Se sarai tu ciò che mi ferirà, sanguinerò per sempre

di Nana_mln
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Conflitto ***
Capitolo 3: *** Chi sono? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Erano lì. Dopo attese snervanti, incertezze martellanti e tragiche certezze che si erano impadronite di giornate infinite, trascinate passivamente alimentando il terrore.
Erano lì. Entrambi. Insieme a quel terrore. Poteva sentire sul viso ogni singola sfaccettatura delle piccole pietre sul terreno, le punte che le graffiavano e le penetravano le guance. Inalava polvere, e la stringeva nei pugni chiusi. Le palpebre abbassate e le labbra insanguinate dischiuse. Un dolore lancinante alla caviglia.
Era lì. In quel luogo che si era rivelato la destinazione di tutti i suoi pensieri ansiogeni degli ultimi anni: un edificio nascosto tra i boschi privati di periferia, che celava abilmente il nucleo dell'Organizzazione criminale di cui aveva fatto parte. Organizzazione criminale. Crimine. Assassinio. Veleno. APTX4869.
Shinichi.
Sgranò gli occhi, affidandosi alle poche energie che le rimanevano in corpo per farsi forza sui gomiti e alzare il busto. Tentò di scorgere il ragazzino, ma la vista le era offuscata da un fumo denso, pesante, come era in quel momento la sua testa. Pesante. Finalmente riuscì a ricordare. Grilletto puntato su di lei. Gin. Un colpo. Caviglia destra. Dolore. Ricarica della pistola.
"Addio, Sherry".
Un'esplosione improvvisa, inaspettata, aveva devastato l'edificio. Si era sentita trascinare, impotente, tra le macerie del piano superiore, già rovinosamente crollato.
Buio.
Ancora non vedeva Shinichi, né vivo, né morto. Chissà se gli era toccata la sua stessa fortuna... Fortuna? Era viva... E Gin? Gin aveva avuto lo stesso destino degli altri. Lo poteva vedere, qualche metro dietro di lei, disteso supino in una pozza di sangue. Che fosse rimasto all'interno, Shinichi? Ruotò il volto in direzione della struttura in fiamme. Che strana soluzione era stata prevista per le emergenze. Distruzione totale. Il classico bottone rosso. Ma evidentemente, era un'operazione ancora da perfezionare: una bomba letale in via di sperimentazione, come lo era il suo veleno. Non aveva fatto il suo dovere, non era un lavoro pulito. L'ala ovest era parzialmente rimasta integra. E se fosse..? Aveva lavorato sempre ad ovest, in laboratori dislocati dove cala il sole. Era quasi una legge. Forse per questo si sentiva sempre in sintonia con i tramonti, a strisce nere della tapparella abbassata. Anche lì, nell'ala ovest, ci sarebbe stato un laboratorio, ne era certa. Non era lontana dalla porta. Doveva entrare. Era solo qualche metro. Doveva alzarsi. Rinchiudendo un gemito di dolore tra i denti stretti, riuscì ad alzarsi gattoni. Iniziò a strisciare lentamente verso la porta, ma un eco lontano la giunse alle orecchie. Trasportava il suo nome, urlato disperatamente tra i detriti.
Era la sua voce, vero? Era in salvo. Sì, lo sapeva in fondo, che lui ne sarebbe uscito vittorioso. Lo sapeva fin dall'inizio che ce l'avrebbe fatta. Prima che potesse sforzarsi di gridare una risposta, lui arrivò, dietro di lei. Sgranò gli occhi in un sorriso. Era viva allora, sì, che sollievo che gli aveva dato. Dovevano raggiungere l'ambulanza, prima che arrivasse la polizia. Che brutta ferita che aveva alla gamba, le faceva male? Ma lui l'avrebbe aiutata. Lei era rimasta in silenzio, ma i suoi occhi verdi brillavano di lacrime trattenute per la gioia di vederlo vivo. Le disse di andare, serio, ma lei non poteva andar via così. Doveva farlo per lui, per provare a rimediare almeno a uno dei suoi tanti errori, per provare a regalare a se stessa il sollievo di un peccato espiato. Fu un colpo di tosse ad introdurre il suo rifiuto a seguirlo, rafforzato dal ritrarre il braccio al suo tentativo di aiutarla. Lo conosceva troppo per capire che, dietro l'apprensione, i suoi occhi nascondevano la profonda delusione di essersi lasciato sfuggire per sempre la possibilità di riappropriarsi della propria vita.
"Kudo, aspetta. Bisogna recuperare i dati in quel laboratorio, prima che bruci tutto. Probabilmente lì dentro c'è il necessario per realizzare un antidoto efficace al veleno". Sorrise, lei. Anche lui sorrise. Sorrise seguendo con lo sguardo il dito della bambina puntato a ovest, gli si illuminò il volto di felicità nel vedere quel piccolo edificio ancora in piedi, e lei si illuminò a sua volta, vedendo lui illuminarsi.
"Andrò io, allora. Non affaticare la gamba, aspettami qui."
Accettò, non poteva fare altrimenti. E gli diede le indicazioni per fargli trovare quello che cercava. Lo guardò allontanarsi correndo. Lo guardò allontanarsi da lei, sola tra le fiamme. Lo guardò correre verso la salvezza, la felicità. Lo guardò, e non potè fare a meno di chiuderlo per sempre nel suo cuore.
Si accasciò sul terreno. Era stanca e dolorante. Aveva bisogno di cure, il proiettile le pulsava nella caviglia causando fitte lancinanti. Qualche minuto più tardi scorse il bambino uscire, le braccia conserte per sorreggere un computer portatile e un raccoglitore. Si avvicinava ora. Lo guardava avvicinarsi a lei; lo guardava mentre la raggiungeva sorridente e lo vedeva allontanarsi.
"Qui c'è tutto ciò che mi hai chiesto, sono sicuro che farai un ottimo lavoro". Sorrise ancora, dolcemente.
"Te lo devo, Kudo."
"Andiamo ora. L'ambulanza dovrebbe essere arrivata. Ho dato indicazione ad Akai e ci raggiungerà non lontano da qui. Vieni, ti aiuto ad alzarti."
"Grazie, ne ho bisogno."
Raggiunsero l'ambulanza non senza sforzi. La raggiunsero insieme e vi salirono insieme. Affrontarono un viaggio lungo verso l'ospedale, governato da un silenzio che mantennero, insieme. Troppo spossati per parlare, troppe emozioni bloccavano la gola, come sempre succede quando qualcosa di grande ha una fine. E si era concluso qualcosa di veramente grande, un'esperienza stravagante e pericolosa, indelebile, che, loro due, volenti o nolenti, avevano vissuto insieme, avevano condiviso. Il silenzio quasi mistico fu profanato delicatamente da poche parole sussurrate.
"E' tutto finito." Tre parole che si dissolsero nella frenesia della portiera spalancata, tra infermieri e medici in attività, che si appropriarono della leggera barella su cui era distesa la bambina.
Tutto era finito? Per lei niente sarebbe finito. La sua vita di Ai Haibara era stata un'intensa attesa che la pistola di Gin le perforasse il cuore, liberandola dai rimorsi delle vite spezzate per mano sua; troppo fragile, troppo debole emotivamente per commettere un suicido. Lo temeva, Gin era il suo incubo, la sua ossessione, ma anche il suo giustiziere di espiazione. Come avrebbe potuto, d'ora in avanti, convivere senza via d'uscita con le sue colpe? Quale esito avrebbe avuto un'esistenza senza una famiglia a consolarla? Cosa sarebbe stato di lei una volta riprese le sembianze di Shiho? Dunque, dov'era la fine che Shinichi predicava?

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Capitolo 2
*** Conflitto ***


La convalescenza fu lunga, per lei. Il corpo di una bambina di otto anni era riuscito a stento a sostenere quelle ferite, resistendo su un terreno impolverato con un pezzo di piombo nel piede. Lui se l'era cavata, come sempre, in pochi giorni aveva ottenuto le dimissioni, uscendo di scena con una semplice lussazione alla spalla. Convalescenza. Una parola così piena di ottimismo, una parola che fa pensare a un futuro, che ricorda che il peggio è passato e non c'è altro da fare che aspettare. Forse la sua non era una convalescenza, allora. Forse avrebbe potuto mettere in pausa le sue attività fisiche, ma come fermare il flusso di ricordi, emozioni, pensieri che le affollavano la mente? Se lo era sempre chiesta: si può lasciare l'anima in stand-by? Avrebbe preferito non sentire più nulla, avrebbe scambiato volentieri la sua emotività maledettamente penetrante con una sorta di salvifica apatia. In fondo, è devastante accettare di dover proiettare tutta la vita verso un futuro che il passato impedisce di assaporare, vivere sospesa tra i prima e i dopo senza mai riuscire a cogliere l'adesso. Mai. Quando era nel giro aspirava a fuggire, distrutta dal ricordo della sorella uccisa. Quando ne era scappata, attendeva la sua condanna, tormentata dal rimorso di ciò che era diventata. In ospedale, in quell'"ora" che non riusciva a percepire, era travolta dalla sua vita, ansiosa di svelare un futuro a cui non aveva immaginato di poter accedere e che, d'altra parte, le aveva solo complicato le cose.
Le visite erano assidue e piacevoli. Agasa andava a trovarla tutti i giorni, trattenendosi un paio d'ore, e ogni tanto era accompagnato dall'allegria dei tre piccoli detective, che la aiutavano come sempre a fuggire da se stessa. Loro non sapevano nulla di quello che era accaduto, tutto era stato ancora una volta abilmente nascosto dietro la solite vecchie bugie. Anche Shuichi Akai, alcune sere, le teneva compagnia, assicurandosi sempre che non le mancasse nulla, cercando di fare per lei quello che non era riuscito nei confronti della sorella scomparsa. E anche Ran, mossa dal suo buon cuore, le aveva portato più di una volta qualcosa da mangiare, spiegando con un sorriso che alla sua età una bambina non dovrebbe sopravvivere con i pasti poco gustosi ed invitanti che servono negli ospedali. Anche Ran era andata a farle visita, ed era andata da sola.
La compagnia non le mancava mai, e anche quando stava per addormentarsi, era quasi sollevata nel sentirsi annunciare una visita. Eppure mancava qualcuno. Forse se ne accorse quando la piccola Ayumi si scusò dell'assenza di Conan, ma lui aveva avvertito che sarebbe andato con Ran, il giorno seguente. Forse se ne accorse quando Ran si scusò dell'assenza di Conan, ma le aveva giurato che era già andato il giorno prima, con i Detective Boys. Era sicura di non essersene accorta prima? No, non era sicura, ma c'era bisogno di troppo poco orgoglio per ammettere a se stessa la delusione di non vederlo mai entrare. Erano passate tre settimane dal suo ricovero. La sua assenza risultò lampante, non solo a lei, ma anche alla persona che lo conosceva al punto da notare un'anomalia nel comportamento del giovane. Una sera, dopo, aver congedato i tre bambini, il dottor Agasa si avvicinò a lei.
"Shinichi mi ha promesso che verrà."
"Oh, non c'era bisogno di costringerlo dottore, la compagnia non mi manca." Un sorriso affabile illuminò le iridi, tremolanti in dissonanza, che tradirono quelle parole.
"Non dire così, Ai. In queste settimane mi ha sempre chiesto di te e della tua salute. È stato lui stesso a promettermi che verrà, quando lo riterrà opportuno."
Rimase perplessa dalle ultime parole, ma non si sforzò a indagare oltre. Rimase da sola nella camera bianca. Era passato il tramonto e si iniziava ad intravedere il velo di oscurità che presto si sarebbe impadronito del cielo. Aiutandosi con le stampelle, raggiunse la finestra, aprendo delicatamente le tende bianche che la coprivano. E come quando a teatro si apre il sipario e gli attori entrano in scena sul palco, lei iniziò a rimuginare sul suo futuro, sulla sua consapevolezza di essere in vita, incolpandosi di non essere ancora in grado di cominciare a viverla, un vortice di pensieri tremendamente possenti che iniziarono a danzare nella sua mente, al chiaro pallore della luna piena.
Arrivò il giorno in cui venne dimessa. Agasa la scortò in macchina fino a casa, e la aiutò a entrare. Si guardò intorno, con un po' di malinconia, e scorse il materiale che il piccolo Conan le aveva procurato nel laboratorio dell'Organizzazione, appoggiato di fianco al computer di Agasa. Passò oltre, con lo sguardo e con i passi, raggiungendo il divano sul quale decise di concedersi qualche minuto di riposo. Erano appena le quattro del pomeriggio.
"Dottore, ha avvisato qualcuno del mio ritorno a casa?"
Agasa, indaffarato com'era a rovistare in alcuni scatoloni a ridosso della libreria, si bloccò un istante e volse lo sguardo verso di lei.
"Perché me lo chiedi, Ai?"
"Vede dottore, preferirei restare per un po' da sola, senza nessuno che interrompa il mio lavoro."
 "Lavoro? Ai! Non avrai mica intenzione di tornare a rintanarti in quello sgabuzzino! Così presto poi, hai ancora bisogno di cure."
"Stia tranquillo, dottore. Per le mie condizioni attuali, posso tranquillamente controllarmi da sola. Ho bisogno solo di aiuto per muovermi sulle scale, e per questo ci sono le stampelle." Ne piantò una sul pavimento e, agilmente, ignorando la fitta che le attraverso la caviglia, si alzò in piedi e sorrise.
"Visto?" Iniziò ad avanzare verso la scrivania, sotto lo sguardo preoccupato dell'anziano.
"Ai, non puoi..."
"Ho una questione da risolvere e ho intenzione di farlo al più presto possibile. Per favore, può portarmi queste cose al piano di sotto?" Chiese, indicando il raccoglitore di documenti e il computer portatile sulla scrivania.
"Hai la testa più dura di quanto credessi."
 "Io comincio a scendere, faccia con calma." Si avviò verso la porta del seminterrato, cercando di camminare con più disinvoltura possibile per evitare che Agasa si preoccupasse inutilmente per lei. Posò la mano sulla maniglia.
"Ai…"
La bambina si voltò verso l'uomo.
"Oggi Shinichi verrà qui."
Non si mosse. Abbassò la maniglia della porta.
"Bene." E scomparve di sotto.
Il ticchettio della stampella sulle scale, che rimbombava a ogni passo, la accompagnò finché non giunse nel suo laboratorio, organizzato alla buona in quello scantinato. Si stava freschi lì, sebbene dopo tante ore di lavoro il calore emanato dal computer surriscaldato iniziava a farla sudare. Si accostò al tavolo con il computer e schiacciò il tasto di accensione. La solita musichetta inserita dal dottor Agasa, allegra e frenetica, sancì l'illuminazione dello schermo.
Dopo qualche minuto era già seduta davanti al computer, circondata da fogli e penne. Accese anche il piccolo portatile dell'organizzazione, che fortunatamente era carico. Con grande stupore scoprì che i dati contenuti al suo interno non erano protetti da alcuna password, quindi riuscì a copiare il contenuto su un CD-ROM senza troppi problemi. Lo inserì nel suo computer e si mise a lavoro.
Il dottor Agasa al piano superiore aveva appena preparato il tè e stava per portarlo nel seminterrato. Ma il campanello squillò. Sapeva benissimo chi fosse. Posò la tazza di tè e corse ad aprire la porta.
"Shinichi, finalmente." Conan era apparentemente calmo, ma i pugni chiusi stretti nelle tasche fecero insospettire il vecchio scienziato.
"Non si libererà facilmente di me, caro dottore!" Esclamò, passando sotto il suo braccio ancora teso sulla maniglia della porta. Si ritrovò nell'ingresso, iniziando a guardarsi freneticamente intorno.
"Lei dov'è?"
 "Shinichi, mi ha detto che non vuole visite, non so se..."
" È di sotto vero?" Chiese retoricamente, dirigendosi verso la porta del seminterrato.
" Ma..." Non fece in tempo a terminare la frase che Conan già si era precipitato per le scale. L'eco dei passi veloci sui gradini giunse presto alle orecchie di Ai, e senza che potesse evitarlo fu invasa da un inspiegabile senso di allerta. I passi si fermarono a metà delle scale.
"Dottore, la prego, ci lasci soli."
Ancora quella voce. Aveva qualcosa di diverso ora. Riusciva a percepire qualcosa di strano. Il ticchettio delle scarpe subito riprese e lo sentiva avvicinarsi. Come avrebbe dovuto comportarsi con lui ora? Disprezzo? Indifferenza? O doveva accoglierlo a braccia aperte dopo la sua lunga assenza? Non aveva il tempo per capirlo e non aveva più tempo per nascondersi. Né dietro un tavolo, né dietro uno sguardo gelido. Non poteva perché ormai era lì, dietro di lei, e lo sentiva ansimare, la sua schiena era rimasta come unico ostacolo.
 Perché non diceva niente? Aspettava forse che si girasse? E perché poi lei si stava creando tanti problemi, perché non si decideva a guardarlo in faccia? Continuava solo a picchiettare con le dita sulla tastiera.
“Come stai?” Non si annunciò, sapeva che nonostante l’indifferenza lei sapeva che era lì. E lei non si finse sorpresa dell’intrusione improvvisa, perché sapeva che lui era consapevole di essere percepito.
‘Come stai’. Esiste una domanda più semplice? Forse è proprio la sua semplicità a rendere sempre la risposta così complicata da dare, perché lascia aperte troppe possibilità; troppe per poter essere incanalate in un “bene” o “male” senza commettere errori.
“Bene.” Furono le sole lettere che scandì, il cui eco nella stanza si infiltrò negli attimi di silenzio tra i ticchettii dei tasti che premeva e i battiti del cuore nel petto. Le dita scivolavano senza pensare sulla tastiera, ma non stava scrivendo più niente di sensato. La sua presenza la agitava terribilmente, anche se in quel momento non riusciva a comprenderne bene il motivo.
Conan non le chiese di girarsi, né di guardarlo, restò solo fermo dietro di lei con l’atteggiamento del peccatore pentito.
“Senti Ai, mi dispiace non essere venuto in ospedale.”
Prevedibile, fin troppo, e questo pensiero le fece scappare un sorriso amaro.
“Non devi preoccuparti, Kudo. La compagnia certo non mi è mancata, se è questo che ti preme sapere.”
Questa risposta, in tutta la sua freddezza, lo spiazzò, facendogli capire quanto Ai non fosse sensibile agli interessamenti riparatori. Eppure, agendo in buona fede, decise di insistere, anche se la sua indecisione su come comportarsi si rivelò in quell’istante di ritardo con il quale arrivò la risposta:
“Mi fa piacere che non ti sei sentita sola.”
Nessuna risposta.
Quanti giri di parole riteneva opportuni prima di arrivare al dunque? Ma perché diavolo restava fermo lì dietro? A che stupido gioco stavano giocando. Un tiro alla fune con i silenzi per capire chi sarebbe stato il primo a cedere. Se ci fosse stato qualcuno a cadere. Eppure era strano dover giocare proprio con lui. Shinichi era sempre stato limpido nei suoi confronti, non aveva mai dimostrato, tranne in rare occasioni, la volontà di nascondere in parole non dette i suoi stati d’animo; perché nel tono delle sue parole c’era evidentemente qualcosa che stonava con il loro contenuto. Era sempre stata lei tra i due quella crittografare gesti e parole. Anche pensieri, a volte. Ma era così confortante apprendere che lui riusciva a leggerli e a comportarsi di conseguenza. In fondo, i codici erano i suoi preferiti, no?
Sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla, forse aspettandosi che fosse il segnale giusto per spingerla a girarsi. Maledisse la sua mancanza di prontezza nell’autogestirsi quando si ritrovò a sussultare a quel tocco.
“Possiamo parlare, Ai?”
“Ti ascolto.” Esordì pacatamente, con gli occhi di vetro fissi sullo schermo. Vedendo fallire anche il suo ultimo tentativo di introdurre quel discorso delicato con le buone, Conan decise di arrivare subito al dunque.
“No Ai, devi guardarmi! E devi guardare anche questa.” Cacciò dalla tasca una foto e la piantò sulla tastiera. Shiho sgranò gli occhi.
“Tu… Tu come…” provò a chiedere, ma la risposta già le giunse chiara in mente. Era stata colpa sua, lei lo aveva mandato in quel laboratorio, lei aveva fatto in modo che la stessa persona che era quasi riuscita a purificarla la facesse sprofondare nuovamente nel ricordo…in quel ricordo. Fissava quel pezzo di carta, sentiva i suoi occhi inquisitori puntati su di lei, non riusciva a muoversi, si sentiva soffocare. Doveva liberarsi di quel nodo alla gola che non la faceva respirare, ma tutto ciò che riuscì a cacciar fuori furono gocce salate, che si staccarono come cristalli bianchi dalle ciglia chiuse per approdare su due volti vicini, molto vicini, sciogliendone il colore.
“Non sono qui per giudicarti, Ai. Volevo solo sentirmelo dire da te.”
La reazione di Ai, che lui stesso aveva previsto a quel suo gesto, si stava concretamente avverando davanti ai suoi occhi, e in quel momento gli crollarono miseramente addosso tutte le certezze, che si era scrupolosamente costruito, di aver fatto la cosa giusta mostrandole quella foto. Ogni cristallo che cadeva dai suoi occhi gli trafiggeva il petto.
 “Sei davvero sicuro che vorresti sentirlo!?” sbottò alzandosi dalla sedia, ignorando la fitta che le trapassò la caviglia, reggendosi con la mano sudata sulla tastiera che rinchiudeva nel pugno quella foto. Aveva gli occhi patinati da una superficie di lacrime ancora non espulse e le guance rigate da quelle che già avevano mostrato apertamente al ragazzo quello che stava provando. Quel gesto l’aveva portata alla stessa altezza del piccolo Conan e finalmente riuscirono a guardarsi negli occhi. Ma non potevano vedere bene, non in quel momento sospeso in una tensione così fitta da ostacolare anche la luce di uno sguardo.
Però lui voleva sapere, voleva capire cosa c’era in quel momento dietro quegli occhi verdi, e voleva che fossero loro a dirglielo.
Fu l’unico pensiero che la vocina nella sua testa quasi urlò, riassumendo in quelle parole il luccichio che comparve nei suoi occhi azzurri. E lei sembrò sentirlo quel pensiero, perché tutta la tensione muscolare nella quale aveva incanalato la rabbia cedette per un attimo, quanto bastò al detective per scorgere un velo di paura nei suoi occhi. Paura di cosa?
Sapeva di non poter obbedire a quel pensiero, non poteva permettersi di uscire così tanto allo scoperto, quindi preferì voltarsi e provare a correre verso la porta per uscire da quella situazione. Stava di nuovo scappando, cercando di sfuggire al suo passato per non dover ancora una volta affrontare i suoi ricordi; sapeva che non sarebbe mai finita, ma non pensava che gli eventi glielo avrebbero confermato così in fretta. D’altra parte, dove ci si può mai rifugiare per nascondersi da se stessi?
Ancora una volta fu lui a impedirle di scappare. La tenne ferma per un polso. Lei non si girò, né oppose resistenza. Si limitò solo ad affidarsi passivamente alla speranza che lui non affondasse ancora di più la lama nelle sue ferite ancora aperte.
Conan stringeva le dita intorno al suo polso, guardava il suo braccio teso in modo da tenersi il più possibile lontana da lui, seppur non volendo sfuggire alla sua presa. Ormai le lacrime erano state versate e lui non era riuscito a impedirlo; quindi non gli rimase altro che sferrare il colpo di grazia affrontando la situazione con una pericolosa risolutezza.
“Lo amavi, Ai? Tu hai mai amato Gin?”
 
Una smorfia di disprezzo si disegnò sul volto della bambina, che approfittò dell’occasione per stringere le palpebre più che poteva sugli occhi con l’intenzione di fermare le lacrime. Cosa poteva dirgli? Ormai quella foto che li ritraeva in quel momento così intimo era passata per le sue mani e lui gliel’aveva sbattuta in faccia senza un minimo di delicatezza, senza dimostrare, a dispetto delle sue parole, un minimo di apprensione. Questi pensieri iniziarono a prendere il sopravvento nella sua testa, il pensiero che nemmeno lui in fondo riuscisse a capirla le fece sentire un vuoto incolmabile nel petto, quel senso di smarrimento che si prova quando anche l’ultima illusione alla quale ci si aggrappa disperatamente inizia a sgretolarsi. D’altra parte, era più confortante pensare che avesse agito in quel modo per negligenza, che lo avesse fatto con la perfetta consapevolezza delle conseguenze che quel gesto avrebbe avuto su di lei.
 Nei minuti di silenzio che accompagnarono queste riflessioni, Conan era rimasto immobile. Aveva allentato la presa, cercando di scrutare tra i suoi pensieri. Sarebbe bastato un sguardo per chiarire qualsiasi equivoco. In quel momento, negli occhi del detective c’era tutta l’apprensione che Ai aveva creduto esserle stata negata, tradita dall’immagine di Gin in quella foto che le aveva ricordato di dover cercare del marcio in chiunque. Ma lei continuava a coprirsi il volto con la frangia e lui non voleva essere frainteso. Lasciò il suo polso.
“Scusami, Ai. Non volevo essere così duro. Ho trovato quella foto quando ho portato qui il raccoglitore con i dati su cui lavoravi, è scivolata ai miei piedi quando l’ho appoggiato sul tavolo. Non… non credevo che aveste condiviso così tanto. E non sapevo se fosse giusto chiederti spiegazioni proprio quando tutto è appena finito...”
-Tutto finito… ancora quella frase. Sei proprio uno stupido, Shinichi.-
“Non sarei riuscito a far finta di nulla, capisci? Lui… lui era un assassino!”
Queste parole le passarono fulminee attraverso ogni vena: quell’accusa rivolta a “lui” aveva il sapore di qualcosa di diverso. Che Gin fosse stato un assassino lo sapevano bene entrambi. Forse quello che Conan voleva dirle davvero era altro. Come hai potuto condividere dei sentimenti con lui? Era un’accusa rivolta al suo modo di amare una persona? Tu eri come lui? O forse rivolta proprio a lei?
 Ai alzò il viso dalla penombra e si girò verso di lui, fissandolo negli occhi con i suoi ancora lucidi, e sorrise. Era un sorriso particolare, un misto tra tenerezza per l’ingenuità di quelle parole e amarezza per averle sentite pronunciare. Era uno di quei sorrisi che solo lei riusciva a disegnare con le labbra, riuscendo a far parlare gli angoli della bocca ancor prima di aprirla.
“Non riesci proprio a capire che non esiste una distinzione netta tra angeli e demoni, vero Shinichi?”
Il piccolo detective non rispose. O meglio, cercò di decifrare quella domanda fissando la scienziata, quel suo sorriso, così maledettamente suo, quegli occhi dall’essenza indefinita, finché non scomparvero quando Ai gli diede nuovamente le spalle restando immobile nella penombra della stanza.
“Non sono venuto per avere una risposta, perché voglio che tu sappia che non ho intenzione di giudicarti. Ti confesso che, per quanto disprezzi il fatto che lui fosse un assassino, preferirei sentirti dire che lo amavi e che sei stata felice; che non ti ha fatto del male, anche se so che non è così.”
Vide Ai alzare la testa al soffitto, forse per impedire alle lacrime di ricominciare a scorrere, e ottenne quella conferma che gli causò un tonfo al cuore. Tutto quello che riuscì a pronunciare per mascherarlo furono delle parole di consolazione.
“Non puoi liberarti di quello che è stato, Ai. Ora che non hai più niente da temere, vorrei solo vederti felice. Non devi ostinarti a voler affrontare tutto da sola. Perché quando certi ricordi diventano troppo pesanti da poterli sostenere da sola devi ricordarti che ci sono sempre io al tuo fianco.”
Quelle parole così inaspettate, così calde, che senza saperlo confutarono ogni singola ipotesi oggetto dei suoi frenetici pensieri di qualche minuto prima, riempirono nuovamente quello spazio vuoto che le era rimasto in corpo. Quella piccola grande attenzione da parte del detective riuscì nell’intento di farla sentire un po’ meglio, e, distruggendo il muro di diffidenza che aveva creato tra loro, si girò verso di lui.
Conan, rimasto fermo in attesa di un riscontro, fu confortato da quel gesto e glielo dimostrò con un sorriso.
“Allora mi prometti questo, Ai?”
Promettere. Lei non è il tipo di persona da fare promesse che sa di non poter mantenere. Come poteva dirgli che la sua intenzione di aiutarla, per quanto nobile, non sarebbe stata sufficiente?
-Le stampelle…- Si accorse in quel momento che fino ad allora era rimasta immobile al centro della stanza senza alcun tipo di aiuto; forse era stata la rabbia a tenerla in piedi, e l’agitazione le aveva fatto trascurare il dolore. Ora che aveva scaricato queste emozioni, il rendersi conto di quella sua condizione di precarietà fisica oltre che mentale, le causò un’improvvisa debolezza alla caviglia, che le fece perdere il controllo della gamba. Crollò sulle ginocchia con un verso di dolore.
“Ai!” urlò Conan sporgendosi verso di lei. “Che ti succede?”
Si massaggiò il piede, mentre alzò la testa per rispondergli, con la fronte aggrottata, cercando di racimolare un minimo di consapevolezza di se.
“Evidentemente non riesco ancora a tenermi in piedi a lungo.”
“Sei proprio un’incosciente, non dovresti sforzarti così. Su appoggiati, ti aiuto a rialzarti.”
Si accovacciò accanto a lei in modo che potesse allungare un braccio intorno al collo. La mano di Ai scivolò senza intoppi sulle spalle del piccolo Conan, finché non incastrò il gomito intorno a collo. Raggiunta quella posizione che avrebbe reso più stabile la risalita, Conan fissò con le dita della sua mano quella di Ai sulla spalla. Si rialzò e trascinò in piedi anche lei.
La mano di Ai aveva stretto quella spalla con una forza forse eccessiva rispetto a quella necessaria per consentire all’operazione di andare a buon fine. Forse, lui era davvero in grado di darle il suo aiuto e in quel momento lei lo stava accettando; e nel farlo promise a se stessa che avrebbe fatto di tutto affinché questo non diventasse il suo specchietto per le allodole. Le stava dando il suo aiuto, non il suo amore; questo non doveva dimenticarlo e se lo sarebbe fatto bastare.
 E quella camicia tenuta così stretta tra le sue dita fu una risposta più eloquente di qualsiasi altra parola alla domanda del piccolo detective.

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Capitolo 3
*** Chi sono? ***


Scusate per eventuali errori, non sono riuscita a trovare tanto tempo per revisionare :)

Dopo qualche mese di cure e riposo, sulla caviglia di Ai non restava altro che una cicatrice bianca. Aveva vissuto l’evoluzione della sua ferita in modo abbastanza passivo, certa che le sue giovani cellule sapevano bene cosa fare, senza preoccuparsi eccessivamente della sua salute. A differenza del dottor Agasa. Le ronzava sempre intorno, chiedendosi se avesse bisogno di un tè caldo o di una boccata d’aria, se avesse troppo freddo lì sotto e se quel curry che aveva cucinato l’altra sera fosse troppo piccante. Non era bravo a inventare scuse, anche un bambino si sarebbe accorto che erano semplici pretesti per assicurarsi che la piccola Ai stesse bene. Non parlava molto, Agasa la conosceva ormai, e sapeva che a qualsiasi esplicita dimostrazione di attenzione per la sua salute avrebbe reagito dileguandosi in rapidi “Sto bene”, “Non c’è nulla di cui preoccuparsi, dottore.”
Ai aveva trascorso le sue giornate davanti allo schermo del computer, tra formule e rompicapi, incongruenze e vecchi appunti poco leggibili, e finalmente quel giorno le sembrò di essere arrivata a capo di qualcosa. Anzi, a dirla tutta ne era quasi certa. Dopo un’ultima controllata al foglio che aveva tra le mani, salì al piano di sopra portandolo con se. Era davvero di buon umore.
Il dottore era impegnato a riparare le trasmittenti dei Detective Boys, e questo dettaglio per un attimo la disturbò. Nonostante quella brutta sensazione, decise di scacciare qualsiasi pensiero negativo, determinata a conservare l’emozione di quel momento.
“Ai, sei già salita? Hai forse bisogno di qualcosa?”
“Dottore, mi pare che c’è quel suo amico, il signor Takada, che possiede una casa farmaceutica. Per caso, può chiedergli il favore di procurare queste cose?”
Gli porse il foglio. Agasa lo guardò tra le mani della bambina cercando di evitare di posare il cacciavite che era finalmente riuscito a infilare in quella piccola vite di una trasmittente; ma, sgranando gli occhi incredulo, desistette subito dal suo intento, e inforcò meglio gli occhiali sul naso per avere una visione più nitida delle parole. Afferrò il foglio tra le sue mani per avere l’ultima certezza. Sì, ci aveva visto proprio giusto.
“Ai, non dirmi che...?”
La piccola scienziata annuì con un sorriso.
“Accipicchia, questa sì che è una notizia! Shinichi lo sa?”
“Non ancora, avevo intenzione di chiamarlo più tardi. Allora dottore, crede di potermi aiutare?”
Agasa si grattò il capo.
“Beh, è da tanto che non sento Takada, l’ultima volta che ci siamo visti fu proprio quando lui stesso mi chiese aiuto per quei piccoli furti in uno dei suoi magazzini. Però, credo che non avrà problemi a ricambiarmi un favore.”
“Molto bene. Ha recapiti per contattarlo?”
“Da qualche parte dovrei avere il suo numero di telefono. Lo chiamerò il prima possibile e ti farò sapere.”
“Grazie, dottore. Ah, mi raccomando, si assicuri la massima discrezione da parte sua. Si inventi qualcosa sull’uso che vuole fare di quei prodotti. Voglio che vada tutto liscio.”
“Agli ordini!” rispose scherzoso, assumendo la posa di un soldato sull’attenti.
“Così va meglio.” Rispose Ai stando al gioco, con tono altezzoso.
Scese nuovamente al piano di sotto e prese il cellulare.
 
Conan si stava annoiando sul divano dell’agenzia investigativa Mouri, rileggendo per l’ennesima volta gli articoli di cronaca sul giornale del giorno. Goro era intento a guardare la tv sulla sua scrivania, condizione che sarebbe durata ancora per poco prima che crollasse in un sonno profondo. Erano soli in casa. Ran aveva degli allenamenti di Karate intensivi in vista di un torneo alla fine del mese, ed era uscita subito dopo pranzo. Erano quasi le tre, e Conan non faceva che contare i minuti, fissando lo scorrere delle lancette sull’orologio. Aspettava con ansia il ritorno della ragazza, perché quel pomeriggio Goro era atteso da un cliente nella sua villa a Tokyo, e sapeva che senza l’indulgenza della figlia lui non gli avrebbe mai permesso di stargli tra i piedi. Era curioso di conoscere il motivo di quella convocazione fuori sede, e già riusciva a sentire sulla pelle l’ebbrezza di un nuovo mistero da svelare.
Tra una pagina di giornale, uno sguardo all’orologio e un’imprecazione contro il russare rumoroso di Goro, sentì il suo cellulare squillare. Con un rapido sguardo allo schermo lesse il nome di chi lo stava chiamando. Haibara. Era dai tempi dello spionaggio verso gli uomini in nero che non si sentivano per telefono. Che fosse successo qualcosa? Ma no, cosa andava a pensare, non si sarebbe fatto prendere ancora da quell’ansia ormai anacronistica. Sembrava paradossale, come faceva a dimenticarsene? Gli risultava immediato collegare quella sua routine nel corpo di un bambino a quegli uomini, e Haibara era una sorta di anello di congiunzione tra la sua vecchia vita e quella attuale.
Sapeva che stava lavorando all’antidoto per l’APTX4869, ma non si era ancora fatta sentire a riguardo, e lui, spinto dalla sincera fiducia che riponeva nelle sue capacità, non aveva mai pensato di chiederle aggiornamenti. Le aveva fatto promettere di vivere tranquilla, e non sarebbe stato proprio lui a farle rompere la promessa. E forse questo gli aveva quasi fatto dimenticare che dovesse aspettare quell’antidoto, e conseguentemente una chiamata da parte sua.
“Conan, ho delle novità. Potresti passare di qui appena puoi? Preferirei non parlarne per telefono.”
Esattamente trenta minuti dopo erano seduti entrambi sul divano dell’ingresso.
“Quindi sei certa che questa volta funzionerà?”
“Stai tranquillo, ho lavorato utilizzando i dati originali raccolti in laboratorio, ne sono del tutto sicura.”
“Ben fatto, Ai! Allora sono pronto!” urlò Conan con un sorriso a trentadue denti, sporgendo verso di lei il palmo della mano aperta. Lei lo guardò con un’espressione seccata e strinse gli occhi per provocarlo.
“Cosa vuoi?”
“E dai Ai, non fare la vipera!” simulò il pianto di un bimbo disperato, subito prima che Ai gli confessasse che effettivamente non aveva nulla da dargli.
“Sono risalita alla composizione chimica, ma non ho ancora nulla di pronto. Credi che mi metta a giocare al piccolo chimico?”
Rispose incrociando le braccia e girando la testa dal lato opposto. Doveva ammettere che divertente vederlo pendere dalle sue labbra.
Purtroppo però, la reazione di Conan fu molto abbattuta e, senza provare in alcun modo a nasconderlo, lasciò che le sue dita si contraessero esprimendo la sua delusione.
“Ah, capisco... Allora perché tanta fretta?”
“Perché dobbiamo parlare di una questione importante.”
Ai disegnò sul volto un’espressione seria, e questo non contribuì ad alleggerire la tensione che si era creata, apparentemente senza alcuna giustificazione, nella testa di Conan. Eppure il motivo c’era eccome, e prese forma nell’immediato ricordo di quel discorso lasciato in sospeso con Ai.
Possibile che avesse deciso di dirgli tutto riguardo Gin? Ma perché proprio in quel momento, e col pretesto dell’antidoto? Non aveva alcun motivo di mentire, lui stesso le aveva assicurato la sua totale disponibilità nei momenti in cui avesse avuto bisogno di qualcuno. “Qualcuno” avevano detto i suoi pensieri.
Qualcuno? Perché allora fino a quel momento si era convinto che Ai avesse potuto aver bisogno solo di lui?
Mentre cercava di predisporsi mentalmente al tipo di argomento che avrebbero affrontato, i suoi pensieri furono subito bloccati e deviati dalla loro strada dalla domanda di Ai.
“Hai mai pensato al dopo?”
Domanda inaspettata. Si era trovato catapultato in un campo minato diverso rispetto a quello a cui si era preparato. Perché diavolo riusciva sempre a spiazzarlo? D’altra parte, non era difficile capire a cosa si riferisse. Ma era una domanda la cui risposta era fin troppo scontata, tanto che sarebbe sembrato quasi da stupidi cogliere quell’occasione per ripeterla ancora. Decise di non rischiare e prendere tempo finché non fosse stata lei a essere più esplicita. Già, sarebbe stato decisamente più saggio simulare il collasso della sua mente da detective brillante, quindi un ingenuo “Dopo cosa?” rappresentò la soluzione perfetta per smettere di arrovellarsi.
“Dopo cosa?”
“Dopo che sarai tornato Shinichi. Con il corpo di Conan hai costruito una vita intera e l’hai intrecciata con molte altre. Hai intenzione di gestire le conseguenze che comporterà la scomparsa del piccolo Conan o vuoi lasciare quelle persone soffrire?”
“Ti riferisci ad Ayumi, Mitzuiko e Genta?”
“Soprattutto a loro. Ormai sei diventato il loro punto di riferimento, non riesco nemmeno a immaginare come la prenderebbero se il loro Conan sparisse improvvisamente senza lasciare traccia.”
“Tranquilla, mi inventerò qualcosa. Non ti facevo così apprensiva. Tu, piuttosto? Non penserai mica che invece la tua scomparsa passerà inosservata? Guarda che anche a te si sono affezionati molto.”
Tasto dolente, ma non era quello il momento di affrontare l’argomento. “Mi inventerò qualcosa” era stata la risposta di Conan, e le aveva confermato i suoi sospetti. Ancora una volta, Shinichi Kudo aveva dato prova della sua quasi inesistente empatia, o almeno di una grande superficialità nel considerare i sentimenti altrui.
“Ti ricordo che io sono brava a dileguarmi nel nulla.” Ripose con un sorriso sarcastico, tagliando corto. “Sicuramente più di te, che saresti un disastro.” Accentuò volutamente le ultime parole, riferendogli ermeticamente il suo pensiero di poco prima.
Si alzò dal divano e si diresse in cucina. Non lo stava facendo per lui, lo sapeva. Quella volta stava agendo in nome di quell’affetto così sincero che provava per quei bambini, in nome di quel sorriso dolce che Ran spesso le concedeva; perché il “ritorno di Shinichi” avrebbe potuto causare molte più ferite di quante ne avrebbe curate, lei lo sapeva fin troppo bene, ma evidentemente Shinichi non se ne rendeva ancora conto.
“Ti va un po’ di tè? Riusciremo a ragionare meglio con qualcosa di caldo.”
“Ma di che parli? Ei aspetta…” Conan le trotterellò dietro, seguendo il suo passo calmo con le mani chiuse dietro la schiena.
Pochi minuti dopo erano seduti davanti a due tazze di tè verde fumanti.
“Mi vuoi spiegare cos’hai in mente?”
“Voglio aiutarti a inventare una storia. Sarà divertente, non credi?” rispose Ai sorridendo.
Era un sorriso dolcissimo, tanto che Conan non riuscì fare a meno di notare quanto sembrasse rilassata in quel momento, e arrossì leggermente.
Circa mezz’ora dopo erano già nel pieno dello scontro tra le idee di entrambi: un promettente detective liceale e un’ex scienziata di una grande organizzazione criminale avevano mille modi per giustificare la scomparsa di una persona. Ai momenti nei quali litigarono con leggerezza, ognuno sostenendo la superiorità della propria proposta, scherzando su quelle più bizzarre e sulle più macabre, si alternarono momenti di serietà, nei quali cercarono di ragionare lucidamente per mettere in piedi una vicenda che facesse combaciare tutti i tasselli. Si rivelò effettivamente divertente per Conan e, d’altra parte, senza dubbio surreale: erano seduti a tavolino, inventando la storia della sua vita, che al tempo stesso era la storia di una persona inesistente. Inoltre, il comportamento di Ai lo colpì profondamente: i suoi gesti, le sue parole, l’espressione del suo viso quando bevendo dalla tazza si scottò le labbra, il numero di volte che sentì la sua risata, tutto in lei quel pomeriggio gli fece pensare che non l’avesse mai vista così a suo agio. E così, mentre si concentrava su questi dettagli, riuscì a proiettare quelle stesse sensazioni su se stesso, rendendosi conto che era da tanto che non sentiva la testa così leggera. Sentì nascere in lui quell’euforia necessaria per tener testa alla sua rivale, che per tutta risposta non avrebbe di certo lasciato spegnere il suo piacevole buonumore. Dopo qualche ora, infatti, la vicenda sulla scomparsa del piccolo Conan Edogawa giunse all’epilogo.
“Certo che sei proprio un osso duro…” Sospirò Conan appoggiandosi sul tavolo e reggendosi la testa con la mano.
“Beh, intanto devi ringraziare me se a nessuno salterà in testa di venirti a cercare.”
Questa frase, pronunciata affilando accuratamente ogni singola parola, nascondeva l’effettiva pace del suo spirito: in quel momento riusciva ad assaporare quella bella sensazione che si prova quando ci si è adoperati per far del bene a qualcuno. Era riuscita nel suo intento, forse era riuscita a rendere il distacco dal piccolo Conan quanto meno traumatico fosse possibile. Scomparire nel nulla in forma quasi ufficiale avrebbe dato il tempo a Ran di accettare la scomparsa del suo fratellino acquisito al quale si era enormemente affezionata, e avrebbe forse impedito che i suoi piccoli amici vagassero nella tristezza di rincorrere, in un futuro, il fantasma di una persona che non avrebbero mai più rivisto. Non avrebbe tollerato vederli piangere per lui, non dovevano pagare per l’affetto che gli avevano donato. Nessuno dovrebbe pagare per voler bene a una persona.
 
“Dunque, ricapitoliamo. I miei genitori hanno fatto parte dei servizi segreti americani, e sono stati coinvolti in un’operazione importante riguardo il contrabbando internazionale di armi. Qui in Giappone si trova un importante fornitore e, data la loro origine giapponese, erano stati scelti per trasferirsi qui, portandomi con loro per non destare sospetti. Purtroppo, la situazione è sfuggita di mano, e per non mettermi in pericolo mi hanno affidato ad Agasa, un vecchio conoscente. Durante un recente scontro con armi da fuoco, però, mia madre e mio padre hanno avuto la peggio e sono rimati uccisi.”
Ai prese parola.
“I contrabbandieri sono venuti a conoscenza del fatto che tua madre ti ha lasciato un codice contenente alcune informazioni importanti riguardo il nucleo dei servizi segreti di cui facevano parte, e che naturalmente loro hanno intenzione di ottenere. Sebbene tu non sia a conoscenza di dove sia questo codice, loro sono sulle tue tracce, quindi l’FBI ti propone di partecipare al programma protezione testimoni e tu accetti. Dovrai abbandonare tutti, e andrai in America sotto falso nome e con un’identità del tutto nuova, senza che nessuno potrà più venire a cercarti. Puff.” Concluse la bambina, aggiungendo un gesto con la mano per fare scena.
“Beh, in fondo non è poi così distante dalla realtà.” Come riecheggiarono amare queste parole. “Inoltre, grazie alle conoscenze che abbiamo nell’FBI, potremmo rendere la storia più veritiera chiedendo l’appoggio di Jodie o James...”
“…e nessuno potrà mettere becco nelle decisioni di agenti dell’FBI. Penso che anche i nostri piccoli amici capiranno, o almeno se ne faranno una ragione. Sarà dura per loro, ma non hai scelta.”
“Ora ne serve una per te.”
Ai lo guardò sorpresa, e si rese conto che forse non sarebbe riuscita ancora a rimandare quel discorso. Doveva aspettarselo in fondo che quella domanda fosse una conseguenza più che ovvia per il corso degli eventi che aveva lei stessa indirizzato. Eppure, fino a poco prima, tutto quello a cui riusciva a pensare era salvaguardare le delusioni degli altri. Senza indugiare ulteriormente, arrendendosi forse più per stanchezza che per convinzione, decise di uscire allo scoperto con una risposta secca e sibillina, sentendosi in ogni caso impreparata ad affrontarne le conseguenze a causa della profonda insicurezza che fluttuava su quella scelta.
“Non sono sicura che ne avrò bisogno.”
“Non… ne avrai bisogno?”
Non rispose.
Percepì d’istinto, in quella domanda che più che inquisitoria sembrava comunicare la disapprovazione della risposta già prevista, quanto l’aria si fosse improvvisamente appesantita. Cosa le era saltato in mente? Si era ripromessa di tenere per se quella sua intenzione. Era un decisione importante, e come tale c’erano troppi fattori in gioco per riuscire a scegliere. Non poteva in nessun modo separare la sua immagine da diciottenne dal suo passato, e il suo passato voleva cancellarlo a tutti costi dalla sua vita, per non dover vivere di rimpianti per sempre. Doveva cancellare Shiho Miyano. Ma era sicura di avere il coraggio di rinunciare per sempre alla normalità? Dopo tanto tempo grazie ad Ayumi, Mitzuiko e Genta era riuscita a vedere un po’ di sole nella sua vita, nonostante fosse perseguitata dalla paura loro riuscivano sempre a farla sentire parte del gruppo. Le avevano insegnato tante cose. Buffo a dirsi. Era stata una bambina di sei anni a insegnarle il coraggio, e un bambino della stessa età ad insegnarle ad amare. Fino ad allora pensava fosse qualcosa di diverso l’amore. Con Gin era tutto diverso.
Eppure, riusciva a stare incredibilmente bene nelle notti passate con lui. Si sentiva finalmente a posto, nessun tormento, niente rimorsi per le sue azioni: quando lo vedeva si sentiva pulita. Gin sembrava essere l’unico al mondo in grado ignorare i suoi difetti e accettare le sue azioni, perché erano i complici dello stesso grande crimine*. E quando la stringeva o la accarezzava riusciva a sentire il calore delle sue dita attraversare la sua pelle e solcare i suoi brividi e si illudeva che quello fosse tutto dell’amore. Nessun gesto di pura tenerezza, qualche sigaretta fumata appoggiata al suo petto e il suo profumo pungente che impregnava le lenzuola. Quello era l’amore: una faccenda decisamente sopravvalutata. Il loro rapporto era governato dal silenzio, riempito quasi esclusivamente da poche parole maliziose pronunciate efficacemente al solo scopo di stuzzicare l’altro. Nessuno aveva mai osato chiedere o spargere pettegolezzi, ma tutti sospettavano che ci fosse qualcosa tra loro. Eppure Gin, consapevole della soggezione che esercitava sugli altri, sapeva che non avrebbero rischiato di immischiarsi nei suoi affari personali, e frequentava con noncuranza l’alloggio di Sherry anche in orari che avrebbero lasciato poco spazio ai dubbi. Era sempre lui ad andare da lei, mai viceversa. Come se ci fosse una regola non scritta tra loro due che concedeva solo a lui la possibilità di scegliere quando incontrarsi. Ma in fondo, a lei stava bene così: non la distraeva dal suo lavoro e le faceva sfogare la stanchezza di lunghe giornate lavorative. Lei non provava niente. Non doveva provare niente; era questo il motivo per cui lui le si era avvicinato a tal punto. Non riusciva a resistere a una donna che poteva tenergli testa.
Iniziò tutto per caso, un pomeriggio nel suo piccolo studio; e lei capì dal primo momento che non aveva intenzione di opporsi alle sue attenzioni. D’altra parte, chissà se ci sarebbe riuscita, seppure avesse voluto. Se lo era chiesto spesso, ma la risposta era stata sempre la stessa: se doveva essere davvero sincera con se stessa, avrebbe dovuto ammettere che non sarebbe riuscita a non farsi sedurre, perché era incredibilmente attratta da lui, quasi affascinata dalla sua crudele freddezza piena di sfaccettature.
 Gin era il migliore della sua categoria, e sapeva bene dove mettere le mani per raggiungere i suoi scopi e per avere quell’appagamento dovuto a un colpo ben studiato che aveva seguito tutti i piani. E se aveva deciso di metterle su di lei le sue mani, allora significava che anche lei possedeva quella scintilla diabolica che diventò il suo più grande vanto mostrare. Essere scelta dal migliore voleva dire essere la migliore, e questa consapevolezza appagava anche lei; in ogni momento che il suo corpo accoglieva le mani di Gin, la sua vanità le ricordava di porsi su quel podio che la faceva sentire così imbattibile, affondando sempre di più in quell’affare di reciproco egoismo nato per concedersi lusinghe personali e che lei chiamava amore. Lei, così sicura di se come scienziata, ma incredibilmente debole come persona, tanto da non pronunciare mai una parola se non con Akemi, riusciva a sentire il potere tra le mani, imparando pian piano anche come riuscire a controllare giocando col suo corpo le carezze di Gin, scoprendo addirittura che con esso riusciva ad avere lei il controllo della situazione. Lei poteva avere il controllo su Gin.
Quest’effimero desiderio di onnipotenza, però, era destinato a sprofondare in un’oscura angoscia quando alla fine dei giochi lui si addormentava, e in quel letto restava di fatto sola con se stessa e le sue azioni. Perché invece Shiho non ci riusciva, a dormire. Perché in quei momenti era impossibile trattenere le lacrime. Se qualcuno fosse riuscito a vederla piangere, sarebbe rimasto sorpreso dal non vedere neanche una ruga sul suo viso, attraversato invece dalla quantità di lacrime che spetta solo a un pianto accompagnato da urla disperate. Non un singhiozzo, non un respiro spezzava il silenzio nel quale Gin dormiva. Era come se il corpo fosse un involucro autonomo e del tutto indipendente da quello che conteneva. E, purtroppo per lei, lì dentro c’era anche un cuore. Così, tutte le sue insicurezze riaffioravano puntuali, rese ancora più forti dalla paura di tradire la Sherry che stava costruendo e presentando al suo mondo.
Non mostrare a Gin le tue lacrime, asciugati e fai in fretta che potrebbe svegliarsi! Non vuoi che provi pietà per te, vero? Cosa fai, piangi ancora? Non è così che ci si comporta, non è così che sei, vuoi mettertelo in testa? Tutte le persone che i tuoi veleni hanno ucciso sono solo un numero, vale la pena piangere per un numero? Stai così bene con lui, sai bene che è il massimo che puoi ottenere. Andare a letto col capo, mica tutti possono permetterselo!
Si sforzò, si sforzò così tanto per mettere a tacere quelle vocine fastidiose che alla fine riuscì ad assecondarle. Riuscì a sentirsi se stessa in quella parte che le avevano cucito addosso, imparò a bloccare le lacrime e a vivere il rapporto con Gin come una cura nella sua vita, come uno slancio vitale, imparando ad accettare a cuor leggero anche quei “Sei mia” avidamente e morbosamente sussurrati al suo orecchio e ad assecondarlo ogni qualvolta ne avesse voglia; e se non ci fosse riuscita probabilmente avrebbe perso la testa in quel conflitto interiore senza via d’uscita. Col tempo cercò di annullarsi al punto tale che le risultò difficile capire il confine tra ciò che faceva di sua volontà e ciò che faceva per recitare la parte della donna senza cuore.
 E poi…
Le lucciole. Per una persona come lei, un bambino si era perso in un bosco per catturare delle lucciole; a una persona come lei, una bambina aveva urlato con determinazione che non bisogna nascondersi per sempre. Per una persona come lei, un detective paladino della giustizia aveva rischiato la sua stessa vita per salvarla.  Le lucciole…
All’improvviso la mente di Ai tornò nella cucina del dottor Agasa. Si rese conto di essersi lasciata di nuovo trascinare nei meandri dei suoi ricordi, con gli occhi fissi sulle tazze da tè appoggiate sul tavolo. E si maledisse mentalmente con tutta la forza che aveva per aver scelto il momento più sbagliato per farlo. Conan era rimasto a guardarla in attesa di spiegazioni.
“Ai, ti senti bene?”
Doveva rispondere, in fretta. Inventare qualsiasi cosa, anche la più stupida sarebbe bastata; doveva selezionare, selezionare tra tutte le parole che le esplodevano sulla lingua quelle giuste per tenerlo buono senza che facesse altre domande. Ma, come sempre succede in queste situazioni a chi ha una mente dispettosa, quanto più le si ordini di non imboccare certe vie, più queste saranno percorse alla velocità della luce con una determinazione ancora più grande.
“Io…”
Non ci riuscì. Aveva vinto di nuovo lei, la sua testa, aveva distrutto sul nascere le sue intenzioni, inviando in ogni cellula del suo corpo un incontrollabile senso di panico, che le cancellò tutte le capacità razionali.
I pensieri si affollarono, i sensi di colpa sopiti iniziarono a riaffiorare, il suo giudice interiore ricominciò a condannarla senza possibilità di riscatto, volti, parole, parole, tante parole, scorreva tutto dietro i suoi occhi immobili.
 
Lo cherry quando ha macchiato
dai Ai vieni con noi al parco
non va più via
senza di te
tu sarai la mia Sherry
non è divertente
Sherry
non va più via
Non scappare Ai
lo sapevi Miyano?
questa è la fine
non scappare
senza di te
che meritano i traditori :
dal tuo destino
Una persona non può
la morte
nascondersi
Ai
per sempre
 La sua testa stava per scoppiare e prima che riuscisse a rendersene conto iniziò a premere i palmi delle mani sugli occhi per provare a fermare tutto, e lo fece con tanta violenza che Conan le prese i polsi e gliele allontanò dal viso, per impedire che si facesse del male. Ai, sentendo che la sua intimità stava per essere violata, cercò rapidamente di agglomerare tutto nell’unica frase di senso compiuto che riuscì a pensare.
-Non puoi tradire di nuovo, Shiho, non puoi! Loro si fidano di te, non puoi abbandonarli! -
“Ma che ti prende?” la guardò dritta negli occhi tenendole strette le mani in modo che non cercasse di coprirsi. Il suo sguardo era così innocente da sembrare davvero quello di un bambino, era sorgente di una sincerità troppo grande per accostarsi proprio a lei in quel momento.
“Non… non devi toccarmi.” si liberò le mani con uno strattone per riuscire nel suo intento di coprirsi nuovamente il viso, stavolta per difendersi dall’imbarazzo che quella preghiera così umile per il suo orgoglio le causava.
 “Va’ via.”
Non sentì nessun rumore. Conan non si era mosso dalla sua posizione.
“Shinichi, ti prego va’ via.”
 Non provò nemmeno a sbirciare tra le fessure delle sue dita, non le interessava cosa stesse pensando di lei. Voleva solo restare sola.
Conan, a testa bassa, cercava di interiorizzare quella delusione: aveva promesso di starle vicino e lei non glielo avrebbe concesso. Non ancora, non in quel momento. Era davvero così infestata da voler rifiutare anche una spalla per appoggiarsi? Era stato un ingenuo. Non sarebbe servito a niente insistere, la conosceva ormai. Ai era una di quelle persone con le quali la vicinanza si dimostra mantenendo le distanze, quando lo richiedono.
Si alzò dalla sedia, facendola rumorosamente strisciare sul pavimento.
“Ascolta solo una cosa. Non sarà fingendo di essere qualcuno che non sei, che troverai la soluzione a tutto questo.” Infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini e si diresse verso la porta della cucina.
“Non farti vedere così dal dottore.”
Ai si accasciò con i gomiti sul tavolo: stava per piangere, ma ancora una volta doveva farlo in silenzio. Perché doveva essere sempre tutto così maledettamente difficile?
“Dimmelo tu…” sussurrò col viso ancora schiacciato sul tavolo.
“Dimmelo tu, Akemi… che cosa dovrei fare?”
*è una frase che usa Hachi in Nana

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