materia, Manu_Green8. Come ringraziamento, ho pensato quindi di dedicarle proprio il personaggio di una cestista; all’inizio mi sono scervellata a trovare una variante in inglese del nome ma proprio quando mi stavo rassegnarmi che non esistesse, mi è venutoa un’idea: Melanie è il nome della protagonista femminile della sua storia (eh sì, Manu è anche un’autrice ^^), così ecco spiegato l’origine del nome della giocatrice. Il perché del cognome lo lascio indovinare a voi XD. Il numero di maglia e il colore delle divise ovviamente è non casuale, ma per evitare di invadere la privacy altrui, credo che così possa bastare ;).
 Ed infine, quanto al rapporto Sophia-Nathaniel…. Beh, vorrei dire molte cose, ma questo angolo dell’autore si è già allungato troppo -.-‘’. Visto che nel prossimo capitolo questo binomio vedrà l’introduzione di un terzo elemento (Rosalya), rimanderò le mie considerazioni alla prossima occasione ;)
Grazie per la lettura :D
Alla prossima!!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** Happy Valentine's Day ***


 
46.
HAPPY VALENTINE’S DAY
 



« è il tuo? »
Il ronzio sommesso di una vibrazione cominciò a diffondersi nello spogliatoio, frammistandosi alle chiacchiere delle due cestiste. Alla domanda di Kim, Erin cominciò a guardarsi attorno poco convinta.
« sicura che non sia il tuo? »
« ce l’ho in mano » obiettò Kim perplessa, dondolando lo smartphone che teneva in mano. La compagna si sentì sciocca per la propria disattenzione e  partì immediatamente alla ricerca del suo cellulare; frugando nella tasca laterale, riuscì a riesumarlo e lesse il nome di Rosalya; sbloccò rapidamente lo schermo e se lo portò all’orecchio:
« ehi Rosa, sei arrivata? » esclamò entusiasta.
« sana e salva » confermò radiosa l’amica « e voi? La partita? »
Erin si voltò sorridendo verso Kim:
« SIAMO IN SEMIFINALEEEEEE!!! » urlò, facendo sobbalzare Kim per lo spavento e stordendo Rosalya. Quest’ultima, che quanto ad esuberanza non era seconda a nessuno, replicò poi con urlo carico di altrettanto entusiasmo, condividendo l’allegria dell’amica.
« state volando verso il podio! » considerò, appena finì di strepitare.
« no » la corresse Erin « stiamo volando verso la Germania »
« come siamo ottimiste Cip! » sogghignò la stilista « è l’amore che ti fa questo effetto? »
« parlando d’amore » sviò la mora, arrossendo lievemente « hai già avvertito Nath del tuo arrivo? »
Le vie di quella città erano il background dei pensieri di Rosalya da ormai parecchie settimane: superando le sue aspettative, San Francisco si stava presentando a lei come una città meravigliosamente caotica, colorata, ricca di vita. Per lei, che non era mai uscita dal New Jersey, quell’atmosfera iniettava un’incontenibile adrenalina ed eccitazione. Ormai ne era sicura: in un futuro, viaggiare doveva essere una parte imprescindibile del suo lavoro; sarebbe diventata una stilista famosa, con sfilate organizzate in ogni angolo del pianeta, che le avrebbero concesso di conoscere realtà nuove ed emozionanti.
L’orgoglio di essersi riuscita a pagare quel viaggio in California con le sue creazioni non era quantificabile, forse era appena al di sotto della felicità che la animava all’idea di rivedere Nathaniel.
« in realtà avrei voluto fargli una sorpresa, ma è impossibile non sapendo dove si trovi in questo momento » borbottò, sveltendo il passo e trascinandosi dietro il trolley. 
« è in un McDonald con mia sorella » la informò Erin, chiudendo la zip del borsone.
Quell’informazione fece sussultare l’amica:
« e tu come lo sai? » palesò Rosalya, visibilmente perplessa.
« mi ha chiamato venti minuti fa Sophia per sapere delle partita e mi ha detto che, dopo aver accompagnato Ambra all’aeroporto, lei e Nath erano seduti al Mc »
Un sorriso trionfante si irradiò subitaneo nel volto della stilista: era appena uscita dall’aeroporto, quindi i due non dovevano essere lontani. Eccitatissima, squittì:
« sei la mia Mata Hari »
Erin aggrottò le sopracciglia e, incrociando lo sguardo di Kim che la invitava ad affrettarsi, mormorò confusa:
« e chi sarebbe? »
« studiati un po’ la storia Cip! Che con questa scusa del torneo, rischi di diventarmi una zoticona ignorante come quell’idiota di un rosso disperso in Germania »
« Castiel può sempre contare su una parola buona da parte tua, eh Rosa? Comunque ti ho detto che non è più rosso »
« troverò altri modi per insultarlo, tranquilla » la liquidò l’amica, strappandole un sorrisetto « secondo me tarda tanto a tornare perché ha preso paura delle mail che gli ho mandato »
« finchè gli intasi la posta scrivendogli che lo pesterai a sangue al suo ritorno, ovvio che non sia poi così entusiasta di rimettere piede in America » convenne la cestista.
« ma l’ho fatto per te Erin! Che Cip sei senza il tuo Ciop? »
« Rosa, dacci un taglio, questo discorso rischia di prendere una piega assurda e imbarazzante » borbottò la mora con leggero imbarazzo.
« gli hai detto della semifinale? »
« no, non l’ho proprio sentito »
Rosalya si stoppò, espirò spazientita e roteò gli occhi:
« Cristo santo! Erin! » si arrabbiò infine « sei più cretina di lui! Cosa aspetti a scrivergli? Ah, non mi dire quella stronzata del più mi manca e più sono motivata a vincere » protestò, facendo il verso alla mora.
« allora sto zitta » concluse l’amica, gesticolando verso Kim, facendole capire che l’avrebbe seguita all’esterno dello spogliatoio. La squadra le stava aspettando per festeggiare e, per quanto adorasse chiacchierare con la stilista, doveva cercare di dare un taglio alla loro conversazione:
« comunque Rosa, sei pronta a riabbracciare Nathaniel? »
« non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando mi presenterò davanti a lui » gioì, sorridendo a trentadue denti. Il trolley non rappresentava un impiccio lungo i larghi marciapiedi californiani e la stilista si sentiva le ali ai piedi. Aveva visto l’insegna di un McDonald poco distante da dove si trovava lei e sperò che fosse lo stesso locale in cui avrebbe trovato il ragazzo. L’indicazione segnava una distanza di un mezzo miglio che, con il suo passo spedito, avrebbe colmato in una ventina di minuti.
« quando gli mostrerai la vera sorpresa poi… » commentò Erin maliziosa « solo tu puoi avere certe idee » e nella sua mente si figurò un completino intimo talmente sexy da far arrossire persino una pornostar, almeno secondo la visione pudica e naif della mora.
« quando ti troverai un ragazzo Erin, sta pur certa che ringrazierai le mie idee… anzi, più che altro sarà il tuo ragazzo a ringraziare me… se sarà Castiel poi… beh, sarà la volta buona che mi sentirò rivolgere una parola gentile da parte sua »
« ti conviene incamminarti, altrimenti rischi che ti sfuggano » la freddò Erin, arrossendo vistosamente. L’amica parlava con grande scioltezza e mancanza di pudore di argomenti che lei, anche solo accennarli, la mettevano a disagio. Non che non le capitasse di pensarci, ma si sentiva estremamente immatura e impreparata rispetto a Rosalya, motivo per il quale preferiva deviare il discorso. Inoltre già non sarebbe mai riuscita a dire a Castiel cosa provasse per lui, a maggior ragione lasciarsi andare a simili intimità.
« ma come? Mi metti giù il telefono così? Speravo che mi facessi compagnia finché non trovo Nate » finse di offendersi l’amica.
« in realtà sono piuttosto di fretta Rose… Kim mi sta facendo segno di tagliare la conversazione perché siamo già in ritardo. I ragazzi ci staranno aspettando per andare a mangiare »
« dì piuttosto che sei gelosa perché ti tradisco con Nathaniel » commentò melliflua.
« ah, ma io lo so che sono sempre la tua donna » scherzò Erin.
« puoi dirlo forte stella, Nathaniel deve accettare di condividermi con te » continuò l’altra.
Era da qualche settimana che le due avevano cominciato a scherzare sul loro rapporto, anche se in un primo momento l’ingenua Violet aveva pensato di essersi persa qualcosa e le aveva fissate alquanto disorientata.
« Rosa, ti saluto, altrimenti Kim sviene per la fame » ridacchiò Erin guardando le smorfie della compagna di squadra e, dopo qualche saluto al volo, riagganciò.
« quindi Rosalya è arrivata a San Francisco? » indagò Kim, percorrendo i corridoi.
« già » sorrise Erin.
La partita che era valsa loro l’ammissione alla semifinale si era conclusa una mezz’ora fa. I ragazzi avevano fatto talmente tanto chiasso nello spogliatoio, che Boris era stato costretto ad intervenire per sedarli, specie perché aveva ricevuto solleciti in tal senso dai responsabili della struttura che li avevano ospitati. Quel giorno, esattamente nello stesso edificio ma nella seconda palestra, avevano giocato anche i loro futuri avversari: la Saint Mary High School.
La prima e unica volta che la Atlantic li aveva visti all’opera dal vivo, risaliva ad una settimana prima e, dopo quell’occasione, non ce n’erano state altre. In compenso, dopo la rivelazione di Boris, la squadra aveva notato la presenza fissa, a tutte le loro partite, di un collaboratore di quella squadra che filmava tutte le loro azioni. In un paio di occasioni, alcuni dei ragazzi più esuberanti come Trevor e Wes si erano addirittura messi in posa rivolgendosi verso l’obiettivo, al termine di una giocata particolarmente spettacolare. Era una sorta di messaggio che doveva essere recapitato agli avversari, della serie “questo è quello che vi aspetta”.
« guarda chi c’è » sussurrò Kim d’un tratto.
Erin staccò lo sguardo dal pavimento, notando la figura appoggiata contro la parete di quella che presto sarebbe diventata una sua nemica.
Melanie aveva gli occhi socchiusi e l’immancabile paio di cuffiette bianche impegnate a tapparle le orecchie, per isolarla dal mondo, con le note sprigionate dallo smartphone ad essere collegato. Quando le due le passarono davanti, alzò leggermente la palpebra destra, lasciando intravedere uno sguardo felino, attento a tutto ciò che lo circondava.
Kim avanzò, con un’espressione dura, mentre Erin, indecisa sul da farsi, esitò. D’altronde, quella ragazza era riuscita a risollevarle il morale durante la sua prima partita e per questo le doveva molto:
« non si saluta più? »
Era stata Melanie la prima a rompere il ghiaccio. Erin si voltò e la vide aprire gli occhi, staccando svogliatamente la schiena dalla parete. Aveva un sorrisetto amichevole e un’espressione decisamente diversa da quella che le aveva visto sul campo la settimana precedente.
« non ero sicura che ti ricordassi di me » mugolò la mora.
« Erin? andiamo? » la esortò Kim infastidita.
« a-arrivo. Tu va’ pure » la congedò la compagna di squadra. L’ex velocista scrollò le spalle e la lasciò indietro, innervosendosi per l’ulteriore attesa a cui l’avrebbe obbligata assieme al resto dei ragazzi. Il suo stomaco brontolava, aveva giocato due quarti su quattro dando il massimo e aveva un disperato bisogno di cibo.
« e così ti chiami Erin… » commentò affabile Melanie, liberandosi dalle cuffiette « Erin Travis » completò, ricordando il cognome scritto sulla maglia dell’avversaria. Il suo coach aveva fatto rivedere una miriade di volte i video che riprendevano i giocatori della Atlantic, al punto che ormai tutta la Saint Mary sapeva a memoria i cognomi.
« tu invece non hai bisogno di presentazioni. Boris parla di te con orgoglio…Melanie »
Vide la biondina sorridere, chinando il capo. Per un attimo le sembrò che la cestista si fosse persa nei suoi pensieri ma quest’ultima, d’un tratto, proseguì:
« è sempre il solito idealista »
Quell’affermazione la spiazzò, non capendo a cosa si riferisse:
« che intendi? »
La playmaker sospirò, senza abbandonare un’espressione di serena rassegnazione:
« Boris antepone lo spirito di squadra al risultato del tabellone. Vincere o perdere per lui non è qualcosa di legato al punteggio della partita »
« non ti seguo » ammise la mora, osservandola con perplessità. Melanie ripose le cuffie  alla rinfusa dentro il borsone, dopo averle arrotolate attorno al cellulare.
« non importa » asserì. In quelle due parole però Erin riuscì a percepire un’acuta punta di amarezza, che venne confermata dal proseguimento del discorso della sua interlocutrice:
« mi piacerebbe pensarla come lui, ma in questo momento sono contenta di essere in una squadra come la Saint Mary » e, guardando con determinazione l’avversaria, dritta negli occhi, dichiarò « la settimana prossima saremo noi ad accedere alla finale »
Quel cambio repentino di atteggiamento, in un primo momento disorientò la mora. Non si capacitava della rivalità e dell’elettricità che c’era nell’aria ma di certo non ne era intimorita:
« non credo proprio » sibilò, serrando i pugni « siete forti, è vero, ma nemmeno noi siamo da meno ».
Melanie sogghignò, abbassando il capo e scuotendolo leggermente, per poi rialzarlo e fissare la ragazza davanti a lei:
« è vero, è per questo che non vediamo l’ora di affrontarvi. Nonostante la portata nazionale di questo torneo, finora nessuna squadra ci ha dato davvero del filo da torcere. Contiamo su di voi per divertirci un po’ ».
In quel modo di fare così spocchioso e sicuro di sé, Erin non riusciva a rivedere la ragazza che aveva conosciuto quando era in lacrime. Tuttavia, anziché sentirsi infastidita, quell’atteggiamento la solleticava. Le provocazioni che le stava lanciando l’avversaria, erano tutte a proprio vantaggio, dal momento che riusciva a convertirle in determinazione.
« lo sai Melanie? Mi stai mettendo una voglia di affrontarvi non ti immagini » sancì la mora con un’espressione che, anche se involontariamente, era una copia perfetta di una delle espressioni più caratteristiche dell’ex capitano della sua squadra.
« non dirlo a me. Ancora sette giorni e vedremo chi andrà a Austin per la finale »
« allora temo che voi della Saint Mary dovrete rimandare la gita in Texas: quel posto è nostro »
Le due cestiste si fronteggiavano con un ghigno compiaciuto stampato in faccia. Entrambe sentivano i muscoli fremere di un’eccitazione difficile da nascondere. La competitività tra le due squadre era ormai incrementata dalla stima reciproca: quella partita si preannunciava carica di tensione ed energia.
« Erin vuoi darti una mossa? » protestò una voce maschile poco lontano.
La mora si voltò e vide Wes giungere nella loro direzione. Il ragazzo si irrigidì appena riconobbe nell’interlocutrice della compagna di squadra, Melanie Green, la loro prossima avversaria:
« arrivo Wes » lo tranquillizzò Erin « stavamo solo scambiando due chiacchiere »
« sono venuto anche a cercare Boris. Stiamo aspettando voi due » si lagnò il ragazzo « l’hai visto per caso? »
Erin scosse il capo, raccogliendo il borsone che aveva adagiato sul pavimento.
« ci vediamo la settimana prossima Melanie… vedi di farti trovare in forma » la salutò, con una vigorosa stretta di mano.
« anche tu » commentò l’altra.
Wes assistette a quella implicita dichiarazione di guerra e, volgendo un cenno sbrigativo alla bionda cestista, tornò con Erin dai suoi compagni.
Appena i due furono lontani, Melanie si voltò verso destra, guardando l’angolo all’incrocio tra i due corridoio:
« spero tu sia soddisfatto… Boris »
Pronunciate quelle parole, emerse la figura massiccia e muscolosa dell’allenatore della Atlantic High School, con un sorrisetto divertito sul viso.
« è esattamente quello che volevo » commentò compiaciuto.
« non credo sai che Erin avesse bisogno di essere provocata. È dalla vittoria della prima partita che la vedo molto determinata a vincere » replicò Melanie, raccogliendo il borsone.
Non era convinta che il suo allenatore avrebbe approvato quel comportamento: sosteneva che gli avversari non andavano mai sottovalutati, né tanto meno provocati ma, dopo la sua chiacchierata con Boris, Melanie aveva deciso di assecondare la sua insolita richiesta:
 
« vorrei che le parlassi… » le aveva rivelato Boris.
« di cosa? »
La ragazza aveva appena abbandonato il proprio spogliatoio. Al suo interno c’erano le ragazze della squadra che era stata appena sconfitta dalla Atlantic. Erano particolarmente demoralizzate, sensazione che lei non provava da ormai molto tempo. Con la Saint Mary, specie dopo la partenza di Boris, avevano sempre vinto, non esistevano altri esiti possibili per la sua squadra. Aveva fatto in fretta a cambiarsi per non lasciarsi contagiare dall’afflizione che regnava sovrana nella stanza.
« della semifinale. Voglio che la stuzzichi un po’ dicendole che tanto vincerete voi » aveva formulato Boris.
« non è nella mia natura essere così boriosa » obiettò la cestista, cercando il cellulare.
« no, ma a bleffare sei bravissima » la lusingò l’uomo.
« non capisco il perché di questa richiesta. Chi ci guadagna? E cosa? » tagliò corto Melanie, scrutandolo con interesse.
« beh, per quanto mi riguarda, voglio sincerarmi che Erin arrivi il più carica possibile alla semifinale »
A quella rivelazione, la bionda ridacchiò, obiettando successivamente:
« e allora non sarebbe controproducente da parte mia farle un simile discorso? »
Boris non rispose subito e, inclinando la testa di lato, sorrise:
« sempre la solita Mel: diretta e perspicace. Ovviamente non te l’avrei chiesto se non avessi pensato che anche tu ci avresti guadagnato in questa storia »
« ed esattamente? »
L’uomo sospirò, incrociando le braccia al petto:
« la Saint Mary non è cambiata affatto da quando me ne sono andato »
La ragazza, accartocciata l’irritazione per l’indifferenza alla domanda che gli aveva posto, lo rimbeccò:
« ti sbagli. È ancora più individualista di prima »
« questa cosa potrebbe rivoltarvisi contro. Ho cercato di farvelo capire in tutti i modi »
« non è a me che devi dirlo Boris. Lo sai che una volta ti appoggiavo in questo »
« perché ora non ci credi più? »
Melanie distolse lo sguardo, che diventò ancora più cupo. La Saint Mary High School era la scuola superiore più importante di Trenton che vantava una reputazione ventennale tra le squadre di basket liceali più forti degli Stati Uniti. Tuttavia, era stato in particolar modo negli ultimi cinque anni, complice anche la fama dell’istituto, che in quella struttura si erano venuto a concentrare un gruppo di ragazzi dal talento smisurato per la pallacanestro. Ben presto, aveva cominciato a diffondersi la voce di una squadra fortissima e imbattibile, con un record di vittorie invidiabile.
Melanie non aveva risposto alla domanda di Boris, distogliendo lo sguardo, così l’uomo proseguì:
« sai, allontanandomi da voi, ho potuto vedere le cose da un’altra prospettiva. Non siete mai stati voi il problema: era la politica della scuola che vi ha plasmati verso quello che siete ora »
« è per questo che quella volta ti ho implorato di non andartene Boris. Tu eri la mia ultima speranza di cambiare lo spirito della Saint Mary »
Le sopracciglia di Melanie erano lievemente aggrottate e dai suoi occhi, il suo ex allenatore riuscì a leggere tutto il rammarico e l’afflizione che andavano sommati a quell’implicita accusa; l’imputato allora, si premurò nel difendere la sua posizione:
« ci ho provato tante volte Mel, lo sai anche tu… ma ho fallito quindi non aveva senso restare. Io vi parlavo di solidarietà, spirito di squadra, umiltà nell’accettare le sconfitte e voi riuscivate solo a etichettare quei discorsi come mancanza di ambizione da parte mia »
« smettila di mettermi sullo stesso piano degli altri »
« eppure mi era parso di capire che non la pensi più come me » puntualizzò l’uomo.
« questa volta è diverso Boris. Vincere è tutto. Non c’è in ballo la soddisfazione di una vittoria o un titolo prestigioso »
« ah no? »
« per me c’è molto di più. Devo arrivare al traguardo che mi permetterà di andare a Berlino »
Boris la vide sistemarsi la tracolla, ondeggiando leggermente le spalle per assestarne la posizione. Melanie non era mai stata una ragazza ciarliera, se voleva delle informazioni da lei, doveva essere lui a farle le domande giuste:
« tua sorella? » indagò. Dal viso della cestista, capì di aver centrato subito il punto; conosceva Patricia Green, del resto, prima dell’arrivo di Melanie, anche la sorella era una cestista. La prima aveva cinque anni in più e, dato l’incredibile talento per il basket, al termine del liceo, era volata in Europa per giocare a livello professionistico. Sin da quando la allenava, Boris aveva sempre sentito Patricia parlare con affetto della sorellina che, nonostante la giovane età, manifestava già uno spiccato interesse e predisposizione per quello sport.
 
« mi raccomando Boris » gli ripeteva in un paio di occasioni « quando allenerai mia sorella, falle amare questo sport come l’hai fatto amare a me »
 
Solo in quel momento l’uomo ricordò quelle parole che gli pesarono sulla coscienza come se fosse attanagliata da una pressa idraulica. Rassegnando le dimissioni dalla Saint Mary, non aveva deluso solo Melanie, aveva anche infranto la promessa fatta alla sorella.
A distanza di un anno, nella più giovane delle due cestiste, era scomparsa la scintilla di frenesia che le faceva luccicare gli occhi. Era evaporata la gioia con cui seguiva i movimenti di una palla che all’apparenza sembrava troppo grande per le sue mani minute. Durante la partita a cui aveva assistito la settimana precedente, mentre i suoi ragazzi erano sbalorditi dal talento degli avversari, Boris si era chiuso in un’inspiegabile silenzio. Mutismo che, ora che ne aveva davanti la causa, non poteva essere protratto. Doveva fare qualcosa e l’idea gli era venuta proprio quella mattina.
Da quando era arrivato al Dolce Amoris, era stato subito colpito dall’energia dei ragazzi che avrebbe allenato ma soprattutto, dal cambiamento lento ma inesorabile che si era operato in pochi mesi: aveva visto una Kim, scontrosa e asociale, aprirsi e sorridere di più, un Castiel svogliato e anarchico mettersi al lavoro e in generale, una squadra di cestisti diventare una squadra di amici. Aveva ricondotto tutto al giorno in cui Erin Travis aveva scontato la sua punizione ed era rientrata in palestra. Appena l’ormai ex capitano la vedeva entrare, sorrideva inconsciamente, Kim si rilassava, sentendosi più sollevata alla vista di una delle poche ragazze con cui andava più d’accordo, Trevor e Steve diventano più chiassosi ma anche più divertenti.
Forse era solo lui ad essere facilmente suggestionabile e un inguaribile sognatore, ma l’idea che una ragazza comune, con la sua semplicità e spontaneità fosse riuscita a innescare una simile rivoluzione, lo affascinava al punto da voler scommettere su di lei; se Erin aveva davvero la capacità di tirare fuori il meglio dalle persone, allora era lei la sua ultima speranza per riaccendere in Melanie quella passione che andava affievolendosi.
« lo sai cosa mi dispiace Melanie? Vedere che hai perso lo smalto di una volta » le disse, riassumendo il fulcro centrale delle sue riflessioni.
« ti sbagli. Il coach dice che non sono mai stata così forte »
« non far finta di non capire » le sorrise pazientemente l’uomo « non leggo più il divertimento nei tuoi occhi: da quando il basket non è più una passione ma è diventato un’ossessione per te? »
« da quando non è rimasto più nessuno a ricordarmi che si gioca per divertirsi» commentò amaramente la cestista. Controllò lo schermo del cellulare: erano passati pochi minuti, eppure le sembrava che quella conversazione durasse da ore. Boris sospirò gravemente:
« mi dispiace Mel. Davvero. Capisco che ce l’hai con me per avervi mollato ma non aveva senso restare. Il nuovo allenatore… »
« non è come te » tagliò corto la cestista, sistemandosi le cuffiette all’interno dei condotti uditivi « puoi anche smetterla di colpevolizzarti per quella scelta. A quanto pare si è rivelata la migliore per te: i ragazzi della Atlantic sono una delle squadre più affiatate del torneo; si spalleggiano a vicenda, si sostengono, scherzano… sono la squadra che hai sempre sognato Boris, quindi togliti quell’espressione dispiaciuta, perché è piuttosto ipocrita, non ti pare? »
Boris rimase in silenzio, contemplando con tristezza la figura davanti a lui:
« non mi perdonerai mai eh? »
Melanie scrollò le spalle e si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito:
« lo sai che sono permalosa no?... e anche un po’ melodrammatica » aggiunse « come te del resto » specificò con un sorrisino per alleggerire una pesantezza che lei stessa aveva aggravato « comunque sia, l’importante è che tu ora abbia trovato nella Atlantic, quello che hai sempre cercato nella Saint Mary ».
Boris non replicò, così Melanie fece per andarsene:
« aspetta Mel! Non mi hai ancora detto se parlerai ad Erin »
« se è per questo tu non mi hai ancora detto che ci guadagno nel farlo » obiettò l’altra, con un sorriso sardonico.
« parlaci e lo scoprirai da te stessa » concluse Boris sibillino.
 
Dopo aver parlato con Erin, ancora Melanie non era sicura di essere giunta alla risposta che sottintendeva Boris. Lo conosceva troppo bene per pensare che quella fosse una subdola strategia per minare la sua sicurezza in vista della partita, era convinta che quella richiesta fosse dettata dal suo buon cuore.
Dalla conversazione con la ragazza, aveva visto nei suoi occhi una determinazione che era la stessa dei propri, ma la differenza stava nel sorriso sicuro e al contempo divertito che aveva sfoderato da Erin. Quest'ultima pregustava il momento in cui avrebbe calpestato il pitturato, in cui la palla sarebbe scivolata nelle sue mani per quei secondi in cui tutti gli sguardi si sarebbero puntati su di lei e sulla sua squadra. Il fatto che tutto ciò la elettrizzasse non sembrava distrarla o deconcentrarla dal suo obiettivo: avrebbe vinto e l’avrebbe fatto giocando una partita con l’eccitazione che solo quello sport poteva infonderle.
Era più di un anno ormai che Melanie non ricordava quella sensazione: la trepidazione negli spogliatoi per un esito imprevedibile, la curiosità di conoscere i propri avversari, la competitività provata al momento di fronteggiarli. Quello che davvero le era mancato negli ultimi tempi era l’imprevedibilità di una partita.
« perché sorridi? »
Alzò lo sguardo, vedendo il suo compagno di squadra soggiungere nella sua direzione. Isiah la fissava con curiosità, con quell’espressione un po’ infantile che lo rendeva un po’ buffo.
« niente. Stavo solo pensando » replicò Melanie.
« allora sbrigati pulce… sto morendo di fame »
La ragazza lo guardò perplessa, sbattendo le palpebre un paio di volte di seguito:
« mi hai aspettato Isiah? »
Sotto lo sguardo sorpreso della compagna di squadra, che non staccava gli occhi da lui, il cestista arrossì leggermente:
« no, cioè sì… insomma… non pensi che sarebbe una bella cosa andare a pranzo tutti insieme? Come quando c’era Boris »
« ah, quindi ci sono anche gli altri con te? » domandò Melanie, ancora più sorpresa. Un individualista come il loro capitano, era difficile da ricordare seduto attorno ad una tavolata: Julius Lanier si isolava spesso e volentieri al termine di ogni partita e le sue bizzarre e asociali abitudini, avevano finito per influire sul resto della squadra; dopo la partenza di Boris, elemento di coesione tra i ragazzi, nessuno aveva più proposto uscite di gruppo o pranzi in compagnia.
« no, veramente ci siamo solo io e te… spero non ti dispiccia » mormorò Isiah, in difficoltà.
Tra tutti i suoi compagni di squadra, Isiah era quello con cui aveva un legame particolare. L’aveva sempre affascinata il dualismo nella sua personalità: sul campo, la guardia palesava una sicurezza e una serietà che svanivano non appena usciva dal perimetro di gioco. Fuori dal pitturato, Isiah Reed era rilassato, per certi versi impacciato ma tremendamente dolce, mentre sotto canestro, aveva un carisma e un fascino che quando si erano conosciuti sul campo, finivano spesso per distogliere la concentrazione della playmaker.
« no anzi, mi fa piacere » ammise lei, in imbarazzo per la premura che le era stata riservata « solo che mi hai sorpreso: pranziamo ciascuno per conto nostro di solito…»
« sì, ma sai… oggi ho incrociato Boris nei corridoi. Abbiamo chiacchierato un po’ e… boh, non so come spiegarlo, ma mi è venuta una voglia pazzesca di ricordare i vecchi tempi »
« erano bei tempi » puntualizzò Melanie con un sospiro amaro, superando la porta automatica.
« già, è per questo che cercavo qualcuno con cui ricordarli. Oggi che l’ho rivisto, parlandoci assieme, mi sono trovato a riconsiderare cosa siamo diventati dopo di lui… e tu sei l’unica in squadra che può capire cosa intendo »
Melanie avvertiva un’insperata gioia diffondersi nel corpo. Isiah la pensava come lei, il suo animo non era stato annichilito dalla spietata logica competitiva che era stata loro imposta dal loro istituto. Nelle file della Saint Mary, c’era ancora qualcuno che credeva nel piacere di giocare una partita, anteporre il divertimento alla vittoria.
Forse non era ancora tutto perduto. Forse, se ci avesse creduto lei per prima, i giocatori della Saint Mary poteva tornare ad essere ciò che erano in passato: una vera squadra.
 
Dopo aver individuato un tavolo libero vicino alle vetrate, Sophia e Nathaniel si erano accomodati in silenzio, quest’ultimo senza fare alcun commento sulla scena di cui era appena stato protagonista. La ragazza però non intendeva lasciar cadere l’argomento, sfruttando l’occasione per recuperare qualche punto agli occhi del biondo. Era consapevole di essere stata piuttosto scontrosa con lui ma, per motivi a lei stessa inspiegabili, era qualcosa di più forte di lei:
« bella risposta » borbottò, con la bocca piena di patatine.
« me l’hanno servita su un piatto d’argento » minimizzò Nathaniel, aggiungendo del ketchup extra al suo hamburger  « per fortuna che hanno ordinato tutta roba che mi piace » valutò, sbirciando il contenuto del proprio vassoio.
Sophia lo fissava in silenzio, mentre era intento a far gocciolare con sapiente meticolosità il liquido rossastro sulle patatine. Da almeno mezz’ora, aveva un tarlo del dubbio che non le dava tregua e aspettava solo l’occasione migliore per liberarsene. Ora che erano seduti tranquilli e isolati dal resto della clientela, era libera di esternare la sua perplessità:
« ti sei offeso prima? »
« prima quando? Quando mi hai detto che non ho senso dell’orientamento? O quando mi hai definito uno schizzinoso? » replicò asciutto il ragazzo, elencando le critiche che gli erano state mosse mentre si erano allontanati dall’aeroporto.
« quando ho detto che Castiel è più interessante di te » specificò Sophia, ignorando la piega sarcastica della risposta che aveva ricevuto. Il sorriso beffardo di Nathaniel si raggelò e il ragazzo tornò a fissare lo sguardo sul cibo:
« non vedo perché dovrei, dal momento che la penso come te »
Non la guardava nemmeno in faccia ma non c’era autocommiserazione nelle sue parole, solo una rassegnata accettazione di una realtà che non poteva essere cambiata. Sophia aggrottò la fronte e, messa in difficoltà dalla conversazione che lei stessa aveva avviato, difese la sua posizione:
« io non conosco Castiel quindi non posso pensare una cosa del genere. La mia era solo una battuta! »
Nathaniel scrollò le spalle e, mandando giù un boccone del suo panino, biascicò:
« se lo conoscessi, capiresti che è così: l’ho sempre ammirato per questo »
« così come? » insistette la rossa. Il ragazzo sospirò, lasciandosi sfuggire un sorriso d’affetto:
« Castiel è un tipo un po’ strano: all’apparenza sembra una persona immatura, superficiale e indisponente, ma è l’esatto opposto. Il suo problema è che ha un talento unico nel celare i suoi pregi e esasperare dei difetti che non ha. Sembra uno che non fa amicizia facilmente, invece è sempre schietto e onesto e questo è un aspetto che molte persone apprezzano. Magari può dire qualcosa di spiacevole e antipatico ma sarà sempre la verità mentre io… beh, non sono mai riuscito ad essere come lui; ogni cosa che dico, ogni gesto che faccio è misurato per non offendere nessuno, perché la gente non pensi male di me »
« e che c’è di sbagliato in questo? »
La battuta con cui se ne era uscita Sophia non era quella prevista dal copione che aveva letto il biondo. Era convinto che Sophia l’avrebbe insultato, accusandolo di essere una lagna, oppure, pur riconoscendo l’improbabilità della cosa, avrebbe cercato di consolarlo.
« beh… » incespicò « sa di finto, non credi? »
« e cosa ci sarebbe di così vero nei nostri rapporti con gli altri scusa? Non si può essere sempre onesti al cento per cento. Non si può sempre dire ciò che si pensa, scommetto che a volte anche Castiel avrà detto qualche bugia »
« sì, sì, ma non è questo il punto » affermò risoluto il biondo, agitando velocemente la mano, come per scacciare un pensiero forviante «è un discorso molto più sottile. Lui è… spontaneo capisci? Ha carisma e mette un’energia pazzesca in tutto ciò che lo appassiona… e poi è così… libero »
Con quell’ultima dichiarazione, Sophia non riuscì a esternare alcun commento.
Non conosceva personalmente il rosso, tuttavia era al corrente della situazione in casa Daniels. Per la prima volta realizzò un’altra conseguenza del rapporto fraterno tra la sua Ambra e Nathaniel, conseguenza che aveva sempre ignorato di valutare: anche lui, come l’amica, soffriva per la propria situazione familiare. Era cresciuto in un ambiente soffocante, modellato da finto interesse e totale assenza di amore. Solo nella figura affettuosa e premurosa di una vecchia governante i fratelli Daniels erano riusciti a rimediare un po’ di quell’amore che, in ogni caso, non bastava a compensare la freddezza dei genitori.
Sophia ricordò solo allora della devastante delusione che aveva investito il ragazzo l’anno precedente, quando il padre aveva stroncato la sua carriera. Eppure, quando Ambra le aveva raccontato quei fatti, lei era scattata dalla rabbia: era profondamente indignata per quel comportamento e aveva sentito una solidarietà sincera per quel ragazzo sconosciuto, fratello della sua amica.
Lo stesso ragazzo che, nelle ultime sei settimane, non aveva perso l’occasione per punzecchiare e insultare. Evidentemente doveva avere qualche conflitto con il concetto di coerenza.
« invece io… » proseguiva Nathaniel « è come se avessi vissuto finora con il freno a mano tirato, cercando di premere l’acceleratore a tavoletta nel tentativo di raggiungere Castiel »
« diciamo che mentre lui andava via in moto, tu pedalavi su una cyclette » mormorò d’un tratto Sophia con serietà.
Il biondo rimase interdetto, atteggiamento che con la rossa cominciava a diventare piuttosto frequente. All’inizio pensò che volesse deriderlo, ma di fronte alla sua espressione solenne, stabilì che quella non fosse una battuta. Proprio per questo, incurante di offendere la sua bizzarra metafora, scoppiò a ridere fragorosamente. In quella conversazione, greve e malinconica, la ragazza era riuscita a spezzare la tensione con un’immagine che era contemporaneamente fuori luogo ma anche molto azzeccata: da un lato, la sua sembrava una battuta che stonava con l’atmosfera generale, ma dall’altro, era un’espressione indovinata circa la situazione tra lui e Castiel.
Sophia lo guardava senza capire, mentre Nathaniel continuava a ridere come non gli accadeva da tempo. La ragazza notò addirittura uno scintillio delle lacrime agli angoli degli occhi ma continuava a non capire il motivo di tutta quella ilarità.
« non voleva essere una battuta » mugolò piccata, risentendosi del fatto di non essere presa sul serio.
« scusami » le sorrise lui, strofinandosi via sbrigativamente quel paio di lacrime di cui voleva negare la comparsa « è che l’hai detta con una tale serietà… »
« era una metafora! »
« mi fa fatto ridere l’immagine di me seduto sulla cyclette… e poi Castiel ha sempre sognato di comprarsi una moto, quindi anche senza conoscerlo, ci hai pure preso »
« e quindi devo dedurre che tu passi i pomeriggi a rassodare il culo sulla cyclette » scherzò Sophia.
« non si può mai fare un discorso serio con te eh? » ribadì Nathaniel, smaltendo le ultime risa. Agitò energicamente il bicchiere di carta con il logo della sua bevanda preferita: aveva già esaurito la Coca-Cola e quella conversazione gli stava mettendo particolarmente sete. Sophia invece aveva ordinato un bicchierone che svuotava molto lentamente:
« mi daresti un po’ della tua Coca? » tentò il biondo.
« sei pure taccagno! Vai a prendertela! » reagì d’impulso lei.
« e tu egoista » asserì Nathaniel, senza scomporsi « potresti anche darmene un goccio visto che non riuscirai nemmeno a finirla »
« vuoi scommettere? »
Non sapeva perché era stata così sgarbata, proprio lei che non esitava un attimo a sottrarsi dal fare favori agli altri. Nathaniel riusciva a tirare fuori il peggio di lei o, usando un’espressione che lui stesso aveva pronunciato poco prima, le faceva esasperare dei difetti che non aveva.
Per nulla interdetto da quella mancanza di generosità, il ragazzo si era alzato, per andare a rimediare un altro bicchiere di Coca-Cola. Prima di allontanarsi, si sistemò il portafoglio sulla tasca posteriore dei jeans, gesto che attirò l’attenzione di Sophia sul suo sedere, specie poiché lui le dava le spalle. La rossa allora notò che quanto a fisico, il ragazzo era decisamente attraente in quanto alto e ben proporzionato. Anche se i biondi non erano mai stati il suo genere, si ritrovò a pensare di aver di fronte uno dei ragazzi più affascinanti che avesse mai visto.
« allora? » incalzò lui.
Sophia scosse la testa, come per scacciare via quelle inquietanti considerazioni che avevano sovraffollato la sua mente, impedendole di ascoltare le parole del biondo.
« che c’è? » gli chiese, in preda all’imbarazzo. Quei pensieri poco casti l’avevano messa in evidente disagio e non riusciva a spiegarsi come mai fossero affiorati improvvisamente:
« visto che vado a prendere la Coca » ripetè Nathaniel, scandendo le parole « vuoi che ti prenda qualcosa? »
Quell’offerta la spiazzò. Lei si era appena rifiutata di condividere la sua bibita e lui si premurava per lei.
« s-sono a posto… grazie » farfugliò, in preda alla vergogna più totale. Il ragazzo allora, ignaro della natura dei pensieri della rossa si allontanò, lasciandola sola.
Sophia ne approfittò per fare ordine nella sua testa e sopire quella, a suo avviso sinistra, piega, che aveva preso la sua mente.
Era solo il fratello di Ambra, lo stesso ragazzo che aveva giurato di odiare per non essere riuscito a restare accanto alla sorella nel momento di difficoltà più estremo.
Era quel ragazzo che sarebbe riuscito a perdersi anche dentro un centro commerciale.
Eppure…era anche lo stesso ragazzo che aveva detto di compatire per la sorte capitatagli nel veder naufragare il proprio sogno.   
Era lo stesso ragazzo che l’aveva salvata dall’affogamento.
Era il primo ragazzo che la mandava così in confusione.
« Terra-chiama-Sophia » scandì Nathaniel.
La rossa alzò il capo e lo vide, con il mento appoggiato contro il palmo, intento a fissarla.
« sei strana? Che hai? » indagò, dissetandosi della sua Coca-Cola.
« ah, io sarei strana? » scattò lei sulla difensiva, articolando quella frase insensata. Il ragazzo non replicò, finchè non fu Sophia la prima a sbottare:
« comunque non è vero che non so fare discorsi seri » puntualizzò lei con serietà « ti stavo ascoltando con interesse »
Il biondo socchiuse le palpebre e la scrutò con circospezione:
« che ti prende? Sembri mia nonna quando non riesce a leggere l’oroscopo » commentò Sophia sarcastica.
« stavo cercando di cogliere l’ironia »
« idiota… Sto parlando seriamente. Ti stai rivelando molto più contorto dell’atteso, quindi la cosa è interessante »
« non sono sicuro che questa sia un’offesa » obiettò allora il ragazzo.
« nemmeno io » replicò prontamente lei, sorridendo. Quella smorfia allegra contagiò anche Nathaniel e valse come tacita dichiarazione di pace.
« domani mattina vado in spiaggia, ti va di fare un salto? » gli propose la ragazza. Quella proposta le era venuta spontanea, sorprendendosi lei stessa per quell’intraprendenza. Le era uscita prima ancora di cogliere il senso di quanto stava dicendo. Anche il biondo era rimasto sorpreso da quell’invito, ma cercò di mascherare la sua perplessità, lasciando proseguire la conversazione.
« a che ora? »
« alle sei e mezza »
Il liquido freddo della Coca risalì verso l’alto della cavità nasale, facendo rabbrividire il biondo, che cercò di non inciuccarsi con la bevanda, tale era il suo stupore.
« alle sei e mezza?! » ripetè sconvolto « ma che orario è? »
« a quell’ora non c’è nessuno… e poi non puoi neanche immaginare quanto sia bello vedere il sole sorgere sull’oceano »
« tu sei matta » dichiarò Nathaniel, scuotendo il capo con decisione « ti svegli alle cinque e mezza per vedere l’alba? »
« perché tu vedi il sole sorgere di pomeriggio? Questo spiegherebbe tante cose, Dora » lo rimbeccò piccata la ragazza. Nathaniel sogghignò sprezzante, mentre Sophia ridacchiava per la propria battuta.
Mentre il ragazzo teneva il capo chino, ingurgitando anche le ultime patatine rimaste, la rossa vide una figura leggiadra giungere nella loro direzione: era una ragazza dai lunghi capelli argentei e gli occhi vispi e felini di una tigre, che si spostavano freneticamente da un punto all’altro del ristorante. Appena si posarono su di loro, un sorriso radioso le riempì le gote; avanzava con la leggiadria che la portava quasi a sfiorare il pavimento appiccicoso del locale. Intercettò lo sguardo trasognante di Sophia e si portò l’indice davanti alle labbra rosee, socchiudendole leggermente. Un sorriso birichino le sfuggì, mentre le iridi dorate scintillavano di vivacità e complicità.
Cogliendo l’espressione basita della ragazza davanti a lui, Nathaniel fece per voltarsi, ma prima che potesse farlo, avvertì il contatto freddo di dita sconosciute che si appoggiavano sulle sue palpebre.
« indovina chi sono? »
La voce di Rosalya le uscì suadente e lenta, mentre il ragazzo sentì il proprio battito accelerare incontrollato.
« R-Rose » balbettò sconvolto e girandosi repentino. Se la trovò di fronte, che gli sorrideva trepidante di emozione. Ancora più bella di quando l’aveva vista l’ultima volta, settimane fa.
« come sono contenta di rivederti! » squittì eccitata, stampandogli un bacio sulla guancia e abbandonando il timbro caldo. Sophia fissava ammirata la nuova arrivata: aveva raccolto i lunghi capelli in una coda di cavallo che le slanciava ulteriormente la figura longilinea, allungandole il collo sottile avvolto dalla sciarpa di lana. Le iridi sfavillavano d’oro, sotto l’effetto della gioia provata nel rivedere il ragazzo di cui era innamorata.
Rachel aveva ragione: come Nathaniel guardava Rosalya, non guardava nessun’altra ragazza. D’altronde, quest’ultima era di una bellezza indescrivibile. Nemmeno le foto che le aveva mostrato Erin rendevano giustizia di quanto fosse splendida.
« tu devi essere la sorella di Erin » s’intromise allegra la stilista, allungandole cordialmente la mano. Persino le unghie erano impeccabili, come se fosse appena uscita da un trattamento di manicure. Quelle di Sophia non potevano dirsi altrettanto curate, dal momento che aveva il vizio di mangiucchiarsele. L’artista annuì, ingoiando un grumo di saliva.
« io sono una sua amica, Rosalya » continuò l’altra, senza accennare la minima esitazione. La rossa le strinse la mano, studiandola di sottecchi.
« che sorpresa Rosa…. non ti aspettavo » riuscì finalmente a dire Nathaniel, cercando di capacitarsi di quella piacevole e inattesa irruzione.
« altrimenti non sarebbe stata una sorpresa » obiettò l’altra divertita, occupando uno dei due posti lasciati liberi « non c’era occasione migliore di questa per venire a trovarti » spiegò, e sistemò il trolley accanto a lei.
Nathaniel la scrutò interrogativo, ma prima che Rosalya sciogliesse il suo dubbio, fu Sophia a completare:
« oggi è San Valentino »
Quell’osservazione le era uscita con tono apatico, quasi spettrale. Odiava quella festa, dal momento che coincideva con il giorno in cui si era lasciata con il suo primo e unico ragazzo l’anno prima.
« esatto » le sorrise Rosalya con complicità.
« hai avuto un’ottima idea » si risolse infine Nathaniel.
« come sempre, del resto » replicò la ragazza, facendogli l’occhiolino.
Lui le sorrise, deliziato dal suo atteggiamento malizioso e cercò il contatto con la sua mano; lei rispose a quella stretta, specchiandosi l’una negli occhi dell’altro: entrambi avevano un’espressione carica di dolcezza e affetto. Era uno sguardo ricco di complicità e di pensieri sottintesi che acuivano in Sophia la percezione di essere di troppo:
« sarà meglio che vi lasci soli » mormorò, alzandosi goffamente dal suo posto. Urtò l’orlo sporgente del vassoio, facendo cadere il bicchiere di Coca-Cola che, come aveva previsto il biondo, non era riuscita a finire. Il liquido scuro sparse qualche sorsata sulla plastica della guantiera, prima che lei riuscisse a intercettare la perdita di equilibrio del bicchiere. Si inumidì le mani di quella bevanda che di lì a pochi secondi avrebbe avvertito come una fastidiosa sostanza appiccicosa sulla pelle.
Il tono di voce con cui aveva dichiarato la sua uscita di scena, era risuonato molto più piatto di quanto avrebbe voluto. Del resto, in quel momento le dispiaceva rinunciare alla compagnia del biondo. Nathaniel stava per replicare, ma Rosalya lo anticipò:
« grazie, però mi farebbe davvero piacere parlare anche un po’ con te Sophia »
Le sorrideva gentile, con un’espressione che avrebbe convinto chiunque ad assecondare ogni sua richiesta. Ma non Sophia e non quel giorno.
« magari domani, oggi è la vostra giornata » le concesse la rossa, sforzandosi di ricambiare la sua cordialità. Sapeva quanto la sorella adorasse quella ragazza, eppure sentiva di non essere spontanea in sua presenza. Sfilò la tracolla dallo schienale della sedia, sistemandosi poi frettolosamente la borsa sulla spalla. Si curvò nel raccogliere il proprio vassoio, sul quale ormai gli incarti avevano assorbito parte del liquido accidentalmente versato e, dopo aver rivolto un saluto sbrigativo alla coppia, si congedò.
 
Il taxi riaccompagnò Ambra a villa Daniels quando l’ora di pranzo era ormai trascorsa da un pezzo. La ragazza sollevò lo sguardo verso l’architettura del palazzo che conosceva a memoria, senza riuscire a trattenere un sospiro di dispiacere; stava così bene in California che c’erano ben pochi motivi per cui valesse la pena tornare a Morristown e tra questi non era contemplata la nostalgia di casa. Tuttavia, tra le poche persone di cui aveva sentito la mancanza, rientrava proprio uno dei pilastri di quell’abitazione, pilastro umano e simbolico: una di quelle figure la cui assenza, le avrebbero impedito di sentirsi davvero a casa:
« Ambra! » esclamò Molly, appena se la trovò davanti “ma che ci fai qui? Perché non hai chiamato? Bill sarebbe venuto a prenderti all’aeroporto” la rimproverò, liberandole il passaggio.
Prima di varcare l’ingresso, la bionda sorrise a quella premura e rispose all’abbraccio che segui subitaneo a quelle parole:
« è bello rivederti Molly »
« anche io sono contenta di rivederti tesoro » le sorrise la donnina e, immancabilmente, le afferrò una guancia tra l’indice e il pollice, per strattonarla un po’:
« avresti potuto chiamare a casa un po’ più spesso » la recriminò bonariamente « tua madre si è offesa »
« le passerà » liquidò la questione Ambra, massaggiandosi la guancia indolenzita. Mentre trascinava il trolley lungo il corridoio principale, precisò « a me bastava sentire te, di tutto il resto non mi interessa »
La governante sospirò pazientemente e si apprestò a seguire la ragazza:
« comunque tesoro, hai mangiato? »
Quella domanda era forse una delle rappresentazioni più indicative di amore.
« sì tranquilla. Pensavo di andarmi a stendere un paio d’ore, visto che poi questa sera… »
« … hai la serata di gala al St. Regis » recitò la donna « certo, infatti tua madre ha già predisposto tutto: in camera troverai il vestito da indossare »
Ambra annuì con disinteresse mentre Molly proseguiva:
« ah, quasi me ne dimenticavo! Non l’ho ancora detto alla signora, ma preferisco parlarne prima con te: ha chiamato due ore fa Armin »
« Armin? » scattò Ambra, inciampando su un gradino.
« sì, l’amico di tuo fratello
 » spiegò la governante, sorpresa dallo stupore della ragazza.
« so chi è » borbottò in imbarazzo l’altra « e che voleva? »
Mentre attendeva la risposta di Molly, Ambra considerò che lei e il ragazzo non si era mai scambiati i numeri di cellulare e che, se voleva evitare che lui si imbattesse in futuro in una conversazione telefonica con la madre, doveva rimediare a quella mancanza.
« mi ha chiesto se può venirti a prendere lui stasera »
Ambra rimase senza parole, valutando scrupolosamente quella proposta. Di certo sua madre avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma dell’opinione di quella donna non le importava nulla da ormai molto tempo:
« tu che gli hai risposto? »
« e che dovevo rispondergli tesoro? Come faccio a saperlo? Gli ho detto che avrei chiesto a te » obiettò Molly.
Ambra annuì in silenzio:
« allora lo chiamo »
« gli dirai di accompagnarti, vero? »
Gli occhi quasi supplicanti di Molly erano l’ennesima testimonianza di quanto adorasse quel ragazzo. Sin dai tempi dell’amicizia con Nathaniel, i gemelli Evans erano assolutamente i preferiti della governante, per l’allegria e la rumorosità che riuscivano a diffondere in quella villa fredda e asettica.
La bionda si limitò ad un sorriso malizioso e replicò:
« puoi venirmi a svegliare tra un paio d’ore? »
 
Rosalya e Nathaniel camminavano a fianco a fianco, per le vie di San Francisco.
Dopo aver lasciato il Mc Donald, tra di loro si era creata una strana atmosfera, intrisa di una sconosciuta intimità e imbarazzante silenzio. Lui guardava le mani di lei, indugiando sul suo desiderio di afferrargliele.
La stilista, dal canto suo, cercava di dare un contegno alle emozioni che tempestavano in lei: la sorpresa era riuscita, in quel momento si stavano dirigendo verso l’hotel, anche se sapeva perfettamente che non poteva affidarsi al biondo quanto a indicazioni e orientamento.
Percepì un tocco leggero sfiorarle il dorso nudo della mano lasciata libera dal cellulare usato come navigatore, seguito da una stretta salda. Incrociò lo sguardo del compagno, che si era finalmente deciso ad instaurare un contatto fisico tra di loro.
« te l’ho già detto che sono felice di vederti? » le chiese lui con dolcezza.
« sentirselo ripetere non mi dispiace » sorrise lei, con le iridi che zampillavano di tenerezza. Aveva passato così tanto tempo a sognare quel momento che stentava a credere che fosse tutto reale.
Lui si bloccò, costringendola ad assecondare il suo movimento.
Erano circondati dal verde di uno dei parchi più importanti della città, che quel giorno era particolarmente popolato da coppiette.
« è strano… no? » sussurrò lei, avvicinando il suo corpo a quello del ragazzo.
« che cosa? »
A dispetto della domanda, Nathaniel sapeva perfettamente cosa intendesse la ragazza, ma voleva sentire che la pensavano allo stesso modo:
« io e te… essere qui… insieme. Dopo che sei partito, mi chiedevo se mi ero immaginata tutto. Per mail non abbiamo mai parlato di… noi » mormorò con dolcezza.
Il biondo le portò una mano sulla guancia e Rosalya inclinò la testa di lato, approfondendo quella carezza.
« abbiamo tutto il tempo per recuperare ora » e, chinandosi verso il suo viso, cercò le labbra di lei, pronte a ricevere quel bacio che aspettava da ormai due mesi.
 
Quella telefonata stava durando da più di mezz’ora ma il grado di sopportazione di Iris si era abbassato da molto prima. Alzò il volume della TV, incurante delle lamentele che sarebbero soggiunte da parte della madre. Aveva un’espressione scocciata e accigliata, fintamente concentrata sulle immagini che scorrevano davanti allo schermo. Non le interessava minimamente seguire i consigli per prevenire l’invecchiamento cutaneo, ma era un modo indiretto per protestare contro la prolungata conversazione telefonica che si stava svolgendo a casa sua:
« IRIS! Abbassa! Non riesco a sentire tuo padre! » la rimproverò subito dopo la madre con rabbia.
« pensa che perdita » borbottò sarcastica la rossa, tra sé e sé. Adam, il fratellino di dieci anni, strattonava il lembo inferiore della gonna di tweed della mamma, nella speranza di riuscire a strapparle l’ennesima occasione per parlare con il padre:
« aspetta un altro minutino Adam » lo rassicurò Olivia « dico una cosa a papà e poi è tutto tuo. Intanto, vai a dire a tua sorella che venga a salutarlo »
Investito di quella mansione, il bambino sfrecciò in salotto, dove sostò per pochi secondi, tornando poi dalla madre:
« dice che glielo saluto io » asserì, portando le mani dietro la schiena. Gli occhietti vispi e allegri, brillavano dello stesso colore di quelli della madre, un’acquamarina che anche la sorella aveva avuto la fortuna di ereditare. Olivia inspirò profondamente e, dopo essersi congedata dal marito, mollò la cornetta in mano al figlioletto. A grandi passi, arrivò in salotto dove trovò la primogenita distesa sul divano:
« Iris! Sono tre mesi che non senti tuo padre e non ti degni nemmeno di alzarti da quel divano! » s’infuriò, additandola.
« devo guardare questo servizio » mormorò apatica la ragazza, alzando ulteriormente il volume del televisore « mi serve per scienze »
Olivia, sentendosi presa in giro, si irritò ancora di più e, avvicinandosi minacciosa allo schermo, lo spense:
« ehi! » protestò la rossa.
« sei un’insensibile » la accusò la madre, sorda a quella lamentela « hai idea di quanto sia difficile per tuo padre stare lontano da noi? »
« e tu hai idea di quanto sia difficile per me? » strillò Iris, balzando in piedi. Avvertì gli occhi inumidirsi di rabbia e, prima che la sua frustrazione prendesse il sopravvento, abbandonò la stanza a grandi passi.
« dove vai adesso? » le urlò la madre, rincorrendola:
« fuori di qui! » e, sbattendo la porta, Iris lasciò casa Levine.
 
Alla maleducazione di certi clienti, un impiegato non può far altro che rispondere con l’indifferenza e la rassegnazione. Ripiegare per l’ennesima volta magliette che erano state messe alla rinfusa sullo scaffale, sistemare articoli nella loro posizione originale erano alcune tra le attività che rappresentavano la routine di Dake, impiegato alla Pentathlon. Tuttavia non erano quelle sciocchezze di poco conto a fargli trovare sempre più insopportabile il suo lavoro: alle sue spalle, dietro la cassa, erano appesi poster magnifici di mari esotici e montagne innevate, luoghi che un esploratore come lui sognava di visitare. Passava le sue giornate rinchiuso in quel negozio, immaginandosi a condurre una vita diversa, piena di avventure.
Quel giorno non c’erano molti clienti e il personale di cui faceva parte era più che sufficiente per gestirli. Mentre era intento a rialzare uno dei cartelli dei prezzi caduti in vetrina, riconobbe una chioma rosso fuoco passare a pochi centimetri da lui: se non fosse stato per il vetro, barriera impenetrabile, avrebbe anche potuto toccarla. Istintivamente portò il palmo contro la superficie trasparente, lasciando l’impronta delle impronte digitali, mentre Iris si allontanava da lui:
« Eddy! » chiamò, voltandosi verso l’interno del locale « devo uscire. Mi copri tu? »
Un ragazzo con una maglia azzurra, sollevò l’indice e senza però staccare gli occhi da un noioso registro di nomi che stava consultando. Dake afferrò il cappotto e si precipitò fuori del locale, svoltando a destra, nella stessa direzione che aveva visto sfrecciare l’amica.
« Iris! » la chiamò da lontano. La ragazza si voltò e lo vide avanzare verso di lei.
« Dake…» mormorò sorpresa. Aveva le guance arrossate dalla corsa e il fiato corto per lo stesso motivo. Gli occhi erano inumiditi dal rancore verso il generale Levine, suo padre e il freddo pungente di metà febbraio contribuiva a renderli ancora più lucidi.
« ti ho appena vista passare davanti al negozio » spiegò il biondo, indicando la vetrina a pochi metri di distanza dietro di loro.
La rossa si guardò attorno disorientata: si era allontanata da casa, talmente sovrappensiero, da perdere la cognizione di dove si trovasse o stesse andando. A pochi passi si trovava la piazza con la fontana e i portici con i negozi più chic della città: era in centro.
« ah » commentò « non mi ero resa conto di essere arrivata fino a qui »
Degluitì leggermente, schiarendo una voce che era uscita leggermente roca.
« qualcosa non va? » si preoccupò il ragazzo, incurvandosi verso di lei. Iris scosse il capo, sorridendo leggermente:
« non è niente » sviò.
« quando voi donne dite non è niente, si cela un tutto lì dietro » scherzò Dake, per stemperare l’atmosfera.
La ragazza sollevò le spalle, lasciandosi sfuggire un sorriso triste. Vedere l’amico l’aveva messa di buon umore al punto da proporgli:
« ce li hai due minuti per una cioccolata calda? »
«per te anche tre »
 
« spiegatemi perché abbiamo giocato oggi proprio oggi! Mettere una partita il giorno di San Valentino! Non hanno pensato a tutti quei poveri ragazzi che aspettano questo giorno per tromb-… per stare insieme alla propria ragazza » si corresse all’ultimo, intercettando l’occhiataccia di Boris.
« un po’ di finezza Trevor » lo redarguì il coach « e comunque arriveremo a Morristown nel primo pomeriggio, hai tutto il tempo per stare con Brigitte »
« non sono l’unico che si lamenta. Sai come sono le donne no? Si aspettano sempre qualcosa per San Valentino e l’unica cosa che potrei regalarle oggi è la palla della partita »
« la vuoi smettere di rubare i palloni? » ridacchiò Steve « una volta o l’altra questa storia ci si ritorcerà contro… e poi si può sapere che cosa te ne fai di tutte queste palle? »
« ma se ne avrò prese solo tre o quattro in questi ultimi anni »
« non contare balle! » ridacchiò Wes, sporgendosi verso l’ala grande della squadra, seduta dietro di lui « te ne sarai portati a casa almeno una decina »
« li colleziono » dichiarò il ragazzo.
« non è che li ricicli come regali di compleanno? » s’intromise Liam « quello che mi hai regalato l’anno scorso mi era familiare… »
Nel pullman calò il silenzio seguito da una risata fragorosa.
« ma sei un coglione Trev! » finse di indignarsi Liam, circondato dalle risate generali; Boris aveva rinunciato a seguire il resto del discorso, scuotendo la testa divertito.
« dovremo risarcire le palestre a cui sono stati sottratti quei palloni? » s’innervosì il professore Faraize. Boris rispose con un gesto sbrigativo della mano, indicandogli che non era necessario preoccuparsene; ora che era venuto al corrente di quella strana e discutibile abitudine di Trevor, si sarebbe assicurato che in futuro non si ripetesse.
« quindi non hai preso niente per Brigitte? » riepilogò Steve, rivolgendosi verso il compagno di squadra.
« macché, sono stato talmente preso dagli allenamenti che non ci ho neanche pensato. Merda… si incazzerà di sicuro »
« passerai San Valentino in bianco » lo schernì Wes.
« tu sta’ zitto che non ce l’hai ancora la tipa »
« perché sto aspettando di conoscere la nipote di Boris » sussurrò il ragazzo.
Sulle labbra di Trevor affiorò un sorriso sardonico: conosceva perfettamente quella parentela, ma rivelare a Wes che la bionda nipote di Boris era in realtà un ragazzo, era una rivelazione che doveva rimanere ancora nascosta. Tornò a pensare a Brigitte e all’inevitabile litigio che l’avrebbe aspettato, se si fosse fatto trovare a mani vuote. Non aveva tempo per trovare un altro regalo, anche perché la ragazza gli aveva anticipato che l’avrebbe aspettato davanti al liceo, dove il pullman avrebbe finito la sua corsa.
Erano due settimane che non si vedevano e i suoi bisogni fisiologici cominciavano a farsi pressanti. Non poteva giocarsi così male il giorno più romantico dell’anno. Data l’impellente necessità della situzione, un pensiero gli balenò in mente, facendolo sorridere con astuzia: si voltò verso il sedile dietro al suo, appoggiando il mento contro il poggia testa: incrociò lo sguardo di Dajan che lo fissò di sottecchi, mentre il cestista aveva un’espressione inquietante:
« Dajanino… » sibilò, pur sapendo quanto quel nomignolo irritasse il capitano. Quest’ultimo, rimasto estraneo ai discorsi dei compagni a causa della musica che stava ascoltando, si levò le cuffie e domandò:
« che hai detto? »
« non è che potresti darmi il regalo che hai preso per Kim? »
« come? Come? » urlò Wes, due posti più indietro rispetto a Dajan « al capitano piace Kim? »
« ma sta’ zitto cretino! » avvampò Dajan. Si sporse in avanti con circospezione: le due ragazze della squadra erano sedute nei posti più avanti e sembravano non aver sentito quella battuta.
« ti piace davvero! » insistette Liam « perché non ce l’hai mai detto? »
« mica sono cazzi vostri! » si arrabbiò Dajan, sempre più in difficoltà.
« e io che pensavo che ti piacesse Erin» commentò Benjamin sorpreso:
« semmai quello era Castiel, anche se ho dei dubbi visto che a mala pena le scrive » riconobbe Steve, uno dei cestisti con cui Erin era entrata più in confidenza.
« ah ma quello non conta » lo liquidò Trevor « Castiel è sempre stato strambo. Le cose che fa, hanno senso solo per lui… però non è questo il punto » puntualizzò il ragazzo e, tornando a rivolgersi al suo migliore amico, insistette « dammi il tuo regalo Daja, tanto non avrai nemmeno le palle per darlo a Kim oggi » lo provocò.
« vuoi scommettere? » reagì d’impulso il capitano, pentendosene all’istante. Aveva scelto un peluche a forma di coniglietto con una divisa da velocista. Appena l’aveva visto, aveva pensato subito a Kim, anche se non era sicuro che lei avrebbe apprezzato quel genere di pensierini.
« scommettiamo! » esultò Trevor, allungandogli il braccio e volgendo il palmo verso l’alto « se lo fai, rapisco Kiki e lo restituisco alla preside rapato con la cresta. Se vinco mi cedi il titolo di capitano »
Dajan esitò prima di schiacciare il suo contro quello del compagno. Seguì poi uno scambio di pugni chiusi, nocche contro nocche e il patto venne sigillato. Teneva troppo al titolo di capitano della squadra e, mettendolo in palio, vincolava sé stesso a smetterla di tergiversare e dichiararsi a Kim.
« possibile che le tue scommesse prevedano sempre dei piani criminali? » sbuffò Steve che, in un contesto simile, si era visto costretto a presentarsi in classe con il kilt. Erano anni che Trevor usava il cane della preside nelle sue scommesse e il desiderio di vedere quella bestiola con una cresta ribelle, era tale da spingere tutti ad accettare le eccentrice scommesse del ragazzo. In due anni però, nessuno era mai riuscito a spuntarla: sembrava che Kiki avesse una sorta di angelo custode e di riflesso, Trevor vinceva sempre. Quella volta però, aveva messo in palio un titolo talmente importante che, forse, poteva togliere a tutti la curiosità di vedere Kiki in un outfit più trasgressivo.
Dajan sprofondò nella poltrona e si rimise le cuffiette al loro posto. Sentiva crescere l’ansia e la tensione per il momento in cui sarebbe sceso dal pullman e avrebbe affrontato quella ragazza che nelle ultime settimane era diventata il suo chiodo fisso.
 
« è una vita che sento mia madre dire che manchiamo a nostro padre e menate varie, ma mi dà fastidio che non sia vero! Certo, il suo lavoro gli impone di starsene lontano per la maggior parte del tempo, ma quando è a casa, si comporta come se fosse un estraneo. Da piccola piangevo un sacco ogni volta che se ne andava, perché per me lui era il mio papà, doveva stare a casa con noi… e invece crescendo ho capito che siamo solo un peso »
Da quando si erano seduti nel locale, Iris aveva rimosso la valvola che frenava le sue angosce e, con l’impetuosità di un fiume ingrossato da una tempesta, lasciava che fluissero verso Dake. Il ragazzo la ascoltava in silenzio, senza osare interromperla, ma pronto a sorreggerla qualora quell’onda di emozioni la inondasse al punto da farla affogare. Aveva condotto Iris in un’accogliente cioccolateria, con una scenografica cupola di vetri colorati i cui riflessi si proiettavano nel locale interno, grazie ai fiochi raggi solari.
« mia madre si ostina a far finta di nulla, a inculcare ad Adam l’idea che papà ami la sua famiglia, ma così lo sta solo illudendo, esattamente come ha illuso me » concluse la rossa, sospirando gravemente. La panna che aveva decorato la superficie cioccolato si era ormai liquefatta ed era fuoriuscita dalla tazza, lasciando delle strisce marroncine.
Dake ancora non parlava così la rossa mormorò mortificata:
« scusami Dake, ti ho vomitato addosso tutte le mie lagne. Sono proprio pesante, scusami »
Il biondo sorrise comprensivo e cercò il contatto con la mano della ragazza, che rabbrividì leggermente.
« ehi » la consolò con dolcezza « è a questo che servono gli amici no? »
Lei arrossì, ringraziandolo con lo sguardo:
« tuo padre non ha ancora capito cosa si perde restando lontano da voi… però non è mai troppo tardi per recuperare un rapporto no? »
« non ne sono convinta. Crescendo ho capito che stiamo meglio senza di lui »
Dake allungò la schiena all’indietro e si massaggiò il collo:
« anche io non vado granchè d’accordo con i miei. In realtà la mia famiglia mi sta abbastanza sulle scatole, tranne mio zio Boris »
« Boris è in gamba. Erin me ne parla sempre bene » convenne la rossa, decidendosi finalmente ad assaporare la cioccolata calda.
« già… e se non fosse stato per lui, io e mio padre saremo ancora ai ferri corti. A volte bisogna metter da parte l’orgoglio e trovarsi a metà strada »
« la mia non è solo una questione di orgoglio. È che non sopporto di voler bene ad una persona che non me ne vuole »
« sono sicuro che non sia così per lui »
« lo dici solo per consolarmi » commentò amaramente Iris.
Dake fece spallucce e proseguì:
« direi che non sta funzionando eh? »
Vide il viso di Iris addolcirsi e guardarlo con tenerezza:
« invece mi sento meglio dopo aver parlato con te… grazie »
Lui si limitò a restituirle quello sguardo e, distrattamente, gettò l’occhio sull’orologio appeso alla parete:
« sarà meglio che ti lasci andare » ragionò Iris, leggendogli nel pensiero « ti ho fatto perdere anche troppo tempo »
« figurati, non è stato tempo perso. Comunque Iris, non lasciarti sopraffare dal rancore verso tuo padre, altrimenti non riuscirai mai ad essere felice. Ciò che più conta è che tu hai ancora la possibilità di costruire qualcosa… altre persone non sono così fortunate » e prima che Iris potesse obiettare qualcosa, Dake proseguì « Rosalya ad esempio. Suo padre non l’ha mai conosciuto, ma pagherebbe qualsiasi cosa per conoscerlo »
La ragazza non aggiunse altro: sapeva della situazione familiare dei fratelli White, orfani di entrambi i genitori e costretti a vivere con i nonni. Eppure, non aveva mai sentito né Lysandre né Rosalya lamentarsi per quella mancanza. Cominciò così a rivedere le cose da un’altra prospettiva e riuscì a intuire un barlume di speranza nel nero rancore in cui era sprofondata. Si alzò in piedi, frugando nella borsa alla ricerca del portafoglio e borbottò:
« questa volta pago io. Grazie ancora Dake »
Il ragazzo però assecondò quella richiesta:
« sta buona, faccio io »
« ma- »
« la cioccolata la offro io e poi… oggi è San Valentino » maliziò con un sorriso complice « consideralo un pensierino da parte mia »
Iris lo replicò, rimanendo disorientata da quella frase, mentre il ragazzo si limitò a farle l’occhiolino.
 
Dajan scese dal pullman con un’espressione tetra. Il conto alla rovescia era terminato. Osservava da lontano Kim, intenta a chiacchierare con Wes ed Erin. Quest’ultima intercettò l’occhiata furtiva del capitano e, cominciò a gesticolare, facendogli segno di avvicinarsi.
« facciamo la strada insieme? » lo invitò, riferendosi a lei e gli altri due. Il ragazzo la ringraziò mentalmente, per quell’occasione che gli veniva offerta su un piatto d’argento.
« ricordati la scommessa » gli rammendò una voce inquietante alle spalle. Dajan si voltò, per fulminare Trevor che, alla vista di Brigitte, trotterellò via, scodinzolando allegro.
I due si allontanarono in fretta, cosicchè nessuno dei suoi compagni potè assistere alla reazione della ragazza, rimasta senza regalo di San Valentino. Ben presto, anche il resto della squadra si dileguò, ciascun membro diretto verso la propria casa.
Il quartetto composto da Erin, Kim, Dajan e Wes perdette ben presto quest’ultimo, che aveva la fortuna di abitare a pochi metri di distanza dal liceo. I tre rimasti, proseguirono a parlare del torneo e dei futuri avversari, a detta di Dajan, probabilmente i più forti che avesse mai incontrato.
Da lontano Erin vide la pubblicità del negozio di cd di Madison Street, strada che conosceva fin troppo bene dal momento che nelle ultime settimane, ogni weekend, la percorreva.
« ragazzi, io taglio per di qui. Casa mia non è lontana »
Sperava che nessuno dei due compagni di squadra obiettasse che quella indicata, non era affatto una scorciatoia per arrivare in via Kennedy, ma per sua fortuna, ciò non accadde: Kim aveva sì contratto la fronte ma prima di esternare la sua contrarietà, Dajan si era intromesso:
« d’accordo. Allora ci vediamo agli allenamenti. Buona serata »
La liquidò con una tale fretta, che in Erin si insinuò il sospetto che avrebbe dovuto lasciarli soli molto prima. Tuttavia, per nulla risentita per la poca grazia con cui veniva congedata, svoltò a destra, mentre i due cestisti prendevano la direzione opposta.
Se con loro ci fosse stato Castiel, avrebbe protestato all’idea di lasciarla andare in giro da sola ma in fondo, il sole non era ancora scomparso all’orizzonte e per le strade c’era molto movimento. Per quante arie da duro volesse associare alla sua immagine, Erin sapeva quanto quel ragazzo sapesse essere protettivo nei suoi confronti.
Più di mezz’ora prima, le aveva telefonato Iris, raccontandole del suo incontro fortuito con Dake. Avevano consumato una cioccolata calda insieme, in uno dei locali più in della città. Quando Erin aveva sostenuto che tra di loro ci fosse del tenero, l’amica aveva negato con decisione, ma del resto, lei stessa, quando in passato le sue amiche insinuavano che fosse interessata a Castiel, non riusciva ad accorgersene.
Era così che Iris aveva passato il pomeriggio di San Valentino in dolce compagnia, mentre lei si era rinchiusa in palestra, sforzandosi di non pensare a l’unico ragazzo che riusciva a occupare i suoi pensieri almeno tre volte al giorno. Fosse stata la sua ragazza, poteva sperare in una qualche sorpresa da parte sua, ma lei era solo sua amica. Una banale e, per certi versi quasi insignificante, amica.
Erano più di due mesi che non lo vedeva accanto a lei, eppure le sembravano molti di più. Portare a spasso Demon una volta alla settimana era un pretesto per passare davanti a casa sua, attenuando in qualche modo quella logorante nostalgia. Con Mauro era entrata in confidenza e, in alcune occasioni, l’uomo l’aveva addirittura invitata a bere un caffè insieme, italiano, come sottolineava orgogliosamente l’uomo, esibendo una miscela con la scritta Lavazza.
Durante le loro chiacchierate, Erin aveva scoperto alcuni aneddoti della vita di Castiel dopo il suo trasferimento in quella casa, che risaliva ormai quasi tre anni prima. All’inizio non salutava nemmeno Mauro, nonostante i modi affabili dell’italiano, ma con il tempo, l’uomo era riuscito a penetrare nel carattere chiuso del ragazzo, che finì per considerarlo una sorta di zio attempato.
Erin cercò nel borsone il mazzo di chiavi, da cui isolò quella del cancello di Castiel: Mauro si fidava di lei al punto da lasciarle quella via di accesso, in modo la ragazza fosse libera di portare a spasso Demon ogni volta che lo desiderava.
Appena il cane sentì dei rumori dietro la siepe, drizzò le orecchie, sull’attenti. La mora nel frattempo borbottava tra sé e sé parole sconnesse che bastarono a Demon per riconoscere l’autrice della voce: cominciò a saltellare euforico verso di lei, che lo accolse con un sorriso a trentadue denti:
« anche io sono contenta di vederti Demmy » lo salutò, riuscendo a sbloccare la serratura. Appena mise piede nel giardino, il cane si mise su due zampe, slinguazzandola di saliva:
« che slancio di affetto! Tu sì che sai tirare su il morale di una donna!” si congratulò divertita la ragazza, cercando di sedare l’entusiasmo del cagnone « altro che quello scemo del tuo padrone. Dovresti dargli ripetizioni Demmy… »
Il cane guaì eccitato e corse verso la veranda della casa, dove la ragazza riponeva il guinzaglio. Trepidava all’idea di essere portato a spasso ma, purtroppo per lui, non rientrava nei piani della ragazza:
« che poi dico io… una telefonata… non è difficile da fare no? » continuò il suo monologo appena Demon tornò da lei per la seconda dose di carezze. Si lasciò grattare dietro l’orecchio destro, punto che Erin aveva scoperto essere uno dei suoi preferiti.
« posso capire tutto, ma perché diavolo sparire così? »
Demon abbaiò rumorosamente ed Erin annuì convinta:
« hai ragione… però rimane il fatto che sia uno scemo »
L’animale ripetè il verso con maggior vigore, e la ragazza si indispettì:
« non provare a difenderlo Dem! Siamo alleati ora io e te! »
Una risata elegante la fece sobbalzare; da quando aveva incrociato lo sguardo del cane, si era completamente isolata da quanto la circondava, senza curarsi di abbassare un tono di voce tendenzialmente alto. Si voltò di scatto verso la strada e, tenuto a distanza dalla siepe frondosa, vide la figura longilinea di Lysandre:
« d-da quando sei lì Lys? » balbettò Erin in preda all’imbarazzo.
« da quando Demon ha qualcosa da ridire sul fatto che il suo padrone sia scemo »
« non bisognerebbe origliare » lo rimbeccò la mora, cercando di sbollire la vergogna e incrociando le braccia al petto.
« è inevitabile sentire quando il volume di una conversazione è troppo elevato »
La ragazza schioccò le labbra e scrollò le spalle:
« però potresti evitare di dirlo agli altri? Non ci faccio una bella figura a fare la parte di quella che parla con i cani »
« non c’è niente di male. Se ti capitasse di sentire Castiel poi... una volta io e Nathaniel ci siamo ascoltati dieci minuti buoni di conversazione tra lui e Demon. Se solo non avessi starnutito, Castiel non se ne sarebbe accorto e avrebbe continuato per altri dieci » considerò con rammarico.
Erin scoppiò a ridere e si incuriosì:
« e di cosa parlava? »
« non essere impicciona Erin » la punzecchiò Lysandre. Preferiva non dirle che in quell’occasione il ragazzo era perso a parlare di Debrah e di cosa avesse provato la prima volta che l’aveva vista.
« detto da uno che se ne va in giro ad origliare i dialoghi altrui…  » obiettò Erin.
« tuscè » replicò semplicemente il poeta, alzando le braccia in segno di resa. La mora sorrise e volse un ultimo saluto a Demon:
« sono passata solo a salutarmi Demmy… adesso è tardi per portarti a spasso »
Il cane guaì; anche se non parlava la sua lingua, dallo sguardo stanco di Erin sembrò capire che non avrebbe lasciato il giardino per quel giorno.
Facendo attenzione a non lasciare uscire il cane, Erin si richiuse il cancello alle spalle, tornando sul marciapiedi dove sostava Lysandre.
« Rosalya mi ha detto che vi siete qualificati per la semifinale »
L’amica annuì con orgoglio e aggiunse:
« e ci qualificheremo anche per la finale »
Lysandre sorrise e si sistemò la sciarpa fino alla punta del naso:
« vai a casa ora? »
« sì, mia zia mi sta aspettando »
« allora ti accompagno. Si sta facendo buio »
« non scomodarti Lys… e poi c’è ancora un po’ di luce »
Il poeta sorrise e mormorò sibillino:
« che c’è? Solo Castiel si può arrogare il diritto di proteggerti fino a casa? »
« ma non dire sciocchezze! » lo zittì Erin arrossendo imbarazzata.
« allora andiamo » tagliò corto l’amico, con un sorrisetto beffardo stampato in volto.
 
Erano rimasti in silenzio da ormai due minuti da quando si erano separati da Erin, e quel silenzio gravava enormemente su Dajan, contribuendo ad incrementare il suo nervosismo.
Era arrivato il momento di smetterla con i tentennamenti e le indecisioni. Aveva già rischiato di perderla l'anno prima, quando la prudenza e l'insicurezza avevano preso il sopravvento.
« Dajan... » lo chiamò Kim.
Il ragazzo sussultò, come se per un attimo avesse temuto che lei potesse leggergli nella mente.
« devo dirti una cosa » proseguì.
Lui cacciò dentro un grumo di saliva, avvertendo la pressione che aumentava. Forse stavano pensando la stessa cosa, con la differenza che Kim era molto più coraggiosa di lui, cosa di cui per altro era convinto in ogni caso.
« si tratta di cosa succederà dopo il torneo... »
« ah » fu l'unico commento che gli uscì,  strozzato dalla gola che ormai era arsa dalla tensione.
« sì... vedi... il basket è... una figata. Davvero. Non pensavo che mi sarei divertita tanto a giocare per una squadra ma... » indugiò Kim.
« ti manca correre » completò lui. Il tono di voce gli era uscito piatto e inespressivo, al punto da preoccuparla. I loro sguardi si incrociarono, incontrando da un lato il sorriso rassegnato del ragazzo e dall'altro quello ansioso di lei.
« lo capisco Kim. È da quando ti conosco che ti brillano gli occhi quando parli della pista. Del resto, per me è lo stesso quando si tratta del basket »
« già » rifletté la ragazza tra sé e sé con un'espressione trasognante. La passione che metteva Dajan in quello sport l'aveva conquistata e rientrava tra le tante caratteristiche di lui che più amava.
« quindi, finito il torneo, sentiti pure libera di tornare nel club di atletica, sono sicuro che ti riaccoglieranno a braccia aperte; ci saranno i campionati in primavera e tu sei la velocista di punta del liceo »
Dajan aveva proseguito il suo discorso con un sorriso incoraggiante, smorfia che in Kim riusciva sempre a scaldarle il cuore. Il ragazzo nel frattempo, cercava di far proseguire la conversazione senza che lei notasse che in realtà erano ben altri i sentimenti che animavano la sua coscienza. Una volta conclusosi il torneo, non aveva più pretesti per incontrarla tutti i giorni, trascorrere i weekend insieme; doveva decidersi e, anche se settimane prima si era ripromesso di rimandare quel discorso a dopo quell’importante evento, l'attesa era sempre più insostenibile. Trevor era convinto che per la mora, Dajan non le fosse indifferente e il dubbio che l’amico avesse ragione, lo torturava. Doveva saperlo, a costo di giocare la semifinale con il morale a terra e l'orgoglio annientato.
« senti Kim, io... »
« tesoro finalmente! »
La voce stridula di Lois, madre di Kim, li fece sobbalzare. La videro percorrere tutta eccitata il vialetto di casa Phoenix, avvicinandosi a loro.
« cominciavo a preoccuparmi! Non dovevate arrivare mezz'ora fa? »
« mi scusi » si colpevolizzò il capitano della Atlantic « colpa mia che ho fatto allungare la strada a Kim »
Appena realizzò che la figlia aveva trascorso parte del suo tempo libero in compagnia del ragazzo, Lois si sciolse in un sorriso malizioso:
« oh, ma se avessi saputo che era con te, non mi sarei nemmeno preoccupata! » ridacchiò civettuola. Kim sollevò gli occhi al cielo, irritata dal comportamento di una madre così diversa da lei, alla quale comunque voleva un sacco di bene.
« complimenti per la qualificazione. Sarete molto orgogliosi ed eccitati » proseguì la donna, fermamente intenzionata a trattenere il più possibile il ragazzo. Quest'ultimo le sorrise e, diversamente dalla cestista accanto a lui, non sembrava infastidito da quella presenza ciarliera ed allegra.
«beh sì, i nostri prossimi avversari poi sono degli ossi duri. Boris ha detto che il vero torneo comincia con quella partita » dichiarò il moro.
« a quelli ci penserete la settimana prossima. Quello che conta ora come ora è l’opportunità e la visibilità che vi ha offerto questo evento no? Siamo molto orgogliosi di Kim e della sua borsa di studio per la NC Tar Heels »
Quella frase ebbe un impatto completamente diverso sui visi dei due giovani: la cestista sgranò gli occhi, incentrando successivamente lo sguardo infuocato verso la madre, mentre Dajan era spiazzato.
« che significa? » chiese, guardando la ragazza accanto a lui.
« oh, perché non gliel’hai detto Kim? » si arrabbiò Lois,
« mamma » mormorò la figlia a denti stretti « puoi tornartene dentro casa? »
La donna stava per protestare ma l’ennesima occhiataccia silenziò ogni discussione. Inoltre, vedendo lo sguardo sconvolto di Dajan, realizzò a malincuore di aver appena sganciato inconsapevolmente una bomba a orologeria. Liberò il campo, con la coda tra le gambe, volgendo un saluto al ragazzo che rispose quasi assente:
« il North Carolina Tar Heels? » ripetè sempre più incredulo « che significa? Hai già presentato domanda? Ma non dovevamo andare insieme al college nel Kentucky? E poi tu non puoi presentare la domanda, ti diplomi l’anno prossimo! » protestò.
« infatti non ho presentato un bel niente » chiarì Kim « solo che la settimana scorsa mi ha chiamato un talent scout. Dice di avermi vista al torneo e che lavora per i Tar Heels. Sostiene che il college è disposto ad offrirmi una borsa di studio se accetto di entrare nella squadra femminile di basket »
« perché cazzo non me l’hai detto prima? »
Il nervosismo crescente di Dajan gli fece accantonare le buone maniere, mettendo ancora più in difficoltà Kim.
« te l’avrei detto dopo il torneo »
« perché aspettare così tanto? » tuonò. Non l’aveva mai visto così arrabbiato e non riusciva a darsi una spiegazione diversa da quella che rappresentava il motivo del suo silenzio: Dajan la odiava perché le era stata offerta un’opportunità che a lui era stata negata.
« non volevo che mi odiassi… » mormorò mogia mogia.
« o-odiarti? » ripetè, sempre più sbigottito e furente:
« sì perché a me hanno concesso quell’occasione che tu stai aspettando da un sacco e-»
« mi credi davvero così meschino? » la attaccò il ragazzo, senza lasciarle il tempo per completare la frase. Kim aveva un’aria sempre più sperduta e confusa: non riusciva a riconoscerlo e inoltre, stava reagendo peggio di quanto avesse immaginato.
« non ti incazzare » disse con scarsa convinzione.
« mi incazzo eccome Kim! Prima mi vieni a dire che vuoi pensare solo a correre, mi danno a cercare un college in cui offrano borse di studio sia per l’atletica leggera e per il basket e poi non ti degni nemmeno di avvertirmi che hai cambiato idea! »
« ehi, nessuno te l’aveva chiesto! » scattò la ragazza sulla difensiva. Quelle parole erano state più veloci di lei ad uscire dalle sue labbra e, il fatto di tornare a serrarle, non bastò a ricacciare dentro il male che avevano inferto al ragazzo: Dajan non riuscì a replicare, sentendosi umiliato; lo riconosceva, non era stata Kim a chiedergli di trovare un college che andasse bene ad entrambi, era stato lui a fare tutto, con la speranza che un giorno l’avrebbero frequentato insieme. Si era reso ridicolo e patetico, convincendosi che anche la ragazza condividesse davvero quel progetto, invece aveva fatto solo finta di assecondarlo, per non ferirlo.
« scusami, non era quello che intendevo… » sussurrò Kim.
« sei stata molto chiara invece… me ne vado, mi sento già abbastanza idiota da non voler proseguire questo discorso »
Kim cominciò a tremare, ma non sapeva se fosse per il freddo o per la paura di aver appena dato un calcio alla sua possibilità di essere felice. Dajan le dava le spalle e si era incamminato lungo il marciapiede. Non sapeva cosa dirgli, perché qualunque parola sarebbe risuonata come una patetica consolazione e temeva di peggiorare la situazione. Questa volta aveva davvero rovinato tutto, per sempre.
Finito il torneo, sarebbero tornati ad essere due estranei.
 
Erin non aveva più nominato Castiel da quando avevano lasciato la casa dell’amico. Temeva che Lysandre ne approfittasse per prendersi gioco di lei, probabilmente perché aveva intuito cosa provasse per il ragazzo.  
Da un lato avrebbe voluto accertarsene direttamente, ma dall’altro temeva che esponendosi troppo con uno dei migliori amici di Castiel sarebbe stato controproducente. In fondo, Lysandre le avrebbe solo confermato una verità di cui lei era a conoscenza da mesi: nel cuore dell’amico, c’era solo Debrah.
Ripensò alle amiche, a Rosalya, in compagnia del suo Nathaniel, ed a Iris, a cui Dake aveva rallegrato la giornata. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di passare quella giornata in compagnia dell’amico lontano, le sarebbero bastate anche un paio d’ore insieme, a chiacchierare portando a spasso Demon.
« a che pensi? »
La domanda di Lysandre la riportò alla realtà; sul suo viso si leggeva la tristezza più acuta e, consapevole che non sarebbe riuscita a celarla all’amico, ammise:
« pensavo che questo San Valentino è stato parecchio deprimente »
« è solo una ricorrenza creata allo scopo di incrementare le vendite » asserì Lysandre.
« lo so, ma ciò non toglie il fatto che diventi un pretesto per guardarsi attorno e accorgersi di quanto possa essere bello stare con la persona che ami »
Il ragazzo non rispose, limitandosi ad aspettare che Erin aggiungesse qualcos’altro:
« a te Lys non manca mai Emma? »
Era la prima volta che affrontava un tema così personale con il poeta, ma le era venuta spontanea la domanda sull’ex dell’amico.
« non particolarmente. Con il senno di poi, vedo in lei cose di cui prima non mi accorgevo e per le quali non la rimpiango »
« quindi ora tu stai bene così, da solo? »
« sì… tu no? » indagò, fingendosi sorpreso. Ingenuamente Erin non colse il fatto che Lysandre riuscisse a leggere tutta la sua nostalgia per la lontananza da Castiel.
« non lo so più. Una volta era così. Non mi è mai importato di avere un ragazzo, anzi, pensavo che fosse un impiccio »
« un impiccio? » obiettò Lysandre, temendo di non aver capito.
« massì, dover rinunciare a una parte della propria libertà per vincolarla a quella di un’altra persona… privilegiare sempre lei, anteponendola a tutto e a tutti… pensavo fosse una cosa pesante, che alla lunga stanca »
« parla così chi non si è mai innamorato Erin » sentenziò il suo ascoltatore.
Erano arrivati davanti alla palazzina della ragazza che era quasi ora di cena.  La ragazza ripensò alle ultime parole che aveva sentito e precisò:
« già, infatti ora capisco quanto vero il contrario. Però non serve a niente innamorarsi se poi vieni lasciato solo »
Nessuno dei due aggiunse altro: lei aveva un’espressione malinconica ma che si sforzava di sembrare serena, mentre Lysandre sembrava pensare ad altro. L’amica lo salutò, mentre apriva il cancello, ringraziandolo per la cortesia di averla accompagnata. Prima che si richiudesse il portoncino alle spalle, il ragazzo la richiamò:
« Erin »
La mora fu costretta a girarsi mentre lui continuava, guardandola con dolcezza:
« sei una ragazza troppo speciale per essere lasciata da sola »
Lei sorrise, arrossendo timidamente e in un sussurro che solo il labiale permetteva di interpretare pronunciò un:
« grazie »
 
« niente rutti. Non urtare la gente dietro di me. Non parlare di videogiochi, anime, manga o affini… » erano dieci minuti che Armin, rinchiuso nell’isolamento della sua macchina, ripeteva sommessamente le raccomandazioni del gemello. Era un fascio di nervi in vista dell’evento a cui avrebbe partecipato assieme a lei, Ambra. Lo smoking, comprato apposta per l’occasione, lo faceva sentire a disagio, anche se sua madre, appena l’aveva visto si era commossa mentre il padre aveva ringraziato il cielo che, almeno all’apparenza, suo figlio potesse sembrare una persona seria.
« grazie al cazzo papà » gli aveva risposto « prima mi trasmetti i geni del nerd e poi te la prendi se seguo le tue orme? » lo aveva rimbeccato offeso il figlio, mentre la madre li lisciava l’abito.
Sospirò profondamente, cercando di calmarsi. Il tentativo però non gli riuscì e premette con maggior insistenza sull’acceleratore, mancando anche un semaforo rosso.
Si allentò la stretta della cravatta blu attorno al collo, ma le sembrò che non si fosse mossa di un millimetro. Quella sensazione, unita al ritmo frenetico del suo battito cardiaco, accentuarono in lui la consapevolezza che quella sera sarebbe morto di insufficienza respiratoria.
 
« oh Ambra, sei meravigliosa » si commosse Molly, sistemando la gonna dell’abito della ragazza. era abituata a vederla con i vestiti più belli, portati con eleganza e sicurezza, ma mai come quella sera, era stata più bella. Il vestito era stretto sui fianchi, accentuando il ventre piatto della bionda, scendeva poi largo, ma senza eccedere, verso il basso. La stoffa, color verde petrolio, s’intonava perfettamente ai capelli dorati, raccolti da un elegante chignon. Il corpetto decorato sul seno da una tempesta di diamanti, attirava l’attenzione sul decolté, riflettendo la luce dell’ambiente:
« lo dici tutte le volte Molly, e io farò finta di esserne lusingata, come sempre » scherzò.
Sentirono il campanello suonare e le due donne si guardarono all’istante:
« Armin » mormorarono in coro.
Molly uscì immediatamente dalla stanza, ma percorrendo l’ampia scalinata, vide la signora Daniels avvicinarsi alla porta.
Appena Ingrid si trovò di fronte Armin, celò in modo molto superficiale il suo disprezzo:
« b-buona sera signora Daniels » si presentò il ragazzo.
« buona sera a te Armin. Immagino che mia figlia arriverà a momenti » tagliò corto.
La cafonaggine della signora Daniels era direttamente proporzionale alla sua bellezza, che i figli avevano ereditato quasi in toto.
« Armin! » lo accolse Molly, con uno spirito ben diverso da quello che aveva ricevuto dall’altra donna.
« ciao Molly. Come stai? » esclamò il ragazzo sollevato, sentendo il sangue tornargli al cervello.
« benissimo, ma dovresti venire a trovarmi più spesso, mascalzone! » lo rimproverò, schiaffeggiandogli il viso.
Il ragazzo ridacchiò nervosamente, sentendosi addosso lo sguardo sprezzante di Ingrid; quest’ultima si decise infine di abbandonare la sala, lasciando l’ospite in compagnia della governante. Mentre risaliva le scale, soggiunse Ambra, in direzione opposta.
Appena la ragazza comparve nel suo campo visivo, Armin dimenticò Molly e Ingrid: vide solo lei, vestita come una star di Hollywood e con una grazia e bellezza di un’attrice europea. Lei era impeccabilmente bella e perfetta, non ad uno, ma a dieci livelli al di sopra della sua portata. Proprio come la posizione sopraelevata da cui aveva fatto il suo ingresso. Mentre scendeva le scale, intercettò la madre che, passandole accanto, le bisbigliò:
« abbiate l’accortezza di parcheggiare lontano. Arrivare a bordo di un’utilitaria va bene solo peri poveracci, cerca di avere almeno un po’ di rispetto per il nome della tua famiglia »
Nonostante l’acidità di quelle parole, Ambra le ignorò in pieno: guardava Armin, deliziata da quell’immagine così seria ed elegante alla quale non era abituata. Era sempre stata convinta che il ragazzo non fosse l’idiota che voleva far credere a tutti e vederlo quella sera, in smoking, ne ebbe la conferma.
« giuro che se ti avessi visto per strada non ti avrei riconosciuto Evans » scherzò, appena si avvicinò ai due che la stavano ammirando dall’ingresso.
« in realtà perfino io non mi sono riconosciuto quando mi sono visto »
« ragazzi andate, altrimenti farete tardi » li esortò Molly, eccitata dall’elettricità nell’aria.
Sospinse entrambi fuori dalla villa e, senza dare loro il tempo di salutarla, chiuse la porta.
 
« chi era? »
Gustave aveva rivolto quella domanda alla moglie che era appena rientrata nel suo studio. Era intento a controllare il rendiconto dell’ultimo mese, anche se quello non era il momento più opportuno per dedicarsi ad una simile attività.
« solo l’amico di Ambra. Ancora stento a capire cosa ci trovi in lui: interessarsi ad una persona così… » e dopo aver esitato cinque secondi per trovare il termine più appropriato, Ingrid sentenziò: «… insulsa »
« deve essere un vizio di famiglia » commentò sarcastico il marito, sapendo che la moglie mai avrebbe colto l’implicita offesa che le era rivolta. La donna infatti lo scrutò confusa e squittì:
« che intendi caro? » ma, senza aspettare una risposta, proseguì « oh, non mi interessa. Sbrigati che dobbiamo andare. Cinque minuti e ci vediamo giù »
 
Appena entrò nel salone del ricevimento, il lusso di quell’ambiente fece annegare Armin in un mare di disagio e senso di disadattamento. Ogni dettaglio della stanza era riccamente curato e decorato, vi erano affreschi alle pareti e, cosa non meno ammirevole, un buffet ben nutrito, adornato dei cibi più sofisticati, la maggior parte dei quali totalmente nuovi per il ragazzo. Da ogni angolo, frammisti agli ospiti, si muovevano dei camerieri dall’avvenente presenza reggendo in mano vassoi con drink o stuzzichini vari.
« non fare quella faccia » ridacchiò Ambra, notando la bocca spalancata del ragazzo che in quel momento ricordò le raccomandazioni di Rosalya:
« … e per l’amor del cielo Armin, quando entrerai nel salone, non fare la sua solita faccia da ebete quando rimani senza parole »
Il ragazzo si ricompose e seguì Ambra verso il centro della sala:
« se siamo fortunati, in mezzo a tutta questa gente, eviteremo di incrociare i miei più del necessario »
Lui però la ascoltava a fatica: la stoffa verde petrolio del suo abito si muoveva al ritmo dei suoi passi e, per l’ennesima volta nell’arco di poco tempo, il ragazzo ammirò la figura snella e raffinata della sua accompagnatrice. Lei gli dava le spalle, camminando con portamento fiero e sicuro, così lui ne approfittò per lasciare che i suoi occhi indugiassero ancora un po’ sul suo corpo. Il vestito la valorizzava al massimo: il colore metteva in risalto i capelli color oro e la pelle candida mentre il taglio aderente sui fianchi ne sottolineava il fisico modellato, a cui i suoi impulsi maschili non potevano restare indifferenti. Ambra era davvero la ragazza più bella che avesse mai visto e, proprio per questo, la più irraggiungibile.
« ehi, mi stai ascoltando? » ripetè la bionda, girandosi di scatto. La sua mossa fu talmente repentina che lui, troppo assorto nei suoi pensieri, non riuscì ad anticiparne le intenzioni, e finì con lo sbatterle contro.
« scusa! » borbottò imbarazzato. Lei lo fissò con curiosità e se ne uscì con un:
« tutto bene? Sei strano… »
« più del solito intendi? » scherzò il moro, cercando di recuperare la sua allegria e alleviare un po’ di stress che lo stava logorando. Ambra si lasciò strappare un sorriso e ripeté per la seconda volta l’affermazione che il ragazzo non aveva udito:
« lo vedi quell’uomo laggiù? »
La ragazza, in rispetto all’etichetta, non indicò nessuno ma inclinò il capo verso destra e proseguì con la descrizione « quello con la cravatta viola? Quello è Ian Stewart, il proprietario della »
« Pear » completò il ragazzo, sgranando gli occhi appena realizzò di trovarsi nella stessa stanza di un colosso dell’informatica.
« esatto. È un pesce grosso del settore, a confronto, quella di mio padre è un’azienda modesta »
« stiamo parlando di uno che fattura più di cento miliardi di dollari l’anno, chiunque impallidisce al suo confronto » considerò Armin, spostandosi per lasciar passare un cameriere.
« non è solo una questione economica » precisò Ambra « le idee che ha sfornato la sua impresa sono all’avanguardia e si vocifera che entro il 2021 lancerà »
« un dispositivo ultra tecnologico per l’analisi del DNA associato all’elaborazione di immagini »
Ambra rimase per un attimo in silenzio, fissando Armin con interesse. Era rimasta visibilmente perplessa da quell’uscita così esternò:
« e tu come fai a saperlo? Non hanno ancora diffuso anticipazioni in merito. A me l’ha detto mio padre, in via confidenziale »
Armin  deviò lo sguardo e, ridacchiando nervosamente, balbettò:
« b-beh, diciamo che i computer sono il mio mondo »
La bionda non si lasciò sfuggire quell’affermazione e obiettò:
« ma se prima di Natale mi hai detto l’esatto opposto! »
« quando? »
« alla vigilia… quando mi hai accompagnato a casa, dopo che avevamo lavorato al ristorante di Lin. Quella volta ti ho parlato di Nuvola Rossa e tu te ne sei uscito dicendo che il tuo mondo sono i videogame, non i computer »
Armin si grattò la nuca a disagio e mormorò ammirato:
« caspita Ambra, hai una memoria di ferro… »
« non hai risposto alla mia domanda » puntualizzò risoluta « perché quella volta non mi hai detto che sei un appassionato di pc? » insistette la ragazza, guardandolo sospettosa.
Armin incurvò le spalle, alzando le mani in segno di rassegnazione. Stava per replicare, quando i due sentirono una voce alle loro spalle:
« Ambra »
L’espressione della ragazza mutò improvvisamente nel più freddo distacco e guardò oltre la spalla sinistra di Armin:
« mamma » disse, quasi facendole il verso. Ingrid non approvò quel freddo saluto e storse le labbra tinte dal rossetto di Chanel. Gustave, accanto a lei, aveva un’espressione apatica, come se nulla di quanto lo circondasse, moglie compresa, fosse degno della sua attenzione.
« che ci fai qui isolata? » la aggredì velatamente la madre, insultando implicitamente l’inconsistente presenza del moro « dovresti occuparti di coltivare le pubbliche relazioni »
« pensavo che il mio intervento fosse superfluo, vista la foga che ci metti a ingraziarti questi ricconi » malignò la figlia, senza staccare lo sguardo per un secondo.
Gli occhi di Ingrid diventarono due fessure ma, di fronte ad un estraneo come lo era Armin, non poteva permettersi di perdere le staffe:
« te la rubo per un po’ » gli disse infine, brandendo il braccio della figlia « tu tesoro » esclamò, rivolgendosi a Gustave « cerca di non annoiarti in mia assenza » e se ne andò, trascinando Ambra con sé.
La bionda non oppose resistenza solo per non dare spettacolo: si sarebbe liberata il prima possibile dalle grinfie della donna e avrebbe cercato poi di sfuggire al suo radar per tutta la serata:
« non capisco perché perdi il tuo tempo con certi falliti » ringhiò sottovoce la madre, quando erano ormai lontani. Quella frase incendiò una tale rabbia nella bionda che non potè fare a meno di mollare la presa di scatto:
« non ti permettere certi termini » la redarguì con disprezzo. Ingrid la fissò dritta negli occhi, incrociando lo stesso sguardo in cui riconobbe quello del marito; quella sorta di silenziosa ma letale accusa nei suoi confronti, per la sua inadeguatezza come persona; come sempre, quel disprezzo la ferì, ma non si lasciò soverchiare dall’insicurezza e rispose con freddezza:
« d’accordo » si arrese « mi asterrò dal dire ciò che penso su di lui, ma rimane il fatto che non è adatto ad una ragazza nella tua posizione. C’è Dylan Rood in quel gruppo accanto alla statua di Venere, lo vedi? » le suggerì, senza guardare il suo obiettivo.
« e allora? » sbottò Ambra che aveva intuito le intenzioni della madre « ti aspetti che vada lì a fargli gli occhi dolci? » replicò con sarcasmo.
« sarebbe fantastico » assunse Ingrid, senza cogliere la nota di disprezzo su cui aveva puntato la figlia e, brandendole il braccio per la seconda volta, la trascinò con sé.
« mamma smettila! » le sibilò la bionda « ci stai mettendo in ridicolo! »
La donna però la ignorò e, con l’abilità di una che è abituata a quel genere di ambiente, venne introdotta nella conversazione tra il gruppo di uomini. Oltre a Dylan, figlio di un magnate dell’industria automobilistica, c’erano altri signori di un certo livello economico, ma era solo sul più giovane del gruppo che si concentrava l’interesse di Ingrid. La donna cominciò a ridere ad ogni battuta del ragazzo, anche delle più banali o addirittura squallide, mentre Ambra si torturava all’idea di cosa suo padre avrebbe detto ad Armin.
 
Da quando Ingrid aveva sequestrato Ambra, tra Armin e Gustave era piombato il silenzio. Il moro cerca disperatamente un argomento di conversazione ma gli risultava alquanto difficile. Del resto, anche se il signor Daniels non lo sapeva, aveva di fronte uno dei suoi acerrimi nemici, Nuvola Rossa, coresponsabile di alcuni degli inconvenienti capitati alla sua ditta.
« bella sala » commentò il ragazzo, consapevole della mancanza di originalità.
Gustave rispose con un cenno distratto: aveva ben altri pensieri per la mente che assecondare un ragazzino impacciato. Quella mattina era arrivato il resoconto dettagliato del fatturato che aveva richiesto due mesi prima. La situazione economica dell’azienda stava peggiorando inesorabilmente e, anche l’ultimo prodotto lanciato sul mercato, non era riuscito ad impressionare i clienti. Ad un certo punto, gli sembrò che il moro avesse aggiunto qualcos’altro, ma non se ne curò. Si chiese come mai sua figlia, così in gamba e sveglia, si fosse fatta accompagnare da uno smidollato del genere e, questa considerazione, tramutò la sua indifferenza verso Armin in un celato disprezzo.
« Gustave! » esordì una voce alle sue spalle. Diversamente da quella di Armin, la persona che stava giungendo nella loro direzione meritava la sua attenzione.
« buonasera Ian » lo salutò l’uomo, cercando di risultare cordiale. Nonostante i suoi sforzi però, gli uscì solo un debole sorriso tirato e stanco. Vedendo avvicinarsi una simile personalità, Armin impallidì; il signor Steward era circondato da tre galoppini la cui unica utilità sembrava quella di annuire con convinzione ad ogni affermazione dell’uomo più facoltoso presente quella sera al Saint Regis.
« buona sera Nathaniel » disse Ian, in direzione di Armin. Il moro avvampò e, cercando di chiarire l’equivoco, cominciò a gesticolare impacciato. Prima che potesse esternare la sua identità, Gustave asserì conciso:
« non è lui Nathaniel, mio figlio è in California ora » si affrettò a precisare, prendendo le distanze dal ragazzo.
« me lo ricordavo biondo infatti » ragionò Ian, squadrando Armin. Il ragazzo rimase in silenzio, che dopo qualche secondo divenne imbarazzante ma gli permise di riascoltare gli insegnamenti di Rosalya nella sua testa:
« se ti trovi davanti uno sconosciuto, ricordati di presentarti! »
Dal momento che il padre di Ambra non sembrava intenzionato ad aiutarlo in tal senso, Armin farfugliò:
« ehm, mi chiamo Armin Evans »
« ah » riflettè Ian, cercando di far mente locale su quale potesse essere la facoltosa famiglia a cui apparteneva il moro, ma non riuscendo a ricollegare il nome Evans a nessuna conoscenza, fu costretto ad ammettere « mi scuso per l’ignoranza, ma temo di non aver mai sentito il tuo nome »
« vado a scuola con Ambra Daniels » mormorò ingenuamente il ragazzo, sempre più a disagio.
Per un micro secondo, sul volto di Ian si disegnò un velo di disprezzo ma che corresse all’istante:
« oh certo » convenne, come se ci fosse una logica.
Armin era una persona troppo candida per cogliere l’altezzosità con cui l’aveva squadrato l’uomo, ma non lo era Gustave.
Quell’attimo gli era stato sufficiente per tornare indietro nel tempo, quando da giovane aveva cominciato a lavorare per guadagnarsi uno spazio in quel settore che tanto lo appassionava. Diversamente dalla maggior parte delle persone presenti quella sera, lui veniva da una famiglia umile e il suo successo era frutto di intensi sacrifici. Prima di diventare il Gustave Daniels che tutti rispettavano, era un uomo che veniva trattato con un certo disprezzo da parte dei suoi più facoltosi colleghi, proprio a causa della modestia delle sue origini. Solo con il tempo, lavorando sodo e incrementando la sua fortuna, aveva finito per guadagnare più soldi e con essi, il rispetto della gente. Il ricordo di quella sensazione, gli aveva fatto ripromettere che mai, in vita sua, avrebbe riservato a qualcuno lo stesso trattamento che aveva sopportato lui. Eppure, fino a quel momento, sembrava essersi dimenticato di quella promessa e aveva denigrato il povero ragazzo in un angolo, senza nemmeno provare prima a conoscerlo.
Non era migliore delle persone che lo avevano disprezzato: era diventato esattamente come loro e tale consapevolezza incrementò l’odio che già provava per sé stesso.
« come va la progettazione del nuovo antivirus? » incalzò Ian, volgendo la sua attenzione verso il signor Daniels  « WildCat, se non erro »
« va » replicò sibillino l’uomo.
Insoddisfatto per la scarsa loquacità del collega, Ian non esitò a dare prova della sottile meschinità per cui era famoso:
« quest’anno la Pear ha concluso con un fatturato di 102 miliardi di dollari, per un utile di 23 miliardi »
« buon per te » replicò Gustave, intercettando un drink portato da un cameriere. Sapeva perfettamente che l’uomo era a conoscenza, anche se vagamente, dei guai finanziari in cui navigava la sua azienda, ma non poteva garantirgli la soddisfazione di umiliarlo:
« ieri abbiamo lanciato un nuovo antivirus, ma immagino tu lo sappia già » commentò Ian, cercando di fare breccia nell’imperscrutabilità del signor Daniels.
« certo, del resto lavoriamo nello stesso settore, è inevitabile che ci facciamo concorrenza »
Deluso per gli scarsi risultati ottenuti dal provocare il rivale, Steward optò per una preda più facile:
« e tu… Amed giusto? »
« Armin…» bofonchiò il ragazzo, in imbarazzo.
« Amid » ripetè erroneamente Ian « ci capisci un po’ di computer? »
« un pochetto » si ridimensionò il moro, sollevando le spalle e affondando le mani nelle tasche.
« quale antivirus usi? » indagò malefico il signor Steward.
Negli ultimi mesi, il numero di utenti che installavano o acquistavano gli antivirus Daniels era drammaticamente calato, a favore dei numeri registrati per la Pear. Inoltre, dall’alto della sua presunzione, Ian era convinto che pur di non contrariare il più grande magnate infomatico, Armin avrebbe confessato di avere nel proprio pc l’antivirus della Pear.
« beh, diciamo che è sconosciuto » tergiversò, cercando invano Ambra con lo sguardo. Aveva bisogno di qualcuno che lo sotraesse da quella camuffata zuffa.
Irritato per la risposta che aveva ricevuto, Steward insistette:
« siamo degli esperti di informatica noi, ti pare che non conosciamo tutte le opzioni disponibili sul mercato? » brontolò. Il moro allora, grattandosi nervosamente la guancia, ammise:
« il fatto è che me lo sono creato io… »
A quelle parole, Gustave puntò finalmente la sua attenzione verso il ragazzo accanto a lui. Lo fissò come se lo stesse guardando per la prima volta; il ragazzino insignificante, o insulso, come lo aveva classificato la moglie un’ora prima, era appena diventato la personalità più interessante della serata.
 
Dopo l’ennesima battuta di pessimo gusto, Ambra sbuffò infastidita. Dylan aveva sei anni più di lei ma nonostante questo, ragionava come un dodicenne. Non era un mistero che la sua stessa famiglia avesse delle perplessità all’idea di metterlo a capo dell’azienda, ma proprio per questo, Ambra era convinta che, al momento opportuno, avrebbero ridimensionato il suo ruolo ad una mansione di scarsa rilevanza. Ingrid, che non poteva contare sulla lungimiranza della figlia, pianificava invece un futuro roseo tra i due, puntando su quel ragazzo come fonte del riscatto economico della propria famiglia. Erano più di cinque anni che cercava di instillare in Ambra la convinzione che Dylan fosse il ragazzo giusto per lei, ma la bionda era rimasta sorda alle sue motivazioni. Con l’aggravarsi del bilancio economico della Daniels Corporation, le pretese di Ingrid erano diventate ancora più insistenti e insopportabili. Con una scusa palesemente banale, Ingrid riuscì a lasciare soli i due giovani, portando con sé gli altri due membri del gruppo.
« tua madre è sempre bellissima » commentò Dylan allontanandosi.
« se compensasse tutta quella bellezza con il cervello non sarebbe male » borbottò Ambra, che per tutta la conversazione aveva tenuto le braccia incrociate al petto.
« come dici? » le chiese Dylan, temendo di non aver capito.
Ambra in tutta risposta, gli sorrise ironica e sospirò:
« con Carmen come va? »
La ragazza era la misteriosa fidanzata segreta di Dylan, di cui Ambra, con evidente sollievo, era venuta a conoscenza l’anno prima. Anche il ragazzo era al corrente dei tentativi della signora Daniels di accoppiarlo con la figlia e, nell’arco di una serata analoga a quella che stavano trascorrendo in quel momento, aveva rivelato ad Ambra l’esistenza di Carmen:
« bene, anche se mi ha imposto di parlarne alla mia famiglia »
« ha ragione Dylan, non puoi tenerla nascosta come se fosse l’Unico Anello »
« il che? » obiettò l’altro, con voce stridula.
« lascia perdere » lo liquidò la bionda, che cominciò a sentire la nostalgia per Armin e per le loro chiacchierate.
Sbirciò con la coda dell’occhio l’ambiente attorno a loro, ma tra la folla e le dimensioni della sala, le era impossibile vederlo.
« ti dispiace se torno da un mio amico? »
 
« come sarebbe a dire che te lo sei creato tu? » domandò Ian, quasi indispettito « che cos’anno gli antivirus prodotti che non ti soddisfano? »
Gustave, seriamente intenzionato a non perdersi una parola di quelle che sarebbero uscite dalla bocca del ragazzo, quasi non sbatteva le palpebre. Sempre più in difficoltà, Armin illustrò la sua opinione:
« beh, parlando in generale, alcuni hanno un tasso di falsi positivi davvero troppo alto. Creano solo falsi allarmismi nell’utente, aggiungiamoci poi certi banner pubblicitari per quanto riguarda le versioni free. Inoltre creando il mio personale antivirus, posso mirarlo contro una determinata minaccia, avendo quindi a disposizione uno strumento molto più specifico… »
Mentre argomentava la sua tesi, Ambra li raggiunse ma, notando l’interesse che l’amico era riuscito a calamitare tra i suoi ascoltatori, suo padre compreso, non osò interromperlo:
« … inoltre, rinunciando ad una grafica e ad un’interfaccia accattivante, risparmio sulla memori » concluse frettolosamente il ragazzo, intercettando l’occhiata sospettosa di Ambra.
« notevole » commentò Ian « quindi sostieni che il tuo antivirus sia migliore di tutti gli altri » riepilogò con una nota di spiccato sarcasmo.
« migliori di tutti quelli che ho testato finora » replicò asciutto Armin, che non aveva colto l’irritazionesottesa dell’uomo.
« si vede allora che non hai mai testato uno della Pear! » esclamò Ian, scoppiando poi in una grassa risata, a cui fecero eco gli altri tre uomini attorno a lui. Gustave invece non si scompose e, notando l’espressione neutra di Armin, s’intromise:
« immagino invece che tu abbia provato anche quelli progettati dal signor Ian »
Udita quell’insinuazione, Ian spense le risa e fissò Armin con aria di sfida; il ragazzo però non colse l’astio crescente nell’uomo, e, con una sincerità disarmante ammise:
« beh, ieri ho provato quello nuovo »
« e? » lo incoraggiò il signor Steward.
« continuo a preferire il mio »
« perché? » sbottò l’altro infastidito.
« appesantisce troppo il sistema, senza però garantire un livello di protezione elevato: un virus come BlueMarine riesce a violare un pc senza alcun problema »
« perché hai installato la versione gratuita » si difese l’uomo.
« no si sbaglia, era quella a pagamento »
« sei tu che ti sbagli » insistette il produttore.
« è quella a pagamento » s’impuntò Armin e per dimostrare la fondatezza delle sue parole, aggiunse « l’icona di quella gratuita è verde, quella a pagamento blu, i seriali per l’installazione cominciano tutti con 743 »
Seguì un silenzio agghiacciante: sotto gli occhi dei presenti, Ian divenne paonazzo e asserì furente:
« ma se quella a pagamento è stata resa operativa solo da cinque ore! Non puoi averla installata ieri! »
Se il capo della Pear era un tutt’uno con il suo papillon viola, Armin sbiancò, diventando candido quanto la sua camicia. Ricordò troppo tardi che, per installare quell’antivirus, aveva fatto affidamento alle sue abilità di hacker, violando i computer della Pear.
« sei riuscito a craccarlo? » intervenne Ambra con un misto di stupore e ammirazione.
« n-no no » ritrasse Armin, la cui consapevolezza del guaio in cui si era cacciato cominciava a diventare sempre più reale « ha ragione il signor Ian, mi sono sbagliato, era quella gratuita »
Ma nessuno dei presenti a quel punto poteva credergli:
« sta attento ragazzo » lo minacciò il signor Steward « quello che hai fatto è un reato federale »
L’hacker era sempre più nel panico ma l’aiuto gli giunse dalla fonte più inaspettata:
« modera le accuse Ian e fermati un attimo a riflettere » lo sedò Gustave « il ragazzo non può averlo craccato se la versione completa non era stata rilasciata sul sito »
« allora deve aver violato i nostri pc! » sbottò l’uomo iracondo. Armin sentì mancare un battito, colto in flagrante.
Gustave però scoppiò a ridere, lasciando sorpresi i presenti, persino la figlia, che non ricordava di averlo mai visto così allegro:
« e se anche fosse? Fossi in te eviterei di farlo sapere in giro: la grande azienda di Ian Steward violata da un liceale… non ci fate una bella figura non ti pare? Prova a stimare il danno d’immagine: se è così facile aggirare la sicurezza dei vostri hardware, figuriamoci quale può essere l’efficienza degli antivirus che producete »
Ambra sorrise orgogliosa: in quell’uscita del padre, nel suo modo di parlare, rivide qualcosa del proprio.
« non fare tanto il presuntuoso Daniels » ringhiò Ian, cogliendo il ragionamento del rivale « ti ricordo che Nuvola Rossa per un certo periodo è entrato e uscito a suo piacimento dai vostri computer »
« anche dai vostri » puntualizzò Gustave asciutto.
« quel maledetto! Se non si fosse dileguato nel nulla, ora potremo acciuffarlo. Quella volta che impallò tutti i nostri computer per mezz’ora… per fare cosa poi, non l’abbiamo mai capito »
Armin si sentì sempre più sotto pressione e cominciò a sudare freddo. Direzionò il suo sguardo a caso, guardandosi attorno, mentre Ambra lo studiava attentamente. Faticava a credere che fosse possibile, ma l’atteggiamento circospetto del ragazzo, unito alle incredibili abilità informatiche di cui sembrava dotato, sembravano urlarle che il tanto odiato Nuvola Rossa era proprio in mezzo a loro.
« questi discorsi mi annoiano » squittì con voce stridula, imitando la madre. Sapeva che i presenti avevano la tendenza a identificarla come una fotocopia di Ingrid e, per una volta, approfittò di quella scomoda associazione, a suo vantaggio:
« Armin, andiamo a prenderci qualcosa da bere? Sto morendo di sete »
Il ragazzo la scrutò interrogativo, riconoscendo a stento in quella voce supplicante, la ragazza che tanto lo affascinava.
Mentre i due si allontanavano, Ian borbottò tra sé e sè:
« Amid Evans »
« Armin » lo corresse Gustave, restituendo un bicchiere vuoto sul vassoio di un cameriere « sarà meglio che impari il suo nome perché lo sentirai nominare anche in futuro… ne sono certo »
 
« grazie Ambra, un altro po’ e svenivo » si lamentò il moro, non appena si allontanarono.
« molto virile come commento » replicò acida l’altra. Non poteva credere che, in quei mesi di amicizia, il ragazzo non le avesse mai raccontato chi fosse realmente. Che le avesse tenuto nascosta una cosa così importante. Armin si sentì colto nell’orgoglio, rimuginando su tutti i suoi tentativi di apparire più sicuro di sé e forte; si era persino ridotto a frequentare una palestra, nel tentativo di mettere su un po’ di massa muscolare, ma le sessioni di piegamenti gli avevano lasciato solo un addome dolorante.
« mi chiedo come abbia fatto Nuvola Rossa a spegnere tutti i computer della Pear…» indagò, sbagliando volutamente.
« ah, non li ha spenti » la corresse per l’appunto il ragazzo « ha sferrato un attacco DOS: ha inviato un enorme numero di dati per saturare le linee che garantiscono la connessione ad internet »
Appena si accorse dell’espressione accigliata di Ambra, Armin si zittì all’istante: gli occhi della ragazza erano diventati due fessure:
« tu-sei-Nuvola-Rossa » sibilò, a denti stretti.
« m-ma va, cosa dici! » si difese Armin guardando da un’altra parte. Ambra gli si avvicinò ancora più minacciosa, tanto che lui potè sentire il suo profumo al muschio bianco e proseguì:
« perché non me l’hai mai detto? »
« ma non sono io! » insistette il moro.
La ragazza rimase in silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso. Lui non fiatava e lei non batteva ciglio. Dopo dieci interminabili secondi, si allontanò, visibilmente offesa:
« quindi pensi che io sia una stupida? »
« eh? » gracchiò Armin.
« tu credi che io sia un’idiota, se pensi di convincermi che ho preso un granchio! La notizia diffusa dai media circa l’attacco ai computer della Pear e delle altre aziende non ha mai parlato di un attacco DOS, era un dettaglio di cui erano a conoscenza solo poche persone e si sono ben guardate da diffondere i particolari. Tu come facevi a saperlo? E poi perché ti sei irrigidito quando hanno cominciato a parlare di Nuvola? »
Martellato da tutte quelle accuse, Armin fu costretto a ritrattare:
« d’accordo, mi hai scoperto… sono io Nuvola Rossa » si arrese.
Ambra annuì lentamente e inspirò, chiudendo gli occhi, nel tentativo di arginare la collera. Ma non era solo rabbia la sua: era principalmente delusione il sentimento che cominciò ad avvelenarle l’animo.
Non aggiunse altro e, spiazzando l’amico, si allontanò inviperita.
“aspetta!” la rincorse Armin.
Ambra però accelerò il passo e si spostò all’esterno della sala, che era in comunicazione con un enorme giardino. Scese un’ampia scalinata di pietra e si trovò a camminare sul suolo erboso; aveva avuto la pessima idea di uscire senza recuperare il cappotto e le sue spalle indifese cominciarono ben presto a protestare per il freddo che le investiva. Dietro di lei, sentì giungere i passi affrettati di Armin e maledì le scarpe che avevano rallentato la sua fuga.
« ti congelerai qui fuori, torniamo dentro »
«tornaci tu, io sto qui »
Il ragazzo sospirò e le si avvicinò, lasciando che solo pochi centimetri distanziassero i loro corpi. Rimase in silenzio, aspettando che, come al solito, fosse lei la prima a sbottare:
« perché non me l’hai detto? Non ti fidavi di me? »
La voce le uscì come un sussurro e, per quanto avesse cercato di infonderle un tono irritato, risultò ferita e incrinata. Quella sfumatura, intenerì il ragazzo che replicò sorridendole dolcemente:
« e come facevo a dirtelo? Tuo padre odia Nuvola »
« ma io no » puntualizzò lei.
« che differenza avrebbe fatto saperlo? »
« sarebbe stata la prova che ti fidi di me »
Il ragazzo era talmente perplesso che non riuscì a proseguire:
« torna dentro Armin: con le capacità che hai, questa è la tua occasione per fare colpo su qualche pezzo grosso. Quella sala pullula di gente come Steward che può aprirti molte porte in futuro » lo esortò.
« non se ne parla, tu vieni dentro con me »
« si vede che non mi conosci abbastanza » replicò la bionda « non è dandomi ordini che mi si costringe a fare qualcosa »
Calò il silenzio e la ragazza pregò che l’amico la lasciasse sola.
« d’accordo » convenne Armin, con tono piatto. Si tolse la giacca e gliela porse sulle spalle. Ambra arrossì, mentre lui se ne andava, per tornare dentro la sala. Quella piccola premura la lusingò ma era rovinata dal fatto che era riuscita ad allontanarlo. Il suo caratteraccio, per quanto si sforzasse di smussarlo, a volte tornava a galla, rendendola antipatica e acida. Eppure Armin era l’ultima persona che avrebbe voluto escludere dalla sua vita.
Era la notte di San Valentino e, pur non considerandosi una ragazza romantica, Ambra aveva sperato di trascorrerla con quell’allegria e spensieratezza che solo la compagnia del ragazzo riusciva ad assicurarle.
La scoperta della sua identità segreta aveva rappresentato un motivo in più per guardarlo con ammirazione, confermandole quanto fosse speciale.
Non poteva permettere che la sua fierezza intaccasse quell’amicizia che si era instaurata tra di loro: per la prima volta nella sua vita, Ambra stabilì che la propria felicità valesse di più dell’orgoglio e cominciò ad avanzare verso la sala.
Aveva appena messo piede sul primo gradino, quando vide comparire Armin tenendo in mano il suo cappotto:
« vuoi tornare dentro? » le chiese sorpreso.
« s-stavo venendo da te » spiegò lei, sbigottita per il suo ritorno.
« ero andato solo a prendere i cappotti, altrimenti ci ritroveremo in modalità frozen » spiegò il moro.
« non ti inventare le parole » ridacchiò nervosamente la bionda, ricevendo il proprio capo dalle braccia di Armin. Si tolse la giacca del ragazzo, ma lui la invitò a tenersela addosso.
« visto che ora siamo equipaggiati, restiamo fuori? »
« l’idea era quella » concordò Armin e insieme tornarono ad appartarsi in un angolo del giardino, sedendosi su una panchina di pietra bianca.
« odio queste feste » esclamò Ambra.
Pian piano tra di loro stava tornando un’atmosfera serena, grazie al carattere spensierato e allegro del moro.
« non vedo perché: sei circondata da gente così simpatica » rispose sarcastico.
« scusami, ti starai annoiando a morte » mugolò la ragazza.
« no » ammise Armin con sincerità « direi che questa serata è tutto tranne che noiosa »
« già, piuttosto snervante no? »
« io avrei detto piacevole »
Ambra assunse un’aria cinica, quando invece il ragazzo era l’incarnazione della sincerità. Era rimasto finalmente solo con la ragazza la notte di San Valentino. Se suo fratello Alexy fosse stato nascosto dietro un cespuglio, a quel punto lo avrebbe esortato a dire qualcosa di romantico, a metterle un braccio attorno alle spalle ma quelle iniziative sembravano troppo affrettate per lui. Il silenzio tra di loro nel frattempo proseguiva ininterrotto e, quando finalmente si decise a dire qualcosa, dalla sala principale si diffuse della musica da ballo:
« hanno dato il via alle danze » commentò Ambra, guardando le luci della sala.
« danze? »
« sì, di solito per una mezz’oretta circa, suonano un po’ di musica così chi vuole può ballare »
« questo è il valzer? »
La ragazza annuì e continuò ad ascoltare la musica sommessa.
Se c’era un’attività fisica che Armin Evans odiava più dello sport, era il ballo: una volta sua madre gli aveva chiesto di farle da compagno mentre si esercitava in casa e il ragazzo si era rivelato talmente goffo da far desistere la donna da ripetere l’esperienza.
Mai e poi mai avrebbe voluto che Ambra lo vedesse in quello stato.
« ehi Armin… » gli sussurrò complice, facendolo trasalire.
Il ragazzo cominciò a sudare freddo: i palmi delle mani si inumidirono all’istante e il respiro cominciava a farsi più corto. Ambra frugò nella borsetta e completò:
«… ti va una partita alla PSP? »
Teneva in mano due Nintendo DS e lo guardava carica d’intesa. Il sorriso furbetto stampato in faccia le irradiava il viso, aspettando la prevedibile risposta del ragazzo.
Anche se non aveva bisogno di altre conferme, quella sera, Armin si convinse di aver accanto la donna della sua vita.
 
« adesso Ambra mi sente! » si inviperì Ingrid « isolarsi in quel modo proprio ora che dovrebbe ballare con Dylan! Per quell’Evans poi! Ah guarda tesoro, devi assolutamente dirle di lasciarlo perdere, si rovinerà la vita con un simile fallito. Dobbiamo pensare noi al suo futuro se lei non è abbastanza lungimirante da farlo. Domani le farai un bel discorsetto! » concluse, sibilando in direzione del marito.
Gustave si decise a guardarla e con indifferenza, domandò:
« hai detto qualcosa cara? Spero non fosse nulla di importante visto che non ti stavo ascoltando. Domani ricordami di chiedere ad Ambra se il suo amico sarebbe disposto a venire nel mio ufficio: ha delle idee interessanti e potrebbe essere un valido aiuto per l’azienda »
 






 

 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Il titolo è beffardo, lo so. Questo San Valentino di Happy ha veramente poco -.-‘’
Nonostante la lunghezza chilometrica del capitolo, che mi consentirebbe di dilungarmi con delle note dell’autrice infine, non vi tedierò ulteriormente con i miei sproloqui. Non solo perché dopo 29 pagine di lettura penso di dovervelo, ma anche perché sono di corsa -.-‘’… questo capitolo è proprio fresco di stampa, l’ho corretto ma se voglio pubblicarlo oggi, rispettando la scadenza che avevo fissato, sono costretta a pubblicarlo senza l’ultima rilettura per controllare gli errori :S
Scusatemi quindi se ne avete trovati… nei prossimi giorni li correggerò! Giuro ;)
Scappo…
 
Alla prossima!!
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** Tessere ***


47.
TESSERE
 

Non era normale.
Erano quasi le sei e mezzo del mattino e lei era lì, seduta su quella spiaggia impregnata di umidità e salsedine.
Il suo fedele album poggiato sulle gambe, distese beatamente contro il suolo morbido e vellutato della sabbia fina. Le sue mani avevano cominciato ad abbozzare il mare che la fronteggiava, ma i suoi pensieri le avevano imposto di fermarsi, guardare l’orizzonte e svuotare la mente. Proprio come le onde accennate sul foglio, anche la distesa d’acqua salata che si presentava dinanzi ai suoi occhi era sollevata da un vento gelido, che rendeva tumultuoso il profilo altrimenti piatto dell’Oceano Pacifico.
No, non era normale scoprire la voglia di alzarsi alle cinque, quando il sole ancora non era sorto per isolarsi su quella spiaggia, attendendo che anche la stella più importante del firmamento si destasse dal suo sonno quotidiano.
Sophia sospirò flebile, in attesa che i primi raggi di luce rischiarassero l’atmosfera e le permettessero di proseguire quel disegno iniziato giorni prima. Lontano, dove la linea dell’oceano di fondeva con quella del cielo, si diffondeva un chiarore rassicurante, preannuncio dell’alba imminente.
Portarsi dietro l’album per ultimare quel disegno era stata un’idea interessante, ma non ancora applicabile. Faticava infatti a vedere i tratti di grafite sul foglio e per questo fu costretta a richiudere l’album, sistemandolo accanto a sé. Avvicinò le gambe al petto, rannicchiandosi su se stessa e, per l’ennesima volta, sbuffò di malinconia.
Era reduce da una notte in bianco, passata a rigirarsi su un materasso con molle cigolanti, nella snervante attesa di un sonno che non era mai giunto. Nella segretezza della sua mente, non aveva problemi ad ammettere che era stato l’arrivo dell’amica di sua sorella a destabilizzarla tanto.
Rosalya.
Persino il suo nome trasudava eleganza e femminilità. Un viso ovale, perfettamente simmetrico, gli occhi vispi e felini, i capelli da pubblicità di shampoo.
Contrariamente a quanto aveva sempre pensato, Sophia si ritrovava a rimpiangere il proprio look anticonformista e da maschiaccio, chiedendosi se anche lei, con i vestiti giusti, potesse appropriarsi di quella dolcezza e sensualità che erano tipici del suo sesso. Il perché d’un tratto avesse cominciato a prestare tutta quell’attenzione allo stile, in fondo lo sapeva, ma stentava ad ammetterlo.
Afferrò una conchiglia perlacea e, dopo averla fatta saltellare sul palmo freddo della mano, la lanciò lontano, restituendola all’oceano che l’aveva depositata accanto a lei.
Quell’entrata in scena era stata a dir poco sgradita: voleva parlare con lui ancora un po’, continuare a discutere del suo rapporto con se stesso: del resto, amava ascoltare gli altri, le era sempre piaciuto. Sin da bambina, Sophia guardava con una certa ammirazione la dedizione con cui la madre consultava il quaderno azzurro dove appuntava i commenti emersi durante le sedute.
La vena ficcanaso di Erin, una volta, l’aveva spinta a curiosarne il contenuto, scoprendo quanto dietro ogni persona, potesse celarsi una complessità d’animo tale da risultare affascinante.
Con Nathaniel tuttavia non veniva solo appagata la sua natura sensibile e comprensiva: c’era qualcosa in lui che lo rendeva più complesso e, per certi aspetti, quasi contorto. Le piaceva credere di essere l’unica ad aver carpito la vera essenza del suo essere ma, se anche fosse stato così, questo non le dava alcun vantaggio su Rosalya White; lei era irraggiungibile, come lo era lui, Nathaniel.
Riafferrò l’album e, pur intravedendo a mala pena i segni, cominciò a tracciare la matita con violenza, quasi marcandola contro il foglio inerme e innocente. I suoi movimenti erano bruschi e tormentati, quasi a riflettere il subbuglio dell’oceano, che quella mattina non intendeva sopire la sua furia.
I sentimenti che la ragazza voleva soffocare, sembravano ribellarsi al suo prepotente tentativo e riemergere con maggior foga e intensità rispetto alla notte precedente.
« sei un po’ fissata con il mare o sbaglio? »
Sussultò, mentre lo spavento le faceva tracciare un’indesiderata linea dritta sul disegno.
Per essere un’allucinazione, era fin troppo credibile. Troppo reale.
Quasi non osò voltarsi, ma ben presto i suoi occhi caddero su un paio di Vans Old Skool, le sue preferite. Alzò lentamente il capo, intravedendo per primo il lembo di un giubbotto, anch’esso familiare e che donava particolarmente al suo proprietario, che proseguì:
« ora che ci penso, non ti ho ancora ringraziato per il dipinto del compleanno: te la cavi molto bene come artista »
Sophia ingoiò a fatica della saliva, scoprendo di non averne abbastanza per lubrificare la cavità orale. Quella condizione la boicottò nel tentativo di articolare un fonema distinto: 
« c-che ci fai tu qui? » gracchiò.
« sei stata tu a invitarmi ieri » obiettò Nathaniel, sedendosi accanto a lei. Non si curò della sabbia che gli impolverò la giacca, né dei granelli che si incollarono lungo la suola di gomma delle scarpe.
« non pensavo saresti venuto sul serio » ammise quasi sottovoce la ragazza, ma il biondo mal interpretò quella considerazione:
« quindi vuoi che me ne vada? »
« n-no, no » borbottò confusa, schiarendosi la voce. 
Necessitava di qualche secondo per riappropriarsi della lucidità di cui aveva fatto a meno durante quell'isolamento sulla spiaggia. Doveva accantonare quel flusso di pensieri che aveva percorso la sua mente e cercare di palesare una serenità d’animo che in quel momento non le apparteneva.
Il ragazzo non proferì parola e frugò nelle tasche del pesante cappotto. Sophia lo vide estrarre un pacchetto rettangolare, con raffigurato un cammello, che Nathaniel le avvicinò:
« vuoi? »
L’artista fece cenno di diniego con il capo, mentre lui ritirava per sé quell’offerta. Battè sul fondo della confezione, sfilando un cilindro sottile di tabacco che posizionò in bilico sulle labbra, leggermente screpolate dal vento californiano. Sfregò il pollice contro la rotella metallica dell’accendino, in attesa di vedere apparire quella fiammella che avrebbe avviato la combustione.
Persino in un’azione così quotidiana e semplice, Sophia riuscì a trovare un che di intrigante nel biondo, nella sua scioltezza di muoversi. Quando era lei ad accendersi una sigaretta invece, il più delle volte si scottava con l’accendino, anche perché non era una fumatrice abituale.
« non sapevo fumassi » considerò la ragazza.
« ora lo sai »
« simpatico » farfugliò lei, sorridendo sarcastica.
Rimasero per un po’ in silenzio, lasciando che il fragore delle onde cadenzasse lo scorrere del tempo: Sophia riprese a disegnare, mentre Nathaniel si gustò l’aroma inebriante del tabacco.
Si cominciava ad intravedere il sole, facilitando l’attività della disegnatrice.
« passato bene il San Valentino? » le chiese d’un tratto la rossa, senza staccare gli occhi dal foglio.
Si odiò per quella domanda, perché sapeva che la risposta avrebbe acuito il suo malessere; eppure, era proprio guardando in faccia la realtà che sarebbe riuscita ad arginare il tumulto che si stava innescando in lei; Nathaniel scosse la sigaretta, lasciando cadere un po’ di cenere grigia sul suolo sabbioso e ammise:
« credo di avere ancora qualche problema a realizzare che Rose sia qui »
Quel Rose era bastato per farla sentire lontana: c’era un’intesa tra i due a cui lei era estranea, una complicità frutto di anni di amicizia e sentimenti nascosti a cui lei non aveva accesso.
« ma soprattutto il fatto che davvero sia innamorata di me » continuava Nathaniel, guardando nostalgico il mare  « voglio dire, abbiamo fatto finta di essere amici per così tanto tempo che ormai mi ero rassegnato al fatto che non ci sarebbe mai stato niente tra di noi »
C’era un che di enigmatico in quella risposta che, pur non soddisfando appieno l’interesse di Sophia, rimase priva di alcuna richiesta di precisazione.
« lei è davvero bellissima » mormorò Nathaniel, più a se stesso che rivolto alla ragazza accanto a lui.
« già » inghiottì la rossa, avvertendo che il gelido soffio del vento le stava inumidendo gli occhi. O forse era a causa della nuova matita nera che aveva messo sulla rima interna degli occhi. Oppure per lo sbadiglio trattenuto.
Qualsiasi pretesto pur di non affrontare il reale motivo della tristezza che inesorabilmente avanzava dentro di lei. Non riusciva a controllarla e odiava quell’essere così irragionevolmente vulnerabile.
Il biondo non si accorse di nulla e finì la sua sigaretta; spense il mozzicone contro la sabbia umida e si alzò per gettarlo in un cestino poco lontano.
« prevedibile » commentò tra sé e sé l’artista « piacevolmente prevedibile » fu costretta a correggersi.
Lo vide ritornare da lei, ignaro di quanto quel semplice gesto di educazione, potesse averla suggestionata. Ormai qualsiasi sua azione finiva per impressionarla.
Era scaturito tutto dal salvataggio nell’oceano, quella stessa immensa pozza d’acqua che s’infuriava davanti a loro. Da quell’episodio, c’era stato un crescendo di emozioni contrastanti, di sensazioni che aveva cercato disperatamente di allontanare o negare, ma senza successo. Si era accorta subito che qualcosa era scattato in lei, ma la spiegazione più logica era impossibile da accettare, oltre che irrazionale. Non poteva piacerle quel tipo. Lei amava i ragazzi anarchici, sbruffoni e Nathaniel non aveva nulla di quella caratteristiche, eppure ogni volta che le sorrideva, ogni volta che la punzecchiava, lei si sentiva immeritatamente felice.
Ammettere quella verità però era difficile, persino a lei stessa: poteva analizzare la situazione, giungendo anche ad una conclusione, ma accettarla era fuori discussione.
Il sole ormai era passato da un semicerchio, tagliato in due dalla linea dell’orizzonte, ad una sfera infuocata e tonda.
«  Nathaniel… » lo chiamò d’un tratto, con gli occhi velati di tristezza. Lui non rispose ma la cercò con la coda dell’occhio « hai visto che sole? Ne valeva o no la pena venire qui? »
Il ragazzo direzionò lo sguardo verso l’oceano, la cui acqua rifletteva i raggi caldi di quella stella così luminosa. Il cielo era dipinto da pennellate frettolose e rosate, alternate a chiazze azzurre e non c’era nessun’altro quella mattina a godersi quella scena silenziosamente spettacolare:
« mi ha sempre affascinato il cielo » commentò Sophia, con lo sguardo perso davanti a sè « è sempre lo stesso, eppure sempre diverso. Cambieranno le nuvole o tireranno venti diversi ma lo scenario sarà comunque magnifico. L’alba poi è così… boh, ti svegli e hai di fronte la prospettiva di un nuovo giorno che inizia, sai che è arrivata la tua occasione per rimediare agli errori di ieri »
« ti svegli tutti i giorni a quest’ora per guardare l’alba? » commentò Nathaniel perplesso, seguendo a stento i filosofici ragionamenti di Sophia.
« ma va’, scemo. Solo ogni tanto. È una cosa che mi piace fare, per cui la faccio » replicò l’altra, divertita. Non riconosceva nella sua voce quelle note dolci e impastate di malinconica tenerezza. Che fine avesse fatto il suo tono scontroso e insolente, non lo sapeva e non aveva idea né intenzione di riesumarlo in quella circostanza.
Il biondo sorrise riflettendo sulla tendenza a semplificare ogni cosa, tipica della ragazza. Per lui un simile ragionamento non poteva essere applicato:
« dovresti farlo anche tu » mormorò lei, quasi leggendogli nel pensiero.
« svegliarmi a guardare l’alba? » scherzò, ma Sophia rimase impassibile.
« fare quello che ti piace. Smettila di assecondare la volontà di tuo padre »
Gustave e il suo rapporto con i figli era stato uno degli argomenti su cui aveva meditato durante la notte: prima ancora di conoscere personalmente Nathaniel, dai racconti di Ambra, Sophia poteva comprendere ma non accettare la passività del primogenito verso il padre. 
« non ho altra scelta Sophia. Non potrei mai fare strada mettendomi contro di lui. Lui non sopporta di essere deluso dalle persone »
« mentre a te, di deludere te stesso, va più che bene… »
Non era sua intenzione offenderlo.
Sputò quella frase senza sarcasmo o malizia, eppure risuonò nelle orecchie di Nathaniel come la cosa peggiore che gli avesse mai detto.
Uno dei commenti più spietati e sprezzanti che avesse mai udito.
Lei non immaginò la devastazione e la rabbia che avrebbe innescato in lui di lì a pochi secondi, per questo sussultò spaventata non appena lui scattò in piedi, furente:
« POSSIBILE CHE TU NON SAPPIA FARE ALTRO CHE SPUTARE SENTENZE? » urlò. La collera acuì la sua voce bassa e gentile, mandandogli il sangue al cervello.
« ma chi ti credi di essere per sputare sentenze e dire agli altri cosa devono fare, quando tu per prima ti barrichi nel tuo mondo? Non ascolti nessuno, sei sorda a qualunque richiesta altrui! » continuò Nathaniel, cercando poi di modulare i toni « e poi non mi sembra che tu possa considerarti soddisfatta della tua vita: stai facendo soffrire la tua famiglia, Dio solo sa perché, non hai manco terminato gli studi, lavori in un negozio di videogame di merda… DA DOVE DERIVA ALLORA TUTTA QUESTA TUA PRESUNZIONE E SACCENTERIA? CON QUALE TITOLO TI ARROGHI IL DIRITTO DI CREDERTI MIGLIORE DI ME?! »
Finì quella sfuriata sentendosi quasi indolenzito fisicamente: la gola gli bruciava e i polmoni gli imponevano di incamerare tutta l’aria che non avevano ancora inspirato. Riconosceva di avere esagerato, le stesse cose poteva dirgliele in modo diverso, ma l’appagamento e la sensazione di sollievo che provava nell’aver vomitato quella rabbia repressa erano incommensurabili.
Non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era tanto inviperito. Quella reazione l’aveva sorpreso lui per primo, stentando quasi a riconoscere nel ragazzo che era balzato in piedi e aveva iniziato a sbraitare come un forsennato, l’immagine di sé; aveva i muscoli del collo in tensione e il battito non accennava a decelerare. Proprio lui, che quando a diplomazia aveva come concorrente solo Lysandre, non era riuscito a trattenersi dall’espletare in modo aggressivo il suo punto di vista.
Sophia aveva toccato un tasto troppo dolente, si era permessa di ridicolizzare la sua dignità, come se già non bastasse il padre a ricordargli ogni giorno quanto essa fosse inesistente. Lei si credeva superiore, più forte, intangibile da ogni paura e insicurezza, diversamente da lui, che per questo non aveva esitato a trattare come un rammollito.
Era il disprezzo che era emerso da quel “mentre a te, di deludere te stesso, va più che bene”  che l’aveva fatto scattare; si odiava per essere così succube e inerte, ma non riusciva a vedere una via di fuga dalla sua situazione. Se si fosse ribellato alla volontà del padre, a quel punto sarebbe stato solo e il suo futuro irrimediabilmente compromesso. Per la ragazza era facile parlare con tanta supponenza. Infatti, era stata proprio quella sua aria di sufficienza e di donna navigata ad averlo particolarmente irritato: lei era convinta di sapere tutto, di essere autorizzata a giudicare la sua vita solo perché Ambra si era aperta con lei.
Per quanto la sua reazione fosse scaturita da un’escalation di rabbia, con il passare dei secondi, Nathaniel cominciò a sentirsi meglio: avvertì la sensazione di un peso levato dalle spalle, come se con quelle dure parole, fosse fuoriuscita anche un po’ di quella logorante amarezza che gli stava marcendo dentro.
Finalmente era riuscito a sfogarsi, a smetterla di fare finta che tutto fosse sotto controllo.
Dopo che aveva rotto l’amicizia con Castiel, visto naufragare la sua carriera musicale e compreso che mai sarebbe stato artefice del suo destino, Nathaniel era convinto di essere morto dentro.
Quella mattina però, aveva riscoperto in sé un barlume di vita, una piccola fiaccola di energia, alimentata da un’ingiustificata speranza che forse, non era ancora tutto perduto.
Quel suo stato di benessere però non era destinato a durare a lungo: la vittima di quell’aggressione verbale non aveva ancora replicato e, a rendere ancora più difficoltosa l’interpretazione delle sue intenzioni, teneva il capo chino. Il biondo la sovrastava, fissandole il collo lasciato semi scoperto dai corti capelli rossicci.
Stava per riaprire bocca, quando udì un singhiozzo.
Spiazzato, deglutì a fatica, guardando impotente quella figura minuta su cui aveva appena sferrato quel colpo che si era rivelato più duro da incassare di quanto avesse previsto.
La vide portarsi il dorso della mano, annerito dalla grafite, agli angoli degli occhi e strascinare via un paio di lacrime, che testimoniarono la loro presenza riflettendo la luce del sole. Con esse, anche una scia di pigmento nero del trucco tracciò una linea incerta sfumata sulle tempie.
L’artista raccattò l’album e infilò sbrigativamente la matita nella borsa. Si alzò in piedi, sfuggendo evasiva sotto lo sguardo incredulo del biondo, che ancora non si capacitava della sua remissività:
« a-aspetta! » la trattenne, prendendola per un braccio.
Sophia si voltò di scatto, fissandolo furente. Aveva gli occhi lucidi, arrossati da lacrime che cercava in tutti i modi di arginare:
« lasciami » ringhiò ferita, con il labbro inferiore che aveva cominciato a tremare leggermente. Se lo morse, talmente forte che sentì il sapore salato del sangue fuoriuscire leggermente dalle labbra secche.
« scusami, ho esagerato » insistette lui, senza allentare la presa.
Nonostante le sue buone intenzioni, Nathaniel non ottenne l’effetto sperato: Sophia si accigliò maggiormente e sbottò:
« no, hai ragione invece, è per questo che fa così male! Abbi però le palle di non rimangiarti quello che hai detto! »
« perché devi essere sempre così scontrosa? » si arrabbiò lui « se faccio buon viso a cattivo gioco non va bene, se ti dico le cose in faccia nemmeno! »
Lei emise un verso stizzito, distogliendo quegli occhi lucidi dall’occhiata profonda e seria del ragazzo.
Che piangesse per rabbia o per rimorso, nemmeno lei sarebbe riuscita a definirlo. L’unico suo pensiero era trovare un modo per frenare quel fiume di frustrazione e lacrime, costruendo una sorta di diga che tamponasse la situazione.
Di fronte alla sua passività, Nathaniel attenuò la stretta e, con riflessi quasi felini, la rossa ne approfittò per allontanarsi a grandi passi:
« possibile che tu non sappia fare altro che scappare? » le urlò il biondo, guardandole la schiena « io sarò anche un inetto, ma tu sei solo una codarda Sophia! »
Codarda.
Odiava quella parola.
Orgogliosa e coraggiosa come era sempre stata, non poteva sopportare che le venisse rivolta.
Si fermò al centro della spiaggia, indecisa su quale direzione intraprendere. Poteva continuare ad incrementare la distanza tra di loro, a quel punto sarebbe stato inevitabile tagliare ogni rapporto. Se il giorno prima le si era insinuato il dubbio che almeno una sincera amicizia potesse crearsi tra di loro, con la sua fuga avrebbe spazzato via ogni possibilità di relazione.
Le rimaneva la seconda scelta: voltarsi. Tornare sui suoi passi e scusarsi.
Pur essendo una persona orgogliosa, non aveva mai avuto difficoltà ad ammettere i suoi errori, no, non era quello a frenarla. Era l’idea di tornare proprio da lui. Era il fatto che lui riuscisse a mettere in discussione ogni aspetto del suo carattere, a farla scendere a patti con sé stessa.
Era quella capacità del ragazzo di metterla in una posizione in cui il suo orgoglio andava accantonato, in nome di qualcosa di più importante. Di cosa si trattasse però, non l’aveva chiaro. In fondo, lei era solo l’amica di sua sorella Ambra. Un’amica acida e insolente per giunta.
Nathaniel aveva dannatamente ragione: la sua vita stava andando a rotoli, non era quello il futuro che sognava per sé. Aveva sospeso gli studi, nei quali comunque era sempre stata molto scarsa, in nome di  un’esigenza che, giorno dopo giorno, le sembrava sempre più secondaria.
Sospirò, ripensando a quante cose era cambiate dopo l’incidente e di come proprio la sua determinazione a non aprirsi, avesse determinato la sofferenza di persone a lei care.
Se solo non avesse scoperto nulla.
Se solo avesse scoperto tutto.
« se solo non fossi così orgogliosa Sophia, io proverei ad aiutarti » le sussurrò il ragazzo.
Con passo felpato, tanto che lei non si era accorta dell’agguato, si era portato alle spalle della fuggitiva. Sentì il suo profumo piacevole, frammisto al tabacco fumato poco prima.
« a fare che? » mormorò lei, senza voltarsi, con le parole che le morivano in gola.
« a tornare a casa, giusto per dirne una. Non so cosa ti trattenga qui, ma non risolverai i tuoi problemi fuggendo da essi » precisò il biondo, mantenendo un tono basso, quasi sussurrato.
C’era una calda dolcezza nelle sue parole, come se tentasse di alleviare al senso di colpa che era scaturito in lui di fronte all’inconsistente difesa della rossa.
« non sto scappando dai problemi Nathaniel » precisò lei « sto cercando una persona »
« una persona? »
Sophia si morse la lingua. Non doveva parlarne. Si era crucciata più volte, ripetendo a se stessa che era pericoloso farne parola. Quella questione doveva restare segreta, lo aveva promesso e non solo a se stessa. Tuttavia, il peso che si portava nel cuore, era ormai sempre più insopportabile e fu proprio per tentare di alleviare quell’oppressione che replicò:
« sì, l’autore di un quadro »
Il biondo guardò l’album che la ragazza teneva saldamente in mano e domandò:
« perché? »
« perché ho promesso che l’avrei trovato »
« a chi? »
Finalmente la ragazza si girò, fissandolo dritto negli occhi. Quell’interesse sincero, frutto di una premura, la intenerì, ma non fece vacillare ulteriormente la sua determinazione. Non poteva aggiungere altro.
« non posso dirlo » sentenziò con gravità.
Si mordicchiò il labbro inferiore e, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Nathaniel riuscì a sovrapporre nell’immagine di Sophia quella di Erin; quel vizio di torturarsi le labbra era l’unica analogia che era riuscito a riscontrare nel comportamento delle due gemelle.
« e tu molli la tua famiglia per una promessa? » insistette.
Non che fosse nella sua natura essere invadente, ma a quel punto, voleva estrapolare più informazioni possibili. Sophia era un mistero e lui, amante dei gialli, non poteva che incuriosirsi per quella faccenda.
« ci sono anche altri motivi » dichiarò lei « per i quali non posso ancora andarmene dalla California »
« per esempio? »
« c’è una persona che ha bisogno di me »
« Space? »
La linea delle sopracciglia della ragazza si arcuò verso l’alto, manifestando smarrimento e perplessità:
« Space? No, perché lo pensi?...ok, è un po’ strambo » ammise subito, senza aspettare risposta « ma se la cava egregiamente anche senza di me »
« avrei giurato che fosse lui » affermò il biondo, figurandosi nella mente l’immagine ingobbita e un po’ tetra dell’amico della ragazza.
Lei scosse il capo, quasi divertita e quel mezzo sorriso rasserenò Nathaniel.
Senza che se ne accorgessero, la tensione tra di loro si stava allentando e ogni asperità poteva essere smussata. Bisogna solo far finta che il contrasto precedente non fosse avvenuto e rimandare ad un’altra occasione la misteriosa questione che la ragazza si affannava a tenere nascosta.
Sophia guardò l’oceano, camminando in silenzio verso di esso. Nathaniel, perplesso per quella reazione, si limitò a seguirla, portandosi accanto a  lei.
Avanzavano a ridosso della battigia, sulla quale imprimevano, l’una dopo l’altra, l’impronta delle loro scarpe:
 « comincio a sospettare che tu abbia un fidanzato segreto » ipotizzò Nathaniel d’un tratto, per intavolare una conversazione.
Udì una risatina divertita dall’altra parte, ma nessuna smentita o conferma.
La rossa si fermò, mentre lui la fissava curioso: la vide togliersi le scarpe, rimuovere i calzini e sistemarli dentro la borsa. Raccattò le Converse e riprese a camminare, a piedi nudi, incurante dell’acqua fredda che, a ritmi alternati, le bagnava la pelle fin sotto la caviglia:
« ti verrà il raffreddore… » profetizzò il biondo. Prevedibilmente, Sophia non valutò quell’avvertimento e replicò:
« sai, io e te non potremo essere più opposti: tu pensi sempre alle conseguenze mentre io le ignoro completamente »
« rimettiti le scarpe » insistette l’altro « i tuoi piedi mi ringrazieranno »
« lo sai biondino, diversamente da te, se mi si impone di fare qualcosa, faccio l’esatto contrario: appena ricevo un ordine, ho una sorta di reazione allergica, non so se mi spiego »
Il ragazzo finse di non cogliere la critica sottesa in quel “diversamente da te”, si era già sfogato abbastanza da sentir di poter sorridere per quella provocazione; l’aria era cambiata, il vento era sparito, spazzando via con sé ogni amarezza o rancore tra di loro:
« allora? Mi vuoi parlare di questa misteriosa anima gemella? » petulò il ragazzo.
« anima gemella? E chi lo sopporta uno uguale a me? » scherzò Sophia.
Istintivamente il biondo pensò alla versione maschile che più gli ricordava la rossa accanto a lui e, appena Castiel si presentò nella sua mente, soffocò una risata, al pensiero dei continui bisticci che si sarebbero innescati tra quell’improbabile coppia.
« in effetti dovrebbe essere un martire o un masochista » riconobbe il ragazzo, ricevendo una gomitata offesa.
« scherzi a parte » proseguì lei « non credo che esista la persona giusta per me »
« e cosa te lo fa dire? »
« il fatto che ho la scorza di un’anguria. Non mi innamoro facilmente e di certo, non del primo che passa »
« se è per questo, non è che tutti quelli che hanno una relazione sono così superficiali »
Sophia rise, reclinando la testa verso l’alto:
«ok ok, non ti scaldare Daniels, non vorrei mai insinuare che il tuo amore per Rosalya non sia profondo »
Si sorprese lei stessa della facilità con cui riusciva a scherzare su un argomento che dieci minuti prima la tormentava.
« ammetterai di avere una visione piuttosto amara e pessimista dell’amore… di solito voi ragazze siete talmente innamorate dell’idea di innamorarvi, che perdete di vista la realtà »
« adesso però sei tu quello che ragiona in modo superficiale » lo bacchettò la rossa « e se anche fosse come dici tu, io non sono esattamente come tutte le altre ragazze »
« lo so » le sorrise enigmatico il biondo, lanciandole un’occhiata d’intesa.
Quell’espressione la confuse, facendola arrossire per quanto fosse semplicemente bella su quel volto angelico.
« sai, una volta un mio amico mi disse che cercare l’amore è come fare un puzzle » continuò Nathaniel, gesticolando. Non le disse che quella persona era Lysandre, anche se poteva facilmente sospettare che quel nome suonasse familiare alla sua interlocutrice, in quanto sorella di Erin.
« un puzzle? » ripetè Sophia dubbiosa.
« sì. Mi disse che ci sono tre modi di cercare l’amore: come in un puzzle c’è chi prova ad accostare due pezzi basandosi sul disegno che vi è raffigurato e quindi scegliendo quelli che sono più simili tra di loro. Altri invece cercano quella tessera che possa essere complementare ad un’altra, ricercano quell’incastro perfetto che assicura un legame saldo… ed infine, c’è quella tessera che rimane sempre in disparte, quella che continui a scartare perché sei convinto che non c’entri nulla con quello di cui hai bisogno ma alla fine, dopo aver provato tante combinazioni sbagliate, capisci che era proprio quello il tassello giusto »
« io allora devo essere la tessera che è finita sotto i cuscini del divano e che non potrà entrare mai a far parte del puzzle » commentò Sophia.
In altre circostanze, quella battuta l’avrebbe divertita, l’avrebbe fatta ridere di gusto. Quel giorno però no.
Aveva avuto una storia in passato ma era naufragata prima che potesse rendersi conto dei suoi errori. Non la rimpiangeva, ormai Clark si era trasferito in Idaho e stava con un’altra ragazza, ma si rammaricava all’idea di non essere riuscita a meritarsi il suo amore.
Con quel ragazzo, i suoi sentimenti si erano spinti oltre ogni confine che avesse mai sperimentato, era convinta che la loro storia sarebbe durata per sempre: lei, spumeggiante e vitale, lui così eccentrico e spericolato. Eppure, dopo cinque mesi, aveva scoperto che nel cuore del ragazzo, e nel suo letto, c’era anche una seconda opzione. La stessa che poi si era trasferita con lui a Burley.
« non essere così pessimista » sdrammatizzò Nathaniel, raccogliendo una conchiglia. Si fermò e, dopo qualche secondo, la lanciò sull’oceano, la cui superficie si era appiattita:
« sono sicuro che troverai anche tu qualcuno »
« dovrà essere un maniaco delle pulizie, se vuole trovarmi sotto il divano » ragionò lei, restando ancorata all’analogia che le aveva illustrato lui. Non voleva deprimersi, ne aveva fin troppi motivi e aggiungerci anche la sua misera situazione sentimentale sarebbe stata una dimostrazione di masochismo.
Nathaniel sorrise pazientemente e, determinato a eliminare la nota di amarezza, concluse:
« sarà un ragazzo che capirà che sei l’unica tessera che può completare la sua vita »
 
Nemmeno la statistica era a suo favore: sorprendentemente, era il sesto tiro consecutivamente sbagliato. Per essere stato eletto più di due mesi fa, capitano della Atlantic High School, ridicolosamente noto come Liceo Dolce Amoris, quella performance era a dir poco deludente, oltre che umiliante per uno come Dajan. In palestra era arrivato per primo, godendosi il silenzio che di lì a poco sarebbe stato interrotto dai sui chiassosi compagni di squadra. Non era sua abitudine isolarsi in quel modo, normalmente aspettava che tutti avessero finito di cambiarsi, ma non quel giorno e, più in generale, non quando era di così pessimo umore.
Udì alle sue spalle le chiacchere dei cestiti che entravano in palestra, ma non si voltò a guardare una direzione diversa dall’impenetrabile canestro che troneggiava sopra la sua testa; se lo avesse fatto, avrebbe dovuto sopportare gli sguardi confusi e preoccupati di Boris e del professor Faraize che non riuscivano a giustificare il suo malumore.
Dajan Brooks aveva fatto il suo ingresso quella mattina senza nemmeno salutarli, imprecando sommessamente quando aveva scelto una palla un po’ sgonfia e lamentandosi della scarsa qualità dei palloni offerta dalla scuola.
« merda » ringhiò a denti stretti quando la palla sbattè contro il ferro per la settima volta, senza attraversare la rete.
« ehi Trevor! » bisbigliò Wes, facendo cenno alla guardia di avvicinarsi « che ha il boss? »
« non ne ho idea, era già di pessimo umore stamattina quando sono passato da lui » lo informò il ragazzo, allungando i muscoli delle gambe.
Era domenica mattina, giorno eccezionalmente concesso dalla preside, assieme al sabato, affinché i cestiti potessero allenarsi per il torneo.
La prima volta che quel gruppo di ragazzi aveva assaporato l’esperienza di percorrere i corridoi deserti dell’istituto, erano talmente su di giri che per il timido e arrendevole professor Faraize era stata un’impresa contenerli. Trevor e Wes, etichettati come alcuni degli elementi più esuberanti della squadra, avevano cominciato a borbottare loschi piani delinquenziali tali che, appena Faraize aveva udito la frase “entrare in presidenza” si era allarmato, sfoderando un’autorevolezza che aveva sorpreso lui prima che i suoi studenti.  A dargli man forte, era stato anche Dajan, non a caso il suo studente preferito: si era rivolto agli amici, intimandogli di concentrarsi solo sul reale motivo per cui erano in quella situazione; l’allenamento era una priorità assoluta, con l’aumentare delle vittorie, aumentava il calibro degli avversari che dovevano affrontare e non potevano permettersi di trascurare la preparazione atletica.
Del resto, con l’accavallarsi delle vittorie, la squadra cominciava a credere sempre più in se stessa e per questo era estremamente motivata.
Come molti sospettavano, la preside non aveva esitato a manifestare apertamente il suo supporto, non solo fornendo ai ragazzi la palestra per allenarsi e concedendogli di saltare alcuni lezioni mattutine, ma anche a parole: ogni volta che incrociava uno dei cestisti per i corridoi, lo intratteneva con imbarazzanti frasi di incoraggiamento e assicurandosi che fosse in ottima forma. Nonostante il suo entusiasmo tuttavia, la donna non aveva ancora assistito alle loro partite; gli impegni scolastici la assorbivano completamente, impedendole di assentarsi intere giornate per recarsi nei luoghi in cui giocava la squadra.
Boris sospirò, indugiando lo sguardo su ognuno dei ragazzi presenti sul campo, ma venne anticipato da Faraize che osservò:
« Travis e Phoenix sono ancora in spogliatoio. Non capisco perché le ragazze ci mettano sempre tanto tempo a cambiarsi rispetto ai maschi » commentò sconsolato l’insegnante di ginnastica, che aveva una certa familiarità con quel genere di situazioni. Per lui non era certo difficile immaginare che genere di conversazioni intrattenessero le sue studentesse, ma conoscendo Erin e soprattutto Kim, non immaginava di certo che in quel momento stessero parlando di ragazzi.
« e Dajan si è davvero arrabbiato così tanto? » stava domandando la prima, sistemandosi la coda di cavallo. La divise in due ciocche e le tirò in direzioni opposte per fissare la stretta.
« cazzo sì! » sbottò Kim esasperata.
Anche se si era confidata con Erin, non le aveva raccontato delle lacrime che erano scivolate sul suo cuscino, durante la notte, protette dal segreto della sua trapunta arancione. Ci era rimasta malissimo, più di quanto avrebbe mai immaginato. Si logorava nel senso di colpa di essersi spiegata male, infatti la dialettica non era mai stata il suo forte, specie nelle situazioni di stress emotivo.
Nonostante la tortura psicologica che si stava auto imponendo, sapeva di dover dormire per l’allenamento del giorno successivo, ma quella necessità ostacolava ancora di più il suo tentativo di abbandonarsi al sonno.
Quando aveva riaperto gli occhi, si scoprì completamente diversa rispetto alla notte precedente: non vi era più traccia di rimorso, solo tanta rabbia che, una volta in spogliatoio, aveva raggiunto il suo apice. Era bastata una mezza domanda della compagna di squadra circa il suo incontro con Dajan del giorno precedente, a innescare la miccia:
« comincio a credere che i maschi sono più mestruati di noi Erin! Prima fa tutto il gentile, mi aiuta a trovare un college con una borsa di studio per l’atletica e poi, appena mi si offre un’opportunità diversa, si incazza come una iena! Ovvio che gliel’avrei detto, solo che volevo farlo dopo il torneo! È già sotto pressione per via del suo ruolo di capitano, non volevo mettergli altri pensieri in testa: avevo paura che il fatto che questa opportunità sia stata offerta a me anziché a lui, lo demotivasse o qualcosa del genere. Non ho mai pensato, te lo giuro, che non fosse contento per me, lo so che non è così meschino, solo non volevo minare la sua autostima » spiegò Kim, mentre una nota di tristezza comparve nei suoi occhi. Si trattò di un attimo e venne rapidamente rimpiazzata dal tono arrabbiato con cui aveva esposto il suo punto di vista:
« ecco cosa ne ricavi a preoccuparti per gli altri! » si infuriò, camminando avanti e indietro per la stanza, perpetuando un monologo che Erin esitava a interrompere «ah, ma guarda, per me il discorso è chiuso! Con quella scenata mi ha solo dimostrato di essere un ragazzino, immaturo ed egoista! » brontolò la cestista, alzando le braccia in segno di resa e scuotendo leggermente il capo. Si accorse di avere la scarpa slacciata e, con un sonoro sbuffo, si accucciò a terra per sistemarla.
« Kim, calmati » cercò di sedarla la compagna « Dajan non è così, e lo sai… ci deve essere un’altra spiegazione se ha reagito così male »
« e quale sarebbe? » ringhiò l’altra, stringendo il laccio con una tale veemenza che sembrava sul punto di spezzarlo.
« non hai pensato che ci sia rimasto male perché voleva davvero venire al college con te? » le suggerì la mora, con un sorrisetto furbo, che disorientò la ragazza « e poi, tu hai deciso senza nemmeno metterlo al corrente, pur considerandolo tuo amico. Hai fatto tutto di testa tua, come se la sua opinione non contasse nulla »
« ma se ti ho detto che non mi ha lasciato il tempo di spiegare! È saltato subito alle conclusioni! » si difese l’altra.
« allora tu oggi gliele dai queste spiegazioni » affermò Erin risoluta, sistemando un paio di forcine sul capo. Si specchiò, ritenendosi soddisfatta della perfetta acconciatura che la fecero tornare indietro nel tempo ai suoi saggi di danza. Era molto brava in quello sport, più di quanto non lo fosse a ginnastica artistica. Le sue insegnanti avevano cercato in tutti i modi di convincerla a continuare, ma la sua eccessiva timidezza di ragazzina le logorava i nervi ogni volta che doveva esibirsi davanti a tutti. Era cambiata molto da allora ma se dal punto di vista caratteriale avrebbe potuto affrontare un saggio di danza, dal punto di vista fisico non si sentiva più una ballerina: non era più una figura magrissima e senza forme, specie da quando aveva iniziato ad allenarsi seriamente per il basket, il suo fisico era diventato più tonico e proporzionato. Manteneva l’eleganza di una ballerina classica ma con la sensualità di una giovane donna che stava crescendo.
Kim era assorta a pensare a quanto le aveva detto Erin, riconosceva che quest’ultima avesse ragione, non aveva senso tenere il muso a Dajan; sentiva che la veemenza che aveva animato i suoi sentimenti quella mattina stava scemando. La burrasca stava passando e quindi avrebbe dovuto trovare un modo perlomeno per chiarire la sua posizione, eppure… il suo orgoglio le impediva di farlo. Non era lei a dover fare il primo passo.
Soffiò infastidita, incrociando le gambe sulla panchina e, incurvandosi in avanti, appoggiò il mento contro il palmo della mano:
« pff… non che ne abbia tutta sta voglia » biascicò, mangiandosi le parole « se prima non è lui a chiedermi scu- »
La frase rimase incompiuta poiché la ragazza vide la figura minacciosa di Erin avanzare verso di lei: l’ombra scura del corpo della compagna si proiettò sulla velocista, che la guardava dal basso verso l’alto. La vide chinarsi verso di lei, avvicinare il suo viso al proprio e, fissandola dritta negli occhi, sibilare intimidatoria:
« ascoltami bene Phoenix » le sussurrò con un’espressione inquietantemente sorridente « la prossima partita sarà davvero dura, c’è in ballo la qualificazione per la finale, quindi non posso permettere ad una scaramuccia tra innamorati di compromettere l’esito finale. Io quel biglietto per Berlino lo voglio, è chiaro?  Tu adesso esci da questo spogliatoio, metti l’orgoglio sotto i piedi e cerchi di fare pace con Dajan »
La ragazza stava per protestare quando Erin riuscì a zittirla con un:
« se non vi chiarite, sappi che provvederò personalmente a informarlo di quello che hai detto l’altra notte nel sonno »
La cestista avvampò in preda all’imbarazzo, all’idea che il capitano fosse messo al corrente delle sue confessioni amorose notturne. Aver condiviso la stanza con la ragazza durante le trasferte aveva rilevato degli inconvenienti non trascurabili.
« volete anche dei pasticcini da consumare nell’attesa signorine? » tuonò la voce cavernosa di Boris, seguita da colpi violenti. Le due cestiste trasalirono spaventate e, quasi sbattendogli la porta in faccia, sfrecciarono in palestra, lasciando dietro di sé, i rimproveri irritati del loro spazientito allenatore.
 
« suppongo che la scelta del verde sia ottima se vogliamo tifare per gli avversari » considerò ironicamente Lysandre.
« allora tu cosa proponi in alternativa? » sbottò Lin, offesa per la sua proposta che veniva bocciata.
« e perché non scegliamo un colore fluo? Così si nota per bene! » propose Armin.
« non abbiamo un cartellone fosforescente » osservò Ambra, sbirciando il disegno che assorbiva totalmente Violet; fu Iris a distoglierla dal suo lavoro, interpellandola:
« tu Violet che dici? »
« che non ho ancora capito cosa dobbiamo fare » ammise candidamente l’artista, che stava ritraendo una natura morta, ispirandosi al centro tavola.
« se è per questo nemmeno io » sbadigliò Kentin, che era stato violentemente e prepotentemente sbalzato dal letto da un eccitatissimo  e rumorosissimo Alexy.
Quest’ultimo, autonominatosi direttore artistico, troneggiava sulla sua equipe, distribuita attorno al tavolo da pranzo del soggiorno di casa sua. Guardava quel gruppo eterogeneo di persone che era riuscito a riunire, a seguito di un’idea che gli era sorta prima di addormentarsi.
La sua cara amica Erin avrebbe giocato la semifinale non lontano da Morristown e ciò offriva agli amici l’occasione perfetta per tifare per lei. Sorprenderla con la loro presenza però non era abbastanza per un ragazzo esuberante e allegro come Alexy. In fondo, lui e Violet erano membri del club di disegno e un bel cartellone sarebbe stata un’idea grandiosa da realizzare; doveva solo capire come sfruttare le scarse doti artistiche di Kentin, Armin ed Iris, far collaborare l’asocialità di Violet, ed arginare l’impeto di Lin; tra tutti i ragazzi attorno a quel tavolo, erano solo due quindi quelli a cui il direttore artistico sentiva di poter fare completo affidamento; da un lato si sentiva rassicurato dalla diplomazia e autorevolezza di Lysandre che, con la serenità di un Dalai Lama, riusciva a ripristinare la pace all’interno di un’atmosfera conflittuale, dall’altro c’era quella che sperava diventare un giorno sua cognata, Ambra Daniels. L’esperimento di riunire quest’ultima, assieme all’amica Lin, attorno ad un tavolo, era stato un successo sul profilo sociale, ma non lavorativo: seppure le due si fossero inserite bene all’interno del suo gruppo di amici, otto teste pensanti erano decisamente troppe da controllare e dirigere:
« calma calma! » applaudì Alexy, attirando l’attenzione su di sé « per chi come Violet e Kentin non l’avesse ancora capito, ci siamo riuniti per fare una sorpresa alla squadra di basket del liceo: realizzeremo un cartellone! »
« e perché mi avete chiamato? Io sono negato per questo genere di roba » obiettò l’ex cadetto.
« mi serviva qualcuno che tenesse compagnia a mio fratello mentre lavoriamo » ammise il gemello « quando Armin viene lasciato in disparte, diventa irritante e petulante. Andate a giocare alla Wii » li liquidò, come se si stesse rivolgendo a due ragazzini.
« ehi! Mica ho bisogno del baby sitter! » protestò il moro.
« in sintesi io e Nuvola siamo inutili » riepilogò Kentin, indicando il pargolo a cui doveva badare.
La notizia dell’identità segreta di Armin era circolata rapidamente tra i suoi amici dopo che lui stesso ed Ambra, avevano raccontato ai presenti della serata precedente. Avevano omesso dettagli quali quanto quelle ore trascorse insieme fossero state piacevoli; Armin non aveva fatto alcun cenno alla visione estatica che aveva avuto davanti agli occhi la prima volta che aveva visto la secondogenita di casa Daniels scendere le scale con l’abito da sera. Nemmeno Ambra aveva menzionato l’ammirazione che il ragazzo era riuscito a suscitare in molte persone che aveva conosciuto quella sera, lei per prima, grazie alle sue prodigiose conoscenze informatiche. Custodivano entrambi il ricordo di quell’evento, sapendo che presto, tanto Alexy, quanto Lin, artefici di quell’incontro, avrebbero vantato quel ruolo per appropriarsi del diritto di ricevere maggiori dettagli.
« a proposito » affermò Ambra, voltandosi verso Armin « non mi hai ancora spiegato perché sei entrato nei computer della Daniels » domandò, allungando la gomma che Violet cercava di recuperare silenziosamente, dall’altro capo del tavolo. Suo padre quella mattina le aveva chiesto se il suo amico sarebbe stato disponibile ad un incontro in uno dei prossimi giorni. Quella proposta l’aveva spiazzata al punto che, da gran calcolatrice qual era, Ambra aveva preferito prendere tempo: aveva inventato una scusa, sostenendo che il moro fosse molto preso con lo studio, anche se per uno svogliato come lui, era una bugia in piena regola.
Prima avrebbe scoperto quali fossero le intenzioni del padre e poi avrebbe valutato se informare il ragazzo di quell’interesse che Gustave Daniels nutriva verso di lui.
« volevo vedere l’anteprima di The Hook » borbottò l’hacker, incrociando le mani dietro il capo ed esibendo un sorrisetto soddisfatto.
« il videogioco che abbiamo lanciato l’anno scorso? »
Armin annuì, mentre Lysandre sollevava gli occhi al cielo, ma fu Ambra ad esternare il pensiero del poeta:
« e tu ti sei messo ad hackerare i computer aziendali solo per avere qualche immagine in anteprima? Ti rendi conto di quello che sarebbe successo se ti avessero scoperto? »
« una multa? » ipotizzò il moro per nulla impressionato.
« può costarti il carcere una cosa del genere! In tribunale figurati se avrebbero creduto alla tua storiella del videogioco. Avrebbero pensato che volevi rubare qualche dato sensibile » lo redarguì la bionda, con una punta di preoccupazione per l’incoscienza dell’amico.
« ma era davvero per il videogioco! » si difese il ragazzo, sorpreso da quell’accusa.
« noi ti crediamo, perché sappiamo che sei tutto scemo, ma i giudici non credo » tagliò corto Ambra. Non sapeva se trovava l’ingenuità di quel ragazzo più infantile che irritante. Si rivolse poi ad Alexy, ignorando completamente l’altro gemello:
« allora iniziamo? Che avevi in mente? » esclamò impaziente.
« ehi ehi, aspetta un po’ Daniels! » la richiamò il moro offeso per la poca grazia con cui veniva scaricato « come sarebbe a dire che sono tutto scemo? Ieri non mi sembravi così velenosa » la stuzzicò, sorridendo malizioso.
Ambra non fece una piega, anche se non potè impedire alle sue gote di tingersi di rosso:
« Nuvola… evapora » e gli fece cenno con la mano di allontanarsi.
I ragazzi sogghignarono mentre Armin, indispettito, raggiungeva il divano, dove sprofondò, seguito da Kentin. Gli passò un joystick, mentre cominciava ad elencare la vasta raccolta di videogame offerti dalla casa:
« ok » commentò Alexy, sollevato dal fatto che, con le doti manageriali di Ambra, il progetto potesse prendere avvio « ora Violet, sulla base delle idee che tireremo fuori, abbozzerà un disegno »
« quindi questo manifesto lo portiamo alla partita della prossima settimana? » indagò il membro più giovane del gruppo.
« se riusciamo a finirlo per tempo sì » convenne Alexy.
« allora che aspettiamo a metterci all’opera? » li esortò energicamente Lin, tirandosi su le maniche. Quando Ambra e i gemelli si erano presentati al ristorante, ci aveva messo qualche secondo prima di realizzare che avrebbe collaborato a quel progetto. Dopo anni trascorsi in solitudine con l’amica e con Charlotte, Lin sentiva il bisogno di espandere il suo giro di amicizie e negli ultimi due mesi quel suo desiderio era stato soddisfatto.
« mi fa piacere che tu abbia accettato di aiutarci » le disse Iris, sorridendole amichevolmente.
« beh, disegnare non mi dispiace » mormorò la cinesina, un po’ in imbarazzo.
« diciamo le cose come stanno » scherzò Alexy « lo fai anche per un giocatore in particolare »
« senti senti » squittì la rossa eccitata, mentre Ambra sorrise divertita, essendo già al corrente della situazione sentimentale dell’amica: da ormai un paio di settimane, usciva regolarmente con Liam, l’ala piccola della squadra di basket e compagno di classe di suo fratello Nathaniel:
« vogliamo cominciare o restiamo qui fino a domani? » borbottò Lin in difficoltà, cercando di sopire l’imbarazzo che le aveva arrossato le gote. Anche se si dimostrò leggermente irritata, quell’interesse e complicità che si erano creati attorno a quel tavolo di amici, l’avevano fatta sentire meravigliosamente ben accetta.
 
Una volta in palestra, Erin fece cenno a Kim di avviarsi verso Dajan.
« e che palle Erin! » sbuffò la ragazza. La mora sorrise malefica e chiamò ad alta voce:
« Dajan! »
Mentre l’ex velocista avvampava, il capitano si voltò verso la cestista più bassa della squadra e la osservò con interesse:
« che vuoi Travis? »
Quell’abitudine di chiamare i compagni per cognome sfociava solo quando Dajan era davvero nervoso. Non riusciva ad astenersi dall’usare un tono piccato e scontroso, totalmente insolito in una persona misurata e gentile come lui. Erin guardò la compagna, che sembrava voler sfidare la sua tenacia: Kim infatti la fissava severamente, evidentemente voleva saggiare la sua determinazione e verificare se davvero Erin avrebbe avuto il coraggio di portare a termine la sua minaccia.  Quest’ultima non manifesto alcun segno di indecisione e proseguì:
« volevo dirti che l’altra nott- » ma Kim le diede una pacca sul capo, facendole pure un po’ male:
« d’accordo Cip, hai vinto tu. Ci parlo, contenta ora? » sputò, irritata.
Come il soprannome che le aveva attribuito Castiel fosse giunto anche alle orecchie della sua squadra, ad Erin non era chiaro. Certo era che ormai i ragazzi si erano talmente affezionati a quel nomignolo che quasi non la chiamavano più con il suo nome di battesimo. Sorrise trionfante, guardando l’amica avvicinarsi incerta al capitano.
« che volevi dire a Dajan? » s’incuriosì Trevor, sedendosi in equilibrio su un pallone. Fissò Erin dal basso verso l’alto, mentre lei gli spiegò:
« ah niente, una balla che mi sono inventata che costringere Kim a fare pace con lui »
« a quanto pare ha funzionato » osservò la guardia, compiaciuta.
L’amica infatti si era accucciata a terra, a livello del capitano che era impegnato in un esercizio di allungamento:
« senti, per ieri… » stava dicendo la mora.
« non c’è altro da dire Kim » tagliò corto Dajan, toccando la pianta del piede e mantenendo la tensione muscolare « tra cinque giorni abbiamo una partita da vincere, è stupido da parte tua perdere tempo con queste sciocchezze. Vai dove vuoi, mica ti obbligo a fare una scelta diversa »
Lui non si degnava nemmeno di guardarla in faccia, trattandola come se fosse una sciocca che si perdeva in discussioni frivole. Quella risposta sgarbata la gonfiò come il tacchino che preparava sua madre il giorno del Ringraziamento: alzò le spalle, inalò aria nei polmoni e si preparò a rispondergli per le rime, quando Boris richiamò a sé il ragazzo. Kim fu quindi costretta a trattenersi, mentre il ragazzo si allontanava da lei. Non c’era possibilità di dialogo, anche se lei aveva tentato di mettere da parte l’orgoglio. Tornò da Erin, giusto in tempo per sentire Trevor che commentava divertito:
« Erin Travis che conta balle… hai anche tu allora uno spiritello malefico »
« ho avuto un buon maestro come Lysandre » convenne « è abilissimo a farti credere una cosa per un’altra, per convincerti a fare quello che vuole lui »
Trevor alzò gli occhi e, sorridendo ancora di più, aggiunse:
« credo Cip che tu debba prendere qualche altra ripetizione dal tuo amico »
« che intendi? »
« beh, dubito che lui si faccia sgamare così facilmente » ridacchiò il cestista, indicando il viso furente di Kim. Erin si voltò meccanicamente, sbiancando appena vide gli occhi iniettati di sangue della compagna, che ruggì:
« fammi capire Travis » scandì, mentre la palpebra sinistra cominciò a traballarle per l’irritazione « quella della frase detta nel sonno era tutta una balla? »
« detta a fin di bene » patteggiò Erin, ridendo nervosamente e indietreggiando istintivamente.
« spero che la corsa a bordo campo non ti abbia affaticato troppo… perché te ne servirà di fiato per sfuggirmi » ringhiò l’altra e, dopo aver avanzato minacciosa di qualche passo, partì all’inseguimento della sua compagna di squadra.
« oh, proprio così ragazze! » commentò orgoglioso Boris dalla panchina « non vi ho mai visto correre così velocemente! »
 
La sfera volò in aria, contesa tra le braccia di Julius Lanier e Isiah Reed. Fu il capitano a spuntarla, strappandogliela per un soffio:
« ne hai ancora di strada da fare Reed prima di battermi in elevazione » sogghignò Julius, palleggiando sicuro di sé verso il canestro:
« che non scambierei mai per la mia precisione di tiro » puntualizzò il compagno, partendo all’inseguimento. Lanciò un’occhiata fugace a Melanie: era già in posizione dietro al capitano, invisibile come sempre.
Mentre la sfera veniva ritmicamente battuta contro il pitturato dalla mano esperta di Lanier, la numero 8 allungò la propria, intercettando la traiettoria: la palla gli sfuggì, finendo direttamente alla miglior guardia del torneo, che con un’espressione trionfante, lo sfotté:
« non ti serve a nulla conquistare la palla se poi non sai tenertela »
« fa’ meno il saputello Reed » lo redarguì Lanier, irritato « che hai sempre Green che ti dà la pappa pronta »
Dal bordo campo, l’allenatore della Saint Mary assisteva in silenzio all’allenamento dei suoi ragazzi. Aveva le braccia conserte e un’espressione metadibonda. Come sempre, era sulla triade divina che si concentrava la maggior parte del gioco. Mitch, Dolph, Denzel, Ed, Neal, Hector e Gavin si limitavano a correre su e giù per il campo, aspettando di ricevere una palla che difficilmente sarebbe arrivata.
« impareranno mai a fare gioco di squadra? »
L’allenatore si voltò verso la figura femminile seduta accanto a lui: aveva i capelli raccolti in una crocchia disordinata, che le enfatizzava la mascella squadrata, impegnata a masticare sonoramente una chewing-gum.
« se non c’è riuscito uno come Boris a farglielo capire, dubito che succederà Paula » replicò l’uomo, facendo un cenno al gruppo di giocatori impegnati con la stretching di passare agli allenamenti con i palloni:
« ringraziamo il cielo che finora questo non ci ha penalizzato. Tuttavia mi preoccupa il fatto che affronteremo la Atlantic perché »
« loro hanno Boris e lui conosce tutti i nostri punti deboli » completò l’uomo.
« già. Mi chiedo se è per questo che oggi sono più combattivi del solito » mormorò la donna. Dall’altro capo non le arrivò nessuna risposta, se non dopo parecchi minuti di silenzio:
« che hai detto Paula? » domandò l’allenatore voltandosi verso di lei. Era distratto dalla partita che si stava svolgendo sul campo e non aveva seguito le ultime parole della sua assistente:
« che mi sembrano più determinati oggi, o sbaglio? Tu Randy non vedi alcuna differenza? »
Randy si barricò in una personale e silenziosa riflessione, al termine della quale, esternò:
« credo che, per la prima volta da quando è iniziato il torneo, si siano resi conto che la vittoria non sarà scontata »
 
Erin continuava a lanciare occhiate gelide alla compagna, mentre era impegnata ad allungarle la schiena in avanti:
« la pianti di guardarmi così? » sbottò Kim, infastidita « e soprattutto, non tirarmi così tanto! Mi farai fare uno strappo! »
« con il vostro atteggiamento, state creando tensione in squadra! » la rimproverò la mora, esagerando con lo stiramento ed estorcendo alla cestista un verso lamentoso.
« i fatti personali rimarranno fuori dalla partita, stanne certa » le assicurò Kim, liberandosi in malo modo dalla presa della compagna. Erin sbuffò, mentre Trevor e Steve, impegnati in un analogo esercizio di stretching, s’intromisero:
« eddai Cip, smettila di tenere il muso. Si chiariranno vedrai » la consolò Steve.
« Dajan non è così stupido da deconcentrarsi durante la partita per una cosa del genere » aggiunse Trevor.
« e comunque non è con i tuoi mezzucci alla Lysandre che otterrai una riappacificazione » chiarì Kim, che ancora serbava del leggero rancore per essere stata beffata.
« Lysandre? Quel tizio losco che stava sempre con Castiel? » domandò Steve.
« non è losco! » lo difese prontamente Erin, accantonando il malumore per il fallimento della sua missione.
« beh, qualcuno dovrebbe dirgli che non siamo più nell’Ottocento » convenne Trevor conciliante.
« ma lui è fatto così… è eccentrico, ma perché dici che è losco scusa? » s’impuntò la mora, indirizzando la sua irritazione verso Steve. Il commento del ragazzo l’aveva indisposta, facendola scattare sulla difensiva; era molto affezionata al poeta, come del resto a tutti i suoi amici, e non riusciva a sopportare commenti negativi su di loro.
« quindi sei sua amica? » aggirò il cestista, evidentemente sorpreso. Erin annuì, mentre Steve proseguiva:
« beh, ce l’ho avuto in classe il primo anno, poi mi hanno cambiato di sezione… comunque mi ricordo che era sempre silenzioso, asociale, non riuscivi mai a capire cosa pensasse realmente. Quelle poche volte che parlava, se ne usciva con frasi enigmatiche, difficili da interpretare… non scaldarti Cip, ma se devo essere sincero, l’ho sempre trovato un po’ subdolo e non ho mai capito come Castiel riuscisse ad andarci così d’accordo »
Erin rimase spiazzata per quell’opinione, specie perché proveniente da uno dei cestisti con cui più aveva legato, che considerava pure molto maturo e riflessivo.
« beh, adesso non esagerate Steve! » borbottò Trevor divertito, alleggerendo la tensione « quando c’era Cas, ho parlato un paio di volte con Lysandre, non era poi così chiuso e misterioso come dici »
Il compagno scrollò le spalle e commentò:
« è solo la mia opinione, non ho mai avuto tante occasioni per parlarci e di certo non negli ultimi quattro anni, dopo che ho cambiato classe. Non so praticamente nulla di lui… anche sulla sua famiglia c’è una sorta di… mistero »
Erin lo fissò interrogativa, obiettando:
« che mistero? »
Steve fece spallucce e la liquidò:
« non so praticamente niente Erin, che cosa posso dire? Pare che i suoi non vivano con lui e la sorella »
La mora ricacciò dentro la frase che avrebbe voluto dire. Conosceva quella situazione, era stato Lysandre stesso, qualche mese prima, a raccontarglielo. Lui e Rosalya non avevano mai conosciuto i genitori, vivevano con i nonni materni ma Erin non sapeva altro. Era già capitato più volte che i due fratelli fossero andati a trovarla nel suo appartamento, ma mai il contrario.
Kim nel frattempo aveva seguito solo marginalmente quei discorsi. Anche se ostentava irritazione verso il comportamento del capitano della Atlantic, in cuor suo era preoccupata. Dajan era ostinato a non voler tornare sull’argomento e l’idea di supplicarlo la innervosiva terribilmente, perché troppo scostante dal suo carattere.
Anche Erin aveva smesso di seguire il dialogo tra i due ragazzi, che erano passati a parlare dell’ultima partita di football. Quello che le aveva detto Steve, l’aveva un po’ turbata: Lysandre era decisamente il più riservato tra i suoi amici, quello di cui conosceva meno lati in assoluto. A dispiacerle era sentire la scarsa opinione che avesse di lui uno come Steve, che aveva un carattere adorabile. Si chiese se in classe, il poeta, analogamente alla sorella, non avesse allacciato alcun rapporto con i suoi compagni, isolandosi nel suo mondo.
Eppure era un ragazzo d’oro, uno dei migliori che avesse mai conosciuto e quel pregiudizio legato al suo carattere chiuso e schivo, era ingiusto; Lysandre non era subdolo, anche se, doveva riconoscerlo, in passato aveva beneficiato lei stessa della sua intelligenza calcolatrice, poiché aveva permesso di far esibire Nathaniel e Castiel insieme, oltre che organizzarle una festa a sorpresa per il suo compleanno.
« ERIN! » ripetè spazientita Kim, facendola sobbalzare.
« che c’è? »
« Boris ti sta chiamando, sei diventata sorda? »
La cestista si voltò, incrociando l’espressione accigliata del suo coach che batteva freneticamente il piede contro il suolo della palestra, ricordandole il coniglietto del film Bambi, ma nello sguardo del coach, non c’era alcuna parvenza della dolcezza di Tippete.
 
In casa Evans, due persone mancano all’appello degli iniziali otto ragazzi che avevano aderito all’iniziativa del cartellone: pochi minuti prima, Iris aveva ricevuto una telefonata dalla madre, al termine della quale, evidentemente indispettita e contrariata, la rossa aveva annunciato di doversi congedare dagli amici, per badare al fratellino Adam.  Kentin, in quel momento, si era lamentato per l’ennesima sconfitta collezionata contro Armin che l’aveva sfidato al suo videogioco preferito:
« allora Kentin, per non perpetuare la tua umiliante disfatta » aveva convenuto Lysandre « accompagna tu a casa Iris, così passi dal cartolaio davanti alla stazione e ci vai a prendere la colla »
« ditelo allora che mi avete preso come facchino » commentò amaramente il ragazzo, il cui contributo per il cartellone era stato pari a zero.
« grazie Kentin » gli sorrise candidamente Violet, mettendolo in difficoltà con il suo innocente e sincero candore. Il ragazzo aveva borbottato qualche frase confusa, per poi lasciare casa Evans assieme ad Iris.
Dopo un paio di minuti dalla loro uscita però, Alexy esclamò:
« aspetta Lys, ma è quasi mezzogiorno! Quando Kentin arriverà in cartoleria, sarà già chiusa »
Ambra sorrise divertita tra sé e sé, staccando per un attimo gli occhi dalla scritta “FORZA ATLANTIC” e cercò lo sguardo del poeta, trovando sul viso di quest’ultimo un’espressione smaliziata. Lysandre infatti, impegnato a cancellare un tratto a matita, sorrise sardonico e replicò placidamente:
«lo so »
 
« sì Adam, sto arrivando. Tu sta buono e guarda la TV. Se fai il bravo ti compro l’ovetto Kinder » patteggiò la sorella al telefono.
Seguì un’affermazione convinta ed Iris sorrise, riagganciando.
« quindi che lavoro fa esattamente tua madre? » incalzò Kentin, calciando un sassolino innocente ai suoi piedi. Stavano camminando lungo un viale alberato che si trovava in una delle zone residenziali più curate di Morristown. Quel giorno di metà febbraio c’era un sole caldo, nonostante il rigido clima invernale e un cielo azzurro come i capelli di Alexy.
Il rapporto tra i due, nelle ultime settimane, si era assestato ad una pacifica convivenza. Non c’era una grande intesa tra di loro, anzi, le poche occasioni in cui rimanevano soli erano per lo più fonte di disagio e di brevi dialoghi frammentari. Kentin percepiva da parte di Iris una sorta di reticenza nei suoi confronti, quasi un timore ad avvicinarsi troppo a lui. La vedeva scherzare allegramente con Armin, con cui andava particolarmente d’accordo, e si chiedeva che cosa mancasse a lui per raggiungere quel grado di complicità.
« impiegata » gli aveva risposto laconica la ragazza, senza fornire ulteriori dettagli.
Lui annuì, ricercando altri argomenti di conversazione che, per sua disgrazia, non trovò.
Continuarono così a camminare in silenzio, finché non arrivarono in prossimità della stazione dei treni:
« allora vado a prendere la colla, così poi torno dagli altri » la informò Kentin.
Solo allora Iris sentì l’impulso di dire qualcosa; era stata fin troppo silenziosa, annoiando sicuramente il moro. Non poteva lamentarsi del fatto che le sue amiche fossero delle ragazze molto più interessanti di lei, se lei per prima non faceva alcuno sforzo per risultare una persona gradevole; d’altronde, quella strana sensazione che suscitava in lei Kentin non era colpa del ragazzo, era una questione di chimica tra di loro: non riusciva a capire se tra di loro ci potesse essere una reazione o se fossero come due sostanze inerti l’una per l’altra.
« d’accordo, comunque devo passare davanti alla cartoleria per andare al supermercato » gli indicò la rossa, puntando l’indice verso un’insegna vistosa. Ci misero poco a raggiungere la destinazione di Kentin e ancora meno a realizzare che il ragazzo non avrebbe potuto adempiere alla sua commissione:
« e che cazzo, hanno già chiuso? » si lamentò.
« è mezzogiorno passato. Forse avremo dovuto sbrigarci » considerò ingenuamente Iris.
Il moro digitò velocemente un messaggio ad Armin, in cui gli comunicava l’insuccesso della sua missione.
La risposta non tardò ad arrivare, concomitantemente alla vibrazione del cellulare:
« che scemo » ridacchiò tra sé e sé l’ex cadetto, mentre Iris lo guardava con curiosità.
Il moro le sorrise leggermente, allungandole lo schermo del cellulare. La rossa, leggendo a voce alta, recitò:
« allora soldato Affleck è congedato. Riposo. Ci vediamo domani »
Ghignò a sua volta, tornando a fissare il suo interlocutore:
« ormai il cartellone è finito, si arrangiano loro a ultimare i dettagli »
« diciamo che il mio contributo è stato alquanto limitato »
« no dai, ci hai tenuto buono Armin » ridacchiò Iris « credimi se ti dico che la manualità di quel ragazzo è una calamità naturale… ma è anche per quello che è così simpatico »
Avevano ripreso a camminare, trovandosi di fronte al supermercato. Erano talmente assorbiti dalla conversazione che entrarono nel negozio assieme, anche se non era l’intento iniziale di Kentin:
« già, anche se non capisco come faccia ad essere sempre allegro »
« è un mistero anche per me che sono sua amica da quattro mesi » riconobbe, prendendo un carrello e spingendolo lungo il reparto dei biscotti.
« solo quattro mesi? Pensavo molto di più! »
« beh, è cominciato tutto da quando Erin è arrivata questo autunno… ma aspetta » realizzò Iris « non sei obbligato ad accompagnarmi. Scusami sono entrata senza neanche pormi il problem- »
« se è per questo manco io ci ho fatto caso. Mi fa piacere » borbottò lui « mi dicevi di Travis… »
Iris sistemò la tracolla dentro il carrello mentre tornava a raccontare:
« prima di lei ognuno di noi stava per i fatti suoi »
Erano arrivati davanti allo scaffale con i prodotti per la colazione. La cliente si allungò sulle punte nel tentativo di afferrare i biscotti che sua madre adorava. Maledisse i commessi che posizionavano sempre troppo in alto quel pacco, costringendola a tendere ogni muscolo del suo corpo nel tentativo di raggiungerlo.
Dopo un paio di secondi, vide un braccio passare con disinvoltura sopra la sua testa, allungandosi fino ad arrivare al suo obiettivo.
Kentin raccolse la confezione e gliela porse in silenzio, mentre lei riviveva una sorta di déjà-vu: era così che si erano conosciuti la prima volta, durante le vacanze natalizie, in biblioteca. In quell’occasione il ragazzo le era sembrato così affascinante, sicurò di sé e gentile. Quell’aria intellettuale l’aveva profondamente impressionata ma quando se l’era ritrovato in classe, aveva scoperto in lui dei lati che l’avevano lasciata disorientata, in primis il suo trascorso all’accademia militare. Inoltre, nonostante l’incredibile predisposizione per la letteratura e una certa scioltezza linguistica, Kentin non esitava a esprimersi con espressioni poco fini e le sparate un po’ grezze con cui ogni tanto strappava qualche sorriso ai suoi amici, ricordandole Castiel. Secondo Iris, nell’ex cadetto si erano venute a concentrare delle contraddizioni, degli aspetti incompatibili gli uni con gli altri, come se in lui coesistessero due persone diverse. Si sentiva attrarre da quella più sensibile e respingere da quella più virile.
Kentin nel frattempo, dimostrando un notevole interesse per l’argomento che stavano trattando, proseguì:
« quindi è stata Erin a riunirvi tutti? »
La ragazza sistemò il pacco nel carrello e replicò:
« sì, la prima settimana dopo il suo arrivo eravamo io, lei e Violet, poi una volta Lysandre è venuto a restituirle un quaderno e lei l’ha invitato a pranzare con noi. Da lì si è aggiunto Castiel, il ragazzo che ci senti nominare di continuo »
« quello che manda sui nervi Rosalya? »
« esatto. Poi mi pare che si sono aggiunti i gemelli e anche Rosa, che è stata la più tosta da convincere, si è aggregata a noi. Devi sapere che fino all’anno scorso, lei, il fratello, i gemelli e Castiel erano molto amici ma poi hanno litigato di brutto e si sono separati»
« perché hanno litigato? »
« è una storia lunga » lo liquidò Iris « l’importante è che ora si siano riappacificati »
« e tutto grazie a Travis? » chiese retorico, con una punta di scetticismo, ma Iris affermo risoluta:
« secondo me sì… il fatto è che lei ha la capacità di farsi voler bene dalle persone. Credo che Erin rappresenti l’unico punto di accordo tra Castiel e Rosalya, dal momento che entrambi la adorano »
« ma scusa, questo tizio non è quello che non la chiama mai da quando è in Germania? » obiettò il moro.
« lo so, però se li avessi visti insieme, capiresti cosa intendo » commentò la ragazza, facendogli l’occhiolino. Quel sorrisetto furbetto non era da lei che se ne accorse subito. Si stupì lei per prima che le fosse venuto così spontaneo approcciarsi a Kentin. Forse era merito di quell’argomento che le stava così a cuore: anche se l’amica non ne aveva più parlato, Iris sapeva quanto ad Erin mancasse l’amico ed era convinta che, nonostante il suo silenzio, anche Castiel ne sentisse la nostalgia.
Cominciò a scegliere con cura delle mele renette, mentre il suo interlocutore la scrutava piacevolmente sorpreso: c’era una strana armonia tra di loro, come aveva sempre sognato che fosse.  
« ricordati l’ovetto per tuo fratello » le rammendò, vedendo uno stand di cioccolatini accanto alle casse.
« ne vuoi uno anche tu? » lo schernì Iris, mettendosi in coda. Si sporse verso l’espositore, da cui prelevò il dolcetto per Adam.
« quasi quasi » confessò il ragazzo. La rossa allora, senza scomporsi, ne aggiunse un altro al carrello, mentre Kentin borbottava:
« maddai, stavo scherzando! »
« se non lo vuoi tu, allora me lo mangio io e ti lascio la sorpresa »
« mi hai preso per un bambino? »
Iris sorrise divertita e sistemò sul nastro mobile gli articoli che aveva acquistato.
« oh caspita! Devo prendere anche l’acqua! » esclamò, vedendo delle confezioni da sei bottiglie esposte a poca distanza. Il ragazzo allora si offrì di recuperargliele al posto suo, mentre lei ultimava di sistemare la spesa. Si trovò a pensare quanto, a discapito dei suoi modi a volte un po’ rudi, Kentin con lei fosse sempre gentile e premuroso.
La fila era proceduta spedita e ben presto fu il turno della ragazza; la commessa le chiese se aveva la tessera del supermercato e la cliente esclamò:
« oddio, che scema! Sì aspetti un attimo » e cominciò a frugare nella borsa, alla ricerca della card che avrebbe già dovuto tenere in mano. Buona parte degli articoli che aveva scelto erano in offerta se acquistati con la carta fedeltà di quella catena.
Dopo un minuto di infruttuosa ricerca, sbuffò arrendevole. Era sempre la solita sbadata, l’aveva dimenticata a casa nonostante le raccomandazioni della madre di tenerla nel portafoglio. Quello sarebbe stato l’ennesimo pretesto per un litigio ma non era il momento di preoccuparsi per quello:
« vuoi la mia? » le propose Kentin, allungandole una tessera identica a quella che cercava.
Rimase spaesata da quella proposta mentre l’annoiata commessa incalzava:
« può usare quella del suo ragazzo, non ci sono problemi »
« sì sì, d’accordo… cioè no, non è il mio ragazzo! » farfugliò in preda all’imbarazzo, mentre il palmo sollevato verso l’alto della commessa istigava Kentin ad affrettarsi a consegnarle la tessera. Per quello che la riguardava, il moro poteva anche essere il genio delle Tartarughe, alla donna interessava solo ultimare quel conto e dichiarare finito il suo turno del mattino.
 
Uscendo dal supermercato, poiché il ragazzo si era offerto a trasportare la confezione di bottiglie, Iris si premurò:
« lascia almeno che porti la borsetta con la frutta »
« naa, non preoccuparti » minimizzò lui « mi chiedo solo come pensassi di fare da sola a portare tutta questa roba »
« non sono così debole come sembro » si difese la rossa con orgoglio.
Continuarono a camminare, scherzando e parlando del più e del meno, come entrambi avevano sempre desiderato fare. Era scattato qualcosa quel giorno, senza che fosse accaduto nessun evento in particolare, che li aveva messi in una condizione di essere se stessi, specie Kentin che accanto a Iris finiva sempre per innervosirsi e dire qualcosa di sbagliato.
« oggi a pranzo che mangi? » gli chiese.
« boh, vedrò quando arrivo a casa. Mia madre dovrebbe avermi lasciato dell’arrosto di ieri » commentò con scarso entusiasmo.
« neanche tua madre è a casa oggi? »
« no, è con mio padre in ospedale a New York »
« in ospedale? » si preoccupò Iris.
« sì, si è ferito durante un’esercitazione »
Poiché l’espressione interrogativa della ragazza non accennava a dileguarsi, il moro precisò:
« ah, forse non te l’ho mai detto: mio padre lavora nel centro di addestramento militare di Allentown. L’altro giorno un cadetto ha maneggiato male un M16 e ha finito per ferire ad una gamba mio padre e ad un braccio un altro ragazzo »
Non gli giunse risposta da Iris, se non dopo parecchi secondi di silenzio:
« mi spieghi che gusto ci troviate voi uomini nell’andare in guerra? »
Aveva un tono severo, quasi recriminatorio che spiazzò il ragazzo. Proprio quando si era convinto che tra di loro ormai ogni attrito fosse definitivamente smussato, ripiombava un clima di tensione. Tuttavia, diversamente dal solito, in quella circostanza non si sentiva intimidito o in difficoltà: quello era un argomento che era abituato a trattare, specie durante gli anni dell’accademia:
« non è una questione di trovarci gusto Iris. È per la sicurezza del paese »
« non sarebbe necessario se tutti gli stati rinunciassero ad avere un esercito » considerò la ragazza, storcendo il labbro inferiore.
« il problema è che nessuno lo fa » convenne Kentin, indulgendo sulla visione semplicistica di Iris .
« ma tu perché ti sei iscritto all’accademia militare? Vuoi davvero diventare un ufficiale? »
Formulò quella domanda con una punta di apprensione, come se il futuro del ragazzo fosse una questione che la riguardasse in prima persona:
« il fatto che ora frequenti un liceo pubblico non ti fa desumere che non sia più così? » osservò lui con un sorriso conciliante.
Quella contro battuta la zittì: si sentì una sciocca per avergli posto quel quesito, quando la risposta era così ovvia. Detestava fare la figura della stupida, ma se ne accorgeva sempre quando era troppo tardi.
Kentin però era lusingato dall’interesse che la rossa gli stava mostrando; c’era sì una sorta di scontro tra di loro in quel momento, ma sentiva di poter sostenere quella conversazione, di difendere la sua posizione. Quella poteva essere proprio l’occasione giusta per aprirsi con lei, raccontarle qualcosa di lui che li avrebbe fatti sentire più vicini l’uno all’altra:
« vedi, il fatto è che fino a qualche anno fa ero un ragazzino senza spina dorsale, debole e insicuro. Per mio padre era quasi un insulto avere un figlio del genere » le confessò il moro ridacchiando.
Non ci trovava niente di comico in quello che le stava rivelando, ma quella risata nervosa gli serviva per stemperare l’imbarazzo. Sperò che Erin non avesse raccontato ad Iris troppi dettagli del suo passato alle medie, in particolare della scarsa considerazione che avevano di lui i suoi compagni di classe. Se avesse potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe scrollato con violenza quel penoso Ken rammollito, ordinandogli di smetterla di autocommiserarsi e di cercare l’approvazione di persone che lo consideravano meno di zero.
Era sempre stato un ragazzo buono, di quelli di cui ricordarsi durante i compiti in classe e dimenticarsi durante il resto della giornata. Non era mai riuscito ad avere dei veri amici, le uniche sue consolazioni derivavano dalle volte in cui Sophia, la sorella di Erin, cercava di spronarlo ad essere più sicuro di sé. Erano in quelle occasioni che non si sentiva solo e abbandonato. La ragazzina si infervorava con lui, cercando di farlo reagire alla sua stessa passività, ma non c’era mai riuscita. In alcune occasioni, mentre tornavano in autobus, passava tutto il tragitto a discutere con lui su quel tema e solo con la gentilezza di Erin, riusciva a sedare la veemenza della gemella. Era proprio per i modi concilianti della mora che lui un po’ se ne era innamorato all’epoca.
Guardando al passato, Kentin realizzò che la persona che disprezzava più di tutti il Ken del passato fosse il Kentin del presente.
Era solo grazie alla consapevolezza di essere tanto maturato che quel giorno, con Iris accanto, si sentiva libero di aprirsi, essere sincero e spontaneo:
« l’accademia è stata una palestra in tutti i sensi, ma soprattutto di vita: è stato durissimo ambientarsi, certi ragazzi che ho incontrato avevano dentro talmente tanta rabbia e frustrazione che le sfogavano sugli altri… e diciamo che ero abbastanza mingherlino da rappresentare un facile bersaglio »
Ancora una volta quella risata imbarazzata. Non riusciva a trattenerla, come del resto non riusciva a porre un freno a quelle confessioni che negli ultimi anni aveva tenuto per sé:
« l’accademia imponeva loro una disciplina, delle regole… concetti a loro del tutto estranei mentre per me il problema era l’esatto opposto: ero fin troppo educato, remissivo, non riuscivo a tirare fuori il carattere »
« e allora come sei riuscito a cambiare? È successo qualcosa di particolare? » soggiunse Iris.
Aveva abbandonato completamente la diffidenza con cui si era espressa poco prima. Per la prima volta in vita sua, voleva sapere qualcosa di più di quell’ambiente che aveva sempre detestato, ma soprattutto, voleva conoscere quello strano ragazzo che stava camminando accanto a lei:
« no, è stato un percorso graduale » puntualizzò lui « un giorno ti accorgi che non sei più l’ultimo a finire l’esercizio e questo ti regala una piccola ma importante gratificazione. La settimana dopo riesci a completare la corsa del campo senza stramazzare al suolo, sette mesi vinci la gara di resistenza… sono tutti piccoli passi, ma che messi insieme, l’uno davanti all’altro, ti portano ad allontanarti da ciò che eri, per diventare ciò che hai sempre voluto essere. L’accademia mi ha insegnato che nella vita bisogna saper strisciare sul fango e stringere i denti se vuoi arrivare al traguardo.
All’inizio, appena mio padre mi obbligò a iscrivermi lì ero disperato ma ora, a distanza di più di tre anni, non posso che essere grato all’accademia per il percorso che ho fatto. Non si può cambiare la propria vita se si continua a fare le stesse cose »
« e allora perché hai mollato tutto? »
Quella domanda le uscì come un sussurro: il racconto del ragazzo l’aveva colpita, fornendole una prospettiva totalmente diversa dell’ambiente di suo padre. Il generale Levine si era sempre riempito la bocca di altisonanti termini quali “senso dell’onore” e “disciplina”, ma in lei suscitavano solo insofferenza.
Con Kentin era stato diverso.
Lui le aveva parlato con trasporto di quell’esperienza, quasi con lo stesso ardore con cui il primo giorno di scuola aveva illustrato la sua opinione circa il romanzo di Madame Bovary. C’erano sentimenti ed emozioni nel suo modo di esprimersi e lei non poteva che esserne rimasta affascinata.
Lo vide chinarsi a terra, a raccogliere una chiocciola finita sul marciapiede e spostandola sulla ringhiera accanto a lui. Mentre Iris assisteva in silenzio a quella scena, lui finalmente rispose alla domanda che gli aveva posto:
« il mio mondo non è quello militare Iris »
Che cosa si nascondesse dietro il suo sorriso, la rossa non riuscì a capirlo: avvertiva come una sorta di intesa, di complicità che lei doveva cogliere. Era come se si aspettasse che lei fosse già al corrente di quella parte di lui che teneva preclusa al resto delle persone.
I libri.
Ecco qual era il suo mondo, lo stesso mondo in cui si erano incontrati la prima vola.
« è la letteratura, è quella la mia vera inclinazione » confermò Kentin « e non immagini le discussioni che ho con mio padre per questo »
« lui vorrebbe che diventassi un ufficiale? »
« già. Non l’ha presa bene quando gli ho detto che avrei mollato l’accademia, anche perché gli insegnanti cominciavano a dirsi molto soddisfatti di me » precisò, omettendo che qualche mese prima era stato dichiarato il migliore del suo anno « ero soddisfatto di ciò che ero diventato ma ho capito che avevo ricevuto abbastanza da dover cambiare pagina; sì è vero, non sono più la stessa persona che è entrata lì dentro quattro anni fa, ma non ho rinnegato totalmente la mia personalità. Da qualche parte, sono rimasto il ragazzino impacciato e innamorato dell’odore di un libro fresco di stampa »
Con quell’ultima dichiarazione, l’ex cadetto si accorse di aver fatto emergere il suo lato sensibile più di quanto avesse voluto, così si affrettò a banalizzare un farfugliamento imbarazzato:
« sì cioè, i libri sono una figata, andrebbero letti più spesso dalla gente »
Qualsiasi frase avesse pronunciato in quel momento, niente poteva cancellare la piacevole sensazione che si era impressa in Iris.
Era quello il Kentin che aveva immaginato lei la prima volta che l’aveva visto. Non solo non voleva diventare un militare, ma era anche capace di una delicatezza d’animo insospettabile.
Ci aveva messo più di un mese, ma l’aveva trovato.
Finalmente.
Erano arrivati davanti al condominio in cui abitava la famiglia Levine e, nonostante il ragazzo avesse camminato per dieci minuti reggendo il grosso della spesa, non si era mai lamentato, merito degli anni di addestramento; Iris appoggiò la borsetta della spesa per terra e cercò le chiavi. Facendole tintinnare leggermente, mormorò:
« sono contenta che tu mi abbia raccontato queste cose di te »
Mentre lei gli sorrideva con gratitudine, lui masticò:
« b-beh, credo di avere straparlato, tu dimentica tutte le cazzate che ho detto »
Ormai cominciava a conoscerlo: il suo ridicolizzare proprio i lati migliori del suo essere, era qualcosa che la faceva sorridere di tenerezza. Aveva capito quale fosse il vero Kentin, anche se il ragazzo non sopportava di apparire troppo vulnerabile:
« grazie mille per la spesa » proseguì e visto che realizzò di non avere il mazzo di chiavi giuste, suonò il citofono accanto a lei. Seguì una voce infantile che chiese:
« chi c’è? »
« Adam, sono io apri » gli ordinò la sorella.
Udirono un click e la ragazza sospinse il pesante pomello del portone d’ingresso.
« te le porto davanti alla porta » si offrì Kentin, riafferrando l’acqua e la borsa in plastica.
 
Quando uscirono dall’ascensore e sentirono una vocina che domandò:
« me l’hai preso l’ovetto? »
Davanti a Kentin, che fu costretto ad abbassare lo sguardo, si presentò un bambino di dieci anni, dai capelli ramati, molto più scuri di quelli di Iris. Aveva uno sguardo vispo e trasparente e dei chiarissimi occhi verde oliva.
« si che te l’ho preso » lo tranquillizzò la sorella, invitandolo a tornare in appartamento.
Adam però era rimasto immobile a fissare il ragazzo sconosciuto che lo sovrastava di quasi cinquanta centimetri.
« e tu chi sei? » lo aggredì il bambino, scrutandolo con diffidenza.
« Adam! » lo rimproverò Iris « non è questo il modo di rivolgersi alle persone. Sii più educato »
Kentin cercò di dimostrarsi il più amichevole possibile e, con un sorriso paziente, si presentò:
« mi chiamo Kentin »
« che nome stupido »
Iris divenne rossa e sbottò arrabbiata:
« chiedi immediatamente scusa! Kentin mi ha addirittura aiutata a portare a casa la spesa e se non era per lui, neanche mi ricordavo di prenderti l’ovetto! »
Quell’ammissione ebbe un effetto sedativo sul bambino che, dopo una disinteressata scrollata di spalle, tornò a piazzarsi davanti alla TV, lasciando soli i due amici.
« scusalo. Non so che gli abbia preso. Di solito non è così dispettoso »
« è simpatico » mentì Kentin in difficoltà, grattandosi la nuca. La rossa spostò lo sguardo verso le bottiglie che l’amico aveva trasportato al posto suo. A quel punto le venne in mente una proposta che, fino ad un’ora prima, non avrebbe mai pensato di formulare.
« vorresti fermarti qui a pranzo? »
« no »
Quel diniego così secco e piccato però, non era giunto dall’ospite.
Iris si voltò irritata verso il fratellino spaparanzato sul divano.
« non l’ho chiesto a te Adam, dacci un taglio »
Spiazzato per quell’invito, Kentin cercò di valutare la situazione: mangiare da Iris avrebbe significato rinsaldare i progressi che erano riusciti a fare quel giorno ma la presenza irritante del fratellino di lei poteva anche rovinare tutto, mettendolo a disagio e portandolo a fare la figura dell’idiota; per il momento, era meglio rimandare, quella proposta l’aveva colto troppo alla sprovvista:
« grazie Iris, sarà per un’altra volta »
Lei sorrise comprensiva, dubbiosa se, con il senno di poi, quel rifiuto l’avesse fatta sentire più dispiaciuta che sollevata. Le era venuto spontaneo invitarlo, ma non era poi così sicura che fosse stata una buona idea; Adam era intrattabile quel giorno e nutriva un’inspiegata antipatia verso Kentin; tuttavia, ciò non cambiava il fatto che da quel momento in poi, avrebbe guardato l’amico con occhi diversi.
 
« come mai non sei a lezione? » chiese dolcemente Rosalya, leccando via la schiuma di latte che le aveva imbiancato il labbro superiore.
Erano ormai passate le otto del mattino e Nathaniel era lì, nella sua stanza d’albergo. Lei ancora dormiva quando aveva sentito bussare alla porta e, borbottando arrabbiata e confusa, era andata ad aprire. Si era ritrovata di fronte il ragazzo, che teneva in mano un vassoio con il marchio dell’hotel e un’abbondante colazione.
« colazione in camera » aveva esordito lui, entrando nella stanza. Aveva appoggiato il vassoio sul tavolo prospicente il letto matrimoniale e si era voltato verso di lei, radioso. Aveva una strana luce negli occhi quel giorno e Rosalya riuscì a notarla subito.
La ragazza addentò una fragrante brioche alla marmellata di more, la sua preferita e si leccò le labbra rosee per recuperarne tutto il dolce sapore.
« per una volta posso anche saltarla » le sorrise il biondo, stampandole un bacio in bocca, che sapeva di more. Assaporò la dolcezza del croissant mentre la ragazza teneva la pastina a mezz’aria.
« come risveglio non mi dispiace. Anche quando torniamo a Morristown voglio il servizio completo » scherzò lei, con voce suadente.
« dipende da cosa intendi per servizio completo » sorrise lui malizioso, accarezzandole una gamba.
Non ricordava l’ultima volta che si era sentito così bene. Probabilmente risaliva a quando lui e Castiel erano grandi amici, quasi un anno fa. La sfuriata con Sophia aveva sbloccato qualcosa in lui, gli aveva alleggerito l’animo, permettendogli di vomitare quel peso che gli attanagliava le membra da ormai troppo tempo.
Era felice, non c’era modo diverso di descrivere il suo stato d’animo in quel momento; aveva salutato frettolosamente Sophia, per dirigersi da quella ragazza che aveva attraversato il paese per stare con lui.
La sua Rose. La ragazza di cui era innamorato dalla seconda superiore, quell’amica che non aveva mai considerato tale.
Alla sua contentezza, si sommava una sorta di eccitazione per aver trasgredito le regole, scegliendo di non presentarsi alla lezione all’università; per uno studente coscienzioso come lui, si trattava di una novità e il gusto che ne era derivato, gli fece suppore che non si sarebbe trattato di un caso isolato.
Afferrò il tavolino che aveva appoggiato sulle gambe della ragazza e lo spostò sul comodino accanto a lei: la colazione non era ancora finita ma nessuno dei due sembrava darle importanza; i due ragazzi percepivano l’elettricità in quella camera, in cui c’era un romantico silenzio ad avvolgerli.
Le portò una mano sul collo liscio, cominciando a baciarlo con trasporto, senza che lei opponesse alcuna resistenza. Rosalya lo lasciò fare, chiudendo gli occhi e inarcando leggermente la schiena. Sentì le mani di lui passare tra i suoi lunghi capelli, regalandole una sensazione di estremo relax: adorava farseli toccare, specie se quella dolce carezza era opera di Nathaniel.
Cercò le labbra di lui, era il suo turno prendere l’iniziativa. Pretese che il loro bacio venisse approfondito secondo un ritmo che fu lei ad impartire. Lui la assecondava, sorridendo tra una pausa e l’altra: amava la sua intraprendenza, il fatto che sapesse sempre ciò che voleva e se lo prendesse.
Le mani di Rosalya scivolarono sul bacino del ragazzo, afferrando il lembo inferiore della felpa. Con estrema lentezza, gli levò il capo, lasciandogli solo una t-shirt verde. Quest’ultima ci mise pochi secondi a sparire, permettendo finalmente alla ragazza di godersi la vista del petto nudo del suo compagno.
Gli accarezzò gli addominali, mentre le loro lingue continuavano a cercarsi.
Lui si sporse verso di lei, forzandola delicatamente a mettersi sulla schiena e si posizionò sopra il suo corpo. Rosalya gli mordicchiò il labbro inferiore, sempre più eccitata; aveva solo la vestaglia e l’intimo da levarsi, ma non per questo intendeva scoprire così presto le sue carte. Prima che i loro corpi aderissero perfettamente l’uno contro l’altro, lei gli passò una mano sotto l’ombelico e gli sbottonò i jeans. Lasciò che fosse lui a liberarsi del resto. Nathaniel era sopra di lei mentre le mani di entrambi scivolavano lungo la loro pelle, esplorandola. Lei rabbrividì leggermente, sentendo le punte fredde delle dita del ragazzo che, appena cinque minuti prima, aveva camminato fuori al freddo.  
I cuori sembravano battere insieme e Rosalya potè sentire quello del biondo contro il suo. La sua vestaglia di seta viola e nera li faceva quasi scivolare l’uno sull’altra e lei rimpianse di non aver indossato l’intimo speciale che aveva portato con sé in quel viaggio. Poco male, a giudicare da quanto percepiva nel basso ventre del ragazzo, non era necessario stimolare ulteriormente la sua eccitazione.
Avevano passato entrambi troppo tempo a sognare quel momento, al punto che ormai la loro eccitazione, specie quella del biondo, era al limite; tuttavia, non volevano affrettare l’atto, dovevano goderselo fino in fondo per assaporare ogni piacere della loro prima volta insieme.
I loro baci si alternavano sempre con più passione e trasporto, mentre Rosalya avvertiva il tocco delicato del ragazzo scivolare lungo la sua coscia, facendole accapponare la pelle un po’ per il freddo, un po’ per l’estasi di quel tocco che diventava sempre più tiepido. Rabbrividì quando le dita di lui cercarono del calore nella parte più intima del suo corpo, quella che più di ogni altra desiderava attenzione da parte della ragazza.
Nathaniel sorrise divertito, mentre lei cercava di contenersi, reclinando la testa all’indietro e serrando le palpebre. Sapeva come toccarla, alternando carezze più lievi ad altre più intense. Rosalya tornò a baciargli il collo, quasi aggrappandosi ad esso.
Il membro del ragazzo diventava via via più insofferente verso quella prigionia a cui era costretto, così il biondo, con rapidi gesti, si liberò anche dei boxer, ultima barriera da abbattere.
Passò poi ad occuparsi di lei, togliendole con una certa impazienza, la vestaglia di seta nera e viola, quelli che erano sempre stati i colori preferiti di Rose. Non indugiò neanche mezzo secondo e, con gesti esperti, la liberò dal reggiseno. Fu così che si trovò di fronte una visione che nemmeno nei suoi sogni era così dolce e al contempo sensuale. Erano rimasti solo gli slip a proteggere le nudità di lei e, prima di sbarazzarsi anche di quelli, lui le sussurrò:
« Dio quanto sei bella Rose »  
Lei ridacchiò nervosamente e, anticipando le intenzioni del biondo, si sfilò anche gli slip.
Lui sorrise e, mentre avvicinava il loro visi per un altro lunghissimo bacio, entrò lentamente in lei.
La sentì inarcarsi sotto di lui e, dopo un paio di secondi, cominciò a muoversi ritmicamente e lentamente. Non mancava di incollare la sua bocca a quella di lei, ma talvolta Rosalya si sottraeva a quel bacio per recuperare un po’ d’aria da convogliare ai polmoni. Nathaniel continuava a spingere finchè non avvertì che la sua compagna cominciava ad assecondarlo. Si eccitò al punto da ribaltare le posizioni e affidandosi all’esperienza della ragazza, che era estasiata.
La osservò reclinare la testa all’indietro, mentre il suo corpo nudo si muoveva con grazia su quello di lui i cui sensi erano stimolati al massimo. Nella penombra della stanza, la pelle candida della ragazza, rifletteva i deboli raggi che filtravano dalla finestra, permettendogli di deliziarsi di quelle forme così femminili. Portò le mani sul corpo di lei ma, dopo qualche minuto, percepì la necessità egoistica di tornare ad essere lui a condurre il gioco ed impartire una cadenza.
Dopo parecchi minuti, era ormai al limite e le sue spinte erano diventate molto più vigorose e frequenti, strappando a Rosalya dei gemiti incontrollabili.
A seguito dell’ennesima spinta, il corpo del ragazzo si irrigidì per alcuni secondi, dopo i quali tornò a rilassarsi. In quel mentre, avvertì che anche la ragazza era giunta all’orgasmo e sorrise soddisfatto.
Uscì da lei, stendendosi al suo fianco. La guardò con dolcezza, accarezzandole la guancia.
« questo rientra nel pacchetto servizio completo? » scherzò con voce spossata ma emozionata.
« certo. È per questo che voglio un risveglio così tutti i giorni » sussurrò dolcemente lei, con il viso arrossato.
Anche se erano le otto e venti del mattino, i loro corpi erano talmente appagati che, nell’arco di pochi minuti, il sonno giunse spontaneo e si addormentarono l’uno accanto all’altra, sotto le calde coperte di quell’accogliente stanza d’albergo.
 
Miss Joplin attese qualche secondo, dopo aver bussato delicatamente la porta della presidenza. Non ricevendo risposta, ripeté il gesto, convinta che l’incalzante sordità della vecchia preside le avesse impedito di udirla.
« avanti! » la invitò una voce dall’altro lato della parete, con tono seccato. Evidentemente era la professoressa di scienze a non aver sentito la risposta.
« buongiorno preside. Mi scusi per il disturbo » si presentò, entrando.
Trovò la donna intenta a scarabocchiare qualcosa su un foglio, accanto ad un computer che nessuno le aveva mai visto usare. La vecchia aveva una sorta di repulsione verso la tecnologia informatica e relegava a qualche professore ossequiente come Faraize il compito di caricare manualmente tutti i dati relativi all’istituto sul database.
« oh, è lei Miss Joplin » commentò « pensavo fosse il professor Faraize. È tutta la mattina che aspetto che venga qui »
La professoressa trattenne un sorriso compassionevole verso quel collega timido e impacciato. Quella mattina, in sala docenti, quest’ultimo le aveva confidato di temere con terrore ogni convocazione in presidenza, poiché il più delle volte era riconducibile ad una strigliata per la sua incapacità di controllare gli studenti. Proprio per tale motivo, dopo aver saputo che la preside voleva parlargli, Faraize aveva escogitato ogni possibile pretesto per rimandare quell’incontro:
« oggi è molto impegnato per via della partita di venerdì » lo coprì la collega « è dalle otto di questa mattina che la squadra è chiusa in palestra »
Non voleva mettere una punta di recriminazione in quell’ultima frase, ma fu più forte di lei: la preparazione al torneo aveva privato lei e molti altri insegnanti della presenza dei cestisti in classe. Alcuni come il professor Connor non sentivano affatto la nostalgia di elementi come Trevor e Kim durante le lezioni, ma per altri come la Joplin, era una situazione che rallentava il proseguimento del programma didattico.
« molto bene » commentò compiaciuta la preside, ignorando completamente la nota di biasimo della giovane donna. Staccò i gomiti dalla scrivania e rilassò il volto « era esattamente quello che volevo »
« verrà alla partita questa volta? » domandò l’altra, cambiando argomento.
Nonostante gli inconveniente legati all’assenza in classe dei componenti della squadra di basket, Miss Joplin era una delle prime sostenitrici dei ragazzi: assieme all’insegnante di arte, Miss Robinson, aveva convinto la maggior parte dei colleghi a prendere parte all’evento, ma l’unica incognita rimaneva la vecchia preside. La vecchietta si allungò sulla scrivania e cominciò a rovistare le carte:
« non credo sia necessario »
Quell’uscita lasciò interdetta la professoressa: solo dieci minuti prima, dagli altoparlanti dell’istituto si era diffusa la voce gracchiante della dirigente scolastica che invitava gli studenti a non prendere impegni per venerdì pomeriggio; erano dispensati dai club scolastici e li esortava a recarsi a Trenton, ad un’ora e mezza da Morristown, per fare il tifo per la propria squadra.
« mi scusi, ma non capisco » ammise la donna, accomodandosi gli occhiali sul naso aquilino « ha incentivato i ragazzi a presentarsi alla partita e poi lei non ci sarà? »
« purtroppo domani devo assolutamente recarmi a New York per motivi personali» spiegò l’altra, senza fornire ulteriori precisazioni. Sconvolta dall’assoluta tranquillità e dalla totale assenza di alcuna forma di rimpianto, la professoressa insisté:
« mi scusi se mi permetto, ma ero convinta che ci tenesse a venire a tifare per i nostri ragazzi. Non mi sembra poi così dispiaciuta » azzardò, fissandola con circospezione.
La vecchietta appoggiò il modulo che stava consultando e si sfilò gli occhiali, lasciando che la cordicella ad essi legata li facesse appoggiare contro il suo seno giunonico. Guardò dritta negli occhi la docente e, con aria di sfida, profetizzò:
« quei ragazzi arriveranno in finale Miss Joplin, glielo assicuro… e quando ciò accadrà, io sarò su quegli spalti a sostenerli »
 
Rosalya sfrecciava da un reparto all’altro, come impazzita: gli scaffali erano molto alti e pieni zeppi di ogni tipo di stoffa. I tessuti erano arrotolati attorno a rulli di cartone color caffè che i clienti avevano la libertà di sfilare dagli scaffali, per osservarli più da vicino.
« oddio Nath, guarda questa fantasia? Non è fighissima? » squittì, srotolando una stoffa con una trama astratta.
Il ragazzo sorrise comprensivo: l’idea di portarla nel più grande negozio di stoffe della città si era rivelata molto migliore di quanto avesse preventivato. L’unico neo era che erano dentro da ormai un’ora, mettendo a dura prova la sua pazienza; Rosalya sfrecciava da un corridoio all’altro e starle dietro era un’impresa, specie quando la perdeva di vista e doveva affidarsi al suo discutibile senso dell’orientamento per ritrovarla.
« non per smorzare il tuo entusiasmo, ma come farai con il peso della valigia? » le domandò, sedendosi su una poltrona, che era apparsa miracolosamente nel loro campo visivo.
Aiutò la stilista a reggere numerosi cilindri di cartone, mettendoseli sulle gambe e aspettando che ne scegliesse altri dal reparto dei tessuti in seta.
« piuttosto rinuncio ad alcuni dei miei vestiti: non ho mai visto stoffe così belle nemmeno a New York! » dichiarò lei, accucciandosi verso un rullo che era finito in fondo al ripiano.
« secondo me esageri » ridacchiò lui, gratificato dall’entusiasmo della sua ragazza.
« no, sul serio! »
« lo sai che a New York abbiamo la stessa catena, anzi il negozio è anche più grande? »
« c’è Mood? » si stupì Rosalya « e io lo scopro solo ora? »
« sono sorpreso quanto te: come facevi a non saperlo? »
« e tu come lo sai? »
« mia sorella guarda Project Runway e i concorrenti acquistano sempre lì la stoffa »
« è quel reality dove partecipano stilisti che mandano sulla via cavo? » domandò, lottando nel tentativo di estrasse un cilindro di stoffa che si era ostinatamente incastrato tra gli altri.
« yeah… hai mai pensato di partecipare? »
La ragazza si voltò di scatto, interrompendo temporaneamente il combattimento:
« parli seriamente? »
Il ragazzo si alzò dalla sua comoda posizione, lasciando le stoffe in bilico sulla poltrona. Si avvicinò a lei e, piegandosi verso il basso, afferrò l’estremità del rullo. Lo tirò via facilmente, mentre ribatteva:
« perché no? Del resto stai avendo successo con la vendita dei tuoi capi nella boutique di Pam… qualcosa vorrà pur dire…»
La ragazza accolse nelle sue mani la stoffa e ammise:
« non mi ci vedo ad andare in TV. Finirei per litigare con tutti »
« questo è vero » convenne divertito il biondo, guadagnandosi un pizzicotto.
Riafferrò le stoffe che aveva abbandonato e si apprestò a seguirla lungo il reparto successivo. La stilista venne stregata da un pannello pieno di bottoni e costrinse Nathaniel a fare una sosta anche lì.
« e tu? Che intendi fare l’anno prossimo? Devi sbrigarti a presentare la domanda per il college, prima che sia troppo tardi » esclamò, analizzando ogni singolo oggetto esposto.
Il ragazzo non le rispose e rimase assorto ad accarezzare un tessuto in camoscio. La rilucenza del pelo creava delle strane forme, una delle quali portò il ragazzo a dire:
« non ti sembra una scimmia questa macchia qui? »
« Nathaniel! » lo riprese lei « ti ho fatto una domanda »
« della quale non so la risposta. Cambiamo argomento » replicò lui freddo, spostandosi verso la fine del corridoio.
Aveva troncato la conversazione sul nascere, lasciando Rosalya al centro del corridoio senza possibilità di replica. Sospirò e si affrettò a seguirlo:
« ehi » gli sussurrò dolcemente, abbracciandolo da dietro. Con tutto il materiale che si portavano appresso, il gesto risultò un po’ goffo ma proprio per questo, strappò un sorrisetto ad entrambi.
Rosalya approfittò del fatto che, nascosti da quegli scaffali ricolmi di stoffe, nessuno potesse vederli in quel momento:
« male che vada, te lo trovo io un lavoro » gli comunicò dolcemente « fai da modello per le mie sfilate »
Il biondo ridacchiò, sollevando leggermente le spalle. Si voltò verso di lei e, portandole una mano sul viso, commentò divertito:
« e io che pensavo che stessi parlando seriamente »
 
 
 
Schermo nero.
Premette il tasto centrale e sbloccò lo smartphone, tirando verso il basso la barra trasparente.
Nessuna notifica.
Il tempo era volato: era la notte prima della finale, eppure solo una persona tra i suoi amici più cari non si era degnata di mandarle un messaggio di incoraggiamento.
Sotto i suoi occhi, comparve l’icona della cornetta del telefono: una chiamata di Rosalya.
« ehi Rosa! » esclamò Erin, balzando eccitata dal letto, dimenticandosi all’istante della tristezza che rischiava di amareggiarle il sonno.
« ciao amore mio, come stai? » squittì l’amica eccitata.
« sei atterrata a New York? » tagliò corto la mora.
« cinque minuti fa. Tra venti minuti ho l’autobus per Morristown »
« ti fidi a prenderlo alle nove e mezza di sera? »
« non preoccuparti Cip, so difendermi io »
« non fatico a immaginarlo. Allora? Che mi racconti? Ero rimasta al vostro pomeriggio da Mood »
« beh, ti racconterò tutto con calma dopo la partita di domani » patteggiò l’amica « intanto ti dico solo che è stata una delle settimane più belle della mia vita. Aah, come sono felice »
Erin sentì sorriderle il cuore dalla gioia. Voleva un bene dell’anima a quella ragazza e sentirla così di buon umore le infondeva una tale serenità che le faceva dimenticare anche di quell’amico così insensibile che era Castiel. Purtroppo per lei, ci pensò proprio la stilista a ricordarglielo:
« ma te lo immagini? Quando anche i nostri ragazzi torneranno a Morristown? Potremo organizzare un’uscita a quattro visto che Castiel e Nathaniel si sono riappacificati »
« io e Castiel non stiamo insieme » puntualizzò la mora.
« perché siete due idioti, ma appena torna mi occuperò personalmente della faccenda »
« Rosa » la richiamò Erin con fermezza « non sto scherzando. Quello che sai lo tieni per te »
« ma Eri-» tentò di protestare la stilista.
« Castiel non è innamorato di me e se sapesse che mi piace, si creerebbero delle tensioni che alla lunga rovinerebbero la nostra amicizia. Per questo non lo deve sapere »
« smettila di dire stupidate Erin, bisogna anche sapersi prendere dei rischi »
« ho troppo da perdere. Sappi Rosalya non ti perdonerò mai se perdessi la sua amicizia per assecondare le tue convinzioni sconclusionate »
L’amica rimase in silenzio, sbigottita dalla brutale serietà con cui la mora aveva sputato quelle parole:
« questa è cattiveria però » mormorò mettendo il broncio « lo sai che sei come una sorella per me. Non dirmi queste cose »
« e tu allora non insistere »
Erano pochi gli argomenti che, se affrontati, tiravano fuori quel lato così scorbutico e antipatico di Erin, ma era l’unico modo per convincere gli altri della fermezza delle sue intenzioni. Non poteva permettersi di essere accondiscendente su un tema del genere. Troppe volte Rosalya ed Iris avevano tirato fuori quell’argomento, ma ormai la mora cominciava a stancarsi di ripetere sempre le stesse cose, difendendo da sola quella posizione.
« hai più incontrato Sophia? » le chiese Erin, per cambiare discorso.
« ecco, di questo vorrei parlarti subito» convenne la stilista, accantonando il piccolo attrito che aveva avuto con la sua interlocutrice « per caso tua sorella ti ha detto che ce l’ha con me? »
Sorpresa da quella domanda, la mora replicò:
« no affatto. Mi ha chiamato stamattina per via del torneo e, quando le ho chiesto di te, mi ha detto che le sembri una in gamba ma che è stata talmente impegnata al negozio, da non essere mai uscita insieme a te e Nathaniel »
« è quello che mi ha detto anche lui, ma mi pare un po’ strano no? Che gli abbia mentito perché non voleva incontrarmi? »
« non credo. A Sophia piace conoscere gente nuova. Scommetto che alla prossima occasione diventerete amiche »
« boh, non so. Devo ammettere che questa cosa mi ha parecchio deluso. Ero così eccitata all’idea di conoscerla »
Erin si stupì per quell’ammissione, pronunciata da quella che, quando l’aveva conosciuta, era considerata la ragazza più asociale del liceo. Rosalya era migliorata molto negli ultimi mesi, aprendosi di più agli altri, anche se continuava a considerare solo il suo gruppo di amici, le persone con cui avere il rapporto più esclusivo.
Con la coda dell’occhio, la mora vide una figura pelosa varcare la soglia della stanza: con passo felpato, Ariel avanzò, portandosi ai piedi del letto. La vide abbassare il corpo, appiattendolo contro il suolo. Assestò la posizione delle zampe per poi spiccare un agile balzo sulla trapunta soffice della sua padrona. Più volte Pam l’aveva rimproverata per quell’abitudine, ma l’animale si limitava a soffiarle contro. Erin invece adorava accarezzare il manto folto e morbido della gatta, che negli ultimi mesi era cresciuta parecchio, lasciando solo un pallido ricordo della tenera micetta che aveva portato Jason quella fatidica notte di gennaio.
Dall’altro capo del telefono, Rosalya sentì una sorta di brusio e chiese:
« questo rumore è Ariel? »
« sì, sta facendo le fusa » sorrise Erin, grattandole sotto il mento.
« rimane un mistero come quella gatta adori solo te »
« beh, le sta simpatico anche tuo fratello » la difese la padroncina
« ok, mi correggo, adora solo te e Lysandre, mentre non sopporta il resto del mondo… non ti ricorda qualcuno? »
Erin ignorò quella piccola provocazione, emettendo un verso stizzito.
« d’accordo Cip, direi che è meglio che tu vada a nanna. Domani è il gran giorno »
« ma se non sono neanche le nove e mezzo! »
« non si discute! Su, fila sotto le coperte »
« tanto non riuscirò a dormire »
« allora fammi compagnia » esclamò allegra la stilista, sedendosi su una panchina.
« ma non dovevo dormire? » ridacchiò Erin.
« visto che non ce la farai, almeno ti aiuto a levarti di dosso un po’ di tensione »
« ci stai riuscendo alla grande Rosa »
« è la mia specialità Cippy »
Erin sorrise, accarezzando la testolina dell’animaletto che tanto adorava.
« ah comunque alla fine la mia famiglia non verrà domani » le comunicò, interrompendo quella carezza, gesto che non fu gradito da Ariel, che pertanto iniziò a strofinarsi contro il suo ginocchio.
« e perché scusa? »
« perché gliel’ho proibito io. Devo essere concentrata sul gioco, non posso star lì a preoccuparmi per mia nonna Sophia e i suoi cori da stadio »
« devo conoscerla tua nonna, sembra un mito! »
« non a caso hanno dato a mia sorella il suo nome. Non poteva essere più indovinato. Sarebbe capace di far fare l’ola, per cui preferisco risparmiarmi simili figuracce »
« che noiosa che sei Cip » sbuffò infastidita Rosalya, incrociando le gambe sulla panchina di legno.
« facile parlare per te che hai una nonna che è un ex attrice »
« da qualcuno dovevo pur ereditarlo il talento per la recitazione, non ti pare? » sogghignò Rosalya, fingendo di pavoneggiarsi.
Continuarono a parlare per un pezzo, senza rendersi conto del tempo che passava. Anche quando arrivò l’autobus che avrebbe riportato la stilista a Morristown, né lei né l’amica accennavano a volersi staccare dal telefono.
Fu solo quando Rosalya si accorse che gli altri passeggeri del mezzo pubblico cominciavano a infastidirsi per il suo chiacchiericcio continuo, fu costretta a salutare Erin.
« dolce notte Cippy »
« ‘notte a te Rosa. Ci sentiamo domani »
Con un sorriso sulle labbra, Erin chiuse la conversazione. Si distese sul letto, mentre Ariel le zampettò sull’addome, fino a raggiungere il suo volto. La ragazza la lasciò fare, mentre una sensazione di totale appagamento e felicità si diffondeva in lei: era una sensazione di benessere, scaturita dalla consapevolezza di non aver mai avuto in passato amicizie così preziose come quella di Rosalya. Si conoscevano da soli cinque mesi e sembravano amiche da una vita.
Si cambiò, mettendo il pigiama e, dopo aver riaccompagnato Ariel in salotto, tornò sul suo letto.
Appoggiò la testa sul cuscino, lasciando al sonno il compito di velocizzare l’arrivo del nuovo giorno.
 







 
NOTE DELL’AUTRICE

Ehm… sono un po’ in difficoltà -.-‘’
Avevo detto che sarebbe stato il capitolo del torneo e invece…
Dunque, spieghiamo le cose con calma: questo capitolo era solo la prima parte di un capitolo lunghissimo dal titolo “Cardiopalma” che avrei voluto pubblicare oggi.
Fino a domenica scorsa, ero convinta che avrei messo on line questo suddetto capitolo infinito, fregandomene del fatto che fosse spropositatamente lungo.
Tuttavia, dopo aver scritto la quarantesima pagina e aver realizzato che me ne mancavano suppergiù almeno un’altra quindicina (o più), mi sono detta che era da pazzi condensare in un solo colpo oltre 55 pagine di Word o.O.
 
Ho deciso di intitolare “tessere” questo capitolo in onore della metafora che lo apre: è frutto di una sorta di flash che mi ha attraversato la mente tempo fa mentre ero al supermercato con mia madre. Da un lato c’erano dei puzzle e dall’altro dei romanzetti rosa.
Non so se può essere questa la spiegazione che ha portato il mio cervello ad associare il concetto di fare i puzzle e cercare l’amore, ma visto che non mi dispiaceva come similitudine, c’ho voluto dare importanza u.u
Chi sarà questo ragazzo destinato a Sophia? Sarà già comparso nella storia oppure no?
In realtà ho inserito un’altra cosa che dovrebbe far drizzare le antenne… Lysandre… eh eh…
 
Scusate comunque se dovete aspettare un altro capitolo per leggere della partita (._.)’… sto cercando di prepararlo al meglio e tra questo obiettivo e impegni vari, ci metterò comunque un po’ a scriverlo (in ogni caso, meno di un mese, promesso!).
 
Non pensavo che mi sarei rallentata tanto nel pubblicare, tanté (perché Word mi segna in rosso sta parola? Non esiste??) che ancora a Febbraio avevo realizzato un disegno che pensavo di inserire nel 48… insomma, va così (che constatazione del c…) -.-‘’
A proposito del disegno: ve lo anticipo qui, ma lo ricorderò anche alla prossima occasione: visto che appunto, inserirò quest’immagine nel capitolo successivo, vi sconsiglio di scorrerlo fino alla fine per valutarne la lunghezza prima di leggerlo… vi rovinereste una scena caruccia :3
 
Nonostante una frequenza di apparizione pari a quella di un’eclissi solare (esagerata!) spero continuerete a leggere la storia ^^’.
Per ora grazie soprattutto alle ragazze che, nonostante gli impegni personali, trovano il tempo per lasciare una recensione *^*… non potete immaginare (ma anche sì) quanto facciano piacere :3.
 
Alla prossima!!

Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** Cardiopalma - Prima parte ***


 
48.
CARDIOPALMA – Prima parte
 

 
Un delizioso profumo di pancetta sfrigolante, rosolata su una padella antiaderente, aveva inondato la cucina di casa Brooks. Bastava percepirne l’aroma inebriante per attivare il palato e con esso l’appetito mattutino. Le posate erano perfettamente allineate sul tavolo, come le treccine afro sulla sommità del capo di una bambina di sette anni, che attendeva impaziente l’arrivo della colazione.
« mamma, a che ora andiamo a Trenton? » squittì la sua vocina vivace.
Whitney afferrò la paletta in silicone e la sfregò contro la superficie della teglia, sollevando l’albume cotto:
« partiamo dopo pranzo tesoro »
Blake sbuffò contrariata, osservando le lancette dell’orologio che le ricordava che quella mattina nessun pretesto le avrebbe fatto saltare la lezione di Miss Patty. Aveva già posto tre volte quella domanda, ma l’infinita pazienza di sua madre, le aveva fatto ottenere una risposta che, seppur gentile, era inflessibilmente la medesima.
Whitney sistemò del latte nella scodella della sua secondogenita, nata da una relazione sbagliata in partenza. Dopo la rottura con il padre della bambina, la donna aveva stabilito che nessun altro uomo sarebbe entrato nella sua vita e in quella dei figli; tutto sommato, considerava una fortuna il fatto che tanto Dajan quanto Blake fossero troppo piccoli per ricordarsi dei rispettivi padri: per loro sarebbero stati solo fonte di delusione:
« tuo fratello gioca alle tre. A proposito, vai a vedere se si è svegliato? »
La bimba sorrise eccitata, appoggiandosi al tavolo per scendere dalla sedia, quando in cucina comparve il fratello maggiore, sbadigliando sonoramente:
« buongiorno » lo salutò la madre, lasciando scivolare della fumante pancetta su due piatti in ceramica. Vi accostò delle uova strapazzate, che il figlio iniziò a divorare voracemente.
L’unico organo a lavorare in quel momento era il suo stomaco, mentre il cervello riposava ancora in uno stato comatoso. Sfortunatamente per Dajan, Blake non era altrettanto letargica:
« Dadà quando mi insegni a giocare a basket? » lo assillò da subito la sorellina, sporgendosi verso il ragazzo di fronte a lei.
Lo vide deglutire frettolosamente per poi borbottare, di cattivo umore:
« quando prenderai una A in matematica »
Whitney sorrise, notando che le guance della bambina si erano dilatate come due palloncini che si sgonfiarono all’istante quando si lagnò:
« uffaaa! Ma io non ci capisco nulla di quella materia! Fa schifo! »
Dajan rimase impassibile, mentre Whitney interveniva, per fare da paciere:
« non ti arrabbiare Blake, dopo il torneo sono sicura che Dajan sarà contento di insegnarti a giocare »
La donna sistemò le stoviglie sporche nell’acquaio e, raccattando la scodella ormai vuota della bambina, la esortò:
 « adesso però corri a prepararti. Sei ancora in pigiama! »
Dopo qualche lamentela infantile, la scolaretta tornò nella sua stanza, mentre la madre si accomodò attorno al tavolo da pranzo. Il piatto sotto di lei emanava ancora del vapore, ma lei non aveva fretta di gustarsi la pietanza. Appoggiò il mento sopra il palmo della mano e, con un’espressione molto dolce, sussurrò:
« me lo vuoi dire che succede tesoro? È da una settimana ormai che tieni il muso »
Dajan finì il piatto, spazzando via con la forchetta i residui di cibo e si alzò per riporlo nell’acquaio:
« tutto ok, tranquilla » borbottò di spalle.
A volte basta un tono di voce leggermente più grave del solito per lasciar trapelare il proprio tormento interiore. Per questo Whitney colse subito la menzogna di quelle parole, specie perché i suoi figli per lei non avevano segreti. Appena Dajan tornò a voltarsi infatti, ebbe la conferma che qualcosa non andava guardandolo in faccia; scosse il capo, sorridendo leggermente, come se quel gesto ridimensionasse le preoccupazioni del figlio:
« centra il basket oppure quella ragazza tanto carina che era venuta in negozio… la figlia di Lois? » indagò, divertendosi pure a stuzzicare la serietà di Dajan.
« è tutto ok » ripetè ancora una volta lui e, per sottrarsi all’imminente interrogatorio, lasciò la stanza con la scusa di doversi dirigere a scuola.
 
« è tutto ok mamma, sta’ calmina » borbottò Kim addentando un biscotto al cocco, il suo gusto preferito.
Lanciò un’occhiata all’orologio e anche se realizzò che avrebbe rischiato di perdere l’autobus, non se ne curò affatto. Avrebbe preso quello successivo, d’altronde ritardando alla prima ora con il professor Condor avrebbe fatto più un favore al docente che a se stessa; Kim non poteva farci nulla se le lezioni la annoiavano terribilmente, quelle di letteratura in particolare, e la vicinanza di banco con il suo amico Trevor contribuiva ad diminuire la sua già scarsa capacità di stare attenta. A tal proposito, non capiva perché nessun insegnante li avesse cambiati di posto, ma di certo non sarebbe stata lei a suggerire quell’iniziativa. Adorava essere in penultima fila, con il suo migliore amico accanto a lei ed Erin dietro. L’unico inconveniente erano i calci sotto la sedia che talvolta riceveva dalla sua compagna di basket, soprattutto durante le ore di scienze che Erin seguiva con vivo interesse. D’altronde, parte del divertimento di Kim era costituito proprio dall’innervosire la mora e stuzzicare la sua pazienza. Tuttavia l’ex velocista era ben cosciente del rischio che correva nel far arrabbiare l’amica: era grazie ad Erin che i suoi voti in biologia e chimica erano sensibilmente migliorati, proprio per la generosità con cui la mora le passava le risposte durante i compiti. Per tutte le altre materie, Kim poteva fare affidamento su Kentin Affleck.
Mentre era assorta nei suoi pensieri, Lois guardava la figlia con circospezione:
« tutto ok? » ripetè scettica « allora se è così, vuoi spiegarmi cosa ci faceva qua fuori il figlio di Whitney ieri sera? »
Kim sentì delle briciole attraversarle la laringe, bypassando l’ostacolo rappresentato dall’epiglottide che per altro rientrava tra i quesiti di biologia dell’ultima verifica. Quasi si strozzò, cominciando a tossicchiare convulsamente mentre il viso diventava paonazzo. Afferrò il bicchiere di succo alla pera e lo trangugiò come un vecchio ubriacone avrebbe fatto con una bottiglia di scotch invecchiato:
« c-chii? » gracchiò incredula.
« Dajan! » esclamò la madre, mentre il marito, rimasto in silenzio fino a quel momento, fece emergere la sua testa calva da dietro il giornale sportivo. Osservò con gravità la figlia seduta davanti a lui e intervenne:
« che cos’è questa storia cucciolotta? » si alterò, fissando Kim « lo sai che se esci con qualcuno, voglio prima conoscerlo di persona »
« oh ma lo conosco io, non preoccuparti caro, è un così bravo ragazzo » lo rassicurò la moglie, con un sorriso caramelloso.
« frena frena! Ieri sera Dajan è stato qui? » li interruppe Kim sconvolta, guardando la madre « perché non mi hai chiamato? »
« eri già andata a letto e poi non è che sia proprio stato qui » precisò Lois, soddisfatta di aver finalmente scosso la curiosità della ragazza. Attese un paio di secondi, per deliziarsi dell’effetto che le sue parole avevano sortito in Kim e proseguì  « avevo finito di pulire la cucina e, guardando in giardino, l’ho visto là fuori. Sembrava pensieroso… purtroppo però quando sono uscita se n’era già andato » raccontò, visibilmente delusa.
« soffri di allucinazioni cara » ridacchiò bonario il marito, sollevato dal mancato incontro tra la figlia e il ragazzo sconosciuto.
« ma sei sicura che fosse lui? » insistette Kim che, diversamente dal padre, voleva credere alle parole di Lois. Non si era accorta di aver lasciato annegare un biscotto nella pozza di latte contenuto nella scodella. Il disco si stava spappolando irreversibilmente, assumendo un aspetto poco invitante, specie per la cestista che preferiva il cibo fragrante.
« oibò Kim! Quanto pensi che tua madre sia cretina? » replicò l’altra piccata, portandosi le mani sui fianchi.
« vuoi la risposta onesta o una sviolinata bugia? » sorrise l’altra.
« KIM! » la riprese Lois risentita mentre la figlia, scattando in piedi, le stampava un bacio sulla guancia. Le sorrise conciliante e, accorgendosi di avere improvvisamente fretta, afferrò l’ultimo biscotto dal sacchetto. Non vedeva l’ora di iniziare quella giornata, quello che le aveva raccontato la madre era un segnale incoraggiante; anche Dajan voleva scusarsi con lei, c’era rimasto male del loro litigio, anche se in quei giorni le aveva fatto credere che non gli importasse nulla:
« vado a scuola » disse « mi raccomando oggi, alle tre a Trenton, ci vediamo là! »
« portati via il sacchetto! » scherzò il signor Phoenix, constatando la golosità con cui Kim aveva ingurgitato un biscotto dietro l’altro. Quella che doveva essere una battuta, venne accettato dalla figlia come un saggio consiglio: brandì la confezione e, dopo aver recuperato lo zaino, uscì di casa, sgranocchiando quei biscotti come se fossero patatine, lasciandosi alle spalle le espressioni divertite dei suoi genitori.
 
« Alexy, vuoi darti una mossa? » si esasperò Rosalya, appena fece capolino nella stanza di Alexy.
La percezione del tempo che stava inesorabilmente stringendo, accresceva l’ansia della stilista, che temeva di non arrivare in tempo per il torneo. I secondi sembravano aver subito un’accelerata rispetto alla cadenza con cui si era susseguiti nell’arco della mattina: le ore di lezione sembravano non passare mai, perché praticamente l’intera scuola trepidava all’idea di recarsi a Trenton nel pomeriggio; la stilista aveva notato che non solo gli studenti erano in fibrillazione per quell’evento sportivo, ma anche gli insegnanti sembravano avere la testa da un’altra parte. Durante l’ora di storia, al professor Kon era sfuggito che i ribelli avessero “tirato la palla a canestro” anziché le “pietre sulla sede del parlamento”, scatenando una risata generale per quel lapsus.
Le lezioni erano state interrotte alle undici e mezzo, in modo che gli studenti avessero il tempo per pranzare e, chi lo volesse, recarsi alla partita. A giudicare dall’entusiasmo che aleggiava nei corridoi, Rosalya era sicura che il numero di assenti si sarebbe contato sulle dita di una mano.
La squadra di basket era già in viaggio per Trenton, dopo aver fatto appena due ore di lezione. Ciò aveva dato modo ai loro amici di incoraggiarli prima di vederli in azione sul pitturato.
Era riuscita a salutare Erin prima che salisse sull’autobus, inventandosi un mal di stomaco come pretesto per uscire dall’aula. Con immenso piacere, aveva trovato l’amica più carica e determinata che mai.
Rosalya scalpitava all’idea di poterla finalmente supportare di persona, ma il ritardo cronico che si associava ad Alexy, metteva a dura prova la sua pazienza; il ragazzo stava mettendo a soqquadro la sua stanza, più di quanto già non lo fosse in condizioni normali:
« Al muoviti o ti lasciamo qui! »
« invece di stare lì a rimproverarmi, non potresti aiutarmi? » sbottò l’altro, che cominciava ad accusare la tensione per la sua infruttuosa ricerca.
« se mi dicessi quello che stia cercando… »
« il cartellone Rosa! Il cartellone! »
« l’ha già preso tuo fratello e l’ha già caricato in macchina. Stiamo aspettando solo te. Gli altri sono già in viaggio »
Il ragazzo dai capelli turchini sbuffò:
« dirlo prima no eh? Smettila di mettermi ansia. Sembra che sia tu quella che deve scendere in campo! »
 
Fuori da casa Evans, una Ford nera aveva il motore acceso da ormai cinque minuti. Al suo interno, nella posizione di guida, Armin era impegnato a impostare il navigatore satellitare; sullo schermo touch era comparsa la fatidica domanda “dove vuoi andare?”
Con una scioltezza esperta, il moro digitò Trenton e diede l’ok. L’apparecchio cominciò ad elaborare il percorso ma, dopo due minuti non era ancora riuscito a trovare la destinazione:
« per fortuna che questo coso ha tutte le mappe del mondo » borbottò Ambra sarcastica, tenendo il gomito appoggiato contro il finestrino. Sin da quando era arrivata, Armin aveva parlato ininterrottamente del suo nuovo acquisto e delle implementazioni che, grazie alle sue abilità informatiche, era riuscito ad installare. Si ritrovava seduta accanto a lui proprio per una richiesta diretta del guidatore che l’aveva reputata la più affidabile come copilota tra i suoi amici.
« strano » ammise lui « forse potevo evitare di caricare le mappe degli altri continenti visto che dubito che mi serviranno oggi » ironizzò.
« tu dici? » replicò sarcastica la bionda, trattenendo una smorfia di dolore.
« siamo di ottimo umore oggi » commentò il ragazzo divertito.
« è solo una giornata no » sbuffò lei, sperando che l’antidolorifico facesse presto effetto. Voleva godersi quella giornata al meglio e invece la regolarità del suo ciclo mestruale aveva ben pensato di fare capolino puntualmente quel giorno.
Vide Rosalya avvicinarsi alla vettura e accomodarsi sui posti posteriori:
« Ale sta arrivando » annunciò, chiudendo la portiera della macchina.
« noi stiamo aspettando che il supernavigatore di Armin trovi una città che è a un’ora di macchina da qui » la aggiornò Ambra.
« ecco ha fatto! » esultò il pilota, appena si accorse che il caricamento era finito.
Rosalya si sporse in avanti, mentre Ambra di lato, per osservare il percorso calcolato dall’aggeggio; sui volti dei tre ragazzi si dipinse la più totale perplessità, al che Rosalya domandò confusa:
« perché dice che dobbiamo andare in Italia? »
Ambra cliccò una freccia sullo schermo touch e, notando il problema, commentò piccata:
« hai dimenticato una N… Nuvola »
Ogni tanto si divertiva a rivolgersi al ragazzo con quel nomignolo, anche se nella maggior parte delle circostanze si trattava di contesti in cui sottolineava gli errori commessi da Armin. Lui scoppiò a ridere e dichiarò:
« beh non mi dispiacerebbe fare un salto in Europa »
Nel frattempo anche Alexy, dopo aver salutato i genitori, era salito in macchina:
« allora? Si parte? » esordì eccitato, sistemandosi le voluminose e inseparabili cuffie dentro lo zaino. Vide Ambra trafficare con il navigatore e cliccare VAI.
« adesso sì » autorizzò, guardando il moro con sufficienza.
« non fare tanto la saputella biondina » borbottò Armin « il pilota sono io, quindi vedi di non farmi innervosire »
Non fece neanche a tempo a togliere il freno a mano che una voce dettò:
« Sigue recto y gira a la derecha »
I quattro ragazzi guardarono in sincrono il navigatore da cui era provenuta quella lingua sconosciuta.
« che è spagnolo? » chiese Ambra, fissando Armin.
Il ragazzo, perplesso quando lei, replicò poi con un sorriso scemo:
« mi sa che ho disinstallato per sbaglio il pacchetto in lingua inglese »
Rosalya sbattè più volte la fronte contro il poggia testa davanti a lei e, rassegnata, sospirò:
« Armin… quanto sei idddiota »
 
La loro corriera aveva appena attraversato il Trenton Makes Bridge, innescando nei cestiti la consapevolezza che, di lì a pochi minuti si sarebbero ritrovati ad un passo dal luogo dell’incontro. L’autista sfrecciava con agilità per le strade affollate, sotto l’incitazione di Boris e l’ansia di Faraize che sostenevano di essere in ritardo:
« una volta dentro il palazzetto » tuonò l’uomo, rivolgendosi ai suoi ragazzi « filate dritti negli spogliatoi. Quattro minuti quattro, e vi voglio suo campo. Chiaro? » e puntò il suo cipiglio severo sulle uniche due ragazze che componevano il suo arsenale di giocatori.
Non era necessaria quell’esortazione: l’attesa nello spogliatoio era snervante per qualsiasi cestista e, solo mettendo piede sul pitturato, potevano sentire un po’ di quell’ansia sciogliersi. Tutti erano ansiosi di portarsi sul campo, non avrebbero indugiato mezzo secondo in più nella bolgia infernale dello spogliatoio. Mai prima di una partita erano stati più tesi, nemmeno in quella di esordio al torneo. Nessuno fiatava e nemmeno i due allenatori dimostravano interesse nell’avviare una conversazione tra ti loro.
Tutti i presenti avevano un pensiero fisso ed era quello di arrivare a destinazione il prima possibile.
 
Era la prima volta che Iris si trovava in un palazzetto così grande: si era persa a contare il numero di file che costituivano gli spalti, sui quali lei e i suoi amici si erano sistemati. La capienza della struttura doveva sicuramente superare le migliaia di spettatori, numero che sembrava confermato dal crescente brusio attorno a loro: ovunque posasse lo sguardo, vedeva facce note di altri studenti del Dolce Amoris che erano accorsi per tifare per la propria squadra. Quella sorta di patriottismo scolastico era la prima volta che emergeva con tanta foga, in nessuna precedente competizione sportiva aveva assistito ad un simile coinvolgimento di massa e la causa era imputabile alla portata dell’evento; quella semifinale infatti, sarebbe stata addirittura trasmessa dalla TV locale, con tanto di interviste ai giocatori e relativi coach. Non stava più nella pelle all’idea di vedere Erin sul campo, anche perché non aveva mai avuto l’occasione di osservarla in azione. La struttura era talmente capiente che le due scuole messe insieme l’avrebbero riempita per appena un quarto: la maggior parte degli spettatori erano quindi abitanti di Trenton o appassionati di basket che erano accorsi ad assistere a quell’evento.
Il telefono della ragazza vibrò e, dopo un fugace scambio di battute informò il resto degli amici:
« Rosa ha detto che stanno parcheggiando »
« era anche ora! Inizieranno a momenti » sbottò Lin, mangiucchiandosi l’unghia del pollice.
Il pomeriggio precedente, aveva ricevuto un messaggio inaspettato: Liam l’aveva invitata ad uscire. Dopo dieci minuti di iperventilazione, durante i quali era riuscita a contattare Ambra e farsi dare dei consigli in fatto di look, la cinesina aveva risposto affermativamente a quell’invito. Era volata verso il cafè The roi dove aveva trovato il cestista ad aspettarla. Erano partiti chiacchierando del più e del meno, finché Lin aveva toccato il tasto “semifinale”. A quel punto Liam si era aperto con lei, confidandole che gli era venuta un po’ d’ansia al pensiero dell’indomani. Boris gli aveva anticipato che l’avrebbe schierato subito e quella notizia, oltre a eccitarlo all’inverosimile, l’aveva anche innervosito. Avvertiva la responsabilità di aprire la gara, sapendo che sarebbe stato sotto gli occhi di tutta la scuola sin dal primo quarto.
« parlare con te mi fa stare un sacco bene » le aveva detto con un sorriso impacciato, quasi timido nonostante la consueta solarità del biondo. Lin si era limitata ad arrossire leggermente, abbassando lo sguardo e borbottando un ringraziamento inudibile.
Era sicura che il ragazzo si sarebbe fatto valere, avrebbe solo voluto augurargli un in bocca al lupo di persona prima che scendesse in campo, ma quella mattina a scuola non c’era riuscita.
« ma tipo, vendono pop corn o qualcosa da mangiare in questi eventi? » si lamentò Kentin, guardandosi attorno annoiato.
« mai stato ad una partita di basket? Vieni proprio da un altro mondo… » lo punzecchiò Dakota.
« …disse il ragazzo arrivato da un’isola dimenticata di nome Australia » completò l’ex cadetto.
Iris sollevò gli occhi al cielo. Per tutto il viaggio in macchina, quei due non avevano cessato un attimo di provocarsi a vicenda. Ad un certo punto era intervenuta Lin a zittirli, imprecando quella che aveva avuto tutta l’aria di essere una parolaccia in cinese.
Una volta nell’arena, Dake aveva trovato posto accanto alla rossa, mentre Kentin era stato costretto a sedersi dietro con Violet e Lysandre, assumendo un’aria piuttosto contrariata.
«ma come fai ad avere fame? Abbiamo pranzato appena due ore fa! » sbottò Lin, fissando con apprensione il campo.
« ho un metabolismo accelerato, che vuoi farci » farfugliò Kentin, mettendo il broncio.
Violet distolse l’attenzione dagli amici per posarla su un quartetto di persone in avvicinamento: impossibile non notarlo, tanto era eccentrico; Armin era in testa alla spedizione, seguito da Rosalya che gli stava indicando il punto in cui Iris e gli altri li stavano aspettando. La presenza della stilista, unita alla figura algida di Ambra, aveva attirato non poche occhiate maschili, così come l’assurdo colore dei capelli di Alexy aveva contribuito a sobillare l’interesse generale. Erano ancora troppo lontani da loro per sentire cosa Rosalya stesse dicendo al moro, ma si capiva che cercava di fargli mettere a fuoco la giusta direzione, indicandogli il punto in cui erano seduti gli amici. Quando erano a pochi metri di distanza, mentre Ambra e Alexy li avevano salutati, Armin si guardava ancora attorno spaesato:
« Gira a la derecha » gli ordinò il fratello mentre le due ragazze ridacchiavano.
Armin si voltò scocciato e protestò:
« eccheccachio! Basta con questa storia! Piuttosto dovreste ringraziarmi! Abbiamo imparato un po’ di spagnolo! »
Rosalya fu la prima a raggiungere Iris e, in malo modo, farsi spazio tra lei e Dake. Kentin sorrise divertito mentre la stilista squittiva eccitata, ignorando l’irritazione del surfista:
« allora? Le squadre sono venute fuori? » chiese, allungando il collo a fissare il campo.
« non ancora. Avete fatto in tempo » la rassicurò Lysandre.
« saremo arrivati prima se Nuvola non avesse toccato il navigatore » spiegò Alexy, indicando il gemello.
Dake scosse la testa e commentò:
« possibile Armin che dietro ogni idiozia ci sia sempre tu? »
Il ragazzo boccheggiò cercando un’arringa difensiva che non riuscì a trovare, ma inaspettatamente intervenne Ambra:
« mai fatto un viaggio in macchina più divertente » concluse con un sorriso, sedendosi accanto a Violet.
A quelle parole, Armin si pavoneggiò e si accomodò accanto alla bionda:
« dite la verità: senza di me vi annoiereste a morte »
 
Il silenzio più totale.
Quasi assordante.
Nello spogliatoio della Atlantic la tensione si tagliava con il coltello; un cestista come Trevor, solitamente il più esuberante e chiassoso, non aveva spiccato parola da quando si era seduto sulla panchina di legno.
I suoi occhi erano pensosi, troppo concentrati a fissare i lacci bianchi delle sue Nike per posarsi altrove. Deglutì a fatica, accorgendosi di avere la gola secca. Troppo arsa per parlare.
Accanto a lui, nemmeno Wesley aveva voglia di conversare. Era la terza volta che riannodava le scarpe e, come le due precedenti, non ne sembrava soddisfatto: aveva il timore ossessivo che la presa non fosse sufficientemente salda, come se da un momento all’altro potesse ritrovarsi a correre scalzo sul campo.
I capelli scuri del cestista era scompigliati quanto quelli rossicci di Steve, seduto sulla panchina. Era sempre il primo a cambiarsi e nell’attesa, era impegnato a mandare messaggi alla sua ragazza. Quel giorno era uno dei pochi a sorridere, sentendosi rassicurato dalla persona dall'altro capo del telefono. Elliott era l’unica che riusciva a tranquillizzarlo quando l’ansia prendeva il sopravvento. Era la sua roccia, il suo punto fermo. Purtroppo Clinton, l’elemento più giovane e inesperto della squadra, non poteva contare sulla stessa stabilità: era un fascio di nervi. Era combattuto tra l'eccitazione di giocare quella partita e l'idea che se l’avesse fatto, avrebbe potuto comprometterne negativamente l’esito. Era una competizione importante e c'erano altri cestisti più forti di lui da schierare, se volevano avere maggiori chances di vittoria.
Liam rilesse la conversazione di Whatsapp avuta la sera precedente con Lin e, analogamente all'elemento più alto della squadra, sorrise rincuorato. Gli arrivò un nuovo messaggio dalla ragazza in cui gli augurava un buona fortuna, accompagnato da una serie di smile buffi, che lo misero di buon umore.
Appoggiato contro la parete, a braccia conserte, c'era il capitano. Il polsino che gli avvolgeva la mano, mai come in quel momento, gli andava stretto. Se l’era tolto e rimesso almeno quattro volte, nell’indecisione di portarlo sul campo. Non aveva mai giocato senza, ma quel giorno sembrava sortigli l’effetto di un laccio emostatico. Più cercava di tenere a freno l’agitazione e più essa si impadroniva di lui. All’esterno nessuno avrebbe potuto sospettare il suo tormento, a meno che Kim non fosse stata accanto a lui a studiare i suoi silenzi. Aveva bisogno di ascoltare una delle sue frasi di conforto, che normalmente erano delle vere e proprie provocazioni che lo facevano reagire. Quella necessità era esplosa solo una volta messo piede in quello spogliatoio a Trenton, nell’attesa apparentemente infinita che anche il resto dei ragazzi fosse pronto a scendere sul campo.
Era da quasi una settimana ormai che lui e la cestista non si rivolgevano più la parola, usando Trevor o Erin come intermediari per le comunicazioni strettamente necessarie. La posizione di Kim del resto era molto chiara: per lei non aveva alcuna importanza frequentare lo stesso college di Dajan, non era la sua ragazza e aveva ogni diritto a non sentirsi in colpa. Era lui l’ingenuo che si era costruito dei castelli in aria, immaginando che almeno in amicizia, lei desiderasse stare con lui.
Eppure lei sembrava così convinta quando gli aveva dichiarato che, dopo il torneo, il basket sarebbe stato un capitolo chiuso; lei era fatta per l’atletica, era quella la sua vera vocazione e non avrebbe mai rinunciato a quest’ultima per praticare un altro sport. Eppure, una volta che il North Carolina Tar Heels si era presentato alla sua porta, offrendole una borsa di studio per il basket, Kim non aveva esitato a rinnegare la sua fede sportiva.
Tuttavia, ciò che davvero bruciava a Dajan, più di ogni altra cosa, era il silenzio della mora, il fatto che non gli avesse raccontato nulla di tutto ciò, convinta che lui sarebbe stato così egoista da invidiarla e non essere contento per lei.
Dajan non era ipocrita: non aveva problemi ad ammettere che avrebbe voluto avere anche lui la stessa opportunità: anche se il lavoro di sua madre era ben avviato e lui riusciva ad arrotondare lavorando nel weekend, non avevano abbastanza risparmi da parte per pagare l’intera retta del college. Una borsa di studio era la sua unica possibilità di accedere al percorso successivo al diploma.  Tuttavia non per questo, non avrebbe gioito al pensiero che i meriti sportivi di Kim le avrebbero fornito un’opportunità così preziosa. Opportunità che a lui non era stata ancora concessa. Nonostante la trepidazione con cui la famiglia Brooks attendeva una risposta alla domanda di accettazione presentata alla Kentuchy, il college non aveva ancora dato notizie.
Il capitano sbuffò pesantemente: non era il momento giusto per crucciarsi, aveva ben altro nell’immediato di cui preoccuparsi. Si avvicinò al proprio borsone, buttandoci dentro un’occhiata. Nascosto in un angolo, sotto l’asciugamano, giaceva il suo porta fortuna: era un coniglietto di peluche, molto simile a quello che avrebbe dovuto dare a Kim a San Valentino, una settimana prima.
Il regalo in questione, dopo la litigata con la ragazza, era stato lanciato dal capitano con la stessa grazia di una palla, verso il bidone della spazzatura. Non si era nemmeno voltato a controllare il canestro, un ottimo tiratore come lui doveva averlo centrato per forza.
Dopo aver avanzato di qualche passo però, si era pentito di quel gesto: non poteva dimenticare di avere una sorellina di sette anni che avrebbe gioito alla vista di quel peluche, così era tornato indietro, per rimediare a quel gesto dettato dall’impulso. Si era sporto a scrutare nel cassonetto ma, oltre a un paio di sacchi neri dell’immondizia, non aveva visto altro. Aveva controllato sul marciapiede, ma nemmeno lì c’era traccia del pacchetto.  
Accantonò quel piccolo mistero e accarezzò fugacemente il suo portafortuna, stando attento a non farsi scoprire dai compagni. In realtà quasi tutti lì dentro avevano un qualche oggetto al quale erano scaramanticamente legati, ma solo di alcuni Dajan ne conosceva la natura; il suo amico Trevor aveva un portachiavi a forma di cupcake, Steve una sorta di rosario tibetano mentre Wes una pallina antistress a forma di pallone da basket. Mentre posava lo sguardo sui suoi compagni, si materializzò l’immagine di Castiel: troppe volte l’aveva visto rigirarsi tra le mani il primissimo plettro con cui si era approcciato alla musica. Prima di ogni partita, l’ex capitano passava qualche secondo a far flettere l’oggetto contro le dita, producendo un’irritante serie di schiocchi che generalmente scatenavano l’irritazione di Clinton.
Ripensando all’atteggiamento del rosso prima di ogni competizione, Dajan lo invidiò per quanto sapesse essere calmo e concentrato. Il che era sorprendente, considerata la sua indole impulsiva e irruenta; sul campo, Castiel appariva sempre controllato, rilassato, trasmettendo sensazioni analoghe ai compagni.  Più l’avversario che lo fronteggiava era forte e più Black si eccitava all’idea di scontrarlo.
Anche per Dajan era sempre stato così, almeno finché non gli erano stati messi sulle spalle l’onore e l’onere di guidare lui la squadra. Da settimane si crucciava all’idea che forse, Castiel avesse peccato di superficialità nell’affidare a lui il ruolo di capitano: da quando si era assunto quel ruolo, in Dajan si era annidata l’insicurezza di non giocare bene come prima, di essere troppo nervoso.
No, non era quello il momento per i dubbi: avevano una partita da vincere e l’avrebbero combattuta con quella che era considerata la squadra più forte dell’intero torneo.
 
Isiah starnutì ma nessuno dei suoi compagni ribatté prontamente con il classico salute. Si strofinò il naso, aspirando un po' dell'aria stagnante dello spogliatoio. In quella stanza regnava un’atmosfera pesante, aggravata dal silenzio solitario in cui si era trincerato ogni cestista.
La guardia ripensò ai tempi in cui era Boris ad allenarli e lo assalì la nostalgia nel ricordare l’allegria e la confusione che circolavano tra i ragazzi. A quei tempi erano una squadra forte, ma nulla a confronto del livello che avevano raggiunto con la formazione della cosiddetta triade divina.
Durante il primo anno di liceo, Isiah era entrato nella squadra di basket semplicemente perché “era alto”. Il capitano della squadra in quel periodo era Neal Woodruff, un tipo affabile e alla mano. Per uno con il carattere di Isiah non era stato difficile integrarsi, anche grazie all’approccio solare ed espansivo del coach della Saint Mary: Boris.
Con l’inizio del secondo anno, l’allenatore era entrato in palestra annunciando trionfante l’arrivo di una nuova giocatrice: Melanie. Era una ragazza un po’ solitaria, che colpì sin da subito la guardia per il suo approccio schivo verso gli altri. Una volta sul campo però, la bionda dimostrò un’ottima predisposizione per quello sport, anche se il suo fisico minuto, rispetto a quello dei giganti che la circondavano, costituiva un grosso svantaggio. Melanie però dimostrò come esso poteva rappresentare il suo punto di forza, sfruttando la sua statura per passare inosservata durante le partite ed effettuare passaggi chiave.
La Saint Mary dell’epoca era una squadra che collezionava vittorie e sconfitte, come ogni altra squadra liceale. I piazzamenti nei tornei regionali erano più che soddisfacenti ma non per il dirigente scolastico, Mister Wilson. Sosteneva che la scuola avesse un titolo da difendere e che i ragazzi non fossero all’altezza di portarlo, oltre a scagliarsi contro la presenza di una ragazza nella squadra maschile, a suo avviso fonte di indebolimento della potenza offensiva della Saint Mary.
Boris non si lasciava intimidire da quei discorsi: credeva nei suoi ragazzi e, fintanto che loro avrebbero creduto in lui, sarebbe stato al loro fianco. Agli occhi dei cestisti e del loro allenatore, Wilson era solo un patetico preside che ostentava competenze che non gli appartenevano. Mai una volta Boris pensò di assecondare i numerosi consigli o schemi di gioco che l’uomo tentava di imporgli. Tra il coach e i suoi ragazzi, c’era una sorta di complicità nel fare fronte comune contro quel dittatore senza potere.
Tutto era cambiato durante il quarto anno di Isiah. Il cestista rivide davanti agli occhi la scena in cui, in un freddo pomeriggio di novembre, il preside era entrato in palestra, seguito da un ragazzo afroamericano. Quest’ultimo non aveva accennato a mezzo sorriso, e teneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se niente di quanto lo circondava attirasse la sua attenzione. Mister Wilson, dopo aver costretto i ragazzi ad interrompere l’allenamento, presentò il suo pupillo come la speranza della squadra, colui che le avrebbe permesso di fare quel salto di qualità che ancora non era stato fatto. Boris si era limitato a rispondergli con un’occhiata raggelante e per una volta, assecondò l’uomo quando pretese di vedere all’opera il nuovo arrivato. Istintivamente Isiah preferì schierarsi nella squadra avversaria: c’era qualcosa di strano in Julius Lanier, nel modo freddo e impassibile con cui si ergeva nel suo metro e novantadue di altezza ma proprio per questo, era curioso di fronteggiarlo da avversario. Melanie era stata costretta a rimanere in panchina, poiché Wilson aveva sostenuto che avrebbe intralciato il talento del nuovo acquisto della Saint Mary. A quelle parole Isiah e Neal erano sbottati, incuranti della figura rappresentata dal dirigente scolastico:
« Mel è un ottimo elemento » aveva ruggito Reed a denti stretti « lei non sa un caz-…niente per poterla giudicare! » si era corretto all’ultimo.
« quello che il mio compagno vuole dire » era corso ai ripari il capitano « è che la sta sottovalutando »
Il preside però, irritato dalla mancanza di rispetto da parte della guardia, si era imbufalito, apostrofando Boris che era tutta colpa sua se i ragazzi avevano un atteggiamento così irriverente nei suoi confronti.
« potremo smetterla di perdere tempo e deciderci a giocare? »
Quella frase, pronunciata con totale disprezzo e insofferenza, era scaturita da Julius, che era già al centro del campo: voleva essere lui a scontrarsi per la conquista della palla e non lasciava spazio per una discussione. Aveva deciso lui per tutti.
Wilson accantonò la questione ed esortò i cestisti ad iniziare lo scontro. Si portò accanto al coach, tenendo gli occhi puntati su Lanier:
« tieni gli occhi ben aperti Boris: ora vedrai cos’è il vero talento »
 
Dopo appena due minuti di gioco, in campo era sceso il gelo: Lanier aveva sbaragliato gli avversari, segnando un numero impressionante di canestri a distanza di pochissimo tempo l’uno dall’altro.
Anche se era passato un anno, Isiah ricordava ancora la sensazione di estrema inferiorità che l’aveva divorato in quel momento, con le ginocchia puntate contro il pavimento, nel disperato tentativo di riprendere fiato. Il ragazzo non gli aveva dato tregua, l’aveva ricorso per tutta la partita e in ogni scontro, era sempre stato il primo a spuntarla.
Julius era un genio del basket, il miglior giocatore liceale che avesse mai incontrato: forte, scattante, sicurò di sé. Sembrava progettato geneticamente per incarnare lo stereotipo del giocatore perfetto.
Senza mezzi termini, il preside aveva ordinato a Boris di nominare il nuovo arrivato capitano, detronizzando così Neal. A quell’imposizione però, Boris non era riuscito a trattenersi: erano volate parole pesanti che solo la presenza dei ragazzi era riuscita a trattenere nei due adulti l’istinto di usare termini più volgari e dispregiativi.  
Anche se era palpabile la reticenza che Boris nutriva verso il nuovo ragazzo, l’allenatore cercò di fare del suo meglio per dissimularla e accoglierlo in squadra. Riconosceva il talento di Lanier e non era professionale trasferire in quel cestista l’antipatia che lo legava al preside.
Per quanto ci provasse però, Julius faceva vacillare i suoi buoni propositi: il ragazzo si affermò sin da subito come una persona asociale, presuntuosa ed egoista. Niente sembrava scalfirlo, amava stare da solo anche fuori dal campo, ragion per cui i suoi compagni di squadra e di classe sapevano molto poco della sua famiglia. Aveva uno stile di gioco estremamente individualista e non riteneva nessuno dei suoi compagni all’altezza di affrontarlo.
Il perdurare di quella situazione, unita alle vittorie che la Saint Mary cominciò ad accumulare grazie ai canestri di Lanier, convinse il resto dei giocatori di essere realmente dei perdenti.
Prima che Boris potesse notarli, nella squadra cominciarono a serpeggiare sentimenti di rassegnazione e amarezza: Julius poteva anche essere detestabile, ma era un fenomeno e per sbaragliare la concorrenza, la Saint Mary HS aveva bisogno di lui.
Il coach era l’unico a non portarlo su un palmo di mano, trattandolo esattamente come tutti gli altri e quella mancanza di elogi innervosiva visibilmente il ragazzo, che proprio per l’irremovibilità dell’uomo, non era ancora diventato capitano.
Se tutti i ragazzi si erano rassegnati alla propria inferiorità, Isiah non poteva considerarsi parte di quel gruppo: aveva un orgoglio sportivo da difendere e l’unico modo per farlo era dimostrare a tutti che Julius non era l’unica risorsa per la squadra. Era convinto che chiunque potesse dare il suo contributo, anche se il talento di Lanier sembrava eclissare l’impegno altrui. Si trattava solo di impegnarsi di più, prendere Julius come modello di ispirazione per fare meglio e non per demoralizzarsi.
Isiah si era così convinto che per poter dimostrare agli altri la fondatezza del suo punto di vista, doveva passare direttamente ai fatti; non era un’impresa facile, considerata la proverbiale pigrizia che si associava sin dalla nascita alla sua personalità. D’altronde era a causa di quella inerzia che spesso si presentava in ritardo agli allenamenti, talvolta saltandoli completamente.
« no » aveva giurato a sé stesso « è ora di smetterla di cazzeggiare: mi impegnerò per diventare più forte » Scoperte le sue intenzioni, i suoi compagni avevano scherzato sul fatto che non avrebbe resistito a lungo, tornando ad essere il solito Isiah Reed pacioso e spensierato.
Lui si limitava a sorridere convinto, lasciandoli parlare: li avrebbe ammutoliti, portandoli poi dalla sua parte non appena sarebbe riuscito a dimostrare loro quale fosse il giusto atteggiamento.
Un sabato mattina, aveva trovato Melanie nel campetto dietro casa, intenta a lanciare la palla a canestro. Rimase a guardarla per qualche minuto, in disparte, mentre lei collezionava una serie perfetta di tiri andati a segno. Ne contò trenta, tutti perfettamente eseguiti. Durante le partite era raro che fosse la ragazza a tirare a canestro e proprio per questo, quel giorno Isiah rimase positivamente impressionato dalla precisione della playmaker. Attirò la sua attenzione e la vide portarsi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio destro, sorridendo in leggero imbarazzo. In quel periodo, la ragazza portava i capelli lunghi anche se, dopo il cambio di look, la guardia scoprì che la preferiva con un taglio più sbarazzino.
Quel sabato mattina, Isiah scoprì che, analogamente a lui, anche Melanie aveva iniziato ad allenarsi con impegno fuori dalla palestra e scoprire in lei un’alleata, l’aveva spinto a formulare insieme una promessa:
« la squadra tornerà ad essere unita come prima che arrivasse Julius: dimostreremo agli altri che l’unico atteggiamento da perdenti è quello che porta a lamentarsi delle proprie debolezze, senza fare nulla per affrontarle. Julius è forte e questo deve essere uno sprono per migliorarci, per portarci al suo livello, non per demoralizzarci » aveva sentenziato. Melanie si era limitata ad annuire convinta. Le era piaciuto sin da subito il carattere del cestista, era un trascinatore, un capitano nato, anche se preferiva far passare inosservata quella sua capacità.
Mese dopo mese, grazie all’assiduità del loro impegno, Isiah e Melanie miglioravano a vista d’occhio: il primo perfezionò a tal punto la precisione di lancio che cominciò a circolare la diceria sulla sua imbattibilità come guardia tiratrice. All’inizio i suoi compagni scherzavano su quella serie ininterrotta di tiri perfetti ma pian piano cominciarono ad accorgersi che non era solo un’incredibile questione di fortuna.
I lanci di Isiah erano diventanti infallibili.
Analogamente cominciarono ad associare la presenza di Melanie in una squadra, alle vittorie di quest’ultima: chi finiva in squadra con la ragazza, durante gli allenamenti, vinceva sempre. Fu da quell’osservazione che i cestisti cominciarono ad accorgersi della preziosità del ruolo rivestito dalla playmaker, che riusciva a rubare palle anche quando il gioco sembrava sul punto di arenarsi, creando delle traiettorie impossibili.
Fu così che al rientro dalle vacanze estive, durante il primo allenamento, il resto della squadra cominciò a guardare i due compagni con occhi diversi: stavano sbocciando, mentre loro rimanevano ancorati alla solita mediocrità.
Isiash e Melanie non era più come loro, li stavano distanziando. Stavano diventando come Julius.
Boris notò allora che c’era qualcosa di strano nel modo in cui i ragazzi si approcciavano ad Isiah, che prima era sempre al centro del gruppo; in modo quasi impercettibile, con gesti quotidiani di apparente irrilevanza, la squadra sembrava averlo ostracizzato, come se non appartenesse più ad essa. Con Melanie, se già da prima l’interazione non era molto intensa, venne annientata completamente..
Il tentativo dei due cestisti di risollevare il morale delle squadra, aveva avuto un effetto opposto a quello desiderato: non erano più come gli altri, era diventati fonte di invidia, aizzata dalle lodi di un preside che, dopo una schiacciante vittoria a Chicago, aveva battezzato i tre “la triade divina”.
Quel giorno, con un punteggio di 120 a 23 era nata la leggenda.
Da quel momento in poi, la situazione era degenerata irreversibilmente: lo spirito di squadra era stato annientato, i suoi compagni guardavano Isiah e Melanie con un misto di diffidenza e disprezzo, come se il talento che era esploso in loro fosse un pretesto per umiliarli più di quanto non facesse Lanier.
Melanie, infastidita dal peso di quel titolo, conferitole dall’ipocrisia di un uomo che l’aveva sempre denigrata, si era chiusa ancora più in se stessa.
Non avevano altra scelta che mantenere quella fama che si erano guadagnati, portando la Saint Mary alla vittoria e attirando l’attenzione di grosse squadre professionistiche.
Nell’arco di un anno, tra i giocatori non si respirava più quell’allegria e divertimento per cui Boris li aveva conosciuti: i ragazzi erano come annichiliti, schiacciati dall’invadenza sul campo di quei tre mostri che li ecclissavano totalmente. Boris cercava di esortarli, di convincerli ad impegnarsi, ma poiché l’esito di ogni partita era scontato, la squadra si limitava a rispondergli che, fintanto che avevano la triade divina, il loro contributo era insignificante.
Demoralizzato per quella situazione, il coach, verso l’inizio del quinto anno di Isiah, aveva gettato la spugna. Si era presentato in palestra salutando i ragazzi e affermando che le loro strade si sarebbero divise:
« non posso essere una guida per la squadra, se non c’è più nessuna squadra a seguirmi » era stato l’amaro commento dell’uomo, prima di chiudersi alle spalle la porta della palestra, lasciando ai cestisti la triste consapevolezza che non l’avrebbe mai più riaperta.
 
Isiah sospirò: non poteva fare più nulla per togliersi da quella situazione. Si rammaricava soprattutto del fatto di aver trascinato con sé anche Melanie, fornendole un pretesto perché la squadra si allontanasse anche da lei. Era vero che la ragazza si distingueva per un carattere un po’ introverso ma sul campo era una persona completamente diversa: interagiva con i compagni, si entusiasmava, era eccitata: Tutto ciò prima di diventare la playmaker del mitico trio.
La guardia udì un verso stizzito e si voltò verso la porta, contro la quale era appoggiato il capitano: Julius era sempre il primo a cambiarsi e, solo perché l’allenatore glielo aveva imposto, era costretto ad aspettare che tutti i suoi compagni fossero pronti prima di abbandonare lo spogliatoio.
Quando anche l’ultimo giocatore si sistemò le scarpe, il ragazzo si limitò a grugnire seccato:
« era ora »
 
Ambra sollevò gli occhi al cielo: erano dieci minuti che Armin insisteva per farle cambiare idea su un videogame uscito un anno prima. Appena la ragazza aveva criticato la qualità grafica dei personaggi, il moro era partito con una filippica difensiva, che aveva estraniato il resto dei suoi amici dall’intervenire.
« spero che inizino subito, non ne posso più di sentirlo parlare di PSP! » sbuffò Rosalya, in trepidante attesa. Sin da quando si era seduta, aveva iniziato a torturare nervosamente l’orlo del maglione, unica azione che le permetteva di stemperare un po’ dell’eccitato nervosismo che aumentava di minuto in minuto; lei meglio di chiunque altro, sapeva quando quella partita fosse importante per Erin e se l’avesse persa, non era sicura che l’amica avrebbe retto alla delusione.
« beh, Ambra non sembra lamentarsi » considerò Alexy, con una risatina, osservando la bionda rispondere a tono a quella conversazione. La secondogenita di casa Daniels, diversamente dal resto dei ragazzi, non era insofferente alla fissa di Armin, viceversa, con le sue osservazioni, gli offriva nuovi spunti per una discussione che non accennava a scemare.
Iris nel frattempo spostò lo sguardo sulla fasciatura che avvolgeva il polso abbronzato di Dake.
Il giorno prima, assieme a Kentin ed Alexy, i quattro erano andati ad arrampicare: a Morristown infatti avevano inaugurato una palestra con una parete rocciosa che aveva riscosso un successo incredibile, accogliendo un sacco di sportivi e non. Il biondo però, aveva fatto un movimento sbagliato con la mano, provocandosi una slogatura:
« ehi Dake, la mano come va? Ti fa’ male se la tocchi? » si preoccupò la rossa.
Quella premura fece sorridere il surfista che, istintivamente si voltò leggermente verso Kentin, lanciandogli un’occhiata beffarda e vittoriosa. Quest’ultimo aveva uno sguardo di fuoco che scoppiò appena sentì il ragazzo dire:
« prova e vediamo » le sussurrò dolcemente, allungando il braccio verso di lei e passandolo davanti a Rosalya, che si sentiva alquanto di troppo tra i due.
Dopo qualche secondo di indecisione, le dita di Iris sorvolarono la pelle di Dake, atterrando vicino al pollice. Provò a stringere delicatamente, ma il ragazzo non reagì minimamente. Si sentiva un po’ sciocca ad assecondare quella richiesta, finché non fu l’ex cadetto a sbottare irritato:
« così non sente male per forza! »
Lo vide allungare il busto in avanti, frapponendosi tra Rosalya e Dake. Con la delicatezza di uno scaricatore di porto, Kentin serrò con veemenza la sua mano in quella del biondo, che protestò dolorante:
« ahi cazzo! »
« ecco vedi? Hai le terminazioni dolorifiche ancora funzionanti » lo derise il moro tornando composto e restituendogli un ghigno trionfante. Non ancora soddisfatto di quell’infantile vittoria, aggiunse « comunque Dakota con te davanti Violet non vede un tubo. Vero? »
Si girò verso la timida e silenziosa artista seduta accanto a lui che avvampò all’istante, farfugliando frasi sconclusionate.
« gli spalti sono fatti a gradoni apposta » obiettò Dake, sorridendo ipocrita e trattenendo il nervoso « Violet ci vede benissimo »
Iris si girò e, valutando velocemente la situazione, dichiarò:
« ha ragione Kentin: Violet è piccolina, non ha la visuale sgombera. Potresti fare cambio con lei Dake e sederti vicino a lui al posto suo? ».
Gli occhioni chiari e dolci della ragazza, bastarono ad annullare le difese del ragazzo che, a malincuore, effettuò lo scambio, trovandosi accanto l’ex cadetto.
Rosalya, assistendo a quella scena, scosse il capo; si lamentava spesso dell’ingenuità che Erin manifestava nelle situazioni amorose, ma quella di Iris raggiungeva livelli che nemmeno la loro amica aveva sperimentato.
« la prossima volta metti la museruola ai tuoi spasimanti » le sussurrò sottovoce « non intendo passare tutta la partita a sentirli abbaiare l’uno contro l’altro »
« sono miei amici! » protestò Iris, senza farsi sentire dagli altri due.
« e io sono Batman » borbottò la stilista, incrociando le braccia al petto, scocciata.
Quel diversivo l’aveva distolta per un attimo dai suoi pensieri, ma ci pensò esultanza di Lin a destare l’interesse generale:
« STANNO USCENDO! » esultò la cinesina, balzando in piedi.
Armin e Ambra smisero di discutere, così come Kentin e Dake, Alexy ripose in tasca il cellulare, mentre Rosalya ed Iris si allungarono in avanti, puntando tutti lo sguardo verso il campo sotto di loro.
« sono gli avversari » osservò piatto Kentin « hanno le divise verdi »
« complimenti genio. A quanto pare non sei daltonico » commentò Dake.
Prima che il moro potesse rispondergli, Rosalya si voltò, incenerendo i due nemici con lo sguardo:
« Dake, Kentin: a cuccia! »
I due rimasero interdetti dalla ferocia dello sguardo della ragazza e, mentre il primo ridacchiava divertito, il secondo era rimasto inebetito. La stilista non si curò più di loro e tornò a fissare con apprensione la scena sotto di lei:
« eddai Cip » la pregò « SBRIGATIII! »
 
Boris vide i suoi giocatori fare il loro ingresso ordinatamente e in silenzio. Dajan era in testa alla squadra e teneva lo sguardo fisso sul campo, troppo concentrato per guardare altrove. Anche il resto dei ragazzi sembrava completamente assorto nei propri pensieri, da non cercare di interagire con i compagni.
Appena il pubblico riuscì a vederli, esplose in urla incoraggianti, facendoli sobbalzare per lo spavento: alzando gli occhi, videro tutti gli studenti del Dolce Amoris che si erano alzati in piedi ad applaudirli e a tifare per loro, provocando un chiasso assordante, degno del tifo di una squadra professionista. Udivano cori confusi, di cui era praticamente impossibile estrapolare il senso delle parole.
Quella scena risvegliò e rallegrò istantaneamente gli animi, con l’effetto più efficace e istantaneo di qualsiasi discorso di incoraggiamento: Trevor e Wes cominciarono a pavoneggiarsi, gesticolando pose e movimenti assurdi mentre il resto della squadra si limitava a salutare i tifosi con sorrisi allegri e anche un po’ imbarazzati, per quell’attenzione di cui erano il fulcro scatenante.
Clinton buttò l’occhio sulla panchina vuota e brontolò:
« possibile che anche oggi Erin e Kim si facciano aspettare? »
L’allenatore sorrise beffardo e replicò:
« in realtà quelle due hanno già iniziato il riscaldamento cinque minuti fa »
I ragazzi spostarono stupefatti lo sguardo verso la loro metà campo, dove due figure solitarie era impegnate a lanciare la palla a canestro. Erin fu la prima ad accorgersi del loro arrivo e, abbandonando la palla, si fiondò verso i cestisti:
« alla buon’ora! Si può sapere perché ci avete messo tanto? Avete pettinato le Barbie? »
Rimasero alquanto sbigottiti per quella reazione: non l’avevano mai vista così carica prima di una partita. Nei suoi occhi si leggeva eccitazione allo stato puro, la frenesia di iniziare a giocare. Con il loro ritardo, i maschi si erano persi una scena altrettanto memorabile quanto quella di cui erano appena stati protagonisti: quando anche Erin e Kim erano uscite allo scoperto, poco prima di loro, gli studenti erano esplosi: le due erano sobbalzate, tanto il boato era stato improvviso e fragoroso. La più piccolina delle due, era stata catturata da una macchia rossa che aveva poi scoperto essere un cartellone. Mettendo a fuoco aveva letto la scritta “FORZA ATLANTIC! VAI CIP!” e il disegno di uno scoiattolino con la divisa da basket. Aveva sorriso sfrontata, vedendo tutti i suoi amici in piedi per lei, con Rosalya in testa al coro.
« insomma! » si spazientì « volete darvi una mossa? La Saint Mary è già sul campo! » li incitò, battendo violentemente i palmi delle mani.
Boris ridacchiò e commentò compiaciuto:
« fatevi contagiare dall’entusiasmo di Erin! Non abbiate quelle facce lunghe. Se capiscono che avete paura di loro, avrete perso » li provocò.
« non abbiamo paura di loro » precisò Dajan, risentito nell’orgoglio.
« allora dimostratelo » asserì il coach, battendogli una mano sulla spalla.
Erin lanciò un’occhiata fugace all’altro lato del campo e intercettò subito Melanie. Era impegnata con lo stretching ma non per questo non si accorse dell’attenzione che le stava dedicando la rivale. La vide alzarsi da terra, strofinando le mani l’una contro l’altra, a togliere i residui di polvere che erano rimasti attaccati.
Si guardarono dritte in faccia, senza alcuna esitazione. Per un attimo sembrava che l’una volesse raggiungere l’altra, colmare i quindici metri che le distanziavano ma entrambe realizzarono che quello che sentivano in quel momento non era necessario esprimerlo a parole. Si scambiarono un cenno d’intesa, carico di stima reciproca e desiderio incontenibile di fronteggiarsi.
Il desiderio di dimostrare all’altra il proprio valore sul campo.
 
Da quando le squadre erano giunte al completo sul pitturato, il tempo volò.
Finalmente i presenti, atleti e pubblico ricevettero l’atteso segnale.
Il riscaldamento era finito.
La sfida doveva iniziare.
Erin deglutì vistosamente seguendo il quartetto di cestisti con cui avrebbe aperto la partita. Si allineò tra Dajan e Trevor, mentre Steve e Liam erano già in posizione.
Davanti a loro, il quintetto avversario in cui la ragazza notò subito una grande assenza: Melanie non c’era. La Saint Mary schierava il capitano Julius Lanier, Mitch Sharman, Denzel Simpson, Isiah Reed e Charlotte O’ Connor, la seconda ragazza della squadra. Boris aveva ammesso di non avere alcuna informazione su di lei, in quanto quest’ultima non frequentava il Saint Mary durante il suo periodo di permanenza in quell’istituto. I ragazzi della Atlantic avevano visto poche partite in cui era stato dato spazio a quell’elemento e ne avevano dedotto che non rappresentasse una grossa minaccia. Gli avversari quindi non volevano ancora schierare la triade divina al completo e nelle maglie rosse si innescarono una serie di ragionamenti scaturiti da quella scelta strategica. C’era chi come Liam che sospettava che la Saint Mary li stesse sottovalutando oppure altri giocatori più esperti, come Dajan, che immaginavano che era un modo per non affaticare la vera pupilla della squadra, per schierarla al momento più opportuno.
Melanie quindi riposava in panchina, con le braccia conserte e la cerniera della felpa completamente aperta, lasciando intravedere la sottostante divisa verde. In quell’occasione però aveva rinunciato al suo inseparabile i-pod, tenendo tutti i sensi in allerta.
I giocatori, dopo una fugace stretta di mano, si misero in posizione.
Trevor lanciò un’occhiata d’intesa all’amico Dajan, pronto a balzare per la conquista della palla. A fronteggiarlo Lanier, che lo squadrava minaccioso. Da vicino i muscoli del collo erano evidentemente tesi e sembrava quasi di vedere l’arteria pulsare sotto la pressione del sangue che veniva convogliato al cervello.
« che ansia » mormorò la gola secca del professor Faraize. Era una persona molto emotiva, i cui nervi venivano messi a dura prova dallo stress, anche quello più lieve.
Dalla panchina era palpabile la rivalità tra le due squadre, fomentata dall’ostilità tra i due capitani:
« anche se è non è la finale, quelle che ora sono presenti sul campo sono le due squadre più forti del torneo » dichiarò Boris con le possenti braccia incrociate davanti al petto; poteva dirsi orgoglioso di averle allenate entrambe. Vedere i suoi ex ragazzi fronteggiare i nuovi, lo metteva in una strana posizione. Tifava per la Atlantic ma in cuor suo, si sentiva un po’ in colpa all’idea di gioire per la sconfitta della Saint Mary.
Erin aveva il cuore in gola. Il suo corpo stava tremando, ma non capiva se era per l’agitazione o per la fibrillazione; desiderava solo cominciare a correre, per sfogare quella snervante fissità ad attendere il fischio d’inizio.
L’arbitro si portò a centro campo, tenendo in equilibrio la palla sul palmo della mano: da quel momento in poi, i dieci ragazzi non avrebbero avuto occhi che per quell’oggetto sferico.
« signore e signori » annunciò uno dei due cronisti, appositamente assoldati per commentare l’evento « cominciate il conto alla rovescia: il gioco sta per iniziare! »
 
Dajan e Julius si avvicinarono ancora di più. L’arbitro guardò prima l’uno poi l’altro e annuì.
Si portò il fischietto alle labbra e, insieme al suono stridulo emesso dall’oggetto, lanciò la sfera verso l’alto.
« SI INIZIAAA! »
I due ragazzi scattarono fulminei verso l’alto, mentre dalla platea si levarono cori eccitati.
Fu la tempistica di Lanier a spuntarla, riuscendo a strappare la palla al capitano avversario, direzionandola verso Mitch.
« merda! » ghignò Dajan a denti stretti. I suoi piedi non fecero quasi in tempo a ritoccare terra che una saetta con la divisa rossa sfrecciò accanto a lui, intercettando la sfera che non era riuscito a conquistare
Prima che Mitch potesse accogliere la palla tra le mani, Erin si era già allontanata di due passi, palleggiandola velocissima: la passò a Trevor, mentre sia la sua squadra che quella avversaria, restavano di stucco; era successo tutto troppo velocemente e l’altezza della ragazza le aveva permesso di muoversi con l’agilità di un furetto
« GRANDE CIIIP! » aveva urlato Rosalya, sgolandosi.
« la palla è in mano a Trevor Mc Connell, ala grande della Atlantic High School »
Il ragazzo si trovò di fronte Denzel così optò per un passaggio laterale, appena notò la presenza di Steve alla sua destra.
« saremo noi a inaugurare il tabellone » sibilò, sfidando l’avversario davanti a lui, mentre la palla volava via.
« non credo proprio » chiarì Lanier, materializzandosi lì vicino.
La sfera infatti stoppò la sua corsa, finendo nelle grandi mani del capitano che volò via verso il canestro.
« non esiste che segnino il primo punto » giurò Dajan a sé stesso, partendo alla rincorsa. Accanto a sé, vide la figura minuta di Erin e questo lo fece ghignare eccitato: era un’ottima spalla che quasi non gli faceva sentirla la mancanza di quel ragazzo con il numero 11 sulla maglia. Quasi.
La mora si portò alle spalle dell’avversario il quale non si era accorto di lei: era troppo impegnato a tenere d’occhio la sua controparte avversaria, Dajan. Ciò gli impedì di prepararsi all’intervento di Erin che, da dietro, riuscì a fargli perdere il controllo palla. Questa venne rapidamente intercettata dal capitano della Atlantic, mentre Lanier farfugliò furente:
« questa è la prima e ultima volta che mi freghi, nanetta »
La cestista però sorrise soddisfatta: essere riuscita a beffare un simile colosso della pallacanestro, era un’enorme gratificazione, ma non c’era il tempo per godersela. Partì per dare supporto alla sua squadra, che aveva già guadagnato la metà campo. La palla era passata da Dajan a Steve, pronto a tirare a canestro; il pivot della Atlantic si mise in posizione di lancio e lasciò che la sfera abbandonasse le sue mani, diretta sicura verso il canestro ma una figura agile e scattante ne disturbò la traiettoria; Lanier sorrise soddisfatto mentre la miglior guardia della squadra, Isiah Reed, si impossessava della palla:
« spettacolare stoppata di Isiah Reed che ha intercettato il tiro avversario, salvando il proprio canestro! »
La sua entrata era stata una dimostrazione di grande potenza nel salto, che aveva lasciato Steve sgomento. L’avversario nel frattempo aveva palleggiato per un paio di metri, trovandosi davanti Liam e Trevor. Le braccia dei due ragazzi sembrano non lasciargli alcuna apertura laterale, costringendolo a pensare fuori dagli schemi.
« vai Trevor! » lo incitò Kim dalla panchina, scalpitando dalla voglia di trovarsi sul campo.
Isiah valutò l’area attorno a sé, ma nessuno dei suoi compagni era a portata di tiro. O gli avversari erano particolarmente bravi a marcarli, oppure la sua squadra pensava che potesse cavarsela da solo.
« è in trappola » constatò vittorioso Clinton dalla panchina.
La guardia avversaria però non tradiva alcun timore. Aveva perennemente un’espressione beffarda e sicura di sé, che quando era sul campo esplodeva in tutta la sua essenza. C’era un’area dello spazio che le due maglie rosse stavano trascurando di considerare e che pertanto poteva essere sfruttata. La guardia fletté le gambe verso il basso, per poi allungarsi verso l’alto tenendo la palla sopra la testa:
« m-ma sta tirando a canestro da quella distanza? » esclamò Liam sconvolto.
La guardia avversaria infatti si trovava circa a metà campo, troppo lontano dal cesto per poter essere sicuro di centrarlo. Anche il resto della squadra del Dolce Amoris, sia chi era seduto in panchina, che ci era sul campo, era rimasto spiazzato. La palla stava descrivendo una parabola altissima, impossibile da intercettare.
« non può entrare… » mormorò Steve sconcertato, seguendo inerme con gli occhi la traiettoria della sfera. Era un dato di fatto che più la parabola descritta dalla palla fosse arcuata, più fosse difficile per un tiratore calcolare la posizione in cui essa sarebbe atterrata. Fu per questo che, quando la sfera scivolò lungo la rete del canestro, la Atlantic rimase sgomenta, mentre attorno a loro si levavano commenti delusi da parte del pubblico del Dolce Amoris.
Isiah Reed, all’apparenza un ragazzo pacioso e innocuo, sul campo era un cestista temibile, capace di incutere soggezione negli avversari. Quando Boris aveva comunicato ai suoi ragazzi il suo record di infallibilità nel centrare i canestri, tutti avevano creduto ad un’esagerazione. Ora non ne era più così convinti
I primi tre punti erano così andati alla Saint Mary e nonostante le spettacolarità dell’azione, ne era derivata solo un moderato applauso e qualche esultazione solitaria da parte dei tifosi delle maglie verdi. Lysandre notò che anche nella panchina avversaria nessuno si era particolarmente entusiasmato per quell’azione: i cestisti sembravano annoiati, come se non avessero assistito a nessuna scena particolare o imprevista.  
Anche ad Ambra e Violet non era sfuggita quell’osservazione: puntarono l’attenzione sugli spalti opposti a quelli dove si trovavano lei e gli altri, individuando la scuola avversaria; gli studenti non apparivano granché interessati alla partita, come se la loro presenza nell’arena fosse frutto di un’imposizione e non di una scelta volontaria. Gli unici a sostenere la Saint Mary erano persone troppo grandi per essere dei liceali, persone quindi che conoscevano i cestiti solo per i loro meriti sportivi:
« sembra che la Saint Mary non sopporti la Saint Mary » mormorò Lysandre tra sé e sé, ma rimase inascoltato dagli amici che erano troppo presi a seguire le azioni sul campo.
Trevor serrò la mascella mentre Denzel, passandogli accanto, ghignò:
« non sottovalutateci »
« nemmeno voi » lo ammonì l’ala grande, precipitandosi al contrattacco: Steve aveva rimesso la palla in campo, passandola a Liam.
« Liam a destra! » lo guidò l’unica voce femminile della sua squadra. Nonostante l’avvertimento di Erin, Mitch gli aveva appena soffiato la palla e con il resto dei compagni si dirigeva verso il canestro.
« questo è fuori discussione! » giurò Erin a sé stessa, ma si trovò di fronte Lanier.
« tu nanetta da qui non ti muovi » sentenziò minaccioso, lasciandola perplessa: per quanto fosse migliorata, rimaneva indiscutibilmente l’elemento più debole della Atlantic, quindi non capiva perché un simile talento venisse sprecato per marcare una come lei. Seguì da lontano il percorso della sfera che nel frattempo era passata a Denzel che a sua volta cercava Reed. Quest’ultimo però era attorniato ancora una volta da Trevor e Liam.
Erin pensò di aggirare la barriera di Lanier, voltandosi ma trovò davanti a sé l’unico elemento di cui si era completamente dimenticata l’esistenza:
« tutta tua O’ Connor » la scaricò Lanier, liberando la propria marcatura su Erin e raggiungendo Denzel.
« mi ha fregata » pensò la mora tra sé e sé, tenendo lo sguardo puntato sulla silenziosa ragazza che si era agilmente frapposta tra il suo cammino. Provò a muoversi verso destra, ma la giocatrice imitò il suo movimento e così con i successivi. Nemmeno le finte sembravano funzionare su quella ragazza.
Denzel intanto aveva trovato in Lanier l’unica possibilità di sbarazzarsi della sfera, così la lanciò verso il compagno, anche perché aveva appena ricevuto un comando inappellabile da quest’ultimo..
Dajan spiccò un salto per intercettare il tiro ma Julius non glielo permise: si alzò anch’egli in volo e si verificò una sorta di scontro aereo tra i due corpi, da cui quello di Lanier ne uscì vincitore. Il numero cinque cadde a terra, rialzandosi prontamente. L’arbitro non aveva osservato alcuna irregolarità quindi doveva solo pensare a impedirgli di segnare il secondo canestro.
Cercò l’appoggio dei compagni e trovò Steve libero sulla sinistra. Era l’unico a non essere marcato e questo gli offriva la possibilità di muoversi come credeva. Erin era rimasta bloccata a metà campo con quella O’Connor, la cui difesa sembrava impenetrabile. Eppure la mora era particolarmente agile nel liberarsi dalle marcature. Presto ci sarebbe riuscita, Dajan ne era sicuro, quindi doveva approfittare del canestro rimasto incustodito degli avversari, che si trovava alle spalle della mora. Lanier era partito a saltare sotto il cesto e con lui, anche Steve, pronto a stoppare la palla.
« butta la palla Stevee! » gli ordinò Dajan. Il compagno si limitò ad assecondare quell’ordine e, cercando di battere l’avversario sulla tempistica, appena intercettò la sfera, la fece volare in una direzione casuale. Dajan allora spiccò un balzo e se ne riappropriò, mentre dagli spalti del Dolce Amoris giungevano urla entusiaste e di incitamento, che soffocavano quelle deboli dei tifosi della Saint Mary:
« Erin, tua! » le urlò, lanciando la palla talmente lontana che oltrepassò la ragazza, finendo alle sue spalle dove il campo era rimasto libero. A quel punto l’avversaria fu costretta ad abbandonare la marcatura e precipitarsi ad intercettare la sfera. Tutti gli altri giocatori erano partiti al contrattacco, mentre Erin palleggiava furiosamente verso il canestro avversario, assolutamente sgombero di cestisti. La precisione di tiro non era il suo forte, ma non aveva altra scelta. Se avesse atteso un secondo di più, Charlotte le avrebbe disturbato il lancio e nel frattempo Reed l’avrebbe raggiunta, rubandole probabilmente la palla.
Sotto la pressione e l’urgenza del momento, stabilì che la decisione migliore fosse rischiare il tiro: lasciò quindi che la palla volasse verso l’alto ma si accorse, sin da quando perse il contatto con le sue dita, che non sarebbe mai entrata. Stava per prendersela con sé stessa per aver sprecato quell’opportunità, quando vide scattare accanto a sé la figura di Dajan che, con un elegante alley-oop migliorò il tiro, centrando la palla a canestro.
« ottimo lavoro Cip! » le sorrise il capitano, sollevandole il pollice verso l’alto, mentre Erin era troppo inebetita per ribattere che il merito era tutto del ragazzo. Attorno a loro erano esplosi cori forsennati e studenti e amici avevano cominciato a saltare sugli spalti per i primi punti segnati dal loro liceo. Persino tra i tifosi avversari c’era chi aveva applaudito per quella spettacolare azione.
Di sfuggita Erin riuscì a notare finalmente anche la presenza di sua zia Pam e del suo ragazzo, che applaudivano orgogliosi.
Charlotte osservò quella scena in silenzio, mentre recuperava la palla; quel Brooks era un capitano molto diverso da quello che tiranneggiava sulla sua squadra.
« O’ Connor! » la sgridò per l’appunto Lanier, incollerito dall’esitazione della ragazza. Quella strigliata la spaventò, innescando in lei l’urgenza di rimettere in campo la sfera. Incrociò lo sguardo convinto di Isiah, così optò per effettuare a lui il passaggio:
« ecco che la palla è passata a Reed! Il numero 4 si dirige verso la metà campo avversaria»
« Trevor! Liam! Dovete marcarlo! » li rimproverò furente Boris dalla panchina, gesticolando animatamente. C’era un solo modo per annientare la guardia della Saint Mary e consisteva nell’impedirle di toccare palla, anche se questo significava bloccare ben due giocatori
« non potresti startene buono buono Reed? » finse di supplicarlo l’ala grande, appena riuscì a frapporsi al suo cammino.
« eh eh » ridacchiò la guardia, senza cessare di palleggiare « ti piacerebbe eh? » e si preparò per un nuovo tiro. Questa volta era ancora più lontano da canestro e se l’avesse centrato, avrebbe definitivamente assodato la paternità di un talento invidiabile. Come pochi secondi prima, Reed piegò le gambe per poi distenderle verso l’alto:
« non mi freghi un’altra volta fratello » ghignò Trevor, saltando anch’egli verso l’alto, per bloccare una palla che immaginava sarebbe volata sopra la sua testa.
« vuoi scommettere? » lo schernì l’altro e, con un ghigno divertito, anziché far passare la sfera nella direzione in cui l’ala aveva elevato un muro, la passò di lato, verso Denzel.
I piedi di Trevor toccarono terra prima di quelli di Isiah, che non riusciva a levarsi un sorriso vittorioso dal volto:
« brutto figlio di… » cercò di trattenersi la maglia rossa, mentre l’avversario si allontanava soddisfatto. Denzel nel frattempo era sfrecciato via palleggiando. Lanier si stava misurando con Dajan, che sembrava non lasciargli aperture. La strategia della Atlantic prevedeva quindi il blocco delle due punte di diamante della squadra, anche se tanto Lanier quanto Reed erano esperti nel sottrarsi a marcature.
« Reed che passa la palla » commentò compiaciuto Randy, l’allenatore della Saint Mary « questo sì che è interessante »
« è sveglio quel ragazzo. Ha colto al volo il discorso che hai fatto ieri alla squadra » commentò la sua assistente, Paula. L’uomo spostò quindi lo sguardo dalla guardia tiratrice al capitano della Saint Mary, per poi sospirare:
« è Julius che mi preoccupa »
« già » si limitò a rispondere la donna.
I due capitani si stavano fronteggiando: Lanier si spostò a destra e Brooks ne imitò il movimento; provò allora a sinistra, ma la marcatura era serrata. Non poteva demordere, voleva quella palla poiché il prossimo canestro doveva essere opera sua.
« passa! » ruggì a Denzel, ordinandogli di tirare. Il compagno di squadra quasi si spaventò per quel comando e, dopo un’iniziale perplessità, lanciò la sfera come gli era stato minacciosamente intimato. C’erano altri giocatori in posizione migliore a cui effettuare il passaggio ma il timore che l’ala grande aveva sempre nutrito verso l’imponente capitano, gli impedì di disobbedire a quell’imposizione.
Dajan e Lanier saltarono all’unisono ma fu il secondo a conquistare il pallone, lasciando l’altro con un pugno di mosche. Partì verso il canestro avversario raggiungendolo in pochi secondi. Ad attenderlo, per la difesa rossa, trovò Steve e Liam mentre come unico supporto, il suo compagno di squadra, Mitch Sharman, in qualità di ala piccola.
Lanier superò agilmente la linea dei tiri liberi e a quel punto la Saint Mary poteva mettersi comoda: il capitano aveva raggiunto una posizione in cui mai e poi mai avrebbe passato la sfera.
Una volta entrato in quell’area, il gioco individualista del pivot, diventava ancora più egoistico: la sua arroganza lo portava a convincersi dell’infallibilità delle sue schiacciate, ragion per cui la palla non doveva essere passata a nessuno. Era un dato di fatto, un dogma insindacabile che la sfera sarebbe entrata dove esattamente lui aveva previsto che entrasse, a canestro.
Ignaro di tale realtà, istintivamente Liam si portò davanti a Sharman, per intercettare un probabile passaggio da parte del capitano, ma quella strategia si rivelò inutile. Lanier non aveva motivo per dubitare della propria elevazione, né tanto meno della sua schiacciata. Spiccò un salto portentoso, al quale cercò di opporsi Steve, balzando a sua volta verso l’alto. La difesa della Atlantic riuscì ad afferrare il pallone ma non riuscì ad impedire dalla forza incredibile che veniva applicata su di esso, di mandarlo a canestro.
I piedi dei due avversari ritoccarono il suolo, lasciando uno dei due sconvolto: in vita sua Steve non aveva mai avvertito tanta potenza in una schiacciata. Nonostante fosse l’atleta più alto presente sul campo, si sentì come se Lanier lo soverchiasse.
« ehi Steve! È troppo presto per farsela sotto! » lo redarguì una voce femminile. Il ragazzo guardò in avanti e vide quella che nelle ultime settimane era diventata una sua cara amica: Erin gli sorrideva incoraggiante, con stampato in volto l’espressione più viva e bella della squadra; tra tutti e dieci i giocatori presenti sul pitturato, lei era quella che si stava divertendo di più. Nelle sue arterie c’era il giusto equilibrio di adrenalina e ossigeno, frammisti all’emozione che suscitava in lei la sua squadra.
Anche se lei non lo sapeva, in passato anche Castiel, in vece di capitano, se ne era uscito con esclamazioni analoghe, anche se decisamente più scurrili di quelle che aveva usato la tweener. Era soprattutto per quella sua capacità di sciogliere la tensione che mancava tanto ai suoi compagni, ma fortunatamente, stavano riscoprendo in Erin un talento simile. Forse era stata proprio l’amicizia tra i due ex compagni di banco che aveva fatto sì che l’una prendesse una parte dei pregi dell’altro.
« questa è la mia Erin » gongolò Boris orgoglioso da bordo campo e, spostandosi lungo la linea, cominciò ad incitare:
« FORZA RAGAZZI! STATE PIÙ ATTENTI AI PASSAGGI LATERALI! »
Anche il resto dei cestisti rimasti in panchina davano man forte con il tifo.
Il contrasto con gli stati d’animo avversari era fin troppo evidente, quasi stridente: a pochi metri di distanza, nella panchina del Saint Mary, imperava la calma più completa. Nessuno dei giocatori si era alzato o urlava versi di incoraggiamento alla squadra, neanche quando le azioni erano particolarmente meritevoli. Assistevano tutti in silenzio alla partita, come se vincere o perdere non facesse alcuna differenza.
« non può giocare tutta la partita in questo modo Randy » commentò gravemente Paula « non questa volta… devi dire qualcosa a Lanier »
« non servirebbe » s’intromise una voce maschile, costringendo i due coach a voltarsi verso Neal, l’ex capitano della squadra. Teneva il busto piegato in avanti, seguendo il gioco senza battere ciglio. Dopo la partenza di Boris e il subentro di Randy, il nuovo allenatore si era piegato ad assecondare l’imposizione del preside, eleggendo Julius nuovo capitano della squadra e incrinando ancora di più la stabilità psicologica dei giocatori.
« quando mai è successo che Lanier abbia passato la palla sotto canestro? Appena mette piede in quell’area, l’azione è sua, non ha bisogno di nessun’altro » spiegò il ragazzo, stringendo i pugni.
« sarà costretto a cambiare atteggiamento » ragionò il coach « la Atlantic che non ha ancora scoperto tutte le sue carte e quando lo farà, dovremo essere pronti a tenerle testa »
« non accadrà mai » mormorò convinto « Lanier che fa gioco di squadra? Tanto vale allora credere agli unicorni » sputò.
Randy rimase in silenzio mentre Paula, irritata da quel disfattismo, si inalberò:
« insomma, cos’è quest’arrendevolezza? Siete una squadra! Abbiate un po’ di fiducia nei vostri compagni! »
« squadra? » ridacchiò nervosamente un secondo giocatore di nome Hector « ma dove hai gli occhi Paula?! Non vedi che stiamo cadendo a pezzi? » si indignò, distendendo un braccio verso il pitturato « cos’è che ci tiene uniti? Se non fosse per il colore delle maglie, neanche si capirebbe chi gioca contro chi! »
« è quello che cerco di farvi capire da mesi ragazzi » intervenne Randy, cominciando a preoccuparsi seriamente per i moti di ribellione che si stava fomentando in panchina.
« e noi che possiamo farci? » sbottò un terzo giocatore, Gavin « tu non puoi capire cosa voglia dire essere in squadra con tre promesse del basket! » dichiarò, abbassando la voce in modo che Melanie non potesse udirlo « ci sentiamo delle nullità a loro confronto! Lanier che non esita a umiliarci con le sue dimostrazioni di superiorità, guardandoci dall’alto in basso… e forse la cosa peggiore sono gli sguardi quasi colpevoli che ci lanciano Reed e Melanie, come se si volessero scusare per essere troppo bravi. La loro modestia finisce per insultare la nostra dignità. Preferirei perdere questa partita vedendo un po’ più squadra e un po’ meno triade divina, che vincerla con la consapevolezza che il merito è legato a sole tre persone »
Nessuno osò aggiungere altro perché nelle parole del centro erano racchiusi i pensieri di tutti.
Randy irrigidì la mandibola: la situazione era più critica di quanto avesse carpito e la tensione della gara la stava facendo emergere con violenza. Doveva sedare quegli attriti interni prima che compromettessero definitivamente l’esito dello scontro, iniziativa che avrebbe dovuto intraprendere molto prima. A nulla era servito dialogare con Julius, era sordo a qualsiasi ragionamento. Doveva escogitare un modo per costringerlo a fidarsi della sua squadra e abbandonare le sue manie di protagonismo.
Negli ultimi minuti, mentre erano impegnati in quella discussione, la Atlantic si era portata in vantaggio, come riassunsero le voci dei cronisti:
« a metà del primo quarto stiamo assistendo ad un magnifico gioco da parte della Atlantic che si porta in vantaggio di 23 a 17 »
Con il trascorrere dei minuti, lentamente ma inesorabilmente, il liceo Dolce Amoris aveva guadagnato l’inerzia della partita: la palla era quasi sempre nelle mani dei giocatori maglia rossa, che si stavano quasi imponendo sugli avversari.
« ragazzi, state calmi » affermò Randy, tenendo gli occhi puntati il campo; gli era venuta una mezza idea, anche se non poteva dirsi certo che avrebbe funzionato. Era un rischio, ma andava corso per sbloccare una situazione che altrimenti sarebbe rimasta immutata e li avrebbe condannati alla rovina.
« non possiamo battere la Atlantic con lo schema classico, presto il divario di punteggio si incrementerà se non interveniamo alla svelta. L’unica soluzione è il gioco di squadra, come quello che avevate ai tempi di Boris… come quello che vi stanno dimostrando i vostri avversari » dichiarò, ammirando un bellissimo passaggio di Erin verso Liam « e visto che Julius non vuole capirlo con le parole, lasceremo che siano i fatti a parlare »
« che intendi? » domandò Neal e il coach, con un sorriso enigmatico, si accucciò ad illustrare ai ragazzi il suo piano.
Liam aveva padronanza della sfera e la ripassò ad Erin, che era in posizione. La sua avversaria, Charlotte, cercò di sbarrarle la strada, ma non ci riuscì: con la scioltezza di un’anguilla, la mora scivolò sotto il suo naso e cercò l’ala grande, Trevor. Quell’ultimo passaggio in particolare era stato particolarmente applaudito perché la 4^ C, classe a cui appartenevano i due cestiti, era al completo e pronta a sostenere i suoi compagni.
« VAI TREVOOOR! »
« FORZA ERIIN! »
« GRANDE CIIIP!! » strillò Rosalya, agitando il cartellone.
Dake e Kentin indietreggiarono con il torace, infastiditi da quell’acuto portentoso:
« ehi Rosa, datti una calmata! Sembri un ultrà » si lagnò il moro. La stilista si girò di scatto e li guardò talmente male che i due non spiccicarono alcun commento aggiuntivo.
« la palla è in mano al numero 7, Trevor Mc Connell della Atlantic High School » riportò la voce del cronista « che si sta dirigendo verso il canestro avversario. Trova Mitch Sharman sull’ala destra »
In pochi attimi i giocatori si concentrarono nell’area destra del campo: Trevor smise di palleggiare e, dovendo passare la sfera, optò per Steve; cercò di descrivere una parabola altissima, in modo che solo l’amico riuscisse ad intercettarla ma aveva sottovalutato la presenza di Reed e Lanier: i due talenti spiccarono un salto, attorniando Steve e fu Lanier ad impossessarsi della sfera; in quell’azione, il capitano urtò il corpo del compagno di squadra ma una volta a terra, non si scusò affatto, anzi lo provocò:
« come sempre Reed, la palla è mia » lo derise sprezzante.
Erin rimase spiacevolmente sorpresa da quel commento; nello sguardo del capitano avversario c’era una presunzione che finì per strappare un verso stizzito alla guardia. Non era una semplice provocazione tra due compagni, era un vero e proprio affronto tra due rivali.
Erano passati sette minuti dall’inizio del gioco ma le erano bastati per avere già un quadro completo degli avversari: erano una squadra fortissima, la più forte del torneo, ma avevano un punto debole che, specularmente, nella Atlantic, era il punto il forza: il gioco di squadra.
Anche Dajan sembrò averlo capito, poiché fissava unicamente Lanier con espressione seria. Era su di lui che si concentrava il gioco e, se isolato, i suoi compagni erano allo sbando.
« Liam! Io a te marchiamo Lanier. Con Reed se la vede Trevor »
Il biondo rimase sorpreso da quel cambio di tattica, mentre l’ala grande borbottava sarcastico:
« ma grazie Dajan, tu sì che sei un amico, mi lasci a fare da solo il grosso del lavoro »
« non avevi detto che volevi essere al centro dell’attenzione oggi? » ribadì divertito l’amico. Ormai era entrato a pieno regime nel ritmo di gara. In aggiunta, aveva capito come sfruttare a suo vantaggio l’egocentrismo di Lanier. Del resto, era stato Boris ad avvertirlo di ricorrere a quella strategia appena lo avesse ritenuto opportuno e quel momento era arrivato: Lanier era rimasto l’unico a combattere per la palla, dopo aver annientato lo spirito dei suoi compagni.
Trevor nel frattempo aveva sorriso, schioccando il collo di lato:
« da un grande potere, derivano grandi responsabilità » recitò solenne, portandosi davanti a Isiah che non potè fare a meno di ridacchiare per la buffonaggine dell’avversario. In fondo gli stava molto simpatico anche se quello non era il contesto migliore per farsi nuovi amici. Avrebbe sempre voluto avere in squadra un elemento così esuberante, ma non aveva mai potuto godere di quella fortuna.
Lanier stava puntando al canestro così Dajan e Liam, come da accordi, si precipitarono contro di lui, per disturbarne il lancio. Erin marcava Sharman, Steve si occupava di Denzel, mentre Trevor teneva Reed tutto per sé. Nessuno della Atlantic si preoccupava di Charlie, poiché ormai era chiaro: arrivato sotto canestro, Julius Lanier non avrebbe passato la palla a nessuno, tanto meno alla giocatrice che era visibilmente l’anello debole della Saint Mary.
Il capitano ghignò divertito: era inutile bloccare il resto dei suoi compagni, la palla era sua e avrebbe eseguito un’ottima tripla sotto gli occhi di Dajan e Liam. I due però non intendevano certo lasciargli segnare così facilmente: si posizionarono l’uno davanti l’altro dietro, attendendo il momento opportuno.
« passa quella cazzo di palla Lanier! » lo rimproverò Reed che era riuscito a liberarsi da Trevor, ma rimase inascoltato. Eppure si era messo in posizione perfetta per ricevere la palla, non c’era nessuna interferenza e la precisione di tiro della guardia era indiscutibilmente migliore di quella del capitano.
Julius quindi fece qualche finta, infruttuosa, palleggiando la sfera con maestria tra le gambe e appena individuò il momento propizio, la portò sopra la testa; spiccò un salto, inclinando il busto all’indietro: eseguì un perfetto tiro in sospensione ma per l’elevazione di Dajan non fu difficile interromperne il percorso.
Dalla panchina della Atlantic si levarono versi di approvazione, così come dagli spalti, mentre le maglie verdi sedute a bordo campo non rimasero affatto sorprese da quella scena.
La maglia rossa si era così impossessata della sfera, sorridendo beffarda sotto lo sguardo dell’avversario; i suoi compagni, senza che Dajan dicesse nulla, si erano già disposti secondo il loro schema classico: Erin lo seguiva da dietro, Trevor e Liam lungo le ali mentre Steve era già sotto il canestro avversario. Infatti, prima ancora che Dajan disturbasse il tiro di Lanier, Steve era partito verso l’area del canestro, convinto che il suo capitano sarebbe riuscito a rubare il pallone.
Era quello che Boris più adorava di quei ragazzi: la cieca fiducia che nutrivano gli uni per altri, unita alla capacità di prevederne le azioni come quando Dajan aveva eseguito quel magnifico alley-oop con l’assist di Erin. Il capitano sapeva che la ragazza avrebbe fatto la scelta più intelligente, lanciando la palla a canestro, per cui ne aveva anticipato le intenzioni presentandosi sotto la rete.
«l’hai notato anche tu Paula? » chiese Randy, intercettando l’occhiata pensierosa della coallenatrice, fissa sul capitano avversario. La donna annuì e, a conferma che i loro pensieri erano sincronizzati, esplicitò:
« i salti di quel ragazzo diventano sempre più alti. Credo che la sua capacità di elevazione superi quella di Julius e Isiah »
Dajan aveva passato la sfera a Trevor che l’aveva convogliata a Liam. Con un tiro laterale finì nelle mani di Steve e a quel punto concludere l’azione con una schiacciata fu inevitabile.
Dagli spalti si levarono dei cori mostruosi e, con un certo sconcerto, i cestisti del Dolce Amoris videro alcuni dei loro professori più integerrimi, esultare come degli hooligan. In particolare l’arcigna professoressa Fraun, che girava voce avesse una tresca con il loro palestrato coach, era una delle più esaltate; urlava minacce che i suoi ragazzi fortunatamente non potevano sentire della serie:
« SE NON SEGNATE SUBITO UN ALTRO CANESTRO, INTERROGAZIONE A TAPPETO QUANDO TORNATE!!! »
Per quanto fossero bizzarri i suoi moti di sprono, di certo non battevano la ridicolosità delle domande del vecchio professore di musica, Mister Timmons che, oltre ad essere molto anziano, era completamente a digiuno di basket:
« c-chi ha segnato gol? » aveva balbettato spaventato, appena il fragore della platea l’aveva destato dal suo imminente appisolarsi. Era stato trascinato quasi a forza a quella partita dalle più giovani ed entusiaste Miss Robinson e Miss Joplin, ma il povero vecchietto assisteva al gioco senza riuscire a distinguere per bene i giocatori. Ad un certo punto aveva addirittura scambiato Erin e Charlie per due ragazze pon-pon.
Nella panchina avversaria, c’era una sola persona che riusciva a trovare lo spirito per sorridere:
« così è questa la Atlantic » riflettè tra sé e sé Melanie. In lei lottavano sentimenti contrastanti: da un lato l’invidia per quella squadra così affiatata, composta innanzitutto da un capitano vero, che non perdeva di vista l’azione dei suoi compagni; Dajan era un playmaker nato e non mancava di sostenere ogni singolo elemento. L’ala grande, Trevor Mc Connell aveva continuamente un sorriso divertito stampato in faccia, che si specchiava in Isiah ogni volta che l’avversario gli diceva qualcosa. Era da tempo che non vedeva la guardia divertirsi tanto. Se non fossero stati rivali in quel momento, sembrava che a fronteggiarsi fossero due amici. C’era poi Liam Farrell, l’ala piccola che era concentrato al massimo, scattante come un ghepardo appena la palla sfuggiva al controllo della sua squadra. Sotto canestro si ergeva la figura altissima di quel gigante buono che era Stephen Grint; si capiva che era un bravo ragazzo, dallo sguardo dolce e dalle premure che aveva riservato ad Erin sin da quando era entrata sul campo. Infine c’era proprio lei, Erin Travis.
Era per la presenza di quella ragazza che Melanie non riusciva a farsi dominare dall’invidia per una squadra così diversa dalla sua. Così simile alla squadra che aveva sempre desiderato.
Vedere Erin sul campo accendeva la sua voglia di misurarsi con lei e con se stessa, sperimentare un gioco nuovo, più dinamico e imprevedibile. L’avversaria aveva sicuramente uno stile più immaturo del suo e, forse proprio per questo, più istintivo. Aveva lanciato una palla a canestro senza avere la certezza di centrarlo, ma sapendo che nel bene o nel male, la sua squadra l’avrebbe sostenuta. Charlie invece giocava con la costante tensione che le provocavano i modi bruschi di Julius, che la rimproverava continuamente per ogni singola distrazione o errore.
Melanie ne era convinta: Erin era un capitano nato. Era lei il vero perno della squadra, quella che riusciva a motivare tutti, più di quanto non riuscisse a fare Dajan. Vederla correre sul pitturato, con quell’espressione determinata incrollabile, era un’iniezione gioia e divertimento, che stimolava in chiunque la voglia di prendere la palla e sbatterla ritmicamente contro il pavimento.
Ormai Melanie non aveva più dubbi: era chiaro ciò che intendeva Boris quando le aveva chiesto di parlare alla sua cestista; Erin Travis era la proiezione di se stessa, quando il basket era un gioco, prima che uno sport e conoscendola, la cestista aveva riscoperto sentimenti che pensava fossero ormai sopiti.
Rivedere quell’entusiasmo, toccarlo quasi con mano tanto era concreto, cominciò a farla tremare d’impazienza:
« quando intendi farmi giocare Randy? » domandò tamburellando le dita contro il braccio e tenendo lo sguardo fisso sul campo.
Il suo coach, Paula e il resto della squadra si voltarono sorpresi.
Durante una partita, la playmaker non fiatava mai, si chiudeva nel suo mondo, talvolta persino ascoltando musica. Il che era facilmente comprensibile, non solo per la sua natura silenziosa ma anche perché non aveva bisogno di preoccuparsi per le sorti della squadra; il contributo di Julius e Isiah era sempre sufficiente a portarli alla vittoria.
Quel giorno però Melanie aveva deciso di abbattere il suo muro, dare un segnale di vita e soprattutto, dichiarare la sua voglia di giocare:
« al secondo quarto » le promise l’uomo, stupendo tutti.
« e perché non subito? » domandò Paula sconvolta « siamo sotto di 30 a 19 Randy! Cosa aspetti a metterla sul campo? Julius non sta più segnando da quando viene marcato!»
L’uomo fece spallucce, sorridendo divertito mentre i suoi ragazzi lo fissarono basiti:
« coach… » boccheggiò Neal confuso.
« fidatevi di me ragazzi. Lasciamo che la Atlantic si prenda il suo vantaggio e poi giocheremo come vi ho detto prima »
Nel frattempo la partita era proseguita e mancavano dieci secondi alla fine del primo quarto, durante i quali le maglie verdi tentarono un’azione che venne però stoppata da Steve, acclamata dalle urla del pubblico.
L’arbitro fischiò la fine dei primi dieci minuti di gioco, assestando un punteggio di 33 a 19 a favore della squadra di Morristown.
I cestisti poterono così ritornare al campo base, dove ad attenderli c’erano i loro amici e compagni:
« ottimo lavoro ragazzi! » li accolse Boris, battendo le mani più volte, mentre i ragazzi in panchina si affrettavano ad allungare asciugamani per tamponarsi il sudore e bottigliette d’acqua « adesso per il secondo quarto vi voglio più offensivi. Kim entri al posto di Erin, Wes al posto di Steve »
Nascondere la delusione per quella sostituzione fu molto difficile per la tweener, ma era la decisione del coach e alla fine, ciò che contava davvero quel giorno, era vincere; battè una mano sulla spalla dell’amica e commentò:
« falli neri Kim »
L’ex velocista le sorrise e, inconsciamente, cercò incerta lo sguardo di Dajan. Non si erano ancora parlati quella mattina, ma si erano limitati a scambiarsi sguardi sfuggenti ed imbarazzanti, Dajan nel timore che Kim l’avesse visto la sera precedente e la ragazza nel disagio di sapere che era proprio così.
Lo vide irrigidirsi per un istante ma ricevette un pizzicotto talmente forte da Trevor che protestò:
« ehi! Che cazzo ti prende? »
« le questioni personali stanno fuori dal campo » completò per lui Erin, guardando con gravità prima il capitano poi la ragazza.
« ovvio » commentò il moro, massaggiandosi il braccio indolenzito.
Mentre Boris definiva gli ultimi dettagli della loro strategia, Randy aveva accerchiato i suoi cestisti:
« Julius » lo chiamò « smettila di fare l’orgoglioso. Hai visto prima? Hai perso un tiro che poteva essere un canestro se avessi passato la palla a Charlie! »
Oltre al mancato passaggio a Reed infatti, durante la partita c’erano state un altro paio di occasioni in cui il capitano aveva preferito azzardare dei tiri a canestro piuttosto che lanciare la sfera all’unica giocatrice disponibile a riceverla:
« tzè » commentò cinico il ragazzo « figuriamoci! Se anche l’avessi passata, gliel’avrebbero rubata in un secondo »
Charlotte abbassò lo sguardo mortificata, mentre Neal interveniva:
« sei un coglione Lanier! Abbassa la cresta! » ringhiò, scattando in piedi e portando i loro visi a distanza ravvicinata. Lo fissava dritto negli occhi, iniettati di sangue e disprezzo. Se non si fossero trovati in quel luogo pubblico, sotto gli occhi scrupolosi di migliaia di spettatori, gli avrebbe volentieri assestato un pugno:
« io almeno posso alzarla la cresta, ex capitano » lo sfottè borioso, dondolando il capo e accorciando ancora di più la distanza tra di loro, facendo vacillare l’autocontrollo del compagno.
« allora entro io? » tagliò corto Melanie, infastidita e intenzionata ad interrompere quello scambio di battute.
« sì, se vogliamo batterli è l’unica soluzione » replicò Paula.
Si pentì all’istante di quella frase infelice ma vera: così dicendo, aveva demotivato ulteriormente il resto della squadra e la playmaker sentì una stretta al cuore. Gettò l’occhio alla sua destra, vedendo nella panchina avversaria sorrisi e pacche sulle spalle, che nella sua erano scomparsi da più di un anno.  
« non è l’unica soluzione Randy » intervenne un timbro maschile, che portò tutti a concentrare l’attenzione su Isiah. Anche Melanie lo fissò con curiosità e, soprattutto, con speranza:
« non hai visto come mi marca stretto quel Mc Connell? Riesco anche a smarcarmi, ma poi mi rubano la palla che mi sento quasi un idiota » ammise, anche se in realtà nessuno dei presenti condivideva quell’osservazione. Era palese l’impacciato tentativo della guardia di risollevare l’autostima dei compagni, ma nonostante le buone intenzioni, non sortì l’effetto sperato. Tuttavia Isiah proseguì imperterrito « e se vogliamo dirla tutta, anche tu Julius sei diventato inutile ora che hai addirittura due giocatori a sbarrarti la strada » aggiunse con un sorrisetto canzonatorio. Diversamente dalla prima, quell’ultima osservazione era più che pertinente. Mentre solo in un paio di occasioni, Trevor era riuscito a beffare Reed, da quando Dajan e Liam avevano cominciato a marcare Lanier, il capitano non era più riuscito a sfiorare la sfera.
Dopo aver udito quella constatazione, il numero uno serrò la mascella: detestava ammetterlo, ma Isiah aveva ragione, verso la fine del quarto per lui era diventato impossibile muoversi liberamente e ricevere il pallone.
« allora Isiah tu rimani in panchina ed entra Neal al posto tuo » stabilì Randy, mentre tra il gruppo di ragazzi si levavano dei cori di disapprovazione, primo tra tutti, quello di Lanier:
« che cosa? » protestò il capitano « così ci condanni alla sconfitta! Da che parte stai Randy? »
« Julius! » lo sgridò Paula « alla prossima protesta te ne stai in panchina fino alla fine del torneo, chiaro? »
Lanier sbuffò contrariato, allontanandosi dalla panchina mentre il resto della squadra fissava attonito il loro allenatore. La sua strategia era insensata, non era Isiah il giocatore da sostituire così Randy approfittò dell’assenza momentanea del capitano, per aggiornare la squadra sulla loro strategia.
Era un azzardo, ma era anche l’unica mossa per cambiare le carte in tavola.
 
Il secondo quarto stava iniziando e le due squadre cominciarono a spostarsi verso il centro del campo.
« Kim! » si sentì chiamare la ragazza. Si voltò verso quel ragazzo a cui non era ancora riuscita a parlare direttamente; Dajan dietro di lei, le sorrideva conciliante, segno che l’ascia di guerra era sotterrata; quella partita era troppo importante per lasciarsi condizionare dai loro attriti, inoltre era passata quasi una settimana e il tempo per il rancore doveva cessare. Qualsiasi cosa le volesse dire in quel momento, lei avrebbe accolto quelle parole con gioia, solo perché a pronunciarle era stato lui:
« non vedevo l’ora di giocare questa partita con te » farfugliò in leggero imbarazzo, grattandosi la nuca mentre Kim si scioglieva come un ghiacciolo in un caldo pomeriggio estivo. La discussione che si era accesa tra di loro una settimana prima era improvvisamente svanita, lasciandosi alle spalle borse di studio e college lontani. La voglia di vincere quella partita, la consapevolezza che in nome di quella vittoria tutto il resto era secondario, li aveva spinti spontaneamente verso una non dichiarata riconciliazione.
Il sorriso radioso del ragazzo le era mancato da morire, così, con il cuore che le martellava in petto, gli sussurrò imbarazzata ma guardandolo dritto negli occhi:
« stavo pensando la stessa cosa, capitano »
Da dietro, a interrompere quel quadretto romantico, arrivò la presenza chiassosa di Trevor che portò un braccio dietro il collo dell’amico e l’altro dietro quello della ragazza:
« così vi voglio! » urlò allegro.
« che schifo Trev! Sei tutto sudato » si lagnò l’amica sottraendosi a quella stretta ascellare.
Erin passò lo sguardo da quel mitico trio di amici verso la ragazza che, come stavano annunciando i cronisti, avrebbe fatto il suo ingresso in scena:
« tra le file della Saint Mary ecco che vediamo scendere in campo una delle promesse della WNBA: Melanie Green al posto di Charlotte O’ Connor »
Ironico che, proprio quando la cestista era stata schierata dalla sua squadra, per Erin fosse arrivato il momento di farsi da parte. Tuttavia era solo questione di tempo: prima della fine della partita l’avrebbe affrontata di persona, Boris gliel’aveva promesso, quindi doveva solo pazientare.
Per la seconda volta, per l’arbitro arrivò il momento di fischiare l’inizio dello scontro e a fronteggiarsi c’erano nuovamente i due capitani. Dajan notò nel suo avversario un’espressione diversa da quella adottata in precedenza. C’era qualcosa che lo turbava, dal modo in cui teneva le palpebre abbassate, come assorto nei suoi pensieri. Non osò provocarlo, approfittando di quella situazione. Infatti, non appena l’arbitro lanciò la palla in aria, fu il capitano della Atlantic a vincere lo scontro aereo:
« VAI COSÌ DAJANNN!! » urlò Rosalya, che in vita sua non aveva mai parlato con il cestista.
La palla conquistata dal capitano arrivò a Liam che sfrecciò lontano. Sharman gli si frappose ma il giocatore fu più agile e riuscì a passare la sfera a Wes. La guardia era troppo lontana dal canestro per poter tentare una tripla, che si sarebbe rivelata necessaria visto che Lanier e Neal stavano accorrendo nella sua direzione; vide Kim sbracciarsi alla sua destra e, senza pensarci un secondo di più, lanciò la palla a lei. Con quell’oggetto tra le mani, l’aspirante promessa dell’università della North Carolina riuscì a scartare facilmente Sharman, che a causa del fisico, era molto meno agile di lei. Stava cercando qualcuno a cui effettuare il passaggio quando sentì la palla venirle meno: si voltò di scatto e si accorse della presenza, fino a quel momento invisibile, di Melanie. L’avversaria si era mossa con la circospezione di un furetto, portandosi alle sue spalle, lasciandola a bocca asciutta. Boris aveva avvertito la sua giocatrice: rubare la palla era la specialità di Melanie, unita ad un’incredibile talento come playmaker; la biondina riusciva a strappare palloni con una destrezza furtiva e aveva sempre un quadro completo della situazione sul campo, riuscendo a decidere rapidamente a chi indirizzare la sfera appena conquistata. Infatti quest’ultima era già nelle mani di Neal che era partito per il canestro. Lanier era braccato da Dajan e Wes e pertanto, continuava a soffiare frustrato:
« che strategia del cazzo » sibilò furente « il vostro è un gioco di merda: passare tutto il tempo a farmi da baby sitter »
I due però non si scomposero e non gli lasciarono alcuna apertura. Dajan continuava a controllare il gioco nell’altra metà campo dove il resto della sua squadra era partito all’inseguimento di Neal. La guardia avversaria aveva ripassato la palla a Melanie che a sua volta l’aveva convogliata a Denzel. Il ragazzo si guardava intorno indeciso su quale passaggio effettuare, perdendo secondi preziosi.
Lanier sbuffò frustrato: senza di lui la squadra era persa e quindi, nonostante quello che aveva appena detto ai suoi avversari, considerava intelligente la loro strategia. Isolandolo, la Saint Mary aveva visto diminuire notevolmente la potenza offensiva, già compromessa dall’uscita di scena del loro miglior clutch shooter, Reed.
Anche se per bloccare Lanier, l’Atlantic teneva impegnati due dei suoi giocatori, di cui uno era addirittura il migliore, gli altri tre riuscivano a tenere testa al resto della squadra. Quella Phoenix, che era subentrata a Travis, anche se era meno portata per il controllo palla, era molto più veloce ed agile.
La partita aveva preso dei binari che Lanier non aveva mai accettato ossia affidare interamente il gioco al resto della squadra. Fissava impotente i passaggi di palla, i tiri mancati e fremeva dalla voglia di trovarsi sotto canestro, toccare quel ferro con una delle sue invincibili schiacciate per far aumentare quell’umiliante 19 che stabiliva il loro punteggio.
« Green passa la palla a Sharman, ma viene deviata da Mc Connell che parte in contropiede! »
La sfera era finita nelle mani di Trevor che, con il supporto della sua squadra alle spalle, stava puntando al canestro.
Dagli spalti, la sua ragazza Brigitte, assisteva all’azione senza battere ciglio. Il suo ragazzo era spettacolare e i commenti estasiati delle due amiche che l’avevano accompagnata, ne erano una conferma.
Poiché non poteva avanzare, a causa della barriera creata da Dajan e Wes, Lanier si voltò e puntò anch’egli al proprio canestro: doveva impedire alla Atlantic di segnare, arrivare sotto rete prima che lo facesse Trevor. Ignorò che anche Neal e Melanie erano pronti a spalleggiarlo; gli sarebbe bastato stoppare il tiro dell’avversario e avrebbe così recuperato la palla.
La maglia rossa però aveva già intuito le intenzioni del capitano avversario e prima che quest’ultimo potesse raggiungerlo aveva già passato la palla a Dajan che non doveva più occuparsi di marcare il nemico. Il ragazzo, con agilità pazzesca dei piedi, riuscì a superare facilmente Melanie, dribblandola.
Quell’azione caricò la folla degli studenti del Dolce Amoris e per la prima volta anche i cestisti di quella scuola si accorsero di un dettaglio che solo le menti più attente come quella di Ambra e Lysandre avevano considerato: il tifo per gli avversari era quasi inesistente. Dalla parte opposta rispetto all’anello di spettatori che tifavano per la scuola di Morristown, non si levava quasi nessun esortazione. Solo Boris poteva facilmente immaginare cosa ne giustificasse quella passività: prima di abbandonare il Saint Mary, aveva notato che gli studenti di quell’istituto prendevano sempre meno parte alle manifestazioni sportive di basket, perché irritati dal gioco della loro squadra. Non c’era gusto ad assistere a partite in cui l’esito era scontato e le azioni erano sempre a carico degli stessi tre giocatori. Addirittura Boris, appena aveva messo piede nell’arena, si era sorpreso che così tanti ragazzi fossero accorsi a riempire gli spalti avversari, ma poi considerò che, il preside Wilson aveva probabilmente dichiarato obbligatoria la partecipazione all’evento.
Il fatto che quasi tutta la studentesca del Saint Mary fosse forzatamente presente però non la vincolava ad esprimersi a favore dei colleghi sul campo.
« certo che potrebbero anche incitare un po’ i loro compagni » borbottò Kentin, incrociando le braccia al petto « sembra che non gliene freghi niente. Mi chiedo allora perché siano venuti ad assistere alla partita »
« se è per questo nemmeno tu ti stai impegnando granché con il tifo! » lo bacchettò Rosalya.
« eh? Ma che vuoi? Mi sto godendo la partita, piuttosto che sbraitare come un’oca »
« Rosa calmati! » ridacchiò Iris, trattenendo l’amica che era scattata in piedi.
« questo qui è la reincarnazione di Castiel » lo additò, rivolgendosi alla rossa « stesso modo di provocare! »
« Castiel! Esci da questo corpo! » scherzò Armin, congiungendo le dita a formare una croce e girandosi verso il moro.
« idiota » borbottarono in coro Rosalya e Kentin, mentre Ambra sogghignava. Non ricordava di essersi mai divertita tanto in vita sua come quel giorno. Tornò a guardare il campo, dove vide Dajan passare il pallone nella mani di Wes.
Il ragazzo mirò al canestro, ma per sua sfortuna, prese il tabellone ligneo, così la sfera rimbalzò nella direzione sbagliata. La palla era altissima, e nessun giocatore era alla giusta distanza per intercettarla in tempi brevi. Lanier stava per saltare quando vide una figura coprire la sua visione aerea: Neal aveva spiccato un salto dalla lunga distanza e, tendendo il bicipite al massimo, era riuscito a prendere la palla al rimbalzo.
Il suo capitano rimase impressionato da quella manifestazione di abilità fisica tanto che per un attimo si immobilizzò. Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva visto un’azione così convincente da parte dell’ex capitano. Anche tra gli spettatori si levarono delle esclamazioni stupite: una reazione.
Il primo segnale di vita e di stupore in una partita che forse, cominciava a farsi interessante anche tra le file del Saint Mary.
I piedi della guardia avevano ritoccato il suolo e doveva trovare qualcuno a cui passare la sua conquista: c’erano solo due opzioni, o puntare a Sharman oppure al capitano. Istintivamente Julius si protese in avanti pronto a ricevere quella sfera che sicuramente gli sarebbe arrivata: era in posizione migliore rispetto a Mitch, oltre che essere indubbiamente più affidabile.
Tuttavia, nonostante la sua sicurezza matematica, l’azione non si svolse come aveva preventivato; dopo avergli lanciato un’occhiata fugace e apatica, Neal aveva cercato il contatto visivo con Mitch. Era a lui che era andata quella tanto agognata palla.
Si svolse tutto in un attimo, eppure Julius visse quella scena a rallentatore: lui, che sin dalle scuole medie, era sempre il primo a ricevere la sfera, quello che veniva scelto per primo per fare le squadre, era diventato l’opzione da scartare. Lo sguardo insofferente che gli aveva rivolto di Neal gli bruciava sulla pelle come un marchio rovente.
Randy aveva assistito così all’inaugurazione del suo piano, osservando in Julius la reazione che si aspettava.
Sharman partì in contropiede, mentre tutti gli altri giocatori si spostavano:
« Wes, rimani tu qui! » gli ordinò Dajan, indicando Lanier.
Quello fu un colpo durissimo da incassare per l’avversario. Anche il capitano della Atlantic aveva realizzato che non era necessario marcarlo stretto. Non era più una minaccia perché i suoi compagni di squadra l’avevano ostracizzato.
Il comportamento di Neal, era bastato a convincere Dajan che gli attriti interni erano sfociati.
« non preoccupatevi troppo per Lanier » aveva detto loro Boris prima del secondo quarto « non mi stupirebbe se ad un certo punto smettessero di passargli la palla. I suoi compagni non lo sopportano, oggi più che mai visto che è più arrogante del solito »
Dajan non intendeva indugiare un minuto di più appresso a quel talento solitario: se Boris aveva visto giusto, almeno per un po’, Lanier sarebbe rimasto fuori dal gioco e lui doveva approfittarne per incrementare ulteriormente il loro vantaggio.
« Dajan sta facendo una partita spettacolare » commentò Faraize con orgoglio. Dei 33 punti realizzati fino a quel momento, più della metà erano opera del playmaker. Anche Boris era estremamente fiero del ragazzo, ma non poteva fare a meno di fissare l’altro capitano, quello con la maglia verde.
Gli occhi del coach erano quindi puntati su quel ragazzone di un metro e novantadue piazzato vicino alla linea di fondo campo. Era inerme, con Wes davanti che non sapeva bene come comportarsi: Lanier non provava nemmeno a liberarsi di lui, restava lì, impalato mentre tutto il resto dei giocatori era impegnato nella metà opposta dell’area di gioco.
Non era un mistero che la sua squadra non lo sopportasse ma dall’alto della sua presunzione, Julius credeva che quegli atteggiamenti fossero dettati unicamente dall’invidia per il suo talento. Era per questo che, se doveva interagire con qualcuno, lo faceva solo con Reed e Green, a suo avviso gli unici giocatori che meritassero la sua considerazione.
La bontà di Boris impedì all’uomo di gioire per quella scena: voleva la vittoria della sua squadra, ma non a quel prezzo; Julius non doveva perdere il suo smalto, doveva solo imparare ad essere più collaborativo e meno presuntuoso. I loro sguardi si incrociarono ed istintivamente Boris gli fece cenno di riunirsi al resto della Saint Mary. In quell’attimo era come se fossero tornati dalla stessa parte e Julius scoprì in quei pochi secondi che in fondo, quell’allenatore gli mancava molto.
Si liberò facilmente da Wes e raggiunse i compagni.
Trovò che la sfera era palleggiata da Denzel e nessun altro giocatore maglia verde era disponibile a ricevere il tiro. Puntò allora lo sguardo sul membro più sfuggente della squadra, Melanie che, dribblando Kim, riuscì ad accogliere il passaggio quando questo arrivò. A quel punto Denzel si avvicinò al canestro, ma Trevor anticipò le sue intenzioni.
« Mel! Qui! » la incitò Lanier precipitandosi sotto la rete circolare.
Eppure, non fu a lui che arrivò il tiro della playmaker: la compagna lo ignorò completamente, come se fosse invisibile e cercò Neal, dietro al capitano. Fece per lanciargli la palla, cosicché Dajan e Kim si frapposero nella sua linea di passaggio ma lei, con un sorriso beffardo, all’ultimo corresse la posizione e lanciò la palla a canestro, centrandolo in pieno.
« GRANDE! » urlò Isiah dalla panchina.
Julius era rimasto senza parole.
Stordito e confuso.
Non riusciva ad inviperirsi, tanto era sconvolto. Lui era in posizione perfetta, avrebbe messo a punto una tripla formidabile e invece la playmaker l’aveva deliberatamente ignorato:
« perché non me l’hai passata? » quasi le sussurrò, incredulo:
« e tu perché non la passi mai? » replicò lei asciutta, spostandosi con il resto della squadra, per contrastare l’azione dell’Atlantic che aveva il possesso palla.
Lo abbandonarono lì, sotto il canestro avversario, senza prestargli ulteriori attenzioni.
Lanier avrebbe voluto urlarle che lui era una garanzia, che una volta in mano sua, la palla finiva irrimediabilmente a canestro, ma non era vero, ne aveva avuto la dimostrazione nel primo quarto.
Sentì un brivido percorrergli la schiena, come scaturito dall’irrazionale consapevolezza di essere osservato: voltandosi, vide Boris, il suo ex allenatore, fissarlo ancora una volta a braccia conserte da fondo campo.
Lo sguardo severo e al contempo paziente sembrava dirgli:
« te l’avevo detto Jules »
Era l’unico a chiamarlo così e Lanier aveva sempre fatto finta che quel nomignolo lo infastidisse. Gli tornò alla mente allora il discorso che gli fece l’uomo un anno prima, nell’intervallo tra il secondo e il terzo quarto di una partita molto simile a quella che stavano disputando in quel momento:
 
Erano rimasti loro due nello spogliatoio, dopo che il coach aveva invitato il resto della squadra a lasciarli soli.
« c’è una cosa che non riesco a capire Julius: perché giochi a basket? Questo sport non fa per te »
Quell’osservazione aveva spiazzato il pivot, tanto che in un primo momento non era riuscito a replicare. Lui, che era sempre stato lodato come un talento della pallacanestro, sentirsi rivolgere quella critica, era qualcosa che prima che irritarlo lo destabilizzava. Non capiva e, come spesso accadeva, la sua incomprensione alla fine si trasformò in rabbia:
« COME SAREBBE A DIRE NON FA PER ME? SONO UN ASSO! SENZA DI ME LA SQUADRA NON SAREBBE QUELLO CHE È! »
Boris non batté ciglio e si avvicinò alla porta. Ormai il tempo stava per scadere e dovevano tornare sul campo. Prima di abbandonare la stanza, si girò verso il moro e dichiarò gravemente:
« senza di te, la squadra sarebbe una vera squadra »
 
I minuti passavano e il vantaggio della Atlantic cresceva: 22 a 40
« non si capisce cosa stia succedendo al capitano della Saint Mary » osservò basito uno dei due cronisti.
« hai ragione David. Lanier è rimasto immobile sotto il canestro avversario, mentre l’azione si svolge dalla parte opposta del campo. Che sia una strategia? »
La verità era che non riusciva a portarsi nell’altra metà campo dove la Atlantic stava compiendo delle azioni spettacolari. Era come se le sue gambe pesassero improvvisamente quintali. Vedeva Dajan maneggiare la palla con una destrezza al punto che era difficile seguirne la traiettoria. Persino Melanie non riusciva a sottrargli la sfera. Appena sembrava che fosse riuscita a metterlo alle strette, il ragazzo progettava passaggi dietro la schiena, che sorprendevano la playmaker.
Era sorprendente come quel ragazzo sconosciuto, mai sentito nominare prima, fosse sbocciato così tanto durante il torneo. Aveva passato la palla a Wes che aveva preso la mira, compiendo un’ottima tripla.
22 a 42.
Il tifo era esploso, mentre la Atlantic si complimentava con la sua guardia tiratrice. Neal aveva preso la palla ma la ragazza avversaria ci aveva messo pochi secondi per rubargliela. Quelle maglie rosse non lasciavano un secondo di tregua alla Saint Mary:
« JULIUS! » sbraitò Paula da bordo campo, ma il ragazzo sembrava sordo ad ogni richiamo.
Era come stregato.
Guardava con disincanto i giocatori che si muovevano a qualche metro di distanza, come se lui non avesse alcun diritto a partecipare all’azione.
« senza di te la squadra sarebbe una vera squadra » gli aveva detto Boris mesi prima.
Vide Melanie strappare la palla a Kim e passarla a Sharman che a sua volta l’aveva fatta volare a Denzel. Quest’ultimo aveva dribblato Trevor ed era riuscito ad avanzare verso la metà campo. Era stata una sequenza rapidissima di passaggi di cui da troppo tempo non era testimone.
Boris aveva ragione: senza di lui, erano una squadra.
Quando lui era stato annichilito, contrariamente alle aspettative, la Saint Mary aveva cominciato a reagire: non era quella realtà indolente e amorfa che immaginava. C’era interazione tra i suoi componenti, una rete di scambi a cui lui non aveva diritto di partecipare.
La palla volò fuori dal campo, mentre Kim tentava di impossessarsene ma, prima della rimessa in gioco, si sentì tuonare un:
« TIME OUT! »
Contro ogni previsione, era stato l’allenatore della Atlantic HS a chiedere l’interruzione della partita.
Sorpresi, i suoi giocatori si avvicinarono alla panchina, guardando con curiosità il loro coach.
Gli avversari ne approfittarono per raggiungere la propria ed abbeverarsi. Julius fu l’ultimo ad aggregarsi al gruppo e non spiccicò mezza parola.
« che c’è Bors? Stavamo giocando alla grande » protestò Kim.
« tu signorina vedi di controllarti un po’! Quest’ultima palla l’hai proprio buttata via! » la rimproverò « e poi ti fai rubare troppo facilmente la palla da Melanie. Quella è furba, devi tenerla più d’occhio. Quanto a te Dajan, torna a marcare tu Lanier, mentre Wes occupati solo di segnare »
« ma non hai visto? » protestò il capitano « nemmeno la sua squadra lo caga! Che senso ha marcare un giocatore che non riceve la palla dai suoi compagni? »
« fa’ quello che ti ho detto » tagliò corto l’allenatore « ora non c’è molto tempo per le spiegazioni » commentò guardando nervosamente il tabellone. Erano trascorsi cinque minuti dall’inizio del quarto e ne mancavano altri cinque.
« fa’ come ti ho detto e ne parliamo dopo all’intervallo » ripetè convinto. Il capitano annuì, mentre Kim rincarnava la dose:
« c’è poco da fare Dajan, quello è il tuo uomo »
« tu allora cerca di tenere d’occhio la tua donna » scherzò l’amico.
Erin sorrise sollevata, vedendo i due andare d’accordo: Kim gliel’aveva promesso, durante la partita i loro screzi sarebbero stati accantonati per il bene della squadra e così era stato. Durante tutto il quarto, la tweener non aveva risparmiato la sua gola dall’urlare incitamenti e consigli, sommando la sua voce alle migliaia provenienti dagli spalti.
Nella panchina avversaria, nel frattempo, Randy dava le ultime disposizioni. Non aveva accennato minimamente all’ostracismo a cui era stato sottoposto Julius. Si era limitato a fare finta di nulla e rimetterlo in campo, come se nulla fosse; mentre i giocatori tornavano sul pitturato, Paula commentò:
« speriamo che questa cosa non ci si ritorca contro »
« diamogli un po’ di fiducia » le sorrise l’uomo. Seppur palesasse una certa sicurezza, dentro di sé Randy era tirato come una corda di violino. Sentiva molto la responsabilità per l’esito di quello scontro e non poteva permettersi assolutamente di perdere. Ne andava della fama dell’istituto.
Aveva chiesto lui ai suoi ragazzi di isolare il capitano, di fargli capire le reali conseguenze del suo comportamento individualista. Sperava che il divario di punteggio, il vantaggio guadagnato dagli avversari, si traducesse in Julius nell’urgenza di cambiare sé stesso; perché se c’era una cosa che Lanier faticava ad accettare più del gioco di squadra, era sicuramente la sconfitta.
Ora Randy doveva solo sperare che nel ragazzo si innescasse la molla giusta, quello che l’avrebbe portato ad ammettere i suoi errori e cercare di rimediare ad essi.
Dajan si posizionò davanti a Julius e lo guardò dritto negli occhi; la sua espressione era ancora più pensierosa e combattuta rispetto a quando avevano iniziato il quarto.
Da un lato si sentiva sollevato, poiché sapeva che in quello stato il ragazzo non gli avrebbe dato filo da torcere, ma dall’altro quell’apatia lo annoiava; aveva bisogno di fronteggiare un degno avversario per portare al massimo il suo livello agonistico. Non era stimolante misurarsi contro un’ombra, visto che quello che aveva davanti era solo una proiezione sbiadita del talento che si accompagnava al nome di Julius Lanier.
Melanie rimise la palla in gioco, che finì tra le mani di Denzel. I giocatori della Atlantic ci misero poco a fargli una barriera e conquistare l’azione.
« perché Lanier non fa nulla? » chiese Erin dalla panchina, mentre la sua squadra, poco dopo, segnava un altro splendido canestro.
« perché è in panne » commentò Boris « ha sempre pensato di essere lui quello che poteva isolarsi dalla squadra ma ora è la squadra che ha isolato lui… e questo cambio di prospettiva fa male, perché subentra quell’orribile sensazione di essere rifiutati dagli altri»
« ma che senso ha tagliarlo fuori? » insistette Erin.
Boris però non le rispose e cominciò a urlare istruzioni ai suoi ragazzi.
Passarono altri quattro minuti nei quali la Saint Mary non riuscì a fare alcun canestro e nell’arco dei quali, le mani di Lanier non toccarono mai la palla.
Finalmente però, a venti secondi dalla fine del secondo quarto, la palla sfuggì al controllo dei giocatori, puntando in direzione del ragazzo. Gli sembrava passata un’eternità da quando le sue dita erano entrate in contatto con quel cuoio butterato. Alzò il mento, vedendola arrivare dall’alto e allungò istintivamente il braccio per afferrarla.
Quel tocco gli diede una carica che sembrava dimenticata dal suo corpo. Come se una scarica elettrica fosse scaturita da quel semplice oggetto, Julius avvertì che la sua energia veniva risvegliata; partì come un razzo verso il canestro avversario, cogliendo di sorpresa Dajan.
Era stato tutto troppo improvviso, l’accelerata da zero a mille aveva impedito al numero cinque di accorgersi che era scattata una molla nell’avversario, quella stessa che il suo allenatore aspettava con ansia. Le squadre raggiunsero i rispettivi capitani, anche se la Saint Mary lo fece con la rassegnata consapevolezza di non essere di alcun aiuto: il loro capitano era già sulla linea di tiro, in prossimità del canestro e non si era voltato mezzo secondo per controllare a chi passare la palla.
Il piano di Randy era fallito e Lanier era rimasto lo stesso di sempre. Poteva optare per una delle sue famose schiacciate e sarebbero riusciti a chiudere il quarto con un 24 a 35, tamponando il vantaggio degli avversari.
Neal si era portato alla destra del canestro e sollevò lo sguardo mentre il suo capitano spiccava un salto, tenendo la palla salda sulla sua mano sinistra, poiché era mancino.
Anche Dajan e Steve, con una tempistica leggermente in ritardo, spiccarono verso l’alto, per contrastare il tiro. Lanier li vide elevarsi accanto a lui: la palla sarebbe entrata con una probabilità molto alta, il margine di possibilità che gli avversari riuscissero a impedirglielo era minimo ma non trascurabile. Eppure, c’era un modo per annullarlo completamente e portare la percentuale di successo al cento per cento.
Avrebbe dovuto fare qualcosa che nessuno si aspettava da lui, ma al contempo, qualcosa che tutti erano in attesa che facesse: così, sotto gli occhi attoniti dei presenti, Julius Lanier deviò il tiro dal canestro verso il suo compagno di squadra, Neal Heyman.
« Neal tua! » gli urlò, chiamandolo per nome per la prima volta da quando si erano conosciuti.
La guardia accolse quel pallone tra le mani come se avesse appena ricevuto la materializzazione dello Spirito Santo. Sgranò gli occhi mentre il salto dei tre giocatori era in fase discendente.
Non c’era tempo da perdere per lo shock: rapidamente, presa la mira e da ottima guardia qual era, segnò una meravigliosa tripla.
Negli spalti della Saint Mary gli studenti erano basiti quanto i giocatori sul campo. Dopo un paio di minuti però esplosero in una serie di urla entusiastiche.
Quell’azione era stata imprevedibile e, proprio per questo, sensazionale.
L’arbitro fischiò la fine del secondo quarto, mentre Neal ancora guardava incredulo il suo capitano.
Gli aveva regalato un’azione splendida, rinunciando per una volta alla possibilità di segnare di persona.
Lanier si era allontanato dal campo senza fiatare, mentre la squadra lo fissava perplessa, con il sottofondo dei mormorii del pubblico.
« allora? » sbottò burbero, girandosi di scatto « vi date una mossa? » li rimproverò.
Era leggermente in imbarazzo, perché coglieva perfettamente il motivo del loro stupore e smarrimento. Melanie ridacchiò mentre Isiah, alzandosi dalla panchina, gli andò incontro e gli diede una portentosa pacca sulla spalla:
« e bravo il nostro capitano! Ogni tanto ci riservi anche tu qualche sorpresina »
« chiudi quella boccaccia Reed » farfugliò Julius, nascondendo il viso dietro un asciugamano.
Anche il resto dei cestiti rimasti in panchina era spiazzata. Per loro, che avevano passato anni a sopportare l’arroganza e l’egocentrismo di Lanier, quella scena era stata epica. Forse era presto per illudersi che qualcosa fosse cambiato nel ragazzo, ma quel piccolo segnale incoraggiava la speranza.
« ottimo lavoro ragazzi! » si complimentò Boris, applaudendo i suoi giocatori; non era tanto il fatto di aver concluso anche il secondo quarto in vantaggio, quanto la gioia che era nata in lui per il gesto di Julius. Si voltò a guardarlo e, seminascosto dall’asciugamano che aveva calato sulla sommità del capo, lo vide lanciargli un fugace sorriso d’intesa.
Ne era sicuro. Finalmente aveva capito.
 
« da questo momento in poi ragazzi, inizia la vera partita » dichiarò Boris una volta che la squadra fu tutta riunita nello spogliatoio.
I ragazzi si erano disposti lungo le due pareti della stanza e ascoltavano in silenzio le indicazioni dell’uomo.
« dimenticate la Saint Mary che avete visto finora! Quella che giocherà da adesso in poi sarà la vera squadra e non sto parlando di triade divina: anche gli altri giocatori come Neal Heyman tireranno fuori la grinta, ne sono convinto. State quindi attentissimi ai passaggi, ne faranno un sacco e, conoscendo Melanie, saranno difficilissimi da intercettare… è per questo che Erin » le disse, guardando la ragazza « entrerai al posto di Kim, ti ho allenata apposta per questo »
La mora cominciò a fremere, investita da una gioia incontenibile.
 
“ti ho fatta diventare una sorta di tweener”     
“una che?”        
tweener” ripetè l’allenatore, prima di passare alla spiegazione del ruolo “è una posizione non ufficiale della pallacanestro riferita a giocatori che combinano gli attributi di una guardia tiratrice e di un playmaker, ma che non hanno per intero le caratteristiche di uno dei due ruoli. Come il play è più orientato ai passaggi che alla realizzazione, voglio sfruttare la tua visuale di gioco;  tuttavia il tweener manca dell'atteggiamento offensivo di cui un playmaker puro dispone e non ha l'altezza per rientrare nell'ambito del ruolo di guardia tiratrice”
“non c’ho capito granché ma diciamo che sono una specie di ibrido?” 
“diciamo così: in un certo senso ti ho creato un ruolo tutto tuo Erin, su misura per te, sfruttando la tua statura e la tua agilità. Avrai un ruolo per lo più difensivo, hai dei riflessi molto buoni quindi riesci a rubare la palla con grande velocità. In campo ti muovi con una scioltezza che passa quasi inosservata, complice anche il fatto che sembri un folletto se paragonata ai giganti che ti giocano attorno. I tuoi compagni sono abituati alla tua presenza e a tenerti d’occhio, ma sono convinta che per i tuoi avversari sarà molto più difficile: il fatto che tu sparisca durante la partita, sarà uno degli assi nella manica della nostra squadra”

(capitolo 42 – Let’s Move)
 
Ormai aveva capito la strategia di Boris: lei era diventata la controparte di Melanie, anche se un po’ più goffa e inesperta. In fondo era stato proprio l’uomo a modellare lo stile della campionessa e in poco tempo aveva cercato di replicare quello stile in Erin. Quella che si sarebbe disputata sul campo di lì a pochi minuti, era una sfida tra rubapalle.
« Ben, prendi il posto di Trevor, però solo per il terzo quarto. Wes, tu puoi dare di più quindi muoviti! Liam attento ai passaggi laterali mentre tu Dajan… » sin interruppe, fissandolo con serietà « che ti è successo? »
Il capitano lo guardò perplesso, così come il resto della squadra:
« CRISTO SANTO DAJAN! » urlò Boris euforico, facendo sobbalzare un distratto professor Faraize « LI STAI STRACCIANDO! HAI MESSO A SEGNO VENTICINQUE PUNTI TU DA SOLO! AHAHAAHA NON TI MAI VISTO GIOCARE COS’ BENE RAGAZZO! »
Il capitano ridacchiò imbarazzato, ricevendo pacche dai compagni e un sorriso orgoglioso da parte di Kim. Era innegabile: in quella partita il capitano della Atlantic era la stella più brillante presente sul campo.
 
Nello spogliatoio avversario l’imbarazzato silenzio tra i giocatori veniva scandito dalle parole del loro coach, che stava riepilogando la situazione:
« per noi è una novità, ma il fatto è che stiamo perdendo. Siamo sotto di dieci punti ma da adesso in poi cambiamo le carte in tavola. Dobbiamo far vedere loro una nuova Saint Mary, una squadra che nessuno ha mai visto prima. Abbiamo un quarto d’ora di tempo, quindi se qualcuno ha qualcosa da dire lo dica ora, una volta sul campo dovete lasciare da parte ogni attrito »
Nessuno dei ragazzi rispose, ma fissarono tutti di sottecchi il capitano. Lanier stringeva i pugni, combattuto tra il bisogno di esternare i suoi pensieri e l’orgoglio di trattenerli; se erano arrivati a quel punto, poteva solo immaginare quali discorsi fossero stati fatti in panchina, mentre lui era impegnato sul pitturato:
« Julius, sei il capitano. Tocca a te dire qualcosa » gli impartì Paula, per sbloccare la situazione.
Il ragazzo la guardò di striscio mentre le occhiate dei suoi compagni diventavano più esplicite e insistenti; inspirò profondamente, sentendo l’agitazione crescere in lui.
Quello che stava per dire l’avrebbe esposto al ridicolo ma era l’unico modo per poter davvero cambiare qualcosa. Stavano perdendo, soverchiati dal gioco di squadra degli avversari.
Ripensò al giorno in cui Boris gli aveva detto che senza di lui, la Saint Mary avrebbe giocato come una vera squadra e ricordò che, nel tardo pomeriggio, l’allenatore l’aveva chiamato per scusarsi:
 
« Jules, mi dispiace per quello che ti ho detto stamattina. L’ho fatto solo perché voglio vederti cambiare atteggiamento, è solo quello ad essere di ostacolo alla squadra »
« hai poco da dispiacerti, le tue parole non mi hanno fatto né caldo né freddo » mentì il ragazzo, ma la voce roca non ingannò Boris. Sorrise indulgente e proseguì:
« sai, probabilmente non per merito mio, ma sono sicuro che un giorno capirai che a vincere da soli non c’è gusto »
 
Lanier inspirò profondamente.
Riconsiderò le occhiate stupite dei suoi compagni quando aveva finalmente passato la palla a Neal, l’abbraccio di Reed e il sorriso di Melanie: non poteva negare che quelle reazioni lo avessero lusingato. Stavano perdendo e solo per colpa sua. I ragazzi erano disorientati, alla deriva e in qualità di capitano, doveva essere lui a guidarli.
« ok gente » esordì, schiarendosi la voce e alzandosi in piedi « sono un coglione, scusate »
Neal sbattè più volte le palpebre incredulo, mentre tutti gli altri avevano gli occhi fuori dalle orbite; persino Melanie, la più posata del gruppo, aveva un’espressione sconvolta.
Julius, sforzandosi di ignorare la perplessità generale, proseguì:
« stiamo perdendo per colpa mia, perché non riesco a fare gioco di squadra. Il problema è che non possiamo vincere se giochiamo come sempre »
Nessuno fiatava, tutti era ipnotizzati dall’umiltà di quel discorso che risultava assurdo perché tenuto dall’elemento più arrogante della squadra.
« ascoltatemi bene, perché c’è una cosa che deve entrarvi in testa: la leggenda della triade divina è un’emerita cagata »
Reed ridacchiò, incrociando le braccia al petto divertito, mentre Melanie ghignava a sua volta. Per loro era un sollievo sentirsi così ridimensionare, dopo mesi di elogi e lodi.
« per battere la Atlantic dobbiamo impegnarci tutti al massimo, io per primo proverò a fare meno lo stronzo, ma non vi garantisco nulla » chiarì titubante, strappando qualche sorriso, per l’imbarazzata schiettezza con cui aveva fatto quell’ammissione. Era palese che il ragazzo stesse combattendo una strenua lotta interiore tra la sua indole e la necessità di cambiarla.
« vi chiedo solo di provare a giocare come una vera squadra… come lo eravate prima che arrivassi io »
« a rovinare tutto » pensò, ma si astenne dal dirlo. Non voleva apparire fragile o vittimista, aveva pur sempre un orgoglio da difendere. Al termine di quelle parole per i presenti fu difficile trovare qualcosa da dire. Il discorso di Lanier aveva profondamente turbato e impressionato tutti quanti e aggiungere qualcosa senza cadere nel patetico era un’impresa.
Ciò nonostante le parole che aveva usato erano quelle che ognuno dei compagni sperava di sentire e sulle quali non osava sperare da molto tempo:
«beh? Finalmente ci sei arrivato Lanier, se aspettavi un altro po’ ci toccava giocarci la partita per il terzo posto » borbottò Melanie, alzandosi in piedi e dirigendosi verso l’esterno.
Tutti la fissarono sorpresi. Proprio lei che non parlava mai, aveva interrotto quel pesante silenzio.
« dove vai? » le chiese Isiah incuriosito. Placida come una foglia che cade da un ramo, la ragazza replicò:
« a fare la pipì »
Qualcuno sogghignò, anche se non c’era un motivo particolare per cui quella frase risultasse buffa.
Nell’arco di pochi secondi però, una risata contagiosa si diffuse tra i ragazzi.
Non avevano motivo per ridere se non il fatto che sentivano tutti di averne disperatamente bisogno. Le amarezze e gli attriti cominciavano a farsi più sbiaditi e anche se solo con il tempo si sarebbero dileguati, la percezione che l’armonia potesse instaurarsi tra di loro, cominciò a infondere un’energia insperata nei cestisti: nel terzo quarto, la squadra di basket della Saint Mary sarebbe risorta più forte di prima.
 
Tra gli spalti, l’uscita di scena dei giocatori aveva lasciato parecchie incognite e perplessità:
« non sto capendo una mazza! » si lamentò Lin « perché ad un certo punto hanno smesso di passare la palla al numero 1? »
« penso fosse una provocazione, per spingerlo a comportarsi diversamente » ragionò Lysandre « in effetti è stato un po’ rischioso, avrebbe potuto offendersi, adottare un atteggiamento vittimista diventando così autodistruttivo per la squadra »
« credo che puntassero sul detto “quando l’acqua arriva alla gola, o nuoti o affoghi” »
« che intendi? » domandò Iris.
« la Saint Mary sta perdendo e tutto perché quel Lanier vuole fare tutto di testa sua, impedendole di creare degli schemi di gioco come quelli che stiamo attuando noi. Evidentemente quel tizio si è reso conto che il suo comportamento è autodistruttivo per la squadra, quindi se non vuole perdere, deve per forza cambiare atteggiamento »
Kentin e Armin emisero un fischio di apprezzamento, prendendo in giro Ambra per la sua professionale capacità di analisi mentre Dake commentava soddisfatto:
«  la partita si fa interessante »
« perché finora ti sei annoiato? » brontolò Rosalya, impegnata a inviare un messaggio ad Erin.
 
Erin era ancora nello spogliatoio, intenta ad ascoltare le indicazione del coach, quando sentì vibrare il cellulare. Sorrise intuendo chi fosse la mittente e tirò fuori l’apparecchio, mentre Boris continuava a parlare della loro strategia di gioco:
 
“è oggi vero la semifinale? Vedi di vincere, tappa u.u”
 
Il suo stomaco si attorcigliò. Non lo credeva possibile, ma si era completamente dimenticata di lui.
Era talmente presa dalla competizione contro Melanie che il chiodo fisso di Castiel e della lontana Germania era passato in secondo piano.
In altre circostanze quel “tappa” l’avrebbe irritata, ma non in quel momento.
Sorrise, in un sorriso dolce e innamorato che ormai solo lui poteva strapparle e, mentre stava per rispondergli, Boris le intimò:
« Erin! Metti via quel cellulare! Si torna in campo »
A malincuore eseguì l’ordine dell’allenatore, mentre si ingegnava nel trovare la frase più opportuna con cui formulare la risposta al termine della partita.
Prima di arrivare sul campo, l’aveva già memorizzata:
« semifinale vinta. Mi appresto a conquistare anche la finale, tu intanto vedi di procurarmi una brandina: verrò a trovarti pertica »
 
Appena le due squadre ricomparvero sul campo, furono accolte da uno scroscio di applausi e urla, principalmente da parte della tifoseria della Atlantic. Però ai giocatori sul campo non sfuggì che anche tra le file avversarie c’erano dei movimenti che prima sembravano anestetizzati: alcuni studenti avevano applaudito la Saint Mary e altri avevano urlato degli incoraggiamenti.
« finalmente cominciano a svegliarsi anche i tifosi della Saint Mary » commentò apatico Kentin.
« ma tu da che parte stai? » lo ripresero in coro Lin e Rosalya.
Ai lati del campo, i rispettivi coach stavano fornendo le ultime indicazioni.
I giocatori del Dolce Amoris furono i primi a posizionarsi sul pitturato: Dajan a centro campo, con alle spalle Liam, Erin, Benjamin e Wes. Un playmaker con le abilità di un centro, un ala piccola, una tweener e due guardie; nonostante fossero in netto vantaggio, la strategia dell’Atlantic non era improntata a difendere i punti conquistati: volevano essere minacciosamente offensivi.
Dalla panchina avversaria, il primo a staccarsi fu Julius, che si portò davanti a Dajan. Seguì a ruota Neal, che si mise in posizione speculare a Wes. Guardia contro guardia. Per il terzo quarto venne confermata la presenza di Mitch Sharman che, analogamente a Liam Farrell della Atlantic, rivestiva il ruolo di ala piccola. Erin notò finalmente la figura che aspettava con ansia di vedere sul campo: Melanie si liberò della felpa e raggiunse in silenzio i compagni; le sorrise leggermente, e la mora si limitò a ricambiare quell’occhiata; mancava un solo giocatore a completare il quintetto avversario:
« REED, MUOVI QUEL CULO! » urlò Lanier, in direzione della guardia, che si intratteneva placidamente a chiacchierare con Paula.
« arrivo, arrivo, perché devi essere sempre così irruento? » farfugliò la guardia, grattandosi disinteressato l’orecchio « sta’ calmino boss, o ti verrà un ictus »
Nella panchina del Dolce Amoris i cestisti ammutolirono: osservarono Isiah Reed sgranchirsi la schiena mentre il suo capitano borbottava, senza molta convinzione, delle esortazioni per costringerlo a darsi una mossa e Melanie che era impegnata a sistemarsi i polsini.
La Saint Mary metteva in campo la triade divina al completo.
La vera partita era appena iniziata.
 




 

NOTE DELL’AUTRICE:
Dunque, pubblicare questo capitolo oggi è stata una cosa che ha sorpreso anche me, nel senso che fino all’ultimo ero convinta che mai avrei trovato tempo prima di domenica.
Come? Avevo promesso un disegno? Avete ragione… il fatto è questo: come successe per il 47, i miei progetti iniziali erano diversi e quello che avete letto adesso doveva essere solo la prima parte di un capitolo che si sarebbe concluso con il suddetto disegno. Arrivati a questo punto, vi siete lette le bellezza (o la bruttezza) di oltre 30 pagine di Word, che inizialmente erano sessanta… decisamente troppe per un capitolo, così l’ho diviso in due, sperando che la prossima volta sia quella buona in cui questo disegno apparirà u.u (disegno che è pronto da Febbraio).
Ho deciso che non farò più previsioni, visto che non riesco a rispettarne mezza, anzi no, una la posso fare: ci metterò parecchio a sistemare anche il prossimo capitolo, che oltre ad essere incompleto, è anche molto grezzo in alcuni punti (nel senso che sono solo abbozzati i dialoghi e manco si capisce chi parla xD).
Detto questo, prima di lasciarvi mi preme sapere se vi va bene come è descritta la partita… ho voluto essere un po’ dettagliata ma non troppo (anche perché, per quanto abbia cercato di informarmi, non sono una cestista ^^’).
Ok è tutto… ci vediamo tra millonanta settimane :)
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** Cardiopalma - Seconda parte ***


NOTE INTRODUTTIVE:
 
Cominciavo a perdere le speranze, ma finalmente sono riuscita a inserire un disegno nel capitolo (\^o^/).
A questo punto ve lo chiedo come favore personale per appagare il mio tentativo di sorprendervi con una scena caruccia: NON SCORRETE IL CAPITOLO FINO IN FONDO, PRIMA DI AVERLO LETTO.
Volete sapere quanto è lungo? Nessun problema, 44 pagine (ok, forse è un problema, ma questa volta, contrariamente alle precedenti, mi sono rifiutata di spezzarlo).
E’ una parte della storia che mi ha messo una certa tachicardia, quindi non vedevo l’ora di pubblicarla, sbarazzandomene una volta per tutte u.u

Mi dileguo… e sinceramente, non so davvero quando troverò il tempo per il prossimo capitolo, ma consolatevi, questo è il più lungo scritto finora…quindi, buona lettura!


 
 
 
49.
CARDIOPALMA – Seconda parte
 

 
 
Lanier si portò a bordo campo, mentre il resto dei giocatori prendeva posizione. Nelle sue iridi castane, Dajan notò subito qualcosa di diverso: l’avversario aveva una strana luce negli occhi, alimentata da sentimenti che durante i due quarti precedenti non aveva provato.
Boris aveva ragione, la vera partita era appena iniziata.
Il ragazzo sogghignò eccitato, distendendo e contraendo spasmodicamente le dita; ogni suo muscolo vibrava in preda ad una trepidante frenesia di misurarsi con la squadra più forte che avesse mai incrociato sul pitturato.
Tutte le sue insicurezze e timori, relativi alla sua inettitudine come capitano, si erano dileguati, lasciando in Dajan solo la consapevolezza di non essere mai stato più concentrato e motivato: avrebbe guidato i suoi compagni, fino a condurli al traguardo della vittoria.
In piedi, lungo il perimetro di gioco, Boris guardava orgoglioso i suoi ragazzi, indugiando l’attenzione su ogni singolo elemento. Partì dal giocatore che era a pochi metri da lui, Wesley; il cestista era un dongiovanni, costantemente distratto dalle presenze femminili e sempre alla ricerca di nuove prede, poiché non riusciva a tenere in piedi una relazione che durasse più di un mese. Quel giorno però la guardia non aveva minimamente calcolato lo stuolo di studentesse adoranti che li incitavano dagli spalti, lasciandosi assorbire completamente dalla tensione della gara. L’adulto si sentì quasi in colpa ad avergli fatto credere di avere realmente una nipote bellissima da presentargli, ma di quell’incresciosa situazione se ne sarebbe occupato successivamente.
Benjamin, che insieme a Clinton era uno degli acquisti più recenti della squadra, tradiva un certo nervosismo, penalizzato appunto dalla scarsa esperienza cestistica rispetto ai veterani come Dajan. Non staccava gli occhi da Lanier, muovendosi nervosamente sul posto alla minima reazione del giocatore, anche se solo il fischio dell’arbitro ne avrebbe autorizzato l’inizio dell’azione.
Dietro di lui, Liam che insieme a Dajan e Steve, andava a costituire il trio di giocatori storici dell’Atlantic, poiché tutti e tre avevano aderito al club di pallacanestro sin dal loro primo anno al Dolce Amoris. Si sistemò la fascetta nera, in modo che i ciuffi biondi non gli fossero d’impiccio durante la partita e strizzò l’occhio verso la sua compagna, che gli aveva appena detto qualcosa di buffo.
Erin, la vera rivelazione del torneo.
Boris ridacchiò, ripensando alla prima partita della ragazza, durante la quale aveva persino tentato di abbandonarli, travolta dai propri demoni interiori. Per un attimo persino lui era arrivato a dubitare della forza d’animo della cestista, ma Erin alla fine non aveva deluso le aspettative, tornando sul campo più combattiva che mai.
Dopo l’incontro con la Berrytown High School, il processo di maturazione sportiva della ragazza era stato fulmineo e inesorabile: giocava ogni partita al massimo delle sue capacità che, anche se non erano equiparabili al talento di giocatori come Dajan o Trevor, si rivelavano comunque preziose, prime tra tutte la sua capacità di rubare la palla e tenere alto il morale dei compagni. Il coach tornò indietro con la mente, ricordando una sua fidanzatina del liceo che, caratterialmente, rivedeva molto nella sua cestista, e solo per quel dolce e nostalgico ricordo, non poteva fare a meno di osservare Erin con una certa tenerezza.
La riflessione di Boris, aveva lasciato per ultimo il loro capitano, Dajan.
Sin da quando la squadra gli aveva annunciato il passaggio di testimone per il titolo di capitano, l’allenatore si era accorto immediatamente che Dajan non era convinto della scelta dell’ex capitano. Il playmaker, ancora di più di Liam, non riusciva a prendere con leggerezza i propri doveri all’interno della squadra, aumentando così in lui lo stress e la tensione pre gara. Fortunatamente, con l’avanzare delle partite, complice la solidarietà dei compagni e il susseguirsi di vittorie, Dajan aveva imparato ad essere un leader, senza lasciarsi troppo condizionare dal peso che derivava da quel titolo.
Quel giorno in particolare, il talento del ragazzo era sotto gli occhi di tutti; inoltre non tradiva alcuna emozione che non fosse una pura gioia di trovarsi sul pitturato, ad affrontare dei cestisti fortissimi.
Proprio in virtù delle sue qualità, Dajan non poteva che essere il miglior avversario per Julius; fronteggiare un capitano così altruista e premuroso verso i suoi compagni, era indubbiamente una fonte di ispirazione per Lanier, una dimostrazione del perché doveva ridimensionare la propria alterigia e cambiare atteggiamento: solo con il gioco di squadra si poteva arrivare alla vittoria ed entrambi i ragazzi erano determinati a raggiungerla.
L’allenatore della Atlantic High School non era l’unico impegnato a meditare sui suoi ragazzi; a pochi metri da lui infatti, Randy osservava Julius con un sorriso compiaciuto stampato in faccia. Quest’ultimo era impegnato a interagire con i compagni, dando loro sommarie indicazioni circa la disposizione sul campo; diversamente dal solito, nel suo approccio non c’era quello sprezzo con cui era solito rivolgersi agli altri, ma solo una misurata compostezza degna di un leader.
Vide Mitch lanciare uno sguardo nervoso sul tabellone segnapunti, imitato poi da altri giocatori. Erano in svantaggio, la Atlantic era riuscita a distanziarli notevolmente durante il secondo quarto e quella condizione era totalmente estranea ad una squadra imbattibile come la Saint Mary.
Melanie venne percorsa da un brivido, che stemperò saltellando sul posto. Se non avessero iniziato da lì a poco, avrebbe avuto un collasso, tanta era la voglia di misurarsi con gli avversari:
« che c’è pulce, ansia? »
La bionda si voltò alla sua destra, verso Isiah, incrociando il suo sguardo solare.
« chiamiamola eccitazione » gli sorrise convinta.
Lui tornò a guardare dritto davanti a sé, tenendo le mani appoggiate sulle ginocchia e il busto piegato in avanti:
« tieni gli occhi bene aperti Mel… questa sarà la partita del vero Saint Mary »
 
Erin aveva lo sguardo talmente concentrato sulla palla che le sembrava di poterla sollevare con la forza del pensiero. Come lei, anche gli altri giocatori non staccavano gli occhi di dosso a quell’oggetto dalla geometria perfetta.
Così, appena l’arbitro fischiò, Lanier fece volare la palla mente dagli spalti si levarono delle esclamazioni entusiaste.  
Il terzo quarto era finalmente iniziato.
Neal si impossessò della palla, sorpassò Wes, deviando con sicurezza il tiro verso Melanie. Erin allargò le braccia, flettendosi in avanti con il corpo e tenendo lo sguardo inchiodato sulla sfera, come le si era raccomandato Boris:
« Melanie è una specialista nelle finte, quindi non farti distrarre dai movimenti del suo corpo come ha fatto Kim, fissa unicamente la palla »
La numero otto infatti si girò verso destra, come se volesse passare il tiro ad un giocatore in quella posizione, ma tanto lei quanto la mora, sapevano che non c’era nessuno:
« ehi non vorrai fregarmi con un no look così banale? » la provocò Erin. La maglia verde ghignò e continuò a giocare intersecando la palla tra le gambe. Avvertì Julius portarsi dietro di lei così riuscì ad aggirare l’ostacolo rappresentato dalla numero dodici.
« passaggio molto furbo di green, che ha intercettato la presenza del capitano lanier alle sue spalle! »
Melanie corse via, mentre Lanier dava indicazioni alle due guardie:
« REED! HEYMAN! AVANTI! »
La potenza offensiva della squadra corse nella direzione indicata dal compagno, preparandosi all’attacco, mentre Dajan guidava i suoi:
« LIAM VA LÌ! » ordinò, indicando Neal.
I ragazzi si trovarono nella metà campo della Atlantic: Lanier aveva il possesso palla ma le sue guardie erano marcate dagli avversari. Sharman era impegnato con Wes ma mancava all’appello la giocatrice più difficile la marcare; il capitano si stupì nel realizzare che la numero dodici avversaria, Erin Travis, stesse tenendo testa alla loro Melanie. Quella novità tuttavia, anziché indispettirlo, gli distorse le labbra in un sogghigno trattenuto: era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui il basket e adrenalina poteva coesistere nel suo universo.
« sei un osso duro tu » commentò Melanie, cercando di muoversi in ogni direzione.
« avevi dubbi? » replicò la mora beffarda.
Julius nel frattempo riuscì ad individuare un’apertura e passò finalmente la palla a Mitch. Era in prossimità del canestro e visto che le guardie erano occupate, doveva provare a tirare lui, anche se, oltre a non essere la sua specialità, era in una posizione svantaggiosa. Dajan approfittò del tempo che serviva al forward per preparare il lancio, passando alle sue spalle; gli rubò la palla e prima che l’avversario potesse pronunciare un’imprecazione, era già sfrecciato via:
« BRAVO DADÀ! » urlò la sorellina Whitney, saltellando sugli spalti, mentre la madre guardava orgogliosa suo figlio. Le due erano frastornate dalle urla e commenti entusiasti dei tifosi del liceo di Dajan i quali, da quando era iniziata la partita, non avevano cessato per un attimo di sostenere la squadra. 
Sharman deglutì frustrato, guardando di sottecchi i compagni, sentendosi colpevole per quella palla persa, azione che poteva costare loro cara, visto lo svantaggio accumulato. Aveva commesso un errore stupido, dimenticandosi della presenza dell’avversario e regalandogli un canestro sicuro:
« NON PREOCCUPARTI SHARMAN! » gli urlò Lanier « adesso la recuperiamo quella fottuta palla! »
I giocatori rimasero sbigottiti per quell’esclamazione e Reed, cogliendo l’occasione al volo, borbottò spiazzato:
« ma che ti sei fumato Jules? »
Gli uscì spontaneo quel soprannome, facendo sorridere beffardo il capitano che era troppo carico da quella sfida per imbarazzarsi per lo sconcerto dei suoi cestisti. Sapeva che il suo cambio di atteggiamento era troppo repentino, quasi irreale e stridente con la sua personalità ma non c’era altra soluzione che cambiare sé stesso, per cambiare le sorti della partita:
« ma sta’ zitto Reed e pensa a segnare! » lo rimbeccò, giusto per non tradire troppo la sua natura burbera.
Isiah scosse la testa divertito, mentre inseguiva Dajan. Erin liberò la marcatura da Melanie e accorse per dare supporto al capitano. La palla passò a Liam e da lui a Wes.
La shooting guard si mise in posizione, lasciando che la palla abbandonasse le sue mani. Con un agile balzo, Melanie gliela schiaffò via, come Dajan aveva fatto poco prima con Mitch, cosicchè la sfera rotolò a terra, per essere rapidamente raccolta da Neal.
Dagli spalti del Saint Mary, la folla cominciò a esultare impazzita: studenti in piedi, cori confusi ma potenti, si potevano udire e ammirare sull’intera metà della struttura.
« m-ma stanno facendo il tifo per noi? » si sorprese Gavin, dalla panchina delle maglie verdi.
« e per chi sennò? » ridacchiò Randy orgoglioso. Si voltò verso la sua controparte avversaria e vide che anche Boris lo stava fissando, sorridendogli affabile.
I due non si erano mai conosciuti di persona ma, eccezion fatta per il preside della Saint Mary, Randy aveva sentito solo commenti positivi rivolti a quell’omaccione. Non era strano che, seppur tifasse per la Atlantic, Boris tradisse una certa soddisfazione nel vedere i suoi ex ragazzi comportarsi come un vero team.
« il pubblico sta finalmente vedendo quell’armonia di squadra che ci si aspetta in questo sport » spiegò Paula, accavallando le gambe « finora non c’era gusto a guardarvi giocare ragazzi, ma ora… siete uno spettacolo »
 
Neal deviò il colpo verso Reed che puntò al canestro avversario.
La sfera in mano sua era pericolosissima e andava immediatamente deviata. Il Dolce Amoris aveva già avuto prova della sua capacità di centrare il canestro sulla lunga distanza e non intendeva assistere nuovamente a quell’esibizione, per quanto essa potesse essere spettacolare.
Liam e Wes cercarono quindi di ostacolarlo, mentre Dajan correva verso il proprio tabellone. La sua intenzione era scacciare via la sfera non appena la guardia l’avesse puntata a canestro, puntando sulla propria elevazione e sulla precisione tempistica con cui intercettava i tiri.
Circondato dalle due maglie rosse, Isiah aveva quindi optato per un tiro altissimo verso il canestro ma, contrariamente a quanto aveva previsto il capitano avversario, centrare il cesto non era il suo obiettivo. La palla infatti cadde qualche metro prima, tanto che in un primo momento Dajan dubitò dell’infallibilità della sua mira. Tuttavia, appena realizzò la presenza di Lanier nella traiettoria di lancio, colse la finalità di quel tiro. Quest’ultimo, con un salto portentoso, volò verso il canestro, schiacciandone dentro la palla, con la veemenza per cui era famoso.
« NOOOOO!! » protestarono gli studenti e i tifosi del Dolce Amoris, mentre la folla avversaria esultava:
« VAI SAINT MARYYY!! »
A quel punto divenne evidente che le due tifoserie si stavano bilanciando: nell’ambiente regnava il caos più totale, persino i professori delle rispettive scuole erano incontenibili:
« FATEGLI UN CULO COSÌ RAGAZZIII! » urlava la Robinson, incurvando le mani all’altezza della bocca, per amplificare la sua voce.
« JANE! » la rimproverò scandalizzata la professoressa Fraun « insomma, va bene lasciarsi prendere dall’entusiasmo, ma siamo pur sempre degli educatori! »
« tanto da qua non mi sent- » replicò placida l’insegnante di arte la quale non fece nemmeno a tempo a finire la frase che si sovrapposte la voce cavernosa di Condor:
« TRAVIS! RECUPERA QUELLA CAZZO DI PALLA! »
La professoressa di storia scosse il capo, indignata, mentre i suoi colleghi, uno più infervorato dell’altro, sbraitavano attirando l’attenzione degli studenti seduti nei paraggi.
« ODDIODDIOODDDIO! » squittiva Rosalya, tremando dall’eccitazione.
« quasi quasi rivaluto lo sport » commentò Armin, guadagnandosi un’occhiata cinica dal resto degli amici.
Nel frattempo la Atlantic si era rimpossessata della palla, rimettendola in gioco grazie ad Erin.
Toccava a loro dare un assaggio della loro strategia offensiva: Dajan partì come un razzo verso il canestro avversario, passò la palla a Liam e da lì a Benjamin, che fino a quel momento non si era ancora distinto. Il ragazzo fu costretto a tirare in fretta, poiché sentiva Reed alle calcagna.
Il capitano maglia rossa si accorse però che lo scarso tempo di preparazione aveva penalizzato la precisione di lancio del compagno, così scattò verso canestro e, appena la sfera vibrò contro il ferro, la riaccompagnò al suo interno.
« un altro spettacolare alley-oop da parte di uno dei giocatori più talentuosi dell’intero torneo: Dajan Brooks »
Toccò così al Dolce Amoris esultare, mentre dalla scuola avversaria provenivano versi dispiaciuti.
« la Saint Mary parte al contrattacco! Ecco che vediamo Sharman volare verso il canestro avversario, cerca un passaggio in Green ma… lo trova in Lanier. Ecco il capitano in posizione per una tripla »
Dajan si posizionò davanti all’avversario, spiccando un salto nel momento esatto in cui avrebbe lasciato la palla. Il Lanier che aveva giocato i due quarti precedenti non avrebbe esitato un secondo a tirare quella sfera a canestro ma il nuovo giocatore che c’era sul campo, la pensava diversamente. L’avversario lo vide sorridere beffardo e lanciare senza mirare al canestro. Dietro il capitano della Atlantic, si levò la figura della migliore cloothing shooter del torneo che, con un’elegante alley-oop, concluse l’azione.
Gli occhi di Melanie brillavano, al punto che delle sconvenienti lacrime le inumidirono gli occhi. Non era il momento adatto per lasciarsi andare a sentimentalismi, anche se le emozioni che la stavano investendo erano incontenibili.
Era quello il basket che aveva sempre amato.
Era quello il basket a cui l’aveva iniziata sua sorella. In quel frangente non le interessava più vincere o perdere, andare o non andare a Berlino dalla lei. Voleva solo che quell’incanto non si spezzasse, che la sua squadra continuasse a lottare compatta:
« ehi biondina, non vorrai mica addormentarti in piedi? » la provocò Erin, che finse di non notare la gioia che le aveva illuminato lo sguardo.
« non hai ancora visto niente, Travis » la rimbeccò l’altra, divertita e, dopo essersi piegata leggermente in avanti, riuscì a scartarla, scattando lateralmente. Erin rimase spiazzata la fulmineità di quel movimento e si morse la lingua, autopunendosi:
« evita di provocarla la prossima volta, genio » rimproverò se stessa.
Benjamin tentò di passare la passa a Wes ma Melanie fu più rapida: si interpose nella traiettoria tra le due guardie e rubò la sfera, allontanandosi.
« Neal tua! » urlò, individuando il compagno. La guardia si mise in posizione accanto al canestro avversario e lanciò la palla, segnando altri punti alla squadra.
« STATE ATTENTI AI PASSAGGI! » urlava Boris.
« VAI COSI’ MELANIE! » urlavano alcuni dei suoi compagni, lasciando piacevolmente sorpresa la ragazza.
Dajan recuperò la sfera e la passò ad Erin che a sua volta la deviò verso Wes, fino a tornare nelle mani del capitano che, in pochissimo tempo, era già sotto canestro. Il ragazzo spiccò un salto altissimo, tenendo il braccio il più possibile verso l’alto: le dita arpionavano la palla, che andava schiacciata a canestro. Il ferro era lì davanti a lui, quando si trovò faccia a faccia con Lanier. Con una potenza incredibile, l’avversario, spinse via la sfera, che cadde verso Isiah.
« hai visto che stoppata? » domandò Clinton incredulo, dalla panchina.
« cazzo, quello è Hulk » farfugliò Gordon.
« beh, per essere verde è verde » scherzò Trevor.
« ti sembra il momento per fare battute idiote? » lo rimbeccò Kim, struggendosi dal desiderio di tornare a correre sul campo. L’orlo inferiore della sua divisa era sempre più sgualcito, nel tentativo della ragazza di stemperare la frenesia. Gesticolava con quella stoffa rossa come unico diversivo alla staticità a cui era costretta dalla panchina. Dajan stava lottando più di tutti per quella vittoria e lei avrebbe solo voluto essere al suo fianco per appoggiarlo.
« vediamo ora la palla finire nelle mani di Neal Heyman che torna al canestro della Atlantic HS. È un giocatore che ha un ottimo controllo della sfera, che si combina perfettamente con la precisione dei passaggi della sua compagna di squadra »
Neal effettuò un passaggio all’appena citata Melanie. La ragazza stava per accogliere il tiro quando una macchia rossa le si frappose: Erin le rubò la palla con destrezza, palleggiandola via.
Avrebbe voluto dirle di non abbassare la guardia ma aveva già imparato a sue spese che fare la spocchiosa era controproducente.
La partita era ancora lunga e gli avversari avevano già recuperato qualche punto prezioso in poco tempo.
Cercò Dajan e lo trovò esattamente dove serviva a lei, oltre il cerchio centrale. Appena il capitano ricevette la sfera, si trovò Isiah a sbarrargli la strada. Si voltò e c’era Julius ad attenderlo.
« quante attenzioni » ghignò « mi fate sentire una celebrità » e, sorridendo beffardo, portò la palla a raso terra. La afferrò tra le mani e se la passò tra le gambe divaricate, disegnando una sequenza perfetta di otto, finchè intuì la presenza di Erin alla sua destra:
« sembra che Brooks abbia delle calamite al posto della mani, la sfera non gli sfugge mai, nemmeno quando la palleggia ad un ritmo così elevato. Sfrutta la velocità per distrarre gli avversari e passare il tiro a Travis… che viene inseguita da Green e Heyman… ora trova in Scottdale un giocatore libero »
« Jules, ci stanno facendo mangiare la polvere, che ne diresti di darti una svegliata? » lo canzonò Reed divertito.
« e tu, guardiola da quattro soldi? Quando ti decidi a tirare? » sbottò l’altro.
« o suvvia, ho già segnato tre triple » si difese il ragazzo, osservando il punteggio sul tabellone. Ingenuamente sconvolto, si voltò verso i compagni: « ah, ma siamo noi quelli che stanno perdendo 40 a 57? »
Sul volto del cloothing shooter era dipinto lo sconcerto più totale, tale da lasciare spiazzata la seconda guardia, Neal, che non seppe se ridire o insultarlo per la sua infantile disattenzione. Diversamente da lui però, Lanier non aveva dubbi su quale dei due atteggiamenti fosse il più indicato in quella circostanza:
« MA QUANTO SEI IDIOTA REED?! TE NE ACCORGI SOLO ORA? »
« potevate dirlo prima, io sono ancora disorientato dal tuo cambio di personalità Jules… non è che soffri di bipolarismo? »
« ma che stanno combinando? » chiese Hector dalla panchina della Saint Mary.
« penso si stiano solo divertendo » fu la risposta di Paula, che osservava orgogliosa i due ragazzi. Cercò lo sguardo di Randy e lo vide sorridere felice, finalmente. Anche nella Atlantic si erano accorti che il clima sul campo era diverso, più disteso e per questo più piacevole:
« è una delle partite più belle che abbiamo mai disputato » esclamò Clinton.
« d’accordo gente, allora dobbiamo cominciare a fare sul serio » dichiarò Isiah, schioccando le dita.
Aveva radicalmente cambiato espressione, diventando più serio e competitivo; partì fulmineo verso Wes e, in appena mezza secondo, riuscì a sottrargli la palla. La convogliò verso Neal e il canestro arrivò inesorabile.
Le maglie rosse quasi non avevano fatto a tempo a realizzare quella repentina sequenza di eventi. Recuperarono la sfera, ancora increduli, ma rimase per pochi secondi nelle loro mani: Melanie l’aveva strappata a Dajan e deviata verso Lanier. Ferito nell’orgoglio, il capitano era partito alla ricorsa dell’avversario, superandolo in velocità e posizionandosi in difesa del proprio canestro. Lanier spiccò un salto, così come la maglia rossa che allungò le braccia a formare una barriera. Julius però inclinò il busto di lato, tenendo il più possibile la schiena lateralmente. Prima che Dajan potesse reagire, il ragazzo era riuscito a spostare il peso del corpo mentre era ancora in volo e centrare la palla a canestro:
« pazzesco… ha corretto la posizione del busto mentre era ancora in elevazione » mormorò Kim incredula.
Boris però non era altrettanto impressionato e, facendole l’occhiolino, dichiarò:
« non sorprenderti così tanto Kim. Questi trucchetti li conosce anche il nostro Dajan »
Benjamin recuperò la palla e si diresse verso il canestro avversario; non potevano permettere alla Saint Mary recuperare il vantaggio che si erano guadagnati nei precedenti quarti.
« Cip! »
Erin era già in posizione, tenendo d’occhio le mosse di Melanie, come una preda che avvista il predatore. Ben invece non si era accorto della playmaker che stava arrivando da destra ed effettuò un tiro che fu sin troppo semplice da intercettare: con la palla ritmicamente sbattuta contro il pitturato, la bionda si diresse con i compagni verso il loro obiettivo. La palla arrivò a Mitch Sharman che a sua volta la passò a Lanier.
Questo spiccò un salto, pronto a schiacciare la sfera a canestro ma per la seconda volta nell’arco di poco tempo, intervenne Dajan a opporsi a quell’attacco. Gli bruciava troppo il modo in cui il capitano l’aveva sopraffatto poco prima e impresse in quell’oggetto tutta la potenza dei suoi muscoli.
Quel match, seppur dominato da un meraviglioso gioco di squadra da parte delle due fazioni, era anche caratterizzato dall’esplosione della rivalità tra i due capitani.
Lanier rimase sorpreso da quell’inaspettata manifestazione di forza, dal momento che nessuno era mai riuscito a contrastare la sua: la presa dell’avversario sulla sfera era molto più tenace dell’azione precedente, impedendogli di schiacciare la palla attraverso la rete. Portò allora la seconda mano sulla sfera e, prendendola saldamente, la lanciò a Reed, quando i loro corpi erano ancora in volo:
« gracias » commentò la guardia e, con un tiro pulito e semplice, centrò il canestro.
Quando i due capitani ritoccarono il suo, il primo a parlare fu il numero cinque:
« finalmente vi siete decisi a farci vedere cosa sapete fare » commentò Dajan con un sorriso di sfida.
« e non hai ancora visto niente » replicò Lanier.
« nemmeno voi » gli giurò.
Fu Erin a rimettere la palla in gioco.  Studiò attentamente la posizione dei compagni e valutò che il miglior passaggio era quello indirizzato a Benjamin. Con il supporto di Liam, i tre partirono verso il canestro, riuscendo a costruire una rete di scambi senza che gli avversari la interrompessero.
« CONTINUATE COSI’! » li spronò Boris.
«ISIAH, NEAL PORTATEVI SULLE ALI!» li istruiva Randy.
Era Erin a possedere la palla, con la costante percezione della presenza di Melanie dietro di lei. Doveva sbrigarsi a trovare un passaggio, prima che playmaker la ostacolasse. La sfera volò così verso Dajan che ben presto venne fronteggiato a Lanier. Il ragazzo palleggiò velocissimo, spostandosi a destra e a sinistra ad una tale rapidità che seguirne i movimenti era quasi impossibile.
Tutti gli spettatori rimasero allibiti da quella maestria nel dominare la palla, che durò per alcuni secondi, tali da creare nell’ambiente una sorta di ammirato silenzio, che fu uno dei cronisti a interrompere:
« magnifico controllo palla da parte del capitano della Atlantic High School! Non c’è dubbio che Brooks sia uno dei migliori giocatori di tutto il torneo. Eccolo che cerca di confondere l’avversario che sembra non lasciargli respiro ma… ECCO… ODDIO, SPETTACOLARE AZIONE DEL CAPITANO CHE LANCIA LA PALLA FACENDOLA PASSARE DIETRO LA SCHIENA DEL NUMERO UNO E LA RECUPERA AL VOLO! »
La destrezza con cui Dajan aveva aggirato Lanier aveva mandato in visibilio i presenti. Sua madre era quasi commossa per l’orgoglio e la gioia di vederlo sul campo.
Quando il padre di Dajan l’aveva abbandonata, il bambino aveva appena tre anni. All’epoca, come ragazza madre, non poteva permettersi grosse spese così aveva dovuto ripiegare sull’aiuto economico di amici e parenti. Era per questo motivo che il giorno del quarto compleanno di Dajan, il bambino aveva scartato un oggetto di seconda mano.
Whitney riviveva ancora la frustrazione dei giorni che precedevano quella ricorrenza, per non essere riuscita a fare un regalo migliore alla personcina più importante della sua vita, ma il doppio lavoro la assorbiva interamente. Non fosse stato per il suo vicino di casa, quel giorno Dajan non avrebbe conosciuto il suo primo amore.
« a tutti i maschi piace il basket » l’aveva tranquillizzata Bear, ex allenatore di pallacanestro. Nonostante la perplessità della donna, che riteneva che una palla da basket fosse un regalo prematuro per un bambino di quattro anni, suo figlio se ne era innamorato. Le manine piccole di Dajan non potevano ancora reggere quell’enorme sfera, ma lui trovò il modo per giocarci, divertendosi a farla rotolare e rincorrerla per l’appartamento, come avrebbe fatto un gatto con un gomitolo.
Crescendo, quel pallone era diventato una presenza fissa nella stanza del ragazzino, tanto che in diverse occasioni, quando era di fretta, finiva per inciampare su di esso, spiaccicandosi al suolo.
Con gli anni il cuoio era diventato sempre più logoro e consumato, ma anche se Whitney gli aveva comprato dei nuovi palloni, Dajan si ostinava a tenere quell’oggetto, quasi inutilizzabile, in camera.
Una volta entrato alle medie, il nome del ragazzo era stato il primo a iscriversi al club di pallacanestro e, dopo la sua prima partita, Dajan Brooks fece una promessa a sé stesso, la promessa di realizzare un sogno: sarebbe diventato un cestista professionista.
Durante gli anni del liceo però, quell’ambizione venne accantonata, innescando nel ragazzo la convinzione amara ma realistica che il college fosse un’opzione più sicura per il suo futuro. Scommettere unicamente sul suo talento, sarebbe stato un azzardo che, a causa delle modiche entrate della famiglia, non opoteva permettersi. Per non dover rinunciare al suo sport, aveva individuato un’università che elargiva borse di studio per chi fosse entrato nella squadra di basket, la Kentuchy University, ma quel compromesso non si era realizzato: a distanza di settimane dalla spedizione della domanda di ammissione, non aveva ricevuto alcuna risposta. Che cosa ne sarebbe stato del destino di suo figlio, Whitney non ne aveva la minima idea: sognava grandi progetti per lui, ma purtroppo non corrispondevano alle opportunità che la vita gli concedeva.
Con un abile gioco di piedi, Dajan aveva dribblato anche Reed, puntando al canestro. Sharman e Heyman balzarono verso l’alto, proteggendo il canestro. Il ragazzo però non demorse: anche se con il suo salto si era spinto oltre il tabellone, mentre era ancora in aria, lanciò la palla alle sue spalle, senza neanche voltarsi verso il cesto: quell’azione sarebbe stata poi giudicata la più spettacolare dell’intero torneo; la palla infatti percorse una parabola all’indietro, passando dal retro del pannello e centrando perfettamente il canestro. Due secondi di basito silenzio, poi il boato: persino la tifoseria avversaria era esplosa in commenti ammirati.
« SEI UN FENOMENO FRATELLO! » gli aveva urlato Trevor, scattato in piedi insieme a tutto il resto della panchina.
« Dajan sei un mostro! » si era complimentata Erin, incredula, unendosi ai cori entusiasti e frastornanti. Whitney si commosse, mentre Blake saltellava sulla sedia. Kim invece, sopraffatta dall’orgoglio che provava per il ragazzo, cominciò a battere freneticamente i piedi contro il suo e tremare per la gioia. Uno dei lati che più amava di quel ragazzo era proprio il suo valore come cestista, la passione che metteva in quello sport, al pari della propria quando correva su una pista di atletica.    
« come ha fatto a segnare da una simile posizione? È impossibile! » esternò Paula
« eppure l’ha fatto » replicò Randy. Anche se i punti erano andati a favore degli avversari, un ex cestista come lui non riusciva a trattenere l’ammirazione per un’azione così incredibile.
Quei dieci ragazzi stavano regalando al pubblico una vera e propria dimostrazione di basket di alto livello.
« sei un tipo interessante Brooks » ghignò Lanier, recuperando la sfera. Prima che Dajan potesse rispondergli, s’intromise Reed:
« mi dispiace boss, ma non credo che tu sia il suo tipo »
« MA CHE CAZZO PARLI TU? Devi sempre rovinare i momenti carichi di pathos »
« ah era un pathos quello? » chiese ingenuamente Isiah, che non aveva la minima idea del significato della parola « pensavo fosse una dichiarazione d’amore »
Dajan si limitò scuotere la testa, gustandosi le reazioni entusiaste dei presenti. In fondo anche lui era sorpreso che la palla fosse realmente andata a segno, dal momento che l’aveva lanciata con una naturalezza non calcolata: per una volta aveva voluto credere alle parole di un suo ex compagno di squadra:
« ci sono momenti in cui devi tirare e basta, senza star lì a calcolare traiettorie o minchiate varie. Capita raramente, ma quando senti che è così, non puoi far altro che lasciarti guidare dall’istinto »
Era davvero un peccato che lo specialista in quel genere di tiri, nonché autore di quel consiglio, non fosse stato presente all’azione. In fondo però, Castiel poteva sempre rivedere quella partita dalle registrazioni da parte dell’emittente televisiva locale.
Il capitano inspirò orgoglioso: Boris aveva ragione, non aveva mai giocato meglio di così.
 
« insomma, vuole darsi una mossa? Arriverò in ritardo alla partita! »
« signorina, per favore, la smetta di brontolare! Non vede che siamo imbottigliati nel traffico? » replicò piccato il tassista grassoccio, voltandosi riprovevole verso la ragazza.
« cazzo, facevo prima ad andare a piedi! » sbuffò la cliente, incrociando le braccia al petto.
 
Il divario di punteggio tra le due squadre era stato notevolmente attutito: il terzo quarto era stato il momento della rimonta della Saint Mary che si era portata ad un dignitoso 68 a 75. Mancavano ancora due minuti prima di passare all’ultima parte della partita.
La fronte di ogni giocatore era imperlata di sudore ma nessuno si era lamentato della fatica, nemmeno i cestisti come Dajan e Lanier che erano sul campo sin dall’inizio dello scontro.
Nel frattempo Denzel Simpson aveva sostituito Mitch Sharman, approfittando di un momento in cui il gioco era stato sospeso.
« dobbiamo concludere con un pareggio! » aveva dichiarato Julius, ricevendo cenni convinti dai compagni.
Quando Erin e Melanie si trovarono ancora una volta l’una davanti all’altra, la seconda commentò:
« bella partita Erin »
« già e sai cosa la renderebbe perfetta? »
« cosa? »
« la vittoria della Atlantic » ed Erin volò via, con la palla tra le mani, beneficiando della distrazione della playmaker.
« ma vedi un po’ ‘sta stronzetta » ridacchiò divertita quest’ultima, inseguendola.
Le sbarrò la strada e cominciò a muoversi in modo speculare a quello della tweener. Erin provò ogni movimento, ma Melanie sembrava leggerle nel pensiero, anticipandone le intenzioni. Liam si portò alla sua sinistra e riuscì a scaricare a lui la sfera.
« Farrel cerca Brooks ma arriva Green e gli ruba la palla. Corre verso il canestro, dove trova Denzel Simpson. Gli passa la palla. Poi ancora a Green. Si avvicina Heyman. La Saint Mary ha il pieno controllo della palla, riesce a costruire degli schemi di gioco che nei due quarti precedenti non abbiamo potuto apprezzare. Per gli avversari diventa difficile seguire le traiettorie. Ora la sfera è nelle mani di Heyman che si prepara per il lancio: viene contrastato da Scottdale, che riveste il suo stesso ruolo nelle file della Atlantic. La palla cade ma la recupera subito Green. Cerca i suoi compagni e… la lancia lontano! Ma certo, dove ad aspettarla c’è Reed che non ha nessun avversario a disturbargli il lancio. Stiamo per assistere ad un altro spettacolare lancio a metà campo di quella che è considerato il migliore clutch shooter del torneo… e… la palla va a canestro! Magnifica tripla gente! Il punteggio si porta ora a 61 per la Saint Mary, contro i 65 della Atlantic»
Gli spalti erano ormai irriconoscibili: ovunque e per ogni azione, c’era chi esultava o protestava a seconda di quale fosse la squadra per cui tifava. L’impegno delle due scuole sul campo aveva coinvolto tutti i presenti, portandoli ad appassionarsi a quello scontro.
« FORZA RAGAZZI! » sbraitavano i compagni dalla panchina del Saint Mary « STIAMO RIMONTANDO! NON MOLLATE! »
Vedere i ragazzi così determinati, infuse nella triade divina un’energia sempre più incontenibile: non erano abituati a tutto quel supporto ma giurarono a se stessi che mai sarebbero tornati ad essere quelli di prima. Quel giorno la triade divina era stata annientata, risorgendo come componenti di una squadra divina: appena Lanier conquistava la palla, la convogliava a Neal oppure ad Isiah, in modo che puntassero sulle loro triple per aumentare il punteggio. Non lasciava spazio a nessuno per rubargli la palla, persino Erin che era una diventata una specialista del settore, cominciava ad avere serie difficoltà. Ogni volta che provava ad avvicinarsi al capitano, interveniva Melanie a marcarla.
Quando rialzò lo sguardo verso il tabellone, rimase basita: canestro dopo canestro, la Saint Mary aveva rimontato: 69 a 67.
Era successo tutto talmente in fretta che non era sicura che anche i suoi compagni se ne fossero accorti. L’inerzia della partita era cambiata ed era a favore della squadra maglia verde. Erano concentrati, non sbagliavano un passaggio e non lasciavano aperture agli avversari.
 
Per la prima volta da quando era iniziata la partita, Erin cominciò ad avvertire il terrore della sconfitta.
 
La sua determinazione vacillò e riconsiderò il peso opprimente del primo premio. C’era così tanto in palio e non era una questione di prestigio: era solo quel viaggio a Berlino che desiderava così disperatamente ad incendiare la sua determinazione. Se non l’avesse ottenuto, quanti mesi ancora avrebbe aspettato prima di riabbracciare Castiel? Troppi e, anche se conosceva la risposta, preferì non quantificarli.
Ci aveva creduto sin dalla prima partita, quando Melanie le aveva ricordato cosa c’era in palio in quel torneo. Non aveva mai permesso al timore della sconfitta di deconcentrarla ma in quel momento, di fronte ad avversari così agguerriti, sentì un terrore crescente paralizzarla.
Il cuore le si era stretto in una morsa, improvvisamente non ragionava più, come se il suo cervello non ricevesse abbastanza ossigeno e zuccheri:
« EHI ERIN CHE CAZZO TI PRENDE? HAI VISTO LA MADONNA? »
Sobbalzò spaventata, da quella voce, così simile alla sua, che era riuscita a distinguere tra i cori confusi dei tifosi. Incredula, alzò lo sguardo e, in appena due secondi, la individuò: con il viso arrossato da una corsa forsennata tra i corridoi dell’arena, sua sorella Sophia stava sbraitando aggrappata alla ringhiera degli spalti.
Per un attimo la rivide bambina, arrampicarsi sul metallo delle transenne ed incitarla a salire su una trave che la spaventava. Erano passati anni da quell’episodio e, con una certa tenerezza, si accorse che in fondo il loro rapporto non era cambiato.
« E-E TU CHE CI FAI QUI? » le chiese sorpresa.
« IDIOTA PENSA A GIOCARE! TI SEMBRA QUESTO IL MOMENTO PER LE DOMANDE? »
Dopo aver pronunciato quelle parole, Sophia le sorrise convinta cercando di trasmetterle tutta quella sicurezza che la gemella aveva smarrito:
« ce la puoi fare Erin » mormorò tra sé e sé.
Le tenebre svanirono all’istante, sua sorella l’aveva salvata in tempo dal baratro prima che il buio la dominasse completamente. La paura del fallimento non l’avrebbe paralizzata, non era più una bambina, doveva continuare a lottare e a crederci, fino all’ultimo.
Con un ghigno divertito e carico di determinazione, la mora replicò:
« VEDI DI STARTENE BUONA FIA, ALTRIMENTI ROTOLI GIU’ »
La gemella scrollò le spalle, sorridendo rincuorata nel constatare il repentino cambio di atteggiamento di Erin. Era per situazioni come quelle che la mora si sentiva l’elemento più fragile del binomio che le univa, ma di fatto, Sophia sapeva quanto la sorella sapesse essere forte: aveva solo bisogno di qualcuno che gliel ricordasse.
Tutti gli amici di Erin non avevano potuto fare a meno di notare che il gioco della ragazza di era interrotto e, dopo averla vista sollevare il volto, avevano cercato di ripercorrere il punto in cui si era posato il suo sguardo:
« ma quella è Sophia! » mormorò Ambra basita. Afferrò il cellulare e, con una gioia crescente, mosse le dita sullo schermo. Dopo aver fatto partire la chiamata, tutti videro da lontano che la gemella frugava nella borsa.
« ehi, prova a voltarti » le disse la bionda, non appena iniziò la conversazione. Quando Sophia, compiendo un mezzo giro si trovò a dare le spalle al pitturato, vide una figura sbracciarsi, attirando la sua attenzione:
« ha la stessa faccia di Erin » commentò Dake sorpreso.
« sono gemelle » puntualizzò Kentin, che non vedeva Sophia dai tempi delle medie.
« la famosa Sophia! » squittì Alexy.
« finalmente la conosciamo! » sospirò Iris contenta.
Tra i presenti, solo Ambra, Rosalya e Kentin avevano avuto l’onore di incontrare personalmente quella fantomatica sorella che per due mesi aveva rappresentato un grosso mistero per gli amici di Erin.
« Ambra! Anche tu qui? » esclamò entusiasta la rossa.
« dai raggiungimi » la esortò la bionda, con un sorriso eccitato.
Armin scrutò l’amica con la coda dell’occhio, piacevolmente stupito da quel lato così socievole che era appena emerso. Era particolarmente curioso di vedere le due insieme poiché aveva intuito che quella nuova ragazza riusciva a tirare fuori in Ambra un lato ancora inesplorato della sua personalità.
I ragazzi videro Sophia arrancare tra la folla, risalire le gradinate e presentarsi a loro:
« ragazzi, lei è Sophia, la sorella di Erin » la presentò l’amica, sorridendo radiosa.
La rossa, in piedi davanti a nove paia di occhi che la fissavano, alzò la mano, ricevendo dei sorrisi accoglienti. Sua sorella le aveva parlato così tanto di quegli amici che non aveva dubbi su chi fosse chi.
Individuò da subito la persona che più bramava di conoscere, quella che era riuscita a conquistare il cuore della sua amica: l’unico ragazzo del gruppo con i capelli neri e gli occhi di un meraviglioso colore azzurro che, non a caso, era seduto accanto ad Ambra. A quel punto individuare in Alexy, il gemello del nerd fu uno scherzo. C’era poi una ragazzina timida, con degli assurdi capelli viola che la guardava con una sorta di reverenziale timore, sicuramente si trattava di Violet, l’artista del gruppo. Dietro di lei un ragazzo dai lineamenti eleganti, vestito in modo eccentrico ma dall’aria estremamente matura. Quello doveva essere Lysandre, il poeta. Sua sorella le aveva anche parlato del ritorno di Kentin e, basandosi sulla descrizione che aveva ricevuto, Sophia rimase sconvolta nel constatare quanto l’occhialuto ex compagno di classe fosse cambiato. Il biondino poteva essere Dake, il ragazzo australiano che era interessato ad Iris, la rossa naturale che sedeva accanto a lei, la ragazza che aveva conosciuto appena una settimana prima:
« ciao Sophia » si staccò quella voce calda e femminile che non aspettava altro che concentrare l’attenzione su di sè.
« ciao Rosalya » mormorò impacciata Sophia.
Voleva aggiungere qualcos’altro ma ci pensò Armin a interromperla, salvandola da un imbarazzante silenzio:
« sei stata un fulmine a ciel sereno »
« beh, volevo fare una sorpresa ad Erin ma ho calcolato male i tempi e sono arrivata solo ora »
« avresti potuto almeno avvertirmi, ti sarei venuta a prendere all’aeroporto » si offrì Ambra.
« l’importante è che ora sono arrivata no? Allora, come ha giocato finora mia sorella? »
 
Erin riprese fiato.
Anche il terzo quarto si era concluso e il punteggio segnato sul tabellone era a favore della Saint Mary: 72 a 70. La ripresa di quella squadra era stata incredibile, mettendo a dura prova la stamina degli avversari. Liam era stremato: assieme a Dajan, erano gli unici della Atlantic ad aver giocato dall’inizio della partita. Il capitano però, nonostante il sudore che gli inondava il viso, non esterava segni di stanchezza. Si limitava ad asciugarsi con il panno che gli aveva allungato Kim e sorseggiare dell’acqua.
« bevi piano » si premurava la ragazza, mentre anche il resto dei giocatori provvedeva ad idratarsi.
« Liam, devi riposarti, rimetto in campo Trevor » gli comunicò Boris.
« e io? » chiese Kim ansiosa.
Il coach sospirò:
« con una giocatrice come Melanie sul campo, meglio se continuiamo a fare affidamento su Erin »
La mora annuì delusa. Era la semifinale, voleva che anche il suo contributo potesse essere più significativo ma non intendeva discutere della decisione di Boris: si fidava tanto di lui, quanto di Erin.
« vorrà dire che giocherai di più alla finale » le aveva sorriso Dajan per consolarla.
« mi sembra il minimo »
Erin nel frattempo cercò con lo sguardo la sorella, trovandola seduta tra i suoi amici.
La vide chiacchierare animatamente e sorrise, ancora incredula per quella sorpresa. Sapere che la gemella l’avrebbe vista giocare le fece ricordare quanto avrebbe voluto che anche Castiel fosse presente quel giorno. Anche se sicuramente avrebbe avuto da ridire sul suo modo di muoversi sul campo, avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di farlo almeno assistere a quella sfida. Voleva che vedesse i suoi progressi, magari strappandogli, tra un insulto e l’altro, un complimento.
Ora che finalmente poteva riposare la mente e il fisico per qualche minuto, la mora avvertì che il suo corpo era stremato. Finchè era presa dal gioco, non si era accorta di aver prosciugato fino in fondo le sue risorse. Con il ruolo che le era stato attribuito, aveva corso avanti e indietro per il campo per tutto il tempo ma non poteva certo contare sulla stamina e resistenza dei maschi. Ripetè a sé stessa che doveva resistere ancora dieci minuti ma, in quel frangente, ci pensò il suo coach a dimezzarne il tempo:
« ci ho ripensato » sentenziò Boris, fissando la ragazza con una lieve apprensione « Erin, giochi solo i primi cinque minuti, poi ti sostituisce Kim »
« perché? » protestò la cestista, tornando a fissare l’uomo. Sentì il battito accelerarle, sotto un impulso irrefrenabile:
« perché non sono sicuro che riuscirai a reggere ancora a lungo questo ritmo. Non ci sei abituata »
Le indicazioni di Boris non ammettevano repliche. Cercò lo sguardo di Faraize che si limitò ad annuirle, quasi ad incoraggiarla ad assecondare quell’ordine, senza protestare:
« d’accordo » mormorò sconfitta, mentre Kim si morse il labbro, trattenendo a stento l’eccitazione. Guardò Dajan e nessuno dei due ritenne necessario aggiungere alcun commento.
 
L’ultimo quarto era arrivato.
Gli ultimi dieci minuti che avrebbero stabilito quale delle due squadre avrebbe staccato il biglietto per la finale.
Erin inspirò ed espirò, tentando di normalizzare il battito, ma era consapevole che esso non dipendeva dalla sua volontà.
Le due squadre si erano portate ad un livello comparabile, rendendo difficile stabilire quale delle due fosse realmente la più forte.
La squadra del Dolce Amoris, partita in sordina, sfida dopo sfida, aveva acquisito sempre più sicurezza, arrivando a minare la vittoria di quella scuola che era data per trionfante, la Saint Mary.
« è il momento della verità Erin » le disse Melanie, con un sorriso quasi triste.
Dieci minuti più tardi e una delle due fazioni avrebbe dovuto incassare una bruciante sconfitta. Per quanto Melanie volesse vincere, si rammaricò al fatto che la sua felicità avrebbe comportato la delusione di quella ragazza, anche se la conosceva a mala pena. Anche in Erin volteggiavano pensieri analoghi.
Una vittoria comporta sempre per antitesi una sconfitta. Nessuno poteva sottrarsi a quella logica spietata. Era una questione manichea, bianco o nero, non c’era spazio per pareggi o compromessi.
Una delle due ragazze quel giorno avrebbe pianto di gioia, l’altra di amarezza.
Erin non sapeva quali questioni personali soffiassero sulla voglia di vincere dell’avversaria, ma era convinta che non fossero altrettanto valide quanto le sue. Doveva di arrivare in finale, vincerla e raggiungere Berlino. Non poteva aspettare giugno per riabbracciare Castiel, le mancava troppo.
Aveva bisogno di rivedere il suo sorriso sghembo, ascoltare la sua voce greve e il tono burbero con cui la punzecchiava; avvertiva una nostalgia immensa nel saperlo seduto nel banco accanto a lei, intento a scrivere spartiti che poi avrebbe riprodotto in musica, grazie e a causa di quel talento che l’aveva allontanato da lei.
Voleva sentire ancora una volta il suo profumo solleticarle il naso, quando si chinava verso il suo banco per rubarle dall’astuccio una gomma o una penna. Voleva tornare a guardare quegli occhi grigi, così unici e belli, che riuscivano a incantarla con estrema naturalezza.
Da quando aveva realizzato i suoi veri sentimenti per l’amico, le capitava spesso di soffermarsi su tutti quei dettagli che più amava di lui, crucciandosi per non averli saputi apprezzare quando il ragazzo era ancora in America.
Il fischio dell’arbitro la fece sobbalzare:
« è iniziato l’ultimo quarto. Brooks detiene la palla, che vola verso Mc Connell, rientrato in gara al posto di Farrell. Un’ala grande per un’ala piccola »
Erin scattò verso Trevor e accolse la sfera. Melanie tentò di ostacolarla ma la numero dodici, passando la palla da una mano all’altra, riuscì a smarcarsi. Toccò a Benjamin impossessarsi della sfera e correre a canestro. Reed gli rubò la palla che finì sotto le cure di Neal. Le due guardie sfrecciarono verso il cesto avversario, mentre Dajan e Trevor si precipitavano al loro inseguimento.
« ci vorrebbe Steve in difesa del canestro » riflettè Dajan, guardando di sfuggita la panchina. Boris sembrò leggergli nel pensiero e indicò al giocatore di presentarsi al tavolo dei cambi.
Con i due alle calcagna, Neal sapeva di non poter tirare: l’elevazione di Dajan avrebbe disturbato la sua traiettoria di lancio. Cercò una soluzione e la trovò nel capitano:
« Julius! »
« la palla va a Lanier, che salta per intercettare il tiro. Si porta in posizione. Mc Connell e Brooks saltano sotto canestro, creando una barriera! »
Trevor cercò di toccare la sfera ma la presa dell’avversario era talmente salda che non riuscì a strappargli l’oggetto dalle mani. Sentì però che alla sua, si sovrapponeva la mano del compagno di squadra. Insieme, impressero una tale forza che la palla sfuggì a Lanier, cadendo sul pitturato. Prima che toccasse il pavimento, Erin la intercettò.
« Ben! » lo avvertì. Melanie però non permise alla guardia rossa di ricevere il passaggio: allungò un braccio, correndo via con la sfera tra le mani:
« merda! » grugnì Erin frustrata.
« stanno giocando ad un ritmo elevatissimo » commentò Lin spiazzata.
« in pochi secondi hanno fatto un sacco di azioni » confermò Kentin.
« e sarà così per i prossimi dieci minuti » ragionò Lysandre, guardando pensieroso Erin.
La ragazza aveva il fiato corto, continuava ad asciugarsi il sudore con il dorso della mano appena ne aveva l’occasione. Era una delle giocatrici più attive sul campo, correva da un lato all’altro per assicurarsi di essere di appoggio ai compagni ma era evidentemente stremata.
« Erin stramazzerà al suolo se continua così » si preoccupò Iris, rivolgendosi apprensiva verso Rosalya.
« lo so, ma ci crede troppo per mollare. È una tosta, vedrai che la spunterà » la tranquillizzò la stilista.
Era fermamente convinta delle capacità dell’amica, non ne avrebbe mai dubitato: Erin era fatta così, per le cose davvero importanti, si impegnava al massimo e quella sua caratteristica era una delle tante qualità che la rendevano una persona speciale agli occhi dei suoi amici.
Nel frattempo la palla era tornata alla Atlantic e Steve era entrato in campo al posto di Benjamin. Dajan si era portato sotto canestro e aveva spiccato un balzo, a cui fece seguito quello di Lanier e Reed.
In quell’azione accadde qualcosa che fu l’ulteriore riprova di una delle qualità di Dajan che più erano sbocciate durante il torneo: l’elevazione. Partita dopo partita, minuto dopo minuto, i salti del capitano sembravano acquisire dei millimetri in più, arrivando così a sovrastare persino due dei giocatori più forti in assoluto che videro la palla sorvolare le loro e centrare la rete.
Così arrivarono altri due punti che avvicinavano le due squadre l’una all’altra. I tifosi esultarono ma i giocatori non potevano godersi quelle acclamazioni, dovevano restare concentrati sul gioco.
La sfera era già giunta a metà campo e la Saint Mary non intendeva lasciare che gli avversari annullassro quel vantaggio che avevano conquistato con tanta fatica. Nonostante la distanza, Neal tentò una tripla ma, non avendo la stessa precisione di Reed, toccò il ferro. Ci pensò Denzel a recuperare il rimbalzo e rimetterla dentro.
76 a 72 a favore delle maglie verdi.
Trevor rimise la palla in gioco e la deviò verso Erin. Melanie le sbarrò la strada guardandola dritta negli occhi. Erano state poche le occasioni, durante l’intero scontro, in cui la bionda era riuscita a rubarle la sfera e non intendeva permetterle di aumentare la sua statistica di successi. Ormai conosceva i trucchi dell’avversaria, anche perché non erano altro che la bella copia, perfezionata e curata, dei propri. Tecnicamente Melanie era migliore di lei, ma Erin sapeva essere più istintiva e per questo, imprevedibile.
La vide alzare lo sguardo e dalla sua espressione capì che alle sue spalle doveva esserci un proprio compagno di squadra. Ne ebbe la conferma quando da dietro sentì Trevor esortarla:
« Cip, passa dietro! »
Senza pensarci due volte, la tweener eseguì il comando per poi scattare in avanti, a supporto dell’ala grande.
Prima che potesse penetrare nell’area dei tre punti e permettere al ragazzo di passarle la palla, vide materializzarsi Dajan: tra lui e l’amico ci fu un fugace scambio di sguardi, dopo il quale Trevor lasciò che la sfera volasse verso il tabellone.
« troppo facile » commentò tra sé e sé Lanier, saltando verso l’alto per stoppare il tiro.
Dajan però, pur spiccando un balzo un secondo dopo, riuscì a raggiungere prima il cuoio del pallone e con una delle azioni che ormai lo identificavano come giocatore, la schiacciò a canestro, regalando l’ennesimo, spettacolare alley-oop.
« è una sfida punto a punto » disse Faraize che non batteva ciglio. Erano passati tre minuti dall’inizio del quarto e il ritmo di gara era sempre più sostenuto.
« Kim preparati perché sarà tutt’un’altra storia rispetto a prima » la ammonì severamente il coach.
La mora annuì, deglutendo nervosamente. Passavano i secondi e, appena una squadra segnava, l’altra rispondeva. Non c’era tempo per gli errori, anche la più piccola indecisione avrebbe compromesso la gara.
Quando nello scontro tra Trevor e Reed la palla atterrò fuori dal perimetro di gioco, venne data l’autorizzazione per l’ingresso in campo di Kim.
I cinque minuti erano volati e per Erin era arrivato il momento di passare il testimone all’ex velocista.
La mora cercò Melanie con lo sguardo ed intercettò un sorriso che non riuscì a descrivere.
Era la gratitudine a trasparire dal volto felice della playmaker, anche se Erin non poteva giustificarne la causa.
« grazie » mormorò semplicemente la bionda, lasciandola confusa. Avrebbe voluto chiederle il senso di quel ringraziamento ma non c’era tempo; accorse verso Kim che fremeva dal desiderio di rimettersi in gioco.
Schiacciò il proprio pugno contro quello della compagna e le sussurrò:
« vedi di farci vincere Phoenix »
Ne uscì un ghigno carico di motivazione ed Erin abbandonò il campo, tornando a sedersi in panchina. Come era accaduto per le precedenti sostituzioni, anche la sua uscita di scena venne accompagnata da un fragoroso applauso.
Dajan accolse l’arrivo di Kim ammirandola con un’espressione affettuosa: per quanto fosse legato ad Erin, era l’altra ragazza quella che voleva al suo fianco.
« e ora, vediamo di vincere questa partita » promise a se stessa la velocista.
La compagna nel frattempo aveva trovato posto in panchina: Clinton le aveva allungato una borraccia ma, nonostante l’estremo bisogno di idratarsi, la cestista ne bevve distrattamente un piccolo sorso; non si perdeva mezzo secondo della partita, sentendosi quasi più tesa ora che non era più sul campo.
Avrebbe dovuto assistere agli ultimi minuti decisivi in quella situazione di passività e impotenza, senza poter più dare il suo contributo:
« hai fatto moltissimo per la squadra Erin, sono orgoglioso di te » le disse Boris, tenendo le braccia incrociate e lo sguardo inchiodato sul campo.
Lei rimase in silenzio, mentre il sudore le bruciava gli occhi. Raccolse un paio di lacrime ma, poiché si rivelarono più copiose dell’atteso, sospettò che non fossero scaturite solo da una questione fisica.
La tensione le stava logorando i nervi.
« ragazzi, vi prego » li supplicò mentalmente, senza esternare alcun fonema.
Kim aveva la palla e l’aveva deviata verso Dajan.
« il playmaker cerca il compagno Mc Connell ma la sfera viene intercettata da Reed… ecco che la guardia parte al contrattacco »
« KIM! OCCHIO A MELANIE! » urlò Boris, studiando le occhiate fugaci di Isiah. La giocatrice si frappose nella traiettoria che congiungeva Green e Reed, impedendo al primo di passare la palla alla seconda.
Dietro le spalle, Isiah avvertì la presenza di Neal e, con un passaggio da dietro, la palla finì alla seconda guardia.
« CAZZO! » imprecò Steve, appena la Saint Mary segnò con una tripla perfetta.
Erin cominciò a mordersi le unghie, vizio che non le era mai appartenuto.
Anche se era ferma immobile, il fiato le si accorciava sempre di più, come se quell’ambiente si impoverisse gradualmente di quel gas vitale che è l’ossigeno. I suoi polmoni e il suo cuore lavoravano compulsivamente, mentre un tremore incontrollabile la attraversava da parte a parte.
« Erin, ti senti bene? » si preoccupò Faraize, guardando il volto diafano della studentessa.
« s-sì » farfugliò flebile, senza degnarlo di una singola occhiata.
Era sull’orlo di un attacco di panico.
Miss Joplin aveva spiegato che quando si va in iperventilazione, è necessario respirare anidride carbonica dentro un sacchetto, per normalizzare l’eccessivo apporto di ossigeno. Non sapeva se era davvero quello la causa alla base della sua ansia crescente, ma nel dubbio e in mancanza di un qualsiasi contenitore conforme allo scopo, la cestista congiunse le mani davanti al naso, cercando di intrappolare l’aria che espirava, al suo interno.
Realizzò che fosse inutile, doveva trovare un modo per calmarsi ma ogni azione, amica o nemica, la faceva sussultare.
Era una situazione da cardiopalma.
Dajan aveva appena segnato un canestro.
Dopo meno di un mnuto, la Saint Mary aveva risposto con una schiacciata.
I secondi segnati sul tabellone passavo in fretta e lei non sapeva come rallentare quella fuga del tempo.
Kim correva da un lato all’altro del campo con Melanie che non le dava tregua.
Wes era appena scivolato sul pitturato, strofinando le ginocchia contro il suolo. Quando si era rialzato, la pelle era stata sfregata via, lasciando intravedere una strisciolina di sangue rosso scarlatto. Ignorando il bruciore, la guardia passò distrattamente la mano impregnata di sudore e sporcizia sulla ferita, acuendo il dolore.
I corpi dei cestisti erano grondanti ma nessuno aveva il tempo per tamponare il sudore, il cui sapore arrivava ad inumidire le labbra.
Il punteggio si era ribaltato e, per appena due punti, il Dolce Amoris era tornato in vantaggio: 84 a 86.
La panchina avversaria non esitava a spronare i compagni, così come quella della Atlantic.
La tensione aumentava con la diminuzione del tempo a loro disposizione.
« due minuti gente! » riepilogò uno dei due cronisti.
« due minuti… » ripetè nervosamente Faraize.
Erin inspirò: non riusciva a calmarsi, aveva la pelle d’oca e i muscoli tesi come se fossero sotto esercizio. Lo stress la stava uccidendo, le due squadre avevano raggiunto un livello troppo simile per riuscire a prevedere la conclusione di quell’avvincente sfida; appena la Saint Mary segnava un punto, l’Atlantic rispondeva a tono.
« calmati » ripeteva a sé stessa, ottenendo l’effetto contrario.
Un minuto.
84 a 83.
Un punto di vantaggio per la Saint Mary.
Sessanta secondi e avrebbe finalmente avuto una risposta alla sua preghiera.
Il destino non poteva essere così beffardo da averla dapprima illusa con quell’opportunità di volare nella città dove si trovava il ragazzo di cui era innamorata per poi sottrarle la felicità ad un passo dal suo raggiungimento.
Volle credere di meritare un riconoscimenti per l’impegno e il tempo che aveva investito per realizzare quell’obiettivo.
Anche se era convinta che non le fosse più rimasta una briciola di energia, scattò in piedi e cominciò ad incitare:
« DAI RAGAZZI! UN ULTIMO SFORZO! »
I suoi compagni accanto a lei, la imitarono e ben presto anche gli avversari fecero altrettanto.
Erano gli ultimi secondi di tifo, quelli in cui ogni cestista mise in gola quanta più energia gli scorresse in corpo, quasi a scaricare l’adrenalina.
Anche il resto del pubblico non si risparmiava e ormai le voci dei telecronisti erano inudibili.
Dieci secondi e il punteggio era rimasto invariato.
89 a 88 per la Saint Mary.
Dajan riuscì a strappare la palla a Lanier, sollevando un boato dalla folla:
« FORZAAA!! »
Lanciò la palla a Trevor e da lì a Steve.
Tre secondi ma il ragazzo era troppo lontano da canestro. Da quella distanza il pivot non poteva farcela.
« PASSAMELA! » gli ordinò Dajan.
Non avevano altra scelta.
Anche se era lontano dal canestro, doveva puntare tutto su quel tiro.
Dalla panchina, Erin rivisse quella che era stata la sua prima partita in quell’incredibile torneo quando lei, a pochi secondi dalla fine, aveva lanciato la palla che li aveva condotti alla vittoria.
Avevano bisogno di quella tripla, come ne avevano avuto bisogno per sconfiggere la Berrytown HS.
Due secondi e la palla lanciata dal capitano era ancora in orbita.
Gli spettatori avevano il fiato sospeso.
« entra » la supplicava Erin.
« ENTRA! » urlavano con veemenza i cestisti attorno a lei.
« fuori! » sbraitavano gli avversari che non sarebbero mai riusciti a raggiungerla in tempo.
« ti prego, entra » ripetè la ragazza, come una preghiera.
« ti prego, non entrare » sibilò Melanie, guardando la sfera con apprensione.
Il respiro di Dajan era frenetico, il suo petto si alzava e abbassava in modo quasi innaturale.
« entra, cazzo » implorò, tenendo lo sguardo fisso verso il canestro.
Migliaia di occhi in quel momento erano direzionati in quel punto.
La palla toccò la superficie del ferro circolare, cominciando a rotolare in equilibrio precario su di esso.
Dajan allora accelerò verso la rete, con la determinazione di darle la giusta spinta che l’avrebbe fatta scivolare attraverso la rete.
La palla compì un altro mezzo giro e, prima che il capitano della Atlantic potesse balzare in suo soccorso, ricadde a terra.
Senza attraversare la rete.
Suonò la sirena.
La partita si era conclusa.
La Saint Mary HS accedeva alla finale.
La Atlantic HS era fuori. Aveva mancato il bersaglio, come la palla lanciata dal suo capitano.
Le gambe di Erin la abbandonarono improvvisamente, mettendo la ragazza in ginocchio.
Ci aveva sperato.
Fino all’ultimo, ci aveva sperato.
« merda » sibilò Clinton, a denti stretti.
Liam affondò le unghie nei palmi delle mani, mentre Gordon, da sempre il più emotivo della squadra, avvertì delle lacrime di delusione a velargli lo sguardo.
Ci avevano creduto tutti, fino all’ultimo.
Boris, dopo un gesto di delusione in cui si era portato le mani tra i capelli, si era ricomposto e aveva guardato amareggiato i suoi ragazzi sul campo: Trevor si era seduto a terra, con la testa a penzoloni e gli avambracci appoggiati sulle ginocchia. Steve aveva il fiatone e fissava ancora incredulo il canestro mentre Wes si era accasciato al suolo, sbattendo un pugno contro il pitturato:
« e che cazzo! » l’aveva sentito imprecare frustrato.
Kim invece aveva un’espressione diversa da tutti: osservava con apprensione Dajan, rimasto immobile a metà campo, mentre gli avversari intorno a lui erano esplosi dalla gioai.
Il palazzetto era dominato dalle grida della tifoseria della Saint Mary che mai prima di allora si era tanto appassionata alla partita della sua squadra. Il preside dell’istituto applaudiva orgoglioso, sperando di incrociare, seppur da quella distanza, lo sguardo sconfitto di Boris.
Se il tifo e la gioia della Saint Mary erano incontrollabili, la delusione del Dolce Amoris era sin troppo tangibile:
« Dajan… » gli sussurrò Kim, appoggiando delicatamente una mano sulla spalla del ragazzo.  
Lui non rispose e si limitò ad allontanarsi da lei in silenzio.
Aveva sbagliato tiro. Sarebbe bastato attendere un altro secondo prima di lanciare, avvicinandosi di più al canestro e poi scattare sotto di esso, approfittando del tempo che la palla aveva indugiato in equilibrio sul ferro.
Quell’errore era costato il titolo alla sua squadra.
Melanie corse incontro ad Erin, cercando per rispetto dell’avversaria, di contenere la propria gioia.
Doveva ringraziarla e complimentarsi con lei per l’ottimo gioco ma appena fu a pochi metri di distanza, si paralizzò. La ragazza aveva il capo chino e, tra i ciuffi di capelli che le coprivano la fronte, la playmaker intuì un’espressione talmente tetra da farla rabbrividire.  
La squadra dell’Atlantic ritornò mestamente in panchina, in silenzio.
« vi siete fatti onore ragazzi » tentò di consolarli Faraize, con un sorriso incoraggiante e dando una pacca sulla spalla a Trevor. Il ragazzo si mise l’asciugamano in testa e, contrariamente alla sua natura, non spicciò mezza parola. Il capitano afferrò la propria felpa, intenzionato ad abbandonare la palestra, ma ci pensò il coach a trattenerlo
« Dajan aspetta, c’è il saluto finale » gli ricordò con amarezza.
Il ragazzo non si scompose e si limitò ad annuire mestamente; Kim si sentì stringere il cuore: era la prima volta che provava la sensazione di una sconfitta collettiva, lei che era abituata alle competizioni individuali. La disperazione e l’afflizione dei suoi compagni le facevano più male di quando era lei a fallire da sola.
« il prof ha ragione » aggiunse Boris, riferendosi alle parole dell’insegnate di ginnastica « avete fatto del vostro meglio. Vi siete misurati con giocatori che sono stati scritturati dall’NBA! Non abbattetevi, pensate invece a dove siete arrivati »
Per quanto i due adulti ci provassero, non c’era nulla che potessero dire per risollevare il morale dei cestisti. Clinton aiutò Wes a medicarsi la ferita che si era fatto un minuto prima, buttandoci sopra del disinfettante:
« brucia un sacco » mormorò la guardia, ma il dolore a cui si riferiva non era quello scaturito dalla lesione cutanea.
 
« peccato » sospirò Iris affranta.
« ci hanno tenuto con il fiato sospeso fino all’ultimo, non avrei mai pensato che il basket potesse essere così appassionante » replicò Alexy.
« già » aggiunse semplicemente Lysandre. Lin, seduta accanto a lui, fissava con apprensione la figura slanciata di Liam, a bordo campo. Prese il cellulare e digitò:
« sei stato mitico, è tutto ciò che conta »
Sperò che lo leggesse il prima possibile, che si sbrigasse a cambiarsi e uscire dallo spogliatoio. Voleva parlare con lui, tentare di risollevargli il morale perché vederlo così abbattuto le lacerava l’animo.
Gli amici di Erin aggiunsero tutti un qualche commento alla partita, l’unica però che era rimasta in silenzio era Rosalya. Teneva gli occhi felini puntati sulla mora, torturandosi le mani:
« Erin… » pensò tra sé e sé, mentre la gola le si seccava. In quel momento desiderò ardentemente che ci fosse stato un errore, che il primo premio fosse diverso dalla città che tanto la ragazza sognava di raggiungere, ma sapeva che era impossibile.
Promise allora a se stessa che, in un modo o nell’altro, l’avrebbe aiutata economicamente a racimolare i soldi per pagarsi il biglietto per l’Europa. A costo di stare sveglia tutta la notte a cucire. Erin era la stata la sua prima vera amica, le voleva bene come ad una sorella e non poteva accettare di vederla in quello stato.
 
Le due squadre si allinearono: Julius allungò la mano a Dajan, stringendogliela con veemenza:
« ehi Brooks, sta pur certo che questa non è l’ultima volta che ci affrontiamo »
Il capitano della Atlantic trovò lo spirito per sorridere appena, intriso di amarezza. Nonostante la convinzione dell’avversario, quello scontro aveva rappresentato la prima e unica volta in cui i due si erano affrontati da cestisti. Diversamente dal prodigio della Saint Mary infatti, Dajan non era stato scritturato da nessuna squadra professionista e il college presso cui aveva presentato domanda per una borsa di studio nel basket non gli aveva risposto. Di lì a pochi mesi, al termine del liceo, si sarebbe dovuto rassegnare a trovare impiego in qualche azienda e relegare il suo sport preferito, ad un passatempo per il weekend.
« sei stata grande Erin » le disse Melanie ma, analogamente al suo capitano, nemmeno la mora aveva voglia di discorrere.
Non aveva voglia di nulla.
Solo di essere lasciata sola.
Improvvisamente, prima che le due file venissero scomposte e i ragazzi abbandonassero il pitturato, partì un applauso solitario e, a ruota, uno scroscio fragoroso; tutti i giocatori sollevarono il capo verso l’alto e videro che l’intera folla del palazzetto si era alzata in piedi a ringraziare e onorare quella dozzina di giocatori che avevano combattuto una partita emozionante.
 
Si rivestì alla svelta, indossando i calzini mentre i piedi erano ancora umidi dopo aver sostato meno di tre minuti sotto la doccia. In quel momento Kim aveva semplicemente fretta di lasciare l’ambiente dello spogliatoio, reso angusto dall’atteggiamento apatico di Erin. Nonostante i tentativi della compagna di squadra di scambiare qualche parola, la cestista si era barricata in un impenetrabile silenzio che urlava al mondo il suo bisogno di essere lasciata sola.
Quella sua esigenza non poteva essere più conciliante con quella dell’ex velocista di abbandonare la stanza; era in ansia per Dajan e voleva solo raggiungerlo per tentare di confortarlo. La dolcezza non era nelle sue corde, ma non poteva permettergli di abbattersi, dopo la splendida partita che aveva giocato.
Kim non riusciva a sopportare la rassegnazione e, soprattutto, il senso di colpa che aveva letto nello sguardo del ragazzo dopo quel canestro mancato.
« Erin io vado, ti aspetto fuori dal palazzetto »
Dall’altra parte non arrivò nessuna risposta e Kim era comunque troppo impaziente per attenderla. Si chiuse frettolosamente la porta alle spalle, correndo lungo il corridoio e avvertendo l’aria fredda sui capelli ancora umidi.
Erin invece era immobile: in dieci minuti si era solo tolta le scarpe.
Voleva urlare, ma non aveva voce
Voleva crollare, ma il suo corpo la obbligava a stare in piedi.
Voleva piangere, ma non aveva più lacrime.
 
Kim raggiunse in fretta la porta dello spogliatoio maschile, appostandosi all’esterno.
Avrebbe voluto sentire il fracasso che popolava solitamente quell’ambiente, ma da esso proveniva solo uno spettrale silenzio.
Dopo parecchi minuti, ordinatamente e con lo stesso entusiasmo di soldati mandati al fronte, uscirono i cestisti; l’ultimo a chiudere la fila fu Trevor, che lanciò un’occhiata preoccupata verso l’interno della stanza. Aprì la bocca ma nell’arco di due secondi, desistette dalle sue intenzioni. La serrò, abbassando il capo mortificato e tirò la maniglia verso di sé, chiudendo la porta.
Kim allora si staccò dalla parete fredda e gli andò incontro:
« Dajan? » gli chiese con apprensione.
L’amico inclinò la testa di lato, in silenzio, indicando il locale dietro di lui. Non riteneva necessario aggiungere altro, la richiesta del capitano di essere lasciato solo era fin troppo comprensibile.
L’ala del liceo si allontanò ma Kim non lo imitò: rimase a fissare quella porta chiusa, tormentandosi sul dal farsi. Il cuore le martellava nel petto e un tremolio diffuso la pervase. Inspirò nel tentativo di calmarsi, ma peggiorò la situazione.
Portò una mano tremante sulla maniglia in plastica nera e la lasciò sospesa, in attesa di trovare il coraggio di abbassarla. Non poteva lasciarlo così, non dopo averlo visto così abbattuto.
Chiuse gli occhi e, dopo aver tirato un profondo respirato, mormorò:
« Dajan? »
Non giunse alcuna risposta, così tentò con:
« sono Kim… posso entrare? »
Ancora una volta non ebbe alcun segnale di vita così si decise a varcare l’ambiente.
La stanza era esattamente come quella in cui aveva appena lasciato Erin. La luce proveniva solo dalle finestre smerigliate poste in alto, rendendo nell’ambiente una penombra diffusa.
Trovò il ragazzo seduto su una panchina, con l’asciugamano calato sulla testa, a nascondergli il viso e il busto piegato in avanti. Era uscito da poco dalla doccia, vestendo solo la parte inferiore del corpo con i pantaloni neri della tuta. Kim arrossì in imbarazzo alla vista del torso nudo del cestista, ma per sua fortuna, lui non potè accorgersi di nulla. Del resto, da quando lei era entrata, non si era mosso di un millimetro.
La ragazza si accucciò davanti a lui, chinando il capo per intercettarne il viso.
« ehi » lo destò con dolcezza.
Quella voce quasi non le apparteneva, con il capitano riusciva a manifestare una tenerezza e femminilità che non pensava di avere. Le sue dita sottili risalirono lungo l’asciugamano e, afferrandone delicatamente un lembo, lo lasciò scivolare via dalla testa del ragazzo; neanche quell’azione aveva smosso il corpo di Dajan, che continuava a tenere il capo chino.
« abbiamo fatto del nostro meglio » esordì Kim.
Dopo un interminabile silenzio, dal torace del ragazzo uscì una voce roca:
« voi siete stati impeccabili. Sono io che ho fatto un errore che ci è costato la finale »
« non è vero! Non hai mi giocato meglio di così! Eri a livello di Lanier! »
C’era una nota di panico nel suo tono, scaturita dalla preoccupazione per l’atteggiamento colpevole e ferito del cestista. Il moro infatti non replicò subito ma si alzò in piedi, scostandosi dalla ragazza.
Si portò vicino alla parete, dandole le spalle e lei si limitò a seguirlo come un’ombra.
« non cercare di consolarmi Kim, mi fai solo sentire più patetico. Adesso esci, dì agli altri che se ne tornino in hotel, io vi raggiungo dopo »
La ragazza però non poteva accettare quell’ordine, così sbottò furente:
« non ti lascio solo! »
Gli occhi di Dajan diventarono allora due fessure e, prima che lei facesse in tempo ad accorgersi del cambio repentino di umore, aveva alzato la voce:
« AH NO? E ALLORA PERCHÉ TE NE VAI IN NORTH CAROLINA? » velenò con rabbia, costringendola ad indietreggiare leggermente. Si trovò con le spalle contro una rientranza della parete, mentre lui la inchiodava con il suo sguardo ferito.
In un attimo era esplosa una questione che avevano lasciato sopire, che nulla centrava con il motivo della delusione del ragazzo.
Dajan la guardava dritta negli occhi, lasciandole leggere quanto fosse ferito e rammaricato.
Non stava più parlando della sconfitta.
C’era qualcosa che gli rodeva, che lo tormentava e che lei era stata così cieca da non cogliere nella sua essenza. Quello che la inchiodava contro il muro non era lo sguardo di un amico deluso, era qualcosa di diverso, di più profondo e intenso.
Fu così allora che, finalmente, Kim riuscì a trovare una risposta che improvvisamente le apparve banale e scontata. Il problema era che non si era mai posta le domande giuste: perché Dajan le aveva fatto un regalo a Natale? Perché aveva l’impressione che i sorrisi che le riservava fosse più belli di quelli che regalava al resto del mondo? Perché a volte arrossiva e si trovava a disagio con lei?
Perché era così scema e ingenua da non accorgersi che quello che lei provava per lui, era ricambiato da molto tempo?  
« sei un idiota » mormorò sottovoce, abbassando il capo.
« cosa? » domandò Dajan, visibilmente spiazzato, corrugando la fronte.
« sei un idiota perché non mi hai dato il tempo di spiegare »
« spiegare che cosa? » ribattè spazientito.
« che non ho mai accettato la borsa di studio del North Carolina! » asserì lei, tornando a fissarlo in faccia, mentre le guance le si imporporavano.
Toccò a lui trovarsi in difficoltà, di fronte a quegli occhi accusatori che la tensione del momento rendevano più lucidi.
« l-l’hai rifiutata? » farfugliò sconvolto, mentre la rabbia veniva gradualmente rimpiazzata dalla più totale perplessità.
« l’ho rifiutata » confermò Kim, annuendo con decisione.
« rifiutata » boccheggiò sempre più confuso.
« ma ti sei rincoglionito? » sbottò nervosamente, roteando gli occhi verso l’alto « sì, ho detto a quelli del Tal Heels che non se ne fa niente, nein, nisba, nada, rien, baguette! » cominciò a elencare parole a caso la cestista, sempre più in imbarazzo.
« perché? » le chiese; lui non se ne accorse ma la rabbia e la delusione erano spariti e al loro posto era rimasto un sorriso che aumentava di secondo in secondo, una felicità incontenibile generata dalla notizia che aveva appena udito.
Kim cercò di calmarsi ma il suo cuore aveva ormai raggiunto un ritmo incompatibile con la vita. Le gote erano roventi e la bocca impastata dall’imbarazzo. Abbassò nuovamente lo sguardo, incapace di sostenere quello sincero di lui che, istintivamente aveva avvicinato il suo corpo, diminuendo la distanza tra di loro:
« non posso accettare di andare in un college dove … » deglutì a fatica. Non riuscì a completare la frase, il suo orgoglio le rendeva quella confessione particolarmente dura da espletare a voce alta; vedendola in difficoltà, Dajan completò soddisfatto:
« dove non ci sia una pista di atletica »
« no, scemo » lo smentì, tornando a fissarlo dritto in faccia « dove non ci sia tu »
Accadde tutto troppo velocemente perché Kim avesse il tempo di accorgersene: Dajan le afferrò il polso e, senza esitazione, incollò le sue labbra contro quelle di lei, schiacciandola contro la parete.
Era finito il tempo per le esitazioni e i dubbi.
Kim era il premio migliore che potesse vincere, tutto ciò che gli mancava per essere davvero felice.
L’aveva vista sfrecciare più volta su una pista, libera e sfrontata, ammirandone la fierezza. Era diversa da tutte le altre ragazze, con lei poteva parlare di sport per ore, senza rischiare di annoiarla; aveva inoltre uno spiccato senso dell’umorismo e un livello di competitività e determinazione che solo uno sportivo come lui poteva apprezzare. Come se quell’affinità non fosso sufficiente, Kim era ai suoi occhi indescrivibilmente bella, specie quando la sua corazza da dura veniva scalfita e si lasciava andare rari ma dolci sorrisi. Ne amava la celata tenerezza, ma adorava anche la sua energia e sicurezza in sé.
Si rese conto del tempo che aveva sprecato e, dall’impacciata passione con cui lei rispondeva al suo bacio, capì che probabilmente stava pensando la stessa cosa.
Non era necessario aggiungere altro, nel silenzio di quell’atto, si stavano già dicendo tutto, sopratutto quanto fossero intensi e soprattutto reciproci, quei sentimenti.
Mollò la presa sul polso dell’ex velocista, per portare la mano dietro la sua nuca e intrecciò le dita tra i capelli di lei, che profumavano ancora di shampoo, come ad assicurarsi che il suo viso non si staccasse dal proprio. Premura inutile, dal momento che Kim non aveva fretta di sciogliersi da lui; sentiva la pelle nuda del ragazzo aderire al suo corpo, provocandole uno strano e mai sperimentato prima, formicolio al ventre. Erano tutte sensazioni nuove per lei, per nulla paragonabili alle soddisfazioni sportive a cui era abituata.
Appoggiò, in modo un po’ impacciato e insicuro, una mano alla base della schiena di Dajan, avvertendo il contatto con la pelle calda del ragazzo.
Era il suo primo, indimenticabile bacio, destinato a imprimersi nella sua memoria, come uno dei momenti più romantici e felici della sua vita. Si staccò dal cestista che, fissandola con adorazione, balbettò imbarazzato:
« i-io non… avevo capito niente »
Kim si strinse nelle spalle. In quella circostanza era teneramente vulnerabile, lato di sé che solo Dajan riusciva a far emergere.
« sei un maschio, ovviochenoncapisciniente » masticò, mangiandosi le parole e distogliendo lo sguardo. Li si lasciò sfuggire un verso divertito:
« ehi » le sussurrò con dolcezza, passandole una mano sotto il mento, per costringerla a tornare a fissarlo in volto « questa è cattivella » scherzò, e approfittò di quell’occasione per tornare a cercare le sue labbra.
Ora che le aveva trovate, non le avrebbe più lasciate andare.
 
« devo andare da Erin! » esclamò Rosalya, facendosi spazio tra gli spettatori che stavano abbandonando gli spalti.
« Rosa, aspetta! » la frenò Iris « ci andiamo insieme »
Sophia temporeggiò: conosceva la gemella e sapeva che in un momento come quello avrebbe desiderato solo essere lasciata in pace, rifugiarsi sotto una calda coperta, in attesa che il tempo lenisse il suo dolore:
« ragazze, fermatevi » le redarguì, costringendole a voltarsi, mentre il resto degli amici ascoltava in silenzio:
« in questo momento è meglio se la lasciamo sola »
Iris la fissò indecisa, mentre in Rosalya si materializzò un’espressione di rabbia:
« tua sorella si è stancata di restare sola »
Quella frase gelò l’atmosfera: quell’accusa indiretta era una chiara provocazione verso le mancanze di Sophia, di cui tutti i presenti erano ormai a conoscenza. Erin ne aveva sofferto, ma ciò non era bastato affinchè la rossa decidesse di porre fine al suo isolamento. Abbassò il capo mortificata, mentre la stilista cercò di ricomporsi, ma l’ansia e la sincera preoccupazione che nutriva per l’amica le impedivano di farsi riguardi per la gemella:
« io vado, voi fate come vi pare » liquidò gli amici, scomparendo tra la folla.
« Iris va’ con lei » le ordinò Ambra « noi vi aspettiamo fuori, vicino alle macchine »
La rossa annuì sbrigativa e si dileguò mentre Sophia non osava guardare una direzione diversa dalle sue All Star consumate:
« ehi, non fare caso a Rosa… è un po’ impulsiva quando parla, ma ti assicuro che non voleva ferirti » la tranquillizzò Armin, mettendole una mano sulla spalla. Quel semplice contatto le infuse quel conforto di cui aveva bisogno per recuperare un po’ della sua sicurezza; guardò dapprima il ragazzo, poi Ambra e trovò a rincuorarla ulteriormente, un sorriso rassicurante.
 
« comunque grazie per il coniglietto » ridacchiò Kim, staccandosi da Dajan e sedendosi sulla panchina di legno.
« coniglietto? Hai trovato il mio regalo di San Valentino? »
« veramente se l’è ritrovato in giardino mio nonno » precisò lei, gustandosi l’espressione inebetita del ragazzo. Poiché essa non accennava a spegnersi, Kim accavallò le gambe affusolate e spiegò:
« nella casa accanto alla mia abitano i miei nonni. Il giorno dopo la nostra litigata, si sono ritrovati in giardino un pacchetto viola »
Dajan indossò una t-shirt, privando così la ragazza della visione dei suoi addominali e dichiarò:
« ecco perché non era nel bidone dove l’avevo lanciato! »
La ragazza si morse la lingua, frenando in tempo una battuta altrimenti infelice sulla mira del capitano. A causa dell’esito della partita, non era opportuno scherzare su un simile argomento:
« quando hanno visto di che si trattava, me l’hanno portato e a quel punto ho sospettato che fosse da parte tua »
Con quella dichiarazione, Dajan rimase ancora più basito:
« e perché non me l’hai detto prima? Voglio dire… »
« perché avevamo litigato » lo interruppe lei « e poi mica avevo capito che non era un regalo in amicizia » borbottò Kim a disagio.
Il cestista boccheggiò, poi scosse il capo, dapprima incredulo infine divertito:
« un ragazzo ti fa un regalo il giorno di San Valentino e tu pensi che sia solo un pensierino in amicizia? Chi è adesso l’idiota? » la canzonò, avvicinandosi a lei.
« ehi! » lo pizzicò Kim, fingendosi offesa. Lui sorrise radioso, con quella smorfia disarmante che la incantava tutte le volte. Si piegò in avanti, per azzerare la differenza di altezza tra lui che era in piedi e lei che era seduta:
« adoro il tuo sorriso » gli sussurrò Kim con timidezza, mentre le palpebre si abbassavano, preparandola a gustarsi la magia di un bacio imminente.
« io invece adoro tutto di te » concluse Dajan e silenziò ogni eventuale replica, sigillando teneramente le sue labbra, contro quelle della sua nuova ragazza.
 
Ingiusto. Meschino. Beffardo. Inaccettabile.
Avrebbe potuto trovare mille altri aggettivi per classificare il destino che le era toccato.
Un punto.
Un maledettissimo punto rappresentava quell’ostacolo insormontabile che le impediva di essere felice in quel momento. Ricacciò dentro le lacrime che finalmente avevano cominciato a sciogliersi sul suo viso ma che non erano bastate a far scaturire tutta la sua delusione e amarezza.  
La promessa fatta a sé stessa mesi prima, di non piangere mai più per Castiel, era stata nuovamente infranta e con essa si era radicata la convinzione che, quando c’era lui di mezzo, ogni sua certezza si tramutava in imprevedibilità.
Si appoggiò al parapetto della terrazza del bar, mentre un vento gelido la investiva con tutta la sua brutalità. Aver trovato casualmente quel locale all’interno della struttura che li aveva ospitati era l’unica consolazione che la ragazza era riuscita a ritagliarsi, insieme a quell’angolo di solitudine da cui non voleva uscire. Assaggiò il sapore salato delle lacrime bagnarle le labbra rosee e cercò di allontanarlo passando il dorso della mano sugli zigomi.
Dopo l’operazione della sorella, Erin era convinta di essere diventata più forte, che niente avrebbe potuto far vacillare così tanto la sua stabilità emotiva ma si era ingenuamente sbagliata.
« smettila di piangere » si rimproverò mentalmente, sortendo l’effetto contrario. I singhiozzi cominciarono a susseguirsi sempre più freneticamente, diventando più rumorosi.
In quel momento, desiderò tornare ad essere la bambina fragile e insicura di un tempo, che affossava il viso sotto una coperta o tra le braccia di sua nonna, per nascondere al mondo tutta la sua tristezza. Si sentiva troppo piccola per contenere quell’esplosione di amarezza, come se il suo corpo fosse inadatto a sostenere tutto quel peso.
Dopo averle regalato tante occasioni per ridere insieme, come poteva Castiel essere così insensibile da lasciarla andare in pezzi, proprio lui che era l’unico in grado di riaggiustare i cocci del suo animo?
Si morse le labbra, finchè il dolore autoinflittosi riuscì per un attimo a farle dimenticare la sua disperazione.
Inspirò per l’ennesima volta, anche se nel tentativo, la bocca le tremò più di prima.
« finalmente ti ho trovata »
Erin non si voltò, non era necessario per riconoscere quella voce.
Non voleva vedere nessuno che non fosse lui, ma lui non c’era e lei doveva rassegnarsi a quell’assenza per ancora molto tempo.
« lasciami sola Lysandre. Ne ho bisogno » gracchiò, cercando di infondere autorevolezza nella voce.
L’amico però ignorò quella richiesta e accorciò la distanza tra di loro.
« se fossi Castiel, mi allontaneresti? » le sussurrò gravemente. Non indagò sul senso di quella domanda, quasi non l’aveva sentita.
Non giunse alcun suono che non fosse il sibilo di un vento triste e malinconico.
Erin sollevò il bavero di un giubbotto troppo sottile per proteggerla, mentre le sue spalle rabbrividirono per un istante. Le labbra si erano screpolate, a causa dell’aria secca e del liquido salato che era scaturito dai suoi occhi feriti.
Lysandre la ammirò, mentre teneva lo sguardo vitreo fisso davanti a sé, con le spalle leggermente incurvate e contemplare il profilo della città. Non aveva faticato a capire cosa avesse fatto scaturire i sentimenti di Castiel per Erin: lei era come un uccellino infreddolito e sperduto, che innescava un senso di protezione e tenerezza in chi si soffermasse a indagarne l’animo ferito. Teneva però ben nascosto quel lato così vulnerabile di sé e l’amico era una delle poche persone ad aver avuto l’onore di avvicinarlo. Ma Erin sapeva anche essere la ragazza che consolava gli altri, che, nei momenti di difficoltà era pronta ad ascoltare e sostenere chi ne avesse bisogno. Era riuscita a far breccia in persone invalicabili come il suo amico Castiel o sua sorella Rosalya e solo per questo Lysandre non poteva non considerarla una risorsa preziosa.
Lei era di un’imperfetta perfezione: non sempre diceva la cosa giusta, ma era quella che riusciva a strappare un sorriso dove prima c’erano musi lunghi e ostilità.
Era quella bambina che non escludeva mai nessuno dai giochi, quella che si preoccupava per tutti.
Erin siincurvò ancora di più in avanti, convinta che Lysandre avesse assecondato la sua richiesta di solitudine. Il freddo cominciò a penetrarle nelle ossa ma non voleva staccarsi da quel parapetto.
Dopo qualche secondo, avvertì il contatto caldo di una sorta di manto caldo che gravava sulle sue spalle. Girò lo sguardo, incrociando gli occhi dolci dell’amico, che le sussurrò teneramente:
« non voglio che tu prenda freddo »
Il tepore emanato da quel tessuto riuscì a confortarla, attutendo la freddezza del suo animo.
« avrai freddo » mormorò Erin a disagio, declinando quella premurosa offerta.
Lui però ignorò la sua osservazione e sovrappose la sua mano a quella di lei, fermandola dall’intento di levarsi il giubbotto che le aveva offerto. La ragazza arrossì, confusa e perplessa, mentre Lysandre, con voce bassa e seria, dichiarò:
« finchè lui non torna, mi preoccuperò io di te, Erin »
La ragazza boccheggiò incapace di replicare.
Lysandre era sempre stato un ragazzo un po’ teatrale nel modo di esprimersi e atteggiarsi, ma il tono con cui aveva pronunciato quella frase lo faceva apparire stranamente credibile. C’era una profonda convinzione nelle sue parole.
Probabilmente riusciva a leggere nell’animo e nella tristezza di Erin, quali fossero i reali sentimenti che la legavano al chitarrista, ma per rispetto nei suoi confronti, non la forzava ad aprirsi. Si era limitato ad portarsi accanto a lei, ad assistere alla sua disperata lotta interiore tra il bisogno di crollare e la dignità di restare in piedi; fu a causa di quella premura e delicatezza che Erin si lasciò vincere dalla necessità di far uscire tutta la sua amarezza.
« io… ci credevo davvero Lys » cominciò a farfugliare, in preda a singhiozzi incontrollabili « volevo… vincere per giocarmi la… finale per… Berlino »
Le sue spalle sussultavano ad ogni parola, rendendo ancora più penoso il suo modo di esprimersi, così fragile e infantile.
« lo so » le disse lui dolcemente, accarezzandole la schiena.
« invece… non… »
Lysandre non le lasciò aggiungere altro, abbracciandola in silenzio e tenendola stretta a sé. Erin sgranò gli occhi, mentre le lacrime bagnavano il tessuto della maglione dell’amico.
Inspirò il suo profumo, caldo e avvolgente, come il calore che emanava il suo corpo. Era strano essere accolta tra le braccia di Lysandre, a parte suo padre, non ricordava di essere mai stata così abbracciata da un uomo in vita sua, nemmeno durante la sua breve relazione con Nathaniel.
C’era qualcosa di intenso e profondo in quella stretta, quasi di soffocante piacere.
« le persone che se ne vanno dovrebbero avere almeno il buon senso di portarsi via i ricordi » mormorò gravemente il ragazzo, mentre il respiro di Erin si normalizzava.
Se l’avesse guardato in faccia, avrebbe potuto vedere la rabbia con cui il poeta aveva rivolto quelle parole alla persona che considerava un caro amico.
 
Rosalya e Iris avevano assistito a quella scena da lontano, in silenzio. Erano giunte in quel bar proprio nel momento esatto in cui il ragazzo aveva trascinato a sé l’amica, avvolgendola tra le braccia.
« lasciamoli soli » sussurrò Iris a disagio, prendendo delicatamente il braccio dell’amica « tuo fratello se la cava da solo »
La stilista però teneva lo sguardo felino puntato sul fratello, come un predatore che ha individuato un nemico sulla sua preda. La rossa non riuscì a decifrare il senso di quell’espressione che pure durò pochi secondi, dopo i quali, Rosalya dichiarò:
« Iris, me lo fai un favore? » sibilò, allontanandosi dal terrazzo.
« di che si tratta? »
« quando torna Castiel, mi ricordi che prima devo lasciare ad Erin il tempo di abbracciarlo? »
« prima di cosa? » domandò dubbiosa l’amica, inseguendola nei corridoi.
« prima di pestarlo a sangue » dichiarò infine Rosalya, schioccando le nocche.
 
« come sarebbe a dire che era lampante? » protestò Dajan divertito « eri avvicinabile quanto un pitbull da combattimento! »
« ma che bel complimento da dire alla tua ragazza, tu sì che ci sai fare con le donne » lo rimbeccò Kim, fingendosi offesa.
Il ragazzo ridacchiò, mentre percorrevano i corridoi del palazzetto, in attesa di ricongiungersi con il resto della squadra.
L’idea di annunciare ai compagni della loro relazione li rendeva piuttosto nervosi, specie Dajan che immaginava i commenti goliardici a cui avrebbe dovuto far fronte.
« ehi Brooks, ce l’hai un minuto? »
Il capitano della Atlantic High School fu costretto a staccare lo sguardo dalla sua nuova ragazza e si trovò di fronte Julius Lanier. Fronteggiare nuovamente l’avversario, seppur fuori dal pitturato, riaffermò in lui la consapevolezza del perché fino a poco prima era particolarmente avvilito.
« sì » commentò perplesso, guardando Kim.
La ragazza sollevò leggermente le spalle, chiedendosi se non fosse il caso di lasciare soli i due capitani ma la precipitosità con cui Lanier presentò il suo accompagnatore, le fece dedurre che la sua presenza non fosse sgradita.
« lui è Rudolph Naismith, l’uomo che mi ha procurato un posto l’anno prossimo nei Boston Celtics » esordì Julius, indicando l’uomo accanto a lui. Era più basso di Kim, con un taglio di capelli molto spartano e una barba poco curata. Vestiva in modo casual e all’apparenza non si sarebbe mai pensato a lui come un talent scout. Dajan tuttavia assunse un’espressione professionale, stringendo la mano di quello sconosciuto e chiedendosi con quale intenzione Julius glielo stesse presentando.
In cuor suo era consapevole di quale potesse essere la spiegazione più logica, ma non osò sperarci finché l’uomo non parlò:
« mi occupo di scovare giovani talenti da indirizzare verso squadre professionistiche. E’ dall’inizio del torneo che ti tengo d’occhio Dajan e dopo la partita di oggi mi sono convinto a suggerire il tuo nome alla direzione dei Cavs »
« chi? » s’intromise Kim che, per quanto valida come cestista, non poteva definirsi un’appassionata di pallacanestro.
« i-i C-Cleveland Cavaliers? » tradusse Dajan, sgranando gli occhi verso Naismith.
La terra gli era mancata sotto i piedi.
Nell’arco di venti minuti, aveva perso una semifinale, conquistato la ragazza dei suoi sogni e ora il nome di una delle squadre di basket più forti del paese era arrivato alle sue orecchie.
Troppe emozioni in troppo poco tempo.
Quello dei Cavs era un nome talmente prestigioso che il cestista faticò quasi a seguire il resto della conversazione. In realtà quell’uomo gli aveva solo detto di averlo segnalato alla squadra, non aveva menzionato ad alcuna possibilità che essa fosse interessata a lui, ma la frase che seguì cancellò ogni dubbio:
« non solo. Una settimana fa ho contattato anche i Miami Heat, che vogliono rivitalizzare la squadra e ho proposto il tuo nome. Allo stato attuale delle cose, entrambe le squadre sono molto interessate a te quindi non mi è rimasto che contattarti direttamente. Tanto per iniziare, hai mai pensato di giocare da professionista? »
Dajan non aveva più saliva.
Cercò di deglutire, ma la gola era secca.
Provò a calmarsi, cercando di ragionare, ma il cervello non era collaborativo. Era a dir poco frastornato. Si sentiva come sulle montagne russe, nel momento in cui la giostra subisce una brusca accelerata.
In meno di cinque secondi era passato dalla prospettiva di diventare un impiegato statale a realizzare il più grande sogno della sua vita, quello che coltivava sin da bambino.
Non aveva avuto abbastanza tempo per metabolizzare il tutto, non era neanche sicuro di aver capito giusto, ma dal sorriso euforico di Kim, capì di non aver frainteso nulla.
« ehi Brooks, ti sei mangiato la lingua? » lo schernì Julius, che in realtà lo capiva meglio di chiunque altro, essendosi trovato nella stessa situazione alcuni mesi prima. Era una soddisfazione indescrivibile, la realizzazione di ogni sforzo e impegno che venivano riconosciuti con la ricompensa di massimo grado.
« saresti il benvenuto nell’NBA, il basket ha bisogno di nuovi giocatori giovani, da affiancare alle leggende viventi che ora come ora dominano sul pitturato, ma che non sono eterne. Tu hai dalla tua un’incredibile capacità di elevazione che fa tanto comodo ai Cavs quanto ai Miami Heat. Capisco che tu non possa darmi una risposta così su due piedi, quindi io intanto te l’ho detto. Ti lascio un po’ di tempo per pensarci, questo è il mio contatto » e gli allungò un biglietto da visita « ora scusami, ma ho un appuntamento… speriamo di sentirci presto campione! » e con una violenta pacca sulla spalla, Naismith si allontanò, lasciando Dajan sempre basito, al punto che toccò a Kim salutare l’uomo al posto del suo ragazzo.
Era apparso all’improvviso e si era smaterializzato con altrettanta velocità.
« dimmi che non è un sogno » boccheggiò Dajan, che dovette ricorrere a tutte le sue riserve di testosterone per non esplodere in un pianto di gioia. In tutta risposta la ragazza gli pizzicò la pelle così forte da strappargli un verso di dolore:
« ahia! »
« così sai che è reale » replicò Kim placidamente, senza smettere di sorridere.
« beh io vado » farfugliò Lanier, cogliendo l’impressione di essere di troppo. Naismith l’aveva contattato, chiedendogli di presentarlo a Dajan dopo la partita ed ora che il suo compito era stato assolto, non aveva motivo per trattenersi ancora. Si ficcò le grandi mani nelle tasche della tuta, distanziandosi dai due innamorati.
« ehi Lanier » lo fermò Dajan.
Il cestista si voltò, per sentirsi dire, da uno dei sorrisi più radiosi e sinceri che avesse mai visto:
« grazie »
Neanche ricordava l’ultima volta che una persona l’avesse ringraziato di cuore. Lui non era tipo da fare favori alle persone, e del resto era convinto che nemmeno in quel caso si meritasse la gratitudine dell’avversario. Semmai il contrario.
Sfidando la squadra di Dajan, aveva aperto gli occhi su cosa fosse realmente il gioco di squadra, facendogli scoprire una nuova visione del basket, più autentica di quella che aveva conosciuto.
« non è me che devi ringraziare Brooks. Hai talento, punto. Ti anticipo che anche i Celtics, la squadra per cui giocherò io, ti hanno adocchiato… non mi sorprenderebbe se al prossimo incontro con Naismith ti parlasse anche di loro »
Una puntina di invidia c’era. Inevitabile visto che un anonimo liceale, messo alla guida di una squadra di basket amatoriale, era diventato il giocatore con il record di ingaggi professionistici. Lanier poteva vantarne due, Reed e Melanie uno.
« hai fatto tombola Dajan » esultò Kim, dando un’energica pacca orgogliosa sulla spalla al ragazzo.
« ma i Celtics non hanno già preso te? » domandò il ragazzo, che cominciò a dubitare che Lanier volesse prenderlo in giro.
« già, quindi te lo metterò nero su bianco: preferisco affrontarti da avversario che averti in squadra. Sarebbe molto più stimolante, non trovi? » commentò con un sorriso sprezzante.
In quel semplice ghigno, Julius riuscì a trasmettergli tutta la stima e il rispetto che Dajan, in quaranta minuti di gioco, era riuscito a guadagnare.
Sentimenti che erano reciproci tra i due capitani.
Kim vide un ghigno eccitato dipingersi sul viso del suo ragazzo che, tenendo lo sguardo fisso sull’avversario, dichiarò:
« preparati allora, perché la prossima volta non riuscirai a battermi»
 
Sophia premette l’indice contro il campanello in ottone, attendendo impaziente il momento in cui sua madre si sarebbe materializzata alla porta. Lanciò uno sguardo fugace alla sorella, in piedi accanto a lei, che però non condivideva lo stesso entusiasmo.
Le due gemelle erano state riaccompagnate ad Allentown dai gemelli e da Ambra ma per tutto il viaggio Erin non aveva spiccicato più di mezza parola.
Era stata Sophia a prendere quella decisione per entrambe: la sorella era troppo demoralizzata e trascorrere un paio di giorni in famiglia, prima della partita per il terzo posto, l’avrebbe aiutata a riprendersi. Tornò a premere sul campanello, infastidita dall’attesa ma non fu Amanda la figura che si apprestò ad accoglierle: Sophia ed Erin furono così costrette ad abbassare il capo verso una figura minuta e ingobbita, dalla pelle increspata.
La vecchina aveva degli occhi porcini, ridotti a due fessure nel tentativo di mettere a fuoco la figura che la sovrastava di pochi centimetri. La pelle, abbronzata dalle continue gite al mare, era increspata da profonde rughe, particolarmente evidenti sulla bocca e sulla fronte.
« Fifì! » squittì, facendo sussultare la ragazza davanti a lei.
« no mamma, semmai deve essere Erin…. Sophia è in California » precisò la voce di Peter, proveniente da un punto indistinto della casa.
« mica è così rincoglionita la nonna! » lo corresse la voce divertita della rossa « riesce ancora a distinguermi perfettamente da mia sorella »
A quelle parole, Peter si presentò alle spalle dell’anziana madre, strabuzzando gli occhi:
« t-tesoro! Ma… che ci fai qui? »
« vuoi che me ne vado? » scherzò Sophia, facendo segno di allontanarsi. In tutta risposta la nonna le afferrò una guancia e cominciò a strattonarla:
« la solita burlona Fifì! Ma quanto ti sei fatta grande eh? »
« ahio… » mugolò la nipote e mentre cercava di sottrarsi a quell’affettuosa tortura, la nonna cominciò ad annusarla circospetta « e… puzzi di fumo! »
« ti sbagli! » scattò sulla difensiva la più ribelle delle due ragazze. Anche Peter si avvicinò sospettoso alla ragazza e, con uno sguardo severo, tuonò:
« hai fumato? »
« a-assolutamente no! » mentì Sophia « chiedetelo ad Erin! »
Solo in quel momento i due adulti si accorsero che, nascosta dalla loro visuale, alla destra di Sophia, c’era anche la gemella:
« oh Ninì, fatti abbracciare. Che bella sorpresa! Non ci avete detto che sareste venute! » la accolse la nonna ma la mora rispose con un sorriso stanco a quell’abbraccio:
« qualcosa non va’? E’ per la partita? » indagò la vecchina e, senza attendere una risposta, aggiunse « non ti demoralizzare tesoro, sono sicura che la prossima la vincerete, verrò anche io! » le promise, battendosi la mano sul seno floscio ma assumendo un atteggiamento battagliero.
« no! » sbottò Erin, parlando per la prima volta dopo due ore di viaggio.
« non vuoi che venga la tua cara nonnina? » piagnucolò nonna Sophia, mettendo il broncio.
La nipote si trovò spiazzata, mentre la sorella rideva sotto i baffi. Finalmente la medicina che aveva pensato per sua sorella, cominciava a fare effetto.
Quando Erin era piccola, solo quella vecchietta riusciva a farle tornare il sorriso. Ogni volta che qualcuno le faceva un dispetto o trovava un pretesto per piangere, correva a rifugiarsi da lei, versando lacrime e muco sulla spalla morbida della donna che, nonostante quella disgustosa inondazione, non si era mai lamentata.
« nonna » sospirò Erin « è meglio che rimani a casa. Sei troppo… »
« energica » suggerì Peter.
« invadente » precisò Sophia.
« imbarazzante » chiarì Erin.
« viva » concluse la donna, arricciando il naso indispettita e rientrando in casa.
Sophia scosse il capo e varcò la soglia, seguita dalla sorella.
Si guardò attorno felice e inspirò.
Era a casa.
Finalmente.
 
Dopo pochi minuti, direttamente dal giardino e con le mani sporche di terriccio, soggiunse Amanda, che investì le figlie con le sue domande e preoccupazioni:
« oh tesoro, vedrai che la prossima partita la vincete » si premurò, rivolgendosi alla cestista. La ragazza rimase inespressiva e, richiedendo espressamente di essere lasciata in pace, si rifugiò in camera.
La psicologa attuò allora il suo interrogatorio sulla seconda figlia, dalla quale però non ottenne informazioni aggiuntive rispetto a quelle che aveva ricevuto al telefono dalla cognata, appena un’ora prima.
La famiglia si era sì ricomposta, ma quel giorno non tutti i suoi membri erano pronti a riunirsi felici come un tempo.
 
Il soffitto non le era mai sembrato così interessante come in quel momento. A forza di fissarlo, riusciva quasi ad immaginare che fosse diventato il pavimenti di una stanza assurda dove il lampadario era in realtà una sorta di bicchere capovolto.
Erin era distesa sul letto, con lo sguardo perso sulla superficie piatta e uniforme che la sovrastava, incapace di concentrare la sua attenzione su un punto preciso. Chiuse gli occhi e svuotò la mente.
Ora era il buio a dominarla, mentre attorno a lei la raggiungevano incerti dei rumori ovattati. Parole confuse, discussioni di cui non riusciva ad afferrare nitidamente il senso. Le voci dei suoi familiari erano troppo lontane perché riuscisse a decifrarle.
Poi un volto.
I tratti erano mascolini, la mascella squadrata ma ben proporzionata. Si intravedeva un sorriso bianco e spregiudicato, dietro quelle labbra un po’ sottili, posizionate sotto due occhi grigio fumo.
Era un volto unico, impossibile da confondere con altri, lo stesso che avrebbe voluto vedere in carne e ossa e non come una proiezione irreale della sua mente.
Nell’immaginario di Erin, Castiel era rimasto lo stesso ragazzo dai capelli rossi che aveva visto per l’ultima volta dal vivo sul palco del liceo, prima di Natale. Eppure sapeva che la sua chioma fiammante era un lontano ricordo, a causa del cambio look a cui l’avevano costretto i suoi esuberanti nuovi amici. Era curiosa di vedere se e quanto fosse diverso, con i capelli più corti e neri, dal momento che dalla videochat di Skype non aveva potuto apprezzare quella vista.
Allungò un braccio a tentoni, finchè afferrò il cuscino morbido che sua madre aveva sistemato con cura e lo strinse al petto, immaginando che quel corpo amorfo fosse in realtà quello del ragazzo.
Un brivido la percorse da parte a parte, ricordando l’abbraccio che qualche ora prima le aveva regalato Lysandre, mentre lei non aveva potuto fare a meno di desiderare che fosse Castiel l’artefice di quella stretta.
« mi manchi così tanto, scemo » sussurrò al cuscino. Ormai le lacrime erano prosciugate, lasciando il posto per una nostalgia incolmabile. Affondò il viso nell’imbottitura del guanciale quando sentì il materasso vibrare sotto di lei.
Quel giorno il suo ottimismo era stato talmente annichilito che non pensò che potesse essere Castiel a chiamarla e, nel leggere un numero sconosciuto, ne ebbe la conferma:
« pronto? Erin sei tu? »
La mora non riuscì a riconoscere quella voce femminile, anche se le risultò indiscutibilmente familiare.
« sì… chi parla? »
« sono Melanie… Melanie Green »
La ragazza staccò la schiena dal letto, mettendosi seduta.
« Melanie? »
« già. Sorpresa? »
« beh sì. Non mi aspettavo che mi chiamassi » borbottò perplessa. Era strano per entrambe trovarsi al telefono, dopo essersi affrontate sul campo poche ore prima e proprio per questo, Erin non sapeva bene come comportarsi.
« in realtà avrei voluto parlarti oggi pomeriggio, ma dopo la partita non sono riuscita a beccarti in giro »
Giustificazione più che plausibile dal momento che la cestista, dopo aver trovato consolazione tra le braccia di Lysandre, si era fiondata in macchina, sottraendosi all’attenzione generale.
« mi sono fatta dare il numero dalla tua amica Kim… spero non ti dispiaccia » proseguì Melanie.
« no, no, che dici » farfugliò disorientata.
Dall’altra parte sentì che la ragazza inspirava, come se dovesse prepararsi ad annunciare una notizia importante:
« comunque sia, ti chiederai perché ti ho chiamata… beh vedi, è stata tutta un’idea di Isiah, hai presente il mio compagno di squadra? Isiah Reed? »
« sì, sì » confermò Erin frettolosamente, sempre più ansiosa di sapere la verità.
« beh ecco, so che è prematuro dirtelo ma vedendoti così demoralizzata oggi, ho pensato che forse sarebbe stato meglio dirtelo subito »
Il peluche a forma di orsacchiotto che giaceva sul letto di Erin divenne oggetto di tremende torture da parte della sua proprietaria che, incapace di trattenersi, sbottò:
« Melanie, ti prego, potresti andare al dunque? »
Era irrazionale l’eccitazione che sentiva crescerle dentro: Melanie non le aveva ancora dichiarato le sue reali intenzioni, eppure in un minuscolo angolo della sua mente, l’istinto aveva cominciato ad urlarle qualcosa che la faceva tremare di speranza:
« sì, scusa, è che non sono molto pratica con queste cose » farfugliò la cestista in difficoltà « ecco, l’idea è questa: se vinciamo il viaggio a Berlino, ti va di venirci con noi? »
Prima il silenzio.
Poi una gioia commossa.
Ed infine, le urla:
« ODDIOODDIODDDIO! PARLI SERIAMENTE?! » sbraitò Erin euforica, saltando giù dal letto. Melanie allontanò il ricevitore dall’orecchio, stordita da quell’acuto inatteso.
« sì, per le date che sono state scelte, non tutti i giocatori della mia squadra possono venire, ci sono tre posti liberi e i ragazzi mi hanno detto che potevo… sìinsommaportareunamica » borbottò, farneticando sulle ultime parole.
Il cellulare della mora le era scivolato dalle mani ma fortunatamente la morbida trapunta ne aveva frenato la caduta.
« Erin? Ci sei? » la richiamò la bionda.
Quanto poteva ancora essere beffardo il destino? Al punto da illuderla per l’ultima volta? No, Erin ne era sicura, la Saint Mary avrebbe vinto la finale e lei si sarebbe ritrovata sul volo per Berlino.
Ancora un paio di settimane e finalmente, Castiel non sarebbe più stato un’immagine sbiadita dei suoi pensieri.
« Erin? » ritentò Melanie.
« i-io non » boccheggiò la mora, riacciuffando il cellulare.
« non puoi venire? » completò l’altra evidentemente delusa.
« ASSOLUTAMENTE NO! È IL CONTRARIO! CI VENGO DI CORSA! DOVETE VINCERE ASSOLUTAMENTE MELANIE, TI PREGO! » esclamò commossa la mora, camminando avanti e indietro per la stanza.
Doveva in qualche modo sfogare quella febbrile eccitazione che l’aveva pervasa. Dall’altra parte della cornetta sentì la playmaker ridacchiare:
« è per il ragazzo della foto? »
In un primo momento Erin rimase disorientata, poi una scena le attraversò la mente: lei che teneva in mano il cellulare, intenta ad ammirare la foto di Castiel e Melanie che giungeva alle spalle, beccandola in flagrante durante la prima partita del torneo. La cestista le aveva appena fatto uno dei regali più belli e desiderati della sua vita, pertanto la sua coscienza le impedì di mentirle:
« già » ammise in imbarazzo, grattandosi la guancia.
« allora vorrà dire che una volta a Berlino me lo presenterai »
« senz’altro » convenne la mora « sono contenta di sentirti così sicura della vittoria » ridacchiò.
« il fatto è che la squadra che è arrivata in finale non è al vostro livello Erin… quelli non saranno una minaccia, almeno questo è quello che sostiene Randy »
« il vostro allenatore? »
« yes »
« voi però non abbassate la guardia. Non ti perdonerei mai Mel se dopo avermi illuso con la storia di Berlino, vi qualificaste secondi » tuonò minacciosa.
Sapeva di non avere alcun diritto a imporsi in quel modo, ma si trattava di una causa che le stava troppo a cuore. Melanie sembrò capirlo e, per nulla infastidita, scherzò:
« il secondo premio è Toronto giusto? Non mi dispiacerebbe sai andare in Canada »
« non provarci nemmeno Green! »
« ahah, stavo scherzando. Voglio andare in Germania quanto te, Travis »
La mora espirò felice, mentre il suo animo si faceva più leggero, finchè non ci pensò la voce cavernosa di sua padre a farla sobbalzare:
« Erin! Sophia! La cena! »
« arrivo! » gli urlò la prima, coprendo con una mano il microfono del cellulare.
Le dispiaceva essere costretta a liquidare Melanie su due piedi, specie considerando l’enorme regalo che le aveva fatto, ma se non si fosse sbrigata, l’avvertimento di suo padre sarebbe diventato più insistente « scusami Mel, devo andare » si giustificò.
« ah figurati, tanto quello che dovevo dirti te l’ho detto… ci sentiamo dopo la finale di venerdì »
« mi raccomando… conto su di te »
« comincia a preparare i bagagli »
Erin sorrise, sentendo finalmente che ogni cosa tornava al suo posto. Voleva chiederle il senso di quel “grazie” che la ragazza le aveva rivolto a cinque minuti dalla fine della partita ma il poco tempo che ancora aveva doveva usarlo per un’ultima frase:
« Melanie… grazie »
Ci mise un tale sentimento in quel sospirato ringraziamento che la playmaker arrossì, ma cercò di smorzare la solennità dell’atmosfera:
« ringraziami quando saremo sull’aereo » commentò l’altra, schioccando la lingua.
« RAGAZZEEE! » ripetè Peter spazientito.
« vado… ci sentiamo presto e grazie, grazie, grazieeee! »
Erin chiuse la telefonata e cominciò a rotolarsi sul letto, ridendo da sola. Sgambettò felice, come le era successo la prima e ultima volta che si era fermata a dormire sul letto di Castiel. Era troppo su di giri, troppo euforica e aveva bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia.
Si precipitò così fuori dalla sua stanza, irrompendo in quella della sorella:
« ANDRO’ A BERLINO FIA! »
La gemella sussultò, guardandola per un attimo come sconvolta.
Si spostò nervosamente, allontanandosi dalla finestra e si avvicinò alla sorella. Erin ebbe l’impressione che cercasse di sfruttare il suo corpo per occultarle la visione, per mascherare qualcosa alle sue spalle.
Spostò allora il busto di lato ma, oltre alla scrivania non vide altro. Abbassò lo sguardo, mentre quello della gemella tradiva un certo nervosismo. Appoggiato contro la sedia, c’era un quadro, lo stesso che settimane prima aveva attirato l’attenzione della sua amica Violet durante il tour nella stanza della gemella.
« andrai a Berlino? » indagò Sophia sorpresa, sviando l’attenzione dal dipinto.
Rievocando il motivo della sua felicità, Erin accantonò l’oggetto e squittì eccitata:
« sììì!!! Melanie Green, la ragazza che gioca nella Saint Mary mi ha offerto uno dei posti liberi, nel caso in cui vincano la finale della prossima settimana »
« maddai? Oddio è pazzesco! » sbraitò la sorella, sgranando gli occhi.
« guarda, ancora non ci credo. Sto ancora tremando! » ed Erin allungò le mani in avanti, l’una accanto all’altra, per dimostrarle il leggero tremore che le percorreva.  
Sophia aprì la bocca ma, prima che riuscisse ad aggiungere altro, Peter si presentò sulla soglia della stanza:
« INSOMMA! Quante volte vi devo chiamare? Non avete più dieci anni! Scendete subito, che la cena di fredda! »
 
« e così potresti andare in Europa! » si entusiasmò Amanda, assaporando un calice di vino rosso.
« sì! Sono sicura che la Saint Mary vincerà mamma, sono incredibili! »
« quindi rinunceresti al viaggio in palio per il terzo posto se vincerete la partita di lunedì? » riepilogò Peter « alle Bahamas se non ricordo male »
La figlia scrollò le spalle, disinteressata. Il viaggio a Berlino e quello alle Bahamas sarebbero venuti a coincidere nello stesso giorno, ma non le importava affatto rinunciare ad una calda spiaggia tropicale per raggiungere il chitarrista sperduto in Germania:
« con la fortuna che hai Erin, c’è l’eventualità che mentre tu sei sull’aereo per Berlino, il tuo amico decida di tornarsene in America… ahaha, sai che ridere » scherzò Sophia, guadagnandosi un’occhiata glaciale.
A quelle parole, la nonna, che aveva seguito con vivo interesse la conversazione, si illuminò:
« un amico? Chi è? Ninì, dì tutto a nonna tua! »
La nipote sollevò gli occhi al cielo, posandoli poi sulla vecchietta:
« sta’ buona nonna. Non cominciare a farti i filmini mentali come al tuo solito »
Determinata a carpire nuove informazioni, nonna Sophia puntò sulla nuora:
« Amanda, chi è questo giovanotto? Tu lo conosci? »
« sì ma credo che dovremo rispettare la privacy di Erin » le sorrise la donna, ricevendo un’occhiata di gratitudine dalla figlia.
« perché c’è poco da dire » farfugliò la gelosia paterna di Peter, allungandosi per prendere l’olio « è solo un suo amico »
« esatto » convenne Erin, arrossendo in difficoltà e nascondendo l’imbarazzo dietro un bicchiere di Coca-Cola. Quella reazione non sfuggì alla nonnina che sbottò:
« ah voi nuove generazioni! Con le vostre insicurezze e indecisioni! Ai miei tempi, se volevi davvero una cosa andavi a prendertela! Alla vostra età » chiarì, puntando l’indice ossuto verso le due nipoti « mi davo già da fare con vostro nonno, altro che amico e amico! Bisogna buttarsi ragazze »
« MAMMA! » la rimproverò Peter « che discorsi sono! Dovresti dire loro l’esatto opposto »
La madre allora lo guardò schifata e borbottò:
« se non ti avessi partorito io, giuro che non crederei che sei mio figlio » e, ignorando l’occhiata riprovevole dell’uomo, Sophia senior proseguì « ah, se potessi tornare indietro di sessant’anni, quando io e Phil ci rotolavamo nel pagliaio » cominciò a raccontare con espressione trasognante mentre le tre donne, sotto l’espressione paonazza di Peter, ridacchiavano.
« oh tesoro non essere così pudico. Se io e tuo padre non ci fossimo dati da fare, più della metà delle persone presenti a questo tavolo non ci sarebbero » dichiarò soddisfatta.
« mamma, dacci un taglio! »
Mentre il padre era impegnato in una battaglia persa in partenza, Erin e Sophia sorridevano, ammirando quella nonna così eccentrica e fuori dagli schemi. Non era mai stato un mistero che la più esuberante delle due gemelle avesse ereditato parte della sua personalità proprio dalla linea paterna, in particolare da quella vecchina tutta pepe.
 
Il mattino successivo, quando Sophia scese a fare colazione trovò la famiglia riunita, intenta a discutere animatamente:
« e non ti ha proprio anticipato nulla, Amanda? » stava chiedendo la nonna, soffiando sul caffè di orzo.
« no, però quando le ho chiesto se fosse incinta, è stata categorica: ha detto di no »
« beh, allora si saranno fidanzati ufficialmente » soggiunse la voce di Erin.
« state parlando della zia? » sbadigliò Sophia, trascinando le calde ciabatte sul parquet.
Era una mattinata di febbraio, in cui un sole luminoso l’aveva accolta al suo risveglio, infondendole la voglia di iniziare la giornata al meglio.
« sì, ha chiamato un’ora fa per annunciarci che sabato prossimo siamo tutti invitati a cena: lei e Jason hanno una cosa importante da dirci »
« secondo me è incinta ma ha negato per farci una sorpresa» sentenziò Sophia, versandosi del latte nella sua scodella preferita.
« no, non credo proprio » ribadì Amanda « e poi è presto, sta con Jason da appena due mesi »
« e cosa aspetta ancora?! » sbottò la nonna « Pampam ha già trent’anni, alla sua età ero già diventata mamma due volte »
« erano tempi diversi nonna » convenne Erin « e poi, per quanto Jason sia un bravo ragazzo, dovresti essere contenta che la zia stia facendo le cose con calma, visto il fallimento di tutte le sue relazioni precedenti. Sono convinta che ci annuncerà il suo fidanzamento ufficiale »
« anche per quello è troppo presto Erin, non trovi? » osservò Amanda, mentre la suocera sollevava gli occhi al cielo.
« per voi  è sempre troppo presto. Ma cosa vi credere? Che la vita aspetti i vostri ritmi? A volte bisogna buttarsi, fare un primo passo e vedere come va, specie finché siete giovani e avete le energie per rimediare ai vostri errori »
« quando sono coinvolti i sentimenti di altre persone nonna, non si può ragionare con questa leggerezza » sentenziò gravemente una voce.
Le tre donne si voltarono verso Sophia, che nascose il viso dietro la tazza, sorseggiando lentamente la calda bevanda.
« ma non eri tu quella che diceva che bisogna sempre buttarsi? » indagò la sorella, sorpresa da quell’affermazione.
« cambiato idea » commentò laconica l’altra, scrollando le spalle. Si era seduta scomposta, appoggiando un piede sulla sedia e tenendo la tibia destra appoggiata contro il tavolo.
Si passò la lingua sulle labbra, assaporando il gusto del caffè e la sua mente la condusse a quel ragazzo che aveva lasciato in California. Dopo l’incontro sulla spiaggia, i due non si erano più visti né sentiti, eppure non passava giorno che non pensasse a Nathaniel.
Più imponeva a se stessa di dimenticarlo, e più le venivano in mente i suoi sorrisi gentili, i suoi capelli biondo grano che negli ultimi mesi si erano un po’ allungati, rendendolo ai suoi occhi ancora più carismatico e affascinante. Anche il sole californiano, seppur debole a causa del periodo invernale, aveva giocato a vantaggio del biondo, dorandogli leggermente una pelle altrimenti bianca.
Quei pensieri erano distruttivi, in quanto alimentavano in lei la consapevolezza di avere incontrato un ragazzo speciale che mai le sarebbe appartenuto. Anche attuando quello che i matematici definivano un ragionamento per assurdo e ipotizzando quindi che Nathaniel ricambiasse i suoi sentimenti, Sophia non poteva ignorare l’esistenza di Rosalya nelle loro vite, e con “loro”, includeva anche Erin.
« vado di sopra » annunciò, dopo aver consumato una frugale colazione.
Erin la fissò in silenzio, poi la imitò, lasciando la madre e la nonna a discutere della misteriosa telefonata di Pam.
Raggiunse la gemella quando questa era a metà della rampa di scale e la chiamò:
« Sophia aspetta »
La vide voltarsi incuriosita e attendere di scoprire cosa volesse dirle.
 
Quel giorno Erin non avrebbe mai immaginato che una domanda, a suo avviso semplice e banale, era la chiave per scoperchiare quel vaso di Pandora che, analogamente all’oggetto mitologico, avrebbe sprigionato una nube di sofferenze e rancori.
 
« che ha di speciale quel quadro? » le domandò retorica.
Voleva solo scoprire chi l’avesse realizzato, dal momento che era chiaro che non fosse opera della gemella. La risposta però non solo non le arrivò immediata, ma a lasciarla interdetta fu la reazione sul viso di Sophia: vide i suoi occhi dilatarsi, la pelle sbiancare e la bocca socchiudersi leggermente.
Teneva lo sguardo fisso su di lei, come se un terrore improvviso ne avesse paralizzato ogni movimento.
Erin era rimasta senza parole, nell’ammirare quel cambiamento così drastico, e confusa perché non riusciva a spiegarsene la causa.
« c-che quadro? » balbettò la rossa, distogliendo lo sguardo e puntandolo di lato.
Sophia aveva cominciato a grattare l’unghia dell’indice contro il legno del corrimano, cercando di stemperare un irrazionale e ingiustificabile nervosismo.
« l’unico quadro che hai in camera. Quando ieri sono entrata, lo stavi fissando » farfugliò Erin, ancora perplessa.
Non era così stupida da ignorare tutti quei segnali del corpo che le venivano lanciati, ma era troppo disorientata per riuscire ad analizzarli.
Sua sorella si era irrigidita appena aveva sentito quella domanda, ma il fatto di non riuscire a spiegarsi il perché di quel comportamento, coglieva totalmente impreparata la ragazza.
« è un bel dipinto, non posso guardare i quadri? » borbottò Sophia.
Era scattata sulla difensiva, infondendo in Erin il sospetto che, dietro quella storia, ci fosse un mistero da svelare. Accantonò allora la propria confusione, spinta dall’urgenza di conoscere la verità:
« da dove salta fuori? » insistette allora.
Per qualche ragione, sentiva che quella faccenda andava approfondita, che non poteva limitarsi a scrollare le spalle e rispettare gli spazi della gemella: doveva invaderli, perché per troppo tempo il silenzio dell’altra l’aveva fatta soffrire.
La sfumatura bianca del viso di Sophia nel frattempo, cominciò a intensificarsi, virando verso il rosso:
« ma che te ne frega Erin? Perché devi sempre ficcare il naso negli affari miei? »
Il tono, dapprima schivo e prudente, era ora più alto e aggressivo. Il battito aveva cominciato ad accelerare e la tensione a manifestarsi sul suo volto diventato paonazzo.
« ti ho solo chiesto dove l’hai preso » commentò la mora con gravità « non vedo perché devi fare così la difficile… non l’avrai mica rubato? »
« per chi mi hai preso? » sbottò l’altra offesa.
Più proseguiva quella conversazione, e più la situazione si complicava. Le gambe di Erin l’avevano portata ad avanzare di qualche scalino, avvicinandosi alla sorella che continuava comunque a sovrastarla dall’alto della sua posizione.
« allora smettila di stare sulla difensiva » aveva ruggito, sfidandone quasi la tenacia « non capisco perché la fai tanto lunga, la mia è una domanda semplice semplice »
No, non lo era.
Sophia si morse il labbro, ma realizzò di non essere abbastanza insensibile da faticare a sostenere quello sguardo accusatorio.
Con il passare delle settimane, aveva l’impressione che più Erin diventava una persona forte e sicura, più lei si impoverisse di quelle due qualità che l’avevano sempre distinta.
La supplicò mentalmente di lasciar cadere quella conversazione ma era fin troppo evidente che, arrivate a quel punto, la gemella volesse solo sapere la verità.
« perché ti sei fissata con questa storia? » la accusò d’un tratto. La voce si era ridotta ad un sussurro, riuscendo a sovvertire i ruoli e mettere Erin dalla parte del torto.
Era sempre stata una specialità della sorella quella di riuscire a ribaltare la situazione a suo favore ma per sua disgrazia, la gemella non era più così ingenua da lasciarsi abbindolare.
« perché ho l’impressione che c’entri qualcosa con la tua assenza, Fia »
Sophia deglutì a fatica, incapace di replicare. Anziché portarsi a suo vantaggio, aveva solo peggiorato la situazione.
Avrebbe dovuto nascondere quel dipinto, riporlo in un angolo della casa lontano da occhi indiscreti e non nella sua stanza, attirando l’attenzione dei familiari.
Non poteva coinvolgere Erin in quella faccenda, non poteva e basta.
Se con le buone, non voleva capirlo, allora le rimaneva solo una carta da giocare.
Dentro di sé cercò di raccogliere tutta la durezza e l’autorevolezza di cui era capace e, dopo averle rivolto uno sguardo glaciale, asserì:
« te lo dirò una volta sola Erin, quindi ficcatelo bene in testa: non sono affari tuoi! Intromettiti in questa faccenda, e sappi che non avrai più una sorella »
Velenò quella dichiarazione con una tale cattiveria che per un attimo, la mora non seppe come replicare.
Con quella minaccia Sophia si era spinta oltre, mettendo sul piatto la posta più alta che avesse mai menzionato: il suo affetto.
Erin non aveva mai sopportato i ricatti, li aveva sempre trovati un’ingiustizia perché obbligava una delle parti a rinunciare a qualcosa di importante.
Sentì quindi una rabbia irrefrenabile montarle in corpo, sobillata dallo sguardo severo e presuntuoso con cui la sorella la troneggiava, convinta di averla piegata al suo volere.
Fu a causa di quella frustrante situazione che le uscirono le parole più dure che le avesse mai rivolto:
« allora non ho molto da perdere. Per quel che mi riguarda, ti ho persa quando te ne sei andata l’estate scorsa »
Aveva pronunciato quella frase con una lucida freddezza che l’aveva resa irriconoscibile agli occhi della persona che la conosceva da diciotto anni. Gli occhi di Erin erano spietati, decisi, non lasciavano trapelare emozioni che non fossero la più totale determinazione frammista a rabbia.
Si arrotolò sbrigativamente la manica della felpa, mostrando sul polso magro, un braccialetto che Sophia conosceva fin troppo bene. Se lo levò con naturalezza e lo appoggiò su un ripiano, senza aggiungere altro.
Sophia vide la gemella lanciarle un’ultima, fugace, occhiata delusa e allontanarsi in silenzio, lasciandola sola, proprio come aveva fatto lei negli ultimi mesi.
Non riusciva a muoversi di un millimetro, rimanendo impietrita su quelle scale a fissare il simbolo del legame con sua sorella che era appena stato reciso.
 
Nei due giorni successivi, in casa Travis, regnava un clima pesante: le due gemelle non si rivolgevano la parola e i tentativi da parte dei familiari di trovare una giustificazione a quell’inspiegabile silenzio finivano solo per accrescere l’irritazione da ambo le parti.
Erin fu la prima a lasciare Allentown per tornare ad allenarsi con il resto della squadra.
Mancavano solo due giorni all’ultima partita del torneo e non poteva dilungare la sua pausa. Fu quindi un sollievo, terminato il weekend, rimettere piede a Morristown, lasciandosi alle spalle il mistero legato alla sorella.
Conoscendo le sue manie di protagonismo, la ragazza non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che Sophia trovasse un gusto puerile nell’attirare la sua attenzione, ostentare un bisogno di riservatezza che in realtà non aveva ragion d’esistere.
D’altro canto la rossa non cedeva di un punto e rimaneva stabile nella sua posizione.
 
Una volta rientrata al Dolce Amoris tuttavia, era stato inevitabile per Erin accantonare le sue vicissitudini familiari: quel lunedì mattina infatti, era terribilmente in ritardo. In quanto cestista, non si sarebbe dovuta presentare a lezione, ma in palestra e con l’imminenza dell’ultima partita, Boris non le avrebbe perdonato facilmente i minuti preziosi che aveva perso sotto la calda trapunta.
Si affannò per raggiungere il prima possibile la scuola quando da lontano vide che in cortile tutta la squadra era riunita. Il resto degli studenti non c’era, impegnato con le lezioni mattutine e in quel frangente Erin sperò che l’allenamento fosse stato annullato.
Per quanto fosse remota quell’eventualità, ci sperò finché non raggiunse i ragazzi:
« come mai siete tutti qua fuori? Non andiamo in palestra oggi? »
Trevor le rivolse un sorriso malizioso e spiegò:
« stiamo aspettando Kim e Dajan… ah eccoli »
Stupita da quella risposta, la ragazza si voltò e la scena che le si presentò davanti la lasciò di stucco:  la figura più alta delle due in avvicinamento era sicuramente Dajan, la cui mano era intrecciata in quella di Kim. Quest’ultima gesticolava con la mano rimasta libera, articolando un discorso che fece ridere il capitano. Erano lontani ancora parecchi metri e, dopo l’ennesima battuta di Kim, Erin vide che il ragazzo si chinava su di lei, stampandole un bacio in bocca.
« m-ma » balbettò incredula, mentre alle sue spalle, si levò la risata goliardica di Trevor:
« ECCO CHE ARRIVA LA COPPIETTAAA! »
Senza staccare le labbra di Kim, Dajan si limitò ad alzargli il dito medio, fregandosene altamente degli sguardi e dei commenti burloni che, seppure da una certa distanza, si erano concentrati su lui e la sua nuova ragazza.
Ora che stavano insieme, non aveva più nulla di cui imbarazzarsi, anche se la loro relazione era appena agli inizi ed entrambi faticavano a credere in quella piega insperata che aveva preso il loro rapporto.
Whitney si era accorta subito che nel figlio, dopo il torneo, c’era un’inspiegabile felicità: dapprima l’aveva attribuita agli ingaggi da parte di ben tre squadre professionistiche, ma il suo occhio attento, unito ad una mente sveglia, era riuscita a strappare a Dajan la confessione che si fosse trovato una ragazza, la ragazza che gli era sempre piaciuta. Lois invece, a causa della riservatezza della figlia, non poteva ancora gioire per una notizia che l’avrebbe mandata su di giri per una settimana.
« invece di farvi i cazzi nostri, perché siete ancora qui? Non dovreste essere già in palestra? » brontolò Dajan, staccando la mano da Kim e avvicinandosi alla squadra.
« ma come boss, arrivi in ritardo e poi fai pure il saccente? » lo schernì Wes.
« e comunque siamo una squadra, vedi che bravi che siamo stati ad aspettarvi? » incalzò Steve.
« fate meno i coglioni, lo so benissimo perché siete tutti appostati qui fuori » borbottò il capitano, mentre Kim, che non era altrettanto capace di trattenere l’imbarazzo per quelle occhiate divertite, fissava con finto interesse l’insegna del liceo.
« ora che avete finito di lanciare il riso agli sposini, potete care damigelle entrare in palestra? » tuonò Boris, materializzandosi dietro ai suoi ragazzi.
L’orologio del liceo ricordava loro che le otto erano passate da un pezzo e che il loro ritardo diventava sempre più imperdonabile.
Erin sorrise divertita, affiancandosi a Kim e seguendo il resto della squadra.
Fu un sollievo notare che, tanto lei quanto gli altri erano riusciti ad accantonare la delusione per la sconfitta che aveva ricevuto il venerdì precedente e l’aveva rimpiazzata con l’allegria per la quale amava così tanto quel gruppo di chiassosi cestisti.
 
« mi scusi, c’è la preside della New Day High School »
La vocina gracchiante della vecchia segretaria fece il suo ingresso nell’ufficio della preside, dopo essersi fatta annunciare con un delicato colpo alla porta:
« dille che non sono a scuola » la liquidò la donna, senza staccare gli occhi da un voluminoso plico di carte. Solo sentire nominare quell’istituto, il suo umore era peggiorato all’istante.
« gliel’ho già detto sette volte la settimana scorsa » obiettò l’assistente, aggiungendo una punta di velata recriminazione, per la scomoda posizione che era costretta ad assumere.
« che se sommi a questa fanno otto, Carol » la liquidò la preside, innervosendosi. La povera segretaria, balbettò insicura una giustificazione che però non risultò minimamente comprensibile.
Vedendola in difficoltà, la dirigente sospirò sconfitta e premette il pulsante per spostare la chiamata al suo ufficio:
« vai pure » la congedò, prima di attaccare l’orecchio al telefono. Si massaggiò le tempie, preparandosi ad una conversazione spiacevole. Mentre Carol abbandonava la stanza, la vecchia preside esordì:
« pronto? »
« oh, finalmente! Riuscire a trovarti nel tuo ufficio è stata un’impresa Petunia! Se il ministero sapesse delle tue assenze continue sarebbe un bel problema non trovi cara? »
Quella voce irritante e stridula riusciva a trapanare il cervello e la pazienza della preside come nessun’altra persona in vita sua.
« che piacere sentirti Bernice » commentò con un fin troppo evidente sarcasmo.
« il piacere è tutto mio Petty » squittì l’altra mentre il sopracciglio della dirigente del Dolce Amoris si sollevava verso l’alto « Kiki come sta? »
« non si lamenta, anche se starebbe molto meglio senza quella morsicatura all’orecchio da parte del tuo cagnaccio »
« oh, non ce l’avrai con me per quella storia? Il mio Bon Bon è sempre un amore, quello è stato solo uno sfortunato incidente »
« sì certo, come il fatto che ci hai messo tre minuti buoni per richiamarlo a te » aggiunse piccata Petunia, togliendosi gli occhiali dal naso.
« mi stai accusando di qualcosa? » indagò con gravità Bernice.
« non mi permetterei mai, Berny… comunque ho molto da fare qui, se fossi così gentile da andare dritta al punto… mi è parso di capire che avessi una certa urgenza di parlarmi sin dalla scorsa settimana »
« oh sì » sospirò, mentre Petunia si chiese perché mai quella donna sentisse sempre l’esigenza di iniziare metà delle sue frasi con un “oh” « vedi, quando ho saputo che la tua Atlantic si sarebbe scontrata con la Saint Mary allora ho capito subito che sareste stati voi i nostri avversari per il terzo posto »
« eri convinta della nostra sconfitta? »
« suvvia Petunia, non prendertela, non puoi mica darmi torto! Stiamo parlando della Saint Mary » ridacchiò bonaria la donna dall’altro capo del telefono.
« a cui la mia squadra ha saputo tenere testa fino all’ultimo » precisò la preside « giocando lealmente » specificò.
Dall’altra parte non provenne alcun suono, mentre Petunia si gustava quei pacifici secondi di silenzio, in attesa dell’esplosione della bomba.
« che stai insinuando? »
« io? Niente »
Bernice si alzò dalla sua comoda poltrona, dirigendosi con il cordless in mano verso uno scaffale ricolmo di trofei vinti dall’istituto:
« sai, qui sulla mensola dei premi vinti dalla New Day, ci starebbe proprio bene una coppa sportiva »
« lo credo bene, ne avete vinte così poche »
Bernice divenne paonazza, mentre la preside cercò di non tradire il divertimento che le era scaturito da quella frecciatina. Le due non si era no mai potute soffrire e nonostante l’eleganza con cui riuscivano a offendersi e punzecchiarsi a vicenda, continuavano a mantenere un rapporto di comunicazione, che più che altro era la preside della New Day a non voler interrompere:
« ascoltami bene Petunia: io ti avevo chiamato per augurarti un in bocca al lupo in vista della partita di domani » e a quelle parole, la dirigente sollevò gli occhi al cielo « ma a quanto vedo tu non hai abbastanza spirito sportivo e classe per accettare il mio sincero augurio »
Petunia aveva cominciato a gesticolare con le mani, segno che quella sviolinata era del tutto fuori luogo e pertanto ridicola, anche se in quel momento nessuno poteva apprezzare il suo senso dell’umorismo.
« d’accordo Bernice. Allora direi che la conversazione si può concludere qui, non ti pare? Ci si vede sugli spalti » la liquidò con noncuranza.
« io sarò quella con i pon pon »
« come scusa? »
« ma sì mia cara. I miei ragazzi devono vedere che la loro preside li appoggia in tutto e per tutto. È una questione di solidarietà: ci tengo molto più di te alla loro vittoria, visto che almeno io mi sono degnata di andare alle loro partite » commentò trionfante.
« anche io ero intenzionata a sostenerli, cosa credi? »
« con i pon pon? »
« con i pon pon » confermò istintivamente Petunia.
« non ne avresti il fegato » la sfidò.
« lo vedrai » e buttò giù la cornetta.
Bernice Snakes era stata una persecuzione per la povera Petunia che ne aveva dovuto subire la presenza non solo negli anni della sua giovinezza di studentessa liceale ma se l’era ritrovata pure come collega, in quanto preside di un istituto che apparteneva allo stesso distretto del Dolce Amoris. La rivalità tra le due donne era storica, sia sul piano professionale che sentimentale, dal momento che il defunto marito della dirigente del Dolce Amoris era l’ex fidanzato di Bernice.
Si pentì di aver promesso di presentarsi con dei ridicoli pon-pon, ma ormai il danno era fatto. Per quei ragazzi si sarebbe anche vestita da mascotte, doveva pur far qualcosa per far loro capire di essere molto presa da quel torneo.
Quando aveva saputo della sconfitta a Trenton, Petunia si era colpevolizzata per aver anteposto i suoi impegni professionali a quella squadra che si stava impegnando così tanto.
Era tardi per i rimpianti. Rimaneva una sola partita, quella contro la scuola della persona che più odiava al mondo.
 
« Kim, capisco che adesso hai altri pensieri per la testa, ma potresti guardare un po’ meno Dajan e un po’ di più la palla? » la redarguì Boris, scatenando una risata generale e ricevendo un’occhiata glaciale dalla cestista.
« eddai Bors, sii un po’ più elastico. È innamorata » scherzò Erin.
« tu Cip non pensare che ora che hai il posto prenotato per Berlino puoi permetterti di abbassare la guardia »
« assolutamente no! Ci tengo che andiate alle Bahamas »
Ogni volta che pensava a Berlino, Erin doveva trattenersi dallo scoppiare a ridere. Era una notizia troppo bella che aveva deciso di non comunicarla a Castiel; sarebbe atterrata in Germania e solo allora gli avrebbe annunciato di essere a pochi passi da lui.
Cercava di immaginarsi l’espressione dell’amico: sarebbe stato felice? Sorpreso? Oppure Infastidito?
« a proposito, se vinciamo » cominciò a dire Wes, ma Clinton lo zittì:
« idiota, non dire così che porti sfiga! » ma la guardia proseguì imperterrita:
« non possiamo portare qualche ragazza? Visto che con ogni probabilità Erin non verrà, potrebbe venire la sua amica Rosalya »
« ma come Wes? Pensavo che preferissi la nipote di Boris » lo schernì Trevor, facendo scoppiare a ridere i cestisti.
Dopo il torneo, lo sventurato cloothing shooter aveva subito una seconda batosta, per certi versi più umiliante della prima: un ragazzo alto e biondo si era avvicinato all’allenatore che l’aveva presentato come suo nipote. La famosa Dakota, sulla quale Wes aveva speso notti e giornate intere a fantasticare, era in realtà un Dakota, mandando in frantumi i sogni del ragazzo.
« vogliamo pensare a giocare? » si spazientì Dajan.
« ehi, non fare tanto il serio amico » gli sussurrò Trevor « scommetto che non vedi l’ora di vedere Kim in costume. Sai, l’ho vista in piscina e fa proprio una bella figura »
Sentendo parlare così della sua ragazza, il capitano gli lanciò la palla, mirando però al viso e centrandolo in pieno. L’ala stava per protestare quando una voce si diffuse improvvisamente nella palestra, provenendo dall’alto:
« BUONGIORNO RAGAZZI, SONO LA VOSTRA PRESIDE »
« ma va’? » commentò Trevor, massaggiandosi il naso dolorante « pensavo fosse la Madonna »
« voglio congratularmi pubblicamente con la nostra squadra di basket per l’ottimo piazzamento raggiunto durante il torneo. L’unico rammarico è non essere stata presente finora alle partite, ma vi assicuro che domani sarò su quegli spalti. Devo ringraziare anche voi studenti e i professori per il grande sostegno che avete dato ai ragazzi, motivo per il quale, vi invito a fare lo stesso domani: le lezioni saranno sospese e ci vedremo tutti alle 10 al palazzetto. Buona giornata e buona lezione a tutti »
I cestisti si guardarono perplessi:
« ma che le è preso? » commentò basito Liam.
Quell’annuncio era stato un fulmine a ciel sereno. Faraize ridacchiò, attirando l’attenzione dei ragazzi. Appena si accorse di aver calamitato il loro interesse, balbettò:
« b-beh vedete, i vostri prossimi avversari sono i giocatori della New Day High School e tra la nostra preside e la dirigente di quell’istituto esiste un’antica rivalità »
« quindi se perdiamo anche questa quella ci boccia tutti » ragionò Trevor con ironia.
« d-dici? » sbiancò Clinton.
« ahahah sai che ridere? Bocceranno anche Castiel visto che fa ancora parte della squadra » aggiunse l’ala.
« poveretto, l’hanno già segato una volta. Ci rimette anche quando non fa niente! » s’intromise Steve.
« dovrà ringraziare Erin allora, visto che aveva insistito tanto per tenerlo in squadra »
« fossi in voi non riderei tanto. Una bocciatura di certo no, ma state pur certi che la preside non accetterà tanto facilmente una sconfitta » li zittì Boris « dal terzo posto voi ci guadagnate sì un viaggio, ma la scuola un bel po’ di soldi. Non è solo una puerile questione di rivalità tra due scuole »
I ragazzi ammutolirono istantaneamente.
Con quella dichiarazione, era fin troppo lampante il peso che gravava sulle loro spalle.
 
Peter parcheggiò l’auto, benedicendo la vista acuta della moglie che era riuscita a trovare uno spazio libero tra una fila interminabile di macchine:
« ma quanta gente viene a queste partite? » commentò sorpreso.
« vorrà dire che ci sarà da divertirsi » squittì una voce alle sue spalle.
L’uomo ruotò il busto, voltandosi verso i sedili posteriori; puntò lo sguardo severo verso la vecchina che lo fissava con un’espressione eccitata. Non era riuscito ad impedire a sua madre di ficcarsi sul capo un ridicolo capellino da baseball e una t-shirt sportiva con rappresentato un giocatore di basket. Solo con la complicità di Amanda, era riuscito a lasciare a casa un enorme dito in gommapiuma con cui nonna Sophia intendeva incendiare la folla.
« chiariamo subito le cose mamma: non dare spettacolo »
Si accorse che, con un movimento furtivo, la vecchietta aveva nascosto qualcosa dietro la schiena e, guardandola circospetto, mormorò:
« che stai nascondendo là dietro? »
« nulla »
« mamma » ripetè nervosamente.
La donna sbuffò e fece emergere un paio di bandierine rosse. Amanda ridacchiò, leggendo la scritta “happy birthday
« signora » s’intromise, rivolgendosi con una referenza che irritava la suocera « quelle sono adatte per i compleanni »
Scandì quelle parole con una calma pazienza, come se parlasse ad un bambino.
« mica sono rimbambita, lo so, che diavolo! Però sono rosse e da lontano Ninì non leggerà mai la scritta »
« ti rendi ridicola mamma, lasciale qui »
« e come faccio a tifare per la mia nipotina scusa? »
« non tifi, te ne stai seduta buona buona a guardare la partita. Agitarti non fa bene alle tue coronarie, lo sai » la ammonì il figlio, sganciandosi la cintura di sicurezza. La vecchietta sbuffò e incrociò le braccia al petto:
« e smettila di fare i capricci. Invecchiando diventi sempre più infantile »
« e tu sempre più rompi coglioni! »
 
Quando la preside del Dolce Amoris fece il suo ingresso sugli spalti, attirò una moltitudine di occhiate divertite: portava sulla fronte una fascetta fucsia con la scritta “Atlantic HS” che aveva appositamente cucito a mano e aveva rinunciato al suo tailleur rosa confetto per una tuta da ginnastica troppo larga persino per le sue forme generose. Ma, nonostante l’effetto eccentrico che poteva avere su di lei quella mise, il dettaglio più spiazzante erano i vistosi pon-pon che teneva in mano.
« p-preside? » esclamò confusa Miss Joplin, mentre la donna prendeva posto accanto al resto del corpo docente. Petunia squadrò i professori e commentò placidamente:
« questa partita la dobbiamo vinc-» non finì la frase perché venne interrotta da una risata agghiacciante.
« oh non ci credo… Petty, ma allora parlavi seriamente? »
Si voltò, trovandosi di fronte una Bernice vestita in modo estremamente professionale e soprattutto, sprovvista di pon pon. Doveva aspettarselo da una come lei, invece era caduta ingenuamente nel suo scherzo di pessimo gusto.
Per non lasciar trasparire la sua umiliazione e disagio, l’avversaria alzò fiera il mento e dichiarò:
« certo cara »
« ma come? Non trovi in quanto istitutori, dovremo mantenere sempre un certo decoro di fronte ai ragazzi? »
« assolutamente no » sentenziò, anche se cercò di sprofondare nelle poltrone per attirare il meno possibile l’attenzione su di sé.
Miss Joplin assistette a quello scambio di battute in silenzio, finchè non fu Bernice a coinvolgerla:
« e lei cara, non pensa che un simile abbigliamento sia inappropriato per una preside? »
« proprio no » la rimbeccò « siamo in una palestra, sicuramente Miss Swanson è la persona più in tema con l’ambiente generale… non trova? »
Bernice irrigidì il busto, mentre la preside ridacchiava vittoriosa.
Il fascino che esercitava la professoressa di scienze era risaputo non solo tra i suoi studenti, ma anche tra i colleghi che ne stimavano particolarmente l’arguzia e il senso dell’ironia. Se la preside della New Day sperava di trovare un qualche alleato con cui punzecchiarla, di certo non poteva ripiegare sugli insegnanti del Dolce Amoris, meno che tutti una persona corretta come Miss Joplin.
 
« peccato che Sophia non sia venuta questa volta » commentò Armin, sgranocchiando pop corn.
« già, ma lei è fatta così: non puoi supplicarla di fare nulla » gli spiegò Ambra, rubandogli qualche chicco di mai scoppiato. Nel gesto anche il moro aveva allungato la mano, toccando la pelle liscia della ragazza che la ritrasse istintivamente:
« ah scusa » borbottò imbarazzata.
« no, prendi pure » farfugliò lui.
Mentre i due erano impegnati a non andare a fuoco per una simile inezia, Iris soggiunse:
« qualcuno di voi ha notizie sugli avversari? »
« Trevor mi ha detto che non sono male, ma non hanno informazioni precise » spiegò Kentin.
« tutto qui? » incalzò Rosalya delusa.
L’ex cadetto scrollò le spalle impotente e tornò a fissare il pitturato.
 
Erin e Kim si cambiarono alla svelta e si unirono al resto della squadra.
Il clima tra i cestisti era completamente diverso rispetto alla settimana precedente. Tra i ragazzi infatti, nonostante le pressioni da parte della preside, serpeggiava un’allegria contagiosa.
« ma guardate il capitano come è di buon umore » lo sfottè Wes « si vede che Kim sa far bene il suo ruolo di fidanzata » lo punzecchiò con malizia.
Dajan si limitò ad uno scappellotto sul collo, per zittirlo, mentre un leggero rossore gli imporporava le guance. Lui e la sua ragazza stavano insieme da appena tre giorni, nell’arco dei quali si erano incontrati senza informare le rispettive famiglie. Entrambi non erano abituati a quel genere di situazioni e, anche se Dajan aveva avuto qualche esperienza superficiale in passato, si sentiva come un ragazzo alle prime armi. Ritagliarsi un momento di intimità con Kim non era semplice, oltre che prematuro, vista la totale inesperienza di lei. Nonostante le insinuazioni di Wes, che era abituato a ben altri generi di ragazze, il capitano sapeva che con Kim avrebbe dovuto fare le cose con calma, rispettando i suoi tempi.
« sono proprio curioso di vederli giocare » commentò Benjamin.
« certo che Boris poteva raccogliere del materiale video su di loro » si lagnò Clinton.
« ce l’ha ripetuto mille volte: non pensava che sarebbero arrivati così avanti » spiegò Steve.
« allora batterli sarà uno scherzo! » dichiarò Wes.
« ehi, non sottovalutiamoli! »
Era toccato al capitano frenare l’entusiasmo generale.
Anche se il loro allenatore non si capacitava del come una squadra a suo avviso mediocre fosse riuscita a sfiorare il podio, la realtà dei fatti parlava chiaro: la New Day HS doveva avere un qualche asso nella manica che aver raggiunto un piazzamento così elevato.
Quale che fosse, l’avrebbero sicuramente scoperto di lì a pochi minuti.
 
Appena la Atlantic fece il suo ingresso nel pitturato, venne accolta dagli schiamazzi dei tifosi.
Miss Swanson, appoggiata dal resto dei docenti, era schizzata in piedi, agitando i pon-pon portati per l’occasione. Arrivata a quel punto, non avrebbe mai lasciato che il suo aspetto poco consono ad una dirigente scolastica, rappresentasse un freno alla sua esuberanza.
« VAI NINIIIII’ » urlava nonna Sophia, staccando la sua voce da quelle delle persone che la circondavano. Una ventina di teste allora si voltarono a scrutare divertite quella vecchietta esagitata.
« mamma, almeno evita di chiamarla così! » la rimproverò prontamente Peter, costringendola a sedersi.
Rosalya, a pochi metri dalla famiglia, osservò quella scena con curiosità:
« non mi dire che quella è la nonna di Erin? » esclamò sorpresa.
Anche i suoi amici individuarono nella figura minuta e con una maglietta color arancione acceso, quella di una nonnetta simpatica.
« beh, quelli sono i suoi genitori » convenne Iris.
« allora andiamo a presentarci! » tagliò corto la stilista, afferrando per il polso l’amica.
« ehi Rosa! Calma! Che - »
Facendosi strada tra le gambe degli spettatori, le due ragazze raggiunsero i Travis che, appena le riconobbero, sorrisero felici:
« ragazze! Come state? » le accolse Amanda, mentre Sophia senior le guardava con curiosità.
« bene, ci tenevamo a salutarvi » esordì Rosalya, mentre Iris cercava di trovare qualcosa da dire.  
« sono delle amiche di Ninì? » domandò la nonna.
Le due cercarono di non scoppiare a ridere per quel soprannome e promisero a sé stesse di usarlo alla prossima occasione.
« sì, io sono Rosalya e lei è Iris »
« ma che belle ragazze » si complimentò la vecchietta, facendo sorridere la stilista e imbarazzare la presidentessa del club di giardinaggio.
In quel momento anche Jason e Pam, seguendo le indicazioni fornite loro da Peter, si aggiunsero al trio familiare.
« ciao » salutò Pam e rivolgendosi alle due ragazze, chiese « avete già conosciuto mia madre quindi? »
« certo Pampam, sai che io sono una persona amichevole »
La secondogenita sorrise e, mettendo una mano sulla spalla di Rosalya, la presentò:
« vedi mamma, questa ragazza è l’artefice del successo della boutique: la giovane stilista che sta realizzando abiti strepitosi »
« ma davvero? » emise un fischio ammirato Sophia, mentre Rosalya ghignava imbarazzata.
Jason nel frattempo aveva trovato posto accanto a Peter, allungandogli una delle due lattine di birra che aveva con sé. Ormai l’uomo l’aveva totalmente accettato in famiglia e tra i due, complici anche dei weekend trascorsi in famiglia ad Allentown, si era creato un bel rapporto.
« uno di questi giorni devo assolutamente passare in negozio. È assurdo che non ci sia ancora stata! » protestò nonna Sophia.
« a proposito, io e Jason abbiamo spostato la cena di sabato alle otto e mezzo, spero non sia un problema » le spiegò la figlia.
« ma ti pare? A me basta mangiare bene » la tranquillizzò la madre, mentre le due amiche ghignavano.
« che ne direste ora di mettervi sedute e guardare la partita? » brontolò Peter interrompendo la conversazione « comincerà da un momento all’altro »
Sophia sbuffò e allungò l’occhio verso le due ragazze.
« il padre di Erin è un tale rompi scatole che non potrò neanche godermi la gara come si deve »
« se vuole venire a sedersi con noi è la benvenuta » la accolse prontamente Rosalya, lasciando perplessa la rossa.
Sophia era già balzata in piedi, con un’agilità quasi comica per una vecchietta di settant’anni.
« mamma, non fare stupidaggini » fu l’ultimo ammonimento ma Sophia potè dare la colpa ai suoi fittizi problemi di udito per ignorare anche quell’ultima raccomandazione.
 
« oh cazzo » sbiancò Erin, scorgendo tre figure in piedi in mezzo al pubblico seduto.
Dietro ad Iris, seguivano in fila e scambiandosi battute, un duo che se combinato insieme poteva essere esplosivo, come il mentos e la Coca-Cola. Sua nonna stava dicendo qualcosa a Rosalya, sventolando un paio di bandierine e l’amica era scoppiata a ridere.
« che c’è? » le domandò Steve.
« c’è Rosalya… con mia nonna »
« strana coppia » commentò l’ala mentre Erin sentiva il cuore accelerarle.
« ti prego, fa’ che non mi mettano in imbarazzo » pensò tra sé e sé. Stava ancora fissando gli spalti, quando una voce sconosciuta la avvicinò:
« ehi bella, ti sei incantata? »
Distolse lo sguardo per posarlo su un ragazzo con la divisa blu e gialla. Era un giocatore della New Day. Come tutti i cestisti era alto e aveva un fisico atletico. Quando si era voltata verso di lui, le aveva rivolto un sorriso bianchissimo, enfatizzato da occhi che sembravano quasi blu.  I capelli erano color mogano, tirati all’indietro da una fascetta nera, per evitare che i ciuffi più lunghi gli fossero di impiccio durante la partita. Lo vide avvicinarsi a lei, lasciando che meno di un metro li separasse:
« sono Dylan »
« Erin » farfugliò, spiazzata da quell’approccio.
« Erin… » ripetè lui « bel nome »
« grazie »
Non fece in tempo a dire altro che venne trascinata via da un braccio, trovandosi faccia a faccia con Kim:
« che fai? Fraternizzi con il nemico? » la rimproverò, portandosi le mani sui fianchi.
« ma che dici scema, e poi è stato lui ad avvicinarmi »
« dobbiamo vincere Cip, non farti distrarre dai ragazzi! »
Erin storse il labbro contrariata: aveva solo scambiato due parole, non era intenzionata a giocare quella partita con superficialità solo perché il suo premio l’aveva ottenuto.
« e vinceremo » dichiarò risoluta.
 
I giocatori della New Day si allinearono sul campo, fronteggiati da quelli della Atlantic.
Trevor allungò la mano verso il capitano avversario che, nello stringergliela, lo schernì:
« Atlantic eh? Ma voi non siete quella scuola con quel nome del cazzo? Dolce Amoris? »
Quella provocazione in un primo momento lo spiazzò, poi controbattè:
« almeno il nostro liceo è conosciuto mentre il vostro… scusami, com’è che vi chiamate? »
« Trevor, lascialo perdere » lo zittì Dajan.
Durante il riscaldamento, aveva avuto qualche scontro con quel Jeremy Warrant e non si poteva dire deliziato da quella conoscenza. Il ragazzo infatti si era sin da subito presentato come una persona estremamente arrogante ma, soprattutto, provocatore.
Aveva lanciato al capitano avversario qualche frecciatina, cercando di innervosirlo, ma Dajan era riuscito a tenere i nervi saldi.
« quel tizio cerca di farti deconcentrare » sussurrò alla sua ala, nonché migliore amico, prima di mettersi in posizione.
« scusate il nostro capitano » sorrise Dylan, rivolgendosi ad Erin, che arrossì leggermente per la dolcezza di quella smorfia « si diverte a stuzzicare gli avversari »
Non seppe come replicare e si allontanò, posizionandosi dietro Dajan. In attesa del fischio di inizio, scrutò uno ad uno i giocatori presenti sul campo.
Dylan era stato presentato come guardia, assieme a Mason Burns, che esteticamente era la controparte in negativo del compagno: aveva un fisico tozzo e massiccio, tanto che nella tweener venne spontaneo associarlo ad un giocatore di footbal più che di basket. Se il viso di Dylan era particolarmente affascinante, quello di Mason risultava quasi ripugnante, complice il ghigno schifato che non abbandonava i suoi lineamenti espressivi.
Dietro di loro c’era Meredith Sanderson, ala piccola che si era portata una ciocca di capelli dorati dietro l’orecchio, traforato da un piercing nero. Infine l’ala grande Cody Cohen, un ragazzo dall’aria tranquilla, che non spiccava per alcuna caratteristica fisica particolare, che non fossero i capelli che gli coprivano gli occhi.
 
La palla venne lanciata in aria e, con estrema facilità, Dajan se ne impossessò: anche se nell’arco di un paio di giorni, era girata la notizia che il ragazzo avesse accettato l’ingaggio dei Cavs, ci pensarono i cronisti a diffondere ulteriormente la novità al resto della platea presente.
L’idea di ammirare un giocatore che l’anno successivo sarebbe entrato nelle file del professionismo, mandava in fibrillazione i presenti, che non potevano fare a meno di osservare con particolare interesse quella stella del basket che era sbocciata durante il torneo.
Il capitano palleggiò verso Clinton, convogliando verso di lui la sfera.
Boris aveva deciso di schierare il suo cestista più inesperto perché era arrivato anche per lui il momento di dimostrare di che pasta era fatto. Anche se il suo ruolo era indubbiamente difeso da Liam in modo migliore, Clinton cercava di essere scattante e preciso. Passò la palla ad Erin che individuò Trevor. Dall’ala grande la palla tornò al capitano che, con una tripla perfetta, mandò la palla a canestro.
« ecco i primi tre punti della partita! Che dire, un gioco pulito, senza sbavature, come ci si aspettava da una squadra che sfiorato il posto per finale!»
La preside era scattata in piedi, agitandosi forsennatamente, mentre i voluminosi seni ondeggiavano in modo imbarazzante. Anche i docenti attorno a lei avevano esultato gioiosi, applaudendo a quella magnifica azione. Bernice invece non aveva battuto ciglio, rimanendo impassibile.
La partita era appena iniziata ed era troppo presto per ricorrere al loro asso nella manica.
 
La New Day aveva recuperato la palla che era in mano al capitano Warrant. Tuttavia, nell’arco di pochi secondi, Dajan riuscì a rubargliela, passandola ad Erin.
Famosa per i suoi passaggi, la ragazza trovò subito in Steve il compagno più indicato a cui scaricare la sfera e per il ragazzo, sgombero da qualsiasi ostacolo, segnare con una schiacciata fu sin troppo facile.
Seguirono cori entusiasti da parte degli studenti: la loro squadra era in piena forma.
« che squadretta del cazzo » sputò Kentin « sono proprio brocchi »
« aspetta a parlare » lo redarguì Lysandre, studiando con attenzione i giocatori.
Non poteva negare che, rispetto alla Saint Mary, la New Day sembrasse un gruppo di dilettanti alle prima armi, ma la sua mente non poteva dimenticare che quella stessa squadra era arrivata a batterne di più forti, alcune delle quali date per favorite nella salita al podio.
Passarono cinque minuti, durante i quali la Atlantic mise a segno ben 27 punti, contro i 10 della New Day.
« è strano… » commentò la vocina flebile di Violet, mentre Rosalya e l’anziana Sophia scattavano in piedi per esultare all’ennesima tripla a favore del Dolce Amoris.
« che cosa è strano? » domandò Armin.
« stanno perdendo eppure sembrano molto tranquilli » spiegò la pittrice.
Anche Ambra e Lysandre stavano pensando la stessa cosa: nonostante il crescente divario di punteggio tra le due squadre, nessuno dei giocatori presenti sul campo sembrava frustrato o viceversa motivato a reagire.
« hanno in mente qualcosa » concluse la bionda.
 
Clinton aggirò Mason, piazzando la palla a Dajan. Il playmaker venne marcato da due giocatori avversari, ma riuscì a liberarsi dopo pochi secondi.
Imponeva a sé stesso di non sottovalutare gli avversari, ma la debole difesa e, ancora di più, l’inesistente schema offensivo dei giocatori, lo portava a convincersi che fossero realmente delle nullità.
Quelle considerazioni stridevano enormemente con il piazzamento che avevano conquistato: se davvero fossero stati così scarsi come volevano far credere, sarebbero stati eliminati prima dalla gara.
Trevor commise un errore grossolano, lasciando che la palla finisse fuori dal campo e la sua leggerezza indispettì il capitano:
« ehi Trev, è già la terza volta che la butti fuori, sta’ un po’ più attento! »
« ma sta’ calmo, non vedi che stiamo vincendo? » brontolò l’ala, indicando il punteggio di 33 a 16.
Il playmaker sospirò nervosamente. Non dovevano abbassare la guardia, la partita era ancora lunga e lui non riusciva a levarsi di dosso la sensazione che qualcosa non tornasse.
Che non avessero ancora visto la vera forza della New Day.
Il primo quarto venne concluso con un punteggio di 35 a 19, sotto gli applausi entusiasti dei tifosi della Atlantic.
Orgogliosi come non mai, i giocatori rientrarono in panchina, accolti dai sorrisi dei compagni.
L’unico a non lasciarsi contagiare da quell’allegria era il loro allenatore:
« ragazzi, non sottovalutiamoli »
« ma Bors, sono delle pippe! » protestò Kim, porgendo un asciugamano a Dajan, che le sorrise grato.
« non sarebbero arrivati fin qui se fosse vero » lo appoggiò quest’ultimo, mentre il coach annuiva gravemente.
« già, mi pento di non aver raccolto materiale su di loro, ma ormai è tardi. Dobbiamo capire cos’hanno in mente, nel frattempo continuate ad aumentare il divario di punteggio, chiaro? »
« mi deludi Berny » si stava pavoneggiando Miss Swanson « possibile che non sappiate fare meglio di così? »
La collega non si scompose e profetizzò:
« con il secondo quarto, la musica cambia »
 
Il capitano della New Day, dopo aver lanciato un ultimo sguardo d’intesa al suo allenatore, ghignò sprezzante. Non avevano mai dovuto ricorrere alla loro strategia così presto, normalmente aspettavano il terzo quarto, ma il livello della Atlantic era troppo alto e se avessero permesso agli avversari di accrescere ulteriormente il divario di punteggio, sarebbe stato impossibile rimontare.
Mentre si dirigevano verso il pitturato, Dylan si rivolse al capitano, lanciandogli un sogghigno malizioso:
« vedi di non toccare la mia principessa, Jeremy »
« non te lo posso promettere »
« lo sai che le donne non si toccano nemmeno con un fiore? »
« se fosse così allora un pervertito come te Sprout morirebbe di depressione »
Dylan ridacchiò, mettendosi in posizione:
« mi piace spassarmela, che c’è di male? »
 
La New Day mise in campo la sfera, ma questa ci mise poco a volare verso Trevor, disposto sull’ala destra mentre il capitano si dirigeva verso canestro, seguito dal resto dei giocatori. Inaugurare anche il secondo quarto con una bella tripla era il suo obiettivo.
Il ragazzo lanciò la palla verso di lui ma Warrant gli si parò davanti. Per Dajan non avrebbe presentato un problema, l’avrebbe aggirato facilmente ma proprio quando stava per spiccare il salto, sentì un peso concentrarsi sul suo piede destro. Abbassò lo sguardo, e trovò il piede dell’avversario sul proprio, impedendogli di muoversi.
Warrant balzò verso l’alto e recuperò la palla, salvandola dal canestro, lasciando Dajan senza parole.
« ehi boss? Perché te ne sei rimasto impalato? » lo rimproverò Steve.
Il capitano scosse il capo, si era trattato solo di un caso che si era rivelato favorevole all’avversario, non si era neanche accorto di avergli fatto fallo.
Ripartì in contro piede, per bloccare la corsa degli avversari.
Warrant passò la palla a Sprout e la guardia si trovò di fronte Erin:
« vedo che proprio non riesci a fare a meno di starmi alle costole eh? Sono così irresistibile? »
Avvampando per quella frase, la ragazza si distrasse, permettendo all’avversario di superare la sua difesa senza difficoltà.
« MA CHE CAZZO ERIN! » si arrabbiò Kim. Non poteva aver udito la frase sussurrata da Dylan, anche perché in tal caso, si sarebbe infervorata maggiormente. A mandarla in bestia era la reazione della compagna ogni volta che fronteggiare quell’affascinante avversario: lui mormorava qualcosa e lei perdeva la concetrazione.
Il gioco si spostò su Burns, che aveva appena ricevuto la sfera. Cercò Meredith ma nel passarle la palla, sfiorò con il gomito il naso di Trevor, che era intervenuto nel tentativo di rubargliela:
« per un pelo non gli ha rotto il naso » commentò Wes, tirando un sospiro di sollievo.
« già, poi pittima come è lui, avremo dovuto ricoverarlo in ospedale » aggiunse Liam divertito.
Per dei giocatori onesti e un po’ ingenui come quelli che giocavano nella Atlantic, era ancora troppo presto per capire ciò che stava realmente accadendo su quel pitturato.
Purtroppo per loro, la New Day aveva appena messo in atto, il suo asso nella manica, anche se non aveva nulla a che vedere con il talento sportivo.
 
« che giocatori di merda, anzi, gente che si comporta così sul campo non è nemmeno degna di essere definita cestista »
« ah Jules, come sei sempre categorico. Chi ti dice che lo stiano facendo apposta? »
« e tu sei un sempliciotto Reed. Manco venissi dalla montagna del sapone! »
« sono d’accordo con Julius, quelli lì stanno giocando sporco »
Lo scambio di battute proveniva da un trio solitario, che si era appollaiato lungo la ringhiera degli spalti più alti, mentre tutto il resto dei tifosi era comodamente seduto sugli spalti.
« e poi Reed, smettila di chiamarmi in quel modo idiota » ruggì Lanier.
« allora ti chiamerò Jujù » lo rimbeccò Isiah, appoggiando i gomiti contro il metallo del parapetto « comunque sia, Charlie che fine ha fatto? E’ in bagno da cinque minuti » indagò, lanciando un’occhiata beffarda al capitano.
« e che cazzo ne so io? » arrossì leggermente il ragazzo, incrociando le braccia al petto « pensa a guardare la partita piuttosto, siamo venuti qui per questo »
« e allora perché te ne stai andando? » obiettò Melanie, guardandolo allontanarsi.
« mi avete chiesto dove si è cacciata Charlotte e sto andando a cercarla, tanto ci vuole? »
I due cestisti sghignazzarono mentre un Lanier impegnato a brontolare in difficoltà, si allontanava dagli spalti.
 
Nel frattempo Burns aveva il possesso palla e si guardava attorno cercando un’apertura: trovandosi davanti Steve, piegò il busto verso il basso e, sfruttando la scarsa agilità del pivot, gli passò dietro. In quell’azione però, stando attento a non attirare occhiate, specie quelle dell’arbitro, gli assestò una gomitata all’altezza della gamba, facendogli cedere il ginocchio:
« EHI ARBITRO! QUELLO E’ FALLO! » strillò Rosalya, scattando in piedi. Molti altri spettatori avevano assistito a quella mossa ma sfortunatamente per la Atlantic, non il direttore di gara.
« QUI CI VUOLE LA MOVIOLA! » protestò nonna Sophia, infuriandosi accanto alla sua compagna di tifo. In quel momento, più che la nonna di Erin, sembrava la proiezione della stilista a settant’anni.
Anche dalla panchina del Dolce Amoris si sollevarono cori indignati:
« CHE TESTA DI CAZZO! BORIS FA’ QUALCOSA! » si inalberò Kim.
« non posso fare nulla » digrignò a denti stretti il coach mentre Erin accorreva dall’amico:
« ehi Steve, ti fa male? »
Prima che il centro potesse risponderle, le passò accanto Dylan che, con voce melliflua, la provocò:
« ma come principessa, rivolgi le tue attenzioni a qualcun altro? Devo esserne geloso? »
E fu allora che Erin capì: viscido. Fu quella la prima parola che comparve nella mente della cestista quando si scontrò con il sorriso ipocrita del pivot avversario. Altro che affascinante e gentile.
Steve zoppicò, sentendo una fitta provenire da dietro il ginocchio.
« merda » sibilò tra sé e sé.
Il gioco era proseguito e, nell’arco di pochi secondi, sfruttando il disorientamento degli avversari, la New Day aveva segnato ben due triple; la preside dell’istituto era scattata in piedi e, voltandosi verso Miss Swanson, sibilò:
« questo è solo l’inizio »
Mentre la dirigente scolastica cercava di trattenersi, una voce dal corpo docente si staccò su tutte:
« MA HA VISTO QUELLO CHE HA FATTO IL SUO STUDENTE? COME OSA APPOGGIARE UNA SIMILE MESCHINITÀ? » strillò la Fraun indignata.
« non so di cosa stia parlando. Io mi riferivo alla splendida tripla » sogghignò Bernice, sedendosi compostamente.
« Ursula, calmati » la sedò Miss Joplin « sono sicura che non è stato un fallo voluto, altrimenti dovrei cominciare a sospettare che i nostri avversari siano degli incompetenti se per vincere devono abbassarsi a simili vigliaccate »
Per la seconda volta, Bernice fulminò con lo sguardo la compostezza di quella giovane insegnante che, nonostante l’aria ingenua, continuava ad assestarle un colpo dietro l’altro.
 
Con Steve in difficoltà, la New Day riuscì a rimontare parecchi punti, costringendo Boris a sostituirlo con Wes.Il pivot fu così costretto a tornare in panchina demoralizzato e si scusò con la squadra:
« ma che dici Gint, mica è colpa tua! » lo tranquillizzò Liam, battendogli una mano sulla spalla « sono quei bastardi che… »
« ragazzi » li richiamò Boris « dobbiamo restare concentrati, se perdiamo la calma faremo il loro gioco »
Fissò il punteggio: 42 a  36 a loro favore. Il vantaggio che avevano guadagnato nel quarto precedente andava assottigliandosi sempre più.
 
« allora? come sono messi? »
Melanie e Isiah si voltarono verso Julius, seguito da Charlie, la loro compagna di squadra.
« avevi ragione Jujù: quelli sono dei fottuti bastardi »
Sorvolando sull’irritazione scaturita da quel soprannome, Lanier proseguì:
« lo so, me l’ha appena detto Charlie »
Gli altri due cestisti si voltarono sorpresi verso la loro compagna di squadra e fu Melanie la prima a chiedere:
« si può sapere che fine avevi fatto? »
« ero al telefono con un mio amico » spiegò, mentre Lanier storceva il labbro contrariato « anche lui ha partecipato al torneo e la sua squadra ha affrontato la New Day dieci giorni fa »
« e che ti ha detto? »
« che solo nella sua squadra, dopo la partita, ci sono stati quattro giocatori feriti: una contusione e tre slogature »
Dopo un paio di secondi di silenzio, Isiah ringhiò:
« brutti figli di puttana, lo fanno apposta! »
Quell’esclamazione aveva quasi spaventato Melanie, che non era abituata a vedere la guardia così furente. Per lui il basket era uno sport sacro e, in quanto tale, il regolamento andava rispettato, così come gli avversari. Una squadra del livello della Atlantic non meritava di affrontare quella che a suo avviso era solo feccia.
 
Quando Trevor provò a spiccare un salto per recuperare la palla, si trovò nella stessa situazione che aveva riscontrato Dajan poco prima: il piede di Warrant gli impediva di staccarsi dal suolo:
« ehi, brutta merda, togliti dalle palle! » abbaiò perdendo il controllo.
L’arbitro udì quella minaccia e si accigliò verso il giocatore:
« Trevor, sta’ calmo » gli sussurrò Erin ma l’ala sentì il sangue andargli al cervello.
Quando Burns, nel tentativo di porsi davanti a lui per recuperare la palla gli sferrò una gomitata in pieno petto, il ragazzo scattò:
« EHI ARBITRO! DOVE CAZZO CE LI HAI GLI OCCHI? »
Boris si portò una mano in viso, mentre dagli spalti Bernice sorrideva: tutto procedeva secondo i piani.
La sua era una scuola modesta, che non poteva contare su grossi finanziamenti come quelli di cui godeva la Atlantic. Petunia aveva uno stipendio migliore del suo, un istituto più bello e all’avanguardia, mentre lei doveva ripiegare su una struttura statale mediocre: avevano bisogno di quei soldi e li avrebbero ottenuti a qualsiasi mezzo, onesto o meno che fosse.
« Trevor! » lo richiamò Dajan affrettandosi a scusarsi con l’arbitro.
La partita stava degenerando: Trevor era talmente furioso che non riusciva a restare concentrato, Clinton si guardava attorno come spaurito, nel timore di ricevere qualche colpo avversario mentre Wes era impegnato a discutere animatamente con Cody Cohen, l’unico in quella squadra che sembrava mantenere un briciolo di correttezza.
« Dajan, questi ci stanno frantumando » osservò Erin.
« lo so Cip, ma purtroppo non possiamo farci nulla. Non vedi come fanno? Sfruttano i punti ciechi dell’arbitro per commetterci fallo »
« e quindi? »
« teniamo gli occhi aperti » si raccomandò il ragazzo, asciugandosi un rivolo di saliva.
Il gioco riprese e Dajan si trovò circondato da Sprout e Warrant. I due ghignarono e allungarono i gomiti verso l’esterno, urtando l’addome del ragazzo. Il capitano fu costretto ad allargare le braccia a sua volta per farsi strada ma quell’azione venne interpretata come un fallo e seguì subitaneo un fischio di ammonimento:
« non ci credo » borbottò Liam dalla panchina e al suo stupore, si sommò quello degli altri cestisti.
Conosceva Dajan sin dalle scuole medie, erano entrati insieme nel club di basket e in tutti quegli, mai una volta, al ragazzo era stato fischiato un fallo. Proprio per quel motivo, Dajan era visibilmente sconvolto:
« primo fallo della partita per Dajan Brooks, della Atlantic »
« siamo onesti Ryan, questo non è esattamente il primo fallo della partita »
« che c’è Brooks? Non ti farai mica impressionare per così poco? Ne hai ancora altri quattro prima di essere espulso » lo derise Warrant.
« io adesso vado lì e gli spacco la faccia! » si alzò Kim, mentre Steve e Liam cercavano di trattenerla. Notando il movimento in panchina, il capitano avversario commentò:
« e quella chi è? La tua ragazza? Carina… non mi dispiacerebbe farci un giro »
Quelle parole lo fece scattare, facendo sì che Dajan lo afferrasse per la maglia, minaccioso:
« ma a giocare a basket non ne sei proprio capace? »
« non tutti nascono destinati a diventare la stella dei Cavs » malignò Warrant, staccandosi da quella stretta. Sputò quelle parole con rabbia e invidia, ma prima che Dajan potesse aggiungere altro, intervenne una voce femminile:
« allora non prendertela con gli altri per la tua mediocrità, perdente »
Warrant abbassò il capo e, fissando sprezzante quel metro e sessantasette di determinazione, mormorò:
« Sprout aveva ragione: sei proprio un bocconcino interessante tu »
Erin non replicò, ma sostenne quello sguardo beffardo imprimendo su di esso tutta la sua rabbia.
 
Il gioco continuava ma l’indignazione di Rosalya era incontenibile:
« quei grandissimi pezzi di merda! »
« Rosalya! » la riprese il fratello « infervorarsi così non servirà a niente »
« in qualche modo devo pur sfogarmi Lys! È un’ingiustizia! Da quando Dajan è stato ammonito per quel fallo, non gioca più bene come prima, e tutto perché sono dei figli di »
« Rosalya! » ripetè il fratello.
 
Miss Swanson spostò lo sguardo sul tabellone: a un minuto dalla fine del quarto, la New Day si era portata in vantaggio di 48 a 56.
Boris aveva dovuto sostituire anche Trevor, per contenere l’irruenza del giocatore e rimpiazzarlo con Gordon, ma la sostituzione non aveva sortito l’effetto sperato.
« come puoi vedere ora cara, l’inerzia della gara è dalla mia parte » aveva dichiarato Bernice, accavallando le gambe ossute.
« mancano ancora due quarti » sibilò la collega, fissando con apprensione il pitturato.
« oh certo, durante i quali vi faremo mangiare la nostra polvere »
La situazione era tragica.
Prima che riuscissero a realizzare quanto stava accadendo, la New Day aveva sovvertito le sorti dell’incontro, mettendo fuori gioco alcuni dei giocatori migliori della Atlantic come Trevor e Steve e impedendo alla loro stella Dajan di brillare.
Per quanto i tifosi e i cestisti del Dolce Amoris protestassero, l’arbitro non aveva fischiato nessuna irregolarità contro gli avversari, addirittura questi erano riusciti a fare commettere un secondo fallo a Dajan e uno a Clinton.
« i ragazzi sono troppo nervosi. Stanno giocando malissimo » farfugliò Faraize.
 
« questa non è la Atlantic che abbiamo affrontato noi » commentò Lanier.
 
« il problema è che da questo punto in poi la situazione può solo peggiorare » considerò Ambra.
 
Da ogni angolo del palazzetto, gli spettatori assistevano impotenti a quella disfatta: sotto i loro occhi si stendeva uno scenario colmo di ingiustizia ma nessuno poteva ostacolarlo.
I giocatori della Atlantic erano lividi di rabbia e amarezza ma ogni tentativo di contrastare i nemici gli si ritorceva contro. Viceversa, Burns e Warrant erano specialisti nell’infliggere loro colpi ben assestati, risparmiando solo Erin, salvaguardandola se non altro in quanto esponente dell’altro sesso.
La tweener guardò i compagni: Wes si massaggiava il braccio dolorante, vittima della terza gomitata di Burns, Clinton aveva l’espressione smarrita di un cucciolo di labrador abbandonato sul ciglio della strada, Gordon era rimasto a corto di fiato, nel tentativo di correre da un lato all’altro del campo per coprire l’inattività della guardia ed infine Dajan che, a causa dei due falli che pesavano sulla sua fedina sportiva, si tratteneva dal compiere le azioni spettacolari per cui era famoso.
La preside del Dolce Amoris affondò le unghie nei palmi delle mani al punto da sentire un dolore intenso, non appena la New Day segnò l’ennesima tripla.
48 a 62.
Un punteggio che le bruciava all’inverosimile:
« preside… » sibilò una voce gentile ma titubante:
« che c’è? » abbaiò, facendo sussultare Melody.
« dovrebbe venire un attimo con me »
« ora? Ma non vedi che sono impegnata? Ti sembra questo il momento? »
« lo so, ma proprio per questo dovrebbe venire » insistette la segretaria, cercando di risultare un po’ più autorevole.
« suvvia Petty, vai pure, poi ti racconterò io di come la New Day ha umiliato i tuoi ragazzi » malignò Bernice che a quel punto aveva abbandonato ogni ipocrita carineria.
Il successo l’aveva messa di ottimo umore e voleva godersi a pieno la disfatta della sua storica nemica.
Quella partita non era solo un’occasione per racimolare fondi preziosi: era la battaglia in cui avrebbe decretato la sua vittoria su una donna che era sempre stata un passo davanti a lei.
« Melody, si può sapere che cosa c’è? » sbottò Miss Swanson, trattenendo a stento la voglia di urlare contro l’innocente studentessa.
La ragazza abbassò il capo e guardò indecisa la donna seduta accanto alla dirigente scolastica. Tentennò qualche secondo, poi si piegò verso la preside, per bisbigliarle qualcosa all’orecchio.
Bernice vide gli occhi della collega spalancarsi per lo stupore: Petunia scattò in piedi e, fissando la studentessa strillò:
« E PERCHÉ DIAVOLO NON ME L’HAI DETTO PRIMA?! »
I docenti sobbalzarono sorpresi mentre Melody s’incurvò nelle spalle, facendosi piccina.
« ma io… »
La preside però non intendeva perdere ulteriormente tempo.
Abbassò lo sguardo verso Bernice, sfidandola dall’alto verso il basso e, ghignando vittoriosa, annunciò:
« ora vedrai di che pasta è fatta la Atlantic »
 
Erin ansimò, cercando di riprendere fiato.
Aveva corso da un lato all’altro del campo ma per quanto impegno ci avesse messo, i suoi compagni non riuscivano a mantenere le palle che lei conquistava con tanta fatica.
Dajan era teso, Gordon spento, Wes e Clinton demotivati.
In appena dieci minuti, la New Day era riuscita a ribaltare l’esito della partita, portandosi non solo in vantaggio, ma annientando anche il loro spirito.
Era l’unica a crederci, anche se era quella che meno aveva da guadagnarci.
Non le interessava il premio in palio, era solo una questione di giustizia.
Quei ragazzi meritavano il terzo posto, erano una delle squadre più forti del torneo, avevano raggiunto quel traguardo facendo affidamento sul loro talento e sul loro impegno.
Se la New Day aveva vinto le partite precedenti ricorrendo a quella spregevole strategia, non meritava di salire sul gradino del podio. Il suo senso di giustizia le impediva di assistere ad una simile scena.
Inspirò più forte, mentre il cuore le martellava il petto.
Sul tabellone anche l’ultimo secondo era sparito, lasciando un doppio zero al posto del conto alla rovescia.
Il secondo quarto se n’era andato, come la loro determinazione a portare a casa la vittoria.
 
Quando le note, figure astratte tracciate su carta acquisivano un suono, avvertiva una strana reazione, un misto di eccitazione e mistero.
Sì, d’accordo, la musica era la sua vera passione, era connaturata nella sua natura… ma, forse era proprio per la sua spiccata sensibilità ai suoni che il rumore della palla sbattuta contro il pitturato, il cigolio delle suole che strisciavano sul parquet e i clamori della folla, lo mandavano in fibrillazione.
Era un’altra sensazione. Diversa da quella di richiudersi in una stanza a comporre musica.
Era una sensazione che gli era mancata e che era arrivato il momento di riprovare.
Un sogghigno, seguito da un verso soffocato, quasi animalesco.
I muscoli si stavano svegliando dal letargo, come se avessero riconosciuto che fosse finalmente arrivato il momento di destarsi dal sonno.
Erano settimane che immaginava quel momento ma questo non gli era bastato a prepararsi psicologicamente: quel torneo era molto più eccitante di quanto avesse immaginato.
Continuò ad avanzare finchè la penombra si dileguò e venne investito dalla luce che illuminava la stanza.
L’arbitro aveva appena fischiato e il gioco si era arrestato.
Non poteva beccare momento migliore per il suo ingresso in scena: in fondo lui, Castiel, un po’ esibizionista, lo era sempre stato.
 
 
 
 


NOTE DELL’AUTRICE:
 
MUAHAHAHHA

Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** Mi sei mancato ***


 
 
 
 50.
MI SEI MANCATO
 
 

Castiel è lì, a pochi metri da te.
Incredibile vero?
Penseresti ad uno scherzo, ma nella tua mente non trovi posto per altri pensieri che non siano “lui”.
Lui, che nelle ultime settimane l’ha invasa di continuo, che l’ha monopolizzata senza riguardo.
Hai sognato troppe volte questo momento e ora sei paralizzata in quello che ti sembra un bellissimo e crudelissimo sogno.
Lo vedi ghignare soddisfatto, dominato dalla presunzione di sapere quello che stai provando in quel fatidico istante.
No, non può capirlo, perché se così fosse, sarebbe commosso nel percepire la gioia che provi nel trovartelo davanti; non se ne starebbe lì, con quell’espressione beffarda che però, ammettilo, ti fa impazzire.
L’istinto è quello di correre da lui, abbracciarlo fino a sentirlo lamentarsi del fiato di cui lo stai privando. Eppure non ti muovi ancora.
È troppo.
È lui.
È davvero il Castiel che aspetti da due mesi ma che ti sono pesati come se fossero due anni.
Eppure qualcosa devi fare.
Sai di essere ridicola a restartene impalata, mentre lui è in attesa che anche il resto del mondo si accorga del suo arrivo. È vero, non puoi restartene lì a guardarlo, ma passeresti ore a farlo.
Congeleresti il tempo, annulleresti tutto ciò che ti circonda solo per poterti gustare ancora qualche irripetibile attimo di quella scena così assurdamente reale.
Tuttavia, non puoi impedire alla lancetta dell’orologio di continuare la sua corsa, come non puoi bloccare il granello di sabbia che cade silenzioso dalla strozzatura della clessidra.
Il tempo non può fermarsi per voi, allora devi essere tu a muoverti più in fretta. Se non ti sbrighi, sai che sarà qualcun altro a conquistarsi per primo quell’abbraccio che vuoi così disperatamente.
Devi correre, altrimenti crollerai per l’emozione.
Che stai aspettando?
 
Da quando Castiel si era materializzato in quella palestra, i suoni giungevano nell’orecchio di Erin molto più ovattati e le immagini risultavano sfuocate. Solo la fisionomia del ragazzo le appariva nitida e distinguibile: di lui la mora non poteva che ammirarne ogni dettaglio che finalmente, tornava a rispolverare la sua memoria; quel metro e ottantasette di altezza e sfrontatezza su cui si illuminava un sorriso indimenticabile e sprezzante.
« Castiel » mormorò Erin, con la voce strozzata dalla commozione.
Lui continuava ad avanzare, senza rinunciare a quella sua smorfia così caratteristica, beffarda e spregiudicata. Aveva le mani affossate nelle tasche ed era assolutamente incurante del putiferio che avrebbe scatenato di lì a pochi secondi.
Trevor notò la staticità della ragazza che, nonostante fosse finito il quarto, era ancora imbambolata sul pitturato. Cercò di catturarne l’attenzione, ma invano, così concentrò lo sguardo nella direzione di quello della cestista.
Ci mise un attimo per riprendersi, mentre i suoi occhi si sgranavano per lo stupore e la bocca si deformava nello sforzo di urlare a pieni polmoni.
Un ragazzo moro e un numero 11 stampato sulla divisa: poteva essere solo una persona.
« CASTIEEEEEEEL!!! »
Tutti i cestisti del Dolce Amoris, senza eccezione, sussultarono a quel nome, come se avessero udito uno sparo improvviso. Chi era seduto, scattò immediatamente in piedi per cercare quel compagno che non vedeva da mesi:
« Castiel… » bofonchiò Dajan incredulo, con le labbra socchiuse dallo stupore.
« cazzo sì, è Black! » confermò Kim, squittendo eccitata.
« Castiel!! »
Quel nome palleggiò da una bocca all’altra come se solo chi lo pronunciasse potesse acquisire la capacità di vedere il ragazzo.
Tra gli spalti, notando le strane reazioni dei giocatori, i tifosi cominciarono ad incuriosirsi e si sporsero nel cercare sul pitturato la fonte di quell’interesse.
Appena il nome dell’ex capitano della Atlantic cominciò ad essere pronunciato in qualche focolaio sporadico, venne amplificato da un vocio crescente e implacabile:
« CASTIEL! RAGAZZI MA QUELLO È CASTIEL BLACK? »
« È DAVVERO LUI? MA NON ERA ROSSO? »
« È TORNATO CASTIEL! »
« GUARDA LA MAGLIA! HA IL NUMERO 11! »
« QUELLO È BLACK! »
« MA NON ERA IN GERMANIA? »
« LAGGIÙ, VICINO A DOVE ENTRANO I GIOCATORI! »
« SÌ È PROPRIO LUI! »
« ODDIO NON CI CREDO! »
Rosalya, Alexy ed Armin svettarono in piedi, sporgendosi in avanti:
« Castiel… » borbottò la prima incredula.
« MERDA SÌ! » urlò il moro euforico « È PROPRIO CASTIEL! »
« FINALMENTE!! » aggiunse il gemello.
Iris si era portata una mano davanti alla bocca, nascondendo dietro di essa un sorriso enorme, mentre Lysandre sogghignava felice:
« ora ne vedremo delle belle » annunciò.
Nonna Sophia scrutò quel gruppo di giovani che la circondavano per poi spostare l’interesse verso il nuovo arrivato che aveva appena fatto il suo ingresso in scena: un bel ragazzo moro, con la divisa rossa della Atlantic High School stava avanzando verso il pitturato. Lo fissò con crescente curiosità, destinata a raggiungere il suo apice, di lì a pochi secondi, a causa della reazione inaspettata di sua nipote Erin.
 
No. Non era un sogno, né un’allucinazione e l’entusiasmo generale ne era la prova.
Erin si era chiesta più volte come avrebbe reagito quando l’avrebbe rivisto ma nessuna della sue previsioni si avvicinava alla gioia incontenibile che provava nel trovarselo davanti; la razionalità l’aveva abbandonata da un po’, così lasciò che fosse il suo cuore a guidarla.
I suoi piedi si staccarono dal suolo e la portarono ad atterrare contro il petto del musicista, abbracciandolo con quanta forza le consentisse il suo corpo esile e minuto.
Lui invece rimase immobile, spiazzato da quella reazione.
Era libero di pensare qualsiasi cosa, ad Erin non importava: voleva solo restare lì, con le mani che si aggrappavano saldamente al tessuto rosso della maglia del cestista, come in un infantile e disperato tentativo di non lasciarlo andare via un’altra volta.
Il cuore le stava letteralmente fracassando il petto, trasmettendo le proprie pulsioni forsennate anche al ragazzo. Quel profumo le era mancato troppo, forse più di quanto ne avesse avuto la reale consapevolezza.
Avvertì delle lacrime imminenti e affondò ancora di più il volto nel petto del ragazzo, lasciando che fosse la divisa di lui ad asciugarle e pregò che non si accorgesse di quanto fosse felicemente sconvolta.
« Erin » le sussurrò Castiel, finalmente.
Rabbrividì, udendo quel timbro un po’ greve che da settimane intere non colpiva i suoi timpani. Le era arrivato con una dolcezza che le aveva sciolto ogni amarezza e, improvvisamente, mettendo da parte il proprio orgoglio e coerenza, sentì che poteva perdonargli ogni messaggio non inviato, ogni chiamata non effettuata. Poteva perdonargli di averla abbandonata.
Poteva perdonargli tutto.
O quasi:
« ti sono cresciute le tette o hai un reggiseno imbottito? »
Se quel giorno ad Erin non scoppiò alcun’arteria cerebrale per il nervoso, poté solo dirsi fortunata.
La magia svanì all’istante e gli sferrò un colpo violento all’addome, costringendolo a piegarsi in due:
« sei il solito idiota! » lo rimproverò furente, con le guance imporporate e gli occhi lucidi.
Non era cambiato affatto.
Il solito sfrontato Castiel.
Eppure era innamorata anche di quella sfrontatezza.
« ehi Cas! » lo accolsero per primi Dajan e Trevor, l’uno mettendogli un braccio attorno al collo, l’altro dandogli una pacca sulla spalla. Nei loro gesti, i due atleti furono fin troppo impetuosi, gravando sul torace del moro, che si piegò in avanti.
« amico, tu sì che sai fare le entrare in scena come si deve! » si complimentò l’ala grande.
« a saperlo preparavamo il tappeto rosso » scherzò il capitano.
« a proposito di rosso… e questi capelli? » si aggiunse Steve, scompigliandogli la chioma nera « come mai questo cambio di look? »
Dietro il pivot, fecero seguito il resto dei ragazzi così ben presto il musicista venuto dalla Germania si trovò circondato da una decina di chiassosi ed eccitati cestisti, che iniziarono a bombardarlo di domande e battute:
« quelli torneranno rossi molto presto, solo che non mi sembra il momento migliore per parlarne no? » brontolò con un sorrisetto ironico, guardando il tabellone.
« sembri quasi una persona seria così, Black » ridacchiò Kim « e poi almeno sei coerente con il tuo cognome »
« quando sei arrivato? » gli domandò Dajan.
« un’ora fa »
« arrivare prima no eh? » lo rimproverò bonariamente Steve, dandogli l’ennesima pacca sulla schiena. A forza di riceverne, la pelle lasciata scoperta sulle spalle cominciava ad arrossarsi.
« allora? Come sono le tedesche? » s’accavallò la domanda di Wes.
Boris assisteva in disparte a quella scena, con un sorriso enorme stampato in volto: da quando Castiel aveva fatto il suo ingresso sul campo, l’atteggiamento sconfitto dei ragazzi era evaporato.
Il suo arrivo aveva risollevato gli animi, destato il loro interesse e, soprattutto, riacceso i loro giovani sorrisi.
I ragazzi sembravano essersi dimenticati di avere ancora due quarti da giocare, ma lasciò che si gustassero ancora qualche secondo per accogliere a dovere il loro ex capitano.
« Black sa proprio cosa sia il carisma » valutò il professor Faraize, leggendo nei pensieri del coach.
« non poteva arrivare in un momento migliore. Se c’è un giocatore chiave in una partita come questa, è proprio lui » e si decise finalmente a raggiungere la squadra.
Nel frattempo i cestisti della New Day, osservavano perplessi dalla panchina, quella scena:
« e quello chi è? » domandò Dylan, rivolgendosi al capitano:
« sulla maglia ha scritto Black » lesse Jeremy « ma non l’ho mai visto giocare »
« ora si spiega il nome del dodicesimo giocatore iscritto al torneo » puntualizzò il coach, che da quando Castiel era entrato, non gli aveva staccato gli occhi di dosso « andiamo nello spogliatoio ragazzi, non abbiamo tempo da perdere » li liquidò.
 
« allora Cas, com’è Berlino? »
« avete inciso qualcosa? »
« quand’è che uscirà il CD? »
Era impossibile per il ragazzo rispondere ad una domanda che immediatamente ne subentrava una seconda, stordendolo al punto da non capire chi gliel’avesse posta.
Una dozzina di teste parlanti lo circondavano ma solo una se ne restava muta: dopo essersi sciolta dall’abbraccio, Erin non aveva aggiunto mezza parola.
Lo fissava da lontano, come se fosse un estraneo e lasciava che fossero gli altri a formulare domande di cui il moro non riusciva a fornire una risposta.
« sei diventato una celebrità ora » commentò una voce, con tono piatto.
Castiel sollevò lo sguardo e si trovò di fronte un accigliato Boris:
« ehilà Bors » lo salutò, sollevando la mano.
« ehilà? Abbiamo finito con i convenevoli e cominciamo a fare sul serio con questa partita? » tuonò, fingendosi irritato.
« eddai, non fare il duro che non ti riesce proprio. Ce l’hai ancora con me perché vi ho mollati su due piedi? » sdrammatizzò il musicista, facendosi largo tra i compagni e raggiungendo il suo allenatore.
« togliti quel sorrisetto divertito signorino » lo additò l’uomo « come minimo devi portarci alle Bahamas se vuoi che ti perdoni »
« sono venuto apposta » replicò sprezzante il ragazzo « dopo due mesi sotto zero, ho proprio bisogno di un po’ di sole tropicale »
 
« oddio, ragazzi, è tornato Castiel! » squittiva Iris eccitata. Aveva una strana luce negli occhi, che Kentin non mancò di notare e, proprio per questo, lo indispose. La rossa aveva un ottimo rapporto con tutti i suoi amici, ma la sua reazione nel vedere quel nuovo ragazzo risultò sin troppo entusiasta agli occhi dell’ex cadetto. Se avesse saputo che la gioia di Iris, analogamente a quella di Rosalya, era in buona parte un riflesso di quella della loro amica Erin, sicuramente il primo incontro tra Kentin e Castiel, avvenuto di lì a poche ore, avrebbe preso una piega diversa.
Nonna Sophia, incapace di trattenersi, strattonò leggermente la manica della stilista verso di sé:
« Rosetta cara, chi è quel ragazzo? »
« il futuro marito di Erin » le rispose l’altra, facendole l’occhiolino.
Peter si era sbilanciato in avanti al punto da schiacciare lo spettatore seduto di fronte di lui; vedere sua figlia correre incontro al ragazzo, per quanto avesse i suoi buoni motivi per averlo rivalutato, l’aveva lasciato di sasso.
Un tempo era lui l’unico uomo a cui la sua bambina accorreva incontro, abbracciandolo con tanta foga.
Miss Swanson riapparve tra gli spalti, con un sorriso trionfante tatuato in volto. Tornò ad occupare il suo posto tra Miss Joplin e Bernice, che era in attesa di una spiegazione:
« quindi quel ragazzo sarebbe il vostro asso nella manica? » commentò quest’ultima, aggiungendo una punta di cinismo.
« esattamente » affermò l’altra risoluta, rizzandosi sul busto corpulento « trovati altri finanziamenti Berny, perché i soldi del torneo andranno al Dolce Amoris »
 
Boris sedò l’entusiasmo generale e invitò i ragazzi a seguirlo negli spogliatoi per studiare una strategia con cui sconfiggere gli avversari. Nonostante l’autorità che cercò di ritagliarsi, ci mise due minuti buoni per attirare la loro attenzione, finché dichiarò:
« dopo la partita offro da bere a tutti e così Castiel potrà raccontarci cosa ha combinato in questi mesi ma per i prossimi venti minuti cercate di stare concentrati sul gioco! »
« ce l’ha proprio con te amico » sussurrò Trevor all’ex rosso, mentre percorrevano il corridoio.
 
L’allenatore era impegnato a riepilogare la situazione, ma Erin non riusciva a sentire mezza parola: era proprio lui, Castiel.
L’ultima volta che erano stati l’uno accanto all’altra era totalmente ignara dei sentimenti che provava, lo considerava ancora il suo migliore amico.
Troppe cose erano cambiate da allora e non sapeva più come comportarsi in sua presenza.
Era confusa, in imbarazzo, a disagio con il ragazzo che, più di ogni altro, in passato la faceva sentire bene con se stessa. Non riusciva a capire se quella strana luce che irradiava, fosse solo una sua impressione o se realmente il Castiel che era in quello spogliatoio fosse diverso rispetto a quello che aveva lasciato l’America più di due mesi prima.
« Erin? »
Alzò di scatto lo sguardo e vide il coach fissarla perplesso:
« tutto ok? »
Dalle espressioni dei suoi compagni, la ragazza capì di essersi talmente assorta da aver perso completamente il filo del discorso.
« sì » farfugliò, abbassando il capo imbarazzata.
« ma come? Non protesti? Di solito quando ti sostituisco hai sempre qualcosa da obiettare »
« mi sostituisci? » domandò delusa.
Boris sollevò gli occhi verso il soffitto, sospirando spazientito:
« non hai ascoltato mezza parola di quello che ti ho detto, vero? »
La ragazza tornò ad abbassare il viso mortificata, mentre l’allenatore ripeteva:
« Kim è molto più indicata a tenere testa a gente come quel Sprout, che mi pare si diverta parecchio a punzecchiarti »
Erin storse il labbro e, nel cercare lo sguardo di Boris incrociò prima quello di Castiel, che la fissava imperscrutabile.
« ora che abbiamo Castiel, direi che il nostro duo può finalmente entrare in azione, eh Dajan? »
Il capitano e il playmaker si scambiarono uno sguardo d’intesa, enfatizzato da un sogghigno compiaciuto da parte di entrambi:
« beh, non so se sono al livello della promessa dei Cavs, ma farò del mio meglio » commentò Castiel, dando una pacca sulla spalla al compagno. Finalmente Dajan era sbocciato: anche se all’inizio dell’anno, l’intera scuola considerava Castiel il giocatore più forte, quest’ultimo aveva sempre saputo che quel titolo spettava al compagno. Dajan aveva solo bisogno di un’occasione per dare prova del suo talento e l’uscita di scena dell’ex rosso aveva permesso alla sua luce di brillare, di tirare fuori le sue capacità, elevandole al massimo. Era stato informato dell’ingaggio da parte dei Cavs appena pochi minuti prima e quella notizia era solo una di una serie di novità che si era perso nei mesi di assenza, seguita dal recente fidanzamento tra il capitano e Kim.
« tu Cas entri al posto di Clinton » continuò Boris.
Erin non aveva alzato il viso dal pavimento, fissando inespressiva le mattonelle rossastre: era l’ultima partita e lei avrebbe voluto così tanto far vedere all’amico quanto fosse migliorata, ma non poteva opporsi alla decisione dell’allenatore. Anche Kim aveva diritto al suo spazio, specie perché era più indicata di lei per far fronte ai commenti squallidi di giocatori come Dylan Sprout.
« aspetta un attimo Bors »
Alzò lo sguardo, rabbrividendo. Ogni volta che era lui a parlare sentiva una sorta di tremito percorrerle la schiena: doveva abituarsi al fatto che Castiel fosse tornato, che quella voce l’avrebbe udita ancora e ancora. Nell’attesa tuttavia, le risuonava nella testa come qualcosa di estremamente piacevole e confortante.
Il cestista nel frattempo proseguì:
« da quello che ho capito gli avversari fanno falli a manetta su tutti giusto? »
« tranne Erin » precisò l’allenatore, apprestandosi a seguire il ragionamento del ragazzo.
« esatto » puntualizzò l’ex capitano, sollevando l’indice e piegandosi in avanti « perché, saranno anche dei bastardi, ma non sono così infami da toccare una ragazza giusto? »
« continua » lo incalzò Boris. In quel momento riuscì ad intuire quale fosse la conclusione a cui volesse giungere il ragazzo, ma trovandola una pensata interessante, gli lasciò la soddisfazione di formularla davanti alla squadra:
« allora perché non ne schieriamo due di ragazze sul campo, visto che ce le abbiamo? »
I presenti ammutolirono: nessuna squadra in nessuna partita del torneo aveva mai piazzato due ragazze sul pitturato. Il regolamento prevedeva che almeno una giocasse ma quella era vista come una condizione svantaggiosa, per cui mai nessuno aveva osato aumentare quel numero.
Fu per l’assurdità di quella proposta che Trevor, seguito poi a ruota dal resto dei presenti, scoppiò a ridere:
« ahahah Black, quanto mi mancavano le tue sparate! »
Steve però non si era unito alla risata generale, così come il capitano:
« saremo la prima squadra dell’intero torneo a giocare con due ragazze » considerò con un certo orgoglio il centro.
« non è una cattiva idea » ragionò Dajan « tecnicamente parlando non sono fortissimi, anzi. Potremo batterli anche tenendo in campo due ragazze »
« grazie per la considerazione che avete di noi » borbottò Kim sarcastica, lanciando un’occhiataccia al suo ragazzo, che in risposta le sorrise teneramente.
« potrebbe funzionare: a quel punto almeno due giocatori su cinque sarebbero intoccabili » convenne Faraize, cercando l’approvazione dell’allenatore.
« anche perché se gli toccano Kim, Dajan spezza le gambe a qualcuno  » rise Wes.
Mentre i due interessati gli lanciavano un’occhiataccia imbarazzata, il resto della squadra attendeva la risposta di Boris: l’omone teneva le muscolose braccia incrociate davanti al petto e le labbra serrate.
Nonostante il suo tentativo di creare suspense, dalla vivacità dei suoi occhi, Castiel riuscì a leggere la risposta finale, finendo per pavoneggiarsi:
« ammettilo Bors: sono un genio » si gloriò, incrociando le mani dietro la nuca. Nello spogliatoio scappò qualche risatina divertita, mentre il coach prendeva parola:
« solo se funzionerà » dichiarò e, sciogliendo la stretta sulle braccia, battè con convinzione i palmi « d’accordo, così sia: Erin e Kim, entrate in campo voi al posto di Wes e Gordon… e ovviamente tu, piccola celebrità venuta dalla Germania… » ironizzò, lanciando un’occhiata eloquente al nuovo cestista i cui occhi fiammeggiavano dall’eccitazione « prendi il posto di Clinton »
Mentre la squadra sogghignava, trepidante all’idea di rivedere Castiel sul campo, quest’ultimo sorrideva soddisfatto.
Era arrivato il momento di dimostrare che negli ultimi due mesi non si era solo rimpinguato di crauti, wurstel e birra.
 
Uscendo dallo spogliatoio, Castiel era attorniato dal suo gruppo di compagni di squadra, che ricordavano più delle body guards attorno ad una star. Quel giorno infatti il moro sembrava esercitare l’attrazione di una stella luminosa sui pianeti circostanti.
Aveva sorriso carismatico, la battuta sempre pronta e niente nell’ambiente sembrava essere più meritevole di attenzione rispetto a lui.
Erin lo guardava da lontano, tenendosi in fondo alla comitiva, incapace di raggiungerlo:
« ehi, come mai non parli con Black? » le sussurrò Kim, avvicinandosi.
La mora alzò leggermente le spalle, senza staccare gli occhi dall’amico:
« è… strano no? » mormorò, con un tono quasi impersonale « cioè, rivederlo dopo tutto questo tempo… »
« vedi di abituarti, perché sul campo dovrete interagire » la freddò Kim, sorpresa da quel commento.
Lei annuì, ma in cuor suo si acuì la percezione di essere prigioniera di una campana di vetro: poteva vederlo, ma non raggiungerlo. Dopo l’impulsività del gesto che l’aveva portata ad abbracciarlo, si era erta improvvisamente una barriera tra di loro, un muro fatto di confusione e disagio.
Cominciò a camminare più lentamente, indietreggiando al punto da staccare il resto della squadra di parecchi metri.
C’era qualcosa di diverso in Castiel, e non si riferiva al nuovo taglio di capelli che, come aveva sempre sospettato, ne valorizzava al massimo i lineamenti.
L’amico emanava una sorta di aurea di positività, di sicurezza e riusciva a trasmetterla a chi lo circondava. Si chiese se fosse sempre stato così o se in realtà fossero solo i suoi occhi innamorati a distorcere la visione.
Non era lo stesso Castiel che l’aveva salutata dal tetto della scuola, la sera del concerto, e sicuramente, lei non era la stessa Erin che lo considerava il suo migliore amico.
Arrivò così verso la fine della galleria, che l’avrebbe portata sul pitturato, circondata dal silenzio.
La squadra aveva già raggiunto la panchina, mentre lei era sola, in attesa di ricongiungersi a loro.
Stava per avanzare di un altro passo, quando si accorse di una figura appoggiata contro il muro; anche se era in contro luce, riconobbe subito il profilo regolare del naso e la mascella squadrata, che la fecero sussultare:
« Cip che ti prende? » le chiese Castiel con non curanza.
Non c’era preoccupazione nella sua voce, al contrario, una nota di divertimento, generata dalla consapevolezza di essere responsabile dello sconvolgimento emotivo dell’amica.
Mi sei mancato, stupido.
« sei più rincoglionita del solito » perpetuò lui.
Mi sono mancati anche i tuoi insulti.
« forse sei tu che sei diventato più intelligente » replicò infine Erin, senza cogliere il senso di quanto stava dicendo.
Castiel ridacchiò, scuotendo leggermente il capo e si staccò dal muro.
« e poi sei così mansueta. Devo preoccuparmi? »
Le si avvicinò, chinandosi verso di lei e portando i loro visi a breve distanza.
Non l’hai fatto per due mesi, perché dovresti cominciare ora?
Erin non disse nulla e lasciò che fosse il suo sguardo a parlare, qualsiasi cosa esso volesse dire.
« dov’è finita la ragazza che per salutarmi mi ha sferrato un colpo da pugile? » la canzonò, rimettendosi dritto e affondando ancora di più le mani in tasca.
« te ne sferro un altro se non la smetti » lo minacciò senza convinzione.
« tremo di paura… »
Lei emise un verso stizzito, mettendo il broncio.
Si odiava perché non riusciva a fare finta di nulla, a comportarsi normalmente.
Il suo ritorno era stato troppo inaspettato, troppo improvviso e lei era così disorientata e confusa, da non riuscire a riconoscere nel ragazzo che la fronteggiava, quell’amico di cui era sempre stata innamorata.
Dove erano finiti i loro sguardi d’intesa?
Che fine aveva fatto quella sensazione di calore e complicità che la attraversava ogni volta che lui le era accanto?
Per quanto tentasse di picchiare contro quelle pareti di cristallo, la campana vitrea in cui era prigioniera, non si frantumava minimamente.
Erano così vicini, eppure lontani.
Abbatti questo muro Castiel, ti prego. Io non ce la faccio.
Castiel la fissava inespressivo; solo lui poteva sapere cosa si celasse nella sua mente in quel momento, ma si accorse di essere diventato molto più bravo a nasconderlo.
Sul viso di lei invece, poteva leggere ogni emozione: era ferita, come se la loro separazione le avesse fatto più male di quanto lui osasse sperare. Lo considerava il suo migliore amico ma era consapevole di non essersi comportato in modo degno di quell’onorificenza.
Si sentiva in colpa, perché lei non aveva meritato il suo silenzio e le sue bugie, ma tenerla lontana era l’unico modo per dimenticarla. Non poteva dirle che nel primo periodo, ogni giorno cercava nella galleria del suo Samsung l’unica foto che la ritraeva, mentre dormiva sul suo letto, quella maledetta e benedetta notte in cui Erin gli aveva chiesto ospitalità. Era riuscito a farle quello scatto all’alba, quando per una seconda volta, l’aveva raggiunta nella sua stanza. Mentre si era chinato su di lei, si era sentito idiota e ridicolo, ma nessuno sarebbe venuto a sapere di quella stranezza e lui avrebbe avuto tutta per sé quell’immagine così dolce.
Con il passare delle settimane e l’accavallarsi del lavoro con i Tenia, gli sembrava che la nostalgia scemasse e che i suoi sentimenti diventassero sempre più tiepidi. Passò dall’osservare quella foto più volte al giorno, al farlo una sola volta, fino a ignorarla.
« ehi » la chiamò con dolcezza.
Erin alzò solo gli occhi, tenendo il mento leggermente abbassato: lo scrutò con timidezza, aspettando di sentire con quale altra provocazione avrebbe tentato inutilmente di farla reagire:
« Dajan mi ha detto che sei stata tu ad insistere perché non trovassero qualcuno che mi sostituisse nella squadra »
Quel commento la spiazzò, ma non quanto la singola parola che seguì, pronunciata con un sorriso sincero e gentile:
«… grazie »
Era come se improvvisamente, in una stanza buia e spettrale, qualcuno avesse appena acceso una luce, accecandola; ad abbagliarla e destabilizzarla era quel semplice “grazie”, pronunciato con tenerezza e affetto.  
Con poche parole, Castiel era riuscito a sfondare quell’invisibile muro che si era eretto tra di loro, costruendo quel ponte che li avrebbe nuovamente uniti.
Erin aveva alzato il viso di scatto, incollando gli occhi verdi in quelli grigi dell’amico che, soddisfatto di aver finalmente sortito una reazione in lei, le schioccò un buffetto affettuoso sulla fronte.
« e ora Cip, che ne dici di dare una lezione a quegli stronzi là fuori? » la spronò, indicando il campo.
La mora si morse il labbro, mentre una strana e incontenibile energia la attraversava da parte a parte: era Castiel il vero pilastro della squadra.
 
Dopo aver annunciato le nuove disposizioni sul campo, i giocatori presero posto; Boris aveva deciso di rischierare nuovamente Trevor, elemento fondamentale per far funzionare il duo Dajan-Castiel. L’ala aveva un sorriso ebete stampato in faccia, mentre teneva gli occhi puntati sull’ex rosso:
« che hai Trev? Ti sei innamorato di Black? » lo schernì Kim.
« ma sta’ zitta » borbottò divertito il cestista, che sin da quando l’ex capitano aveva messo piede sul pitturato, si sentiva più rilassato.
« a proposito di gente innamorata… congratulazioni signora Brooks » la sfottè Castiel, con un sorriso beffardo.
La ragazza arrossì, borbottando quella che aveva tutta l’aria di essere una frase poco carina, mentre Dajan ridacchiava:
« e tu Cas? Nessuna conquista dalla Germania? »
Quella frase attirò immediatamente l’attenzione di Erin che, con una certa apprensione, puntò lo sguardo sull’amico. Lo vide sollevare le spalle e ghignare di presunzione:
« un gentiluomo tace le sue conquiste »
Un solco si tracciò sulla fronte della cestista, finché Trevor non puntualizzò:
« specie quando sono inesistenti »
Dajan e Kim scoppiarono a ridere, mentre Castiel rispondeva con un sorriso idiota:
« questa me la segno Mc Connell… e comunque non è colpa mia se le tedesche che ho conosciuto avevano i baffi »
Una sensazione di sollievo alleviò istantaneamente la tensione che era affiorata in Erin, fin troppo consapevole dei sentimenti che l’avevano scaturita.
« così quello sarebbe l’ex capitano della Atlantic? » indagò Burns, masticando rumorosamente una chewing-gum.
« già. Sembra molto sicuro di sé » aggiunse Cohen.
« e un gran figo » osservò Meredith eccitata, in quanto unico elemento femminile della squadra presente in campo.
« comunque questo fatto di aver messo in campo due ragazze… » iniziò Warrant « mi chiedo che cosa abbiano in mente »
« forse quella Phoenix è un talento » ipotizzò Cohen.
« oppure è una strategia per evitare di trovarsi tutta la squadra azzoppata » rise Meredith.
Warrant si voltò verso l’unico del quintetto che non prendeva parte al loro scambio di battute e trovò Dylan intento a fissare Erin: da quanto quel Black aveva messo piede sul pitturato, l’attenzione della ragazza era completamente calamitata da quel soggetto.
« ehi Sprout? Ti piace quella? »
Il pivot si voltò verso il suo capitano, incrociandone lo sguardo divertito:
« sembra che tu abbia un rivale » continuò.
« vorrà dire che la partita si è fatta ancora più interessante » ghignò Dylan, mordendosi la punta della lingua. Fino a pochi minuti prima, quella ragazza era semplicemente un’avversaria molto carina, che era un piacere deconcentrare. Ora che la vedeva così rapita a scrutare quel ragazzo però, acquisiva un fascino proibito, accendendo in lui l’eccitazione di un confronto.
Vide il numero undici avvicinarsi a lei e dirle qualcosa che, dapprima la fece arrabbiare, poi ridere divertita.
« gran bel sorriso principessa » pensò Dylan tra sé e sé e occupò il suo posto nel campo.
 
Dagli spalti, il gruppo di amici di Castiel ed Erin, era ancora preso a parlare dell’arrivo del ragazzo:
« quello stronzo, avvertire prima no eh? » brontolava Rosalya, dopo aver accantonato la gioia iniziale.
« sai come è fatto: ha sempre avuto un po’ questa mania di protagonismo. Gli piace stare al centro dell’attenzione » commentò Armin divertito.
« ma davvero nemmeno tu Lys sapevi nulla? » indagò Iris « di solito a te Castiel racconta tutto »
Il poeta scosse la testa in silenzio. Anche se tra i presenti, era la persona con cui l’amico si confidava più apertamente, il musicista l’aveva tenuto all’oscuro della sua intenzione di tornare prima della scadenza stabilita. Pur cercando di non darlo a vedere, quella scelta l’aveva un po’ amareggiato, infondendogli il dubbio di aver perso parte di quell’esclusività nel suo rapporto con Castiel.
 
Dajan si portò a bordo campo, tenendo la palla tra le mani.
« sarà tutt’altra musica ora » ripetè per l’ennesima volta Miss Swanson alla collega della New Day.
« staremo a vedere » la freddò l’altra, palesando una certa calma. In realtà, non riusciva a ignorare quella misteriosa inquietudine che aveva iniziato a stringerle il petto da quando quel numero undici era entrato sul campo.
 
Castiel cercò di concentrarsi: doveva mettere da parte i mille pensieri che gli arrovellavano in testa e pensare unicamente a quella sfera perfetta, che ben presto avrebbe abbandonato le mani di Dajan.
In meno di ventiquattr’ore era passato dall’essere chiuso in un accogliente chalet a comporre musica, a sgambettare sul campo, per la conquista di una partita che gli avrebbe valso un viaggio alle Bahamas.
Il sole caldo, il rumore delle onde del mare, il profumo della sabbia: già riusciva ad immaginarsi quei paradisiaci dettagli e la sensazione di relax che avrebbero sortito su di lui.
« quindi Erin, niente Berlino eh? » le chiese Kim.
A quelle parole il musicista si voltò di scatto:
« che cos’è questa storia? »
Quasi la attaccò, tanto era sorpreso e confuso. L’amica allora, scrollando le spalle spiegò:
« visto che non ti decidevi a tornare, pensavo di venirti a trovare io: quelli della Saint Mary mi hanno offerto un posto, se vinceranno il torneo »
« e tu rinunci ad un viaggio alle Bahamas per andare in un posto con la temperatura sotto zero? » sbottò lui.
« che c’è Cas? Ti dispiace non vedere Erin in costume? » scherzò Trevor.
La ragazza arrossì incredula, mentre lui replicava placidamente:
« l’ho già vista in piscina ricordi? Non c’era niente di che da vedere » scattò sulla difensiva.
« sì, sì, come no » lo liquidò l’ala « me lo ricordo benissimo come le hai guardato il c- »
Il fischio dell’arbitro li obbligò a interrompere la conversazione.
Kim e Castiel focalizzarono l’attenzione su Dajan mentre Trevor, notando l’imbarazzo di Erin, le bisbigliò:
« comunque Cip, sappi che Castiel pensa che tu abbia un gran bel culo » le confidò, facendole l’occhiolino « e non è neanche l’unico » aggiunse, con una risatina.
A quelle parole, la tweener diventò paonazza, perdendo completamente la concentrazione, che riacquisì troppo tardi, quando sentì la palla spiaccicarsi contro il suo viso.
« POSSIBILE CHE TU NON ABBIA ANCORA IMPARATO CHE LA PALLA NON LA DEVI PRENDERE IN FACCIA MA CON LE MANI? » imprecò l’ex capitano.
Tenendosi le dita sul naso dolorante, la cestista vide Castiel avvicinarsi, mentre gli avversari approfittavano di quell’imprevisto per impossessarsi della sfera.
La platea era scoppiata a ridere, mentre Rosalya e Iris si erano portate una mano sulla fronte, vergognandosi per la loro amica: quando Dajan aveva rimesso in campo la palla, l’aveva direzionata verso Erin che tuttavia, non aveva reagito minimamente, ricevendo il passaggio in pieno viso.
 « Cip, ok che tu hai già il viaggio prenotato, ma io alle Bahamas voglio andarci, quindi vedi di darti una svegliata! » si arrabbiò Castiel.
« ci verrò anche io! » ribattè l’altra, massaggiandosi il setto dolorante.
« ma non hai detto che vai a Berlino? »
« sarei venuta a Berlino per trovare te, idiota »
Il ragazzo allora sorrise compiaciuto:
« così mi fai sentire importante, Cip » si boriò.
« ma non ti meriti un briciolo delle mie attenzioni! »
« allora visto che io non ne sono degno, che ne diresti di rivolgerle alla palla? Giusto per tua informazione, quella non va a canestro da sola » la schernì.
« ah-ah. Mi era mancato il tuo sarcasmo d’avanguardia… »
« CASTIEL! ERIN! » li richiamò dalla panchina il vocione intimidatorio di Boris « dateci un taglio! »
Mentre i due erano beatamente impegnati a punzecchiarsi, i loro compagni cercavano di recuperare palla.
« sta’ calmo Bors, devo solo riscaldarmi un po’ » lo sedò il numero undici.
« devi riscaldare le gambe, non la lingua! »
Il ragazzo rispose con un gesto sbrigativo, che lo mandò su tutte le furie:
« eddai Bors » ridacchiò Steve « smettila di fare il sostenuto: da quando è arrivato Castiel hai gli occhi che ti brillano dalla gioia, non fingere di avercela con lui »
« lo strozzo! Ora che è tornato mi fa ancora più arrabbiare perché capisco quanto si sentisse la sua mancanza » farfugliò l’uomo, quasi commosso, mentre i suoi ragazzi, divertiti da quella lotta interiore che avveniva nell’animo del loro coach, si limitarono a seguire lo svolgimento del match.
 
La New Day conduceva la palla verso il canestro, per mano del suo capitano Jeremy Warrant. Sentendo la presenza alle spalle di Dajan, il giocatore cercò la posizione dell’arbitro. Cambiò traiettoria, in modo che la schiena dell’avversario nascondesse la propria e si arrestò improvvisamente, assestandogli una gomitata in pieno petto. Il capitano della Atlantic boccheggiò, mentre Warrant sorrideva sprezzante. Quel ghigno però non era destinato a durare.
La palla gli sfuggì dalle mani e alzando lo sguardo, la ritrovò in quelle del nuovo arrivato: non si era accorto di come il ragazzo era furtivamente entrato, sottraendogli la sfera.
Lanciò uno sguardo a Burns, che annuì, intuendo le intenzioni del capitano. Dovevano mettere subito in chiaro quale fosse il loro stile di gioco, imponendo anche in quel Black quel senso di impotenza che si era affermato sui compagni poco prima.
Castiel però aveva già passato la palla a Kim e da lei ad Erin.
Con questa tattica, la Atlantic aveva già recuperato terreno, portandosi sotto il canestro avversario; Sprout allora gioì nel trovarsi davanti l’avversaria. Le sfoderò il suo sorriso migliore a cui però Erin rispose con un’occhiata sprezzante. Cercò di trovare un’apertura, ma il ragazzo era troppo alto e con le braccia riusciva a farle da scudo, mettendola in trappola.
Castiel era dietro al ragazzo e la tweener lo vide abbassare fugacemente gli occhi, per poi rialzarli verso di lei: da quel semplice gesto, la compagna intuì il suggerimento e lasciò che la palla passasse sotto le gambe divaricate di Dylan, arrivando così direttamente nelle mani di Castiel.
A quel punto, quasi senza mirare al canestro, tanto misero era stato il tempo di preparazione, il playmaker centrò in pieno il cesto, con una tripla che scatenò l’esultazione del Dolce Amoris dagli spalti.
« che ti avevo detto? » sbraitò soddisfatta la preside del liceo.
« siamo appena all’inizio, è presto per esultare… cara » la ridimensionò Bernice ma, nonostante la sicurezza con cui esternò quella frase, si sentiva sempre più sulle spine.
« bel lavoro Cip » si complimentò Castiel.
« hai visto? » replicò lei orgogliosa « sono migliorata da quando eri tu ad allenarmi. Sono diventata una buona tweetter »
L’amico sbattè le palpebre un paio di volte, fissandola perplesso:
« cos’è che sei? »
« ma in realtà non l’ho mai capito bene neanche io » ammise ingenuamente la ragazza « tipo un ibrido tra un playmaker e un altro ruolo… »
« si dice tweener, idiota! » la riprese il ragazzo, mentre lei faceva spallucce.
Kim nel frattempo aveva raggiunto Dajan, che si massaggiava il petto dolorante:
« quel pezzo di merda di Warrant »
« Kim, sta’ calma. Ci hanno già messo all’angolo prima con questa strategia, non facciamoci deconcentrare »
« non mi fanno deconcentrare, mi fanno incazzare! »
« appunto, e questo non ti fa bene » replicò il capitano. Quell’ultima gomitata che aveva ricevuto era fin troppo violenta ma si guardò bene dal lamentarsene con la sua ragazza. Trevor però riuscì a leggergli in faccia il fastidio che ne derivava e sentì montargli una tale irritazione che non si accorse che Dylan gli era appena passato accanto, senza che lui provasse minimamente a fermarlo.
« Trevor! Che ti prende? » lo riprese Dajan.
L’ala grugnì infastidita e partì all’inseguimento. Sprout fece volare la sfera verso Burns che si trovò circondato da Castiel e Kim.
Dalla sua posizione e da quella dell’arbitro, gli era impossibile commettere falli per aggirare quella difesa, così lanciò la palla più alta che potè. Trevor allora saltò per recuperarla, ma in quel mentre, anche Warrant spiccò un salto. Trovandosi davanti la schiena dell’avversario, Jemery gli assestò una ginocchiata dietro la rotula, strappando all’ala un verso di dolore: Trevor allora riatterrò male, senza palla e con una gamba dolorante.
« ehi, brutto pezzo di merda! » si infuriò, prendendo il capitano avversario per il bavero.
« menalo Trevor! » urlava Rosalya, la cui rabbia era ormai incontrollabile per gli amici.
L’arbitro subito accorse per sedare e punire quella lite ma Castiel fu più rapido:
« Trev, calmati. Rischi di mandare a puttane questa partita »
« ma hai visto come giocano questi bastardi? » ruggì il ragazzo.
L’ala era sempre stato un ragazzo accomodante, alla mano, difficile da far arrabbiare ma quella squadra disonesta e vigliacca era riuscita a infangare lo sport che per persone come lui e Dajan era sacro.
« se lo meni, non ottieni nulla, ti abbassi solo al loro livello » ragionò Castiel, guardandolo con severità.
Erin assisteva a quella scena incredula e come lei, il resto dei presenti: l’amico era noto per essere una testa calda, un ragazzo rissoso e irruento quando provocato. Eppure, quello sul pitturato era tutt’altra persona, riusciva a tenere il controllo della situazione e mediare una discussione accesa. Anche dagli spalti, vedendo Castiel parlare con Trevor, i suoi amici erano rimasti alquanto spiazzati:
« Castiel… è cambiato » commentò Violet stranita.
Trevor sbuffò, mentre l’arbitro si limitò a ignorare quell’escalation di rabbia, senza indagarne il motivo.
« non mi va di vedere te o Dajan fare il loro gioco: siete dei giocatori troppo onesti per abbassarvi a tanto » chiarì il musicista, mentre riprendevano posizione, in attesa che l’arbitro autorizzare la ripresa del gioco.
Trevor stava per replicare ma sul viso del moro si disegnò un sorrisetto beffardo a cui fece seguito un ghigno sprezzante:
« questo ovviamente non vale per me »
Dalla panchina, non potendo udire quello scambio di battute, Faraize osservava quasi commosso la scena:
« strano, non è da Black essere così misurato »
« no infatti » convenne Boris « ti ricordo Timothy che stiamo parlando del liceale con il record di falli nella storia del liceo. Anche se nel caso di Castiel sono involontari, perché gioca con troppa veemenza, secondo me sta semplicemente cercando di mantenere intatta la reputazione dei suoi compagni »
Il professore di ginnastica tornò allora a guardare quello studente indisciplinato, che durante le ore di educazione fisica, era indomabile. Era un po’ stranito dall’immaginare quella forma di gentilezza da parte dello studente, ma per il bene della squadra, voleva credere che Boris avesse ragione.
Il gioco riprese e Warrant passò la palla a Meredith: i polpacci della ragazza erano muscolosi e voluminosi, eccessivi sia per una donna. Le si parò davanti Erin che tentò per due volte di sottrarle la palla, ma invano. Optò allora per un trucchetto che con Melanie non aveva mai funzionato: si voltò di scatto a guardare alla sua destra, deconcentrando l’avversaria che a sua volta distolse lo sguardo dalla sfera; accanto alle due però non c’era nulla da vedere ed Erin ne approfittò per soffiarle la sfera.
Prima che Meredith potesse contrastarla, la deviò verso Kim che la fece poi volare a canestro. Dajan allora spiccò un balzo e la schiacciò con forza nel cesto.
I tifosi della Atlantic esultarono all’istante, elettrizzati dal cambio di inerzia della partita.
I loro cestisti erano tornati ad essere combattivi come sempre.
 
Burns ricevette la palla e la passò a Dylan; erano ancora in vantaggio ma se gli avversari avessero continuato a giocare con quel ritmo, li avrebbero ripresi in poco tempo.
Sprout allora palleggiò lungo l’ala sinistra del campo, finché incontrò Castiel: cercò di farsi strada ma l’avversario glielo impedì. Provò a tirare verso l’alto, ma il moro aveva già il braccio teso in posizione. I suoi compagni erano pronti ad appoggiarlo e Dylan non riusciva ad individuare alcuna traiettoria di passaggio. Il tempo scorreva e mancavano cinque minuti alla fine del terzo quarto.
L’arbitro li teneva d’occhio, dalla sua angolazione avrebbe visto ogni scorrettezza e inoltre Sprout non era avvezzo quanto Warrant e Burns nel commettere falli senza farsi beccare.
Doveva inventarsi qualcosa, non poteva continuare a palleggiare in eterno:
« carina quella Travis… è la tua ragazza? »
Per un attimo vide le sopracciglia dell’avversario aggrottarsi, mentre Warrant si portava alla sua destra. Fulmineo, Dylan passò la palla lateralmente ma Castiel riuscì ad allungare il braccio ed intercettarla. Senza neanche voltarsi, la consegnò a Trevor, avvertendone la presenza alle spalle. L’ala percorse il tratto che mancava per arrivare a canestro, deviò il colpo a Kim che centrò la rete con una tripla:
« non penserete mica di batterci in questo modo? » rise sprezzante Castiel « non ce l’avete un po’ di dignità come giocatori? »
Si allontanò, mentre il volto di Dylan diventava livido per la rabbia: lui che generalmente prendeva tutto alla leggera, non poteva sopportare quell’affronto.
Quel nuovo ragazzo lo aveva umiliato, deriso, sbattendogli in faccia tutta la superiorità della sua squadra.
« Sprout » lo chiamò Warrant « dobbiamo vincere… con qualsiasi mezzo »
Dylan annuì con serietà e raggiunse Meredith che era pronta per la rimessa in gioco. La ragazza aveva portato il pallone sopra la testa e cercava un compagno a cui passarlo.
Immediatamente Sprout si mise davanti a Castiel: non era compito suo marcarlo, ma in quel momento non gli importava nulla della strategia di gioco. Voleva spegnere quel ghigno beffardo di superiorità, vederlo lamentarsi per il dolore.
Dopo una serie di passaggi e contrasti, la sfera arrivò al playmaker del Dolce Amoris che puntò al canestro; cercò Trevor e Dajan per fornire loro un assist per l’alley oop, ma erano entrambi marcati. Kim ed Erin, per una questione di statura, rendevano impraticabile quella mossa e in aggiunta non erano in una posizione favorevole per dei passaggi.
Gli spettatori videro allora la palla volare verso il canestro, descrivendo una parabola incerta:
« ma che fa? Solo Reed della Saint Mary può segnare da lì! » esclamò basito Wes dalla panchina.
Dagli spalti, anche la miglior guardia del torneo era rimasta di stucco:
« non mi dire che riesce davvero a centrare il canestro dalla metà campo… »
Lanier, Melanie e Charlotte erano rimasti in silenzio, confusi da quell’azione che solo il loro compagno aveva dato prova di saper compiere fino a quel momento.
« non ha mai tirato da quella distanza » commentò Steve, che conosceva Castiel da quattro anni, sin dal suo ingresso al club di basket.
Consapevole dello sbigottimento generale, il moro sorrise divertito: sicuramente non aveva le abilità di guardia del famoso Isiah Reed della triade divina, ma quanto a imprevedibilità di gioco, non aveva rivali. Appena la palla aveva abbandonato le sue mani infatti, Castiel era corso verso il canestro, riuscendo a portarsi sotto di esso nell’esatto momento in cui la palla vorticava sul ferro: spiccò un salto e la schiacciò dentro:
« sì è fatto l’alley oop da solo… » boccheggiò basito Benjamin.
La panchina scoppiò a ridere, anche se più che divertita, era orgogliosa del loro compagno, mentre la folla esplodeva in un applauso fragoroso.
Erin aveva le labbra socchiuse e gli occhi inumiditi dalla gioia: era la partita che aveva sempre sognato. Da quando Castiel era tornato, la New Day non era riuscita a segnare mezzo punto, mentre la Atlantic era affermava sempre di più la sua superiorità; l’amico le passò accanto, sorridendole sicuro:
« non fare quella faccia Cip, questo è solo l’inizio »
Si stava divertendo. Diversamente dai compagni, per il moro quel torneo era innanzitutto una fonte di divertimento, pur essendo una persona competitiva. Gli era mancato troppo quello sport ma a giudicare dalla sua ottima forma fisica, Erin sospettò che avesse continuato ad allenarsi anche in Germania.
La New Day recuperò la sfera, ma in meno di tre secondi, questa era già alla Atlantic: con il passare dei secondi, la differenza di livello tra le due squadre si accentuava sempre di più; Erin rubava la palla con crescente facilità, Dajan e Castiel creavano schemi di gioco intricati che tessevano una rete di passaggi, Kim contribuiva a segnare a canestro, mentre Trevor si occupava della difesa.
Il punteggio dell’Atlantic aumentava inesorabilmente, lasciando statico quello degli avversari.
Quando venne fischiata la fine del terzo quarto, il Dolce Amoris era in vantaggio: 62 a 71.
In dieci minuti di gioco, gli avversari non avevano segnato neanche un canestro.
 
I ragazzi dell’Atlantic tornarono in panchina, allegri e di ottimo umore, mentre Boris li guardava compiaciuto:
« bel lavoro » si complimentò.
Dalla panchina avversaria, i giocatori della New Day guardavano con astio i colleghi della Atlantic:
« non possiamo perdere ragazzi » chiarì l’allenatore. Era un uomo non particolarmente alto, senza nessun passato cestistico alle spalle, ma piuttosto aveva la formazione atletica di un giocatore di football. La preside era stata chiara: arrivati a quel punto non avrebbe accettato un quarto posto; significava perdere il premio economico, vitale per una scuola modesta come la New Day.
« da quando è entrato Castiel, i ragazzi sono molto più rilassati » osservò Alexy.
« riesce a trasmettere una certa allegria » soggiunse timidamente Violet.
« a me fa solo venire il nervoso » obiettò Rosalya, accavallando le gambe. Nonostante il sorriso di Erin, non poteva perdonare facilmente il ragazzo per la sua assenza passiva.
« sei troppo dura con lui Rosa » conciliò Iris. Dietro di lei, Kentin la fissò attentamente: ponderava ogni commento della ragazza, lo analizzava cercando di coglierne il significato sotteso.
« Rosetta cara, dopo me lo presenti? » s’intromise la voce di nonna Sophia « se lo chiedessi ad Erin, sono sicura che non sarebbe d’accordo »
« ci penso io signora» la anticipò Armin, ridendo sotto i baffi.
« grazie tesoro. Le mie nipoti sono così riservate… privano la loro povera nonna della felicità di vivacizzarsi la vecchiaia con le loro vicissitudini sentimentali » si lagnò la vecchietta, risultando piuttosto buffa.
Nel frattempo le due squadre erano tornate sul campo. Non era stata effettuata alcuna sostituzione da entrambe le parti.
La palla venne rimessa in gioco e, come era accaduto nei dieci minuti precedenti, l’inerzia era tutta per il Dolce Amoris: Castiel infatti aveva già la palla tra le mani.
Meredith provò a rubargliela, ma il suo tentativo risultò quasi ridicolo, a causa della differenza di prestazioni tra i due.
Ai lati del suo campo visivo, vide Burns e Sprout frapporsi tra lui e l’arbitro, oscurandogli la visuale: Warrant si era già avvicinato e, in modo piuttosto palese, gli assestò una ginocchiata sulla gamba.
La palla sfuggì al moro, mentre un irrefrenabile nervosismo gli pompò il sangue al cervello. Vide la sfera volare incontrollata verso l’esterno del campo, senza che lui potesse fare nulla per recuperarla. Sarebbe stata degli avversari, se nessuno dei suoi compagni fosse intervenuto per bloccarla.
Ecco allora che vide sfrecciare una figura minuta, slanciata con la gamba tesa in avanti: Erin riuscì a intercettare la sfera con il piede, tenendola in campo, mentre lei scivolava sul pitturato; si voltò orgogliosa verso di lui e squittì:
« hai visto che scivolata alla Holly e Benji? »
Il sopracciglio di Castiel cominciò a traballare, incredulo, mentre Trevor e Kim sogghignavano:
« Cip… » digrignò l’amico « possibile che tu non abbia ancora imparato le regole? Non è pallavolo questa! Non si può prendere la palla con i piedi! »
« ah no? » ribadì Erin, delusa. Era ancora distesa a terra, mentre un giocatore avversario, Cohen, aveva recuperato la sfera.
« stupida, è da ottobre che cerco di spiegarti il regolamento! » si spazientì Castiel « eccheccazzo! »
La mora sbuffò contrariata, mettendo il broncio: lei era convinta di aver compiuto un’azione spettacolare, invece aveva appena fatto guadagnare un vantaggio agli avversari e per giunta, era stata pure sgridata; fissò le spalle dell’amico, tenendo lo sguardo puntato su quel numero undici bianco, su fondo rosso.
Fu così che lo vide voltarsi e, con un’espressione leggermente irritata da cui traspariva una punta di premura, le domandò:
« tutto ok? »
Lei annuì e si alzò, pulendosi i palmi dai residui di sporco. Gli sorrise convinta e Castiel si limitò a rispondere con una smorfia analoga.
Dylan seguì quella scena impassibile. Non gli era mai capitato di provare tanta antipatia per un tizio conosciuto da appena un quarto d’ora. Quel Black aveva un’espressione arrogante, sicura di sé e, soprattutto, brillava di luce propria. L’adorazione che la sua squadra nutriva per lui, era tangibile, quanto quella di Erin, che lo fissava estasiata.
Cohen rimise la palla in campo, direzionandola proprio verso la guardia. Prima però che Dylan potesse riceverla, gli si frappose davanti Castiel: lo vide saltare davanti a lui, e rubargli il suo obiettivo da sotto il naso.
Sprout inspirò profondamente, partendo all’inseguimento: non poteva permettergli di fare la figura dell’incapace. Sapeva cosa pensassero i presenti della New Day, ma a fare i moralisti erano bravi tutti: il loro liceo non aveva abbastanza finanziamenti, la qualità della struttura scolastica era scadente, avevano bisogno di quei soldi, sarebbero stati considerati una sorta di eroi se fossero riusciti a conquistare il terzo posto.
Doveva mettere l’avversario sotto pressione, portarlo ad avere timore di commettere falli, come erano riusciti a fare nel secondo quarto con Dajan Brooks.
Marcare Castiel era compito di Warrant, ma Dylan non intendeva assecondare quello schema di gioco: si avvicinò al moro, portandosi poi davanti a lui.
L’avversario si bloccò, palleggiando sul posto e fissandolo dritto negli occhi; non lo temeva, anzi, con quel ghigno spregiudicato, sembrava quasi sfidarlo. La guardia allora allungò il corpo in avanti, troppo rispetto a quanto gli consentiva il regolamento, violando così il principio del cilindro. Partì un fischio, seguito da un braccio teso verso l’alto dell’arbitro:
« fallo personale per Dylan Sprout » annunciò uno dei cronisti.
Il capitano della New Day montò su tutte le furie, accigliandosi con il compagno:
« cazzo Dylan! Sta’ attento! »
La guardia però lo ignorò: aveva di fronte quell’espressione compiaciuta, quella smorfia beffarda e arrogante di un avversario che, secondo dopo secondo, sentiva di odiare sempre più.
Era conscio dell’irrazionalità del suo disprezzo, scaturito così all’improvviso. Non poteva attribuirlo ad una sorta di gelosia verso una ragazza conosciuta mezz’ora prima.
A irritarlo così tanto, era la sicura sfrontatezza con cui Castiel Black non si lasciava intimidire, come se sapesse di avere la vittoria in tasca.
 
Le dita abbandonate libere lungo la rete metallica, danzavano ritmicamente, mentre Mackenzie passeggiava sul marciapiede. Adorava quella sorta di vigoroso massaggio operato dalla recinzione, ma fu costretta ad interromperlo per lasciar passare una bici alla sua destra.
Passò davanti alla gelateria, salutando allegramente Dolores, la paffuta commessa dietro il bancone di legno. La primavera era in pieno fiore, così come i ciliegi del parco dietro casa.
Amava quel posto, anche se non quanto sua madre: se lo avesse potuto, Dianne si sarebbe trasformata in un albero, piantando le radici in quell’angolo di paradiso.
La ragazzina trotterellò fino al semaforo, attendendo pazientemente il via libera per i pedoni.
Quel giorno era particolarmente raggiante: a scuola aveva ricevuto una A+ in letteratura inglese e, come se quella piccola soddisfazione scolastica non bastasse, era pure il suo compleanno. Erano mesi che Mackenzie supplicava la madre di regalarle un cane e, se lo sentiva, quella volta il suo desiderio sarebbe stato esaudito.
 
Dajan aveva segnato l’ennesima tripla.
Ormai l’esito della partita era scontato: con un 76 a 62, la Atlantic High School aveva affermato la sua superiorità. Mancavano sei minuti alla conclusione dello scontro ma se anche avessero avuto un’ora di tempo, i giocatori della New Day sapevano di non avere speranze; con l’arrivo del numero undici, gli avversari risultavano molto più rilassati e meno suscettibili all’ira. Anche se erano riusciti a far attribuire un secondo fallo a Dajan, e uno a Trevor, il gioco di entrambi rimaneva di alto livello.
Quanto a Castiel, sul giocatore gravavano ben tre falli personali, eppure, ad ogni fischio dell’arbitro, il ragazzo sembrava caricarsi di più:
« quegli idioti non hanno ancora capito che più provocano Castiel, e più quello si concentra » commentò Boris compiaciuto.
« del resto Cas è abituato a giocare con due o tre falli su di lui » ricordò Steve.
« per una volta il suo modo di fare ci fa comodo » convenne Boris. In passato aveva richiamato più volte il ragazzo, raccomandandolo nel fare attenzione ai falli personali, ma il moro finiva spesso per invadere il cilindro avversario, guadagnandosi delle penalità.
« l’importante è che non giochi scorrettamente come fanno loro » mediò Faraize.
« sarei il primo a cacciarlo dal campo se lo facesse! » tuonò prontamente il coach con serietà, poi, riprendendo un’espressione più contenuta, aggiunse « ma non è il tipo. Non ha bisogno di queste vigliaccate per vincere »
 
Dylan sbuffò frustrato: erano quindici minuti che la New Day non riusciva a mettere a segno un canestro. I suoi compagni si erano arresi, non provavano neanche più a cercare dei contrasti. Meredith era stata la prima a gettare la spugna, sovrastata e ridimensionata dalla superiorità delle due ragazze avversarie.
Proprio mentre osservava le due, in particolare Erin, che Dylan iniziò a considerare un’idea che, immediatamente, gli sembrò quella giusta.
Attuarla significava rinunciare a quel briciolo di dignità che gli era rimasta, ma se fosse riuscito a portarla a compimento, avrebbe potuto sovvertire l’esito della partita.
I giocatori del Dolce Amoris si sentivano tanto furbi perché avevano schierato due ragazze sul campo che, in quanto tali, erano intoccabili. Liberò la marcatura da Trevor che lo fissò sorpreso.
La palla stava volando verso Erin, pronta ad accoglierla; Dylan si era portato alle spalle della ragazza e aveva lanciato un’occhiata all’arbitro: l’uomo aveva una visuale completa dell’azione, per cui fu costretto a rimandare il suo intento. In quello studio dell’ambiente circostante, alla guardia non sfuggì il cambio repentino nel viso di Black: appena lui si era portato vicino ad Erin, la fronte di Castiel si era aggrottata e la mascella, anche se per pochi secondi, si era serrata.
« perfetto » ghignò tra sé e sé.
Doveva solo aspettare l’occasione giusta e sperare che questa non tardasse troppo ad arrivare. Mancavano solo cinque minuti alla fine della partita.
 
La palla scivolò lungo la rete del canestro, aggiungendo altri tre punti al punteggio dell’Atlantic.
Dylan osservò il tabellone, avvertendo l’urgenza di attuare il suo proposito. Forse era già troppo tardi per metterlo in atto, ma l’occasione giusta tardava ad arrivare e ormai non c’era più tempo.
Erano sotto di diciannove punti, e solo facendo espellere Castiel potevano avere la possibilità di rimontare.
Mentre i giocatori si spostavano lungo la parabola descritta dalla sfera, Dylan corse verso Erin: questa volta la fortuna giocò a suo favore perchè la ragazza era lontana dal campo visivo dell’arbitro, impegnato a controllare l’azione tra Dajan e Warrant. La guardia le passò accanto per poi sorpassarla da dietro ma nel farlo, la urtò violentemente con il lato destro del proprio corpo: destabilizzata, Erin ruzzolò a terra, mentre lui si allontanava indifferente.
« ehi! » protestò arrabbiata, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che vide una figura afferrare Dylan con veemenza:
« brutto pezzo di merda! » ringhiò Castiel, prendendolo per il bavero della divisa « non sapete vincere, ma non sapete nemmeno perdere! »
Quella provocazione incendiò ulteriormente l’odio della guardia che, determinato a portare a termine il suo piano, ribattè:
« ti scaldi un po’ troppo per quella lì, amico. Cos’è? Non te l’ha ancora data? »
Il pugno di Castiel era già a mezz’aria, quando sentì una presa bloccarlo:
« Black, tira quel pugno, e te ne tiro uno io! » lo riprese Dajan, che era stato costretto a interrompere il gioco. Anche l’arbitro era accorso prontamente, per sedare la discussione.
« certo che Castiel è cambiato » commentava cinica Rosalya dagli spalti « è più idiota di prima »
Il fratello invece, si era limitato a sorridere in silenzio: no, se si trattava di Erin, il suo amico era rimasto lo stesso di sempre.
Dylan cominciò a tremare di rabbia: per un pelo non era riuscito a far espellere Castiel dal campo.
I suoi compagni lo guardavano attoniti: per quanto potessero abbassarsi ad usare mezzi disonesti durante una partita, nessuno si era mai spinto a prendersela con una ragazza, specie se minuta come Erin.
L’arbitro ammonì i due ragazzi a darsi una calmata, ma dagli sguardi di entrambi, uscivano solo disprezzo e una tremenda voglia di venire alle mani.
Mentre riprendevano posizione, Castiel sibilò, in modo che solo lui potesse sentirlo:
« tocca Erin un’altra volta, e la prossima partita la farai in stampelle »
Dajan intercettò quello scambio di battute e, avvicinandosi all’amico, lo esortò:
« che ne diresti piuttosto di dargli un assaggio di cosa sia la vera sconfitta? »
Aveva un ghigno sprezzante e sicuro di sé, in cui l’ex capitano potè leggere subito le intenzioni. Sorrise a sua volta e, appena la palla venne consegnata al giocatore, Castiel si portò dietro di lui.
Il capitano gli passò la palla e la palleggiò velocissimo verso il canestro dove aggirò la difesa di Cohen dribblandolo e la lanciò a canestro. Dajan spiccò un salto e la schiacciò dentro, regalando alla squadra un magnifico alley-oop.
Il tutto in meno di quattro secondi:
« questo è il nostro duo divino! » sorrise Boris orgoglioso, mentre i presenti restavano sgomenti.
Gli avversari recuperarono la palla, ma ben presto fu Kim a rubargliela e passarla al suo ragazzo. Dajan ritornò nella metà campo avversaria e, aggirando facilmente Burns, deviò il tiro verso Castiel: il moro lanciò la palla a canestro senza neanche prendere la mira, ma questa colpì il ferro; il capitano però era già in volo e, con un tap-in, la prese al rimbalzo e ne corresse il tiro, centrando il cesto.
Il pubblico esplose per l’ennesimo punto conquistato dalla Atlantic, così come la preside dell’istituto, paonazza in viso a forza di urlare. Bernice invece sprofondava sempre più nella poltrona, desiderando ardentemente che quello scempio si concludesse il prima possibile.
Ci fu solo un momento in cui uno degli avversari provò a reagire: Dylan riuscì a conquistare la palla e saltare verso il canestro. Era in aria, aveva solo il ferro davanti a lui, quando vide allungarsi la figura di Castiel che, con una stoppata portentosa, lo ostacolò, facendo volare la sfera in direzione opposta. La accolse Erin, che la consegnò a Kim e poi a Trevor.
Il musicista sorrise beffardo, mentre i secondi di gioco si assottigliavano sempre di più:
« mi deludi Sprout: pensavo avessi un po’ più di forza in quella mani di ricotta che ti ritrovi »
Nonostante la vittoria fosse ormai certa, il ritmo di gioco della Atlantic HS non accennava a rallentare: Castiel e Dajan mettevano a segno un canestro dopo l’altro, non solo incrementando il punteggio della loro squadra, ma impedendo agli avversari di mutare il proprio: con sbigottimento generale, i presenti realizzarono che la New Day non metteva a segno un canestro dal quarto precedente.
Quando venne dichiarata la fine della sfida, Dajan aveva appena compiuto una tripla e, orgoglioso, si voltò verso il tabellone: 104 a 62.
In pochi minuti, erano riusciti a realizzare oltre venti punti, infliggendo così nella New Day un’umiliante sconfitta che era destinata a bruciare in loro per parecchio tempo.
La panchina della Atlantic scattò in piedi, correndo al centro del campo, sollevando di peso Dajan e Castiel mentre la platea applaudiva e festeggiava.
Il Dolce Amoris si piazzava così al terzo posto del torneo di basket scolastico più importante del paese; per la scuola ciò implicava un finanziamento di diecimila dollari, mentre per la squadra un viaggio alle Bahamas, di lì a poche settimane. Erin era eccitata all’idea di salire, per la prima volta in vita sua, in aereo. Inoltre, fattore decisamente più importante, con lei ci sarebbe stato Castiel.
Cercò lo sguardo del ragazzo, che nel frattempo aveva rimesso piede al suolo: sorrideva contento, trasmettendole quella sensazione di squisita felicità allo stomaco.
Tra le urla dei compagni, gli schiamazzi del pubblico e gli applausi fragorosi, tenendo il suo sguardo dolce puntato sull’amico, Erin gli sussurrò da lontano:
« mi sei mancato »
 
« per fortuna che non li abbiamo provocati » ridacchiò Isiah « chissà come sarebbe finita la semifinale »
« chissà perché quel ragazzo è saltato fuori solo ora » considerò Melanie.
« peccato, mi sarebbe piaciuto affrontarlo » si lamentò Julius, sbuffando contrariato.
« sarà meglio andare ragazzi » suggerì Charlotte « il pubblico comincerà ad abbandonare gli spalti e ci sarà casino »
 
Petunia si alzò, sgranchendo la schiena.
« Ahhh, i miei ragazzi: sapevo che ce l’avrebbero fatta » commentò soddisfatta.
Si voltò verso la collega, intenta a sistemarsi l’orlo stropicciato della gonna.
« posso offrirti qualcosa da bere cara? » si offrì con un sorriso mellifluo « appena avrò incassato i soldi del torneo » aggiunse.
Gli occhi di Bernice diventarono due fessure e, senza nemmeno salutare i presenti, abbandonò gli spalti indispettita. Miss Swanson ghignò divertita: umiliata dalla sconfitta, non avrebbe sentito parlare della preside della New Day per un bel po’.
 
Erin si cambiò nello spogliatoio alla stessa velocità che aveva realizzato Kim pochi giorni prima; aveva i capelli ancora gocciolanti, la pelle umida in cui aveva infilato quasi a forza i jeans a vita bassa.
In venti minuti di gioco non aveva avuto una quantità di tempo sufficiente a godersi il ritorno dell’amico: doveva raggiungerlo in fretta, parlargli, scherzare con lui, raccontargli di Ariel, della scuola, discutere del viaggio premio appena conquistato, di Berlino, dei Tenia.
Era troppo felice, troppo euforica che nascondere tutte quelle emozioni le mandava il sangue al cervello.
Trevor fu il primo ad uscire, seguito a ruota dagli altri. Castiel si presentò in mezzo al gruppo e, appena incrociò lo sguardo ansioso della ragazza, commentò compiaciuto:
« sei rimasta la solita stalker, Cip »
« e tu il solito pallone gonfiato »
Lui non replicò ma si avvicinò ulteriormente a lei, che lo fissò interrogativa.
Vide la mano del ragazzo sorvolarle il capo e posizionarsi dietro la nuca. In un attimo, il cappuccio della felpa le coprì gli occhi, mentre la voce dell’amico borbottava:
« prenderai freddo scema. Impara ad asciugarti i capelli »
Lei arrossì, lusingata per quella premura, affannandosi a seguire il ragazzo e il resto della squadra per i corridoi.
Una volta usciti sul piazzale esterno, gli eroi del Dolce Amoris vennero investiti dai complimenti degli altri studenti.
Era stata una partita sensazionale, in cui l’Atlantic si era dimostrata più che degna di salire sul podio. Non c’era traccia della squadra avversaria, umiliata da quella pesante sconfitta.
Dopo che le due squadre si erano allineate sul pitturato, la New Day aveva abbandonato il campo a testa bassa, sparendo dal palazzetto dello sport in cui si era tenuto lo scontro.
Erin venne improvvisamente investita da due braccia che le strozzarono la gola:
« CIIIP! » le fischiò nelle orecchie la voce acuta di una delle sue migliori amiche « sei stata bravissima! »
Rosalya era quasi commossa dalla gioia, ma la dolcezza dei suoi occhi si spense all’istante non appena venne distratta da un timbro familiare:
« che esagerata… »
La stilista si voltò di scatto, furente verso Castiel e avanzò minacciosa verso di lui:
« tu, infame che non sei altro! Si può sapere in che gulag ti hanno sbattuto per non esserti fatto vivo in tutto questo tempo? »
« Rosa, calmati » la sedò il fratello, cercando lo sguardo dell’amico. Le iridi grigie lo stavano scrutando, come se non aspettassero altro che il momento per instaurare un contatto visivo con il poeta. Quest’ultimo però, anziché perpetuare il suo ruolo di ambasciatore di pace, aggiunse:
 « avrai tutto il tempo per fargliela pagare con calma »
Castiel sgranò gli occhi, sorpreso da quella provocazione, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che sentì un urlo, seguito da una figura in rincorsa:
« CASTIEEEEEL!!! »
Prima che il musicista avesse il tempo per reagire, Armin gli si era scaraventato contro, ma poiché l’amico non era preparato a quell’assalto, ruzzolarono entrambi per terra:
« ARMIN! PEZZO DI IDIOTA! » gli urlò contro, rialzandosi dolorante.
« che riflessi del cavolo Cas » borbottò il moro « comunque, signora Travis, le presento Castiel Black »
Il musicista vide l’amico farsi da parte, per lasciar apparire una vecchina bassa e vestita in modo piuttosto ridicolo; dal cappello da baseball, uscivano dei capelli bianchi e due occhi chiari lo scrutavano con curiosità.
Prima che la nonna potesse aprire bocca, Erin si intromise:
« e lei è mia nonna. Bene, ora perché non vai da papà? Ti starà cercando » tagliò corto la nipote, afferrando la donna per le spalle.
« ma Ninì! » protestò immediatamente l’anziana, strappando un sorriso ironico ai presenti. Castiel sogghignò, lanciando uno sguardo eloquente ad Erin che arrossì fino alle orecchie « non fare la maleducata. I tuoi amici sono stati così gentili con me, perché tutta questa fretta? »
« perché mi metti in imbarazzo, nonnina » le sussurrò Erin, trascinandola via.
Nonostante le proteste della signora, la mora si allontanò frettolosamente, braccandola per il gomito.
Nel frattempo gli amici assalirono Castiel con le loro domande, così come avevano fatto i suoi compagni di squadra:
« allora Cas, come mai sei tornato? Non dovevi rientrare a giugno? » domandò Armin.
Solo in quel momento il musicista si accorse della presenza di Ambra e Lin accanto all’amico, ma non esternò alcun commento.
In due mesi erano sicuramente molte le novità che si era perso, e aveva bisogno di tempo perché qualcuno lo aggiornasse.
« mi sono messo sotto e sono riuscito a fare il lavoro di quattro mesi in due, così mi hanno concesso di tornare. Per i restanti due mesi, posso lavorare anche da casa » spiegò, appoggiando il borsone a terra.
« e perché non ti sei fatto vivo prima, idiota? »
Con quel complimento finale, non aveva bisogno di voltarsi verso Rosalya per avere la conferma che fosse stata lei a formulargli quella domanda:
« ti sono mancato per caso? » la canzonò.
Quel sorriso, che tanto incantava Erin, nella stilista sortì l’effetto contrario, incrementando la sua furia:
« quanto una supposta incastrata nel cu- »
« Rosalya! » si indignò il fratello maggiore, mentre il resto dei presenti ghignava.
« qualcuno mi trattenga, altrimenti lo picchio » dichiarò lei, incrociando le braccia al petto.
« quindi non tornerai più a Berlino? » chiese Iris, speranzosa.
Kentin sollevò il sopracciglio e si intromise:
« l’ha appena detto » osservò irritato.
Il cestista spostò allora lo sguardo su quel ragazzo sconosciuto e lo fissò incuriosito.
« Castiel, lui è Kentin. Ha preso il tuo posto accanto ad Erin in classe » lo informò ingenuamente Iris.
La fronte del ragazzo si aggrottò leggermente, ma solo Lysandre se ne accorse e pertanto, sollevò gli occhi al cielo:
« ah sì? » domandò il moro con finto interesse « beh, si dal caso che quel banco sia mio, quindi domani vedi di trovartene un altro »
Per nulla intimorito, Kentin replicò, sorridendo nervosamente:
« pensi davvero che  ti cederei un posto in ultima fila? »
Spiazzata da quello scambio di battute, la rossa patteggiò:
« eddai Ken, non ti scaldare. Troveremo una soluzione domani »
« Ken? » ripetè Castiel beffardo « come quello della Barbie? »
Quel ghigno compiaciuto e canzonatorio era troppo per l’ex cadetto che sbottò:
« ha parlato quello che andava in giro con un taglio da donna… Castiella »
Ambra e Rosalya scossero il capo basite, mentre Iris non sapeva più che pesci pigliare.
« siete già diventati amici! » commentò ironico Armin, portando le braccia attorno al collo dei due:
« amici un corno! » sbottarono in coro.
 
Nel frattempo Erin cercava di ricongiungersi alla famiglia per scaricare l’invadente nonna e tornare dai suoi amici, primo tra tutti Castiel.
« insomma Ninì! Smettila di tirarmi! »
« e tu smettila con quel nomignolo! Non in pubblico per lo meno »
La vecchietta si arrestò, impuntando i piedi per terra:
« che male c’è a conoscere il tuo amico? Rosalya e gli altri non mi pare si siano lamentati di me »
Erin sospirò, per poi sbottare:
« non è questo il punto nonna. Mi metti in imbarazzo, cerca di capirmi »
Udì un sospiro sconfitto, seguito da una dichiarazione di resa:
« d’accordo tesoro. Scusami. Semplicemente volevo conoscere quel tuo amico, tutto qui »
« sarà per un’altra volta nonna »
« e quando? Ce lo porti a casa? »
« non è il mio ragazzo, perché dovrei portarlo a casa? » farfugliò Erin in imbarazzo
« invitalo alla cena di tua zia! »
« eh? »
« massì tesoro! Sabato sera siamo a cena con tua zia Pam, ricordi? Lei e Jason hanno qualcosa di importante da dirci »
« a proposito di Jason » sviò la nipote « non sarebbe meglio che andassi da lui adesso? Non credo che tu abbia avuto altre occasioni per parlarci »
Fu proprio in quel momento che, per sua fortuna, Erin vide giungere nella sua direzione, il resto della famiglia: sua madre stava chiacchierando con Jason, che sorrideva amabile, mentre la zia era, come spesso accadeva, impegnata a bisticciare con il fratello.
Dopo lo scambio di complimenti di rito, Erin sfrecciò dai suoi amici: aveva le ali ai piedi, rischiò addirittura di travolgere una bambina incappata lungo i corridoi.
Castiel era tornato, e lei voleva passare ogni minuto di quell’incredibile giornata in sua compagnia.
 
Purtroppo per lei, doveva ritardare di qualche minuto il ricongiungimento con l’amico: mentre percorreva i corridoi, vide una figura familiare giungerle incontro:
« Melanie! » la salutò felice.
La cestista si limitò ad un cenno con la mano, seguita da un sorriso.
« bella partita Erin » si congratulò.
« grazie… ma con il ritorno di Castiel non poteva che essere così » squittì contenta.
Il sorriso di Melanie si allargò ulteriormente; sapeva che la mora aspettava il ritorno di un ragazzo e, dopo la scena a cui aveva assistito poco prima su quel pitturato, non aveva dubbi che fosse proprio il playmaker con il numero undici sulla divisa. A quel punto, anche se temeva di sentire la risposta, fu costretta a chiederle:
« ora che il tuo ragazzo è tornato, immagino che non verrai più a Berlino con noi… »
Erin boccheggiò sorpresa e a disagio: da un lato l’urgenza di correggere l’equivoco e precisare che lei e Castiel non stavano insieme e dall’altro, il senso di colpa per dover rifiutare l’invito della bionda.
« no, cioè, lui è non è il mio ragazzo… però sì, era per lui che volevo andare a Berlino e ora che è qui… »
« … preferisci andare alle Bahamas » concluse la cestista con un sorriso conciliante.
La mora annuì, assumendo un’espressione dispiaciuta, mentre la playmaker della Saint Mary commentò:
« non preoccuparti. L’importante è che tu ora sia contenta »
Dalla luce che irradiava il volto della ragazza, Melanie non aveva bisogno di ricevere conferme.
« se ti capita di passare per Morristown, fatti viva, il mio numero ce l’hai » le disse Erin, sistemandosi il borsone sulla spalla.
« contaci. Magari organizziamo un’amichevole con gli altri »
Vide Erin sollevare gli occhi al cielo, sospirando divertita:
« eddai Mel, basta basket! Un’uscita normale, tra amici »
La cestista ridacchiò e acconsentì.
« scusami, devo andare: Isiah e gli altri mi stanno aspettando fuori »
« idem: dobbiamo festeggiare il ritorno del nostro compagno di squadra, quindi mi staranno aspettando »
Fu così che le due ragazze furono costrette a salutarsi, ma entrambe, nell’allontanarsi, promisero di tenere fede a quella proposta di incontrarsi in un’altra occasione.
Erin volava ad un metro da terra, nell’ansiosa attesa di riunirsi ai compagni, mentre Melanie non riusciva a smettere di sorridere per quella ragazza che, da quando si erano conosciute, l’aveva portata a diventare una persona più socievole e allegra.
 
Era ancora nascosto dalla siepe, che i guaiti di felicità di Demon lo avevano accolto. Castiel si presentò così davanti al cancello, armeggiando con le chiavi nel tentativo di aprirlo. L’animale aveva riconosciuto il rumore dei suoi passi, anche se doveva essere impercettibilmente cambiato visto che era passato dalle sue amate Converse a un paio di Vans. Demon sembrava quasi soffocarsi nell’emettere quei versi di incontenibile gioia. Il padrone sorrise, ricordando la reazione del cane quel pomeriggio quando, prima di raggiungere i suoi compagni, era passato a Madison Street per recuperare la divisa della squadra e lasciare giù la valigia.
« anche io sono contento di vederti, bello » lo accarezzò, aprendogli la porta d’ingresso e lasciandolo entrare. L’animale sfrecciò all’interno e non appena il ragazzo si distese sul divano, lo assalì, inondandolo di saliva:
« smettila Dem » rise Castiel.
Aveva passato una bella serata, in compagnia della sua squadra. Avrebbe voluto sedersi accanto ad Erin, ma Trevor e Wes erano stati più veloci di lui, e lo avevano circondato.
Incrociò le braccia dietro la testa, mentre Demon sembrò acquietarsi ai suoi piedi.  
Era strano tornare in quell’appartamento, stendersi in quel divano dove due mesi prima c’era anche lei. Avevano guardato insieme un paio di episodi di Scrubs e passato una bella serata in compagnia. Le sembrò quasi di vederla aggirarsi per la stanza, curiosando tra gli scaffali di CD. E poi quando l’aveva chiamato, in preda al panico, convinta che Demon fosse agonizzante. O quando l’aveva deriso per la sua maglietta dei Pokémon.
Era passato un secolo, ma ogni dettaglio era vivido nella sua memoria.
 
Si stava quasi appisolando, quando il campanello suonò.
Si svegliò di soprassalto e buttò l’occhio sull’orologio. Era passata la mezzanotte.
Per un attimo tornò indietro nel tempo, a quel ricordo che aveva evocato un’ora prima; sperò quindi che fosse lei e, intontito dal sonno, riuscì ad immaginare una scena da telefilm, con lei fradicia di pioggia e di un amore che gli avrebbe sbattuto in faccia.
Purtroppo per lui, quel giorno non pioveva, ma il cielo era un limpido manto nero, punteggiato da qualche luminosa stella e, soprattutto, Erin non aveva motivo per accorrere da lui a dichiarargli un amore inesistente.
Si avvicinò pigramente alla finestra, calpestando un giocattolo di gomma di Demon e sbirciò all’esterno.
Avvolto in un lungo impermeabile nero, si ergeva la figura alta e longilinea di Lysandre.
Stupito da quella visita, il moro si affrettò ad uscire, senza curarsi del freddo:
« e tu che ci fai qui a quest’ora? » lo accolse malamente, con la voce ancora impastata dal sonno.
« disturbo? » commentò piatto l’amico.
« no » replicò il musicista incerto e sbloccò la serratura. Invitò il poeta ad accomodarsi in casa, stranito da quella visita inaspettata. Lysandre si accomodò all’interno del salotto, studiando l’ambiente come se non l’avesse mai visto prima:
« non mi aspettavo di vederti a quest’ora » esclamò Castiel, tornando a distendersi sul divano « ci saremo trovati domani a scuola no? »
Lysandre si accomodò più compostamente sulla poltrona e, portando le mani sui braccioli, commentò:
« conoscendoti, ho preferito appurare che non avessi preso un altro aereo all’ultimo minuto »
Quella frase gli era uscita piuttosto piatta, ma in quell’inespressività generale, Castiel riuscì a cogliere una punta di accusa:
« sono tornato per restare Lys » dichiarò, stropicciandosi le palpebre e tornando a stendersi sul divano.
« o sei tornato per lei? »
« lei chi? » biascicò Castiel, con un sonoro sbadiglio.
Il ragazzo reclinò il capo all’indietro, sospirando infastidito:
« dobbiamo ricominciare tutto da capo Castiel? » sbottò « siamo tornati alla fase “no, non sono innamorato di Erin?” »
L’amico grugnì infastidito, per poi scattare sulla difensiva:
« sei venuto qui per impicciarti delle mie faccende sentimentali? D’accordo, ti ricordi allora quello che ti ho detto prima di partire? »
« che andavi a Berlino? »
« non fare l’idiota » lo freddò il ragazzo mettendosi seduto.
Inclinò il busto in avanti, guardando il poeta dritto negli occhi:
« sai perfettamente a cosa mi riferisco: ti ho detto che avrei dimenticato Erin, e così è stato. Per me ora è solo un’amica. La mia era solo una sbandata di nessuna importanza. Avrei rovinato tutto per niente »
Esternare quell’opinione gli risultò molto naturale. Nella stanza era piombato il silenzio, in attesa che uno dei due lo spezzasse; dal canto suo, Castiel si sentiva stranamente tranquillo, aveva passato due mesi a ripetersi che ciò che provava per Erin non era nulla di serio e la placidità con cui aveva riportato quelle parole all’amico, sedavano le sue inquietudini.
Forse era riuscito davvero a dimenticarla.
Scrutò l’espressione del poeta che, dopo svariati secondi di silenzio, sorrise enigmatico.
Castiel aggrottò le sopracciglia, mentre Lysandre esternò:
« sono contento di sentirtelo dire »
Il musicista lo guardò dapprima confuso, poi cominciò ad innervosirsi:
« mi stai prendendo per il culo? »
« no affatto » lo rassicurò il poeta « se a te Erin non interessa, allora posso prendermela io »
 
« ancora non posso crederci che Castiel sia tornato in America » squittiva Erin tra sé e sé.
Come era solita fare, quando la gioia superava la capacità di contenimento del suo corpo, cominciò a sgambettare felice sotto le lenzuola, ridacchiando felice. Erano spuntate persino due minuscole lacrime agli angoli degli occhi e le asciugò contro la federa del cuscino.
Durante i festeggiamenti della Atlantic non avevano potuto chiacchierare granchè ma l’indomani, seduti l’uno accanto all’altra, avrebbero recuperato tutto il tempo perso.
Per tutto il giorno aveva dovuto cercare di dare un contegno alla sua gioia, che non accennava a scemare, ma ora che si trovava lontano da sguardi indiscreti, poteva festeggiare liberamente quel momento per cui aveva versato lacrime e sospiri.
 
Castiel era rimasto senza parole.
In un primo momento, pensò di non aver colto il senso della frase di Lysandre.
« se a te Erin non interessa, allora posso prendermela io »
Il poeta lo squadrava senza battere ciglio, sostenendo uno sguardo fin troppo serio.
Aveva già visto Nathaniel portargli via Erin e solo Castiel sapeva quanto fosse stato un duro colpo accettare l’idea che il suo migliore amico stesse con lei. Gli ci era voluto un sacco di tempo per abituarsi a quella situazione, senza neanche riuscirci, dal momento che aveva ceduto alla tentazione di rubarle un bacio sul tetto della scuola.
Lysandre era l’unico con cui si era aperto un po’, a cui aveva raccontato parte dello stravolgimento interiore che si era impadronito di lui. L’amico lo aveva sempre ascoltato e consigliato, anche se per Castiel assecondare gli intraprendenti suggerimenti del poeta risultava impossibile.
Poi, finalmente, il musicista capì: sorrise sprezzante, scuotendo il capo divertito. Non si sarebbe lasciato ingannare un’altra volta, non da lui:
« non sottovalutare la considerazione che ho di te Lys » esordì, guardandolo dritto egli occhi « so perfettamente che non mi faresti mai un torto del genere. Tu sei sempre stato troppo buono con me: preferiresti rinunciare al grande amore della tua vita, piuttosto che privarmi del mio »
Nella stanza scese ancora una volta il silenzio più totale.
Si sentiva solo il respiro pesante di Demon, beatamente addormentato ai piedi del divano.
Lysandre si alzò dal suo comodo giaciglio, dirigendosi verso la porta.
Proprio quando Castiel cominciò a dubitare della conclusione a cui era giunto, l’amico scoppiò a ridere.
Non l’aveva mai visto divertirsi tanto e così spontaneamente e, proprio a causa dell’eccezionalità dell’evento, il moro rimase senza parole:
« non sei cambiato affatto Castiel! » asserì infine Lysandre, cercando di recuperare il suo aplomb  « sei rimasto il solito sempliciotto che a fregarti ci trovo troppo gusto. In meno di cinque secondi sei passato dal definire Erin solo un’amica a il grande amore della tua vita »
Il viso di Castiel tradì all’istante un completo imbarazzo, seguito dalla crescente umiliazione.
« continua pure a mentire a te stesso Castiel, ma ingannare me non è altrettanto semplice. Te lo si legge in faccia che sei innamorato cotto di Erin e, dopo quello che ho visto sul campo oggi, temo per te che tu lo sia anche più di prima » sentenziò Lysandre, con un sorriso vittorioso.
Demon si destò pigramente, sbadigliando e spalancando le enormi fauci lucenti. Andò incontro all’ospite, che si piegò in avanti, cercando con il tatto di incontrare quel pelo lucido e morbido; l’animale gradì quelle attenzioni, mentre il suo padrone lo fissava in silenzio:
« perché non mi hai avvertito che tornavi? » chiese Lysandre, facendosi cupo d’un tratto.
Castiel non fece una piega e si allungò a recuperare il pacchetto di sigarette abbandonato sul tavolino. Lo allungò al poeta, che fece cenno di diniego con il capo; si accese allora il sottile cilindro, assaporando l’aroma del tabacco.
« perché mi sarei sentito troppo in colpa verso Erin » mormorò, sovrappensiero « sono due mesi che faccio finta di non rispondere ai vostri messaggi, invece i suoi erano gli unici che ignoravo »
« allora riformulo la domanda: perché non ci hai avvertito che tornavi? »
Castiel scrollò le spalle:
« volevo farvi una sorpresa, tutto qui »
Lysandre sospirò, restando in silenzio. Quel mutismo si prolungò al punto da spazientire il suo interlocutore, che sbottò:
« si può sapere che cosa sei venuto a dirmi? Non so se l’hai notato, ma è mezzanotte… e sarebbe ora di andare a dormire »
« non ci riuscivo, ecco perché sono qui. Quando mi sono coricato, ho passato due ore a rigirarmi nel letto, avevo una strana sensazione Castiel: quella che saresti ripartito di nuovo »
Cercò lo sguardo del musicista, che trovò a sogghignare compiaciuto; quella soddisfazione scaturiva dalla consapevolezza di essere così importante per l’amico, di sapere che una sua eventuale partenza sarebbe stata un evento sofferto:
« togliti quel ghigno soddisfatto » lo freddò il poeta « in queste settimane è stato penoso per me vedere Erin deprimersi a causa tua »
L’espressione di Castiel mutò drasticamente, abbandonando quell’arrogante compiacenza. Intuiva che l’atmosfera fosse cambiata e che l’amico volesse affrontare l’argomento con una certa pesantezza e solennità:
« lei è come una sorella minore per me » dichiarò infatti Lysandre « non riesco a vederla soffrire, ma in queste ultime settimane ti sei dimostrato l’unico che riesce a farla piangere »
Quella confessione spiazzò il moro ma non potè replicare poiché il suo interlocutore proseguì:
« anche se ti sono stato accanto quando tu e Nathaniel vi siete separati, se dovessi scegliere tra te e lei, questa volta saresti solo Castiel: fa’ soffrire Erin un’altra volta, e considera la nostra amicizia un capitolo chiuso »
La mano di Lysandre si spostò sulla maniglia della porta, dando poi le spalle all’amico.
Per lui il discorso era chiuso, si era scaricato il peso che gravava nel suo animo da due mesi ma Castiel non era dello stesso avviso:
« pensi che sia stato facile per me? » sbottò, alzandosi in piedi di scatto. Demon si destò spaventato, innervosendosi al pari del ragazzo:
« io l’ho fatto per non mandare a puttane il mio rapporto con lei! In quel momento non ce la facevo più a far finta di essere suo amico! Cos’altro avrei dovuto fare? Stava con Nathaniel cazzo! »
« ma ora non ci sta più Castiel, si sono mollati poco dopo la tua partenza, eppure non hai mosso un dito » lo accusò Lysandre, tornando ad avvicinarsi al moro.
« non cambia nulla! Quante volte devo ripetertelo che lei mi vede come il suo migliore amico? Ti diverte tanto mettermi in difficoltà, continuando a rinfacciarmi la mia codardia? Ok, lo ammetto: non ho le palle per dirle la verità e affrontare le conseguenze, preferisco continuare a fare finta di nulla… contento ora? »
Sputò quella raffica di parole ad un ritmo accelerato, incrementato dalla rabbia e frustrazione che gli ribolliva nelle vene.
« anche per me lei è importante… è per questo che preferisco la sicurezza di averla come amica, all’azzardo di dirle quello che provo realmente… la perderei Lys, ne sono convinto »
L’amico lo fissò con gravità e, alzandosi il bavero del cappotto, aprì infine la porta, avviandosi verso il giardino. Castiel lo seguì a breve distanza, restando in silenzio.
Aveva già detto anche troppo, più di quanto il suo cinico orgoglio gli potesse perdonare.
« di questo passo la perderai comunque Castiel » mormorò Lysandre d’un tratto.
Il musicista lo guardò triste, spostando poi l’attenzione verso Demon, che accorreva verso i due ragazzi. Lysandre sapeva che le sue parole pesavano come macigni nell’animo dell’amico, ma gli era troppo affezionato per restarsene passivo, mentre lui si ostinava a non vedere la felicità che aveva a portata di mano.
Castiel era tornato dalla Germania più sicuro di sé, quasi ottimista e persino più arrogante di prima ma se si trattava di Erin, era rimasto il solito codardo insicuro e ottuso.
Per quella notte gli aveva dato fin troppi spunti per riflettere, era arrivato il momento di congedarsi, sentendo che finalmente il sonno si sarebbe impossessato di lui. Il musicista era tornato, non sarebbe sparito un’altra volta e l’indomani, si sarebbe unito al resto dei suoi amici per pranzare insieme. Demon continuava a trotterellare euforico accanto al padrone che rispondeva con delicate carezze.
« Demon è in forma » commentò Lysandre, per alleviare la tensione. Nonostante il suo tentativo però, fu proprio Castiel a riprendere l’argomento centrale:
« dovrò ringraziare Erin per averlo portato a spasso in questi due mesi »
« dovresti ringraziare Erin per molte cose » lo corresse il poeta, aprendo il cancello esterno « come ad esempio il fatto di aver tenuto il tuo nome tra gli iscritti del torneo »
« per quello l’ho già fatto » replicò prontamente l’altro.
A quella notizia, una beffa ironica si tracciò sulle labbra sottili dell’amico, che non riuscì ad astenersi dall’aggiungere:
« quindi facciamo qualche progresso in fatto di buone maniere. Quella ragazza ti ha proprio cambiato »
Castiel emise un verso sprezzante e borbottò irritato:
« per prendermi per il culo, non potevi aspettare domani? »
« no, così è più divertente. Andrò a dormire di buon umore » sdrammatizzò Lysandre.
« potevi telefonare allora »
« e perdermi la tua faccia mentre mi dicevi che Erin è tua? » lo canzonò.
Aveva colto una piccola breccia nella corazza fiera dell’amico e intendeva intaccarla un po’ per far crollare quel muro di imbarazzo e tensione in cui si era rifugiato.
« non l’ho mai detto » farfugliò Castiel, masticando la sigaretta.
« me l’hai fatto capire chiaramente » continuò l’amico, sorridendo sereno.
Si chiuse il cancello alle spalle, mentre il padrone di casa lo osservava in silenzio.
« beh, allora buonanotte »
L’amico emise un verso che doveva valere come risposta e si incamminò verso l’interno, seguito dal fedele Demon.
« ehi Castiel… »
«che vuoi adesso? » replicò l’altro, evidentemente seccato.
Le palpebre di Lysandre erano leggermente abbassate e la luce tiepida della luna illuminava due occhi colmi di tenerezza:
« mi sei mancato »
 
Il fiatone e l’opprimente sensazione di essere in ritardo il giorno sbagliato.
Non era per paura di essere rimproverata dalla Fraun che Erin correva per i corridoi del Dolce Amoris.
Non era per difendere una (debole) reputazione di brava studentessa, che i suoi piedi percorrevano quegli spazi ad una velocità superiore a quella consentita dal regolamento scolastico.
Era solo per rivederlo, dopo sette ore di un sonno che non era quasi giunto.
Aveva dovuto sottrarre il correttore della zia per nascondere le profonde occhiaie ma, poco abituata a truccarsi, aveva dovuto rinunciare al suo proposito e optare per la solita passata di mascara.
Ora che il sudore le imperlava il viso però, dopo aver ricorso l’autobus e aver sfrecciato per il restante tratto a piedi, aveva l’impressione che si stesse sciogliendo sui lati degli occhi, rendendo il suo sguardo ancora più stanco.
Eppure, era adrenalina pura quella che scorreva nelle vene della studentessa, adrenalina che la portò a spalancare la porta dell’aula, senza curarsi di bussarla:
« Travis! Che modi sono! » la riprese puntualmente la Fraun, sobbalzando per lo spavento.
La ragazza però quasi non la calcolò; i suoi occhi cercarono immediatamente i banchi in fondo all’aula, sulla sinistra, accanto alle finestre; e dietro Trevor, lo vide.
Solita espressione annoiata, una matita in mano con la quale era intento a scrivere qualcosa che sicuramente non erano appunti relativi alla lezione. Aveva una t-shirt della Threadless con raffigurato un ipod e una vecchia musicassetta, dove quest’ultima diceva al primo “back in my day”.
La posa era quella di sempre, seduto scomposto come se fosse al parco a chiacchierare con gli amici. Solo i capelli rompevano il vecchio equilibrio, ma vederlo con il suo colore naturale e con un taglio più corto, accentuava in Erin la consapevolezza di quanto Castiel fosse semplicemente figo.
La ragazza stava per avanzare, quando notò con un certo sgomento, che il suo posto non era libero: c’era Kentin.
« ma io dove mi siedo? » chiese a voce alta, avvicinandosi ai due ragazzi « Ken questo è il mio banco »
« e questo è il mio » brontolò il cadetto, indicando quello accanto, occupato dal moro.
Nessuno dei tre si curava della Fraun che, a causa del loro nascente battibecco, aveva interrotto la lezione.
« è sempre stato il mio banco Barbie, l’ho pure marcato » chiarì il musicista, indicando l’incisione con il suo nome.
Kentin lo fissò in cagnesco e commentò:
« marcato? Manco fossi un gatto! »
« INSOMMA LAGGIU’! » li riprese la professoressa, inalberandosi « si può sapere qual è il problema? » chiese stupidamente.
« non ho un banco prof » spiegò Erin.
«  che vuoi che ti dica Travis? Vattene a cercare uno oppure siediti in braccio a Black! »
Anche se mentalmente l’istinto le suggeriva di alzarle un bel dito medio, Erin si trattenne e avvampando sotto le risate goliardiche dei compagni, uscì dall’aula.  
Né Castiel né Kentin erano stati così cavalieri da cederle il posto, così si ritrovò a sbuffare irritata per i corridoi.
« che giornataccia » brontolò tra sé e sé.
Il giorno prima non era riuscita a sedersi accanto a Castiel al pub dove avevano cenato, e ora veniva pure cacciata dal suo posto. Non aveva idea di come fare per recuperare il banco che le serviva e per questo cominciò a considerare di rivolgersi a Melody, anche se era conscia dell’antipatia che la segretaria nutriva verso di lei.
Passeggiò per i corridoi, temporeggiando nel leggere alcuni poster affissi alle pareti, finchè una voce la fece trasalire:
« signorina Travis! Perché non è a lezione? »
Si voltò allarmata, sapendo di essersi imbattuta nell’ultima persona desiderabile in una simile circostanza: Miss Swanson si stava avvicinando minacciosamente, ondeggiando i larghi fianchi e brandendo nella mano destra, un voluminoso fascicolo.
« s-sto cercando un banco, preside » si giustificò « è tornato Castiel e in 4^ F siamo a corto di posti ».
« allora vada da Tom! » tuonò la donna.
Tom, lo stesso vecchietto rintronato che mesi prima era stato il suo supervisore durante la settimana di punizione. Tutto sommato, non le dispiaceva rivederlo, anche perché sembrava sparito dal liceo ed era curiosa di scoprire che fine avesse fatto.
« e dove lo trovo? »
« nella serra! » replicò seccata la donna « e veda di sbrigarsi, manca un quarto d’ora al suono della campanella e non voglio più vederla bighellonare in giro »
« signorsì » replicò spontaneamente Erin.
La donna, si voltò irritata e sbottò:
« fa la spiritosa adesso? »
A causa dei modi militari e autorevoli della donna, quella battuta infelice era uscita prima che Erin potesse analizzarne le conseguenze:
« mi scusi, corro a cercare il banco »
« non si corre a scuola! » la corresse la vecchietta, mentre la guardava allontanarsi. La studentessa decelerò ma nei suoi passi era evidente la fretta di sparire dalla vista della dirigente scolastica.
Quest’ultima aspettò che Erin sparisse alla sua vista e, appena ciò accadde, sorrise leggermente e tornò nel suo ufficio.
 
All’interno della serra, erano disposte dei ripiani spaziosi sui quali erano sistemate ordinatamente piante di ogni tipo. Erin apprezzò la cura con cui erano catalogate le piante aromatiche, quelle carnivore, quelle da fiore e molte altre la cui categoria di appartenenza era segnata su cartellini gialli che penzolavano dall’alto. Sin dal suo primo giorno al Dolce Amoris, aveva sentito parlare bene dell’efficienza con cui la sua amica Iris gestiva quel club. Nonostante il suo sempre dichiarato odio per le piante, Erin doveva ammettere che quell’ambiente fosse ben organizzato e molto curato. Come la maggior parte dei club del liceo, anche quello di giardinaggio poteva contare su molto materiale, ragion per cui la serra era spaziosa e ben fornita.
Rispetto alla rigida temperatura esterna, la ragazza trovava quasi piacevole la calda e soffocante umidità che si respirava sotto quel telone, ma sapeva di non potersi trattenere a lungo; camminò lungo il corridoio centrale, finché le parve di cogliere del movimento dietro un fogliame e difatti, vide spuntare proprio il vecchietto che stava cercando:
« buongiorno Tom! » esordì allegra.
La figura ricurva dell’uomo si sporse in avanti, in un estremo tentativo di mettere a fuoco l’immagine della ragazza davanti a sé:
« Erin? »
Commossa che finalmente il vecchietto avesse memorizzato correttamente il suo nome, la ragazza si avvicinò.
« sì sono io. Ho bisogno del tuo aiuto. Sai dove posso reperire un banco? »
« a che ti serve? »
Presa in contro piede dall’assurdità di quella domanda, la studentessa disse:
« beh ogni studente ha diritto ad avere un banco no? »
« e tu finora sei stata senza? »
« è una lunga storia » lo liquidò la ragazza « allora? Lo sai o no? »
« calma calma, voi giovani avete sempre fretta » brontolò il vecchietto, togliendosi i guanti.
Erin pensò all’espressione inalberata della preside e l’urgenza che le aveva messo nel trovare quel dannato banco. La filosofia zen di Tom poteva risultare rilassante, ma decisamente inopportuna in quel contesto.
« sai com’è… avrei una lezione da seguire »
« giusto, giusto » convenne l’ometto « vai pure cara, vieni a trovarmi un’altra volta quando avrai più tempo »
La ragazza lo fissò confusa:
« e il banco? »
« che banco? »
La fronte di Erin si aggrottò e, cercando di non umiliare il vecchietto, ripetè:
« il banco che sono venuta a cercare »
L’uomo corrucciò le labbra, mentre la sua mente compiva uno sforzo notevole nel ricordare. Solo nelle settimane successive, la ragazza scoprì che, quelli che sembravano degli atteggiamenti comici, erano in realtà i primi sintomi dell’Alzheimer.
« il banco… sì, il banco » ripetè il vecchietto « lo trovi in magazzino »
« e dov’è il magazzino? »
« devi andarci con uno studente autorizzato, tipo quella Molly… »
« Melody? » tentò Erin.
« e io che ho detto? »
Sollevò gli occhi al cielo e, dopo aver ringraziato sbrigativamente l’uomo, la ragazza uscì dalla serra.
Sperava di poter contare solo su Tom, come del resto le aveva suggerito la preside, ma aveva concluso che rivolgersi a Melody fosse l’unica vera soluzione. La prima ora di lezione però era ancora in corso e disturbare la studentessa in un simile momento, non le sembrava il caso.
D’altro canto, se la preside l’avesse beccata una seconda volta a bighellonare nei corridoi, non avrebbe voluto sentire ragioni.
Così alla fine la ragazza si risolse a cercare Melody, temendo le ire della vecchia preside.
Contrariamente a quanto si aspettava Erin, la segretaria non la trattò con eccessiva freddezza, come era solita fare. Recuperò le chiavi del magazzino dalla sala professori e la invitò a seguirla.
Fu l’occasione per Erin per scoprire un altro locale altrimenti sconosciuto di quel liceo: nella stanza c’erano alcuni banchi ammassati in un angolo, delle vecchie lavagne, cancelleria di vario tipo e altri oggetti sui quali però il suo sguardo non ebbe il tempo per soffermarsi.
Afferrò il tanto desiderato quanto ingombrante banco e uscì, mentre Melody si chiudeva la porta alle spalle:
« se hai bisogno di qualcos’altro, fammi sapere » e si dileguò con un sorriso gentile, lasciando Erin alquanto spiazzata.
Il banco era piuttosto voluminoso e la statura di Erin non la agevolava nel trasporto. Lo teneva sollevato dal suolo, puntandolo contro l’addome, ma il ripiano in legno, unito al peso della sedia appoggiata al rovescio su di esso, rendeva il tutto piuttosto pesante.
« possibile Cip che tu riesca ancora a farti sbattere fuori dalla Fraun? »
Si voltò, vedendo Castiel venirle incontro, con le mani affossate nelle tasche.
« e tu come mai sei qui? » domandò, posando il mobile al pavimento.
« Affleck me le ha fatte girare, ma la vecchia se l’è presa con me. Sbrigati a tornare in classe, perché quella Barbie mestruata non la sopporto »
« la Fraun? »
« no Affleck »
La ragazza sogghignò:
« non so perché Ken ce l’abbia con te, ma ti assicuro che è simpatico »
« sì certo, come una spina nel culo »
« Castiel… » lo rimproverò Erin, riprendendo a camminare con l’ingombrante oggetto tra le mani.
La sedia per un pelo le scivolò lungo il ripiano del banco, ma inclinando la schiena, riuscì a farla tornare nel baricentro.
« dà qua »
Sentì allora le mani di Castiel sfiorare le sue, facendola rabbrividire. Il ragazzo afferrò con facilità il banco, sollevandolo come se fosse fatto di polistirolo.
« ehi, non serve, me lo porto io… »
« tzè figuriamoci: tua nonna ha più forza di te sulle braccia… Ninì »
Erin mise il broncio e brontolò:
« perché anche quando fai un gesto gentile, devi sempre perdere punti uscendotene con queste frasi? Non sei cambiato affatto »
« perché, speravi cambiassi? » ghignò l’amico.
Lei emise un sospiro divertito e ammise prontamente:
« neanche un po’ »
Castiel replicò con uno sguardo complice e, chiacchierando e punzecchiandosi a vicenda, tornarono alla loro lezione di storia.
 
Quando Miss Joplin entrò nell’aula, guardò subito in fondo alla stanza: in sala docenti tutti i suoi colleghi che insegnavano in 4^ F parlavano del ritorno di uno degli studenti più indisciplinati, nonché quello che aveva portato la squadra di basket alla vittoria:
« bentornato Castiel » lo accolse con un sorriso, ricevendo un cenno grato dallo studente « spero che Berlino ti sia piaciuta. Ci sono stata anche io qualche anno fa »
« è una bella città » confermò il ragazzo.
« beh, allora alla fine delle lezione potresti raccontarci cosa hai visto in questi due mesi » propose la donna, mentre gli occhi di Erin brillavano dalla gioia. Il musicista però non era dello stesso avviso. Non amava condividere i fatti personali con gli altri, specie perché non si trattava dei suoi amici:
« magari un’altra volta » sviò, lasciando intendere alla donna quali fossero le sue reali intenzioni. La professoressa annuì comprensiva, posando poi lo sguardo su Erin:
« come mai questa nuova disposizione? »
Mentre tutti gli altri studenti erano disposti a coppie di due, in fondo all’aula si era creata una fila di tre banchi: Castiel aveva il posto più interno, accanto alla finestra, Erin era al centro mentre Kentin all’esterno.
« siamo in dispari prof » spiegò Erin.
« vedo » commentò la donna « beh, cercate di non fare confusione, mi raccomando… comunque, direi di interrogare subito, così poi continuiamo con il programma »
Vedendo l’insegnante scorrere sul registro, gli studenti sbiancarono: Kim, che fino a quel momento era impegnata a messaggiare con Dajan, nascose il cellulare per leggere forsennatamente il libro, Trevor sprofondò nella sedia, mentre Iris fissò l’astuccio come se fosse l’oggetto più interessante in quella stanza. Qualsiasi cosa, pur di non incrociare lo sguardo dell’insegnante di scienze.
« ehi Travis » le sussurrò Kentin « nel caso, mi suggerisci vero? »
Le fece l’occhiolino che, se in Erin sortì l’effetto di strapparle un sorriso, in Castiel accese una punta di irritazione:
« prof, c’è Affleck che si offre »
Kentin si voltò di scatto, guardando in cagnesco il nuovo arrivato, mentre Erin sgranava gli occhi. Miss Joplin sollevò lo sguardo basita, quasi commossa: tutti gli altri insegnanti adoravano Kentin ma nella sua materia, quel ragazzo non otteneva risultati altrettanto brillanti. Non si applicava, era spesso impreparato e disinteressato a qualunque argomento. Il fatto che volesse proporsi per l’interrogazione l’aveva ingenuamente deliziata, ma non aveva considerato che la notizia era arrivata da uno studente come Castiel.
« pezzo di merda che non sei altro » sibilò Kentin sottovoce « chi cazzo ti ha chiesto niente? »
« pensavo di farti un favore » lo schernì Castiel.
« adesso te lo faccio io un favore, Black » lo sfidò l’ex cadetto e, parlando a voce alta, dichiarò:
« anche Black si offre prof! »
Miss Joplin guardò confusa lo studente appena rientrato dalla Germania e domandò:
« ma come? Sei tornato ieri. Sei preparato per oggi? »
Per non dare la soddisfazione a Kentin di vederlo in difficoltà, il moro dichiarò placidamente:
« nessun problema » e rivolse un sorriso vittorioso all’avversario. Si trattava di cercare di evocare il ricordo degli argomenti dell’anno passato, anche se non poteva certo dire di averli studiati granchè.
Tra quei due fuochi, Erin cominciò a sentirsi a disagio.
« Erin, non azzardarti a suggerire a quell’ameba in mimetica » bisbigliò Castiel, mentre Miss Joplin era distratta.
« Travis, se non lo fai, scordati il mio aiuto in matematica » la minacciò Kentin.
La povera ragazza deglutì nervosamente, cogliendo la scomoda situazione in cui si era cacciata. Desiderò cambiare posto e lasciare che quei due galletti si scannassero indisturbati, senza coinvolgerla, ma ormai era troppo tardi.
« dunque Kentin, parto con te: spiegami il concetto che c’è alla base della fotosintesi CAM »
« ma l’abbiamo fatta due mesi fa! » protestò il ragazzo.
« avevo detto che l’interrogazione era sugli argomenti da gennaio in poi » obiettò Miss Joplin, delusa da quella prima risposta.
Castiel ghignò vittorioso, gesto che non sfuggì alla professoressa che intervenne:
« visto che sei tanto sicuro di te, perché non ce lo spieghi tu, Castiel? »
« beh, è quella roba che fanno le piante? »
« se permetti Castiel le domande le faccio io » replicò bonaria Miss Joplin « e comunque non si dice quella roba, semmai quel processo … cerca di usare un linguaggio più appropriato »
« zotico » lo sfottè sottovoce Kentin.
« se vuoi ti do un assaggio del linguaggio da zotico, Barbie » ruggì Castiel, sorridendo beffardo.
Dalla sua distanza, Miss Joplin non poteva udire quello scambio di frecciatine tra i due, che approfittavano di ogni distrazione della donna, per punzecchiarsi a vicenda.
« comunque dicevamo: con la fotosintesi, cosa fanno le piante? » incalzò la professoressa.
Odiava dovere estrapolare agli studenti ogni frase e spiegazione, ma purtroppo per lei non tutti erano come Erin Travis o Ambra Daniels, le migliori della sua materia.
« producono anidride carbonica » sparò Castiel, senza nemmeno soffermarsi a ragionare.
« quella la producono gli esseri umani idiota » lo denigrò puntualmente Kentin, ridendo sotto i baffi.
« allora abbiamo appena scoperto che anche tu servi a qualcosa » lo zittì Castiel, mentre Erin sollevava gli occhi al cielo.
« ragazzi che state borbottando? » si spazientì Miss Joplin.
« niente niente » la tranquillizzò Castiel « dicevo che con la fotosintesi le piante producono ossigeno »
« e fin qui, direi che ci siamo » tagliò corto la prof « ma la mia domanda era sulle piante CAM »
Il ragazzo si zittì e guardò con la coda dell’occhio Erin che, pur sentendo su di sé gli occhi della sua insegnante preferita, bisbigliò:
« sono piante che vivono in ambienti desertici »
« sono piante che vivono in ambienti desertici » ripetè Castiel a voce alta.
« e che usano una via metabolica alternativa » aggiunse Erin, nascondendosi sempre più dietro la figura alta di Trevor:
« e che usano una via metabolica alternativa »
« che rappresenta un’evoluzione adattativa al ciclo di Calvin »
« che rappresenta un’evoluzione adattativa al ciclo di Kevin »
« Calvin! » ripetè Erin a voce un po’ più alta.
« Calvin » si corresse allora Castiel.
« molto bene Castiel » convenne Miss Joplin compiaciuta « poi il voto finale verrà dimezzato tra te ed Erin, così chissà che la prossima volta alla signorina passi la voglia di suggerire così spudoratamente »
La ragazza sbiancò, mentre Kentin interveniva:
« ma non è colpa di Erin se Black non sa niente »
« ha parlato Piero Angela » commentò sarcastico Castiel.
Il moro lo fissò interrogativo, non conoscendo un personaggio televisivo che il musicista aveva visto un paio di volte nei canali italiani, grazie al suo vicino Mauro.
« io devo valutare quello che sapete voi, non quello che sa Erin, quindi Kentin, perché non aggiungi qualcosa tu a quello che ha detto il tuo compagno? »
Preso in contropiede, Kentin arrancò:
« mah, cioè… le piante CAM sono… molto importanti »
« ah sì? » gli fece verso la donna, allungando l’ultima vocale.
« sì certo, cioè voglio dire, senza le piante CAM… »
« … non ci sarebbero le piante CAM » convenne sottovoce Castiel, guadagnandosi un’occhiata truce dall’ex cadetto.
« hanno un’efficienza fotosintetica molto bassa » sussurrò la voce gentile di Erin accanto alla sua.
Nonostante il rimprovero che aveva ricevuto dalla professoressa, la ragazza era troppo buona per abbandonare l’amico. Sotto il cipiglio scocciato di Castiel, Kentin ripetè il suggerimento, per poi ringraziare l’amica con un’affettuosa gomitata.
Grazie ad Erin, i due riuscirono a portare a termine l’interrogazione, con una sufficienza che la professoressa non fece mistero di aver loro regalato.
Prima di riprendere con la spiegazione, la donna scrutò il trio e commentò:
« certo che tu Erin, seduta tra quei due, sembri Gesù in mezzo ai due ladroni »
 
All’ora di pranzo, complice anche il clima che diventava di giorno in giorno sempre meno rigido, Erin e gli altri decisero di mangiare al loro solito posto, risparmiando a Castiel l’odiata mensa.
In quella mezz’ora, il moro dovette rispondere alle loro domande, che da ventiquattro ore attendevano di essere formulate.
Scoprirono così che Berlino era una città viva, piena di storia e cultura, ma anche spaventosamente fredda. I Tenia erano un gruppo chiassoso di talentuosi artisti, che erano rimasti in Germania a lavorare sui pezzi composti dal ragazzo.
Aveva imparato solo qualche parola in tedesco, ma poiché aveva trascorso la maggior parte del suo tempo con lo staff e i Tenia, aveva avuto ben poche occasioni per approcciarsi alla lingua.
Verso la fine dell’anno scolastico sarebbe uscito l’album, del quale avrebbe curato ben dieci canzoni su dodici.
« e voi? Che mi raccontate? » sviò dopo aver incentrato l’attenzione su di lui per così tanto tempo.
« beh, Rosalya è diventata ufficialmente una stilista, visto che lavora per la zia di Erin » esordì Iris.
Castiel allora si voltò verso la diretta interessata che non lo degnò di uno sguardo: era ancora troppo irritata per interagire con il ragazzo:
« ah Kim mi ha detto che mollerà il club » intervenne Erin.
« perché? »
« vuole tornare a quello di atletica, ora che il torneo è finito. Tra qualche settimana hanno le gare e lei spera di riuscire ancora a partecipare »
Il moro sorseggiò la Coca-Cola, mentre Alexy interveniva:
« allora Cas, quando vengo ad aiutarti con la tinta? »
« non vorrai sul serio tornare al colore di prima? » sbottò Erin delusa.
Non che non ne sentisse una certa nostalgia, ma i capelli naturali del musicista gli donavano molto di più.
« tornerai ad essere la vecchia Ariel » commentò Armin.
Rosalya guardò l’orologio e sbuffò:
« devo andare. Voi allora venite? » domandò rivolgendosi verso Erin, Iris e Alexy.
« dove andate? Mancano ancora dieci minuti alla fine della pausa pranzo » obiettò Armin.
« ho ordinato delle stoffe per il club di teatro e sono arrivate questa mattina. Dobbiamo andarle a ritirare, sono quattro scatoloni »
Un po’ contrariati per dover concludere frettolosamente la loro pausa pranzo, i tre aiutanti seguirono Rosalya, che camminava indispettita.
Con la sparizione del quartetto, Violet era l’unico elemento femminile presente nella comitiva e, partendo da quell’osservazione, Castiel indagò:
« come mai ieri Ambra e Lin erano con voi? »
« sono molto cambiate da quando c’eri tu » lo aggiornò Lysandre « sono due ragazze in gamba »
« e poi sembra che ad Armin piacciano le bionde »
Quel commento era sfuggito dall’unico ragazzo che fino a quel momento non aveva aperto bocca: l’umore di Kentin era decisamente peggiorato dopo la penosa figura che aveva fatto con l’interrogazione di scienze.
Castiel fissò stupito il nerd che avvampò, prendendosela con l’ex cadetto:
« ma che dici idiota? » scattò sulla difensiva.
Fino a tre mesi prima, Ambra Daniels non dava mistero di avere un interesse fin troppo esplicito per Castiel ma, quando l’aveva rivista il giorno prima, la sorella di Nathaniel non l’aveva quasi calcolato. Quell’indifferenza l’aveva sorpreso, ma di certo non dispiaciuto. Era strano per lui vedere un’Ambra così equilibrata e piacevole.
« invece di fare insinuazioni alla cazzo » stava dicendo Armin « pensa al tuo amore non corrisposto »
« ancora con questa storia? » si irritò il cadetto « te l’ho già detto, Erin mi piaceva alle medie! »
Quella dichiarazione fece andare di traverso il panino di Castiel che, pertanto, cominciò a tossicchiare:
« ti piace Erin? » sbottò, quasi minaccioso.
« mi piaceva alle medie, idiota, impara ad ascoltare! E poi scusa a te che te ne frega? »
Lysandre scosse il capo e sospirò profondamente. I due ragazzi si concentrarono su di lui e Castiel domandò:
« che ti prende? »
« voi due siete uno più imbecille dell’altro » sentenziò frustrato il poeta poi, rivolgendosi a Violet, le disse:
« mi presteresti un foglio? »
Gli occhioni neri della ragazza lo fissarono confusa, mentre strappava un pezzo di carta dall’album che portava sempre con sé. Il poeta però, le fece segno di allungarle l’intero set per disegnare e si mise all’opera.
Per un minuto buono, rimase in silenzio, mentre la mano danzava sul foglio e i presenti lo osservavano incuriositi. Soddisfatto, voltò il foglio verso gli amici, mostrando le faccine di cinque figure stilizzate.
Le due in alto rappresentavano Erin e Castiel, mentre sotto, disposti ai vertici di un triangolo, c’erano Kentin, Iris e Dake:
« a mali estremi, estremi rimedi » spiegò il poeta, tracciando una freccia che da Castiel, arrivava ad Erin, piazzando sopra alla linea un cuore « visto che siete l’uno più ottuso dell’altro, proviamo con dei disegnini, chissà che ci arriviate: vedi Kentin, è a Castiel che piace Erin… e, anche se lui è convinto del contrario, sono convinto che anche a lei piaccia lui. Questo è un circuito chiuso, non ci sono altre interferenze, se non quelle create da loro due da soli… e che sono più che sufficienti per creare questa assurda situazione di stallo »
Castiel stava per sbottare ma Lysandre lo zittì con un’occhiata gelida e spostò la matita sul secondo disegno, rivolgendosi proprio all’amico:
« e invece Castiel questa è la situazione di Kentin: come vedi Erin non è compresa nel sistema, quindi stai tranquillo è solo tua. A Kentin e Dake piace Iris ma non sappiamo ancora se una di queste due frecce è bidirezionale »
« era proprio necessario fare questo schema idiota? » grugnò Kentin, arrossendo.
« no, avevo solo voglia di disegnare » commentò placidamente Lysandre, accartocciando il foglio e lanciandolo verso il cestino. Il tiro però non andò a segno e la carta rotolò sull’erba. Proprio in quel momento però, ricomparve Iris:
« che stupida, ho lasciato qui il cellulare » esordì, guardando però la pallina bianca che aveva attirato la sua attenzione. Si accucciò a raccoglierla ma mentre stava per dipanare il groviglio, Kentin e Castiel ruzzolarono giù dal muretto su cui erano appollaiati e gliela strapparono dalle mani:
« c-che vi prende? » balbettò la ragazza sorpresa.
Kentin nel frattempo, preso da una sorta di isteria, aveva frammentato il foglio in mille pezzetti, sotto le espressioni divertite di Lysandre ed Armin.
« ecco il cellulare » bofonchiò Castiel, allungandoglielo.
« ok… » commentò Iris, ancora confusa « certo che siete strani però! »
 
Space sbuffò annoiato, seguendo con lo sguardo un cane che stava attraversando la strada. Non c’erano distrazioni in quel quartiere e si pentì di non avere con sé un libro, oggetto solitamente irrinunciabile.
« scusa l’attesa »
Si voltò, trovandosi davanti l’espressione delusa della sua amica Sophia:
« scoperto qualcosa? »
La ragazza fece spallucce:
« dovrebbe essere una donna »
« chi te l’ha detto? Quel vecchio rincoglionito che ci ha scambiato per i testimoni di Geova? »
« ha scambiato te per uno di loro, te l’ho sempre detto che dovresti cambiare look, Space » ridacchiò Sophia « comunque no, è stata la figlia a dirmelo. Quando ha sentito il cognome mi ha risposto: Tracy? »
« allora siamo al punto di partenza So’: Tracy è un nome unisex » ragionò Space, sospirando rassegnato.
« non è vero, è un nome femminile » affermò incerta la ragazza.
« Tracy Morgan, il famoso comico, per esempio è un uomo »
L’amica rimase in silenzio per qualche istante, poi sbottò irritata:
« cazzo! Per ogni passo in avanti, ne faccio due indietro »
Space si alzò dal marciapiede, frugandosi nelle tasche per cercare i biglietti dell’autobus:
« torniamo a casa, comincia a fare tardi. Torneremo ad occuparci domani di Tracy Leroy »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Buongiorno ^^
Ecco un capitolo che volevo fosse leggero, ricco di dialoghi e, soprattutto, incentrato su Castiel.
Per me è stato un po’ strano tornare a scrivere di un personaggio che mesi fa era centrale per la storia… devo riabituarmi ad averlo tra i personaggi ~(⁰⁰)~.
 
Veniamo ora al paragrafo scritto in corsivo… eheh, non lo commento ͑˙˚̀ᵕ˚́˙̉
 
Piuttosto posso dirvi, come avete intuito dal paragrafo conclusivo del capitolo, che finalmente è arrivato il momento di cominciare a dipanare questa matassa del mistero di IHS... da questo capitolo in poi, verranno fuori alcuni tasselli che, una volta messi insieme, comporranno il puzzle (•̀ᴗ•́)و ̑̑
 
Infine, c’è una cosa che devo assolutamente fare, ringraziare singolarmente le ragazze che, tramite EFP o altri mezzi, mi hanno fatto sapere la loro opinione sullo scorso capitolo, nella fattispecie:
-_nuvola rossa 95_
-BlueButterfly93
-Chocolate90
-ClaudiaMercedez
-Clove_San
-Courtneyloveco
-EvelynChan
-Hooked
-Kayleah
-Kiritsubo83
-LisyDarkyLove
-Manu_Green8
-
marylu83_sabarese
-SaraDeeb1
-Silviax
-Summer38

(spero di non aver dimenticato nessuno!)
Insomma, è stata una grandissima soddisfazione personale e grazie a tutte per i preziosi consigli :D
 
Ora che ufficialmente il torneo è finito mi sento in dovere di ringraziare ancora una volta Manu_Green8, a cui mi sono rivolta mesi fa per avere delucidazioni su questo magnifico sport che ho scoperto essere il basket… quindi Manu… grazie mille ^^
 
Spero che questo capitolo lo abbiate trovato leggero e fresco, l’idea era quella, altrimenti sono ben felice di sapere cosa vi aspettavate di diverso ;)
 
Un saluto da una RandomWriter di ottimo umore (grazie a voi ٩(^ᴗ^)۶)…
 
Alla prossima!
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** Twin towers ***


51.
TWIN TOWERS

 
« ziaaa! Dove hai messo la spazzola? »
« sul lavandino! »
« non c’è! »
« allora sarà là attorno! »
« non c’è » ripeté Erin iniziando a spazientirsi. In quell’appartamento tutto al femminile, quel genere di scene erano di ordinaria quotidianità; tra le tante qualità di Pam non spiccava il senso dell’ordine, mancanza che veniva per contro accentuata dalla sua irritante tendenza a depositare gli oggetti in ogni angolo della casa. Toccava poi a sua nipote partire alla ricerca del phon, della piastra o, come stava accadendo in quel tardo pomeriggio di fine febbraio, della spazzola.
In tale circostanza però, prima che Erin abbandonasse il bagno per andare in perlustrazione, sua zia la anticipò, materializzandosi sulla soglia della stanza. I voluminosi bigodini viola erano saldamente ancorati ai capelli, costruendo un intricato percorso tubulare sulla testa della donna. Tuttavia non fu la ridicola capigliatura della zia a destare l’attenzione della ragazza, quanto la spazzola che la donna le passò davanti agli occhi:
« scuuusa » miagolò Pam. Erin afferrò l’oggetto e cominciò a passarlo delicatamente sui lunghi capelli umidi, lasciando trasparire qualche smorfia di mal sopportazione a causa dei nodi sulle punte.
« vuoi una mano con il trucco tesoro? »
Quell’offerta era sorta dopo un’attenta osservazione dell’aspetto di sua nipote: la ragazza, poco avvezza a un maquillage più complicato di una passata di mascara e matita, aveva sperimentato l’uso di un fondotinta che, però, risultava troppo scuro per il suo incarnato. Lo stacco cromatico con il collo era talmente evidente da risultare ridicolo, così come la scelta dell’ombretto, decisamente sbagliata per il colore degli occhi di Erin:
« sto facendo un lavoro così pessimo? » domandò la mora, guardando dubbiosa la zia.
Quella sera due famiglie si sarebbero riunite attorno al tavolo di uno dei locali più chic di Morristown: i Travis e i Joplin. Jason aveva prenotato in un ristorante della torre Nord delle Twin Towers, le torri gemelle di Morristown. Il locale, tanto per lui quanto per Pam, aveva un significato speciale: era lo stesso in cui, mesi prima, l’aveva soccorsa dopo una disastrosa serata. Quell’inconveniente, pur testimoniando l’esistenza di un lato vulnerabile della donna, era interpretato da entrambi come l’evento da cui era decollata la loro relazione. Era stato il pretesto affinchè Pam si accorgesse di quanto il veterinario potesse essere premuroso e affidabile, il genere di uomo che aveva sempre sognato di incontrare. Dal canto suo, Jason aveva ricevuto quell’occasione che stava aspettando, quella in cui aveva dimostrato qualità altrimenti insospettabili. Era a causa di quei teneri sentimenti che quella sera Pam non riusciva a smettere di sorridere, accantonando il nervosismo di conoscere quella che un giorno sperava sarebbe diventata sua suocera. Il padre di Jason era morto un anno prima, lasciando alla moglie una bella tenuta in campagna e due figli meravigliosi, Jason e Rebecca.
L’allegra trepidazione di Pam, all’idea di rivedere quella donna di cui era così amica, si trasformava in sua nipote nella disagevole e snervante attesa di incontrare fuori dalle mura scolastiche, una sua professoressa. Miss Joplin era sì la sua insegnante preferita, ma rimaneva l’incarnazione di quel ruolo che, da secoli, si afferma come nemico di uno studente. Si vergognava talmente tanto all’idea di cenare con la sua professoressa, che solo a Rosalya ed Iris aveva rivelato di quell’incontro, guardandosi bene dall’informare il suo migliore amico; Castiel infatti non avrebbe perso il pretesto per canzonarla con qualche nomignolo come “cocca della prof” e lei preferiva evitare una simile circostanza.
Nonostante i suoi sforzi di apparire al meglio, l’inesperienza di Erin in fatto di trucchi la penalizzava parecchio; Pam allora afferrò un dischetto di cotone e lo inumidì di stuccante:
« diciamo che non hai un futuro come make-up artist » sdrammatizzò passando delicatamente l’impacco sulle palpebre della giovane. Il disco si tinse di celeste e Pam mostrò ad Erin:
« l’ombretto azzurro non dona a nessuno, meno che meno ai tuoi occhi verdi »
La ragazza si sottrasse a quella premura e passò a legarsi sbrigativamente i capelli dietro la nuca, per poi accucciarsi all’altezza del lavandino e inondare il viso con dell’acqua:
« pulisciti bene la faccia che poi ci penso io » la tranquillizzò la zia. Lanciò un’occhiata all’abbigliamento della nipote, sorridendo compiaciuta: Erin aveva indossato l’abito che lei le aveva regalato per il compleanno, un delizioso abitino nero con ricami in pizzo e maniche a tre quarti. Le donava particolarmente, del resto in fatto di buon gusto nel vestire, Pam non era seconda a nessuno; conosceva bene il fisico della ragazza e sapeva come valorizzarne al massimo i fianchi stretti e il ventre piatto.
Sua nipote era bellissima ma, come la maggior parte delle adolescenti della sua età, era cieca e ipercritica di fronte ai suoi pregi estetici. Fissandosi allo specchio infatti, non solo Erin non riusciva a vedere tutta quell’eleganza di cui sua zia era così orgogliosa, ma si concentrava su piccoli dettagli denigranti: i capelli le sembravano piatti e senza volume, lo scollo a barchetta dell’abito non calzava giusto e cominciarono a venirle dei complessi anche sulla sua seconda, messa in evidenza dall’aderenza della stoffa.
Finì di acconciarsi i capelli, raccogliendoli verso l’alto con uno chignon disordinato ma, controllando la sua immagine riflessa, disfece la pettinatura. Quella sera niente sembrava soddisfarla, ogni soluzione o tentativo di apparire più bella le risultava fallimentare, schiacciata dal nervosismo di conoscere l’intera famiglia di Miss Joplin. Non spettava a lei essere così sulle spine, era come se si fosse invertita le parti con la zia che invece trotterellava da una stanza all’altra dell’appartamento, eccitata dalla serata imminente.
Invidiò la sorella, che dietro la scusa della sua lontananza da Morristown, aveva declinato con facilità l’invito. Lei e Sophia non si parlavano da settimane, durante le quali Erin fingeva di non sentire quella vocina dentro di lei che la supplicava di cercare una riconciliazione; aveva scoperto un nuovo lato di sé, quello più orgoglioso e testardo, un aspetto che non pensava appartenesse alla sua personalità.
La questione del quadro e il muro che aveva eretto la gemella rappresentavano per Erin la motivazione più valida che avesse mai avuto per mettere da parte il suo buonismo; lei, la ragazza che era sempre la prima a cedere in una discussione, quella che non serbava mai rancore, non riusciva a perdonare l’atteggiamento di Sophia. Più passavano i giorni, e più si convinceva che fintanto che non sarebbe riuscita a svelare la verità dietro il bizzarro comportamento della rossa, il loro rapporto non poteva tornare ad essere quello di prima.
Era una constatazione amara, ma non poteva fare a meno di impuntarsi a rispettarla.
« eccomi qui! » esordì Pam, presentandosi nuovamente in bagno e facendola trasalire dai suoi pensieri « ora ci penso io a te! »
 
Non aveva ancora chiuso la portiera della macchina, che già il suo sguardo era proiettato verso l’alto: ogni volta che si trovava di fronte le Twin Towers, Erin ne rimaneva affascinata. Non erano paragonabili a quelle che, ormai molti anni fa, aveva visto a New York, ma forse proprio per una vista digiuna di grattacieli, quelle di Morristown le sembravano imponenti. Le torri svettavano nel manto nero del cielo, in un tentativo eroico ed impossibile di grattarne la superficie, toccandone le luminose e minuscole stelle.
Il ristorante si trovava nella torre Nord, al trentaquattresimo piano e offriva una vista spettacolare sulla città, come del resto aveva avuto modo di appurare la ragazza qualche mese prima.
Doveva tornare indietro di più di quattro mesi per ricordare l’amore fittizio che la legava a Nathaniel, che solo nel tempo si era rivelato una tiepida infatuazione. Ora che poteva confrontare quei sentimenti con quelli che provava per Castiel, non solo si era resa conto della superficialità dei primi, ma era ancora più consapevole di quanto fossero profondi i secondi; ciò che provava per l’amico era qualcosa che era nato in silenzio, ma che era cresciuto con l’inesorabilità e la determinazione, di un fiore tra le rocce.
« sei bellissima stasera »
Si voltò, e vide Jason baciare la guancia di Pam, dopo averla attirata a sé.
« papà e mamma quando arrivano? » li interruppe Erin.
« a momenti » le rispose la zia « avevano perso tua nonna »
« cosa vuole dire che l’avevano persa? » ridacchiò il veterinario.
« non ne ho idea » convenne la ragazza « ma sono all’altezza delle piscine, tra un po’ saranno qui »
« anche Beck e mia madre stanno arrivando… aspetta » si bloccò, allontanandosi di qualche metro dalle due donne « credo siano loro » confermò infine.
Una Chrysler blu aveva appena superato il cancello del parcheggio, appostandosi a poca distanza dal trio. Erin deglutì nervosamente, mentre un paio di gambe lunghe e affusolate, uscivano dal posto del guidatore.
Avvolta da un pesante cappotto, che le lasciava scoperta solo la pelle dal ginocchio in giù, Miss Joplin sfoderò un sorriso cordiale, soffermandosi in particolare sulla sua studentessa.
Dall’orlo inferiore della giacca, si intravedeva un tessuto con una fantasia bizzarra, assolutamente non in tinta con il soprabito. Il cespuglio di capelli non era stato domato, addirittura in Erin sorse il sospetto che fosse più disordinato del solito.
Eppure, per quanto quella capigliatura selvaggia le conferisse un’aria trasandata e sciatta, Rebecca Joplin avanzava con fierezza, come solo una donna sicura di sè può fare; avvicinandosi, a Pam non sfuggì un unico tentativo da parte della professoressa di curare la propria immagine, ma l’effetto era addirittura controproducente: la linea nera della matita, passata sopra l’attaccatura delle ciglia, risultava troppo distanziata da esse, come se Rebecca non avesse avuto uno specchio mentre si truccava.
Di aspetto molto più dignitoso e curato, faceva seguito Cindia, la madre. Era una donna di mezza età, più vecchia di Amanda, ma più giovane di nonna Sophia. Aveva optato per un tailleur semplice, tinta unita e raccolto la chioma rada in una crocchia. Non c’era un accenno di trucco sul suo viso e ciò le conferiva un’aria ancora più genuina e gentile:
« piacere di conoscerti, tu devi essere Pam » esordì, allungando una mano verso la ragazza di suo figlio.
« sì, molto piacere »
« io sono Cindia… mentre mia figlia Rebecca la conosci già »
« come stai? » chiese per l’appunto la professoressa.
« molto bene, sono così contenta che siamo riusciti a organizzare questa cena! » replicò la donna, per cercare poi Erin con lo sguardo.
Ne lesse tutto il disagio e, sorridendo intenerita, ufficializzò le presentazioni:
« lei è mia nipote Erin, figlia di mio fratello Peter »
« oltre che una mia studentessa » aggiunse Miss Joplin, con soddisfazione. Rivolse un sorriso incoraggiante alla ragazza, che si limitò ad arrossire leggermente ed abbassare il capo in imbarazzo.
« che bella ragazza » commentò Cindia compiaciuta, aumentando l’imbarazzo dell’interessata.
Si morse il labbro, aspettando che qualcuno dicesse qualcosa per distogliere l’attenzione generale; quell’aiuto insperato arrivò dal rombo familiare di un motore: la macchina di suo padre.
Alzò lo sguardo e vide il pick-up di Peter entrare nello spiazzo, parcheggiando con poche e nervose manovre. Il guidatore uscì accigliato dall’abitacolo e, prima ancora di curarsi del quintetto che lo osservava, sbottò:
« insomma mamma! Se c’è il semaforo rosso, non si passa. Discorso chiuso! » tuonò Peter, rivolgendosi ad uno dei due passeggeri.
« che noioso che sei! » gracchiò una voce.
Pam ed Erin inorridirono sgomente appena riuscirono a mettere a fuoco il voluminoso cappello piumato che l’anziana sfoggiava con orgoglio. Come se quel vistoso accessorio non fosse sufficientemente appariscente, Sophia gli aveva abbinato un orrendo vestito verde acido, troppo attillato per le sue forme non più giovani e fin troppo morbide.
L’unico elemento a salvaguardia dell’ordine, Amanda, si limitava a sorridere a quello scambio di battute tra la suocera e il marito. Salutò da lontano i presenti, con garbo e cortesia, riuscendo con quel semplice gesto, a rasserenare un po’ la figlia che riponeva in lei, l’unica speranza per dimostrare che la sua famiglia, in fondo, non era poi così imbarazzante.
 
Le porte metalliche dell’ascensore si aprirono in sincrono, permettendo all’intera comitiva che vi era all’interno, di avere accesso al trentaquattresimo piano. La claustrofobia di Jason gli aveva impallidito il viso, accentuata dalla numerosità di persone che affollavano quella scatola in movimento.
Ad accoglierli all’entrata del ristorante, dietro un bancone laccato di legno, c’era lo stesso concierge che Erin e Jason avevano incontrato mesi prima: quella sera però l’uomo si dimostrò molto più accondiscendente e rispettoso verso i clienti, guidandoli all’interno del locale.
La ragazza ridacchiò amara tra sé e sé: quello non era un ristorante economico e, con i soldi che avrebbe sborsato Jason per la cena, non potevano che ricevere un trattamento da VIP.
Appena varcarono l’atrio, la mora rimase impressionata dall’eleganza del posto, il più romantico e raffinato che avesse mai visto: il pavimento era in marmo lucido mentre le pareti erano tinteggiante di un caldo rosa salmone, con affreschi nei punti più strategici. I tavoli migliori erano disposti lungo la vetrata del grattacielo, offrendo agli ospiti una delle viste più spettacolari di Morristown. Pregò che Jason, oltre che claustrofobico, non soffrisse anche di vertigini, e avesse prenotato proprio uno di quei coperti.
Con sua somma gioia, il concierge li accompagnò proprio accanto alle vetrate, invitandoli ad accomodarsi attorno ad un tavolo circolare con due elaborati candelabri precedentemente accesi.
« loro sono Gary e Mariam, i vostri camerieri » spiegò l’uomo, indicando due ragazzi accanto a lui. Fu così che Erin scoprì cosa significasse ricevere un trattamento da stella Michelin; i due sostavano a poca distanza dal loro tavolo ma appena un bicchiere si fosse svuotato, erano pronti a riempirlo. Erin non aveva neanche fatto a tempo a mettersi il tovagliolo sulle ginocchia, che già Mariam l’aveva afferrato e gliel’aveva posto sulle gambe.
Guardò confusa la zia, che si limitò a ridacchiare per la sua ingenua perplessità. Poiché la sua curiosità non era ancora completamente appagata, Erin sollevò lo sguardo verso l’alto, incrociando un luminoso lampadario di cristallo che pendeva proprio al centro del tavolo. In cuor suo, pensò che fosse quasi uno spreco tutta quella bellezza per una cena di famiglia: quello era il ristorante perfetto per una coppia, lo sfondo ideale per un’atmosfera romantica e tenera.
I due camerieri porsero a ciascuno dei conviviali un listino, preparandolo già aperto sugli antipasti. Cominciarono a interagire con i clienti, suggerendo loro alcuni piatti, mentre la più giovane della compagnia affondava il naso sui prezzi esorbitanti, sbiancando per lo stupore. Sbirciò l’espressione di suo padre che aveva insistito con Jason affinché fosse non pagasse il conto della sua famiglia, ma il veterinario era stato irremovibile. Ciò, unito all’ingenza della spesa, fece sentire l’uomo ancora più in colpa; con rammarico, Peter doveva riconoscere di non potersi permettere una simile spesa.
« Ninì, tu cosa prendi?» squittì nonna Sophia.
Imbarazzata da quel nomignolo, che in Cindia e Miss Joplin strappò un sorriso, Erin mugolò di non aver ancora deciso.
« forse dovremo assecondare quello che ci consigliano i camerieri » sussurrò l’insegnante. Solo allora Erin si accorse che la donna era seduta accanto a lei e si maledì per non aver prestato più attenzione alla disposizione dei posti. Per sua fortuna, accanto a lei c’era Jason, probabilmente l’elemento presente a quella cena, con cui aveva più argomenti di conversazione.
« è la prima volta che vengo qui » esclamò Miss Joplin a voce alta, per rendere partecipi tutti della sua constatazione.
« è un posto molto chic » aggiunse Amanda con ammirazione. Non le sfuggì lo sguardo pensieroso del marito e, sorridendo intenerita, gli passò una mano sulla gamba: se Jason aveva insistito per pagare lui, a loro non restava altro che ringraziare e godersi una cena come poche. Del resto, dal suo punto di vista, quella era solo la dimostrazione che, oltre all’amore, sua cognata Pamela avesse anche trovato una sicurezza economica in Jason.
Quasi avesse letto nella mente della moglie, Peter incalzò:
« allora Jason, gli affari come procedono? »
Sua sorella non permise al ragazzo di rispondere e sbuffò:
« cominciamo già a parlare di lavoro? »
« beh, se volete decidervi a dirci il perché siamo qui… » tentò l’uomo, giocando con il cinturino dell’orologio. I due si guardarono complici e Pam ridacchiò imbarazzata. La videro piegarsi verso la borsa appoggiata dietro la sedia ed estrarre una scatolina quadrata, di velluto blu. La aprì in silenzio, stando attenta a non far sbriciare l’ovvio contenuto al resto dei commensali, mentre armeggiava sotto la tavola.
Distese infine le dita della mano e mostrò con orgoglio un bellissimo anello mentre con quella rimasta libera, cercò il contatto con il suo ragazzo:
« ci siamo fidanzati ufficialmente »
Le donne presenti al tavolo squittirono contente, mentre Peter si limitava a congratularsi con il futuro cognato, con una vigorosa pacca sulla spalla.
Mentre Amanda e Cindia insistevano per ammirare con scrupolosità il gioiello, Miss Joplin si chinò verso Erin:
« a quanto pare non sono l’unica che non ha un interesse smodato per gli anelli »
La studentessa ridacchiò in difficoltà e ammise sottovoce:
« la verità è che io l’avevo già visto: zia non stava più nella pelle all’idea di mostrarlo, così me l’ha fatto vedere »
« ah, quindi sono davvero l’unica donna che non si commuove alla vista di un gioiello » commentò quasi dispiaciuta la donna. Vide Erin sogghignare imbarazzata, che poi obiettò, da brava romantica qual era:
« beh, a qualunque donna fa piacere ricevere un regalo, specie se così impegnativo, dall’uomo che ama no? »
« allora mi sa che sono troppo cinica per apprezzare queste cose » le sorrise la donna, assaporando del vino rosso. 
Era surreale chiacchierare in modo così confidenziale con la sua insegnante, in un contesto così familiare e intimo. Non era semplice esorcizzare da quella figura, il ruolo di Miss Joplin e vestirla con i panni di Rebecca, la sorella di Jason, nonché futura cognata di sua zia.
Nonna Sophia cominciò a raccontare che aveva previsto che la fatidica notizia riguardasse il fidanzamento tra i due ma dal canto suo sperava che Pam fosse incinta:
« quindi Jason, vedi di darti da fare! » lo spronò, battendogli più volte una mano sulla spalla.
Amanda e Miss Joplin ridacchiarono e fu proprio quest’ultima a calamitare l’attenzione di nonna Sophia:
« e tu Rebecca? Sei sposata? »
La donna si torturò il lobo dell’orecchio e bofonchiò:
« no, vivo da sola »
« ah » commentò semplicemente la vecchietta, mentre la nipote la implorava mentalmente di non farla vergognare con qualche uscita indelicata:
« è difficile trovare la persona giusta di questi tempi » mediò Amanda, guadagnandosi un’occhiata grata dalla figlia.
« specie per me che non la sto cercando » convenne Rebecca con diplomazia. Poche persone sono dotate del dono di dominare all’interno di una conversazione e la donna era una di queste: aveva messo un punto a quell’argomento, lasciando intendere chiaramente ai presenti che non era di suo gradimento approfondirlo.
Calò il silenzio, durante i quali gli invitati assaporarono il vino, che si rivelò intenso e profumato. Nonostante la fermezza e serenità che traspariva all’esterno, dentro di sé Miss Joplin rifletteva sulla sua condizione che, seppur non l’avesse mai rimpianta, le rendeva difficile spiegarla agli altri: lei era semplicemente fiera della sua indipendenza e libertà. Si definiva una donna felicemente sola, priva di ogni condizionamento affettivo ed emotivo ma agli occhi dei più quelle apparivano delle consolazioni di una persona che non era riuscita a trovare l’amore.
« Demon è in piena forma » se ne uscì Jason d’un tratto, lanciando un’occhiata di sbiego ad Erin. Sentendo nominare il cane di Castiel, la mora scattò in allerta, iniziando a fissare il veterinario con un’espressione interessata:
« è venuto da te Castiel? »
Quanto quelle sette lettere riuscissero a calamitare la sua attenzione lo sapeva solo lei; mentre il resto dei presenti si guardava confuso e incuriosito, Jason confermò:
« sì ieri. Si vede che l’hai portato regolarmente a spasso, non ha il fisico di un animale che è rimasto sedentario per due mesi »
« e come mai te l’ha portato allora? »
« per scrupolo. Voleva che dessi un occhio a quel cagnone, per controllare che fosse tutto ok. Se tratta così un cane, figuriamoci quando si troverà una ragazza »
Erin finse di non sentire quella dichiarazione, perché con essa sarebbe scaturita una sorta di amarezza. L’aveva sempre pensato anche lei che in fondo, l’amico sapesse essere molto dolce e protettivo, lati che sicuramente Debrah aveva avuto la fortuna di conoscere e che lei, Erin, doveva rassegnarsi solo ad immaginare.
« hai visto come è diventato mansueto Demon? Ormai io e lui siamo diventati amici » disse, per scacciare quei pensieri malinconici.
« in realtà era mansueto anche prima, solo con te si arrabbiava » puntualizzò il veterinario.
« infatti non ho mai capito il perché »
Jason ridacchiò, mentre il resto dei presenti iniziò una conversazione sul discorso tenuto dal presidente Obama il giorno precedente, isolando l’uomo e la ragazza.
« perché ridi? » si incuriosì Erin.
« beh, anche se non può definirsi scientifica, ho una mia teoria a riguardo » le spiegò Jason, avvicinandosi « secondo me i cani, specie quelli con cui il padrone ha un rapporto molto stretto, riescono a sentire quando lui è a disagio »
Erin non metabolizzò subito il senso di quella frase, così Jason precisò:
« forse il cane sentiva che, in tua presenza, Castiel era nervoso »
Quella rivelazione la spiazzò, lasciandola interdetta: in che senso nervoso? Era la sua migliore amica, non aveva motivo per sentirsi in difficoltà in sua presenza. Eppure, era stato proprio quando Castiel se n’era andato che Demon aveva iniziato ad accettare Erin.
Stava per aggiungere qualcos’altro, quando s’intromise nonna Sophia:
« oh, ma Castiel è quel ragazzo che sei corsa ad abbracciare, Ninì? » esclamò prontamente, con gli occhi che le luccicavano dalla gioia. Avrebbe potuto trovare altri riferimenti a cui appigliarsi, ma aveva scelto decisamente il più imbarazzante; passando in rassegna i volti degli adulti attorno a lei, Erin notò gli sguardi maliziosi delle donne e quello severo di suo padre, che appena era stato nominato il rosso, aveva interrotto il discorso che lo teneva impegnato.
« sì è lui… ma quando arriva il cibo? » sviò, guardandosi attorno.
Per sua fortuna, tenendo in mano degli spaziosi vassoi neri, stavano giungendo Mariam e Gary, che distrassero i clienti dall’argomento di conversazione.
 
« e quindi Armin lavora? » riepilogò Gustave, squadrando la figlia.
« certo » mentì Ambra, tamponandosi il tovagliolo di cotone sulle labbra morbide « è un ragazzo molto impegnato, te l’ho detto »
« e che lavoro fa di preciso? »
« cameriere »
Ambra riabbassò lo sguardo sul piatto, non era la prima volta che suo padre le chiedeva di incontrare l’amico e quelle ripetute richieste cominciavano a metterla sempre più sottopressione.
Gustave era imperscrutabile, non manifestava né un atteggiamento sospettoso né fiducioso delle parole della figlia. Era abituato a ottenere tutto dai suoi sottoposti e non solo, esercitando un’autorevolezza e sicurezza tali da metter chiunque in soggezione. Per sua sfortuna, quelle stesse qualità erano state ereditate da Ambra che, giocando una strategia analoga alla sua, riusciva a resistere ai suoi attacchi.
Poiché quel tergiversare, oltre che essere inutile, cominciava ad infastidirlo, optò per una dichiarazione diretta:
« ho l’impressione che tu non voglia farmelo incontrare, Ambra » la sfidò, allineando perfettamente il calice davanti al piatto. La misura e sicurezza di quel movimento, ricordò una mossa degli scacchi: in fondo, il dialogo tra i due, rievocava l’ostilità e la diffidenza tra due avversari.
« l’hai già conosciuto, non vedo la necessità di farlo venire qui » replicò placida la ragazza.
Ingrid assisteva impotente a quello scambio di battute, irritata dall’indifferenza che le riservavano suo marito e sua figlia. Poco prima se n’era uscita con un commento sgradevole sul ragazzo, ma aveva ricevuto una risposta piccata da Ambra e uno sguardo freddo da Gustave. Nemmeno lei sapeva perché il marito si fosse tanto incaponito su Armin Evans, era dalla serata di gala che desiderava un colloquio a quattr’occhi con lui. A quelli spietati e gelidi della svedese, Armin appariva solo come una minaccia per il buon nome della sua famiglia e decisamente un partito sbagliato per sua figlia.
« lo so io » concluse Gustave risoluto.
Ambra emise un verso stizzito e tornò a concentrarsi sul suo gâteau di patate. Era stata Molly a cucinarlo, su esplicita richiesta della bionda, che lo preferiva alla versione preparata dalla cuoca di casa Daniels.
« allora? » incalzò il padre « abbiamo detto che invitarlo a cena è fuori discussione perché lavora, durante la settimana avete scuola, il sabato pomeriggio fa scout… »
Ambra dovette trattenersi dal ridergli in faccia: la bugia dello scout era troppo assurda, ma si era divertita a raccontarla a suo padre che, se avesse conosciuto meglio il moro, avrebbe capito quanto quell’attività fosse incompatibile con le sue attitudini.
« ... ma deve farlo in qualche organizzazione al di fuori del New Jersey, evidentemente » completò suo padre, con un sorrisetto provocatore.
La figlia sbiancò e lo fissò perplessa.
Scacco matto.
Suo padre aveva vinto la partita e si apprestava a darle pure una lezione di vita:
« non ti ho insegnato Ambra che se proprio devi raccontare una bugia, almeno che sia credibile? » sottolineò « ho richiesto alla mia segretaria di consultare l’elenco dei capi scout e, guarda caso, il tuo amico non configura in nessuna delle liste statali »
La bionda deglutì quel boccone amaro mentre lui si alzava dal tavolo in silenzio, per raggiungere un ripiano in marmo sopra il caminetto; recuperò il proprio cellulare e, dopo qualche gesto con le dita, se lo portò all’orecchio. Nell’attesa di ricevere una risposta dall’altra parte dell’apparecchio, si rivolse alla figlia:
« parlerò con Armin Evans con o senza la tua approvazione »
Abbandonò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle, mentre il pezzo di sformato che era in bilico sulla forchetta di Ambra si era appena sfracellato contro il piatto.
 
Space sollevò gli occhi al cielo, sbuffando frustrato:
« e adesso chi sarebbe questa tizia? »
Sophia indugiò lo sguardo sull’amico, prima di replicare:
« avevi promesso di non farmi domande »
« ma ti ho promesso di aiutarti e se non capisco nulla di questa storia, come faccio? »
La rossa sorrise arrendevole, guardandosi poi attorno. La stazione di San Francisco era stranamente poco affollata quel giorno, lasciando a lei e all’amico la tranquillità per conversare.
Era un giorno importante per l’amico: sarebbe tornato a casa sua, a Mountain Wiew.
La fuga di Space in California era giustificata da una difficile situazione familiare e scolastica, che l’aveva portato a chiudersi sempre più in sé stesso. Un giorno, stanco di quella situazione, aveva deciso di partire, raggiungere un suo zio a San Francisco, ed era lì che aveva conosciuto Sophia Travis, una delle ragazze più eccentriche e misteriose della sua vita.
Si era aperto con lei quasi subito, forse per l’estremo bisogno di un orecchio amico che ascoltasse tutti quei tormenti che aveva tenuto dentro di sé troppo a lungo. Le aveva raccontato del suo sogno di lavorare come ingegnere spaziale per la NASA che, coincidenza o meno, aveva uno dei suoi centri di ricerca proprio nella sua città natale. Il soprannome Space era quindi sorto spontaneo, tanto che a volte Sophia dimenticava quale fosse il suo nome di battesimo.
« sbrigati, il treno sta per partire »
Il ragazzo però, scostando un ciuffo di capelli, insistette:
« sul serio So’, se questa faccenda ti angoscia tanto, dovresti raccontarmi qualcosa in più di quello che sai, così posso aiutarti »
« me la caverò »
« non abbiamo scoperto un tubo insieme, figurati tu da sola che hai la capacità di ragionamento di una medusa »
« fossi così spigliato anche quando sei in mezzo agli altri, la gente non penserebbe che tu sia strano » lo provocò Sophia.
« ha parlato quella normale: ti tieni alla larga dalla zona universitaria solo perché hai paura di incontrare Nathaniel » la sfottè.
« non ho paura! »
Space scrollò le spalle, poco convinto e insistette:
« per essere uno studente liceale selezionato per il programma della HSP, significa che quel tizio ha una bella testa. Dovresti farti aiutare da lui, anche se non mi sta particolarmente simpatico »
« è l’ex di mia sorella! »
« e allora? » sbottò Space, avvicinandosi all’obliteratrice per convalidare il biglietto « Erin non ti aveva detto che non lo sente più? Ti conviene approfittarne finché è a San Francisco »
« ci penserò » mentì Sophia.
Entrambi sapevano quanto fosse radicata quella bugia. Erano settimane che faceva scongiuri affinché quel ragazzo non comparisse alla sua vista, aveva persino saltato gli eventi universitari ai quali normalmente si imbucava, proprio per evitare di trovarselo davanti.
Nathaniel Daniels era diventato la sua ossessione, non c’era giorno che non dedicasse almeno tre secondi del suo tempo a chiedersi che cosa stesse facendo, dopo i quali cominciava a insultare sé stessa per quella fissa. Non solo il ragazzo era già sentimentalmente impegnato, ma lo era pure con la migliore amica di sua sorella; di certo, Erin non aveva bisogno di un altro pretesto per odiare la gemella. Doveva quindi continuare a puntare sulla lontananza, perseverare nel restargli alla larga, sperando che il tempo avrebbe intiepidito quei sentimenti così pericolosi.
« piuttosto Space, quando andrai a New York… » iniziò, seguendolo verso la porta del treno.
« passa per casa mia a prendere il quadro » recitò a memoria il ragazzo « sì, lo so, ma ci andrò più avanti »
« cerca di non tardare troppo, sono stata una scema a lasciarlo ad Allentown »
« se vuoi chiedo a mia sorella se può anticipare di un mese la data del matrimonio a New York, apposta per te » ironizzò, guadandosi un’occhiata glaciale ed irritata:
« sul serio Space, sei tutt’altra persona quando ti si parla a quattrocchi: hai una doppia personalità inquietante »
Il futuro ingegnere sorrise, caricando i bagagli sul vagone. Prima che le porte automatiche si chiudessero, salì e volse un sorriso dolce all’amica:
« mi raccomando, non combinare guai »
« ricordati che mi hai promesso un giro sulla Luna » lo salutò lei con allegria.
Partì un fischio soffocato e si accese una luce rossa: da quel momento in poi non era più possibile scendere dal treno. La porta si chiuse, e Sophia rimase a fissare l’amico oltre la trasparenza del vetro.
Dopo qualche secondo, l’imponente massa del mezzo cominciò a spostarsi. La rossa rimase immobile, a fissare il convoglio che si allontanava da lei, lentamente ma inesorabilmente.
Space era stato il suo primo amico una volta arrivata in California molti mesi prima. Non le aveva mai fatto domande, era un tipo chiuso e riservato e la ragazza aveva apprezzato particolarmente quei lati della sua personalità. Le era stato vicino in un momento difficile, in cui non voleva vedere nessuno ed era riuscito a farlo con una discrezione che non aveva pesato sull’orgoglio della ragazza.
Con il tempo, forse contagiato dall’esuberanza di Sophia, era sensibilmente migliorato nei rapporti sociali, ma per lei rimaneva il solito enigmatico e taciturno ragazzo che, durante le partite in spiaggia, si sedeva in un angolo a leggere libri di fantascienza.
« ti auguro il meglio, Tim »
 
Erano passate due ore da quando la cena alle Twin Towers era iniziata e ormai i conviviali erano a loro agio, immedesimatisi perfettamente nell’atmosfera generale: Amanda e Cindia conversavano amabilmente, nonostante la loro differenza di età, Pam era rapita da Miss Joplin mentre i due uomini, insieme a nonna Sophia, parlavano di politica. Le idee dell’anziana risultavano alquanto buffe in merito, poiché ancorata agli utopici ideali hippy che avevano caratterizzato la sua anarchica giovinezza.
Mentre suo padre era impegnato a tenere a freno l’esuberanza della nonna, Erin si alzò dal tavolo, con la scusa di dover andare in bagno.
Era l’occasione per staccarsi un po’ da loro e ammirare il paesaggio notturno dalla sala principale del ristorante, quella in cui un bravissimo pianista, stava suonando una ballata romantica.
Sfilò accanto agli altri tavoli, senza accorgersi di aver attirato su di sé l’attenzione di un paio di ragazzi, poco più grandi di lei; complice anche la sua ingenua modestia, Erin non aveva realizzato che quella sera, era davvero bellissima.
 
Quando uscì dal bagno, notò la presenza di un acquario poco più avanti, che nel viaggio di andata era sfuggito alla sua attenzione. Più si guardava attorno e più quel ristorante le sembrava magnifico: i tavoli vicino alle vetrate avevano una vista magnifica, i muri portanti avevano un rivestimento ligneo che donava calore all’ambiente e la musica del pianoforte rendeva romantica e disincantata l’atmosfera generale.
Si avvicinò ai pesci, riconoscendone delle varietà tropicali molto rare e colorate. Proprio mentre era accucciata ad analizzare il colore delle scaglie di un pesce pagliaccio, intravide oltre le pareti di vetro dell’acquario, una figura familiare. L’acqua rendeva l’immagine traballante e incerta, così Erin tornò dritta e cercò di mettere a fuoco la sagoma di un uomo seduto poco lontano.
Non era molto alto, anche se sicuramente più di lei e, come la prima volta che l’aveva incontrato, pensò che non fosse particolarmente bello. Tuttavia, anche in quell’occasione, rimase incantata dal magnetismo del suo sguardo, che nonostante la distanza, riusciva a inchiodarla al suolo.  
Lui infatti sembrò averla notata qualche secondo prima, perché aveva un sorriso leggero stampato in volto, quasi a volerla rassicurare circa la sua identità.
Si avvicinò, incredula per quella coincidenza, ma quando fu a pochi metri da lui, non ebbe più dubbi:
« dottor Wright! » lo salutò con eccessivo entusiasmo.
L’uomo che aveva salvato sua sorella da morte certa.
Nessuno sarebbe riuscito a quantificare il debito di riconoscenza che legava la sua famiglia a quel chirurgo.
Frank Wright era entrato nell’ospedale di Allentown, due mesi prima, come l’incarnazione dell’unica speranza che aveva impedito ai Travis di crollare e ne era uscito come un eroe. Si era trattenuto in città per pochi giorni, dopo i quali la famiglia non l’aveva più rivisto ma, Erin ne era certa, quella sera quell’incontro fortuito sarebbe stato particolarmente gradito dai suoi genitori.
« sono… » iniziò la ragazza.
« … Erin Travis » completò l’uomo, con un sorriso misurato « mi ricordo di lei, signorina. Ho operato sua sorella Sophia a dicembre »
La memoria del chirurgo la sorprese, considerando che erano passate settimane e con esse, un discreto numero di casi, dal quell’operazione. Eppure il dottor ricordava perfettamente il suo nome e quello della gemella. Quella circostanza però non era solo da attribuirsi alle indiscutibili capacità intellettuali dell’uomo: Frank Wright non poteva dimenticare quella giovane ragazza e il motivo, era destinata a scoprirlo proprio quella sera:
« come sta? » gli chiese, dopo un’iniziale sbigottimento.
« bene grazie, e lei? »
Era molto formale nel modo di approcciarsi alla ragazza e questo la mise un po’ a disagio:
« non c’è male, sono qui con la mia famiglia, manca solo Sophia »
« capisco » soppesò l’uomo « io invece sono a cena con mio figlio… è andato a fare discussioni con il pianista »
Dopo quella dichiarazione, la ragazza ridacchiò confusa:
« discussioni? »
« sì, dice che quell’uomo stava massacrando lo strumento e le nostre orecchie »
« a me sembrava molto bravo invece »
« è quello che gli ho detto, ma ha la tendenza a non ascoltare mai nessuno, e poi la musica per lui è una faccenda seria »
Erin sorrise, con quella dolcezza come solo il ricordo di una certa persona riusciva a scaturire in lei:
« mi ricorda molto un mio amico » ammise.
Vide Wright trattenere un ghigno, quasi astuto e annunciò:
« ah eccolo, sta arrivando »
Erin si voltò immediatamente, preparandosi psicologicamente a mostrare la propria cordialità e affabilità a quel nuovo ragazzo ma ogni sentimento allegro si spense all’istante sul suo bel viso, sostituito dal più completo sgomento: anche se non era abituata a vederlo agghindato elegante, l’unico individuo di sesso maschile che stava giungendo nella loro direzione in quel momento era Castiel.
Il ragazzo si pietrificò a pochi metri da lei, che lo vide deglutire nervosamente.
Appena Erin si era voltata, aveva sentito mancare due battiti: il primo per lo shock di incontrarla lì, accanto a suo padre, il secondo per quanto era bella quella sera. L’abito nero le fasciava il corpo sottile, mettendo in risalto le sue curve femminili e sensuali, che i vestiti di tutti i giorni celavano allo sguardo. Le ciglia, già lunghe e folte di natura, erano ulteriormente allungate dall’applicazione del mascara nero, rendendo più profondo il colore delle iridi verdi. Nemmeno quando l’aveva vista dal rientro della gita, o con l’abito di scena cucito da Rosalya, Castiel ricordava di essere rimasto tanto affascinato da quella ragazza.
Lei continuava a fissarlo incredula e la sua vicinanza con il padre lasciarono intuire al rosso che ormai la sua parentela fosse stata svelata.
Dal canto suo, Erin capì solo allora perché era rimasta tanto incantata dagli occhi del dottor Wright: erano gli stessi di Castiel, suo figlio.
Quest’ultimo colmò la distanza che li separava, cercando di darsi un contegno per non lasciare intuire ai due l’imbarazzo che tentava di dominarlo.
« t-tu… sei il figlio del dottor Wright? » balbettò Erin. Quella frase era più un’accusa che una constatazione, ed era solo per la presenza del chirurgo che si tratteneva dall’aggredire l’amico.
Il rosso emise un grugnito d’assenso, poi aggiunse:
« tu che ci fai qui? »
In quella frase, Erin si sentì come un’intrusa, come se quella situazione imbarazzante e spiazzante fosse colpa sua.
« sono a cena con i miei… ma… »
Non solo era in difficoltà per la presenza del chirurgo e per lo shock di scoprire che Castiel fosse suo figlio, ma era anche distratta dal ragazzo, vestito con un completo scuro elegante.
Un chitarrista rock come lui, in giacca e cravatta, era un’immagine insolita e, forse anche per questo, decisamente affascinante. Arrossì, abbassando lo sguardo mentre lui, che aveva una certa urgenza nel liquidarla, se ne uscì con:
« non ti conviene tornare da loro? Ti avranno data per dispersa »
Erin mise il broncio, combattuta e disorientata: aveva troppe cose da chiedergli, prima tra tutte, perché le avesse tenuto nascosta quella parentela. Era impossibile che Castiel non sapesse che suo padre aveva operato Sophia. Tuttavia non poteva nemmeno bisticciare davanti al chirurgo, pertanto stava vivendo quel momento come uno dei più combattuti della sua vita. Fu proprio dall’uomo però che le arrivò quell’opportunità che le serviva:.
« signorina Travis, io rimango qui un’altra mezz’oretta, poi se vuole ha tutto il tempo per parlare con mio figlio »
Castiel si irritò sia per quella formalità che per quella proposta ma, prima che avesse il tempo per obiettare, Erin lo anticipò:
« la ringrazio » e, rivolgendo un’occhiata intimidatoria all’amico, lo minacciò sottovoce « poi questa me la spieghi »
 
Mentre Erin si riuniva al resto della famiglia, Castiel si accomodò al suo posto.
« ti togli quel ghigno divertito dalla faccia? » farfugliò, sfidando il padre. Lo innervosiva terribilmente quel modo beffardo e canzonatorio con cui il genitore lo stava fissando, anche se era stato proprio da quest’ultimo che aveva ereditato quella smorfia.
« forse ha ragione tua madre, io e te ci assomigliamo troppo, abbiamo addirittura gli stessi gusti in fatto di donne »
Castiel lo ignorò, ma l’uomo era determinato a non far cadere il dialogo tra di loro:
« cosa hai detto al pianista? »
« se poteva suonare qualche pezzo con pochi virtuosismi »
« pensavo fossi andato lì a dirgli che era un incompetente »
« se tu l’avessi pensato realmente, avresti cercato di fermarmi no? »
Frank ghignò e, soddisfatto di aver trovato un argomento sul quale intavolare un dialogo, insistette:
« quindi in altre parole, gli ha chiesto di suonare dei pezzi più semplici »
« meglio dei pezzi facili e suonati bene, che massacrare dei capolavori » concluse il compositore.
Guardò schifato il bicchiere davanti a lui e commentò:
« la birra è troppo da poveracci? Perché diavolo servono solo vino? »
Di avviso decisamente opposto a quello del figlio, il medico assaporò di buon grado il proprio calice, sorseggiandolo con lentezza. Il colore del liquido era leggermente più scuro di quello dei capelli del figlio, che giusto il giorno prima, aveva recuperato il suo rosso innaturale. Il dottor Wright non aveva fatto alcun commento su quel “ritorno di fiamma”, interpretandolo più come un infantile e non dichiarato tentativo di provocare una sua reazione, che una vera e propria scelta di stile.
Mentre suo figlio si stava scostando un ciuffo ribelle, lo rimproverò bonariamente:
« potevi anche darti una pettinata prima di venire »
« non so come farli stare. Prima quando erano più lunghi stavano giù da soli, invece ora ho i ciuffi che vanno ovunque »
« ti lamenti come una donna »
Castiel sollevò il sopracciglio e sbottò irritato:
« sei tu che mi hai tirato in ballo l’argomento »
« sono tuo padre, è mio dovere assicurarmi che tu sia una persona rispettabile »
« e incontrare tuo figlio tre volte l’anno rientra nei tuoi inappuntabili metodi pedagogici? » lo provocò il musicista, guadagnando come prima risposta un sorriso divertito:
« questa te la sei preparata in anticipo? Inappuntabili metodi pedagogici? » lo schernì il padre, apparentemente indifferente a quell’accusa. Non ottenendo una risposta diversa da un grugnito, il medico proseguì:
« sai Castiel, qualcuno ti definirebbe acido »
Il rosso replicò con una smorfia mentre il padre continuò:
« … e permaloso… del resto tua madre lo dice sempre che hai preso tutto da me il carattere, quand’ero giovane per lo meno »
Per tutta la sera, in più occasioni, suo padre aveva nominato la donna e la cosa era strana, dal momento che di solito, durante le sue visite al figlio, Frank non parlava mai dell’ex moglie. Era ormai palese il suo tentativo di stuzzicare la sua curiosità, di portarlo ad interessarsi a quell’argomento e fu per questo che Castiel decise di assecondarlo.
Lasciò passare qualche secondo di silenzio, poi chiese con finto disinteresse:
« come sta? »
« è di lei che volevo parlarti » ammise finalmente l’uomo, guardando direttamente in faccia il ragazzo. Le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra serrate traducevano una preoccupazione che attendeva di essere sfogata:
« siamo qui da un’ora e mezzo e me lo dici solo ora? » sbottò il figlio, risentito. L’uomo non replicò, né mutò la sua espressione che per contro, divenne più greve.
Sconfitto dalla propria curiosità e ansia, Castiel cambiò strategia e cercò di dimostrarsi più conciliante:
« c’è qualcosa che non va? »
Frank sospirò e si grattò per un attimo le folte sopracciglia, suo tic caratteristico quando doveva affrontare un discorso che gli creava una certa tensione:
« quando l’hai vista l’ultima volta? »
« a novembre »
Se il padre era visibilmente nervoso e recalcitrante nell’andare dritto al punto, il rosso non batteva ciglio, preparandosi mentalmente al peggio. Non poteva considerarsi un figlio modello, non lo era mai stato neanche da bambino, quando all’apparenza erano una famiglia felice. Era sempre troppo distratto e vivace per le sue maestre, troppo indisciplinato per i professori, troppo artista per suo nonno, che vedeva nel suo unico nipote, il futuro erede del patrimonio dei Black.
Se Castiel era cresciuto con la consapevolezza di aver deluso la sua famiglia, nemmeno Tyra, sua madre, poteva dirsi orgogliosa della sua persona: dopo il divorzio, si era lasciata vincere facilmente dai tentativi del figlio di tenerla lontana, senza avvalersi del suo ruolo genitoriale per imporgli un riavvicinamento.
Le sue visite erano diventate sempre più sporadiche e tristi, durante le quali si intratteneva al massimo per ventiquattr’ore a casa di Castiel per poi abbandonare l’abitazione con la sensazione sgradevole di essere stata un’ospite indesiderata.
« e sentita? Se non sbaglio ti telefona una volta a settimana » insistette Frank.
« mi ha chiamato ieri »
« e non ti ha detto niente di particolare? »
A quel punto la pazienza di Castiel aveva quasi prosciugato l’ultima goccia di carburante ed era andata in riserva:
« senti, se non la pianti con questo giri di parole, me ne vado » lo minacciò.
« sta’ calmo, perché devi essere sempre così irruento? » si scaldò a sua volta il chirurgo « comunque sia, prima voglio sentire cosa sai tu della situazione della mamma »
Con quell’ultima dichiarazione, Frank Wright era tornato ad essere il chirurgo di fama nazionale, a cui bastava uno sguardo per zittire e mettere in soggezione gli altri. Castiel odiava quando suo padre usava quel tono con lui, trattandolo come un suo sottoposto, schiacciandolo con la sua ferma autorevolezza; aveva sempre odiato ricevere ordini, era qualcosa che innescava una scintilla di ribellione in lui, ma di fronte al dottor Wright era costretto a sopirla:
« che si è sposata l’estate scorsa con un tizio di nome Cody, ma non l’ho ancora conosciuto »
« e mai lo conoscerai » concluse Wright con voce bassa.
Il busto di Castiel si avvicinò di qualche centimetro verso il suo interlocutore, tirando il collo in avanti come se quella posa lo aiutasse a metabolizzare quello che aveva sentito:
« perchè? »
« Cody è morto il mese scorso, incidente d’auto mentre tornava da un viaggio di lavoro »
Sembrava la descrizione di una cartella clinica: voce piatta e fredda, quasi metallica e atona. Il dottore non lasciò trapelare alcuna emozione, si limitò ad aggiornare Castiel e osservarne la reazione; la gola del musicista si seccò e in un primo tentativo di dire qualcosa, riuscì solo a masticare una frase insicura:
« p-perché non me l’ha detto? »
Era una notizia troppo grave e importante per essere taciuta. Era successo mentre lui era a Berlino, ma per sua madre sarebbe corso in America. Era ironico che le donne più importanti della sua vita, in quei due mesi, gli avessero fornito dei validi pretesti per tornare. Tuttavia, mentre Erin non aveva esitato a cercare il suo conforto, Tyra si era tenuta tutto dentro. Capiva il perché avesse reagito così, lui avrebbe fatto lo stesso al posto suo, del resto era un lato del carattere che aveva ereditato dalla madre.
Cominciò a sentirsi in colpa per non aver mai cercato la donna mentre era a Berlino, per essersi fatto assorbire completamente dalla sua musica e dal suo, ridicolo e fallimentare, tentativo di dimenticare Erin. Se solo avesse provato a chiamarla almeno una volta, avrebbe forse colto nel suo tono di voce quella punta di dolore che la dilaniava?  
« Tyra non te l’ha detto perché non voleva che ti preoccupassi, oltre a trovarlo un gesto egoistico da parte sua: sosteneva di non avere alcun diritto di cercare la tua compassione Castiel »
« avresti dovuto dirmelo tu allora. Perché hai aspettato tutto questo tempo? »
« è stata lei a chiedermelo. Così abbiamo pattuito che te l’avrei detto una volta tornato da Berlino e fortunatamente hai anticipato il rientro »
« dovevi dirmelo » ripetè Castiel « non sono un ragazzino »
« gliel’ho detto, ma sai come è fatta la mamma… è testarda » sospirò Wright, scuotendo il capo.
« senti chi parla » pensò tra sé e sé il figlio, sollevando il sopracciglio.
Scrutò suo padre, che sembrò assentarsi mentalmente dalla sala: aveva uno sguardo perso nei propri pensieri, un’espressione serena, che era da tempo che non addolciva i tratti sul suo viso. Una volta, solo il pensiero di Tyra riusciva a evocarla, unita ad un sorriso innamorato e tenero. Che suo padre amasse ancora sua madre, era un sospetto fin troppo fondato, ma si univa all’amarezza del figlio nel sapere che quei sentimenti non erano corrisposti.
« vedi Castiel, il fatto è che tua madre teme il tuo giudizio. È convinta che, dopo che avrai saputo come stanno le cose, la odierai ancora di più di quanto tu già non faccia »
« ma io non la odio! » sbottò istintivamente il figlio. Tanto lui quanto suo padre, si sorpresero per quell’uscita così spontanea; certo, gli atteggiamenti del ragazzo avevano sempre tradito insofferenza e rancore verso quella donna che non era stata abbastanza forte da restargli accanto; del resto, lei era riuscita a disintegrare l’unica cosa che per il rosso contava più della sua musica: la famiglia. Eppure, il Castiel che era tornato dalla Germania sentiva che quei sentimenti si stavano affievolendo e desiderava solo tentare una riconciliazione. 
« lo so » gli sorrise il padre, quasi con gratitudine « è per questo che te ne sto parlando io e non lei. C’è un’altra cosa che non ha avuto il coraggio di dirti e a questo punto, mi prendo io la responsabilità di farlo »
Castiel soppesò quelle parole senza battere ciglio, cominciando a vagliare una serie di ipotesi su quella possibile rivelazione, in modo da incassare bene un eventuale colpo:
« quando sposò Cody, lui era vedovo e aveva una figlia »
Non aveva avuto sufficiente preavviso per contemplare una simile possibilità, per cui appena la parola “figlia” raggiunse i suoi timpani, gli occhi del ragazzo si dilatarono per lo stupore. Era scontato che sua madre avesse paura a raccontargli quel dettaglio della sua vita e non era necessario chiamare in causa un qualche potere collegato all’istinto materno, per prevederlo.
Mentre il musicista cercava di nascondere al meglio il proprio turbamento, il dottor Wright proseguì:
« sposandolo, tua madre è diventata la tutrice legale di questa bambina, rimasta ora orfana dei suoi genitori biologici. Ha appena nove anni e anche se sa di non avere un legame di sangue con Tyra, la chiama comunque mamma »
« quindi ho una specie di sorellastra? »
« è una sorellastra a tutti gli effetti » confermò Wright, annuendo con gravità « tua madre teme che, ora che sai la verità, tu possa avercela con lei perché, paradossalmente, sta crescendo un figlio non suo quando non è riuscita a crescere te, che sei sangue del suo sangue »
Era una sintesi efficace della preoccupazione principale di Tyra e, sicuramente, suo figlio non poteva che comprenderla: non era stata capace di restare accanto all’essere che aveva partorito, ma stava tentando di farlo con una bambina con cui non condivideva nessun legame biologico. Nonostante comprendesse a pieno la logica sottostante il senso di colpa di sua madre, non era la rabbia a dominare Castiel: era basito.
Era abituato ad essere figlio unico, talmente unico che da qualche anno viveva in completa solitudine, senza genitori e libero da condizionamenti. Anziché offendersi per il silenzio di Tyra, anziché interpretarlo come indifferenza nei suoi confronti, il rosso lesse la sofferenza della donna, il terrore che con quella rivelazione, avrebbe reciso anche l’ultimo debole legame con lui. Sicuramente era un ragazzo orgoglioso e scontroso, ma sua madre doveva credere in quella bontà d’animo che aveva sin da bambino, la stessa che lui cercava di celare agli altri e che solo lei e Nathaniel erano riusciti a scorgere. Castiel non odiava sua madre, né le serbava acrimonia. Ne aveva solo pena. Avvertì che qualcosa era scattato in lui, non era più un ragazzino rancoroso e ferito dalle decisioni dei suoi genitori, era in grado di affrontare quella notizia con la dovuta maturità. Se sua madre era troppo fragile per sopportare la sua reazione, lui sarebbe stato abbastanza forte da alleviare quel peso che le gravava sulle spalle, rendendole tutto più facile.
Frank non aveva staccato gli occhi di dosso da suo figlio per un istante, interpretandone con scrupolo ogni battito di ciglia e smorfia delle labbra. Castiel era pensieroso e taciturno, imperscrutabile.
« ma come? Non dici nulla? » domandò infine, esasperato da quel mutismo.
Il rosso sollevò finalmente lo sguardo e, con tono neutro, gli chiese semplicemente:
« come si chiama? »
« Hailey »
Annuì pensieroso, mentre il genitore lo fissava con crescente perplessità e timore, giustificato dall’imprevedibilità per cui il figlio era famoso. Era convinto che si sarebbe inalberato, che avrebbe accusato lui e sua madre di fregarsene di lui eppure Castiel sembrava tranquillo.
« e l’altra condizione? »
Il chirurgo aggrottò le sopracciglia, preso in contropiede da quel cambio di argomento, così il musicista precisò:
« mi hai detto che saresti venuto in America ad operare Sophia solo se accettavo un paio di condizioni: la prima era la cena e questa l’ho rispettata… l’altra? »
Il viso dell’uomo si distese, anche se non riusciva ad accantonare la sua perplessità di fondo: suo figlio era cambiato profondamente ma al contempo impercettibilmente. Era sì rimasto burbero e scontroso, ma aveva imparato a reagire con più maturità e diplomazia quando il contesto richiedeva queste qualità.
« va’ a trovare tua madre, Castiel »
Doveva aspettarselo. In realtà, sin da quando Frank gli aveva accennato a due condizioni da rispettare, il ragazzo aveva intuito che c’entrasse sua madre, ma alla luce delle confessioni di quella sera, quell’incontro si sarebbe rivelato completamente diverso dai precedenti. Incontrare sua madre significava entrare nella vita di quella bambina sconosciuta, con la quale non aveva alcun legame che non fosse di natura burocratica. Ignaro dell’importanza che da quel momento in poi, avrebbe avuto Hailey Thomas nella sua vita, Castiel si limitò a sospirare e chiedersi quanto sarebbe stato difficile per lui relazionarsi a quella nuova sorellina.
 
« non c’erano altri pub migliori di questo? » commentò Kim guardandosi attorno indispettita.
Le passò accanto un’avvenente cameriera, vestita con una divisa in stile maid molto succinta, tipica del locale. La clientela infatti era per lo più rappresentata da maschi, facendo sentire la velocista a disagio.
L’arredamento ricordava un pub inglese, ma le cameriere che vi lavoravano indossavano un grembiule bianco su un vestito nero che ricordava i maid cafè del Giappone.
« è stata un’idea di Wes » si giustificò Dajan, che non era mai stato prima in quel posto. Tanto lui quanto Trevor ne erano rimasti piacevolmente sorpresi, ma la presenza delle rispettive compagne impedì loro di godersi la vista delle attraenti ragazze in divisa.
« perché Erin non è venuta? » domandò Trevor, seguendo con lo sguardo una gonnella nera. Brigitte lo scrutò con gelosia, mentre Kim rispondeva:
« ha detto che aveva un appuntamento »
« un appuntamento? » le fece eco il ragazzo « anche Black mi ha detto la stessa cosa! Non è che sono usciti insieme e non ce l’hanno detto? »
« saranno fatti loro » lo zittì Brigitte, irritata da quell’argomento.
Lei e Trevor stavano insieme da più di due mesi, nell’arco dei quali la comprensione dell’inglese da parte della quebecchese era notevolmente migliorata. Ormai non le sfuggiva nessuna frase, nessuna battuta del suo ragazzo ma quel progresso, anziché rappresentare una svolta positiva al loro rapporto, sembrava sortire l’effetto contrario. Spesso i commenti del cestista la irritavano, li trovava superficiali e frivoli e, paradossalmente, Trevor pensava la stessa cosa di quelli della ragazza. Tra i due tuttavia non c’era mai stato un dibattito in merito, continuavano a far finta di nulla, come in attesa che uno dei due facesse il primo passo. Trevor non si curò della freddezza di Brigitte e proseguì:
« allora, chi è che non viene alle Bahamas? »
Dajan strinse le palpebre, nello sforzo di ricordare e tamburellò le dita sul tavolo in legno massiccio:
« eh parecchi: Steve, Clinton, Gordon e Liam »
« come mai? » si interessò Kim.
« Steve ha sua mamma in ospedale, Clinton e Gordon in quei giorni sono in gita con la loro classe e Liam non si sa »
« e con i loro quattro posti che facciamo? » soggiunse la cestista.
« potremo chiamare qualcuno. Erin vorrebbe chiedere ad Iris e Rosalya »
« ottimo, siamo a corto di ragazze! »
Quella di Trevor voleva essere una battuta leggera e senza malizia, ma Brigitte non era dello stesso avviso:
« come sarebbe a dire? » si infuriò, mentre la sua voce diventata più acuta.
« stavo scherzando » borbottò il ragazzo infastidito « perché devi sempre scaldarti per niente? »
Kim e Dajan si scambiarono un’occhiata fugace, sentendosi a disagio. Non era la prima volta che Brigitte era di pessimo umore, nelle ultime settimane non c’era uscita serale in cui non discutesse con il loro amico. In quelle occasioni Trevor, anziché tentare di sopire la sua irritazione, sembrava voler fomentarla.
La ragazza sbuffò indispettita e si alzò di scatto:
« vado in bagno »
Si allontanò velocemente, lasciando i tre perplessi per la scontrosità del suo atteggiamento.
Fu Kim la prima a spezzare il silenzio e a rivolgersi direttamente all’amico:
« ehi Trev, tutto a posto tra di voi? Ultimamente mi sembra un tantino… nervosa? »
« ma che ne so! La infastidisce tutto » minimizzò, evidentemente disinteressato alla questione.
« a me sembra che sia tu a infastidirla » obiettò Dajan.
Il ragazzo sollevò le spalle e, sospirando rassegnato, confessò:
« non funziona più vecchio. Più capisco quello che dice, e più la trovo superficiale e vuota »
Sorpresi da quell’uscita, Kim e Dajan si guardarono sorpresi; conoscevano entrambi il cestista da parecchio tempo e nessuno dei due era abituato a leggere tanta serietà ed amarezza in quegli occhi color caramello. Sia il capitano della Atlantic che la sua ragazza, in realtà, non avevano mai creduto a fondo nella relazione tra Trevor e Brigitte, giudicandola improntata solo su una grande attrazione fisica, destinata a esaurirsi con il tempo. Eppure, il ragazzo sembrava sinceramente dispiaciuto per la piega che aveva preso il suo rapporto, più di quanto avrebbero mai immaginato. Lo videro sfogliare sovrappensiero il menù cartaceo, finché una voce familiare li distrasse tutti e tre:
« ehi » li salutò Steve. Il rosso era seguito da Liam, che aveva appena riposto il cellulare nella tasca dei jeans.
« e gli altri? » domandò il capitano.
« Wes è rimasto senza benzina, ma stanno arrivando » spiegò il biondo, sedendosi accanto a Trevor.
« ma non doveva esserci anche Brigitte? » chiese Steve, fissando quest’ultimo.
« è in bagno » replicò piatto l’ala.
« Castiel viene? » incalzò Liam.
« ha un appuntamento con Erin » borbottò Trevor, con mezzo sorriso.
« maddai! Quindi escono insieme? » esclamò Steve, sorpreso che Erin non l’avesse aggiornato su una simile notizia. Del resto il centro era uno dei cestisti con cui la ragazza aveva legato di più e quasi si risentì di non essere a conoscenza di una simile evenienza.
« è solo una sua supposizione » chiarì Kim, raffreddando gli animi.
« beh, prima o poi succederà » sentenziò l’ala grande « ci scommetto la mia raccolta di soldatini »
Nonostante fosse un hobby un po’ strano, Trevor, era fiero della sua collezione di statuine di piombo, alcuni dei quali avevano un valore economico ingente:
« io non scommetto più nulla con te » farfugliò il capitano.
« ma come? Se sono stato così gentleman da non pretendere la riscossione del premio, l’ultima volta! »
Dajan fece una smorfia, mentre Kim si incuriosì, desiderosa di approfondire quella questione di cui era completamente all’oscuro:
« di che sta parlando? »
« ah, è quella scommessa che avete fatto in autobus? »
I cinque si voltarono, vedendo giungere Wes, assieme a Clinton e Gordon.
Dopo un rapido scambio di saluti, costituito principalmente da cenni e grugniti, Dajan spiegò a Kim:
« il giorno di San Valentino, Trevor ha scommesso che se non ti avessi dato il regalo che ti avevo comprato, si sarebbe preso il titolo di capitano »
Gli occhi della velocista diventarono due fessure e si irritò:
« e voi mi usate per le vostre scommesse idiote? »
Lanciò quell’accusa anche all’amico Trevor, che scrollò le spalle, indifferente al risentimento della ragazza.
« beh, in palio c’era Kiki con la cresta » rise Wes « dai Trevor, l’ultimo giorno di scuola, dobbiamo farlo! Quel cagnaccio se lo merita »
Ignorando la proposta della guardia, l’ala disse:
« beh ma alla fine non se n’è fatto nulla Kim: la mia era solo una provocazione perché Dajan si desse una mossa, non mi interessa essere il capitano della squadra »
« come vedi, me la sono cavata anche senza di te » replicò l’amico, avvicinando Kim a sé. Le cinse le spalle, facendola sorridere teneramente sotto gli occhi dei ragazzi e dimenticarsi della leggera irritazione che l’aveva colpita. Sentiva un formicolio alla pancia quando Dajan, incurante della presenza degli amici, cercava il suo contatto: se in un primo momento i due erano in imbarazzo per quelle piccole manifestazioni di affetto, con il passare dei giorni ogni gesti diventava sempre più naturale e spontaneo.
« sì, ma quanto ci hai messo? Era da un anno che le sbavavi dietro » lo punzecchiò Trevor. La velocista sgranò gli occhi, arrossendo stupefatta: si voltò verso il suo ragazzo, cercando una conferma che, seppur indiretta, non tardò ad arrivare:
« smettila di sputtanarmi Trev »
« non ti vergognare boss » lo esortò Wes « tu almeno la tipa ce l’hai adesso. A proposito di ragazze, è vero che verrà anche Rosalya alle Bahamas? »
« Erin glielo deve chiedere lunedì » spiegò Steve « e poi scusa Scottdale, perché ti sei tanto incaponito con Rosalya? L’ultima volta in palestra ti ha mandato a cagare »
« perché ho sbagliato l’approccio » non demorse la guardia « con lei bisogna avvicinarsi quatti quatti, come un gatto che fiuta una farfalla »
« e tu saresti il gatto? » lo schernì Gordon.
« se lui è il gatto, Rosalya è la pantera che se lo mangia » aggiunse Clinton.
Mentre i cestisti si divertivano a deridere il compagno, Kim s’intromise:
« e se ti dicessi che Rosalya sta con Nathaniel? »
Videro la bocca della guardia deformarsi dallo stupore e le pupille dilatarsi. Quella notizia investì Wes con la potenza di un tornado, lasciando dietro di sé uno scenario desolante:
« mi stai prendendo per il culo? » mormorò tra l’incredulo e l’offeso.
« no, me l’ha detto Erin » replicò Kim tranquilla.
« da quando? »
« qualche settimana »
In quel momento un bicchiere era caduto da un tavolo, andando in frantumi e producendo un rumore molto simile al frantumarsi delle speranze romantiche, e non solo, del ragazzo.
Rosalya White, la ragazza più bella della scuola, era già occupata.
Anziché dar prova di solidarietà e cameratismo, i compagni scoppiarono a ridere, sottovalutando quanto quella notizia avesse ferito il poveretto.
Prima la delusione con Dake e poi Rosalya.
« eddai, non fare il melodrammatico… e poi, senza offesa amico, ma non era alla tua portata » sdrammatizzò Trevor, dandogli una portentosa pacca sulla spalla.
« stai dicendo che sono brutto? » mugolò il ragazzo, risultando alquanto comico.
« mica ti aspetti che venga a dirti io che sei un figo » ribatté Trevor.
« eh-eh »
Ad interromperli era stato un colpo di tosse secco, verso decisamente sforzato a sottolineare un tentativo irritato di attirare l’attenzione. Il gruppo di amici alzò gli occhi all’unisono verso la cameriera che aspettava, evidentemente spazientita, di ricevere gli ordini.
« se voi due avete finito di scambiarvi moine, che ne direste di ordinare? » annunciò seccata.
Trevor e Wes, che erano i più vicini alla ragazza, bloccarono lo sguardo all’altezza del prosperoso seno che si trovava a pochi centimetri dai loro visi. Non solo la natura era stata particolarmente generosa con quella ragazza, ma anche la divisa che le era imposta dal luogo di lavoro contribuiva a solleticare le fantasie e le pulsioni dei due diciannovenni, in piena tempesta ormonale. I due non furono gli unici a notare quel ben di Dio, ma se non altro il resto della squadra ebbe la decenza di guardare in faccia la cameriera; aveva un viso ovale, reso ancora più magro dai lunghi capelli color caramello che le incorniciavano il volto. Le labbra a bocciolo erano decorate da un tratto di rossetto, leggermente sbavato agli angoli della bocca. La fronte era tesa, nell’evidente e malriuscito sforzo di non far trasparire l’irritazione di una persona che viene ignorata: erano venti secondi buoni infatti che sostava davanti a quel tavolo e nessuno di quei coetanei si era accorto della sua presenza. 
« intendete prendere qualcosa, o facciamo notte? » incalzò bruscamente.
« Jordan! »
Il rimprovero era giunto alle spalle della ragazza, che non si voltò nemmeno a controllare chi ne fosse l’autore. Sollevò gli occhi al cielo, cercando di trattenere il nervosismo e sfoderò un sorriso talmente innaturale da risultare brutto:
« sorry » borbottò senza la minima convinzione. Sapeva di avere Lucy, il suo capo, con il fiato sul collo, ma quel giorno in particolare non ce la faceva a fingere di essere servizievole e consenziente. Aveva altro per la testa e dover sopportare dei ragazzi irrispettosi come quelli che aveva davanti, metteva a dura prova la sua buona volontà. Detestava quando i clienti, specialmente i più giovani, la ignoravano, come se fosse una parte del mobilio del locale. Era quasi peggio di quando si imbatteva nei pervertiti che le fissavano le tette.
Conosceva di vista Liam, pertanto immaginava che quelli seduti al tavolo fossero tutti studenti della scuola più esclusiva della città, la Atlantic High School, conosciuta dai più come il Dolce Amoris. Il liceo privato più finanziato e ammirato di Morristown.
« un giro di birre medie per tutti » ordinò Kim, prendendo in mano la situazione, e guardando glaciale gli amici attorno al suo tavolo.
« abbiamo la Kona, Adams, Redhook, Sierra Nevada… » cominciò ad elencare Jordan con voce metallica e atona.
« va bene la Redhook. Ordiniamo più tardi per il cibo »
La cameriera si liquidò in fretta e furia, seguita a poca distanza dall’ombra di Lucy, che aspettava solo il momento giusto per rimproverarla.
« oddio, mai viste due tette così! » commentò Wes sconvolto, sollevato di poter esternare il suo stupore. Era bastata quella visione paradisiaca per fargli dimenticare di Rosalya e della sua infatuazione non corrisposta.
« questa è l’ultima volta che vengo qui con voi! » si innervosì Kim « che figura di merda che ci avete fatto fare! »
« tu Kim non puoi capire… » sentenziò serafico Trevor, ancora inebetito.
« siete due pervertiti, ecco cosa capisco »
« perché? » si indispettì una voce inacidita.
Brigitte era rientrata dal bagno, di umore anche peggiore di quando aveva lasciato il tavolo.
« c’è una qui con due tette così! » esclamò stupidamente Wes, imitando la forma di un seno.
« parla piano almeno! » lo rimproverò Kim, sempre più a disagio.
Il sopracciglio di Brigitte si sollevò, e passò a squadrare in cagnesco il suo ragazzo; tornò ad occupare il posto accanto a lui, sibilandogli piccata:
« non dovresti guardare le altre »
« che cosa posso farci se non sono cieco? »
« in certi momenti vorrei che fossi muto » rimbeccò l’altra, infastidita da quella risposta.
« e io sordo »
Persino per un ragazzo spensierato e paziente come lui diventava difficile far fronte all’acidità della canadese: Brigitte era sempre più suscettibile e permalosa, non prendeva niente alla leggera e sembrava che la sola vicinanza del suo ragazzo le provocasse fastidio; scattò in piedi, lasciando senza parole i presenti e dichiarò:
« me ne torno a casa! »
« fa’ come ti pare » biascicò lui, mentre un’altra cameriera stava distribuendo dei boccali di birra.
Mentre Brigitte si allontanava, Kim calciò la gamba dell’amico, esortandolo:
« Trevor, non fare il coglione! » e inclinò la testa verso la fidanzata in fuga, che si stava facendo strada tra i tavoli. Ci fu uno scambio di sguardi tra lui e l’amica e alla fine vinse la determinazione di Kim: sbuffando scocciato, l’ala si alzò, accingendosi a raggiungere Brigitte.
« permalosa la canadese » scherzò Wes, trangugiando una sorsata di birra.
« diciamo che Trevor un po’ la provoca » si schierò la velocista, mossa dalla solidarietà femminile.
« le ha solo guardato le tette Kim » intervenne a sua volta Dajan « non mi sembra un dramma »
La cestista corrucciò le labbra e, prima che il cervello avesse il tempo materiale per ponderare le parole che si accingeva ad usare, sbottò:
« quindi per te non c’è nessun problema se mi mettessi a fissare il pacco di Wes? »
I ragazzi scoppiarono in una risata goliardica e grassa, mentre la ragazza stessa che aveva pronunciato quella battuta avvampava per la sua mancanza di pudore.
Dajan arrossì e, lanciando un’occhiata truce alla sua ragazza, borbottò in difficoltà:
« se la metti su questo piano, preferirei evitassi… e poi ti sei scelta proprio un pessimo soggetto »
« guarda pure quanto ti pare Kim! » rise sguaiato Wes, gesticolando platealmente in direzione del suo inguine, ma in quel mentre ricevette un calcio sia dalla diretta interessata che dal suo ragazzo.
 
« io vado » mormorò il dottor Wright. Si alzò dalla sedia con un sorriso compiaciuto, che tuttavia cercò di non palesare troppo al figlio: ormai la sua serata si era conclusa e non poteva che dirsi soddisfatto. Era riuscito a parlare a Castiel della morte di Cody e dell’esistenza di Hailey, senza che andasse in escandescenze. Apparentemente, sembrava aver metabolizzato bene la notizia, più di quanto il medico osasse sperare.
« non aspetti il dolce? Perché l’hai ordinato scusa? »
« ma per la tua amica, ovvio » replicò Frank con un ghigno sornione.
« non farti strane idee » arrossì irritato il musicista. Determinato ad approfondire la questione, il padre insistette:
« allora mi dici come dovrei interpretare la tua telefonata, mentre in Germania era notte fonda, in cui mi hai chiesto di prendere il primo volo per New York e raggiungere l’ospedale di Allentown? »
Castiel dapprima si irrigidì, poi spostò lo sguardo verso il panorama alla sua sinistra:
« io rispetterò i patti e andrò da mamma, ma tu evita di fare troppe domande » bofonchiò infine.
Il chirurgo non si scompose e sistemò la sedia sotto il tavolo. Fissò per un’ultima volta quel ragazzo cresciuto troppo in fretta e da cui si era allontanato per troppo tempo. Negli ultimi anni, Castiel era cresciuto molto in altezza, superandolo di svariati centimetri. Il viso paffuto e imberbe di ragazzino, aveva ormai i connotati di un giovane uomo, fisionomie che il dottor Wright stentava ad attribuirgli: i suoi occhi di padre lo vedevano ancora come un bambino vivace e chiassoso, con una vocina acuta e polemica. Con gli anni, aveva accentuato tratti del carattere che solo suo padre poteva capire, poiché li condividevano, come l’orgoglio e la riservatezza. Il rosso non gli avrebbe parlato di Erin Travis, per lo meno non quella sera.
« l’avrei operata comunque Castiel, anche se non avessi accettato le mie condizioni »
Disse quella frase senza guardarlo in faccia, sapendo che comunque non avrebbe incrociato gli occhi grigi del figlio. Quest’ultimo infatti, senza distogliere la sua attenzione dalle luci della città, borbottò apatico:
« perché sei un medico »
« no » lo corresse Wright « perché me l’hai chiesto tu »
 
Nonna Sophia fu la prima ad accorgersi della figura che stava giungendo ma poiché non aveva mai visto prima il dottor Wright, lo etichettò come un comune cliente. Per tale motivo, si sorprese non poco quando quell’uomo dall’aria così distinta si fermò al loro tavolo, rivolgendo ai presenti un cenno cordiale:
« buonasera signori »
La reazione più violenta fu quella di Amanda, da sempre molto emotiva e sensibile, che si portò una mano alla bocca sconvolta:
« dottor Wright! »
Anche suo marito strabuzzò gli occhi incredulo, per poi balzare in piedi, come se si fosse presentato davanti il presidente Obama.
« non voglio disturbare la vostra cena » li freddò il chirurgo, facendo cenno a Peter di mettersi comodo « ma avendovi visti qui, volevo solo farvi un saluto »
« è qui per lavoro? » domandò Pam.
« no, sono qui con mio figlio »
« Castiel è ancora qui? » intervenne Erin, calamitando l’attenzione dei presenti, che la squadrarono interdetti.
« è-è il padre di Castiel? Il tuo amico? » chiese la zia.
Pam non era l’unica ad essere rimasta spiazzata da quella notizia. Peter era come sbiancato e aveva iniziato a fissare l’uomo, nel tentativo di ravvedere nel suo viso una qualche somiglianza con il rosso.
Erin aveva annuito orgogliosa, alzandosi in piedi proprio nel momento in cui suo padre tornava a sedersi.
« se non le dispiace, vado da suo figlio » si scusò, senza curarsi dei parenti.
« dov’è che vai? » ripetè Peter, recuperando un po’ di autorità e colore.
« da Castiel. È seduto nell’altra sala. Tanto qui abbiamo finito no? » lo liquidò la figlia, ansiosa di abbandonare il tavolo per raggiungere quello del ragazzo.
« tra mezz’ora torniamo a casa » chiarì l’uomo.
« allora prenderò un taxi »
Pam e Amanda sorridevano divertite tra sé e sé nel constatare i goffi tentativi di Peter di impedire ad Erin di restare da sola con il ragazzo; del resto, erano in uno dei ristoranti più chic e romantici della città, a centinaia di metri dal suolo, con uno skyline da mozzare il fiato.
A perorare la causa della studentessa, intervenne la seconda figura paterna presente al tavolo, il dottor Wright, che diversamente da Peter, appoggiava e sperava in una futura relazione tra i due ragazzi:
« non si preoccupi signor Travis, ho lasciato la mia macchina a Castiel, si arrangerà lui a dare un passaggio a sua figlia »
Ci fu uno scambio silenzioso di sguardi tra i due uomini, come se l’uno fosse impegnato nel leggere la mente dell’altro: pur avendo solo un figlio maschio, Frank comprendeva l’istinto protettivo di Peter, che per contro sentiva che doveva mettere da parte la propria gelosia paterna. Il chirurgo lo fissava con intensità, abituato ad imporre agli altri la sua volontà con una diplomatica fermezza.
Quando più di due mesi prima suo figlio l’aveva contattato, Frank era rimasto piacevolmente sorpreso: non era da Castiel rivolgersi a lui in caso di necessità, pertanto non intendeva lasciarsi sfuggire la possibilità di aiutarlo. Il suo stupore mutò ben presto in una piacevole perplessità nello scoprire che il favore andava fatto ad un’amica del figlio, la cui sorella era rimasta vittima di un violento incidente.
« non mi stai chiedendo una cosa da poco Castiel » aveva ammesso suo padre, nel soppesare la responsabilità che si sarebbe assunto « da quello che intuisco si potrebbe trattare di un’operazione molto delicata. Posso informarmi e sentire i dettagli, ma prima di allora non me la sento di promett- »
«-ntante »
Dall’altra parte della cornetta una frase era stata pronunciata come un sussurro, tanto che il dottore stava per chiedere al musicista di ripetere, quando lui ribadì con voce leggermente incrinata:
« Erin è importante per me »
Wright non aveva voluto sentire altro. Aveva un solo rammarico: non poter vedere l’espressione di suo figlio mentre, per la prima volta in vita sua, ammetteva di aver trovato una persona che gli stesse a cuore.
Il caso aveva voluto che, poche ore dopo, il dottor Hogan, suo ex collega, lo avesse contattato proprio per interpellarlo sul caso di Sophia Travis, scoprendo che in realtà Frank ne era già a conoscenza. Il dottor Wright spiegò sommariamente la situazione, chiedendo all’ex compagno di università di non riferire alla famiglia della ragazza che suo figlio l’avesse contattato, come gli era stato chiesto da Castiel.
Nonostante la tragicità delle circostante, Frank vedeva nell’operazione che aveva affrontato, quel ponte per ricongiungersi al ragazzo; da tempo ormai il suo pessimismo l’aveva convinto che il loro rapporto si fosse deteriorato e corroso fino ad un punto di non ritorno. Mese dopo mese, Castiel appariva sempre più cinico e schivo nei suoi confronti e nemmeno la presenza di Debrah nella sua vita, era riuscita ad alleviare un po’ della sua scontrosità. Con la rottura di quella relazione poi, il caratteraccio del musicista era addirittura peggiorato, poiché si era chiuso ancora di più in se stesso.
« Erin è importante per me »
Faticava ancora a credere che quelle parole fossero realmente uscite dalla bocca di suo figlio.
Era lo stesso ragazzo che, anzichè chiedergli i soldi per la vacanza a Cuba due anni prima, aveva preferito lavorare tutto l’anno in un ristorante come lavapiatti?
Quanto doveva essere centrale la presenza di quella ragazza, se aveva accantonato l’orgoglio e gli aveva chiesto aiuto? Quanto poteva averlo cambiato, se era davvero di Castiel la voce accorata e combattuta che aveva udito?
« Erin è importante »
Con quella sorta di mantra che riecheggiava nella sua mente, il dottor Wright aveva raggiunto l’ospedale di Allentown e, dopo un equivoco all’accettazione, era stato condotto nella stanza di Sophia.
Aveva visto una ragazza giovane, troppo per permettersi un fallimento nell’operazione. Non aveva dato dimostrazione del suo turbamento, ma aveva preferito allontanarsi dallo staff per poter riflettere in solitudine.
Ed era in quei corridoi deserti che l’aveva vista.
Un viso uguale a quello che si era appena lasciato alle spalle, con la differenza che la ragazza davanti a lui era cosciente e piena di vita. La vide interessata a fissare dei poster, elementi considerati più d’arredo che d’informazione dai pazienti. Eppure lei leggeva ogni riga con interesse, senza accorgersi della sua presenza.
Aveva un fisico minuto e un’espressione curiosa e attenta. Faceva quasi tenerezza per il modo in cui si allungava sulle punte per leggere la parte alta di quei manifesti.
Era lei Erin.
Se non fosse stato per la somiglianza con la gemella, Frank non avrebbe mai potuto individuare in lei la ragazza di cui era innamorato suo figlio.
Erin infatti emanava un’aurea di candore e innocenza che la facevano apparire quasi serafica. Non aveva nulla di quello spirito di ribellione e anarchia che caratterizzavano la precedente ragazza di Castiel, Debrah.
Erin Travis era semplicemente dolce ed educata e quando incrociò il suo sguardo gentile ma vivace, Frank non ebbe più dubbi: era quella la ragazza che aveva sempre desiderato per suo figlio. Parlandole poi, lei non fece che confermargli l’ottima impressione che aveva avuto, rammaricandosi di non poterle dire chi fosse il suo mandante.
Quella sera a cena, aveva cercato di rispettare il riserbo di suo figlio, anche se avrebbe voluto indagarne la situazione sentimentale e capire qualcosa in più sul suo rapporto con Erin. Sapeva che non sarebbe riuscito a scucirgli alcuna indiscrezione, così si era rassegnato a fornire ai due ragazzi l’opportunità per stare un po’ da soli. Indagando l’espressione felice di Erin, Frank ricevette la gratificazione che aspettava: la ragazza era scattata in piedi e, dopo essersi scusata con i suoi ospiti, era trotterellata via.Via, verso Castiel.
 
Brigitte aveva spinto la pesante porta di vetro del locale, urtando una ragazza dall’altra parte; non si era scusata e aveva continuato ad allontanarsi in fretta, lasciandosi alle spalle il borbottio dell’offesa.
Non voleva essere seguita, ma sapeva che Trevor l’avrebbe raggiunta di lì a pochi minuti. Era ancora troppo nervosa, troppo irritabile per affrontarlo, ancora troppo confusa per accettare con razionalità quella snervante condizione.
Tre settimane di ritardo, lei che era sempre puntuale come un treno giapponese.
L’eventualità di una gravidanza, l’aveva portata a riconsiderare la sua relazione con l’americano da un altro punto di vista, diverso dalla spensieratezza che l’aveva spinta a mettersi con lui: avere un bambino significava chiedersi se fosse davvero lui l’uomo con cui passare il resto della sua vita, costruire quella famiglia che, a vent’anni, non rientrava tra i suoi progetti imminenti. Era troppo giovane per essere madre, e troppo poco innamorata di Trevor per pensare a sposarlo.
Era stata superficiale a sottovalutare i rischi che correvano ogni volta che si lasciavano trascinare dalla passione, del resto il suo rapporto con il ragazzo era basato soprattutto su quell’incontenibile attrazione fisica che con il tempo si era affievolita. Se ne era resa conto da poche settimane, mentre all’inizio pensava davvero di poter chiamare amore il sentimento che la legava a lui.
« si può sapere che ti è preso? » le abbaiò contro il coresponsabile della sua pena.
Brigitte si voltò di scatto, rabbiosa:
« vattene »
Trevor corrugò ulteriormente la fronte e la provocò:
« hai le tue robe? »
« magari! » urlò quasi lei, sollevando gli occhi al cielo.
Il ragazzo non colse immediatamente il senso di quella risposta, ma poiché lei non aggiungeva altro, cominciò a scrutarla attentamente: Brigitte aveva gli occhi tristi e resi lucenti da lacrime di amarezza accusatoria. Qualcosa era cambiato in lei negli ultimi tempi ma, dalla risposta che aveva appena ricevuto, Trevor sospettò che non si trattasse solo di un mutamento psicologico:
« s-sei incinta? » dedusse, sentendosi mancare un battito.
I secondi che seguirono furono interminabili: lei perpetuava il suo silenzio, mentre lui non aspettava altro che una risposta:
« non lo so »
« come sarebbe a dire? »
« non lo so va bene?! Ho fatto il test due giorni fa, ma non ha funzionato, non sono riuscita a capire se è sì o no »
Il cestista rimase basito, boccheggiando nell’attesa di trovare una qualche replica a quella spiazzante dichiarazione. Serrò le labbra e deglutì, ma per quanto cercasse di prendere tempo, era incapace di trovare le parole più giuste da dire.
Era da qualche giorno che era entrato nell’ottica di troncare la loro relazione, ormai andata alla deriva, ma quella notizia rimetteva tutto in discussione, una discussione che nessuno dei due avrebbe mai voluto affrontare.
Improvvisamente, Brigitte gli sembrò così piccola e indifesa, soverchiata dal peso di una responsabilità che non si era ancora materializzata, ma che incombeva su di lei con un’ombra minacciosa:
« ho paura… » gli sussurrò con voce roca.
Tutto ciò che Trevor riuscì a fare quella sera, fu abbracciare in silenzio quella ragazza, sperando che in quella stretta non vi fosse inclusa una terza persona, che per metà era sua.
 
Erin camminò a passo svelto tra i tavoli del salone, mossa dal timore di non trovare più l’amico: era uno specialista nello sparire di punto in bianco e lei non avrebbe accettato di buon grado un simile comportamento. Era da qualche giorno che aspettava l’occasione giusta per raccontargli di Sophia e del mistero del quadro, voleva che fosse il primo tra i suoi amici a venirne a conoscenza.
Aggirò l’acquario e, appena lo individuò, sorrise contenta: Castiel aveva una mano appoggiata sul mento e guardava annoiato il profilo notturno della città. Sembrava assorto nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso oltre l’enorme vetrata del grattacielo. La ragazza allora tardò il loro incontro di qualche secondo, rimanendo impalata a deliziarsi lo sguardo di quella figura così affascinante: nonostante i capelli rossi, il musicista aveva un’aria insospettabilmente matura dentro la giacca nera.
Sorrise istintivamente, avvicinandosi quatta quatta. Lui non si era accorto della sua presenza, poiché non reagì minimante a quell’agguato; stuzzicata dall’idea di farlo trasalire, Erin esclamò, a pochi passi da lui:
« BU! »
Purtroppo però il suo tentativo non sortì l’effetto sperato, poiché l’amico si voltò pigramente verso di lei, guardandola apatico:
« ah-ah che scherzone » commentò sarcastico. Intorno a lui però, una coppia che era impegnata a scambiarsi moine, sussultò spaventata, per poi lanciare un’occhiata glaciale ad Erin.
« come hai fatto a vedermi arrivare? » replicò lei delusa.
Occupò la sedia davanti a lui, il cui rivestimento in velluto era ancora tiepido per la precedente presenza del dottor Wright.
« riflesso » rispose laconico il ragazzo, indicando la riflettenza della vetrata.
Rimasero in silenzio per un po’, tempo nell’arco del quale Castiel non sembrava minimamente interessato ad interagire con l’amica.
C’era qualcosa che teneva impegnata la sua mente, al punto che nemmeno la mora sapeva con quale argomento rompere quella chiusura:
« finalmente ti conosco Castiel! »
Con quella battuta, sia lui che Erin sobbalzarono, sorpresi da quella figura che sembrava essersi appena materializzata al loro tavolo: nonna Sophia scrutava entrambi con un sorriso birichino, che sul suo volto rugoso risultava quasi caricaturale.
« n-nonna » borbottò Erin a disagio. Dopo la parentesi del torneo, era convinta che l’anziana non avrebbe più avuto pretesti per parlare con il ragazzo, ma aveva scordato di considerare che proprio quella sera, i due erano a pochi metri l’uno dall’altra.
Pregò affinché non la mettesse in imbarazzo, ignara del fatto che, con l’ingresso in scena di sua nonna, la serata avrebbe preso di lì a pochi secondi, una svolta improvvisa:
« ‘sera » mormorò Castiel, sforzandosi di apparire spontaneo.
« ho sentito tanto parlare di te » sorrise la nonna, mentre Erin avvampava e, in preda al disagio più totale rimediò:
« tanto? Ma cosa dici? »
L’amico le lanciò un’occhiata maliziosa e beffarda, destinata a spegnersi non appena la vecchietta dichiarò:
« tuo padre mi ha parlato così bene di lui, visto che tu non mi racconti mai niente, Ninì »
A quell’affermazione il viso di Erin si contrasse in un’espressione confusa, mentre Castiel, dapprima perplesso, rilassò la fronte e, con tono conciliante, osservò:
« mi dispiace deluderla, ma probabilmente suo figlio si riferiva a Nathaniel »
Proprio quando il ragazzo era convinto di essersi sottratto alla conversazione, nonna Sophia obiettò:
« non sei tu quello che è venuto dalla Germania apposta per mia nipote, quando sua sorella era in ospedale? »
E quella fu la domanda che sconvolse Castiel, anche se non tanto quanto la ragazza che gli sedeva di fronte.
Lui era tornato in America per lei.
Da quel momento, il tempo sembrò fermarsi ed Erin rivisse quella scena nella sua mente annebbiata dai ricordi: quel giorno era stremata, le sembrava ancora di percepire quel senso di pesantezza e la sua debolezza nel restare vigile. La notte precedente all’operazione non era riuscita a dormire e l’angoscia le aveva torturato ogni fibra nervosa.
Una sonnolenza incontenibile si era così impadronita del suo fisico spossato, che aveva cominciato a crollare sotto il peso della tensione… finché il contatto con un corpo solido ma morbido ne aveva frenato la caduta. Solido e rassicurante.
« andrà tutto bene Erin…  fidati di me »
Quando aveva riaperto gli occhi, si era scontrata con l’amarezza di realizzare l’inconsistenza di quella realtà. C’era suo padre al suo fianco, non Castiel.
Era stato un sogno.
Così almeno aveva creduto.
A distanza di due mesi invece, quella certezza era appena andata in frantumi, assieme alla tristezza che la legava a quell’episodio: non era una sua fantasia, Castiel aveva realmente preso un aereo per raggiungerla in America.
La mascella di Erin si era irrigidita e gli occhi erano puntati sul ragazzo davanti a lei, che per contro, non osava incrociare il suo sguardo.
« n-no, deve aver capito male » balbettò insicuro.
Con quella giustificazione pronunciata con così scarsa credibilità, la mora ricevette la conferma che aspettava. Lo stupore venne così rimpiazzato dalla perplessità, non capiva per quale motivo non fosse rimasto lì con lei, o per lo meno, perché non le avesse mai parlato di quell’episodio.
Continuava a sfuggire alla questione, negandone l’evidenza e cominciando ad alimentare in Erin sentimenti contrastanti: rabbia, commozione, risentimento, tenerezza.
Abbassò lo sguardo, mentre il ciuffo le scivolava davanti alla fronte e, con voce flebile, lo accusò:
« perché non me l’hai detto? »
Nonna Sophia, osservando quanto sua nipote fosse sconvolta, cominciò a sentirsi di troppo. Sapeva di aver appena sganciato una bomba, ma il suo obiettivo era proprio quello di smuovere una situazione altrimenti fin troppo statica. Doveva lasciare che fossero i due giovani a disinnescarla:
« oh, caspita è vero! Era un segreto! Oh, ma cosa vuoi farci caro, sai com’è… alla mia età! » si scusò, con un sorriso ipocrita verso Castiel.
Era da tempo che voleva conoscere quel ragazzo e, non appena Peter le aveva raccontato quell’aneddoto, specificando che il rosso preferiva che Erin non ne sapesse nulla, l’anziana si era indignata; non solo non capiva il senso di tenere la nipote all’oscuro di quel fatto, ma la trovava un’ingiustizia che non avrebbe reso merito alla generosità del ragazzo.
Visto che suo figlio non intendeva violare la promessa fatta al musicista, toccava a lei trovare l’occasione giusta per parlare con Erin e quella cena si era rivelata tale.
Si allontanò dopo aver salutato allegramente Castiel che, quasi non la calcolò: era Erin a calamitare e preoccupare la sua attenzione.
Lei non aveva ancora sollevato il capo, così lui ne approfittò per recuperare il coraggio per affrontarla.
« perché non me l’hai detto? » ripetè Erin con più forza e rabbia.
Alzò finalmente gli occhi e il rosso vide un’espressione che gli rimase indelebile nella memoria: era ferita.
Gli occhi erano arrossati, le guance imporporate e il viso contratto nello sforzo di non scoppiare a piangere.
Riuscì a leggere in quelle iridi lucide tutto quel rancore, quella nostalgia e risentimento che aveva provato durante la sua assenza, e che aveva soffocato con il suo ritorno.
« non so di cosa parlasse tua nonna… »
« non prendermi in giro Castiel! Eri tu, davanti alle macchinette, mentre Sophia… »
Era doloroso ricordare quella scena, così le parole le morirono in gola; d’altronde il ragazzo non aveva bisogno di conoscerne i dettagli, dal momento che ne era stato testimone.
Se solo Erin avesse saputo che lui realmente le era accanto, che quella spalla era davvero lì a sostenerla, l’attesa di conoscere l’esito dell’operazione non sarebbe stata così logorante.
sei l’unica spalla su cui vorrei piangere” gli aveva scritto, e così era stato.
Più cercava di trovare una giustificazione al perché lui non gliel’avesse detto, e più sentiva crescerle una irritazione indescrivibile; se anche l’intento di Castiel fosse stato quello di celare il lato più premuroso e buono della sua personalità, lei sentiva di non riuscire a sopportare di stargli davanti un secondo di più.
Aveva preso un aereo per lei.
Solo per lei, che dentro di sé, l’aveva accusato più volte di svalutare la loro amicizia. Quella dimostrazione di generosità le aveva inumidito gli occhi dalla commozione e l’aveva portata a serrare le palpebre per trattenere delle lacrime altrimenti inarginabili.
Lottando contro la furia di sentimenti contrastanti che esplodevano in lei come fuochi d’artificio, si alzò in piedi di scatto, per poi allontanarsi frettolosamente:
« che ti prende adesso? »
« stammi distante! » gli abbaiò contro.
Alcuni clienti si voltarono incuriositi, distratti da quel rumoroso diversivo in un ambiente talmente tranquillo da risultare talvolta noioso.
Erin proseguì la sua fuga, uscendo dal ristorante e piazzandosi davanti agli ascensori. Premette un pulsante a caso, sperando che le porte si aprissero all’istante, ma non fu accontentata. Castiel era a pochi metri, così inforcò le scale e cominciò a salirle più velocemente che poteva. Il taglio del vestito, unito ai tacchi delle scarpe, la svantaggiavano non poco nella sua fuga.
Non poteva permettergli di vedere quanto l’avesse sconvolta, quanto potere avesse su di lei.
Stava per salire anche l’ultimo gradino, quando sentì una presa da dietro afferrarle il polso:
« cazzo Erin, datti una calmata! Non te l’ho detto, qual è il problema? » ansimò Castiel.
Un brivido la percorse e, girandosi di scattò, esclamò furente:
« il problema? Il problema è che più ti conosco e più… »
Mi innamoro di te.
« ti prenderei a calci! » esternò infine, voltandosi verso di lui.
In quella circostanza sentiva quasi di odiarlo per quanto lo amasse.
Era l’unica persona che riusciva a mandare in pezzi tutte le sue certezze, a vanificare tutti i miglioramenti che aveva ottenuto nel suo percorso di maturazione caratteriale: davanti a Castiel, Erin tornava ad essere una ragazza fragile ed emotiva, in balia di emozioni troppo forti per essere nascoste dalla sincerità del suo sguardo.
A smorzare la tensione del momento, ci pensò Castiel che ridacchiò:
« beh non sei l’unica che lo pensa »
« cerca di restare serio! » lo rimproverò, ancora irritata.
« e come faccio? Dai, ne stai facendo un dramma per niente! »
La fissava con quell’adorabile e al contempo irritante sorrisetto malizioso, in un tentativo di smorzare la tensione. 
Riusciva a fregarla, sempre.
Abbassò lo sguardo, incerta, cercando di far ordine nella propria mente e nel proprio cuore.
Lui non le aveva detto di essere tornato, ma lei non gli aveva detto di essersi innamorata di lui. Messi sul piatto di una bilancia immaginaria, era lei a recitare la parte della bugiarda.
La stretta sul suo polso si allentò e percepì le dita del ragazzo scivolare lungo la sua mano, afferrandola stretta:
« vieni, ti faccio vedere una cosa »
Lei si lasciò guidare, arrossendo imbarazzata per quel contatto che Castiel non si era nemmeno accorto di aver creato.
Erano saliti di un piano e Castiel svoltò a destra, imboccando un corridoio stretto e seminascosto. Si trovarono di fronte una porta, con la scritta “RISERVATO AL PERSONALE” e nello spingerla, il ragazzo abbandonò la stretta dalla mano di Erin; anche se si era trattato di pochi secondi, lei aveva già il viso in fiamme.
« teoricamente non potremmo stare qui » le confessò, facendole cenno di seguirlo. Aveva il suo solito ghigno astuto, sprezzante delle regole e per questo, eccitato dall’idea di infrangerle.
Erin però continuava a guardarlo duramente e l’imbarazzo appena provato le rendeva gli occhi più lucidi:
« vuoi davvero tenermi il muso per una stupidata del genere? » le domandò, fermandosi davanti alla porta, aperta per metà.
« non è una sciocchezza! » s’infuriò lei « perché hai attraversato mezzo mondo per poi sparire, senza dirmi nulla? »
Castiel rimase immobile a fissarla in silenzio, finché dichiarò con fermezza:
« perché non dovevo essere io a consolarti Erin… quel posto spettava a Nathaniel »
La ragazza esitò, ma solo per un istante: sapeva esattamente cosa dirgli e, per quanto le costasse una certa difficoltà, cercò di essere il più sincera possibile:
« eri l’unica persona che volevo accanto in quel momento, Castiel »
 
Aveva riaccompagnato a casa Brigitte e nel tragitto in macchina, nessuno dei due aveva parlato.
Si era congedato dagli amici, dicendo che per lui la serata si era conclusa, senza fornire loro ulteriori spiegazioni. Per quanto il suo comportamento fosse risultato strano, Dajan non aveva insistito nel conoscere i dettagli quella sera, ma si era ripromesso di chiamare l’amico l’indomani.
Fu così che Trevor si era ritrovato a casa sua, di sabato sera alle undici.
Non c’era nessuno in casa, nemmeno la sorella e quel silenzio non faceva che peggiorare la sua afflizione. Aveva così ripreso in mano le chiavi della macchina e si era buttato per strada: l’album dei Nirvana, Nevermind a tutto volume e il tachimetro che si ergeva verticale. Sfrecciare di notte, quando la carreggiata era sgombera di autisti, lo rilassava un po’, facendogli perdere la cognizione del tempo.
« papà » mormorò tra sé e sé.
Per quanto cercasse di convincersi che nulla era certo, la gravità con cui Brigitte gli aveva annunciato quell’eventualità lo aveva fortemente condizionato.
Diventare padre. Già come figlio era un disastro, l’idea di prendersi cura di un esserino non autosufficiente lo aveva catapultato nella consapevolezza che erano finiti gli anni della spensieratezza e delle stupidaggini per cui era famoso.
Il fascio di luce dei lampioni, disposti in successione, si alternavano sul suo viso, oscurandolo e illuminandolo ad intervalli regolari.
Dopo più di mezz’ora, si accorse di essere tornato nella zona del pub, dove aveva trascorso la serata un paio d’ore prima. Controllò nel parcheggio del locale, ma non vide le auto dei suoi amici e quella constatazione in un certo senso lo sollevò: voleva stare da solo, al limite in compagnia di qualche boccale di birra.
 
Castiel non aveva aggiunto altro, era rimasto a fissare Erin.
Si sforzò di non arrossire, di non cadere nella tentazione di equivocare quelle dolci parole: erano l’uno il migliore amico dell’altra, non c’era chiave di lettura diversa nell’interpretare quell’affermazione.
« mettiamoci una pietra sopra » concluse lei, sospirando « grazie per essere venuto quella volta »
Incurvò le labbra dalla rassegnazione, come se non avesse altra alternativa che quella di far buon viso a cattivo gioco.
Rincuorato dal venir meno della tensione tra di loro, Castiel annuì, mentre Erin esclamò:
« allora? Che posto è questo? »
Lui allora aprì del tutto la porta, facendosi poi da parte in modo che lei potesse vedere oltre di essa:
« dopo di lei, madame » ironizzò.
La ragazza venne investita da un vento freddo, che la lasciò per un attimo disorientata: erano su un terrazzo esterno del grattacielo. La luce artificiale illuminava quella che all’inizio le sembrò un bosco selvaggio ma poi osservandolo più attentamente, si rivelò una sorta di giardino.
Il parapetto era nascosto dal fogliame di vario tipo e in un angolo, era allestito un gazebo in legno con al di sotto altre piante e fiori.
Ovunque si voltasse, Erin era immersa dalla natura, in una sorta di angolo di paradiso in città.
« c-che ci fa un posto del genere qui? »
Castiel sorrise compiaciuto dell’effetto che aveva sortito in lei e, dopo essersi richiuso la porta alle spalle, replicò:
« questo è l’orto che usano i ristoranti di questo palazzo per i loro piatti. Trattandosi di posti esclusivi, per loro è importante avere la materia prima fresca, principalmente erbe aromatiche in realtà, ma coltivano anche qualche ortaggio »
Finita quella spiegazione, la mora avvertì infatti l’odore dell’alloro a solleticarle le narici e, passando le mani su delle foglie appuntite e strette, percepì tra le dita l’aroma di rosmarino.
Si sporse oltre il parapetto e rimase incantata a guardare la città, più di quanto non l’avesse impressionata farlo da dietro le vetrate del ristorante. All’esterno, lo scenario era ancora più spettacolare, al punto da farle venire un brivido per un leggero senso di vertigine.
« come hai scoperto questo posto? »
Castiel si portò accanto a lei, appoggiando i gomiti sul davanzale del parapetto.
« per caso: da piccolo i miei mi portavano spesso a cena qui ma visto che mi annoiavo a morte, ogni occasione era buona che sgattaiolare via »
« spesso a cena qui? » ripeté Erin sconvolta, pensando al listino prezzi del locale. Riconsiderò poi la neo scoperta parentela di Castiel e concluse « beh, d’altra parte tuo padre è un chirurgo famoso »
Lui non replicò minimamente, ma si frugò nelle tasche, accendendosi una sigaretta. Era tutta la sera che si portava dietro quel pacchetto, aspettando l’occasione per usarlo.
« è il tuo giardino segreto » aggiunse Erin, cominciando ad esplorarlo.
« già, anche se crescendo ha perso tutto il fascino che poteva avere agli occhi di un bambino: quando avevo dieci anni sembrava una foresta inquietante, specie di  notte, ora invece è solo- »
« un posto meraviglioso » lo interruppe lei, accarezzando con dolcezza un petalo scarlatto.
Non le erano mai piaciute le piante, per lo meno non era mai riuscita a guardarle con quell’interesse che nutriva la sua amica Iris. Eppure quella sera, ogni fiore, ogni foglia, le sembravano rivestite di un alone di perfezione, fungendo da cornice per una serata in compagnia del ragazzo di cui era segretamente innamorata.
Castiel non le disse che, proprio in quello stesso luogo, vent’anni prima, suo padre aveva chiesto a sua madre di sposarlo. Quando lui l’aveva scoperto, era solo un bambino e aveva visto in quella scena romantica, la testimonianza di un amore che non era mai esistito. Il proprio rancore che aveva fatto seguito al divorzio, aveva radicato nel rosso la convinzione che Tyra non avesse mai amato realmente suo padre e, dopo l’amara parentesi con Debrah, si era risoluto che le donne fossero esseri troppo volubili ed emotivi per restare fedeli alle loro emozioni.
Per quanto lo riguardava, sentiva che ciò che lo legava ad Erin non si sarebbe mai annientato completamente, anche se lei un giorno avesse trovato un sostituto per Nathaniel.
Ogni volta che quel genere di riflessioni si impadronivano di lui, percepiva una triste angoscia, sobillata dalla certezza che mai si sarebbe messo in gioco per provare a cambiare il destino: non avrebbe sopportato un’altra delusione, non un rifiuto di Erin, che avrebbe comportato la rottura della loro amicizia.
Era talmente assorto, che non si accorse di come lei lo guardava: gli sarebbe bastato voltarsi un attimo e, forse, le sue insicurezze sarebbero svanite, leggendo in quegli occhi verdi la reciprocità dei suoi sentimenti.
Castiel era così pensieroso e tenero quella sera, che lei non riusciva a smettere di fissarlo con adorazione. Aveva le labbra leggermente contratte e le palpebre abbassate a fissare il vuoto:
« ho una sorella »
Shock.
Erin si staccò dal parapetto, mentre il cuore cominciava ad accelerare improvvisamente:
« una sorella? » ripetè sconvolta.
Il rosso si strinse nelle spalle e abbandonò anch’egli la posizione, mettendosi eretto e affondando le mani in tasca:
« scoperta stasera » biascicò, con la sigaretta in bilico tra le labbra.
« come sarebbe a dire che l’hai scoperta stasera? »
« me l’ha detto mio padre. Ad essere precisi è una sorellastra »
Erin boccheggiò ancora sconvolta, poi cercò di riepilogare:
« quindi non avete legami di sangue? »
« no, è figlia di una precedente relazione del marito di mia madre »
La mora rimase di sasso: non era tanto la notizia in sé ad averla spiazzata, quanto l’immaginare cosa avesse provocato nell’amico:
« come l’hai presa? » deglutì, leggermente in ansia.
« mah » biascicò inizialmente il ragazzo. Si allontanò da lei, per poi sedersi su una sorta di muretto che delimitava le piante aromatiche « meglio di quanto si aspettasse mio padre, suppongo »
Castiel le sembrava tranquillo, troppo per il suo carattere impulsivo e collerico.
Gli era stata tenuta segreta quella parentela eppure non appariva offeso o arrabbiato.
« quanti anni ha? »
« nove »
« come si chiama? »
« Hailey »
« è un bel nome »
Lui scrollò le spalle e spense il mozzicone contro il terriccio umido del basilico.
Più lo fissava, e più Erin non lo riconosceva: si sarebbe aspettata ben altra reazione da lui, invece il musicista sembrava quasi disinteressato alla faccenda.
« quando andiamo a trovarla? »
Lui alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre a più riprese:
« andiamo? » ripeté, quasi beffardo, sottolineando l’utilizzo della prima persona plurale.
Erin sorrise e, incurvandosi nelle spalle, esclamò:
« se non ti costringo io, non ci andresti mai »
« questo è vero » convenne lui, tranquillamente.
Non si sentiva vincolato a instaurare un legame con quella bambina sconosciuta, per questo quella scoperta lo lasciava indifferente. Aveva preso atto della sua esistenza, ma la sua vita avrebbe continuato a scorrere come era sempre stato. Solo a distanza di tempo, capì quanto la sua previsione fosse sbagliata.
« allora? » incalzò Erin, piazzandosi davanti a lui.
« allora che? »
« quando andiamo? Ti accompagno solo io, giuro che non ne faccio parola con nessun altro, ma voglio assolutamente conoscere questa bambina! »
Dapprima la fissò come se fosse una marziana, poi iniziò a grattarsi il capo:
« tu farti i cazzi tuoi mai eh? »
Lei sorrise furbescamente, strappandogli a sua volta un ghigno analogo:
« è un sì? » indagò speranzosa:
« è un “qualsiasi cosa dirò, farai di testa tua” »
« dove abita tua madre? »
« in Canada »
Cadde un silenzio gelido, causato dallo spiazzamento di Erin, finché il ragazzo si lasciò sfuggire in una risatina divertita:
« sto scherzando scema…  è a due ore di macchina da Morristown »
Per nulla offesa da quella piccola burla, Erin proseguì imperterrita:
« perfetto! Andremo in autobus » stabilì, senza avere la minima idea di quale fosse la loro destinazione.
Il rosso scrollò le spalle, senza obiettare in alcun modo. In fondo, lo lusingava quell’interesse che Erin manifestava per la sua situazione familiare, perché sapeva che era scaturito principalmente dalla volontà della ragazza di aiutarlo. Per un’ottimista come lei, era inevitabile investire le sue energie nel cercare di instaurare la serenità tra le persone a cui voleva bene; ne aveva già avuto prova in passato, quando l’amica aveva compiuto ogni sforzo per farlo riappacificare con i suoi amici.
Anche se Castiel non credeva che ci fossero speranze per cambiare la sua storia familiare, concesse ad Erin il diritto di intromettersi; non lo avrebbe ammesso, ma era un pretesto per stare con lei.
« comunque non è un segreto di stato. Lo dirò anche agli altri » chiarì il musicista.
« ma io l’ho saputo per prima » gongolò Erin.
« contenta te » minimizzò.
Lei cominciò a camminare tra i corridoi fittizi creati dai vasi giganti e dalle costruzioni in mattoni che delimitavano la vegetazione, mentre lui la fissava in silenzio.
« anche io devo dirti una cosa » esclamò Erin d’un tratto, fermandosi davanti ad una siepe di alloro « e voglio che tu sia il primo a saperla »
Tastò la rigidità delle foglie e, sapendo di aver calamitato l’attenzione dell’amico, proseguì:
« credo di aver trovato la chiave per capire il perché dello strano comportamento di mia sorella »
« cioè? »
Erin compì una mezza piroetta e tornò da lui, ancora seduto sul muretto:
« un quadro »
« un quadro? » le fece eco, scettico.
« sì, l’ha lasciato ad Allentown e, quando le ho chiesto qualcosa a riguardo, si è irrigidita all’inverosimile. Quel dipinto nasconde qualcosa Castiel, e vorrei che mi aiutassi a scoprire di cosa si tratta »
« e gli altri? Non dirai niente a Rosalya e company? »
Erin sollevò le spalle e dichiarò:
« no, glielo dirò, basta segreti. Sto cominciando ad odiarli »
Il musicista si alzò in piedi e dichiarò:
« non sempre i segreti sono qualcosa di negativo. A volte sono necessari per non soffrire »
« ma paghi il prezzo della sincerità. Non dovrebbero esserci segreti tra amici » e dopo aver pronunciato quella frase, Erin si sentì un’ipocrita.
Era l’ultima persona al mondo a poter fare una simile dichiarazione, poiché continuava a chiamare amico, il ragazzo che per lei rappresentava molto di più.
« allora diciamo che possiamo avere… solo un segreto a testa » calcolò il rosso « qualcosa che teniamo solo per noi stessi, senza condividerlo con nessun altro »
Quella sorta di bislacca concessione la fece sorridere: sapeva esattamente su quale verità lo avrebbe tenuto all’oscuro.
Ironia della sorte, la stessa che aveva scelto lui.
Quella notte, Castiel ed Erin promisero a se stessi che mai avrebbero rovinato la loro amicizia per dei sentimenti romantici che non credevano corrisposti.
Fu una promessa sciocca e per certi versi, tragicomica, ma solo a distanza di tempo ne colsero questi aspetti.
« ehi Castiel » lo chiamò « comunque ci tenevo che fossi il primo a sapere di questa storia del quadro »
Lui, anziché arrossire, ghignò spavaldo:
« comincio a pensare di essere speciale per te Ninì » la canzonò, incapace di prendere seriamente quanto gli aveva appena ribadito l’amica che, con un sorriso tenero, si limitò a pensare:
« non sai quanto »
 
« un’altra »
Quell’ordine era giunto dal giovane cliente, incurvato con la tristezza di un alcolizzato cronico, sul bancone del pub; Trevor aveva appena svuotato il suo boccale di birra, lasciando sul fondo un residuo di schiuma bianca, destinato a liquefarsi.
Il barista aveva sospirato scocciato, gettando un’occhiata all’orologio appeso alla parete: era quasi ora di chiudere e il liceale rappresentava l’unico motivo per cui non poteva anticipare il proprio rientro a casa:
« stiamo per chiudere » rispose seccato.
Era già la terza volta che glielo faceva notare e, come le due precedenti, Trevor ripetè:
« questa è l’ultima »
« come no » farfugliò l’uomo, spinando il liquido dorato lungo un nuovo boccale.
Aveva già congedato il personale, fatta eccezione per una ragazza intenta a spazzare per terra.
Posò la birra sotto il naso del cliente che però non reagì: il ragazzo rimase a fissare con uno sguardo vuoto il liquido ambrato, come se vi cercasse all’interno delle risposte a domande che solo lui sentiva.
Spazientito da quell’attesa, il gestore chiamò la cameriera:
« Jordan! Vieni tu qua. Io vado sul retro »
Di spalle, Trevor non poté accorgersi del cipiglio infastidito della ragazza che, dopo aver sollevato gli occhi al cielo, aveva raggiunto il bancone. Appoggiò la scopa in un angolo e iniziò a riporre in ordine i bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie.
Non degnò di uno sguardo il ragazzo che a quel punto tuttavia, distolse l’attenzione dalla sua bevanda: la ragazza che aveva davanti non indossava l’uniforme del locale, ma una semplice tuta da ginnastica e una felpa, arrotolata fino al gomito. I capelli castani  erano raccolti in una coda di cavallo molto alta e lunga che, assieme alla montatura nera degli occhiali, le conferiva un’aria intellettuale.
Si muoveva con velocità e sicurezza: teneva in ogni mano due bicchieri contemporaneamente e riusciva a pizzarli al loro posto senza farli tintinnare al contatto con quelli adiacenti.
Finita quell’operazione, passò uno straccio sul bancone, eliminando i segni lasciati dal fondo dei bicchieri, gettò la spazzatura che aveva accumulato in un angolo poco prima e sparì con un fusto di birra, evidentemente vuoto. Tornò poco dopo, tenendo in mano un libro e, finalmente, si sedette su uno sgabello, vicino alla macchina del caffè.
Impressionato dall’industriosità della ragazza, Trevor considerò che in quei cinque minuti, mentre lei era così impegnata nelle sue faccende, il livello della sua birra non era sceso di un millimetro.
Si portò allora il bicchiere alle labbra e fu in quel momento che Jordan gli lanciò un’occhiata fugace: era snervante attendere che il cliente finisse la consumazione e si irritò ancora di più nel realizzare che Trevor si fosse appena inumidito la bocca.
Sospirò leggermente, tornando a concentrare la sua attenzione sul libro che aveva appoggiato sulle gambe, lisciando una piega che si era formata sul fondo della pagina. Non premette con forza, la sua era più una dolce carezza, come quella che una madre darebbe al proprio bambino.
« che merda che è la vita » mormorò Trevor d’un tratto.
La ragazza non replicò, ignorandolo apertamente, addirittura iniziò a giocherellare con i capelli, modificandoli in uno chignon. Il tentativo però venne operato con poca convinzione e, dopo pochi secondi, l’acconciatura si sciolse, tornando ad essere a coda di cavallo.
« uno non fa neanche a tempo a godersela, che già gli appioppano responsabilità » proseguì Trevor, accasciandosi sempre più lungo la superficie di granito rosso del bancone. Sembrava sciogliersi come del burro su una padella rovente, perdendo quella rigidità che caratterizza qualsiasi vertebrato.
Irritata per quella seconda interruzione, la silenziosa lettrice sbottò:
« finisci quella birra e vai fuori a fare i tuoi sermoni »
Il cliente la fissò stranito, mentre lei tornava a far finta che non esistesse:
« il cliente ha sempre ragione » borbottò, leggermente brillo.
« non dopo l’orario di chiusura » lo rimbeccò l’altra piccata.
Uno a zero a sfavore del cestista.
L’alcol gli aveva tolto qualche freno inibitore, facendogli sentire improvvisamente il bisogno di sfogarsi con qualcuno che non lo conoscesse. Quella ragazza sarebbe stata la sua vittima ideale, se solo fosse stata un po’ più gentile:
« che leggi? » le chiese, non per curiosità ma per trovare un orecchio disposto ad ascoltare le sue lagne; lei sollevò la copertina, senza scomodarsi a recitare a voce alta il titolo. Non controllò che lui stesse mettendo a fuoco il titolo, tanto sapeva che non gli interessava minimante.  
« forte » commentò stupidamente Trevor, confermando l’ipotesi della cameriera.
« da piegarsi in due dal ridere » commentò con sarcasmo la ragazza, senza distogliere lo sguardo delle pagine. Calò il silenzio, ma Trevor non intendeva farlo durare, così dopo un po’ ripeté:
« che vita di merda »
Quell’ennesima lamentela fece scattare l’interlocutrice, che chiuse il libro, incastrando prima l’indice tra le pagine che stava leggendo:
« la finisci di lagnarti? Se stai cercando una spalla su cui piangere, hai sbagliato persona! »
Aveva delle iridi verde oliva, molto chiare e un’espressione ostile, che tuttavia non intimidì minimamente la socievolezza del moro:
« la mia ragazza è incinta »
« chissenefrega? »
Quella risposta indelicata e insensibile corrugò la fronte di Trevor, che quasi stentava a credere al risentimento con cui veniva trattato:
« ti pagano per essere così stronza? »
« sì, e dicono che sono anche piuttosto brava »
Due a zero.
A quel punto non capì se quella conversazione cominciava più a irritarlo o divertirlo.
« ce l’hai con me? » indagò.
Jordan non rispose, ma riaprì il libro, solo il tempo di ricreare la stessa piega che aveva spianato poco prima. Lo richiuse e si avvicinò al ragazzo, per poi aprire un cassetto e nascondere l’oggetto.
« tu vai all’Atlantic High School giusto? La scuola per i figli di papà? »
Con quella domanda, sembrò quasi sfidarlo, come se la sua appartenenza al Dolce Amoris fosse un pretesto per odiarlo a prescindere.
« qualcosa contro le scuole private? »
« ho qualcosa contro i ragazzini viziati come te, che avete tutto ma vi lamentate della vita. Vorrei vederti a farti un culo così a lavorare, allora sì vienimi a dire che la vita fa schifo »
Tre a zero, e quello sì era un colpo ben assestato.
Per quanto il rancore di Jordan nei suoi confronti fosse ingiusto e frutto di pregiudizi, Trevor non si sentiva realmente irritato: con quella ragazza, aveva completamente dimenticato il motivo per cui si era ridotto a ubriacarsi in un pub in solitudine. Che poi, a causa della sua resistenza all’alcol, tanto ubriaco non era.
« quindi ce l’hai su con i fancazzisti? »
« precisamente » annuì l’altra.
« allora hai davanti lo stereotipo per eccellenza bella » commentò  orgoglioso, buttando poi giù una sorsata copiosa di birra. Il livello di sopportazione di Jordan si stava esaurendo molto più rapidamente della birra del cliente, per questo scattò:
« finisci quella maledetta birra e vattene. Già non ho molta pazienza »
« avrei detto il contrario » la interruppe il cestista con ironia.
La ragazza sbuffò nervosamente e riaprì il cassetto dove aveva riposto il libro:
« almeno restatene in silenzio, sto cercando di studiare »
« a quest’ora? »
Lei rimase immobile con il libro a mezz’aria e scandì, velenosa:
« si dà il caso che abbia lavorato fino a dieci minuti fa, mentre tu eri impegnato a far festa con i tuoi amici »
Non gli avrebbe raccontato la storia della sua vita, del lavoro part-time che conduceva durante la settimana e di quello al pub nel weekend. Uno come lui l’avrebbe etichettata come una poveraccia e, la cosa peggiore, era che non poteva negare che fosse vero.
« ma quanto anni hai scusa? » si incuriosì il moro.
Nonostante i suoi tentativi di demolirlo, Trevor resisteva eroico, forse aveva una qualche preoccupante tendenza al masochismo, che stava prosciugando anche le ultime energie che le erano rimaste dopo una settimana pesante.
« ma che te ne frega? E poi non si chiede l’età ad una donna » scattò lei sulla difensiva, guardandosi attorno.
« hai ragione, in effetti non sembri una ragazza » convenne lui. Indispettita Jordan, afferrò un paio di noccioline dal bancone e gliele scagliò contro; quel gesto infantile, quasi strideva con la sua personalità, ma era il primo segnale che la sua barriera di insofferenza e diffidenza stava crollando:
« ti posso mandare fuori a calci, sai? »
Quella minaccia irretì il moro: Jordan lo vide ghignare beffardo e alzarsi dallo sgabello, rivelandosi molto più alto di quanto avesse immaginato; Trevor si sporse oltre il bancone, portando il suo viso a pochi centimetri da quello della cameriera. A quella distanza ravvicinata, lei si trovò davanti dei caldi occhi color nocciola, luminosi e vivaci.
« scommettiamo? » le sussurrò malizioso.
Si sentì avvampare, poiché presa alla sprovvista e, soprattutto disabituata a quel genere di confidenza.
Si allontanò istintivamente e, cercando di recuperare la sua presuntuosa sicurezza, velenò:
« che ne è della tua disperazione di prima, futuro papà? »
Quel colpo basso si rivelò l’arma più efficace per ridimensionare il buon umore di Trevor: tornò ad abbandonarsi sullo sgabello e abbassò lo sguardo, dipingendolo di malinconia.
« non mettere il dito nella piaga, è una cosa seria » mormorò sconfitto.
La sua afflizione era talmente palpabile che, anche la dura scorza di Jordan, ne rimase intaccata: cominciò a sentirsi un po’ in colpa per quella frase, ma il suo orgoglio le impediva di dimostrare che in fondo non era così insensibile. Volendo quindi indossare ancora per un po’ quella maschera di cinismo, replicò secca:
« avresti dovuto pensarci prima… voi ragazzi e la vostra superficialità »
« ehi non è che Brigitte non abbia le sue colpe! »
La ragazza sollevò gli occhi al cielo, zittendosi. Avrebbe finito per dire qualcosa di spiacevole, come del resto aveva fatto sin da quando si era trovata di fronte quel ragazzo. Poteva ispirarle antipatia, ma era innegabile che si trovasse in una situazione molto delicata, talmente tanto da dover rinunciare alla sua sarcastica acidità.
Impercettibilmente intenerita dalla pena del giovane cliente, si sforzò di apparire un po’ più indulgente, anche se il suo atteggiamento era visibilmente forzato:
« a quante settimane è? »
« no, in realtà non è sicura di essere incinta, ha un ritardo ma-»
Quel briciolo di comprensione che Jordan aveva provato, venne disintegrato all’istante: il sopracciglio cominciò a traballarle nervosamente, anticipando l’irritazione con cui lo avrebbe attaccato:
« e tu mi hai rotto le palle finora per una cosa di cui manco sei sicuro!? »
« beh, lei sembrava quasi certa che- » tentennò Trevor, sorpreso da quell’uscita così violenta.
Lei tese il braccio, indicando la porta e sbottò:
« muovi quel culo dallo sgabello, ho perso fin troppo tempo per assecondare le tue lagne »
Sbuffò pesantemente e si portò le mani sui fianchi, arpionandoli con foga. Lo fissava collerica e stanca, desiderosa solo di andare a casa a dormire, lasciandosi alle spalle quella serata così intensa
« devo chiudere » tagliò corto, accomodandosi gli occhiali sul naso.
Trevor allora si alzò pigramente dallo sgabello, cominciando a frugare nella tasca della giacca alla ricerca del portafoglio. Recuperò una banconota e la lanciò sul bancone, incrementando l’insofferenza di Jordan: per lei quei venti dollari non erano un banale pezzo di carta, doveva lavorare due ore come cameriera per racimolarli. Lui invece poteva permettersi il lusso di lasciarglieli lì, come se fossero l’incarto di una caramella.
La cameriera rimase a fissarlo di spalle, mentre spingeva la porta del locale, in silenzio:
« ehi »
Trevor si voltò, quasi apatico.
« mancano venti centesimi »
La fissò dapprima sorpreso, poi ridacchiò; tornò ad avvicinarsi al bancone e le porse un paio di monetine, necessarie ad annullare il suo debito:
« sei proprio senza cuore » le disse, tra la beffa e l’amaro.
Lei non si scompose, ma rimase a fissarlo con serietà.
Trevor ripercorse la strada verso l’uscita e, questa volta, abbandonò definitivamente il locale, lasciando Jordan da sola, immersa in un silenzio che per qualche motivo, le sembrò quasi triste.
 
« Mackenzie, devi essere più gentile con le tue compagne! »
Miss Gilson le alitò quel rimprovero a pochi centimetri dal suo viso, impregnando l’aria circostante con l’odore della sigaretta che aveva fumato pochi minuti prima. Il regolamento scolastico vietava agli insegnanti di fumare nel cortile della scuola, ma la donna ne ignorava il contenuto, come le resto la maggior parte dei suoi colleghi. Quella mattina era occupata a chiacchierare con la sua collega e amica Joslin ed essere interrotta per un banale bisticcio tra bambine l’aveva irritata non poco.
« ma mi prendono in giro! » protestò Mackenzie.
Assolutamente disinteressata ad approfondire la questione, l’adulta replicò:
« non è un buon motivo per tirare loro i capelli! Lo vedi che Cassidy sta piangendo? »
« e le mie lacrime di rabbia non le vedi, stupida? » pensò tra sé e sé la bambina, stringendo i pugni con forza, nascosti dalle tasche del suo grembiule blu.
La superficialità della donna, unita ad una scarsa sensibilità, la facevano apparire agli occhi della scolaretta, una figura inutile e disprezzabile: Miss Gilson nutriva un’ingiustificata antipatia verso di lei, che pure si considerava una bambina sveglia e in gamba. Per contro, preferiva Cassidy Bloom, incarnazione di una bambolina di porcellana sia nell’aspetto che nel cervello.
La moretta si divertiva non poco a punzecchiare Mackenzie, denigrandola agli occhi del suo gruppetto di amiche, per le sue umili risorse economiche. Quest’ultima si guardò le scarpe, ormai consumate e scolorite, forse anche un po’ piccole per il suo fisico che si accresceva velocemente. Cassidy si era permessa di canzonarla per la loro dozzinalità, paragonando poi l’abbigliamento di Mackenzie a quello di una barbona.
Umiliata e inviperita dalle risatine stupide a cui avevano fatto seguito le sue cattiverie, la bambina le era saltata addosso come una furia, finché non erano intervenute le maestre a separarle.
Miss Gilson non poteva capire, semplicemente perché non voleva capire.
Per la sua studentessa, non rimaneva altra soluzione che restarsene in silenzio; strinse saldamente la piccola ciocca di capelli neri che pochi minuti prima erano radicati sul cuoio capelluto di Cassidy Bloom. Erano l’unica consolazione e soddisfazione che poteva avere dopo quella brutta giornata.
 
Nel rientrare a casa, sentì che un nuovo sentimento stava per rimpiazzare la rabbia: l’amarezza di dover raccontare a sua madre l’accaduto.
Sul diario, con una scrittura svolazzante, Miss Gilson le aveva segnato una nota da far firmare e dalla sua espressione, sembrava quasi soddisfatta di infierire quell’ultima umiliazione alla bambina.
« mettici anche una faccina felice dopo il tuo nome » aveva pensato con sarcasmo Mackenzie, mentre alle spalle avvertiva la risatina soddisfatta di Cassidy. Aveva richiuso il diario con foga, tornando al suo posto a testa alta.
Nessuno l’avrebbe demolita, lei era forte, doveva esserlo.
« oh, sei qui tesoro » la accolse un sorriso dolce.
Doveva esserlo per sua madre, Dianne.
Appena aveva sentito i passi della figlia, la donna aveva alzato il capo di scatto, cozzandolo contro la vasca del lavandino: Mackenzie infatti aveva fatto il suo ingresso in cucina, trovando la madre accucciata a terra, intenta a maneggiare il sifone. Una chiave inglese e altri attrezzi erano sparpagliati sul pavimento piastrellato, alcuni dei quali perfettamente inutili per la sua improvvisata attività di idraulico:
« il lavandino perde ancora, mannaggia » borbottò Dianne, cercando di risultare buffa.
Tuttavia sua figlia non si lasciò incantare. Era tipico di sua madre, nascondere dietro ai sorrisi, quello che pensava realmente; anche se si dimostrava serena davanti alla figlia, Dianne provava una grande frustrazione nel dover essere così autonoma e industriosa. Non potevano permettersi un idraulico, avrebbe inciso troppo sul bilancio familiare e, analogamente ad altre situazioni, dove poteva, cercava di compensare con le sue capacità manuali.
Mackenzie per lei aveva sempre la precedenza, appena percepiva lo stipendio, si assicurava che alla bambina non mancasse nulla per la scuola e che vivesse la sua infanzia felice, lontana dal peso della precarietà economica che invece incombeva sul suo ruolo di genitore.
Nonostante i suoi generosi tentativi però, Dianne si accorgeva delle occhiate pietose che le lanciava la figlia, troppo intelligente per lasciarsi ingannare dai suoi sorrisi.
« come è andata a scuola? » tentò la donna, pulendosi frettolosamente le mani sui pantaloni della tuta. Anche se, diversamente dalle mamme dei suoi compagni di classe, Dianne non poteva permettersi trucchi o vestiti di classe, per sua figlia era la donna più bella del mondo: aveva i capelli castano chiaro, che amava raccogliere in una treccia laterale e un sorriso gentile, che incantava chiunque con la sua dolcezza.
La scolara scrollò le spalle, laconica, e si avvicinò al ripiano per prendere un biscotto al cioccolato.
« ti sei fatta delle nuove amiche? » chiese speranzosa la madre.
Quell’ingenua domanda irritò Mackenzie: sapeva che sua madre era preoccupata per quello che le maestre avevano definito un “atteggiamento asociale”, ma la sola idea di diventare amica dei suoi compagni di classe, le infondeva un senso di claustrofobia:
« ho picchiato Cassidy »
« come sarebbe a dire? »
Mackenzie non aggiunse altro ed accese la TV; non la stava guardando veramente e sua madre se ne accorse. Non era il momento migliore per farle una ramanzina, che peraltro si sarebbe rivelata inefficace.
L’unica cosa che le era richiesta come madre, era tentare di cancellare un po’ di quell’amarezza e risentimento che traspariva dagli occhi lucidi della bambina.
Sorridendole paziente, Dianne si alzò da terra, avvicinandosi a lei.
Si mise tra Mackenzie e lo schermo, accucciandosi davanti e portandole una mano sulle ginocchia:
« tesoro, non lo fare più, intesi? Per quanto una persona possa farti arrabbiare, non arrivare mai a picchiare gli altri » mormorò dolcemente.
Mackenzie non voleva dire a sua madre cosa l’avesse fatta scattare, sia per non ferirla, sia perché temeva che Dianne l’avesse già intuito; non era pentita di aver picchiato Cassidy, se l’era meritato, ma non poteva sopportare di far stare in pena sua madre. Era la donna più buona del mondo, non si meritava una figlia impulsiva come lei, che le dava così tante preoccupazioni.
Eppure Dianne sembrava aver capito cosa fosse accaduto a scuola e, a conferma di tale ipotesi, subentrò la continuazione del discorso:
« è vero che non abbiamo molto soldi, ma questo non è un motivo per farci sentire inferiori. Se ti comporti bene e con rispetto, allora manterrai una cosa che nella vita conterà sempre più dei soldi… »
Finalmente la bambina si decise a cercare gli occhi amorevoli della donna e, con voce impastata, domandò:
« e cioè? »
« la tua dignità »
Mackenzie sorrise rincuorata.
Sua madre era il suo idolo.
 
 
 
 
###################################
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
¡Hola chicas!
 
Lo so, fino all’ultimo ho lasciato come data di pubblicazione l’8, e sapete perché? Veniva a coincidere con il compleanno di una delle lettrici, LisyDarkyLove (ciao F.!), così le ho promesso che quel giorno avrei messo on line il 51. Stamattina però, presa dall’ispirazione, sono riuscita a bruciare i tempi e mi sono trovata un capitolo fresco di stampa… e l’idea di aspettare fino a mercoledì per leggere le recensioni era una tortura -.-.
Così ho posto a Lisy questo dilemma: posso infrangere la promessa e pubblicarlo oggi, oppure aspetto mercoledì? Ringraziate la sua impazienza se oggi c’è stato questo fulmine a ciel sereno xD
 
Capitolo piuttosto pieno, a partire dalla scoperta della parentela tra il dottor Wright e Castiel che, se andiamo a vedere alcune parti del capitolo in cui il medico è comparso, oppure lo spin-off, certe frasi acquistano più senso:
 
“Non poteva definirsi bello ma nei suoi occhi c’era qualcosa di tremendamente affascinante e carismatico, così come nei lineamenti virili del volto” _ Capitolo 35 – La speranza è un sogno fatto da svegli.
 
“Quella fu la prima occasione in cui l’uno guadagnò la stima dell’altro: in futuro Peter scoprì altri motivi per affezionarsi a me, sostenendo addirittura di essere in debito nei miei confronti;”_ In Castiel Shoes.
 
Nel primo caso, come è stato spiegato nel capitolo, Erin rimane affascinata dallo sguardo del chirurgo perché, anche se non ne è consapevole, è lo stesso di Castiel, suo figlio (manco si è accorta che l’amico ricambia i suoi sentimenti, figuriamoci se potevo fare che si accorgesse che i due hanno gli stesso occhi -.-‘’).
Nel secondo invece, il debito a cui si riferisce il rosso è che, contrariamente a quello che vi ho lasciato intendere, è stato grazie a Castiel che il dottor Wright è venuto a sapere di Sophia (quando l’ha chiamato il dottor Hogan, Frank era già in partenza).
Inoltre nello spin-off si accenna al fatto che il protagonista maschile di questa fic abbia un cognome diverso da quello di suo padre… vi giuro che questa cosa mi rendeva un po’ nervosa, perché temevo che alcune di voi sospettassero che questa precisazione sottintendesse che avesse qualche parentela che volevo tenere nascosta xD
Insomma, ora è venuto finalmente fuori un altro scheletro nell’armadio di questa fic, armadio che si sta spopolando sempre più e i colpi di scena che ho progettato cominciato a contarsi sulle dita di una mano :S
 
Passiamo a Tyra, la mamma di Castiel: sono piuttosto eccitata all’idea di descriverla, perché amo i personaggi combattuti e contorti e lei lo è senz’altro. Si trova in una situazione davvero strana, oltre che scomoda; il Castiel che conosce lei è un ragazzo impulsivo e orgoglioso, mentre quello tornato dalla Germania dimostra qualche segno di maturità in più… come si comporterà al momento dell’incontro?
Con questo capitolo ho voluto sottolineare la maturazione di questo personaggio, diventato un po’ meno isterico ;) (anche se non rinuncerà alla sua impulsività, che del resto fa parte del suo fascino u.u).
E sempre nell’ottica di vedere nuovi lati di Castiel, conosceremo anche un’altra new entry: Hailey (hai visto Manu a cosa mi serviva la tua lista di nomi femminili? Anche Jordan è un nome che ho preso da là).
Come ve la immaginate questa bimba? Per quanto mi riguarda, la caratterizzazione psicologica e comportamentale l’ho già definita da tempo, mentre sull’aspetto fisico ho avuto l’idea guardando una bambina di quinta elementare ad un saggio di danza qualche settimana fa; l’ho vista e ho pensato “cacchio, quella è Hailey!” (ma quanti problemi psichici ho?).
 
Poi abbiamo Jordan: intanto ringrazio Kiritsubo83 non solo per questi bellissimi disegni (*^*):
             
(neanche si capisce la tua simpatia per Trevor, Simo ^^) ma anche per avermi dato un contributo essenziale nell’ideare il personaggio. Sua l’idea del look della ragazza e quindi di inscenare l’incontro tra lei e Trevor (con tanto di scena sulle tette x,D) nel pub :).
Come avete quindi capito, la ragazza che serve i cestisti all’inizio e quella che parla con Trevor alla fine del capitolo, sono la stessa persona… secondo voi lui se ne è accorto? xD (quanto idioti sono i personaggi di questa fic? Rispecchiano troppo il rincoglionimento dell’autrice o_O)
 
Sempre a proposito di Kiri, ecco un terzo disegno:
 
per chi si fosse già dimenticato di lei, questa è Melanie Green ^^ (ahah noto ora che le felpa è verde xD).
Conto di far fare una comparsata anche a lei e al resto della ciurma in futuro, anche se si tratterà di un evento sporadico, giusto per non allungare la storia più di quanto già non stia facendo;)
Comunque ringrazio pubblicamente Kiritsubo83 per i suoi disegni e ci tengo a precisare che tutto, dal lineart alla colorazione digitale è opera sua :3 (la mia tavoletta grafica è ricoperta da un centimetro di polvere ormai ç_ç)
 
Visto che in questo capitolo non sono mancati i nuovi personaggi, abbiamo scoperto anche qualcosa in più su Mackenzie, inquadrando un po’ la sua situazione familiare. L’unica cosa che posso dirvi è: prendete appunti. Io mi astengo dal commentare le parti in corsivo, ma voi potete farlo quanto volete.
 
Poi c’è Gustave (oddio, ma quanta carne al fuoco ho messo in un solo capitolo?). E’ da San Valentino che vuole un colloquio con Armin e sua figlia (comprensibilmente) è restia a farli incontrare.
Il motivo di questo incontro lo immaginerete facilmente, quindi non me la tiro più di tanto nel creare mistero u.u… magari sarà più interessante vedere come si svolgerà, perché quando c’è di mezzo Armin, ci si diverte sempre un pochino :).
 
Bene, come molte di voi ormai sanno, almeno fino a Dicembre, è un periodo molto pieno per me, quindi penso ci vorrà un altro mese per il prossimo capitolo… comunque, appena ho una data precisa, ormai sapete dove la comunico ;)
 
Buone vacanze :D
 
See you, alla prossima! 

Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** T-Team ***


52.
T-TEAM
 

Inserire monete.
L’indicazione fornita dalle lettere rosse della macchinetta non poteva essere più chiara, Sophia l’aveva già seguita, eppure sul display erano rimasti due doppi zeri accanto all’importo.
« Cazzo, non mangiarmi i soldi! » inveì, dando una pacca all’armatura di metallo di oltre due metri che la fronteggiava. Il palmo sbatté piatto contro la superficie liscia, ma non bastò ad intaccare l’inesistente sensibilità del macchinario. La barretta di cioccolato era ancora al sicuro, avvolta dalla spirale metallica che non accennava a rotolare di un millimetro. Il nervosismo di Sophia non era motivato unicamente dall’aver perso due dollari, ma anche e soprattutto, dal contesto che la circondava: era al campus universitario, lo stesso in cui studiava Nathaniel.
Quel nome aleggiava nella sua mente come una minaccia, si poteva insidiare in ogni angolo seminascosto del corridoio, facendola sussultare al minimo movimento. Sapeva che le probabilità di incrociarlo in quell’immensa area universitaria non erano altissime, ma il fatto che non rasentassero lo zero, la portava a guardarsi attorno circospetta.  
« Ehi, hai finito? »
Si voltò, accorgendosi della presenza di un gruppo di ragazzi. Tra questi spiccava uno studente dai capelli lunghi, tali da coprirgli le guance; la scrutava con arroganza e insofferenza, con la presunzione di chi si crede superiore a tutti:
« Mi ha fottuto i soldi » spiegò Sophia, indicando la macchinetta.
« Che vuoi che ti dica? Posso prendermi qualcosa o devo star qui ad aspettare? » replicò l’altro, nervosamente. La ragazza storse il labbro, irritata, mentre lui la squadrava da capo a piedi:
« Sociologia? » le chiese con disinteresse, ma lei non afferrò subito.
« Che? »
« Studi sociologia? » le domandò, inserendo i contanti. Sul display però apparve un numero superiore rispetto all’importo immesso, così Sophia realizzò che fossero stati aggiunti i suoi due dollari.
« No, non studio, comunque ci sono i miei soldi là dentro » osservò.
Il ragazzo puntò lo sguardo sugli snack e, con un sorrisetto beffardo, comunicò:
« Allora prenderò una Red-Bull »
Intenzionato ad appropriarsi dei soldi della ragazza, stava per digitare il numero corrispondente alla bevanda, quando un braccio lo bloccò:
« Sono i suoi soldi »
La voce era ferma e calma, ma dalla violenza con cui il moro si sentiva stritolare il polso, si irrigidì preoccupato. Girò il capo verso destra e incrociò due occhi color nocciola ed un sorriso ipocritamente gentile. Sophia alzò lo sguardo, quasi con timidezza e paura, dopo aver riconosciuto all’istante quel timbro.
Era sempre stata convinta che i principi azzurri fossero personaggi delle fiabe, tanto irreali quanto stomachevoli, ma l’interpretazione moderna che Nathaniel dava di quella figura romantica, metteva in discussione tutte le sue ciniche certezze.
« Stavo solo scherzando » mormorò lo sconosciuto, ritraendo la mano.
Il biondo incurvò appena le labbra e, in un paio di secondi, vide volatilizzarsi il gruppetto, lasciandolo solo con Sophia.
« Sei una piantagrane » le disse, senza guardarla.
Lei lo fissò stranita, mentre digitava un numero sulla macchinetta.
Una barretta blu precipitò in caduta libera, la stessa che la mora avrebbe voluto prendersi. O avevano gli stessi gusti, oppure riusciva a leggerle nel pensiero.
Nonostante il ragazzo avesse preso l’iniziativa, lei non protestò, finché non lo vide aprire la confezione e staccare un pezzettino dal blocco di coccolato:
« Ehi! Quella è mia! »
« E’ il mio 10%, la ricompensa per averti aiutato » replicò asciutto il biondo. Aveva una strana luce negli occhi, una sicurezza che lo rendeva carismatico ed affascinante.
Sforzandosi di apparire naturale, e per nulla impressionata, Sophia sbottò:
« Non ti ho chiesto niente, me la sarei cavata da sola »
« Sì, ma io non ci avrei ricavato nulla e si da il caso che stessi morendo di fame »
Punzecchiare Sophia non rientrava solo nella lista delle piccole gratificazioni personali, era pure un espediente per tirare fuori il lato più autentico della sua personalità, lo stesso che fino a quel momento, solo Castiel riusciva a far affiorare.
Erano parecchi giorni che il biondo non la incontrava e viveva quella separazione come una mancanza, una privazione. Il loro ultimo incontro si era svolto all’insegna della sincerità reciproca, si era aperto con lei, come non aveva mai fatto con nessun’altra ragazza prima, nemmeno Rachel o Rosalya.
Avrebbe voluto così tanto che anche lei riuscisse a scorgere in lui delle qualità che la portassero a desiderare la sua compagnia, perché per quanto lo riguardava, quella di Sophia stava diventando irrinunciabile. Non passava giorno che non si chiedesse cosa stesse facendo, quale mistero la tenesse lontana da Erin e come avrebbe potuto aiutarla.
« Non ti basterà certo un misero pezzetto di cioccolato a farti passare la fame » borbottò lei, incamminandosi verso il corridoio.
« Infatti stavo andando a pranzo. Tu hai già mangiato? »
Quell’implicita proposta la prese in contropiede, costringendola ad arrestarti di colpo. Stava per rispondere con una bugia, quando il tempismo impeccabile del suo stomaco sprigionò un brontolio insopprimibile, quasi l’avesse voluta battere sul tempo. Non era la prima volta che le capitava di fare una simile figuraccia, ma non per questo non avvampò, mentre Nathaniel ridacchiava divertito:
« Lo prendo per un no… dai, vieni come me »
 
« Aspetta aspetta… troppe informazioni: tu pensi che se scopri chi è l’autore di questo quadro, capirai cosa nasconde tua sorella? » riepilogò Alexy confuso.
« Non solo l’autore » chiarì Erin, alzando l’indice « ma tutto quello che c’è da sapere: dove l’ha trovato, quando è stato dipinto e cose così… più informazioni abbiamo, e più ho speranze di far luce sulla vicenda »
« Non sarà facile, si tratta di fare un’indagine alla Sherlock Holmes » osservò Lysandre, chiudendo il suo quaderno nero, sul quale aveva appuntato alcune frasi.
Ormai nessuno dei presenti proponeva di trascorrere la pausa pranzo in mensa: l’inverno volgeva al termine e il loro ritrovo sulle scalinate nascoste in quell’angolo del liceo era troppo intimo per rinunciarvi. Erin aveva trascorso gli ultimi dieci minuti ad illustrare per filo e per segno, tutti i dettagli riguardanti sua sorella e lo strano mistero che la riguardava:
« Lo so Lys, è per questo che ve ne sto parlando. Voglio far vedere anche a voi questo quadro, magari mi aiutate a cogliere qualcosa che a me sfugge »
« Ce l’hai qui a Morristown? » chiese Rosalya.
« Sì, sono andata a prenderlo ieri » spiegò Erin, mentre sfogliava la galleria del cellulare.
Dopo pochi secondi voltò il display verso gli amici, che si accerchiarono attorno allo schermo per osservare la foto.
« Non si vede granché » masticò Kentin, con la bocca piena.
« Provo ad ingrandire »
Mentre Armin e il cadetto afferravano il cellulare ed esaminavano la foto con attenzione, Iris soggiunse:
« Sei proprio sicura che Sophia non ti dirà nulla? Magari se provi ad insistere ancora… »
« No » dichiarò Erin con fermezza, mentre il suo smartphone passava da una mano all’altra.
Tra i presenti, l’unico ad apparire disinteressato alla questione era Castiel, appollaiato come un gatto sul muretto di mattoni poco lontano.
Il giorno prima, Erin si era presentata a casa sua, giungendo direttamente da Allentown, per mostrargli il fatidico dipinto. Il musicista, dopo averlo osservato con interesse, non era riuscito ad estrapolare alcuna considerazione aggiuntiva rispetto a quelle avanzate dall’amica e le aveva consigliato di rimandare la questione all’indomani, a scuola.
« Questo è lo stesso che ho visto a casa tua a Natale? » indagò la vocina flebile di Violet.
Erin annuì, mentre Rosalya dichiarava:
« Allora, stando a quello che ci ha detto Violet quella volta, il quadro non è opera di Sophia. Questo è già un indizio »
Si voltò verso l’artista, che confermò l’ipotesi avanzata due mesi prima.
« Perché lo pensi? » si incuriosì Alexy.
« Ho visto altre opere di Sophia e questa ha uno stile diverso, oltre che più maturo »
« È dipinto ad olio? » domandò Lysandre.
« Credo di sì, ma non me ne intendo molto di pittura » bofonchiò Erin.
Il cellulare era ora adagiato tra le mani di Rosalya che, accidentalmente, anziché ingrandire, passò all’immagine precedente della galleria.
Si trovò sotto il naso un viso familiare, uno di quelli che con poco, riusciva a scatenare in lei una certa irritazione.
Sorrise ebete, voltandosi verso la mora, seduta accanto a lei. L’amica, a sua volta, ricambiò dapprima con un’occhiata perplessa ma, non appena realizzò la causa di quella reazione, avvampò per l’imbarazzo. Teneva gelosamente segreta quella foto di Castiel ma, per quante volte l’avesse ammirata, si era dimenticata che il suo piccolo tesoro fosse così facilmente vulnerabile all’indiscrezione altrui:
« Eh-eh, chissà che altre foto compromettenti ci sono in questa galleria » la sfottè Rosalya sottovoce, mentre il resto degli amici non si era accorto del loro soffuso scambio di battute.
« Che cretina che sei » borbottò Erin, spegnendo lo schermo « e poi non dovresti sbirciare le foto altrui »
« E’ venuta fuori da sola »
L’amica le lanciò un’occhiata gelida, che non guastò il buon umore della stilista, mentre Armin interveniva:
« Da quello che si intravede, c’è disegnato un parco… un bosco… »
« Già, bisognerebbe controllare se ci sono degli elementi che si possano ricondurre a qualche luogo specifico » considerò Lysandre.
« E il quadro non ha firma, giusto? » chiese conferma Kentin.
Castiel continuava a gustarsi il suo pranzo a sacco, senza prendere parte alla discussione, finché non fu proprio Rosalya a richiamarlo:
« Ariel, smettila di fare l’asociale e vedi di dare una mano anche tu! »
« Ma non rompere le palle Rosa » la redarguì lui, masticando rumorosamente « vi sto ascoltando e non ho niente da aggiungere »
« Secondo me è offeso perché non abbiamo dato il giusto merito alla sua notizia shock » lo canzonò Armin.
« No anzi, meno vi fate i cazzi miei, più contento sono » dichiarò il cestista, accartocciando l’incarto e centrando il bidone della spazzatura.
« Quando andrai da tua madre quindi? » domandò Lysandre, ignorando platealmente l’ultima dichiarazione del rosso.
« Dopo le Bahamas… allora, dicevate che il quadro non ha firma » tentò di sviare il musicista.
Nel vederlo in leggero disagio per quell’interesse che si era spostato improvvisamente su di lui, il sadismo di Rosalya si pronunciò:
« Eh no Cassy, adesso parliamo un po’ di te e della tua sorellina. Dovrai presentarcela, lo sai no? »
Gli occhi felini e vispi della ragazza si gustarono ogni piega della fronte del nemico, intenzionato a non prestarsi al suo divertimento:
« Ma se i bambini ti fanno venire il nervoso… »
« Anche a te se è per questo, quindi dobbiamo assicurarci che tu non traumatizzi Hailey »
Il rosso stava per replicare, quando intervenne Iris:
« Ha circa l’età di Adam, potrebbero diventare amici »
Mentre Castiel la fissava infastidito, Armin subentrò:
« Non riesco proprio ad immaginarti come fratello maggiore »
Mentre il resto degli amici si divertiva a punzecchiare il ragazzo, Rosalya sussurrò ad Erin:
« Andrai anche tu con lui a conoscere la tua futura suocera? »
Le arrivò una gomitata, a cui la stilista rispose con una risatina stupida, senza sapere di aver indovinato le intenzioni di Erin. Castiel infatti le aveva promesso che l’avrebbe portata con sé a conoscere Hailey, anche se i due avevano stabilito di non dirlo agli altri.
Era un momento delicato per lui e, per qualche motivo, la presenza dell’amica gli sarebbe stata di supporto. La mora si sentiva lusingata da quell’esclusiva e, pur non essendo molto brava con i bambini, si era ripromessa di aiutare l’amico a relazionarsi con quella nuova sorellina.
Ormai aveva imparato a interpretare parte dei comportamenti dell’amico e di una cosa era sicura: l’idea di incontrare Hailey lo rendeva particolarmente nervoso.
 
« Non mi hai ancora detto che ci fai qui »
« Tu non me l’hai ancora chiesto » obiettò Sophia, masticando dell’insalata insipida. Non era più abituata a consumare un pasto di qualità scadente attorniata da coetanei a cui toccava la stessa sorte. Ormai erano più di sette mesi che era estranea all’ambiente scolastico e, con esso, alle tristi mense. Provò quasi un moto di nostalgia, che scacciò prontamente quando Nathaniel recitò con ironia:
« Perché sei al campus? »
« Perché non sono fatti tuoi »
Continuava a tenere lo sguardo puntato sul piatto, come se i chicchi di mais che punteggiavano la lattuga meritassero tutto il suo interesse. Il biondo la scrutava attentamente, poi constatò:
« Comincio a pensare che tu soffra di androfobia, sai? »
« Sarebbe? »
« La paura dei maschi »
Sophia scoppiò in una risata esagerata, che fece voltare alcune persone attorno a lei:
« Quanto sei scemo » dichiarò, asciugandosi una lacrima ai lati degli occhi.
« E tu complessata » non demorse lui.
« Senti chi parla »
« Ho notato che sei stronza solo con i ragazzi » insistette Nathaniel, con una convinzione che la offesero.
« Non è vero! » si oppose lei « io sono stronza e basta »
Il biondo sorrise, mentre lei incrociava le braccia al petto in segno di ostilità:
« Non è vero… » mediò lui con dolcezza.
Quel sorriso sortiva l’effetto di una medicina su Sophia: guariva il suo malessere, ma ingoiarlo era un boccone amaro.
« Smettila Nathaniel » pensò lei tra sé e sé « i tuoi sorrisi non sono per me »
Non c’era modo di sopire le sue emozioni se non quello di infierire su di esse, ricorrendo ad una sorta di formula magica che le avrebbe ribadito il motivo principale per cui doveva dimenticarlo:
« Rosalya come sta? »
« Bene, sta sfogando un po’ della sua rabbia repressa su Castiel » spiegò Nathaniel, accartocciando un tovagliolo di carta.
Sophia quasi si strozzò:
« È-è tornato? »
« Sì, Erin non te l’ha detto? »
No, non gliel’aveva detto.  
Era dal giorno del loro litigio ad Allentown che le due sorelle non si sentivano. Per bocca di suo padre, Sophia sapeva che la Atlantic aveva vinto il terzo posto del torneo, ma nulla di più.
Il fatto che la gemella non l’avesse contattata per raccontarle del ritorno di Castiel, mise la rossa di fronte alla concreta possibilità che Erin le serbasse rancore come mai era accaduto in passato. Eppure non era da lei tenerle il muso, normalmente preferiva rinunciare alla propria causa, in nome dell’amore che le legava.
Sophia poteva capire perfettamente il punto di vista della gemella, ma quella volta più di ogni altra, aveva bisogno che rispettasse i suoi spazi, che le lasciasse ancora del tempo.
Erin tuttavia era diversa, non era più la stessa sorella che aveva lasciato ad Allentown: l’essere così determinata nel difendere la propria posizione, rientrava in quei piccoli miglioramenti che avevano fatto sì che diventasse più forte. Per contro, come se una sorta di maledizione binaria le legasse, più Erin maturava, più Sophia si sentiva fragile.
« Tutto ok? »
Alzò lo sguardo verso il biondo, che la fissava perplesso, quasi preoccupato:
« Cosa? » mormorò sovrappensiero.
Il ragazzo sbattè le palpebre confuso e ripetè:
« Mi sembri assente, che ti prende? »
La ragazza cominciò a giocherellare distrattamente con gli avanzi rimasti sul piatto, a causa di un appetito che era scomparso all’improvviso.
« Io ed Erin non ci parliamo più » mugolò.
La vivacità dei suoi occhi si era spenta tutt’ad un tratto e, con essa, se ne era andata anche la spavalda sicurezza con cui aveva interagito con Nathaniel fino a quel momento.
« Posso chiederti perché? » le chiese lui con prudente gentilezza. La fissava di sottecchi, come un esploratore che cerca di indagare lo stato di vigilanza di una belva.
« Puoi farlo, ma non ti risponderò »
Il biondo sbuffò paziente:
« Che cosa devo fare con te Sophia? » mormorò d’un tratto, abbandonandosi contro lo schienale della sedia « sei circondata da persone che cercano disperatamente di capire cosa ti passi per la testa, e l’unica cosa che sai fare, è chiuderti a riccio »
Lei spostò lo sguardo sul cortile, visibile dal vetro appannato dell’ampia vetrata della mensa. Una patina di malinconia aveva poggiato un delicato tocco sulle sue iridi verde bosco. Un gruppo di piccioni si era concentrato attorno a quanto rimaneva di un pacchetto di cracker, lasciato incustodito su una statua.
« Non capisco perché insisti nel voler sapere come stanno le cose » bisbigliò sconfitta, senza staccare l’attenzione dallo stormo beccheggiante.
« Perché mia sorella è preoccupata per te » le rispose con fermezza.
Lei deglutì in silenzio, mentre sul riflesso del vetro si materializzava l’immagine di Ambra, una delle sue più care amiche. Non voleva farla stare in pena, come non voleva prolungare l’agognante curiosità di Erin.
 Tutta quella situazione stava diventando sempre più ingestibile: nel tentativo di proteggere le persone a lei care, Sophia stava rischiando di ferirle in modo irreparabile.
« E anche io inizio a preoccuparmi per te, Sophia »
Spostò finalmente lo sguardo su di lui, annegando in un paio di iridi color dell’oro, calde e rassicuranti, che le infusero una scarica di tepore tale da lenire parte della sua inquietudine.
« Dimmi solo come posso aiutarti »
 
La metratura dell’appartamento di Pam non permetteva di classificarlo come un locale spazioso, bensì risultava piuttosto raccolto e contenuto. Quel giorno in particolare, a causa della presenza di una decina di adolescenti, si aveva la percezione che lo spazio si fosse addirittura rimpicciolito.
« Mi sembra di tornare al tuo compleanno, Erin » aveva commentato Armin, spaparanzandosi svaccato sul divano.
Rosalya, Iris, Violet, Lysandre e Alexy si erano disposti ordinatamente attorno al tavolo, in attesa che Erin servisse loro una bibita fresca. Kentin era impegnato a studiare i pochi volumi disposti sulla libreria dell’Ikea, accarezzandone con delicatezza le costine rilegate. Solo Iris si accorse della sua posizione e rimase a fissarlo per un po’, incantata. Quel ragazzo era strano, quasi enigmatico, non riusciva a decifrarne la personalità, che sembrava sdoppiarsi nel dualismo di un militare intellettuale: accanto ad atteggiamenti rozzi e cafoni, Kentin sapeva comportarsi con delicatezza e sensibilità.
« Già, quella volta c’eravamo tutti » stava dicendo Rosalya « mancava solo Kentin e quell’altro idiota… a proposito: Castiel dov’è? »
I presenti si guardarono attorno spaesati, convinti che il rosso li avesse seguiti all’interno dell’appartamento.
« È in bagno » mormorò Erin, poggiando sul tavolo un vassoio di bicchieri tintinnanti.
« Dov’è la belva? » chiese Armin, alzandosi dal divano.
« Sei sordo? È in bagno » ripetè la padrona di casa, sovrappensiero, mentre distribuiva della Coca-Cola.
« Non stavo parlando di Castiel! » rise il moro « ma di Ariel! »
I presenti scoppiarono a ridere, mentre la padrona di casa lo informava che la sua micia stava probabilmente dormendo in camera sua.
« Meglio così, sennò inizia a soffiarci contro finché non ce ne andiamo » sentenziò la stilista, riempiendosi il bicchiere. L’odio che l’animale provava per qualunque essere umano che non fosse Erin o Lysandre, era risaputo tra i suoi amici che pertanto cercavano di tenersene alla larga.
« Che ne diresti Erin di mostrarci questo fatidico quadro? » domandò il poeta, deglutendo la bevanda e passandosi velocemente la lingua sulle labbra.
« È in camera. Aspettatemi qui, vado a prenderlo »
Lasciò i suoi ospiti in salotto, sorpassando il bagno la cui porta era stranamente aperta e lasciava intendere che non vi fosse nessuno all’interno. Non fece quasi in tempo a chiedersi che fine avesse fatto Castiel, che lo trovò seduto sul suo letto. Le dava le spalle, per cui non si accorse subito di lei e questo diede modo alla ragazza di assistere ad una scena inaspettata: beatamente distesa a pancia all’aria, la sua Ariel aveva un’espressione estatica mentre l’amico alternava le sue carezze tra il mento e il ventre dell’animale. La gatta emetteva delle sonore fusa ed era l’unica presente in quella camera, a poter apprezzare il tenero sorriso con cui il ragazzo la fissava.
« Ehi! Non è giusto! »
La gattina trasalì, rotolando su se stessa e mettendosi in agguato, così come il suo massaggiatore, che si girò di scatto:
« Ariel! » la riprese Erin, portandosi le mani sui fianchi « non puoi già socializzare con il nemico! »
Castiel la fissò senza capire mentre la mora, lanciando saette al suo animale da compagnia, spiegò:
« Cioè, io ci ho messo mesi a convincere Demon a non sbranarmi e lei, che non va d’accordo praticamente con nessuno, si lascia accarezzare così da te? »
« Preferivi che mi graffiasse? » domandò lui dubbioso, mentre la micetta iniziò a strofinare il nasetto umido contro i jeans del ragazzo. Erin non replicò, ma camminò indispettita verso la scrivania, da cui afferrò una cornice voluminosa, contorno del tanto chiacchierato quadro.
Abbandonò la stanza, leggermente irritata, mentre gli occhi neri di Ariel cercarono quelli grigi del ragazzo:
« La tua padrona è strana forte » commentò lui perplesso.
 
La superficie trasparente dell’acqua rifletteva i raggi di un sole che, anche se insufficiente a scaldarla, le conferiva delle rifrangenze luccicanti. Quella fontana, piazzata al centro del cortile dell’area Ovest, era una delle preferite di Sophia e, passandoci accanto, non aveva perso l’occasione per rimirarne i particolari in pietra.
« Non voglio sapere i dettagli della faccenda » esordì il biondo, che stava camminando al suo fianco « voglio solo capire come aiutarti »
Si erano lasciati alle spalle l’affollata e rumorosa mensa, per optare per un luogo più appartato, dove potessero discutere in tranquillità.
« Non posso farmi aiutare da nessuno » mormorò la rossa, sedendosi sul bordo umido della fontana.
Il ragazzo sospirò e si piazzò davanti a lei, restando in piedi. Aveva le mani affondate nelle calde tasche del giubbotto blu scuro, perfetto per il suo incarnato.
« Perché? »
« Perché non sarebbe giusto »
Nathaniel sapeva di dover dar fondo a tutte le sue scorte di pazienza e diplomazia se intendeva scucirle qualche confessione. Ne analizzava lo sguardo sfuggente, le guance leggermente arrossate dal freddo e dal disagio e non poteva che provarne tenerezza. Si accucciò davanti a lei e con dolcezza e ripeté:
« Perché? »
Lei si morse il labbro, abitudine che la accumulava alla sorella ed era proprio su quest’ultima che si erano concentrati i suoi pensieri.
« Perché non voglio che Erin sappia di questa storia, non ora almeno… e se non la dico a lei, è ingiusto che la sappia qualcun altro »
« Allora raccontami solo una parte della storia » patteggiò Nathaniel.
« Che parte? »
« Boh, magari quella che ti trattiene qui »
Sophia deglutì, ripensando alle parole del suo amico Space del giorno prima. Era in una situazione di stallo, sempre più confusa e disorientata. L’unica sua certezza era tenere la gemella all’oscuro di tutto, mentre il desiderio di appoggiarsi a qualcuno iniziava pericolosamente a tentarla, facendo vacillare la sua ostinazione.
Nathaniel era lì, davanti a lei, pronto ad ascoltarla ed aiutarla e, anche se le costava un certo sforzo ammetterlo, era contenta di poter usare quel pretesto per averlo vicino.
« Come amico » le ricordò la sua coscienza.
« Sarà il nostro segreto, non dirò a nessuno quello che mi racconterai » le promise il biondo.
Lei lo squadrò di sottecchi e, finalmente, il ragazzo vide un cedimento in quell’armatura di riserbo e mistero:
« Prometti che non ne farai parola con nessuno? » gli sussurrò incerta.
Lui annuì con serietà, guardandola dritta negli occhi, così Sophia precisò:
« Ci saranno domande a cui non ti risponderò »
« Cercherò di non fartele allora » pazientò lui.
Sophia inspirò a fondo, alzandosi dal comodo giaciglio di pietra. Iniziò a camminare per il giardino, mentre lui la seguiva in silenzio.
Arrivarono di fronte ad un vecchio acero e, accarezzandone il tronco nodoso, la ragazza raccontò:
« L’anno scorso ho trovato casualmente un quadro e ne sono rimasta affascinata »
« Casualmente? »
Lei sorrise paziente e soggiunse:
« Questa è una domanda a cui non risponderò »
Dopo quella replica, Nathaniel realizzò quanto fosse precario il loro equilibrio: un minimo movimento falso e Sophia si sarebbe richiusa a riccio, ostacolando ogni conversazione. Optò quindi per il silenzio, in attesa che fosse lei a proseguire.
« È un olio su tela, rappresenta un parco. La vegetazione è rigogliosa, i colori dei fiori vivaci…  mi ricorda un po’ i quadri di Renoir, hai presente? »
Il ragazzo annuì, mentre l’artista proseguiva:
« Sin dalla prima occhiata, quel quadro mi colpì. È qualcosa di irrazionale, e non mi aspetto che tu lo capisca, ma ho sentito il bisogno di conoscere di più sul suo autore. Quando presi questa decisione, le vacanze estive erano alle porte e, visto che i misteri mi hanno sempre affascinato, pensai che fosse un passatempo divertente, oltre che stimolante. Dopo aver individuato la città in cui si trovava quel giardino, mi ci sono recata, ma non sono riuscita a scoprire granché. Era un paesino piccolo, di periferia, ma nessuno sapeva dirmi chi potesse aver realizzato quel dipinto. Avrei voluto fermarmi qualche giorno in più, quando mi arrivò il messaggio di una mia carissima amica, Candy, che non sentivo da mesi: mi raccontò di aver rotto con il suo ragazzo tempo addietro e che quella separazione l’aveva destabilizzata più di quanto immaginasse. Voleva andarsene lontano, lasciarsi tutto alle spalle e mi chiese di andare con lei in California. Ovviamente rifiutai: avevo ancora la scuola da finire, la mia famiglia e le mie indagini… inizialmente erano motivate dalla curiosità e dal desiderio di avventure, ma pian piano stavano diventando una vera e propria ossessione.
Tuttavia, una settimana dopo averla lasciata partire da sola, accadde qualcosa che mi fece rimpiangere la mia decisione: io ed Erin fummo investite e, per un pelo, lei si salvò. Quella volta ero io al volante, anche se avevo alzato il gomito e »
Non riuscì ad aggiungere altro per qualche secondo: la voce era accorata, il labbro inferiore le tremava e il cuore aveva iniziato un battito sfrenato. Ricordare le ore a seguito dell’incidente le suscitava sempre la stessa reazione, perché l’angoscia di aver rischiato di perdere Erin, era opprimente.
« …Non rispettai uno stop. Io me la cavai con poco, perché la vettura veniva dalla parte del passeggero.  Erin aveva perso moltissimo sangue e fu necessario farle delle trasfusioni, con sangue che io non potei donarle perché a mia volta il mio fisico era molto debilitato.
Erin rimase in una sorta di coma per un paio di giorni e quando si risvegliò, i medici le diagnosticarono un’amnesia temporanea. Vedere il suo sguardo vuoto e assente, mentre mi chiedeva chi fossi, mi pietrificò. Era colpa mia, capisci? Se lei non fosse tornata quella di prima, io… »
Strinse i pugni contro la stoffa del maglione, imponendo a se stessa di non piangere.
Non in quel momento. Non davanti a lui.
« Durante il ricovero di Erin, le circostanze mi spinsero ad una scelta di cui tutt’ora ne sto pagando le conseguenze: chiamai Candy, la mia amica e le chiesi ospitalità qui, in California. Avevo bisogno di tempo e spazio per riflettere, perché in quel periodo una parte di me era andata in frantumi, avevo un disperato bisogno di stare sola ed allontanandomi da Allentown, potevo cercare quella serenità che avevo perso. Erin non doveva vedermi in quello stato, volevo che continuasse ad illudersi che fossi la gemella forte, quella che non si piega davanti a nulla. È sempre stata una bugia, una farsa, ma lei mi vedeva così e doveva continuare a farlo. Se fosse crollata lei, io non ce l’avrei fatta a restare in piedi »
Si fermò per un po’, poi si lasciò sfuggire un sogghigno amaro:
« E’ sempre stato così ingenua da non accorgersi che è lei quella forte. È Erin quella che nei momenti davvero difficili tira fuori la grinta, io so solo trovare un posto sicuro in cui piangere o nascondermi »
« Allora perché non le racconti tutto? » puntualizzò Nathaniel confuso:
« Perché ora come ora, la paura di vederla soffrire, mi paralizza »
 
Dopo un’analisi scrupolosa del quadro, Alexy aveva sbuffato:
« Non saprei proprio cosa dirti Erin… cosa possiamo capire da un semplice dipinto? »
Lysandre stava per aprire bocca, quando il campanello suonò. Nove teste si voltarono di scatto, mentre Armin si sollevava pigramente dal divano:
« Deve essere Ambra: le ho detto di venire a prendermi qua »
Tutti i presenti erano al corrente dell’imminente colloquio tra l’amico e il signor Daniels, uno dei colossi dell’industria informatica. Anche se avevano cercato di rassicurarlo, erano segretamente e unanimemente convinti, che l’uomo volesse dargli una bella strigliata per il danno d’immagine che aveva recato all’azienda, infiltrandosi nel sistema. Seppur Nuvola Rossa fosse un ricordo che viveva nella memoria di pochi addetti al settore, ciò che aveva combinato durante il suo periodo di attività non poteva essere ignorato.
« Certo che Armin, farti venire a prendere da una donna… » lo canzonò Kentin, occupando il posto sulla poltrona rimasta libera. Si trovò accanto Castiel, che per tutto quel lasso di tempo, aveva dedicato le sue attenzioni esclusivamente ad Ariel e alla sua morbida pelliccia.
« Non viene a prendermi lei, ma l’autista! » puntualizzò il moro, rispondendo ad un messaggio sul cellulare.
« Ti fai trattare da principino » rincarnò la dose il rosso, pronunciando la prima frase dopo mezz’ora di isolamento.
In lontananza sentirono che la padrona di casa invitava Ambra a salire, parlando al citofono. Erin lasciò così la porta aperta e dopo un paio di minuti, quest’ultima venne varcata dall’ospite temporanea. Sorpresa per l’affollamento della stanza, la bionda commentò in leggero imbarazzo:
« Non avevo capito che eravate tutti qui »
« Sì, siamo nel mezzo di un’indagine investigativa: scoprire qualcosa su quel quadro »
Era stato Armin a parlare, indicando l’oggetto appoggiato sul tavolo da pranzo. La bionda allora, incuriosita, gli si avvicinò, sporgendosi a guardarlo con interesse.
Nove paia di occhi si focalizzarono sulla sua figura longilinea, incurvata sul dipinto.
Le dita sottili accarezzarono la cornice lignea, con una delicatezza quasi timida e bisbigliò infine:
« È una cornice di Leroy? »
« Di chi? » scattò Erin perplessa.
Ambra non rispose e continuò ad esaminare l’oggetto con scrupolosa attenzione. Con l’unghia tamburellò su un lato della cornice che oppose una resistenza tale da farle sussurrare:
« Ebano »
Solo quando si decise ad alzare nuovamente gli occhi sul resto dei presenti, si accorse di quanto fossero sorpresi. Eppure, anche in lei era affiorata una sensazione analoga e ne approfittò per chiedere:
« Si può sapere dove lo avete preso questo quadro? Solo la cornice vale almeno duemila dollari »
Al suono di quella cifra, la padrona di casa sbiancò: era fuori discussione che sua sorella avesse acquistato un quadro di simile valore. Si insediò in lei allora l’inquietante sospetto che fosse rubato, ma la sua razionalità convenne che non era dalla gemella commettere un atto deplorevole come un furto, specie di tale entità.
Mentre era impegnata ad elaborare una spiegazione, Lysandre intervenne:
« Conosci questo artigiano? »
« Di fama. La mia famiglia ha un paio di cornici sue »
« Mi ripeti il nome di questo tizio? » domandò Erin.
« È una donna » la corresse Ambra « e si chiama… »
 
« Tracy Leroy » rispose Sophia « Sono arrivata al suo nome grazie a Candy, che ne ha riconosciuto la cornice »
« Sì beh, è una famosa artigiana » commentò Nathaniel.
« L’hai già sentita nominare? » si stupì la rossa
« Sì, la mia famiglia ha qualcosa di suo, meno di quanto mia madre avrebbe desiderato »
« Perché? »
 
« Si dice che sia morta » esclamò Ambra, continuando a fissare il quadro.
 
« Come sarebbe a dire? » sbiancò Sophia « Io so che vive qui in California… da qualche parte! »
« Chi te l’ha detto? »
« L’ho scoperto chiedendo a vari negozi di belle arti qui a San Francisco, purtroppo però l’unica pista che ho seguito mi ha fatto parlare con un vecchio rincoglionito che a mala pena ricordava che fosse una donna »
 
« Oh no! » sospirò Erin frustrata « il primo indizio che abbiamo ed è già è sfumato! »
La bionda la fissò interrogativa per qualche secondo, poi improvvisamente il suo viso si contrasse e le sopracciglia chiare si piegarono sopra i suoi occhi azzurri, così la mora aggiunse:
« Questo quadro è di mia sorella. Sono sicura che c’entra qualcosa con il segreto che si ostina a celare »
« È di Sophia? »
In quella domanda c’era tutto il suo sconcerto, misto a note di panico e timore. Quei sentimenti si trasformarono in una sorta di indignazione quando vide Erin annuire gravemente.
Ambra si allontanò in fretta dal tavolo, come si fosse improvvisamente rivelato un oggetto maledetto.
« Che hai? » le chiese Alexy.
« Non voglio intromettermi in questa storia » sentenziò la bionda con severità, dirigendosi verso l’uscita.
« Sai qualcosa? » la attaccò Rosalya.
« No, ma se anche lo sapessi, non lo direi » replicò secca. Dalle espressioni degli altri, capì di essere stata fin troppo brutale nell’esternare la sua posizione, così ritrattò:
« Non ho nulla contro di te, Erin… sul serio, ma Sophia è mia amica e l’unica cosa che so è che vuole che restiamo tutti fuori da questa faccenda, tu per prima. Se ti assecondassi, sarebbe come tradirla »
Erin boccheggiò, incapace di replicare, mentre Rosalya, di temperamento ben più impulsivo, montò su tutte le furie:
« Al diavolo questo senso di solidarietà! Tu sai qualcosa e non ce lo vuoi dire! »
Diversamente dalla stilista, il resto dei ragazzi era rimasto impressionato da quella manifestazione di lealtà da parte di Ambra. Capivano il suo punto di vista ma era difficile realizzare che sentimenti così nobili si celassero sotto quella cascata di capelli biondi.
« Non è così, White » replicò duramente l’altra: ben poche ragazze potevano tener testa ad una come Rosalya ed Ambra rientrava facilmente in quell’esclusiva cerchia. Non era il tipo da farsi intimorire, specie quando era convinta dell’inappuntabilità della sua decisione.
« Ambra » la chiamò pazientemente la voce di Iris « abbiamo bisogno di te per far luce su questa faccenda. Noi è da mezz’ora che fissiamo questo quadro senza aver trovato nulla mentre tu, in dieci secondi, hai già capito chi è l’autore della cornice »
« Mi dispiace Iris, ma non saranno le lusinghe a intenerirmi »
Una ragazza sveglia e sensibile come Ambra, sapeva che i suoi modi bruschi venivano fraintesi, ma credeva nel valore della franchezza per sottrarsi a situazioni scomode. Non poteva permettersi di tentennare, lasciare che la implorassero di aiutarli, perché così facendo, ne era quasi certa, avrebbe finito per cedere.
« E comunque, se può essere di consolazione, questa è l’unica cosa che mi viene in mente guardando quel quadro. Di più non saprei dirvi » concluse.
« Ambra » quasi la supplicò Erin « ti prego, per me è importante »
La fissava con i suoi occhi grandi ed espressivi, troppo dolci e teneri per lasciarla indifferente:
« Credi che questa situazione mi diverta? Non posso Erin, davvero, non mettermi in difficoltà »
Era in inferiorità numerica, attorniata da quelle nove persone i cui sguardi oscillavano dalla recriminazione, dipinta sul volto di Rosalya, alla tenerezza di Erin.
 
« Ascolta Sophia, è l’ultima volta che te lo chiedo, poi giuro che non insisterò più : sei sicura che non vuoi parlarmi del perché ti ostini a restare qui? »
Ambra vide gli occhi della rossa ingrandirsi in un’espressione spiazzata, per poi distogliersi dai suoi che la scrutavano con intensità. La sua interlocutrice sembrava sfuggente e, diversamente dal solito, particolarmente riservata:
« Sto cercando una persona, e non me ne andrò finché non l’avrò trovata » borbottò infine, con un filo di voce.
« Una persona » ripetè Ambra.
« Sì »
La bionda metabolizzò quell’informazione in silenzio, poi obiettò:
« Non puoi pagare un detective? »
La risposta non le arrivò istantanea. La rossa tergiversava, soppesando le parole migliori con cui esprimersi, come se temesse di rivelare troppo.
Dopo cinque estenuanti secondi di silenzio, la ragazza spiegò:
« A  mala pena riesco a tirare fuori i soldi per l’affitto e il resto… »
« Se è per questo, ti aiuto io »
Sophia scosse la testa  con decisione, appena udì quella generosa offerta:
« Non se ne parla… è una cosa che devo fare io in prima persona, non deve occuparsene nessun altro…e poi… »
« E poi? » incalzò Ambra.
«… Ho fatto una promessa »
« Che genere di promessa? »
« Di quelle che non vanno mai infrante » concluse l’amica con un’espressione criptica.
Ambra sospirò delusa. Da un lato avrebbe voluto insistere, strappare a Sophia quella verità che stava nascondendo a tutti i costi, ma dall’altro, si imponeva di rispettare la sua privacy e la volontà che non venisse violata:
« Nient’altro? Mi dici solo questo? » riepilogò amareggiata.
« E’ abbastanza » precisò Sophia e, assicurandosi che l’amica la fissasse dritta negli occhi, le strappò una promessa:
« Tu però non parlarne con mia sorella, ti prego. Lei non sa niente di questa storia »
Non aveva mai visto Sophia con un’espressione tanto greve e scura. Tutto il mistero che avvolgeva quella questione, per quanto angosciasse e incuriosisse Ambra, andava dimenticato, in nome dell’amicizia che le legava.
« D’accordo » convenne infine la bionda, sospirando rassegnata « spero almeno che tu sappia quanto ad Erin pesi questa situazione »
« Lo so » tagliò corto Sophia « ho solo bisogno di altro tempo »
(Capitolo 45 –Verso la semifinale)
 
« Devo andare, scusatemi » mormorò a disagio.
Loro non potevano capire.
Sophia era stata la sua prima vera amica, la persona che era riuscita a cogliere l’essenza più bella e autentica di una personalità apparentemente egoista e cattiva. Le aveva fatto apprezzare se stessa come mai nessuno prima; tra di loro si era creato un legame talmente saldo che non avrebbe permesso a nessuno di comprometterlo.
Tuttavia, anche se la volontà della rossa aveva la priorità assoluta, Ambra detestava trovarsi tra due fuochi, poiché in uno di essi vi erano Armin e i suoi amici. Non osava guardarlo in faccia, nel timore di vedere una smorfia delusa. Stava quasi iniziando a dubitare che volesse ancora accettare l’invito di suo padre, quando lo sentì dire:
« Io vado, ci vediamo domani »
Gli unici a rispondere al saluto furono Erin ed Alexy, mentre gli altri li guardavano andare via in silenzio.
 
Appena si chiusero la porta alle spalle, Rosalya esclamò:
« Detesto ammetterlo, ma dobbiamo trovare un modo per convincere Ambra ad aiutarci! Lei conosce un sacco di gente, ha degli agganci che ci potrebbero fare comodo »
« Ed è molto intelligente » osservò Lysandre sovrappensiero.
« Scusa se siamo un branco di capre » replicò la stilista piccata.
« Perché non cerchiamo il nome che ci ha detto su internet? » s’intromise Iris.
La stilista nel frattempo aveva già il naso incollato allo schermo del cellulare e le dita in movimento.
« Non trovo un cazzo! » sbottò dopo qualche minuto « Erin, prendi il computer! »
Mentre le ragazze ed Alexy si concentravano nello scorrere i risultati, Lysandre e Violet scrutarono attentamente la cornice:
« È una vera artista »
« Già, del resto Ambra ci ha detto che è famosa »
In attesa di ricevere qualche informazione, Alexy si era spostato da Castiel, seduto sul divano con Ariel addormentata sulle sue gambe:
« E’ strano vederla così mansueta »
« E’ più facile trattare con gli animali che con le persone » sussurrò il chitarrista, rapito dalla gattina.
« Solo se sei socialmente inabile »
Mentre i due avevano intrapreso un dibattito sulle relazioni interpersonali, Kentin si era isolato sulla poltrona a mangiucchiare dei Mikado. C’erano fin troppe persone impegnate nella ricerca di informazioni e il suo contributo sarebbe stato del tutto superfluo.
 
Dopo un quarto d’ora, il trio di investigatrici gettò la spugna:
« Trovato nulla? » domandò Lysandre.
« Qualcosa sì… » mormorò Iris.
« Un cazzo, un cazzo abbiamo trovato! » imprecò Rosalya frustrata.
«Rosa calmati » la sedò Erin « certo non potevi sperare che trovassimo il suo indirizzo »
« Cosa avete scoperto? » s’intromise Alexy, alzandosi dal divano e raggiungendo gli amici.
« Tracy Leroy è un’artigiana rinomata per le sue cornici… sono considerate delle vere e proprie opere d’arte. Abbiamo trovato qualche immagine di alcune sue creazioni »
« Posso vederle? » squittì Violet, avvicinandosi al PC.
Erin allora voltò lo schermo, in modo che l’artista potesse passare in rassegna le foto.
« E oltre a queste immagini non avete trovato altro? »
La mora fece cenno di diniego col capo e si abbandonò contro lo schienale della sedia.
« La pista è quella giusta, lo sento, ma ci siamo impantanati in un punto morto. Anche se in questo trafiletto confermano quanto ha detto Ambra, in nessun altro sito abbiamo trovato informazioni su di lei… non c’è nessuna traccia » commentò abbattuta.
Castiel alzò gli occhi, osservando di sfuggita l’amica. Era parecchio demoralizzata e l’entusiasmo con cui si era approcciata a quella ricerca, stava scemando. Doveva mettere in conto che quell’impresa aveva alte probabilità di concludersi con un insuccesso, anche se il coinvolgimento di tante menti le aveva regalato qualche speranza aggiuntiva.
Nell’ambiente raccolto ed intimo di quel salotto, l’aria si permeò di una silenziosa solidarietà verso la padrona di casa e la sua amarezza. Tutti sembrarono concentrarsi nel trovare qualcosa da dire, eccetto Kentin che, con un Mikado in bilico tra le labbra, mormorò tra sé e sé:
« Anche la mancanza di prove è una prova »
Attirò l’attenzione generale e, su tutti, fu Alexy a chiedere:
« Come dici? »
Il ragazzo incrociò le braccia dietro alla nuca:
« Era un’espressione che ci ripeteva sempre il tenente del corso di criminologia all’accademia » spiegò l’ex cadetto, sbadigliando annoiato.
Mentre ai lati degli occhi gli fecero capolino due lacrime, Lysandre mormorò:
« Kentin ha ragione »
Con quella dichiarazione si guadagnò una serie di occhiate perplesse; persino il moro era sorpreso, mentre il poeta specificò:
« C’è un motivo per cui, nonostante sia così talentuosa, internet non conosce Tracy Leroy »
 
I sedili in pelle emanavano un odore leggero ma pungente che iniziava ad infastidire Armin. Erano in macchina da dieci minuti e, in tutto quel lasso di tempo, né lui né Ambra avevano spiaccicato mezza parola.
Gustave Daniels.
Erano poche le persone che il moro ammirava nel profondo e quell’uomo era una di quelle. Ne conosceva la biografia, sapeva come era riuscito a costruirsi un impero partendo dalla polvere. Il signor Daniels era un uomo caparbio e sicuro di sé, oltre che una mente brillante ed erano quelle qualità a soffiare sul fuoco del rispetto con cui il moro lo aveva sempre venerato.
Diversamente dai suoi amici, che mai avevano sopportato l’austerità con cui il padre di Nathaniel si rivolgeva loro quando andavano a trovarlo anni prima, Armin lo reputava una figura affascinante e carismatica; provava quella sorta di sospirata ammirazione per la personificazione di qualità di cui era sprovvisto, ma che sognava di emulare.
Quando quell’uomo lo aveva chiamato, era ora di cena ma al ragazzo era passato istantaneamente l’appetito. Sapeva di non potersi sottrarre a quell’invito, che nonostante i modi garbati del signor Daniels, risultò più come un’imposizione a presentarsi al suo cospetto. Non aveva fatto il minimo cenno al motivo di quella convocazione, ma Armin aveva intuito che fosse arrivato il momento di pagare le conseguenze delle sue azioni: Nuvola Rossa era stata smascherata e doveva solo pregare che il signor Daniels non volesse denunciarlo.
Più si torturava con quegli angoscianti pensieri e più essi assumevano una connotazione pessimistica, al punto che quando Ambra ruppe il silenzio, Armin si stava figurando una schiera di minacciosi avvocati pronti a distruggerlo.
« Mi dispiace Armin, non è che voglio fare la stronza ma davvero non posso tradire Sophia »
« Eh? » gracchiò lui sovrappensiero.
Incrociò due occhi feriti, dispiaciuti, espressione del tutto estranea ad una persona orgogliosa come la bionda. Ricollegò allora quanto era accaduto nell’appartamento di Erin e, sollevato di aver trovato una distrazione, borbottò:
« Ah, no, no, non stavo pensando a quello… » mormorò distrattamente, guardando fuori dal finestrino « sinceramente ho altro per la testa ora… »
L’altra passeggera ne indagò il viso e domandò con titubanza:
« … Sei preoccupato per l’incontro con mio padre? »
« E come faccio a non esserlo? » sbottò l’altro, con una punta di isteria, mentre la vettura frenava davanti all’imponente cancello di villa Daniels « è un colosso dell’informatica e io sono solo un liceale babbeo che gli ha hackerato il sistema aziendale! »
« Liceale babbeo » ripetè Ambra con una risatina « se serve a tranquillizzarti, era da tempo che non lo vedevo interessarsi tanto ad una persona »
« Non mi tranquillizza affatto! » quasi strillò lui, mentre scendevano dalla macchina.
La padrona di casa lo precedette, dopo aver liquidato l’autista. Armin era un fascio di nervi, i muscoli del collo e delle spalle erano rigidi e c’era un che di robotico nel suo modo di avanzare. Nel complesso, le fece una grande tenerezza e, dando sfoggio del migliore dei suoi sorrisi, lo incoraggiò:
« Sono sicura che andrà tutto bene »
 
« C’è un motivo per cui, nonostante sia così talentuosa, internet non conosce Tracy Leroy »
Dopo aver pronunciato quella frase, l’atmosfera era come sospesa, tutti erano rimasti in attesa che Lysandre esponesse il suo ragionamento, il quale non tardò ad arrivare:
« Internet è un fenomeno degli ultimi trent’anni, se non meno. Al giorno d’oggi è scontato che, appena qualcosa o qualcuno faccia notizia, vengano caricate informazioni sulla rete… eppure ricercando il nome Tracy Leroy abbiamo trovato solo un risultato. Secondo me ci sono più interpretazioni per questo e non sono tutte mutualmente esclusive. La prima è che il periodo d’oro di quest’artista si sia spento prima dell’avvento di internet. È caduta quindi nel dimenticatoio, tant’è che nessuno di noi qui presenti l’ha mai sentita nominare. Probabilmente è un nome che solo qualche intenditore d’arte, come il signor Daniels, ricorda, mentre ai più suona come un nome sconosciuto. Se la mia ipotesi è corretta, Tracy Leroy deve essere una donna anziana, o almeno, deve avere sicuramente più di cinquant’anni »
« Secondo me anche sessanta - settanta » calcolò Alexy « supponi  anche che abbia avuto il massimo del successo a vent’anni, concediamole almeno cinque anni di carriera, poi sparisce dalla circolazione, mettiamo per cinque anni, e poi arriva internet… in tutto sono sessant’anni »
« Per questo dico minimo cinquanta, ma sono dell’idea che siano molti di più » convenne il poeta.
« E la seconda ipotesi? » incalzò Erin.
« Supponi di avere una madre che in passato è stata una grande artista, o una zia, una nonna, una sorella… in ogni caso, immaginati di avere una vecchia parente che in passato è stata una grande artista. Non vorresti che le sue opere non fossero dimenticate? Non ti prodigheresti per diffondere nella rete qualche immagine, qualche sua notizia? »
« Immagino di sì… »
« E invece noi non abbiamo trovato nulla » borbottò Iris.
« E’ proprio questo il punto. Mi viene da pensare che questa donna sia molto sola, non abbia una famiglia, dei figli, dei fratelli… »
« Frena, frena! » lo interruppe Rosalya « non è detto che lo sia. Magari ha semplicemente dei parenti che non ci hanno pensato o a cui non interessa »
« Lo so, ma dobbiamo considerare ogni eventualità, che messa insieme alle altre, ci porterà verso una determinata direzione, anche se riconosco che rispetto alla precedente, questa ipotesi è più un azzardo » spiegò Lysandre « e poi gli artisti, specie quelli davvero talentuosi, sono persone eccentriche e, a volte, sole »
Violet increspò le labbra, e arrossì appena si accorse che istintivamente tutti avevano iniziato a fissarla.
« Ma Violet non è sola! » obiettò Erin, dandole una stretta affettuosa « però ha talento »
L’amica sorrise timidamente, mentre Castiel ghignava orgoglioso: era proprio da Erin fare il possibile perché le persone attorno a lei non si sentissero a disagio. Era gentile e premurosa, e quelle qualità erano solo alcuni dei motivi per cui quella ragazza gli piaceva così tanto.
« Stiamo andando fuori strada gente! » li riportò all’ordine Rosalya, battendo frettolosamente le mani « cerchiamo di fare il punto della situazione: questo quadro è avvolto nel mistero, ed Erin è convinta che se riusciamo a scoprire il più possibile su di esso, intuiremo qualcosa sullo strano comportamento di Sophia, giusto? » cercò la conferma dell’amica, che annuì, poi continuò « per ora sappiamo che la cornice è stata creata da Tracy Leroy, una donna che con ogni probabilità oggi è anziana e, secondo Lysandre, sola »
Il fratello non aggiunse altro, ma fu Alexy ad intervenire:
« Se anche non avesse dei familiari, questo cosa non ci è di alcun aiuto saperla »
« Non sono d’accordo » insistette Lysandre « saperlo, ci permette di includere nella nostra ricerca anche la possibilità che si trovi in strutture come una casa di riposo, perché è lì che vanno gli anziani quando non c’è nessuno ad occuparsi di loro »
« Ammesso che sia così presa male da andarci » osservò Erin «e comunque, come facciamo a sapere dove cercarla? Su internet dicono solo che sia nata a Pittsburgh, ma potrebbe essere in qualsiasi angolo dello stato »
« O del mondo » aggiunse Alexy.
« E la ricerca delle immagini che risultati ha prodotto? »
Si voltarono verso Violet, la cui vocina flebile si era intromessa nel discorso.
« In realtà non l’abbiamo fatta » ammise Iris, portando il cursore sopra la parola Images.
Dopo il click del mouse, si aprirono una serie di riquadri, la maggior parte dei quali svincolati dall’oggetto della ricerca.
« Ci sono solo foto che non c’entrano nulla » osservò Rosalya delusa.
« Aspetta! » incitò Erin, mentre Iris scorreva la pagina « torna un attimo su… ecco, qui! Clicca su quella cornice »
L’amica eseguì il comando, mentre un’immagine ingrandita occupava lo schermo.
Tutti si accerchiarono attorno al computer, fatta eccezione per Kentin e Castiel, che non si decidevano a staccare il sedere dal divano.
Ne analizzarono ogni dettaglio, ogni venatura del legno ed incisione, finché Lysandre non esternò quello che doveva essere il pensiero generale:
« Sì, è sicuramente una sua opera. I tralci di vite sono realizzati allo stesso modo e quella specie di strani ottagoni sono gli stessi della cornice di Sophia »
« Non esattamente » lo smentì Violet, mentre il resto dei presenti annuiva.
« Che intendi? »
« Lo stile di questa cornice sembra più maturo: guardate attentamente questa foglia… è scolpita in modo molto più curato e preciso rispetto a quella che c’è qui » osservò, puntando l’indice contro il quadro appoggiato sul tavolo «e il cherubino dell’angolo in basso a destra ha qualche imprecisione anatomica, le proporzioni non sono esatte »
« Quindi? » domandò Iris, che non riusciva a cogliere la conclusione a cui voleva giungere la giovane artista.
« La cornice con il quadro di Sophia potrebbe essere un’opera di molto antecedente a questa, magari risale a quando Leroy non era ancora famosa » spiegò Lysandre, convenendo sulla correttezza di quelle osservazioni.
« Strano che non ci sia la data » commentò sovrappensiero una voce alle loro spalle.
Finalmente anche Castiel si era deciso ad intervenire, rompendo l’isolamento in cui si era barricato assieme ad Ariel.
« Che hai detto? » domandarono in coro Erin e Rosalya.
« La data. Qualsiasi artista, musica, arte, scultura che sia, quando fa qualcosa di importante, ha la tendenza a segnare la data di creazione dell’opera »
« Non è detto che debba esserci » lo sminuì Rosalya che, contrariamente alla sfiducia delle sue parole, aveva già in mano il quadro e lo stava ispezionando. Lo capovolse, scrutandolo attentamente, ma l’unica cosa che riuscì a notare, fu il tessuto rovinato sul retro, con cui era foderata la struttura.
« Non c’è nessuna data, Cas » lo informò.
Si udì un sospiro profondo, rassegnato, mentre la stilista riappoggiava la cornice sul tavolo:
« Beh, almeno qualcosa abbiamo scoperto! » esclamò Alexy, cercando di risollevare l’umore generale.
Era come se la delusione di Erin si fosse diffusa tra i suoi amici che, per empatia e solidarietà, si adeguavano al suo stato d’animo. Era impossibile per loro non lasciarsi condizionare da quella ragazza, le volevano troppo bene per ignorare le sue emozioni.
« Ragazzi, non abbiamo altra scelta se non convincere Ambra ad aiutarci. Lei potrebbe essere a conoscenza qualcosa che non sappiamo » propose Erin.
« Ma ha detto di non sapere altro » obiettò Iris.
« E tu le credi? » replicò Rosalya con cinismo. La rossa boccheggiò, ma fu la padrona di casa a rispondere:
« Io sì, infatti non è per questo che voglio il suo aiuto. Ambra è estremamente perspicace ed intelligente »
« Ci stai dando dei tardoni? » sbottò Rosalya, che già dal fratello si era risentita per un’affermazione analoga. Erin ridacchiò e si affrettò a rimediare:
« Assolutamente no, ma rimane il fatto che lei è molto in gamba… e sola »
« E ti pareva! » sbuffò Castiel, alzando gli occhi al cielo « sei tornata in modalità Madre Teresa, Cip? È una missione la tua quella di salvare le persone dalla solitudine? »
« Se qualcuno ha qualcosa in contrario a coinvolgere Ambra, lo dica qui » sputò lei, incrociando le braccia al petto. Lo fissava con severità e non intendeva minimamente sottovalutare e ridicolizzare l’importanza di quell’argomento.
« Fa’ come ti pare » borbottò il rosso, mentre Ariel si stiracchiava pigramente.
« Io sono d’accordo con te, Erin » mediò Lysandre, con un sorriso dolce e complice  « Ambra è un elemento prezioso e sono sicuro che alla fine accetterà di unirsi a noi »
« Pensi di convincerla tu? » si incuriosì Alexy.
Videro il poeta sogghignare, scuotendo leggermente il capo:
« Per una volta, lasciamo fare ad Armin »
 
Nemmeno quando lui e Castiel erano stati convocati dalla preside, in seconda superiore, per aver scassato la macchinetta delle merendine, Armin era così teso.
In quel preciso momento, le porte in legno massello dello studio di Gustave Daniels venivano deformate dalla sua mente, assumendo l’aspetto di uno dei tanti varchi infernali del suo videogioco preferito.
Dall’altro lato non avrebbe certo trovato il mostro a cinque teste che sputava fuoco, ma un altrettanto spaventoso essere, armato di avvocati e potere, in grado di rovinargli l’esistenza.
Perché diavolo aveva creato Nuvola Rossa?
Più che prendersi a pugni mentalmente, Armin non sapeva che altro fare. Il fiato era corto, il cuore a mille ed i palmi delle mani impregnati di sudore.
« Non ti mangia mica » mormorò Ambra, in piedi accanto a lui. L’amico non seppe dire se fosse solo una sua impressione, ma nelle parole della bionda sembrava esserci poca convinzione. Lei infatti stava sfruttando le sue doti di attrice per nascondere il nervosismo che provava.
Come Armin, anche lei aveva una sua ipotesi circa il motivo di quella strana convocazione, ma essa non veniva a coincidere con quella del ragazzo.
La preoccupazione di Ambra, era di ben diversa natura ed affondava le sue origini nella festa di San Valentino di poche settimane prima. In quell’occasione, suo padre aveva finalmente conosciuto Armin Evans e non si poteva certo dire che ne fosse rimasto piacevolmente sorpreso; almeno per quanto aveva visto lei, Gustave aveva realizzato quanto il moro si discostasse dai parametri di accettabilità imposti da Ingrid, circa il futuro marito della loro unica figlia femmina.
Armin non era forte e sicuro di sé, non aveva charme e, soprattutto, un conto in banca da sei zeri, che avrebbe fatto passare in secondo piano qualsiasi altra manchevolezza.
Tuttavia, se suo padre l’aveva convocato con l’obiettivo di intimargli di stare lontano da lei, Ambra non sarebbe rimasta a guardare. A costo di smascherare i suoi sentimenti, avrebbe difeso quel rapporto, non si sarebbe lasciata piegare come aveva fatto il fratello maggiore un anno prima. Insofferente ai ricatti, era pronta a tirare fuori una grinta che i suoi genitori non le avevano mai visto addosso, convinti della poca consistenza delle sue emozioni di adolescente. Lei era forte e risoluta, qualità che, detestava ammetterlo, aveva ereditato da suo padre.
Bussò alla porta e annunciò:
« È arrivato Armin »
Mise molta asprezza nelle sue parole, annunciando quell’arrivo con freddezza. Era un modo per ostentare sicurezza di fronte a suo padre, chiarire che mai più gli avrebbe più permesso di metterla in soggezione.
Si udirono dei passi, il rumore di suole italiane schiacciate contro il pavimento marmoreo ed infine, con una lentezza esasperante, la maniglia di ottone si abbassò: si presentò davanti a loro Gustave che, nonostante fosse più basso di Armin, riuscì a far sentire il ragazzo piccino piccino:
« Perché Molly non mi ha detto che stavate arrivando? Sarei venuto ad accogliervi in entrata » disse con una leggera irritazione.
Quell’uscita spiazzò Ambra, che tutto si aspettava, tranne che un simile riguardo da parte di suo padre. Non di rado si degnava di accogliere personalmente i suoi ospiti in entrata, ma era un privilegio che riservava alle persone di più alto rango e degne del suo interesse.
« Non era necessario che ti scomodassi »
« Quando si ha un ospite, Ambra, è doveroso accoglierlo all’ingresso, non gli si chiede di raggiungerti in qualche angolo della casa. È una questione di buona educazione »
Voleva imporle una lezione, ma la figlia non era disposta a recitare la parte della studentessa negligente:
« Come il pretendere che una persona venga a farti visita? »
Armin se ne restava in silenzio, ad osservare lo scontro tra quei due arieti; aveva il fiato sospeso quando Gustave lo interpellò:
« Ti ho per caso obbligato a venire qui, Armin? » gli domandò.
Il moro arrossì leggermente e mugolò impacciato, un:
« No, affatto »
Rivolgendo poi un sorriso trionfante alla figlia, il quale decretò la sua vittoria, Gustave spalancò la porta e fece segno al ragazzo di entrare:
« Accomodati pure »
Ambra istintivamente fece per seguirlo, ma il braccio di suo padre la braccò:
« E tu dove pensi di andare? »
Lei lo guardò confusa, come se volesse privarla di un suo diritto, avanzando un pretesto assurdo:
« È una conversazione tra uomini, non ti riguarda »
La ragazza sentì un brivido percorrerle la schiena da parte a parte, ma non riuscì a replicare, tanto erano stati spicci i modi di suo padre nel tagliarla fuori.
Prima che la porta si chiudesse definitivamente, incrociò gli occhi teneramente terrorizzati di Armin, che le ricordarono quelli di un cucciolo costretto a separarsi dal ventre caldo della madre.
 
Gustave aggirò il tavolo, strisciando le dita sulla sua superficie in legno e si accomodò sulla poltrona girevole. Accavallò le dita le une sulle altre, fissando l’ospite seduto davanti a lui:
« Grazie per essere venuto, e scusami per la discussione a cui hai appena assistito. Ambra è testarda »
« Lo so » sorrise impacciato il ragazzo, mentre il sopracciglio del suo interlocutore si sollevava, sospettoso. Era bastato nominare la figlia per alleviare un po’ la tensione dal viso del ragazzo, il quale sembrò accorgersi di aver lasciato trapelare troppo affetto nelle sue parole:
« C-cioè si figuri, nessun problema » farfugliò poi a disagio.
Gustave lasciò passare qualche secondo in silenzio, poi proseguì:
« Non mi piace tergiversare, quindi andrò dritto al punto: tu hai diciotto anni, giusto? »
« Ne faccio diciannove a Novembre » confermò il ragazzo, dubbioso.
« E che progetti hai dopo il diploma? »
« Mi hanno preso alla Brown »
« A studiare? »
« Sì certo, che altro si può fare all’università? » ridacchiò nervosamente Armin.
Gustave lo scrutò perplesso e precisò:
« Intendo dire, cosa studierai? »
Armin diventò paonazzo per la figuraccia appena fatta e farfugliò qualcosa che Gustave interpretò come ingegneria informatica.
 
Vedere la sua cocca accucciata davanti alla porta, impegnata ad origliare, era una scena nuova per Molly. In quindici anni di servizio in quella casa, mai una volta aveva beccato Ambra in comportamenti così eccentrici e, incuriosita, attraversò l’androne. La ragazza la guardò con la coda dell’occhio e le fece cenno di non parlare, portandosi l’indice davanti alle labbra; incurante di quell’avvertimento, la colf le sussurrò con rimprovero:
« Non si origlia »
« C’è Armin con mio padre »
Quella giustificazione era la migliore che potesse avanzare, al punto che vide Molly appoggiare il cesto della biancheria per terra e incollare l’orecchio contro il legno della porta:
« Non sento nulla » si lamentò la vecchietta.
« Stanno parlando del futuro di Armin » l’aggiornò nervosamente l’altra.
« Perché sei preoccupata? »
Non le giunse risposta, poiché la secondogenita di casa Daniels era troppo impegnata a ponderare la sua angosciosa ipotesi: la conversazione si spostava sempre di più verso quella direzione che lei temeva. Le domande di suo padre erano sicuramente mirate a valutare il ragazzo, stabilire che partito fosse per sua figlia ma, a prescindere dal suo giudizio finale, quel compito non spettava a lui. Ambra si riteneva abbastanza ragionevole da decidere da sé del suo futuro e non poteva perdonare a suo padre una simile ingerenza nella sua vita sentimentale.
Armin non apparteneva ad una famiglia ricca, lo sapeva, l’aveva sempre saputo e non le era mai importato nulla. Non erano mai stati i soldi a renderla felice, solo sua madre era così ottusa da barricarsi dietro quella triste e illusoria convinzione.
Ambra poteva mal tollerare i commenti dispregiativi rivolti ad Armin, ma non che la sua famiglia rovinasse il suo rapporto con lui, legame che avrebbe difeso ad ogni costo.
Ignaro dei pensieri della figlia, Gustave aveva proseguito:
« Ottimo indirizzo »
« Grazie » replicò Armin, maledicendo la sua incapacità di oratore. Non sapeva come interagire con quell’uomo che per anni aveva rappresentato un mito e continuava ad esserlo. Gustave Daniels era tutto ciò che lui sognava di diventare, o per lo meno, per quanto riguardava la sua carriera professionale.
« E sai cosa vorresti fare dopo la laurea? »
« Beh, di preciso no, ma non mi dispiacerebbe trovare posto come game designer »
« Videogiochi? » ripetè Gustave, mentre il moro arrossiva.
« È un settore che mi ha sempre affascinato, oltre che in continua espansione » cercò di giustificarsi. Sapeva che la sua passione lo faceva apparire immaturo ed infantile agli occhi degli adulti, ma tra questi, non rientrava l’uomo che aveva davanti, che infatti commentò:
« È difficile trovare della passione in voi giovani al giorno d’oggi »
Si alzò dalla scrivania, portandosi di fronte all’ampia fenestratura del suo studio. Da lì godeva di una vista spettacolare dell’intricato giardino della villa, in cui una timida vegetazione iniziava a fare la sua comparsa, preannuncio di una primavera alle porte.
Dava le spalle ad Armin che ne approfittò per fissare un pupazzetto antistress a forma di omino Michelin. La prosperità dell’oggetto lo istigava ad essere deformato e per il giovane la tentazione di toccarlo diventava sempre più irresistibile.
Il gusto del proibito, la sfida di manipolare quell’umanoide senza che Gustave lo vedesse, erano allettanti, oltre che una distrazione al suo stato perenne di nervosismo.
L’adulto non accennava a riprendere la conversazione, perso nei suoi pensieri così la mano del moro sorvolò la scrivania ed afferrò finalmente il pupazzetto.
La consistenza era piacevole al tatto, sortendo realmente un effetto antistress su Armin che, privo di inibizioni, iniziò a giocherellare con l’oggetto, divertendosi a deformarne il viso in modo da fargli cambiare espressione.
« Anche serietà e maturità sono valori che nei giovani stanno scomparendo » e nel dire quella frase, Gustave si era voltato nuovamente verso il suo interlocutore, trovandolo impegnato ad imitare la smorfia dell’urlo di Munch, sia con il giocattolo che con il proprio viso.
Sbattè gli occhi un paio di volte, quasi faticasse a capacitarsi che il ragazzo avesse assunto quell’espressione esagerata, mentre quest’ultimo si ricomponeva all’istante, assumendo lo stesso colore delle tende porpora.
« M-mi s-scusi » farfugliò Armin.
Gustave era allibito: gli era difficile credere che a sua figlia piacesse un ragazzo così strampalato e buffo. Evidentemente non la conosceva abbastanza e, doveva ammetterlo, da quando aveva iniziato a frequentarlo, il sorriso di Ambra era diventato un evento quotidiano.
La bionda si mordicchiò l’unghia del pollice, chiedendosi cosa potesse essere accaduto all’interno della stanza.
« Che ha detto tuo padre? » le domandò Molly.
Mentre Ambra le ripeteva la frase, il signor Daniels proseguì:
« Ti ho chiesto di venire qui Armin, perché dopo quello che ho visto qualche settimana fa, durante il ricevimento di gala, ho notato qualcosa su cui non intendo sorvolare… sarebbe una negligenza imperdonabile da parte mia »
Il ragazzo deglutì vistosamente. Era arrivato il momento di affrontare la conseguenza delle sue azioni.
No, no, non era pronto. Negare, negare, negare.
Anche se non era mai stato bravo a mentire.
Ambra aveva iniziato a sudare. Si stava materializzando la necessità di irrompere nella stanza. Non poteva permettere al padre di rovinare tutto. Non poteva lasciare che Armin capisse che lei era innamorata di lui e, tanto meno, che suo padre gli intimasse di starle alla larga.
« I-io non so di cosa stia parlando » balbettò il ragazzo, il cui nervosismo tradiva una confessione contraria.
Gustave intrecciò le dita davanti alla bocca, puntando i gomiti sul tavolo:
« È così difficile da immaginare? »
Il moro aveva la gola secca. Non ebbe il tempo di umidificarla che la porta si spalancò con veemenza:
« ADESSO BASTA PAPÀ! »
I due sussultarono, alzando lo sguardo verso Ambra che aveva fatto irruzione nella stanza. Alle sue spalle, nel corridoio, si notava la figura di Molly che teneva ancora il braccio alzato in un fallimentare tentativo di trattenere la ragazza.
« Ti sembra questo il modo di entrare? » abbaiò il padre, cercando di moderare la sua irritazione « questa discussione non ti riguarda » la freddò.
« Non mi riguarda? » ripetè lei con rabbia.
Gustave strinse le palpebre, confuso, senza staccare lo sguardo dalla figlia:
« Ambra, calmati… » mediò Armin « devo assumermi le mie responsabilità di fronte a tuo padre. È stato un errore mio »
Anche se la voce gli era uscita tremante, si sentì orgoglioso di aver accantonato la propria codardia. Di fronte ad Ambra, non poteva essere il vigliacco che tutti conoscevano.
Tuttavia, quando rialzò lo sguardo, gli occhi di Gustave erano sbarrati, iniettati di sangue:
« Ragazzi… » sibilò « non aspetterete mica un bambino? »
I due giovani rimasero spiazzati. Si scambiarono un’occhiata dapprima perplessa, poi avvamparono:
« Ma che hai capito?! » saltò su Ambra « sei completamente fuori strada! » esclamò paonazza la figlia.
« Allora perché parlavi di responsabilità? » attaccò Gustave, rivolgendosi ad Armin che, preso in contropiede, ammise senza riflettere:
« Non mi ha convocato qui per parlare di Nuvola Rossa? »
« Più o meno » ammise l’adulto, ancora sconvolto « e posso sapere allora che responsabilità devi prenderti in merito? »
Il moro sbiancò.
Forse aveva sopravvalutato le capacità dell’uomo ed aveva finito per smascherarsi da solo. Boccheggiò, incapace di replicare, mentre Gustave ghignò:
« Rilassati. Ho capito che eri tu Nuvola Rossa, ma se avessi voluto denunciarti, non avrei aspettato tanto, no? »
« N-non vuole denunciarmi? » ripeté Armin speranzoso.
« Solo se mi dirai che ne hai fatto dei dati che hai sbirciato »
« Volevo solo vedere le immagini in anteprima di Il calice di ghiaccio. Giuro che non le ho diffuse » ansimò.
« Lo so, abbiamo controllato che non fossero in rete dopo aver subito il tuo attacco, ma devi stare attento ragazzo, se Ian Stewart scoprisse che ci sei tu dietro a Nuvola Rossa, non ci andrebbe tanto morbido con te »
Armin annuì gravemente, mentre Gustave si rivolgeva alla figlia:
« Non so cosa tu abbia capito Ambra, ma come vedi, questa conversazione non ti riguarda. Esci dalla stanza e vedi di non disturbare più »
Il tono era perentorio e non ammetteva repliche. La bionda restò qualche secondo in attesa, sfidando gli occhi severi del padre ed alla fine si rassegnò ad assecondarne l’imposizione.
Appena la porta venne chiusa, Gustave proseguì:
« Mi scusi se insisto » esclamò Armin, sempre più confuso « so di darmi la zappa sui piedi da solo, ma perché non mi denuncia? Ne avrebbe tutto il diritto, anche se le giuro che non era malintenzionato »
L’uomo scrutò il viso del suo interlocutore: aveva gli occhi di un azzurro intenso, quasi vitreo, come il candore della sua ingenuità. Suscitava simpatia solo dallo sguardo, che sorrideva da sé.
Di persone squisitamente oneste, Gustave ne conosceva poche ed era felice di averne davanti una.
« A volte Armin bisogna sapere guardare oltre le cose. All’apparenza si potrebbe dire che tu abbia fatto una cosa gravissima, che deve assolutamente essere punita, ma mi fido di te se mi assicuri che non avevi cattive intenzioni e che non lo farai più »
« Certo! » si affrettò a sottoscrivere l’altro, con una certa urgenza nella voce.
L’uomo incurvò le labbra verso l’alto e proseguì:
« … Ma solo una persona dalla mente limitata non si accorgerebbe del grande potenziale che c’è in te. Sei riuscito ad aggirare i sistemi di sicurezza di alcune delle più grandi aziende informatiche del paese, pur essendo appena un liceale. Devi avere una conoscenza dei linguaggi di programmazione che va oltre quella di un appassionato di computer ed intendo fare l’impossibile per averti dalla mia parte… ammesso che tu lo voglia, si intende »
Al moro, gli occhi brillavano più del solito. Era passato dal terrore di una denuncia che gravava sulle sue spalle, alla prospettiva di realizzare il sogno di una vita: lavorare all’interno della Daniels Co.
« Il motivo per cui ti ho convocato qui, è sapere se sei interessato a fare uno stage estivo nella nostra sede di New York, che è una delle più attive sul mercato. Puoi pensarci quanto vuoi, ma cerca di darmi una risposta prima dell’est- »
« Accetto! »
Gustave dapprima rimase senza parole, poi sogghignò:
« Non ti interessa nemmeno sapere se c’è possibilità di un compenso? »
« No, è una grande opportunità quella che mi sta offrendo e non intendo lasciarmela sfuggire » esclamò il moro al settimo cielo.
Entusiasmo.
Ecco qual era il sentimento che lo aveva spinto a costruire il suo impero. Con gli anni, Gustave aveva dimenticato tutta la passione che lo alimentava, finendo per farsi sommergere da numeri e statistiche.
La sua azienda era in declino, le spese superavano le entrate, ma per la prima volta da molto tempo, si sentì serenamente felice. In fondo, come tutti gli appassionati di videogiochi, era un sognatore che credeva fino all’ultimo nella possibilità di concludere la partita con un successo.
Anche se era un’infantile utopia, voleva scommettere che in quel ragazzo di fronte a lui, si celasse una figura profetica, in grado di ribaltare le sorti del gioco.
Guardando Armin Evans, non riusciva a fare a meno di vedere uno strambo e impacciato genio del computer.
Non riusciva a fare a meno di vedere sé stesso vent’anni prima.
 
Sophia aveva raccontato a Nathaniel di Tracy Leroy e delle poche informazioni che era riuscita a reperire, cercando di far mente locale su ogni dettaglio relativo alla cornice; suo malgrado, il biondo non aveva saputo far altro che concludere:
« Voglio vedere la foto di questo quadro. Così a parole non posso esserti granché utile »
Quello era stato il pretesto per seguire la ragazza fino al suo appartamento, dove da un computer, gli avrebbe mostrato l’immagine del fatidico oggetto.
Dopo essere scesi dall’autobus, camminarono lungo la Diciottesima Strada, costeggiando un muro dipinto da alcuni talentuosi writers. Era un quartiere culturalmente vivace, anche se popolato dalle classi più umili della società e da studenti squattrinati. Così diverso dalla realtà ricca e benestante in cui era cresciuto il ragazzo, ma proprio per questo, ai suoi occhi affascinante.
Seguì Sophia all’interno di un edificio in mattoni faccia a vista, il cui portone di ingresso si rivelò piuttosto ostico da varcare:
« La serratura è un po’ arrugginita » si scusò lei, mentre la chiave compiva un certo sforzo nello sbloccare il meccanismo.
Salirono lungo una rampa di scala, piuttosto buia e ripida e sostarono al terzo piano. In altre circostanze, Nathaniel avrebbe contestato il mancato utilizzo dell’ascensore ma, dopo aver valutato lo stato generale del condominio, non potè che giudicare più sicure le faticose scale.
Sophia stava per inserire le chiavi nella toppa del suo appartamento, quando la porta di quello davanti al suo, si aprì con foga:
« LO RECUPERO IO! LO RECUPERO IO! » urlò una ragazza.
I due sussultarono per lo spavento, mentre una chioma verde acqua sfrecciava sotto i loro nasi. Nathaniel pensò di aver qualche problema di vista, così si sporse a guardare lungo la rampa di scale, in cui una ragazza dai capelli assurdamente tinti, stava rotolando giù:
« SCEMA, ORMAI È TARDI! »
Quel richiamo provenne dall’interno dell’appartamento da cui era uscita la prima sconosciuta.
« Felicity, lascia perdere! » insistette la voce senza volto.
Fece allora la sua comparsa una ragazza totalmente diversa dalla prima, con un carré molto corto e i capelli neri, del medesimo colore degli occhi. Si era portata una mano sulla fronte, sospirando rassegnata.
Si accorse della presenza dei due ragazzi solo in un secondo momento, quando fu Sophia a reclamare la sua attenzione:
« Che succede Hilary? »
La ragazza si appoggiò allo stipite della porta, come se le mancassero le forze.
« Felicity ha buttato nell’immondizia la nostra copia del contratto di affitto »
La rossa sghignazzò, per sdrammatizzare l’afflizione della ventitreenne, mentre Nathaniel studiava con interesse quella nuova figura: Hilary aveva una belle abbronzata ed olivastra e degli intensi occhi neri, cerchiati da una matita del medesimo colore. Aveva un taglio molto corto ed elegante, che sottolineava la simmetria del suo viso.
« E adesso dove è andata? »
« A farsi un tuffo nel camion dell’immondizia che è appena passato » spiegò la ragazza, avvertendo un senso di nausea al solo pensiero.
« Non potete semplicemente chiedere al padrone di stamparvene un’altra copia? » intervenne Nathaniel.
Si trovò quel paio di occhi neri puntati addosso, che quasi lo misero in soggezione:
« È quello che le ho detto, ma lei è sempre troppo impulsiva e si è incaponita a voler tentare di recuperarlo »
Cadde il silenzio, finchè Hilary sbottò:
« Allora Fiafia? Devo fare tutto da sola? » e non ricevendo risposta dalla ragazza, se non un’occhiata confusa, allungò una mano verso il biondo:
« Mi chiamo Hilary, immagino tu sia il ragazzo di Sophia »
La rossa boccheggiò a disagio, mentre Nathaniel scioglieva l’equivoco con naturalezza:
« No, sono solo un suo amico, anzi manco quello perché non mi sopporta »
« È il fratello di Ambra » tagliò corto la rossa.
« In effetti le assomigli un po’ » convenne Hilary, analizzandone i lineamenti « tua sorella come sta? Dille che a Felicity mancano le loro partite alla Play »
Sorpreso per quella risposta, Nathaniel cercò di immaginarsi la sorella intenta a giocare con la tipa che era svettata giù dalle scale poco prima, così diversa dal genere di amicizie che immaginava avesse. Convenne però che sua sorella era piena di lati nascosti, come l’amicizia con quell’eccentrica ragazza di nome Sophia Travis.
« Notizie da Space? »
« Si sta ambientando, dice che è dura ritornare alla vita di prima, ma tutto sommato è contento »
« E tu? Quando ti deciderai a tornare a casa? »
Hilary osservava Sophia con un leggero cipiglio mentre la rossa fece spallucce; sentirono il rumore di alcuni passi, uniti ad un respiro leggermente ansimante che risaliva le scale: Felicity aveva i capelli in disordine e la fronte imperlata di sudore. Brandiva in mano un foglio sgualcito, sorridendo vittoriosa:
« Non mi dire che sei riuscita a recuperarlo… » esclamò basita Hilary, staccandosi dallo stipite della porta. In tutta risposta, la coinquilina sventolò il pezzo di carta, che si rivelò macchiato di chiazze organiche di origine ignota:
« Avevi dubbi? Mi sono messa in mezzo alla strada per fermare il camioncino »
« Chissà quanto ti avranno insultata gli spazzini »
« Si dice operatori-ecologici » scandì la ragazza « comunque all’inizio sì, poi devo aver fatto loro pena e mi hanno aiutata »
« Non per ridimensionare il tuo entusiasmo City, però credo che dovremo comunque richiedere una nuova copia al padrone » osservò Hilary, indicando il contratto.
Felicity aggrottò la fronte ed obiettò:
«Macché! È solo un po’ sgualcito! Basta dargli una stirata con il ferro! »
« E gli facciamo un lavaggio a 30 gradi con i capi delicati? » ironizzò la mora.
La coinquilina sbuffò, degnando finalmente Nathaniel della sua considerazione: gli sorrise esagerata, mostrano una dentatura perfetta:
« Finalmente Sophia si porta a casa un ragazzo come si deve, altro che quell’ameba di Space »
« Non è il suo ragazzo » la corresse Hilary « e comunque smettila di essere cattiva di Space »
« Fai presto a parlare tu, mica ti ha definita un’alga transgenica » borbottò risentita l’altra, indicandosi l’eccentrica capigliatura. Osservandola con più attenzione, Nathaniel notò che le radici dei capelli erano tinti di verde acqua ma sfumavano verso l’azzurro per tutta la lunghezza. Gli occhi della ragazza riflettevano il suo carattere: trasparente e vivace, stagliandosi su una pelle diafana e impeccabile. Lei e Hilary era l’una la complementare dell’altra e quell’incompatibilità fisica era compensata da un rapporto di amicizia e complicità molto saldo:
« È solo uno studentello delle superiori, perché te la prendi tanto? Non è neanche un insulto, alga transgenica » osservò la mora.
« Manco so cos’è » ammise Felicity in tutta sincerità, poi tornò a prestare attenzione al biondo, che nel suo rapido scambio di battute con Hilary, era rimasto ad ascoltare in disparte:
« Quindi, tu sei… »
« Uno studentello delle superiori » scherzò « Nathaniel »
« E non sei il ragazzo di Fiafia » puntualizzò la ragazza, cercando conferma:
« Non sono il suo ragazzo » sorrise lui.
In quel mentre, Hilary notò, con la coda dell’occhio, la piega che si era formata ai lati della bocca della rossa, ma si limitò a restare in silenzio.
 
Crescendo, Mackenzie si era chiesta più volte se la trepidazione con cui aspettava le visite di suo padre fosse dovuta al suo infantile bisogno di una figura maschile in famiglia, oppure alla bontà di sua madre, che per Jack aveva solo parole di indulgenza e affetto.
A prescindere dalla natura della causa, in entrambi i casi, i suoi occhi ingenui sembravano non notare l'espressione severa con cui quell'uomo entrava in casa ogni weekend; la sua fierezza pareva sopita di fronte ai modi talvolta bruschi ed arroganti con cui le si rivolgeva suo padre.
Lui era lì e quella tenera e perdonabile felicità, la rendeva cieca di fronte alle mancanze dell’uomo. Jack era un papà a tempo determinato, arrivava il sabato nel tardo pomeriggio e ripartiva la domenica alla stessa ora, per due volte al mese.
« É molto impegnato con il suo lavoro » le aveva spiegato Dianne.
Le dita della donna si erano mosse convulsamente, per qualche secondo, per poi tornare a rilassarsi. Affondava le unghie nei palmi solcati dai calli e dalla fatica  ma quella strana abitudine ricorreva solo in una particolare circostanza che sua figlia aveva imparato a riconoscere:  la bugia.
Mackenzie non aveva mai rivelato a sua madre quanto riuscisse ad interpretare i suoi gesti, perché aveva bisogno di quei segnali per scoprire le verità più scomode che la donna le celava.
« Papà mi vuole bene? » le aveva chiesto un giorno, dopo che l’uomo aveva lasciato l’abitazione.
« Ma certo tesoro »
Le guardò le mani: le dita si muovevano più nervosamente del solito.
Entrato nell’appartamento, Nathaniel si guardò attorno con interesse e, analogamente alla sorella qualche settimana prima, ne rimase incantato. Nonostante il degrado del condominio, l’interno era ricco di oggetti e colori. Era completamente diverso dalla freddezza di villa Daniels, era così accogliente che avrebbe voluto restare lì per sempre.
« Nathaniel, ascolta... quello che ti ho raccontato oggi » lo distrasse la padrona di casa.
« Rimane tra me e te » concluse lui, accarezzando la scultura africana di una giraffa.
Sophia sorrise, grata che la reazione del ragazzo fosse così misurata: non aveva insistito per farle cambiare idea, per convincerla a raccontare tutto ad Erin e alla sua famiglia.
Per lei era difficile capire i suoi stessi sentimenti: da un lato si sentiva più leggera, consapevole di aver scaricato a qualcuno parte di quel peso che la opprimeva; dall'altro però non poté ignorare quanto le avesse scaldato il cuore il fatto che fosse proprio quel ragazzo ad esserle così vicino e quella sensazione, seppur dolce, era al contempo intrisa di amarezza.
Si sentiva come un senza tetto di fronte ad una casa accogliente: sa che all'interno troverà tutto ciò che ha sempre sognato, quel calore e protezione di cui ogni essere umano ha bisogno, ma l'abitazione è già occupata e per lui non c’è spazio. Nathaniel apparteneva a Rosalya, doveva ripeterselo ogni volta che pensava a lui con quell’interesse romantico che non provava da tempo e che, forse, non aveva mai avvertito in modo così intenso.
Il ragazzo era tutto ciò per lei: un posto sicuro, un angolo di paradiso e perfezione dove persino una persona sbagliata potesse aspirare ad una redenzione.
Aveva impiegato appena un mese a maturare dei sentimenti così profondi verso di lui, ma accettarli si era rivelato un processo ben più insidioso. In un primo momento, Sophia non riusciva a riconoscersi in quel l'infatuazione per un ragazzo così diverso da lei, arrivando così a negare l'evidenza.
La razionalità con cui imponeva a se stessa di ignorare quel turbamento emotivo, tuttavia, nulla aveva potuto dinanzi alla delicata violenza con cui la figura di Nathaniel si radicava nel suo cuore. Aveva tentato di estirparne le radici, ma quel tentativo era stato così sofferto che ormai si era rassegnata a lasciar crescere quei sentimenti. Aveva così raggiunto un certo equilibrio con essi, una sorta di compromesso per il quale lei non avrebbe più tentato di eliminarli, se solo loro non l'avessero spinta ad azioni di cui pentirsi: mai avrebbe accettato di rubare il ragazzo di un'altra, a maggior ragione se quest'ultima era la migliore amica di sua sorella.
Nathaniel non si era accorto di nulla, desensibilizzato da quella superficialità tipicamente maschile per le questioni amorose e lei poteva continuare a recitare la parte dell'amica, anche se a modo suo.
Prima o poi l'avrebbe dimenticato, ne era sicura: negli ultimi mesi era maturata molto e l'impulsività che animava ogni sua avventata azione, sembrava essersi rintanata in qualche angolo della sua mente, lasciando il posto ad una personalità piú adulta.
« Sophia? Mi stai ascoltando? »
« C-come scusa? »
« Ti ho chiesto se hai qualcosa da bere… »
« Ti offro un bicchiere di Coca, ti va? » propose lei, avvicinandosi al frigo.
« Quando andavo alle medie… non hai una birra? »
« Fai pure il viziato? »
« Scherzo, la Coca va bene »
Sì, forse essergli amica non sarebbe stato così difficile.
 
« Grazie mille per essere venuti »
« Siamo il team Travis ora » scherzò Rosalya « il T-Team » precisò, seguendo il fratello giù per la rampa di scale.
Lei e Lysandre avevano appena lasciato l’appartamento di Erin, preceduti da Alexy e Violet qualche minuto prima. A tener compagnia alla ragazza, erano rimasti Iris, Castiel e Kentin, in attesa che arrivasse anche per loro il momento di prendere l’autobus.
« Sbaglio o ti sei innamorato di Ariel? » domandò Erin, notando la delicatezza con cui il rosso accarezzava la testolina del gatto. Lui non le rispose, così la mora concentrò la sua attenzione su Iris:
« Secondo te Violet si è offesa del fatto che non l'ho invitata alle Bahamas? »
A causa di cinque posti vacanti, la squadra di basket aveva proposto ad Erin di invitare due persone a sua scelta, purché fossero di sesso femminile e, dovendo scegliere, aveva escluso l'amica più timida e riservata:
« No, stai tranquilla, Violet non è il tipo, anzi, era più che sincera quando ti ha rassicurata sul fatto che non sarebbe venuta comunque »
« Quando partite? » domandò Kentin. Si sentiva perfettamente a suo agio in quell’abitazione, al punto da concedersi il lusso di sedersi di traverso sulla poltrona, con le gambe che penzolavano da uno dei braccioli.
« La settimana prossima... ah, la sai l'ultima Iris? Verrà anche Dake!"
Il grissino che Kentin teneva in mano si spezzò ma solo Castiel sembrò farci caso, distogliendo per un secondo le sue attenzioni dalla gatta. Lanciò un sorrisetto beffardo al ragazzo che fissava le due senza battere ciglio.
« Come mai? » stava domandando la rossa.
« Boris non può venire, così manda lui visto che è suo nipote e che è amico di Castiel e Trevor »
« Non è mio amico » puntualizzò il rosso « uscivamo solo insieme  qualche volta »
« Allora sei dell'altra sponda, Castiella » lo provocò Kentin.
Il musicista si limitò a lanciargli un'occhiata eloquente prima di provocarlo:
« Scommetto che Dake sarà contento di sapere che ci sei anche tu, Iris »
Le orecchie dell’ex cadetto si imporporarono, mentre Erin soggiungeva:
« Sbaglio Cas, o Dajan ti ha detto di scegliere tu una delle cinque persone da portare? »
« Puó darsi » replicò annoiato, mentre l'attenzione di Kentin si concentrava su di lui:
« E a chi l'hai chiesto? » incalzò la rossa.
« A nessuno, così staremo più larghi nel bungalow »
« Non fare l’egoista » lo rimproverò Erin « più siamo e meglio è »
« Lys non verrebbe ed i gemelli sono via tutta la settimana »
« C'é Kentin » osservò Erin, indicando il soggetto spaparanzato sulla poltrona.
« Chi? La Barbie in mimetica? » commentò ironico. Tra i due ragazzi ci fu uno scambio di sguardi che si alternavano dall’astio di Kentin all’espressione sbruffona del rosso.
« Ci sono già troppe ragazze, se viene anche Barbie il livello di estrogeno si alza troppo »
« Non so se sono più sorpresa del fatto che sai cosa sono gli estrogeni, o irritata dal tuo atteggiamento » convenne Erin, incrociando le braccia al petto.
Iris palleggiò l’attenzione sulle tre figure presenti in quella stanza: Kentin se ne stava in silenzio, immerso nei suoi pensieri, Erin aveva un’espressione corrucciata con la quale fissava Castiel che era assolutamente indifferente a quelle occhiate di biasimo.
« Ah Iris, prima che te ne vada, devo farti vedere una cosa! Vieni in camera con me? »
In un paio di secondi, le due ragazze abbandonarono il salotto, lasciando da soli di punto in bianco, Castiel e Kentin.
Calò il silenzio: il rosso controllò il cellulare, mentre Kentin appoggiò il pacchetto di Mikado, ormai vuoto, sul tavolino. Ruotò il corpo di novanta gradi e assunse una postura più composta. Appoggiò gli avambracci sulle ginocchia e, flettendo il busto in avanti, fissò dritto negli occhi l’altro ragazzo:
« Verrò alle Bahamas, Black »
« E come pensi di fare? » replicò asciutto Castiel, senza degnarsi di guardarlo.
« Perché tu, amico mio, mi inviterai » ammiccò.
Castiel smise di masticare la chewing gum e lo fissò con serietà, tale da lasciare per un attimo spiazzato il moro:
« Posso farti una domanda? »
Kentin lo studiò diffidente, ma il rosso non demorse e, senza aspettare una risposta, questionò:
« La testa di voi Barbie è piena d'aria o è riempita di qualche plastica neurotossica? »
« Sarebbe una battuta? »
« Sarebbe un modo per dire "cosa ti fa pensare che ti voglia tra i piedi alle Bahamas?” »
« Non fare il coglione! Non ci perdi nulla a dire agli altri che verrò anch’io »
« Se vuoi venire in viaggio, ti compri il biglietto… oppure ti attacchi all’aereo… suggerisco la seconda »
Kentin assunse una smorfia sdegnata e sbottò irritato:
« Ma che cazzo di problemi hai? »
« Mi sta in culo la gente che pensa di potermi dare ordini »
« Parla quello che ignora il significato di “per favore” »
I due si guardarono in silenzio, con gli occhi ridotti a due fessure e, nel volere uscire vincitore da quella situazione di stallo, Castiel dichiarò con un sorriso astuto:
« É un vero peccato che tu non possa venire Affleck: Iris in costume fa proprio bella figura, vedessi che due tette che ha »
Kentin dapprima arrossì, incapace di replicare poi le sopracciglia si aggrottarono contrariate ed infine, rilassò i lineamenti. Si lasciò sfuggire un sorrisetto canzonatorio e ribattè:
« Già... è un vero peccato che io non possa venire… mi chiedo se cambiasse qualcosa se, accidentalmente, mi scivolasse con Erin il fatto che le muori dietro… »
L’espressione di Castiel, a seguito di quelle parole, fu il miglior trofeo che il militare potesse ricevere: il chitarrista era sbiancato, aveva la bocca dischiusa, completamente spiazzato da quel sovvertimento delle parti:
« Fallo, e sei un uomo morto Affleck » sibilò. Aveva infuso più cattiveria possibile nella sua minaccia, ma il moro non era più un ragazzino pauroso ed impacciato e quel genere di intimidazioni anziché spaventarlo, lo divertivano; allargò le braccia e con un sorriso arrendevole, mediò:
« Siamo sulla stessa barca Black: grazie a Lysandre, io so qualcosa di te che tu non vuoi far sapere ad Erin, e tu di me, per quanto riguarda Iris »
Parlava con una schiettezza tale da lasciare sorpreso Castiel che lo conosceva da appena una settimana:
« La questione è semplice: io voglio venire alle Bahamas, e tu sei l'unica possibilità che ho per farlo. Se non intendi esaudire la mia richiesta, allora dirò ad Erin la verità »
« Non hai pensato al fatto che io potrei dirla ad Iris? » ribatté prontamente Castiel, illudendosi di averlo messo all’angolo.
Kentin però non battè ciglio e rispose:
« Certo, ma ho l'impressione che tra i due, il più codardo sia tu. Hai più paura tu di far sapere ad Erin come stanno le cose, di quanta ne abbia io con Iris »
La sicurezza con cui sembrava sfidarlo valse come conferma: era Castiel quello che aveva più da perdere in quel ricatto mutuale. Non poteva permettere a quel ragazzo di rovinare il suo rapporto con Erin per un capriccio.
« Io intanto vado a pisciare » dichiarò il militare, abbandonando la stanza e dirigendosi verso il bagno. Si muoveva con una tale naturalezza in quell’appartamento, che in Castiel si insinuò il dubbio che vi fosse già stato molte altre volte durante la sua assenza.
In realtà non aveva niente contro di lui, per lo meno non da quando aveva scoperto che aveva un debole per Iris, ma stuzzicarlo e rispondere alle sue provocazioni era fin troppo stimolante. Con amicizie come Lysandre ed Alexy, era praticamente impossibile abbassarsi a discorsi grezzi e volgari ed anche a confronto con Armin, si sentiva uno scaricatore di porto nel suo modo di fare.
Quell’Affleck invece era uno diretto, fin troppo schietto e tutto sommato quella qualità gli piaceva. Non era abbastanza per considerarlo suo amico, ma doveva sopportarne la presenza, visto che il resto del gruppo lo aveva accolto.
Prese il cellulare e, in pochi secondi, inviò un messaggio a Dajan, comunicandogli che Kentin si sarebbe unito al gruppo in partenza per le isole tropicali. Stava per riporre lo smartphone in tasca, quando sentì un urlo femminile seguito da una porta sbattuta con violenza:
« SCUSASCUSASCUSAERIN! » farfugliò la voce del moro.
Castiel si precipitò nel corridoio dove lo trovò particolarmente agitato, con il viso paonazzo ed Iris che aveva appena fatto capolino dalla stanza di Erin.
« Sei entrato in bagno? » lo attaccò lei tra l’imbarazzo e la sorpresa.
« N-non sapevo che ci fosse Erin dentro! » si giustificò l’altro, in evidente disagio.
« Si stava provando un costume! »
« Me ne sono accorto! » sbottò prontamente il ragazzo, innescando in Castiel un istinto omicida difficile da sopprimere.
« La prossima volta, perché non provi a bussare? » lo rimproverò lei.
« Pensavo che non ci fosse nessuno… » fu la debole difesa di Kentin che tuttavia non poté aggiungere altro perché sentì una morsa strattonarlo via.
« Torna in cucina, Affleck » scandì Castiel, con un ghigno malvagio. Aveva i canini che scintillavano nella penombra dell’anticamera mentre il pomo d’Adamo del militare galoppò verso il basso, guardando per la prima volta con terrore, il rosso. Le dita di quest’ultimo gli stritolavano l’avambraccio con una forza disumana e, un po’ per l’imbarazzo ancora presente, un po’ per timore, non fiatò.
I due ragazzi tornarono in soggiorno ma anche quando il musicista si chiuse la porta alle spalle, non mollò la presa:
« Ti conviene non aver visto niente Barbie, oppure giuro che il viaggio alle Bahamas lo fai dentro il mio bagaglio a mano » soffiò.
« Allora vengo? » squittì speranzoso il ragazzo, dimenticando tutto il terrore che l’aveva pervaso.
Castiel non rispose e, nel tentativo di sbollire la sua irritazione, optò per uno dei suoi nuovi passatempi preferiti: stuzzicare Kentin.
« Forse… »
« Come sarebbe a dire forse? Ehi pezzo di » ma l’occhiataccia del rosso lo trattenne dal continuare la frase.
« Devi portarmi rispetto Barbie, sia perché sono più vecchio di te, sia perché ho in mano la chiave della tua felicità » sentenziò Castiel. Ariel gli era appena saltata in grembo, accovacciandosi sulle gambe e nel complesso a Kentin quella scena ricordò quella del famoso film di Coppola, Il Padrino.
« Hai un che di mafioso Black, te l’hanno mai detto? »
« Continua così Affleck, e ti troverai a nuotare con i pesci » replicò l’altro, imitando piuttosto male un accento italoamericano.
Kentin sbuffò contrariato e si sedette sulla poltrona, imbronciato. Dopo la figuraccia appena fatta, non era così ansioso di parlare con Erin, rendendo meno pericoloso quel ricatto che altrimenti vincolava Castiel a portarlo alle Bahamas.
 
« Kentin-lo-uccido! Per poco non mi ha vista nuda! » brontolò Erin, che nel frattempo si era rivestita.
Aveva invitato Iris nella sua stanza per farle vedere il costume che aveva comprato apposta per il viaggio ma mentre era in bagno a cambiarsi, il suo ospite aveva ben pensato di fare irruzione.
« Ma avevi già il costume addosso quando è entrato? »
« Più o meno. La parte sotto l’avevo già su, mi stavo allacciando il top… per fortuna che gli davo le spalle »
 
Il rosso si alzò dal suo comodo giaciglio, per prendersi un bicchiere d’acqua e in quel mentre il suo cellulare, lasciato incustodito sul tavolino, si illuminò: Kentin gettò l’occhio distrattamente sullo schermo e vide comparire il nome di Dajan:

« Perfetto Black, allora dirò agli altri che viene anche Affleck: siamo al completo »

La felicità di aver un posto in quella vacanza durò poco: venne presto sostituita in Kentin dall’irritazione per essere stato preso in giro. Castiel gli aveva già assicurato il posto su quell’aereo, si stava solo divertendo a tormentarlo e solo per questo doveva prendersi una piccola rivincita.
Così, appena il rosso tornò dalla cucina e si accomodò sul divano, Kentin dichiarò:
« Comunque posso confermarlo… » esordì, con un ghigno astuto e compiaciuto.
« Che cosa? »
« Che è vero quello che è scritto sopra uno dei lavandini del bagno dei maschi: Erin Travis ha proprio un bel culo »
 
Quando le due ragazze tornarono nella stanza, notarono subito che Kentin era impegnato a massaggiarsi la mascella dolorante, ma nel chiedere spiegazioni né lui né tantomeno Castiel si prodigarono a sciogliere la loro curiosità.
Per il militare, il colpo che aveva ricevuto poco prima bruciava ancora, ma mai quanto la soddisfazione di essere riuscito a provocare la gelosia del rosso.
 
« Ancora non ci credo che mio padre ti abbia offerto uno stage » stava commentando Ambra.
« Non dirlo a me! Ero convinto che una volta entrato nel suo studio mi avrebbe messo K.O. con uno stuolo di avvocati »
Armin inclinò il joystick, come se quella mossa incrementasse la sua abilità di schivare le rocce che sfrecciavano nello schermo ultra piatto.
« Sei sicura che i tuoi non abbiano nulla da ridire se ci siamo chiusi qui a giocare come due ragazzini? »
Erano seduti a terra, nella stanza di Ambra, isolati da qualsiasi altra distrazione e concentrati sulle immagini digitali di uno dei videogiochi usciti da poco sul mercato.
« Mia madre è ad Aspen, mentre mio padre è tornato in ufficio » spiegò la ragazza, premendo con agilità una combinazione di tasti. Armin emise un fischio di apprezzamento e si gasò:
« Con te sì che è un gusto giocare, Slytherin! Alexy mi molla dopo la roccia sacra del quarto livello »
« Cerca di stare concentrato, hai solo il 34% di energia » lo redarguì la compagna di avventure.
Giocarono per qualche altro minuto in silenzio, poi Armin domandò:
« Me la togli una curiosità? Di cosa pensavi volesse parlarmi tuo padre? »
Un grumo di saliva venne spinto giù a fatica, attraverso la gola della bionda, che faticò a trovare una scusa credibile, così cercò di liquidare la questione:
« Niente di importante »
« A giudicare da come sei entrata nel suo studio, non si direbbe » insistette lui, distogliendo l’attenzione dal gioco. Lei lo fissò di sottecchi, incrociando un paio d’occhi sinceri e sorridenti:
« Per un attimo ho pensato che fossi venuta a difendere il tuo amore spassionato per me »
Il colpo fu tale che il joystick le scivolò dalle mani, come se uno spasmo patologico l’avesse colpita d’un tratto. Il suo personaggio capitolò in una voragine, per poi riemergere con un valore dimezzato di energia e una vita in meno, un po’ come la versione reale.
Spiazzato da quella reazione, Armin era poi scoppiato a ridere sguaiato, mentre lei abbaiò:
« M-ma quanto sei cretino? »
« Ehi, non te la prendere così! Stavo scherzando! » rise lui, quasi con le lacrime agli occhi.
Ambra mise il broncio, talmente in imbarazzo da non riuscire ad aggiungere altro. L’amico ci aveva preso in pieno, ma era così ingenuo da non sospettarlo minimamente.
I loro personaggi digitali attraversarono un portale che irradiava lampi blu e bianchi e si trovarono di fronte ad un vecchio barbuto, che ricordava un po’ Albus Silente, il saggio preside di Harry Potter.
« E questo chi è? » domandò il moro.
« Non so, non sono mai arrivata così avanti con il gioco »
« Nemmeno io, siamo una coppia formidabile, Daniels »
« Ma se ho fatto tutto io » lo provocò la bionda.
« Non avremo mai sconfitto il mostro del settimo regno se non avessi trovato il diamante rosso »
« Che era da mezz’ora che dicevo di cercare nella grotta del troll » puntualizzò l’altra, sollevando l’indice.
« Dovevamo esplorare il gioco, ha una grafica meravigliosa, è uno spreco non apprezzarla »
Ambra roteò gli occhi verso l’alto, rassegnandosi:
« D’accordo Nuvola, adesso sta’ zitta che ascoltiamo Silente »
« Oltre quella porta vi aspetta un mistero da svelare… » stava spiegando il mago « è necessario che uniate le vostre menti più di quanto non abbiate fatto finora »
« A proposito » intervenne Armin « sei proprio sicura che vuoi tenerti fuori dalla storia di Sophia? Ci faresti comodo »
La bionda lo fissò truce e mormorò:
« Questo l’ho capito, ma toglitelo dalla testa: lo faccio solo per Sophia, altrimenti vi aiuterei »
« Vi verrà chiesto di fare delle scelte, ma non sempre quelle che credete siano le più giuste, si riveleranno tali » stava ancora parlando il personaggio, tanto che Armin esclamò:
« Ascolta il nonnetto Ambra! Ha ragione lui »
« Dovrei ascoltare chi? »
« Silente! » indicò lo schermo il moro, mentre la bionda storceva il labbro.
« Ascoltami » insistette, guardandola dritta negli occhi.
Aveva portato una mano sul ginocchio della ragazza, che trasalì, ma lui non se ne accorse, tanto era impegnato a trovare le parole giuste.
« Tu non vuoi intrometterti perché è stata Sophia a chiedertelo, ma questa storia sta andando avanti da troppo e lei ancora non ne è venuta fuori. Sono mesi che è in California e noi non ce la facciamo più a vedere Erin così giù di morale quando si tratta di sua sorella »
« Avete capito? » stava domandando il personaggio dal monitor.
« Sta’ zitto un secondo, Silente » sbuffò Armin, premendo il tasto muto sul telecomando e tornando a guardare Ambra con intensità.
« Quello che devi fare per Sophia non è restartene in disparte, ma intrometterti: solo se scopriamo cosa c’è dietro questa storia, puoi aiutarla. Essere sua amica non significa assecondare tutte le sue scelte, significa avere il coraggio di contrastarle quando sono sbagliate »
Calò il silenzio, nel quale Ambra annegò con le parole del moro che le riecheggiavano in testa.
Non aveva mai visto la situazione da quella prospettiva e, sorprendentemente, le sembrava molto ragionevole.
Nemmeno lei riusciva a sopportare la lontananza da Sophia, quando quest’ultima avrebbe potuto trovarsi ad Allentown, ad un’ora di macchina da lei.
« Dimmi che ti ho convinta » tentò lui, con un sorrisetto adorabile.
Le strappò a sua volta un ghigno timido e dolce, che di riflesso gli illuminò ulteriormente lo sguardo.
Gli piaceva credere di essere l’unico a vedere quel lato così sensibile e tenero della ragazza e, in parte era così, perché a parte Molly, nessun altro riusciva a suscitare nel viso di Ambra Daniels, quell’adorabile dolcezza.
Giorno dopo giorno, il suo rapporto con la sorella di Nathaniel migliorava sempre più, avvicinandolo alla ragazza più di quanto avesse mai desiderato. Pensava di conoscerla meglio di chiunque altro e quasi quasi, sperava che nessun altro arrivasse a capire quanto lei potesse essere diversa dall’immagine che si era cucita addosso in passato.
Notarono dei movimenti sullo schermo, così voltarono il capo verso il vecchio mago che sprigionava delle strane bolle e gli restituirono la facoltà di parlare.
« Non ho tempo da perdere! Vi decidete o no a farmi le domande? » si inviperì. Il personaggio era progettato per mimare quei movimenti e battute ogni volta che il gioco veniva sospeso per più di due minuti, ma vedendolo per la prima volta, i due sorrisero divertiti.
« Credo che voglia che componiamo delle domande » ipotizzò Ambra, vedendo comparire una tastiera digitale.
« Ho sentito che è tipo Siri dell’i-phone » spiegò Armin « non vedevo l’ora di arrivare a questa parte del gioco » squittì eccitato.
« Quindi immagino che cazzeggeremo un po’ prima di chiedergli come arrivare al castello del drago d’argento » concluse Ambra, sospirando rassegnata.
Il suo compagno di giochi infatti aveva già digitato un insulto e la risposta non era tardata ad arrivare:
« Sono abbastanza intelligente da sapere che non vale la pena abbassarsi al tuo livello »
Armin ridacchiò e passò ad un’altra frase, del tutto svincolata dal gioco.
Ambra lo fissava con la coda dell’occhio, pazientando sull’infantile divertimento dell’amico, che aveva esplorato ogni possibile argomento, dalla religione alla politica, ricevendo risposte più o meno piccate.
« Ne avrai ancora per molto? »
Armin non le rispose e lo vide digitare una domanda che la lasciò interdetta:
« Perché Ambra è entrata nello studio oggi? »
« Non conosco nessuna Ambra, mi dispiace » rispose Silente.
« Armin smettila, andiamo avanti » mormorò lei a disagio.
« E’ una ragazza in gamba, ma un po’ stramba » scrisse Armin, come se il personaggio digitale potesse realmente essere un confidente.
« Senti chi parla! » si indispettì lei, arrossendo per la prima parte di quella dichiarazione.
Stare in quella stanza con lei, loro due da soli, era estremamente rilassante e piacevole. Non solo Ambra era una giocatrice esperta, ma era anche una compagnia divertente e stimolante. Ne aveva avuto la dimostrazione durante la Vigilia, quando si erano trovati a lavare i piatti fianco a fianco, nel ristorante della famiglia di Lin.
Un’occasione analoga si era riproposta a San Valentino: avevano trascorso una serata meravigliosa insieme, ridendo e chiacchierando come vecchi amici. L’unico neo era stata la ramanzina di suo fratello Alexy, non appena aveva scoperto che il gemello non aveva invitato Ambra sulla pista da ballo:
« In questo momento mi vergogno ad avere il tuo stesso DNA, sappilo » aveva dichiarato sprezzante.
Armin si era limitato a scrollare le spalle divertito: non avrebbe cambiato nulla di quella serata, che si era preannunciata indimenticabile sin da quando aveva visto quella bellissima ragazza, ora seduta accanto a lui, scendere le scale.
« Se lo dici tu » lo assecondò Silente dopo la frase digitata dal moro.
« Questo tizio comincia ad inquietarmi » ridacchiò Armin.
« Allora dacci un taglio e chiedigli del castello! »
« Perché sei così in difficoltà, Daniels? »
C’era una strana luce negli occhi del ragazzo, una sicurezza che mai gli aveva visto.
Aveva un sorrisetto malizioso stampato in faccia, come se fosse riuscito a leggerle dentro, facendola sentire inspiegabilmente vulnerabile.
« Perché continui a negare l’evidenza? » le bisbigliò, senza guardarla.
Lei trasalì e le guance tradirono tutto il suo imbarazzo.
Aveva capito.
Armin era riuscito a intuire l’equivoco che l’aveva spinta ad entrare come una furia nello studio di suo padre quel pomeriggio.
Sapeva dei suoi sentimenti.
Mentre cercava di tranquillizzarsi e prepararsi ad uno dei momenti più imbarazzanti della sua vita, lui concluse:
« Quindi siamo amici ora no? »
« Che? » gracchiò lei, sgranando gli occhi.
Aveva le labbra socchiuse, troppo spiazzata ed inebetita per pensare di richiuderle.
« Siamo diventati amici Daniels, inutile che continui a fare finta di niente » canticchiò lui vittorioso.
Ambra si portò una mano sulla fronte, scuotendo il capo rassegnata.
C’erano così vicini.
A parte i sette battiti che il suo cuore aveva saltato, improvvisamente la prospettiva che Armin scoprisse la verità non le sembrò più così terrificante. Forse a causa della scarica di adrenalina che le pervadeva il corpo e che la rendeva più istintiva che razionale, decise che fosse arrivato il momento.
O la va o la spacca, si disse risoluta.
Impugnò il joystick caduto sul pavimento e, guardando lo schermo, scrisse a Silente:
« Secondo te » lesse a voce alta il moro, mentre le parole digitate dalla ragazza si componevano sotto il suo sguardo:
« Quanto deve essere idiota Armin… ehi! » si risentì, poi proseguì a leggere « per non aver capito quello che realmente mi passa per la testa? »
La ragazza tenne il joystick in grembo ma non osò guardarlo in faccia e, quel riserbo riuscì a lasciare senza parole anche un casinista come lui.
Lei non staccava lo sguardo dalle sue mani, aveva il capo chino e le spalle incurvate in avanti, come alla ricerca di una protezione invisibile.
Le faceva una tenerezza immensa, ma non era solo quella a smuovergli ogni organo interno.
Ambra gli piaceva, ma fino a quel momento si era convinto che fosse troppo perfetta per abbassarsi a provare dell’interesse per uno come lui. Era un’utopica e pertanto irrealizzabile speranza, pensare che la reginetta del liceo volesse il ragazzo sfigato dei computer.
Eppure, il linguaggio del corpo non lasciava alito ad  interpretazioni diverse, o per lo meno, Armin volle illudersi che non ve ne fossero.
La bionda alzò leggermente lo sguardo, mentre una dopo l’altra, una serie di lettere si componevano sullo schermo, fino a formare una frase, destinata a imprimersi come uno dei ricordi più dolci della sua adolescenza:
« Mi sei sempre piaciuta, Ambra »
Non fece neanche a tempo a voltarsi verso di lui, che sentì un paio di labbra posarsi delicatamente sulle sue.
Lo stomaco iniziò a fare le capriole, mentre un formicolio di felicità mai sperimentata prima, pervadeva ogni muscolo del suo corpo.
Le dita del moro iniziarono ad avventurarsi tra i suoi lunghi riccioli biondi, avvicinando ancora di più i loro visi. Le fece quasi il solletico, tanto era delicato il tocco ma soffocò una risatina per non staccare la sua bocca da quella di lui.
Era in estasi.
Felice come non lo era mai stata in vita tua.
Lei e Armin.
Insieme.
« Non ho tempo da perdere! Vi decidete o no a farmi le domande? » tornò a ripetere il personaggio dello schermo.
« Ma sta’ zitto » mormorò divertito il ragazzo, staccandosi per un attimo dalle labbra di Ambra e, senza nemmeno guardare lo schermo, impugnò il telecomando e spense il monitor.
Anche se avevano impiegato due ore a raggiungere quel livello del gioco, per la prima volta in vita sua, il ragazzo si dimenticò di salvare i progressi.
In quel momento, era impegnato in una partita ben più piacevole. La migliore che avesse mai giocato.
 
Era già la seconda volta che il suo piede rischiava di scivolare su quel tappeto di foglie bagnato da una pioggia indesiderata. Che cosa ci facesse tutto quel fogliame morente ad inverno ormai conclusosi, Jordan proprio non riusciva a spiegarselo.
Come del resto, non riusciva a giustificare il perché si stesse recando al Dolce Amoris. Poteva chiamare in causa quel senso del dovere che le era stato inculcato sin da bambina, quell’attitudine a cercare di far sempre la scelta più giusta. Se un oggetto di valore veniva ritrovato, era un atto di cortesia ammirevole impegnarsi a ricondurlo al suo proprietario. Il caso aveva voluto che l’articolo in questione fosse un cellulare di ultima generazione e che la ragazza fosse l’unica a conoscerne lo sbadato padrone.
Uno come lui poteva permettersi di trattare con tanta non curanza e superficialità un dispositivo che, a confronto del modello in possesso della ragazza, sembrava creato dalla NASA.
Ogni volta che si soffermava a riflettere sull’indifferenza del ragazzo, sentiva montarle una tale rabbia, che avrebbe preferito lasciare lo smartphone dentro il cassetto del bancone del pub in cui lavorava.
In tre giorni da quando l’aveva smarrito, non si era presentato una volta al locale per reclamarlo, nonostante fosse uno dei posti più scontati da cui iniziare la ricerca.
Il tizio, di cui manco conosceva il nome, stava inconsapevolmente mettendo a dura prova la sua pazienza, come se la serata passata a lamentarsi delle sue grane non fosse stata sufficiente.
Arrivò all’ingresso del liceo, ma rimase a debita distanza, come un esploratore che vuole osservare con discrezione la fauna selvatica: vide così degli esemplari di adolescenti, suoi coetanei, molti dei quali accessoriati di zaini e cellulari molto di moda, che nella sua scuola erano ben più rari. Analizzò clinicamente ogni viso, ma nessuno era riconducibile a quello del ragazzo che si era trascinato sul bancone qualche giorno prima.
La folla si diradava sempre più, al punto che per qualche minuto nessun altro essere umano varcò la soglia dell’istituto. Stava quasi per rassegnarsi a tornarsene a casa, quando comparve una squadra di giganti: un ragazzo con i capelli rossicci e altissimo, si stagliava su tutti ma a primeggiare, era la presenza chiassosa di un tizio che scoprì chiamarsi Wes.
Dietro di loro riconobbe la ragazza mora che, assieme a quello che doveva essere il suo ragazzo, si era presentata al locale l’ultima volta. Jordan scrutò meglio quelle facce e riuscì a riconoscere in Wes, l’idiota che le aveva fissato le tette, così come ricordò anche la presenza di Steve al tavolo. Alle loro spalle, avanzava un ragazzo con un colore eccentrico di capelli, decisamente anticonformista rispetto a quello che Jordan immaginava essere il rigido regolamento scolastico. Si stava accendendo una sigaretta ma il tentativo venne boicottato da una figura minuta accanto a lui che gli aveva strappato il cilindro dalle labbra.
Lei aveva detto qualcosa, lui aveva replicato un borbottio sommesso che l’aveva fatta irritare, al punto da gettare la sigaretta, ancora spenta, nel cestino.
Quei due era sicura di non averli mai visti prima, mentre il resto del quartetto erano sicuramente amici dell’idiota che aveva perso il cellulare. Non conoscendo il nome di Trevor, nella mente di Jordan, riferirsi a lui come “l’idiota” era diventato l’epiteto per eccellenza.
La ragazza di colore le sembrava quella più affidabile, così a passo svelto, attraversò la strada, presentandosi davanti al cancello.
Kim la riconobbe subito ma non spiccò una parola, così toccò a Jordan rompere il ghiaccio:
« Ciao. Tu sei amica di quel tizio che era seduto con voi al tavolo sabato giusto? Quello con la giacca in pelle? »
La cestista annuì, un po’ disorientata dai modi spicci della cameriera:
« Penso tu stia parlando di Trevor »
« Non lo so come si chiami, so solo che questo cellulare è suo » replicò sbrigativamente Jordan, allungando un i-phone S5.
I ragazzi alternarono lo sguardo da una ragazza all’altra, incapaci di stabilire quale delle due fosse la più spigolosa e acida. Kim infatti aveva un sopracciglio sollevato, evidentemente risentita dai modi poco garbati con cui Jordan le stava praticamente imponendo di fare la facchina, mentre quest’ultima si considerava già fin troppo generosa ad essersi presentata al liceo.
« Sei stata molto gentile » mediò la seconda ragazza del gruppo, costringendo Jordan a distogliere lo sguardo da Kim. Aveva dei lunghi capelli castani, scalati davanti in modo da incorniciarle un sorriso dolce, sotto occhi verdi e intensi. Diversamente dall’amica, Erin aveva un’indole più accomodante e disponibile, pronta a instaurare un dialogo:
« Glielo daremo noi, siamo in classe insieme » aggiunse conciliante, innescando in Jordan un senso di fiducia.
Ignorò allora Kim e si rivolse all’ambasciatrice.
« Ok » mormorò, poggiandole l’oggetto sulla mano. Girò i tacchi, mentre il viso le si imporporava per il disagio: le relazioni sociali non erano mai state il suo forte, detestava dove interagire con i suoi coetanei, specie se sconosciuti. Sapeva di avere tutti quegli occhi puntati addosso e non faticava ad immaginare di essere oggetto di commenti poco carini, a causa del suo atteggiamento schivo e indisponente.
Si stava per allontanare, quando sentì Wes alle sue spalle dire:
« Cosa? Quella è la cameriera tettona del pub? »
 
Aveva appena girato l’angolo, quando una voce la chiamò:
« EHI TU! »
Si voltò, riconoscendo in quelle due parole un timbro che sperava di dimenticare: a correrle incontro, il trafelato padrone del cellulare.
L’idiota di nome Trevor.
La raggiunse in poco tempo, mentre lei lo fissava neutra. Si accomodò gli occhiali sul naso, che si appannarono leggermente:
« Per fortuna ti ho presa » ansimò sollevato « grazie per il cellulare, non sapevo dove cercarlo »
Jordan increspò leggermente le labbra, prima di asserire:
« Non ti è proprio venuto in mente di cercare al pub? »
« No, perché ero convinto di averlo usato l’altro ieri » ammise lui.
La ragazza abbassò lo sguardo sul borsone che il ragazzo aveva appoggiato sulla spalla. Sulla stoffa rossa, impresso con una scritta bianca, era stampato il logo del club di basket del Dolce Amoris, altrimenti detto Atlantic High School. Tutta la città era orgogliosa dell’ottimo piazzamento ottenuto dalla squadra nel torneo interhigh conclusosi la settimana precedente.
In Jordan, tuttavia, il fatto di fronteggiare uno dei valorosi cestisti, non sortiva lo stesso effetto: Trevor le confermò l’impressione di essere il classico ragazzo poco incline allo studio, che compensava la sua scarsità del rendimento scolastico, con una discreta attitudine per lo sport.
« Comunque ora te l’ho ridato, quindi ciao » lo liquidò.
Nonostante la scontrosità della ragazza, il moro non demorse:
« Lascia almeno che ti offra qualcosa da bere per ringraziarti »
« Un “grazie” è più che sufficiente e, per inciso, non me l’hai ancora detto » sottolineò Jordan, affossando ancora di più le mani nelle tasche.
« Forse preferiresti qualcosa di più di un grazie… » commentò lui con malizia.
La vide irrigidirsi ed avvampare, con una facilità che lo divertì ed al contempo intenerì:
« D-devo lavorare » farfugliò lei a disagio.
Non era la risposta migliore: doveva rinfacciargli l’esistenza di Brigitte, la sua fidanzata potenzialmente incinta. Possibile che, nonostante quella delicata situazione, si divertisse a provarci con lei?
La cameriera non si accorse del divertimento con cui la scrutava Trevor, frammisto ad una certa sorpresa: lui stava solo scherzando, ma l’espressione di Jordan lasciava intendere quanto seriamente avesse preso quella provocazione:
« Guarda che non sto facendo sul serio… per chi mi hai preso? » ribatté lui beffardo.
Jordan sbattè gli occhi, smarrita e umiliata di aver fatto la figura dell’ingenua. Odiava quel genere di situazioni perché davvero non sapeva cosa volesse dire comportarsi da normale ragazza di diciassette anni. Inoltre, essendo molto bella, non era raro che qualche cliente le facesse delle sgradite avance.
A scuola si era costruita una fama poco lusinghiera, in cui il suo caratteraccio bisbetico e intrattabile aveva allontanato molti potenziali pretendenti.
Il suo unico obiettivo e soddisfazione era quello di essere una studentessa modello, estremamente preparata in materie come letteratura e scienze, ma in fatto di relazioni interpersonali, era una frana.
Per quanto si vergognasse al solo pensiero, aveva provato a migliorare se stessa ripiegando su ciò che sapeva far meglio: studiare; aveva così comprato manuali dai titoli imbarazzanti quali “noi e loro: come sopravvivere in mezzo alla gente” ma non avevano fatto altro che aumentare la sua confusione.
Sulla teoria, sembrava che le persone fossero tutte uguali, che si comportassero esattamente allo stesso modo, manovrate da una generalizzazione che non lasciava loro la possibilità di libero arbitrio, ma nella realtà ciò non accadeva e Trevor ne era l’esempio.
« Vado » ripeté lei, scocciata. Sollevò la sciarpa fin sotto il naso e si incamminò indispettita.
Aveva fatto solo due passi, quando Trevor la richiamò:
« Per la cronaca, mi chiamo Trevor »
« Per la cronaca, nessuno te l’ha chiesto » sbottò lei, senza neanche girarsi.
Lui sorrise divertito, mentre lei voleva solo allontanarsi il prima possibile da quell’individuo dai modi equivoci e bizzarri.
 



 
 ####################################################
 


NOTE DELL’AUTRICE:
 
Salve^^
 
Mi dispiace per tutto il tempo che lascio passare tra un aggiornamento e l’altro, purtroppo (come molte di voi già sanno) è una scelta che esula completamente dalla mia volontà ç_ç. Da parte mia, posso solo assicurarvi che “prima o poi arrivo” (^_^)v.
 
Finalmente in questo capitolo mi sono decisa a fare qualche passo in avanti sul mistero del quadro.
Anche nei successivi indizi in merito non mancheranno, dal momento che l’indagine viene portata avanti su più fronti: quello di Erin, con quello che Rosalya ha battezzato il T-Team e sul fronte Occidentale, dalla lontana California, abbiamo Sophia e Nathaniel.
 
Fino all’ultimo sono stata indecisa se dare una spintarella ad Ambra e Armin… non vi sto prendendo in giro se vi dico che ho riflettuto sull’eventualità di aspettare ancora. Poi alla fine mi sono detta che questi due rendono meglio da fidanzati da che separati (e fu così che Erin e Castiel si fidanzarono in punto di morte del rosso), così mi sono decisa U.U.
 
Il prossimo capitolo mi piacerebbe pubblicarlo prima della fine dell’estate, perché è ambientato alle Bahamas, sarà il classico capitolo in stile fanfiction con le classiche scenette che solo un “setting in place” con il mare può evocare… se uscisse in autunno, mi verrebbe il magone a pensare alle vacanze andate ç_ç (ferie che comunque non mi sto godendo quest’anno φ(.. ))
 
Con questo capitolo ho sperimentato una tecnica nuova per la revisione degli errori (ma che si è rivelata una sorta di scoperta dell’acqua calda, dal momento che molte altre autrici la usano da tempo): l’ho letto a voce alta. Come mi ha fatto giustamente osservare Kayleah, vista la lunghezza del testo, ci ho rimesso le corde vocali, ma ho visto molti più errori rispetto a quando leggo in silenzio… spero quindi che il mio sforzo sia servito a non farvi individuare i soliti strafalcioni o errori di battitura *cross fingers*.
 
Ultima cosa! Per chi non lo avesse ancora visto, sulla mia pagina di EFP ho pubblicato un piccolo sondaggio in base al cui risultato, scriverò una one shot ;)
 

Intanto grazie a chi ha già partecipato ^^
Sempre a proposito di ringraziamenti, ci tengo a ringraziare pubblicamente _nuvola rossa 95_ per il disegno che troneggia sul mio profilo (e che ho ritenuto opportuno riportare qui sotto, così concludiamo in bellezza) ^^.

 
 
Grazie per aver letto il capitolo ^^
 
Alla prossima!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** Welcome to Bahamas ***


53.
WELCOME TO BAHAMAS
 

Seppur una sonnolenza quasi soffocante tentasse strenuamente di imporsi nelle loro menti, le palpebre dei cestisti della Atlantic High School resistevano eroicamente, svelando alla vista un via vai frenetico e inarrestabile: il JFK International Airport di New York non dormiva mai, nemmeno alle quattro di quella mattina di marzo.
Pesanti bagagli facevano da seguito ad ansiosi e scattanti passeggeri, che li trascinavano scrutando con apprensione le indicazioni segnate su enormi tabelloni. Oltre a quei passeggeri così allarmati e nervosi, si potevano individuare anche uomini d’affari, dall’atteggiamento diametralmente opposto che palesavano un’evidente apatia per uno stile di vita al quale erano fin troppo avvezzi. L’emozione di salire su un velivolo era scomparsa da tempo, lasciando spazio ad una sorta di sprezzante derisione verso chi riusciva a vedere in un viaggio aereo, un’esperienza unica e nuova.  
Per i ragazzi della Atlantic High School, uno dei licei più prestigiosi di Morristown, quello scenario era sicuramente interessante, ma non al punto da meritare la loro completa attenzione; restare svegli si era rivelata un’impresa particolarmente ardua. Non riuscivano nemmeno ad avviare una conversazione senza che le loro parole fossero interrotte da uno sbadiglio sguaiato. La vivacità e rumorosità della squadra di basket del Dolce Amoris sembravano evaporate, lasciando quasi disorientata la ragazza del gruppo che meglio li conosceva. Erin non riusciva a smettere di sorridere, nel vedere i tentativi di Trevor e Wes di abbandonarsi sulla schiena di Steve, per schiacciare un pisolino in piedi; c’era poi Kentin che continuava a stropicciarsi gli occhi come un bambino e tutti gli altri che avevano lo sguardo perso nel vuoto.
Solo in lei pareva brillare una luce di eccitazione e curiosità: non era mai salita su un aereo in vita sua e non avrebbe permesso alla stanchezza di prendere il sopravvento. Intendeva godersi ogni dettaglio di quell’ambiente, a partire dalle luci invitanti dei locali che li circondavano, il via vai frenetico, il borbottio dei passeggeri che, come loro, dovevano sostare in fila al check-in.
Aveva cercato qualcuno che condividesse il suo puerile entusiasmo, ma avevo riscontrato solo facce assonnate e apatiche. Persino Rosalya, da sempre garanzia di energia, se ne stava in silenzio, fissando lo schermo del cellulare da cui compariva un lungo messaggio del suo ragazzo, Nathaniel.
La mora la vide sorridere e non osò invadere la sua privacy. Cercò allora Iris, che era intenta ad ascoltare l’unico ragazzo che dava qualche segno di vita, Dakota. Il surfista gesticolava animatamente, riuscendo a strappare un sorriso divertito alla rossa, sottolineando un’invidiabile complicità tra di loro. Anche Kentin sembrò accorgersi di quello scambio di battute in atto, accigliandosi non appena il biondo incrociò il suo sguardo.
Erin abbandonò il campo di quella tacita guerra fredda, accorgendosi di un movimento brusco accanto a sé. Spostò quindi la sua attenzione verso il pavimento, dove vide il braccio di Castiel intercettare il suo trolley:
« Stava cadendo » borbottò il ragazzo, riferendosi al precario equilibrio del bagaglio a mano.
« Ah grazie »
« Si può sapere che ci hai messo dentro? Un cadavere? Pesa un quintale » si lagnò.
Erin sollevò gli occhi al cielo, rassegnata. Si era sorpresa del fatto che l’amico non avesse ancora trovato qualcosa di cui lamentarsi e quella piccola constatazione era giunta a conferma di quanto lo conoscesse fin troppo bene.
« Non pesa tanto, Cas » convenne, con una leggera nota di indecisione nella voce.
« Secondo me invece hai sforato le trentacinque libbre » la punzecchiò lui « pagherai la maggiorazione, Cip »
Si guadagnò un’occhiata sprezzante ed intimidatoria. Non gli avrebbe permesso di guastarle quell’attesa, lasciandosi attorniare dal dubbio di aver infranto il regolamento imposto dalla compagnia aerea.
Questo almeno era quanto Erin continuava a ripetersi.
I dubbi iniziarono infatti a tormentarla e, dopo poco, lasciandosi alle spalle una risata divertita del rosso, la ragazza iniziò a chiedere ai presenti di stimare approssimativamente il peso del suo bagaglio.
« E’ sotto le trentacinque libbre, Erin » sbadigliò infine Dajan « lascia perdere Black »
Rimasero in coda per un tempo che sembrò interminabile, che prolungò la loro agonia fino al limite di sopportazione; quando finalmente il viso gentile dell’addetta comparve davanti a loro, ci fu un diversivo che sembrò destare la sonnolenza generale: Wes aveva smarrito la carta d’imbarco.
Il resto della compagnia aveva già superato il controllo, solo Erin e Kentin erano rimasti con lui e la prima, compatibilmente con la sua natura premurosa e gentile, si offrì immediatamente di aiutarlo. Aprirono il bagaglio a mano, sotto gli sguardi spazientit degli altri viaggiatori in attesa e, senza troppi riguardi, la mora rovistò tra i vestiti. Le sue mani afferrarono distrattamente un pacchetto che, troppo tardi, si rivelò una confezione di preservativi aromatici. La ripose in fretta e furia all’interno della valigia, seppellendola più a fondo possibile tra gli effetti personali del ragazzo. Quest’ultimo, per nulla turbato da quell’uscita che aveva strappato qualche sorriso imbarazzato attorno a loro, continuava a gettare all’aria il contenuto del bagaglio, fino ad accorgersi che il documento era sempre stato nella tasca esterna del trolley. 
Riuscirono così a effettuare il check-in, passando poi alla fase successiva: il metal detector.
Quell’apparecchio incuteva un certo timore in Erin, che aveva passato in rassegna più volte gli oggetti metallici in suo possesso; non aveva una cintura e il braccialetto che le aveva regalato Alexy se l’era già tolto, eliminando così ogni pretesto per far suonare quel varco tecnologico. Con la figuraccia dei preservativi, aveva già focalizzato l’attenzione su di sé e non intendeva ripetere l’esperienza. 
Nonostante le sue paranoie, superò il controllo, recuperando poi gli effetti personali sul nastro trasportatore in cui aveva dovuto riporli.
Trevor impiegò dieci minuti buoni a togliersi i piercing metallici, ma fu Wes che riuscì a far scattare l’allarme del dispositivo. L’addetta alla sicurezza aeroportuale allora, fece sorvolare sul corpo del ragazzo un metal detector portatile, il quale iniziò a suonare all’altezza dell’inguine:
Quell’occasione fu troppo ghiotta per il cestista che, scambiando un’occhiata maliziosa all’amico Trevor, esclamò:
« E’ di metallo! » in riferimento ad una nota pubblicità di caramelle alla menta.
I ragazzi scoppiarono a ridere fragorosamente, così come buona parte delle persone nei paraggi, mentre Erin e il resto delle ragazze arrossirono imbarazzate.
Quella era solo l’anticipazione di una vacanza che si prospettava carica di allegria ed emozioni.
Dopo quella piccola gag, si scoprì la presenza di un portachiavi all’interno della tasca dei jeans del cestista, che finalmente ottenne il via libera definitivo.
Il gruppo, capeggiato da Dajan e Kim, ebbe così accesso ad una delle tante sale d’attesa, con ampie vetrate aggettanti sulle piste di decollo. Il pavimento era tirato a lucido ed incredibilmente pulito, nonostante l’indicibile numero di piedi che lo calpestavano quotidianamente.
Mosse dalla trepidazione, Erin ed Iris corsero eccitate verso il panorama, ad incollare mani e naso sul vetro che le separava da un aereo fermo, poco lontano. Anche nella rossa sembrava essersi destato quel tenero interesse, quasi infantile, alla vista di un velivolo su cui era salita solo una volta in vita sua.
« E’ enorme! » squittì la mora affascinata.
Iris ne assecondò la reazione, ma ci pensò Kentin a sgonfiare ogni entusiasmo:
« Quante storie per un aereo » sbadigliò annoiato e con le mani conserte dietro la nuca. Non fu un’uscita felice, dal momento che Iris lo gelò con lo sguardo, per poi aggiungere:
« Scusa se sono anni che non vedo un aereo da vicino »
La innervosiva quando il militare tendeva a ridimensionare dettagli che per lei erano importanti. Con quel genere di commenti, dimostrava di peccare di quella sensibilità di cui, in altre circostanze, sembrava dotato.
« E’ sempre emozionante vedere un simile bolide da vicino » convenne una voce. Riconoscendo in essa quella di Dake, Kentin emise un grugnito, allontanandosi contrariato mentre Iris sorrideva grata al surfista.
Il gruppo si sparpagliò, in attesa del loro volo che sarebbe stato chiamato non prima di un’ora. Trevor e Wes entrarono nell’edicola, per fare scorta di riviste sportive, raggiunti poco dopo da Kim e Dajan. Dai compagni, Steve aveva ottenuto il permesso di portare la sua ragazza Paula, che in quel momento lo stava trascinando verso la profumeria, con l’astuto intento di strappare al fidanzato un regalo.
« In aeroporto i prodotti sono tax free » gli aveva sorriso maliziosa « costano meno, amore »
L’unico musicista del gruppo, Castiel, non aveva saputo resistere al richiamo di un paio di ammalianti cuffie stereo e si era appostato davanti alla vetrina di un negozio di elettronica per ammirarle in tutto il loro tecnologico splendore. Erin, Iris e Rosalya, dapprima si erano lanciate in un’animata conversazione, ma con il passare dei minuti, il sonno aveva preso il sopravvento sulle ultime due, che si appisolarono l’una accanto all’altra sulle scomode poltrone della sala d’attesa.
Priva di passatempi e distrazioni, la mora si alzò dal suo posto e iniziò a passeggiare, buttando ogni tanto lo sguardo sul suo bagaglio a mano, lasciato incustodito vicino alle amiche. Le sembrava di muoversi in un limbo di irrealtà: l’atmosfera era come sospesa, poiché faticava a capacitarsi del fatto che di lì a poco sarebbe salita su un aereo. Era come sognare, e non riuscire a metabolizzare completamente le emozioni che le vorticavano dentro.
« Che numero hai? »
Si voltò, trovandosi davanti lo sguardo vispo di Dakota, reso ancora più accattivante da un sorriso bianchissimo.
« Il 37 A, corridoio » recitò Erin con un certo disappunto, mostrando la carta d’imbarco. Aveva desiderato fortemente un posto accanto al finestrino, ma lo smistamento dei posti da parte dell’agenzia di viaggi, aveva stabilito diversamente.
« Sei seduta vicino ad Iris? » incalzò.
La mora annuì, mentre le labbra del ragazzo s’incurvavano ancora di più verso l’alto, vittoriose:
« Che ne diresti di uno scambio? »
Le iridi luminose, unite all’espressione vivace e stuzzicante, ammaliarono la sua interlocutrice; seppur non provasse alcun sentimento romantico verso di lui, Dake riusciva ad incantarla con la sua spontaneità e sicurezza.
« Ti offro un posto vicino al finestrino » la lusingò il biondo. Da bravo stratega, non puntualizzò che nell’offerta era incluso Trevor come vicino, consapevole che quel dettaglio non fosse a vantaggio della causa che voleva perorare. Per Erin comunque, bastava la posizione accanto all’oblò per accettare la proposta: finalmente avrebbe realizzato il sogno di volare tra le nuvole. Felice per quell’opportunità, l’unica ovvia considerazione con cui Erin riuscì a replicare, fu:
« Vuoi stare vicino a Iris? »
La risposta fu rappresentata da un fugace occhiolino che la fece sorridere ancora di più.
 
Quando tornò dalle sue amiche, venne come investita dall’occhiataccia circospetta di Rosalya:
« Che voleva Dake? » le sussurrò, per non svegliare la rossa che ancora dormiva.
« Fare cambio di posto »
La stilista aggrottò la fronte e ribatté indispettita:
« Non avrai accettato, spero »
Spiazzata da quella velata recriminazione, Erin non fiatò, reazione che bastò all’amica per sbottare:
« Porca paletta, Erin! Ma che ti dice il cervello? »
Si era alzata di scatto, allontanandosi a grandi passi. Con il suo scatto, venne meno il sostegno ad Iris che, tuttavia, non accennò alcun risveglio. Erin la vide pendere pericolosamente di lato, così si rassegnò a sorreggerla, per poi sedersi accanto a lei.
« Dove stai andando? » questionò confusa, rivolgendosi a Rosalya.
« A rimediare » sputò l’altra nervosamente.
Le oscillazioni emozionali di Rosalya erano più repentine e drastiche di chiunque altro, riusciva a passare da una calma zen all’irritazione isterica nell’arco di pochi secondi. Intavolare una discussione sarebbe stato, oltre che inutile, assolutamente controproducente.
L’unica soluzione era lasciarla agire, anche se non sempre tollerava di buon grado quegli scatti d’irragionevole irritazione dell’amica. Del resto però, sembrava che quel genere di personalità esercitassero un certo fascino su Erin, che vedeva in Castiel l’emblema dell’impulsività rabbiosa. Si limitò così a sospirare, mentre un addetto alla sicurezza aeroportuale batteva Rosalya sul tempo e si rivolgeva al suo obiettivo: Kentin. Il cadetto infatti teneva una sigaretta in bilico tra le labbra, ancora spenta, mentre l’uomo inveiva sul divieto di fumare. Era stato un gesto istintivo, probabilmente prima ancora che la fiammella dell’accendino avviasse la combustione, il ragazzo avrebbe realizzato che quella che stava commettendo era un’infrazione. Non potè fare altro che scusarsi, così quando l’uomo si allontanò, lasciando a Rosalya la possibilità di parlare con il moro, lo trovò di pessimo umore. Per nulla intimorita, gli sorrise invitante e, con voce suadente, domandò:
« Kennino, ti va di fare uno scambio? »
Lui la fissò dapprima perplesso, poi arrossì a disagio.
Kennino.
Lo stesso soprannome con cui, nell’intimità e segretezza delle mura domestiche, sua madre si rivolgeva a lui. Odiava quel nomignolo ma le sue proteste non avevano mai arginato l’affettuosità di Yvonne.  
« Che vuoi, White? » scattò lui sulla difensiva. Nelle iridi dorate fiammeggiava un’espressione vispa e felina, quasi subdola per la mente ingenua del militare.
« Offrirti un posto in una posizione spettacolare sull’aereo »
« Accanto al finestrino? » tirò ad indovinare lui, scrutandola diffidente.
« Meglio » miagolò prontamente, sventolandogli sotto il naso la sua carta d’imbarco. Guadagnò solo un’espressione confusa, così la stilista precisò:
« Scommetto che ti interessa un posto accanto ad Iris »
Preso in contropiede per quella proposta, il ragazzo sgranò gli occhi: sentì il battito accelerare, mentre un’irritazione pulsante prendeva possesso di lui. Istintivamente cercò Castiel con lo sguardo, convinto che fosse lui il responsabile dello smascheramento del suo segreto. Lo intravide all’interno del negozio di elettronica ma di lui si sarebbe occupato successivamente. In quel momento l’urgenza era smentire la teoria di Rosalya:
« No, ti sbagli, cosa vuoi che me ne freghi? » borbottò accigliato e in evidente imbarazzo.
La ragazza, dando sfoggio delle sue migliori qualità di attrice, si finse sinceramente stupita e, con un’ipocrisia che riuscì a farla apparire ingenua e svampita, mugolò mortificata:
« Ah scusa, pensavo che… »
Sin da quando aveva scoperto che Kentin era lo stesso ragazzo che Iris aveva conosciuto in biblioteca durante le festività natalizie, Rosalya aveva stabilito che, in un modo o nell’altro, i due dovevano formare coppia fissa. Nessun titolo l’autorizzava ad esercitare una simile ingerenza nella vita dell’amica, ma ciò non bastava certo a scoraggiarla. Aveva addirittura cercato l’appoggio di Erin che, tuttavia, aveva deciso di non assecondarla in quell’impresa. La mora infatti, sosteneva una politica di rispetto reciproco della privacy, consapevole che lei per prima non avrebbe tollerato pressioni nel suo rapporto con Castiel.
Rosalya era sola, ma agguerrita più che mai: ai suoi occhi Kentin appariva come un cucciolo ingenuo ed inesperto. Raggirarlo sarebbe stato fin troppo facile.
« Pensavi male » aveva tagliato corto il militare, fissando i monitor in cui venivano annunciati i voli in partenza. Si sottraeva al suo sguardo, e ciò gli impedì di notare il ghigno divertito della stilista quando annunciò con non curanza, ammirando la sua impeccabile nail art:
« Vorrà dire che Iris si sorbirà Dake tutto il viaggio, dal momento che io dormirò in aereo »
Aspettò qualche secondo, il tempo necessario affinché il cadetto metabolizzasse la notizia. Apparentemente il ragazzo sembrava calmo e indifferente, ma il leggero rossore che gli colorò il viso tradì ben altri pensieri:
« Non c’è Erin con voi? »
Rosalya attese qualche secondo, per godersi il divertimento sadico nel stuzzicare la gelosia del ragazzo, poi spiegò:
« No, ha fatto scambio con Dake »
Attese ancora qualche istante ed infine aggiunse « però, a quanto pare, preferisci stare dove sei… » lo liquidò, allontanandosi trionfante.
Aveva già vinto, lo sapeva, si trattava solo di aspettare che il nemico realizzasse la propria sconfitta. Non dovette attendere molto per tale dichiarazione, poiché dopo pochi passi sentì la voce alle sue spalle esclamare:
« Accetto lo scambio! »
Sorrise sorniona, prima di voltarsi. Avrebbe voluto punzecchiarlo ulteriormente, fingere di stupirsi per quel cambio repentino di intenzioni, ma era abbastanza scaltra da saper dosare le parole per non compromettere il raggiungimento del suo obiettivo.
« Ottimo » replicò quindi con un sorriso accondiscendente.
 
« Si può sapere che stai combinando? » indagò Erin non appena l’amica si accomodò accanto a lei. Rosalya accavallò le gambe con eleganza e in un primo momento sembrò restia a intrattenersi in quella discussione. Infine, rassegnata dall’ottusità della sua migliore amica, sbottò:
« Cerco di smuovere un po’ le acque, Cip, perché se aspetto voi due, qua rimane calma piatta » ed indicò Iris, che ancora sonnecchiava beatamente.
« Ho solo fatto scambio di posto con Dake… »
« Appunto Erin: con-Dake » scandì, muovendo le mani « non eravamo d’accordo che Iris doveva mettersi con Kentin? »
« Non eravamo d’accordo per niente, sono fatti loro »
La stilista sbuffò e, dopo aver alzato lo sguardo al cielo, spiegò:
« E’ mio dovere come amica immischiarmi… e poi, non vedi che carini che sono insieme? »
Erin rimase senza parole:
« Lei e Kentin? » cercò conferma la mora. Quella domanda, per quanto retorica, le fece guadagnare l’ennesima occhiataccia di biasimo. Agli occhi di Erin, Kentin ed Iris interagivano poco tra di loro, come se il loro rapporto fosse vincolato unicamente alle loro amicizie comuni:
« A volte sei proprio tarda, Erin, lasciamelo dire! Sarà per questa tua ingenuità che piaci tanto a Castiel? »
Se anche Rosalya avesse voluto aggiungere un altro commento, il tentativo le fu impossibilitato dalla mano dell’amica che arrivò a tapparle la bocca:
« Vuoi parlare piano, scema? » si agitò, scrutando attorno a sé circospetta « non dire cavolate e, soprattutto, non farti sentire! »
« Tzè figurati » sbottò l’altra, liberandosi dal bavaglio improvvisato « possibile che non ti rompa questa situazione di stallo? Io voglio azione! »
« Allora concentrati su Iris » sviò l’amica « perché non voglio nessuna intromissione nella mia amicizia con Castiel… te l’ho ripetuto non so quante volte »
« Io infatti sto cercando di pensare al bene di Iris ma sei tu che mi complichi i piani »
Le labbra di Erin si incresparono mentre Rosalya sbottava:
« Però se Affleck non si sbriga a fare il primo passo, passo dalla parte di Dake » sentenziò d’un tratto.
Erin sollevò le spalle, imponendo di restare neutrale in quella guerra in cui l’amica voleva per forza prendere parte:
« Comunque » esclamò la mora « se Kentin è seduto accanto ad Iris, chi avrai vicino in aereo? »
 
« No, questo è fuori discussione! »
Sul viso di Rosalya si era dipinta un’espressione di sconcerto e disgusto. Le mani arpionavano saldamente i suoi fianchi stretti, mentre dietro di lei, cominciava ad accumularsi una fila di passeggeri spazientiti. Il corridoio dell’aereo era troppo stretto per permettere a loro di superarla, ma nonostante l’ingorgo, la stilista non si spostava di un millimetro:
« Spostati da lì, White, sei in mezzo alle palle, lascia passare la gente » mormorò Castiel, fissandola dal basso verso l’alto: comodamente seduto sul suo sedile, il ragazzo stava studiando la confezione in cui erano imballate le cuffie recentemente acquistate.
Made in Germany, sorrise soddisfatto.
« C’è qualche problema, signorina? » domandò una hostess, allarmata dall’intasamento del piccolo corridoio:
« Non posso stare seduta accanto a questo soggetto » replicò Rosalya, indicando il rosso.
« E chi ti vuole? » sbottò lui  « qui c’è Affleck… non che sia una compagnia tanto migliore »
« Ecco cosa succede nel fare buone azioni! » sbuffò la stilista, sollevando gli occhi al cielo.
« Signorina, potrebbe sedersi? » la invitò pazientemente la hostess « sta ostacolando il resto dei passeggeri »
« No, lei non capisce » s’impuntò la ragazza, agitando le mani « se io e questo tizio restiamo seduti vicini per più di cinque minuti, qua scatta un omicidio, è una questione di sicurezza personale e collettiva »
Il cipiglio della donna si alzò, mentre un uomo anziano, esasperato, scattò:
« Senta, trovi qualcuno con cui cambiare il posto e finiamola! » aggiungendo poi qualcosa circa l’immaturità degli adolescenti. Destata da quelle parole, l’espressione di Rosalya cambiò drasticamente: sapeva esattamente a chi proporre quello scambio.
 
Erin si guardò attorno elettrizzata: anche se l’aereo rientrava nella classe economy, le sembrò estremamente confortevole e raffinato. I sedili erano abbastanza larghi e di certo con il suo fisico minuto poteva starci comoda. Il vocio dei passeggeri non era eccessivamente alto, l’unico rimpianto era che il suo posto si affacciasse verso il corridoio. Se non altro, era in una delle due file laterali, biposto, seduta accanto alla persona che più di ogni altra rappresentava qualcosa di importante per lei su quel velivolo. Per stargli accanto, aveva rinunciato a un posto accanto al finestrino ma non le importava granché, anzi, era talmente di buon umore, che non pensò nemmeno di chiedere a Castiel di scambiarsi.
« Io e Rosa abbiamo fatto cambio » gli aveva spiegato, mentre si sedeva.
« Come mai? Non riesci a starmi lontana? » non perse occasione per schernirla.
« Ovvio » replicò lei con indifferenza, anche se sapeva quanta verità fosse celata dietro quella battuta « comunque, c’è stato un traffico di posti solo perché a Ken interessa Iris »
Si lasciò sfuggire quel commento troppo in fretta; inoltre, che al ragazzo piacesse Iris, era solo una supposizione di Rosalya, non avevano mai ricevuto alcuna conferma in merito. Stava per rimediare, aggiungendo qualcos’altro quando Castiel esclamò:
« Ha buon gusto, allora »
Anche se tra lui e il cadetto c’era un rapporto di dichiarata belligeranza, non sarebbe stato lui a tradire il suo segreto. Tuttavia, quella risposta aveva allarmato Erin, che si era pietrificata. Notando il suo sgomento, il rosso sorrise beffardo:
« Iris ha proprio due belle tette »
« Pervertito » mugolò lei, gettando un’occhiata furtiva alla desolante coppia di collinette che rappresentava il suo misero panorama. Non riusciva a capire perché per certi ragazzi la vista di un seno prosperoso dovesse essere qualcosa di così eccitante ed ammirevole, e il fatto che Castiel rientrasse nella categoria, la sconsolò un po’, accentuando in lei delle insicurezze sopite.
Lo vide liberare dalla confezione le cuffie che aveva comprato poco prima e collegarle tramite Bluetooth allo smartphone:
« Adesso Cip, vedi di startene buona finché non arriviamo »
« Non trattarmi come una bambina! » s’infastidì lei. Non solo non la vedeva come una donna, la trattava addirittura come una ragazzina, petulante e infantile.
« Allora te lo dirò diversamente: non rompermi i coglioni perché stanotte non ho chiuso occhio »
Mentre le palpebre del ragazzo si serravano e il suo corpo veniva abbandonato contro lo schienale del sedile, lei incrociò le braccia al petto, risentita. Erano loro due soli, accanto non aveva nessun altro con cui fare conversazione e l’unica alternativa era sporgersi a fissare il paesaggio fuori dall’oblò, posizionato accanto all’amico. Castiel era stato così scorbutico, più del solito, al punto da instillarle il dubbio che la sua vicinanza fosse qualcosa di sgradito. Forse preferiva la compagnia di Kentin.
Solo anni più tardi, scoprì che dietro ai modi grezzi e schivi del ragazzo, si nascondeva un leggero nervosismo, frammisto alla contentezza di averla vicino.
 
L’hostess aveva appena finito di illustrare le misure di sicurezza al termine delle quali, Erin si scoprì inspiegabilmente ansiosa e nervosa. Venire a conoscenza di tutti i comportamenti da adottare in caso di incidenti, l’aveva resa cosciente dei rischi associati ad un viaggio aereo. Volare a centinaia di chilometri dal suolo era prima di tutto un’esperienza rischiosa. Lo stress iniziò così a germinare in lei: improvvisamente il sedile le sembrò scomodo, l’aria condizionata troppo fredda e i timpani ernao investiti da un brusio fastidioso.
Aveva il terrore di volare e l’aveva realizzato troppo tardi.
Dal vetro circolare dell’oblò, intravide che l’aereo acquisiva sempre più velocità, senza staccarsi ancora dal suolo:
« Merdamerdamerda » pensò tra sè e sé, mentre il cuore le accelerava.
Strinse disperatamente le mani contro i poggioli ai lati dei sedili, al punto che le nocche le si imbiancarono.
« Guarda che non siamo sulle montagne russe » la schernì Castiel, dopo averle lanciato una sbirciatina ed essere tornato a dormire.
La paura l’aveva resa sorda a qualsiasi suono, così non le fu difficile ignorarlo.
Rimpianse amaramente di aver ceduto allo scambio di posti, almeno avrebbe potuto contare su qualche parola di conforto da parte dell’amichevole presenza di Iris.
Strinse le palpebre, i muscoli del collo erano rigidi e le spalle un blocco di marmo. Alla lingua, arrivò l’appena percettibile sapore salato del sangue, fuoriuscito dalle labbra screpolate; più passavano i secondi, più la sua ansia cresceva.
Stava per cercare una rivista da usare come ventaglio quando si sentì avvolgere da una musica dolce e malinconica: sulle sue orecchie si erano posate, come d’incanto, un paio di cuffie, che la isolarono completamente.
Alzò lo sguardo, mentre le braccia di Castiel tornavano ad abbassarsi, dopo essersi rese fautrici di quella premura.
« È - è una tua canzone? » balbettò Erin, avvampando.
In un attimo aveva dimenticato la sua paura di volare, il malessere fisico e psicologico che l’aveva pervasa.
C’erano solo lei e quel ragazzo dalla sensibilità inaspettata:
« Magari... sono i Radiohead... Let down... » masticò senza guarda in faccia « possibile che tu non la abbia mai sentita? »
Quell’ultimo rimprovero era necessario e inevitabile per mascherare la dolcezza del suo premuroso gesto. Erin sorrise, ormai abituata alla contraddittorietà del rosso e, dopo qualche nota, riconobbe una delle sue canzoni preferite del gruppo. L’aveva sentita suonare in passato dall’amico, che le aveva permesso di allargare il suo repertorio musicale in fatto di musica rock.
Voleva aggiungere qualcosa, quando una forza invisibile e invincibile, la schiacciò contro lo schienale. I condotti uditivi le si tapparono, nonostante i suoi ripetuti tentativi di deglutire e l’aereo iniziò ad inclinarsi verso l’alto, lentamente ma inesorabilmente. Con la coda dell’occhio, intravide quello che sembrava un ghigno divertito alla sua destra, che si spense nell’istante stesso in cui lei cercò la sua mano. Quasi gliela stritolò, perché in quel gesto ritrovò un po’ di quella calma e rassicurazione che solo lui poteva darle; non vide tuttavia come fosse radicalmente cambiata l’espressione di Castiel. Rimasero così per secondi che se ad Erin sembrarono interminabili, per il ragazzo non furono abbastanza.
Quando l’aereo tornò orizzontale, la mora sciolse quella stretta dettata dall’impulso, nascondendo frettolosamente la mano sotto le maniche della maglia:
« Scusa » mormorò a disagio, anche se dal punto di vista del ragazzo, avrebbe dovuto scusarsi per aver interrotto quel contatto, non per averlo creato. Si tolse le cuffie proprio quando i Radiohead avevano suonato l’ultima nota di quella triste ballata e gliele restituì:
« Grazie, mi sono servite »
Lui scrollò le spalle e si sistemò le cuffie, chiudendo gli occhi:
« Adesso però, lasciami dormire » brontolò.
Girò il capo verso l’oblò, in modo che Erin non potesse vedere il leggero rossore che gli aveva tinto le guance. Già sentiva la nostalgia per un contatto che era durato appena pochi secondi, e se un gesto così innocente era bastato a destabilizzarlo, non osò ricordare quanto avrebbe voluto risentire il tocco di quelle morbide labbra sulle sue, conosciutesi la notte del concerto del liceo.
In mancanza di compagnia, Erin dapprima cercò, nella rivista fornitale dall’hostess, la distrazione di cui aveva bisogno, ma l’interesse durò appena minuti: quanto era appena successo tra lei e Castiel aveva la precedenza sui suoi pensieri.
Gli lanciò un'occhiata fugace e si accorse che era tornato a rivolgere il capo dal suo lato. Aveva gli occhi chiusi, totalmente immerso nella sua musica. Dal display del cellulare, intravide il titolo del gruppo che le aveva fatto ascoltare e che sembrava conciliare la serenità dell'ascoltatore.
Le sue palpebre, minuto dopo minuto, rimanevano ostinatamente abbassate, nessun tremito o tentativo di sollevarsi. Quasi complici, nell'invitare gli occhi di Erin a continuare a soffermarsi indisturbata sul ragazzo.
Non aveva mai negato che fosse intrigante, anche quando lo reputava un individuo insopportabile ed immaturo, ma con l'acquisita consapevolezza dei suoi sentimenti, in lei si era anche radicata la romantica concezione che non esistessero ragazzi più belli di lui.
Si perse a guardare il mento con quel leggero accenno di barba scura, rasata appena due giorni prima, la mascella squadrata e delineata, che il rosso aveva l’abitudine di accarezzare distrattamente quanto era sovrappensiero.
Stargli accanto, la faceva sentire protetta, sicura e in quel momento le era impossibile soffermarsi su qualcosa che non fosse lui. Le piaceva da impazzire, la lontananza degli ultimi due mesi non aveva fatto altro che alimentare quei sentimenti che erano sempre più incontenibili.
Il suo sguardo indugiò infine sulle sue labbra, immobili e solo leggermente dischiuse. Era chiaro che si fosse già addormentato ma come fosse riuscito a farlo in un lasso di tempo così ristretto, Erin non riuscì a spiegarselo; il ragazzo era dotato di quell'invidiabile capacità di addormentarsi nei posti più scomodi, tanto che sin da quando era bambino, suo padre sosteneva che avrebbe potuto anche dormire sui sassi. Pur nella vulnerabilità di quel momento, Castiel non perdeva la compostezza e la fierezza che agli occhi di lei lo rendevano così affascinante e virile.
Le labbra.
Ancora una volta gli occhi di Erin caddero in quel punto, come stregati, circostanza che si rivelò ancora più tentatrice del primo tentativo. Erano rosee, all'apparenza un po’ ruvide ma il desiderio di toccarle iniziò a farsi strada in lei sempre più prepotentemente. Non si sarebbe accontentata di sfiorarle con la punta delle dita, voleva qualcosa in più, voleva che ad appoggiarsi su di esse fosse la sua bocca.
Lui continuava a dormire, ignaro delle macchinazioni della ragazza che, forse, pure lei stessa ignorava. Aveva scollegato il cervello, a guidarla era solo l'istinto e quel desiderio sempre più irrefrenabile di assecondarlo. Nessuno si sarebbe accorto di loro, erano gli unici seduti in quel posto, erano lontani dalle occhiate indiscrete dei loro amici e le persone dall'altro lato del corridoio erano impegnate nella conversazione.
Non si era mai trovata in una situazione simile: combattuta tra la paura e il rischio del proibito, ma eccitata al contempo da quella sensazione. Voleva solo rubargli un bacio innocente, si sarebbe trattato di un piccolo furto che non avrebbe impoverito nessuno, le avrebbe solo regalato per un attimo una gioia indimenticabile.
Iniziò a piegare il busto in avanti, portandosi davanti a lui:
« Dorme » osservò tra sé e sè,  con un sorriso tenero, indugiando per un attimo sulle ciglia del rosso.
Inclinò la testa di lato, accorciando la distanza.
Sentì il suo respiro solleticarle il mento e un brivido percorrerla.
A quel punto non pensò più a nulla: il suo corpo non rispondeva e seguiva la sua bocca che veniva attratta come una calamita da quella del ragazzo.
Erano così vicini, come non lo erano mai stati, almeno per quanto ricordasse Erin.
Le sue labbra si erano impercettibilmente schiuse quando le palpebre del ragazzo vibrarono per poi spalancarsi improvvisamente.
« OHI! » esclamò paonazzo e schiacciando la schiena all’indietro, contro lo schienale.
Erin dapprima si pietrificò mentre buona parte dei passeggeri si voltarono spaventati verso la coppia.
Alcuni dei cestisti, come Wes e Trevor, erano balzati in piedi, mossi dalla curiosità e, a causa del pessimo tempismo della tweener, la trovarono che era ancora a pochi centimetri dal loro ex capitano.
« Maddai Black, ti sottrai ad Erin? » lo sfotté smaliziato l’ala grande.
La ragazza nel frattempo era diventata rigida come un asse, ed era tornata a stagliare la schiena contro il sedile, avvampando per la vergogna. Non si capacitò di quanto era stata sul punto di fare e non osava rialzare lo sguardo verso Castiel. Al brusio mormorante dei passeggeri, si unì il ticchettio frenetico di un paio di tacchi, seguiti da una prevedibile richiesta da parte dell’hostess:
« Signore, si sente bene? » chiese apprensivamente la donna, chinandosi verso Castiel.
« Tutto ok » borbottò lui, ancora confuso.
La donna, anziché rassicurarsi però, strinse le labbra contrariata:
« Allora, la prego di non disturbare il resto dei passeggeri » lo liquidò, voltandosi e lasciandolo piuttosto in difficoltà. Suo malgrado, il ragazzo era riuscito a guadagnarsi l’antipatia della donna, dapprima con le lamentele di Rosalya ed in quel momento con l’iniziativa audace di Erin. Anche se in entrambe le circostanze non era colpevole, aveva finito per passare dalla parte del torto.
Nell’aereo, ognuno tornò a farsi i fatti propri, alimentando un vocio che risultava quasi fastidioso.
« Ho qualcosa in faccia? »
Erin alzò il viso di scatto, ancora arrossato, incrociando l'espressione imperscrutabile dell'amico e lo fissò stranita: non aveva capito nulla.
Castiel non aveva capito nulla.
L’amica stava per tirare un sospiro di sollievo, quando lui specificò:
« ... perché in caso contrario, dovrei pensare che volessi baciarmi »
Buttò lì quella battuta con estrema naturalezza, perché convinto nella maniera più assoluta di quanto potesse essere remota quella possibilità.
Il battito cardiaco della mora accelerò, battendo ad un ritmo sostenuto. Lei lo fissava inebetita, cercando di riordinare le idee e darsi una compostezza tale da celare la verità dietro quell’episodio.
Sì, aveva tentato di baciare Castiel e nella confusione del momento, non capiva se essere più sconvolta dall'aver assecondato quella tentazione, o frustrata dal non averla portata a termine. Il suo silenzio prolungato parlava da sé e nel disperato tentativo di giustificarsi, l'occhio le cadde sull'orecchio sinistro del rosso. Ora che i capelli erano più corti rispetto a qualche mese prima, poté notare un dettaglio che le era sempre sfuggito:
« -tuaggio » mormorò tenendo il capo chino.
« Che? »
« Volevo vedere il tatuaggio che hai dietro l'orecchio » ripeté con più determinazione.
Non che Erin avesse grandi doti nella recitazione, ma la sua spiegazione convinse Castiel all’istante; sbattè le palpebre, meditando per un paio di secondi ed infine, farfugliò:
« Allora la prossima volta avvertimi, piuttosto di prendere inquietanti iniziative »
Inquietante iniziativa.
Ecco come giudicava l'idea che Erin potesse baciarlo.
La ragazza storse le labbra, schiantando pesantemente il capo contro il sedile e chiuse gli occhi, restando in silenzio. Era talmente amareggiata da quella risposta che non insistette per vedere quel simbolo giapponese di cui le aveva parlato Alexy il giorno del suo compleanno.
Castiel alzò nuovamente il volume dell'i-pod e, con un sorrisetto divertito, chiuse gli occhi fantasticando sulla tanto impossibile quanto lusinghiera eventualità che quella di Erin fosse solo una bugia.
 
« Vuoi un altro po’ di succo, tesoro? »
« No grazie, sono apposto così »
Evelyn piegò la testa di lato, deliziata: la ragazza di suo figlio era bellissima, educata e posata, completamente diversa da Armin, il cui sguardo, non era mai stato così tenero. Il moro ogni tanto si perdeva per qualche secondo a fissarla dolcemente, finché non era la bionda a ricambiare quell’occhiata con un sorriso complice.
Evelyn tuttavia aveva dovuto aspettare che fosse Alexy a lasciarsi sfuggire un commento a riguardo, visto che il gemello moro era assolutamente riservato circa la sua vita privata.
« Mamma, dacci un taglio » la redarguì quest’ultimo a disagio « non hai qualcos’altro da fare? »
Non era facile allontanare l’invadente presenza della madre, figura che sembrava essere mal tollerata solo dal figlio minore. Anche se a distanza di un’ora l’uno dall’altro, l’ordine di nascita aveva imposto una sorta di gerarchia nei gemelli, attribuendo ad Alexy il ruolo del maggiore.
« Non dovevi andare in farmacia? » intervenne il ragazzo, in aiuto al fratello.
La donna sbuffò contrariata, ricordando quella commissione che doveva essere improcrastinabilmente svolta e, dopo essersi congedata a malincuore dai giovani, sparì:
« Grazie ancora Ambra per aver accettato di aiutarci » esordì Lysandre con diplomazia, appena l’unico adulto abbandonò la stanza. Lei alzò le spalle, a minimizzare l’altruismo del suo gesto e proseguì:
« Allora, da dove iniziamo? »
« Da quello che sai tu » rispose Alexy « noi ti abbiamo già detto le conclusioni a cui siamo giunti qualche giorno fa »
Ambra annuì e replicò:
« Purtroppo, come vi ho detto, non so altro su Tracy Leroy, quindi il mio suggerimento sarebbe quello di andare a Pittsburgh, che a quanto so è la sua città d’origine »
« Credi che là troveremo qualcosa? » domandò Armin.
« Vale la pena tentare: quando una città dà i natali ad un personaggio divenuto poi famoso, tende ad ostentare tale fatto, è motivo di orgoglio, no? Secondo me ci sono buone probabilità che in qualche biblioteca troveremo dei libri su di lei e sulle sue opere. In questo senso internet è stato piuttosto deludente »
« Giusto » convenne Lysandre « ma Pittsburgh non è dietro l’angolo e poi mica possiamo andarci tutti »
« … e di certo non mentre gli altri sono via. Erin deve esserci per forza » aggiunse Alexy.
« Secondo me dovrebbero andare lei e Ambra di sicuro… » spiegò Lysandre « la prima perché è coinvolta personalmente in questa faccenda, mentre tu » disse soffermandosi sulla bionda « perché sei tu la nostra vera mente»
Lei arrossì leggermente, lusingata ma non tanto per il complimento, quanto per quella stupenda e confortante sensazione di essere considerata parte di un gruppo. Sensazione che, dopo anni di solitudine, era nuova ed eccitante.
« Sono quasi sei ore di macchina, Lys » obiettò Armin « dovranno fermarsi lì per più di un giorno, non è il caso che vada qualcun altro con loro? »
« Certo, non mi hai dato il tempo di finire » convenne il poeta « vuoi andarci tu allora? »
Il moro alzò il pollice, mentre Alexy interveniva:
« Sì, ma con che macchina? Dopo la multa per eccesso di velocità, papà non te la lascerà di certo »
Un grumo di saliva si seccò in gola ad Ambra, che fu costretta ad inghiottire a disagio: temeva che qualcuno dei presenti le proponesse di usare la sua macchina, ma questa era stata venduta poche settimane prima; suo padre le aveva assicurato che dietro quella decisione, c’era la volontà di acquistargliene una di più lussuosa, ma la figlia sapeva perfettamente che era solo l’ennesimo segnale di quanto si fosse aggravata la loro situazione economica. Gustave Daniels continuava ad ostentare una ricchezza che ormai non gli apparteneva più: non aveva ridotto il personale della villa, proprio per non dare alito a voci circa il suo tracollo finanziario e autorizzava ogni spesa folle della moglie, con un’apparente leggerezza che inizialmente mandava Ambra su tutte le furie.
 « Castiel ha la macchina. Suo padre gliel’ha lasciata qui » osservò Alexy.
« Direi allora che la spedizione è formata » concluse Lysandre soddisfatto. Aveva già pensato a quel pretesto per agglomerare l’amico al gruppo, fornendogli l’ennesima occasione per stare con Erin, anche se aveva imparato a non nutrire più alcuna speranza circa una loro unione. Non aveva senso forzare il rosso a dichiararsi, ormai si era rassegnato che le sue insicurezze fossero più grandi dei suoi sentimenti verso la mora, ma questo non significava negare loro la possibilità di passare del tempo insieme.
« Beh, intanto potremo cercare di scoprire qualcosa di più su chi ha dipinto il quadro » esordì Ambra.
Alexy allora annuì e dichiarò:
« Chiamo Violet e le chiedo se passa a prenderlo dalla zia di Erin, prima di venire qua »
 
« Stupida Sophia, che rompe le palle per quel quadro del cavolo… » farfugliava da solo Space per strada.
Calciò un sasso, ma con la sua pessima mira di calciatore, centrò in pieno la carrozzeria di una macchina parcheggiata poco più avanti, emettendo un tonfo preoccupante.
Sbiancò, guardandosi attorno circospetto. Accelerò il passo, allontanandosi dal luogo del reato e pregando che nessuno l’avesse notato.
Il giorno prima si era recato ad Allentown e, dopo essersi presentato ai signori Travis, aveva scoperto che il quadro che la sua amica custodiva tanto gelosamente, era stato portato a Morristown dalla gemella:
« Erin se l’è portato via?! » aveva sbraitato Sophia, sconvolta.
« Che è colpa mia? » era scattato lui sulla difensiva.
« Corri a Morristown e prendilo Space! So che ora Erin è alle Bahamas, chiamo mia zia e le dico di dartelo »
« Frena frena! Non sono un piccione viaggiatore! »
« Timothy » lo aveva redarguito lei, chiamandolo con il suo nome di battesimo, che lui tanto detestava « te lo chiedo per favore. Ormai sei lì, che ti costa farti un’oretta di macchina? »
Alla fine il buon cuore di Space si era lasciato corrompere e aveva così ricevuto l’indirizzo di Pamela Travis. Odiava dover interagire con persone sconosciute, misantropo patentato qual era.
Sophia doveva essergli grata per aver anticipato di tanto il suo arrivo ad Allentown, quando invece le aveva promesso che vi si sarebbe recato dopo il matrimonio della sorella maggiore.
Camminò di malumore fino ad accorgersi di essere arrivato a destinazione. Ricontrollò il nome della via, appuntato sul retro di uno scontrino di una tavola calda.
Kennedy Street.
Il posto era quello.
Doveva solo cercare il civico 41, ma nonostante avesse perlustrato la via in lungo e in largo, non riuscì ad individuare il posto corretto. In lontananza, vide una figura che si muoveva lentamente sul marciapiede e, controvoglia, si affrettò a raggiungerla, per fare una cosa assolutamente estranea alla sua natura: interagire con degli sconosciuti.
« Ehi, scusa! »
Quella che si voltò però non era uno dei tanti volti anonimi e indegni di suscitare il suo interesse: era piuttosto una creaturina innocente e pudica, la più dolce che avesse mai visto. Il colore purpureo dei capelli, che intravide sotto un basco, la fece apparire una sorta di fatina, così come l’espressione trasognante e gentile.
Appena la ragazza si accorse dell’arrivo trafelato di Space, sussultò, arrossendo e abbassando il capo. Era intimorita dalla presenza di quello sconosciuto ma d’altronde, erano ben poche le cose che non suscitavano la preoccupazione e il disagio di Violet M. Fisher:
« Scusa » ripetè lui, ancora un po’ disorientato dalla quella figura timorosa « per caso sai dov- »
S’interruppe, notando l’oggetto voluminoso che la ragazza custodiva sotto il braccio:
« M-ma che ci fai con quello? » la attaccò sconvolto.
Sbagliò completamente approccio, ma se ne accorse solo quando vide il viso della ragazza diventare paonazzo e gli occhi sbarrarsi dal timore. La presa sul quadro divenne ancora più salda e determinata, poiché lo strinse al petto con tutta la fermezza che quelle dita sottili le consentivano.
« E’- è di una mia amica » balbettò, con una poco credibile sicurezza.
« Stavo per dire la stessa cosa » commentò lui, perplesso. Si grattò la nuca, palesemente in difficoltà mentre l’artista incurvò le spalle, a disagio e, cercando di farsi coraggio, proseguì:
« Cosa volevi chiedermi? »
« In realtà stavo solo cercando quello » ammise lui, indicando il quadro.
« Perché? »
« La sua padrona lo vuole indietro »
« E chi sarebbe? »
« Sophia »
« La sorella di Erin? »
« A quanto pare abbiamo delle conoscenze comuni » commentò il moro, grattandosi il capo. Si sentiva un idiota con quel continuo sfregare le mani contro il proprio capo, come se fosse un cane randagio, ma era l’unico sistema che aveva sperimentato per attenuare il suo livello di stress e disagio. Violet, come suo solito, non rispose, mettendo ulteriormente in difficoltà l’aspirante astronauta. Non riusciva a staccare gli occhi dall’asfalto grigio, incurvata sotto il peso di una logorante tensione. Doveva proteggere quel quadro, viveva quasi come una missione il suo compito di portarlo a casa dei gemelli Evans e non poteva di certo lasciarlo nelle mani di quel ragazzo misterioso e strambo.
« Senti, non è che potresti darmelo? Sono venuto apposta per riprenderlo »
« Mi dispiace, ma non posso » sentenziò, sollevando finalmente lo sguardo.
Cercò di risultare convincente, ma anziché intimorire Space, quest’ultimo sospirò e sollevò gli occhi al cielo. L’operazione di recupero di quel quadro si stava rivelando più complicata del previsto. Inoltre, non capiva perché la zia di Sophia l’avesse consegnato a quella ragazza, quando era lui il corriere che era stato inviato a ritirarlo.
« Senti » sbottò, massaggiandosi nervosamente il collo « non ho tanto tempo da perdere e- »
Fu costretto ad interrompersi, per la seconda volta, perché rimase imbambolato e spiazzato dall’espressione vulnerabile e ferita di Violet. I suoi occhi neri sembravano supplicarlo di non insistere, per non temprare un carattere già di per sé fragile.
« Ti prego… » gli sussurrò, riabbassando il capo mortificata.
Space deglutì, disorientato e il suo silenzio venne interpretato dall’artista come un assenso.
« Grazie » bisbigliò infine, con un sorriso dolcissimo. Gli occhi le brillavano, mentre Space arrossiva leggermente, guardandola allontanarsi con una frettolosa corsetta. Non si accorse che le sue labbra si erano incurvate verso l’alto, nel vedere quella figura leggiadra e aggraziata che svoltava l’angolo tra la Kennedy e la quinta strada.
Era la prima volta che parlava con una ragazza così timida e riservata, o più in generale, era una delle poche volte che aveva una conversazione così lunga con una ragazza che non fosse Sophia.
Quella sconosciuta era introversa, misurata e garbata, completamente diversa dall’irruenza e la vivacità di Sophia che, a volte, lo irritava. A distoglierlo da quei dolci pensieri, ci pensò il cellulare e, con un tempismo impeccabile, la chiamata si rivelò essere proprio da parte della sua amica dai capelli rossi.
« Space! Disastro! » esordì catastrofica « ho appena chiamato mia zia, e ho scoperto che è già passata un’amica di mia sorella a prendere il quadro »
« Buongiorno a te, splendore »
Seguì un silenzio circospetto, poi Sophia borbottò:
« Space? Che ti sei fumato? »
Il ragazzo scosse il capo, cercando di sopire l’insana allegria che sentiva in corpo e borbottò cinicamente:
« Stavo scherzando… »
Sophia ignorò lo strano saluto dell’amico e ripetè:
« Mia zia mi ha detto il nome di questa ragazza, ma non ho idea di dove abiti e di certo non posso chiederlo ad Erin »
« Come si chiama? »
« Violet, l’ho conosciuta il mese scorso, al torneo »
« Le si addice proprio » farfugliò il ragazzo.
« Perché, la conosci? »
« Mi è appena passata davanti, con il quadro sottomano »
Seguì qualche secondo di mutismo da parte di entrambi, poi Sophia imprecò:
« M-MA SEI CRETINO!? Perché caspita non l’hai fermata? »
Space sollevò le spalle ma ciò che avvertì Sophia, fu solo un silenzio ingiustificato:
« Space, perché l’hai lasciata andare? » tornò a ripetere, con più calma.
« Che dovevo fare? Strapparglielo dalle mani? »
« Se necessario sì! Ti ho spiegato quanto è importante che »
« Non mi hai spiegato un tubo, Fia » la bloccò lui.
La recriminazione del suo tono zittì la rossa, che per qualche istante non riuscì a replicare.
Space aveva dannatamente ragione.
 
Dopo essere atterrati a Nassau, capitale delle Bahamas, si accorsero immediatamente della differenza di temperatura: il termometro infatti segnava dodici gradi in più rispetto al clima che si erano lasciati a Morristown. Le acque tropicali inoltre, si diceva fossero calde tutto l’anno ed erano troppo ansiosi all’idea di testare la veridicità di quella notizia.
Trovarono un piccolo autobus, noleggiato appositamente dall’agenzia, ad attenderli all’uscita dell’aeroporto e che li condusse attraverso la città. Percorsero l’Indipendence Drive, passando per la capitale, rappresentata da colorate e pittoresche abitazioni, sormontate da imponenti alberghi.
« Voi alloggerete in tre bungalow disposti lungo la spiaggia » spiegò il loro accompagnatore, Vic. Aveva il compito di condurli fino ai loro alloggi, istruirli su alcune procedure e dileguarsi dopo aver assolto le sue poche mansioni. Si sarebbero rivisti il giorno della partenza, di lì ad una settimana.
Il pullman si fermò quindi di fronte ad un giardino, traboccante di palme e piante tropicali.
« Ommioddio! » squittì Iris, strattonando il top a pois di Rosalya.
« Sì, carino » commentò l’altra, con finta sufficienza.
Erin le sorrise divertita, mentre la smorfia della stilista si allargava sempre più: portò un braccio attorno al collo della rossa, con l’altro avvinghiò la mora ed esclamò:
« LA SPIAGGIA E’ NOSTRA! »
Attraversarono il giardino, percorrendo un vialetto sabbioso e, finalmente, il panorama paradisiaco che fino a quel momento avevano solo visto nelle riviste, si materializzò davanti a loro: una distesa d’acqua cristallina brillava sotto i raggi di un sole caldo, mentre la polvere soffice e candida della sabbia, si depositava sulle infradito.
Le ragazze trattennero un gridolino di eccitazione, che fece sghignazzare buona parte dei presenti: il posto era favoloso, così lontano dal grigiore industrializzato di Morristown che sembrava di sognare.
Sin da piccola, Erin aveva sempre amato il mare. Suo padre, in quanto insegnante di nuoto, aveva preteso che le figlie imparassero a nuotare e, tra le due gemelle, lei era indubbiamente la più portata per quello sport. Aveva sviluppato una notevole resistenza, era velocissima a tagliare l’acqua anche se quelle capacità risalivano ad anni fa, prima che la danza classica modellasse il suo corpo a quello di una ballerina. Inspirò a fondo il profumo inebriante della salsedine e si lasciò cullare dal vento caldo che le scompigliava i capelli. Assaporò ogni sensazione ed emozione che quell’oceano poteva regalarle, convinta che mai l’avrebbe dimenticata.
« Vi mostro i vostri alloggi » spiegò la guida, invitando gli ospiti a proseguire.
Mentre il gruppo assecondava diligentemente l’uomo, Erin non si era mossa di un passo.
« Che c’è, Cip? Intendi mettere le radici qui? » la provocò Castiel, notando la fissità dell’amica.
Lei scosse il capo e scherzò:
« Come fai ad essere indifferente di fronte a tanta bellezza, Ariel? Sei tornata a casa! »
« Sì, infatti laggiù c’è papà Tritone che mi aspetta a braccia aperte »
Erin sghignazzò, prima di commentare:
« Certo che li conosci proprio bene i film della Disney »
 
Per quei dodici ragazzi, erano stati disposti tre bungalow, costruiti sulla struttura di una palafitta, a cento metri di distanza dall’acqua.
« Ci hanno comunicato che siete cinque ragazze » commentò la guida, posando gli occhi su Erin, Iris, Rosalya, Kim e Paula « quindi vi abbiamo allestito una camera da tre e una da due. Il vostro alloggio è questo » ed indicò la costruzione più vicina a loro « in quello centrale ci sono cinque posti e in quell’altro altri quattro; ogni bungalow è attrezzato con una piccola cucina, così se volete cucinare qualcosa voi, siete liberi di farlo. C’è un supermercato poco distante da qui »
La guida consegnò le chiavi di ciascuna delle abitazioni e, dopo qualche ultima raccomandazione, si congedò.
« Voglio vedere le camere! » canticchiò Rosalya, trascinandosi dietro Erin. Salirono la decina di gradini che sopraelevavano la struttura dalla sabbia e si trovarono su un’ampia terrazza, con il parapetto in legno scuro:
« Qua c’è posto per tutti » commentò Erin estasiata « potremo organizzare le cene »
« La vista è spettacolare » aggiunse Iris, ammirando i riflessi cristallini dell’acqua in lontananza.
Rosalya infilò la chiave nella toppa, che dopo due scatti, consentì loro di vedere uno spazio luminoso e accogliente: un tavolo ligneo, attorniato da cinque sedie impagliate era al centro di un soggiorno piccolo ma funzionale, connesso direttamente alla cucina, in quanto open space.
« Voglio vedere le stanze! » ripetè Rosayla, seguita a breve distanza da Erin ed Iris. Kim e Paula, nel frattempo, si erano fiondate alla ricerca del bagno. Rosalya beccò al primo colpo la stanza con tre letti, che si rivelarono uno a castello e uno singolo.
« Quello sopra è mio! » dichiarò.
Sembrava una bambina e la sua allegria aumentò ancora di più l’eccitazione e il buon umore delle amiche.
« Rosa, datti una calmata » ridacchiò Erin, che in realtà non aveva nessuna intenzione di ridimensionare il suo entusiasmo.
« Come faccio? Non è tutto fantastico? Siamo qui, noi tre, insieme, in una delle isole più belle al mondo! » dichiarò, gettandosi di peso sul letto singolo « non sono mai stata più felice in vita mia! »
Rosalya squittiva felice, nel pieno di una spensierata euforia che su di lei esercitava un’azione contagiosa: Erin ed Iris sorridevano estasiate, incapaci di contenere la loro gioia.
« A parte quando tu e Nath vi siete dichiarati » puntualizzò la rossa, con un sorrisino.
« A proposito, devo chiamarlo! » esclamò la stilista mentre abbandonava la stanza.
Iris si sedette pesantemente sul letto singolo cercando lo sguardo dell’amica.
« Sarà una vacanza fantastica, Iris »
« Non ho dubbi, Erin… non ho dubbi »
 
« Perché devo condividere un letto matrimoniale con te, Barbie? »
Il sopracciglio di Castiel stava vibrando sensibilmente, sotto il cipiglio risentito del suo compagno di classe:
« Ehi, non è colpa mia se Wes e Steve si sono già presi la stanza con i due singoli. Dormirei sul terrazzo, pur di non condividere lo spazio con te, Castiella »
« Hai paura che ti salti addosso durante la notte? » lo provocò l’altro, con un sorriso malizioso.
« Non credo tu possa resistere al mio fascino conturbante… » si adulò l’altro.
In quel momento Wes fece capolino nella stanza, fissando perplesso i due:
« Ehm… sto interrompendo qualcosa? »
« Affleck mi stava facendo una dichiarazione » spiegò Castiel tranquillo, mentre Kentin avvampava:
« Coglione! »
« Ti imbarazzi come una ragazza » osservò il musicista.
Kentin emise un grugnito, mentre Steve faceva la sua comparsa nella stanza:
« Che succede? » domandò, appoggiandosi allo stipite della porta.
« Perché devo dormire io con questo psicopatico? » sbottò Kentin.
« Wes russa da morire, fossi in te non mi lamenterei » replicò il centro della Atlantic.
« Eddai Ste! Non sono poi così rumoroso! »
Il pivot cercò lo sguardo dell’ex capitano insieme al quale, durante una trasferta, avevano avuto modo di appurare quanto potesse essere fastidioso il sonno del compagno.
« Io non ho mai sentito nulla » insisteva candidamente la guardia.
 
La sabbia sottile e morbida. Il sole caldo sulla pelle e il profumo della crema solare.
Erin non riusciva a fare a meno di ripetere mentalmente ogni dettaglio che la affascinasse, ogni aspetto che rendevano l’oceano il suo habitat naturale.
« I ragazzi sono laggiù » li additò Rosalya, indicando un gruppo di persone poco lontane.
Si voltò verso le ragazze e con un certo sprezzo, notò che erano tutte ancora vestite.
« Pensate di farvi vedere in costume, o volete anche un burqa, per completare il look? » si accigliò, mentre lo sguardo delle quattro si posava sull’audacia del suo look: pur trattandosi di un costume intero, risultava estremamente sexy grazie ad un’apertura sul davanti, parzialmente coperta da un intreccio di nastri.
« Mi chiedo dove li trovi certi vestiti, Rosa » ridacchiò Erin.
« E io dove compri quelle mutande orrende, anti sesso, che ho visto in valigia » la rimbeccò l’altra, cogliendo il senso sotteso della perplessità dell’amica.
« Sono quelle che abbiamo comprato insieme prima della gita, a Novembre»
« Il fatto che fossi presente al momento dell’acquisto, non significa che l’abbia approvato » esclamò lei, mentre si avvicinava ai ragazzi, che le fissavano incuriositi.
« Mi pareva di sentire un brusio fastidioso » commentò Wes « sempre a far casino, voi »
Rosalya lo ignorò e, rivolgendosi a Castiel e Kentin, accovacciati sull’asciugamano, domandò schietta:
« Sentiamo un parere maschile, Erin, così ti convincerai che ho ragione: preferite una ragazza in perizoma o con le mutande della nonna? »
Erin avvampò, mentre i due le fissarono perplessi:
« Che cazzo di domande fai? » sbottò infine Castiel che, involontariamente, aveva immaginato Erin nella prima e ben più seducente mise.
« Sei diventato rosso per caso? » lo stuzzicò Rosalya leggermente sorpresa, curvandosi felina verso di lui.
« Magari se mi fate vedere dal vivo, posso darvi un parere professionale » s’intromise Wes, ma mentre alcuni dei ragazzi ridacchiarono, Castiel lo sfottè:
« Pensavo fossi più interessato ai surfisti australiani »
L’umiliazione di scoprire che la presunta nipote di Boris fosse in realtà un maschio, ancora bruciava nell’animo di Wesley, soprattutto perché talvolta i suoi compagni di squadra si divertivano a rinfacciargli quella mancata conquista. Dakota invece aveva dimostrato un buon senso dell’umorismo e ridacchiava quando la questione veniva portata a galla.
« Comunque non avete risposto… » s’impuntò Rosalya.
« La vuoi piantare? » la rimproverò Erin, pizzicandole il braccio, a disagio.
« Allora, chi viene in acqua? » domandò Dakota, svettando in piedi e interrompendo il discorso.
Erin non era l’unica ad avvertire un richiamo soprannaturale verso l’acqua: il ragazzo infatti, forse addirittura in misura maggiore della mora, era attratto da quella distesa, seppure calma e piatta. Non c’erano le onde australiane che aveva imparato a cavalcare, ma il mare era sempre mare e lui voleva solo immergersi nel suo elemento naturale. Iris arrossì nel vedere quel fisico abbronzato e tonico che si ergeva orgoglioso, pronto a sfidare le onde ma per evitare di essere beccata, cercò distrazione nella sua crema solare al cocco.
« Vengo io! » si elettrizzò Erin e, voltandosi verso Castiel chiese:
« Allora Ariel? Ancora lì sei? »
« Adesso non mi va, me ne resto qui ad ascoltare musica » borbottò disinteressato.
« Che c’è? » s’intromise Kentin « hai il ciclo, Castiella? »
Si guadagnò una fastidiosa spolverata di sabbia sui capelli, mentre i presenti sogghignavano:
« Andate proprio d’accordo voi due » commentò Dajan divertito.
« Come la merda e la carta igienica » replicò Kentin, in quella che voleva essere una battuta sarcastica.
« Bonjour finesse » commentò Steve, mentre Paula trovava posto accanto a lui sull’asciugamano.
« Ehi, andiamo o no? » sbottò Dake, impaziente.
Trevor e Wes si alzarono in piedi, mentre Erin esclamava:
« Mi metto la crema e arrivo, voi andate pure »
Il surfista immancabilmente deviò lo sguardo verso Iris che, anticipandone la domanda, replicò:
« Anche io, vi raggiungo tra poco »
Kentin corrugò le labbra, mentre Castiel lo scrutava di traverso: era divertente analizzare le reazioni del moro, inconsapevole che erano le stesse che adottava lui quando c’era di mezzo Erin.
Mentre i tre si allontanavano, Dajan si avvicinò a Kim, che gli propose una camminata sulla spiaggia, alla quale si unì la seconda coppia del gruppo, Steve e Paula.
« Tu Rosa vieni in acqua? » le chiese Erin, spalmandosi la crema sulle braccia.
La stilista, dopo aver tirato fuori un voluminoso cappello da diva e accomodato gli occhiali da sole intonati con quello stile, si era distesa beatamente su uno dei lettini solari a disposizione:
« Magari più tardi, stella… ora voglio solo pensare all’abbronzatura » annunciò serafica.
Le due amiche le sorrisero, mentre i suoi occhi sparivano dietro una montatura da vamp.
« Voi due vi siete messi la crema? » domandò Erin, finendo di spalmarla sulle spalle di Iris.
« No mamma, ma sta’ tranquilla » borbottò Castiel, cercando le cuffie nella sacca dietro di lui.
« Ti prenderai un’ustione di quarto grado con questo sole » si premurò Erin e, senza alcun preavviso, si portò alle sue spalle, schiaffeggiando una generosa quantità di crema sulle scapole.
Forse per la trepidazione di quella particolare giornata, ma non provava alcun imbarazzo a toccare la sua pelle nuda, pensava unicamente a quando i suoi piedi avrebbero toccato quell’acqua azzurra. Il resto dei presenti però era a dir poco sbigottito dall’audacia di quel gesto, specialmente il suo beneficiario:
« Ma guarda un po’ Ariel: sei un tutt’uno con i capelli » lo sfottè sottovoce Kentin, così Castiel, sbottò:
« Iris, perché non la metti tu a Kentin? »
La rossa socchiuse le labbra, nel tentativo di dire qualcosa ma in quel momento, un gocciolante Dakota fece la sua comparsa:
« Allora Iris, che aspetti? L’acqua è fantastica »
Non le diede nemmeno il tempo di replicare che già le aveva affettato il polso, trascinandola via mentre lei borbottava qualche parola confusa. Gli astanti rimasero a fissare la coppia che si allontanava, tra le cui reazioni spiccava lo spiazzamento di Kentin:
« Te la fai proprio soffiare sotto il naso » gli sussurrò Castiel divertito. Lanciandogli un’occhiata gelida, il moro si voltò verso la sua compagna di classe che era rimasta con loro ed esclamò:
« Erin, la metteresti anche a me? »
La ragazza annuì, ancora disorientata dall’impeto di Dakota e si portò dietro la schiena del cadetto, quando sentì che la confezione di crema le veniva strappata bruscamente dalle mani.
« Te la metto io, Barbie » asserì Castiel, guardando minaccioso il ragazzo. La mora dapprima sgranò gli occhi, poi si lasciò sfuggire un risolino. Kentin invece, sconvolto, avvampò per l’imbarazzo:
« M-ma chi ti ha chiesto niente? Mica mi faccio mettere la crema da te! »
« Ti fai problemi? » lo schernì il rosso.
« Ovvio! Sembriamo due gay! »
« Parla per te, Affleck. Io sono a posto con il mio orientamento sessuale » commentò acido il moro.
« Tu non sei a posto un corno! Erin mettimela tu » protestò Kentin.
Dopo quello scambio di battute però, la ragazza aveva deciso di ritrattare la sua generosa offerta. Anche se non se ne spiegava il motivo, era troppo buffo assistere a quello sketch tra i due ragazzi. Tra di loro si stava instaurando una bella amicizia, ma entrambi erano troppo orgogliosi e ottusi per ammetterlo:
« Una volta tanto che Castiel ti fa un favore, non posso negargli questo piacere »
« Stai scherzando? » esclamò Kentin basito.
« Affatto » replicò la ragazza divertita e, prima di raggiungere Dakota ed Iris, esclamò:
« Mi raccomando Cas, mettigliela bene sennò si scotta »
La guardarono allontanarsi di ottimo umore, saltellando sulla sabbia calda.
Kentin allora guardò Castiel in cagnesco.
« Devo cominciare a pensare che sei seriamente attratto da me, Castiella? »
In tutta risposta il rosso si mise un po’ di crema sulla mano e gliela schiaffeggiò violentamene contro la schiena, strappandogli un urlo di dolore.
« Ehi coglione! » lo riprese Kentin « fa’ piano »
Davanti ai loro occhi, videro Erin che entrava in acqua, avvicinandosi a Dakota ed Iris. Il surfista fece un commento, che strappò una grossa risata alla mora. Fu in quel mentre che Kentin sentì che la sua povera spalla veniva stritolata:
« Ma allora lo fai apposta! »
« Se vuoi vado a chiedere a Iris se è così gentile da mettertela lei » lo schernì, infastidito.
Di fronte a quella beffa, Kentin rispose con un’imprecazione, gli strappò la confezione di crema dalle mani e se la mise a casaccio, senza curarsi di coprire ogni lembo di pelle scoperta. Castiel tornò a stendersi sul proprio asciugamano, riaccendendo la musica.
In tutto quello scambio di gesti e battute, Rosalya non aveva preso parte; si era limitata a scuotere il capo divertita e commentare tra sé e sé:
« Che due idioti »
 
Sua madre stava piangendo.
Come se quella scena non fosse abbastanza penosa, in Mackenzie gravava la consapevolezza di esserne la responsabile.
No, non lo sei, tesoro, la rassicurava la sua coscienza.
E’ quello stronzo che lei vuole che tu chiami papà.
Che tu vuoi chiamare papà.
Ma un uomo che conduce una vita come la sua, non merita quel titolo.
I singhiozzi di sua madre si affievolivano sempre più, ma nella testa della ragazzina rimbombavano le dure parole che le aveva vomitato contro:
« Come puoi accettare questa vita? »
Quando Dianne le aveva risposto che Jack era la loro famiglia, Mackenzie non era più riuscita a trattenere la rabbia:
« E CHI LA VORREBBE UNA FAMIGLIA COSI’? NON VEDI CHE E’ TUTTO IN PEZZI? »
La donna aveva boccheggiato, avvilita e sconfitta. Lo sguardo accusatore di sua figlia le bruciava dentro, alimentato dallo sconforto di averla delusa come madre. Mackenzie era la sua ragione d’esistere, lo scopo della sua vita: ogni suo gesto e decisione, era in funzione di quella bambina troppo cresciuta.
Dianne aveva fallito, come madre e come donna.
Aveva lottato disperatamente per creare un nucleo familiare, per quanto imperfetto, ma non solo non era bastato, aveva addirittura peggiorato la situazione.
«COME POSSO CONSIDERARMI SUA FIGLIA, SE SI RIFIUTA DI RICONOSCERMI? »
E a quell’ultima accusa, Dianne era crollata.
Si era accasciata su stessa, mentre Mackenzie abbandonava la stanza.
Era corsa fuori, nonostante il gelo e aveva lasciato finalmente che anche le sue lacrime fossero libere di uscire. Pianse rabbia, rancore e amarezza.
« E tu mamma? » pensò « cosa stai piangendo? Quell’uomo non merita una sola goccia della nostra sofferenza »
Era rimasta lì fuori in un tempo che non riuscì a quantificare; il cielo si era tinto di rosso e l’aria era diventata ancora più fredda e pungente.
 
Si trascinò dentro casa solo quando vide spegnersi la luce della cucina.
Sua madre non era più accovacciata sul pavimento, ma dalla sua stanza provenivano dei singhiozzi.
Si era avvicinata alla porta, furtiva e con il cuore stretto in una morsa.
Doveva essere forte per entrambe, sua madre non doveva vederla piangere:
« Mamma… »
Vide una figura di spalle, seduta sul letto.
Non osò accarezzarla, rimase a pochi metri da lei, in attesa che Dianne rompesse quel silenzio.
« Mi dispiace, Mack »
« Anche a me, mamma »
Nessuna delle due aggiunse altro.
La ragazzina si sentiva svuotata, ormai anestetizzata da ogni emozione e sensazione. Quanto alla madre, sapeva che ogni tentativo di aggiungere qualcosa, sarebbe capitolato in un pianto disperato.
 
Rosalya si era tolta gli occhiali da sole, rivolgendo il viso verso i raggi solari, nel tentativo di regalarsi una perfetta abbronzatura. Si stava rilassando totalmente quando una fastidiosa ombra si frapposte tra lei e la fonte luminosa:
« Castiel o Kentin che sia, togliti dalle palle » borbottò irritata, senza aprire gli occhi. Se l’avesse fatto, si sarebbe accorta che il rosso era ancora sdraiato sul proprio asciugamano, così come Kentin. I due fissavano quindi la sagoma ai piedi di Rosalya, che non si era mossa di un millimetro dopo le proteste della ragazza. Kentin si era accorto di quel ragazzo, quando ancora distava da loro qualche metro e Castiel aveva reagito con un sorriso sornione. Lo sconosciuto infatti, si era portato l’indice alle labbra, facendo così segno ai due si non svelare il suo arrivo.
 
Erin era davvero un pesce: con Trevor e Wes aveva fatto sparire completamente le sue tracce, nuotando al largo dalla spiaggia. Iris invece, che dell’acqua fonda aveva sempre avuto un certo timore, perseverava nel restare con i piedi incollati al suolo sabbioso, seppur quella decisione la facesse sentire un po’ in colpa verso Dakota:
« Sei sicuro Dake che non preferisci andare con gli altri? Tu ami nuotare e non voglio rovinarti il divertimento » si stava scusando la rossa.
Il biondo però replicò con un sorriso gentile:
« Staremo qui una settimana, ne avrò di occasioni, figurati »
Il ragazzo era sempre molto premuroso verso di lei, quasi protettivo ma quelle attenzioni, prima che lusingarla, la confondevano. Non capiva se quella contentezza che sentiva dentro di sé era dovuta al fatto di essere importante per qualcuno, o se fosse proprio quel qualcuno, ad essere importante per lei. In risposta, sorrise a sua volta, ma la sua smorfia di intiepidì quando lo trovò a pochi centimetri da lei.
« Preferisco di gran lunga la tua compagnia, Iris » le sussurrò con una dolcezza infinita.
Lui la faceva sentire unica e speciale. Agli occhi di Dake, persino una come Rosalya non meritava la sua considerazione. Proprio lei, Iris Levine, che si era sempre considerata una persona anonima e insignificante, poteva meritare l’attenzione di un ragazzo.
 
« Non sei una che si dimentica facilmente »
 
Era stato Kentin a dirle quelle parole, che come un fulmine, attraversarono istantanee la sua mente.
Il moro non era galante come Dakota e non aveva palesato alcun interesse nei suoi confronti, eppure quella frase l’aveva turbata profondamente ma positivamente. Si dimenticò di avere davanti il biondo e, istintivamente, cercò il cadetto con la coda dell’occhio.
Dakota era vicinissimo a lei che, a quel punto però, voltò il viso di lato, totalmente ignara della brutalità del suo rifiuto; il ragazzo rimase immobile mentre lei, sgranando i grandi occhi verdi, esclamò:
« M-ma quello è… »
 
Rosalya sbuffò infastidita. Erin ed Iris l’avevano lasciata in compagnia di Castiel e Kentin, la cui sola presenza, bastava ad irritarla. Avrebbe voluto prenderli entrambi per il collo e urlargli di darsi una mossa con le rispettive amiche, ma aveva promesso di non fare nulla di avventato. Qualche spintarella d’incoraggiamento ogni tanto, ma niente di più. La loro ottusità era quasi comparabile alla stupidità dei discorsi che era stata costretta ad ascoltare negli ultimi venti minuti: erano partiti a commentare la partita di basket della settimana prima, finendo a disquisire dell’odore delle flatulenze, in relazione al tipo di dieta.
« Black, idiota, se non ti sposti giuro che… » iniziò a minacciarlo ma quando aprì gli occhi, non riuscì a completare la frase:
« Noto che il tuo amore per Castiel cresce sempre di più » scherzò Nathaniel.
Aveva una T-shirt verde, sul cui collo aveva sistemato un paio di occhiali da sole.
La stilista boccheggiò, mettendosi seduta, mentre il rosso aveva un ghigno compiaciuto stampato in faccia.
« Nathaniel! » esalò infine, adorante e incredula.
« Sorpresa »  replicò lui, allargando le braccia.
« Ma come facevi a sapere… cioè » ma Rosalya non aspettò una risposta, direzionando l’attenzione verso il chitarrista:
« E’ opera tua, Ariel? » indagò, fissandolo con circospezione.
« Un grazie non sarebbe sgradito » replicò lui, con indifferenza.
Rosalya lo ignorò e lanciò le braccia al collo al suo ragazzo, stampandogli un bacio frettoloso. L’intento iniziale perlomeno era quello, ma la passione tenuta a freno in quelle settimane, sentiva il bisogno di esplodere, così la castità del gesto assunse ben altri connotati:
« Potete andare da un’altra parte a limonare? » sbottò seccato il rosso.
Nathaniel si staccò, ghignando divertito, mentre la ragazza lo fulminava con lo sguardo:
« La solita mestruata: non fare l’acida, Castiella »
« Ariel, Castiella… da dove derivano tutti questi soprannomi? » s’incuriosì il biondo, guardando il suo migliore amico.
« Castiella è opera di Kentin » spiegò la stilista, indicando il ragazzo che era rimasto in silenzio, seduto accanto al rosso. Nathaniel allora rivolse l’attenzione verso lo sconosciuto, che lo fissava neutrale. Stava per allungargli la mano, in segno di cordialità, quando intervennero Iris ed Erin.
La mora era bagnata dalla testa ai piedi e con un fiatone che in un primo momento le impedì di formulare una frase. Dietro di loro stava giungendo Dakota, mentre di tutti gli altri si erano perse le tracce. Castiel deglutì e distolse velocemente lo sguardo quando si accorse di fissare con eccessiva attenzione le gocce d’acqua salmastra che scivolavano lungo la pelle liscia dell’amica mora.
« Nathaniel… » ansimò Erin esterrefatta « che ci fai qui? »
« Un giro » replicò l’altro, guardando complice Castiel.
« Tu lo sapevi? » quasi lo accusò lei « perché non me l’hai detto? »
« A te? Sei l’ultima persona a cui l’avrei detto: non sai tenerti un segreto »
« Non è vero » mugolò Erin, scarsamente convinta.
Dall’arrivo di Nathaniel, Kentin aveva iniziato a percepire dell’elettricità nell’aria: Rosalya si era completamente trasformata in uno zuccherino, tutta moine e sorrisetti, Castiel era di ottimo umore ed Erin ed Iris sembravano ancora più eccitate di quando avevano visto la spiaggia per la prima volta.
Il biondo aveva un sorriso carismatico, sicuro di sé e contagioso. Lui però non riusciva a farsi trascinare dall’allegria generale, sentendosi di troppo in quel gruppo consolidato di amici.
Quando anche Dakota si unì al quintetto, dimostrando di essere un amico di vecchia data di Nathaniel, Kentin decretò mentalmente il proprio isolamento.
Si sentì solo, come non gli accadeva da tempo.
Come gli accadeva quando era solo un ragazzino imbranato e considerato un perdente da tutti. Quando il resto del mondo sembrava schifarlo, come se fosse indegno dell’attenzione altrui.
Notò che Castiel si era appena alzato, sgranchendosi le gambe:
« Allora Nate, intendi muovere quel culo e venire in acqua, o rimani qui con Cerbero? »
Si guadagnò uno scappellotto dall’amico che esclamò:
« Vi raggiungo dopo »
Il rosso increspò le labbra, facendo sorridere Erin: sembrava quasi che avesse messo il broncio, come un bambino geloso delle mancate attenzioni del suo amichetto del cuore. Un po’ risentito infatti, Castiel sbottò:
« Fa’ come ti pare, io mi sono rotto di stare qua sotto il sole »
« Ok, a dopo » lo salutò il biondo, con candore.
Per quanto volesse bene a Castiel, era innanzitutto con la sua Rosalya che voleva passare i suoi primi momenti alle Bahamas.
« Allora torniamo in acqua » dichiarò Dake, seguito dal rosso. Il musicista non pensò minimamente di estendere la proposta a Kentin, che rimase seduto a fissarli. Quando si voltò però, il cadetto quasi sussultò speranzoso, ma il ragazzo rivolse la sua attenzione a qualcun altro.
« Tu Travis non vieni? »
Erin, che nel frattempo si era accomodata sul proprio asciugamano, si stava strizzando via l’acqua dai lunghi capelli:
« Cos’è questa novità che mi chiami per cognome? » s’indispettì. Ottenne come risposta una scrollata di spalle e replicò:
« Comunque no, un granchio mi ha pizzicato il piede » annunciò, allungando la gamba verso l’alto « preferisco restare un po’ qui »
« Non vieni in acqua? » domandò Iris, con una punta di urgenza nella voce.
« No, voi andate pure » la rassicurò.
« Ti fa male? » s’intromise Castiel.
« Cip non morirà, sta’ tranquillo » lo sfottè Rosalya « se ti preoccupa tanto, rimani qui con lei »
« Rosa, non fare la scema » borbottò l’amica mentre il rosso replicava con un verso seccato:
« Non mi preoccupo affatto » e girò i tacchi.
 
Hilary aveva appena acceso la lavastoviglie, dopo aver dato un colpo secco allo sportello:
« O così, o niente » aveva spiegato, rivolgendosi verso una perplessa Sophia.
« E poi vi lamentate che gli elettrodomestici non funzionano » aveva ridacchiato la rossa.
«Era già così quando siamo arrivate » si giustificò « e per fortuna che Joe l’ha un po’ sistemata »
« A proposito, come sta? Avete fatto pace? »
La studentessa sorrise e scrollò le spalle:
« Certo, certo. Tanto sa che ho sempre ragione io, dovevo solo lasciargli del tempo per capirlo »
La rossa sogghignò; aveva sempre ammirato il rapporto tra la sua vicina e il suo ragazzo, che si basava su un perfetto equilibrio tra la maturità di lei e la leggerezza di lui. Joe era un ragazzo in gamba, apparentemente un po’ superficiale, ma quando stava con Hilary, si trasformava completamente.
« Parlando di boys » indagò l’aspirante magistrato « Nathaniel dov’è? »
« Alle Bahamas »
« Sarebbe una battuta? »
« E’ la verità. Lì c’è la sua ragazza »
« Ah, quindi è partita anche lei con tua sorella e il resto della squadra? »
Sophia annuì e tornò a fissare la tazza in ceramica.
« Ti fa proprio schifo il mio infuso, oppure stai pensando a qualcosa? »
Alzò lo sguardo, mentre Hilary si accomodava davanti a lei, sedendosi attorno al tavolo del soggiorno. Aveva una mano appoggiata contro il mento, e la fissava con la dolce premura di una sorella maggiore:
« Fiafia, che ti sta succedendo ultimamente? »
« Nulla »
Hilary inarcò le sopracciglia, mentre l’altra distoglieva lo sguardo.
« Obiezione respinta » asserì Hilary.
« E’ una constatazione! »
« Fasulla » completò la mora, sorseggiando placidamente la propria tazza « crederei che c’entri tua sorella, se non fosse che hai iniziato ad essere strana solo da quando un certo biondino ha iniziato a ronzarti attorno »
Sophia strinse le labbra, mentre Hilary continuava ad apparire rilassata e controllata. Per una studentessa del suo calibro, sostenere quel tipo di discussione era fin troppo stimolante e gestibile. Sapeva analizzare la situazione sotto ogni punto di vista, scoprendo in essa i lati salienti.
« Ti ho detto che non ho nulla… è solo una tua impressione, sono sempre stata strana » scattò sulla difensiva la rossa. Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per il salotto, soffermandosi poi davanti alla libreria, rifornita principalmente di manuali di giurisprudenza.
Sin da quando si era trasferita in quel condominio, Hilary si era sentita in dovere di sorreggere quella ragazza così apparentemente forte e indipendente. Ci aveva messo poco a scorgere in lei delle fragilità che, se aggravate, l’avrebbero mandata in pezzi.
« E’ difficile l’università? »
Quella domanda prese un po’ alla sprovvista la padrona di casa, che però, nonostante il palese tentativo di cambiare argomento, si limitò a replicare:
« Diciamo che non è facile, poi dipende dai corsi che scegli » minimizzò modestamente.
«Giurisprudenza è tosta » insistette Sophia sovrappensiero.
« Direi di sì » si rassegnò allora l’altra.
La ragazza sembrava non accorgersi dello sguardo insistente di Hilary, continuava a passeggiare avanti e indietro per quella libreria, totalmente immersa nelle sue riflessioni. Negli ultimi due mesi, era profondamente cambiata, sembrava molto più introspettiva e meditabonda. Più volte Hilary l’aveva vista isolarsi in se stessa, anche quando in una stanza erano presenti molte persone. Ne aveva discusso con Felicity e le due avevano convenuto che la causa di quella malinconia, fosse un amore non corrisposto. Quando poi, un affascinante biondino si era materializzato sul loro pianerottolo, le due giuriste avevano avuto la conferma della loro tesi.
« Lui è molto in gamba »
Quel sussurro flebile, destò l’udito di Hilary, mentre Sophia continuava a darle le spalle:
« Troppo, per una fallita come me »
La mora non potè vedere il suo sorriso amaro e gli occhi velati di malinconia. Avrebbe stentato a credere che anche una personalità frizzante e spensierata come Sophia fosse in grado di esternare simili emozioni. Mossa dalla compassione, si alzò, raggiungendola accanto ai libri.
La rossa finse allora di cercarne uno in particolare, aprendo un manuale a caso e iniziando a sfogliarlo.
« Nessuno è troppo per una come te, Fiafia »
La voce di Hilary era impastata di tenerezza e conforto, ma la sua interlocutrice non voleva credere alla sincerità delle sue parole.
« Non… » mugolò disarmata.
Non era abbastanza.
Non era abbastanza carina, femminile, intelligente, sensibile, divertente, realizzata, matura, gentile.
Non era abbastanza per Nathaniel.
Rosalya lo era.
Era questo che le faceva rabbia.
Accettare quel suo essere così sbagliata per lui, che invece, aveva già trovato la persona adatta, che lo completasse.
Eppure, continuava a pensare a lui.
« Lui è… così… »
Si sentiva stupida e vergognosamente vulnerabile.
Troppo per il suo orgoglio.
Sentiva il bisogno di sfogarsi con qualcuno, altrimenti sarebbe esplosa. Si lasciò allora prendere dal nervoso, e sbottò:
« E’ un idiota che si perderebbe persino nel bagno di casa sua, permaloso come una donna in meno pausa, incapace di cucinarsi un uovo, fastidiosamente saccente » cominciò a vomitare, elencando i difetti che aveva scoperto nel biondo in quegli ultimi mesi.
Hilary ascoltava quello sfogo, senza interrompere quel flusso di parole, finché Sophia, ormai paonazza, sussurrò:
« Eppure… »
« E’ di lui che sei innamorata »
 
Dopo un fugace scambio di battute con Erin, Rosalya e Nathaniel si erano allontanati, lasciandola sola con un silenzioso Kentin. Appena la coppia non fu più visibile, la mora sussurrò:
« Che ti prende Ken? Non hai aperto bocca da quando sono qui »
Il ragazzo non cambiò posizione, rimanendo con una gamba piegata contro il petto e l’altra stesa davanti a lui; a causa della sua altezza, sfuggiva dall’asciugamano, impolverandogli di sabbia parte del polpaccio. Era raro vederlo così taciturno e assente, motivo per il quale l’amica iniziava a preoccuparsi.
« Così quello è l’amico di Black, il famoso Nathaniel? »
Erin emise un verso d’assenso, addentrandosi in punta di piedi in quella conversazione; voleva capire cosa balenasse nella mente del moro ma sapeva di dover usare più tatto possibile per riuscire a scovare i suoi pensieri più profondi.
« Sono come fratelli quei due » commentò, per non lasciar cadere l’argomento.
« Lo vedo infatti che vanno d’accordo » osservò l’altro, meditabondo.
Poiché il ragazzo non si sbilanciava ad ulteriori commenti, Erin fu costretta ad azzardare:
« C’è qualcosa che non va, Kentin? »
Finalmente il cadetto si decise a guardarla, incontrando un paio di occhi verdi intensi che lo fissavano preoccupati.
« No » sminuì, scuotendo leggermente il capo « è solo che è strano vedere Castiel così di buon umore… si vede proprio che sono molto legati »
« Per me è strano sentire te che lo chiami per nome » sorrise Erin.
Lui le lanciò un sorrisetto complice e rimase zitto.
Capiva perfettamente perché al rosso quella ragazza piacesse tanto. Lui stesso del resto, se ne era invaghito ai tempi delle medie. Erin era una persona gentile, premurosa e comprensiva. Si trovava perfettamente a suo agio, nel parlare con lei e, se non fosse stata una delle migliori amiche di Iris, le avrebbe anche raccontato dei suoi sentimenti per la rossa.
« Non te la prendere se a volte Castiel ti risponde male, lui è fatto così: con le persone che gli ispirano simpatia, in un primo momento è odioso e sarcastico… anche con me i primi tempi… non che ora sia la dolcezza fatta persona » convenne, divertita.
I continui punzecchiamenti da parte del musicista infatti, avevano sempre lasciato  perplesso Kentin, che in un primo momento aveva faticato a realizzare che fosse realmente innamorato di lei. Probabilmente era un modo un po’ discutibile per tenere segreti i suoi sentimenti verso l’amica, ma in alcune circostanze era più forte di lui farli emergere. Era proprio notando quei piccoli dettagli che, pian piano, il moro aveva imparato ad apprezzarlo. Castiel era sicuramente un tipo scontroso e arrogante, ma alla fine, celava una grande lealtà verso i suoi amici.
Lo stimava, perché in lui vedeva delle qualità che aveva rincorso per tutta la vita, ma si sarebbe sottoposto ad una ceretta inguinale piuttosto che ammettere una simile verità.
« Non me la prendo » obiettò Kentin « cosa vuoi che mi importi di quello lì »
I suoi occhi rimanevano piantonati sulla distesa oceanica, per non lasciare ad Erin la possibilità di leggergli dentro. Tuttavia, con una delicatezza che poche persone riuscivano ad avere, la ragazza sapeva quali tasti toccare in un momento come quello, così gli confidò:
« Lo sai Ken, per un po’ di tempo, ho invidiato la loro amicizia. Si fidano ciecamente l’uno dell’altro e quando sentivo i nostri amici parlare del loro rapporto, mi venivano quasi i brividi… si capiscono al volo… provano una stima profonda l’uno dell’altro »
« Tu e Sophia eravate così » la interruppe il ragazzo, tornado indietro con la mente ai tempi delle medie.
« E’ per questo che li invidiavo… perché loro avevano qualcosa di così prezioso che avevano finito per mandare in pezzi a causa del loro stupido orgoglio. Per questo, quando ho saputo della loro amicizia passata, ho fatto di tutto per farli riappacificare. So che in quel periodo entrambi mal tolleravano i miei continui tentativi di trovare un punto di accordo tra di loro e in effetti credo di aver solo peggiorato la situazione »
« Come mai? »
« Beh, io e Nath siamo stati insieme, tanto per dirne una e Castiel non la prese bene »
« E ti sei mai chiesta il perché? »
Quella domanda la colse impreparata.
Ovviamente se l’era chiesto, e la risposta le era sembrata scontata. Ora però che doveva riferirla al moro, cominciava ad avere qualche dubbio:
« Perché lui e Nathaniel si odiavano no? Io ero amica di Castiel, in un certo senso l’avevo tradito »
« Capisco » commentò Kentin laconico.
Non stava a lui aprirle gli occhi, il rosso non gliel’avrebbe perdonato. Lasciò quindi che un’ingenua Erin continuasse a parlare, senza interromperla.
« Poi però, non so come, ma pian piano si sono accorti che tutti i rancori passati potevano essere accantonati e, quasi senza che ce ne accorgessimo, sono tornati amici. Credo che dopo quella rottura, il loro rapporto ne sia uscito fortificato, niente e nessuno potrà più metterlo in discussione »
« Avevano litigato per via di quella tizia, Debrah, giusto? »
Il viso di Erin si rabbuiò, ma prima che Kentin potesse chiederle il motivo del suo improvviso silenzio, lei sussurrò:
« E’ stato Castiel a parlarti di lei vero? Credo che, nonostante quello che gli ha fatto, ne sia ancora innamorato »
Il ragazzo si grattò il capo e ammise:
« No, credo che me l’avesse detto Alexy in realtà »
« Quel ragazzo parla troppo » convenne Erin con un sorriso triste « ma del resto, è stato grazie a lui che ho scoperto cosa fosse successo l’anno scorso »
« Alexy è in gamba » puntualizzò il cadetto.
« Certo » convenne Erin, accarezzando la sabbia « quello che conta comunque, è che ora sia tornato tutto alla normalità. E’ tutto così… »
« Sbagliato » pensarono entrambi.
« Perfetto » completarono in coro.
Per raggiungere la perfezione, Castiel non doveva ancora essere innamorato di Debrah.
Per considerare quella situazione assolutamente impeccabile, doveva esserci Kentin in mare con Iris.
Ma era più facile continuare a far finta di nulla, accontentarsi di una finta felicità che non poteva essere messa in discussione in nome di qualcosa di più grande. Nessuno dei due avrebbe messo a rischio i propri sentimenti, quelli andavano custoditi con cura e in segreto.
« Siamo fortunati ad aver trovato degli amici così » commentò Erin, guardando dei punti in lontananza.
« Già » replicò semplicemente Kentin « tu però, non lo dire a Castiel »
Erin scoppiò in una risatina, a cui seguì a ruota quella del cadetto.
 
Gli occhi di Iris sembravano persi nel vuoto, ma in realtà la ragazza li teneva fissi in un punto in lontananza. Le figure di Erin e Kentin era facilmente distinguibili, così come la complicità che si leggeva nei loro volti.  Non cercò di spiegarsi l’amarezza che l’aveva pervasa, sentimento che, a pochi metri di distanza da lei, in Castiel, era pura gelosia.
Erin infatti aveva un sorriso dolce stampato in viso, mentre il moro le stava raccontando qualcosa che nessun altro poteva sentire. Fosse anche vero che gli piaceva Iris, il compositore non riusciva ad essere indifferente alla confidenza con cui quegli occhi verde bosco che si posavano su un ragazzo che non fosse lui.
« Black, facciamo una sfida » gli propose Trevor.
L’ex capitano però non lo ascoltò. Cominciò a nuotare in direzione opposta, verso la spiaggia, guidato unicamente dall’istinto. Impulsivo com’era, non poteva agire diversamente.
Raggiunse con una leggera corsa i due e, piegandosi gocciolante verso il cadetto, esclamò:
« Affleck, smettila di fare la femminuccia e vieni a nuotare »
Mentre Kentin lo fissava sorpreso, toccò ad Erin arrossire alla vista del ragazzo. Quella figura infatti le ricordò la fredda serata di dicembre a casa sua, due mesi prima. Non provò nemmeno a distogliere lo sguardo, visto che l’amico non la degnava della benché minima considerazione.
« Ti sfido a chi arriva prima a quello scoglio laggiù » continuò Castiel, indicando una roccia in lontananza.
Il cadetto non valutò nemmeno la fattibilità dell’impresa: il chitarrista era uscito dall’acqua per chiamare lui. Era la prima volta in vita sua che qualcuno lo chiamava a sé.
Proprio lui, che era l’ultima scelta ogni volta che da bambini venivano formate le squadre di baseball o football, lui che doveva sempre mettersi in disparte e seguire gli altri da lontano, incapace di integrarsi e farsi integrare.
Per quanto detestasse ammetterlo e per quanto il suo comportamento manifestasse una considerazione contraria, sin da quando aveva conosciuto Castiel, Kentin aveva desiderato la sua amicizia. Il rosso era riuscito a svegliare in lui un carattere più forte, per certi versi spavaldo e spocchioso, ma ciò gli aveva consentito di definire un lato che non credeva di avere nella sua personalità. Sorrise, alzandosi dal suo posto, ignaro che ben altri pretesti avevano guidato il comportamento del ragazzo. Anche se in quella circostanza era stata la semplice gelosia a mobilitare una reazione nel musicista, in futuro il rapporto tra i due era destinato a consolidarsi sempre più verso una belligerante ma complice amicizia.
Proprio mentre i due si dirigevano verso la spiaggia, Iris era uscita dall’acqua, arrotolando lateralmente i lunghi capelli per rimuovere l’eccesso di acqua:
« Che succede? » questionò, sedendosi accanto all’amica.
« Sfide tra maschi » spiegò Erin.
 
« Soffri di una qualche sindrome pre-menopausa, Castiella? Non c’è un minimo di coerenza del tuo comportamento » stava dicendo Kentin, mentre camminavano verso l’acqua. Mai gli avrebbe detto quanto l’avesse lusingato quell’invito, come del resto il rosso non era intenzionato ad ammettere le sue reali intenzioni. In fondo tuttavia, il suo spirito competitivo lo istigava a cercarsi un degno avversario per quella nuotata, specie dopo che Nathaniel si era defilato per stare con la sua ragazza. Kentin del resto era un ex cadetto dell’accademia militare e, per questo, il suo fisico doveva essere allenato allo sforzo. Mentre l’acqua raggiungeva il livello dell’addome, il cadetto sentì una domanda, pronunciata con apparente disinteresse e senza che il suo interlocutore lo guardasse in faccia:
« Di cosa parlavi con Erin? »
Le pessimi doti di attore di Castiel però, si palesarono in quell’unica domanda: più passava il tempo e più la capacità di dissimulare le proprie intenzioni, spariva nel ragazzo. Anche se non realizzò la gelosia dietro quella richiesta, Kentin ne approfittò per schernirlo:
« Di quanto ti piaccia il suo culo »
Si trovò la testa sott’acqua per qualche secondo, riemergendo con in bocca un fastidioso sapore salato; tossicchiò, mentre Castiel riprese ad avanzare in acqua furente:
« Come sei permaloso, Black… »
 
Ambra stava studiando attentamente il dipinto da ormai cinque minuti: l’aveva rigirato un paio di volte, analizzandone scrupolosamente ogni dettaglio. I presenti la fissavano curiosi, carichi di aspettative, finchè lei sbottò:
« Insomma, la smettete di fare quelle facce? Mi mettete a disagio » mormorò.
« Contiamo tutti su di te » spiegò Alexy con allegria.
« Sopravvalutate le mie capacità »
« Sei tu che non le valuti abbastanza » puntualizzò Lysandre, conciliante « allora? Nessun’idea? »
Ambra riappoggiò il dipinto sul tavolo e commentò:
« Mi incuriosisce questo edificio » esordì, puntando il dito contro una costruzione sullo sfondo « questo simbolo sembra un cupcake, mentre quest’altro una pagnotta di pane »
« Pensi sia importante? » domandò Armin.
« Se siamo fortunati sì » ragionò Ambra « ma dovremo esserlo davvero tanto: questa è sicuramente una pasticceria o, più probabilmente, un panificio. Se questo dipinto è stato fatto ispirandosi ad un parco realmente esistente, anche il negozio deve trovarsi nei paraggi di questo posto. Dobbiamo riuscire ad interpretare cosa è scritto in quest’insegna… » continuò, puntando il dito contro una parola troneggiante sul negozio « e potremo avere già la città in cui è stato realizzato »
« Secondo noi è scritto pork pink’s paradise » convenne Alexy.
Ambra ridacchiò e ripetè:
« il paradiso del rosa maiale? »
« Convince poco anche noi » convenne Lysandre.
« Sul paradise, concordo con voi, ma credo che la prima parola sia un’altra: guardate qui, questa che sembra una pagnotta cicciotta: non mi fa venire in mente altro? »
Violet si sporse di più a guardare e sussurrò insicura:
« Una zucca… »
Ambra annuì incoraggiante:
«Esatto Violet. Pumpink’s paradise. Il paradiso della zucca. Sono sicura che è questo il nome di questo negozio: ora non ci resta che cercarlo su internet e sperare di aver fortuna »
 
Dopo il pomeriggio in spiaggia, il gruppo si era riunito nel bungalow delle ragazze, per organizzare la cena; poche ore prima, Rosalya e Nathaniel avevano fatto la spesa, ma si erano accorti di non aver comprato tutto il necessario.
« Cinque persone vadano a prendere quello che manca e già che ci siete, comprate qualcosa anche per i prossimi giorni » diresse i lavori Rosalya « mentre gli altri, rimangono con me in cucina »
« Non ci staremo tutti » obiettò Steve « siamo troppi ».
« Lo so, infatti alcuni si occuperanno di preparare la tavola, altri di cucinare. Iris, Erin rimangono con me, Paula e Kim, preferisco che voi vi occupiate della spesa »
Le due ragazze non si opposero a quella scelta, così a loro si aggiunsero i rispettivi fidanzati e Trevor.
Ben presto, sotto a leadership di Rosalya, vennero ripartiti i compiti: Dakota, Wes e Nathaniel si occuparono di radunare nel terrazzo delle ragazze i tre tavoli in legno, mentre Castiel e Kentin, si guardavano attorno spaesati:
« Non pensate di restarvene con le mani in mano! » brontolò prontamente Rosalya, mettendo in mano a Kentin una cipolla e un’altra a Castiel.
« Che ci dobbiamo fare con questa? » domandò quest’ultimo.
« Sminuzzarla » spiegò la stilista, giungendo con due taglieri e due coltelli.
« Sono lavori da donne, non pretenderai sul serio che… » stava borbottando il cadetto, quando l’occhiata inferocita della ragazza lo zittì. Erin ed Iris ridacchiarono, mentre l’una era impegnata a pulire dalla polvere le stoviglie, l’altra tirava fuori gli utensili da cucina.
I due iniziarono così a svolgere il loro compito, sbirciando l’un l’altro per capire come muoversi.
« Tagliate via le radici » aveva suggerito Iris, notando la loro perplessità.
« E pelate via lo strato esterno » aggiunse Erin divertita.
Non appena iniziò ad affettare l’ortaggio, il musicista sentì che il naso cominciava a prudergli in modo fastidioso e gli occhi a bruciargli: si girò verso il suo compare, ma realizzò che fosse messo peggio di lui. Con due enormi lacrimoni agli angoli degli occhi, Kentin lottava disperatamente contro la sua nemica, che aveva sferrato un attacco chimico più potente di quello incassato dal rosso:
« Cipolla di merda » mugugnava, lacrimando come un bambino.
« Sei una mezza sega, Affleck » gli rise dietro l’altro « ti fai mettere K.O. da un ortaggio »
« E’ perché io la sto tritando come si deve, mentre tu fai tutto lo schizzinoso » si difese l’altro, la cui cipolla era effettivamente sminuzzata in modo migliore. In tutta risposta, Castiel iniziò ad affettare forsennatamente l’innocente ortaggio, gesticolando pericolosamente con il coltello, fino al prevedibile epilogo:
« Cazzo! » sbottò.
« Ti sei tagliato? »
Kentin lo vide portarsi l’indice alle labbra, aspirando quel po’ di sangue che usciva.
« Brucia? »
Nemmeno a quella domanda rispose, così il moro lo sfottè:
« Vuoi che chieda ad Erin se ti dà un bacino che passa la bua? »
Si trovò un coltello puntato contro, che anziché intimorirlo, lo fece sghignazzare:
« Che succede? » chiese Erin, curiosando tra i due.
« Black si è tagliato »
« Sul serio? Fa’ vedere » si sporse, mettendosi in punta di piedi.
« Non è niente » replicò l’altro, strofinando il dito contro i jeans.
« Aspetta, ti cerco un cerotto » lo ignorò l’amica « anzi, vieni con me in camera »
Lui abbandonò la postazione, seguendola docilmente come un cagnolino, ma appena abbandonarono la cucina, la provocò:
« Cos’è Cip? Una scusa per portarmi nella tua tana? »
« Sei hai paura che ti salti addosso, non c’è nessun pericolo »
« Ah no? Come stamattina in aereo? » scherzò lui, mentre lei avvampava a disagio. Fortunatamente gli dava le spalle, così approfittò della scusa di dover cercare il cerotto per non rispondergli.
Castiel si sedette sul letto singolo, che quella notte sarebbe stato occupato da Iris e si distese beatamente:
« Non potete arrangiarvi voi con la cena? Odio cucinare »
« E la cucina odia te, a quanto pare » ribattè Erin, continuando a frugare nella borsa. Le sue mani emersero poi tenendo un piccolo kit di pronto soccorso. Immerse un batuffolo di cotone nel disinfettante e si avvicinò al ragazzo:
« Allora? Questo dito? »
« E’ un taglietto » minimizzò lui « non serve disinfettarlo »
« Continua ad uscire sangue » osservò lei, prendendogli la mano.
Lui sussultò, ma lei era troppo concentrata sulla ferita per accorgersene. Sulla falange dell'indice scorreva un rivolo di sangue rosso intenso che aveva intinto il cotone idrofilo usato per la medicazione. Si trattava di un taglio superficiale, ma la cura con cui Erin se ne occupava quasi emozionarono l’infortunato.
« Devi trattarle con più cura queste dita, Castiel… sei un chitarrista, dopotutto »
Lui rimase in silenzio mentre lei, con estrema delicatezza, circondava il livido con un cerotto. Era talmente rapito che non protestò nemmeno quando realizzò che la sua medicazione aveva stampati dei fiorellini rosa.
« Speriamo che non sia così profondo » commentò.
« Ti preoccupi per niente » minimizzò lui, gettandosi di schiena sul letto « ma già che ci sei, dì a Rosalya che mi sono amputato la mano e che non posso aiutarvi »
 
Brigitte uscì dallo studio medico in silenzio.
Attraversò il corridoio, popolato da ragazze e donne di varie età. Chissà quante tra le presenti avrebbero potuto capire la sua situazione.
Voleva solo affrettarsi ad uscire da quel consultorio, da quelle pareti tinte di uno squallido e soffocante caramello:
« Stai tranquilla Brigitte » l’aveva consolata la ginecologa « non sei incinta »
Ora che finalmente era sola, la tensione si sciolse di colpo, liberando con essa un pianto irrefrenabile di sollievo.
 
La serata passò in allegria: attorno ai tre bungalow, non c’erano altre abitazioni nelle vicinanze e questo autorizzò i ragazzi a non contenere la loro rumorosità.
Le ragazze ebbero occasione di conoscere meglio Paula, la ragazza di Steve e si erano isolate inizialmente in una conversazione esclusiva tra di loro, mentre i ragazzi erano impegnati a parlare di sport. Con il proseguire della serata, il clima era diventato sempre più rilassato e amichevole: Kim era rimasta coinvolta in una gara a braccio di ferro, in cui riuscì a umiliare un depresso Wes, mentre Kentin scoprì in Nathaniel e Steve una passione comune per i libri. Iris aveva intercettato quello stralcio di conversazione a cui avrebbe voluto prendere parte, ma Rosalya insisteva nel volerle leggere la mano.
« Fammi vedere la tua mano, Cas! » aveva poi litigato con il rosso. Ricevendo come risposta un dito medio, era sbottata:
« Morirai giovane di una morte lenta e dolorosa, circondato solo da Demon e dalla vecchietta che abita sopra casa tua »
Erin non aveva assistito a quella diatriba, poiché impegnata in una discussione con Trevor:
« Ma esattamente cosa ti ha detto Jordan, quando ti ha portato il cellulare? »
« Non ricordo, comunque nulla di particolare »
Il cestista sembrò deluso, così lei domandò:
« Come mai questa domanda? »
« Naa, così, giusto per chiedere… ehi Dake, c’è ancora della birra là? » sviò, indicando una bottiglia vicino al surfista.
« GARA DI RUTTI! » aveva esclamato improvvisamente Wes, il più ubriaco tra i presenti. Castiel e Trevor non si erano sottratti a quella sfida, mentre Rosalya inorridiva:
« Siete dei porci! »
A metà serata, Iris aveva chiesto a Castiel di dire qualche frase in tedesco e, tra lo sbigottimento generale, il musicista era riuscito a formulare un pensiero lungo e complesso.
« Hai imparato il tedesco mentre eri a Berlino? » domandò Nathaniel basito.
« Ti sembra così strano? »
« Hai problemi ad esprimerti nella tua lingua, ovvio che siamo sorpresi! » era intervenuta Rosalya, scatenando una risata generale.
Quando la stilista scoprì che la madre di Dajan era proprietaria di un negozio di vestiti, cercò in tutti i modi di suscitare l’interesse del ragazzo verso le sue creazioni, ma tanto lui quanto Kim erano piuttosto indifferenti alla moda.
« Questo è un vestito che sto facendo per Erin » esclamò orgogliosa, esibendo una foto dal cellulare.
« Mi stai facendo un vestito? » squittì la mora, sporgendosi verso lo schermo.
« Via Cip, sarà una sorpresa, non devi vederlo! »
Per caso l’occhio di Castiel cadde sull’immagine e, intercettandone l’espressione, Erin cercò nell’amico degli indizi per capire cosa la aspettava:
« Che ne pensi Castiel? »
Lo vide ghignare divertito e, dopo aver incrociato le braccia al petto, sentenziò strafottente:
« E’ un bel vestito, però quella scollatura non fa per te »
« Perché? » domandò Erin, sentendosi avvampare e immaginando un capo troppo audace per la sua personalità.
« Perché non hai abbastanza tette per riempirla »
Con quel commento, Castiel si guadagnò uno scappellotto da parte di Steve e Dajan, seduti accanto a lui:
« Smettila di tormentare la nostra mascotte, Black »
Erin sorrise grata a quei ragazzi. Adorava quella squadra di cestisti, così premurosi verso lei e Kim, in quanto ragazze. Mentre il rosso di massaggiava il capo indolenzito, Dakota propose una partita a strip poker, che incontrò l’opposizione di Nathaniel, Dajan e Steve, che non intendevano correre il rischio che le rispettive ragazze fosse viste dagli altri uomini in intimo.
La proposta alla fine si risolve in una normale partita a poker, a cui parteciparono tutti i ragazzi, mentre le donne iniziarono a sparecchiare i tavoli.  Finirono alle due, quando il sonno cominciò a farsi sentire. Quella mattina si erano alzati troppo presto per riuscire a resistere ancora. Quella magnifica serata era volta al termine, anche se Dakota e Kentin insistevano per un’ultima partita a poker, dal momento che avevano concluso con lo stesso numero di vittorie.
« Io non ho sonno » esclamò Kim, appoggiandosi alla spalla di Dajan.
« Ah no? » le sorrise lui, scostandole un ciuffo ribelle.
« Sul serio… andiamo a fare una camminata sulla spiaggia? »
« A quest’ora? » s’intromise Dakota, con un sonoro sbadiglio. Dajan si alzò e, dopo aver augurato la buona notte agli amici, abbandonò la veranda seguito da Kim.
Wes e Trevor, che avevano esagerato con l’alcol, si reggevano a mala pena in piedi, così Steve e Paula li aiutarono a tornare nel loro bungalow; il surfista li seguì, così sulla veranda con Erin e le sue amiche, rimasero Castiel, Nathaniel e Kentin.
« Che serata » sorrise Rosalya, seduta sulle ginocchia del biondo, che la teneva tra le braccia. La temperatura si era abbassata di qualche grado, mentre un venticello leggero soffiava in quella spiaggia silenziosa. La stilista di era avvolta in un ampio foulard, ma era soprattutto dal corpo del suo ragazzo che traeva un più piacevole tepore.
« E pensa che sarà così per tutta la settimana » aggiunse Erin con un sorriso stanco.
Kentin si accese una sigaretta e, quel gesto, non passò inosservato da parte degli altri due ragazzi che ne approfittarono per scroccargli un po’ di tabacco:
« Allora Nathaniel, come va in California? » domandò Iris « non ci hai detto granchè prima »
Durante la cena infatti, l’argomento di conversazione si era spostato sul biondo, ma lui era rimasto alquanto evasivo:
« Beh, non volevo annoiarvi con il resoconto della mia esperienza… comunque non c’è granchè da dire: i corsi universitari sono interessanti, ma sinceramente non credo che sia questa la strada che fa per me »
« Sono corsi di contabilità aziendale, giusto? » intervenne Castiel.
« Sì, ma non mi ci vedo a farlo come lavoro »
« Tuo padre farà i salti di gioia » commentò sarcastico il rosso.
« Se ne farà una ragione. Ultimamente Ambra mi ha detto che si è rabbonito »
« Già il fatto che non abbia spennato Armin con la storia di Nuvola Rossa, in effetti è in miracolo » ridacchiò Erin.
« A proposito… hai sentito della nuova coppia? » squittì Rosalya. il biondo annuì e precisò:
« Me l’ha detto Castiel »
La stilista gonfiò le guance indispettita e velenò:
« Parlate proprio tanto voi due… perché non vi fidanzate tra di voi, a questo punto? » sbottò, infastidita per aver perso l’esclusiva su quella notizia.
« Gelosa, eh? » la sfottè il rosso.
« Quanto mi dai sui nervi Ariel! Mi chiedo come possa piacerti questo soggetto, Erin! »
Dopo quell’esclamazione, calò il gelo.
Erin era sbiancata, nonostante il suo cuore stesse pompando a ritmo forsennato.
Castiel aveva un’espressione perplessa, finchè Rosalya, cogliendo il tremendo disagio dell’amica, rimediò:
« Sei il suo migliore amico, no? »
Il rosso rilassò la mascella, mentre Erin tornava a respirare normalmente, dopo aver incenerito la stilista.
« Sei tu che non sai apprezzarmi come merito, Rosa » dichiarò l’altro.
Sarebbero potuti andare avanti su quella scia per altri venti minuti, così Nathaniel propose:
« Perché non ci guardiamo un film? »
« Non hai sonno? » domandò Iris.
« Non particolarmente »
« Se è per questo nemmeno io » convenne Kentin.
Erin invece sentiva che le palpebre erano pesanti. Il suo fisico la implorava di riposare, ma la gioia e la contentezza di stare insieme ai suoi amici più cari, la facevano desistere dal desiderio di ricongiungersi al letto.
« Che guardiamo? » domandò quindi.
 
Le onde del mare continuavano ad avanzare ed arretrare lentamente, in una sorta di danza aggraziata, che accarezzava i piedi nudi dei due ragazzi.
Le loro mani erano teneramente intrecciate, mentre camminavano in silenzio lungo la battigia.
« E’ un posto fantastico » mormorò Dajan, mentre il suo timbro caldo e grave si perdeva in un silenzio assoluto.
« Già » commentò Kim, guardando il profilo dell’oceano.
Il rumore del mare tornò ad essere l’unico suono di sottofondo per un altro istante, finchè il ragazzo esclamò:
« Domani verrai in mare? E’ un peccato essere qui e non farlo »
« Lo so » mormorò lei, avvilita « ma mi fa troppa paura l’acqua »
« Ci sono io » la rassicurò, con uno dei suoi sorrisi migliori.
« Fidati che se comincio ad agitarmi non c’è verso di farmi stare a galla… Erin ne sa qualcosa »
Dajan ridacchiò, intenerito dalla fragilità della sua ragazza e, determinato a perorare la sua causa, insistette:
« Rimarremo fino a dove si tocca. Non hai niente di cui preoccuparti »
Lei lo squadrò titubante, spostando poi l’attenzione sulla distesa accanto a loro.
Si fermò e ammirò quei riflessi resi argentei da una luna piena.
L’acqua era calma e sembrava quasi richiamarla a sé.
« Andiamoci subito » sussurrò, tra sé e sé, talmente piano, che Dajan fu costretto a chiederle di ripetere:
« Voglio provarci ora… ad andare in acqua » affermò lei, con una timida determinazione.
Incredulo, il ragazzo guardò il mare che aveva davanti, in silenzio, quasi a ponderare la proposta che gli era appena stata avanzata. Il clima non era dei migliori, ma era noto che di notte l’acqua fosse più calda rispetto al mattino:
« Hai ancora il costume sotto? » domandò infine.
 
Si spogliarono in silenzio, abbandonando i vestiti sulla spiaggia, accanto ad una piccola imbarcazione in legno.
Dajan avanzò di qualche passo, finchè sentì l’acqua accarezzargli le caviglie. Il contatto fu piacevole e la temperatura assolutamente più gradevole rispetto a quella che aveva testato nel pomeriggio:
« L’acqua è calda » le sorrise, voltandosi.
Trovò Kim, rigida come un palo e a braccia conserte, che lo fissava indecisa.
Lui scosse il capo, divertito, e tornò da lei.
« Dai, non vorrai farti spaventare così facilmente »
« E se ci fossero dei granchi? » miagolò lei.
Vide che la mano del ragazzo si allungava verso di lei, invitandola ad afferrargliela:
« Segui i miei passi » le disse semplicemente.
Per la seconda volta, Kim si trovò ad annuire e, con circospezione, il suo piede entrò in contatto con l’acqua. Sembrava un felino, sia nel suo modo di muoversi, che di guardare guardinga l’acqua.
« Sono una deficiente: già mi fa paura l’acqua, figuriamoci ora che è così… buio » mormorò, rimpiangendo la sua audacia.
« Dai Kim, non fare la codarda » la provocò Dajan.
« Non sono una codarda » reagì lei, ferita nell’orgoglio.
« Allora vieni qui » sorrise lui.
Le abbassò lo sguardo, sondando il livello dell’acqua che arrivava alle ginocchia del suo ragazzo.
« Ok, però poi non andiamo oltre, d’accordo? »
Iniziò ad avanzare, ma appena fu a pochi centimetri da lui, il cestista osservò:
« Qualche metro in più che differenza fa? »
Gli occhi di Kim si ridussero a due fessure e, sbottò:
« Questa non è una terapia comportamentale, sai? »
« Smettila di lamentarti e cammina » le ordinò lui, divertito « non vorrai farmi credere che sei davvero spaventata per qualche centimetro di acqua »
« E dalla possibilità che ci siano granchi aggressivi » puntualizzò lei.
« Piuttosto potresti essere preoccupata per gli squali… quella sì sarebbe una fobia più sensata, visto che siamo nell’Oceano »
Sentì il rumore di spruzzi d’acqua e si voltò vedendo che Kim aveva iniziato a darsi alla fuga:
« Dimmelo prima no?! » sbraitò terrorizzata, correndo con poca eleganza verso la spiaggia.
Non fece neanche a tempo a fare un altro metro che si sentì bloccare all’altezza della vita:
« Eddai, sciocchina… non c’è nessuno squalo » le sussurrò, trascinandola verso di sé.
Kim sentì la sua schiena stagliarsi contro il petto del ragazzo, arrossendo per l’imbarazzo di quell’intimità a cui, ne era consapevole, doveva abituarsi.
« Come fai a saperlo? Potrebbe sbucare da un momento all’altro… » mormorò spaventata.
« Kim, non ti facevo così fifona »
Lei sbuffò come una bambina.
« Dì la verità: ti stai divertendo »
« Un pochino sì » ammise Dajan « ma vorrei davvero che riuscissi a venire un po’ più avanti. Ci sono io con te »
Lei espirò, cercando di rilassare le spalle.
« Mi sento un’idiota »
« Sei solo spaventata e, una volta tanto, è divertente vedere che anche tu hai paura di qualcosa » le disse, invitandola a seguirlo. La teneva per mano, precedendo ogni suo passo.
Avanzavano lentamente, spostando l’acqua che sembrava accogliere il loro passaggio.
« E tu di cosa hai paura? »
Dajan non rispose, continuando a camminare, così lei sbottò:
« Ehi, voglio sapere una risposta! » s’impuntò, bloccandosi.
« Sto pensando » pazientò lui « tu intanto però non fermarti, continua a camminare »
L’acqua nel frattempo era arrivata alla vita e Kim cercava di non calcolare quanto velocemente si stesse alzando quel livello. Anziché considerare il proprio corpo come metro di paragone, fissava quello del ragazzo che, essendo più alto di lei, le regalava l’illusione di avere qualche centimetro in meno di liquido a sommergerla.
« Io da piccolo avevo una paura folle del buio.. quello assoluto, senza neanche una luce attorno»
« E ora? Non hai nessuna paura? » incalzò Kim « guarda che non devi far la parte dell’uomo forte e coraggioso davanti a me »
Dajan ridacchiò e continuò ad avanzare:
« Sul serio, non mi viene in mente niente » ammise, grattandosi il capo con la mano rimasta libera.
« I ragni? Le api? Gli ascensori? Le cabine blindate delle banche? » cominciò ad elencare Kim, mentre Dajan la guardava dubbioso.
« Le che? »
Il livello dell’acqua era arrivato a metà busto, ma Kim quasi non se ne accorse, tanto era presa dalla spiegazione:
« Mia cugina da piccola c’è rimasta chiusa dentro per un paio di minuti, a causa di un disguido tecnico e da allora, ogni volta che deve andare in banca, fa gli scongiuri perché non le ricapiti »
Dajan ridacchiò e osservò:
« Tua cugina è strana »
« Parecchio, ma da parte della famiglia di mia mamma lo sono tutti »
Rimasero in silenzio e, proprio quando Kim stava per chiedergli di fermarsi, Dajan dichiarò:
« Mi piacerebbe che venissi a cena a casa mia, quando torneremo a Morristown… ho detto a mia madre di te… di noi » precisò « e mi ha chiesto di invitarti… ti va? »
La ragazza notò un leggero imbarazzo nel suo ragazzo che la intenerì. Adorava Whitney, la madre di Dajan anche se avevano avuto solo un’occasione per conoscersi.
« Come ha preso la notizia che stiamo insieme? »
« Era contenta… mia sorella un po’ meno, lo ammetto.. tende ad essere possessiva verso di me »
« Non dirmi che devo ingraziarmi Blake? Sono pessima con i bambini » sbiancò la velocista.
« Dille che le insegnerai a giocare a basket e la conquisterai » le fece l’occhiolino il ragazzo.
Sentì che la stretta della ragazza nella sua mano si era fatta più salda: solo allora Dajan si accorse che, se a lui il livello dell’acqua arrivava alle scapole, Kim aveva le spalle coperte.
« Dajan, non mi sento sicura, torniamo più indietro… sono sulle punte » mormorò lei, preoccupata.
Lui le sorrise e, senza darle il tempo di aggiungere altro, la prese tra le braccia: da quella posizione, Kim aveva acquisito quei pochi centimetri che la fecero sentire protetta, assieme alla stretta rassicurante del suo ragazzo:
« Sei leggera »
« La spinta di Pitagora fa miracoli »
Dajan scoppiò a ridere, per poi spiegare:
« Semmai Archimede, Pitagora è quello dei triangoli »
« Lo sai che lo studio non è il mio forte: Trevor lo dice sempre che sono una capra »
Lui si limitò a sorriderle teneramente, guardandola con affetto. I capelli erano ancora asciutti, mentre la pelle era bagnata da gocce di quell’acqua tropicale. Le sue labbra a bocciolo erano dischiuse, rendendole ancora più invitanti ed ammalianti:
« Non cambierei una virgola di te, Kim » le sussurrò con dolcezza, guardandola intensamente negli occhi.
Lei abbassò il capo, sorrise e arrossì lusingata, mentre il ragazzo si chinava verso di lei.
Si baciarono con una passione che aumentava di giorno in giorno, spinta da dei sentimenti che maturavano assieme alla loro relazione. Stavano assieme da circa due settimane, ma a lei sembrava di conoscerlo da sempre.
Sentì che le braccia di lui si portavano verso il basso, lasciandola scivolare finchè i suoi piedi toccarono nuovamente il suolo. L’acqua tornò a coprirle le spalle ma si sentiva rassicurata dall’abbraccio caldo del ragazzo, il cui corpo nudo sfregava contro il suo; ben presto capì perché era stata costretta ad abbandonare la posizione precedente: Dajan aveva bisogno di avere le mani libere, di toccarla, esplorare il suo corpo e, sorprendendosi lei stessa, Kim scoprì di avere una necessità analoga; una delle mani di lui scivolava lungo la sua schiena, soffermandosi sul sedere, per poi continuare verso la gamba con cui Kim si era avvinghiata naturalmente a lui. L’altra mano le scompigliava i corti capelli, ma di quelli a Kim non era mai importato nulla: poteva farne ciò che voleva, lei non si sarebbe ribellata. Era paradisiaco sentirsi massaggiare dal suo tocco passionale.
Istintivamente, schiacciò sempre di più il suo corpo, coperto solo dal bikini, contro quello di lui e, in quel mentre, avvertì una reazione strana sotto la cintola del ragazzo, qualcosa che era del tutto estraneo alla sua esperienza, ma di cui ne intuì perfettamente la natura.
Dajan infatti fu costretto, di malavoglia, a staccarsi da lei, mormorando:
« Scusami, ma se continuiamo così, poi non credo che riuscirei a trattenermi a lungo »
Aveva lo sguardo sfuggente, imbarazzato, di chi vorrebbe qualcosa disperatamente, ma che si vergogna ad ammetterlo.
Due settimane.
Erano solo due settimane che erano una coppia.
Era troppo presto?
Lei, che non aveva nessuna esperienza precedente.
Non avevano ancora sfiorato quell’argomento, ma prima o poi sarebbe successo.
Forse era troppo “prima”.
Forse, non le importava affatto: che senso aveva aspettare di più? Ogni fibra del suo corpo, era convinta al cento per cento che fosse lui il ragazzo giusto, perché era l’unico ad essere riuscito a scalfire la sua corazza.
« E chi ti ha chiesto di trattenerti? » mormorò infine, senza guardarlo in faccia. Non poteva credere nella sua audacia, ma in quanto ragazza, toccava a lei rassicurarlo circa i propri timori.
Dajan boccheggiò poi, con un sorriso incredulo, le diede un ultimo appassionante bacio, prima di condurla fuori dall’acqua.
 
 
 



 
Note dell’autrice
 
Welcome back!!!! *piange commossa T_T*
 
Oddio non sapete il sollievo che ho provato nel pubblicare questo capitolo u.u
Se torno indietro ad un paio di mesi fa, presa dall’angoscia di laurearmi, ora mi sembra quasi di sognare T_T
Credetemi se vi dico che quest’assenza mi è pesata, il fatto di non poter dedicare ore e ore alla mia storia, era una tortura :S… non che in queste ultime settimane l’abbia totalmente ignorata eh, di fatto il capitolo era completamente abbozzato da Settembre, ma sapete che ultimamente cerco di metterci più cura possibile nel revisionarlo… e visto che si parla di oltre trenta pagine, la cosa richiede molto più tempo di una stesura di getto  -.-‘’
A proposito di lunghezza, so che sono ripetitiva e casco sempre sui soliti argomenti, ma vi chiedo scusa se i capitoli sono sempre più infiniti u.u; io mi trovo meglio a pubblicare meno spesso, ma condensare i fatti in un unico pezzo, piuttosto che frammentarli in più parti.
A tal proposito, durante la mia “pausa di laurea” ho definito una scaletta che, se rispetterò, farà sì che la storia si concluderà ufficialmente con 80 capitoli, più un extra per i ringraziamenti doverosi e altro u.u
Cominciate quindi a fare il conto alla rovescia (naa, è presto in realtà), ma da questo momento in poi, ogni dettaglio della trama mi è chiaro e definito, devo solo stare attenta a non farvi arrivare alla soluzione del mistero prima dei personaggi xD
Quanto al capitolo, spero che come promesso mesi fa, vi sia risultato leggero e frizzante, in perfetto stile fanfiction… il mio obiettivo almeno era quello ^^’.
Anche il prossimo prevedo di arricchirlo di scene di questo genere, visto che con il 55 torneremo a concentrarci su temi più delicati, come il rapporto tra genitori e figli (oh yeah, è arrivato il momento di conoscere Tyra ed Hailey u.u).
Altra cosa che ci tenevo a dire, che ad alcune di voi ho già anticipato, è stato il motivo dietro al cambio di nickname: per chi ha visto la screenshot su Instagram, la decisione è stata presa definitivamente una sera, chattando con due mie amiche.
Partendo dal principio, con l’esperienza (resa gratificante dai vostri commenti) di IHS, mi è balenata l’idea di voler provare a pubblicare un mio libro (un giorno), a cui inizierò a lavorare prossimamente. Vorrei farmi conoscere con uno pseudonimo e visto che RandomWriter è nato come nick identificativo di un’autrice improvvisata come tante, ho optato per qualcosa che avesse un’identità definita… così ecco nascere Ellen March ^^ . Poi, non so se davvero riuscirò nel mio intento, ma già il fatto che a distanza di un anno e mezzo stia proseguendo con la fanfiction, è la dimostrazione che quando sono ispirata, so essere perseverante u.u.
Poi, poi…. Un grazie particolare ad EvelynWolfman che ha realizzato la nuova copertina di IHS che trovate su Wattpad :3.
Un grazie a tutte voi che mi avete supportato in questi mesi e avete pazientemente atteso il ritorno di questa fanfiction… giuro che vorrei dilungarmi in un discorso molto meno sbrigativo, ma per rispettare la scadenza di pubblicare oggi, questo pomeriggio ho letteralmente corso per pubblicare e ora sono a corto di parole xD Comunque grazie, grazie, grazie :)
Quanto al sondaggio che lanciai tempo fa, su quale argomento dovevo trattare nella prossima OS di IHS, ecco a voi l’esito:
 
Come vedete, hanno stravinto i Tenia xD
Ho iniziato a scriverla e mi scuso se non ho rispettato la scadenza del 14 Novembre, comunque dovrei farcela a pubblicarla prima di Gennaio :)
 
Credo che il mio sproloquiare possa concludersi qui, nel tentativo di trattenere me stessa dall’aggiungere altro per non tediarvi ulteriormente con la mia gioia di una studentessa che studentessa non è più *^*.
 
Alla prossima!
 
P.S. Mi siete mancate, girls :,)
 

 

 
Caro Babbo Natale,

visto che In Her Shoes è sparita dalla circolazione per quattro mesi e la sua autrice ha più voglia di noi di vedere sfornato qualcosa di nuovo, che ne diresti di intercedere tu e suggerirle qualche iniziativa per rallegrare il nostro Natale?

Best regards,

A Random Girl


Dopo questo incipit idiota, sento il bisogno di rimpolpare la mia mania di egocentrismo mediatico (giuro che di persona sono l'opposto u.u).

Di fatto, ho solo alcune comunicazioni di servizio che mi auguro vi facciano piacere e che riguardano il giorno 25 dicembre. A Natale infatti:
- uscirà il capitolo 55;
- uscirà la OS dei Tenia
, vincitrice del sondaggio lanciato mesi fa;
- uscirà una OS piccina piccina, ad atmosfera natalizia, su Erin e Sophia, ambientata prima degli eventi di IHS;
- si concluderà un sondaggio che mi appresto a spiegarvi e che inizia da oggi. Per chi se lo fosse perso, più di un anno fa, ho proposto un'iniziativa intitolata "IHS - Behind the scenes", in cui invitavo le lettrici a pormi delle domande sulla storia.
Visto che la cosa ha avuto un discreto successo e dal momento che sono passati più di dodici mesi da allora, ho pensato di riproporre questa idea, in versione 2.0.
Questa volta infatti, non sarà più necessario scrivermi privatamente, vi basterà inserire la/le vostra/e domanda/e nell'apposito campo e il 25 dicembre le raccoglierò tutte, le riporterò in un nuovo sondaggio in cui potrete scegliere le domande che più vi incuriosiscono. Mi piacerebbe sceglierne una ventina (ammesso di arrivare a quel numero) XD
Ah, il link per inserire le domande è questo:
https://docs.google.com/forms/d/1KiL7MJR34pzukgyxERtJ9YXKPgUj7xaE_uppIhHVqxA/viewform

Grazie a @SaraDeeb1, che con la nostra chattata su Whatsapp, mi ha permesso di sfornare questi piccoli pensierini *^*

Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** Salvate il soldato Levine ***


54.
SALVATE IL SOLDATO LEVINE

 
 
Nonostante i toni noir e il repentino cambio di scene, i sussulti di Kentin non erano relazionati alla tensione ricreata nel film. Accanto a lui, ben più suscettibile all’horror, sedeva Iris, impettita e marmorea come una statua. Le dita sottili stringevano nervosamente l’orlo della canottiera, tali da mettere in risalto le venature che solcavano il dorso delle sue mani. In quel bungalow, nessuno dei presenti condivideva il suo terrore, quindi si vedeva costretta a celarlo il più possibile Era inevitabile tuttavia che le sfuggisse qualche scatto nervoso, il quale la portava a sfiorare accidentalmente Kentin, seduto vicino a lei. Quei contatti, sporadici e improvvisi, erano la causa dei brividi del ragazzo, che lo attraversavano da parte a parte. A metà film si era creata poi una situazione di grande disagio, quando lei aveva istintivamente affossato la testa nella spalla del cadetto: il moro si era irrigidito al punto da strappare un ghigno divertito a Castiel.
« Scusa Kentin » aveva mugolato Iris a disagio, sottraendosi furtiva da quell’imbarazzante posizione. Consapevole della sua incapacità di continuare a seguire il film, la ragazza pensò ad una strategia alternativa, così chiuse gli occhi e finse di dormire.
Accanto a lei invece, la sua amica Erin era di tutt’altra pasta; la mora infatti appariva tranquilla e rilassata. Si stava godendo ogni istante di quell’atmosfera serena ed intima insieme ad alcuni dei suoi amici più cari. Guardò Rosalya, teneramente abbracciata al suo Nathaniel, che le accarezzava distrattamente il braccio, come se in quel gesto automatico vi fosse qualcosa di irrinunciabile. C’era poi l’impacciata Iris, seduta accanto a lei che nella prima ora di film aveva continuato a muoversi nervosamente, trasmettendo la sua ansia a Kentin, un amico d’infanzia che Erin aveva ritrovato al liceo. Ed infine c’era lui, Castiel, il centro delle domande e delle risposte della mora. Il rosso era il fulcro delle sue certezze e dei suoi dubbi. Doveva sforzarsi di guardare lo schermo e non quella figura pigramente distesa sulla poltrona. Intravedeva ogni tanto il ciondolare delle sue gambe, lasciate a penzoli oltre i braccioli. Non c’era un minimo di grazia e compostezza nella posa del ragazzo ma essa contribuiva a sottolineare il clima di profonda familiarità che si respirava quella notte, in quella stanza. Il film non sortiva alcun effetto su di lui, il cui viso non trasmetteva alcuna emozione che non fosse l’apatia.
Poco prima che l’attore protagonista pronunciasse l’ultima battuta, Kentin sentì un peso morto crollare sulla sua spalla e, nuovamente, sussultò: Iris si era definitivamente addormentata. Mosse nervosamente il braccio, attirando l’attenzione di Erin, che gli sussurrò complice:
« Dorme? »
Il cadetto annuì, dopo aver esitato qualche secondo. Aveva sbirciato di traverso la rossa appoggiata su di lui, soffermandosi sulle labbra vermiglie e leggermente dischiuse. Era la prima volta che i due erano così vicini, tanto che potè notare il naso punteggiato di delicate e simpatiche lentiggini.
« Iris ha il sonno pesante » commentò Rosalya e, rivolgendosi al cadetto dichiarò: « la porti a dormire tu, Kentin? »
« I-io? » ripetè lui in difficoltà, indicando se stesso, mentre il battito cardiaco prendeva velocità.
« Pesa troppo per me » sorrise la stilista « io non riesco a sollevarla e di certo non voglio svegliarla »
Castiel a quel punto intervenne, ma solo per zittire quello scambio di battute che gli stava rovinando il finale del film.
« Vengo ad aiutarti » si offrì Erin, alzandosi dal divano. Kentin a sua volta la imitò, chinandosi poi verso Iris e prendendola di peso tra le braccia. Il suo corpo era decisamente leggero, specie per lui che durante l’addestramento militare aveva sollevato più volte i suoi compagni di oltre settantacinque chili. Seguì Erin lungo il corridoio dell’anticamera arrivando nella stanza delle tre ragazze.
« Questo è il suo letto » bisbigliò la ragazza indicando il singolo e, con una tenera premura, Kentin adagiò sulle lenzuola il fardello che aveva in custodia. Erin si curvò a slacciarle le scarpe e, mentre le sfilava dai piedi, spiegò:
« Iris non la svegli neanche con le cannonate. In gita quest’anno eravamo in stanza insieme e non si è accorta minimamente dello scherzo che io e Rosalya abbiamo giocato ad Ambra »
« Quello del rospo? »
« Esatto » sorrise lei, chiudendosi la porta della camera alle spalle, e tornando in salotto.
« Fatico quasi a crederci che tu abbia fatto una cosa del genere, Erin »
« Beh, diciamo che quando sono arrivata al liceo ero una persona un po’ diversa da ora » ammise l’altra divertita.
Quando tornarono davanti alla TV, i titoli di coda si stavano susseguendo in successione, su uno sfondo nero. Rosalya si stiracchiò verso l’alto, voltandosi verso il suo ragazzo. Gli appoggiò amorevolmente una mano sul petto, annunciandogli:
« Vado a nanna pure io, sto crollando di sonno »
Nathaniel le rispose con un bacio leggero, dopo averle augurato la buona notte. Mentre la stilista si allontanava con passo sinuoso, il rosso richiamò l’attenzione dell’ultima ragazza rimasta:
« E tu non hai sonno? »
Nonostante il tono neutro, quella domanda indispettì la ragazza, che borbottò:
« Mi stai cacciando per caso? Questa è casa mia, dopotutto »
Castiel sollevò per un attimo gli occhi al cielo e poi trangugiò quanto gli restava della sua birra in lattina.
« Non fare la polemica, altrimenti sembri la tua amichetta Rosalya…  non diventare come lei, sai? »
« E’ anche amica tua » obiettò Erin.
« Si rabbonirà ora che c’è qui Nathaniel… a proposito Nate, avete programmi per domani? » esclamò il ragazzo, saltando di palo in frasca. Si era messo seduto, recuperando un po’ di quella compostezza di cui era stato manchevole nelle ultime due ore e fissava con complicità il suo più caro amico:
« A me piacerebbe andare a fare un giro in centro! » si destò Erin, solleticata da quella domanda. Aveva uno sguardo eccitato, risvegliato dalla curiosità di esplorare quella capitale sconosciuta. Castiel però la ignorò, aspettando la risposta del biondo, replica che era destinata a deluderlo:
« Pensavo anche io di visitare un po’ la capitale » rispose tranquillamente Nathaniel, raccogliendo le lattine di birra rovesciate sul tavolino, impilandole ordinatamente. Era molto scrupoloso nel disporre quei recipienti di latta a formare un triangolo, come dei birilli in una pista da bowling.
« Niente mare? » domandò Castiel, palesemente contrariato.
« Stiamo qui una settimana, avremo diverse occasioni per stare in spiaggia » osservò Erin. Castiel tornò ad abbandonare pesantemente la schiena contro il divano e si estraniò dal gruppo, finchè Nathaniel, ignorando le lattine, commentò con un ghigno divertito:
« Conosco quello sguardo… »
« Io no » ammise Erin « che intendi? »
« Che a costo di andare al mare da solo, domani Castiel non verrà con noi » spiegò il biondo con un sorriso arrendevole.
« Naa, non sarà mica così asociale » obiettò la mora, cercando conferma nell’amico che, in tutta risposta mormorò:
« Non ti si può nascondere niente, Nate »
Tra i due amici ci fu uno scambio reciproco di sguardi, accompagnati da una smorfia complice. Entrambi sentivano la nostalgia di quei momenti, ma la distanza geografica imposta dall’esperienza in California del biondo aveva influito nel rallentare il loro processo di riappacificazione:
« E’ da sfigati andare in spiaggia da soli » s’intromise Kentin.
« Infatti pensavo venissi con me, Barbie » rispose placidamente Castiel, alzandosi pigramente dal divano. Quell’uscita lo colse impreparato, non aspettandosi una simile constatazione. Rimase inebetito nel fissare il rosso, mentre Erin interveniva:
« Vi prendo a calci tutti e due se non verrete con noi! E poi c’è la Spring Craft Beer Festival! »
« Che sarebbe? » s’interessò Castiel.
« Non so, ho solo visto il poster venendo qui dall’aeroporto… ma deve essere qualcosa di interessante »
« A te non piace bere… » obiettò il rosso « sei praticamente astemia »
« Questo non significa che non regga l’alcol »
« Sì, come quella sera al conc- » stava per rimbeccare l’altro, ma fu costretto a zittirsi. Non voleva rinvangare quanto accaduto l’ultima notte che aveva trascorso al liceo prima della sua partenza per Berlino. Era troppo imbarazzante per lui guardare in faccia la ragazza che aveva baciato e che nemmeno ricordava quell’episodio.
« Domani il tempo sarà nuvoloso » mediò Nathaniel « vi conviene venire con noi, e dopo domani torneremo tutti in spiaggia »
Castiel piegò di lato il collo indolenzito, distenendo i muscoli assopiti e si rassegnò ad accettare quella proposta. Discutere con Erin e Nathaniel era sempre stata una causa persa.
 
Il mattino successivo, Iris si alzò per prima, quando il sole stava ancora albeggiando. Una luce tenue rischiarava l’interno della stanza, colpendo il viso addormentato di Rosalya che, istintivamente, rotolò sull’altro fianco. Cercando di non svegliare le compagne di stanza, la rossa uscì furtiva, dirigendosi verso la cucina. Aveva riposato incredibilmente bene in quel letto sconosciuto, tuttavia non riusciva a ricordare come l’avesse raggiunto. Il suo ultimo ricordo della sera precedente, risaliva infatti alla visione del film, seduta accanto ad Erin e Kentin.
Per tutto il giorno, non aveva quasi parlato con il cadetto, in compenso aveva trascorso gran parte del pomeriggio in spiaggia con Dakota. La compagnia del surfista era piacevole, avendo scoperto in lui un fidato amico. Questo almeno era quanto pensava prima che i loro visi si trovassero pericolosamente vicini, mentre erano in acqua. Si reputava una ragazza ingenua, ma non al punto da non accorgersi che, se non fosse stato per l’arrivo di Nathaniel, lei non avrebbe avuto pretesti per sottrarsi a un innegabile bacio. Rivide davanti ai suoi occhi le labbra del ragazzo, così invitanti da mettere in dubbio la sua reazione: forse aveva reagito nel modo sbagliato.
Dakota era importante per lei, ma non riusciva a capire fino a che punto. Ripensò per l’ennesima volta alle sue amiche Erin e Rosalya e a come i loro occhi splendessero di una strana luce ogni volta che parlavano dei ragazzi di cui erano innamorate. Non riusciva a capire se quel trepidante bagliore si accendesse anche in lei e se i sentimenti che la legavano al bel surfista non fossero altro che l’anticamera di quello che poteva diventare un rapporto molto più profondo.
Avvertì un rumore sordo e si voltò di scatto verso la veranda. L’orologio a muro segnava le cinque e dieci del mattino, un orario decisamente inopportuno per una visita. Oltre la porta d’entrata, sentì dei passi furtivi, sospettosamente cadenzati. Pensò a uno scherzo dei ragazzi, così inspirò profondamente e si avvicinò titubante all’uscita, pronta a rimproverarli a dovere.
Quando però si trovò di fronte Kim, non riuscì a modulare il tono di voce per la sorpresa:
« KIM! »
« Shhh! » la rimproverò lei, mettendosi l’indice davanti alle labbra « sveglierai le altre! » le sussurrò.
La velocista si fece strada, entrando nell’open space con la stessa cautela con cui si era mossa all’esterno. I capelli erano in disordine, così come la sua t-shirt che era particolarmente sgualcita. Nel suo passo, solitamente sicuro e fiero, c’era qualcosa di malfermo e indeciso, che non poteva esser giustificato nemmeno dall’intento di non voler disturbare le coinquiline. Non aveva quasi degnato la rossa di uno sguardo, e continuava a intercedere insicura.
« Si può sapere dove sei stata? » le sussurrò Iris, confusa.
La vide irrigidire la schiena, come se una scarica elettrica l’avesse attraversata da parte a parte.
« D-da nessuna parte » borbottò, in preda all’imbarazzo più totale. Nonostante fosse scattata sulla difensiva, Kim non aveva l’espressione di qualcuno che cerca di nascondersi e celare la propria privacy; anziché rifugiarsi in camera, sostò in mezzo al salotto, come in attesa. Quel suo aspettare una controbattuta da parte di Iris testimoniava il suo desiderio recondito di incontrare qualcuno con cui condividere il turbinio di emozioni che le vorticavano nello stomaco.
« Sei stata fuori tutta la notte con Dajan! » concluse infine Iris, la cui voce uscì più acuta e stridula. Ricordava che i due avevano annunciato di fare una passeggiata dopo cena ma era sicura di non aver visto rientrare la compagna di classe.
« Shhh! » tornò a ripetere l’altra, questa volta tappando direttamente le labbra alla sua compagna di classe « non urlarlo ai quattro venti! »
Si trovò così due occhi increduli che la fissavano, aggravando ancora di più la sua disagevole posizione. Intuiva perfettamente i pensieri della sua interlocutrice, ma formularli ad alta voce si stava rivelando un’impresa ben più imbarazzante del previsto.
 
Iris si guardò attorno, cercando un viso familiare tra quella ventina di teste che rappresentavano i suoi nuovi compagni di classe. I suoi occhi superarono un gruppetto di ragazze dall’aria poco simpatica, capeggiate dall’inconfondibile Ambra Daniels e Charlotte Lucky che, disgraziatamente, erano sue compagne di classe sin dalle medie. Sperava che con il passaggio al liceo, le loro strade si dividessero, invece il destino aveva voluto tenerle ancora unite. I maschi apparivano indistintamente chiassosi e immaturi, specie quel Trevor, che teneva i piedi appoggiati sul banco, istruendo i presenti sulla tecnica migliore per rollare le sigarette.
Seduta in disparte, sul davanzale della finestra, era appollaiata una ragazza dall’atteggiamento composto e altero. Aveva dei lunghi capelli lisci, neri come la pece ma che al tocco apparivano morbidi. Non degnava di uno sguardo quanto la circondava, anche se nemmeno all’esterno sembra esserci qualcosa di interessante da osservare:
« Phoenix, è vero che sei la ragazza di Trevor? » le domandò un ragazzo con un tremendo sfogo di brufoli in faccia e i denti sporgenti.
La ragazza si voltò meccanicamente, come una bambola e, dopo aver lanciato un’occhiata glaciale al gruppetto, tornò a fissare l’esterno in silenzio.
« Eddai Kim! » la richiamò Trevor « reggimi il gioco! »
Lei continuò ad ignorarlo, così come i commenti che seguirono. Aveva altro per la testa, o meglio, in testa: i capelli. Erano fastidiosamente lunghi. Quella mattina a colazione l’aveva fatto notare a sua madre, che in risposta aveva replicato:
« E cosa vorresti fare? Tagliarli? »
Kim aveva scrollato le spalle, come se fosse la cosa più ovvia del mondo ma la donna aveva cinguettato:
« Non se ne parla. I capelli sono parte del fascino di una donna. Sei più femminile con i capelli così, tesoro »
« Allora li taglio » mormorò Kim tra sé e sé.
« Come scusa? »
Si ridestò, accorgendosi della presenza di una sagoma accanto a lei. Si era lasciata sfuggire quel commento a voce alta, che era stato intercettato da Iris Levine, la sua nuova compagna di classe. La rossa la fissava con i suoi occhi chiari, colmi di curiosità e accoglienza.
« Non ho capito, scusami » ripetè Iris, convinta che la mora le avesse parlato.
Kim la squadrò da capo a piedi, senza muovere un muscolo del collo.
« Che vuoi? » esternò, dopo una sommaria analisi. Non intendeva risultare scorbutica, ma la dolcezza non era mai entrata nel suo vocabolario. Inoltre, non poteva negare che la presenza della ragazza fosse un’intrusione nella sua cerchia della felicità, ossia lo spazio vitale che si era costruita attorno a sé, al di fuori del quale dovevano sostare gli altri. Non sopportava di dover perdersi in inutili chiacchiere, specie con le ragazze, tipicamente frivole e subdole. Preferiva sì l’amicizia dei maschi ma, a parte Trevor, non poteva nemmeno vantare un nutrito gruppo di amici neanche tra gli esponenti del genere maschile.
« N-niente » balbettò Iris « ti avevo vista in disparte e pensavo… cioè… volevo presentarmi! »
« Iris Levine. So chi sei, c’è stato l’appello alla prima ora » replicò Kim, scivolando giù dal davanzale. Atterrò sulle punte, per poi mettersi eretta. Sovrastava la compagna di svariati centimetri, svettando con la sua longilinea figura.
« E tu sei Angela…? » cercò di ricordare la ragazza, aggrottando la fronte nello sforzo di indovinare.
Kim emise un suono metallico, come se fossero in un quiz televisivo e sentenziò:
« Risposta sbagliata. Kim »
« Ah scusa » ridacchiò Iris, seguendo la ragazza che si stava incamminando fino al suo banco.
Quest’ultima sospirò spazientita e sbottò:
« Intendi seguirmi tutto il giorno? »
Iris boccheggiò, ma ogni suo tentativo di replica venne interrotto dall’arrivo del professore. Con la coda tra le gambe, battè in ritirata, mentre Kim la fissava chiedendosi che problema avesse quella petulante ragazza.
 
Al cambio dell’ora successivo, Iris si impose di ignorare la compagna, mettendo a tacere l’istinto che le suggeriva di farle compagnia. Nessuna ragazza si avvicinava alla mora, che come nelle precedenti occasioni, non si era sforzata minimamente di interagire con gli altri. Iris non si considerava una persona particolarmente socievole o esuberante, eppure non sopportava di vedere le persone in solitudine. A seguito della deludente esperienza con Kim, tuttavia, fu costretta a soffocare questo suo istinto, anche se anni più tardi sarebbe tornato utile a quella che era destinata a diventare una delle sue più care amiche, Erin Travis.
Alla fine della terza ora, Ambra e Charlotte, seguito da un trio che a distanza di poche settimane si sarebbe estinto, si avvicinarono con un sorriso mellifluo alla mora.
« Ehi Phoenix » la salutò Ambra « hai dei capelli fa-vo-lo-si » squittì.
« Oggi li taglio di netto »
Quella battuta gelò le due che, nonostante la schietta onestà della ragazza, la interpretarono come un affronto.
« E’ proprio vero quello che si dice… sei solo una bisbetica asociale » malignò Ambra, allontanandosi indispettita, mentre Charlotte la seguiva.
Kim sgranò gli occhi, arrossendo confusa. La scena si era svolta in pochi secondi, senza quasi darle il tempo di metabolizzarla. Tutti avevano sentito l’ultima battuta di Ambra, poiché un inopportuno silenzio era calato proprio in quel momento. Sentì gli occhi di tutti focalizzarsi su di lei e, infastidita, scattò in piedi. Abbandonò l’aula senza emettere alcun suono, mentre attorno a lei il vocio si faceva più pressante.
Iris la guardò con apprensione e, dopo un attimo di indecisione, si risolse a seguirla. Ben presto si accorse di quanto fosse complicata la faccenda: la ragazza aveva una falcata veloce e scattante, tanto che la rossa dovette iniziare a correre per i corridoi per recuperare la distanza.
Per la fretta, sbattè contro un ragazzo che si rivelò uno di seconda F.
« Scusami, vado di fretta. Hai visto passare una ragazza di qui? » domandò Iris, senza prendere fiato.
« No, non mi pare » rispose l’altro guardando poi l’amico di colore accanto a lui « tu hai visto qualcuno, amico? »
« Forse è quella scheggia che andava verso la palestra » replicò il moro, con le mani affondate nelle tasche della felpa con la scritta NBA.
« Schianto? Che strano sentirti parlare così, Dajan! » esclamò l’amico sorpreso.
« Ho detto scheggia Liam! Scheggia! » scandì, arrossendo lievemente. Sorvolò sul fatto che, dopo averne incrociato per un attimo lo sguardo assassino, si era quasi spaventato. Quella matricola del primo anno doveva essere una tosta. Mentre i due discutevano, Iris li abbandonò e si precipitò verso la palestra. A causa del cambio dell’ora, il locale era deserto, così per la rossa fu ancora più facile notare che la porta aggettante verso la pista esterna fosse spalancata. Uscì con il fiatone e iniziò a guardarsi attorno. Perlustrò il cortile esterno ma, fatta eccezione per un paio di ragazzi intenti a fumare di nascosto, non trovò Kim. Si rassegnò così a tornare in classe ma, proprio mentre passava davanti al bagno, ne uscì la sua compagna di classe.
« Toh, guarda chi c’è » commentò la mora, tra il divertito e l’irritato.
« Dov’eri? » chiese stupidamente Iris, indagandone l’espressione.
« A fare la pipì? » replicò l’altra, deridendo la domanda che le era stata posta « dovevo aspettarti per farla insieme, per caso? »
Per la seconda volta, Iris si trovò a boccheggiare confusa, senza emettere un fonema distinto. Si sentì stupida per essersi preoccupata per lei che, per altro, si stava facendo beffe di lei.
« Pensavo che dopo quello che ti ha detto Ambra… » tentò.
« … fossi scoppiata in lacrime in qualche angolo? » completò Kim ridacchiando « si vede che non mi conosci bella, quel genere di tragedie di femminuccia non fanno per me » e si avviò per tornare in classe, lasciando la povera ragazza a fissarla in silenzio.
No, decisamente i melodrammi adolescenziali non facevano per lei. Detestava quel tipo di comportamenti e, per contro, ammirava quella capacità tipicamente maschile di sminuire e ridimensionare questioni che per le donne erano altrimenti importanti. Non sentì i passi della rossa, ma non volle voltarsi. Aveva un sorrisetto lusinghiero stampato in faccia e non riusciva a toglierselo. In fondo l’aveva intenerita la premura di quella stramba ragazza.
« Comunque Levine… » la chiamò dopo qualche passo « non devi preoccuparti per me. Sono fatta così, e non intendo cambiare… »
Quelle parole mortificarono Iris che si sentì ancora più fuori luogo e inopportuna, finchè Kim completò, con un sorriso gentile:
« … in ogni caso, grazie »
 
Dopo quel primo giorno di scuola, anche se le due ragazze non potevano definirsi amiche, si era instaurato un bel rapporto tra di loro. Iris era l’unico individuo di sesso femminile con cui Kim chiacchierasse volentieri, anche se gli interessi comuni erano davvero pochi. Tra questi, il totale disinteresse per i ragazzi, che nella velocista sforava in autentica insofferenza quando, a causa dei suoi successi sportivi e del suo aspetto, iniziò ad attirare l’attenzione di qualche studente. Non si faceva alcun riguardo a declinare brutalmente le avances e i relativi corteggiatori, assolutamente incapace di comprendere i sentimenti che spingevano a tanto.
« Non dico che l’amore non esiste… semplicemente che non farà mai per me »
 
« Avete dormito… insieme? » tentennò la rossa, avvicinandosi alla mora.
La notizia che stesse con Dajan aveva scosso le certezze di Iris che, nella velocista, aveva sempre visto il baluardo dell’indipendenza e del cinismo romantico. Kim stessa un giorno si era definita “la tomba dell’amore”.
Tuttavia, Iris ci aveva messo meno del previsto ad assimilare quella novità, imputandola al notevole cambiamento della compagna di classe negli ultimi mesi. Kim infatti era più sorridente, socievole e decisamente più felice. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, si notava un piccolo mutamento anche in fatto di look, altrimenti rappresentato solo da felpe e t-shirt. Cominciava quindi a mettere anche qualche maglioncino attillato, pantaloni che non fossero della tuta e persino un paio di stivaletti scamosciati bassi avevano calzato i piedi dell’atleta. Stare con Dajan l’aveva trasformata in meglio ma nessuno avrebbe mai immaginato fino a quel punto.
Seppur Kim la superasse di oltre sette centimetri, in quel momento la mora appariva piccina e indifesa, incurvata com’era nelle spalle. Continuava a evadere lo sguardo di Iris, mentre le labbra si imbiancavano per quanto le stringesse. Iris bofonchiò qualche sillaba sconnessa, infine esternò:
« E’ una cosa bellissima, Kim… sei diventata una donna »
A seguito di quella constatazione, riuscì a notare un accenno di sorriso sul volto della ragazza, i cui occhi si velarono di dolcezza:
« E’ stato così… tenero, Iris » mormorò, in imbarazzo.
In lei s’intuiva una lotta interiore tra l’urgenza di condividere con qualcuno la sua felicità e il senso del pudore che poneva un freno alla narrazione dei dettagli. Del resto, era un momento suo e di Dajan, qualcosa di estremamente personale e privato e non voleva banalizzarlo raccontandolo come un pettegolezzo succoso.
Erano usciti dall’acqua, rivestendosi in silenzio e senza guardarsi in faccia come due estranei. Da lontano, lui aveva notato le luci accese nei tre bungalow, deducendo l’impossibilità di avere quella privacy che desideravano così tanto. Si erano così seduti sul bordo di una barca arenata sulla spiaggia, ma dopo il loro bagno in mare, nessuno dei due era molto loquace quella sera. Kim si sentiva percorsa da brividi, ma non poteva imputare quelle sensazioni al freddo, poiché non ne sentiva affatto.
« E’ un posto fantastico » aveva commentato lui, rompendo il silenzio.
« Qualunque posto è fantastico, se ci sei tu » aveva mormorato lei. Quella frase era bastata per scatenare qualcosa nel suo ragazzo che, dapprima aveva cercato le sue labbra, poi le sue mani avevano iniziato a esplorare il suo corpo al di sotto della maglietta. Tra di loro c’era stato un fugace scambio di parole e sguardi che li aveva portati ad sedersi all’interno dell’imbarcazione, che quella notte sarebbe diventata il loro nido d’amore. Non c’era nessuno in spiaggia, solo loro due, distesi sul fondo e troppo presi l’uno dall’altra persino per preoccuparsi di eventuali spettatori. Dajan l’aveva aiutata a spogliarsi e quando la pelle nuda di Kim era entrata in contatto con il legno liscio della barca, aveva avvertito dei granelli di sabbia sfregare contro il suo corpo. Tuttavia, quella sensazione, altrimenti sgradevole, aveva incrementato il suo sadico piacere, soffiando sul fuoco che sentiva dentro.
Si era lasciata guidare da lui, che con qualche imbarazzo e molta premura, si era sincerato che lei non avesse cambiato idea. Era bastato un cenno, seguito da un tenero sorriso, e la ragazza che c’era prima aveva lasciato il posto ad una splendida donna.
« Kim? » la richiamò Iris.
La velocista sbattè le palpebre, tornando alla realtà. Non era più sulla spiaggia, abbracciata al suo ragazzo, addormentati sotto una luna luminosa. Era nella cucina del suo alloggio, con Iris che la fissava preoccupata:
« C’è qualcosa che non va? » domandò la rossa « mi sembri pensierosa… » e senza lasciare il tempo alla mora di giustificarsi, aggiunse « come se fossi… pentita »
Quell’osservazione la stupì, al punto da strapparle un sorriso confuso:
« Pentita? No, ma come ti viene in mente? »
« E’ che te ne stai zitta… stai con Dajan da sole due settimane, mi era venuto il dubbio che, sì insomma... avessi avuto dei ripensamenti »
Era vero. Lei e il capitano della Atlantic High School stavano insieme da appena due settimane, ma si amavano da molto più tempo.
Di poche cose Kim Phoenix era sicura in campo sentimentale, ed una di queste, era che non avrebbe mai amato un ragazzo più quanto amasse Dajan Brooks.
Iris continuava a fissarla in silenzio e Kim sapeva di non poter lasciare cadere quella conversazione senza averle spiegato realmente il suo punto di vista:
« Non rimpiango mai una cosa se quando l’ho fatta ero felice… e ieri è stata la notte più felice della mia vita »
Riprese a camminare, ma prima di appoggiare la mano sulla maniglia, Iris tornò a reclamare la sua attenzione:
« Kim, aspetta »
Appena si voltò, notò subito il leggero rossore alle gote della presidentessa del club di giardinaggio, mentre lei ora si sentiva più rilassata e serena. Aver raccontato a qualcuno l’accaduto di quella notte, l’aveva reso ancora più tangibile e reale e, ne era sempre più convinta, non avrebbe mai rimpianto nulla. Era come se, rispetto a pochi minuti prima, le parti si fossero invertite e ora fosse Iris a recitare il ruolo del personaggio in difficoltà.
« Posso chiederti una cosa? » proseguì la rossa, torturando nervosamente un lembo del pigiama.
Di fronte al cenno affermativo della velocista, proseguì:
« Come si fa a capire quando si è innamorati? »
C’era un che di surreale in quella situazione; mai in vita sua Iris avrebbe pensato di chiedere una simile spiegazione a Kim Phoenix. Quella domanda però, era la dimostrazione di quanto entrambe fosse cambiate, di quanto stessero crescendo e maturando.
Kim sbattè le palpebre in silenzio, grattandosi poi la tempia destra in difficoltà:
« Mah, non è difficile capirlo… »
« Tu come l’hai capito? Cioè, come hai capito che ti piaceva veramente Dajan? »
« Beh, il fatto che mi venisse una tachicardia assurda ogni volta che era nei paraggi era un indizio piuttosto ovvio »
« Tachicardia? »
« I battiti mi partivano a mille… e sì che io ho un cuore ben allenato. In realtà ancora adesso ci metto un po’ a normalizzarlo quando sono con lui » ridacchiò imbarazzata, grattandosi la nuca.
Aveva gli occhi lucidi e brillanti.
Iris aveva sempre pensato che Kim fosse bellissima, ma mai come quella mattina in cui vide in lei una dolcezza e tenerezza che non pensava le appartenessero.
La mora abbandonò la stanza, lasciando Iris ancora spiazzata a guardare quella compagna di classe in cui, a stento, riusciva a scorgere la miglior velocista del liceo, asociale e schiva.
 
« Erin! Andiamo in quella boutique! »
Rosalya strattonò violentemente l’amica verso una vetrina di vestiti anni cinquanta, senza lasciarle il tempo di protestare o esprimere una qualche preferenza. Nonostante le sue speranze, il gruppo di amici si era diviso molto prima, data l’impossibilità di accontentare le richieste di tutti.
Avevano scoperto che il festival della birra si sarebbe svolto in una data diversa da quella ricordata da Erin, costringendo tutti a cambiare programmi. Fu così che lei si era sacrificata come compagna di shopping per la stilista, che nemmeno in Nathaniel aveva trovato un appoggio.
« Da quant’è che non facciamo compere insieme, io e te? » aveva squittito.
« Dallo scorso weekend » aveva risposto la mora con scarso entusiasmo.
 
« Per fortuna che c’eri anche tu, Kentin… altrimenti sarei dovuto venire da solo qui »
Il cadetto rimase in silenzio, mentre Nathaniel passava al quadro successivo.
Quando il biondo aveva proposto la visita al National Art Gallery dell’isola, la squadra di basket si era dileguata all’istante, muovendosi come una mandria di bisonti. Trevor aveva prima tentato di barattare la proposta per il museo dei pirati, ma di fronte alla ferma intenzione dell’ex segretario del liceo di intrattenersi con una visita artistica, i ragazzi si erano mobilitati in massa verso il Pirates of Nassau Museum. Rosalya aveva arricciato il naso, sbuffando per l’iniziativa proposta dal suo ragazzo e, senza tante cerimonie, gli aveva annunciato la sua intenzione di cercare altre attività ben più ludiche e frivole.
« Adoro Rosalya, ma lo shopping con lei è devastante » aveva sorriso Nathaniel, che ricordava un pomeriggio trascorso insieme e San Francisco qualche settimana prima.
Kentin replicò con un sorriso incerto. Il ragazzo era molto spontaneo nel suo modo di atteggiarsi, come se fossero amici da sempre. Riusciva a farlo sentire a suo agio e, soprattutto, accettato.
Entrarono in una stanza con pareti tinteggiate di azzurro cielo e adornate di quadri ricchi di colore:
« Questo tipo di arte rappresenta la personalità del suo popolo » aveva commentato il militare, esaminando con attenzione i dettagli di un’opera policromatica « hai notato che usano spesso colori brillanti, vivaci e originali? »
Nathaniel annuì, soddisfatto di aver finalmente trovato un compagno con cui disquisire di una sua grande passione, l’arte. Senza accorgersene, iniziarono una conversazione che li accompagnò per tutte le sale. Dall’arte passarono a confrontarsi sulle loro esperienze, l’uno nel campus californiano, l’altro all’accademia militare. Nathaniel aveva un atteggiamento molto cortese e diplomatico nel porsi, che se da un lato ricordavano a Kentin lo stile di Lysandre, dall’altro era molto più spontaneo e meno artificioso. Scherzarono insieme, risero l’uno alla battuta dell’altro, trovando tra gli argomenti di conversazione, la loro comune conoscenza con Castiel:
« Se non altro non è andato in spiaggia da solo »
« Già » sospirò Nathaniel « ma a volte è così testardo che ero convinto che l’avrebbe fatto. Eppure, anche se in generale ha un carattere scontroso, ho sempre invidiato la facilità con cui si relaziona agli altri »
Kentin sorrise, superando una statua in bronzo che non degnò di uno sguardo.
« Capisco cosa intendi. Lui ha un modo molto diretto di rivolgersi agli altri. All’inizio ti spiazza, ma quando impari a conoscerlo lo apprezzi proprio per la sua schiettezza. In qualche modo porta le persone a fidarsi di lui »
Il biondo ghignò soddisfatto e, sorpassandolo, commentò:
« Certo che con tutto quello che litigate voi due, non avrei mai sospettato che avessi una simile opinione di lui »
Kentin rimase spiazzato e in imbarazzo, incapace di replicare. Si era lasciato trasportare dalla stima che nel profondo covava per il rosso, ma che non aveva mai pensato di condividere con qualcuno.
« Comunque tranquillo… non glielo dirò… anche perché conoscendolo, si gonfierebbe come un tacchino » scherzò il biondo, con un sorriso complice.
 
« Ti stai annoiando? »
Iris sgranò gli occhi, intercettando l’occhiata premurosa di Dakota. Aveva ancora la mano davanti alla bocca in un tentativo mal celato di nascondere uno sbadiglio, ma era stata colta in flagrante.
« N-no » mentì, sporgendosi ad osservare con recitato interesse delle tavole da surf tirate a lucido. Dakota sorrise comprensivo e, spingendola dolcemente via dal negozio, esclamò:
« Scusami. E’ che quando si parla di surf non ci capisco più nulla. Andiamo a mangiare qualcosa? »
La rossa sorrise di rimando, sollevata di aver guadagnato il permesso di uscire.
« Ho proprio voglia di pizza »
 
Kim si distese sul letto, inarcando poi la schiena come un gatto. Il bungalow era rimasto deserto, dopo che lei aveva esortato le compagne a lasciarla riposare. In quella barca dove avevano trascorso la notte lei e Dajan, il ragazzo era crollato quasi subito nel sonno, mentre lei aveva passato buona parte del tempo a fissare il cielo, avvolta nell’abbraccio del ragazzo.
Nonostante il sonno arretrato, non si sentiva stanca, quando piuttosto indolenzita. Si mise in piedi, avvertendo un dolore all’inguine, ennesima riprova che poche ore prima aveva davvero donato tutta se stessa al ragazzo che amava. Essendo la sua prima volta, l’ansia le aveva impedito di godersi appieno quel momento, ma la dolcezza e la premura con cui Dajan si muoveva su di lei, le avevano scaldato il cuore. L’aveva risvegliato quando il sole aveva iniziato ad albeggiare e insieme avevano deciso di tornare ai rispettivi dormitori, approfittando di un orario in cui non avrebbero incrociato nessuno dei loro amici. Tuttavia, Kim si era imbattuta in Iris che non aveva celato la sorpresa nell’apprendere quanto fosse accaduto. Doveva contare sulla sua discrezione, e sperare che non andasse a spiattellarlo alle sue amiche, ma conosceva abbastanza la rossa da sapere di essersi confidata con la persona giusta. Si spostò in cucina, quando intravide dalla finestra una sagoma familiare. Sorrise, aprendo la porta ancora in pigiama:
« ‘Giorno » le sorrise Dajan.
A sua volta le labbra della velocista si piegarono in un sorriso candido, mentre lui si chinava a spegnerlo con un bacio.
« Sapevo che non saresti andata con gli altri » commentò entrando nell’open space.
« Nemmeno tu, a quanto pare »
Dajan si portò accanto ai fornelli e aprì una delle mensole poste in alto.
« Caffè? » le domandò.
La mora annuì e, con la naturalezza di chi si conosce da sempre, iniziarono a chiacchierare e allestire una ricca colazione. Anche se nessuno dei due l’aveva esplicitamente ammesso, quanto era accaduto quella notte aveva portato la loro relazione su un altro piano, molto più intimo e solido.
 
« Uno spettacolo pirotecnico? » farfugliò Wes con la bocca piena.
« Sì! » esclamò Paula, esibendo il volantino che le era stato consegnato mentre passeggiava per la città con Steve.
« Sarebbe il giorno prima della partenza » osservò Kentin.
« Allora è perfetto! » squittì Erin « è un’attività tranquilla »
« Io volevo ubriacarmi » si lagnò Wes, la cui lamentela però non venne accolta dai presenti.
« Andiamo fuori a bere questa sera e domani, direi che è più che sufficiente » asserì Rosalya, le cui parole erano legge, specie per il cestista.
Dopo aver trascorso la mattinata frammentati in varie zone dell’isola, i ragazzi si erano tutti riuniti per cena, questa volta nel bungalow di Dajan e gli altri. Avevano in programma di uscire dopo le dieci, per esplorare la vita notturna della città, che si preannunciava dinamica e movimentata.
« Dov’è che lo fanno? » s’incuriosì Nathaniel, allungando verso di sé il volantino.
« Sulla spiaggia, vicino a quella foresta che abbiamo visto ieri quando siamo andati a fare due passi » illustrò Paula, indicando un punto imprecisato dietro le spalle del biondo.
« Ok andata » tagliò corto Castiel trangugiando d’un fiato quello che restava della lattina che dondolava tra le mani « invece chi è che viene domani a fare l’immersione? »
A quelle parole gli occhi di Rosalya si sgranarono:
« Quella con gli squali? » chiese retorica « è fuori discussione! È da incoscienti »
« Il fatto che tu sia una cagasotto, non significa che lo stiamo tutti » la schernì il rosso, con un sorriso beffardo. Quella proposta era scaturita da un’idea di Dakota, che aveva aderito a quel viaggio promettendosi di vivere una simile esperienza.
« Allora vai pure, Cas, spero che la gabbia si rompa. Anche se compiango quel povero squalo che dovrà digerirti… sei piuttosto indigesto » velenò Rosalya, incrociando le braccia al petto.
Erin sollevò gli occhi al cielo divertita e s’intromise:
« Comunque io vengo »
Castiel rimase di sasso mentre l’amica scattò allarmata:
« Cosa? No, no, Cip! Assolutamente no! Non ti mando a nuotare con gli squali! »
La mora tenne per sé il commento, per quanto esagerato, che piuttosto di replicare un’altra devastante giornata di shopping, avrebbe preferito accarezzare uno di quei predatori.
« Coraggiosa la ragazza » commentò Trevor con ammirazione « verrò pure io »
« Allora quanti siamo? » riepilogò Dakota, contento di non essere lasciato solo a vivere quell’esperienza « io, Castiel, Erin, Trevor »
Si alzarono anche le mani di Wes e Nathaniel. Rosalya impallidì, afferrando il braccio del biondo.
« Stai scherzando, spero… »
Nathaniel scosse leggermente il capo, in segno di diniego.
« Eddai Rosa, sei una pigna in culo! » sbottò Castiel « sarà pur libero di fare quello che gli pare »
La stilista gonfiò le guance, inarcando le sopracciglia, furiosa. Il suo ragazzo non intervenne in sua difesa, lasciandole implicitamente intendere che la pensasse come il suo migliore amico.
« Fate come volete, vorrà dire che io ed Iris ce ne andremo in spiaggia da sole »
« Veramente… » titubò la rossa, mentre Rosalya si voltava di scatto. Gli occhi le si erano ridotti a due fessure, ma Iris proseguì, completando la frase con l’ovvia conclusione « pensavo di andare anche io »
Castiel sorrise vittorioso, mentre la stilista arricciava il naso.
Le due coppie del gruppo si sarebbe isolate per conto loro e lei di certo non intendeva fare da terzo incomodo, specie perché non aveva gran affinità con quei quattro. Le restava Kentin come unica opzione e quella constatazione la fece deglutire sconfitta.
Si alzò irritata, sbuffando come una bambina.
« Dove vai? » chiesero in coro Erin ed Iris.
« Sicuramente non a farmi sbranare da uno squalo, state pacifiche » sputò l’altra, camminando via indispettita. Nathaniel scosse il capo sorridendo rassegnato, ma proprio quando stava per alzarsi, Erin lo bloccò:
« Aspetta Nath, deve andare Castiel a parlarci »
Tutti si voltarono verso il rosso che, basito, sbottò:
« E io che c’entro? » farfugliò con la bocca piena di salatini.
« Sei tu che hai buttato benzina sul fuoco, perciò andrai a scusarti con lei » asserì Erin, perentoria.
« Non è colpa mia se Rosa è un’isterica di prima… e comunque, non ho nulla di cui scusarmi » precisò, deglutendo vistostamente.
La mora socchiuse gli occhi, ricordando per un istante il gelo che l’amica stilista evocava attorno a sé nei suoi momenti peggiori. Puntò i palmi sul tavolo, inclinando il busto verso il rosso:
« Lo sapevo: non sei abbastanza uomo da abbassarti a chiedere scusa ad una donna »
« Vuoi scommettere? » replicò l’altro di rimando, scattando a sua volta in piedi.
Abbandonò la stanza, uscendo sulla veranda e scendendo distrattamente gli scalini di legno.
Erin tornò a sedersi soddisfatta, mentre Trevor  ghignò, iniziando a sparecchiare la tavola:
« Black è rimasto il solito sempliciotto »
 
Rosalya continuava a camminare sulla sabbia, accelerando il passo man mano che sentiva avvicinarsi il suo inseguitore:
« Se sei venuto per parlarmi, non è aria, Nath »
« Fosse per me ne farei volentieri a meno » commentò invece la voce del rosso, che finalmente era riuscito ad accorciare la distanza. Sorpresa da quell’inconfondibile timbro, la stilista si voltò, trovandosi davanti l’espressione accigliata di Castiel.
« E tu che vuoi? Sei qui per scusarti? »
Quell’atteggiamento fiero lo urtò particolarmente, finendo per rimangiarsi la parola appena data:
« Col cazzo. Semmai sei tu quella che dovrebbe ammettere di essere una pazza infantile. Come faccia Nate a sopportarti proprio non lo capisco »
 
« Sei sicura che sia una buona idea mandare Castiel? » domandò Iris preoccupata « non è esattamente una persona diplomatica e paziente »
« Non preoccuparti, alla fine, per quanto si insultino, quei due fanno solo finta di odiarsi » esclamò Erin, versandosi un bicchiere di acqua frizzante.
 
« Non tutte le ragazze sono delle sante come la tua Erin… » lo rimbeccò Rosalya, mentre Castiel ignorava il tono derisorio con cui era stato pronunciato l’aggettivo possessivo « …e non che tu sia un gentleman, comunque » rincarnò la dose.
Il sopracciglio di Castiel vibrò visibilmente ma sapeva che se avesse perso definitivamente la pazienza, Erin non gliel’avrebbe perdonata facilmente.
« Senti White, tregua? Smettila di tenere il muso e torna di là con gli altri, altrimenti rovini la serata a tutti »
Ne guadagnò solo uno sguardo truce e una replica stizzita:
« E da quando in qua ti do retta, Black? »
Rosalya riprese a dirigersi verso il proprio bungalow, mentre Castiel cacciando un sospiro profondo, si rassegnò a seguirla.
« Ma che hai stasera? E poi sarei io la pigna in culo? » lo rimproverò lei. Il rosso allora emise un grugno spazientito e sbottò:
« Ok, ok, scusa va bene? »
La stilista tornò a voltarsi e questa volta lui vide sul suo bel visino un ghigno vittorioso e malizioso:
« Cos’era quella? Una sentita richiesta di perdono? » squittì, scivolando civettuola verso di lui.
La sua irritazione sembrava essersi volatilizzata all’istante, rimpiazzata da un inspiegabile buon umore. Per quanto il ragazzo fosse abituato agli atteggiamenti lunatici della stilista e delle sue repentine alterazioni d’animo, la scrutò con diffidenza e perplessità, indeciso se la sua missione si fosse realmente compiuta.
« E’ quello che ti pare, basta che domani vieni e la smetti di rompere le palle agli altri » grugnì.
Rosalya recuperò un’espressione seria e sentenziò:
« Te lo ripeto: non mi immergerò mai con gli squali, ma visto che ci tenete tanto, andate pure. Vorrà dire che farò da terzo incomodo alle due coppiette che rimarranno qui »
« Ti ricordo che c’è anche Affleck che rimane » puntualizzò Castiel.
Vide la stilista roteare gli occhi, sull’orlo di perdere nuovamente la pazienza. Il giorno successivo, Dakota ed Iris avrebbero trascorso la giornata insieme, mentre quell’altro babbeo non avrebbe mosso un dito. Non sapeva come interpretare quella scelta e l’unica motivazione che era disposta a perdonargli era una paura per gli squali, analoga alla propria.
« Solo una cosa, Black » asserì infine la stilista, portandosi le mani sui fianchi e guardando l’interlocutore dritto negli occhi « se succede qualcosa ad Erin, sappi che ti darò in pasto a quei pescioni »
Inizialmente perplesso per quell’uscita, il rosso replicò infine con un sorriso complice e, senza rendersi conto di quanto potessero essere compromettenti le sue parole, asserì:
« Come se permettessi a qualcuno di farle del male »
Questa volta toccò a Rosalya restarsene di stucco, mentre il ragazzo si allontanava soddisfatto. Non aveva ottenuto un bel niente da quella discussione, ma l’attaccamento e l’affetto che l’amica nutriva per la mora era sufficiente a ricordargli che, in fondo, Rosalya era pur sempre una ragazza in gamba.
 
Contro ogni previsione, Wes quella sera aveva fatto centro: era lui il ragazzo all’angolo del pub, impegnato a limonare con una perfetta sconosciuta. Parlando di centro, Dajan, Trevor, Steve e Kentin stavano giocando a freccette, gioco in cui l’ala grande si stava rivelando un vero e proprio asso:
« Questi sono dieci decimi su dieci di vista! » si pavoneggiava Trevor, inchinandosi teatralmente ad ogni vittoria. La sua vanità era tale che, più volte, gli amici erano stati sul punto di usarlo come bersaglio.
« Come mai Dajan non va domani? » stava chiedendo Paula a Kim.
« Mi ha detto che non gli interessano questo genere di cose… ma in realtà credo lo faccia per non escludermi. Calarmi in una gabbia in mezzo agli squali? E’ l’ultimo posto dove vorrei trovarmi »
« Per fortuna che in questo gruppo c’è gente sana di mente » commentò Rosalya, sorseggiando il suo cocktail. Quella frecciatina venne colta all’istante dalle sue due amiche, che si affrettarono a giustificarsi:
« Smettila Rosa, è un’attività che viene fatta in tutta sicurezza » esclamò Iris.
« E in ogni caso, non serve che ci insulti per celare la tua preoccupazione » la punzecchiò Erin.
La stilista, colta in flagrante, sorrise leggermente, rassegnandosi a lasciar cadere l’argomento. Svuotò il bicchiere e si affrettò a procurarsene un altro pronto sul tavolino. Quella sera ci stava andando giù pesante, ma del resto era sempre stata una buona bevitrice.
« Nathaniel e l’altro scemo dove sono? » domandò, districando un nodo sulle punte dei suoi lunghi capelli.
« Fuori a fumare, credo » ipotizzò Paula, sporgendosi a guardare all’esterno. Rosalya sollevò gli occhi al cielo, per poi sbuffare:
« Nath fuma troppo. Devo trovare un modo per farlo smettere »
« Lascialo fare, Rosa » patteggiò Erin « la salute è la sua »
L’amica la guardò poco convinta e, avvicinandosi a lei, le sussurrò in un orecchio:
« Vuoi farmi credere che non ti importi nulla del fatto che Castiel fumi come un turco? Non ti preoccupa che possa sviluppare un tumore al polmone? »
Erin aggrottò la fronte, incerta, mentre l’amica tornava a trangugiare alcol. Iris nel frattempo si stava guardando attorno, come in allerta:
« Che ti prende? » s’incuriosì Kim.
« Non vedo Dake. Era andato in bagno ma è da un po’ che è sparito… vado a cercarlo » si risolse, alzandosi dai divanetti in cui si erano accomodate. Quello fu solo il primo pretesto che portò allo scioglimento del gruppo: Dajan e Steve coinvolsero le rispettive ragazze a unirsi alla competizione di freccette, mentre Erin e Rosalya uscirono all’esterno. Quest’ultima aveva perso il conto di quanti cocktail avesse bevuto e aveva un sorriso ebete stampato in viso:
« Stai esagerando con l’alcol » la ammonì l’amica, che in passato aveva avuto modo di vederla ubriaca.
« Siamo qui apposta per bene, no? » si difese Rosalya, reclinando la testa all’indietro, in una grassa e inopportuna risata. Erin allora le strappò il bicchiere dalle mani e lo trangugiò d’un fiato. Era tremendamente forte, sentì la gola in fiamme e deglutì nello sforzo di attenuarne l’effetto.
« Ehi, quello era miooo » miagolò l’altra, in modo piuttosto infantile.
« Muoviti che usciamo » tagliò corto l’altra, spingendola via.
Quando uscirono però, trovarono un paio di ragazze impegnate a chiacchierare con i loro amici. Una aveva una cascata bellissima di capelli ricci e rossi, mentre l’altra ricordava vagamente Charlotte, la compagna di classe di Erin.
« Così siete del New Jersey » stava commentando la prima, arrotolando una ciocca attorno all’indice « noi della California »
« E allora tornateci di corsa »
Si voltarono tutti e quattro all’unisono, mentre Erin tratteneva l’amica per un braccio:
« E tu che vuoi? » sbottò la rossa.
« Calma Rosa, stanno solo parlando » cercò di sedarla la mora, ma l’altra sbottò:
« Si dà il caso che sia la sua ragazza, stupida oca »
La rivale si indispettì ma proprio quando stava per montare su tutte le furie, Erin intervenne nuovamente:
« Scusala, ma è solo ubriaca… però che sia la sua ragazza è vero » precisò, indicando Nathaniel.
« Andiamocene, Brittany » la tirò via l’altra « non ne vale la pena »
Mentre le sue si allontanavano, Castiel si irritò con la stilista:
« Sei sempre la solita, Rosalya. Ti incazzi con niente »
« Ha solo bevuto troppo » convenne Nathaniel, portandosi accanto a lei.
« Tu stammi lontano, fedifrago »
« E’ stupefacente come si arricchisca il tuo vocabolario, quando alzi il gomito » le sorrise divertito e, dopo aver gettato il mozzicone di sigaretta, aggiunse « noi due torniamo dentro, voi che fate? »
« Andate, vi raggiungiamo dopo » rispose il rosso, includendo anche Erin.
Rimasti soli, calò il silenzio.
Erin sembrava assorta nei suoi pensieri, ma il suo sguardo era fisso sulla fiammella ardente del cilindro di tabacco.
« Sei loquace stasera » scherzò l’amico.
« Stavo pensando » mormorò con disincanto.
« A cosa? »
« Al fatto che dovresti smettere di fumare. Ti fa male »
Lui ghignò compiaciuto e replicò:
« Sono lusingato di essere al centro delle tue preoccupazioni, ma non sarai certo tu a dirmi cosa fare »
« Io però mi preoccupo »
« E allora preoccupati » semplificò l’altro, espirando una boccata di fumo.
Erin aggrottò la fronte, senza staccare lo sguardo dalla sigaretta. Rosalya aveva ragione, Castiel fumava troppo e la cosa iniziava a metterle una certa apprensione. In aggiunta, l’amico si faceva beffe della sua premura, aggiungendo alla sua ansia anche una crescente irritazione.
Fu per tale motivo che, improvvisamente, gli strappò il cilindro dalle labbra e se lo portò sulle proprie. Inspirò l’aroma, mentre lui rimaneva sconcertato da quel gesto:
« Ma che fai? »
« Fumo »
Un sorriso tirato allungò la bocca del ragazzo che esclamò:
« Questo lo vedo da solo… si può sapere che diavolo ti è preso? »
« Ho deciso che visto che ti piace tanto fumare, inizierò a farlo anche io »
« Stai scherzando… spero »
Il tono perentorio e la punta di allarme della sua voce confermarono a Erin di aver centrato il bersaglio. In aggiunta, ricevette quell’indiretta e gratificante conferma che l’amico, per quanto incurante della propria salute, si preoccupasse della sua.
« Perché? Non sarai certo tu a dirmi cosa fare » facendogli il verso per la sua recente battuta.
« Comunque quella è mia… » tentò di strappargliela l’altro.
« Allora te ne scrocco una nuova » replicò l’altra con candore, continuando ad aspirare il sapore di tabacco. Era solo la terza volta in vita sua che le capitava di fare qualche tiro, ma la naturalezza con cui compiva ogni gesto la faceva apparire un’esperta. Le sue iridi scintillavano vittoriose, nel contemplare la tangibile sconfitta del ragazzo.
Improvvisamente si sentì strappare il cilindro dalle labbra ma, anziché riportarselo in bocca, il rosso lo schiacciò contro il posacenere:
« Quanto ti ci metti, sei peggio di Rosa »
Erin ignorò quell’offesa, felice di aver vinto quella piccola battaglia in nome del bene dell’amico.
Lo seguì all’interno del locale, trotterellando soddisfatta.
 
« Sei sicura che non vuoi rientrare? » domandò Dakota, appoggiandosi al muro esterno.
Iris fece segno di diniego, sorridendo. Aveva trovato il ragazzo intento a leggere il regolamento per una gara di surf che si sarebbe tenuta due giorni dopo la loro partenza. Era talmente assorto nella lettura, che non l’aveva sentita quando lei l’aveva chiamato, cercando di attirare la sua attenzione.
« Quindi ci sarebbe questa gara di surf? »
« Già » confermò il ragazzo, gettando un’ultima occhiata al poster « è un grosso evento, richiamerà sicuramente alcuni dei migliori surfisti al mondo »
« Tipo questo Tom Curren? »
« Cosa? » quasi strillò Dakota, attirando l’attenzione di un paio di ragazzi « dove… »
« E’ scritto qui » indicò Iris « special guest: Tom Curren »
« Ci sarà Curren… » boccheggiò Dakota « non ci credo… »
Era la prima volta che Iris lo vedeva così entusiasta e contento. Quell’immagine la fece sorridere e anche arrossire.
Era un ragazzo molto carino, pieno di vita ed energia. Si trovò a chiedersi se, quella strana sensazione che sentiva in sua compagnia fosse sintomo che qualcosa stava scattando in lei.
« E’ mezz’ora che fissi questo poster, e non hai notato un simile dettaglio? » lo schernì.
Dakota però non si unì al suo entusiasmo e sospirò:
« E’ una gran figata, peccato che non potrò esserci »
Fu così che anche la gioia di Iris si spense. Aveva scordato il primo dettaglio di cui l’aveva messa al corrente il ragazzo: non poteva partecipare, poiché il giorno della gara era fissato dopo la loro dipartita.
« Ma Dake… è una manifestazione importante… e se… restassi qui un paio di giorni? »
« E il biglietto per il ritorno chi me lo paga? » chiese amaramente l’altro « se solo… » e in quel momento il ragazzo fu attraversato da un lampo.
« Noel… »
« Chi? »
« Noel! Avevo scordato che l’anno scorso ho conosciuto un ragazzo in California. Lui però vive qui e mi aveva invitato a stare da lui! Potrei contattarlo e sentire se può aiutarmi! »
« Oddio, sarebbe fantastico! » squittì Iris, applaudendo felice.
Il giovane surfista ispirò leggermente. In lui era appena germinata la speranza di realizzare uno dei suoi sogni: partecipare ad una gara importante di surf. Proprio quando si era rassegnato all’impossibilità di assecondare quell’occasione, era spuntata la possibile risposta al suo problema. A rendere il tutto ancora più magico, c’era la presenza di quella ragazza accanto a lui, con la sua dolcezza e tenerezza:
« Sapessi quanto mi piacerebbe saperti lì a fare il tifo per me » le sussurrò, guardando il poster.
Iris arrossì, abbassando lo sguardo.
Non poteva retrocedere ancora, doveva iniziare a fronteggiare le sue emozioni se voleva imparare ad interpretarle.
« Piacerebbe anche a me sostenerti » borbottò.
Nel suo campo visivo, oltre al suolo, entrò una mano abbronzata, che scivolò lungo il suo braccio. Sentì un brivido percorrerla da parte a parte e proprio quando stava per rialzare gli occhi, si sentì chiamare:
« Iris, io riaccompagno a casa Rosalya… è messa ma- »
Erin fu costretta a interrompersi, disorientata dall’impassibilità di Dakota. Il ragazzo infatti aveva uno sguardo freddo, al punto da insidiare in lei il dubbio di aver interrotto qualcosa, ma non riuscì a capire cosa pensasse Iris di quella sua intromissione.
« Che ha? » chiese la rossa.
« Ha bevuto troppo e ha finito per vomitare in bagno. Gli altri vogliono restare ancora »
« Tornate a casa da sole? » domandò Dakota.
« No, ci accompagnano Castiel, Nathaniel e Ken »
« Kentin? » puntualizzò Iris.
Erin vide chiaramente le sopracciglia bionde del surfista accigliarsi, scrutando di sfuggita la rossa.
« Sì, viene anche lui » mormorò Erin, sentendosi inspiegabilmente a disagio. Una piega amara delineò le labbra di Iris mentre osservava la sua amica.
« Capisco » commentò semplicemente « allora non avete bisogno di me, immagino »
La mora si chiese se avesse in qualche modo fatto un torto all’amica, ma non riuscì a darsi una risposta valida. Preferì non indagare ulteriormente, spinta principalmente dall’urgenza di soccorrere Rosalya, così salutò la coppia e si congedò.
Poco dopo passò loro davanti, trascinando via la stilista che, con passo barcollante, emetteva versi lamentosi. Dietro di loro, facevano seguito i tre ragazzi, impegnati in una conversazione. Nathaniel e Castiel salutarono Iris e Dakota con un cenno, mentre Kentin li degnò appena di un’occhiata.
Da quanto Erin li aveva interrotti, tra la rossa e il biondo non vi era stato alcuno scambio di battute, soppiantato da un disagevole silenzio. Iris infatti sembrava assorta nei suoi pensieri e proprio quando il ragazzo si stava convincendo che non l’avrebbe spezzato, lei mormorò:
« Secondo te, a Kentin piace Erin? »
Era un chiodo fisso. Per quante smentite le sembrasse di aver ricevuto, non riusciva a sradicare quel tarlo dalla sua mente. Erin era una bella ragazza, determinata ma anche gentile e sensibile. Per Iris era naturale interpretare la conflittualità nel rapporto di Kentin e Castiel come una sorta di rivalità per la mora. Non che lei fosse convinta che il rosso ne fosse innamorato, ma aveva saputo che alle medie il cadetto si era invaghito dell’amica; quando quel genere di osservazioni occupavano la sua mente, si sentiva improvvisamente triste e, per quanto bene volesse ad Erin, non riusciva a non detestarla un pochino. Si odiava per quei cattivi pensieri, ma erano più forti di lei.
« E se anche fosse? » rispose Dakota.
Notando il turbamento della ragazza, il suo sguardo si infastidì ulteriormente:
« Probabilmente è così visto che Erin mi sembra decisamente il suo tipo »
 
« M-ma io ero convinta che fossi tu a non ricordarti di me » commentò Iris, presa in contropiede.
Dentro di sé sentiva crescere un’eccessiva gioia, mista a sollievo: non aveva rimosso il loro primo incontro dalla sua memoria. Anche il ragazzo era rimasto alquanto sbigottito da quella confessione.

« Beh » convenne lui con un sorriso dolcissimo « non sei una che si dimentica facilmente » e, dopo aver pronunciato quella verità, si fece prendere dall’imbarazzo e accelerò il passo; decisamente, si era spinto oltre l’audacia consentitagli dalla sua personalità.
 
Lei gli aveva pure creduto, ingenua qual era. Eppure, Kentin non aveva fatto altro che manifestare un moderato interesse verso di lei, quando invece con Erin sembrava aver instaurato un rapporto ben più profondo, fatto di complicità e allegria, come il pomeriggio precedente in spiaggia. Ogni volta che Iris si convinceva di aver fatto qualche progresso, bastava un’inezia a farle dubitare di sé.
Dakota stesso le stava confermando i suoi timori.
« Torniamo dagli altri »
Il ragazzo si era avviato verso l’interno del locale, dandole le spalle. A quel punto Iris non poteva più fingere di non vedere le attenzioni di Dakota, la sua dolcezza nel relazionarsi a lei. Quell’atteggiamento, che prima la metteva a disagio, iniziava a lusingarla, facendola sentire apprezzata come mai prima. Era confusa, tra la natura delle sensazioni che provava accanto a lui e la capacità che aveva Kentin, con la sua sola presenza, di mettere in discussione ogni sua vacillante certezza.
Si limitò a seguire il surfista, sentendosi tanto in colpa quanto incapace di rimediare.
 
Dopo aver messo a letto Rosalya e salutato Erin, i tre ragazzi si avviarono verso il loro bungalow.
Mentre Kentin era sotto la doccia, Castiel si trovò a rispondere ad una mail di Ace, che non sentiva da un paio di settimane. Il chitarrista dei Tenia era sicuramente il membro della band con cui aveva legato di più, un po’ per il suo carattere socievole e solare, un po’ per la disgrazia di aver condiviso la stanza in quei due mesi e mezzo a Berlino. A volte, il rosso sentiva la nostalgia dei discorsi insensati del ragazzo, che ritardavano il suo addormentarsi, così come avrebbe voluto ascoltare nuovamente la voce chiassosa di Chester, il silenzio di Jun e i borbottii infastiditi di Damien.
« Me li presenterai un giorno, questi Tenia? » gli domandò Nathaniel sedendosi pesantemente sul letto.
« Un giorno » ripetè il ragazzo « ora sono troppi presi dall’album »
« Ace ti ha raccontato qualcosa di particolare? »
« A parte mandarmi a cagare perché me ne sono andato lasciandogli un sacco di canzoni e quindi un botto di lavoro, no… »
L’amico sorrise, intuendo dietro quel tono piatto, un sentimentalismo celato. Stava per chiedergli appunto se sentisse la mancanza di quel periodo trascorso in Germania, quando Castiel esclamò:
« Comunque c’è una cosa di cui volevo parlarti di persona, Nate »
Il rosso aveva messo da parte il cellulare e si era appoggiato contro lo schienale del letto a castello:
« Si tratta della sorella di Erin »
Nathaniel sbattè le palpebre sorpreso dalla piega che aveva preso la conversazione e si allungò in avanti:
« Sophia? »
« Sì. Sai che mio padre l’ha operata a Natale, no? »
Il biondo annuì. Lui stesso aveva accompagnato Ambra in ospedale il giorno dell’intervento, una delicatissima operazione chirurgica.
« Quando Sophia si è voluta trasferire in California, mio padre le ha dato il contatto di un suo collega che lavora lì, a San Francisco, in modo che lei venga monitorata regolarmente, come previsto dalla prassi. Mi pare abbia detto dottor Chander o qualcosa del genere. Lui ha il compito di inoltrare a mio padre l’esito di ogni visita di controllo con Sophia, che viene fatta ogni settimana. Tuttavia, è da un mese che Sophia non si presenta allo studio del dottor Chander »
« Che cosa? » s’indispose il biondo.
« Così mio padre, che è tornato in Inghilterra mi ha chiesto di parlare con Erin, in modo che faccia ragionare sua sorella »
« Allora perché lo stai dicendo a me? »
« Perché Erin e sua sorella sono ai ferri corti e non ho nessuna intenzione di farla angosciare, più di quanto già non lo sia. Lei cerca di non darlo a vedere, ma sta soffrendo molto per questa situazione di stallo » dichiarò Castiel, incrociando le braccia al petto.
Appariva molto serio ma tranquillo, fino a quando Nathaniel non commentò:
« Allora dovrebbe mettere da parte l’orgoglio e cercare una riappacificazione con Sophia »
« Perché dovrebbe scusa? » si scaldò il rosso « sua sorella non le sta dicendo un cazzo di quello che sta combinando, pretende che Erin e la sua famiglia non si preoccupino ed Erin dovrebbe pure andarle incontro? »
Quasi rischiò di battere la testa contro la testiera del letto che lo sovrastava, tanto si era alterato.
« Magari Sophia ha le sue buone ragioni per tenerla fuori da questa storia » ipotizzò il biondo, fissandolo con determinazione. Castiel allora si alzò in piedi, avvicinandosi all’amico e fissandolo furente:
« Nate… tu sai qualcosa? »
Quello era uno scontro tra due personalità forti e autoritarie. Nessuno dei due sembrava vacillare, anzi, con il proseguire della discussione, si animavano sempre di più, scoprendo dei contrasti nei loro punti di vista che soffiavano su una crescente insofferenza e tensione.
« Le ho promesso che non ne avrei parlato con nessuno » puntualizzò Nathaniel, alzandosi a sua volta e camminando verso la finestra.
« Che cosa?! » s’infuriò ancora di più Castiel, alzando la voce.
« Calmati… »
« Col cazzo che mi calmo! C’è Erin che da mesi non sa dove sbattere la testa per capire cos’abbia sua sorella e tu te ne stai qui seduto, pacifico, a tutelare una verità che quella stronza vuole nascondere?! »
Quell’insulto fece scattare il biondo come una molla, trovandosi a pochi centimetri dal viso dell’amico:
« Modera i termini, Castiel. Non la conosci nemmeno! » gli alitò in faccia.
Rivide davanti ai suoi occhi quella ragazza ipocritamente forte e imprevedibilmente fragile, seduta sulla spiaggia. Seppur inizialmente anche lui ne avesse criticato l’atteggiamento, aveva imparato a rispettare i suoi spazi e i suoi tristi sorrisi:
 
« Allora perché non le racconti tutto? » puntualizzò Nathaniel confuso:
« Perché ora come ora, la paura di vederla soffrire, mi paralizza »
 
La mascella di Nathaniel era serrata e i muscoli in evidente contrazione. C’erano troppe cose che non sapeva, ma aveva comunque deciso di schierarsi dalla parte della rossa. Un po’ per solidarietà verso sua sorella Ambra, grande amica di Sophia e un po’ perché mosso da un cavalleresco senso del dovere, in quanto la ragazza era sola a combattere una battaglia di cui nessuno conosceva il nemico.
Per quanto si conoscessero da una vita però, Castiel non riusciva a capire la posizione del suo migliore amico. Per lui Erin era una priorità assoluta e chiunque potesse farla soffrire, meritava come minimo il suo disprezzo. Per questo motivo gli capitava di provare astio anche per sé stesso, quando con il suo atteggiamento acido cercava di allontanarla. Nathaniel lo fissava duro, senza battere ciglio, con una determinazione e rivalità che non gli leggeva in faccia da mesi:
« Non ti stai scaldando troppo per una ragazza con cui non stai neanche insieme? » lo provocò il rosso.
« Ironico, potrei dire lo stesso di te » smorzò la tensione Nathaniel con un ghigno beffardo e si allontanò, aumentando la loro distanza. Si avvicinò al comodino, dove impugnò un pacchetto di sigarette:
« Sophia è una ragazza estremamente fragile Cas, se la vedessi capiresti che non posso lasciarla sola… diventa sempre più vulnerabile giorno dopo giorno. Lei mi ha raccontato solo una minima parte della faccenda, quasi insignificante per la vostra ricerca. Le ho dato la mia parola che non ne avrei parlato con nessuno quindi, mi dispiace, ma devo rispettarla. Ho deciso di aiutarla perché se raggiungerà il suo obiettivo, potrà tornare da sua sorella »
« Allora dille che non è scontato che troverà Erin ad accoglierla a braccia aperte » tagliò corto il rosso e abbandonò la stanza, per non riversare nuovamente la sua frustrazione su quell’amicizia che ancora zoppicava a tornare salda come un tempo.
 
« Vuoi abbassarti, idiota? Non dovresti essere un esperto di mimetismo militare? »
« Se è per questo sono pure esperto di armi da fuoco, White… ne vuoi un assaggio? »
Rosalya sbuffò, raccogliendo una ciocca chiara che era sfuggita dal suo berretto da tennis. Kentin si sistemò gli occhiali da sole, accavallandoseli meglio sul naso.
« E comunque, io non ci volevo venire sia chiaro » sottolineò il cadetto.
« Sì sì certo » borbottò la stilista con non curanza « quindi in questo momento non ti interessa che Dake stia mettendo la mano sul culo di Iris? »
Lo sguardo del moro scattò guardingo in un punto più avanti, dove un gruppetto familiare stava attendendo l’ingresso all’acquario. Iris non era in compagnia di Dake, bensì di Erin e il surfista era impegnato a parlare con Castiel.
Notò accanto a sé il ghigno divertito di Rosalya e, nel tentare di cambiare argomento, domandò:
« Io comunque non ho capito perché li hai voluti seguire »
« Ancora lo chiedi? E per fortuna che sei lo studente con i voti più alti in 4^ C! Sono preoccupata Affleck, p-r-e-o-c-c-u-p-a-t-a » scandì infine.
« Ma se ti ho già detto che viene fatto tutto in sicurezza… »
« Lo sai quanto è grosso uno squalo bianco? »
« No, quanto? » ammise candidamente. Rosalya per un attimo esitò, poi riconobbe:
« Beh, in realtà nemmeno io, ma immagino sia proprio grosso! E ha dei denti paurosamente grandi! Il mese scorso una coppia che si era immersa con la gabbia è stata attaccata da uno di quei bestioni! »
« Dici sul serio? » sgranò gli occhi lui, credulone qual’era. La stilista si era inventata la notizia su due piedi, avendo la faccia tosta di riportargliela come autentica. Sperava che bastasse per farlo scattare e richiamare Iris a sé. Tuttavia il cadetto non prese alcuna iniziativa e, quando il gruppo di Erin e i suoi amici stava sparendo dalla loro vista, seguendo un addetto, domandò con ironia:
« E ora che si fa, comandante? La missione di spionaggio si interrompe qui? »
Una volta entrati nell’acquario, il gruppo avrebbe raggiunto una sezione esterna dove avrebbero trovata ormeggiata una barca predisposta per le immersioni. A bordo sarebbero saliti quindi solo gli interessati a quell’esperienza e il personale autorizzato.
« Non possiamo salire sulla barca » ragionò la stilista, corrucciando le labbra.
«Quindi tutto questo sforzo di camuffamento è stato inutile? »
« Ho sempre voluto cimentarmi in un inseguimento di nascosto! » squittì lei, levandosi il cappello e lasciando ricadere i lunghi capelli. Si era sinceramente divertita a seguire gli amici senza farsi scoprire, anche se il costante borbottio lagnoso del militare le aveva fatto perdere le staffe in più occasioni.
« E se anche ci salissimo di nascosto, sarebbe comunque inutile, perché non potremo fare nulla » osservò il militare.
« Come no? » lo contraddisse lei « se uno squalo attaccasse la gabbia di Nathaniel, Erin o Iris, ti butti in mare per fare da esca »
« Ah-ah simpatica »
Rosalya però non battè ciglio:
« Capito… vorrà dire che ti butterò dentro io con la forza »
 
Dopo aver indossato con difficoltà la muta da sub, Erin sentiva l’eccitazione a fior di pelle. Era persino riuscita a dimenticare l’atteggiamento silenzioso di Iris con cui quella mattina aveva faticato non poco ad instaurare un dialogo. Quel giorno poi, la sua amica non era l’unica strana, anche Castiel, Nathaniel e Dake sembravano insolitamente taciturni. I primi due si parlavano a stento, mentre il surfista era molto più schivo verso la rossa.
Uscì dallo spogliatoio, ciabattando verso il punto di attracco della barca. Iris era dietro di lei e si guardava attorno circospetta. La sua insicurezza intenerì l’amica, che si portò al suo fianco, sfiorandole il braccio:
« Ehi Iris, pronta? » le domandò con un sorriso incoraggiante.
Non sapeva cosa avesse la sua amica, ma non per questo l’avrebbe abbandonata. Dal canto suo, Iris non poteva tenere il muso ad Erin. Del resto la mora non aveva nessuna colpa di quella situazione e nemmeno Kentin, che era libero di innamorarsi di chi voleva. Era lei, Iris, a sbagliare, con le sue manie e insicurezze. Per tale motivo, annuì, mentre Erin proseguiva:
« Scendiamo insieme, ti va? »
« Ho detto a Dake che sarei scesa con lui »
« Oh… » commentò semplicemente Erin dispiaciuta. L’amica non aggiunse altro, nessuna parola di scusa o dispiacere, creando una fastidiosa tensione ed imbarazzo tra di loro. A salvarle, fu il chiassoso arrivo dei ragazzi che balzarono eccitati sull’imbarcazione predisposta.
Una volta assicuratisi di essere tutti presenti, i motori vennero accesi e il gruppo venne portato a svariati chilometri dalla costa. Dopo parecchi minuti in mare, durante i quali vennero illustrate le misure di sicurezza da adottare, la barca si fermò.
Era un punto in cui era nota la presenza di squali e per incrementare le possibilità di incontrare dei temibili predatori, vennero lanciate in mare delle esche.
Dakota, l’ideatore di quell’iniziativa, si propose come primo ad immergersi e, di conseguenza, Iris fu costretta a seguirlo.
Mentre la coppia era intenta a sistemarsi i boccagli e l’ossigeno, Erin sentì una figura portarsi accanto a lei- alzò lo sguardo e quando Castiel, quasi casualmente, borbottò:
« Ci immergiamo insieme, Cip », lei sussultò felice.
Quella sarebbe stata un’esperienza unica.
 
La gabbia d’acciaio era dotata di spesse ringhiere, inviolabili da qualsiasi forza vivente, per quanto brutale. Venne immersa in acqua, lasciando la parte superiore a pelo con la superficie dell’acqua. La grata soprastante venne aperta e tutti vennero invitati ad allontanarsi, eccetto i due prescelti. Dakota entrò con agilità, aiutando Iris nell’impresa. Le afferrò la mano, avvertendo un brivido attraversarlo da parte a parte. Iris era troppo tesa per gustarsi quel piccolo contatto: aveva il cuore in gola, ma era troppo tardi per tirarsi indietro. Se l’avesse fatto, se ne sarebbe pentita per tutta la vita.
Entrò completamente in acqua e, mentre i suoi piedi atterravano sul bordo inferiore della cella metallica, avvertì il tonfo sordo della grata che si chiudeva sopra le loro teste. La gabbia venne calata per circa tre metri sotto la superficie dell’acqua e, da quel momento, vennero cronometrati dieci minuti.
 
« E’ inutile che restiamo qui, Rosa » bofonchiava Kentin, seduto pigramente sul marciapiede « tanto vale che ce ne torniamo in spiaggia con Dajan e gli altri »
« Starei troppo in pena. Voglio essere qui appena tornano » ripetè l’altra, guardando con ansia l’entrata dell’acquario.
« Ok, allora io vado »
Si era curvato in avanti per alzarsi quando si sentì strattonare un braccio:
« E mi lasci qui da sola? Una ragazza affascinante e facile preda dell’interesse maschile come me? »
« Oh, ti basterà aprire bocca per allontanare ogni ragazzo »
Nonostante i buoni riflessi, Kentin non vide nemmeno il pugno che gli arrivò in testa. Oltre che acida, Rosalya era pure insospettabilmente forzuta.
 
Quando Iris si tolse la maschera, era bianca come un cencio. Le gambe le tremavano ma Erin, troppo eccitata, non se ne accorse e le andò incontro squittendo di trepidazione:
« Allora?! Come è andata? »
« Sì è spaventata » sorrise Dakota e, solo allora, la mora notò che il braccio del ragazzo cingeva le spalle della rossa. Era così protettivo quel gesto che persino lei ricevette parte di quel calore solo a guardarlo.
« Datti una mossa, Erin » la esortò Castiel, distraendola.
Finalmente era giunto il loro turno.
Diversamente da Iris, che aveva impiegato svariati secondi a calarsi nella gabbia, la mora si tuffò a peso morto, facendo sorridere i presenti per la sua audacia.
« Il boccaglio, stupida! » le urlò Castiel dalla barca. Lei infatti riemerse poco dopo ridendo, mentre il responsabile della sicurezza la rimproverava ed esortava il rosso a sbrigarsi in modo da chiudere la cella. Sembrava una bambina, tale era la sua impazienza, come se non avesse realizzato la pericolosità potenziale di quell’esperienza.
Si trovarono quindi immersi completamente in acqua mentre la gabbia scendeva più in profondità.
Una volta dischiuse le palpebre, Erin si trovò davanti una distesa celeste irrealmente uniforme, che la avvolgeva totalmente. Ne scaturì una splendida sensazione di leggerezza e pace, del tutto estranea al frastuono a cui era abituata dalla vita di tutti i giorni. Il mare blu, visto da sotto come lo vedevano i pesci suoi abitanti, era maestosamente immenso ed infinito.
Aveva persino dimenticato la presenza del suo migliore amico dietro di sé, tanto era estasiata da quell’esperienza. Era rimasta immobile, ad ammirare uno scenario che per qualche minuto non accennava a mutarsi.
Poi finalmente una sagoma lontana.
Contrariamente all’istinto di sopravvivenza, Erin si staccò dal centro della gabbia, per avvicinarsi alle grate e poter vedere meglio.
Con il passare dei secondi, i dettagli divennero sempre più distinti. L’animale aveva una corazza grigia sul dorso che si imbiancava nell’addome, giustificando l’origine del suo nome. Un’enorme pinna, terrore dei bagnati in superficie, svettava sulla groppa, mentre con le due laterali calibrava gli spostamenti.
Il mostro marino, diversamente dall’immaginario popolare fornito da certi film horror, sembrava incurante della presenza dei due spettatori e nuotava talmente tranquillo che Erin ne rimase affascinata. Non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quel magnifico esemplare di oltre cinque metri, così come non riusciva a staccare le mani saldamente ancorate alla ringhiera in acciaio.
Sobbalzò spaventata solo quando sentì una presa improvvisa trascinarla indietro e solo allora realizzò di non essere sola in quella gabbia. Oltre la maschera vide un’espressione accigliata, seguita da un gesticolare che, per quanto era concitato, risultava buffo. Vide Castiel indicarle lo squalo e poi mimare il gesto di un paio di pericolose fauci. Erin fece spallucce e tornò a fissare estasiata l’animale, portandosi nuovamente alla periferia della gabbia. Non le faceva paura, per quanto fosse irrazionale riconoscerlo. L’esemplare non manifestava alcun segno di irritazione o fastidio, nulla che lasciasse presagire un pericolo.
Era semplicemente magnifico osservarlo.
Si voltò verso Castiel, facendogli segno di avvicinarsi anche lui alle sbarre ma, evidentemente tra i due, in quella situazione lei era la più coraggiosa ed incosciente.
Perse la cognizione del tempo, immersa in quel silenzio assordante e con lo sguardo focalizzato sull’animale.
Ad un certo punto però, lo squalo si voltò verso di loro, puntando verso la gabbia.
Solo allora Erin si staccò da essa, indietreggiando di qualche passo. La belva era a pochi centimetri dalla gabbia e quando si scostò, Erin fissò quel paio d’occhi vitrei e neri. Le sembrava quasi che il suo sguardo annegasse in quei bulbi privi di fondo, come se le spaventose zanne o la mole impressionante fossero secondarie rispetto a quegli occhi agghiaccianti e spietati. Gli occhi di un predatore in cima alla catena alimentare.
Proprio quando si era convinta che l’eccitazione fosse stata rimpiazzata dalla paura, la gabbia venne sollevata, distraendola dall’animale che aveva catturato sua attenzione negli ultimi dieci minuti.
Una volta fuori dall’acqua, il suo corpo acquistò nuovamente peso ma, prima che gli addetti si assicurassero che fosse tutto a posto, sentì Castiel aggredirla:
« SEI UN’INCOSCIENTE! Cosa ti è venuto in mente di attaccarti così alla gabbia? »
Afferrò in malo modo l’asciugamano che gli stava allungando uno degli addetti e si allontanò verso la prua della barca, di pessimo umore.
Erin lo fissò stordita, ancora troppo emozionata da quanto aveva visto sott’acqua per metabolizzare la reazione del rosso. Anche i presenti erano rimasti alquanto spiazzati da quell’uscita, ma preferirono non immischiarsi.
mCosì, Mentre Trevor e Wes si preparavano per la loro immersione, lei lo raggiunse titubante, strizzando via l’acqua dai suoi lunghi capelli.
« Si può sapere che ti è preso? Non è successo nulla… » esordì. Lui si girò di scatto e sbottò nuovamente:
« Ti rendi conto che quello era uno squalo?! »
« Che spirito di osservazione, Cas » cercò di minimizzare lei.
« Non scherzare! Sto parlando seriamente! »
« Eravamo protetti dalla gabbia e comunque mi sono solo avvicinata alla grata, mica sono uscita »
« E ti dovrei fare un applauso quindi? »
Davvero non riusciva a capirlo. Eppure era tanto entusiasta quanto lei di quell’iniziativa.
« Ma si può sapere perché ti arrabbi così? Non ci ho mica messi in pericolo… »
« Lo sai quanto sono rapidi e scattanti sott’acqua quei bestioni? E tu ti vai a mettere con le mani fuori dalle sbarre? Ero preoccupato per te, stupida! »
Erin boccheggiò come un pesce, stupita, mentre lui sbuffava, grattandosi il capo in difficoltà. Tutta colpa di Rosalya che era riuscita a condizionarlo trasmettendogli parte delle sue paure. Appena aveva visto Erin sporgersi così tanto, un’inquietudine irrefrenabile l’aveva pervaso, ma il suo debole tentativo di metterla al sicuro era fallito miseramente.
Ora che era più lucido, si rese conto che, effettivamente, la mora aveva ragione e non aveva in alcun modo messo a repentaglio la sua incolumità. Forse, ciò che in fondo in fondo gli bruciava davvero, era ammettere che quella ragazza, sott’acqua, non avesse avuto bisogno di lui. Diversamente da Iris, non solo la mora non si era lasciata intimorire dallo squalo, ma ne aveva pure sfidato la possanza. Per quanto fosse patetico ammetterlo, avrebbe preferito vederla spaventata e alla ricerca della sua confortante presenza, in un abbraccio che non le avrebbe mai negato. Sarebbe stato un ottimo pretesto per stringerla a sé, senza compromettersi. Quell’amicizia tra di loro gli concedeva sì dei privilegi ma c’erano limiti oltre il quale non poteva sporgersi senza risultare ambiguo. Se di giocare a carte scoperte non se ne parlava, doveva rassegnarsi alle conseguenze della sua codardia in amore.
Sbuffò, infastidito dalle sue stesse riflessioni e si staccò dal bordo della barca. Si sarebbe riunito al resto di gruppo, dissimulando la sua preoccupazione e sdrammatizzando la sfrontata incoscienza di Erin.
Lei però non si era mossa di un passo, ancora colpita da quanto le aveva detto. Si era preoccupato per lei e l’aveva ammesso esplicitamente. Gliel’aveva praticamente urlato in faccia, trasmettendole quanto le fosse affezionato. Sapeva che, in quanto suo amico, quella premura poteva essere considerata normale, ma l’imbarazzo con cui un orgoglioso Castiel l’aveva ammesso, l’aveva lusingata.
Lo fissò avanzare di qualche passo poi, sorridendo, lo richiamò:
« Castiel, sai perché ero così tranquilla? »
Il rosso si voltò per un attimo, il tempo di vedere la tenerezza con cui lei concluse:
« Perché in quella gabbia c’eri tu con me »
E lui ci ricascava.
Era sempre così che finiva.
Per frasi del genere, lui si sentiva morire e rinascere allo stesso tempo e lei era l’unica ragazza che riuscisse a spiazzarlo con parole così dolcemente violenti.
 
Una volta tornati al punto di attracco, i ragazzi trovarono Rosalya e Kentin ad attenderli. La stilista gettò le braccia al collo di Erin ed Iris, sospirando sollevata. Ne monopolizzò l’attenzione, ignorando platealmente il suo ragazzo che, una volta tanto, protestò:
« Così impari a farmi preoccupare, scemo » lo liquidò lei, tornando a rivolgersi alle due.
Erin accettò di buon grado l’esuberanza dell’amica, poiché dopo la loro immersione, Castiel era diventato evasivo e laconico. Iris non aveva cambiato atteggiamento e di quel silenzio la mora iniziava ad infastidirsi. Se non fosse stato per Nathaniel, Trevor e Wes, il viaggio di ritorno sarebbe stato all’insegna del più completo disagio.
« Stasera restiamo a casa? » propose Rosalya « da quant’è che non ci facciamo una bella chiacchierata noi tre da sole? Come ai vecchi tempi? »
La mora sorrise. Un pigiama party era esattamente ciò di cui aveva bisogno per chiarire la situazione con Iris.
 
« Mica ho capito perché stamattina sei venuto anche tu a prenderci » esclamò Castiel, cambiandosi la maglietta.
« Rosalya quando ci si mette è un martello pneumatico. E’ venuta a buttarmi giù dal letto poco dopo che eravate partiti » si giustificò il cadetto, beatamente disteso sul letto. La brutalità con cui la stilista aveva fatto irruzione nella sua stanza l’avevano fatto sobbalzare. Inoltre lei non aveva manifestato alcun senso del pudore nel vederlo in boxer, commentando che là sotto non c’era nulla che non avesse già visto nel suo ragazzo.
Con l’arrivo di Nathaniel c’era stata una ridistribuzione delle stanze, che aveva fatto sì che il trio di amici si trovasse una camera con un letto a castello e un singolo. Tirando a sorte, quest’ultimo era toccato al biondo, Castiel il letto sotto e Kentin quello sopra.
« Comunque Black, perché è tutto il giorno che non parli con Erin, che ti ha fatto? »
« L’ho notato pure io » s’intromise Nathaniel, sfogliando distrattamente un libro.
Castiel si sdraiò più comodamente sul suo giaciglio, portando le mani dietro la nuca:
« Niente, sarà una vostra impressione »
Dall’alto gli arrivò una cuscinata violenta, a cui rispose calciando la rete del letto soprastante. Kentin sobbalzò, colto alla sprovvista, mentre il biondo sorrideva:
« Sembrate due ragazzini ad un campus estivo »
« Non contare balle, Castiel » tornava a riprenderlo il cadetto. Castiel si voltò di lato e si trovò davanti la testa del ragazzo che, come un pipistrello, era sottosopra.
« Sporgiti un altro po’, Affleck, così pianti il naso per terra… »
« Per tua informazione, ho un ottimo senso dell’equilibrio »
Quella boriosa constatazione era un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne. Castiel infatti si mosse di scatto, strattonando l’amico che iniziò a dondolare pericolosamente. Aggrappandosi al materasso, riuscì a restare sul proprio letto ma la paura che l’aveva pervaso lo fece andare su tutte le furie. Il rosso era scoppiato in una grassa risata, mentre Nathaniel, per la prima volta in vita sua, realizzò di aver perso quell’esclusività di cui era così fiero nel suo rapporto di amicizia con Castiel.
Il suo amico era cambiato, pur restando superficialmente scontroso e apparentemente arrogante: c’era qualcosa di diverso nel suo modo di comportarsi con gli altri, come se si fosse finalmente accorto di avere anche lui delle qualità che potevano essere apprezzate.
Prima tra tutte, quella capacità, che da sempre gli aveva invidiato, di crearsi delle amicizie con una naturalezza che rendevano quasi casuale l’instaurarsi di quei rapporti. Come quando aveva incrociato la prima volta Alexy nei corridoi, oppure quando era intervenuto a difendere Rosalya dal bulletto del secondo anno. Castiel era così: si dimostrava egocentrico e menefreghista, ma tra tutti i suoi amici, Nathaniel non avrebbe saputo trovarne uno più attento agli altri e leale di lui.
Il rosso non l’avrebbe mai ammesso ma, con il passare dei giorni, aveva intuito in Kentin una sorta di timida richiesta d’amicizia, ma per l’orgoglio di entrambe le parti, era più facile fingere di non sopportarsi e continuare a stuzzicarsi.  
 
Solo quando fu sicura che la spazzola avesse sciolto anche l’ultimo nodo, Rosalya intrecciò i lunghi capelli in una comoda treccia. Erin finì di spalmarsi la sua crema corpo preferita, mentre Iris si scioglieva i capelli:
« Io davvero Iris non capisco perché ti ostini ad intrecciare quei capelli » commentò Rosalya « stai benissimo con i capelli sciolti »
« Sono troppo abituata ad averceli sempre legati di giorno » fu la debole difesa della rossa « non mi ci vedo se li lascio andare dove vogliono »
La stilista scosse il capo, per nulla convinta:
« L’ultima sera, quando andremo allo spettacolo di fuochi d’artificio, li terrai sciolti. Non si discute »
« Lascia che faccia come crede, Rosa » intervenne Erin con accondiscendenza. Cercò lo sguardo dell’amica, che sorrise solo leggermente, come a disagio.
« Ora basta! » sbottò Rosalya « si può sapere che ti prende? » si arrabbiò con la rossa « è tutto il giorno che sei schiva con Erin! Che ti ha fatto? »
« N-niente » mentì, sentendosi avvampare.
« Iris, sul serio » mediò Erin, sedendosi sul letto della ragazza « se ti ho fatto qualcosa, dimmelo, giuro che qualsiasi cosa sia, non mi sono resa conto di averti offesa »
L’amica sospirò, sentendosi in colpa. La mora non meritava di restare in pena e l’unico modo per liberarsi di quella spiacevole situazione era ammettere quale fosse il problema:
« Non so, in questi giorni mi sento tutta sottosopra. Un attimo sono felice, quello dopo irritata. Non è colpa tua Erin, davvero. Sono io ad avere qualcosa che non va. Mi basta una sciocchezza, e mi sento infastidita »
« E qual è stata la sciocchezza di ieri? Perché è cambiato tutto da quando sono venuta a dirti che portavo a casa Rosalya »
Iris si grattò la fronte, in difficoltà. Doveva tirare in ballo Kentin, ma temeva che la stilista ne approfittasse per trarre conclusioni affrettate. Non era sicura di niente, visto che Dakota non le era assolutamente indifferente.
« Ieri Kentin ti ha accompagnata a casa » tentennò.
« Insieme a Castiel e Nathaniel… e comunque c’era anche Rosa » la corresse la mora. La stilista però sorrise teneramente e spiegò:
« No, Erin. Non hai capito: il punto è proprio Kentin »
La cestista aggrottò la fronte, mentre Iris abbassava il capo:
« Sei gelosa? M-ma Iris, non ne hai motivo! Sai che a me piace… » e dopo essere partita in quarta con la sua arringa difensiva, il tono di voce di Erin si abbassò drasticamente, imporporandole le guance « sì, insomma… tu sai chi »
« Infatti io credo che sia Kentin ad essere innamorato di te » le confessò la rossa.
Sentirono un tonfo e quando si voltarono verso Rosalya, la videro prendere a testate la parete in cartongesso.
« Seriamente, ma voi due avete fatto un corso in rimbambitologia per essere così tarde? Kentin innamorato di Erin? Ma scherziamo? Iris, sveglia! Tu piaci a Kentin! » esternò, battendo le mani.
« Non dire assurdità, Rosa » borbottò l’altra con convinzione.
Vide allora la sagoma della ragazza avvicinarsi minacciosa, incutendo un certo timore:
« Con Erin ci sto rinunciando perché è un caso perso, ma non abbandonerò anche te, Iris. Si vede lontano un miglio che siete fatti l’uno per l’altra »
« Ma se quasi non mi parla! Tranne alcuni casi, in cui non ha altra scelta, ma quando siamo insieme agli altri preferisce sempre evitarmi »
« Perché è timido! »
« Kentin non è timido » replicò la rossa.
« Invece sì, ma si da le arie da spocchioso per camuffarlo »
« Ragazze, abbassate i toni, Kim e Paula staranno dormendo » s’intromise Erin.
Iris incrociò le gambe sul letto, sbuffando:
« Mi dispiace Rosa, ma non riuscirai mai a convincermi di questo. E poi non sono sicura che a me piaccia lui »
Era la prima volta che le sue amiche la vedevano così risoluta e determinata. Quella situazione doveva premerle parecchio per essere così convinta della sua posizione.
« E allora genio, come spieghi il fatto che tu sia gelosa di Erin? » la stuzzicò beffarda Rosalya, incrociando vittorisoa le braccia al petto.
« Con il fatto che non lo sono più e che comunque Dake è dieci volte meglio di quel militare da strapazzo »
concluse l’altra. Era consapevole della debolezza di quelle ultime dichiarazioni, ma riusciva a palesare un atteggiamento fiero e combattivo.
« Oggi sei davvero sconclusionata, Iris » borbottò Rosalya con evidente perplessità.
Fu allora che Erin decise di mettere a tacere la discussione:
« Sentite, non vorrei litigare, l’unica cosa importante è che tu Iris non mi tenga il muso per una cosa non vera, a prescindere dal fatto che ti piaccia o meno Ken » e, prima che l’amica potesse replicare, aggiunse « e adesso, perché non ci racconti cosa è successo nella gabbia con Dake? »
 
I giorni successivi passarono senza evidenti scossoni.
Dajan e Kim iniziarono a staccarsi un po’, consapevoli di dover passare del tempo anche con i loro amici, mentre la coppia formata da Steve e Paula era molto più morbosa e appiccicosa. Le giornate al mare regalarono ai ragazzi delle invidiabili abbronzature, tranne Kentin, Iris e Rosalya, il cui fototipo era troppo basso per permettersi una dorata tintarella. Il cadetto inoltre, incapace di chiedere aiuto per mettersi la crema sulle spalle, ne aveva ricavato un’evidente scottatura, che solo a guardarla, faceva male. Per questo, in spiaggia teneva la maglietta solo fino al momento prima di fare il bagno. Erin, l’unica tra le ragazze che si sarebbe volentieri offerta per mettergli un po’ di protezione solare, si guardava bene dal farlo, nel timore di urtare Iris, anche se si era definita disinteressata al cadetto. Quest’ultima, aveva ripreso a parlarle come prima, anche perché si era convinta che con il moro avesse preso solo una grossa cantonata. Sì, le piacevano i ragazzi intellettuali, ma non nella misura di quanto odiasse i militari. Kentin inoltre non era premuroso come Dakota, che giorno dopo giorno la faceva sentire speciale, come Nathaniel con la sua Rosalya.
Esplorarono l’isola, concedendosi un giro in barca compreso nel loro pacchetto viaggio e visitarono l’arcipelago, soffermandosi sulle principali isole. Il gruppo era ormai affiatato e unito, radicando in tutti la consapevolezza che avrebbero ricordato quella parentesi alle Bahamas come una delle vacanze più belle ed emozionanti della loro vita.
 
Arrivò così l’ultima sera, tra la stanchezza che cominciava a farsi sentire e la trepidazione di godersi per l’ultima volta il cielo stellato di Nassau.
Dopo aver consumato una cena frugale, i ragazzi si erano recati in spiaggia, dove si sarebbero cimentati nell’accensione di un piccolo falò. Le ragazze si sarebbero volentieri unite, se non fosse stato per l’insistenza con cui Rosalya aveva praticamente imposto loro di seguirla in camera. Nonostante fosse in inferiorità numerica, la stilista era riuscita ad imporsi sulla volontà delle altre quattro, determinata a curare il loro look per quella sera. Non era stato facile convincere Kim a farsi truccare, ma facendo leva sul suo carattere autoritario, Rosalya era riuscita a spuntarla anche su di lei.
Erin rideva sotto i baffi, mentre le due ragazze più restie al restyling, Iris e Kim, sbuffavano sotto la mano esperta di Rosalya:
« Kim, tieni chiusi gli occhi, sennò non riesco a metterti l’eyeliner! »
« Ma se ti ho detto che non lo voglio! »
La stilista si fermò, sostando con il pennellino a mezz’aria e scrutando attentamente il visode alla sua modella:
« Hai ragione, anziché questo blu ti metterò un nero classico » replicò l’altra, travisando le parole della sua vittima « ehi Iris! Molla quell’elastico! Stasera niente treccia! » abbaiò poi, mentre la poverina abbassava titubante il suo fedele alleato.
« Rosa non dà tregua » ridacchiò Paula, sedendosi accanto ad Erin.
« Io ci sono già passata e so che in questi casi devi solo assecondarla »
L’eccessiva tranquillità della mora però sembrò urtare l’amica che si voltò di scatto.
« E tu che fai in pigiama? » la additò inorridita.
Erin abbassò lo sguardo verso il suo maglioncino grigio morbido.
« Io sono pronta, Rosa »
La vide alzare le mani al cielo, spazientita e dirigersi verso l’armadio. Tirò fuori un vestitino bianco dalla stoffa leggera, con una fantasia astratta. Arrivava fino alle ginocchia ed era senza spalline.
« Metti questo » le ordinò.
« Ma se si vede tutto sotto! » protestò Erin, passando una mano sotto la stoffa.
« Infatti cambiati quell’intimo osceno che starai sicuramente indossando, e metti il perizoma che ti ho regalato a Novembre »
« Stai scherzando… »
Rosalya abbandonò per la seconda volta la postazione di make up e si avvicinò minacciosa ad Erin:
« Seriamente, ho la faccia di una che scherza? »
 
Quando Kim individuò Dajan, lo trovò seduto attorno ad un fuoco che i ragazzi erano riusciti ad accendere poco prima. Si sentiva estremamente a disagio poiché sapeva che, così in tiro, lui non l’aveva mai vista. Sua madre l’aveva convinta a portarsi in vacanza i capi acquistati nel negozio della madre di Dajan e per quella sera, Kim aveva indossato lo stesso capo che il ragazzo le aveva visto addosso in camerino. I suoi occhi, già chiarissimi rispetto alla carnagione cioccolato, risaltavano ancora di più con l’uso sapiente del trucco operato da Rosalya.
« Ti hanno abbandonato a fare il guardiano del fuoco? » commentò lei con un sorrisetto nervoso. Il capitano della Atlantic fece per voltarsi divertito, ma quando fissò la sua ragazza, ogni parola gli morì in gola.
Kim quella sera era semplicemente bellissima.
 
Erin continuava a lisciarsi nervosamente l’abito, sperando in qualche modo di allungarne l’orlo. Borbottava frasi sconnesse, che Rosalya ignorava apertamente.
« Se lo tiri un altro po’, lo strapperai »
« Perché non posso metterci sotto un paio di leggins? E poi ho freddo! » protestò, gettando un’occhiata di traverso all’amica che, per quanto assurdo, era vestita ancora meno di lei.
« Ti ho concesso quel foulard, anche se non si abbina granchè »
« Allora, lo tolgo, contenta? Che altro vuoi adesso? » mugugnò, sfilandosi via dal collo quel fastidioso ed inutile drappo di stoffa. Non sapendo dove metterlo però, finì per annodarselo al polso, come fosse un vistosa bracciale.
«Tirarti una sberla se non chiudi quella bocca » sorrise cattiva Rosalya, mentre individuava il suo ragazzo « io vado da Nathaniel… è laggiù con Steve e Ken »
In quel momento Erin non potè far altro che rimpiangere il periodo, coincidente al suo arrivo al liceo, in cui vestiva con le larghe e informi felpe della sorella. Desiderò l’anonimato che quei capi potevano garantirle, oltre alla sicurezza di passare inosservata.
La stoffa leggiadra del vestito si gonfiava ad ogni passo, accarezzandole le gambe nude e lisce. Pur avanzando sulla sabbia, aveva un incedere elegante, tipico di un ex ballerina. Fu proprio per il candore dell’abito e il passo sicuro che Castiel, Trevor e Wes la notarono in lontananza, prima che lei potesse accorgersi dei loro sguardi:
« Ah però, hai capito la nostra tweener… » emise un fischio di apprezzamento l’ala grande. Il rosso invece era ammutolito, con la birra abbandonata lungo il fianco.
Quando la ragazza li raggiunse, nemmeno Wes fece mistero del suo gradimento, e rincarnò la dose:
« Perché Erin non vieni a fare gli allenamenti con questo vestito? »
«Ah-ah, simpatico » sdrammatizzò lei, mal celando l’imbarazzo. Gettò un’occhiata fugace a Castiel che, fatta eccezione per la giornata dell’immersione con gli squali, nei giorni a seguire era tornato a comportarsi normalmente.
Quella notte però aveva un’espressione indecifrabile, che lei non si prese la briga di interpretare, poiché intervenne la voce di Steve a distrarli.
« Cazzo! »
Videro il loro centro in mare, in perlustrazione del fondale. Era ad un paio di metri dalla battigia, sulla quale si trovava Paula.
« Che succede? » domandò Trevor.
« Stava facendo una foto al panorama, quando il cellulare gli è scivolato in acqua » spiegò la fidanzata.
« Non si vede un tubo con questo buio! » borbottò Steve in difficoltà.
« Deve essere lì dove ti è caduto, mica ha le pinne… » lo schernì Trevor.
« Perché non fai meno lo spiritoso e vieni ad aiutarmi? » lo rimbeccò il pivot. L’ala si guardò i jeans lunghi fino alle caviglie e sbuffò contrariato:
« Facile parlare per te che sei in bermuda: io poi dovrei andare a cambiarmi »
Anche Erin gettò un’occhiata fugace ai presenti: era l’unica con le gambe scoperte e, pertanto, la sola a poter soccorrere il compagno di squadra senza protestare. Si tolse le infradito, lasciandole sulla sabbia e accese la torcia del suo smartphone:
« Vengo ad aiutarti io, Ste! »
Zampettò prontamente in acqua, sotto lo sguardo divertito dei presenti, che sulla sua disponibilità potevano sempre contare.
« Ormai sarà bello che andato quel telefono… figurati se funziona ancora! » ragionò Wes, alzando la voce per farsi sentire dai due bagnanti.
« E’ un Nokia indistruttibile » replicò Steve fiducioso.
« Invece spero che non funzioni più, così finalmente te ne compri uno decente come tutte le persone normali! » quasi lo rimproverò Paula che, a causa del modello datato del suo ragazzo, non poteva usare applicazioni come Whatsapp per mettersi in contatto con lui.
« Lasciali perdere, Ste » sorrise Erin, rabbrividendo al contatto con l’acqua « ti è caduto qui? »
« Sì, ma anche se continuo a tastare il terreno, non sento nulla »
Lei fece sorvolare la luce proiettata dal suo telefono per illuminare il fondale, ma la vista confermò quanto il tatto aveva già esplorato.
« Forse le onde l’hanno spostato verso destra… » ipotizzò la mora, osservando la direzione del moto ondoso. Si spostò quindi lateralmente ma sentì subito qualcosa di viscido strofinarsi contro le sue gambe. Cacciò un urlo spaventato, che fece sobbalzare tutti:
« Che succede? » urlò Wes, mentre Erin, barcollando pericolosamente, perdeva l’equilibrio e si trovava con il sedere in acqua. Aveva avuto se non altro la prontezza di tendere verso l’alto il suo cellulare, impedendogli di bagnarsi.
Vide la sagoma di quello che sembrava un grosso pesce allontanarsi e scoppiò a ridere sollevata:
« Un pesce! Tutto ok » rispose alzandosi. La parte inferiore del vestito era zuppa d’acqua e quando Steve la aiutò a rialzarsi, avvertì quanto la stoffa si fosse appesantita. Nello spostare il piede sinistro, venne in contatto con un oggetto duro e squadrato, così ricacciò la mano in acqua ed esultò vittoriosa:
« Trovato! »
Steve uscì per primo, ansioso di verificare il funzionamento del suo cellulare, tra i sospiri di Paula che sperava di non vederlo accendersi mai più. Erin invece raggiunse Castiel e gli altri, strizzando la gonna dell’abito, che aderiva alla sua pelle in modo fastidioso.
Era strano che nessuno dei tre ragazzi esternasse alcun commento, specie considerata la caduta accidentale in mare.
« Vado a cambiarmi » annunciò, tra il mutismo dei presenti.
Con il senno di poi, Erin avrebbe solo dovuto sperare che quel silenzio si perpetuasse, ma ci pensò Trevor a interromperlo:
« Che peccato… » commentò deluso.
La mora aggrottò la fronte, voltandosi a guardarli e incrociò le occhiate maliziose del compagno di squadra che, unite a quelle di Wes, guardavano un punto più in basso rispetto al suo viso:
« Erin » spiegò estasiato quest’ultimo, che pareva quasi ipnotizzato tale era la fissità del suo sguardo « ti si vede il culo che è uno spettacolo per gli occhi »
Erin allora si voltò di scatto, notando quanto la trasparenza della stoffa fosse stata esaltata, mettendo chiaramente in risalto le sue forme. Il suo viso prese fuoco, mentre cercava di distogliere l’attenzione generale dal suo fondoschiena. Recuperò il foulard che aveva annodato attorno al polso e se lo avvolse attorno alla vita, assicurandosi che non scivolasse.
« Grazie Erin! » le urlò da distante Steve, che non aveva assistito allo scambio di battute « funziona ancora! »
Lei intanto si avviò verso i bungalow, che distavano un paio di chilometri dal punto di ritrovo. Se non altro quell’incidente le offriva l’occasione per cambiare outfit, optando per qualcosa che la facesse sentire più a suo agio. Inoltre, Rosalya non era riuscita ad imporsi nella scelta dell’intimo, altrimenti la sua situazione sarebbe stata ancora più imbarazzante. Così, al posto di un sexy perizoma, Erin si era tenuta le sue rassicuranti mutandine con una stampa infantile:
« Cip, aspetta, vengo con te » la richiamò una voce alle sue spalle.
Si voltò, e vide soggiungere Castiel, evidentemente infastidito.
« Guarda che posso tornare da sola »
« Riusciresti a cacciarti nei guai anche facendo tre passi… » borbottò l’altro.
Ancora a disagio per la scena di cui era stata da poco protagonista, Erin accelerò il passo, ansiosa di cambiarsi.
« Perché corri adesso? »
« Ho freddo e fretta »
Una felpa le arrivò da dietro, scompigliandole i capelli che con cura Rosalya le aveva messo in piega.
« Metti questa allora »
Afferrò l’indumento che il rosso le aveva lanciato, guardandolo confusa.
« La posso mettere? » domandò incredula.
« No, facci un origami… » replicò sarcastico.
Era parecchio scocciato, come se la figuraccia di poco prima fosse stato lui a farla. Erin invece pareva essersi già lasciata alle spalle parte dell’imbarazzo, arrossendo per la premura dell’amico.
« Grazie » gli sorrise, beandosi del tepore che le suscitò quella stoffa calda. Era troppo larga per lei, ma le piacque pensare che quello fosse una sorta di abbraccio da parte del rosso.
« Perché diavolo ti sei vestita così poco? » esclamò lui d’un tratto.
« Ordini superiori: mettersi contro Rosa in fatto di stile è un atto suicida »
Castiel scosse il capo, irritato e sbottò:
« Quindi preferisci beccarti un raffreddore, piuttosto che contraddirla »
« Prima di cadere in acqua non avevo freddo » mentì, solo per non dargliela vinta. Per quanto lei avesse cercato di ignorare il suo ingiustificato malumore, il ragazzo continuava a tenerle il muso:
« Tzè… non parliamone » farfugliò a denti stretti.
« Perché? Non ti sei mica fatto tu la figura di merda » sbottò lei a quel punto.
« Sta’ pur certa che per gli altri è stato un bello spettacolo, altro che figura di merda »
Erin arricciò le labbra.
Per gli altri.
Se prima si era imbarazzata per aver messo in evidenza le sue forme, in quel momento urtò la sua sensibilità il fatto che Castiel non si includesse nel gruppo.
« Mi scuso se per te non è stato un bel vedere » lo rimbeccò.
« Manco so cosa ci fosse da vedere… stavo guardando da tutt’altra parte e di certo non mi interessano le ragazzine »
La mora rispose con un dito medio alzato e, indispettita, aumentò ulteriormente la velocità. Quel genere di battute di Castiel la facevano sentire insicura e demolivano quel po’ di autostima che negli ultimi mesi stava cercando di edificare. D’accordo, sapeva di non essere una bomba sexy come Rosalya, ma un briciolo di apprezzamento estetico da parte del ragazzo che le piaceva così tanto, le avrebbe regalato un sorriso in più.
 
Nathaniel ravvivò il fuoco, spostando qualche legno e favorendone la combustione. Le scintille si levavano leggiadre nell’aria, stagliandosi contro il cielo ancora nero, senza stelle. Sembravano inseguirsi a vicenda, in una sorta di danza che le portava ad estinguersi.
Si erano tutti riuniti a scaldarsi un po’, visto che quella sera tirava un venticello leggero. Dakota aveva prestato ad Iris il suo giubbetto, così come Dajan con Kim. L’unica che resisteva stoicamente al freddo, era l’artefice di quella scelta di stile, Rosalya, che però era anche la più vicina al fuoco.
« Castiel ed Erin? » domandò Kentin.
« Dovrebbero arrivare a momenti, è da mezz’ora che sono spariti » calcolò Paula.
« Magari non tornano neanche più » malignò Wes, che era solito fare allusioni alla sfera sessuale.
« Tzè, magari… » esalò tra sé e sé la stilista, rassegnata all’impossibilità di quell’eventualità.
Dopo qualche minuto infatti la coppia si presentò all’appello. Erin teneva tra le mani alcune felpe, che distribuì alle sue amiche, trovando solo un po’ di resistenza in Rosalya.
Seduti attorno a quel confortante falò, il gruppo iniziò a chiacchierare e scherzare, ricordando le esperienze vissute in quei giorni, di cui già iniziavano ad avvertire la mancanza.
Le lattine di birra finirono ben presto, costringendo Steve e Dajan a tornare ai bungalow per fare rifornimento. Iris si era seduta accanto a Dakota ed Erin ma, seppur impegnata a parlare con loro, quella sera il suo sguardo cadeva inevitabilmente su Kentin, dalla parte opposta del cerchio che avevano formato. La luce del fuoco colorava la sua pelle conferendole una tonalità aranciata e calda, sulla quale talvolta si illuminava un sorriso tenero, quando era Nathaniel a interagire con lui. Viceversa, gli interventi di Castiel ne smorzavano la dolcezza, tirando fuori nel cadetto un carattere più deciso e chiassoso. C’era una bella complicità tra i tre, che sembrava essersi instaurata d’un tratto, nell’arco di quei cinque giorni lontano da casa. Si trovò a fissarlo con incantata tenerezza, mentre un leggero sorriso le distendeva le labbra.
« Iris? »
La rossa si ridestò, accorgendosi del tentativo del surfista di attirare la sua attenzione.
« Sì, scusa? Hai detto qualcosa? »
Dakota però spostò lo sguardo davanti a sé, inasprendolo non appena riuscì a mettere a fuoco la figura di Kentin.
« Che ne diresti se io e te andassimo a guardare il cielo da un’altra parte? » le propose.
« Dove? »
« Laggiù » indicò il biondo, in un punto alle spalle della ragazza, costringendola a voltarsi « ieri ho trovato una radura in mezzo a quegli alberi, rialzata di qualche metro. E’ un ottimo punto di osservazione »
« Non sarà pericoloso allontanarsi dagli altri? »
« Ci sono io con te » la rassicurò. Vide il cadetto guardare dalla sua parte, ma appena i loro occhi si incrociarono, Kentin spostò l’attenzione su Erin.
Quel gesto la urtò, così esclamò impulsivamente:
« D’accordo Dake, andiamo »
Vedendoli alzarsi, Rosalya domandò allarmata:
« E voi dove state andando? »
« A fare due passi » spiegò Dakota.
« Ma lo spettacolo inizierà a minuti » protestò Erin.
« Per vederlo ci basterà alzare la testa, no? »
« Ok… » farfugliò la ragazza, indugiando l’attenzione su Iris.
La sua amica, in quei giorni, era davvero strana.
 
Erano passati una ventina di minuti quando il primo botto annunciò l’inizio dello spettacolo pirotecnico. I fuochi d’artificio iniziarono a susseguirsi, in una danza di luci e scintille che incollarono i nasi degli spettatori al cielo. Fontane di brillanti stelle, fugaci apparizioni nella notte mantata di nero.
Su quella spiaggia non erano gli unici ad assistere a quell’affascinante intrattenimento. Coppie, famiglie, gruppi di amici: in molti avevano deciso di restare in spiaggia per apprezzare quell’evento.
Talvolta il boato era assordante ma alla vista, quello spettacolo era qualcosa di incredibilmente meraviglioso, la conclusione perfetta di una vacanza indimenticabile.
 
« Sei sicuro di ricordare il posto? Mi sembra una vita che camminiamo ed io mi sono già persa » disse Iris con apprensione. Si voltò indietro, osservando con titubanza le sagome nere degli alberi. Solo la luce della luna e dei fuochi che talvolta illuminavano il cielo le impedivano di inciampare negli arbusti.
« Tranquilla » la rassicurò Dakota « siamo quasi arrivati »
« Lo stai dicendo da dieci minuti » lo contraddisse lei, leggermente infastidita.
La nota di recriminazione infatti non sfuggì al surfista, che fu costretto a fermarsi.
« Ok, allora ci fermiamo qui? »
La rossa lo fissò perplessa, mentre lui tornava sui suoi passi, portandosi a pochi centimetri da lei.
« Non far finta di non capire… anche se mi piace quando fai l’ingenua »
Le accarezzò una guancia, mentre lei rabbrividiva. Eppure, riparata dalla felpa che le aveva portato Erin, non sentiva freddo.
« A-aspetta Dake, io voglio solo vedere i fuochi »
« Te li mostro io… i fuochi » le sussurrò lui, accarezzandole la schiena.
Quando sentì la sua mano abbassarsi fino al fondoschiena, la rossa lo spinse via.
« Ma che ti prende? »
« Non fare la preziosa, Iris! E’ tutta la settimana che mi provochi » insistette, riavvicinandosi a lei e azzerando la distanza. Nel suo alito, lei percepì un fastidioso odore di birra: ne aveva bevuta più del solito e lei non se ne era accorta.
« Cosa stai dicendo? » sbiancò lei « non è vero! Io… »
« Siamo venuti qui per stare un po’ da soli, no? E’ la nostra ultima sera a Nassau, non fare finta di non sapere come si concluderà la serata »
Iris indietreggiò, sconvolta.
In quello sguardo malizioso e astuto non riusciva più a riconoscere il ragazzo gentile e premuroso che in quei giorni le era stato accanto. Il Dake che aveva abbracciato non appena lo squalo si era portato a pochi centimetri dalla gabbia. Dov’era quella stupenda sensazione di protezione che aveva provato in quei logoranti dieci minuti sott’acqua? E perché solo allora realizzò di essersi tranquillizzata solo quando aveva finto che, in quella cella ci fosse qualcun altro ad abbracciarla? Il suo cervello l’aveva forzata a dimenticare che era con l’immagine di un paio di occhi smeraldo e dei capelli castani che aveva iniziato a sentirsi davvero al sicuro.
« Da un’ingenua come Erin potrei anche aspettarmelo, ma tu dovresti essere più sveglia, Iris. Finiamola con questo tira e molla » e le afferrò il braccio, tirandola a sé.
La baciò con forza, come desiderava fare da mesi, ma appena la sentì divincolarsi, si staccò, quel tanto che bastò alla rossa per assestargli una sberla in pieno viso.
« Che ti è preso? » lo accusò, mentre un senso di schiacciante impotenza si impadroniva di lei.
Si sentì improvvisamente sciocca, sbagliata, stupida, ingenua.
Aveva capito che Dakota fosse interessato a lei, ma l’aggressività con cui si era approcciato a lei non apparteneva al ragazzo che le ispirava quei teneri sentimenti.
Improvvisamente le sembrò di esser vissuta all’interno di una bolla di sapone, che filtrava ogni emozione in chiave infantile e disincantata. Ma tutta quell’innocenza che lei associava al suo rapporto con Dakota non esisteva, erano una ragazza e un ragazzo, da soli, in mezzo alla foresta e quest’ultimo non intendeva accontentarsi di un innocente bacio.
Ripensò a Kim, alla dolce espressione che aveva la mattina in cui le raccontò della sua prima volta con il ragazzo che amava. Anche Iris voleva sentirsi addosso quel sorriso, voleva che quel momento fosse speciale, che quando avesse deciso di fare il grande passo, nessun dubbio fosse legato ai suoi sentimenti per il compagno scelto.
Ma Dakota non era il ragazzo giusto.
Avrebbe dovuto capirlo prima, visto che ora le sembrava tutto così evidente e scontato.
Non lo era mai stato, lo sapeva sin dall’inizio ma con il tempo si era lasciata abbindolare dalla sua gentilezza. Ci era cascata, un po’ come Erin quando si era convinta di essere innamorata di Nathaniel.
Certo, per la sua debole autostima, i complimenti del surfista avevano fatto miracoli, facendola sentire così bene da confondere quel piacere con del romantico interesse.
No, non era Dakota il ragazzo che tormentava il suo cuore e quasi lo odiò per averle confuso ancora di più le idee con la sua solarità e gentilezza.
Dal canto suo, l’espressione del biondo cambiava di secondo in secondo, inasprendosi sempre di più tutti quei mesi a farle il filo per poi essere così sgarbatamente rifiutato.
Si sentì preso in giro, ingannato senza riuscire a capire se alla base vi fosse una certa civetteria o solo tanta ingenuità.
« Sei solo una ragazzina » sputò infine, ferito nell’orgoglio « non vali neanche una scopata »
Quell’ultima frase la mandò in pezzi.
Le lacrime a quel punto furono irrefrenabili ma, per non scoppiare a piangere davanti a lui, iniziò a correre via. Lui si pentì all’istante della sua ultima uscita, sapendo che a parlare era stata solo la rabbia così si affrettò a seguirla.
Ben presto però la perse di vista in quella radura buia e solitaria. Non sentiva neanche più il fruscio dei cespugli, e comunque il rumore dei fuochi d’artificio avrebbe coperto qualsiasi altro suono.
Iris era sparita.
 
« Che spettacolo bellissimo » commentò Erin, mentre Castiel e Kentin litigavano su come spegnere il fuoco.
« Buttiamoci sopra della sabbia, facciamo prima » sosteneva il rosso.
« L’acqua spegne il fuoco, non te l’hanno insegnato alle elementari? O pensavi solo ai pinguini? »
L’aneddoto della fissa del musicista per quegli uccelli era stato solo uno degli argomenti di conversazione della serata. I ragazzi avevano condiviso frammenti del loro passato, racconti che li avevano ulteriormente avvicinati gli uni agli altri. Era così emersa la fobia di Rosalya per gli squali, poiché da piccola aveva voluto vedere il film “Lo squalo” di Spielberg che l’aveva traumatizzata, oppure Trevor e il suo rapporto conflittuale con le cimici.
Seguì un boato ma, quando alzarono il capo, nessuno spettacolo di luci si materializzò alla loro vista.
« Sta arrivando un temporale » osservò Dajan, sbrigandosi a gettare un secchio d’acqua sulle braci ormai sopite.
« Iris e Dakota non sono ancora tornati » notò Erin, in ansia. Nell’ultima mezz’ora aveva continuato a guardarsi le spalle nel tentativo di vedere comparire la coppia. Aveva anche provato a scriverle un messaggio, ma non aveva ottenuto nessuna risposta. Rosalya le aveva detto di stare tranquilla e che probabilmente si stavano divertendo da qualche parte. Quella spiegazione però la metteva di pessimo umore, visto che non riusciva a capire quali pensieri balenassero nella mente della rossa, mentre Erin faticava a credere che un tipo pudico come Iris si lasciasse andare così facilmente.
Per entrambe, era inconcepibile che Iris si buttasse così facilmente tra le braccia di un ragazzo con cui non stava ancora insieme, ma di fronte alla durezza con cui avevano parlato del suo rapporto con Dakota, avevano deciso di rispettare le sue scelte. Così come non potevano imporle di stare con Kentin, non potevano tenerla lontana da Dakota.
Un fulmino accecante attraversò il cielo, seguito da un boato:
« Sbrighiamoci, altrimenti ci prenderemo una lavata » farfugliò Kentin.
Sin da quando Iris si era allontanata, era stata dura per lui non manifestare la sua tristezza. Era convinto che, se al posto suo ci fosse stato Castiel, non avrebbe mai permesso ad Erin di allontanarsi da sola con un altro. Ma lui non era Castiel, era solo un povero babbeo che ancora si lasciava condizionare dalle insicurezze del suo passato. Poteva essere cresciuto in altezza e aver messo su più massa muscolare, ma il cuore era rimasto lo stesso di qualche anno prima.
Il cuore di un codardo.
 
Dakota continuò a camminare, usando il cellulare come torcia. Era stato un’impresa orientarsi in quella radura e quando finalmente ne uscì, era fradicio di pioggia e sudore. Di Iris non c’era traccia e pregò che fosse stata più fortunata di lui, riuscendo a raggiungere i bungalow e mettersi al riparo.
Il suo cellulare vibrò ma quando lesse il messaggio sullo schermo, le sue speranze vennero infrante:
 
Da: Trevor
 
Dove siete finiti?

 
A quello ne seguirono altri tre, di Castiel, Rosalya e un terzo che non c’entrava nulla con il suo gruppo di amici. Era da parte di Noel, ma non era il momento per leggerlo. Iris non era ancora rientrata, il messaggio del cestista risaliva a pochi minuti prima.
Nella foresta i cellulari non prendevano e quindi anche la rossa era irraggiungibile.
Corse a perdifiato verso i bungalow, notando la luce accesa in quello delle ragazze.
Spalancò la porta, trovandovi all’interno Erin, Rosalya, Castiel, Nathaniel e Kentin.
« DAKE! » scattò la mora « finalmente! Eravamo preoccupati! »
Dopo appena un secondo però, si accorse di qualcosa che non andava: il ragazzo era fradicio, sporco di fango ai piedi e, soprattutto, Iris non era con lui.
Fu Rosalya quindi ad anticipare la domanda che richiedeva la risposta più urgente:
« Iris dov’è? »
Il biondo cercò di prendere fiato dopo la corsa sulla sabbia, piegando il busto in avanti:
« L’ho persa… » ansimò.
Avvertì il rumore di un movimento rapido, seguito da una forza che lo afferrava per il bavero della maglia e lo costringeva e rimettersi eretto. Si trovò di fronte lo sguardo inferocito di Kentin, quasi animalesco, che digrignò:
« CHE CAZZO VUOL DIRE?! DOV’È?! »
« N-nella foresta… eravamo insieme e… »
Si vergognava troppo ad ammettere cosa fosse accaduto. Aveva sbagliato, si era comportato da stronzo ma ormai era sull’orlo dell’esasperazione. La ragazza gli piaceva sul serio e il suo rifiuto, dopo che lui si era illuso di averla ormai conquistata, era stato un colpo troppo indigesto. Troppo duro da incassare.
« E!? » lo incalzò Kentin, strattonandolo.
« E’ scappata »
« COME SCAPPATA?! » scattò Rosalya, portandosi accanto al cadetto « CHE CAZZO LE HAI FATTO, DAKE? »
Lui distolse lo sguardo mentre il cadetto sentì la rabbia ribollirgli nelle vene. Allargò il gomito, rischiando quasi di colpire anche l’amica e gli sferrò un gancio destro in pieno addome, portandolo bocconi. Dakota tossicchiò, mentre Castiel e Nathaniel intervennero di scatto per frenare la furia del moro:
« CHE CAZZO LE HAI FATTO? » gli urlò Kentin, mentre Dakota si asciugava un rivolo di saliva.
Erin era terrorizzata: era notte inoltrata ed Iris era da sola, in una foresta sconosciuta ed enorme.
Erano in una zona tropicale, poteva imbattersi in qualche animale velenoso, senza poter contare su un tempestivo intervento medico.
« Dobbiamo avvertire la polizia per cercarla! » strillò Rosalya, in preda all’agitazione.
« NON CI SAREBBERO D’AIUTO! » esclamò Nathaniel. Persino lui, notoriamente calmo e posato, si stava lasciando dominare dal nervosismo « prima di ventiquattr’ore dalla scomparsa non possono avviare la ricerca! »
« M-ma è assurdo! E poi domani pomeriggio dobbiamo partire! » scattò Erin, impallidendo.
« Ehi calmatevi! »
Quell’ultima voce, autoritaria e decisa, riuscì a zittire l’ambiente.
Si voltarono verso l’unica persona che fino a quel momento non aveva aperto bocca. Castiel si era portato tra Kentin e Dakota, ma osservava negli occhi uno ad uno i presenti:
« Siamo in sette, andremo a cercarla subito »
« Qui siamo in sei… » contò Erin.
« Non stavo includendo voi due » chiarì il rosso, indicando la mora e Rosalya « chiamiamo Dajan, Trevor, Steve e Wes. Andremo noi ragazzi a cercarla. Voi restate qui »
« Che cosa? » protestarono in coro le due escluse.
Castiel però le ignorò e, per allontanare Kentin dal rivale, lo esortò ad avvertire gli altri compagni, assieme a Nathaniel. Mentre i due uscivano, Erin tornò ad insistere:
« Veniamo anche noi! »
« Ci sareste solo d’impiccio »
« I soliti discorsi da maschilista! » protestò.
A quel punto però Castiel rispose con l’occhiata più severa che gli avesse mai visto. Persino quando Erin aveva insultato Debrah, tempo addietro, la sua espressione non era stata tanto scura.
Rosalya stessa rimase senza parola, impietrita dall’autorità di Castiel, deglutendo nervosamente. Notò una ferita sulla caviglia di Dakota e la usò come pretesto per allontanarsi con lui dalla stanza.
Era una delle poche volte in vita sua in cui aveva paura a discutere con il rosso.
Erin invece no.
Non era il genere di situazione in cui farsi da parte. Non avrebbe abbassato lo sguardo davanti a lui.
« Non puoi darmi ordini, Cas. Iris è una mia amica » dichiarò risoluta.
Lui non fece una piega, ma dentro di sé lottava tra l’ammirazione per la sua determinazione e la paura di saperla in quella foresta. Era buio e lui non poteva garantirle di essere al sicuro da ogni pericolo. Se l’avesse morsa un qualche serpente tropicale o insetto velenoso, lui non avrebbe potuto fare nulla. Poteva anche dargli del maschilista retrogrado, ma per niente al mondo avrebbe messo a repentaglio la sua incolumità.
« Ho tutto il diritto di preoccuparmi per lei » continuò Erin, senza alcuna esitazione.
« Lo so » convenne lui con fermezza « ma non so più come farti capire che sei una fonte costante di preoccupazione »
« Smettila di trattarmi come una ragazzina! »
« NON È PER QUELLO, ERIN! » le urlò contro, esasperato dalla sua ottusità.
Un altro po’ e si sarebbe tradito.  
Lei dapprima boccheggiò, incapace di replicare, ma quando la domanda più ovvia stava per affiorare dalle sue labbra, la porta venne spalancata con violenza:
« Cas, noi siamo pronti, come ci organizziamo? » li interruppe Dajan.
Castiel lasciò Erin al centro della stanza, ancora disorientata ed uscì nella veranda.
« Ci divideremo in tre gruppi. Ci diamo un’ora di tempo, poi ci troveremo tutti qui. I cellulari non prendono là dentro, l’abbiamo visto l’altro giorno io e Kentin, quindi non abbiamo alternative »
Anche Kim e Paula erano accorse, in ansia.
« Cercate di muovervi facendo rumore, così da spaventare gli animali »
« Io non ci sto a stare qui » protestò la velocista, cercando il suo ragazzo. Dajan sapeva che il suo orgoglio le avrebbe impedito di accettare il ruolo della ragazza indifesa.
« Allora vieni con me » replicò semplicemente, tradendo un certo nervosismo.
« Siamo in otto quindi » tagliò corto Castiel e, prima che Erin potesse aggiungersi, ordinò « ci divideremo a coppie… tu Affleck dovresti avere un buon senso dell’orientamento, immagino »
Il cadetto annuì, così, quasi in coro, Castiel e Rosalya esclamarono:
« Allora prenditi Nathaniel »
In altre circostanze, quella sincronia nella risposta avrebbe strappato una risatina, ma la situazione era talmente seria che nessuno si sentì abbastanza leggero da concedersi un simile lusso. Il biondo si limitò a corrugare le labbra, senza protestare. Se si fossero affidati a lui, le persone da cercare in quella foresta sarebbero state due.
 
« Eddai Erin, smettila di tenere il muso »
Rosalya osservò con tenerezza l’amica, accovacciata sul divano come una bambina capricciosa. Aveva le gambe sotto il mento e guardava pensierosa il cellulare sul tavolino. Lo schermo tuttavia, non si era ancora acceso.
Nessuna notifica.
Nessuna novità.
« Odio Castiel quando fa così » mugolò la mora « non lo capisco proprio. Pare si diverta a farmi stare male »
Per una volta la stilista pazientò sull’incapacità dell’amica di vedere le cose dalla giusta prospettiva. Cercando quindi di risultare diplomatica, le spiegò:
« Non è così, fidati. A contrario, è molto protettivo verso di te »
« Mi fa sentire una bambina! » incalzò Erin.
« No… » la contraddisse Rosalya con dolcezza « ti fa sentire importante »
 
Trevor controllò l’ora sul cellulare. Era da venti minuti che camminavano nella foresta, continuando ad urlare il nome di Iris sotto la pioggia. Wes arrancava dietro di lui, cercando di farsi strada nella radura.
« E se le fosse successo qualcosa? » ansimò.
« Non ci voglio neanche pensare » sputò l’ala a denti stretti, calciando via un grosso ramo steso a terra. Più passavano i minuti, più il suo pessimismo cresceva. Wes deglutì a fatica. Quando anche Trevor perdeva il buon umore, allora la situazione era davvero grave.
 
Dajan camminava davanti a Kim che, con l’agilità per cui era nota nella sua ormai ex squadra, aggirava gli ostacoli. Su suggerimento di Castiel, ciascuno stava usando il proprio cellulare come torcia, per illuminare il percorso, che si rivelava sempre più accidentato.
« Se penso che una volta Dake ci aveva provato con te… » esclamò d’un tratto Dajan, con rabbia e frustrazione. L’irresponsabilità del biondo, che mai aveva sopportato, l’aveva spinto oltre, mettendo a repentaglio la sicurezza di Iris.
« E’ stato un sacco di tempo fa, e poi era stato Trevor a chiederglielo, ricordi? » precisò Kim, aggirando un cespuglio voluminoso.
« Comunque sia, non ha giustificazioni. Non so cosa sia successo qui, ma se Iris è scappata, evidentemente non si è comportato da gentleman »
Kim aggrottò la fronte, realizzando per la prima volta quale potesse essere il motivo dietro la fuga dell’amica.
Accelerò il passo, furente e mentre Dajan la esortava a rallentare, dichiarò:
« Allora quando torneremo, ricordami di dargli un pugno in faccia! »
 
Castiel e Steve avevano ormai raggiunto l’altro capo della foresta, ma di Iris non c’era traccia. Erano passati più di trenta minuti e ne occorrevano quindi altrettanti per il ritorno.
« Con questo buio è impossibile » esclamò frustrato, Steve « in più c’è la pioggia che copre le nostre voci »
L’ennesimo tuono squarciò il cielo, illuminando per un attimo la radura.
Castiel emise un verso soffocato e rabbioso. Le gocce d’acqua correvano sulla sua pelle e gli impregnavano la felpa. Non potevano concludere quella serata lasciando Iris da sola. Come le altre tre coppie, si trovò a sperare che una di esse fosse stata fortunata e fosse riuscita a trovare la fuggitiva.
 
« Kentin, rallenta! » lo richiamava Nathaniel.
Il cadetto si muoveva con destrezza tra i boschi, aggirando tronchi in cui il biondo rischiava di inciampare e scostando liane che colpivano inevitabilmente il viso del compagno.
« Col cazzo, che rallento! » urlava l’altro « hai idea di quante specie pericolose potrebbero esserci? E se l’avesse morsa qualche serpente? »
Rabbrividì, sconcertato da quell’eventualità. No, non poteva essere. In tal caso, l’intervento dei soccorsi poteva non essere tempestivo.
I sensi erano allertati al massimo, come durante le esercitazioni notturne in accademia.
Trovare Iris era diventata una missione, di quelle che non ammettevano fallimenti.
 
A distanza di poco più di un’ora, i primi a presentarsi al bungalow furono Dajan e Kim. Il loro arrivo rappresentò una prima delusione: Iris non era con loro.
Anche con il soggiungere di Castiel e Steve, quell’esito venne confermato. Restava solo il cinquanta per cento di speranza, che si abbassò al venticinque quando il duo di Trevor e Wes si unì ai presenti, portando con sé solo l’ennesimo fallimento.
« Merda » commentava tra sé e sé Castiel « così non va, Kentin e Nathaniel sono andati verso Ovest, l’area dove pensiamo sia più improbabile trovarla, giusto per non lasciare nulla di intentato. Noi abbiamo setacciato il resto del percorso e non siamo riusciti a beccarla »
« Iris sa orientarsi, com’è possibile che dopo tutto questo tempo non sia ancora riuscita a tornare indietro? » questionò Erin, in preda a quella che ormai era una dilaniante angoscia. Anche Rosalya aveva i nervi a fior di pelle mentre il resto degli amici si sentiva impotente.
 
Passò un’altra mezz’ora e finalmente la porta si aprì ma, tra la sorpresa generale, c’era solo Nathaniel.
« Ho perso Kentin… » dichiarò frustrato « quell’idiota ha iniziato a correre e non l’ho più visto »
« C-che cosa?! » mormorò Erin, impallidendo. Stava già iniziando a correre fuori dalla porta, quando il biondo dichiarò:
« Almeno la buona notizia è che prima di dividerci, abbiamo sentito chiaramente la voce di Iris »
I cuori di Erin e Rosalya si riempirono di gioia e mentre si avvicinavano sollevate, Nathaniel continuò a spiegare:
« Veniva da lontano, così Kentin ha accelerato di colpo, seminandomi. Ho provato a seguire la direzione della voce, ma dopo venti minuti che chiamavo entrambi, non li ho più né visti né sentiti, così sono tornato indietro »
« E’ un miracolo che tu sia riuscito a tornare indietro » ridacchiò il rosso, che sentiva la tensione sciogliersi.
« Non è il momento di scherzare » lo redarguì Erin « non siamo sicuri che Kentin l’abbia effettivamente individuata » osservò, innescandosi lei stessa un’ansia di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
« Invece sono sicuro che Affleck sia con lei, ora. Mi fido di lui » concluse Castiel e, sedendosi sul divano del soggiorno, commentò « e ora non ci resta che aspettare »
 
L’acqua piovana le era penetrata nelle ossa, mentre i suoi capelli erano ormai un groviglio indistinto di nodi. La caviglia le pulsava, gonfiandosi di ora in ora. Eppure, da quando Kentin l’aveva caricata sulle spalle, Iris non sentiva nulla. Il ragazzo l’aveva trovata ai piedi di un grande albero, con la schiena appoggiata contro il tronco e la mano sulla caviglia sofferente. Iris si era asciugata frettolosamente gli occhi da lacrime che mai lui avrebbe potuto intuire sotto tutta quella pioggia.
Le aveva solo chiesto come stesse e lei aveva borbottato, con voce rotta di chi nelle ultime ore si è abbandonato alla disperazione e lo sconforto, di essersi slogata la caviglia. Il militare allora si era chinato davanti a lei, dandole le spalle:
« Salta su, forza » aveva detto semplicemente.
Lei non era riuscita ad aggiungere altro, aveva solo assecondato quella generosa offerta, dimenticandosi addirittura di ringraziarlo.
Kentin si muoveva con sicurezza tra la boscaglia, tenendo il cellulare con la torcia accesa nella tasca dei jeans. Iris si era offerta di impugnarlo lei, ma lui aveva declinato la proposta.
« Non preoccuparti, così vedo meglio dove cammino » le aveva detto lui.
La pioggia continuava a scendere incessante, senza dar loro tregua. Persino scambiare due parole sarebbe stato difficoltoso ma se non altro il frastuono della natura sopperiva alla laconicità dei due.
Si sentiva in colpa verso Kentin, per le cattiverie dette e pensate.
Non ne meritava nessuna.
« Aspetta, qui non ci sono alberi, vediamo se il cellulare prende » le disse lui d’un tratto.
Iris allora si guardò attorno e riconobbe la radura che era stata lo scenario della sua lite con Dakota.
Chiuse gli occhi, cercando di scacciare quel pensiero mentre il ragazzo esultava:
« Ottimo, scrivo a Black che ti ho trovata e che stai bene, così almeno non si preoccupano »
Il ragazzo provò a digitare lo schermo, ma era un’operazione impossibile con Iris sulle spalle e il cellulare fradicio. Lo schermo touch non riconosceva il tocco delle dita, vanificando ogni sforzo del militare.
« C’è una grotta laggiù » osservò Iris indicando un punto poco lontano.
Kentin drizzò lo sguardo e decise:
« Allora entriamo lì »
Una volta entrati, la sensazione di essere finalmente al riparo dalla pioggia fu talmente piacevole, che l’idea di tornare all’esterno, infastidì entrambi. Kentin scaricò delicatamente Iris, aiutandola a sedersi mentre lui scriveva a Castiel. Una volta digitato il messaggio quindi le propose di restare ancora un po’ al riparo, nella speranzosa attesa che la pioggia cessasse.
Iris annuì e mentre lui esplorava l’interno della grotta, mugolò:
« Come hai fatto a trovarmi? È buio pesto »
« Essere nell’esercito ha anche i suoi vantaggi » sorrise il ragazzo facendole l’occhiolino « mai sentito parlare di addestramento all’aria aperta? »
Iris sorrise e per la prima volta in vita sua trovò un motivo per apprezzare la vita militare; inoltre, quella sensazione di sicurezza che emanava Kentin, scaturiva proprio dalla sua formazione in accademia, improntata sulla tempra delle capacità fisiche e psichiche.
Proprio un militare, figura che lei aveva sempre denigrato e biasimato perché associato alla freddezza emotiva di suo padre, l’aveva soccorsa.
Il suo corpo tremò leggermente e quella scossa non passò inosservata allo sguardo del ragazzo.
« Freddo? » le chiese dopo qualche secondo di esitazione.
« N-no sto bene » mentì Iris. Il cadetto però non le credette e, dopo essersi levato la felpa fradicia, si tolse la maglietta porgendogliela:
« E’ un po’ bagnata, ma sicuramente più asciutta di quella che hai addosso »
Iris la accolse tra le mani, titubante. Non poteva accettare anche quell’offerta, ma stava patendo sempre più freddo, anche a causa dell’immobilità a cui era stata costretta dalla sua caviglia dolorante. Kentin fece per indossare la felpa ma, il solo contatto con quell’indumento grondante lo fece desistere. Stava decisamente meglio a petto nudo.
Si portò all’entrata della grotta, osservando un cielo che non accennava a smettere di piangere.
Iris, con discrezione, passò lo sguardo sul suo fisico che, a causa dell’eritema sulla schiena, non aveva esposto più di tanto al sole e fu allora che si ricordò proprio di quella scottatura.
Appoggiò per terra la maglia che le aveva porto e che usava come scialle, cercando poi di mettersi in piedi. La caviglia le doleva troppo e il suo viso dovette tradire un qualche segnale di dolore visto che il ragazzo sbottò:
« Che fai? Stai seduta se ti fa tanto male »
« Mi serve quella pianta laggiù » disse lei, indicando uno strano cespuglio all’esterno della grotta.
« Adesso? » farfugliò lui, palesemente sorpreso.
Iris annuì, così Kentin si propose per reperirgliela.
« Mi basta una foglia! » gli urlò Iris, mentre il cadetto sfidava la pioggia.
Sorrise nel vedere la poca grazia con cui Kentin sradicava parte del vegetale. In un altro contesto l’avrebbe rimproverato, ma in quel momento gli avrebbe perdonato ogni cosa. Si era innescata una sorta di buffa lotta tra la tenacia con cui le foglie erano attaccate al fusto della pianta e i bicipiti del ragazzo, che alla fine riuscì comunque a spuntarla.
Quando rientrò aveva un’espressione schifata, con cui borbottò:
« Che schifo, butta fuori una roba vischiosa »
« E’ aloe » spiegò pazientemente la presidentessa del club di giardinaggio, accarezzando la pagina superiore della foglia « quando torniamo al liceo ricordami di farti un corso accelerato di botanica, perché in questi mesi al club di giardinaggio mi sa che non ti ho insegnato granchè »
« Sono un caso perso… » sorrise Kentin « comunque a che ti serve? »
« Siediti » gli ordinò.
« Che? » gracchiò, emettendo un verso ridicolosamente acuto.
« Questa è ottima per lenire le scottature » spiegò Iris, mentre lui si metteva seduto.
« E tu come fai a saperlo? »
« Sono la presidentessa del club di giardinaggio, ricordi? » rispose Iris, portandosi dietro di lui.
« Giusto » annuì Kentin, sentendosi un po’ scemo per la domanda.
Stava per dire qualcosa, quando il tocco di Iris si poggiò sulla sua spalla destra. Rabbrividì sia per il contatto con quelle mani gelide sia per l’imbarazzo della proprietaria di quelle dita.
Iris si ritrasse:
« Scusa, ti ho fatto male? »
Solo allora realizzò che, fino a quel momento, nonostante avesse la schiena dolorante ed arrossata, il ragazzo non si era mai lamentato di averla trasportata. Diversamente da Dakota, che palesava i suoi pregi, Kentin aveva quell’irritante tendenza a nasconderli, un po’ come faceva Castiel.
« N-no non è quello » farfugliò il ragazzo e, sentendo già la mancanza di quei brividi, la esortò imbarazzato « continua pure »
Iris, tornò alla sua azione, cercando di fare il più delicatamente possibile. Aveva spezzato trasversalmente la foglia, estraendone un gel viscoso che distribuiva su quella cute arrossata. Spostava la mano lungo la schiena del ragazzo, sfiorandone la lunga colonna vertebrale e sentendo l’affossatura delle costole. Tornò alle spalle e scese lungo le braccia, fermandosi all’altezza del gomito.
Compiva quei gesti con misurata delicatezza, pentendosi di non essersi mai offerta di aiutarlo con la crema solare quand’erano in spiaggia. Quel contatto, seppur imbarazzante, era estremamente piacevole e le forniva l’unico mezzo per sdebitarsi del suo aiuto.
Kentin nel frattempo era un fascio di nervi. Da un lato la pelle dolorante implorava di essere lasciata in pace, ma dall’altro il suo possessore ambiva a quel tocco e sperava che non si fermasse.
Quando Iris finì, con voce roca e in imbarazzo, lui spiegò di aver notato dei rami secchi e delle sterpaglie in fondo alla caverna.
« Posso provare ad accendere un fuoco »
« Sarebbe grandioso » squittì lei, agognando la presenza di un po’ di calore.
Mentre Kentin era impegnato a far ruotare freneticamente un legnetto cilindrico, il suo cellulare vibrò, così come quello di Iris. La rossa aprì la casella e si trovò un sms di Erin.
« Chi è? »
« Erin, mi chiede come sto… ah, adesso ne stanno arrivando altri. Risalgono ad un paio d’ore fa »
La ricezione in quella radura era scarsa, ma per lo meno non assente. L’idea di potersi mettere in contatto con chi stava dall’altro capo della linea rassicurava entrambe le parti.
« Per fortuna che abbiamo beccato questo posto » farfugliò il ragazzo, tenendo il legnetto tra i denti e sistemando meglio la base per la combustione.
Iris sorrise e la sua smorfia si allargò non appena una fiammella iniziò a vedersi tra i ciuffi di erba secca. Kentin si abbassò a soffiare dell’aria, che ravvivò la fiamma e, in pochi minuti, un piacevole fuocherello riscaldò la grotta. Aveva compiuto quei gesti con la sicurezza e la calma di chi è mosso dall’esperienza. Iris poteva solo intuire che anche quella abilità fossero legate al suo addestramento militare e, nuovamente, trovò un altro motivo per apprezzarlo.
Rimasero in silenzio, a fissare rapiti quelle fiamme, perdendo la cognizione del tempo.
Erano seduti l’uno davanti all’altra, quasi a tenere le distanze ma si lanciavano vicendevolmente occhiate fugaci, stando attenti a non farsi beccare dall’altro. La ragazza si rannicchiò su se stessa, ripensando alla prima volta che si erano conosciuti. Lo rivide, in piedi accanto allo scaffale della biblioteca, con gli occhiali sul naso e quell’aria intellettuale e intelligente che l’avevano colpita da subito.
 
« E’ questo che ti serve? » le chiese un ragazzo alto, dalla voce gentile.
Iris avvampò nel trovarsi a così poca distanza da quello sconosciuto e sbirciò la copertina del libro che teneva tra le mani:
« I-in realtà no. Mi serve quello accanto »
Il ragazzo tornò a sollevare lo sguardo mentre lei precisava:
« Quello con la copertina verde » puntualizzò la ragazza, sollevata dal fatto che il titolo non fosse leggibile sulla parte rilegata. Lui allora recuperò l’oggetto ma, anziché porgerlo subito alla ragazza, come Iris sperava, lesse piuttosto sorpreso il titolo dell’opera.
 
Ne era seguita una serie di figuracce da parte di Iris: Kentin aveva sbirciato il titolo del libro: “la sessualità spiegata ai bambini”, facendo avvampare la sventurata ragazza, che era lì solo per conto di sua madre. Come se non bastasse, aveva scambiato Tolstoj, l’autore dell’opera che il moro teneva in mano, per un autore tedesco. Lui però non le aveva rinfacciato la sua ignoranza, né tanto meno l’aveva derisa. Si era limitato a sorriderle, anche quando aveva ammesso con candore di non avere una grande passione per i libri. Era paradossale come a lei, pur non piacendo la letteratura, risultassero affascinanti i ragazzi che sapevano appassionarsi ai romanzi.
 
Al rientro delle vacanze, se l’era inaspettatamente ritrovato in aula, lasciandola spizzata e confusa. In quell’ex studente dell’accademia militare, faticava a vedere il ragazzo garbato che aveva incontrato in biblioteca, quello tranquillo e a modo, che l’aveva quasi messa in soggezione con la sua compostezza. Kentin infatti se ne usciva talvolta con battute grossolane e volgari ma, Iris doveva riconoscerlo, in questo non aveva nulla di diverso dai ragazzi della loro età. Era lei che ne aveva idealizzato la personalità.
Il loro rapporto era proseguito secondo alti e bassi: in certe situazioni lo sentiva così vicino a sé, che il cuore le si riempiva di gioia, in altre riaffiorava la sua insofferenza verso un atteggiamento sbruffone e fin troppo diretto.
 
Quella notte però, osservandolo oltre la fiamma instabile del fuoco, mentre era anche lui perso nelle sue riflessioni, Iris finalmente arrivò alla conclusione che il suo cervello le aveva impedito di accettare: si era innamorata di un militare.
 
« Non sei una che si dimentica facilmente »
 
Quella dichiarazione che il ragazzo le aveva rivolto quel pomeriggio di gennaio le era tornata in mente più e più volte. Non aveva mai osato illudersi che ci fosse un significato romantico dietro quelle parole ma a fantasticare non avrebbe perso nulla. Se solo non fosse stata così sciocca da rovinare tutto con la sua scontrosità, con tutte le battutine acide con cui l’aveva freddato sin da quando si erano presentati.
Kentin era un bravo ragazzo, gentile e premuroso, lei un’immatura confusa o, come avrebbe detto Dakota, solo una ragazzina.
« Che dici? Torniamo dagli altri? Ha smesso di piovere »
Iris annuì, alzandosi in difficoltà. Le dispiaceva abbandonare il tepore e l’intimità di quel piccolo fuoco, ma l’idea di raggiungere il suo comodo letto era sufficiente a farle stringere i denti ancora per un po’.
« Sei sicuro che riesci a portarmi ancora sulla schiena? E’ tutta scottata, magari provo a saltellare su una gamba… »
« Non ti preoccupare » la tranquillizzò lui « tanto non siamo lontani… e poi non sento nulla »
Anche se lei lo fissava scarsamente convinta, il cadetto si rivestì e la caricò sulle spalle con sicurezza.
Ripresero a camminare nella radura, in silenzio, mentre la torcia del cellulare di Kentin continuava ad illuminare il percorso alla sua destra.
Passo dopo passo però, il percorso era sempre più accidentato e fangoso, a causa dell’abbondante pioggia che aveva investito l’isola fino a poco prima.
« Speriamo di tornarcene a casa tutti interi » ridacchiò nervosamente. In una situazione come quella, avrebbe voluto avere le mani libere per sondare l’ambiente e lo spazio attorno a sé, ma ne necessitava per tenere Iris. Alla sua sinistra il buio era quasi totale così, quando il suo piede calpestò una zolla poco stabile, non fu abbastanza rapido da correggere la posizione: sentì che la gamba sinistra non trovava appoggio, sbilanciandolo completamente ma, anziché atterrare sul terreno, avevano il vuoto.
Ruzzolarono giù per una scarpata, sentì l’urlo di Iris, sulla quale non esercitava più alcuna presa, poi qualcosa di duro colpirgli il cranio ed infine, il buio totale.
 
Dajan controllò l’ora, emettendo un sonoro sbadiglio. Kim si era addormentata sul divano accanto a lui, così come Trevor e Wes. Paula era stata l’unica a ritirarsi nella sua stanza, scusandosi con tutti per non aver atteso il ritorno di Iris e Kentin.
« Ragazzi, se voi volete andare a dormire, restiamo sveglie io e Rosa » sussurrò Erin, per non svegliare gli addormentati. La tisana che aveva preparato e che solo l’amica aveva accettato di assaggiare, era ormai finita ma nell’aria si percepiva un delicato aroma di anice e menta.
« Allora noi andiamo » convenne Dajan, svegliando delicatamente Kim e, con meno grazia, i compagni di squadra. Rosalya allora si voltò verso Nathaniel e Castiel, invitandoli a fare altrettanto ma i due proposero in alternativa di guardarsi un film, per ingannare l’attesa.
Nell’arco di cinque minuti, Kim era nella sua stanza, a dormire beatamente, mentre in salotto erano rimaste le due padrone di casa con il biondo e il rosso.
« Arriveranno a momenti » farfugliò Castiel, dopo che Erin aveva controllato il cellulare per l’ennesima volta.
Lei gli sorrise rincuorata. A volte sembrava leggerle nel pensiero o, più semplicemente, pareva prestare una scrupolosa attenzione ad ogni suo movimento, come se in quella stanza, fosse la persona più interessante da osservare.
 
Kentin sentì una sorta di fastidioso brusio, che si rivelò provenire dal cellulare. Alzò il capo, indolenzito, tastandosi dietro la nuca. Il dolore che avvertì istantaneamente gli fece dedurre la presenza di una forte botta ma ciononostante, accortosi del profilo familiare dei tre bungalow, si dimenticò subito della sua sofferenza. Scivolare in quella scarpata era stata una botta di fortuna, che aveva consentito loro di trovare una scorciatoia.
Loro.
Iris.
Si voltò di scatto, cercando il corpo della ragazza che trovò poco lontano dal suo, privo di sensi.
Quando la prese tra le braccia, Iris non rispose ma, da subito, il ragazzo notò una macchia scura e calda provenire dalla sua coscia destra e che le aveva macchiato i vestiti. Il panico iniziò a pervaderlo: soffriva un po’ di emofobia e la vista di tutto quel sangue metteva a dura prova la sua capacità di autocontrollo. Si caricò la ragazza tra le braccia e, cercando di non farsi dominare dal panico, corse verso i suoi amici.
 
« ERIN! ERIN! »
Appena la mora riconobbe quella voce, saltò giù dal divano e corse alla porta:
« KE- » stava per accogliere l’amico quando, la vista di Iris inerme tra le sue braccia la fece impallidire.
« Siamo caduti in una scarpata ed Iris ha perso i sensi » spiegò trafelato.
« M-ma sta bene? »
Anche gli altri tre erano accorsi e, appena vide Iris, Rosalya si portò una mano alla bocca, allarmata:
« E’ ferita » ansimò il cadetto « dobbiamo portarla in ospedale! »
Castiel aveva già il cellulare all’orecchio e, prima che potesse dare istruzioni agli amici, stava già parlando con un operatore sanitario. Spiegò sommariamente la situazione, fornendo quel tanto di informazioni che erano sufficienti per il ricovero della ragazza.
« Stanno inviando un’ambulanza » concluse infine, dopo aver chiuso la telefonata.
Kentin sembrò calmarsi, tirando un sospiro di sollievo, mentre Nathaniel lo aiutava a distendere Iris sul divano. In quel momento sentì tutta l’ansia e la stanchezza sciogliersi e fu costretto ad abbandonarsi pesantemente sulla poltrona.
Castiel chiese ad Erin di preparare un cambio per Iris, qualora fosse stata trattenuta per la notte quando la mora tornò in salotto con la borsa pronta, l’ambulanza era già arrivata.
Mentre i barellieri imbragavano Iris, il medico di turno chiedeva chi dei presenti sarebbe salito con loro in ambulanza:
« Va’ tu Erin » la esortò Castiel « io e Kentin ti raggiungiamo, prenderemo la linea notturna che parte tra poco »
In quei giorni avevano approfittato spesso del collegamento notturno di alcuni bus, sfruttati dai turisti per far baldoria fino all’alba.
La mora annuì, saltando sul veicolo, mentre il rosso consigliava a Rosalya e Nathaniel di restare a casa.
« Non ha senso che andiamo tutti e poi, se qualcuno di loro si svegliasse, potete sempre spiegargli la situazione. Restate svegli finchè non vi chiamiamo noi per dirvi se è tutto ok » li istruì il musicista.
« E chi dorme? » s’inviperì Rosalya.
 
Quando Kentin e Castiel si presentarono nel corridoio dell’ospedale, seguendo le indicazioni al telefono di Erin, la trovarono con il cellulare in mano, fuori da una porta gialla.
« C’è il dottore dentro, che la sta visitando »
« In ambulanza che ti hanno detto? » si affrettò a chiedere Kentin.
« Iris ha ripreso conoscenza così le hanno fatto dei test di cognizione e sembra che sia tutto ok. Non dovrebbe aver subito danni cerebrali »
« E il sangue? Ha una ferita profonda? »
Era più che altro quel taglio ad angosciarlo. Odiava la vista del sangue ma per Iris sarebbe stato disposto a farsi pure una trasfusione, se necessario. Prima che Erin rispondesse, un dottore uscì dalla stanza, brandendo in mano una cartella:
« Allora dottore? » domandò Erin.
« Non posso parlare di sua sorella davanti a questi ragazzi, a meno che non siano suoi parenti » spiegò il vecchietto, mentre Castiel e Kentin fissavano la mora incuriositi. Era necessario un bello sforzo di immaginazione nel credere che tra lei ed Iris ci fosse una qualche parentela di sangue. Tuttavia, per nulla intimorita, la mora rincarnò la dose:
« Non si preoccupi, lui è suo fratello » precisò, indicando Castiel « e lui il suo ragazzo »
Kentin arrossì, ma l’uomo non si scompose:
« Quand’è così, allora sappiate che non avete nulla di cui preoccuparvi »
« E la ferita? » incalzò Kentin, in preda all’ansia.
« Che ferita? »
Il cadetto sollevò gli occhi al cielo, frustrato dall’incompetenza del dottore. La sua ingenuità nel credere alle bugie di Erin gli avevano fatto sospettare che non fosse molto sveglio ma, dopo quella diagnosi apparentemente sommaria e grossolana, si stava pure rivelando un pessimo medico:
« Tutto quel sangue dottore da dove è uscito? » quasi lo aggredì, faticando a controllarsi.
« Dalla vagina, no? » esclamò l’altro, come se fosse la cosa più ovvia.
Kentin e Castiel deglutirono a disagio, diventando viola, mentre Erin sgranava gli occhi confusa:            
« Cioè le è arrivato il ciclo? » riepilogò.
Ricordò di quando Iris, lo scorso inverno, le aveva confessato che lo stress scaturito dalla lontananza di suo padre le aveva provocato un arresto del ciclo mestruale e, anche se Iris aveva cercato di non darlo a vedere, Erin aveva intuito quanto quella disfunzione la facesse soffrire.
« Esatto » confermò l’uomo « mi ha detto che era da oltre un anno che le si era bloccato. Probabilmente la causa è psicosomatica, ma credo che potrà aspettare di farsi visitare dalla sua ginecologa una volta rientrata nella vostra città. Mi rendo conto che la perdita di sangue è molto abbondante, ma forse è associata al lungo periodo di latenza del ciclo mestruale. Infatti la terremo in osservazione per la notte »
Erin annuì e quando il medico si allontanò, sentì il rosso scattare:
« MA QUANTO SEI IDIOTA, AFFLECK? Aveva il… sì insomma… le robe sue! » borbottò a disagio.
« MA CHE CAZZO NE POTEVO SAPERE! Ho visto sangue e la prima cosa che pensi è- »
« Ragazzi! Parlate piano! C’è gente che sta riposando! » sussurrò Erin « e comunque non è questo il momento per litigare. Io devo restare qui con Iris, voi andrete a prendere quello che serve »
« Ma come? Hai già con te la borsa, hai dimenticato qualcosa? » si sorprese Castiel.
« Sì, una cosa che non avrei mai pensato potesse servirle » sospirò felice la ragazza « comunque ho visto un minimarket appena fuori dall’ospedale, quindi potete andare lì »
« Ok » tagliò corto Kentin « allora, che ti serve? »
 
L’insegna al neon del minimarket ronzava in modo fastidioso. Erano fortunati ad avere non solo la loro destinazione a pochi passi dall’ospedale, ma pure che fosse aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. Castiel camminò dritto verso il distributore automatico di sigarette, per prelevare la sua dose giornaliera di nicotina. Mentre si chinava a recuperare il resto, borbottò verso Kentin:
« Entra, io ti aspetto qua fuori »
Lo vide sgranare gli occhi, per poi scattare nervosamente:
« Stai scherzando? Vieni dentro con me! Questa figura di merda non la faccio da solo! »
« Sei tu quello che va dietro a Iris » commentò placidamente l’altro, accendendosi una sigaretta.
« Non si abbandona così un compagno sul fronte » protestò afferrandogli il lembo della maglia per impedirgli di svignarsela.
Le porte automatiche del negozio si erano aperte in quel momento, lasciando uscire due ragazze leggermente alticce. Nel constatare la presenza di quei ragazzi così carini, ridacchiarono civettuole ma senza tentare alcun approccio. Castiel le guardò allontanarsi, gustandosi le curve della più bassa delle due, ma Kentin lo afferrò nuovamente per il bavero, costringendolo a prestargli attenzione:
« Tu Black vieni dentro con me » lo minacciò a denti stretti.
L’incapacità di sdrammatizzare dell’amico fece ridacchiare il rosso che, sollevando gli occhi al cielo, lo seguì all’interno del negozio.
A dispetto delle apparenze, il minimarket era piuttosto grande, al punto che dopo dieci minuti non erano ancora riusciti ad individuare l’articolo di cui avevano bisogno.
« Ma come diavolo fanno le donne a orientarsi dentro questi cosi? » protestò il cadetto, sostando disorientato davanti allo scaffale degli shampoo.
« E’ per questo che mettono sempre la birra e i preservativi vicino all’entrata. Sono le uniche cose che interessano agli uomini » commentò Castiel.
« E adesso dove cazzo li troviamo gli… »
Di fronte all’incapacità di pronunciare quella parola, persino il sorriso beffardo di Castiel era sparito. I due potevano parlare all’infinito dei dettagli su seni e sederi femminili, degenerando verso un gergo progressivamente sempre più volgare, ma quando si trattava di assorbenti intimi, avevano quasi timore e pudore a menzionare quell’accessorio tipicamente femminile.
« Chiedilo alla commessa laggiù » gli consigliò Castiel indicando con il mento una donna che stava passando tra gli scaffali. Quella proposta però non venne accolta di buon grado, bensì con un’occhiata truce:
« Perché non glielo chiedi tu, Castiella? Hai confidenza con queste cose da femmina »
« Che problemi ti fai, Barbie? »
Lo scaricabarile tra i due permise alla donna di allontanarsi, lasciando perdere le sue tracce. Fortunatamente, poco dopo riuscirono ad arrivare al reparto giusto, ma rimasero disorientati e spiazzati dalla varietà dell’assortimento: c’erano pacchetti d varie dimensioni e colori, marche sconosciute e inquietanti occhi stampati che li fissavano.
« E adesso quali prendiamo? » s’impanicò Kentin, guardandosi attorno circospetto.
« Dovresti essere tu l’esperta, Barbie »
« Sei tu la donna mestruata, Castiella »
Il rosso sospirò spazientito e sbottò:
« Ma prendiamone uno a caso » e, nella fretta di andarsene per sottrarsi a quella situazione, afferrò una confezione a caso dallo scaffale.
« Aspetta! »
« Che c’è? »
« C’è scritto.. con ali » titubò sconvolto.
« E allora? Hai paura che voli via? » brontolò il rosso.
« Fanculo, Black. Che cazzo vuol dire secondo te? »
Castiel girò il pacco grattandosi la testa.
« Saranno le alette qua di lato » ipotizzò.
« Sagace… »
« Quindi che vuoi fare? » gli chiese Castiel « la ragazza è la tua »
« Non è la mia ragazza! » protestò Ken arrossendo.
Castiel scrollò le spalle e, dopo aver riposto al suo posto il primo pacco, ne scelse uno piccolino.
« C’è scritto salva slip… e non hanno le ali. Andranno bene » commentò.
« E come mai la confezione è così piccola rispetto alle altre? »
« Ce ne saranno meno » ipotizzò Castiel
« Non direi, guarda c’è scritto 85 » lo contraddisse Kentin indicando la confezione.
« 85?! Ma quanti ne usano?! »
« C’è scritto pacco scorta » osservò l’amico.
Accantonata anche quell’opzione, l’attenzione di Castiel venne catturata dalla scritta TAMPAX:
« Bingo. Questi sono quelli che usava la mia ex. Non possiamo sbagliare »
Era la prima volta da molto tempo che alludeva a Debrah. Gli sembrò quasi strana la naturalezza con cui era uscito quel riferimento. Ormai lei era un capitolo chiuso, l’unica a essere convinta del contrario era Erin. Porse il pacco a Kentin che lo ispezionò. Guardando l’immagine dell’assorbente interno, il ragazzo obiettò:
« Ma sei sicuro? Non è una specie di mini sexy toy? » disse indicando la forma vagamente fallica dell’assorbente.
Castiel si sporse a guardare e commentò seccato:
« E che cazzo ne so? Questo è il pacco che vedevo a casa mia quando Debrah dormiva da me. Non mi sono mai messo a guardare cosa contenesse »
« Non mi fido » mormorò Kentin, leggendo scrupolosamente le istruzioni  « sembra complicato da usare »
« Cosa vuoi che ci voglia ad infilare un cosetto del genere nella patata? » sbottò Castiel a voce troppo alta « se lo sai fare tu che sei un uomo… »
Kentin sbuffò arrossendo ma incapace di replicare, così il rosso, cogliendo il disagio dell’amico, ghignò beffardo:
« Allora sei proprio un verginello. Mai stato prima con una donna… » si beffò di lui.
« Ha parlato il gigolò » malignò Kentin appoggiando sullo scaffale l’ultima proposta del rosso.
« Allora che facciamo? Saremo qua da cinque minuti solo perché stai facendo la difficile, Barbie » replicò Castiel esasperato. Il moro scelse un altro pacco color blu con disegnate delle stelline e glielo mostrò al rosso, confuso:
« Perché c’è scritto per la notte? »
Anche se era lampante che il musicista fosse ferrato quanto lui sull’argomento, continuava a cercare in Castiel delle risposte che lui non riusciva a dare, per lo meno non con serietà:
« Forse si illumina al buio » borbottò il rosso.
« Stai parlando seriamente? »
« No, era sarcasmo… idiota »
« Beh, lasciamo perdere anche questo » commentò Kentin riponendo sullo scaffale anche l’ultimo pacco. Voltando il retro del pacchetto successivo, Castiel ebbe un’illuminazione:
« Guarda un po’: questi cosi hanno un diverso potere assorbente »
« Che paroloni, sembri la tizia che li pubblicizza in TV » lo schernì l’amico  « comunque fa vedere… ah ok… quindi cinque gocce è il massimo dell’assorbimento »
« Così pare »
« Con tutto il sangue che ha perso Iris, dovremo per forza optare per questi »
Kentin trovò subito il pacco che faceva al caso loro ma Castiel lo distolse indicandone un altro.
« Secondo me dovremo prendere questo »
« Non ti sembra un po’ troppo grande? »
« Meglio un po’ più grande che piccolo »
 
Le ciglia tremarono leggermente, le sopracciglia si aggrottarono per poi tendersi verso l’alto. La vista le palesò un soffitto chiaro, con un’anonima luce al neon che non aveva nulla di familiare:
« Ti sei svegliata, finalmente »
Il sorriso della sua amica Erin invece, era quanto di più caloroso e accogliente potesse posarsi il suo sguardo. L’ambiente era asettico, come quello di un ospedale. E fu allora che Iris realizzò che era esattamente quello il luogo in cui si trovava.
Tentò di mettersi seduta, appoggiando la schiena contro lo schienale del letto, ma avvertì un fastidioso dolore nel basso ventre.
« Siamo in ospedale? »
« Sì. Eri svenuta e ti abbiamo portato qui »
La foresta.
Dake.
La pioggia.
La caviglia slogata.
Kentin.
« Kentin? » esclamò, appena il viso del ragazzo apparve in quella successione temporale di immagini mentali.
La mora ridacchiò intenerita:
« Sono venti minuti che continui a mormorare il suo nome nel sonno. Lui sta bene, figurati, ha la pellaccia dura »
« Dov’è? » insistette Iris, ignorando l’ultima dichiarazione dell’amica.
« L’ho mandato in missione speciale con Castiel » replicò sibillina, sedendosi sul letto.
Iris era ancora troppo frastornata per iniziare a conversare a ritmo serrato, come erano solite fare, così la mora cercò di riepilogarle la situazione, partendo dalla notizia più importante:
« Il medico ha detto che ti è tornato il ciclo, Iris »
A quella notizia, vide le mani della rossa stringere quasi con disperazione il lenzuolo.
Il labbro inferiore tremò, mentre gli occhi si velarono di lacrime:
« Sul serio? » deglutì, senza guardarla.
Erin annuì, sorridendole dolcemente e l’abbracciò non appena vide un paio di lacrime rigarle le guance arrossate.
Quel dolore che aveva avvertito al suo risveglio si era così tramutato nella splendida dimostrazione che era finalmente tornato tutto alla normalità.
 
In ascensore Castiel si appoggiò svogliatamente contro la parete. Il sonno lo stava uccidendo, voleva solo chiudere gli occhi e riposarsi.
« Grazie, Black »
Il suo udito si assottigliò, destandosi verso il cadetto. Kentin teneva lo sguardo dritto davanti a sé, anche se non aveva nulla da fissare che non fossero le porte automatiche.
« Quando Dakota ci ha detto di Iris, siamo andati tutti nel panico, sei stato l’unico a mantenere la calma e prendere in mano la situazione »
« Non è stato niente di che » minimizzò il rosso, mentre abbandonavano dall’ascensore. Kentin uscì per primo, ma aspettò che l’amico si portasse al suo fianco per proseguire.
« E comunque » continuò Castiel « se al posto di Iris ci fosse stata Erin, avrei reagito come te »
Kentin sorrise leggermente, mentre entravano in reparto.
La porta della stanza di Iris era chiusa ma di Erin nessuna traccia.
Mentre il rosso era impegnato a scriverle un messaggio, un’infermiera in carne attraversò il corridoio. Fissò i due ragazzi con tenerezza e li informò:
« Ci vorranno altri cinque minuti e poi potrete entrare »
Kentin ringraziò con un sorriso mentre la donna incalzava:
« Allora, chi di voi due è il padre? »
« Il padre di Iris? » domandò Kentin perplesso. Né lui né tantomeno il rosso potevano passare per i genitori di un’adolescente, ma l’infermiera proseguì imperterrita:
« Ah, è così che si chiama la bambina? » sussurrò con dolcezza.
« Bambina? Mi sembra un po’ cresciutella la ragazza… » commentò Castiel perplesso.
« Ma se è nata un’ora fa » ridacchiò la donna, sbellicandosi dal ridere. Dovette poi trattenersi, per non svegliare i pazienti.
I due si guardarono dapprima confusi, poi Castiel, evidentemente irritato, chiese con voce metallica:
« Mi scusi… che piano è questo? »
« Il quarto, reparto maternità… »
Li guardò allontanarsi mentre il ragazzo con i capelli rossi insultava l’amico moro e brontolava:
« Ma che cazzo di pulsante hai premuto nell’ascensore? »
 
Quando finalmente i due giunsero nella stanza giusta, trovarono Iris sorridente, Erin un po’ meno:
« Si può sapere che fine avevate fatto? »
« Parla con Affleck » borbottò Castiel, poggiando il sacchetto della spesa su un tavolino. Iris era l’unica paziente della stanza e ciò conferiva ai presenti la libertà di conversare apertamente.
« Come stai, Kentin? »
Quella domanda era sorta dalla rossa e non appena il ragazzo ne aveva udito la voce, le orecchie gli erano diventate porpora:
« T-tutto intero »
Lei sorrise mentre Erin osservava il contenuto del sacchetto. Tirò fuori quella confezione sospettosamente grande e, dopo averne valutato il contenuto, sbottò:
« Ma cosa avete preso? »
« Non vanno bene? » sbadigliò Castiel, ficcandosi le mani in tasca.
« Questi sono i pannoloni che usano gli anziani con problemi di incontinenza! »
« Ahh » replicarono semplicemente in coro i due ragazzi.
« C’è pure scritto, come avete fatto a sbagliarvi? »
« Senti, non rompere le palle. Quei cosi che usate voi noi non li usiamo » scattò sulla difensiva Castiel.
Erin lo fissò perplessa poi ghignando, commentò:
« Cosi? Hai paura di usare la parola assorbenti? Comunque, ho scoperto che bastava chiederli qui in ospedale, così nel frattempo ce ne hanno procurati un paio »
« Cosa? E tu ci hai mandato a comprarli per niente? » s’irritò il musicista.
Il loro dialogo però venne interrotto dall’arrivo del dottore, lo stesso che aveva visitato Iris mezz’ora prima.
« Signori, sapete che non è orario di visite quindi devo chiedervi di lasciar riposare la paziente. Solo uno di voi può restare qui stanotte con lei, se volete »
Erin stava per offrirsi quando Castiel la anticipò:
« Che ne dici Iris se rimane Affleck? Erin sta crollando dal sonno »
La mora aveva già aperto bocca per protestare, quando Iris la zittì:
« Non serve che resti uno di voi ragazzi. Sto bene. Ci vediamo direttamente domani quando mi dimettono… e comunque è vero, tu Erin hai gli occhi stanchi »
« Ma- »
« Rimango io » tagliò corto Kentin, sedendosi sulla poltrona nell’angolo « tanto non ho sonno »
Iris arrossì, mentre il dottore commentava:
« Allora a parte il suo ragazzo, devo chiederle di salutare i suoi fratelli »
La perplessità di Iris era talmente evidente che presto sarebbe sfociata in una scontata domanda. L’amica allora si affrettò ad abbracciarla, prima che il dottore scoprisse di essere stato preso in giro.
« Buona notte sorellina e non preoccuparti, racconto io tutto a mamma »
« Fa’ la brava » aggiunse Castiel.
Iris guardò le spalle dei suoi amici allontanarsi, mentre il dottore chiudeva la porta. Era confusa ma il fatto di essere rimasta da sola in quella stanza con il moro, faceva passare in secondo piano ogni altro avvenimento.
 
« Almeno adesso ho capito perché Iris era così strana in questi giorni. Avrà avuto gli ormoni in subbuglio »
« A me sembrava la solita » la contraddisse Castiel.
Erano diretti alla fermata del bus, distante un paio di chilometri dall’ospedale. Avevano avvertito Rosalya e Nathaniel di andare a dormire e, senza tanti giri di parole, Castiel aveva intuito che quella sera sarebbe stato privato nel suo posto letto. La coppia intendeva sfruttare di quell’ultima sera per stare un po’ da soli, così il ragazzo si era visto costretto a chiedere ospitalità ad Erin.
« Come ai vecchi tempi » canticchiò lei « quando sono venuta a casa tua per lasciare l’appartamento libero a mia zia e Jason. Finalmente posso restituirti il favore »
« Sembra passato un secolo » farfugliò Castiel, sollevando lo sguardo al cielo.
« Già » sospirò lei felice.
Rimasero per un po’ in silenzio, poi lei esclamò:
« E guardaci ora! Ne sono cambiate di cose negli ultimi due mesi! Tu e Nathaniel vi siete riappacificati, lui si è messo con Rosalya mentre tu hai trovato un lavoro come compositore. Rosa sta avviando un’attività come stilista, mentre Nath è in California… e siamo solo dei liceali! »
« Praticamente la nullafacente sei tu » la punzecchiò Castiel, facendola indispettire.
« Oh, scusa tanto se non sono un super talento come voi » borbottò.
Lui ridacchiò beffardo e sussurrò:
« Anche tu hai qualcosa di speciale, Erin… » e proprio quando gli occhi della ragazza iniziarono a brillare, colmi di aspettativa, lui precisò « …anche se non ho la minima idea di cosa si tratti »
« Ma vaffanculo, Cas! » s’imbronciò lei, accelerando il passo.
Lui alzò gli occhi al cielo, affrettandosi a raggiungerla.
« Che permalosa »
« Sei tu che sei infantile » lo rimbeccò risentita.
« Beh, almeno io non me ne vado in giro con un panda sul sedere »
Aveva pronunciato quella battuta con leggerezza, pentendosi non appena aveva realizzato di essersi compromesso da solo. Erin infatti dapprima lo fissò senza capire, poi ricordò il simpatico animaletto stampato sul retro delle sue mutandine.
« Ma allora il sedere me lo hai visto eccome! » esclamò avvampando.
A sua volta pure il viso di Castiel si imporporò ma nel tentativo di rivoltare la situazione a suo vantaggio, finì solo per renderla ancora più imbarazzante:
« Se è per questo, tu mi hai visto pure il pacco! »
« Come se fosse dipeso da me! Chi è che se ne andava in giro mezzo nudo a Dicembre? »
« Non l’avrei fatto se qualcuno qui non avesse ancora qualche dubbio su come nascono i cuccioli! »
Erin gonfiò le guance, ricordando che era per colpa dell’equivoco con Demon che Castiel si era precipitato fuori in giardino, ancora grondante dalla doccia.
Si zittì, per sbollire l’agitazione e sperare che il rossore che probabilmente le aveva incendiato il viso, si attenuasse. Quello tra di loro non era stato un vero e proprio bisticcio, ci voleva ben altro per farla arrabbiare seriamente. Inoltre, anche se il suo senso del pudore e orgoglio femminile la frenavano dall’ammetterlo a sé stessa, la lusingava sapere che anche Castiel avesse dato una sbirciatina al suo posteriore e la divertì il fatto che avesse finto il contrario.
Continuarono a camminare in silenzio finchè, dopo parecchi minuti di mutismo, Erin si lagnò:
« Ma quanto abbiamo ancora di strada? ».
« Cosa dovrei fare? Caricarti in spalla? »
« Lo faresti? » scherzò lei, con occhi supplicanti.
“Sempre” pensò.
« Assolutamente no » dichiarò risoluto.
Lei sbuffò gonfiando le gote e si portò le mani dietro la schiena. Le strade erano silenziose e deserte ma ben illuminate. Con il giubbetto che si era procurata, il clima notturno risultava piacevole, anche se mai quanto la compagnia:
« Ti ricordi l’ultima volta che siamo tornati a casa insieme con il buio? »
Quel ricordo era nitidamente impresso nella mente di Erin. risaliva alla prima settimana in cui era arrivata a Morristown. Era un venerdì e lei si era addormentata al liceo, casualità che le aveva fatto scoprire la band di Castiel e Lysandre.
Erano passati più di quattro mesi da allora, eppure anche per il rosso ogni dettaglio di quella sera era indelebile.  
« No, non mi ricordo » mentì ma lei non si fece ingannare.
Ne aveva sondato l’espressione, mentre rispondeva alla sua domanda ed era lampante che cercasse solo un altro pretesto per indispettirla.
« Come no. Sono convinta del contrario »
Calò nuovamente il silenzio e questa volta Erin non si preoccupò di interromperlo. Lasciò che, come lei, anche Castiel ripensasse a quella sera perché, ne era convinta, era esattamente su quell’episodio che si stavano concentrando i suoi pensieri.
Lui avrebbe voluto accendersi una sigaretta ma, dopo la sua discussione avuta con l’amica circa la sua abitudine al fumo, si tratteneva dal fumare davanti a lei.
Incrociarono la fermata del bus e, controllando l’orario, scoprirono che di lì a dieci minuti sarebbe passato il servizio notturno. Si sedettero sulla panchina, a fissare l’orologio sopra le loro teste.
Le 4.09.
Non c’era modo da osservare nei paraggi, fatta eccezione per qualche pianta tropicale che adornava i marciapiedi e le architetture vagamente arabeggianti di un edificio davanti a loro.
Castiel non ci mise molto a notare che Erin si era ammutolita totalmente e quando si voltò a guardarla, si accorse che aveva gli occhi chiusi:
« Svegliati. Tra un po’ arriva il bus » borbottò, temendo che si addormentasse.
« Non svegliarmi » borbottò lei, tenendo le palpebre ostinatamente serrate.
Castiel affossò le mani nelle tasche, lasciando scivolare la schiena lungo lo schienale della panchina e accavallò i piedi l’uno sull’altro.
Il suo orecchio si drizzò quando per una frazione di secondo sentì una melodia, seguita poi da una voce che amava particolarmente:
« ♪Don't wake me/ 'Cause I never seem to stay asleep enough ♫ »
Fu inevitabile a quel punto che il rosso tornasse a fissarla.
Erin canticchiava ad occhi chiusi, come la prima volta che l’aveva sentita ma, in quella notte alle Bahamas non c’era alcuna tristezza sul suo viso. Sorrideva divertita, immaginando la reazione dell’amico accanto a sé.
Castiel adorava quel timbro. Ne era rimasto affascinato la prima volta e, ora che lo riascoltava a distanza di mesi, la sua sensibilità musicale ne uscì ancora più colpita.
Don’t wake me degli Skillet.
Irrazionalmente, sentì il battito accelerargli, mentre ascoltava quella voce melodiosa che sui suoi nervi era quasi una tortura.
Strinse i pugni, per soffocare il desiderio pulsante di baciarla, saltarle addosso e fare l’amore con lei su quella squallida panchina.
Erin era così.
Irresistibilmente dolce, favolosamente unica.
Gli regalava dei sorrisi che lo facevano sentire fortunato e delle emozioni che a stento riusciva ad arginare. Lei era l’unica che poteva fargli incredibilmente male nel tentativo di farlo stare meglio. Perché ogni contatto ravvicinato, ogni tocco con cui sfiorava la sua pelle lo proiettava per un attimo in una dimensione di felicità destinata a sgretolarsi verso la consapevolezza che tutto ciò non gli sarebbe mai appartenuto.
Lei era talmente perfetta per lui, che era frustrante riconoscere quanto lui fosse sbagliato per lei. Meritava decisamente un ragazzo migliore di lui, meno irascibile e impulsivo, più garbato e comprensivo. Lui non la meritava nella maniera più assoluta.
Nonostante questa consapevolezza però, Castiel sapeva che se anche quell’uomo perfetto fosse esistito, non avrebbe mai desiderato che lui ed Erin si incontrassero.
Nessuno, per quanto ideale, sarebbe stato abbastanza per una come lei.
Erin era il regalo che gli aveva fatto la vita in uno dei periodi più cinici della sua esistenza e non se lo sarebbe lasciato strappare dalle mani facilmente.
Nessuna ragazza riusciva a guardarlo come faceva lei, come se in lui ci fosse qualcosa di speciale, per cui valesse la pena tenere in piedi quel rapporto, anche se si trattava solo di una casta amicizia.
« ♪When it's you I'm dreaming of / I don't wanna wake up ♫ »
Erin aveva smesso di canticchiare, poichè quell’ultima strofa era stato l’amico ad intonarla.
Fu talmente sorpresa che squittì allegra:
« Finalmente ti sento cantare, Cas! »
« Non sto cantando » s’interruppe bruscamente l’amico « sto mugolando »
Lei fece allora il verso di una mucca per prenderlo in giro e, stranamente, riuscì pure a farlo divertire.
« Sei di buon umore stanotte » considerò, con gli occhi che le brillavano gioiosi. Adorava vederlo così, specie perché era uno spettacolo alquanto raro.
 
Dopo che i due amici avevano abbandonato la stanza, Kentin era un fascio di nervi. Non aveva mentito quando aveva sostenuto di non avere sonno: la schiena gli bruciava e, soprattutto, gli avvenimenti delle ultime ore lo avevano destato.
« Grazie per tutto, Ken » mormorò Iris d’un tratto.
« Figurati » farfugliò lui.
Lei sorrise dolcemente, mentre lui la fissava arrossendo. Aveva i capelli sciolti, abbandonati lungo la spalla destra e le mani conserte. Iris era davvero molto bella, quella sera per la prima l’aveva vista senza treccia e se fosse stato un po’ più spavaldo e sicuro di sé, avrebbe davvero voluto dirglielo.
Ai suoi occhi infatti, non importava della stanchezza del suo viso o dei capelli privi di volume a causa della pioggia. Lei era meravigliosa, e lui troppo timido per approfittare di quell’occasione per farsi avanti.
La rossa tornò a stendere la schiena contro la pila di cuscini e fissò il soffitto:
« Mi sono comportata da stupida e ho finito per mettere in pericolo anche te. Se ti fosse successo qualcosa non me lo sarei mai perdonato » si recriminò.
Lui fece spallucce e la tranquillizzò:
« Ci vuole ben altro per mettere a tappeto un militare »
Lei girò la testa di lato, sorridendo:
« Già… non siete poi così male voi dell’esercito » commentò tra sé e sé.
« E’ per questo che non mi sopportavi? »
Quella domanda la colse in contropiede, tanto era stata esplicita. Si mise seduta, fissandolo sconvolta e in difficoltà:
« N-no, non è vero… cioè… »
« Dai, Iris » la incoraggiò lui, cercando di apparire conciliante « ammettilo che non ti andavo proprio a genio »
« Ok, ma non era colpa tua. E’ che, per via del lavoro di mio padre, non avevo una bella considerazione degli ufficiali »
« Se non ricordo male tuo padre lavora al centro di addestramento di Allentown, giusto? »
Lei annuì:
« E’ sempre una persona molto chiusa, che non lascia trapelare alcuna emozione, nemmeno una carezza di affetto verso i suoi figli o sua moglie »
« Non tutti sono così… » osservò Kentin, il cui padre però, il sergente Affleck, era dello stesso stampo del padre di Iris.
« No, a quanto pare no » sorrise lei « però riconosci che talvolta siete un po’ buzzurri »
« Non è che i civili siano tutti dei lord. Prendi Castiel! »
Iris sorrise a sua volta, arrendevole, e lo stuzzicò:
« Sbaglio, o andate sempre più d’accordo voi due? »
« Sbagli » asserì categorico il moro ma, cambiando radicalmente espressione, rettificò « eppure è quanto di più simile ad un amico che abbia mai avuto »
 
Iris venne rimessa dall’ospedale il giorno successivo, poche ore prima della partenza.
Il medico le aveva consigliato una visita ginecologica al suo rientro, ma l’aveva rassicurata sulla stabilità delle sue condizioni.
Quando arrivò al bungalow, trovò la valigia già pronta e, assieme alle sue amiche, salutò quell’abitazione che le aveva ospitate in quell’incredibile settimana. Avrebbe portato con sé ricordi dolci e amari di quell’esperienza e tra gli ultimi vi era quel ragazzo biondo che la stava aspettando in veranda.
 
Dake sostò sul gradino, finchè non sentì i passi di Iris giungere alle sue spalle. Si voltò, ma non osava guardarla in faccia e pure l’imbarazzo della ragazza era evidente.
Doveva scusarsi poiché non vi era altro che potesse fare. Il senso di colpa era stato opprimente quella notte:
« Mi dispiace, Iris. Mi sono comportato da stronzo »
Lei non si mosse, tenendo lo sguardo perso davanti a sé.
« Non hai i bagagli » osservò, cambiando discorso.
« Rimango qui per un po’. Mi ospita un mio amico, così potrò partecipare alla gara di surf »
Lei annuì laconica, perdendosi a guardare il mare in lontananza.
Non c’era più nulla della spensierata ingenuità che aveva imparato ad ammirare in quel volto di porcellana.
« Comunque Iris… tu mi piaci davvero » le disse, allontanandosi.
Aveva capito che non l’avrebbe perdonato e, soprattutto, amato.
Tanto valeva abbandonare il campo di battaglia il prima possibile, per non rendere ancora più penosa la sconfitta.
Eppure sentì una mano sfiorare la sua, seguita da un sussurro:
« Dake, aspetta… »
Lui si voltò, potendo finalmente posare i suoi occhi su quelli di lei.
«Non ce l’ho con te. Davvero. Accetto le tue scuse e mi dispiace se ti ho solo illuso. Sei un buon amico, ma nient’altro »
« Allora ci salutiamo qui » concluse il biondo, scostandosi da quel contatto.
A quel punto si convinse che avrebbe preferito non sentire quelle parole.
Gli facevano più male di quanto avesse mai immaginato.
Ormai aveva salutato tutti, tra il disagio e l’imbarazzo generale.
Non aveva più motivo per restare.
Raccolse la valigia e si avviò, convinto che quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbe visto Iris.
 
In aereo, venne rispettata l’assegnazione di posti, che fece sì che Castiel e Kentin si trovassero l’uno accanto all’altro:
« Finchè morte non ci separi » masticò sarcastico il rosso, appena se lo trovò vicino.
« Pensa che tristezza se quest’aereo si schiantasse e il tuo brutto muso fosse l’ultima cosa che vedo prima di lasciare questo mondo » reagì il cadetto.
« Magari piena di sangue e ferite » puntualizzò Castiel e Kentin stette al gioco:
« Senza un occhio e con la mascella slogata »
« Dateci un taglio! Che schifo! »
Da sopra le loro teste, arrivò una violenta sberla di Rosalya, che riprendeva i due:
« Fate dei discorsi da idioti »
« Perché non hai sentito quello sulle scorregge dell’altra notte » commentò Castiel.
« Ci ha tenuti svegli per un’ora » ricordò il cadetto con nostalgia.
« Che discorso? » s’intromise Erin, facendo capolino accanto a Rosalya, sopra le teste dei ragazzi.
« Cip! Non ti ci mettere pure tu! »
« Chiedilo a Nathaniel » rispose Castiel « è stato lui ad iniziarlo »
La stilista arricciò le labbra, lanciando un’occhiataccia al suo ragazzo seduto poco lontano, accanto a Steve. Paula sonnecchiava sulla spalla del suo ragazzo, mentre davanti a loro, Kim e Dajan erano intenti a sfogliare una rivista sportiva. Da quando si erano riuniti tutti per un ultimo saluto ai bungalow che li avevano ospitati, la coppia era stata stranamente taciturna, ma non la smetteva di scambiarsi sorrisi complici. Wes e Trevor, fortunatamente, erano crollati dal sonno, così come Iris, seduta accanto ad Erin.
Passò l’hostess, che invitò le due ragazze a rimanere composte.
L’aereo sarebbe decollato di lì a pochi minuti.
Questa volta non c’era più Castiel accanto a lei, ma Erin si sentiva tranquilla, era passato il panico della prima volta.
Chiuse gli occhi, mentre una serie di immagini iniziarono a sfilare nella sua mente, frammenti di quell’ultima indimenticabile settimana: il mancato bacio con Castiel in aereo, la prima volta che aveva visto quell’acqua cristallina, le serate in compagnia, l’immersione con gli squali, la sparizione di Iris e la camminata notturna con Castiel.
Riaprì gli occhi quando l’aereo si era ormai staccato dal suolo, giusto il tempo di intravedere il profilo di quell’arcipelago dove lei, come il resto dei suoi amici, aveva lasciato una parte di sé, una parte della sua adolescenza da ricordare per sempre con tenerezza e affetto.
 
 


 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Buonasera! Dunque, premetto che mi sono pentita di aver fatto la spavalda, promettendo un sacco di aggiornamenti per Natale xD  Spero di farcela! Almeno con il capitolo e una delle due OS (la più corta xD)
 
Veniamo ora al capitolo. Puff, quanta carne al fuoco :3
 
Con questo capitolo mi sono un po’ (moolto!) lasciata andare al fluff, visto che nei prossimi tornerò al vecchio equilibrio tra scene romantiche e trama più corposa. Anche per questo è stato abbastanza veloce scriverlo, considerate inoltre la sovrabbondanza di dialoghi -.-‘’. Sarà per questo che dal punto di vista di come è scritto, non lo trovo niente di che, ma per una che si è astenuta dalla scrittura per mesi, è stato un buon esercizio u.u
 
So che il dialogo iniziale tra Iris e Kim può sembrare un po’ strano, perché in tutta IHS non c’è mai stata una vera e propria complicità tra le due (come c’è invece con Erin), ma ho sempre immaginato che prima dell’arrivo della mora, Iris fosse l’unica tra le compagne di classe con cui la velocista andasse d’accordo. E’ per questo che ancora nel lontano capitolo 5 avevo scritto questo pezzo:
“Aveva quasi finito il pranzo, quando un’ombra le si parò davanti, oscurandole il debole sole autunnale:
“Castiel vuole vederti” annunciò Kim con fare minatorio.
Violet sussultò mentre Iris squadrò Kim.
“e perché?” chiese Erin ricambiando l’ostilità con cui le si era rivolta la compagna di classe.
“e che ne so! E’ in cortile comunque… Io te l’ho detto, tu fa come ti pare” e detto questo si allontanò con la stessa rapidità con cui si era presentata.
“uff, Kim non imparerà mai” borbottò Iris imbronciata.
“a che ti riferisci?”
“ad essere più garbata con gli altri. Ti assicuro che dietro quell’aria arrogante, c’è una persona sensibile e premurosa” le spiegò Iris.
“parliamo un’altra volta della doppia identità di Kim che dici?” tagliò corto Erin nervosamente.”
Inoltre, volevo puntualizzare il senso di confusione provato da Iris nel realizzare che anche un tipo come Kim, assolutamente poco romantica e femminile, si riscopra completamente diversa e trasformata a causa dei sentimenti che prova per Dajan. A tal proposito, il fatto che proprio una come Kim abbia avuto la sua prima volta a distanza di appena due settimane da quando si è messa con il ragazzo, è una dimostrazione di quanto lei gli sia legata, al punto da vincere le sue paure. Comunque ogni coppia di IHS è una realtà a sé, quindi non è detto che anche le altre saranno così rapide nell’andare al sodo xD
 
In questo capitolo, come avete visto, mi sono focalizzata solo ed esclusivamente sul viaggio alle Bahamas, perché ci tenevo a concludere questo viaggio per poi tornare alla cara vecchia Morristown, dove ho lasciato personaggi che amo particolarmente (Ambra, I miss you!). Tuttavia, per bocca di Castiel, Sophia ha avuto una particina in questo capitolo, in cui veniamo a conoscenza del suo venir meno alle visite di controllo. Che sarà successo?
 
Veniamo ora a Castiel e Nathaniel. Si è creata una nuova crepa nel loro rapporto, motivata dal fatto che il biondo si sia schierato dalla parte di Sophia. Parallelamente all’instabilità dell’amicizia dei due, in questo capitolo ho voluto rafforzare ulteriormente il rapporto tra Castiel e Kentin, che non so voi, ma a me insieme piacciucchiano u.u
 
Parlando di Kentin, il vero sblocco del capitolo è stata la risoluzione del triangolo, con Dake fuori dai giochi, per la gioia di chi ci sperava e la delusione di chi sperava nell’opposto (I’m sorry T_T)… adesso non rimane che aspettare che uno dei due facciano il grande passo (e che io decida come avvenga, perché è una cosa che non ho ancora stabilito xD)
 
Con la scena degli assorbenti… beh, ci credete che è scritta da più di un anno? Precisamente ricordo di averla buttata giù mentre stavo studiando patologia umana xD Era luglio 2014, mi pare… e sorvolo sul come sia nata l’idea. Ciò che mi preme è avervi strappato un sorriso, perché è una delle mie scene comiche preferite in tutta la storia ;)
 
Ah, cosa importantissima: chiedo scusa a tutte le autrici di storie che seguivo mesi fa per essere sparita T_T Pian piano sto cercando di recuperare con le recensioni, ma visto che mi sono messa freneticamente a scrivere la mia storia, le recensioni ne stanno facendo le spese…. Prometto però che arriverò!
 
Ultima cosa: volevo ringraziare tutte le ragazze che finora hanno postato le domande al sondaggio che ho proposto nel precedente capitolo ^^ Sto valutando se tenerlo aperto oltre Natale, così da dare più tempo… intanto, se volete darci un’occhiata, lo trovate qui.
 
https://docs.google.com/forms/d/1KiL7MJR34pzukgyxERtJ9YXKPgUj7xaE_uppIhHVqxA/viewform
 
E’ tutto, temo di aver parlato anche troppo.
 
Grazie per aver letto :)
 
Alla prossima!
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 55
*** Hailey ***


55.
HAILEY


 
 
Gli umani sono creature alquanto bizzarre.
Emettono con una miriade di versi articolati ma piatti e per quanto tempo dedichino alla comunicazione, non riescono mai a capirsi fino in fondo. Un momento sono felici, quello immediatamente successivo, tristi. E’ affascinante osservali, anche se proprio non li comprendo.
Solo un umano non ha mai avuto segreti per me, ma questo perché il miglior padrone che si possa desiderare. Se fosse nato lupo, sarebbe un capobranco, mi ci gioco la coda che è così.
C’è sempre stato, sin da quando ero un cucciolo impaurito e da allora, non mi ha mai trascurato né tanto meno fatto del male. Mi capisce al volo, quasi parlasse la mia lingua ed io vorrei esprimermi nella sua per manifestargli quanto gli voglio bene. Ma lui è sveglio, lo capisce comunque. Sembra però che tra i suoi simili non sia altrettanto perspicace, perché è spesso confuso e nervoso.
Come l’anno scorso, quando quell’orrida ragazza tatuata veniva qui. E pensare che le facevo pure festa! Non avevo alternative, visto quanto riusciva a mettere di buon umore Castiel. Solo che poi sparì e lui da allora non fu più la stessa persona. Non ascoltava più la musica a tutto volume per la casa, cantando a squarciagola mentre io lo assistevo con i miei ululati.
Che concerti da paura.
Che bei tempi.
No, si era chiuso in se stesso, nemmeno Nathaniel veniva più a trovarci e lui sì che era un ragazzo in gamba, woff, mi portava sempre qualche crocchetta di nascosto. Non si era arrabbiato nemmeno quella volta che misi sottosopra il suo zaino nella speranza di trovare dove le nascondesse.
Dopo la scomparsa di Debrah, veniva da noi solo quel ragazzo strambo che puzzava di lavanda, con i capelli bianchi e che mi accarezzava a malapena. Non era cattivo, anzi, in sua compagnia Castiel tornava persino sereno, ma non aveva più quell’aria scanzonata di un tempo.
Poi inizia ad avvertire dei piccoli cambiamenti, della cui esistenza ebbi conferma in un giorno in particolare: era un pomeriggio di Ottobre; stavo sonnecchiando beatamente nella cuccia, quando riconobbi la voce del mio amico. Quest’ultima aveva un che di diverso da solito, una leggera differenza nell’intonazione, come se fosse più morbida ma, ne ero sicuro, era presente anche una punta di nervosismo:
« Ci sono quattro unità immobiliari » stava spiegando « il mio è questo »
Appena intercettai del movimento tra le fronde, scattai guardingo per poi abbaiare furiosamente nel tentativo di allontanare l’intruso: una sgradita femmina umana aveva appena allungato il collo nella mia proprietà. Lei si schiantò addosso a Castiel che, in quell’attimo, si irrigidì come il palo che marco sempre quando usciamo a fare due passi.
Percependo la tensione del mio padrone, ne ebbi la conferma: il nemico andava allontanato a tutti i costi. Quella sciocca continuava ad urlare spaventata e la sua paura non faceva altro che aizzarmi. Solo quando si separò dal mio migliore amico, notai uno strano sorriso sulle sue labbra, una smorfia che non gli vedevo da tempo… un sorriso che regalava solo a Debrah.
L’intrusa aveva un nome, anche piuttosto brutto: Erin.
La cosa peggiore era che non ci fosse verso di cacciarla o sbranarla, nonostante i miei appostamenti e tentativi. Una volta arrivò addirittura a salire in groppa a Nathaniel… furba questa donna! In effetti mi sono convinto che le femmine umane siano molto più scaltre della controparte maschile, visto che è da quando sono piccolo che assisto impotente ai comportamenti incoscienti di Castiel. Come quella volta che, insieme a Nathaniel, provò a scendere con lo slittino dal tetto innevato della vecchia casa. I due avevano sistemato un cumulo enorme di neve soffice sul punto di atterraggio, situato a cinque metri dal suolo. Tuttavia fecero male i conti e, anziché atterrare sul comodo giaciglio, il mio amico ruzzolò a terra, rompendosi un braccio… Oppure quella volta che chiamarono da scuola perché si era rotto la gamba destra arrampicandosi su un albero… ma cosa stavo dicendo?
Ah sì, Erin l’intrusa.
Me la ritrovai tra i piedi anche qualche giorno prima di Natale.
Mi pare ancora di vederla: infreddolita, con il cappello di lana calato sulla fronte e le mani davanti alla bocca, da cui espirava del caldo vapore.
Non mi sarei fatto fregare. Non potevo farla passare. L’ultima volta che una donna era entrata in casa, Castiel ne era uscito distrutto.
Tuttavia, il mio padrone ignorò di nuovo i miei avvertimenti e la difese… oddio, proprio difese difese, no… diciamo che si assicurò che non la sbranassi.
Come era già successo mesi prima con la tatuata, quella nuova presenza sconvolse la vita del mio amico e, di riflesso, la mia.
Due giorni dopo infatti, lo vidi recuperare la valigia e ammassarci dentro dei vestiti. L’ordine non era mai stato il suo forte. Io gli trotterellai attorno, fingendo di non capire, anche se i suoi gesti parlavano chiaro: mi stava abbandonando. Non per sempre, lo sapevo, non sarebbe stato da lui:
« Vorrei portarti con me » mi disse, ma io riuscii solo a capire il sorriso triste con cui cercava di consolare i miei guaiti. Mi accarezzò vigorosamente il capo, come se non si curasse di farmi male. Mi scompigliò le orecchie, ma in quel gesto sentii una profonda amarezza e un’immediata nostalgia appena la sua mano si staccò dal mio pelo. Si sistemò lo zaino sulle spalle, mentre sollevava la valigia. Io cercai di intercettare l’apertura del cancello prima che lo chiudesse, ma lui fu più rapido.
Non potevo seguirlo, era questo che mi stava dicendo.
Guardai le sue spalle e mi chiesi quando fosse diventato così alto. Eravamo cresciuti insieme, ma d’un tratto mi sembrò che le nostre strade si fossero divise di colpo, per poi ricongiungersi a distanza di tempo, e del vecchio ragazzino irruento e spericolato, non era rimasto altro che un uomo vissuto e maturo.
« Ah, Demon » mi chiamò un’ultima volta « promettimi di non sbranare Erin »
E dopo quelle parole, non vidi più Castiel per un tempo che la mia misera vita di cane mi fece pesare come mille stagioni.
 
« Oh, andiamo Cas! Quella era carina! » protestò Erin.
« Ti ho detto che non voglio ascoltare quella lagna di Adele » sbottò il rosso, cambiando stazione radio. L’amica sbuffò e incrociò le braccia al petto, guardando fuori dal finestrino:
« Qui dove siamo? »
« Stroudsburg »
« Pennsylvania? »
« Ya »
« Ecco perché mi sento a casa » commentò la mora, sprofondando beatamente nel sedile della Chrysler.
« Infatti guarda che stato sfigato, ci sono solo campi »
« Solo perché voi del Jersey avete New York, non pensare di potertela tirare! »
Erano nella macchina di Castiel da un’ora e, per tutto quel lasso di tempo, i due non avevano cessato un minuto di punzecchiarsi a vicenda. Era finalmente arrivato il tanto atteso momento di conoscere Tyra Black, la madre dell’amico e quell’evento era vissuto secondo emozioni in netto contrasto tra i due amici: se Erin era eccitata e di ottimo umore, Castiel appariva particolarmente nervoso e irritato. Ciò tuttavia non era sufficiente ad intimorirla, proprio perché ormai aveva imparato a gestire la sua indole impulsiva e burbera.
« Si può sapere che hai? E’ da quando siamo tornati dalle Bahamas che sei tutta su di giri » farfugliò lui, fingendo che l’allegria dell’amica lo infastidisse. Erano tornati due giorni prima dal viaggio ma lei faticava a scrollarsi di dosso la spensieratezza e la gioia che aveva provato in quei giorni. Troppe cose di apparentemente nessuna rilevanza erano accadute tra lei e il rosso, ma le ricordava tutte: la sua mano stretta in quella dell’amico al momento del decollo, lui che ammetteva di essersi preoccupato per lei dopo l’immersione, la loro attesa alla fermata del bus di notte a canticchiare Don’t wake me.
« Niente » minimizzò, osservando il profilo di una fattoria in lontananza.
E ora il viaggio verso Berwick.
Non stava più nella pelle all’idea di conoscere Tyra. Il fatto che lui avesse acconsentito alla sua presenza, la faceva sentire semplicemente onorata. Importante.
Sapeva però che l’amico preferiva non parlare della donna, della quale quindi Erin non conosceva quasi nulla, tranne il fatto che lavorasse o avesse lavorato come hostess. Se quello fosse ancora il suo lavoro, la mora non poteva esserne sicura.
« Quindi andremo a Pittsburgh sabato prossimo? » sviò.
« Se vogliamo sbrigarci a risolvere questo enigma, prima andiamo meglio è » replicò il guidatore, poco propenso a continuare la conversazione. Erin si decise allora di lasciargli il suo spazio, rispettando la sua laconicità. Non era ancora il momento di smussare la sua scontrosità, ma era sicura che quest’ultima sarebbe emersa prepotentemente non appena avessero avuto davanti Tyra.
Uscirono da Stroudsburg, una piccola cittadina nella contea di Monroe e proseguirono per la Valley View Drive. Non parlarono molto, limitandosi ad argomenti principalmente legati alla scuola e ai loro amici. Avevano entrambi quell’aria un po’ distratta di chi cerca di ingannare la mente da altri pensieri, come se non ascoltassero realmente il suono della propria ed altrui voce.
Ancora un’ora ed Erin avrebbe conosciuto la donna che aveva dato alla luce il ragazzo di cui era innamorata.
 
Seppure il calendario gli ricordava che erano trascorsi appena due giorni da quando aveva salutato Rosalya ed era tornato in California, Nathaniel ne sentiva già la mancanza. Aveva trascorso una settimana splendida con lei e i suoi amici, che rappresentavano assieme ad Ambra, l’unico motivo per cui valesse la pena tornare a Morristown. Quanto al resto, la sua permanenza a San Francisco implicava la liberatoria lontananza da villa Daniels e dai suoi opprimenti proprietari. Sua sorella sosteneva che loro padre fosse cambiato, ma dopo diciannove anni di prigionia, il biondo stentava a credere che l’aguzzino della sua felicità si fosse rabbonito. Gustave era l’uomo che l’anno prima non aveva esitato a fargli terra bruciata attorno, appena il ragazzo aveva tentato di deragliare dal percorso tracciato e aveva cercato di sfondare nel mondo della musica. L’aveva annichilito, come aveva sempre fatto in passato. Per persone come lui non esisteva possibilità di redenzione.
Attraversò l’incrocio tra la settima e la diciottesima strada, passeggiando in uno dei suoi quartieri preferiti della città. Quel giorno doveva assolutamente incontrare Sophia e parlarle di una questione che continuava a rimandare da due giorni. La preoccupazione del dottor Wright, circa i mancati controlli medici della pazienza, era diventata anche la sua.
Si trovò sotto casa della rossa e cercò il nome sull’elenco del citofono.
“Watson”
Era il nome del fidanzato dell’amica di Sophia, vero inquilino dell’appartamento. La coppia era ancora in giro per il paese e Nathaniel non aveva idea di quando sarebbero tornati e per quanto ancora la rossa avrebbe prolungato la sua permanenza in California. Ciò di cui era certo, era l’inquietudine che provava all’idea che fosse sola in quell’appartamento, che non ci fosse nessuno ad assisterla in caso di necessità. Era quello il tarlo che aveva iniziato ad assillarlo, dopo la raccomandazione di Castiel: Sophia aveva qualcosa da nascondere circa la sua salute. L’ansia crescente guidò nuovamente il dito sul campanello ma, come la prima volta, non ottenne risposta. Eppure era sicuro di ricordare il nome giusto dell’interno. Determinato a raggiungere la ragazza, o per lo meno sapere dove trovarla, optò per il pulsante sottostante.
« Sì? »
Dal citofono era emersa la voce squillante ed inconfondibile di Felicity che fece subito sorridere il biondo:
« Ehi Fel, sono io….Nathaniel. Sai se Sophia è in casa? » domandò appoggiando la mano contro la parete in muratura.
« Credo sia al lavoro… » riflettè « dai, vieni su studentello, ti offro qualcosa » e prima che il ragazzo potesse rispondere, la serratura automatica venne sbloccata. Sorrise, scuotendo leggermente il capo: con Felicity, non c’erano opzioni diverse da quelle che comodassero a lei.
Non era ancora arrivato alla fine della rampa di scale quando udì nuovamente il suo tono allegro:
« Non dovresti essere all’università tu? » le chiese.
La trovò ad attenderlo all’uscio, con le mani affondate nella tasca centrale di una larghissima felpa viola, che in realtà apparteneva alla sua coinquilina Hilary. In contraddizione con l’abbigliamento pesante e confortevole della parte superiore del corpo, la ragazza calzava un paio di short cortissimi che mettevano in risalto le gambe lunghe ed affusolate:
« Potrei dirti la stessa cosa, signorino » lo rimbeccò rientrando nell’appartamento e sedendosi scomposta sul divano. Nathaniel preferì restare in piedi, finchè non fu lei a fargli cenno di accomodarsi, tamburellando la mano sul comodo giaciglio:
« Così stavi cercando Sophia… » indagò. Un leggero vapore caldo serpeggiava da una tazza di cioccolata calda, che le aveva imbrunito il labbro superiore. Sembrò accorgersi che l’attenzione dell’ospite era focalizzato  proprio su quella striscia golosa, così la leccò via furtiva.
Alla domanda, il biondo si era limitato ad un cenno d’assenso con il capo, senza però precisare il motivo di quella visita.
« Allora? Questo viaggio alle Bahamas? » squittì lei, appoggiando la tazza sul tavolino basso.
« Bello »
Gli occhi della ragazza diventarono immediatamente due fessure, indispettita dal tono apatico con cui aveva ottenuto quella replica:
« Tutto qui? Che mi nascondi, biondino? »
« Niente, è che non saprei cosa raccontarti » scrollò le spalle il ragazzo.
« Sei proprio strano » borbottò Felicity, scompigliandosi i capelli verdi « te ne vai in un’isola paradisiaca per una settimana e non hai nulla da raccontare alla vecchia zia Fel? »
« Che stavi studiando? » cambiò argomento lui, allungando l’occhio sul tavolo della cucina alle loro spalle.
« Diritto processuale penale »
Sembrava non curarsi dell’atteggiamento evasivo del ragazzo, quasi avesse prontamente dimenticato la superficialità con cui aveva liquidato la sua curiosità. Lo vide annuire, con aria solenne, strappandole una risatina:
« Non hai idea di cosa sia, vero? » e senza lasciargli il tempo di rispondere, tagliò corto « beh non ho nessun voglia di spiegartelo, caro il mio “vado alle Bahamas e non ti racconto un tubo” »
No, evidentemente la reticenza dell’ospite l’aveva leggermente indispettita. Nathaniel allora sorrise e si alzò dal divano. Si avvicinò alla libreria, sostando nel punto esatto in cui una settimana prima si era fermata Sophia e prese a sfogliare distrattamente esattamente lo stesso libro impugnato dalla rossa.
« Perché hai scelto di diventare avvocato? »
Se ne uscì con quella domanda di punto in bianco, incuriosito dalla nutrita raccolta di volumi e libri di testo che occupavano il ripiano più alto del mobile.
« Avvocato societario, ad essere precisi » puntualizzò lei e, cogliendo lo smarrimento del ragazzo, illustrò con voce piatta « è una figura che lavora in una società »
« Non ne sembri molto entusiasta »
« A contrario » lo smentì, assumendo una postura più composta ed impettita « è che a volte ho la tendenza a spiegare le cose alla cazzo, perché sono convinta che alla gente non interessi »
Quella spiegazione lo fece ridacchiare, mentre lei soggiungeva:
« Non potrei mai fare qualcosa di cui non sono convinta. Studiare per imposizione non è nella mia natura »
A quel punto nel biondo sorse il dubbio che ci fosse qualcosa di referenziale in quelle parole. Forse Sophia le aveva raccontato di lui, del suo rapporto conflittuale con il padre e della sua incapacità di opporsi alle sue decisioni. Tuttavia nello sguardo limpido di Felicity, non leggeva alcuna frecciatina né recriminazione. Era una persona trasparente, diretta, quasi ingenua e costantemente allegra, degna rappresentante del suo nome.
« A volte non si hanno alternative » osservò amaramente il ragazzo, riponendo il libro sullo scaffale.
« E’ quello che dicono i codardi che non sanno rischiare » replicò asciutta « perché piangersi addosso è più facile »
Il ragazzo distolse lo sguardo, sentendosi direttamente coinvolto in quella critica involontaria. Era stanco di sentirsi rinfacciare la sua mancanza di fegato.
« Prendi Hilary ad esempio » continuava Felicity, ignorando quanto la schiettezza delle sue parole lo stessero ferendo « la famiglia del suo ragazzo è contraria al fatto che vada all’università. Voleva che si sposassero subito dopo il liceo e mettessero su famiglia. Avevano addirittura minacciato di tagliare Joe fuori dall’eredità. Eppure lei, sia perché di natura è insofferente verso i ricatti, sia perché diventare magistrato è il suo sogno, se n’è sbattuta alla grande e ora guarda dov’è arrivata. A Giugno si laurea con il massimo dei voti… ok, questo lo dico io, ma ha una media alta » convenne infine.  
Raccontò quella realtà con naturalezza, ma non si aspettava il turbamento che interpretò sul viso di Nathaniel. Lo vide sgranare gli occhi, incredulo e confuso:
« Anche se volevano tagliare il suo ragazzo fuori dall’eredità, lei e Joe hanno deciso di fare di testa propria? » puntualizzò lui, come se la ragazza non avesse piena coscienza delle sue parole.
« Beh sì. A dirla tutta pure Joe ci ha messo del proprio per fare arrabbiare i suoi che lo volevano medico. Lui invece è diventato fotografo » rise Felicity, lasciando trasparire in quel sorriso solare quanto fosse affezionata alla coppia. Stimava molto la sua coinquilina e sapeva che quel rispetto era reciproco. Si allungò sul tavolo e iniziò a sfogliare un fumetto lasciato aperto a metà. Il biondo continuava a restare in silenzio, meditabondo.
« Quindi come vedi, caro studentello, ognuno ha i propri demoni da affrontare, solo che c’è chi si arrende e si lagna del loro predominio, e c’è chi li combatte in silenzio, senza piangersi addosso » commentò con solennità, senza staccare lo sguardo dalle pagine a colori.
Felicity aveva ragione… e quella consapevolezza era solo il punto di arrivo, prima del viaggio che avrebbe dovuto intraprendere ma che aveva rinviato per tutta la vita.
Rivide la storia dei suoi diciannove anni, i soprusi psicologici di suo padre, le sue pressioni affinché diventasse uno studente brillante, degno di ereditare l’azienda di famiglia. Ricordò tutti i sogni che erano germinati in lui e di come Gustave li avesse brutalmente calpestati, convincendolo che in quel terreno ormai arido non sarebbe cresciuto mai più nulla.
Poi, con il suo arrivo a San Francisco, era iniziata la ribellione. Quella frustrante realizzazione di non poter perdonare più la propria debolezza.
Di non poter tollerare quell’opprimente giogo.
L’aveva vomitata tutta addosso ad una sola persona:
 
« DA DOVE DERIVA ALLORA TUTTA QUESTA TUA PRESUNZIONE E SACCENTERIA? CON QUALE TITOLO TI ARROGHI IL DIRITTO DI CREDERTI MIGLIORE DI ME?! »
 
Era quella la frase che aveva urlato a Sophia con una tale rabbia che l’aveva fatta vacillare. Da quello scontro, l’animo di Nathaniel ne era uscito trionfante, quello di lei a pezzi. Eppure alla fine, la ragazza era riuscita a farlo sentire sereno, era stato grazie a lei che si era finalmente levato quel peso dal cuore.
Nemmeno con Castiel aveva mai scavato così a fondo nel suo animo, dissotterrando paure e angoscie putrescenti.
 
« … c’è chi li combatte in silenzio, senza piangersi addosso »
 
Era così che avrebbe fatto.
Basta rimpianti e amarezze.
Era arrivato il momento di agire.
Si alzò, puntando i palmi contro il tessuto in velluto del divano:
« Grazie per la chiacchierata » mormorò, senza guardare la sua interlocutrice. L’aspirante avvocato annuì e lo accompagnò alla porta, che richiuse non appena il ragazzo sparì oltre la rampa di scala.
Una sorriso astuto allargava le labbra di Felicity che, una volta tornata nel soggiorno, afferrò nuovamente il fumetto abbandonato: 
« Sei sempre fonte di massime eccezionali, Spiderman »
 
Erin deglutì nervosamente.
L’eccitazione di conoscere Tyra Black era stata rimpiazzata dal timore di non impressionare positivamente la donna. Da ormai mezz’ora, aveva iniziato a torturare la sua coscienza, chiedendosi se la sua presenza sarebbe stata percepita come un’inopportuna intromissione.
Il suono del campanello la destò dal suo monologo interiore, vincolandola a sollevare lo sguardo verso il suo amico.  
Erano arrivati a casa della madre di Castiel.
Sopra di loro, si ergeva un complesso condominiale degli anni Settanta, ben conservato al trascorrere del tempo. L’intonaco presentava solo qualche crepa, mentre il colore della muratura esterna sembrava di recente applicazione.
« Sì? »
Quella semplice sillaba, scaturita dal citofono, fece rabbrividire la mora.
« Sono io » disse apatico Castiel.
Seguì un silenzio pesante, ma la comunicazione restava aperta.
« C-Castiel? » sussurrò la voce e, in quel semplice nome, Erin percepì l’ansia e la commozione di una madre che cerca di dominare l’emozione. Non le aveva annunciato la loro visita, tanto gradita quanto inaspettata.
Quell’idiota del suo amico però esitava a rispondere, prolungando sadicamente l’agonia di Tyra. Se quella snervante attesa fosse dettata da un infantile capriccio o da un reale disagio, Erin non avrebbe saputo definirlo, tuttavia si risolse a porvi fine:
« Sì è lui. Buongiorno signora Black, io invece mi chiamo Erin » spiegò agitando la mano.
Non sapeva chi ci fosse all’altro capo dell’apparecchio ma di una cosa si era convinta: avrebbe fatto il possibile per dare una buona impressione di sé.
« Non c’è la videocamera, scema » la rimproverò Castiel, trattenendo a stento un sorriso. Fu una fortuna per lui che Tyra non potesse vederlo in quel momento. La perspicacia che solo una madre accorta può avere, avrebbe impiegato pochi secondi a interpretare nella dolcezza di quel sorriso, dei sentimenti be più profondi di una cara amicizia.
« Ah no? E questo cos’è? » insistette Erin, indicando un cerchietto all’altezza dei loro visi.
« Sicuramente non un obiettivo… saliamo o intendi star qui a smontare il campanello? »
Lei sbuffò per i modi spicci con cui veniva trattata e, dal momento che l’amico non aggiungeva altro, gli fece cenno di tornare a rivolgersi alla madre; Tyra però lo anticipò e disse semplicemente:
« Vi apro subito »
Quell’ultimo invito, pronunciato con garbo e dolcezza, arrivò alle orecchie di Erin come il miglior benvenuto che potesse ricevere.
 
« Jordan, chiedono di te »
La ragazza mollò i piatti nell’acquaio, asciugando frettolosamente le mani contro il grembiule. Sollevò gli occhi al cielo, sperando che non fosse l’ennesimo cliente morboso che si era invaghito di lei. Era paradossale come più risultasse acida, e più successo riscuotesse tra i frequentatori abituali del locale. Lei era lì per lavorare, riempire bicchieri e pulire quelli vuoti. Le sue mansioni le svolgeva al meglio e con efficienza, ma l’interazione con la clientela era il suo tallone d’Achille. Tuttavia aveva bisogno disperato di quell’impiego e se per tenerselo era costretta a dimostrarsi cordiale e accondiscendente, avrebbe sacrificato anche quell’asprezza che era così tipica della sua personalità. Come tutte le regole esistenti, pure la sua presentava un’eccezione, che corrispondeva al nome di Trevor Mc Connell, anche se a quel tempo non ne conosceva ancora il cognome. Era l’unico cliente al quale non poteva perdonare le battutine provocatorie, i commenti inopportuni o l’irritante tendenza a distrarla dai suoi doveri.
Varcò la soglia del locale e quando spostò lo sguardo sul bancone, catturò la sua attenzione un braccio che si sollevava. Non dovette neanche attendere di mettere a fuoco il viso del cliente che il suo sopracciglio destro iniziò a tremarle incontrollato.
«Yo, Jordan! » la salutò bonariamente Trevor.
Lei non rispose a quell’allegra accoglienza. Anziché regalargli la soddisfazione di farla irritare, gli avrebbe risposto con l’arma più potente: l’indifferenza. Rimase così impassibile come una statua ed esclamò:
« Buongiorno. In cosa posso servirla? »
« Con tutta questa disponibilità azzarderei quasi quasi a chiederti un certo servizietto… » la provocò il cestista con malizia, alludendo alle sue parti basse.
Quella volgarità la fece inorridire, al punto da abbandonare subito il suo iniziale proposito e montare su tutte le furie:
« Brutto pervertito! Come ti permetti? »
« Eddai! Stavo scherzando » rise lui, beffandosi della tonalità porpora del suo viso « e poi sei ancora più bella quando ti arrabbi »
Notando che con quell’ultima frase l’aveva messa ancora più in difficoltà, il cestista aveva reclinato il capo all’indietro dal troppo ridere, facendo voltare alcuni clienti.
« Sto lavorando, idiota. O bevi qualcosa, o te ne vai » borbottò lei, iniziando a sistemare i bicchieri come pretesto per non guardarlo in faccia.
« Sono qui per festeggiare, Jojo »
Gli occhi della ragazza diventarono due fessure:
« Chiamami Jordan… anzi no, non chiamarmi proprio »
« Non vuoi neanche sapere cosa c’è da festeggiare? »
« Che vuoi che me ne freghi? »
«Brigitte non è incinta »
« Evvai » replicò prontamente l’altra con sarcastico entusiasmo. Per resistere alla tentazione di menare il cliente, afferrò uno straccio e lo passò con foga sul bancone già pulito. Trevor sorrise beffardo e mentre cercava di schivare la violenza del gesto della ragazza, precisò:
« Quindi, per ringraziarti per aver ascoltato le mie lagne quella sera, ti offro da bere »
« No grazie » rispose asciutta.
« Insisto »
« Pure io »
« Eddai… » miagolò, scivolando sul bancone.
« Non posso bere quando lavoro » tagliò corto la cameriera, spostando la sua attenzione sulla sistemazione dei boccali puliti.
« Ottimo, allora esci con me! A che ora stacchi? »
« Lavoro qui a vita »
Il cestista sbuffò divertito:
« Sei un osso duro, Jojo »
A causa della sua irritazione, ormai la muscolatura facciale di Jordan era un tremito costante. Lei doveva lavorare e quella realtà, per quanto sgradita, era ineluttabile. A rendere ancora più stancante la sua posizione, si aggiungeva un ragazzino viziato che l’aveva catalogata come suo personale passatempo.
« Non hai proprio niente da fare tu? I compiti ad esempio? »
Lui la scrutò indeciso. Quell’ultima frase lo aveva un po’ spiazzato, portandolo a chiedersi quale fosse l’effettiva età della ragazza davanti a lui. Forse si era già diplomata a quella considerazione lo faceva cadere in una sorta di posizione di inferiorità.
« Quanti anni hai? »
« Troppi per un babbeo immaturo come te »
Il ragazzo increspò le labbra che si distesero subito dopo assecondando un buon umore ingiustificato.
« Lo sai che non riesco a prenderti seriamente quando mi insulti? » la provocò. Quell’aspetto era uno dei tanti del ragazzo che mandavano in bestia la cameriera. Per quanta durezza e serietà mettesse nelle sue parole, lui non veniva minimamente scalfito da esse. L’ingrediente mancante, poteva essere solo uno e costituiva l’ultima speranza di Jordan per cercare di spegnere quell’irritante sorrisetto:
« Secondo te come dovrei considerare uno che, dopo aver saputo che la sua ragazza non è incinta, si rifugia in uno squallido pub a festeggiare con una cameriera? Devi averla amata proprio tanto questa Brigitte »
Pronunciò quelle parole dapprima senza curarsi di lui e concentrando solo infine i suoi occhi nocciola sul viso del cliente. Quell’ultima frecciata sembrava aver sortito effetto, ma in misura troppo considerevole persino per la sua artefice. Nelle sue parole era trasparita una nota di disprezzo palpabile, al punto da demolire l’ego del giovane.
Teneva lo sguardo fisso sul boccale davanti a lui, prima di ruotare sullo sgabello e volgerle le spalle:
« Quindi non ci sono speranze, eh? » le sussurrò con un sorriso triste « a me bastava solo condividere un bicchiere in allegria… ma evidentemente qui non sono gradito »
Quell’ultimo attacco era andato a segno, contro ogni aspettativa della sua autrice. Eppure, anziché gioire del successo della sua strategia, si insinuò in lei un insopprimibile senso di colpa; persino per i suoi standard di scontrosità, era stata fin troppo diretta e acida. Non che gli avesse mentito, nutriva un sincero disprezzo per la superficialità con cui aveva accolto la notizia della mancata gravidanza. Questo però non la autorizzava a rinfacciarglielo con tanta cura, dal momento che lui, in fondo, desiderava solo un po’ di attenzione.
« Un bicchiere solo, d’accordo? »
Patteggiare significava consegnare la vittoria al nemico, o se non altro, sventolare una bandiera bianca. Non era sicura che il suo orgoglio le avrebbe perdonato quello sgarro, ma di certo lo avrebbe apprezzato la sua coscienza. Lo vide arrestarsi, per poi girarsi verso di lei.
Si preparò a sorridergli leggermente, quasi a dimostrazione della sincerità delle sue parole, quando notò il ghigno scanzonato che gli aveva disteso gli angoli della bocca. Trevor scoppiò a ridere, reclinando il capo all’indietro:
« Che sempliciotta che sei, Jojo! Non ci sarai cascata sul serio? »
Avrebbe aggiunto anche un commento circa l’affettata dolcezza con cui aveva avanzato l’ultima proposta, ma il canovaccio umido che gli arrivò in pieno viso, lo zittì. Mentre ancora ridacchiava, glielo restituì, tornando a sedersi al bancone di ottimo umore, così come era arrivato.
 
L’ascensore era permeato da un odore acre di tabacco, della cui fonte Erin non poteva dirsi certa. Guardava sospettosa l’amico, a cui aveva strappato una promessa, non troppo convinta, di togliersi il vizio del fumo.  
« Non sono io, puzzava già quando siamo entrati » si difese il rosso « e smettila di rompere le palle con ‘sta storia delle sigarette! »
Erin gonfiò le guance, come era solita fare, proprio quando le porte si aprivano e una voce interrompeva il loro battibecco:
« Ben arrivati »
Un timbro dolce e amabile, quasi zuccheroso, aveva deliziato i loro timpani. Fu allora che la ragazza si premurò di cercarne l’autrice, trovando a pochi metri da loro una donna bellissima.
Tyra Black aveva un viso ovale e perfettamente simmetrico, adornato da una chioma fluente di capelli neri come il cielo d’inverno. Quella cornice scura metteva ancora più in risalto un paio d’occhi chiari, di uno dei blu più belli che avesse mai visto. Il naso dritto e regolare era un chiaro tratto che aveva trasmesso al figlio, la cui somiglianza con la madre, a quel punto divenne scontata. Dopo aver conosciuto il dottor Wright, Erin aveva sospettato che Castiel avesse ereditato i tratti più belli del suo aspetto da Tyra, seppur modellati secondo i canoni maschili. Quello che in Tyra era un volto proporzionato ma ovale, in Castiel assumeva una forma più mascolina, ma non per questo meno affascinante. Solo gli occhi, che peraltro rappresentavano uno degli aspetti che più la attiravano del ragazzo, erano merito della linea paterna.
A quelli, Erin dovette sommare un altro elemento che accumunava il celebre chirurgo al figlio: il loro ghigno. Nell’espressione di Tyra, non c’era traccia di quell’aria beffarda e sprezzante di Castiel, né del cipiglio curioso e sicuro di sé dell’ex marito. Aveva un sorriso modesto e timido, di chi soffoca un certo timore nel palesare emozioni troppo forti.
« Ciao Castiel »
Quella voce, unita a quel sorriso incantatore, ammaliarono Erin, che avvertì la commozione della donna. Tuttavia, il rosso non sembrò altrettanto empatico, poiché non articolò alcun fonema. Se ne restava lì, in silenzio ad osservare una donna che non vedeva da mesi ma a cui sarebbe stato legato per sempre. Creare quella tensione era più forte di lui, il suo io più immaturo e vendicativo gli imponeva di essere duro ma non aveva considerato la sua lei. Erin infatti, accecata dall’irritazione per il perdurare di quella logorante tensione, si inalberò, assestandogli una gomitata ai lati dello sterno.
« Saluta tua mamma, scemo! »
« Ma vuoi stare zitta un secondo?! » sbottò lui, in imbarazzo.
Fu solo uno scambio di battute, fugace e concitato, ma a Tyra bastò per realizzare quanto aveva sperato dopo aver udito la voce di quella ragazza sconosciuta. Suo figlio era venuto da lei con la sua fidanzata.
Quel gesto era una sorta di dichiarazione di non belligeranza, una dimostrazione che lei era ancora la sua famiglia e che, pertanto, meritava di essere coinvolta nella sua vita privata.
Avrebbe adorato quella ragazza a prescindere, per il solo fatto che la sua compagnia si associava al figlio. Lei le strappava espressioni che il viso apatico di Castiel sembrava aver dimenticato irrimediabilmente, riusciva a scuotere la corazza di apatia e riserbo in cui era precipitato.
Quale fosse il suo segreto, Tyra non lo sapeva ancora, ma osò sperare che si trattasse di una forma d’amore che lei, in quanto madre, non avrebbe mai potuto provare per suo figlio.
Sicuramente la mora sarebbe avvampata di colpo se avesse potuto interpretare il disilluso equivoco che si leggeva sul viso della padrona di casa, ma era impegnata a scrutare una figura che aveva appena calamitato la sua attenzione.
Dietro la gonna in tweed di Tyra, infatti, faceva capolino una creaturina che le arrivava poco sopra la cintola. Lei provò a sorriderle amichevole ma il furetto scappò via, mentre la sua chioma di riccioli biondo cenere ondeggiavano leggiadri.
« Scusatela… è un po’ timida » sospirò Tyra con un sorriso clemente.
« E’ Hailey? » chiese retoricamente Erin.
Sapeva perfettamente che non poteva essere altrimenti, ma non poteva permettere alla laconicità del suo amico e al disagio di sua madre di far piombare nuovamente un pesante silenzio.
Tyra tuttavia non aggiunse altro, limitandosi ad annuire e li invitò ad accomodarsi all’intero.
« Scusate il caos » borbottò « non mi aspettavo questa visita »
« Si figuri » si premurò Erin, mentre Castiel sbottava:
« Possiamo anche andarcene se vuoi »
Si guadagnò un pizzicotto infastidito della mora, che l’intento di Tyra di ritrattare la sua recente considerazione:
« Non dia retta a Castiel » la rassicurò Erin « oggi ha la luna storta » asserì, sperando di risultare credibile. Nonostante la generosità del suo intento, la donna conosceva troppo bene il figlio per illudersi di una simile scusante, ma apprezzò la premura della ragazza nel rassicurarla.
« E’ un bel posto » continuò Erin, guardandosi attorno incuriosita.
« Grazie »
Ripiombò il silenzio ma questa volta fu Tyra ad interromperlo:
« Posso offrirvi qualcosa da bere? »
Sperò in una risposta affermativa, come pretesto per allontanarsi momentaneamente dalla stanza. Aveva bisogno di calmarsi, in quanto la gioia di rivedere suo figlio, che si era recato lì spontaneamente, l’aveva fin troppo esaltata. Se avesse saputo che dietro quella visita c’era l’intervento dell’ex marito, probabilmente la sua eccitazione si sarebbe ridimensionata, ma ciò che più contava, era che Castiel fosse lì. Il resto era assolutamente secondario.
La presenza di Erin si stava rivelando fondamentale, in quanto alleviava la difficoltà di comunicazione tra di loro, oltre che esercitare un influsso positivo sul rosso.
Mentre era in cucina, impegnata a disporre dei bicchieri su un vassoio in acciaio, Erin aveva approfittato di quell’allontanamento per mettere in riga l’amico:
« Se non inizi a parlare con tua madre, sappi che non ti farò più copiare durante le verifiche »
« C’è Affleck per questo e, senza offesa, ma prendo pure voti più alti quando guardo da lui » farfugliò lui di rimando, con aria scocciata.
« Allora la settimana prossima studiate insieme Biologia, visto che vi piace tanto » lo rimbeccò l’altra, con sarcasmo.
Il rosso sospirò, sollevando le mani in segno di arrendevolezza:
« Quanto rompi le palle quando ti ci metti… »
« E tu continua a fare finta che ti dia fastidio » concluse lei, con una smorfia ironica.
Lui si morse il labbro, ridacchiando a sua volta.
E vaffanculo Erin, tu e la tua capacità di fregarmi sempre con quel sorriso” pensò, tra sé e sé. Adorava quando lei s’intrometteva nella sua vita perché sapeva che ogni azione della ragazza era dettata dal suo altruistico desiderio di vederlo felice. Poteva insultarla in ogni modo, criticare ogni suo tentativo maldestro di suscitare una reazione in lui, ma di fatto avrebbe solo voluto ringraziarla per la sua costante e ingiustificabile capacità di sopportarlo, restandogli sempre accanto. La sua ottusità nell’essere così cieca di fronte ai sentimenti che nutriva per lei era una garanzia per Castiel, che gli concedeva la possibilità ogni tanto di perdersi a guardarla con dolcezza, riflettendo su quanto fossero profondi i sentimenti che lo legavano a lei. Suo malgrado, sua madre non era altrettanto distratta quanto la mora e, rientrando in salotto in quel momento, ricevette quella conferma che aspettava da parecchi minuti.
Sorrise tra sé e sé, mentre appoggiava il vassoio, Appoggiò il vassoio, facendo leggermente tintinnare i bicchieri.
« Signora Black, lei che lavoro fa? » esordì Erin prontamente, per inserire la donna nella conversazione.
« Chiamami Tyra » le concesse con un sorriso conciliante « comunque sono una commessa »
« Perché ero convinta che fosse un hostess? » domandò la mora, guardando Castiel che, però, non si degnò di risponderle.
« Perché in passato lo sono stata. Poi quando ho conosciuto il mio secondo marito, il padre di Hailey, ho abbandonato quel lavoro. Era difficile tenere in piedi una famiglia »
« Si impara dai propri errori » commentò Castiel.
A quelle parole, Tyra sospirò mortificata, abbassando poi il capo, mentre l’amica storse le labbra. Solo un opprimente senso di colpa poteva giustificare la sua arrendevolezza di fronte ai modi sgarbati del figlio. Tyra aveva sicuramente commesso degli errori, ma Erin non poteva accettare che Castiel glieli rinfacciasse continuamente. Non era un atteggiamento maturo, e soprattutto, sua madre non se lo meritava. Come se ciò non bastasse, la sofferenza di quella donna era irrimediabilmente legata a quella del rosso che, per quanto potesse negarlo, avrebbe cambiato quella situazione se solo il suo orgoglio glielo avesse concesso:
« Hailey quanti anni ha? »
Anche quella domanda fu abbastanza inutile, dal momento che Erin ne conosceva già la risposta, ma avrebbe parlato anche di fisica quantistica, se ciò le avesse permesso di far riprendere il dialogo.
« Nove » le confermò per l’appunto la donna.
« Pensa che potrei provare a parlarle? »
Quel pensiero era sfuggito alle sue labbra, prima ancora che Erin realizzasse di averlo formulato.
Il desiderio di continuare a parlare con la donna improvvisamente le era apparso secondario rispetto alla curiosità di conoscere quella solitaria bambina. Si era seduta su quel divano foderato in velluto da pochi minuti, e già voleva abbandonarlo.
Quella proposta aveva lasciato perplessa Tyra, che la ponderò attentamente. Permettere ad Erin di abbandonare la stanza, significava dover rinunciare al suo effetto calmante sul malumore del ragazzo. Era ridicolo che lei, seppur fosse sua madre, provasse quello spiacevole disagio in presenza del figlio, ma la paura di dire qualcosa di sbagliato era troppa.
« Certo, la sua stanza è la seconda a destra » le indicò infine.
Mentre Erin spariva dal soggiorno, Tyra cercò lo sguardo del figlio, optando per una considerazione che sperava, li facesse andare nella giusta direzione:
« La tua ragazza è molto carina »
« Non è la mia ragazza » la gelò lui « è solo un’amica »
Si alzò dal divano e si diresse verso la finestra, mentre una piega amara esprimeva la delusione della madre. Erin doveva essere quindi una sua amica, semplicemente un’amica, ma era sicura di non essersi sbagliata circa le emozioni che suscitava nel ragazzo. Conosceva ogni sfumatura dello sguardo di Castiel, meglio di chiunque altro. Erano gli stessi occhi di cui si era innamorata venticinque anni prima, quando uno studente squattrinato era salito sulla sua stessa metro.
« Perché hai cambiato lavoro? Non lavoravi in banca fino a tre mesi fa? »
Quella domanda la colse di sorpresa, tanto era assorta a rinvangare il giorno in cui aveva conosciuto Frank Wright, il padre di Castiel.
« Sono rimasta sola, Castiel, e non ho nessuno a cui lasciare Hailey » riepilogò « sono la sua tutrice legale. Ho fallito già una volta come genitore, non posso farlo una seconda »
Tanto lei quanto il rosso sapevano che a quell’estrema considerazione non sarebbe seguita alcuna parola di conforto. Eppure, ne bastava mezza da parte del ragazzo per sciogliere un’amarezza frutto di anni di rimpianti, rancori e sensi di colpa. Il rosso sentì una forte rabbia montargli in petto, scaturita da una responsabilità condivisa da entrambi se la situazione era così delicata. Si odiava per non riuscire a perdonare sua madre per aver mandato in frantumi ciò che per lui era così importante: la famiglia. Odiava sé stesso per essere rimasto a guardare, fingendo impassibilità solo per assecondare un orgoglio che troppe volte si era rivelato controproducente. Non aveva versato una lacrima quando i suoi avevano annunciato il divorzio, né sbattuto porte, né urlato. Aveva annuito, come se la cosa non lo riguardasse e si era ficcato un paio di cuffiette che lo avevano isolato in quel mondo in cui si era sempre sentito a casa.
Da quel giorno, avrebbe sempre associato la musica dei Radiohead come una delle colonne sonore più malinconiche della sua adolescenza.
« Non ho mai pretesto che tu e papà restaste insieme » dichiarò, osservando con disinteresse il panorama all’esterno « non avrebbe avuto senso arrivati a quel punto… mi bastava che non ve ne andaste »
« M-ma sei stato tu a proporre l’emancipazione legale » obiettò Tyra, che non riusciva a capire il senso di quanto le stava dicendo il ragazzo. Non le stava rinfacciando la separazione tra lei e suo marito, ma quella di loro due, in quanto genitori da lui. I sensi di colpa aveva finito per offuscare il buon senso di entrambi, che avevano stabilito che assecondare qualsiasi richiesta del figlio fosse l’unica soluzione per redimersi ai suoi occhi. 
« Solo perché speravo di sentirmi dire di no » sorrise amaramente il ragazzo, mentre la stabilità emotiva di Tyra iniziava a vacillare « ma voi, schiacciati dai sensi di colpa, avete pensato ad esaudire quella mia egoistica richiesta. Così facendo, mi avevate dato una conferma che temevo da anni… »
Lei scuoteva leggermente il capo, ma quel debole gesto di diniego non era sufficiente ad arginare Castiel, che concluse:
« … la conferma che non siamo mai stati una vera famiglia »
La sua rabbia era troppa.
Doveva andarsene, altrimenti le avrebbe fatto male, ancora una volta. Irrimediabilmente.
 
Erin si era avvicinata alla porta della stanza in punta di piedi.
Provò a bussare, senza ottenere risposta.
« Hailey? » la chiamò titubante.
Anche quel tentativo di catturare l’attenzione si concluse con un fallimento, dato che l’unica replica che ottenne fu un silenzio tombale. La ragazza provò allora a socchiudere lentamente la porta:
« Posso? »
Entrò in una stanza con le pareti color crema e un’ampia finestra aggettante su un cortiletto interno. Si guardò attorno ma non riuscì a trovare la proprietaria della cameretta. Convinta che la stanza fosse deserta, fece per uscire, quando sentì una vocina chiederle:
« Chi sei? »
« Mi chiamo Erin » rispose prontamente, cercando di captare la provenienza di quella voce.
« Sei un’amica di Castiel? »
Attese qualche secondo, fissando il materasso, poi esclamò:
« Esatto. Tu dove sei? »
Non ottenne alcuna replica così ridacchiò:
« D’accordo signorina! Caccia al tesoro! »
Era piuttosto scontato quale potesse essere il nascondiglio della bimba ma, nel discutibile tentativo di strapparle un sorriso e metterla a proprio agio, la mora iniziò a cercarla nei posti più assurdi:
Aprì l’armadio, controllò dietro ad una pila di peluche e perfino dietro un quadro appeso alla parete.
« Forse sei un folletto e ti sei nascosta dentro il cassetto della scrivania… » ragionò con solennità, aprendolo. Sentì una leggera risatina che le confermò di aver fatto una piccola breccia nell’animo di Hailey.
« Niente da fare, proviamo allora sotto il tappeto! »
« Mica sono una formica! » ridacchiò la piccola fuggitiva.
« Hai ragione » borbottò Erin divertita, accucciandosi all’altezza del tappeto ma, anziché sollevarlo, ruotò il capo sotto il letto « però sei abbastanza piccina da stare sotto un letto » convenne con un sorriso gentile.
Fu quella la prima volta in cui gli occhi della ragazza si posarono su Hailey Banks.
Il loro primo incontro era destinato a diventare un ricordo speciale e nostalgico nel cuore di quella bambina, che nemmeno crescendo, avrebbe perso quella timidezza che la rendeva così adorabile. Hailey corrucciò le labbra, in imbarazzo, e strisciò fuori dal letto, portando con sé un po’ di sporcizia. Si mise in piedi, spolverando via dei residui, mentre Erin la studiava con tenerezza. Aveva dei boccoli biondo cenere, un po’ crespi ma luminosi. Le labbra erano sottili e gli occhi leggermente a mandorla, con un paio d’iridi scure. Si accucciò alla sua altezza e, con fare materno, le liberò i capelli biondicci da una nuvoletta di polvere:
« Sei proprio una bella bambina, Hailey… e assomigli pure ad un folletto »
« Cos’è un folletto? » bisbigliò quella voce cristallina, mentre Erin ridacchiava divertita.
« E’ una creaturina che vive nei boschi » spiegò rimettendosi eretta.
La bimba la scrutava con il timore di un cucciolo impaurito che è combattuto tra l’istinto di nutrirsi e la diffidenza verso chi gli sta offrendo del cibo. Dal canto suo, la mora non poteva che intenerirsi di fronte a tanta insicurezza, anche perché in parte le ricordò la sua di quando era bambina.
« Erin, andiamo »
Le due si voltarono verso la porta, in cui aveva appena fatto la sua comparsa Castiel. Aveva un’aria imbronciata, mentre controllava l’ora sullo schermo del cellulare.
Hailey sgranò gli occhi con attenzione, guardando da vicino quel ragazzo di cui tanto le aveva parlato Tyra. Le aveva detto che suo figlio era alto come suo papà Cody, aveva delle spalle larghe e gli occhi grigi. Per un attimo, vide la figura di suo padre sostituire quella del ragazzo e reprimere l’impulso di correre ad abbracciarlo fu particolarmente difficile. Anche se aveva faticato a crederci, Castiel aveva davvero i capelli rossi, un rosso acceso, scarlatto, il suo colore preferito.
« Di già? » stava protestando la mora « ma se siamo appena arrivati! »
« Siamo rimasti anche troppo » la liquidò lui, facendole il gesto di sbrigarsi.
Gettò un’occhiata fugace verso la bambina accanto all’amica ma non si soffermò troppo a fissarla. I mocciosi non erano il suo forte, non sapeva far loro moine e abbassarsi ad un livello di idiozia che potesse creare una sintonia tra le parti. A malapena riusciva ad interagire con gli adulti come lui.
« Muoviti, ti aspetto in macchina » tagliò corto.
Lo aveva lasciato da solo per pochi minuti ed erano bastati per compromettere rovinosamente quell’incontro. Fece per seguirlo, solo con l’intento di ritrattare quella posizione quando qualcosa le strattonò il maglioncino.  
Si voltò, notando cinque dita minuscole che lambivano saldamente il lembo di stoffa. Pure il rosso si era accorso del movimento brusco ed innaturale dell’amica, girandosi incuriosito:
« Non andare via, Erin » sussurrò Hailey.
Guardò di sottecchi Castiel, che dall’alto del suo metro e ottantasette la troneggiava e distolse subito lo sguardo, spaventata. Diversamente da lei però, la mora non si sarebbe lasciata intimorire da qualche occhiataccia sbieca, così dichiarò risoluta:
« Se vuoi che resto, Hailey, allora non mi muovo di qui » e si voltò, per fare la linguaccia all’amico.
Più quella stretta durava, più lei sentiva che si stava instaurando un legame con quella bambina. Non le importava che non fosse la sorella biologica di Castiel. Il fatto stesso che avesse bisogno di compagnia era sufficiente perché lei non abbandonasse quella stanza.
« Erin… » brontolò l’amico con la stessa determinazione rassegnata di chi sa già di aver perso la battaglia.
« Non vorrai negare ad una bambina il piacere della mia compagnia? » si pavoneggiò lei con teatralità. Ne guadagnò uno sbuffo contrariato, che valse come segno della sua arresa.
« Hai visto Hailey? Questo invece è un orco, ma basta un po’ lavorarselo e farà tutto quello che vuoi tu »
 
Sophia non era una persona paziente, tendeva piuttosto a lasciarsi dominare dall’impulso di attaccare la gente, specie quando veniva meno quella base di rispetto che dovrebbe essere reciprocamente garantita all’interno di una società umana.
« Come le ho già spiegato signora » ripetè la commessa accanto a lei « non c’è nessun errore da parte nostra, è la sua carta che viene respinta »
Nora aveva pronunciato quella frase già tre volte, ma la cliente si ostinava a non accettare quell’umiliante realtà:
« Non è possibile! » ripetè la donna, con un’espressione alquanto indignata e alterata. Strappò violentemente dalle mani della ragazza la tessera, che boccheggiò senza emettere alcun fonema « siete voi ragazzine incompetenti che non sapete neanche fare un lavoro così semplice »
La giovane abbassò lo sguardo mortificata e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso di nome Sophia. Quella vipera bionda ossigenata non poteva approfittarsi della fragilità e insicurezza della sua collega, non gliel’avrebbe permesso:
« Se non ha liquidità per pagare un misero paio di cuffiette, non deve prendersela con noi! » la attaccò la rossa, ignorando il cliente che stava servendo.
Vide le narici della donna allargarsi, inspirando profondamente in preda ad un imminente attacco isterico.
« Sophia calmati! » cercò di sedarla Nora « non ti scaldare »
« Come osi, ragazzina impertinente? Tu non sai chi sono io! » si puntò contro la donna.
« Una gran cafona! »
La cliente spalancò la bocca, pronta ad urlare inviperita, quando si sentì chiamare alle spalle:
« Mamma? »
Conosceva quella voce.
Del resto l’aveva messa al mondo lei.
Anche Sophia, analogamente alla donna che le stava davanti ebbe un sussulto.
Era da oltre due settimane che non vedeva quel ragazzo, ma non per questo si era dimenticata di lui.
Non per questo, i sentimenti che erano nati in lei, si erano intiepiditi.
Nathaniel si avvicinò con passo deciso al bancone, affiancando la donna che aveva appena definito come sua madre.
Sulla sua pelle delicata, il sole delle Bahams aveva lasciato un leggero rossore ambrato, più che una vera ed invidiabile abbronzatura. Quel pizzico di colore in più, unito agli effetti schiarenti dei raggi solari sulla sua chioma, lo rendevano ancora più bello.
Ancora più intrigante e, purtroppo per Sophia, attraente.
« Che ci fai qui? » si rivolse con durezza alla donna, ignorando la rossa che lo fissava sbalordita.
« Oh tesoro, che coincidenza! » squittì lngrid il cui viso riprese rapidamente l’espressione indignata di poco prima « andiamo via… in questo squallido negozio non accettano le carte di credito »
Nathaniel guardò interrogativo Sophia, il cui cliente aspettava di essere servito. Accanto a lei c’era una ragazza di nome Nora, stando al suo cartellino, che fissava il pavimento sull’orlo delle lacrime.
« N-non sapevo fosse tua madre » borbottò la rossa a disagio.
« Conosci questa maleducata? » velenò Ingrid, arricciando il naso.
« E’ la gemella di Erin » replicò candidamente il biondo, ancora confuso. La madre squadrò da capo a piedi la giovane commessa, vestita con l’uniforme del negozio, rappresentata da una dozzinare t-shirt nera e un inappropriato ed inutile capellino da baseball. I capelli corti e sfibrati erano in disordine, le unghie per nulla curate e non un velo di trucco era stato usato per donare luminosità a quello che sembrava un viso spossato.
« Non ha la metà dell’eleganza di sua sorella » decretò.
All’umiliazione di essere offesa, si aggiunse quella di dover sopportare quell’insulto davanti al ragazzo di cui era innamorata. Eppure, per quanto quelle parole l’avessero ferita, Sophia sapeva di meritarle.
Le meritava perché erano vere.
Non reagì e fu quell’atteggiamento annichilito a scatenare qualcosa nel biondo. Non avrebbe permesso a sua madre di demolire lo spirito di Sophia così come aveva fatto con Ambra per tutta la vita.
Le afferrò con cattiveria il polso, trascinandola fuori dal negozio:
« Possibile che tu sappia sempre e solo dire la cosa sbagliata? » ringhiò, non appena furono abbastanza isolati dal resto dei passanti. La donna lo fissò sconvolta, come se non capisse il senso delle sue parole:
« Ma come Nath, non sei contento di vedermi? Io pensavo di farti una bella sorpresa… » titubò sconcertata.
« E farti trovare in un negozio mentre imprechi e dai spettacolo sarebbe una bella sorpresa? Dio mamma, ti rendi conto che hai ferito quella ragazza? Non ti è bastato quello che hai fatto ad Ambra per tutta la vita? »
Ingrid boccheggiò confusa, prima di articolare:
« Come sarebbe a dire? Che cosa ho fatto di sbagliato a tua sorella? »
Nathaniel sospirò pesantemente, cercando di calmarsi. No, non era né il momento né il luogo per rinfacciarle tutti i suoi errori educativi.
« Cosa ho sbagliato? » era tornata a ripetere Ingrid, sempre più confusa e spaventata.
Cavolo. Era andato da Sophia per parlarle della preoccupazione del dottor Wright, per capire che cosa le impedisse di presentarsi alle visite di controllo settimanali, ed invece aveva trovato sua madre ad insultarla. Sua madre continuava a ripetere quella domanda, ma non ottenendo alcuna risposta, mormorò infine:
« Non ti riconosco, Nathaniel »
« Perché sono cambiato… e credo che la cosa non ti piacerà » aggiunse lui.
 
Erin era seduta per terra, intenta a mostrare dalla galleria del suo smartphone, una serie di foto di amici e parenti. Hailey ascoltava rapita ogni descrizione, serrando le labbra ad ogni domanda che la timidezza le impediva di porle. Avrebbe voluto che la ragazza le parlasse ancora di quel ragazzo con i capelli azzurri, della sua amica con quel visetto a cuore e la chioma viola, del tipo con i vestiti bizzarri… agli occhi di quella bambina, la vita di Erin appariva perfetta, corredata di amicizie ed affetti.
« Posso usarlo? » domandò la bambina d’un tratto, indicando il cellulare.
La mora annuì, un po’ sorpresa da quella richiesta e glielo porse, spiegandole poi come sbloccare la schermata.
Alle loro spalle, seduto sul divano, Castiel osservava le due con curiosità ed attese che Hailey sparisse in qualche angolo della casa, prima di obiettar diffidente:
« Sei sicura di volerle lasciare il cellulare? »
Erin si voltò allora verso di lui:
« Ci starà attenta » commentò Erin ingenuamente.
Il rosso scosse il capo poco convinto e si allungò verso il telecomando della TV, sintonizzandola su un canale di motori. Sua madre si era congedata poco prima, giustificandosi con la necessità di fare la spesa. Seppur quel pretesto non fosse una bugia, era anche vero che ne approfittò per trovare un po’ di serenità, con cui affrontare il figlio.
Quando il rosso, poco prima, si era deciso a lasciare l’appartamento, dopo appena dieci minuti che vi era entrato, lei si era sentita morire, come la speranza che era affiorata in lei la prima volta che aveva sentito la sua voce al campanello. Eppure, non aveva nemmeno tentato di dissuaderlo. Quella sorta di ignavia era dettata solo dalla consapevolezza di non avere alcun diritto di imporre la sua volontà, condannandola alla rassegnazione.
Lui aveva così lasciato il salotto, per annunciare quella decisione inappellabile alla sua amica, ma era ritornato con un’espressione imbronciata, in netto contrasto con quella allegra di Erin. Dietro la mora, faceva seguito la piccola Hailey, con un sorriso dolcissimo, che da tempo Tyra non riusciva a farle nascere in viso.
« Quanto guanciale signora? »
La donna si destò dai suoi pensieri, ricordandosi solo in quel momento di essere entrata in macelleria:
« Tre etti. Devo preparare la pasta preferita di mio figlio, mi dia il pezzo migliore »
 
« Quando torna tua madre, cerca di essere più disponibile, Cas. So che ci sono delle questioni irrisolte tra di voi, ma è un ulteriore motivo per tentare un dialogo, no? Mica puoi serbarle rancore a vita »
La sparizione di Hailey aveva fornito alla ragazza il momento per affrontare quell’argomento. Non gli avrebbe permesso di rovinare la giornata a tutti. Per quanto la riguardava, nutriva già dell’affetto per Hailey e non poteva che provare empatia per l’atteggiamento remissivo di Tyra.
« Chi ha detto che non posso? » farfugliò lui, abbassando il volume del televisore. Quel semplice gesto, bastò ad Erin come dimostrazione indiretta che non gli dispiaceva intavolare una conversazione, anche se l’argomento non era dei più piacevoli.
« Non fare l’immaturo » lo rimproverò bonariamente.
Lui sbuffò, spaparanzandosi sul divano, mentre lei gli si avvicinava ulteriormente. Piegò il busto sopra di lui, avvicinando la sua faccia a quella del ragazzo.
Troppo vicina.
« Eddai, solo per oggi » patteggiò, con voce supplicante « me lo prometti? »
« N-non ti prometto un tubo! » sbottò lui in difficoltà.
« Erin, non funziona più »
Quella vocina colpevole fece voltare i due, verso la figura minuta di Hailey, incurvata nelle spalle. La bimba allungò il cellulare alla ragazza, che era sbiancata:
« C-come non funziona più? »
« Che ti dicevo? » disse l’amico « non dovevi lasciarglielo »
Erin controllò lo schermo, mentre Hailey era sempre più a disagio.
Approfittando di quel musetto abbassato verso il soffitto, Castiel scrutò meglio quel corpicino timido e introverso, al quale non aveva ancora degnato attenzione. Era troppo preso a tenere lontano sua madre ed tenere testa alle insistenze di Erin. Hailey sembrava nutrire una sorta di reverenziale timore nei suoi confronti, quasi ne fosse spaventata.
« Non è rotto, Hailey » la tranquillizzò la mora, accarezzandole il braccio « vedi? Ha solo la memoria piena »
La voce le era uscita in un dolce sussurrò, che lenì ogni ansia e preoccupazione della piccola. Castiel non ebbe neanche il tempo di intenerirsi per tanta premura, che si trovò Erin a fissarlo decisa:
« Prestale il tuo » gli ordinò, senza tanti giri di parole.
Lo vide irrigidirsi e impugnare saldamente un oggetto che teneva in tasca.
« Scordatelo » ringhiò, cambiando radicalmente espressione e scattando sulla difensiva.
Erin però non si fece intimorire e gli saltò addosso, con l’intento di strapparglielo dalle mani. Si lanciò prona sopra di lui, stagliandolo completamente sul divano, mentre le sue mani cercavano di lottare nel tentativo di raggiungere la tasca dei jeans.
« Dammi il cellulare, Ariel! » rideva Erin, mentre il nemico cercava di opporre resistenza, schiacciato dal corpo della ragazza.
« Col cazzo! »
« Cazzo… » ridacchiò la bambina, facendoli voltare entrambi verso di lei:
« Non insegnarle parolacce, idiota! » lo rimproverò la mora, tornando a lottare per la conquista dello smartphone.
« Idiota » sghignazzò Hailey.
« Perché non vuoi darmelo? » si arrabbiò Erin.
« Perché ci sono cose private qui dentro » le sussurrò lui a denti stretti, nel tentativo di non farsi udire dalla bambina.
« Tipo? »
« Private! » ripeté il rosso imbarazzandosi.
« Roba porno? » chiese la mora a voce troppo alta, pietrificandosi indignata.
« Cosa vuol dire “roba porno”? » domandò ingenuamente Hailey, facendo voltare nuovamente i due.
Erin deglutì nervosamente, mentre Castiel le lanciava un’occhiataccia sprezzante, se non altro incuriosito dalla spiegazione che le avrebbe propinato l’amica.
« V-vuol dire che due persone si stanno appiccicate » balbettò Erin in difficoltà.
« Quindi voi adesso state facendo una roba porno? » riassunse Hailey con candore.
Realizzarono solo allora quanto ravvicinati fossero i loro visi, quanto i loro corpi fossero incollati l’una all’altro. Castiel avvertiva nitidamente la forma del seno della ragazza, pur avendola sempre definita piatta, contro il suo petto e la gamba di lei sfiorargli l’inguine. Si irrigidì all’istante e prima che quella reazione si estendesse anche alle zone più intime, allontanò Erin con poca grazia. Lei, dal canto suo, era rimasta ipnotizzata per qualche secondo dai suoi occhi grigi, che non ricordava di aver mai osservato così da vicino. Era persa nella loro contemplazione da non accorgersi dello shock che stava causando all’amico. Per questo, l’impetuosità con cui l’amico la allontanò la colse impreparata:
 « Scema » la riprese Castiel, cercando di attenuare il proprio imbarazzo.
« Hailey, fammi vedere la tua stanza! » propose Erin, mettendosi in piedi e allontanandosi frettolosamente dall’amico. Si dileguarono in pochi secondi, mentre la bambina fissava la mora incapace di capire cosa fosse accaduto d’un tratto. Castiel tornò seduto e si grattò il capo in difficoltà.
Da quando era tornato da Berlino, gli sembrava di incappare fin troppo spesso in situazioni imbarazzanti con Erin. Doveva imparare a prevederle o soffocarle all’istante, perché anche all’ottusità amorosa della ragazza doveva esserci un limite. Limite che non intendeva superare.
 
Quella casa puzzava di vecchiume come la prima volta che c’era stata.
La odiava e con il passare degli anni il suo risentimento per quelle mura non era diminuito.
« Bevi quel brodo e non fare tante storie »
Mackenzie lanciò un’occhiata gelida all’anziana donna, seduta all’altro capo del tavolo.
« E smettila di guardarmi così. Sembri tua madre » gracchiò quest’ultima. Spolverò del pane grattugiato nella scodella, facendo inorridire la ragazza per quell’abbinamento gastronomico.
« Tuo nonno è sempre stato fin troppo indulgente con Dianne… e guarda ora com’è finita » continuò Mary. La strega era la matrigna di sua madre, rimasta vedova pochi anni prima. Nonostante tra lei e Dianne non fosse mai corso buon sangue, quella vecchia bisbetica rappresentava l’unico appoggio a cui la donna potesse affidarsi.
« Tuo padre continua a bere, non è così? » malignò « tua madre non ha voluto ammetterlo, ma scommetto che quel fallito avrà pure problemi al gioco »
Mackenzie strinse i pugni.
Odiava Mary. Era una persona cattiva.
Odiava suo padre. Non era nemmeno una persona. Era una bestia.
E in quel momento odiava pure sua madre Dianne, che sin dalla sua nascita, le aveva rovinato la vita con persone così spregevoli:
« Me ne andrò di qui! » dichiarò, alzandosi dal suo posto « e tornerò da mamma »
« E come pensi di fare, sciocca? » la derise Mary « non hai un soldo! Come credi di pagarti un affitto? »
« Inizierò a lavorare nei weekend »
La padrona di casa ghignò beffarda ed incrociò le braccia al petto, sfidando la determinazione della sedicenne.
« Perché non lavori a tempo pieno allora? Un mio amico potrebbe chiudere un occhio sulla tua età e farti lavorare come cameriera. Sedici anni o diciotto non fa alcuna differenza »
Mackenzie ponderò quelle parole, ne valutò ogni aspetto. Quella di Mary non era un’offerta scaturita dal desiderio di aiutarla, quanto un pretesto per farla litigare con Dianne.  Aveva promesso a sua madre che, qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe lasciato la scuola. Le aveva fatto promettere che in quella nuova scuola si sarebbe impegnata, avrebbe addirittura cercato di integrarsi con i compagni, cosa che le era sempre costata non poche difficoltà.
« Vaffanculo, Mary »
Abbandonò la stanza e si lasciò alle spalle le urla isteriche della donna, che le rinfacciava la sua ingratitudine, oltre ad una serie di epiteti irripetibili per una persona educata e civile. L’unica replica di Mackenzie, fu una porta sbattuta con quanta più violenza le fosse possibile.
 
Durante il pranzo, Erin studiò di sottecchi ogni mossa di Tyra. La donna masticava in silenzio, sorridendo gentile a ogni sua battuta e lanciando talvolta qualche occhiata fugace al figlio. Parlava solo quando interpellata e le domande che le venivano rivolte provenivano sempre dall’ospite femminile.
« Così avete sempre vissuto a Morristown… » stava commentando la mora.
« Sì, anche se Castiel è nato a New York »
« Ah non lo sapevo… quanto pesava quando è nato? »
L’amico le incenerì con lo sguardo, ma lei non si lasciò intimidire:
« Quasi quattro chili »
« Caspita! Deve essere stato un parto doloroso! » replicò, sgranando gli occhi esterrefatta.
Tyra sorrise dolcemente e, mentre Castiel era distratto da Hailey, le sussurrò:
« Sì ma ne è valsa la pena solo per la gioia di averlo tra le braccia »
« Com’era Castiel da piccolo? » s’incuriosì la mora, mentre l’amico tornava a prestare loro attenzione:
« La pianti? »
Lei però lo ignorò ancora una volta e tenne lo sguardo fisso su Tyra che, pur sentendosi tra due fuochi, spiegò:
« Era impossibile tenerlo fermo. Aveva sempre qualcosa da fare, e chissà perché, il più delle volte al limite dell’incoscienza »
« Eravate voi a preoccuparvi troppo » bofonchiò il rosso.
« Ti sei rotto tre volte il braccio e due la gamba » gli ricordò la madre « come quella volta in cui ti sei arrampicato sull’albero della scuola perché dicevi di aver visto un Pomokén su un ramo »
« Un Pokémon » la corresse Castiel, mentre Erin ridacchiava.
« Sì insomma, quei mostriciattoli che andavano di moda in quegli anni » sorvolò Tyra, versandosi dell’acqua. Le sorse spontanea una smorfia sollevata, dettata dalla soddisfazione per quel piccolo scambio di battute con il ragazzo, per una volta non rappresentato da grugniti e silenzi.
« Deve essere stato una peste allora » s’intromise Erin divertita.
La donna sollevò le spalle, replicando:
« Era vivace e testardo, questo sì… e tremendamente orgoglioso, pur essendo così piccolo. Era adorabile quando c’era qualcosa che lo colpiva ma non voleva darlo a vedere »
« Tipo? » la incoraggiò la ragazza, mentre Castiel lottava con il suo caratteraccio per non farsi sopraffare dall’imbarazzo. Aveva promesso ad Erin che avrebbe cercato di comportarsi da persona civile, ma quel tipo di conversazione lo stava mettendo a profondo disagio e, in situazioni come quelle, tendeva a reagirecon la scontrosità. Controllarsi si stava rivelando particolarmente difficile.
« Beh, per esempio ricordo una volta in montagna… aveva l’età di Hailey » iniziò a raccontare la padrona di casa « continuava a chiedere a suo padre di tornar al lago dove erano stati il giorno prima, senza mai dirci il perché avesse tutta questa urgenza. Solo un mese dopo, per caso, mentre stava chiacchierando con Nathaniel, ho scoperto che lì aveva conosciuto una bambina »
Il sorriso di Erin divenne ancora più largo ma fu costretta a sopperire con esso, l’eccitazione scaturita dalla consapevolezza di essere stata lei il primo piccolo amore del ragazzo. Il rosso borbottò una frase sconnessa, che doveva valere come intimidazione a zittire Tyra, ma questa proseguì, deliziata dall’instaurarsi di un dialogo dopo tanti prolungati silenzi.
« Doveva piacerti proprio, visto che hai descritto tutta la scena nei dettagli… persino i vestiti, che a te non interessano mai… aveva un vestito giallo con i fiori, mi pare »
« No, erano stelle » risposero in coro Castiel ed Erin.
Gli sguardi dell’amico e di sua madre si concentrarono su di lei e il primo esternò sorpreso:
« E tu come lo sai? »
Gli occhi di Erin si sgranarono ed palleggiarono da una parte all’altra della stanza, quasi potesse trovare un suggerimento per rimediare a quella gaffe.
« M-me l’avevi racconto tu » balbettò, maledicendosi per essersi tradita.
Lui però non battè ciglio, scrutandola sospettoso:
« Non ti ho mai detto come fosse vestita » asserì sicuro. Castiel continuava a fissarla mentre Erin continuava a rifuggire a quegli occhi grigi. Come poteva spiegargli il perché non glielo aveva mai detto? Per la verità, nemmeno lei sapeva darsi una motivazione certa. Un po’ era la convinzione che prima o poi avrebbe lasciato trapelare quella verità, un po’ era il desiderio di custodire gelosamente quella piccola chicca del loro passato.
Notando l’imbarazzo della ragazza e la pensosità del figli, Tyra adottò un atteggiamento diplomatico e discreto, coinvolgendo con esso anche la piccola:
« Hailey, aiutami a sparecchiare »
Le due si rintanarono nella cucina e, appena il rosso sentì il rumore dell’acqua corrente, iniziò a stuzzicare l’amica incuriosito:
« Avevamo detto niente segreti eh? »
Erin però non replicava e continuava a tenere lo sguardo fisso sul piatto ormai vuoto. Si mordicchiava il labbro inferiore, gesto che le era così tipico nei momenti di disagio. Doveva farla parlare, altrimenti avrebbe finito per baciarla, tale era l’attrazione che provava nel vederla così in difficoltà.
« Fammi indovinare… era tua sorella Sophia » dedusse, considerando la reazione dell’amica.
« -ella bambina »
« Come? » gracchiò Castiel, allungandosi verso di lei.
« Ero io quella bambina » ripetè la ragazza, a voce più alta.
Castiel si zittì, confuso. Intuendo quale fosse la sua perplessità in quel momento, la mora aggiunse:
« Io e Sophia all’epoca ci divertivamo a scambiarci i nomi quando eravamo in vacanza. Lo so, è una cosa stupida, ma da bambine ci divertiva. Ero io quella che hai conosciuto a Rockville »
L’amico boccheggiò, prima di esternare:
« Perché non me l’hai detto quando te l’ho raccontato? »
Lei fece spallucce, arrossendo:
« Beh, te l’avrei detto prima o poi… »
« E per fortuna che eri tu quella che ha proposto che non ci fossero più segreti tra di noi» la canzonò.
Era piacevolmente sorpreso da quella notizia. Non si curò di averla definita il suo primo amore, la prima volta che le aveva raccontato di quell’episodio. Con ogni probabilità, per la ragazza quel dettaglio era talmente secondario, da aver finito per scordarlo.
« Quel patto non funziona, eh? » mormorò divertito.
Erin stava per replicare, quando si sentì strattonare la maglia e, abbassando il capo, si trovò di fronte il visino di Hailey.
« Posso avere il cellulare adesso? » miagolò con vocina flebile.
La ragazza, dopo un’iniziale perplessità, scovò nelle tasche, consegnandole l’apparecchio. La bambina fuggì  in cucina, mentre Castiel commentava:
« E’ proprio fissata con i cellulari »
« Mi chiedo perché » considerò Erin, mentre si alzava per impilare i piatti sporchi. La bimba le aveva fornito un diversivo per il disagio in cui era piombata. Castiel stesso non insistette per avere ulteriori spiegazioni, ridacchiando tra sé e sé. Si presentarono entrambi in cucina, in cui Tyra era intenta ad aprire lo sportello della lavastoviglie:
« Oh, ma non dovevate. Erin, sei un’ospite » si premurò.
Quando la ragazza stava per rispondere, si sentì nuovamente strattonare il maglioncino:
« Quante foto posso fare? » le sussurrò Hailey con timidezza.
« Tutte quelle che vuoi » le sorrise « vuoi che le facciamo insieme? » aggiunse.
Gli occhi della biondina iniziarono a brillare, mentre Erin la invitava a seguirla in salotto. Fu così che Castiel rimase solo con la madre, intenta a scrostare una pentola. In un primo momento si sedette svogliatamente su uno sgabello, ma poi, guardando la schiena della donna, si portò al suo fianco. Immerse le mani nell’acquaio in silenzio, iniziando a pulire le posate.
Tyra non disse nulla, ma in cuor suo sentì il cuore traboccarle di felicità. Erano anni che tra lei e il figlio non si instaurava un clima così pacifico. Attese un bel po’ prima di aprire bocca, nel timore di rovinare tutto e finse che quel piccolo gesto l’avesse lasciata indifferente.
 
Hailey aveva guidato Erin nella sua stanza, dove le due avevano deciso di spostare la scrivania. Il tavolo infatti era stato messo al centro della camera e sulla sua superficie avevano distribuito fogli e colori.
« Ti avverto però, Hailey… non so disegnare »
La bambina rimase impassibile e replicò laconicamente:
« Non importa »
Si allungò a prendere un foglio e, dopo averne tenuto uno per sé, posizionò il secondo davanti alla ragazza. Quel tacito invito a disegnare non poteva essere declinato, così Erin sorrise:
« Che cosa disegno? »
« Castiel… »
 
« Erin ci sa proprio fare con i bambini » sussurrò Tyra, sentendo la risata della ragazza provenire da una delle stanze « sarà una brava mamma, un giorno »
Per qualche motivo, quell’ultimo commento fece arrossire Castiel che, per il disagio, non riuscì a replicare.
 
« Non sono sicura che gli somigli… » stava commentando Erin osservando la propria opera. Non era la prima volta che si cimentava nel ritrarre quel soggetto ma, nonostante l’esperienza, le sue pecche artistiche erano fin troppo evidenti. Hailey si allungò a prendere un pastello rosso, porgendolo alla ragazza:
« Se colori i capelli, gli somiglierà »
« Ci vorrebbe mia sorella… lei sì che è brava a disegnare » considerò la mora con una punta di mestizia.
« Hai una sorella? »
Erin annuì, ma non riuscì ad aggiungere altro. Quando aveva fatto vedere una sua foto ad Hailey, aveva liquidato la descrizione definendola la sua gemella e basta.
« Vorrei anche io una sorella »
Il sussurro scaturito dalla bambina accanto a lei la distrasse dalla rossa, strappandole un sorriso:
« Beh, hai Castiel adesso » puntualizzò « è come un fratello maggiore, no? »
La bambina non replicò, chiudendosi nel suo silenzio. Sul suo viso, Erin non riusciva a leggere alcuna emozione significativa. Aveva una sorta di patina apatica, come se vivesse in un mondo tutto suo e osservasse l’esterno con disincanto. La vide afferrare un pastello nero, per colorare i pantaloni, ma il suo tratto era diventato pesante. La mina affondava nel foglio.
 
« Si può sapere perché la nana è così fissata con i cellulari? »
Tyra ignorò quell’appellativo, scorgendo in esso un debole intento provocatorio che non intendeva assecondare:
« Non sono i telefoni in sé ad interessarla… ma il fatto che abbiano una fotocamera »
« E’ appassionata di fotografia? Non è un po’ piccola per- »
« Non è quello » lo interruppe Tyra, allungandogli un piatto che il ragazzo si curò di posizionare nella lavastoviglie « è che ha paura di non avere ricordi… »
Il rosso la fissò interrogativo, mentre la donna avviava l’elettrodomestico. Lo invitò ad accomodarsi su uno sgabello, mentre lei chiudeva la porta della stanza, per assicurarsi che nessun’altro potesse sentire, specie la diretta interessata:
« Cody non amava farsi fotografare, diceva sempre che preferiva stare dall’altra parte dell’obiettivo. Di lui abbiamo pochissime foto, quasi nessuna e, quando dopo la sua morte, Hailey mi ha chiesto di mostrargliele, per lei è stato un duro colpo realizzare che il volto di suo padre poteva vederlo solo nella foto della carta d’identità o in qualche altra in cui però è sempre insieme a qualcun altro… non lo si vede granchè »
« Non ha foto di suo padre? » riassunse Castiel. Vide la madre scuotere il capo, avvilita. Quelle foto che mancavano alla bambina, mancavano anche a lei.
« E così ha iniziato quindi a farmi un sacco di foto, come meccanismo di difesa spuppongo… quella bambina ha elaborato ben due lutti, anche se quando è morta sua madre era molto piccola. Non è pronta a soffrire ancora e fare foto, in modo così ossessivo, è un modo per prepararsi ad un’eventuale e ulteriore sofferenza futura »
« E quindi oggi… »
«Ha usato il cellulare di Erin per fare delle foto a voi due, di nascosto immagino » concluse Tyra « significa che si è affezionata a voi e vuole avere un vostro ricordo »
Castiel non replicò. Quel racconto l’aveva lasciato senza parole e, vedendolo così assorto nei propri pensieri, la madre preferì rispettare il suo silenzio, godendosi quel piccolo dialogo che si era appena concluso tra di loro.
 
Nathaniel e sua madre erano seduti da almeno venti minuti senza aver instaurato una vera e propria conversazione. Ingrid aveva accolto quasi con sollievo l’arrivo del cameriere, ma una volta che questo aveva preso l’ordine, tra i due era piombato quel corroborante mutismo.  La donna aveva prenotato la sua prima cena a San Francisco in uno dei locali più lussuosi della città, sperando che quell’occasione servisse a far da paciere per la discussione di quella mattina.
« Signora Daniels! »
Si sentì chiamare alle spalle, riconoscendo immediatamente la voce di Ian Steward. Era da circa un mese che non lo vedeva, dopo il party di San Valentino, in cui l’ormai fidanzato di Ambra aveva finito per umiliarlo, almeno stando a quanto le aveva riferito il marito. Tuttavia, il colosso della Pear rimaneva una figura più importante rispetto a Gustave e pertanto, secondo gli schemi sociali a cui Ingrid aderiva ciecamente, era meritevole di una sorta di riverenza. Per questo si alzò elegantemente in piedi e chinò leggermente il capo, come a volersi sottomettere, mentre allungava il braccio sottile per un delicato baciamano:
« Bellissima come sempre, Ingrid » le sorrise l’uomo, guardando poi il figlio.
« Mio figlio Nathaniel » spiegò la donna, aspettandosi che il ragazzo si alzasse per porgere la mano all’uomo. Seppur il liceale fosse a conoscenza dell’identità di quell’uomo, non mosse un muscolo, ma si limitò ad un garbato sorriso.
« Molto piacere, signor Steward »
« Nathaniel… » bisbigliò la madre, con un’occhiata riprovevole e, sorridendo ipocritamente, aggiunse a voce un po’ più alta. Aveva inclinato leggermente il capo, in un’esortazione fin troppo plateale a mettersi anch’egli eretto:
« Hai camminato così tanto che ti fanno male le gambe ad alzarti? » lo rimproverò con un sorriso tirato, cercando di trattenere l’irritazione per la sua testardaggine a stare seduto.
« Penso che il signor Stewart non si offenderà per così poco » la sfidò con un sorriso diplomatico.
Di fronte a quella tensione, fu il signor Steward ad intervenire:
« Si direbbe che i suoi figli abbiano preso tutto da suo marito, quanto a carattere » commentò l’uomo, con una smorfia ipocrita. Era abituato ad avere lui l’ultima parola e, nonostante Ingrid fosse intenzionata a lasciargliela, Nathaniel replicò:
« Lo prendo per un complimento »
Ian si congedò con un sorriso falso, augurando ai due una buona cena, mentre Ingrid tornava a sedersi.
« Si può sapere che ti prende? Stewart è uno degli uomini più influenti del nostro settore e un giorno potremo persino diventare suoi soci »
« Soci di quello lì? Papà lo disprezza, preferirebbe chiudere l’azienda piuttosto che diventare un suo affiliato » sbottò Nathaniel.
Ingrid lo guardò incerta, soppesando il ragionamento del figlio, che purtroppo, era fin troppo corretto. Non era così stupida come credevano gli altri. Come lei faceva sì che gli altri credessero che fosse. Sapeva che Gustava non avrebbe mai accettato un simile compromesso, ma per l’ambizione di aumentare i loro introiti, quella donna avrebbe accantonato anche l’orgoglio. In quel momento, la sua fortuna era quella di essere assolutamente ignara della pesante difficoltà economica che gravava sulla ditta di famiglia, difficoltà che giustificava l’increscioso inconveniente di quella mattinata. Non era il lettore del negozio ad avere problemi: era quel conto corrente ad essere stato, a sua insaputa, bloccato.
Nathaniel continuava a sorseggiare il vino, incurante della sua presenza, mentre lei sentiva crescere una sorta di inquietudine. Aveva perso parte della sua raffinatezza ed eleganza, come se si fosse conformato ai ragazzi della sua età. Senza contare l’aggressività con cui l’aveva assalita qualche ora prima, liquidando poi la questione e impedendole di capire cosa avesse sbagliato. Nel suo mondo, fatto di ricchezze e ostentazione delle stesse, nulla poteva essere biasimato. Aveva garantito ai figli un’ottima istruzione e si era prodigata perché entrambi avessero un futuro brillante e sicuro. Aveva fallito con Ambra, dopo anni passati nel tentativo di inculcarle l’importanza di contrarre un buon matrimonio, la figlia aveva finito per innamorarsi di uno studente come tanti della piccola borghesia. Persino suo marito aveva accettato quella notizia, anzi, ne sembrava addirittura contento. Restava solo Nathaniel, il futuro erede della Daniels Co., ma quello che i suoi occhi vedevano davanti, non era lo stesso ragazzo che aveva lasciato Morristown due mesi e mezzo prima.
« Non ti capisco, Natty » mormorò tra sé e sè.
« Lo so… ed è sempre stato così » concluse lui.
 
Ai lati delle strade, nelle aiuole cittadine, iniziavano a spuntare dei timidi ciuffi d’erba, annuncio di una primavera che si stava preparando al risveglio.
« Mio padre ha detto che il tuo suggerimento dell’altro giorno è stato accolto all’unanimità dai suoi dipendenti » stava dicendo Ambra, con un certo orgoglio.
« Quello sul database? » indagò Armin, il cui sorriso trionfante contagiò la sua ragazza.
« Non lo so, mi ha solo detto di dirti che sei un valido consigliere… e ti assicuro che non è il tipo da elargire facilmente complimenti. Gli devi stare proprio simpatico »
« Evidentemente i Daniels hanno un debole per me » scherzò il moro, ricevendo un’occhiata complice. Borbottò quell’ultima frase tenendo in bilico sulle labbra un bastoncino ricoperto di cioccolato. Li avevano acquistati poco prima, insieme ad un block-notes per Ambra.
« Che ci devi scrivere là sopra? »
« Ci appunto tutti gli indizi che riusciamo a cogliere sulla storia del quadro e di Sophia »
Armin emise un fischio di apprezzamento ed iniziò a canticchiare la sigla di Detective Conan:
« Scemo! » ridacchiò lei, dandogli una leggera pacca sul braccio. Scrutò di traverso la scatoletta di Pocky che il ragazzo teneva in mano, e chiese:
« Me ne dai uno? »
Quella domanda, uscita con candore, lo stuzzicò e sorridendo sornione, la sfidò:
« Prenditelo »
Anziché offrirglielo con le mani, il moro teneva il bastoncino con la bocca, invitando la bionda a prendersene un morso.
« Io ne voglio uno intero! » protestò Ambra.
« Giochiamo al pocky game » farfugliò l’altro, mentre il bastoncino ricoperto oscillava ad ogni sua parola.
« Non faccio queste cose in pubblico… » borbottò la ragazza in imbarazzo.
« Ci avrei scommesso… sei la solita frigida »
Quell’ultimo aggettivo urtò non poco la biondina che, senza dargli alcun preavviso, si avventò sul Pocky. Dovette alzarsi in punta di piedi per raggiungere l’altezza del suo ragazzo, che dopo un’iniziale sorpresa, sghignazzò divertito. C’erano solo due esiti possibili in quello stupido gioco: il primo che spezzava il bastoncino avrebbe perso… oppure la sfida si sarebbe conclusa con un bacio.
Ambra ingoiò i primi centimetri, sentendo il volto andarle in fiamme. Stava insieme con Armin da appena due settimane, e non era ancora pronta per simili effusioni in pubblico. Per contro, il moro appariva sempre rilassato e a suo agio. Niente sembrava turbare il suo infantile candore ed quella capacità di sorridere sempre e comunque, era una delle qualità di cui Ambra era più innamorata.
Le loro labbra stavano per sfiorarsi quando avvertì una sorta di inquietante presenza accanto a loro. Determinata a non perdere quella sciocca sfida, cercò con la coda dell’occhio di cosa si trattasse e, dopo qualche secondo, oltre la vetrina di un cafè, riconobbe l’espressione incuriosita della sua insegnante di scienze. Miss Joplin era seduta al tavolo con altre due persone e appena il suo sguardo si incrociò con quello della sua studentessa, lo distolse a disagio.
Ambra, per contro, aveva mollato la presa, paonazza.
Armin era scoppiato a ridere, convinto di essere il responsabile di quella violenta reazione ma, appena si sentì trascinare via, capì di essersi perso qualcosa.
« C’era Miss Joplin in quel bar! » spiegò Ambra muovendo le mani concitata « oddio, che figura di merda! »
Il suo ragazzo però, non solo non condivise lo sconforto della bionda, ma scoppiò pure a ridere.
« Questa è l’ultima volta che assecondo le tue stupidate! » inveì Ambra, puntandogli il dito contro « chissà cos’avrà pensato… » mugolò, portandosi una mano sulla guancia.
« Comunque, questo decreta la mia vittoria » si gonfiò il moro.
« Non è il momento, Armin » lo zittì « non dovevo fuggire così, potevo almeno farle una faccia di poker e salutarla… porca miseria, ma quanto sono cretina! »
Mentre Ambra era tutta presa dal suo monologo, il ragazzo la attirò a sé, infilandosi in un vicolo cieco poco illuminato dai raggi solari:
« Ti ripeto Daniels che ho vinto… e quindi mi spetta una ricompensa » le disse con uno sguardo malizioso.
« Io non ti faccio da spalla su Assassin’s Creeed » chiarì, ancora innervosita.
« Veramente pensavo a qualcosa di molto meglio » e nel vedere il viso di lui che si avvicinava al suo, finalmente anche Ambra riuscì a farsi contagiare dal buon umore del moro e dimenticare la figuraccia appena fatta.
 
« Che hai? »
Miss Joplin scosse il capo, tornando a guardare i suoi interlocutori.
« Niente, scusatemi. Ero distratta. Lì fuori c’era una ragazza che assomigliava molto ad una mia studentessa… ma così imberrettata non sono sicura che fosse lei… comunque, Pam, dicevi? »
« Che io e Jason abbiamo iniziato a parlare del matrimonio e… » la zia di Erin lanciò un’occhiata trepidante al futuro marito che completò:
« … vorrei che tu fossi la mia testimone »
La professoressa boccheggiò incredula, poi sorrise:
« E’-è una cosa… cioè, mi farebbe molto piacere… non so che dire »
« Che accetti, mi pare ovvio! » esclamò bonariamente il fratello « a chi altro dovevo chiederlo? »
« Pensavo l’avresti chiesto a Derek, veramente » convenne la donna. Derek era il migliore amico d’infanzia di suo fratello, un addestratore cinofilo che lavorava ad Austin. Nonostante la distanza, i due si mantenevano in contatto da anni e non perdevano occasione per ritrovarsi. Il veterinario sorrise, quasi si aspettasse quell’osservazione:
« Derek non è il tipo per queste cose, gli farei un torto a chiederglielo, credimi »
« Allora accetto » sorrise Miss Joplin e, rivolgendosi verso la futura cognata, domandò:
« E tu, Pamela, hai già pensato a chi chiedere? »
« Pensavo a mia nipote Erin »
Di fronte all’espressione sorpresa della donna, Pam si vide costretta a precisare:
« Lo so, l’anno prossimo avrebbe solo diciannove anni, ma è la persona che più di ogni altra è stata testimone dell’inizio della mia storia con tuo fratello »
« Capisco » convenne Miss Joplin, sorseggiando del thè fumante « tua nipote è una cara ragazza, ce la vedo bene nel farti da testimone »
« Mi dispiace solo per sua sorella Sophia… non vorrei fare preferenze »
« Non ho capito perché Erin vive con te mentre sua sorella è in California… » s’incuriosì Miss Joplin.
« E’ una lunga storia » rispose evasiva Pam, mentre la professoressa, gettando un’occhiata fugace all’orologio, sbottò:
« Caspita! E’ tardissimo! Devo andare! »
« Dove? » s’intromise il fratello.
« Ho un appuntamento con una mia collega. Ha qualche idea da sottopormi per il prossimo evento del liceo »
« Lavorate anche nei weekend? Stacanoviste… » le derise Jason.
« Che evento? » squittì eccitata Pam, mentre la professoressa si rivestiva:
« Oh, non posso dirvelo… deve essere una sorpresa anche per Erin » e rivolgendo alla coppia un ultimo sorriso frizzante, abbandonò il tavolo.
 
Sophia infilò la chiave nella toppa, che incontrò qualche resistenza:
« Stupida chiave » imprecò innervosita.
Niente quel giorno era andato bene.
Si era svegliata di pessimo umore e, se non fosse stato per la prospettiva di doversi recare al lavoro, sarebbe rimasta volentieri sotto le coperte. Lungo la strada l’aveva contattata sua madre con una delle notizie peggiori: aveva chiamato la segretaria del liceo, comunicando che, con il prolungarsi ad oltranza della sua assenza dal liceo, la sua bocciatura era automatica.
« Chissenefrega » aveva solo saputo rispondere la rossa, prima che fosse suo padre a prendere in mano la cornetta e iniziare ad inveire. Per quanto Peter potesse arrabbiarsi, ormai non c’erano soluzioni, se non quella di ripetere l’anno.
Chissà se Erin aveva saputo di quella novità.
In cuor suo, Sophia sperò che fosse così, in quanto avrebbe fornito alla sorella un pretesto più che valido per chiamarla ma, per quanto avesse controllato febbrilmente il cellulare, non aveva ricevuto alcuna chiamata né nuovo messaggio.
Odiava quella situazione ma, se avesse cercato una riconciliazione, avrebbe dovuto pagare con la sincerità il prezzo del perdono. No, non era ancora il momento, doveva prima scoprire troppe cose.
Spostò allora le sue riflessioni sull’incontro del pomeriggio, in cui aveva avuto il dispiacere di conoscere Ingrid Daniels.
La porta ancora non si apriva, mentre lei sentiva crescere l’irritazione.
« Non ha la metà della grazia di sua sorella » aveva malignato quella donna.
« Se è per questo non ho nemmeno metà della sua bravura a scuola, della sua pazienza, della sua gentilezza… non valgo nemmeno la metà di mia sorella! » farfugliò tra sé e sé a bassa voce, parole che avrebbe voluto aver urlato contro la donna. Invece si era zittita perché, oltre ad Ingrid, era comparsa anche la fonte dei suoi ultimi grattacapi.
Rivide il volto luminoso di Nathaniel e la sicurezza con cui era intervenuto. Davanti a lui finiva per far sempre la figura dell’immatura, di quella che non riesce a controllarsi o a cavarsi fuori da sola dai guai.
« Cazzo di porta! » sbottò furente, sbattendo violentemente il palmo contro il legno.
Non ne poteva più.
Era stanca.
Non era vero che non le interessava della bocciatura. Ci era rimasta malissimo e si era sentita ancora più stupida per aver sempre sottovaluto la questione. Più volte i suoi avevano caldeggiato il suo ritorno ad Allentown, proprio per salvaguardare la sua carriera scolastica, ma lei si era limitata a liquidare la questione con superficialità. Ora che si trovava di fronte la prospettiva di ripetere l’anno, si sentiva sciocca e sbagliata. Era un fallimento, la sua vita era costellata di progetti incompiuti e il terrore che anche la sua missione a San Francisco si concludesse con un fallimento, iniziò ad impossessarsi di lei.
Non era vero che voleva che Erin fosse consapevole della sua bocciatura: sarebbe apparsa una fallita anche agli occhi sempre troppo buoni ed indulgenti di sua sorella. Sua sorella l’aveva sempre, anche se inspiegabilmente ed immeritatamente, ammirata.
Non era vero che avrebbe voluto urlare contro ad Ingrid, avrebbe solo dovuto complimentarsi con lei per averla saputa giudicare così in fretta e aver colto in pochi minuti quanto fosse inetta.
« ‘Fanculo » ripetè, mentre delle lacrime di frustrazione fecero capolino ai lati degli occhi « ‘fanculo » ripeté, sotto gli scricchiolii ostinati della porta.
Non si accorse nemmeno del rumore alle sue spalle, quello di una serratura che, diversamente dalla sua, veniva sbloccata:
« Ah, sei tu Fiafia? » domandò una voce familiare.
La rossa non si voltò, ma cercò di acquistare un po’ di compostezza:
« S-sì, ho avuto un po’ da fare oggi » mormorò, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
« Tutto ok? » indagò Hilary, spostandosi sul pianerottolo. Sophia inspirò profondamente, sperando che la ragazza non notasse gli occhi lucidi.
« Sì ovvio… »
Fu costretta a girarsi e, non appena lo sguardo della vicina si posò su di lei, vide la sua fronte aggrottarsi:
« Hai gli occhi lucidi »
« E’ per il freddo »
« Non fa così freddo » osservò la mora.
« Cos’è un tribunale? » scattò Sophia sulla difensiva. Hilary allora alzò le mani in segno di resa, borbottando:
« Volevo solo riferirti un messaggio da parte di Felicity: mi ha detto che oggi è passato a cercarti Nathaniel »
Sentendo quel nome, i sensi della rossa si allertarono, come un predatore che fiuta una preda:
« Quando? »
« Questo pomeriggio »
« A che ora? » incalzò l’altra.
« Non lo so, chiamalo invece di stare qui a chiedere a me che manco c’ero » la rimproverò bonariamente Hilary. Si sentì chiamare alle sue spalle, costringendola a sporgersi verso l’interno dell’appartamento:
« Arrivo, Joe »
« Salutamelo » disse Sophia, cercando di recuperare la sua ben nota allegria. La mora annuì e prima di richiudersi la porta alle spalle, si raccomandò:
« Chiamalo Sophia, non fare la solita orgogliosa »
Mentre la serratura scattava, la rossa tornò a lottare con la propria, riuscendo miracolosamente a sbloccarla.
Entrò nell’appartamento, abbandonando pesantemente la borsa sul tavolo. Si distese sul divano, spossata e apatica.
« Chiamalo »
La voce di Hilary riecheggiava nella sua testa, come un mantra.
Lui era passato da lei, ma non sapeva se prima o dopo averla incontrata in negozio.
Voleva stargli lontana, ma lui era l’unico appoggio che le era rimasto a San Francisco ora che Space se ne era tornato a casa. Nemmeno Hilary e Felicity conoscevano la storia di Mackenzie.
Per la verità, nemmeno il biondo era al corrente dell’esistenza di quella persona ma, detestava ammetterlo, era pronta a parlargliene, a dargli qualche dettaglio aggiuntivo a quelli che già gli aveva fornito, che gli potesse aiutarla a far luce sulla vicenda.
Forse era stata la notizia della sua bocciatura a smuovere qualcosa in lei, rendendosi conto che aveva già perso troppo per prolungare il suo silenzio.
« Chiamalo »
Stava per allungarsi verso il tavolo, quando sentì una fitta al petto.
Un dolore intenso che durò appena pochi secondi.
« Non di nuovo… » sussurrò, a filo di voce.
Il viso era tetro e diafano, mentre il respiro cercava di normalizzarsi.
Tornò a stendersi sul divano e lasciò che le lacrime che prima aveva trattenuto, uscissero con tutta la loro inarrestabile foga.
 
Mackenzie guardò torva la ragazza seduta davanti a lei.
Non sopportava le sue coetanee e Nelly era lo stereotipo di tutto ciò che per lei rappresentasse un’oca adolescente. Era in quella scuola da due ore e già ne aveva abbastanza.
Appena arrivata a casa, avrebbe chiamato sua madre, dicendole che per niente al mondo avrebbe passato i prossimi mesi in quella scuola.
Voleva tornare a casa, ne aveva già piene le scatole di quella città.
Eppure, sia che si muovesse in treno, sia che optasse per l’aereo, in entrambi i casi avrebbe dovuto disporre di una cifra considerevole per attraversare il paese. Soldi che non aveva.
Era costretta a restare lì, sottostare alla volontà di sua madre che l’aveva allontanata solo allo scopo di farle avere una vita migliore.
Che cosa intendesse Dianne con vita migliore però, Mackenzie ne era all’oscuro. Vivere sotto lo stesso tetto di Mary era un’agonia che soffocava lentamente ma inesorabilmente la sua pazienza, privandola dell’allegria e spensieratezza che si addicevano alla sua giovane età.
No, non poteva pensare di passare un minuto più del necessario in quella casa.
Contrariamente a quanto aveva promesso a sua madre, quel giorno la ragazza prese una decisione: si sarebbe cercata un lavoro.
 
Erin aiutò Hailey a raccogliere i colori caduti sul pavimento della stanza, riponendoli con cura all’interno di un portapenne cilindrico. Il sole stava tramontando e per lei e Castiel era arrivato il momento di rientrare a Morristown.
« Hailey, mi passi il rosso là in fondo? » domandò, indicando un pastello.
La bambina lo raccolse in silenzio, porgendolo alla ragazza che ringraziò con un sorriso dolce:
« Perché non resti ancora? »
Erin sospirò paziente e, portando una mano dietro la schiena della bimba, disse:
« Te l’ho già spiegato Hailey, domani io e Castiel abbiamo scuola… »
La vide abbassare il capo e chinarsi per terra a raccogliere gli ultimi colori rimasti.
« Abbiamo fatto un bel disordine, eh? » cercò il dialogo Erin, ma Hailey non rispose.
Non aveva messo il broncio, come avrebbero fatto molte bambine della sua età. Se ne stava muta e impassibile, come se in quella stanza non ci fosse nessun’altro a parte lei.
« Erin, muoviti »
Castiel aveva fatto capolino nella stanza, già vestito e pronto alla partenza. L’amica annuì, alzandosi da terra e lanciando un’ultima occhiata colpevole alla bambina.
« Che ha? » le sussurrò il rosso, appena Erin gli passò accanto.
« Non vuole che me ne vada »
L’amico si grattò il capo, sospirando combattuto. Da un lato gli dispiaceva vedere la sua sorellastra così silenziosa ed apatica, dall’altro però non sapeva da che parte prenderla. Prima di abbandonare la stanza, un foglio abbandonato sul tavolo catturò la sua attenzione. Si avvicinò, raccogliendolo in silenzio, mentre Hailey ed Erin lo fissavano senza battere ciglio.
Il disegno ritraeva un tizio con i capelli rossi e una giacca nera, riferimento fin troppo ovvio nonostante l’infantilità del tratto.
« Mi somiglia » mentì, mentre osservava uno stile che ricordava vagamente un Picasso.
« Non è finito… » mormorò Hailey laconica.
Castiel ripose con cura il foglio sul banco e dichiarò:
« Allora vedi di completarlo nana, così la prossima volta che torno, me lo regali »
Erin stava per indisporsi per il tono poco garbato dell’amico quando il suo intento venne frenato dal sorriso timido di Hailey.
Quel disegno, valeva come promessa per il prossimo incontro.
 
Tyra ed Hailey accompagnarono i due fino all’esterno del condominio, dove la Chrysler aspettava di essere messa in moto:
« Grazie per l’ospitalità » sorrise Erin, con un leggero cenno del capo.
« Grazie a voi per essere venuti » replicò di rimando la donna, mentre Hailey sembrava nascondersi dietro al sua gonna in tweed. Cercò lo sguardo del figlio che, in quel momento, stava osservando di sfuggita proprio la bambina:
« Tornate quando volete » gli disse, con l’espressione più dolce che le fosse possibile e, istintivamente, cercò l’abbraccio di Erin. Sapeva che la mora non si sarebbe sottratta ad esso, anche se in un primo momento rispose a quella stretta inaspettata in modo un po’ impacciato. Era estremamente grata a quella ragazza, infatti Tyra non ci aveva messo molto a capire chi fosse la responsabile del cambiamento che stava avvenendo in suo figlio. Anche Frank le aveva parlato con affetto di quella ragazza mora che, accanto a loro figlio, sembrava smussarne i dissapori e asperità.
L’abbraccio con Erin non era solo un atto dovuto ma anche un’astuta strategia per far sì che il figlio le perdonasse quel gesto d’affetto che si apprestava a fare. Perciò, dopo essersi sciolta da Erin, Tyra allargò le braccia verso Castiel che, con riluttanza, accettò quella stretta. Appena la madre gli cinse le spalle, sentì un nodo alla gola, al pensiero di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’aveva stretto a sé. Non ricordava nemmeno di aver mai cinto quelle spalle larghe, quel corpo che la superava in altezza.
Non ricordava nemmeno di essersi accorta che suo figlio fosse diventato un uomo. Frank le aveva detto che il loro ragazzo era molto cambiato rispetto alla scorsa estate, ma solo quando se l’era trovato davanti, Tyra era riuscita a credere alla veridicità di quelle parole.
Castiel a sua volta, per quanto cercasse di dissimulare, avvertì una sensazione di sollievo tra quelle braccia ma il suo orgoglio gli impedì di prolungare quel momento: si allontanò dopo appena pochi secondi, recuperando la sua compostezza.
« Venite voi a trovarci! » esclamò Erin, accucciandosi all’altezza della piccola Hailey.
« Senz’altro » rispose per lei Tyra.
Si avviarono verso la macchina, volgendo alle due un ultimo cenno con la mano.
Quando Hailey sentì il suono delle portiere che venivano chiuse, si staccò dalla gonna di Tyra e mosse qualche passo in avanti, come se si fosse fatta prendere dall’urgenza di dire qualcosa. Il motore era ormai acceso e Castiel aveva ingranato la prima.
Mentre guardava la Chrysler svoltare l’angolo, aprì la bocca ma non riuscì a dire nulla. Vide Erin lanciarle un ultimo sorriso e a quel punto, Hailey non potè far altro che ricambiarlo.
 
Nella stanza si udiva solo il rumore delle pagine che ogni tanto Lysandre sfogliava e il tratto della matita di Rosalya contro il foglio.
« Lys? »
Il fratello staccò lo sguardo dal libro, sollevandolo verso la stilista:
« Tu hai mai conosciuto la madre di Castiel? »
« L’ho incrociata un paio di volte l’anno scorso »
La sorella non rispose e riprese a disegnare. Tuttavia, dopo quella domanda, la curiosità del poeta era stata stuzzicata e non intendeva lasciarla sopire:
« Come mai questa domanda tutt’a un tratto? »
Vide la sorella fare spallucce e sollevare il foglio, con aria pensierosa:
« Devo aggiungere dei motivi a onde per dare più movimento… » mormorò tra sé e sé.
« Rosa… » la richiamò il fratello « non ignorarmi »
« Stavo pensando a quanto i genitori influenzino il carattere dei figli… prendi i gemelli oppure Erin: si vede che sono cresciuti in un ambiente sereno, le loro mamme sono dei tesori… noi invece… »
« Invece? » la incoraggiò Lysandre, chiudendo il libro ma assicurandosi di tenere il segno con il dito:
« Beh, non siamo cresciuti con i nostri genitori e mi chiedo quanto questo abbia influenzato il nostro carattere… anche Castiel, che nell’adolescenza ha avuto un rapporto problematico con i suoi… insomma, non è tanto a posto »
Il fratello ridacchiò elegantemente e dichiarò:
« Perché, c’è qualcosa di anormale in noi? »
La sorella indicò la mise del poeta, precisando:
« Di certo non c’è niente di convenzionale nell’andare vestito come un tizio vissuto nell’Ottocento »
« Mi piace distinguermi dalla massa… » osservò l’altro con pacatezza, ma mettendosi sulla difensiva.
« … e ammetterai che io non ho un carattere facilissimo » aggiunse, ignorando la difesa del fratello « insomma, se fossimo stati una famiglia normale, noi due non saremo stati… normali? »
Lysandre stentava a credere al tono riflessivo della sorella, che pareva d’un tratto essersi fatta malinconica. Continuava a disegnare sul suo foglio, ma la leggerezza dei tratti erano un indice della sua scarsa concentrazione:
« Non capisco perché tutt’a un tratto ti sei messa a fare questi discorsi… » mormorò perplesso.
Lei rispose ancora una volta con una scrollata di spalle e, poiché non aggiunse altro, Lysandre riaprì i libro, ma non riuscì a soffermarsi sulle parole scritte, poiché quelle enigmatiche della sorella continuavano a riecheggiargli in testa.
 
Dopo una mattinata passata a sedare lo scambio di commenti poco lusinghieri tra Kentin e Castiel, per Erin fu un sollievo entrare in palestra e farsi circondare dall’allegria dei suoi compagni di squadra.
Era quasi un mese ormai che Kim era tornata al club di atletica, anche se quella decisione era pesata tanto a lei, quanto ai cestisti. Tuttavia, la mora non aveva mai fatto mistero di sentire la nostalgia per la pista, in cui poteva esibire al massimo le sue capacità atletiche.
« E tu, Erin? Rimarrai nella squadra anche l’anno prossimo? » stava domandando Trevor, mentre erano impegnati in un esercizio di allungamento.
Vide la ragazza tentennare, attirando l’attenzione di Castiel e Dajan, che interruppero la conversazione:
« Veramente la Joplin mi ha esortato ad unirmi al club di scienze, anche se lei non ne è il supervisore »
« Non rimarrai nella squadra? » le domandò il rosso, sorpreso.
« Beh, la verità è che mi sono unita perché l’alternativa era il club di giardinaggio… e non ho esattamente il pollice verde. Inoltre il basket mi ispirava come sport »
« Dì pure che eri attratta da cotanto testosterone! » commentò Wes, passando dietro alla tweener. In risposta, ricevette una pallonata sullo sterno, unita ad un rimprovero da parte di Boris, che gli ordinò di tornare in posizione e fare degli addominali.
« Beh, io l’anno prossimo non ci sarò » intervenne il capitano « però mi sarebbe piaciuto vederti giocare ancora, Erin »
La ragazza fece spallucce, sorridendo rassegnata.
« Erin nel club di scienze, Castiel in quello di basket… fa molto High School Musical » scherzò Trevor, mentre il rosso sbottava:
« E tu hai visto un film per ragazzine? »
« Si vede che non hai una sorella più piccola… » commentò Dajan, pensando alla sua Blake.
« Invece ce l’ha » lo contraddisse Erin allegra.
« Da quando? » si sorpresero i due cestisti.
« Da ieri »
« Tu farti i cazzi tuoi mai, eh? » sbottò Castiel.
L’amica lo ignorò e domandò:
«Le vostre sorelle quanti anni hanno? »
« Blake ne ha nove »
« Anche Emily » precisò Trevor « sono in classe insieme »
« Perfetto! » squittì Erin e voltandosi verso il rosso, propose « la prossima volta potremo far sì che Hailey faccia amicizia con loro! »
« Frena, frena Cip… » la sedò Castiel « non partire in quarta come al tuo solito »
Stava per replicare quando Trevor intervenne con ammirazione:
« Cazzo Erin, come fai a toccarti la pianta del piede così facilmente? »
La ragazza infatti, nonostante il perdurare della conversazione, era rimasta in allungamento come se quella posizione non le costasse alcuno sforzo, ma al contrario, le risultasse alquanto naturale.
« Ti ricordo che ho fatto ginnastica artistica da piccola » osservò.
« Tiratela meno » la rimbeccò Castiel.
« Non me la sto tirando »
« Ma quindi, tornando all’argomento principale, tu Erin l’anno prossimo andrai con gli scienziati? » riepilogò Dajan.
« A dirla tutta, non è neanche detto che sarò ancora qui in questo liceo »
Quell’ultimo commento urtò visibilmente Castiel. La sua espressione tradì un certo sconcerto, che non esitò molto prima di concretizzarsi in un’esclamazione di disappunto:
« Come sarebbe a dire? »
« Beh, mi sono trasferita a Morristown perché volevo cambiare aria e c’era mia zia in questa città. E’ stata lei ad insistere perché mi iscrivessi qui, ma di fatto per i miei non è così semplice pagare la retta. Non so se riuscirebbero ad accollarsi le spese di un altro anno. In aggiunta, è probabile che mia zia pianifichi di andare a convivere con Jason appena finirà l’anno scolastico… e di certo io non potrò fare da terzo incomodo »
« Vai a vivere con Castiel allora! » osservò Trevor, come se fosse la cosa più ovvia.
« E l’affitto come lo pago? » rise lei imbarazzata, fingendo che fosse l’unico ostacolo a quell’idea.
« In natura » replicò placidamente il cestista, mentre Dajan sghignazzava. Gli occhi di Castiel si ridussero a due fessure, mentre Erin avvampava:
« La pianti di dire cazzate, tu? »
« Eddai Black! Hai una casa tutta per te! E’ uno spreco non portarci dentro una ragazza… ma che dico una? Più ragazze possibili! »
Lui lo ignorò, così come Dajan che propose:
« Vorrà dire Erin che entrambi ci godremo al massimo quest’ultimo anno con questa squadra di sempliciotti »
« Ehi ehi, solo perché sei nei Cavs, non pensare di tirartela tu, ora… a proposito di gente boriosa… l’hai più sentito Lanier? »
« Ti ha scritto il capitano della Saint Mary? » s’intromise Erin eccitata.
« Tzè, figurati. Non è il tipo… no, gli ho scritto io qualche tempo fa per chiedergli una cosa sull’agente che ci ha contattati. E’ stato meno brusco del previsto »
« E se andassimo a trovarli? » esclamò Erin.
« Chi? » domandò Trevor.
« La triade divina! »
« E questi chi sono? » farfugliò Castiel, rinunciando definitivamente allo stretching.
« Ah giusto, tu non c’eri, Ariel »
« Eri impegnato a mangiare crauti » aggiunse l’ala grande.
« Sono i giocatori che hanno vinto il torneo. Li abbiamo incontrati in semifinale »
« Gente forte, quindi » ghignò l’ex capitano, compiaciuto.
« Non hai idea di quanto lo siano » sottolineò Dajan, con una smorfia analoga.
« Allora perché non andiamo a prenderci una piccola rivincita? » propose Trevor.
« Ehi! Io voglio andarci in amicizia! » protestò l’unica ragazza del quartetto, imitando il rosso e riposando le gambe.
« Vedrai che avranno più voglia di noi di giocare » osservò il capitano.
« Chiamiamo anche Kim, comunque » precisò Erin, ottenendo un cenno d’assenso da parte del moro.
« Ok, ma come ci andiamo? Abitano… dov’è che abitano? » chiese la ragazza.
« Chicago… saranno più di dieci ore di macchina »
« Dovremo andarci in aereo » propose Castiel.
« Non credo di potermelo permettere » ammise candidamente Dajan.
« Pure io » si aggiunse Erin, alzando la mano come una bambina.
« Beh, che io sappia, c’è il servizio bus notturno. Con quello potremo risparmiare non poco » mediò Trevor.
« Quindi abbiamo il costo dell’alloggio e del trasporto… » riepilogò Dajan « per me può andare. Proviamo a sentire i ragazzi e in base a cosa ci rispondono, decidiamo se andarci e nel caso, quanti giorni restare là »
« Chiamo io Melanie! » si lanciò Erin, mentre riceveva un giornale arrotolato in testa.
« Ahio! Bors, ma che ti prende? » si lagnò voltandosi verso il corpulento allenatore:
« Sei una fonte di distrazione, Erin! Dove ti metto, i ragazzi finiscono per cincischiare. E’ da un quarto d’ora che non fate altro che chiacchierare! »
« Stavamo organizzando un incontro con i ragazzi della Saint Mary » piagnucolò l’altra e, per un attimo, vide gli occhi dell’uomo illuminarsi.
« Dieci giri del campo! » tuonò infine, assicurandosi che i suoi ragazzi non notassero il suo sorriso di pura felicità.
 
Il suono del campanello la fece sussultare.
Il primo pensiero fu maledire l’ospite che, dopo aver controllato l’ora, risultò ancora più inopportuno. Erano quasi le undici, e lei si era appisolata sul divano.
Sophia si alzò pigramente, barcollando fino alla porta.
Era talmente assonnata, che non si curò di pettinarsi o rendersi presentabile. Aveva i capelli arruffati e la maglietta stropicciata.
Fu per questo che, quando aprì la porta, sgranò gli occhi per l’imbarazzo.
« Stavi già dormendo? » ansimò Nathaniel.
In un primo momento, la rossa arrossì per il disagio del suo aspetto e per la vicinanza con quello che ormai, era diventato il suo chiodo fisso. Notò solo successivamente la ritmicità con cui il petto del ragazzo si alzava e abbassava, il leggero fiatone e le guance imporporate:
« Hai corso? » indagò.
Lui annuì, cercando di normalizzare il respiro.
« Sì… oddio, ancora non ci credo che l’ho fatto… » borbottò tra sé e sé. Scuoteva il capo, come se stesse per scoppiare in una risata isterica da un momento all’altro. Tuttavia, la sua espressione tradiva anche un certo sconcerto, del quale non riusciva a capacitarsi:
« Sei sorpreso del fatto di riuscire a correre? »
« Non fare la scema » gli sorrise lui, facendola sciogliere per la luminosità di quella smorfia. Si morse il labbro, sperando che il dolore la distogliesse dall’imbarazzo provato.
« Ho mandato mio madre a quel paese… lei, mio padre e tutti quei progetti che hanno su di me » dichiarò incredibilmente felice.
« Cosa? »
Lui annuì orgoglioso, mentre lei lo lasciava accomodare, interdetta:
« L’ho riaccompagnata in hotel e, per strada, ha iniziato con i soliti discorsi su quali siano le mie responsabilità verso l’azienda e verso la famiglia. Non ci ho visto più e sono sbroccato di brutto! Le ho vomitato addosso tutto quello che penso e ho messo in chiaro che le minacce non funzionano più. Che mi compromettano la carriera, non mi interessa. Me ne andrò per la mia strada, in qualche modo riuscirò a cavarmela senza il loro supporto… »
Nathaniel raccontò quella notizia accavallando una parola dopo l’altra, lasciando che la mancanza di fiato fosse sopperita dall’adrenalina.
Per troppi anni aveva detto troppi sì.
Per troppo tempo aveva taciuto troppi no.
Era finalmente arrivato il momento di liberarsi da quelle catene che gli impedivano di sentirsi libero.
Sophia lo ammirava incantata, mentre lui camminava avanti e indietro per la stanza, agitando le mani freneticamente. Era commovente ed eccitante vederlo così di buon umore e allegro.
Non sembrava neanche lui.
« Ed è cominciato tutto grazie a te! » esclamò all’improvviso, voltandosi verso di lei.
La colse mentre lo osservava con un sorriso dolce che, se fosse stato più accorto, avrebbe capito che l’aggettivo più adatto a descriverlo fosse “innamorato”.
« I-io? » balbettò a disagio.
« Quella volta in spiaggia… quando me ne hai dette quattro… ricordi? Ci ho pensato a lungo e da lì mi sono convinto che non potevo comportarmi da vigliacco. Non me ne frega più nulla se così ho compromesso il mio futuro, almeno avrò la possibilità di agire secondo le mie scelte! »
Nathaniel non la smetteva di sorridere, guardandola con una tale gratitudine da farla commuovere. Era la prima volta che qualcuno diverso da sua sorella, la faceva sentire così importante e preziosa.
A quella felicità però, fu costretta a sommare l’amarezza di quanto la gioia che sentiva fosse pericolosa. Non aveva bisogno di altri pretesti per intenerirsi alla vista del ragazzo, doveva piuttosto trovare un modo per soffocare il tutto.
Fu per questo che, appena il ragazzo le lasciò lo spazio per intervenire, commentò con mesta dolcezza:
« Immagino che Rosalya avrà fatto i salti di gioia »
Nathaniel sembrò spegnersi, guardandola come se avesse pronunciato quella considerazione in una lingua incomprensibile.
Non aveva minimamente pensato a chiamare per prima Rosalya. Anche se era la sua ragazza e lo conosceva da oltre quattro anni. Non aveva neppure condiviso l’impatto di quella notizia con il suo migliore amico, Castiel, che da molto più tempo era a conoscenza di quanto gli pesasse quella situazione. Manco Ambra, sua sorella, aveva avuto la precedenza.
Sophia.
Appena la figura di sua madre era sparita dietro la porta girevole dell’hotel di lusso, solo quel nome aveva continuato a riecheggiargli in testa.
Sophia.
Aveva iniziato a correre, con le ali ai piedi, seguendo quel richiamo per le strade di San Francisco.
Sophia.
Era lei la prima e unica persona a cui aveva pensato.
E quella considerazione, di cui non riuscì a spiegarsi la natura, finì per turbarlo.
Rimase talmente confuso da quell’ultimo pensiero che, dopo un fugace scambio di battute, si congedò, dimenticandosi il motivo per cui l’aveva cercata quel pomeriggio.
La preoccupazione del dottor Wright circa la salute della giovane paziente, dovette così aspettare ancora.
 
Il sacco dell’immondizia emanava un odore intenso di cialde di caffè, miste ad aromi sconosciuti. Jordan scese i tre gradini del retro del pub, avvicinandosi al cassonetto.
Cercava di tenere il sacchetto ad una certa distanza dal corpo, per evitare che gocce di dubbia origine le macchiassero i vestiti. Il che, le conferiva un’andatura alquanto sgraziata ma per sua fortuna, nessuno stava assistendo a quella scena. Questo almeno era quanto pensava.
« Ecco a voi Miss Portamento 2016! »
Stava per sollevare il coperchio del bidone ma fu costretta a rinunciare e voltarsi seccata. Prima che avesse il tempo per apostrofare l’intruso, di cui aveva subito riconosciuto la voce, si trovò puntato contro un cellulare:
« Che fai, idiota? »
« Una foto per i fan » la informò Trevor, premendo il tasto della fotocamera.
Lei si avvicinò a lui, esasperata:
« Ma tu non hai niente di meglio da fare che stalkerarmi tutto il giorno? Non ce l’hai una vita? »
« Sei il mio passatempo, Jojo » replicò il cestista con una faccia da sberle.
La cameriera abbandonò pesantemente il sacco all’interno del bidone, chiudendo con rabbia il coperchio.
« Senti bello, oggi è stata una giornata pesante, sono stanca e voglio solo andarmene a casa » dichiarò, avvicinandosi a lui a grandi passi.
« Lo so » convenne l’altro « è per questo che sono qui »
Lei lo guardò senza capire, finchè lo vide sorridere in modo disarmante:
« Dai Michael, ti accompagno a casa »
« C-ci posso andare benissimo da sola! » protestò, spiazzata da quella cavalleresca proposta « e poi piantala con questi soprannomi del cavolo »
« Non è sicuro… » continuò imperterrito Trevor « non hai sentito che c’è un molestatore che si aggira nella zona industriale? »
« Fortunatamente abito dalla parte opposta »
Lui sospirò divertito:
« Sei un osso duro, ma è per questo che sei così divertente »
Gli occhi di lei diventarono due fessure. Non c’era modo di allontanarlo, di eliminare quell’invadente presenza. Non lo sopportava, lui e tutto ciò che la sua vita agiata rappresentava.
« Forse dovrei cambiare strategia con te… » ragionò, rientrando nel locale, mentre lui la seguiva incuriosito. All’interno era rimasto solo il gestore, intento a chiudere i battenti.
« In che senso? » s’incuriosì lui.
« Jordan, c’è ancora un cliente? » domandò sorpreso il proprietario e, rivolgendosi a Trevor, dichiarò « mi dispiace ma stiamo chiudendo »
« No, sono un suo amico » lo corresse l’altro « sono venuto per portarla a casa »
« O, per fortuna, sono mesi che le dico di farsi accompagnare, visto che è sempre l’ultima a lasciare il locale »
Un sorriso vittorioso e furbetto distese le labbra di Trevor, nel frattempo la povera Jordan ruotava gli occhi al cielo. Recuperò il cappotto, mentre il cestista insisteva per trovare una risposta alla sua domanda:
« Cosa intendi per “cambiare strategia”? »
« Che anziché trattarti male, se iniziassi ad assecondarti facendo la mielosa, magari perderesti il tuo sadico divertimento e mi lasceresti finalmente in pace »
« Ah sì? » la sfidò Trevor « non ne saresti capace »
La cameriera corrucciò le labbra e, schiarendosi la gola, mormorò:
« Oh Trevor, come sei stato carino a venirmi a prendere… »
Tuttavia, anziché restare ammaliato da tanta indifesa femminilità, il ragazzo le scoppiò a ridere in faccia. Jordan infatti aveva un sorriso tiratissimo, che nel complesso tradiva un profondo disagio:
« Porca miseria, Jojo, sembri un babbuino che sta tirando le cuoia! Possibile che tu sia così impedita con gli uomini? » la derise.
« Il problema è che tu non sei un uomo, sottospecie di verme parassita intestinale! » ribattè lei in preda all’imbarazzo.
Si calò il berretto coprendosi interamente la fronte e avvolse per più giri la sciarpa intorno al collo. Si pentì della figuraccia appena fatta, che aveva fornito al ragazzo l’ennesimo pretesto per deriderla. Si era tolta le lenti a contatto in bagno, sistemandosi gli occhiali da vista che, appena uscita dal locale, si appannarono per il freddo.
« Tu non sei venuto qui per accompagnarmi a casa, ma solo per sfottermi » borbottò irritata, strofinando le lenti contro un fazzoletto.
« Forse… » ipotizzò l’altro, con un sorriso eloquente.
Camminarono per i marciapiedi, deserti e silenziosi:
« A quest’ora non dovresti startene a casa tua sotto le coperte? » domandò lei.
« Potrei dire lo stesso di te »
« Io lavoro, perché a differenza tua, ne ho bisogno »
Il cestista non replicò, ma si limitò ad accendersi una sigaretta.
« Ti dispiace se fumo? »
« Tanto fai sempre di testa tua » farfugliò la ragazza.
« Se ti dà fastidio il fumo, non la accendo »
« Fa’ come ti pare »
« Sei un po’ acidella, te l’hanno mai detto? »
« E te ne accorgi ora? »
Proseguirono per una ventina di minuti, continuando a scambiarsi battute superficiali ed inconcludenti, che non erano sufficienti a decretare la vittoria dell’uno sull’altra:
« Ok, sono arrivata ora vattene » lo liquidò, affrettando il passo.
« Potresti almeno ringraziare, Jojo »
« Grazie Trevor per avermi preso per il culo tutta la sera, tu sì che sai rallegrarmi la giornata »
« Non c’è di che, dolcezza » si pavoneggiò il cestista ma, anziché andarsene, accompagnò la ragazza fino al campanello:
« Adesso che vuoi? Fare un sit-in qua fuori? »
« O, veramente io speravo che mi invitassi a salire… » commentò malizioso.
« M-ma sei fuori! E poi non sono sola »
Vedendola avvampare, il ragazzo scoppiò nuovamente a ridere, beffandosi della sua ingenuità.
« Sei proprio una bimbetta, Jojo »
Lei sbloccò la serratura, affrettandosi a liberarsi da quella palla al piede:
« Vivi con i tuoi quindi? »
« Non sono affari tuoi » e sbattè il cancello con quanta più forza avesse.
Era stanca, spossata e ne aveva piene le scatole della superficialità di quel buon tempone. Eppure, era quanto di più simile ad un amico. Amico che non aveva mai avuto.
 
Odiai quella Erin perché, proprio come era stato con Debrah, arrivai alla conclusione che fosse stata la responsabile dell’infelicità di Castiel.
Durante la sua assenza, soffrii come un cane, pardon, questa frase non aggiunge nulla di nuovo al mio status.
Passavo le mie giornate svegliandomi con la speranza di vederlo tornare e mi riaddormentavo con la delusione di aver visto crollare la mia illusione.
Quel ciclo si ripetè per settimane e non bastava la presenza di Mauro per risollevarmi il morale.
Tutto cambiò quel giorno in cui riconobbi quella voce.
Quella detestabile voce.
Era riuscita ad insediarsi nell’appartamento grazie a Mauro, che mi stava chiamando a gran voce.
La cercai per la casa, fiutandone l’odore che avevo memorizzato settimane prima.
Era nell’ultimo posto in cui doveva essere.
Aveva invaso il territorio più sacro e intimo della casa: la camera di Castiel.
Non le avrei permesso di insudiciarla con la sua puzza di odiosa umana.
Non avrebbe cancellato l’odore del mio padrone.
Stava accarezzando il suo cuscino, sfiorandolo con una delicatezza che finsi di non vedere.
Non volevo accettare quello sguardo dolce e malinconico con cui lo stava osservando.
Quando se lo portò al viso però, quella scena abbatté ogni mia difesa.
Rimasi a fissarla, senza capire le sue azioni.
La vidi riporre il cuscino al suo posto ma, quando si voltò, un paio di lacrime le rigavano il viso. Si era accasciata contro il letto, sedendosi sul pavimento.
Fu allora che capii.
C’era un legame speciale tra lei e Castiel.
Lei non era come Debrah.
Vedendo le lacrime rigarle il viso, realizzai che erano più sofferte delle mie.
Era dalla mia parte, stavamo patendo entrambi la separazione dalla persona più importante della nostra vita.



 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Questa volta il capitolo ha una lunghezza più gestibile (so che sono l’unica a lamentarsi della cosa xD).
In ogni caso, visto che mi sembra sempre che passi troppo tempo tra un ringraziamento e l’altro, con il passaggio al 2016, voglio dire un sincero “grazie” a tutte voi che continuate a leggere e recensire la storia ^^.
Se avete letto il capitolo da Wattpad, vi invito a cliccare nel link seguente che rimanda a EFP dove ho potuto pubblicare il disegno di Kiritsubo83, a cui si somma un altro ringraziamento da parte mia :3
 
A tal proposito, ci terrei a precisare una cosa per il futuro, giusto per evitare equivoci ed essere trasparenti. I disegni che pubblico sono di proprietà delle relative autrici, pertanto per chi volesse usufruirne per postarli in altri siti, è tenuto a contattare chi l’ha realizzato e chiederne il permesso. Mi scuso se non l’ho mai precisato prima, ma meglio tardi che mai u.u
 
Comunque, come pot(r)ete osservare, l’immagine ritrae Jordan, protagonista dell’ultimo paragrafo del capitolo. In particolare, vi invito ad osservare i dettagli del muro, giusto per sottolineare l’ironia di questa meravigliosa ragazza <3.
 
Altra cosa: ringrazio chi ha partecipato al form per postare domande su IHS. Ho deciso di apportare una modifica rispetto al mio intento iniziale. Dal momento che mancano esattamente 25 capitoli alla fine della storia (sperando di riuscire a rispettare la scaletta che ho programmato), a partire da questo capitolo, pubblicherò una o due domande tra quelle che mi sono state poste.
Inoltre, ho deciso di migliorare il modulo, aggiungendo la possibilità di indicare il proprio nickname da associare alla domanda.
Da oggi in poi quindi, se lo vorrete, questo è il nuovo form in cui chiedere qualsiasi cosa vogliate sulla storia (ma ovviamente mi riservo la possibilità di non rispondere in casi particolari xD).
 Lascerò il link anche sulla mia home di EFP e nel profilo di Wattpad.
Veniamo ora alla prima domanda a cui ho scelto di rispondere e che, di fatto, è quella ricorda con maggior frequenza (SPOILER ALERT!):
 
  • Hai detto che saranno 80 capitoli, ma Erin e Castiel si metteranno insieme prima (perché sì, loro si metteranno insieme) o la storia terminerà con il loro fidanzamento?
 
Dunque, credo sia sempre stato scontato che Erin e Castiel finiranno per mettersi insieme, motivo per il quale non ne ho mai fatto mistero (oltre al fatto che ho serie difficoltà nel trattenermi dallo spoilerare u.u). Premesso ciò, prometto che IHS non finirà, banalmente, con la loro dichiarazione… penso sarebbe un epilogo un po’ deludente, me lo confermate?
Ovviamente non dirò in quale capitolo è prevista la realizzazione di questa coppia, ma posso assicurarvi che per un po’ riusciremo a vederli nei panni di fidanzati e non più di amici ^^.

 
Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 56
*** I misteri dell'arte ***


56.
I MISTERI DELL’ARTE


 
« Io insisto per accendere il mio navigatore! »
« Non serve, Evans… basta seguire le indicazioni stradali, visto che a grandi linee so dove andare » lo tranquillizzò il pilota. Castiel teneva saldo il volante con la mano destra, poiché le dita della sinistra erano impegnate a tamburellare il ritmo delle note di sottofondo dei Queen of the Stone Age.
Uno schiocco di labbra anticipò la tenacia del suo copilota, sedutogli accanto, che perciò insistette:
« Con il navigatore siamo sicuri di fare la strada più breve »
« Ambra, come si spegne questo coso? » sbottò il rosso spazientito, indicando Armin con il pollice. La bionda sorrise leggermente, allungandosi in avanti verso il suo ragazzo:
« Armin, se Castiel sa la strada, sinceramente preferisco fare a meno del navigatore… è fastidioso sentire quella voce di sottofondo »
« La verità è che non siete convinti che l’abbia sistemato »
« La pianti di fare il moccioso? » s’irritò Castiel « che hai? »
L’amico non replicò, fingendo di trovare interessante un paesaggio che era rimasto immutato nell’ultima mezz’ora. Per chilometri e chilometri, davanti ai loro occhi, si presentavano solo infinite campagne riarse, che attendevano con trepidazione la primavera per sbocciare in tutto il loro verdeggiante splendore.
« In questi giorni è solo nervoso perché mio padre gli ha chiesto di venire a cena » spiegò Ambra, di fronte al silenzio del moro.
« Ti sembra una cosa da poco? » si agitò quest’ultimo.
« Non urlarmi nell’orecchio… » borbottò Castiel irritato, piegando il busto lateralmente per scostarsi da quella fastidiosa lamentela.
« Tornerà anche Nathaniel per l’occasione, giusto? » s’intromise il quarto e ultimo membro dell’abitacolo, Erin, portandosi a pochi centimetri dal collo del pilota. Castiel lanciò un’occhiataccia fugace allo specchietto retrovisore, per poi tornare concentrato sulla carreggiata:
« Voi due dietro, state sedute composte! » grugnì ma solo Ambra si riappoggiò contro lo schienale, mentre la mora continuava a chiacchierare imperterrita.
« Dice che ha una grossa novità… a te Ciop ha detto nulla? »
« No… e di certo non verrei a dirla a te » le abbaiò contro, mentre sentiva il fiato caldo di lei contro la nuca.
Lei storse il labbro superiore, incrociando le braccia al petto e tornando seduta accanto ad Ambra.
Erano in macchina da un paio d’ore, diretti a Pittsburgh. L’autostrada era scorrevole e il viaggio era trascorso in allegria. Ambra e Castiel, come mai prima d’allora, erano riusciti ad instaurare un dialogo, complice anche gli ultimi pranzi scolastici consumati insieme al loro gruppo di amici. Sin dal suo ritorno a Berlino, il rosso aveva realizzato quanto radicalmente la bionda fosse cambiata e, in quel cambiamento, era coinvolta anche la cessata infatuazione nei suoi confronti. Non aveva voluto approfondire la questione, gli bastava sapere che la ragazza non l’avrebbe più assillato con le sue mielose attenzioni, ma del resto, quell’Ambra che ora stava con il suo amico Armin, era incompatibile con quella che si era lasciato alle spalle prima di partire per la Germania:
« Avete fatto l’esercizio 232 di matematica? » stava domandando la bionda:
« Daniels, ti prego, non parlare di scuola! » si lagnò il rosso.
« No, ma lo copierò da Castiel » annunciò Erin come se fosse una cosa perfettamente naturale.
« Scordatelo »
« Ma se mi hai sempre fatto copiare? E poi scusa, io ti passo gli appunti di tutto il resto delle materie, ti chiedo solo aiuto per mate che sono una capra » protestò la mora.
« Me li passi, ma non mi servono ad un tubo vista la calligrafia di merda che ti ritrovi » obiettò l’amico.
La mora stava per sbottare quando Armin intervenne:
« Che argomento state facendo? »
« La funzione di una parabola » spiegò Ambra.
« Ah beh, cazzate » minimizzò il moro.
« Sì appunto » borbottò Castiel, leggendo il nome di un’uscita autostradale.
« Cazzate per voi due che le avete già fatte! » s’indispettì Erin « chiederò a Kentin allora ».
« Ti ricordo che l’ultima volta che ho copiato da lui, ho preso F nel test di fisica » puntualizzò Castiel, superando un’utilitaria davanti a loro.
« Perché sei così idiota da non aver capito che il prof aveva dato due test diversi a file, proprio per impedirci di copiare. Infatti lui ha preso A+ »
« Gnè gnè » gracchiò Castiel, facendo il verso alla saccenteria dell’amica.
Nonostante la sorpresa perplessità dei suoi insegnanti, matematica era l’unica materia in cui l’alunno Castiel Black brillava davvero. Capiva al volo le spiegazioni, risolveva esercizi complicati e riusciva persino a trovare modi alternativi per raggiungere la soluzione di un problema. Se non fosse stato per la sua pigrizia nello studio della teoria, che ad ogni interrogazione esponeva in modo grossolano e approssimativo, avrebbe avuto voti più alti di Ambra e Kentin. Erin glielo ripeteva di continuo ma il ragazzo era sordo ad ogni sprono o critica. I successi scolastici non erano mai stati motivi di vanto per lui.
« Ok, ora basta rock » esclamò Armin d’un tratto, impugnando il cellulare di Castiel e disconnettendo il Bluetooth « si passa agli Imagine Dragons »
Quell’annuncio venne approvato dalle due ragazze mentre il rosso, suo malgrado, si trovò costretto ad ascoltare un genere che non rientrava tra i suoi preferiti.
 
Aveva messo a tacere la sua coscienza sin da quando quel mattino aveva aperto gli occhi.
La notte le aveva portato consiglio, prendendo una decisione definitiva: quella storia andava risolta una volta per tutte e, visto che ormai l’aveva in parte condivisa con Nathaniel, tanto valeva accettare la sua collaborazione.
Ne era innamorata? Sì, ma avrebbe dissimulato.
Coinvolgere lui e non Erin era ingiusto? Sì, ma era la scelta più comoda.
Basta farsi angosciare dalle proprie paure.
Dovevano scovare Jack e solo allora, sarebbe potuta ritornare da Mackenzie.
Attraversò il viale del college, popolato da studenti provenienti da ogni angolo del paese. Attraversò un porticato e salì alcuni gradini che la condussero all’interno di un corridoio lungo e stretto. Incrociò un paio di ragazzi, che la fissarono incuriositi, ma lei li ignorò: di certo aveva un look un po’ eccentrico, considerato che era circondata da ordinari studenti di economia. Era anche consapevole che il regolamento vietasse alle ragazze di fare incursione nei dormitori maschili ma quella regola era talmente ignorata, che non veniva neanche più percepita come un divieto.
Erano le otto del mattino, sapeva che l’avrebbe trovato nella sua stanza.
Doveva solo ricordare correttamente il numero.
35.
Sì, era il 35.
Aprì la porta con foga perché tale era la sua trepidazione, da dimenticare le buone maniere o il buon senso in generale.
Si trovò di fronte un ragazzo dalla carnagione diafana, con una pancia prominente, intendo a levarsi la maglietta, restando solo in boxer. Gli intravedeva le costole sporgenti e anche un’altra protuberanza sotto la cintola, che la fece avvampare per il disagio.
« Oddioscusascusa! » farneticò, sbattendo violentemente la porta.
Lo studente non aveva fatto neanche a tempo a reagire, aveva solo percepito la presenza improvvisa di un’intrusa.
Sophia si scostò da quell’entrata, guardandosi attorno confusa.
Non ricordava quale fosse la stanza del biondo, era evidente. Pregò che nessuno uscisse dalle camerate ma la sua speranza andò in frantumi non appena, l’una dietro l’altra, cominciarono ad aprirsi una serie di porte:
« Ehi che succede? »
« Tutto ok? »
Le voci di cinque o sei ragazzi sconosciuti iniziarono ad accavallarsi per poi concentrare l’attenzione sull’unico individuo di sesso femminile presente in quel corridoio.
Per ultima, si aprì una porta da cui emerse una massa spettinata di capelli biondi.
« Cos’è tutto questo baccano? »
Sophia si voltò di scatto verso quella figura, eroicamente emersa da una delle porte in fondo al corridoio. Corse verso di essa, lasciandosi alle spalle gli sguardi perplessi o maliziosi degli studenti presenti. Spinse Nathaniel dentro la sua stanza, senza lasciargli il tempo di salutarla o capire quali fossero le sue intenzioni. La vide sbattere violentemente la porta, traendo un sospiro di sollievo.
« Che figura di merdaaaa » miagolò, scuotendo il capo mortificata. Aveva incollato le spalle alla porta, quasi volesse assicurarsi che nessuno tentasse di forzarla ed entrare.
Quando rialzò lo sguardo, incrociò l’espressione divertita con cui la stava scrutando il biondo.
« Finalmente sei tornata normale, Travis » la schernì « o meglio, sei tornata ad essere la solita stramba »
Quella frase gli uscì spontanea, alimentata da uno sgravio di cui Sophia non riusciva a spiegarsi la ragione. Il proprietario della stanza si avvicinò al letto, raggruppando alla rinfusa alcuni vestiti gettati lì in malo modo, in un debole e poco convinto tentativo di fare un po’ d’ordine. A parte quei capi di abbigliamento però, il resto della camera era impeccabile, nulla che lasciasse intendere la presenza di un ragazzo ormai ventenne.
« Come mai da queste parti? Dovrei pensare male? » la stuzzicò « ti ricordo che sono già impegnato »
Non si accorse della piega amara che avevano assunto le labbra di lei, poiché distratto dall’esclamazione che seguì la sua provocazione:
« Devi aiutarmi a trovare una persona »
Il sorriso di Nathaniel si spense, mentre scrutava la severità della sua interlocutrice. Si stava mordendo il labbro inferiore, gesto che la accumunava teneramente alla gemella.
« Di chi si tratta? »
« Un tizio di nome Jack Hurst » replicò l’altra prontamente.
« Chi è? »
Sophia inspirò.
Se davvero voleva che Nathaniel la aiutasse, doveva raccontargli qualcosa in più. Bombardarlo di informazioni centellinate con il contagocce l’avrebbe solo confuso o, peggio ancora, fatto arrabbiare.Settimane prima, le aveva promesso di non farle più domande di quelle che fossero necessarie e quell’ultima che gli aveva posto, rientrava nella categorie di informazioni che non poteva tenere per sé.
« E’ il padre di una mia amica. Lo sto cercando, perché le ho promesso di trovarlo »
« Come si chiama questa tua amica? »
« Mackenzie »
Nathaniel non fece una piega e proseguì.
« Tua sorella la conosce? »
« In che senso? » domandò Sophia confusa.
« Non ci sono tanti modi di interpretare la mia domanda: Erin conosce questa Mackenzie? »
«… sì » rispose infine la rossa, dopo alcuni secondi d’attesa.
« E tu non vuoi che sappia che stai cercando suo padre? » riepilogò lui.
La rossa iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, come se quell’andatura la aiutasse a schiarirsi le idee e farsi coraggio:
« Sì, anche se di fatto non è questo il vero motivo per cui non voglio coinvolgerla »
Nathaniel si massaggiò allora la fronte, pensieroso:
« Ok » convenne infine « sto cercando di farmi un quadro della situazione, visto che vuoi il mio aiuto, ma non vuoi nemmeno giocare a carte scoperte »
« Nathaniel io- »
« Non mi sto lamentando » la frenò lui « dico solo le cose come stanno e, se questo è l’unico modo che ho per aiutarti, starò alle tue regole, Sophia »
 
Pittsburgh era una città un po’ diversa dalla loro Morristown. I grattacieli, il cui stile ricordava sì quello della loro città natale, erano tuttavia molto più numerosi e le strade più ampie e trafficate.
Castiel si muoveva con sicurezza, forse troppa, al punto da far sussultare l’amico seduto accanto a lui in più occasioni:
« Stavi per prendere sotto quella vecchina! »
« L’avevo vista, sta’ zitto »
« Occhio al ciclista! »
« E’ dall’altra parte della strada! »
« Frena, è rosso! »
« Non sono daltonico, ho visto! »
« C’è un autovelox! »
« Ma vuoi chiudere quella bocca? » sbraitò il pilota, visibilmente esasperato.
« Ti pare normale guidare così in pieno centro città? Non siamo più in autostrada! »
Ambra ed Erin non intervenivano in quell’acceso scambio di battute, troppo affascinate dalle vetrine e dal via vai lungo i marciapiedi di una città che vedevano per la prima volta nella loro vita.
« Ambra, dov’è che devo girare ora? » domandò Castiel, costringendo la bionda a staccare gli occhi dal finestrino e puntarli sul foglio che teneva sulle ginocchia.
« Dopo il semaforo laggiù in fondo, vai a destra » sentenziò, dopo un rapido consulto della cartina.
« Non è a sinistra? » obiettò Erin, allungandosi verso il foglio.
La bionda controllò la strada cartacea e insistette:
« No, è a destra. Dobbiamo andare verso l’Heinz Field » spiegò.
« Cip, non incasinare Ambra » la rimproverò il rosso, ricevendo uno sbuffo come conferma della ricezione delle sue parole.
La ragazza aveva passato gli ultimi due giorni a studiare nel dettaglio la piantina della città, tracciando meticolosamente il percorso che avrebbero seguito e i posti in cui si sarebbero fermati. Guidò così gli amici fino ad un parcheggio gratuito, comodamente collegato al centro tramite la metro.
« Aveva ragione Lysandre a includerti nel gruppo » borbottò Castiel, in quello che aveva tutta l’aria di essere un complimento. La bionda infatti sorrise leggermente, cercando di soffocare la soddisfazione. Quando era stata invitata ad unirsi ad Erin per quella gita, aveva dovuto dissimulare la gioia nel sentirsi apprezzata e accolta. Emozioni che aveva provato raramente nei suoi quasi diciotto anni, nonostante avesse qualità che le potessero garantire ogni lode.
Scesero dalla vettura e si radunarono davanti ad una statua in bronzo, raffigurante il celebre George Washington.
« Allora ragazzi, riepiloghiamo: questa è la città natale di Tracy Leroy, una famosa artigiana specializzata in cornici di legno. Il nostro compito è scoprire il più possibile su di lei, e a maggior ragione, sulla cornice che ha realizzato. Avete tutti una foto sul cellulare? » li istruì la bionda.
« Roger! » affermarono in coro Erin ed Armin, portandosi una mano sulla fronte e assumendo la posa di un militare. Gli occhi di Ambra si assottigliarono, sbottando offesa:
« Piantatela o vi mollo qui »
« Scusa, scusa » scattò la mora, agitando i palmi mentre il moro sorrideva, per nulla preoccupato. Conosceva abbastanza bene la sua ragazza, da sapere quanto fossero false quel genere di minacce. Tuttavia, non per questo, ne sottovalutava l’orgoglio. Se stuzzicata in questioni più delicate, Ambra era una vera testarda e non sarebbe stato saggio da parte sua sfidarne la grinta.
« Anziché muoverci in gruppo, ci divideremo a coppie, così avremo un raggio d’azione più ampio e quindi maggiori possibilità di scoprire qualcosa su questa donna. Io e Armin andremo nel museo d’arte contemporanea, mentre voi due andrete in cerca di informazioni nelle biblioteche e nelle librerie »
La mora annuì, con una serietà tale da far sorridere i due ragazzi.                                        
« Rilassatevi! Non siamo dentro una puntata di CSI » le derise Castiel.
« Agente Travis e Daniels, a rapporto! » aggiunse Armin, calandosi gli occhiali da sole scuri sul naso.
« Prendetela seriamente questa cosa » farfugliò Erin, mentre Ambra mollava una gomitata al moro.
« Abbiamo il check-in per il motel a partire dalle 18.00, quindi direi che per le 19.00 cerchiamo di trovarci tutti qui » proseguì la bionda.
« Oddio Ambra, come sono contenta che ci darai una mano! » squittì Erin, ammirandone le capacità organizzative e deduttive « hai un futuro nell’FBI! »
« Tzè, come no » sorrise l’altra, poco convinta e riponendo il cellulare nella borsa.
A distanza di anni, le sarebbe tornata in mente quell’affermazione di Erin che avrebbe trovato in essa, il pretesto per vantare una sorta di capacità di preveggenza.
 
Avevano già consultato tre biblioteche ed erano entrati in quattro diverse librerie. Stavano per l’appunto uscendo dall’ultima, mentre Erin attendeva risposta dall’altro capo del telefono:
« Speriamo che Ambra abbia una soluzione » stava commentando, guardando l’amico.
« Dille di raggiungerci » le consigliò Castiel, accendendosi l’immancabile sigaretta. L’amica gli lanciò un’occhiata carica di biasimo, ma lui fece spallucce. Resistere al tabacco era una sofferenza troppo grande per uno come lui. La mora stava per aggiungere qualcosa, quando avvertì una voce dall’altro capo del cellulare:
«Allora Erin, novità? »
« Sì, dunque. Alla Carnegie Library hanno un volume dedicato interamente alle opere di Tracy… il problema è che non possiamo noleggiarlo, solo consultarlo »
Durante la conversazione, fissava l’imponente struttura dell’edificio storico, in cui ogni pilastro trasudava storia e fascino. Amava la lettura ed era rimasta piacevolmente colpita dall’interno di quella biblioteca, in cui si sarebbe persa volentieri se non fosse stato per la fretta che le aveva messo addosso Castiel.
« Davvero? Che strano… forse si tratta di un volume pregiato. Te lo sei fatta mostrare? »
« Sì, ed in effetti sembra piuttosto prezioso. E’ ricco di immagini e didascalie per ogni cornice »
« Avete scoperto qualcosa sfogliandolo? »
« No, non c’è quasi nulla sulla parte biografica. A quanto pare è un’artista estremamente riservata »
Ambra soppesò quelle parole, riflettendo per qualche istante.
« Ricordi il titolo del libro? »
« Era… » la mora guardò Castiel, nello sforzo di ricordare « Art Legna, mi pare »
« Ars lignea, forse? » la corresse la bionda.
« Sì, esatto! Come lo sai? »
« E’ in vendita qui al museo. Costa ottantasei dollari »
« Cosa? » gracchiò Erin sconvolta.
« Credo che dovremo prenderlo, può tornarci utile » la esortò la bionda.
Erin sospirò.
Ottantasei dollari per un libro d’arte, una delle materie che più la annoiava. Ottantasei dollari per un libro del genere le sembrava uno spreco, specie se considerava tutti i soldi che i suoi genitori già stavano spendendo per mandarla ad un liceo esclusivo come il Dolce Amoris.
« Lo compro io, Travis, non preoccuparti » le giunse risposta dall’altro capo della cornetta.
Quelle parole la scossero, più per la risolutezza con cui erano state pronunciate che per il loro contenuto. Non poteva permettere ad Ambra di essere così categorica e farsi carico dei suoi problemi. Le stava già fornendo un aiuto preziosissimo e non era giusto che si accollasse pure le spese di quell’indagine:
« No, Ambra, non è giusto! Questa storia è un mio problema e… »
« Io sono quella più ricca » tagliò corto l’altra con strafottenza « per me i soldi non sono un problema »
Pronunciò quelle parole con quella punta di arroganza che serviva a mascherare il suo reale rammarico. Certo, la sua famiglia non era ancora ridotta sul lastrico, ma il segno meno davanti al conto in banca dell’azienda le ricordava che l’epoca d’oro dei Daniels era uno sbiadito ricordo. Solo ad Armin e Lin aveva rivelato quella preoccupante situazione, poiché il suo orgoglio le impediva di ammettere il suo status al resto del gruppo. Era troppo fiera per piangersi addosso o accettare una qualunque forma di commiserazione.
« Sei sicura? » titubò Erin, credendo ciecamente nell’ultima frase dell’ereditiera dell’impero Daniels.
« E’ un libro che vorrei tenere. Qui al museo abbiamo visto due opere di Tracy Leroy e sono davvero bellissime… quelle che ho a casa sono nulla a confronto »
Dopo aver ricevuto i ringraziamenti di Erin, Ambra chiuse la conversazione con un ghigno malinconico. Quegli ottantasei dollari le pesavano eccome, ma sopì il senso di colpa pensando a quanto avesse risparmiato in quelle ultime settimane. Avrebbe comprato quel libro e poi non ci avrebbe pensato più.
Si guardò attorno, ma si accorse che il suo compagno di ricerche era sparito. Si mosse dal ripiano dei gadget su Pollock, per cercarlo in prossimità dell’uscita, quando sentì qualcosa di rigido e spigoloso urtarle il braccio.
Si voltò e vide una busta di plastica ondeggiare, racchiudendo al suo interno un voluminoso tomo.
« Allora, andiamo? » la esortò Armin con noncuranza.
« Ah, l’hai già comprato? » si sorprese la ragazza « aspetta che ti do i soldi »
Il ragazzo però, anziché fermarsi, aveva ripreso a camminare a passo svelto.
« Ehi, Evans! » lo rincorse infastidita, brandendo a mezz’aria due banconote da cinquanta dollari « aspetta un minuto »
« Non voglio i tuoi soldi… »
« Eh? »
Ambra si era bloccata a metà del corridoio, tenendo a mezz’aria quei due pezzi di carta di valore.
« Non voglio soldi da te » ripetè il moro, mentre salutava con un cenno l’addetto all’uscita del museo.
« Non lo accetto » obiettò la bionda, dopo qualche secondo di spiazzante sorpresa.
Si ritrovarono all’esterno ed Ambra arrancò sui tacchi degli stivali per colmare la distanza da Armin. Scendere i gradini a quel ritmo la stava mettendo in difficoltà, ma doveva raggiungerlo se voleva costringerlo a prendere quelle banconote.
« Non voglio la tua carità, Evans » aveva borbottato infastidita.
Il moro allora si fermò e, dopo pochi secondi, lo vide voltarsi con un sorriso malizioso:
« E chi ha detto che è gratis? Io pensavo ad un altro genere di pagamento… »
Si trovava un gradito sotto di lei ma ciononostante, neppure con i tacchi Ambra riusciva a superarlo in altezza. Nella mano destra, teneva la borsa con il pregiato libro, mentre con quella ancora libera, Armin avvicinò il mento di lei al suo, baciandola senza esitazione.
Quando si staccò, notò divertito il rosso e l’emozione che le avevano imporporato le guance:
« Non ti sopporto quando fai così » borbottò lei, trattenendo a stento una smorfia di pura tenerezza.
« Io invece ti trovo irresistibile, qualunque cosa tu faccia » e tornò a saldare il resto del conto lasciato in sospeso.
 
Non erano molti i posti in cui una mente vivace e caotica come quella di Sophia Travis potesse trovare un angolo di pace, ma di certo, in questa ristretta categoria rientravano i negozi d’arte. L’odore così artificiale ed artificioso delle vernici, l’aroma del legno delle cornici erano inebrianti ed esercitavano sui suoi sensi un effetto calmante.
Quel giorno però non bastava qualche profumo chimico ad attenuare la sua naturale ed irrefrenabile irruenza. Aveva varcato la soglia del “Pennelli e pannelli” spingendo la porta con cattiveria ed imprimendo sul vetro immacolato lo stampo di cinque dita. Nathaniel l’aveva seguita vagamente incuriosito e divertito. Abituarsi a quei modi così poco educati e posati non era difficile per chi per anni aveva avuto come migliore amico un certo Castiel.
Sophia si appoggiò ad uno scaffale di legno ambrato da sotto il quale emerse la figura di un uomo piuttosto magro, con un’ampia fronte stempiata. Da dietro un paio di occhiali rotondi, si nascondevano due iridi verdi, enfatizzate da una carnagione leggermente abbronzata.
« Oh no, ancora tu »
Quell’esclamazione era sfuggita non appena il suo sguardo si era posato sull’unica cliente del locale, che non si era nemmeno degnata di salutare. Per Nathaniel fu inevitabile guardare interrogativo l’amica, mentre quest’ultima puntava i palmi contro il bancone.
Ben poche cose gli aveva detto prima di trascinarlo in quel posto, ma tra queste una era di fondamentale importanza: quello sconosciuto conosceva Jack Hurst, il padre della misteriosa Mackenzie.
« Sono tornata perché lei non si decide a dirmi la verità su Jack Hurst » s’impuntò Sophia, guardando l’uomo dritto negli occhi. Occhi che quest’ultimo sollevò al cielo, rassegnato.
« Ti prego, basta! Sei venuta qui fin troppe volte, e la risposta è sempre la stessa. Non vedo Jack da anni. Non ho idea di dove sia e, onestamente, non mi interessa neppure saperlo! Compra qualcosa, o vattene »
L’uomo non aveva l’espressione di una persona severa, piuttosto la smorfia di una personalità debole, facilmente plagiabile e fondamentalmente troppo genuina per mentire. Per quanto fosse importante che il biondo accorresse in soccorso di Sophia, Nathaniel in un primo momento preferì lasciarsi distrarre dall’arte circostante; le pareti erano tempestate di quadri ed opere di ogni tecnica pittorica, alcune delle quali mai viste prima. Accanto a disegni di artisti amatoriali, spiccavano le opere di professionisti locali che, seppur sconosciuti, erano abbastanza talentuosi da catturare l’interesse del ragazzo, che per l’arte aveva sempre avuto una certa passione.   
« Sono convinta che se continuo ad insistere, prima o poi svuoterà il sacco definitivamente! » insisteva Sophia.
« Ma non ho nient’altro da dirti, ragazzina! Jack non amava parlare di sé, è arrivato qui dal nulla ed è sparito da un giorno all’altro » s’inalberò l’uomo, la cui pazienza era già agli sgoccioli.
« Sono realizzati da artisti locali? »
L’uomo si voltò verso il silenzioso accompagnatore della rossa che, a sua volta, si zittì in attesa di una risposta.
« Sì, esatto. Se sei interessato all’acquisto… »
« No, grazie. La mia era solo curiosità » si affrettò a precisare il giovane, riducendo la distanza tra lui e il suo interlocutore.
Fu allora che lo scrutò con attenzione e in lui lesse dei tratti ipocritamente duri, tesi nello sforzo innaturale di connotare nel soggetto un’aria minacciosa. Ronald non era uno spirito forte, quanto piuttosto racchiudeva un carattere tendenzialmente debole e particolarmente incline ai condizionamenti; toccando i tasti giusti, poteva rivelarsi collaborativo più di quanto affermasse:
« Sentite ragazzi » sospirò l’uomo, scuotendo il capo « devo lavorare e non ho tempo per assecondare due ragazzini che giocano a fare i detective »
« Sarebbe così gentile da ripetere a me tutto ciò che ha detto alla mia amica? » lo interruppe Nathaniel, sordo a quanto gli era stato appena riferito. Abituato a mediare con il mondo degli adulti, l’ex segretario del liceo Dolce Amoris, sapeva come relazionarsi a quello sconosciuto per ottenere le informazioni di cui aveva bisogno. Doveva solo confidare nel buon senso della sua amica e sperare che quest’ultimo fosse sufficiente a tenere a freno la sua impulsività e linguaccia.
« Mi rendo conto che siamo inopportuni, ma è davvero importante per noi trovare Jack » insistette, guardando l’uomo dritto negli occhi. Nelle sue parole, trasparì una sorta di familiarità verso lo scomparso che di fatto, non aveva alcun motivo di esistere. Per lui Jack non era nient’altro che un nome, ma dietro quel nome senza volto, vi era un mistero che teneva Sophia Travis lontana da tutti e da tutto.
« Perché è così importante per voi? » questionò l’uomo, in un prematuro segno di cedimento.
Il biondo avrebbe desiderato così tanto avere la risposta a quella semplice domanda ma, suo malgrado, non poteva farsene vanto. Sophia aveva aggrottato le ciglia, ostile e guardinga, probabilmente intenzionata ad apostrofare l’uomo con qualche esclamazione poco cortese. Fu per questo che la prima reazione di Nathaniel fu sfiorarle il braccio con discrezione. Era stato un gesto istintivo, quasi affettuoso, che bastò a smorzare in lei ogni replica. Sussultò, come una dodicenne che arrossisce di fronte al ragazzo per cui ha una cotta. Accanto a Nathaniel, lei perdeva ogni difesa e attacco. Diventava inerme ma iniziava a trovarla una sensazione odiosamente piacevole, perché scaturita da quel senso di protezione che solo Nathaniel esercitava su di lei. 
« Lo stiamo facendo per Mackenzie » replicò Nathaniel con serietà. Doveva essere schietto per convincere quell’uomo dell’onestà delle loro intenzioni. Non potevano sapere se Ronald fosse così reticente alla conversazione per una reale marginalità ai fatti, oppure per una qualche forma di tutela verso Jack Hurst. In entrambi i casi, la prudenza era la tattica più opportuna, se combinata ad una buona dose di sincerità.
Il nome Mackenzie aveva sortito quasi un effetto magico nella mente dell’uomo, i cui occhi si erano sgranati per la sorpresa. Aveva allungato il collo in avanti, come se quella posa gli consentisse di far riecheggiare meglio nella sua testa un nome che aveva visto scritto in una lettera anni prima.
« Conoscete Mackenzie? »
Il biondo annuì leggermente, ricacciando in un angolo remoto della mente la sfacciataggine che gli permetteva di mentire in modo così naturale, mentre l’uomo si accasciava su una sedia, sospirando pesantemente.
« Vorrei tanto potervi aiutare, ragazzi… » esordì, dopo qualche secondo di riflessivo silenzio « ma davvero, non so che fine abbia fatto Jack »
Gli fece quasi pena, non tanto per l’espressione mortificata, quanto per il tono stanco e rassegnato con cui erano state pronunciate quelle parole. Ronald era davvero un uomo debole e a Nathaniel non restava altro che approfittare della sua mancanza di determinazione, per estrapolargli qualche informazione.  
« Come vi siete conosciuti? » insistette Nathaniel.
Le gambe stanche dell’uomo ruotarono in avanti e gli diedero la spinta per alzarsi goffamente dallo sgabello. Superò i due ragazzi e temporeggiò nella contemplazione di una parete adorna di dipinti, la stessa che aveva catturato l’attenzione di Nathaniel poco prima. Indicò un punto spoglio, in cui  solo un chiodo arrugginito testimoniava la passata presenza di un’opera.
« Fino all’anno scorso, qui c’era un suo quadro » mormorò.
Gli occhi erano vitrei e lo sguardo rimaneva fisso su quell’area così anonima del muro. Lo schermo perfetto per il turbinio di immagini mentali che iniziarono ad accavallarsi nella sua mente. Sarebbero state queste ultime a scandire il ritmo della narrazione, cadenza che si preannunciava alquanto lenta.
 
Uno spiffero gelido investì il viso di Ronald, troppo preso dalla catalogazione delle tempere per accorgersi altrimenti dell’entrata di un cliente. Alzò lo sguardo, preparandosi a sfoggiare il sorriso di circostanza e accoglienza che si addice a ogni venditore. Le sue buone intenzioni però, vennero soffocate dalla materializzazione di una figura curva, imprigionata in un cappotto troppo largo e malconcio. Le punte delle scarpe erano lerce di fango e acqua, che non avevano risparmiato l’orlo inferiore del misero indumento. L’uomo si levò un cappello sgualcito, debole riparo ad un acquazzone che stava infuriando all’esterno. Sotto il copricapo, rivelò una massa rada di capelli, tra i quali si intravedeva una pelle lucida e inumidita dalla poggia.
« Buongiorno » sospirò Ronald, con scarsa cortesia.
Doveva pensare ad un modo per liquidare in fretta quel barbone, prima che compromettesse l’immagine rispettabile del suo negozio.
« ‘Giorno » replicò l’uomo, guardandosi attorno.
Nonostante gli abiti spenti e tristi, nelle sue iridi guizzava una scintilla di interesse e curiosità, stridenti in quel viso scavato dalle rughe e dalla stanchezza.
« Posso aiutarla? » soggiunse il proprietario del negozio, fingendosi disponibile. Pattuì con sé stesso una cifra che potesse sembrargli ragionevole e liquidare il clochard in pochi secondi. Dieci dollari di elemosina e avrebbe addirittura concluso la giornata con una buona azione. Fosse stato ancora credente, avrebbe potuto reputarsi un bravo musulmano.
« Devo mostrarle una cosa… »
L’espressione di Ronald rimase la stessa finché non notò la posizione rigida del braccio destro dello sconosciuto, che sembrava reggere una cornice sotto l’impermeabile. La stoffa usurata tradiva le forme spigolose di un dipinto, tenuto al riparo da intemperie e sguardi fino a quel momento.
« Prego » borbottò, continuando ad inventariare i colori.
Probabilmente si trattava di un qualche quadro di poco conto trovato abbandonato in una discarica e che, pertanto, lo istigava a relazionarsi all’uomo con particolare cinismo.
Lo sconosciuto rilassò il braccio destro, mentre con la mano sinistra afferrava il bordo ligneo dell’oggetto. Con eccessiva lentezza, appoggiò il quadro sul bancone, lasciando al venditore il tempo necessario a valutarne il pregio. Dapprima gli occhi porcini di Ronald si posarono sul dipinto con scarso entusiasmo ma, dopo pochi secondi, si sgranarono per lo stupore.
Sollevò il mento di scatto, guardando l’interlocutore dritto negli occhi. Nonostante quel gesto repentino ed improvviso, quest’ultimo non sussultò, ma rimase impassibile:
« E questo dove l’ha trovato? »
L’uomo non battè ciglio, né reagì minimamente alla foga con cui gli era stata posta l’ultima domanda.
« E’ mio » affermò risoluto. Ronald inspirò, tamburellando nervosamente le dita contro la superficie del bancone.
« Siamo seri. Dove l’ha trovato? » ripetè, quasi con sfida.
Lo stile era inconfondibile e, con esso, il valore. Tracy Leroy, la famosa artigiana del legno, era sparita dalla circolazione, dopo aver dichiarato chiusa la sua carriera. Tale scelta ne aveva aumentato esponenzialmente il valore delle opere, alimentato dal mistero circa la sua scomparsa.
Il dipinto all’interno non sembrava l’opera di un qualche pittore famoso, né essere realizzato da mani esperte. Il colore ad olio non era miscelato in modo uniforme e all’occhio clinico del venditore, non sfuggì una setola di pennello incastrata nella pittura, indice della scarsa qualità degli strumenti impiegati.
Curiosamente, la vera opera d’arte non era rappresentata dal contenuto, ma dal suo involucro.
« E’ un regalo per me » insistette l’uomo, impassibile ed impenetrabile. Non sembrava offeso dal cinismo di Ronald, probabilmente perché preparato a tanta ostilità. Aveva la sicurezza di chi ha la coscienza rasserenata dalla propria onestà. O era solo una tanto talentuosa quanto biasimevole ipocrisia che gli permetteva di mentire spudoratamente.
« Mi è difficile crederle… e in tal caso non posso proprio aiutarla »
Forse perché sua moglie aveva chiesto il divorzio appena una settimana prima. Forse perché da mesi suo fratello non si decideva a mettere quella firma e lasciargli quanto gli spettava di diritto. Quale che fosse la cagione del suo malumore, quel giorno Ronald era più scontroso e determinato di quanto fosse mai stato. Non si sarebbe lasciato abbindolare come un allocco e questo lo sconosciuto sembrò averlo capito.
Lo vide quindi rituffare la mano all’interno del cappotto, da cui estrasse una ricevuta sgualcita. La porse in silenzio all’uomo, senza prendersi la briga di distenderla. Il venditore la afferrò, analizzando con attenzione. Dopo qualche secondo, sollevò lo sguardo oltre il foglio e domandò:
« Lei è il signor Hurst quindi? »
Per la seconda volta Hurst non replicò a voce, ma esibì un documento di riconoscimento.
Ronald indugiò non poco tra la foto della carta d’identità e la figura che aveva di fronte, soffermandosi su quei dettagli che ne rappresentavano gli elementi comuni. Anche se la versione cartacea aveva un’aria più distinta e curata, non c’erano dubbi.
Quell’uomo era chi aveva dichiarato di essere.
« Non sono sempre stato così » sussurrò Hurst, riponendo il documento nella federa interna dell’impermeabile, mentre Ronald cercava di dissimulare la sua perplessità « ora ho solo bisogno di soldi. Mi dica… quanto può offrirmi per quest’opera? »
 
« Scoprii che non era intenzionato a vendermi il quadro, ma solo a impegnarlo. Era un tipo laconico, non mi fornì dettagli oltre a quelli necessari a concludere l’accordo. Lo rividi dopo due settimane ma non si fermò molto. Rimase a fissare il suo quadro, senza dire nulla, perso nei suoi pensieri. Gli chiesi come avesse investito i soldi del prestito e mi rispose che si era sistemato e che aveva trovato lavoro »
« Che tipo di lavoro? » lo interruppe Nathaniel.
Ronald scosse il capo, incrociando le braccia al petto.
« Quando glieli chiesi, mi rispose in modo criptico, come era nella sua natura… credo che le sue parole siano state “rimedio agli errori altrui” »
« Rimedio gli errori altrui? » ripetè Nathaniel, mentre Sophia storceva il labbro.
Insieme a Space, aveva riflettuto a più riprese su quale fosse il significato di quella frase, ma nessuna delle loro ipotesi li aveva portati a scoprire qualcosa.
« Sì, e visto che non sono una persona invadente, considerata pure la sua reticenza alla conversazione, non saprei dirvi cosa significasse. Personalmente non sopporto estrapolare informazioni dalle persone » spiegò Ronald.
« Avete parlato d’altro? »
« Beh, io ripresi a fare quello che stavo facendo, mentre lui rimase un altro paio di minuti a guardare il quadro. Dopo di che, lo vidi avvicinarsi al calendario appeso alla parete e fissarlo inespressivo per qualche istante. Sfogliò le pagine di qualche mese e mosse le dita, quasi stesse calcolando mentalmente una cifra.
riscatterò il prestito entro i prossimi cinque mesi” dichiarò. Io incurvai le spalle, mi risultava difficile credere che ci sarebbe riuscito. In tutta onestà, avrei voluto che non lo facesse: quella cornice infatti iniziò ad attrarre un gran numero di clienti e dovevo solo sperare che la notizia non giungesse a qualche museo, altrimenti qualcuno avrebbe potuto saldare il debito al posto suo, privandomi di quella preziosa pubblicità. Gli chiesi se, al di là del valore economico, quel quadro significasse qualcosa per lui, ma sembrò non sentirmi. Affondò le mani nelle tasche e, con un cenno furtivo del capo, mi salutò, richiudendosi la porta alle spalle. Quella fu l’ultima volta che lo vidi »
« Da allora non l’ha mai più rivisto? » puntualizzò Nathaniel.
« No »
« Quindi il quadro divenne automaticamente di sua proprietà? » dedusse il biondo.
« No » lo contraddisse Ronald.
Il biondo ascoltava quella conversazione senza battere ciglio, mentre Sophia continuava a perdere lo sguardo nell’ambiente che la circondava. Amava dipingere e, se non fosse stata così squattrinata, avrebbe comprato volentieri un bel set di fogli per acquarelli in offerta. La storia di Ronald l’aveva già sentita e, doveva riconoscerlo, nessun dettaglio era stato cambiato.
« Che accadde? » lo incalzò il biondo.
« A due giorni dalla scadenza del prestito, mi giunse una busta, al cui interno trovai esattamente la cifra necessaria a riscattare il quadro… più un extra per me. Nelle parole che vi lessi, Jack mi pregava di spedire il quadro all’indirizzo allegato nella busta, pagandomi per quel favore. Non avevo possibilità di replica, dal momento che non vi era segnato l’indirizzo del mittente. Lo considerai un azzardo bello e buono quello di affidarsi alla mia onestà per una simile commissione. In fondo, ero praticamente uno sconosciuto, nessun vincolo mi legava a lui e avrei potuto tranquillamente potuto fingere di non aver ricevuto nulla, intascandomi soldi e tenendomi il quadro »
« … ma non lo fece » concluse Nathaniel.
L’uomo sorrise leggermente, guardando vittorioso Sophia, che alzò lo sguardo al cielo.
« Ne sei proprio sicuro, Dora? » sbottò « per me non ci sta dicendo tutto… »
Sorvolando sul soprannome che gli aveva affibbiato, Nathaniel ragionò:
« Se mentisse, si sarebbe inventato una storia diversa da questa. Di certo non una in cui è fin troppo facile sospettare di lui »
« Ti ringrazio, Dora » annuì Ronald, mentre il ragazzo corrugava la fronte.
« Non dia retta a questa scema, mi chiamo Nathaniel »
Gli costò un certo imbarazzo correggere l’adulto, tanto che strappò un sorrisetto ironico alla sua carnefice. Ancora dubbiosa, quest’ultima tornò a scrutare le setole morbide di un set di pennelli, lasciando che l’amico venisse messo al corrente anche dell’ultima parte della storia.
« A malincuore, lo ammetto, ho spedito quel quadro e da allora, non ho mai più sentito parlare di Jack Hurst »
« Ricorda l’indirizzo di spedizione? O almeno la città? »
« Mi dispiace, sono passati cinque anni da allora… sono quasi sicuro però che fosse nell’Illinois… mi pare che la città avesse il nome di una serie TV… »
« Quale? »
« Se me lo ricordassi, ve lo direi » convenne Ronald con ovvietà «ma ricordo quest’associazione mentale.. sì insomma, la collegai ad una serie »
« Secondo lei, perché Jack non ha spedito personalmente il quadro? » domandò Nathaniel.
« E chi lo sa. Siete voi che state indagando sulla faccenda. Per quello che mi riguarda, sono affari suoi »
« Ecco! Lo vedi perché mi incazzo? Questo tizio non ce la racconta giusta! » s’inalberò Sophia, mentre l’uomo sollevava gli occhi al cielo.
« Senti ragazzina, io ti ho detto tutto quello che so, mentre tu, non mi hai ancora detto come e perché sei arrivata a me… chi è allora che non sta raccontando tutta la verità? »
La rossa si zittì, mentre Ronald apriva un cassetto sotto il bancone. Estrasse un pacchetto di sigarette e, nonostante il divieto di fumare appeso fuori dalla porta, inspirò qualche tiro di tabacco.
« E’ stato molto gentile » mediò Nathaniel, inclinando leggermente il capo « credo che da qui in poi dovremo arrangiarci a trovare altri indizi per conto nostro »
Ronald non replicò, mentre il biondo spingeva fuori l’amica.
Voleva credere ad ogni parola di quell’uomo, senza lasciarsi influenzare dai sospetti della ragazza. Prima che abbandonassero il locale però, li chiamò:
« Senti un po’ ragazzo, lo dico anche a te, sperando che tu abbia più sale in zucca della tua amichetta… »
Nathaniel aggrottò la fronte, mentre Sophia lo guardò duramente.
Ronald inspirò una boccata di fumo e la restituì all’aria, come se l’urgenza iniziale di allontanare i due ragazzi fosse sparita definitivamente, sostituita dal rimpianto di non averli trattenuti abbastanza:
« Quel Jack non mi è mai piaciuto. Fossi in voi, piuttosto che cercarlo, me ne terrei alla larga »
« Lei non lo conosce veramente » sputò Sophia.
« Nemmeno tu » replicò l’altro placidamente e a quell’ultima battuta, la rossa sapeva di non poter replicare.
 
Ambra capovolse il libro e iniziò a sfogliarlo dall’inizio, mentre Castiel sollevava gli occhi al cielo spazientito:
« Questo cazzo di libro è stato una spesa inutile » borbottò, reclinando il capo all’indietro.
Vide le dita sottili di Erin allungarsi sui caratteri stampati, indicando una parola in particolare:
« Secondo te, Ambra, questo può essere un indizio? »
La bionda spostò fugacemente lo sguardo sul punto indicato, per poi tornare a concentrarsi sulla lettura di una didascalia:
« Il fatto che si sia dileguata nel nulla? Beh, diciamo che è qualcosa di cui eravamo già al corrente… e comunque, non mi sorprende che abbia adottato questa scelta »
« Come mai? » intervenne Armin.
La ragazza sospirò alzando lo sguardo verso il trio di amici che, come lei, aveva preso posto sul tavolo circolare del motel.
Dopo una sommaria occhiata, sfogliò le pagine soffermandosi su una serie di immagini che riepilogavano le opere più belle dell’artista. Capovolse il volume, in modo che anche gli altri potessero ammirarle dal giusto orientamento.
« Tracy ha realizzato qualcosa come centocinquanta opere, tra cornici, statue e altri oggetti nell’arco di tanti anni di carriera. Qui sono riportate le trenta che sono considerate i suoi migliori capolavori… notate nulla? »
I tre si allungarono in avanti, scrutando le foto e sfogliando le pagine successive con minuzia.
Castiel fu il primo ad arrendersi, sottolineando la sua scarsa sensibilità artistica. Anche Armin fu costretto a sventolare bandiera bianca, gesto mosso principalmente dalla trepidazione di ascoltare l’ipotesi della sua ragazza. Solo Erin continuava a scrutare le opere ma, non osservando in esse un particolare che potesse essere utile alla loro indagine, cercò indizi nelle didascalie. Le opere erano esposte in diversi musei del paese e non sembrava esserci una qualche correlazione tra le varie ubicazioni. La maggior parte si trovavano in città dell’Est, ma a parte questo, Erin non riusciva a trovare un nesso.
I suoi occhi guizzavano da una frase all’altra, alla febbrile ricerca di quel dettaglio che Ambra era riuscita a cogliere. Doveva trovarlo, anche a costo di metterci qualche minuto in più.
« Qual è il periodo di attività di Tracy? » mormorò d’un tratto, tenendo lo sguardo fisso su una didascalia.
Castiel ed Armin spostarono lo sguardo sull’altra ragazza, il cui sguardo s’accese di uno zampillo di eccitazione e complicità. Valse a conferma che la mora era sulla giusta direzione e che, probabilmente, avesse colto esattamente lo stesso particolare che l’aveva colpita.
« Tra il 1953 e il 1985 »
« Allora è curioso come le sue migliori opere si concentrino nel decennio tra il 1960 e 1975 » ragionò Erin.
La bionda annuì, sottolineando:
« O, vista da un altro punto di vista, è significativo il fatto che nessuna opera dopo il 1977 sia considerata al pari delle altre. Per nove anni, Tracy non è più riuscita a realizzare qualcosa che colpisse il mondo artistico come in passato »
« E quindi? » la incalzò Castiel, grattandosi poco elegantemente il capo.
« Secondo me questo può avere avuto un impatto negativo sulla sua autostima. Aggiungici la spiccata sensibilità che caratterizza gli artisti in generale, non mi sorprende se alla base della sua scomparsa dalle scene ci fosse una consapevolezza di non essere più la Tracy Leroy di un tempo »
« Un po’ come cantanti e attori che, invecchiando, decidono di abbandonare il palcoscenico per non compromettere, con performance o ruoli mediocri, la fama che si sono costruiti da giovani » esclamò Armin.
La bionda annuì e rivoltò il libro verso di sé:
« E’ con quest’idea che mi sono concentrata sulle opere più tardive e le ho paragonate con quelle considerate dei capolavori… ok, non ho un occhio particolarmente critico ed allenato come potrebbe avercelo Violet, ma non avete anche voi l’impressione che le forme siano leggermente distorte? Che nelle sculture dopo gli anni Settanta, Tracy abbia perso un po’ di realismo e abbia iniziato a realizzare figure sempre più deformate? Qui per esempio… » precisò, indicando un ingrandimento di un’opera che si trovava verso la fine del volume « non notate anche voi che il viso dell’angelo è troppo lungo? »
I tre si incurvarono in avanti, osservando incuriositi.
L’opera ritraeva una figura celestiale con possenti ali e una posa nell’atto di spiccare il volo.
Erin storse il labbro: doveva scavare a fondo di una sensibilità artistica inesistente per cogliere quanto Ambra si sforzava di far notare.
Se solo avesse avuto il talento artistico di sua sorella.
 
Sophia corrugò la fronte, avvicinandosi allo schermo del PC.
« Lo vedi? » insistette Nathaniel, premendo il tasto freccia sulla tastiera.
L’immagine dell’angelo del 1979, venne sostituita da una delle opere più belle di Tracy Leroy, una donna che allattava.
« La figura dell’angelo è leggermente allungata » meditò Sophia.
« Proprio così, Travis! » esultò il biondo.
« Mi chiami per cognome ora, Piccolo Lord? » s’indispettì lei.
« Con tutti i soprannomi che mi affibbi tu, ho il diritto di chiamarti come mi pare » sorrise lui, ripristinando l’immagine dell’angelo.
Quella smorfia abbatté ogni difesa della ragazza che riuscì solo a voltare il capo di scatto, per non dover indugiare ulteriormente su di lui.
« E questo stile caratterizza tutte le sue opere tardive » tornò a parlare il biondo, scorrendo l’una dopo l’altra le immagini salvate nella galleria di Picasa.
 
« Ma se questo cambio di stile ha segnato il suo tramonto come artista, perché non è tornata a scolpire come prima? » dubitò Armin.
« Forse non poteva farlo»
Tutti si voltarono verso Castiel, che aveva pronunciato quelle parole con tetra semplicità.
« Che intendi? » sbottò Erin.
« Hai presente quel tizio di cui parlava la Robinson l’altro giorno? Quello greco che disegnava i corpi un po’ distorti? Com’è che si chiamava? »
« El Greco » risposero in coro le due studentesse, basite dalla scarsa memoria dell’amico.
« Ti ricordi che è greco ma non come si chiama? » si stupì la mora, mentre il rosso la ignorava.
« Insomma, si dice che alla base di questo suo modo di rappresentare le forme, ci fosse un difetto visivo no? »
Erin sgranò gli occhi, applaudendo felice:
« Cas, sei un genio! »
Anche Armin lo fissava sorpreso, anche se non poteva non chiedersi come quel dettaglio potesse tornare loro utile. L’unica a non lasciarsi coinvolgere da quell’entusiasmo generale era Ambra che, sorridendo pazientemente, domandò:
« Deduco quindi che nessuno di voi due abbia ascoltato la seconda parte della spiegazione di Miss Robinson… »
Erin sollevò lo sguardo verso l’alto nello sforzo di ricordare ma l’unica immagine che le venne a mente era che, mentre la prof esponeva l’argomento, il suo vicino di banco l’avesse distratta per mostrare a lei e Kentin una mosca senza un’ala. Quell’insetto aveva calamitato l’attenzione dei tre studenti, che avevano iniziato una discussione su come trattare la povera bestiola. Se Castiel e Kentin insistevano per costruire un labirinto con penne e materiale vario, Erin, che si trovava a metà tra i due si era nominata paladina del benessere degli animali e insisteva perché la liberassero all’aperto.
« Credo di essermi persa quella parte » concluse, restando sul vago.
Ambra allora iniziò la sua spiegazione, dopo essersi schiarita la gola.
 
« La teoria del difetto oculistico è emersa anche per un pittore italiano di nome Modigliani, le cui forme sono decisamente più esasperate di quelle di El Greco » raccontava Sophia.
Si sentiva particolarmente orgogliosa nell’esporre, una volta tanto, un argomento su cui Nathaniel fosse ignorante. Finalmente poteva mostrargli di avere anche lei qualità ed interessi che andassero oltre la partite a beach-volley e insultare la gente.
« Supponiamo per un attimo che El Greco vedesse come un’ellisse quello che noi percepiamo come un cerchio: nel ritrarlo fedelmente però, avrebbe rappresentato i cerchi come ellissi, mentre noi li avremo pur sempre visti come cerchi. Dunque, a logica, un difetto visivo non può essere il motivo dello stile di El Greco, perché anche noi vediamo le sue figure come distorte »
« In altre parole, tu escludi che alla base del mutamento di stile della Leroy ci fosse un peggioramento della sua vista » tirò le somme Nathaniel meditabondo.
 
« Precisamente » confermò Ambra, guardando il suo ragazzo.
« Allora perché non è tornata al suo precedente stile? » insistette Castiel, irritandosi per l’insuccesso della sua teoria.
« Mi sorprende che proprio tu non ci arrivi » lo provocò Ambra, con un ghigno di sfida.
Il rosso strinse le palpebre, mentre Erin la esortava a parlare.
« Gli artisti sono persone un po’ eccentriche e tendenzialmente insensibili a quella che è la moda. Tendono ad assecondare il loro estro più che il volere popolare. Se tu Black, nel corso di una tua ipotetica carriera come musicista, ti capitasse ad un certo punto di voler cambiare stile, manterresti fede al cambiamento nonostante una stroncatura da parte della critica? » domandò Ambra.
Il ragazzo ci pensò un po’, ma fu Erin a rispondere al posto suo:
« Credo che Castiel sia troppo orgoglioso per fare marcia indietro »
« Al di là di questo » precisò lui « considera che se ho cambiato stile, è perché il vecchio non mi soddisfa più e quindi sarebbe difficile tornare a qualcosa di insoddisfacente »
« Esatto… e poi io sono convinta che un vero artista, quando arriva a cambiare stile, non possa accettare di tornare indietro, perché alla base del suo mutamento c’è stata la voglia di qualcosa di diverso »
 
« In sintesi questa Tracy Leroy deve avere un bel caratterino se non si è lasciata plagiare dall’opinione pubblica ma anzi, se ne è sbattuta alla grande… non è scesa a compromessi» convenne Sophia.
« Beh può essere » borbottò il biondo con scarso entusiasmo, reazione che irritò non poco la ragazza.
« Cos’è quest’apatia? E’ un indizio! »
« Alquanto inutile, Travis » la zittì « se vogliamo proseguire l’indagine dobbiamo approdare a qualcosa di più consistente. Dal mio punto di vista, stiamo solo perdendo tempo indagando su quest’artista. Dovremo recarci nella sua città natale per scoprire qualcosa, ma sarebbe stupido considerato che al momento abbiamo una seconda pista da seguire… »
« Ti riferisci a Jack? »
Nathaniel annuì, iniziando a tamburellare le dita sul tavolo.
« Dobbiamo partire da quello che sappiamo: Jack ha vissuto in questa città per un certo periodo e ha fatto un lavoro che dobbiamo scoprire quale fosse. Una volta individuato, possiamo cercare colleghi e conoscenti che ci diano qualche informazione aggiuntiva »
« Ok, quindi nel concreto, come pensi di procedere? »
Il ragazzo guardò l’ora e nel vedere le sue lancette perfettamente verticali sul numero dodici, si lasciò sfuggire uno sbadiglio:
« Riflettiamo sulla frase che disse a Ronald “rimedio agli errori altrui” e stiliamo una lista dei possibili lavori. Dobbiamo anche considerare quello che sappiamo della sua personalità, e cioè che era una persona schiva, poco incline al contatto umano e… »
« … che si è arricchito in poco tempo »
Nathaniel la fissò dubbioso, mentre lei puntualizzava:
« E’ riuscito a ripagare in poco tempo un debito enorme. Dovrà aver fatto un lavoro molto ben retribuito »
Il ragazzo scosse il capo poco convinto, mentre la rossa storceva il labbro:
« E ora cosa c’è che non va? »
« Riflettici un attimo, Sophia. Da come ci è stato descritto, Jack non aveva propriamente un’aria rispettabile. Trovo molto difficile credere che uno come lui sia riuscito, in pochissimo tempo, a trovare un lavoro che gli garantisse uno stipendio consistente… chissà che titolo di studio aveva poi »
La ragazza non fiatò, chiudendosi nelle proprie riflessioni. Nathaniel non aveva torto, era difficile immaginare uno come Jack Hurst dietro una scrivania con giacca e cravatta. Non era quello l’uomo di cui aveva parlato il venditore di articoli d’arte.
« Dobbiamo rifletterci » aveva concluso il ragazzo.
 
Nella camera dei ragazzi, le lenzuola erano impregnate di uno strano odore che, per quanto Armin cercasse di non pensarci, continuava ad inzuppargli il naso.
Gettò un’occhiata fugace al suo compagno di stanza che, con sua profonda invidia, era già nel mondo dei sogni. Avevano prenotato per una sola notte e l’indomani avrebbero dovuto fare i bagagli e tornarsene a Morristown, con un magro bottino. Per quanto la sua ragazza Ambra si fosse impegnata, non erano riusciti a scoprire alcunché di determinante per la loro indagine.
Se solo avessero conosciuto qualcuno che potesse dar loro qualche dritta, una pista da seguire per trovare Tracy.
Un cane da tartufo.
I pensieri del ragazzo degenerarono sempre più verso il non sense finché, senza che potesse rendersene conto, il sonno aveva deciso di raggiungere anche lui.
 
Sua zia Chloe era vestita da Bianconiglio e, come la versione originale di Lewis Carrol, teneva in mano un orologio da taschino. Armin la fissava incuriosito ma non perplesso. Era perfettamente normale che la propria zia di Fox Chapel indossasse un panciotto e saltellasse da una parte all’altra di un giardino fiorito.
Stava per inseguirla quando accanto a lui passò una versione fiabesca di Ambra, vestita esattamente come la protagonista del libro Alice nel paese delle meraviglie. Lui aveva chiamato la sua ragazza, protestando per la poca grazia con cui l’aveva investito, al punto da farlo capitolare.
Ambra-Alice si era voltata di scatto, fissandolo con superiorità:
« Armin, perché non mi hai detto prima di tua zia Chloe? »
Il moro gracchiò un “eh?” poco fine, mentre la bionda scuoteva il capo, per poi sorridergli pazientemente:
« Svegliati, amore »
 
Le palpebre del ragazzo tremarono leggermente, fino a dischiudersi contro la loro volontà.
Davanti a lui trovò il viso di Ambra, luminoso e tenero ma senza quel delizioso abitino azzurro con cui l’aveva appena lasciata. Non aveva neanche il nastro nero tra i boccoli biondi.
« Forza, vieni a fare colazione » lo esortò, senza abbandonare la dolcezza con cui aveva cercato di destarlo dal sonno.
Ancora frastornato dal sogno bruscamente interrotto, si voltò verso il letto attiguo, trovandolo completamente vuoto.
Erano in un motel e non in un giardino fiorito.
« Erin e Castiel sono di là a fare colazione » lo informò, aprendo le tende e consentendo alla luce di illuminare la penombra della stanza.
Si voltò verso di lui e, dopo un’occhiata divertita, domandò:
« Perché non me l’hai mai detto? »
Quella frase lo scaraventò immediatamente nell’immagine vissuta poco prima nella sua testa, troppo vivida e nitida per averla scordata:
« C-come? » boccheggiò confuso.
La ragazza indicò il logo sul pigiama del moro, sogghignando:
« Della tua doppia identità, Superman » lo derise, mentre il ragazzo posava lo sguardo sul logo del superuomo cucito in pieno petto. Non badò tuttavia a quella scherzosa osservazione, bensì esclamò:
« Mia zia Chloe! »
 
Non aveva mai avuto una gran passione per gli animali ma, doveva riconoscerlo, Katy non era affatto male. Non eccessivamente affettuosa, decisamente ubbidiente e per nulla chiassosa. Un po’ come lei insomma. Anzi, vedendola in quell’ottica, cominciava persino a farle tenerezza, perché isolata dagli altri quattro cani. Solo Ryder aveva il vizio di punzecchiarla e cercare la provocazione, ma Katy resisteva stoicamente, senza mai lasciarsi andare alla zuffa.
« Brava Katy » si complimentò Jordan, dedicandole la prima e forse unica carezza della giornata. Per contro lanciò un’occhiata sprezzante al pastore tedesco di nome Ryder, un esemplare di razza davvero notevole. Quel soggetto e la timida Katy, una meticcia, non avevano assolutamente nulla in comune ma il suo lavoro di dog-sitter la vincolava a farli sfilare insieme, rendendo ancora più stridente quanto i due cani fossero diversi e male assortiti. Ryder era un cane esuberante, curioso e sempre allerta: correva dietro ai piccioni, faceva festa ai bambini e adulti e aveva l’irritante abitudine di marcare ogni palo con la sua urina.
Non a caso, Jordan lo aveva ribattezzato con il nome di una delle persone più irritanti che avesse mai conosciuto. Ironia della sorte, in una coppia di ragazzi in lontananza, le sembrò di riconoscere proprio la fonte del suo malessere psicologico.
Quando ebbe la conferma che si trattava proprio di lui, si guardò attorno allarmata, cercando un nascondiglio.  Con cinque cani al suo seguito, tuttavia, passare inosservata era una missione impossibile. Afferrò più saldamente in guinzagli e strattonò i cani verso i bagni pubblici, affrettando il passo. Se la schiera di quattro la seguiva docilmente, solo uno opponeva resistenza e Jordan non si stupì nel constatare che fosse l’irritante Ryder.
« Senti Trevor, datti una mossa o ti lascio qui! » abbaiò.
Il cane però, con la sua versione umana non condivideva solo il carattere, ma anche la tendenza a non prenderla mai sul serio. Continuava quindi a fissarla con la lingua a penzoloni e un’aria poco sveglia.
« Dio quanto gli somigli! … Trevor andiamo! » ripetè, voltandosi.
« Dove dobbiamo andare? »
Quella frase la fece sobbalzare e, per un attimo, le sembrò quasi che fosse stato l’animale a parlare. Si voltò di scatto e, con sua enorme sorpresa, si trovò di fronte Trevor, il cestista.
Non capì come avesse fatto a raggiungerla così in fretta, dal momento che veniva dalla direzione opposta del parco. Accanto a lui, dall’alto di una statuaria altezza, la fissava una ragazza bellissima:
« Hai chiamato il cane come me? » la stuzzicò lui, accucciandosi per accarezzare il pastore tedesco.
Jordan pregò affinchè Ryder gli mordesse la mano, ma per sua disgrazia, era un cane che si faceva amare da tutti.
« Non hai un po’ troppi cani? » scherzò la sconosciuta.
Aveva una pelle perfetta e dei profondi occhi marrone caldo. Non un capello fuori posto, nonostante la tenuta tecnica da jogging indicasse un’appena interrotta attività di corsa.
Jordan cercò di non pensare all’orlo inzuppato di terra dei suoi pantaloni della tuta e alla felpa scolorita che aveva recuperato dal fondo dell’armadio quella mattina. Non aveva neppure avuto il tempo di pulirsi la lente degli occhiali che Ryder, in un eccesso di affetto, le aveva slinguazzato. La sera prima al ristorante aveva dovuto spruzzare della candeggina per eliminare della muffa e le punte delle dita ancora le puzzavano di quell’orrendo detergente.
« Non sono miei » boccheggiò a disagio, approfittando di quell’interruzione per togliersi gli occhiali.
Tenne il capo chino, mentre con l’orlo della felpa era intenta a ripulire dalla saliva la lente.
« Quindi fai la dog-sitter? »
Risollevò lo sguardo, incrociando il ghigno beffardo di Trevor, che la mandò su tutte le furie.
« Inutile che sfotti… mi pago le bollette con questo lavoro, sai? »
« Deve essere piacevole passare del tempo all’aria aperta » cercò di rimediare la sconosciuta, ma nonostante la nobiltà del suo intento, finì solo per peggiorare l’umore instabile di Jordan.
« Oh sì, immagino che vorresti essere al mio posto »
Ne aveva abbastanza di quei ragazzini viziati e ricchi che nulla sapevano dei sacrifici a cui erano costrette le persone come lei.
Deve essere piacevole passare del tempo all’aria aperta”. Ma cosa credeva? Che Jordan non avesse preferito pure lei avere la domenica mattina libera? Che fosse divertente per lei passare mezza giornata con un branco di pulci del genere?
Dopo la battuta di Jordan, la sconosciuta aveva preferito zittirsi, come umiliata, mentre Trevor continuava a fissare Jordan divertito:
« Non mi hai ancora risposto Jojo: perché hai chiamato questo cane come me? Non mi dire che è una coincidenza »
La ragazza stava per replicare quando un’esclamazione di sorpresa la colpì. Si voltò di scatto e vide Ryder nell’atto di assalire posteriormente una graziosa cagnolina. La padroncina stava cercando di allontanarsi con la bestiola, ma finchè il guinzaglio gli dava corda, il pastore tedesco era determinato a centrare il suo bersaglio. Jordan allora bloccò il meccanismo e tirò a sé il cane, sbottando irritata:
« Lo vedi perché l’ho chiamato come te? E’ pervertito come te»
 
« Tua zia Chloe conosce così tanta gente? » domandò Ambra dubbiosa.
« Sì, perché lei e lo zio erano commercianti e conoscono mezza Pittsburgh » spiegava Armin, voltandosi verso le due ragazze sedute dietro di lui.
« Allora non potevi pensarci prima, genio? » lo strigliò Castiel, fermandosi ad uno stop.
Durante la colazione di poco prima, Armin aveva esordito sostenendo di avere una zia a Fox Chapel, una piccola cittadina nei pressi di Pittsburgh. Erano anni che non la vedeva, ma la sua famiglia aveva mantenuto regolarmente i contatti di tipo telefonico.
Chloe era la sorella minore di sua madre Evelyn, una donna ancora più esuberante e allegra della madre dei gemelli Evans. Forse proprio per questo l’inconscio del moro aveva preferito dimenticare la sua presenza. Temeva il momento in cui avrebbe dovuto presentarle Ambra come la sua ragazza, ma non aveva scelta. Zia Chloe poteva essere preziosa dal momento che erano arrivati ad un punto morto della loro ricerca.
« E’ probabile che abbia sentito parlare di Tracy, magari sa anche indirizzarci da qualcuno che la conosce personalmente »
« Avresti dovuto pensarci prima » tornò ad insistere Castiel, mentre Erin interveniva:
« Non importa, quello che abbiamo scoperto a Pittsburgh può comunque tornarci utile se e quando conosceremo Tracy… piuttosto Armin, che tipo è tua zia? »
 
Pam inspirò profondamente.
Distese le dita nervosamente e riafferrò per la nona volta la scatola rosa. La rigirò tra le mani, per leggere istruzioni che ormai sapeva a memoria.
« Allora? »
La voce di Jason dall’altra parte della porta la fece sobbalzare, al punto che l’involucro le cadde a terra.
« Jas, mi hai fatto venire un infarto! »
« Verrà a me se non ti decidi a dirmi qualcosa! » protestò lui, con la tachicardia.
Aveva consumato il pavimento di fronte al bagno a forza di camminare avanti e indietro. Voleva entrare, in fondo non era per una questione di privacy che Pam l’aveva lasciato lì ad aspettare.
« Perché se fosse vero, voglio essere io a dirtelo » gli aveva sussurrato prima di chiudersi dentro.
« Bisogna aspettare che la strip faccia reazione » borbottò Pam.
Aveva passato gli ultimi minuti a tenere a bada i nervi, che si erano stranamente rivelati più saldi di quelli dell’uomo. Normalmente era Jason il più razionale dei due, quello che doveva tranquillizzare.
« Allora lasciami entrare, è snervante stare qui fuori »
« No… » insistette la donna, espirando pesantemente.
Quelle continue interruzioni ed insistenze le impedivano di pensare.  
« Jason, cerca di stare zitto, ok? Sono già abbastanza in ansia di mio! »
Iniziò a camminare avanti ed indietro per il bagno ma, considerate le dimensioni ridotte, scoprì di non poter fare molta strada. Si sedette sul water e si portò le mani tra i capelli.
Erano tre settimane che il ciclo non arrivava, lei che era sempre puntuale.
Il suo cuore non aveva ancora deciso come accogliere quell’eventualità.
Diventare mamma.
A mala pena stava imparando ad essere una fidanzata decente.
Poche settimane prima lei e Jason avevano annunciato alle rispettive famiglie il loro intento di sposarsi e ora dovevano prepararsi ad una seconda cena per un annuncio ancora più inatteso.
Ancora pochi secondi e avrebbe avuto una risposta.
Prima che quella strip le annunciasse quale sarebbe stato il suo destino, Pamela Travis voleva capire. Voleva capire quale risultato il suo cuore sperava di leggere.
Afferrò il test di gravidanza, senza guardarlo e lo tenne stretto.
Chiuse gli occhi, inspirò, rilassando le spalle.
Un suo amico indiano, un giorno, le aveva detto che c’è un modo per capire cosa vogliamo dalla vita: scommettere sul lancio della moneta. Testa è un sì, croce un no. Nel momento esatto in cui la moneta cade al suolo, prima di conoscerne l’esito, dentro di noi sappiamo già qual è il risultato che vogliamo leggere.
Quel test era come giocare a testa o croce.
Una lineetta negativo, due lineette positivo.
La presa della mano cominciava ad allentarsi.
Proprio come le era stato detto, in quel momento, capì quale fosse il destino in cui più sperava.
Fu per questo che, di fronte a quelle due linee verticali, scoppiò in un pianto di gioia commossa.
 
Armin suonò il campanello una seconda volta, guardando impaziente gli amici.
Pregò che ad accoglierli ci fosse suo zio Chase, un po’ più posato ed equilibrato di sua moglie, ma sapeva che a quell’ora era probabilmente impegnato nei campi.
La porta si aprì con furia e i quattro abbassarono lo sguardo verso una ragazzina dai brillanti occhi azzurri. Alle sue spalle, facevano seguito due folletti, che le arrivavano a mala pena all’altezza del bacino.
« Armin! » esclamò la biondina, sgranando i grandi occhi candidi.
Il cugino sorrise, riconoscendo nella figura davanti a lui la cuginetta che non vedeva da almeno tre anni.
Roxanne era cresciuta di svariati centimetri e di certo non era più la bambina che giocava con le Barbie e che lo venerava come un dio solo per averle fatto scoprire il mondo di Harry Potter.
« Ciao Roxy » la salutò scompigliandole i capelli sottili.
Le due sorelline minori, Mathilda e Lauren, erano troppo piccole per riconoscere nel ragazzo alto e moro il parente della costa Est. Si limitavano a farsi scudo con la sorella maggiore, fissando con curiosità i quattro sconosciuti. Erin sorrise affabile alle due, mentre Ambra cercava di esternare una dolcezza che la metteva a disagio.
« Possiamo entrare? » chiese Armin alla cugina.
« Parola d’ordine? » scattò lei, sfidandolo.
« Fortuna maior » rispose prontamente lui, facendola sorridere:
« Citare il terzo libro è un colpo basso, cugino… sai che è il mio preferito » sogghignò, guardandolo divertita. Roxanne si spostò di lato, facendo cenno ai quattro di accomodarsi, anche se gli amici di Armin apparivano alquanto perplessi.
Giunsero in un salotto ampio ed accogliente, soffermandosi a pochi metri da un divano arancione e rosso.
Seguì il rumore di passi affrettati che portò tutti a voltarsi verso la cucina:
« Roxy, chi era alla p-…ARMIIIN!! » strillò la donna che aveva fatto la sua comparsa.
Zia Chloe era l’incarnazione più fedele del personaggio di Molly Weasley, creato dalla strepitosa fantasia di J.K. Rowling. Si era praticamente tuffata sul nipote, che aveva gemuto al solo pensiero di quella corporatura tarchiata che gravava sul suo fisico mingherlino. Zia Chloe aveva una capigliatura rossa e arruffata e un sorriso caloroso e materno. Era molto diversa dalla sorella Evelyn, ben più aggraziata ed elegante nel portamento, caratteristiche che anche Roxanne e le sorelle avevano ereditato dal ramo maschile del loro albero genealogico.
Chloe stringeva con forza il petto del nipote, poiché la sua minuta altezza non le consentiva di raggiungere cime più elevate. Armin si era allora curvato in avanti, lasciando che l’affetto della zia lo inondasse di baci e rossetto viola.
« Nipote degenere! Sono anni che non ti fai vedere! » lo rimproverò poi, pizzicandogli la guancia « tu e quell’altro screanzato di tuo fratello Alexandre! Ah, colpa di vostro padre scommetto! Troppo tirchio per pagarvi il viaggio fin qui! » sbuffò la donna, per poi ritrattare «ma suvvia, non perdiamo tempo con queste sciocchezze! Che bella sorpresa! »
« Eravamo qui di passaggio, zia » riuscì finalmente a parlare Armin, massaggiandosi la guancia dolorante.
Quel plurale attirò l’attenzione della donna che finalmente si accorse della presenza di altre tre persone alle spalle del nipote.
« Sono i miei amici » spiegò Armin, mentre Erin fu la prima a presentarsi.
Le aveva allungato la mano ma la donna l’aveva stretta a sé in un abbraccio contenuto ma accogliente.
Aveva cercato di fare lo stesso con Castiel, che aveva istintivamente arretrato di due passi, borbottando qualcosa sul fatto di non essere un amante degli abbracci.
La donna non aveva avuto il tempo di offendersi che era stata distratta dalla bionda che si era appena presentata dicendo:
« … e io sono Ambra »
Chloe aveva sgranato gli occhi, mentre quelli della figlia maggiore avevano iniziato a luccicare entusiasti:
« Tu sei quella Ambra! » esclamarono in coro madre e figlia.
Alternarono lo sguardo tra un imbarazzantissimo Armin e una confusa Ambra che, impacciatamente, cercava di ricambiare la stretta morbosa della padrona di casa.
« Mia sorella mi ha parlato così tanto di te! Avrei dovuto capirlo subito chi fossi! Oh, quasi non ci credevo quando Evelyn mi ha detto che Armin si era trovato la ragazza! Pensavo fosse un caso perso »
« Grazie zia » mormorò Armin, anche se la donna lo ignorò e, tenendo a braccetto la bionda, guidò il resto degli ospiti verso il divano.
« Vi va un thé ragazzi? O preferite una Coca? »
« Una birra? » tentò sottovoce Castiel, ma fu udito solo da Erin, che replicò con una gomitata.
Chloe si dileguò con la scusa di procurarsi dei bicchieri, mentre le tre figlie si accomodavano sul sofà davanti a quello dei ragazzi. Al centro era disposto un basso tavolino di vetro, in cui le carte metallizzate di invitanti cioccolatini facevano la loro comparsa.
« Servitevi pure » miagolò Roxanne.
Improvvisamente sembrava aver perso l’esuberanza con cui li aveva accolti pochi minuti prima. I quattro erano schierati davanti a lei e specialmente il rockettaro sociofobico aveva uno sguardo poco rassicurante. Piombò un imbarazzante silenzio, finchè non fu proprio quest’ultimo a congedarsi, con il pretesto di andare in bagno:
Cogliendo il disagio di Roxanne, Erin cercò di sorriderle rassicurante e domandò:
« Così ti piace Harry Potter? »
Quella semplice domanda bastò ad illuminare la ragazzina che annuì con convinzione.
« Lo adoro. Tu? »
« Ho visto i film » patteggiò Erin, percependo immediatamente che quella considerazione non fosse abbastanza.
« E’ solo una babbana come tante » scherzò Ambra.
Gli occhi di Roxanne tornarono a posarsi sulla bionda, così bella da ricordarle la descrizione di Fleur Delacour. Harry Potter era il suo mondo, le veniva istintivo ricollegare ad esso la sua realtà quotidiana.
« Tu hai letto i libri? » domandò Roxanne, quasi con supplica. Aveva deciso di adorare quella ragazza ma se voleva davvero conquistarsi la sua totale stima, doveva passare quell’unico test.
Ambra annuì e completò:
« Anche io preferisco Il prigioniero di Azkaban… e l’Ordine della Fenice »
« Davvero? » si stupì la biondina.
« Adoro l’entrata in scena di Sirius… e la sua scomparsa »
« E’ il tuo personaggio preferito? »
« Indovinato » le sorrise la bionda.
« Io invece amo Draco »
« Beh, Tom Felton è molto popolare tra le ragazze » convenne Armin.
L’occhiata glaciale che ricevette dalla cugina gli fece gelare il sangue:
« Non mi piace per quello » sottolineò « bensì per la sua complessa caratterizzazione psicologica »
« Che intendi? » s’incuriosì Ambra.
« Draco Malfoy è un personaggio eternamente combattuto, oltre che eternamente battuto da Harry. E’ sempre un passo dietro di lui ed è per questo che non riesco a non pensare che il suo disprezzo verso il ragazzo che è sopravvissuto non sia altro che una maschera per quella che, di fondo, è stima nei suoi confronti »
« Hai dei pensieri molto maturi per la tua età » si congratulò Erin, sinceramente ammirata.
« Oh, non sono io… è Zia Row è un mito » commentò Roxanne adorante.
« E’ una vostra parente? »
Si voltarono tutti verso Castiel, che stava cercando posto tra l’amico ed Erin.
Appena alzò lo sguardo, incrociò quello offeso di Roxanne che sibilò:
« E’ la scrittrice di Harry Potter »
« Allora non chiamarla zia » la liquidò il rosso.
Roxanne stava per sbottare quando sua madre fece ritorno nel salotto. Distribuì i bicchieri su un tavolino, per poi riempirli di un liquido contenuto all’interno di una caraffa:
« Spero vi piaccia il thè al limone, ragazzi »
Erin e Ambra ringraziarono, mentre Castiel si limitò ad un cenno con il capo.
« Comunque zia, siamo qui per chiederti una mano »
Doveva lasciare i convenevoli per un’altra occasione. Non avevano tempo da perdere, considerato l’indomani era lunedì e dovevano andare a scuola.
« A che proposito, tesoro? » cileccò Chloe, servendo Ambra per prima.
« Tu conosci un sacco di gente no? »
« Beh, diciamo di sì » convenne la donna, ancora perplessa.
« Quindi ci chiedevamo se non sapessi qualcosa di Tracy Leroy »
« L’artigiana del legno? »
« La conosce? » si elettrizzò Erin.
« Di fama sì… ma non l’ho mai vista… ecco tieni, cara »
« Cosa sa dirci di lei? »
« Molto poco temo » ammise la donna, porgendo a Castiel un bicchiere colmo di thè.
« So solo che le sue opere passate sono molto quotate ma non ha più prodotto nulla da anni… penso che viva di rendita e basta » spiegò la mora.
« Sa dove vive? » tentò Castiel.
« No, mi dispiace »
« Nient’altro? » insistette Ambra « un qualsiasi dettaglio, ricordo che ha sentito su questa donna… »
Chloe scosse il capo sconfitta e dispiaciuta. I quattro rimasero spiazzati dalla velocità con cui si era svolta quella conversazione. Avevano riposto molte speranze in essa, forse troppe.
« Posso chiedervi ragazzi come mai tutto questo interesse? »
Il tono dolce, quasi colpevole di zia Chloe intenerì Erin ma fu Armin a liquidarla con un:
« E’ una lunga storia »
Quello che aveva interpretato come un sogno premonitore, era stato un fiasco su tutta la linea. Non aveva senso intrattenersi in quella casa e chiedere agli zii di ospitarlo insieme ai suoi amici.
« Aspetta mamma! Si potrebbe chiedere a Miss Patty! »
Quella voce drizzò l’attenzione generale e fu a seguito di essa che tutti tornarono a volgere la loro attenzione su Roxanne. La biondina era balzata in piedi, euforica, battendo le mani.
« Tesoro, sei un genio! Ma certo! Miss Patty era la domestica della signora Leroy! » esclamò a sua volta la madre, battendosi una mano in fronte.
« Che cosa? » esclamarono in coro Erin ed Armin.
« Che sciocca che sono! » ridacchiò Chloe « l’avevo completamente rimosso! Miss Patty è una donna che ho conosciuto tanti anni fa ad un corso di yoga e che mi disse che, saltuariamente, prestava servizio nella casa di Tracy Leroy ma mi pregò di non farne parola con nessuno »
« Come mai? »
« La signora Leroy era molto gelosa della sua privacy, non riceveva mai ospiti e praticamente non usciva di casa. Poiché Patty mi aveva raccomandato di non dirlo in giro, ho finito per scordare io stessa questo dettaglio »
« Ma Roxy lo sa » convenne Ambra.
« L’ha scoperto da sola, non c’è mistero che sfugga a questa peste » scosse il capo la madre, mentre la biondina rispondeva con una linguaccia divertita.
« Allora, dove abita precisamente questa Miss Patty? » domandò Castiel alzandosi in piedi.
« Questo non lo so, si è trasferita a Ford City due anni fa, ma se volete l’indirizzo, temo di non potervi aiutare »
« Non hai un numero telefonico a cui possiamo chiamare? » intervenne il nipote.
Chloe stava scuotendo il capo, mentre la figlia interveniva:
« Ma mamma, non ricordi che il signor Deer ci ha detto che ora lei lavora nell’asilo di Ford City? Quello vicino alla chiesa di Saint Andrew? »
« Stavo per dirglielo io, Roxy, smettila di interrompermi e farmi passare per rimbambita » la rimbeccò la madre, gonfiando le guance come una bambina.
« Dove si trova questo asilo? » chiese Ambra.
« Non ricordo il nome della via e purtroppo neanche la strada »
« Io sì però! Li accompagno io! E’ vicino al lunapark »
«  E quando? »
« Domani! Di certo oggi non troviamo nessuno visto che è domenica »
« E con la scuola, come pensi di fare, signorina? »
« Quella c’è sempre, Armin no » replicò candidamente Roxanne.
Chloe aggrottò la fronte contrariata, mentre Armin interveniva:
« Suvvia zia, per un giorno si può anche fare… »
Pure i quattro non avevano preventivato di saltare un giorno di scuola, ma l’occasione era troppo ghiotta per rinunciarvi. Chloe posò lo sguardo sul nipote, combattuta tra i suoi doveri come madre e l’apertura mentale di cui si dichiarava così orgogliosa.
Saltare un giorno di scuola non era una tragedia, del resto i voti della figlia erano ineccepibili.
« Grazie! » esultò Roxanne, trionfante, a seguito del sospiro rassegnato della donna.
« Quanto dista Ford City da qui? » investigò Castiel.
« Un’ora di macchina »
« Allora sarà meglio che prima la facciamo controllare da un meccanico. Venendo qui faceva dei rumori strani » sentenziò Castiel.
« Non è una scusa per saltare più giorni di scuola? » dubitò Erin.
« E dobbiamo anche trovarci un albergo » intervenne Ambra ma prima che potesse aggiungere altro, Chloe era drizzata in piedi indignata:
« Come? Mio nipote viene a trovarmi e io lo faccio dormire fuori? Non sia mai! Qui c’è posto per tutti, abbiamo una dependance laggiù » li informò, indicando una costruzione oltre le vetrate del salotto « c’è un letto matrimoniale nella parte ovest e due singoli in quella est. Posso avvicinarvi i due letti, così anche voi avrete la vostra intimità » e nel dire quell’ultima frase, aveva guardato maliziosamente Erin e Castiel che, dopo un iniziale stupore, erano sbottati:
« No, no, ma che dice! » aveva farfugliato Erin in difficoltà.
« Ah, ma guarda cara che sono fatti apposta per essere uniti, starete comodi. C’è un meccanismo ad incastro nelle testiere del letto, così anche se fate un po’ di… insomma, zum-zum, il letto rimane compatto! »
« Non è questo » l’aveva interrotta Castiel in difficoltà.
« Ma guardate che io non mi scandalizzo mica! Anzi, sono la prima a dire che, finchè si è giovani, bisognerebbe fare tanto sesso! »
« Non siamo una coppia! » aveva gracchiato la mora, mentre un brivido le aveva percorso la schiena. Roxanne si era portata una mano sulla fronte, scuotendo il capo in imbarazzo. Sua madre era irrecuperabile. Armin era scoppiato a ridere, dimenticandosi che era proprio quel genere di battute a metterlo così in difficoltà di fronte a sua zia. Gli era bastato vedere il sorriso divertito e luminoso di Ambra per ricredersi e desiderare di restare in quella casa il più a lungo possibile.
 
Dopo una cena consumata in allegria, Castiel e Chase, lo zio di Armin, uscirono a dare un’occhiata alla macchina, mentre il moro intratteneva il resto dei presenti con racconti della sua esperienza da lavapiatti nel ristorante cinese della loro amica Lin.
Passato un quarto d’ora, sentirono uno scoppio fortissimo, che li portò tutti all’esterno spaventati.
Dal garage emergeva un fumo grigio, dal quale si distinsero le sagome tossicchianti di Castiel e dello zio Chase.
« Glielo dicevo io che quell’olio motore era strano! » stava brontolando Castiel.
« Beh, almeno adesso ho la conferma che quello non era olio »
« Mi sta prendendo per il culo? Ora il motore è andato a puttane! »
Chase però non era minimamente turbato, ma continuava a ridere divertito dalla sua precedente battuta. Armin corse incontro all’amico, il cui viso era leggermente annerito dal fumo.
«Che succede? »
« Tuo zio ha ben pensato di buttare un intruglio strano nel serbatoio dell’olio e questo è il risultato! Ma non era un meccanico? »
« Sì, ma poi ha chiuso l’attività e si è dedicato all’agricoltura »  convenne il moro, mentre la tempia del rosso rischiava di esplodere.
« E dirmelo prima no, eh? » sibilò furente, strattonando l’amico.
« Quindi la macchina non va più? » riepilogò Erin preoccupata.
« No, domani la porteremo da un meccanico… uno vero » puntualizzò il rosso, lanciando un’occhiata all’uomo, che aveva iniziato a giustificarsi:
« Forza ragazzo, non prendertela, vedrai che te la caverai con poco »
Ambra continuava a sorridere divertita, facendo irritare ancora di più il musicista che scattò:
« E tu Daniels che ti ridi? Siamo a piedi se non l’avevi capito »
« Eddai Black, non te la prendere. Divideremo le spese per la riparazione e nel frattempo andremo a Ford City in bus »
« Non è comodo. L’asilo è parecchio dislocato dal centro » spiegò Roxanne.
Castiel si allontanò dal gruppo a grandi falcate e impugnando il cellulare.
Non aveva nessuna voglia di viaggiare in bus, era una cosa che aveva sempre odiato. Persino per andare al liceo, preferiva prendere la bici, anche in pieno inverno.
C’era solo un’alternativa e corrispondeva al nome di Lysandre White.
 
 




 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Buongiorno a tutte ^^
So che è passato un bel po’ di tempo dall’ultimo aggiornamento, ma ahimè, non ho potuto fare di meglio. Avrete intuito che è stato un periodo full solo dal tempo che ho lasciato scorrere tra una risposta e l’altra alle recensioni T_T
Sono anche indietrissimo con le storie che sto seguendo e sfrutto questo angoluzzo per chiedere scusa alle dirette interessate, che sapete di essere tali u.u
Altra cosa: chiedo perdono alle recensioni rimaste senza risposta, vi prego, scusatemi T_T. La risposta arriverà prima della pubblicazione del prossimo capitolo, promesso!!
Prima di addentrarmi con il commento del capitolo, vorrei invitarvi ad osservare questo meraviglioso disegno, realizzato da C., a cui va un mio sincero grazie ^^ (saluti anche a G.)
 
Dunque, annuncio con sollievo l’arrivo di un capitolo veramente importante per lo svolgimento della storia poiché sia sul fronte Sophia-Nathaniel che Erin e company, si è messo seriamente in moto il meccanismo che porterà alla risoluzione del mistero di IHS.
Mi piacerebbe tantissimo sentire le vostre ipotesi su alcune tematiche sulle quali i personaggi si trovano a riflettere, prima su tutte: che lavoro ha svolto Jack Hurst, il padre di Mackenzie?
L’indizio è “rimedio agli errori altrui” e c’è da tenere in considerazione anche quanto detto da Nathaniel, circa le possibilità di carriera dell’uomo.
Abbiamo anche un indizio su quale sia la città in cui è stato spedito il quadro, ossia che è il nome di una serie TV… cioè?
 
Questa volta le domande a cui ho scelto di rispondere sono le seguenti (quelle in cui non c’è il nickname, risalgono al precedente sondaggio, in cui non avevo messo la possibilità di identificarsi)
 
Hai mai pensato a far diventare IHS un libro?
Dunque, questa cosa mi è stata chiesta più volte in passato e sono contenta che sia riemersa, perché così posso dare una risposta definitiva. Fino a diversi mesi fa, escludevo a priori l’idea che IHS potesse diventare un libro, perché ci sono troppe cose che non vanno e che dovrei sistemare, a partire dalle incongruenze legate al fatto di aver ambientato la storia in una realtà che non è la mia (non so quasi nulla del sistema scolastico americano) oppure aver ad esempio personaggi americani ma con nomi francesi.
Tuttavia, con il passare del tempo, ho cominciato a rivalutare questa cosa, pensando che potevo almeno provare a sentire Missy per capire se, con le giuste modifiche, IHS avesse delle speranze di interessare alla Beemov. Io sinceramente non ho né il tempo né la voglia di sistemare la storia dall’inizio, preferisco concentrare il tempo per finirla, però se la Beemov avesse voluto farsene qualcosa di questa storia, ne sarei stata onoratissima. Dopo aver contattato Missy(grazie alla mediazione della gentilissima Reika80), ecco la sua risposta: “[…]Per quanto riguarda un'eventuale progetto con Beemoov, ti rispondo io perché sono l'incaricata per l'Italia.
Purtroppo, questo tipo di collaborazioni non è previsto (neanche per la versione madre francese).
Ma mai dire mai nella vita! […]”
In sintesi, per rispondere alla domanda, sì, ho pensato a rendere IHS un libro però la cosa non è realizzabile J. In passato alcune di voi mi hanno suggerito di cambiare i nomi dei personaggi, in modo da svincolarli dalla Beemov, ma per me ormai il protagonista maschile di IHS si chiama Castiel, così come Rosalya è la Rosalya di DF e così via… non riesco proprio a riscriverli in chiave diversa J
 
Vorresti scrivere un'altra long che sia long long come IHS?
Nì. Dunque, dopo IHS il mio obiettivo sarebbe quello di pubblicare un libro.
Ho un’ideuzza in cantiere e, forte dell’esperienza di questa long, ho deciso che sarà qualcosa di completamente diverso, a partire dall’ambientazione che sarà in Italia, visto che è il mio paese e che immagino di conoscerlo meglio di una sperduta cittadina americana xD
Ma sul discorso del libro, se siete interessate, vi terrò aggiornate più avanti, non appena nizierò a vedere la luce in fondo al tunnel con IHS :)
 
Myuuuuuuuu: Ciao, volevo chiederti se aggiornerai sempre ogni mese... Grazie
Temo che il tempo che ci ho messo a pubblicare risponda da sé. Mi piacerebbe tantissimo poter pubblicare con regolarità ma purtroppo sono in balia dei miei impegni personali e lavorativi, che mi assorbono totalmente, per cui sono costretta a pubblicare ogni morte del papa. Chiedo perdono T_T
Comunque, per chi non lo sapesse, nella mia home page di EFP cerco di segnare la data di pubblicazione del capitolo e cercherò anche di avvertire tramite Wattpad i lettori con il giusto preavviso non appena la data è stabilita.
 
Vi lascio il link per eventuali domande su IHS:
 
https://docs.google.com/forms/d/1wyv8hujlm__oDyaziSxmfdgxZhVG8GnZ-N4Ob1hV-j8/viewform
 
Alla prossima!
 
Ellen March

 

Ritorna all'indice


Capitolo 57
*** Lysandre in love ***


57.
LYSANDRE IN LOVE

 
 
Lysandre ricontrollò per l’ultima volta l’indirizzo che gli aveva inoltrato il suo amico Castiel. Alzò quindi lo sguardo verso un’insegna rettangolare e mise a fuoco il nome della via. Doveva complimentarsi con se stesso per essere giunto a destinazione senza perdersi ed essere pure in anticipo.
In parte però, doveva riconoscerlo, il merito di quell’impresa spettava alla sua compagna di viaggio.
« Staremo stretti se verrai anche tu » aveva fatto notare a sua sorella Rosalya, ma la ragazza aveva liquidato il problema sostenendo che lei ed Erin erano talmente minute, da occupare il sedile di una sola persona.
« Ti pare che mi perda la parte più succosa della faccenda? » aveva poi protestato.
« A te interessa solo avere un pretesto per saltare le lezioni » l’aveva pungolata il fratello maggiore.
Erano ormai le otto del mattino, un orario un po’ inopportuno per piombare in casa di sconosciuti, come lo erano gli zii di Armin. Stava quindi per telefonare a Castiel quando Rosalya sbottò:
« Che aspetti? Andiamo! » e senza attendere risposta, balzò fuori dalla vettura.
Il poeta sollevò gli occhi al cielo, come se nelle nuvole plumbee cercasse commiserazione per quell’atteggiamento così incompatibile con il proprio.
Il dito sottile della ragazza era già puntato contro il campanello d’ottone, mentre un sorriso radioso le illuminava il viso. Niente in quel momento, avrebbe potuto spegnere l’entusiasmo e l’allegria di vedere l’espressione sorpresa della sua migliore amica.
 
Castiel rotolò sul fianco destro, socchiudendo appena le palpebre. Il materasso cigolò leggermente e lui rimase immobile, sperando che quel movimento non avesse destato la sua compagna di stanza. 
Lui, che non aveva mai sofferto d’insonnia in vita sua, quando c’era quella ragazza nei paraggi doveva lottare strenuamente nel tentativo di addormentarsi. Per tutta la notte si era sentito inquieto ma il timore di disturbare il sonno di Erin lo aveva fatto desistere dal cercare una posizione più confortevole.
Eppure, gli era bastato guardarla, nel cuore della notte, mentre sonnecchiava beatamente, facendolo sorridere con quel viso così dolce ed indifeso. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato mentre era rimasto lì, incantato, a fissarla e perdersi nei suoi pensieri. Di certo, non era dipesa da lui la rottura di quel contatto visivo: ad un certo punto, Erin si era voltata dalla parte opposta per il resto della notte, privandolo di quella visione.
Si distese sulla schiena, chiedendosi quanto ancora la ragazza avrebbe riposato tra le braccia di Morfeo. Lui aveva un disperato bisogno di caffeina, per sopperire al deficit di riposo e risvegliare i sensi, ma l’idea di abbandonare per primo quella stanza non lo tentava. Anzi. Avrebbe voluto vederla stropicciarsi gli occhi, destarsi pigramente dal sonno e, magari, guardarlo per un attimo disorientata, chiedendosi come mai fossero lì. Una volta Rosalya gli aveva raccontato di quanto Erin fosse particolarmente rintronata dopo un sonno ristoratore e lui non aspettava altro che l’occasione per scoprire anche quel lato così adorabile del suo essere meravigliosamente lei.
Ruotò il capo di lato e notò che il petto della ragazza si alzava e sgonfiava ritmicamente. Le lunghe ciglia, ostinatamente abbassate, trasmettevano una grande femminilità e dolcezza a quel viso. Gli bastava guardare quei lineamenti per sentirsi invaso da una profonda pace e serenità. 
Sorrise, una smorfia istintiva e pertanto incontrollata, destinata però a spegnersi appena il suo udito finissimo riconobbe una voce fastidiosamente familiare:
« SVEGLIA RAGAZZI! » annunciò Rosalya, colpendo il palmo contro la porta.
Castiel vide il corpo di Erin sobbalzare spasmodico, violentemente strappato dalla realtà onirica.
« C-che succede? » farfugliò, con la bocca ancora impiastrata dal sonno.
« White… » scosse il capo il musicista, mettendosi seduto.
« Vi ho disturbatiii? » ironizzò la stilista, dall’altro lato della porta.
« Che ci fai qui? » abbaiò Castiel.
Erano bastate frazioni di secondo per far evaporare tutto il buon umore che aveva accompagnato il suo risveglio. Interagire con una pazza scatenata come Rosalya, gli faceva apprezzare ancora di più la dolcezza ed equilibrio di Erin.
« Servizio carroattrezzi, signore! » si pavoneggiò l’altra, entrando finalmente nella stanza e sedendosi elegantemente sul letto di Erin.
I letti dei due occupanti erano separati da almeno un metro ma non fu solo quella constatazione logistica a turbarla.
Fissò l’amica e, lanciando un’occhiata sprezzante al suo pigiama di Spongebob dichiarò:
« Amica mia, un pigiama così affloscerebbe l’alzabandiera mattutina di qualunque maschio in piena tempesta ormonale »
 
A colazione Rosalya si distinse per la sua chiassosità, che ben si sposò con il carattere esuberante di zia Chloe. Roxanne fissava ammirata quella ragazza bellissima, cominciando a sospettare che nel liceo di Morristown vi fosse una selezione a monte, circa l’aspetto fisico delle sue studentesse.
« Roxy, patti chiari e amicizia lunga » esordì la madre « ti concedo solo oggi come giornata di vacanza, da domani a scuola »
« Ma mamma… » stava per protestare la biondina, quando Ambra intervenne.
« Non ti preoccupare Roxanne, questo non significa che ti escluderemo dall’indagine »
« Quanto pensate di fermarvi? » domandò il padre della bambina, affrettandosi poi a precisare « sia chiaro, siete i benvenuti, ma è solo per capire come organizzarci »
« Oh, non vogliamo approfittare così tanto della vostra ospitalità! » rimediò Erin « ieri ho cercato un motel e… »
« Non se ne parla! » si oppose Chloe « qui c’è spazio per tutti! Restate il tempo necessario »
Ambra stava per ribattere ma il suo ragazzo la anticipò, incrociando la sua mano in quella della bionda.
« Come vuoi, zia… con te è impossibile discutere »
Quel contatto la fece rabbrividire, al ricordo della notte precedente.
Seppure nessuno dei due si fosse opposto alla condivisione del letto, era lampante che tra di loro non ci fosse ancora quel genere di complicità che li avrebbe spinti ad un passo successivo. In cuor suo poi, Ambra era estremamente a disagio. Era vero che Armin era il suo primo ragazzo, ma questo non significava che nessun’altro prima si fosse avvicinato a lei. Era accaduto in uno dei momenti più difficili della sua adolescenza, quando aveva raggiunto un tale stato di indolenza che solo la ricerca di emozioni forti poteva sopirla. Assecondare le avances di quel ricco erede conosciuto nel Wisconsin durante una vacanza, le era sembrato un modo per evadere da quell’apatia suicida, quell’assoluta astensione da ogni emozione. Tuttavia, ne era scaturito un rapporto carnale e pure doloroso, talmente tanto che da quella volta, la sola idea di concedersi fisicamente ad un ragazzo, la paralizzava. Per questo, l’aveva liquidato con uno sfuggente bacio a fior di labbra e si era nascosta il viso sotto le coperte. Avrebbe voluto così tanto sapere cosa il ragazzo stesse pensando in quel momento ma si dovette accontentare dell’indecifrabile silenzio che ne era seguito.
« Dunque ragazzi, sparecchiamo e poi mettiamoci in marcia! » esclamò infine il moro. Per quanto la sua ragazza fosse dispiaciuta e rattristata, lui non cessava di sorridere e trasmettere in chi lo circondava, una buona dose di allegria e spensieratezza. Qualità di cui lei aveva un disperato bisogno.
 
Come previsto da Lysandre, il viaggio in macchina fu alquanto scomodo, addirittura in misura maggiore di quanto avesse preventivato: nonostante le sue resistenze, Roxanne fu costretta a sedersi sulle ginocchia del cugino e occupare il sedile anteriore, mentre gli altri quattro vennero stipati dietro.
« Al ritorno guido io » borbottò Castiel.
Per lo meno accanto a lui c’era Rosalya e, quella vicinanza, non lo irretiva minimamente. Sarebbe stato molto più in difficoltà se, a schiacciarsi contro la sua coscia, fosse stata quella di Erin.
Seguendo le indicazioni, talvolta un po’ confuse, di Roxanne, il gruppetto raggiunse una cittadina minuscola ma accogliente. La gente passeggiava per i marciapiedi ricchi di fiori e piante, le vetrine dei negozi erano curate e caratteristiche. Mestieri ormai dimenticati, come il droghiere resistevano eroicamente, dando sfoggio di una miriade di prodotti colorati e curiosi.
« Che cittadina deliziosa » approvò l’autista, lasciando passare una vecchietta.
« Sembra Stars Hollow di Gilmore Girls » squittirono in coro Erin e Rosalya e, dopo quella comune osservazione, si scambiarono il cinque.
« A me sembra tutta finta » disapprovò Castiel. Quel tipo di ambienti non facevano per lui, amante dell’atmosfera metropolitana. Adorava la sfrontatezza con cui i grattacieli sfidavano la gravità, la dinamicità della musica di strada, la vivacità culturale della metropoli. Aveva amato sin da subito Berlino proprio per quegli aspetti così in linea con il suo modo di essere.
Roxanne si sporse in avanti, indicando un punto lontano:
« Svolta lì! » ordinò a un consenziente pilota.
La vettura imboccò un viale alberato, al termine del quale sorgeva una chiesa dall’architettura neoclassica e un edificio bianco, che ben presto venne loro presentato come la loro meta.
« L’asilo è gestito dalle suore » spiegò la ragazzina, mentre Lysandre parcheggiava.
« Mocciosi e religione » borbottò Castiel, uscendo dall’abitacolo « esiste un binomio peggiore? »
« Forse è meglio che tu non entri, Black. Le suore potrebbero pensare che tu sia una specie di indemoniato » lo punzecchiò Rosalya.
« Ti sei vista, White? » la rimbeccò l’altro, sventolandole davanti al naso una ciocca di capelli bianchi mentre Erin si frapponeva tra i due.
« Potreste evitare di bisticciare, almeno finché non saremo usciti da qui? »
« Credete davvero che ci faranno entrare tutti, solo per parlare con la cuoca? » osservò Ambra, dubbiosa.
« Posso dire che è mia zia, così, giusto per avere un pretesto per entrare » propose Roxanne. La bionda stava per approvare quella scelta, quando Castiel intervenne:
« Le suore sono gente diffidente, non basterà una balla qualsiasi per convincerle »
« Hai una strana concezione delle suore » puntualizzò Erin « e poi credo che la scusa di Roxy reggerà benissimo »
« Detto questo, chi entra? » riepilogò Armin.
« Beh, oltre alla nostra esca, direi Erin in quanto diretta interessata, Ambra in quanto detective ufficiale ed Armin » ragionò Lysandre.
« E io in qualità di…? » lo esortò l’hacker.
« Tu perché hai la faccia da tontolone piacione… da tipo innocuo insomma » completò Rosalya.
Il moro cercò rassicurazione nel poeta che però ammise:
« Non mi sarei espresso in questi termini ma diciamo che il senso era quello »
« Comunque voglio andarci pure io! » protestò la stilista, mentre Ambra passava affettuosamente una mano sulla spalla del suo ragazzo « che senso ha essere venuta fin qui se poi non posso neanche prendere parte alle indagini? »
« Infatti tu non eri richiesta » la gelò Castiel, guadagnandosi una gomitata laterale da Erin.
« Io invece sono contenta che tu sia venuta, Rosa » intervenne prontamente la mora.
« L’ho fatto solo per te, stella » le sorrise radiosa l’amica.
« Se viene la psicopatica, allora entro pure io » s’impuntò a quel punto il rosso.
« Sembri un bambino »
Castiel si voltò verso la provenienza di quella vocina, inquadrando in essa la figura di Roxanne.
« Mocciosetta, vedi di non alzare troppo la cresta. Stai parlando con un adulto »
« Non posso credere che tu abbia lo stesso cognome del mio personaggio preferito » borbottò la biondina tra sé e sé, lanciando un’occhiata sprezzante al ragazzo. Normalmente non le mancava la capacità di rispondere a tono, ma non voleva inimicarsi l’amico di suo cugino. In fondo, bastava ignorarlo e cercare di interagire con lui il meno possibile. Non si capacitava allora del fatto che una ragazza sensibile e carina come quella Erin, potesse essere così presa da lui. Perché, anche se i due diretti interessati non ne erano consapevoli, a Roxanne era bastata un’occhiata per interpretare la complicità e gli imbarazzi tra la mora e il rosso.
Seguì il gruppo, che alla fine aveva escluso solo Lysandre, fino al cancello smaltato di bianco. Si voltò verso il poeta, provando quasi tristezza per la desolante solitudine in cui l’avevano abbandonato. Lysandre sembrò leggerle nel pensiero e le rispose con un sorriso talmente candido, da farla arrossire.
Se avesse avuto qualche anno di più e, soprattutto, le fosse passata quella cotta paurosa per Ryder Parker della seconda B, Roxanne ci avrebbe fatto un pensierino su quel ragazzo così garbato e affascinante.
« Desiderate, ragazzi? »
La ragazzina fu costretta a scostarsi dai propri pensieri e notò che, oltre il cancello si era materializzata la figura di una suora, vestita di nero.
« V-vorrei parlare con mia zia » miagolò timidamente.
Tutta la sua sicurezza era sparita di fronte al cipiglio perplesso della religiosa.
« Chi è tua zia? »
« Patricia Powell »
« Patty? La cuoca? »
« Esatto »
La donna sollevò allora lo sguardo sui ragazzi che circondavano la presunta nipote di Patty e domandò:
« E questi ragazzi? »
« Vede, siamo degli scout e abbiamo conosciuto Patty durante un’uscita. Visto che eravamo qui di passaggio, abbiamo pensato di salutarla, se non è un problema »
Era stata Ambra a giustificare la loro presenza con quella scusa che, seppure poco credibile, era stata recitata con una sicurezza ammirevole:
« Scout? » domandò la suora, soffermando lo sguardo in particolare sull’aspetto eccentrico di Castiel e Rosalya.
« Che vuole che le dica, sorella? Gesù piace a tutti » replicò il primo, velatamente beffardo.
« Non dire stupidate » gli sussurrò Erin « e cerca di prenderla seriamente »
« Beh, quand’è così, credo che a Patty farà piacere vedervi… anche se non ho ancora capito cosa c’entri tu con loro » convenne la religiosa, rivolgendosi a Roxanne.
« Sono pure io una scout » le sorrise quest’ultima. Quel sorriso angelico aveva spiazzato più di una persona in passato e Roxanne doveva riconoscerne di averne sempre fatto un uso magistrale. Quasi fosse la chiave per sbloccare ogni serratura, era bastata quella smorfia per far crollare ogni debole reticenza della donna.
Attraversarono così il viale ciottoloso e silenzioso, seguendo poi la suora oltre una porta a vetri decorata con adesivi colorati.
Castiel e Armin, piazzati in fondo alla spedizione, iniziarono a scherzare e ricordare l’asilo in cui erano cresciuti, facendo commenti poco lusinghieri sulla stazza di una certa Miss Flò Flò, soprannome inevitabilmente attribuitole dai piccoli scolari.
Quel giorno, Erin non potè non notarlo, l’esuberanza e l’allegria dei suoi amici erano più radiose e contagiose del solito.
 
« Patty, hai un minuto? C’è una visita per te »
Una figura alta, con due polpacci robusti resi ancora più evidenti da un paio di pantaloni alla zuava si voltò di scatto, brandendo un mestolo a mezz’aria. La schiuma del detersivo colò sul pavimento, mentre nubi di vapore caldo si levavano da un acquaio immenso.
« Sto lavando i piatti» replicò la cuoca, come se non fosse già abbastanza ovvio.
Quell’osservazione però non voleva essere un pretesto per negarsi agli ospiti, quanto una scusante per le sue condizioni poco presentabili. Ciuffi di capelli castani erano sfuggiti alla morsa di una cuffietta troppo piccola a contenerli e la condensa li aveva arricciati leggermente, conferendole un’aria ancora più affaccendata.
« C’è tua nipote »
Prima che Patricia potesse replicare, la figura minuta di Roxanne superò la suora e corse strategicamente tra le braccia della cuoca.
« R-Roxy! » esclamò quest’ultima, piacevolmente sorpresa.
« Sono così contenta di vederti! » incalzò la biondina.
« Beh, allora li affido a te » si congedò la suora « vieni a cercarmi quando per i ragazzi è arrivato il momento di andare »
La religiosa fu piuttosto rapida nel dileguarsi e questo avvantaggiò il gruppo di amici che ebbe tutto il tempo e la serenità per giustificarsi.
« E voi ragazzi… »
« Siamo venuti qui perché abbiamo bisogno di parlarle, Miss Patty » la interruppe Ambra « si tratta di una questione che ci sta particolarmente a cuore »
 
L’asilo che aveva frequentato lui ben tredici anni prima era molto lontano dai colori e l’allegria della struttura che aveva davanti. Come gli raccontò in seguito suo nonno, suo padre aveva iscritto lui e sua sorella in quella che gli era sembrata l’istituzione più prestigiosa della città. Non dovevano indossare degli anonimi grembiuli, ma delle divise fornite dall’istituto e le educatrici vantavano tutte un curriculum invidiabile nel campo della formazione primaria.
Lysandre sorrise, chiedendosi se suo padre potesse vederlo in quel momento, se davvero, come sosteneva sua nonna, vegliasse su di lui e la sorella. Sarebbe stato interessante in particolare sentire cosa pensasse di quei due figli così diversi dalla sua razionalità di matematico e, piuttosto, affini all’eccentricità della moglie, un’ex attrice.
« Perché sei vestito così? »
I pensieri del ragazzo furono costretti a interrompersi, per concentrarsi sulla vocina delicata ma dal tono impertinente che l’aveva distratto. Dall’altro lato della recinzione, un bambino paffuto lo scrutava con un misto di interesse e timore. Dietro di lui, a debita distanza, si erano raccolti alcuni bambini, che assistevano trepidanti alla scena.
Lysandre sorrise amabile, chinandosi verso il piccolo.
« Perché vengo dal passato » gli sussurrò teatrale.
Vide gli occhi neri del bambino sgranarsi da un ingenuo stupore, mentre un sorrisetto canzonatorio gli distendeva gli angoli della bocca.
« Come ti chiami? » domandò l’infante.
« Lysandre »
La bocca del piccolo interlocutore si dilatò assieme agli occhi, che quasi uscirono dalle orbite.
« E’ LYSANDRE! » urlò, voltandosi verso gli amici, poco lontano.
Il poeta a sua volta rimase interdetto da quell’inspiegabile quanto esagerata reazione, ma non aggiunse nulla.
« Non può essere Lysandre! » si fece avanti una bambina, dal cipiglio attento. Osservò scrupolosamente il ragazzo, fissandolo quasi con cattiveria:
« Sei un bugiardo » lo accusò risoluta.
« Perché lo dici? »
« Perché Lysandre non esiste »
« Mi dispiace contraddirti, piccola principessa, ma io esisto eccome » le fece l’occhiolino il ragazzo.
Bastò quel gesto ad abbattere le difese della bambina. Del resto, il ragazzo aveva sempre avuto piena consapevolezza del suo carisma e sapeva come sfruttarlo a seconda delle età e delle circostanze.
« Dobbiamo dirlo a Meggy! » dichiarò il bambino che l’aveva avvicinato per primo e sparì di corsa, lasciando il poeta in balia di un gruppetto di mocciosi che lo fissava diffidenti.
 
« Così voi vorreste incontrare la signora Leroy? » riepilogò Miss Patty.
« Sì… è molto importante per noi » ammise Erin, guardandola intensamente negli occhi.
La cuoca sospirò affranta, trovando posto alle sue stanche membra su uno sgabello dall’aspetto scomodissimo.
« Vorrei tanto potervi aiutare ragazzi ma la signora non ama essere disturbata… se sapesse che vi mando io… »
« Non lo saprà, Patty! » intervenne prontamente Roxanne.
La donna la fissò dubbiosa, combattuta tra il suo animo generoso e disponibile e il rispetto delle volontà della vecchia artista.
« Volete almeno dirmi perché desiderate incontrarla? »
« Ha realizzato una cornice per una persona… voglio sapere di chi si tratta » le spiegò sommariamente la mora.
Patricia sembrò non cogliere a pieno il senso di quella frase, ma venne comunque distratta dalla domanda di Ambra.
« Lei ha lavorato nella casa della signora Leroy giusto? Ricorda se teneva un registro con i nominativi di chi le ha commissionato le varie opere nel corso degli anni? »
« E’ a quello che ambite? »
« Beh, di certo non mi aspetto che si ricordi a memoria ogni cliente » convenne la bionda « a meno che non abbia un motivo particolare per farlo »
« La signora Leroy non si ricorda delle persone, ma solo delle cose » esclamò Patricia, slacciandosi il grembiule « ha una memoria prodigiosa »
« Davvero? » s’incuriosì Rosalya.
« Oh sì! Ha realizzato centinaia e centinaia di opere nel corso della sua vita, ma di tutte, ricorda sempre l’anno di esecuzione » spiegò la cuoca con ammirazione.
« E’ sicura che non spari un anno a caso? » dubitò Castiel, mentre era intento a ispezionare il contenuto di un voluminoso pentolone.
« No, no, non sono l’unica ad aver notato questo suo talento »
« Quindi ci sono delle possibilità che lei si ricordi chi le ha commissionato la cornice che ci interessa? » sperò Erin.
« Non lo escludo, in effetti… ciò su cui non posso tranquillizzarvi è la disponibilità di quella donna. Potrebbe sbattervi la porta in faccia prima ancora che riuscite a presentarvi »
« E’ per questo che siamo qui, zietta » le sorrise angelica Roxanne « tu in quella casa sei riuscita ad entrare… devi dirci qual è il segreto »
« Ci sono entrata solo perché stava cercando una domestica, Roxy »
« Ma ora che lei non ci lavora più, ha assunto un’altra colf? » osservò Armin.
« Chi lo sa. Forse sì, forse no »
Il moro si voltò verso la sua ragazza, sulla quale si erano concentrati gli sguardi del resto dei suoi amici.
« Che facciamo Ambra? » domandò Erin, esternando quello che era il pensiero generale.
« Beh, dobbiamo comunque provarci. Potrebbe spiegarci come arrivare a casa di questa donna? »
 
Margaret era diventata uno zuccherino, non era rimasta traccia della scontrosità con cui l’aveva aggredito poco prima. Lo guardava trasognante, dal basso della sua minuta statura, mentre il poeta intratteneva i piccoli con la sua voce calma.
« Ti facciamo entrare, Lysandre! » aveva architettato un bambino con il moccio al naso, Ruben.
Fu così che il poeta si era trovato dall’altra parte del cancello, sperando che nessun’educatrice potesse accorgersi di lui. Il che risultava alquanto ridicolo, dal momento che erano in mezzo al cortile. Eppure non c’era traccia di maestre o suore. In quello spazio aperto c’erano solo lui e quei sette bambini che erano diventati il suo pubblico.
Aveva appena evocato la scena della lotta tra il principe e il drago, quando gli accadde una cosa assolutamente estranea alla sua esperienza, qualcosa in cui non si era mai imbattuto prima.
La voce gli morì, lasciando a metà una frase nel punto più emozionante del racconto. Le labbra morbide rimasero socchiuse, poco elegantemente per giunta.
Chinata in avanti, mentre Harry la teneva per mano, stava accorrendo nella sua direzione, una figura femminile un po’ goffa e impacciata.
Aveva un sorriso meravigliosamente tenero, quasi puerile e un viso rotondo. I capelli scuri erano tagliati all’altezza delle spalle, ma la chioma era folta e voluminosa.
« Devi vederlo, Meggy! » stava esclamando Harry.
Ne derivò una risata cristallina, spentasi nell’istante stesso in cui i suoi occhi si posarono su quelli del ragazzo.
Meggy cacciò un urlo spaventato, tale da spaventare persino la causa.
« SANTA PATATA! » farfugliò « PORCA PALETTA! SUOR MARY MI AMMAZZA! » si agitò, guardandosi attorno furtiva.
I sette bambini, assolutamente estranei al terrore della ragazza, si voltarono divertiti e la assalirono gioiosi:
« Meggy! E’ Lysandre! » esclamò Margaret, indicando il poeta.
« Voi che ci fate qui? Non dovreste fare il riposino a quest’ora? »
Quello che doveva essere un rimprovero, era invece uscito come una buffa constatazione, che non aveva minimamente allertato i fuggitivi.
« Non avevamo sonno »
« E suor Mary? »
« Lei sì » ridacchiò Harry « si è addormentata e noi siamo scappati »
« Non mi avevi detto che eravate scappati tutti voi otto! Filate immediatamente a nanna! » cercò di arrabbiarsi la ragazza, fissando Harry.
« Ma Meggy! E’ Lysandre! »
Fu allora che, finalmente, la ragazza si decise a dedicare al ragazzo la giusta attenzione.
Lo fissò per qualche istante in silenzio poi, inaspettatamente, cacciò un secondo urlo:
« SANTA PATATA! E TU CHI SEI?! Da quando sei qui? »
Il poeta era rimasto talmente spiazzato dalla ragazza e da quei modi così infantili che non sapeva come replicare.
« L’abbiamo fatto entrare noi » spiegò Ruben con orgoglio.
« Ma non si fa… » tentò di spiegare lei, sentendosi tremendamente a disagio. Alzò infatti lo sguardo sul poeta, fissandolo timidamente « scusami ma sai, sei uno sconosciuto e loro… »
« Non preoccuparti » gracchiò Lysandre.
Gracchiare.
Lui, la cui voce era sempre impeccabile e balsamica.
L’ultima volta che gli era uscita così terribile era frutto di una sua iniziativa, per convincere Castiel di essere afono e far poi esibire Nathaniel al concerto del liceo.
Si zittì, cercando di umidificare la gola al meglio, ma pure la saliva sembrò averlo abbandonato.
Scrutò quella ragazza, che i bambini chiamavano ripetutamente Meggy.
Aveva un sorriso candido, messo ancora più in evidenza da due occhi azzurri e dolci. I capelli corvini, risplendevano sotto i raggi del sole, apparendo a tratti quasi violacei. Era molto magra, forse un po’ troppo e quella magrezza veniva enfatizzata da una felpa troppo lunga e troppo larga, lasciata aperta.
« Allora, Meggy? E’ veramente lui Lysandre? » domandò Ruben, indicando il ragazzo.
Lei fissò il poeta senza capire e in quest’ultimo lesse un’espressione analoga alla sua. Nel vedere quella smorfia, il suo viso si distese e reclinò il capo all’indietro.
Scoppiò in una risata fragorosamente bella, contagiosa e spontanea.
In quel momento Lysandre la invidiò perché, a memoria sua, erano settimane che non rideva con tanta leggerezza.
« Bambini, Lysandre è un personaggio di fantasia » spiegò con dolcezza.
« Ma allora ci hai mentito » si lagnò Margaret, fissando sprezzante il ragazzo che però insistette:
« Io mi chiamo veramente Lysandre » farfugliò lui, insicuro. Non riusciva a riconoscersi in quell’atteggiamento così remissivo e vulnerabile.
Non era lui.
« … ma non è il Lysandre di Shakky » completò Meggy, allungando la mano verso Margaret « forza bambini, ora a nanna, altrimenti non vi racconto più le storie »
Si levarono cori di protesta ma tutti, chi prima chi dopo, seguirono la ragazza.
Quest’ultima stava per dire qualcosa a Lysandre, quando una voce alle sue spalle la fece sobbalzare:
« Non di nuovo! Megan! »
Megan venne attraversata da una sorta di scarica elettrica, che la fece voltare meccanicamente:
« S-suor Mary… stavo appunto… »
« Come mai tutti questi bambini sono svegli? Mi è preso un infarto! »
« Li stavo… »
« Li porto su io! Bambini! Forza, avanti marsch! »
Lysandre osservò divertito quell’anziana suora apparsa dal nulla e dai modi brutalmente militareschi. Non aveva minimamente calcolato la sua presenza, regalandogli così la possibilità di parlare ancora con quella che si era rivelata una ragazza di nome Megan.
Si sorprese nello scoprire quanto fosse sincero il suo desiderio di intrattenersi ancora con lei e sperò che vi fosse, seppur marginalmente, della reciprocità in quelle intenzioni.
Mentre fantasticava su quale fosse l’argomento migliore con cui riprendere la conversazione, si accorse dell’aria affranta che aveva assunto la ragazza, quasi malinconica.
« Stai bene? »
Quel viso, improvvisamente rabbuiatosi, tornò luminoso come prima, mentre si affrettava a chiarire:
« Sì, sì, tutto ok » minimizzò « scusami… sono proprio pessima… cioè, boh, non volevo essere scortese, ma in un certo senso devo occuparmi dei bambini, beh cioè, non dovrei ma lo faccio comunque… insomma, ne sono un po’ responsabile, no? »
Farneticò quella spiegazione sconclusionata alla velocità della luce, al punto che Lysandre faticò non poco a seguirne la logica.
« Insomma, scusa » esalò infine.
« Non preoccuparti » le sorrise lui comprensivo.
Piombò il silenzio, anche se in Lysandre c’erano fin troppe domande che attendevano una risposta. Decise di partire dalla più scontata e prevedibile, se non altro per rompere il ghiaccio.
« Si può sapere per chi mi avevano preso i bambini? »
Vide la ragazza ridacchiare tra sé e sé e quella risatina la rese ancora più amabile.
« E’ un personaggio di Shakespeare… o Shakky, come dicono loro. E’ il mio autore preferito e ho raccontato loro Sogno di una notte di mezza estate »
« Ti piace Shakespeare? » ripetè il ragazzo sorpreso.
Megan non colse affatto la nota di ammirazione in quella domanda, quanto piuttosto si sentì quasi fuori luogo per quella singolare predilezione:
« Sì, so che è un po’ strano ma amo le sue opere… la sua sensibilità nel toccare l’animo umano con una delicatezza tale da che però finisce per farti sentire quasi nudo… oddio, mi vengono i brividi se penso a certe frasi… »
Gli occhi di Megan avevano iniziato a brillare di una luce intrinseca. Non riflettevano più quella del sole primaverile, ma avevano qualcosa di autentico, qualcosa che li rendeva ancora più belli. Lysandre si perse a guardarli, dimenticandosi di ascoltare quanto lei gli stesse dicendo.
Il suo cervello si riconnesse solo quanto la sentì recitare:
« Non t’ama chi amor ti dice ma »
« … ma t’ama chi guarda e tace » completò lui, rapito.
Lei rimase senza parole, mentre lui distolse lo sguardo in imbarazzo.
E tacque.
 
Odiava il lunedì.
Era il suo giorno libero dal lavoro, eppure non vedeva l’ora che arrivasse il martedì. Prendeva la metro di mattina e veniva circondata dal chiacchiericcio di studenti che si apprestavano ad iniziare l’ennesima giornata scolastica. Compiti in classe, interrogazioni, appunti, libri. Le sembravano passati secoli dall’ultima volta che si era lamentata per quella realtà.
Ricordava la sensazione di libertà provata una volta arrivata in California e realizzato che la scuola non sarebbe rientrata tra le sue priorità.
Ora che non solo l’istruzione non era in cima alla lista delle sue esigenze ma era stata addirittura depennata, Sophia si sentiva in trappola. Il suo futuro tutt’ad un tratto era diventato nebuloso e incerto. Lo era sempre stato, ma se ne stava accorgendo quando tutto attorno a lei aveva preso la piega giusta.
Nathaniel aveva finalmente preso una posizione e dichiarato a sua madre la propria voglia di indipendenza, Ambra era felice con Armin, futuro ingegnere informatico, Erin voleva diventare ricercatrice, Rosalya una stilista.
Tutti avevano le idee chiare eccetto lei.
La metro frenò e lei, colta alla sprovvista, si sbilanciò, urtando un ragazzo davanti a lei.
« Scusa » farfugliò, a voce troppo alta a causa del volume della musica nelle cuffiette.
Lui le sorrise amabile e lei ricambiò finché non si accorse dell’occhiata gelida che le stava lanciando la sconosciuta accanto al moro.
Distolse immediatamente lo sguardo, a disagio, mentre i due tornavano a chiacchierare indisturbati.
Voleva anche lei qualcuno con cui prendere la metro la mattina, qualcuno che le sorridesse in modo così dolce, che riempisse il vuoto della sua quotidianità.
« Deve essere una persecuzione… »
Quello sbuffo arrivò da una voce alla sua destra, dal tono insolente e aspro.
Si voltò e, inorridendo, riconobbe all’istante Ingrid Daniels.
Aveva due pesanti valigie al suo seguito, che ogni tanto riavvicinava al corpo con un colpo di gamba. Nonostante il clima mite, indossava un paio di guanti in seta, igienica barriera contro la sbarra che le fungeva da supporto.
« Signora Daniels… » esclamò Sophia, inclinando il capo in segno di saluto.
Non era quello il genere di compagnia in cui sperava per rallegrarsi la gita in metro.
« Mi sorprende vederla in un mezzo di trasporto così plebeo » aggiunse, canzonatoria. D’altronde, sapeva quanto quella donna la disprezzasse e non era sua intenzione cercare di rimediare all’opinione che aveva di lei. Piuttosto, voleva vendicarsi per la figuraccia che le aveva fatto fare davanti a Nathaniel giorni prima.
« T-trovare un taxi in questa maledetta città è un’impresa » la rimbeccò l’altra.
Pronunciò quella giustificazione con una nota di panico e disagio talmente palpabile che istintivamente Sophia dubitò della sua veridicità.
San Francisco pullulava di tassisti, anche nei posti più abbandonati e meno frequentati. Tuttavia, anziché approfittare di quella circostanza per punzecchiare la donna, la rossa si zittì. Non era al corrente delle difficoltà economiche della famiglia Daniels, ma il suo istinto le suggeriva di non approfondire la questione. Ingrid si guardava attorno come un animale barbaramente strappato dal suo habitat naturale e costretto a vivere in gabbia, fissando con diffidenza chi la circondava.
Una voce metallica annunciò l’imminente arrivo alla prossima fermata ma, udendo quel nome, la donna sbottò fuori di sé:
« Come la Lincoln? Non dovrebbe essere Saint Nicholas la prossima? »
« No, è la Lincoln. Saint Nicholas era la precedente »la corresse Sophia, sorpresa dal fatto che la donna non si fosse accorta della direzione sbagliata.
« M-ma come? No, no, voglio scendere allora! » si agitò.
« Allora dovrà scendere alla Lincoln »
« Non credo proprio! Scendo qui! »
« In mezzo alla strada? » dubitò la ragazza « non può, l’autista non può fermarsi a comando »
« Lo vedremo! » s’impuntò Ingrid, iniziando a farsi strada tra la folla. Non riuscì a fare più di due passi che si imbattè in un impiegato frustrato ed irritabile:
« Signora, dove pensa di andare? Le porte sono dietro di lei »
« Voglio parlare con l’autista, si tolga di mezzo » replicò, schifata dall’odore di colonia scadente che proveniva dal suo cappotto. Una volta sua figlia le aveva detto di amare il caos della metro, l’enorme varietà di persone che la popolano ma Ingrid continuava a preferire il comfort della sua Rolls Royce e di un autista privato.
« Ma robe da matti! Non si parla all’autista! » la rimproverò l’uomo, mentre attorno a lui si levava un mormorio di protesta.
« Signora, si sposti che devo scendere! » la riprese una signora anziana, cercando di superare Ingrid.
« Si sposti lei! »
Si sentì afferrare da dietro e voltandosi, si trovò gli occhi verdi di Sophia che la squadravano.
« Ecco brava, portati via tua madre! » la esortò l’uomo.
Ingrid borbottò ogni possibile impreco, ma la rossa non mollò la presa e la trascinò fuori dal mezzo, non appena le porte le si aprirono sotto il naso.
Atterrarono su un marciapiede dissestato e, una volta lontane dalla folla, la ragazza esclamò:
« Possibile che in ogni posto che vada, finisca sempre per litigare con qualcuno? »
« Che servizio è se il cliente non può beneficiare di ogni diritto? »
« E’ un servizio pubblico » la liquidò Sophia « e comunque se tutti facessero come lei, la metro non arriverebbe mai a destinazione! »
Ingrid arricciò il naso e, afferrate le valigie, iniziò a camminare impettita.
Sophia la guardò incuriosita poi, incapace di trattenersi, scoppiò a ridere.
Rise di gusto, in modo quasi esagerato ma in quel momento era tutto ciò di cui aveva bisogno.
La donna allora si voltò, perplessa e al contempo offesa, mentre la ragazza indicava un punto alle proprie spalle:
« L’aeroporto è dall’altra parte »
Sorrideva, perché in quella figura elegante e altezzosa, non aveva potuto fare a meno di vedere quella più maschile e gentile di Nathaniel, teneramente e irresistibilmente incapace di orientarsi.
 
Per la quinta volta, Kentin guardò i due posti vuoti accanto al proprio banco.
Sbuffò annoiato, mentre Miss Joplin riepilogava il concetto di reazioni di ossido riduzione.
Non gli sembrava un argomento così complesso, eppure la classe la fissava con aria sperduta.
Si indispettì, al pensiero che avrebbe potuto essere con i suoi amici a giocare a fare i detective ed invece, era vincolato a restare lì, a scuola. Gli mancava addirittura la presenza molesta di Castiel, ad interrompere ogni suo sforzo di concentrazione. 
« No Francis, la riduzione è il processo in cui l’elettrone viene acquistato » stava puntualizzando Miss Joplin.
Quell’ennesima spiegazione gli fece sollevare gli occhi al cielo.
 Per fortuna che entro pochi minuti sarebbe suonata la campanella, annunciando l’arrivo dell’ora di matematica. Un vero toccasana per la sua mente.
Poco dopo infatti, l’insegnante di biologia si congedò, piuttosto avvilita da una lezione un po’ sottotono. Aveva sentito la mancanza delle sue studentesse migliori, Erin ed Ambra, oltre che della vivacità di Castiel, che con la sua indisciplina, la costringeva a tenere i cinque sensi in allerta. Lo beccava sempre impegnato a fare qualcos’altro ma, il più delle volte, evitava di riprenderlo fintanto che quelle attività non interferivano con la lezione o distraevano i compagni. Una volta le era parso pure di intravedere dei pentagrammi sul suo banco, ma aveva zittito la curiosità e il suo dovere di approfondire la faccenda.
Kentin stava per mandare un messaggio a Castiel, quando una voce lo distolse dal suo proposito.
« Lezione impegnativa oggi, eh? »
Alzò lo sguardo di scatto, trovandosi di fronte gli occhioni trasparenti di Iris.
A seguito della vacanza alle Bahamas, non si erano mai trovati a tu per tu a chiacchierare. C’erano sempre di mezzo Erin o Castiel e, tutto sommato, la cosa non gli dispiaceva affatto. In presenza di Iris infatti, Kentin si sentiva in imbarazzo, non sapeva più come celare dei sentimenti che erano sempre più lampanti.
« L-le redox non sono un argomento difficile » farfugliò, chiudendo il libro e rimettendolo nello zaino. Si accorse troppo tardi di aver riposto il volume sbagliato e fu costretto a ripescarlo sotto lo sguardo perplesso della rossa.
« A me non entra in testa quale sia una e quale l’altra… cioè… si ossida chi riceve… no aspetta » gli fece cenno di tacere, anticipando l’istinto del ragazzo di correggerla « … chi accetta gli elettroni?... Ah, che casino! »
« Non è così complicato » tornò ad insistere il cadetto, sorridendo leggermente « pensala così: la specie che si riduce ride perché è contenta di aver ricevuto gli elettroni »
« Ride? » ripetè divertita Iris.
« Lo so, è una cagata ma mi aiuta a ricordare facilmente »
« Ok, quindi riduzione come ridere » ripetè Iris « è stupido ma funziona! » squittì allegra.
Il ragazzo sollevò le spalle e incrociò le braccia al petto:
« Novità da Erin? »
« Dice che hanno trovato Tracy Leroy. Oggi pomeriggio andranno a trovarla »
Kentin annuì, mentre Iris iniziò a torturare il lembo inferiore della maglia. Quel giorno aveva messo uno smalto scuro, sperando che le conferisse un’aria più sofisticata come quella che evocava Rosalya.
Aveva anche optato per un capo più femminile, scegliendo quel maglioncino verde attillato con uno scollo a V. Si chiese se il ragazzo si fosse accorto di quei piccoli cambiamenti, ma non osava chiederglielo.
« Comunque se hai difficoltà con chimica, possiamo studiare insieme qualche volta »
Staccò finalmente lo sguardo dalle sue mani, per posarlo sul viso del ragazzo. Un leggero rossore gli aveva tinto le guance, mentre gli occhi rifuggivano al contatto con i suoi.
« D-davvero? » titubò, insicura di aver capito correttamente.
Lui si grattò lo zigomo destro, farfugliando qualcosa che le arrivò come un assenso.
« Mi piacerebbe tantissimo! » squittì con eccessivo entusiasmo. Si pentì all’istante per essersi tanto esposta ma non appena un sorriso tenero illuminò il viso di Kentin, non ebbe alcun rimpianto.
Avrebbero studiato insieme, loro due da soli. Erano settimane che aspettava l’occasione per parlargli senza essere circondata dai loro amici.
Quella volta alle Bahamas, chiusi in quella stanza di ospedale, non avevano quasi interagito, anche se c’erano così tante cose che voleva dirgli.
« Allora facciamo… sabato pomeriggio? » propose il cadetto.
« E se fosse di mattina? Perché nel pomeriggio avevo promesso ad Erin di andare a fare shopping insieme »
« Vada per la mattina » concordò Kentin. Stava per aggiungere altro, quando il professore di matematica fece il suo ingresso in aula:
« Ne riparliamo dopo » concluse Iris, scappando via e lasciandolo lì, impalato a fissarla con un sorriso ebete e al contempo vittorioso stampato in viso.
 
Sophia sollevò gli occhi al cielo, maledicendo la sua offerta di accompagnare Ingrid all’aeroporto. Aveva proposto alla donna di chiamare un taxi, ma la svedese si era fermamente opposta, con una motivazione talmente sconclusionata che già la ragazza l’aveva scordata.
« Manca molto? » sbottava Ingrid ogni dieci minuti.
« Mancherebbe poco se lei si decidesse a salire su un taxi o su un autobus »
« Assolutamente no! »
« Allora continui a camminare e stia zitta »
“Fallo per Nathaniel” si ripeteva.
Se avesse abbandonato Ingrid in quel momento, quella donna non se ne sarebbe più andata da San Francisco. Fu solo allora che un pensiero attraversò la mente di Sophia: dov’era Nathaniel?
Si voltò di scatto, fissando interrogativa la sua compagna di viaggio.
« Mi sto solo togliendo la giacca! » scattò l’altra sulla difensiva, mentre faceva scivolare via un capo in jersey.
« Dov’è suo figlio? »
Ingrid deglutì, rimanendo per un attimo interdetta.
Dischiuse le labbra, spiazzata da quell’uscita ma fu una reazione che durò appena un paio di secondi. Recuperò infatti la sua compostezza e sussurrò sprezzante:
« All’università, dove vuoi che sia? »
« M-ma oggi lei parte » obiettò la ragazza.
« E allora? Mi ha già salutata »
Sophia non replicò e riprese a camminare davanti alla donna, il cui viso però si era rabbuiato.
No, suo figlio non l’aveva salutata.
Dopo la disastrosa cena, in cui le aveva vomitato addosso ogni colpa e recriminazione, non si erano più parlati. Lei stessa si era sorpresa della capacità di portare rancore del ragazzo. Non riconosceva in quell’uomo così ferito e orgoglioso, il bambino biondino e gentile che le sorrideva amabile.
Si chiese quando fosse cambiato così tanto, quando i suoi sorrisi fossero scomparsi e quando avesse iniziato a disprezzarla così tanto.
Dopo quella cena, aveva telefonato a Gustave ma non aveva ricavato alcun supporto dal marito. Si era limitato a sospirare, asserendo che quella notizia non lo avesse realmente sconvolto. Aveva parlato invece di una bomba ad orologeria e del fatto che, tutto sommato, fosse contento che Nathaniel si fosse finalmente liberato del peso che gli marciva dentro.
« Abbiamo fatto troppi errori, Ingrid » le aveva detto con voce mesta « e la cosa peggiore è che non sappiamo come porvi rimedio »
Ma in cosa avevano sbagliato?
Aveva assicurato a Nathaniel e Ambra tutto ciò che a lei era sempre mancato: una famiglia rispettabile, un portafoglio sempre fornito, la possibilità di assecondare ogni capriccio, un’istruzione di elevato grado, un futuro assicurato.
Le bastava sollevare lo sguardo verso la ragazza che aveva davanti e affermare con più forza la solidità delle proprie convinzioni. Quella Sophia Travis indossava abiti sgualciti e dai tessuti scadenti, un paio di scarpe logore, non aveva nulla nell’aspetto che denotasse una persona curata e a modo. Quando parlava, aveva l’irritante tendenza a masticare le parole, mentre la sua Ambra aveva una dialettica limpida e chiara. Non andava più a scuola e, di conseguenza, avrebbe finito per lavorare in qualche catena di fast-food senza ambire ad un futuro migliore. Era così giovane eppure aveva già imboccato la strada del fallimento.
Viveva da sola, lontano dalla sua famiglia, in una città enorme come San Francisco. Avrebbe finito per innamorarsi per un poco di buono, che l’avrebbe messa incinta ad un’età troppo giovane per essere madre.
Di fronte a quello scenario, Ingrid non riusciva davvero a capire cosa avesse sbagliato con i suoi figli.
« Abbiamo fatto troppi errori, Ingrid »
Quella frase continuava a riecheggiarle in testa, intrisa del biasimo di Gustave.
« MA CHE ERRORI?! » sbottò all’improvviso.
Sophia sussultò spaventata, colta alla sprovvista da quello sfogo.
« Tutto bene? » investigò, perplessa.
Il volto della donna era paonazzo, gli occhi lucidi di rabbia.
« Non va bene niente! » strillò isterica « io non ho sbagliato nulla! »
« Ha solo preso il tram sbagliato… non è grave… » borbottò la rossa, ancora confusa.
« Non fare la cretina! » la insultò.
Fu allora che Sophia reagì.
« Senti » disse, abbandonando ogni formalità « ti sto aiutando, quindi il minimo che puoi fare è evitare di prendertela con me! »
« Me lo dici tu cosa ho sbagliato? » esclamò Ingrid, seguendo un proprio ragionamento « perché davvero, io non ci arrivo! PERCHÉ MIO FIGLIO NON È QUI, ADESSO? »
Sophia boccheggiò, disorientata.
« Perché non si è degnato nemmeno di venire a salutare sua madre? Dopo tutto quello che ho fatto per lui! »
« Evidentemente non gli hai dato abbastanza… »
« Abbastanza? Avevamo tutto! » si inalberò.
Fu costretta a coniugare il verbo al passato.
Le era uscito spontaneo, dopo la telefonata di tre giorni prima del marito.
Gustave le aveva raccomandato di moderare le spese e, dopo un’iniziale perplessità, era riuscita ad insistere al punto da fargli sputare il rospo.
Bancarotta.
Erano sul lastrico e lui non si era preso la briga di informarla.
Persino Ambra l’aveva saputo.
Quanta poca considerazione aveva suo marito di lei.
Anche prendere un taxi era ormai diventata una spesa sufficiente a farla sentire colpevole.
« Ho sempre dato loro tutto » tornò ad affermare con ferocia « eravamo una famiglia perfetta! Ambra poi! Ora guarda come si è ridotta…  a buttare via il suo futuro dietro ad un… »
Fu allora che Sophia non ci vide proprio più.
Non Ambra.
Non la ragazza che aveva conosciuto quando era sull’orlo del baratro.
« Oh sì, era talmente felice che ha tentato di suicidarsi per colpa tua! »
Quell’uscita spiazzò Ingrid.
Nessuno in casa Daniels aveva mai affrontato apertamente la questione. Per mettere a tacere ogni diceria e pettegolezzo tra la servitù, avevano deciso di non cercare per la figlia nessun supporto psicoterapeutico. Preferiva non sapere perché quella mattina Molly le fosse corsa incontro, terrorizzata, e con il grembiule sporco di sangue.
Era il sangue di sua figlia e lei era rimasta impietrita.
Si era mossa meccanicamente, seguendo per una volta gli ordini della colf, come se i loro ruoli si fossero invertiti.
Né Ambra, né Molly, né suo marito avevano avuto il coraggio di puntare il dito dopo quell’episodio, ma in cuor suo, Ingrid l’aveva sempre saputo chi fosse il colpevole.
Era come se ci fosse stata lei seduta sul pavimento di alabastro del bagno, intenta a passare alla figlia quella lametta maledetta.
Aveva cercato di seppellire in un angolo remoto della sua mente quella consapevolezza, perché solo nella dimenticanza poteva convincersi che fosse tutto normale. Così come, aveva imparato a ignorare lo sguardo sconfitto di Nathaniel, quando sin da piccolo aveva cercato l’affetto di suo padre ma ne riceveva solo uno sguardo altero e contenuto. Era diventata insensibile di fronte all’espressione apatica con cui i suoi figli si sedevano composti a tavola e rispondevano controllati a conversazioni vuote e affettate.
Era stata cieca e superficiale dinanzi alla delusione e allo sconforto emotivo in cui era sprofondato Nathaniel dopo che Gustave gli aveva stroncato ogni possibilità di carriera musicale. Era stata sorda alle lacrime e ai pianti che talvolta provenivano dalla camera di Ambra.
Era stata in silenzio, quando avrebbe solo dovuto battersi per difendere la felicità dei suoi figli.
Aveva parlato, quando avrebbe solo dovuto zittirsi e ascoltarli.
Improvvisamente, la vita la stava investendo di ricordi e scene che aveva sempre filtrato selettivamente, in modo da presentarle agli occhi una realtà distorta.
No, non solo aveva commesso degli errori. Aveva distrutto la vita dei suoi figli, le creature che più di ogni altre avrebbe dovuto amare.
A quarantaquattro anni, si rese conto di non essere mai stata una vera mamma, di non sapere nemmeno cosa significasse quella parola. Quando aveva annunciato alla famiglia di essere rimasta incinta di un americano, sua madre l’aveva esortata ad abortire, sostenendo che fosse troppo egoista e stupida per amare qualcuno che non fosse lei.
Da allora non l’aveva più incontrata, si era imbarcata per gli Stati Uniti, senza più guardarsi indietro. Avrebbe costruito una famiglia perfetta, di successo, ma quella che credeva essere una villa del marmo più pregiato e robusto, si era rivelato un castello di carte.
Una ad una, le fragili mura erano state abbattute e lei aveva assistito imponente a quel crollo.
Si accasciò a terra, sopraffatta da un peso troppo grande per le sue spalle fragili.
Per una volta non si curò dei germi e della sporcizia dell’asfalto.
Puntò i palmi sul terreno e, scossa da sussulti incontrollabili, pianse. Pianse di un dolore che non conosceva fondo, che sembrava alimentarsi a ogni singhiozzo.
Pianse tutti i suoi errori, tutte le ambizioni che erano naufragate, tutte le illusioni che non si sarebbero mai realizzate.
Pianse il proprio fallimento, come moglie e come madre.
Pianse tutte le lacrime che non aveva mai pianto.
Per paura che le si guastasse il trucco.
Per paura di dimostrare la propria fragilità.
Per paura di perdere quella compostezza che la rendevano così irresistibile agli occhi altrui.
Sophia assisteva inerme a quella scena pietosa, sconvolta e inadeguata.
Spiazzata dall’umanità di una persona che, in quel momento, si era finalmente dimostrata tale.
 
Erin si grattò il capo, perplessa.
Cercò con lo sguardo Castiel, tra di loro la persona con il miglior senso dell’orientamento:
« Mi scusi, ma prima non diceva di girare a destra dopo il distributore? » domandò il ragazzo.
« Destra?... oh sì, sì, scusate, destra »
Erano dieci minuti che la donna cercava di abbozzare una cartina sulla quale indicare il percorso per raggiungere la casa di Tracy Leroy. La cuoca non ricordava il nome della via, in aggiunta al fatto che l’abitazione fosse piuttosto dislocata dal centro abitato.
« Senti zietta » intervenne Roxanne « io so arrivare fino al negozio di scarpe, non puoi spiegarci la strada da lì? »
« Allora devo rispiegarvi tutto da capo »
Castiel sollevò gli occhi al cielo, mentre Armin interveniva:
« E’ troppo chiederle, Miss Patty di venire con noi? »
« Assolutamente sì! Non deve sapere che sono stata io a dirvi dove abita, altrimenti non mi rivolgerà più la parola »
«Non sia melodrammatica » la liquidò Rosalya, guadagnandosi un’occhiataccia dalla donna.
« Ci affideremo a Roxy » concluse Ambra, sorridendo alla biondina « allora, con calma, ci rispieghi tutto da capo »
 
Alexy si guardò attorno, divertito.
« Che mortorio ragazzi! »
« Siamo decimati, Evans, che ti aspetti? » farfugliò Kentin, addentando il panino.
« Chissà cosa staranno facendo gli altri » vociò Violet.
« Sono ancora nell’asilo dove lavora la cuoca » li informò Iris.
Alexy si alzò dai gradini, schioccando la schiena:
« Uffa, avrei voluto andarci pure io »
« Siamo in due » si unì Kentin.
« Beh, se fossi andato pure tu o Iris, in quarta C si sarebbe parlato di assenze sospette » osservò il ragazzo dai capelli turchini.
Kentin lo imitò, alzandosi a sua volta in piedi.
« Facciamo qualcosa dopo scuola? »
« Tipo? » lo incalzò Alexy.
« Boh, andiamo a berci una birra… »
La proposta però non accolse i consensi sperati, costringendo il cadetto a rivalutare le persone a cui l’aveva avanzata. Violet non era certo il tipo da pub, Alexy prediligeva i vini e i super alcolici, mentre Iris… Iris era Iris, non sapeva esattamente cosa pensasse di quell’idea.
Gli ci volevano Castiel o Armin. Soprattutto il rosso lo avrebbe assecondato. Era incredibile quanto fosse in sintonia con un tizio con cui passava la maggior parte del tempo a litigare. Arrivava addirittura a rimpiangerne l’assenza.
« Potremo andare all’inaugurazione di quel pub dietro la stazione » propose la rossa « dicono che ci sarà una degustazione di birre »
A quel punto, Castiel poteva starsene distante quanto voleva.
Per Kentin, Iris era tutto ciò di cui aveva bisogno.
 
« Tutto chiaro, Roxy? »
Rosalya aveva rivolto quella domanda alla ragazzina che non aveva fiatato durante tutta la spiegazione.
Guardò quasi supplicante Ambra, sentendosi colpevole. Fece un cenno di diniego con il capo, mentre Castiel sbottava:
« Ma che cazzo! »
Erin gli mollò un pizzicotto, porgendosi verso la cuoca:
« Mi scusi Miss Patty, ma abbiamo non poche difficoltà a seguire le sue indicazioni »
« Lo so, lo so » borbottò l’altra « scusatemi, ma sono proprio pessima nel darle » ridacchiò « forse dovreste cercare qualcun altro a cui chiedere… ».
Tanto Castiel quanto Rosalya, di fronte alla leggerezza della donna, erano sull’orlo di una crisi di nervoso, ma ciò che accadde in seguito li distolse dall’esplodere:
« Che succede, Patty? »
In cucina aveva fatto il suo ingresso una ragazza dai capelli neri e dalla corporatura minuta. Era graziosa e dotata di lineamenti dolci e quasi infantili. Tuttavia, non fu quella nuova conoscenza a suscitare tanto l’interesse del gruppo di amici, quanto il volto noto che la seguiva:
« E tu che ci fai qui, Lys? » domandò Erin « non ci stavi aspettando fuori? ».
« Oh, l’ho fatto entrare io » spiegò Megan, guardando incuriosita i presenti.
« Li conosci? » le chiese allora la cuoca.
La mora rispose con un cenno di diniego, mentre Lysandre interveniva:
« Sono i miei amici »
« Molto piacere, io sono Megan » sorrise la ragazza.
Quel modo di fare era talmente solare e accogliente, che persino Castiel ed Armin arrossirono, mentre gli occhi di Erin e Ambra diventarono due fessure.
« E così hai un debole per le more » sibilò a denti stretti la bionda, risultando canzonatoria.
« Siamo gelosette eh, Daniels? » la punzecchiò l’altro, lusingato da quel piccolo scambio di battute.
« Assomiglia un po’ ad Erin… »
Castiel si voltò, incrociando il sorrisetto astuto di Rosalya che, felina aggiunse, mantenendo un tono basso:
« … però tu preferisci gli occhioni verdi della nostra amica, eh? »
Il ragazzo emise un verso stizzito, mentre era proprio Erin ad avvicinarsi alla sconosciuta. Si presentò per prima, lasciando poi agli amici la possibilità di dire il proprio nome.
« Scusate, ma non credo di averli memorizzati tutti » s’imbarazzò Megan.
« Forse tu ci puoi aiutare » intervenne Rosalya « sai dove abita Tracy Leroy? »
 
Suor Mary camminava impettita per i corridoi, tenendo il mento sollevato e osservando furtiva ogni angolo dell’ambiente:
« Lodato sia il Signore » esclamarono un gruppo di consorelle, incrociandola durante quella marcia.
« Sempre sia lodato » replicò lei, sbrigativamente.
Non poteva perdonarsi di non essersi accorta subito della presenza di quell’estraneo. Era stata talmente calamitata dal gruppetto di fuggitivi, che solo una volta tornata nella stanza del riposino, aveva metabolizzato che accanto a Megan ci fosse la figura di un ragazzo.
Eppure aveva passato in rassegna ogni stanza della struttura, compreso il giardino esterno, ma di lui non c’era traccia. Anche Megan era sparita e quella constatazione iniziava a renderla sempre più nervosa.
No, la loro Megan non era il tipo.
Era una pasticciona, una ragazza distratta e ingenua, ma era moralmente ineccepibile.
Doveva mordersi la lingua per aver anche solo pensato una simile oscenità.
Accelerò il passo, dirigendosi verso l’unico locale che non era ancora stato sottoposto alla sua sorveglianza: la cucina.
A pochi metri dalla porta, sentì un insieme caotico delle voci e, con sua enorme sorpresa,  all’interno della stanza non vide solo lo sconosciuto, ma altre otto persone, Patty e Megan comprese.
« Che sta succedendo qui? » gracchiò turbata.
Megan trasalì, voltandosi di scatto, mentre Patty interveniva:
« Oh, non si arrabbi sorella. Sono dei ragazzi che ho conosciuto a scout »
Aveva deciso di assecondare quella scusa, in nome della simpatia che aveva provato per quel gruppo così eccentrico che aveva percorso tanta strada per parlare con lei.
« Tu? » obiettò la vecchia « ma come è possibile? Negli scout non ci sono cuochi »
Tutti guardarono istintivamente Ambra che, colta in fallo, avvampò per la fallacità della sua idea:
« Eh-eh Daniels, sembra che anche tu ogni tanto prenda un granchio » la stuzzicò Armin.
« Doveva pur improvvisare una scusa… e poi, tu manco sapevi chi siano gli scout, quindi non rompere »
« Penso che mi verrebbe una reazione allergica anche solo a vederne uno » ironizzò il ragazzo « come fanno a passare tutto quel tempo all’aria aperta? »
« Eppure, un po’ di sole non ti farebbe male… »
Mentre i due erano impegnati a punzecchiarsi sottovoce, era toccato a Lysandre prendere in mano la situazione:
« Oh, si sbaglia. Talvolta gli scout coinvolgono anche persone che non fanno parte della loro comunità per le uscite » stava spiegando la cuoca.
« Siete un gruppo piuttosto eterogeneo… » osservò la religiosa, puntando la sua attenzione su ogni singola persona presente « … ma del resto » aggiunse, soffermandosi su Castiel « Semel scout… »
L’espressione del rosso era impagabile: piegò la testa di lato, corrugando la fronte confuso e infine si guardò attorno, quasi cercasse un suggerimento:
« … semper scout! » completò Roxanne, ridacchiando per la figuraccia del ragazzo.
La suora sorrise, mentre Erin e Rosalya si erano lasciate contagiare dall’allegria della ragazzina.
 
Dopo aver ringraziato la cuoca, il gruppo si congedò, seguendo suor Mary attraverso i corridoi che avevano percorso poco prima.
« Non hai l’impressione che ci stia cacciando fuori? » sussurrò Castiel ad Erin.
« Beh, forse, però poco importa: abbiamo saputo quello che ci interessava sapere »
La vecchia aprì il cancello, permettendo ai ragazzi di uscire ordinatamente:
« Fate buon viaggio ragazzi… » e, per la seconda volta, si soffermò a fissare Castiel « … lodato sia il Signore »
Il musicista, le cui mani erano affondate nelle tasche, sollevò le spalle e, non sapendo come replicare, borbottò:
« … Ok »
Dietro di lui si levò un coro generale di versi, frutto di risate che dovevano essere trattenute. Prevedibilmente, il suo modo di fare lasciava scaturire non poche perplessità circa il suo presunto passato scout.
« Di che ordine avete detto di essere? » indagò la suora, circospetta.
Abbandonato a sé stesso, e senza alcun supporto da parte dei suoi amici, Castiel improvvisò:
« Le giovani marmotte »
Armin era ormai paonazzo e solo una gomitata ben assestata gli impedì di scoppiare a ridere. La donna infatti aveva un’aria particolarmente offesa ma decise di non indagare ulteriormente.
Si allontanò quindi con freddezza, ripromettendosi di rivolgere alla cuoca le domande che quel gruppo di amici stentava a rispondere.
« Ma perché cazzo parlava sempre a me, quella? » sbottò il rosso, circondato dalle risate goliardiche dei suoi amici. Affrettò il passo, cercando di allontanarsi il più possibile da quell’asilo.
« Secondo me voleva tentare di redimere la tua anima dominata dal Demonio » sibilò Rosalya, guadagnandosi un’occhiataccia truce.
 
Chloe accorse al telefono, asciugandosi le mani bagnate. C’era un pessimo tempismo tra la sua decisione di lavare i piatti e lo squillo del telefono.
« Sì? » miagolò, appoggiando la cornetta contro l’orecchio.
« Chloe, sono io »
Riconobbe all’istante quella voce, che la fece trasalire:
« Patty! I ragazzi sono stati lì? »
« Sì, se ne sono appena andati »
« E? »
« Mi dispiace, ma in qualche modo sono riusciti a scoprire dove abita »
« Ah… »
Seguì qualche secondo di imbarazzante silenzio, poi la cuoca tornò a dire:
« Scusami, ho provato a scoraggiarli ma è difficile senza tradire… »
« Non preoccuparti » la consolò l’altra « io stessa non sono riuscita a depistarli… si è messa di mezzo Roxy e a quel punto non ho potuto fare nulla »
« Tua figlia è un vulcano, Chloe. E’ cresciuta molto. Diventerà una bellissima ragazza »
« Ha preso dal ramo Evans » dichiarò la donna con orgoglio « a proposito, hai visto mio nipote? Ti avevo spiegato qual è no? »
« Sì, quello moro. Guardava tutto il tempo la ragazza bionda, non è che stanno insieme? »
« Ma certo che stanno insieme! Il tuo famoso radar si sta affievolendo? »
Patricia sghignazzò, poi tornò seria:
« Chloe… anche se ho assecondato la richiesta della signora Tracy, in cuor mio spero che quei ragazzi scoprano la verità, davvero »
 
Il bagno di quel fast food aveva un pavimento disgustosamente appiccicoso. Oltre lo specchio, che se non altro era pulito, Ingrid scrutò l’immagine di un viso stanco e dal trucco sfatto.
Era lì dentro da almeno un quarto d’ora e sicuramente la sua accompagnatrice, che la stava aspettando all’esterno, si stava spazientendo. Eppure lei non riusciva ad abbandonare quella stanza.
Avrebbe significato tornare a guardare Sophia in faccia e non era sicura di riuscirci.
Dopo quel pianto liberatorio, nessuna delle due aveva parlato.
Dal canto suo, Sophia aveva trovato posto su una panchina e si stava godendo l’ultima sigaretta del pacchetto. Era curiosa la sua capacità di far sì che la famiglia Daniels le vomitasse addosso tutte le proprie angosce. Prima Ambra, poi Nathaniel ed infine Ingrid. Mancavano solo Gustave e la gatta Juliet e il pacchetto sarebbe stato completo.
Non era il momento per scherzare.
Quella donna stava soffrendo. E tanto.
Aveva giurato di disprezzarla tutta la vita per come si era comportata con i suoi figli ma in quel momento le risultava impossibile.
Spense la sigaretta e recuperò il cellulare.
C’era un’altra telefonata che doveva fare.
 
A pranzo, il gruppo di amici rientrò in casa della zia Chloe, allegri e chiassosi.
« Mamma! Siamo tornati! »
La donna accorse loro incontro, accogliendoli in salotto. Si fece raccontare l’esito di quella ricerca e fu Erin a rispondere alle sue domande:
« Abbiamo conosciuto Patty, ma visto che non riusciva a spiegarci dove vive Miss Leroy, ci è venuta incontro Megan, una ragazza della nostra età che lavora lì all’asilo »
« Ah, in che senso vi è venuta incontro? »
« Ci ha proposto di accompagnarci lei, dalla signora Leroy » precisò Rosalya « andremo oggi pomeriggio »
« Capisco » ponderò la donna, cercando poi lo sguardo della figlia. Roxanne stava per ribattere, quando la madre la anticipò:
« Tu signorina oggi devi studiare! »
« Ma- »
« Roxy è stata molto preziosa » intervenne Ambra « tuttavia non possiamo andare tutti da Miss Leroy. Non ci stiamo nella macchina di Lysandre »
« Lys è rimasto alquanto colpito dalla maestrina » commentò Armin canzonatorio.
Il poeta si irrigidì all’istante e quella reazione non sfuggì a nessuno dei presenti, meno che meno a Castiel, che da mesi aspettava l’occasione per punzecchiare l’amico su un simile argomento. Per Lysandre infatti, era fin troppo facile farsi beffe della cotta del rosso, dal momento che lui non aveva nessuno per la testa. Era arrivato il momento di invertire le parti e provare un gusto sadico nel metterlo in difficoltà:
« S-se per te non è un problema, Megan… c-ci faresti un grosso favore! » lo imitò, incurvando le spalle timidamente.
« Non ho detto così! » scattò il poeta sulla difensiva.
« Pensavo ti piacessero più… mature » commentò la sorella, pensando alla precedente relazione del fratello.
Di fronte al disagio del poeta, fu Erin a prendere una posizione:
« Dateci un taglio. Si sono solo parlati »
Rosalya sollevò gli occhi al cielo, mentre Ambra ridacchiava divertita:
« Tu hai proprio due fette di salame sugli occhi, Erin! Ma che fette di salame? Hai due bistecche di mammut! »
« Che ho detto di male? E’ la verità… » si difese, mentre Castiel sorrideva divertito dalla sua ingenua ottusità.
Lo scambio di battute venne interrotto dall’arrivo dello zio che, con sé, recava anche notizie circa lo status della macchina di Castiel. Il guasto sarebbe stato riparato in giornata, in modo che l’indomani i ragazzi potessero rientrare finalmente a Morristown.
 
Ingrid attese qualche secondo che le porte automatiche si aprissero e varcò la soglia.
« Non serve che mi accompagni fino al check-in » sentenziò con durezza, senza voltarsi verso Sophia.
Le lacrime avevano lavato via ogni residuo di trucco, al punto da rendere irriconoscibile la donna. Nonostante avesse appreso il beauty case, non aveva voluto porre rimedio a quell’inconveniente. In ogni caso, nessun maquillage le avrebbe conferito quell’aria fiera ed altezzosa che rappresentata uno dei punti forti del suo fascino.
« Come vuole » disse semplicemente.
Sophia non si era nemmeno resa conto che, d’un tratto, aveva smesso di aiutarla in nome di Nathaniel.
Aveva stabilito di accompagnarla in aeroporto per lei, Ingrid.
Perché, per quanto ci fosse di sbagliato in una persona, nessuno meritava la solitudine.
Non era giusto farla partire così, afflitta e amareggiata da una vita che non sapeva come cambiare.
La donna si fermò, inspirando profondamente:
« Ti prenderai cura di Nathaniel, in futuro? »
Quella domanda la destabilizzò.
Era troppo sensibile su quell’argomento, era una ferita aperta e le bastava che qualcuno la sfiorasse per farla sobbalzare.
« Non è a me che deve chiederla una cosa del genere » mormorò, con la voce roca.
Ingrid sorrise tristemente e sentenziò:
« Sembri piuttosto convinta »
« Perché è la verità »
La donna scosse il capo, serena.
« Sarò pure un fallimento come madre, ma riconoscimi almeno l’esperienza e la sensibilità di una donna »
La ragazza non riuscì a replicare, boccheggiando aria.
Ingrid riafferrò il trolley con una mano e con l’altra il bagaglio a mano.
« A-aspetta »
La svedese fu costretta a fermarsi, mentre Sophia spostava nervosamente il peso da una gamba all’altra.
Dove era finito quell’idiota?
Eppure nell’insultarlo al telefono era stata fin troppo esplicita.
« Perderò l’aereo »
« Nathaniel verrà » le annunciò tutto d’un fiato.
Dapprima Ingrid rimase senza parole, poi scosse il capo:
« No, non verrà »
« Verrà » insistette Sophia « l’ho chiamato io »
Fu allora che un sorriso tornò a stendere i lineamenti del viso di Ingrid che commentò semplicemente:
« Allora sì, verrà… io però devo andare, altrimenti non parto più »
« E non vale la pena perdere un aereo per riappacificarsi con il proprio figlio? » la supplicò quasi la rossa.
Ingrid scosse il capo, malinconica:
« Mi basta sapere che sarebbe venuto… »
Per un attimo vide uno zampillio negli occhi della donna che, alla fine, si mutò in un sorriso sereno « … e che troverà te ad aspettarlo »
Sophia era spiazzata, confusa e impotente. Aveva le labbra dischiuse, pronte ad urlarle contro di aspettare, ma non riusciva ad emettere alcun suono. Sapeva cosa significasse partire con il cuore colmo di rancore e sensi di colpa. Non poteva sopportare che qualcun altro patisse quello che stava provando lei.
Eppure, non fece nulla.
Ingrid, dopo un cenno con il capo, le voltò le spalle e si allontanò tra la folla. La sua figura, così fiera ed austera, divenne sempre più piccola, fino a scomparire.
« Grazie per averla accompagnata »
Trasalì e si voltò di scatto, sconvolta. Alzò il mento, verso la figura di Nathaniel, che la troneggiava dall’alto della sua statura.
« M-ma che… cazzo, corri da lei! » sbraitò, strattonandolo per una manica.
« Mi aveva visto, non preoccuparti » la sedò lui, senza perdere la sua compostezza.
« C-cioè tu eri qui e non ti sei avvicinato? »
« Va bene così »
« NON VA BENE COSÌ PER NIENTE! Va’ da lei! » tornò ad aggrapparsi alla sua felpa, ma non riuscì a smuoverlo di un centimetro.
« Sophia… va bene così » ripeté lui calmo.
« No » boccheggiò lei « cos’è? Una questione di orgoglio? »
« Abbiamo bisogno di tempo… entrambi »
« Devi dirle che la perdoni » insistette lei « non farla partire con quest’angoscia… lei è… fragile »
E in quelle parole ormai ne ebbe la conferma. Non c’erano Ingrid e Nathaniel. C’erano lei ed Erin. Lo sguardo di rancore di quest’ultima e la consapevolezza di essere nel torto dell’altra. Era tornata in California devastata da un rapporto che ormai si era sgretolato, priva di quel perdono di cui aveva così disperatamente bisogno:
« Vai da lei, Nathaniel… fallo tu, perché lei non ci riesce » gli sussurrò.
Lui però rimase sordo a quella supplica.
Fu allora che Sophia si scontrò con un lato nascosto della sua personalità, lato che aveva scoperto anche nella gemella: l’ostinazione. Quella perseveranza a voler difendere la propria posizione e orgoglio, in nome di un dolore che continua a fare male.
« Andiamo… » le sussurrò semplicemente.
Lei lo seguì docile e sconfitta.
Stordita, da una giornata che aveva preso una piega imprevista.
Camminarono in silenzio, entrambi assorbiti dai propri pensieri.
I passi continuavano ad avvicendarsi l’uno davanti all’altra, al punto che, senza accorgersene, Sophia si accorse di essere giunta in spiaggia.
Avanzarono, mentre i granelli si accumulavano sulla tela delle loro scarpe.
« Ti ricordi questo posto? »
Lei si guardò attorno, riconoscendo negli scogli e negli edifici sullo sfondo, la spiaggia in cui lei e Nathaniel avevano litigato qualche mese prima. Le stesse acque in cui lei si era tuffata per poi essere soccorsa da lui.
« E’ dove me ne hai dette di tutte i colori » ridacchiò lui, pensieroso.
« Io? » gracchiò lei.
Lui ghignò e si sedette per terra.
Il vento gli scompigliava i capelli biondi, che il sole aveva leggermente schiarito in quegli ultimi mesi.
« Mi hai fatto male quella volta »
La voce le era uscita in un sussurro bassissimo, ma il ragazzo aveva colto ogni sillaba.
« Lo so » esalò infine, ricordando come avesse riversato tutta la sua frustrazione su quel fisico così minuto.
« No, non lo sai »
Non sapeva cosa avesse innescato in lei quello scontro, quale turbine di emozioni avesse preso forma dopo che lui si era rivelato così straordinariamente complesso.
« Tu invece mi hai salvato, Sophia »
Lei strinse un pugno di sabbia nel palmo, ma tanto più serrava la presa, tanto più i granelli le sfuggivano di mano.
« Non è stato difficile, ti perdi con niente »
Il biondo ridacchiò, sereno:
« Non banalizzare il discorso »
Lei era la sua bussola. Quando credeva di non avere una direzione precisa da intraprendere, era arrivata lei, dal nulla e indicargli la strada. Con tono saccente e burbero, ma aveva imparato a conoscerla ed apprezzarla così com’era.
Se solo avesse trovato anche lei qualcuno che meritasse di starle accanto, come lui aveva Rosalya, forse avrebbe smussato parte di quell’asprezza che la rendevano così dura verso la vita:
« Troverai mai qualcuno che smuova il tuo cinismo? » le domandò, sovrappensiero.
« Ah beh » sospirò lei con un sorriso amaro « sarà la mia fine quando succederà »
« Non intendevo in senso negativo » precisò Nathaniel « non hai capito la domanda »
« E tu la risposta » lo liquidò lei, con freddezza.
Le faceva male, per quella difesa che per lei era rappresentata dalla sua ironia e cinismo, non sempre poteva avvalersene per tenerlo lontano. Per pararsi da quei colpi che le arrivavano dritti al cuore, facendolo sanguinare.
Era lui ad aver mandato all’aria tutte le sue certezze ma era così preso dalla sua vita, da non essersene reso conto.
« La prossima settimana devo tornare a Morristown »
Ecco, ne aveva appena avuto la prova.
Non l’aveva preparata a quella notizia, gliel’aveva comunicata con la non curanza di una persona disinteressata. Sarebbe rimasta sola, mentre lui si sarebbe riunito alla sua dolce metà. Alla sua vera metà.
« Sarai contento. Puoi riabbracciare Rosalya »
E si odiava, perché di quel dolore sembrava non averne mai abbastanza, perché solo autoimponendoselo, poteva sperare che giorno dopo giorno le facesse sempre meno male.
« Non vedo l’ora » sospirò lui, con un sorriso dolce « anche se… »
E fu a quel “se” che Sophia si aggrappò con tutte le sue forze. Era uno scoglio minuscolo e scivoloso, non forniva un appiglio sicuro, eppure non volle lasciarlo:
« … eppure mi dispiace lasciarti qui » ammise « ormai siamo amici, no? »
Mollò di scatto quello scoglio e si lasciò andare alla deriva.
Sulla base di quali indizi aveva osato sperare in qualcosa di diverso?
« Già » mormorò lei.
« Allora lo ammetti » borbottò lui, vittorioso.
« Se per te amicizia è avere nella propria vita una persona che ti insulta e che ti serve come navigatore satellitare, sono la migliore amica che tu abbia mai avuto »
« Rieccolo, il tuo cinismo » commentò lui.
Lei sbuffò, ma Nathaniel insistette:
« Sul serio, perché per una volta non parliamo sinceramente? Perché non la smetti di scattare sulla difensiva? Che male c’è a dire che tra noi si è creato un bel rapporto? »
« Mi stai psicanalizzando? Guarda che sono io la figlia di una psicologa »
« Sophia… » la rimproverò lui.
« Che vuoi che ti dica? Non sono brava in queste cose » borbottò a disagio.
Nathaniel sorrise e tornò a guardare l’orizzonte.
« Credo che mi mancheranno le tue battutacce, sai? »
Lei fece spallucce e rimase in silenzio.
Non gli confessò che già iniziava a sentire la nostalgia della sua voce calma e gentile. Tacque, di fronte a quel sorriso caldo e rassicurante che le rasserenava l’umore.
E ancora una volta, Sophia cacciò in un angolo remoto del suo cuore una verità che, il solo pensarla, la riempiva di amarezza.
 
Dopo pranzo, Rosalya e Lysandre avevano chiesto di potersi riposare un’oretta dal lungo viaggio fatto la notte precedente. Il resto del gruppo ne approfittò allora per concordare una strategia comune in vista dell’imminente incontro con Tracy Leroy.
Erin, Ambra, Castiel e Lysandre sarebbero passati a prendere Megan, all’indirizzo che la ragazza aveva fornito loro e insieme, avrebbero raggiunto la dimora dell’artista. A quel punto, considerata la fama sociofobica della donna, solo Erin ed Ambra si sarebbero presentate alla porta. Gli altri avrebbero atteso in macchina.
« Credo sia la cosa più saggia » aveva concluso la bionda.
Attendere lo scoccare dell’ora X fu un’agonia, la cui attesa era avvertita con particolare impazienza da Erin. Si sentiva sempre più vicina alla meta, a quelle risposte che sua sorella si ostinava a tacerle. Inoltre, quella faccenda la eccitava non poco, appagando la naturale curiosità che era parte del suo essere.
Rosalya fu la prima a destarsi dal suo sonno, raggiungendo gli amici nel soggiorno.
Proprio quando Castiel si era deciso ad andare a svegliare l’unico disperso, sentirono dei passi provenire dalla rampa di scale. Alzarono tutti lo sguardo, pronti a rimproverare l’addormentato per il ritardo, ma la scena che si trovarono di fronte, annullò ogni protesta.
Il rosso in particolare assunse un’aria dapprima perplessa, poi sbottò:
« Ehi, quella è la mia felpa, vecchio! »
« L-Lys? » boccheggiò Erin sconvolta.
Sotto lo sguardo sbigottito dei suoi amici, il poeta si era presentato in una mise assolutamente estranea alla sua natura: aveva optato per una felpa nera e larga, che Castiel aveva prontamente riconosciuto come propria. L’incursione nell’armadio dell’amico però non si era limitata a quell’unico capo: jeans e t-shirt rientravano anch’esse tra i piccoli furti di cui si era macchiato il ragazzo.
« L’ho solo presa in prestito » esclamò, cercando di ostentare quanta più naturalezza possibile.
Passò davanti ai suoi amici con fierezza, mentre loro non riuscivano a fare a meno di fissarlo inebetiti.
« Allora? Andiamo? »
 
Mentre Ambra ed Erin erano assorbite dalla conversazione, Castiel iniziò a punzecchiare Lysandre:
« Ti sei cambiato per la maestrina, Lys? »
Il ragazzo non replicò subito, ma rimase assorto a guardare il paesaggio:
« Mi è venuta voglia di sperimentare un look diverso, tutto qui »
Il musicista scosse la testa divertito e proseguì:
« Non sembri neanche tu, vestito così »
« Sei solo invidioso perché a me i tuoi vestiti stanno meglio che a te » commentò placidamente l’altro, sorridendo mellifluo.
Castiel incassò quella piccola sconfitta con un ghigno compiaciuto e borbottò:
« Tzè, come no… perdi tutto il tuo fascino da lord inglese » lo schernì.
Lysandre sospirò gravemente e concluse:
« Te l’ho già detto in passato, Castiel… so che sei attratto da me, ma questa cosa è unilaterale »
Il rosso lo mandò a quel paese, mentre ormai, imboccando una via a destra della carreggiata, si accorse di essere già arrivato a destinazione. C’era poco da fare: anche se finalmente le circostanze gli avevano presentato l’occasione di vendicarsi di tutte le frecciatine che Lysandre gli aveva mandato sulla sua cotta per Erin, il poeta era molto più bravo di lui a dissimulare il proprio imbarazzo.
 
Appena la sagoma di un’abitazione prese forma, i ragazzi notarono due figure ad attenderli davanti alla porta d’ingresso. In una riconobbero prontamente Megan, che li accolse sventolando il braccio. Accanto a lei, una ragazza di qualche centimetro più bassa, li fissava impenetrabile.
Aveva i capelli raccolti in uno chignon disordinato, con un ciuffo che le copriva parte della fronte spaziosa. Gli occhi erano dello stesso colore di quelli di Megan, ma l’espressione era molto più pensierosa e controllata.
« Lei è mia sorella minore, Keira » esordì Megan, stringendo a sé la ragazza.
Quest’ultima sorrise appena, timidamente.
« Piacere » la accolse Erin « quanti anni hai? »
« Quindici »
Se l’atteggiamento di Erin voleva essere il più incoraggiante possibile, quello dei suoi amici era al dir poco confuso. Keira si sentì quindi di troppo, mentre quelle paia di occhi continuavano a fissarla perplessi.
« Ho pensato di farla venire con noi » spiegò Megan « lei è amica della signora Leroy »
Prevedibilmente quell’informazione sobillò un mormorio sorpreso.
« Sul serio? » quasi la attaccò Ambra.
Keira si strinse nelle spalle e farfugliò:
« Cioè… diciamo che la conosco di persona »
« Keira va a trovarla qualche volta » spiegò Megan, gesticolando animatamente « sembra che vadano particolarmente d’accordo »
Mentre parlava, il viso di Lysandre era disteso in un tenero sorriso. Seguiva i movimenti di quelle labbra, dispiegarsi in smorfie buffe e adorabili. Solo dopo qualche istante, si accorse di essere sotto osservazione. Keira infatti, lo stava fissando imperscrutabile, ma quello sguardo lo fece sentire vulnerabile come mai gli era accaduto prima. Deglutì a disagio e iniziò a guardarsi attorno, cercando di sottrarsi a quella sensazione.
 
« Come mai in quarta C oggi ci sono ben tre assenti? Erin, Castiel e Ambra? »
« Questo trio di assenze insospettisce anche me » osservò Miss Joplin, mescolando il contenuto del bicchiere in plastica. Un aroma inebriante di caffè le solleticò il naso, facendola sorridere appagata.
« E in quinta manca pure Armin » aggiunse astutamente.
« Cosa stai insinuando? » esclamò Miss Robinson, riponendo con cura una cartella di cartoncino piena di disegni « aspetta… vuoi dire che? »
« Eh, eh, comincio a crederti sai quando dici che Erin Travis e Castiel Black stiano insieme »
« Io devo ancora capacitarmi del fatto che Ambra e Armin siano una coppia… ma sei proprio sicura che fossero loro? »
Miss Joplin sorrise, continuando a sorseggiare la bevanda fumante.
La collega, dal canto suo, scosse il capo divertita e, con aria trasognante, commentò:
« Ah, cosa darei per tornare alla loro età… »
« Già »
 
Un manto verde di edera selvatica rivestiva la superficie murata, coprendo quasi ogni metro quadrato di superficie. A malapena, i visitatori potevano intravedere i mattoni sottostanti.
« Siamo sicuri che ci abiti qualcuno? » domandò Castiel, osservando l’abitazione a cui li avevano condotti le due sorelle « sembra abbandonata »
« No, la casa è questa, vero Keira? » lo tranquillizzò Megan, ricevendo un semplice cenno d’assenso.
La ragazza scrutò oltre in giardino e si accorse di un movimento furtivo delle tende.
Lei sapeva che erano lì.
« Allora voi tre ci aspetterete qui, d’accordo? » riepilogò Ambra, guardando l’autista, Lysandre e Megan « Keira, tu sei la nostra esca »
La ragazza guardò quasi con panico la sorella, che le sorrise incoraggiante. Non si sentiva a suo agio ad andare via con quelle due sconosciute, ma del resto, era l’unica che poteva davvero aiutarle ad arrivare a Tracy.
Colpa di sua sorella, che aveva quell’inspiegabile tendenza e predisposizione a voler aiutare sempre tutti.
Si fece coraggio e si mise dietro Ambra ed Erin, mentre attraversavano il giardino folto di erbacce.
Nonostante dovesse essere lei a condurle all’interno dell’abitazione, la ragazza restava in disparte, al punto che Ambra si vide costretta a prendere l’iniziativa e bussare la porta. Dopo un minuto, non giunse alcuna risposta, così ritentò, questa volta con maggior decisione.
« Forse non è in casa… » si preoccupò Erin.
« No, c’è » la smentì Keira.
« Allora prova a chiamarla tu… » la esortò la bionda « magari a te risponderà »
Keira annuì e superò le due ragazze, posizionandosi davanti alla soglia:
« Signora Tracy… sono io » disse semplicemente.
Dopo qualche secondo, udirono dei passi in lontananza, farsi sempre più nitidi e distinti, accompagnati da un rumore secco, come di un bastone che colpisce il pavimento. Un suono deciso anticipò un’imprecazione, rivelando che la donna avesse appena urtato contro una superficie rigida.  
La maniglia ruotò e, mentre la porta si apriva con lentezza, Erin fu la prima a scoprire il reale aspetto della famigerata Tracy Leroy.
Nemmeno nelle sue fantasie più eccentriche, sarebbe riuscita ad immaginare quell’aspetto.
La figura che le si presentò davanti, infatti, aveva un volto scarno, enfatizzato ulteriormente da un paio di pesanti occhiali rotondi ed eccessivamente grandi. Nonostante il fisico ossuto, la donna indossava vistose collane di pessimo gusto e dai colori caldi. I capelli argentei, erano tagliati corti ai lati e volumizzati sulla sommità del capo.
Sullo stipite della porta, la vecchia artista appoggiò la mano le cui vene erano in evidenza, mentre l’altra afferrava saldamente un bastone logoro.
« Come mai da queste parti, Keira? »
« Queste ragazze hanno bisogno di parlarle, signora Tracy » rispose educatamente la ragazza.
Erin deglutì e, constatando il silenzio timoroso di Ambra, per una volta decise di farsi coraggio e prendere il posto della bionda:
« La prego, si tratta di una cosa importante »
« Lo so »
Quella risposta le spiazzò, ma infuse alla mora una maggiore determinazione a perseguire il suo scopo:
« Come sarebbe a dire? »
« Ho già visto la tua faccia »
Erin boccheggiò confusa, ma proprio quando stava per smentire quella constatazione, Ambra intuì il significato di quella frase:
« Sophia è stata qui? »
La donna sorrise sorniona e, con estrema lentezza, si voltò, dando le spalle alle sue giovani ospiti.
 
« Vi dispiace se vado a fare due passi? Mi rompo le balle a stare qui in macchina »
Castiel non attese nemmeno la risposta a quella domanda, aveva già la sigaretta in bilico sulle labbra e l’accendino pronto in tasca. Chiuse la portiera della vettura con poca grazia e si incamminò lungo il sentiero da cui erano venuti, soffermandosi sotto un pioppo.
« Il tuo amico è un po’… bizzarro » sussurrò Megan, guardandolo da lontano e rompendo un silenzio che stava durando da troppo tempo « … però è simpatico! » si affrettò ad aggiungere, nel timore di aver offeso Lysandre.
« Castiel è simpatico a modo suo » convenne il poeta.
Non era da lui sentirsi così in difficoltà.
Quella ragazza, dallo sguardo così limpido e trasparente, lo metteva a disagio, eppure ogni sua frase o movimento sembrava motivata da intenzioni contrarie. Gli sorrideva gentilmente, cercava il dialogo e non gli faceva pesare la sua discutibile compagnia. Non che a Lysandre pesasse il silenzio, anzi, ma per qualche ragione, non poteva perdonarsi di apparire così poco interessante e apatico di fronte a quella ragazza.
 
Erin ed Ambra si erano scambiate un’occhiata interrogativa, prima di seguire la signora Leroy e Keira all’interno dell’abitazione.
Ad entrambe era sembrato fin troppo facile trovarsi faccia a faccia con una donna che era stata loro descritta come una vecchia asociale e misantropa. Non aveva ammesso apertamente di aver conosciuto Sophia ma, alla luce del suo commento precedente, non erano possibili altre interpretazioni.
Erano giunte in un salotto dominato da un’imponente libreria e con una carta da parati talmente scura, da incupire ulteriormente l’ambiente. Volumi vecchi e impolverati, dai titoli ormai sbiaditi, incurvavano le assi lignee, che resistevano tuttavia all’imponente peso della cultura. In un angolo, un dipinto incompiuto, veniva esibito agli occhi degli ospiti curiosi, anche se la tempera ormai secca indicava uno stato di abbandono da tempo. Il drappeggio delle tende era evidente, messo ancora più in risalto da un tessuto pesante, che ricordava il palco di un teatro. Tutto in quella stanza risultava eccessivo e opprimente.
« Lei dipinge, Miss Leroy? » tentò Erin.
« Siete venute qui per chiedermi questo? »
Lo sguardo di Ambra si irrigidì, ma cercò di perpetuare un atteggiamento accondiscendente.
« Siamo venute qui perché abbiamo bisogno di lei, signora »
« Non ho nessun motivo per aiutarvi »
« Allora perché ci ha fatte entrare? » obiettò Erin.
« Non mi risulta di averlo fatto. Siete voi che avete deciso di seguirmi »
« Miss Tracy, queste ragazze vogliono solo farle qualche domanda »
La donna si voltò verso la ragazza più giovane presente in quella stanza, indugiando per qualche secondo lo sguardo su di lei:
« Sono tue amiche? »
« E’ un favore che mi ha chiesto Meggy »
La vecchia artista si sedette pigramente su una poltrona in velluto, senza scomodarsi nell’invitare le sue ospiti ad accomodarsi sul divano. Si allungò sul tavolino in acero e iniziò a riempire di tabacco un’eccentrica pipa.
« Tu e tua sorella dovreste smetterla di essere così disponibili. Aiutate chiunque, anche gente che non conoscete » mormorò, tenendo il bocchino in bilico tra le labbra.
« Con tutto il rispetto, non ci vedo nulla di sbagliato in questo »
Era stata Erin a pronunciare quell’ultima affermazione, guadagnandosi un’occhiata incuriosita da parte delle presenti, per la sua, quasi insolente, determinazione.
Tracy la scrutò con interesse e, emettendo un ghigno beffardo, borbottò:
« La sfrontatezza è un vizio di famiglia per caso? »
« Lei ha già conosciuto Sophia, la gemella di Erin, non è così? » intervenne Ambra, anticipando la domanda della mora. L’artista non replicò, ma abbandonò la poltrona in cui si era appena seduta per spostarsi davanti alla finestra.
« Quella ragazza dovrebbe imparare le buone maniere »
« Non so cosa le abbia detto mia sorella, ma non è una persona cattiva » si premurò a giustificarsi Erin.
« Non ho detto questo » convenne la vecchia.
Ambra inspirò, cercando di fare il punto della situazione.
Quello scambio di battute era sterile e non sembrava condurle verso alcuna precisa direzione. La reticenza con cui le stava trattando quella bisbetica poteva essere giustificata dalla sua volontà di tenerle all’oscuro da quella faccenda, fornendo però un pretesto ulteriore per indagare in profondità.
« Abbiamo una sua opera, Miss Leroy » la informò « una cornice, ad essere precisi »
Quell’informazione non turbò minimamente la padrona di casa, che continuava a fissare l’esterno.
« Lo so. Me l’ha già mostrata Sophia »
« Potrebbe almeno dirci a quando risale? » tentò Ambra.
« Ci risulta che abbia un talento unico nel ricordare le date di ogni sua opera » incalzò Erin.
Videro un ghigno beffardo sorgere agli angoli della bocca della vecchia, non appena questa tornò a prestare loro attenzione.
Keira la fissò di sottecchi, incuriosita. Non aveva mai visto quello sguardo così vivace e attento negli occhi vitrei dell’artista, normalmente annoiato e apatico.
« Un talento, dite? » sembrò quasi sfidarle.
Erin non seppe come replicare, mentre Ambra, sorrise a sua volta. Non era il tipo da sottrarsi ad una provocazione, specie se questa richiedeva capacità intellettuali e cognitive di un certo livello.
« C’è un codice, non è vero? »
Erin si voltò interrogativa, mentre Keira spostava lo sguardo su l’artista che, a sua volta, domandò:
« Gliel’hai detto tu, Keira? »
La ragazza scosse il capo, e quel semplice gesto, bastò affinché l’artista le credesse. Quella muta conversazione testimoniò la grande fiducia che la vecchia riponeva in Keira, che sin da piccola, era una delle poche persone di cui Miss Leroy tollerava la presenza. Come erano destinati a scoprire in seguito Erin e i suoi amici, la quindicenne aveva un animo apparentemente calmo e rilassato, ma celava dentro di sé un’esplosione di emozioni che avevano conquistato la scultrice. Con Keira poteva parlare di letteratura, arte e cinema, senza mai rimanere delusa dalla conversazione. Aveva sempre un’opinione su tutto, che esponeva in modo chiaro e sicuro di sé, contrariamente all’immagine che forniva all’esterno.
« Se riusciamo a scoprire l’anno esatto di fabbricazione del quadro, lei ci aiuterà? » propose Ambra.
Miss Leroy sentì un fremito attraversarle la schiena.
In tanti anni, nessuno era mai giunto alla conclusione che, dietro la sua capacità di ricordare l’anno di fabbricazione di un’opera, vi fosse un qualche trucco. Quella ragazza bionda invece ci era arrivata subito.
Sorrise, pensando che forse, era veramente arrivato il momento di scoperchiare il vaso che conteneva una verità celata da anni.
 
Il cilindro di tabacco si era ormai avvicinato al filtro della sigaretta e Castiel lo strisciò contro la corteccia ruvida dell’albero. Inevitabilmente, la cicca cadde a terra, confondendosi tra le erbacce e ringraziò che non vi fosse Erin nei paraggi a costringerlo a raccoglierla.
Ricontrollò lo schermo del cellulare, storcendo il labbro.
Tornare in Germania.
Era rientrato in America da poche settimane e già doveva prepararsi ad annunciare il suo ritorno nel vecchio continente.
« Ci manchi, piccolo Mozart » gli aveva scritto Chester.
« Porta anche Erin! » aveva aggiunto Ace.
La smorfia del rosso divenne ancora più amara.
Non che quei ragazzi non gli mancassero.
Per quanto negasse l’evidenza, li aveva adorati sin da subito. Eppure, l’idea di tornare da loro lo faceva sentire inquieto.
Erin.
Solo lui sapeva quanto realmente avrebbe voluto portarla con sé, farle conoscere la Germania e quel mondo che l’aveva assorbito così tanto.
L’idea di partire una seconda volta, di lì ad un paio di mesi, senza dirle la verità, lo angosciava.
Aveva il sentore che, una volta tornato, non sarebbe stato tanto fortunato da trovarla ancora ad aspettarlo. Per la prima volta, Castiel iniziò a considerare seriamente l’idea di prenderla in disparte e dirle tutto.
Dirle che da quando lei era entrata nella sua vita, ogni cosa era cambiata in meglio, che lui era diverso.
Lei non era solo la sua migliore amica, era la ragazza che lo faceva sorridere di cuore, che placava il suo malumore. Erin emanava una sorta di luce, fatta di candore e spontaneità.
Ingenua fino all’inverosimile, era tenera nel suo modo di arrabbiarsi e prendersela con lui.
Non aveva mai provato nulla del genere.
Nemmeno quando stava con Debrah.
Se con la sua ex, Castiel si era sentito vivo, con Erin, lui si sentiva semplicemente e straordinariamente fortunato.
 
Miss Leroy aveva fatto cenno alle ragazze di seguirla lungo un corridoio stretto e angusto.
Le tre, si erano disposte ordinatamente in fila, camminando in silenzio l’una davanti all’altra.
Erin ispirò nervosamente.
Si sentiva sotto esame e, se quella prova si fosse conclusa con un fallimento, avrebbero mandato all’aria tutti i loro sforzi.
Avevano bisogno di più aiuto possibile. Ambra, orgogliosa fino al midollo, non lo avrebbe mai accettato, così toccava a lei informare gli altri.
Cercando di non farsi notare, digitò un messaggio sul gruppo dei suoi amici.
« C’è una sorta di codice segreto per l’attribuzione dell’anno di esecuzione delle opere della Leroy. Dobbiamo scoprirlo, ora! »
 
Roxanne lanciò di malavoglia il joystick di lato, sbuffando contrariata, mentre Armin trionfava:
« Non te la prendere, cuginetta, ma non c’è verso di battermi »
« Ci giochi persino a scuola! Ovvio che parto svantaggiata! »
Rosalya sbuffò irritata. Si stava spazientendo a restare con quei due, calamitati dallo schermo di una TV.
« Spiegami una cosa, Armin… ad Ambra non dà fastidio questa tua fissa per i videogiochi? »
« Fastidio? » ripetè l’altro sorpreso « macchè! Metà delle volte è lei a propormi di giocare insieme »
« Sì, sì, come no » commentò l’altra con cinismo.
« Non conosci Ambra Daniels come la conosco io » ammiccò il moro.
L’amica non replicò subito, ma accasciò la schiena contro il divano.
« … e francamente, Rosetta cara, più la conosco e più mi piace »
I due si sorrisero complici, il primo arrossendo leggermente, l’altra divertita. Lui e Ambra erano davvero una bellissima coppia. Come del resto, lo era lei e il suo Nathaniel. Se un giorno si fossero sposati, la famiglia dei gemelli sarebbe diventata parte della propria ed la stilista non riusciva ad immaginare un futuro più allegro di quello in cui Alexy ed Armin fossero presenti nella sua vita.
Le sue romantiche riflessioni vennero bruscamente interrotte dal brusio del cellulare. Si allungò per recuperarlo e, dopo aver letto sommariamente il testo, sbottò:
« Ragazzi, abbiamo del lavoro da fare! »
 
Erin fu l’ultima ad entrare nella stanza. Miss Leroy le aveva condotte nel suo studio personale. Non c’era un metro quadrato di superficie libera, né sulle pareti, né sul pavimento. I muri erano ricoperti da quadri e mobili, mentre sul parquet erano disseminati fogli e pezzi di legno. L’ambiente era dominato da tre ampi tavoli e da opere incompiute abbandonate in vari punti della stanza.
« E’ ancora in attività? » domandò Ambra, studiando con attenzione un’opera.
« E’ un modo come un altro per impiegare il tempo » minimizzò la diretta interessata.
Mentre le due si guardavano attorno, affascinate ed incuriosite, la donna spiegò:
« Dunque, qui avete tutto quello che vi serve per scoprire l’enigma. Prendetevi tutto il tempo che volete »
Stava per voltare loro le spalle, quando Ambra la interruppe.
« Mi scusi, ma prima voglio avere una dimostrazione »
« Dimostrazione? »
« Del suo talento di indovinare le opere » spiegò la bionda « solo per essere sicura che non si tratti di una menzogna »
« Ambra! » scattò Erin, preoccupata che la donna potesse offendersi per tanta diffidenza.
La vecchia artista però non si scompose, anzi, assecondò quella richiesta:
« D’accordo, scegli un’opera »
La bionda si guardò attorno e individuò una cornice di cui ricordava esattamente l’anno di fabbricazione. La indicò e Miss Leroy impiegò appena un paio di secondi prima di rispondere:
« 1967… ti torna? »
Ambra annuì, mentre Miss Leroy annuì vittoriosa:
« Io sarò di sotto a prendere del te… « Keira, vieni come me »
La ragazza annuì in silenzio, seguendo la vecchia artista lungo il corridoio da cui erano venute e lasciando le due ragazze da sole.
« Ah… » esclamò la donna, facendo capolino sulla soglia « ciò che è scontato, non viene mostrato. Ciò che non si può sapere, viene indicato »
Prima che le ragazze potessero chiederle delle delucidazioni circa quella frase, la vecchia era sparita, lasciandole con un pugno di mosche.
« Che tipa stramba questa Leroy » commentò Erin, appena sentì sparire il rumore dei passi « però non è cattiva »
« Per te Travis, nessuno è mai cattivo » sorrise Ambra.
« Nessuno nasce cattivo, Ambra » precisò, iniziando a muoversi nella stanza « a volte confondiamo la cattiveria con l’infelicità delle persone »
« Bel modo di vedere le cose » ironizzò la bionda, avvicinandosi ad un mezzo busto.
« L’ho capito dopo aver conosciuto te » la zittì Erin, godendosi l’espressione inebetita con cui la fissò Ambra. Era in momenti come quelli, che la bionda non riusciva a non pensare che Erin Travis fosse la ragazza migliore del mondo.
 
« Allora, possiamo basarci solo su questo libro per decriptare il codice » asserì Armin, aprendo il voluminoso tomo che aveva pagato lui stesso il giorno prima.
« E se Tracy incidesse l’anno in piccolo in qualche angolo di ogni sua opera? » domandò Rosalya « da qui certo non lo vediamo »
« Lo escludo » s’impuntò Roxanne.
 
« Perché dici? » si incuriosì Erin, riponendo al suo posto una piccola statua di un guerriero masai.
« Perché altrimenti poco fa, l’avremo vista avvicinarsi alle opere, invece lei indovina l’anno osservandole a distanza… deve trattarsi di qualcosa che balza facilmente all’occhio »
« E’ per questo allora che l’hai sottoposta a quel piccolo test, poco fa? »
Ambra si limitò a sorridere astutamente, seguita a ruota da Erin.
« Mi spaventi, Daniels »
 
« Scommetto che se incidesse l’anno in qualche punto, qualcuno l’avrebbe notato da un pezzo » concluse Roxanne, sfogliando febbrilmente le pagine.
« Beh, c’è anche da dire che abbiamo esaminato a fondo la cornice e non abbiamo notato nulla » ricordò Armin.
 
« Esatto, Erin » ribadì la bionda, sovrappensiero « quindi ci deve essere un simbolo, un qualcosa che può essere tradotto in un numero »
Ambra si spostò dall’osservazione delle cornici appese, ad uno dei piani di lavoro.
« L’ordine non è il forte degli artisti » commentò divertita « tua sorella ne sa qualcosa »
Non ottenne alcuna risposta, così alzò lo sguardo verso la mora, intenta a sfogliare un blocco di appunti.
Erin era china sul pavimento, con le gambe incrociate e sembrava totalmente assorta dalla lettura.
« Trovato qualcosa di interessante? » indagò Ambra, avvicinandosi.
La mora non staccò lo sguardo dal fascicolo e replicò:
« Sei ancora in contatto con lei? »
In un primo momento Ambra non capì a cosa si riferisse, convinta che la ragazza non avesse udito l’affermazione di poco prima, poi collegò quella domanda a Sophia.
« Sì… è molto dispiaciuta per questa situazione, Erin »
« Te l’ha detto lei? »
« Si capisce »
Erin sospirò, alzandosi in piedi. Porse il volume ad Ambra che rimase disorientata dalla freddezza del suo sguardo. Le era bastato citare la gemella per svegliare nella mora un atteggiamento freddo e scostante:
« Prova a darci un’occhiata anche tu. Credo ci sia qualcosa di interessante »
Ambra accolse l’oggetto tra le mani senza fiatare e iniziò a passare in rassegna le pagine. Il blocco era colmo di schizzi a matita di una serie di soggetti, che spaziavano da figure viventi a esseri inanimati.
« Ci capisco poco di arte » commentò Erin, senza abbandonare il malumore che l’aveva assalita « ma non trovi che sia curiosa la sua fissa? »
 
« Fissa per cosa, scusa? » domandò Rosalya.
Era stupita dalla capacità di analisi della tredicenne. Negli ultimi dieci minuti, la ragazzina era riuscita a esporre in modo estremamente lucido e razionale un ragionamento che l’aveva condotta ad una conclusione interessante.
« I cherubini » borbottò Armin, allungandosi sul tavolo.
Roxanne sorrise vittoriosa.
I due liceali pendevano dalle sue labbra.
 
Keira allungò la tazza fumante all’artista, che la accolse con un cenno di gratitudine.
« Miss Tracy, posso chiederle una cosa? »
L’anziana sollevò appena lo sguardo, mentre gli occhiali si appannavano sotto l’influsso del vapore caldo.
« Non devi essere così reverenziale con me, Keira. Te l’ho già detto »
« Perché non vuole aiutare quelle ragazze? »
Miss Leroy sorseggiò lentamente la bevanda, assaporando ogni nota dolciastra del tè.
« Più zucchero la prossima volta, per cortesia »
Keira non batté ciglio e, quell’espressione così imperscrutabile fece sorridere la donna che, divertita dalla pazienza della giovane, rispose:
« Ti sbagli, Keira. E’ proprio perché ho deciso di aiutarle che le ho lasciate nel mio studio »
 
Ambra chiuse il blocco e accorse davanti alla parete delle cornici.
Le passò in rassegna una ad una, poi si spostò verso le sculture in un angolo della stanza.
Come aveva fatto a non accorgersene prima?
« In ogni opera di questa donna ci sono delle figure umane, che nella maggior parte dei casi sono cherubini, ma questo poco importa » esternò Erin, avvicinandosi.
« Se c’è un codice, questo deve trovarsi in ogni opera, è ovvio… e l’unico elemento in comune tra tutte sono le figure umane » rincarnò Ambra.
« Ora dobbiamo capire come queste siano associate a dei numeri » riepilogò Erin « se ogni figura fosse un numero, dovrebbero essercene quattro, no? Un anno è composto da quattro cifre »
« Ma se consideriamo che le prime due cifre sono scontate, cioè 1 e 9, basta indicare le ultime due »
« Frena, comunque lei ha realizzato opere anche dopo il 2000, seppur non di successo e sotto l’attenzione della critica. Continua a inserire delle figure umane anche nelle opere tutt’ora in corso d’esecuzione » obiettò Ambra.
Erin soppesò quell’ultima affermazione, incrociando le braccia al petto.
« Ci sta sfuggendo qualcosa, Ambra… l’indovinello… »
« Ciò che è scontato, non viene mostrato. Ciò che non si può sapere, viene indicato » ripetè Ambra, tra sé e sé.
« Appunto: l’artista non indica le prime due cifre dell’anno, poiché esse sono scontate… ma mostra le altre due, perché sono altrimenti impossibili da azzeccare »
« Ha senso » convenne Ambra « se indica uno zero od un uno come terza cifra, è scontato che l’opera non è del 1900, viceversa… »
Erin nel frattempo si era avvicinata ad una scultura nella cui composizione comparivano due cherubini, ai piedi di un colonnato
« Questa posa mi è familiare… »
 
« L’ho vista in un vaso a pagina 34 » si eccitò Rosalya, rubando il libro da sotto il naso di Roxanne « mi ha colpito per la posa strana delle mani! »
Roxanne ed Armin si allungarono sul tavolo, scrutando attentamente la figura.
« In effetti queste due opere risalgono entrambe al 1974! » concluse vittoriosa la stilista, ma ci pensò la biondina a sedare il suo entusiasmo.
« No, mi dispiace, l’altra è del 1973 »
L’allegria di Rosalya si sgonfiò all’istante, ma fu Armin a cogliere la palla al balzo.
« No, aspettate, siamo sulla pista giusta! »
 
« LE MANI! » esclamarono in coro Erin e Ambra.
Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere.
In quel momento anche il cellulare della mora vibrò e bastò un’occhiata fugace per realizzare che anche i loro amici fossero giunti alla stessa conclusione.
 
« Direi che ci sono arrivate » sogghignò Miss Leroy riponendo la tazza, ormai vuota, sul tavolino.
Keira si limitò a sorridere contenta e attese il momento in cui avrebbe visto le due presentarsi in salotto vittoriose.
Il grido di esultazione di poco prima, aveva strappato un sorriso fin troppo chiaro sul volto stanco ed invecchiato dell’artista.
 
Erin quasi inciampò sulle scale, tale era l’eccitazione di aver risolto il mistero.
Ne erano sicure, tutto combaciava.
Aveva rimosso il dispiacere associato al pensiero della sorella, tale era l’euforia per quella sfida che aveva solleticato la loro capacità di deduzione.
Irruppe nel soggiorno, trovando le due donne comodamente sedute sul divano.
Seguiva Ambra che, dall’atteggiamento molto più posato, non rinunciava però ad na smorfia vittoriosa.
« Miss Leroy, abbiamo la risposta! »
La donna non fece una piega ed Erin aggiunse:
« La cornice è del 1975! »
Bastò il sorriso di Keira per far esultare le due ragazze. L’artista invece impiegò qualche secondo in più, prima di sbilanciarsi:
« Come ci siete arrivate? »
Erin era tutta un sorriso d’eccitazione, così toccò ad Ambra illustrare il percorso del loro ragionamento.
«Lei riesce ad indovinare la data delle sue opere senza doverle scrutare da vicino, quindi abbiamo escluso subito che la incida in qualche punto nascosto. Oltretutto, sarebbe stata notata da qualcuno prima di noi, invece questo non è mai accaduto. Abbiamo quindi notato che in tutte le sue opere ricorre la presenza di due figure umane minori, la cui posa delle mani a volte, risulta inusuale… Per esempio in un’opera, c’è un angelo con le dita ripiegate a pugno, anche se in modo rilassato e solo il mignolo leggermente teso. Abbiamo pensato che quello potesse indicare il numero uno. Molte altre figure invece hanno le dita di una mano distese, mentre quelle dell’altra indicano per lo più un uno o un due, infatti sono opere realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta. Seguendo questo schema interpretativo, abbiamo notato che nell’opera che ci ha indicato prima, quella del 1967, le mani dell’angelo di sinistra indicano un sei, mentre quello di destra un sette. Praticamente in tutte le sue opere, lei lascia che siano le mani dei due personaggi minori, frequentemente dei cherubini, ad indicare letteralmente l’anno di esecuzione… ma la distensione delle dita è talmente rilassata da sembrare casuale »
Seguì un lungo silenzio, al termine del quale Miss Leroy si alzò in piedi, applaudendo un paio di volte.
« Bene, mi chiedo quanto debbano essere rincoglioniti i critici moderni per non esserci mai arrivati »
« Diciamo che lei ci ha messo del suo, sostenendo che non vi fosse alcun codice » le ricordò Keira « le persone non indagano qualcosa che non c’è »
« Non queste ragazze » convenne la donna, scrutando le due « per quel che ne so io, voi vi basate su una mia opera per scoprire la storia che c’è dietro… senza sapere se effettivamente ci sia »
« E lei questo come lo sa? » intervenne Erin « in fondo, non le abbiamo detto nulla »
« Ho conosciuto Sophia, non può bastare? »
La mora si zittì, ricordando quel particolare, così toccò ad Ambra intervenire:
« Cosa disse a Sophia? »
« Niente di più di quello che dirò a voi »
« Serafica… » ironizzò Ambra, che per un attimo si era illusa di scucire qualche informazione extra alla donna. Aveva notato un cambio di atteggiamento nel suo modo di porsi, ma ciò non bastava a renderla più simpatica e disponibile. Mentre erano intente a seguire l’artista nella stanza attigua, Keira scrutò l’espressione della mora accanto a sé, stupita da quanto rapidamente fosse mutato il suo umore, al solo nominare la gemella. Non osò chiederle nulla, tale era la sua natura riservata e discreta. Pensò alla sua di sorella e a quanto visceralmente le fosse legata. Anche se Megan era la maggiore, con il suo carattere spensierato e talvolta impulsivo, Keira aveva maturato un comportamento molto protettivo verso di lei. Per questo, quando aveva visto quel ragazzo un po’ eccentrico avvicinarsi alla sorella, si era irrigidita. Meggy era facilmente suggestionabile, uno spirito puro e ingenuo. Sicuramente non si era accorta di nulla, ma era fin troppo lampante cosa significassero i secondi in cui gli occhi del ragazzo indugiavano dolcemente sul viso dolce della ragazza. Per certi versi, quella Erin le ricordava Megan, e forse proprio per questo, aveva sentito sin da subito, una piacevole empatia verso di lei.
Le ragazze vennero condotte in un’altra stanza, ancora più buia ed angusta delle precedenti. La padrona di casa aprì  le finestre, permettendo alla luce di irradiarne l’interno. Le tre iniziarono a tossire, a causa di una voluminosa nube di polvere che si levò dalle superfici.
« Vengo molto raramente in questa stanza » commentò l’artista.
« L’avevamo intuito » sbuffò Ambra, iniziando a starnutire. Per la sua allergia, quella stanza era veleno.
« Su, su, ti fai un po’ di anticorpi, cara »
« Anche mia sorella è allergica alla polvere » commentò Keira.
« Eppure continua ad insistere per venire a pulire questa casa » borbottò Miss Leroy « dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi »
« Lo fa per il suo bene, Miss Leroy » la difese Keira.
« Lo so… è questo che mi ha arrabbiare. Tua sorella è troppo buona »
La ragazza sorrise, come faceva ogni qualvolta qualcuno parlasse bene di Megan.
L’artista si portò davanti una cassettiera enorme, ricolma di cassettini minuscoli e segnati ciascuno da un anno.
« 1975, eh? »
Aprì il cassetto corrispondente, sfilandolo dalla struttura. Lo posò su un tavolo ed iniziò a cercare tra le varie ricevute, quella corretta. Ad ogni foglietto era allegata una fotografia e, dopo una sommaria ricerca, ne estrasse uno:
« E’ questa la cornice che vi interessa, no? » chiese, esibendo una fotografia.
Le ragazze annuirono, mentre lei, scrutò il foglietto:
« Dovete leggerlo voi il nome, la mia vista è notevolmente peggiorata »
Erin sfilò dalle mani della donna la ricevuta e lesse:
« Chi è Cosima Manning? »
Le tre giovani guardarono la vecchia che fece spallucce:
« Come faccio a saperlo? Avete visto quante opere mi sono state commissionate durante gli anni? » obiettò indicando la cassettiera alle sue spalle.
« Qui dice che l’opera le è costata duemilacinquecentosessanta dollari » calcolò Ambra « che per quegli anni sono ancora più soldi rispetto ad oggi »
« La gente che si rivolgeva a me, specie quando diventai famosa, non aveva problemi di soldi » precisò l’artista.
« Lei non ricorda proprio nulla di questa donna? » indagò la voce quasi supplicante di Erin.
L’artista ripose la ricevuta al suo posto e richiuse il cassetto:
« La vostra fortuna è che, se come artista sono una casinista, come imprenditrice sono molto organizzata »
Non capirono il senso di quell’affermazione, finchè non la videro spostarsi su uno schedario accanto ad una vecchia poltrona.
« Mi chiedo ancora perché continuo a tenere tutte queste cartacce » borbottava tra sé e sé la donna, mentre scorreva una serie di fascicoli dopo la lettera M. Dalla fila, ne sfilò uno e lo porse alla mora:
« Questo è tutto quello che posso dirvi. Niente di più »
Erin aprì la cartellina, mentre Ambra si allungava a sbirciare sopra la sua spalla.
« E’-è l’indirizzo della signora Manning? » si stupirono le due ragazze.
« A te cosa sembra? Molti dei miei clienti richiedevano la spedizione a casa e quindi dovevo avere un recapito »
« Abita nei pressi di Chicago » osservò Ambra.
« Anche Sophia ha visto questo registro, vero? » chiese conferma Erin.
La vecchia annuì e aggiunse:
« Di più non so dirvi. Da questo punto in poi, proseguirete da sole »
Ambra stava per obiettare ma la mora la anticipò:
« La ringrazio, Miss Leroy. E’ stata davvero preziosa »
 
Castiel tornò nella vettura, trovando solo Lysandre al suo interno.
« Hai fatto fuggire la maestrina? » lo canzonò.
Il poeta però era assorto a fissare il panorama, con un sorriso dolce, al punto da ignorarlo totalmente. Il rosso allora levò il capo e vide, poco lontano, Megan intenta a giocare con un cane.
La vista dell’animale, destò da subito l’attenzione del rosso che si avvicinò incuriosito. Megan era intenta a coccolare un pastore tedesco, che si rotolava a pancia all’aria.
« E’ il cane della vecchia? »
La ragazza trasalì, non essendosi accorta della figura alle sue spalle.
« Oddio che spavento! »
Anche l’animale risentì di quel brusco cambio d’umore e si mise ritto sulle zampe.
« Buono bello… » lo accarezzò Castiel, chinandosi all’altezza della belva.
Gli bastarono pochi secondi e il cane già lo adorava, dimenticandosi totalmente di Megan.
« Ci sai fare con gli animali » osservò lei, sinceramente stupita.
« Ho un cane » spiegò semplicemente il musicista, sorridendo leggermente alla creatura pelosa. Quella dolcezza intenerì Megan, che finalmente rispose alla domanda che le era stata posta.
« Comunque sì, è il cane di Miss Leroy, Mirtillo »
« Strano esemplare per una tipa così solitaria » osservò il rosso, strapazzando le orecchie di Mirtillo « e nome di merda per un cane così bello »
Megan sorrise, un po’ spiazzata dall’eccessiva libertà di linguaggio che il ragazzo si concedeva.
« Se fosse tuo, come l’avresti chiamato? »
Castiel ci pensò un attimo e, ricordando il nome del gatto di Erin, replicò:
« Eric »
« Come il protagonista di Rossana? »
« Di che? » gracchiò interrogativo.
« Rossana! Il cartone. Non l’hai mai visto? » prima che il ragazzo potesse rispondere, Megan iniziò a canticchiare allegramente « Rossana dai pensaci un po’ tu! Perché così non se ne può più! Sappiamo che non ti arrendi mai, che provi e riprovi finchè ce la fai »
Era particolarmente stonata, ma non se ne curava. Cantava con allegria, autoironia, strappando una risata persino nella serietà del ragazzo accanto a lei. Non era solo quell’atteggiamento così spontaneo e allegro a contagiarlo, ma l’immagine di una persona che, nelle parole di quel testo, Castiel aveva riconosciuto immediatamente come Erin.
 
Lysandre aveva osservato quella scena da lontano. Oltre il vetro impolverato dell’auto, percepiva i due ad una distanza ancora maggiore e sentì un nodo stringergli lo stomaco. Avrebbe voluto scendere dalla vettura, intromettersi nella conversazione e riuscire a portarla avanti come stava facendo il suo amico. Ma lui non era così.
Con lui, le persone non si divertivano come in compagnia di Castiel.
Il rosso aveva quella straordinaria capacità di farsi amiche le persone, nonostante i modi scontrosi e bruschi. Quell’ossimorica combinazione tra il suo carattere e quel suo talento, era paradossale. Aveva sempre ammirato Castiel per questo.
Avrebbe voluto così tanto far ridere Megan nello stesso modo in cui l’amico stava facendo.
Invece no.
Lui era il poeta dei grandi discorsi, delle lunghe riflessioni. Non era capace di battute buffe, solo di ironia pungente. Era troppo serio, troppo sulle sue per annullarsi di fronte agli altri.
Megan era così spontanea, limpida e semplice, che nulla aveva a che fare con i suoi modi artefatti e teatrali.
Per la prima volta in vita sua, Lysandre White desiderò essere diverso.
Desiderò esserlo per piacere a qualcun altro che non fosse se stesso.
 
« Keira… »
Mentre Erin e Ambra, dopo essersi congedate dall’abitazione di Miss Leroy, avevano intrapreso la via di ritorno verso la macchina, la ragazza era stata richiamata dalla vecchia:
« Grazie per averle portate qui »
« Era la cosa giusta da fare »
« Sarai contenta ora, no? »
La ragazza fece spallucce e concluse:
« Trovo semplicemente assurdo che persone estranee come me e lei conoscano una storia della quale i diretti interessati sono all’oscuro... se solo lei mi autorizzasse a- »
« No » tagliò corto l’artista « ti raccontai questa storia solo perché hai conosciuto Sophia, il giorno in cui venne qui, ma questo non significa che verrò meno alla promessa. Non sta a noi raccontare i dettagli di questa faccenda… troppe persone coinvolte »
« E se non lo scoprissero mai? Tutti hanno il diritto di sapere la verità » insistette Keira.
« Ma né io né te abbiamo il diritto di raccontargliela. Siamo solo degli spettatori. E’ stato un caso che questa storia sia venuta a galla, ma sarà una loro scelta portarla fino in fondo… soprattutto quando la verità inizierà a far male »  
 
Keira scrutò discretamente le persone sedute in quel soggiorno.
Quando sua sorella aveva accettato l’invito di fermarsi a cena dagli zii di un certo Armin, aveva iniziato a sentire i battiti accelerarle.
Troppe persone per lei che amava la tranquillità e la serenità di piccole compagnie.
Eppure, non poteva sottrarsi a quell’invito, avrebbe offeso i presenti e rattristato Megan.
Aveva memorizzato velocemente i nomi di tutti, anche di quella ragazzina poco più piccola di lei che stava discutendo animatamente.
« Non tutti i libri per adolescenti sono banali! »
Quell’affermazione così animata, era scaturita dalla precedente e cinica osservazione di Castiel.
« Ah no? E quel coso là, dei vampiri? Oppure Harry Potter?»
Il solo sentire che Twilight venisse messo sullo stesso piano della sua opera preferita, mandò in escandescenze Roxanne. Saltò su in piedi ma, prima che aprisse bocca, una voce commentò:
« Chiariamo una cosa: Twilight è una storia, Harry Potter è un mondo »
Tutti si voltarono verso Keira che, istintivamente, guardò da un’altra parte a disagio.
Dopo appena due secondi, si trovò davanti la biondina che la fissava adorante:
« Ti adoro, sappilo! » squittì, mentre alcune delle ragazze ridacchiavano per la spontaneità di quei modi.
Keira si limitò a ridacchiare nervosamente ma rincuorata da quella reazione e, disarmato dalla difesa sull’opera della Rowling, Castiel su costretto a zittirsi.
La serata proseguì all’insegna dell’allegria e delle battute. La vicenda del quadro era passata in secondo piano, dopo che anche Armin, Rosalya e Roxanne erano stati aggiornati sugli ultimi sviluppi.
La macchina di Castiel era stata riparata e l’indomani sarebbero ritornati a Morristown.
In pochi minuti, Keira e Roxanne erano diventate amiche, scoprendo una viscerale e comune passione per i libri, oltre che una spiccata propensione alla scrittura.
Sotto le insistenze della biondina, Keira era stata costretta a farle leggere un suo scritto salvato sul cellulare e, prima che l’autrice potesse fermarla, Roxanne era corsa da Lysandre.
Lo trovò seduto sul divano, intento a leggere un libro.
« Lys! Armin mi ha detto che tu scrivi poesie, non è vero? »
Il ragazzo alzò lo sguardo, per trovarsi davanti quello limpido e cristallino della ragazzina. Annuì, mentre Roxanne gli sfilava sotto il naso lo schermo del cellulare.
Lesse il testo in silenzio, poi lo restituì alla ragazza.
« L’hai scritta tu? » chiese evidentemente stupito. Nel frattempo Keira era accorsa alle sue spalle, intercettando i due:
« Oh no, è opera di Keira! »
Il ragazzo spostò allora lo sguardo, mentre la poetessa abbassava il proprio.
« E’ molto bella. Complimenti. Hai un modo di scrivere così profondo che non si addice alla tua età »
La ragazza, anziché ringraziare semplicemente, borbottò una serie di parole confuse, che fecero ridacchiare la biondina.
« Kei è sempre in difficoltà quando le fanno dei complimenti » intervenne una voce.
Se Keira si sentì quasi confortata da quella presenza, Lysandre si irrigidì d’un tratto. Megan scompigliò i capelli della sorellina, che si scostò da quel gesto affettuoso.
« Hai letto Fiori di ciliegio? » domandò, sedendosi accanto a lui sul divano.
« H-ha una sensibilità così spiccata, tua sorella » miagolò quasi Lysandre.
Roxanne aggrottò la fronte, sorpresa da quel nervosismo, mentre Keira lo fissò con interesse e, per certi versi tenerezza. Era curioso come quel ragazzo, fino ad un attimo prima posato e controllato, tradisse ora tanto nervosismo ed insicurezza.
« Oh sì, lei è la mia critica più severa. E’ molto matura, più di quanto lo sia io. Tengo molto alla sua opinione »
« Fai bene » commentò Lysandre, senza ben sapere cosa stesse dicendo.
« Secondo me è bellissimo quando le persone riescono a trovare nella scrittura, una forma di espressione » stava raccontando Megan, con trasposto e dolcezza « Keira un giorno diventerà una grande scrittrice, ne sono certa »
« Tu sei troppo ottimista e sognatrice » borbottò la ragazza in imbarazzo.
« A volte il segreto del successo, sta nel trovare qualcuno che ti dica che hai le capacità per farcela »
Keira fece spallucce, assuefatta agli incoraggiamenti materni della sorella, mentre Lysandre sorrideva rapito. Adorava quel modo di fare, non poteva che esserne affascinato e conquistato.
« Lys, ti si è intasato il disco rigido? »
Sollevò lo sguardo di scatto, trovando Armin e Castiel e fissarlo:
« Che battuta di merda, Evans » commentò Castiel, per poi rivolgersi al poeta « sei più rincoglionito del solito, dobbiamo preoccuparci? »
« In cosa vi posso essere utile? » replicò l’altro, vergognandosi all’istante del tono formale con cui si era rivolto ai due amici, senza alcun sarcasmo.
« Mettiamoci d’accordo per domani » replicò Armin.
« In realtà c’è poco da mettersi d’accordo. Guidiamo io e te, Lys » tagliò corto Castiel.
« D’accordo »
« Però tu ti tieni tua sorella in macchina »
« Come vuoi » replicò il poeta, arrendevole.
« E Armin… »
« Io? » protestò offeso il moro « perché non mi vuoi? »
« Perché sei un rompicazzo, Evans »
Il moro stava per replicare, quando Castiel si sentì tirare via per un braccio.
« Devo parlarti » tuonò Rosalya.
« Ok, ma sta’ calma… » borbottò l’altro, confuso. Si isolarono in un angolo della stanza e, quando finalmente il moro le chiese il motivo di tanta foga, la stilista sbottò:
« Tu e quell’altro idiota! Vi sembrava proprio il caso di interrompere Lysandre? »
Il ragazzo non capì, così borbottò:
« Dovevamo fargli il linguaggio dei segni? »
Ricevette una sonora batosta sul capo, mentre la stilista sbottava:
« Cretino! Non hai visto come guardava Megan? Stavano parlando! E voi due vi mettete in mezzo »
« Che c’è di male? C’erano anche la cugina di Armin e Keira… »
« Non è questo il punto! Quante altre occasioni avranno per parlarsi? »
Castiel stava per rispondere, ma Rosalya lo anticipò:
« Zero! Quindi, o scocca oggi la scintilla, oppure siamo fottuti! »
« Maddai Rosa, ne stai facendo una tragedia! » rise il rosso.
Per la seconda volta si sentì strattonare violentemente, e costretto a guardare in direzione del poeta.
Lysandre era rimasto solo, Megan era impegnata in una conversazione con Erin ma lui, anziché tornare a leggere il suo libro, la osservava da lontano.
Aveva una smorfia dolce, serena, nuova. Mai prima aveva visto tanto trasporto nello sguardo dell’amico.
« Cazzo, è proprio cotto… » borbottò sorpreso.
La stilista sollevò gli occhi al cielo, sospirando:
« Finalmente ci sei arrivato. Non l’ho mai visto così, prima d’ora »
« E che ci vuoi fare? Saranno affari suoi »
« Un corno! Sono stufa di essere circondata da gente che non ha il coraggio di fare il primo passo! »
« A chi ti riferisci? » domandò il rosso, sinceramente sorpreso.
Rosalya si morse la lingua, inspirando a pieni polmoni:
« Senti un po’, Black. Ora tu prendi da parte mio fratello, io Megan e vediamo di farli chiacchierare insieme. Non è difficile, o la tua incapacità sociale potrebbe essere un ostacolo? »
Il musicista emise un grugnito di disappunto, borbottando:
« Non immischiarmi in questo genere di cagate da femmine »
 
Mentre i due erano impegnati a discutere, Erin si deliziava della compagnia di Megan.
Era una persona così piacevole che sarebbe rimasta ore a chiacchierare con lei.
Scoprì che avevano la stessa età ma, dopo scuola, si recava in quell’asilo come supporto alle suore e insegnanti dell’istituto. Quel giorno l’avevano conosciuta per puro caso, dal momento che il suo liceo era chiuso per motivi organizzativi.
Ogni volta che Megan parlava di bambini, i suoi occhi le si illuminavano, poiché il suo sogno era proprio quello di diventare maestra. Era quel tipo di persona che si entusiasmava facilmente, che non si vergognava di esternare le proprie emozioni e fu per questo che, sin da subito, Erin aveva sentito una straordinaria empatia verso di lei.
Sorrise, quasi ignorando la voce cantilenante della sua interlocutrice e si perse a meditare su quante persone nuove avesse conosciuto in così poco tempo: Megan, Keira, Miss Leroy, Miss Patty, zia Chloe, Roxanne. La vicenda del quadro, assieme ad un affascinante mistero, aveva portato con sé l’opportunità di arricchire la sua vita con persone il cui ricordo era destinato a colorare il suo passato, per poi essere rispolverato in un futuro ad esso legato.





 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Dunque, è sempre più difficile iniziare questo spazio, perché sono ormai banalmente immancabili le mie scuse.
Scuse a voi lettrici per il ritardo nell’aggiornare IHS e scuse alle autrici delle storie che sto (stavo) seguendo T_T.
Per non essere pedante, non mi dilungherò ulteriormente in tal senso, ma sappiate che sono davvero dispiaciuta dal fatto che, per impegni lavorativi, il tempo che posso dedicare alla mia storia e alle persone che ho conosciuto per mezzo di essa, si sia ridotto drasticamente.
Ho deciso che non farò più previsioni circa la data di pubblicazione, è troppo impegnativo per me rispettare le scadenza :S Piuttosto, potrei mandare un messaggio tramite Wattpad a pochi giorni dalla pubblicazione, questo sì u.u
 
Veniamo ora alla storia.
Beh, sin da quando  è iniziata IHS, non ho mai saputo come combinare Lysandre. Per un certo periodo, avevo pensato a Violet, ma poi non era una coppia che mi convinceva totalmente e, se non convince me, da autrice non sarei riuscita a convincere voi. Così, grazie allo scambio di conversazioni con alcune di voi, è nata la personalità di Megan che, come potrete immaginare, (SPOILER!) conto di far riapparire più avanti.
Il personaggio di Keira invece è un tributo ad una mia carissima amica, Kayleah, che è stato fin troppo divertente far interagire con una nostra comune conoscenza, la carissima Roxy, alias Clove Malfoy (sorella volpe, sorella scimmia <3)
 
Sarò sbrigativa in questo spazio, perché devo ancora correggere il capitolo, così passo direttamente a rispondere a due domande che mi sono state poste nel form apposito (https://docs.google.com/forms/d/1wyv8hujlm__oDyaziSxmfdgxZhVG8GnZ-N4Ob1hV-j8/viewform)
 
- Mi piacerebbe sapere se Lys ha mai fatto un pensierino su Erin anche platonicamente o se ha mai pensato anche solo per un secondo di portarla via a Cass.
Direi che non c’è capitolo più adatto di questo per postare questa domanda. So che l’atteggiamento di Lysandre verso Erin, viene percepito nella maggior parte dei casi, come ambiguo. In effetti, ho voluto lasciare una piccola nota in sospeso, perché ben si addice alla personalità criptica del poeta. Tuttavia, se volete la verità più sincera, eccola: Lysandre non è mai stato innamorato veramente di Erin. Tra tutte le sue amicizie femminile, lei è sicuramente la ragazza che più lo affascina nel senso romantico del termine, però non per questo nutre dei sentimenti diversi da una fraterna amicizia. Ha un ben radicato istinto protettivo verso di lei che, rispetto alla sorella Rosalya, è più vulnerabile e buona, ma niente che possa essere confuso con amore. In Megan però, Lysandre ritrova alcune delle caratteristiche che più apprezza in Erin, come la sua spontaneità e bontà, ma nell’ottica non voler creare una sostituta alla mora, ci tengo a precisare che Erin e Megan sono diverse: la prima ha un talento unico nel diventare amica delle persone (cosa che la accomuna a Castiel), mentre l’altra, per quanto possa essere gentile, è più timida e tende a circondarsi di una cerchia ristretta di persone. E’ più riservata, ecco, oltre che molto più ingenua di Erin (incredibile a dirsi!)… e queste sono solo alcune delle qualità che, secondo me, uno come Lysandre, per complementarietà, può trovare affascinanti. Insomma, ho concepito Megan come una personaggio che possa portare della serenità nel poeta, alleggerire un po’ il suo modo di vedere il mondo e, perché no, insegnargli ad essere più “bambino”.
 
-I genitori di Lisandro e Rosalya sono morti ma... sono morti realmente?
Sì, su questo fronte, niente colpi di scena ^^
 
 
Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 58
*** L'errore più giusto ***


58.
L’ERRORE PIU’ GIUSTO
 
L’odore di sudore era pungente, quasi acre, al punto da coprire la debole fragranza di un caffè mediocre.
Mackenzie si scostò dal bancone, pregando che quel vecchio camionista se ne andasse presto.
Le avrebbe fatto pena, se non fosse per i modi bruschi e autoritari con cui le aveva dettato la sua ordinazione. I vetri del locale erano coperti da una patina di polveroso terriccio, che si levava dal suolo ogni volta che una vettura sgommava nell’ampio parcheggio esterno.
Odiava il caldo torrido di quel posto, circondato dal deserto.
Almeno, nessuno l’avrebbe raggiunta, nessuno sapeva dove fosse.
Era scappata da Mary, la moglie di un nonno che non c’era più e che l’aveva accolta in casa sua, come farebbe un falco con un verme. La loro convivenza non era durata a lungo.
Non poteva durare, nemmeno in nome dell’affetto che nutriva per sua madre, Dianne.
Mackenzie sospirò, gettando in malo modo uno straccio umido sui bicchieri ad asciugare.
Doveva sbrigarsi a mettere da parte i soldi per tornare nella sua vera casa, sperando che la donna fosse ancora lì ad aspettarla. L’aveva sentita al telefono giusto una settimana prima, rassicurandola circa la situazione. Non le aveva detto che sopravviveva con quaranta dollari a settimana, lavandosi per quanto potesse, nei bagni della stazione e che il tetto sicuro sopra la testa, fosse in realtà rappresentato dallo scantinato di un condominio.
Era arrivata a Little Rock in un’afosa giornata di agosto e, appena scesa dal bus, aveva deciso che non vi sarebbe rimasta a lungo. Si sarebbe spinta oltre, ma le finanze erano prosciugate e quella meta, rappresentava il punto di partenza e ristoro in vista della successiva.
L’unico lavoro che era riuscita a rimediare, era come cameriera in una caffetteria di periferia, alquanto squallida e decadente. La paga era misera, ma era l’unica fonte sicura.
Ancora due mesi di lavoro, e avrebbe avuto i soldi per chiudere con quell’incubo.
Avrebbe dimostrato a sua madre che la scelta di mandarla da Mary fosse un errore. Quella vecchia non le aveva garantito la serenità sperata, aveva anzi accentuato nella ragazza la consapevolezza che nessun luogo fosse più caldo e ospitale dell’umile abitazione in cui Dianne l’aveva cresciuta.
La scuola era un capitolo chiuso, anche se con le lacrime in cuore, aveva dovuto rinunciarvi. Amava studiare, i professori le dicevano di essere portata, ma lei non poteva sopravvivere di libri e calcoli matematici.
Volutamente, non chiedeva mai a sua madre di Jack, quell’uomo che altrimenti avrebbe dovuto chiamare “papà”. Sapeva solo che ogni tanto frequentava ancora la loro casa, probabilmente per appagare qualche sfizio puramente carnale. Era in quei momenti che Mackenzie provava un colpevole disprezzo per Dianne, per la sua incapacità di allontanarlo e salvaguardare la sua dignità. Era a causa di Jack che Mackenzie aveva maturato una visione denigratoria verso il genere maschile, dal quale si teneva a debita distanza. Pur non essendo una bellezza, le era capitato in alcune occasione di attirare sguardi e attenzioni, ai quali aveva risposto in modo fin troppo sgarbato. Sapeva che gli uomini non erano tutti uguali, infatti li reputava uno peggio dell’altro. Ne aveva la conferma dall’individuo gretto che le sedeva di fronte.
Aveva ingoiato un’enorme fetta di torta, gesto seguito da un rutto del quale non si era scusato.
Due mesi, e se ne sarebbe andata.
Doveva tenere duro ancora un po’.
 
« Intendi dirmi cosa ti ha detto la signora Leroy? »
Sophia inspirò a fondo, guardando dritto negli occhi Nathaniel e annuì:
« Non mi è stata granché d’aiuto » esordì amareggiata  « mi ha fatto il nome di chi le commissionò la cornice ma dopo aver incontrato la tizia in questione, ho ricevuto solo una porta in faccia »
Iniziò a cambiare la disposizione dei cuscini del divano, come se quella conversazione non la interessasse in prima persona. Tuttavia, era stanca di non avere un vero confronto. Da giorni aveva accettato l’aiuto del biondo e, nei limiti di ciò che riteneva opportuno rivelare, lo avrebbe messo al corrente delle informazioni di cui disponeva.
« Questa tizia si chiama Cosima Manning »
Come ascoltatore, Nathaniel era quanto di meglio potesse incontrare. Non la interrompeva, non le metteva fretta e la fissava concentrato, memorizzando ogni sua singola parola:
« Il nome non mi dice nulla »
« Sarebbe sorprendente il contrario » convenne la rossa « a giudicare dalla villa, direi che non le mancano i soldi »
Il braccio dell’ospite si allungò verso il tavolino, sul quale la padrona di casa aveva sistemato un paio di lattine di birra. Nathaniel ne stappò una prima di incoraggiarla a continuare:
« Mi spieghi cosa è successo esattamente quando sei andata a Chicago? »
 
Sophia ricontrollò la posizione su Google Maps.
Era arrivata a destinazione. Il suo portafoglio piangeva al solo pensiero di quanti soldi avesse speso per quel viaggio a Chicago. Eppure, doveva saperlo. Si era intromessa in una faccenda più grande di lei, doveva accettare quel genere di sfide, anche economiche, se voleva far luce sulla vicenda.
Mandò giù un grumo di saliva, alla vista dell’imponente villa che si ergeva oltre l’ostile inferriata.
Appena individuò il campanello, si fece coraggio e lo suonò.
Manning.
Un altro passo in avanti nella sua ricerca.
Come quella famiglia fosse coinvolta con Mackenzie e Jack Hurst era uno dei pezzi  emersi in quel groviglio di cui cercava il bandolo.
Dopo qualche istante, una voce atona le chiese di presentarsi:
« Mi chiamo Sophia Travis. Sono un’amica di Tracy Leroy. Avrei bisogno di parlare con Cosima Manning »
Seguì un paio di secondi di silenzio, poi la voce femminile replicò:
«  La signora Leroy non ha amici »
La ragazza allora tentennò, in difficoltà. Aveva pensato che usare quella conoscenza comune l’avrebbe avvantaggiata, ma era costretta a ricredersi sulla sua strategia.
« Le ruberò pochissimo tempo! »
Avrebbe dovuto prepararsi un dialogo e non improvvisare come stava facendo. Era stata troppo superficiale nel dare per scontato che sarebbe stato facile ottenere le informazioni che voleva. Del resto, nemmeno Tracy le aveva reso le cose facili.
Passò qualche secondo, prima che la voce rispondesse:
« Di cosa si tratta? »
Quella fu la scintilla che regalò una flebile speranza alla rossa, che esclamò:
« Devo chiederle un paio di cose su Jack Hurst »
Tuttavia, dopo quell’affermazione, il citofono non emise più alcun suono.
Sophia tornò a pigiare il tasto con sempre più rabbia e frustrazione.
Il suo dito sostò sul campanello per oltre tre minuti, prima che la voce tornasse a rivolgersi a lei:
« Chiamo la polizia se non si allontana immediatamente! »
Il tono era pericolosamente cambiato, facendosi acuto e minaccioso.
« L-la prego! E’ una questione importante! »
Non si aspettava una simile risposta ma a quel punto non le restava che la supplica.
« E’ una giornalista? »
« C-cosa? No, assolutamente! »
« Se ne vada!» tornò a ripetere la donna « mi disturbi un’altra volta e dovrà vedersela con la polizia »
« M-ma io »
 
« E te ne sei andata? »
« Che altro potevo fare, Nathaniel? Quella era così seria »
« Almeno sei sicura che fosse lei, quella Cosima? Magari si trattava di una domestica »
« Come faccio a esserne sicura? Non l’ho mai vista prima! »
Nathaniel si abbandonò contro lo schienale del divano, riflettendo sulla vicenda di cui era stato appena informato:
« Però in effetti è improbabile. Una donna di servizio non si azzarderebbe mai a prendere simili iniziative, a meno che non le siano già state impartite in passato… »
« Dici che non sono la prima a chiedere informazioni su Jack? »
« Non è da escludere, specie perché ti ha chiesto se fossi una giornalista. Magari in passato questo Jack è stato al centro di qualche scandalo in cui è stata coinvolta anche Cosima… e lei non intende riportare a galla quella faccenda » ragionò il ragazzo.
« Ha senso » convenne Sophia « però come vedi, io sono ad un punto morto »
Si alzò dal divano e, come il ragazzo poco prima, si servì della birra.
« Beh, è per questo che sono qua, no? » le sorrise lui.
Lei si limitò a rispondere con una smorfia analoga, senza tradire quanto la sua sola presenza in quella stanza, la facesse sentire più serena.
 
« E’ di secondo grado … » meditò Iris.
« Ah… potrebbe essere una parabola! » dedusse Erin vittoriosa.
« Ma va? » sbottò Castiel, tenendo in bilico la matita sulle labbra. Guardava annoiato le due studentesse, chine su formule la cui risoluzione, per lui, era fin troppo scontata.
« Senti un po’, se devi fare il saputello, allora meglio che te ne torni casa! » abbaiò la mora risentita. A completare il gruppo di studi, c’era un quarto elemento, stranamente silenzioso. Kentin infatti si massaggiò le tempie spazientito, in attesa dello scatenarsi dell’ennesimo battibecco tra i suoi amici.
Eppure quello doveva essere un pomeriggio tra lui ed Iris, trascorso insieme con la scusa dei compiti. Solo lui sapeva quanto coraggio gli fosse costato proporre alla rossa quell’incontro.
Contrariamente alle sue rosee aspettative, il loro duo era raddoppiato e in questo, tanto lui quanto Iris ne erano responsabili. Ci stava pensando giusto Castiel a ricordarne il motivo.
« Si da il caso, Travis, che io qui sia stato formalmente invitato » stava sottolineando il musicista, che aveva pranzato a casa dell’amico « mentre tu ti sei imbucata, approfittando di Iris »
« E’ stata Iris ad invitarmi »
« E con che titolo? Se anche fosse la ragazza di Affleck, mica può mettergli dentro gente a caso »
Prima che Erin potesse inalberarsi per quell’ultima affermazione, Kentin prese posizione:
« Piantatela o vi caccio fuori entrambi! »
Non appena aveva udito il campanello di casa sua, aveva quasi cacciato a calci Castiel dal divano, tra le parole di scherno del rosso.
Quando però aprirono la porta, i due non poterono non notare la presenza di un secondo elemento, Erin. Se quell’aggiunta inattesa era stata accolta con disappunto del padrone di casa, in Castiel si era trasformata in un pretesto per unirsi al trio di diligenti studenti.
« Io non capisco come tu faccia ad essere così portato per la matematica, Castiel » stava commentando Iris, di fronte all’ennesima equazione risolta a tempo record « nelle altre materie zoppichi un sacco »
Il rosso ignorò quel commento e s’isolò dai presenti, iniziando un gioco dal cellulare.
« Questo è uno dei tanti misteri di questo essere » borbottò Erin, tornando a concentrarsi sulla formula che aveva sotto il naso. Era frustrante per lei fissare quei numeri che apparivano per lo più come codici indecifrabili e non sapere neanche da che parte iniziare un ragionamento. La matematica la faceva sentire così stupida e poco perspicace, che non poteva contraddire il rosso quando la punzecchiava in tal senso. Il fatto che lui fosse il classico ragazzo svogliato ma intelligente, la faceva sentire così inferiore e inadeguata da convincersi sempre di più che mai Castiel l’avrebbe considerata abbastanza per lui. Abbastanza in un senso che fosse diverso dalla semplice amicizia.
« Il segreto, Iris è riconoscere i prodotti notevoli… »
Mentre Castiel era distratto dal cellulare, Kentin si era concentrato sulla rossa, guidandola step dopo step nello studio della funzione. Se non si fosse sentita abbandonata a sé stessa e svantaggiata, Erin avrebbe sorriso per quella premura. L’ex cadetto aveva la capacità di spiegare i concetti con dolcezza e chiarezza, senza far sentire la rossa stupida o inferiore. Iris infatti lo ascoltava con attenzione anche se, ad un certo punto, l’insegnante fu costretto a testare la sua concentrazione:
« Iris, mi stai ascoltando? »
Fu allora che lei sbattè gli occhi, come risvegliatasi ed Erin si accorse che, fino a quel momento, l’amica aveva fissato le labbra di Kentin con un’espressione trasognante e distratta. Si chiese se pure a lei capitava di imbambolarsi tanto per il rosso accanto a lei, ma si augurò che non fosse così palese agli occhi altrui.
Ritornò a guardare il proprio quaderno e, grattandosi nervosamente la sommità del capo, cercò di fare del suo meglio per arrivare a una conclusione.
Di certo, non avrebbe chiesto aiuto a Castiel e alla sua arroganza. Si divertiva troppo a farla sentire sbagliata e, in quel campo, era troppo permalosa e insicura per esibire la sua vulnerabilità:
« Volete qualcosa da bere? Avete fame? »
Quella proposta di Kentin venne accolta all’istante, tanto che Iris si offrì di seguirlo in cucina. Erin però non aveva sollevato gli occhi dal foglio, in cui quei strani simboli continuavano a fissarla minacciosi.
« Sai perché capisco la matematica? »
Quell’incipit l’aveva già indisposta. Aveva già formulato tre risposte possibili, Castiel doveva solo scegliere quale preferisse:
Perché a differenza tua, io ho un cervello.
Perché sono un uomo, mentre tu, in quanto donna, hai i tuoi limiti.
Perché è per pochi eletti.
Stava per zittirlo quando lui completò:
« Perché la musica è matematica »
A seguito di quell’affermazione, non solo lei rimase spiazzata, ma iniziò ad ascoltarlo con un’attenzione diversa. L’amico infatti aveva spento quell’espressione canzonatoria che altrimenti l’avrebbe irritata e le parlava con calma e tenerezza:
« Sin da quando ho iniziato a studiare il pentagramma, mi è stato spiegato lo stretto rapporto tra musica e matematica. E’ stato Pitagora il primo a intuire i rapporti numerici tra le frequenze e tramite questi, costruì la prima scala musicale. Dopo di lui, molti altri hanno approfondito la questione, non solo matematici. Leibnitz per esempio, diceva che la musica è il piacere che la mente umana prova quando conta senza essere conscia di contare »
Erin strinse i pugni sotto il tavolo, mentre il suo cuore partiva a battere all’impazzata. Era combattuta tra il desiderio di continuare ad ascoltare quelle parole appassionate e la voglia pulsante di baciare la bocca che le pronunciava. Perché un Castiel così appassionato e sentimentale, non l’aveva ancora sentito.
La sua dedizione per la musica rientrava tra i pregi per cui lei aveva finito per innamorarsi di lui.
Non poteva non ammirare la devozione che il ragazzo provava per la musica, lo scintillio dei suoi occhi quando aveva tra le mani una chitarra o quando era chino a comporre dei pentagrammi durante le lezioni.
Era irresistibile, come solo chi trova il senso della propria anima, può essere.
« Ma la parte migliore secondo me rimane che, se la musica è matematica, la matematica non basta a spiegare la musica » le sorrise, tracciando una chiave di sol.
Era d’accordo. La musica era un’arte sublime, frutto dell’anima dell’uomo. Qualcosa che non poteva semplicemente ridursi a equazioni e numeri.
La musica rappresentava l’anello di congiunzione tra lei e il rosso, perché era grazie alla canzone degli Skillet che quel venerdì sera di sei mesi prima, Erin e Castiel si erano definitivamente avvicinati. Era quando lei lo vedeva assorto comporre musica che, nei primi tempi si era ritrovata a pensare:
« Beh, in fondo Ariel non è male »
Era quando la musica aveva deciso di portarglielo via, dall’altra parte del mondo, che lei si era resa conto quanto le sarebbe mancato.
Quanto, da sempre, fosse innamorata di lui.
« Ho solo aranciata »
Il tintinnio dei bicchieri la destò dalle sue riflessioni, mentre Kentin distribuiva la bevanda.
Castiel tornò a guardare il suo cellulare, come se nulla fosse e a Erin non rimase che dissetarsi nel tentativo di accantonare i pensieri che si arrovellavano in lei.
 
« Io dico che non ce la fai… »
Sophia osservava con espressione annoiata e cinica, il tentativo di Nathaniel di arrampicarsi sul ramo di una quercia.
 « Quindi stai suggerendo di lasciarlo qui? » ansimò il ragazzo, spingendosi sulle gambe.
A rispondergli fu un miagolio supplicante, per certi versi umano, che fece sorridere il soccorritore:
« Lo vedi, Travis? Quel gattino ha bisogno di me »
Sophia fece spallucce e replicò:
« In qualche modo c’è salito da solo, vedrai che verrà giù senza problemi »
« Ma se sta miagolando spaventato da dieci minuti! » obiettò Nathaniel, trovandosi abbracciato al tronco e con un piede sul ramo più basso.
« Non hai considerato che sia tu a terrorizzarlo? »
Il biondo sbattè gli occhi perplesso e poi esclamò:
« Tu dici? »
Sophia si alzò in piedi, affondando le mani nelle tasche:
« Smettila di giocare a fare Spiderman e allontanati »
Il ragazzo esitò qualche secondo, prima di assecondare quella richiesta. Con una cautela che avrebbe potuto essere maggiore, balzò giù dall’albero, rischiando di ruzzolare a terra. Seguì la rossa, distanziandosi dalla bestiola che, dopo un po’, camminò in perfetto equilibrio sul ramo e saltò giù con sicurezza.
« Come facevi a saperlo? »
« Che cosa? »
« Che non aveva bisogno di una mano a scendere »
Sophia s’incamminò in silenzio, esasperando Nathaniel per la sua laconicità.
Fino a poche ore prima, erano seduti nel soggiorno della ragazza a ragionare sul mistero di Mackenzie. Poi, le aveva proposto una passeggiata nel parco, nel corso della quale aveva ricevuto una telefonata da Rosalya. La ragazza era euforica all’idea che entro un paio di giorni lui sarebbe rientrato a Morristown.
Il sogno di tutti, di ricostruire il gruppo che era andato disintegrandosi con l’intervento di Debrah, si stava per realizzare. Basta pranzi e uscite separati. A scuola tutti avrebbero potuto ammirare il ritorno del club dei disadattati, in versione migliorata.
Anche Nathaniel tratteneva a stento la gioia di tornare a scherzare con Castiel, discutere con Lysandre come se nulla tra di loro fosse accaduto.
« Non tutti quelli che sono in difficoltà vogliono essere salvati, Daniels »
Era talmente assorto, da essersi dimenticato della presenza della ragazza accanto a lui.
Quasi si infastidì per la piega amara della sua voce, che guastava tutta l’allegria che gli aveva migliorato la giornata.
« La vita non è un cazzo di fumetto in cui aspetti che arrivi il supereroe. Devi essere tu il supereroe di te stesso »
Per quanto fosse infantile da parte sua, in quella circostanza Sophia non riusciva a comportarsi diversamente. C’era stata quella telefonata, quel sorriso innamorato che aveva attraversato il viso del biondo quando aveva letto il nome della sua ragazza sul display.
In lei era così riaffiorato il rimpianto per un amore che doveva stroncare sul nascere.
Aveva pronunciato quelle parole con una solennità eccessiva, quasi melodrammatica che lasciarono confuso il ragazzo.  Sophia era così imprevedibile e incomprensibile per lui. Alternava stati di euforia e gioia, a momenti di silenzio e depressione. Non la capiva e, forse proprio per questo, era sempre più affascinato dal dualismo della sua personalità.
« Non capisco perché sei così pessimista, Sophia… hai l’amarezza di una vecchia bisbetica »
Continuavano a camminare, abbandonando il parco e spostandosi verso il centro città.
« A me sorprende il fatto che tu non la pensi come me…  eh sì che ne hai di motivi per avercela con il mondo » ribattè lei.
« Ce l’ho con i miei, questo sì, ma non per questo posso avvelenarmi l’esistenza » chiarì Nathaniel « tu invece hai una famiglia meravigliosa eppure continui a lamentarti della vita »
Passò loro accanto una coppia della loro stessa età, tenendosi per mano. La ragazza urtò inavvertitamente Sophia, scusandosi prontamente, ma la rossa quasi non replicò.
In una strada così affollata e caotica, si sentiva sola.
Lei non era abbastanza forse da sopportare ancora quella solitudine.
Non c’era più Erin nella sua vita e la consapevolezza che mai ci sarebbe stato un ragazzo come Nathaniel, era abbastanza per convincerla del vuoto della sua esistenza.
« Quando hai il prossimo controllo? »
Quella domanda la spiazzò.
Era uscita dalla bocca di Nathaniel di punto in bianco.
Cercò di ricordare di cosa stessero parlando pochi istanti prima che si perdesse nei suoi pensieri, ma ne ricavò solo un’espressione inebetita con cui fissarlo:
« Per il cuore… quando hai la visita? » tornò a ripetere lui.
Il gelo le penetrò le ossa, per la serietà con cui la stava fissando.
Voleva rispondergli di farsi i fatti suoi, ma scattare sulla difensiva non era il modo migliore per sottrarsi da quella domanda.
« Non mi ricordo… » replicò con finta non curanza.
Si sentì LLORA strattonare il polso e, con violenza, il ragazzo la costrinse a guardarlo in faccia:
« Smettila con questo teatrino! Se c’è qualcosa che ti angoscia devi dirmelo! »
« Non ti devo un bel niente! » lo rimbeccò, trovando finalmente la rabbia per rispondergli.
« E’ per via del tuo cuore che ultimamente sei così strana? »
Lei sentì una stretta in quell’organo che era appena stato nominato.
Sì, era per il suo cuore che era così in ansia, sia in senso metaforico che fisico.
Soffriva all’idea che Nathaniel partisse e la lasciasse sola per sempre.
Soffriva, per colpa di quelle strane fitte dolorose che talvolta la colpivano.
Era troppo codarda ed incosciente per decidersi ad approfondire la natura di quei sintomi.
Essi avevano fatto subentrare l’urgenza di trovare Jack e un modo per raccontare tutto ad Erin.
Stava ormai arrivando il momento di passarle il testimone e lasciare che fosse lei a concludere l’indagine che aveva iniziato?
« So che hai saltato gli ultimi controlli e il dottor Wright è preoccupato »
Se il chirurgo era preoccupato, Sophia era terrorizzata. Ad ogni frase di Nathaniel sentiva crescere la sua ansia.
E la frequenza di battiti cardiaci.
« E’ la mia vita, faccio quello che mi pare! » sbraitò, ma per quanta ira sentisse in corpo, la voce le uscì strozzata. Non doveva agitarsi, le forti emozioni la destabilizzavano troppo e di certo non voleva crollare davanti al biondo.
« ‘Fanculo! Ne ho piene le scatole del tuo egoismo! »
Egoista.
Anche Erin le aveva sputato in faccia quell’accusa.
« Cosa c’è di così egoista nel voler tenere tutte le proprie lacrime per sé? Io voglio solo che mi lasci in pace! Che la smetti di recitare la parte del salvatore, del principe che arriva in mio soccorso… non sono la tua principessa, non sono la principessa di nessuno, Nate! »
Lui sgranò gli occhi.
Raramente l’aveva chiamato per nome e di certo, mai con quel soprannome che solo una persona si concedeva l’onore di usare.
La persona di cui era innamorato.
Non poteva vedere né sentire quanto il battito di Sophia fosse accelerato all’improvviso.
Il petto si gonfiava ed abbassava troppo rapidamente. Stava incamerando un’eccessiva quantità di ossigeno, ma non riusciva a regolarizzare il respiro.
Nathaniel le stava urlando contro qualcosa, ma lei sentiva solo un fischio acuto trapanarle i timpani.
Poi una fitta.
Un dolore in pieno petto, lancinante e incontenibile.
Mai così forte.
I raggi del sole erano diventati improvvisamente accecanti, ma non voleva chiudere gli occhi. Non ancora almeno.
Una volta aveva letto che, quando stiamo per lasciare questo mondo, veniamo investiti da una sorta di pace mistica, una sensazione indescrivibile che fa passare in secondo piano il terrore della morte. Era questa la testimonianza di un ragazzo che aveva rischiato di affogare. Aveva sempre tratto una sorta di consolazione da quel racconto e ora ne aveva la conferma.
I sensi si erano annebbiati, non avvertiva più il fischio nelle orecchie e ormai anche le palpebre si erano abbassate sui suoi occhi vitrei.
Solo il tatto era ancora in allerta.  Il tocco di una mano calda, sul suo viso, la fece sorridere felice, con la consapevolezza che almeno, nella sua mente, l’ultima immagine impressa sarebbe stata quella del ragazzo che aveva amato più di ogni altro.
« Mi dispiace, Erin… ora tocca a te »
 
« Erin, muoviti »
La mora si era bloccata nel bel mezzo del cortile, senza che nulla avesse realmente destato la sua attenzione.
Il tono seccato con cui Castiel la invitava a seguirlo non bastò a scostarla, almeno non immediatamente.
Un brivido l’aveva percorsa da parte a parte, paralizzandola.
« Che ti prende? » sospirò lui, perplesso. Avevano prolungato fin troppo la pausa pranzo, a causa delle numerose novità sulle quali dovevano essere aggiornati i loro amici. L’allenamento di basket era già iniziato, eppure lei si concedeva il lusso di prendersela comoda.
La vide scuotere il capo, confusa.
« Niente… non so »
« Andiamo, avranno già iniziato a scaldarsi »
 
Nathaniel camminava nervosamente lungo i corridoi da due ore.
Non lo avrebbero lasciato entrare in terapia intensiva, finché le condizioni di Sophia non si fossero stabilizzate. Nessuno era ancora venuto a cercarlo.
« Sei il suo ragazzo? » gli aveva chiesto un’infermiera, mentre cercava di calmarlo.
Forse se avesse mentito, avrebbero avuto più tatto nel comunicargli quanto fosse grave la situazione.
Non era la prima volta che la vita di Sophia era appesa ad un filo. Gli sembrò paradossale che appena quattro mesi prima, lui si trovasse a pochi metri da lei, dopo aver accompagnato Ambra all’ospedale e che per lui l’amica di sua sorella, fosse una perfetta sconosciuta.
Ora invece era il suo turno di restare in pena, logorato dall’angoscia di non scorgere mai più quel sorriso un po’ arrogante ma spontaneo che lo stuzzicava. Rivedeva con nitidezza i capelli rossi, che emanavano un profumo misto di vaniglia e tabacco e che avrebbe voluto accarezzare per la prima volta.
Lei era letteralmente piombata nella sua vita, scontrandosi con lui a tutta velocità il giorno del suo arrivo a San Francisco.
 
« Uff, ti pare che devo ancora cadere come una bimba di cinque anni »
 
Aveva farfugliato quella frase tra sé e sé, prima di rifiutare sgarbatamente, l’aiuto che lui le offriva:
 
« Ce la faccio da sola, biondino »
 
Di questo era sempre stata convinta, allora come quel giorno in cui il suo cuore aveva ceduto.
Era stato impotente, di fronte al fiero orgoglio con cui lei aveva cercato di tenerlo al di fuori dei suoi problemi. Si era costruita una corazza, ma solo in quel momento Nathaniel realizzava quante crepe vi fossero sulla sua superficie. Sapeva che Sophia fosse più fragile di quanto lei stessa credesse, e per questo, non poteva perdonarsi di non essere riuscito a starle accanto.
Poteva fare d meglio.
Poteva cercarla di più e non aspettare che fosse il caso a metterla sulla sua strada.
Perché, sin da subito, nonostante fosse una persona arrogante e per certi versi, scorbutica, Sophia l’aveva colpito per la sua discrezione, per la capacità di farsi da parte e rispettare i silenzi altrui. Non aveva mai insistito perché lui le raccontasse della sua famiglia, di Ambra, ma non per questo, aveva mostrato del disinteresse. Era la prima a farsi avanti per difendere la bionda, motivo per il quale inizialmente non aveva accettato la presenza di Nathaniel, da lei ritenuto corresponsabile della sofferenza passata dell’amica.
Sophia era una persona generosa e sensibile, ma preferiva celare i propri pregi, ricordandogli dannatamente il suo migliore amico, Castiel.
Non aveva esitato un secondo, prima di buttarsi nell’oceano a soccorrere quel bambino che stava affogando. Non aveva pensato minimamente al cuore, già provato da un delicato intervento chirurgico. Sophia era un’incosciente, che in nome di un altruismo ben nascosto, finiva per agire d’impulso. Non rifletteva mai abbastanza sulle conseguenze delle sue azioni, si limitava ad agire spinta da un suo personale e rigoroso senso di giustizia.
Come quel salvataggio nell’oceano.
Nonostante il freddo che gli era penetrato nelle ossa, a seguito di quel bagno improvvisato, Nathaniel aveva sentito scaldarsi il cuore, non appena lei gli aveva sorriso con gratitudine. L’aveva fissato con una dolcezza che non le aveva visto prima e che, solo allora, capì quanto potesse essere rivelatrice.
 
« lo sai, per certi versi mi ricordi qualcuno… » commentò.          
« Erin? » replicò sarcastica la gemella, notando il risolino sulle labbra del ragazzo. Il biondo la fissò per un attimo con intensità, facendola trasalire e rispose sibillino:               
« no, tua sorella mai. Non so perché, ma non riesco a guardare te e vedere lei »                                                                           

Ed era così.
Per quanto tra le due vi dovesse essere un’impressionante somiglianza somatica, mai Nathaniel le aveva confuse. Anzi. Iniziò a farsi strada in lui quel tarlo che, da settimane, cercava di soffocare.
Si era infatuato di Erin, quando questa cercava di emulare il comportamento di Sophia ed era proprio nei modi un po’ arroganti e impulsivi della mora che Nathaniel aveva scoperto i lati più affascinanti della sua personalità. Ma quella non era Erin.
Erin era una ragazza dolce, per certi versi insicura, ma straordinariamente forte quando tutto attorno a sé andava in pezzi. Era la persona di cui si era, gradualmente e irreversibilmente, innamorato Castiel, non appena nella mora era emersa sempre più la sua vera personalità.
Lui invece, Nathaniel, aveva solo assistito al crescere della complicità tra i due, scoprendo che pure i suoi sentimenti per Erin si erano intiepiditi.
Non era più la persona che l’aveva stregato.
In Sophia, quegli aspetti per lui così carismatici, erano elevati all’ennesima potenza e si sentì un ingenuo a non averlo mai ammesso prima.
 
« invece io… » proseguiva Nathaniel « è come se avessi vissuto finora con il freno a mano tirato, cercando di premere l’acceleratore a tavoletta nel tentativo di raggiungere Castiel »
« diciamo che mentre lui andava via in moto, tu pedalavi su una cyclette » mormorò d’un tratto Sophia con serietà.

 
Lei riusciva a farlo ridere, come mai nessun’altra prima di allora. Le bastava una frase per provocarlo, un gesto per irretirlo, una smorfia per stuzzicarlo.
Persino quando non faceva nulla, quando scollegava la mente dal mondo reale e si perdeva nei propri pensieri, lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
Come quell’alba che avevano condiviso insieme, sulla spiaggia.
Quel giorno ne era scaturita una stimolante conversazione tra di loro, sul significato dell’amore e di come esso venga ricercato tra le persone.
Fu allora che gli tornò in mente Rachel.
L’aveva scelta perché si sentiva così affine alla personalità di lei, avvertiva una complicità che solo due anime affini potevano condividere. Ma non era bastato, mancava qualcosa al loro rapporto e, chissà perché, da quella relazione sbagliata ne era seguita una seconda, ancora meno azzeccata, quella con Melody.
 
« Cercare l’amore è come fare un puzzle » gli aveva detto un giorno Lysandre « alcuni prendono in considerazione solo le tessere più simili per iniziare a costruire un disegno »
 
Quella strategia tuttavia, si era rivelata fallimentare per il suo caso.
 
« … altri invece sono alla ricerca della tessera complementare, non si preoccupano che abbia un disegno simile, ma che sia sufficientemente diversa da potersi incastrare alla perfezione … »
 
E così era stato con Rosalya.
L’aveva aspettata così tanto, così a lungo.
Rosalya White era il fulcro delle sue emozioni, un concentrato di sensazioni che aveva sempre dovuto sopprimere. Lei era totalmente e straordinariamente diversa da lui.
Era un’energia impulsiva, mai controllata ma da lui controllabile.
Era tenere l’acceleratore a tavoletta, con la musica al massimo e l’oceano a lato. Fu proprio l’immagine delle onde a rievocare in lui la scena di quel mattino di marzo, sulla spiaggia con Sophia accanto.
 
« … ed infine, c’è quella tessera che rimane sempre in disparte, quella che continui a scartare perché sei convinto che non c’entri nulla con quello di cui hai bisogno ma alla fine, dopo aver provato tante combinazioni sbagliate, capisci che era proprio quello il tassello giusto »
 
« Cip! Occhio! »
La ragazza si voltò, appena in tempo per ricevere una pallonata in faccia.
« Non cambierai mai, eh? » ridacchiò Castiel, andandole incontro.
La ragazza però non lo calcolò e continuò a restare assorta nei suoi pensieri.
« Si può sapere che hai? E’ tutto il pomeriggio che hai la testa tra le nuvole »
La cestista fece spallucce e borbottò:
« Non so… ho una strana sensazione »
« Stai male? » intervenne Dajan, allontanandosi dal canestro.
« No, io no » farfugliò. Non avrebbe saputo spiegare ai ragazzi cosa fosse quella spiacevole percezione, finchè una parola le fiorì sulle labbra:
« Inquietudine »
« Erin, sei sicura che stai bene? » tornò a domandarle Castiel. Trasparì una leggera tensione in quella domanda, che non sfuggì a nessuno dei presenti tranne alla distratta mora.
« Io ora mi preoccupo per entrambi, se ti sento ancora chiamarla per nome »s’intromise Trevor, divertito.
Erin però non reagiva. Era inerme e passiva.
« Esco un attimo » annunciò infine.
Anche se li aveva informati delle sue intenzioni, era come se fosse sola.
Non riusciva a concentrarsi su qualcosa di diverso che fosse quel malessere che aumentava di minuto in minuto.
Non era ancora uscita dalla palestra che Boris, dal bordo campo, ordinò:
« Castiel, va’ con lei »
Il rosso però stava già accorciando la distanza tra lui e l’amica, poichè annunciò:
« Non serve che me lo dici … quella lì è capace di prendere sonno in piedi »
« Sia mai che tu obbedisca agli ordini di qualcuno, piccolo Mozart » lo canzonò e, appena il rosso si chiuse la porta alle spalle, aggiunse tra sé e sé « … o che tu ammetta di preoccuparti per la nostra Cip »
Una volta all’esterno, Castiel non ci mise molto ad individuare Erin, che si era accasciata al suolo. Teneva le gambe piegate davanti al petto, guardando fissa davanti a sé.
La divisa, troppo larga sul taglio della canotta, lasciava intravedere tutto il profilo del reggiseno sportivo, facendola apparire ancora più minuta e fragile.
Il cestista si accucciò davanti a lei, sussurrandole con quanta più fermezza gli consentisse l’ansia che cercava di celare. Quando si trattava di lei, il suo autocontrollo era sempre fuori servizio.
« Sul serio, sto iniziando a preoccuparmi. Che ti prende? Un calo di pressione? »
Percepire finalmente la tensione del ragazzo, sembrò destare la fonte di tali emozioni, poiché Erin reagì:
« Ho una bruttissima sensazione, Castiel » ripetè, guardandolo confusa.
I suoi occhi erano più espressivi del solito, costringendolo ad abbassare lo sguardo per non annegare in quella dolcezza.
« Non riesco a capire cosa sia. C’è qualcosa che tutt’ad un tratto ha iniziato ad angosciarmi e non capisco cosa sia »
« Ma tu stai bene? »
« S-sì, sì » borbottò lei.
Lo vide rilassare le spalle ed emettere un flebile sospiro.
« E’ come quando ti svegli dopo un incubo » tornò a spiegarsi lei  « ti rimane quella sensazione bruttissima finché realizzi che è scaturita da ciò che hai visto nel sonno e che non è reale »
« Allora non ti resta che aspettare che passi » minimizzò lui, senza cambiare posizione.
« E se non passasse? »
« Che intendi? »
« E se l’incubo fosse la realtà? »
 
Non poteva trovarsi in quella situazione.
Non lui, che per anni non aveva fatto altro che pensare a Rosalya, l’unica donna che avesse mai amato.
I pensieri che lo stavano investendo non potevano essere autentici.
Erano frutto di quella drammatica circostanza, in cui Sophia stava lottando per la vita.
Non poteva essersi innamorato di lei, sorella della sua ex e migliore amica di sua sorella. Sembrava quasi un gioco di parole.
Lei non aveva nulla a che fare con il suo tipo di donna ideale: si muoveva con goffaggine, ma ciononostante Nathaniel si sorprese a sorridere per il suo incedere così maschile e incurante dell’etichetta. Sophia non lo trattava con l’educata diffidenza dei liceali che si rapportavano a lui in quanto delegato, anzi finiva spesso per battibeccare, lasciando emergere il lato più provocatorio di entrambi. In un paio di occasioni, dopo un pranzo lauto e abbondante, le capitava di lasciarsi sfuggire un’eruttazione ma, anziché provare vergogna e pudore, sorrideva birichina e scrollava le spalle.
Non si curava di avere i capelli in disordine, dopo una giornata a giocare a beach-volley. Le bastava dar loro una vaga forma, scompigliandoli a caso e lasciando che il vento annullasse ogni suo tentativo di darsi un’aria più femminile. Tendeva a sbuffare più e più volte, prima di decidersi a spostare manualmente il solito ciuffo che le arrivava fino al naso. Increspava le labbra ogni volta che frugava in borsa, cercando le sigarette, per poi ricordarsi che quel vizio le era stato tassativamente proibito dai medici.
Si grattava il sopracciglio destro, partendo dall’angolo esterno, quando non sapeva come ribattere ad una conversazione o quando si sentiva con le spalle al muro.
Poteva passare minuti interi a curare maniacalmente un dettaglio sul foglio da disegno, cancellandolo e rifacendolo più e più volte prima di essere, solo parzialmente, soddisfatta.
Quando disegnava, aveva sempre la testa leggermente inclinata, ogni tanto si scostava i capelli, come se volesse appoggiare una chioma lunga ed invisibile sulla spalla, gesto dettato dall’abitudine di quando i suoi capelli erano lunghi come quelli di Erin.
Aveva quell’aria costantemente allegra e viva, come se nella sua via non esistessero dolori o per lo meno, lei fosse al di sopra di essi, troppo forte per lasciarsi vincere dallo sconforto che assale le persone comuni.
Era una maschera, Nathaniel l’aveva sempre saputo, ma solo allora vide in essa un aspetto così intrigante e misterioso che lo affascinò: Sophia era una persona che adorava la compagnia ma non quanto la solitudine, era contradditoria e convinta di essere un’eccezione a tutto.
 
« io allora devo essere la tessera che è finita sotto i cuscini del divano e che non potrà entrare mai a far parte del puzzle »
 
E quella sua convinzione che il destino si fosse dimenticato di lei, della sua felicità, relegandola in un angolo di indifferenza sentimentale.
Gli aveva sussurrato tutta la sua amara rassegnazione e lui, anziché tendere l’orecchio per percepire appieno quel lamento, si era voltato dall’altra parte, con considerazioni superficiali e di poco conto.
Tutto di lei l’aveva colpito.
Ogni dettaglio del suo meraviglioso essere lei.
Come poteva accorgersene solo quando le circostanze lo stavano mettendo alle strette?
Quando poteva essere troppo tardi.
 
« Una ragazza così giovane »
Si voltò di scatto.
L’infermiera che aveva cercato di rincuorarlo.
 
Non poteva essere.
 
No.
 
No.
 
Nella sua testa quel monosillabo cominciò a vorticare all’impazzata, rendendolo quasi sordo al resto di quella conversazione ascoltata per caso.
Iniziò a tremare convulsamente, prima ancora che la seconda infermiera replicasse alla prima che aveva parlato:
« Lo so Mary, ma vedrai che con l’esperienza imparerai a sopportare questa sofferenza. So che è dura, è il primo vero lutto che vivi in questo ospedale, ma è anche a noi che si appoggiano le famiglie dei pazienti. Devi farti forza »
 
Era troppo tardi.
 
« Come si può morire per arresto cardiaco a quell’età? » tornò a singhiozzare l’altra.
 
Sophia non c’era più.
 
« Ho la tachicardia »
« C-che? »
Erin era bianca.
Istintivamente Castiel osò toccarle il collo e, oltre al tatto di una pelle gelida, si unì la consapevolezza che il cuore della ragazza era fuori controllo.
Aveva lo sguardo perso, davanti a sé, un’espressione che gli ricordò quella di oltre tre mesi prima, quando aveva scoperto che lui se ne sarebbe volato in Germania.
Stava per dirle qualcosa, allarmato, quando si sentì stringere la mano:
« Ti prego… » lo supplicò con voce flebile « non lasciarmi sola, adesso »
 
Mai in vita sua, Nathaniel ricordava di aver provato un dolore più forte.
Gli mancava il respiro, tanto da fargli male il petto.
Non riusciva a pensare a niente, che non fosse quel viso che non avrebbe più visto sorridere.
Non poteva lasciarli tutti così.
Non poteva lasciarlo così.
Persone come lei, di cui non riusciva più a pronunciare il nome, non potevano concedersi il lusso di uscire dalle vite altrui, dopo averle illuminate con la loro allegria.
Cominciò a pensare così a sua sorella, ad Erin. Non avrebbero sopportato quel lutto.
Lei non poteva andarsene con il mistero del quadro, lasciando alla sorella il compito di districare quel segreto.
E pensò a se stesso.
A quanto avrebbe voluto abbracciarla. Al bisogno di scoprire cosa avrebbe provato a stringerla tra le sue braccia.
« Oddio sei irrecuperabile Dora! »
Gli sembrava ancora di sentire la sua voce, così nitida.
Troppo nitida.
Nathaniel alzò meccanicamente il viso, rigato di lacrime.
Fu allora che il sorriso beffardo di Sophia si dileguò immediatamente e lo rimpiazzò con un’espressione incredula: Nathaniel le era balzato incontro, stringendola a sé.
Non era solo un abbraccio di sollievo.
Non osò sperarlo, ma c’era della passione nella foga con cui lui le impediva di muovere un singolo muscolo.
« N-Nathaniel? »
Sentiva il cuore di lui sfracellarsi contro il suo petto, al punto da sincronizzarsi con il proprio.
« La tessera… »
La ragazza aggrottò la fronte, confusa.
« Che tessera? »
« Sei la mia tessera! »
« Ok… » miagolò Sophia sempre più confusa.
Il biondo non scioglieva l’abbraccio e lei si sentiva incredibilmente goffa in quella particolare situazione « onestamente non so se sono io ancora rincoglionita o tu ubriaco »
Si guardò attorno, sentendo crescere il proprio disagio e confusione. C’erano pazienti che li osservavano, alcuni divertiti, altri semplicemente incuriositi.
« Senti io direi che- » tentò di dire ma lui la interruppe.
La fermò senza emettere alcun suono, ma posandole delicatamente il polliche sulle labbra.
« Io ci ho messo troppo a capire, però ti prego, non rendermi tutto più difficile » le sussurrò colpevole.
Lei lo fissava inebetita, senza staccargli gli occhi di dosso neanche per un istante.
Voleva dire qualcosa, ma ogni parola o gesto le sembrava inopportuno e inutile.
Forse non era il cuore ad aver subito dei danni, ma il suo cervello, della cui integrità e fnzionalità aveva sempre nutrito qualche dubbio. Non era possibile, si rifiutava tassativamente di illudersi di non aver frainteso quella chimica.
Nathaniel le sfiorò il dorso della mano con l’indice, senza proferire alcun verbo.
Lo lasciò fare, anche se quella delicatezza era difficile da sopportare.
« Scusa… » mormorò lui, senza guardarla.
« P-per cosa? » inghiottì senza capire.
« Per non aver capito prima »
« Che cosa? »
Si sentiva stupida per la monotonia delle sue domande, ma doveva far chiarezza.
Nathaniel aveva compreso tutto, lei invece era sempre più scombussolata.
« Che sei la persona che ho cercato per tutta la vita »
Le ci volle qualche secondo per metabolizzare il senso di quella frase.
Appena le sembrò di aver colto la portata di quell’affermazione, era già troppo tardi: sentì un tocco caldo e delicato di labbra posarsi sulle sue.
Una sensazione avvolgente, che la capovolse interiormente. Chiuse gli occhi, beandosi di quel momento così magico.
Era talmente felice che non riusciva a capire perché non avesse provato ad accelerare i tempi, perché non si fosse fatta avanti prima.
Poi un flash, un’immagine.
Si scostò bruscamente, lasciando alquanto interdetto il ragazzo.
« Non possiamo… » bisbigliò amara e colpevole.
E solo allora anche Nathaniel sembrò ricordarsene.
Era talmente preso dai suoi sentimenti per Sophia, da aver dimenticato quelli per la donna che aveva amato fino a quel momento.
Rosalya.
Il solo pensare al suo nome, faceva crescere in lui l’angoscia.
« E’ un sbaglio…io sono uno sbaglio… un errore » mormorò Sophia mestamente.
Non poteva sopportare di vederla così.
Aveva ricambiato quel bacio, non si era sottratta. Lo voleva quanto lui.
Fu per questo che, accantonando la razionalità che era parte integrante del suo essere, le mormorò:
« Sei l’errore più giusto che abbia mai fatto »
 
Un gemito di sofferenza e fastidio scappò dalle sue labbra, seguito inevitabilmente da un’imprecazione. Rosalya scostò il dito scottato e lo umettò con la lingua, cercando sollievo nella saliva. La vecchia presina era una protezione insufficiente tra la sua pelle delicata e le griglie roventi del forno.
« La tua buona volontà è ammirevole, Rosalya … » commentò la voce familiare di suo fratello « … ma permettimi di avere qualche perplessità sul risultato finale »
La cucina era un disastro: i gusci vuoti di un’intera dozzina di uova erano accatastati gli uni sugli altri e nuvole di farina aleggiavano nell’aria e sulle guance della ragazza.
« E’ per questo che sto facendo le prove » replicò pazientemente la cuoca « voglio che Nathaniel arrivi per lo meno a deglutire i miei biscotti, se non addirittura ad apprezzarli »
Il ragazzo sorrise leggermente e tornò alla lettura del suo libro, interrotta dal profumo invitante che si era diffuso nella stanza poco prima. Era un dolce spettacolo vedere il viso della sorella imbiancato di farina e i capelli arruffati in una crocchia disordinata. In quella casalinga pasticciona, c’era ben poco della Rosalya che i più conoscevano, ma c’era molto della ragazza dolce e innamorata di Nathaniel Daniels.
 
Erin si era alzata in silenzio, lasciando la presa. Il suo viso non tradiva alcuna emozione ma se non altro, aveva riacquisito una carnagione normale e il respiro sembrava essersi normalizzato.
Castiel l’aveva fissata senza parlare.
Lei aveva cercato la sua mano, la sua vicinanza, lasciandolo confuso. Stava proprio per chiedere chiarimenti, quando una voce fece sobbalzare entrambi:
« Inammissibile! »
Il suono di quei tacchetti era inconfondibile, ogni studente del Dolce Amoris aveva imparato a riconoscerlo.
« Professor Faraize! Come ha potuto consentire a quattro sconosciuti, dico ben quattro, di entrare nell’istituto? » sbraitava la preside, agitando le braccia all’aria.
Il pover’uomo, che seguiva a debita distanza teneva il capo chino e cercava di mangiucchiarsi delle giustificazioni poco convincenti.
« Potrebbero essere degli eroinomani, per quello che ne sappiamo! » continuava ad inveire la donna.
« L-lo escludo »
« Sulla base di cosa? E poi con gli studenti impegnati nei club, sarà molto più difficile capire chi sono e cosa sono venuti a fare! »
L’uomo non sapeva più come rabbonire la furia dell’anziana, finchè non venne loro incontro Miss Joplin. La donna dapprima fissò interrogativa Erin e Castiel, chiedendo ai due ragazzi cosa avessero combinato:
« Lasci stare Castiel, Miss Joplin! Per una volta quel teppistello non ha fatto nulla! » sbraitò la preside, facendo trasalire la scienziata.
Dopo quella pausa in compagnia dell’amico, Erin si sentiva meglio ma non per questo abbastanza lucida e reattiva da interessarsi alla scena. Quella spiacevole sensazione si era dileguata, ma non il leggero smarrimento che ne era derivato.
« Allora mi dica cosa sta succedendo » convenne Miss Joplin, conciliante « l’ho sentita urlare dalla sala professori »
« Una cosa gravissima! » asserì profetica Miss Swanson « il professore ha fatto entrare quattro estranei… dei tossici secondo me! »
Faraize emise un verso stizzito che, suo malgrado, non sfuggì alla più anziana del trio.
« Qualcosa da obiettare? »
« N-non erano dei tossici » miagolò l’uomo.
« Ah no? Non le hanno detto forse “stiamo cercando il giovane Mozart?” Se non è drogata gente del genere! »
Dopo aver annunciato quelle parole, la donna si allontanò a grandi passi, seguita dai due colleghi che cercavano di placare la sua furia e preoccupazione:
Fu allora che Erin notò l’amico rabbrividire.
Non loro.
Li adorava, ma non nella sua scuola.
« Cip, corri in palestra e dì a Boris che non mi sento bene » le ordinò Castiel serio.
La mora lo fissò interrogativa, ma lui insistette:
« Muoviti »
« Ma che ti prende? Sei diventato pallido »
« Adesso sono io ad avere una brutta sensazione… e so che è reale, molto r-»
« Mozart! »
Quella voce lo trapanò da parte a parte e, prima che potesse voltarsi, sentì il peso morto di Chester che gli saltava sulle spalle.
« L’ho trovato, Ace! » esultava vittorioso il vocalist.
Un ragazzo bellissimo, dagli intriganti occhi verdi, si stava avvicinando radioso.
« In compenso abbiamo perso Damien e Jun » ridacchiò « lo dicevo io che il nostro principino l’avremo trovato in palestra»
Nel dire quelle parole, Ace strattonò la guancia a Castiel, che si sottrasse immediatamente a quel gesto d’affetto.
« M-ma voi siete… » boccheggiò Erin incredula.
I Tenia.
I ragazzi per cui Castiel aveva mollato tutto e per più di due mesi, si era nascosto a Berlino.
« I tossici di cui parlava la preside» farfugliò Castiel, sgravandosi dal peso di Chester.
Ricevette una pacca sulla spalla da Ace, seguita da un abbraccio vigoroso.
« Cattivo cattivo! Te ne sei andato in quattro e quattr’otto. Non ci hai neanche lasciato organizzare il party di arrivederci »
Il rosso era abituato a quel modo di fare, fintamente infantile e superficiale. Ace si era sempre divertito a recitare la parte del ragazzo spensierato e un po’ sciocco ma, in quanto ex compagno di stanza, il compositore sapeva che era solo una copertura.
« Ne abbiamo organizzate anche troppe di feste, il mio stomaco deve ancora riprendersi » si lamentò.
L’unica ragazza presente fissava incuriosita quei nuovi arrivi, dimenticandosi completamente gli angusti pensieri che l’avevano assillata poco prima.
« Oh » si voltò d’un tratto Ace.  La fissò dritta negli occhi e annunciò: « finalmente ho l’onore di conoscere la famosa Erin di persona »
Aveva scostato Castiel con non curanza, chinandosi pericolosamente verso l’oggetto del suo interesse:
« Ci eravamo intravisti per Skype… » gli ricordò lei a disagio.
Ace era il ragazzo più bello che avesse mai visto. Nonostante la perfezione del suo viso, aveva pure un’espressione interessante e carismatica, che colpivano sin dalla prima occhiata.
« Sì, ma dal vivo fai tutt’altro effetto » ammiccò.
« Recuperare Damien e Jun, prima che saltino fuori problemi » grugnò Castiel, quasi frapponendosi trai due.
« Problemi? Mica ci studiamo qui! » rise Chester.
« Ma io sì, pelato, quindi vedete di sparire alla svelta »
« E’ così che si accoglie la tua famiglia adottiva? Abbiamo attraversato un oceano per te! »
« Tzè, manco l’aveste fatto a nuoto »
 
Damien aveva perso Jun.
Aveva cercato di trarlo a sé, ma quello era entrato nel piccolo teatro della scuola ignorando le proteste del moro. Quell’atteggiamento così rilassato aveva giocato a suo favore, perché una cinesina tutto pepe l’aveva trattato sin da subito come uno studente qualsiasi. Gli aveva scaricato con poca grazia una serie di stoffe, istruendolo circa la loro destinazione.
« Dalle a Rosalya » gli aveva ordinato senza guardarlo in faccia e indicando una ragazza a bordo del palco.
Jun aveva eseguito meccanicamente quei movimenti, finchè la sarta in questione si era accorta di lui.
Quella Rosalya l’aveva scrutato circospetta, prima di chiedergli:
« E tu da dove vieni? »
 « Da Berlino » ammise con candore, ma la stilista l’aveva liquidato dicendo di non aver tempo da perdere con battutacce. Si era così rimessa al lavoro e il batterista dei Tenia si era limitato a sedersi a bordo del palco.
Il sopracciglio di Damien aveva iniziato a traballare furiosamente, cercando di sopire l’istinto di urlare dietro al suo compagno.
Jun era strano, strano forte, ma quell’apatia e tranquillità con cui si muoveva in un contesto in cui non c’entrava nulla, lo mandava in bestia.
Dovevano trovare Castiel, fargli quella stupida sorpresa e andarsene. Non perdere tempo per i club di quel liceo.
« Rosalya in questi giorni è molto stressata, quindi cerca di non farla arrabbiare »
« Io? Ma se è lei che provoca di continuo! Fatalità, neanche con Castiel va d’accordo »
Nel sentire quel nome, il bassista si voltò verso le due figure in avvicinamento.
L’ultimo ad aver parlato era un ragazzo alto quanto lui, moro dal fisico muscoloso e tonico.
Intrigante, ma non il suo tipo. Il genere militare non l’aveva mai irretito.
Accanto a lui un liceale dalla fisicità molto diversa, più minuto e femmineo.
« Conoscete Castiel? »
Non si presentò, né si curò di scusarsi per aver interrotto la loro discussione.
« Sì » asserì Kentin, leggermente irritato proprio per quei modi sbrigativi.
« Dove lo trovo? »
Alexy avvertì quanto Kentin avesse iniziato ad irrigidirsi, così replicò frettolosamente:
« In palestra »
« Grazie al cazzo » farfugliò Damien « dove la trovo dunque? »
« Sul tetto » lo zittì Kentin asciutto. Quel tipo non solo li aveva interrotti senza alcun riguardo, ma pretendeva pure delle informazioni. Nemmeno Castiel era così sgarbato nei modi, almeno non con gli sconosciuti.
Damien gli aveva lanciato un’occhiataccia, prima di sbottare:
« Senti, vado di fretta e non ho tempo per tante smancerie. Ci fermiamo un’altra volta a sorseggiare te e pettinare le Barbie. Volete quindi dirmi dove trovo la palestra? »
A quel punto il moro stava per imprecare quando intervenne l’amico:
« Prendi quel corridoio, la trovi sulla destra »
Damien borbottò un grazie inudibile, mentre Kentin non si preoccupava di farsi sentire:
« Sei troppo buono, Alexy. Un cafone del genere lo mandi a fanculo, altro che indicazioni! »
L’amico sorrise e, per smorzare la tensione, aggiunse:
« Beh, poco importa. Ora è un problema di Castiel »
 
Nathaniel chiuse la valigia con una forza maggiore di quella effettivamente necessaria.
L’immagine delle labbra di Sophia gli apparirono all’istante, ma dovette cancellarle.
Cosa aveva fatto.
Si sedette sul letto, portandosi le mani tra i capelli.
Rosalya non se lo meritava.
La amava, continuava ad amarla… ma c’era Sophia.
Non poteva comparare sentimenti così freschi con quelli che albergavano nel suo cuore da anni.
Cosa doveva fare a quel punto?
Il doppio gioco?
Sophia avrebbe accettato quella situazione?
Aveva l’aereo per New York l’indomani, non l’avrebbe più rivista per chissà quanto tempo.
Poteva allora fare finta di nulla?
Sì, avrebbe potuto… se solo quel bacio non fosse scaturito da qualcosa di più di un mero istinto carnale.
Voleva Sophia, in quel momento la voleva disperatamente, più di quanto volesse Rosalya.
Forse, più di quanto mai avesse voluto Rosalya.
 
« Un brindisi ai Tenia! » intonò Armin euforico.
Mai in vita sua era uscito a bere con una compagnia più numerosa e piacevole.
Quella sera, Castiel aveva presentato i mitici Tenia, responsabili della sua partenza per la Germania.
Ansiosi ed eccitati all’idea di conoscere il quartetto, tutti gli amici del rosso non avevano voluto sottrarsi a quella serata. Persino Dajan, Trevor e Kim avevano preso parte alla comitiva.
Dopo aver messo in subbuglio il liceo con il loro arrivo, i Tenia se n’erano andati soddisfatti della reazione scaturita nel rosso: disagio puro. L’avevano stuzzicato su aneddoti legati al loro soggiorno a Berlino, divertendo talmente tanto i liceali, da organizzare una serata in compagnia.  
« Avete inciso qualcosa? Ce lo fate sentire? » si entusiasmò Erin, allungandosi verso la salsa barbecue.
Ace replicò con un sorriso incantevole, che fece arrossire tanto lei quanto Iris, che le sedeva accanto:
« Anche se sei la ragazza del compositore, non possiamo concederti simili privilegi »
« Dacci un taglio, Ace » tuonò Castiel, scolandosi metà birra media. Era abituato a quel genere di battutacce quando era con loro, ma la presenza della diretta interessata rendeva il tutto più disagevole per lui e divertente per i musicisti. Ciononostante, era affezionato a quei quattro. Era grazie a loro che era riuscito a mettere da parte l’amarezza per un amore non corrisposto e dedicarsi alla sua prima vera passione: la musica. Gli mancava un po’ il clima familiare che si respirava nello chalet tedesco, ma mai quanto aveva sentito la nostalgia della ragazza accanto a lui.
In quelle ultime settimane, da quando era rientrato in America, gli sembrava che ogni cosa stesse andando per il verso giusto: i pezzi che aveva composto avevano convinto l’etichetta discografica, era stato alle Bahamas con i suoi migliori amici, aveva ripreso i contatti con la sua famiglia, che si era arricchita della presenza di una bambina di nome Hailey.
Si fermò su ogni singolo viso presente su quel tavolo, partendo da quello per lui più tenero e bello: Erin stava ridendo per una battuta di Chester, reclinando la testa all’indietro. Era spontanea, diretta, una persona che gli trasmetteva tanta positività. La sua allegria era contagiosa perché a ruota erano seguite le risate di Iris e Rosalya. Con quest’ultima, in particolare, Castiel aveva notato quanto la mora si fosse legata. Spesso, durante i cambi dell’ora, Rosalya aveva preso l’abitudine di andare nella loro classe ed era la compagnia di Erin quella che prediligeva, più ancora di quella di Iris. Quest’ultima infatti aveva iniziato a parlare particolarmente con Kentin, per la gioia del moro. Quel ragazzo non era male, gli sarebbe stato simpatico sin da subito se non avesse innescato in Castiel il sospetto che gli piacesse Erin. Con Kentin poteva fare battutacce alle quali Lysandre non si prestava mai, sempre troppo impostato e attento all’immagine. Per quello si trovava così bene a discorrere con Violet, la ragazza più timida mai vista. Jun ascoltava i due in disparte, strappando a Castiel un sorriso divertito. Quel pomeriggio si era sorbito una strigliata di Lin, che l’aveva ripreso per essersi intromesso nel club di teatro. Per quel poco che la conosceva, la cinesina era tutta pepe e, seduta accanto al silenzioso chitarrista, non si poteva pensare ad un assortimento più improbabile. Tuttavia, proprio grazie all’estrosità della ragazza, anche Jun aveva iniziato a spiaccicare qualche parola, anche se era per lo più Lin a sostenere la conversazione. Accanto a lei Ambra guardava divertita il suo ragazzo, impegnato in una gara a braccio di ferro con il gemello. Ne risultò una scena alquanto pietosa, specie dopo la vittoria di Alexy che, diversamente da Armin, non si vantava di essere iscritto in palestra. I cestiti, Dajan, Trevor e Kim stavano illustrando ad Ace i dettagli del torneo ma l’arrivo di un’avvenente cameriera li aveva distratti. Trevor sembrava conoscerla ma la ragazza, anziché dare corda al ragazzo, aveva finito per liquidarlo lasciandolo con un pugno di mosche. Il chitarrista dei Tenia si era quindi prodigato in commenti lusinghieri sul lato B della ragazza, che avevano incontrato lo sbadiglio disinteressato di Damien.
C’erano veramente tutti quella sera.
Anzi, quasi.
Mancava quello di cui si era sempre fidato ciecamente e di cui, ne era sicuro, poteva tornare a riporre la sua fiducia.
Una persona che non avrebbe mai più tradito l’alta considerazione che aveva di lui.
 
Nathaniel ansimò esausto.
Aveva corso come un dannato, dopo la fermata del bus.
Non poteva andarsene così.
Facendo finta di nulla.
Facendo finta che fosse stata solo una debolezza.
Per una volta nella sua vita, avrebbe assecondato l’istinto, anche se era un modo elegante per chiamare l’eccitazione che pervadeva ogni fibra del suo corpo.
Suonò il campanello, sperando che lei fosse in casa.
« H-hilary, smettila! Ti ho detto che voglio stare da sola! »
Stava piangendo.
Sophia stava piangendo.
Non doveva.
Non poteva farlo sentire colpevole e miserabile più di quanto già lo fosse.
Cominciò a bussare ripetutamente la porta, alzando la voce:
« Sono io! »
Seguirono pochi secondi che sembravano non finire mai, finchè udì il rumore di un chiavistello che veniva aperto.
Quella che si trovò davanti però, non era la Sophia Travis con lo sguardo fiero e beffardo a cui era abituato.
Era una ragazza con il viso scavato dalle lacrime e gli occhi che brillavano di tristezza.
Era bellissima.
« Vai via » gli mormorò, fissandogli le scarpe.
Non era per Rosalya, che conosceva a malapena.
Non poteva farlo a Erin.
Era per Erin che Sophia si era allontanata da Nathaniel.
Anche dopo che lui gli aveva detto di volerla.
Non poteva permettere che la sorella la odiasse per aver fatto soffrire la sua migliore amica, Rosalya.
« Allora dimmi che non sono niente per te »
Il petto di Nathaniel si alzava e abbassava freneticamente.
Era agitato e non riusciva a calmarsi.
Sophia boccheggiò.
Non riusciva a guardarlo in faccia, mentre lui non le staccava gli occhi di dosso.
Aveva imparato a conoscerla anche per i suoi lati più vulnerabili, ma così dolce e indifesa non l’aveva mai vista. Nemmeno quella volta in spiaggia.  
Le portò una mano dietro la nuca, facendola sussultare.
Socchiuse gli occhi, inclinando la testa di lato.
Voleva solo baciarla, un’altra volta, promettendosi che sarebbe stata l’ultima.
Sophia non riuscì a sottrarsi a quell’abbraccio ma ripetè dentro di sé la stessa bugia del ragazzo.
Era l’ultimo bacio.
Tuttavia, non seppero dire chi dei due stava guidando l’altro: Nathaniel si trovò dentro l’appartamento, con la porta che si chiudeva alle spalle. Non si erano ancora staccati, quell’ultimo bacio stava continuando, alimentandosi di passione e desiderio.
Per tre mesi Sophia l’aveva sognato, per tre ore il biondo si era torturato dalla tentazione di tornare a posare le sue labbra su quelle di lei.
Non volevano pensare ad altro che non fosse la consapevolezza di fondere i loro corpi e le loro anime, oa che finalmente, si erano trovati.
 
Nel pub non era rimasto quasi nessuno. I Tenia, stremati dal jet lag erano stati i primi a rientrare in hotel, seguiti a ruota dai gemelli.
Kim e Dajan, nonostante le insistenze di Trevor, si era defilati, senza rivelare che quella sera la velocista aveva la casa libera dai genitori. Il cestista allora si era spostato al bancone, a chiacchierare con la sua amica barista. Il resto degli amici di Castiel ed Erin, fatta eccezione per Rosalya e Lysandre, si erano congedati, tra sbadigli e pacche sulle spalle.
Era stata una delle serate più piacevoli e spensierate di sempre, da ripetere.
« Speriamo che quel babbeo di Kentin si azzardi ad approfittare della situazione »
Erin sorrise, invitando l’amica ad abbassare il tono.
« Iris non vuole che si sappia che gli interessa, parla piano, Rosa » guardando di sbieco Castiel e Lysandre assorti nella conversazione.
« Appunto, io sto dicendo che è lui che deve fare qualcosa »
« Non mettere fretta agli eventi… accadrà tutto secondo i loro tempi »
La stilista arricciò le labbra e sbottò:
« E quest’aria da monaco tibetano cannato è attribuibile a tutta la birra che hai bevuto stasera? »
« Sono di buon umore » sorrise nuovamente l’amica.
Iniziarono ad origliare l’argomento che aveva assorbito così tanto i due ragazzi accanto a loro, per poi convenire che non fosse di loro interesse:
« Mentre voi state qui a discutere di spartiti e testi » li interruppe Rosalya « io ed Erin andiamo a sederci un po’ fuori »
Quasi Castiel non le calcolò tanto era preso dalla conversazione.
Stavano parlando di musica e per lui era fin troppo naturale farsi assorbire da essa:
« Capisci Lys? Io pensavo di aver finito, invece ora Luke vuole pure che io mi metta a scrivere il testo! Lo sai che sono negato »
« Quindi vorresti che lo scrivessi io? »
Il rosso tentennò, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona. Sospirò profondamente, abbattuto.
Era un po’ brillo, per questo sentiva di avere meno inibizioni nel modo di esprimersi.
« In realtà no. Questa canzone è speciale. Luke stesso è curioso di vedere cosa posso… vomitare fuori »
« Ecco, certi termini magari li eviterei » sorrise il poeta.
« Appunto, dammi dei consigli! Che cazzo ci scrivo dentro? Tu come fai? »
L’amico intrecciò le dita affusolate sul tavolo e chiuse gli occhi. Dopo qualche secondo, spazientito da quella passività, Castiel sbottò:
« Ehi Lysandre! Ti si è fuso metà emisfero cerebrale? »
Il ragazzo riaprì gli occhi e replicò candidamente:
« Ti stavo mostrando come faccio io »
« Cioè dormi? »
« Rifletto. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dalla musica. Sono le note a guidarmi verso la  proiezione di immagini mentali e quindi di parole »
Il rosso però non sembrava soddisfatto.
« Lys, questa cosa non funziona. Per me la musica è un orgasmo, finirei per scrivere un porno »
Il poeta ridacchiò, scuotendo il capo divertito:
« Allora Castiel, perché non la facciamo più semplice: a cosa hai pensato quando hai composto quella musica? »
Istintivamente il rosso cercò una figura alla sua destra, ma realizzò che non c’era più. Lysandre sorrise teneramente e, dopo aver finito l’ultimo sorso di birra, sussurrò:
« Lo immaginavo »
 
L’aria di marzo era fresca e frizzante. La primavera si stava ormai facendo strada tra le vie di Morristown e la rinascita della natura sembrava riflettersi nelle rinnovate energie che le due ragazze covavano dentro di sé.
All’esterno del pub, sotto una tettoia dal vetro trasparente, Erin e Rosalya si erano accomodate su due poltroncine in vimini. Fissavano il cielo stellato, perdendosi in quel manto scuro punteggiato di piccole luci.
Avevano scherzato, parlando delle persone presenti quella sera, scambiandosi commenti specialmente sui componenti della band. Rosalya era inevitabilmente rimasta interdetta dai modi di Damien, mentre si era lasciata conquistare dall’estrosità di Chester. Si era divertita un sacco e le era dispiaciuto quando la comitiva aveva dovuto sciogliersi.
« Io davvero non ricordo l’ultima volta che sono stata così bene… » stava mormorando la stilista.
« Esagerata! » sdrammatizzò Erin, ridacchiando.
Avvertì che il tono dell’amica fosse cambiato, si era fatto più profondo e pacato.
« No, sul serio… » continuò la stilista, senza staccare gli occhi dalla notte. Rimasero per un po’ in silenzio, poi Rosalya proseguì:
« E’ da un bel po’ che ci penso… »
« A cosa? »
« A quanto io sia fortunata ad averti incontrata »
Erin si voltò verso la ragazza, ma lei continuava a guardare la luna che le illuminava il viso angelico. Il cortile era deserto e anche dalla strada il traffico era piuttosto silenzioso.
« Da quando sei entrata nella mia vita, ogni cosa è andata per il verso giusto. Ho di nuovo i miei amici, anzi, ne ho conosciuti pure altri, come Iris, sto realizzando le mie ambizioni e sono insieme al ragazzo che ho sempre amato… e in tutto questo ci sei tu, ci sei sempre stata tu »
« Rosetta, sei un po’ ubriachella… » ridacchiò Erin in imbarazzo. Quelle parole però la facevano sentire speciale e unica. Era così grata per quell’amicizia che si era creata con Rosalya, che di giorno in giorno si nutriva di complicità e fiducia.
« Tu sei buona, Erin. Non si può non innamorarsi di te » proseguiva l’amica  « per questo mi arrabbio quando ci rimani male per Castiel. Non ti punzecchio per il gusto di metterti in difficoltà… ok, ok, forse un pochino sì » ridacchiò, a seguito dello sguardo eloquente della mora « … ma lo faccio principalmente perché se c’è una persona che si merita tutto dalla vita, quella sei tu… poi, che questo “tutto” sia Castiel, oddio, per me lui non ti merita, ma fosse per me, non ti meriterebbe nessuno »
A distanza di anni, Erin era destinata a ricordare quella conversazione come una delle più intime mai avute con Rosalya. Il loro rapporto era maturato così lentamente che nessuna delle due ne aveva preso coscienza fino a quel momento.
La stilista si decise finalmente a staccare gli occhi dal cielo, per posarli sulla sua silenziosa interlocutrice.
Era uno sguardo fraterno, quasi romantico.
« Quello che sto cercando di dire » sorrise in leggero imbarazzo « è quanto tu valga, Erin… perché non hai la minima idea di quanto tu sia importante per me »
La ragazza in un primo momento non seppe come replicare. Voleva bene a Rosalya, talmente tanto che si stava commuovendo al solo pensiero. Anche nella stilista sembravano luccicare delle lacrime, ma entrambe fingevano di non vederle.
« Grazie, Rosa » sussurrò infine.
Non riuscì ad aggiungere altro, poiché la voce le era uscita più roca del previsto.
Quel discorso, pronunciato con tanto sentimento e spontaneità da una ragazza che al liceo era soprannominata “Regina delle Nevi”, le aveva scaldato il cuore.
 
Nathaniel si voltò dall’altro lato, infastidito da un raggio di sole che gli era arrivato dritto sulle palpebre.
Quel movimento brusco destò la sua compagna, che a sua volta, cambiò posizione.
Il biondo sorrise dolcemente, mentre anche lei apriva lentamente gli occhi.
« ‘Giorno » mugolò Sophia, stiracchiandosi come un gatto.
Aveva dormito troppo bene. Come non le capitava da settimane. Si era appisolata nell’abbraccio caldo del biondo, respirando il suo odore che la mandava in estasi.
Lui aveva iniziato ad accarezzarle la spalla, sovrappensiero.
« Hai una pelle morbidissima »
« E’ per questo che continuavi a mordermi? » ridacchiò lei.
Nathaniel sorrise e, guardando la sveglia, calcolò mentalmente la disponibilità di tempo.
Poca, considerata che quel giorno doveva prendere un aereo per tornare a casa. Cacciò in fretta per pensiero e tutta l’ansia che ne sarebbe derivata.
Si alzò pigramente dal letto, mentre Sophia, confusa dal suo silenzio, se ne restava beatamente distesa.
« Colazione in camera? » tirò ad indovinare.
« Certo, vossignoria » replicò lui, indossando sbrigativamente i boxer.
« Fossi in te metterei anche i pantaloni » commentò l’altra.
Lui la fissò interrogativo, così Sophia spiegò:
« Questa notte dovevano rientrare Candy e il suo ragazzo… poi, se l’hanno fatto realmente non so… sai com’è, qualcuno mi ha distratta… » mormorò maliziosa.
Lui ridacchiò e tornò a chinarsi verso di lei, per strapparle un bacio che voleva ardentemente.
Tornare a Morristown sarebbe stata davvero dura.
Si spostò in cucina, sentendo che più si allontanava da Sophia e più l’allegria e la spensieratezza si intiepidivano, soppiantate da sensi di colpa e angosce.
Con l’arrivo del nuovo giorno, tutti i problemi che nel buio della notte aveva deciso di non vedere, sarebbero venuti allo scoperto.
Attese che il caffè arrivasse a bollore, mentre cercava un paio di tazzine pulite nell’armadio sopra il lavello.
Stava per appoggiarle sull’isola della cucina, quando si accorse che una figura era entrata nella stanza.
Proprio quando stava per sfoderare uno dei suoi sorrisi più imbarazzanti e cordiali, la ceramica gli scivolò dalle mani.
Lei.
« Oddio, questa proprio non me l’aspettavo! »
Quella voce.
Languida e beffarda.
La ragazza si chinò a raccogliere le tazze, ignorando volutamente il turbamento del biondo.
Allertata da quel rumore, Sophia era corsa in cucina, sostando sull’uscio.
« Ah, Candy, sei qui! »
« Smettila con quel soprannome, Sophia… » la rimproverò bonariamente la nuova arrivata, muovendo le mani « lo sai che non mi piace »
Un sorriso ipocrita, che Nathaniel aveva imparato a detestare.
La rossa non si era accorta del turbamento del suo ospite, tale era la sua gioia nel rivedere l’amica.
Le lanciò quindi le braccia al collo ed esclamò felice:
 « Allora bentornata… Debrah »  
 
 
 


 
 
NOTE DELL’AUTRICE (dall’oltretomba)
 
Lo so.
Non saprei come altro esordire in questo trafiletto, se non dichiarando la mia vergognosa consapevolezza di essere in ritardo. Solo il Grande Demone Celeste sa quante lettrici troverò ancora superstiti, dopo una pausa che è durata all’inverosimile.
Come potete appurare, non sono morta, anzi, paradossalmente questo silenzio stampa è correlato ad uno dei periodi più frenetici e felici della mia vita, carica di novità e svolte… del quale alcune di voi sono al corrente… tutte le altre, beh ragazze sappiate che mi siete mancate T_T
IHS era il pretesto per restare in contatto, anche se poi si sono creati rapporti di amicizia che andavano oltre la storia… mi dispiace averne persi per strada, spero tanto di riuscire a riallacciarli ed essere più presente <3
 
Vi sembrerà assurdo che in tutti questi mesi io non abbia mai trovato il tempo per scrivere questo capitolo e, ve lo riconosco, pure io non me lo so spiegare appieno. Sono entrata in una fase della mia vita per cui mi vengono a mancare quei pomeriggi di ozio completo e, l’unico momento libero si è ridotto ad un paio di ore serali… che fino ad un po’ di tempo fa dedicavo alla vita da coinquilini. Con il mio recente cambio d’appartamento, spero di trovare più tempo per IHS, ma non garantisco nulla ^^’
Conscia di questa cosa, sono dovuta giungere ad una decisione irrevocabile: non potrò più recensire storie altrui. Mi scuso tantissimo con le amicizie che ho instaurato qui su EFP, la maggior parte delle quali con ragazze che appunto, hanno delle loro storie, ma non riesco proprio a stare al passo. Direi che questi mesi di scomparsa ne sono la dimostrazione più evidente. Devo ancora rispondere alle recensioni del capitolo precedente, immaginatevi quindi quanto io sia presa male T_T.
Capirò quindi se a sua volta, dovesse calare il numero di commenti per IHS, non posso biasimare nessuno. Inutile però dire quanto io li adori, è grazie a ragazze che nell’arco di questo anno hanno continuato a chiedermi di IHS che la fic non è naufragata.
Dal canto mio quindi, cercherò di impegnarmi affinchè questa storia arrivi alla conclusione attesa. Ci ho investito troppo tempo in passato per lasciarla incompiuta, per non parlare della grande soddisfazione che mi avete dato finora, care lettrici. Ve lo devo.
 
Detto questo, oggi ho anche pubblicato un maxi riassunto, spero che vi sia stato d’aiuto. Io per prima mi sono messa a rileggere la storia, non mi ricordavo più tanti dettagli importanti, basilari per scrivere questo capitolo.
Sapete, al di là della mancanza di tempo, credo che mi abbia frenato anche il fatto che questo per me è stato un capitolo psicologicamente impegnativo… mi riferisco in particolare al triangolo Rosalya-Nathaniel-Sophia. Siamo arrivati alla svolta ma, pur avendola pianificata sin da quando è nato il personaggio di Sophia, io adoro Rosalya e vi sembrerò pazza a dire che soffro per lei. Specie dopo aver scritto di getto, meno di un’ora fa, la parte tra lei ed Erin. E’ perché sono ricaduta nel vecchio vizio di mettere qualcosa di mio e nel dialogo Erin-Rosa, mi sono ispirata a quello tenutosi tra me e una mia amica, Lorenza (in effetti ha qualcosa nel carattere che ricorda Rosalya, che dici Nuvola? xD).  
 
Rileggendo l’intera storia, mi sono anche chiarita idee che non pensavo di avere confuse (oddio che frase contorta xD). In particolare, mi sono resa conto che la stima di concludere IHS in 80 capitoli è una sovrastima… considerato tutti i fatti che devono ancora capitare e che certi personaggi, Erin e Castiel in primis sono ad un punto di “tensione sessuale” (son adolescenti, perddio!), temo sarebbe una forzatura far durare così tanto la storia. Loro due in particolare, mi sembrano approdati, finalmente, ad un punto in cui per entrambi è sempre più difficile imporsi l’autocontrollo di non rivelare all’altra parte i propri sentimenti…  questo però dovrà capitare dopo determinati eventi, quindi credo sia finalmente arrivato il momento che tanto temevo di affrontare: il nocciolo del mistero di IHS. Mi sono resa conto che a partire dal capitolo del rientro ufficiale di Castiel, non ho mai fatto veramente proseguire la trama, che si è quindi un po’ arenata. Diciamo piuttosto che ho seminato le basi per il raccolto di cui godremo a partire da questo capitolo.
Perché solo spiegando tutte le trip mentali di Sophia, potevo arrivare a farla andare a letto con Nathaniel. Solo facendo vedere quanto Rosalya fosse dolce insieme al biondo, potevo sperare di farvi soffrire con lei se e quando scoprirà la verità. Insomma, basta presupposti, IHS ha tutta la carne al fuoco per un barbecue come si deve.
La scena di Castiel che spiega ad Erin perché gli piaccia la matematica ce l’avevo in testa da quando è nata la storia, da quando, nei primissimissimi capitoli, forse addirittura il 2, Erin nota la dimestichezza che ha il rosso per la materia. Spero che la sua spiegazione abbia interessato voi come interessò me al liceo quando, una mia compagna di classe, flautista, mi spiegò questo concetto.
Bueno, a proposito di cose previste molto tempo addietro, l’amicizia Sophia-Debrah. Ebbene sì, quando nel capitolo 16 (mi pare, non andate a controllare, fidatevi sulla parola), Castiel parla di Debrah ed Erin lo interrompe dicendo che era amica di sua sorella, all’epoca qualcuno azzardò l’ipotesi che stessero parlando della stessa persona… e da vecchia volpona quale sono, ovviamente era proprio così! Mi dispiace che abbiate dovuto scoprirlo dopo 3 anni ^^’
Capirete che con l’entrata in scena di Debrah, si apre un altro scenario interessante di IHS, anche se sappiamo tutti che lei è stata egregiamente sostituita da Erin… ma ciò non toglie che io non veda l’ora di presentarvela insieme a Castiel u.u …
Ecco, che altro posso dirvi se non GRAZIE?
Grazie per esserci state, grazie se continuate ad esserci <3
Io mi ci devo un attimo riabituare,  è stato stranissimo tornare su EFP e vedere nomi di autrici mai lette prima (accanto ad alcune di cui sento una nostalgia immane)… tra l’altro, mesi fa, ho inoltrato la richiesta per tornare ad essere RandomWriter… ma non ho ricevuto feedback ^^’
Ci terrei a ritornare alle origini, con il soprannome con cui mi sono fatta conoscere, anche perché dopo questa pausa di scrittura, ho l’impressione che sto ripartendo da zero o, comunque, da un livello più basso di quello a cui ero arrivata, stilisticamente parlando.
Portate pazienza dunque.
Vi informo anche che aveva in cantiere la one shot per cui aveva lanciato il sondaggio…arriverà anche quella non temete!
Che altro?
Beh, sono felice di essere tornata ^^
 
 
Alla prossima!
 
Elena

 

Ritorna all'indice


Capitolo 59
*** Rimorsi ***


59.
RIMORSI

 
L’uscita definitiva di Debrah Jones dalla sua vita e da quella di Castiel aveva rappresentato un sollievo marginale per Nathaniel. La ragazza era comparsa all’improvviso, con l’impeto di uno tsunami e lasciando dietro di sè l’eco assordante di un’amicizia fraterna andata in pezzi.
Gli ci era voluto più di un anno per risaldare quel legame con il rosso, e il suo più grande terrore era che potesse cedere seconda volta. Fu proprio l’angoscia tradita dai suoi occhi ad accendere i sensi di Debrah. Non era bastata l’assurdità di quella coincidenza a farla dubitare dell’identità del ragazzo che la fronteggiava. A distanza di un anno, non osservava significativi cambiamenti nel ragazzo, mentre lo stesso non si poteva dire di lei. Aveva lasciato crescere i capelli che finivano per coprirle quasi interamente il nuovo e vistoso tatutaggio sull’avambraccio destro. Anche in termini di look, il suo aspetto risultava rinnovato, optando per capi di vestiario più aggressivi ma al contempo sofisticati.
Mentre abbracciava Sophia, Debrah aveva distolto l’attenzione dal ragazzo, godendosi il calore dell’unica persona in quella stanza che era sinceramente felice di rivederla. Traspariva della dolcezza nel modo in cui la mora aveva sciolto l’abbraccio, esitanto qualche istante prima di separarsi da quella stretta. Dolcezza da cui Nathaniel aveva imparato a diffidare. L’avrebbe presa a schiaffi se quel gesto non fosse stato così estraneo ai suoi principi. Debrah era la personificazione di uno dei suoi più grandi errori di valuatazione, la miccia che aveva acceso quella guerra fredda tra lui e Castiel. Eppure lei appariva rilassata, beata di quell’incredibile leggerezza di chi non conosce il significato del senso di colpa. Quel’espressione estatica era però destinata a spegnersi, dopo interminabili secondi di silenzio:
« Logan sta ancora dormendo? » le chiese Sophia. Sbirciò una porta chiusa alle sue spalle, prima che Debrah replicasse compostamente:
« Logan non c’è »
L’amica spalancò leggermente le labbra, presa in contropiede da quell’inattesa informazione. Confusa, si preparò a ribattere ma Debrah la anticipò:
« Ne parliamo più tardi, Fia. Ora non mi va »
Quella richiesta fece calare un disagevole silenzio che però non era destinato a durare. La sola presenza della ragazza risultava sempre più intollerabile per Nathaniel. Non era psicologicamente preparato a trovarsela davanti, specie in una situazione particolarmente delicata come quella in cui si erano cacciati lui e Sophia. Vedere Debrah gli aveva ricordato Castiel, Morristown ed infine Rosalya. Per un attimo, durato quanto la scorsa notte, era riuscito a tacere il lato più razionale e moralista della sua persona ma ora era arrivato il momento di guardare in faccia la realtà: aveva tradito Rosalya e doveva tornare a Morristown quello stesso giorno. Per quanto inevitabile, urlare contro Debrah non era in cima alle sue priorità. Sentiva salirgli la nausea a forza di reprimere tutti i suoi pensieri, così, prima che Sophia potesse introdurlo alla conversazione, il biondo aveva già abbandonato quella cucina così soffocante.
In camera da letto, recuperò i vestiti, gettandoli alla rinfusa nello zaino. Doveva passare al residence a recuperare il resto dei suoi bagagli e il tempo era sempre meno.
Non attese molto prima che Sophia piombasse in camera a chiedergli delle spiegazioni:
« Che succede Nath? Perchè te ne sei andato così? »
Lo seguiva con lo sguardo, mentre lui si muoveva frettolosamente da un lato all’altro della stanza, raccattando i suoi effetti personali.
« Ho un aereo da prendere e sono già in ritardo » la freddò, infilandosi la felpa.
Nonostante avesse lasciato Debrah fuori da quella camera, non riusciva a tenerla fuori dalla sua testa. Sapeva che l’ex ragazza di Castiel fosse originaria di Allentown ma non aveva mai valutato l’eventualità che Sophia la conoscesse. Ancora più paradossale era l’eventualità, poi verificatasi, di incontrarla a migliaia di miglia di distanza dalle rispettive città.
Eppure aveva sempre avuto la sensazione che quella questione fosse rimasta in sospeso, non solo tra lui e Castiel, ma anche per Debrah. Nel primo caso, Castiel si era sempre rifiutato di affrontare direttamente il discorso, liquidando il litigio di quell’anno a un capitolo chiuso nel passato. Nathaniel però avrebbe voluto approfittare della loro riappacificazione per convincerlo della genuinità del suo comportamento, che ogni sua decisione, per quanto sbagliata, non fosse stata fatta a suo discapito. Quanto a Debrah, era sparita all’improvviso, senza assumersi alcuna responsabilità di quanto accaduto e lanciando alle ortiche una relazione in cui Castiel aveva creduto molto.
Fu a quel punto che nel biondo balenò il sospetto che il trasferimento in California di Debrah fosse coinciso con la decisione di Sophia di abbandonare la famiglia. Del resto, tra le doti meno encomiabili della mora rientrava la sua capacità di manipolare le persone, facendo leva sulla propria apparente fragilità. Si voltò quindi di scatto verso la rossa, sibilando a denti stretti:
« Quando dicevi di esserti trasferita qui perché c’era una persona che aveva bisogno di te… non sarà mica lei? »
In una semplice sillaba, Nathaniel era riuscito ad imprimere così tanto disgusto e frustrazione che per un attimo la rossa non capì chi fosse l’oggetto di tanto odio. Boccheggiò confusa, mentre la rabbia del suo interlocutore si alimentava sotto i suoi occhi.
« E’ lei Mackenzie? » tuonò impaziente.
Spiazzata e incapace di sostenere la furia che le si parava davanti, Sophia borbottò una risposta caustica che finì per irritare ancora di più il suo interlocutore.
« C-cosa? No, no, che stai dicendo… »
« Allora perché lei è qui?! »
Quella situazione sfuggiva totalmente alla sua comprensione ma nell’attesa di ricevere ulteriori indizi, la ragazza si sforzò di mantenere la calma, rispondendo all’interrogatorio:
« Si è trasferita qui dopo aver rotto con il suo ex lo scorso anno. Era davvero distrutta, Nathaniel… e in quel periodo, anche io avevo bisogno di stare sola, così l’ho raggiunta qui… »
L’accanimento del ragazzo verso Debrah poteva trovare una sua spiegazione solo in a fronte di una mutua conoscenza. Una coincidenza alla quale non aveva mai pensato prima.
« Lei era distrutta? Oh poverina! » continuava ad imprecare il biondo. Chiuse con foga la zip dello zaino, al punto che quest’ultima gli restò in mano  « fanculo! » emise, gettandola per terra con sprezzo.
Il ragazzo con cui stava Debrah l’anno precedente si chiama Castiel ed era originario di Morristown. Esattamente come il Castiel di Nathaniel e di sua sorella Erin.
 
« Quindi possiamo dire che sei ufficialmente impegnata? » le aveva sorriso Sophia, allungandole un bicchiere di Coca-Cola.
« Considerami già sposata! » aveva strillato Debrah, gesticolando animatamente.
L’amica si era presentata a casa sua quella domenica pomeriggio senza nessun preannuncio. Neppure il tragitto tra Morristown ed Allentown aveva sopito la sua frenesia. Quella mattina lei e il suo nuovo ragazzo avevano ufficilizzato la relazione, dopo aver scoperto di non avere nessun interesse a frequentare altre persone. Castiel si era fatto avanti con lei, le aveva dichiarato in modo un po’ impacciato quello che provava e l’idea che ora lui fosse il suo ragazzo, le regalava dei brividi di gioia e orgoglio.
Anche se Sophia riusciva a partecipare con trasporto a quell’esplosione di entusiasmo, lo stesso non si poteva dire dell’altra presenza nella cucina dei Travis. Scocciata per quella chiassosa interferenza durante la visione della sua serie TV preferita, Erin si limitava ad alzare alternativamente il volume per contrastare il chiacchiericcio di Debrah. Nonostante un’indole universalmente riconosciuta come amichevole, l’amica di sua sorella rappresentava una mal celata eccezione. La mora era sempre troppo chiassosa, talvolta prepotente e saccente. Nemmeno sul piano degli hobbies, le due avevano molti argomenti di conversazione. Erin preferiva gli sport individuali, mentre Debrah giocava a pallavolo nel suo liceo. Erin odiava cantare in pubblico, Debrah non perdeva occasioni per esibirsi. Tuttavia, la repellenza tra le due sembrava non turbare l’unico comune denominatore, rappresentato da Sophia. A contrario della gemella, la ragazza apprezzava quell’indole così ribelle e anarchica. Debrah era un vulcano di energia e di ambizioni e non esitava a dichiarare apertamente quali fossero i suoi desideri.  
« Te lo sei meritato, Candy » le sorrideva Sophia.
Candy. Un nomignolo alquanto ridicolo che non si sposava con la personalità indigesta della sua destinataria, pensò Erin sbuffando. Per ogni battuta scambiata tra le due amiche, doveva sacrificare un dialogo della sua serie televisiva.
« Ovvio! Mica è da tutti farsi Allentown e Morristown tre volte a settimana! »
« Beh, diciamo che è stata anche una bella scusa per saltare delle lezioni » ridacchiò Sophia. Non di rado si era trovata a giustificare l’assenza dell’amica di fronte ad insegnanti preoccupati per il perdurare della presunta malattia della ragazza. Del resto, i genitori della ragazza le avevano sempre lasciato così tanta libertà di gestione che l’assunzione di responsabilità non rientrava tra le doti più spiccate di Debrah.
« Sofy tu non puoi capire! E poi sapessi come scopa! » aveva sospirato lei, lanciandole un’occhiata maliziosa.
« Beh almeno tiene la casa pulita »
Il sarcasmo di quel commento era arrivato direttamente dal divano, costringendo le due interlocutrici a interrompere la loro conversazione. Il profilo irritato di Erin teneva lo sguardo fisso sulla TV ma metà del suo viso era sufficiente a trasmettere la totalità del fastidio che stava covando. Sophia sogghignò, mentre Debrah fissò la mora con un’espressione inizialmente risentita ma destinata a trasformarsi in un ghigno sardonico.
« Devo spiegarti il reale significato, Erin? » la punzecchiò.
« L’importante è che l’abbia capito tu, Debrah » la sbefeggiò lei di rimando. Si alzò quindi dal divano, sconfitta dall’inevitabile intrusione dell’ospite in quella stanza. Poche persone riuscivano a estrapolarle il lato più acido e pungente della sua personalità e Debrah era in cima a quella lista.
« Dove vai? » le chiese Sophia seguendola con lo sguardo.
« A cercare la pace interiore » borbottò di malumore abbandonando la stanza. Non appena sentirono i passi di Erin farsi sempre più lontani, Debrah borbottò:
« Credimi, tua sorella ha seriamente bisogno di una scopata »
 
L’ex ragazzo di Debrah si chiamava Castiel. Ricordò solo alcuni dettagli che lo riguardavano, primo tra tutti che fosse una testa calda. Il Castiel di Debrah era uno spirito estremamente ribelle e sovversivo. Viveva da solo e il suo rendimento scolastico lasciava a desiderare. Del Castiel di Erin, Sophia sapeva ben poco; la sorella le aveva accennato un interesse per la musica e per il basket, sport per altro mai menzionato da Debrah. Inoltre, poco dopo l’ufficializzazione della sua relazione, Debrah era sparita totalmente, venendo meno per Sophia le occasioni per conoscere il suo ragazzo. Paradossalmente, non ne aveva mai vista una foto. Doveva riconoscere che l’assenteismo dell’amica l’avesse ferita ma d’altro, Sophia era una strenua sostenitrice del diritto a non elemosinare l’attenzione delle persone e si era rassegnata a rispettare la totale immersione di Debrah in quel nuovo rapporto. Come se ciò non bastasse, dei perbenisti come sua sorella o Nathaniel non erano assolutamente compabili con la frammentaria descrizione che Debrah aveva fornito del suo anarchico ragazzo. Eppure, in quel presente in cui lei si trovava nella sua stanza a San Francisco, ad osservare i movimenti nervosi di Nathaniel Daniels, non poteva esserci altra spiegazione.
« Nathaniel, ma quindi... Debrah... stava con Castiel... il vostro Castiel? » titubò.
Si sentì confusa nell’uso di quell’aggettivo possessivo. Non era il Castiel di nessuno eppure era anche il Castiel di tutti. Che cosa avesse di così magnetico del ragazzo, Sophia non l’aveva ancora capito. L’unica verità di cui era a conoscenza era che per colpa sua, Debrah aveva sofferto come mai prima di allora e fu per questo che, con crescente rabbia, sputò:
« E’ stato lui lo stronzo che l’ha fatta soffrire? »
Quella semplice domanda sembrò anestetizzare i movimenti spasmodici di Nathaniel. Il biondo si congelò tenendo le braccia piegate davanti al petto e sbattè le palpebre più volte, incredulo.
Non di nuovo. Debrah continuava a plasmare la realtà a suo piacimento, costruendo una rete di bugie dalla quale non solo non ne restava intrappolata ma ne era addirittura la tessitrice.
« Che cazzo dici? » sbraitò, scrollandosi da quella fissità.
Si avvicinò a Sophia, aggirando il letto che li separava. Determinata a non perdere una seconda volta il controllo della conversazione, Sophia replicò:
« Chissà cosa ha raccontato a te Castiel! Io mi fido di Debrah! »
Il ragazzo socchiuse le labbra, spiazzato. L’ultima volta che Nathaniel aveva sentito quelle parole, la sua amicizia con Castiel era andata ineluttabilmente in pezzi. Anche se non l’aveva preventivato, era riuscita a vincere quella discussione annientando completamente nel biondo ogni volontà di replica.
 
L’aroma avvolgente del caffè si era librato nell’aria, rilassando così l’umore leggermente infastidito del professor Condor. Le colleghe più giovani si intrattenevano in una conversazione che interferiva con la lettura del giornale locale, rito che si concedeva ogni mattina prima di affrontare decine di studenti svogliati e demotivati. Se non altro, leggere dell’arrivo di Dajan Brooks nelle file dei Cavs per la prossima stagione di basket, aveva sortito un effetto calmante sul docente, accanito sostenitore della squadra. Anche se nella sua materia quel liceale non aveva mai brillato, il vecchio insegnante sorrise orgoglioso. Si sarebbe vantato di aver avuto tra i suoi banchi la futura promessa del basket nazionale.
Miss Fraun invece era alle prese con un’attività meno distensiva e, sbuffando tra un foglio e l’altro, esaminava degli ultimi compiti di storia. Colpa della preside che le aveva chiesto di concludere con urgenza il rendiconto della 4^ C, una delle classi più problematiche nella sua disciplina. La magra consolazione era rappresentata dall’arrivo di Kentin Affleck a metà anno, il quale aveva alzato la media della classe che soggetti come Castiel, Trevor e Kim abbassavano tremendamente. Persino Erin Travis, la pupilla di Miss Joplin, aveva difficoltà in storia e arrivava sempre ad una sufficienza tirata. Quei quattro, che per lei rappresentavano una fonte di grattacapi, erano invece nel cuore del suo recente flirt, nonché allenatore di basket. Si accomodò gli occhiali sul naso aquilino e sorrise, all’idea che, quella sera, lei e Boris sarebbero usciti a cena nel suo ristorante preferito.
« La preside era così elettrizzata. Hai fatto una proposta fantastica, Beck! » stava squittendo Miss Robinson. Analogamente alla collega di storia, anche Jane Robinson avrebbe dovuto occupare quell’ora libera per mettersi in pari con le verifiche di arte da correggere. Tuttavia, la presenza della sua amica e collega Miss Joplin costutuiva sempre una tentazione impossibile da ignorare.
« Andiamo, Jane, diciamo invece che è avvilente che questa iniziativa non sia mai stata fatta prima! »
« Beh, converrai che il liceo non ha bisogno di questo genere di pubblicità… » osservò Miss Robinson, sedendosi più compostamente.
« L’istituto no, ma non può attrarre nuovi studenti solo per fama, deve dimostrare sin da subito la validità dell’offerta didattica che offre. Così magari riusciremo anche ad attrarre studenti davvero eccellenti. Questo è il genere di pubblicità di cui ha bisogno l’Atlantic » precisò Miss Joplin, rafforzando le sue parole con una gestualità esagerata. L’insegnante d’arte sorrise e annuì soddisfatta:
« Beck, Beck… se continui così, diventerai l’erede di Miss Swanson, lo sai? »
Mister Connor ripiegò diligentemente il giornale e lo inserì nella sua cartella. La campanella sarebbe suonata di lì a breve e suo malgrado, non riusciva a farsi contagiare dall’entusiasmo di quelle due colleghe più giovani. Una giornata di orientamento nell’istutito era quel genere di attività per cui non si sarebbe mai offerto volontario e, dal momento che non gli veniva pure riconosciuta come straordinario, non riusciva nemmeno a comprendere l’entusiasmo e la passione delle sue insegnanti.
 
Kim ricontrollò la lista di nomi davanti a sè.
Il campionato di atletica era alle porte e quell’anno rischiavano seriamente di fare brutta figura. Il club di atletica era sul podio dei migliori club del liceo sin da quando la scuola era stata fondata. Prima ancora che la squadra di basket la reclutasse per il torneo, la velocista aveva osservato un abbassamento delle performance e, con il suo allontamento temporaneo dalla pista, quest’ultimo sembrava aver risentito di un ulteriore ribasso. Facendo quindi leva sull’onore sportivo della scuola, Kim stava cercando cercando di strumentalizzare il torneo delle sezioni a favore del campionato imminente:
« Cosa intende dire, signorina Phoenix? » le aveva chiesto la preside, quando Kim l’aveva intercettata nei corridoi.
« Potremo aprire le candidature al campionato anche a studenti che non risultino formalmente iscritti al club, purchè abbiano delle performance eccelenti... e a tal proposito, i risultati sportivi del torneo delle sezioni sono vitali per i club come quello di atletica »
Ogni anno il club di atletica partecipava ad una competizione nazionale aperta a tutte le scuole superiori, il cosidetto campionato di atletica. L’Atlantic High School non si era mai esentata dal parteciparvi ma sfruttava pure un evento interno, che si svolgeva due mesi più tardi, per selezionare e accalappiare nuovi membri per i diversi club sportivi della scuola per l’anno scolastico successivo. Tale evento prendeva il nome di torneo delle sezioni era una rappresentato da un’intera giornata all’insegna dello sport e dell’atletica. Le lezioni venivano quindi sospese per concedere ai rappresentanti di ogni classe di affrontarsi  in svariate discipline sportive, che andavano da prestazioni individuali a giochi di squadra. Ne risultava quindi una vera e propria gara dove venivano messi in risalto le abilità sportive degli studenti più prestanti.
Poichè indirizzato a tutte le sezioni, ogni classe doveva schierare almeno un elemento in ogni disciplina di atletica leggera mentre per le tre partite a squadre, si candidavano gli studenti delle varie calssi purchè appartenenti alla stessa sezione.
La proposta di Kim era di revertire quella tradizione e anticipare il torneo così da rimpolpare le file dell’atletica in vista dell’imminente campionato.
« Non siamo ai livelli degli anni scorsi, abbiamo bisogno di prestazioni migliori » aveva sottolineato la ragazza, continuando a seguire il passo impettito della preside. Quest’ultima soppesò la proposta, trovando alquanto difficile ascoltare le proprie riflessioni poichè disturbate dal parlottare frenetico e concitato della studentessa.
« Non pensi che i membri del club di atletica si sentirebbero offesi a vedersi passare davanti qualcuno che non fa nemmeno parte del club? » domandò infine la donna, sostando davanti alla porta del suo ufficio.
Era l’unica obiezione che le era sembrato ragionevole sollevare. Probabilmente gli insegnanti avrebbero avuto da ridire sullo scarso preavviso con cui avrebbe richiesto di sospendere le lezioni ma del resto, si trattava di appena un giorno. Alla sua domanda, la velocista si era limitata a sollevare le spalle e con un’espressione cinicamente spietata, rispose:
« In tal caso, avrebbero dovuto allenarsi di più »
 
Il suono di un clacson, per quanto in lontananza, fu sufficiente a destarlo dal sonno. Gli era impossibile ignorare certi suoni, persino quando dormiva. Quell’udito così fine era il suo dono e la sua condanna. Con la testa che gli pulsava e la gola dolorante per le troppe sigarette fumate la notte precedente, Castiel aprì gli occhi pigramente, realizzando di essersi addormentato sul divano. Nel tentativo di mettersi in piedi, inciampò in qualcosa di particolarmente ingombrante e per poco non perse l’equilibrio, evitando di cadere sul tavolino davanti a lui:
« Mozart... » borbottò Ace nel sonno « guarda dove metti i piedi »
Infagottato come una crisalide, ai piedi del divano, giaceva Ace, il chitarrista della band per cui aveva iniziato a lavorare tre mesi prima. Fu quell’immagine a scaturirne le successive: erano usciti a fare festa e, in memoria dei bei tempi nello chalet in Germania, avevano fatto baldoria fino a notte fonda. Nonostante i Tenia fossero rientrati in hotel, dopo appena mezz’ora, Ace e Chester erano tornati sui loro passi, dichiarando che erano troppo su di giri per dormire.
Purtroppo Castiel, diversamente dai due, non era ancora esente dai suoi doveri di studente e, per altro, era pure in estremo ritardo. Avrebbe dovuto seguire il consiglio di Trevor che, verso le due di notte, era stato l’ultimo a congedarsi e gli aveva suggerito di seguirlo. Suo malgrado, Castiel adorava così tanto intrattenersi in compagnia di Ace e Chester che avevano finito i festeggiamenti a casa sua fino alle quattro del mattino.
Stava appunto per chiedersi che fine avesse fatto il loro vocalist quando udì un profondo russare provenire dalla sua stanza. Come Chester fosse riuscito ad accappararsi il letto, non era tra i ricordi di Castiel. Si accontentò di aver almeno conquistato il divano. Del resto, non ricordava nemmeno come fossero arrivati a casa sua quella mattina. Nel tentativo di rimettersi in piedi, Castiel finì per urtare una seconda volta contro Ace che, inevitabilmente, si lamentò.
« Sei tu che sei in mezzo al cazzo, Ace... » brontolò allora il padrone di casa.
Dondolò verso la cucina mentre il musicista rubava furtivamente il posto ancora caldo rimasto vacante sul divano. Castiel iniziò quindi a preparare il caffè, operazione che gli costava la stessa fatica di tenere gli occhi aperti. Nell’attesa che la calda bevanda fosse pronta, si versò un sorso d’acqua e ne allungò un bicchiere anche all’ospite disteso sul divano.
« Vuoi acqua? » gli chiese ma Ace non si mosse. Non aveva tempo per riservare agli amici una colazione degna di quel nome, aveva già perso la prima ora di lezione.
« Senti Ace, devo andare. Non posso farmi segare anche quest’anno... »
Controvoglia, il biondo iniziò a stiracchiarsi pigramente e si mise seduto. Si guardò attorno, familiarizzando con l’ambiente e, tenendo gli occhi semi chiusi, biascicò:
« Lasciaci casa e veniamo a scuola a riportarti le chiavi »
« Con il cazzo! Lasciale sotto lo zerbino »
« Ma sei sicuro? » domandò Ace che, per quanto si fosse divertito a fare un’incursione nel liceo il giorno prima, non era in condizioni di farsi vedere in pubblico.
« Ovunque purchè non vi ripresentiate a scuola... sennò poi la vecchia rompe i coglioni a me »
Ace sbadigliò sguaiatamente e mentre l’aroma di caffè si diffuse nella stanza, mormorò:
« Come sei messo con la canzone? »
In tutta risposta, il compositore sbuffò. Generalmente non aveva grossi problemi a trovare l’ispirazione per comporre musica, ma la richiesta avanzata dalla loro etichetta discografica era stata molto più precisa e vincolante del solito:
« E’ proprio necessario mettere una ballata romantica nell’album? » indagò il rosso, tornando verso la cucina. Ritornò con due tazze di caffè fumanti e si spaparanzò sulla poltrona, voltandosi verso l’amico chitarrista.
« Beh piccolo Mozart, siamo rimasti tutti impressionati dal tuo talento quindi vogliamo vedere fino a che punto sai essere... camaleontico »
« Non sono sicuro del risultato, Ace. Scrivere testi romantici non è mai stato il mio forte »
Ace sorseggiò con avidità il caffè fumante e quando Castiel potè finalmente rivedere la sua espressione, si ritrovò davanti un sorriso provocatorio:
« Tu pensa ad Erin e vedrai che le parole ti verranno »
 
« Una giornata scuola aperta? » masticò Armin, addentando il pranzo. Quella giornata piovosa l’aveva obbligato, assieme ai suoi amici, a ripiegare per l’odiata mensa.
Castiel non si era visto per tutta la mattinata e se non altro si erano risparmiati le lamentele del più grande nemico dei pranzi al chiuso. Aveva risposto frettolosamente ad Erin, dicendole che era in hangover e incastrato a casa dalla presenza di metà Tenia.
« Sì, l’anno chiamato “Atlantic HS open Day”... non l’hanno detto anche a voi? » stava domando Erin, allungandosi per prendere il sale. Si sporse un po’ troppo e in quel movimento, finì per scoprire involontariamente una piccola parte del fondoschiena.
« Cip, comportati bene. Ti si vede il culo »
« Oh Castiel finalmente! » esultò Alexy, voltandosi verso la voce piccata alle sue spalle.
« Ti sembra l’ora di arrivare? » lo rimproverò Erin, che nel frattempo era arrossita e stava cercando di ricomporsi « che cosa avete combinato ieri sera? »
Castiel si massaggiò la testa ancora indolenzita e brontolò qualcosa sul fatto di evitare rumori forti. Mai come quel giorno avrebbe preferito mangiare all’aperto, lontano dal brusio e chiacchericcio degli studenti.
« Cos’è che dicevate? Scuola aperta? » si sforzò di chiedere, guardando con poca convinzione il panino che aveva recuperato in mensa. Nonostante il suo cervello gli intimasse di nutrirsi e idratarsi, lo stomaco aveva iniziato una lotta passiva a colpi di nausee e mancanza di appetito.
« Parrebbe che sia stata un’idea della Joplin… si terrà tra qualche settimana » riassunse Ambra, schiaffeggiando la mano di Armin che le aveva appena rubato una polpetta dal suo piatto.
« Solo dalla Joplin poteva partire un’iniziativa del genere » sussurrò Rosalya, concentrandosi sull’applicazione dello smalto viola mentre Castiel la guardava schifato. Non era la prima volta che lo sottoponeva a quella tortura olfattiva.
« Potresti togliermi quella porcheria da sotto il naso? »
La ragazza però lo ignorò, controllando accuratamente la sua perfetta manicure. Erin invece sorrise pazientemente, troppo abituata ai continui contrasti tra i due. Li conosceva da ormai sei mesi e non ricordava un’occasione in cui avessero dimostrato un minimo di affetto, se non addirittura rispetto, l’una per l’altro. Tuttavia, non appena il suo sguardo cadde sul piatto della ragazza, i suoi pensieri vennero reindirizzati verso la modestia di quel pasto:
« Rosa, ma quella porzione non è un po’ poca? »
« Sì, ma è perché sono in dieta da due settimane » esclamò prontamente la stilista « devo essere impeccabile per stasera! » annunciò solenne.
Da lì a poche ore, il suo Nathaniel sarebbe tornato a Morristown, coronando finalmente un sogno accarezzato per quattro anni. Non solo. Ogni aspetto della sua vita e quella dei amici più cari era destinata ad allinearsi in una perfetta congiunzione astrale: la solidità del gruppo storico si sarebbe ripristinata definitivamente e Nathaniel le avrebbe fatto da spalla a far aprire gli occhi a Castiel ed Erin sulle concrete possibilità di evoluzione del loro rapporto. La sua mente era già arrivata ad immaginare una romantica uscita a quattro quando venne bruscamente riportata all’argomento di conversazione in corso:
« Sei già molto magra, Rosa… cosa ti metti in testa? » insistette Erin e, senza aspettare una replica, iniziò a scaricare prepotentemente parte del suo cibo sul piatto dell’amica. Castiel e Lysandre sorrisero discretamente, inteneriti da quella premura, mentre Iris scosse il capo:
« Dubito che così mangerà, Erin »
« Appunto » convenne Rosalya, passando direttamente il piatto al fratello, seduto accanto a lei « devo essere perfetta per Nath »
Dal tono piccato dell’ultima frase, era chiaro che nessuno l’avrebbe distratta dal suo obiettivo, nemmeno l’occhiata di biasimo che le stava lanciando la sua migliore amica.
« Parlando di Nathaniel » sviò Armin, notando le espressioni annoiate di Kentin e Castiel « organizziamo qualcosa? »
« Potremo fare come per il compleanno di Erin! L’idea era uscita bene! » ridacchiò Alexy.
« Ovvio, perché quando ci sono io, la festa si anima » soggiunse il gemello.
« Quindi, festa a sorpresa per Nathaniel? » riepilogò Kentin, destandosi dai suoi pensieri.
« Sì, ma dove? » si elettrizzò Alexy « dobbiamo fare una mega festa, perché con il suo ritorno, si conclude finalmente la guerra fredda iniziata l’anno scorso! »
Fu allora che un silenzioso Castiel notò otto teste voltarsi in sincrono nella sua direzione. Imbarazzato per essere oggetto di tutta quell’attenzione, bofonchiò:
« Guardate che a Nathaniel non piacciono le sorprese... »
Rosalya, battè un palmo sul tavolo, facendo sobbalzare la povera Violet per lo spavento.
« Ma lo fai apposta, Cas? » brontolò « sei un guastafeste! »
« Lo conosco meglio di te, genio. Nathaniel ama avere tutto sotto controllo, se lo prendi alla sprovvista si agita »
« Ma che stronzate! Nath non è così complessato come te! »
Prima che Castiel potesse aggiungere altro, fu tempestivo l’intervento diplomatico di Lysandre che convenne:
« Tutti rimangono spiazzati da una sorpresa, Castiel, ma se fatta per le giuste ragioni non ci sono motivi per essere a disagio »
Il rosso borbottò poco convinto mentre Rosalya, autodichiaratasi vincitrice della discussione, si alzò dal tavolo per restituire un vassoio che non era molto più vuoto di quando l’aveva ricevuto dall’addetta della mensa. Quando Nathaniel l’avrebbe vista in quel vestito taglia 38 si sarebbe pentito amaramente di aver sprecato così tanti anni senza farsi avanti con lei.
 
« Si divertono proprio quando sono insieme... » stava pensando Trevor, fissando da lontano la compagnia di Erin e dei suoi amici.
Era raro vederli in mensa, dal momento che prediligevano i pasti consumati nel giardino esterno della scuola. Trevor invece era solito pranzare con buona parte della squadra di basket, alla quale si sommava la presenza di Kim da ormai diversi mesi. Eppure, nonostante si fosse sempre intrattenuto volentieri con la loro compagnia, nell’ultimo periodo gli era capitato spesso di desiderare di allargarla. Da quando Erin era arrivata nella sua classe, aveva avuto l’occasione di frequentare Castiel anche al di fuori della scuola e del campo di basket e aveva scoperto nel rosso una personalità molto più estroversa e amichevole del previsto. D’altro canto, da quando Dajan e Kim avevano fatto coppia fissa, il povero cestista si era sentito un po’ messo da parte dai suoi migliori amici. A peggiorare la situazione, Steve stava passando un brutto periodo con la sua ragazza e finiva per lamentarsi tutto il tempo dei suoi problemi sentimentali. Quegli sfoghi erano del tutto inconcepibili per l’animo pragmatico di Trevor. La parte che trovava più appagante dell’avere una ragazza era la garanzia di poter soddisfare i suoi impulsi più animaleschi, il resto erano per lo più inevitabili sacrifici da assecondare in nome di un bene più grande. Se ne era reso conto dopo aver chiuso la sua relazione con Brigitte, con la quale a malapena riusciva ad avere una conversazione. Impegnarsi seriamente a stare in una coppia non solo non faceva per lui, ma nell’ultimo periodo era diventato quasi insofferente all’esplosione di romanticismo della sua scuola. Dajan e Kim, Ambra e Armin, poi Nathaniel e Rosalya. Per quanto fosse felice per quelle coppie, una delle quali supportate da lui in prima persona, gli era impossibile accettare che facessero tutte sul serio. Lui preferiva godersi la leggerezza della sua età, senza vincoli e responsabilità. Anche per quello le sue recenti uscite con Kim e Dajan si erano rivelate piuttosto monotone. Aveva bisogno di qualcosa che solleticasse il suo interesse, una sorta di passatempo.
« Ehi amico, mi stai ascoltando? »
Era stato Wes a richiamare la sua attenzione, sventolandogli la mano a pochi centimetri dalla faccia. Trevor si ridestò, ricapitolando un altro argomento fisso dei loro ultimi pranzi: Wes e la sua affilizione per essere ancora single.
« Sì, Wes, lo so. Le ragazze se la tirano troppo » ripetè meccanicamente.
« Ma di cosa stai parlando? »
Trevor lo fissò interrogativo ed esclamò:
« Perchè? Non ti stavi lamentando di essere un morto di figa? »
Wes si accigliò e, cercando di imporsi un’aria di superiorità, lo corresse:
« E invece è proprio il contrario. Ho deciso che non uscirò più con nessuna ragazza per almeno sei mesi! »
Quella dichiarazione scatenò una smorfia beffarda sul viso del cestista che lo fronteggiava:
« Chi tu? Ma figuriamoci! A te basta che respirino »
« Non è vero »
« E la tipa odiosa con cui sei uscito la scorsa settimana? Vogliamo parlarne? A parte che aveva più barba di me »
Incuriositi da quella conversazione, anche il resto dei cestisti si interessò a quello scambio di battute:
« Lei è stata un passo falso, lo ammetto » convenne Wes, incrociando le braccia al petto « ma questo non vuol dire che io non sappia... selezionare »
« Secondo me non riusciresti a resistere più di due mesi senza uscire con una ragazza » lo sfidò Trevor, ridendo. Wes però, solleticato da quella sicurezza, obiettò:
« E’ una scommessa, Mc Connell? Perchè la accetto! »
« Wes, non scommettere soldi » gli consigliò Dajan « ne devi già un sacco a Trevor »
« Cosa scommettiamo? » continuò imperterrito Wes, guardando il suo sfidante dritto negli occhi. Quest’ultimo riflettè un attimo e poi convenne:
« Se vinco io, mi dai il numero di tua cugina »
« Ma se ha tredici anni! » sbottò Wes, orripilato.
« Non lei, idiota! Quella di New York...Sarah se non sbaglio »
« Sonia » lo corresse Wes, cominciando già a pentirsi di quel patto « ma se vinco io... » ci pensò qualche istante e infine convenne « mhm... ci devo pensare bene »
« Per me puoi anche deciderlo dopo. Non c’è verso che io perda » concluse Trevor ostentando sicurezza.
Per quanto lo sguardo di Wes fosse determinato a vincere, Trevor sentiva una certa eccitazione salirgli in corpo. Era certo delle proprie convinzioni e l’idea di poter uscire con l’avvenente cugina di Wes, raprpesentava esattamente quel genere di distrazioni di cui era così disperatamente alla ricerca.
 
Erin saltellò sul posto, contenendo a stento la gioia ma quel blando tentativo non era sufficiente a sedare l’impazienza di Boris:
« Senti un po’, signorina, vi ho concesso di tenere qui i cellulari durante l’allenamento per una questione di sicurezza, ma questo non significa che tu lo possa usare come pretesto per bighellonare »
All’allenatore di basket mancava molto la presenza di Kim. Era una delle atlete più concentrate sul pitturato, quella che assieme a Dajan prendeva più seriamente gli allenamenti. Se non altro, era legittima la sua richiesta di tornare nel club da cui era stata sottratta, quello di atletica. Era in quel contesto che Kim poteva davvero brillare sotto il profilo agonistico. Boris doveva quindi accontentarsi di quella ragazza fin troppo vitale che era Erin. Gli pianse il cuore all’idea che pure lei era destinata a salutarli l’anno successivo, dopo che la sua collega Miss Joplin l’aveva praticamente prenotata per il suo club di scienze.
« Non faresti tanto il burbero se sapessi chi mi sta scrivendo ora, Bors » ridacchiò lei, adorabile, trotterellandogli intorno.
« Il tuo ragazzo segreto? » ironizzò l’omone, seguendo con lo sguardo il resto dei cestisti.
Alla domanda di Boris, seguì un suono sordo e la risata goliardica di Trevor:
« Oddio Black, adesso pure tu prendi le palle in faccia come Erin! »
Il coach si lasciò sfuggire un sorriso, consapevole che c’erano altre persone attente ad origliare quella conversazione. In particolare, a più riprese aveva notato quanto fosse fine l’orecchio dell’ex capitano.
« E’ Melanie Green » gli rivelò Erin, mostrandogli lo schermo del cellulare.
Lasciò che quella notizia sortisse l’effetto sperato e aggiunse:
« Verrà qui! E non sarà da sola! »
« Cosa, cosa? La Triade verrà qui? »
Con un certo disappunto, Boris osservò che quella notizia aveva distratto buona parte dei suoi ragazzi i quali, capeggiati da Trevor, avevano interrotto l’allenamento per avvicinarsi incuriositi a lui ed Erin.
Ora che il torneo di basket era solo un elettrizzante ricordo, aveva notato un generale allentamento dei ritmi da parte dei cestisti ma, doveva ammetterlo, non gli dispiaceva poi così tanto che qualche volta si distraessero in chiacchiere amichevoli. La tweener aveva risposto affermativamente con un sorriso trionfante, che si duplicò sul viso di Trevor:
« Devo misurarmi con Reed! »
« Quand’è che vengono? » s’intromise allora Dajan.
« Domani! In realtà sono di passaggio perchè lunedì hanno un incontro a New York ma si fermeranno volentieri a Morristown una mezza giornata. Venite anche voi? Sì? Sì? » li supplicò adorante, guardando uno ad uno i suoi compagni di squadra.
« Ovvio che veniamo! E ci prenderemo la rivincita! » esultò Trevor, carico di energia. Si voltò allora verso l’ex capitano rimasto in disparte e dichiarò:
« Black, vieni anche tu e questa volta vediamo chi è la vera triade divina! »
Erin era su di giri. La sua quotidianità era cambiata in meglio da quando aveva incontrato Melanie la prima volta. In quella circostanza, Castiel era in Europa e lei soffriva immensamente per quella lontananza. Il torneo di basket, con un viaggio a Berlino come primo premio, aveva rappresentato per lei l’unica speranza di accorciare quella separazione forzata. Successivamente al torneo, la sua conoscenza con Melanie era andata intensificandosi, al punto da diventare amiche. Nelle settimane successive, Erin non aveva avuto timore a condividere con la cestista i suoi sentimenti per quel tanto sospirato amico, così come Melanie si era aperta sulla sua nascente relazione con Isiah Reed. Per quanto Erin fosse davvero pessima in questioni amorose personali, si era rivelata un’ottima consigliera e anche per merito dei suoi incoraggiamenti, Melanie ed Isiah avevano iniziato ad uscire insieme da poche settimane.
La cestista era diventata talmente presente nella sua vita, che Erin le aveva raccontato di sua sorella Sophia e del mistero legato alla sua fuga da casa. Fu proprio grazie a quello scambio di informazioni che Erin era in procinto di aggiungere un’altra tessera al puzzle che stava cercando di ricomporre. Dopo aver aggiornato Melanie sull’indirizzo ricevuto da Tracy Leroy, la ragazza si era offerta di aiutarla nella sua indagine. Sua cugina infatti lavorava in una delle biblioteche più grandi di Chicago, residenza della misteriosa Cosima Manning e poteva svolgere delle ricerche interne relative alla cronaca locale. Pertanto quel giorno, oltre al suo arrivo a Morristown, Melanie avrebbe portato con sè delle informazioni che, forse, avrebbero finalmente fatto luce su una vicenda fin troppo nebulosa. 
 
Anche se erano passate più di due ore da quando Nathaniel aveva abbandonato quella stanza, nell’aria sembrava aleggiare ancora il profumo del deodorante che, frettolosamente, si era spruzzato prima di abbandonarla.
Quello con Sophia era stato un saluto freddo, quasi rancoroso, dopo che la scoperta di una conoscenza comune in Debrah gli aveva avvelentato l’animo:
« Ho bisogno di spazio... » aveva sussurrato lui, sulla soglia di casa « ti chiedo scusa Sophia ma è tutto... sbagliato » erano le prime parole che gli erano uscite dopo interminabili secondi di silenzio.
Sbagliato. Preso dalla fretta e dall’urgenza di dirigersi in aeroporto, non era riuscito a trovare un altro aggettivo che definisse il loro trascorso della notte precedente. Del resto, Nathaniel aveva tradito la sua ragazza con lei. Lei che per giunta, non poteva sentirsi immune da colpe poichè si trattava di aver ferito Rosalya, la migliore amica di sua sorella Erin.
« Lo so » era riuscita a replicare, guardandolo a malapena in faccia.
Non avrebbe pianto anche se il crollo emotivo era dietro l’angolo. Poteva solo pregare che se ne andasse il prima possibile da quell’appartamento e dalla sua vita. Tuttavia, il biondo non corrispose alle sue preghiere:
« Non mi riferisco a ieri notte. Cioè sì anche, non è giusto quello che ho fatto però... » aveva ragionato sempre più confuso e a disagio « è che ora che quella è qui non riesco a riflettere lucidamente »
« Non c’è tanto da dire » lo fermò Sophia « tu ora torni da Rosalya e io rimango qui. Per quello che mi riguarda, non ha significato nulla »
Se Nathaniel avesse saputo leggerle dentro, avrebbe capito che nello stesso istante in cui quelle parole erano uscite dalla sua bocca, anche l’onestà aveva abbandonato il corpo della ragazza. Quella dichiarazione non rifletteva la verità perchè mai avrebbe assecondato il biondo se i suoi principi morali fossero stati più saldi dei sentimenti che aveva maturato per lui. Sophia era una ragazza impulsiva ma non era una sprovveduta. Sapeva cosa c’era in ballo dietro la sua notte di passione con lui ma era disposta ad assumersi le stesse responsabilità che si sarebbe assunto Nathaniel. Peccato che lui non avesse corrisposto alle sue aspettative. Seppure in modo confuso e difendendosi dietro la presenza inopportuna e sgradita di Debrah, era chiaro il suo rimorso. Ma se ciò era vero, Sophia non seppe spiegarsi lo sguardo avvilito con cui lui l’aveva fissata dopo quella frase.
Dal canto suo, Nathaniel era rimasto senza parole, sminuito nel suo orgoglio e arrabbiato con sè stesso per aver ceduto ad un’inutile tentazione.  Aveva compromesso la sua coscienza per niente. Per tutta la vita aveva sempre saputo giocare stando alle regole e per una volta che provava a trasgredirle, aveva perso la partita.
« Se le cose stanno così, allora non è successo nulla. Stammi bene, Sophia »
Estese il manico del trolley e, guardandola per un’ultima volta negli occhisi era voltato verso la rampa di scale, mentre lei si richiudeva la porta alle spalle.
Pensò che se avesse voluto rimangiarsi le sue parole, quella era l’occasione. Rincorrerlo lungo i gradini e dirgli che era un idiota a pensare che per lei non avesse significato nulla. Prima che il suo istinto prendesse il sopravvento, si diresse verso la sua stanza, distendendosi sul letto. Le sembrava di avere un peso sullo stomaco e, per quanto cercasse una posizione comoda, nessuna riusciva a sgravarla da quella logorante oppressione. Voleva piangere ma paradossalmente ogni sforzo le risultava vano. Dove erano finite quelle lacrime che aveva tanto desiderato versare nell’intimità solitaria della sua stanza?
La sua mente ripercorse le immagini della notte precedente. Rivisse il momento esatto in cui si erano stesi sul letto e la sensazione di essere spogliata da mani non sue. Avvertì il contatto caldo della pelle chiara del ragazzo che si appoggiava contro la sua, mentre le labbra continuavano a cercarsi nel buio di quella stanza.
Era stato un incontro estremamente istintivo, per certi versi poco romantico ma dettata principalmente dalla foga della passione. Una delle prestazioni più appaganti della sua vita, anche se la statistica a tal riguardo si limitava ad un paio di ragazzi con cui era uscita in passato.
« Si può? »
La rossa voltò il capo verso l’entrata della stanza, da cui fece capolino Debrah. Dopo che Nathaniel aveva fatto la sua scenata, l’amica aveva avuto il buon senso di richiudersi in camera e attendere che le acque si calmassero, prima di comparire negli spazi comuni.
« Se n’è andato, Debrah » le comunicò Sophia, notanto l’atteggiamento circospetto della mora.
« Ho visto » sospirò l’altra. Si sedette sul letto mentre Sophia si ricompose, appoggiando la schiena contro la testiera. Le lenzuola erano ancora stropicciate e si sforzò di non pensare al perchè quel giorno lo fossero più del solito. Debrah restava pazientemente in silenzio, comportamento alquanto insolito per la sua personalità vivace e dirompente.
« L’ho mandato via io. Sono una cretina »
La sua interlocutrice le accarezzò amorevolmente la gamba, ribattendo:
« Non sei cretina. Sei solo innamorata »
« Non dovevo portarmelo a letto, Debrah! » sbottò Sophia, decidendosi finalmente a sollevare lo sguardo e destarsi dalla sua apatia « sapevo che era impegnato e vuoi sapere di più? Con la migliore amica di Erin! »
« Sai come si chiama? »
« Rosalya, ma cosa c’entra? »
L’espressione di Debrah fu talmente stupita da risultare quasi buffa agli occhi di Sophia:
« Che c’hai? »
Era strano per Debrah sentire quel nome, dopo quasi un anno dall’ultima volta che era stato menzionato. L’arrivo di Nathaniel e la sua relazione clandestina con Sophia aveva ridestato in lei i ricordi della sua storia con Castiel e il suo rapporto turbolento con gli amici di lui. La sua domanda non era stata casuale. Il suo ex ragazzo le aveva confidato che il biondo fosse attratto da Rosalya ma poichè quest’ultima non le era mai andata a genio, Debrah si era limitata ad assimilare passivamente quell’informazione. Non avrebbe mai potuto prevedere che a distanza di un anno si sarebbe ritrovata a consolare la sua amica per aver potenzialmente compromesso la relazione di Rosalya White. In cuor suo, una piccola parte di sè gioì, perchè quella ragazza era sempre stata indisponente e prevenuta nei suoi riguardi: 
« Diciamo che tra me e Rosalya non è mai scorso buon sangue. Punzecchiava continuamente Castiel, quasi ci volesse provare. Un po’ gatta morta, se posso dire » spiegò, piegando la testa di lato.
Sophia ci mise qualche secondo ad assimilare quell’informazione. Aveva scoperto da poche ore quanto la sua vita fosse in realtà interconnessa a quella degli amici di Erin e Debrah rappresentava proprio quell’anello di congiunzione.
« Sul serio? » indagò confusa. La sua conoscenza con Rosalya era molto marginale, limitata a quando si era recata in California a trovare Nathaniel il mese precedente. Era sicuramente una ragazza abituata a ricevere le attenzioni maschili ma faticava a credere che la descrizione fornita da Debrah corrispondesse al profilo della migliore amica di Erin.  
« Erin ci è tanto affezionata, mi pare strano che ... »
« Diciamo che tua sorella non è mai stata un drago nel scegliersi le amicizie » sorrise Debrah con indulgenza « te la ricordi Leti? »
Sophia sorrise appena, ricordando quella singolare amicizia tra Erin e Leticia che apparentemente non avevano nulla in comune. Mentre tra lei e Debrah c’era sempre stata una complicità stimolante, sua sorella sembrava esseri accontentata della prima persona che l’avesse avvicinata.
« Il punto è, Sophia, che tu non hai fatto nulla con malizia o cattiveria » precisò Debrah, tornando all’argomento principale « l’amore capita e capita anche di scambiare una passione momentanea per amore. Non hai scelto tu di essere attratta da lui e lui non ha potuto decidere che avrebbe sempre e solo voluto bene a Rosalya »
« Sì ma guarda come sono andate le cose! Non è servito a nulla assecondare quei sentimenti, perchè ora io sono sola e lui si sente una merda »
« Non è vero che non è servito a nulla, Sofy » la consolò Debrah, la cui voce aveva preso un’inflessione quasi materna. Sophia era davvero la sua amica più cara. L’unica che riusciva davvero ad apprezzare ogni lato della sua personalità e non poteva restare impassibile di fronte al suo struggimento.
« A prescindere dalla profondità dei sentimenti che ci spingono a tradire i nostri principi morali, il fatto stesso che questi sentimenti siano nati in noi ci impedisce di vivere serenamente se non proviamo ad assecondarli. Perchè se non fosse successo nulla ieri notte, lui oggi sarebbe tornato a Morristown chiedendosi se Rosalya è davvero la ragazza che amerà più di ogni altra al mondo... e, lasciamelo dire, se è successo quello che successo, vuol dire che ci dovrà riflettere su. Per quanto io la trovassi insopportabile, anche Rosalya merita una persona che la ami più di ogni altra e Nathaniel deve assumersi consapevolmente questa responsabilità. Quindi non dire che non è servito a nulla. E’ solo quando metti alla prova la tua relazione che capisci cosa vuoi davvero »
La mora si zittì, conscia che in quel momento doveva lasciare all’amica il tempo di riflettere sulle sue parole e sulle sue emozioni. In fondo, quanto a relazioni finite male, Debrah poteva vantare una malinconica esperienza.
« Da quello che è successo puoi solo che crescere Sophia, come del resto ho fatto io nelle mie relazioni con Castiel prima e Logan poi »
Al sentire nominare Logan, il loro conquilino, Sophia realizzò di non aver più chiesto delucidazioni in merito all’amica. Paradossalmente, dovevano recitare quella scena a parti invertite dove era lei a consolare Debrah per quel rapporto fallito. Eppure, non riusciva a sopprimere l’egoistico desiderio di continuare a parlare di Nathaniel, probabilmente perchè le riflessioni della sua amica le stavano offrendo una chiave di lettura che leniva il suo rimorso.
« Sì ma ora non so cosa fare, Deb » sospirò « io non so se sia davvero amore quello che provo per lui ma di certo non si è trattato di una botta e via. Se ripenso a ieri notte, a quanto lui fosse... preso... » mormorò esitante sull’utilizzo della parola più appropriata « mi salgono certi brividi sulla schiena... Mi manca già, mi manca ogni cosa di lui eppure l’ho lasciato andare»
Cacciò quindi la testa tra le gambe, chiudendosi a riccio. Debrah la fissò con tenerezza e soggiunse:
« Ti capisco. Perchè io e te siamo uguali. Autodistruttive e masochiste... Ma voglio che tu sappia che non è mai troppo tardi! »
In quella frase, Debrah le aveva preso le spalle e la guardava dritta negli occhi:
« Dobbiamo lottare per quello che abbiamo perso perchè è proprio con la determinazione di ottenere il perdono che dimostriamo i nostri veri sentimenti. E’ così che ho capito che con Logan non potevo continuare a stare, sai? »
« Non ti seguo... » ammise Sophia, cercando di ricomporsi.
« Ho lasciato io Logan » riformulò Debrah « non era giusto continuare a starci insieme se puntualmente, avevo un altro chiodo fisso nella testa... e quel chiodo fisso è sempre stato riappacificarmi con Castiel »
Sophia boccheggiò confusa. Era la prima volta che Debrah menzionava quei sentimenti sopiti. Una volta cessata quella relazione, la mora era stata molto vaga sull’accaduto, chiedendo a Sophia di non farle troppe domande. Sapeva solo che si erano lasciati e che per questo, lei era a pezzi.
« Ma quindi tu... sei ancora innamorata di lui? » titubò Sophia.
Aveva il timore di sentire quale sarebbe stata la risposta ma in quel momento più che mai doveva capire quale fosse la sua posizione in quel delicato gioco. Lei era andata a letto con il ragazzo della migliore amica di sua sorella mentre la sua migliore amica era interessata al migliore amico di sua sorella. La ridondanza di quei ruoli la confondeva, così come non era certa che ciò che legasse Erin a Castiel fosse una casta amicizia.  L’istinto le suggerì però di non menzionare quel sospetto a Debrah, per lo meno non finchè le sue intenzioni non fossero state chiare.
Alla domanda di Sophia, la mora aveva sorriso leggermente e, prendendo un profondo respiro, aveva concluso:
« Ora è di te che parliamo, Sophia. Voglio solo che tu sappia che qualunque sia la tua scelta, io sarò dalla tua parte »
 
Nessuno dei clienti prestava alcuna attenzione alla TV che, nel frattempo, aveva finito di trasmettere il telegiornale. Jordan afferrò di soppiatto il telecomando e iniziò a scorrere frettolosamente tra i canali, alla ricerca della sua trasmissione di cucina preferita.
« Ferma qui! » urlarono quasi in coro due voci.
Si voltò sorpresa oltre che leggermente contrariata, riconoscendo in una delle due, quella di Trevor.
« Metti sulla partita! » la esortò quest’ultimo.
Indispettita per la mancanza di cortesia, la cameriera ubbidì silenziosa, mentre Trevor e Liam, una delle recenti conoscenze introdotte dal ragazzo, calamitavano la loro attenzione sullo schermo del televisore.
« Magari lei voleva vedersi qualcos’altro » le venne in soccorso l’unica ragazza del trio.
Nonostante le occasioni di conoscere Kim fossero state piuttosto sporadiche, Jordan aveva raccolto tutte le informazioni essenziali: era la migliore amica di Trevor e stava insieme con il ragazzo più educato e cortese di quel gruppo, Dajan, che in quel momento le aveva appena avvicinato la sua birra.
« Cosa ci troverete di bello in questo sport, io proprio non capisco » borbottò la cameriera tra sé e sé.
« Dici così solo perchè non lo conosci » replicò prontamente Trevor, sfoggiando uno dei suoi sorrisi migliori « se civedessi giocare, cambieresti totalmente idea »
Jordan finì di posizionare gli ultimi bicchieri sporchi e accese la lavastoviglie, ignorando la replica del ragazzo che però non demorse:
« Anzi, sai che facciamo? Domani pomeriggio esci con noi! Vengono a trovarci dei nostri amici, sono dei formidabili cestisti! »
Quella proposta non sortì alcun effetto su Jordan, se non quello di squadrare il ragazzo con lo stesso interesse riservato ad un’unghia fastidiosamente scheggiata.
« Allora? Vieni? » insistette lui.
« Domani è sabato » si limitò a replicare Jordan, appoggiandosi al bancone del bar.
« E quindi? »
« Te l’ho già detto mille volte, io la-vo-ro »
« Non nel weekend »
« Specialmente, nel weekend »
Le circostanze vollero che proprio in quel momento, il loro battibecco fosse udito da Heidi, una dei due titolari del pub che intervenne:
« Domani hai il pomeriggio libero, Jordan. Esci un po’ con i tuoi amici »
Quattro teste di voltarono in sincrono, verso una figura bassa e impettita, intenta a riempire due bicchieri di vodka. Heidi era la giovane proprietaria del locale che aveva accettato la richiesta di lavoro di Jordan, purchè non trascurasse gli studi e gli impegni scolastici. Tuttavia, sapeva quanto la ragazza prendesse alla lettera quell’impegno, tanto da farle dubitare di avere una vita sociale, al di fuori di quel locale.
« Grazie Heidi, ma preferisco venire al lavoro » replicò lei risoluta.
« E io preferisco che tu esca » insistette l’altra « per settimana prossima Ian mi ha chiesto un cambio turno, gli darò il tuo di domani »
Messa alle spalle dalla sua proprietaria e con la pressione di sentirsi giudicata dai presenti, la cameriera sospirò arrendevole. D’altra parte, per quanto l’essere un po’ scorbutica fosse connaturato nella sua natura, declinare l’invito di Trevor davanti ai suoi amici più cari, la metteva in difficoltà. Non le restava, per una volta, di concedersi il lusso di comportarsi come tutti i ragazzi della sua età.
« A che ora quindi? »
 
Dei passi concitati si alternavano lungo il corridoio di marmo. In più occasioni Molly aveva rischiato di scivolare e, nonostante le molteplici raccomandazioni dei Daniels, si ostinava a ignorare quelle premure. Il motivo era rappresentato dall’ospite in arrivo, che per la donna rappresentava il figlio che non aveva mai avuto.
« Ragazzo mio, finalmente! » esultò, lanciando le braccia al collo di Nathaniel « come stai? Hai fame? »
Erano tre mesi che non lo poteva abbracciare e stringere a sè anche se, poichè il ragazzo la sovrastava di parecchi centimetri, era più che altro le spalle dell’anziana governante a beneficiare di quella stretta.
L’affettuoso benvenuto di Molly scaldò il cuore del viaggiatore che si fece strada all’interno della dimora.
Lo accolse la familiarità di un atrio silenzioso e freddo, scaldato unicamente dall’animosità della donna.
« Come è andato il viaggio? Guarda che bello che sei! Hai preso sole, eh? » esclamò la signora, togliendogli a forza lo zaino dalle spalle.
« Molly » ridacchiò lui. Quell’accoglienza calorosa sortiva un effetto lenitivo sul suo umore devastato. Poche persone riuscivano a regalargli serenità in momenti difficili e la sua tata era sempre stata una delle migliori in quel ruolo. Nathaniel non aveva ancora osato controllare i messaggi che l’avevano bombardato da quando era atterrato a New York sperando che gli evitasse di peggiorare il suo malessere. La sua unica e magra consolazione era rappresentata dalla prospettiva del weekend ormai alle porte, durante il quale avrebbe cercato di riflettere sugli eventi degli ultimi mesi. Era come se in California avesse resettato la sua esistenza a Morristown, arrivando persino ad annicchilire il lato più razionale e controllato della sua personalità, prendendo decisioni impulsive ed emotivamente azzardate. La presenza di Debrah poi aveva complicato inutilmente una faccenda fin troppo complessa e non riusciva ad allontanare l’idea che, senza quella ragazza presente, sarebbe riuscito ad affrontare Sophia in modo diverso. Invece si era lasciato assalire da rabbia e rancore, che avevano interferito con i suoi sentimenti per la ragazza, liquidando il loro rapporto con fredde parole di addio.
« Sei diverso, Natty » borbottò la governante, insofferente per la silenziosità del primogenito dei Daniels. Quel commento destò per un attimo il ragazzo che, sorridendole malinconico, sospirò:
« Mi sei mancata, Molly »
La donna rispose a sua volta con una smorfia compiaciuta ma, in cuor suo, dovette ignorare quel sesto senso che le suggeriva di approfondire la natura di quel saluto laconico. Nello sguardo del ragazzo leggeva una sorta di spossatezza che nemmeno la stanchezza di un viaggio lungo potevano giustificare.
« Mi sembra il minimo! » sbottò invece, nel tentativo di allegerirgli la mente « ora vai a riposarti, caro. La cena sarà pronta tra un’ora... ti ho fatto preparare il tonno scottato in crosta di pistacchi che ti piace tanto »
Nathaniel inspirò e, senza aggiungere nulla, si chinò ad abbracciare una seconda volta quella donna che l’aveva cresciuto e che aveva sempre rappresentato per lui e la sorella un porto sicuro. Quand’era più piccolo, il fisico minuto di Molly era sufficiente a ripararlo da ogni cattiverai del mondo e ora che era diventato ormai adulto, rimpiangeva quella sensazione di protezione.  Ne ispirò il profumo alle rose, un po’ troppo forte, quasi ai limiti del nauseante. Tuttavia era quell’odore che evocava in lui la dolcezza di un’infanzia in cui nessun problema era troppo grande da non essere risolto. Gli bastava correre da quella donna e lei avrebbe saputo trovare una soluzione. Ma non si trattava più di trovare un giocattolo scomparso o annunciare un brutto voto al padre.
« Nathaniel... » borbottò Molly, confusa da un abbraccio che durava da tanto tempo.
Lui allora si ricompose e, allontanandosi ripetè dolcemente:
« Mi sei mancata, Molly... davvero tanto »
Una volta salito al primo piano, notò subito la porta spalancata della stanza di Ambra. Ne ispezionò il contenuto e si sorprese nel trovarla disabitata. Non sapeva se quella constatazione lo rendesse più leggero o preoccupato. Da un lato aveva un bisogno spasmodico di sgravarsi la coscienza, di raccontare a qualcuno quello che era successo nelle ultime ventiquattr’ore e poter beneficiare di un consiglio. Dall’altro lato però, agognava la solitudine più completa, così da poter capire prima quale fosse il consiglio che più di ogni altro desiderasse ricevere.
Arrivò nella sua camera e si fiondò pesantemente sul letto, senza togliersi le scarpe.
Dimenticare quello che era successo poteva essere apparentemente la soluzione più semplice e logica. Sophia non intendeva rivederlo e Rosalya non avrebbe sofferto per la sua infedeltà. Eppure, Nathaniel non era sicuro di riuscire a liquidare la questione e farla cadere nel dimenticatoio. Non solo per lo schiacciante senso di colpa del mentire alla sua ragazza ma per la consapevolezza che i suoi sentimenti per lei, forse, non erano poi così forti come credeva. Tuttavia, prese anche in considerazione l’eventualità di aver sopravvalutato quanto era successo tra lui e Sophia, perchè spinti da una passione intensa ma passeggera che mai gli avrebbe permesso di avvia una storia.
« Sei l’errore più giusto che abbia mai fatto »
Quella frase che aveva pronunciato continuava a ronzargli in testa, impedendogli di convincersi che il suo avvicinamento a Sophia fosse dettato unicamente da un abbaglio.
Rosalya era una certezza, la ragazza che aveva sempre desiderato ma con cui non aveva ancora vissuto una relazione piena, a causa della sua partenza programmata per la California. Quel piccolo assaggio di quotidianità fornito dalla sua visita a San Francisco prima e alle Bahamas poi era solo il preludio di una storia che l’avrebbe reso felice e sereno. Eppure non riusciva a non fantasticare sul come sarebbe stato scegliere Sophia.  Quest’ultima aveva il fascino dell’azzardo, di una scommessa che poteva rivelarsi incredibilmente vincente ma i rischi di perdita erano altissimi e incalcolabili. Scegliere Sophia significava perdere Rosalya, non solo come propria ragazza. Conseguentemente la sua migliore amica Erin e, Nathaniel lo temeva più di tutti, persino Castiel sarebbe stato in difficoltà in quello schieramento. Non poteva nemmeno escludere Lysandre nella lista di persone che l’avrebbero biasimato per quella scelta. Per la verità, nessuno di quel gruppo di amici con cui non vedeva l’ora di riallacciare finalmente i rapporti andati distrutti l’anno precedente sarebbe stato dalla sua parte.
Non escluse però che, con il tempo, se i suoi sentimenti per Sophia si fossero rivelati sinceri e incontrollabili, sarebbe stato perdonato per il suo comportamento.
In quel complesso sistema matematico, Nathaniel continuava ad inserire variabli e calcoli di probabilità che improvvisamente sparirono quando il suo cervello si sforzò di evocare le ultime parole di Sophia:
« Per quello che mi riguarda non ha significato nulla »
La ragazza non voleva comparire come incognita in quell’equazione.
Quelle parole affilate gli avevano reciso il cuore con la precisione di un coltello. Proprio quando era convinto di aver imparato a leggere Sophia Travis e la sua malcelata bontà, lei si era rivelata cinica e spietata. Cominciò quindi a rimurginare sull’eventualità di averla idealizzata e che, se era tanto legata ad una come Debrah, allora evidentemente Sophia non aveva davvero nulla in comune con la bellezza d’animo della gemella.
Stava cercando disperatamente di screditare quella ragazza ma, ben presto, nella sua mente iniziarono a farsi strada prepotentemente i ricordi dei momenti più intensi vissuti assieme a lei a San Francisco.
Rivisse l’attimo in cui l’aveva vista tuffarsi nell’oceano per soccorrere una persona o quando grazie a lei, aveva finalmente reagito a sua madre Ingrid.
Sophia era molto più della gemella cinica e ribelle di Erin.
In quella ragazza, Nathaniel non aveva resistito al richiamo della sua determinazione e del suo desiderio spasmodico di essere libera. Qualità che lui aveva sempre agognato ma soffocato.
« Per quello che mi riguarda non ha significato nulla »
Quelle parole impietose continuarono ad echeggiare nella testa del biondo il quale, più le riascoltava, e più si rendeva conto di quanto lo ferissero nell’animo.
 
Il getto di acqua calda che gli aveva irrorato la pelle aveva sortito un effetto ristorativo non solo sulla sua tensione muscolare ma aveva contribuito a rilassare la mente. Uscendo dalla doccia, Nathaniel cercò di fare mente locale sul da farsi. Doveva abbattere il muro di silenzio che aveva eretto da quando era salito sull’aereo e contattare Rosalya del suo arrivo.
Se la soluzione più giusta era fingere che nulla fosse cambiato, allora anche lui dissimulare le sue angosce. Digitò velocemente un messaggio per la sua ragazza, scusandosi per la scarsa loquacità che imputò alla stanchezza e si distese sul letto. Pregò che la risposta gli arrivasse il più tardi possibile, così da poter trascorrere quella serata nel più totale isolamento. Aveva bisogno di dedicarsi a qualche attività intelletuale come leggere un buon libro e le eventuali notifiche di bentornato da parte dei suoi amici, rappresentavano un memorandum della sua vita sociale fuori da Villa Daniels.
Sospirò mentre usciva dal bagno e lasciò che la magra consolazione della deliziosa cena promessa da Molly lo confortasse.
Tuttavia, una volta raggiunta la sfarzosa sala da pranzo, notò con estremo disappunto che la tavola non era stata ancora apparecchiata.
« Ma Molly stasera non si cena? » le chiese non appena riconobbe i passi alle sue spalle.
« Tuo padre è stato trattenuto in ufficio e tua madre è con lui » lo informò la donna ma prima che informasse il ragazzo circa lo status del suo pasto, Nathaniel la interruppe incredulo:
« A lavoro? Mamma è in azienda con mio padre? »
La governante intuì la natura di quella perplessità e, sorridendo comprensiva aggiornò il figlio che la coppia di genitori era gradualmente ma inesorabilmente cambiata in quegli ultimi mesi. Ingrid in modo più repentino e lampante del marito poichè da quando era tornata dalla California aveva messo da parte il suo proverbiale snobbismo e aveva iniziato ad interessarti attivamente alle sorti della compagnia. Le mancava la formazione tecnica per poter dare un contributo significativo all’azienda di famiglia, ma con la sua conoscenza dello svedese, si era rivelata una risorsa insperata nelle comunicazioni con uno dei loro maggiori partner commerciali redisenti a Stoccolma. Inoltre, anche il suo rapporto con Ambra ne aveva beneficiato: la donna infatti aveva smesso di provocare la figlia circa la sua relazione con Armin il quale, era ormai il benvenuto a casa Daniels:
« Cioè » si corresse Molly « non voglio dire che tua madre l’abbia ancora approvato totalmente, ma credo che abbia capito quanto quel ragazzo sia giusto per Ambra e non lo tratta più con la freddezza di prima »
« Incredibile » borbottò il biondo affascinato. Tuttavia, per quanto quelle informazioni fossero state assimilate positivamente, Nathaniel non riusciva a godersi appieno la felicità che doveva scaturire da esse.
« Mentre tua sorella è da Armin » completò Molly.
« Beh gentile da parte sua non essere a casa proprio la sera in cui sono tornato » commentò ironico.
Dentro di sè però stabilì che quella notizia era un’altra nota di sollievo che rinfrancava il suo umore. Potersi isolare da tutti non sembrava più una prospettiva così remota.
« Eh, l’amour c’est l’amour » recitò la governante « comunque ti ho fatto preparare la cena nella depandance »
« Nella depandance? »
« Sì, perchè abbiamo tinteggiato ieri il salone e si sente ancora un forte odore di vernice » lo aggiornò Molly, chiudendogli davanti alla faccia la porta della stanza. Confuso da quel gesto, il ragazzo obiettò:
« Io però non sento nulla »
Si curvò circospetto verso la donna e scrutandola direttamente negli occhi, indagò:
« C’è qualcosa che non va, Molly? »
La vide avvampare davanti al suo naso e gonfiarsi le gote, come se quella domanda le fosse risultata del tutto inappropriata:
« Vai nella depandance e mangia! Cosa sono tutte queste domande? »
Confuso ma divertito, Nathaniel alzò le braccia in segno di resa e si avviò verso il giardino. Lo attraversò, per raggiungere la piccola abitazione che veniva usata come alloggio per gli ospiti.
La depandance dei Daniels non aveva nulla da invidiare all’abitazione succursale che esisteva in casa Gilmore nell’universo di Una mamma per amica. Era un appartamento di un piano attaccato alla piscina e che godeva di una certa privacy rispetto alla dimora principale. Era dotato di una spaziosa zona giorno e un’accogliente camera da letto. Mancava solo la cucina ma, del resto, con lo stile dei vita dei Daniels, non era necessario pensare ad uno spazio in cui i membri di quella famiglia dovessero mettersi ai fornelli. Per quello c’era la cucina della casa principale, dimora dello storico cuoco di famiglia e del suo piccolo staff. Proprio perchè così accogliente, Nathaniel pensò di approfittare di quell’angolo di pace per trascorrere una  notte tranquilla, senza dover necessariamente incrociare altri inquilini di casa sua, primi tra tutti i membri del suo nucleo familiare.
Più si avvicinava a quella depandance però e più avvertiva una strana sensazione.
Molly gli aveva promesso una cena pronta, eppure le luci erano tutte spente.
Aveva già posato la mano sulla maniglia quando un pensiero angosciante gli attraversò la mente.
Ormai però era troppo tardi:
« BENTORNATO!!! »
Nathaniel trasalì di fronte al coro di amici che aveva accolto chiassosamente il suo arrivo.
Quella che doveva essere una piacevole sorpresa, era per lui una tremenda imboscata.  
Rosalya gli gettò le braccia al collo, mentre lui dondolò nel tentativo di tenersi in equilbrio. Coriandoli di plastica erano volati ovunque, riempiendo di colore e allegria un ambiente altrimenti elegante e sui toni del beige.
« Sorpresa!!! » gli urlava Rosalya nelle orecchie, incapace di staccarsi da lui.
Lui che si guardava attorno estremamente disorientato.
Tutti sorridevano felici ma Nathaniel si sentì morire dentro per la sua incapacità di condividere quella gioia.
Non in quel momento.
Improvvisamente diventò paranoico e gli sembrò di avere ancora addosso l’odore di Sophia o una qualche traccia che dichiarasse la sua colpevolezza. Doveva riuscire a guardare i suoi amici in faccia, fingendo una serenità che però gli risultava sempre più estranea.
Sciolse l’abbraccio di Rosalya che, nel frattempo aveva cercato le sue labbra.
La baciò frettolosamente, a stampo, borbottando:
« C-che bella sorpresa... Non me l’aspettavo proprio »
Passò sbrigativamente in rassegna ogni singolo volto: Rosalya, Kentin, Iris, Lysandre, i gemelli Armin e Alexy, sua sorella Ambra. Tutti gli sorridevano ignari del suo disagio e dei tormenti che gli affliggevano il cuore.
Quando però il suo sguardo si posò sull’unica persona che non si era sbracciata o affannata ad avvicinarsi a lui, Nathaniel avvertì un’ondata di calore e rassicurazione. Con un’espressione eloquente, Castiel lo fissava complice con le braccia incrociate davanti al petto. A stento tratteneva un sorrisetto beffardo perchè sapeva quanto quelle situazioni lo mettessero a disagio. Gli bastò quella singola presenza a farlo sentire meno frastornato e solo.
Fu allora che si rese conto che, prima di Molly, Ambra o addirittura di Rosalya, la persona che gli era mancata di più in tutti quei mesi era proprio il suo migliore amico Castiel.
« Nath, come stai? » aveva esclamato una voce alla sua destra.
Quella voce lo fece trasalire e per certi versi lo spaventò più di quanto avesse fatto il saluto fragoroso con cui era stato accolto da tutti pochi istanti prima.
Si voltò di scatto e, per un attimo, vide Sophia davanti a lui.
Sbattè gli occhi e si rese conto che in quella stanza c’era una persona che, inevitabilmente, gli avrebbe ricordato il suo crimine ogni volta che i suoi occhi si fossero posati su di lei.  
Il ragazzo impallidì mentre Erin, confusa da quella reazione rimase in silenzio. Boccheggiò esitante ma prima di riuscire a formulare una risposta sensata, si sentì afferrare le spalle e venne trascinato con poca grazia verso il divano:
« Ti serve una birra, amico » sentenziò Castiel, mettendogli una lattina tra le mani e urlò:
« Alexy, alza la musica! »
 
Nonostante un inizio alquanto zoppicante, la festa aveva preso la giusta piega. Nathaniel era sopravvissuto alla prima mezz’ora di domande e attenzioni che si erano concentrate su di lui. Rosalya gli era rimasta incollata trasognante, accarezzandogli la schiena e rivolgendogli sorrisi innamorati.
Fortunatamente, la numerosità dei suoi amici era tale che ben presto si erano divisi in gruppetti. Chi come Erin, Rosalya, Iris e Alexy si erano messi a ballare, altri come Ambra, Armin, Lysandre e Violet erano impegnati in una ben più posata conversazione. Con sollievo, Nathaniel si era quindi ritrovato accerchiato solo da Castiel e Kentin, con cui aveva avuto l’occasione di interagire durante la loro vacanza alle Bahamas. La loro conversazione però venne interrotta da Alexy che, dopo aver trascinato Ambra e Armin, era riuscito a convincere anche Kentin a unirsi ad una sorta di ballo karaoke.
« Dai Nathaniel, vieni a cantare! » aveva cercato di trascinarlo Alexy, esultando per il successo della serata.
« Magari dopo » aveva sorriso il biondo e prima che l’organizzatore potesse insistere, Castiel glie venne in soccorso.
« Ti fumi una cicca con me? »
Quella proposta fu l’offerta migliore che Nathaniel potesse ricevere. Non esitò un secondo ad alzarsi ma tastandosi le tasche, ricordò di essere sprovvisto di tabacco:
« Te la do io, muovi il culo » lo spronò Castiel, intento a rollarsi la propria e lasciandosi alle spalle i borbottii delusi di Alexy.
Da quando era arrivato alla depandance, il rosso era stato il marionettista che lo spostava a suo piacimento e ciò fu vitale per mascherare il disorientamento di Nathaniel.
Si sedetterò sulle sedie in vimini vicino al bordo piscina, sollevati dal lasciarsi alle spalle il chiasso proveniente dall’interno dell’abitazione.
Lì fuori i suoi risultavano estremamente attutiti e la consapevolezza di non essere uditi, agevolò la conversazione.
« Così ti aspettavi il tonno in crosta di pistacchi » lo derise Castiel, imitando malamente un accento francese e riprendendo una conversazione avviata poco prima.
Nathaniel sogghignò e scrutando il cielo nero, borbottò:
« Non serve dirtelo vero che questa sorpresa mi ha destabilizzato? »
«  Se ti riferisci alla mancanza del sashimi di tonno, ci dovrebbero essere delle scatolette in dispensa »
« Che zotico che sei. Io mangio solo tonno rigorosamente fresco, dei mari della Scandinavia » esclamò Nathaniel cercando a sua volta di imitare un accento snob.
Accettò l’offerta del tabacco che gli veniva allungato da Castiel e iniziò a frugare alla ricerca di un filtro mentre l’amico soggiungeva:
« Ho cercato di dirglielo che le sorprese non ti fanno impazzire ma ... »
« Grazie lo stesso » lo fermò Nathaniel « del resto, è normale che non ti abbiano creduto. Sembra strano no? A tutti piacciono le sorprese »
« A me fanno cagare » replicò stizzito l’altro, emettendo una nuvola di fumo.
« Onesto » ridacchiò Nathaniel « comunque grazie per essere venuto »
« Beh, è pur sempre una festa. Mica sono venuto solo per te, sfigato » lo punzecchiò.
Durante la sua permanenza di Califonia, la comunicazione tra i due amici era stata così puntuale che erano ben pochi gli argomenti di cui erano all’oscuro l’uno dell’altro.
Parlarono quindi di cose alquanto superficiali finchè fu Nathaniel a decidersi a portare la conversazione su un piano più intimo. Ancora non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di confessare tutto a Castiel ma, più parlavano insieme e più sentiva che il ragazzo fosse l’unica persona con il quale era disposto ad aprirsi.
Tuttavia, se ciò fosse accaduto, ci sarebbe arrivato per step.
Nel frattempo c’era un altro argomento che gli premeva e che non lo riguardava direttamente:
« Con Erin come va? »
Preso in contropiede, Castiel gli lanciò un’occhiata fugace, per poi tornare a fissare il riflesso della luna sulla piscina.
« Sempre uguale » borbottò annoiato, piegando il collo di lato, come se quell’argomento non lo toccasse particolarmente.
« Nessun progresso? »
« Sempre uguale » ripetè Castiel monotono.
Nathaniel soppesò quelle parole e rimase in silenzio.
Non era la prima volta che toccavano quel tasto e nell’ultimo periodo aveva imparato a lasciare al rosso il tempo di metabolizzare l’argomento e decidere se fosse in vena di affrontarlo. A quanto pare, quella sera lo era dal momento che improvvisamentè sbottò:
« Cioè, ci sono dei momenti in cui sento che sto per dirle tutto, sul serio... ma poi penso al casino che ne uscirebbe se fossi l’unico coglione che sente certe cose, capisci? »
Nathaniel non rispose ma era chiaro che Castiel potesse beneficiare della sua più completa attenzione, così continuò:
« Siamo nella stessa cazzo di classe, gli stessi cazzo di amici »
« Beh grazie tante! » ridacchiò allora il biondo, sperando di alleviare il visibile nervosismo dell’amico.
« Lo sai cosa intendo » lo freddò per l’appunto Castiel « hai presente quando vorresti fare tantissimo una cosa ma la consapevolezza di quanto sia potenzialmente distruttiva ti frena dal provarci? »
Potenzialmente distruttiva. Nathaniel soppesò quelle due parole e le associò istintivamente alla sua debolezza per Sophia. In quel caso aveva ceduto alla tentazione, nonostante quella che Castiel avesse definito una cosa potenzialmente distruttiva. Ma nel suo caso, le conseguenze della sua decisione non si sarebbero limitate a lui stesso ma mi sarebbero ripercosse anche su alcuni dei suoi amici e, prima di tutti, su Rosalya.
Cercando di allontanare quelle riflessioni, tornò a concentrarsi sull’argomento iniziale:
« Io credo solo Cas che prima o poi dovrai venire a patti con quello che provi per Erin. Voglio dire... quanto pensi di farcela ancora senza dirle nulla? »
Nathaniel ricordò quindi una conversazione avvenuta settimane prima quando, sfiorando l’argomento Erin, Castiel si era liberato la coscienza:
« Quando stavate insieme, l’ho baciata » gli aveva confessato. Sorpreso da quell’uscita, il biondo aveva chiesto spiegazioni che tuttavia si erano limitate a descrivere le circostanze di quell’episodio e ad informarlo che la ragazza non aveva consapevolezza di quanto fosse successo.
« Avresti dovuto farlo prima » aveva quindi concluso il biondo, lasciando così cadere la conversazione.
Tornò al presente in cui lui e Castiel si erano isolati dalla festa in suo onore e stavano per l’appunto parlando di Erin.
« Non rompere il cazzo anche tu. Ci pensa già Lysandre. Mi passerà prima o poi » borbottò il rosso, grattandosi la tempia stizzito.
« Ma se ti piace da prima che io e lei ci mettessimo insieme! » sbottò spazientito l’amico.
« Possiamo non rinvangare questa parte? » sibilò il rosso a denti stretti « questa ancora non l’ho digerita »
« Mica pensavo che ti piacesse sul serio all’epoca! E poi babbeo, se stiamo tutti ad aspettare i comodi tuoi, Erin morirà vergine »
Quella che voleva essere una battuta detta in leggerezza però venne recepita da rosso con un malcelato interesse. Nathaniel lo vide voltarsi interessato verso di lui e arrossire leggermente:
« Ah ma perchè...cioè... » bofonchiò Castiel, distogliendo poi lo sguardo.
Nathaniel sorrise felino, consapevole di aver stuzzicato la curiosità dell’amico ma intendeva godersi ancora un po’ il tenero disagio in cui si era cacciato:
« No dico...tu e lei » cercò di articolare il ragazzo con gesti di bizzarra interpretazione:
« No, non abbiamo mai fatto sesso se è quello che vuoi sapere. Io avrei voluto » ammise, mentre Castiel lo gelava con lo sguardo « ma lei non era pronta... per quello che ne so io, non l’ha mai fatto con nessuno »
Per quanto l’interlocutore avesse cercato di celare la sua reazione, era palese che avesse sortito un effetto piacevole sul suo umore.
« Chi è ancora vergine? »
La voce acuta di Rosalya era comparsa all’improvviso alle spalle dei due ragazzi, facendoli trasalire:
« Nathaniel » sbottò Castiel, infastidito dalla presenza della ragazza. Nutriva una sorta di gelosia verso di lei, poichè finiva sempre per sottrargli l’attenzione delle persone a cui teneva di più, in primis Erin e Nathaniel. Paradossalmente quel sentimento non solo era reciproco ma era addirittura enfatizzato nella stilista.
« Fosse anche vero, non lo sarai certo dopo stanotte » gli sussurrò Rosalya maliziosamente.
L’intenzione, seppur poco convinta, era di comunicare il messaggio con una certa discrezione ma suo malgrado Castiel aveva sentito perfettamente.
Non che quei discorsi lo mettessero a disagio ma da quando aveva chiuso la sua relazione con Debrah, la mancanza della sfera sessuale nella sua vita diventava sempre più frustrante. Per un ragazzo come lui sulla soglia dei vent’anni poi era ancora più difficile soffocare certi desideri. La casta attrazione per la sua compagna di banco era una tortura quotidiana che poteva essere appagata solo in parte nell’intimità della sua stanza ma che di certo non lo soddisfava allo stesso modo.  
« Ti dispiace se ne parliamo dopo? » esclamò Nathaniel, fissando Rosalya con un’espressione indecifrabile.
Castiel tornò a concentrarsi sulla coppia, colto alla sprovvista dalla risposta incerta dell’amico. Se il rosso era basito, Rosalya era decisamente irritata:
« Ti ho fatto qualcosa? » indagò lei.
« No, no scusami. E’ che sono stanco e poi stavo parlando con Castiel mentre noi stiamo insieme dopo quindi... »
L’amico palleggiava lo sguardo tra i due, confuso da quella scena, mentre Rosalya girava i tacchi stizzita:
« Allora scopati Castiel! A quanto pare preferisci rossi! »
Quella battuta fece trasalire Nathaniel che in quel momento pensò ad un riferimento diverso da quello inteso dalla sua ragazza. Avesse avuto un’attrazione omosessuale per Castiel, probabilmente sarebbe stato più giustificato e capito ma, purtroppo per lui, era un’altra la rossa da cui si sentiva attratto.
Colpito dal silenzio dell’amico, Castiel allora riprese parola:
« Anche a me sembri un po’... diverso, Nate. Tutto ok? »
Non era sicuro che quel diverso fosse l’aggettivo migliore per descriverlo ma non riusciva a spiegarsi quell’atteggiamento così distaccato verso la stilista. Dal canto suo, se fino a quel momento Nathaniel si era imposto l’omertà, sapeva che un’occasione del genere non si sarebbe ripresentata tanto spontaneamente.
Potenzialmente distruttiva.
Come la bomba che stava per sganciare.
Castiel raccolse la lattina che aveva appoggiato al pavimento a bordo piscina e realizzò suo malgrado che fosse vuota. Si era appena alzato in piedi con l’intenzione di recuperarne un’altra all’interno della depandance che Nathaniel mormorò:
« Ieri sono andato a letto con Sophia... la sorella di Erin »
Il rosso si voltò di scatto, tornando a rivolgere tutta la sua attenzione sul biondo.
« C-CHE?! »
Nathaniel non rispose ma si limitò ad annuire con espressione colpevole.
Frastornato, Castiel sgranò dapprima gli occhi, boccheggiò ed infine urlò:
« MA SEI UNA MERDA! »
« Non alzare la voce! » gli intimò Nathaniel, guardandosi attorno circospetto.
L’amico era rimasto in piedi davanti a lui e calmarsi apprariva l’ultima delle sue intenzioni. Iniziò a camminare nervosamentelungo il bordo della piscina ma poi tornò sui suoi passi e, abbandonandosi pesantemente sulla sedia, piegò il busto verso Nathaniel, bisbigliando furente:
« E me lo dici così? »
« E come dovevo dirtelo, idiota? » sussurrò l’amico a sua volta, contagiato dal suo nervosismo.
« Non dovevi dirmelo affatto! Metti nella merda anche me ora! Sei un coglione, un coglione » ripetè Castiel sconvolto. Se non fosse per l’implicazione di tutto quello che poteva succedere, la sua reazione risultò quasi comica agli occhi del biondo mentre per il ragazzo, fresco di quella notizia, risultava tutto così assurdo che non sapeva da che parte iniziare:
« Cioè, ma ti pare che ti metti insieme a Cerbero in persona e poi fai questa stronzata? Se lo viene a sapere ti trovi appeso per le palle al cancello della scuola! »
Nathaniel stava per aprire bocca, quando Castiel continuò:
« Perchè poi giustamente tu che fai? Hai avuto Erin, ma no, non contento la scarichi, che Cristo santo sai cosa avrei dato per essere nei tuoi panni, per poi metterti con Rosalya, dopo anni che le morivi dietro. Quando finalmente si stava sistemando tutto, ti fai pure la sorella di Erin? Hai beccato un’offerta paghi uno prendi tre? »
« Castiel calmati, stai dicendo un sacco di cazzate » mormorò Nathaniel.
A quel punto cominciò a dubitare della sua decisione di aprirsi con l’amico. Magari doveva dargli tempo per assimilare quella notizia, ma sul momento non si stava rivelando di nessun aiuto.
« Ora sono tuo complice lo sai vero? Mi hai messo in una posizione di merda, Nate»
Nathaniel lo lasciò farneticare per qualche altro minuto finchè finalmente l’amico riuscì a calmare i propri deliri isterici:
« Senti, non voglio dettagli inutili su come è successo ma il perchè a questo punto me lo devi » sentenziò, girandosi la seconda sigaretta. Il nervosismo veniva tradito dall’impacciataggine con cui il rosso cercava di allineare il tabacco lungo la cartina, gesto che gli risultava di una spontaneità dettata dall’esperienza. Inoltre aveva finito da poco di fumare la sigaretta precedente e già era passato alla successiva.
Nathaniel inspirò, cercando di raccogliere le idee ma, dopo estenuanti secondi di silenziosa riflessione, mormorò sommessamente:
« Non lo so neanche io perchè »
« NON LO S- » iniziò ad urlare Castiel con un tono che gli era uscito talmente acuto da risultare femminile. Lo riabbassò subito, sia per vergogna che per assecondare l’occhiataccia di Nathaniel « come cazzo sarebbe a dire che non lo sai? » sibilò rabbioso «cos’è te la sei trovata sopra mentre dormivi? Se è così ti prego spiegami perchè mi interessa »
« Vuoi piantarla con le stronzate e stare serio? » lo redarguì Nathaniel.
Se non altro, come accadeva di sovente in passato, parlare con Castiel gli permetteva di tirare fuori il suo lato più aggressivo e reattivo. Del resto, era connaturato nella natura del rosso la capacità di scatenare affettuosi istinti omicidi ai suoi danni.
« Ma sono serio, porca puttana! Non tradisci così la tua ragazza se poi non sai nemmeno perchè è successo! »
Quella considerazione fu la prima cosa intelligente che Nathaniel aveva udito da quando avevano intavolato quella discussione. Evidentemente Castiel si stava calmando ed era pronto ad affrontare quel problema con la razionalità di cui il biondo aveva bisogno.
Nathaniel sapeva che l’orgoglio smisurato del rosso era giustificato da un’ammirevole integrità morale in fatto di relazioni e sentimenti. In fondo in fondo, Castiel era un romantico, un uomo di altri tempi che credeva fermamente in valori quali l’onestà e la fiducia. Nonostante questa consapevolezza, che lo faceva sentire di molto inferiore, l’amico lo provocò:
« Non tutti hanno la tua nobiltà d’animo, Cas... e comunque un giorno potrebbe capitare anche a te »
Castiel inspirò del fumo e rimase in silenzio. Non sapeva se aggiungere altro ma il musicista sembrava assorto in una personale riflessione:
« Non succederà » concluse infine « almeno, non se si trattasse di tradire Erin »
« E come fai ad esserne così sicuro? » lo incalzò Nathaniel.
« Perchè avrei troppa paura di perderla »
Fu in quella frase allora che Nathaniel aggiunse una seconda importante considerazione alla bilancia dei suoi sentimenti. Quel semplice ragionamento esposto da Castiel gli si presentava davanti nella sua brutale semplicità: la sua paura di perdere Rosalya non era paragonabile a quella di perdere Sophia.
Vide un corvo posarsi sul ramo di un albero e gli sembrò che guardasse nella loro direzione, come se volesse assistere a quella discussione.
« Credo che Sophia mi piaccia sul serio » ammise infine Nathaniel, torturandosi l’unghia del pollice.
Castiel si grattò il capo, incapace di commentare.
Da un lato avrebbe voluto rinfacciargli la facilità con cui dichiarava il suo amore a tutte le ragazze che conosceva, prima Erin, poi Rosalya e infine Sophia. Il tutto nell’arco di appena sei mesi. Tuttavia non era quello il momento per i puzecchiamenti e recriminazioni. A lui ne erano piaciute solo due in diciannove anni e si chiese a quel punto quale fosse la situazione da considerare normale.
« Mi sono comportato da stronzo » aveva continuato Nathaniel, davanti al silenzio del suo amico « è successo meno di ventiquattr’ore fa, non l’ho ancora metabolizzato e poi c’era Debrah quind- »
« Debrah? »
Nathaniel si zittì.
Gli era scivolato quel nome prima che facesse in tempo a rimangiarselo. Ovviamente era intenzionato a svelare all’amico quella scomoda e inaspettata amicizia tra la sua ex e la sorella di Erin, ma al momento non voleva mettere troppa carne al fuoco. Indeciso sul da farsi, il biondo temporeggiava ma quell’attesa non faceva altro che accrescere il nervosismo e l’interesse del musicista:
« Senti Nate, parla o ti prendo per le palle da parte di Rosa. Che cazzo c’entra Debrah? »
 
Dopo essere tornata nella depandance, Rosalya si era limitata a unirsi agli altri fingendo indifferenza ma per Erin era palese la drammatica scomparsa della sua allegria contagiosa.
Approfittando di un frangente in cui i presenti si volevano accordare per un gioco da tavola, la mora si avvicinò all’amica e la prese in disparte:
« Ehi Rosa, tutto a posto? »
Guardandola di sottecchi e assicurandosi di non essere sentita dal resto degli amici, la ragazza sbottò:
« Un corno! Sono settimane che non mangio niente per questo giorno, Erin! Mi avete detto tutti che sono stupenda in questo vestito, persino Castiel, Erin! Castiel mi ha squadrata... che è già tanto per lui che non fa altro che guardare te »
« Smettila di dire sciocchezze e non divagare » la redarguì Erin, lusingata per quel commento, a suo avviso, infondato.
« Comunque, sono io o Nathaniel mi sta evitando? Sono secoli che non ci vediamo e non ha voglia di toccarmi? Di abbracciarmi, baciarmi? Gli ho fatto qualcosa? » la tempestò di domande Rosalya, sentendo il battito accelerarle e il respiro farsi più frenetico « se ne sta tutta la sera a confabulare con il suo compagno di merende che, diciamocelo, non è proprio Mister Loquacità. Ma che c’avranno da dirsi? Con lo spessore emotivo di Castiel poi? »
Erin sorrise paziente perchè era inutile far notare a Rosalya quanto invece il rosso fosse bravo a celare la propria sensibilità. Non era quello il punto focale dello sfogo dell’amica e pur cercando di essere imparziale, la mora condivideva perfettamente le perplessità di Rosalya.
« E se fosse solo molto stanco per il viaggio? » tentò insicura ma dallo sguardo truce della sua interlocutrice, capì di non essere convincente. Si sforzò allora di pensare a qualcos’altro e in quell’istante ricordò le parole del rosso quando si era parlato per la prima volta della festa a sorpresa:
« Forse aveva ragione Castiel quando ci sconsigliava di piombargli in casa così, Rosa. Magari è un insieme di cose, questo fatto e anche la stanchezza del viaggio... e lui stasera fa fatica ad assecondare la tua energia »
Rosalya soppesò quelle parole.
Era chiaro che non la convincessero a fondo ma almeno il tentativo di Erin di risollevarle l’umore e tranquillizzarla, bastò a strapparle un sorriso. La mora era ormai la prima persona a cui si rivolgeva quando qualcosa la turbava, finendo per scalzare il primato che Alexy si era conquistato in tanti anni di amicizia. Con Erin, e la dolcezza della sua personalità, Rosalya sentiva che il lato più amaro del suo essere finiva sempre per essere mitigato:
« Come farei senza di te, Cip? Ci fossimo innamorate tra di noi a quest’ora saremo la coppia più felice del mondo »
Quella constatazione, per quanto familiare e ribadita più volte in passato, fece ridere l’amica a sua volta e, con un tenero abbraccio, si riunirono al resto della compagnia.
 
« ...Debrah non c’era più quando ho lasciato l’appartamento, immagino fosse in camera sua. Non so nient’altro Cas, davvero, me ne sono andato da lì con più domande che risposte »
Castiel, che ora aveva raggiunto una certa compostezza, aveva ascoltato in silenzio tutta la storia dell’amico. Gli mancavano ancora dettagli su come fosse nato l’amore per Sophia, visto che non erano passate troppe settimane da quando i due erano stati insieme alle Bahamas. Non aveva neanche capito se Nathaniel fosse davvero convinto di riuscire a tenere quel segreto per sempre o se avesse messo in conto di liberarsi la coscienza ed essere onesto.
E poi c’era l’argomento Debrah.
Stranamente, al di là dell’incredibile coincidenza di scoprire in lei un’amica di Sophia Travis, Castiel non riusciva a sentire altro. Aveva anestetizzato ogni sentimento nei suoi riguardi e ora non capiva cosa avrebbe dovuto sentire.
Rabbia per averlo mollato di punto in bianco? Rancore per averlo tradito? Aveva perdonato Nathaniel, senza voler sapere esattamente cosa fosse accaduto tra di loro, avrebbe potuto fare lo stesso con lei.
Per un attimo nella sua testa contemplò l’eventualità che Debrah potesse tornare da lui.
Un pensiero che fino a Settembre scorso lo assillava, nella speranza che si potesse concretizzare.
Poi era arrivata Erin e quella fantasia era sparita all’improvviso.
Eppure l’aveva amata davvero.
Debrah era stata la sua prima ragazza, la sua prima esperienza per tante cose. Le doveva molto della persona che era diventato, nel bene e nel male.
« Quindi ora Nath, che pensi di fare? Pensi davvero che fare finta di nulla servirà a farti stare meglio? » chiese, allontanandosi dalle sue nostalgiche riflessioni:
« No, ma più di liberarmi la coscienza, chi ne gioverebbe? Sophia non mi vuole e io a Rosalya voglio un sacco di bene »
« Ma vuoi stare con lei? » lo interruppe Castiel con serietà.
« Io... »
« Ho capito » lo freddò lui, di fronte alla sua esitazione.
« No, Castiel non è così semplice » patteggiò Nathaniel, innervosendosi.
« Sì invece, Nate, è ora che dovresti rispondere senza esitare! Perchè ora che sei a tanto così da perdere Rosalya dovresti sapere se la vuoi o no » ruggì Castiel spazientito.
Nemmeno per il rosso era semplice analizzare la situazione nella sua interezza e quella confusione lo faceva sentire insicuro e nervoso.
Rimasero in silenzio perchè, di fronte a quell’ultima provocazione, Nathaniel non sapeva più che argomentazioni usare. Castiel lo squadrò e vide una persona tormentata dai pensieri, incapace anche solo di un sorriso finto. Spense la sigaretta contro il pavimento e si alzò dalla sedia:
« Vado a dire a tutti che ti è salita la febbre e che sei tornato nella tua stanza. Non possono vederti in queste condizioni »
Nathaniel si limitò a riflettere per qualche istante, prima di annuire convinto. Era l’unica soluzione temporanea per un problema che non si sarebbe mai risolto definitivamente. Se non altro, dopo aver passato ore a chiacchierare, il biondo seppe di aver fatto solo una cosa giusta quel giorno: essersi confidato con Castiel.
Proprio come ai vecchi tempi, parlare con lui rappresentava la strategia più efficace per cercare sollievo ai suoi problemi personali. Fino a quel momento Castiel era stato un ottimo orecchio per i problemi con la sua famiglia e suo padre in particolare, ma era la prima volta che affrontavano questioni di cuore così intimamente.
Si congedò, dopo averlo ringraziato con un affetto che voleva dichiarare quanto gli fosse stato di sostegno.
« Buonanotte, amico » mormorò, allontanandosi e venendo avvolto dall’oscurità del giardino che lo proteggeva da chiunque volesse intercettarne il percorso.
 
 



Note dell’autrice:
 
Care lettrici, mi siete mancante, così come mi è mancato scrivere IHS.
Sono così felice che, se state leggendo queste parole vuol dire che sono riuscita nel mio intento! Avevo promesso (da qualche parte su EFP se non erro) che ci fossero voluti anche dieci anni, IHS avrebbe avuto la sua conclusione (essendo stata publicata ad Aprile 2014, ci sono andata molto vicina!)
Ebbene, è così, ormai non ci sono più scuse. La maggior parte dei capitoli è ormai abozzata.  Vedrete quindi cosa ho sempre avuto in mente sin da quando ho realizzato che questa ff stesse diventando molto più di un passatempo da concludere in 10 capitoli. Anzi, ricordo che fu proprio con il capitolo 10, quando Erin e Castiel si trovano a passare la serata al liceo che ho iniziato ad appassionarmi alla storia che io stessa stavo creando.
Spero che questi anni di attesa mi abbiano fatto bene e che mi troviate sapientemente invecchiata, come un buon vino. Dal canto mio, essendo più matura rispetto a quando ho iniziato, mi sono spinta a descrizioni ed eventi che prima non avrei saputo affrontare con la giusta maturità. Mi sono resa conto che non avevo ancora reso giustizia a quanto i maschi di quell’età possano essere più interessati a certi “bisogni fisiologici” e che, presa molto dall’atmosfera da ff, stessi creando delle coppie di diciottenni come se fossero tutte pronte per il matrimonio. Per cui, spero vi piaccia quella che io chiamo la terza IHS, quella più adulta che ho sempre immaginato di presentarvi (anche se non dopo tutti questi anni!).
Troverete questo capitolo anche su EFP, anche se ormai temo che tanto il mio account quanto quello di chi mi seguiva da lì sia stato dimenticato. Ci sono affezionata sia perchè da lì è iniziato questo viaggio e sia perchè le recensioni più lunghe e sentite sono postate lì e credo che sia lì che IHS dovrà sempre risiedere.
 
A presto!
 
Elena

Ritorna all'indice


Capitolo 60
*** Fratture ***


CAPITOLO 60 – Fratture


« Ancora non riesco ad abituarmi a vedere ragazzi così giovani che vengono qui »
« Se è dura per te vedere queste scene, immaginati quello che stanno passando loro »
Due donne sulla cinquantina erano intente a ripiegare delle coperte, abbandonate sopra delle brandine all’interno di un centro di accoglienza, sospirando mestamente sull’ingrata sorte toccata alle persone che ogni giorno affollavano la struttura per cui lavoravano.
« Lo so Gabriela » sospirò una delle due « ma è la prima volta che viene qui una ragazza dell’età di Mackenzie »
Gabriela sollevò le braccia e, sistemando le coperte all’interno di un armadio a due ante, sospirò:
« Solo perchè hai appena iniziato questo lavoro, Daisy. Comunque dobbiamo avvertire Burt del centro sociale. Forse lui può fare qualcosa »
« Tipo? »
« Beh, inserirla in un programma di affido familiare ad esempio »
« Ma Mackenzie non è orfana » puntualizzò Daisy, seguendo la collega nel corridoio.
« Fa davvero differenza? »

 
L’indomani, dopo che la macchina di Dajan si era fermata davanti casa sua, Castiel entrò con un’espressione tetra. Per tutta la notte non aveva chiuso occhio, tormentato da quell’omertosa posizione in cui l’aveva incastrato Nathaniel.
Appena rientrato nella depandance, aveva attirato l’attenzione dei suo amici, poichè la sua presenza non era stata accompagnata dalla controparte che l’aveva intrattenuto e isolato per tutta la serata.
Nonostante la perplessità generale, i suoi amici avevano creduto a quella febbre salita all’improvviso. Si erano rammaricati di non aver nemmeno potuto salutare il festeggiato ma Castiel li aveva rassicurati che Nathaniel si reggesse a mala pena in piedi. Per lui che quanto a doti teatrali aveva dato prova in passato di essere alquanto carente, quella era semplicemente l’ennesima occasione di spalleggiare un caro amico in difficoltà. Rosalya si era addirittura sentita in colpa e, nel malessere fisico del suo ragazzo, trovò la giustificazione che cercava del suo strano comportamento.
Solo Lysandre aveva lanciato uno sguardo indecifrabile a Castiel che, nel tentativo di deviarlo, aveva solo aumentato i sospetti.
Il rosso aveva poi riaccompagnato a casa Erin e, come sempre, erano rimasti a lungo a chiacchierare.
Non si stancava mai della sua compagnia, mix elettrizzante di discorsi impegnativi e frecciatine stuzzicanti.Tuttavia tra i primi aveva deliberatamente omesso la discussione segreta avvenuta con Nathaniel, nonostante le insistenze dell’amica nel volerne sapere di più. Anche se Nathaniel si fosse deciso a confessare il suo errore, non spettava al rosso diffondere quella notizia.
Aveva passato tutta la notte a pianificare soluzioni possibili ma l’unico scenario che gli si prospettava era una seconda e questa volta irreparabile spaccatura del gruppo: se Rosalya e Nathaniel si fossero lasciati in quel modo, lui ed Erin si sarebbero trovati su schieramenti opposti.
Eppure non era disposto a perdere l’amicizia del biondo una seconda volta. Aveva sofferto troppo per la loro separazione e non intendeva abbattare nuovamente il ponte che erano riusciti a ricostruire con tanta fatica.
« Si parte » aveva annunciato l’autista, riaccendendo il motore della vettura.
« YEEEEE! » esultarono in coro Erin e Trevor, sollevando le braccia verso l’alto come se fossero sulle montagne russe.
Fu allora che Castiel si destò violentemente dai suoi pensieri.
Avevano appuntamento con i cestisti più forti della Saint Mary, per cui Dajan si era offerto di dare un passaggio a tutti.  
« Finitela » borbottò il musicista, sentendo che alla sua lamentela si era unita in sincrono la voce di Jordan, la cameriera.  Quest’ultima, a causa dell’ingombrante presenza di Trevor, si trovava spiaccicata contro la portiera posteriore della macchina, ad interrogarsi sul motivo per cui era presente quel giorno in quella scomoda situazione. Se lo chiedeva anche Castiel che, distratto dai suoi pensieri, non aveva ascoltato la conversazione precedente tenutasi tra i tre passeggeri seduti dietro di lui.
« Ma quindi Jordan tu hai un anno meno di noi? » stava chiedendo Erin, indicando se stessa e Trevor.
Quest’ultimo era rimasto interdetto della facilità con cui Jordan aveva sin da subito instaurato un dialogo con Erin. Lui per contro, era abituato ad uno scambio caustico di battute affilate. La domanda di Erin aveva quindi calamitato l’attenzione del cestista che si era voltato di scatto verso la sua scorbutica vicina di posto.
« Come un anno in meno! » sbottò confuso « mi avevi detto che eri più vecchia di me! »
Jordan ghignò, replicando placidamente:
« Io non l’ho mai detto, hai fatto tutto tu, idiota »
« E in quale liceo è che vai? » si intromise nuovamente Erin.
« New Day »
Quell’informazione fece cadere un imbarazzante silenzio nell’abitacolo. Nelle menti dei quattro cestiti era ancora vivido il ricordo dell’ultima partita del torneo di basket. Con le sue scorrettezze ignobili, la New Day High School si era rivelata la squadra più disonesta che avessero mai affrontato.
« Avete una squadra di basket discutibile… » borbottò infine Castiel, rompendo il silenzio generale.
« Non abbiamo le risorse che avete voi della Atlantic » sputò seccamente Jordan « non tutti possono permettersi di andare ad una scuola per figli di papà »
Per la seconda volta quel commento fece scendere il gelo e tutti i progressi fatti da Erin nell’introdurre Jordan alla conversazione, erano andati vanificati. Castiel si morse la lingua, nel tentativo di esternare ulteriori insulti rivolti alla moralità di una squadra che per assicurarsi la vittoria, doveva ricorrere a infrazioni e falli non segnalati.
« Ma che dici, non è poi così prestigiosa… » tentò di mediare Trevor « la retta annuale non è poi così alta »
A quella frase, Jordan inspirò e strinse i pugni per la frustrazione.
Non faticava a credere che per i presenti la quota scolastica non rappresentasse un problema. Il solo fatto che frequentassero un liceo privato mentre lei era relegata in una scuola pubblica di periferia, la faceva sentire fuori luogo. Quei ragazzi non avevano idea di cosa significasse il duro lavoro, impegnare il tempo libero per guadagnarsi dei soldi per minimizzare l’onere economico sulla propria famiglia. Loro dovevano solo pensare a studiare e, da quello che aveva intuito, si dedicavano poco pure a quello.
« In realtà Trevor, la retta è piuttosto impegnativa » obiettò l’altra voce femminile  « diciamo giusta, se consideriamo tutto quello che ci offre il liceo in termini di strutture e servizi » si corresse Erin.
Sollevata per quell’angelo custode che le veniva in soccorso, Jordan rilassò le spalle e lasciò che fosse la mora e rimediare alla tensione che si era creata:
« Quello che voglio dire è che il nostro liceo offre così tanto che non è scontato che tutti se lo possano permettere. Io per prima non so che farò l’anno prossimo »
Appena quella confessione arrivò al suo orecchio, Castiel aggrottò leggermente le sopracciglia.
L’amica aveva menzionato in più occasioni che il suo trasferimento a Morristown era solo temporaneo. Aveva sempre frequentato la scuola pubblica di Allentown e quest’ultima si avvicinava di più allo stile di vita che i suoi genitori potevano permettersi:
« I miei stanno già stringendo la cinghia per mandarmi al college... non posso pretendere che mi paghino anche il prossimo anno » spiegò con tono calmo.
« Vorrà dire che faremo a meno di te, Travis » commentò Castiel con acidità.
Quel discorso lo innervosiva terribilmente ma avrebbe preferito farsi staccare un’unghia piuttosto che ammetterlo davanti ai presenti. Prevedibilmente però quel cinismo urtò l’amica che sbottò:
« Beh, grazie tante per la considerazione! »
« Non mi pare che te ne freghi poi così tanto » si stizzì lui, guardando apatico fuori dal finestrino.
« Pensi che ne sia contenta? »
« Certo non dispiaciuta! »
« Guarda che sono la prima a non voler andare via! »
« Beh, non si direbbe » la freddò Castiel, guardando infastidito fuori dal finestrino.
I tre esclusi da quella conversazione, seppure non si azzardassero a formulare i loro pensieri a voce alta, avevano avuto tutti la sensazione di essersi trovati in mezzo al battibecco di una coppia di fidanzati. Quel frenetico scambio di battute tra Erin e Castiel aveva ripristinato la tensione precedente poichè la ragazza non intendeva recuperare la situazione, lasciarono che la musica della radio colmasse il vuoto.
Come se la giornata di Castiel non fosse già partita con il piede sbagliato, gli veniva portato alla mente la prospettiva che l’anno successivo Erin sarebbe tornata definitivamente nella sua città natale, Allentown. La prima volta che aveva menzionato quell’eventualità aveva deciso di non darle troppo credito, sperando che in qualche modo non si realizzasse. Tuttavia, il fatto stesso che ne venisse ribadita la concretezza, lo rassegnò allo scenario di non arrivare insieme al diploma. La sistemazione di Erin a casa della zia era solo momentanea ed era questione di pochi mesi prima che l’anno scolastico volgesse al termine. Ad Allentown Erin aveva frequentato la scuola pubblica e, come aveva lei stesso precisato, non sarebbe stato facile per la sua famiglia mantenerla a distanza, in una scuola prestigiosa come l’Atlantic. Come se quei pensieri non bastassero a metterlo di pessimo umore, si sommava l’apparente indifferenza con cui lei trattava quell’argomento. Quel tono di voce, quasi impersonale, l’aveva fatto scattare al punto da essersi compromesso anche troppo.
Dietro di lui, imbronciata e senza distogliere lo sguardo dal finestrino, Erin rifletteva analogamente su quella piccola diatriba. Era ovvio che prima o poi avrebbe dovuto riappropriarsi della sua vecchia vita, non aveva mai escluso quella possibilità nè tanto meno promesso di mettere le radici a Morristown. La razionale esposizione dei fatti non implicava del disinteresse da parte sua ma il fatto che per Castiel fossero invece un segnale del suo menefreghismo verso i rapporti che avrebbe perso, la feriva terribilmente.
Quando si intestardiva su qualcosa, quel ragazzo diventava sordo a qualsiasi giustificazione e lei, dal canto suo, si risolse a non dedicargli alcuna ulteriore attenzione.
Erano lì per incontrare i cestisti del Saint Mary e la sua amica Melanie in particolare. Non avrebbe permesso a quel bisticcio di intaccare il suo umore e l’eccitazione per quella giornata.
« Melanie mi ha mandato la loro posizione » annunciò, dopo aver controllato il cellulare « dice che Isiah sta cercando parcheggio e li ha scaricati davanti all’entrata di parco Speedwell »
« Allora parcheggiamo al centro commerciale lì vicino » osservò Dajan, sollevato che quel silenzio venisse finalmente interrotto.
« Isiah è la guardia, giusto? » borbottò Castiel, con la mano appoggiata al finestrino.
« Isiah è un fenomeno! » squittì Erin, approfittando di quell’occasione per riprendere la conversazione con l’amico; scelse però il commento sbagliato poichè, anzichè solleticare la curiosità del ragazzo, provocò una reazione di stizzita gelosia:
« Un fenomeno » borbottò Castiel tra sè e sè « voglio proprio vedere »

Una volta scesi dalla vettura, i cinque si avviarono verso il parco:
« Certo che potevi proporre una zona più vicina a casa nostra » brontolò il rosso, che capeggiava la piccola spedizione affiancato da Dajan. 
Non udendo però alcuna risposta da parte di Erin, si era voltato verso l’amica trovando però solo Trevor e Jordan a fissarlo. Sentì allora una sagoma sfrecciargli accanto a tutta velocità e tornò a guardare dritto davanti a sè. Erin correva come una bambina, sbracciandosi alla vista di una ragazza dai corti capelli biondi, la presunta Melanie Green. La vide saltellare dalla gioia, spostando con il nsuo abbraccio anche la biondina, che, seppur condividesse la sua allegria, pareva più vittima che complice di quell’energia contagiosa.
Il rosso sorrise sovrappensiero, dimenticandosi per un istante del motivo per cui era così in cruccio con lei.
« Ehi Black, ti lascio qui? » lo destò Dajan, facendogli notare che era rimasto imbambolato in mezzo al marciapiede. Recuperò quindi la distanza persa e finalmente, ebbe l’occasione per studiare da vicino quei cestisti che fino a quel momento esistevano solo nei racconti dei suoi compagni di squadra.
Melanie era stata facile da individuare, mentre la seconda ragazza del gruppo gli era del tutto sconosciuta. Ricordò allora che Erin gli avesse menzionato un’altra cestista, evidentemente quella era Charlie. Non era però la componente femminile del gruppo ad interessarlo. Tra i tre ragazzi davanti a lui doveva esserci il tizio che aveva tenuto testa a Dajan durante il torneo, il giocatore più forte di tutti. Scommise sul ragazzo di colore, mentre era indeciso se Isiah Reed dovesse essere quello con i capelli rossici oppure più chiari. Quando vide uno dei candidati lanciare un sorriso ebete a Melanie, ricordò che Erin l’aveva informato del fatto che i due facessero ormai coppia fissa, così a quel punto si avvicinò al gruppo con le idee più chiare.
« … e lui è Castiel » mormorò Erin, che aveva appena finito di indicare Jordan. Il ragazzo vide cinque paia di occhi concentrarsi su di lui ma, quello che lo mise più a disagio, fu l’espressione interessata di Melanie. Era la prima volta che si incontravano eppure ebbe l’impressione che quella ragazza sapesse più cose di lui di quante lui di lei.
«E così conosciamo il vostro jolly, eh Brooks? » domandò Julius, inclinando il capo verso il rosso.  
Quel tono suonò vagamente provocatorio e accese istantaneamente in Castiel la fiamma della competizione. Fronteggiare un avversario come Lanier era la perfetta sintesi di quello che Castiel amava di più del basket: la sfida uno contro uno con un avversario competitivo.
« Con Castiel in squadra, vi avremo fatto il culo, Lanier » troneggiò Trevor, gonfiando il petto.
« Questo lo possiamo dimostrare subito » sorrise il ragazzo dai capelli castani e, prima che Castiel potesse chiedergli il nome, gli allungò cordialmente la mano « io sono Neal »
« Boris mi ha parlato di te una volta… » ricordò allora Castiel « eri capitano della Saint Mary »
« Esatto, ero » sorrise l’altro umilmente « ora il titolo è meritatamente di Julius »
« Anche Castiel è un ex capitano! » osservò Erin.
« Quindi volete fare una partita subito? » esclamò il rosso, ignorandola e guardando direttamente i nuovi conoscenti. Non le avrebbe concesso così facilmente il suo perdono o almeno, non intendeva farle capire quanto le fosse facile manipolare il suo umore e orgoglio.
« Sennò la palla a che l’abbiamo portata a fare? » replicò Isiah, tirando fuori l’oggetto da una borsa in tela e facendola rotolare sul dito.
Se i ragazzi non aspettavano altro che l’occasione per sfidarsi, alla componente femminile di quel gruppo non dispiaceva l’idea di isolarsi a chiacchierare, approfittando di quella bellissima giornata primaverile. Erin e Melanie in particolare avevano bisogno di un confronto privato e poter dividere la compagnia era sicuramente il pretesto migliore per godere di un po’ di privacy.
Attraversarono il viale principale del parco, con Dajan che li guidava verso il campo da basket cittadino.
Melanie affiancò Erin e, assicurandosi che nessuno la sentisse, le bisbigliò:
« Abbiamo un sacco di cose da dirci, noi due »
Erin le sorrise incuriosita, sghignazzando eccitata. Non vedeva l’ora di ricevere aggiornamenti sulla fresca relazione tra Melanie e Isiah, perchè leggeva nel modo in cui si guardavano, che stava procedendo a gonfie vele.
A pochi passi, seguiva un’indispettita Jordan, talmente presa a rimuginare sulla sua incapacità di intromettersi nella conversazione, da non accorgersi dei tentativi fallimentari dell’altra ragazza del quintetto della Saint Mary di richiamare la sua attenzione.
Sconsolata dal suo insuccesso, Charlie chinò il capo, spiando di sottecchi Julius. Appena il giorno precedente, l’aveva accompagnata a casa dopo gli allenamenti e, seppur in modo alquanto impacciato, le aveva detto che stava migliorando e che avrebbe voluto aiutarla nel suo percorso come professionista. Charlie era consapevole che, accanto al talento di Melanie, le sue qualità come cestista fossero messe in ombra ma, rispetto a quello che era lo standard rappresentato dalle altre sportive del torneo, Charlotte comunque rimaneva una delle giocatrici migliori.
« Devi solo crederci un po’ di più » le aveva detto lui « eri una delle ragazze migliori al torneo, te l’assicuro »
Si era poi grattato la guancia a disagio e aveva farfugliato qualcosa che lei non era stata in grado di cogliere e, nell’imbarazzante silenzio che ne era scaturito, aveva preferito fingere di non aver udito.
Julius stava migliorando e con lui, tutta la Saint Mary ne era uscita cambiata verso la fine del torneo. Un’uscita come quella di quel giorno sarebbe stata impensabile settimane prima, eppure in quel momento i cestisti si comportavano come se fosse un’abitudine connaturata nella loro indole.
« Charlie, tu giochi? » l’aveva chiamata Julius.
Spiando di sottecchi la ragazza accanto a lei, esitò a rispondere al ragazzo:
« Anche tu giochi a basket, Jordan? » le stava chiedendo Charlie.
« No, non ne sono capace » fu la telegrafica risposta, così la cestista si limitò a scuotere il capo e rifiutare l’invito del capitano. Le dispiaceva lasciare quella ragazza in disparte dal momento che Erin e Melanie si erano già allontanate dal gruppo e accomodate su una panchina. Del resto, la sua compagna di squadra le aveva accennato di avere questioni importanti da trattare con l’amica e che presto o tardi, avrebbero cercato di ritagliarsi un momento da sole.
I ragazzi allora occuparono il campo da basket mentre Charlotte e Jordan si sedevano sul manto erboso a poca distanza.
« Siete nella stessa scuola? » tentò nuovamente Charlie. Fissando apatia i giocatori, Jordan spiegò:
« No, onestamente è la prima volta che esco con loro »
« Ah »
La cameriera sbuffò annoiata. Compativa i cordiali tentativi di Charlie di interagire con lei ma proprio non le riusciva di trovare qualcosa da dire, al di là del rispodere educatamente alle domande della ragazza. Per quanto quest’ultima fosse carina e gentile, Jordan odiava quella pressione di dover per forza instaurare un dialogo. Eppure sapeva di dover fare qualcosa per rimediare al suo silenzio, anche a costo di sacrificare la sua spontaneità.  
« Quindi Saint Mary contro Atlantic, girone di ritorno? » domandò Castiel con un ghigno compiaciuto stampato in faccia.  
« Beh, Brooks preferisco avercelo contro che in squadra » sghignazzò Julius « mi stimola »
« Più che altro così siamo bilanciati » osservò Dajan « così almeno teniamo separate le due teste calde »
« Che intendi? » chiesero involontariamente in coro Castiel e Julius, strappando un sorriso al resto dei presenti. Anche il resto dei cestisti conveniva che quanto a personalità e stile di gioco, le squadre erano perfettamente bilanciate. Castiel e Julius rappresentavano gli elementi più impetuosi e imprevebili, con un stile di gioco spontaneo e imprevebile. Dajan invece era molto più affine all’atteggiamento calmo e controllato di Neal, la cui esperienza di ex capitano gli aveva insegnato a restare concentrato durante ogni partita. Infine, c’era stata sin da subito una complice simpatia tra i due cestisti più esuberanti quali Trevor e Isiah, i cui sorrisi amichevoli celavano una grande preparazione tecnica e precisione di tiro.  
Jordan nel frattempo si stava sforzando di avviare una conversazione con Charlotte ed infatti, trovò finalmente qualcosa da dire:
« Li ho conosciuti nel bar in cui lavoro » ammise dopo interminabili minuti passati a sezionare un filo d’erba. Non udendo risposta sollevò lo sguardo alla sua sinistra ma la figura di Charlie non era più seduta accanto a lei. Si era alzata di scatto e, intercettandone l’occhiata, le stava dicendo:
« Ti dispiace se ci avviciniamo di più al campo? Così tengo i punti della partita »
Jordan annuì disorientata.
Iniziò a sentirsi improvvisamente a disagio, sbagliata, assolutamente fuori luogo. Trevor, che le dava continuamente il tormento a lavoro, l’aveva totalmente ignorata da quando era scesa dalla macchina. Non aveva pensato che magari lei avrebbe preferito fare qualcosa di diverso dal giocare a basket o guardarli divertirsi. Persino Erin, che era sempre premurosa con tutti, si era eclissata in compagnia della biondina. Con Castiel e Dajan poi, non aveva mai scambiato più di qualche parola. Il suo cervello innescò così un ciclo di rabbia e frustrazione, fomentato da un pizzico di melodramma. Era fuori posto, non doveva essere lì, ripeteva a se stessa. Perchè l’avessero invitata ma sopratutto, perchè avesse assecondato quell’offerta, rimaneva uno dei suoi rammarichi più grandi.
I suoi pensieri vennero interrotti da una pallonata che le colpì il braccio, talmente forte da farla dondolare.
Udì un’irritante e fragorosa risata avvicinarsi e alzando lo sguardo, incrociò il sorriso immancabile di Trevor.
« Michael, ma sei sorda? Dai vieni a giocare anche tu »
Imprecando sommessamente, Jordan si ricompose.
Notò allora Charlie era già sul campo, evidentemente trascinata da Lanier che ancora le teneva il polso. Quasi si sentisse giudicato da Jordan, mollò istantaneamente la presa in leggero imbarazzo.
Il resto dei cestisti stava aspettando la sua risposta, che non poteva essere diversa da un rifiuto.
« Manco morta. Non so giocare » dichiarò risoluta.
« Dai che ti diverti! »
« Non mi diverto se non so le regole »
« Te le insegno io » replicò conciliante il ragazzo.
« No »
Trevor però non si rassegnò:
« Senti, solo come riscaldamento. Poi tu e Charlie potete tornare alle vostre chiacchiere » patteggiò, piegandosi davanti a lei. Poichè però quell’implorazione non sortiva l’effetto sperato, si scocciò e cambiò radicalmente approccio:
« Dai, non rompere il cazzo e vieni a giocare! »
« Non rompere tu! Nemmeno se mi costringi »
Probabilmente se non avesse usato così tanta determinazione nel pronunciare quella frase, Trevor non sarebbe stato così solleticato dalla sfida. Provocato dalla testardaggine della ragazza, il cestista si accucciò e, stupendo Jordan per la sua prestanza fisica, riuscì a sollevarla da seduta. Se la caricò sulla spalla come se fosse un sacco di patate e tornò verso il campo da basket. A nulla valsero le sue lamentele e imprecazioni della ragazza rapita. Già in imbarazzo per quella situazione, realizzò che il modo più efficace per zittire Trevor fosse quello di assecondarlo.
 
« Come sarebbe a dire che state reclutando studenti? »
« Sarebbe a dire che ci serve più gente, Affleck. Il campionato di atletica si terrà tra poche settimane e, a quanto pare, non siamo abbastanza competitivi »
« Sì, ma non contate su di me. Non puoi chiedere al tuo ragazzo scusa? »
Kim inspirò a fondo. Sin da quando era rientrata nel club di atletica, le era parso evidente che i suoi compagni non si fossero allenati a sufficienza. Il professore responsabile del club, Faraize, era stato troppo indulgente e permissivo, così mentre lei sputava sangue sul campo da basket, gli altri atleti si erano riposati.
Ora però che il campionato di atletica era alle porte, rischiavano seriamente di presentarsi in pessima forza fisica e ottenendo uno dei piazzamenti peggiori della storia del liceo.
« Ho già chiesto a Boris di prestarci alcuni dei suoi » spiegò « Dajan a quanto pare non posso proprio sequestrarlo. Sai com’è, è il capitano » gli ricordò, sorridendo orgogliosa.
Quel giorno si era rifiutata di unirsi alla gita per incontrare i cestisti della Saint Mary, adducendo come pretesto gli allenamenti per il campionato. Tuttavia, era tutta la mattina che Kim era impegnata a parlare con i suoi compagni di classe più prestanti fisicamente e Kentin era uno dei primi nella lista.
« Prima però dovremo pensare al torneo delle sezioni della prossima settimana. Probabilmente metteremo te e Black ai mille metri, chiaro? »
Kentin aveva sentito parlare di quel torneo per sommi capi ma per quanto avrebbe voluto chiedere più dettagli, c’era un’altra osservazione che gli premeva:
« Castiel i mille metri? » sghignazzò l’ex cadetto « con tutte le sigarette che si fuma, avrà la capacità polmonare di una vecchietta che ritira la pensione »
« Per la verità è arrivato terzo l’anno scorso » convenne Kim « e noi puntiamo a vincere più medaglie possibili... Non escludo che quest’anno possa fare meglio, visto che quel babbeo si era messo a fumare poco prima della gara. Sono sicura che almeno il secondo posto quest’anno lo prenderà, basterebbe allora che tu arrivassi terzo, visto che al primo posto ci sarà il solito tizio della 5^ F »
« Stai dicendo che io non riuscirei a battere Black? » si risentì l’ex cadetto, mollando la presa dal macchinario in palestra.
La sua compagna di classe non solo lo stava disturbando nel pieno del suo allenamento settimanale ma stava pure minando il suo buon umore.
« Beh, se proprio insisti a misurarti con lui... » convenne Kim, soddisfatta della piega inaspettata che aveva preso la sua contrattazione. Per convincere altri studenti non iscritti al club di atletica a partecipare al torneo delle sezioni, era stata necessaria molta più furbizia e negoziazione. Il che fu un vero sollievo, dal momento che Kentin Affleck era sicuramente uno di quelli con le migliori doti fisiche. Se si fosse distinto particolarmente durante quell’evento sportivo, Kim avrebbe potuto includerlo nella lista dei partecipanti al campionato di atletica.
Il ragazzo nel frattempo stava soppesando quella proposta: non gli dispiaceva l’idea di unirsi, seppur temporaneamente, al club di atletica, solo che così facendo, si sarebbe privato della compagnia di Iris, l’unico motivo per cui si era iscritto a quello di giardinaggio.
« Posso pensarci? » patteggiò, sistemando i pesi in un angolo.
« Dal momento che me lo chiedi… no, partecipi e non rompi le palle! E per quanto riguarda il torneo delle sezioni, lunedì voglio vedere il tuo nome nella lista dei partecipanti, ciao! » e con poca grazia, gli mise sbattè il telefono in faccia.
 
« Allora, come stai? Vedo che con Isiah le cose vanno alla grande » stava chiedendo Erin.
Le due ragazze avevano trovato un posto all’ombra di una frondosa quercia in cui gli schiamazzi e urla dei ragazzi intenti a giocare arrivavano attutiti.
Alla sua domanda, Melanie aveva sorriso leggermente imbarazzata:
« Beh, sai, ci stiamo andando piano. Diciamo che ci stiamo frequentando non da amici e sta andando molto bene »
La mora annuì comprensiva e ripensò a come invece lei si era buttata a capofitto nella sua relazione con Nathaniel. Solo in un secondo momento si era resa conto di quanto fossero stati entrambi precipitosi, affrettando e ingigantendo dei sentimenti prematuri che si erano poi rivelati infondati. Si chiese però se in una situazione ipotetica in cui lei e Castiel avessero iniziato ad uscire insieme se sarebbe riuscita a mantenere a freno l’impulsività, procedendo con la calma che invece contraddistingueva la relazione tra Melanie e Isiah.  
« Però state insieme, giusto? »
« Sì » convenne Melanie « cioè, non verrò a dirti che gli ho già detto ti amo però... »
« Però? » la incalzò Erin.
« Però sto tanto bene con lui » completò la cestista con un sorriso innamorato.  
Istintivamente Erin la abbracciò, lasciandosi sfuggire un versetto deliziosamente tenero.
« Oh Melanie, come siete carini. Isiah sembra proprio un bravo ragazzo e poi sorride sempre! »
« Ma dimmi di te piuttosto » ridacchiò la biondina « nessuna novità da quando ci siamo sentite l’ultima volta? »
L’allegria di Erin scemò all’istante, sostituita da un’espressione vagamente amareggiata.
« Nessuna novità » bofonchiò.
Era curioso pensare che la stessa conversazione si era tenuta meno di ventiquattrore prima tra l’oggetto del suo rammarico e Nathaniel.
« Manco un minimo progresso? » insistette Melanie.
« Tutto uguale. Ormai penso che se le mie amiche avessero ragione e cioè se non fossi solo io a sentire certe cose per lui, a quest’ora sarebbe già successo no? » borbottò, strappando un filo d’erba.
« Io non lo conosco, Erin. Magari è solo molto insicuro di sè e teme che tu lo respinga »
« Chi lui insicuro? Figuriamoci! » borbottò la mora, ridendo esasperata « anzi. La vuoi sapere una cosa? C’è una parte piccola piccola dentro di me a cui brucia essersi innamorata di lui » dichiarò infastidita.
Fissò il destinatario delle sue lamentele e lo trovò appeso al canestro, vittorioso di aver appena fatto una schiacciata sotto il naso di Lanier. Ignorò il fatto che quell’espressione la stava già mettendo di buon umore e proseguì:
« Quando ci siamo conosciuti non perdeva occasione per punzecchiarmi e offendermi. Se penso a quanto potrebbe gongolare a sapere che mi piace pure... mi passa la voglia di dirglielo! »
« Eh eh, Erin, sei proprio strana. Al telefono non mi sembravi così infastidita dai tuoi sentimenti per Castiel » la provocò Melanie, nominando finalmente il ragazzo.
« E’ perchè ci sono dei momenti in cui mi fa così arrabbiare che quasi mi dimentico cosa mi piaccia così tanto di lui. Prendi ieri ad esempio. Ti avevo detto che tornava il ragazzo della mia amica Rosalya, no? »
« Il tuo ex? »
« Sì... ma non è questo il punto » arrossì Erin sbrigativa « mentre noi ce ne stavamo in casa a divertirci, lui e Castiel hanno passato due ore a parlare da soli. Due o-r-e!. Rosalya non è riuscita a stare da sola con Nathaniel e questo idiota se lo tiene per sè per due ore a parlare? Non gli viene in mente che forse, e dico forse, anche il resto dei suoi amici vorrebbe chiacchierare con lui? » sbottò Erin, gesticolando animatamente.
« Poi, torniamo a casa e quando gli chiedo cosa avessero di così urgente da discutere se ne esce con un “possibile che tu non sappia mai farti i cazzi tuoi, Travis?”» spiegò in una mal riuscita imitazione del rosso « quanto lo vorrei picchiare quando fa così, Mel! » continuò, sempre più infervorata.
Melanie ascoltava in silenzio quel flusso di coscienza, timorosa di interromperlo.
« Gli avrei voluto ricordare che, se io mi fossi sempre fatta gli affari miei, lui e il biondino non sarebbero tornati amici! Insomma, da lì abbiamo iniziato a discutere e, anche se stavo morendo dalla curiosità, non ho potuto insistere »
« ... anche perchè diciamolo » ridacchiò Melanie « Castiel non ha tutti i torti. I fatti privati sono privati, Erin »
La mora si zittì e arrossì a disagio. Detestava ammetterlo ma Melanie aveva ragione e con lei, anche Castiel. Sbuffò ma si lasciò sfuggire una smorfia complice:
« Lo so... ma c’è modo e modo di dire le cose e lui sceglie sempre il peggiore »
« Però ti piace » convenne la cestista con un sorriso indulgente.
« Però mi piace » le fece coro Erin.
Tornò a guardarlo giocare. Non era vero che a volte dimenticava perchè le piacesse così tanto. Non c’era giorno in cui non lottasse contro la sua mente che le metteva davanti agli occhi ogni singola sciocchezza che in lui diventata irresistibile. Come si grattava il mento quando era sovrappensiero, come si incantasse a guardare fuori dalla finestra e riuscisse ad isolarsi per interminabili minuti da tutto e da tutti. Anche solo come teneva in mano la penna, mentre scriveva i suoi preziosi spartiti era un gesto che agli occhi di Erin appariva intrigante.
Era talmente assorta in quelle immagini che non prestò attenzione a Melanie. La ragazza nel frattempo aveva frugato nello zaino accanto a lei e estratto un iPad.  
« Comunque ho qualcosa per te »
Costretta a destarsi dai suoi dolci pensieri, Erin allungò il collo verso il monitor.
« Volevi delle informazioni su Cosima Manning, no? Questo è tutto quello che mia cugina è riuscita a trovare. Comunque non preoccuparti, ti ho già inoltrato la mail ieri sera con i file »
La mora drizzò la schiena, fremendo dalla curiosità. Sotto i suoi occhi, scorrevano pagine e pagine di giornale in versione PDF. Sembravano articoli molto vecchi che erano stati scansionati al computer.
« Purtroppo questi articoli non sono digitializzati » le lesse nel pensiero Melanie « ma mia cugina è molto meticolosa in queste cose e credo che non le sia sfuggito nulla di particolare. Da internet è risalita ad uno scandalo di parecchi anni fa che vedeva coinvolta quella donna e da lì ha consultato la cronaca locale »
« Impressionante! » squittì Erin « spero che non le abbia portato via troppo tempo »
« Non ti preoccupare. Lei adora svolgere questo tipo di ricerche »
« E’ davvero una benedizione perchè io ed Ambra ci eravamo un po’ arenate. In internet non avevamo trovato neanche un trafiletto. Forse dovevamo insistere di più con la ricerca » farfugliò Erin mentre scorreva febbrilmente le pagine scannerizzate.
« Allora forse qui troverai qualcosa in più » le anticipò Melanie.
Erin stava per esultare, quando la cestista iniziò a riepilogare:
« Sostanzialmente Cosima aveva sposato un certo James Hurst, un deliquente di un ceto sociale più basso del suo e, per questo, malvisto dalla famiglia di lei. Cosima era l’unica erede della fortuna dei Manning i quali erano i leader nel settore del commercio di opere d’arte. Esportavano quadri, statue, opere d’arte di ogni tipo, collaborando con artisti molto quotati all’epoca. Tuttavia, dopo anni di matrimonio apparentemente sereno, Cosima non aveva ancora avuto un figlio e si temevano le sorti dell’impero dei Manning »
« Oddio, così sembra una famiglia dell’Ottocento » la interruppe solenne Erin, troppo eccitata all’idea che quella situazione di stallo si stesse finalmente sbloccando.
« Beh si trattava di un patrimonio ingente » riconobbe Melanie « nel frattempo inoltre cominciarono a girare voci circa una presunta infedeltà di James dalla quale sarebbe nata una figlia »
« Una figlia? »
« Sì, una certa Mackenzie »
Erin assimilò quel nome.  
Jack Hurst, Mackenzie. Era la prima volta che sentiva quei nomi e si sforzò di ricordare se fossero mai stati nominati dalla gemella in passato.  
« E la madre di Mackenzie? »
« Mi pare Diana... o Dianne, non ricordo precisamente » mormorò Melanie, spostando lo sguardo verso l’alto, nello sforzo di rammentare quel dettaglio « comunque potrebbe essermi sfuggito qualcosa di quello che mi ha raccontato mia cugina, per questo ti ho girato tutte le scansioni che ha trovato. Inoltre, credo grazie al tuo amico hacker potresti avere buone chance di accedere all’archivio bibliotecario direttamente da Morristown »
« Sul serio? »
Melanie annuì e continuò a spiegare:
« Non sono un’esperta di informatica ma, a giudicare da quello che mi hai raccontato di questo tuo amico, potrebbe creare un proxy che ti faccia configurare come utente della biblioteca. Così tu accedi da casa tua ma sembra che tu lo faccia dalla biblioteca di Chicago »
Erin cercò di memorizzare quel gergo sconosciuto. Ne avrebbe parlato con Armin, sperando che non le facesse troppe domande e capisse cosa doveva fare. Non poteva pretendere che la cugina investisse ulteriore tempo in quella ricerca bibliografica pertanto, se volevano accertarsi che non le fosse davvero sfuggito nessun articolo rilevante, avrebbe dovuto controllare lei in prima persona:
« Ok, forse non i dettagli ma a grandi linee ho capito l’idea » ammise Erin « quello che mi hai detto è un enorme passo in avanti! » esultò applaudendo felice.  
La cesista però si limitò a sorridere più contenuta, esitando qualche istante prima di domandare:
« Sì ma Erin tutto questo come si collega a tua sorella? »
La mora strinse allora le labbra e guardò un punto indefinito dell’orizzonte:
« Ancora non lo so ma sento di essere sempre più vicina alla verità »

La palla da basket volava da una direzione all’altra, rendendo impossibile intercettarne la traiettoria. Era da più di venti minuti che Jordan era sul campo e aveva collezionato solo tre tiri fallimentari e palle che le erano state rubate facilmente.
« Eddai, Michael, vedi di rendere onore al tuo nome » l’aveva pure derisa Trevor.
La ragazza si chiese per l’ennesima volta quale fosse il suo ruolo all’interno di un gioco in cui il livello generale rasentava l’agonistico. Le avevano detto che stavano giocando solo per scaldarsi ma nessuno dei presenti, specialmente Dajan, Lanier e Castiel sembravano prendere quella partita come un’occasione per rilassarsi.
« Jordan, tua! »
Dajan le aveva appena passato la palla e lei a malapena riusciva a palleggiarla.
Nonostante il moro la incoraggiasse, l’orgoglio di Jordan non la perdonava per essere visibilmente l’elemento più scarso della squadra. A peggiorare la situazione, le battute divertite di Trevor che non capiva quanto la ragazza fosse infastidita e progressivamente sempre più a disagio. Nel palleggiare la palla, quest’ultima le sfuggì di mano e quell’errore fu l’ennesimo pretesto per Trevor per deriderla:
« Jordan, sei proprio disabile! »
Persino Castiel, che quanto a commenti pungenti non era un tipo che si risparmiava, provava pena per quella ragazza così scoordinata e impacciata. Si era addirittura sbilanciato a zittire Trevor, compatendo la situazione della ragazza. Sopraffatta quindi dall’umiliazione, Jordan si lasciò sfuggire un elegante « Vaffanculo! Riscaldamento finito » e abbandonò la partita, sedendosi accigliata a bordo campo.
« Eddai, non fare la permalosa adesso! » l’aveva pure rimproverata colui che le aveva promesso di insegnarle a giocare. Non solo non le aveva spiegato come fare un buon tiro a canestro ma l’aveva pure derisa non appena aveva provato, con molta poca grazia, a lanciare la palla all’interno dell’anello metallico.
Il resto dei cestisti aveva interrotto il gioco e quella reazione la mise ancora più a disagio. Sapeva cosa stavano pensando ma era più forte di lei non riuscire a scherzarci su. Non era permalosa, era stata umiliata.
« Ma voi non avete fame? »
Si voltarono verso il bordo campo dove, seguita a poca distanza da Melanie, era accorsa Erin.
« Perchè non venite a giocare? » le spronò Castiel che per tutto quel tempo aveva puzecchiato Lanier, trovando un avversario così forte che ogni suo muscolo era teso nel desiderio di continuare a sfidarsi.
« Mel, prendi tu il posto di Jordan » le propose Erin « così sono pari. Io non ho voglia oggi... credo mi stia arrivando il ciclo » le bisbigliò.
L’amica annuì solidale e si apprestò a prendere il posto lasciato vacante dalla cameriera, schierandosi quindi contro la sua squadra storica. La mora nel frattempo aveva raggiunto Jordan che si era seduta a pochi metri dal pitturato:
« Quella del ciclo ricordatela come scusa per la prossima volta che non vuoi fare qualcosa » le sorrise Erin, accomodandosi accanto a lei:
Jordan la fissò leggermente sorpresa e poi scosse il capo:
« Guarda Erin che non devi per forza restare qui con me. Potete anche giocare in dispari »
« Sì ma la verità è che non sono un granchè a basket e non è propriamente la mia passione, come lo è per loro »
« Ah no? » s’incuriosì Jordan.
« No affatto. Ho sempre preferito gli sport individuali. Da piccola ho fatto ginnastica artistica e poi sono passata alla danza »
« La pratichi ancora? »
« No, purtroppo ho smesso. Sono due sport in cui l’età pesa moltissimo e io non ci volevo più dedicare tutto il tempo che ci dedicavo da piccola » ammise « tu invece? »
« Sport? Li odio profondamente » commentò sulla difensiva Jordan. Era una delle studentesse peggiori durante l’ora di educazione fisica. Aveva sempre preferito materie in cui fosse richiesto uno sforzo intellettuale, piuttosto che fisico.
« Però mi piace cucinare »
Erin ridacchiò per quell’ammissione e, pur convenendo che non fosse uno sport, assecondò quel cambio di argomento:
« Ah sì? Qual è il tuo piatto forte? »
La conversazione si era instaurata così spontaneamente, che Jordan neanche si accorse della facilità con cui si stava aprendo. Erin era riuscita a trovare la chiave giusta per sbloccare quella serratura e dal tono allegro ed interessato con cui le volgeva quelle domande, la sua interlocutrice si sentiva sempre più incoraggiata alla conversazione.
Mentre le due ragazze erano prese dal loro dialogo, Trevor si distrasse un attimo a guardarle.
Da lontano aveva intercettato una risata da parte di Jordan e si rese conto che era la prima volta che vedeva un’espressione così radiosa sul suo viso. Erin Travis, in pochi minuti di conversazione stava riuscendo dove lui aveva sempre fallito: far aprire Jordan.
« Ehi Trevor! Cazzo guardi, il canestro è là! » l’aveva rimproverato Castiel, accorgendosi della sua distrazione. Il cestista dell’Atlantic High School tornò a concentrarsi sul gioco, scuotendo la testa. Non era la prima volta che le capacità comunicative di Erin avevano il sopravvento sui caratteri più ostili e burberi di sua conoscenza. La invidiava per questo, ma una parte di lui era anche felice che Jordan avesse finalmente trovato qualcuno con cui aprirsi.
In quel frangente, Erin aveva scoperto che Jordan fosse un’appassionata di cucina orientale, cinese e coreana in particolare. Le promise di presentarle Lin, anche se la mora per prima non sapeva quanto il suo rapporto con la ragazza potesse giustificare quel passaggio di consegne. Del resto, Jordan la conosceva appena e Lin non poteva certo definirsi una delle sue amiche più strette anche se nell’ultimo periodo si era molto avvicinata ai suoi amici, con la complicità di Ambra. Oltre ad aver accolto informazioni sulla cucina, Erin aveva anche scoperto che Jordan lavorava per mettere da parte i soldi per pagarsi un corso di cucina. Ciò che tuttavia colpì Erin più di ogni altro aspetto della sua interlocutrice, fu la sua smodata passione per i libri. Jordan conosceva ogni autore, contemporaneo o del passato e, appena Erin le aveva dato qualche input, era irrefrenabile nelle sue analisi critiche.
« Sai Jordan, nella mia vecchia scuola amavo letteratura inglese. Poi nel liceo qui a Morristown ho beccato un prof che me l’ha fatta odiare... ma sentendoti parlare mi è tornata la voglia di leggere! » aveva ammesso, facendola sorridere lusingata.  
« Qual è l’ultimo libro che hai letto? » domandò la cameriera.
« Ammetto di aver un po’ trascurato i libri ultimamente » ammise Erin, grattandosi la nuca « però qualche mese fa ho finito la Casa del sonno »
« Jonathan Coe, giusto? Ti è piaciuto? »
« Sì anche se il finale è stato un po’...wow »
« Allora leggiti anche la famiglia Winshaw. Secondo me è il suo libro migliore » le raccomandò Jordan.
Restare lì a parlare di quell’interesse comune, le aveva fatto scordare il malumore e la brutta figura di poco prima.
Finalmente, doveva riconoscerlo, l’idea di aver accettato quell’invito ad uscire non le dispiaceva più così tanto.
 
Quando Rosalya l’aveva chiamato per una giornata di shopping, Alexy aveva proiettato nella sua mente una mappa mentale di tutti i negozi che avrebbero dovuto setacciare. Con l’amica finiva sempre per litigare su quale acquisto dovesse avere la precedenza o viceversa, quali delle loro molteplici commissioni dovevano sacrificare per mancanza di tempo o energie.
« Non dimenticarti di passare al negozio del thè » si era ripetuto più volte prima di uscire di casa.
Eppure, quella volta la sua oculata pianificazione del tempo si rivelò inutile. Anzichè distrarlo con continue richieste di negozi in cui dovevano assolutamente fare un salto, Rosalya lo seguiva docilmente, qualsiasi proposta Alexy avanzasse. In un primo momento esultò perchè quella libertà gli permettava di godersi la compagnia dell’amica, senza però sacrificare i suoi piani di shopping. Poi però si rese conto che quell’atteggiamento così estreneo alla personalità dell’amica lo metteva a disagio. Era ormai arrivato al punto di rimpiangere le loro lotte e discussioni in cui il vincitore guadaganva il diritto di scegliere la destinazione:
« Che ti succede, Rosa? » sbottò d’un tratto.
Si erano seduti al cafè del centro commerciale ma, mentre Alexy aveva ordinato un doppio bacon cheeseburger, Rosalya si limitava a sorseggiare lentamente un frullato alla banana.
« Si vede tanto? » sussurrò lei.
« Beh, direi » esalò Alexy « anzichè lamentarti perchè non siamo ancora stati da Victoria’s Secret mi hai seguito dentro il negozio di ferramenta! »
« Infatti non ho ancora capito che cosa dovessi comprare là » osservò lei dubbiosa.
« Ma ti pare che io devo comprare qualcosa là? Era giusto per provocare una tua reazione! » le confessò il ragazzo « invece niente. Te ne stai lì svogliata a guardare tutto con disinteresse. Si può sapere allora perchè volevi uscire? » puntualizzò lui.
Il via vai di gente del sabato forniva un buon diversivo sulla quale saltuariamente Rosalya posava lo sguardo per non tenere gli occhi fissi sul suo interlocutore.
« Per distrarmi un po’... »
« Da cosa? » la incalzò Alexy.
La ragazza fece spallucce e iniziò a giocherellare con il tovagliolo di carta, piegandolo come fosse carta da origami.
L’amico capì allora che se da un lato lei aveva bisogno di uscire e sfogarsi, dall’altro avrebbe dovuto pazientare e lasciarle il tempo di formulare i pensieri che la assillavano:
« Non trovi che Nathaniel fosse strano ieri? »
Il ragazzo ci mise un po’ a metabolizzare quell’informazione ma poi ammise:
« Beh, non ci ho parlato molto però anche a me ha dato una strana impressione » convenne il ragazzo.
Il biondo si era praticamente isolato dalla festa, ammettendo Castiel come unica compagnia. Che quei due avessero sempre avuto un rapporto esclusivo era indiscutibile, ma non per questo Nathaniel aveva mai trascurato così tanto il resto degli amici.
« Vedi? Secondo te perchè? » incalzò allora la stilista.
« Non lo so Rosa, penso che fosse estremamente disorientato perchè stanco morto dal viaggio e per di più febbricitante... » argomentò il ragazzo, recuperando l’ultima patatina fritta dal fondo del contenitore di carta.
Rosalya si abbandonò contro lo schienale della sedia e scosse il capo poco convinta:
« Inizialmente l’ho pensato anche io ma... tu la tua ragazza la cerchi anche quando sei stanco o stai male, Alexy. Lui invece mi ha proprio evitata »
« Ma che melodrammatica, Rosa! » ridacchiò il ragazzo « tu sei solo gelosa perchè ha parlato con Castiel tutta la sera! »
« E ti pare poco? » sbottò lei con grinta.
« Così mi piaci » sogghignò l’amico « incazzata e combativa »
Rosalya si ricompose, sorridendogli timidamente.
Forse Alexy aveva ragione e stava solo esagerando. Per il fatto che quella sera avesse preferito la compagnia di Castiel alla sua, poteva provare a capirlo. Quei due avevano recuperato da pochi mesi il loro prezioso rapporto fraterno e più che arrabbiarsi, doveva imparare a conviverci. Del resto, anche lei amava passare ore intere a chiacchierare con Erin. Inoltre valutò che forse era proprio Castiel che aveva bisogno di confidargli qualcosa e quel pensiero, la rasserenò. Sperò con tutto il cuore che il musicista si fosse deciso a scendere a patti con i suoi sentimenti per l’amica e che ne avesse parlato con il suo ragazzo. Quell’eventualità poteva giustificare perchè Nathaniel si fosse rifiutato di interrompere la loro conversazione e in quel caso, non solo l’avrebbe giustificato, ma l’avrebbe pure incoraggiato.
Confortata da quell’ultima deduzione, sorrise più convinta verso Alexy che nel frattempo esclamò:
« Sono sicuro che quando stasera ti presenterai da lui con quei buonissimi biscotti che mi hai fatto l’altra volta, si rimetterà in un baleno! »
 
Per pranzo, il gruppo di cestisti si era riunito in un locale appena fuori dal parco. Avevano optato per un pub in stile irlandese, con ampie tavolate in legno massiccio. Nell’attesa di essere serviti, gli argomenti di conversazione si erano susseguiti ad un ritmo frenetico, troppo elevato affinchè Jordan potesse starne al passo. Basket, Atlantic, Boris, torneo, risultati dell’ultima partita. Ogni volta che era pronta ad intervenire con una domanda o un commento, l’argomento era già superato e lei rimaneva con un’espressione appesa. Non poteva neanche intervenire in merito alla partita giocata quella stessa mattina, dal momento che lei vi aveva preso parte per appena venti minuti. Quest’ultima si era conclusa con la vittoria dell’Atlantic anche se tra Lanier e Castiel era ancora accesa una discussione circa un fallo commesso da quest’ultimo.
« Sono un po’ fissati con il basket, ma non sono male » le sussurrò Erin, intercettando l’espressione annoiata della ragazza.
« Dici? » replicò l’altra senza un minimo di convinzione.
« Beh, considera che quando abbiamo affrontato i ragazzi, la competizione era alle stelle. E’ stata la partita più bella di tutto il torneo »
« Avete vinto? »
Erin ridacchiò e guardando Melanie che era seduta davanti a lei, precisò l’esito di quella giornata.
« Se ci pensate è assurdo essere seduti qui a chiacchierare con la tensione che c’era in campo quel giorno » osservò poi Charlie. Purtroppo per Jordan, anche nel gruppo di ragazze si instaurò una conversazione in cui le era difficile inserirsi. Non solo era l’unica a non aver preso parte a quell’evento, ma era assolutamente digiuna di basket.
Controllò l’ora e si chiese se, dopo pranzo, potesse dileguarsi con una scusa. Il nervosismo le stava mettendo addosso una voglia irrefrenabile di fumare ma purtroppo per lei, aveva scordato il tabacco a casa. Provò a cercarlo con poche speranze dentro la borsa ma trovò solo un accendino che per altro era pure scarico. Quella ricerca non passò inosservata a uno dei pochi fumatori del gruppo che la chiamò:
« Vuoi fumare, Jordan? »
Sollevò lo sguardo e notò il ragazzo che sventolava quello che a lei sembrò il Santo Graal. Un porta tabacco.
« Sì, ti prego » lo supplicò. Il rosso sorrise e, facendosi strada tra gli amici, uscirono insieme.
Per la seconda volta, Trevor si sorprese a osservare in silenzio la facilità con cui uno dei suoi amici riusciva non solo a creare un legame con Jordan ma a farlo in modo del tutto naturale, senza sarcasmo o frecciatine che innescassero una risposta piccata. Del resto, per quanto Castiel fosse una persona dall’apparenza scorbutica e indisponente, come Erin aveva un talento naturale nell’avvicinare le persone. Li odiò un po’ ma, ancora una volta, ammise che poteva solo che essere felice per Jordan se i suoi amici le davano corda senza che lui facesse da intermediario.
Una volta all’aria aperta, Jordan inspirò a pieni polmoni:
« Grazie Castiel, ci voleva proprio »
« Figurati » borbottò lui, passandole la prima sigaretta che aveva rollato apposta per lei.
« Quando ti parte lo schizzo di fumare e non hai il tabacco dietro è davvero snervante » aggiunse.
« Già, anche se onestamente sto cercando di limitarmi »
« Devo ritrattare l’offerta? » la punzecchiò lui.
« No, no! »
Castiel sorrise divertito e mentre si accendeva il proprio cilindro di tabacco, Jordan domandò:
« Posso chiederti una cosa? »
Lui non replicò ma si limitò ad una scrollata di spalle che equivaleva ad un via libera:
« Ma se in qualche modo Erin riuscisse a pagarsi la retta della scuola per il prossimo anno, non potrebbe venire a stare da te? »
Il ragazzo in tutta risposta sgranò gli occhi sorpreso e Jordan giurò di averlo pure visto arrossire:
« Ma come ti viene in mente? »
« Beh, magari siete un po’ giovani ma siete comunque maggiorenni. Ci sono coppie che vanno già a convivere alla vostra età »
« Non siamo una coppia » borbottò Castiel con la sigaretta tra le labbra.
« Ah no? » replicò Jordan sconvolta.
Il suo viso era talmente deformato dallo stupore che il ragazzo non sapeva come ribattere:
« Non lo so ma... c’è chimica tra di voi » tentò di argomentare la ragazza.
« Quella si chiama amicizia » sorrise stizzito il ragazzo.
Trovava assurdo che pure quella ragazza che lo conosceva appena avesse una simile opinione su di loro. Presumibilmente si era tradito nel modo in cui talvolta si perdeva a guardare Erin ma ci pensò Jordan a chiarire il suo punto di vista:
« Sarà... » parlottò la ragazza con scarsa convinzione « è solo che l’ho vista spesso guardarti e sorridere... così... alla cazzo » precisò, incurante dell’effetto che quelle parole potessero sortire.
Quell’informazione infatti venne recepita dal ragazzo come un complicatissimo quesito di algebra.
Scrutò Jordan e cercò di decifrare se ci fosse lo scherno nel suo sguardo. La ragazza però lo fissava tranquilla, ignara della tempesta di domande che aveva appena scatenato in lui.
« Tu dici? » le disse infine, con tono dubbioso.
« Ti sta guardando pure adesso » commentò candidamente Jordan, piegando il capo verso l’interno del locale.
Spiazzato da quell’informazione il rosso si girò di scatto e vide Erin sgranare gli occhi e distogliere fugacamente lo sguardo. Il ragazzo però esitò qualche secondo prima di rivolgere nuovamente la sua attenzione all’interlocutrice, secondo che le bastò a provare del nervosismo.
Forse aveva parlato troppo e si stava immischiando in questioni che non la riguardavano. Seppure fiduciosa nel suo istinto, doveva considerare che magari Erin non volesse condividere i suoi sentimenti o, per lo meno, farli sapere al ragazzo.
« Beh, mi potrei sbagliare » ridimensionò, presa dall’agitazione « del resto vi conosco poco »
Castiel finalmente distese l’espressione confusa del suo viso e convenne con un laconico:
« Già »
 
Mentre i due si intrattenevano a chiacchierare, Erin faticava a seguire il resto della conversazione. L’aveva sorpresa la naturalezza con cui Castiel aveva invitato Jordan a seguirlo ma il suo animo buono le ricordava che quella ragazza si era sentita emarginata per tutta la mattina.
A volte si scopriva disorientata dagli atteggiamenti del Castiel post Berlino perchè sembravano incompatibili con la versione più scontrosa e antipatica che aveva conosciuto ad Ottobre. Il Castiel dello scorso autunno era un ragazzo piuttosto solitario, che prediligeva la compagnia di pochi amici accuratamente selezionati e non aveva mai fatto grandi sforzi per essere cordiale con chi non aveva l’onore di entrare nella sua cerchia. Dopo l’esperienza della Germania però, si era dimostrato una persona più matura e premurosa verso gli altri. Era diventato amico dei suoi compagni di squadra, aveva appianato i rapporti conflittuali con i suoi genitori e aveva conquistato l’affetto di nuove amicizie, prime tra tutte qualla con i Tenia. Con lei stessa era diventato un po’ meno sarcastico, tradendo dei momenti di dolcezza e premura nei suoi riguardi, come quando l’aveva portata sul terrazzo delle Twin Towers.
« Castiel è stato carino a invitare Jordan » stava osservando Charlie, intercettando l’interesse di Erin.
Era esattamente in quel momento che il rosso si era voltato verso l’interno del locale, prendendola in contropiede.  Lei aveva distolto velocemente lo sguardo e si era ricollegata a seguire il discorso delle due ragazze sedute davanti a lei:
« Sì, infatti è un po’ insolito da parte sua » mormorò sovrappensiero. Le era davvero difficile accettare quanto fosse cambiato in positivo.
« Beh, era insolito una volta » s’intromise Dajan, origliando i loro discorsi « negli ultimi mesi lo trovo cambiato. Sembra più sereno »
« E secondo te di chi è il merito? » lo istigò Trevor, guardando Erin di soppiatto. Lui e Dajan avevano già affrontato quel discorso in passato e non perdeva occasione per dimostrargli di avere ragione:
« Penso del decollo della sua carriera come compositore » commentò Dajan, con un sorriso sardonico. Ormai aveva capito perfettamente le intenzioni di Trevor ma non voleva unirsi al suo tentativo di tormentare Erin. Era ammirato dalla lungimiranza dell’amico che da mesi aveva intuito l’interesse dell’ex capitano di basket per la loro tweener.
« Non capisci un cazzo » gli aveva risposto Trevor deluso « però mi chiedo perchè sono l’unico che non riesce a parlare normalmente con Jordan. Con voi va d’accordo! » sbottò con tono accusatorio, rivolgendosi in particolare ad Erin.
« Se la smettessi di prenderla in giro, Trevor, magari Jordan non ti risponderebbe sempre piccata » osservò sagacemente la ragazza, sorseggiando la bibita davanti a lei.
« Ma io lo faccio per spronarla »
« Spronarla a fare che? » lo incalzò Erin.
« Che si faccia degli amici. Io ve lo dico: quella ragazza è sola come un cane! »
Calò il silenzio e Trevor notò che tutti i suoi amici seduti davanti a lui, avevano alzato lo sguardo sopra la sua testa, ammutolendo:
« Io non ti ho mai chiesto nulla, idiota » sibilò Jordan.
Quelle parole le erano uscite taglienti come lame di un rasoio e fecero scendere un profondo imbarazzo tra i presenti. Chi più di tutti doveva sentirsi in colpa però, trovò il coraggio di scattare sulla difensiva:
« Questo non vuol dire che tu non ne abbia bisogno » replicò Trevor asciutto.
Arrivò un cameriere per prendere le loro ordinazioni del cibo ma prima che potesse appuntare qualcosa sul suo tablet, Jordan aveva afferrato la borsa e sistemata malamente sulla spalla:
« Non ho fame » dichiarò « ragazzi, grazie per la giornata, è stato bello passare la mattina con voi » e squadrando Trevor precisò « ... ma con te no »
« Jordan, aspetta » cercò di chiamarla Erin ma era bloccata da una fila di sedie da entrambe i lati per poter uscire agilmente. La mora allora guardò Castiel che era ancora in piedi ma lui sollevò le braccia. Era l’ultima persona che avrebbe costretto Jordan a mettere da parte l’orgoglio.
« Lasciala andare, Cip » le disse semplicemente, riprendendo il suo posto a tavola « se uno ha le palle girate, meglio lasciarlo in pace ».
« Dovresti andarci a parlare tu, Trevor » lo esortò Dajan, guardandolo gravemente.
« Scusate ragazzi, volete che torni dopo? » titubò l’impacciato cameriere in difficoltà.
« No, ordiniamo » dichiarò Trevor seccato ignorando l’esortazione del suo capitano.
Anche se Dajan e Castiel lo conoscevano da anni, era la prima volta che un’espressione così indecifrabile compariva sul volto del cestista più spontaneo e allegro della squadra.
 
L’uscita di scena di Jordan aveva fatto calare un iniziale disagio ma almeno, aveva fornito un argomento di conversazione comune tra i presenti. I cestisti della Saint Mary aveva iniziato a chiedere in quali rapporti fosse con il resto dei presenti, scoprendo che era proprio Trevor il suo contatto più stretto.
« A me è sembrata solo un po’ timida nel relazionarsi con persone nuove » spiegò Charlie « poi neanche io sono una persona particolarmente estroversa »
« Secondo me bisognerebbe imparare a lasciare alle persone il proprio spazio » aggiunse Erin ma quel commento scatenò la risata esasperata di Castiel:
« Proprio tu parli? Che ti impicci continuamente e vuoi parlare con tutti? »
« Io invado lo spazio in modo molto cauto, Cas » convenne Erin « lascio che siano gli altri ad aprirsi piano piano »
L’amico la fissò con un’occhiata eloquente, quasi a ricordarle quante pressioni avesse subito in passato per estrapolargli il motivo della lite con Nathaniel. Come se gli avesse letto nel pensiero, la ragazza ridacchiò e ammise:
« ... magari all’occorrenza vale la pena forzare un po’ le cose. Il fine giustifica i mezzi »
« Non ti facevo così invadente, Erin » commentò Melanie, mentre la mora trasaliva.
« Come invadente? Come ti permetti! » rise.
« Beh, non mi sorprende » intervenne Isiah « sul campo eri quella che faceva più confusione »
A quell’ilarità generale non si unì quella di Trevor che aveva sorriso appena. Il cestista si era appartato da quei discorsi, rimurginando sull’accaduto. Pensava di aver trovato in Jordan una nuova Kim, una possibile migliore amica con cui ricostruire il rapporto che andava via via indebolendosi con la velocista, troppo presa dalla sua relazione con Dajan. Kim gli permetteva di essere pungente e prenderla in giro per la sua poca grazia e totale mancanza di femminilità. Jordan invece era una ragazza permalosa e che non sapeva stare allo scherzo. Quando l’aveva conosciuta, aveva pensato di aver trovato la degna sostituta o, se non altro, un piccolo esperimento sociale sul quale esercitare la sua influenza nei rapporti interpersonali. Jordan invece continuava a chiudersi a riccio e scagliargli contro i suoi aculei ogni qualvolta cercava la sua complicità.
Quel silenzio non sfuggì a Dajan che tuttavia, si limitò a prendere atto di quanto l’amico fosse stranamente riflessivo.  

Anche se non amava farsene vanto, era indubbio che certi agi concessi dal benessere economico della sua famiglia gli erano mancati. Avere un’intera abitazione a sua disposizione aveva impattato positivamente sulla sua psiche, libera di riflettere sugli eventi degli ultimi giorni. La bugia regalatagli da Castiel gli avrebbe concesso qualche giorno di pausa da Rosalya, necessario per far ordine in testa.
Suo malgrado però, sembrava lontano dal raggiungere la conclusione sperata. Aveva trascorso quel sabato mattina dedicandosi alla lettura ma aveva dovuto accantonare quell’hobby dopo appena un’ora in cui si era reso conto di aver solo sfogliato delle pagine.
Aveva provato poi ad allenarsi, cercando di sfogare nell’attività fisica tutta la tensione che si era accumulata. L’esercizio gli era sicuramente stato d’aiuto, così come la doccia rigenerante che ne era seguita.
Uscì in giardino e ammirò il sole che ormai era in procinto di tramontare. Mentre dei caldi raggi gli scaldavano il viso, tornò a pensare alla California e al pezzo di cuore che aveva abbandonato lì.
Sophia era sparita, non l’aveva cercato ma nonostante questo, non riusciva a non pensarla. Nessuna era mai riuscita ad oscurare così quello che provava per Rosalya. Gli aveva incasinato la vita per poi lavarsene le mani. Lui però non riusciva a darsi pace. Più passavano le ore e più sentiva che l’amore per Rosalya veniva soverchiato da uno schiacciante senso di colpa mentre i suoi sentimenti per Sophia si autoalimentavano, nutrendosi dei suoi ricordi.
Non avrebbe potuto ignorare la sua ragazza ancora a lungo. Poteva temporeggiare sul dirle del tradimento, ma aveva bisogno di prendere tempo. Non sapeva se sarebbe bastato a dimenticare Sophia e scoprire dei nuovi sentimenti per Rosalya, più vigorosi e forti di quelli che aveva calpestato brutalmente appena due giorni prima.
Se solo Sophia l’avesse voluto. Si chiese se in quel caso, la sua decisione sarebbe stata diversa e, dopo averci rifletutto attentamente, la risposta non lo sorprese.  
Sì.
In quella circostanza non avrebbe avuto senso torturare Rosalya con una pausa di riflessione nell’attesa di una scelta che il suo cuore aveva già intrapreso.
Cercò il cellulare e, vincendo la repulsione che provava per se stesso, scrisse:
“ A prescindere da quello che ci siamo detti, rimani l’errore più giusto che abbia mai fatto... voglio te e nessun’altra, Sophia ”.

Dopo essersi allontananta dal ristorante, Jordan si era recata alla fermata dell’autobus più vicina. Lo stomaco aveva brontolato per la fame ma il suo nervosismo le imponeva di scappare il più lontano possibile da quel posto prima di poterlo assecondare.
Si era sentita così umiliata da Trevor.
Per quanto lui la facesse irritare, pensava che in qualche modo trovasse piacevole la sua compagnia e invece l’aver realizzato che lei era solo un caso umano che lo stuzzicava, la faceva sentire estremamente vulnerabile. Era vero che non gli aveva mai chiesto nulla ma non per questo Trevor aveva tutti i torti. Le mancava avere delle amicizie, specie tra le ragazze, poichè nella sua classe non era riuscita a instaurare legami particolarmente solidi. Andava più o meno d’accordo con tutti ma si era costruita una certa fama di una persona sicura di sè e snob, dopo i numerosi rifiuti e inviti che aveva dovuto declinare da parte di alcuni ragazzi che le si dichiaravano. Quelle attenzioni la mettevano a disagio e finiva per liquidare i sentimenti che le venivano esposti con poco tacco e sensibilità. Era più forte di lei reagire in quel modo ma il risultato era quello di una personalità piuttosto schiva e solitaria.
A darle ancora più fastidio era il fatto che in parte Trevor avesse pure avuto una bella idea a inserirla in quell’uscita tra amici. Prima con Erin e poi con Castiel, era riuscita a instaurare un dialogo e si sarebbe mangiata le unghie dei piedi se la scenata che ne era seguita li avrebbe allontanati da lei.
Quella coppia-non coppia le piaceva molto e se avesse avuto un’altra occasione, ne avrebbe approfittato per scambiare chiacchierare ancora con loro, specialmente con la mora. Dai due si era sentita accettata e non giudicata per i suoi modi troppo schietti e talvolta inappropriati.
Prima di tornare a casa aveva deciso di passare per il parco vicino alla sua scuola, un posto generalmente poco frequentato. Per l’appunto, notò solo l’abitudinaria anziana signora che nutriva le paperelle del laghetto artificiale e proseguì con la sua passeggiata. Nel silenzio generale che la avvolgeva, ad un certo punto distinse un suono che quella mattina le era diventato fin troppo familiare: una palla da basket sbattuta contro un pavimento duro. Cercò la fonte di quel rumore e individuò un ragazzo vicino ad uno dei canestri del campetto da basket. Le dava le spalle, quindi non poteva accorgersi di aver calamitato l’interesse della ragazza. Il cestista inoltre, era concentrato a ripetere una serie di tiri con l’intento di centrare il canestro.
Incuriosita, Jordan iniziò ad avvicinarsi, senza staccare gli occhi di dosso dalle mani dell’atleta. Durante la partita di quel giorno non aveva potuto studiare la meccanica del tiro, lezione che per altro, Trevor le aveva promesso. Una volta sul campo la frenesia della partita aveva preso il sopravvento e una smarrita Jordan si era trovata ad improvvisare uno stile di gioco di uno sport di cui non conosceva neanche i rudimenti. Tuttavia, osservando quel ragazzo che si allenava in solitario, notò che stava eseguendo dei movimenti talmente lenti e controllati, che le permettevano di sezionarli uno alla volta, scomponendoli in singole azioni. Studiò la posizione delle sue mani che tenevano salda la sfera sopra la sua testa e controllò come fletteva le braccia. La palla riceveva così una spinta che la indirizzava al centro perfetto del canestro.
Lo sport non le piaceva ma se c’era una cosa che Jordan adorava era imparare cose nuove. La sua mente era estremamente recettiva e nella semplicità di quelle azioni, desiderò acquisire la stessa dimestichezza ed eleganza di quel ragazzo. Lui faceva sembrare facile un’azione che quella stessa mattina, eseguita da Trevor e i suoi amici, le sembrava impossibile.
Continuò ad incedere, rapita da quei movimenti ma non si accorse della recinzione metallica che costituiva una barriera tra lei e il campo di gioco. Finì quindi per urtare contro la rete, facendo sobbalzare l’assorto cestista.
Quest’ultimo si voltò, mentre la palla che aveva già abbandonato la sua presa finiva ancora una volta al centro del canestro. Il ragazzo era molto alto, con dei simpatici ricciolini che sembravano vittima di un recente taglio sbagliato.  
Si fissarono per un attimo, reciprocamente confusi dalla familiarità dei loro visi. Forse quel ragazzo si era presentato nel locale in cui lavorava ma vedeva così tanta gente di passaggio che non ne era sicura.
« Ciao » le disse lui, indeciso sul da farsi.
« S-scusa, non volevo distrarti » borbottò Jordan, arretrando di qualche passo e strofinandosi il naso. Sperò che la sua figuraccia fosse passata inosservata e infatti il cestista la tranquillizò:
« Non preoccuparti. Stavo solo facendo dei tiri a caso »
« Beh, per farli a caso sei bravo » replicò Jordan leggermente accigliata « io non sono mai riuscita a centrare un canestro in vita mia »
Ricordò ancora una volta Trevor e le sue continue prese in giro durante l’amichevole di basket di quel giorno. La sua esperienza con quello sport era limitata a quella giornata appena conclusasi.
« Vuoi che ti mostri come si fa? »
Tornò a fissare il ragazzo sconosciuto e trovò due iridi color cioccolato che la fissavano incoraggianti « magari non sarò un grande maestro... »
« Va bene » acconsentì lei, sentendosi improvvisamente temeraria. Quell’offerta così cordiale l’aveva fatta gioire interiormente al pensiero che, forse, alla prossima occasione avrebbe fornito a Trevor un pretesto per starsene zitto.
Superò la recinzione e si avvicinò al canestro.
« Guarda che sono una vera schiappa » lo ammonì.
« Intanto fammi vedere come lanci » le sorrise lui, passandole la palla.
Nel vedere la poca grazia con cui lei afferrava la palla e se la portava al petto, la interruppe:
« Aspetta, meglio se prima ti mostro come la devi tenere in effetti » le spiegò indulgente.
Si avvicinò a lei, con un sorriso caldo e paziente ma quel movimento la irrigidì. Si pentì di aver accettato quella proposta, immaginando che quel ragazzo ne avrebbe approfittato per toccarla con la scusa di correggere la posizione di tiro. Il cestista però si fece riconsegnare la palla e si mise in posa, invitandola a osservarlo con attenzione:
« Questa è la posizione di base. Vedi come sono flesse le braccia? La palla rimane sopra la testa, in questo modo... »
Mentre l’insegnante le illustrava ogni dettaglio della meccanica di tiro, Jordan si sentì non solo sollevata ma anche deliziata da quell’approccio così paziente e rispettoso. Ultimata la spiegazione, lui la invitò a emulare la posa e, quando finalmente Jordan lanciò la palla, questa toccò il ferro.
« Ha toccato il ferro! » esultò felice. Lui la fissò perplesso e riconobbe:
« Non voglio smorzare il tuo entusiasmo ma in teoria dovrebbe centrare il canestro » ridacchiò divertito. Non c’era sarcasmo nella sua voce e questo la spinse, per una volta, a non scattare subito sulla difensiva.
« Non ci sono mai andata così vicina! » esultò soddisfatta.
« Allora è un bel passo in avanti! » si decise ad incoraggiarla « non era male come tiro. Adesso prova a mirare ad uno degli angoli del rettangolo interno » la consigliò.
Jordan eseguì quelle istruzioni alla lettera e, non appena la palla cadde all’interno della rete, saltellò leggermente:
« Ce l’ho fatta! »
Il cestista recuperò la palla caduta a terra, sorridendo per l’entusiasmo un po’ infantile della sconosciuta.
« Grazie mille per la lezione... » e si rese conto che ancora non conosceva il suo nome:
« Scusami, non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Jordan »
« Bel nome per una ragazza conosciuta giocando a basket » ridacchiò l’altro, portando la palla sotto l’avambraccio.
Le allungò la mano e, fissandola negli occhi con un sorriso amichevole si presentò:
« Io invece sono Wesley... ma tutti mi chiamano Wes »
 
Il sole stava tramontando quando la comitiva si separò.
I cestisti della Saint Mary dovevano raggiungere New York ma lo fecero con la promessa di rivedersi alla prima occasione. Potersi confrontare una seconda volta aveva riacceso la fiamma della gara anche se l’ambiente competitivo del torneo aveva avuto sicuramente un impatto maggiore sulla rivalità tra le due squadre. Castiel si considerava comunque soddisfatto di essersi misurato con atleti del calibro di Julius Lanier e Isiah Reed, ammettendo che in quanto a talento nel basket, gli erano superiori. Non per questo si era lasciato abbattere. Sfidare avversari più forti di lui aveva sempre un effetto adrenalinico sul suo umore.
Quella soddisfazione si rifletteva anche nel suo capitano, Dajan, che salendo in macchina sorrideva tra sè e sè, assaporando il giorno in cui, in fazioni diverse, lui e Julius si sarebbero affrontati da professionisti. Erin invece era distratta dai suoi pensieri, poichè non aveva ancora avuto l’occasione di confrontarsi con l’amico musicista in merito alle ultime notizie fornite da Melanie.
Per sua fortuna, seduto sui sedili posteriori accanto a lei, c’era uno stranamente silenzioso Trevor. L’insolita apatia del cestista le permetteva di concentrarsi sulle sue riflessioni al punto da ignorare quanto fosse inusuale quel comportamento. Se non altro, Rosalya l’aveva invitata a dormire da lei.
Quella sarebbe stata la prima volta che la ragazza avrebbe messo piede in casa White. Avrebbe condiviso con lei le scoperte di Melanie e magari, avrebbero trascorso la serata al computer a cercare ulteriori notizie di Jack Hurst o della sua misteriosa amante.
« Devo lasciarti direttamente a casa di Rosalya, giusto? » le chiese Dajan, destandola dai suoi pensieri. Prima che Erin potesse confermare quella richiesta, intervenne Castiel:
« Così ti tocca passare per il centro. Se passi per l’incrocio dell’ospedale scendo anche io e la accompagno. Casa mia è di strada »
Il sollievo dell’autista per quella proposta fu duplice: da un lato si risparmiava il traffico del centro città e dall’altro aveva l’occasione per restare da solo con il solitario Trevor. Annuì convinto e si apprestò a seguire le indicazioni del ragazzo seduto accanto a lui.
 
Nathaniel aprì gli occhi. Sopra di lui, un cielo scuro aveva preso il posto del tramonto romantico che aveva fatto da sfondo ai suoi pensieri. Le prime stelle avevano fatto capolino, macchiando con la loro flebile luce il manto nero del cielo.
Aveva perso la cognizione del tempo, addormentandosi su una poltroncina appena fuori dalla depandance.
Controllò pigramente il cellulare e realizzò che era quasi ora di cena.
Rimpianse di non aver attivato la conferma di lettura e si chiese se Sophia avesse letto il messaggio invitatole qualche ora prima.  
Era intontito dal sonno e anche leggermente infreddolito per essersi appisolato all’esterno. I pensieri che da ore non gli dvano tregua lo stavano sfinendo internamente.   
Inspirò rassegnato, trovando la forza di alzarsi dal comodo giaciglio.
Stava per rientrare nella depandance, quando una voce lo chiamò alle spalle:
« Nathaniel... »
Una scarica elettrica lo attraversò da parte a parte, poichè era impossibile non riconoscere in quelle poche sillabe quel timbro che si era ormai impresso a fuoco nella sua mente.
Il suo nome era stato pronunciato con una tale insensità che non poteva confonderlo nemmeno con quello di Erin.
Si voltò di scatto e la vide.
Sophia era lì, davanti a lui.
 
« Quindi Rosalya passa prima da Nathaniel a portargli dei biscotti? » stava riepilogando Castiel, affossando le mani nella tasca del giubbotto.
Cogliendo il tono di biasimo, Erin si accigliò e ribattè piccata:
« Qualcosa in contrario, Black? »
Seguendo le istruzioni dell’amico, Dajan gli aveva mollati poco lontano da casa di Rosalya concedendo così alla coppia l’occasione per confrontarsi sugli eventi della giornata. Erin trepidava all’idea di convidividere con Castiel le ultime informazioni acquisite da Melanie ma il ragazzo sembrava interessato principalmente ai progetti serali di Rosalya.
« C’è che Nathaniel sta male, Travis » le ricordò, continuando a camminare sull’orlo del marciapiede « non può lasciarlo tranquillo per qualche giorno? »
« Ma è la sua ragazza! E poi passa solo a portargli dei biscotti, dormo io da lei poi »
Castiel però non solo non le concesse la legittimità di quella pianificazione ma aveva aggrottato le sopraciglia in segno di scetticismo. Quell’espressione finì allora per irritare ancora di più Erin:
« Tu mi stai nascondendo qualcosa! » sbottò, parandosi davanti a lui, con le mani sui fianchi. Lo fissava dritto negli occhi con aria di sfida, determinata a estrapolargli quelle informazioni che si ostinava a celare:
Il rosso si scaldò a sua volta e scattò:
« Smettila con questa storia, Erin »
La risposta però sortì un effetto insperato nella ragazza che, anzichè irritarsi ulteriomente, si lasciò scappare un adoraile sorrisino malizioso:
« Che hai ora? » le chiese confuso, superandola e continuando a camminare. Lei tornò ad affiancarsi a lui e guardandolo con la coda dell’occhio, ammise:
« Visto che raramente ti rivolgi a me con appellativi diversi da Cip, Travis, scema, mi lusinga sempre sentirmi chiamare per nome »
« Non dimenticare idiota » ghignò lui.
Fu immensamente sollevato che la discussione tra di loro avesse preso una nuova piega e che la ragazza avesse accantonato la propria curiosità. Da parte sua, anche se erano passate appena ventiquattr’ore da quando Nathaniel gli aveva confessato il suo segreto, sentiva che sarebbe stato davvero difficile tenerlo al sicuro.
 
L’aveva salutata meno di quarantottore prima, lasciandola dall’altra parte del paese.
Ora lei però era lì, a Morristown.  
A casa sua.  
Di fronte a lui. Era una visione surreale.
Sophia portava un capiente borsone a tracolla e si era trascinata appresso un’ingombrante valigia.
« Ho dato fondo ai miei risparmi e ho preso il primo aereo... » aveva iniziato a dire ma lui non le lasciò il tempo di parlare.  
Colmò la distanza che li separava e la strinsè a sè con un vigore ai limiti del dolore.  
Lei rispose a quella stretta, aggrappandosi alla maglia del ragazzo come se fosse sull’orlo di un precipizio e affossò la testa nel suo petto.
« Avevo paura di averti persa una seconda volta » le sussurrò senza sciogliere la stretta.
Il suo arrivo all’improvviso era un gesto così inaspettato che annientava la brutalità delle ultime parole che gli aveva rivolto.  Non c’era nessun motivo per cui lei dovesse presentarsi con quell’urgenza a Morristown se il suo intento era solo avere una conversazione.
« Non voglio più scappare » mormorò la ragazza, senza sciogliere quell’abbraccio che, non solo la confortava, ma le risparmiava l’imbarazzo di fargli leggere quanto fosse vulnerabile in quel momento.
« Affronteremo insieme questa cosa » aveva aggiunto.
Quelle poche parole colmarono l’enorme squarcio che aveva svuotato l’animo di Nathaniel. Improvissamente sentiva che la sua paura per il futuro veniva ridimensionata dalla consapevolezza di non essere più solo.
Con Sophia al suo fianco, poteva trovare il coraggio di anteporre i propri desideri a quelli delle persone a cui voleva più bene.
 
Il suono del campanello si era appena diffuso nell’atrio di villa Daniels.
Molly, intenta a sistemare i sopramobili della sala da pranzo, era accorsa frettolosamente alla porta, sorpresa.
« Arrivo, arrivo. Che sta succendo oggi? » borbottò tra sè e sè.
Una volta affacciatasi all’esterno, si trovò davanti Rosalya:
« Oh, ma che serata affollata oggi » commentò la governante con un’espressione leggermente stupita.
« Perchè affollata? » chiese la ragazza, avanzando nell’atrio. I suoi biscotti al cioccolato erano ancora tiepidi nel loro sacchetto e sprigionavano un’invitante aroma goloso.
Il pomeriggio di shopping con Alexy si era particolarmente dilungato e aveva dovuto correre contro il tempo per prepararli. Sapeva di essere già in ritardo all’appuntamento con Erin ma non resisteva all’idea di rivedere Nathaniel e scusarsi per la sua scortesia della sera precedente.
Nonostante il suo impegno, il risultato culinario non era dei migliori, specie per una perfezionista come lei. Solo una misera selezione di biscotti aveva superato il suo controllo qualità ma il loro numero non rendeva merito agli enormi sforzi fatti dietro ai fornelli.
« Anche una vostra amica è venuta a trovarlo. Sono di là, nella depandance » annunciò Molly.
« Amica? Di chi si tratta? » domandò Rosalya, alquanto sorpresa. Non erano molte le amicizie femminili di Nathaniel e poichè Molly le conosceva tutte, le sembrò strano che non la nominasse.
« Non la conosco » le confermò per l’appunto la governante « ...ma mi è sembrato di avere davanti Erin »
 
I capelli del ragazzo le sembravano più morbidi dell’ultima volta che li aveva accarezzati. Gli sistemò amorevolmente un ciuffo che gli copriva la fronte e gli disse:
« Ho passato appena due ore a impormi di non cercarti ma poi non ce l’ho fatta. Ho cercato il primo aereo e sono venuta qui. Sono pazza lo so, ma avevo paura che se avessi aspettato, sarebbe stato... troppo tardi »
Nathaniel le sorrise, perso nella spontaneità di quello sguardo vivace.
« Ma quindi non hai visto il mio messaggio? »
La vide allora frugare nelle tasche e cercare il cellulare. Si ricordò solo in quel momento di aver spento la connessione dati una volta atterrata a New York.
Non appena la rete le consentì di instaurare il collegamento con il resto del mondo, cercò la chat con il ragazzo.
Lesse quelle parole, illuminandosi nel sorriso più dolce che le avesse mai visto in viso. Sophia alzò lo sguardo verso di lui, brillando di felicità e gli gettò nuovamente le braccia al collo.
Si sciolsero un istante, durante il quale lui le mise una mano sulla guancia e si guardono con intensità.
Si erano mancati, quasi quanto le loro labbra che, lentamente, si avvicinarono. Socchiusero gli occhi, liberando una passione che aveva trattenuto dopo il loro amaro risveglio insieme.
Nathaniel aveva spostato la sua mano dietro la nuca di lei, invitandola a non staccarsi troppo presto da quella scarica di desiderio irrefrenabile.
« CHE CAZZO STA SUCCEDENDO?! »
Quell’urlo aveva squarciato il buio della notte, facendo sobbalzare per lo spavento i due amanti.  
Un senso di terrore e panico si impossessò improvvisamente di loro.
Il peggiore degli scenari si era appena concretizzato a pochi metri dalla loro ritrovata felicità.
Diventata rigida come una statua di marmo, Rosalya era impietrita davanti a loro.
Si staccarono immediatamente sentendo il cuore in gola.
Sophia si coprì la bocca mentre Nathaniel si era frapposto tra lei e Rosalya, in un istintivo quanto inutile tentativo di creare una barriera.
La sua ragazza li fissava furente ma al contempo i suoi occhi tradivano una tempesta emotiva che a parole era difficile da descrivere.
« Rosalya... che ci fai- »
« CHE CI FACCIO IO?! » sbraitò lei, stringendo i pugni e avvicinandosi « che ci fa questa qui?! »
Il suo cuore era impazzito, i polmoni lavoravano freneticamente alla ricerca di ossigeno mentre il cervello le diceva che non c’erano altre interpretazioni all’immagine che si era definita sotto i suoi occhi.
« Come cazzo hai potuto farmi questo? SEI UN VERME, UNA MERDA! » gli strillò contro.
Gli lanciò addosso i biscotti che, fino a quel momento, teneva stretti in mano e che aspettavano solo di essere gustati. Per la violenza del gesto, il sacchetto si aprì, rovesciandone tutto il contenuto sul pavimento piastrellato della piscina.
Sophia cercò di indietreggiare ma quella mossa non passò inosservata e, incapace di sfogare tutta la collera che le scorreva nelle vene, Rosalya si rivolse proprio alla rossa:
« SEI PROPRIO UNA STRONZA! Lo sapevi che stavamo insieme! »
« Mi dispiace » tentò di giustificarsi la ragazza ma sapeva che ogni tentativo sarebbe risultato vano. Era dalla parte del torto e nessun’argomentazione avrebbe perorato la sua causa.  
Lei stessa si era trovata nei panni di Rosalya nella sua precedente relazione e sapeva che nulla di quanto poteva dire avrebbe lenito quella ferita.
Doveva quindi accettare stoicamente quella furia e pioggia di insulti che erano indirizzate a lei e Nathaniel:
« SEI LA SORELLA DI ERIN! Ma cosa vi è passato per la testa? » continuava ad urlare Rosalya sempre più allibita.
La sua mente venne attraversata dal ricordo della sua gita in California e rivisse lo strano disagio che Sophia aveva palesato di fronte a lei, cominciando a collegare gli eventi:
« Da quanto va avanti questo schifo?! » incalzò.  
Nathaniel la fissava colpevole mentre Sophia a mala pena reggeva il suo sguardo. Di fronte al silenzio di entrambi, sentì la collera montarle ancora di più in corpo e alzò nuovamente la voce:
« RISPONDIMI, CAZZO! » sbraitò, avvicinandosi al ragazzo e strattonandogli la maglia.
« E’ successo due giorni fa... »
« Balle! »
« No, Rosalya. E’ vero! » provò a intromettersi Sophia ma l’occhiata furente della stilista la fece desistere dall’intervenire in quella lite.
« NON STO PARLANDO CON TE! »
« Rose, ti prego calmati » esclamò allora Nathaniel afferrandole il polso ma quel gesto la fece ancora di più infuriare. Si liberò violentemente da quella stretta e gli assestò un sonoro ceffone in pieno viso.  
Calò il silenzio più totale mentre delle copiose lacrime iniziarono a farle capolino agli angoli degli occhi.
Lasciò che lui la guardasse dentro, per provare a capire quanto male le avesse fatto.
Molto più di quello schiaffo in cui aveva tentato vanamente di liberare tutta la sua furia e delusione.
« Non chiamarmi Rose... mai più » sibilò.
Abbassò il capo e, senza aggiungere altro, si allontanò.
Iniziò a ripercorrere la via dell’andata con il cuore devastato, lasciandosi i due amanti alle spalle.
Sentì dei passi affrettarsi nella sua direzione e cercò di asciugarsi il viso, il cui trucco sciolto si depositò sulle dita.
« Te la sei già scopata? » domandò senza voltarsi.
Non ottenendo una risposta, fu costretta a girarsi e vide davanti a sè il ragazzo che aveva sempre amato con un’espressione del tutto sconosciuta.
Nathaniel la fissava con pietà, dilaniato dal senso di colpa che sembrava gravare fisicamente su di lui.
« Dimmelo ora perchè questa sarà l’ultima volta che ci parliamo noi due! » insistette lei con determinazione.
« Siamo stati a letto insieme una volta... »
Rosalya non rispose ma anzichè riprendere a camminare, rimase impassibile a fissare il manto erboso del giardino. Inspirò profondamente, cercando di calmarsi ma quel tentativo non attutì minimanente la sua sofferenza.
Nathaniel invece era indeciso sul da farsi: non era nella posizione di riaccompagnarla a casa ma non riusciva a perdonarsi nel lasciarla andare in quello stato.
Non era così che doveva gestire la situazione. Avrebbe dovuto risparmiarle almeno l’umiliazione di scoprirlo in un modo così violento e improvviso.
Avrebbe voluto prendersi una pausa dalla loro relazione e introdurre quel torto con il maggior tatto possibile. Tuttavia, per quanto avrebbe potuto indorare la pillola, era consapevole che la reazione dell’impetuosa e orgogliosa Rosalya non poteva essere troppo diversa da quella che stava affrontando in quel momento.
« Non volevo farti soffrire » le sussurrò mestamente.
Rimasero immobili, l’uno davanti all’altra. Lui la guardava, fissava quei capelli così belli e lucidi che la luna rendeva ancora più argentei mentre lei non riusciva ad alzare la testa.
« Ti chiedo scusa Rosalya ma quello che provo per lei è qualcosa di irrazionale »
Non l’avrebbe più chiamata Rose. Era stata lei a chiederglielo eppure soffriva immensamente nel realizzare quanto velocemente stessero diventando due estranei. Strinse i pugni, sempre più disperata. La mascella le si era irrigidita e, in quel tentativo da parte di Nathaniel di trovare una giustificazione, individuò la forza per alzare lo sguardo:
« Per quanto ancora vuoi prolungare il mio dolore? » esclamò, portandosi la mano sul petto « quindi quando dicevi di essere innamorato di me erano tutte balle? » lo interrogò ferita « quando imparerai a dare il giusto peso a certe parole? » lo accusò.
Nathaniel abbassò il capo, così lei proseguì:
« Sei una merda! Non hai neanche avuto il coraggio di dirmelo in faccia! »
« Non ne ho avuto il tempo... »
« Ma vaffanculo! Sei un codardo e lo sei sempre stato! » sbraitò « giochi con i sentimenti delle ragazze facendo leva su quel viso d’angelo che ti ritrovi ma in realtà sei solo un egoista che non sa cosa vuole dalla vita! »
Continuò ad insultarlo e, consapevole di non aver nessun diritto di arginare la sua rabbia, il biondo si limitò ad incassare quelle offese.
« Quando ti deciderai a diventare un uomo? » continuava lei « assumiti la responsabilità delle tue azioni! Da quando ti conosco non hai fatto altro che saltellare da una ragazza all’altra, millantando nobili sentimenti... e io cretina che mi ero convinta di essere quella giusta »
Un nodo alla gola le impedì di proseguire, così il ragazzo ne approfittò:
« Lo pensavo anche io, te lo giuro. Ti ho amato per - »
« Non dire che mi hai amato! » strillò lei « perchè se ami davvero una persona non le fai quello che avete fatto a me! » sbraitò paonazza « TU NON SAI COSA SIA VERAMENTE L’AMORE, NATHANIEL! Dalla tua famiglia non ne hai mai ricevuto una dimostrazione concreta, per questo non sai cosa voglia dire amare davvero una persona! Tu sei solo autodistruttivo e nella tua confusione stai trascinando anche me! »
Sapeva dove colpire per ferirlo e cercava in tutti i modi di scatenare in lui un contrattacco. Voleva provocarne una reazione violenta, intaccare quell’atteggiamento controllato per poter continuare ad urgargli contro:
« Ti aggrappi alla prima ragazza che ti fa gli occhi dolci finchè non compare un nuovo giocattolo. L’hai fatto con Erin e ora lo stai facendo a me. Appena una persona ti dà qualcosa, te ne stanchi e cerchi una nuova distrazione »
« Non tirare in ballo Erin » la redarguì Nathaniel acquisendo un minimo di fermezza « non c’è mai stato posto per me in lei. Quello è stato solo un grosso errore da parte di entrambi »
« MI SONO ROTTA IL CAZZO DEI TUOI ERRORI! » urlò, respirando a fatica.  
Doveva prendere fiato perchè altrimenti sarebbe svenuta dall’agitazione.  
Nathaniel non replicava mentre Sophia non si era mossa dalla sua posizione, fissando da lontano con apprensione quella scena così pietosa.
Rosalya inspirò profondamente, conscia che il perdurare di quegli insulti unidirezionali non sminuivano il dolore che le dilaniava il cuore.  
« Non voglio più vederti. Abbiamo chiuso... e per sempre »

« Non è il caso che entri? »
« Te l’ho detto, se non ti va di farmi compagnia qui fuori, tu vai a casa. Rosalya arriverà a momenti »
Seduti sul ciglio della strada, davanti a casa White, Erin e Castiel si erano intrattenuti a chiacchierare. Sembravano due ragazzini annoiati ma poichè Rosalya l’aveva avvertita di essere uscita, la mora aspettava il momento del suo rientro.
Per la prima volta avrebbe messo piede in casa White e, nonostante la presenza di Lysandre al suo interno, il suo istinto le suggeriva di aspettare l’amica. Inoltre, fintanto che Castiel non si decideva a salutarla, preferiva di gran lunga intrattenersi il più possibile in sua compagnia:
« Comunque è strano che non ti risponda al cellulare » osservò lui.
Non aveva ancora finito la frase quando una vettura dall’aria familiare, svoltò l’angolo. Vennero accecati dai fanali dell’auto e, mentre Castiel si portava una mano sopra gli occhi, Erin scattò in piedi felice.
Corse incontro alla macchina che nel frattempo si era fermata nel vialetto dell’abitazione, a pochi metri dai due.
Il motore venne spento ma dall’abitacolo non usciva nessuno.
Si intravedeva la figura dell’autista con le mani rigide sul volante e la cintura ancora allacciata.
Erin si chinò, avvicinandosi al finestrino ma la persona che le si parò davanti non aveva nulla della compostezza e fierezza che erano così tipici in Rosalya.
Il suo volto era scavato dalle lacrime e il mascara, unitamente all’eyeliner nero, erano completamente colati sulle guance arrossate. Gli occhi erano talmente gonfi di pianto che risultavano molto più piccoli. La base del naso era lucida, irritata dal muco che continuava ad essere ricacciato giù per la gola.
Un’immagine che Erin era destinata a ricordare per tutta la vita.
« ROSA, CHE È SUCCESSO!? » si allarmò, aprendo di scatto la portiera.
La squadrò da capo a piedi, assicurandosi che fisicamente non avesse alcun tipo di lesione che le procurasse quel dolore. Ma non doveva cercare una ferita esterna e anche un’ingenua come Erin lo realizzò subito. Rosalya non la guardava in faccia così l’amica fu costretta ad accucciarsi ancora di più davanti a lei:
« Ti prego, mi sto preoccupando seriamente. Che succede? »
« Va via... » le sibilò la ragazza con un filo di voce.
Castiel nel frattempo le aveva raggiunte ma era rimasto in silenzio a fissare quella scena turbato. Nella sua mente ipotizzò una spiegazione che del resto non rappresentava un azzardo, quando piuttosto un’ovvia conclusione: Rosalya sapeva.
« Io da qui non mi muovo se non mi dici cosa è successo! » s’impuntò Erin.
Rosalya allora uscì rapidamente dall’abitacolo, sbattendo violentemente la portiera.  
« E’ SUCCESSO CHE QUEGLI STRONZI DI NATHANIEL E TUA SORELLA SONO ANDATI A LETTO INSIEME! »
Quella parole raggelarono Erin. I suoi occhi si erano spalancati, segno del più completo stupore e smarrimento.
Rimasta senza parole e incapace di commentare, non era lei la persona con cui Rosalya voleva confrontarsi. Rivolgendo infatti un’occhiata ferita al ragazzo dietro la mora, Rosalya sibilò:
« E’ di questo che parlavate ieri sera, vero? »
Erin si voltò meccanicamente verso il rosso, pregando di vederlo negare quella risposta.
« Mi dispiace, Rosa » mormorò lui « più di insultarlo, non potevo fare altro »
Era la prima volta in vita sua che si trovava nella posizione di doversi scusare con la ragazza ma era anche consapevole che il suo intervento non sarebbe stato opportuno. Si scusò perchè per quanto lui e Rosalya si punzecchiassero continuamente e non perdessero occasione per insultarsi, le voleva bene. In certi difetti della stilista, Castiel aveva sempre ritrovato i propri ma, visti dal di fuori, gli sembravano particolarmente irritanti. Non era un caso se entrambi avessero allora maturato un profondo affetto per le stesse persone, ma la differenza era che una di queste era la stessa che aveva ferito entrambi in modo diverso.
Erin alternava lo sguardo tra i due, persa e disorientata. Voleva prendere in mano la situazione, dipingere uno scenario alternativo che giustificasse quella sorta di allucinazione collettiva ma più passavano i secondi e più quella tremenda verità si radicava nel disagio dei presenti.
« Non era giusto che fossi io a dirtelo » aggiunse Castiel, mettendo le mani in tasca e sfuggendo allo sguardo di Rosalya.
« Non c’è un cazzo di giusto in questa storia! » esclamò allora Rosalya, stringendo i pungi « apri gli occhi Castiel! NATHANIEL È UNO STRONZO E BASTA! Comincio a credere che ci abbia davvero provato con Debrah l’anno scorso! »
A quelle parole però il rosso trasalì e abbandonò l’atteggiamento remissivo con cui si era rivolto a lei fino a quel momento.
Le parlò con fermezza ma senza dimenticare quanto fosse fresca la ferita di Rosalya:
« Sei incazzata e ne hai tutto il diritto » replicò, cercando di mantenere la calma anche se, quell’ultima affermazione era riuscita a farlo dubitare anche delle sue certezze.
« Non sono solo incazzata, Cas! IO SONO A PEZZI! » si sfogò lei, puntandosi l’indice contro il cuore e piegandosi in avanti.
Per un attimo le ginocchia sembrarono cedere, come se volesse accasciarsi al suolo e fu in quel momento che Erin sentì un fruscio passarle accanto.
Superandola, Castiel si era portato davanti a Rosalya e l’aveva abbracciata.  
L’aveva stretta forte ed era la prima volta in vita sua che Erin lo vedeva abbracciare un’altra ragazza, con una tenerezza che chiunque avrebbe voluto rifugiarsi in quella stretta.
Rosalya spalancò gli occhi, commossa dalla solidarietà di quel gesto ma ci mise solo pochi secondi prima di tuffare la testa tra le braccia del ragazzo, bagnandogli senza ritegno la maglietta coperta dalla giacca in pelle. Continuò a singhiozzare inconsolabile mentre lui, con una dolcezza infinita, le accarezzava la testa.
« So come ti senti » le bisbigliò « fa male, ma poi passa »
Rosalya si strinse ancora di più in quella coccola ed Erin, che per tutto quel lasso di tempo era stata incapace di reagire, sperimentò un’improvvisa morsa di gelosia verso l’amica. Lei sembrava così piccola e lui così forte e protettivo che in Erin iniziò a gravare la sensazione di essere un terzo incomodo. Era egoista a provare quei sentimenti di fronte alla sofferenza della sua migliore amica. Doveva anzi essere sollevata che, diversamente da lei, Castiel riuscisse a gestire così maturamente quella situazione. Situazione che era stata Sophia a scatenare.
Sentì la rabbia montarle in corpo, per una sorella che negli ultimi mesi era solo fonte di preoccupazioni e sofferenze.
Quando finalmente l’intimità tra i due si sciolse, Rosalya sussurrò con tenerezza:
« Grazie, Castiel »
Lui non rispose, mentre lei tornava in macchina a recuperare la borsa.
« Erin, stasera non puoi dormire qui » le aveva annunciato, con un filo di voce.
Destata da quelle parole, la mora si risvegliò dalla sua inerzia. Non poteva lasciarla sola in un momento del genere. Era la sua migliore amica, la persona a cui in più occasioni aveva dichiarato un affetto fraterno e che l’aveva sempre supportata. Era il suo momento di starle vicino e non l’avrebbe abbandonata:
« Non posso lasciarti così, Rosa! » esclamò con determinazione.
Castiel inspirò, facendosi da parte ma l’insistenza di Erin non sortì l’effetto desiderato.
Scuotendo il capo sommessamente, la stilista aveva ripetuto con voce sommessa e tenendo lo sguardo fisso al suolo:
« No Erin... non ce la faccio »
La uccideva vederla così remissiva e afflitta.
« Possiamo anche non parlare, Rosa » trattò l’amica, incapace di accettare quel rifiuto « ma ora devi reagire e guardami in faccia! » insistette, cercando disperatamente di smuovere una reazione.
Il tentativo questa volta riuscì ma nel peggiore degli esiti sperati.
Tramutando quegli occhi feriti in un’espressione carica di rabbia e rancore, Rosalya la fissò dritta negli occhi, urlando frustrata:
« Ma non capisci che non ti voglio vedere?! HAI IL SUO STESSO VISO, ERIN! »
Allarmato da quelle urla, Lysandre era comparso in giardino.
Alle sue spalle, una figura anziana osservava apprensiva la scena.
Il poeta si avvicinò al trio e, intercettando l’occhiata di Castiel, capì che era meglio non fare domande. Le urla che avevano preceduto il suo arrivo in giardino gli avevano fatto intuire l’argomento che stava scatenando tanto trambusto.
L’ultima frase di Rosalya aveva aperto una voragine tra Erin e l’amica in cui quest’ultima era sprofondata senza nemmeno reagire. Lysandre allora si avvicinò alla sorella e le mise un braccio attorno alle spalle.  
La mora invece, senza dire una parola raccolse la sacca con il cambio per la notte e si allontanò.
Castiel e l’amico si scambiarono un cenno frettoloso, dividendosi l’onere di consolare le due fazioni.
Mentre il fratello accompagnava in casa Rosalya, Castiel accelerava il passo, nel tentativo di recuperare la distanza tra lui ed Erin.  Quando Nathaniel gli aveva confidato quello scomodo segreto, il primo pensiero del rosso non era andato alla sofferenza di cui sarebbe stata inevitabilmente vittima Rosalya.  
La prima cosa a cui aveva pensato era che avrebbe fatto il possibile per proteggere la serenità di Erin dalle conseguenze di quella situazione.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 61
*** L'unione tra le fratture ***


Capitolo 61 – L’unione tra le fratture
 
Le spietate parole di Rosalya riecheggiavano nella sua testa, caricandosi di odio e disprezzo con il passare dei minuti. L’aveva messa all’angolo con uno scacco matto ed Erin si era limitata ad incassare la sconfitta senza reagire.
Non poteva alterare i connotati del suo viso. Lei per prima era stata vittima di quella scomoda identità quando, dopo la fuga della gemella, quest’ultima le compariva davanti ogni volta che si guardava allo specchio.
Ferita nel profondo, Rosalya aveva sfogato la sua rabbia sadica sull’impotenza di Erin, che non era pronta a incassare il colpo. Quello che inizialmente le era sembrato un gattino ferito, aveva finito per soffiarle contro, graffiandola con la ferocia di una tigre.
« Erin! Rallenta! »
La voce che la chiamò proveniva dalle sue spalle, ricordandole di non essere sola nella sua ritirata. Castiel si era affrettato a seguirla quasi subito, non appena Lysandre gli aveva fatto intendere che si sarebbe occupato lui della sorella in lacrime. Mentre l’amico accompagnava Rosalya dentro casa, Erin si era già allontanata di fretta e furia da casa White, accelerando sempre di più il passo fino a innescare una vera e propria fuga.
Si sentiva tornare bambina a correre in quel modo ma non riusciva a rallentarsi. Eppure, non aveva una meta, lo sforzo fisico sortiva da diversivo su pensieri che l’avrebbero dilaniata se si fosse fermata a pensare.
« ERIN! » la richiamò il rosso con più fermezza. Non gli ci volle molto per raggiungerla e superarla, portandosi davanti a lei.
« Cazzo, Cip » ansimò «  mi farai venire un infarto »
Quell’arresto improvviso fornì alla ragazza il pretesto per fermarsi a sua volta, rimanendo però impermeabile al dialogo.
« Ne possiamo anche non parlare se vuoi ma ciò non cambierà quello che è successo »
Erin lo squadrò appena e mormorò:
« Io... non so cosa dire » e lo superò camminando lentamente lungo il marciapiede. Castiel la fissò e sospirando, si mise accanto a lei, seguendola in silenzio.
La città era calma e la via pressochè deserta. Quella sera erano poche le vetture in circolazione, rendendo ancora più sospesa l’atmosfera tra i due.
La ragazza continuava ad analizzare le poche informazioni di cui disponeva, combattuta tra il desiderio di confrontarsi con l’amico e l’ansia di dover affrontare un argomento in cui il comportamento della sua gemella era imperdonabile.
« Non è da te essere così silenziosa » commentò Castiel a seguito del perdurare di quel silenzio.
« Non è da te essere così chiacchierone. Sembra quasi che tu l’urgenza di parlarne » rispose Erin con una punta di recriminazione.
« Non è questo il punto »
« Allora qual è? »
« Che non riesco proprio a vederti triste »
Le disse quelle parole con un sorriso malinconico, talmente genuino che lei per un attimo sgranò gli occhi, arrossendo confusa. Abbassò il capo, incapace di rispondere alla dolcezza di quell’ammissione.
« Sei arrabbiata con me perchè non te l’ho detto? » indagò allora Castiel, ignorando quanto la sua ultima ammissione l’avesse commossa nel profondo. Quella semplice frase infatti aveva riscaldato il suo animo, cullandolo della confortante certezza di non essere solo.
Castiel era lì, accanto a lei e pronto a sostenerla. Alla sua domanda, aveva risposto con un cenno di diniego, spiegando:
« No. Penso che al posto tuo avrei fatto lo stesso » commentò « non ci saremo mai potuti immischiare tra di loro » aggiunse, calciando distrattamente un sassolino sul suo cammino « ... è solo che... » strinse i pugni e sospirò afflitta « Rosalya non mi aveva mai parlato così »
Si morse il labbro, nel tentativo di non scoppiare a piangere, mentre Castiel affondò le mani nelle tasche, imponendosi di controllare l’istinto di abbracciarla, come aveva fatto poco prima con Rosalya. Per quanto fosse convinto che l’ottusità di Erin gli permettesse di non esporsi troppo, non era ancora pronto a lasciarsi andare in plateali manifestazioni d’affetto.
« Lo so, ma non odia te » chiarì infine.
« Non cambia il fatto che le ricorderò sempre la persona che le ha portato via Nathaniel! » s’inablerò lei, fissandolo per un istante.
Per quanta frustrazione fosse scaturita da quelle parole, Castiel esultò internamente, poichè era riuscito se non altro a instaurare finalmente un dialogo. Non poteva permetterle di crollare nell’autocommiserazione al punto da spezzare quel canale di comunicazione. Doveva permetterle di sfogarsi ma prima, era necessario che ritrovasse la lucidità di affrontare l’argomento.
« Erin, calmati » ribattè lui risoluto.
La vide inspirare profondamente nel tentativo di assecondare l’ordine che le era stato imposto e chiudere gli occhi:
« Io ho così tante domande, Castiel » esalò infine  « Perchè? Come è successo? »
Il rosso si grattò il mento in difficoltà. Seppur consapevole che a quel punto non aveva motivo per non convidividere le informazioni ricevute da Nathaniel, voleva comunque rispettarne per quanto possibile la privacy e lasciare che fosse lui in futuro a decidere cosa raccontare di quella contorta faccenda:
« Non so molto... quello che so è che lui è molto preso da tua sorella »
« Ma quando è successo? » lo incalzò Erin.
Non aveva dato particolare peso al commento di Castiel perchè qualsiasi cosa le avesse raccontato, non era intenzionata a giustificare quello che era accaduto.
Non ce l’aveva solo con Nathaniel. Parte della colpa era anche di sua sorella Sophia che era consapevole dei delicati equilibri che sarebbero crollati a seguito delle loro azioni.
« Credo sia una cosa fresca ma non ho chiesto troppi dettagli a Nate »
Continuavano ad avanzare ed Erin si rese conto che la sua curiosità non bastava a farle superare la paura di conoscere quei dettagli che Castiel non aveva voluto sapere.
L’angoscia per il futuro la opprimeva e più ne avessero parlato, e più avrebbe dovuto accettare la realtà dei fatti: la sua migliore amica era stata tradita con sua sorella.
Per questo, quando Castiel aggiunse « Nathaniel si starà sentendo di merda adesso », Erin non osò commentare quella frase.
Capiva che, analogamente a lei con Rosalya, anche Castiel fosse preoccupato per il biondo ma, diversamente da lei, l’amico non poteva perorare la causa del suo assistito. Nathaniel aveva sbagliato e Rosalya stava soffrendo più di chiunque altro per la sua scelta.
La mora iniziò quindi ad analizzare quell’episodio da un’altra prospettiva, la stessa che l’amica aveva rinfacciato all’ormai ex ragazzo appena un’ora prima. Provò rabbia e risentimento nei confronti di Nathaniel e della superficialità con cui si era dichiarato prima a lei e poi a Rosalya.
Mesi prima Erin si era sentita così in colpa per la fine della loro storia da non osare ripetere la stessa leggerezza con il ragazzo che quella sera era lì, accanto a lei. Non poteva rovinare la sua amicizia con Castiel con una scelta avventata come aveva fatto con Nathaniel.
Eppure sapeva che la solidità dei sentimenti maturati per l’amico era incomparabile alla fragilità delle certezze su cui aveva basato la sua discutibile relazione con Nathaniel.
Da quando aveva scoperto i propri sentimenti per Castiel, Erin aveva accumulato pazientemente ogni sorriso e parola gentile, custodendola nella riserva delle sue emozioni. Il maniacale controllo da formichina su quei beni l’aveva convinta che potesse essere sufficiente a vivere serenamente il suo rapporto con l’amico. Fintanto che non azzardava azioni sconsiderate, nessuno l’avrebbe privata della gioia di continuare ad accumulare la felicità di averlo accanto. Quindi, mentre Erin invece si era limitata ad accettare che non c’era mai stato posto nel suo cuore per una persona che non fosse Castiel, il biondo non aveva esitato più di qualche giorno prima di saltare da una ragazza all’altra, con la leggerezza di una cicala incurante delle conseguenze. Aveva infatti deciso di lasciare Erin per stare con Rosalya, scelta che le era sembrava più che onesta, visti i sentimenti che millantava di avere per la stilista. Peccato che erano stati sufficienti a tenere in piedi il rapporto per appena tre mesi prima di finire a letto con Sophia.
Eppure, per quanto l’autocontrollo di Erin si basasse su una ferrea determinazione a tenere in piedi un’amicizia così preziosa, le era sempre più difficile sopire l’impeto di sentimenti sempre più intensi verso Castiel. Quel ragazzo che per lei c’era sempre stato, anche quando lo pensava lontano. Non l’avevai mai abbandonata e saperlo lì, accanto a lei anche in quel momento presente, le fece desiderare che quella sera il suo coraggio la spingesse oltre le sue paure.
« Non devi sentirti in colpa anche tu » le disse d’un tratto lui, allontanandola dalle sue riflessioni.
Lei annuì senza convinzione e notò in lontananza il profilo della residenza dell’amico.
Non si era accorta di essere giunti a Madison Street anche se quel percorso era per certi versi obbligato poichè casa di Castiel non era lontana da quella della famiglia White.
Dal canto suo, il rosso cercava di trovare qualcosa da dire che potesse smuovere Erin dalle sue dolorose riflessioni. Non meritava di soffrire così per una situazione di cui non aveva nessuna responsabilità anche se, inevitabilmente ne avrebbe pagato le conseguenze. Sapeva quanto Rosalya fosse importante per lei e capiva quanto fosse paralizzante il terrore di perdere un’amicizia così preziosa.
Non avrebbe avuto la serenità d’animo di congedarsi da lei, condannandola ad una serata in solitudine e logorarsi al pensiero di quanto era accaduto.
C’era solo una cosa che poteva fare per sperare di distrarla ed era offrirle un po’ di compagnia.
Si fermò quindi, esitando qualche istante prima di passare davanti al proprio giardino. Se Demon l’avesse sentito arrivare, avrebbe iniziato ad abbaiare allegramente, interrompendo la tranquillità di quell’atmosfera che gli serviva per poterle sussurrare:
« Ceniamo insieme »
Erin, che aveva avanzato di pochi passi prima di accorgersi dell’arresto del rosso, si bloccò a sua volta fissandolo spiazzata.
« Cosa? » aveva ribattutto con un filo di voce.
Cercando di non tradire il suo imbarazzo, il rosso esclamò:
« Ceniamo insieme e poi ti riaccompagno a casa »
Il balsamo di quell’invito lenì l’amarezza che fino a quel momento aveva piegato le labbra dell’amica in una smorfia di tristezza. La vide sorridere appena e guardarlo con gratitudine. Quello che per lui rappresentava un gesto semplice e di dubbia utilità, in Erin si trasformava nell’unica possibilità di ritrovare la serenità perduta.
 
Dopo che Rosalya se ne era andata, Nathaniel si era voltato verso Sophia.
La ragazza aveva un’espressione indecifrabile e proprio per questo, lui le si avvicinò cautamente.
Si mordeva il labbro, gesto che ormai gli risultava fin troppo familiare perchè in comune con la gemella. Il suo tentativo di non scoppiare a piangere era fin troppo evidente.
« Mi dispiace che tu abbia assistito a tutto questo » mormorò il biondo, parandosi davanti a lei.
Sophia scosse il capo, mestamente:
« No, del resto sapevamo a cosa andavamo incontro. Rosalya ha tutto il diritto di sfogarsi in questo momento »
« Ma non volevo che ti facessi carico anche tu di questa cosa. Sono io che l’ho tradita »
« E io ho tradito Erin » completò la ragazza « e temo che non riuscirò a parlarle prima che lo sappia da lei »
« Già » le confermò il ragazzo « questa sera doveva dormire da lei »
« Da Rosalya? »
Nathaniel annuì e la gemella si sentì ancora più colpevole. Quell’episodio avrebbe aggravato la spaccatura che già si era creata tra di loro, dopo che si era rifiutata di convividere i motivi per cui si teneva alla larga da lei e da Allentown.
« A questo punto, temo di non poter fare nulla per rimediare »
Nathaniel la abbracciò, questa volta però privandosi del trasporto di poco prima.
Voleva rassicurarla, trasmetterle tutta la serenità di cui lui per primo ne era privo.
« Affronteremo questa cosa insieme » le sussurrò, mentre Sophia annuiva.
« Io... credo che dovremo andare con calma, Nath » mormorò lei, staccandosi da quell’abbraccio e mentre lui la guardava confuso, lei spiegò:
« Non rimpiango di essere corsa qui, da te. Per quanto sia stato un gesto impulsivo, ci ho messo ore ad arrivare fin qui e per tutto il viaggio mi sono chiesta che cosa volessi da te... e so esattamente che cosa voglio. Voglio che ci proviamo, nonostante tutto »
Lui le prese la mano e le sorrise teneramente:
« Anche io »
Le portò una mano sulla guancia, accarezzandola con delicatezza.
« Però credo anche che tu debba riflettere su quanto è successo. Non voglio dire che Rosalya abbia ragione ma alcune cose che ha detto mi hanno fatto riflettere »
Turbato da quella frase, il biondo incalzò:
« Tipo? »
Una nota di panico era scaturita da quelle due sillabe, così Sophia si premurò di chiarire:
« Ad esempio la velocità con cui ti sei dimenticato di lei. Non voglio metterti pressioni ma non voglio neanche che tu mi prometta sentimenti più grandi di te. Voglio frequentarti, conoscerti meglio e capire se davvero questa relazione ha i presupposti per funzionare »
Nathaniel si accigliò, aumentando la distanza tra di loro.
« Mi stai dicendo che pensi che io possa cambiare idea? » esclamò risentito.
Sapeva che i suoi precedenti non rappresentavano un’argomentazione a suo favore ma non avrebbe mai mandato all’aria il suo rapporto con Rosalya se non fosse stato così convinto dei sentimenti che lo guidavano.
« Ti sto dicendo di iniziare questa storia come due ragazzi che si sono appena conosciuti... non mettiamoci fretta e prendiamoci il tempo che ci serve per sistemare le nostre vite. Io sono in rotta di collisione con mia sorella, ho perso un anno di scuola mentre tu hai ancora questioni irrisolte con la tua famiglia. Io voglio supportarti in questo e farti sapere che sono disposta ad accettare il tuo aiuto per risolvere i miei problemi »
« Ma tutto questo cosa c’entra con noi due? Dico, i problemi che ho con mio padre... »
« C’entrano eccome. Perchè solo quando sarai davvero felice della tua vita e continuerai a volere me, io saprò che questa relazione si fonda su delle solide basi e non su una spasmodica ricerca di affetto... dimostriamo a noi stessi che questi sentimenti sono nati da qualcosa di profondo e non da disperato bisogno di evadere dalla realtà... da un capriccio del momento »
« Non sei un capriccio, Sophia! » si alterò Nathaniel, mentre lei inspirava, cercando di mantenere la calma. Lo conosceva abbastanza da sapere quanto fosse permaloso e doveva calibrare attentamente le sue parole per poter mantenere aperto il dialogo.
« Lo so. So che lo pensi davvero, altrimenti non sarai venuta fino a qui... ma devi darti del tempo per riflettere, perchè quello che abbiamo fatto ha ferito e ferirà altre persone. Non voglio che i tuoi amici mi odino, meno di tutti mia sorella... solo il tempo potrà dimostrare a loro e anche a noi stessi che sappiamo quello che stiamo facendo... »
Il biondo sospirò, sedendosi sulla poltrona a bordo piscina.
Quello che Sophia stava dicendo era perfettamente logico e, una volta che lei l’aveva tranquillizzato sull’entità dei suoi sentimenti, cominciò a capire cosa gli stava chiedendo.
« Hai ragione... è solo che... io non ho dubbi su di noi. Non mi ero mai sentito così, sei diversa da tutte le altre e il solo pensiero di perderti mi paralizza »
« Non mi perderai » gli promise lei, accucciandosi alla sua altezza « affrontiamo insieme questa cosa, un passo alla volta »
 
Come previsto dal padrone di casa, appena si avvicinarono alla siepe, Demon era arrivato di corsa, trotterellando e abbaiando felice. Il padrone allungò la mano per accarezzargli il muso ma dalla delicatezza di quel gesto, l’animale capì che l’amico fosse turbato. Di solito ricambiava la sua energia con strette vigorose che lo facevano scondinzolare all’impazzata ma quella sera Castiel era particolarmente pacato e controllato nei suoi movimenti.
« Ciao bello » l’aveva salutato.
Cercò le chiavi del cancello ma non fece in tempo a superare quella barriera metallica, quando una voce li fece sussultare, voltandosi verso la proprietà confinante.
« Oh Erin! Da quanto tempo! »
Alla loro destra si era materializzata la presenza di Mauro, il cordiale vicino di Castiel. L’uomo si era avvicinato allo steccato che divideva il suo giardino da quello del rosso, accogliendoli con il migliore dei suoi sorrisi.
« Buonasera Mauro » gli aveva sorriso malinconica la ragazza. Per quanto si sforzasse di apparire rilassata, le era difficile fingere di essere la solita Erin allegra e socievole. L’italiano avvertì immediatamente la tensione nell’aria ma il suo intuito gli suggeriva di non fare domande, quanto piuttosto di tentare di allegerirla.
« Speravo proprio di beccarti, Castiel! Ti ho messo da parte una bella fetta di tiramisù. Se mi date un secondo, vado dentro a prenderla »
« Tiramisù? » chiese il ragazzo.
« Sì, stasera sono a cena da amici e ne ho fatto una porzione extra per te... ma  a questo punto non ho nulla in contrario se la vorrai condividere con la tua ospite » gli fece l’occhiolino l’uomo.
Confortato dall’ospitale presenza di Mauro, Castiel acconsentì di buon grado a quell’offerta, sperando che un po’ di zuccheri a fine cena avrebbero addolcino l’animo tormentato di Erin.
Mentre il generoso vicino si recava verso l’interno della propria abitazione, i due ragazzi varcarono il cancello di casa Black, regalando a Demon qualche carezza aggiuntiva che l’animale non vedeva l’ora di ricevere. Il suo rapporto con Erin era talmente migliorato che il cane alternava saltelli davanti alla ragazza a quelli indirizzati al suo padrone. Del resto, era proprio grazie a quella ragazza se durante la permanenza di Castiel a Berlino, le passeggiate settimanali di Demon non erano state interrotte:
« Sta buono » gli aveva sorriso il padrone.
« Ti ricordi la prima volta che sono venuta qui? » sussurrò dolcemente Erin, mentre Castiel si era chinato a strappazzargli il muso.
Nessuno dei due poteva dimenticarlo. La ragazza si era presentata lì dopo cena, la sera prima del concerto del liceo, chiedendo ospitalità per la notte. Demon però si era dimostrato particolarmente ostile, al punto da farla desistere per un attimo dalle sue intenzioni.
Quel ricordo, in cui Erin era rimasta impalata dall’altra parte del cancello a fissare il suo cane con terrore e odio, strappò un ghigno divertito a Castiel che ammise:
« Demon voleva sbranarti »
« E tu che mi dicevi che stavo esagerando! » sbottò lei.
Quella nota piccata lo rincuorò perchè, distratta da quel ricordo, Erin sembrava lasciarsi alle spalle il motivo della sua preoccupazione di quella sera. Mauro nel frattempo era ritornato e, dopo aver accettato la generosa offerta, i ragazzi si erano congedati, augurandogli una buona serata.
Non appena Casteil sbloccò la serratura della porta di ingresso, Erin venne investita da una morsa di nostalgia.
L’ultima volta che era entrata in quella casa, la malinconia dominava il suo animo. Castiel era dall’altra parte dell’Oceano e non aveva risposto a nessuno dei suoi messaggi. Le mancava terribilmente e, a peggiorare la sua posizione, si era unita la consapevolezza di esserne sempre stata innamorata.
Anche nei giorni successivi in cui si era offerta di portare a spasso Demon, non aveva mai osato varcare la soglia di quella casa senza il suo permesso. Mauro le apriva il cancello esterno e lei recuperava il guinzaglio dalla veranda esterna, chiedendosi quando sarebbe stato il padrone dell’animale a tornare a brandirlo.
Quanto le era mancato in quelle settimane.
Ora però doveva concentrarsi sul presente e godersi la prospettiva di una serata in sua totale ed esclusiva compagnia, come era successo tre mesi prima, durante la fredda notte in cui si era presentata a casa sua per la prima volta.
L’appartamento di Castiel, seppur non potesse vantare la spaziosità di quello dei gemelli Evans o lo sfarzo di Villa Daniels, era il posto in cui più di ogni altro si era sentita a suo agio sin dal prima volta che ci aveva messo piede. Ritrovò il divano davanti alla TV e la comoda poltrona alla sua sinistra. L’impressionante raccolta di vecchi CD, tanto cari al ragazzo, erano rimasti sopra il televisore e, sul tavolino in soggiorno erano ammassate delle lattine vuote e il caricabatterie del cellulare.
« C’è un po’ di casino » si era giustificato Castiel entrando. Sul tavolo in cucina c’erano ancora le tazze usate dai Tenia due giorni prima e la lavastoviglie era ancora in attesa di essere caricata.
Eppure in Erin quel disordine rappresentava una sorta di barriera dal mondo esterno perchè era sintomo della familiarità e intimità di quell’ambiente.
Amava il piccolo l’open space costutito dalla cucina e dal soggiorno che fornivano a quell’ambiente un’aria raccolta e familiare.
« Vuoi un po’ acqua? » le offrì l’amico ispezionando il contenuto del frigo.
Tuttavia, se l’intento era cercare di accantonare i pensieri di quella serata, l’acqua non sarebbe stata il mezzo più indicato. Inoltre, la confortante prospettiva di non doversi svegliare presto l’indomani, le regalava la possisibiltà di godersi quel sabato sera senza preoccuparsi per la scuola.
« Non hai qualcosa di un po’ più forte? » aveva quindi contrattato la ragazza.
Sorpreso da quella controproposta, Castiel la fissò per qualche secondo. Diversamente da lui, Erin non era una grande amante dell’alcol e ricordava perfettamente che, quando l’aveva conosciuta, era praticamente astemia per via dell’incidente subito. Con il passare delle settimane, aveva accantonato quella sana abitudine, ma in lui era rimasta radicata la convinzione che la sua ricerca di alcol coincidesse con il malessere di voler dimenticare qualcosa.
« Beh, ho delle birra, vino... e della vodka » calcolò, controllando il freezer « ma quella la eviterei » ridacchiò leggermente.
« Per adesso mi va bene una birra » confermò Erin, avvicinandosi alla cucina.
Si muoveva con disinvoltura in quell’ambiente, con la stessa familiarità di un inquilino abituale.
Castiel le aveva allungato una bottiglia, salvo prima aprirgliela, facendo leva con il fondo di un accendino.
« Mi devi insegnare come si fa » commentò lei incuriosita.
« Ci vuole una manualità particolare. Non credo che tu ne sia in grado » l’aveva punzecchiata con una smorfia canzonatoria.
Quel commento saccente, seppure pronunciato con un sorriso malizioso, l’aveva irretita e aveva provato subito ad imitarlo, strappandogli dalle mani la seconda bottiglia ancora chiusa.
Armeggiò per un po’ ma il risultato fu limitato ad un’infruttuosa tacca sulla plastica dell’accendino usato come apribottiglie.
« Vabbè, aprila tu allora » gliel’aveva restituita sconfitta, mentre lui ghignava beffardo.
Erin nel frattempo aprì il frigo e, ispezionandone il contenuto, si voltò verso il rosso:
« Esattamente a quale cena pensavi? Frittata al limone? » lo provocò.
Per quanto si sforzasse di scherzare, non riusciva ancora a sorridere spontanea come se nulla fosse successo. Tuttavia quell’armonia tra di loro bastava a Castiel per sentirsi più sereno e ottimista circa i suoi tentativi di alleggerirle la mente.
« Beh, non ho avuto molto tempo per fare la spesa in questi giorni... ordiniamo? »
Erin annuì e proprio quando stava per avanzare una proposta, Castiel se ne uscì con:
« Pizza »
« Hamburger » aveva intonato lei in sincrono.
« Non vado matto per gli hamburger » annunciò Castiel leggermente contrariato.
Pronunciata quella frase, Erin non aveva aggiunto altro ma l’aveva scrutato con un’espressione indecifrabile:
« Che ti prende? » aveva chiesto lui confuso.
Erin distolse lo sguardo e si accomodò nel divano, mentre lui la seguiva con gli occhi.
La ragazza si voltò, tornando a fissarlo in cucina e mormorò:
« Non lo so. Ho avuto una sorta di flash back. Come se non fosse la prima volta che me lo dici »
Un accenno di sorpresa comparve negli occhi del rosso. Gli era estremamente chiaro quale fosse quel flash back in questione e l’immagine di loro due, la notte del concerto del liceo sul tetto della scuola, si proiettò nella sua mente. Immagine che Erin aveva rimosso a causa dell’alcol.
« Mi va bene anche ordinare hamburger ma non quelli di Mc Donald » aveva pattuito.
« Perchè? »
« Ne ho fatto indigestione appena mi sono trasferito qui da solo » spiegò, raggiungela nel salotto.
Si accasciò pigramente sulla poltrona mentre lei gli sorrise teneramente dal divano.
Castiel era pur sempre un ragazzo neanche ventenne che si era trovato improvvisamente emancipato dalla famiglia ma senza la maturità di un adulto che può davvero prendersi cura di se stesso. In passato Lysandre aveva testimoniato quanto in fatto di skills culinarie, l’amico fosse piuttosto carente e quell’idea intenerì Erin, al pensiero dei tristi pasti a cui il rosso sottoponeva se stesso. Eppure, sotto altri aspetti  e proprio in virtù della sua delicata situazione familiare, Castiel era più maturo dei ragazzi della sua età, tanto che certi lati più duri e cinici del suo carattere non erano altro che il riflesso di un ragazzo cresciuto in parte da solo.
« Sai che c’è? » soggiunse Erin, cercando un numero nel cellulare « mi è venuta voglia di cinese. Ordiamo dal ristorante di Lin? »
L’offerta di quel compromesso venne accolta positivamente dall’amico.
In quel momento, non le avrebbe più declinato alcuna proposta se ciò fosse servito a impedirle di spegnere quel radioso sorriso che aveva fatto capolino sulle sue labbra. 
 
Nell’attesa dell’arrivo del cibo, il padrone di casa aveva trovato delle patatine e si passavano a turno il sacchetto gustandosele comodamente. Erin era accomodata sul divano mentre Castiel aveva optato per la sua amata poltrona ormai sfondata. Si era disteso orizzontalmente, con le gambe a penzoloni oltre i braccioli. Il primo paio di bottigle di birra era già stato consumato e il ragazzo si era già alzato a recuperarne delle altre dal frigo. Dividere la sua tana con Erin si stava rivelando ancora più confortevole della prima volta. La mora stava gradualmente recuperando un po’ della sua contagiosa allegria e vederla così rilassata sul suo divano faceva sembrare che quella casa fosse sempre stata anche sua.  
Dopo un po’, aveva cambiato posizione e, incrociando le gambe sul divano, aveva aggiornato l’amico sulle recenti scoperte condivise da Melanie quella mattina. Tuttavia, riservò ben poco spazio a quell’argomento, liquidandolo velocemente a qualcosa di cui si sarebbero occupati nei prossimi giorni.
« Comunque ne riparleremo con Ambra, stasera non ci vorrei pensare troppo » aveva annunciato sbrigativamente, recuperando altre patatine dal sacchetto. Parlare del mistero del quadro l’aveva ricollegata a Sophia, nome che non intendeva evocare quella sera per tutelare la propria serenità.
Rimasero in silenzio, finchè Castiel sbottò:
« Cazzo, che fame! Speriamo si sbrighino » sospirò, alzandosi pigramente dalla poltrona.
Lei lo seguì con lo sguardo, sorridendo pazientemente.
« Abbiamo ordinato appena un quarto d’ora fa, Cas... e poi è sabato sera » gli aveva ricordato.
« Cerco qualcos’altro da mangiare allora » aveva annunciato il rosso, dilaniato dai morsi della fame.
Frugò nella dispensa, maledicendosi per la sua scarsa capacità di organizzazione. Colpa anche dei Tenia che qualche giorno prima avevano dilapidato le sue ridotte derrate alimentari.
Anche se il suo obiettivo primario era assicurarsi che Erin potesse distrarsi dalla storia di Nathaniel e Rosalya, inevitabilmente era stato lui il primo a beneficiare della presenza dell’amica quella sera.
Troppo abituato a passare le serate con la sola ed esclusiva compagnia di Demon, avere in casa la ragazza che era sempre al centro dei suoi pensieri rappresentava il suo ideale di sabato sera in relax.  
Il suo buonumore però si spense non appena, tornando in soggiorno, notò che il suo allontanamento momentaneo era bastato a rabbuiare nuovamente la ragazza.
« Castiel » gli chiese Erin d’un tratto, mentre lui apriva un pacchetto di salatini « pensi che io e Rosalya torneremo amiche? »
C’era così tanta vulnerabilità nel suo sguardo che poteva scioglierlo con la sua tenerezza.
Ancora una volta, avrebbe voluto azzerare la distanza tra di loro e accarezzarla affettuosamente, ma si limitò a tranquillizarla a parole:
« Sì, non preoccuparti. Lei ti vuole troppo bene »
« Ma come potrà tornare tutto come prima? Io sarò sempre- »
« Lo so » la interruppe lui prima che precisare l’ovvio generasse inutili lacrime « ma ciò non toglie che tu non ne abbia alcuna colpa e questo lei lo sa »
La ragazza abbassò il capo e si portò le ginocchia al petto, cullandosi in quella posa così infantile e vulnerabile. Fissava un punto davanti a sè, incapace di fornire alcun ulteriore contributo alla conversazione. Affossò la testa tra le ginocchia, sospirando pesantemente.
Non poteva permettere di farsi trascinare ancora una volta dal turbine di pensieri negativi, ma le risultava così difficile ignorarli.
Castiel, per contro, la fissava indeciso finchè, sconfitto da quella manifestazione di fragilità, trovò la temerarietà di sedersi accanto a lei. Azzardò a sfiorandole appena il ginocchio, attirando dolcemente la sua attenzione:
« Ehi... »
Quel semplice richiamo, che concentrava in sè una carica di affetto e empatia, le fece alzare lo sguardo per incrociarlo alle iridi magnetiche del suo interlocutore.
« E’ impossibile fare a meno della tua amicizia, Erin »
Si fissarono per un istante carico di sospensione in cui, nonostante i nobili tentativi di Castiel di consolarla, la dolcezza di quella frase amareggiò l’animo della destinataria. Lui aveva appena rimarcato il confine del loro rapporto, un confine che continuava a frenarla da ogni audace iniziativa di valicarlo.
« Grazie » gli disse, sorridendo malinconica e cercando di cammuffare la delusione.
Castiel si riallontanò compiaciuto, ignaro del fatto che nel tentativo di sollevarle l’umore, aveva scalzato un problema per farne riaffiorare un altro, da sempre presente nel loro rapporto.
Erin si avvicinò la birra alle labbra e la sorseggiò.
Castiel aveva ragione.
Lei non aveva colpa di quello che era successo a Rosalya e struggersi per lei non avrebbe portato ad alcun giovamento. L’amica inoltre le aveva dato prova in più occasioni di quanto le fosse affezionata e non sarebbe bastato un evento, per quanto spiacevole, ad incrinare quel legame. Specie se nessuna delle parti aveva colpa per quanto accaduto.
Doveva tirare fuori la grinta di reagire e la pazienza di aspettare anche e soprattutto Rosalya assimilasse l’impatto di quel brutto colpo.
Mentre era persa in quelle riflessioni, il suo telefono si illuminò e vide una notifica fare capolino nella home.
Lo sbloccò freneticamente e, appena lesse febbrilmente quel breve messaggio, un sorriso rincuorato le distese le labbra.
« Che c’è? » aveva chiesto Castiel, scrutandola perplesso.
Era stato così radicale il cambio di espressione dell’amica che per un attimo, sperò ingenuamente che il mittente fosse Rosalya, la fonte di ogni preoccupazione di Erin quella sera.  
« E’ Lys » lo smentì l’amica, senza però abbandonare la smorfia di sollievo « mi dice che ora Rosa si è calmata e che si sistemerà tutto... e che sono la prima persona che cercherà appena le sarà passata la rabbia »
Castiel ringraziò mentalmente l’amico per l’incredibile supporto che le stava dando con quel messaggio. Il poeta era dotato di una sensibilità unica, quasi femminile, che gli permetteva di dire sempre la cosa giusta al momento giusto.
« Vedi? » le sorrise il rosso « devi solo lasciarle del tempo »
Erin annuì e finalmente, sentì di avere il diritto di godersi una serata con la compagnia migliore che potesse chiedere.
 
Quando finalmente il fattorino suonò alla porta, i due avevano optato per sistemare un paio di piatti sul tavolino e consumare quella cena in modo alquanto spartano.
Erin afferrò il contenitore degli udon e, dopo aver diviso le due bacchette dall’estremità che le teneva unite, lasciò che il gusto saporito di quel cibo completasse il resto del suo processo di guarigione.
« Questo è il miglior ristorante cinese della città » aveva borbottato a bocca piena.
Una serata che era partita con il peggiore degli esordi stava migliorando di minuto in minuto. L’esclusiva compagnia di Castiel era necessaria e sufficiente a rilassarla, al punto che l’unico rammarico era raprpesentato dalla prospettiva di dover tornare a casa di sua zia dopo cena. Inoltre Pam avrebbe trascorso la notte da Jason e starsene da sola in quell’appartamento proprio quella sera, la faceva sentire vagamente inquieta.
Frugò tra i contenitori sopra il tavolino ma non trovando l’oggetto del suo interesse, spostò lo sguardo su Castiel e sul pezzo che teneva tra le posate cinesi. Il ragazzo si era seduto sul divano, mentre Erin preferiva starsene seduta a terra con le gambe incrociate, sostenendo che così si sentiva più vicina alla cultura orientale. Castiel avrebbe voluto puntualizzare che quell’abitudine era radicata nella tradizione nipponica più che in quella cinese ma si limitò ad assecondarla.
« Ehi, il taro l’avevo ordinato io! » sbottò all’improvviso Erin, indicando il colpevole.
Stupito per quell’energia, Castiel sorrise beffardo e, davanti all’espressione sbigottita dell’amica, se lo mangiò in un solo boccone. Malgrado le sue aspettative, quel cibo non lo gratificò e reagì con una smorfia poco convinta.
« Ben ti sta! » annuì lei vittoriosa « ma quindi fa schifo? »
« Perchè tu non l’hai mai mangiato? » indagò lui, sciaquandosi la bocca con un sorso di birra fresca.
Erin fece cenno di diniego, facendo scattare il rosso:
« Ma perchè l’hai preso allora? Pensavo fosse buono! »
« Volevo provarlo, che male c’è? » si giustificò, strappandogli di mano il contenitore e assaggiandone un pezzo:
« Ti dirò, a me non dispiace... sa tipo di patata » commentò dopo un po’, masticando a bocca piena.
« Preferisco gusti più decisi » aveva replicato Castiel.
« Mi passi il riso alla cantonese? » gli ordinò Erin.
Più mangiavano e più i loro stomaci reclamavano quel cibo così saporito e gustoso. Si erano avventati sugli incarti con una tale foga che in appena dieci minuti più di metà della cena era sparita.
« Solo se tu mi dai un po’ di quel pollo » patteggiò lui, indicando un contenitore poco lontano da Erin ma abbastanza da lui per poterlo raggiungere standosene seduto.
« Non se ne parla! E’ il mio piatto preferito! Te l’ho chiesto mille volte se dovessimo prenderne due » lo rimbeccò lei avvicinandoselo al petto.
« Ehi ehi! Da quando in qua sei così possessiva con il cibo? » rise il ragazzo, mentre Erin ne afferrava un pezzo.
« Con il cibo cinese non scherzo mai. Specialmente quello del ristorante di Lin »
« Quindi niente pollo per me? » la sfidò Castiel.
« Dovrai passare sul mio cadav- » ma non finì la frase che il rosso era balzato su di lei e, prima che le scivolasse la presa, intercettò il pezzo di pollo incastrato tra le due bacchette.
Si leccò le labbra e, guardandola malizioso commentò:
« Il sapore del cibo conquistato con la lotta è migliore » annunciò vittorioso e si rimise seduto sul divano.
Erin in tutta risposta gli lanciò addosso un cuscino, che Castiel intercettò al volo. Le sorrise e lei rimcabiò prontamente quella smorfia divertita.  
Erano stupidamente felici di essere loro due da soli, cullati da una complicità e sintonia che viene sperimentata solo all’interno di una coppia di persone le cui abitudini si sono modellate nel tempo dopo anni di convivenza. In quella cena non c’era un silenzio che fosse realmente disagevole o un momento in cui si stessero annoiando. In certi casi, l’uno finiva la frase dell’altra, riuscendo a creare l’armonia che si respira solo quando ci si sente davvero in famiglia.
Finirono ben presto la misera scorta di birra del ragazzo, optando per il vino che lui aveva portato poco prima:
« Normalmente preferisco la birra » annunciò sorridendo malizioso « ma visto che abbiamo un’ospite speciale... »
Erin rise lusingata, allungandogli il suo bicchiere che venne prontamente riempito.
« Sono un’ospite speciale! » ripetè Erin brindando all’aria e alzando un po’ troppo il volume della voce. Si preoccupò immediatamente per il chiasso creato e incurvandosi nelle spalle, si scusò con il padrone di casa.
« Non preoccuparti. La vecchia del piano di sopra non c’è. E’ fuori città »
« Quindi possiamo fare quello che ci pare? » esultò Erin, recuperando la sua energia. Il fatto che non reggesse bene l’alcol quanto Castiel era già stato dimostrato in passato ma almeno in quella circostanza il ragazzo poteva assicurarsi che non esagerasse. Inoltre, per quanto l’allegria tra di loro stesse aumentando ad ogni sorso, sembrava che entrambi riuscissero ancora a tenere un atteggiamento dignitoso, anche la meno allenata dei due. Il cibo che stava gradualmente riempiendo i loro stomaci aiutava sicuramente a tamponarne gli effetti.
Finita la deliziosa cena, recuperarono sbrigativamente i rifiuti e Castiel li abbandonò in un sacchetto sotto il lavandino.
« Cosa vorresti fare ora? » le chiese, guardandosi attorno. Possedeva giusto qualche gioco in scatola e un x-Box ma entrambe le alternative non figuravano come proposte adatte per quella serata.
Lui amava passare le sue serate a rilassarsi guardando qualche film in streaming oppure ascoltando musica. Come se le avesse letto nel pensiero, la ragazza propose proprio quella seconda alternativa:
« Ascoltiamo un po’ di musica? » suggerì, posando lo sguardo sulla nutrita raccolta di cd davanti a lei.
Il padrone di casa sorrise sollevato ma, anzichè sfruttare la propria collezione, ammise che nelle ultime settimane era caduto vittima anche lui della musica in streaming.
« Fintanto che pagano i diritti ai musicisti » aveva borbottato, di fronte allo stupore di Erin « visto che ci vorrei vivere di questa cosa, spero solo che tu non ti metta a piratare le canzoni »
« No » mentì Erin in difficoltà « ma scusa Cas, mi fai la morale, quando anche tu scarichi film illegalmente »
Il ragazzo arrossì per essere caduto in contraddizione con sè stesso e mormorò qualcosa sul fatto che le grandi case di produzione cinetamografiche non risentivano della pirateria informatica quanto i piccoli artisti.  
« Cosa vuoi ascoltare? » le chiese, cercando di cambiare argomento.
« Welcome to the Black Parade »
Quella canzone era uscita ormai otto anni prima e rappresentava per Castiel uno dei suoi primi incontri con il genere emo, periodo che aveva segnato l’inizio della sua tormentata adolescenza.
« Wow, ci hai messo mezzo secondo a decidere » commentò lui, sorpreso dalla sua velocità di scelta.
Fu così che le prime note al pianoforte si diffusero nell’ambiente, così come la malinconia del resto della melodia.
Erin dondolò il capo e, appena la musica attaccò iniziò a canticchiare:
« When I was a young boy, my father took me into the city to see a marching band. He said, "Son, when you grow up, would you be the saviour of the broken, the beaten and the damned?" »
Castiel la ascoltò in silenzio, sperando che la cantante azzardasse ad alzare il volume della sua voce ma lei proseguiva in quel timido concerto, fino ad interromperlo quando la voce dei My Chemical Romance si fece più aggressiva:
« Sono sorpresa che tu non ti sia lamentato della mia scelta » sogghignò Erin « temevo non fosse abbastanza di nicchia per te »
« Il fatto che una canzone sia diventata famosa non significa che sia banale » replicò lui asciutto, mentre le note più punk prendevano il sopravvento.
« Dopo mi faresti ascoltare in anteprima qualche canzone dell’album dei Tenia? »
« Non ti aspetterai che io canti » borbottò Castiel, scrollando distrattamente il cellulare.
« Eddai Cas! Ti ho sentito canticchiare solo una volta! »
Lui scosse il capo trattenendo a stento un sorriso sghembo.
Lo lusingava quel continuo interesse per il suo lavoro da compositore, lavoro che lei aveva sempre cercato di incoraggiare.
Continuarono a punzecchairsi, alternando i tentativi di Erin di convincerlo a cantare con la perentorietà del suo rifiuto. Nel frattempo la sua playlist stava decidendo autonomamente con quali canzoni decorare quell’atmosfera magica ed era passata ai più energici Metallica.
« Piuttosto, c’è una cosa che mi sono sempre chiesto » sviò Castiel  « tu hai studiato canto? »
La vide alzare le sopracciglia e scrollare le spalle:
« Sì, cioè, a grandi linee so leggere uno spartito... ho studiato musica per un anno, poi ho mollato perchè avevo anche danza » spiegò e, sorpresa da quell’interesse, domandò « come mai? »
Il ragazzo non le rispose subito. Teneva le braccia incrociate dietro la nuca e fissava il soffitto sovrappensiero:
« Ehi, rispondi Black » lo pungolò lei.
« Sei intonata » le disse semplicemente.
A quell’ammissione, Erin era leggermente arrossita, e abbassando il capo, aveva mugolato un timido « Grazie »
Castiel per contro si era isolato nei suoi pensieri così, cercando di richiamarne l’attenzione, l’amica chiese:
« A te Cas come è nata la passione per la musica? »
Quell’argomento sembrò destarlo e lo vide cambiare posizione. Si sedette composamente sulla poltrona e piegò la testa di lato, nel tentativo di formulare una risposta chiara. Era difficile replicare a quella domanda perchè gli sembrava di avercela nel sangue sin dall’infanzia, quando ascoltava le sigle dei film Disney. Ricordò in particolare che, nonostante la tenera età, era rimasto particolarmente colpito dalle musiche di Fantasia, durante uno dei tanti pomeriggi passati in casa da solo.
« Non saprei. Direi che ce l’ho sempre avuta » minimizzò.
Seppure insoddisfatta di quella risposta, la ragazza lasciò cadere l’argomento.
Canzone dopo canzone, Castiel appariva sempre più meditabondo e distaccato.
Erin non poteva immaginare che in quel momento, con la sua amata musica di sottofondo, fosse in corso un’irrefrenabile lotta interiore in cui la mente del ragazzo formulava pensieri via via sempre più romantici verso di lei. Era piombato in uno stato catartico in cui, anche i silenzi di Erin erano musica.
Se avesse potuto congelare quell’istante, non avrebbe esitato un secondo a farlo.
Sogghignò quando, allineandosi alle sue riflessioni, nella stanza si diffusero le prime note di With me dei Sum 41:
« I don't want this moment to ever end, Where everything's nothing without you » stava intonando timidamente Erin, fissandosi i piedi.
Lui sorrise e la lasciò cantare indisturbata la prima strofa finchè la affiancò:
« Thoughts read unspoken, forever in vow, And pieces of memories fall to the ground »
Nel riconoscere quella seconda voce, Erin esultò e aumentò il volume e la convinzione della propria. Staccò gli occhi dalle sue gambe e cominciò a recitare quella canzone con pathos eccessivo, facendo sorridere la sua spalla:
« I don't want this moment to ever end, Where everything's nothing without you »
Castiel alzò il volume della musica al massimo, così da sentirsi ancora più libero nel canticchiare.
« With everything, I won't let this go… These words are my heart and soul… I'll hold on to this moment, you know… As I bleed my heart out to show… And I won't let go »
Era la prima volta che Castiel cantava in quel modo. Con un sorriso così dolce e al contempo accattivamente al punto che una morsa di incontenibile attrazione stritolò il ventre di Erin, conseguenza della soffocante autoimposizione di controllare ogni slancio d’affetto.
La canzone finì e con essa la magia che si era instaurata tra di loro.
Castiel la vide staccarsi dal comodo giaciglio, barcollando leggermente.
Quando le chiese dove fosse diretta, replicò laconica:
« In bagno »
« Devi vomitare? » si preoccupò lui, soppesandone il tono apatico.
« No, no sto bene » lo tranquillizzò lei, sorpresa per la sua capacità di tenere l’alcol.
Appena chiusasi la porta del bagno alle spalle, si guardò allo specchio.
Erano ormai le undici e qualche residuo di mascara le aveva inesorabilmente macchiato la palpebra inferiore.
Un pensiero si stava impadronendo della sua mente ed era stata pronunciato proprio quella sera:
« E’ impossibile fare a meno della tua amicizia, Erin »
Quelle parole avevano iniziato a vorticarle nella sua mente proprio mentre la canzone dei Sum 41 stava volgendo al termine.
Le parole di Castiel l’avevano rattristata, rimarcando un muro che lei non osava scavalcare.
Eppure lei lo desiderava così tanto.
Quella notte più di altre.
Avrebbe voluto tornare in quel soggiorno e, guardandolo dritto negli occhi, ammettere quella scomoda verità.
A costo di perderlo per sempre, generando dell’incancellabile imbarazzo tra di loro.
Era una serata perfetta in cui la compagnia esclusiva del ragazzo le aveva permesso di isolarsi dal mondo esterno, come se fossero le uniche persone rimaste sul pianeta.
Avevano appena finito di ascoltare musica insieme, c’era armonia tra di loro e non capiva come per il rosso quella situazione potesse apparire normale. Il suo sguardo non aveva mai tradito dell’imbarazzo ed Erin si convinse di essere l’unica a sentire una fortissima tensione. Castiel infatti era più incline a distrarsi e perdersi nei propri pensieri, quasi la compagnia di lei talvolta lo annoiasse.
Prima di uscire, recuperò della carta igienica e, adattandosi ad usare il sapone per mani, cercò di rimuovere i residui del trucco del mattino così da avere aspetto meno stanco.
Quando tornò in salotto, a riprova della negatività dei suoi pensieri, trovò Castiel accucciato a terra, intento a mettersi le scarpe.
« Che fai? » chiese lei, come se non fosse già fin troppo ovvio. Involontariamente lasciò trasparire una leggera nota di panico nella sua voce ma il ragazzo non sembrò coglierla.
« Beh, si sta facendo tardi. Meglio se ti riaccompagno a casa » spiegò, rimettendosi eretto.
« Sono solo le undici, Castiel. Domani è domenica » tentò lei, senza schiodarsi dalla sua posizione.
« Sì ma non hai paura di svegliare tua zia, se rientri troppo tardi? » osservò lui, piegando la testa di lato.
« Lei dorme da Jason questa sera » gli ricordò lei risoluta.
Spiazzato da quella determinazione, Castiel la squadrò.
Non poteva prevedere quanto ancora Erin volesse prolungare la sua permanenza in quella casa ma di certo la prospettiva di uscire diventava via via meno allettante. Il clima continentale della loro città poteva far scendere la temperatura notturna fino allo zero e il tepore del proprio appartamento era troppo confortevole per essere abbandonato.
« Vabbè » acconsentì alla fine « guardiamo un film e poi ti riaccompagno? » patteggiò. Inevitabilmente, quella proposta venne accolta con un sorriso vittorioso da parte della seconda inquilina. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato così facile prolungare la sua serata in quella casa, come Castiel non poteva capire quanto per lei fosse corroborante farlo.
 
Dopo aver finito l’ennesimo episodio di The Office senza alcuna risata, Trevor si rassegnò a spegnere il computer.
Guardare quella serie era spesso sufficiente a distrarlo dalle sue preoccupazioni e pensieri, anche se generalmente questi ultimi non gli avevano mai impedito di dormire sonni tranquilli.
Per un ragazzo spensierato e per certi versi, superficiale, come lui, quella sera era particolarmente difficile isolare la mente dagli avvenimenti di quella giornata.
Ricontrollò il cellulare ma nessuna nuova notifica era comparsa.
Non stava a Jordan scrivergli ma in cuor suo sperava tanto che, per qualche motivo, l’avrebbe cercato. Farlo lui per primo equivaleva all’ammettere che, in parte, si sentiva in colpa per averla ferita.
 
La scelta del film per quella serata era ricaduta su Whiplash, film uscito quell’anno e che rappresentava uno dei preferiti di Castiel. Quest’ultimo si era visto costretto a cambiare il suo storico giaciglio, passando dalla poltrona sfondata al divano. Il computer, che fungeva da schermo, era stato infatti posizionato sul tavolino davanti ad Erin.
Con una certa reticenza, i due amici si erano avvicinati ma quel contatto fisico, per quanto minimo, li aveva resi entrambi nervosi.
La ragazza aveva così iniziato a commentare ogni scena, nel tentativo di smorzare l’atmosfera che, secondo lei, si stava caricando di tensione. Sentiva i muscoli della schiena irrigidirsi di secondo in secondo e aveva il terrore che l’amico si accorgesse della scomparsa della sua spontaneità.
Dal canto suo, Castiel era troppo impegnato a tenere a bada le proprie emozioni per accorgersi di quelle della sua vicina. Ogni pausa della pellicola gli permetteva di udire il respiro regolare di Erin, la cui coscia era poco distante la propria. L’aveva sbirciata con la coda dell’occhio un paio di volte ma era tornato immediatamente a fissare lo schermo, nel timore di essere scoperto. In più occasioni, durante quella serata, si era sentito sul punto di cedere. Sul punto di voltarsi verso di lei e creare quell’opportunità che tardava ad arrivare. Tuttavia, la razionalità della sua mente lo riportava violentemente all’autoconvincimento che la dolcezza che Erin gli riservava non era diversa da quella destinata al resto dei suoi amici.
« Dov’è che l’ho già visto questo attore? » stava chiedendo Erin, dopo una serie interminabile di domande e commenti.
« Cip, guardiamo il film adesso » le aveva risposto Castiel, trattenendo a stento una divertita irritazione.
« Ok, ok ora stiamo zitti » promise lei, cucendosi le labbra.
« Ma sei stai parlando solo tu! »
Erin corresse la posizione e il suo ginocchio si trovò incollato a quello del ragazzo. Quest’ultimo si irrigidì e, sentendo il corpo di lei ancora più vicino, si alzò, con la scusa di dover andare in bagno.
Era talmente confuso che non la sentì nemmeno quando lei gli chiese se dovesse mettere in pausa il film.
Castiel si rifugiò quindi in bagno ed esalò un profondo respiro. Alzò lo sguardo verso lo specchio, controllando la sua espressione: doveva darsi un contegno, sembrava un ragazzino delle medie alle prese con la prima cotta. Quel lato così insicuro non si addiceva alla sua personalità impudente e arrogante. Doveva trovare una soluzione e la individuò sentendo un abbaiare poco lontano. Quasi gli avesse letto nella mente, Demon era pronto a soccorrerlo con la sua invadente presenza. Sarebbe stato un’efficace distrazione dalla sua ossessione per Erin di quella sera.  
Tornato quindi in soggiorno, condivise quella proposta con la ragazza che si dimostrò ben disposta ad accogliere il secondo proprietario di casa.
Il cane ci mise pochi secondi a capire che, nonostante la presenza di un’ospite, gli veniva offerto il tepore di quell’abitazione. Entrò trotterellando e senza lasciare il tempo al padrone di dargli indicazioni, si sedette sul divano, accanto ad Erin, salvando inconsapevolmente Castiel dal contatto diretto con la ragazza. Era piuttosto buffo poichè l’animale aveva il muso rivolto verso lo schermo, quasi fosse interessato al film quanto i suoi amici umani.
Ripresero quindi la visione del film, questa volta in silenzio. La presenza del cane sortì l’effetto sperato ma solo per una decina di minuti.
Castiel infatti iniziò ad accarezzarlo sovrappensiero finchè le sue dita non intrecciarono quelle più sottili di Erin, intenta a dedicargli le medesime premure.
Ritrassero entrambi la mano, borbottando un impacciato « Scusa » da una parte e un « Figurati » dall’altra. In tutta risposta, venendo a mancare quel rilassante massaggio, Demon abbaiò contrariato.
Quale fosse il problema tra quei due, lui non intendeva rinunciare alle coccole.
Poichè nessuno dei due riprendeva, il cane si mise eretto sulle zampe e, ruotando di novanta gradi, posizionò la testa sulle gambe del padrone e le zampe posteriori sulle ginocchia di Erin.
« Dimmi se ti pesa che lo faccio scendere » le aveva sussurrato Castiel, mentre il cane si abbandonava ad un confortante sonno, vigilato dai due guardiani umani.
Erin scosse il capo e tornò a concentrarsi sul film. Dopo poco tempo quel tentativo si rivelò particolarmente complesso, poichè il sonno di Demon si rivelò rumoroso e disturbato. Ogni tanto piegava forsennatatamente le zampe e constringeva Erin ad avvicinarsi di più a Castiel per assumere una posizione più comoda.
Il ragazzo d’altra parte, cercava di dissimulare quanto quegli spostamenti lo innervosissero concentrandosi sul film. Whiplash era uno dei suoi film preferiti e, anche se ormai lo sapeva quasi a memoria, non si stancava mai di vederlo. Si rivedeva nella determinazione del protagonista e nella sua ossessione per la musica. Quella pellicola rappresentava uno dei migliori film musicali che avesse mai visto, se non il migliore. La capacità alientante della musica aveva sempre costituito per Castiel l’aspetto più affascinante e inqueitante di quell’arte e in quel film, veniva resa magistralmente.  Sperò di poter condividere questo pensiero con la sua compagna, dal momento che ormai i titoli di coda avevano annunciato la fine della pellicola, ma la trovò completamente addormentata.
Non si era accorto che l’avesse abbandonato e, controllando l’ora, realizzò che era decisamente arrivato il momento di accompagnarla a casa. Tuttavia, dover uscire in quella notte frizzante di inizio Aprile continuava a suonargli come un dovere alquanto scomodo.
Dopo la notte con i Tenia, seguita da quella tormentata dalle confessioni di Nathaniel, Castiel aveva un disperato bisogno di recuperare qualche ora di sonno. Inoltre quel giorno aveva giocato a basket per un paio d’ore e il suo corpo iniziava a reclamare prepotentemente del riposo fisico.
Eppure, pur di rivedere Erin il mattino successivo, avrebbe accettato di passare quella notte sul divano, come del resto aveva fatto tre mesi prima, quando lei gli aveva chiesto ospitalità. Del resto, era la sua condanna non riposare adeguatamente ogni volta che la ragazza era sua ospite.
I suoi occhi erano sigillati e il capo era reclinato verso di lui. Era così dolce la sua espressione che rimase qualche minuto a guardarla indisturbato. Le accarezzò teneramente la mano e, più sfiorava quella pelle e più sentiva il bisogno di rinvigorire quel contatto.
Quella carezza finì per svegliare la ragazza che sbattè le palpebre confusa:
« Non sto dormendo » biascicò istintivamente.
« Come no, stavi russando »
« Davvero?! » si agitò lei, diventando paonazza mentre Castiel scoppiava a ridere.
« Scherzo, scema » e stiracchiandosi la schiena, obbligò anche Demon a svegliarsi, alzandosi da quel comodo giaciglio.
« Castiel... » mormorò lei sbadigliando.
Prima che potesse finire la frase, lui si voltò e completò:
« Vuoi dormire qui? »
Lei sgranò gli occhi, sollevata da quell’offerta e squittì un ringraziamento:
« Non ho proprio voglia di dormire da sola a casa... » ammise « però questa volta lasciami il divano, mi sentirei troppo in colpa »
« Sì, se riusciamo a schiodare Demon » sorrise Castiel apprezzando la serenità onirica dell’animale. Quest’ultimo infatti, nonostante il tentativo del padrone, si era limitato a girare il muso dalla parte opposta.
Sfilandosi di dosso il mastino, anche Erin si mise in piedi e iniziò a frugare nella borsa che si era portata con sè:
« Vado a lavarmi i denti » annunciò, recuperando lo spazzolino.
Castiel approfittò di quel frangente per recarsi nella sua stanza dove cercò delle lenzuola pulite. Era fin troppo scontato che non le avrebbe lasciato il divano, anche se quella cavalleria gli costava non poco sacrificio. Per cercare di alleviare la spossatezza muscolare e preparare il suo corpo ad un adeguato riposo, ragionò che fosse arrivato il momento per una doccia calda. Tutt’al più quella mattina la triade divina gli aveva dato non poco filo da torcere sul campo da basket e aveva bisogno di togliersi di dosso quella sensazione di sudore e stanchezza.
Per questo, quando Erin uscì, lo trovò inaspettatamente a petto nudo.
Avvampò all’istante, anche se non era la prima volta che lo vedeva in quelle condizioni. Tuttavia, nell’intimità della sua stanza, quella nudità le risultò quasi spinta e imbarazzante.
Non era mai stata del tutto immune all’effetto che quel fisico tonico e gli addominali esercitavano sui suoi livelli di ossitocina, pertanto finì per distogliere lo sguardo, borbottando a disagio:
« H-ho finito »
« Io mi faccio una doccia rapida » aveva annunciato lui, sparendo in bagno e totalmente ignaro dell’effetto che aveva sortito nell’amica.
Mentre sentiva il getto dell’acqua aprirsi dall’altro lato della porta, Erin ricontrollò il cellulare.
Con sollievo notò che nessuna notifica fosse apparsa dopo il messaggio incoraggiante di Lysandre e così si limitò a riappoggiarlo sul tavolino davanti a lei.
Provava sempre una certa sensazione di sollievo ogniqualvolta il cellulare le confermava che nessuno l’avesse cercata o contattata.
Quella sera più che mai desiderava continuare ad isolarsi da un mondo esterno in cui i problemi dei suoi amici sarebbero diventati i suoi.
Demon nel frattempo si era svegliato e dopo essersi stiracchiato pigramente, era sceso dal divano. Erin sospirò, notando che qualche pelo si era depositato sui cuscini. Doveva riconoscere che, nonostante il disordine, Castiel fosse piuttosto attento alla pulizia dell’appartamento e che quella era la prima volta che notava il pelo dell’animale in casa.
In mancanza di alcuna distrazione, Erin si spostò in camera del rosso mentre Demon la seguiva docilmente. Il cane si accasciò sul tappeto, mentre lei si guardava attorno. La pianola posta in un angolo catturò il suo interesse e con essa, uno spartito posizionato sul leggio. Lo analizzò sbrigativamente, chiedendosi se quello fosse il fatidico pezzo il cui testo della canzone stava mettendo Castiel particolarmente in difficoltà. Per lo meno questo era quanto aveva detto Lysandre, durante la pausa pranzo. Il foglio però le scivolò dalle mani e, nel tentativo di raccoglierlo, Erin notò un cartoncino bianco incastrato dietro la scrivania.
Lo raccolse, anche se nel disordine generale della stanza non avrebbe fatto alcuna differenza. Quando lo vide però, lo riconobbe all’istante.
Era il ritratto che Violet le aveva fatto durante il suo primo mese a Morristown.
Lo stesso disegno che il rosso aveva dichiarato di aver buttato.
 
Castiel uscì dal bagno e fortunatamente per i nervi di Erin, era già completamente vestito. Aveva rimesso i pantaloni della tuta neri e una vecchia maglietta a mani corte con il logo Converse. Entrando nella propria stanza, vide l’amica china a fissare un foglio che gli era particolarmente familiare.
Appena si accorse di non essere più sola, lei staccò lo sguardo dal ritratto e fissò l’amico con serietà.
« E di questo che mi dici? »
Castiel si trovò faccia a faccia con il ritratto di Erin, quel disegno che Violet aveva eseguito con una tale precisione che, piuttosto di perderlo nella consegna di un compito scolastico, aveva preferito eseguire di suo pugno. Peccato che all’epoca avesse dichiarato di averlo buttato.
Erin lo fissava in silenzio e lui per qualche secondo esitò a risponderle.
« Beh » borbottò in difficoltà cercando di apparire rilassato « evidentemente non l’avevo buttato » ammise cercando di prendere tempo.
« Evidentemente no » si accigliò Erin « sai quanto ci tenevo a questo disegno! Potevi dirmi che non lo trovavi più invece di raccontarmi una balla! »
Seppur a Castiel sembrava particolarmente sospetto e ovvio il motivo di quella bugia, Erin riusciva sempre a ribaltare la situazione, eliminando ogni spiegazione che implicasse dell’interesse romantico verso di lei. Tuttavia, il ragazzo non avrebbe saputo dire se quella dinamica giocasse realmente a suo favore. Da un lato, non avrebbe dovuto affrontare i propri sentimenti, correndo il rischio di compromettere la loro amicizia. Dall’altro però, una parte di lui agognava un incoraggiamento, un minimo invito che, forse, quei sentimenti così intensi non erano unidirezionali.
Castiel abbandonò quindi la stanza, scuotendo il capo arrendevole.
« Dove vai? » si contrariò lei, insoddisfatta per l’esito della loro discussione.
« Non ti va un po’ di tiramisù? » borbottò la voce dal corridoio.
Era incredibilmente assurdo quanto per quella ragazza fosse remota la possibilità che lei gli piacesse. Lui l’aveva conservato semplicemente perchè in quel disegno Violet aveva rappresentato quel lato più dolce di Erin e che Castiel amava tanto in lei.
« Beh, visto che ne hai così poca cura, questo me lo riprendo io! » aveva esclamato lei dall’altra parte della casa.
Mentre Castiel appoggiava due fette di tiramisù sul tavolino del soggiorno, la ragazza stava facendo ritorno in quella stanza:
« Ti ricordo che quello l’ha fatto su mia richiesta » precisò il rosso.
« Manco sapevi dove fosse finito! » obiettò Erin stringendo quell’opera al petto e passandogli davanti, incurante delle proteste del ragazzo.
« Travis, molla l’osso » le ordinò Castiel.
« Beh allora dimmi perchè ci tieni tanto! »
Demon seguì quello scambio di battute finchè, dopo la domanda di Erin il suo padrone non aveva saputo replicare. Era arrossito leggermente e, quasi l’animale volesse esortare in lui una risposta, abbaiò.
« Quel disegno potrà valere un sacco se Violet diventerà famosa » esalò infine.
Per quanto poco convincente, Erin sembrò credergli poichè replicò stizzita:
« Per la cura con cui l’hai tenuto finora, meglio se lo prendo io e dividiamo a metà » e senza lasciargli diritto di replica, arrotolò il ritratto e tentò di ficcarlo nella propria borsa.
Irretito per l’imminente sconfitta, Castiel si riprese dal disagio e azzerò la distanza tra di loro, cercando di strapparle il disegno dalle mani. Erin però lo strinse al petto, costringendolo a farle il solletico sui fianchi, cosa che la ragazza soffriva terribilmente.
« No, ti prego... Cas! Basta! Non ce la faccio! » rise lei, dimenandosi.
In quell’azione perse l’equilibrio e oltre al suo, si trascinò dietro anche il ragazzo.
Atterrarono sul divano e i loro visi finirono a pochi centimetri di distanza.
Erin lo guardava come atterrita mentre l’espressione di lui era indecifrabile.
Per un istante, posò i suoi occhi sulle labbra di lei prima di staccarsi violentemente da quella pericolosa vicinanza.
« Dai, mangiamo il tiramisù sennò si raffredda » mormorò frustrato.
« Ma è già freddo » obiettò Erin fissandolo interrogativa.
« Si scioglie » si corresse prontamente il ragazzo in imbarazzo.
Si sedettero così l’una sul divano e l’altro sulla poltrona, consumando il delizioso dolce in silenzio.
Quando erano stati così vicini, Erin aveva avvertito il profumo del bagnoschiuma dell’amico solleticarle il naso, acuendo i suoi sensi.
Castiel nel frattempo aveva spronato Demon a tornarsene in giardino, nonostante le proteste della mora che erano soggiunte puntuali:
« Demon sa che ci sono delle regole » le spiegò lui « anche se sono contento che sia migliorato così tanto il vostro rapporto »
« Ma poverino, per una sera non può dormire dentro? »
« No, perchè poi non sei tu quella che se lo ritrova sullo stomaco durante la notte » replicò lui asciutto aprendogli la porta.
Docilmente il mastino assecondò l’invito del padrone, lanciando un’ultima occhiata supplicante al suo avvocato che però, aveva perso la causa.
Una volta tornati soli, Castiel raccolse i piatti ormai vuoti mentre Erin ancora leccava via dalla forchetta gli ultimi residui di crema:
« Mauro è stato molto gentile » commentò, gustandosi l’ultima nota di dolcezza.
« Lui è sempre così. E’ come uno zio per me » aggiunse Castiel.
Cercava di ostentare un atteggiamento rilassato ma dentro di sè sentiva che si stava riaccendendo la quella lotta interiore che quella sera non voleva dargli tregua. La sua coscienza gli ricordava che aveva appena perso un’occasione irripetibile e odiava sentirsi così timido e goffo.
Per un attimo si era convinto a tentare il tutto per tutto ma ancora una volta, la sua razionalità aveva preso il sopravvento, creandosi così un silenzioso imbarazzo tra i due.
Pensieri analoghi vorticavano nella mente di Erin che si chiedeva cosa si celasse dietro quell’espressione di disagio con cui lui si era staccato da lei. Che Castiel le avesse letto in faccia i suoi sentimenti per lui e volesse farle capire indirettamente che non intendeva assecondarli?
Si instillò quindi il dubbio che fosse lei la causa di quell’imbarazzo tra di loro. Non poteva escludere che, nonostante i suoi tentativi, l’amico avesse colto i suoi reali sentimenti verso di lui. Il fatto che li evitasse però, erano l’ennesima conferma di un’inevitabile friendzone.
Ad un certo punto Castiel si alzò dalla poltrona e recuperò una scatola in legno sullo scaffale del soggiorno:
« Senti, quello che succede in questa casa, resta in questa casa, d’accordo? » sentenziò guardandola con intensa complicità.
Era scattato in piedi senza alcun preavviso, come mosso da un impeto istintivo.
Erin sbiancò.
Il cuore cominciò a battere più velocemente e la sua fantasia a galoppare in verdi pascoli decorati da romantiche farfalle e cuoricini.
Forse quella notte non era l’unica a sentire la magia nell’aria e inghiottì un grumo di saliva nel tentativo di liberare la respirazione che si faceva via via più difficoltosa.
Deludendo però le sue rosee aspettative, Castiel era tornato a sedersi sulla poltrona e dalla scatola in legno, estrasse una piccola giara, il cui contenuto però non era ancora chiaro alla ragazza.
Non appena la aprì, Erin si avvicinò incuriosita e sentì sprigionarsi un odore vagamente aromatico e pungente, proveniente da un piccolo cespuglietto essiccato:
« Ti dispiace se mi faccio una canna? » mormorò lui.
Sapeva che quella novità l’avrebbe sorpresa e non in positivo.
Non aveva mai parlato prima ad Erin di quella sua nuova abitudine serale.
La ragazza infatti aveva sgranato gli occhi per un istante e il suo stupore le permise di accantonare la tensione emotiva di cui era stata vittima poco prima.
« E da quando fumi erba? »
Il rosso si grattò la guancia e ammise:
« Da Berlino. Ma non dirlo agli altri. Lo sa solo Nate e non vorrei che iniziassero a rompere le palle »
L’esperienza in Germania si era dimostrata educativa e stimolante sotto una serie di punti di vista. Era la prima volta che il ragazzo era così lontano da casa, in un paese straniero e costretto a condividere l’alloggio con dei perfetti estranei. Ma la novità che aveva accolto con maggior apertura mentale era proprio il vizio dei Tenia di concedersi un po’ di relax artificiale.
Una parte di lui sperò che quello fosse il pretesto per accendere una discussione con Erin, da sempre estremamente contraria al suo vizio per il fumo. Osò quasi sperare in un litigio tra di loro, che gli permettesse di ricredersi su quanto quella ragazza potesse essere la sua partner ideale o, per lo meno, di smorzare quella tensione sessuale che sentiva verso di lei quella sera.
Contrariamente alle sue speranze però, Erin aveva già accantonato l’iniziale stupore e, quasi con timidezza, gli chiese:
« Posso provare anche io? »
Preso in contropiede, Castiel rimase immobile con le labbra socchiuse.
Imprecò dentro di sè perchè con quella risposta, Erin non lo stava affatto aiutando nel suo tentativo di autosabotaggio.
Dopo aver ottenuto la tacita approvazione dell’amico, la mora lo osservò con curiosità mentre sgranava una parte di quel cespo e lo posizionava nel grinder.
Lui si sedette accanto a lei sul divano che così potè osservare da vicino quella chirurgica operazione. Sorrise nel notare l’estrema cura con cui Castiel distribuiva quella sorta di farina grossolana e verdastra all’interno di una striscia di tabacco precedentemente posizionata su una cartina lunga.
« Vuoi che ti faccia un filtro a M intanto? »
Il ragazzo sollevò il sopracciglio, tra l’irritato e il deliziato.
« D-davvero lo sai fare? » borbottò cercando di dissimulare la sorpresa nella sua voce.
« Ho beccato mia sorella una volta che se ne preparava una... ho fatto solo un paio di tiri però mi ha insegnato a fare il filtro » spiegò Erin con una punta di orgoglio.
Era la prima volta che accennava a sua sorella e si affrettò a chiudere l’argomento. Sin da quando era entrata in quella casa aveva iniziato a stare meglio e non avrebbe permesso a quella presenza di rovinarle quei pochi minuti ancora in compagnia del ragazzo, prima di salutarlo per la buonanotte.
Castiel metabolizzò quell’informazione e commentò:
« Sei una costante sorpresa, Travis »
La mora ridacchiò, contenta che la sua seppur esigua esperienza precedente potesse essere d’aiuto e non farla passare per la solita perbenista agli occhi dell’amico.
Quando finalmente lo spinello fu pronto, Castiel glielo allungò, mentre lui recuperava un posacenere abbandonato sul davanzale esterno.
Erin rimirò quel lungo cilindro sottile, intravendendo oltre la trasparenza della cartina l’esigua striscia verdognola di marijuana che la attraversava da parte a parte.
« Credo che quella che ho fumato io avesse più roba » osservò senza malizia.
Quel commentò però fece ridacchiare il padrone di casa che sbottò:
« Ehi, guarda che l’ho fatta leggera per te... non ti lamentare »
« Non mi sto lamentando » replicò lei.
Castiel nel frattempo le sfilò il cilindro dalle dita.
« Comunque aspira piano... » la ammonì, guardandola negli occhi.
Lei arrossì, rimanendo ipnotizzata da quello sguardo. Vide l’amico portarsi lo spinello tra le labbra ed accenderne un’estremità, facendo bruciare la carta in eccesso.
Esalò sbrigativamente il primo tiro, per poi aspirare con più intensità e lasciare che il fumo si diffondesse giù per la trachea.
Sentì immediatamente una sensazione di benessere anche se era consapevole che quella notte sarebbe rimasto lucido. Era stato molto parsimonioso nel dosaggio della marijuana e inoltre, ne avrebbe pure ridotto il consumo spartendolo con Erin.
Dopo qualche minuto infatti, si sporse verso di lei, allungandole la canna in silenzio.
Erin allora accettò l’offerta e con eleganza, intrecciò quella sigaretta speciale accavallando le dita.
Una striscia di fumo sottile si librò nell’aria, mentre Castiel non si era perso un istante di quella scena, di quegli occhi che sembravano chiudersi sotto le ciglia della ragazza. Lo aveva colpito la disinvoltura con cui aveva afferrato quel cilindro tra le dita e come lo scintillio della cenere avesse illuminato per un attimo quel volto così angelico.
Erin aspirò un paio di tiri e, prevedibilmente iniziò a tossire convulsa.
« Ehi, vacci piano, Bob Marley » ridacchiò il ragazzo con tenerezza.
Le allungò la lattina di birra rimasa sul tavolino ed Erin non esitò a beneficiare di un sorso rinfrescante.
Sentiva la gola leggermente irritata, ma il fastidio era comunque sopportabile.
Come seconda esperienza, non si scostava molto dalla precedente con Sophia. Aveva sentito un aroma strano in gola, meno fastidioso di quando aveva provato a fumare del semplice tabacco. Era impossibile che dopo un solo tiro fosse già rilassata ma probabilmente l’impatto psicologico di quell’azione la stava influenzando. Iniziò quindi a sentirsi più leggera, come se il suo corpo non avesse più peso.
« A proposito di Bob Marley, mettiamo Redemption song? » propose lei, restituendogli la canna.
Il rosso ormai rispondeva meccanicamente alle richieste di Erin.
Lei anticipava i suoi desideri, intercettava i suoi pensieri. Castiel adorava mettere un sottofondo musicale prima di andare a dormire, specialmente quando si intratteneva in soggiorno a fumare. Il pensiero che quel genere di serate potesse un giorno diventare la loro quotidianità, lo stava davvero spingendo ad un punto di rottura.
La musica rilassata di Marley si diffuse così nella stanza e il volume basso contribuì a creare un’atmosfera soffusa. Non poteva esserci testo più in linea con le riflessioni che si erano scatenate nella testa di entrambi i ragazzi, seduti in quel soggiorno a fingere che quell’armonia serena tra di loro fosse imputabile ad una semplice e casta amicizia.
Le parole di Bob Marley invitavano a prendere coscienza delle proprie capacità e potenzialità, scegliendo come gestire la propria vita, liberandosi dalle paure per andare incontro al futuro in modo consapevole.
Spinta dal vento, la finestra che Castiel aveva lasciato aperta si richiuse e il ragazzo fu costretto ad appoggiare la canna sul posacenere per alzarsi a riaprirla.
« Visto che sei in piedi » sussurò Erin « spegni la luce? »
Era ormai notte fonda e l’illuminazione a giorno della stanza strideva con il clima rilassato che permeava la stanza.
In tutta risposta il padrone di casa accese una piccola lampada accanto alla libreria e spense l’interrutore principale, rendendo l’ambiente ancora più intimo e caldo.
Unita alla canzone di sottofondo, la stanza si caricò improvvisamente di velato romanticismo.
Consapevole della pericolosità della sua situazione, Castiel era tornato a sedersi sulla poltrona, prendendo le distanze da quella figura così dannatamente attraente che lo aspettava sul divano.
Quella decisione però scatenò una punta di malinconia in Erin.
Per quanto la sua presenza accanto a lei rappresentasse una tortura per il suo autocontrollo, più passavano i minuti e più sentiva di non riuscire più a trattenere l’impulso di avvicinarsi a lui.
L’idea del rifiuto la terrorizzava, avrebbe incrinato quel rapporto così speciale ma sapeva anche non poteva più rimandare il momento della verità.
Era pronta ad incassare la delusione, preparandosi a calibrare le parole con cui gli avrebbe detto che anche se i suoi sentimenti non erano ricambiati, non voleva perderlo come amico.
Solo così, poteva sperare di riuscire a togliersi quell’ossessione che la logorava.
Sentendo il cuore che le esplodeva nel petto e il viso andarle in fiamme, sussurrò:
« Perchè non ti siedi qui? »
Vide Castiel dischiudere le labbra, fissandola impietrito.
Erin gli sembrò improvvisamente vulnerabile, in preda a delle emozioni che non potevano essere nascoste dalla sincerità dei suoi occhi verdi.
Per la prima volta in sei mesi, il ragazzo non pensò a un equivico.
Non aveva colto ingenuità in quella domanda. Lei lo guardava come se volesse da lui ciò che per tutta la sera aveva gridato nel profondo della sua anima. Come se entrambi volessero una svolta che tardava ad arrivare.
« Ti salterei addosso se lo facessi » mormorò con un filo di voce.
Quello era il punto di non ritorno.
Erin sgranò leggermente gli occhi e, abbassando lo sguardo, bisbiglio dolcemente:
« E allora cosa aspetti? »
Fu un attimo.
Vide Castiel alzarsi con impeto dalla poltrona e portarsi sopra di lei.
I suoi occhi la incastravano in quella scomoda posizione rendendole impossibile ogni tentativo di fuga. L’unico movimento che le era concesso era il leggero tremore che le attraversava il corpo.
« Che cosa hai detto? » le sussurrò lui con una determinazione che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Era così serio, così focalizzato su di lei che Erin capì che non poteva più negare quello che aveva sempre provato. Lui glielo stava leggendo in faccia.
La musica di Bob Marley era ormai finita e il player automatico aveva saputo selezionare una musica che contribuì ad acuire il romanticismo di quel momento, riproducendo All of me di John Legend.
Il cuore di Erin iniziò a pompare il sangue con veemenza e un tenero rossore le imporporò ancora di più il viso.
Era talmente agitata che faticava a respirare normalmente.
La striscia di fumo che si levava dal cilindro abbandonato si era affievolita fino a spegnersi ma Castiel non si era allontanato da lei.
Aveva udito perfettamente le parole di Erin.
Non era necessario che le ripetesse.
Quello di cui aveva disperamente bisogno era la conferma che entrambi non stessero scherzando. Perchè da parte sua, non era mai stato più serio e vulnerabile in vita sua.
Per la seconda volta quella sera si ritrovarono faccia a faccia e pochissimi centimetri distanziavano i loro visi.
Erin si era ammutolita ed era diventata ormai dello stesso colore dei capelli del ragazzo. Lo fissava sconvolta tenendo le labbra socchiuse e fu su quest’ultime che alla fine Castiel posò ancora una volta lo sguardo.
Socchiuse gli occhi e accorciando al millimetro la distanza tra le loro labbra, le sussurrò:
« Aspettavo te, Erin... da tutta la vita »
A quelle parole, vide gli occhi di lei allargarsi per un commosso stupore ma ormai Castiel non poteva più resistere.
Avvicinò le sue labbra e le posò delicatamente su quelle di lei, con una delicatezza di cui non pensava di essere capace. Si ritrasse dopo un istante, fissandola negli occhi ma la dolcezza di quel primo contatto aveva fatto desiderare ad entrambi di ritrovarsi.
Le sorrise appena e mentre lei teneva abbassava le palpebre, la imitò, tornando a baciarla ma questa volta con passione.
Non aveva aspettato che lei formulasse un pensiero a parole poichè cercava quella risposta nell’intensità con cui lei accettava quel bacio, ricambiandolo ed alimentandolo con tutto il desiderio che entrambi avevano frenato quella notte.
Erin gli sfiorò il collo, mentre lui le posava una mano dietro la nuca, avvicinando ancora di più le loro bocche.
Dopo mesi a struggersi per un’amicizia che era diventata troppo preziosa per essere compromessa, scoprivano di aver solo ritardato una svolta che era voluta ardentemente da entrambi.
Era la prima volta che lei baciava un ragazzo con quel trasporto ma aveva sognato così tanto quel momento che le sembrava di sognare e, proprio per questo, si sentì libera di lasciarsi andare.
Con quel bacio, Castiel stava ribaltando ogni sua certezza che fino a quel momento le aveva impedito di dichiararsi.
Iniziò finalmente a capire quanto fosse stata stupida ed ingenua nell’interpretare nel modo sbagliato dei gesti del ragazzo che rivelavano palesemente quanto lui la volesse e ci tenesse a lei. Come quando aveva preso un aereo da Berlino per supportarla con l’operazione di Sophia. Oppure quando le aveva regalato Ariel, il più bel regalo di compleanno che avesse mai ricevuto. Si rammaricò nel ripensare a quanto si fosse infastidito per la sua storia con Nathaniel o quando l’aveva fatto preoccupare alle Bahamas, rapita dal nuoto degli squali. L’aveva visto imbarazzarsi sotto il suo sguardo quando aveva indossato il vestito cucito da Rosalya o quando aveva cambiato look dopo la gita, abbandonando la vecchia Rapunzel. Troppe indizi aveva ricevuto e non solo non li aveva interpretati correttamente, ma ne aveva pure forniti di forvianti. Anche Castiel in questo era stato un pessimo stratega: avevano giocato con la stessa strategia un gioco in cui potevano vincere entrambi semplicemente aprendosi l’uno all’altra. Si erano sempre piaciuti eppure avevano aspettato mesi per ammetterlo.
Quelle considerazioni la fecero destare da quell’ammaliante morsa e si staccò improvvisamente dal ragazzo:
« Aspetta un attimo! » sbottò, corrugando leggermente la fronte. In tutta risposta, il ragazzo rimase basito e per certi versi, pure frustrato da quella sgradita interruzione.
« Da quand’è che ti piaccio? » incalzò Erin, mettendosi seduta.
Molte delle immagini che le erano apparse in quegli ultimi secondi risalivano a ben prima del viaggio a Berlino. Lei aveva acquisito consapevolezza dei propri sentimenti solo dopo che lui se ne era andato ma la prospettiva che lui li avesse maturati molto prima, la spiazzava.
Dopo aver udito quella domanda, Castiel era rimasto immobile, con un’espressione tra il divertito e il contrariato per quell’interruzione.
« Beh da quando ti ho sentito cantare la prima volta, credo » le sorrise lui con una dolcezza tale che annientò il suo ingiustificato risentimento.
« M-ma se mi conoscevi da una settimana! »
Lui fece spallucce, sorridendo appena in imbarazzo mentre Erin sembrava sinceramente sconvolta.
Si sentì talmente ingenua da non essersi accorta di nulla per sei mesi da dubitare della sua stessa intelligenza. Eppure a più riprese i suoi amici le avevano fatto intendere che lei e Castiel potessero formare una coppia.  
« Abbiamo sprecato un sacco di occasioni, Cas » mormorò infine, cercando di riprendersi dallo shock.
« Allora vediamo di non buttare all’aria questa » la zittì lui e, portandole una mano dietro la testa, avvicinò nuovamente i loro visi, tornando a baciarla con passione.
Gli sembrava surreale che, non solo fosse finalmente riuscito a dirle la verità, ma che lei ricambiasse i suoi sentimenti così intensamente. Il profumo della sua pelle gli solleticava il naso e non avrebbe mai smesso di accarezzarle quei mobidi capelli castani.
Con il passare dei secondi, il ragazzo azzardò a introdurre più passione e con essa anche la lingua in quei baci via via più lascivi.
Baciare Erin era un’esperienza nuova, totalmente diversa dal casto bacio che le aveva strappato mesi prima sul tetto della scuola. Era un gesto che lo smuoveva da dentro e che gli rendeva sempre più difficile controllarsi.
Proprio nel tentativo di calmare i suoi bollenti spiriti, fu il primo a staccarsi, a malincuore, da quelle labbra. Sospirò frustrato, mentre lei lo osservava in silenzio:
« Mi diventa difficile comportarmi da gentleman, Erin » mormorò. Aveva atteso per così tanto quel momento che la necessità di doversi staccare da lei lo mortificò.
« Solo un altro po’ » patteggiò lei, trascinandolo a sè.
Vinto da quell’intraprendenza, il ragazzo sorrise e tornò a posarsi sopra di lei, cercando di non schiacciarla con il suo peso. Lasciò che la sua mano scivolasse lungo le costole di Erin, assecondando la forma snella della vita fino a raggiungere i fianchi.
Fu allora che a contatto con il suo basso ventre, lei avvertì quanto intesamente lui la desiderasse e quanto stesse lottando internamente nel tentativo di controllarsi.
Castiel loleva disperatamente il suo corpo e per quanto quell’esperienza fosse così nuova e sconosciuta, si accorse che con lui non aveva paura di niente.
« Castiel… » gli sussurrò ad un filo di voce.
Lui si staccò, timoroso che il suo bisogno di lei l’avesse spinto troppo oltre, al punto da metterla a disagio.
Gli occhi di Erin però brillavano innamorati e, trovando l’ardore di non distogliere lo sguardo, gli sussurrò con una dolcezza infinita:
« …voglio fare l’amore con te »
Il rosso deglutì a fatica, rimanendo impietrito per qualche secondo.
Erin sapeva che nessun’occasione sarebbe stata più memoriabile di quella che stavano vivendo in quel momento. L’unico suo timore era di non essere all’altezza di quanto stava per accadere. Diversamente da lui, non aveva nessuna esperienza e per niente al mondo avrebbe voluto deluderlo.
Se solo fosse riuscita a interpretare l’amore dietro al sorriso incredulo di lui, la ragazza avrebbe eliminato ogni incertezza. Perché era da quando lei aveva passato la prima notte a casa sua che Castiel aveva iniziato a desiderare con ogni fibra del suo corpo di unirsi a lei, fondendo i loro corpi. Talvolta si addormentava sognando il giorno in cui al suo risveglio l’avrebbe trovata tra le sue braccia e poterle baciare la pelle nuda mentre un debole raggio di sole la faceva brillare. 
Alla sua dichiarazione, Castiel non era riuscito a replicare.
Riprese a baciarla con passione perchè il solo pensiero di quello che sarebbe accaduto di lì a poco spingeva la sua eccitazione oltre le sue più intime e temerarie immaginazioni. Non sapeva cosa risponderle, le parole gli erano morte in gola quando l’aveva sentita dire quella frase che continuava a riecheggiargli in testa.
 
Dopo che lei gli aveva chiesto di diventare una cosa sola, avevano spento la musica e, sorridendo si erano spostati in silenzio nella camera del ragazzo.
Erin aveva fatto giusto in tempo a sedersi sul letto quando lui era tornato a cercare le sue labbra, avvinghiandola a sè mentre ne accompagnava dolcemente la schiena a distendersi sul materasso.
I suoi movimenti volontari erano ormai annullati. Come una foglia che galleggia sull’acqua, Erin si lasciava trasportare da quella corrente impetuosa. Aveva perso la percezione del tempo ma non delle sensazioni di cui il suo corpo era infuso.
Castiel la teneva stretta a sé, rendendo sempre più viscerale il loro contatto. L’atmosfera era soffusa e distesi sul letto, continuavano a baciarsi alternando momenti di dolcezza ad altri di maggior passione e impeto. Quel contatto fisico lo faceva impazzire, il desiderio di farla sua cresceva esponenzialmente ma la razionalità che ancora albergava nella sua mente lo invitava alla prudenza.
Erin, dal canto suo, era troppo inebriata da quei baci, intensi e lascivi, che il ragazzo alternava tra la sua bocca e il suo collo per tornare a preoccuparsi di ciò che sarebbe successo di lì a pochi istanti. Sorrise, lusingata dell’effetto che era riuscita a sortire in lui. Lui nel frattempo aveva spostato le sue mani sul torace della ragazza, portandola a distendersi su un fianco. Le accarezzava la schiena, partendo dalle scapole e scendendo lungo la colonna vertebrale, fino a soffermarsi sul sedere; i suoi palmi assecondarono quelle forme così femminili che il ragazzo aveva intravisto per la prima volta in piscina con la scuola. I loro respiri si accorciavano sempre più, a causa di quei baci di soffocante piacere.
I movimenti di lui divennero sempre più espliciti: non poteva resistere ancora a lungo a quella deliziosa tortura. Intuendone le intenzioni, Erin si staccò, sollevando la schiena dal comodo materasso mentre lui la guardava confuso:
« Castiel, aspetta  » gli aveva sussurrato con delicatezza.
Il ragazzo attese impaziente, temendo che un ripensamento da parte della compagna.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, Erin precisò:
« Non è che non voglia più farlo… anzi… » lo rassicurò timidamente « è solo che ho un po’ di… inesperienza » ammise a disagio.
A quelle parole, anche lui si era sollevato e avvicinando i loro visi, le aveva stampato un bacio sulla guancia, ammirandola estasiato:
« Non l’hai mai fatto con... nessuno » le sussurrò comprensivo.
La ragazza scosse il capo e pronunciò una frase che si impresse nel profondo del suo cuore e della sua memoria:
« La mia prima volta poteva essere solo con te »
Non era abituato a sentirla parlare così spontaneamente dei suoi sentimenti per lui e mai avrebbe voluto abituarsi alle sensazioni che riusciva a regalarle con la sua disarmante dolcezza.
Riprese ad accarezzarla e, confortato da quella dichiarazione così romantica, azzardò a spostare le mani sotto la maglia di lei. Avvertì il contatto caldo delle pelle ma non si accorse quanto quel tocco delicato le generasse brividi in tutto il corpo.
Nel rispondere a quelle carezze Erin lasciava che fosse l’istinto a guidarla, perché se avesse dato retta alla ragione, l’atmosfera che si era creata tra di loro avrebbe perso la sua magia. Vincendo la sua timidezza, afferrò il lembo inferiore della maglia del ragazzo e la tirò verso l’alto; Castiel sovrappose le sue mani a quelle di lei e velocizzò l’operazione: in un istante si trovò a torso nudo, ma mentre lui era perfettamente a suo agio, Erin arrossì ulteriormente. La vista di quel corpo maschile così tonico e forte le fece venire le farfalle allo stomaco, deliziandosi per quella perfezione. Intravedeva gli addominali definiti, percepiva l’odore di quella pelle appena lavata e il profumo dei suoi capelli. Il petto del ragazzo aderiva al suo, mentre il suo cuore batteva sempre più forte, tanto che lei era convinta che Castiel avrebbe potuto udirlo.
Era ancora completamente vestita, ma il rosso non attese molto prima di scambiare i ruoli e spogliarla della felpa. Con la coda dell’occhio, Erin vide la stoffa bianca accasciarsi al suolo, accanto a quella nera del ragazzo. A coprire la parte superiore del suo corpo, era rimasto solo il reggiseno e, istintivamente, la ragazza incurvò le spalle in avanti, incrociando un braccio davanti al corpo.
Era la prima volta che si sarebbe mostrata in intimo davanti ad un uomo e non era ancora sicura di riuscire a comportarsi con naturale disinvoltura.
Appoggiandole la mano sopra le sue braccia, Castiel la invitò a sciogliere quella debole barriera, sussurrandole dolcemente:
« Lasciati guardare »
Lei sorrise timidamente mentre lui le faceva scivolare via le spalline del reggiseno lungo le spalle e le baciò la clavicola.
Si impose di mantenere un ritmo cadenzato anche se da parte sua sarebbe stato pronto in qualsiasi momento. Voleva assicurarsi che Erin riuscisse davvero a godersi quella notte, anche se l’idea che potesse soffrire un po’, lo preoccupava.
Con esperta maestria, portò la sua mano all’altezza dell’inguine e la liberò dei jeans che raggiunsero il resto dei capi sul pavimento. La visione della ragazza in intimo fu talmente estatica che cacciò fuori un sospiro pesante:
« Che c’è? » chiese Erin preoccupata.
« Che mi fai eccitare troppo » mugolò lui, avvicinandosi al suo orecchio.
Sapeva di non aver ancora visto tutto e per questo cominciò a dubitare della sua capacità di resistenza.
Non solo erano mesi che non soddisfava quel genere di pulsioni ma in aggiunta lo stava facendo con la ragazza che aveva desiderato più di ogni altra in vita sua.
Senza che lui la incoraggiasse, Erin incrociò le braccia dietro alla schiena e, in poche mosse, Castiel vide il reggiseno allentarsi sotto i suoi occhi.
Le sfiorò il seno e quella visione lo eccitò ulteriormente.
Erin si morse le labbra e inarcò la schiena e, massimizzando quel contatto, si lasciò sfuggire un gemito di piacere.
Reclinò la testa all’indietro quando sentì un tocco, dapprima delicato poi più deciso, sfregare la sua intimità. Si lasciò sfuggire un gemito, che fece sorridere il compagno, quando invece lei avrebbe voluto che non lo udisse. Continuava ad accarezzarle il seno con la mano rimasta libera, mentre l’altra rimaneva abbassata a livello pubico.
Lui nel frattempo si era liberato dei pantaloni della tuta e attendeva il momento in cui, finalmente, avrebbe scoperto cosa significasse realmente fare l’amore con lei. La ragazza sentiva un calore sprigionarsi del basso ventre e si rese conto che ormai non aveva più senso prolungare quei libidinosi preliminari.
Involontariamente, graffiò lievemente la pelle del ragazzo, con le unghie che radevano la sua schiena.
Si guardarono negli occhi e Castiel sembrò leggere le sue intenzioni:
« Andiamo? »
Erin annuì e dopo averle stampato l’ennesimo bacio, si sfilò i boxer.
Cacciò giù un grumo di saliva mentre Castiel si allungò verso il cassetto del comodino. Pregò con tutte le sue forze di trovare ciò che cercava e fortunatamente, le sue preghiere vennero esaudite. Dopo qualche secondo, la ragazza vide un pacchettino quadrato essere scartato rapidamente. Lei non riuscì a guardarlo mentre con gesti esperti, il ragazzo prendeva ogni precauzione necessaria prima di entrare in lei.
Erin fissava il soffitto, sapendo che di lì pochi istanti, avrebbe provato un’esperienza nuova e indimenticabile. Avrebbe perso la sua verginità con Castiel e mai avrebbe immaginato di farlo la stessa notte in cui si sarebbe dichiarata. Era quasi rammaricata dall’idea che la lacerazione di quella piccola membrava intima sarebbe stata irreversibile ma al contempo, si sentiva sicura della sua scelta.
Incrociò lo sguardo del ragazzo, che la osservava rapito.
Nonostante la sua determinazione, non riuscì a controllare il tremolio delle mani, mentre cercavano il viso del ragazzo rimasto sopra di lei.
Castiel le diede un ultimo lungo bacio, intenerendosi per l’insicurezza che la ragazza cercava di celare:
« Farò più piano che posso » la rassicurò, tradendo un po’ di emozione nell’incrinatura della sua voce.
Delicatamente, le allargò le gambe che erano piegate davanti a lui e, studiandone l’espressione, entrò dentro di lei.
Erin ritirò le labbra, mordendosele per il dolore.
Lei e Castiel erano diventati una cosa sola e mai prima di allora erano stati così uniti sia mentalmente che fisicamente.
Il ragazzo attese un paio di secondi per abituarla alla sua presenza poi, cercando di controllare il ritmo, cominciò a muoversi lentamente.
Un paio di lacrime inumidirono le ciglia di Erin che serrò gli occhi.
Afferrò saldamente il lenzuolo, stringendolo con tutte le sue forze. Percepiva come un fuoco sotto di sé, ma non aveva il coraggio di chiedere al compagno di fermarsi. Se gli avesse chiesto di uscire, l’istinto le suggeriva che avrebbe solo sofferto di più.
Ammise però che quella sensazione non era poi così intollerabile: più passavano i secondi, e più la presenza del ragazzo dentro di lei le risultava sopportabile, se non addirittura piacevole. Probabilmente era merito anche dell’esperienza del compagno, che aveva saputo gestire la situazione preparandola al meglio all’atto vero e proprio.
Lui aveva i gomiti piegati contro il materasso, all’altezza dei capelli della ragazza. Ogni tanto tornava a cercare le sue labbra, ma appena se ne distaccava, riprendeva la penetrazione con più vigore.
Dopo un po’, Erin sentì di volere qualcosa di più: cominciò così a muovere il bacino, esplorando talvolta dei punti nella sua intimità che le risultavano particolarmente appaganti. 
Quella reattività eccitò il rosso al punto che, sollevando con maggior veemenza del cosce della ragazza, approfondì le spinte. Erin strinse le palpebre, reclinando il collo all’indietro, anche se avrebbe preferito tornare a guardare il fisico scultoreo del ragazzo.
I loro movimenti erano sempre più frenetici e lei sentiva il suo corpo sempre più caldo e affaticato. I loro respiri erano sempre più bramosi di ossigeno e la loro pelle infuocata. Erin, che fino a quel momento aveva cercato di trattenere dei gemiti di piacere, fu costretta a cedere a quell’autoimposizione e ciò non fece che aumentare l’eccitazione del suo compagno.
Quella danza dalla cadenza frenetica continuò per diversi minuti, finché il ragazzo ritornò a stendersi sopra di lei, lasciando che i loro corpi aderissero completamente.
In quella nuova posizione, Erin avvertì una nuova sensazione, nettamente più piacevole delle precedenti e sperò che lui continuasse a offrirgliela senza perdere il ritmo.
Castiel sembrò leggere le sue intenzioni e sorrise appagato, anche se gli diventava sempre più difficile controllarsi. Proprio quando si stava rassegnando che farla arrivare all’orgasmo sarebbe stata una sfida troppo ardua per la loro prima volta, il corpo della ragazza si irrigidì per qualche istante, mentre un’incontenibile sensazione di puro piacere si scaricava lungo il suo corpo.
La sentì rilassarsi ma a quel punto le spinte del ragazzo diventarono più rapide e profonde.
Erin chiuse nuovamente gli occhi, sentendo che la sua intimità implorava una pausa e, per questo, spero che anche il compagno si affrettasse a concludere l’atto.
Per sua fortuna, Castiel era ormai giunto all’apice del piacere e, dopo l’ennesima spinta cadenzata, si irrigidì, lasciandosi sfuggire un gemito di appagamento mentre liberava tutto il desiderio represso.
Cercò gli occhi di lei e li trovò inchiodati sul suo viso.
Lo guardava con una tenerezza che mai le aveva visto, rendendola ancora più bella. I suoi capelli si erano distribuiti sul cuscino, il viso era arrossato dallo sforzo appena compiuto e dall’eccitazione.
Erin era una visione estasiante.
Gli sistemò un ciuffo dietro l’orecchio, sorridendo felice; ricambiando quell’espressione, Castiel rimase ancora dentro di lei, appoggiandosi al suo petto delicatamente.
« Ti peso? » le sussurrò.
« No »
Rimase in silenzio a bearsi di quella sensazione stupenda per qualche minuto finchè non fu costretto ad uscire da lei. Il ragazzo si risollevò e con gesti esperti, si sfilò il preservativo, annodandone un’estremità e gettandolo nel cestino poco lontano. Cercò dei fazzoletti con cui si tolse i residui di lubrificante e finalmente potè stendersi accanto a lei.
Non vedeva l’ora di poterla toccare di nuovo così iniziò ad accarezzarle la schiena nuda, provocandole dei brividi di piacere.
Si sentiva incredibilmente spossato, ma mai prima di allora era stato così felice.
Recuperò la coperta ai piedi del letto e coprì i loro corpi, ancora accaldati e sudati per l’atto appena conclusosi.
Si portò una mano sotto il cuscino che avrebbe condiviso con lei la quale non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Per entrambi quell’esperienza aveva superato ogni aspettativa e il fatto che fosse accaduta all’improvviso, la rendeva ancora più speciale.
Non poteva che essere lui il ragazzo a cui donare tutta se stessa, l’unico che, ne era convinta, avrebbe amato più di ogni altro in vita sua.
« Ti ha fatto male? » mormorò lui.
Lei scosse il capo e lo tranquillizzò sorridendogli felice.
« Poi non è che ti dimentichi anche questa, vero? » scherzò lui, accarezzandole la guancia.
Lei gli restituì un’espressione interrogativa che gli strappò immancabilmente una risatina divertita:
« Quello di prima non è stato il nostro primo bacio, Erin » chiarì lui.
« Come no?! »
Nel pronunciare quell’esclamazione aveva drizzato il busto e lasciato che i raggi della luna illuminassero il corpo nudo.
Distratto da quella scena, Castiel dimenticò l’argomento di conversazione e tentò di sfiorarle l’oggetto del suo desiderio:
« Hai pure delle tette stupende... »
« Noi ci siamo già baciati?! Quando?! » continuò lei, deviando la mano in avvicinamento e riportandolo all’argomento principale. Si coprì pudicamente il busto, anche se ormai non c’era angolo del suo corpo che il compagno non avesse già esplorato.
Castiel incrociò le braccia dietro la nuca e spiegò:
« Ci siamo baciati una volta... la sera del concerto del liceo. Quando ti ho detto che sarei partito per Berlino »
« Coosa? Mi stai prendendo in giro! » esclamò lei sconvolta.
« Prenderti in giro? » sbottò lui, accantonando la tenerezza con cui si era rivolto a lei fino a quel momento « immaginati come mi sono sentito io quando ho capito che non te lo ricordavi nemmeno, scema! »
« M-ma come è successo?? » balbettò lei.
« Beh, tu eri devastata dall’idea di perdermi. Non la smettevi di piangere dicendo che ero l’amore della tua vita, che non potevo lasciarti e che ti saresti buttata giù dal tetto piuttosto che lasciarmi partire... »
Erin allora lo scrutò poco convinta.
« Mi stai prendendo in giro »
Il ragazzo scoppiò a ridere e lei gli sigillò quell’adorabile risata con un bacio.
Più passavano i minuti e più le sembrava naturale cercare quel genere di contatto fisico con lui, come se la loro complicità fosse radicata dopo anni di relazione.
« Però il bacio era vero? » indagò.
« Il bacio era vero » confermò lui felice « peccato che quando un giorno ci chiederanno “come è stato il vostro primo bacio” tu non sappia neanche come è successo »
« Ma la smetti di sfottere? » si corrucciò lei, mentre lui rideva divertito.
Lei sbuffò, però vederlo allegro e di buon umore era una situazione talmente rara, che gli perdonò all’istante di essersi fatto beffe di lei.
In quel momento non poteva sapere che quelle risate sarebbero diventate sempre meno rare, così come lo scambio di effusione d’affetto e d’intesa.
« A proposito di raccontare cose... » esordì lei tutto d’un tratto, mentre Castiel le accarezzava la spalle rapito « ti dispiace se questa cosa la teniamo per noi? Almeno per un po’ »
Il ragazzo soppesò quella proposta, scrutandola attentamente. La prospettiva di vivere la nuova relazione con Erin senza prese in giro e battutine ironiche da parte della loro schiera comune di amici non gli dispiacque. Solo che non era convinto che quelli fossero gli stessi motivi che spingevano Erin a quella singolare richiesta:
« No, non mi dispiace affatto. Posso sapere il perchè? »
« Cioè, per un po’ intendo fino a quanto non avrò l’occasione di dirlo io a Rosalya » chiarì « lei mi ha sempre spronato a dirti tutto. Direi che era la nostra supporter più accanita »
Castiel la guardò stupito e ammise:
« Beh, questa non me l’aspettavo da lei. Pensavo di non meritarti, soprattutto ai suoi occhi »
« Ecco, diciamo che nel profondo ti vuole bene e- »
« Molto nel profondo » la interruppe Castiel con tono beffardo.
« ...e soprattutto, sapeva che non mi sarei mai innamorata di nessun altro come mi sono innamorata di te » concluse Erin.
A quelle parole Castiel la avvinghiò nuovamente, costringendola a distendersi al suo fianco:
« Ma come sei improvvisamente diventata spudorata, Travis. Dove erano tutte queste dolci parole quando ne avevo bisogno? Mi hai torturato per mesi con le tue cazzo di friendzonate »
« Io ti ho friendzonato? » si arrabbiò lei « ma se stasera mi hai detto che è impossibile fare a meno della mia amicizia! »
Lui ridacchiò e riconobbe:
« A mia discolpa, lo penso davvero. E’ solo per questo che non ti ho mai detto nulla finora. Immaginati se mi avessi detto di no »
« Era ovvio che mi piacessi, Cas! » si inalberò lei.
« Non era ovvio un corno! Mi avevi definito il tuo migliore amico! E più di una volta! »
« Ma tu mi davi corda! Tra l’altro mentre eri in Germania non ti sei mai fatto vivo! »
« Perchè volevo provare a dimenticarti! Non hai idea di quanto sono stato male per colpa tua e della tua ottusità! »
Erin gonfiò le gote, indecisa se rispondergli a tono o assimilare quell’ammissione di vulnerabilità da parte di lui. Optò per la seconda opzione ma senza rinunciare alla tentazione di stuzzicarlo un po’:
« A quanto pare però non ti è riuscito molto bene come tentativo. Sei venuto a consolarmi in ospedale dopo appena pochi giorni »
« E anche in quel caso non l’avevi capito. A volte ho dubitato seriamente della tua intelligenza, Cip »
« Sei arrivato che ero praticamente addormentata e te ne sei andato prima che mi svegliassi » gli ricordò la ragazza.
« Sì, ma anche dopo che l’hai scoperto, non solo non hai fatto due più due, ti sei pure incazzata con me » puntualizzò Castiel.
« In quel momento non sapevo cosa fare: ero indecisa tra il baciarti e il buttarti giù dal grattacielo »
« Senti, senti cosa scopro » sorrise lui mellifluo « ma tu piuttosto... quand’è che hai capito che... »
« Che? » lo incoraggiò Erin, ghignando divertita per il pudore del ragazzo.
« Sì insomma... hai capito »
« Che mi piacevi? » completò lei « per averlo capito, è stato il giorno del mio compleanno... ma probabilmente avevi già iniziato a piacermi da prima »
« Prima quando? »
« Non c’è stato un evento particolare. E’ successo tutto lentamente. Poi in quei mesi ero anche distratta da Nathaniel ma dentro di me sapevo che qualcosa non andava »
Castiel meditò su quelle parole ed infine chiese:
« Pensi che se mi fossi fatto avanti prima, le cose sarebbero andate diversamente? »
Erin ne studiò l’espressione che, se fino a quel momento era intrisa di dolcezza, ora le appariva mutata in una smorfia di malinconia.
Riflettè sui sentimenti di Castiel quando l’aveva vista scegliere il suo migliore amico e si sentì in colpa per non essersi accorta di averlo ferito.
Non avrebbe mai immaginato che mentre lei era impegnata a far funzionare quella relazione traballante, il suo migliore amico stesse lottando per nascondere i suoi reali sentimenti.
« Penso di sì. Mi avrebbe forzato a vedere la nostra amicizia sotto una luce diversa... e non ci avrei messo tanto a capire che ho sempre e solo voluto te »
Quella confessione addolcì l’animo del ragazzo che, senza aggiungere altro, la abbracciò, stringendola a sè.
« L’importante è che alla fine ci siamo trovati. Alla fine ne è valsa la pena aspettare » sussurrò lei, sprofondando ancora di più nel petto di Castiel.
Lui non le rispose immediatamente, così lei lo pizzicò per scatenarne una reazione.
« Eh eh, se avessi saputo che il sesso con te era così, fidati che ti sarei saltato addosso molto prima »
La ragazza arrossì e, in quella tenera espressione, lui cercò le sue labbra.
Persino la prospettiva di addormentarsi, per quanto il suo fisico ne avesse disperatamente bisogno, gli risultava poco allettante poichè implicava doversi separare da quella bocca.
Suo malgrado però la ragazza sentiva una profonda stanchezza investire il suo corpo, così mugolò:
« Saranno le due ormai ».
« Sonno? »
« Credo che mi ci vorrà un po’ per addormentarmi » ammise lei. Lui le baciò la fronte con dolcezza mentre lei guardò per un attimo fuori dalla finestra e sorrise, constatando che la tapparella fosse alzata.
« Vuoi che la abbassi? Guarda che è aggiustata adesso » la informò Castiel, ricordando che l’ultima volta non aveva minimamente assecondato quella richiesta.
La ragazza sorrise per quella premura, ripensando esattamente allo stesso episodio ma chiuse gli occhi e mormorò:
« No, non serve »
« Ma l’altra volta non avevi paura? »
« Sì, ma adesso ho te » replicò lei e affossò ancora di più il viso contro il petto del ragazzo, beandosi di quella sensazione di protezione e calore. Il profumo della pelle nuda di Castiel esercitava un’azione inebriante su di lei, il cui respiro iniziò a farsi gradualmente più regolare e profondo.
Dal canto suo il ragazzo, lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, così continuò a fissarla per qualche altro minuto.
La stanchezza si stava facendo sentire anche in lui ma stava combattendo con tutto se stesso per non cedere subito al sonno poichè avvertì che l’ispirazione artistica era dietro l’angolo.
Erin non aveva più parlato così provò a sussurrarle la buonanotte ma non rispose.
Cercando di non svegliare la sua musa, allungò un braccio verso la scrivania accanto a sè.
A tentoni cercò il cellulare e aprì un’app per prendere appunti.
Le parole per quella canzone d’amore che non era ancora riuscito a trovare scorrevano rapide nella sua mente e lo stavano investendo con la forza di un tornado perchè la realtà di quella notte era migliore di qualsiasi sogno avesse mai fatto.
 


NOTE DELL’AUTRICE:
 
Non so da che parte iniziare.
Intanto posso meritarmi una pacca sulla spalla per aver pubblicato il capitolo con puntualità? Ma penso (e spero) che questo passi in secondo piano rispetto a ciò che avete appena letto.
Tranquillizzo eventuali teorie complottistiche sul fatto che sì. E’ successo veramente e nel prossimo capitolo Erin non si sveglierà pensando che sia stato tutto un sogno.
Da romantica inguaribile quale sono, avevo abozzato alcune parti di questo capitolo ben prima della pausa eterna di IHS, quindi almeno cinque anni fa, se non di più.
L’aspetto positivo di averlo pubblicato ora è che credo di aver descritto la scena con più consapevolezza e maturità di quanto avrei potuto fare in passato.
Inoltre, anni fa, avevo previsto questa scena come una delle più tardive nella storia ma mi sono resa conto che non aveva senso procrastinarla ulteriormente.
Credo fermamente che se a diciott’anni si è convinti di aver trovato il ragazzo giusto, una come Erin possa passare da zero a mille e assecondare l’istinto. Voi che ne pensate? Troppo presto?
Comunque ora avrete intuito perchè mi piaceva l’idea di pubblicare questo capitolo a San Valentino (anche se su EFP l'ho pubblicata un giorno prima).
Per il prossimo, credo mi ci vorranno più di tre settimane, quindi verosimilmente, ci risentiremo verso Aprile.
Intanto, grazie a chinque sia arrivato fino a qui.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2574192