La Signora di Brighton

di Thewritingpenguins_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (1/2) ***
Capitolo 2: *** Prologo (2/2) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo (1/2) ***


la signora di bri.

Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte.

~ Romeo e Giulietta





1823


Quella fetta d'Inghilterra era come una fresca brezza in una giornata afosa.

Gli sterminati campi, infarciti di bionde spighe mature, rispecchiavano abbondanza e prosperità, un'apparenza in parte vera.

Il centro di Brighton, moderno per l'epoca, ospitava edifici di addirittura quattro piani con forti fondamenta e ampie finestre, attraverso le quali il profumo pungente della brezza marina pervadeva strade e abitazioni.

Nel corso degli anni le strutture si erano evolute, come anche il savoir-faire degli uomini inglesi.

La città, fondata sulla sapiente attività della pesca, era divenuta un centro d’affari ricercato e per il clima mite del luogo che invogliava i turisti a rifugiarvisi ogni qualvolta ne avessero avuto l'occasione.

Attorno a quell'anno edifici audaci come il Bedford Hotel iniziavano a vedere la luce mentre altri, come le obsolete e crepitanti abitazioni frutto del sudore di antichi e saggi fondatori, precipitavano nel buio.

La striscia di sabbia che proteggeva la città, simile ad una inefficace muraglia, regrediva di anno in anno divorata dalla costante fame del mare che, con inesorabile lentezza, erodeva la terra circostante. Dalla costa della baia si ergeva un ponte metallico che cominciava a somigliare sempre più ad un grosso ammasso di ferraglia arrugginita e abbandonata in mezzo al mare per pigrizia.

Superato l'energico centro cittadino, seguendo il tortuoso percorso di una ristretta strada sterrata, ci si ritrovava immersi nell'area più rurale e pacifica della regione inglese: una zona ricca, non molto distante dalla frastornante Brighton, e puntualmente esclusa dagli interessi degli indaffarati turisti o, più semplicemente, dal chiacchiericcio borghese del centro.

Si trattava di un'area piuttosto estesa che ospitava antiche costruzioni che, per puro miracolo, sembravano resistere alla crudeltà del tempo; l’orizzonte era disseminato dalle decadenti abitazioni degli instancabili contadini, adornate da alcune isolate regge ed edifici trascurati per cui bisognava saldare una retta tutt'altro che alta.

Quel giorno, una nevicata tardiva aveva ammantato di bianco i tetti di tutta la città, che parevano dissolversi nel cielo color tapioca. Il gelo pungente dell'inverno aleggiava nell'aria. I piedi affondavano nella fanghiglia del cortile e Margaret, poco più che dodicenne, nonostante la segatura sparsa sui ciottoli a formare un sentiero improvvisato, poteva sentire l'umidità gelida infiltrarsi nelle scarpe sporche di fango e l'orlo inzuppato delle vesti schioccare con forza contro le caviglie umidicce. Tutta tremante, si stringeva nella fine mantellina che portava indosso, avvolta frettolosamente sulle spalle affusolate.

“Che freddo!” disse in tono allegro, mentre rincasava. Circondata dalla visuale sul mare cristallino, una casupola dall’aria malaticcia, posizionata nel bel mezzo di un rigoglioso campo, si ergeva sopra un modesto colle con alcuni sporadici arbusti.

Al suo interno aleggiava come di consueto un retrogusto marino, salmastro, che impregnava le tende, le lenzuola e persino i mobili. L’aroma salino e quello erboso, quasi selvaggio, della radura circostante che cercava di conquistare l'abitazione, si combattevano costantemente in una battaglia senza apparente fine.

Sembrava di alloggiare su di una sporgenza divisa tra terra e mare, unendo i loro aromi e creando un piacevole contrasto che a volte faceva girare la testa.

Dall'esterno, il malinconico grigio torbido delle pareti attirava sempre l’attenzione di Margaret, specialmente negli angoli in cui il colore si era eroso, staccandosi e sbriciolandosi a terra, denudando così l'edificio.

Nascosti in un angolo sul retro, giacevano ancora i due piccoli cumuli scomposti di tegole che, qualche mese prima, erano precipitate, schiantandosi al suolo in decine di cocci.

Il muschio rinsecchito adornava il tetto come una folta chioma, facendo assomigliare le tegole rimanenti a vecchi volti ombrosi puniti dagli anni.

Il comignolo da cui fuoriusciva il fumo del camino si ergeva titubante al centro del tetto.

Nel corso degli anni alcune pietre si erano consumate fino a staccarsi del tutto e rotolare giù, verso l'orlo della rigida copertura, atterrando con un sonoro botto davanti alla porta scricchiolante dell’ingresso. Quest’ultima, del resto, era stata costruita tempo addietro, con legno di scarsa qualità che con il passare degli anni aveva finito per sfilacciarsi, minacciando chiunque lo toccasse con le sue legnose spine acuminate.

“Sono a casa!” Nel modesto soggiorno adibito a sala da pranzo, lo scuro tavolo in legno screziato aveva ospitato così tanti pasti da avere impregnate nel legno innumerevoli macchie appiccicose dalle più disparate tonalità che, nonostante i tentativi di rimozione, non avevano mai accennato ad andarsene. Lì, Lilith, intenta a preparare la cena, aveva guance e naso arrossati per via del freddo. Il rossore metteva in risalto i suoi occhi castani, rendendoli ancora più profondi del solito. Aveva l'aria dolce e un po' sbigottita. E le mani sporche di farina.

Lilith si occupava di Elizabeth dal giorno in cui aveva ricevuto il dono della memoria, e se fosse stato solo per il Signor Durk sapeva che quella bambina che era lei non sarebbe sopravvissuta una sola settimana. Il suo viso dolce ricordava a Lilith quello di sua sorella minore, Catherine, che sperava avrebbe rivisto un giorno, magari non troppo lontano. La separazione era stata dura ma il padre, a cui piaceva intrattenersi con donne di ogni rango e bivaccare al bancone delle osterie, era stato categorico: una delle figlie doveva allontanarsi, non poteva certo mantenerle tutte. Così lei aveva deciso di sacrificarsi, tutto pur di non mettere in pericolo le sorelle.

Come se le avesse appena letto nel pensiero, lo sguardo di Lilith si fermò sulla cesta in vimini che Margaret stringeva tra le braccia. Le fece cenno con la testa. “Poggialo lì” disse, indicando il camino tempestato dai vasi di Margaret e un paio di rudimentali cucchiai spezzati nella foga di preparare un impasto più compatto del solito.

Accanto al focolare, massicci pentoloni di rame sostavano pazienti sopra una traballante sedia di legno usurato. I mobili della cucina erano di seconda mano e le assi di legno, incastonate tra loro nel mobile che supportava stancamente il lavandino logoro, si erano a poco a poco sfondate con il tempo, rientrando e incurvandosi sotto il loro peso. Con il passare degli anni le ragazze avevano edulcorato quell’ambiente, aggiungendo una presina con l'immagine di un campo di lavanda fatta a maglia da Caroline, un quadretto dipinto con colori tenui e smorti da Lilith, qualche vasetto di terracotta su cui vi erano dipinti dei girasoli trovati da Margaret in un vecchia cassetta di legno, ed un infantile disegno di Elizabeth realizzato con gli unici pastelli viola e neri che possedeva.

Al lato opposto della cucina, si intravedeva la stanzetta di Caroline ed Elizabeth. Era piuttosto ristretto come ambiente ma per due bambine rientrava ancora nella sufficienza.

La loro cameretta di recente aveva subìto delle modifiche e da ambiente distaccato e privo di calore umano aveva tradizionalmente attraversato la fase che portava una stanza asettica a diventare calda e famigliare, quel passaggio silenzioso che trasforma gli ambienti e le persone al loro interno. Eppure, se qualcun altro si fosse aggiunto al rumoroso gruppetto di ragazzi e bambini che in quegli anni abitavano la casa, l'ambiente si sarebbe di certo trasformato in un qualcosa di asfissiante.

Percorrendo le scale, Margaret raggiunse il piano superiore, quello delle camere da letto. La prima, la stanza più grande, apparteneva al Signor Durk, ed era da lì che proveniva il solito lezzo di calzini puzzolenti e sudore seccato dall'aria.

Accanto, c'era la stanza di Lilith e Margaret, dalle dimensioni piuttosto ridotte, completa di un'ampia finestra sotto la quale era stato disposto orizzontalmente un baule tarlato. Margaret era solita sedercisi sopra e restava ad ammirare abbagliata le suggestive visioni di un acqua marina non troppo lontana.

Una lampada di ottone mezza rotta stava ancora nella nicchia annerita, in una delle pareti, e sull'altra uno stretto scaffale era macchiato di tracce di cera.

D'un tratto Margaret diresse lo sguardo su una serie di impronte, alcune di scarpe, alcune di calze. Si fermò a studiare le impronte sulla polvere che copriva il pavimento. "Caroline!" pensò, e giunta nella camera che divideva con la compagna, la trovò seduta alla finestra, lo sguardo perso in lontananza.

Caroline era particolarmente bella, aveva un viso grazioso e due occhi penetranti color del cielo. Quel giorno indossava un'ampia gonna marrone, quella che le aveva regalato Lilith il giorno in cui arrivò tra quelle quattro spoglie e rigide mura. Pareva abituata a camminare scalza, e le sue impronte erano presenti ovunque nella casa.

"Così ti prenderai un malanno!" disse Margaret, preoccupata. Non potevano permettersi di ammalarsi, altrimenti il Signor Durk le avrebbe sbattute fuori.

"Io non mi ammalo mai" Aveva compiuto da poco dieci anni quando un giorno Caroline, con sua sorella Elizabeth ancora in fasce, aveva bussato al portone, giù in cortile. La bambina, stremata e affamata, le aveva rivelato di essere fuggita di casa dopo la morte della madre. Non aveva voluto assistere ai luridi giochi di potere che si erano innescati in famiglia dopo la scomparsa della donna, il pensiero infido del voler lucrare su un qualcosa di così indefinito come la morte, così era scappata.

Caroline era una ragazza di poche parole a cui piaceva rifugiarsi in camera da letto e sostare lì per ore, in un silenzio quasi sacrale. Margaret da questo punto di vista, non le assomigliava affatto, girava come una trottola canticchiando instancabilmente, come pervasa da una costante allegria molte volte immotivata. Era una bambina felice per natura, la maggior parte del tempo lo trascorreva evitando di pensare a quello che aveva affrontato negli ultimi anni, il percorso che l'aveva portata lì, assieme a quelli che ora considerava suoi fratelli. Era dotata di quel tipo di personalità che nei momenti di tensione, creati sopratutto da Durk, riportava la quiete con una battuta sagace o un morbido e caldo sorriso.

Qualche giorno dopo il suo arrivo, ricordava ancora come, a causa di una lite sorta sul riuscire a scrostare nel migliore dei modi la più larga delle padelle di rame, avesse ricevuto un sonoro schiaffo a mano aperta da un Durk più alterato del solito.

La faccenda era terminata con lei che, ritrovatasi in ginocchio sul pavimento usurato, si era rialzata ordinatamente e avvicinatasi di soppiatto a Durk, gli aveva scagliato un calcio con tutta la forza che possedeva. Dopo di chè aveva preso a correre, fuori dalla porta, poi in mezzo ai campi rincorsa da un Durk quasi del tutto ripiegato su se stesso. Anche quella volta, Margaret era stata in città per qualche ora, aveva girovagato come un randagio poi, con il sonno che incombeva minaccioso, si era diretta a casa dove, aiutata da Lilith, si era coricata a letto come un sasso si corica sul letto di un lago.

"Tieni, copriti almeno le spalle" fece Margaret, cedendole lo scialle che portava sulle spalle affusolate. Il ricordo degli ultimi avvenimenti bruciava ancora in Margaret, come un ferita sanguinolenta su cui si getta sale e allora riprende a dolere, infuocata come i tizzi dei carboni ardenti. E rimirando, con lo sguardo assorto, la dolce e piccola Caroline, i suoi boccoli biondi e il suo naso dritto, Margaret si rendeva conto di quanto il tempo volasse. Persino quella neonata che era la piccola Elizabeth era cresciuta, e sembrava che fosse successo tutto così in fretta.

"A breve sarà pronta la cena, vedi di non farti aspettare, intesi?"

Improvvisamente, un tonfo familiare ridestò Margaret dal torpore dei primi freddi. Il corridoio era scuro, illuminato soltanto da una luce fioca che saliva dalle scale. Quando le raggiunse, udì un altro tonfo provenire da sotto, poi un soffio di aria fredda.

"C'è qualcuno alla porta" La voce di Lilith risuonò in un eco limpido e forte, su per le scale. “Vado io” disse Margaret , sistemandosi il corpetto, lanciò un'ultima occhiata verso Caroline e si diresse giù in giardino. “Chi è?” Margaret si lanciò a capofitto, giù lungo la scricchiolante rampa di all'incirca nove scalini, così velocemente da rischiare di inciampare sull’unico scalino che, un anno prima aveva ceduto. Prima di ripararlo Durk aveva iniziato a sbattere martello e chiodi sul pavimento, infuriato, inveendo contro l'industria del legno che si divertiva a truffare gli onesti compratori sostituendolo con prodotti sempre più scadenti.

Si sentiva in diritto di criticare le industrie, non che le avesse acquistate lui quelle assi, perché una decina di anni prima era stato assunto come operaio nella nuova falegnameria salvo poi essere stato liquidato sgarbatamente dal titolare in seguito ad un’azzuffata che era costata un naso rotto allo sfidante.

Attraversando a grandi falcate il soggiorno, arredato dai mobili recuperati dal Signor Durk durante le sue esplorazioni clandestine in qualche mobilificio abbandonato o in qualche sperduta casa di campagna, Margaret raggiunse la porta sul retro. Improvvisamente, un rumore sordo, proveniente dalla cantina adiacente il sotto scala, la fece trasalire. Si voltò, cauta e assorbì un odore aspro e pungente, un'essenza familiare. “Hayden?" Margaret infilò le mani nelle maniche del mantello, mentre un ricciolo corposo le ricadeva dolcemente sul naso alla parigina. “Sei tu, Hayden?” aggiunse pigramente, allungando il palmo della mano destra in segno di pace.

Margaret non si era ancora accorta della figura incappucciata che, nascosta dietro l’alta credenza, stava saggiando con malizia la sua silhouette da donna. Stretta tra le spalle spigolose e la morsa del freddo pungente di Gennaio, Margaret vestiva di un abito semplice, ma soprattutto umile, come lo era anche lei del resto. Un’ampia gonna sbiadita e rattoppata metteva in risalto le curve acerbe del suo corpicino esile, l’ancora poco procace seno che, sotto l’esile stoffa logora, si muoveva libero dalla costrizione del reggiseno che, puntualmente, Margaret toglieva la sera prima di andare a letto per poi dimenticare di indossarlo l’indomani.

Hayden, sedici anni e un futuro da vendere, la guardava, ammaliato dalla sua beltà celestiale, i capelli fulvi color delle albicocche mature, il profumo della sua carne tenera, l’essenza del suo sguardo caldo come miele.

Mark, qualche anno in meno di Hayden, si vantava di conoscere ogni centimetro di quella casa come il palmo della propria mano, ed era da lui che aveva appreso a nascondersi così bene, come una volpe.

Da bambini gironzolavano sempre per i campi attorno all'abitazione facendo visita ai contadini, rimanevano da loro per ore e ogni volta che Hayden gli domandava cosa ci trovasse nel passasse il tempo con quei vecchi signori lui rispondeva: “Hai idea di quante avventure hanno vissuto? E' affascinante!” A Mark piacevano le storie, ascoltava tutto e tutti, rimaneva in silenzio anche per ore se era necessario, non interrompeva mai un racconto e se gli sorgevano spontanee alcune domande le riservava per dopo, appuntandole accuratamente in un angolo della sua memoria.

Hayden era simile a lui per certi aspetti, quando voleva rimanere solo pensando a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Al tramonto raggiungeva la spiaggia di Brighton e correva da un lato all'altro fino a quando iniziava a sentire le ginocchia cedere e i polmoni scoppiargli nelle tempie. Aveva sedici anni e il futuro incombeva come un'ombra nerastra su un muro bianco: le settimane passavano monotone e lui raggiungeva il posto di lavoro, giorno dopo giorno, con l'impressione che quell'ombra si facesse sempre più grande, pronta ad inghiottirlo. A volte sentiva il bisogno di stare solo anche se rinunciare alla compagnia di Margaret era un'impresa piuttosto ardua.

Era certo che l’avrebbe guardata per ore, giorni forse, se non fosse stato per via del lavoro che lo teneva lontano da casa intere settimane. E ogni volta che lei era lontana, altri erano i passatempi per tenersi impegnati dopo una lunga sessione onirica su di lei. Margaret. La bella e dolce Margaret. La sua Margaret.

Hayden intrufolava piano un mano lungo l’apertura dei pantaloni, scioglieva il laccio di corda che usava al posto della cintura e abbassava la cerniera. Infilava le dita lungo il tessuto grezzo delle mutande di cotone e, con dovuta gentilezza, strusciava i polpastrelli contro la pelle calda e umida, quella pelle che tante, troppe volte gli aveva procurato piacere e desiderio immensi. I suoi palmi callosi navigavano tra le lussuriose cosce e il suo petto scarno e glabro. Iniziava piano, dolcemente, poi qualcosa nel suo petto lo riportava a Margaret e la sua mano si muoveva frenetica, come impazzita. Poi, quando si sentiva svuotato di ogni possibile pensiero o memoria, una strana e melanconica depressione finiva di prendersi Hayden e quel poco di lucidità che gli restava. Quando avrebbe voluto che fossero le mani di Margaret a fargli tutto quello.

Bastava un suo solo sguardo, per mandare in cortocircuito l’intero sistema nervoso di Hayden. Un solo istante, e quegli occhi verdi e burrosi lo avrebbero inghiottito, trangugiandosi lui e la sua tremenda ingordigia.

Anche allora, da dietro la siepe, Hayden la guardava. Sembrava come immobilizzato, intento a studiare ogni sua movenza, ogni suo gesto così gentile. L’aveva sempre guardava a quel modo, e non si era mai chiesto il perché di tutto quel casino che gli fracassava i timpani e quel turbinio di farfalle, o forse falene, che gli attanagliavano lo stomaco vuoto.

La prima volta che l’aveva incontrata, Hayden pensò di aver visto un angelo di fronte a sé: rosso e buono. Un angelo femmina. Eppure Hayden non era poi così certo che esistessero angeli donna in Paradiso.

Ora che la guardava meglio, si accorgeva e si stupiva per l’ennesima volta della pelle candida e profumato di Margaret, che sembrava indossare un manto fatto di latte e vene. La sua Margaret era sempre stata una bambina di salute cagionevole, dalla carnagione pallida ma dai pensieri rivoluzioni. Gli anni avevano forgiato il suo carattere e all’arrivo dei fatidici undici anni, Margaret si era trasformata, sbocciando come un fiore in festa per via della Primavera. Le sue forme, sterili e innocenti, si erano gonfiate e ingrossate, fino a diventare un bel paio di cosce sode e fianchi larghi e duri. “Fianchi larghi, da donna. Fianchi da madre.” Aveva detto una volta la moglie del farmacista. I suoi capelli, color caramello, rilucevano degli sporadici raggi di sole nascosti negli anfratti della città. Il vento sembrava danzare, giocoso, con quella chioma animalina.

Anche quel giorno, Margaret era bella. Aveva gli occhi caldi, come miele, e la bocca corrucciata in una smorfia bambinesca. Le guance, piene malgrado la scarsa alimentazione, tradivano una parlantina loquace e scaltra.

Hayden non sopportava il pensiero che ogni volta che si trovava fuori casa Durk avrebbe potuto mettere le mani addosso a lei, o alle altre ragazze. Portava ancora il segno violaceo di un livido piuttosto ampio sul fianco sinistro, l'ultima azzuffata con Durk aveva prodotto risultati orribili e se lo avesse beccato lì, a bighellonare piuttosto che lavorare, le conseguenze sarebbero state di gran lunga peggiori. Una volta, aveva perso il controllo dopo aver visto Margaret in un angolo della cucina che, rannicchiata su se stessa, premeva con forza la guancia sinistra, dipinta di un rosso lancinante che somigliava a lava. Seduto sulla poltrona sfondata del soggiorno Durk stringeva nel palmo una bottiglia di vetro del suo whisky preferito, di un color cuoio intenso, lo sorseggiava con furia, la bocca stretta e gli occhi macchiati dalle vene rossastre ed evidenti. Il ragazzo era corso a grandi passi da Margaret, stringendole la spalla e domandandole in modo concitato cosa fosse successo prima del suo arrivo. Lei aveva alzato lo sguardo pregno di disprezzo e aveva urlato: "Quel porco ubriacone mi ha messo le mani addosso perché pensava avessi buttato il suo alcool marcio!"

Durk non si era mosso e di un millimetro, continuando a sorseggiare il forte liquore avvertendo la pungente stretta alla gola ogni volta che deglutiva.

Hayden si era alzato in direzione del salotto, si era frapposto fra l'uomo e il muro che quest'ultimo stava fissando e si mise a sbraitare: "Cosa lei ha fatto!?"

Mentre pronunciava quelle parole iniziò a toccare Durk, dandogli delle leggere spinte sul braccio, quello occupato a sorreggere il whisky.

L'uomo, dopo aver bevuto più del solito, somigliava ad un essere bizzarro, una creatura dalle fattezze innaturali che al secondo bicchiere già farfugliava di paesi che non esistevano sulle cartine geografiche e di persone che esistevano solo nella sua fantasia.

Con la sua camicia color nocciola tartassata di fori, Durk si era alzato di scatto, barcollando leggermente, con lo sguardo fisso, gli occhi vacui e incoscienti.

Non disse una parola ma scagliò la bottiglia mezza vuota sul volto del giovane che d'istinto si spostò di lato evitando per una frazione di secondo i vetri della bottiglia.

Grazie ai riflessi pronti e decisamente più reattivi di quelli dell'uomo, Hayden si ricompose subito per poi scagliarsi con violenza addosso a Durk che, ancora confuso dal rumore dei vetri rotti sparsi sul pavimento, non si era accorto di come il giovane scapestrato si fosse scaraventato su di lui colpendolo sull’addome, sempre più forte.

Durk, malgrado la testa gli girasse vorticosamente e gli arti reagissero in ritardo, rispose a quell'assalto colpendolo di rimando sulla schiena e sul fianco. L’azzuffata continuò fino a quando Lilith irruppe nella stanza con Elizabeth per mano. Corse dai due e afferrò per le spalle Hayden supplicandolo di fermarsi. Dal canto suo il giovane, stremato, non voleva far assistere alla piccola Elizabeth tutta quella violenza, così decise di mettere fine all’ennesima baruffa. L'uomo, d'altronde, era già stato ripagato per quello che aveva fatto: Durk giaceva a terra, svenuto e con il viso piegato, la bocca socchiusa e un taglio sullo zigomo destro. Il suo grasso corpo ne era risultato martoriato e i segni sarebbero comparsi solo qualche giorno dopo, lo stesso valeva per Hayden che si trascinò fino alla porta principale per poi uscire e dirigersi chissà dove. Avrebbe voluto proteggerle da tutto quello ma ancora una volta era arrivato tardi e con il corpo pervaso dal dolore non era riuscito a perdonarsi.

Sommerso da quella ingente quantità di pensieri vorticanti, Hayden si sporse lentamente da dietro l'odoroso legno della credenza e, senza rendersene conto, le sue gambe muscolose e agili lo avevano portato al capezzale della sua dolce musa. La volle cogliere di sorpresa, afferrandola da dietro, stringendola per i fianchi e costringendola tra le sue braccia, forti a forza di alzare carbone nella miniera. La prese con facilità e Margaret sembrò in un primo momento lasciarsi stropicciare da quel paio di mani callose e così familiari.

“Hayden!” Il sussulto che scosse il corpo di Margaret, mando su di giri il giovane che, distrattamente, la afferrò per il bavero del colletto bianco. Se lo rigirava tra le dita, sfiorando appena con l’avambraccio il tessuto liscio e scuro dell’abito di Margaret. Con una gamba, spingeva verso il suo fondo schiena, imprimendo la durezza del suo corpo rigido su quello di lei che, sgomenta, si agitava e si contorceva come una biscia.

“Beh, che c’è? Non si usa più neanche salutare?!” Hayden la costrinse a voltarsi, mentre con le braccia si stringeva su di lei, stritolandola per sentirla più vicina, per sentire l’odore fruttato dei suoi capelli fondersi con quello speziato e pungente dell’aria invernale. Era stata fuori, lo sapeva.

“È questo il modo di salutare una Signora?” Lentamente, Hayden scoprì il volto che teneva nascosto nella sciarpa e le sorrise con gratitudine. Alzò gli occhi al cielo, oltre la massiccia porta e i suoi cardini arruggini, sbuffando. Un alito di vapore s'innalzò nell'aria fredda di Novembre.

La giovane gli si accoccolò accanto, investendo il giovane dell'odore acre di taverna e neve. Quando gli fu vicina, Margaret notò con stupore che Hayden stava crescendo davvero, non era molto più grande di lui, con quel suo viso affusolato, il naso all'insù e la bocca ben fatta.

La ragazza battè il tacco dello stivale sporco di terra e avvicinò talmente il viso a quello di Hayden che riuscì a distinguere il colore dei suoi occhi, verdi, e le radici dei suoi capelli, lunghi e del colore della corteccia degli alberi maturati al sole.

“Piuttosto, non dovresti essere a lavorare?” mormorò Margaret. Le sue labbra carnose e rosate si distesero e si arricciarono su loro stesse, scoprendo una dozzina di denti bianchi e lucenti. Così splendenti che Hayden avrebbe potuto intravedere il suo riflesso su quella superficie liscia e cangiante.

“E da quando in qua, tu saresti diventata una Signora?” Hayden le strinse i polsi, alzandoglieli all’altezza delle orecchie. La spinse contro il muro adiacente la porta d’ingresso. Per via degli spifferi di aria gelida, i loro sbuffi vaporosi si mescolarono nell’aria, in una nuvoletta di condensa biancastra.

Hayden le rubò un bacio a fior di labbra, strappandole una smorfia di dissenso seguita da un lungo gemito sommesso. Le mordicchiò il labbro inferiore, corposo e screpolato, chiedendosi perché le labbra di una donna, le labbra di Margaret, fossero così dannatamente morbide e succulente. Simili a due enormi pesche dorate e mature.

Mentre la baciava, lui la guardava teneramente, poteva sentire la sua pelle, ispida e bruciata dal sole, infrangersi contro quella candida e liscia di Margaret, solleticato da un paio di ciuffi sbarazzini che erano scivolati fuori dalla cuffietta bianca in cui teneva racchiusi i lunghi capelli.

“Hayden!” Uno sbuffo accennato riportò Hayden alla realtà. “Se qualcuno ci vedesse…”

Il ragazzo, alto e di bell'aspetto, la teneva ancora stretta stretta a sé, come si tiene tra le mani un passerotto gracile, che potrebbe rompersi o volare via da un momento all’altro. “Vieni, devo mostrarti una cosa...” Hayden afferrò Margaret per la mano, in procinto di trascinarsela dietro per tutta la città, ma la voce illibata e soave di Margaret gli pervase la mente. “Sai che non è ammesso uscire di casa dopo il coprifuoco!” I suoi occhi si riversarono in quelli di lei, minuta come un topolino. “Se il Signor Durk lo venisse a sapere...”

“Non lo verrà mai a sapere.” Il tono canzonante di Hayden sembrò più un modo per convincersi, piuttosto che una vera affermazione. “E tu, ora, vieni con me!” Hayden la attirò a sé con un movimento deciso seppur brusco. La tirava per le mani, euforico per via del piccolo gesto sconsiderato: se il Signor Durk li avesse scoperti, sarebbero rimasti senza cibo né acqua per giorni.



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Capitolo 2
*** Prologo (2/2) ***


prologo 2/2


Prologo (2/2)


La timida luce dell'alba fu il primo segnale di un giorno nuovo che nasceva, un giorno che le avrebbe sottratto qualcuno per lei insostituibile, un qualcuno che l'aveva stretta per tutta la notte in un abbraccio fedele e che ora sonnecchiava accanto a lei in attesa di un risveglio imminente.

Il caldo tepore emanato dalla coperta di lana e quello emanato dal corpo maschio di Hayden, impediva a Margaret di alzarsi propriamente e iniziare la giornata. Voleva rimanere lì, distesa su un fianco, le gambe al petto in quella che poteva sembrare una reminiscenza della posa fetale. Con la testa nascosta tra le braccia e il fine cuscino sgualcito, Margaret udiva ogni rumore, come il più piccolo degli scricchiolii, magari proveniente da un asse di legno erosa dalle termiti oppure dallo scalpiccio degli animali nell’aia, ovattato e inconsistente. Poteva udire quasi distintamente il russare del Signor Durk dall’altra parte del corridoio, il soave respirare di Lilith che, accoccolata nel proprio letto, supina e con i capelli sciolti e scompigliati sul cuscino, sembrava godersi quell'ultimo barlume di concesso riposo.

Il gallo avrebbe cantato, presto, e la vita nella piccola e angusta dimora di campagna sarebbe ricominciata con i suoi soliti ritmi. Lilith sarebbe scesa dal letto, agile e scaltra come una formica laboriosa, avrebbe attraversato svelta la stanza, calpestando appena il pavimento freddo. Prima di uscire, le avrebbe dato un morbido bacio sulla fronte, uno di quelli che profumano di chiodi di garofano e vaniglia,uno di quelli materni; le avrebbe rimboccato le coperte e le avrebbe sussurrato un dolce “è ora di alzarsi". Silenziosamente, avrebbe fatto scattare la maniglia della porta, ruotandola in senso antiorario, poi, richiudendosela alle spalle, sarebbe corsa a svegliare il sign. Durk dai postumi della solita sbornia che, con l’arrivo della vecchiaia, era diventata un “must". Nel letto accanto a quello vuoto di Hayden, Mark stava sicuramente russando,perso nella fase più profonda del sonno,una gamba a penzoloni giù dal letto.

La sera prima tutti i ragazzi si erano riuniti per passare le ultime ore prima del ritorno del signor Durk insieme. Mark dopo aver udito la notizia era rimasto senza parole e per cinque buoni minuti aveva fissato il viso dell'amico senza esprimere emozioni. Elizabeth e Lilith erano scoppiate a piangere ed erano corse ad abbracciare Hayden che con il viso distrutto scrutava Margaret, seduta in un angolo accanto a Caroline, ammutolita anche lei dall'annuncio, piangeva in silenzio.

Era stata una cena silenziosa, malinconica e permeata da un'atmosfera lugubre. Durk era rientrato tardi, come succedeva spesso quando si perdeva nelle locande di Brighton in compagnia di donne troppo costose per le sue misere tasche, e Caroline gli aveva lasciato una scodella di zuppa al solito posto. Zuppa che quella sera, dopo essere rientrato Durk non aveva nemmeno sfiorato, era salito al piano superiore per poi sbattere furiosamente il pugno sulla porta della stanza dei ragazzi da cui provenivano voci smorzate e basse. Questi si erano alzati dal pavimento e dopo aver abbracciato e stretto forte il ragazzo, si erano avviati ciascuno nelle proprie stanze.

Stretta nel caldo abbraccio delle coperte, ammucchiate una sopra l'altra per fare spessore, poichè trapunte e coltroni erano troppo costosi per il Signor Durk, Margaretpensò che avrebbe ricordato quella notteper tutti gli anni a venire. Perchè quella notte credeva di aver sognato quando un paio di lunghe e pelose gambe le avevano sfiorato le caviglie indolenzite per il troppo camminare: Margaret aveva avuto come l’impressione che qualcuno la stesse osservando. Si sentiva affogare dall’insistenza di quella sensazione.

D'un tratto la porta della camera da letto si era spalancata, un paio di passi sulle assi cedenti e Margaret aveva capito che qualcuno era appena entrato nella stanza, ma non era in grado di percepirne la presenza, poichè in balia del buio. Una sagoma oscura si era affrettata a raggiungere il suo letto che si era piegato in un gesto innaturale sotto un peso ingente che non era abituato a sopportare. Il contatto con gli indumenti stranamente freddi e umidi aveva fatto sobbalzare Margaret, che si era stretta ancora più in sé stessa, facendo attenzione a non far scivolare la coperta giù dal volto. Tentando di regolarizzare la respirazione, aveva finto di essere caduta vittima di un tremendo incantesimo, ma il sudore freddo cominciava a farsi sentire, appiccicato come un collante tra il tessuto sporco del cuscino e la guancia striata di Margaret.

Il respiro caldo e umido, le labbra schiuse e un alito di piacevole calore le rubò il respiro, mentre si avvicina al suo orecchio scoperto. “Stai dormendo?” Allora, riconoscendone la voce, Margaret si era svegliata tutta, di soprassalto, e si era voltata incredula. Al suo fianco, dietro un ammasso di capelli e vestiti, Hayden teneva gli occhi socchiusi, su di una bocca ispida e carnosa. La folta chioma sembrava incatenata al tessuto morbido del cuscino. La camicia da notte, legata e infilata dentro la cintola dei calzoni, si alzava e si abbassava al seguito del respiro del suo petto.

“Dove sei stato?” Il profumo caldo e la fresca rigidezza della stanza s’infiltrarono sotto le coperte.

“Per favore, non dire nulla.” aveva detto, in un roco sussulto scuotendo una mano da sotto la coperta. Hayden le aveva posato una mano a coppa sotto il mento, sfiorandole uno zigomo con i polpastrelli. Poi l’avevabaciata amichevolmente con la levità di una piuma, assaggiando la sua fronte liscia. Margaret profumava di sole, d'estate, e aveva labbra dolci come fragole. Lei l’aveva abbracciato stretto, godendo della morbidezza del suo corpo. Ogni volta che lei si muoveva, o si contorceva nell'abbraccio, provocava una deliziosa tortura che portava Hayden al limite dell'autocontrollo. Abbracciati l'uno all'altra si erano addormentati tardi, dopo essersi sussurrati promesse e confessioni.

Quel mattino, i suoi capelli color terra bruciata sparsi a raggiera sul cuscino, sapevano di fiori selvatici, acqua salata e carbone; le palpebre socchiuse di Hayden in quel momento le ricordavano il candido riposo innocente di un neonato ignaro di ciò che la vita gli avrebbe riservato, il suo viso rilassato così in contrasto con l'espressione cupa e preoccupata che le aveva riservato il giorno prima. Per certi versi comprendeva il suo comportamento, iniziava a dare un senso alle parole del giovane, il suo volerle nascondere la partenza fino all'ultimo giorno per non essere costretti ad avvertire il peso schiacciante dei minuti che passavano. Le ore, i minuti e i secondi trascorsi dal momento del funesto addio erano stati per entrambi carichi di un peso insostenibile che aveva macchiato quegli ultimi momenti di beata condivisione.

Ed ora, mentre lo guardava risvegliarsi,Margaret desiderò ardentemente di poter ripetere tutto, dalla sera prima fino a quel momento, di poter sentire ancora Hayden sussurrarle parole dolci e rassicuranti invece di essere costretta a forzare un sorriso vuoto, perchè non aveva la forza di dire nulla.


°°°°°


Gli accarezzò i capelli con lo sguardo coperto dalle lacrime, il vento freddo soffiava inperterrito facendo svolazzare la veste di Marge che stretta ad Hayden si lasciava cullare dalla sua presa e dalle raffiche mattutine.

I ragazzi erano sulla porta di casa e dopo aver salutato uno per uno il castano erano rimasti lì accanto guardandoli con gli occhi solcati dalle lacrime.

“Devo andare Marge.” Hayden aveva sussurrato queste parole in tono grave con la voce rotta dall'amarezza, il viso piegato nell'incavo del suo collo per annusare ancora per gli ultimi istanti il suo profumo inebriante che sapeva di casa, una casa che non avrebbe rivisto tanto presto.

“No, ti prego.” Lei premette le mani sul suo petto marcato in cerca di altro conforto ma il tempo scorreva inesorabile e non c'era nulla che potesse rimandare quel momento.

“Tornerò, te lo prometto, aspettami.”

Hayden le afferrò le mani e come il giorno prima se le portò alla bocca, le baciò e sussurrò questa frase a ripetizione quasi come se fosse un circolo disperato senza fine.

Indietreggiò di qualche passo e lasciò la presa di Marge non prima di averle baciato un ulima volta le mani poi si avvicinò al suo viso e le diede un leggero quasi impercettibile bacio sulle labbra, per Marge quello fu come soffio delicato di un istante troppo veloce per poterlo cogliere fino in fondo.

Dopo di ciò il ragazzo afferrò la valigia di cartone ammaccata appoggiata a terra, salutò i ragazzi in lacrime sulla porta con un gesto caloroso e disse:

“Tornerò ragazzi.”

L'ultima immagine che lui regalò a Marge fu quella della sua schiena ricoperta dal tessuto blu del maglione usurato che curvata come dopo una giornata di duro lavoro si allontanava sull'arido sentiero che conduceva a Brighton.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


la signora b. cap 1


"Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla."
- Richard Bach


Capitolo 1


Il cinguettio degli uccelli appollaiati sul balcone l’avevano improvvisamente ridestata da sonni angusti, immagini caotiche che, affollandosi nella sua mente buia, la riportavano indietro ad un passato fiorito e così stranamente familiare. Nei suoi sogni, una piccola Margaret richiamava alla mente ricordi frammentari, tornando così indietro nel tempo, alle vecchie corse a perdi fiato, agli sguardi timidi che si incrociavano durante i pasti. Il passare del tempo aveva in un qualche modo scremato le sue memorie, lasciandole solo i piccoli gesti, le frasi pronunciate senza farci troppo caso, quel bagliore e quella luminosità negli occhi di Hayden che lo aveva fatto restare bambino, quella sua tradizione nel prenderle la testa fra le mani e imprimerle un bacio sulla fronte di primo mattino, prima di scappare e correre alla miniera. Margaret si appigliava a briciole di memoria incastonate negli anfratti più remoti della sua mente e immaginava il modo distratto ed innocente in cui Hayden, durante i mesi più freddi, si leccava spesso le labbra per non avvertirne la secchezza oppure, se lo rivedeva seduto ai piedi del camino con una tazza di latte caldo e un biscotto sotto i denti. Persino i suoi ricordi profumavano, di sole, d’estate, di biscotti fatti in casa.


Margaret aprì gli occhi; dal piano inferiore provenivano odori caldi e fragranti, come quello di un tozzo di pane che aveva appena fatto il suo ingresso in cucina, l’invitante profumo speziato degli avanzi della sera precedente, o il puzzo insistente della legna arsa nel camino annerito dalla fuliggine. Margaret inspiro’ prepotentemente il lezzo di aria stantia misto al sapore di bucato proveniente dalle lenzuola fresche e confortevoli.

Poi il rumore di passi spediti su per le scale cigolanti e Margaret capì che il richiamo al dovere sarebbe presto sopraggiunto. Si voltò verso l’altra sponda di un letto ogni giorno sempre più stretto e, imboccate le coperte, si immerse nuovamente tra le coltri e desiderò sprofondare nuovamente nei suoi sogni.


Margaret sognava spesso. Anche di giorno. Sognava ad occhi aperti e agognava il fatidico giorno in cui, assorta nella miriade di lavori quotidiani, avrebbe alzato lo sguardo e avrebbe rivisto Hayden: se lo sarebbe ritrovato dinnanzi, lì, a un passo da lei, con le braccia protese in avanti e il suo vivace sorriso impresso sulle labbra carnose, pronto a stringerla tra le braccia, promettendole in un dolce sussurro che il tempo non li avrebbe mai più divisi. Eppure Margaret aveva ormai perso le speranze. Era certa che Hayden si fosse ormai dimenticato di lei, della sua adorata Marge che lo attendeva ancora a casa, la loro lontana e grigia casa. Le lettere tanto appassionate che le aveva inviato con accurata e maniacale tempestività avevano ben presto cessato di arrivare. Eppure le conservava ancora tutte: le teneva nascoste tra la federe dei cuscini oppure sotto il materasso. Erano il suo unico tesoro che l’avvicinavano al cuore di Hayden.

Un miraggio, una speranza o forse un’inutile illusione. Un po' come quando, la sera, Margaret sedeva alla finestra, lei sola ed il silenzio ad abbracciarla, e le capitava di udire un colpo di tosse o una voce familiare invocare il suo nome, e chiamarla “Marge”, assottigliando la “e” fino a farla scomparire in una “i” silenziosa. Credeva di essere diventata pazza, una Giovanna D’Arco inglese.

Margaret scosse il capo, prese una grossa boccata d’aria e fece per addormentarsi di nuovo, come sorpresa tra le braccia del Dio Morfeo, quando udì la porta aprirsi impercettibilmente.


È ora di alzarsi! “ la voce melodiosa seppure un po’ sgraziata di Lilith la percosse dalle punte dei capelli fino alle dita dei piedi. Poteva percepirne la presenza, anche a metri di distanza, ne riconosceva lo sguardo pungente e se l’immaginava con le braccia ai fianchi, in una posa di superiorità forzata e un sorriso nascosto tra le pieghe delle labbra.

Tutti, ben presto, si erano accorti del repentino cambiamento nei modi di Margaret, la sua espressione fiera e battagliera era stata eclissata da un atteggiamento più accondiscendente, quasi fatalista, che non le apparteneva e lei ne era più che consapevole.

Ancora cinque minuti… “ mugolo’ Margaret da sotto le coperte. Sapeva che le sue preghiere non si sarebbero di certo realizzate, né allora né mai, e si mise l’anima in pace: non c’era nulla che poteva contro il suo ingiusto destino e quelle odiose e interminabili routine senza sosta.

Forza! Non farmelo ripetere, sei in ritardo per la colazione! “ Due acuminate mani ossute si fecero largo tra le spesse coperte di lana grezza e il corpo affusolato di Margaret. Lilith la afferrò ad una spalla e non smise di percuoterla finché non la vide rotolare su un fianco e poggiare i piedi a terra. Le scosto’ le coperte con noncuranza e le gettò ai piedi del letto.

Margaret sentí freddo, uno spiffero di aria fresca si era intrufolato tra le caviglie e l’orlo dell'ampia veste da notte color panna sbiadito e quando finalmente decise di alzarsi, la consolazione che il freddo pungente aleggiava finalmente nell’aria, la colse impreparata.

Lilith l'aveva aiutata a indossare tre delle sue sottovesti più pesanti, due paia di calze invernali rattoppate qua e là, il suo vestito verde in spugna grezza e la pesante casacca grigia su cui era stato cucito un grembiule improvvisato con uno strofinaccio slavato. Le pettino' i lunghi capelli rossi, lisci e lucenti come l'albume di un uovo. Li lavorò con le mani, intingendo le scaltre mani callose nella folta chioma di Margaret, districando con le dita eventuali nodi. Afferrò una lunga e grande ciocca e con il pettine la stiro' in tutta la sua lunghezza.

Lilith era di certo la più turbata per le stranezze dell’amica che riconosceva a malapena: dalle prime ore del mattino alle ultime della sera Margaret sembrava un fantasma che, bofonchiando tra sé e sé, rimuginava su pensieri tutti suoi che non voleva di certo condividere con gli altri.

Una volta aveva tentato di rapirla da quel silenzioso incantesimo che la rendeva prigioniera per parlarle e garantirle un briciolo di supporto pieno di affetto che la giovane provava nei confronti dell'amica che conosceva da anni, ma Margaret era fredda, scostante. Non desiderava essere toccata da nessuno.

Un pomeriggio, mentre Margaret si recava sul retro per stendere il bucato fresco di giornata, Lilith le aveva dato una mano ad issare le lenzuola sul filo per la biancheria.

Io e gli altri vorremmo sapere se va tutto bene, Marge.” La cuffietta bianca che copriva in parte il volto longilineo di Margaret si voltò di scatto, scoprendo un paio di folte ciglia e due occhi increspati dall’apatia più totale. “Non chiamarmi a quel modo! Quante volte devo ripeterlo!?” I raggi del sole pomeridiano sbattevano sulla facciata della casa facendola sembrare di un grigio meno spento del solito, le finestre spalancate assomigliavano da fuori a piccole porte nere che se attraversate avrebbero condotto a luoghi lontani e ancora più assolati di quello. Margaret sistemò il lenzuolo spiegazzato sul filo e dopo qualche secondo di silenzio rispose alla domanda. “Certo che sto bene.” Il tono piatto e impalpabile della sua voce fece venire i brividi a Lilith che -


Lilith fu sorpresa da un lontano ricordo che senza preavviso le tornò alla mente. Sentì il bisogno di fermarsi e assaporare quella visione.

Lei appoggiata sullo stipite della porta di casa. Era magra e aveva i capelli arruffati dal vento, le guance scarne e le mani dietro la schiena mentre guardava Margaret e Hayden giocare assieme a Mark e alla più piccola Caroline: era estate anche in quel ricordo e il Sign. Durk era andato in visita ad una fiera di paese vicino Brighton con un amico della sua locanda preferita.

Hayden aveva da poco iniziato a lavorare alla miniera e Margaret sembrava così piccina in quel ricordo. Le urla rumorose dei giochi in cortile, le corse e le scampagnate, il soave riso gracchiante dei bambini che le riecheggiava nella mente sembrava trasmetterle un calore che era sicura non sarebbe più tornato, un passato ormai distante.

Eppure se Lilith si fosse concentrata, sarebbe riuscita ancora a sentire il profumo dolciastro e selvatico dell'erba appena tagliata in lontananza, le sferzate di vento caldo che non facevano altro che aumentare l'afa di quella giornata, il verso stridulo dei gabbiani che dal mare si alzavano in volo per sfrecciare sopra le loro teste e dirigersi in posti nascosti allo sguardo umano. -


Voglio solo che tu sappia che, per qualsiasi cosa, io sono qui per te. Mark e Caroline ti pensano e sono in pena per te...” Una volta tornata alla realtà, Lilith sussurrò queste parola con l'immagine della piccola Marge ancora impressa negli occhi lucidi. “E’ dura per tutti.”

Lo so, Lilith.” Margaret si limitò a pronunciare queste parole con un sorriso di sbieco impresso sulle labbra, poi si sistemò il corpetto compresso tra le vesti, afferrò l’enorme cesta vuota del bucato e si avviò verso l’ingresso di casa.



Abbandonata la camera da letto e le soffici coltri, Margaret si diresse in camera del Sign. Durk, che si era già allontanato dall'abitazione dopo aver sbattuto bruscamente la porta e aver svegliato la maggior parte degli abitanti della casa. Afferrò dal penultimo cassetto del comò traballante un paio di guanti e si avviò al piano inferiore non prima di aver allacciato gli stivaletti logori e dall’odore antico che ogni inverno sfoderava dalla soffitta con felicità.

Percorse le scale cigolanti di casa con estrema e meticolosa lentezza per non rischiare di inciampare nella lunga sottogonna dell’abito poi, quando raggiunse la cucina, tirò un respiro nel vedere Mark, il petto imberbe nascosto dall’ampia camicia bianca, la cintura pendente lungo un fianco e i pantaloni leggermente calati sulle natiche, che appoggiava una tazza di thè caldo sul mobiletto di legno per poi asciugare un piatto, probabilmente quello utilizzato da Durk, dopo averlo lavato nel catino d'acqua lasciato pieno da Caroline la sera prima.


Una volta Mark aveva provato a baciarla, ne era certa. Era accaduto nell'aia, dove Margaret era solita recarsi subito dopo pranzo: scendeva giù in cortile e andava a controllare le galline e gli animali giù nel retro. Mark si trovava ad arare la terra dei campi poco più in là, quando urlo' il suo nome e le fece cenno di raggiungerlo.

Margaret, il cesto con le uova sottobraccio e una mano a tenersi la cuffietta sul capo, gli andò incontro ridente e spensierata ma solo quando si trovò a pochi metri di distanza, si accorse di una piccola palla di pelo color delle arance, una matassa screziata e dalle striature opache che si dimenava tra un paio di braccia nude e muscolose.

"Guarda cosa ho trovato!" Il ragazzo lo teneva per la collottola mentre osservava incantato con i grandi occhi scuri quella piccola creatura sofferente. Margaret, che aveva il cuore dolce e soffice come il burro, lo pregò con voce languida: "Posso accarezzarlo?" Sul volto scuro di Mark si formò un ghigno saccente “Puoi accarezzarlo, soltanto se prima mi dai un bacio!" Margaret arrossì di tutto punto, nascondendo il volto dietro al cesto in vimini che stringeva avidamente tra le braccia tremanti. "Mark, smettila di scherzare!" gli aveva detto, indignata e un po' offesa. Mark lo faceva sempre, era più forte di lui e non poteva resisterle. Così non perdeva mai occasione per tentare di rubare un bacio, seppur insulso, alla tenera Margaret oppure alla più seriosa e impavida Lilith, un bacio sulla guancia era tutto quello che riusciva a strappare alla più giovinetta Caroline.

Tenendo il gatto dietro la schiena, le si avvicinò di soppiatto tutto gonfio e di rimpetto, si protese in avanti e con la bocca corrucciata piegò le labbra in una smorfia di soddisfazione. Margaret si sentí afferrare il cestino che stringeva in mano e quasi non perse l'equilibrio quando i suoi stivaletti neri sprofondarono nella terra umida e morbida. Il gitano la teneva per un polso e la guardava con occhi teneri e un espressione che Margaret non credeva potesse appartenergli. Non era la prima volta che baciava un ragazzo e di certo Mark non era brutto come gli altri ragazzi del contado, piuttosto, le era sempre sembrato un fascio di muscoli ben piazzati, con la pelle caramellata dal sole e i capelli neri e sbarazzini. Aveva qualche anno in più di Margaret eppure non sembrava dimostrarli: Mark era alto e malgrado i suoi vent'anni, aveva i lineamenti di un uomo di trenta e sembrava già maturo, con il pizzetto sotto il labbro inferiore e un rado filo di barba sotto il naso e vicino le basette ricciolute.

"Sto scherzando, Maggie!" Le aveva infine ululato ad un orecchio, provocandole uno spasmo involontario. Il gattino era finito tra le sue braccia e Mark era tornato ad arare la sua amata terra bruna. La ragazza era rimasta lì, allibita e un pò sconcertata, finché il gatto non le aveva morso il dorso di una mano per darsela a gambe. Anche Margaret era tornata ai suoi doveri giù all'aia, con lo sguardo basso e pensoso.


Ora Margaret lo guardava e se lo immaginava proprio com’era quel giorno. Un paio di pantaloni larghi e scuciti e una maglia di cotone legata in vita. Il petto glabro e lucido e un ciuffetto di peli scuri tra il ventre piatto e la fibbia della cintura. Mark non sembrava ricordarsi di quella volta, quella volta nell’aia, quando un semplice gesto aveva fatto tornare a galla sentimenti e sensazioni che Margaret pensava avesse dimenticato e ricacciato per sempre nella ruota della dimenticanza. Non sopportava l'idea che Mark le ricordasse, seppur lontanamente, il suo caro Hayden: Margaret, aveva come la sensazione che gli anni le stessero sfuggendo di mano e i giorni, volati uno dopo l’altro, erano trascorsi come coperti da un alone grigiastro che con il passare dei mesi le aveva annebbiato anche i ricordi più cari.

I mesi successivi alla partenza di Hayden, Margaret, assorta in un mondo tutto suo, aveva richiamato a sè tutte le forze che possedeva così da trascinarsi in un perpetuo e fragile ricordo che rievocava vagamente in lei, un riso compiacente di bambino e due occhi verdi e grossi come due chicci d’uva. Ma con il passare del tempo, quell'immagine dai colori nitidi che nella sua mente si era impressa sotto il nome di Hayden, si andava a mano a mano sbiadendo in un pallore indefinito e dai bordi smussati.

Mark stava lentamente prendendo il posto dei ricordi felici trascorsi con Hayden e lo aveva fatto subito, quel mattino, quella volta nell’aia, quando l'aveva chiamata giù al campo. Ed era stato come se Margaret si fosse ridestata da un lungo sogno e d'un tratto il suo corpo si fosse rianimato e riempito di nuova linfa.


Margaret era ancora lì, nascosta dietro lo stipite della porta, con le mani incrociate al petto. Mark non sembrava essersi accorto della sua presenza così si avvicinò lentamente, camminando in punta di piedi, e quando fu abbastanza vicina, allungò un paio di dita tremolanti e gli fece il solletico alle braccia.

AH!-!” Mark, la voce stridula e la sua espressione di puro spavento mista alla meraviglia, ondeggiava tutto e si dimenava come un’anguilla nella speranza di liberarsi delle piccole mani della giovane che fra le risa continuava a stuzzicarlo. Con le lacrime agli occhi, il ragazzo si voltò e, sovrastandola di un paio di spanne, afferrò improvvisamente Margaret per le braccia che, con il volto arrossato dal piacere e le guance alte e colme di risa, sembrava più piccola del solito, con il fazzoletto bianco legato intorno al capo e la fronte bassa e opalescente. I due si ritrovarono ben presto a pochi centimetri di distanza, entrambi con il fiatone per lo sforzo. “Buongiorno anche a te!”

Mark si stava preparando per uscire e Margaret l'aveva afferrato per mano e l'aveva stretta con insistenza. "Marge?" Il ragazzo aveva fissato i suoi occhi scarlatti con insistenza finché non la vide muovere le labbra, all'unisono con le sue folte sopracciglia effemminate. “Oggi vado giù in città, ti va di accompagnarmi?” In un giorno così inospitale, Margaret non era di certo dell’umore giusto per avventurarsi sola tra gli sconosciuti.

Ma certo che ho voglia di accompagnarti!” Una vena sottile quanto un filo d'erba si stagliava sulla parte destra della sua fronte alta e squadrata: ogni volta che qualcosa non andava, quella venuzza saltava fuori, in risalto su di un volto mulatto e dai lineamenti gitani. Margaret sorrise all’evidente premura e gli sfiorò una guancia ricoperta dalla barba corta ed ispida che le pizzicava sempre la pelle ma che le piaceva così tanto. Ora Mark era più alto di lei e teneva sempre le mani dietro la schiena, come fanno i vecchi. Il suo passo spavaldo le ricordava quello del Signor Durk quando rientrava a casa ubriaco e altero.

Vuoi del thé caldo?” Mark era sempre il solito gigante buono e buffone che amava ascoltare i problemi degli altri con devozione ed un fervore tali da risultare spesso invadente e assai scortese. “Sì, grazie Mark.” La ragazza sedette a tavola dove qualche avanzo dei biscotti preparati il giorno prima da Lilith giaceva in un piatto di porcellana screziata. Mark si ripresentò qualche minuto dopo con una tazza fumante in entrambe le mani, le porse quella piena e le intimò di fare attenzione. “Scotta.” Margaret addentò un biscotto alla cannella indurito e sorseggiò qualche boccata di thé. Mark, dall’alto della sua posizione, guardava la ragazza seduta al suo fianco e disse qualcosa.

Mi hanno preso a lavorare nei campi, qui vicino. La paga non è un granché, ma almeno non dovrò sporcarmi troppo le mani o restare lontano da casa. Inoltre, potrò contribuire alle spese e Durk non mi vocerà contro dicendo che sono il solito nullafacente...” La ragazza fece una risatina sommessa dato il tono buffo in cui Mark aveva pronunciato quella frase.

Quando inizi?”

Domani, non è lontano, posso andare a piedi…”


Dopo aver terminato la colazione e aver salutato Lilith, Elizabeth e Caroline che si erano svegliate da poco, i due si prepararono per uscire in città.

Lilith aveva scritto su un pezzo di carta giallastro alcune cibarie da recuperare al mercato: quattro zucchine, una busta di patate, un cestino di mele, della scorza di arancia, della farina, un pugno di zucchero, due bottiglie di latte, un cavolo e una manciata di asparagi.



°°°


Margaret e Mark arrivarono in centro senza troppi problemi, il vento gelido che proveniva da nord ad accoglierli e a spingerli l’uno contro l’altra in cerca di un po' di calore. La siccità dell’estate precedente aveva ridotto le coltivazioni che costeggiavano la periferia di Brighton a sterpaglie sfilacciate che ricoprivano un terreno frammentato e costellato da crepe sorte nei mesi di magra. Sebbene Settembre avesse portato con sé inondazioni e piogge, rimarginare il danno era stato tuttavia assai arduo, quasi quanto rimarginare le ferite nel cuore di Margaret.


Margaret stava camminando lungo la strada, a ridosso della facciata di una lunga serie di piccole case a schiera quando una folata di vento sollevò le gonne di alcune signore dall'altro lato della strada, ciò malgrado il piacevole tepore emanato dagli ultimi raggi di un sole di fine Ottobre. Margaret non potè non lanciare un’occhiata alle enormi ceste di bucato e abiti ammassati ai loro piedi e dall'odore particolarmente rancido. Poco più avanti un’anziana signora dal naso aquilino e le labbra nascoste dalle pieghe del tempo, scansava le foglie dall’angusto cortile di fronte casa. Sopra di lei, un alberello spoglio se ne stava ritto e impavido. Ora che ci pensava, quell'anno le foglie erano cadute prima del solito: un giorno si sentì il boato del vento e le foglie autunnali caddero dagli alberi, senza rumore, e una ad una, le foglie ormai vecchie, si staccarono dal proprio ramo. Ne caddero di ogni forma e di ogni colore, danzarono suadenti e sospinte dal vento precipitarono al suolo, sull’asfalto dei marciapiedi e delle piazze per lasciarsi calpestare da chiunque. Quelle foglie dall’aura sgraziata che, con i loro bordi rovinati e il manto ingiallito dal tempo, erano state spettatrici delle disavventure dei passanti che, assorti, le calpestavano con noncuranza.

Il tempo avanzava e l'autunno stava per cedere il passo all'inverno: Margaret aveva sempre amato l’inverno, la neve e il camino accogliente che scoppiettava ad ogni ora del giorno, il profumo di biscotti croccanti alla cannella provenienti dalle vetrine dei negozi di dolciumi, le coperte e il Natale, la familiarità degli ambienti che riscaldava anche con il tempo più rigido. Eppure, il freddo e i primi fiocchi di neve che scendevano come lacrime da un cielo spento, le avrebbero ricordato inevitabilmente l’ultima vivida passeggiata in riva al mare con Hayden. L’ultimo giorno della sua vita mortale.


Margaret camminava svelta, un piede dopo l'altro e un piccolo borsello stretto sotto braccio. Dovevano recarsi ai Piers, era lì che era solita elemosinare. Lì le vie gremivano di passanti a tutte le ore del giorno e non vi era negozio od osteria in cui Margaret non sarebbe riuscita a scucire anche un solo penny dalle tasche di un signorotto qualsiasi, oppure da un prete benestante. Solo le donne evitavano lo sguardo di Margaret, magari cambiavano strada oppure, se erano in gruppo, stringendosi l'una sotto il braccio dell'altra, fingevano di essere troppo indaffarate a ciarlare delle mansioni di casa oppure dell'ultimo ballo in maschera per potersi accorgere di lei, seduta sul ciglio della strada, la mantellina stretta attorno al collo e il visino volutamente sporco e intristito.


La luce pallida del primo mattino faceva capolino oltre i tetti, rispecchiandosi sulle vetrate polverose dei pub e dei negozi di seconda mano e più si addentravano nel dedalo di viottole strette e ingiallite dal fetido odore di pipí di cani e gatti, più il netto dislivello sociale tra cittadini appartenenti a classi sociali diverse si palesava agli occhi vispi di Margaret e a quelli un po' più stanchi di Mark.

Raggiunto il bivio che conduce al mercato portuale, i due vennero sopraffatti da immagini e colori suggestivi. I dolci profumi caldi di una panetteria appena aperta, la soave essenza della frutta e della verdura poggiata sul bancone; tra gli innumerevoli contadini dalla pelle bruciata dal sole e i capelli radi sul capo, Margaret riconosceva il profumo di morbide vesti appartenenti ad alcuni signori in giacca e cravatta, seduti ad una caffetteria; il sapore acetoso della colonia indossata da un paio di anziani banchieri panciuti che discutevano allegramente di azioni, tasse e prestiti; oppure l’aroma fruttato del talco indossato da una dama di passaggio con la sua piccola corte di servi e dame alle spalle. Margaret respirava a pieni polmoni tutto quel ben di Dio.

Ogni mercoledì mattina la piazza della città era ricoperta da banchetti improvvisati da vecchie cassette di legno, sacchi e tendoni nei quali si poteva trovare di tutto: carni, verdure, frutta, caramelle, farina, cioccolato, pane, caffè. La piazza pullulava sempre di gente: da un lato, Margaret intravedeva il bancone del pesce, quello degli oli e delle spezie, e infine il bancone della carne. Dei grossi omoni dalle carnagioni scure come la pece e i loro figli, urlavano pregando i passanti di soffermarsi a dare un’occhiata alla merce esposta.

Buongiorno Margaret! “ La voce roca del signor Smith, il fruttivendolo all’angolo della piazza del mercato, agitava una mano grossa e nodosa in direzione di Margaret, intimandola ad avvicinarsi. Con la barba incolta ed ispida e l’aspetto più di un orso bruno che di un uomo, Jacob Smith le rivolse un grande sorriso stretto tra i baffi riccioluti e i lunghi denti giallastri.

Con un cenno del capo Margaret era sgattaiolata fuori dalla visuale del suo impossibile pretendente, lanciandosi in un dedalo di viottole e sentieri dettati dalle nerborute gambe di mercanti e donne di mezza età e le gambe consumate dei tavoli dei banchi.

Mark afferrò Margaret sotto braccio, atteggiandosi come un nobile signorotto e si avviò verso il banco della frutta e quando furono in sua prossimità, allungo' il braccio per afferrare una grossa mela verde e succulenta poggiata sul bancone della frutta. “Tieni” Con una mano cedette la mela a Margaret, poi si affrettò a lasciare qualche spicciolo. “Grazie, e tornate a trovarci!” La voce ovattata di una piccola e anziana signora dagli occhi azzurri si fece largo tra lo scalpiccio dei passanti, mentre le figure di Margaret e Mark si allontanavano inghiottite tra la folla.

La pelle liscia e lucida del frutto profumato ora scivolava tra le dita di Margaret, che amava intravedersi nel riflesso della luce sulla superficie delle mele.

Poggiando la mela al petto, ne strofino' la buccia sul grembiule poi spalancò la bocca e ne addento' un succoso pezzo. Il rumore della polpa che scrocchiava tra i denti e il sapore acidulo del frutto verde fece sorridere di gusto Margaret che, con la pancia un pò più piena, si incamminava in direzione dei Piers, i moli balneari.

Lì si trovava l'angolo di città più all'avanguardia di tutta Brighton: negozi di alta moda, pasticcerie e ristoranti di straordinaria qualità, attrazioni, banche e gioiellerie. Quella era la Brighton che si affaccia sul mare, quella dei ricchi, dei nobili corrotti e dalle tasche ricolme di frottole.

Margaret amava recarsi lì è ascoltare il gremito della gente, annusarne i profumi, le essenze che quei abiti lussuosi spandevano per tutta la via. Alle volte, sognava di indossare un abito come quelli indossati dalle Signore altolocate: pizzi e merletti ovunque, nastri e fiocchi, penne e perle di ogni tipo. Ogni qual volta ne avesse avuto la possibilità, Margaret semplicemente adorava osservare e studiare le persone che la circondavano. Ne imprimeva il ricordo, l'essenza nella memoria e non le scordava più. Quando Margaret si accucciava in un angolo, prostata a terra oppure in piedi con le braccia dietro la schiena, non guardava quasi mai in faccia quei pochi clienti che le lasciavano qualche penny nelle tasche del grembiule oppure sul sottile straccio grigio che usava per sedersi.

Pochi le rivolgevano la parola e quando lo facevano a Margaret si chiudeva il rubinetto dei pensieri e non riusciva mai ad esprimere la propria gratitudine ai passanti.

La sera dopo il tramonto, molti erano gli uomini che l'avevano scambiata per una prostituta. Allora le lasciavano un penny sulle gambe, poi magari le sfioravano una guancia e infine finivano palpandole un seno oppure una natica. Margaret si lasciava toccare, sicché la fame era troppa per poter rifiutare un penny. Non le dispiaceva, anzi, delle volte, quando il benefattore era un uomo di bell'aspetto o di garbo gentile, Margaret tentava la sorte con un bacio su una guancia oppure una carezza delicata.

Un uomo, una volta, dopo averla portata in un vicolo buio e appartato, l'aveva spinta spalle al muro contro la fredda parete di una palazzina diroccata. L'uomo premeva il duro bacino contro quello morbido di Margaret che poteva riconoscerne l'evidente attrazione fisica attraverso il tessuto della gonna. L'immagine di Caroline, schiacciata tra la dura pietra della cantina e il tanfo selvaggio del figlio dello stalliere, le tornarono' in mente con la potenza di una secchiata gelida.

"M-mi dispiace, ma ora devo proprio andare..." Aveva infine sussurrato, spingendo via l'uomo con entrambe le mani sul suo petto largo. Lo guardo' con occhi grandi e languidi, nella speranza di poter tornare a casa il prima possibile. "Dove credi di andare, dolcezza?!" Ma Margaret era già lontana. Quella volta Margaret aveva stimato di morire e che il suo cuore le sarebbe balzato via dal petto.

Fermo, seduto in un angolo, un lustra scarpe, un giovinetto di tenera età dagli abiti larghi e consunti, i capelli biondi e le guance annerite. Accanto a lui era poggiata una minuscola valigetta in pelle nera, una di quelle con il manico argentato e gli intarsi incavati. Mentre un ubriaco sedeva sul portico di una casa abbandonata, una madre matura e grassoccia, le guance paffute e i capelli sporchi di farina, affacciata al davanzale di una palazzina di sei metri, puniva il figlioletto per le azioni sbagliate. Il bambino piangeva e si dimenava, un rivolo di sangue scendeva copiosamente da un ginocchio emaciato e le sue urla si spandevano per tutta la città.


Una volta anche il signor Durk aveva picchiato così forte Caroline da farle uscire sangue dal naso: quella volta Margaret avrebbe preferito scomparire e dissolversi nel cielo di Aprile, come una nuvola.

Quel giorno era rientrata presto dalla strada e, sistemata la giacca rattoppata e con le maniche troppo corte sull'appendiabiti, aveva attraversato l'androne a passi spediti. Il ticchettio degli stivaletti sul legno scricchiolante sotto di sé le ricordava ancora quanto fastidioso potesse essere indossare scarpe troppo piccole per i suoi piedi.

Si trovava ancora in corridoio quando aveva udito un rumore sommesso, una voce roca e bassa farsi largo fino all'altro lato della casa. Sporgendosi oltre la parete adiacente la cantina, sul lato opposto della cucina, Caroline, con le spalle al muro, teneva una mano premuta sulla bocca per bloccare i gemiti sconnessi e sconci che sembravano pervaderla e scoppiarle in gola. Margaret, per un millesimo di secondo, la credette malata e di dover chiamare subito il prete.

Con l'altra mano teneva alto il lembo della gonna e della sottoveste, le calze erano arrotolate all'altezza delle ginocchia e una figura mingherlina premeva con insistenza il biondo capo tra le gambe chiare di Caroline. Un lezzo di cavallo e letame: John, pensò Margaret, il figlio dello stalliere che abita dall'altro lato della strada stringeva con avidità il fondo schiena di Lilith, generando rumori insoliti tra le sue cosce morbide. Quelle cosce che, innumerevoli volte, avevano stretto quelle di Margaret in un abbraccio morbido, sotto le coperte, quando d'inverno avevano freddo e non avevano altro modo per scaldarsi.

Margaret deglutí, distolse lo sguardo e tornò in cucina con il cuore in gola. Afferrò la casacca scucita dall'appendiabiti e uscì di casa frettolosamente.

Una volta fuori, Margaret respiro’ a pieni polmoni l’aria fresca della sera, con lo sguardo rivolto al cielo stellato, poteva percepire il languido bagliore del tramonto all’orizzonte fare capolino oltre i tetti delle case. L’ultimo grillo friniva in lontananza, oltre i campi e il bosco mentre le ultime voci della sera, quelle provenienti dalle cucine e dalle tavole imbandita delle abitazioni limitrofe, andavano scemando. D’improvviso, il lamentoso chiacchiericcio di un grasso omino di mezza età, con la pancia cadente oltre la fibbia dei pantaloni e il capo stempiato sotto il basco, si fece più chiaro e Margaret distolse la sua attenzione dallo spazio sopra di sé, rivolgendola all’ubriaca figura del signor Durk.

Balbettava frottole e stringeva una bottiglia di alcool nella mano destra.

A Margaret si gelo’ il sangue nelle vene causandole un sussulto, e il pensiero della reazione del Signor Durk se avesse assistito ad un simile atto osceno che si stava consumando in cucina, le balenò in mente, creandole un nodo immaginario alla gola. Un grappolo di saliva raschiante e dal retrogusto doloroso.

Cosa ci fai fuori di casa!? “ La figura scura e larga si era arrestata a pochi metri di distanza e Margaret sperò vivamente che la sua voce rauca e dai toni maleducati fosse arrivata all’orecchio di Caroline.

Sono appena tornata, signore. “

Beh, allora vedi di filare…” “Forza! Cosa aspetti? Vai! “

Margaret giro’ i tacchi e posò la mano sul pomello della porta d’ingresso, con una lieve pressione del polso fece scattare la serratura della porta che, con un clack arrugginito, si apri verso l’interno dell’abitazione. Nella penombra della notte la casa sembrava abbandonata e una sola candela Illuminava la sala da pranzo.

Margaret cercò di distrarlo cambiando discorso. “Signore, perché non si siede? Le andrebbe un tazza di the?”, chiese nel tono più spontaneo che potesse permettersi. Il tentativo funzionò, almeno in parte: accettò di buon grado di farsi portare un bicchiere di scotch con ghiaccio. “Glielo vado a preparare subito! “ Per mesi il Signor Durk combatteva il sopraggiungere della vecchiaia con lo scotch. Stasera non sarebbe stato diverso.

Margaret entrò in cucina dove trovò Lilith comodamente seduta davanti al focolare. Immersa nei suoi pensieri, sussultò al sentire i suoi passi. Con occhi pieni di angoscia e terrore velati disse: “Fa attenzione”. Margaret non rispose.

Per raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il Signor Durk teneva un paio di bottiglie di alcool, Margaret dovette passarle accanto. Tirò fuori lo scotch, le ripassò vicino e versò da bere in un bicchiere impolverato. Le sue mani cominciarono a sudare, mentre sentiva su di sè il peso della consapevolezza e del segreto. All’improvviso la distolse un rumore: gemiti, respiri affannati. Provenivano dal sottoscala sul retro, dove il Signor Durk non andava mai. Eppure Margaret avvertì la sua presenza ancora prima di vederlo, sentì il peso del suo sguardo piombarle addosso. Lilith, accovacciata alle sue spalle.

Si può sapere dov’è il mio scotch!?” La paura, fredda e oscura. “Dammi qua!”

Le aveva strappato il bicchiere dalle mani e il primo sorso caldo gli aveva bruciato la gola, provocandogli un attacco di tosse. Eppure, lo scotch non era riuscito a celare i sospiri e i lamenti di Caroline e John avvinghiati contro la dura parete di granito sul retro.

Il signor Durk non era rimasto molto tempo in quella posizione, che si sentì stranamente turbato. Il silenzio era interrotto soltanto dal crepitare delle fiamme e dello scoppiettare del gran ceppo nel camino; ma ecco che gli occhi del Signor Durk si fecero stranamente freddi e distanti.

Signore?” L’uomo continuava ad ignorarla, avvicinandosi passo dopo passo all’uscita sul retro della cucina. “Signore?!”

Andiamo.” Lilith si era alzata dalla sedia di paglia, incapace di terminare la frase e si era avvicinata a Margaret, le aveva stretto il braccio con veemenza poi si era volatizzata nel buio dell’androne. Quando Margaret vide il signor Durk arrestarsi, Caroline non aveva fatto in tempo a rivestirsi e John a rialzarsi dal pavimento che furioso, il Signor Durk l’aveva rincorsa e l’aveva buttata a terra, colpendola con le nocche delle dita e beccandosi un morso nella lotta. Le era balzato addosso, adirato come una bestia e Margaret aveva visto Caroline schiacciata sotto l'ingente peso di quell'omone maleodorante di birra stantia.

"Che tu sia dannata!" L'aveva afferrata per i capelli e le aveva premuto la faccia sul pavimento, maledicendo lei e quel suo dannato lavoro. Si era morso un labbro nell’imprecare e aveva incolpato lei per la sua maleducazione e mancanza di rispetto in colui che le offriva un riparo, poi l'aveva colpita ripetutamente alla testa, alla schiena e alle caviglie. Le strinse i capelli così a lungo che Margaret credette di aver sentito le radici dei capelli di Caroline staccarsi lentamente, ad una ad una. “Io ti offro un tetto sulla testa e tu, ingrata, mi porti in casa questo moccioso!?” John indietreggiò con le mani lungo il pavimento, un’espressione di puro terrore dipinta sul suo volto ancora infantile.

Quando il Signor Durk risollevo' Caroline da terra, le cinse il capo con una mano sporca e ruvida e la colpi ripetutamente in volto, scompigliandole i capelli. Le guance di Caroline, rosee per natura, andavano a fuoco e la pelle le tirava per il dolore che le era stato inflitto. “Adesso ti faccio vedere io!” Dopo aver lanciato un’ultima occhiata a John, poi a Margaret, il faccino sconvolto e lo sguardo rivolto alle assicelle di legno, Durk spinse la testa di quella povera creatura contro la pietra fredda della parete, mugugnando parole incomprensibili e senza senso. Prima sembrava incitarla per poi incolparla di essere un’ingrata e che non poteva permettersi il lusso di mantenere una lurida sgualdrina da quattro soldi in casa propria.

Caroline soffocava, con il volto schiacciato tra la fredda pietra e il corpo flaccido e grasso del Sign. Durk. John se l’era data a gambe: avrebbe preferito morire piuttosto che rimanere lì ad osservare la scena. Ad un tratto, Margaret lo vide prostrarsi e sfilare un piccolo coltello affilato dallo stivale sinistro. Margaret aveva distolto lo sguardo: sapeva cosa sarebbe successo.

"Forza! Vieni qui!" Le aveva urlato, mentre si buttava a gambe larghe su di una sedia accanto alla finestra. Caroline inizialmente si era rifiutata, lo sguardo serio e le sopracciglia corrucciate in una smorfia di puro odio, eppure erano bastate un paio di frustate alle braccia con la fibbia della cintura a farla avvicinare.

Durk le aveva liberato i capelli dalla presa della cuffietta che ora pendeva goffamente sul collo emaciato di Caroline che, urlando il nome di Dio si dimenava come una puledra impazzita. "Dio, perché mi fai questo!?" gli aveva chiesto, tra le urla. Le mani strette a pugno, Caroline sedeva cavalcioni difronte ad un omone di mezza età che la guardava, indifferente. “Perché? Perché?” Margaret tremava tutta, con le guance graffiate dalle lacrime che aveva cercato invano di trattenere e la bocca dalle labbra turgide. Con gli occhi ridotti a due fessure adornate da lunghe ciglia bagnate, Margaret scrutava la scena ma non osava alzare il capo per paura che le potesse toccare la stessa sorte: il Sign. Durk avrebbe tagliato tutti i capelli di Caroline, rendendola irriconoscibile.

Caroline continuava a sbraitare, tirando calci all’aria e pugni mancati, e pregava il Signore Onnipotente di risparmiarla, oppure di lasciarla giacere nell’abbraccio della morte. Anche lei era ormai consapevole del suo destino.

Sono io il tuo Dio, e vedi di ricordartelo!” Durk, infastidito da tutte quelle lamentele, l'aveva infine afferrata per la gola e l'aveva scaraventata a terra. Si era alzato, le aveva tenuto fermo il capo e aveva iniziato a tagliare.


Dopo quella volta, Margaret aveva avuto gli incubi ogni notte: sempre più spesso si svegliava di soprassalto, ammutoliva e si rattristava, convinta che tutto ciò fosse accaduto per colpa sua e della sua negligenza. Allora usciva dal letto, avvolta nella fine mantella di lana scura, scendeva al piano di sotto e accostando l'orecchio al legno vuoto della porticina che accoglieva la camera di Caroline, poteva ascoltare il suo respiro e i suoi singhiozzi provenire dall'altro lato del corridoio.


Ora, quelle urla gracchianti di bambino le ricordavano quelle di Caroline che qualche mese prima, in preda al panico, era corsa a nascondersi sotto il letto per paura di essere trovata e battuta ancora.


°°°


Mark e Margaret recuperarono ciò di cui avevano bisogno e una volta acquistato tutto il necessario da ogni banco uscirono dal mercato. Mark insistette per portare la maggior parte dei sacchetti, se li suddivisero in modo impari e si avviarono sulla via del ritorno. Il sole era ancora alto nel cielo pallido, nonostante Mark si fosse ripetutamente fermato nel vano tentativo di convincere Margaret a portare a casa un cucciolo di cane: avevano svoltato l’angolo quando il guaire di un bastardino dal manto bianco cosparso da macchie nere li aveva distratti. Mark continuava ad incitarlo nel seguirli e gli diede persino un nome: “Coldy” per via del clima di quel giorno e del suo manto bianco, ma il cucciolo era troppo piccolo per stare al passo e rimase ben presto indietro.

Ripreso il sentiero di casa Mark posò le carte contenenti la spesa, si fermò in direzione del mare poi chiamò Margaret. “Maggie, ti va di camminare sulla sabbia?” Il suo sorriso accattivante e i bei boccoli scuri che gli coprivano il volto parlavano da sé.

Dobbiamo rientrare Mark, e poi come facciamo a scendere con tutti questi sacchetti?”

Li lasciamo qui.” Rispose con ovvietà il ragazzo.

Sei pazzo? E se passasse qualcuno e li rubasse?”

A chi vuoi che interessino due cavoli marci e una busta di patate!?”

Lo sai che non possiamo, avanti, muoviti.” Margaret riprese a ciondolare a qualche metro di distanza, il passo svelto e i fianchi dondolanti sotto il peso delle buste.

Una volta non eri così...” Mark, immobile, aveva urlato, e l’eco della sua voce ora tuonava tra gli alberi e le ultime casupole di città.

A cosa ti riferisci?” L'espressione di Margaret passò dall'impassibile all'ostile.

Sai bene a cosa mi riferisco.” Mark era sempre stato piuttosto tenace e irremovibile nelle sue dichiarazioni.

A prima della partenza di Hayden ecco a cosa mi riferisco, al tuo modo di reagire a qualunque cosa, come se dal giorno della sua partenza non fossi più tu. Devi trovare la forza di andare avanti Marge, non è partito solo per te, anche per noi, ma noi non reagiamo come fai tu. Non è morto, è partito e non c'è bisogno che per ogni minimo fatto tu reagisca così, evitando tutto e chiudendoti in te stessa. Io conoscevo un altra Marge non questa.”

La ragazza lo fissò per qualche secondo senza dire nulla poi si voltò e si diresse a tutta velocità verso casa ignorando il fastidioso pizzicore agli occhi.


Margaret camminava lungo il sentiero che dalle porte della città attraversava gli interminabili campi e le polverose fattorie del contado. La rabbia le stava montando in petto mentre l’imbarazzo e il senso di colpevolezza la divoravano dentro. Le sue impronte, impresse nel fango denso, seguivano un percorso preciso, dal punto in cui aveva lasciato Mark queste erano divenute più sporche, pur nulla nitide, e sembrava come se Margaret si fosse improvvisamente messa a correre.

Camminava a testa bassa, con il volto coperto gran parte dall’enorme fazzoletto nero che teneva legato attorno al collo e al capo. I capelli le premevano contro la nuca e i piedi avevano cominciato a dolerle irrimediabilmente. L’aria gelida le colpiva ripetutamente caviglie e polsi scoperti, mentre Margaret si stringeva nella fine mantellina che portava sulle spalle.

Margaret voleva raggiungere casa il prima possibile e correre sembrava l’unica soluzione che le avrebbe permesso di schiarirsi un poco le idee; eppure la sua corsa, almeno da quanto si poteva evincere dalle tracce fangose, non era durata a lungo, non fino a casa.

D’un tratto, le tracce degli stivaletti si confondevano, si moltiplicavano come se Margaret avesse deciso di fermarsi e sbattere ripetutamente i piedi al suolo, poi si trascinavano a terra, dove ormai le tracce erano indistinguibili dalla melma scura della pista.

Durante quella che pensava sarebbe stata una corsa liberatoria Margaret fu sorpresa da un incontro totalmente casuale.

La ragazza correva con il viso basso e gli occhi socchiusi: conosceva a memoria il percorso e l'incrocio dei sentieri al crocevia del bosco significava che mancavano un centinaio di metri all'abitazione.

Le lacrime che continuavano a scendere silenziose impattavano con l'aria fredda, i solchi incisi da queste erano gelate sul viso di Margaret che si sforzava di non pensare, percependo la fanghiglia melmosa risucchiarle gli stivalali. Lampi di una vita passata, a volte più limpidi altre volte più confusi, e di momenti vissuti assieme, con Hayden, con Mark e tutti gli altri bambini le tornavano in mente, la colpivano come schiaffi in pieno volto.

Improvvisamente, durante la sua corsa febbricitante e concitata, Margaret cadde dentro una pozzanghera, le ginocchia impattarono con il suolo e il morbido tessuto del vestito si intinse di melma scura. Nel cadere il busto le si spostò in avanti e per impedire di cadere faccia a terra Margaret protese istintivamente con le mani, che si ricoprirono subito di fango.

Aveva freddo e per di più l’orlo della gonna era infradiciato di acqua, tutto per via della cesta in vimini che teneva con entrambe le mani: un pezzo di pane, un paio di patate e una forma di formaggio ora annegavano annacquati nell’acqua torbida. Avrebbero fatto la giornata e forse avrebbero sfamato tutti loro per l’intera settimana, se solo Margaret non fosse caduta.

Costretta ad arrestare la sua corsa, la ragazza rimase per qualche istante lì, immobile, fissando il suolo e l’enorme pozza in cui era caduta quando, d’un tratto, il nitrito di un paio di cavalli da soma la costrinse a voltarsi: a pochi passi da lei, in fondo al viale, una carrozza laccata nei colori del rosso e del nero sfrecciava lungo il sentiero, innalzando polvere e terra miste assieme.

Margaret pensò che se una carrozza doveva passare per quella strada non c'era tempo da perdere, doveva alzarsi e levare i tacchi altrimenti l’avrebbero di certo investita. A Marge venne spontaneo domandarsi per quale motivo non aveva udito prima il cavallo o le ruote procedere sul sentiero.

Decise di accantonare questo interrogativo e con decisione si alzò, un poco indolenzita, estrasse le mani dal suolo e cercando di non sporcarsi ulteriormente l’abito insudiciato si alzò e si diede una rapida sistemata, rendendosi velocemente conto che togliere quell'enorme macchia di fango sul vestito non sarebbe stata un impresa semplice.

Mentre la carrozza si avvicinava, con la coda dell’occhio, Margaret riuscì a coglierne alcuni dettagli: come gli intarsi color argento che decoravano il mezzo donandogli un aria raffinata, “sarà di un nobile importante” pensò Margaret.

Era trainata da due cavalli bianchi ed imponenti, due albini con un paio di macchie grigie sul muso: sembravano cavalli giovani e in ottima salute, che di certo un povero contadino squattrinato non si sarebbe mai potuto permettere.

Il cocchiere era un uomo di mezza età con la barba bianca ed ispida, portava un cappello di un verde intonato alla giacca, un verde intenso e spento. Il suo naso era grosso e violaceo, in netto contrasto con il bianco cadaverico del viso svigorito, portava un paio di guanti marroni e un lungo foulard nero che sobbalzava sospinto dei leggeri saltelli del mezzo.

Quando la carrozza fu abbastanza vicina da udire il vento sferzarle il volto, Margaret si fece piccola piccola e si spostò a lato della strada quando un bussare energico proveniente dall'interno dell’abitacolo si accompagnò ad una voce calda e forte: “Ferma!”

I cavalli e la carrozza si arrestarono qualche metro più avanti e la tendina della portiera si scostò. “Signorina!” Una mano guantata di bianco e una voce maschile fecero capolino dal finestrino appannato. Margaret ci mise qualche istante per rendersi conto che quella voce si rivolgeva a lei e che i suoi piedi avevano preso a muoversi in sua direzione.

Le ruote parevano enormi agli occhi di Margaret: due meccanismi perfetti che procedevano imperterriti, anch’esse erano nere sebbene all’esterno della ruota si intravedesse una buona quantità di fango fresco.

I cavalli sbuffarono adirati, soffiando nuvole di vapore, mentre Margaret si avvicinava. Quando raggiunse la portiera, la ragazza riconobbe uno stemma impresso nel legno della porticina, aveva al centro un leone ma la giovane non seppe identificarlo.

Dalla tendina vellutata di un rosso vinaccia, emerse un giovane dal sorriso beffardo, un naso dalla perfetta concezione greca: sopra un paio di labbra ben fatte, si trovava una folta peluria ben curata e arricciolata ai lati e i capelli, lunghi e amaranti, sebbene fossero legati dietro la nuca, ora erano sparsi in morbide ciocche lucenti che gli ricadevano sul viso. Con una mano, questi li scostò senza farci troppo caso rivelando un paio di occhi ambrati che scrutavano Margaret, giocosi. Sembrava si stessero burlando di lei.

Il giovane uomo si avvicinò a Margaret protendendosi attraverso la finestrella.

Cosa ci fa una bella ragazza come voi, tutta sola, in questo posto?” Margaret alzò lo sguardo a quelle parole. L'aveva definita bella e subito. Il giovane rideva allegro mostrando un sorriso all'apparenza innocente ma che nascondeva il sincero desiderio di burlarsi di lei.

Ecco, i-io…” Margaret arricciò il naso. Era consapevole di avere un aspetto orribile, con le vesti imbrattate di fango e l’orlo della gonna incrostata di terra.

Non temete, la prossima volta che ci incontreremo avrete una risposta, ne sono certo. Arrivederci...” Lo sconosciuto chiuse la tendina e la carrozza ripartì alla velocità con cui era arrivata lasciandosi Margaret indietro, sul ciglio della strada. Per qualche misterioso motivo il sorriso insolente di quello sconosciuto le rimase impresso così come la luce grigia di quella giornata asettica sembrava rendere il mondo attorno a lei un quadro freddo e abbandonato dall'autore.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


cap 2 sign. brighton

 Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane. 

- Italo Calvino


Capitolo 2

Il grigiore della nebbia con il trascorrere inesorabile del tempo si disperdeva nell'aria liberando l'orizzonte, coperto prima da un'impenetrabile intreccio. Il profumo delicato e umido della nube che abbandonava la valle permeava il terreno rendendolo soffice, il naso di Mark gocciolava mentre con passo affannoso si dirigeva verso casa.

Negli suoi occhi, il mare specchiato di grigio che aveva ammirato per mezz'ora, seduto a gambe incrociate sulla spiaggia fredda con tutt'attorno le buste della spesa che con fatica aveva portato fin lì dopo il diverbio con Margaret.

"Tanto vale vederlo davvero, il mare!" aveva pensato, e così, con mera consolazione aveva stretto a se le buste accartocciate della spesa e, prestando attenzione a non cadere, aveva imboccato il sentiero, meno fangoso del solito, per raggiungere la via di casa.

Abbandonato tra il suono costante delle onde e il rumore sinuoso del vento che gli fischiava nelle orecchie, Mark si ritrovò solo con se stesso e gli ritornarono alla mente storie vecchie un secolo che sembravano rimbombargli in testa come a volerlo riportare indietro nel tempo, agli anni dell'infanzia. Si ritrovò a pensare al fatto che era stato fortunato: non era partito per la leva militare poiché Durk non sarebbe stato in grado di sostenere la casa senza una presenza maschile e così, aveva fatto di tutto per non farlo partire. Anche se la guerra era terminata ormai da anni e l'arruolamento di giovani forti e prestanti era crollato a picco, alcuni si univano ancora alla causa: non lui, ovviamente; lui avrebbe preferito di gran lunga tagliarsi un dito, oppure tutta la mano, pur di non imbarcarsi. 

Gli piaceva la vita che aveva scelto, amava la terra e i suoi odori muschiati, ne ammirava la crescita delle verdure, di una terra che dava i suoi frutti come una dolce ricompensa per l'essere stata accudita, perciò si sentiva gratificato dopo una giornata di duro lavoro, con le mani ricoperte da calli e vesciche e la polvere di terra e foglie appiccicata sulla pelle madida di sudore e sui suoi capelli secchi. Conosceva tutti i contadini e gli abitanti delle vicinanze: lo stalliere John e il suo tanfo di letame marcio, il lattaio Patrick con le figlie ancora in fasce, la balia Mary e la sua nidiata di bambini dai piedi sempre scalzi e dalle unghie rotte ben in vista, il visionario Ern che aveva passato quasi tutta la sua vita nei campi e la moglie Iris che aveva sempre sostenuto il marito e non avrebbe potuto vivere altrove se non in campagna, tra i suoi polli e le sue pecore.

Ora che ci pensava, la sua fanciullezza e quella dei suoi pochi compagni di scorribanda non ebbe niente di straordinario eppure, Mark era certo che fosse stata quella l'età più felice, passata tra giochi e capriole. Da fanciullo, di tre o quattro anni, stava sempre alle calcagna di qualcuno che gli raccontasse qualche storia, una favola oppure un motteggio. Era abbastanza vivace ed era particolarmente innamorato dei racconti e delle meravigliose storie che ascoltava narrate dagli adulti. 

Giù alla chiesetta abbandonata, adiacente all'icona distrutta, la presenza del maestro di paese, lo teneva attento e tranquillo, ma appena finiva la lezione, i salti e i gridi risuonavano per le strade di paese quasi vuote e lungo i sentieri, per andare a perdersi tra gli alberi più a valle. Il maestro, buon uomo, non solo tollerava, ma favoriva i giochi rumorosi dei bambini. 

Mark ricordava di aver giocato spesso, trastullandosi in corse ed esercizi fisici, ma il gioco da lui più odiato e preferito da tutti gli altri ragazzi era farsi "alla guerra" in finte battaglie. Sceglievano nomi storici, per lo più romani, e usavano per armi sassi e bastoni, qualche volta anche i pugni. Nelle finte battaglie, Mark, che sceglieva sempre per ultimo, perdeva sempre. Ricordava ancora i pugni sonori che gli davano gli altri bambini e i grossi lividi violacei stampati sul suo corpo non ancora maturo.

Da bambino era vestito sempre di nero, non perché i suoi abiti fossero tinti di nero bensì, perché sempre ricoperto di fuliggine, fango e sporcizia. Portava i capelli corti, proprio come il parroco del paese, e non era né grande né grasso. Piuttosto, era piccolo e gracile, con i capelli ricci e corti, la carnagione scura e gli occhi di un marrone incerto, proprio come la madre che non aveva mai conosciuto, e un viso olivastro e rotondetto, come il padre.

"E' proprio un ragazzino bruttissimo!" Esclamavano le comari e le donne quando usciva per recarsi in fabbrica. Lo guardavano passare, senza dissimulare il loro disprezzo per il suo aspetto e la sua carnagione zingara. Mark alzava le spalle ma nonostante tutto, pensava che niente e nessuno lo avrebbero mai scalfito. Ma dovette ben presto arrendersi all'evidenza: spesso, quando si guardava allo specchio, il suo aspetto lo colpiva come una sferzata. Era uno zingaro, e gli zingari non erano visti di buon occhio.

L'infanzia per Mark sapeva, dunque, di lunghe esperienze romanzate uscite dalla bocca di un Ern appena stempiato e con meno rughe ai lati degli occhi. Era stato proprio lui a raccontargli gli orrori della guerra, il lato oscuro che si celava dietro alle celebrazioni sfarzose, al fascino della mirata vittoria e al mito del combattimento glorioso. Un gioco al massacro in cui migliaia di giovani partivano senza fare più ritorno. Forse era proprio a causa sua che temeva così tanto la guerra. Era, infatti, per storie come le sue che aveva iniziato a temere la guerra.

Mark dedusse, tuttavia, che malgrado non fosse bello, né un purosangue, era dotato di una gentilezza e di una bontà che potevano renderlo grazioso agli occhi di chi lo conosceva intimamente. In presenza di estranei parlava raramente, dando l'impressione di scarsa cordialità, ma era in realtà solo molto timido, avendo sempre vissuto troppo lontano dalla buona società per sapervi stare con disinvoltura. 

*°*°*°*°*°*°*°*°*°*

Era una giornata fredda e umida. 

Margaret camminava svelta, insinuandosi tra le strette ed anguste vie della città. Camminava per le strade della città: Brighton è il nome, una piccola cittadina costiera agli antipodi della colossale Londra, la City. Svoltò dietro un vicolo di cui le pareti andavano stringendosi sino a rendere impossibile il passaggio anche al più piccolo dei ratti. Sulla destra, tuttavia, si trovava un capanno degli attrezzi vuoto e abbandonato, dalla cui porta spalancata si intravede il lato opposto della casupola. Margaret percorreva quella strada ogni giorno, tutte le volte che si recava al mercato a svolgere qualche missiva. Raggiunto il crocevia alla periferia, percepì un paio di occhi insistenti scrutarla con velata curiosità. Così si voltò e il lezzo maleodorante di alcool e abiti vecchi la colpì all'altezza della bocca dello stomaco, causandole un improvviso e inaspettato conato. Non aveva mai retto l'alcool, anche se qualche volta aveva peccato di gola e allora la sua gola aveva bruciato come incendiata da spiriti maligni.

Dal lato opposto della strada, buia e maleodorante di piscio e verdure marce, Margaret intravide tre uomini. Vestivano gli abiti consunti e sbiaditi dei contadini dell'epoca, con le barbe ispide appena accennate, i capelli incanutiti e i baffi folti e crespi. Seduti in un pub di crocevia, le loro sagome scure danzavano, sospinte dal vento e dal bagliore giallastro proveniente dai vetri sporchi e annebbiati del locale. La ragazza intravide le teste adombrate, le risa e i crepitii insistenti, nuvole di vapore, forse fumo di sigaro, oltre le finestre. Immaginava il piacevole tepore e l'odore familiare di legna e portare calde e fumanti, il buon cibo e la buona compagnia mescolarsi. 

Quando tornò in sé, si accorse che il primo dei tre uomini la guardava, strabico, con un boccale di birra in mano: il manico stretto tra indice e pollice della mano destra. Con l'altra sta fumando dalla pipa, come il suo vicino. Le sorride con un espressione ebete e le fa cenno di avvinarsi. 

Margaret riprese a camminare, con passo spedito, lasciandosi alle spalle i tre ubriaconi.

Una volta di ritorno, intravide Caroline, seduta su di un panchetto guasto: creava cestini in vimini, intrecciando una cordicella ai fili taglienti di sterpaia ed erba bruciata. Indossava i soliti miseri indumenti cuciti in casa da Lilith e aveva il viso amaranto e impiastricciato, un rotolo di adipe appena accennato sotto il mento, la testa bassa e i capelli sporchi che le ricadevano davanti al naso.

"Ciao Ma-!" le disse, con sorriso benevolo. Di scorcio, le due ragazze udirono il distinto cigolio della porta aprirsi mentre Lilith usciva di casa ricoperta di fuliggine per aver ripulito il camino e la cappa.

"Buon Dio! Si può sapere dove eravate?!" domandò, tutta fremente d'ansia. Aveva i denti sporchi di nero e le orecchie, abbastanza grandi per una ragazza, decisamente sporche. 

"Tu, piuttosto! Ma insomma, esci con Marge e non dici nulla!" Gli occhi di Lilith erano spalancati in preda ad un guizzo di pura rabbia. Quando Lilith pronunciò quelle parole, Margaret si voltò e alle sue spalle, poco distante dalla palizzata che circondava la proprietà, Mark stava camminando in loro direzione. 

"Non avrete mica...-?!" Caroline alzò di scatto il capo e con lo sguardo cercò di captare anche solo un piccolissimo segno di delitto o mancanza da parte dei due ragazzi. Gli occhi le luccicavano tale era il suo desiderio di scorgere un gesto, un'occhiata strana o anche solo un movimento delle sopracciglia che le avrebbero fatto intendere, ebbene, che tra Margaret e Mark c'era pur del tenero.
"Tu, continua a pelare le patate!" L'imbarazzo si era palesato tempestivamente sul volto solitamente paonazzo e scarno di Lilith, come un'ondata di fuoco cocente. Si era impossessato di orecchie, naso e guance al che Lilith, solitamente pallida e violacea in volta, sembrò riprendere un attimo di sospiro e tornare a vivere
"Non fare l'offesa Lilly! Siamo solo andati a fare un giro, lungo la costa. Cosa vuoi che sia-"

"Tu, sei andato a fare un giro sulla costa. Non io!" L'occhiata che Margaret lanciò a Mark era più fredda della neve in Gennaio, quella neve che si accumula sui tetti delle case per poi caderti addosso quando meno te lo aspetti, eppure Lilith sembrò sciogliersi all'idea, poiché subito portò le mani grassocce alla bocca per sopprimere lo sgomento e il gridolino della sua anima in subbuglio.

Poichè Mark aveva le maniche arrotolate oltre i gomiti, Margaret intravide le sue braccia pelose stagliarsi di vene e muscoli. Constatò come le sue braccia fossero belle, virili e possenti: le braccia di un uomo, braccia a cui Margaret avrebbe voluto non divincolarsi, ed accoccolarvisi.

Quando rialzò lo sguardo, Mark la stava spogliando con gli occhi, nascosto oltre una cortina di silenzio e nebbia, una bocca corrucciata e delle lunga ciglia nere come il carbone, quello che d'estate tingeva la pelle nuda e mulatta di Mark.

Margaret si voltò per incamminarsi di tutta fretta verso la porta di casa, ma le guance le si erano ormai dipinte profondamente di rosso, così si affrettò a salire di sopra e rinchiudersi in camera sua, dove nessuno avrebbe potuto disturbarla. Tranne i suoi pensieri, quelli non poteva di certo estirparli.

*°*°*°*°*°*°*°*°*°*

Quella sera, sul camino acceso si trovava una grande marmitta; accanto ad essa Lilith, con indosso il grembiule bianco,distribuiva con un mestolo le razioni di cibo, della quale a ciascun ragazzo toccava una sola scodella. Non gli spettava altro, tranne nei giorni festivi.

Margaret prese posto a tavola, insieme agli altri ragazzi. Lilith, con la tenuta da cuoca provetta, si piazzò accanto alla marmitta e Caroline e un'altra ragazza si schierarono alle sue spalle; la sbobba venne servita e si recitò la preghiera di ringraziamento prima che la cena venisse consumata. Poi la sbobba sparì. Un bambino, piccolo e con gli enormi occhi ambrati infossati nel volto consumato dalla fame, sembrava chiederle di alleviare le sue sofferenze. "Per piacere, signorina Margaret, ne voglio ancora." Margaret, che era buona e Dio l'aveva resa donna, diventò prima molto pallida, contemplando con stupore il piccolo ribelle, poi si addolcì.

"Buon Dio! Piccolo furfante, sai che non è concessa un'altra razione di cibo." disse infine, con voce fioca. Il bambino aprì allora la boccuccia, pronto a ripetere la sua richiesta straziante quando Margaret lo interruppe: "Forza, prendi, è tutto tuo!" Il marmocchio si fiondò tra le braccia di Margaret e, afferrato il grande cucchiaio di ferro che nella sua manina scarna pareva grande, spolverò le rimanenze della scodella di quella parvenza alata che altri non era se non Margaret.

*°*°*°*°*°*°*°*°*°*

"Hai detto che è nella sua stanza?" La ragazza annuì, silenziosa, con la bocca ancora sporca di zuppa. La ringraziò e, prima di salire, Mark si sfregò le mani per riscaldarsi, non faceva ancora abbastanza caldo tra quelle quattro mura sterili, si asciugò il naso poi salì le scale, con il petto in fuori e la testa alta. Fu quando intravide la cuffietta bianca e il collo candido di Margaret, in procinto di ritirarsi, che Mark pronunciò il nome di lei quasi in un bisbiglio.

Margaret era salita in camera prima del solito, un poco assopita ed esausta dalla giornata alle spalle. Stava per aprire la porta della propria stanza quando la sagoma scura di Mark, dalla camera che condivideva con altri orfanelli, si staglio' lunga e secca sul pavimento. 
"Ciao...!" Cercò di non far trapelare tutti i sentimenti che provava in un banalissimo saluto e credette di essersi morso la lingua nel farlo. Il ragazzo alzò lo sguardo verso il viso di Margaret, quel viso che aveva visto sull'orlo delle lacrime una mezz'ora prima.
"Ciao Mark"  Aveva risposto seccamente, mentre lo osservava meravigliata di tanta insolenza. Margaret non ricordava di aver visto Mark lasciare la tavola e salire le scale. Alla fine aveva spalancato la porta cigolante e si era lanciata a passo svelto dentro la stanza ancora illuminata dagli ultimi barlumi di luce. Si era seduta sulla sponda del letto, con le braccia distese e rigide lungo i fianchi. Mark l'aveva seguita, silenzioso, poggiando la schiena allo stipite della porta. La ragazza aveva gli occhi arrossati, quasi scuri in volto; quest'ultimo, invece, sapeva di un colorito cadaverico e guardandola così distrutta, Mark provò un senso di rimorso che sovrastò tutto e si pentì di averle fatto quel discorso.

Lei lo scrutò soffermandosi sul naso rosso e sulle maniche della giacchetta con ancora qualche granello di sabbia.

"Ho pensato a te sulla spiaggia e a quello che ti ho detto." Marge cercò di nascondere una smorfia che voleva sfuggirle dalle labbra. Stupita, lo guardava con due occhi grandi e limpidi come due specchi d'acqua, per poi distogliere lo sguardo. Avrebbe voluto dire qualcosa, parlare, urlare, ma i pensieri che le affollavano la testa le avevano suggerito di non proferire parola. Con la coda dell'occhio poteva notare l'angoscia che affliggeva il ragazzo mentre spostava insistentemente il peso del proprio corpo da un piede all'altro. Lo vide avvicinarsi e ne riconobbe il passo pesante e un po' storpio farsi sempre più vicino, finché non la raggiunse e Margaret sentì le doghe del letto scricchiolare sotto il peso di Mark, che ora le sedeva accanto.

Rimasero a guardarsi senza che nessuno dei due proferisse parola alcuna. Come quella volta, quando Mark l'aveva quasi baciata: aveva finto di non volerla, di non bramare un suo bacio, per orgoglio o perché voleva soltanto divertirsi un po' con lei.

"Voglio chiedere il tuo perdono, non era né il momento né il modo giusti. Ho sbagliato, e mi dispiace assai vederti soffrire. Spero potrai perdonarmi." Mark vide per una frazione di secondo gli occhi della giovane diventare lucidi al pensiero delle dure parole che le aveva crudelmente rivolto. Sembrò pensarci su, sentendo le mani gelide di lui toccarla con così tanta dolcezza e rimorso, poi lo guardò negli occhi e le venne in mente un particolare che in quell'istante le sembrava imprescindibile. Così sentendo già le guance arrossarsi dall'imbarazzo, si fece forza e guardandolo dritto negli occhi gli fece una domanda che da tempo richiedeva una risposta.

"Quella volta...quella volta, quando le nostre labbra si sono quasi sfiorate, te lo ricordi?" Quella domanda lo sorprese, perciò si accigliò poichè un pensiero gli attraversò la mente: avevano pensato entrambi a quel momento. "Sì, certo che me lo ricordo."

"Quella volta, avresti voluto baciarmi sul serio?" Lui conosceva bene la risposta e non voleva cadere ancora nell'indifferenza per il timore di confessarle i suoi desideri.

"Sì, avrei voluto. Quale uomo non lo avrebbe desiderato, quale pazzo!"

"Tu menti. Se lo avessi voluto così tanto come affermi, non ti saresti dimenticato di me così in fretta. Per chi mi hai presa? Per una stupida forse!?" Il ragazzo si guardò attorno come se evitando il suo sguardo potesse sfuggire a quella domanda, voleva confessarle i suoi sentimenti ma non era pronto.

"Non sei una stupida, e mai lo sarai. Tuttavia, io non saprei. Forse volevo fingere di non provare alcun sentimento per te."

"Provi dei sentimenti, per me?"

"Sì." Margaret sembrava esterrefatta da quella dichiarazione, aveva sempre pensato che Mark scherzasse, che fosse tutta una grandissima buffonata, eppure si era dovuta ricredere quando le aveva cinto la testa con quelle sue mani grandi e spigolose; aveva appoggiato la sua fronte calda contro quella di Margaret, e le aveva respirato vicinissimo, sul collo e sulla bocca. La guardava di sottecchi e stringeva la sua mano fredda in quella di Margaret, che fu percorsa da un brivido che la attraversò tutta.

"Allora?" Mark la guardò con espressione flebile, mentre le carezzava il volto.

"Marge..." sussurò, pronunciando appena il suo nome tra i denti e la bocca rigonfia di desiderio. Mark la desiderava, era evidente, forse lo era sempre stato. L'aveva guardata come si guarda la merce esposta su di un bancone oppure una pietanza succulenta all'ora di cena. L'idea le fece disgusto e Margaret pensò dapprima di allontanarsi, scansargli le mani, rifiutarlo e ricusare il suo affetto, barricare la porta e fare finta di niente o dirgli che no, non era pronta; nondimeno si lasciò andare.

Mark le aveva afferrato un'esile ciuffetto di capelli sbarazzino per poi accostare il suo viso a quello di lei per costringerla a premere le sue labbra contro le sue. Fu così che le loro bocche si unirono in un bacio timido seppur atteso da tempo.

I loro denti cozzarono gli uni contro gli altri, provocando in Margaret un risolino all'anima. Avrebbe voluto sorridere, ma la barbetta incolta di Mark le pungeva la pelle. Premette le sue grandi labbra carnose contro quelle di lei, che si senti montare il fuoco dentro, una passione così carnale da farle venire un capogiro. La scossa che le aveva appena attraversato la schiena le aveva rizzato ogni pelo del suo corpo. Lo sguardo di Margaret vacillò e si abbassò mentre quello di Mark rimase a fissare il suo volto superbo. Mentre le guardava il viso cercava di soppesare tutti i pensieri che gli attanagliavano la mente in quel momento.

Erano finiti distesi sul letto, uno nelle braccia dell'altro, sebbene a Margaret facesse un certo senso abbracciare un tipo come Mark. Lui le aveva sussurrato dolci parole mentre la carezzava con la mano libera, quella che aveva premuto insistentemente sul cavallo dei pantaloni per nascondere l'evidente eccitazione che ora gli attanagliava lo stomaco e la mente. Sembrava stesse per esplodere, e non sapeva per quanto a lungo avrebbe resistito alla tentazione di prendere Margaret e possederla seduta stante, su di un letto cigolante e dalle assi marce.

Con l'altra mano le aveva sbottonato la sottoveste di maglina grezza e la pelle turgida del suo petto procace, fasciata sotto un reggiseno ormai piccolo per il suo corpo non più acerbo, era balzata fuori con estrema facilità e se ne stava all'aria, tesa e contratta per via del freddo che aleggiava circostante. I seni, seppur piccoli, sembravano succulenti come due grosse mele di cui il bocciolo Mark immaginava rosso, come le mele che amava mangiare in estate.

Con lo sguardo, scese poi lungo i fianchi sporgenti e le sue mani si aggrapparono su di essi con veemenza tale da farle male. Le accarezzò, infine, le affusolate cosce morbide, in cui le sue dita grosse e dalle unghie spezzate e nere si conficcarono come lame acuminate. Poi tornò a baciarle il collo, lambendone la pelle liscia e profumata. Margaret giaceva immobile, sotto lo sguardo assorto di Mark quando, il rumore di una porta al piano di sotto che sbatteva su se stessa e il fruscio di voci, li sorpresero colpevoli agli atti.

"Fermati!" Mark era scattato sull'attenti e, dopo aver lanciato un ultima occhiata turbata verso Margaret, le aveva dato la buonanotte ed era uscito, chiudendosi la porta alle spalle. 
Margaret si era sistemata il corpetto, poi si era coricata a letto, certa che avrebbe dimenticato anche l'accaduto di quella sera dai colori infernali. Eppure aveva le lacrime agli occhi, per aver peccato e per aver, anche solo un istante, bramato qualcosa di più che un semplice bacio.

Margaret aveva così fatto conoscenza con le mani contadine e sgraziate di Mark, quel paio di mani callose e segnate dalla vanga e dagli altri utensili da fattore. Le mani di Mark, le mani di un uomo. Inesperto.

*°*°*°*°*°*°*°*°*°*

Un lunedì mattina, Margaret aveva creduto di aver sentito una voce gridare: giù dalla finestra, oltre la tromba delle scale, nel cortile ammantato di brina, il Signor Durk stava tornando a casa, dopo aver passato la notte in una locanda, ed era era scivolato mentre faceva la sua solita passeggiata, era caduto giù per il fossato che costeggia i canali di scolo dei campi e si era rotto una gamba. Alcuni uomini in calesse, che passavano di lì per caso, aveva udito della urla e dei gemiti, più simili a dei ruggiti e si erano dunque affrettati per assistere alla sventura del disgraziato.

"Oh, Buon Dio! Cosa è successo?!"

"Buongiorno, signore. Ho ricondotto a casa questo buon uomo, poiché non mi sembrava proprio il caso di abbandonarlo in un simile momento!" L'uomo che aveva parlato altri non era se non Sir. Denys Newt Webb, un signorotto di origini scozzesi che deteneva il titolo di Duca e qualche appezzamento di terra. Aveva i capelli appena imbiancati nascosti sotto un elegante cappello a cilindro nero, i folti baffi bianchi gli coprivano parte del labbro superiore, e aveva due piccoli occhi stanchi; ciononostante sembrava un buon uomo.

Il Signor Duca cercava goffamente di sorreggere il Signor Durk mentre raccontava loro tutta la storia. "Mi stavo recando in visita da un mio vecchio e caro amico, quando ho sentito delle urla. Così mi sono affrettato sul posto e vi ho trovato il Signore qui presente."

Lilith scattò per prendere un tavolino basso di legno chiaro che sostava appoggiato al muro da tempo immemore: di solito lo utilizzavano per poggiarci le legne da ardere, così lo posizionò davanti alla poltrona, sarebbe stato un valido sostegno per la gamba tumefatta e gonfia del Signor Durk che, con un grugnito, sprofondò nella poltrona deformata.

*°*°*°*°*°*°*°*°*

Scese dalla carrozza con fatica data la bassa statura e picchiettando i piedi per terra si rigirò su stesso dicendo: "Di chi è la voce che ho udito qualche secondo fa?"

"La mia." Urlò Durk cercando di farsi udire.

L'uomo dirigendosi verso la voce scoprì Durk disteso nel fosso che si teneva premuta la gamba con aria brilla ma un con una smorfia di sofferenza.

"Cosa vi è successo, buon uomo?" Domandò il signorotto.

"A voi cosa sembra?! Sono caduto, temo di essermi rotto una gamba...non riesco a muoverla, dannazione!" L'uomo, angustiato, si fece aiutare dall'anziano cocchiere dalle rughe pendenti che gli solcavano il volto come ramificazioni fluviali.

I due scesero per il fossato e avvicinandosi a Durk lo aiutarono, con non poca fatica, a tirarlo fuori di lì. Lo trascinarono per le ascelle fino a riportarlo lungo il ciglio della strada.

"Grazie." Disse il Signor Durk con attenuata riconoscenza, emozione poco cara a quest'ultimo. "Se non vi dispiace, dato che vi trovate qui e in presenza di un povero uomo menomato, potreste farmi l'immensa gratitudine di riportarmi a casa, abito qui vicino. Suvvia!"

"Certamente!" Disse il signorotto, che non avrebbe comunque potuto lasciare un uomo ferito in mezzo alla strada. Di nuovo con l'aiuto del vecchio cocchiere, caricarono il grosso corpo del Signor Durk all'interno della carrozza e, dopo aver ricevuto le indicazioni necessarie, il veicolo ripartì alla volta della casa grigia.

*°*°*°*°*°*°*°*°*

"Come possiamo ringraziarvi della vostra smisurata gentilezza?" Caroline stava porgendo una tazza di thè al Signor Duca e al Signor Cocchiere, che dondolava accanto alla porta spalancata.

"Non mi dovete nulla, signorine..." Il Signor Duca scosse il capo declinando qualsivoglia offerta. "Mi basterà sapere che chiamerete un medico per quella gamba!" disse, prima di uscire dalla porta seguito dal cocchiere. Le ragazze li seguirono fin fuori per ringraziarli un ultima volta e auguragli un buon ritorno a casa.

Più tardi, quel mattino, Margaret venne sospinta nella stanza del lavatoio con grandi esortazioni di sbrigarsi e, a sorpresa, vi trovò Lilith sorridente. Lei la squadrò con sospetto. Lilith non era proprio il tipo da gesti gentili o sollecitudini materne.

"Santo Cielo Lilith, si può sapere a cosa devo l'onore di un bagno caldo?" disse Margaret, alla quale, nel frattempo, era stato tolto tutto il sudiciume che le copriva faccia e mani.

"Sta per arrivare il medico, il Dottor Harrington: il Signor Durk vuole che la casa sia in ordine, perciò anche noi dobbiamo esserlo!"

La stanza nella quale venivano lavati gli indumenti e veniva fatto il bagno, non più di una volta ogni due settimane, era una vasta mensa intonacata all'estremità della quale si trovava una grande tinozza di legno; accanto ad essa delle cisterne dalle giunture arrugginite, che per l'occasione erano state riempite di acqua bollente da cui si innalzavano vapori bianchi e inconsistenti.

Lilith aveva afferrato la spugna in una mano e la saponetta nell'altra e le aveva massaggiate l'una contro l'altra nel tentativo di fare schiuma. "Lavati dietro le orecchie, ma non sfregare troppo! Rischieresti di arrossare la pelle..."
"Lilith, in nome del Buon Dio, calmati!" Margaret aveva afferrato l'amica per il braccio, costringendola ad allentare la presa sulla spugna che stringeva nell'altra mano. L'aveva guardata con espressione rammaricata, forse perchè in fondo anche Lilith si era resa conto di star esagerando. 
"Scusami..." le rispose, fissando i suoi piccoli occhi scuri in quelli lucidi, un poco arrossati per via dei vapori, di Margaret che si era stretta le ginocchia al petto, schizzando acqua ovunque. 
"Piuttosto, Mark non ti è¨ sembrato più silenzioso del solito, ultimamente?" Malgrado l'evidente volontà di Lilith di cambiare argomento e sorvolare l'ostacolo, Margaret aveva deciso di non raccontate l'accaduto di qualche settimana prima. 
"Avrà i suoi buoni motivi..." 
"Come sempre!"

La piacevole sensazione trasmessa dall'acqua calda, le avevano intorpidito le ossa e la mente.

Era passato appena un mese da quell'avvenimento e Mark non era più tornato a farle visita in camera, tanto meno cercava di guardarla il meno possibile e se ne aveva l'occasione distoglieva persino lo sguardo. Margaret non aveva raccontato a nessuno dell'accaduto, eppure quella faccenda non era potuta sfuggire allo sguardo attento e curioso di Caroline, sempre nascosta dietro ad un albero o lo stipite di una porta ad origliare. Ultimamente quando si imbatteva in lei aveva come l'impressione che la guardasse di sottecchi, con l'espressione di chi la sa lunga stampata in volto. 

Le ore successive a quel dolce momento, più simile ad un incantesimo, erano passate come sormontate da un velo bianco, ovattate come in un sogno per Margaret. Si era arresa all'istigazione per poi pentirsi non appena aveva sentito la morbidezza delle labbra di Mark accomiatarsi, una sferzata di aria fredda le era arrivata in pieno volto facendole realizzare finalmente cosa stava accadendo. Con un gesto fulmineo si era infine liberata della stretta maschile attorno al proprio collo e, rivolgendo un ultima occhiata concitata, aveva chiuso la porta in faccia a Mark. Dietro la porta, nascosta nella sua stanzetta, era rimasta a fissare il vuoto non riuscendo a formulare nessuna riflessione giudiziosa, nulla le parve coerente poiché ciò che la sua mente riusciva a produrre erano spezzoni di ricordi incollati tra di loro senza ordine alcuno: il ricordo di un pomeriggio primaverile persa nei campi in fiore con quel ragazzo che qualche secondo prima aveva scacciato, i raggi del sole che le accecavano la vista e le illuminavano i capelli, lui che si buttava nel rosso scarlatto dei tulipani innalzati in tutta la loro maestà, risate ad alta voce e poi più nulla.

Un altro ricordo, Mark che inseguiva una ragazzina con un abito bianco. Lui la stringeva in vita per gioco e cercava di darle un bacio sulla guancia, desiderava quel bacio e il suo corpo si incollava alla schiena della giovane che con le guance rosse fingeva di non dar peso a quello che stava accadendo; una cena, lui che la osservava senza dare nell'occhio, lo sguardo lucido come se avesse bevuto dello spirito liquido, l'angolo della bocca piegato in un sorriso malizioso. Troppi ricordi e alla fine di questi, Hayden. Lui tornava sempre, e Margaret si sentiva colpevole.

Se Hayden mi vedesse adesso? 

Se vedesse Mark e come mi ha baciata, cosa penserebbe? 

Cosa farebbe?

Questi erano i pensieri che si aggiungevano a quello scomposto collage improvvisato. Di fatto, dopo quella sera, i giorni erano volati, vedeva Mark il meno possibile un po' per volere e un po' per il nuovo impiego di lui che gli impediva di essere a casa nelle ore pomeridiane.

Lui non le aveva più rivolto la parola e lei aveva fatto lo stesso, i momenti durante la cena erano i più tesi dato che i loro compagni avevano colto l'ombra di un forte dissapore fra i due e non facevano altro che scrutarli per tutto il tempo.

Solo quando le dita iniziarono a raggrinzirsi e la testa a girarle, Margaret decise di abbandonare la vasca. E mentre una ragazza si asciugava tamponandosi il corpo con un asciugamano di spugna ingiallito, l'altra si era già spogliata delle vesti e si era immersa nella stessa acqua, solo un po' più torbida. Non potevano permettersi di scaldare altra acqua, se solo ne avessero avuta.


Una volta di rientro dai bagni, Margaret e Lilith, seguite dagli altri bambini e dai ragazzi dell'ospizio, si fecero largo tra i corridoi di casa, chi correndo, chi più ansante, per accogliere il medico.

Il Signor Dottore altri non era che un ometto basso e calvo, le occhiaie e il collo nascosto dietro l'alto colletto bianco dell'abito scuro.
L'uomo doveva avere la sua età poichè sarebbe potuto benissimo essere padre di tutti gli orfanelli messi assieme. 
Il Signor Durk e il signor Dottore erano buoni amici, il loro rapporto era legato da quel senso di protezione che si instaura tra padre e figlio, o più semplicemente tra paziente e medico. 
Ebbene, per il signor Durk il Signor Dottore era un po' come un padre, un secondo padre, e non ammetteva che anche uno solo di loro si permettesse di prendersi gioco del Signor Dottore. Avrebbero dovuto rispettarlo e temerlo quasi come se innanzi vi fosse stato il Padre Eterno, anche se Durk non credeva a quelle idiozie proclamate dai ferventi religiosi con la puzza sotto al naso. Quando il buon uomo fece capolino con il cappello cilindrico sul capo e l'accento tipico londinese, Margaret constatò che doveva trattarsi di un uomo adulto, sulla sessantina, più vecchio del Signor Durk di almeno un paio di decenni. Portava una lunga giacca e tutte le volte che era venuto in visita era solito reggersi su di un bastone intagliato che doveva aver distrattamente poggiato dietro la porta d'ingresso.

"Salutate il signore, bambini!" disse il Signor Durk con un sorriso .

Margaret fece un inchino. Il medico, che un attimo prima era seduto con la schiena rivolta verso il fuoco, si era alzato dall'angusta seggiola con il guanciale consumato e, avvicinatosi ai piedi del letto disse: "Dovrete rimanere a letto, almeno finché la gamba non sarà guarita del tutto."

"Fandonie! Un paio di giorni mi basteranno!" intervenne il Signor Durk, affrettandosi a nascondere la gamba ingessata sotto i pesanti strati di coperte e fasce di cotone ingiallite a furia di essere adoperate. Disteso lungo il letto, il Signor Durk sembrava più grasso del solito, e anche più irascibile, per cui, anziché rispondere con cordialità all'invito del medico, preferì congedarlo a mansioni di maggiore importanza, ma soltanto dopo essersi assicurato che la somma di denaro richiesta per il servizio non superasse i limiti della decenza.

"E voi? Cosa avete da guardare?! Forza, tornatevene alle vostre faccende!" esclamò il Signor Durk, sbraitando come un maiale al macello. Margaret e gli altri marmocchi uscirono di corsa uno dopo l'altro.

*°*°*°*°*°*°*

Quel giorno toccava a Margaret servire il pranzo all'infermo Signor Durk e quando quest'ultimo la vide entrare in camera con un vassoio di zuppa fumante e un tozzo di pane, all'omone venne voglia di parlare.

"Cosa c'è da mangiare oggi?" Chiese l'uomo sistemandosi di poco sul letto.

"Zuppa di fagioli." Rispose Marge, seccata.

"Oggi ho proprio fame, dammela avanti!" Margaret gli servì la scodella, appoggiando sul comodino un bicchiere d'acqua e il tozzo di pane.

"Perché non rimani a farmi compagnia!?"

"Ho da fare."

"Avanti! Volevo parlarti di una cosuccia..." Il suo sguardo si indurì mentre la guardava, ritta come una guardia svizzera che cercava di rimanere immobile.

La ragazza ci pensò un attimo e, dato che non voleva subirne le conseguenze, decise di accettare. Si accomodò sulla sedia all'angolo della stanza che, quando si sedette, cigolò fastidiosamente.

"Dimmi, ricevi ancora quelle lettere da Hayden?" Margaret non immaginava che il Signor Durk fosse a conoscenza delle sue comunicazioni private.

"N-o, non più." Margaret stava massaggiando delicatamente il piede gonfio e violaceo del Signor Durk, nascosto tra le lenzuola e le coperte. Si faceva ogni giorno più grosso.

"Magari è morto! Ci hai mai pensato?" Durk fece una smorfia mentre deglutiva l'ennesima cucchiaiata di zuppa calda.

Margaret sentì gli occhi pizzicarle al solo pensiero, anche se doveva ammetterlo: non ci aveva mai pensato seriamente.

"No." Rispose con un groppo alla gola.

"Beh, se fosse morto, si sarebbero avute sue notizie..."

"Ah! Non mi meraviglierei troppo comunque, era troppo debole per resistere su un campo di battaglia." Ancora quel tono, come se la vita di Hayden non avesse importanza per lui.

"Ora basta." Margaret si alzò di scatto dalla sedia, puntò i piedi per terra e si diresse a testa bassa verso la porta. Durk non le avrebbe concesso una dipartita così veloce, e non appena la giovane gli fu abbastanza vicina la afferrò per un polso con una tale prestanza da a lasciarle l'impronta bianca sulla pelle rosea.

"Se fossi in te lascerei perdere Hayden e continuerei a fare la troia con quello sporco moccioso di Mark!" L'espressione dell'uomo era intrisa di malizia e crudeltà, una smorfia di cui persino il diavolo si sarebbe disgustato.

"Come fate a sapere queste cose!?"

"Bambina mia, io so tutto quello che succede dentro queste quattro mura, ricordatelo." E con un gesto rabbioso le lasciò andare il polso spingendola via. 


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