Tutto ciò che viene dopo

di istherelifeonmars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - o anche è per questo che mio padre sta guidando così in fretta. ***
Capitolo 2: *** Welcome to the jungle ***
Capitolo 3: *** Welcome to the jungle II ***
Capitolo 4: *** Falling ***
Capitolo 5: *** Cry Baby ***



Capitolo 1
*** Prologo - o anche è per questo che mio padre sta guidando così in fretta. ***


Prologo
O anche è per questo che mio padre sta guidando così in fretta.
 
Londra, Settembre 2010

Sono le sette e trenta del mattino e io sono seduto sul parapetto del Blackfriars Bridge, la custodia della chitarra appoggiata accanto a me. Uno si potrebbe anche chiedere com’è che ci sia finito, qua, le valige che sono cadute giù nel Tamigi e i miei piedi sospesi nell’aria. Ecco, sarebbe comprensibile. Se ve lo state chiedendo non vi biasimo, è una cosa che farebbero tutti.
Comunque, per farla breve: c’è questo vecchio signore che mi si è avvicinato molto, molto lentamente, come se fossi una belva feroce con cui bisogna essere cauti. Mi ha detto: ragazzo, va tutto bene? Eh, non tanto, altrimenti col cazzo che sarei qua. 
Il problema è che non m’è rimasto proprio più niente, di questi vent’anni di vita, come se li avessi passati in una bolla fuori da questo formicaio che chiamano mondo. Uno potrebbe anche chiedersi quando tutto è iniziato ad andare a rotoli, quando le crepe sono diventati divari invalicabili, quando le chiacchiere sono diventate bugie; ma non credo che abbia senso, semplicemente un giorno uno si sveglia e si chiede com’è che Constance è appassita e si è trasformata in una vecchia signora, magra nei suoi abiti da ragazzina; oppure com’è che Eean un giorno mi guardava ridendo come un matto ed ora è scomparso, una macchia in tutto questo disastro. Poi c’è Thomas che ha sempre avuto ragione, anche adesso che se ne è andato. C’è Francis e la sua nuova casa a Bunhill Fields, con una vista meravigliosa sui campi, sì, ma chi mi dice che si ricorda di noi? E ci sono Liz, ci sono Evan e Kelly. Ci siamo tutti, ma di quelli che eravamo non c’è più nessuno.
Gli ho fatto cenno di sì, e lui è rimasto fermo per qualche secondo, come se avesse paura di aggiungere altro. Io ho girato la testa di nuovo verso il fiume e il cielo plumbeo di sempre e giuro di averlo sentito deglutire, come se avesse dovuto mandare giù un boccone troppo grosso.
«Tutto bene?» me lo chiede di nuovo, ha questa voce un po’ roca e bassa – quella da fumatore – e parla con un forte accento del nord. Forse non è scozzese, ma di sicuro viene da sopra Leeds, ci metto la mano sul fuoco.
Non gli rispondo perché non so bene che cosa dire in una situazione del genere: è ovvio che lui pensi che io voglia fare la fine delle mie valigie, ma non sono arrivato a questo punto. No, non mi voglio buttare giù dal ponte e spiaccicarmi sulla cresta del Tamigi, eppure non credo nemmeno di voler scendere da qua. Allora chiedo a lui come sta.
E lui: «Senti, ragazzo, ho visto che ti sono cadute quelle valigie.»
Ottimo osservatore. E non sono sarcastico, a Londra non c’è mai nessuno che vede nessuno. Quindi un punto a te, vecchio signore del-nord-ma-non-scozzese.
«Hai bisogno di una mano?» si ferma, deglutisce, accanto a noi sfreccia una macchina così forte che mi si scompigliano i capelli «Se scendi possiamo andare a cercarle.»
Mi dispiace fargli perdere tempo, mi dispiace davvero. Perché forse alle sette del mattino quest’uomo stava andando al lavoro e si è scontrato con un probabile suicida che butta cose giù nel Tamigi. Non è che la sua giornata sia iniziata proprio bene, quella del signore, intendo. 
«C’era solo robaccia, lì dentro. I vestiti, cose così, sono già in viaggio. Con la chitarra non so che farci, mi dispiace proprio buttarla. È solo che è ingombrante.»
Annuisce. Bella giornata, eh?, dice. Sì, è una bella giornata; è sempre una bella giornata se guardi Londra da quest’angolazione, il problema è quando metti i piedi a terra. Vorrei proprio rispondergli e fargli notare che il cielo e l’acqua del fiume sono dello stesso colore quando una macchina arriva sgommando così forte nella nostra direzione che quasi non mi sbalzo giù dallo spavento.
E poi mi giro.
E poi c’è il colpo di scena.

 
Londra, Agosto 2009

Mio padre è sempre stato uno che guida con prudenza. O meglio, guida sempre entro i limiti segnalati dai cartelli e raramente li trasgredisce. Non prende mai le curve troppo bruscamente e tantomeno supera chi gli sta davanti a meno che quello non stia andando veramente lentamente.
Sono le sue regole sacre, quelle della strada.
E oggi le sta trasgredendo.
Oggi sono sballottato qui e là nell’abitacolo dell’auto e, se non avessi la cintura di sicurezza a cingermi, probabilmente a quest’ora sarei appiccicato al finestrino opposto – mi sento un palloncino in una lavatrice, se ha senso come paragone. 
Quando siamo usciti dal parcheggio della stazione della polizia ho visto Evan e Constance appoggiati alla portiera dell’auto di lui. Mi guardavano. Evan non ha detto niente, ma Constance mi ha scrutato con gli occhi un po’ umidi mentre si stringeva le braccia appena sotto il seno – suppongo lo facesse perché i bottoni della camicetta super aderente erano saltati. Ovviamente non si sono mossi, sapevo che dietro ai loro sguardi si agitava un unico interrogativo: dove sono gli altri?, era facile leggerlo.
Gli altri stanno dentro ma ancora per poco, avrei voluto urlare. Ma non ho fatto in tempo.
Quando succedono cose del genere, Connie e Evan sono gli unici che si salvano il culo, in un modo o nell’altro. Evan perché è incredibilmente bravo a sfuggire dalle situazioni che possono danneggiarlo, Constance forse perché alla fine non fa mai nulla di male. E alle Sante va sempre bene – almeno a quelle come lei.
Mi rigiro sul sedile posteriore, la testa cinta da un cerchio gelido che, minuto dopo minuto, penetra sempre più in profondità. Vorrei vomitare. Altra curva. Vorrei vomitare ancora di più. Mio padre e mia madre stanno fermi, ingessati, sui loro sedili anteriori – si tramutano in oggetti e riprenderanno vita solo una volta arrivati a casa, non prima, non dopo. So già quello che mi diranno. È sempre lo stesso, non varia mai: sono vuoti anche quando si incazzano, urlano, tirano fuori la rabbia e la delusione. Sono oggetti anche quando cercano di vivere, ora che ci penso.
Questa è la prima volta che mi vengono a prendere alla stazione della polizia, comunque – tutti e due, intendo, con i loro volti freddi e cupi. Mi dispiace per loro. Non mi dispiace per quello che è successo ieri sera – anche se ammetto che la situazione era sfuggita di mano a tutti – ma mi dispiace proprio per loro, per quello che sono e che saranno.
Reclino la testa verso il finestrino, siamo ancora in centro, ci vorranno altri venti minuti prima di arrivare a casa, ho ancora tempo. Mentre socchiudo gli occhi con la completa consapevolezza di stare per addormentarmi, mi passano dietro le palpebre le immagini di ieri sera: sono diapositive proiettate dal mio cervello, una dopo l’altra e senza un ordine preciso.

Prima ci siamo io e Liz che entriamo di soppiatto nella mansarda dei Lein. Lei ride divertita. Ha la risata di una bambina che contrasta nettamente con l’idea che lei vuole dare di sé; sembra molto più piccola alla luce della torcia che ho in mano – le daresti, che so, quindici o sedici anni, con le efelidi che le costellano il viso e con quei capelli lunghi e castani che le svolazzano attorno mentre lei si diletta in una serie di piroette. Io la guardo di sottecchi e sorrido. È bellissima. È graziosa anche mentre si mette a sedere per terra, tra gli scatoloni polverosi che i Lein devono aver accumulato qui eoni fa, e mi rivolge un’occhiata.
«Riesci ad aprire quel lucernaio?» mi chiede, indicando con il mento la piccola apertura sul tetto. Io la assecondo con un po’ di sforzi: non sono mai stato particolarmente forte – ma credo che in questo caso è perché sono fatto e ubriaco. Che combo, eh? E poi è anche perché quel lucernaio del cazzo era bloccato, probabilmente non lo usava nessuno da anni.
Così ora entra l’aria frizzante dell’estate e la musica dal giardino qua si fa meno ovattata. Mi siedo accanto a lei.

Cambio di scena: ora Eean si sta rollando una canna. È concentrato ma parla lo stesso, parla del più e del meno e io lo ascolto, seduto su una poltroncina di pelle. È solo l’inizio, questo, siamo ancora tutti sobri – sobri abbastanza da poter tenere un discorso più o meno sensato, ecco.
«Il problema è, porca puttana» si ferma un momento «il problema è che io proprio non so più che fare, capisci? Io ci provo, a prendermi le mie responsabilità, a far vedere che ci tengo. Mi sono trovato un lavoro stabile, prendo i medicinali, sto riducendo tutti le distrazioni al minimo e lei continua a dire di no, che non vuole che faccia da padre al bambino.»
Io lo ascolto in silenzio con la testa appoggiata al sedile. L’erba e la pasticca rossa che ho appena mandato giù mi stanno stordendo.
«Non è ancora nato e potrebbe cambiare idea, lo so, lo so. È che mi sento come se quel bambino fosse la mia unica possibilità, no?, per uscire da questa merda. O forse non ci uscirò mai, che ne so, il punto è che se facessi qualcosa di buono, una volta tanto, se crescessi una persona buona sarebbe come mettere una pezza su tutto questo casino. Su di me.»
Lo vorrei abbracciare, in questo momento, mentre lui si porta la canna alle labbra e fa il primo tiro. Forse non ha ragione, io non posso saperlo, ma so che ci soffre. Per il bambino, per Kelly, per tutto quello che gli è successo. Eean non è un ragazzo facile, no, ma è la persona più buona che io abbia incontrato. 
Ma non glielo dico.
Non qui, nella villetta dei Lain, con una ventina di corpi sudati che ballano accanto a noi, qualcuno che ha già tirato fuori la polvere, l’odore acre degli alcolici. 
Non qui, sarebbe come sciupare il significato parole.

Torno indietro o vado avanti, non so dirlo. C’è Constance che si specchia nello specchietto retrovisore del pick-up su cui siamo arrivati. Stiamo discutendo sul genere femminile e Francis se ne è andato da un po’ proprio per questo – gli dà fastidio quando lei parla così. Ha sbattuto la portiera della macchina e si è mosso a lunghi passi verso la villa, lontano da noi. 
Connie ha sbuffato, protendendo verso l’esterno le labbra in un gesto allo stesso tempo infantile e sensuale. Non so come faccia.
«Per voi siamo Sante o Puttane, non c’è una via di mezzo.» mi dice, estraendo dalla borsetta un rossetto stick più rosa delle sue unghie. Non sembra turbata dalla cosa, lo afferma noncurante come affermerebbe che il suo taglio di capelli è un caschetto biondo – un dato di fatto difficilmente confutabile che ormai non le fa più caldo né freddo. Io non so come rispondere. Quindi sto zitto, che è meglio, con lei.
«Ma vi capisco, sai? Anche noi dobbiamo decidere, ad un certo punto, che cosa essere. Io voglio vivere, amare, Trav, voglio iniettarmi tutte queste emozioni per endovena. Se per fare ciò devo passare come puttana…» si ferma, schiocca le labbra e se le osserva per un secondo «come sto?» dice. Io le vorrei rispondere che sta bene anche senza, ma mi limito ad annuire convinto. Lei sorride, perdendo tutto d’un colpo quell’aria fascinosa da prima donna, sorride e ritorna più umana di me e di tutti gli altri. Mi tira un colpetto sulla spalla.
«Che testa di cazzo! Lo vedo che stai mentendo!» scherza, portando ora le gambe sul sedile e incrociandole. Ha la pelle così chiara che le si vedono le vene ovunque, sulle cosce, sul petto, se non avesse del fondotinta anche sul viso.
«Sono una persona molto diplomatica, io!» ribatto divertito e questa volta rido un po’.
«Diplomatica?» lei mi fa il verso «Non riempirti la bocca di paroloni troppo dotti, in posti come questo non apprezzano molto. Qui preferiscono un linguaggio molto più primordiale.» poi mima l’indice della mano destra entrare nel cerchio composto dal pollice e l’indice della sinistra.
Rido ancora.
«Oltretutto,» riprende, aprendo lo sportello e uscendo nella notte «sei davvero un pessimo bugiardo.»

Il nastro si riavvolge.
O va avanti.
Che cazzo ne so.
È Thomas a spalancare la botola che porta alla mansarda: lo fa con un’urgenza e una forza che gli ho sempre e solo visto mentre suona la batteria. Al di fuori no. Lui è sempre pacato, sulle sue, il suo tocco è sempre così gentile.
«C’è la polizia.» dice. Ha la voce profonda, l’accento del sud è più marcato del solito. Prima di processare quel che sta dicendo io mi fermo a osservare la sua felpa verde – d’Agosto, Cristo Santo – e penso, cazzo, penso, quand’è che se l’è messa? 
Non è la prima volta che la polizia arriva a una festa del genere, quindi questa volta sono preparato. Certo, pensavo di concludere la serata con una sana scopata, ma al momento mi passa tutta la voglia. Mi volto verso Liz, che ora mi guarda con un velo di disapprovazione – sempre in questi casini, ci dobbiamo cacciare?, dice il suo sguardo.
Ci conviene andare, dico. E inizio a scendere la scala e pioli che ci ha condotto fin qui. Thomas prima di me e Liz immediatamente dopo. Quando siamo al secondo piano inizio a sentire distintamente qualche urlo fuori e il vuoto che lo stereo ormai spento ha lasciato. Il punto è che so come funzionano queste cose: di solito queste teste di cazzo si divertono particolarmente a far finta di averti trovato roba addosso. Anche quando non è vero, anche quando nel mio caso la quantità è zero, ma a loro detta potrebbe cambiare da un momento all’altro. 
Scendiamo in cucina – sempre guidati da Tommy, che sembra essersi studiato la mappa della casa a memoria – dove incontriamo un povero cristo che, mezzo nudo e accasciato accanto al frigo, sta cercando di infilarsi il cazzo delle mutande prima di provare a correre. Noi apriamo la porta del retro con impeto, non rendendoci conto che qualcuno ci ha preceduti. Un agente grasso e pelato, ma grande abbastanza per fare il culo a tutti e tre, si sporge verso di noi. L’ultima cosa che vedo prima di venir trascinato fuori ed esser sbattuto sulla pietra del muro di casa è Liz che torna indietro correndo. 
Picchio la testa e mi viene da vomitare. Così come siamo, appiccicati alla parete fredda, io e Thomas ci possiamo guardare faccia a faccia. Mi dispiace, mima con le labbra lui. Tutto okay, mormoro di rimando io.
«Che hai detto?» dice il pelato, che al momento mi sta perquisendo con le sue mani grassocce e sudate. Sono diviso se dirgli porco o fascista, ma prima che dalla mia bocca possa uscire qualcosa Thomas risponde per me: «Niente. Lo lasci stare.»
Quando l’agente ha finito con me inizia con lui – Tommy, intendo – e io ho un momento per prendere fiato: è successo tutto così in fretta. Ora poso gli occhi sulla campagna che circonda villa Lain: qualcuno sta ancora correndo, se è fortunato è vestito, gli altri sono nudi come vermi o sono direttamente collassati da qualche parte. Un ragazzo sta opponendo resistenza e molla un calcio ad un agente e solo ora noto che accanto a lui anche Francis sta guardando, le mani in alto. Penso, lascia perdere, Frankie, non farti fottere in questo modo. Perché già so che cos’ha in testa: vuole picchiare quell’agente, e non si tratta di un calcio; vuole fargli del male, glielo leggo in faccia. Poi però non si muove e tiro un sospiro di sollievo, anche se il cuore pompa ancora sangue a una velocità inaudita.
Ora che quasi tutti sono stati presi, sulla campagna si alternano solo i colori blu e rosso delle volanti.
Blu e rosso.
Blu e rosso.
Blu e rosso.
In una danza ipnotica che potrei continuare a guardare per sempre: anche il volto di Thomas cambia colore in concomitanza con quello delle sirene e i suoi grandi occhi nocciola non smettono di guardarmi nemmeno per un secondo. È spaventato.
L’aria della notte è ormai fredda quando mi fanno entrare in una delle auto con Thomas e Lynch e quando partiamo scorgo, con la coda dell’occhio, che il cielo ad est sta diventando man mano più chiaro. Le stelle sono scomparse, non c’è più niente da vedere.

Quest’ultima foto è la più recente e i suoi bordi sono meno sfocati: la cella dove sono è quella opposta a quella dove sta Francis. Devo essermi addormentato perché solo ora mi rendo conto della sua presenza: lui se ne sta lì, seduto su una panca, la maglia e parte dei pantaloni sporchi di fango. Deve essere caduto prima di essere stato preso.
Anche se siamo lontani almeno tre metri, gli sento addosso l’odore di tutta la rabbia che si porta dentro mischiato a quello forte e distinguibile dell’alcool. Il prossimo a parlare con Tracy Miller è lui: ora che è sveglio e più lucido di prima vedo i suoi piccoli occhi chiari scattare da una parte all’altra, come se stesse cercando una via di fuga.
Io con Tracy Miller ci ho già parlato: è una donna gentile, mi ha perfino offerto un caffè. Mi ha chiesto chi mi avesse procurato il taglio sulla fronte e io le ho risposto che non lo sapevo, ovviamente. Poi mi ha informato che non avevano accuse a mio carico, potevo tornare a casa. Di norma hai a disposizione un paio di chiamate, puoi scegliere tu da chi farti venire prendere, oppure, se sei maggiorenne – come nel mio caso – basta una firma e sei fuori.
Il mio caso è leggermente più delicato perché sono figlio di Irem e Angus Wance, di conseguenza è meglio che vengano loro, ha detto – solo dopo ho capito che li conosceva, i miei genitori, intendo. In quel momento ho odiato il suo piccolo ufficio grigio, con una scrivania standard e impersonale, ho odiato la pianta verde che aveva posto tra uno scaffale e l’altro alla ricerca di dare un tono all’ambiente smorto. Ho odiato lei e i suoi capelli di un color mogano, visibilmente tinti.
Ma non ho troppo spazio per odiare, dentro, quindi è durato poco: il tempo di processare la cosa e più che arrabbiato mi sento angustiato, come se qualcosa mi prema il petto e non mi permetta di respirare.
Voglio respirare qualcosa che non sia l’odore degli alcolici e del tanfo di piscio che Lynch – che qui accanto a me, seduto sulla panca, emana. Allora parlo a Francis, che posso vedere attraverso le sbarre. La sua cella è più grande della mia: azzarderei cinque metri quadri. Forse sei.
«Ci sono Constance e Evan, fuori.» gli dico. Accanto a noi un agente di ronda mi rifila un’occhiataccia e immagino che mi voglia riprendere, ma poi volta le spalle e torna a compiere il suo giro. Solo ora Francis si gira verso di me, lo sguardo affilato e attento che scandaglia centimetro per centimetro il mio viso. «E anche Liz.» continuo.
Il punto è che gli voglio far capire che qualcuno verrà a tirarlo fuori e se lo porterà a casa, gli voglio dire che non si deve preoccupare a prendere la metro o un bus alle cinque del mattino. Lui incrocia le braccia al petto, in una posizione di difesa, ma so che mi sta ascoltando. A vederlo così mi sembra un animale selvatico in gabbia.
«Magari sono proprio qui fuori.»
Lui impreca, ma a voce troppo bassa per capire che cosa abbia detto. Poi risponde: «Li ho persi di vista, ieri sera. Evan, intendo. Deve aver capito che queste teste di cazzo stavano arrivando e se l’è filata.»
Probabile. Ma nessuno dei due li biasima.
«Non so come abbia fatto Connie.» si leva una voce profonda da una terza cella. Non riesco a vedere chi abbia parlato, perché ci separa un muro di cemento, ma so che è stato Paul Gillian. La sua parlata strisciata la si riconosce da miglia di distanza. «L’ultima volta che l’ho vista, cinque minuti prima che arrivassero, era seduta vicino a uno dei cessi. Aveva un’aria stravolta, pensavo fosse svenuta o che cazzo ne so.» si sente che vorrebbe continuare e dire qualcos’altro, ma l’agente di ronda torna indietro, il mazzo di chiavi che gli tintinna alla cintura. Dannati giovani, brontola, a cazzeggiare tutto il giorno e a drogarsi il venerdì sera. Sta venendo verso di me, apre la porta, che con uno sferragliare scivola di lato, e mi fa cenno di uscire. Io lancio un’occhiata a Eean, seduto in un angolo che dorme, sto per chinarmi verso di lui per dirgli che devo andarmene, ma il coglione mi strattona per la maglietta e incerto mi incammino verso l’uscita.

È per questo che mio padre sta guidando così in fretta.

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Capitolo 2
*** Welcome to the jungle ***


Note (dell'autore, perché è molto più professionale dire così): premetto spiegando un pochino quel putiferio che sta succedendo in questa storia, perché comprendo che a non tutti piaccia essere catapultati in un inizio così caotico. Questo e il prossimo capitolo saranno ancora d'introduzione, cosicché tutti i personaggi possano avere un volto e sia più facile per voi distinguerli. Qui conosciamo disaddattata#1 e disaddattato #2, ovvero Constance e Eean - a proposito, non sono una grande fan di postare i prestavolti et similia dei personaggi perché capisco che alcuni preferiscano immaginarseli di sana pianta, ma mi faccio spam gratuito comunque e vi lascio qui le bacheche di pinterest dedicate ai nostri baldi giovani.
Ah, e come forse avrete già intuito, ogni capitolo avrà come titolo quello di una canzone, in questo caso linko quella di oggi.
Ringrazio ancora di cuore per le recensioni e mi blocco qui, lo giuro, perché sono prolissa af.




Welcome to the jungle
 

Londra, Agosto 2009

La gente non mi prende mai sul serio.
Mai. 
Fin da quando ero bambina.
Allora mi vedevano come una bambolina a cui acconciare i capelli, pronta a essere vestita come gli altri volevano. È durato qualche anno. Poi sono nate Louise e Maise, e allora non mi hanno più vista e basta. È stato così che ho deciso di diventare chi volevo io, una persona degna di nota, coraggiosa, forte, una donna importante che venisse amata ma temuta, come nei film che guardavo.
Nemmeno allora l’hanno fatto. Prendermi sul serio, intendo.
Quando dici di voler essere una cantante ti guardano di sbilenco e ti ridono in faccia – come Paul quella volta quando, l’anno scorso, gli ho detto di far parte di una band. Lui ha ghignato e mi ha detto che dovevo crescere. Poi mi ha anche detto: Constance, tu hai un’idea sbagliata di te stessa, ma quello non l’ho capito allora come non lo capisco adesso. Eravamo seduti su un marciapiede accanto al fiume, da dov’eravamo non si poteva vedere l’acqua, ma il suo scorrere impetuoso era ben chiaro. Me lo ricordo ancora perché quella frase mi è rimasta in mente, stampata a caratteri cubitali nel retro della mia testa; non ho mai trovato il coraggio di chiedere a qualcuno che cosa volesse dire.
Comunque è per questo che nella stazione di polizia non posso entrare. Perché non mi prenderebbero sul serio. Non posso dare una mano e la cosa mi da così fastidio che ormai sono venti minuti che faccio avanti e indietro accanto all’auto di Evan. Lui è già entrato una volta, al contrario, per chiedere qualche informazione riguardo agli altri. Usciranno presto, mi ha detto. 
Io mi sono stretta nella camicia di cotone che indosso, alle cinque di mattino fa freddo con solo questa cosa addosso, ma non mi sono lamentata, sapevo che non era opportuno. Evan mi ha chiesto se volevo che mi accompagnasse a casa, gli ho detto di no.
Non voglio andarmene, cazzo.
Voglio stare qui e contribuire in qualche modo.
Mi isso sulle braccia e finisco col sedermi sul cofano dell’auto ed Evan è troppo impegnato a cercare di accendersi una sigaretta con questo vento che non si preoccupa nemmeno di guardarmi male.
«Grazie, comunque.» inizio io, portandomi una ciocca aggrovigliata dietro l’orecchio, in modo da darmi un tono. Dopo ieri sera i miei capelli sono diventati un groviglio di fili biondicci e crespi, vorrei poter avere un pettine con me, o qualsiasi cosa che mi aiuti ad avere un aspetto decente. «Per ieri sera, per avermi avvisata.»
«Figurati.» 
Lui è uno di poche parole, se non lo conoscessi meglio direi che è sempre così: risoluto e silenzioso, gli occhi nocciola che si perdono nella vista di Londra al mattino.
«Va tutto bene, Connie?» mi chiede poi.
Vorrei poter aggiungere qualcosa per fargli capire che sì, va tutto bene. Che quello che è successo questa notte non è stato un… incidente, ma qualcosa che io stessa ho voluto. Eppure non so come dirglielo; anche se lui capirebbe la situazione mi sembra che qualcosa mi stringe la gola come a non voler farmi parlare. Tamburello le dita sul cofano, ancora indecisa.
«Non prendertela con Harvey.» pausa «E non dirlo agli altri, per favore.»
Lui prende una boccata alzando il capo verso il cielo plumbeo del mattino, dalla mia posizione ora vedo solo la sua testa inclinata verso l’alto, i capelli scuri che si muovono appena a causa del vento. Ha una mano nella tasca dei jeans slavati e l’altra la tiene all’altezza del petto, probabilmente con la sigaretta tra l’indice e il medio.
 «Non sono affari miei» risponde, deciso «Però, Connie.» e dice solo quello. So che cosa vuol dire quel Connie: il tono con cui lo sottolinea è incredibilmente simile a quello di un fratello maggiore che sta ti riprendendo per qualche misfatto. Vuol dire che ho attraversato un limite che io stessa mi sono imposta – non sono strani gli esseri umani? A negarsi alcune cose, per poi appropriarsene segretamente, nell’oscurità?
Io gli sorrido: «Ma dai! Da quando fai tanto il moralista?» e dicendo così mi sporgo in avanti per tirargli un buffetto sulla nuca, lui si volta verso di me, l’espressione platealmente esasperata, quella che mi fa sempre sorridere.
«Non s’è mai visto un ladro che si fa scrupoli.» rincaro la dose, la voce apparentemente innocente mentre lui sbotta qualcosa di simile ad un vaffanculo.
Ridiamo per così poco nel parcheggio della polizia di Elbury Square e per una volta non prendermi sul serio non mi pesa affatto.

Quando tutti gli altri escono, torniamo indietro sulla sua auto, ovviamente. È un’auto troppo raffinata e nuova per un ventenne di periferia, ma nessuno gli chiede da dove l’ha presa o con i soldi di chi. Sappiamo già la risposta.
E mentre Tommy, Francis e Eean si beano della comodezza dei sedili, assonnati nei loro vestiti sporchi e sgualciti io non la smetto di parlare nemmeno per un secondo, sento che la voce si fa sempre più acuta ma non riesco a trattenermi: sono incazzata con loro.
«E Tommy lo capisco – dico – perché è andato a chiamare Trav e Liz. Lo capisco, ha perso tempo per quello, che è qualcosa di intelligente. Ma Eean, diavolo, non potevi alzare quel culo e andartene? Ringrazia che non ti hanno trovato addosso niente, porca puttana, Evan, digli qualcosa.» e adesso mi giro verso di lui, Eean, che sta seduto sul sedile posteriore e che guarda la strada tutto assorto «Ma mi stai almeno ascoltando? Lo sai che putiferio succedeva se ti avessero preso?»
«Sì.» dice con voce mesta ed, effettivamente, mi sembra dispiaciuto.
«Mi dispiace,» cerco di rimediare «è soltanto che mi preoccupo, non potevo fare niente e  voi eravate lì. E poi chi cazzo lo spiegava a Kelly, eh?» mi fermo, deglutisco, dico: scusa, ho alzato la voce.
«Ecco, infatti, se vuoi continuare a urlare potresti farlo dopo, quando sono scappato da questa gabbia di matti?» la voce di Francis è schietta e sicura e, più di ogni altra cosa, mi irrita sentirlo riprendermi così. Mi volto e, nel farlo, noto l’occhiata che Evan gli riserva dallo specchietto retrovisore.
«Comunque non eravamo gli unici.» è Thomas a prendere in mano la situazione e io lo lascio fare, perché so che lui è bravo con gli altri, più di me. A volte sono gelosa del fatto che è così bravo con Eean, così capace, mentre io riesco solo a rompergli i coglioni. Che poi io a Eean gli voglio davvero tanto bene, è il mio migliore amico, è che la sua situazione è così delicata e io non sono abbastanza brava da saper come aiutarlo. 
Non sono abbastanza delicata.
Non sono abbastanza niente.
«C’erano Paul, Vince, Lynch, credo anche Abby McDonald, no?» e dicendo così Thomas si sporge verso Eean, come a chiedere conferma, per poi aggiungere perplesso: «Mi sa che dorme, adesso.»
«A posto.» è Francis a parlare «Problema risolto.»
La sua voce è ferma, dalla sfumatura stizzita – e anche se è solo una sfumatura, io la sento. Vorrei girarmi per dirgli di non rispondere con quel tono, come se tutta la mia patronale nei confronti di Eean sia stata un’idiozia, un capriccio – e anche se non l’ha detto, io sento che lo intendeva – ma mi fermo all’ultimo. Non voglio che pensi che me la prenda per così poco, non voglio che si arrabbi ancora: con tutto quello che sta passando a casa sua il modo in cui si sta comportando ora è legittimo. 
Allora gli sorrido, sorrido anche a Thomas che mi guarda sovrappensiero. Sorrido per far vedere che è tutto okay, tanto sono brava a fingere.
Il fatto è che a volte devi fare finta di ignorare certe cose, sorridere ed essere una brava ragazza: sono brava in questo. Faccio finta di non capire, faccio finta che vada tutto bene. Liz non è d’accordo, Liz dice che bisogna combattere contro trattamenti come questo, io le rispondo che ci sono diversi modi di combattere contro qualcosa, che non è sempre tutto cristallino come sembra. Anche ieri sera è successa la stessa cosa: anche ieri sera ho sorriso compiacente come faccio di solito, là da sola, in quel cesso, sporca di vomito e lacrime.
Una volta Francis mi ha detto che le ragazze vengono trattate solamente così, in questo posto, lo ha detto con un tono amaro, deluso, mentre eravamo seduti sul suo letto a sfogliare gli spartiti, prima delle prove. Ho alzato la testa per guardarlo, sorpresa, e l’ho visto col capo chino sulle carte, la luce che filtrava dalle persiane della sua finestra a colpirgli il viso dai lineamenti duri, come intagliati nel legno.
Forse hanno ragione entrambi, non glielo biasimerei; ma per me questo è l’unico modo. È come colmare un buco che hai dentro, che ti sei scavata da sola; e ormai sai che è passato così tanto tempo da quando ti sei svuotata che non ti basti più. Ti servono irrimediabilmente gli altri.
Mi servono irrimediabilmente gli altri.
Cerco l’amore della mia vita nello sgabuzzino di una villetta che non conosco, schiacciata contro il muro da un ragazzo più grande di me. Sorvolo quando mi strappa malamente la camicetta – era proprio carina, l’avevo comprata due settimane fa in sconto – e quando mi rovina il trucco su cui ho passato quasi un’ora, a casa, e che ho ripassato poco prima di venire qui. Chiudo gli occhi e faccio finta di non essere qui, di essere su un letto comodo, a casa mia, mi immagino che quando avrà finito mi chiederà il mio numero: io non cederò subito, ma prima che se ne vada magari glielo scriverò sulla mano con una biro. Faccio finta che scopare in uno stanzino pieno di prodotti per la pulizia e moci sia l’equivalente di un appuntamento al bar, e mentre lui – credo si chiami Harvey – mi ansima sul collo, vedo noi due che ci facciamo quelle stupide domande da primo appuntamento. Di dove sei? Che lavoro fai? Cosa hai studiato? 
Magari alla fine ci baciamo dolcemente, come fanno nei film, magari ci mettiamo insieme. 
Magari alla fine ci innamoriamo.
Io vivo in questo modo, di se, di forse, di questo piacere malinconico con sconosciuti, esisto solamente in questo momento, quando sento di poter essere amata. Anche se so che non sarà così, anche se so che rimarrò sempre la Puttana, quella che non potrà mai avere qualcuno accanto. Eppure ho imparato a farmi bastare questi attimi di attenzione in cui quel baratro che ho nello stomaco mi fa meno male. Non posso pretendere di più. Non io, Constance Waters.
E allora quando Harvey mi lascia qui e chiude la porta, soddisfatto della sua storia di una notte, io gli sorrido maliziosa, come se mi piacesse, e lo guardo voltarmi le spalle. Per un lungo momento immagino che questa si apra svelando uno spiraglio di luce e che ci sia lui. Che mi baci, che mi dia tutto ciò che non ho mai avuto. Passano migliaia di anni prima che quel momento finisca e che il mio corpo inizi a funzionare di nuovo. Guardo in basso e vedo la camicetta strappata, la gonna alzata e le mutandine che giacciono ai miei piedi.
Fa tutto così schifo, io mi faccio schifo per comportarmi sempre da troia in una maniera schifosa, io gli faccio schifo perché è evidente che io non sia interessante – sono mediocre, sono stupida – e allora corro verso il bagno così, tanto nessuno si cura di me e quando ci arrivo vomito tutto quel disgusto e torno ad essere il solito involucro stropicciato di sempre.
Poi torna quel vuoto, più forte di prima.
Le Puttane possono essere amate?

«Constance?» è la voce di Evan a portarmi alla realtà, quella la sua mano che mi scuote la spalla, in attesa di una mia risposta. 
Prima di proferire parola guardo distrattamente il mio riflesso sullo specchietto retrovisore: il rossetto è andato via del tutto ma la matita e il mascara mi segnano gli occhi in cerchi neri e asimmetrici; vedermi così provoca un moto di repulsione per me stessa, quindi mi sbrigo a girarmi dall’altra parte cercando, invano, di migliorare la situazione passandomi la mano sul viso sporco.
«Che fai, allora?» incalza Francis dal sedile posteriore – è l’ultimo rimasto, Thomas e Eean devono essere scesi un po’ di tempo fa -, le braccia incrociate in un gesto evidentemente difensivo. Lo ignoro, rivolgendomi direttamente a Evan. Lui deve intuire che non ho la minima idea di che cosa stiamo parlando perché riprende il filo del discorso con la sua voce atona e incolore.
«Francis passa da me, prima di tornare a casa. Tu cosa fai?»
Torno a casa: certo che torno a casa. Non credo che la situazione cambi radicalmente: se non tornassi papà non si preoccuperebbe per niente e Janet ancora meno, ma non mi va di andarmene in giro così: mi sento stanca e sporca – fuori e dentro – e non voglio che gli altri mi vedano così per altro tempo.
«Casa.» rispondo sbrigativa, poi mi rivolgo verso Francis scherzando: «Oggi alle prove io ci sono, sarà meglio che ti presenti anche tu.»
Pensavo che così sarei risultata, che so, rilassata, e pensavo che lo stato in cui sono sarebbe passato in secondo piango rispetto a questo moto di umorismo e invece lo vedo allungarsi ancora di più sul sedile, non mi rivolge nemmeno un’occhiata: è incazzato. Ironico che sia sempre lui quello con il diritto di arrabbiarsi, mentre io sono sempre quella più accomodante, tra i due. Allora fanculo agli scherzi, mi giro dall’altra parte e mi dico che non mi interessa se non ci sarà.
Ringrazio Evan per il passaggio, e mi curo di farlo con un tono non troppo scazzato, perché so che lui non ne può niente, e poi saluto tutti e due dal marciapiede dove mi hanno lasciata – che, per la cronaca, non è troppo lontano da casa mia.
Ancora qui, appoggiata al muretto della strada che porta a casa, tiro fuori dalla borsa un paio di scarpe da ginnastica più comode dei tacchi ma assolutamente orribili. Me le infilo sbrigativa, non curandomi se la maglietta strappata rivela troppo quando mi chino ad allacciarle. 
Se qualcuno si sporgesse ora dalla finestra di queste villette a schiera, vedrebbe una ragazza vestita di rosa cipria con i rimasugli di un trucco appariscente, la vedrebbe camminare svelta verso il numero 422H, la borsa stretta al fianco attraverso cui le punte dei tacchi le pungono il costato, la vedrebbero camminare come se tutto andasse bene, come se non le importasse dalla situazione in cui versa, di quello che è successo ieri sera, della notte insonne. Di tutto, cazzo. E allora si convincerebbero che per lei va tutto a meraviglia, a torto o a ragione non ha importanza: quel che conta è convincerli. Quando fingi abbastanza con te stesso inizi a fingere con gli altri, e allora il mondo che ti costruisci attorno diventa una realtà per tutti, non solo più per te. Trovo che sia giusto così, non voglio far preoccupare gli altri, far pensare loro che ci sia qualcosa che non vada – c’è tanta di quella merda in questo posto, perché non pretendere che almeno qualcosa, una piccola cosa, sia al suo posto così come deve essere? Perché non pretendere che Harvey o come si chiamava mi telefoni stamattina per sapere come sto? Non fa male a nessuno, di certo non a me.
Londra, Agosto 2009

Porca puttana.
Porca puttana. 
Porca puttana.
Va tutto a puttane, porca puttana.
Tra due ore devo essere al lavoro e sto ancora camminando per prendere il Silverado. Che ho lasciato dai Lain, ovviamente. L’ho lasciato lì perché è arrivata la polizia. Per quello. Ripetermi le cose mi aiuta a tenere il filo dei miei pensieri, altrimenti mi perderei. Quand’ero più piccolo era una cosa che mi succedeva sempre, non ricordarmi più a che cosa volevo arrivare. Le maestre rompevano un sacco le palle per quello. Poi mi è passata abbastanza, la cosa, anche grazie a tutte le sedute di terapia con il signor Rogers, ha persino detto che sto migliorando – migliorando – e quindi io credo che sia giusto che Kelly lo sappia. Anche se Kelly non vuole mai parlarmi.
Il Silverado l’avevo lasciato da qualche parte qua in giro, porca puttana.
Non è facile fare mente locale con tutto quello che mi son preso ieri sera, quando mi hanno preso stavo sguazzando in una pozza del mio stesso vomito – non è esattamente la cosa di cui sono più orgoglioso, ma mi sembra un dettaglio importante per dare il quadro generale: ovvero il fatto che il mio cervello si sia squagliato e ora, di punto in bianco, debba solidificarsi e darmi una mano a cercare il pick-up. Una volta ho conosciuto questo tipo con un passato da tossico dipendente, dev’essere stato, chessò, l’anno scorso, quando andavo ancora al sedute di gruppo del centro – gran rottura star lì a parlare della cazzo di malattia con cui sei nato e per cui, per la cronaca, non puoi fare niente. Ma comunque. Il tipo. Ecco, quello là era uno ricco sfondato, ai livelli di Trav, e tra un meeting e l’altro con i suoi clienti trovava sempre il tempo per andare in bagno e tirare su qualche striscia di coca. Alla fine credeva che gli avessero rimpiazzato la figlia con una bambina molto, molto simile, ma che comunque non era la stessa. 
Ah, e credo anche che avesse picchiato la moglie fin ad ammazzarla, quasi, ma non mi ricordo perché.
Naturalmente dopo quella storia ho ben chiarito che a quel cazzo di centro psichiatrico non ci volevo tornare. Roba da pazzi. Io non voglio diventare così – nonvogliononvogliononvoglio – quindi ieri sera è stata ufficialmente l’ultima sera in cui mi riduco in quel modo. Poi basta.
Il Silverado, Eean, cerca quel Silverado del cazzo.
Mentre svolto per una strada di campagna penso a quello che mi ha detto Constance. O almeno a quello che io ho recepito, visto che mi sembra di aver capito che lei ha continuato a parlare anche mentre dormivo; mi ha detto che potevamo scendere insieme che vicino a casa sua c’è una fermata della metro che mi porta fino a Soho, ma io proprio non me la sentivo di mollare qui l’auto. In ‘sto posto vuoto rischio ancora che me la rubino. O che ne so. Insomma, l’auto non la mollo in giro come il primo coglione.
E poi la vedo, arancione in mezzo al verde. Era a circa cinquecento metri dalla villa, ma mi è sembrato di camminare per ore. Ficco le mani nelle tasche dei pantaloni lerci alla ricerca della chiave e poi inizio a camminare sempre più veloce perché porca puttana, porca puttana, porca puttana, sono in ritardo.

Prima di rendermi conto che questo cellulare stava squillando, devo chinarmi per raccoglierlo da terra.
Per farla breve è caduto dal sedile passeggero.
Per farla lunga l’avevo appoggiato con cura là e l’avevo messo in silenzioso e quando hanno chiamato ha iniziato a vibrare ed è finito di sotto. Approfitto dei tempi morti del traffico di Londra per rispondere.
«Ma’?» lo dico a voce più alta del solito perché ho di nuovo posato il telefono sul sedile e ho paura che mamma non senta, se è così lontano.
«Dove sei stato, Eean? Ti ho chiamato altre venti volte stamattina!» anche la sua voce è più alta di un’ottava e mi dispiace averla fatta preoccupare.
«Ma no, ma’, tutto bene. È solo che sono andato a questa festa e poi mi sono fermato a dormire da Francis. Ero stanco morto. Adesso vad—» e lei mi interrompe a metà frase.
«Potevi dirmelo, no?» è ancora stizzita.
«Eh.»
Eh è l’unica cosa sensata che riesco a pensare ed è anche l’unico verso sconsolato che riempie quei secondi di silenzio che proprio non riesco a sopportare. Tanto mica posso dirle che è successo veramente.
«E adesso vieni a casa?»
«No, adesso vado al lavoro, finisco per le quattro e se quegli schiavisti non mi trattengono di più vado alle prove.»
Seguono trenta buoni secondi in cui mia madre si lamenta del fatto che non stia mai a casa mia. Un po’ mi dispiace, qualche volta mi piace isolarmi nella mia stanza a leggere o a guardare la tv, specie nei giorni no, ma ormai ho deciso di impegnarmi per Kelly. E per il bambino. Anche se lei, Kelly, dice che come padre non sarei buono – ma io lo giuro che vorrei migliorare, è che lei non capisce.
«Lo so, lo so, stasera comunque torno. Forse si ferma anche Travis per cena.»
Lei non reagisce più male, la sua voce torna ad essere calma. È felice che frequenti uno come Trav, di buona famiglia e ben istruito, con un sacco di belle idee in testa; e poi ormai Trav vive da noi – da quando ha fatto il trasloco la cucina della casa nuova non funziona per niente, e mentre aspetta di ripararla si ferma da noi.
«Va bene, allora.» e lo dice con tono un po’ rassegnato.
«Allora ci sentiamo, eh, ‘ché sono quasi arrivato.» bugia, sono ancora in questo traffico del cazzo. Suono il clacson totalmente a caso per vedere le facce stizzite degli altrui guidatori – è estremamente divertente.
Mi saluta mesta mentre io mi becco un dito medio da una signora imbottigliata dentro a una smart e io le sorrido felice. Mi accontento di poco, dopo tutto.
Alle volte mi dico che forse il problema è proprio questo: io mi accontento di poco. Non tutti hanno i miei stessi standard, non tutti a diciannove anni sarebbero contenti di avere un figlio in arrivo o, peggio ancora, di avere un figlio in arrivo il cui padre è un fattone a cui hanno diagnosticato il BPD. Eppure non lo capiscono, gli altri, che per quelli come me avere un figlio è l’unica salvezza. Quando l’ho annunciato alla signora Fisher, che per la cronaca è la dirigente del fastfood dove lavoro, lei mi ha risposto noncurante di fare attenzione: a quest’età un bambino ti può tagliare via le ali. È proprio questo il punto cruciale: io le ali non le ho mai avute.
Alla fine il turno passa in fretta, sto cinque ore a friggere patatine con un completo rosso tremendamente imbarazzante, ma trovo sempre il modo per chiacchierare con gli altri. Tipo Martha, che è una studentessa universitaria ed è super intelligente e tra una cosa e l’altra mi racconta un sacco di cose sulle lezioni di fisica che segue. Del tema io so solo che la risposta alla vita, all’universo e tutto quanto è quarantadue – la prima volta che gliel’ho detto lei mi ha guardato stranita e allora ho dovuto raccontarle con esattezza ogni cosa. 
Poi c’è Amandeep che fa morire dalle risate ma lo fa sempre con un umorismo intelligente, non come a me a cui basta fare il giullare per far ridere gli altri. Quando non è preso a tirare frecciatine verso i clienti parla sempre dei suoi tre figli, uno dei quali è tornato in India per non so cosa fare, ma dice sempre che gli manca tantissimo e che io glielo ricordo, visto che ho grossomodo la sua età. Andiamo d’accordo, insomma, anche se stare nelle cucine ti fa morire dal caldo e anche se i clienti sanno essere dei veri bastardi, a volte. Tra l’altro Francis mi ha detto che quando da lui i consumatori sono troppo schizzinosi lui si arrangia volentieri pisciando nei loro caffè o intingendo il cazzo nei loro drink. 
Io però con le friggitrici non lo poso mica fare, peccato.

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Capitolo 3
*** Welcome to the jungle II ***


Note: ringrazio le povere anime che sono arrivate fin qui, davvero. Ultimo capitolo di transizione/introduzione/quello che è - per altro è pure più corto degli altri - ma mi sembrava giusto introdurre disaddatati #3 e #4, ovvero Francis e Thomas. Di qui in poi si entrerà nel vivo della storia e sarò felicissima se deciderete di continuare a leggere questo pasticcio.
A presto!


 
Welcome to the jungle II
 
Londra, Agosto 2009

La busta delle medicine in una mano, le chiavi di casa nell’altra.
Chiudo la porta dietro di me con un colpetto del piede.
La casa è un pozzo nero di cui non vedo il fondo: le persiane abbassate non lasciano entrare un filo di luce e l’unica fonte luminosa è lo schermo del telefono fisso che proietta un quadrato grigio sopra la mia testa. Gli poso le chiavi accanto e mi sporgo verso il salotto dove so che sarà mia madre. Lei è sempre lì, non puoi sbagliare. Si chiude in casa, al buio, e poi accende la televisione, sta così per ore, starebbe così per giorni se non ci fossi io a ricordarle che il tempo scorre.
Che la vita va avanti, mamma, la vita va avanti e tu stai lì ferma.
«Sono tornato.»
«Francis?» quello che esce dalle sue labbra sottili è un mugolio di un animale ferito, è seduta sul divano, così composta che sembra imbalsamata, gli occhi vuoti che perforano lo schermo della televisione che a sua volta proietta le immagini di quello che suppongo sia un talk-show. Lei è blu, illuminata dalla luce statica del televisore, la parete è blu, il divano sfondato è blu. E lei non mi guarda nemmeno adesso che le sventolo le medicine in faccia.
Apro la busta.
Qualche anno fa avrei provato ad intavolare una conversazione, ma ora so che non funzionerebbe. Sbatto gli antidepressivi e gli ansiolitici sul tavolino basso sapendo che tutto questo rumore non la toccherà minimamente. So che non mi dirà grazie.
«Devi prendere le medicine.» ometto che deve farlo ora che ci sono anche io a controllarla, perché so che poi se ne dimenticherebbe. 
Sono un infermiere che fa questo per lavoro.
Somministro le dosi giuste e poi me ne vado.
Lei mi guarda, sposta i suoi grandi occhi vitrei verso di me e produce un suono gutturale. Allungo lo sguardo verso la vetrinetta dove teniamo li alcolici: è lì, intatta, le bottiglie sono tutte al loro posto. 
Questo vuol dire che non ha bevuto. Lascio andare un sospiro di sollievo.
«Cosa?» le chiedo, inginocchiandomi a terra così da poterla vedere in faccia. Il suo sguardo mi trapassa.
Sono un fantasma, il ricordo di suo figlio.
Anche lei è diventata un ricordo sbiadito di se stessa, ormai. Viviamo in una casa di spiriti.
«Va bene.» risponde ancora con quella voce distorta. La cosa non mi tocca, a questo punto so che ci sono dei giorni in cui sta peggio, se tutto va bene queste crisi non durano più di una settimana. 
Apro il primo flaconcino e tiro fuori la prima pastiglia, gliela porgo. La vedo nutrirsi di farmaci e di prodotti preconfezionati, di surgelati e verdure – la carne mai, dice che fa troppo male e si rifiuta categoricamente -, si nutre dei miei sforzi, della mia cazzo di vita che, giustappunto, dovrebbe essere mia. Non ricordo che mi abbia mai portato fuori al parco come facevano tutte le altre madri, era sempre Rosie a farmi giocare, non ricordo che mi abbia mai cucinato una torta al mio compleanno, non ricordo che abbia mai gioito per un mio voto alto o per il fatto che stessi diventando bravo in ciò che faccio. Non mi ha mai detto grazie, mai una volta in ventun cazzo di anni, per tutto quello che ho fatto. Si nutre di me perché sa che io non sono un cadavere in putrefazione come lo è lei.
La odio, odio questa televisione di merda, questa casa vecchia e polverosa, odio i suoi talk-show del cazzo e le medicine che le devo far ingurgitare quotidianamente.
Eppure devo porgerle quella pastiglia gentilmente, la devo guardare mentre la ingoia e assicurarmi che non la vomiti dopo. Io invece ingoio la rabbia – la sento agitarsi nel petto e graffiarmi la cassa toracica, mentre le porto un bicchiere d’acqua.
«Non posso fermarmi tanto.» smozzico guardando l’orologio. Anche se potessi, non vorrei.
«Non preoccuparti, Francis.» la odio.
«Devo andare a provare, tra mezz’ora. Torno per cena. Vuoi che ti compri qualcosa?» riempio il silenzio con frasi di circostanza in una recita scadente. Non siamo una famiglia: non le interessa dove vado o quando torno. Non le gliene frega niente. Di me. Di se stessa.
Non risponde: la realtà del talk-show l’ha catturata e so che farla tornare in questo universo è pressoché impossibile. Schiocco la lingua sul palato: io il mio lavoro l’ho fatto. Riprendo la busta e mi assicuro di nasconderla in camera mia, sottochiave nel mio comodino – non si sa mai. Quando torno in salotto la scopro a guardarmi, gli occhi fissi su di me; la saluto con un sorriso tirato e prima di uscire viro verso la vetrinetta: afferro l’ultima bottiglia di vino rimasta e la alzo in alto in un gesto beffardo.
Tanto so che non mi vede.

Questa sessione extra di prove è dovuta al fatto che il prossimo venerdì faremo una serata al Clover's; noi e un altro gruppo che credo si chiami Yellow Canary o qualche altra stronzata del genere. Conosco la cantante, però, e si può dire che compensi di tanto il nome di merda che hanno scelto.
Comunque, le prove. Prima che Trav si trasferisse provavamo nella palestra di casa sua, ora invece in una sala prove di periferia. L’edificio è un colosso grigio più largo che alto davanti a un parco dove qualche volta abbiamo trovato delle siringhe.
Gran bel salto di qualità.
In realtà nessuno ha fatto una piega quando ha visto il posto, io meno degli altri. Odiavo provare nella palestra dei Wance, mi nauseava. Ogni volta che entravo in quella casa provavo un moto di rabbia verso le persone che ci abitavano. Mi faceva e mi fa schifo il modo in cui ostentavano la loro ricchezza, e anche se a volte Trevis cercava di nasconderla, la notavi negli occhiali di marca da centocinquanta dollari, nella sua collezione di chitarre che insisteva a farmi vedere. Ed è invidia, lo so, è tutta invidia, e io giuro che cerco di ingoiarla, e cacciarla da dove se ne è uscita; non ci riesco, è più grande di me. Quella casa del cazzo è un simbolo di quel che non ho mai avuto e che ho sempre voluto avere e non mi importa se è una cosa egoista. Non mi importa e basta.
Quindi sono soddisfatto di questo posto in mezzo a un campetto dei tossici. Sono felice che Travis capisca veramente cosa vuol dire non arrivare a fine mese, ora che gli hanno tagliato tutti i fondi. Entro nella sala sbattendo la porta più forte di quanto non avessi voluto e li vedo tutti e tre lì – Eean non c’è ancora, in qualche modo riesce sempre ad arrivare in ritardo – chini sopra dei fogli scarabocchiati.
«Ehy.» è l’unica cosa che riesco a smozzicare mentre mi sfilo le cuffiette dalle orecchie, mi devo avvicinare per vedere che cosa stavano facendo.
Travis alza la testa e mi sorride entusiasta: «Guarda un po’.» e dicendo quello mi porge uno dei tanti fogli stropicciati – la notte insonne e la bottiglia di vino che ho bevuto per metà rallentano i miei riflessi, quindi ci vuole un attimo prima che l’afferri.
«E sarebbe?»
«Una canzone.» la voce di Constance è talmente fievole che non credo di aver capito bene. Sposto lo sguardo verso di lei, è ancora accucciata a terra, le gambe incrociate e le mani a terra. Sembra una marionetta – così magra e così alta, con quella testa grande e dalla mascella quadrata che è incorniciata da un caschetto biondo perfettamente in ordine –, ma sembra soprattutto una marionetta perché aspetta che dica qualcosa prima di agire. Non so perché, no so se voglia un permesso o qualcosa, so solo che lei sta aspettando che io prema il pulsante di accensione.
Mi volto dall’altra parte: vorrei dirle che io non ho tutte le risposte che cerca.
«Trav ha già un arrangiamento che potrebbe funzionare.» dice Thomas. Dice: «Secondo me non è male, poi te lo facciamo vedere.»
E allora Travis: «In realtà è solo un pezzo, ma si può iniziare a costruire da lì.»
Leggo le prime parole, tanto so già a cosa vado in contro. Constance scrive spesso musica per il nostro gruppo, ma le sue sono solo ballate. Parla ossessivamente dell’amore come se fosse mai stata veramente innamorata, inveisce contro gli uomini che non l’ameranno mai – sarebbe stata un’ottima Janis Joplin. 
Quello che scrive non mi piace, punto, e non me ne frega se parto prevenuto: la sua è sempre la stessa roba.
«Non è un granché.» ammette lei, a voce più bassa, mentre mi si avvicina «l’ho scritta stamattina, bisogna mettere a posto la metrica e—»
La sento continuare a scusarsi di quanto quello che scrive sia scadente, ma non l’ascolto più. La canzone è stranamente diversa: parla di una persona con un buco nel cuore e un buco nella testa. Parla di come sta cercando di riempirlo e di come ogni volta diventi sempre più grande, fino ad inghiottirla. L’autodistruzione, dice, è solo il narcisismo della nostra generazione.
La porta sbatte di nuovo. Alzo la testa a metà testo per vedere Eean entrare rumorosamente mentre cerca di sbottonarsi la camicia di flanella – per grazia di Dio, borbotta, c’è un caldo del cazzo, porca puttana. Istintivamente alzo il capo verso l’orologio: è in ritardo di un quarto d’ora, la testa di cazzo.
«Finalmente ci degni della tua presenza.» mi preoccupo di salutarlo prima di tutti gli altri.
Lui mi rivolge un’occhiata sbrigativa, poi lascia andare la camicia per terra, è incredibilmente sudato e puzza di frittura e erba. Immagino abbia avuto il tempo di uno spinello prima di venire qua.
«E ci credo,» mi risponde «altrimenti come fareste senza il vostro bassista preferito?»
«Non sei nemmeno il miglior bassista qui dentro, Eean.» lo rimbecca Travis divertito.
«Sì, ma tu non puoi suonare chitarra e basso contemporaneamente, è per questo che ci sono io.» è incredibile come abbia sempre una risposta pronta, il ragazzino. 
C’è un attimo di silenzio, in cui lo guardiamo posare la camicia su una panca accanto alla porta, e poi Thomas lo informa della nuova canzone.
«Pensavo,» dice Tommy, passandosi le mani sui pantaloni di jeans «che se riuscissimo a farne qualcosa di furbo potremmo portarlo al Clover’s, ad ottobre.» 
Come idea non fa schifo: è la seconda volta che il Clover’s ci chiama per suonare ad halloween. E di sicuro portare della musica nostra non può che fare bene. Il proprietario, Johnny, ci conosce bene e non si incazzerebbe se facessimo un lieve cambiamento alla scaletta. 
Do il foglio a Eean, anche se non l’ho letto tutto. Adesso Constance si muove verso di lui scusandosi a bassa voce perché tutto quello che scrive fa schifo. A questo punto credo che l’abbia fatto con tutti. Quando il rosso finisce di leggere alza la testa con uno scatto e sorride – quel genere di sorriso che vedi stampato sulle facce dei bambini di otto anni.
Dice, diretto a Connie: «E brava la mia Pretty Woman


 
Londra, Agosto 2009

È passato un tempo indefinito da quando Connie ci ha presentati al pubblico, avvolta nella sua pelliccia extra-large e in bilico su dei tacchi altissimi. Dalla mia postazione non potevo vederla in volto, ma so che sorrideva seducente al pubblico. In realtà non potevo vedere molto, del pub irlandese che è il Clover's vedevo solo le luci colorate che ogni tanto mi accecavano e l'insegna al led che indica dove sta il bar.
Adesso lei, Connie, è abbracciata a Len, un tipo che ha conosciuto due ore fa.
Almeno a lei è andata bene, Francis ha già vomitato due volte ed ora sta dormendo sul divano, accanto a me, un rivolo di bava alla bocca.
Eean e Trav stanno fumando fuori, sul balcone, mentre parlano delle stelle. Mi hanno chiesto se volevo unirmi a loro ma ho detto di no.
Io, Thomas occupo un quarto del divanetto a due posti nel retro del Clover’s – ad essere professionali questo potremmo chiamarlo backstage – mimetizzandomi con la carta da parati. Nessuno mi vede, ma è meglio così, voglio che sia così. Da qui ho una panoramica di tutto e oltretutto riesco a godermi la musica: dopo di noi ha suonato un’altra band, ora sento le note di Welcome To The Jungle provenire dal palco.
Dopo le prove di cinque giorni fa ne sono seguite altre quattro, di sedute – per fortuna il Clover's non ci chiama solo per far serate a tema ma anche per suonare il venerdì sera, qualche volta. Devo ammettere che il proprietario è uno vecchio stile: vuole solo musica live, niente DJ o altre cose moderne. Dall’alto della mia posizione di batterista in un gruppo emergente non posso che essergliene grato. 
Ed è anche parecchio ospitale, ci ha offerto da bere un paio di volte e noi, ovviamente abbiamo preso la cosa fin troppo bene. Complice il fatto che fuori da qui gironzolava uno spacciatore da poche sterline— ecco, la situazione è decisamente sfuggita di mano a tutti.
È proprio vero che Londra è una giungla e che ci ha intrappolato tutti, in un modo o nell’altro. Sono città come questa che ti possono offrire tutto quello che vuoi, facendoti piegare poi in ginocchio – Connie cerca il sesso, Eean lo sballo, Francis il torpore e Travis la musica, e guardali ora, come sono conciati. Città come questa ti mettono in testa che per avere tutto non devi avere niente, che la forma è più importante dell’essenza, e te la succhia via, l’essenza, eccome se te la succhia via.
Quando vado in centro vedo volti tutti uguali, turisti con le macchine fotografiche che graffiano le strade con i loro trolley colorati, vedo uomini con ventiquattrore che camminano indaffarati senza una meta precisa. Questa giungla ti convince che devi raggiungere qualcosa per essere felice, che devi possederlo, e quando finalmente arrivi alla tuo traguardo scopri che dopo ce n’è un altro e un altro ancora e che alla fine non potrai essere mai felice. Non esiste più l'idea di accontentarsi, perché se ti accontenti vieni pestato.
Ma c'è dell'altro, ci deve essere dell'altro che in moltissimi non vedono: è quello che cerco io, qui seduto sul divanetto di pelle.
«A che pensi, Tommy?» sento la voce impastata di Francis. Mi volto verso di lui.
«Al fatto che potremmo fare molto di meglio, noi.» lo guardo negli occhi azzurri e allungati. Lui sembra pensarci un attimo.
«La canzone di Connie è davvero bella, però, se riuscissimo a suonarla bene potremmo fare più di un semplice molto meglio
Gli sorrido: «Non parlavo della canzone.»
«Ah.» si schiarisce la voce e si mette a sedere, già immagino quanto la testa gli sia girata per fare un movimento così semplice.
C’è un momento di silenzio, ne approfitto per guardarmi attorno e scoprire che Constance e Len se ne sono andati.
«Parlavo di noi, come persone.» pausa, cerco le parole giuste «Siamo giovani. Abbiamo tutto il potere del mondo e non ce ne accorgiamo. Ci facciamo inghiottire dalla giungla.»
Lui si passa una mano sul volto: «Che giungla?»
Ormai la canzone è finita, osservo. Ora il gruppo sta cantando qualcosa degli U2. «Lascia perdere.»
Si alza, rivolgendomi una smorfia offesa, e si allunga verso l’ultima Guinness rimasta sul tavolo accanto a noi.
«Quando fai così mi sembri Travis, Cristo Santo.» borbotta.
«Suppongo che sia per questo che andiamo così d’accordo.»
Si vede che vorrebbe ribattere ancora, questa volta più diretto, ma la porta del balconcino si spalanca e ne escono Eean e Travis. Hanno delle espressioni di puro terrore in viso che per un momento mi ricordano quelle dell’altra sera. Quella quando è arrivata la polizia. 
Il loro arrivo è così rumoroso che è impossibile non notarli e per un momento io e Franck ci guardiamo negli occhi cercando di capire che cosa sia successo. Sicuramente è qualcosa di grave, e allora inizio a elencare mentalmente tutto ciò di grave che potrebbe succedere in un normalissimo venerdì sera.
In realtà ce ne sono tantissime.
Il silenzio di questa camera è direttamente proporzionale alla musica che si espande dal palco del Clover’s – Sunday, bloody Sunday, un classico.
Francis apre la birra con un accendino, prende un respiro e chiede: «Allora?»
È Travis a parlare, quello che dei due sembra il meno spaventato.
«La sorella di Kelly ci ha chiamato ora. È nato il bambino.»

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Capitolo 4
*** Falling ***


Note: ho finito finalmente questo parto/capitolo di cui in realtà avevo già pronti degli spezzoni, ma vi giuro: è stato terribile.
Ci ritroviamo qui con Eean, visto che gli è appena nato un figlio e- be', mi sembrava il caso di dedicarli uno spazietto. Dopo questo intermezzo si ritornerà con il tema musicale e con il gruppo formato dai nostri cinque disaddattati. La canzone di oggi è, appunto, Falling, e in realtà non seguendo i Bastille non so se questa versione sia loro, sia una cover, o quel che è. Ma insomma: ascoltatela. Specialmente leggendo la parte finale, quella il cui punto di vista è quello di Trav. Che poi, oltre ad avere un che di rilassante, ha pure un'introduzione da mettere i brividi e che si sposava perfettamente con il capitolo. Quindi niente, l'ho riscritta come citazione.
La smetto di parlare e vi ringrazio per le recensioni, scusandomi per non aver risposto ma sono appena tornata da una mini-vacanza e mi sto riprendendo un po'. Sob.
A presto!




 


Falling

 



"My God, are we gonna be like our parents?"
"Not me...ever"
"It's unavoidable, it just happens."
"What happens?"
"When you grow up, your heart dies."
"Who cares?"
"I care."


Londra, Agosto 2009

Tengo sempre un pacchetto di sigarette di scorta. Mi trascino quest’abitudine da quando ho tipo quattordici anni, quando Travis fumava ancora di più di quanto non faccia ora e buttava via pacchetti di Camel come se non fossero nulla. Ne tengo uno nel cruscotto dell’auto, uno in camera mia e uno nella custodia del basso, ed ora, visto che mi sono ripromesso di presentarmi da Kelly in modo accettabile – non che una sigaretta mi dia alla testa, ma è una questione di coerenza – giocherello solamente con quel pacchetto, stringendolo tra indice e pollice, per poi farlo ruotare distrattamente.
Sono ancora all’interno del pick-up, che ormai è diventato il mio habitat naturale, un braccio appoggiato al finestrino aperto, l’altro lasciato sul grembo. Sono nervoso.
Nervoso.
Nervoso.
Il signor Rogers dice che in questi casi devo focalizzarmi su una cosa sola, una semplice, ma il signor Rogers dice anche tante di quelle cazzate che ci potrebbero scrivere un libro. Non so nemmeno perché ci vado, in realtà, da quello. I miei hanno insistito fino alla nausea, ripetendomi che continuare la terapia è praticamente obbligatorio e che se mi non troverò con quello psichiatra, ce ne sarà pure un altro. Eppure il problema non è il signor Rogers o la signora Cunningham o chiunque altro individuo dotato di laurea in psichiatria, fosse quello. Il problema è che io mi sento sano – anche se so che non lo sono –, sento che i miei sono alti e bassi. E chi non ce li ha? Probabilmente sono molto più sano di tutta la gentaglia che frequenta lo studio – tipo quello della cocaina e della figlia-che-in-realtà-non-era-quella-vera
– non che ci voglia molto. Certe volte penso che siano gli altri a farmi sentire strano, o malato – che poi una malattia nella testa non è una malattia vera perché finché una cosa non la vedi come fai a dire che esiste.
E comunque me ne sto prendendo cura comunque, sto facendo come mi dicono gli altri, che sia la volta buona?
Stai tergiversando, Eean.
Devo concentrarmi su altro, anche perché il signor Rogers non è proprio la persona a cui vorrei pensare ora. Potrei elencare una buona dozzina di motivi, ma il fatto è uno solo e semplice: quando c’è Kelly, c’è Kelly e non si deve pensar ad altro. Mi basta così. Apro la portiera sgangherata e mi decido ad uscire, percorrendo a passo lento la strada che mi porta a casa Black. Un po’ vorrei correre, un po’ vorrei scappare via; ci vuole coraggio a fare una cosa del genere. E io non son mai stato un asso nel coraggio, come in tante altre cose. Perché io e Kells non stavamo nemmeno insieme quando lei è rimasta incinta, e non stiamo insieme nemmeno ora, anche se io lo vorrei davvero. Però io sono diventato padre – oddio – e lo stomaco mi si attorciglia al solo cazzo di pensiero, perché so per esperienza diretta che ci sono migliaia di modi per fallire. Continuo a pensare che questa è l’unica mia opportunità di fare qualcosa di buono e a tempo stesso che questo sia lo sbaglio più enorme della mia vita. Ma almeno sarà uno sbaglio mio e mio soltanto, non di mio figlio – lui avrà una vita felice, deve averla.
Mi infilo le mani nelle tasche dei pantaloni beige, quelli buoni, mentre mi mordo l’interno della guancia. Vorrei almeno una sigaretta, almeno quella.
Sii affamato, sii sobrio.
Suono il campanello con la punta dell’indice, per poi ritrarre subito la mano come un bambino che ha appena rubato qualcosa al banco del mercato, anche se io da piccolo in un mercato non ci sono mai stato e di conseguenza non dovrei sapere com’è che funzionano ‘ste cose.
Poi il tempo si dilata: i secondi sono anni e i minuti sono secoli, stringo i pugni nelle tasche e vorrei che tutto finisse e a tempo stesso che tutto iniziasse. Vorrei anche vomitare, credo che questa cosa sia inclusa nel pacchetto.
Poi la porta di casa si apre con uno sferragliare di chiavi: è Clara, la sorella minore di Kelly, ad aprirmi. Sono incredibilmente simili, con il volto appuntito, il naso leggermente aquilino e la carnagione olivastra. 
«Ciao.»
«Ciao.»
«Sono qui per—» inizio a dire stupidamente, come se lei non lo sapesse, perché son qui. Mi fermo, deglutisco: «Sì, insomma. Per vedere come sta Kelly.»
Lei mi sorride timida, e grazie a Dio che lo fa perché avevo davvero bisogno di qualcuno che mi sorridesse. Apre ancora un po’ di più la porta, così che possa entrare nella perfetta villetta dove i Black vivono; qui ci sono stato solo un paio di volte e in quel paio non mi sono preso molto tempo per osservare l’arredo. Comunque non mi soffermo su quello nemmeno adesso: registro un attaccapanni alla mia destra e la porta del salotto poco più avanti: mi giro piuttosto a sinistra, dove c’è lo specchio che riflette la mia faccia terrorizzata. Ho la pelle così pallida e tesa da far paura e due enormi cerchi blu sotto agli occhi che oggi, al posto di esser verdi, sembrano essere due puntini neri in mezzo a tutto il bianco della pupilla. L’unica cosa che faccio per mettere a posto questo schifo che sono è stringermi l’elastico della coda che mi son fatto per l’occasione – anche se so che prima o poi i ricci rossi faranno quel cazzo che vogliono loro e sembrerò ancora più barbone di ora.
Vorrei poter essere un supereroe, adesso, vorrei sapere che cosa fare.
Prima di poter parlare si apre la porta del salotto e ne esce suo padre – il padre di Kelly. Mi squadra stizzito, vorrei dirgli che anche io spero che il bambino non prenda da me.
«Buongiorno.» gli tendo la mano con il sorriso più affabile che ho nel repertorio, lui me la stritola «Clara mi ha detto di non venire all’ospedale, perché Kelly non si era ancora ripresa bene. Nel senso, lo capisco, cazzo. Ci credo. Però quando mi ha detto che l’avevano— li avevano dimessi, sa, ho pensato di venire qui. Anche se, sì, insomma, mi dispiace per il ritardo.» vomito parole a caso per riempire quel silenzio opprimente e quello sguardo che conosco bene, quello sguardo che ti fa capire che non vali un cazzo di niente. E sì, insomma, anche io lo so di non valere tanto.
Lui non si scompone, annuisce, dice: vuoi un tè?
Al momento preferirei qualcos’altro ma credo che la cosa giusta sia dire di sì, che voglio un tè, anche se non mi piace per niente. Anche se vorrei dire tutte quelle cose che mi tengo dentro, anche se vorrei saltare tutti questi convenevoli.
Dico sì.
Non so cosa succede nell’intermezzo, mentre me ne sto seduto a bere tè alle undici del mattino con i signori Black che mi squadrano dall’alto in basso. Vedo immagini confuse e so che mi sto scavando la fossa da solo a sparare tutte le cazzate che sto sparando. Poi scatta qualcosa, una scintilla.
«Kelly è in camera sua, di sopra, con Andrew.» dice la madre, seduta dall’altra parte del tavolino da caffè che ci separa. Sembra invecchiata dall’ultima volta che l’ho vista, anche se sono passati pochi mesi. Quando dice Andrew, comunque, è come se qualcuno mi accoltelli da sotto il tavolo: è la volta buona in cui sto zitto e la guardo con gli occhi sbarrati – mio figlio si chiama Andrew, porca puttana. Io ‘sta cosa nemmeno la sapevo, comunque, perché Kells non ha voluto parlarmene; in realtà non mi ha mai parlato di niente.
A questo punto vorrei piangere, anche se non so nemmeno il perché.
Mi alzo in fretta e furia e saluto stupidamente con la mano: allora vado a salutarla, dico, grazie mille.


 
Londra, Gennaio 2009

Sono coricato sul suo letto, le nocche della mano a sostenermi il mento: da quest’angolazione riesco a vedere il televisore della camera di Kelly perfettamente. È stata lei a chiamarmi e a chiedermi di venire qui, in casa sua, mi ha detto che mi doveva parlare.
Quando qualcuno ti dice qualcosa del genere – dobbiamo parlare, Eean, ti devo dire una cosa – mi viene sempre questo nodo allo stomaco e non riesco a stare fermo, divento nervoso, irascibile, insomma, tutte le cose che di solito non sono. Poi sono arrivato qui a casa sua e lei non mi ha detto niente, anzi, mi ha detto: guardiamo un film. E mentre stiamo qui coricati sul letto a vedere una commedia inglese degli anni Novanta ho iniziato a sentire qualcosa all’altezza del petto. Speranza.
Vorrei che mi dicesse com’è che sono le cose tra noi – stiamo insieme? Siamo solo amici? Siamo qualcosa nel mezzo? – perché sono mesi che vivo sul filo di questo rasoio – è così che si dice? Che cazzo ne so – e voglio sapere. Per una volta mi merito qualcosa, mi merito di saperlo.
«Senti,» mi dice, e io sobbalzo e capisco, in qualche modo, che è arrivato il momento «ti devo dire una cosa.»
Deglutisco e per una volta non dico cazzate, me ne sto zitto e mi siedo per bene, appoggiato alla testiera, incrociando le braccia.
«È che non so come.» continua.
La osservo di sottecchi, vorrei dirle che non c’è da preoccuparsi, che qualsiasi cosa, io sarò sempre qui, con lei. Questo è il mio posto, penso, non me ne andrei da nessuna parte. Ma non dico niente perché so che la disturberei solo, e allora mando giù altra saliva per la gola che mi è improvvisamente diventata secca.
«Avevo questo ritardo, e allora ho fatto un test, un paio di visite, sì, per essere sicura.» pausa «Sono incinta.»
Le ultime due parole sono coperte dalle mie risate, sento finalmente un peso che mi si alza dal petto e anche se Kelly sta solo scherzando sono così contento che non mi voglia lasciare. Poi la guardo in faccia: sta piangendo, è seria. Sorrido ancora, non capisco.
«Non—»
«Perché diavolo ridi? Che bastardo che sei.» e sguscia via dal letto e si allontana e sento un vuoto che si allarga all’altezza del cuore.
No, no, no. Non è così che doveva andare. Non si può ripetere tutto di nuovo.
Mi allungo per abbracciarla, visto che non so che altro dire, e lei si allontana di nuovo e capisco, in questo momento, che se ne è andata per sempre. È una sensazione così forte che non puoi ignorarla.


 
Londra, Agosto 2009

La camera è quella di un’adolescente cresciuta troppo in fretta: sulle pareti ci sono poster dei suoi gruppi preferiti, su un comodino ci sono rossetti e profumi, qualche libro di scuola, sotto la finestra c’è una culla bianca, probabilmente usata. Pannolini, giochi per bambini. 
Io invece me ne sto congelato sulla porta, in attesa di capire che cazzo fare. 
Lei è seduta sul letto, ci guardiamo ma non diciamo niente: non c’è niente da dire. Ma io i silenzi non li sopporto e li devo riempire per forza con qualcosa, e quindi: «Come stai?»
«Abbastanza bene, mi son ripresa in fretta, hanno detto.»
«Sono contento.»
È da sabato sera che volevo precipitarmi qui, vedere lei e il bambino, ma ora che me ne sto appoggiato all’uscio di questa camera non so nemmeno che cosa fare. Ora è tutto reale, non è solo più una favoletta che mi racconto prima di andare a dormire.
Non doveva finire così, mi dico. Non dovevo essere io quello ad avere un figlio a diciannove anni, e non tanto perché ho paura di prendermi le mie responsabilità o cazzate varie, è che io non posso fare da padre.
La consapevolezza mi colpisce come uno sparo.
Kelly, anche se non sa niente, deve averlo capito mesi fa, decisamente prima di me.
È che ho paura di diventare come i miei genitori, è che ho paura che quel bambino finisca come sono finito io, anni fa, in quel cesso di casa famiglia. Quelli come me, con i miei geni, non sono fatti per diventare padri, non sono nemmeno fatti per diventare figli, o persone, o che cazzo ne so.
Vorrei qualcosa che attutisca tutta questa merda. Vorrei anche non volerlo.
Non dovrei essere qui.
«Ti vedo bene, Tate mi ha detto che la settimana scorsa ti sei passato una bella nottata dai Lein. Vedo che ti sei ripreso.»
Scusa.
«È stata solo una, e poi ora con lo stipendio posso aiutarti con le spese. Non è che passo tutte le giornate così.»
«Certo.»
Non volevo nemmeno parlare di questo, porca puttana, di soldi. A me dei soldi non me ne frega niente, nemmeno a lei. Non so perché ho iniziato a dire così. Che stupido. Mi fermo e mi costringo a respirare, inalo così forte che Kelly si gira verso di me confusa: è che non so come fare a gestire questa situazione, questo tutto, i pensieri mi bombardano la testa come missili e l’unica cosa che riesco a fare è starmene qui.
«Sta dormendo, comunque.» butta lì lei, alzandosi in piedi «Immagino che tu lo voglia vedere.»
Annuisco, in realtà non so bene se è quello che voleva lei ma le parole mi muoiono in gola e quindi non posso spicciare parola.
Scusa, vorrei dirle, perché so che non vorresti uno come me nella tua vita. Kelly avrebbe voluto i suoi spazi, quando “stavamo” insieme studiava già per la sua borsa di studio, mi diceva che avrebbe fatto psicologia, mi diceva che le piaceva. E invece ora ha perso un anno di scuola.
Mi fermo, a metà strada tra l’entrata e la culla: «Mi dispiace.»
Lei non si ferma, si avvicina invece al lettino. Il fatto che mi ignori è ancora peggiore.
Vorrei davvero qualcosa che attutisca tutta questa merda.
Poi mi sporgo anch’io, giusto un po’ per vedere il bambino – mio figlio. Lo scorgo appena sotto una coperta, il viso arrossato e gli occhi chiusi in un sonno pacifico. Ha i capelli rossi come me, noto solo ora, e non so se quello che mi colpisce è orgoglio o paura. E chi lo avrebbe mai detto che con una madre con i capelli così neri sarebbe uscito rosso – un vero irlandese, come me. Deve aver sentito che qualcun altro è venuto a vederlo perché si mette a piangere ché non ha ancora aperto gli occhi e io faccio un passo indietro.
«Devo averlo spaventato, non credevo di essere così brutto.» cerco banalmente di sdrammatizzare mentre lei lo prende in braccio.
«Dovresti, invece.» e sento un po’ di tenerezza nella sua voce «Guarda come sei conciato.»
«Non ti piaccio?»
Be’, cazzo, hai esagerato.
L’unica risposta che ricevo è un sorriso amaro, quindi abbasso lo sguardo che è decisamente meglio. Ficco di nuovo le mani nelle tasche nella speranza che qualcuno dica qualcosa per evitare l’ennesima scena imbarazzante.
«Tienilo, lo so che sei venuto fin qui per questo.» ha un tono tra l’ironico e il condiscendente e io non so se essere offeso o ringraziarla.
Guardo il bambino - Andy, perché Andrew è un nome troppo lungo e non mi piace nemmeno troppo - calmarsi e quando lo prendo in braccio mi viene questa paura che cada, si faccia male, che lo stringa troppo forte. A uno come me non si dovrebbe mai dare un bambino in braccio, finirei per farlo volare accidentalmente dalla finestra.
Kelly si scosta, facendomi spazio, e si avvicina alla sua scrivania bianca per poi iniziare a sfogliare un giornale, forse voleva lasciarmi un po’ da solo con lui.
È questione di minuti, forse secondi, prima che Andy inizi di nuovo a piangere con voce acuta, agitando mani, braccia e testa. Mi volto, spaventato, per poi iniziare a dondolarmi freneticamente. Ho visto altre persone farlo, sono abbastanza sicuro che sia così che si calmi un neonato.
«Cazzo, Kells!» borbotto, forse a voce un po’ troppo alta «E adesso cosa faccio?»
Lei alza la testa di scatto, infastidita: «Così lo ammazzi, povero bambino! Smettila di farlo saltare da una parte all’altra. Piano, Eean, piano.»
«Lo dicevo che l’avrei fatto volare fuori dalla finestra.» smozzico tra me e me, ignorando lo sguardo interrogativo che ricevo. Ora che so che Kelly non è del tutto incazzata mi sento in dovere di prendere le cose un po’ più alla leggera. Il tempo di sedermi sul letto ed Andrew è di nuovo calmo, apre addirittura un po’ gli occhi e ho l’impressione che mi guardi.
«Vuoi un sonaglio?» chiedo, un po’ riluttante – ne ho visto uno appoggiato qui vicino, forse gli farebbe piacere. Nei film i bambini non hanno sempre in mano quei loro fastidiosissimi sonagli gialli a pois rossi? Lo afferro e cerco di darglielo in mano, ma l’operazione non va a buon fine perché il gioco cade a terra immediatamente.
«Forse sei troppo piccolo.» mormoro infine, sconsolato «Niente sonaglio, allora. Cosa ti posso dare, eh?» mi alzo, inizio a dondolarmi di nuovo su e giù, forse per scaricare la sua tensione su di lui.
E adesso il cosino mi fissa.
Cos’ha da guardare, poi, quello lo sa solo lui. 
«Ci accontenteremo di qualcos’altro.» biascico infine, voltandomi verso Kelly alla ricerca di, non so, qualche cenno di approvazione. È letteralmente un momento che ho staccato gli occhi e ora mi rendo conto che Andy mi ha afferrato il mignolo della mano sinistra: lo stringe con una forza che non credo possa appartenere a un essere umano di soli pochi giorni, porca puttana. «Uh-uh-uh! Abbiamo un nuovo Hulk, gente!» esclamo divertito.
Mi sembra di vederlo sorridere, anche se non so quanto sia possibile.
Quello è tuo figlio, mi rendo conto, quasi perdendo un battito di cuore.
«Andrew Hulk Harrison. Non suona mica male, vero?»


 
Londra, Agosto 2009

«La storia del sii affamato, sii sobrio non è andata a buon fine, vero?» guardo Eean di sbieco.
Io sono seduto sul sedile passeggero, lui su quello del guidatore. Il suo Silverado oggi sembra ancora più scassato del solito, ho faticato per aprire la portiera, prima, e ora Eean mi sta dicendo con noncuranza che i freni funzionano male. Questo non volevo saperlo, perché non ci tengo a morire per dei freni di un vecchio pick-up arancione, e quindi preferisco cambiare discorso.
«Vaffanculo, Trav.» borbotta lui nella mia direzione, io alzo le spalle «Guarda che tutta quella roba è stata una gentile concessione di Evan. Gratis
«Quindi ha ripreso con lo spaccio?» mi giro, incuriosito, verso i sedili posteriori dove so che ci sarà un zaino. Guarda caso all’interno ci sarà anche una buona quantità di francobolli di LSD.
«Bah, che ne so, chi lo capisce quello.» riprende Eean, piegando la testa da un lato «Mi ha detto che li aveva e doveva liberarsene. E poi, scusa, a noi non fanno mica male.»
Rido: «La buona musica non si fa mai da sobri, hai ragione.»
«Ah,» lui stacca le mani dal volante e le allarga, poi le porta dietro la testa «finalmente qualcuno che capisce!»
Rido, nonostante i freni e il volante.
Ridiamo.
Alle volte con Eean mi sento come se il mondo si fermasse, ci siamo solo noi che siamo giovani, c’è il cielo della sera sotto la nostra testa e i campi che circondano Londra. E non so come fare a non essere grato per questa vita che alle volte prendiamo sotto gamba e alle volte troppo sul serio: è così bella, penso, mentre la brezza notturna mi frusta il viso e mi costringe a scostare spostare i capelli neri come questo cielo. È questo quello che non capisco degli altri: come sia possibile per loro vedere solamente il brutto di questo mondo, quando invece è davvero pieno di momenti di Bellezza come questa.
E allora allargo le braccia anch’io e inizio ad urlare a squarciagola, Eean mi segue a ruota e sono abbastanza sicuro che da fuori sembriamo due pazzi che si stanno per andare a schiantare da qualche parte.  Continuo a ridere come un matto mentre lui riappoggia le mani sul volante: ho le lacrime agli occhi.
Sono leggero.
Sono giovane.
C’è un momento di silenzio in cui io mi premuro di abbassare del tutto il finestrino a manovella.
«È catartico.» mi lascio sfuggire a mezza voce.
«Eh?» sono abbastanza sicuro che non sappia cosa vuol dire. Gli sorrido e anche lui ricambia, ha uno di quei sorrisi da bambino, uno di quelli che non vedi sugli adulti che ormai non sanno più stupirsi. 
«È lenitivo.» mi correggo «È come se ti guarisse l’anima.»
Lo sento emettere un suono a metà tra una risata e uno sbuffo: «Credo che dovremmo farlo più spesso, allora.»
«Tu non ne hai bisogno.» lo rassicuro, appoggiando il mento alle nocche della mia mano sinistra, socchiudo gli occhi per godermi meglio il vento della notte.
«Tu dici?» la sua voce è esitante. Per un momento mi salta in mente di dirgli quello che volevo dirgli l’altra sera, ovvero che è la persona più buona che abbia mai incontrato. Ma le parole mi si bloccano in gola e l’unica cosa che riesco a fare è annuire.
«Non so…» smozzica dopo qualche minuto, mentre svoltiamo verso casa sua «Tu pensi che certe cose si possano ereditare?»
Aggrotto le sopracciglia, non so da dove gli sia uscita questa domanda e non so nemmeno qual è la risposta giusta. Incrocio le braccia al petto: «Fisicamente?» gli chiedo «Guarda me, sono la copia dei miei: metà inglese e metà iraniano. Caratterialmente? Te lo puoi scordare, non voglio diventare come loro.»
Ride: «Non vorresti diventare un banchiere di successo?»
«Assolutamente no.»
Rimaniamo di nuovo in silenzio e già mi sono dimenticato di quel che mi ha chiesto; ho allungato la testa fuori dal finestrino e ora mi sto guardando indietro, verso la Londra che ci stiamo lasciando alle spalle. Vedo i palazzi altissimi e le luci delle finestre che sembrano formare costellazioni di galassie lontane.
«Però,» insiste lui «tu credi che uno possa veramente diventare come i propri genitori? Fare gli stessi sbagli? Anche se uno non lo vuole, intendo.» 
Ora capisco: collego tutti i puntini con il filo rosso e comprendo il perché di questa domanda, nel momento stesso in cui arrivo a questa conclusione sento la malinconia che inizia a stringermi le viscere, vorrei rispondergli di no, ma mi ci vuole un momento per mettere insieme le parole.
«Ti riferisci a—?»
«Ai miei genitori, sì.» si blocca, si vede che vorrebbe aggiungere altro anche se ormai ho capito. Sta parlando di quelli biologici, di genitori. Di quei figli di puttana. Annuisco.
«Sarai un bravo papà, Eean.»
«Lo spero,» ammette, abbassando il capo «vorrei dare a quel bambino tutto quello che non ho mai avuto.»
Quello che gli rivolgo è un sorriso un po’ amaro, ma sono sicuro che non è ciò di cui ha bisogno ora. E allora gli do un pugno amichevole sulla spalla con il rischio di farci sbandare tutti e due: «Hai un buon cuore, Harrison. Un noioso gusto nella musica, però: leva questi Ramones che ne ho le palle piene.»
Mi chino verso il mangiacassette del pick-up ed estraggo il nastro che stiamo ascoltando da quasi un’ora per inserirne uno di David Bowie che ci ha imprestato Frank qualche settimana fa.
«Ehy!» protesta lui, ricambiando il pugno.
«E non ti lamentare,» lo ammonisco ironicamente «urla, piuttosto. Quello è molto più terapeutico.»
Ci lanciamo uno sguardo d’intesa; è un attimo prima che tutti e due ricominciamo a gridare nell’abitacolo del Silverado, le braccia allargate e la testa rovesciata, gridiamo e ridiamo e la vita è così bella che vorrei fosse sempre così.
Scompariamo nel buio della notte ancora giovane, come noi.


 

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Capitolo 5
*** Cry Baby ***


Mi sono dimenticata di questa storia? No. Interessa a qualcuno? Probabilmente no. Potrei andare avanti con una serie di scuse quali lo studio et similia, davvero, ma la realtà è che non sono riuscita a scrivere piùdi una parola di questa storia in due mesi, nonostante questo capitolo e parte del prossimo fossero pronti. Ma a questa storia ci tengo e volevo continuare a pubblicarla, so here we are, con Cry Baby, perché ormai si sa, Constance è l'incarnazione della discografia della Joplin. 
 

 
Cry Baby


 
Londra, Settembre 2009

Passano i giorni e passano le settimane, passa questa vita che spendo a lavorare come commessa in un negozio di alimentari, passano anche Harvey e Len, che tanto lo sapevo, non avrebbero richiamato.
Il vuoto non passa mai, però.
Certe volte mi dico che non è solo un problema mio – non può esserlo, conosco troppe persone come me che cercano di riempire gli involucri vuoti che sono – ma che è qualcosa di generazionale: un’orda di giovani zombie che non sanno che farne della propria vita. I miei nonni hanno vissuto la fame e la guerra, i miei genitori i disordini degli anni Sessanta e Settanta, io me ne sto qui, invece, coricata sul parquet della sala prove, pensando che non ho niente per cui combattere. Travis dice sempre che per essere uno deve avere uno scopo, ma più passa il tempo più mi rendo conto che io non ce l’ho, non ho niente. A meno che rincorrere le persone per dimenticare se stessi non sia un obiettivo. Allora sì, allora ho tutto.
Guardo il riflesso del mio corpo sul vetro che abbiamo appiccicato al soffitto, mi guardo i fianchi stretti da ragazzino avvolti in una gonna troppo corta e i capelli a caschetto con tanto di ricrescita che formano una corona biondo platino. Mi fisso, scandagliando ogni minimo difetto: l’unica guerra che vivo è quella contro me stessa.
«Sei viva?»
Mi alzo di scatto, come colpita da una scarica elettrica, alzo lo sguardo verso Francis, che è entrato di soppiatto e ora mi guarda dall’alto, gli occhi chiari e inquisitori che mi fissano. Chissà quanti difetti sta vedendo.
Gli sorrido cordiale e in un attimo torno ad essere la Constance di sempre, scordandomi di divagazioni filosofiche troppo fini per una come me: «Se non lo fossi ti interesserebbe?» lo rimbecco ironica.
Lui alza le spalle, grattandosi il ponte del naso adunco come il becco di un corvo.
«Sarebbe un po’difficile suonare con un cadavere qui in mezzo, quindi sì.»
«E pensavo che un po’ di bene me lo volessi.» borbotto mettendomi in piedi e aggiustandomi i vestiti. Non so da dove sia uscita questa stronzata. E infatti lui non risponde e io ci rimango male e alle fine non dovrei – storia della mia vita. Mi da le spalle e posa la custodia della chitarra a terra.
Punto in meno per me.
«Comunque guarda.» riprendo, lanciandogli il volantino che ho trovato a Piccadilly e che ho portato fin qui. Francis lo ferma poco prima che cada e mi lancia un’occhiata seccata, ma io faccio finta di niente.
«Quindici gennaio duemila dieci» recita lui annoiato, gli occhi fissi sulla carta stampata «Roundhouse, Londra. È la vostra occasione per essere notati dalla casa Neon Signs Records nella seconda edizione del nostro concorso, quest’anno il primo premio vincerà la registrazione di un singolo presso la Neon Signs.» più va avanti a parlare più abbassa la voce e stringe gli occhi come se dovesse leggere qualcosa tra le righe.
«Dovremmo partecipare.» gli dico, alzando le spalle «Altrimenti non andremo mai più avanti e continueremo ad esibirci al Clover’s per il resto della nostra vita. È un’ottima occasione.»
Lo guardo di sottecchi, la realtà è che ho una paura fottuta di esibirmi così, in mezzo a tutte le persone che ci saranno – perché ce ne saranno, quella casa è famosa per un motivo. Lui continua a leggere, questa volta nella sua mente, e vedo gli occhi piccoli muoversi a una velocità inaudita. Alza lo sguardo, dice: dovremmo.
Comunque già sapevo che avrebbe detto sì, lui è una di quelle persone competitive, capace di dilaniarti con i canini aguzzi se gli intralci il passaggio: ha una teoria tutta sua a riguardo, un giorno me l’ha riassunta per sommi capi, ma è passato troppo tempo perché la possa ricordare.
Stringo i pugni, odio dimenticarmi certe cose.
«C’è bisogno di portare una demo.» mormora con voce nasale.
Ecco, questa cosa io me l’ero persa «Quella che abbiamo è troppo vecchia, eh?» rispondo, alzandomi per andare a vedere dove diavolo abbia letto questa cosa. Lui indica distrattamente le tre righe scritte in caratteri minuscoli al fondo del volantino.
«Fa’ conto che quando l’abbiamo registrata Thomas non c’era ancora.»
Be’, merda.
«Possiamo farne un’altra.» suggerisco – anche se so che non ci sia molto altro da fare «Ho ancora il numero di quel tecnico del suono, Mark. Ci conosce, magari ci fa uno sconto.»
Mark è uno dei tanti con cui cerco di tappare il vuoto. Le cose sono andate malissimo tra noi, contando che è sposato e ha due bambini, eppure mi piace pensare che vada ancora tutto bene, che possa chiamarlo da un momento all’altro.
Questo ovviamente Frank non lo sa. Non lo sa nessuno.
«Perché dovrebbe?»
Serro la mascella: quando mi mettono così sotto torchio finisco solo per alterarmi. «Non sono affari tuoi, io lo conosco, tu no.»
Lo vedo che vorrebbe replicare, vedo anche quella specie di fulmine nei suoi occhi, come se d’un tratto avesse capito tutto, lo vedo rabbuiarsi e prego davvero che non risponda perché sono stanca, troppo stanca per poter discutere di nuovo con lui.
E poi la porta si apre, e poi entra Trav sorridente, i capelli neri bagnati da questa pioggia inglese che gli sono rimasti appiccicati alla fronte. Si toglie in fretta la giacca di jeans fradicia e la posa sull’unico termosifone che abbiamo.
«Com’è?» chiede.
C’è questo momento di tensione in cui Frank continua a fissarmi con lo sguardo affilato, e sento davvero che vorrebbe continuare a parlare, ma cerco di ignorarlo e mi avvicino a Trav, cercando di cambiare discorso.
«Ho visto che faranno un concorso, a gennaio. Dev’essere interessante. Dagli il volantino, Francis.»

Quando abbiamo finito di suonare i ragazzi cercano di spostare la batteria in un angolo, in modo che ci sia più posto per sederci in cerchio nel centro della stanza. Siamo una stella a cinque punte il cui centro è formato da un posacenere di ceramica che Liz ha regalato a Travis l’anno scorso – l’ho aiutata a dipingere i fiori celesti, quello lo ricordo perfettamente – al suo interno due cicche già spente.
A parte Eean, che sta suonando un motivetto con il basso, tutti gli occhi sono fissi su di me. Mi piace quand’è così: mi piace avere l’attenzione degli altri. È una forma di potere sottovalutata, questa: in qualsiasi momento potrei dire qualcosa, anche la più minuscola, e rimarrebbe impressa nel cervello dei ragazzi per sempre. Io rimarrei impressa nel cervello dei ragazzi per sempre.
«Insomma,» riassumo con studiata noncuranza «vale la pena pagare qualche soldo per quella demo. Anche perché se non ne presentiamo una non ci fanno entrare per niente, è il regolamento.»
«Un pomeriggio in uno studio qualsiasi costa un sacco, però, Connie.» obietta Thomas. Ha le sopracciglia corrugate perché lui, tra tutti, è quello messo peggio – anche se non lo dice mai sappiamo tutti che una famiglia di immigrati con cinque figli non se la può passare tanto bene.
«Ho detto che ci farebbero uno sconto.» riprendo, per l’ennesima volta «Conosco il tecnico del suono, è un amico.»
«Be’,» interviene Eean, finendo bruscamente di suonare «a me non sembra una cosa stupida. Sono soldi ben investiti.»
«Ha parlato l’economista!» lo riprende Travis divertito. Scoppiano a ridere. Eean e Travis insieme sono due bambini, non puoi fare nemmeno un discorso serio; sospiro, rendendomi conto che il centro dell’attenzione non sono più io. Però sorrido, almeno un po’.
«Io direi che innanzitutto mettiamo i soldi che abbiamo fatto al Clover’s due settimane fa.» fa Trav quando smette di ridere, ha ancora gli occhi lucidi e si vede che fa fatica a non scoppiare «E il resto lo dividiamo tra noi. E poi tu lo conosci questo che ci fa fare lo sconto, no, Connie?»
Annuisco.
«Gli vado a parlare oggi.» rispondo.
La discussione finisce lì e passiamo la restante mezz’ora a parlare di tutto e di niente, di Andy, che a quanto pare è rosso come lo zenzero e forte come un qualche supereroe di cui non so il nome. Poi il telefono di Tommy suona, lui si allontana un attimo e quando torna dice che è urgente e deve scappare, la magia si rompe e uno a uno ce ne andiamo via tutti, ognuno per la propria strada. Quando sono andata via ho fatto finta di incamminarmi verso la metropolitana, ma quando mi sono accertata che tutti gli altri se ne fossero andati sono tornata indietro, nell’edificio dove facciamo le prove. È abbastanza disgustoso, con le sue pareti scrostate e gli scarafaggi che si annidano sotto le piastrelle saltate, ma non sapevo dove altro andare.
E ora che sono qui, seduta sulle scale dell’atrio umido, l’unica cosa che riesco a fare è giocherellare assente con il vecchio cellulare che ho in mano.
Mark s’incazzerà sicuramente. Penso. Penso anche che se abbiamo smesso di vederci c’era un motivo, penso che ora potrebbe odiarmi. Però è anche vero che se mi ha cercato – perché l’ha fatto – voleva dire che c’era qualcosa che non andava. In lui, in sua moglie, cosa ne so, della sua vita privata non mi ha mai detto nulla.
Male che vada non mi risponde.
Compongo il numero.
Male che vada mi risponde e mi manda affanculo.
Il telefono squilla.
Male che vada mi dice che gli faccio schifo e che sono opportunista.
«Pronto?»
Ha quest’accento cockney davvero marcatissimo, e persino io fatico a capire che cosa stia dicendo otto volte su dieci. Ha la voce bassa, rauca come quella di un vecchio fumatore, quando è nervoso gli si alza di un’ottava, quando è felice è ancora più profonda del solito. Qualche volta pizzica le erre.
Ci scommetto tutto che di queste cose sua moglie nemmeno se ne accorge – io sì – però lui ha comunque scelto lei.
«Hey, sono Constance, la ragazza—» che ti scopavi qualche mese fa «sì, insomma. Quella del gruppo, ti ricordi?»
Lo sento gelare dall’altra parte della linea, poi qualche rumore, quando riprende a parlare il suo è un solo bisbiglio: «Perché mi hai chiamato, non ti avevo detto che—»
«Sì, scusa, è che avrei bisogno di un favore.» mi mordo il labbro, lo sento esitare: lo mordo ancora più forte finché non sento un sapore ferreo nella bocca.
«Ti ho detto che avevamo chiuso.»
«Ho bisogno di un favore.» insisto «O di un consiglio, io non me ne intendo di queste cose, tu invece sì.» 
Fargli complimenti così sembra funzionare, perché dopo un sospiro abbassa ancora di più la voce: «Cosa c’è?»
Sorrido appena un poco, mentre guardo le piastrelle di finto marmo sotto i miei piedi e vi traccio col dito motivi geometrici: «Io e i miei vorremmo registrare una demo. Giusto un paio di canzoni. Avremmo solo bisogno di uno sconto, sai, e non sapevamo a chi rivolgerci.» 
«Constance. Ti ho detto che avevamo chiuso.»
Stronzo, penso, certo che lo sapevo. È che ne ho bisogno – ne abbiamo tutti bisogno. Vorrei colpire il muro, ma sto zitta e cerco di portare avanti la conversazione con un tono rilassato, quasi da bambina.
«L’ultima volta.»
Sbuffa: si sta incazzando. Mi appoggio al muro e torno a mordermi il labbro anche se questa volta la ferita aperta fa più male.
«Cosa ne ricavo, io? Vi faccio cinquanta di sterline di sconto in cambio di una scopata? Con te?» lui continua a parlare, ma io ho già smesso di ascoltarlo. Chiudo gli occhi e sento il battito del cuore che accelera, accelera, accelera, e sento un singhiozzo salirmi dal petto. Non so nemmeno perché me la sto prendendo così tanto.
Come se non ti fosse piaciuto. Con quella merda della tua Nancy ti divertirai tantissimo, immagino, mentre i tuoi figli piangono nella stanza accanto. Li hai cambiati, Mark? Hanno fatto un brutto sogno? Dovresti essere grato che io ti stia chiedendo una cosa del genere, figlio di puttana.
Non dovrei reagire così, dovrei essere accomodante.
«Farò tutto quello che vuoi, ti prego.»
Devo vomitare.
Esita, sto appesa a questo dannato filo per cinque, dieci secondi che a me sembrano anni, poi la sua vita monotona e triste prende il sopravvento, dice sì: dice. Dice: vediamoci questa sera davanti al Clover’s, vedrò cosa posso fare.
«Grazie mille, Mark.»
Lui non risponde, chiude la comunicazione e io rimetto il telefono nella borsa con le mani che tremano. Solo ora mi accorgo che sto piangendo.

L’incontro è una sterile trattativa sullo sconto che ci può fare – circa settanta sterline, come aveva già detto – e su quando lo faremo. Ci siamo accordati per il prossimo mese, spero che agli altri vada bene – non che abbiano qualcosa da fare comunque, se non girovagare per la città. Poi mi ha portato in auto e abbiamo concluso la seconda parte dell’accordo. I sedili della sua Chevy erano così piccoli e scomodi che credo avrò mal di schiena per i prossimi due o tre giorni. Però lui era lì: mi voleva, aveva bisogno di me. Non di sua moglie, Nancy, di me.
Il sesso è una forma di potere più potente ancora dell’attenzione, forse è la più potente di tutte. I ruoli si sono capovolti: non ero più io quella a chiedere un favore a lui, ma viceversa, era lui a pregare di avere me ancora una volta.
Io sono per gli uomini la droga più potente.
Il loro amore sarebbe la mia, ma quello non lo ricevo mai.
Quando finiamo mi guarda di sottecchi mentre mi rimetto comoda sul sedile passeggero e infilo le scarpe che avevo lasciato da qualche parte sotto di esso.
«Tutto bene?»
«Sì.»
«Allora il prossimo mese ci vediamo allo studio.»
«Sì.»
«Potremmo vederci prima.» azzarda lui «Mi sei mancata.»
Sento un’ondata di vomito salirmi dallo stomaco e devo aspettare prima di rispondergli. La realtà è che non lo so più, se me lo avesse chiesto prima gli avrei detto subito di sì, ma con quello che ho fatto ora non credo di sapere cosa fare. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per i miei amici, per il nostro futuro, sì, ma mi sento di merda comunque.
Dovrei dirgli di no. Tanto ormai l’appuntamento per la registrazione ce l’abbiamo.
Eppure è stato così gentile, mi ha detto che gli sono mancata, almeno un po’ mi vuole bene. E anche lui mi manca, mi manca stare con qualcuno.
Mi torturo le mani: «Sì. Tanto io non ho niente da fare. Quando vuoi.»
«La prossima volta possiamo andare in un ristorante, ne conosco uno carino a Soho.»
E chi l’avrebbe detto che gli ci sarebbe voluto così poco per riprendere a tradire.
«Sembra carino.» rispondo, e questa volta cerco di essere un po’ più calorosa.
«Perfetto.» lui sorride, è soddisfatto di sé stesso. Io non so se esserlo di me, in realtà mi vergogno solo, a questo punto. «Ti riaccompagno a casa?»
«Sì, grazie mille.»
Come una prostituta, Mark mi lascia qualche centinaia di metri prima di casa mia. Facevamo così anche prima, più che altro perché qualcuno a casa potrebbe preoccuparsi – chi era quell’uomo che ti ha riaccompagnato qua, Connie? –. 
È buio quando esco dall’auto e poso i piedi sull’asfalto umido della strada, la via è illuminata irregolarmente dalla luce arancione dei lampione, non ci sono stelle, dalla maggior parte delle finestre delle altre case non esce nemmeno una luce. Nessun rumore, se non il ronzio indistinto dei televisori. Londra è morta, da questa prospettiva. Saluto Mark dal finestrino e mi incammino per casa mia cercando di non pensare a quanto sia stato stupido quello che ho fatto – non avrei dovuto. Allungo il passo, vorrei solo addormentarmi nel mio letto e smettere, per un momento, di questionare le mie azioni: vorrei essere nel giusto, una volta tanto.
Passo di fronte alla villetta di Eean, che per la cronaca è una delle poche a sembrare viva, ma tanto so che lui non c’è: questo pomeriggio se n’è andato con Trav, è probabile che siano ancora insieme adesso, coricati al freddo sul balcone di casa sua – di Trav, intendo – a guardare il cielo e a parlare di cose che io non capirò mai. 
Attraverso l’ultima zona illuminata dai lampioni, i prossimi tre non funzionano affatto da due settimane e non è ancora arrivato nessuno a ripararli. La cosa non va a mio favore perché un piede mi finisce direttamente in una pozzanghera e vorrei dire fanculo, vorrei dire; ma so che non è appropriato.
Anche se non c’è nessuno ad ascoltarmi.
È interessante, faccio – o non faccio – certe cose per un qualcuno che non esiste, mi immagino come sarebbe se un esterno mi vedesse e allora in qualche modo mi censuro. Nemmeno la solitudine è più mia.
Intanto però fanculo non lo dico, lo penso solo. Una, due, tre volte, giusto per poter scaricare lontano tutto quello che è successo oggi. Poi mi metto a cantare sottovoce, senza metterci nemmeno impegno, strascico le vocali e dondolo le braccia avanti e indietro, come quando ero piccola.
«Cry baby, cry baby, cry baby. Honey, welcome back home. I know she told you, I know she told you that she loved you much more than I did.»
Alzo la voce sempre di più e nonostante sappia di farlo, non riesco a smettere.
Cantare così stupidamente è l’unica cosa che mi prevenga dall’urlare in questo momento.
Te lo ricordi, Harvey? Te lo ricordi come ti ha guardato prima di andarsene? Che puttana.
E te lo ricordi lo sguardo di compassione di Evan quando ti ha trovato su quel cesso? Non siete amici, gli fai solo pena.
E Len? Oh, lui non te lo ricordi. Come faresti, in mezzo a tutti gli altri?
«Constance
È una voce ben conosciuta a strapparmi da questo stato di autocommiserazione. Nel mezzo della strada, al buio completo, mi volto verso la veranda dei Doyle, quella dove so che è seduto Francis. Non posso esserne certa per il buio, ma la voce era sua. Me ne sto ferma e immagino che lui mi stia guardando in questo momento, mi mordo il labbro. Come oggi, sento l’elettricità della tensione scorrermi sulle punte delle dita, soltanto che oggi non spunterà Travis a salvarmi il culo.
Dio se non voglio che mi veda così. Mi volto, continuo a camminare, accelero il passo e lo sento che mi chiama una seconda volta: «Connie?» dice ancora.
Non ho idea di che cosa voglia o dell’esatto motivo per cui mi ha chiamato, ma non voglio dover reggere anche lui in questo momento, così quando svolto verso sinistra, per casa mia, son ben contenta di lasciarmelo alle spalle.
Domani quest’incontro mi sembrerà solo un brutto sogno.

 

Londra, il giorno seguente,  Settembre 2009
 
Quello che sta succedendo oggi non è un brutto sogno.
Lo sto vivendo davvero, penso, mentre guardo il livido che via via si sta formando.





 

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