Immortals

di Lady1990
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Odore di casa ***
Capitolo 2: *** Un nuovo scopo ***
Capitolo 3: *** Aria di guerra ***
Capitolo 4: *** Le catene dell'anima ***
Capitolo 5: *** Decisioni disperate ***
Capitolo 6: *** La solitudine nel cuore ***
Capitolo 7: *** Tuffo nel passato ***
Capitolo 8: *** Fuga ***
Capitolo 9: *** Verso il portale ***
Capitolo 10: *** Nient'altro che pedine ***
Capitolo 11: *** Legami di sangue ***
Capitolo 12: *** Risveglio ***
Capitolo 13: *** Immortali ***



Capitolo 1
*** Odore di casa ***


Note autrice:
Salve a tutti! Allora, come avrete letto nell’introduzione, questa storia è il sequel di un’altra long dal titolo “Nell”, di cui consiglio la lettura per un’adeguata comprensione. Il rating per ora è arancione, ma forse, se mi andrà, lo alzerò.
Buona lettura ^^








Il cielo era nero, un fitto banco di nubi lo aveva preso in ostaggio dal mattino e non pareva intenzionato a veleggiare tanto presto per altri angoli di mondo. A tratti, un timido spicchio di luna si affacciava dalla prigione, ma tornava a nascondersi subito dopo, il tempo di un sospiro sconsolato.
Il ghetto era stranamente silenzioso, e la temperatura glaciale che era calata sui tetti malconci delle case subito dopo il tramonto non c’entrava niente. Raffiche di vento gelido frustavano le strade deserte ricoperte di neve, facendo dondolare le insegne di legno scrostato che penzolavano tristi sopra le porte delle bettole, appese a catenacci arrugginiti e cigolanti. Le lanterne poste ai principali crocevia tremolavano come derelitti prossimi alla morte, creando ombre sinistre che si allungavano sui muri delle case come gli artigli di un mostro. Persino gli insetti se ne stavano al riparo nelle loro tane, fossero esse dei buchi nella pietra o ragnatele intessute sul soffitto o dietro mobili tarlati. I cani, che spesso vagavano irrequieti a caccia di scarti, erano raggomitolati in branco sul retro delle poche osterie ancora aperte, nella speranza di muovere a pietà il proprietario per ottenere qualche osso, e magari pure un posticino accanto al fuoco. 
Quella zona, la più malfamata della capitale, di solito scoppiava di vita e rumore in qualunque stagione, mentre adesso era uno scenario desolante. I bordelli affollati, le locande prese d’assalto da criminali e ubriaconi, i marciapiedi assiepati da mendicanti e prostitute, i negozi adibiti al commercio di beni illegali o merce rubata, bambini cenciosi che giocavano a biglie sull’acciottolato, tutto sembrava solo un vago ricordo. Il gelo invernale non era mai stato una valida scusa per chiudere i battenti, ma in quei giorni alcune cose erano cambiate e il clima rigido aveva sferrato la stoccata finale. 
Infatti, il re aveva decretato di voler bonificare il ghetto per trasformarlo in un’area residenziale per la borghesia arricchita, con l’ovvia conseguenza che molti degli abitanti erano già stati invitati a sloggiare dove più gradivano, purché non rimanessero a insozzare le strade con la loro ancor più disgustosa presenza. Che andassero a vivere fuori dalle mura, nelle campagne, lì c’era tanto spazio. Così, la maggior parte delle case erano ormai vuote, le botteghe sprangate e le locande chiuse, perché confiscate dallo stato. Il degrado e la povertà, ora che la facciata di apparente allegria era stata tolta di mezzo, erano ancor più evidenti. La gente che era nata e vissuta in quelle viuzze sporche non le riconosceva più, apparivano estranee e spaventose. Di fronte a tale panorama, non si poteva fare a meno di sentirsi degli spettri, anime in pena che vagavano nel grigiore di una perpetua foschia, private persino del diritto di aspirare ad una condizione migliore.
Se invece si volgeva lo sguardo in alto, in direzione del palazzo reale, con le sue torri bianche che svettavano verso le stelle e i suoi vasti giardini abbelliti con statue e fontane, soffermando poi l’attenzione sulle lussuose costruzioni che lo attorniavano alla stregua di fedeli vassalli in ginocchio davanti al trono, la vista era assai diversa. Le ville degli aristocratici, scolpite nel marmo più raffinato da mani ancor più esperte, si stagliavano contro il cielo simili a monumenti sacri, e tali erano considerate dalla massa di poveri relegati nel ghetto. Le finestre illuminate di quelle magioni sfavillavano nel buio come schiere di piccole lucciole a guardia di un irraggiungibile mondo dorato, fatto di feste, gioielli e letti di piume con lenzuola di velluto. Camminare tra le vie della città alta durante il giorno era uno spettacolo per gli occhi, un toccasana per l’umore e una disgrazia per l’anima, se non eri un residente. Ma la notte, oh, la notte si trasformava: la magia pareva calare dalla volta celeste e ammantare ogni blocco di pietra, ogni porta, ogni tegola e ad un tratto diventava l’ingresso per un’altra dimensione, una culla di infinite possibilità che aspettavano solo di essere afferrate, una traboccante dispensa di sogni che non desideravano altro che venire esauditi. 
Erano tanti i giovani che si spingevano fino alle pendici del palazzo, salendo le scale di pietra che collegavano i vari livelli, attraversando i ponti sui fossati, percorrendo i viali lastricati che, passo dopo passo, si allargavano per ospitare alberi dalle fronde rigogliose allineati in file ordinate. Vi si recavano nella speranza di trovare un impiego presso una bottega di classe o una famiglia nobile, e godere, seppur indirettamente, di tutto quel fasto, dimentichi delle loro origini. E una volta lì, nessuno voleva più scendere, tornare a sguazzare nel fango, anche a costo di prostituirsi per vecchi bavosi con le tasche piene di soldi o morire per strada vestiti di stracci: meglio spirare nel modo peggiore lassù, dove il sole brillava più forte e si aveva l’illusione di trovarsi vicini agli dei, a portata dei loro occhi, piuttosto che quaggiù, dove l’aria sembrava un miasma tossico e, ovunque puntavi lo sguardo, non vedevi che orbite vuote su facce scarne e grottesche di fantasmi.
Nei meandri del labirinto di case fatiscenti, tutti erano immersi in un sonno profondo, eccetto una combriccola dall’aria losca radunata in un capanno abbandonato, probabilmente appartenuto a un fabbro, data la presenza di una fornace e un’incudine al centro della stanza, entrambe affogate nella polvere e nelle ragnatele. Il legno delle pareti era marcio e bucherellato, alcune travi erano rotte e il vetro delle finestre si mostrava leggermente annerito, come se una fiamma fosse divampata sopra di esse. Il soffitto malmesso minacciava di cedere da un momento all’altro, i cigolii che emetteva non erano affatto rassicuranti, ma a nessuno interessava ripararlo. Una candela solitaria ardeva su una panca, accanto alla fornace, anche se i presenti non avrebbero avuto bisogno di alcuna luce per orientarsi, conoscevano a mente l’ubicazione di ogni singola pagliuzza sparsa sul pavimento dissestato.
Un uomo alto e grosso, dalla carnagione scura e la testa rasata, si avvicinò all’entrata del capanno e accostò la faccia punteggiata di ispida barba agli spiragli lasciati dalle travi. Inspirò il tanfo di urina e muffa, divenuto familiare, e sbirciò in strada. La neve fresca aveva già coperto le tracce degli ultimi passanti ritardatari, che rincasavano veloci per accucciarsi davanti ai loro focolari - ancora per poco -, magari con la pancia piena di qualche brodaglia, se la giornata era stata fruttuosa. A quel pensiero il suo stomaco gorgogliò: non mangiava dal mattino e in quel momento qualsiasi cosa gli sarebbe sembrata squisita. Si costrinse a reprimere l’acquolina e concentrarsi sulla missione. Se tutto fosse andato come pianificato, l’indomani si sarebbe abbuffato di pane dolce, cinghiale arrosto e patate all’olio in una locanda di Koran, oltre i confini del regno, lontano da quello schifo di posto e dalla sua schifo di vita. 
Incrociò le braccia sull’ampio torace, sfregando i palmi sulle braccia scoperte per riscaldarle.
“Fai pensieri sconci?”
L’uomo sussultò come punto da una vespa. Poi, quando riconobbe la voce, si irrigidì, strinse i pugni e ringhiò, voltandosi di tre quarti per lanciare un’occhiataccia a Reeven. Come accadeva sempre da quando lo aveva conosciuto, circa otto anni prima, non lo aveva sentito arrivare. Quel ragazzo era silenzioso come un gatto, e altrettanto inquietante e molesto. Talvolta aveva l’impressione che non respirasse nemmeno.
“Veramente pensavo a quanto sarà bello non essere più obbligato a vedere il tuo brutto muso, dopo questa notte.”
“Bugiardo, so che in fondo mi adori.” chiocciò Reeven.
“Finiscila, o ti ficco la mia spada su per le retrovie.” sibilò minaccioso.
“Ah! Hai sempre avuto una fissazione per il mio sedere, ammettilo.” rise, prendendolo in giro.
“Cosa? Quelle mele rinsecchite?”
“Mele rinsecchite?!” scandì oltraggiato, “Sei solo invidioso!”
“Sì, certo, come no.”
Reeven gli assestò una pacca amichevole sulla spalla e sorrise: “Rilassati, Qolton. Godiamoci quest’ultima avventura insieme, ti va?”
“Solo se smetti di fare il coglione.”
L’altro finse di rifletterci, poi scrollò il capo: “Nah, impossibile. Comunque, dato che forse domani smembreremo la nostra famiglia, vorrei riprovare a sedurre Phyroe. Sai, magari questa è la volta buona.”
“Per riuscire a fartela, dovresti avere una vagina e un paio di tette.”
“Ecco, a proposito, ho sentito che esiste una pozione in grado di cambiare il sesso delle persone. Mi ci vedi come donna?”
Qolton sbuffò una risata divertita e sospirò sconsolato. Erano anni che Reeven sbavava dietro a Phyroe, senza successo. Quando avrebbe capito che non aveva speranze?
Lo scrutò di sottecchi, ammirando come la figura slanciata e muscolosa dell’amico risultasse armoniosa e invitante, come calamitasse la luce e le ombre quasi ne fosse padrona, come riempisse la stanza pur occupandone una minima parte. Sì, Qolton era invidioso: avrebbe desiderato una pelle più chiara e tratti più fini, invece era costretto a convivere con una corporatura troppo massiccia, sgraziata, una mascella larga e squadrata e un naso schiacciato, oltre ai colori scuri del sud, considerati “sporchi” nelle terre a ovest. Senza contare le rughe che gli erano comparse sulla fronte e sulle tempie, segnale evidente che la giovinezza era passata da un pezzo. Il suo aspetto non risvegliava il desiderio, piuttosto incuteva soggezione e timore reverenziale. Non che fosse un male, ma a volte sognava l’adolescenza perduta e le porte che solo essa poteva aprire, soprattutto quando Reeven si imponeva nel suo campo visivo in tutta la sua snervante gloria. Il suo viso dai lineamenti mascolini e al contempo delicati, il ghigno da cattivo ragazzo e l’aria da sbruffone gli avevano sempre garantito la zelante compiacenza di uomini e donne, tanto che nessuno poteva esimersi dal considerarlo una creatura affascinante, dotata di una potente carica erotica. Peccato che, insieme a tutta quella bellezza e prestanza, gli dei non gli avessero fatto dono anche di un cervello funzionante. 
Fece scivolare lo sguardo sui suoi capelli biondi e lisci, lunghi fino alle spalle, e sugli occhi azzurri, che si macchiavano del colore del sangue quando fiutava un pericolo o aveva voglia di sgozzare qualcuno. La prima volta che lo aveva visto succedere, si era spaventato a morte, ma poi la singolarità dell’evento lo aveva incuriosito e la paura era passata in secondo piano. Reeven non sapeva cosa fosse, aveva più volte ribadito che non ne aveva il controllo, e, in fondo, per Qolton non era mai stato un problema: avrebbe potuto avere gli occhi del colore che voleva, restava comunque un idiota. 
Qolton si concesse una rapida occhiata alla spada che gli pendeva su un fianco, forgiata con l’acciaio pregiato delle miniere dei monti Garah, più resistente di quello normale. L’elsa era intagliata secondo lo stile di Ferenthyr, ossia con foglie d’acanto intrecciate in fantasiosi ghirigori. Reeven l’aveva rubata ad un armaiolo della città alta due anni prima, assieme a una coppia di pugnali della medesima fattura, e da allora non se ne era mai separato. Poi gli guardò la lurida casacca di cotone, i bracciali di cuoio, i pantaloni di pelle marroni strappati sulle ginocchia e gli stivali sudici e consumati, constatando che gliene servissero di nuovi se non voleva rimanere scalzo. Anzi, Reeven necessitava di un intero guardaroba nuovo di zecca, pareva uno straccione. Uno straccione con un bel faccino.
Senza aggiungere altro, lo spintonò di lato per superarlo e raggiungere il resto della banda, intenti nei preparativi per il colpo. Suna stava ripassando la piantina della casa che dovevano svaligiare, Utros affilava i coltelli, Benial controllava che le funi fossero sufficientemente lunghe e regolava le corde della balestra, mentre Phyroe, la sola donna del gruppo, riempiva la bisaccia con le sue fialette colorate, contenenti veleni impronunciabili e letali. Qolton rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di immaginarne i raccapriccianti effetti. Aveva visto Phyroe all’opera molte volte, ma non era mai rimasto tanto a lungo da assistere al decorso dell’agonia che i poveri malcapitati dovevano subire, se l’era sempre svignata con dignità e la scusa di dover pisciare. 
Sospirò e si assicurò che la spada fosse ben legata al cinturone di cuoio che gli fasciava i fianchi robusti, e che i coltelli nascosti sotto la casacca di lana grezza non scivolassero dai foderi mentre si muoveva. Un brivido freddo gli causò la pelle d’oca e rimpianse di aver dimenticato alla locanda il mantello.
“Allora, ci siamo?” sbottò Reeven all’improvviso, impaziente e petulante, spezzando l’atmosfera carica di tensione.
Tutti rotearono gli occhi, esasperati. Phyroe schioccò la lingua, assottigliò minacciosa le palpebre e mimò di strappargli i genitali e azzannarli con violenza. Il ragazzo condusse le mani al pacco, deglutì e si esibì in un sorriso incerto.
Qolton soffocò l’ennesima risata, imitato dagli altri. Reeven gli sarebbe mancato, anche se non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura. Grazie a lui, spesso i lavoretti che avevano svolto si erano dimostrati più divertenti del previsto. Sì, lì per lì non erano mai divertenti, ma ripensandoci a posteriori non poteva che sbellicarsi. Soprattutto quando perdeva il senso dell’orientamento e li guidava dalla parte opposta rispetto alla destinazione iniziale, facendo perdere loro tempo prezioso, ma provocando anche una sequela di eventi assurdi e, in certa misura, esilaranti. Come quella volta in cui erano finiti in una fabbrica di sapone invece che nel palazzo del conte che dovevano derubare. Avevano preso le gallerie sotterranee, utilizzando un passaggio segreto consigliato da Reeven, e si erano fidati come dei novellini: avrebbero dovuto sapere ormai che non era saggio riporre nel ragazzo le proprie speranze, ma nessuno conosceva il percorso tranne lui. Nel cercare una via d’uscita, Reeven si era avvicinato a una botola accanto a un barile pieno d’acqua, ma sembrava incastrata. Così aveva attinto alla forza bruta per fare bella figura con gli amici, specie con Phyroe, col risultato che il coperchio si era scardinato e lui era caduto addosso al barile, che si era rovesciato sulle saponette allineate sul tavolo lì accanto, che erano cadute sul pavimento, che era diventato scivoloso. E Reeven non aveva potuto restare fermo come gli avevano intimato i colleghi, no: si era alzato, era inciampato ancora e aveva poggiato uno stivale su una saponetta. Aveva spiccato un volo pazzesco, precipitando addosso a Phyroe, che a sua volta era andata a sbattere su Benial, che aveva urtato Utros e la situazione era degenerata. Qolton sorrise quando ricordò come, alla fine dell’effetto domino, Reeven si era ritrovato a gambe spalancate sulla faccia di Phyroe, che lo squadrava dal basso livida di rabbia e le vene in rilievo sulla fronte. Bei tempi.
L’unico motivo per cui non lo avevano accoppato dopo le prime missioni era che conosceva a menadito ogni angolo della città, quasi l’avesse progettata lui. Eppure, non appena si metteva in testa al gruppo, chissà come imboccava la strada sbagliata. Era colpa dell’emozione, si giustificava, non lo faceva apposta, ma questo non gli aveva mai risparmiato urla e pestaggi da parte di Phyroe. La ladra, normalmente calma e algida come un pezzo di ghiaccio, non riusciva mai a trattenersi con Reeven e, in un modo o nell’altro, il ragazzo finiva sempre con un occhio nero e l’inguine dolorante.
Qolton sospirò nostalgico.
Sì, mi mancherà.
Raccolsero in fretta i rispettivi fagotti e si scambiarono un cenno d’intesa, seri e determinati a portare a termine la missione. Quindi Suna si fece avanti e aprì la porta del capannone, lasciando che il vento gelido gli accarezzasse i corti capelli neri, insinuandosi poi sotto i loro abiti e nella stanza, divorando in un batter d’occhio la timida fiammella della candela. L’accesso alle gallerie era giusto dietro l’angolo.

Sotto la capitale si estendeva un intricato reticolo di tunnel, scavati poco dopo la sua fondazione per permettere ai soldati di far evacuare i civili durante gli assedi. Poi, in tempi di pace, erano stati usati dai contrabbandieri per smerciare armi, vino pregiato e pietre preziose allo stato grezzo. Commerciavano persino pozioni magiche, prima che venisse emesso il divieto di vendita al di fuori dei templi. Alla fine erano state abbandonate dopo che un re aveva deciso di trasformarle in fogne, per evitare che i regali escrementi di altrettanto regali dignitari e ospiti illustri finissero nei canali di scolo ai lati delle strade in discesa, verso la città bassa, appestando l’aria. E poi si chiedevano da dove venisse quell’olezzo tremendo che si respirava nel ghetto! Ormai la pietra aveva assorbito le regali urine, cosa si aspettavano? Acqua di rose? 
Mancava un’ora alla mezzanotte, quando la testa di Reeven sbucò cauta dalla porta di un’elegante bottega di stoffe, dirimpetto alla villa del duca di Oswort. Sorrise raggiante e si girò a fronteggiare i compagni, rimasti dentro il passaggio segreto nel retro della bottega, pronti a udire le scuse del giovane per aver, di nuovo, sbagliato bivio. I loro stivali erano impregnati di sostanze organiche non ben identificate fino alla caviglia, ma l’effetto del miasma tossico era attutito dai fazzoletti che si erano legati sulla bocca e sul naso.
“Allora?” domandò Qolton, spazientito.
Reeven si rese conto che non potevano vederlo sorridere se indossava il fazzoletto, così lo tolse e si mise le mani sui fianchi.
“Meta raggiunta!” dichiarò pavoneggiandosi.
“Al primo tentativo?”
“Sì.” rispose orgoglioso, annuendo con enfasi e gonfiando il petto.
“È la prima volta…”
“Volevo mettermi in mostra per la nostra ultima missione.”
“Non potevi deciderti prima?” grugnì Phyroe, scavalcando il bancone e affiancandolo.
“Mi merito un premio, eh?”
“Hai ragione.” assentì la donna.
“Sul serio?!”
“Sì. Ti regalerò un afrodisiaco così potente, che alla fine mi supplicherai di tagliartelo.”
“Ragazzi, concentratevi.” si intromise Suna, “Benial, hai le funi a portata di mano?”
“Sì.”
“Bene, andiamo.”
Mentre si incamminavano, Reeven attirò l’attenzione di Phyroe. Indicò lei, poi se stesso, e mentre chiudeva pollice e indice di una mano per formare un cerchio, infilò in esso un dito dell’altra mano, mimando un atto inequivocabile. 
Utros, che stava smangiucchiando dell’uva, come faceva sempre prima di entrare in azione - diceva che la frutta lo metteva di buon umore -, li guardò di sfuggita e corrugò le sopracciglia scure e cespugliose. Un ricciolo castano gli cadde sulla guancia e lo scostò con un soffio. Approfittando di quella infinitesimale distrazione, Phyroe, con una mossa fulminea, gli rubò due acini e ignorò le blande rimostranze di Utros, che, imbronciato, fissò il grappolo vuoto avvertendo un acuto senso di perdita. 
La donna portò il bottino davanti al naso di Reeven, che sbatté le palpebre perplesso.
“Questi sono i tuoi amati ciondoli.” disse, per poi schiacciare gli acini, facendo schizzare il succo da tutte le parti.
“Ugh.”
“Ragazzi! Per favore.” li richiamò all’ordine Suna, dato che erano arrivati, “Benial,  tocca a te.”
La strada era deserta e di certo nessuno si sarebbe avventurato all’aria aperta con quel clima. Qolton aveva le dita dei piedi congelate e brividi freddi gli scorrevano sulla pelle senza sosta. Il suo fiato, come quello dei compagni, si condensava in piccole nuvolette bianche davanti alla faccia. Se fossero rimasti qualche minuto di troppo fermi lì, senza muovere un muscolo, sarebbero morti assiderati.
Benial raddrizzò le spalle, scrocchiò teatrale il collo e sfilò la balestra con un gesto fluido e assolutamente calcolato. Reeven inarcò un sopracciglio e storse la bocca, ma non commentò. Ora doveva lavorare e guadagnarsi la pagnotta. 
Benial legò una cima della fune a una freccia con movimenti esperti, prese la mira e scoccò. Il dardo si conficcò nel tronco robusto di una quercia dentro le mura della villa. Sapevano che le guardie del duca non li avrebbero scorti da lì, perché un fitto muro di vegetazione copriva la visuale. Si arrampicarono con destrezza e scavalcarono a turno il muro di cinta, per poi atterrare sull’erba e acquattarsi dietro i cespugli per analizzare la situazione, silenziosi come ombre. Per fortuna la neve si era sciolta, altrimenti avrebbero lasciato le impronte, palesando la loro presenza alle sentinelle.
Il piano era, tutto sommato, abbastanza semplice: sottrarre dei documenti importanti dallo studio privato del duca e squagliarsela alla velocità della luce senza farsi scoprire. Il loro mandante, di cui non conoscevano neanche l’identità poiché li aveva assoldati tramite un intermediario, non aveva specificato di che tipo di documenti si trattasse e loro non l’avevano chiesto, era un dettaglio irrilevante. Per confondere le acque, avrebbero dovuto sgraffignare pure qualche gioiello o oggetto di valore, che avrebbero tenuto come pagamento.
Sgattaiolarono lesti fuori dalle frasche, in fila indiana, attenti a non incrociare le guardie di ronda.
“Mi si stanno ghiacciando le palle…” borbottò Reeven.
“Shhh!” fecero gli altri in coro, voltandosi a guardarlo seccati.
Il biondo li scimmiottò in silenzio, contraendo il viso in una smorfia buffa.
Girarono attorno agli alloggi della servitù e si fermarono sotto una terrazza del primo piano, nell’ala est. La villa si innalzava su tre piani in un unico blocco compatto: da quel lato, il primo presentava un terrazzo per ogni finestra, il secondo solo un balcone, che dava proprio sullo studio del duca, per questo non fu difficile localizzarlo. 
Benial legò un sasso all’estremità della stessa fune usata per intrufolarsi e la lanciò, facendola avvolgere alle colonnine di pietra che delimitavano il bordo della terrazza prescelta. Nell’ala est c’erano soltanto le camere degli ospiti, quindi non era molto frequentata. 
Entrare fu una passeggiata, ormai avevano esperienza. Il problema, semmai, era uscire indisturbati con la refurtiva, soprattutto se scattava l’allarme o se qualche guardia deviava dal suo percorso senza alcun preavviso. Avevano trascorso giorni a studiare i sistemi di sorveglianza, gli orari dei turni di ronda, le abitudini dei servi e del padrone di casa, ma poteva capitare di incappare nel classico imprevisto.
Scivolarono lungo il corridoio del primo piano, badando a non far riecheggiare i propri passi sul pavimento di marmo. Le pareti erano spoglie, dipinte con complicati ghirigori dorati, orribilmente pacchiani. Delle lampade ad olio erano state inchiodate alla pietra a uguale distanza l’una dall’altra e la loro luce proiettava ombre identiche e ripetitive, vagamente sinistre.
Giunsero davanti a una rampa di scale e salirono al secondo piano, dove si trovava lo studio del duca di Oswort. In quel momento il nobile avrebbe dovuto essere a cena con un paio di dignitari di corte, quindi potevano agire in totale tranquillità, almeno per un’oretta. 
Utros, Benial e Qolton, i più grossi, erano in testa al gruppo, per assicurarsi che ci fosse via libera e, nel peggiore dei casi, fare da scudo umano agli altri. 
Benial era quello che sembrava più a suo agio. Si capiva che era stato addestrato nell’esercito dal modo in cui si muoveva, come se fosse parte integrante dell’ambiente. Per essere precisi, era stato una spia, uno di quei soldati che di solito si mandano in avanscoperta alla ricerca di un passaggio nelle roccaforti o a distruggere le provviste negli accampamenti nemici. Carne da macello, insomma. Adesso era solo un disertore. Nessuno, eccetto Suna, conosceva il motivo dietro il suo tradimento. A quanto pareva, i due vantavano un’amicizia di vecchia data, però il moro non aveva mai combattuto per sua maestà. Non era dato sapere come avessero legato, né quando e in quale occasione. Non parlavano mai del passato, era la regola della loro banda: ognuno badava ai fatti suoi e tutti erano felici. 
I capelli di Benial, intrecciati alla bell’e meglio, così chiari da sembrare bianchi, rilucevano sotto i tenui raggi lunari che filtravano attraverso le finestre del corridoio e la barba bionda gli sfiorava il colletto della casacca nera, un po’ logora sui gomiti. I muscoli guizzavano nervosi, all’erta, e i suoi occhi vigili erano puntati dritti davanti a sé.
Suna e Phyroe stavano al centro a dare direttive, sia perché più intelligenti e predisposti al comando, sia perché erano gli unici ad aver memorizzato la pianta dell’edificio, mentre Reeven chiudeva la fila, guardando loro le spalle. Sapevano che il biondo aveva dei riflessi stranamente parecchio sviluppati e nulla sfuggiva ai suoi sensi, neanche il minimo rumore. Perciò, se ce ne fosse stato il bisogno, sarebbe intervenuto mettendo a tacere eventuali “ostacoli” prima ancora che gli altri si accorgessero del pericolo. 
Reeven era divenuto famoso nella loro cerchia per essere letale come pochi assassini professionisti. Era freddo e distaccato, quasi fosse nato per uccidere. Non concedeva mai alla vittima il tempo di emettere un fiato, elargiva una morte rapida e indolore, e spesso il malcapitato non si rendeva nemmeno conto di essere stato colpito. In quei frangenti cambiava totalmente atteggiamento, come se due persone diverse abitassero il suo corpo, due coscienze diametralmente opposte: il ragazzo impudente e scanzonato, incline al gioco e stupide risse, e il sicario spietato e calcolatore. 
Tuttavia, adesso era concentrato su ben altro. Il sedere di Phyroe, splendidamente fasciato da un paio di pantaloni di pelle attillati, ondeggiava di fronte a lui, ipnotizzandolo, ed era davvero difficile distogliere lo sguardo. Si umettò le labbra secche e immaginò di affondarci la faccia.
“Reeven, piantala! Sento i tuoi viscidi occhi addosso.” sibilò tra i denti la donna, senza voltarsi.
“Scusa! È che il tuo culo oggi è più bello del solito e se penso che non lo rivedrò più…”
“Reeven, resta lucido. Se mandi tutto all’aria come l’altra volta, giuro che ti castro.” lo minacciò Suna in un sussurro carico di promesse.
Reeven si inalberò, punto sul vivo: “Senti, non capita tutti i giorni di assistere a una cosa a tre, come potevo lasciarmi sfuggire l’occasione?”
“Se la cosa a tre non avesse incluso la baronessa che dovevamo derubare, non ci sarebbe stato alcun problema.”
“E come potevo sapere che quella gnocca tutta forme abbondanti era la baronessa? E poi non ho mica partecipato.”
“Sì, ma ti sei fatto scoprire a spiarla dalla finestra e ha dato l’allarme! Ora chiudi quella bocca.”
Il ragazzo sbuffò imbronciato e trasse un respiro profondo per scacciare i pensieri poco casti che gli affollavano la mente. Il sesso era sempre stato un’ossessione, ma non era colpa sua. Era davvero più forte di lui, sebbene avesse già ampiamente superato la fase della pubertà. Si sentiva perennemente eccitato, persino quando non v’erano stimoli di sorta. Non aveva alcun controllo sui suoi appetiti, sin dai tempi in cui si era sviluppato, pure abbastanza precocemente. La questione, poi, si aggravava quando dopo un’intera notte passata a letto in compagnia, continuava a rimanere ben desto e insoddisfatto. I suoi amici lo chiamavano “bestia in calore” e avevano ragione, non riusciva a farne a meno. Non capiva se fosse una malattia, un effetto collaterale della sua iperattività o soltanto la sua natura. Molti di coloro che avevano condiviso una camera o un vicolo con lui gli avevano detto che era fatto per essere un amante, quindi chissà, forse era vero. Magari, dopo quell’ultimo lavoro, con il malloppo che si sarebbe guadagnato avrebbe pagato decine di prostitute e ragazzi per sollazzarsi per settimane, se non per mesi, finché non si fosse sentito finalmente sazio. 
Represse l’impulso carnale a fatica, impresa non facile con il corpo di Phyroe così vicino e il suo odore intossicante che gli stuzzicava i nervi sensibili. Visualizzò il sangue che scorreva nelle vene e si focalizzò sulla sensazione di stabilità che gli spediva l’elsa della sua spada stretta nel palmo. Poi zittì il rumore dei passi dei compagni, lo sfregamento degli abiti sulla loro pelle, i loro respiri accelerati per via dell’adrenalina, i battiti dei loro cuori, il lieve sferragliare delle armi nei foderi e il cozzare delle fiale di veleno nella borsa di Phyroe. Alla fine isolò i suoni che gli arrivavano alle orecchie da lontano e bandì tutto il resto. 
Udì il chiacchiericcio dei domestici nelle cucine, dall’altra parte della villa, gli ordini perentori della cuoca, il fracasso di piatti e pentole, lo scroscio dell’acqua, le risate dei commensali, un cane che abbaiava nel cortile interno, il ruminare dei maiali nel recinto, i nitriti annoiati dei cavalli nelle stalle; pochi secondi dopo gli arrivò il tintinnio di bicchieri di cristallo, un brindisi tra il duca e gli ospiti, seguito dalle risatine complici di una coppia di serve al piano di sotto, che spettegolavano su uno degli invitati, un certo conte di Rajan, a detta loro avvenente come un dio. 
Dilatò le narici e inspirò gli odori, tutti quanti. C’era quello del fuoco nel camino, quello della legna bruciata, del cibo, un ottimo arrosto di cervo, quello del vino e del sidro… verdura bollita, patate rosolate nel grasso animale… frutti di bosco, mele candite, zucchero, una torta. 
Il cicaleccio delle serve lo distrasse e in un attimo gli parve di essere lì, accanto a loro, mentre camminavano fianco a fianco nel corridoio, le gonne nere che frusciavano sul marmo e le braccia avvolte attorno a lenzuola fresche di bucato. Poteva quasi vederle col naso.
Una era mora, conosceva l’odore delle more. La sua pelle profumava di terra bagnata, pane appena sfornato, sapone e… sangue. Aveva le mestruazioni. Disegnò nella fantasia il profilo del suo viso, le guance paffute, i riccioli scuri che le ricadevano sul collo, sfuggiti alla cuffietta bianca, il naso un po’ a patata, le labbra carnose e seducenti, il seno prosperoso. L’altra era più giovane, di sicuro rossa. Le rosse avevano un odore pungente, asprigno. Il suo corpo emanava profumo di adolescenza. Una fragranza in particolare lo colpì, tanto potente da sopraffare le altre: latte materno. La ragazza era incinta, probabilmente tra i quattro e i cinque mesi. Fiutò le sue lentiggini, gustò sulla lingua il sapore delle labbra sottili - aveva da poco mangiato delle fragole -, leccò il sudore salato sul suo collo e si immerse nel suo seno pieno di latte, che lui non avrebbe mai assaggiato, toccando i capezzoli turgidi che premevano sotto la stoffa della camicetta inamidata. Accarezzò il suo ventre appena rigonfio, provando tenerezza, e scese fra le sue cosce annusando il suo calore, umido e inebriante.
“Reeven, senti qualcosa?” domandò Suna.
Mancavano solo pochi metri, lo studio del duca si stagliava in fondo al corridoio. Le pareti erano tappezzate di affreschi di scene di guerra. Reeven inalò l’effluvio oleoso dei colori.
“Oh, sento tante cose…” sospirò con un sorriso allusivo.
Phyroe levò gli occhi al cielo e borbottò un insulto.
“Gelosa?”
“Ti piacerebbe.”
Reeven abbandonò le serve e incanalò i suoi sensi nelle stanze che si affacciavano sul corridoio. Lo scalpiccio delle zampette di uno scoiattolo, che correva sul ramo di un albero nel giardino per raggiungere la sua tana nel tronco, penetrò le sue difese, ma lo scacciò in un attimo. All’improvviso, si impietrì sul posto a occhi chiusi. 
Gli altri, giunti a destinazione, lo notarono e lo osservarono circospetti, in silenzio, attendendo trepidanti il responso. 
Udiva il battito di un cuore provenire da dentro lo studio. C’era qualcuno. Conosceva quel battito, lo aveva già sentito, però non ricordava né dove né quando. Sapeva solo che gli era familiare. Provò una sorta di nostalgia, che si palesò con un tuffo al petto e un dolore sordo alla bocca dello stomaco.
“Reeven. Tutto a posto?” indagò Qolton con apprensione.
“Non siamo soli. C’è qualcuno oltre la porta.”
“Un domestico?”
Annusò l’aria e scosse la testa: “No… qualcun altro.”
“Un ladro?”
“Non lo so. Sta… frugando tra i libri.”
Annusò ancora. Odore di pane e dolci, terra, legno, foglie, neve, fuoco. 
Scavò più a fondo, senza riuscire a scrollarsi di dosso l’impressione di conoscere quella persona, immagazzinando e cercando di dare un ordine al caos di informazioni che assorbiva rapidamente. 
Profumo di carta pergamena, inchiostro, cera. Capelli biondi, grano, fiori di campo. Argento… una collana? Stivali incrostati di fango e neve. Maschio, giovane, forse sui vent’anni. Pelle lattea, vellutata. Calli sulle mani. Denti piccoli e bianchi, naso all’insù, sudore. 
Le note olfattive si fecero più marcate, delineando ansia, disagio, determinazione, tristezza, angoscia. 
Catalogò tutto, per poi riaprire gli occhi confuso, preda di un’emozione indecifrabile, un misto di aspettativa, gioia e timore.
“È un ragazzo. Non so che intenzioni abbia.”
“D’accordo, toglilo di mezzo.”
“Non voglio.” replicò di getto.
I compagni di immobilizzarono e Suna sgranò gli occhi, interdetto. Era la prima volta che Reeven si rifiutava di eliminare un ostacolo.
“Non vuoi?”
“No.”
“Oh, beh. Speriamo non ci sia d’intralcio, allora.” disse facendo spallucce, accantonando la questione con un gesto annoiato della mano.
Phyroe lanciò una lunga occhiata penetrante al biondo, ma quando Suna diede l’ordine di entrare decise di rimandare le domande a dopo. 
Qolton e Utros, invece, continuarono a squadrare Reeven, sulle spine. Non gli avevano mai visto quell’espressione in faccia, non era da lui. Lo conoscevano da anni, da quando non era che un ragazzo arrogante, irriverente e spavaldo che partecipava a risse clandestine nei seminterrati delle osterie, vincendole pure; un ragazzo disilluso che campava alla giornata, bravo a fare a botte, con un che di animale nelle movenze e una luce disperata nello sguardo carico di solitudine. Era capitato che a volte si incupisse o si trincerasse dietro un muro di mutismo, forse rivangando un passato di cui non aveva mai parlato, ma poi tornava l’imbecille di sempre e l’atmosfera si alleggeriva, quasi non fosse accaduto nulla di speciale. Stavolta, però, percepivano che era diverso. C’era qualcosa di veramente strano nei suoi occhi, una luce ignota, tale da far loro accapponare la pelle per quanto era intensa.
“Conosci l’intruso?” lo interrogò Utros, le sopracciglia aggrottate e le iridi nere puntate sul suo viso, alla ricerca di indizi.
Reeven storse le labbra in una smorfia incerta, alternando il peso da una gamba all’altra: “Forse. Credo. Non lo so. È che non voglio fargli del male.”
“Ragazzi, non c’è tempo. Ne riparleremo più tardi.” li interruppe Benial, facendo loro cenno di seguirlo dentro lo studio.
Suna e Phyroe si erano già introdotti all’interno e stavano rovistando nei cassetti della scrivania di ciliegio, davanti alla finestra ad arco che aggettava sul cortile. Nessun segno della presenza del giovane ladro. 
La testa impagliata di un cervo troneggiava sulla parete nord, in cima alla libreria in noce, mentre un ritratto del padrone di casa, incastonato in una cornice di legno laccata in oro, si esibiva in tutta la sua tronfia indolenza accanto all’ingresso. Se avessero dovuto descrivere il duca in una parola, essa sarebbe stata “grasso”. Era un ammasso di adipe, le sue dita sembravano delle salsicce. Gli abiti eleganti in cui era stretto, su di lui apparivano ridicoli e sottolineavano in maniera spropositata le sue forme abbondanti, tanto da far dubitare che fosse in grado di spostarsi sui propri piedi. Forse usava una lettiga persino per andare in bagno. Oppure rotolava.
Il ritratto era affiancato da due tavolini, con sopra un vaso ciascuno, dipinto a mano. Le orchidee ivi raffigurate lasciavano intuire che quei vasi provenissero dal regno di Wennadyr, famoso per decorare tutto quanto, dalle opere d’arte ai vestiti, con i fiori più comuni che crescevano in quelle terre, cioè le orchidee. Non sembravano dei falsi, di sicuro valevano una fortuna. 
Per il resto non c’era granché di interessante, eccezion fatta per il tappeto orientale che faceva sfoggio di sé sul pavimento: vi erano cucite sopra tutte le specie di predatori esistenti, in un tripudio di colori talmente vivace da risultare seriamente pacchiano. Il duca di Oswort avrebbe avuto bisogno del consiglio di un esperto, perché a quel punto era evidente che non ci capiva nulla di arte o arredamento. Tutta la villa era un inno al cattivo gusto.
Qolton occhieggiò in direzione di Reeven, la cui attenzione era tutta concentrata su una porta chiusa, dal lato opposto alla finestra.
“È lì.” disse il biondo, privo di inflessione.
“Finché ci resta, non è un nostro problema.” sbuffò Suna, “Ora state zitti e aiutateci. I documenti che cerchiamo sono conservati in un panno di velluto rosso e recano il sigillo reale.”
“Metà di queste scartoffie hanno il sigillo reale.” commentò Benial.
“Sono avvolte in un panno rosso?” chiese Suna in tono sarcastico.
“Uhm, no.”
“E allora taci e continua a cercare.”
Qolton si accostò all’amico, gli posò una mano sulla spalla e strinse.
“Stai bene?”
“Sì, io… sto bene.” rispose Reeven, fallendo miseramente nel nascondere l’esitazione.
“Dai, al lavoro. Pensa che tra poco sarà finita.”
Mentre gli altri mettevano a soqquadro la stanza per trovare quei dannati documenti, Reeven, sordo ai consigli di Qolton, rimase impalato innanzi alla porta, fissandola come se potesse vederci attraverso. La tentazione di aprirla era forte, irresistibile, ma correva il rischio di farsi beccare e mandare a rotoli l’operazione. Era combattuto. Da un lato c’era la lealtà verso il suo gruppo e la prospettiva di intascarsi un bel po’ di gioielli per rifarsi una vita, dall’altro la curiosità e la voglia di scoprire l’identità di quel ragazzo, che con il suo odore e il suo battito cardiaco era capace di gettarlo in confusione, come se tutti i pilastri che tenevano insieme la sua esistenza stessero tremando sotto le scosse di un terremoto.
“Reeven.” lo richiamò Suna, per l’ennesima volta.
Si girò, in tempo per vederlo trasalire e arretrare. Assunse un’aria perplessa e piegò il capo.
“Che c’è?”
“Hai gli occhi rossi. Pericolo in avvicinamento?”
“Eh?”
Sbatté le palpebre, fece una breve ricognizione nei dintorni con i suoi sensi e scrollò la testa.
“Allora che ti prende?”
“Voglio andare di là.”
“Il ragazzo?”
Reeven annuì.
“Troviamo i documenti e ce la squagliamo, non si ammettono deviazioni. Se proprio vuoi, ti lasciamo qui. Te la caverai da solo.”
“Suna!” provò ad obiettare Qolton.
“Abbiamo una missione e la garanzia di uscirne ricchi. Non accetto errori.” dichiarò l’altro lapidario.
“Non possiamo abbandonarlo! È uno di noi.”
“Abbassa la voce, Qolton.” lo rimproverò Benial, tendendo le orecchie per captare rumori nel corridoio.
“Se lo desideri, puoi restare anche tu. Muoviamoci.”
“Eccoli!” esclamò Phyroe trionfante, estraendo un panno di velluto rosso da un cassetto segreto sotto la scrivania.
“Reeven, andiamo.” lo pregò Qolton, teso come una corda.
Reeven raggrumò le labbra, strinse i pugni e rilasciò un sospiro: “Avviatevi, vi raggiungo dopo.”
“Sei impazzito?”
“Libreria, terzo scaffale dal basso, al centro. Libri finti, un baule nascosto. Gioielli. Diamanti e rubini. Perle del sud. Tenetene da parte un po’ per me.” disse sbrigativo, con voce monocorde, per poi appoggiare una mano sulla maniglia.
“Sei inquietante quando fai così.” borbottò Utros, affrettandosi a seguire le indicazioni del biondo.
Tirò verso di sé i libri centrali e uno scatto risuonò nel silenzio. Un baule di legno di faggio, di modeste dimensioni, venne fuori dal muro. Era sigillato con un pesante lucchetto, ma Utros non si lasciò scoraggiare. Lo scassinò in un paio di minuti e lo aprì.
“Cavolo.” fischiò, “Con questi potrei comprarmi un palazzo.”
I compari diedero una sbirciatina da sopra le sue spalle e ghignarono vittoriosi.
Ma Reeven aveva smesso di ascoltare, tutti i sensi focalizzati sulla presenza oltre quella sottile barriera di legno. Aveva deciso, sarebbe andato fino in fondo. Abbassò la maniglia e spalancò la porta, superandola senza indugio. 
Prima che riuscisse a fermarlo, Qolton lo vide sparire nel buio e masticò un’imprecazione.
“Filiamocela.” ordinò Suna.
“Qolton, tu cosa fai?” gli domandò Phyroe.
“Io… dannazione! Resto con lui.” sbuffò, grattandosi la testa rasata con crescente frustrazione.
La donna annuì. Dopo un attimo di incertezza, infilò una mano nella borsa e ne estrasse una fialetta contenente del liquido ambrato. La tirò a Qolton, che l’agguantò al volo.
“Per una fuga veloce, nel caso qualcuno vi scoprisse.” spiegò.
“Grazie.”
Infine, Utros, Benial, Suna e Phyroe sgusciarono di nuovo nel corridoio, carichi del bottino. 
Qolton esalò un sospiro stanco, maledicendo l’affetto fraterno che lo legava a Reeven e che lo spingeva a fargli da balia. D’altronde, era stato lui a reclutarlo, si sentiva responsabile. Senza ulteriori indugi, imboccò la porta e corse dietro al compagno, pregando che si astenesse dal commettere stupidaggini. Speranza vana, ormai l’aveva imparato.

Reeven avanzava lentamente tra gli scaffali ricolmi di libri rilegati e rotoli dall’apparenza antica, molto antica. A giudicare dall’odore, potevano risalire a circa cinquecento anni prima. Di sicuro erano manoscritti preziosi, data la cura con cui erano conservati e l’ordine alfabetico in cui erano stati organizzati. I rotoli erano disposti a piramide al centro di ogni mensola, in una successione ripetitiva che rendeva difficile orientarsi. 
Reeven non si sarebbe mai aspettato che accanto alla studio del duca ci fosse una biblioteca privata così ben fornita. Sul serio, era enorme. Non così enorme quanto la biblioteca del Grande Tempio, però. C’era stato una sola volta, sette anni addietro, per rubare un ricettario magico per conto di un cerusico, ma lo spettacolo gli si era impresso nella memoria in ogni dettaglio. In confronto, il luogo in cui si trovava ora era parecchio più angusto e mediocre. Ciononostante, vantava una collezione notevole. Il soffitto a cassettoni era opera di un falegname provetto, i fregi erano fatti con tanta dovizia di particolari da sembrare vivi. Anzi, creavano un vero e proprio effetto ottico agghiacciante, dando l’idea di venire risucchiati in un buco.
Proseguì, inoltrandosi nel reticolo di stretti corridoi. Ci passava a malapena, le sue spalle sfioravano gli scaffali ad ogni passo. Era tutto immerso nell’oscurità, tanto che sembrava deserto, ma l’odore di cera e fuoco gli solleticò le narici, informandolo che qualcuno stava leggendo a lume di candela. Seguì la traccia come un segugio, ignorando l’ingombrante mole di Qolton a poca distanza da lui, celato da un muro di grossi libri. Perché era rimasto? Senza sapere il motivo, si sentì profondamente infastidito, come se l’amico gli avesse sottratto la possibilità di vivere un momento importante, prezioso, intimo. Qolton era involontariamente diventato il terzo incomodo e Reeven lo avrebbe eliminato con piacere, se i suoi sensi non avessero captato ancora quegli odori, che gli spedivano impulsi incontrollabili direttamente al cervello. 
Il bisogno di scoprire chi era quel ragazzo si stava facendo sempre più pressante, spasmodico, necessario alla sua sopravvivenza. Ondate di energia si riversavano nei suoi muscoli e nelle sue vene, spronandolo ad accelerare l’andatura, a raggiungere il traguardo, a esplodere. Non era un attacco di iperattività, era più come se volesse saltar fuori dalla sua stessa pelle, liberandosi da una prigione di carne che gli impediva di respirare, rendendolo troppo goffo, pesante. Il tempo sembrava non voler scorrere, era lento in modo estenuante.
Quel particolare battito cardiaco si insinuò di nuovo nelle sue orecchie, più forte, più nitido, e una scarica elettrica gli risalì su per la schiena, facendogli drizzare i peli sulla nuca. Era vicino, ma ancora non riusciva a distinguere nel buio l’alone aranciato della candela.
“Reeven.” lo chiamò Qolton in un bisbiglio ringhiante, segno che era arrabbiato.
Digrignò i denti irritato e non rispose. Svoltò in un corridoio laterale, superò altri scaffali e, dopo quella che gli parve un’eternità, finalmente lo scorse. 
Una figura incappucciata, esile e abbastanza bassa, era china su un tomo dalle pagine ingiallite, adagiato sopra un tavolo di legno al centro di una stanzetta circondata da pile di libri. La candela bruciava lì accanto, la fiammella che ondeggiava appena al ritmo del respiro del giovane. Una ciocca di capelli biondi come il grano penzolava perpendicolare al tomo, muovendosi assieme al capo, mentre le mani dalle dita affusolate carezzavano gli angoli delle pagine, sfogliandole con cautela, quasi avesse paura che potessero sbriciolarsi. Di fianco allo spesso volume, c’erano delle mappe.
L’emozione che lo pervase rischiò di fargli perdere l’equilibrio. Adesso era certo di conoscere quel ragazzo, sebbene non ricordasse in quale occasione lo avesse incontrato, né il suo nome o la sua voce. Desiderava toccarlo, inalare il suo profumo, affondare nel suo abbraccio, consapevole che solo lì avrebbe trovato ciò che cercava da sempre: una casa. Era forse stato uno dei suoi amanti? No, non avrebbe potuto dimenticarsi di una persona con cui era andato a letto, imparava a memoria sia i nomi che i loro odori. Men che mai si sarebbe dimenticato di un adolescente in grado di risvegliare in lui sensazioni tanto prepotenti. Quindi non se l’era scopato. Magari lo aveva incrociato per strada, al mercato, o in una locanda. Forse lavorava come domestico nella dimora di uno dei nobili che aveva derubato.
Non vedeva il suo viso, nascosto dal cappuccio del corto mantello di lana lisa che gli sfiorava i polpacci, ma poteva benissimo indovinarne i lineamenti delicati, come quelli di una donna, anche se il suo corpo spigoloso era chiaramente mascolino. Avvertiva una forza invisibile attirarlo verso di lui, come una corda troppo tesa che rischiava di spezzarsi se non avesse assecondato la spinta. 
Mise un piede davanti all’altro, trattenne il fiato e si arrestò nervoso alle spalle del giovane. Si piegò in avanti di qualche centimetro, accostando il naso alla stoffa, in prossimità del collo. Inspirò a pieni polmoni. Inspiegabilmente, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Non aveva idea del perché, ma quell’odore gli era mancato in maniera terribile. 
In quel momento, realizzò di essere sempre stato sprovvisto di una parte fondamentale di sé, una parte di cui finora non aveva mai ipotizzato l’esistenza, e quella parte era rappresentata proprio dal ragazzo. Era destabilizzante, spaventoso, e al contempo bellissimo. Le forme delle cose, i suoni e i colori si sfaldarono e si riassestarono, cessando di essere sfocati, indefiniti. Ora poteva vedere e sentire tutto con estrema precisione, come se fino a quell’istante non avesse fatto altro che osservare e ascoltare il mondo attraverso un vetro appannato e spesso. Ora il vetro non era solo trasparente, era proprio scomparso. La caotica e violenta cacofonia di rumori che di solito lo assaliva era mutata in una melodia soffusa, che si irradiava dal suo cuore, spargendosi nell’aria; il miscuglio di odori si era trasformato in una fragranza con una sua ragion d’essere, i contorni degli oggetti e della natura in un dipinto sublime, dove ogni cosa era al suo posto. L’universo era divenuto perfetto, meraviglioso, e Reeven era a casa. 
Il tempo si fermò, si mantenne in stallo, e infine, come una deflagrazione, ricominciò a scorrere bruscamente, veloce, molto veloce, in un’unica direzione. 
Fu allora che il ragazzo, quasi avesse percepito la sua presenza, si girò. Lo fece di scatto, terrorizzato, ritrovandosi quasi schiacciato dal corpo del ladro. Entrambi sgranarono gli occhi in simultanea e, per interminabili istanti, si studiarono scioccati, il respiro bloccato in gola insieme alle parole. 
Reeven si perse nella contemplazione del suo volto, dei suoi occhi azzurri abbelliti da ciglia lunghe e arcuate, della bocca piccola e carnosa, delle guance rosee e morbide. Lo vide assumere un’espressione stranita, incredula e sbalordita, boccheggiare e infine impallidire. Le ciglia si inumidirono e le membra si irrigidirono, iniziando a tremare, mentre il suo odore si acuiva e li avvolgeva entrambi in un bozzolo soffocante. 
Reeven intuì che anche lui lo conosceva, altrimenti non si spiegava quella reazione.
“Ysril…?” esalò il giovane con un filo di voce.
Il ladro si corrucciò, confuso: “No, io mi chiamo Reeven. Chi è Ysril?”
Evidentemente quella non era la risposta giusta, perché all’improvviso il biondino eresse un muro fra di loro e lo scrutò con sospetto e timore.
“Chi sei?” domandò Reeven, impaziente di recuperare terreno e riempire il misterioso mosaico con i tasselli mancanti.
“Potrei chiederti la stessa cosa.” ribatté ostile.
“Sono un ladro. Io e i miei compagni abbiamo svaligiato lo studio del duca. Tu perché sei qui? Cosa cerchi?”
“Non sono affari tuoi.”
“Qual è il tuo nome?”
“Ripeto: non sono affari tuoi.”
“Posso aiutarti.”
“Non ho bisogno di aiuto.”
“Beh, io credo di sì, dato che il duca sta per arrivare. Sta salendo proprio adesso le scale del primo piano, fra tre o quattro minuti sarà qui. Fidati di me, non voglio farti del male.”
“Oh, capisco. Sei un ladro generoso.” sbuffò sarcastico.
“Quanto ti ci vuole a finire?” indagò, ignorando deliberatamente la frecciatina.
“Di sicuro più di tre o quattro minuti.”
“Bene. Prendi tutto e diamocela a gambe.”
“Perché mi stai salvando?”
“Non lo so.” rispose sincero, poi ricominciò ad esortarlo, “Forza, spicciati.”
Il biondino, seppur scontento, dopo un secondo di esitazione obbedì e riempì la borsa che portava a tracolla sotto il mantello con il tomo che stava sfogliando e le mappe. Non si fidava del ladro, ma non aveva scelta: se stava dicendo la verità, era meglio evaporare alla velocità della luce.
Reeven soffiò sulla candela e le tenebre piombarono su di loro in un denso strato compatto.
“Reeven?” chiamò una voce da baritono, dispersa nei meandri della biblioteca.
“Qolton, sto venendo a prenderti. Dobbiamo uscire, il duca sta tornando!”
“Merda.”
“Ragazzino, dammi la mano.”
“È buio pesto, come pensi di orientarti?” lo interrogò dubbioso, intrecciando comunque le loro dita.
Il contatto spedì a Reeven una sequela di brividi. Li avvertì trafiggergli il braccio e penetrargli nel sangue, per poi attaccare il torace, i polmoni, lo stomaco, le viscere e scivolare nelle gambe, fino alle punte dei piedi.
“Uh! Che cavolo…? Caspita… meglio di un orgasmo.” farfugliò intontito.
“Come?”
“Nulla. Andiamo, dobbiamo recuperare il mio amico.”
Rifecero la strada all’indietro e, dopo un po’, si scontrarono con un omaccione grosso quanto un toro e armato fino ai denti. Il biondino sussultò impaurito e si nascose dietro Reeven.
Qolton lo fissò con espressione assorta, ma decise di rimangiarsi qualunque commento. Il tempo stringeva, dovevano sparire prima che il duca li cogliesse in flagranza di reato. Qualcosa gli diceva che non sarebbe stato tanto magnanimo da lasciarli andar via alla chetichella con un sorriso bonario.
Tornarono nello studio, Reeven spalancò la finestra e guardò giù, individuando le vie di fuga.
“D’accordo. Se saltiamo, atterreremo su un terrazzino. Il terreno dista circa tre metri da esso. Il cortile sembra sgombro.”
“E da qui al terreno quanto c’è?”
“Otto metri, più o meno.”
“Sei pazzo! Ci sfracelleremo!” esclamò il giovane sconosciuto e squadrò allibito Reeven.
“Qolton, sali sulla mia schiena.” ordinò secco e il compagno eseguì, come se l’avesse fatto un milione di volte, “Ragazzino, aggrappati a me. Non preoccuparti, ti tengo io.”
“A-ha.” scosse furiosamente il capo, “Te lo sogni!”
“Non hai scelta. O me, o la morte.”
“Chi mi dice che le due non siano la stessa co- wah! No, no, no, fer-”
Reeven, senza preavviso, cinse con un braccio i suoi fianchi magri, salì sul balcone, si diede lo slancio e saltò, pochi secondi prima che la porta dello studio si aprisse. Atterrò agile come un felino sul terrazzo, poi scavalcò la ringhiera di pietra e spiccò un altro balzo. Sembrava che trasportare due persone non lo scalfisse. 
In una manciata di attimi erano fuori. Il biondino senza nome era stato a tanto così dall’avere un infarto, mentre Qolton sembrava a suo agio. Misero i piedi a terra e subito corsero verso la macchia di alberi e cespugli da cui erano entrati. La fune di Benial era ancora lì, segno che l’aveva lasciata per permettere loro di scappare.
“Grazie, Beni! Ti offrirò una fiasca di vino.” borbottò Reeven tra sé e sé.
Qolton si arrampicò sui rami della quercia e usò la corda per calarsi oltre il muro di cinta. Reeven, senza abbandonare la presa sul ragazzo, lo imitò e in un battibaleno furono al sicuro sulla strada. Tuttavia, il loro sollievo ebbe vita breve, perché l’allarme risuonò nella villa e le guardie si catapultarono alle loro postazioni.
“Forza, correte!” li spronò Qolton, precipitandosi verso il negozio di stoffe di fronte alla magione.
“Muoviti, ragazzino!” lo incoraggiò Reeven, trascinandolo sgraziatamente per un polso.
Quello puntò gli stivali e fece resistenza: “Perché mai dovrei venire con voi?”
“Ti prenderanno!”
“No, invece. So cavarmela.”
“Ti ho salvato la vita.”
“E ti ringrazio, ma non ho alcuna intenzione di- e che diamine!” sbottò risentito, poiché Reeven se lo caricò in spalla senza tante cerimonie, tipo sacco di patate, sfrecciando in direzione del negozio.
“Sta’ fermo!”
“Sei un bruto! Lasciami!”
“Dannato ragazzino…” bofonchiò scocciato, seguendo Qolton dentro il passaggio segreto.
“Non mi chiamo ‘ragazzino’!”
“E allora come ti chiami?”
“Reeven, da che parte?” li interruppe Qolton, fermo davanti a un bivio.
“Destra. Poi sinistra, sinistra, destra.”
“Nell.”
“Mh?” Reeven lo guardò di sbieco, con aria interrogativa.
“Mi chiamo Nell.” grugnì offeso e da quel momento non proferì più parola.










 

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Capitolo 2
*** Un nuovo scopo ***








 

“Di grazia, spiegatemi chi accidenti è lui.” ordinò secco Suna, squadrando con sospendo il ragazzino sconosciuto che era arrivato nel covo insieme a Qolton e Reeven.
In particolare si soffermò su quest’ultimo, notando come stesse appiccicato al biondino. Si accigliò e attese pazientemente una risposta, di cui si fece carico un imbarazzato e perplesso Qolton, dal momento che Reeven pareva naufragato su altri lidi con la testa, mentre guardava quello scricciolo d’uomo con aria persa e vagamente sognante.
“Ecco, lui si chiama Nell. Stava rubando un manoscritto dalla biblioteca e Reeven ha deciso di adottarlo.” illustrò sintetico.
“Mh. Va bene.”
“Va bene?!” esclamò confusa Phyroe.
“Sì, tanto stanotte ci sciogliamo. Ognuno andrà per la sua strada, non c’è più alcuna necessità di mantenere segreto il nostro covo.”
Nell ascoltò quello scambio di battute con le palpebre a mezz’asta, palesemente irritato. Era chiaro come il sole che avrebbe voluto trovarsi da tutt’altra parte, tranne che lì. Invano aveva tentato di convincere Reeven a lasciarlo andare, quel gigante biondo non si era staccato un solo secondo, peggio di un parassita. Anche adesso egli era fermo alle sue spalle, leggermente chino su di lui, quasi volesse fargli da scudo. Oppure per annusarlo meglio, Nell era indeciso. Reeven, infatti, aveva tenuto il naso incollato ai suoi vestiti per tutto il tragitto nelle fogne, talvolta emettendo un mugolio deliziato, talaltra un sospiro. La cosa era piuttosto strana, visto che non si lavava da una settimana. Perciò o Reeven aveva un naso che non funzionava bene, o aveva dei gusti decisamente discutibili.
“Scusate?” li richiamò Nell, attirando su di sé l’attenzione dell’intero gruppo, “Io avrei urgenti incombenze di cui occuparmi, quindi, col vostro permesso, sparirei.”
“Come ti pare.” sbuffò Suna disinteressato, facendo spallucce.
“Grazie. Perdonate il disturbo.”
“Figurati. Addio.”
Nell, soddisfatto, girò i tacchi, pronto a imboccare l’uscita del capannone, quando all’improvviso si accorse di un’ombra che torreggiava su di lui. Si voltò di scatto e sorprese Reeven a un palmo di distanza dalla sua schiena. Era ovvio che non possedesse il concetto di “spazio vitale”.
“Che problema hai?” lo aggredì Nell, stufo della sua presenza ingombrante.
“Eh? No, nessun problema.” rispose Reeven, come se solo in quel preciso istante si fosse risvegliato da un sogno.
“E allora smettila di starmi addosso. Mi dà fastidio.”
“Sì, scusa.” disse, ma le sue gambe rimasero immobili, pesanti come macigni.
“Intendevo: scollati.” 
L’altro fece una smorfia buffa, strinse le labbra, assottigliò le palpebre e infine scosse il capo.
“Vengo con te. Dove sei diretto?”
Nell esalò un sospiro esasperato e puntò lo sguardo supplicante su Qolton, il quale si sentì chiamato in causa.
“Reeven, dai, lascialo stare.”
“Non sto facendo niente.”
“Sei soffocante. Il ragazzino non ti vuole intorno, l’hai capito?”
“Sì… ma voglio stare con lui.”
“Reeven, guarda la mia mano.” lo invitò Nell, sfoggiando un sorriso accomodante, “Dimmi, cosa ho in questa mano?” gli chiese, usando lo stesso tono affabile e velatamente scocciato che si usa con i bambini duri di comprendonio.
“Nulla.” rispose Reeven, scrutandolo con smarrimento.
“Esatto. E ‘nulla’ è anche la misura in cui mi importa di ciò che vuoi tu. Pensa un po’ che coincidenza.” sibilò Nell, continuando a sorridere serafico.
Reeven si intristì di colpo, ferito dalle parole del biondino, anche se non ne capiva la ragione: non era la prima volta che qualcuno lo prendeva in giro o lo insultava, però questa volta, al contrario delle altre, gli fece male, molto male. Perché l’opinione di Nell, uno sconosciuto, contava tanto per lui?
Tutti i presenti rimasero interdetti nello scorgere un’espressione tanto nuova sul viso del loro amico. Al massimo Reeven si imbronciava, non si abbatteva di certo in quel modo. Finora non aveva mai fatto gli occhi da cucciolo abbandonato sotto la pioggia, non li aveva mai avuti tanto grandi e lucidi, come se si stesse sforzando di trattenere le lacrime. Mancava solo che si mettesse a uggiolare. 
Pure Nell si bloccò, ricacciando indietro un altro insulto che gli era salito su per la gola. Lo studiò dal basso verso l’alto, chiedendosi cosa ci fosse in Reeven che lo spingeva a reprimere la sua vena cattiva, quasi a suggerirgli di non osare superare quel limite invisibile, oltre il quale c’era un baratro oscuro e spaventoso pronto ad inghiottirlo. Non voleva essere bastardo con Reeven, non se lo meritava, e non erano gli occhioni da cucciolo bastonato a farglielo pensare, a intenerirlo. C’era qualcos’altro in lui, qualcosa di indefinito che, chissà come, riusciva a far leva su quella piccola parte di sé rimasta pura e candida, appellandosi ad essa con disperazione e speranza fanciullesca, reclamando affetto.
Meglio che mi dia una calmata.
E pensare che, se lo avesse conosciuto durante l’epoca d’oro, quando ancora viveva a Rocca Smeralda, non si sarebbe astenuto dal trattarlo fin da subito come un amico. Ma era cambiato molto da allora, era pressoché irriconoscibile. La sua cattiveria, adesso, era alquanto spiccata: negli ultimi anni si era premurato di svilupparla a dovere, al fine di scansare le fastidiose attenzioni degli uomini e delle donne che lo importunavano, scambiandolo per un docile agnellino a causa del suo aspetto da adolescente. Appena il suo viaggio era iniziato, aveva compreso che con le buone, cioè con sorrisi e gentilezza, non si ottiene niente, o poco, dunque si era risolto a usare e affinare le maniere forti, verbalmente parlando - la sua forza fisica era ancora equivalente a quella di un criceto, era inutile farci affidamento -, così che con qualche frase grondante veleno messa nel punto giusto riusciva a liberarsi di ogni tipo di insetto. Eppure in quella circostanza, per la prima volta dopo molto tempo, si sentì uno schifo. Chi era lui per trattare Reeven a pesci in faccia, quando lo aveva salvato? Chi era lui per calpestare una persona che aveva messo spontaneamente a rischio la sua vita per tirarlo fuori dai guai?
Si morse l’interno di una guancia e si grattò uno stinco con la punta dello stivale.
“Sto andando a nord-est, ho delle faccende da sbrigare. Se anche tu vai in quella direzione, possiamo fare un po’ di strada insieme.” disse con voce monocorde, dando l’impressione di stare recitando, senza neanche troppa convinzione, una formula trita e ritrita.
Reeven si illuminò come le lanterne della festa del raccolto e sorrise raggiante: “Con immenso piacere!”
Nell schioccò la lingua e borbottò qualcosa, per poi girarsi e marciare verso la porta. Giunto sulla soglia, si fermò e guardò il biondo.
“Beh? Non vieni?”
Reeven si mise in moto e gli si accostò. Prima di sparire nelle strade ricoperte di neve, elargì un cenno di saluto agli amici. A Suna, Utros e Benial riservò un sorriso mesto, a Phyroe un ghigno ammiccante e a Qolton uno sguardo colmo di gratitudine.
“Addio, ragazzi. Buona fortuna.”
Dopodiché trotterellò via accanto a Nell. Sembrava un cagnolino scodinzolante.
La porta si chiuse e nel capanno scese il silenzio.
A un tratto, Utros parlò: “Reeven non si è preso la sua parte del bottino.”
Quell’affermazione risvegliò gli altri dalla catalessi in cui erano caduti e si misero a imprecare contro quel biondo col cervello di gallina. L’unico calmo era Suna, il quale stava già raccogliendo le sue cose per andarsene, incurante dell’agitazione che lo circondava.
“Suna?” lo chiamò Qolton, “Dobbiamo portare a Reeven-”
“Pensateci voi. Io ho tutto ciò che mi serve per tornarmene finalmente a casa.” lo interruppe, poi si rivolse a Benial bisbigliando, “Ti avevo promesso un tetto sopra la testa quando ti cacciarono dall’esercito, perciò sarai il benvenuto nella mia modesta dimora.”
“Sicuro che non sarò un peso? Insomma, hai una moglie e tre figli…” rispose titubante il compagno, mascherando con successo la delusione nel pronunciare la seconda metà.
“Certo. La mia famiglia ci aspetta.” stirò lievemente gli angoli della bocca, che per lui equivaleva a fare un sorriso a trentadue denti, “Mia moglie, nell’ultima lettera, mi ha scritto che la camera della mia figlia più grande si è liberata, dato che si è sposata. Non preoccuparti.”
“Oh, uhm, allora… credo che approfitterò della tua generosità.”
“Finiscila, siamo amici, è naturale che voglia aiutarti.”
Utros, che aveva origliato, si intromise nella conversazione: “Di dove sei, Suna? Ora posso chiedertelo, giusto?”
Suna curvò ancora la bocca e sembrò che non aspettasse altro che raccontare della sua patria.
“Sono di Gurnam. Anzi, non esattamente. I miei avi colonizzarono un’isola a sud di Gurnam e vi si insediarono, costruendo villaggi, dighe e un porto. La mia casa è su una collina che si affaccia proprio su questo. All’alba l’aria profuma di salsedine e fiori di campo, e il sole, prima di indorare le vallate intorno, benedice le mie mura con la sua luce. Allevo capre e galline, anche qualche pecora. Non ci manca niente. Ma il merito di tutta la bellezza e la prosperità va a mia moglie. Da quando sono stato obbligato a partire per la guerra, si è presa cura da sola dei nostri possedimenti e dice che gli affari sono sempre andati bene. Il mio secondogenito dovrebbe avere diciannove anni, lavora come garzone in una bottega di pelli giù al porto. La più piccola, invece, non ha che sedici primavere. Tu mi dirai: è adulta, dovrebbe sbrigarsi a trovare un marito. La mia risposta è no. Tassativamente, categoricamente e indiscutibilmente no. Taglierò le mani a chiunque oserà toccarla, caverò gli occhi a chiunque oserà guardarla più del necessario e castrerò chiunque abbia reazioni inappropriate in sua presenza.” dichiarò mortalmente serio.
Phyroe scoppiò a ridere, fissandolo con espressione indulgente: “Ah, i padri… cosa non farebbero per le figlie.”
“Io farei di tutto per la mia piccolina.” annuì solenne, “Non che sua sorella maggiore sia da meno, eh! Bella come una rosa, dolce e gentile, simile a una principessa. Anzi, più meritevole di lodi di qualsiasi vera principessa. Solo che ormai la frittata è fatta, si è sposata e ha lasciato la casa, è troppo tardi. Non posso mettermi a rincorrere suo marito con un’ascia per l’aia. Comunque, se lei è felice, ingoierò il rospo.”
“Ma lo sanno che per dieci anni hai fatto il ladro?” indagò Utros.
“Ovviamente no. Ho detto loro di aver trovato un impiego come guardia del corpo di un nobile e che avrei aspettato il termine del contratto per tornare, possibilmente con un bel gruzzoletto in tasca.”
“Tua moglie sarà felice di rivederti.” 
Utros realizzò che l’attitudine al comando di Suna derivava, oltre che dall’aver servito nell’esercito, dal fatto di essere padre, cosa non valida per loro, che di prole non ne avevano nemmeno l’ombra. Si spiegava così anche il suo successo nelle vesti di paciere durante le dispute o il suo atteggiarsi da mentore nei confronti dei membri più giovani del gruppo, cioè Phyroe e Reeven.
“Anch’io. Sono convinto che è ancora bellissima come quando l’ho sposata. Le mie figlie hanno ereditato i suoi tratti, sapete.”
Mentre Suna era tutto intento a decantare le virtù delle sue donne, con grande stupore e divertimento di Utros e Phyroe, che non avevano mai intravisto il lato ciarliero del loro leader - Benial, invece, lo conosceva bene, sin dai giorni da soldato, e sapeva che si innescava solo quando si nominava la sua famiglia -, Qolton rimuginava su Reeven. Non poteva esimersi dal provare sincera apprensione, considerando che il biondo aveva a più riprese dimostrato di attirare pericoli e disastri come la fiamma di una candela con le falene. E se proprio in quel momento avesse avuto bisogno di aiuto? E se l’indomani fosse caduto in una trappola? E se qualcuno lo avesse arrestato con l’accusa di furto? E se si fosse immischiato in una rissa di troppo? E quel ragazzino, poi? Chi gli diceva che non portava guai? Dall’aspetto non sembrava una minaccia, ma Qolton aveva imparato a sue spese che l’apparenza inganna. Come dimenticare quella volta in cui aveva abbordato un’affascinante prostituta e, poco prima di arrivare al nocciolo, aveva scoperto l’esistenza di una parte in sovrappiù che proprio non-
Cancella, cancella! Mi ero giurato di non pensarci mai più! Dei, che schifo.
Digrignò i denti e lanciò improperi mentali a Reeven, che, persino indirettamente, gli faceva ricordare cose spiacevoli come la peggiore spina nel fianco che era. Che si preoccupava a fare? Meglio che se ne andasse lontano. Qolton si era sempre lamentato, in silenzio e a gran voce, di quanto gli scocciasse fargli da balia, e ora eccolo accontentato: niente più Reeven, niente più ansia. Niente più ansia, niente più rughe. Niente più rughe… niente più rughe. D’ora in avanti si sarebbe dedicato a una vita sana e pacifica, magari segregandosi in un eremo sperduto attorniato da alberi e teneri animali.
E se si perde in un bosco e non riesce più a trovare l’uscita?
“Dannazione.” grugnì, arrabbiato con se stesso e la sua parte da mamma chioccia.
“Bene, noi andiamo. Buona fortuna, vi auguro di vivere serenamente fino alla morte.” concluse Suna, imbracciando il fagotto con i suoi pochi beni.
“Ciao, ragazzi. È stato un piacere.” salutò Benial, ricevendo una pacca sulla spalla da Utros e un sorriso spento da Phyroe, “Mi mancherete.”
“Anche voi. Fate buon viaggio. Da qui la strada per Gurnam è lunga.” disse la donna.
“Che gli dei ci assistano.” sospirò Suna, “Coraggio, voglio essere fuori dalle mura di questa maledetta città prima dell’alba.”
I due uscirono all’aria aperta e una raffica di vento gelido sferzò loro il viso. La porta del capanno si chiuse una seconda volta e di nuovo calò il silenzio.
Adesso erano rimasti in tre: Qolton, Phyroe e Utros. Nessuno sapeva cosa fare. Avevano vissuto dieci anni come ladri e, ora che altre prospettive di vita di spalancavano innanzi a loro, non avevano idea di quale direzione prendere.
“Potrei aprire una bottega mia.” esordì Utros, incerto, “Ho un debole per i manufatti antichi. Potrei acquistarne un po’ con i gioielli che abbiamo rubato e rivenderli.”
“Buona idea. Ti ci vedo.” lo appoggiò Qolton, a disagio.
“Phyroe, tu potresti, sai, provare a cercare una compagna. La vita da ladra non ti dava modo di costruire un rapporto solido, ma ora non c’è nulla che te lo impedisce.” azzardò Utros, osservando di sottecchi l’amica.
Phyroe sbuffò e iniziò a giocherellare con la treccia rossa che le ricadeva sul seno, fasciato da un corpetto di pelle nera talmente stretto da far pensare che non respirasse.
“Non lo so… prima dovrei trovare un lavoro onesto, una casa…”
“Qolton, tu che vuoi fare?”
Il moro sospirò stanco, passandosi una mano sul cranio rasato: “Negli ultimi giorni ci ho riflettuto e… tutto ciò che mi è venuto in mente è stato partire e basta. Di certo non voglio restare qui, ne ho abbastanza di questo posto. Uno si immagina che la capitale sia una sorta di mondo splendente, pari a quello degli dei, ma a Ferenthyr ho trovato per lo più miseria e un tanfo nauseabondo. Per non parlare della gente, la feccia dell’umanità. E io ne ho fatto parte per un bel pezzo. Adesso voglio soltanto andarmene… mettere quante più leghe possibili tra me e questa odiosa città e non tornare mai più.”
“Perché non dirigerti a sud, nelle tue terre?”
“No, nemmeno se mi si offrisse tutto l’oro del mondo. Sono fuggito da lì e non intendo tornarci. Torun si diverte a fare ancora il tiranno, ti assicuro che laggiù è peggio di qua.”
“Capisco.”
La conversazione languì, nessuno trovava altri argomenti. 
Qualche minuto più tardi, fu ancora Utros a prendere la parola.
“Ad essere onesto, l’idea di aprire una bottega di antichità era di mio fratello. È morto giovane, a soli ventidue anni. Io ero più piccolo di tre. Mi promisi che avrei esaudito il suo sogno, un giorno, ma ora che ne ho l’occasione… sento che rimarrei insoddisfatto. Non so, è tutto così… difficile. La libertà, e le infinite opportunità di cui è madre, mi sconcerta. Non credevo che avrei avuto problemi a scegliere il nuovo cammino, invece eccomi qui, combattuto tra il tener fede a un voto fatto più di quindici anni fa e il lasciarmi trasportare dalla corrente del Destino per vedere dove mi porterà. Forse ci sono altre avventure in serbo per me, come posso saperlo?”
“Di sicuro, amico mio, non hai mai parlato così tanto.” scherzò Qolton, “Tra te e Suna, non so di chi essere più sorpreso.”
“Hai ragione.” ridacchiò Utros, “Ma penso sia dovuto al fatto che la tensione mi ha abbandonato. Prima dovevo restare concentrato e vigile persino mentre dormivo, nel timore che le guardie regie venissero ad arrestarmi. E l’ansia mi attanagliava lo stomaco ad ogni furto, perché c’era sempre il rischio di venire scoperti e inseguiti.”
“Vero. Anch’io mi sento diverso.”
“Io mi asterrò da qualunque decisione finché entrambi non avrete preso la vostra.” disse a quel punto Phyroe, “Quando resterò sola, vedrò.”
“Sei brava con veleni e pozioni, potresti aprire una rete di rifornimenti clandestina e far soldi a spese dei nobili.” la spronò Utros.
La donna ghignò, poi scrollò le spalle: “Forse.”
“Io ho una proposta.” dichiarò all’improvviso Qolton.
Gli altri due si fecero attenti e lo esortarono a continuare.
“Boh, ve la butto lì…” bofonchiò esitante, “Ho sentito che a nord-est c’è una città libera, Durandel, dove il commercio è fiorente e il tenore di vita sopra la media. I tentacoli del re non vi arrivano per via del fitto bosco, pressoché impenetrabile, che la circonda. L’unica modo è un sentiero che passa dai monti Lerisa, abbastanza impervio, ma tutto sommato praticabile. Si dice che nessuno conosca la fame e la povertà e che non esistano neppure delle leggi, perché a nessuno viene voglia di commettere un crimine quando è immerso nell’agiatezza.”
“A nord-est, dici?” considerò Utros, con finta aria meditabonda.
“Sì.”
“Uhm. Anche Reeven e Nell stanno andando a nord-est.”
“Mi pare di sì. Hanno detto nord-est o nord-ovest? Non ricordo.”
“Nord-est.”
“Ah, ecco.”
“Sembra bello.” commentò Phyroe, fingendo indifferenza, “Potremmo raggiungerli e aggregarci per un pezzo di strada.”
“Perché no?”
“Potrebbe essere un’idea.”
“Secondo voi sono già fuori dalle mura?”
“In teoria dovrebbero, sperando che non si siano persi, ma conoscendo Reeven…” sbuffò Qolton e non ebbe bisogno di completare la frase.
“Forse dovremmo affrettarci e andare a soccorrerli. Se scopriamo che sono sani e salvi, tanto meglio.”
“O forse”, intervenne Phyroe, “dovremmo lasciarli andare avanti per non dar l’impressione che li stiamo pedinando. Perché noi non li pedineremo.”
“No, affatto.”
“Quindi sarebbe meglio dargli un po’ di vantaggio?”
“Direi di sì.”
“Ma Reeven non ha preso la sua parte del bottino. Potrebbero aver bisogno di soldi o merce di scambio.”
Si guardarono e, nel medesimo istante, diedero sfogo alla stizza, chi calciando un sassolino, chi roteando gli occhi e chi schiaffandosi una mano sulla faccia.
“Dannazione.” grugnì Qolton e, seguito a ruota dai suoi due compagni, corse fuori.
La candela sulla panca si spense sotto l’azione di uno spiffero e stavolta il silenzio piombò per sempre nel capanno che per un decennio era stato il covo di una banda di ladri incalliti, fedeli gli uni agli altri nel comune proposito di derubare il prossimo per arricchirsi.

“Ecco, questa è una scorciatoia.” disse Reeven, indicando un vicolo ancor più fatiscente di tutti gli altri che avevano attraversato.
“Sei sicuro?” gli chiese Nell, inarcando un sopracciglio.
“Sicurissimo.”
“Eppure mi sembra che ci stiamo allontanando dalle mura.”
“Non possiamo prendere la via maestra, rischiamo di incappare nelle guardie. Io rischio più di te, perché per otto anni ho fatto il ladro e non sempre sono riuscito a svignarmela senza essere visto. Qualcuno potrebbe riconoscermi e dare l’allarme. E poi tra i bassifondi non c’è da fidarsi di nessuno, chiunque arriverebbe a vendere il proprio fratello per denaro.”
“Mah… secondo me dovremmo andare da quella parte, mantenendoci perpendicolari alle mura.”
“Sarebbe la scelta più logica, senza dubbio, ma da lì si entra in un quartiere molto malfamato, potrebbe rivelarsi pericoloso.”
“Non c’è un’anima in giro, è notte fonda!”
“Non si sa mai, meglio essere cauti.”
“Va bene, facciamo come dici tu.” si arrese Nell, “Ma se non funziona, si fa come dico io.”
“D’accordo.”
Imboccarono la scorciatoia e mezzora dopo si resero conto di non essersi avvicinati di un passo alla meta. Le alte mura di pietra, adesso, erano alla loro destra, mentre il palazzo reale alla loro sinistra.
“Non capisco. A quest’ora avremmo dovuto già essere al passaggio secondario…” borbottò Reeven tra sé e sé, grattandosi la nuca con crescente perplessità.
“Visto? Avevo ragione io. Andiamo dritti, tenendo il palazzo alle spalle.”
Suo malgrado, Reeven fu costretto ad acconsentire, pur avendo la netta sensazione che la via prescelta da Nell non fosse quella giusta. L’accantonò in un angolino e reputò gentile concedergli una possibilità, assieme al beneficio del dubbio.
Si infilarono in una strada deserta, l’ennesima, e costeggiarono le case di legno, più simili a stamberghe che vere abitazioni, che parevano ammassarsi una sopra l’altra senza alcun criterio, dando l’impressione di un tale disordine che, dopo un po’, generava un acuto senso di frustrazione. Il legno esterno era ammuffito o scheggiato e pieno di buchi, e i tetti spioventi erano interamente bianchi. C’era da augurarsi che non si scatenasse un’altra tormenta, sennò sarebbero stati sepolti vivi nel ghiaccio. 
I loro stivali lasciavano ad ogni passo orme nitide sulla neve e il rumore delle suole risultava attutito, tanto che per sentirli bisognava tendere bene le orecchie, ma forse neanche quello sarebbe stato sufficiente per individuarli. Si strinsero nei vestiti leggeri che avevano addosso, cercando di non rallentare il ritmo nella speranza di scaldarsi muovendosi. Nell rabbrividì quando dell’aria fredda si insinuò sotto la casacca di cotone, accarezzandogli la pelle, e serrò i denti per evitare di farli battere. Gli colava il naso e l’umidità contribuiva a renderglielo una stalattite insensibile. Al contrario, Reeven sembrava poco scalfito da quel clima proibitivo, benché anche lui, di tanto in tanto, si sfregasse le braccia nude con i palmi delle mani. I loro respiri si condensavano in piccole nuvolette di vapore, che si disperdevano dopo un attimo. Entrambi, senza saperlo, stavano pensando alla stessa cosa: un camino in cui ardeva un fuocherello caldo e una zuppa di carne, rigorosamente bollente, tra le mani. 
Ad un tratto, Nell si arrestò per guardarsi intorno.
“Ehm… siamo tornati al punto di partenza?” domandò Reeven, pregando di sbagliarsi.
“Non capisco come sia possibile…” Nell non negò.
Allora Reeven si spazientì e, complici la stanchezza e il gelo che gli era entrato nelle ossa, sputò: “Dovevi dare retta a me! Sei straniero, si vede, cosa ne capisci dei labirinti della capitale?! Io ci vivo da anni, ho imparato a memoria la pianta dell’intera città e con ciò intendo non solo quella in superficie!”
“Non sembrava che stessimo andando nella giusta direzione, dato che non ci avvicinavamo di un dito!” strepitò Nell di rimando, nervoso, teso e stremato dal freddo.
“Beh, non mi pare che la tua decisione sia stata migliore!”
“Io almeno ho usato la logica!”
“Ma quale logica! In questo caso non serve pensare, bisogna solo sapere! Io so, tu no.”
“Oh, scusami tanto, genio! Ti ricordo che sei stato tu a dire di voler stare con me, nessuno ti ha costretto!” lo rimbeccò il ragazzino.
“Era per farti un favore, che credi?” si difese Reeven, distogliendo lo sguardo, “Se non fosse per me, adesso saresti a marcire in qualche cella, in attesa della forca!”
“Ma chi ti ha chiesto di intrometterti?! E cosa te ne frega? Perché mi stai appiccicato?”
“Non c’è un motivo!”
“Sì che c’è! Te lo leggo negli occhi. E guardami mentre ti parlo!”
“Chi sei, mia madre?!” lo provocò sarcastico, incrociando le braccia sul torace e divaricando le gambe, assumendo una posa difensiva.
“Deduco che la tua non ti abbia insegnato le buone maniere!”
“Io non ho mai avuto una madre, né un padre. Mi hanno abbandonato davanti a un orfanotrofio quando non avevo che pochi giorni. Questo era tanto per la cronaca. Ma se le mie maniere non ti piacciono, puoi pure andartene!”
“Bene!” rispose Nell dopo un momento di esitazione, si voltò e imboccò una via a caso, percorrendola a grandi falcate e sbattendo i piedi sulla neve per sfogare la rabbia.
Aveva percepito una fitta la cuore quando Reeven gli aveva rivelato di essere sempre stato orfano, non immaginava neanche che genere di vita avesse dovuto sopportare. Nonostante quella sensazione fosse poi svanita in un battito di ciglia, essa si era impressa a fuoco nella sua anima, lasciando un’impronta indelebile che ora lo pungolava dall’interno, come se avesse un chiodo conficcato nelle carni che venisse ripetutamente seviziato da un martello. 
Oh, insomma! Che gliene importava, in fondo, di quel Reeven? Era un estraneo e il loro incontro era stato soltanto una fortuita coincidenza, mica avevano firmato un contratto di collaborazione? Tanto meno avevano siglato un patto di amicizia. Non poteva permettersi distrazioni, aveva un compito da portare a termine. Che il ladro andasse per conto suo, Nell aveva chiuso. Si trovava meglio da solo, senza gente intorno che pretendesse cose da lui, tipo attenzione, conversazione, un sorriso, un’occhiata, una carezza, un aiuto, eccetera. Non era più incline alla gentilezza o alla generosità, il suo spirito si era indurito, temprato dalle difficoltà che aveva incontrato lungo il cammino, dalle perdite e dagli addii, l’ultimo dei quali con sua sorella e sua nipote. La vita gli aveva insegnato presto come cavarsela con le proprie forze e ora Nell non aveva più bisogno di un protettore: sapeva come maneggiare un’arma, come scalare una rupe, come arrampicarsi sugli alberi, come cacciare un cervo e persino come uccidere. Finora aveva ucciso solo animali, ma non aveva dubbi che, all’occorrenza, avrebbe saputo gestire anche un essere umano. 
Se c’era una cosa che l’assenza di Ysril gli aveva dimostrato, è che era giunto il tempo in cui doveva assolutamente abbandonare l’ingenuità e il candore della giovinezza, al fine di diventare adulto a tutti gli effetti. E, per diventare adulto, doveva assumersi delle responsabilità e prendere in mano il carosello caotico in cui si era trasformata la sua esistenza, provando a piantare dei paletti ed erigere muri per dare una parvenza di ordine, e al contempo tracciare una strada precisa da percorrere, con un inizio e un chiaro traguardo. Il traguardo era scoprire dove si fosse cacciato Ysril, trovarlo, dirgliene quattro - o anche dieci -, punirlo per bene e… beh, mettergli il guinzaglio. Uno resistente. Infine scappare da qualche parte, magari davvero su un’isola deserta, come aveva proposto il demone poco prima che si separassero, così che nessuno venisse a importunarli. Ecco, questa era la missione che si era prefissato, nulla lo avrebbe distolto da essa, men che mai un ladruncolo da quattro soldi con un bel faccino che gli ricordava Ysril.
Può andare a rotolarsi tra le pecore, per quel che mi riguarda. Stupido bifolco.
Seguitò a masticare insulti per i successivi minuti, finché non si accorse di aver di nuovo girato in tondo, a giudicare dalla figura di Reeven che si stagliava di fronte a lui, immobile, in mezzo alla neve, nell’esatta posizione in cui lo aveva lasciato.
Il biondo lo scrutò scettico: “Di’ un po’: ce l’hai il senso dell’orientamento?”
“Certo che sì! E il tuo non mi è sembrato tanto meglio.” ribatté acido, “È che fa un freddo cane e non riesco a ragionare bene…”
“Stavo per venire a cercarti, non mi va che vaghi da solo, per giunta di notte, in quest’area.”
“Uh, che cavaliere!” lo sbeffeggiò Nell, tremando come una foglia.
Reeven strinse i pugni e si impose la calma, cosa che si rivelò più facile del previsto, tanto che si sentì sbollire in pochissimi secondi. Che fosse la presenza di Nell a sopire i moti impetuosi del suo carattere? Come farebbe una tisana rilassante, più o meno. Paragonare Nell a una tisana dava luogo a una visione parecchio divertente, ma Reeven ritenne saggio tenerla per sé, in modo da non rischiare di rinnovare l’alterco e farlo scappare un’altra volta.
“Va bene, ascolta: non voglio litigare con te, mi fa star male, non so spiegartene il motivo. Vieni, ti guido io, e stavolta prometto di portarti fuori. In caso contrario, potrai riversarmi addosso tutta la tua collera e io non mi lamenterò.”
“Hmpf. In questo momento accetterei qualsiasi offerta, basta che mi si porti lontano da questa maledetta città.” farfugliò il biondino.
“Dammi la mano.”
Nell obbedì senza discutere, troppo concentrato a schermarsi dal vento gelido per registrare il gesto.
Appena le loro mani si intrecciarono, accadde ancora. Benché le dita di Nell si fossero trasformate in ghiaccioli, Reeven avvertì una scossa di calore pervaderlo da capo a piedi, inondandogli il petto di un soffice e piacevolissimo tepore. L’aveva sperimentato solamente due volte, inclusa questa, ma già sapeva di adorare la sensazione che gli causava quel contatto, quasi che finalmente avesse trovato il posto a cui apparteneva, ossia proprio lì, accanto a quel ragazzino. Che fosse la sua anima gemella? Lo guardò di nascosto, attento a non farsi beccare. Un vortice di emozioni lo ghermì con la violenza di un fortunale, ma quella che prevalse alla fine fu una sorta di incomparabile affetto misto a tenerezza, che lo spingeva ad orbitargli attorno e non perderlo mai di vista. Ne andava della sua capacità di respirare, di vivere. Desiderava proteggerlo, prendersi cura di lui e, al medesimo tempo, persuaderlo a fare altrettanto, riscoprendo quel senso di sicurezza che non provava da chissà quanto. A dire il vero, non ricordava quando mai lo avesse provato, eppure aveva l’impressione che non fosse una novità. In un passato remoto, Reeven era certo di aver goduto di un amore immenso, ne era stato il diretto destinatario. Lo innervosiva non rammentare le circostanze, ma, per quanto potesse sembrare assurdo, sentiva che Nell era la chiave. Era legato lui, anche se non sapeva né come né perché. Per il momento, si sarebbe limitato a seguirlo nel suo viaggio per vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Era sempre in tempo ad andarsene.
“Ma guarda! Ve lo dicevo che era meglio sbrigarsi.”
La voce di Qolton riscosse Reeven dai suoi pensieri. Si voltò, sbigottito nello scorgere la sagoma possente dell’amico avanzare verso di lui. Phyroe e Utros gli erano dietro, infreddoliti, tremanti e imprecanti. Il suo viso divenne una maschera di autentico stupore e non nascose il sollievo.
“Ragazzi! Che ci fate qui?”
“Siamo venuti ad accertarci che foste sani e salvi.” rispose Qolton, “Abbiamo lasciato un ragazzino in tua compagnia e mai decisione fu più stupida. Lui è un forestiero, si vede, mentre tu non hai il minimo senso dell’orientamento.”
Nell volle protestare, dato che quel moro era già il secondo che sottolineava quanto fosse evidente la sua origine straniera. La questione lo incuriosiva, perché era sicuro di non essere vestito in maniera poi molto diversa dagli altri. Che fosse l’aria smarrita che si sforzava di celare, chiaramente invano? Ma venne distratto dal successivo commento di Reeven, che lo indispose non poco.
“Dici a me? Dovresti vedere lui!” additò Nell, “È infinitamente peggio.”
Nell, offeso, lo incenerì con un’occhiata e districò con una mossa brusca le loro mani. Reeven avvertì subito un senso di perdita, ma lo scacciò stizzito.
“Ecco, allora abbiamo fatto proprio bene a raggiungervi. Se volete uscire dalle mura, la strada è quella là, la terza a destra. Reeven, possibile che tu non l’abbia riconosciuta? In fondo c’è l’insegna di una delle tue taverne preferite.”
“La finiamo di chiacchierare? Sto gelando.” ringhiò Phyroe, avvolgendosi meglio nel corto mantello nero.
“Sì, tra poco sarà l’alba. Muoviamoci.”
“Anche voi lasciate Ferenthyr?” s’informò Reeven.
Qolton tossì imbarazzato, ma si diede un contegno: “Ci è venuta voglia di recarci a Durandel.”
“E cos’è?”
“È una città, Reeven.”
“Ah. E dov’è?”
“A nord-est.” rispose conciso Qolton, in un borbottio impacciato.
Nell assottigliò le palpebre e lo guardò di traverso.
“Quindi farete la strada con noi?” chiese Reeven, felice di poter godere ancora un po’ della compagnia di Qolton, ma anche di quella della bella Phyroe.
“Sì, per un pezzo. Ah, ti sei dimenticato di prendere la tua parte di gioielli. L’abbiamo noi.”
“Giusto!”
“Come si fa a scordarsi di gioielli che valgono una fortuna?!” esclamò sconsolata Phyroe.
Reeven ridacchiò e spiò Nell, che stava osservando la ragazza con interesse. Percepì montare la gelosia solo quando essa fu sul punto di venire a galla, ma la soffocò prima che traboccasse. Non stette neppure a sprecare tempo a riflettere se fosse geloso dell’amica o del ragazzino, non aveva voglia di porsi domande spinose che lo avrebbero condotto a snervanti dilemmi esistenziali. Ragionare non faceva per lui.
In quattro e quattr’otto furono fuori dalla capitale, senza che nessuna guardia li avesse fermati. Merito di Qolton, che si era messo in testa al gruppo senza tanti indugi.
“Bene, ci siamo. Per prima cosa dobbiamo procurarci dei cavalli. Conosco un tizio che li vende, abita qua vicino.” disse Reeven.
“Non credi che dovremmo aspettare almeno che sorga il sole?” gli fece notare Nell.
“Perché?”
“Perché stanno tutti dormendo!” sbottò.
“Se ci sono dei clienti, si svegliano.”
“È da maleducati.”
“Ha parlato l’esempio di gentilezza. Ragazzino, ricordi?” ghignò il ladro, indicandosi, “Orfano, criminale, cresciuto per la strada. L’educazione non è il mio forte.”
“Come usare il cervello, suppongo.”
Reeven levò gli occhi al cielo ed emise un lamento: “Dai, non litighiamo. Ti ho detto che non mi piace.”
“Sembrate una coppia sposata.” scherzò Utros.
“Io ho già un marito.” se ne uscì Nell, provocando uno shock a catena e subitaneo negli altri.
“Cosa?” domandarono in coro.
“Sì. È lui che sto cercando. È scomparso e mi sono messo sulle sue tracce.”
“Piuttosto, chiediti perché è scomparso.” ringhiò Reeven, senza premurarsi di nascondere la gelosia, stavolta.
“Non so di preciso come sia scomparso, ma so perché non è qui con me.”
“E cioè?”
“È una storia lunga.”
“E a noi piacerebbe ascoltarla, dico sul serio, però stiamo diventando un tutt’uno con la neve e vorremmo, a discrezione di sua maestà Reeven, o rifugiarci in una locanda a caso fino a riacquisire la sensibilità dei nostri poveri corpi, o comprare ‘sti benedetti cavalli e allontanarci veloci dalla città.” espose Phyroe, pacata, la bocca arricciata in un sorriso dolce dal quale traspariva un desiderio omicida mal represso.
Reeven, intercettando il suo sguardo di pece, deglutì: “Sì. Cavalli. Un paio d’ore, tempo di arrivare a Feroth, poi locanda fino a nuovo ordine.”
“Ah, quindi sei tu il capo ora?” indagò Utros e la sua domanda non voleva essere sarcastica.
“Io non seguirò mai questo qui.” dichiarò Phyroe, lapidaria come solo Suna sapeva essere.
Qolton ghignò.
Si vede che l’ha tirata su lui.
“Nemmeno io.” si accodò Nell.
“Per me è indifferente.” disse Utros.
“Sarò io il capo, perché sono il più vecchio e quello con più sale in zucca, senza offesa per i miei egregi compagni di sventura.” intervenne Qolton, sedando il diverbio sul nascere.
Nessuno obiettò. Nell si rimangiò in tempo l’informazione che, se proprio si doveva fare a gara a chi era il più vecchio, lui avrebbe vinto. Se se lo fosse fatto sfuggire, non avrebbe più finito di rispondere alle domande. Inoltre, era meglio che la sua natura ibrida restasse un segreto il più a lungo possibile: non voleva creare problemi e nemmeno diventare il bersaglio di qualche caccia al demone. Mantenere un profilo basso era la chiave per la sopravvivenza.
“Ottimo. Ora subito a comprare i cavalli, le selle e tutto ciò che serve. Poi in marcia verso Feroth.”
“Feroth è a ovest. Io devo andare a nord-est. E anche voi.” puntualizzò Nell.
“Se andiamo ora a est non troveremo alcun riparo, invece abbiamo tutti bisogno di riposo dopo una nottata del genere. A Feroth staremo tranquilli, non ci sono molte ronde, e il cibo non è male. Mangeremo, dormiremo, faremo provviste e domani mattina ripartiremo. Ci sono rimostranze?”
Nell scosse la testa, imbronciato. Qolton aveva ragione, faceva troppo freddo per proseguire e la stanchezza stava diventando sempre più pressante. Per quanto non lo esaltasse l’idea di perdere un giorno, non poteva fare altrimenti. 
“Aspettate un attimo.” proferì senza preavviso, bloccando gli altri, “Perché dovrei seguirvi? Io sono da solo. Non ho capi, non ho servitori, non ho amici né compagni di avventura. Non mi unirò alla vostra allegra combriccola, ho già fatto presente che non intendo avere appresso inutile zavorra. Voi fate quello che vi pare, io non posso fermarmi. Ogni giorno che non trovo mio marito, potrebbe essere l’ultimo per lui. Gingillarmi, mangiare o dormire non rientrano fra le mie priorità. Ho dei soldi per comprarmi un cavallo, perciò penserò io a me stesso.”
“Nell.” lo chiamò Reeven, incredulo e frastornato, indeciso se dare ascolto a Qolton o restare incollato al biondino, come il suo istinto gli suggeriva.
“Reeven, non c’è bisogno che vieni con me. A quanto pare, abbiamo una meta in comune, quindi sicuramente ci rincontreremo lungo il percorso. Rimani pure con i tuoi amici, lo vedo che ti stanno a cuore. Davvero, a me va benissimo. Il mio piano era viaggiare da solo sin dal principio, sei stato tu a metterti in mezzo, testardo come un mulo.” piegò le labbra in un sorriso mesto e lo incoraggiò con un cenno a raggiungere i compagni.
L’altro serrò la mascella, si protese con uno scatto e lo afferrò per un braccio. Poi piegò il busto e accostò la bocca al suo orecchio per non far sentire agli altri ciò che diceva.
“Ti prego, è pericoloso. Non posso lasciartelo fare.” scandì, trattenendo un sibilo rabbioso.
“Non sono uno sprovveduto, so cavarmela. Ho viaggiato in completa solitudine per anni.”
“Che significa ‘per anni’? Ne avrai a malapena diciotto, non darti arie da uomo vissuto.”
Nell sorrise enigmatico, mostrando i denti piccoli e bianchi. Reeven lo fissò stranito, incapace di interpretare l’espressione sul viso del ragazzo. Quella distrazione permise a Nell di divincolarsi e subito si affrettò a precederli verso un casolare circondato dalla nebbia mattutina, a circa trecento passi da loro, da cui si udiva provenire il nitrito di un cavallo.
Reeven sospirò afflitto. Incrociò l’occhiata spaesata di Qolton e quelle sussiegose di Utros e Phyroe. Infine, levando una preghiera agli dei per far sì che lo dotassero di un oceano di pazienza, si pettinò i capelli all’indietro e, in un lampo, si catapultò alle calcagna di Nell. Gli altri non poterono che imitarlo, pur tra sbuffi seccati e insulti mormorati a mezza voce. Se quello sarebbe stato l’andazzo, compiere insieme il viaggio non pareva più una trovata così entusiasmante.










 

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Capitolo 3
*** Aria di guerra ***










I tenui raggi del sole invernale penetravano attraverso le fronde, ma il loro calore non era affatto sufficiente a scaldare l’aria o il terreno. Almeno non nevicava. Qolton calpestò il centesimo rametto, che si spezzò sotto il suo peso con un rumore secco. Osservò distrattamente gli alberi che lo circondavano, alti e affusolati, tutti identici. Componevano un panorama monotono e soffocante, tanto da fargli rimpiangere di aver acconsentito a prendere la via che attraversava il bosco. Capiva che era necessario per non imbattersi nei soldati che pattugliavano le strade principali, ma se non fossero riemersi da quel maledetto fogliame entro il primo pomeriggio sarebbe impazzito. Preferiva una vasta pianura, aperta e sferzata dal vento, piuttosto che una prigione di legno. Non che soffrisse di claustrofobia, solo non apprezzava trascorrere giorni interi in spazi angusti, ecco tutto. 
Emise l’ennesimo sbuffo scocciato. Erano ore che camminavano e cominciava a sentire i piedi doloranti. Conveniva che muoversi gli avrebbe impedito di congelarsi, ma non potevano continuare ancora a lungo, avevano tutti bisogno di riposo. Eccetto Reeven e Nell, che invece marciavano spediti sul sentiero ricoperto da uno spesso strato di neve, apparentemente incuranti del freddo e della fatica. Phyroe e Utros, invece, arrancavano in fondo alla fila, in silenzio. Non avevano proferito una sola sillaba da quando erano partiti, ma si vedeva quanto fossero stremati. D’altronde, la notte prima non avevano dormito per effettuare il colpo alla villa del duca e adesso, a mattina inoltrata, la stanchezza li stava appesantendo come un macigno che gravava sui muscoli indolenziti. 
A quel punto, Qolton si domandò di nuovo chi glielo avesse fatto fare di seguire Reeven. Va bene l’amicizia, va bene la preoccupazione che potesse cacciarsi nei guai, ma, sul serio, perché insistere a non fermarsi in una locanda per dormire almeno qualche ora al caldo? Comprendeva l’urgenza di Nell, se era vero che suo marito era in pericolo, ma in fondo lui che c’entrava? Avrebbe potuto lasciarlo andare con Reeven, poi semmai li avrebbe raggiunti più tardi assieme a Phyroe e Utros. Che accidenti di fretta c’era? Di quel passo sarebbero morti di sonno, oppure assiderati.
“Hey, facciamo una pausa.” propose, anzi decretò in tono autoritario, appoggiandosi a un tronco per recuperare almeno un briciolo di fiato.
“No, andiamo avanti. Siete troppo lenti.” rispose Reeven, girandosi di tre quarti, e gli scoccò un’occhiata indecifrabile, quasi più fredda della neve attaccata ai loro stivali.
Qolton lo fulminò, imitato dai due compagni, che nel frattempo gli si erano accostati. 
“Ma che problema ha?” ansimò Utros.
Il moro fece spallucce, astenendosi dal commentare. Reeven aveva iniziato a comportarsi in modo strano da quando aveva incontrato quel ragazzino biondo, e a Qolton non piaceva per niente. Sembrava quasi un’altra persona, una di quelle antipatiche e dispotiche a cui verrebbe voglia di torcere il collo come si fa con i polli. Dava l’impressione che non gli importasse di niente e di nessuno a parte Nell, gli stava appiccicato alle costole alla stregua di una zecca e non si allontanava mai più di un metro. A Qolton era venuta in mente l’immagine di un bambino capriccioso e insicuro aggrappato alle sottane della madre. E Nell, sebbene a volte scrollasse le spalle irritato, non gli diceva nulla, forse nemmeno tanto dispiaciuto di essersi guadagnato uno schiavetto devoto. Gli aveva messo il guinzaglio nella biblioteca del duca e da allora non lo aveva mai allentato. Ma il punto fondamentale era l’atteggiamento di Reeven, che faceva dubitare Qolton di aver davanti il solito imbecille impacciato che aveva imparato a conoscere. Forse il ragazzino straniero aveva la capacità di tirare fuori il peggio nel prossimo, in tal caso non era una buona idea restare in sua compagnia.
Schioccò la lingua e intercettò l’espressione diffidente e torva di Phyroe, che non aveva mai tolto gli occhi di dosso a Nell. La donna si era mantenuta in disparte per tutto il tempo, evitando le solite frecciatine al vetriolo all’indirizzo di Reeven, e questo era parecchio indicativo di quanto tutta quella situazione non le andasse affatto a genio. Utros, invece, era il più pragmatico, si adeguava a qualsiasi circostanza e non sembrava essere scalfito dall’atmosfera carica di tensione che aleggiava sul gruppo. Ma Qolton non poteva esserne sicuro, perché la faccia dell’amico rimaneva la maschera imperscrutabile di sempre.
Dal canto suo, Reeven non si era mai sentito tanto partecipe ed eccitato. Non era per la missione in sé, non gli interessava il marito di Nell e avrebbe fatto volentieri a meno di conoscerlo, anche perché il suo ritrovamento avrebbe significato la propria separazione dal ragazzino, che allora non avrebbe avuto davvero più bisogno di lui. Piuttosto era la stessa presenza di Nell a fargli credere di camminare sulle nuvole. Provava un profondo e ossessivo attaccamento, come se Nell fosse il pilastro portante di tutta la sua esistenza, la chiave di volta, la ragione per cui era sopravvissuto alla fame, all’indigenza e ai pericoli che aveva dovuto affrontare nel corso degli anni. Nell era il suo destino e una parte di lui sapeva di averlo atteso da sempre, perché solo al suo fianco tutto aveva un senso. Più o meno. Non aveva ancora capito di che natura fosse quell’attaccamento, ma era lì, concreto, ingombrante, e gli faceva venire le classiche farfalle nello stomaco. Il pensiero di non essere altrettanto importante per lui lo rendeva geloso e determinato più che mai a ritagliarsi un posto nel cuore del biondino, così da diventare indispensabile e persuaderlo, in un futuro indefinito, a non mandarlo via. Per tale motivo aveva invaso il suo spazio vitale, smaniando per avere la sua attenzione, i suoi sorrisi, i suoi occhi azzurri addosso.
Si concentrò sui passi strascicati dei suoi compagni, senza osare voltarsi, e sospirò imbronciato. Loro non potevano comprendere le emozioni che lo avevano travolto, non ci sarebbero riusciti neanche se si fosse messo lì a spiegarle nella maniera più semplice possibile. Nessuno di loro, né il burbero ma gentile Qolton, né l’algida Phyroe, né lo spensierato Utros, sarebbe mai arrivato ad afferrare un misero granello del sentimento che si agitava nel suo animo, era troppo enorme e complesso. Reeven sentiva che era speciale, Nell era speciale, come una fonte d’acqua in mezzo al deserto, come un faro nella tempesta. Speciale voleva dire unico, ed era soltanto suo. Nell era suo.
Osservò la sua schiena minuta, le spalle ossute, le gambe magre e scattanti. Poi tornò su e accarezzò con lo sguardo il suo collo sottile, perfetto per essere baciato e leccato, ma delicatamente, come si farebbe con un fiore. Inspirò il suo odore, una fragranza divina di cui non si sarebbe mai stufato, e un sorriso gli curvò le labbra. Infine ascoltò il suo battito, un suono tanto familiare da commuoverlo e al contempo innervosirlo, perché non ricordava dove lo aveva udito. Era snervante, ma se accantonava quelle paturnie e se lo godeva privo di pensieri molesti, era la melodia più bella e assuefante del mondo, lo cullava come una ninnananna e lo faceva sentire protetto, al sicuro.
Se solo non ci fosse un marito…
“Reeven, fermiamoci. Siamo esausti.” lo pregò Qolton un’ora più tardi, piegato in due per la fatica.
Nell si arrestò all’improvviso e lanciò un’occhiata al resto della banda. Dopo averli squadrati con cipiglio critico, annuì, posò la borsa sulla neve e si sedette su un masso al lato del sentiero. Gli altri tirarono un sospiro di sollievo e lo imitarono. Reeven, invece, rimase in piedi accanto a Nell tipo sentinella, un fedele segugio intento a fare la guardia al padrone.
Qolton rifletté sulle dinamiche del gruppo, appurando che ci fosse un grosso squilibrio, uno scompenso molto forte. Ora più che in passato avvertiva fisicamente l’assenza di Suna, senza dubbio avrebbe saputo prendere le redini e unire tutti sotto una sola bandiera. Ma Suna era andato via, perciò spettava a lui fare le sue veci. Si era offerto come leader perché era il membro più anziano, ma in realtà il vero capo era Nell, che a giudicare dall’aspetto era sicuramente più giovane di tutti loro. A quanto pareva, la cosa funzionava così: Nell andava avanti, Reeven lo seguiva, Qolton seguiva Reeven, e Utros e Phyroe seguivano Qolton. Tuttavia, presto ci sarebbe stata una rottura, se lo sentiva nelle viscere, poiché nessuno a parte Reeven si fidava del ragazzino straniero. Era un equilibrio molto precario e al massimo entro un paio di giorni l’ago della bilancia si sarebbe piegato nettamente da un lato o dall’altro. Di certo, se Nell continuava a incaponirsi a quella maniera, il gruppo si sarebbe spezzato in due.
“Se facciamo una piccola deviazione a sud, potremmo fermarci al villaggio di Wanderwald a riposare e fare provviste.” buttò lì Utros, e Qolton e Phyroe subito approvarono, augurandosi di non sbattere di nuovo contro il muro di granito che si faceva chiamare Nell.
“Fate come vi pare. Io proseguo verso nord-est.” rispose Nell, mentre si sgranchiva il collo e si massaggiava le spalle.
Ecco, appunto. Tutti sbuffarono e rotearono gli occhi, tranne Reeven, che pareva essersi trasformato in una statua.
“Ve lo ripeto, non siete obbligati a venire con me. Potete prendervela comoda.”
“Sì, sì, ho capito, ma…” Qolton si passò una mano sul cranio rasato e sbirciò Reeven dal basso, in cerca di un supporto che non giunse, “Ah! Va bene! Però dobbiamo andare a caccia, non vivremo a lungo senza cibo o acqua. E la notte ci accamperemo.”
Nell soffocò un moto di fastidio e si costrinse a mantenere la calma per escogitare la prossima mossa a mente lucida. Avevano ragione, non potevano sforzare troppo i loro corpi e lui non voleva essere la causa di morti premature per ipotermia o denutrizione. Tuttavia, quella marcia lenta lo indisponeva non poco. Se fosse stato solo, non avrebbe compiuto alcuna sosta: ormai gli bastava mangiare una o due volte a settimana e le notti le passava per lo più insonni. I cambiamenti fisici erano diventati quanto mai evidenti durante gli ultimi cinque anni: non avvertiva più i morsi della fame o la debolezza per carenza di sonno e la sua resistenza era aumentata a dismisura, tanto da riuscire a percorrere più di quaranta leghe senza fermarsi a riposare. Per questo gli scocciava avere dei testimoni, perché avrebbe dovuto obbligarsi a mandar giù almeno un tozzo di pane, a bere almeno due sorsi d’acqua, a far finta di dover concedere una tregua ai muscoli delle gambe e alle piante dei piedi, e tutto ciò gli avrebbe fatto perdere tempo prezioso, anche se si trattava di un paio di minuti. Come convincerli a lasciarlo andare? Soprattutto Reeven. Beh, lui teneva il suo passo senza lamentarsi, il che poteva essere un bene, ma come la metteva con il cibo e l’acqua? Si sarebbe insospettito se non lo avesse visto mangiare minimo una volta al giorno.
“D’accordo, stanotte ci accamperemo.” concordò, mentre il suo cervello già elaborava un piano per scappare.
Si sarebbe offerto per il primo turno di guardia e, una volta appurato che tutti stessero dormendo, avrebbe tagliato la corda veloce come una lepre. Era un piano perfetto, doveva solamente avere la pazienza di aspettare qualche ora. Portò una mano al petto e afferrò il medaglione da sopra la stoffa, stringendolo nel palmo per farsi coraggio. Avrebbe voluto estrarlo e aprirlo per rimirare il volto di Ysril, ma non gli andava di dare spettacolo di fronte a degli emeriti sconosciuti. Così si morse l’interno di una guancia e represse il desiderio. 
Dei, quanto gli mancava quell’inutile demone che aveva sposato. Nonostante fossero passati anni, lo amava ancora come quando non era che un adolescente ingenuo con la testa piena di sogni infantili. Quando pensava a lui, il suo cuore iniziava a battere più forte; quando ricordava i suoi baci, il petto veniva inondato da un piacevole calore; quando rievocava il suo tocco sulla propria pelle, si sentiva andare a fuoco. E quando rammentava lo sguardo struggente che gli aveva lanciato prima di precipitare nel cratere, aveva la netta impressione di morire, esattamente come allora. Spesso aveva immaginato una loro ipotetica riunione, e talvolta si vedeva mentre lo prendeva a schiaffi, altre mentre gli correva incontro e lo abbracciava, riempiendogli la faccia di tutti i baci che non aveva potuto donargli durante la sua assenza. Era alquanto combattuto. Quando il momento fosse giunto - sapeva che lo avrebbe rivisto, ne era certo -, non aveva idea di quale sarebbe stata la sua reazione. Poi scosse debolmente il capo. Chi voleva prendere in giro? Indubbiamente gli sarebbe saltato addosso piangendo e lo avrebbe baciato mettendoci tutta l’anima.
Reeven spiò Nell con la coda dell’occhio e lo vide stringere la stoffa della tunica sul torace. Lì per lì pensò che gli facesse male da qualche parte, poi il suo olfatto gli trasmise l’odore del metallo e intuì che il biondino stava stringendo la sua collana. Probabilmente era qualcosa di prezioso. Un pegno d’amore del suo maritino, sussurrò una vocina cattiva nella sua testa. La scacciò con rabbia. Represse l’ondata di gelosia che lo avviluppò come le spire di un serpente e deglutì un groppo amaro. Da quando la notizia che Nell era sposato lo aveva investito in pieno, ci aveva rimuginato su all’infinito, in un tira e molla costante intervallato da considerazioni sul tempo o su cosa mangiare per cena. Non era contento. Nell apparteneva a qualcun altro e non andava bene. Doveva essere suo, era suo, lo sentiva. Però non voleva imporsi, col rischio poi di farsi odiare. Sospirò afflitto e lasciò che il mondo reale lo distraesse, altrimenti sarebbe precipitato in un vortice di fantasie ossessive che gli avrebbero fatto marcire il fegato.
Poco dopo si rimisero in marcia. Proseguirono fino al tramonto, facendo altre due brevi soste. Appena il sole cominciò la sua discesa oltre la linea dell’orizzonte, scelsero una piccola radura dove accamparsi. Accesero il fuoco e si disposero in cerchio a mangiare i due conigli che Utros aveva cacciato, troppo stanchi perfino per parlare. Nell riuscì a convincerli con facilità ad affidargli il primo turno di guardia, dato che erano veramente distrutti: dopo poche e blande rimostranze, cedettero e si coricarono attorno a fuoco, i loro corpi a contatto per tenersi al caldo. Ma Reeven non chiuse occhio, deciso a restare sveglio per tenere compagnia al ragazzino. Invano Nell tentò di rassicurarlo, il ladro non ne volle sapere.
Si incantarono a guardare le fiamme scoppiettare sulla legna, circondati dal silenzio. Non si udivano neanche i richiami degli animali notturni. La neve aveva il potere di zittire persino la natura.
“Cosa c’è di tanto interessante nel libro che hai rubato al duca?” gli domandò Reeven dopo qualche minuto, tanto per rompere il ghiaccio.
“Informazioni.”
“Su tuo marito?”
“Forse.”
“È qualcosa di illegale o immorale? Per questo non vuoi dirmelo?”
Nell fece spallucce e si mise a giocherellare con un legnetto, disegnando ghirigori astratti sul soffice manto bianco ai suoi piedi.
“Nell, dimmi chi sei.” insisté il ladro, cercando di non tradire la propria impazienza, poiché temeva che altrimenti il ragazzino si sarebbe chiuso a riccio ancora di più.
“Perché vuoi saperlo?”
“Io non so come spiegarlo, ma… sento che abbiamo un legame.” disse, sembrando ridicolo persino alle proprie orecchie.
“In che senso?” indagò Nell, curioso, voltandosi a scrutarlo.
“Scusa la domanda, ma per caso ci conosciamo? Ci siamo già incontrati da qualche parte?”
“No, di questo sono sicuro. Mi ricorderei di te.”
“O-ho, è un modo per dire che mi trovi intrigante?” ghignò ammiccando.
Nell sbuffò, ma non poté nascondere un sorriso divertito.
“Comunque, da quando ti ho visto nella biblioteca del duca, ho percepito… non saprei come definirlo. Una connessione molto forte, magari. No, non rende bene l’idea. Davvero, non riesco a esprimerti ciò che provo a parole, è troppo complicato.”
Nell studiò Reeven con attenzione e notò quanto fosse turbato. La luce del fuoco danzava allegra sul suo viso, un viso dai lineamenti molto simili a quelli di Ysril, eppure non del tutto uguali. Non poteva negare di sentirsi attratto da quel giovane, ma era un’attrazione che non aveva niente di sessuale. Era qualcosa di totalmente platonico, però non bastava, c’era dell’altro. Si trovò d’accordo con Reeven nel constatare che era difficile da spiegare.
“Io so di conoscerti, Nell. Non ho la minima idea di come, ma lo so. Tutto sta nello scoprire perché, nel ricordare dove e quando ci siamo incontrati. Ad ogni buon conto, sappi che ovunque andrai io ti seguirò. Ne ho bisogno.” la sua voce si affievolì appena, distolse lo sguardo dagli occhi troppo grandi e troppo azzurri di Nell e li puntò sulle fiamme, quasi si aspettasse di trovarvi una risposta.
“Raccontami di te. Magari ci siamo davvero conosciuti e nemmeno io me lo ricordo.” lo esortò Nell, per la prima volta gentile e accomodante da quando si erano imbattuti l’uno nell’altro.
Reeven rimase di stucco all’udire quel tono dolce, nessuno gli si era mai rivolto così, nemmeno Qolton o le prostitute che si era portato a letto. Era una dolcezza diversa, particolare, diretta soltanto a lui. Il suo cuore batté più veloce e fu pervaso da un’emozione confortante che lo scaldò da capo a piedi.
“Sono orfano, come già sai. Stando a quello che mi disse la direttrice dell’orfanotrofio quando ero piccolo, fui lasciato sulla sua porta in una notte di primavera. Ero ancora in fasce, avrò avuto sì e no un mese di vita. Lei mi prese sotto la sua custodia e mi crebbe per cinque anni. Però occorse molto meno tempo per capire che non ero come gli altri bambini. Io avevo… delle abilità particolari.”
“Che genere di abilità?”
“Udivo suoni molto lontani, avevo una vista più acuta del normale e un olfatto troppo sviluppato, come quello degli animali. All’epoca mi ci divertivo, facevo scherzi ai miei amici e origliavo gli adulti tranquillamente dalla mia camera, carpendo segreti che avrebbero dovuto restare celati. Nella mia ingenuità, invece, alcuni li resi pubblici e questo fatto mi alienò la simpatia di molti. Poco dopo rimasi solo, nessuno voleva più giocare con me perché ero strano.” 
Reeven si fermò e serrò le palpebre con forza per non affogare nella marea di emozioni dolorose che lo assalirono. Quando le riaprì, fissò gli occhi su Nell, disperandosi nel tentativo di comunicargli tutto quanto senza dover articolare parole vuote, insufficienti a raccontare ciò che aveva subito. 
Il ragazzino trasalì quando si specchiò in due iridi rosse terribilmente familiari. Scosse la testa sbigottito, boccheggiante, a corto di fiato, e non passarono che pochi istanti prima che cominciasse a tremare. 
Reeven si adombrò, parve quasi sgonfiarsi e afflosciarsi su se stesso, ma aveva frainteso la reazione di Nell. Non era paura quella deformava i tratti del biondino, ma commozione mista a sollievo, un’esplosione di affetto e speranza che gli avevano fatto ribollire il sangue nelle vene. 
“Tu…” esalò con le lacrime agli occhi e la voce incerta.
Reeven si ridestò e lo guardò stupito. L’espressione di Nell riaccese una piccola scintilla dentro di lui e inconsciamente si protese in avanti, accorciando la distanza che li separava.
“Tu hai suoi occhi… come… com’è possibile?” balbettò Nell emozionato, inciampando nelle parole.
Sollevò una mano e la posò con estrema delicatezza sulla guancia di Reeven, che inspirò rumorosamente e rimase immobile per non infrangere la bolla d’intimità che si era creata. I punti dove la pelle di Nell entrava in contatto con la sua formicolavano, andando a stuzzicare fasci di nervi che non credeva di possedere. Era stupendo, non aveva mai sperimentato niente di simile. Donne e uomini lo avevano sfiorato spesso sulle guance, durante gli amplessi consumati in bordelli e vicoli fatiscenti, ma mai così, mai in quel modo, mai con quella luce nello sguardo che pareva dirgli “tu sei importante, bellissimo e speciale”. 
Nell lo accarezzò piano, quasi temesse di spaventarlo, e senza accorgersene si fece più vicino. Adesso non v’erano che pochi centimetri a dividerli. Assaporarono i reciproci respiri, gli occhi umidi e colmi di un sentimento che rischiava di traboccare da un momento all’altro come un fiume un piena.
“Di chi parli?” bisbigliò il ladro.
“Ysril. Mio marito.”
Reeven si scostò bruscamente, come se Nell lo avesse appena azzannato a tradimento. 
Ysril, Ysril, sempre Ysril! Che palle! 
Ma anche se avevano occhi simili, non potevano essere la stessa persona.
“Io non sono tuo marito.” ringhiò offeso, la delusione che si faceva largo sul suo viso.
Nell sembrò interdetto e non replicò subito. 
Entrambi tornarono a contemplare il fuoco, immersi nei nelle proprie riflessioni. Reeven era contento che l’altro non si fosse ritratto inorridito, ma perché aveva dovuto tirare in ballo Ysril? Che bisogno c’era? Quello era il loro momento, invece Ysril lo aveva rovinato. Lo odiava anche se non lo conosceva.
La testa di Nell era piena di interrogativi, nel suo animo regnava il caos. Reeven era un demone, non c’erano dubbi, perché i demoni erano l’unica razza ad avere gli occhi rossi. Ma com’era possibile che fosse stato abbandonato? Aveva letto che la stirpe demoniaca era molto gelosa dei propri piccoli, mai li avrebbe affidati agli esseri umani. Piuttosto, se nascevano con qualche problema, venivano uccisi. E se Reeven fosse un ibrido? Così si spiegava il suo abbandono. Però gli ibridi di demoni non sopravvivevano, lui lo sapeva bene, aveva perso suo figlio proprio per questo. E la sua somiglianza con Ysril? Era inquietante. E se…? No, impossibile. Reeven non poteva essere Ysril. O sì? I demoni potevano reincarnarsi? Non risultava da nessuna parte. Oppure quello era davvero Ysril, non sarebbe stato poi tanto strano, visto che poteva assumere qualsiasi aspetto volesse. Quello con cui Nell lo aveva conosciuto era stato plasmato per venire incontro ai suoi ideali, non era reale. Quindi forse… 
No, sto correndo troppo. Reeven non è Ysril, perché è stato portato all’orfanotrofio appena nato. Non avrebbe alcun senso che Ysril assumesse le sembianze di un bambino in fasce, per poi crescere e invecchiare come un normale essere umano, nemmeno se avesse perduto la memoria. Resterebbe l’opzione della reincarnazione, ma non ho mai letto niente sull’argomento.
Doveva calmarsi, ragionare e scoprire qualcosa di più su di lui.
“Poi cos’è successo? All’orfanotrofio, intendo.” chiese, riportando la conversazione sui binari precedentemente abbandonati.
Reeven non era più tanto propenso a chiacchierare, ma ormai aveva compreso che non avrebbe potuto negare nulla a quel ragazzo. Non poteva dirgli di no, non poteva lasciarlo, non riusciva ad arrabbiarsi. Non aveva più alcun controllo su se stesso. Nell era diventato il suo padrone, e questa consapevolezza lo atterrì fino a farlo impallidire. Si schiarì la gola e recuperò il filo del discorso, sforzandosi di riacquisire un po’ di contegno.
“A cinque anni venni a sapere la verità dalla direttrice, cioè che ero stato gettato via appena nato. Fino a quel momento ero convinto, come la maggior parte degli orfani, che un giorno i miei genitori sarebbe tornati a prendermi. Oppure che qualche famiglia amorevole e ricca mi avrebbe adottato. Ne parlavamo spesso, quando ancora i rapporti con gli altri non erano tesi, sognavamo avventure, battaglie, principesse da salvare, una madre bellissima e affettuosa che ci avrebbe cantato una ninnananna o letto una favola prima di andare a dormire...”
Nell abbassò lo sguardo per non metterlo a disagio, perché presagiva che presto Reeven avrebbe raccontato qualcosa di spiacevole.
“Un giorno, per sbaglio, rivelai all’uomo che ci portava il pane che la direttrice aveva avuto un rapporto sessuale con la cuoca. Le avevo sentite mentre giocavo in cortile con la terra. Insomma, non era neanche colpa mia! Se volevano essere discrete, non si mettevano a scopare in magazzino, dove chiunque avrebbe potuto beccarle in atteggiamenti intimi.” grugnì in disappunto e storse le labbra in una smorfia, “Io non sapevo che l’uomo del pane era il marito della direttrice. Pensavo che fosse un aneddoto divertente, che ci avremmo riso su insieme, ma lui mi fissò livido di rabbia e se ne andò, lasciandomi come un idiota davanti alla staccionata. La direttrice irruppe nella mia stanza la mattina successiva, furiosa come mai l’avevo vista. Mi afferrò per i capelli e mi schiaffeggiò, urlandomi contro che i miei genitori non mi avevano mai voluto perché ero un mostro, che nessuno mi avrebbe adottato e che ero destinato a restare solo per il resto della vita. Sempre che qualcuno non mi avesse ucciso a causa dei miei occhi. Disse che avrebbe fatto meglio a soffocarmi mentre ero nella culla, invece mi aveva nutrito e ospitato in casa sua e non c’era giorno che non si pentisse della sua scelta. Ero piccolo, ma capii benissimo. Il mio cuore si spezzò e fece un male cane, perché volevo bene alla direttrice. Era una donna severa ma paziente, non mi aveva mai fatto pesare la mia diversità. La notte stessa scappai. La strada divenne la mia casa. Altri bambini, ladruncoli straccioni, cercarono di fare amicizia, ma io li rifiutai sempre, perché ero un mostro. Se loro avessero scoperto il mio segreto, mi avrebbero lasciato. Perciò meglio non avere amici, così mi sarei risparmiato il dolore di perderli. Me la cavai grazie alle mie capacità e non patii mai la fame. E presto notai un’altra cosa strana: a differenza degli altri, io non mi ammalavo e, se mi capitava di ferirmi, guarivo nel giro di pochi minuti. Non ero normale, quella ne era l’ennesima prova.” tossì imbarazzato, “Mi dedicai ai furti, ma mai niente di eclatante per non attirare l’attenzione. Poi, quando crebbi abbastanza, cominciai a frequentare le osterie che ospitavano risse clandestine, in cui il vincitore riceveva una cospicua sommetta. Mi dissi che era una valida alternativa al furto, almeno mi sarei guadagnato un pasto caldo onestamente. Fu fin troppo facile. Tutti i miei avversari erano più deboli di me, andavano al tappeto come dadi. Però, di nuovo, la mia ingenuità mi portò ulteriori problemi: il fatto che continuassi a vincere aveva insospettito molti clienti e nessuno provava più gusto a scommettere, dato che vincevo sempre io. Mi sbatterono fuori, la mia fama fece il giro delle altre osterie e così la mia carriera di lottatore giunse al termine. Fu allora che conobbi Qolton. Mi reclutò e mi introdusse nella banda di Suna. Sono rimasto con loro per otto anni, a vivere di furti. Sono stati i soli ad avermi accettato nonostante le mie stranezze, anzi mi hanno insegnato a trarre vantaggio da queste abilità, a considerarle dei doni. Sono stati come una specie di famiglia per me, e lo sono tuttora, anche se non ho idea di come sia una vera famiglia… sai, avere un padre, una madre… magari fratelli e sorelle. Ma ci sosteniamo a vicenda, ci aiutiamo l’un l’altro e condividiamo tutto. Eccetto gli amanti.” concluse con un sorriso sornione, per mascherare la tristezza che il ricordo del proprio passato gli aveva messo addosso.
“Mi dispiace tanto, Reeven.”
“Nah, ormai l’ho superato.” scrollò le spalle, quando all’improvviso parve realizzare una cosa, “Oh, ma quando hai detto che ho gli occhi di tuo marito intendi che… conosci altri con gli occhi rossi?!” esclamò, agguantando Nell per le braccia, “Sono come me? Esistono davvero? Puoi portarmi da loro? Magari ritrovo i miei genitori!”
“Reeven, calmati. Sì, anche mio marito ha gli occhi rossi.” proferì pacato. 
Gli prese le mani fra le proprie e le strinse appena, esitando. Alla fine si arrese. 
“Va bene, ti porto con me. In effetti, sto andando in un posto dove potrebbero esserci altri come te. Forse là troverò anche Ysril, se sono fortunato. Ti aiuterò a scoprire le tue radici.”
“Sul serio?! Grazie!” esclamò, zittendosi subito dopo per evitare di svegliare i compagni addormentati lì accanto.
“Però i tuoi amici ci rallentano troppo. Dobbiamo lasciarli indietro.”
“Cosa…? Perché? Non sono poi così lenti. Non guardare oggi, hanno passato una notte parecchio movimentata e non hanno avuto occasione di riposare, sennò normalmente sono molto arzilli.”
“Può essere, ma… non mi fido. Insomma, io ho una missione da compiere, non voglio distrazioni. Di te posso occuparmi, il luogo dove voglio condurti mi è di strada, ma loro… capisci che voglio dire?”
“Non posso abbandonarli, Nell. Loro non lo farebbero mai con me. Te l’ho detto, siamo una famiglia. Una famiglia stramba, ma pur sempre unita.”
“Beh, allora posso darti una mappa con le indicazioni per raggiungere il posto di cui ti ho accennato. Puoi andarci da solo o con i tuoi amici.” si morse un labbro e si sforzò di scegliere le parole giuste, “Io non ho alcun legame con loro, Reeven.”
“Ma ce l’hai con me. So che è così, lo sento. Io e te siamo destinati a restare insieme.” insisté piccato, quasi avesse pronunciato una sentenza inoppugnabile, “E, in senso lato, hai un legame anche con loro. Ti giuro che sono brave persone, per quanto si possa dire di una banda di ladri di professione. Potrebbero tornarci utili. Phyroe è bravissima con i veleni, un vero portento. Qolton è il compagno che ti guarda le spalle di fronte a qualsiasi avversità, gli affiderei la mia vita. Utros… beh… ha il senso dell’umorismo. A volte. Ah, sa usare benissimo la cerbottana ed è uno scassinatore provetto.”
“Non lo so…”
“Da’ loro una possibilità. So che non ti deluderanno.”
“Sei molto sicuro di te, eh? Sai questo, sai quello…”
“Sì. Mi fido del mio istinto, non mi ha mai tradito.”
“Come vuoi.”
“Ottimo. Adesso dormi, resto io sveglio.”
“No, tranquillo, dormi tu.”
“No, no, davvero. Sarai stanco.”
“Anche tu.”
“Nell…”
“Reeven, non andrò da nessuna parte. Mi ha convinto, dico sul serio. Resterò.” fece un sorriso sghembo e lo fissò dal basso in un modo che voleva essere rassicurante.
“Allora non sei così acido e opportunista come pensavo.” scherzò il ladro.
“E tu non sei così stupido come immaginavo.” lo rimbeccò ghignando.
“Ritiro quello che ho appena detto. Sei acido.”
Nell ridacchiò e gli tirò una leggera pacca sulla spalla: “Dormi. Veglierò io su di te.”
Reeven, per l’ennesima volta, rimase spiazzato dalla dolcezza del tono del ragazzino. Si rese conto che sotto la corazza da menefreghista si nascondeva un giovane gentile e generoso, capace di affetto e altruismo. Si dice che la prima impressione è quella che conta, ma Reeven fu contento di essersi sbagliato. Forse, se avessero passato del tempo insieme, sarebbe riuscito a far emergere il vero Nell.
“D’accordo. Buonanotte.”
“Buonanotte.”
Il ladro si sdraiò sulla coperta che Nell aveva steso vicino al fuoco e chiuse gli occhi. Pochi secondi dopo li riaprì, si tirò su e schioccò un bacio sulla guancia di Nell, cogliendolo di sorpresa.
“Notte.” ripeté, per poi sdraiarsi ancora e addormentarsi quasi all’istante.
Nell restò di sasso, imbambolato a fissare con aria vacua un punto a caso tra gli alberi. Arrossì appena, si portò una mano sulla guancia e se l’accarezzò con un sorriso. Erano anni che qualcuno non lo baciava. Aveva dimenticato quanto fosse bella la sensazione. 
Il gesto che Reeven aveva compiuto di slancio aveva confermato la sua decisione di entrare a far parte di quel singolare gruppetto, un po’ di compagnia non gli avrebbe fatto di certo male. La solitudine gli aveva indurito il cuore e forse era giunto il momento di sciogliere lo spesso strato di ghiaccio che lo avvolgeva ormai da troppo tempo.
Per le ore seguenti si dilettò a osservare quel branco di dormiglioni e ad ascoltare il loro quieto russare di sottofondo, unico rumore che spezzava il silenzio assieme al crepitare del fuoco.

Alla fine deviarono verso sud, diretti al villaggio di Wanderwald. Qolton, Phyroe e Utros si stupirono di quella decisione, quando solo poche ore prima Nell sembrava deciso a non concedere loro alcuna tregua. Ricordavano bene quanto fosse stato categorico, affatto incline a giungere a un compromesso di qualsivoglia genere. Qualcosa, però, doveva essere cambiato e lo intuirono dal linguaggio del corpo del ragazzino. Non che Nell gesticolasse di più o sorridesse apertamente, ma si vedeva che era molto più rilassato e amichevole, soprattutto nei confronti di Reeven.
“Si stanno facendo gli occhi dolci? Cosa mi sono perso mentre dormivo?” borbottò Utros a mezza voce, così che solo i suoi due compagni potessero udirlo.
“No, solo Reeven gli sta facendo gli occhi dolci. Non mi sorprenderebbe se cominciasse a sbavare.” commentò Phyroe.
“Guardalo! Guarda come fa il cascamorto. Dei, che schifo. Ora fa la ruota come un pavone, aspetta. Ha sfoderato pure il sorriso fascinoso.” proseguì Utros, “Oh, l’hai visto? Ha appena accarezzato Nell sul collo.”
“L’ho visto.”
“Oh, che teneri! Nell gli ha dato un pugno giocoso sul braccio.”
“Nell è più tranquillo, si capisce che adesso si fida di Reeven. È probabile che abbiano parlato mentre noi russavamo.” disse Qolton.
“Io non russo.” chiarì la donna e, assumendo un’aria corrucciata, sfidò gli amici a contraddirla limitandosi ad assottigliare le palpebre.
Qolton e Utros si scambiarono un’occhiata fugace, poi tornarono a fissarla ghignando.
“Io non russo!” reiterò imbronciata.
“Un po’ russi, invece. È come un morbido ronzio. Io lo trovo carino.” si intromise Reeven sorridendo, del tutto ignaro del cataclisma che avrebbe provocato con quella dichiarazione, pronunciata con tale sincerità da risultare quasi commovente.
Phyroe divenne viola dalla rabbia e strinse i pugni ringhiando: “Tu!”
I due uomini scoppiarono a ridere, pronti a godersi l’ennesimo pestaggio violento di cui il biondo sarebbe stato vittima, e non dovettero attendere troppo.
Phyroe si scagliò su Reeven, che resistette all’assalto come un vero uomo, ossia rannicchiandosi in posizione fetale pregando che gli venisse risparmiata la vita. 
“Brutto cervello di gallina! Dovrei strapparti le corde vocali una volta per tutte! Te le sciolgo con l’acido e le riduco in poltiglia!” sbraitava la donna, mentre prendeva a calci l’impavido che aveva osato dire che russava.
Nell assisté alla scena con gli occhi fuori dalle orbite, chiedendosi che diamine stesse succedendo. Allo stesso tempo arrivò alla conclusione che, per salvaguardare la propria incolumità, non avrebbe mai dovuto offendere Phyroe. Provò un po’ di compassione per Reeven, però ammise che era esilarante osservare una ragazza picchiare una montagna di muscoli alta quasi due metri. Così se ne rimase in disparte con Qolton e Utros, che, a turno, incoraggiavano Reeven a reagire e Phyroe a darci dentro più forte.
“Phy-Phyroe, asp-aspetta! A me piaci quando ru-ahi!”
“Io non russo!”
“Va bene, va bene, hai ragione tu! Non russi, stavo scherzando!”
“Idiota! Stupido… sacco di pulci!”
“Mi fai maleee!”
“Voglio farti male!”
“Perdonooo!”
Phyroe fece una pausa per riprendere fiato, il respiro che si condensava in piccole nuvolette davanti al viso livido e deformato dall’ira, i pugni stretti lungo i fianchi.
“E se proprio vuoi saperlo, hai il sedere moscio.” sibilò cattiva, restituendogli pan per focaccia.
Reeven si tirò su di scatto, palesemente oltraggiato come ogni volta che qualcuno diceva qualcosa di poco gentile sul suo posteriore. 
“Non è vero!”
“Oh, sì. Hai il sedere moscio.”
Il biondo guardò in direzione degli amici in cerca di sostegno, ma quelli scossero il capo. Quindi chiese silenziosamente aiuto a Nell, il quale lo fissò con un sopracciglio inarcato e un sorriso divertito.
“Ho il sedere moscio?” gli chiese titubante.
“Non sono un esperto.” rispose il ragazzino a disagio, sviando la domanda.
“Ma secondo te-”
“Basta parlare di culi, sto gelando.” li interruppe Utros, sfregandosi le mani intorpidite, “Se ci sbrighiamo, arriveremo a Wanderwald prima di pranzo. Dai, Reeven, in piedi.”
“Io non ho il sedere moscio…” farfugliò piccato, ma comunque obbedì.
Raggiunsero il villaggio che il sole era alto. La strada principale era gremita di bancarelle e carretti ricolmi di cibo e pellicce, ma i cinque optarono per rifugiarsi in una locanda senza stare troppo a gingillarsi: avevano fame, freddo e sonno. Ne scovarono una abbastanza accogliente in una viuzza laterale. L’insegna riportava “L’allegro porcaro”, completo di un altorilievo che raffigurava un maiale con due boccali di birra tra gli zoccoli. A quella vista, tutti si sentirono ispirati e alquanto fiduciosi. 
Fecero il loro ingresso in una stanza grande il giusto per ospitare almeno una trentina di persone, riscaldata dal fuoco che ardeva in un grosso camino sulla parete est, vicino al quale sonnecchiava un grosso cane dal pelo fulvo. I tavoli erano stati disposti a ridosso dei muri restanti e un paio si trovavano in mezzo alla stanza, gli unici ancora liberi. Reeven ne occupò uno in un baleno, facendo cenno a Nell di sedersi alla sua destra, battendo la mano sul legno con fanciullesca aspettativa. Il ragazzino si avvicinò sorridendo, ma all’ultimo secondo virò verso sinistra, circumnavigò il tavolo e si accomodò dalla parte opposta. Reeven lo fissò a bocca aperta, il tradimento stampato in faccia. Utros ridacchiò e prese posto di fianco al biondo, mentre Phyroe e Qolton si sedettero ai lati di Nell. 
Poco dopo, una donna vestita con un abito di lana sottile e un grembiule sporco di unto li raggiunse. Era più larga di un otre di vino, le guance sembravano due mele mature e tra le labbra presentava due file di denti storti. Scandagliò i loro abiti con i suoi occhi porcini, forse valutando se erano in grado di pagare.
“Che visione celestiale.” sussurrò Utros, dando una gomitata sulle costole a Reeven.
Il ladro aveva già la battuta pronta, ma fu costretto ad ingoiarla all’arrivo della donna.
“Salve, è una gioia avere dei forestieri nella mia locanda. Vi porto un po’ di birra? La fa mio marito.”
“Sì, grazie. Avete da mangiare?” le chiese Qolton.
“Ho lo stufato di cinghiale in caldo.”
“Uno per me.”
“Mi aggrego.” Utros alzò la mano.
“Anche per me.” gli fece eco Reeven, “Possibilmente doppio.”
“Certo, splendore.” ammiccò civettuola.
Utros soffocò una risata, riuscendo a camuffarla per miracolo dietro un piccolo attacco di tosse.
“Io sono a posto così.” disse Nell.
“A me basta un po’ di pane e formaggio.” mugugnò Phyroe strascicando le parole, stremata dalla marcia e dal freddo.
“Perfetto, torno subito con le birre.”
La matrona se ne andò ancheggiando, ma non prima di aver lanciato una lunga occhiata carica di sottintesi a Reeven, il quale non seppe come rispondere se non abbozzando un sorrisino timido e incerto. Utros si disfò di ogni freno inibitore e rise di pancia come rare volte gli era successo.
“Dei, Reeven! Viaggiare con te è uno spasso.”
“Ma che ho fatto?”
“Lascia perdere.”
“Per favore, non facciamoci riconoscere. Non si sa mai chi ci sta ascoltando.” li sedò Qolton, squadrandoli con cipiglio ammonitore.
“Guastafeste.”
Attesero le ordinazioni e, una volta davanti ai loro piatti fumanti, ci si fiondarono come se non vedessero del cibo da mesi. Solo Nell mantenne una sorta di contegno, sorseggiando la sua birra come un giovane Lord. Reeven se ne accorse e si accigliò.
“Dove hai imparato?”
Nell si ridestò e guardò confuso l’altro, che si affrettò a ripetere.
“Dicevo, dove hai imparato a bere in modo tanto raffinato? Sei stato al servizio di un nobile?”
Il ragazzino parve sulle spine. Posò il boccale sul tavolo e si strofinò le mani sulle cosce, cercando di nascondere il nervosismo.
“Uhm, una cosa del genere.”
“In che senso?”
“Reeven, piantala. Mangia e sta’ zitto.” lo rimproverò Qolton.
“Sì, Reeven, piantala.” si lamentò Phyroe, “Non ne posso più di sentirti parlare, ho la testa che mi scoppia. Non hai chiuso bocca un minuto durante le ultime ore. Taci.”

“Sì, Reeven, piantala.” la scimmiottò con voce acuta e petulante, condita da una smorfia buffa che suscitò in Nell una risatina.
Ma presto il biondino si distrasse, cullato dal brusio di sottofondo degli altri avventori della locanda. Spaziò con lo sguardo per la stanza, soffermandosi ad osservare la testa di cervo impagliata appesa sopra la porta d’ingresso. Poi, ad un tratto, la sua attenzione venne attirata da ciò che disse uno degli ospiti, seduto a un tavolo alla sua sinistra in compagnia di quelli che sembravano cacciatori, a giudicare dal loro abbigliamento e dagli archi e le faretre abbandonati lungo il muro.
“Vi dico che ci sarà una guerra. Giungerà fino alla capitale, garantito.”
“Siamo in pace da due secoli, non dire fesserie.” lo sbeffeggiò un compare, lisciandosi i folti baffi grigi.
“Ho sentito che Dunaster sta radunando le truppe. Me lo ha detto un amico originario di lì, l’ho incontrato una settimana fa mentre tornavo a Wanderwald.” insisté l’altro, “Pare che re Sylas voglia ampliare il suo regno. La prima tappa sarà Ashra.”
“Ashra appartiene a Teruyn. Se la invade, allora sì che scoppierà la guerra.”
Un altro intervenne: “Non capisco. Re Sylas si è sempre attenuto al trattato di pace, perché adesso dovrebbe espandersi? Il suo è un regno fiorente, il commercio va bene, che bisogno c’è?”
“Il mio amico non me lo ha saputo dire. Mi ha soltanto rivelato che la situazione è parecchio tesa e sarebbe meglio tenere le orecchie ben aperte. Si vocifera di una leva obbligatoria. Ma la cosa inquietante è che, in caso di una vera guerra, Dunaster risulterebbe in vantaggio: hanno armi che il nostro amato sovrano si sogna! Finiremmo schiacciati dalla loro forza.”
“Sono tutte storie campate in aria, Cordan. Se davvero ci fosse pericolo, avremmo già udito un proclama reale.”
“Mah, sarà. Però dovete ammettere che le scorribande sul confine sono aumentate.”
“Sì, ecco, questo è strano. Dove sono le pattuglie?”
“Stanno depredando villaggi interi e nessuno fa niente. Qui a Wanderwald non abbiamo mura che possano proteggerci, sono preoccupato.”
“Non essere allarmista, vedrai che il trambusto si placherà.”
“Non lo so. E poi questo mio amico mi ha parlato di una cosa…” bisbigliò, sporgendosi verso i compagni con aria cospiratrice.
“Che cosa?”
“Ha detto che un suo conoscente, che lavora al palazzo di re Sylas, ha sentito due guardie blaterare qualcosa su un occhio.”
“Un occhio. Cioè?”
“Boh, non ho capito. Ma ha detto che questo conoscente gli ha detto che le guardie erano piuttosto agitate.”
“Tutte sciocchezze.” sentenziò lapidario il tizio con i baffi, “È chiaro che il tuo amico voleva solo spaventarti. Figuriamoci! Una guerra? Un occhio?” scosse la testa e sorrise indulgente.
“Nell? Nell, ci sei?”
Nell si girò verso Reeven e annuì, continuando a origliare la conversazione del tavolo accanto.
“Che hai? Sei stanco?”
“Sto bene, tranquillo.”
“A cosa pensi?”
Il ragazzino non rispose. Il suo cervello lavorava a pieno ritmo per tentare di capire da dove scaturiva l’angoscia che all’improvviso gli aveva artigliato lo stomaco. Avevano menzionato un occhio. Cosa intendevano?
“Ah, ecco com’era! Aveva un nome strano, per questo me l’ero dimenticato. Il mio amico ha detto che il suo conoscente gli ha riferito che quelle guardie discutevano dell’Occhio di Xion. Non chiedetemi cosa sia. Non so voi, ma il solo nominarlo mi fa venire i brividi.”
“Che sia un’arma?”
Nell sbuffò e smise di ascoltare. Era a conoscenza della situazione nel regno di Dunaster, ci era dovuto passare per delle ricerche. In effetti, si era imbattuto sia all’andata che al ritorno in bande di briganti lasciate libere di scorrazzare impunemente, per fortuna non lo avevano notato. Nella capitale, poi, si respirava un’atmosfera cupa da cimitero. Ricordava che appena arrivato si era stupito del mortorio, strano per una città popolosa come Dun’har. Persino le ville dei nobili apparivano in rovina, abbandonate alle intemperie, senza che nessuno se ne prendesse cura. Quel panorama, oltre che destabilizzarlo, gli aveva trasmesso una grande tristezza, tanto che, se si fosse trattenuto a lungo, non aveva dubbi che sarebbe finito come gli abitanti che aveva incrociato per strada: visi smunti e pallidi, movenze nervose e grugno onnipresente.
Da quando era partito dalla valle di Mesil, aveva avuto occasione di osservare varie realtà e conoscere il mondo che per anni aveva ignorato. Aveva assistito a rivolte in piazza, distruzioni di villaggi di campagna, proteste per il prezzo del grano e anche una battaglia tra due baroni rivali, che si era conclusa con la morte di due terzi dei loro poveri eserciti e una stretta di mano. Se non errava, di mezzo c’era la figlia di uno dei due baroni che aveva una tresca con il nipote dell’altro. Tuttavia, non gli erano sfuggiti i sempre più frequenti episodi di violenza, specialmente a Dunaster e dintorni. In quel regno stava accadendo qualcosa e si ritrovò a sperare che, di qualsiasi scaramuccia si trattasse, non arrivasse a bussare alle porte di gente innocente.
“Nell.” lo chiamò Qolton, scrutandolo in tralice.
Nell sussultò e si ricompose in un attimo.
“Sto bene, scusatemi. Sono solo in apprensione per mio marito. Non sapere dove sia, se è vivo e in salute oppure in punto di morte mi mette ansia.”
“Mi dispiace per quello che stai passando, ma sappi che, se lo vorrai, ti aiuteremo.” rispose il moro, stirando le labbra carnose in un sorriso cordiale.
“Vi ringrazio.”
“D’accordo, io direi di riposare un paio d’ore.” propose Utros, battendo la mano sulla pancia piena.
“No, un’ora sarà più che sufficiente per recuperare le forze. Dobbiamo raggiungere un altro villaggio entro notte se non vogliamo di nuovo dormire all’addiaccio in mezzo alla neve.” replicò Qolton, pragmatico.
Tutti assentirono. Reeven si stiracchiò soddisfatto e sbadigliò, facendo sbuffare esasperati i compagni. Quindi posò la fronte sul tavolo e in pochi secondi si addormentò profondamente. Utros lo guardò con ammirazione.
“Non so ancora come ci riesce. Quanto lo invidio.”
“Posso fare io la guardia, voi riposate pure.” disse Nell.
“Sei gentile, ma non mi sembra giusto approfittarci così di te. Non sei stanco?”
“Soffro d’insonnia. Davvero, non c’è problema. Se può mettervi il cuore in pace, vi prometto che, nel caso in cui mi capitasse di avvertire il bisogno di riposare, sveglierò uno di voi per darmi il cambio.”
“Va bene. Grazie, Nell. Partiamo tra un’ora.”
Nell annuì e prese a dondolare le gambe, mentre rifletteva su come sconfiggere la noia. Non dovette faticare molto a trovare un modo per distrarsi, perché un istante più tardi il volto di Ysril reclamò la sua attenzione. Per l’ora seguente permise ai pensieri di naufragare e si crogiolò nei ricordi di un passato lontano, un passato che forse era perso per sempre, ma che in qualche maniera riusciva ogni volta a consolarlo, a trasformare le tinte oscure della sua esistenza in colori vivaci e caldi. Condusse una mano al petto e strinse il medaglione.
Ysril, se mi senti, sappi che sto arrivando.









 

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Capitolo 4
*** Le catene dell'anima ***








 

Phyroe osservò con aria torva fuori dalla tenda in cui lei e i suoi compagni erano stati imprigionati, rodendosi il fegato alla vista di due banditi che si spartivano con ghigni grotteschi il suo prezioso oro. Poteva sentirli ridacchiare festosi mentre affondavano le mani nelle borse, estraendone gioielli, gemme e monete, tutto ciò che il suo gruppo aveva conservato dall’ultimo furto nella capitale.
Digrignò i denti e promise che, non appena fosse riuscita a liberarsi, avrebbe sciolto le loro brutte facce con l’acido e recuperato il bottino. Lì in mezzo c’era pure la parte di Reeven, rimasta intoccata fino a quel momento. 
Occhieggiò in direzione del biondo, riverso a terra privo di sensi a un paio di metri di distanza, e avvertì montare un forte impulso omicida. Se non fosse stato per quell’idiota, non sarebbero mai stati catturati dai briganti e incatenati a dei pali robusti nel loro accampamento. La sua frustrazione crebbe di nuovo a dismisura quando, nel tentativo di assestare a Reeven un calcio per sfogare la rabbia, si rese conto ancora una volta di essere troppo lontana. Così il suo piede sbatté al suolo e smosse la polvere, mancando di molto il bersaglio.
Il profumo di carne arrosto le stuzzicò le narici e le fece gorgogliare lo stomaco per la fame. Non mangiava dalla sera prima ed era già tanto che non le fossero venuti i crampi. In compenso le doleva il posteriore per essere rimasta a lungo seduta, e i polsi le spedivano fitte a intermittenza, intrecciati com’erano dietro la schiena così da costringerla in una posizione scomoda. Aveva anche la gola secca, cosa non avrebbe fatto per un sorso d’acqua. E tutto per colpa di Reeven, ci teneva a ribadirlo. Se solo non si fosse fatto fregare come un novellino…

Erano trascorse tre settimane da quando si erano messi in viaggio, ventidue giorni da quando avevano lasciato Wanderwald. Adesso si trovavano nella parte est del regno di Dunaster, percorso obbligato se volevano raggiungere il nord in fretta. Sarebbe stato ancora più veloce se fossero passati da Dun’har, ma con le notizie che correvano circa una guerra imminente non sarebbe stata una mossa saggia: l’esercito era all’erta e batteva il territorio circostante alla capitale in cerca di spie nemiche o persone sospette. Così avevano girato attorno alla città, mantenendosi ad almeno dieci miglia di distanza e rigorosamente coperti dalla boscaglia, in modo da non rischiare di incappare nei soldati di ronda e nei banditi che scorrazzavano nei villaggi e sulle colline. Purtroppo non avevano avuto scelta, Dunaster era troppo grande per essere circumnavigato in tempi ragionevoli. Perciò, per forza di cose, dovevano attraversarlo in direzione est e, infine, virare a nord. 
Se avessero proseguito in linea retta verso nord-est, si sarebbero scontrati con i monti Lerisa, per lo più impraticabili, senza contare che attraversarli a piedi avrebbe potuto richiedere più di un mese. Inoltre, c’era solo una strada che li tagliava da parte a parte e spesso veniva battuta dalle pattuglie di confine di Dunaster. Fino a pochi anni prima ciò non sarebbe stato un ostacolo, ma di recente, a giudicare dalle chiacchiere nelle locande, i soldati si erano fatti più severi e privi di scrupoli, quasi che con la guerra alle porte si sentissero autorizzati a compiere razzie e omicidi o dedicarsi a traffici clandestini di esseri umani, tanto che tra loro e i banditi non v’era più alcuna differenza, eccezion fatta per l’abbigliamento. Quindi ora erano diventati famosi per non permettere il passaggio a nessuno che non fossero i nobili provenienti da Dun’har, i quali trasportavano nelle valige abbastanza oro da tenerli buoni, mentre tutti gli altri venivano fatti prigionieri e venduti come schiavi, se andava bene. 
Seguendo il loro itinerario, invece, sarebbero arrivati sì ai piedi dei monti Lerisa, ma in un punto più basso a est, circondato da una pianura deserta e arida, dove nemmeno gli animali si avventuravano, figuriamoci gli uomini. L’ultimo avamposto di Dunaster distava esattamente tre miglia e mezzo a ovest da quella zona. Da lì, stando ai programmi, Qolton, Utros e Phyroe si sarebbero recati a Durandel, situata ancora più a oriente, mentre Reeven e Nell avrebbero proseguito oltre, verso nord. Peccato che oltre non ci fosse un bel niente. Nessuno di loro aveva mai sentito parlare di un regno o una città abitata all’estremo nord-est, il terreno laggiù era morto e non cresceva nulla. Quindi, se non avessero fatto provviste, sarebbero schiattati durante il tragitto. Perché rischiare tanto? Davvero Nell era disposto ad andare incontro alla morte per ritrovare il marito? Tanta devozione meritava un encomio.
Riflettendo su questo e altro, Phyroe trasse un lungo respiro e lasciò che il freddo le invadesse i polmoni, allentando il nodo d’ansia che le stritolava il petto da quando erano partiti. Si chinò, raccolse un ramoscello, lo aggiunse alla pila che teneva tra le braccia e, appena si tirò di nuovo su, piegò le labbra in una smorfia. Le tempie pulsarono in risposta al brusco movimento e imprecò mentalmente contro il suo stupido corpo, avendo riconosciuto nei dolori lombari le avvisaglie del ciclo mestruale. Questione di un’ora o due al massimo e avrebbe avuto bisogno di panni puliti con cui lavarsi. Come se non avesse già abbastanza problemi. 
Quella mattina, poi, si era svegliata con un leggero mal di testa che l’aveva resa di cattivo umore. Così, per non rompere troppo le scatole agli altri, si era allontanata dalla radura in cui si erano accampati con la scusa di fare incetta di legna. In realtà, voleva solo un po’ di spazio per pensare. 
Si annusò i vestiti e arricciò il naso. Da quanto non si faceva un bagno? Necessitava di abiti nuovi, una bella dormita e del cibo che non fosse selvaggina o bacche. 
Era in tali frangenti che avvertiva la mancanza di Suna. Quando era entrata nella sua banda aveva quindici anni, nient’altro che una ragazzina che somigliava più a un maschiaccio che a una fanciulla. A guardarla sembrava un bambino troppo cresciuto, alto e scheletrico, dai lineamenti spigolosi, gli zigomi pronunciati, le labbra sottili e gli occhi scuri come pozzi di catrame, circondati dal classico alone violaceo di chi soffre d’insonnia. I capelli erano una massa spettinata color sangue secco, tagliati corti affinché non la scambiassero per una femmina nemmeno per sbaglio: in tal modo nessun uomo tentava di avvicinarla per divertirsi un po’ e lei poteva vivere tranquilla. 
A quei tempi era rimasta orfana da poco, senza una casa e senza un soldo. Era sola, spaesata, impaurita e ferita nell’animo. Se Suna non l’avesse avvicinata al mercato regalandole due mele, sicuramente sarebbe finita a vendersi in qualche bordello. Suna l’aveva presa con sé, l’aveva salvata e cresciuta, e da quel giorno per Phyroe non era esistito nessun altro. 
Il ladro non le aveva mai nascosto ciò che faceva per vivere e a lei non era mai pesato abbassarsi a diventare un criminale. Meglio di niente, di certo meglio che prostituirsi. Suna l’aveva sempre trattata come una figlia, insegnandole a lottare e a trovare la sua vocazione, che poi si era scoperto essere la creazione di veleni. Gli doveva molto, gli doveva la vita, e forse non si sarebbe mai sdebitata abbastanza. Le dispiaceva che fosse partito e il pensiero che in quel momento stesse abbracciando la sua vera famiglia le provocava una fitta al petto.
Chiuse gli occhi ed emise un lamento carico di sconforto, poi si rimise in marcia tenendo d’occhio il sole per non perdersi tra gli alberi.
Compiuti alcuni passi, all’improvviso le parve di scorgere Reeven in lontananza. Curiosa, aguzzò la vista e si avvicinò di soppiatto, attenta a non fare rumore dati i sensi sviluppati del biondo. Quando raggiunse la distanza ottimale, né troppo vicina da essere localizzata, né troppo lontana da non capire cosa stesse succedendo, osservò meglio.
Reeven era al limitare di uno spiazzo erboso, nascosto dietro un albero robusto. Al centro dello spiazzo c’era un laghetto, in cui Nell si stava facendo il bagno. L’acqua sprigionava sottili volute di fumo e Phyroe capì che si trattava di una vasca termale. Se non fosse stato per la presenza di Reeven, si sarebbe spogliata e buttata lì dentro senza pensarci due volte. Che fortuna incappare in una vasca termale proprio lì, pareva un segno del destino. Oppure qualche divinità aveva avuto pietà di lei e le aveva concesso un dono.
Tornò a concentrarsi su Reeven e notò che c’era qualcosa di strano nella sua postura. Assottigliò le palpebre, aggrottò le sopracciglia e, un attimo dopo, sbarrò gli occhi sgomenta, la mascella che quasi toccava terra.
Reeven si stava masturbando. Nel frattempo, Nell sguazzava nel laghetto, ignaro di tutto.
Fissò allibita la scena. Non era una ragazza pudica, però ci teneva a un minimo di senso della decenza, concetto totalmente alieno a uno come Reeven. Impossibilitata a lasciar perdere - certi atteggiamenti proprio non li digeriva - lo raggiunse a passo di marcia, calpestando il suolo con foga per farsi udire. L’altro si voltò di tre quarti e le lanciò un’occhiata perplessa.
“Buongiorno. Già sveglia?”
“Che stai facendo?!” lo aggredì senza tanti giri di parole.
“Niente. Perché?”
Phyroe gli si parò di fronte e vide che i pantaloni erano chiusi. Sì, c’era una bella erezione compressa lì dentro, ma la situazione non era tragica come aveva pensato.
“Ti stai toccando mentre guardi Nell fare il bagno? Che sei, un pervertito? Ah, no, scusa, certo che lo sei.” sbuffò sarcastica.
“Come puoi restare indifferente a un simile spettacolo?” chiese di rimando Reeven, gesticolando eloquentemente in direzione del biondino, non capendo dove fosse il problema, “E poi mi stavo appena accarezzando da sopra i pantaloni, non mi sarei mai fatto una sega all’aria aperta. Immagina se Nell mi vedesse! Non voglio che mi consideri un maniaco, come fai tu.”
“Tu sei un maniaco, Reeven. Forza, poche chiacchiere. Aiutami con la legna.”
“No. Io rimango a fare la guardia a Nell.”
“Sei davvero cocciuto! E pure monotono. Nell qui, Nell là, ma ti senti quando parli?”
Reeven schioccò la lingua spazientito e la fronteggiò, pronto a difendere il suo Nell, quando a un tratto inspirò profondamente. Phyroe vide le sue narici dilatarsi come quelle di un animale.
“Oh, ho capito.” disse annoiato.
“Che cosa?”
“Hai il ciclo.”
Phyroe divenne rossa di rabbia e gli assestò un pugno in mezzo al torace.
“Senti, torna dagli altri e riposati. Sei troppo nervosa.” la blandì.
“Non venirmi a dire quello che devo fare!” sbottò inviperita, dopodiché le venne un’idea.
Posò la legna vicino al tronco a cui era appoggiato il compagno e corse verso il laghetto termale, lasciandosi dietro un Reeven basito e pervaso da un brutto presentimento.
“Nell! Reeven ti sta spiando! E si sta anche masturbando! L’ho visto io!” gridò.
Reeven partì alla carica come un toro, placcò la ragazza e se la caricò in spalla con una mossa fluida, senza grande sforzo e sordo alle sue accese proteste.
“Cosa?!” urlò di rimando Nell, sussultando per la sorpresa. 
Non aveva colto il messaggio, distratto dal torpore dei muscoli e intontito dal piacevole calore dell’acqua. Reeven ringraziò in silenzio la sua buona stella.
“Niente, fai pure con calma!” rispose con un sorriso, “Phyroe se ne stava andando. Anzi, la riaccompagno da Qolton e Utros, si sente poco bene.”
“Oh, certo. A dopo!”
Reeven gli diede le spalle e riguadagnò la boscaglia con ampie falcate, ignorando i pugni e i calci dell’amica. La mise giù con malgarbo quando si fu assicurato di essere abbastanza lontano e la fissò scocciato.
“Che ti prende?”
“Ti odio.” ringhiò imbronciata.
“Che, tradotto, vuol dire ‘ti amo, Reeven, sei il mio dolce tesorino’. Andiamo, Phy, non è la prima volta che mi becchi in momenti, diciamo, intimi. Cosa c’è che non va?”
Phyroe si portò con un gesto brusco una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio e prese un paio di boccate di ossigeno per calmarsi.
“Sono di cattivo umore.” soffiò stanca.
“Ovvio, hai il ciclo.”
“Non è solo questo. È da ieri che ho la sensazione di essere seguita.”
“Seguita?”
Reeven si concentrò e sondò con i sensi all’erta la zona circostante.
“Non c’è nessuno, almeno non nelle vicinanze.”
La ragazza si morse il labbro e fece saettare lo sguardo ovunque, alla ricerca di qualche dettaglio che avvalorasse la sua affermazione. Vide un nido su uno dei rami più alti di una quercia e udì il cinguettio degli uccelli, ma per il resto sembrava davvero tutto tranquillo.
“Coraggio, torna dagli altri. La legna la porto io.” disse gentile, carezzandole il braccio.
“No, è compito mio. Vado a prenderla.”
“Hey, guarda lì!” esclamò il biondo, indicando alla loro sinistra.
“Dove?”
“Lì. Una trappola per conigli. Ce n’è uno dentro.” spiegò emozionato, “Colazione!” cantilenò incamminandosi.
Phyroe non fece in tempo a fermarlo, che Reeven si era già inoltrato in mezzo agli alberi ed era scomparso tra i cespugli. Lo maledì e imprecò a denti stretti, lanciandosi al suo inseguimento. Ma arrivò troppo tardi.
Non appena fu a una decina di passi da Reeven, che era riverso al suolo con un dardo colorato conficcato nel collo, due uomini ben piazzati, con la faccia celata per metà da un fazzoletto nero, sbucarono dal nulla e le piombarono addosso, uno per lato. L’atterrarono in pochi attimi, senza darle la possibilità di reagire, la disarmarono e le legarono i polsi dietro la schiena. Infine le sferrarono un colpo secco sulla nuca e il buio calò su di lei.


Quando si era ridestata nella tenda, aveva scoperto che anche Nell, Qolton e Utros erano stati catturati. Nell non presentava ferite da difesa, solo qualche livido superficiale, ma gli altri due erano pieni di graffi ed escoriazioni, segno che avevano lottato prima di soccombere.
Phyroe si divincolò, riprovò a torcere i polsi per sfilarli dalle catene, invano. L’unico effetto fu ricominciare a sudare, irritare la pelle e innervosirsi di più. Per non parlare del suo piccolo problemino da donna, che proprio quel giorno aveva ben pensato di riproporsi, puntuale come ogni mese, peggiorando il suo umore. Percepiva il sangue caldo colarle tra le cosce e quella sensazione gli provocò un conato di vomito. Aveva bisogno di lavarsi, pulirsi e cambiarsi i pantaloni, ma legata com’era non poteva farlo. E mai si sarebbe abbassata a chiedere a quei banditi di concederle quel favore, non voleva mostrarsi debole davanti a degli uomini. Uomini che per giunta, fin da quando era stata trascinata al loro campo, non le avevano tolto gli occhi di dosso, guardandola con lussuria e orribili sorrisetti. Aveva il presentimento che se fosse rimasta lì, entro l’alba avrebbe perduto la verginità, oltre che la dignità.
Sbirciò attraverso lo spiraglio lasciato dai lembi della tenda e notò che il cielo aveva assunto un colore rossastro, segno che ormai il sole stava tramontando. Ciò voleva dire una lauta cena per i banditi, seguita da una bella dose di divertimento con le signorine fatte prigioniere. E magari anche qualche ragazzo per chi aveva altri gusti: non le erano sfuggiti gli sguardi interessati di almeno tre di quei manigoldi indirizzati a Nell.
Passò in rassegna gli occupanti della tenda, a partire proprio dal ragazzino, che fissava immobile le ginocchia, muto come un pesce. La sua espressione era neutra, non v’era alcuna traccia di emozione sul suo viso di porcellana, sporco di terra giusto un pochino sul mento e sulla guancia destra. I capelli erano arruffati, ma mantenevano la lucentezza naturale che li caratterizzava, e ricadevano in avanti, sulle spalle e sulle clavicole. Phyroe si immaginò i banditi mentre lo usavano per soddisfare i loro desideri e lo stomaco le si contorse in maniera dolorosa, nauseandola fino a farle lacrimare gli occhi.
Distolse l’attenzione, ricacciando indietro quell’orrenda fantasia, e la spostò su Utros, seduto alla sinistra di Nell. Tra tutti pareva il più tranquillo. Faceva concorrenza a Nell in quanto espressività, però la sua posa era molto più rilassata, come se non provasse inquietudine circa il suo futuro, né rabbia per la cattura e il furto dei loro averi. Phyroe non sapeva ancora decifrare i suoi atteggiamenti, certe volte la disorientava. Contemplò i ricci castani che gli accarezzavano le orecchie, perfetti e soffici come una parrucca, quasi che i loro carcerieri non li avessero mai afferrati e strattonati con violenza. Studiò i tratti spigolosi ma armoniosi del volto, le labbra sottili spaccate sulla destra, il naso dritto e la mandibola leggermente squadrata, ornata da un bell’ematoma dovuto a un pugno. Era bello, Utros, di una bellezza particolare, che in principio passava inosservata, ma più la guardavi, più ne prendevi coscienza fino a non riuscire più a smettere. Ed era anche in gamba, un ragazzo dalle mille risorse. Tranne in quella circostanza, evidentemente, dato che le catene gli impedivano i movimenti e gli atrofizzavano i muscoli, rendendolo innocuo.
Le voci dei briganti la distrassero e la sua attenzione venne calamitata dai loro discorsi, che ascoltò senza battere ciglio. Poteva scorgere le loro sagome attraverso la pesante stoffa della tenda, poiché il fuoco vi disegnava sopra le loro ombre distorte.
“Guarda qui, Xan! Scommetto che sono veleni. Ho trovato questa borsa accanto al fuoco e queste altre fiale addosso alla ragazza. Stavolta la fortuna ci ha arriso!”
“Che te ne fai di tre boccette piene di liquido colorato? Molto meglio oro e gioielli. Queste due borse ne sono piene… e se avessimo catturato dei nobili in incognito? Potremmo guadagnare ancora di più chiedendo un riscatto. E guarda questo libro… è antico, potrebbe valere tanti soldi!”
“Il capo vuole che ce ne liberiamo il prima possibile. Oh, aspetta un attimo. Jenta, fa’ rosolare quell’arrosto!”
“Lascia perdere Jenta e contempla questa pietra. Non è splendida? Ha i riflessi dell’alba.”
“Uhm.”
“Come sarebbe a dire ‘uhm’? Hai visto forse qualcosa di più bello?”
“Beh, mio caro Xan, se solo tu avessi visto l’Occhio di Xion, butteresti via quella pietruzza che tieni in mano senza ripensamenti. Ti assicuro che non c’è paragone, da come me l’hanno descritta.”
“Questo nome non mi suona nuovo…”
“È una gemma rotonda, di un blu tanto scuro da sembrare nero. E non è soltanto bella, si dice che abbia dei poteri immensi! Uno dei soldati che abbiamo catturato la scorsa settimana - quello vecchio, ricordi? -, mentre lo torturavo mi ha rivelato che se ne erano perse le tracce per decenni. La famiglia che lo custodiva ha subito il furto dell’Occhio più di trent’anni fa e da allora non se n’erano più ricevute notizie. Ma l’anno scorso è ricomparso qui, a Dunaster, nella casa di un calzolaio, ci credi? Lo trovò un soldato di pattuglia, per puro caso: si dice che il calzolaio lo usasse come soprammobile. Assurdo, vero? Il soldato manifestò l’intenzione di comprarlo, ma il calzolaio rifiutò, così il soldato uccise il calzolaio e rubò l’Occhio di Xion.”
“Wrait, non mi interessa…”
“Dai, ora viene il bello. Il soldato aveva famiglia a Dun’har, quindi un bel giorno tornò a casa con la pietra magica. Salutò la moglie e i due figli, cenò, mise l’Occhio al sicuro nella cassapanca e andò a dormire. Per una settimana filò tutto liscio e nessuno si accorse di lui che, imbastendo pretesti su pretesti, sgattaiolava in camera da letto per aprire la cassapanca e accarezzare l’Occhio. Ma il giorno successivo venne beccato dal figlio più piccolo, di sette anni, che non solo vide la pietra, ma anche gli occhi del padre, diventati completamente neri. Il bambino scappò, ma tornò per cena, perché non sapeva dove andare. Il soldato, temendo che il figlio avesse spifferato qualcosa a qualcuno, uscì di senno: quella notte massacrò la moglie e il suo primogenito, mentre il piccolo si rifugiò per l’appunto nella camera dei genitori, dentro la cassapanca. Trovò l’Occhio, lo guardò e, chissà come, raccolse il coraggio e la forza per fuggire dalla finestra, un attimo prima che il padre facesse irruzione. Appena il bambino lasciò la sua casa, allontanandosi con l’Occhio, il soldato morì cadendo dalle scale. Il bambino corse a perdifiato e, nella sua ingenuità, si diresse verso il palazzo reale per chiedere aiuto. Schivò le guardie, attraversò di corsa i corridoi e in men che non si dica raggiunse la sala del trono, dove il nostro re stava disquisendo con alti dignitari. Gli si avvicinò e gli porse l’Occhio di Xion, supplicandolo di aiutarlo perché suo padre era impazzito. Ma il sovrano, nel momento in cui toccò la pietra, si disinteressò a tutto il resto. Vide soltanto una grande opportunità, ciò che aveva sognato da sempre poteva realizzarsi e non avrebbe atteso: Dunaster meritava di diventare il regno più potente di tutti e l’Occhio era proprio ciò che gli serviva. Fece uccidere immediatamente il bambino e i dignitari dalle guardie, riducendo tutti i testimoni al silenzio. Tuttavia, non era detto che il pargolo non avesse mostrato anche ad altri la pietra. Perciò cosa fare? Ed ecco che gli venne un’idea. Organizzò una festa e la mostrò alla popolazione, convincendoli che grazie ad essa Dunaster avrebbe conosciuto la gloria che gli spettava e che lui l’avrebbe custodita e sfruttata per il bene di tutti. Il resto è storia. Adesso sta organizzando un contingente di truppe da spedire ad Ashra, nel regno di Teruyn. Appena la invaderà, segnerà l’inizio ufficiale della guerra.”
“Quel soldato ha cantato come un usignolo, mi pare di capire. Re Sylas si è circondato di uomini valorosi e leali, eh?”
“Che vuoi farci, mi adorava! Si è pure pisciato nei pantaloni mentre parlava!”
Xan scoppiò in una risata rauca e sbatté la mano su una coscia: “Sei incredibile. Quindi questo Occhio di Xion esiste davvero. Ed è sul serio potente come dicono?”
“Di più. Ma ora è nelle mani del re, sembra che non se ne separi nemmeno quando dorme.”
“Beh, prima o poi il re morirà, no? È vecchio, quanti anni avrà? Ottanta?”
“Su per giù. Comunque, io e Jenta tireremo la corda presto, ne abbiamo già discusso col capo. Vogliamo andare a sud, dove la situazione è più tranquilla. Non vogliamo trovarci a dover combattere una guerra non nostra.”
“Oh, capisco.”
“Che c’è, sei triste?”
“Affatto.”
“Se vuoi venire con noi, sei il benvenuto. Sennò sappi che il capo andrà a ovest con quelli che desiderano rimanere, Ferenthyr è ancora una città sicura.”
“Ci penserò. Grazie per l’invito.”
“Di niente. Oh, ti va se dopo cena ce la spassiamo con la rossa? È un bel bocconcino, come se ne vedono pochi.”
“Che fai, mi leggi nel pensiero? Ci penso da stamattina!”
“D’accordo, testa o croce?”
“Testa.”
“Va bene. No, cavolo! Hai vinto tu.”
“Non preoccuparti, Wrait, più tardi ti dirò com’è stato.”
“Uffa. Jenta, gira quel maledetto arrosto! Ma sei sordo?!”
“Phyroe, stai bene?” chiese Qolton in un sussurro.
Phyroe si riscosse, rispose con un cenno del capo e lo ringraziò con una smorfia amara. Era pallida e spaventata, le sue membra tremavano nonostante tentasse di non darlo a vedere e la schiena lanciava fitte di protesta.
“Se dovesse presentarsi l’occasione di fuggire, la prima cosa che farai sarà gettarti una secchiata d’acqua addosso, capito?” aggiunse l’uomo in tono grave, scrutandola consapevole di ciò che le stava accadendo.
“Perché?” domandò lei, confusa.
“Devi lavare via il sangue dai vestiti per quanto possibile, potresti lasciare tracce. Ti ricordo che quelli là hanno tre segugi ben addestrati. Poi correrai verso il fiume che abbiamo costeggiato lungo la strada e ti immergerai fino al collo, lo guaderai fino alla sponda opposta e proseguirai veloce come il vento. L’acqua attenuerà il tuo odore.”
“E dovrei lasciarvi indietro?” 
“Sì. Anzi, ti chiedo di portare Nell con te. Siete i più giovani, meritate di sopravvivere.”
“Ma…”
“Non stare in ansia per noi, abbiamo Reeven. Appena si sveglierà, ci sarà un bagno di sangue.” ghignò cattivo, fremendo di anticipazione, ma subito dopo si corresse, “Oh, perdona il gioco di parole. Per te non dev’essere facile trovarti letteralmente in un bagno di-”
“Non completare la frase.” sbottò cupa, tutto quel parlare di sangue l’aveva fatta concentrare su quello che le imbrattava le cosce e i calzoni e la nausea era risalita, “Piuttosto, cosa ne facciamo di loro?” disse, indicando le due ragazze che se ne stavano rannicchiate e tremanti vicino all’entrata della tenda.
Erano molto giovani, forse tra i tredici e i quattordici anni, e a giudicare dalla loro somiglianza dovevano essere sorelle. Non avevano ancora aperto bocca, se ne erano rimaste zitte per tutto il tempo, rintanate nel loro angolino, una vicina all’altra, a squadrarli intimorite. I loro visi erano sporchi di terra e lacrime, i capelli lunghi, mossi e castani erano incrostati di fango e i loro vestiti apparivano laceri in più punti. Avevano i piedi scalzi e le gambe nude, e Phyroe pensò che tremassero per il freddo, non avevano smesso un attimo da quando erano giunti lì. Il clima era mite in quella zona, ma la notte la temperatura si abbassava parecchio, tanto che provò un moto di compassione per loro. 
Fu allora che colse di sfuggita delle tracce di sangue e sperma nell’interno coscia della sorella più grande. Abbassò subito lo sguardo e si costrinse a inspirare ed espirare a ritmo regolare.
“Le liberemo e, se ce ne sarà modo, faremo loro da scorta fino al villaggio più vicino. Altrimenti se la caveranno da sole e se saranno fortunate raggiungeranno casa incolumi. Non possiamo perdere tempo dietro a due ragazzine, per quanto giovani e indifese.” mormorò Qolton, sentendosi un po’ in colpa.
Phyroe le osservò con la coda dell’occhio e intercettò lo sguardo disperato della sorella più piccola. Quelle iridi color ambra la inchiodarono sul posto e smossero qualcosa in lei, un istinto potente e naturale che non credeva di possedere.
“Le porto con me. Scapperemo, io, Nell e loro due. Se dovessero rallentarci, ce le caricheremo sulle spalle.” sancì decisa e si girò verso Qolton, riservandogli un’occhiata infuocata che avrebbe ammutolito chiunque.
“Sono d’accordo.” si intromise Nell con voce pacata, stupendoli tutti, “Non le abbandoneremo, sono vittime quanto lo siamo noi. In più, come hai detto tu, Qolton, sono indifese, verrebbero sopraffatte dai nemici in pochi secondi.”
“E dove vorreste portarle, mh?” lo sfidò il moro.
“Cercheremo un villaggio sulla mappa e le lasceremo lì.”
“Davvero pensi che saranno al sicuro?”
“No, ma sempre meglio che consegnarle direttamente nelle braccia della morte.”
“Bah, come volete. State attenti.” sbuffò arreso, poi fissò con astio Reeven, “Se quest’imbecille si decidesse ad aprire gli occhi, daremmo inizio adesso alle danze. Invece guarda come dorme beato!”
“Dai, Qolton, non puoi biasimarlo. È stato colpito da un dardo avvelenato, non pretenderai che si rialzi arzillo e pimpante prima di aver smaltito l’effetto!” lo difese Utros, parlando per la prima volta.
“Uhm. Mi ricorda quando la nostra Phyroe lo usò come cavia per quell’intruglio che provocava una morte apparente.” sorrise divertito e ammiccò alla ragazza, che levò gli occhi al cielo.
“Ah, sì! Rimase immobile per tre giorni, senza battito e pallido come un cadavere.” ridacchiò Utros.
“Avevo sbagliato le dosi, era un esperimento!” borbottò indispettita Phyroe, rammentando la sfuriata di Suna, che se l’era presa con lei per aver messo fuori gioco un membro fondamentale della banda.
“E quando rinsavì, confessò il proprio amore a Phyroe!” continuò il riccio.
“All’epoca sapevamo già che Reeven avesse qualche rotella fuori posto, non fu una sorpresa.”
“Piantatela e aiutatemi a svegliarlo. Qolton, dato che sei il più vicino, picchialo.” lo esortò la ragazza, una luce sadica nelle iridi nere come l’inchiostro.
Qolton esalò un sospiro frustrato, si contorse per posizionarsi meglio e sferrò un calcio sulla faccia di Reeven, mandandolo a pancia in su. Il biondo mugugnò appena, ma non si mosse. Ricevette altre due percosse, prima di sbarrare le palpebre sul soffitto della tenda con l’aria di un ubriaco che aveva scoperto di non trovarsi nel proprio letto. Lo stordimento dovuto al veleno gli annebbiava i sensi, distorcendo la realtà e rendendogli perciò difficile distinguere i contorni di cose e persone. Gli occorsero parecchi minuti per riaversi del tutto e il ritorno al presente non fu dei più felici.
“Che…? Ma che…? Cosa…” balbettò frastornato con una smorfia, cercando di muovere gli arti indolenziti, per poi rendersi conto di averli assicurati a delle catene.
“Reeven, riprenditi. Ci servi al massimo delle tue forze.” lo incitò Qolton, studiando accigliato le sue condizioni.
“Che è successo? Dei, la testa mi scoppia… ricordo un coniglio…”
“I briganti ci hanno assaliti e siamo stati catturati.”
“Ah. E il coniglio?”
“Che te ne frega del coniglio!” sibilò Phyroe seccata.
“Ci hanno colti di sorpresa stamattina. Il sole è tramontato da poco.” spiegò paziente Qolton.
“Ricevuto. Datemi solo un altro paio di minuti. Mi sento come se un mandria di cavalli mi fosse passata sopra.”
“Sbrigati.”
“Ahi. Mi fanno male i muscoli.”
“È tutta colpa tua. Ma cos’hai nel cervello, segatura?” lo accusò Phyroe. 
“Non è vero, è colpa del coniglio!”
“Reeven, dimentica il coniglio e concentrati. Ce la fai a rompere le catene?” domandò Qolton.
“Mi sa che stai sopravvalutando le mie abilità.” grugnì corrucciato e rotolò svogliatamente su un fianco. 
Il suo sguardo corse a Nell e a nessuno sfuggì il sospiro di sollievo che esalò nell’appurare che fosse illeso. Glielo chiese comunque, per avere una conferma dal diretto interessato e mettere a tacere l’ansia.
“Nell, stai bene?”
“Sì, certo. Ora liberati dalle catene e aiutaci.” lo pregò con gentile urgenza.
Reeven affogò negli occhi azzurri dell’altro e, inspiegabilmente, avvertì le energie montare rapidamente come un fiume in piena. Il suo corpo venne attraversato da una scarica di adrenalina e il senso di protezione che provava per Nell lo rinvigorì a tal punto che in meno di un secondo fu già seduto a strattonare le catene. Tirò, torse le braccia, fece leva in ogni modo possibile, ma riuscì a malapena ad allentare un anello.
“Sono troppo spesse. Non so quanto mi ci vorrà.” si scusò.
“Reeven.” lo chiamò Nell.
L’interpellato rispose all’istante, bloccandosi a metà di un movimento. L’inflessione seria e profonda della sua voce lo fece rabbrividire.
“Sì?”
Liberati dalle catene.” scandì il biondino, fissandolo con un’intensità tale da mozzargli il respiro.
Reeven ebbe come l’impressione che quella frase nascondesse altri significati, che non si riferisse soltanto all’atto di spezzare le costrizioni di ferro che gli imprigionavano polsi e caviglie. Rimase in silenzio a rimuginare, finché Nell non parlò di nuovo.
“Liberati. Dalle. Catene.” reiterò, come una nenia ipnotizzante, trafiggendolo con un’occhiata che non ammetteva repliche.
Ritentò, diede fondo a tutta la sua forza, e riuscì ad allentare altri due anelli.
“Non ce la faccio.” ringhiò frustrato.
“Liberati.”
“Nell, che stai facendo?” li interruppe Qolton.
Phyroe, Utros e le due ragazzine osservavano la scena interdetti e speranzosi. Non capivano perché Nell stesse ripetendo la stessa cosa a oltranza, ma si augurarono che sortisse qualche effetto.
“Reeven, guardami.” lo incitò Nell.
Il ladro obbedì docile, i lineamenti contratti dalla fatica, la fronte imperlata di sudore e il fiato corto.
“Non hai gli occhi rossi solo per bellezza. Entra in contatto con la parte più profonda di te stesso, quella che rifiuti, che ti ostini a schiacciare, e scatenala. Non aver paura, andrà tutto bene.” proferì calmo e controllato, senza far trasparire alcun turbamento.
“Che significa?” indagò Qolton, l’unico che stava tentando disperatamente di comprendere la situazione, “Nell, cosa sai degli occhi rossi di Reeven?”
Nell lo ignorò, restando concentrato sul biondo, curandosi di non troncare mai il contatto visivo: “Liberati. Sfogati. Ruggisci. Uccidi i nostri nemici, uccidi chi vuole farci del male.”
Reeven percepì i muscoli delle braccia e delle gambe guizzare, quasi che qualcosa si stesse facendo largo dall’interno per rispondere al richiamo di Nell, scavando nella sua carne come mille uncini. Raddrizzò la schiena e le vertebre scrocchiarono in modo sinistro, mentre le iridi viravano dall’azzurro allo scarlatto.
Le due sorelle squittirono spaventate e gli altri si irrigidirono sbalorditi.
Uccidi i miei nemici, uccidi chi osa farmi del male. Vendicami col sangue dei malvagi.” proferì Nell in un bisbiglio roco, che al medesimo tempo sembrò un ordine gridato e categorico.
Reeven piegò il collo da un lato all’altro con espressione tesa e vagamente sofferente. Le spalle scattarono in avanti, portando con loro il busto, il suo naso si spalmò sul terreno, la testa infossata tra le gambe distese e la schiena coperta dalla casacca lisa esposta alla vista. Nonostante il tessuto, tutti furono in grado di scorgere e sentire le costole che si spostavano, numerosi e raccapriccianti schiocchi riempirono l’aria accompagnati da mugolii e ringhi. Le mani cercarono febbrilmente un appiglio, ma trovarono solo terra, che si insinuò sotto le unghie adesso divenute nere, lunghe e ricurve.
“Liberati dalle catene, Reeven.”
Era come se stesse recitando un incantesimo, uno potente, considerando la reazione di Reeven, il quale non riusciva a sottrarsi all’influsso degli ordini di Nell.
In realtà, il ragazzo non aveva alcuna certezza di successo, si stava solo affidando all’intuito e a un pizzico di fortuna: sapeva che Reeven era un demone ignaro della propria natura, e sapeva pure di possedere un notevole ascendente su di lui. Contando su questo, sperava di aizzarlo contro i briganti e guadagnarsi la fuga. Il piano era semplice, a patto che Reeven non impazzisse scagliandosi sui suoi amici. Non aveva molte informazioni sugli ibridi o sui demoni giovani, per così dire, né alcuna idea sulla loro capacità di controllarsi, specialmente se non conoscevano i propri limiti, se non avevano mai utilizzato i loro poteri o se non si erano mai trasformati. Perciò quella strategia era un azzardo in piena regola. Avrebbe potuto rivoltarglisi contro, non v’erano garanzie di riuscita. Tuttavia doveva almeno provare, altrimenti non avrebbero avuto molte chance di sopravvivere. La chiave era l’attaccamento morboso di Reeven, che Nell avrebbe tramutato in arma.
“Uccidi i miei nemici. Vuoi lasciare che mi facciano del male? Vuoi lasciarmi morire? Uccidili tutti. Sono una minaccia. Uccidili.”
“Nell, ora basta.” lo fermò Qolton, spaventato dalla mutazione fisica che Reeven stava subendo.
Uccidili… uccidili tutti… uccidili per me…
Uno spasmo violento, poi un altro e un altro ancora. Gli organi interni bruciavano. Un incendio divampava nel suo sangue, qualcosa stava spingendo nel suo petto per emergere e venire al mondo. Le tempie pulsavano, sentiva dolore dappertutto, era un’agonia che non gli dava tregua.
Uccidili… vendicami col sangue dei malvagi…
La voce di Nell gli rimbombava nel cervello alla stregua di concerto di campane, martellando e zittendo qualsiasi altro pensiero, e fungendo al tempo stesso da faro al centro di un oceano di oscurità, tanto che era inconcepibile rifiutarlo o immaginare di voltargli le spalle. 
Uccidi chi osa farmi del male… uccidi i miei nemici…
Oh, sì, li avrebbe ammazzati, uno dopo l’altro. Nessuno doveva permettersi di sfiorare Nell con un dito, il suo Nell. I colpevoli sarebbero stati puniti con una morte lenta, una tortura implacabile. Avrebbe fatto scempio delle loro carcasse, avrebbe sparso il loro sangue e ne avrebbe imbevuto la terra. Già pregustava le loro grida, una soave melodia impregnata del tanfo della putrefazione, perfetto sottofondo del massacro che a breve avrebbe compiuto.
Serrò la mandibola, le zanne aguzze cozzarono con un rumore sordo e le ossa finirono di riassemblarsi con gli ultimi schiocchi. La testa cessò di dolere, finalmente, e il cuore rallentò i battiti. Si sentiva leggero come una piuma, invincibile, un dio assetato di sangue. Per la prima volta da quando era nato avvertiva di essere se stesso, privo di maschere e insulse inibizioni. 
Era libero. 
Voleva dilaniare, smembrare, divorare, squartare, era una smania irrefrenabile che strisciava sotto pelle. Però gli era stato imposto un vincolo, qualcuno gli aveva impartito un ordine preciso, un ordine che purtroppo gli impediva di dare sfogo completo alla sua natura bestiale. Eppure non provava fastidio al riguardo, perché quell’ordine veniva dalla persona per lui più importante, il suo sole, la sua guida, la luce che rischiarava le tenebre che lo avevano avviluppato, scaldandolo e confortandolo. Era un ordine di Nell, quello, e avrebbe obbedito, poiché era giusto così, poiché il legame che aveva con lui gli suggeriva che non esisteva niente di più bello che sottomettersi alla sua volontà. Persino il proprio cuore batteva in sincrono con il suo.
Avrebbe ucciso i nemici di Nell, lo avrebbe protetto, lo avrebbe salvato. Si sarebbe preso cura di quel misterioso ragazzo, sua ragione di vita, esaudendo ogni suo desiderio.
Spalancò gli occhi, due biglie rosse con le pupille verticali immerse nel nero della sclera, e li puntò su Nell, che lo fissava con aria serafica, consapevole che Reeven lo avrebbe accontentato.
Sulla testa, due corna nere facevano bella mostra di sé, disegnando due onde che svettavano verso l’alto, in contrasto con i serici capelli biondi, lunghi fino alle spalle. L’incarnato era livido, quasi grigiastro, e le labbra erano dello stesso colore delle corna, abbellite da quattro zanne lucenti come lame, due per lato. 
Le mani munite di artigli andarono alle catene, strinsero gli anelli e li sbriciolarono con estrema facilità. In un attimo fu libero, si alzò in piedi e si erse in tutta la sua statura, che nella trasformazione pareva raddoppiata.
Nell lo studiò dal basso, constatando che Reeven era un ibrido: aveva mantenuto un aspetto umano, tutto sommato, non era come Ysril o come gli altri demoni che aveva incontrato.
Reeven, a un tratto, si voltò verso Qolton e gli ringhiò contro bellicoso, snudando le zanne. Il moro si ritrasse istintivamente e lo guardò con occhi sbarrati.
“Reeven, i miei nemici sono là fuori. In questa tenda non c’è alcuna minaccia.” disse Nell, scongiurando un omicidio non necessario.
Il demone lo ascoltò e come un sonnambulo uscì dalla tenda. I presenti tirarono un sospiro di sollievo, ma il pallore dei loro visi preoccupò Nell, che si affrettò a spiegare.
“Non ci farà del male.”
“Cos’hai fatto? Che cosa gli hai fatto?!” lo aggredì Qolton, scrutandolo in cagnesco.
“Non ho fatto niente. Reeven è un ibrido, per metà umano e per metà demone. L’ho capito quando mi ha mostrato i suoi occhi, la prima notte dopo la partenza dalla capitale. Ho conosciuto altri demoni nei miei viaggi, alcuni amichevoli, altri meno, e vi assicuro che Reeven appartiene alla prima categoria. Non è cattivo, questo lo so, e lo sapete anche voi. È sempre lui, è vostro amico.”
Non aveva detto proprio la verità, ma in quel momento gli premeva tranquillizzarli, in modo che non rovinassero il piano agendo impulsivamente. Gettò un’occhiata ansiosa alle sorelle e le vide pietrificate dal terrore.
“Tu lo controlli, abbiamo visto come lo hai piegato al tuo volere. Sei forse uno stregone?” lo interrogò Qolton, rigido come un tronco e quanto mai sospettoso.
Ai suoi occhi, Nell era diventato un pericolo, una persona di cui non potersi fidare. Aveva troppi segreti e il fatto che avesse avuto a che fare con dei demoni in passato non era un punto a suo favore.
“No, ho soltanto sfruttato l’attaccamento che nutre nei miei confronti. Sono stato pragmatico, Qolton, non avevamo altre possibilità. I briganti sono troppo numerosi per sperare di sgusciare via illesi, con Reeven invece ce la faremo. Gli ho dato una spintarella, tutto qui.”
“Tu sai trattare con i demoni e ne hai appena reso uno tuo schiavo, questo non è normale. Chi sei?”
“Sono un ragazzo in cerca di suo marito. È la verità, lo giuro.”
“Come mai conosci dei demoni?”
“Mio marito è uno di loro.” rivelò sconfitto, appoggiando la nuca al palo a cui era legato.
Per qualche secondo non volò una mosca. Poi le urla allarmate dei banditi spezzarono il silenzio, come una sequela di lampi che squarciano il velo uniforme delle nubi. I prigionieri udirono rumori di ossa spezzate, carni maciullate e rantoli disperati per quella che sembrò un’eternità. 
Phyroe e le due ragazze rabbrividirono e chiusero gli occhi, Qolton non distolse l’attenzione da Nell, e Utros osservò i suoi stivali con interesse.
Mentre fuori imperversava uno sterminio di massa, il moro riprese la parola, per nulla intenzionato a lasciar cadere il discorso. Adesso esigeva risposte e Nell avrebbe vuotato il sacco, volente o nolente.
“Consulti spesso una mappa quando credi che nessuno ti stia guardando. Cos’è?”
Nell inarcò un sopracciglio, spiazzato: “Beccato. L’ho sgraffignata a un sacerdote. Vi sono segnate tutte le città e i villaggi, compresi quelli che normalmente vengono esclusi perché troppo piccoli o lontani. Nelle mappe comuni sono riportati i regni più importanti, le loro capitali e le città con una popolazione superiore ai cinquemila abitanti. In quella in mio possesso, invece, ci sono tutte. A me interessa un regno particolare che si trova a nord-est, un regno di cui i cartografi ignorano l’esistenza. Solo i sacerdoti di rango più alto ne sono al corrente, per questo mi serviva quella mappa.”
“Quale sarebbe?”
“Lankara, il regno dei demoni.”
Qolton ammutolì, scioccato.
“Non so se mio marito si trova lì, ma devo controllare.” continuò Nell in tono sommesso e triste.
“Porterai Reeven con te?”
“Se lo desidera, sì. A Lankara ci sono i suoi simili, potrebbe incontrare uno dei suoi genitori. Ha sempre vissuto fra gli umani, quindi ritengo che conoscere dei demoni possa aiutarlo a imparare a gestire la sua altra natura, a capire chi è veramente e cosa è in grado di fare.”
“I demoni sono malvagi, bestie feroci. Mi stai dicendo che Reeven è come loro?”
“No, lui è anche umano, non bisogna dimenticarlo. Questa metà lo influenza tanto quanto quella demoniaca. Deve trovare un suo equilibrio, fare una scelta, e io gliene fornirò l’occasione.”
“Anche tuo marito è un ibrido?”
“No, è un demone completo.”
“Sei sposato con un mostro assetato di morte?!” sbraitò furioso, le catene tintinnarono e si tesero seguendo i suoi movimenti, “Come puoi esserti legato a una creatura del genere? Sei forse della stessa pasta?”
Nell, per quanto ribollisse di rabbia, mantenne la calma.
“Ysril si è innamorato di me, tanto da rinunciare ai suoi poteri e alla sua natura pur di rimanere al mio fianco. Era disposto a diventare umano per me.” sorrise dolce, rannuvolandosi un momento dopo, “Ma le cose non sono andate come previsto. Siamo dovuti fuggire dalla nostra casa e durante la fuga siamo stati attaccati da un altro demone. Lui e Ysril hanno lottato e… e io sono scappato. Per anni ho creduto che mio marito fosse morto, finché un secondo demone non si è presentato al mio cospetto dicendomi che era sopravvissuto. Non sapeva dove fosse, però. Così l’ho aspettato, ma, dato che non tornava, alla fine mi sono deciso a mettermi in viaggio per cercarlo.”
“Un demone innamorato? Ah! Inventane un’altra.” 
“Pensala come vuoi, io sto dicendo la pura e semplice verità.” 
“Ho i miei dubbi.”
“Ad ogni modo, non siete costretti ad accompagnarmi. Fin dal principio vi ho ripetuto che era mia intenzione procedere da solo, non volevo coinvolgervi in una missione che di certo si sarebbe rivelata pericolosa. Reeven si è appiccicato a me come una sanguisuga, ma va bene: è un mezzo demone, ha tutte le carte in regola per cavarsela egregiamente e un motivo più che valido per recarsi a Lankara. Voi, al contrario, siete umani, non avete alcuna capacità soprannaturale e probabilmente troverete la morte se resterete con me. A Lankara gli uomini sono cacciati come cibo, non avrete nessuna protezione.”
“E tu non hai paura di venire cacciato e morire divorato da uno di quei mostri?”
“Io sono speciale. Sono nato umano e lo sono anche adesso, per la maggior parte, ma Ysril mi ha fatto dono di alcune abilità e i demoni possono intuirlo dal mio odore. Non è un lasciapassare sicuro, però conto sul fatto che potrei stuzzicare la loro curiosità, quindi non mi uccideranno subito. Questo mi darà il tempo di fare qualche ricerca. Ho un piano, sai? Non sto andando laggiù impreparato, so quello che faccio. Per quanto riguarda voi, vi invito a rivalutare il vostro itinerario, ora che non ci sono più segreti. Anzi, date le voci che corrono, meglio se fuggite da questo regno e quelli limitrofi, le isole sono più sicure.”
“È per quei due briganti che chiacchieravano qui davanti? Sono sciocchezze, non ci sarà alcuna guerra, al massimo qualche scaramuccia tra nobili. Nessuno è in grado di affrontare una vera battaglia campale, siamo in pace da troppo tempo, molti hanno scordato come si combatte.”
“Non è la guerra il problema.”
“E quindi qual è?”
Nell si incupì e abbassò il capo, poi strinse le mani a pugno e si umettò le labbra screpolate.
“Non sono i primi a dire che re Sylas possiede l’Occhio di Xion. Avevo sentito dei cacciatori parlarne alla locanda in cui ci siamo fermati a Wanderwald, ma lì per lì non avevo collegato: troppi anni sono trascorsi da quando l’ho sentito nominare per la prima ed unica volta.”
“Che intendi?”
“Io conoscevo il custode dell’Occhio di Xion, era un mio caro amico. E l’Occhio, in effetti, è una pietra magica molto potente. Tuttavia venne smarrito dal marito del suddetto custode, che fuggì col malloppo verso il confine, lasciando il mio amico col cuore spezzato. Il nome del ladro era Lord Zebb, un famoso generale dell’esercito. Le dinamiche, in realtà, sono più complesse, ma per fartela breve Lord Zebb aveva sposato il mio amico solo per mettere le mani sull’Occhio di Xion. Alla fine ci è riuscito ed è svanito nel nulla. Il punto è che se un manufatto di simile potere verrà usato con leggerezza, la catastrofe si abbatterà sul mondo. Non so quale sia la storia dietro l’Occhio di Xion, ma sarebbe il caso di scoprirla se avete in mente di restare qui o seguirmi, poiché non ho idea di quali capacità abbia e non voglio correre inutili rischi. Quella pietra cambia tutto, non c’è da stare tranquilli.”
“E dove pensi di trovare informazioni?”
“Mi rivolgerò ai sacerdoti, le loro biblioteche sono le più fornite. Lo so, non c’entra niente con la mia ricerca, ma eviterei di sottovalutare la situazione. E poi, se Ysril non è a Lankara, dovrò tornare indietro, e non vorrei trovarmi in mezzo a un cataclisma senza sapere come difendermi. Sarà necessario fare una piccola sosta a un tempio per precauzione.”
“E con Reeven come la mettiamo? Cioè, tornerà mai normale?”
Nell lo squadrò confuso: “Reeven è perfettamente normale, non c’è niente di sbagliato in lui.”
“Sì, ma andarsene a zonzo con un tizio munito di corna è pericoloso, non passereste inosservati.”
“Me ne occuperò non appena saremo lontani da questo dannato accampamento.” sbuffò, sporgendosi per spiare fuori dalla tenda.
L’odore del sangue appestava l’aria, formando una cappa soffocante sulla radura. Le urla agonizzanti dei banditi stavano svanendo, quindi dedussero che mancava poco affinché Reeven finisse di fare piazza pulita. In effetti, Nell avrebbe potuto ordinargli di liberarli tutti, prima di spedirlo a sterminare la gente. La prossima volta, se ci fosse stata, avrebbe dovuto calcolare meglio le sue priorità.
All’improvviso un silenzio assordante scese sull’accampamento. I prigionieri potevano udire distintamente il suono dei loro respiri e il battito dei loro cuori nelle orecchie. 
Subito dopo, Reeven entrò nella tenda e il suo sguardo corse a Nell, forse in attesa di direttive. Il ragazzino osservò il corpo dell’ibrido, ricoperto di chiazze rosse e terra. I suoi artigli gocciolavano stille vermiglie e sulle corna ciondolava un brandello di carne, come pure da una delle zanne superiori.
Qolton e Phyroe deglutirono nervosi, Utros continuò imperterrito a fissarsi gli stivali e le due sorelle si abbracciarono strette.
“Reeven, aiutami con queste.” disse Nell, scuotendo le catene.
Il demone ubbidì. Si inginocchiò di fianco a lui e spezzò gli anelli di ferro.
“Aiuta anche gli altri.” lo esortò, indicando con un cenno del capo gli amici.
Di nuovo, Reeven fece come gli era stato detto. Non appena si avvicinò a Phyroe, quella indietreggiò impaurita, ma pareva che al compagno non importasse. Nonostante la reazione ostile, la liberò lentamente, per poi passare a Qolton e Utros.
“Bene, recuperiamo le nostre cose e filiamocela.” borbottò infine Nell, precipitandosi all’esterno per valutare l’entità del danno.
Si portò subito una mano davanti alla bocca per reprimere un conato e chiuse gli occhi, respirando dal naso. Ma se ne pentì l’attimo successivo, poiché il fetore del sangue e delle interiora lasciate a marcire all’aperto gli invase le narici. Così optò per tapparsi il naso e incamerare ossigeno dalla bocca. Quel processo gli costò un minuto prezioso. 
Reeven fu accanto a lui come se lo avesse evocato, le dita ancorate ai suoi fianchi mentre lo pressava con la schiena contro il proprio petto e si piegava per inalare il suo odore dai capelli. Nell non si ribellò, gli concesse alcuni momenti di quiete, che terminarono quando i compagni lo raggiunsero. Allora si divincolò con gentilezza, si sforzò di sorridergli per non innescare la sua rabbia e si incamminò verso il punto dove aveva individuato le loro borse.
Abbandonarono il palcoscenico della strage con le due sorelle al seguito, in religioso silenzio. Nessuno commentò l’accaduto, probabilmente perché lo stavano ancora metabolizzando.
Phyroe si accostò alla coppia di ragazze per scortarle e loro parvero accettare di buon grado la sua presenza. 
Reeven trottò docile alla sinistra di Nell e non lo mollò nemmeno per un istante. Gli scoccò numerose occhiate in tralice, sfiorando con lo sguardo i tratti di quel viso che amava alla follia, e dentro di sé sentì un’altra volta un forte ruggito di felicità, che sembrava volergli dire “Ecco, lui appartiene a te”. 









 

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Capitolo 5
*** Decisioni disperate ***









Dieci anni prima


Il capitano delle guardie entrò con aria trionfale nella sala del trono, senza dare il tempo al ciambellano di corte di farsi annunciare. L’armatura con lo stemma di Dun’har inciso sul pettorale rifletteva le fiamme che danzavano nei bracieri, posti a equa distanza l’uno dall’altro ai lati della navata, accanto alle colonne di granito che si innalzavano per più di cinquanta metri. Sulle pareti tra le alte e strette finestre erano appesi degli stendardi con il medesimo stemma, un serpente alato bianco in campo blu. Sul soffitto della sala spiccavano elaborati affreschi che ritraevano la battaglia di Lerisa, combattuta cinque secoli addietro contro le Bestie dell’Est dal più grande re di Dunaster, Terallian III, le cui gesta erano divenute ormai leggenda. Nessun successivo monarca era riuscito a eguagliare la sua forza e la sua saggezza, men che mai quello attuale, considerato dai più un folle. Erano in tanti a ritenere che re Sylas non fosse adatto a governare, il senno lo aveva abbandonato da tempo, ma chiunque osasse sussurrarlo veniva puntualmente eliminato.
Il capitano avanzò, facendo riecheggiare i propri passi sulle mura, l’elmo sottobraccio e un ghigno sulle labbra sottili. Sulla schiena portava uno spadone a due mani, forgiato col metallo dei monti Garah, un dono del sovrano per l’ottimo servizio resogli da quindici anni a quella parte. I capelli ricci e corvini erano raccolti in un codino sulla nuca e la barba di qualche giorno inaspriva i suoi lineamenti, già spigolosi e duri di natura. La sua corporatura massiccia dava l’idea di pesantezza, eppure non era d’intralcio all’eleganza con cui si muoveva, quasi danzasse, retaggio della sua educazione aristocratica: infatti, discendeva da una delle famiglie più antiche e potenti di Dunaster, devota da sempre alla corona e principale sostenitrice dell’economia del regno.
Quando giunse al cospetto di re Sylas, in fondo alla navata, si inchinò e attese il permesso di parlare. Osservò fugacemente l’uomo sulla cinquantina assiso sullo scranno di granito e notò che era ingrassato. Il popolo moriva di fame, mentre lui si rimpinzava come se non ci fosse un domani nel suo bel castello, incurante dello scontento che serpeggiava tra le gente. Le dita piene di anelli, le vesti pregiate, un monile d’oro al collo e la corona sulla testa, Sylas si atteggiava a dio e pretendeva un rispetto che non si era mai guadagnato. Ma al capitano non importava, finché veniva pagato. E, tutto sommato, anche lui ci guadagnava dalle piccole rivolte, perché poteva gettare in galera o uccidere i colpevoli per poi appropriarsi impunemente dei loro beni come risarcimento dei problemi e dei danni causati al sovrano o alle sue proprietà.
“Dorevan, dalla tua espressione deduco che tu abbia avuto successo.” esordì Sylas in tono solenne, abbozzando un sorriso soddisfatto, il volto rubicondo che si accendeva di entusiasmo.
“Sì, sire. Lo abbiamo trovato e condotto qui. Lo faccio entrare?”
Il re annuì e adagiò la schiena sullo scranno, lisciandosi distrattamente i baffi neri. Dorevan si girò e fece cenno a un soldato rimasto sulla soglia di portare dinanzi a loro il prigioniero, che un attimo dopo venne spinto nella sala del trono senza tante cerimonie.
Sylas studiò con attenzione l’uomo che aveva dato ordine di cercare e si sorprese di quanto fosse grosso, forse raggiungeva addirittura la mole di Dorevan. Dimostrava tra i trenta e i quarant’anni, ma era impossibile stabilirlo con certezza perché la sua faccia era tumefatta: aveva un occhio nero, il naso rotto, un altro ematoma sullo zigomo e un taglio profondo sul labbro. Il mento era coperto da uno strato di barba incolta, di una sfumatura rosata per via del sangue rappreso. Aveva lividi sulle braccia e sul collo, nonché nocche sanguinanti ed escoriazioni sui polsi, cinti dalle catene. Aveva lottato. E se aveva lottato, significava che era un combattente, quindi non si sarebbe piegato facilmente. 
Il re schioccò la lingua scocciato e roteò gli occhi, preparandosi all’ennesima seccatura della giornata, come se il Consiglio non lo avesse già fatto irritare a sufficienza con le sue pressioni per concedere al popolo un po’ di respiro. Respiro per cosa? Erano nati per lavorare e avrebbero lavorato, fine della storia. E se morivano di stenti, non era certo colpa sua: se non avevano di che sfamarsi, perché diamine figliavano così tanto? Avrebbero dovuto pensarci prima.
Il prigioniero si avvicinò e il capitano lo costrinse a inginocchiarsi tirandogli un calcio sui polpacci. I capelli folti e biondi, con qualche filo grigio sulle tempie, ricaddero sul viso e dalle labbra screpolate uscì un gemito di dolore.
“Benvenuto a Dun’har, ti aspettavo con ansia! Allora, come devo chiamarti?” domandò impaziente Sylas, scrutandolo dall’alto.
L’uomo sollevò il capo e lo sfidò, le iridi azzurre sature di una luce ribelle che divertì il sovrano.
“Cosa volete da me? Sono solo un falegname.” grugnì, evitando di rispondere.
“Non vuoi dirmi il tuo nome. Perché?”
“Mi avete rapito e portato qui con la forza, esigo di conoscerne il motivo.”
“Tu esigi? Dorevan, quanto a lungo lo hai picchiato? Ti avevo raccomandato di lasciare illesa la testa, mi occorre il suo cervello.” ridacchiò.
“Mi dispiace, maestà, ma ha tentato di scappare.” si giustificò il capitano, sfoggiando un sorriso serafico.
Sylas sospirò, fintamente affranto, e tornò a rivolgersi al prigioniero, stavolta con un accenno di ira nella voce: “Io sono il re e tu non puoi esigere un bel nulla. Un’altra parola irriverente e ti sbatto in cella senza cibo o acqua finché non implorerai pietà.”
“Non sei il mio re, non ti devo alcuna obbedienza o lealtà.” replicò il biondo e sputò un grumo di sangue e saliva sul pavimento immacolato davanti al trono.
Dorevan sguainò la spada e gliela puntò alla gola, minacciandolo con lo sguardo, ma il re lo fermò.
“Aspetta, ha ragione. Non sono il suo re.” 
Sylas si stropicciò le palpebre e serrò le labbra, conscio che doveva adottare un’altra strategia per ottenere ciò che voleva. Forse, in quel caso, con il tipo d’uomo con cui aveva a che fare, la diplomazia avrebbe funzionato. Desiderava evitare la tortura, non perché non gli piacesse, quanto perché avrebbe perso tempo prezioso, tempo che avrebbe potuto risparmiare se fosse riuscito a convincerlo ad aderire alla causa di sua volontà. Non ci contava molto, a dire il vero, però provare non costava niente.
“Ti ho fatto condurre qui perché potresti essere l’unico in grado di rispondere ad alcune domande che mi tormentano da un po’. Ti andrebbe di ascoltarle?”
“Non mi pare di avere scelta.”
“Infatti non ce l’hai. Dunque, da dove posso cominciare? Beh, innanzitutto gradirei sapere il tuo nome. Le uniche informazioni in mio possesso riguardano il tuo soggiorno prolungato a Rocca Smeralda e la certezza che eri molto vicino agli ultimi padroni, Lord Nell e Lord Ysril. Ma che ruolo svolgevi o quanto intimo con loro tu sia stato mi è ignoto. Perciò, dimmi chi sei e quali erano le tue mansioni.”
L’uomo, a sentir nominare Nell e Ysril, sbiancò. Si irrigidì e fissò lo sguardo nel vuoto, mentre una valanga di ricordi lo sommergeva con non capitava da anni. Poi arrivarono gli interrogativi: perché Sylas era interessato a loro? Cosa voleva da lui? E come un lampo che squarcia il cielo schiarendo le nubi, all’improvviso realizzò ogni cosa. Nel medesimo istante, la consapevolezza che non ne sarebbe uscito vivo mise radici nel suo animo, facendo germogliare nel cuore un genuino terrore per il destino suo e dei suoi cari. 
“Mi… mi chiamo…”
Non poteva rivelare il suo nome, c’era il rischio che qualcuno lo riconoscesse, così ritenne opportuno mantenere la maschera fino a quando gli fosse stato possibile. Doveva sopravvivere, scegliere le sue mosse con accortezza, soffocando l’impulsività.
“Sì?”
“Mi chiamo Djibres. Ero solo un domestico.” snocciolò, teso come una corda.
“Un domestico?”
“Esatto.”
“Bene, Djibres. Peccato che le mie spie mi abbiano riferito che eri molto più di un semplice domestico. Perché non svuoti il sacco, così potrai tornare a casa?”
“Ero il servo personale di Lord Nell.”
“Già meglio. Ecco, ora la prima domanda: per quanto tempo hai servito Lord Nell? Quanti anni?”
“Ehm… cinque, credo.”
“Menti. Odio le persone che mentono, soprattutto quelle che lo fanno guardandomi in faccia. Dorevan, a te l’onore.”
“Con piacere, maestà.”
Il capitano delle guardie afferrò la spalla dell’uomo e la torse con un movimento brusco. Un sonoro ‘crack’ risuonò per la navata, accompagnato dal grido del prigioniero.
“Vedi cosa succede se dici le bugie? Cosa nascondi, eh?” indagò il re. 
Si sporse in avanti incuriosito, squadrò per interminabili secondi quell’ammasso di muscoli e stracci che gli stava di fronte e si corrucciò, arricciando le labbra. Poi, ad un tratto, si illuminò e batté le mani. 
“È ovvio! Sei già al corrente del segreto… tu sai già cosa voglio chiederti! Sei la persona giusta, decisamente.” scambiò un sorriso d’intesa con Dorevan e si riappoggiò allo schienale, “Ho avuto un’intuizione geniale. Non ci speravo. Insomma, mi sono occorsi anni per ricostruire e dare un senso a tutte le storielle che raccontavano, ma ne è valsa la pena, perché quelle storielle mi hanno portato a te. Tu esisti, tu sai!” rise sguaiato, sbattendo ripetutamente il pugno sul bracciolo del trono.
Colui che si faceva chiamare Djibres alzò timoroso lo sguardo sul quel monarca pazzo, sentendosi in trappola.
“Tu sai di Lord Nell e Lord Ysril, conosci il loro segreto e li stai proteggendo. Un servo fedele, ne sono rimasti pochi come te, ti meriteresti una lode per questo. Tuttavia, caro Djibres, ho altri metodi per cavarti le risposte di bocca e non saranno gradevoli. Sicuro di voler arrivare a tanto? Ti sto offrendo la possibilità di raccontarmi ciò che sai, ciò che hai visto. Sarà una chiacchierata amichevole e alla fine ti rimanderò a casa senza ulteriori ferite. Non è una proposta allettante? So che hai una moglie e due figli… non vuoi tornare da loro? Oppure… beh, sarebbe un vero peccato se accadesse loro qualcosa di tragico solo perché tu hai scelto di non collaborare.”
L’uomo deglutì, inspirò forte e avvertì la paura stritolargli le viscere. Guardò allarmato il re.
“Non far loro del male.” lo supplicò flebilmente.
“Finalmente, ora ci siamo! Mi darai ciò che voglio, Djibres, e me lo darai subito.”
“Cosa vuoi sapere?” esalò sconfitto, stringendo i denti per la fitta che gli spedì la spalla.
“È vero che non invecchiavano?”
“Sì.”
Sylas si torse le mani eccitato: “Avevano scoperto il segreto dell’eterna giovinezza?”
“Non lo so.”
“Uhm. Dove si trovano adesso?”
“Non lo so.”
“Va bene, va bene. Sei sincero. Allora dimmi…” gli scoccò un’occhiata intensa, quasi come se dalle sue iridi scure fossero partiti dei ganci che erano andati a inchiodarlo sul posto, “È vero che Lord Ysril era un demone?” 
Il prigioniero sgranò gli occhi e ammutolì. Dorevan fece per percuoterlo di nuovo, quando Sylas lo fermò ancora, sollevando una mano. Sulla bocca del re si dipinse un ghigno vittorioso e si abbandonò a un risolino emozionato.
“Accidenti. È incredibile. Pensavo fossero solo dicerie.” borbottò, il cuore che batteva forte nello sterno, animato da una frenesia che rare volte aveva provato.
Si impose la calma e trasse un profondo respiro. Si lisciò i baffi, meditabondo, riflettendo sul da farsi, e lasciò il biondo a torturarsi nell’incertezza e nell’angoscia. 
Trascorse un minuto di assoluto silenzio, disturbato soltanto dal crepitio dei bracieri. Il fuoco disegnava ombre sinistre sui muri, ma il suo calore pareva non raggiungere il prigioniero, che si sentiva gelare fin nelle ossa.
“Avrò bisogno ancora di te, Djibres, e visto che non mi fido ti sbatterò nelle segrete. Sarai costantemente sorvegliato, quindi non farti venire in mente strane idee. Un passo falso, e la tua famiglia ne pagherà le conseguenze. Riceverai un pasto al giorno e acqua due volte al giorno.”
“No! Avevi promesso di liberarmi se avessi risposto!” esclamò agitandosi e Dorevan lo schiaffeggiò per farlo tacere.
L’uomo cadde di lato e sbatté la nuca sul marmo. La catene che gli legavano i polsi tintinnarono e si tesero, aggravando le escoriazioni sulla pelle.
“Non ho mai promesso alcunché. E poi credi che non sappia che per anni hai custodito il tesoro di Rocca Smeralda? Mi riferisco agli effetti personali di Lord Ysril, quelli che nascondeva nei sotterranei. Sì, so anche questo. Compio ricerche su Rocca Smeralda da molto tempo, sulle ragioni per cui sembri attirare la malasorte e sugli strani eventi che si sono verificati da quando Lord Ysril ne ha preso possesso. Ho tentato pure di indagare su di lui, giungendo sempre a un nulla di fatto e ora capisco il perché.” sbuffò e si sistemò la veste color porpora sulle gambe, “Nei prossimi giorni invierò dei soldati a prelevare i tesori, tutti quanti, e i miei esperti li studieranno meticolosamente. Rocca Smeralda verrà smantellata e ogni singolo oggetto di valore verrà portato qui per essere analizzato. Non voglio trascurare nulla, nessun ninnolo, nessun candelabro, poiché potrebbero essere impregnati di energia demoniaca, energia che forse si può manipolare. Lo ammetto, non sono molto ferrato sull’argomento, magari si riveleranno meri ninnoli e candelabri, ma è meglio essere prudenti. Ah, non vedo l’ora, ho grandi progetti!”
“Non toccare la mia famiglia. Collaborerò, ma tu devi giurare che resteranno fuori dai tuoi grandi progetti.” ringhiò rabbioso l’uomo, sforzandosi di apparire forte come una roccia nonostante la sua voce grondasse disperazione e resa.
Il re inarcò un sopracciglio: “Finché farai la tua parte senza ribellarti, non torcerò loro un capello. Ma se ti azzarderai a mentirmi… o se qualcuno di loro dovesse venire a cercarti…”
“Non lo faranno, se mi concederai di scrivere due righe per informarli che ho ottenuto un lavoro e non sarò di ritorno tanto presto. Altrimenti si preoccuperanno.”
“Scriverai il tuo biglietto, verrà recapitato appena partirà la spedizione. Dorevan, conducilo nelle segrete e procuragli un giaciglio.”
“Sì, maestà. Tu, in piedi!”
“Sono certo che mi sarai parecchio utile, Djibres.” lo salutò il sovrano, mostrando i denti ingialliti dal fumo.


“Riprova, Djibres!” ordinò Dorevan, appoggiando le mani sulle spalle del prigioniero per obbligarlo a restare seduto.
Sul tavolo c’era un tomo antico che recava formule magiche vergate in una lingua arcaica, accompagnate da immagini esplicative che però risultavano incomprensibili quasi quanto le parole.
“Ho detto che non sono in grado! I vostri sacerdoti dovrebbero essere più eruditi di me, perché non chiedete a loro?”
“Smettila, dannazione! Conosci il rak’shra meglio di tutti loro messi insieme! Traduci e basta.”
“Non è così semplice, è scritto in codice! Se traduco alla lettera, rischio di sbagliare e provocare una catastrofe.” spiegò per la centesima volta, esasperato dall’insistenza del soldato.
“Allora, decifra questo maledetto codice! Ci stai dietro da mesi e ancora non hai risolto nulla. Re Sylas non è un uomo paziente, devo ricordartelo?”
“Ascolta, negli ultimi dieci anni ho sempre fatto tutto ciò che volevate, avete ottenuto dei risultati grazie a me. Se dico che non sono capace di tradurre questo testo, è la verità. È troppo complesso persino per me. E poi possiedo soltanto dei rudimenti di rak’shra! Servirebbe un sacerdote appartenente a una cerchia alta, o addirittura il Gran Sacerdote.”
“Abbiamo interrogato decine di sacerdoti di diverse cerchie, comprese quelle più alte, e nessuno di loro conosceva la lingua demoniaca. È un miracolo che tu ne possegga i rudimenti. Sei l’unico che può tradurre ‘sta roba.”
“Ho appreso solo alcune parole e frasi che pronunciava Ysril all’epoca, non parlo quella lingua.” scandì infastidito, “E non sapevo nemmeno che fosse rak’shra!”
Dorevan si chinò alla sua altezza e lo fulminò con un’occhiata di fuoco: “Traduci.”
“Senti, finora ho capito solo che si tratta di magia nera. Si parla di sacrifici di sangue, cicli lunari, erbe dal nome strano… ma come tali elementi si combinino, non ne ho la minima idea. È stato scritto per coloro che già avevano la chiave di lettura, mentre io devo trovarla, e ti assicuro che non è una passeggiata. Vuoi provarci tu?” sbottò scocciato, incrociando le braccia sul petto.
Dorevan sospirò e placò la sua ira, tanto con quel testone non sarebbe servito a nulla. Ci aveva a che fare da dieci lunghi anni e ormai aveva imparato che minacciarlo o mettergli fretta non era una mossa saggia.
“D’accordo. Tornerò tra un mese e per quel momento esigo delle risposte, fosse anche un progresso infinitesimale. L’Occhio di Xion è nostro e il re vuole capire come attivarlo senza nuocere a se stesso o al suo esercito.”
Il biondo lo scrutò con sussiego, facendo parlare il suo sguardo per lui.
“Che c’è?” grugnì il capitano, levando gli occhi al cielo.
“Basterebbe che convinceste i demoni là sotto a collaborare… il rak’shra è la loro lingua madre.”
“Sono bestie prive di intelletto, non sarebbero di alcun aiuto.”
“Avete almeno tentato?”
“Non collaboreranno! Se anche acconsentissero, vorrebbero qualcosa in cambio, cioè la libertà e non possiamo dargliela. La questione è chiusa. Lavora, ci vediamo il mese prossimo.”
“Posso restare qui durante la notte…” propose con aria falsamente disinteressata.
“A-ha. Questo giochetto non funziona con me. Al tramonto verrai scortato nelle segrete, come sempre.”
“Certo, come sempre.” bofonchiò l’altro, immergendosi nella lettura.
“E guai a te se rubi qualcosa da questa biblioteca. Non vorrei lasciarti a digiuno di nuovo per una settimana.”
Dorevan osservò la sua schiena ingobbita, fasciata da una camicia di lino sporca. I capelli biondi erano stati rasati per via dei pidocchi e la barba ispida, irregolare, era unta e ammazzettata. La pelle tirava sugli zigomi e numerose righe segnavano il suo viso, rendendolo più vecchio di quello che realmente era. Le occhiaie, le guance incavate, le mani nodose e l’espressione stanca palesavano il cambiamento che aveva subito in tutti quegli anni di prigionia. Era dimagrito molto e in parte aveva perso la grinta con cui era arrivato a palazzo. Non era più l’uomo che aveva prelevato nella cittadella di Rocca Smeralda, solo uno spettro conscio del suo destino, eppure aggrappato alla tenue speranza di poter, un giorno, riabbracciare la sua famiglia.
Sciocco, sono già morti. Ma se lo sapessi, non ci aiuteresti più.
Il soldato, per un misero istante, provò qualcosa di simile alla compassione, ma scomparve subito così come era arrivata, cedendo il posto alla freddezza e all’indifferenza. Si voltò e si allontanò con passo marziale, lasciando il prigioniero in pace. 

Camminavano da ore in religioso silenzio, ma la tensione era talmente palpabile da potersi tagliare con un coltello. Procedevano spediti verso est, il sole alto sulle loro teste e il cinguettio degli uccelli nelle orecchie. Era una bella giornata, il clima era mite e finora non avevano incontrato pericoli di sorta, tanto che avrebbero potuto persino rilassarsi e prendersela comoda, ridendo e scherzando.  Avrebbero potuto, certo, se non fosse stato per la presenza di un demone tra le loro fila, che li atterriva e li scoraggiava dall’iniziare qualsiasi scambio di opinioni. Solo Nell sembrava a suo agio e non c’era da stupirsene se era vero che aveva già conosciuto dei demoni.
Phyroe si girò di nuovo per controllare che le due sorelle non rimanessero indietro, impaziente di trovare un villaggio dove poterle affidare alle cure di qualcuno. Non erano messe poi tanto male, in fondo, dato che non si erano mai lamentate. Non avevano nemmeno provato a scappare, forse consapevoli che non sarebbero sopravvissute a lungo da sole in quei boschi. 
La sorella più piccola era un po’ strana. Phyroe aveva notato che muoveva la testa a scatti, come fanno i volatili, e a volte non batteva le palpebre per minuti interi. O così le pareva. Era leggermente inquietante. La maggiore, invece, era normale. Aveva uno sguardo intelligente e vigile, calcolatore, insolito per una ragazzina così giovane, ma non raro. Ne aveva passate tante, di sicuro. La sua attenzione era fissa su Reeven, non lo mollava per un secondo.
“Hey, tra poco ci fermiamo a riposare.” disse loro Phyroe, sorridendo gentile.
La sorella più grande la trafisse con i suoi occhi scuri e annuì. 
Tuttavia, a dispetto delle speranze della donna, fecero una sosta solo nel primo pomeriggio. Non appena posarono a terra le loro borse e si sedettero con la schiena contro i tronchi degli alberi, Qolton non si trattenne più e scoppiò, quasi avesse atteso fino ad allora l’occasione per esprimere ciò che si teneva dentro dalla notte passata.
“Nell, voglio che mi spieghi che cazzo è successo all’accampamento. Ho capito poco di quello che hai detto e ho il cervello pieno di domande, a cui tu devi rispondere se non vuoi che ti tagli la gola.”
A quella minaccia, nemmeno troppo velata, Reeven si alzò per fronteggiarlo, le zanne in bella mostra e gli artigli sguainati lungo i fianchi, pronti a sferrare il primo colpo. Le corna nere e lucenti, che svettavano ancora con fierezza sul suo capo, catturarono i raggi del sole che filtravano attraverso le fronde. 
“Reeven, va tutto bene.” lo blandì Nell, accarezzandogli un braccio, “Qolton, è inutile che ti riveli tutto, visto che comunque non ci seguirai.”
“Questo voglio deciderlo io, se permetti.” rispose il moro dopo un attimo di esitazione, quando fu sicuro che Reeven non lo avrebbe attaccato.
“Seguirci sarebbe un gesto da incosciente e lo sai. Lankara, come ti ho spiegato, non è un posto per gli umani. Io e Reeven siamo speciali, potremmo riuscire a sopravvivere, ma tu decisamente no.”
“Mi sottovaluti?”
“Sono realista. Anche se ti insegnassi tutto ciò che so sui demoni, non-”
“Voglio solo sapere cosa cazzo hai fatto Reeven! Voglio sapere se tornerà umano! Voglio sapere se… se sotto quelle zanne e quelle corna c’è ancora il nostro Reeven! Non mi importa di Lankara, di Ysril, di demoni, di guerre o chi per loro. A me interessa Reeven! È mio amico e lo rivoglio indietro! Tu non hai alcun diritto su di lui!” sbraitò fuori di sé, le vene che pulsavano sulle tempie e sul collo, e strinse i pugni così forte da far sbiancare le nocche, “Lo hai rovinato, lo hai reso un mostro! Da quando ti ha incontrato, è andato tutto a rotoli. Sei tu il vero problema, Nell. Non mi sono mai fidato di te e mi pento di averti assecondato, ma l’ho fatto solo per non abbandonare Reeven. Gli sono molto affezionato, è quasi un figlio per me. Avremmo potuto restare insieme, io, Phyroe, Utros e Reeven, comprarci una casa e mettere su qualche attività, vivere come una famiglia. Ma tu non solo hai distrutto il legame che ci univa, lo hai anche calpestato senza remore, fregandotene di qualsiasi cosa non fosse la tua missione, e ci hai trascinati nella fossa con te. Non ti senti in colpa? Non provi nulla? Io conosco Reeven da otto anni, tu solo da pochi giorni, non hai il diritto di comandarlo a bacchetta, trattandolo alla stregua di uno schiavetto mansueto. E quei predoni! Non c’era bisogno di ammazzarli tutti, sarebbe stato sufficiente spaventarli e metterli in fuga, così da dare a noi il tempo di scappare! Sei stato tu a ordinargli di ucciderli e lui li ha massacrati! Noi non siamo assassini, ma ladri. Noi non trucidiamo la gente se non ve ne è la necessità!” gridò gesticolando e indicò più volte Reeven, che ascoltava quello sproloquio senza battere ciglio, privo di emozioni.
Mentre Qolton si fermava per riprendere fiato, il petto che si alzava e si abbassava velocemente, Nell rifletté, cercando di scegliere con cura le parole da usare.
“Comprendo la tua rabbia. Mi dispiace di aver rovinato tutto. Però non vi ho chiesto io di seguirmi, ricordate? Sono stato il primo a insistere affinché mi lasciaste proseguire da solo, invece vi siete accodati senza pensarci troppo su. Non puoi scaricare addosso a me tutta la colpa. E non c’entro nulla con il fatto che Reeven abbia deciso di restare con me, non l’ho convinto io. Per quanto riguarda ieri notte… ammetto di aver esagerato. Forse. Il punto è che se avessi permesso a dei testimoni di darsela a gambe, avrebbero spiattellato tutto ai quattro venti e Reeven sarebbe stato in pericolo: si sarebbe scatenata una caccia al demone, saremmo stati braccati e qualcosa mi dice che contro un plotone d’esecuzione saremmo tutti morti prima di dire ‘ah’, Reeven o non Reeven. Tu puoi dire che sono stato crudele, io dico che sono stato pragmatico. Ne convieni?”
Qolton inspirò a fondo e ingoiò la bile, perché Nell aveva ragione. Se avessero lasciato dei testimoni, Reeven sarebbe divenuto un bersaglio e non volevano certo creare allarmismi attirando attenzioni indesiderate.
“Spiegami come hai fatto a…” sventolò la mano verso Reeven, “trasformarlo in un demone. È stato grazie ai tuoi poteri, quelli che ti ha passato tuo marito?”
“No, non credo. Non so bene come sia successo, contavo solo sul fatto che Reeven mi ascoltasse. Non sono stupido, lo vedo che pende dalle mie labbra. Mi sono detto che se riesco a influenzarlo quando la situazione è tranquilla e siamo tutti rilassati, potevo riuscirci in circostanze di estremo pericolo. Insomma, forse è stata fortuna, forse sono state le mie parole a innescare la mutazione o forse Reeven non aspettava altro che scatenarsi, quasi fosse sempre stato in attesa di qualcuno che gli desse il via libera. Non sono onnisciente, Qolton, non ho tutte le risposte che cerchi.”
“Dimmi se tornerà normale. E sì, hai già detto che anche adesso è perfettamente normale, è sempre lui, ma sai cosa intendo.”
“Non lo so. Penso dipenda da lui. Tornerà al suo vecchio aspetto quando lo vorrà.”
Qolton si rivolse a Reeven: “Tu non dici niente? Di solito parli fino a stordirci, ma da ieri notte non hai emesso un solo suono.”
“Ora concentriamoci su loro due.” lo sviò Nell e indicò le due sorelle, rannicchiate accanto a Phyroe.
“Dobbiamo trovare al più presto un villaggio, non possono proseguire con noi.” disse la donna.
“Va bene, datemi un secondo.”
Nell estrasse dalla borsa la sua mappa e scandagliò la zona in cerca di villaggi o città.
“Ecco, c’è un piccolo agglomerato di case a nord. Non so quanto tempo occorra per raggiungerlo.”
“È il più vicino?”
“Sì, stando alla mappa.”
“Allora dirigiamoci lì.” assentì Qolton, alzandosi, “Nell, il nostro discorso è rimandato, non finisce qui.”
Nell lo guardò in tralice, valutando se temerlo o meno, poi gli diede le spalle e si incamminò verso nord, seguito a ruota da Reeven.

Il sole tramontò oltre l’orizzonte, facendo spazio a una notte priva di luna. Il gruppo si accampò in mezzo agli alberi, Phyroe predispose i giacigli, Qolton raccolse la legna, Nell riconsultò la mappa per rivedere il percorso e Utros andò a caccia rimediando tre lepri. Consumarono la cena in silenzio, lo sguardo basso e i muscoli tesi. Nell e le due sorelle sbocconcellarono giusto qualcosa, non avevano molta fame, mentre Qolton, Utros e Phyroe divorarono la loro porzione. 
Reeven non toccò la sua parte, anzi fissò la carne con espressione quasi nauseata. Balzò in piedi facendo venire un principio di infarto agli altri, compreso Nell, e senza dire una parola si inoltrò nella vegetazione, sparendo alla vista.
“Dove va? Dov’è andato?”
“Io che ne so!” esclamò Nell, sollevando le braccia spazientito.
Qolton, sudando freddo, portò una mano al coltello legato alla cintola, imitato da Phyroe e Utros. Passarono minuti interi, durante i quali si udirono in sottofondo soltanto i richiami degli animali notturni. Infine Reeven tornò con la bocca sporca di sangue fresco e il colorito lievemente più florido.
“Hai mangiato?” gli domandò Nell.
Reeven annuì e si accomodò di nuovo accanto a lui, circondandogli il fianco con una mano e sporgendosi per annusargli il collo.
“Pulisciti la bocca.”
L’altro si strofinò il polso sulle labbra e si pulì come poté. Le due sorelle studiarono ogni sua mossa, guardinghe, finché Phyroe non le invitò a stendersi sulla coperta e dormire un po’. Si addormentarono dopo poco, stremate dagli ultimi avvenimenti, e la donna tirò un sospiro di sollievo.
Avrebbero dovuto riposare tutti adesso, ma nessuno aveva sonno. 
“Faccio il primo turno.” si offrì Qolton, sfidando Nell a contraddirlo.
“Come vuoi.” rispose il ragazzo e si distese sul mantello, dando la schiena al fuoco.
Reeven tastò il suolo, scavò con le mani per creare una conca e prese posto davanti a Nell, abbracciandolo e spingendogli il viso contro il proprio torace. Quindi chiuse gli occhi.
Per un paio d’ore nessuno fiatò. Phyroe era all’erta, come Qolton e Utros, non riusciva a tranquillizzarsi. Aveva i nervi tesi, era agitata e, benché stanca, sapeva che quella notte non avrebbe dormito. Le immagini della strage si erano impresse a fuoco nella sua memoria, vivide in modo inquietante, e talvolta aveva quasi l’impressione di sentire l’odore di sangue appestare l’aria, anche se intorno non c’erano che alberi, cespugli e sottili rigagnoli d’acqua. Durante la marcia, spesso aveva avuto l’impressione che i rametti che calpestava si trasformassero in ossa, il terriccio morbido in interiora spappolate, le bacche in occhi sradicati dalle orbite, un incubo perpetuo che distorceva la realtà e la soffocava. Era convinta che il fetore della morte le si fosse appiccicato addosso, impregnando i vestiti e la pelle, e temeva che non se ne sarebbe liberata mai più. Il pensiero le faceva rivoltare lo stomaco. Stava impazzendo. E quel maledetto bosco era infinito, come una gabbia di legno e foglie che non voleva lasciarli andare. Da quanto tempo non vedevano uno spazio aperto? Da quanto non osservavano il cielo senza il fitto fogliame a ostruire la visuale?
Si sfregò le mani, le chiuse a coppa sulla bocca e ci alitò sopra per scaldarle. Rivide i corpi maciullati dei predoni, le loro facce distorte in una smorfia di terrore, le costole e gli organi interni esposti come se fossero stati scuoiati vivi. Rabbrividì, raccolse le ginocchia al petto e serrò labbra e palpebre nello sforzo di scacciare i ricordi. Non aveva mai assistito a uno spettacolo simile.
“Phyroe.” la chiamò Qolton in un sussurro.
Lei si mise subito seduta, contenta di poter parlare con qualcuno.
“Cosa facciamo?” bisbigliò di rimando, senza bisogno di aggiungere a cosa si stesse riferendo.
“Francamente, non lo so. Non so più niente.” 
Phyroe lo studiò di sottecchi, confusa. Poi sospirò e raccolse il coraggio di esprimere il suo desiderio.
“Possiamo andarcene. Anzi, è l’idea migliore. Seguire Reeven nel suo viaggio va oltre le nostre possibilità. Insomma, demoni?! Sul serio?” 
Qolton sospirò incupito: “Già. È l’idea migliore.”
“Ma ti preoccupi ancora per Reeven.” completò Phyroe.
Il moro annuì grave, ipnotizzato dalla danza delle fiamme.
“Ti capisco.” disse la donna, guardando di sfuggita e con una punta di tristezza la figura possente dell’amico, che avviluppava Nell in un abbraccio protettivo. 
Rammentava il giorno in cui Reeven si era unito alla banda di Suna. Quel biondo con il cervello di gallina le aveva provocato più crisi esistenziali che ulcere. Anzi, forse finivano in parità, perché con le ulcere non si scherzava. Ma, in fondo, le aveva strappato pure qualche sorriso. I primi tempi era davvero insopportabile, Phyroe lo tollerava a stento: prima palesava interesse nei suoi confronti, in seguito andava a sbattersi un ragazzo, più tardi si faceva venire voglia di spassarsela con una donna e, dopo aver dato sfogo alla sua inesauribile libido, tornava da lei e la sommergeva di proposte poco caste, condite da lunghe occhiate grondanti di lussuria, per poi ricominciare il giro scopandosi un uomo. Reeven era la contraddizione fatta carne, la snervava tanto da portarla all’isteria. All’epoca, Phyroe lo avrebbe ucciso volentieri se Suna non l’avesse convinta a lasciarlo perdere. Col tempo aveva imparato a convivere con i segnali confusi che le lanciava Reeven, benché si sentisse smarrita e perennemente di cattivo umore, e quel tira e molla alla fine le aveva fatto dimenticare il suo passato per la strada, la solitudine e il freddo che le mordeva il cuore. Phyroe era in debito con Reeven, era grazie a lui se era riuscita ad accantonare i pensieri negativi per vivere il presente, ma non glielo avrebbe mai detto. Piuttosto, si sarebbe fatta amputare un braccio. 
“Qolton, devi dargli la possibilità di andarsene per la sua strada, verso il suo destino. Non puoi più tenerlo al guinzaglio.” 
Qolton digrignò i denti, la rabbia che prendeva di nuovo il sopravvento, e Phyroe intervenne prima che esplodesse.
“Senti, è ovvio che gli sei affezionato, sei stato il suo mentore per otto anni, però ora è tempo di lasciargli la mano. Non è più un ragazzo sprovveduto, è in grado di badare a se stesso: ha sterminato una banda di briganti in pochi minuti!”
“È ancora uno scavezzacollo senza un briciolo di sale in zucca!” replicò seccato, “Si fa influenzare da un pazzoide col viso da ninfa, un ragazzino dal passato oscuro e dalla parlantina criptica che si comporta in maniera altrettanto imprevedibile - chissà quante altre cose ci nasconde -, e gli scodinzola pure intorno tipo cucciolo devoto. No, mi correggo: gli sbava proprio dietro, come il più patetico degli spasimanti!” sputò, riservando all’interessato un’occhiata torva, furente, “Pensavo di avergli insegnato qualcosa, evidentemente mi sbagliavo.”
“Qolton…”
“Insomma, si può essere più cretini? Ho sempre saputo che Reeven fosse stupido e infantile, ma mai avrei creduto che si lasciasse abbindolare così.”
“È stata una sua scelta! A Ferenthyr disse di voler seguire Nell e l’ha fatto, nonostante Nell abbia cercato a più riprese di dissuaderlo. Reeven è libero di decidere per se stesso.”
“Ciò non toglie che sia un cretino. Quante volte gli ho detto di non fidarsi di un bel faccino? Quante, mh? Ma nulla, lui ci casca sempre. Ragiona solo con il cazzo, ecco cosa!”
“Forse è dovuto alla sua natura demoniaca…”
“È un arrapato cronico perché è mezzo demone?” sorrise divertito Qolton.
“Perché no?”
Il moro liquidò l’argomento con un gesto della mano e si grattò il mento ispido, pensieroso: “All’accampamento, Nell ha rivelato che Ysril gli ha passato alcune qualità demoniache e che i demoni possono fiutarlo.”
“Dove vuoi arrivare?”
“Forse è per questo che Reeven si è attaccato a lui: riconosce in Nell un suo simile. Rifletti, ricorda quella notte nella villa del duca. A Reeven vennero gli occhi rossi quando fiutò Nell. Era come attratto dal suo odore. E al richiamo olfattivo si aggiunge il fatto che Nell è stato il primo che ha incontrato, provocandogli una specie di imprinting, come succede con i pulcini.” 
“I pulcini?”
“Sì. Appena escono dall’uovo, non importa chi o cosa hanno di fronte, pensano subito che sia la loro madre e la seguono ovunque. Nell è il primo pseudo-demone in cui Reeven si imbatte, lo ha riconosciuto a pelle, così lo ha eletto inconsciamente come guida, come madre. Che sia attratto sessualmente da lui non è poi tanto importante.”
“Tu dici? Credi che sia per questo motivo? Una specie di… risonanza di energie demoniache? Ma allora come spieghi il costante stato di eccitazione di Reeven? Cioè, che sia un allupato è ormai noto, ma non è mai stato ossessionato da qualcuno come lo è con Nell.”
“Semplice: Nell ha un bel faccino e Reeven non è indifferente a una bellezza delicata e innocente, anche se di innocente non c’è proprio nulla. Pensa ai suoi amanti. Sebbene non si sia mai fatto mancare alcunché, dato che adora sperimentare e cambiare, ha sempre prediletto individui, maschi e femmine, con fattezze lievemente androgine. I maschi, in particolare, li cercava con tratti fanciulleschi ma non troppo. Intendo dire che Nell è il suo tipo, non stupirti che ne sia attratto. Dovresti preoccuparti piuttosto dell’ascendente di Nell su di lui. E se un giorno decidesse di scatenare la furia del nostro amico contro di noi? Reeven non esiterebbe a farci fuori tutti, lo so io e lo sai anche tu. Hanno instaurato un legame simbiotico allarmante.”
“Perciò qual è il piano?”
“Dobbiamo dividerli, portare via Reeven e liberarci di Nell.”
“E come intendi fare?”
Nell schiuse gli occhi. Non si era mai addormentato, aveva preferito fingere di farlo sia per non insospettire gli altri, sia per dare loro modo di sfogarsi in totale libertà, convinti che non li stesse ascoltando. Si staccò di qualche centimetro e occhieggiò dal basso il viso di Reeven, che, quasi avesse percepito il suo sguardo su di sé, aprì appena le palpebre rivelando di essere più che vigile. Neanche lui aveva mai ceduto al sonno, assecondando invece la recita di Nell come se avesse intuito i suoi desideri. 
Si fissarono a lungo, origliando le parole degli altri due, occhi color sangue immersi in due pozzi azzurri. Il fuoco scoppiettava allegro rischiarando la porzione di terra su cui si erano accampati, ma rendendo anche le ombre attorno a loro più fitte e sinistre.
A un tratto, Nell si morse l’interno di una guancia e affondò le dita nella casacca del biondo.
Dobbiamo andarcene.
Reeven, senza interrompere il contatto visivo, annuì debolmente, quasi lo avesse veramente sentito. E forse era così.









 

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Capitolo 6
*** La solitudine nel cuore ***








 

Alle prime luci dell’alba, Nell e Reeven finsero di svegliarsi. A dispetto dei loro propositi di fuga, non avevano potuto muoversi per tutta la notte, dal momento che gli altri, eccetto le due ragazzine, erano rimasti di guardia intorno al fuoco, incapaci di chiudere occhio. Così, in qualche modo, Nell adesso doveva escogitare una nuova tattica per allontanarsi insieme a Reeven dal gruppo senza provocare uno scontro diretto. Sarebbe stato bello riuscire a convincerli a separarsi con una chiacchierata amichevole, ma, dopo ciò che aveva detto Qolton la notte prima, Nell dubitava seriamente di ottenere qualcosa che non fosse un netto rifiuto. In generale, Qolton era quello che lo preoccupava di più. Era molto affezionato a Reeven e non lo avrebbe lasciato andare tanto facilmente. Forse lo scontro era inevitabile.
Phyroe destò le sorelle e servì loro una zuppa calda fatta con le erbe che avevano raccolto durante il tragitto. Non era molto saporita, aveva un retrogusto amarognolo, ma almeno non avrebbero viaggiato a stomaco vuoto. Strano che nessuna delle due finora avesse aperto bocca, non conoscevano nemmeno i loro nomi. Però, ragionandoci, non c’era da stupirsene: magari erano ancora sotto shock, chissà cosa avevano dovuto subire all’accampamento. Come minimo erano traumatizzate.
Nell e Reeven non toccarono la loro razione e rimasero in silenzio per tutto il tempo a osservare i movimenti nervosi di Qolton e Utros, i quali non cessavano un attimo di scambiarsi occhiate eloquenti. Ormai la resa dei conti era prossima, non potevano più rimandare.
Alla fine, fu Qolton a prendere l’iniziativa. Si pose di fronte a Nell con cipiglio combattivo, la mano poggiata sull’elsa della spada, e lo squadrò dall’alto in basso. Non era una postura rassicurante. Nell non fu immune alla schiacciante soggezione che lo sguardo del moro incuteva, tuttavia rifiutò di mettersi sulla difensiva, sennò rischiava di fornire un vantaggio che Qolton non doveva assolutamente avere su di lui. 
Crede di intimorirmi con così poco? Ne ho passate troppe per fare la figura del fifone davanti a uno che ha più muscoli che cervello. 
L’attacco iniziò senza tanti preamboli, subito dritto al sodo, come Nell aveva immaginato.
“Così non possiamo continuare, te ne rendi conto anche tu. Libera Reeven da qualsiasi sortilegio gli hai fatto e vattene per la tua strada, altrimenti ti ucciderò. E sappi che non mi interessa se sarò costretto a ferire il mio amico pur di farlo rinsavire, è forte, se la caverà.” proferì il moro in tono duro e spiccio, ma comunque composto, quasi si stesse sforzando di mantenere la conversazione su un piano civile.
Il ragazzo si alzò in piedi, imitato da Reeven, che non si mosse di un millimetro dal suo fianco. I suoi occhi rossi erano fissi su Qolton, ma non tradivano alcuna emozione, né rabbia né inquietudine. C’era il vuoto in quei pozzi vermigli, un abisso senza fondo che faceva gelare il sangue.
“Io non ho compiuto alcun sortilegio e non sono uno stregone, ti pregherei di ficcartelo in quella zucca. Seconda di poi, Reeven è un mezzosangue, questa è la sua natura e tu non puoi cambiarlo. Era solo questione di tempo, prima che la rivelasse. Accetta la realtà e smettila di darmi addosso, così non otterrai niente.” ribatté compito Nell.
“Va bene, può darsi che non sia una qualche stronzata magica, ma tu sai di aver fatto qualcosa. E sbagli a pensare che il problema sia la natura di Reeven. Non mi importa cosa è, l’ho già accettato, per quanto sia sconvolgente. Io voglio solo che torni in sé. Questo…” fece un gesto vago verso Reeven, “essere non è Reeven. Non parla, si limita a ringhiare, e i suoi occhi sono malvagi. Forse a te non frega niente, ma a me sì.”
“Che dici? È sempre lui, solo che ti rifiuti di vederlo. Tu vuoi esclusivamente l’umano, e ciò non è possibile. Reeven è sia umano sia demone, non puoi preferire una parte all’altra. E se non riassume le sue vecchie sembianze, è una sua scelta, non dipende da me.”
“Menti.” sputò a denti stretti, “Nell, sai che stai mentendo. E se non te ne accorgi, allora sei tu che ti rifiuti di vedere. Io so che sei in grado di far regredire il suo lato demoniaco, proprio come sei stato in grado di farlo emergere. Ebbene, ti chiedo esattamente questo. Se non per me, fallo per lui. Davvero desideri che viva il resto dei suoi giorni ridotto in questo stato? Senza coscienza di sé, come un animale, una bestia priva di raziocinio o volontà?”
“Reeven ha ancora una volontà. Fa ciò che vuole, non sono io a manovrarlo come un burattino.”
“Non è vero, e tu lo sai! Dannazione, Nell, liberalo. Per favore. Non fargli del male.”
“Non ho intenzione di fargliene!” sbottò seccato, stufo di dover ripetere la stessa cosa cento volte.
“Glielo stai già facendo! Guardalo! Hai innescato il suo risveglio per un motivo, e ammetto che, se non lo avessi fatto, saremmo ancora prigionieri dei banditi. Ma ora basta. Reeven non ci tratterebbe mai così, con freddezza, indifferenza o ostilità, siamo la sua famiglia! Chi sei tu, invece?”
Nell sgranò gli occhi e arretrò di un passo, colpito dalle ultime parole del ladro. 
In quel preciso istante il dubbio si insinuò in lui, serpeggiò nel suo animo e mise radici nel cuore, scuotendo le fondamenta delle sue certezze fino a mostrarle per le illusioni che erano. Realizzò che forse Qolton aveva ragione, era lui nel torto. Non si era mai fermato a riflettere, troppo preso dalla missione, da Ysril, per accorgersene, ma adesso vedeva quanto Reeven fosse cambiato. Non era più il ragazzo che aveva incontrato a Ferenthyr, di lui non era rimasto niente, la sua coscienza sepolta sotto quella del demone, che ora aveva il pieno controllo. Il processo, a guardar bene, era iniziato già prima di lasciare la capitale, in sordina, mutandolo dall’interno come un’infezione che si propaga indisturbata nei tessuti e nel sangue. Nell poteva raccontarsi tutte le storie che voleva, ma in verità era la sua influenza, per motivi ancora ignoti, a spingere Reeven a comportarsi in un determinato modo. Lo aveva messo contro i suoi amici perché era lui, Nell, a non fidarsi di loro; lo aveva reso un cagnolino ammaestrato e usato come arma e scudo perché era lui ad averne bisogno. Non si era curato minimamente di Reeven, dei suoi sentimenti. 
Alla fine era stato il primo a commettere l’errore che addossava a Qolton, e cioè quello di non accettare Reeven per l’ibrido che era: da quando l’aveva scoperto, Nell aveva subito preferito il demone all’umano, e una volta che lo aveva fatto emergere non aveva neanche tentato di rispedirlo indietro. La causa non era difficile da trovare: si era sentito segretamente sollevato di avere accanto a sé una creatura che gli ricordava Ysril, e per un puro impulso egoistico adesso respingeva il pensiero di separarsene. 
Per giunta, aveva dato per scontato che Reeven preferisse quella forma, più forte, istintiva e primitiva, come Ysril, tralasciando che quest’ultimo sarebbe stato disposto a disfarsene per sempre pur di restare al suo fianco. Aveva creduto che anche Reeven ne sarebbe stato felice, proprio come lo era stato Nell quando aveva notato che Ysril, da demone, era ancora più bello e maestoso, semplicemente perfetto immerso nel suo elemento. Si era sentito orgoglioso di aver liberato Reeven, permettendogli di accedere al suo potere latente, di ruggire fiero come un leone, dando sfogo alla furia animalesca che lo affascinava tanto, e gli aveva fatto battere il cuore come se davanti a lui ci fosse il suo sposo. Aveva deliberatamente deciso di ignorare che, forse, non era quello che Reeven voleva. Perché Reeven non era Ysril, e sempre più spesso tendeva a dimenticarselo. Aveva cercato Ysril in Reeven, assecondando la somiglianza nell’aspetto e la natura demoniaca che li accomunava, e nello slancio aveva accantonato quella voce interiore che gli suggeriva che era sbagliato. 
Ogni cosa, a conti fatti, convergeva sempre sul suo compagno, in un circolo vizioso infinito e snervante. Ma, in fondo, Nell non poteva, e non voleva, toglierselo dalla testa: lo aveva amato sia in forma umana che demoniaca, lo aveva sposato e gli aveva dato tutto se stesso, ricevendo in cambio molto più di quanto avesse mai potuto immaginare o sperare. E pian piano, nella sua mente, per via degli eventi tragici che lo avevano perseguitato e delle persone che lo avevano tradito, a partire dal principe Kwan, aveva smesso di fidarsi degli uomini a favore dei demoni, idealizzandoli, convinto che questi ultimi fossero come Ysril e i primi come Kwan. Eppure non era affatto così. Aveva conosciuto umani che gli erano stati amici, come Rory, Dinys e Bawsh, Djibres, la sua famiglia nella valle di Mesil, il suo piccolo Selis. E aveva anche conosciuto demoni malvagi, come Radek. 
Cosa sto facendo?
Si era approfittato di Reeven senza pensarci due volte, perché ormai la mancanza di Ysril si faceva di giorno in giorno sempre più insopportabile, soffocante, bruciante. Lo stava logorando con lentezza, un’estenuante agonia che risucchiava in un buco nero tutto ciò che c’era di buono in lui, lasciando al suo posto un abisso arido di delusione, tristezza e solitudine. Nell ne aveva abbastanza di sentirsi abbandonato, un reietto esiliato dalla terra che lo aveva visto nascere e da quella in cui aveva vissuto anni indimenticabili solo perché incapace di invecchiare. Aveva provato gioia quando Ysril gli aveva detto di avergli fatto dono di un assaggio di immortalità, che gli avrebbe garantito una vita più lunga insieme a lui, giovane e in salute, finché lo avesse voluto. Però, successivamente, via via che il tempo passava e la sua ricerca si rivelava infruttuosa, lo aveva maledetto per averlo condannato a un’esistenza errante, impossibilitato a stabilirsi in un luogo per più di cinque o sei anni, sennò le persone si sarebbero accorte che il suo aspetto non mutava. Tutto quello sarebbe stato tollerabile, se soltanto Ysril fosse stato al suo fianco. Ma lui non c’era, e Nell stava impazzendo di dolore. 
Nonostante ciò, non aveva scusanti, non era stato giusto coinvolgere Reeven. Si sentì uno schifo per questo, faticava a riconoscersi. Cosa gli era successo? Quand’è che era diventato un guscio di carne insensibile e saturo di emozioni negative, refrattario all’altruismo, all’amore e alla gentilezza?
Strinse i pugni e le labbra, il senso di colpa che pesava come un macigno sulle spalle e sullo stomaco. Avvertì le ciglia riempirsi di lacrime amare, la paura per l’imminente distacco che premeva nel suo sterno e nella gola serrata come un uncino imbevuto di veleno.
“Hai ragione, ti chiedo scusa. Sono stato egoista.” proferì laconico, schiudendo i pugni e abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Qolton si stupì e una scintilla di speranza guizzò nei suoi occhi neri, però non abbassò la guardia e lo lasciò terminare senza interromperlo.
“Quando ho incontrato Reeven, ho notato immediatamente una somiglianza con Ysril. Presto, senza che me ne rendessi conto, questo pensiero mi ha soggiogato e ha guidato le mie azioni. Poi, quando si è trasformato, mi è parso di rivedere mio marito e nel mio cuore ho percepito la serenità dopo moltissimi anni, talmente travolgente da scegliere di essere cieco pur di non farmela scivolare via dalle dita un’altra volta. Ma mi sono illuso e solo ora l’ho capito. Mi dispiace. La solitudine che mi opprimeva mi ha annebbiato il cervello.”
Phyroe provò compassione per quel ragazzino. Un attimo dopo, ebbe la visione della sua figura esile stagliata immobile in mezzo a un deserto grigio e roccioso, il cielo sopra di lui coperto da uno spesso banco di nubi e gli occhi simili a due voragini cupe e vuote. Rabbrividì e deglutì, turbata come raramente le era capitato. Si avvicinò e posò con studiata lentezza una mano sulla spalla di Nell, cercando di trasmettergli calore.
“Non sappiamo cosa tu abbia passato, ma di sicuro hai sofferto molto e continui a farlo. Però Reeven non ti appartiene. Ti prego, restituiscilo. O, almeno, dagli l’opportunità di decidere con la sua testa.”
“Lui aveva già scelto di seguirmi prima di trasformarsi.” contestò in tono mesto, scrutando dal basso la donna, “Ritengo ancora che dovrebbe poter conoscere altri suoi simili. Comunque, prometto di non influenzarlo più.”
“No, Nell, non è sufficiente.” si intromise Qolton, ergendosi in tutta la sua statura, così possente da oscurare il sole e fargli ombra.
“In che senso?” chiese aggrottando le sopracciglia sottili e chiare.
“Devi convincerlo a non venire con te a Lankara. È troppo pericoloso.” 
“Chi è che sta decidendo per lui, adesso?” sbuffò infastidito, un sorriso di biasimo dipinto sulle labbra.
“Non fraintendermi. Se è destino che Reeven si imbatta in altri demoni, allora accadrà e noi gli resteremo accanto, ma non sarai tu a forzare questo destino. Come hai detto, Reeven non è il tuo Ysril, perciò devi mollare la presa.”
“Non dipende da me!” obiettò piccato in tono acceso, i muscoli rigidi sotto i vestiti.
“Allora dimmi: cosa succederà quando rivedrai Ysril, mh? Metterai Reeven da parte, come uno scarto? Cosa ne sarà di lui?”
Nell ammutolì, ad un tratto privo di argomenti per confutare la tesi di Qolton. Se poneva Reeven e Ysril su due piatti di una bilancia, il peso si sarebbe inclinato verso il secondo, inutile negarlo. Però avrebbe escogitato qualcosa, doveva pur esserci una soluzione che gli permettesse di tenerli entrambi.
Smettila di essere egoista!
Ricacciò indietro il groppo che gli ostruiva la gola e ignorò l’angoscia che gli stritolava le viscere all’idea di proseguire da solo, di nuovo, proprio quando si era abituato alla presenza di quel gruppetto di ladri. Ma forse era la cosa migliore, forse era così che doveva andare.
“Va bene, tenterò.” si arrese.
Quindi inspirò profondamente, raccolse il coraggio e si girò verso Reeven, che non aveva emesso un suono durante tutta la conversazione, quasi non fosse lì.
“Reeven…” esordì esitante, “Reeven, mi senti?”
Il demone annuì, l’espressione indecifrabile come quella di una statua.
“Chiudi gli occhi. Concentrati sulla mia voce.”
L’altro ubbidì.
Nell gli si accostò, prese il suo volto tra le mani e si umettò le labbra nervoso: “Voglio che torni umano. Immagina le corna che si ritirano, gli artigli che si ritraggono, le zanne che diventano normali denti. Visualizzalo nella tua mente. Calma il tuo istinto, addormentalo. Non c’è più alcun pericolo. Sono al sicuro.”
Trascorsero minuti saturi di tensione, che crebbe d’intensità via via che l’attesa di protraeva senza che nulla accadesse. Nell era sul punto di riprovare, quando all’improvviso Reeven cominciò a mutare: il suo corpo rimpicciolì, tornando alla stazza umana, mentre le corna, gli artigli e le zanne scomparvero e il suo incarnato si fece rosato e florido. Quando riaprì gli occhi, essi erano di un familiare azzurro cielo.
Sbatté le palpebre, l’aria da pesce lesso, fissando prima Nell, poi i suoi amici e il paesaggio attorno.
“Cosa…? Ugh… ho la bocca secca…” gracchiò rauco, biascicò e deglutì, storcendo le labbra in una smorfia disgustata, “Bleah, ma che è? Mi sembra di aver ingoiato un cadavere…”
Qolton, Phyroe e Utros si sciolsero in una risata carica di sollievo. Nell gli sorrise dolcemente e gli donò un’ultima carezza, prima di scostarsi.
“Che è successo? Che avete da ridere?” domandò Reeven, guardandoli tutti come se fossero pazzi.
Dopodiché, noto le due ragazzine, che si tenevano in disparte ai margini della piccola radura in cui si erano accampati.
“Chi sono quelle?”
“Reeven, qual è l’ultima cosa che ricordi?” lo interrogò Utros, squadrandolo attentamente.
“Uhm… ero in una tenda, ammanettato a polsi e caviglie… oh, merda! I banditi! Dove sono?!” esclamò girando su se stesso, i sensi all’erta.
“Tranquillo, siamo fuggiti e li abbiamo seminati.” rispose Qolton sbrigativo.
“Ah, sì?”
“Nell, non devi dire a Reeven qualcosa?” disse Phyroe, lanciando all’interpellato un’occhiata ammonitrice.
Reeven si voltò a fronteggiare Nell, spaesato: “Cosa c’è?”
Il biondino si morse un labbro, poi annuì. Andò a raccogliere la sua borsa e se la mise a tracolla, indossò il mantello e infine gli fece cenno di seguirlo. 
“Devo parlarti in privato.”
“Uh, va bene…” farfugliò, sbirciando confuso i compagni e le loro facce serie, ogni traccia d’ilarità svanita nel nulla.
Represse le parole che gli premevano sulla lingua e si accodò a Nell, mentre l’ansia si depositava a ondate dentro di lui, stratificandosi e cementandosi fino a fargli venire le gambe pesanti. Percepiva uno strano nervosismo strisciargli sottopelle, aveva lo stomaco attorcigliato e le mani sudate. Il sentore di stare per ricevere un colpo mortale lo avvolse in una cappa asfissiante. Non gli erano piaciute le espressioni gravi degli amici, ma ancor meno gli piaceva il silenzio di Nell, che camminava davanti a lui con le spalle rigide e i pugni serrati.
Nell lo condusse al riparo tra gli alberi, poco distante dalla radura, e si fermò ai piedi di una grossa quercia centenaria. Il sole mattutino sfiorava con i suoi raggi la rigogliosa vegetazione, gli uccellini cinguettavano e svolazzavano di ramo in ramo intorno ai nidi e gli scoiattoli uscivano fuori dalle tane per andare in cerca di cibo. Era una bella giornata, calda al punto giusto, eppure Reeven sentiva il gelo nelle ossa.
“Nell, stai bene?” chiese apprensivo.
L’altro ignorò la domanda, preferendo sospirare e passarsi una mano tra i capelli, che emettevano riflessi dorati non appena venivano accarezzati dalla luce dell’astro diurno. Reeven ne rimase ipnotizzato per qualche secondo, trattenendo a stento l’impulso di toccarli, finché l’altro non lo strappò alla contemplazione con poche, incisive parole.
“Ci ho riflettuto e alla fine ho deciso che voglio proseguire da solo.” esalò d’un fiato, imponendo alla voce di non vacillare e allo sguardo di non abbassarsi.
Reeven si impietrì, intuendo dove il discorso di Nell sarebbe andato a parare. Il cuore accelerò e gli occhi iniziarono a pizzicare.
“Ho provato ad adeguarmi alla vostra compagnia, sul serio, ma non fa per me.” aggiunse senza lasciargli il tempo di replicare, “Nemmeno ci conosciamo, in fondo. Non siamo amici. E mio marito è una mia responsabilità, voi non c’entrate niente. Mi dispiace, Reeven. È meglio che resti con la tua famiglia.”
Reeven boccheggiò smarrito, un principio di pallore sulle guance. Poi abbozzò un sorriso incerto e scosse il capo. 
“Dai, Nell. Non è divertente.” 
“Non sto scherzando.”
“Ma hai detto tu stesso che a Lankara potrei trovare uno dei miei genitori! Che senso ha ritrattare ora la proposta di venire con te? Eravamo d’accordo.”
“Reeven, per favore, ascoltami.”
“Ho forse detto o fatto qualcosa che ti ha offeso? Se è così, ti chiedo scusa, non volevo…” continuò dispiaciuto mentre avanzava di un passo con le braccia leggermente sollevate, come se intendesse abbracciarlo o stesse tentando di ammansirlo, alla stregua di un animale impaurito e imprevedibile.
Nell si appoggiò al tronco della quercia e sospirò: “No, non hai fatto niente, sono io che-”
“Non mi reputi all’altezza?” lo interruppe, “So cavarmela egregiamente! E potrei proteggerti in caso di guai, so uccidere molto bene, sono veloce e-”
“Reeven, dannazione, stai zitto e lasciami-”
“È per qualcosa che ha detto Qolton, vero? Che palle, non pensa mai agli affari suoi!” sbuffò esasperato, levando gli occhi al cielo, “Non preoccuparti, me ne occupo io. Gli parlerò, vedrai che capirà…”
“Io non ti voglio!” gridò Nell disperato, non sapendo che altro inventarsi. 
Nell’impeto saltò su una radice che sporgeva dal terreno per arrivare alla stessa altezza di Reeven. Un secondo più tardi, però, fu sul punto di rannicchiarsi con un gemito sofferente, a causa della stilettata al cuore che l’espressione ferita dell’altro gli inferse.
Il tempo parve arrestarsi, il respiro si incastrò in gola. Reeven si strozzò con la saliva e sentì il battito bloccarsi per alcuni dolorosi secondi. Poi il suo corpo si mosse da sé, prima che il cervello realizzasse cosa stesse facendo. 
Raggiunse Nell con un’ampia falcata, intrecciò lo sguardo al suo, lo ghermì per le spalle e incollò le labbra sulle sue. Lo baciò con tutto il trasporto e l’ardore che provava, come un assetato che assaggia un sorso d’acqua dopo giorni. Lo baciò ed ebbe l’impressione di librarsi nel cielo fin oltre le nuvole, inondato dal calore del sole e ubriaco di bellezza.
Fu un gesto istintivo, che entrambi registrarono solo quando furono trascorsi parecchi istanti. Con il fiato sospeso, gli occhi sbarrati e il battito impazzito, non si mossero di un centimetro. In seguito, Reeven tentò di approfondire il contatto sfiorando timidamente con la lingua i denti di Nell, ma bastò quel gesto per provocare la reazione opposta nel biondino, che compì un balzo indietro come scottato, allontanandosi bruscamente con una mano premuta sulla bocca e l’aria sconvolta. 
Nell fu lesto a dargli la schiena per non fargli scorgere le lacrime che gli bagnavano gli zigomi e strinse le dita sulla stoffa della camicia per attenuare il tremore che lo aveva colto. 
“Nell…”
La tristezza nella voce del ladro si conficcò come un dardo in mezzo al petto. Non concepiva tanta sofferenza da distacco per qualcuno che conosceva da poco più di un mese, eppure essa era lì a dilaniarlo come se gli stessero amputando un arto con un coltello arrugginito. E perché non era disgustato da quel bacio? Scioccato sì, ma non disgustato.
Che cavolo sto facendo?! Dei, è mai possibile che mi ficchi sempre nei casini?
Strizzò le palpebre e si obbligò a recuperare le fila del discorso, anche se veniva continuamente distratto dal formicolio che sentiva sulle labbra, là dove si erano unite a quelle di Reeven, quasi protestassero per il repentino allontanamento.
“Tu non sei Ysril, non potrò mai amarti come amo lui. Va’ per la tua strada e non seguirmi.”
In risposta udì un singhiozzo, e poi un altro e un altro ancora, che non tardarono a farsi accompagnare da respiri profondi e singulti. Reeven stava piangendo senza alcun pudore.
“Non mi lasciare… ti prego, Nell…”
Nell fu lì lì per cedere, le gambe simili a massi di pietra immersi nelle sabbie mobili. Desiderava girarsi, corrergli incontro, abbracciarlo e consolarlo, promettendogli che no, non lo avrebbe mai lasciato, era stato uno stupido a sperare di riuscirci e si pentiva di averlo ferito tanto brutalmente. Non sapeva come spiegarselo, erano emozioni prive di logica, del tutto fuori luogo per lui, per loro.
“Non conto niente per te?” soffiò ancora il ladro, in un sussurro flebile e desolato.
Nell sussultò, la risposta pronta sulla punta della lingua: sì, ci teneva eccome. Senza avvedersene, si era legato a quel giovane ibrido. Gli aveva permesso di entrare nel suo mondo come uno sciocco ingenuo. Non aveva imparato proprio nulla in quegli anni? Dal giorno in cui era partito dalla valle di Mesil, si era imposto una sola, semplice regola: nessun legame, di alcun genere, per nessuna ragione. Invece eccolo lì, affezionato a un ladro col quoziente intellettivo di un cucciolo. E tutto perché gli ricordava Ysril. Anzi, c’era di più. Il venire a conoscenza della sua natura demoniaca gli aveva suscitato una tenerezza istantanea; il suo ignorare cosa realmente fosse e il conseguente disorientamento che doveva aver provato fin dalla nascita lo avevano spinto a desiderare di accudirlo; il pensiero di condividere quell’avventura con Reeven gli aveva alleggerito l’anima dai sentimenti negativi che da troppo tempo lo tenevano in ostaggio. Con lui si sentiva bene… si sentiva a casa.
Scrollò la testa con veemenza. Era tutto dannatamente sbagliato. Ma se lo era, allora perché il suo corpo gli urlava di tornare indietro come se ne andasse della sua vita? Perché l’istinto gli diceva che Reeven era un pezzo fondamentale del suo essere?
Nell esaurì le energie nella lotta contro l’esigenza di stringerlo a sé e asciugare le sue lacrime, nemmeno ci provò a combatterla sul serio, rassegnato in partenza a capitolare. Smise di opporsi, non potendo far altro che soccombere al richiamo di Reeven, al suo pianto angosciato, e accennò a voltarsi, quando Qolton e Utros balzarono fuori dalla selva e bloccarono Reeven per le braccia, uno per lato.
“Smettila di frignare! Hai sentito, no? Non ti vuole. Forza, andiamocene.” lo esortò il moro, cercando un contatto visivo che il biondo si ostinava a negargli, concentrato totalmente sulla figura minuta di Nell.
“Portami con te… non abbandonarmi… non rinnegarmi anche tu…” singhiozzò, avanzando di un altro passo e portandosi appresso i due compagni, che niente poterono contro la sua forza sovrumana.
“Mi dispiace…” mormorò Nell affranto.
“Posso rimediare! Qualsiasi errore io abbia commesso, posso rimediare se me ne darai l’occasione. Non ti deluderò, lo giuro! Nell, ti prego! Farò qualsiasi cosa, qualsiasi…” supplicò, sempre più vicino, per poi protendere una mano verso di lui.
“Mi dispiace.” proferì di nuovo il ragazzo con voce incrinata. 
Senza frapporre ulteriori indugi, scappò letteralmente a gambe levate e in pochi secondi scomparve alla vista, inghiottito dal bosco. 
Reeven seguitò a chiamarlo, a gridare il suo nome a squarciagola, con le lacrime che gli rigavano le guance scavando solchi salati sulla pelle e il cuore che, di minuto in minuto, si riempiva di crepe profonde e sanguinanti. Emise un lamento straziante, tale che perfino i due compari avvertirono uno strappo al livello del petto, e si dimenò come un’anguilla per sfuggire alla presa ferrea di Utros e Qolton, che ormai faticavano a tenerlo fermo. Quando Reeven partì al galoppo, vennero trascinati per svariati metri tra i cespugli, aggrappati alle braccia del biondo come inutili appendici.
“Nell! Nell!” 
Il ruggito disperato di Reeven si propagò fra gli alberi spaventando gli animali e giunse chiaro e forte alle orecchie di Nell, che digrignò i denti e si obbligò ad aumentare il ritmo della corsa, anche se gli risultava difficile respirare e vedere dove andava, la vista offuscata da una patina liquida.
“Qolton, non ce la faccio!” sibilò Utros, la faccia rossa per lo sforzo.
“Reeven, calmati! Fermati!”
La trasformazione avvenne in una manciata di attimi. Fu inaspettata e terribile per i due umani, che si ritrovarono a volare a tre metri da terra alla stregua di piccole e insignificanti pulci, per poi precipitare al suolo con un tonfo e un gemito.
Reeven mise le ali ai piedi, le iridi rosse come il sangue con le pupille verticali focalizzate di fronte a sé, mentre il naso era impegnato a individuare la scia dell’odore di Nell nella boscaglia. Sfrecciò veloce come il vento, un’ombra indistinta tra la vegetazione, animato da una frenesia che gli riempiva i muscoli di una forza equiparabile a quella di cento uomini. 
Udì il battito del cuore di Nell, segno che era vicino, e corse ancor più rapidamente, impaziente di rivederlo, stringerlo e inalare il suo odore dolce e buono, che sapeva di casa, di famiglia. Si approssimò al confine del bosco, dove gli alberi erano più radi, e lì lo scorse che arrancava sulla pianura accarezzata dai raggi obliqui del sole, la borsa che veniva sballottata in qua e là e i capelli color dell’oro corteggiati dal vento. Uno strano verso rotolò fuori dalle sue labbra nere, un suono a metà tra il sollievo e la paura di non riuscire a raggiungerlo in tempo, l’ennesimo richiamo che pregò venisse ascoltato. Mancava solo una falcata, e poi sarebbe uscito allo scoperto. 
Ad un tratto, qualcosa lo punse sul collo. Subito la vista si appannò, il suo corpo divenne un ammasso di gelatina e i piedi inciamparono in una radice, facendolo finire bocconi, con la faccia spalmata sull’erba. I muscoli guairono, le articolazioni stridettero, le convulsioni presero d’assalto le sue membra e il cervello andò in fiamme. Poco dopo giacque inerte come un cadavere.
“L’hai preso?!” urlò Qolton, nascosto nella selva a un centinaio di metri di distanza.
“Sembra di sì!” berciò di rimando Utros, appollaiato in cima a un albero, su un ramo alto, mentre osservava lontano giocherellando con la cerbottana. 
“Bel tiro.”
“Grazie!”
Phyroe sospirò e ripose nella borsa la boccetta di veleno in cui aveva intinto la freccia di Utros. Poi si rivolse a Qolton, che camminava barcollante coprendosi la nuca, una smorfia funerea sulla bocca.
“Stai bene?”
“Sì, sì. Mi verrà solo un bernoccolo. Riportiamolo qui, coraggio.” grugnì.
“È il caso di legarlo? Qualcosa mi dice che non sarà contento quando si sveglierà.” commentò Utros, mentre scendeva agile come un felino dall’albero.
Le due sorelle avevano spiato tutta la scena in silenzio da dietro un grosso tronco. La maggiore assottigliò lo sguardo e storse la bocca con palese disappunto, artigliando la corteccia con le unghie. Se solo i tre ladri si fossero voltati a guardarla, avrebbero notato i suoi occhi enormi e completamente neri, inumani, ma così non fu. 

Reeven dormì per un giorno intero. Qolton aveva provato a caricarselo in spalla, ma era troppo pesante, anche se aveva riassunto sembianze umane. Così restarono accampati nella radura ad attendere il suo risveglio pazienti, cosa che avvenne nel primo pomeriggio del dì successivo alla fuga di Nell.
Il biondo aprì gli occhi dopo vari tentativi, per poi schermarseli con una mano quando furono aggrediti dalla luce del sole. Mugugnò corrucciato. La testa gli scoppiava e lo stordimento gli dava la sensazione di trovarsi su una nave in mezzo a un fortunale. 
Non passarono che pochi attimi, prima che Phyroe entrasse nel suo campo visivo con cautela.
“Come stai?”
“Uhm… peggio di quando mi ubriacai col sidro quella volta alla taverna. Notte indimenticabile.” bofonchiò con voce roca e impastata.
“Se riesci a fare battute è un buon segno. Alzati lentamente.” lo incoraggiò, aiutandolo a sorreggersi.
Utros, seduto su un masso, lo studiò guardingo, pronto a intervenire, mentre le due ragazzine si fingevano indifferenti. La minore stava intrecciando i capelli all’altra e parevano immerse in un mondo tutto loro.
“Dov’è Qolton?” chiese Reeven, stupito di non vederlo.
“A caccia, sarà di ritorno fra poco. Hai fame?”
“Sì…”
Phyroe andò a prendere un involto di stoffa e glielo portò. All’interno c’erano gli avanzi del pranzo, ancora carne di lepre insaporita con erbe aromatiche. Reeven non fece complimenti e la divorò in un battibaleno. Solo quando terminò il pasto si accorse di un dettaglio mancante.
“Nell?” chiamò, osservando la boscaglia con crescente apprensione.
“Se n’è andato. Ricordi?” rispose esitante la rossa, accennando a sfiorargli delicatamente la spalla.
Reeven scansò il suo tocco e si tirò in piedi di scatto. Utros lo imitò, la mano nascosta sotto il mantello a stringere la cerbottana. 
Il biondo lo fissò stranito e all’erta, confuso da quell’atteggiamento ostile, quando all’improvviso rammentò le parole di Nell, i suoi “Mi dispiace”, il bacio, le lacrime e il mondo gli crollò addosso, aprendo una voragine sotto di lui. Si sentì morire. Inspirò ed espirò velocemente, percependo il panico spandersi in ogni fibra del suo corpo simile ad acido corrosivo.
“Reeven, sta’ calmo. È stato meglio così.” lo blandì Phyroe.
“No! Perché mi avete fermato?!” sbottò, di nuovo sull’orlo di una crisi.
Si scostò dall’amica e arretrò come un animale ferito. Un’espressione tradita e sgomenta gli deformava i lineamenti del volto, pallido e segnato da occhiaie violacee, mentre rabbia mista a frustrazione gli mordeva cuore, stomaco e viscere.
“Siete stati voi.” sibilò poi furioso, scagliandosi contro Phyroe perché era la più vicina, “Voi lo avete convinto ad abbandonarmi, lui non l’avrebbe mai fatto!”
“Sì, siamo stati noi a farlo riflettere.” dichiarò Qolton, apparso in quel momento nella radura con due fagiani morti legati alla cintola, “E alla fine ci ha dato ragione. Se ti può consolare, è stata una decisione sofferta, Nell non voleva davvero lasciarti.”
“Perché?”
“La sua missione non è mai stata di nostra competenza, Reeven. Ti sei immischiato in qualcosa che nemmeno immagini, convinto di avere una sorta di legame con Nell, ma credimi quando ti dico che tra voi non c’è mai stato nulla. Era solo un’illusione, e prima lo capisci meglio sarà.”
“Io ce l’ho un legame con lui! Sei tu che non lo vedi, sei tu che non puoi e non vuoi capire!” gridò in preda alla collera.
Qolton sospirò, imponendosi la calma: “Invece capisco benissimo, e alla fine non ci vuole un genio, è abbastanza palese.” 
“In che senso?”
“Pensi di amarlo.” sentenziò deciso.
Reeven si paralizzò, mentre ulteriori invettive finivano soffocate dall’incredulità. Poi, di punto in bianco, scoppiò a ridere. La sua non fu una risata allegra, anzi, trasudava ironia e amarezza.
“Qolton, tu non hai idea…” sbuffò sorridendo, gli occhi tristi e pregni di angoscia.
“Allora spiegami. Ti ascolto.” ringhiò, scaraventando i fagiani per terra con un gesto scocciato.
“Non servirebbe.”
“Provaci. Sono qui, sono tuo amico e gli amici ascoltano.” scandì senza imbarazzo, serio e a braccia conserte.
Reeven inarcò un sopracciglio e lo squadrò con scetticismo, ma alla fine raccolse la sfida. Sollevò il mento, gonfiò il petto e raddrizzò la schiena, stagliandosi fiero contro il sole del meriggio.
“È molto più di un banale amore romantico. È qualcosa che trascende qualsiasi sentimento terreno, qualsiasi attrazione fisica. Certo, farei volentieri sesso con Nell, e certo, lo amo infinitamente, ma non c’è solo questo.”
“Nella biblioteca del duca hai avuto un colpo di fulmine?” indagò sarcastico il moro.
“Non so come descriverlo, in realtà. Colpo di fulmine è riduttivo. Quando l’ho visto… è stato come se l’universo mi parlasse, come se mi dicesse che finalmente ero a casa. Ciò che provo per Nell è… assoluta appartenenza. Lui è mio e io sono suo. Capisci?”
“No. Perché lo conosci da un mese o poco più e non è possibile affezionarsi tanto a una persona in così poco tempo. Lo capirei se ti avesse salvato la vita, se avesse fatto qualcosa di buono per te, ma Nell si è da subito dimostrato scostante, freddo, per nulla propenso ad accettare la nostra e la tua compagnia. Forse a un certo punto si è aperto di più per agevolare la convivenza forzata, ma non ha mai rivelato molto di sé, preferendo custodire i suoi segreti. Ci ha tagliati fuori tutti, te compreso. Probabilmente, ti dava corda per pietà.”
“Qolton!” esclamò Phyroe, rivolgendogli un’occhiata di rimprovero.
Reeven indietreggiò, i pugni stretti lungo i fianchi e la mascella contratta.
“Comunque, nonostante il suo carattere, è evidente che Nell è una persona buona. Di sicuro ti ha assecondato per non ferirti. Sai anche tu quanto puoi essere petulante quando ti impegni.” proseguì Qolton, sordo ai taciti avvertimenti di Phyroe, “Io ho agito da amico, Reeven, ti conosco da tanti anni e so come sei fatto. Ecco, semmai sono io ad avere un legame con te, un legame che abbiamo costruito insieme spalla a spalla, superando le avversità e aiutandoci a vicenda. Io ti ho tirato fuori dalla miseria in cui eri precipitato, io ti ho restituito la dignità, io ti sono rimasto accanto garantendo per te e parandoti il culo quando ne avevi bisogno. Invece cos’ha fatto Nell? Niente! Ha sbattuto le ciglia e tu sei caduto ai suoi piedi, ecco cosa!”
“Ti sbagli! Nell ci tiene a me, lo sento, lo so. Abbiamo un legame che-”
“Finiscila con questo maledetto legame!” sbraitò Qolton, le vene sul collo che pulsavano di collera.
A quel punto, Utros decise di intervenire, dato che fra tutti era quello con il temperamento più mite. Forse poteva ancora salvare la situazione, prima che degenerasse ulteriormente.
“Qolton, controllati, così non aiuti nessuno. Reeven, ti prego, ascolta.”
Reeven schioccò la lingua e voltò il capo, imbronciandosi come un bambino che fa i capricci.
“Posso immaginare quanto sia difficile per te. Non fatico a credere che ciò che provi per Nell sia reale, non l’ho mai messo in dubbio, perché è chiaro come il sole. Ma il fatto è che Nell non ti ricambia, ha solo Ysril per la testa. Quello che abbiamo voluto fare noi è stato proteggerti, perché quel ragazzino in futuro ti avrebbe spezzato il cuore.”
“Oh, sei pure un veggente adesso?” sputò beffardo.
“Sai perché Nell ci ha dato ragione e ha scelto di lasciarti? Gli abbiamo posto un semplice quesito: che ne avrebbe fatto di te, qualora avesse ritrovato il suo Ysril? Non ha risposto, ma la sua faccia ha detto molte cose. Poi può anche darsi che non lo riveda mai più, ma se lo rincontrasse tu faresti la stessa fine dei rifiuti gettati in mezzo alla strada. Nell non è mai stato tuo, appartiene a Ysril. Sai che è così. Noi ci siamo impegnati affinché ciò non ti dovesse mai accadere, affinché tu non sperimentassi mai un simile abbandono. Ti vogliamo bene, sei parte della famiglia, conosciamo il tuo passato e siamo consapevoli di quanto tu sia fragile anche se non vuoi darlo a vedere: sei suscettibile ai rifiuti e ai distacchi, non tolleri il tradimento in nessuna forma. Di conseguenza, abbiamo agito nella speranza di salvarti ora da un dolore futuro molto più grande. Non odiarci per questo.”
Reeven parve afflosciarsi, spegnersi come un fuoco sotto una secchiata d’acqua gelida. La sua schiena cozzò contro il tronco di un albero e si fece scivolare al suolo, privo di forze, lo sguardo vacuo e triste di un uomo che ha perso tutto.
Il silenzio calò sulla radura. Nessuno ebbe l’ardire di insistere, quello che doveva essere detto era stato detto, non v’era più nulla da aggiungere. Lo lasciarono ai suoi pensieri, certi che non avrebbe più tentato di scappare, almeno per il momento.
Le ore passarono, il sole tramontò cedendo il posto al cielo stellato, abbellito da una falce di luna, e le tenebre avvolsero il bosco. Qolton accese il fuoco per cuocere i fagiani, Phyroe sminuzzò le erbe per condirli e Utros, armato di ago e filo, ricucì uno strappo nel mantello. Quando la cena fu pronta, mangiarono velocemente senza spiccicare parola. 
Reeven non toccò cibo, non aveva fame. Sedeva come una marionetta senza fili sulle radici dell’albero, gli occhi fissi nel vuoto e i capelli a coprirgli parte del viso, simili a una tenda color grano. Nel suo cervello vorticavano una miriade di domande e constatazioni dolorose che si riproponevano a ritmo alterno, in un ciclo infinito che pian piano lo stava fagocitando, brandello dopo brandello, pezzo dopo pezzo. 
Gli sembrava di essere morto dentro. Non aveva più alcun motivo per andare avanti, per vivere un altro giorno. Si era spesso vantato di essere coraggioso, sprezzante di fronte al pericolo e temerario nel superare gli ostacoli, non aveva mai temuto niente. Niente, eccetto una cosa: l’abbandono. Esso era radicato nel punto più profondo della sua anima come un seme maligno, che mai gli dava tregua. D’altronde, era stato allontanato prima dai suoi genitori quando era ancora in fasce, indifeso e bisognoso di cure, poi dagli amici all’orfanotrofio per via delle sue stranezze e infine dalla direttrice, che lo aveva cacciato dall’unico luogo che era stato il suo prezioso rifugio, una casa in cui aveva sperato di ricominciare e trovare la sua strada. Tutti lo avevano tradito. Così aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più affezionato a qualcuno, tanto da permettergli di impugnare il coltello dalla parte del manico. Non avrebbe concesso più fiducia a nessuno e avrebbe chiuso a chiave il suo cuore per sempre. 
Per molto tempo era saltato di letto in letto evitando di instaurare legami, pur sapendo che l’assenza di una persona da amare e da cui essere amato prima o dopo lo avrebbe condotto a un fato peggiore della morte, ma all’epoca non gli importava. Il sesso gli dava l’illusione, per qualche effimero secondo, di aver condiviso qualcosa di importante, era una comunione di corpi che lo appagava e gli alleggeriva l’anima, e anche se durava sempre troppo poco se lo faceva bastare. Se avvertiva montare la frustrazione, la sfogava nelle risse clandestine, rigurgitava la rabbia e la solitudine attraverso pugni e calci, riversando tutto sul malcapitato di turno, e una volta liberatosi della negatività tornava a fare sesso. 
Questa era stata la sua vita finché non aveva incontrato Qolton, a cui doveva moltissimo. La gratitudine che sentiva per lui era autentica e smisurata, e negli anni aveva cercato di ripagarlo come poteva. Nella banda di Suna aveva scoperto un surrogato di famiglia, qualcosa che dapprima lo aveva sconcertato, ma dopo mesi di esitazioni e scrupoli alla fine si era lasciato andare. Qolton era diventato il suo mentore, un padre e un fratello maggiore, come Suna. Phyroe era una sorella e la migliore amica che non aveva mai avuto - le sue avances non erano mai state altro che un gioco per mascherare il sincero affetto che nutriva per lei, non aveva mai avuto davvero intenzione di unire i loro corpi in un amplesso -, mentre Utros era un fratello e Benial lo zio antipatico. Stare con loro era divertente e gli scaldava il cuore più del sesso condiviso con uno sconosciuto.
Poi aveva conosciuto Nell. Aveva creduto fermamente di aver infine trovato qualcuno da poter considerare allo stesso tempo famiglia, casa e potenziale amante, qualcuno da poter innalzare a suo tutto, a suo mondo, a suo destino. Invece era stato tradito, di nuovo. E faceva ancora più male di quando era stato abbandonato da genitori, amici e direttrice, perché loro non erano niente in confronto a Nell. 
Eppure non capiva. Perché Nell lo aveva lasciato indietro? D’accordo, c’era Ysril e la missione a Lankara, ma per quale motivo scartarlo in quel modo? Avrebbe potuto aiutarlo. Lo aveva visto piangere prima di fuggire, segno che non voleva sul serio andarsene. Quindi perché? E dubitava che Qolton avesse un ascendente tanto forte su Nell da manovrarlo come un pupazzo, la scelta era stata del biondino.
Perché mi hai voltato le spalle? Ti amo così tanto… perché mi hai fatto questo?
E se avesse avuto paura del suo amore? Beh, se anche Nell lo avesse respinto, come difatti era accaduto, Reeven gli sarebbe rimasto comunque accanto come amico, senza pretendere niente di più, tanto profondo era il sentimento e il rispetto che provava per lui. Possibile che Nell, al contrario, avesse pensato che non avrebbe accettato un “no”? Forse aveva temuto che reagisse male al rifiuto e, per trarlo fuori dall’imbarazzo, aveva deciso di mollarlo lì. Allora, a maggior ragione avrebbe dovuto raggiungerlo e parlargli, spiegare che si sarebbe accontentato dell’amicizia.
Un movimento ai margini del suo campo visivo lo distolse dalle sue riflessioni. Alzò appena il capo, imbattendosi nella figura gracile di una delle due ragazzine, quella più grande, che si stava avvicinando con aria circospetta. Avanzava accovacciata sui talloni, lentamente, analizzando il linguaggio del corpo del biondo con sguardo vigile. Il vestito lacero e sporco strusciava sul terreno e i lunghi capelli aggrovigliati erano un cesto crespo e unto sul cranio. Sotto le unghie c’era del fango secco e su polsi e caviglie spiccavano abrasioni e lividi.
Reeven la scrutò seccato, ma non la scacciò, vinto dalla compassione. Attese che lei gli si sedesse a fianco, sulla destra, e non mostrò fastidio quando si abbarbicò al suo braccio. Era confuso, però tutto sommato si ritrovò ad apprezzare quel contatto. E poi non aveva certo nulla da temere da una ragazzina tanto piccola.
Phyroe scoccò loro un’occhiata incuriosita, ma non commentò. Li controllò per qualche minuto, per accertarsi che Reeven non le facesse del male, quindi si rigirò verso il fuoco e afferrò un ramoscello per ravvivarlo, osservando le scintille danzare nell’aria. 
Ad un tratto, la ragazzina iniziò a cantare. Più che altro erano mugolii e gorgheggi, una dolce melodia priva di parole, ma la ninnananna fece il suo effetto e in pochi minuti i ladri cedettero al sonno, senza accorgersi che c’era qualcosa di strano. Soltanto Reeven  rimase sveglio.
Il biondo si impietrì e guardò con inquietudine gli amici.
“Non aver paura, stanno solo dormendo.” sussurrò la ragazza, curvando le labbra in un sorriso.
Era la prima volta che parlava. Reeven notò che aveva una voce adulta e sensuale, che mal si accordava col suo aspetto adolescenziale.
“Chi sei?”
“Sono tua amica.”
“Ne dubito.” sibilò ostile, scansandosi di lato.
“Reeven, ascoltami. Nell non può farcela senza di te, ha bisogno del tuo aiuto.”
Il ladro si adombrò e la domanda gli uscì cupa e minacciosa: “Che intendi?”
“Devi raggiungerlo. Sarà perduto, se non lo farai. Dovrai recarti a Lankara e intercettarlo. Io posso mostrarti la via.”
“Come fai a conoscerla? No, anzi, chi accidenti sei?”
“Mi chiamo Noara e sono una strega.” rivelò, scrutandolo in tralice.
“U-una strega?”
In quel momento, l’aspetto della ragazzina mutò. Crebbe di statura, si irrobustì e i tratti del suo volto si ricomposero armoniosamente in quelli di una donna giovane e molto avvenente. I capelli castani divennero lisci e puliti e si raccolsero in un’acconciatura elegante sulla nuca, gli occhi assunsero una sfumatura color ghiaccio, la bocca si fece carnosa e ben disegnata, la pelle bianca e serica come il latte. Sull’occhio sinistro spiccava una cicatrice verticale, che tagliava il sopracciglio e terminava sullo zigomo. Indossava un lungo abito nero, adesso, attillato e sobrio. Il corpetto le fasciava il busto sottile, e il seno prosperoso formava due morbide dune incorniciate da una collana di rubini.
Allo stesso modo, anche la sua compagna cambiò le proprie sembianze, solo che si trasformò in un gufo e si appollaiò sulla spalla della strega. Aveva il manto grigio, con alcune piume bianche intorno al collo e altre nere sulle ali. Gli occhi grandi e gialli erano fissi su di lui, immobili e inquietanti.
“Lei è il mio famiglio, il suo nome è Jemma. È un po’ scontrosa, non farci caso.”
Reeven trasalì, preso alla sprovvista, e boccheggiò incapace di articolare una frase di senso compiuto. Rimase colpito dalla bellezza della donna, ma non si lasciò ingannare. Poteva sbagliarsi, non aveva mai conosciuto una strega e, per quanto ne sapeva, magari era innocua e gentile, eppure il suo istinto lo mise in guardia, suggerendogli di non fidarsi.
“Tranquillo, non sono qui per farti del male. Mi hai salvata dai banditi, perciò ti devo la vita. Ti aiuterò a ricongiungerti a Nell.”
“Come sarebbe a dire che ti ho salvata? Sei una strega, hai dei poteri magici, avresti potuto salvarti da sola.” commentò poco convinto.
“Le catene che mi imprigionavano erano intessute di magia, non potevo fare niente.”
“Se anche fosse, perché sei rimasta con noi dopo?”
“Per te. Ti devo la mia libertà, aspettavo solo l’occasione propizia per restituirti il favore.”
Noara si sporse verso di lui e, prima che Reeven avesse il tempo di arretrare, gli afferrò saldamente la testa. 
In un attimo, tutto ciò che era successo all’accampamento sfilò davanti alle sue retine, facendogli rivoltare lo stomaco. Rivisse tutto quanto una seconda volta, le immagini talmente vivide da suscitargli un terrore atavico e annichilente. Udì nelle orecchie i nitriti dei cavalli mischiati alle grida dei predoni: quei versi agonizzanti erano musica soave, gli davano la giusta carica mentre affondava gli artigli nelle loro viscere e li squarciava da parte a parte. Vide il sangue sul terreno, sulle tende, sulle spade, sugli artigli, ne sentì il sapore sulla lingua. Le sue zanne perforavano carni, strappavano muscoli e laceravano tendini, poi la gola si contraeva e ingoiava e la pancia si riempiva, mai sazia di banchettare con carcasse umane. Il fuoco divampò, lambì i cadaveri più vicini e li consumò fino a carbonizzarli, saturando l’aria del fetore di carne bruciata. I cavalli si liberarono e scapparono, imbizzarriti e spaventati, mentre lui parava con facilità assalti e fendenti, spezzando ossa a mani nude come se fossero fatte di fragile vetro. Poi, reso euforico dalla caccia, rincorse quelli che tentarono di fuggire e ne fece scempio, imbrattando gli alberi, i massi e l’erba delle loro interiora. Non riusciva a fermarsi, ne voleva di più, ancora di più, ma alla fine non rimase nessuno. Attorno a lui c’erano soltanto corpi martoriati e dilaniati, moncherini e brandelli di organi sanguinolenti sparsi qua e là come coriandoli. 
Non appena Noara lo lasciò, Reeven ricadde carponi, scosso da conati di vomito e brividi, scioccato da se stesso e da ciò che aveva fatto. Mai era stato così brutale, insensibile, crudele. Se doveva uccidere, lo faceva in modo pulito e rapido, non godeva a vedere la sofferenza riflessa negli occhi delle sue vittime. Eppure all’accampamento aveva gioito nel torturare e smembrare, quasi non avesse desiderato altro da tutta la vita.
“Sono un mostro… oh, dei…” balbettò dondolandosi sui talloni, si strofinò le guance per asciugare le lacrime e singhiozzò, “Avevano ragione… hanno sempre avuto ragione su di me… gli altri bambini, la direttrice… loro sapevano, avevano intuito tutto. Persino i miei genitori devono averlo capito. Dei, cos’ho fatto? Sono un mostro!”
“Non temere ciò che sei, Reeven, poiché grazie alle tue abilità potrai aiutare Nell ad arrivare a Lankara. Lui non ha sangue di demone in sé, ma tu sì, e questa è l’unica cosa che conta laggiù. C’è un passaggio che può essere attraversato soltanto dai demoni, per gli umani è impossibile perfino individuarlo. Tu lo guiderai fin lì e oltre e lo proteggerai, mentre io guiderò e proteggerò te.”
“No! Non posso… non sopporterei di fargli del male! Se impazzissi di nuovo…”
“Non preoccuparti, nel caso in cui dovessi perdere il lume della ragione ci penserò io trattenerti.”
“Chi mi dice che non mi tradirai? Chi mi dice che non scapperai appena le cose si metteranno male? Chi mi dice che le tue intenzioni sono sincere?”
“Nessuno, devi solo avere fiducia.”
“Non ti conosco. Tutto questo potrebbe essere un inganno.”
“Bene, dunque, a te la scelta: restare con i tuoi amici e far sì che Nell vada incontro alla morte, oppure partire con me, ora.”
Reeven si calmò e tacque per lunghi secondi, riflettendo sulle prossime mosse. Era combattuto. In fondo, Nell lo aveva abbandonato, perché mai avrebbe dovuto corrergli dietro per salvarlo? Il desiderio di rivederlo era sempre più forte, insopprimibile, non riusciva ad ignorarlo, tuttavia lo tenne a bada.
“Non lo so. Qolton potrebbe essere nel giusto, forse non è il mio destino stare con Nell. Una volta che si riunirà a Ysril, io smetterò di esistere per lui.”
“Nell ci tiene a te.” mormorò Noara, sorridendo incoraggiante.
“Allora perché mi ha abbandonato?!”
“Credeva di agire nel tuo interesse. Invece tu gli mostrerai che si sbagliava, gli farai capire che la tua presenza gli è indispensabile, che non potrà mai fare a meno di te.”
“Ed è così?”
“Hai paura?” rilanciò lei, glissando. 
“Non voglio più vedere la sua schiena che si allontana.”
“Allora che aspetti? Corri, raggiungilo.”
“Non so nemmeno dove è diretto!”
“È andato a Dun’har. Se ci muoviamo adesso, arriveremo tra due settimane.”
“Due settimane?!”
“Sì… a meno che tu non usi i tuoi poteri. Nell non dorme e non mangia, non compirà alcuna sosta lungo il tragitto, quindi è probabile che impiegherà sei o sette giorni. Tuttavia, non è veloce come te quando sei trasformato. Al massimo, giungeremo a Dun’har con un giorno di ritardo.”
“D’accordo, ma io non so come trasformarmi. E quando sono in quello stato, non ho il controllo.”
“Ti insegnerò io.”
“Come? Hai già avuto a che fare con i demoni?”
“Qualche volta… molto tempo fa.” disse con un sorriso enigmatico e freddo.
“E con gli ibridi?”
“Mai. Ma ho osservato Nell, forse ho capito come ci riesce.”
Reeven titubò, perdendosi a scrutare i volti dei compagni addormentati intorno al fuoco. Gli dispiaceva andarsene senza neanche un saluto o un ringraziamento, ma sapeva che se ne avesse parlato con loro lo avrebbero dissuaso. Se Nell era in pericolo, doveva soccorrerlo. E quando fossero stati di nuovo faccia a faccia, gli avrebbe mostrato quanto forte era il legame che li univa, non avrebbe più potuto negarlo.
“Io, ecco… non è meglio aspettare almeno un giorno?”
“Perché?”
“Sono in debito con Qolton, non posso lasciarlo così.”
“Capirà.”
“Ho seri dubbi al riguardo. E poi, anche se me ne andassi, non si darebbe per vinto. Tu non lo conosci, una volta che si fissa su qualcosa…”
“Ti ripeto che la scelta è soltanto tua, ma devi compierla, Reeven. Nell o i tuoi amici.”
Il ladro conosceva già la risposta, in cuor suo aveva già scelto, ma l’amaro del senso di colpa non accennava a dargli tregua.
“Se pensi a Nell, a cosa lo associ?” tornò alla carica Noara con voce suadente.
“Casa, sicurezza, protezione, amore, calore, appartenenza…” elencò senza alcuna esitazione.
“E se pensi a Qolton cosa provi?”
“Gratitudine, amicizia, complicità, fiducia.”
“Il tuo verdetto?” lo incalzò.
Reeven chiuse gli occhi, sospirò e strinse le labbra in una linea dura. Avvertì i muscoli formicolare, quasi fossero in procinto di scattare al minimo stimolo. Attendevano solamente un piccolo comando.
“Andiamo.” proferì asciutto.
Noara si alzò in piedi con espressione vittoriosa. Il gufo, irritato dal movimento, sbatté le ali e volò via, oltre le chiome degli alberi, tuffandosi nell’oceano buio sopra di loro. La strega sorrise a Reeven, intrecciò la mano con la sua e gli accarezzò la guancia con l’altra, in una tacita approvazione. Dopodiché, si avvicinò ai ladri, si inginocchiò accanto a ognuno di loro e recitò un incantesimo di cui Reeven non carpì una sola sillaba.
“Che hai fatto?” la interrogò diffidente.
“Una piccola precauzione. Ho cancellato temporaneamente la loro memoria, domani si sveglieranno senza alcun ricordo di noi. Si ristabiliranno fra tre giorni, ma questo ci darà un vantaggio.” spiegò, poi tornò da Reeven, si pose di fronte a lui e lo squadrò con insistenza, “Ora concentrati. Ricorda le emozioni che ti hanno travolto quando eri un demone. Ricorda l’euforia, l’energia che irrorava il tuo corpo, la sete di sangue. Richiama alla mente tutto quello e lascia che emerga ancora.” bisbigliò a pochi centimetri dal suo viso, l’alito caldo che gli sfiorava la bocca socchiusa.
Reeven fece come richiesto, ma non ottenne alcun risultato: “Non ce la faccio… ho troppa paura.”
“Pensa a Nell. Lo stai facendo per lui, per proteggerlo. I suoi nemici sono potenti, mentre lui è indifeso e solo. Ucciderai i suoi nemici? Lo salverai? Ti bagnerai del loro sangue in suo onore?”
La strega seppe di aver pronunciato le parole magiche quando vide le labbra del biondo tingersi di nero. Poco dopo, l’incarnato si fece grigio, due corna perforarono la pelle delle tempie, i denti si allungarono e affilarono, le unghie si arcuarono in artigli e la sua mole raddoppiò. Quando fissò gli occhi rossi in quelli azzurri di Noara, lei ghignò e aderì con il corpo a quello di Reeven, premendo il seno sul suo torace solido e ampio.
“Sei bellissimo.” lo lodò civettuola, per poi scoccargli un bacio languido all’angolo della bocca, “Avanti, seguimi, il tempo vola.”
Reeven ubbidì, la volontà azzerata da un istinto primitivo e animale, la mente focalizzata su un unico pensiero: trovare Nell.
Sopra le loro teste, il gufo cavalcò il vento sfiorando con gli artigli le cime degli alberi ed emise un verso stridulo, per poi virare sicuro in direzione di Dun’har.

Dorevan irruppe nella stanza a passo di marcia, lo sferragliare dell’armatura che disturbava il silenzio come un concerto di trombe in un cimitero. Le ante della porta ruotarono sui cardini e sbatterono con violenza, facendo sobbalzare l’unica persona presente, che si portò una mano al petto col timore di aver appena avuto un principio di infarto.
“Eccomi qui, Djibres, come ti avevo promesso. Un mese è passato e ora esigo risposte soddisfacenti.” esordì il capitano, un ghigno cattivo sulle labbra, mentre andava a posizionarsi dietro la sedia del biondo come un avvoltoio, “Ebbene? Spero per te che ci siano novità, il re è impaziente. E quando è impaziente, le teste tendono a prendere il volo…”
Il pover’uomo, a sentire le forti mani di Dorevan premute sulle sue spalle alla stregua di dolorose tenaglie, represse un gemito. Era stanco di quel supplizio infinito, era esausto nel corpo e nello spirito. Non vedeva l’ora di morire. La speranza si era spenta e da mesi si era arreso a patire finché non avesse esalato l’ultimo respiro. Non aveva scampo, il suo destino era segnato. Le illusioni che lo avevano aiutato a sopravvivere si erano sgretolate come sabbia. Non c’era più spazio per sogni inutili. Aveva gettato la spugna e deciso di accogliere il sonno eterno appena ne avesse vista l’opportunità, poiché la morte era l’ultima via d’uscita rimastagli.
Da troppo tempo non vedeva i volti dei suoi cari, tanto che i loro lineamenti adesso apparivano sfocati, persi nella memoria difettosa di un uomo fiaccato dalla tortura. Non rammentava più quanto fosse bello il calore di un abbraccio, di un bacio, di un sorriso. I ricordi piacevoli che lo avevano tenuto in vita sino a quel momento erano in procinto di svanire come nebbia spazzata via dal vento, rimpiazzati dal gelo, dalla tristezza e dalla solitudine che ogni giorno era costretto a sperimentare. Si sentiva avvizzire sempre di più, come un fiore a cui vengono negati il sole e l’acqua. L’agonia era insopportabilmente lenta. Perché gli dei non avevano pietà di lui?
In simili frangenti, quando lo sconforto prendeva il sopravvento, si trovava a ripensare alla sua famiglia. Lo avevano già dimenticato, o custodivano il suo ricordo nei loro cuori nonostante tutti quegli anni trascorsi lontani? Speravano ancora in un suo ritorno? E i suoi figli? Li aveva lasciati che erano piccoli, Wes di sette anni e Seyran di dodici. Wes aveva imparato a cavalcare o seguitava imperterrito a somigliare a un sacco di ceci preso a calci? “Tieni giù quei talloni e stringi quelle ginocchia!” era solito dirgli, osservandolo trottare in cerchio, in groppa al suo ronzino. E la dolce Seyran? Chissà se si era sposata… di sicuro, bella com’era, si saranno fatti avanti molti pretendenti. Magari si era unita in matrimonio col figlio del fabbro, gli era sempre piaciuto quel ragazzo. E sua moglie? Come stava la sua cara sposa? Era l’unica donna che aveva saputo tenergli testa sin dalla tenera età, quando vivevano a Rocca Smeralda e lui sgattaiolava nelle cucine soltanto per farla ridere. Già allora l’aveva scelta e non se n’era mai pentito. 
Era passata un’eternità. Sembrava il sogno di un’altra vita, sfumata sotto l’implacabile scorrere del tempo, come un’onda che si infrange sugli scogli e li erode piano piano. 
Gli mancavano le campagne intorno a Rocca Smeralda, il riverbero del sole all’orizzonte, la casa che aveva costruito con le sue mani in mezzo ai campi coltivati, mentre la brezza carica del profumo dei fiori soffiava costante da ovest e faceva ruotare le pale del mulino. C’era pace e serenità in quel posto, quasi fosse stato toccato da mano divina.
Tuttavia, per quanto si crogiolasse in quei ricordi, per quanto tentasse di rimanervi aggrappato, una parte di lui era consapevole che non li avrebbe rivisti mai più. Tutto era andato, perduto. Non aveva più senso continuare.
“Sono riuscito a decifrare questo capitolo.” disse tornando al presente, la voce un sibilo flebile che trasudava rassegnazione.
Tossì, i polmoni in fiamme e gli occhi cerchiati di rosso, e mostrò il suddetto capitolo a Dorevan, che assottigliò lo sguardo per analizzare i fregi e i disegni incisi sulla pergamena.
“Che cosa dice?” lo interrogò.
“Parla di un passaggio nascosto.” voltò pagina, “E qui spiega che nessun mortale può attraversarlo, a meno che non possegga enormi poteri magici o si avvalga della magia nera.”
“Magia nera?”
“Sì. Qui la chiama magia di sangue. In pratica, è necessario compiere un sacrificio umano. Il sistema numerico demoniaco non è il mio forte, ma mi è parso di intuire che tale sacrificio debba consistere in almeno un migliaio di anime. E il rito deve avvenire durante un’eclissi.”
“Capito. Che intende con persone che possiedono poteri magici?”
“Streghe, suppongo.”
“Le streghe non esistono.” sbuffò scocciato e incrociò le braccia sul torace, quasi a sfidare qualcuno a mettere in dubbio la sua affermazione.
“Come vuoi. Comunque, in tutto il capitolo viene usata di frequente la parola ze’hik, cioè ‘prima strega’, soprattutto nel quarto paragrafo, dove si descrive passo passo il rituale di apertura del passaggio. Se posso avanzare un’ipotesi, il termine ze’hik presumo si riferisca alla Sylmaran.”
“La Sylmaran? Cos’è?”
“Ho fatto qualche ricerca sul Bestiario di Roman Tallus, l’antologia di mostri più antica e completa al mondo, e ho trovato una sezione interamente dedicata a colei che le streghe chiamano ‘la Sylmaran’. La leggenda narra che sia la prima strega, nonché la madre di tutte le altre. Da umana, giacque con il terzo figlio del dio del Caos, Wall’khar, e il seme di lui mutò la natura di lei, trasformandola in una creatura aberrante e sempre gravida. Altri bestiari di nicchia suggeriscono che pure i demoni abbiano avuto origine dalla Sylmaran, ma Roman Tallus la pensa diversamente. Secondo lui, i demoni sono nati dal grembo della dea Kanlaar, Signora del Buio, la quale si accoppiò con svariati esseri orripilanti dell’Oltremondo.”
“Tu credi a queste idiozie?”
“Boh. Tutto può essere. Ad ogni modo, l’esistenza delle streghe è attestata da alcuni documenti giuridici risalenti alla Grande Epurazione di mille anni fa, non è da escludere che-”
“La Grande Epurazione era una farsa! Persino un bambino lo sa. Quelle donne non erano streghe, ma guaritrici, e furono incolpate ingiustamente.”
“Allora, l’autore sconosciuto di questo volume si sbaglia. Se davvero le streghe non esistono, è meglio non credere a tutto quello che viene riportato in queste pagine, potrebbero essere i deliri di un pazzo.” considerò, celando l’ironia dietro un tono professionale.
Dorevan ignorò la frecciatina e ragionò: “Oppure questo libro è stato scritto quando le streghe non si erano ancora estinte. Sono certo che oggi non esistono più, sono pronto a scommetterci, ma perché non accettare l’idea che siano vissute in passato? Potrebbe essere.”
“Potrebbe essere.” gli fece eco il biondo.
“Quindi, in pratica, per superare il passaggio bisogna essere demoni o streghe, oppure si deve sacrificare mille uomini.”
“Esatto.”
“Ottimo! Siamo a cavallo. Facciamo festa!” esclamò sarcastico Dorevan, levando lo sguardo al soffitto, “Le streghe sono estinte, i demoni che abbiamo catturato non collaboreranno e non possiamo permetterci di sacrificare mille uomini, dal momento che la guerra non si fa senza i soldati. Siamo bloccati. Al re non farà piacere saperlo. C’è altro?”
“Per ora è tutto. Il resto è molto difficile da interpretare, si menzionano concetti che non comprendo. Mi dispiace, ho anch’io i miei limiti.”
“Un mese intero e questi miseri dettagli sono tutto quello che hai da riferirmi?”
“Se la cosa non vi aggrada, potete sempre uccidermi.” buttò lì, ostentando finta indifferenza.
Il capitano lo squadrò sorpreso, ma poi parve intuire i suoi pensieri e si aprì in un ghigno derisorio.
“Oh, mio caro Djibres! Sono certo che non vedi l’ora di tirare le cuoia, vecchio volpone.” lo schernì, tirandogli uno scappellotto sulla nuca, “Anche se un po’ mi ferisci. Abbiamo condiviso insieme molti momenti negli ultimi dieci anni, e tu saresti pronto a lasciarmi così? Beh, sono desolato, ma c’è ancora parecchio lavoro da fare. Tu vivrai.” proferì sorridendo. 
La minaccia implicita non sfuggì al prigioniero, che serrò le mani a pugno.
Dorevan si raddrizzò, gli voltò le spalle e lo lasciò alla sua traduzione, ma non prima di aver canticchiato dalla soglia un chiarissimo “Marcirai qui dentro”, che fece contrarre le viscere del biondo così furiosamente da mozzargli il fiato. Rabbrividì, le dita nodose ebbero un tremito e le ciglia, per l’ennesima volta, gli si riempirono di lacrime. Alcune gocce salate planarono sulle pagine del volume, sgranando le lettere come sotto una lente di ingrandimento, e le altre, dopo aver attraversato le guance pallide e scavate, si tuffarono nella barba. 
Seduto al centro di quella stanza angusta, circondato da muri di granito e scartoffie scarabocchiate con appunti confusionari, Selis stava chino su quel maledetto libro, principale fonte della maggior parte degli incubi che lo tormentavano di notte, come un fantasma ripiegato su se stesso a piangere fino a farsi sanguinare gli occhi e consumare l’anima. 
Prostrato dalla malvagità dei suoi carcerieri, provato dalla malattia che lo logorava dall’interno, dalla fame e dall’insonnia, aspettava la fine con ansia febbrile. Pregò di nuovo la Morte, unica dea a cui era devoto, di accogliere la sua disperata richiesta prima che fosse troppo tardi. Il seme della follia era stato piantato e giorno dopo giorno germogliava sempre più rigoglioso e fiero. Non avrebbe resistito un altro mese.









 

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Capitolo 7
*** Tuffo nel passato ***







 
Nell aveva marciato ininterrottamente per una settimana, prima che la capitale di Dunaster si profilasse all’orizzonte, minacciosa e sinistra, ma non avvertiva traccia di stanchezza. Non aveva mangiato né dormito, o compiuto alcuna sosta, eppure nessun indolenzimento faceva gemere i suoi muscoli. Di questo doveva ringraziare Ysril, altrimenti avrebbe impiegato il doppio o il triplo del tempo. 
Dun’har era esattamente come la ricordava: triste e desolata nonostante fervesse di attività. La prima cosa che saltava all’occhio da lontano era il colore delle mura, nero come la pece, poiché erano fatte con la pietra lavica che si trovava sui monti Lerisa. Erano poi state rinforzate con diaspro rosso e rivestite da una robusta armatura di ferro, che aveva il compito di tenere assieme i blocchi e impedire che si muovessero. Le travi di ferro erano anche un repellente per chi si voleva infiltrare in città: essendo arrotondante nella parte esterna, chiunque avesse provato ad arrampicarsi sarebbe scivolato e ricaduto sulle rocce appuntite come spilli piazzate strategicamente là sotto, morendo trafitto. Il diaspro rosso era piuttosto comune a Dunaster, lo potevi trovare nei monumenti, nei gioielli e persino come pietra ornamentale per le else delle spade. Gli abitanti del luogo credevano che avesse il potere di tenere lontano il male, portare la pioggia e guarire dalla pazzia. Per Nell erano tutte sciocche superstizioni. Tranne che per la pioggia: quella, in effetti, non mancava mai.
Le mura si estendevano a ferro di cavallo davanti ai monti Lerisa per migliaia di braccia, una linea di confine che separava la pianura circostante, vasta, libera e accarezzata dal vento, dall’agglomerato soffocante di case, templi e palazzi rudimentali che sorgevano all’interno. Nell occhieggiò in direzione dell’imponente entrata ad arco posta a sud, dove alcuni soldati sorvegliavano l’ingresso dei contadini che arrivavano dalle campagne con la merce da vendere al mercato. Altre guardie passeggiavano sulla cinta muraria con fare indolente, e ogni tanto si fermavano a chiacchierare senza curarsi del lavoro che in teoria avrebbero dovuto svolgere. 
Il sole era sorto da poco e presto il via vai sarebbe aumentato, permettendogli di sgusciare dentro la città inosservato. Si calò il cappuccio sulla testa e si incamminò confondendosi tra i carri, la borsa coperta dal mantello.
Quella tappa era obbligatoria, purtroppo. Come aveva detto a Qolton, se c’era una minima possibilità che un oggetto potente come l’Occhio di Xion fosse nelle mani del re, doveva accertarsene. Inoltre, la guerra non era più una diceria da taverna, come aveva potuto appurare dai discorsi che aveva origliato mentre aggirava le pattuglie di ronda, accampate nei boschi intorno a Dun’har. L’invasione di Ashra era cominciata, l’esercito di re Sylas era già impegnato a espugnarla da almeno due giorni. Presto anche gli altri regni sarebbero stati coinvolti.
Oltrepassò le sentinelle con facilità e si inoltrò nella strada centrale del mercato, superando bancarelle e persone come un fantasma. Le abitazioni fatiscenti costituivano il panorama preponderante, sebbene qua e là spuntassero opere architettoniche un po’ più lussuose come templi e magioni di ricchi aristocratici, senza però esagerare con le decorazioni.
A differenza di Ferenthyr, che era organizzata a terrazzamenti concentrici ordinati per ceto, con il ghetto alla base e il palazzo reale in cima, Dun’har era più caotica. Non vi erano castelli o ville sfarzose, solo catapecchie o edifici grigi, stretti e alti, che suscitavano claustrofobia al solo guardarli. Il palazzo di re Sylas si stagliava sopra le case per via dell’altezza delle sue torri, ma era situato a nord, in prossimità dei monti Lerisa, e la sua architettura, eccetto per la pesantezza e l’eccessivo rigore, non risaltava granché. Era circondato da un fossato con un ponte levatoio, separato dal resto della città alla stregua di un’isola. Da vicino, appariva come un mostro di granito dai mille occhi e corna affilate, a causa sia dei numerosi accessi protetti da inferriate e spesse grate, sia delle guglie appuntite che svettavano verso il cielo plumbeo come lame. Dalle finestre non si scorgeva neanche la timida fiammella di una candela e la pietra che rivestiva l’edificio nella parte bassa pareva assorbire la luce convertendola in oscurità. Sembrava una prigione, più che il palazzo di un re.
Quella visione trasmise a Nell un brivido di paura, ma lo scacciò. In fondo doveva solo controllare, mica compiere un furto. Non era una sua responsabilità sventare una guerra, né gli premeva mettere a repentaglio la sua vita per i capricci di un sovrano folle come Sylas. Lo scopo era vedere con i propri occhi se l’Occhio fosse veramente là, quindi vagliare le opzioni nel caso fosse stato costretto a ripassare per Dun’har. L’ultima cosa che voleva era ritrovarsi in mezzo al fuoco nemico.
Tagliò per viuzze laterali, percorrendole raso muro a capo chino, dando l’impressione di essere uno del posto, e per prima cosa si diresse verso il tempio centrale. Sapeva che vantava una biblioteca ben fornita, sebbene non quanto quella reale, e lì forse avrebbe reperito qualche informazione più precisa sull’Occhio di Xion e la sua attuale ubicazione. Con un po’ di fortuna, non ci sarebbe stato bisogno di sgattaiolare nel castello.
Costeggiò case e locande che parevano bettole di infimo livello, erano quasi peggio di quelle del ghetto di Ferenthyr. Gatti e cani randagi sostavano nei pressi, nella speranza di racimolare qualche briciola commestibile tra i rifiuti, e stormi di corvi sorvolavano la città disegnando strane forme nel cielo e riempiendo l’aria del loro gracchiare. Gli capitò di incrociare alcuni drappelli di soldati, ma essi non gli badarono e passarono oltre.
Raggiunse il tempio che era quasi mezzodì, tra qualche minuto la campana di ferro sulle mura avrebbe suonato i rintocchi. La cupola di marmo, che un tempo accecava gli sguardi col suo biancore, si innalzava sopra i tetti grigia e rovinata dalle intemperie; le colonne di diaspro rosso erano state sfregiate e vandalizzate, senza che qualcuno si fosse mai preso la briga di restaurarle; i portici piastrellati, in passato decorati con bellissimi affreschi a tema religioso, adesso ospitavano derelitti e mendicanti rivestiti di stracci. Nessuno si soffermava a osservarli, sembravano parte dell’architettura, indegni persino di un sorriso. Nell si avvicinò e gettò una moneta di rame alla donna anziana rannicchiata all’entrata, per poi addentrarsi nel tempio senza nemmeno ascoltare i suoi balbettii di ringraziamento. 
Attraversò il loggiato interno a passo spedito. Le suole degli stivali producevano un ticchettio ritmico e ridondante, che riecheggiava sui muri di pietra lavica e sulle colonne di diaspro. Tutte le stanze e i corridoi erano rischiarati dal fuoco che ardeva notte e dì nei bracieri di ferro, poiché nemmeno durante il giorno si riusciva a vedere più in là di quattro braccia: le pareti, i pavimenti e i soffitti erano di un materiale troppo scuro, catturavano qualsiasi tipo di luce e la rimpiazzavano con ombre ancor più dense. 
I forestieri che visitavano Dun’har la prima volta rimanevano spesso folgorati dalle tenebre che parevano pervadere persino l’aria, grazie anche a quell’abbondanza di rosso e nero. Il sole poi, quando saltuariamente e sempre per brevissimi istanti faceva capolino dalla fitta coltre di nubi perennemente ammassate sopra la capitale, acuiva l’impressione di camminare nell’anticamera dell’Oltremondo. In realtà, era a causa delle correnti calde che provenivano da dietro i monti Lerisa, che si scontravano con quelle fredde dell’entroterra, creando perturbazioni continue. Perciò il sole, quando spuntava, in qualche modo alimentava l’oscurità, invece di scacciarla. 
E poi non li biasimo i cittadini, che hanno sempre quell’espressione da aspirante suicida stampata in faccia.
Cercando di ignorare le sagome sinistre disegnate dalle ombre sulle pareti, imboccò il corridoio che, andando a memoria, lo avrebbe condotto alla biblioteca, aperta al pubblico dall’alba al tramonto per la consultazione dei manoscritti. Alcuni di questi erano conservati dentro delle teche di vetro per proteggerli dall’umidità e serviva un’autorizzazione speciale per leggerli. Nell si augurò di non averne bisogno, perché di certo non avrebbe potuto procurarsi alcun permesso scritto.
Era già stato lì sei anni prima, per consultare un vecchio tomo sull’antica magia rituale. In quell’occasione aveva fatto la conoscenza di un monaco, Hodren, che gli aveva concesso di visionare, tra le altre cose, un bestiario molto raro, recante raffigurazioni di animali mitologici appartenuti al folklore dei popoli del nord, i quali poi avevano fondato Dun’har e le sue province. Nell si era divertito a commentare le varie incisioni con lui e, grazie alle sue spiegazioni, aveva realizzato che molte delle leggende su mostri e simili che circolavano nel regno di Dunaster derivavano dall’avvistamento di demoni. L’anno addietro, durante il suo soggiorno nella città di Carlon, al confine ovest, nella biblioteca di un nobile Nell aveva infatti trovato e sfogliato con attenzione una cronaca dettagliata che riportava ogni singolo avvistamento, con relativa descrizione del demone, datati tutti tra sette e quattro secoli prima. Esattamente il periodo in cui erano nate le leggende e i bestiari. Hodren, probabilmente, ne era all’oscuro, altrimenti avrebbe di sicuro fatto qualche commento; e Nell non aveva detto niente, preferendo tenere la scoperta per sé. Quella ricerca gli era stata utile per avvalorare l’ipotesi che l’ingresso a Lankara si trovasse proprio oltre i monti Lerisa, a nord-est, poiché gli avvistamenti erano avvenuti in quella zona.
Mentre superava l’entrata a doppio arco della biblioteca, sperò di rivedere il suo amico: magari avrebbe potuto dargli una mano a scovare qualsiasi manoscritto che trattasse dell’Occhio di Xion, senza dover perdere ore preziose a esplorare gli scaffali ricolmi di libri dei più disparati argomenti.
La sala di lettura era di forma circolare, con due grandi tavoli rettangolari al centro, panche di legno di quercia ai lati e almeno una decina di bracieri sparsi qua e là. Tre scale a chiocciola erano poste a sud, est e ovest, e conducevano al soppalco, allestito con alte file di scaffali che si diramavano dalla sala a raggiera. La zona nord del soppalco, sotto la quale era situata la porta, era adibita alla conservazione dei testi rari, quelli per cui occorreva l’autorizzazione. Era anche chiamata “stanza dei misteri”, poiché solo pochissimi eletti fra il clero e la nobiltà vi avevano accesso.
Nell si inoltrò nella sala, al momento deserta, puntando verso una porticina di legno incassata nel muro su cui c’era scritto con una calligrafia svolazzante “Ufficio del segretario”. Sotto era stata aggiunta una targa di ottone, che recitava “Bussare”. La guardò con cipiglio sarcastico, afferrò la maniglia di ferro e spinse.
Immediatamente, nel suo campo visivo entrò la figura china di un uomo di mezza età, seduto di profilo rispetto alla porta. Era vestito con la toga azzurra del suo Ordine monacale, i Fratelli del Sole. La lunga barba bionda, intrecciata con anelli d’argento, era adagiata sul petto e la testa era completamente rasata. Il tatuaggio stilizzato di un sole coperto da due frecce incrociate spiccava sulla nuca. In teoria, avrebbe dovuto indossare il copricapo, che consisteva in un buffo cappello di stoffa blu dalla forma esagonale, con tanto di piccole nappe dorate sulla tesa quadrata posta sulla cima, ma Hodren lo odiava.
Nell sorrise, riconoscendolo. Non era cambiato per niente, pareva essere trascorso solo un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto: sempre intento a scribacchiare cose sulle sue pergamene, archiviare e registrare, instancabile e laborioso come una formica. Si schiarì la gola, spezzando il silenzio raccolto che regnava nella stanza. 
L’uomo sussultò sulla sedia, la piuma d’oca gli cadde di mano e l’inchiostro lasciò una grossa macchia sul documento che stava compilando. Il suo sguardo scattò in direzione della porta e, subito dopo, strabuzzò gli occhi nel rimirare il ragazzo fermo sulla soglia, il fiato bloccato in gola come dinanzi ad una apparizione divina. Si riprese a fatica e balzò in piedi con un sorriso gioviale.
“Che mi venga un colpo! Nell, quanto tempo!” esclamò, gli andò incontro e lo abbracciò forte.
“Ti trovo bene, Hodren.” lo salutò, ricambiando impacciato l’abbraccio.
“Anch’io ti trovo bene. Non sei cresciuto neanche di un pollice.”
“Vuoi dire che sono basso?” 
“No, direi piuttosto che sei diversamente alto.”
Entrambi scoppiarono a ridere e Hodren lo invitò a sedersi. Nell si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania del monaco, ingombra di scartoffie e volumi consunti, e posò la borsa ai suoi piedi, mentre l’altro lo imitava dall’altro capo del tavolo.
“Allora, dimmi tutto. Qual buon vento ti porta qui, stavolta? Ancora alle prese con vecchie leggende e libri di magia?”
“Cerco informazioni sull’Occhio di Xion.” esordì senza troppi preamboli.
Il sorriso morì sulle labbra di Hodren e la sua espressione si fece seria all’istante. 
“Ciò che chiedi potrebbe essere… complicato. So che detesti le domande e la gente che ficca il naso nei tuoi affari, ma purtroppo mi vedo costretto a interrogarti sul motivo della tua richiesta.”
“Come mai? È un argomento tabù?” domandò il ragazzo, una scintilla ironica nelle iridi azzurre.
“Rispondi, per favore.” insisté severo il monaco.
Nell lo guardò giocherellare con l’anello che portava all’indice destro, un cerchietto d’oro con un piccolo diaspro rosso. Aveva appreso la volta scorsa che toccare il diaspro quando si sentiva nominare entità o oggetti maligni era un gesto scaramantico, glielo aveva insegnato proprio Hodren.
“Mi è giunta voce che sia in mano al re e voglio sapere che cosa può fare.” snocciolò annoiato, ma anche un po’ divertito, “Possiedi un libro, o più di uno, che tratta dell’Occhio?”
“Esistono due libri che ne parlano: Compendio sulle Pietre Divine e Storia dei Miti Perduti.” rispose, seguitando ad accarezzare distrattamente il diaspro.
“Bene. Potrei consultarli?”
“No.”
Anche il ragazzo perse il sorriso cordiale e strinse i braccioli della sedia: “In che senso, scusa?”
“Il re li ha confiscati.” rivelò Hodren in tono grave.
Nell si appoggiò allo schienale sospirando, si grattò il mento e corrugò le sopracciglia, riflettendo sul da farsi. Se non poteva avere accesso alle informazioni, l’unica opzione che gli restava era intrufolarsi nel palazzo reale e reperirle da solo. Pessima idea. Ci mancava soltanto che lo arrestassero.
“Che intendi fare? Se ti conosco abbastanza, immagino che non ti fermerai finché non otterrai quello che vuoi.”
“La conoscenza è potere, mio buon amico. Ma non correre troppo con la fantasia, non desidero sottrarre l’Occhio a Sylas.” lo rassicurò, fissando l’anello di Hodren con aria assorta.
“Ah, no?”
“Voglio capire di cosa è capace, tutto qui. Se scoppierà una guerra di proporzioni epiche in questo territorio e in quelli circostanti, vorrei saperlo in anticipo per non finirci invischiato. È la verità.”
Hodren trasse un profondo respiro, abbandonò l’anello e si mise a giocherellare con la barba. 
“Non c’è bisogno di consultare quei libri, la leggenda che ruota attorno all’Occhio di Xion mi è nota da tempo. Conosco a memoria ogni particolare.”
“Fantastico! Ti dispiacerebbe condividere le tue informazioni con me?” lo pregò Nell, tornando a illuminarsi.
“Cosa te ne faresti? Non sarebbe meglio evitare direttamente Dunaster e i regni limitrofi per un po’ e rifugiarti su un’isola?”
“Ho delle faccende da sbrigare al nord, prima.”
“A nord? Vuoi dire oltre i monti Lerisa? Ma non c’è niente laggiù, solo lande desolate.”
Nell fece spallucce: “Per favore, dimmi ciò che sai.”
“Perché è così importante, se non hai intenzione di mettere un freno alla follia del re?”
“E tu perché sei così riluttante?” rilanciò, cominciando a infastidirsi.
“Il re ha predisposto la forca per chi anche solo osa sussurrare il nome di quella pietra.”
“Oh, capisco. Non immaginavo che la situazione fosse così pericolosa.” considerò preoccupato.
“Esatto. Perciò perdona la mia riluttanza.” sbuffò, rimarcando l’ultima parola con palese sarcasmo.
Il ragazzo tentennò, ma poi decise di vuotare il sacco, almeno in parte. Era diventato un maestro nell’omettere determinati dettagli. Tuttavia, in fondo non gli pesava rivelargli certe cose, perché se c’era una persona di cui si fidava, quella era Hodren. Lo aveva già aiutato molto in passato, anche se non aveva nessun obbligo nei suoi confronti. Gli doveva un’adeguata lealtà. E poi era certo che non lo avrebbe tradito: negli anni aveva imparato a distinguere chi era degno di fiducia e chi no, e il monaco rientrava senza alcun dubbio nella prima categoria.
“Conoscevo il precedente custode dell’Occhio, era un mio amico.” confessò.
“Eri in rapporti di amicizia con Lord Fergus?!” 
“No, con suo padre, Lord Dinys. E sua madre, Lady Bawsh.”
Hodren ammutolì, si prese alcuni istanti per fare due calcoli e alla fine si abbandonò ad una risata. 
“Impossibile. All’epoca, se anche li avessi conosciuti, dovevi essere un bambino.”
“Ci sono molte cose di me che non sai...” sussurrò Nell, sfiorando con un polpastrello le venature del legno della sedia, le labbra appena arricciate in un sorriso indecifrabile.
L’uomo tornò serio. Una mano andò a stringere il bracciolo e l’altra gli coprì la bocca, mentre le dita lisciavano la barba in un tic a cui cedeva quando era immerso in profonde elucubrazioni. I suoi occhi chiari non lasciarono mai quelli di Nell, li sondarono alla ricerca della menzogna, ma non la trovò.
Così Nell proseguì: “Mi è nota la storia di come l’Occhio sia andato perduto, perché ero presente. Quello che non so è come voglia usarlo Sylas e perché i custodi non siano intervenuti per riprenderselo. Di’, che ne è di Fergus? Perché non lo ha ancora rivendicato? È lui il custode designato.”
“Morto assassinato.”
Il biondo si ritrasse impercettibilmente e inarcò un sopracciglio: “E sua sorella gemella Fedra?”
“Dispersa.”
“Il loro erede?”
“Disperso.”
“Lady Bawsh?”
“Morta cinque mesi fa. Infarto, dicono. Data la sua età, nessuno si è stupito.”
“E Dinys è stato ucciso da un sicario.” concluse Nell mestamente, con un accenno di sincera tristezza.
Non ci voleva un genio per intuire che dietro a quelle morti e sparizioni ci fosse re Sylas. Si era messo in cerca dell’Occhio, lo voleva ad ogni costo, non sapendo che non era più in possesso dei legittimi guardiani da ormai molto tempo. Alla fine, comunque sia, era stato l’Occhio a trovarlo. 
Nell si era sempre domandato perché proprio la famiglia di Lord Dinys lo custodisse. Perché non rinchiuderlo nelle stanze del tesoro a corte? Non esisteva un luogo più inespugnabile.
“Eri presente quando l’Occhio fu rubato, dicevi.” mormorò Hodren, i gomiti poggiati sulla scrivania e il mento tra le dita.
“Sì.”
“Come andò?”
“In realtà, sono stato messo al corrente degli eventi quindici anni dopo il furto, ma il punto è che mi trovavo in casa quando accadde.”
“Eri in casa… dove abitavi?”
“Non ti serve saperlo.” lo sedò con un gesto seccato.
Hodren si addossò allo schienale e assunse un’espressione meditabonda, mentre le dita lisciavano la barba crespa e il pollice dell’altra mano strofinava il diaspro sull’anello.
Passò qualche minuto, in cui l’unico rumore udibile era costituito dallo scalpiccio di visitatori e monaci nella sala di lettura. La candela che ardeva sulla scrivania crepitò appena, mossa da uno spiffero di vento penetrato attraverso gli infissi della finestrella sulla parete, dal lato opposto della stanza. 
Nell si soffermò a studiare i ricami d’argento sulla toga del monaco, sollazzandosi a seguirne gli intrecci come in un intricato labirinto, finché Hodren non interruppe il silenzio con una proposta.
“Ti va uno scambio?” 
“Sentiamo.” lo invitò, ristabilendo il contatto visivo, e accavallò le gambe.
“Io ti dirò tutto sull’Occhio di Xion. In cambio, tu mi racconterai chi sei.”
Nell assottigliò le palpebre, si irrigidì e serrò le mani tra loro. Il suo cervello iniziò a lavorare a ritmo frenetico per individuare una scappatoia ed evitare di esporsi, ma l’unica soluzione pareva essere quella di mentire.
“Se mentirai, me ne accorgerò. Sai che sono un ottimo osservatore.” lo avvertì Hodren, quasi leggendogli nel pensiero, “Spetta a te decidere, informazione per informazione. Entrambi lo facciamo per mera curiosità, no? Il guadagno sarebbe reciproco.”
Il biondo sospirò, non aveva alternative. O meglio, una l’aveva, ovvero infiltrarsi di soppiatto nel palazzo, ma sarebbe stata l’ultima spiaggia.
“Accetto, ad una condizione.”
“Cioè?”
Stavolta fu Nell a sporgersi verso di lui, gli occhi più freddi del ghiaccio: “Ciò che ti rivelerò non dovrai mai spifferarlo a nessuno. Se scoprirò che hai diffuso i miei segreti, verrò ad ucciderti. È una promessa.”
Il monaco serrò le labbra accarezzandosi i folti baffi, infine annuì.
“Ci sto. Ne discuteremo stasera alla taverna chiamata ‘Nebbie d’Oriente’, al piano superiore ci sono delle camere che si possono affittare. Ti aspetterò un’ora dopo il tramonto nella stanza gialla. Chiedi alla donna seduta dietro il bancone, ti darà la chiave senza fare domande.”
“Perché non ne parliamo adesso?”
“Qui anche i muri hanno le orecchie, mi sto già esponendo troppo. Queste sono le mie condizioni, prendere o lasciare.”
“D’accordo.” si arrese, ma mentre si stava per alzare si bloccò, “Dov’è questo posto?”
“Hai presente Piazza delle Spade?”
“No.”
“Quella con il monumento di Gordar II.”
“No.”
“Quella in cui sbuca la strada degli armaioli…”
“No.”
“Sei un caso perso.” esalò Hodren esasperato, “Non ti ricordi? Ti portai in giro per Dun’har sei anni fa e ci fermammo proprio davanti a quel monumento perché volevi conoscerne la storia. Provasti a toccarlo e io ti schiaffeggiai la mano.”
“Ah! Quella statua di bronzo di re Gordar, al cui cavallo manca uno zoccolo?”
“Esatto!”
“E come ci arrivo da qui?”
Hodren lo fissò con occhi sgranati e scrollò nuovamente la testa: “Sei un caso perso. Senza speranza. Ma come hai fatto a sopravvivere fino ad ora? Sai almeno dove hai la testa?”
“Oh, senti, a ognuno il suo.” borbottò Nell imbronciandosi e incrociò le braccia sul torace.
“Ho quasi paura a lasciarti da solo.”
“Va bene, me la caverò. A stasera.” 
“Vuoi che ti venga a prendere? Dove alloggi?” insisté, sporgendosi verso di lui con apprensione.
“Non sono così impedito! Ma insomma! Addio, a stasera.”
“Nell…”
Il ragazzo gli voltò le spalle, uscì a passo di marcia dall’ufficio e sbatté la porta. Era stanco di essere oggetto di inutili ansie da parte di terzi per il suo inesistente, o comunque scarso, senso dell’orientamento. Bastava Ysril.

Un’ora dopo il calar del sole, puntuale, Nell si presentò alle “Nebbie d’Oriente”. Era partito con tre ore d’anticipo per essere sicuro di non arrivare in ritardo, altrimenti chi l’avrebbe sentito Hodren? E dire che, se non si fosse perso, avrebbe impiegato soltanto mezzora a raggiungere la destinazione dall’osteria “Il capretto”, in cui si era rifugiato per passare il tempo sorseggiando idromele di bassa qualità. L’oste gli aveva pure spiegato con attenzione e molta pazienza la strada, ciononostante si era confuso e aveva sbagliato, ritrovandosi a vagare in una zona residenziale dall’altra parte della città.
Osservò la facciata della taverna, chiedendosi per l’ennesima volta a cosa si riferisse il nome, dato che di orientale non aveva niente. Era fatta di legno e pietra, come tutti gli altri edifici che la circondavano, tanto che se non fosse stato per l’insegna nessuno l’avrebbe notata. Sul tetto Nell contò sei comignoli, dai quali fuoriuscivano spirali di fumo nero. Al primo piano, cinque balconcini aggettavano sulla via e le finestre erano tutte illuminate. Dall’interno, udì provenire una melodia dolce e lenta, suonata da uno strumento a corde e un flauto, ma nessuno schiamazzo. Si guardò intorno circospetto e si avvicinò. 
Alcuni dettagli, come le decorazioni sugli stipiti della porta e sulle finestre dai vetri a mosaico, gli ricordarono i bordelli di Karkossa, eccetto che per la totale assenza di prostitute sulla strada e di clienti assiepati di fronte all’entrata. Ora che ci pensava, nemmeno sei anni prima aveva scorto puttane in giro. Forse non era un costume diffuso da quelle parti o forse non erano cose da mostrare alla luce del sole - o della luna, in quel caso. Era alquanto strano. Addirittura nel regno più prospero, dove i poveri non erano che uno sparuto gruppetto di sventurati, c’erano le case di piacere, spesso con un intero quartiere dedicato loro. A meno che gli uomini di Dun’har non fossero tutti casti e puri, doveva pur esserci almeno un bordello. 
Non che mi interessi, eh.
Ad ogni modo, Hodren aveva detto che era una taverna. Si era dimenticato, però, di specificare di che tipo. Nell si augurò che non fosse un luogo di ritrovo per individui loschi e violenti. Benché avesse viaggiato in lungo e in largo e avesse visto quasi di tutto, non si era mai avventurato in posti simili: primo perché non ne avvertiva alcun desiderio, secondo perché non ne aveva la necessità. Quindi adesso non poteva esimersi dal provare un po’ di paura, e la sua fervida fantasia non aiutava. Già vedeva brutti e sporchi balordi che lo acciuffavano appena varcata la soglia per deriderlo, derubarlo e approfittarsi del suo corpo ancora giovane e bello. Rabbrividì e si maledisse per non possedere un’arma degna di tale nome, se non un coltellino grande quanto il palmo di una mano. Beh, fino a quel momento era stato fortunato: persino nelle situazioni peggiori, era sempre riuscito a cavarsela, nessuno lo aveva mai toccato, e se lo aveva fatto, a quest’ora non aveva più le mani o una voce per raccontarlo. 
Tranne Reeven. Nell si sorprese che il viso dell’ibrido gli fosse tornato in mente così ricco di dettagli, anche se aveva fatto di tutto per non pensare a lui durante il tragitto verso Dun’har. Avvampò al ricordo del bacio e un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Reeven era stato il primo ad averlo baciato, dopo Ysril. Aveva dimenticato cosa si provava, e realizzarlo lo aveva fatto precipitare in un abisso di sconforto. Con Reeven aveva percepito una scossa, non forte come quella che gli provocava sempre Ysril, ma comunque c’era stata: il cuore che batteva nello sterno con la forza di un tamburo e una vampata di calore che risaliva dai lombi fino alle guance, facendolo imporporare peggio di una verginella. Solo con Ysril aveva sperimentato quel tipo di reazioni, perciò non si spiegava come mai Reeven, un estraneo, fosse stato capace di risvegliare in lui emozioni sopite o fino ad allora ignorate. 
Scrollò il capo e grugnì sottovoce tutta la disapprovazione per se stesso. 
A parte l’episodio con Reeven, si era conservato come quando Ysril lo aveva preso l’ultima volta e ne andava immensamente fiero. Il sesso, o il contatto intimo in generale, era la sola cosa che aborriva, incapace di concepirlo con qualcuno che non fosse il suo sposo. Fortunato, dunque, perché Ysril non lo aveva dotato di una forza sovrumana, perciò se lo avessero assalito in più di due sarebbe stato spacciato, coltellino o non coltellino. 
Pregò ardentemente che quella taverna non riservasse spiacevoli sorprese. Poi rifletté che se Hodren lo aveva invitato lì, non poteva trattarsi di una squallida bettola frequentata da ladri, stupratori e tagliagole, il suo amico non lo avrebbe mai messo in pericolo. Tuttavia, sarebbe entrato con il cappuccio del mantello ben calcato sulla testa, per precauzione.
Aprì la porta trattenendo il respiro, e fece bene, perché in un istante fu investito da una zaffata di fumo dall’odore nauseabondo, che, pur non respirandolo direttamente, lo stordì non poco. L’intero ambiente era immerso nella penombra, sebbene rischiarato da una decina di lanterne gialle che emanavano coni di luce soffusa, ed era ammantato da una cappa grigia e soffocante. Numerosi avventori, tutti uomini, se ne stavano sdraiati su comodi divanetti rossi, lo sguardo vacuo rivolto al soffitto e un sorriso stupido stampato in faccia. Delle ragazze molto attraenti, con acconciature complesse e abiti talmente succinti da non lasciare nulla all’immaginazione, sedevano inginocchiate accanto a loro, pronte a porgere la pipa nel caso i clienti l’avessero richiesta. Nell si accorse che avevano le dita nere, dai polpastrelli alla seconda falange. Quando ne adocchiò una intenta a pigiare delle foglie scure dentro una tazza di vetro per miscelare il tè, ne comprese la ragione.
Sono finito in una Sala dell’oppio. Ottimo. Davvero stupendo. Ecco perché “Nebbie d’Oriente”. Ma come mai Hodren conosce questo posto?
Avanzò guardingo e a disagio nell’androne d’ingresso. Al margine sinistro della sala, due musici stavano suonando una canzone melensa: uno imbracciava una cetra, l’altro un flauto di legno. 
Superò i divani e le poltrone, fece del suo meglio per ignorare i sorrisi pigri e ammiccanti di alcune ragazze, e anche di qualche uomo, e si fermò davanti al banco in fondo alla sala, dietro il quale c’era una donna di mezza età occupata a scribacchiare numeri su un registro. Aveva i capelli striati di grigio legati in una crocchia sulla nuca, il viso impiastricciato di cipria, le guance simili a pesche mature e le labbra coperte di rossetto. Nonostante il trucco pesante, si notavano le borse sotto gli occhi scuri e le rughe sulla fronte, sulle orbite e agli angoli della bocca. Pareva una maschera grottesca. L’abito che indossava era di seta, di un colore che sembrava ocra, adornato di pizzo nero sul décolleté e in cima alle maniche. Quando gli cadde l’attenzione sul girocollo di diaspri rossi, Nell inarcò un sopracciglio e si lasciò scappare una smorfia carica di sussiego.
Decise di non tergiversare. Tossì con discrezione per attirare il suo sguardo su di sé e strinse le dita sulla tracolla per calmare il nervosismo.
“Salve. Vorrei la chiave della stanza gialla, per favore.” bisbigliò timido, sentendosi come un pesce fuor d’acqua.
La donna lo squadrò dal basso verso l’alto e rimase immobile per interminabili secondi, tanto che Nell ponderò l’idea di fuggire con la coda tra le gambe. Poi, quasi che qualcuno le avesse dato una scossa, la vide rianimarsi. Prese da sotto il banco una chiave di ferro, gliela porse senza commentare o tradire alcuna emozione e tornò ai suoi numeri, dimenticandosi della sua presenza.
Personale discreto… è una buona cosa, no? E nessun cliente sta molestando le ragazze.
Nell si rigirò la chiave tra le mani, titubante. Studiò la sala con sospetto, intercettando le occhiate interessate di un paio di uomini stravaccati su un divano lì vicino, e si morse un labbro a disagio. Quindi trasse un profondo respiro e si diresse verso le scale. 
Giunto al primo piano, ispezionò l’angusto corridoio in cerca della fantomatica stanza gialla, sforzandosi di non origliare i gemiti di piacere che provenivano dalle camere che gli sfilavano a fianco. Anche se non riuscì ad impedirsi di arrossire e provare un po’ di invidia. Quanto era trascorso dall’ultima volta che aveva assaporato le delizie dell’amore carnale? Vent’anni? Forse qualcosa di più, ma sempre troppo.
Sospirò e andò avanti, finché non scorse una porta gialla. Sollevò la chiave, la infilò nella toppa e girò. Un suono secco si propagò nel silenzio, seguito dallo scricchiolio dei cardini che ruotavano. Un attimo dopo entrò nella stanza. 
I muri erano costituiti da travi di legno dipinte di giallo fino al soffitto, il quale, eccetto che per un lampadario con tre sole candele invece delle tipiche otto, risultava tristemente spoglio. Tuttavia, la tinta delle pareti forse era gialla un tempo, perché ora appariva di un beige parecchio smunto. A sinistra rispetto alla porta c’era un divano abbastanza grande per tre persone, ricoperto da un telo verde con ricami floreali, e sul comodino erano state poste altre candele. 
Hodren lo stava aspettando seduto su una delle due poltrone di fronte al camino acceso, dalla parte opposta della stanza. Indossava una tunica nera e semplice, mentre il mantello, dello stesso colore, era stato appeso a un gancio dietro la porta. 
Appena lo vide, si alzò e lo apostrofò in tono scherzoso: “Sei puntuale! Non ci speravo.” 
“Risparmiati le battute. C’è qualcosa da bere? Ho la gola secca.”
“Il sidro ti piace? Oppure gradisci del tè?”
“Sarebbe meglio dell’acqua.”
“Prima volta in una Sala dell’oppio?”
“Sì, perché?”
“Inalare il fumo ti disidrata, anche se non lo aspiri volontariamente. Una volta che ti entra nei polmoni, arriva subito al sangue.”
Hodren afferrò una brocca dal tavolino intarsiato posto sotto alla finestra e versò l’acqua in un bicchiere di vetro colorato. Quindi glielo offrì e Nell bevve avidamente. 
Si accomodarono sulle poltrone come due vecchi amici, ma la tensione crebbe velocemente non appena il monaco incrociò lo sguardo del ragazzo.
“Per metterti a tuo agio, comincerò io.” esordì Hodren, osservando le spalle rigide di Nell e i suoi occhi che saettavano dappertutto, attenti non sfiorare la sua figura nemmeno per sbaglio.
“Come vuoi. Ah, non ritengo necessario rammentarti che ogni cosa che diremo non dovrà uscire di qui.”
“Mi pare ovvio.”
“Bene.”
“Dunque, vuoi sapere dell’Occhio di Xion, giusto? Allora prima bisogna che ti parli di Xion.” 
Si versò il tè in una tazzina di porcellana e se la portò alle labbra, bagnandosele appena. 
“Xion era un mostro gigantesco, creato dalla terra e dal fuoco. Secondo la leggenda, a plasmarlo fu il dio Ashan, il quale covava rancore nei confronti del fratello gemello Arrhan, che lo aveva condannato a vivere in un vulcano per aver giaciuto con la loro sorella, la dea Mydia. Ashan voleva vendicarsi per quella punizione a suo dire ingiusta - era stata Mydia a sedurlo - e così creò una calamità naturale il cui unico scopo era portare caos e morte nel mondo tanto amato da Arrhan. Il suo corpo poteva essere forte come la roccia oppure liquefarsi come lava, e nei suoi occhi era stata versata una goccia del sangue di Ashan, il cui odio per tutti gli esseri viventi era talmente smisurato da non conoscere limiti. Il mito narra che quando Xion si manifestava innanzi agli uomini, essi, alla vista di quegli occhi, impazzivano e iniziavano a scannarsi a vicenda. Se poi qualcuno sopravviveva al massacro, ci pensava Xion stesso a ucciderli, schiacciandoli sotto il suo corpo di roccia o bruciandoli vivi nella lava. Un giorno Arrhan decise di intervenire e col suo martello fece a pezzi il mostro, strappandogli via gli occhi. Ciononostante, non lo distrusse, perché Xion era immortale. Impaurito e debole, il mostro tornò nel vulcano dove era nato e lì giacque, inerte e stanco. Ashan, furioso per la sconfitta subita dalla sua creatura, sfidò il fratello, ma venne battuto a sua volta. Per punizione, Arrhan lo spedì nell’Oltremondo e lo incatenò sul fondale.”
Nello osservò Hodren sorseggiare il tè, impressionato da quel racconto. Si aggiustò sulla poltrona, trattenendo a stento il desiderio di chiedere cosa fosse accaduto dopo.
“Come uno degli occhi di Xion sia finito nelle mani degli umani è un mistero. Nessuna cronaca, nessun mito ne parla. Mi auguro che ce ne sia effettivamente soltanto uno in circolazione.”
“Sennò?”
“Si dice che se gli occhi dovessero essere riuniti e qualcuno li gettasse nel vulcano dove dorme Xion, egli possa venire risvegliato. Allora la catastrofe sarebbe inevitabile.”
“Ma esiste davvero quel vulcano?”
“Secondo la Storia dei Miti Perduti, sì. È il motivo per cui a nord-est c’è solo un immenso deserto.” rivelò Hodren, scrutandolo di sottecchi.
Nell incamerò l’informazione. Percepì lo stomaco annodarsi e la gola serrarsi in preda a un’emozione che non sperimentava da tempo: terrore. Non poté fare a meno di chiedersi se i demoni avessero qualche relazione con Xion o il dio Ashan. Aveva letto delle storie che parlavano di loro come esseri nati dalla dea Kanlaar, Signora del Buio, e altre entità che abitavano l’Oltremondo, ma non se la sentì di avanzare ipotesi sulla base di antiche leggende. Eppure, solo un legame con il mostro o il suo creatore avrebbe potuto spiegare la resistenza di Ysril al potere della pietra, visto che era stato lui a rubarla. Se non fosse stato immune, l’avrebbe tenuta per sé.
“Ora è il tuo turno. Voglio sapere dove sei nato e chi era la tua famiglia.” disse Hodren.
Il ragazzo sospirò, incantandosi a contemplare le fiamme che danzavano nel caminetto. Si obbligò a riportare alla mente tutto quanto, nonostante fosse doloroso. Riaccarezzare lievemente quei ricordi gli fece prudere gli occhi. Dopo un paio di minuti di silenzio, raccolse il coraggio e per la prima volta in più di vent’anni parlò del suo passato. 
“Sono originario della valle di Mesil.”
“Dov’è? Non ne ho mai sentito parlare.”
“Non mi sorprende. È un luogo sperduto, verso sud-ovest, protetto da colline, foreste e infinite distese di nulla. È raro vedere forestieri. Nel mio villaggio si conoscevano tutti e raramente qualcuno lasciava la valle per andarsene in giro per il mondo. La gente è molto attaccata alle tradizioni. Io sono nato in una famiglia di fornai. Ho una sorella e una nipote.”
“Va’ avanti.”
Raccontò aneddoti della sua infanzia, di Rory, del paesino in cui era vissuto, delle usanze e dello stile di vita che per quattordici anni era stato tutto il suo mondo. Si fermò solo quando giunse all’incontro con Ysril, un groppo in gola e le ciglia umide, incapace di proseguire.
Il monaco si accorse del suo turbamento. Per un istante si sentì in colpa, perché dal tono di voce e dall’espressione triste di Nell aveva intuito che quei tempi, spensierati e bellissimi, erano ormai così lontani che ricordarli faceva male al cuore. Si accontentò e rimandò altre domande allo scambio successivo.
“Molto bene, adesso torniamo all’Occhio di Xion. Come ho detto, gli occhi di quel mostro avevano il potere di seminare discordia e follia, ma senza di essi Xion era diventato troppo debole. Per millenni non si sentì più parlare di lui. Poi, in qualche modo, un occhio andò a finire nelle mani dei mortali. Stando alle cronache storiche di ottocento anni fa, la razza umana conobbe due secoli di aspri conflitti, che condussero alla distruzione di regni e numerose famiglie. I motivi erano i più disparati, dall’incremento delle tasse ai furti, da matrimoni illeciti all’espansione del territorio, eccetera. Queste lotte parevano interminabili e presto misero in ginocchio l’umanità. Per evitare che altre vite venissero sacrificate invano, i monarchi di tutti i regni si radunarono e decretarono una tregua, mentre i loro intellettuali e stregoni più in gamba collaborarono per capire quale fosse la causa di tanta sete di sangue. Infatti, si erano accorti che a un tratto, praticamente dall’oggi al domani, chi aveva provocato la guerra rinsaviva e ritirava le truppe, nella speranza di sancire una pace, ma non facevano in tempo a dire una parola che già un altro, sempre dall’oggi al domani, scatenava un’altra strage, anche per un nonnulla.” 
Stiracchiò le gambe e si massaggiò il menisco con una smorfia sofferente.
“Occorse almeno un decennio, costellato da altre guerre insensate, prima che si scoprisse l’esistenza di una gemma, passata da un regno all’altro tramite canali ignoti a diverse riprese. Una gemma in grado di manipolare la mente e risvegliare il lato oscuro che si annida negli animi. Era una piccola sfera blu scuro, splendida e ammaliante, tanto che chiunque vi si avvicinava si ritrovava a desiderare di possederla per sempre.” 
“L’Occhio di Xion?”
“Mh. Gli studiosi risalirono all’origine della gemma attraverso miti e leggende e dichiararono che si trattava di uno degli occhi di Xion, la bestia di Ashan. A quel punto scaricarono la patata bollente agli stregoni, che cominciarono a lavorare su un incanto che arginasse il suo influsso maligno, così che non fosse più un pericolo. Dopodiché, i sovrani la affidarono allo stregone più potente affinché la custodisse, lontana dagli sguardi degli uomini. Lo stregone si chiamava Andorev. Egli tramandò il compito ai suoi figli, e di generazione in generazione arriviamo alla famiglia del tuo amico, Lord Dinys. Poiché sono i discendenti diretti di Andorev, per quanto non sappiano usare la magia, essa alberga in loro in forma latente, rendendoli immuni all’energia malvagia dell’Occhio. I vari re che nei secoli si sono succeduti, messi al corrente della storia, non si azzardarono mai sottrarlo e la notizia della sua esistenza fu volontariamente gettata nel dimenticatoio, in modo che nessuno provasse a rubarlo per usarlo per scopi personali. I discendenti di Andorev hanno sorvegliato a lungo la gemma, finché un giorno di circa trentasei anni fa essa scomparve dal luogo sicuro in cui era conservata.”
Il monaco fece una pausa e finì di bere il suo tè, lasciando a Nell la possibilità di elaborare le sue parole. Quando ritenne di aver atteso abbastanza, posò la tazzina sul tavolo, incrociò le mani in grembo e si girò verso il biondo, fissandolo con aria insinuante.
“Hai detto che eri presente quando l’Occhio fu rubato. Voglio sapere cosa è successo di preciso.”
Nell continuò a tacere, gli occhi sbarrati puntati sulle lingue di fuoco che divoravano la legna nel caminetto, pallido come uno spettro. Il cuore batteva a ritmo frenetico nella cassa toracica, mentre pian piano connetteva i tasselli. Poi deglutì e legò il suo sguardo scioccato a quello curioso di Hodren, il quale sussultò sulla poltrona e contrasse la mascella, intuendo di stare per ricevere una verità inimmaginabile. 
Nell esitò a lungo. Aprì e chiuse la bocca più volte, la voce che non voleva saperne di uscire.
“Ti senti bene?” indagò apprensivo il monaco.
“I-Io… non lo so. Non so come sentirmi. Sono solo… oh, dei.” esalò in un sospiro tremulo e si coprì la faccia con le mani, piegandosi in avanti.
Seguitò a mormorare “oh, dei” per un minuto intero, dondolando su se stesso, sotto l’espressione basita del vecchio. Quando si decise a vuotare il sacco, Hodren percepì il sangue defluire dal volto frase dopo frase.
“Per fartela breve, mi sono sposato a quattordici anni con Lord Ysril, signore di Rocca Smeralda. Mi portò via dal villaggio in piena notte, con il mio consenso. Da allora non ho più rivisto i miei genitori. Sono morti senza che neanche lo sapessi. Ho vissuto a Rocca Smeralda per vent’anni. Dopo i primi cinque, io e Ysril adottammo un bambino e lo chiamammo Selis. In realtà, credevo fosse davvero mio figlio, poiché portai a termine con successo una gravidanza, ma il piccolo morì nella mia pancia durante il parto e mio marito lo sostituì con un altro neonato a mia insaputa. Scoprii la verità quindici anni dopo.”
“Che…? Che cosa…? Vieni al nocciolo.”
“Il giorno in cui io e Ysril concepimmo nostro figlio, quello mai nato, accadde qualcosa. Io non ero presente, i fatti mi sono stati riferiti tutti, appunto, quindici anni più avanti. Ysril aveva stretto un’alleanza con Lady Gheren, moglie della mia amica Lady Bawsh - la quale poi si risposò con Lord Dinys -, e con Lord Zebb, primo marito di Lord Dinys. Ma quell’alleanza venne spezzata quando loro quattro, e il principe Kwan, scoprirono che Ysril era… un demone.” pronunciò l’ultima parola in un sussurro appena udibile, poi sbirciò timidamente in direzione del monaco e lo vide sbiancare e boccheggiare incredulo.
“Tuo marito, il famigerato Lord Ysril, era un demone?”
“Sì.”
“Co-come…?” balbettò smarrito, “Perché diamine un demone si sarebbe spacciato per un nobile? Perché avrebbe voluto accasarsi con un mortale e mettere radici nel mondo umano? Non ha senso!”
“L’ha fatto per me.”
“Per…? Oh. Questo ha ancora meno senso.” commentò spiazzato, “Ho udito canzoni che lo avevano soprannominato Il Principe Nero, bello come un dio ma malvagio come un, beh, come un demone. E, ironia della sorte, lo era davvero! Pazzesco.”
“Ysril non era malvagio, anzi! È stato il marito migliore del mondo.” lo difese Nell, sbattendo il pugno sul bracciolo, “Mi amava alla follia e ha fatto di tutto per rendermi felice. Diventava cattivo solo quando qualcuno o qualcosa mi minacciava. Ci sono tanti altri uomini che possono comportarsi in modo ancor più crudele. Tipo Kwan. Tutti pensano che abbia combattuto per salvarmi da un mostro, ma il mostro era lui.”
“Che ha fatto? Qual è la verità?” lo interrogò Hodren, emozionato come un bambino.
“Mi voleva e non accettava il rifiuto. Quando venne a conoscenza del segreto di Ysril, di cui io all’epoca ero ancora ignaro, tentò di mettermi contro di lui: lo attaccò, mi rapì, lo ricattò, scatenò la sua ira. Non mi lasciava in pace. Mi picchiò in pubblico, addirittura, mentre Ysril non aveva mai alzato un dito su di me in vent’anni di matrimonio. Questo come lo chiami? Prode cavaliere? Principe valoroso e magnanimo?” sputò furioso.
“Accidenti. La gente ci ha ricamato sopra parecchio, a quanto pare.”
“Già…”
“Quindi tu sei davvero Lord Nell? Quel Lord Nell?”
“So che su di me circolano varie storie, alcune decisamente fantasiose, ma ti prego di non credere a tutto quello che hai sentito.”
“Cioè?”
“Per esempio, non ho mai avuto alcuna tresca col principe Kwan. Sono sempre rimasto fedele a mio marito. Una storia in particolare mi dipinge come una puttana che teneva il piede in due staffe. Vorrei tanto sapere chi l’ha messa in giro.” grugnì scocciato.
“Caspita… finora ero convinto che avessi soltanto lo stesso nome, non che fossi proprio… aspetta. Se sei Lord Nell, adesso dovresti avere, vediamo, su per giù cinquanta…. cinquantacinque anni?!”
“Esatto. Compiuti tre mesi fa.”
“Come è possibile? Ne dimostri a malapena una ventina!”
“Lo so. Colpa di Ysril. Ha fatto in modo che invecchiassi molto, molto lentamente.”
“Perché?”
“Voleva che lo aspettassi mentre lui trovava il modo di trasformarsi in un essere umano. Voleva invecchiare e morire insieme a me.”
“Tutto ciò è totalmente privo di senso.”
Hodren crollò sullo schienale, una mano sulla bocca e l’espressione sconvolta. Il tè si era raffreddato, ma a nessuno importava più. L’atmosfera nella stanza si era fatta elettrica, pregna di domande e tacite rivelazioni.
“D’accordo, torniamo all’argomento principale, altrimenti rischio di impazzire. Hai detto che c’era anche il principe Kwan quando avvenne il furto dell’Occhio.”
“Lui, Lady Gheren, Lady Bawsh, Lord Zebb e Lord Dinys erano con mio marito quando l’Occhio di Xion sparì dal suo ‘luogo sicuro’. È stato Ysril ha rubarlo, per poi darlo a Lord Zebb, che aveva sposato Dinys soltanto per mettere le mani sull’Occhio. Glielo diede per comprare il suo silenzio, affinché si togliesse di torno e non rivelasse mai a terzi che il signore di Rocca Smeralda era un demone. Mio marito desiderava per me, per noi, una vita agiata e tranquilla.”
“Per favore, raccontami com’è andata quel giorno, dal principio. In cambio, otterrai qualsiasi informazione tu voglia, promesso.”
Nell si passò una mano sugli occhi, sentendoli bruciare per la stanchezza e le lacrime non versate. Sospirò, si tolse gli stivali e allungò i piedi nudi davanti al fuoco, stravaccandosi sulla poltrona. 
Quando riportò a galla il ricordo di Ysril, del suo sorriso e dei suoi occhi colmi di amore, soffocò un singulto, serrò le palpebre e i denti, e ricacciò giù il magone. Con le dita strinse il medaglione da sopra la stoffa della camicia e il freddo dell’argento lo tranquillizzò un poco.
Gli disse tutto quanto, senza tralasciare nemmeno un dettaglio. Parlò di Dinys e Bawsh, dell’infatuazione di Kwan, di come essa lo avesse condotto alla follia e di come le sue azioni avessero poi rovinato la sua vita; parlò del Gran Sacerdote, di come avesse negato loro la pozione per avere figli e di come Ysril l’avesse fabbricata da solo; parlò dell’ibrido morto nella sua pancia, poi di Selis, di come era cresciuto e come si erano salutati; spese qualche parola sul mercenario al soldo di Ysril, Djibres, morto per salvare Selis; rievocò la distruzione di Rocca Smeralda, la fuga, l’inseguimento da parte del demone di nome Radek, che aveva l’ordine di ucciderli entrambi; infine, narrò del sacrificio di Ysril, del ritorno alla valle di Mesil e la decisione, dieci anni più tardi, di andare a cercarlo, poiché un altro demone gli aveva detto che Ysril era ancora vivo da qualche parte. 
“Anche se non mi fossi messo a cercarlo, avrei dovuto comunque abbandonare il mio villaggio, perché presto o tardi tutti si sarebbero accorti che non invecchiavo. Solo Melly conosceva la verità. Non so neanche se è ancora viva, non le ho mai scritto. Ho pensato spesso di tornare, ma poi ho sempre ritenuto più saggio tenermi alla larga per non crearle problemi. Ho viaggiato per undici anni, due mesi e diciassette giorni sulle tracce di Ysril, senza alcun risultato. Poi mi sono detto che, se poteva essere da qualche parte, di sicuro era a Lankara, nel regno dei demoni. Non sapevo della sua esistenza finché non mi sono imbattuto in un antico manoscritto anonimo. Lì veniva menzionato questo regno, situato a nord-est, oltre i monti Lerisa, ma nessuna mappa lo riportava. Ho indagato più a fondo, ho scavato e finalmente ho trovato una mappa dettagliata del continente, in cui figura pure Lankara. Sono diretto lì. Se la missione sarà un fiasco, tornerò indietro e passerò al setaccio ogni città e villaggio fino a quando ne avrò il fiato. E se neanche questo mi farà riabbracciare mio marito, tenterò un’evocazione.”
“Cosa?! Sei uscito di senno?”
“Lo so, è pericoloso, per tale ragione mi sono sempre astenuto. Le streghe sono le più esperte in questo genere di cose, ma onestamente non saprei proprio dove trovarne una e come convincerla ad aiutarmi. Si dice che siano delle megere sadiche, l’idea di averci a che fare non mi alletta per nulla.”
“Quindi l’Occhio… la guerra… i demoni…” bofonchiò intontito Hodren, per poi ammutolire.
Un turbine di pensieri e domande gli affollava il cervello, impedendogli di articolare suoni che non fossero balbettii sconclusionati. Rimuginò a lungo, tentando di mettere ordine nella sua mente, troppo scombussolato per parlare.
Nell guardò fuori dalla finestra. Il cielo era nero e privo di stelle, le finestre delle case erano buie e una strana immobilità sembrava aver cristallizzato il tempo. Era molto tardi, non si era reso conto dello scorrere delle ore.
All’improvviso, il vecchio monaco si abbandonò a un commento: “In sostanza, il casino in cui ci troviamo ora è stato provocato da Ysril.”
“Sì, sebbene, in fondo, non gli si possa attribuire tutta quanta la colpa. Forse re Sylas avrebbe trovato il modo di rubare l’Occhio anche se fosse rimasto presso la famiglia di Dinys.”
“Forse. Fatto sta che la guerra è cominciata e un folle è in possesso di una gemma dagli enormi poteri distruttivi. Siamo tutti in grave pericolo. E la situazione peggiorerà, se qualcuno non lo ferma.”
“Gli unici che potrebbero farlo sono i discendenti di Dinys, ma, chissà come, sono stati messi fuori gioco.”
“Io mi riferivo a te.”
“Me? Sei pazzo!” esclamò raddrizzandosi, “Voglio restarne fuori, non mi importa un fico secco della guerra. E poi non sono immortale, se morissi non potrei più ricongiungermi a Ysril.”
Hodren lo trafisse con un’occhiata raggelante, che pietrificò Nell sul posto.
“C’è una cosa che devi sapere. E un’altra che devi vedere.”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, perplesso, e aspettò che l’amico proseguisse.
“Dieci anni fa, un uomo fu fatto prigioniero. Il re lo prelevò dalla cittadella di Rocca Smeralda per ottenere informazioni su di te e su tuo marito. Quell’uomo si presentò come un servo di nome Djibres, ma non ha senso, dato che il mercenario è morto. Giusto?”
“Che aspetto ha?”
“È biondo, con gli occhi azzurri, la pelle bruciata dal sole, ben piazzato.”
“Quale interesse nutre il re per quest’uomo?”
“Era convinto che potesse fornirgli delle risposte, in quanto ‘custode’ di Rocca Smeralda.”
Nell rifletté, tormentandosi il labbro inferiore con i denti, un sospetto che strisciava nel suo animo. Ad un tratto, un brutto presentimento si fece strada nelle sue viscere, depositandosi come un macigno sullo stomaco.
“Potrebbe trattarsi di… no, impossibile.”
“Chi pensi che sia?”
“Credo… no, non può essere lui.” 
“Nell.”
“Devo assicurarmi che non sia lui.” 
“Lui chi?”
“Selis.” soffiò con un filo di voce.
“Oh.”
Nell si prese la testa fra le mani, il battito del cuore schizzato alle stelle in pochi secondi. La descrizione fisica corrispondeva e il fatto che fosse considerato il “custode” di Rocca Smeralda quasi non lasciava adito a dubbi. Senza contare che, quando era tornato a Rocca Smeralda circa undici anni prima, lo aveva visto. Mentre passeggiava per la via del mercato, il volto celato dal mantello e la testa bassa, all’improvviso aveva scorto Selis, ormai adulto, a braccetto con una ragazza molto carina. Non si era avvicinato, preferendo osservarlo da lontano, ma ricordava perfettamente la mole possente, i capelli biondi e la pelle bruciata dal sole. Poi un pensiero lo pietrificò. 
“Vuoi dire che, quando sono venuto a Dun’har sei anni fa, lui era già qui?!” 
“Se avessi saputo chi eri, te l’avrei detto.” borbottò, una sottile accusa nella voce, “Ma non sai se è davvero lui, potrebbe essere qualcuno che gli somiglia.”
“Hai ragione, andrò ad appurarlo. Qual è la cosa che devo vedere?”
“Ecco, Sylas fece smantellare Rocca Smeralda dieci anni orsono. Tutto ciò che si trovava lì, ora è qui.”
“Che cosa?!”
“Per un anno alcuni oggetti furono ospitati dal mio tempio, poiché la Sala del Tesoro a palazzo era piena, ma dopo che il re l’ebbe fatta ampliare vennero di nuovo spostati. Mentre curiosavo insieme a dei confratelli, in mezzo a centinaia di cianfrusaglie inutili, mi imbattei in un certo quadro con, uhm, dei soggetti alquanto discinti…” si grattò la barba, impacciato, e lasciò la frase in sospeso apposta, conscio che Nell avrebbe subito collegato.
Infatti, il biondino emise un gemito sofferente, avvampò con violenza e tornò a nascondere la faccia tra le mani, con la voglia di sotterrarsi per l’imbarazzo.
“Ora non puoi più rifiutarti, dovrai intervenire. Anche solo per sbarazzarti del quadro, a meno che non desideri lasciarlo come eredità per i posteri…” tossicchiò, un accenno di rossore sugli zigomi e sulla punta delle orecchie, “Permettimi di dire che la sua vista mi ha suscitato un po’ di-”
“Per favore, taci.”
Nell inspirò ed espirò più volte, attingendo all’esiguo autocontrollo che gli era rimasto.
“Aggiornami su ciò che mi sono perso negli ultimi dieci anni.”
“Sarà una lunga notte.” bofonchiò Hodren, massaggiandosi il collo, e si mise comodo.

Un drappello di soldati lo superò senza notarlo e procedette in direzione del mercato. Nell emise un sospiro di sollievo e si portò una mano al petto, i muscoli tesi e i sensi all’erta. Gettò un’occhiata fugace sulla strada e sgusciò fuori dal vicolo buio in cui si era nascosto. Si strinse di più nel mantello, il cappuccio ben calato a celare il viso, e sgattaiolò silenzioso come un felino su per la salita che conduceva al palazzo reale. 
Il cielo era di un opprimente grigio scuro e l’aria pesante, pregna di umidità. Presto avrebbe iniziato a piovere. Le finestre delle abitazioni erano sprangate, tutti dormivano ancora della grossa: a Dun’har l’attività cominciava poco dopo l’alba, quindi, eccetto i soldati che dovevano raggiungere le proprie postazioni, a nessuno veniva in mente di andarsene a zonzo a quell’ora. Le vie erano deserte, non si scorgeva neanche un animale randagio in giro, e ciò rendeva la città più inquietante di quanto già non sembrasse alla luce del giorno.
Nell arrestò il passo quando giunse in prossimità del fossato che divideva la reggia dal resto degli edifici. Non c’era modo di entrare se non tramite il ponte levatoio, che era sempre pattugliato dalle guardie. Nessuno poteva accedervi senza annunciarsi, evitare i controlli era impensabile. Tuttavia, Hodren, prima di salutarlo per tornare al tempio, lo aveva messo al corrente di un passaggio che sfruttava i canali fognari e sbucava nelle cantine reali, dove erano conservate le scorte di vino del re. Si trovava proprio nel fossato: bisognava immergersi nelle acque torbide e nuotare verso l’altra sponda, fino ad individuare un’apertura quadrata, chiusa da un cancelletto di ferro facilmente scassinabile. 
Nell, all’idea di fare il bagno nei reali escrementi, avvertì un potente conato risalirgli su per la gola, ma si obbligò a proseguire facendo leva sulla terribile possibilità che Selis fosse prigioniero fra quelle mura. Se così fosse, non poteva abbandonarlo, non di nuovo. Già in passato gli aveva voltato le spalle, affidandolo alla protezione di un mercenario che era sì morto per salvarlo, ma che lo aveva anche messo in serio pericolo. Diciamo piuttosto che era stato il fato, o la mano divina, a risparmiargli una prematura dipartita, e Nell non ci teneva proprio a mettere di nuovo alla prova la Fortuna, dea volubile e capricciosa.
Eseguì alla lettera i suggerimenti di Hodren. Dopo aver avvolto nel mantello la borsa, prese un bel respiro, chiuse gli occhi e si tuffò. Riemerse boccheggiando, la borsa sopra la testa per evitare che si bagnasse troppo e rovinasse il prezioso tomo e la mappa ivi contenuti, e nuotò come poté verso la sponda opposta, cercando con gli occhi l’entrata delle fogne. La scovò un minuto dopo. Si aggrappò alle sbarre del cancelletto con i piedi, estrasse uno spillo spesso da una tasca della borsa e si mise ad armeggiare con il lucchetto arrugginito, che cedette in pochi secondi. Quindi si intrufolò nel condotto, le ginocchia, le mani e i piedi che sguazzavano nella melma puzzolente depositata sulla base. Si tappò il naso e respirò con la bocca, pregando che le cantine non fossero troppo lontane.
Dopo quella che gli parve un’eternità, visto che aveva gattonato al buio, con il battito del cuore a rimbombargli nelle orecchie come unico strumento per misurare il tempo, arrivò alla botola di cui gli aveva parlato il monaco. Stando a lui, avrebbe dovuto essere aperta. Nell spinse in alto, digrignando i denti per lo sforzo, finché non fece capolino in una sala ammantata di oscurità, umida e fredda. Poi fiutò l’odore di vino fermentato, e seppe subito di trovarsi nel posto giusto. 
Certo che Hodren è ben informato. Come sa delle fogne e della botola? Bah, che importa.
Si issò sulle braccia e rotolò sul pavimento della cantina pensando “chi me l’ha fatto fare”. Inspirò aria pura con sollievo, chiuse la botola per evitare che il tanfo si spargesse ovunque e rovistò febbrilmente nella borsa, supplicando divinità a caso. Quando le sue dita agguantarono una boccetta di vetro ancora intatta, la agitò davanti agli occhi con un sorriso e si spruzzò addosso un profumo che sapeva di gelsomino, l’ideale per coprire la puzza di escrementi, a detta di Hodren. Avrebbe dovuto spruzzarselo a intervalli di un’ora per mantenere l’effetto e sopprimere il cattivo odore, anche se la scia di gelsomino, alla lunga, sarebbe diventata insopportabile come ciò che doveva celare. In sostanza, era meglio sbrigarsi a portare a termine la missione, prima che qualche guardia, passeggiando per i corridoi che Nell avrebbe imboccato, si domandasse quale fosse la fonte del profumo, completamente fuori luogo tra quelle mura, e decidesse di indagare.
La prima tappa era la Sala del Tesoro, perché era di strada. Dalle cantine, avrebbe dovuto scendere una rampa di scale, svoltare nel secondo corridoio sulla destra e percorrerlo fino in fondo. La sala era situata dietro un portone di mogano a due ante, sigillato da un complesso sistema di chiavistelli, tutti però scassinabili se si aveva pazienza. Le prigioni invece, ossia la seconda tappa, erano site al livello ancora più basso, per cui bisognava scendere altre quattro rampe.
“Da giovane ero l’assistente del Primo Fratello e Consigliere del re, quindi mi capitava di passare molto tempo a palazzo. Poi hanno scoperto il mio vizietto dell’oppio e sono stato declassato a bibliotecario.” aveva spiegato Hodren con un sorriso birichino, “Comunque, se Sylas non ha apportato modifiche alla planimetria, non dovresti avere problemi.”
Mentre sgusciava da un corridoio all’altro impaziente di arrivare alle scale, notò la totale assenza di diaspro rosso nelle decorazioni, nei muri e sulle colonne. In alcuni punti sembrava addirittura che fosse stato rimosso.
Che strano.
Attento a non fare rumore e restando nell’ombra, riuscì a giungere alla meta senza intoppi. Dopodiché, con le orecchie tese a captare qualsiasi suono, scassinò i chiavistelli e si insinuò con un movimento fluido e silenzioso attraverso lo spiraglio nel portone, chiudendoselo alle spalle. 
La sala era illuminata da dei bracieri, la cui luce aranciata disegnava i contorni dei tesori ammassati al centro con ordine. Nell riconobbe immediatamente alcuni oggetti e una fitta al cuore lo lasciò paralizzato per qualche attimo. Quelle “cianfrusaglie”, per lo più mobili, soprammobili e ninnoli, erano pieni di dolci ricordi. Scorse un forziere colmo di gioielli, fra cui una collana di smeraldi che aveva indossato spesso, regalo di Ysril per i suoi diciotto anni. 
Deglutì, colto da un’emozione violenta e incontrollata. Avanzò lentamente in mezzo a quei cimeli, facendosi travolgere dalla valanga di nostalgiche visioni del passato che lo assalirono all’improvviso. Sfiorò con reverenza ogni oggetto, gli occhi umidi e le dita tremanti, quando la sua attenzione venne calamitata dalla silhouette di un quadro molto grande, accatastato con altri di dimensioni più ridotte in un angolo. Era coperto da un telo bianco. Nell ne afferrò un lembo e lo scostò, facendolo adagiare al suolo con un fruscio. 
Il respiro gli si bloccò in gola non appena lesse la targa di ottone sulla cornice in basso: “Ysril, Lord di Rocca Smeralda, e Lord Nell, suo legittimo consorte”. 
Si ritrovò a contemplare a bocca aperta se stesso e suo marito, sdraiati nudi su una dormeuse, con le parti intime celate a malapena da un lenzuolo candido e i loro colli e le loro braccia adornati di gioielli, che sfavillavano come stelle alla luce del sole morente che filtrava dalla finestra. Nell rammentava molto bene come, prima di ciascuna seduta col pittore, Ysril lo possedesse fino a strappargli via la voce, affinché l’artista fissasse per l’eternità sulla tela la sua espressione ebbra di piacere. Infatti, lì Nell pareva essere appena uscito da una sessione di sesso selvaggio, mentre Ysril, steso sotto di lui a fungere da materasso, aveva un’aria beata e appagata, come un gatto che si lecca i baffi. Solo i capelli arruffati costituivano un indizio sull’attività a cui si era dedicato prima di mettersi in posa.
E lo hanno visto tutti.
Si morse l’interno di una guancia, incapace di reprimere l’ondata di imbarazzo che gli fece fischiare le orecchie.
Ysril, stupido maniaco.
Suo malgrado, sorrise e si accarezzò le labbra, perso nelle memorie di baci ardenti e sguardi carichi d’amore e devozione. Emise un sospiro tremulo e, in un gesto pudico, si abbassò la camicia sulle cosce per coprire il principio di erezione. 
Sì, quel quadro doveva sparire. Anche se, tutto sommato, era un capolavoro. Sarebbe stato un peccato bruciarlo. Però era pur vero che, se lo avevano visto tutti, specialmente re Sylas, sarebbe stato rischioso non far nulla: chiunque avrebbe potuto riconoscere in lui Lord Nell, se si fosse messo a gironzolare per il castello. 
Eppure si trova qui da dieci anni! Quando sei anni fa venni a Dun’har, nessuno mi fece notare alcuna somiglianza, perciò forse mi sto preoccupando troppo. Ysril, ti odio. Cosa avranno pensato di me? Come se le storie diffuse dai bardi non fossero già abbastanza imbarazzanti.
Osservò combattuto il dipinto. Alla fine desisté e decise di mollarlo lì, dato che non poteva di certo trasportarlo altrove, e distruggerlo non era più un’opzione. E poi chi mai avrebbe creduto che un ragazzino vestito di stracci fosse Lord Nell, il quale, in teoria, avrebbe dovuto avere cinquantacinque anni? Al massimo potevano scambiarlo per un parente stretto.
Si strofinò le palpebre e sospirò di nuovo. Senza curarsi di ricoprire il quadro, si allontanò a passi lenti. Poi, passando accanto ai forzieri, si intascò una manciata di gioielli - i suoi gioielli - per rivenderli, dato che aveva finito i soldi. Infine uscì, seppellendo per sempre in quella sala un’era felice che sapeva non sarebbe mai più tornata.

Selis si svegliò sbadigliando. Tossì e si umettò le labbra secche. Aveva sete, ma prima dell’alba non gli avrebbero portato da bere e da mangiare. Si rigirò sul pagliericcio per dormire ancora un po’, le membra indolenzite e stanche, ma mai sofferenti quanto la sua anima e il suo cuore. Gli dolevano le ossa, c’era troppa umidità. Presto si sarebbe scatenato un temporale.
Chiuse di nuovo gli occhi, pronto a ricadere nel sonno, quando all’improvviso udì dei passi avvicinarsi. Aggrottò le sopracciglia e gettò un’occhiata alla minuscola finestra della cella, appurando che il sole non era ancora sorto, quindi non poteva essere la colazione. Si sedette stropicciandosi le palpebre e rimase in attesa.
Enorme fu il suo stupore quando il profilo di un ragazzo biondo si delineò alla sua sinistra. Lo vide fermarsi di fronte alla cella, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca socchiusa in un’espressione sbigottita speculare alla propria. 
Per interminabili secondi non volò una mosca, il respiro bloccato in gola assieme alla voce, il cuore che galoppava frenetico nel petto e un’emozione simile alla gioia più pura che irrorava ogni fibra dei loro corpi. Poi Nell si accasciò in ginocchio con un gemito strozzato.
Selis si trascinò, tremante e incredulo, verso di lui, spazzando la pietra con i vestiti laceri. Doveva toccarlo, accertarsi che non fosse l’ennesima allucinazione. Protese un braccio, allungò le dita e trattenne il fiato. Ma non compì neanche metà del viaggio, perché Nell lo intercettò e accolse la mano nella sua.
“Selis…” esalò incerto.
Sentir pronunciare il suo vero nome per la prima volta da quando aveva lasciato Rocca Smeralda riempì l’uomo di una felicità indescrivibile. Quella semplice parola, scandita con tanto amore, ruppe la stasi. Selis si abbandonò al pianto. Stritolò la mano di Nell con vigore e dolcezza insieme, la stessa mano che durante la sua infanzia e adolescenza gli aveva regalato innumerevoli carezze; la baciò con trasporto e disperazione, se la strofinò sulle guance, sulla fronte, la venerò come una reliquia sacra e si beò del tepore che per troppo tempo gli era stato negato. Gli parve di riemergere da un’apnea durata dieci anni. La speranza si riaccese, timida e pura, nel suo spirito stremato.
“Sei tu… sei davvero tu…”
Calde lacrime gli rigarono le guance scavate e le ripulirono dalla polvere, ma fecero risaltare di più le occhiaie, il pallore e la magrezza celata sotto la barba ispida che gli copriva metà faccia.
“Oh, il mio bambino, il mio piccolo Selis… cosa ti hanno fatto? Come ti hanno ridotto…” singhiozzò Nell costernato, il cuore che gli doleva come se fosse trafitto da rovi.
Lo abbracciò attraverso le sbarre e gli stampò teneri baci sulla testa, incurante della sporcizia, con l’unico desiderio di riversargli addosso tutto l’affetto che non era riuscito a dargli negli ultimi anni. In quel modo provò pure a stemperare l’angoscia che lo opprimeva, ma, per ogni bacio elargito, una nuova spina si conficcava nel suo petto al vederlo trasformato nell’ombra di se stesso. Ed era solo colpa sua. Non lo aveva protetto. Se non si fosse tenuto nascosto come un vigliacco, se fosse rimasto a Rocca Smeralda con lui, se soltanto fosse tornato… che razza di padre era?
Nel frattempo, Selis si lasciò cullare, assaporando ogni momento come se fosse l’ultimo, e ringraziò gli dei per avergli concesso un assaggio di serenità prima di morire. Ad un tratto tossì e ciò lo ridestò abbastanza da comprendere la situazione pericolosa in cui si trovavano.
“Nell…” rantolò con voce gracchiante, “Non sei al sicuro qui. Devi andartene.”
“No, no, shh, tranquillo, non vado da nessuna parte senza di te…”
Selis si staccò e lo studiò da vicino. Nell non era invecchiato nemmeno un po’. Anzi, d’accordo, magari dava l’impressione di essere più adulto, ma non v’era traccia di rughe sul suo bellissimo viso, né un capello bianco in mezzo alla chioma bionda e serica adagiata sulle spalle.
Sorrise e gli accarezzò una guancia con infinita devozione: “Sei ancora splendido.”
“Merito di Ysril.” 
“Ah. Dov’è lui?” domandò, sporgendosi in avanti per ispezionare il corridoio con lo sguardo.
“Non è con me, lo sto cercando.” 
“In che senso? Vi siete separati?”
“È una storia lunga.”
“Ti prego, dimmi cosa vi è accaduto. Non ho avuto più notizie di voi.”
“Dopo che siamo fuggiti da Rocca Smeralda, siamo stati inseguiti da un demone e alla fine ci ha raggiunti. Ysril ha lottato e lo ha ucciso. Si è sacrificato per proteggermi. Credevo fosse morto, l’ho creduto per anni. Poi un giorno ho incontrato un altro demone, che mi ha detto che invece era vivo. Poco dopo ho iniziato le ricerche. Sto andando a Lankara, per vedere se è lì.”
“Lankara.” ripeté Selis, rabbuiandosi.
“Sì… qualcosa non va? Che ti è successo, bambino mio? Perché sei qui? Cosa vuole il re da te? No, non rispondere adesso, non abbiamo tempo. Devo liberarti.”
Nell fece per alzarsi, ma Selis lo trattenne e scosse il capo.
“Io morirò qui, padre. Sono malato, non ho le forze per fuggire.”
Ad avvalorare tale affermazione, tossì forte con una mano premuta davanti alla bocca. Quando la ritrasse, il palmo era sporco di sangue.
“Che hai?! Ti serve un guaritore subito!” esclamò Nell preoccupato.
“No!” gemette, rinserrando la presa, “Ti prego, resta ancora un po’, solo un altro po’. Raccontami cosa hai fatto, dove sei stato, chi hai conosciuto. Voglio sentire la tua voce.”
Nell digrignò i denti, incassò la testa nelle spalle e pianse.
“Non piangere, mostrami il tuo sorriso. Per favore.” lo supplicò Selis, reprimendo a fatica un altro attacco di tosse.
Il ragazzo dovette sforzarsi molto, ma alla fine arrestò i singhiozzi e si costrinse a piegare le labbra nel sorriso più sincero che riuscì a fare.
“Ecco, così. Dei, quanto mi sei mancato.” sospirò commosso, “Su, ora parlami.”
Nell deglutì, si asciugò le lacrime e scoccò altri baci sulle mani del figlio. Era ancora dell’idea di provare a scappare, ma con Selis in quelle condizioni non avrebbero fatto molta strada. Doveva arrendersi all’evidenza di non poterlo salvare?
No, deve esserci una soluzione.
“Nell, non pensare. Abbiamo i minuti contati, non sprechiamoli. Coraggio, dimmi tutto.”
Con grande difficoltà, gli riassunse sommariamente gli anni trascorsi nella valle di Mesil, presso la sua vecchia dimora, in compagnia della sorella, del cognato e della nipote. In seguito, passò alla narrazione dei suoi viaggi: gli parlò delle città che aveva visitato, delle persone che aveva incontrato, delle disavventure a cui era andato incontro, delle fughe rocambolesche, le marce forzate, gli uomini che aveva dovuto uccidere per difendere se stesso e il suo segreto, le scoperte che aveva fatto. Glissò sul suo breve ritorno a Rocca Smeralda undici anni prima, compiuto sotto la spinta di una forte nostalgia, per timore che Selis potesse rimproverarlo di non essere venuto a salutarlo. Gli rivelò della combriccola di ladri che, da Ferenthyr, si era unita a lui durante il tragitto verso Dunaster. Gli disse di Reeven, mettendolo al corrente della sua natura ibrida, e di come lo aveva abbandonato per risparmiargli pericoli inutili. Tenne per sé il bacio e le sensazioni contrastanti che provava per lui, soffermandosi piuttosto su aneddoti divertenti che potevano alleviare la pena di Selis. Riuscì a farlo ridere un paio di volte.
Poi fu il turno di Selis. Volendo accontentarlo, Nell ascoltò paziente, senza interromperlo, anche se aveva fretta di concludere quella conversazione per tirarlo fuori di lì prima che le guardie iniziassero la ronda.
“Dopo che Djibres morì e Kwan fu messo fuori gioco, l’esercito si disperse. I cittadini, me compreso, lavorarono incessantemente alla rimozione delle macerie e in pochi mesi la vita riprese. Alcuni mi chiedevano che fine aveste fatto tu e Ysril, e se avessi intenzione di prendere il mio posto come nuovo signore della Rocca - non dissi mai a nessuno che ero stato adottato, solo mia moglie lo sa -, ma rifiutai. Il castello sarebbe rimasto vuoto, così decisi. E poi, diciamolo, non ero fatto per essere un Lord.”
Nell ridacchiò, richiamando alla mente un Selis bambino che scorrazzava qua e là come un selvaggio.
“Mi proposero di entrare nel consiglio cittadino per ricoprire un posto d’onore, poiché secondo loro, come legittimo erede e uomo di alto lignaggio, dovevo pur vantare una carica di quale tipo. Di nuovo, rifiutai. Tutto ciò che desideravo era vivere una vita semplice con la ragazza che amavo. Ricordi Delia, la figlia della cuoca?”
“Ah! Lo sapevo che vi sareste sposati! C’era sintonia tra voi.”
“Fu una cerimonia tranquilla, con pochi invitati. In quel periodo mi impegnai anche a costruire la nostra casa, in campagna, sulle colline, perché non potevamo continuare a stare dai suoi genitori. A lavori ultimati, ci trasferimmo. Delia era già incinta all’epoca e in primavera mi diede una figlia, Seyran. Cinque anni dopo ebbe un maschio, Wes.”
“Nipotini…” sospirò sognante Nell.
“Li adoreresti. Se mai un giorno ripassassi di là, va’ a conoscerli. E da’ loro un bacio da parte mia.”
“Ci andremo insieme.”
Selis sorrise malinconico, tossicchiò e proseguì: “Comunque, nonostante non volessi avere niente a che fare con l’amministrazione della cittadella, le persone non smisero di considerarmi il loro signore. Spesso venivano da me a chiedere aiuto o consiglio, e io che potevo fare? Fregarmene? Perciò capitava che intervenissi in qualche scaramuccia tra vicini, ma per fortuna Rocca Smeralda è sempre stata pacifica. Col passare del tempo, la gente cominciò a chiamarmi ‘custode della Rocca’, benché non facessi assolutamente niente di così eclatante per meritarmi questo titolo. Ho lasciato che il castello andasse in rovina, non ci sono più entrato. Confesso di aver sempre avuto paura di avventurarmi di nuovo in quei corridoi e in quelle stanze.”
“Perché?”
“Non lo so. Tendevo ad associare Rocca Smeralda a Ysril e la cosa mi metteva i brividi. Sebbene sia sempre stato gentile, negli ultimi giorni, quando Kwan ti prese in ostaggio, mi spaventò a morte. I suoi occhi rossi talvolta compaiono nei miei incubi. Temevo di incrociarlo sulle terrazze, di intravedere il suo volto dalle finestre, di udire il tintinnio dei gioielli che accompagnava i suoi passi…” il suo sguardo si perse in lontananza, ma tornò in sé un istante più tardi, “Perdonami, non dovrei dirti questo, è ingiusto da parte mia. Ysril è stato buono con me, non mi ha mai fatto del male. Eppure, non so come spiegarlo…”
Si morse un labbro e scrollò le spalle, liquidando il discorso.
“Poi, dieci anni fa, dei soldati di Dunaster mi prelevarono da casa mia, davanti agli occhi di Delia e dei miei figli. Il sole era appena tramontato, eravamo seduti a tavola a desinare. Wes rideva per qualcosa che aveva detto sua sorella, non rammento cosa. Fecero irruzione con le spade sguainate, rovesciarono il tavolo, picchiarono mia moglie e urlarono ai miei figli di non muoversi. Non risposero ad alcuna delle mie domande, limitandosi a legarmi i polsi e a mettermi un sacco di tela in testa. Mi trascinarono via di peso. Sento ancora nelle orecchie le grida di Delia e i richiami dei miei bambini. Implorai che risparmiassero la mia famiglia e uno di loro mi promise che nessuno li avrebbe toccati se avessi collaborato. Accettai. Da allora non li ho più rivisti.”
La sua voce si spense e Nell lo abbracciò, cercando di trasmettergli calore.
“Non c’è stato giorno che non pensassi a te, Selis, ma non ho mai avuto il coraggio di tornare a Rocca Smeralda, neanche una volta.” mentì in parte, “Mi dicevo che lo stavo facendo per proteggerti, la mia missione era pericolosa e non volevo coinvolgerti. Mi dicevo che era meglio restare alla larga, poiché se mi avessi rivisto ti saresti allarmato. E se qualcuno del posto mi avesse riconosciuto, mi avrebbero additato come un mostro, dandomi la caccia e spargendo la voce che Lord Nell era ancora vivo. Dovevo mantenere la copertura, far credere che fossi morto per potermi muovere con più libertà. Però la verità è un’altra.” la voce si incrinò, gli strinse la mano e ne baciò le nocche, affranto, “Non potevo tornare perché a Rocca Smeralda avevo troppi ricordi. Il peso di quei ricordi mi ha tormentato sin dal giorno in cui me ne sono andato, e lo fa tuttora, sia quando dormo che quando sono sveglio. Mi dispiace, sono stato un codardo, ti ho abbandonato… sono un pessimo genitore… mi dispiace tanto, Selis.”
“Oh, Nell. Non addossarti colpe che non hai. Invece sei stato un buon padre, credimi. Gli anni trascorsi a Rocca Smeralda come tuo figlio sono stati i più felici della mia vita. Certo, non mi lamento di ciò che è venuto dopo, ma quei giorni della mia infanzia, circondato da amore e ricchezze, sono insostituibili e indelebili. Mi hai dato molto, mi hai reso forte, giusto, gentile, un uomo degno di fiducia. Mi hai allevato nel migliore dei modi e mi hai fornito i mezzi per diventare un adulto di cui essere orgoglioso. Ho conquistato il cuore di mia moglie, ho avuto dei figli e li ho cresciuti con lo stesso affetto che tu mi hai donato. Hai fatto le tue scelte, non importa se erano giuste o sbagliate, e nessuno ti biasima. Tu non sei una persona ordinaria, sei speciale. Lo sei sempre stato. Lo saresti anche se Ysril non ti avesse… cambiato. Non dubitare mai della tua bontà, resta aggrappato ai tuoi valori e ai tuoi ideali, perché in futuro essi saranno la tua ancora di salvezza. E non dimenticare che ti voglio bene. Te ne vorrò sempre.”
“Scusami…” mormorò, abbassando il capo.
“Non hai nulla per cui chiedere scusa. E anche se fosse, ti perdono.”
Selis gli sollevò il mento, fece aderire le loro fronti e gli sorrise dolcemente. Nell ricambiò e portò una mano ad accarezzargli la guancia. Poi si rannuvolò e strinse le labbra in una linea sottile.
“Adesso dimmi: perché re Sylas ti tiene qui? A cosa gli servi?”
“Mi sta facendo tradurre un manoscritto in lingua rak’shra.”
“La lingua dei demoni? Ma tu che puoi saperne?” indagò stranito, raddrizzando la schiena.
“Ysril, qualche volta, mi parlava in rak’shra. Ero piccolo, non capivo quasi niente, ma mi ha dato i rudimenti che adesso Sylas mi impone di sfruttare per la traduzione.”
“Ysril non parlava in rak’shra.” replicò sicuro Nell.
“Sì, invece. Lo faceva sempre quando eravate soli.” rivelò l’uomo, lentamente, mentre lo scrutava con perplessità.
“Come fai ad esserne sicuro?”
“Spesso, quando mi capitava di passare davanti a una stanza in cui c’eravate voi, mi fermavo ad origliare. Componeva per te odi d’amore…” sbuffò una risata e si grattò la nuca imbarazzato, “Non c’era giorno in cui non la usasse, tranne che in compagnia di estranei. In quel caso, tornava alla lingua umana. Sul serio non te ne sei mai accorto?”
Nell scosse il capo, basito: “Non mi sembrava di parlare una lingua diversa. O che Ysril lo facesse. Comprendere ciò che diceva mi veniva naturale.”
Ripensò a Radek, agli scambi di battute che ebbe con Ysril nella grotta, e a quel demone che si presentò a lui nella radura per dirgli che suo marito era sopravvissuto. Ricordava ogni singola parola, li aveva capiti benissimo. Com’era possibile? Era per caso un altro effetto collaterale della mutazione che aveva subito?
“Cosa c’è in quel manoscritto?”
“Incantesimi di evocazione, per lo più, e altri per aprire il portale verso il regno dei demoni.”
“Un portale… sì, ne parla anche il mio libro.”
Prese la borsa e sfilò il tomo, mostrandolo a Selis. 
“È antico. E pregiato. Come ne sei entrato in possesso?”
“L’ho rubato dalla biblioteca di un duca, a Ferenthyr. Lo conservava in un baule nascosto sotto il pavimento.”
“Ti sei dato al furto, Nell?”
“Per una buona causa.” farfugliò imbronciato, “L’ho cercato a lungo. Un mio amico monaco vi accennò sei anni fa e risvegliò il mio interesse. Ho girato molte città, seguendo voci e lettere private di nobili ormai dimenticati che lo menzionavano, prima di imbattermi in un registro datato due secoli orsono, nella biblioteca di un collezionista del sud. All’epoca, i miei viaggi mi avevano condotto a Karkossa, praticamente la capitale del contrabbando, ci puoi trovare di tutto. A quanto pare, in passato era usanza trascrivere i nomi delle persone in possesso di determinati testi considerati pericolosi. In quel registro scovai il titolo di questo tomo, Magia Demoniaca e Luoghi Occulti, con accanto il nome della famiglia del duca. Non avevo garanzie che fosse ancora in mano loro, ma ho avuto fortuna. È scritto molto bene, un’opera notevole. Ho già memorizzato alcuni semplici incantesimi - ce n’è uno che insegna come trasformare il sangue in un acido corrosivo, potrebbe avere molte utilità - e mentre venivo a Dun’har ho iniziato a leggere il capitolo che parla, appunto, di un portale.”
“Fammi vedere.”
Nell eseguì. Non appena lo sguardo di Selis cadde sulle pagine, trasalì. 
“Ma… è scritto in rak’shra!” esclamò, protendendosi per guardare meglio, “Tu sai leggerlo?! Scusa, domanda idiota: sai parlarlo, di certo lo saprai anche leggere. Diamine, volumi di questo tipo non esistono più, sono andati distrutti durante l’Epurazione. I superstiti sono conservati al Grande Tempio e nessuno può metterci le mani. Mi sorprende che un duca qualsiasi ne avesse uno all’insaputa di tutti.”
“Sylas come ha ottenuto quello che ti sta facendo tradurre?”
“La famiglia reale lo ha custodito per generazioni, lontano dagli occhi dei sacerdoti inquisitori. Ma finora si trattava più di un cimelio storico che una vera risorsa. Sylas ha deciso di iniziare a studiarlo circa dieci anni fa, dopo aver trovato l’Occhio di Xion.” spiegò sbrigativo, “Tu riesci a leggerlo veramente?”
Nell sfoggiò l’espressione più confusa del suo repertorio e lesse alcune righe, senza notare nulla di strano.
“Come fai?” indagò Selis, curioso e impressionato.
“Non lo so. Questa scrittura per me è identica a qualsiasi altra, il significato delle frasi si palesa con naturalezza, non devo nemmeno sforzarmi.”
“Va bene, non divaghiamo. Dicevi, sai dell’esistenza del portale?”
“Sì e ho intenzione di attraversarlo.”
“Come farai?”
“Qui viene descritto un incantesimo che mi permetterà di creare una crepa temporanea, in cui mi infilerò.”
“È pericoloso. E se i demoni ti scoprissero?”
“Meglio. Mi porteranno da Ysril.”
“Chi ti dice che non ti uccideranno subito? E se Ysril non è a Lankara?”
“Mi stai sottovalutando, Selis? Non sono uno sprovveduto.” 
“So che te la caverai, sei in gamba, ma fa’ attenzione.”
“Sì, mamma.” sbuffò levando gli occhi al cielo, “Quali sono i piani di Sylas? Perché voleva sapere di me e Ysril?”
“Chissà da chi, è venuto a sapere che Ysril era un demone ed era interessato a scoprire come acquisire poteri demoniaci. Era convinto che io lo sapessi, ma gli è andata male. Non so di preciso cosa abbia in mente ora.”
“Qualche teoria?”
“Secondo me, vuole aprire un passaggio per Lankara e reclutare i demoni per combattere la sua guerra.”
“Reclutarli? Non obbediranno mai ad un essere umano!”
“Se userà l’Occhio di Xion, potrebbe riuscirci. Chissà quali immensi poteri nasconde quella pietra.”
“Tu l’hai vista?”
“No, mai.”
Nell si mordicchiò un labbro, quindi domandò: “Perché Sylas desidera la guerra?”
“Non ne ho idea. Vuole ampliare il territorio? Vuole unire i regni sotto un unico re? Fatto sta che se lo incontrassi, ti sembrerebbe di trovarti al cospetto di un folle. Non fa che seminare morte e caos, non è mai sazio. E chi gli si oppone, fa una brutta fine.”
“Ora che ci penso, perché ci sei solo tu qui? Dove sono gli altri prigionieri?”
“Re Sylas non fa prigionieri.” proferì grave, “Se non contiamo gli inquilini del piano di sotto.” aggiunse dopo un momento.
“Eh?”
“Fa’ silenzio e ascolta.”
Nell tese le orecchie, ma non udì altro suono a parte quello dei loro respiri.
“Non sento niente.”
“Bah. A volte chiacchierano così tanto da tenermi sveglio per giorni. Guarda là, in fondo al corridoio.”
Nell seguì la direzione indicatagli da Selis e assottigliò le palpebre per mettere a fuoco le forme nell’oscurità.
“Cosa dovrei vedere?”
“Nel pavimento c’è una buca. Proprio laggiù. Sono là sotto.”
“Chi?”
“Demoni. Ne ho contati almeno sei.”
Il biondino impallidì: “Che cosa?! Che ci fanno qui? Come ha fatto Sylas a catturarli?”
“Non lo so, ma credo che li voglia usare come cavie. Però, se continua a non nutrirli, moriranno. O peggio, si ribelleranno.”
“Da quanto?”
“Qualche anno. Sono i miei compagni di cella.” scherzò, un sorriso amaro sulle labbra screpolate.
“Di cosa chiacchierano?”
“Non li capisco, parlano troppo velocemente. Quando lo fanno, ovvio.”
“Senti… perché non ci alleiamo con loro? Potremmo aiutarci a vicenda.” propose, mentre un’idea azzardata prendeva forma nella sua mente.
“Sei matto?”
Nell studiò a lungo il punto in cui si trovava la buca, vedendovi un’opportunità, ma non era certo che avrebbe funzionato. I demoni non potevano essere controllati, rispondevano soltanto alla loro regina. O alle streghe, se esse li assoggettavano con degli incantesimi al loro volere. Quindi, a meno che a palazzo non ci fossero delle streghe al servizio della corona, Sylas non aveva speranze di costringerli a eseguire i suoi ordini. Nemmeno Nell.
Beh, tentar non nuoce. Potrebbero rivelarsi utili, se offro loro qualcosa in cambio.
Stava per esporre il suo piano a Selis, quando questi lo ghermì per una spalla e lo spinse bruscamente di lato, facendogli cozzare il fianco contro la dura pietra. 
Prima che Nell potesse afferrare la situazione e reagire, un sibilo metallico gli sfrecciò accanto. Ne seguì la traiettoria con lo sguardo e subito dopo l’ossigeno gli venne strappato via dai polmoni. In un attimo, avvertì chiaramente il sangue gelare nelle vene e il cuore cessare di battere.








 

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Capitolo 8
*** Fuga ***


Heilà, salve a tutti! Rieccomi finalmente con il nuovo aggiornamento, e perdonate l'attesa.
Allora, a un certo punto in questo capitolo c'è una scena het non-con accennata (due righe), in cui però è il maschio la vittima... volevo solo avvisare per evitare reclami.
Buona lettura! ^^







 
Noara studiò con cipiglio critico le mura di Dun’har, distanti circa un miglio e mezzo dai margini del bosco in cui lei e Reeven si erano fermati per valutare la situazione. Cioè, lei valutava la situazione mentre Reeven restava in silenzio a fissare l’orizzonte con la faccia di bronzo.
Una mano appoggiata al tronco di un albero e l’altra su un fianco, lasciò vagare lo sguardo verso il cielo ricoperto di nuvoloni scuri e i cancelli della città, affollati da popolani, mercanti e soldati. Subito dopo lanciò un’occhiata a Reeven e scosse debolmente il capo. Non li avrebbero mai lasciati passare. Perché? Beh, innanzitutto a causa del diaspro rosso, che teneva lontano il male: lei era una strega e Reeven un mezzo demone, non sarebbero mai riusciti ad oltrepassare la soglia senza essere scoperti. In più, Noara non poteva rischiare di perdere Reeven, era troppo prezioso. In secondo luogo, per il loro aspetto - le guardie ti ordinavano di calare il cappuccio se tentavi di nascondere il tuo viso -, che di certo non era esattamente nella media: Reeven era una specie di semidio biondo, quando assumeva le sembianze umane almeno, e lei poteva passare tranquillamente per una principessa in incognito. Era già successo una volta, anni addietro, mentre era in visita presso un nobile. Lo scopo di tale visita era incantare suo figlio per costringerlo a uccidere il padre e vendicarsi così di quel lontano giorno in cui suddetto nobile le aveva sputato sul vestito chiamandola “strega meretrice”, per poi cacciarla dalle sue terre. All’epoca era troppo giovane e i suoi poteri troppo instabili per sperare in una vendetta degna di questo nome, ma non appena aveva raggiunto la giusta età, e specialmente la giusta avvenenza, ne aveva approfittato senza esitare. Era stato esilarante. Era stata accolta con tutti gli onori del suo presunto rango e, quando meno se lo aspettavano, aveva colpito. Non avrebbe mai dimenticato le facce orripilate di padre e figlio quando erano rinsaviti, il primo riverso a terra, boccheggiante e pallido, il secondo con una mano sull’elsa del pugnale che attraversava le carni del petto del genitore. Noara se n’era andata con un sorriso trionfante sulle labbra e una marea di nuove possibilità e rivincite a portata di incantesimo.
Scrollò le spalle e tornò al presente. Analizzò con attenzione le opzioni che aveva, quali mezzi usare per ottenere il risultato che desiderava e quale era la maniera più consona per mettere in pratica il piano. Piegò il collo e levò gli occhi al cielo, scontrandosi però con le chiome degli alberi sopra la sua testa. Sbuffò ed elargì al fogliame una delle sue più suggestive occhiate omicide.
Gli ibridi erano una vera seccatura. Se Reeven fosse stato un demone di sangue puro, a quell’ora sarebbe già stato in suo potere, un burattino da manovrare come più voleva. Ma la parte umana era più forte al momento, visto che era stata dominante per anni e anni, prima che quella demoniaca si decidesse a emergere in tutta la sua gloria. E il fatto che fosse tanto forte impediva al controllo mentale di attecchire, o all’incantesimo di durare più di qualche minuto. Serviva qualcosa di più… più. 
Potrei riprovare con quel rito…
Si morse l’interno di una guancia, riluttante ad approvare la sua stessa idea. E non poteva biasimarsi: la prima e ultima volta che l’aveva messo in pratica, era quasi morta perché aveva peccato di ingenuità. Aveva perso la presa sui sigilli di contenimento imposti sul demone e lui l’aveva attaccata proprio mentre lei era più vulnerabile, intenta a nutrirsi della sua energia vitale. 
Si toccò la cicatrice che le sfigurava il viso e un’ondata di rabbia la pervase, caricandola della giusta dose di coraggio per decidersi. Poteva funzionare… forse. Ovvio, c’erano variabili da tenere presenti, come l’imprevedibilità e la ferma volontà della parte umana di Reeven, ma quella avrebbe potuto addormentarla con un infuso potente; però, se l’avesse addormentato, non avrebbe potuto parlargli per arrivare alla coscienza demoniaca, e passare attraverso il Reeven umano a quanto pare era il solo modo per risvegliare il demone, che era l’unico che gli serviva per il rito. Quindi doveva pensare a un incantesimo che avrebbe fatto piombare Reeven in un sonno profondo e, al medesimo tempo, lo avrebbe tenuto cosciente quanto basta per recitargli all’orecchio le paroline magiche - “Nell, pericolo, nemici” - e portare a galla il lato selvaggio. Più facile a dirsi che a farsi. E occorreva tempo. Tempo che lei non aveva. Doveva arrivare al portale di Lankara prima che l’ecatombe profetizzata millenni fa dalla Sylmaran divenisse realtà. Non avrebbe trovato pace fino a quando la sua mano non avesse stritolato il nucleo del maledetto demone che l’aveva ferita, sia nell’orgoglio che nella vanità. 
Lui l’aveva ingannata, l’aveva convinta che non si sarebbe ribellato durante il rito, anzi, disse che sarebbe stato un onore aiutare una bella strega come lei a diventare più forte. L’aveva sedotta. E così Noara aveva utilizzato i sigilli più deboli, tanto per fare scena e illudersi di avere il controllo, piacevolmente sorpresa e compiaciuta di essere stata tanto fortunata da aver invocato al primo colpo un demone tanto collaborativo, gentile ed educato. Che stupida. Avrebbe dovuto prevederlo. Le sue sorelle l’avevano avvertita di non fidarsi, perché i demoni sono l’incarnazione della menzogna. Ma lui era così bello, nonostante l’aspetto disumano. Era affascinante, parlava fluentemente la lingua umana, gesticolava in modo così adorabile e scherzava riuscendo a farla ridere. Noara aveva abbassato la guardia e ne aveva pagato il prezzo. Ma presto, se il piano procedeva senza intoppi, avrebbe lavato via l’onta e smembrato in piccoli pezzi quel mostro infame, che le aveva lasciato un chiaro ricordo sulla faccia. Se fosse stata una ferita normale, sarebbe guarita con un unguento dei tanti che tutte le streghe sapevano preparare in pochi minuti; invece, purtroppo, era stata inferta da un demone, per cui non si sarebbe mai rimarginata, continuando a sfregiarla per rammentarle il suo errore fino alla morte.
Un gemito sofferente penetrò nella sua mente tramite le orecchie, dissolvendo la nebbia rossa che le offuscava la vista ogniqualvolta ripensava al passato e riassaporava l’umiliazione. Si girò di scatto, in tempo per vedere Reeven artigliarsi la casacca a livello del cuore, riversare il capo all’indietro e ruggire a pieni polmoni come se lo stessero scuoiando. 
Noara si irrigidì e indietreggiò, confusa e spaventata. Jemma planò giù da un ramo e si appollaiò sulla sua spalla per infonderle un po’ di conforto, avendo percepito le emozioni della sua padrona.
Il ruggito si esaurì e un silenzio assordante calò su di loro. Dopodiché, la strega fissò sbigottita il biondo, la cui trasformazione stava lentamente regredendo, il demone che tornava a dormire e l’umano che si svegliava da un sogno caotico e nebuloso.
Ah. Non sapevo che ci fosse un limite di tempo. Uhm. In effetti, sono ormai sette giorni che era trasformato, forse è esausto. Non abbiamo fatto soste, né dormito né mangiato...
Dovette ricredersi non appena Reeven riaprì gli occhi, più rossi del sangue. Il demone era ancora lì, vicino alla superficie, vigile, ma qualcosa lo aveva sconvolto così tanto da spingerlo a rintanarsi di nuovo nel suo angolino.
Reeven portò le mani complete di artigli innanzi a sé, guardandole come se fossero vipere in procinto di azzannarlo. Poi con la lingua accarezzò i denti aguzzi e un’espressione sconcertata gli contrasse i lineamenti. Scandagliò l’ambiente che lo circondava, notando il silenzio e l’assenza di pericoli incombenti. Infine puntò l’attenzione su Noara, pronto a chiedere spiegazioni e pretendere di sapere cosa era successo, per quale motivo avesse un vuoto di memoria e cosa diamine stava accadendo alle sue mani e ai suoi denti. Ma le parole non videro mai la luce, perché in quel preciso istante un’altra fitta lancinante gli trafisse il cuore e lo fece piegare in due dal dolore. Le lacrime si incastrarono tra le ciglia, le vene del collo si gonfiarono per lo sforzo di resistere e il viso assunse un colorito purpureo per un attimo, cedendo subito dopo il posto a un pallore spettrale. 
“Nell…” rantolò.
Noara si avvicinò cauta, le braccia protese verso di lui come a comunicargli di non avere intenzioni malvagie, e gli posò delicatamente una mano sulla spalla.
“Che succede?”
Reeven guaì e si accasciò al suolo, faticando a respirare.
“Non lo so… de-devo trovarlo… devo andare da lui…” balbettò a corto di fiato.
La strega prese il labbro inferiore tra i denti e rifletté. Aiutare Reeven a ricongiungersi a Nell non era mai stato nei piani, non poteva permettersi di perdere un’arma come l’ibrido che aveva di fronte solo per esaudire un suo capriccio. Aveva finto di accompagnarlo a Dun’har solo perché la città sorgeva a ridosso dei monti Lerisa, oltre i quali c’era il portale per Lankara, che poteva essere aperto solo da un demone - o da una strega molto potente, cosa che lei non era. Non le importava nulla di un ragazzino petulante con manie suicide, anche se aveva menzionato Ysril e un assurdo legame nuziale con lui. Sicuramente Nell era fuori di testa. Sposato con Ysril? Lui, un umano? Ma per favore. O si era inventato tutto, o Ysril lo aveva manipolato e ingannato peggio di quanto non avesse fatto con lei. E forse, stando ai suoi discorsi, la seconda opzione era più probabile. 
‘Ysril mi adora, ci amiamo tanto e ci facciamo le coroncine di fiori a vicenda’, sì, certo, e io sono un troll.
Ysril, quel demone fedifrago le aveva lasciato quella cicatrice, e l’avrebbe pagata cara. Quando aveva udito Nell pronunciare quel nome, per poco non si era tradita.
“Nell… Nell!” gracchiò Reeven.
Noara sbuffò infastidita, trattenendosi a stento dall’emettere un verso esasperato. Doveva agire adesso, mettergli il guinzaglio prima che si ribellasse.
“D’accordo, rilassati. Respira. Così, da bravo.” mormorò dolcemente, carezzandogli la schiena con movimenti ipnotici e rassicuranti.
Mentre Reeven era distratto, Noara mosse le labbra per articolare silenziosamente le parole dell’incantesimo. Le pupille inghiottirono l’iride e la magia divampò nelle sue vene, incanalandosi nelle sue dita. Quando raggiunse i polpastrelli, la strega condusse una mano dietro al collo del biondo e l’altra sulla sua fronte. Un attimo più tardi, Reeven svenne e cadde sull’erba con un tonfo sordo.
A quel punto, Noara non indugiò. Reeven era in forma umana, non proprio l’ideale, non c’erano garanzie che il rito avesse effetto, ma tanto valeva tentare. 
Mandò Jemma ad appollaiarsi su una roccia a qualche passo di distanza, scrocchiò il collo e roteò le spalle per rilassare i muscoli tesi. Poi entrò nello stato di trance necessaria per cominciare il rito. Gli occhi neri disegnarono la figura di Reeven e, con un leggero scatto della testa, sollevò il suo corpo inerte a mezz’aria, lasciandolo lì a fluttuare mentre ripescava dalla memoria le parole giuste. Erano trascorsi quasi cinquant’anni da quel fatidico giorno, ma non le aveva mai dimenticate. Presto sgorgarono dalla sua bocca sottoforma di litania e si allacciarono al corpo di Reeven come spesse catene, che avvolsero i polsi, le caviglie, il collo e il torace. 
Una volta completati i sigilli, Noara si spogliò restando nuda, eccetto per la collana di rubini che le adornava il seno. Si accostò a Reeven, stando ben attenta ai sigilli, e gli si mise a cavalcioni. Con la magia li sollevò ancora un po’, così che nemmeno i propri piedi toccassero terra: in quel momento era un conduttore di energia, un ponte, e se fosse rimasta a contatto con qualsiasi essere vivente, tale energia sarebbe passata da lei per poi disperdersi all’esterno. Invece, lo scopo del rito era assorbire per intero l’energia del demone per rinforzare il proprio corpo e la propria magia.
Slacciò i pantaloni del biondo, quel tanto da liberare il suo membro, e con gesti esperti lo portò in erezione. Quando fu duro abbastanza, si mise in posizione e lo accolse dentro di sé con un movimento fluido del bacino. Non batté ciglio alla sensazione di pienezza, e ignorò il bruciore che lo sfregamento tra pelli asciutte provocava ad ogni minimo assestamento. Altre arcane parole rotolarono fuori dalle sue labbra e intorno a lei l’aria iniziò a vibrare, carica di magia. Cavalcò l’onda senza fretta, risucchiando ogni singola goccia di energia piano piano per permetterle di adattarsi alla sua nuova dimora e divenire parte di lei. 
Prima di raggiungere il culmine, materializzò un pugnale nella mano destra. Sull’elsa erano incisi simboli magici, che si illuminarono al contatto con il suo palmo. La lama baluginò, impaziente di bagnarsi di sangue. Noara attese di percepire il seme di Reeven imbrattarle le cosce. Allora levò il braccio in alto e, in un secondo, calò il pugnale nel suo stomaco, là dove, se fosse stato un sangue puro, ci sarebbe stato il suo nucleo. Non colpì per distruggere, ma solo per scalfire, in maniera tale che l’energia sgorgasse in piccoli fiotti senza esaurirsi. Il nucleo si sarebbe ricostruito da solo non appena i sigilli di contenimento sarebbero stati rimossi.
La strega venne investita da una corrente violenta e ustionante, che la lasciò frastornata per qualche minuto. Una voce nella sua testa le gridò di non abbassare la guardia come in passato, di restare lucida, ma come poteva quando traboccava di cotanta energia da sentirsi ubriaca? Sì, era stato proprio in quell’esatto istante che Ysril l’aveva attaccata, ma con Reeven non correva rischi. I sigilli che aveva usato erano i più potenti, in grado di stendere un sangue puro, perciò figuriamoci un debole ibrido.
Accostò la lama insanguinata alla bocca e gustò il sapore corposo del sangue del biondo. Un sapore che, fortunatamente e sfortunatamente, le era fin troppo familiare, essendosi impresso a fuoco sulla sua lingua come un marchio nefando.
All’improvviso, il tempo parve fermarsi. Noara sgranò gli occhi scioccata, passandosi la lingua sulle labbra sporche di sangue, la fronte corrugata e il gelo nelle ossa. Lentamente abbassò lo sguardo incredulo su Reeven, che, imprigionato sotto di lei, la fissava allibito e furioso, le iridi rosse che trasudavano collera e spavento. 
La strega rimase immobile come una statua, non osò muovere un singolo muscolo. Era fuori di sé non tanto perché Reeven si era svegliato, quello se lo aspettava, quanto per un dettaglio che non aveva minimamente previsto o lontanamente immaginato.
“Tu sei…” 
Reeven non le fece concludere la frase. Si ritrasformò in un baleno, si contorse, ringhiò e ruggì, ribellandosi ai sigilli, che si dissolsero magicamente come se qualcuno avesse pronunciato un contro-incantesimo. 
Dei, no, ancora…
Noara si alzò e si allontanò il più velocemente possibile, allarmata. 
Jemma volò rapida verso Reeven e gli artigliò la faccia, distraendolo dalla strega il tempo sufficiente per darle modo di pronunciare un altro incantesimo.
Reeven si bloccò, gli arti costretti da una forza invisibile, e ringhiò all’indirizzo di Noara, frustrato. Tuttavia, le energie lo abbandonarono in un batter d’occhio e, come poco prima, si accasciò al suolo privo di sensi.
Noara si prese qualche istante per calmarsi e assimilare la scoperta e lo shock. 
Ha sciolto i sigilli. Ha sciolto i sigilli! Erano pure i più potenti! Com’è possibile? Un demone non ne è in grado, men che mai dovrebbe esserlo un ibrido. Oh. La parte umana. Va bene, colpa mia, sono stata avventata.
Regolarizzò il respiro, si rivestì con mani tremanti e aggiustò l’acconciatura, che si era allentata durante il rito. Jemma si appollaiò sulla sua spalla e la strega la ringraziò con un bacio e una carezza. Dopodiché rivolse l’attenzione al corpo esanime dell’ibrido, senza curarsi di mascherare la sorpresa per averne scoperto l’identità. Assurdo. Eppure era reale.
Non appena fu tornata in sé, un nuovo piano si delineò nella sua mente. Forse era stato il Fato a condurla da Reeven, il loro incontro non poteva essere stato casuale. Quante possibilità c’erano che si imbattesse proprio in lui, tra tutti? Un ghigno trionfante si dipinse sulle sue labbra e, in preda all’eccitazione, saltellò un paio di volte, reprimendo uno squittio.
“È perfetto! Jemma, siamo vicine, lui è la chiave che ci permetterà di ottenere la nostra vendetta!”
Il gufo fece lampeggiare gli occhi gialli in risposta, come se concordasse con la sua padrona.
“Bene, andiamo. Ho fatto il pieno di energia, non dovrebbe essere difficile adesso sopravvivere all’attraversamento del portale. Reeven lo aprirà per me con il suo sangue e finalmente avrò ciò che mi spetta. Ho atteso tanto questo momento, quasi non mi sembra vero…”
Il famiglio piegò la testa e la strusciò affettuoso contro la guancia di Noara, che ridacchiò. Poi la strega fletté le dita e il corpo di Reeven si librò di nuovo a mezz’aria.
“Forza, Xion sta per destarsi. Dobbiamo sbrigarci.”
Detto questo, cominciò a correre in direzione dei monti Lerisa. Jemma spiegò le ali e sparì oltre le chiome degli alberi, mentre Reeven galleggiava dietro Noara seguendola come un’appendice.

Selis emise un rantolo. Un rivolo scarlatto sgorgò dalla sua bocca e colò sul mento, imbrattandogli la barba. Abbassò lo sguardo sconvolto sul proprio petto, nel punto in cui una spada dalla foggia terribilmente familiare si era conficcata nelle sue carni, trapassandolo da parte a parte.
Nell non riusciva a parlare. Avrebbe voluto gridare, ma la voce pareva svanita. Avrebbe voluto raggiungere il figlio, ma i muscoli erano paralizzati dall’orrore e non rispondevano ai comandi. Poté soltanto guardare quell’agghiacciante spettacolo inerme, impotente, con l’anima straziata.
“Ops. Accidenti, questa non ci voleva. E ora come lo dico al re?” borbottò Dorevan, osservando dall’alto il prigioniero con cipiglio annoiato, “Perché ti sei messo in mezzo, Djibres? O forse dovrei chiamarti Lord Selis? Pazienza. Andrai a fare compagnia alla tua famigliola.” 
Selis sbarrò gli occhi e boccheggiò spaesato, quasi avesse appena ricevuto uno schiaffo.
“Ah, giusto, non lo sai. Sono tutti morti il giorno in cui ti abbiamo preso. Credevi davvero che li avremmo risparmiati? Quanto sei ingenuo.” ghignò crudele il capitano delle guardie.
Una lacrima eluse la gabbia delle ciglia e rigò lo zigomo di Selis, mentre percepiva le forze venire meno. La spossatezza lo pervase, il freddo strisciò nelle sue ossa e la vista si offuscò. 
Quando Dorevan estrasse la lama, il biondo portò una mano sullo squarcio sanguinante. Non sentiva più niente, nessun dolore, nessuna paura. Aveva solo voglia di dormire. 
Ricadde a terra con un leggero tonfo e un sospiro, morto.
Fu allora che Nell esplose in un grido straziante, che rimbalzò sulle mura delle prigioni in un’eco senza fine. Percepì una fitta al cuore e si accartocciò su se stesso, privo di fiato e singhiozzante.
“Su, su, quante scene. Presto lo raggiungerai, non temere.” lo consolò Dorevan, torreggiando sulla sua figura minuta e fragile, “Chi sei, comunque? Come conoscevi Lord Selis?”
Nell grugnì, annaspò e contrasse i muscoli. Il sangue gli ribollì nelle vene, un ronzio gli assalì le orecchie e una furia incontrollata lo accecò come non gli era mai capitato. In un attimo balzò in piedi e si tuffò in avanti per stringere la gola dell’uomo tra le mani, con tutta l’intenzione di strangolarlo e strappargli via il soffio vitale dai polmoni.
Dorevan, colto alla sprovvista, inciampò all’indietro, ma lo stupore durò solo pochi secondi. Riacquisì il controllo e tentò di scrollarsi di dosso quel ragazzino invasato con la forza, prima facendo leva sulle braccia, poi sbattendolo di schiena contro il muro. Ma Nell non mollò né allentò la presa, un’energia dirompente e rinvigorente che incendiava le sue membra come lava. 
Dorevan boccheggiò, l’inquietudine e la confusione serpeggiavano in lui come tarli molesti, distraendolo dalla lotta. Per quanto gli fosse possibile, verificò di essere solo con il ragazzino. Quindi si rilassò, lasciò fluire la magia dentro di sé e la scagliò contro Nell. Il suo corpo venne sbalzato via e urtò il pavimento delle prigioni con una violenza inaspettata. Un paio di schiocchi risuonarono nell’aria, segno che qualche osso si era sicuramente fratturato.
L’uomo lo fissò curioso, gli occhi due biglie nere in mezzo al bianco della sclera.
“Cosa sei?” domandò guardingo, “Non sei umano, questo è evidente, altrimenti non avrei avuto difficoltà ad atterrarti con la sola forza fisica. Anche se credo di doverti ringraziare: era da molto tempo che non usavo la magia, è stato davvero… liberatorio.” commentò massaggiandosi il collo con una smorfia.
Nell rantolò, tossì e rotolò su un fianco, cercando di alzarsi. Quando fu seduto, gemette di dolore. Senza dubbio aveva qualcosa costola incrinata, se non proprio rotta. Scrollò il capo con veemenza e digrignò i denti per scacciare le fitte. L’adrenalina stava svanendo, doveva sfruttarla finché poteva. 
Si tirò su a fatica, barcollando sulle gambe, e fronteggiò ancora il nemico, augurandosi che non notasse la paura che gli scuoteva i muscoli. Nell non era stupido, aveva riconosciuto la magia. Se quel soldato era uno stregone, non aveva molte probabilità di vittoria, ma doveva tentare. Doveva combattere per Selis. Doveva vendicarlo e punire l’individuo che aveva osato torturarlo e ucciderlo.
Mise a fuoco la sua sagoma possente e ispezionò l’armatura alla ricerca di un punto debole. Niente, solo il collo era scoperto. E non aveva un’arma.
Il coltello.
Occhieggiò in direzione della sua borsa, ma si avvide che era praticamente accanto ai piedi della guardia. 
Dorevan, intuendo i pensieri del giovane, si portò davanti alla borsa, sfidandolo con un ghigno a mettere in pratica il suo piano.
“Sai di non avere speranze, arrenditi.”
Nell deglutì, ma rifiutò di gettare la spugna. Camminò in cerchio attorno all’altro, che si mosse con lui senza perderlo mai di vista. Non c’era modo di evitarlo, doveva attaccarlo frontalmente. Magari, se si fosse sforzato di essere veloce, avrebbe potuto ingannarlo con qualche finta. L’armatura pareva pesante, di sicuro avrebbe rallentato i suoi movimenti. Ma c’era anche la magia con cui fare i conti. Se l’avesse colpito ancora come aveva fatto dianzi, Nell era consapevole che non si sarebbe più rialzato. Non aveva scampo.
“Ecco, lo hai capito. Ora in ginocchio, presenta la gola e fatti decapitare.” lo esortò paziente Dorevan.
“Serve aiuto?”
Nell si pietrificò, sgomento. Scandagliò il corridoio in cerca della fonte di quella voce, ma era tutto deserto. Eppure sembrava provenire da un punto vicino a lui. Osservò Dorevan, scrutandolo perplesso.
“Che c’è?” chiese il capitano, confuso quanto lui.
“Hai sentito?”
“Eh?”
Nell tese le orecchie, ma si scontrò soltanto con il silenzio.
Dorevan sbuffò una risata e roteò la spada: “Dai, è inutile che tenti di distrarmi. La tua morte è inevitabile e lo sai. Resistere è inutile, rimandare è una tortura. Coraggio, in ginocchio.”
“Vuoi aiuto, umano?”
“Ma che…?”
Nell piroettò su stesso, esaminando ogni angolo delle prigioni che riusciva a scorgere dalla sua posizione.
“Ragazzo, mi sto scocciando.” sospirò spazientito Dorevan, avanzando di un passo per obbligarlo con le cattive a fare come gli era stato ordinato.
“Sul serio non l’hai sentito?” indagò Nell, incurante dei movimenti e delle intenzioni dell’uomo.
“Sentito cosa?”
“La voce.”
Il soldato inarcò un sopracciglio e lo squadrò dall’alto, a metà tra il preoccupato e l’indulgente: “Finirà subito, se collabori.”
“Umano, ti serve aiuto? Noi ti aiutiamo. E tu aiuti noi.”
“Chi parla? Dove siete?”
“Cosa?” sbottò Dorevan, guardandolo come se fosse un animale raro e affascinante.
Nell lo ignorò, concentrato sulle voci che udiva. Erano più di una e bisbigliavano all’unisono.
“Nell.”
“Come conoscete il mio nome?”
“Selis lo ha detto prima. E il tuo nome è famoso tra di noi…”
“Sapete chi sono? Come?”
“Il tuo odore… Yssssril…”
“Mi porterete da lui? Sapete dove si trova?”
“Sì. E tu aiuti noi.”
La sua testa scattò da una parte all’altra per individuare la sorgente delle voci, finché lo sguardo non gli cadde sul buco nel pavimento alla fine del corridoio, là dove Selis aveva detto che alcuni demoni erano stati imprigionati.
“Che stai dicendo? Che lingua è?!” sbraitò Dorevan, iniziando ad agitarsi.
Raggiunse Nell in poche falcate, lo afferrò per il collo e lo sbatté al muro, sollevandolo da terra di qualche centimetro.
“Chi sei, mh? Chi ti manda? Che lingua stavi parlando?” sibilò a un palmo dalla sua faccia, gli occhi neri che sondavano i suoi in cerca di risposte.
Il ragazzo boccheggiò a corto di ossigeno e scalciò. Dorevan rinfoderò la spada, caricò un pugno e lo sferrò sulla guancia del biondo, stordendolo.
“Ti ho fatto delle domande ed esigo spiegazioni. Ora!”
Nell tossì, ma non fiatò. Un rivoletto di sangue sgorgò dal suo naso e venne a contatto con le sue labbra. Lo accolse sulla lingua e lo mischiò alla saliva, senza ingoiarlo. Un’idea si fece strada nella sua mente annebbiata e pregò gli dei che funzionasse. Scoccò un’occhiata al buco nel pavimento e, come aveva sperato, Dorevan lo imitò, distraendosi. Allora Nell sussurrò rapidamente le parole che aveva memorizzato. L’uomo si voltò di scatto, il viso una maschera di collera. Senza dargli il tempo di reagire, Nell sputò il sangue direttamente sulla sua bocca. 
Immediatamente, Dorevan lo lasciò e, premendosi le mani sulla faccia, esplose in un urlo agonizzante.
“Sì, vai così!”
Il biondino colse l’occasione al volo e incespicò verso il bordo del buco, azzardandosi ad affacciarsi. Non vide altro che buio pesto, ma sentì distintamente le voci, che in coro lo spronavano a scendere. 
Deglutì e si girò per appurare che il soldato fosse fuori gioco. Lo stomaco fece una capriola alla vista delle terribili ustioni che deturpavano la parte inferiore del suo viso, come se gli fosse stato spruzzato sopra dell’acido. Ululava di dolore e graffiava con le unghie la gola, scavando solchi rossastri nella pelle, troppo sopraffatto per badare a lui.
Nell trasse un profondo respiro. Era una pessima idea. Ma quale altra scelta aveva? Scacciò la paura relegandola in un remoto anfratto della coscienza e saltò. 
Atterrò goffamente sulla pietra, gemendo all’ulteriore fitta al costato che gli strappò l’aria. Si concesse qualche momento per riprendersi, poi si accucciò e gattonò nell’oscurità, seguendo le voci.
“Qui! Siamo qui! A destra, destra!”
“Vorrai dire sinistra!”
“Taci, sono il più vicino.”
“Vieni qui, umano! Qui!”

“Le chiavi… dove sono le chiavi? Non vedo niente.”
“Niente chiavi. Fai quello che hai fatto ora allo stregone. Usa il sangue per sciogliere le sbarre.”
“Non so dove sono queste maledette sbarre! Non vedo un accidente!”
“Segui la mia voce. Ecco, così. Ci sei. Tocca le sbarre.”
Nell ubbidì e un secondo più tardi le sue dita si strinsero attorno al ferro.
“Non siete capaci di romperle da soli?”
“Siamo deboli e affamati. Non abbiamo le forze.”
Il ragazzo sbuffo. Pensò febbrilmente, quindi condusse la mano libera al naso per raccogliere altro sangue. Tuttavia, presto si accorse che era secco, non poteva più utilizzarlo.
“Non… il sangue è secco, non posso…”
“Allunga un braccio davanti a te.”
Nell eseguì e, tempo di un respiro, qualcosa tagliò diagonalmente la sua pelle, facendo gocciolare il sangue. Non esitò. Raccolse alcune gocce nel palmo, pronunciò le parole e lo appoggiò sulla sbarra. In pochi istanti il ferro si fuse, lasciando un buco.
“Ancora! Non è abbastanza, non ci passo.”
Il biondo roteò gli occhi, ma non replicò, ripetendo l’operazione su un’altra sbarra.
“Grazzzie…”
Qualcosa di freddo e liscio strisciò al suo fianco, provocandogli un brivido lungo la spina dorsale.
“Ora noi! Vieni qui, Nell!”
Si sentì afferrare sotto le ascelle e trascinare pochi metri più in là, davanti a una cella diversa. Fuse le sbarre, il demone sgusciò fuori e di nuovo venne trascinato sul pavimento. Tenne il conto. Selis aveva detto che erano sei. Infatti, una volta aperta la sesta cella, smise di essere sballottato in giro, con buona pace delle sue membra indolenzite, spossato dalla perdita di sangue. 
La tregua, sfortunatamente, durò poco, poiché a un certo punto si sentì sollevare tipo sposina da quattro arti ossuti.
“Usciamo.”
“Lo stregone?”
“Non lo sento.”
“Trappola.”
“Morto?”
“Runkra, vai a vedere.”
“Perché io?”
“Perché sì.”
“Vai tu.”
“Qualcuno però vada!”

“Che cazzo succede?!” tuonò Dorevan dalla cima del buco.
Nell lo scrutò attentamente e vide che era quasi guarito. Le ustioni stavano sparendo, sostituite da un nuovo strato di pelle sano, effetto evidente di un incantesimo curativo.
Dannazione.
“Che si fa?”
“Lui è uno, non siamo sei. I numeri sono dalla nostra parte.”
“È uno stregone!”
“Anche noi ne abbiamo uno. Umano, sei sveglio?”

Nell mugugnò scocciato.
“Ottimo. Vai e stendilo!”
“Non ce la faccio, ho perso troppo sangue…”
“Ho un’idea. Gerk, raccogli il suo sangue. Nell, ce la fai a pronunciare l’incantesimo?”
“Mmm…”
“Fatto. Umano, è il tuo turno.”
Nell radunò le forze che gli erano rimaste e recitò le parole. Subito dopo, il demone di nome Gerk scagliò il sangue in direzione di Dorevan, colpendolo sul collo e sull’armatura. L’uomo riesumò l’urlo disperato di poco prima e inciampò, franando sul pavimento mentre si divincolava come un’anguilla.
“Muori, bastardo! Ben ti sta!”
“Via, via! Veloci!”

Si mossero tutti insieme, balzando fuori dal buco con estrema agilità. Non persero tempo con Dorevan, sapevano che contro uno stregone del suo calibro non avrebbero avuto possibilità. L’esperienza glielo aveva insegnato con la più severa delle lezioni. 
“La mia borsa!” li avvisò Nell, prima che fosse troppo tardi.
“Presa!”
Sfrecciarono lungo il corridoio, silenziosi e lesti, i sensi vigili e pronti a captare qualsiasi rumore. Nell vide il soffitto delle prigioni scorrere rapido sopra di sé, ma era troppo stanco per mettere a fuoco i dettagli. Le braccia che lo sorreggevano, per quanto scheletriche, erano forti e il ragazzo era sicuro che non lo avrebbero mai fatto cadere. Certo, i demoni avrebbero potuto abbandonarlo lì e fuggire. A-ha. Giusto. Perché stavano tenendo fede all’accordo? Non che Nell non ne fosse felice, anzi, ma la lealtà non era esattamente un tratto tipico della loro specie. Ysril era un’eccezione.
“Umano, sei vivo?” gli domandò il demone che lo stava trasportando.
“Mh.” grugnì, ricacciando indietro la nausea.
“È vivo.”
“Lo usiamo come scudo.”

“Ysril…” esalò in un soffio, come se pronunciare il suo nome servisse a evocarlo magicamente.
“Dici che è davvero lui?”
“Chi?”
“Lo sai…”
“No, non lo so.”
“Dai!”

“Cosa?”
“Uno più stupido dell’altro.”
“Parla per te. Oh, di là, di là! L’uscita è di là!”
“No, usiamo le fogne.”
“Ma ho fame!”
“Tutti abbiamo fame, ma se ci catturano di nuovo sarà stato inutile!”
“Ho fame…”
“Finiscila. Pensi solo con lo stomaco.”
“Vorrei vedere te!”
“Scendiamo, svelti!”

Ad un tratto il buio li avvolse e un fetore rivoltante attaccò le narici di Nell. Nonostante il disgusto, non commentò la scelta, perché se fosse stato lucido avrebbe optato per quella via di fuga pure lui.
“Comunque io dico che è lui. Parla la nostra lingua ed è umano. E si chiama Nell.”
“Non è il solo umano che parla la nostra lingua e si chiama Nell.”
“Sì, ma corrisponde alla descrizione.”

Nell si stupì nel notare quanto parlassero. Non stavano zitti più di cinque minuti di fila. Beh, magari poteva trarne vantaggio e scucire qualche informazione in più su Ysril, una volta che avesse recuperato le energie. Gli sembravano tutti dei gran chiacchieroni.
“Bah, per me gli umani sono tutti uguali, buoni soltanto da rosicchiare.”
“Lo rosicchiamo?”
“No! È lui, razza di vermi! È Nell.”
“Come lo sai?”
“Ha pronunciato il nome di Ysril.”
“Ah. Niente rosicchiamento, quindi?”
“Quanta pazienza…”
“Verremo ricompensati!”
“Non credo.”
“Perché?”
“Pensa a Ysril.”
“Oh.”

“Cosa…? Sta bene? Ysril sta bene?” li interrogò Nell, allarmato.
“Ceeerto! Benissimo! Una favola.”
“È più in salute che mai.”
“Già.”
“Vedo la botola!”
“Forza, forza!”
“Spingi su!”
“Poi però mangiamo.”

Una parte del biondo avrebbe desiderato rimanere immerso nel buio per non essere costretto a scoprire che aspetto avevano quei demoni; l’altra, quella più curiosa, smaniava impaziente, per nulla intimorita dalla possibilità di trovarsi faccia a faccia con dei mostri grotteschi e spaventosi.
La botola venne aperta e la pioggia gocciolò all’interno delle fogne. I demoni uscirono alla spicciolata, Nell in mezzo, le palpebre serrate per non farsi accecare dalla luce, anche se il sole era coperto dalle nubi. 
Si trovavano all’esterno del palazzo, i monti Lerisa a un paio di miglia di distanza e un manipolo di soldati tra loro e la meta. Questi impiegarono una manciata di secondi ad accorgersi dei fuggitivi e immediatamente diedero l’allarme. Sguainarono le spade, rinsaldarono la presa sugli scudi e si misero in posizione per respingere l’avanzata.
“Si mangia!”
“Con calma, ce ne sono due a testa. Nessuno faccia l’ingordo.”

Nell venne depositato a terra e lasciato lì a inzupparsi, mentre i demoni si lanciarono alla carica contro i poveri sventurati che sarebbero presto diventati il loro pasto. La lotta durò pochi minuti e l’esito fu quello previsto, a giudicare dai versi soddisfatti dei demoni. 
Nell, ormai fradicio fino al midollo, mantenne categoricamente gli occhi chiusi, rifiutandosi di assistere allo scempio. Ma fu spinto ad aprirli quando percepì due artigli intrufolarsi nella sua casacca per tirarlo su. Desiderò non averlo mai fatto.

“Io lo ammazzo.” sibilò fra i denti Qolton, marciando attraverso il bosco come un toro inferocito, i piedi che pestavano con rabbia rami e foglie senza curarsi del rumore.
“Magari non è stata colpa sua. Magari-”
“Cosa, Utros?! Magari è Reeven la vittima? Certo, ci scommetto. Infatti, lui e i guai non sono mai andati a braccetto.” sputò sarcastico.
“E le bambine?” domandò Phyroe, l’espressione funerea e non meno scossa.
“Secondo me non erano bambine.” rispose Utros, “Pensateci. In primo luogo, è strano che dei briganti le abbiano catturate e tenute come puttane: troppo giovani e neanche tanto belle. Ma anche se avessero rispecchiato i gusti di alcuni di loro, gli altri sarebbero rimasti a bocca asciutta, e in un gruppo tanto grande deve esserci equilibrio per conservare l’ordine. Avrebbero dovuto esserci più donne e più mature. Non è difficile catturare le donne - senza offesa, Phy -, soprattutto se sei in un branco di trenta e più uomini. Oppure qualche ragazzo, sai, per tutti i palati. Invece c’erano solo loro due. Le uniche prigioniere. E poi noi. È strano.”
“Arriva al punto.” lo spronò Qolton.
“Beh…” si grattò la nuca nervoso, “A volte mi è capitato di sentire delle storie… storie sulle streghe e ciò che sono capaci di fare.”
“Streghe? Non esistono le streghe!”
“D’accordo. Allora, forse, erano qualcos’altro.”
“E perché sarebbero rimaste lì? Perché si sono fatte catturare? Perché i briganti le tenevano con loro?”
“Senti, non lo so. Forse non c’entrano niente…”
“Cosa avevano in mente? Se erano creature non umane, perché sono venute con noi?” continuò Qolton.
“Non lo so! Ma loro sono scomparse, Reeven è scomparso e non so cosa cazzo pensare, va bene?!”
“Calmatevi.” ordinò Phyroe, trotterellando dietro i compagni, “Comunque, se posso dire la mia, Utros potrebbe avere ragione. Sulle streghe, intendo.”
“Phyroe, pure tu!” si lamentò il moro, mentre Utros le fece l’occhiolino.
“Abbiamo perso la memoria, Qolton. Per tre giorni ci siamo dimenticati cosa facevamo in quella radura, ci siamo dimenticati di Reeven e delle bambine e ci siamo avviati verso la costa. Questa è opera di magia. Nessuno dei miei veleni è capace di tanto. Forse quelle bambine erano streghe e volevano Reeven. Non so perché, non me lo chiedere, ma azzarderei l’ipotesi che abbia qualcosa a che fare con la sua natura demoniaca. Magari vogliono usarlo per qualche rito o che so io. Non è da escludere.”
“Baggianate!” abbaiò Qolton, scocciato.
“Sia come vuoi, non mi va di discutere. Fatto sta che dobbiamo trovare Reeven. Nell ha detto che sarebbe andato a Dun’har, perciò propongo di andare là e scoprire se Reeven gli è corso dietro.”
“Conoscendolo, direi che è probabile.” borbottò Utros.
“Bene, allora andiamo. Quanto dista?”
“Negli ultimi giorni, quando abbiamo perso la memoria, ci siamo allontanati. Ci vorranno quasi tre settimane.” disse la ragazza.
Qolton grugnì tutto il suo disappunto e imprecò sonoramente. 
“Io lo ammazzo.” ripeté, lo sguardo fisso davanti a sé e un’espressione che prometteva tutte le peggiori torture del mondo. 









 

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Capitolo 9
*** Verso il portale ***


Salve a tutti!
Allora, piccola nota tecnica: da questo capitolo compreso in poi Nell e i demoni parlano in rak'shra tra di loro, ma non starò ad indicarlo con il grassetto, perché ho notato che mi ferisce gli occhi. E poi non posso fare mezzo capitolo in grassetto, orrore! 
Detto ciò, enjoy ^^







 
Nell tentava di non pensare ai muscoli intorpiditi e si sforzava di ignorare lo spiacevole ronzio nelle orecchie, come il frequente pulsare delle tempie e la nausea. Si era imposto di mantenere un certo contegno per non dare ai demoni alcuna scusa per abbandonarlo a marcire tra le rocce, lontano da qualsiasi sentiero battuto dove nessuno lo avrebbe mai trovato. Davvero, ce la stava mettendo tutta. Ma l’essere continuamente sballottato non aiutava, ogni secondo che passava si sentiva sempre più vicino al collasso o a vomitare le interiora. 
Non c’era niente che fungesse da distrazione, seppur minima, eccetto il cielo terso o le fattezze grottesche e ributtanti dei suoi accompagnatori, in particolare quello che lo stava trasportando. Si chiamava Shregal, se aveva capito bene. Era molto alto, come gli altri, e imponente nonostante la malsana magrezza che sfoggiava. La sua pelle era grigia e sottile come quella di un morto, la testa calva, piccola e leggermente appuntita nella parte alta della nuca, le orecchie simili a punte di freccia e le guance orrendamente incavate, tanto che le ossa affilate al di sotto parevano lottare per stracciare il fine strato di epidermide che le ricopriva. Ma il dettaglio che faceva rabbrividire Nell, più dell’alito nauseabondo e della chiostra di zanne gialle in bella mostra a causa dell’assenza di labbra, era la cavità rossastra dai bordi frastagliati al posto del naso, che fremeva quando captava gli odori. A completare il quadro, due occhi piccoli e rotondi, color argento, incastonati in due orbite grinzose e violacee. Non un bel vedere. E questo se non considerava i quattro arti che lo sorreggevano, altrimenti detti “braccia”, che però somigliavano più a degli stecchi rugosi e duri, per terminare in una pallida imitazione di mani con tre dita adunche e artigli marroni con venature bianche. La parte inferiore avrebbe meritato un trattato di cento pagine, tanto era difficile da descrivere, ma Nell aveva risolto associandola a quella di una lucertola. Senza le squame.
Schifo.
Nell sapeva di aver assunto un colorito verdognolo. Il suo stomaco si contrasse per l’ennesima volta, così si obbligò a volgere lo sguardo verso il cielo azzurro.
“L’umano sta male.” udì dire da un demone alle sue spalle, Runkra, se non errava.
Costui rivaleggiava con Shregal in termini di aspetto. Il suo corpo ricordava quello di un essere umano, con due spalle robuste, due braccia muscolose e due gambe, che finivano in zampe pelose complete di artigli. Tuttavia, la sua faccia era qualcosa di abominevole. Non aveva occhi, solo due bulbi ricoperti di pelle. Dalle tempie sbucavano due corna ritorte dello stesso colore dell’epidermide, sottile come quella di Shregal, e le orecchie a punta erano grandi e a sventola. Gli zigomi prominenti erano messi ancor più in risalto dall’incavo delle guance e dai muscoli della mandibola. Il naso era costituito da un forellino, distante un pollice dalla voragine zannuta che era la bocca. Le gengive erano pronunciate e rosse, le labbra inesistenti.
Doppio schifo.
“Ha perso molto sangue.” rispose Shregal scrollando le spalle.
“Ho fame.”
“Perché hai sempre così fame?”
“E tu perché sei sempre così brutto?”
“Finitela.” li sedò Druk, perdendo bava dalla bocca.
Druk, se possibile, era inguardabile, l’incarnazione del mostro per antonomasia. Almeno a parere di Nell. Quando lo aveva scorto la prima volta appena fuori dal castello di re Sylas, era svenuto.
La sua pelle era candida come il latte, ma sottile e grinzosa come quella di un vecchio, molle, come un mantello appoggiato sulle ossa. Si tendeva solo in prossimità delle mani con quattro dita, delle giunture che collegavano il busto alle gambe e dei piedi deformi. Perlomeno il numero di arti era giusto secondo un’ottica umana, cioè due braccia e due gambe, anche se più lunghe del normale. La posizione di queste ultime era strana: partivano dal bacino e si piegavano all’indietro, come le zampe di un animale, però l’angolo era troppo accentuato, poiché le ginocchia raggiungevano le spalle. Da dietro. Nell aveva intuito che la posa naturale del demone era quella accucciata, gli arti inferiori troppo secchi e fragili per sostenere tutto il peso. Sembrava di guardare qualcuno camminare sui talloni con le ginocchia al petto, solo con il busto al contrario. Un busto che, all’occorrenza, poteva compiere un giro completo sulla struttura di cartilagine della vita.
La testa, poi, era una palla tonda e calva, il collo un cilindro grosso quanto la mandibola, e, come Shregal, Druk aveva le zanne esposte e niente naso; gli occhi erano due biglie lattiginose ai lati della faccia e non aveva le orecchie.
Triplo schifo.
“Siamo arrivati?” chiese Nell, ormai allo stremo.
I demoni scoppiarono a ridere. Con la vista periferica, colse il movimento delle zanne del suo chaperon e si concentrò sulle sue parole, cercando di rimanere lucido.
“La strada è lunga, mucchietto d’ossa. Siamo solo a due ore di marcia da Dun’har. Il portale dista almeno cinque giorni, quattro se non ci fermiamo a riposare. Rilassati.”
“Devo vomitare.” rispose invece il ragazzo.
Gli arti che lo tenevano sospeso in aria si ritrassero subito e Nell precipitò al suolo con un tonfo e un grugnito sofferente. Aveva battuto l’osso sacro. Per qualche secondo non respirò. Poi la testa gli spedì una fitta talmente forte da farlo boccheggiare, quasi qualcuno gli stesse aprendo il cranio a mani nude per frugare nel suo cervello, ma per fortuna, o forse no, un conato giunse tempestivo a distogliere la sua attenzione. Rotolò su un fianco, le mani premute sulla pancia, e sputò saliva mista a bile sul terreno brullo. Non aveva nulla nello stomaco, troppi giorni erano trascorsi dall’ultima volta che aveva mangiato, ma ciò non rese l’intera situazione più piacevole.
“È debole, non ce la farà ad attraversare il portale. Dico che dovremmo mangiarlo.” disse Runkra.
“Nell non si mangia!” replicò Druk, “Alla regina potrebbe serv-”
“Zitto o ti taglio la lingua!” lo ammonì Shregal.
Nell era troppo preso a tenere a bada le contrazioni addominali per prestare ascolto all’incessante chiacchiericcio dei demoni, perciò si perse totalmente l’ultimo scambio di battute. Restò acciambellato in posizione fetale per svariati minuti finché il dolore non divenne un martellare sordo, segno che il suo corpo si era abituato. 
Aveva sete, ma qualcosa gli disse che non avrebbe scovato un rivolo d’acqua neanche a pagarlo oro, quindi era meglio se si faceva passare la voglia. I monti Lerisa erano aridi, nessuno vi si avventurava senza provviste. Nessuno, a parte Nell, evidentemente. E non c’entrava la sfortuna, stavolta. Era stato uno stupido. Per un eccessivo numero di anni aveva fatto affidamento sulle proprie capacità acquisite, e ora non sapeva più decifrare i segnali del suo corpo. Da quanto non si regalava un pasto degno di tale nome? Da quanto non dormiva? Era sempre più facile dimenticarsi di essere un umano, e questo in passato lo aveva cacciato nei guai, sull’orlo della morte, solo per essersi trascurato. Credeva di aver imparato la lezione, ma la frenesia dell’ultimo mese lo aveva distratto e non si era preso la giusta cura di se stesso. Ed ecco il risultato.
“Sto bene…” gracchiò, piegando le labbra in una smorfia disgustata quando il sapore della bile gli accarezzò il palato.
“Se lo dici tu.” commentò sarcastico Runkra.
Nell si sentì sollevare di nuovo e la marcia ricominciò. Si aggrappò alla certezza che a Lankara avrebbe rivisto Ysril, e alla sola idea il suo cuore si riempì di serenità. Finalmente, presto, sarebbe stato ripagato di tutti gli anni spesi a viaggiare in solitudine, di tutte le peripezie a cui era sopravvissuto, di tutti i cadaveri che si era lasciato alle spalle per proseguire lungo il cammino; di tutti gli incubi, le urla e i lamenti che lo tormentavano non appena osava addormentarsi; di tutto il dolore subito. E quando avrebbe riabbracciato Ysril, insieme sarebbero tornati a Dun’har per recuperare il corpo di Selis dalle prigioni, lo avrebbero riportato a Rocca Smeralda e seppellito accanto ai suoi cari.
All’improvviso, avvertì le ultime briciole di energia venire risucchiate in un buco nero in mezzo al petto. Sbarrò gli occhi, scontrandosi con altri quattro che lo fissavano preoccupati, precisamente quelli di Shregal e Druk - gli altri demoni, chissà perché, si erano tenuti sempre a debita distanza da quando si erano messi in marcia. 
Non si accorse che la piccola comitiva aveva arrestato il passo. Erano tutti immobili e lo osservavano confusi. 
Nell serrò di scatto le palpebre e spalancò la bocca per gridare, ma non emise un suono. Inarcò la schiena senza preavviso, le membra scosse da violenti spasmi che strapparono l’aria dai polmoni. Cadde carponi a terra, la gola in fiamme e le guance rigate di lacrime. Non riusciva a respirare.
Il panico lo pervase. 
Cinque anni prima aveva corso il rischio di morire asfissiato. Il momento si era impresso a fuoco nella sua memoria come un marchio, e il solo ripensarci gli provocava sempre forti attacchi. Aveva provato a più riprese a respingere i ricordi nel subconscio, ma a volte essi lo coglievano di sorpresa e lo costringevano a rivivere tutto, ancora e ancora, finché non crollava esausto e febbricitante. 
Stava attraversando i deserti del sud in compagnia di un manipolo di mercenari, i quali non si erano dimostrati molto contenti di dargli un passaggio verso la città-mercato di Gorat in cambio di una piccola manciata di monete d’argento. Nell, consapevole di non essere il benvenuto, aveva adottato un profilo basso, contribuendo come poteva alla manutenzione della carovana e al nutrimento degli animali senza mai lamentarsi o ribellarsi agli ordini. D’altronde era un ospite, per giunta sgradito, nonché l’ultima ruota del carro, e una sua eventuale sfida non sarebbe stata accolta nel migliore dei modi. 
Erano in viaggio da un paio di settimane, quando una notte quattro mercenari entrarono di soppiatto nella sua tenda, convinti che dormisse. Lo assalirono rapidamente, Nell non ebbe il tempo di reagire, e ridussero i suoi vestiti a brandelli con dei pugnali. Uno si portò alle sue spalle e gli premette la mano sulla bocca per camuffare le urla allarmate, mentre gli arti gli legarono i polsi e gli aprirono le gambe nude, snocciolando i loro apprezzamenti. Il mercenario dietro di lui, però, nell’euforia non si rese conto di aver spostato il palmo quanto bastava per ostruirgli tutte le vie respiratorie. Solo quando le convulsioni presero in ostaggio il corpo del biondo, l’attacco si fermò e la mano venne rimossa. Nell si rannicchiò in un angolo e tossì per minuti interi, ignaro di ciò che succedeva intorno a sé. Più tardi scoprì che il capo della carovana, un uomo severo, cinico, ma giusto, era accorso sulla scena richiamato dai versi strozzati di Nell. Dopodiché aveva legato gli assalitori a dei pali al centro del campo e affibbiato loro venti frustate a testa. A quanto pare, non li puniva per aver tentato uno stupro, ma per aver tentato di stuprare lui, Nell, un ospite che aveva pagato per un servizio tutto sommato semplice e che svolgeva bene i compiti che gli venivano assegnati. Per il resto del tragitto aveva dormito nella tenda del capo. 
Da quella fatidica notte, per quasi un anno non aveva parlato, il trauma troppo violento e fresco per sperare di superarlo. E quando chiudeva gli occhi, gli sembrava si percepire una mano premuta sulla bocca e sul naso, i polmoni in fiamme e la testa in procinto di scoppiare. Gli ci era voluto parecchio per tornare in sé. Tuttavia, quando aveva riacquisito il controllo della propria vita, non era più stato lo stesso.
Adesso si sentiva esattamente come allora. La paura gli gelava il sangue e gli annodava le viscere, e in un attimo fu di nuovo in quella tenda, l’aria notturna che filtrava attraverso gli spiragli nei panni logori, mani estranee che lo toccavano e una callosa premuta forte sulla faccia. Stava iperventilando. Sapeva che doveva calmarsi, ma non ci riusciva. Il buco nero nel suo petto si allargava velocemente, senza concedergli la possibilità di capire cosa stesse accadendo.
Udì il cuore rallentare e comprimersi nel petto in una morsa fredda. Ciascun battito pareva l’ultimo, rimbombava nelle sue orecchie come un conto alla rovescia che non poteva fermare. Poi, dal nulla, nella sua mente emerse un volto familiare: capelli biondi, occhi rossi e un sorriso sbarazzino. Per un secondo pensò ad Ysril, ma la sua coscienza gli suggerì un altro nome.
Reeven!
Incapace di resistere oltre, svenne con un singhiozzo rantolante.

Noara ritrasse la mano dal torace di Reeven e osservò la pelle richiudersi attorno alle sue dita, intatta. Aveva dovuto attingere in modo rude all’energia del biondo, perché non si fidava a mettere in pratica nuovamente il rituale, col rischio che Reeven si destasse e la ferisse, e ammise che non era affatto l’ideale neanche come piano di riserva. Malauguratamente, non ne aveva altri.
Roteò le spalle e si massaggiò il collo, sazia e in gran forma, anche se sapeva che quello stato di grazia sarebbe durato a malapena altre tre ore. Alzò un braccio per permettere a Jemma di appollaiarvisi sopra e levò lo sguardo al cielo terso, le sopracciglia aggrottate e i lineamenti delicati del viso tesi. 
Più si avvicinava al portale, più si indeboliva velocemente, un costante bisogno di rimpinguare la sua scorta di potere a dilaniarle gli organi interni a intervalli alterni. Per fortuna aveva Reeven, che fungeva da dispensatore, come una mucca da mungere. Però doveva stare attenta e non essere troppo ingorda, altrimenti lo avrebbe prosciugato prima di arrivare a destinazione. Era meglio procedere con cautela, nutrendosi a piccole dosi, dal momento che Reeven era un ibrido: per quanto forte, non aveva idea di quanto a lungo avrebbe resistito prima di spegnersi. Purtroppo, Noara avvertiva l’influenza del portale sempre di più, ogni passo era pesante, ogni movimento faticoso, e non poteva concedere a Reeven il tempo necessario per rigenerarsi completamente.
Trasse un profondo respiro, fletté le dita e guardò il corpo di Reeven galleggiare a mezz’aria. Quindi fece cenno al suo famiglio di precederla e riprese ad avanzare in mezzo a un paesaggio monotono costituito da rocce e terreno brullo. Pareva sospeso nel tempo, solo il movimento del sole scandiva le ore e i giorni. 
Chiuse gli occhi e si concentrò, individuando l’energia sprigionata dal portale. Sbuffò e ricominciò a camminare, i lamenti petulanti di Jemma nelle orecchie.
“Uff… coraggio, non siamo poi così lontani.”

I demoni osservarono in silenzio, le espressioni indecifrabili e le membra pietrificate. Per incalcolabili minuti nessuno parlò, nessuno osò muoversi. 
Tutti avevano colto il bagliore sanguigno nelle iridi di Nell, un attimo prima che perdesse i sensi. A quella vista, una parte del loro essere aveva riconosciuto il giovane come uno della loro specie. Anzi, il ronzio sordo che ribolliva nei loro nuclei ruggì, dichiarando che Nell era più in alto nella gerarchia, e perciò dovevano proteggerlo e portargli rispetto. Ma questo non aveva il benché minimo senso, perché la regina aveva detto che Nell era un semplice umano. Uno che poteva usare la magia e parlare fluentemente il rak’shra, ma nulla di straordinario o inaudito. Le emozioni che provavano ora, quelle sì che erano inaudite. E pure inquietanti. Il loro istinto li spingeva a inchinarsi, ma la ragione si rifiutava di dargli ascolto. Un demone non si inchinava di fronte a un umano, mai, o almeno non di sua spontanea volontà.
Alla fine, si mossero tutti in sincrono, precipitandosi verso il corpo inerte di Nell. Lo tastarono, lo esaminarono, gli aprirono le palpebre e la bocca, ma non notarono niente di strano. In seguito, Shregal condusse un artiglio perpendicolare al braccio del ragazzo e applicò un taglio sulla pelle, per poi affrettarsi a raccogliere le poche stille di sangue e portarsele sulla lingua. Gli altri lo fissarono impazienti, sperando in una risposta che spiegasse come mai all’improvviso la loro prospettiva fosse cambiata tanto bruscamente.
“Sangue umano. Buono, dolce, ma non è speciale.” proferì dopo il primo assaggio, “Percepisco una nota speziata.”
“Fa’ provare me.” intervenne un altro demone, la pelle spessa e ruvida come corteccia e il torso avvolto da quattro grossi tentacoli viola.
I suoi otto occhi, quattro per lato, si assottigliarono e guizzarono in anticipo, pregustando sul palato il sapore denso e pastoso del sangue umano, di cui non era mai sazio.
“Zyr, tieni i tuoi tentacoli lontani!” ringhiò Druk, “Shregal è il cacciatore più abile fra di noi, è stato addestrato apposta, e se dice che nel sangue di Nell non c’è nulla, allora non c’è nulla.”
“Quand’è che abbiamo deciso che il capo sei tu, Druk? Dal momento in cui abbiamo lasciato le prigioni ti sei messo a darci ordini!” si arrabbiò Zyr e scosse la testa squamosa, da cui spuntavano quattro piccole corna in posizioni speculari.
“Perché sono il più intelligente.”
“Ah! Questa è buona.”
“Più intelligente di te di sicuro.”
“Pensi solo con lo stomaco, Zyr. Druk ha ragione.” si intromise Runkra.
“Toh, senti chi parla.”
“State zitti.” sibilò Shregal, chinandosi a lappare altro sangue dalla ferita sul braccio di Nell, “Mmm… qualunque cosa sia, non è nel suo sangue. Anche se devo dire che è decisamente squisito… mai assaggiato nulla di simile.”
“Hai qualche teoria?” domandò Druk, squadrandolo attentamente.
“Sembra quasi…” cominciò, ma si bloccò subito, “No, non è possibile.”
“Cosa? Sembra quasi cosa?”
“Come le streghe quando succhiano la nostra energia. Questa non va nel loro sangue, nutre esclusivamente il loro potere spirituale. Potrebbe spiegare come mai nel suo sangue non c’è traccia di essenza demoniaca e al contempo come mai sa usare la magia.”
“Va bene, sì, ma no. Uno, le streghe sono solo femmine umane, i maschi non hanno la magia. Due, alle streghe non vengono gli occhi rossi quando ci mangiano.” elencò Runkra.
“Lo so, grazie. Ma Nell sa usare la magia, lo abbiamo visto tutti. Nella storia umana ci sono stati degli stregoni potenti, non dimentichiamolo. Sono casi rarissimi, ma non meno reali. C’è una possibilità che Nell sia uno stregone in fasce. Non posso spiegare il colore dei suoi occhi, ma riflettete: questo umano ha giaciuto con Ysril per vent’anni e solo tramite il sesso una strega può assorbire la nostra energia. Inoltre, conoscendo Ysril, lo avrà preso più di una volta a notte, scopandoselo in tutte le posizioni.” sputò Shregal disgustato, “Forse Ysril non si è mai accorto delle potenzialità della sua preda e inconsapevolmente gli ha fornito nutrimento in maniera costante. Mh, sì, Ysril non lo sa. Se lo avesse saputo, non avrebbe potuto nasconderlo alla regina.”
“Dobbiamo avvertirla! Non possiamo metterla in pericolo!” squittì Zyr, agitando i tentacoli.
“Concordo.” disse Shregal, “Ma riuscite a sentirlo?”
“Cosa?”
“L’idea di fare del male a Nell mi ripugna.”
I demoni guardarono il ragazzo e uno ad uno si trovarono ad annuire, le facce cupe e combattute.
“Come con la regina.” bisbigliò Druk.
“Sì, come con la regina.” ripeté Shregal.
“Questo è profondamente sbagliato. Contro natura. Nell è umano.”
“Non credo. Ysril è convinto che sia umano, quindi anche la regina ne è convinta. Secondo me, è uno stregone.”
“Shregal, la tua teoria è interessante, ma ti ricordo ancora che gli stregoni, o le streghe, non hanno gli occhi rossi come noi. Nell è… qualcos’altro. Non è un ibrido, perché è nato umano, ma… qualcosa del genere?”
“Grazie per il tuo arguto intervento, Zyr. Druk, cosa stai pensando?” indagò Shregal, rivolgendosi al demone alla sua destra.
“Forse…” esordì Druk, ma poi sospirò stanco, “Non lo so. È azzardato.”
“Beh, noi abbiamo terminato le idee. Qual è la tua?”
“Ysril ha giaciuto con Nell per vent’anni.” pronunciò in tono neutro.
“Sì, lo sappiamo.”
“No, non capite. Ysril ha giaciuto con Nell per vent’anni.” scandì tra le zanne, scrutandoli con aria grave.
“Dove vuoi arrivare?”
Druk roteò gli occhi esasperato e scrocchiò le giunture del bacino: “Nessuna strega giace con noi per più di una notte! Immaginate cosa sarebbero in grado di fare se le nutrissimo di energia per vent’anni di fila, dando loro minimo tre pasti al giorno!”
Gli sguardi dei compagni si illuminarono di un’orribile consapevolezza.
“E poi… e poi su, ammettiamolo. L’unica tipologia di umani da cui siamo attratti sono le streghe. Possiamo negarlo quanto vogliamo, ma non appena una strega mette le sue grinfie su di noi, non è che ci ribelliamo così tanto. Siamo attratti dal loro potere tanto quanto loro sono attratte dalla nostra energia. Ysril deve aver fiutato Nell, deve aver fiutato il suo potere allo stato grezzo senza realizzarlo. La sua storia ha fatto scalpore perché tutti abbiamo creduto Nell un banale umano, e quindi lo abbiamo subito etichettato come indegno di vivere al fianco di Ysril. Ma se invece non lo fosse mai stato? Ysril è un demone potente, il nostro principe da quando ha ucciso Radek in quella grotta. Pensate sul serio che avrebbe potuto provare attrazione per un umano ordinario?” 
“Dannazione! Avremmo dovuto capirlo! Solo il fatto che Nell sia stato scelto in mezzo a una moltitudine di umani avrebbe dovuto dirci qualcosa! Siamo stati ingenui. Tutti. Noi, Ysril, la regina… e il risveglio di Xion è ormai prossimo! Non possiamo permetterci errori.” concluse Zyr con voce roca e lamentosa.
I demoni emisero squittii e ringhi, spaventati dalle inaspettate implicazioni.
“Calmatevi, agitarci non ci sarà di alcun aiuto.” li placò Shregal.
“Questo non era nei piani!” esclamò Zyr, facendo mulinare i quattro tentacoli sul torso, “Gli ordini erano farci catturare dagli umani e attendere l’arrivo di Nell a Dun’har, fingerci tonti, guadagnarci la sua fiducia e scortarlo al cospetto della regina, per poi usarlo come leva per obbligare Ysril a collaborare al risveglio di Xion. Ma se Nell è uno stregone così potente come dice Druk, dato che ha assorbito l’energia di Ysril per tanto tempo da esserne ricolmo e risvegliare in noi l’istinto protettivo, potrebbe addirittura sconfiggere la regina e mandare tutto all’aria!”
“Allora cosa proponi di fare?!” sbraitò Shregal.
“Che domande: lo uccidiamo. Adesso. E al nostro ritorno, racconteremo la verità alla regina. Sono certo che apprezzerà il nostro gesto e la nostra lealtà, ci ricompenserà per aver eliminato una minaccia.”
“Imbecille. Se lo uccidiamo, la regina non avrà niente per convincere Ysril! Nell è l’unica pedina che può sfruttare per ottenere ciò che vuole. Senza Nell, Ysril non cederà mai. E se Ysril non cede di sua volontà, Xion non potrà svegliarsi.”
“Quindi non abbiamo scelta.” mormorò Druk.
“Temo di no. Lo porteremo a Lankara e, una volta lì, la regina deciderà il da farsi.”
“È rischioso. Non possiamo mettere in pericolo il piano, men che meno la regina. Cosa succederebbe se Nell decidesse di usare il suo potere contro di lei?”
“Non penso che lo farà. Se Nell fosse stato consapevole delle sue capacità, a quest’ora avrebbe già liberato Ysril. E se sapesse cosa è in grado di fare, non avrebbe atteso tanto per trovare un modo per attraversare il portale: il suo potere lo avrebbe condotto sulla soglia e oltre facilmente. Credo.”
“Soltanto la Sylmaran ne è capace, e ormai è scomparsa da millenni. Dubito che Nell sia forte quanto lei.”
“Non conosciamo i limiti del potere di Nell. Dentro di lui albergano venti lunghi anni di energia demoniaca pura. Per quel che ne sappiamo, potrebbe spazzarci via tutti con uno schiocco di dita. Questo umano è in tutto e per tutto un’incognita. Comprendo che è rischioso condurlo tra le nostre mura, ma ci serve. Il piano si basa sulla sua presenza. Se Ysril si ribellasse adesso, dovremo aspettare chissà quante altre ere prima di riprovarci.” puntualizzò Shregal.
“Sono d’accordo.” disse Gerk, parlando per la prima volta, e sospirando si lisciò i corni sulle braccia, “Però suggerisco di prendere delle precauzioni.”
“Cioè?”
“È meglio mantenerlo incosciente per tutto il tragitto, così non potrà usare alcun incantesimo. In questo modo dovremmo essere al sicuro.”
“Approvato.” assentì Shregal.
“E come pensi di fare, Gerk?” si intromise Zyr. 
“Berremo il suo sangue via via. Così resterà debole, ma non morirà.”
“Oh, sì, mi piace avere del cibo a portata di zanne!”
“Va bene, in marcia. Facciamo in fretta.” li esortò Druk, andando in testa al gruppo.
Gli altri si misero in formazione circondando Shregal, che teneva in braccio Nell, e dopo un rapido scambio di sguardi partirono alla volta del portale.

Dopo la fuga del ragazzino e dei demoni, Dorevan aveva deciso di prendere in mano la situazione. Era furioso, anzi di più. Era così accecato dalla rabbia che la ragione e la prudenza lo avevano abbandonato. 
Una parte del suo piano era andata in fumo, non avrebbe più potuto usare i demoni come sua piccola scorta personale e rovesciare lo status quo, perciò doveva agire da solo e in fretta, recuperare il vantaggio perduto. Non aveva aspettato secoli, tramando nell’ombra, per venire messo al tappeto da un ragazzino con un incantesimo da quattro soldi. La sconfitta gli bruciava, ma soprattutto era il suo ego ad aver subito un duro colpo. Come aveva potuto cadere nella trappola come un novellino?
Digrignò i denti e lasciò che i suoi occhi diventassero completamente neri per una frazione di secondo. Poi bussò alle porte degli appartamenti reali e attese il permesso di essere ricevuto.
Quando la voce del re lo invitò a entrare, avanzò spedito nel salotto lussuoso senza badare allo sfarzo dell’arredamento, a cui era ormai abituato. Mobili e oggetti finemente fregiati e intarsiati ricoprivano le pareti come baluardi di un’era che stava per giungere al termine, e Dorevan ghignò al pensiero di distruggerli, sapendo quanto Sylas fosse affezionato ai cimeli raccolti nel corso delle epoche dai suoi antenati.
Il re era seduto su uno scranno, dietro a una grande scrivania in mogano. Sulla superficie lucida erano appoggiati vari libri e fermacarte, assieme a calamai e piume consumate. Dorevan studiò l’uomo e percepì una scossa di adrenalina serpeggiargli nelle vene. Finalmente lo avrebbe sgozzato. Aveva trascorso anni preziosi a fingere di essere uno zelante soldato, ma tra poco avrebbe guardato il sovrano a cui aveva giurato fedeltà perire sotto la sua spada, affogando nel suo stesso sangue.
“Dorevan, a cosa devo il piacere della tua visita?” esordì Sylas, senza distogliere l’attenzione dal tomo che stava sfogliando.
Dorevan adocchiò immediatamente l’Occhio di Xion, adagiato su un cuscino riposto su un piccolo altare di legno dietro al re.
“Volevo sapere se posso esservi utile, sire. Mi annoio.”
“Hai già ultimato le tue mansioni?”
“Sì, altrimenti non sarei qui.” rispose acido.
“Se non fossi tu, ti avrei fatto decapitare anni fa.” ridacchiò divertito e gli fece cenno di avvicinarsi, “Magari puoi aiutarmi a capire cosa significa questo passaggio. Il dialetto del sud non è il mio forte, faccio fatica a cogliere le sfumature.”
“Certo, sire. Di cosa si tratta?”
“Il Fratello del Sole che me lo ha consegnato - Hodren, mi pare - ha detto che è uno dei diari del grande Andorev, lo stregone che debellò il potere dell’Occhio. Se riusciremo a decifrarlo, potremo invertire il processo e scatenarlo contro i nostri nemici.”
Dorevan ascoltò impietrito, gli occhi incollati al tomo. Il suo diario. Quello che aveva perso durante uno dei tanti viaggi.
Si riscosse dallo shock e trattenne a stento un sorriso. Quante probabilità c’erano che il suo prezioso diario finisse nelle mani di Sylas proprio nel momento in cui ne aveva più bisogno? Si sarebbe messo a saltellare per la stanza se non avesse avuto il contegno di un soldato. 
Che tu sia benedetto, Hodren, vecchio brontolone!
“Conosco il dialetto del sud, sire, sono nato lì.”
“Lo so, per questo ti ho chiesto di aiutarmi.”
“Allora, di grazia, permettetemi.”
“Accomodati.”
Sylas gli fece spazio dietro la scrivania, spostano lo scranno di qualche passo. Dorevan girò attorno al mobile, impugnò l’elsa del coltello che scivolò nel suo palmo da sotto la manica e, prima che il re intuisse le sue intenzioni, lo trafisse sul collo con un movimento fulmineo. Il sangue zampillò copioso dalla carotide recisa, imbrattando le vesti reali e il tappeto. 
Sylas boccheggiò smarrito, pallido come uno spettro. Cercò di articolare delle parole, insulti, ordini, ma il sangue gli allagava la gola. Si portò le mani al collo, tentando di fermare l’emorragia, sebbene sapesse che ogni sforzo sarebbe stato vano. Lo sentiva nelle ossa. Sentì la morte raggiungerlo, allungare i suoi artigli e strattonarlo nell’oblio, sorda alle sue silenziose suppliche. Lanciò uno sguardo intriso di odio verso il capitano delle sue guardie, consapevole del tradimento ma ignaro dei motivi, e infine cadde sul pavimento come una bambola rotta. Il suo corpo si contorse in brevi spasmi, gli occhi si rivoltarono nel cranio e dopo un minuto che durò un’eternità giacque morto ai piedi del suo assassino in una pozza scarlatta e viscosa.
Dorevan si concesse un sospiro beato. Mentre ancora assaporava la piccola rivincita, il suo travestimento mutò. L’armatura venne rimpiazzata da una tunica rossa con ricami dorati, stretta in vita da un cinturone di cuoio nero a cui erano appesi amuleti di varia grandezza. Le maniche si strinsero sugli avambracci e i polsi, la stoffa si tese e raggiunse il medio di ciascuna mano, avvolgendolo come un anello. Gli stivali da soldato lasciarono il posto a un altro paio molto più comodi e pratici. I capelli si ritrassero fino a liberare il cranio, sul quale campeggiavano tatuaggi tribali, e la barba sparì. Soltanto gli occhi rimasero identici, due pozzi neri come catrame, e sulla schiena la sua fidata spada a due mani faceva bella mostra di sé al sicuro nel fodero.
Lo stregone Andorev accarezzò distrattamente i ciondoli della collana che tintinnavano sul torace, altri amuleti protettivi che aveva plasmato lui stesso, e rivolse l’attenzione su ciò che aveva desiderato per innumerevoli lustri, tanto da perderci il senno.
L’Occhio di Xion decise allora di brillare, quasi lo avesse riconosciuto.
“Ciao, piccoletto. Mi sei mancato.” chiocciò stupidamente, quasi stesse parlando ad un cucciolo, “Direi che è ora di finire quello che abbiamo iniziato.”
Protese le dita e sfiorò la gemma con reverenza. Essa brillò di nuovo e lo stregone non poté esimersi dal ridacchiare soddisfatto. Esitò un attimo, poi chiuse la mano sulla sfera, stringendola per familiarizzare ancora una volta con la sua forma e il calore intossicante che emanava.
“Andiamo a seminare il caos, ti va?” gongolò, le iridi adesso dello stesso colore dell’Occhio, un blu profondo e vivo.
“Non che abbia qualcosa contro il caos, ma non pensi che Xion apprezzerebbe un po’ d’azione?”
Andorev si girò di scatto e non nascose lo stupore nell’imbattersi in un Fratello del Sole, uno che conosceva assai bene, benché non gli avesse mai creato molti problemi.
“Hodren, che piacere. Che ci fai qui? Non ti avevano relegato nel tempio per cattiva condotta?” lo salutò, una vena sarcastica nella voce.
“Cosa vuoi farci, sono sempre stato un ribelle. Piuttosto dovrei domandarti cosa ci fai qui tu, Andorev.” ghignò il monaco, scrutandolo dall’alto in basso con cipiglio supponente.
Lo stregone perse un battito e si irrigidì. Lo guardò inebetito, pallido e d’un tratto vigile.
Questa è proprio la giornata delle sorprese.
“Come conosci il mio nome?” indagò incredulo.
“Oh, io so molte cose. Più di quelle che vorrei sapere, in realtà.”
Andorev abbandonò del tutto il sorriso e incenerì Hodren con un’occhiata minacciosa: “Chi sei?”
“Un’amica.”
“Eh? Amic-a? Non credevo avessi dubbi sulla tua sessualità, vecchio mio.”
Il sorriso sulle labbra di Hodren si ampliò, tanto da divenire inquietante. Andorev avvertì un brivido percorrergli la spina dorsale e rizzargli i capelli sulla nuca. L’anziano monaco aveva qualcosa di strano.
“D’accordo, non sono tua amica. Ma nemmeno tua nemica.” si corresse Hodren, scandendo bene.
Lo stregone notò subito come il timbro della sua voce cambiò, partendo da quello baritonale di un uomo per virare in uno inconfutabilmente femminile, benché gracchiante e roco, sulla parola “nemica”. Assistette ammutolito alla trasformazione, incapace di pensare ad altro che non fosse la totale assurdità delle ultime ore. 
Una manciata di istanti più tardi, davanti a lui non c’era più Hodren, ma una donna vecchia e rugosa, con i seni cascanti, la pelle flaccida e le ossa appuntite. I capelli grigi, lunghi, folti e crespi come la criniera di un leone, erano legati in elaborate trecce con perline e amuleti. Tutto il suo corpo era costellato di tatuaggi arcani, che si intrecciavano a comporre disegni complessi. Una gonna sporca e logora, tenuta su da una cintura a cui erano appesi i teschi di diverse creature, le avvolgeva i fianchi e nascondeva le gambe fino alle ginocchia, mentre una fascia dello stesso materiale le proteggeva il seno. I piedi scalzi, adornati da anellini e cavigliere, poggiavano sul soffice tappeto del salotto. Nella mano destra impugnava un bastone pieno di fregi con in cima una gemma nera, che secondo la leggenda era composta da tre tipologie differenti di pietre, ossia l’onice, l’opale e l’ossidiana, fuse insieme dal sangue di colei che le brandiva. L’onice veniva considerato la pietra delle divinità per eccellenza dai primi uomini e aveva la proprietà di allontanare l’energia negativa; l’opale rappresentava i quattro elementi, il potere della memoria e la saggezza; l’ossidiana, fin dai tempi antichi, veniva usata per i rituali di purificazione e proteggeva dagli influssi negativi, e alcuni ritenevano che potesse stimolare il dono della profezia. Non era un mito. Era reale.
Andorev deglutì e si impose di scollare lo sguardo dal bastone. Fissò la donna negli occhi, affilati e glaciali come spilli, e indietreggiò, realizzando appieno l’identità della figura che gli stava di fronte. Era vecchia, rattrappita, bassa, ossuta, ma pareva un gigante, tanto era il potere che sprigionava. Era qualcuno che si era sempre augurato di non incontrare mai.
“Sylmaran.”









 

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Capitolo 10
*** Nient'altro che pedine ***









 
Un soldato fece irruzione nella sala del trono, trafelato e con la fronte imperlata di sudore. Nessuno lo fermò, né dignitari né guardie, poiché tutti sciamavano per i corridoi in preda all’isteria, correndo in qua e là come api impazzite.
“Sire, nemici in vista! I vessilli sono quelli di Ferenthyr! Le sentinelle dicono che l’esercito è composto da circa tremila uomini!”
Proprio in quell’istante, il boato di un corno invase l’aria, risuonando per tutta la città, e il gong delle campane di Dun’har rispose nell’immediato alla dichiarazione di guerra.
“E il comandante Dorevan è scomparso, sire. Non c’è traccia di lui da nessuna parte.” aggiunse il soldato, gli occhi sbarrati dall’angoscia e il viso di un pallore cadaverico, “Maestà, cosa facciamo? Non ci sono abbastanza soldati per respingerli, le guarnigioni sono ancora ad Ashra, non ce la faranno a rientrare in tempo.”
Sylas si accarezzò il pizzetto, assorto nei suoi pensieri. Pochi secondi dopo si alzò dal trono, attraversò la sala e accompagnò il soldato su un terrazzo per osservare il panorama e valutare il da farsi. In effetti, all’orizzonte un esercito stava marciando verso Dun’har al tempo del ritmo scandito dai tamburi di guerra, vessilli levati sopra gli elmi e armature scintillanti baciate dal sole. Sembravano usciti da un affresco.
“Le mura sono impenetrabili, non riusciranno a passare se bloccate tutte le uscite. Preparatevi all’assedio. Voglio gli arcieri schierati sul parapetto, le catapulte in posizione e pentole di olio bollente ogni dieci braccia. Sbrigatevi.”
“E i cittadini, sire?”
“Reclutate quelli che possono combattere, il resto radunatelo nei vari templi. Si ripareranno nei seminterrati. Date loro le scorte di cibo e acqua necessarie per resistere una settimana.”
“Una settimana sola?” chiese incredulo il soldato.
“Credimi quando ti dico che tutto finirà entro sette giorni. Ora va’ e riferisci i miei ordini.”
“Sì, sire.”
Il soldato si precipitò ad eseguire, lasciando il sovrano alle sue incombenze. 
Andorev si aggiustò la veste reale sulle spalle, sentendosi impagliato come un animale. L’aspetto di Sylas non gli donava affatto, più volte aveva storto la bocca in una smorfia quando si era guardato allo specchio quella mattina, ma era necessario per il piano. Il cadavere del re era stato preventivamente bruciato e ridotto in cenere, onde evitare sospetti, e Andorev aveva preso il suo posto con riluttanza, recitando la sua parte come la Sylmaran gli aveva suggerito il giorno addietro.
Se ripensava a quella donna, se “donna” si poteva chiamare, gli venivano i brividi.

“Lascia che ti riveli un segreto, Andorev. Gli eventi del presente”, spiegò solenne, le labbra grinzose curvate in un ghigno inquietante e il bastone ben dritto innanzi a lei, “sono stati elaborati e predetti millenni or sono, già da prima della nascita dei regni degli uomini che abbiamo imparato a conoscere. Tutto ciò che è stato fatto, tutte le decisioni prese, dovevano condurre a questo momento. C’è una parte del piano che non di cui non sei al corrente e che non ti dirò, non serve che tu lo sappia. Tuttavia, per farla divenire realtà, ho bisogno dell’Occhio di Xion tra le tue mani. Consegnamelo.”
“Perché dovrei consegnarti il mezzo per conseguire il mio piano?”
“I nostri intenti sono simili, Andorev.”
“Vuoi mettere anche tu in ginocchio l’umanità?” domandò sarcastico lo stregone, rifiutando di separarsi dalla gemma così presto dopo aver atteso secoli per ritrovarla.
“Sì. Gli uomini sono diventati troppo arroganti e superbi, devastano la terra senza alcuno scopo se non quello di appagare la loro avidità. Sono corrotti, una piaga che deve essere estirpata.”
“Allora perché non lasci che me ne occupi io? Aspetto questo giorno da anni.”
“Lo so, ma non è compito tuo: spetta a Xion. È stato plasmato proprio per questo, per ripulire la terra dalle erbacce e riportare l’antica armonia. Consegnami il suo occhio, così che possa restituirglielo. Solo allora Xion si desterà dal suo sonno. Ha bisogno del suo occhio.”
“Questo è solo uno. La leggenda afferma che deve averli entrambi.”
“Il secondo è già in nostro possesso. Lo è sempre stato.”
“Sylmaran, mi credi stupido? Col tuo potere e la tua saggezza avresti potuto appropriarti di questo Occhio anni fa. Perché farti avanti adesso?”
“I tempi sono maturi e l’Occhio ha finito di piantare i suoi semi, si è caricato a sufficienza. Grazie a te, devo ammettere. Senza di te, tutto questo non sarebbe stato possibile.”
“Capisco, ma perché chiedermelo con gentilezza? Potresti strapparmelo dalle mani prima del mio prossimo respiro.”
“Un gesto di gratitudine, nulla di più. Sei stato importante e lo sei ancora.”
Andorev si prese qualche minuto per riflettere, ma non gli occorse molto per confessare a se stesso che non avrebbe collaborato, a meno che la Sylmaran non lo avesse reso partecipe dei suoi piani.
“Se vuoi tanto disperatamente conoscere le trame ordite dalla mia stirpe e dai miei parenti, dovrai promettermi di seguire i miei ordini senza obiettare.” disse la vecchia, come se gli avesse letto nel pensiero.
Lo stregone soppesò le possibilità, i pro e i contro, e alla fine accettò.
La Sylmaran gli sorrise. Agitò una mano nell’aria, componendo simboli che Andorev non colse, e in un attimo l’uomo venne avvolto da una fitta nebbia. Prima che cedesse al panico, però, nella nebbia cominciarono ad apparire delle figure. Osservò con attenzione, concentrandosi per distinguere i contorni di quelle forme in movimento, e presto realizzò di stare assistendo al futuro: la Sylmaran gli stava concedendo l’onore di un piccolo scorcio su ciò che sarebbe presto avvenuto, quel tanto che bastava a convincerlo ad abbandonare le riserve. Bevve le visioni come un assetato, memorizzandole, mentre l’eccitazione lo pervadeva come un fiume in piena, riempiendo la sua mente folle di un’esaltazione indescrivibile. 
Non appena tutto tornò alla normalità, respirò profondamente ad occhi chiusi e, senza esitare, lanciò l’Occhio alla strega, che lo afferrò con un movimento fluido. 
“Sono felice che ci siamo trovati. Adesso va’, sai cosa devi fare.” gracchiò la Sylmaran.
Andorev si profuse in un inchino sincero, a corto di parole. Quando si risollevò, la vecchia era sparita. 


Lo stregone fissò con espressione indecifrabile l’esercito schierato di fronte alla città e un ghigno impercettibile si dipinse sulle sue labbra. Era quasi il momento. Fremeva impaziente, tanto che, se avesse potuto, sarebbe saltato fuori dalla propria pelle.
Un altro corno risuonò nell’aria e l’esercito di Ferenthyr caricò. Gli arcieri di Dun’har incoccarono seguendo gli ordini gridati da un generale, attesero che i nemici fossero a portata di dardo e scoccarono. Un nugolo di frecce piovve sui soldati avversari, falciandone parecchi e abbattendo completamente la prima linea. 
E così ebbe inizio.

Nell riemerse da un sonno senza sogni con un grugnito. In principio non percepì nulla, quasi stesse ancora galleggiando nel vuoto, la testa leggera come una piuma. Rotolò d’istinto sulla schiena, anche se non aveva modo di verificare il movimento dato che non sentiva alcun attrito, come succede quando si tocca un arto addormentato. Sbuffò frustrato. 
All’improvviso tutti i muscoli e le ossa del suo corpo protestarono, una scarica elettrica che si ripercosse lungo la spina dorsale mozzandogli il fiato. A fatica tentò di ignorare le grida di allarme che esplosero nella sua coscienza, non era il momento di abbandonarsi al panico. Innanzitutto, doveva capire cosa era successo e dove era. L’ultima cosa che ricordava era il dolore lancinante al petto e un panorama di rocce.
Tese le orecchie, ma un ronzio assordante gli impediva di captare suoni e rumori. Avvertiva qualcosa, una sensazione vaga, come se qualcuno stesse tirando per un filo la sua anima in una precisa direzione. Era fastidioso. Il suo cervello non stava rendendo le cose facili, rifiutandosi di cooperare e svegliarsi dalla catatonia in cui era piombato. 
Alla fine i pensieri si schiarirono e i suoi sensi si riattivarono, seppur con snervante lentezza. Quanto tempo era trascorso dal suo svenimento? Dove erano i demoni? Perché era così debole? Cosa era stato quel dolore che lo aveva messo al tappeto? 
Troppe domande e nessuna risposta. Si impose la calma e aspettò paziente di riacquistare il controllo sul proprio corpo, prima di fare alcunché. 
Pian piano riprese sensibilità alle dita. Tastò intorno a sé e si accorse di essere disteso su un pavimento di pietra. Tracciò con i polpastrelli il contorno delle mattonelle ruvide e si corrucciò, confuso. Una corrente fredda gli accarezzò la pelle e l’accolse con sollievo, benché non fosse esattamente piacevole. Però almeno ora sentiva.
Subito dopo tornò l’olfatto. Annusò l’aria. Gli occhi gli lacrimarono all’istante a causa del tanfo nauseabondo che lo circondava, come se ci fossero dei cadaveri imputriditi a poca distanza.
Un sapore ferroso e amaro gli esplose in gola, sangue misto a bile. Deglutì e represse un conato, grato di avere lo stomaco vuoto.
Aprì le palpebre e dopo un po’ mise a fuoco il soffitto della cella in cui era rinchiuso, assieme alle carcasse di piccoli animali lasciati a marcire negli angoli bui, una distesa di ossicini e carne marcia a imbrattare il pavimento. In seguito, fece vagare lo sguardo fuori, oltre le sbarre fatte di un materiale chiaro, quasi bianco. Una vocina nella sua testa gli suggerì che erano ossa, ma scansò immediatamente il pensiero per tenere sotto controllo il battito del cuore, già di per sé accelerato. Scorse altre celle, identiche alla sua, disposte in file ordinate una sopra l’altra. Lui si trovava alla base di quella che sembrava una voragine scavata nella terra, e non c’erano scale che conducevano all’uscita. Chiunque lo avesse portato lì, doveva essere in grado di volare, altrimenti sarebbe stato impossibile accedere a quelle strane prigioni.
Stranamente, il ronzio nelle orecchie non accennò a diminuire. L’udito era l’unico senso che mancava all’appello e non pareva intenzionato a collaborare. Nell si sforzò di scacciare il ronzio, regolarizzò il respiro e si armò di pazienza, invano.
Senza nient’altro da fare, tornò a studiare l’ambiente. Era immerso nella penombra, la sola fonte di luce si trovava da qualche parte all’imboccatura della voragine, lontana dalla vista. Si mise a sedere lentamente, badando a non scaricare troppo peso sulle braccia intorpidite. In un secondo momento, si avvide di non avere più la borsa e imprecò fra i denti.
Strisciò verso le sbarre e una volta vicino si stupì nel notare gli intricati simboli incisi sulla superficie levigata. Non ebbe dubbi: rune magiche. Non che sapesse decifrarle. Poi aggrottò le sopracciglia perplesso, perché i demoni non usavano la magia. Sì, erano capaci di trucchetti e sapevano maneggiare pozioni, ma incidere rune magiche sulle sbarre di una cella imbevendole di potere? Impossibile. 
Nell allungò una mano e sfiorò un paio di rune, pentendosene il secondo successivo. Una fitta lancinante lo trafisse con violenza, facendolo piegare in due dal dolore e boccheggiare per l’improvvisa carenza di ossigeno. Non appena si riprese, si allontanò rapido portandosi a distanza di sicurezza. 
La consapevolezza di essere in trappola risvegliò il terrore che aveva tenuto a bada sino ad allora, e prima che se ne accorgesse iniziò ad iperventilare. Il ronzio nelle orecchie persisteva e acuì il senso di smarrimento e impotenza che lo aveva assalito, stritolandolo in una morsa gelida e ferrea. Le lacrime non tardarono a fare la loro comparsa, vincendo la barriera delle ciglia e rotolando sulle guance pallide e scavate del ragazzo fino al mento.
Era stato tradito. I demoni lo avevano ingannato. Anzi, lui si era lasciato ingannare come un idiota. Era solo colpa sua. Perché non imparava mai? Tutte le esperienze che aveva vissuto avrebbero dovuto insegnargli qualcosa, alimentare un istinto di conservazione che gli avrebbe risparmiato spiacevoli incidenti. Invece, smanioso com’era di ritrovare Ysril, era stato cieco e si era fidato delle creature sbagliate. Perché si era fidato? I demoni erano malvagi ed egoisti, non conoscevano la gratitudine. Cosa diamine gli era saltato in mente? Perché doveva sempre ricadere in comportamenti ingenui?
Ricordava bene cosa era successo quando aveva detto addio alla valle di Mesil, carico solo di una borsa con qualche provvista, il suo medaglione e una mappa del territorio circostante acquistata al mercato, e neanche molto precisa. Niente armi. E questo era stato il suo primo errore.
Dopo appena una settimana di marcia, si era imbattuto in un piccolo gruppo di predoni. Avevano razziato il suo cibo, bruciato la sua mappa e tentato di stuprarlo, lodando il suo fisico alla stregua di una meraviglia divina. Era stata la prima occasione in cui aveva veramente realizzato il pericolo derivante dal suo aspetto. Non era mai stato vanitoso e, anche se Ysril, come altri, lo aveva sempre riempito di complimenti, non si era mai comportato in modo civettuolo, la propria bellezza l’ultimo dei suoi pensieri. Mai aveva temuto per se stesso, perennemente protetto e sorvegliato da persone amiche. In quella circostanza ebbe prova di quanto avrebbe rischiato da lì in avanti a causa del suo “bel faccino”. Se non fosse morto prima.
La paura lo aveva travolto, come si aspettava, ma invece di paralizzarlo gli aveva dato la spinta per ribellarsi. Aveva spento il cervello per lottare a mani nude, aveva menato pugni e calci, graffiato facce e strappato capelli. Per ogni colpo andato a segno, ne aveva ricevuti indietro tre, ma non si era arreso, conscio che in ballo c’era la sua vita. Un predone, stufo e arrabbiato, lo aveva quindi pugnalato alle spalle, conficcandogli un coltellino poco sopra un rene. La sofferenza, tuttavia, gli aveva elargito ulteriore forza. In men che non si dica si era liberato, girato, appropriato del coltellino sfruttando la sorpresa del predone e gli aveva tagliato la gola con un gesto fluido e naturale, come se il suo corpo conoscesse le mosse esatte da compiere nonostante non avesse mai combattuto o ucciso nessuno. Non aveva sentito il sangue schizzargli copioso sul viso, avvertiva soltanto l’adrenalina serpeggiargli nelle vene divampando feroce come un incendio. Infine era scappato senza guardarsi indietro, i vestiti lerci che indossava, il medaglione e il coltellino i suoi soli beni. 
Quello era stato il suo battesimo.
La ferita si era rimarginata da sé in pochi giorni, lasciando solo una cicatrice. Non si era chiesto come fosse possibile, non era presente a se stesso allora, come se fosse stato catapultato di botto in uno stato febbrile, frenetico. Da quel giorno aveva vagato per mesi privo di meta, sprovvisto di mappa e senso dell’orientamento, e sfortunatamente non c’era mai alcun villaggio in vista, solo boschi e praterie a non finire. 
In quel periodo, per forza di cose, entrò in contatto con l’istinto animale, imparando a cacciare come una bestia selvatica per sopravvivere. Divorava le sue prede crude, strappando la carne dalle ossa con i denti, incurante del fluido scarlatto che gli colava sul viso, sulle mani e sui vestiti, regredito a uno stadio ferale in cui non c’era spazio per la razionalità o per preoccuparsi dell’igiene. Aveva seguitato così per molto tempo, finché un giorno, quasi si fosse destato da un lungo sonno, la sua coscienza era riemersa mentre si lavava in un torrente. Al ricordo dell’esistenza che aveva condotto, aveva provato disgusto per se stesso e aveva ponderato seriamente se tornare indietro, nella valle, dove sarebbe stato al sicuro, protetto. Per poi rammentare che no, la valle era il posto meno sicuro adesso. Se n’era andato per un motivo, ossia per fuggire dalle occhiate sospettose degli abitanti, che non lo vedevano invecchiare come tutti gli altri. Se si fosse fatto rivedere, avrebbe messo in pericolo Melly e la sua famiglia.
Era bloccato in un limbo, solo e disorientato. Passarono settimane prima che si decidesse a smettere di comportarsi da stupido e riprendere le redini della sua vita. E allora, senza saperlo, si era diretto a sud. 
Durante il viaggio, per la prima volta aveva ringraziato i doni di Ysril. La fame si faceva sentire sporadicamente, il sonno ancora meno, come se una fiamma si fosse accesa dentro di lui nel momento in cui aveva sgozzato il predone, macchiandosi del sangue della sua prima vittima, sancendo una rinascita. Una fiamma che lo teneva in vita senza bisogno di alimentarla di continuo, forte e vivace, selvaggia. Grazie a quella rinnovata energia, aveva potuto evitare di accamparsi all’aperto e cadere vittima dei predatori nascosti nella vegetazione, spronandolo a muoversi, a proseguire, non importava dove. 
Ma qualcosa si era rotto irrimediabilmente. Il delitto compiuto, benché per legittima difesa, aveva indurito il suo cuore. Nonostante fosse trascorso appena un anno dalla sua partenza, qualcosa di importante in lui era cambiato per sempre. Non era più il ragazzo che aveva lasciato la valle, né il ragazzo che aveva sposato Ysril, né il ragazzo che era stato padre e zio e fratello.
Aveva sperimentato com’era perdere la propria umanità, cedere al lato primitivo, una belva guidata dallo stomaco e dai bisogni primari, priva di scopo e ragione, e non gli era piaciuto. Eppure, al contempo lo aveva reso più forte, aiutandolo a disfarsi degli ultimi strascichi di fanciullezza che si trascinava dietro, reliquie di una vita che non gli apparteneva più. 
Sua sorella lo aveva viziato, abituato a tre pasti al giorno, un letto morbido, una casa calda, costante compagnia e affetto. E prima di lei Ysril lo aveva affogato nella bambagia, facendogli dimenticare come prendersi cura di se stesso. In passato c’era stato sempre qualcuno ad esaudire i suoi capricci, a ottemperare ai suoi bisogni, a coccolarlo senza che lui dovesse alzare un dito. Solo ora capiva quanto era stato sbagliato. Doveva recuperare e acquisire in fretta le nozioni basilari per sopravvivere in un mondo che non era né affettuoso né caldo né accogliente. Un mondo da cui sua sorella e Ysril lo avevano schermato, convinti di fare il suo bene. Un mondo che la valle teneva lontano da generazioni, un mondo crudele e spietato, incapace di clemenza, dove il più forte mangia il più debole.
Alcune settimane più tardi si era imbattuto in una capanna abitata da una coppia di pastori, che gli avevano fornito riparo e vestiti puliti. Con loro si era accostato di nuovo alla civiltà e, quando si era sentito pronto, li aveva salutati seguendo le indicazioni verso il villaggio più vicino. Doveva guadagnare abbastanza soldi da potersi permettere un altro cambio di abiti e una mappa, perciò si era fatto assumere da un contadino, che lo aveva messo ad arare i campi e a mungere le vacche. Dopo sei mesi, era ripartito con una borsa, il cambio che voleva e una mappa più dettagliata di quella con cui aveva lasciato la valle.
Tuttavia, l’ingenuità che credeva perduta era riapparsa a sua insaputa, nutrita dalle persone con cui aveva fatto amicizia al villaggio, che lo avevano sempre trattato con rispetto e gentilezza. Ne aveva pagato il prezzo il mese successivo.
Si era imbattuto in due carri lungo il sentiero verso sud. Pensava fosse una famiglia di fattori, guidata da una coppia di anziani con al seguito figli e nipoti. Aveva risposto con sincerità alle loro domande, su chi fosse e dove fosse diretto, ingannato dal loro atteggiamento aperto, la generosità e i sorrisi. Aveva persino giocato con i bambini. Ma appena aveva abbassato la guardia, lo avevano fatto prigioniero e spogliato dei suoi pochi averi, eccetto il medaglione, nascosto sotto i vestiti. Presto aveva compreso che quella era sì una famiglia, ma erano tutti mercanti di schiavi. I bambini stavano imparando il mestiere dai genitori. 
Era stato condotto al sud, come voleva, e nella città di Dora, al confine, era stato venduto come schiavo a un altro mercante, che a sua volta lo aveva venduto a un nobile, il quale lo aveva sbattuto in un bordello di sua proprietà per essere iniziato alla prostituzione.
In una manciata di ore, Nell era passato dallo scherzare in compagnia di bambini all’essere trattato come un oggetto, con la prospettiva di essere trasformato in una cosa che gli faceva rivoltare le viscere, e sempre a causa del suo dannato aspetto. Così, spaventato a morte, si era rintanato in se stesso e aveva concesso al suo lato animalesco di venire a galla e agire in sua vece, tagliando fuori scrupoli morali e compassione. 
La notte del suo arrivo al bordello, aveva atteso fino alla fine del bagno a cui lo avevano costretto, e solo perché non poteva sprecare l’occasione di sguazzare in oli profumati, rammentando distrattamente i bei tempi a Rocca Smeralda. Dopodiché, era uscito dalla vasca, si era fermato alle spalle della puttana incaricata di sorvegliarlo, nel frattempo occupata a preparargli i suoi nuovi vestiti, e le aveva spezzato il collo di netto, senza indugio, gli occhi freddi e indifferenti. Quindi si era coperto con la tunica poggiata sopra il mobile, aveva indossato il suo medaglione e imboccato un corridoio a caso. 
I minuti seguenti si mescolavano in un vortice confuso. Aveva ammazzato chiunque incontrasse, donne, bambine e anche qualche cliente, indiscriminatamente, e non sapeva come arrestare il processo e risalire in superficie, verso la luce. Presto aveva compreso che non voleva arrestare il processo, era troppo inebriante tutto quel potere. Aveva dovuto lottare con alcuni, ma la colluttazione era stata breve, i suoi movimenti veloci e precisi, sempre più mirati e fatali dopo ciascuna vittima. 
Si era fatto strada all’esterno del bordello, mentre urla di allarme riecheggiavano nell’edificio e le guardie cittadine accorrevano, per poi confondersi tra la folla di curiosi e sgattaiolare via. Si era introdotto in una casa, aveva rubato abiti puliti e un mantello e all’alba era già a un miglio da Dora, ignaro di come fosse riuscito a eludere la sorveglianza alle mura. Ma, tutto sommato, non gli importava. Aveva raggiunto uno stato dell’essere a metà tra l’apatia e il dormiveglia, non era esattamente cosciente di ciò che faceva, con chi parlava o dove andava. Un po’ come un sonnambulo.
Nei mesi a venire aveva gironzolato qua e là, restando alla larga dalle grandi città, finché il desiderio di ritrovare Ysril non era tornato prepotente a farsi sentire, complice un sogno, che era più una reminescenza, di una delle loro notti di sesso sfrenato. Avvertiva l’assenza del demone sulla pelle come un doloroso formicolio e non riusciva più a darsi pace.
Allora aveva iniziato la sua ricerca, riesumando la vecchia determinazione. Ma la morsa gelida e calcolatrice che gli avvolgeva il cuore come una prigione di spine non se ne andò mai più. Provava ancora emozioni, però non erano nemmeno lontanamente forti come un tempo. Gli sembrava di starsene seduto in riva a un lago, lo sguardo puntato sulle acque dove una miriade di pesci colorati nuotavano frenetici, pur rimanendo sul fondale. Talvolta qualche pesce risaliva in superficie attirando la sua attenzione, ma gli bastava distoglierla perché il pesce sparisse di nuovo nel fondale. I pesci erano le sue emozioni, e ignorarle si rivelava di giorno in giorno sempre più facile, orribilmente facile. E questo si era rivelato utile nelle sue peregrinazioni. Non si era più fidato di nessuno, semmai aveva finto di farlo quando necessario, e sebbene finisse comunque coinvolto in qualche guaio, almeno era sempre pronto a reagire.
Ashra, Dun’har, Lureval, Karkossa. Di città in villaggio, biblioteca dopo biblioteca, osteria dopo osteria, mercato dopo mercato, origliando conversazioni, perpetrando omicidi a sangue freddo, sfruttando la sua bellezza per ottenere favori, scampando per un pelo a stupri e rapine, compiendo furti e dandosi spesso alla fuga, pian piano aveva seguito le briciole di pane finché non aveva trovato ciò che voleva a Ferenthyr, ovvero la certezza inoppugnabile dell’esistenza di Lankara e la mappa che lo avrebbe condotto là dove sperava fosse Ysril. 
Di frequente si era domandato come mai il suo sposo non fosse venuto a cercarlo in tutti quegli anni, che cosa glielo aveva impedito, ma aveva preferito respingere in un angolo remoto delle mente quei pensieri per non precipitare nell’abisso di disperazione che minacciava di fagocitarlo se non stava all’erta.
Infine aveva conosciuto Reeven, si era aperto e affezionato e tutto era andato nuovamente in malora. Tipico.
Sospirò, portò le ginocchia al petto e nascose la faccia tra di esse, in un blando tentativo di erigere una barriera tra sé e la realtà. Non sapeva in che posto fosse finito, né quali fossero i piani di coloro che lo avevano catturato. Non poteva scappare, sulle sbarre non c’era una serratura da scassinare - e questo dettaglio lasciò aperta la domanda su come cavolo era entrato lì dentro - e anche se fosse accaduto un miracolo e fosse riuscito a liberarsi, non avrebbe saputo dove andare o come scalare le prigioni. Sembravano deserte, ma forse le sentinelle si erano camuffate per ingannarlo, per fargli credere di essere solo e osservarlo arrovellarsi fino a perdere il senno. D'accordo, stava rasentando la paranoia, ma non poteva biasimarsi.
E quel maledetto ronzio nelle orecchie lo stava facendo ammattire!
Gli ci volle parecchio prima di realizzare che il ronzio non era un ronzio. Erano parole, sussurri e guaiti impregnati di dolore, talmente flebili che era impossibile coglierne il significato. 
Raddrizzò di scatto la schiena, rigido e vigile, e scandagliò con gli occhi le celle per individuarne l’origine. Dopo un po’, lo sguardo gli cadde sul pavimento, nell’esatto centro della voragine, dove poteva scorgere un buco tappato da una grata dello stesso materiale delle sbarre della sua cella. Si avvicinò gattonando, cauto, le orecchie tese e la fronte corrugata per la concentrazione.
Non seppe quanto passò, ma a un tratto il ronzio si frammentò, divenendo più chiaro. Il suo cervello divise e catalogò le parole, per la prima volta consapevole che quel linguaggio non era umano, sebbene suonasse familiare: rak’shra.
“Nell!”
Un gemito strozzato rotolò fuori dalle labbra del ragazzo, il corpo scosso da un tremito incontrollato. 
Questa voce…
“Nell…”
Stava sognando. Doveva trattarsi di un sogno, non c’era altra spiegazione. O forse era un’illusione creata dalla sua mente per difendersi dalla follia incombente.
“Ti sento, sento il tuo odore… sei qui… parlami, parlami! Nell… Nell!”
Parole simili sgorgavano in un flusso costante privo di pause dal buco nel pavimento e Nell era ancora troppo scioccato per articolare qualcosa che non fosse un singulto o un rantolo incredulo. Gli occhi si riempirono di lacrime, stavolta di sollievo e un’altra sensazione molto simile alla gioia più pura, mentre le sue membra non cessavano di tremare e il cuore di martellargli nel petto, forte come un tamburo. Poi, giunto al limite e incapace di resistere oltre al richiamo della sua anima, pronunciò finalmente il nome che gli premeva sulla lingua.
“Ysril!”
“Nell! Sono qui, sei qui… parlami!”
Il ragazzo lottò contro i singhiozzi e si accostò di più alle sbarre, senza però osare toccarle: “Ysril, stai bene? Perché sei lì? Che posto è questo?”
“Ah, la tua voce… mi è mancata la tua voce…”
“Ysril, dove siamo?”
“Sei con me, sei con me, shhh. Tranquillo, non piangere, sono qui, siamo insieme. Ah, il mio klheis, il mio dolce amore… cosa darei per vederti, abbracciarti, baciarti… il mio amore, il mio prezioso sole, il mio klheis…”
Nell ascoltò con crescente inquietudine i mormorii persi di Ysril e comprese che il suo demone non era in sé. C’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui parlava, le sillabe confuse, strascicate, stanche, con una vaga nota di pazzia. Ripeteva sempre le stesse cose, in ordine diverso, ancora e ancora. Nell ebbe un brutto presentimento.
“Ysril, ascoltami, ti prego! Devi dirmi come fare a uscire. Sono chiuso in una cella. Aiutami. Se mi libero, potrò aiutare anche te. Sono qui per te. Ti ho cercato a lungo, klhan, non voglio perderti di nuovo. Aiutami!”
“La tua voce è qualcosa di sublime, la amo così tanto, amo tutto di te. Sei il mio sole, la mia fulgida gemma, il mio unico amore. Il mio dolce umano, gustoso, buonissimo, bellissimo, tutto mio…”
“Ysril, dannazione, concentrati!” sbottò frustrato, a corto di idee.
Mentre il demone continuava a vomitare elogi e vezzeggiativi, Nell si risolse a ispezionare meglio la sua cella. Non c’erano finestre e le pietre parevano irremovibili, incollate le une alle altre. All’apparenza non vi erano punti deboli, nemmeno un minuscolo spiraglio. Esaminò le sbarre, appurò che non ci fossero davvero serrature e si dedicò a studiare le rune, mentre i balbettii sconclusionati di Ysril facevano da sottofondo. Una parte del ragazzo li apprezzava, perché contribuivano a calmarlo, la voce del suo sposo un balsamo che lo spronava a restare lucido, ma l’altra non poteva esimersi dal disperarsi, chiedendosi cosa mai avesse subito Ysril per ridursi in quello stato.
Stava analizzando le rune della terza sbarra, dopo che le prime due si erano rivelate inutili, quando captò i discorsi del demone, adesso virati verso promesse sconce, descrivendo cosa gli avrebbe fatto non appena lo avesse avuto tra le braccia. Nell arrossì violentemente, levò gli occhi al cielo e sbuffò, fallendo però nel mascherare l’affetto che si diffuse nel suo cuore.
Per distrarlo, cominciò a fargli domande semplici.
“Ysril, sei ferito?”
“Eh? Oh, sì. Tanto dolore…”
“Dove senti dolore?”
“Dappertutto.”
“Sei intero?”
“Sì.”
“Sei legato?”
“Sì.”
“Riesci a muoverti un pochino?”
“No.”
“Hai mangiato?”
“No.”
“Hai sete?” 
“Sì.”
“Puoi descrivermi cosa vedi da là sotto?”
“Niente.”
“Nemmeno oltre la grata?”
“No.”
“Hai gli occhi aperti?”
“No.”
“Perché non li apri?”
“Li hanno chiusi.”
“Come?”
“Con un filo.”
“Ti fa male?”
“Sì.”
Nel frattempo, Nell era arrivato alla quinta sbarra. Ne mancavano ancora tre.
“Ripetimi cosa vuoi farmi, tutte le tue fantasie.” lo esortò, augurandosi di tenerlo così ancorato alla realtà finché non avesse trovato un modo per fuggire.
Le ore seguenti trascorsero lente, riempite da monologhi e commenti di Ysril che elogiavano ogni singolo centimetro del corpo di Nell, quasi stesse componendo un’ode. 
Il giovane, sordo a tutto il resto, mise in moto il cervello e a un certo punto individuò uno schema nelle rune. Notò che alcune si ripetevano, talvolta con varianti, mentre altre comparivano una volta soltanto e in precise posizioni, costituendo un diagramma perfetto. Così perfetto che non trovò alcuna falla.
Ignorò Ysril, che era occupato a sciorinare un’infinita serie di fantasie sessuali, e rifletté, guardandosi intorno distrattamente, il labbro inferiore intrappolato fra i denti. Stava per gettare la spugna, quando un’idea gli fece guizzare le iridi azzurre. Accennò a metterla in pratica, aggrappandosi testardamente all’adrenalina, ma fu interrotto. 
Mentre era girato, con le spalle alle sbarre, di fronte alla cella era comparsa silenziosa una vecchia, quasi si fosse materializzata dal nulla. Nell squittì in maniera assolutamente virile e balzò indietro, aderendo con la schiena al muro, cercando di schiacciarsi contro la pietra nell’intento di rendersi invisibile. Ogni fibra del suo essere gli gridava “pericolo” a ripetizione, anche se non ne comprendeva la ragione.
“Nell? Che succede?” domandò Ysril, allarmato.
Paradossalmente, il demone pareva più lucido adesso rispetto alle ore precedenti. Nell valutò che non fosse un segno promettente.
La vecchia, vestita con abiti logori, la gonna tenuta su da una cintura con appesi dei teschi di animali, e un bastone con un pietra nera stretto in mano, lo fissò e ghignò, rivelando una chiostra di denti marci.
“Finalmente ci incontriamo faccia a faccia, figlio mio.” gracchio con voce roca. 
Nell si rimescolò da capo a piedi, la gola secca e il gelo nelle ossa, e un terrore atavico si irradiò in tutte le estremità del suo corpo, pietrificandolo sul posto.

La battaglia imperversava fuori dalle mura, i soldati di Ferenthyr impotenti contro i dardi e l’olio bollente. Nonostante questo, erano riusciti a portare un ariete di fronte alla porta principale e i boati prodotti dai veri tentativi di creare una breccia rimbombavano nell’aria, coprendo le grida e gli ordini vociati da una parte all’altra degli schieramenti.
Andorev osservava con espressione granitica quello spettacolo di morte. Guidato dalle visioni che la Sylmaran gli aveva mostrato, attendeva il suo momento dalla terrazza più alta del castello, da dove aveva una visuale completa. Il terreno erboso era disseminato di cadaveri, lance, frecce, scudi e spade. L’aria era satura del fetore del sangue e della morte, assieme a un odore di carne bruciata. 
Era tutto troppo semplice. Così semplice da fargli salire la nausea. Aveva aspettato secoli per vedere questo, la rovina abbattersi sull’umanità e decimare interi popoli, eppure non provava soddisfazione. Anche se ora conosceva il suo ruolo nel grande disegno, non ne era molto contento. Forse perché non sarebbe stato lui l’indiscusso protagonista della vera strage. Di questo, però, non poteva che incolpare se stesso. Aveva lasciato che tutti lo credessero morto, che il suo nome venisse dimenticato, preferendo adottare altre identità per muoversi più facilmente e orchestrare i suoi piani, e ora un po’ se ne pentiva. Nessuno avrebbe pronunciato il suo nome in preda alla paura. Nessuno, guardandolo, lo avrebbe riconosciuto come lo stregone Andorev, colui che, secondo la leggenda, aveva debellato il potere dell’Occhio. Nessuno avrebbe mai conosciuto la verità, cioè che aveva fallito il suo compito e ceduto al richiamo della gemma, divenendo un suo messaggero, schiavo dell’ebbrezza che gli donava anche solo stando nella medesima stanza. E per mantenere le apparenze aveva dovuto separarsi dall’Occhio, permettere che altri lo prendessero e portassero altrove. Poco importava sapere che ogni mossa sarebbe stata inutile, poiché l’Occhio ha una sua coscienza, è vivo, e agisce per conto dei suoi desideri, senza mai sottomettersi ad alcun padrone. Il distacco era stato doloroso, e ancora di più il periodo trascorso nell’ombra, affannandosi a ordire complotti a lungo termine in attesa di rimettere le mani sulla gemma.
A complicare le cose erano giunti i guardiani dell’Occhio, con il loro stupido codice morale e la loro magia, che avevano schermato il potere della gemma impedendogli di sentirla. E poi ecco che un bel giorno, di punto in bianco, l’Occhio era sfuggito al loro controllo, svincolato da ogni incantesimo di contenimento, finalmente libero di muoversi come voleva, apparendo nei posti più impensati e seminando il caos. Andorev ne aveva seguito la scia come un segugio e, non appena aveva intuito il suo percorso, lo aveva anticipato, così da trovarsi già nel luogo giusto quando fosse arrivato. E l’Occhio, puntuale, era giunto nelle mani di Sylas, di cui lui era diventato fedele comandante sotto il nome di Dorevan. 
Ma aveva dovuto attendere ancora, i tempi non erano maturi: doveva dar modo all’Occhio di caricarsi di energia negativa e lasciare che avvelenasse l’aria, accrescendo il suo raggio d’azione mentre si nutriva di sofferenza e morte e corrompeva la mente del re, trascinandolo dalla sua parte e suggerendogli nel sonno guerre e genocidi.
Nel frattempo, Andorev aveva massacrato con piacere tutti i discendenti della famiglia dei guardiani, divenuti una vera seccatura.
Quindi Sylas aveva dato inizio alla guerra e al suo culmine lo stregone avrebbe dovuto rivelarsi, ucciderlo, assumere il comando, diffondere discordia fra i popoli con l’aiuto dell’Occhio e da lì le cose sarebbero precipitate da sole. Tuttavia, a quanto pareva, il disegno era assai più grande di quanto aveva immaginato. C’erano forze all’opera che non comprendeva e alle quali era chiamato a sottomettersi, consapevole ora di essere nient’altro che una pedina nelle mani di tali forze.
Immerso nel proprio scontento, per poco gli sfuggì quel che accadde.
All’orizzonte apparve un secondo schieramento, stavolta con i vessilli di Teruyn, e altri corni risuonarono il loro inno alla guerra. 
L’esercito di Ferenthyr, colto di sorpresa, sospese l’attacco e si preparò a fronteggiare il nuovo nemico. Le facce dei soldati riflettevano il loro smarrimento interiore, le membra immobili e gli occhi che saettavano tra l’esercito del sud e i generali, spiazzati quanto loro.
Un messaggero di Teruyn cavalcò verso l’esercito di Ferenthyr per riferire che avrebbero combattuto al loro fianco contro Dun’har. Andorev lo aveva visto succedere nelle visioni. Suo compito era impedire che si alleassero. Per cominciare.
Piegò le labbra in un ghigno e sollevò un braccio, protendendo la mano verso il generale di Ferenthyr che avrebbe ricevuto il messaggero. Osservò l’uomo sussultare, per poi irrigidirsi e muoversi come un burattino tirato da fili invisibili. Il messaggero si avvicinò, scese da cavallo  e gli andò incontro. Il generale non gli diede nemmeno il tempo di aprire bocca e gli mozzò la testa con un colpo di spada. I soldati fissarono il generale sgomenti, senza capire perché avesse ucciso il messaggero. 
L’esercito di Teruyn reagì come Andorev si aspettava. Si diede fiato ai corni e immediatamente una valanga di uomini si lanciarono alla carica, tanto che Ferenthyr si ritrovò compresso tra due fronti, impossibilitato a una ritirata. Lo scontro fu violento e l’esercito dell’ovest capì presto di non avere alcuna speranza. 
I disertori fuggirono rifugiandosi nei boschi, ma Andorev sapeva che sarebbero stati sventrati entro poche ore da un altro esercito proveniente da Crythen, giunto in soccorso di Ashra, non appena fosse stato chiaro che Ferenthyr aveva infranto l’alleanza. 
E un altro esercito ancora sarebbe arrivato tra tre giorni, dalla costa, e poi un altro da ovest, e gli alleati di Dun’har da est. Se lo stregone avesse giocato la sua parte in modo intelligente, nell’arco di sette giorni metà della popolazione umana sarebbe divenuta cibo per i vermi. Da lì in avanti, ci avrebbe pensato Xion.

“D’accordo, visto che nessuno di voi lo dice, lo dirò io.” esordì Utros, osservando corrucciato le volute di fumo che si levavano oltre le chiome degli alberi, più o meno nella direzione di Dun’har, “C’è qualcosa di strano.”
“Grazie, genio.” borbottò Phyroe, facendo ciondolare le gambe nel vuoto.
Qolton non commentò, troppo occupato a studiare il cielo, annusare l’aria e captare suoni. 
Da giorni non facevano che incrociare pattuglie provenienti da diverse parti del continente, alcune sottocopertura, altre in missione ufficiale di ricognizione. Sembrava che tutti i più grandi eserciti stessero marciando alla volta della capitale di Dunaster in risposta all’attacco contro Ashra. Stando a quanto le pattuglie avevano riferito loro, l’ovest e il sud si erano di recente alleati contro Dun’har e pianificavano un’offensiva su due fronti che avrebbe obbligato in ginocchio re Sylas, ora che la capitale era sguarnita della giusta protezione. Tutti sapevano che il suo unico punto di forza erano le mura invalicabili, poiché l’esercito di Dunaster non era mai stato cospicuo, men che meno adesso che la maggior parte delle risorse erano state impegnate ad Ashra. Di sicuro i soldati rimasti a guardia della città erano male attrezzati e poco preparati. Anche se ci fosse stato un assedio, non avrebbero resistito molto, le provviste sarebbero terminate presto e non avrebbero avuto vie di scampo, eccetto il sentiero fra i monti Lerisa. Tale sentiero sboccava ad est, nei regni limitrofi alleati con Dun’har, e i sovrani degli altri reami avevano già spedito dei contingenti a circondare i principali insediamenti nemici per impedire una seconda fuga.
In sostanza, la caduta di Dun’har era già stata decretata. Eppure c’era decisamente qualcosa di strano. L’aria vibrava, la terra tremava, gli animali scappavano dalla parte opposta alla battaglia e i boschi pullulavano di disertori, molti dei quali feriti e appartenenti a Ferenthyr. Come in preda ad una inquietante forma di pazzia, costoro si uccidevano l’un l’altro senza riconoscersi, zigzagando fra gli alberi zoppi e sanguinanti in cerca di riparo. 
Quando Qolton aveva provato a domandare ad alcuni di loro cosa fosse successo, quelli avevano tentato di ammazzarlo e rubare i suoi beni. 
Così, lui, Phyroe e Utros si erano arrampicati su una quercia alta e lì erano rimasti ad osservare la situazione, seduti su spessi rami in silenzio.
“Forse la strategia è fallita.” riprese Utros, “Qualcosa è andato storto. Forse Dun’har aveva un asso nella manica.”
“Sia quel che sia, non possiamo proseguire oltre.” dichiarò Qolton con espressione cupa, “Se andiamo avanti, moriremo.”
“Quindi che si fa?”
“Non lo so.” ammise Qolton.
“Dici che Reeven è a Dun’har con Nell?” indagò Phyroe.
“Non ne ho idea. A questo punto, francamente, ovunque si trovino spero che siano insieme. In due hanno più probabilità di sopravvivere in mezzo a quel caos.”
“Mi auguro che decidano di non gettarsi nella mischia e trovino un riparo.” mormorò Utros.
“Nell è sveglio, se la caveranno.” rispose Qolton.
“Credevo che quel ragazzino non ti piacesse.” osservò Phyroe, abbozzando un sorriso.
“Infatti non mi piace, ma devo ammettere che sa il fatto suo. E a dispetto di ciò che ha detto prima di separarsi dal nostro gruppo, ci tiene a Reeven, per questo lo terrà al sicuro.”
Phyroe e Utros annuirono. 
Il trio si trincerò dietro un muro di impenetrabile mutismo e guardarono dall’alto un’altra ondata di disertori riversarsi tra gli alberi con facce allucinate e ferite aperte.









 

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Capitolo 11
*** Legami di sangue ***









Nell guardò impietrito la vecchia, il cervello che saltava da una domanda all’altra a una velocità sconcertante, tanto da provocargli un capogiro. Che intendeva con “figlio mio”? Quella non era sua madre. Al massimo una bisnonna.
La paura si intensificò non appena la vide oltrepassare le sbarre della cella come se fossero fatte d’aria. I teschi appesi alla cintura dondolavano e cozzavano tra loro ad ogni passo, il rumore come di sassolini agitati in una scatola che rimbalzava sui muri e nello sterno di Nell.
“Stai tranquillo, non ti farò del male.” bisbigliò la strega, avanzando nella cella con studiata lentezza, quasi volesse dargli il tempo di elaborare la situazione e calmare il battito frenetico del suo cuore.
“Nell!” gridò spaventato Ysril, “Nell, che- cos’è questo odore? Ma che…” un ruggito si riverberò sulla pietra e sembrò scuotere le fondamenta stesse della terra, “Ze’hik, lurida schifosa, lascialo stare! Non provare a toccarlo o io ti giuro che-”
“Oh, taci.”
Le minacce del demone vennero zittite da un gesto secco della mano della vecchia. Le prigioni piombarono all’improvviso in un silenzio assordante, interrotto soltanto dal respiro accelerato di Nell, il quale avvertiva le ginocchia tremanti in procinto di cedere da un momento all’altro. Ma rifiutò di mettersi in una posizione ancora più vulnerabile di fronte a un essere di cui non conosceva il potere, non le avrebbe mai dato la soddisfazione di vederlo rannicchiarsi in un angolo come un coniglio. Raccolse tutto il coraggio di cui disponeva, purtroppo non molto, e si fece avanti.
“C-cosa gli hai fatto?” balbettò.
“Sta dormendo, non preoccuparti.” rispose la strega.
“Chi sei? E perché mi hai chiamato ‘figlio’?”
“Tra gli uomini sono conosciuta come la Sylmaran, tra i demoni come ze’hik, ed entrambi questi nomi significano ‘prima strega’. Sono stata la prima della mia stirpe.” spiegò paziente, fermandosi a soli un paio di passi da Nell, “Per quanto riguarda la seconda domanda, è semplice: sei uno dei miei figli. Non sei nato dal mio grembo, non sono tua madre in quel senso. Quando dico ‘figlio’ mi riferisco alla magia che scorre nelle tue vene. Tutte le streghe e tutti gli stregoni sono figli miei, discendono da me.”
Nell scosse la testa confuso: “Io non sono uno stregone.”
“Oh, mio caro, sì che lo sei.” ridacchiò la Sylmaran, “Il tuo potere non si è ancora sviluppato, ti è mancato un maestro e la pratica, ma è lì, dentro di te. Arde come un piccolo fuocherello, puro, incontaminato, in attesa di esplodere con la forza di un vulcano.”
“Il fatto che sappia compiere qualche incantesimo minore non fa di me uno stregone.” ribatté, respingendo in un anfratto remoto della coscienza il dubbio che la vecchia aveva instillato in lui.
Non era uno stregone, punto. Era figlio di un fornaio.
“Invece sì. Se tu non fossi uno stregone, non riusciresti a padroneggiare un incantesimo, nemmeno il più innocuo. È così e basta. Lo sapevi che la zia di tuo padre era una strega? La magia è sempre stata nella tua famiglia. Ha saltato varie generazioni, e alla fine è giunta a te.” il suo alito marcio invase le narici del ragazzo, che si ritrasse impercettibilmente.
“Non è vero. Mio padre me lo avrebbe detto.”
“Te l’avrebbe detto, se l’avesse saputo.” replicò con un sorriso indulgente.
Nell si immobilizzò, cercando di mantenere il controllo sulle proprie emozioni per non lasciar trapelare quanto le parole della vecchia lo avessero scioccato. 
“Anche alcuni sacerdoti sono stregoni, sebbene il loro potere sia limitato. Le mie figlie, invece, sono alquanto notevoli, e c’è un motivo: la magia proviene da me, che sono femmina, di conseguenza viene tramandata prevalentemente ad altre femmine, e così rimane forte. Il primo stregone fu un incidente, a dir la verità, e subito mi incuriosii, eccitata alla mera idea. Poi, con mio grande disappunto, vidi che era debole e me ne disinteressai. Gli stregoni che si sono susseguiti dopo di lui ereditarono il suo sangue, perciò nacquero altrettanto deboli. Ma tu, Nell,” sibilò, accostandosi di più al giovane, “tu sei speciale. Sei un maschio, eppure sei forte come una femmina, magicamente parlando. Rifletti su questo, se proprio non vuoi credermi: quelli che tu chiami ‘i doni di Ysril’ non avrebbero potuto durare così a lungo se non possedessi la magia. Un umano avrebbe dovuto ricevere continuamente l’energia per mantenersi giovane e bello, forte e in salute, senza sentire la fame o la stanchezza. Tu sei andato avanti più di vent’anni senza il tuo Ysril! Se fossi stato normale, a quest’ora dovresti dimostrare la tua età e avvertire il bisogno di mangiare e dormire. La verità è che hai fatto scorta dell’energia di Ysril, ne hai talmente tanta da poterti bastare per un altro secolo.” 
Nell, benché riluttante, dovette ammettere che il ragionamento non faceva una piega. Non conosceva le dinamiche tra streghe e demoni tranne qualche nozione di base, non sapeva ogni quanto le streghe sentissero il bisogno di nutrire la loro magia e quanto durasse l’effetto, ma non poteva accantonare la possibilità che in lui ci fosse un potere di cui ignorava l’esistenza, perché se metteva da parte la sua naturale diffidenza tutto quadrava. 
Le sue riflessioni vennero interrotte poco dopo dalla Sylmaran, che riprese a parlare imperturbata.
“È un onore poterti parlare faccia a faccia senza maschere. Ho atteso tanto questo momento. La tua nascita è stata predetta, sai? L’ho vista accadere millenni fa. Come ho visto lo splendido esemplare che saresti diventato, la tua unione con Ysril, il tuo risveglio e… la tua gravidanza.” confessò la vecchia con un ghigno enigmatico, “Un miracolo, aggiungerei. Se tu fossi nato in un’epoca anteriore, il tuo corpo non sarebbe mai stato in grado di procreare, non c’erano i mezzi e nessuno aveva ancora pensato a un metodo per ingravidare anche i maschi. Poi i tempi sono cambiati, la cultura e la società si sono evolute e tutto è divenuto possibile.”
“Che cosa stai dicendo? Non… non capisco.” esalò Nell e, mentre parlava, stranamente sentì gli occhi riempirsi di lacrime e un macigno depositarsi sul petto.
“Ti conosco da prima che i tuoi genitori ti concepissero e, nel corso della tua vita, ti ho seguito come un’ombra, vegliando su di te. Sono sempre stata al tuo fianco, in una forma o in un’altra.”
La Sylmaran gli scoccò un’occhiata intenerita. Allungò una mano e la posò delicatamente sulla sua guancia, carezzandolo come una madre. La sua testa arrivava giusto alle spalle di Nell, ma la statura bassa non faceva nulla per contrastare l’aura schiacciante che emanava, dando l’impressione di trovarsi al cospetto di un gigante.
A quel punto, Nell osservò con occhi sbarrati l’aspetto della donna mutare. D’un tratto, innanzi a lui apparve Hodren, il monaco che lo aveva aiutato a Dun’har. Subito dopo mutò ancora e assunse le fattezze del capo della carovana di mercenari che lo aveva salvato dallo stupro, poi quelle del contadino che lo aveva assunto prima di cominciare il viaggio verso sud, e dopo quelle del predone che Nell aveva ucciso, la cui morte, pur segnandolo, lo aveva fortificato nello spirito. Quindi acquisì le sembianze della moglie del sarto della valle di Mesil, quelle di Phei, la balia di Selis, e quelle del novizio che aveva accolto Nell e Ysril al Grande Tempio, quando avevano avanzato la richiesta dell’ampolla della fertilità. E così via a ritroso, volti di persone che in varie circostanze aveva incrociato sul suo cammino e che, chi più chi meno, gli avevano fornito un supporto di qualche tipo, permettendogli di procedere lungo il percorso. Infine, l’aspetto della Sylmaran si modificò altre due volte: prima si tramutò in una donna di mezza età che Nell non aveva mai visto e dopo in niente meno che il capo della banda di ladri in cui si era imbattuto a Ferenthyr, quando aveva conosciuto Reeven.
“Suna…?” soffiò incredulo, “Perché lui? Non ha alcun senso.”
La strega rispose con la voce dell’uomo: “Beh, non ero esattamente lì per te.”
“Che vuoi dire?”
La strega si disfò del travestimento e tornò alle sembianze originali.
“Non sei l’unico pezzo importante del disegno, ci sono altri che devono giocare il loro ruolo. Io li ho protetti, ho vegliato come ho potuto senza influenzare troppo gli eventi. Ma non è questo il punto.”
“E qual è?”
“Non sei qui per caso. Il tuo fato era già stato inciso nel Libro della Vita. Tutto quello che hai vissuto, era già stato scritto. Eri destinato ad arrivare a Lankara, in cerca del tuo Ysril, e qui ti ho aspettato. Le tue scelte sono state predette tanto tempo fa, ogni tuo passo, ogni tuo pensiero. Ogni cosa.”
Nell faticava a respirare, non per l’olezzo nauseabondo che sgorgava dalle labbra della vecchia, ma per il peso delle rivelazioni che lo stavano sommergendo. Una parte di lui non voleva crederci. Era intollerabile l’idea che tutta la sua vita fosse già stata scritta, decisa, a sua insaputa. Non era che un burattino nelle mani del fato, e la Sylmaran andava a braccetto con esso. Non aveva alcuno scampo. Magari sapeva pure cosa avrebbe fatto di lì a un minuto, cosa avrebbe detto, cosa pensava. Mai si era sentito così impotente.
“Nell, non temere. Sei stato fondamentale, e lo sei ancora. Non ti verrà fatto alcun male.” lo rassicurò la strega.
“Non mi fido di te.” sputò con un rantolio strozzato, la gola ostruita da un groppo che non riusciva a scendere.
“Lo so.”
“Cosa vuoi da me? Perché non ci lasciate in pace?” l’aggredì, distanziandosi di qualche pollice dal muro nella foga, finché un altro quesito non gli balenò in mente, “E cosa ci fa una strega nel regno dei demoni?”
La Sylmaran sospirò e temporeggiò. Quando finalmente riaprì bocca, pronunciò ogni parola con attenzione.
“Figlio mio, i demoni sono parenti delle streghe. Il dio del Caos, Wall’khar, il cui seme mi ha fecondata mutando la mia natura originale, che era umana, è fratello gemello della dea Kanlaar, Signora del Buio e madre dei demoni. In sostanza, Ysril è un tuo cugino alla lontana.” 
“Che?! Ho sposato mio cugino?”
“Uhm, beh, non si può parlare propriamente di incesto, questo no.”
Nell boccheggiò scioccato, incapace di articolare una frase di senso compiuto, e la strega ne approfittò per proseguire: ne aveva di segreti da rivelare, attendeva da anni l’occasione di chiacchierare con lui e illustrargli tutta la verità, in maniera che capisse come mai presto sarebbe stato richiesto il suo sacrificio. Sperava davvero che Nell lo accettasse, che si schierasse dalla sua parte.
“Già che ci sono ti fornirò le basi, male non fa. Dunque, devi sapere che, col passare delle ere, i demoni, in principio creature dell’Oltremondo, si riversarono sulla terra e crearono questa città in onore della loro madre, costruendola in modo che somigliasse a un grembo. Le diedero anche il suo nome, Kanlaar. In seguito, l’esistenza della città divenne di dominio pubblico fra gli esseri umani e alcuni ne parlarono in forma scritta. La scrittura non era che ai suoi albori, non esistevano le espressioni o l’ampio lessico di oggi, e tali testi, di difficile interpretazione, vennero tradotti e ritradotti spesso con delle imprecisioni. Un giorno un copista commise un errore ortografico, scrivendo ‘Laankar’ invece di ‘Kanlaar’. Laankar si tramutò poi in ‘Lankara’ a causa di un errore simile da parte di un secondo copista, e gli amanuensi che seguirono ereditarono la nuova dicitura. E così la città venne ribattezzata. I demoni più antichi che ancora respirano, tra i quali figura la regina Kunaar, continuano a riferirsi a questo posto con il nome della madre, ma i giovani sono stati influenzati dall’umanità e lo chiamano Lankara.”
La Sylmaran aprì le braccia indicando le prigioni nella loro interezza, come si fa quando si presenta al pubblico l’ultima meraviglia della natura.
“Questa non è che una minuscola parte. La città è enorme, più grande di qualsiasi altra gli umani abbiano mai eretto. Ed è anche molto popolata. Come sai, è protetta da una barriera, che in determinati frangenti può essere attraversata, ma solo da individui speciali o dagli stessi demoni. Fu Kanlaar a crearla, per salvaguardare la sua prole dai pericoli e tenerli al sicuro.” 
Nell immagazzinò le nozioni, ascoltando attento, finché la Sylmaran non batté il bastone a terra, come a sancire un cambio di argomento. 
“E ora veniamo al nocciolo, ossia perché mi trovo qui. Demoni e streghe sono sempre stati alleati, anche se non vanno molto d’accordo. Le streghe evocano i demoni per nutrire la propria magia, e ciò è possibile perché le essenze delle due stirpi sono complementari, due metà di un uno. Vale a dire che solo l’energia di un demone può nutrire una strega e solo una strega può accogliere il seme di un demone. Se il seme attecchisce, esso dà vita agli ibridi. È assai raro che questi sopravvivano, spesso muoiono prima di nascere, ma quando accade si dimostrano più forti e resistenti, pressoché imbattibili. Sono in grado di combattere il dominio di una strega e assorbire la loro magia, se lo desiderano. Certo, non è detto che ci riescano, dipende da quanto capace è la strega. A Lankara, attualmente, ci sono trentadue ibridi.” ghignò e i suoi occhi ebbero un guizzo sinistro, “E un altro è in arrivo. Il più potente di tutti. Colui che abbiamo atteso con trepidazione per innumerevoli anni. Egli ristabilirà l’equilibrio e riporterà la pace a lungo agognata, quella che c’era prima che Arrhan plasmasse l’umanità.”
“Cosa stai insinuando?”
La Sylmaran si avvicinò di nuovo al ragazzo e gli accarezzò i capelli con una mano scheletrica: “Nell, l’ibrido che stiamo aspettando è tuo figlio.”
Il biondo trattenne il fiato e spalancò le palpebre, le sopracciglia chiare si sollevarono in un chiaro segno di incredulità. Il suo corpo venne assalito da una scarica di brividi e le membra iniziarono a tremare. Strinse i pugni nel tentativo di mantenere il controllo, ma percepì dentro di sé la diga delle emozioni riempirsi di crepe. Presto lo avrebbero inondato e l’apparente freddezza di cui si era appropriato con tanto sforzo, fatica e sacrifici si sarebbe sgretolata sotto l’impatto.
“N-no… mio figlio è morto… Ysril lo ha seppellito…”
“La versione che ti è stata rifilata non è corretta.”
“Come sarebbe a dire?!”
“Calma, non c’è bisogno di agitarsi. Se ti può consolare, nemmeno Ysril conosce la verità.” 
“Allora che aspetti? Dimmela.” ringhiò, la mascella contratta e le labbra tese in una linea dura.
“Il tuo caro maritino ordinò a Djibres di seppellire tuo figlio, questo sì, ma l’uomo disobbedì. Preferì eseguire uno scambio completo. Rapì un neonato dalla casa di due contadini e dopo lo sostituì con il tuo bambino. È stato doloroso per me assistere alla separazione, ma era necessaria. Era stato predetto che andasse così.” confessò con un sorriso triste, “Sai, sarebbe stato sufficiente accostartelo al petto e fargli ascoltare il battito del tuo cuore per innescare il suo. Gli ibridi sono una razza particolare, il loro organismo funziona in modo diverso. Il suo piccolo cuore è rimasto ibernato finché la contadina che aveva partorito il tuo Selis non se lo portò al petto per cullarlo un’ultima volta, convinta che fosse morto. E allora emise il suo primo vagito. La donna, spaventata dagli occhi rossi del pargoletto, ordinò al marito di liberarsene, poiché capì immediatamente, come solo una madre può, che quello non era il suo bambino. L’uomo lo abbandonò sulla soglia di un lontano orfanotrofio e la coppia, negli anni, si dimenticò di lui. Da quel momento me ne occupai io. Presi il posto della direttrice dell’orfanotrofio e crebbi tuo figlio, dandogli il nome di Reeven, che significa “messaggero del fuoco”. Lo protessi dal mondo esterno fino a quando non reputai giunto il tempo di mandarlo fuori, affinché imparasse a sopravvivere e si fortificasse attraverso le avversità. In seguito, mi trasformai in Suna e costruii una nuova identità per sorvegliare la sua maturazione, circondandomi di altri randagi per rendere la recita più credibile. La loro devozione e lealtà erano adorabili, Phyroe con i suoi complessi e il suo bisogno di una figura paterna, Utros con il suo pragmatismo e il sogno di una vita onesta, Qolton con il suo atteggiamento da orso scorbutico quando sotto la scorza dura non è che un cucciolo che brama una famiglia, e Benial con la sua stupida cotta. Un po’ mi è dispiaciuto ucciderlo alla fine.” sospirò, lo sguardo malinconico rivolto al passato, “Comunque, un giorno mandai Qolton a comprare da bere. Gli indicai un’osteria precisa, dove sapevo che avrebbe incontrato tuo figlio, che all’epoca gareggiava nelle lotte clandestine. E andò esattamente come pensavo, hanno legato subito. Il resto è storia.”
Guardò Nell con un sorriso gentile e comprensivo, aspettando che assimilasse la rivelazione. Il ragazzo non aveva una bella cera, pareva l’incarnazione di uno spettro.
“Non dovresti esserne sorpreso. Dentro di te hai sempre saputo chi era Reeven. E lui ha sempre saputo chi eri tu. Seppur a livello inconscio. Un ibrido riconosce sempre la propria madre, instaura un solido legame con lei nel suo grembo, un legame che non può essere spezzato nemmeno con la magia.” spiegò paziente, “Reeven è il frutto dell’unione fra il più potente stregone mai esistito e il più forte principe dei demoni.” dichiarò. 
“No… non ti credo. Stai mentendo.”
“D’accordo, facciamo un passo indietro. Ti sei mai domandato come mai nessuno, demone o strega, abbia tentato di fermare Ysril dall’unirsi a te? Eppure ormai dovresti sapere che i demoni hanno regole molto severe. Qualsiasi interazione intima con gli umani viene punita con la morte. Soltanto le streghe possono giacere con i demoni.” sottolineò, trapassandolo con un’occhiata grave, “Poi ti sei mai chiesto come mai nessuno abbia minacciato la vita di tuo figlio? O perché sei sopravvissuto quel giorno nella grotta, quando Radek venne sguinzagliato contro Ysril? O come abbia fatto Ysril a sopravvivere alla lotta?” circondò il volto pallido di Nell con le mani, cullandolo alla stregua di un bambino, “Tutti conoscevano la profezia, mio caro. Abbiamo lasciato che Ysril ti conquistasse e ti ingravidasse. Abbiamo lasciato che il vostro legame si rafforzasse pian piano e che il tuo potere si accrescesse assorbendo l’energia di Ysril, amplesso dopo amplesso. Ysril non ha mai intuito la tua natura, ed è stato un bene: sicuro di non correre pericoli, di avere il controllo della situazione, non si è fatto scrupoli a fornirti la sua energia, a riversarla in te trasformandoti nel potente contenitore che sei ora. E gran parte di quell’energia si è mischiata al tuo potere latente, plasmando una creatura semidivina, Reeven. Radek ha finto di voler uccidere Ysril, ha scelto di sacrificarsi per il futuro che era stato annunciato. Il suo compito era indebolire Ysril e separarvi, così che non solo noi potessimo riportarlo a Lankara e fiaccare il suo spirito in vista dei prossimi eventi, ma anche affinché tu, Nell, potessi scoprire te stesso, maturare e alimentare la tua magia affrontando le difficoltà.”
Nell inspirò ed espirò, la vista costellata da macchioline nere e la nausea a inondargli la gola di bile.
“Capisci? Era scritto che Ysril si unisse a te e che insieme avreste concepito Reeven. Siete la triade prescelta, gli eletti destinati ad essere immolati per il risveglio di Xion. Per il rituale c’è bisogno di un demone principe, lo stregone più potente mai nato e l’ibrido che con loro condivide il sangue, e per tale ragione veicolo di un potere inimmaginabile, in grado di nutrire la Bestia. Per questo sei qui, Nell. Per questo siete qui.” 
“Perché dovrei bermi tutte queste fesserie? Mi hai ingannato, più di una volta! Hai giocato con i miei sentimenti e la mia mente. Solo pochi giorni fa eri Hodren e mi hai ascoltato raccontare la mia storia simulando sorpresa.”
“Mi dispiace, ma non potevo rivelarmi a te, non ancora. Suvvia, non prendertela, in fondo ti ho condotto da Selis per un ultimo addio. Un piccolo regalo dopo tanto soffrire.”
Nell ammutolì, spiazzato e annichilito. I suoi pensieri vorticavano caotici, riproducendo disordinatamente la maggior parte delle frasi della vecchia, sentendole riecheggiare nelle orecchie e nella mente. Calde lacrime gli solcarono le guance, bagnando il suo viso e illuminando i suoi occhi. 
Si arrese. Non c’era più motivo di lottare, opporsi all’inevitabile, doveva soltanto accettare i fatti. Avvertiva nel profondo che le parole della Sylmaran erano vere. Era una consapevolezza inoppugnabile, anche se non poteva spiegarselo in maniera razionale. E, per quanto sconcertante, finalmente ora tutto aveva un senso. 
In particolare, finalmente comprendeva cosa fosse la sensazione che aveva provato con Reeven, l’attaccamento che aveva sviluppato nei suoi confronti, le emozioni che lo avevano assalito stando insieme a lui, emergendo dal fondale in cui le aveva relegate. Lo aveva riconosciuto inconsciamente fin da subito come parte di se stesso e di Ysril, e lo aveva amato senza rendersene conto. E Reeven, povero Reeven, anche lui lo aveva riconosciuto. Nella sua confusione, inesperienza e ingenuità, l’ibrido non aveva saputo distinguere l’amore romantico da quello filiale, ma il sentimento era sempre stato lì, forte e concreto, reale, un faro in mezzo all’oscurità a indicargli la strada di casa. 
E Nell… Nell lo aveva respinto.
Si portò le mani alla bocca e represse a stento singulti e conati, continuando a piangere in silenzio il figlio tanto voluto che non aveva mai abbracciato. Lo aveva ferito, allontanato, rifiutato, usato, ribellandosi all’istinto che invece gli gridava di prendersi cura di lui, non capendo perché lo provasse o da cosa scaturisse. 
Emise un gemito sofferente e si piegò sulle ginocchia, impossibilitato a restare dritto per il peso della colpa che gli gravava sulle spalle e sulla coscienza.
“Su, su, non disperare.” lo consolò la vecchia, “Presto sarà qui, sarete di nuovo insieme. Una delle mie figlie lo sta scortando proprio adesso oltre il portale. Tra poche ore lo riabbraccerai.”
Nell si irrigidì e il sangue gli defluì totalmente dal volto, mentre una contrazione gelida gli annodò lo stomaco.
No! Oh, no… se Reeven verrà condotto qui, morirà! Non posso… devo impedirlo! Non lo avranno, non lo permetterò!
“Non osare fargli del male, o giuro che la pagherai.” sibilò.
“Nell, non sono tua nemica.”
“Cosa vuoi da me? Perché mi stai raccontando tutte queste cose? Cosa ci guadagni?”
“La tua ostilità non mi piace. Sto cercando di aiutarti, ho risposto alle tue domande e ti ho fornito i pezzi mancanti, dovresti mostrare un po’ di gratitudine.”
“Perché invece non mi uccidi e basta? Perché inscenare questo teatrino? Compi il rituale, sveglia Xion e smetti di tormentarmi. Ne ho abbastanza di streghe, demoni o chi per loro. Sono stanco. Torna nel buco dal quale sei uscita e lasciami in pace!”
“Non sono io il nemico!” reiterò la Sylmaran, battendo il bastone.
“Ah no? Tutto mi porta a pensare il contrario.”
“Gli uomini sono il vero male, non capisci? Xion può liberarcene una volta per tutte. Hanno rovinato il mondo, sono mostri corrotti e crudeli che non hanno alcun rispetto per la natura e le sue leggi. Sono convinti di avere il diritto di governare sugli altri esseri, e per mantenere il potere sono disposti a compiere qualsiasi crimine e nefandezza. Dimmi, quanti individui abietti hai incrociato nell’arco della tua giovane esistenza? Potremmo partire dal principe Kwan, che ne dici? Te lo ricordi? E quante vite hai mietuto per difenderti? Quante ne hai sacrificate sull’altare dei tuoi ideali? Quanto dolore hai incontrato e quanta pena sei stato costretto a subire? Non meritano i doni di Arrhan, non meritano niente! O forse provi compassione per quella feccia? Sai meglio di molti altri quanto la fiducia e l’amicizia non sono che illusioni, sentimenti effimeri e mutevoli, caduchi, che ti si ritorcono contro quando meno te lo aspetti. Devono morire, tutti quanti, solo allora tornerà la pace. Tu, Ysril e Reeven ci aiuterete a ottenerla.”
Il ragazzo scrollò la testa, aggrappandosi al sottile filo di lucidità rimastogli. Digrignò i denti e si risollevò lentamente per fronteggiare la Sylmaran con rinnovata determinazione, germogliata come un fiore velenoso dall’angoscia, dall’odio, dalla rabbia e dalla paura. La trafisse con un’occhiata omicida e scandì ogni frase con un sibilo impregnato d’ira.
“Perché dovrei ascoltarti, ze’hik?” sputò quel titolo con palese disprezzo, “Perché dovrei darti corda? Sembra quasi che tu stia cercando di convincermi della bontà delle tue… oh. Adesso è chiaro. Affinché il rituale abbia successo, dobbiamo offrirci spontaneamente in sacrificio, non è così?” sorrise trionfante, per poi incupirsi, “Beh, scordatelo. Non accetterò mai. Sei pazza se pensi che ti lascerò uccidere mio marito e mio figlio senza fare niente! Potete torturarci in ogni modo, ma sappiamo entrambi che non ci ucciderete. Vi serviamo vivi. Non avete nulla con cui ricattarci. E che si fotta l’umanità, non me ne frega un accidente! La sola cosa che desidero è stare con la mia famiglia ed essere lasciato in pace. Perciò va’ pure, sterminali tutti, ma da noi non riceverai alcun aiuto.”
La strega si mostrò delusa e curvò le labbra raggrinzite in una smorfia amara: “Vorrei non arrivare a gesti estremi, Nell. Se collaborerete, non sarete costretti a soffrire inutilmente. Cadrete in un sonno profondo, neanche vi accorgerete di cosa accade. Se, però, vi opporrete, oltre che soccombere a un’atroce agonia e dare al mio cuore un grande dolore, sarà peggio per il vostro equilibrio mentale e allora desidererete essere morti. Non devi darmi una risposta adesso, riflettici. E parlane con Ysril. Ci sono ancora due giorni di attesa, nessuna fretta.”
Detto ciò, gli diede le spalle e si accinse a uscire dalla cella. Nell esitò solo un secondo prima di scagliarsi contro di lei con un ringhio rabbioso. Tuttavia, non fece in tempo ad afferrarla. In un attimo la Sylmaran attraversò le sbarre e subito dopo il ragazzo venne sbalzato all’indietro dalla barriera magica. La schiena cozzò contro la parete di pietra e il fiato gli venne strappato via dai polmoni, lasciandolo boccheggiante al suolo. Quando ritrovò la forza di aprire gli occhi, della vecchia non c’era traccia.

Noara cadde riversa sul terreno roccioso, le braccia tese sotto di sé a sorreggerla e i muscoli doloranti. 
Il portale si richiuse dietro di lei in un lampo di luce accecante. 
Ansimò e si concesse qualche minuto per regolarizzare il respiro, stremata dalla quantità di energia che aveva consumato per fare pochi passi oltre la barriera.
Reeven giaceva inerte accanto a lei, le orbite leggermente incavate e violacee, i muscoli più sottili e il corpo più magro rispetto ai giorni precedenti. Lo aveva quasi prosciugato.
Jemma era ridotta a uno stato pietoso, peggio della sua padrona, senza più la forza di volare o tenere gli occhi aperti.
La strega fissò con panico crescente le rughe sulle proprie mani. Si toccò il viso e lo scoprì invecchiato, rivelando la sua vera età. Grugnì frustrata e sbatté un pugno a terra. 
Non pensava che l’attraversamento del portale avrebbe richiesto un prezzo così alto, era stata stupida e avventata. Ora era troppo debole per sperare di muoversi rapidamente senza attirare l’attenzione, figurarsi trasportare un ibrido incosciente fino a Lankara e combattere contro un demone della portata di Ysril. Non ne sarebbe uscita viva. Tuttavia, non poteva neanche aspettare. Non c’erano rifugi sicuri nei paraggi e l’unica fonte di energia di cui disponeva reggeva a malapena l’anima coi denti. Regalarsi un ultimo pasto e uccidere Reeven sarebbe stato l’ideale, ma non se la sentiva di forzare la fortuna. L’ibrido era il suo asso nella manica, la leva con cui avrebbe ricattato Ysril per costringerlo alla resa; se se ne fosse privata, non avrebbe avuto alcuna chance di vittoria nelle sue attuali condizioni. La sola opzione ragionevole era resistere, conservare il potere residuo e sperare per il meglio.
Ah! Potrei attirare Ysril lontano dalla città, così eviterei di imbattermi in altri demoni! Ma come fare? Attendere di incrociarne uno per caso e convincerlo a riferire il messaggio? “Ysril, tuo figlio è nelle mie mani, raggiungimi o lo ucciderò”. Qualcosa di simile. Uhm.
Poteva funzionare. Sempre che il demone messaggero fosse più debole di lei e non la sgozzasse subito. Oppure poteva evocarne uno.
Sì, ovvio, a Lankara? Sei in territorio nemico, non montarti la testa, non avresti alcun controllo.
All’improvviso la sua magia guizzò sull’attenti, protendendosi in avanti come una fiera che si lancia sulla preda. Il fiato le si mozzò in gola e cadde prona sul terreno con un gemito spaventato. Quando alzò il capo, sbarrò gli occhi e si paralizzò.
La Sylmaran si stagliava a tre passi da Noara e la scrutava dall’alto con un sorriso accennato.
“Ben fatto, figlia mia. Sono fiera di te.” gracchiò appoggiandosi mollemente al bastone.
“M-Madre?” balbettò scioccata.
La vecchia si accucciò di fronte a lei e le accarezzò i capelli: “Shh, tranquilla. Sei confusa, lo capisco, e presto ti darò tutte le risposte. Ma ora andiamo, dobbiamo portare Reeven al sicuro.”
“Come-”
“Pazienza, figlia, pazienza.” la blandì con un tono a metà tra il severo e l’indulgente.
Noara deglutì e si mise a sedere, osservando la Madre accostarsi all’ibrido, tastarlo in vari punti e sospirare. La vide serrare le palpebre e la udì mormorare un incantesimo, e in pochi secondi il corpo di Reeven tornò tonico e sano, il suo nucleo di nuovo pulsante di energia. Ma non si destò.
“Vieni, figlia. Seguimi.” la esortò, innalzando a mezz’aria con la magia un Reeven ancora perso nel mondo dei sogni.
Noara raccolse tra le braccia il suo famiglio e obbedì docile, conscia di non poter opporsi all’autorità della Sylmaran, andava contro la sua natura. Aveva un sacco di domande. In più, temeva che la strega più anziana le impedisse di ottenere la vendetta per cui aveva lavorato tanto duramente e non poteva accettarlo, non quando era così vicina. Non poteva permetterle di portarle via Reeven. Doveva parlarle, spiegarle come stavano le cose, supplicarla di non interferire.
“Madre, ti prego…”
La vecchia la interruppe e le prese la mano, dandole una stretta rassicurante. Infine chiuse di nuovo gli occhi e Noara la imitò. L’istante successivo scomparvero nel nulla.

Nell non aveva idea di quanto fosse passato - minuti, ore, giorni? -, era impossibile fare un calcolo, persino approssimativo. Per un po’ aveva tenuto lo sguardo speranzoso puntato verso l’apertura della voragine, invisibile dalla sua posizione, ma quando aveva appurato che la luce non cambiava, la realizzazione di trovarsi prigioniero sottoterra lo aveva schiaffeggiato con violenza. Non sentire la fame o il sonno, poi, gli impediva di scandire qualsiasi unità temporale. Poteva soltanto restare seduto a fissare il vuoto, circondato dal silenzio, e combattere contro la disperazione che minacciava sempre più spesso di divorarlo.
Ysril non aveva più emesso un suono da quando la Sylmaran lo aveva zittito. Il giovane era preoccupato, di secondo in secondo l’ansia cresceva alimentando il panico. Doveva trovare una soluzione per uscire da quella maledetta cella e andare da Ysril. Non si sarebbe rassegnato ad aspettare una fine ingiusta, avrebbe lottato finché avesse avuto un alito di vita in corpo. Quindi mise in moto il cervello e vagliò tutte le opzioni, perdendo la nozione del tempo.
Ad un tratto, un rumore lo ridestò dalla catalessi e i suoi muscoli guizzarono, portandolo ad accucciarsi in un angolo, i sensi vigili e la mente concentrata. Ascoltò e gli parve di sentire un fruscio inframmezzato da colpi netti, come se qualcuno stesse battendo un tamburo con un panno. Il rumore si fece sempre più vicino, andando a ritmo col battito del suo cuore, che gli martellava nelle orecchie con un fragore assordante.
Qualche istante più tardi, la sagoma di un demone alato apparve di fronte alla sua cella. Nell intuì che dovesse trattarsi del carceriere, o uno dei carcerieri, poiché non esisteva altro modo di accedere alle prigioni se non volando. Le sue ali erano marroni e sottili, ampie almeno quattro braccia. Sulla testa spuntavano sei corna, tre per lato, e i quattro occhi in mezzo alla faccia, ognuno di un colore diverso, ammiccarono al suo indirizzo. Non aveva il naso e nella parte bassa del viso, là dove avrebbe dovuto esserci il mento, vi era un buco ovale incorniciato da due file di denti aguzzi. Tra le braccia il demone sorreggeva il corpo inerte di un uomo biondo.
“Reeven!” esclamò Nell, balzando in avanti, per poi ricordarsi di non toccare le sbarre.
“Ecco qui il tuo prezioso pargoletto.” gracchiò il demone e lanciò Reeven attraverso le sbarre come un sacco di patate, facendolo planare a pochi passi da Nell.
Il ragazzo allora capì che la magia delle rune permetteva a tutti di entrare nella cella, solamente i prigionieri non potevano uscire. A conferma dei suoi sospetti, vide alcune rune mutare e altre cambiare posizione, come se avessero preso nota della nuova presenza e innalzato le difese.
Il demone si ritirò senza aggiungere altro e volò via lasciandoli soli.
Nell non esitò e raggiunse subito Reeven. Lo tastò, lo scosse, lo chiamò, gli occhi che gli bruciavano per le lacrime che tentava di trattenere. Proprio quando stava per arrendersi, Reeven grugnì debolmente e mosse l’indice della mano destra. Nell gliela strinse e se la guidò al petto, osservando carico di aspettativa il viso corrucciato dell’ibrido.
Reeven respirò a fondo, sondando l’ambiente con l’olfatto prima di schiudere le palpebre. Fiutò il tanfo della putrefazione, l’odore della pietra e dell’aria stantia e una scia indefinita che gli fece arricciare il naso. Per ultimo, captò un profumo familiare: pane appena sfornato, rosmarino, miele, e una nota indescrivibile che gli riempì il petto di serenità.
Odore di casa.
Nell.
Tutto il resto scomparve. Gli occhi si spalancarono di scatto e il volto del ragazzo occupò il suo campo visivo come una visione. Inalò la fragranza emanata da quel corpo esile eppure forte a pieni polmoni, pascendosi della sensazione di calore e affetto che lo avvolse alla stregua di una coperta pesante nelle notti invernali. In seguito, il battito del cuore di Nell gli invase le orecchie e il cervello, e lì ebbe la certezza di non stare sognando. Lo aveva ritrovato.
“Reeven…” articolò Nell con voce rotta.
Reeven sorrise stanco: “Ti ho trovato.”
Il giovane sbuffò una risata, che si trasformò in un singhiozzo e, in un battito di ciglia, affondò la faccia nell’incavo del collo dell’altro, abbracciandolo come se ne andasse della sua vita. Reeven ricambiò e schiacciò il naso contro la nuca di Nell, respirandolo fino a colmarsi del suo meraviglioso profumo. Gli cinse il busto e lo attirò di più a sé, indeciso se provare ad inglobarlo o godersi la vicinanza a lungo anelata.
Rimasero così per interminabili minuti. Poi Nell si issò sui gomiti e si districò dall’abbraccio, senza però interrompere il contatto fisico, quasi la sola idea lo ripugnasse. E Reeven parve del medesimo avviso, perché agguantò le sue mani e le avviluppò nelle proprie, continuando a guardarlo contento e beato.
Nell si asciugò le guance rigate di lacrime con un lembo della manica. Inspirò e deglutì in preda all’emozione, ma il sollievo ebbe breve durata. Prima che riuscisse a seppellirlo, il senso di colpa tornò in superficie ruggendo e graffiandogli il cuore. Soffocò a malapena un singhiozzo e serrò con forza le palpebre, incassando la testa fra le spalle tremanti per rimpicciolirsi.
“Nell… cosa c’è?” chiese preoccupato Reeven.
Il ragazzo scosse il capo e si costrinse a regolarizzare il respiro. Come avrebbe fatto a rivelargli la verità? E cosa sarebbe accaduto dopo? Reeven lo avrebbe mai perdonato? Non c’era una maniera delicata di affrontare l’argomento, era una cosa troppo grossa, e Nell non possedeva l’esperienza per fronteggiare una situazione del genere. Si stampò un sorriso tirato sulle labbra e tergiversò.
“Come ti senti? Sei ferito?”
“No, sto bene. Un po’ intorpidito.” rispose Reeven, “E tu?”
“Sto bene, grazie.” esalò in un sussurro strozzato.
“Non mi sembra.”
“Sono… sono solo felice di rivederti. Mi sei mancato.”
“Oh. Anche tu mi sei mancato.” disse sorridendo, le iridi azzurre che brillavano nella semioscurità come piccole stelle.
“Scusa se me ne sono andato. Mi dispiace. Non avrei mai dovuto abbandonarti…” sull’ultima parola Nell scoppiò di nuovo in singhiozzi e distolse lo sguardo colpevole.
“Va bene, va bene, non piangere. Ti perdono. Ti prego, non piangere.” lo supplicò turbato, alzandosi a sedere per abbracciarlo ancora, mai sazio del contatto.
“Sc-scusa…”
“Fa niente, è passato. Siamo insieme ora.” lo rassicurò gentile, carezzandogli la schiena.
Reeven nascose il viso nel collo di Nell e, in un moto di coraggio, gli scoccò un bacio leggero sulla pelle, irrigidendosi subito dopo per timore di venire scacciato. Quando non successe, ripeté l’azione e risalì il collo, baciando morbidamente la mandibola, il mento, sempre più prossimo alla meta. Appena sfiorò l’angolo della bocca di Nell, questi si scostò scuotendo la testa e Reeven percepì un macigno depositarsi sullo stomaco. Lo scrutò dal basso, in attesa di un rimprovero, ma ciò che ricevette invece fu una carezza sulla guancia e uno sguardo talmente costernato da mozzargli il fiato.
“Reeven, io non… non so come dirtelo. La Sylmaran ha… c’è- c’è un motivo per cui noi siamo- il legame che ci unisce è…”
“Shhh.” lo zittì il ladro, cullandolo tra le braccia, per nulla smanioso di udire l’ennesimo rifiuto.
“No, fammi parlare. Devo dirtelo, anche se è complicato.”
Reeven lo sollevò e se lo mise a cavalcioni sulle ginocchia, premendolo contro di sé per eliminare ogni via di fuga. Non lo avrebbe perso un’altra volta. A costo di farsi odiare, non lo avrebbe lasciato andare, mai più.
Nell impallidì e si mosse a disagio, facendo leva sulle spalle di Reeven per mantenere l’equilibrio.
“Reeven, fermati. Per favore.”
Fu quel “per favore” a bloccare Reeven, sebbene una parte di lui gli urlasse di sigillare le labbra di Nell così da non concedergli alcun mezzo per ferirlo nuovamente.
“Tu- io sono… s-siamo, ecco…” il ragazzo deglutì sonoramente, “Sei mio figlio.” sbottò infine. 
Come se fosse riemerso dall’apnea, avvertì i polmoni riempirsi di ossigeno e la pressione nel petto allentarsi. Quando si sentì pronto, sbirciò l’espressione di Reeven e si scontrò con un maschera indecifrabile. Attese paziente che le sue parole mettessero radici nella coscienza dell’altro, finché l’ansia non lo riprese in ostaggio. Si morse nervoso il labbro inferiore e conficcò le unghie nelle spalle di Reeven, nel tentativo di ancorarsi a qualcosa di solido per non cedere all’attacco di panico.
Reeven si rabbuiò e stritolò i fianchi di Nell con rabbia.
“Potevi trovare una scusa migliore per rifiutarmi. Questa è davvero pessima.” ringhiò, mentre le iridi azzurre assumevano una tinta rossastra.
Il respiro di Nell si bloccò in gola e agitò furiosamente il capo: “No, è la verità! L’ho scoperto da poco, ma so che è la verità. Lo sento.”
Reeven schioccò la lingua e assottigliò le palpebre. Dopodiché, si lanciò sulla bocca di Nell e lo obbligò a un bacio che non aveva nulla di gentile, un bacio dato solo per prendere e imporre il dominio.
“Re-Reeven! No, aspet- aspetta…” riuscì a staccarsi a fatica dalla morsa ferrea che lo intrappolava e gli cinse il viso con i palmi, “Non lo senti anche tu? Non mentire, so che lo senti. So-sono tuo padre… ehm, madre… cioè, ti ho portato io dentro al mio corpo per nove mesi…”
Al che, Reeven arrestò qualsiasi movimento per squadrare incredulo il giovane, alla ricerca della menzogna. Nell ne approfittò per allontanarsi un pochino, abbastanza da tirare su la camicia ed esporre la cicatrice bianca sul ventre. Reeven la fissò in silenzio, gli occhi fuori dalle orbite.
“Mi hai riconosciuto subito. Quella notte nella villa del duca, tu mi hai riconosciuto.” proseguì piangendo, “Lo hai avvertito, hai sentito il legame. Dentro di te sai che è vero. Sono io, Reeven.” mormorò, stampandogli un bacio sulla fronte.
Reeven lo spintonò all’indietro bruscamente e strisciò verso il muro. Guardò Nell come se lo vedesse per la prima volta, a metà tra l’ira e il raccapriccio. L’istinto animale che dimorava nel profondo ruggì dagli abissi della coscienza, dandogli tutte le risposte di cui aveva bisogno. Tuttavia, non poteva accettarlo. Non poteva. Amava Nell, ma non di un amore innocente. Era innamorato di lui. Se avesse abbracciato la verità, non avrebbero mai avuto il futuro che Reeven desiderava per loro due, i sogni che aveva coltivato con tanto ardore e speranza si sarebbero sgretolati e la solitudine sarebbe tornata a schiacciarlo. Avrebbe perso tutto prima ancora di iniziare.
Ma al contempo non poteva ignorare il peso delle parole di Nell, le implicazioni. Era troppo.
“Mettiamo che ti credo. Mettiamo che sei davvero mia ma- padre… quello che è. Perché non mi hai tenuto con te? Perché mi hai abbandonato?” lo interrogò, la voce pregna di amarezza e delusione.
“Non ti avrei mai abbandonato. Ti ho voluto. Ho bevuto dall’ampolla della fertilità perché ti volevo.” singhiozzò Nell affranto.
“Allora perché?” sibilò Reeven inviperito e scattò in piedi respirando dal naso, i pugni stretti lungo i fianchi e le zanne in piena mostra.
Nell sospirò, si fece coraggio e iniziò a raccontare, la testa bassa per non incrociare l’espressione tradita del ladro. Averla scorta per due secondi era stato peggio che ricevere una coltellata in pieno petto.
“Non ero cosciente durante il parto. Il cerusico mi somministrò una droga che mi avrebbe fatto dormire, così da risparmiarmi inutile dolore mentre ti estraeva dal mio corpo. Ysril, lui… pensò che fossi nato morto. Il tuo cuore non batteva. Per non farmi soffrire operò uno scambio. Ordinò a un mercenario che lavorava per lui di rapire un bambino con dei connotati fisici simili ai nostri e di… seppellirti. Ma il mercenario eseguì invece uno scambio perfetto e ti mise nella culla di colui che per anni ho amato e cresciuto come un figlio, convinto che fossi tu. All’epoca Ysril mi teneva all’oscuro di molte cose, fra cui la sua natura. Solo dopo vent’anni di matrimonio mi confessò di essere un demone. Ti giuro che non sapevo…” singhiozzò ancora e si portò una mano davanti alla bocca, “Non sapevo che bastava accostarti al mio petto e farti ascoltare il battito del mio cuore per innescare il tuo. Credevo che Ysril fosse umano, quindi anche tu per me eri umano, non avrei mai immaginato di dover compiere un simile gesto per udire il tuo primo vagito. Nemmeno Ysril lo sapeva, altrimenti lo avrebbe fatto. Fidati, avremmo fatto tutto il necessario per darti la vita. Quando scoprii la verità e venni a conoscenza dello scambio, della sua natura, degli intrighi e degli omicidi che aveva perpetrato per proteggere il nostro piccolo mondo dorato, Ysril mi disse che eri un ibrido. Mi spiegò che le probabilità di sopravvivenza di un ibrido sono molto scarse, non c’era da stupirsi che fossi morto nella mia pancia. Non si preoccupò di trovare un modo per salvarti, ai suoi occhi la tua morte era una possibilità concreta, se lo aspettava. Ma voleva darmi comunque un figlio e così orchestrò lo scambio. Fino ad oggi ignoravo la tua esistenza o la tua identità. Se lo avessi capito prima… se solo fossi stato sveglio durante il parto… non ti avrei mai detto addio senza abbracciarti!”
Nell si interruppe e lo osservò trepidante, in attesa di una reazione, la fronte imperlata di sudore freddo, le guance rigate dalle lacrime e le dita occupate a tormentare l’orlo della camicia.
Reeven si accasciò lentamente sul pavimento, sfregando la schiena contro la pietra nella discesa, e giacque immobile, lo sguardo spento. Si sentiva all’improvviso svuotato di ogni emozione. L’incredulità riaffiorava a intermittenza, venendo però subito sopraffatta dalla rassegnazione e dall’impotenza. Per quanto tutta quella situazione fosse assurda, sapeva che Nell aveva detto la verità. Il suo “io” demoniaco aveva annuito a ciascuna frase, percependo la totale assenza di menzogna. Ora si trovava in un vicolo cieco, non c’era scappatoia. O affrontava la realtà o smetteva di esistere. Indietro non poteva tornare.
Nell lo aveva dato alla luce. Lo aveva voluto. Lo aveva amato mentre era al sicuro nel suo grembo. Ma non aveva potuto tenerlo. Non glielo avevano permesso. Chi lo aveva strappato dalle braccia di sua madre? Chi gli aveva sottratto l’opportunità di essere cullato, viziato e sommerso di baci?
Ysril.
Un ringhio gutturale infranse la barriera delle zanne e fece vibrare l’aria della cella. 
L’ignoranza non era una scusa sufficiente. Ysril avrebbe dovuto sapere di cosa aveva bisogno un ibrido. Avrebbe dovuto sapere di cosa aveva bisogno suo figlio. Avrebbe potuto fare delle ricerche, informarsi, scavare e trovare una soluzione! Invece non aveva neanche tentato. Lo aveva dato per spacciato prima ancora che nascesse, non si era curato di elaborare un rimedio. Forse aveva creduto la sua morte scontata persino durante il concepimento. E nonostante questo, aveva ingravidato Nell, regalandogli la speranza di un futuro roseo e felice. Se non fosse stato per l’egoismo di Ysril, per la sua stupidità, Nell avrebbe cresciuto il suo vero figlio sin dal principio, come avrebbe dovuto essere. Ma no, un altro aveva preso il suo legittimo posto! Un altro, un umano, aveva ricevuto amore là dove Reeven aveva incassato odio e percosse. L’impostore si era appropriato di un affetto che non era suo, che non gli apparteneva, un affetto che non meritava, un affetto che avrebbe dovuto essere destinato solo a lui! Questo perché Ysril aveva piazzato l’impostore tra le braccia di Nell.
Era tutta colpa di Ysril. Era colpa sua. Colpa sua!
“Reeven.”
La voce gentile di Nell creò una breccia nella sua coscienza e il flusso di pensieri negativi si fermò di colpo. Sbatté le palpebre e lo guardò confuso, registrando il suo peso sulle gambe distese e il calore delle sue dita sul viso e tra i capelli. Distrattamente notò che la statura del biondino sembrava essersi ridotta. Quando l’occhio gli cadde sulle proprie mani, fissò scioccato gli artigli. Anche il colore della pelle era cambiato, tra il grigio e il blu.
“Cosa…?” rantolò, non riconoscendo nemmeno la propria voce.
“Tranquillo, va tutto bene. Ti sei trasformato. È normale. Sei un ibrido, metà umano e metà demone, non c’è nulla di sbagliato.” lo rassicurò Nell con un sorriso timido, “Ti sei già trasformato un paio di volte nei mesi scorsi, ma non eri cosciente, il demone aveva preso il comando relegando l’umano in un angolino remoto. Sono felice che tu sia rimasto qui. Hai sviluppato il controllo, vedo.”  
Reeven si esaminò le mani e appurò che erano più grandi. Prese quella di Nell per operare un confronto e la inglobò completamente. Sollevò di nuovo lo sguardo e Nell gli fece cenno di toccarsi la testa. Eseguì con palese perplessità e quando sfiorò le corna ritrasse le dita spaventato.
“Shhh, non aver paura. Sei bellissimo.” sospirò il biondino, giocherellando con una ciocca dei suoi capelli, “Somigli così tanto a tuo padre.” mormorò con aria sognante.
Reeven si irrigidì e ringhiò.
Lui dov’è?” scandì in un sibilo minaccioso.
Nell piegò il capo e indicò un punto nel pavimento fuori dalla cella. 
Solo in quel momento Reeven si concesse di studiare l’ambiente circostante e i muscoli si contrassero per la tensione. Non si era accorto di essere in una prigione. Perché? Che posto era? E perché anche Nell era lì? Ricordava la strega, Noara. Ricordava di dover raggiungere Nell a Dun’har. E poi… il buio.
“Dove siamo?”
“A Lankara. I demoni mi hanno catturato e condotto qui. Ysril è prigioniero da molto più tempo, credo lo abbiano torturato. La Sylmaran, la prima strega, mi ha detto che anche il tuo arrivo era stato previsto. Eravamo destinati a ritrovarci qui, tutti e tre.”
“Perché?”
“Vogliono sacrificarci per risvegliare Xion, una calamità naturale che sterminerà tutti quanti.”
“Xion? Come l’Occhio di Xion?”
“Sì. Ne esistono due e sono veramente i suoi occhi. E sono anche la fonte del suo potere.”
Nell gli riassunse tutto ciò che gli aveva rivelato la Sylmaran, compresi gli inganni che la vecchia aveva compiuto per intrufolarsi nelle loro vite. Reeven rimase di sasso nell’apprendere che Suna e la direttrice dell’orfanotrofio erano la stessa persona, niente meno che la prima strega, che lo aveva sorvegliato per anni per accertarsi che seguisse il percorso che era stato già tracciato per lui.
“Quando Qolton lo verrà a sapere, gli verrà un colpo!” commentò.
“Dobbiamo trovare un modo per fuggire, e in fretta.” concluse Nell, agitato e nervoso a causa dell’impossibilità di capire quanto tempo restasse prima che venissero a prenderli.
“Anche Ysril?”
Il ragazzo si bloccò e lo scrutò confuso: “Certo. Perché?”
“È colpa sua.” ringhiò, “È solo colpa sua se io e te siamo stati separati. Dovremmo lasciarlo qui a marcire!”
Nell si abbandonò ad un gemito esasperato e afflosciò le spalle.
“Non appena ci saremo allontanati da questa follia, potrai arrabbiarti e urlargli contro quanto vorrai, ma non adesso. Abbiamo bisogno di lui. Se riuscissi a liberarlo, avremmo più probabilità di vittoria. Credimi, noi due non siamo in grado di combattere contro un’orda di demoni, men che meno la Sylmaran. Non abbiamo speranze senza Ysril. E poi è tuo padre…”
Reeven si imbronciò e incrociò le possenti braccia sul torace, voltando la testa di lato.
“Non è così male, sai? Sì, ha commesso degli errori, ma tutto quello che ha fatto, lo ha fatto per me. Mi ama profondamente, e anch’io lo amo con altrettanta intensità. Nonostante il dolore, gli inganni, la lontananza forzata, ho continuato ad amarlo. Sono sicuro che col tempo imparerai anche tu.”
“Non credo proprio.”
“Dagli una possibilità. Non sa nemmeno che esisti! Benché sia un demone, è capace di un amore immenso e devoto, non immagini quanto. Sarebbe morto per me. Ha ucciso per me. Era disposto a rinunciare al suo potere per invecchiare al mio fianco. Se glielo permetterai, ti amerà più di se stesso.”
“Non mi importa un fico secco del suo amore! Io morirei volentieri per te. Io ho ucciso per te. Potrei darti tutto quello che ti ha dato lui, e ancora di più. Cosa ci rende diversi?”
“Tu sei mio figlio, Reeven. Ysril è mio marito. Vi amo tantissimo, tutti e due, ma di un amore differente. Non chiedermi di scegliere, perché sceglierei sempre entrambi.”
Reeven piegò le labbra in una smorfia scontenta.
“Dobbiamo darci una chance. Non sarà facile, ma dobbiamo provarci. Possiamo essere una famiglia.”
“Io e te possiamo! Lui ha combinato solo casini!”
“Io e Ysril siamo i tuoi genitori. Non ti abbiamo cresciuto, purtroppo, non abbiamo potuto darti l’amore che ti spettava, ma non è troppo tardi.” gli girò il capo e lo obbligò a ricambiare il suo sguardo, “Non posso essere il tuo compagno, Reeven. Non è… non è naturale. Io sono tuo- tua- oh, al diavolo! Ti ho partorito! Capisci? Sei e sarai sempre una parte di me, metà del mio cuore è tua. L’altra è di Ysril. Pure lui dovrà abituarsi a condividermi d’ora in poi.” sbuffò sorridendo.
“Se non è naturale, spiegami perché non desidero altro che coccolarti come un amante, regalarti tutto il piacere del mondo e svegliarmi accanto a te al mattino! Non ho mai provato nulla del genere per nessuno, non mi sono mai fidato abbastanza da abbassare le difese e non ho mai conosciuto una persona che mi abbia fatto bramare qualcosa di più di una notte di sano sesso. D’accordo, ammetto che il legame che ci unisce abbia contribuito ad alimentare l’amore e il bisogno di contatto, ma il resto? Da dove viene? Ti ho amato da ben prima di sapere chi fossi, ti ho amato a dispetto del tuo carattere, della tua freddezza, dei tuoi rifiuti. E ti amo ancora. Ti amo, Nell.” gemette frustrato, attirandolo a sé in un abbraccio soffocante.
“Chiamami ‘mamma’. O ‘papà’, fa lo stesso.” ordinò pacato.
“No.”
“Fallo, Reeven.”
“No.” si impuntò, nascondendo la faccia nella camicia di Nell.
“Dillo.” reiterò, stavolta con una nota severa e categorica nella voce.
Reeven guaì, quasi gli provocasse sofferenza fisica ribellarsi a un ordine diretto del biondino. Si oppose, con tutta la forza che riuscì a racimolare, al desiderio di obbedire che ruggiva nelle sue vene e ignorò il demone che scalpitava dentro di sé gridandogli di accontentarlo.
“Non voglio…” pigolò, strusciando una guancia sulle clavicole di Nell e masticando la stoffa della camicia tra le zanne, come se avere qualcosa in bocca potesse impedirgli di cedere e tradire la propria risolutezza.
“Ti interessa di più il mio corpo o il mio cuore?”
Reeven digrignò i denti e sbatté la fronte sul petto del biondino, ormai prossimo alla resa. Nell schivò le corna e gliele accarezzò alla base, notando i muscoli di Reeven sciogliersi.
“Ricordi cosa ti ho detto? Ricordi che ho cinquantacinque anni? Tra poco cinquantasei. È l’energia di Ysril a mantenermi giovane. Senza di essa, sarei un vecchietto. Non sono un ragazzino, non lasciarti ingannare dalle apparenze. Vorresti ancora coccolarmi se il mio viso fosse pieno di rughe? Se i miei capelli fossero bianchi o addirittura assenti? Se i miei muscoli fossero flaccidi e i miei denti marci?”
Reeven rabbrividì e, suo malgrado, fu costretto a negare.
“Ma continueresti ad amarmi con tenerezza, rispetto e devozione?”
Reeven annuì.
“Ecco. Ti sei risposto da solo.”
“Neanche Ysril ti coccolerebbe se fossi un vecchio decrepito.”
Nell inarcò un sopracciglio e lo fissò dall’alto: “Io e Ysril siamo sposati da circa quarant’anni. E mi ha coccolato giorno e notte per i primi venti. Fai i tuoi conti. Ma non è questo il punto, Reeven! Coraggio, chiamami ‘papà’.”
Il ladro grugnì, contrasse i lineamenti in una sequela di smorfie che Nell non poté fare a meno di trovare buffe e adorabili e, dopo quella che parve un’eternità, lo disse. A denti stretti. Guardando da un’altra parte. Con gli artigli conficcati nei palmi.
Papà.”
“Era tanto difficile?”
“Scordati che chiami così anche Ysril. Non accadrà mai. Se proprio vuoi che gli affibbi un soprannome, sarà ‘ritardato di un demone’. E solo perché al momento non me ne vengono di più offensivi, ma dammi tempo e me li inventerò.”
Nell ridacchiò.
“E poi questo non significa che lo accetto come genitore. Accetto te, per quanto sia un colossale spre-”
Il giovane gli tirò uno scappellotto sulla nuca, gelandolo con un’occhiata ammonitrice.
“Insomma, lui è quello che ti ha ingravidato, non è mio padre. E non lo tratterò come tale. Anzi, appena questa giostra degli orrori sarà finita, lo sfiderò a duello! E il vincitore si prenderà te come prem-”
Un altro scappellotto, un po’ più forte. Reeven rimise il broncio, ma almeno tacque.
Nell si alzò e cominciò a misurare la cella con ampie falcate, ricontrollando che non ci fossero crepe nella barriera di rune sulle sbarre o fra i blocchi di pietra dei muri e nel pavimento. 
“Bene, dunque, forse ho un’idea per uscire da qui, ma dovrai aiutarmi.” esordì quando ebbe completato il giro.
“Cosa vuoi che faccia?” domandò in tono strascicato.
“Ti prego, frena il tuo entusiasmo.” borbottò levando gli occhi al cielo, “Preferisci morire qui?”
“Preferirei trascinarti su un’isola deserta, lontano dalle convenzioni sociali, e vivere il resto della mia vita con te.” mugugnò.
Nell sussultò appena, rammentando un discorso simile che gli fece Ysril anni addietro, e l’ombra di un sorriso gli arcuò le labbra. Si accostò alle carcasse di animali e frugò alla ricerca di un osso sufficientemente affilato. Trovatolo, lo sventolò davanti al viso e invitò Reeven ad avvicinarsi.
“Useremo il nostro sangue e un incantesimo che ho imparato di recente. L’incantesimo trasformerà il sangue in acido e, con un po’ di fortuna, scaveremo un tunnel nel pavimento che ci permetterà di accedere alla cella di Ysril sotto di noi. Non so quanto è grande, dovremmo fare dei tentativi, ma suppongo che se iniziamo da un’area vicino alle sbarre non ci vorrà molto.”
“Perché non l’hai ancora messo in pratica? Sei qui da ore.”
“I rischi erano troppi. Non avevo idea di quanto avrei dovuto scavare. Se la distanza fosse stata maggiore di quanto pensavo, sarei morto dissanguato prima di arrivare alla meta. Ma ora siamo in due, ciò significa più sangue a disposizione.”
“D’accordo, facciamolo. Passami quel coso.”
Il giovane gli diede l’ossicino. Reeven appoggiò la punta sulla pelle dell’avambraccio ed esercitò pressione per aprire uno squarcio, ma l’osso si spezzò senza procurargli nemmeno un graffio. Fissò smarrito Nell, che a sua volta fissò con aria assorta il braccio di Reeven.
“Usa gli artigli.”
Reeven gettò l’osso per terra e accostò un artiglio nella stessa zona, umettandosi le labbra per scacciare l’agitazione. Stavolta incise facilmente e il sangue stillò dalla ferita in un rivoletto denso. Nell mise le mani a coppa e raccolse il sangue, per poi pronunciare le parole dell’incantesimo e spalmare il fluido vitale sulla pietra.
“Funziona?” indagò Reeven.
“Shhh.”
Un attimo più tardi, la pietra sfrigolò e si dissolse, consumata dall’acido. Si formò un buco nel pavimento, non molto profondo, ma almeno dimostrò a Nell che le rune non avevano potere all’interno della cella. Potevano farcela.
“Dammene ancora. Ne occorrerà parecchio.”
Trascorsero le ore seguenti a scavare, alternando il loro sangue così che durante le pause avessero modo di riposarsi e ricaricarsi prima di ricominciare. 
Adesso erano nel tunnel che avevano creato, non abbastanza largo per entrarci entrambi uno di fianco all’altro, altrimenti ci sarebbe voluto troppo sangue, ma quel che bastava per infilarcisi uno sopra l’altro. Per motivi di mole e peso, dato che il tunnel era in verticale, Reeven stava sotto e Nell a cavalluccio sulle sue spalle, il collo del figlio tra le cosce. Le corna gli pungevano lo stomaco se non stava attento, ma fungevano da perfetto supporto per mantenere l’equilibrio. Reeven raccoglieva il sangue nella mano, Nell pronunciava l’incantesimo e di nuovo il primo macchiava la pietra ai propri piedi. Erano stanchi, ma non esausti.
“Quanto mancherà?” domandava Reeven ogni tre per due.
“Non lo so. Continuiamo.” rispondeva paziente Nell, non sentendosela di rimproverarlo.
Andarono avanti accantonando i pensieri cupi, focalizzati sul loro compito, le orecchie tese a captare i suoni all’esterno della cella sopra le loro teste pregando che i carcerieri non si accorgessero di niente. I gesti si fecero automatici, tanto che persero la nozione del tempo e dello spazio, immersi nel buio totale e nel silenzio. 
A Nell mancava l’aria, sentiva la testa leggera e percepiva l’affaticamento di Reeven dalla tensione delle sue spalle e il respiro accelerato a fare eco al proprio. Erano quasi giunti al limite.
“Nell, ci siamo! C’è… il sangue ha creato un foro. È sotto di noi. Un altro paio di tentativi e saremo fuori da questo dannato tunnel.”
“Grazie agli dei!”
Lavorarono con rinnovata grinta e in pochi minuti un rumore secco infranse la bolla ovattata che li avvolgeva, il tipico rumore di crepe che si formano nella roccia.
“Hai detto ‘sotto di noi’?” s’informò Nell.
“Ah, ehm…”
Un piccolo boato esplose intorno a loro e precipitarono giù stringendosi l’un l’altro in mancanza di appigli. 
L’impatto col suolo fece male, specialmente a Reeven, che era caduto di schiena con Nell sopra. Detriti e polvere vorticarono ovunque ed entrambi tossirono disperatamente in cerca di ossigeno. 
Una volta che la nuvola si fu diradata, osservarono il nuovo ambiente. Nell non vedeva nulla, ma Reeven sì, grazie ai suoi occhi, che ora brillavano di rosso nell’oscurità. 
“Siamo in una stanza circolare.” descrisse il ladro, incamerando quanti più dettagli possibili, “Ci sono delle… delle croci di legno e pietra incollate al pavimento. Ne conto almeno sei. Dalle estremità penzolano delle manette di ferro. Sul soffitto sono state fissate delle catene. C’è odore di sangue. Sangue non umano, ma neanche animale. Sento il battito di un cuore. È lento.”
“Dove?”
“Seguimi.”
Si issarono in piedi, verificando di non avere niente di rotto. Poi Reeven afferrò la mano di Nell e gli fece strada nelle tenebre, guidandolo verso la fonte del battito. Non gli sembrava familiare come quello di Nell, ma una minuscola parte del suo essere si allacciò al suono come un bambino alla sottana della madre. L’incastro che ne risultò era perfetto e Reeven percepì un pezzo importante tornare al suo legittimo posto. La sensazione lo turbò.
Un cono di luce illuminò d’un tratto il centro della stanza, dove era stata piazzata una croce più grande delle altre, proprio al di sotto di una grata. Un demone era legato a polsi e caviglie con le manette di ferro, che rilucevano in maniera sinistra. Il reticolo di vene su braccia e gambe spiccava in mezzo all’incarnato bluastro, cadaverico, in particolare in prossimità delle manette, come se stessero succhiando il suo sangue o gli stessero iniettando un veleno, Reeven non lo sapeva. Le sue palpebre erano legate insieme da un filo e dal torace spuntavano quattro bastoni ricoperti di strani simboli, gli stessi, pensò Reeven, che aveva visto incisi sulle sbarre della cella.
Avanzò, rapito dalla scena, ma venne tirato indietro da Nell, che si era fermato ai margini del cono di luce. Le sue guance pallide mostravano ancora i segni delle lacrime versate e nei suoi occhi iniettati di sangue albergavano emozioni a cui Reeven non riusciva a dare un nome. Il suo sguardo era fisso innanzi a sé, posato sul prigioniero. Non vacillò quando compì il primo passo, né il secondo e il terzo, fino ad arrestarsi di fronte al demone senza dire una singola parola.
Il supporto sotto le zampe della creatura era rialzato di un paio di spanne. Questo, in aggiunta alla considerevole altezza del demone, faceva apparire Nell un nano gracilino. 
E così quello era Ysril. “Tuo padre”, gli suggerì una vocina nella testa.
“Che gli è successo?”
“La Sylmaran lo ha addormentato.”
Reeven si avvicinò circospetto e studiò ogni centimetro del demone con malcelato fascino e curiosità. Osservò le labbra nere, dalle quali si intravedevano le zanne bianche; le occhiaie violacee sotto gli occhi allungati come quelli di un felino, che gli conferivano un aspetto malato; gli artigli neri in cima alle dita, più affilati e sottili dei suoi; la coda che pendeva immobile tra le gambe muscolose, grosse come tronchi d’albero, adagiandosi sul supporto in una morbida spirale; il torace ampio e solido come pietra; i fianchi forti fasciati da un gonnellino nero, tenuto su da una cintura di metallo finemente lavorata; i capelli lunghi e folti, simili agli aculei di un porcospino, erano color avorio e due magnifiche corna sanguigne gli incoronavano la testa; altri piccoli corni sbucavano dai gomiti, dagli avambracci e dalle spalle.
Reeven convenne che Ysril fosse un magnifico esemplare, provvisto di un bellezza terribile, spaventosa, schiacciante. La sua mole era il doppio di quella dell’ibrido, già di per sé notevole, e i muscoli gonfi che gli ricoprivano il corpo davano l’impressione di una forza prorompente a stento trattenuta.
“Reeven, recidi i fili che gli sigillano gli occhi.” bisbigliò Nell, la voce grondante di sollievo, adorazione e urgenza.
Reeven deglutì, indeciso. Alla fine espirò rilassando le spalle e, con l’ausilio di un artiglio, eseguì celermente la richiesta di Nell, che rimosse con attenzione i pezzi dei fili, gettandoli a terra alla rinfusa. Le ferite sulle palpebre si rimarginarono nell’arco di pochi secondi, senza lasciare traccia.
“Aiutami a estrarre anche questi bastoni.”
Il ladro si accinse a impugnare il primo. Appena lo sfiorò con le dita, si scansò bruscamente e sibilò di dolore, tenendosi la mano premuta contro il petto.
“Non riesco a toccarli.”
Nell aggrottò le sopracciglia e afferrò un bastone. Non accadde niente. Non avvertì nemmeno una scossa. Così strinse i denti, raccolse le energie, fece leva con un piede sul supporto rialzato e tirò. Occorsero vari tentativi e, quando Reeven abbracciò la vita di Nell da dietro e aggiunse la sua forza, il bastone venne via con un movimento fluido. Ripeterono l’azione altre tre volte e osservarono con un sorriso i fori nel torso di Ysril richiudersi. Ora mancavano soltanto le manette.
Prima che Nell potesse accovacciarsi per esaminarle, la gamba sinistra di Ysril ebbe uno spasmo. Il ragazzo si paralizzò e scrutò col cuore a mille la figura del marito, aspettando di vederlo svegliarsi. In quel caso, cosa gli avrebbe detto? Come lo avrebbe guardato? Eccitazione e timore guerreggiavano in lui come fiere. 
E finalmente, proprio quando Nell stava per perdere le speranze, il demone aprì gli occhi.
Due biglie rosso rubino incastonate in una sclera nera come l’inchiostro si piantarono sulla figura di Nell, facendolo rimescolare da capo a piedi. Dapprima rimasero immobili, quasi non riuscissero a mettere a fuoco i contorni della realtà, ma pian piano riacquistarono la luce e un guizzo di consapevolezza brillò in fondo a quelle iridi scarlatte
“Nell?”
Reeven restò in silenzio ai margini della scena, senza osare interrompere il momento e l’atmosfera satura di tensione che avvolgeva i due al centro del cono di luce.
Nell curvò le labbra in un sorriso tremante, tirò su col naso cercando di mantenere il contegno e, con voce flebile e commossa, esalò un timido “ciao”. E in quell’istante qualcosa si sciolse nello sguardo del demone.
Ysril si abbeverò alla vista del suo sposo come un assetato a una sorgente di acqua pura. Guardò incantato i capelli biondi, lisci e serici, più lunghi di quanto ricordava e un po’ più sporchi, come se si fosse rotolato nella polvere, e immaginò di passarci in mezzo le dita, stringerli e strofinarseli sulla faccia. Poi si soffermò sulla pelle candida del collo, priva di segni e cicatrici, e percepì le viscere contrarsi nel desiderio spasmodico di imprimere i suoi marchi su di essa, morsi, succhiotti, graffi, qualsiasi cosa che comunicasse al mondo intero l’appartenenza di quel ragazzo a lui e soltanto a lui. Delineò con occhi avidi le forme di quel corpo tanto amato e riscoprì l’antica venerazione che per vent’anni lo aveva spinto a inginocchiarsi di fronte a Nell, devoto e schiavo della sua bellezza. Appariva cresciuto, un giovane uomo appena uscito dalla fase adolescenziale, un nuovo vigore a gonfiargli i muscoli sottili delle braccia e delle gambe, ma sempre splendido, da strappare il fiato. E il suo odore, dei, il suo odore. Non esisteva niente di più sublime e perfetto, una fragranza unica che sin dal principio lo aveva irretito e attratto come una falena verso la fiamma di una candela. 
Quanto gli era mancato… non sapeva come aveva fatto a sopravvivere tutto quel tempo senza respirarlo. Non c’era da stupirsi che avesse ceduto alla follia e si fosse rifugiato in se stesso, nonostante ora sentisse la razionalità riemergere dall’anfratto in cui l’aveva scacciata per non soffrire. Il suo adorato Nell era lì, davanti a lui, non poteva essere un’allucinazione come le altre. Se lo fosse stata, era sicuro che si sarebbe arreso alla disperazione, troppo dolore da sopportare.
Ad un tratto, notò le occhiaie, il pallore dell’incarnato e la magrezza del suo klheis. Nei suoi occhi albergava una stanchezza che non era tanto fisica, quanto spirituale, come se la vita lo avesse messo a dura prova senza alcuna clemenza, costringendolo a piegarsi. Non si era ancora spezzato, una luce determinata ardeva in fondo a quei pozzi di cielo, ma tale luce minacciava di venire inghiottita dall’oscurità che l’assediava, in un modo che fece accapponare la pelle di Ysril.
Si protese di scatto verso Nell, la voglia di rinchiuderlo nel suo abbraccio per offrirgli conforto così impellente da ridurlo in agonia, ma le manette opposero resistenza e bloccarono il movimento. Strattonò le catene ringhiando e si dimenò, finché Nell non gli pose una mano sul torace.
“Ora ti libero.”
Si accovacciò per studiare le manette che intrappolavano le caviglie di Ysril, le tastò e disegnò le rune con i polpastrelli, il viso contratto in un’espressione concentrata. Se solo avesse avuto la sua borsa con sé, avrebbe potuto usare il coltello per scassinare i lucchetti.
Mentre il giovane era intento nel suo compito, Ysril fece vagare lo sguardo per la cella, fino a soffermarsi sulla seconda presenza a pochi passi da lui. Corrugò la fronte, inspirò e le sue narici fremettero quando captò l’odore del sangue di Nell sugli artigli di quello che dedusse essere un ibrido. Un ringhio cupo rotolò fuori dalle sue labbra e gli occhi rifulsero minacciosi, incenerendo Reeven sul posto.
“Oh, lui è Reeven, nostro figlio. Reeven, ti presento Ysril, tuo padre.” snocciolò serafico Nell, continuando a rigirarsi tra le mani le manette, testando la resistenza delle catene.
Ad Ysril andò di traverso la saliva e tossì tentando di non strozzarsi. La sua faccia era una maschera di incredulità e orrore. Reeven, invece, avendo avuto più tempo per familiarizzare con l’idea, reagì arricciando un angolo della bocca in una smorfia e alzando la mano in un saluto impacciato.
“Come va?” buttò lì fingendo disinvoltura.
“Mi sono perso un passaggio.” borbottò Ysril dopo vari secondi di totale sconcerto.
“Ringrazia Djibres. Non seppellì nostro figlio come gli avevi ordinato, ma lo mise nella culla dalla quale aveva preso Selis. Appena la madre di Selis se l’è stretto al petto, il cuore di Reeven ha iniziato a battere. Se ci avessi pensato tu, se avessi posato nostro figlio sul mio petto prima di farlo sparire, avremmo potuto tenercelo.” spiegò Nell, scoccandogli un’occhiata carica di rimprovero.
Il demone lo fissò scioccato e boccheggiante, osservando il marito e l’ibrido muovendo la testa da uno all’altro una decina di volte, prima di pietrificarsi e guardare con aria vacua il muro.
“Oh.” fu tutto ciò che disse non appena si riebbe dallo stupore.
Dopodiché, la sua attenzione venne calamitata interamente da Reeven e incamerò ogni dettaglio con ingordigia. L’istinto gli confermò che condivideva il sangue con lui, la vibrazione che percepiva sottopelle non lasciava spazio a dubbi. Il proprio nucleo pulsava in sincrono con quello dell’ibrido, chiaro indizio di parentela, come era risaputo tra i demoni.
“Oh.” ripeté meravigliato, per poi tornare a scrutare gli artigli del figlio come se lo avessero personalmente offeso, “Perché sei sporco del sangue di tua madre?”
“Padre.” lo corressero in coro Nell e Reeven, il primo in tono annoiato, il secondo scocciato.
Ysril rimase interdetto, quindi scosse il capo: “No, un attimo, dobbiamo stabilire subito delle regole. Se io sono il padre, Nell è la madre. Se tutti e due siamo ‘padre’ si crea solo confusione.”
“Io posso essere ‘papà’ e tu puoi essere ‘padre’.” offrì Nell, strattonando la catena e grugnendo frustrato.
“Tch.” Reeven schioccò la lingua, pronunciando sottovoce qualcosa tipo “demone ritardato”, ma Ysril scelse di ignorarlo.
“Mh. Perché sei sporco del sangue del tuo papà? Dei, quanto suona strano…”
Nell sbuffò esasperato: “Facciamo che mi chiamate col mio nome e festa finita?”
“Meglio.” concordò Ysril e si rivolse di nuovo a Reeven, “Perché sei sporco-”
“Ho capito! Non sono sordo!”
“E allora rispondi.”
“Abbiamo dovuto usare il nostro sangue per un incantesimo.” masticò riluttante.
“Che incantesimo?” indagò Ysril, assottigliando sospettoso le palpebre.
“Maledizione, non riesco a romperle!” ringhiò Nell brandendo con furia le catene, “Reeven, vieni qui. Ripetiamo i gesti di prima, quando abbiamo estratto i bastoni. Afferrami per i fianchi e tira dalla parte opposta alla croce.”
Reeven si portò immediatamente in posizione e insieme a Nell tirò, ma le catene non cedettero.
“Mmm… proviamo con l’incantesimo.” mormorò il giovane, inginocchiandosi sul pavimento e spremendo la ferita sul polso per far sgorgare altro sangue.
Ad Ysril non piacque quella vista e fece per ribellarsi, ma ammutolì quando udì Nell articolare parole arcane e versare il sangue sul ferro, che sfrigolò. Tuttavia non si sciolse, anche se ne uscì lievemente deformato.
“Uffa. Ho terminato le idee. Proposte?” domandò guardando prima il marito e poi Reeven e sbuffò quando entrambi scrollarono le spalle.
“Aspetta un secondo! Cos’era quello? Da quando sei capace di usare la magia?” esclamò Ysril, squadrando il suo klheis sbigottito, come se gli fosse cresciuta una seconda testa.
“A quanto pare sono uno stregone.”
Uno stregone? No, non poteva essere, se ne sarebbe accorto. Si interruppe a metà di un respiro quando realizzò che sì, era plausibile, se non altro perché altrimenti Reeven sarebbe morto. La percentuale di ibridi che sopravvivevano alla nascita era bassa, ma quelli che ci riuscivano venivano tutti dal ventre delle streghe. Inoltre, a conti fatti, i demoni erano attratti soltanto da queste ultime, mentre i normali umani non erano che banali insetti. La propria attrazione per Nell avrebbe già dovuto costituire un indizio, ma lui non l’aveva colto. Stupidamente.
Nell è uno stregone. Oh, dei. Significa che gli ho fornito la mia energia durante il sesso… tanto sesso…
“Ma… ma come-”
“Storia lunga, te la racconterò più tardi. Adesso dobbiamo unire i cervelli ed elaborare un piano per liberarti.”
Ysril scrollò le spalle e si ancorò al presente, c’erano altre priorità al momento.
“Queste catene sono state forgiate per imprigionare un demone. È magia di alto livello.”
“Conosci un incantesimo che potrebbe esserci utile?”
“No.”
“Quindi aspettiamo che ci vengano a prendere per sacrificarci tutti?” sbottò Reeven.
“Sì!”
Nell e Reeven fissarono Ysril con gli occhi fuori dalle orbite.
“Sei impazzito?” ribatté il biondino, stringendo i pugni lungo i fianchi, “Ti prego, dimmi che non sei impazzito…”
“Mi farò venire a prendere e, appena apriranno le manette per condurmi al vulcano, ne approfitterò per ucciderli. Voi rimarrete nascosti fino al mio segnale.” illustrò pacato il demone.
“Mi sembra un piano stupido.” sibilò Reveen, incrociando le braccia sul petto, “Si accorgeranno che io e Nell non siamo nella cella e vedranno il tunnel che abbiamo scavato. A quel punto faranno due più due.”
“Allora illuminaci con la tua acuta intelligenza, figlio.” lo rimbeccò sarcastico.
“Voi siete più esperti di me nell’arte magica, pensate a un incantesimo in grado di spezzare dei sigilli.”
Nell rifletté e tentò: “Ysril, puoi assumere sembianze umane? Così le tue ossa si rimpicciolirebbero e riusciresti a sfilare polsi e caviglie dalle manette.”
“No, Nell.” sorrise debolmente, “I demoni non sono in grado di mutare il proprio aspetto con la sola forza di volontà, come le streghe. Avrei bisogno di una pozione specifica. La saprei preparare ad occhi chiusi, ma ci mancano gli ingredienti.”
Rimuginarono ancora un po’ e alla fine fu il turno di Ysril di avanzare un’idea.
“Ce l’ho.”
“Fantastico. Dicci cosa dobbiamo fare.” lo esortò il marito.
“Serve il sangue di una strega.” cominciò ad elencare con eccitata urgenza.
“Ne abbiamo in abbondanza. Poi?”
“Del ferro fuso.”
“Il ferro c’è e possiamo accendere un fuoco con il legno delle croci. Ci vorrà un po’ per fonderlo, però.”
“E una radice di mandragora.” concluse Ysril in tono piatto, le palpebre a mezz’asta.
Il silenzio che calò sul trio valse più di mille parole.
“Stai scherzando?!” sputò Reeven mostrando le zanne, “Dove diavolo la troviamo una radice di mandragora? E cos’è una mandragora?”
“Beh, almeno ci ho provato!” sibilò Ysril.
“Piantatela di beccarvi, siamo tutti sulla stessa barca.” li sedò Nell.
“Ha cominciato lui!” si accusarono in coro, per poi guardarsi in cagnesco.
Nell nascose un sorriso divertito dietro una mano e deviò l’attenzione verso la grata sul soffitto, calcolando la distanza e la posizione, mentre accanto a lui l’alterco si ravvivò un’altra volta.
“Hai fegato. Chi ti ha insegnato il rispetto? Sono tuo padre, non accetto che mi si parli così.” lo ammonì Ysril, inchiodandolo con un’occhiata severa.
Reeven sbuffò seccato e avanzò di un passo, per nulla intimorito: “Uno, la strada mi ha insegnato tutto ciò che so. Due, ti tratto come voglio, dato che non ci sei mai stato per me e non ti conosco. Tre, non ti devo nulla, figuriamoci il rispetto. Quello dovrai guadagnartelo.”
Il demone aprì e chiuse la bocca varie volte, totalmente spiazzato. In mancanza di una ritorsione arguta, innervosito per essere stato messo all’angolo, decise di apostrofare Nell. 
“Cosa gli hai insegnato?”
“Proprio un emerito niente. L’ho incontrato alcuni mesi fa a Ferenthyr, faceva parte di una banda di ladri. Abbiamo viaggiato insieme per qualche settimana e non ho mai sospettato che fosse nostro figlio. Ho capito che era un ibrido e lui mi ha detto di essere un orfano, ma non avrei mai immaginato che fosse carne della mia carne, grazie a qualcuno che mi aveva detto di averlo seppellito.” sibilò scandendo le sillabe, l’accusa palese, “La sua vera identità mi è stata rivelata dalla ze’hik quando è venuta a farmi visita nella cella, poco dopo averti lanciato l’incantesimo. E di certo non ho la pretesa di insegnargli l’educazione, visto e considerato che nemmeno io ci sono stato per lui e non lo conosco come vorrei. Quando usciremo di qui ci sarà tempo per recuperare, ma fino ad allora vediamo di andare d’accordo e non intralciarci a vicenda, se non vogliamo morire male. Intesi?”
Ysril e Reeven grugnirono il loro assenso e scelsero di ignorarsi, pur scoccandosi sguardi intensi e curiosi a vicenda quando erano sicuri che l’altro non stesse prestando attenzione.
Nell ispezionò la stanza in cerca di crepe o spiragli, come aveva fatto nella sua cella. Compì un giro completo e, una volta riapparso al punto di partenza, diede le spalle agli altri due e poggiò le mani sulle ginocchia, avvertendo la spossatezza guadagnare terreno.
Ysril neanche tentò di mascherare il vivo interesse quando l’occhio gli cadde sul posteriore di Nell. Si leccò le labbra affamato, calde reminescenze di incontri passionali che riaffioravano dalla memoria, riportandolo a Rocca Smeralda, nella camera padronale, sul grande letto a baldacchino teatro di inebrianti e infiniti amplessi. Sulla sua bocca si dipinse un sorriso ebete.
Reeven colse subito i pensieri del demone, poiché, malgrado la buona volontà che stata impiegando per accontentare Nell, molti di essi li condivideva. In un moto istintivo di gelosia provvide a coprire il biondino con la propria stazza, sfidando il padre con un ghigno sardonico che diceva “Lui è mio, tu sei legato e non puoi fare niente, vieni a prendertelo se ne hai il coraggio”.
Ysril, dopo un momento di sconcerto, perplessità e sorpresa, vide rosso. Se non avesse avuto le mani legate, letteralmente, se ne sarebbe schiaffato una sulla faccia. Si diede dello stupido per non averlo intuito prima, i segnali c’erano tutti, a partire dall’ostilità e dalla postura sulla difensiva del figlio. Durante la pubertà gli ibridi provavano astio e rivalità nei confronti dei padri e attrazione verso le loro madri, era un meccanismo che si sviluppava pian piano per permettere loro di formarsi un’identità e faceva parte della naturale crescita fino al raggiungimento dell’età adulta, in cui rescindevano con un taglio netto il legame familiare. Allora abbandonavano il nido, e non necessariamente per cercare una compagna; era un’esigenza normale che si presentava non appena acquisivano il definitivo equilibrio psicofisico e un maggiore controllo su loro stessi. Ora, se non andava errato, Reeven doveva aver passato i trenta - trentacinque? Trentasei? -, che per un ibrido significava esattamente piena adolescenza. Si sarebbero scontrati più e più volte per Nell nell’arco dei prossimi anni, almeno finché Reeven non fosse diventato adulto. 
Represse un gemito esasperato e si arrovellò per escogitare un modo per riferirlo a Nell senza mandarlo in crisi.
Quando captò un movimento fulmineo a soli tre passi di distanza, snudò le zanne, contrasse gli artigli e sollevò la coda, facendola mulinare nell’aria come una frusta in un chiaro avvertimento. Reeven arrestò lo slancio e si accucciò, gli occhi rossi che brillavano nella penombra come i suoi gemelli.
“Che state facendo?! Basta!” sbraitò Nell spazientito, ne aveva fin sopra i capelli del loro atteggiamento infantile, “Volete aiutarmi o ve ne restate lì impalati a gingillarvi? Non so quanto tempo ci rimane prima che-”
Uno sferragliare lontano zittì qualsiasi cosa stesse per dire e gli gelò il sangue peggio di una secchiata d’acqua fredda. 








 

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Capitolo 12
*** Risveglio ***








 

In un attimo furono su di loro. Tre demoni attraversarono le sbarre tranquillamente e atterrarono con grazia sul pavimento della cella, ghigni derisori a curvar loro le labbra. Reeven agì d’istinto e si frappose subito tra i nuovi arrivati e Nell, i sensi all’erta e la salivazione a mille per la sete di sangue che gli stava ottenebrando il cervello.
Nell, benché teso per essere stato colto alla sprovvista, non badò al gesto del figlio e si sporse di lato per vedere meglio. Si meravigliò nel constatare il loro aspetto umanoide, simile a quello di Reeven. Dopodiché, gli occorse un istante per comprendere che erano ibridi. Uno aveva la pelle grigio scuro, i capelli bianchi e all’apparenza morbidi tagliati corti, due piccole corna nere sulla testa, zanne affilate, occhi rossi e lunghe dita complete di artigli. Un altro sembrava un ragazzino, i capelli biondi corti, un solo corno ricurvo in mezzo alla testa, la pelle lattea, gli occhi rossi e le zanne. Al contrario dei due compagni, aveva una coda da rettile, due zampe al posto delle gambe e gli avambracci e le mani ricoperti di squame dure e cangianti. Il terzo era più alto, non aveva coda né corna, i capelli erano neri come la notte, lunghi e serici, adagiati sulle spalle ampie, e aveva tre cicatrici parallele sulla guancia sinistra. Le labbra e le zanne erano nere, l’incarnato cadaverico e sei occhi dalla forma allungata, rossi come il sangue, erano incastonati nella fronte. Tutti e tre indossavano un gonnellino semplice, tenuto su da una cintura o una catenella, e sulla schiena, legate in foderi di cuoio, portavano ognuno un’arma differente: il primo uno spadone a due mani, il secondo due martelli e il terzo una lancia. 
Nell notò poi che quello che pareva un ragazzino aveva anche una frusta appesa alla cintura, con delle rune magiche incise sopra.
“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui.” cantilenò l’ibrido con la pelle scura, le mani sui fianchi e una finta aria di rimprovero, “Volevate scappare, eh? Peccato che sia impossibile.”
“Ysril, ti vedo in forma.” commentò quello biondo con palese scherno.
Ysril ringhiò e si dimenò, ma le catene resistettero.
“Non c’è motivo di scaldarsi, siamo venuti a portarvi via.”
“In che senso?” indagò Nell.
“La cerimonia non si svolgerà qui, ovviamente.” rispose il primo ibrido, fissandolo come se dubitasse della sua sanità mentale, ma poi si distrasse, “Oh, Reeven, fratello, che piacere conoscerti!”
“Il piacere è tutto tuo.” borbottò funereo Reeven, sospingendo Nell verso il muro.
“Ah, che maleducati, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Destar, il biondo è Murne e quello taciturno è Ogher. Saremo le vostre guardie del corpo fino alla cerimonia, ci è stato ordinato di prepararvi.”
“Ciao, Nell!” salutò Murne con un sorriso allegro, sventolando una mano squamosa.
“Ehm… ciao.” ricambiò l’interpellato, vagamente spaesato.
“Ora vi liberiamo e vi portiamo su. Non tentate di ribellarvi, non tentate di fuggire. Insomma, comportatevi bene.” disse Destar, stavolta in tono serio.
“Perché hanno mandato voi e non dei veri demoni?” domandò curioso Nell, affacciandosi di più da dietro Reeven, che si era impuntato a fargli da scudo.
“Perché gli ibridi, come è risaputo, sono tre volte più forti.” intervenne Ogher, parlando per la prima volta, la bocca contorta in un ghigno inquietante.
La sua voce era baritonale ma melodiosa, del tutto inaspettata, tanto che Nell rabbrividì di piacere.
“Inoltre, siamo stati addestrati a resistere ai più potenti incantesimi, quindi la tua magia, Nell, non ti sarà di alcun aiuto.” proseguì Destar, “Non che ci sia bisogno di chissà quale tipo di resistenza, pensandoci. Senza offesa. Sarai anche il più forte stregone mai esistito, ma devi ancora uscire dal bozzolo. Ne hai di strada da fare prima di sperare di poterci sottomettere.”
Ysril ringhiò minaccioso e tirò le catene gonfiando i muscoli.
“Ysril, a cuccia, su. Non fare il cattivo.” chiocciò Murne in un broncio che, su un ragazzino normale, sarebbe apparso adorabile, “Non temere, tu e la tua famiglia verrete trattati bene. Adesso, promettete di non compiere azioni stupide che potrebbero condurre alla vostra morte prematura?”
Reeven sbuffò una risata e roteò gli occhi: “Certo, nei tuoi so-”
Nell gli affibbiò una gomitata nelle costole, scivolò davanti a lui e squadrò i tre ibridi con quella che sperava fosse una postura decisa.
“Verremo, a patto che giuriate di non torcerci un capello.”
“Giurin giurello! Croce sul cuore.” 
Klheis.” sibilò Ysril.
“Non abbiamo alternative.” lo blandì il marito.
“Giusta osservazione.” considerò Destar grattandosi il mento.
Murne si mosse in fretta, troppo in fretta perché potessero accorgersene. Nell si ritrovò con la frusta avvolta intorno al collo come un collare, stretto e fastidioso. Le rune brillarono e la frusta si serrò ancora di più in risposta al vano tentativo del ragazzo di liberarsi. Reeven aprì la bocca per ruggire, ma la frusta, in qualche modo, si allungò e serpeggiò nell’aria animata di vita propria, strisciando sulle sue spalle per riprodurre la restrizione sul collo di Nell. 
Prima che se ne rendessero conto, entrambi si scoprirono in ginocchio sulla nuda pietra, boccheggianti, il respiro strozzato e le labbra schiuse per incamerare disperatamente ossigeno.
Le pareti della cella tremarono quando Ysril ruggì tutta la sua rabbia.
“Avevate promesso che non gli avreste torto un capello!”
“Siamo demoni, la menzogna fa parte della nostra natura. Non puoi biasimarci.” lo rimbeccò Murne, divertendosi a brandire la frusta dall’altra estremità per torturare i due prigionieri, che annasparono e gemettero a causa della pressione sulla gola.
“Lasciali! Ora! O te ne pentirai.”
Gli ibridi si irrigidirono e una scossa elettrica attraversò le loro ossa. Tuttavia, non si piegarono. 
Murne sbuffò e allentò la stretta sul collo di Nell e Reeven, permettendo loro di tornare a respirare in maniera normale.
“Calmati, Ysril. Ci servite vivi. Questo non è che un gioco, non vi faremmo davvero del male. È la verità. Se ti può rassicurare, la regina ci ha ordinato esplicitamente di non ferirvi, mutilarvi o uccidervi, quindi siete sotto una campana di vetro.” sorrise Destar, cercando di apparire incoraggiante.
Nell tossì con veemenza, il corpo scosso da singhiozzi e singulti. Reeven gli cinse protettivo il busto e se lo mise a sedere sulle ginocchia, avviluppandolo in una bolla di calore mentre dava le spalle agli ibridi per fungere di nuovo da scudo. Nell si aggrappò a lui come se fosse la sua ancora di salvezza e provò a rilassarsi, cosa per niente semplice perché la frusta era ancora avvolta attorno al collo, minacciando di strangolarlo da un momento all’altro.
“Che dolci. Su, in piedi.” 
Murne diede uno strattone, le rune si accesero e Reeven e Nell vennero obbligati ad alzarsi. 
Ogher si avvicinò a Ysril, ruppe le serrature delle catene e in un secondo lui e Destar placcarono il demone per impedirgli di scappare. Ysril lottò feroce, ma era stanco e debole e gli ibridi ebbero la meglio dopo nemmeno un minuto. La frusta di Murne mulinò e scattò a serrarsi pure sulla sua gola, spedendogli fitte di agonia in tutto il corpo. Venne fatto alzare e condotto davanti a Nell e Reeven, in fila indiana, e nessuno parlò più. Il tempo delle chiacchiere era finito.
Destar e Ogher saltarono agili fuori dalla cella oltrepassando la grata, e una volta fuori la aprirono. Murne compì un balzo e nello slancio tirò i prigionieri con sé tramite la frusta, che si avvolse più stretta logorando la loro pelle. Planarono sul pavimento alla base della voragine e persero l’equilibrio cadendo uno sopra l’altro. I loro carcerieri non esitarono a sospingerli di nuovo in piedi e trascinarli verso il muro, dove dal nulla apparve un tunnel immerso nell’oscurità.
Camminarono in silenzio per quelle che parvero ore e alla fine sbucarono in un’altra stanza circolare illuminata da torce e candele. Al centro c’erano tre piccoli bauli. 
Nell, Ysril e Reeven vennero scortati ognuno di fronte a un baule e gli ibridi si accinsero a spogliarli dei loro abiti, lasciandoli nudi. Si chinarono per aprire i bauli ed estrassero una tunica ciascuno, bianca, con rune diverse disegnate sopra con quello che sembrava sangue, a giudicare dall’odore. 
Nell storse il naso, ma rimase fermo, il cervello bloccato su terribili reminescenze date dalla sensazione di asfissia provocata dalla frusta, assicurata alle sue carni martoriate come un anello d’accaio. Non sentiva nemmeno il freddo, non provava vergogna per la propria nudità e l’angoscia per ciò che stava per accadere non era che un pungolo sordo in fondo alla coscienza. La sola cosa a cui riusciva a pensare era l’ossigeno, prezioso ossigeno che gli riempiva i polmoni. 
Vennero rivestiti con attenzione, gli ibridi attenti a non creare contatto diretto se non quando necessario. Non appena finirono di indossare le tuniche, la loro pelle iniziò a bruciare. Nell emise un rantolo e si piegò in due, le ginocchia cedettero e gli occhi si inumidirono. Similmente reagirono Ysril e Reeven, ma invece di gemere ringhiarono frustrati e schioccarono le zanne, le iridi ardenti e piene di rabbia. La stoffa della tunica si consumò per qualche strano effetto magico e le rune marchiarono l’epidermide in modo indelebile, appiccando un incendio nei loro organi che azzerò la loro forza combattiva.
Da quel momento in poi fu come assistere da lontano, consapevoli di quanto accadeva ma incapaci di partecipare. Era come trovarsi intrappolati in uno stato di dormiveglia forzato. 
Ormai sottomessi alla magia delle rune, gli ibridi si rilassarono e si mossero in maniera quasi più gentile, affaccendandosi attorno a loro con solerzia e aria tranquilla. A Nell fecero indossare una collana di ossidiana, a Ysril infilarono due bracciali di diaspro rosso e a Reeven misero una corona di quarzi sulla testa, incastrandola fra le corna così che non cadesse.
A quel punto un canto risuonò nell’aria e, come burattini, i prigionieri si alzarono seguendo il richiamo, mentre una foschia calava sui loro occhi precipitandoli nel buio. Il canto continuò, si levò alto e subito dopo si abbassò in un mero sussurro, creando una melodia ipnotica e assuefante. Via via che si avvicinavano alla meta, crebbe d’intensità e quando uscirono all’aperto, le loro membra vennero sferzate da violente raffiche di vento caldo. Allora il mondo si annullò del tutto e piombarono in un sonno profondo. 

Nell riemerse dall’oblio a singhiozzi, come se non fosse sicuro di volerlo davvero. Alla fine, però, qualcosa decise per lui e i suoi occhi riacquisirono una scintilla di vita, solo per sgranarsi e fissare con orrore il paesaggio circostante. 
Dapprima mise a fuoco il cielo plumbeo, poi registrò le cime frastagliate delle montagne e infine la sua attenzione si rivolse sui dettagli più vicini. Impallidì e si pietrificò, il battito del cuore nelle orecchie e un ronzio costante nella testa.
Lui, Ysril e Reeven erano nudi, legati a dei pali, il legno a contatto con la schiena, su una piattaforma triangolare che aggettava sulla bocca di un vulcano, sospesa nel vuoto. Il calore era quasi insopportabile, vampate ustionanti che gli scaldavano l’epidermide in un modo tutt’altro che piacevole, e la lava scorreva sotto di loro in un lago di fuoco. Lo stomaco annodato dalla paura, si divincolò dando fondo ad ogni stilla di energia, ma le corde erano state legate bene e non cedettero di un millimetro. Occhieggiò in direzione di Ysril e lo vide privo di sensi alla sua destra, mentre Reeven grugniva e mugugnava alla sua sinistra, in procinto di svegliarsi.
Guardò le rune impresse sul proprio stomaco, simboli sconosciuti che per ora non davano fastidio, tranne che per un leggero prurito dato dalla pelle infiammata. Anche Reeven e Ysril le avevano, seppur diverse.
In quel preciso istante, quando ormai stava per abbandonarsi al panico, due figure scivolarono sulla piattaforma da una passerella. Una era familiare, l’altra no.
La Sylmaran e la regina dei demoni li raggiunsero sfoggiando ghigni gemelli e si fermarono al centro del triangolo, squadrandoli con vivo interesse.
“Cosa ne pensi, Kunaar?” domandò divertita la vecchia strega.
“Mmm. Perfetti.” sibilò tra le zanne con voce suadente, leccandosi le labbra carnose con la lingua biforcuta.
La Sylmaran sbirciò con la coda dell’occhio il profilo della regina, i tratti umani del viso, il seno prosperoso, nudo e pieno, il ventre vagamente rotondo, morbido e fertile, le cosce forti, fino alle zampe di drago che partivano da sopra le ginocchia, con lunghi artigli neri e affilati come quelli delle mani. Poi risalì sui fianchi larghi, cinti da una veste composta dalle ossa dei suoi nemici e dai capelli donati dagli ibridi nel corso dei millenni in segno di fedeltà, e più su, sulla gola adornata da una collana d’oro avvolta più volte su se stessa e sulla catenella intrecciata nelle lunghe e grosse corna che svettavano sopra la sua testa, spesse alla base e sottili in cima, costellate da decine di spine che rilucevano dei colori dell’arcobaleno. Gli occhi erano completamente neri e non aveva sopracciglia, ma la bellezza del suo volto era da togliere il fiato.
Abbracciò con lo sguardo il panorama e si rammaricò che le sue figlie non fossero presenti per il grande evento. Nemmeno Noara avrebbe potuto esserci, la Sylmaran l’aveva messa a dormire per permetterle di ricaricare le energie. La giovane strega aveva opposto resistenza, blaterando qualcosa su una vendetta contro Ysril, che l’aveva ingannata e ferita, ma la più anziana l’aveva calmata e sedata, ripetendole che era per il suo bene.
Raddrizzò la schiena, scrocchiò le spalle e trasse un respiro profondo, agganciando la magia alla terra e al vulcano.
“Siamo pronti.” disse sbattendo il bastone sulla pietra cosparsa di rune e il suono secco si propagò dappertutto assieme a un coro di acclamazioni.
Nell fece saettare il capo da una parte all’altra in cerca della fonte del frastuono, ma non scorse alcun essere vivente. Dovevano trovarsi sotto la piattaforma o dietro di lui.
Reeven scelse di destarsi pochi secondi più tardi. Ruggì, si divincolò e ringhiò frustrato quando si accorse della situazione pericolosa in cui versavano. Quando però tutti i suoi tentativi di liberarsi fallirono, si afflosciò e scoccò un’occhiata dispiaciuta a Nell, che ricambiò con un sorriso triste. 
Ysril era ancora nel mondo dei sogni. Da un lato, Nell si augurò che ci rimanesse, così non sarebbe stato costretto a vederli morire.
La Sylmaran non si prodigò in alcun discorso finale, passò direttamente al dunque pronunciando con voce stentorea l’incantesimo. L’aria si riempì di elettricità e il cielo si oscurò.
A Nell si serrò la gola e avvertì lo stomaco precipitare sottoterra. Non avrebbe potuto dire addio a Ysril. Non lo aveva neanche baciato da quando si erano riuniti. Non un abbraccio, non una carezza. Non era così che doveva andare. Non era per questo che aveva sofferto, che aveva sacrificato se stesso. Voleva più tempo, credeva di meritarselo dopo tutto ciò che aveva passato. Non era pronto.
Non voglio, non voglio!
Le rune sullo stomaco bruciarono con vigore, dilaniandogli gli intestini, e lo fecero urlare a pieni polmoni. Le guance adesso erano rigate di lacrime e l’incarnato spettrale, le occhiaie due mezzelune violacee e marcate e le labbra due petali sottili e rinsecchiti.
La strega levò il bastone e lo batté tre volte, attivando le rune sulla piattaforma, che brillarono sotto i piedi dei prigionieri. Parole che Nell non riuscì a comprendere, poiché la sua mente era avvolta da una foschia soffocante e dolorosa, rotolarono fuori dalle labbra della donna in un flusso soave ma solenne, mentre la sua voce gli rimbombava nel cervello e serpeggiava lungo il suo corpo, radicandosi nelle rune sullo stomaco, che arsero, se possibile, ancora di più e strapparono un altro grido agonizzante al ragazzo.
Da lontano, Nell colse i gemiti strozzati di Reeven e, dopo poco, pure Ysril si unì a loro, rovesciando il capo indietro, lo sguardo rivolto verso il cielo, e ruggendo come mai aveva fatto.
La lava del vulcano ribollì con spruzzi incandescenti e la temperatura aumentò fino a far sfrigolare la loro pelle. 
“Accettate di offrirvi in sacrificio per risvegliare Xion?” declamò la Sylmaran.
Reeven urlò disperato fino a raschiare la gola: “Sì! Sì! Ma fallo smettere! Ti prego, fallo smettere!”
Ysril esalò un gemito roco e fece eco al figlio ripetendo la supplica, il dolore talmente violento da farlo contorcere come un’anguilla e condurlo sull’orlo del baratro della follia.
“Nell?” lo invitò la vecchia, fissandolo con impazienza.
Nell sapeva di dover essere forte, di dover lottare fino allo stremo. Era tutto nelle sue mani adesso. Eppure faticava a racimolare le energie, si sentiva debole, fiacco, a un passo dalla fossa. Si sentiva impotente, stanco nello spirito, affranto e prossimo alla resa. Voleva arrendersi. Non poteva più sopportare il dolore, era troppo, il suo corpo era al limite. Forse Reeven e Ysril sarebbero sopravvissuti, ma lui no. Ne aveva la certezza, era un presentimento così chiaro che per un attimo la foschia si diradò, permettendogli di pensare lucidamente. Gli andava bene morire. Non era poi così male. Tutti morivano, era il destino comune a ogni essere vivente. Lo si poteva ritardare, rifuggire, ma alla fine tutti lo abbracciavano, volenti o nolenti. Non c’era da aver paura. Non era pronto, ma a questo punto cosa poteva farci? Andava bene. Sarebbe andato tutto bene. Le sue pene sarebbero cessate, almeno. 
Chiuse gli occhi, inspirò, espirò e smise di ribellarsi. Il bruciore diminuì d’intensità, dando alle sue povere membra un po’ di sollievo. 
Inspirò ed espirò, il battito del cuore regolare.
Inspirò ed espirò, mentre le lacrime si arrestavano e i muscoli si rilassavano.
Inspirò ed espirò, sempre più lentamente, più profondamente.
Inspirò ed espirò, e i contorni di uno scrigno privo di serratura si delinearono nella sua immaginazione.
Sono pronto.
Lo scrigno si aprì.
Nelle tenebre della sua anima una scintilla rinacque a nuova vita. In principio timida e tenue, crebbe e crebbe e in un istante, nel silenzio, esplose, sovrastando il boato assordante che si riverberò dal vulcano.

La furia della battaglia non faceva che aumentare di secondo in secondo, mentre il cielo si colorava di grigio e nero e dei tuoni risuonavano in lontananza. Non v’erano più alleati o nemici, tutto d’un tratto era diventata una lotta per la sopravvivenza, dove il più lesto e scaltro poteva mandare al tappeto persino il più esperto dei veterani. Era fondamentale possedere prontezza di riflessi e agilità con l’arma scelta, poco importava l’età o il numero di guerre combattute o il nome del maestro con cui ci si era allenati. 
Una distesa di cadaveri ricopriva il terreno e le mura, lasciati a marcire. Il suolo e la pietra erano impregnati di sangue e l’odore di morte veniva trasportato dal vento ovunque, tra gli alberi che circondavano Dun’har e tra le vie della città stessa, ora deserte. Le case erano vuote, le botteghe abbandonate, i rifiuti sparpagliati sul selciato, i carri rotti in mezzo alle strade e i corvi, interi stormi, intenti a banchettare con ciò che più gradivano.
Qolton, Phyroe e Utros si accostarono da ovest, coperti dalla vegetazione. I loro abiti presentavano scuciture e strappi, oltre che essere praticamente inzuppati di rosso fluido vitale. Anche le armi grondavano sangue sull’erba soffice in prossimità dei loro stivali, disegnando una scia che dalla boscaglia conduceva fino alla loro attuale posizione. Non vi badarono, impegnati com’erano a uccidere chiunque incrociassero e proseguire in linea retta verso la meta. Avevano attraversato quasi metà della foresta menando fendenti, sparando dardi, squarciando gole e lanciando fiale di acido, e per il momento ne erano usciti pressoché indenni, eccetto qualche graffio superficiale. 
Qolton aveva perso la sua borsa durante uno scontro con due soldati di Teruyn, uno più grosso dell’altro, e poi era stato troppo occupato a darsi alla fuga con un’altra dozzina di uomini alle calcagna per pensare di fermarsi a raccoglierla. Non che dentro ci fossero chissà quali tesori, ma essere spogliato dei pochi beni che aveva guadagnato con tanto sforzo non era mai piacevole.
Giunsero ai piedi delle mura della città e studiarono la pietra con cipiglio critico. Avevano deciso di tentare e intrufolarsi a Dun’har nella speranza di ricongiungersi a Reeven, dato che non sembrava trovarsi sul campo di battaglia nella mischia. Tuttavia, l’impresa poteva rivelarsi ostica considerando la struttura delle mura, elaborata apposta per impedire di arrampicarsi. Era possibile creare una breccia, certo, ma avrebbero avuto bisogno di macchine di cui adesso non disponevano.
“Andiamo verso nord, al confine con i monti Lerisa. Le mura finiscono poco prima, e a quel punto dovremo solo preoccuparci delle guardie appostate intorno al palazzo reale. Con un po’ di fortuna, passeremo inosservati.” disse Qolton cominciando a incamminarsi, e gli altri due lo seguirono senza protestare.
Come si aspettavano, riuscirono a valicare i confini della città e intrufolarsi all’interno senza farsi notare dalle guardie. Restarono nell’ombra, avanzando a passi felpati, gli occhi che saettavano ripetutamente dagli uomini di ronda al ponte levatoio. Si bloccarono in un andito nascosto per escogitare un piano, ma alla fine appurarono che l’unico modo per raggiungere la sponda opposta era correre più veloci di un fulmine. Senza dubbio sarebbe scattato l’allarme e le guardie si sarebbero precipitate a dar loro la caccia, ma almeno avrebbero frapposto un bel po’ di spazio tra loro e i nemici prima che quelli avessero anche solo il tempo di reagire e capire cosa stava succedendo.
Si prepararono a mettere in pratica il piano, ognuno al suo posto, quando all’improvviso qualcosa richiamò l’attenzione di Qolton. Alzò lo sguardo, percorrendo le linee della pietra, le forme dei balconi, le finestre, fino a soffermarsi su un terrazzo, dove un uomo pallido e magro con la testa tatuata osservava il massacro fuori dalle mura, le braccia sollevate, i palmi iridescenti e gli occhi due biglie di un blu cupo e sinistro. Il respiro gli si mozzò in gola e le viscere si contrassero per qualche secondo, in risposta a un istinto animale che gli gridava a gran voce di darsela a gambe subito.
“Qolton!” sussurrò Phyroe in tono urgente, “Che stai facendo? Forza, andiamo!”
Utros seguì la direzione dello sguardo dell’amico e si pietrificò pure lui, gli occhi sgranati e la bocca socchiusa.
“Utros! Che vi succede, ragazzi?”
“Lassù.” soffiò Utros, incapace di guardare altrove, come se mani invisibili gli tenessero paralizzati i muscoli.
La ragazza inspirò sonoramente, le viscere artigliate da una sensazione indefinita e potente, simile al terrore: “Chi è?”
“Non lo so.” rispose Qolton, “Ma chiunque sia, scommetto che la colpa di questo tafferuglio è sua.”
“Normalmente ti prenderei in giro per l’uso della parola ‘tafferuglio’, nemmeno tu avessi ottant’anni, ma sono d’accordo.” commentò Utros, “È chiaro che sta usando la magia. Uno stregone, quindi. Che facciamo?”
Qolton si morse il labbro inferiore, indeciso. Un minuto più tardi sbuffò, scrollò le spalle e raddrizzò la schiena.
“Cogliamolo di sorpresa ed eliminiamolo dal quadro. Magari i soldati rinsaviranno.”
“Vuoi attaccare uno stregone?! Sei pazzo? Non abbiamo alcuna possibilità!” si oppose Phyroe.
“O lo togliamo di mezzo, o aspettiamo che l’ultimo uomo sia morto e lui cerchi altri bersagli. Non sappiamo neanche se Reeven sia davvero qui. Potremmo aiutare i superstiti se ci occupiamo della minaccia primaria.”
“Qolton, non è una mossa saggia.” intervenne Utros.
“Sì, è stupido e avventato, grazie tante. Ma che altre chance abbiamo? Metti che riusciamo ad attraversare il ponte e raggiungere il centro città, e poi? Cosa facciamo se ci imbattiamo nelle guardie? Cosa facciamo se Reeven non è da nessuna parte? Cosa facciamo se i soldati buttano giù i cancelli e penetrano dentro le mura? Se dietro tutta la follia in cui siamo incappati lungo la strada c’è quello stregone, eliminarlo è la cosa più logica. Tolto lui, la magia dovrebbe esaurirsi.”
“E se non accade? E se ce ne sono altri?”
“Allora restiamo qui a lambiccarci il cervello e a rigirarci i pollici!” sbottò spazientito Qolton.
“Potremmo sempre…” iniziò Utros, spostando il peso da un piede all’altro nervoso, occhieggiando il perimetro per controllare che non ci fosse nessuno nei paraggi.
“Cosa?”
“Beh, ecco… non prenderla male, è solo un’idea. Dico che potremmo semplicemente lasciarci tutto alle spalle e dirigerci a Durandel sul serio. L’avevamo buttata lì come pretesto per accodarci a Reeven, ma potremmo trasformarla in realtà.”
Phyroe assunse un’espressione seria e assorta, valutando la proposta, mentre Qolton si irrigidì e contrasse i lineamenti del viso in una maschera di freddezza che rare volte i compagni avevano scorto, di sicuro mai diretta verso di loro.
“Voi due fate come più vi aggrada. Se volete comportarvi da vigliacchi, chi sono io per impedirvelo?” masticò tra i denti, le braccia conserte e i pugni stretti.
“Qolton, non fare così! Non siamo eroi, siamo ladri. Il coraggio non è la nostra punta di diamante. Se qualcosa va storto, tagliamo la corda, è così che funziona. Attaccare uno stregone armati di cerbottana o veleni o coltelli è da idioti! Tanto vale gettarsi nella mischia là fuori.” ragionò Utros, sentendo montare l’ansia ad ogni parola che si costringeva a pronunciare, “Non c’è tempo! Forse Reeven è nascosto qui, da qualche parte, insieme a Nell e se vuoi andremo insieme a cercarlo, ma non rischierò la mia vita per giocare a fare l’eroe, non per gente che non conosco e di cui non mi importa un fico secco! Se non lo hai notato, siamo in tre! È già un miracolo se siamo arrivati fino a questo punto quasi illesi e sani di mente.”
“Non si tratta di giocare a fare l’eroe, quanto di fare la cosa giusta.” replicò pacato il moro, comprendendo la paura dell’amico, “Sono terrorizzato anch’io, non voglio morire e ti assicuro che, se Reeven non fosse parte della famiglia, lo abbandonerei senza pensarci due volte. Ma lo è e noi abbiamo l’obbligo di tentare. Io lo farei per voi e voi per me. Reeven, anche se è un cretino, non merita di essere abbandonato. Nessuno di noi lo merita. Perciò tiriamoci due schiaffi, raccogliamo tutto il poco coraggio di cui disponiamo e andiamo ad occuparci della causa di tutti mali. Non per nutrire il nostro ego e divenire famosi, ma perché è giusto, perché qualcuno deve farlo. E se periremo provando, almeno non mi sentirò più una patetica scusa di uomo.” mormorò amaro. 
Gli occhi di Phyroe si inumidirono, le membra attraversate da brividi e lo stomaco annodato in preda all’angoscia: “È così stupido… moriremo, lo sai che moriremo.”
Ciononostante impugnò i coltelli, deglutì e si affiancò a Qolton. 
“Dannazione, Qolton! Dannazione!” sibilò Utros, scacciando le lacrime con un gesto secco e rinsaldando la presa sulla cerbottana, “Reeven la pagherà quando lo avremo portato in salvo.”
Qolton stirò le labbra in un sorriso e posò le mani sulle spalle dei due compagni, grato del loro supporto.
“Che gli dei ci assistano e veglino su di noi, che le loro mani guidino le nostre e che la vita che ci hanno donato non vada sprecata.” dichiarò solenne, sebbene la voce gli vacillasse e la fronte fosse imperlata di sudore, “Andiamo, il tempo scorre. Dobbiamo arrivare al terrazzo senza farci beccare o l’effetto sorpresa verrà rovinato, e allora davvero non avremo speranze.” li esortò, per poi retrocedere in un corridoio laterale e tuffarsi nell’oscurità.
Sgattaiolarono per il palazzo inosservati, cercando di raccapezzarsi sulla direzione da prendere. Quando entrarono per caso nell’armeria, provarono un senso di realizzazione. Sarà stato per la vista di tutte quelle armi o per il fatto di averle a disposizione, ma si sentirono d’un tratto rinvigoriti e determinati. Fecero incetta di coltelli, perché più maneggevoli, e Utros si appropriò anche di una spada corta. 
Qolton ispezionò la stanza, camminando per gli stretti corridoi di lance e scudi mentre ne verificava l’utilità, finché l’occhio non gli cadde su una teca di vetro a ridosso di un muro, sotto l’effige di un re in groppa al suo destriero di fronte a un’orda di mostri grotteschi. All’interno era conservata una spada di pregevole fattura, con l’elsa lavorata nell’argento e in una pietra di colore rosso, la guardia in oro e la lama di uno strano materiale che, alla luce del tramonto, rifulgeva di bagliori sanguigni. 
Aprì la teca e sfiorò con i polpastrelli il metallo, studiando l’arma con aria reverenziale. Qualcosa gli suggeriva che non era una spada normale, altrimenti non sarebbe stata conservata lì alla stregua di una reliquia sacra. La impugnò cauto e nel medesimo istante avvertì una sensazione di sicurezza, come un mantello caldo, che lo avvolse trasmettendogli grinta e audacia. In qualche modo seppe che fino a quando avesse avuto quella spada vicino, nella sua mano, il male non lo avrebbe toccato. Richiuse la teca e tornò da Utros e Phyroe, che lo aspettavano sulla soglia, e insieme uscirono dall’armeria.

Andorev trasse un respiro profondo e incanalò altra energia, spedendola nei corpi e nelle menti dei soldati fuori dalla città. Dire che fosse euforico era un mero eufemismo. Sprizzava di eccitazione alla vista dei corpi disseminati sulla pianura, del fuoco che lambiva i carri, e gioiva all’udire le grida degli uomini e i nitriti disperati dei cavalli. Una volta fatta strage degli eserciti radunati davanti a Dun’har, si sarebbe occupato degli abitanti della città, spazzandoli via come cenere al vento. Dopodiché, sarebbe passato alla città più vicina e poi quella dopo, radendole al suolo fino all’ultimo sassolino. Infine si sarebbe fatto da parte per la venuta di Xion, lasciando che distruggesse il resto e sfogasse tutta la sua furia. Avrebbe assistito allo spettacolo seduto al posto d’onore, al fianco degli eletti che avrebbero in futuro ripopolato la terra. 
Sentiva una sete insaziabile di sangue, non era mai abbastanza. Un po’ lo inquietava, ma l’energia che fluiva dentro di lui era una forza inarrestabile e inebriante, tanto che era praticamente impossibile non desiderare di seguirne la corrente. Il potere pulsava nelle sue vene, pompando al ritmo del cuore e riversandosi nei suoi palmi, e i suoi muscoli bruciavano come se vi avessero appiccato un incendio.
Ghignò e spedì un’altra ondata verso il guazzabuglio di corpi in movimento all’orizzonte, guardandoli scannarsi a vicenda in preda a un impeto primitivo. Alcuni, nella foga, non si accorgevano neanche delle proprie ferite, continuando a incalzare gli avversari con gli intestini ciondolanti e le ossa rotte. Era esilarante.
Si preparò a racimolare ulteriore energia per scagliare l’ennesimo colpo, quando all’improvviso un dolore atroce scoppiò nel suo sterno. Boccheggiò e l’energia singhiozzò. Abbassò lo sguardo e fissò confuso la lama di una spada. Una spada che gli trapassava il petto e riluceva di una luce rossastra, non per il sangue ma per il diaspro con cui era stata forgiata. 
È… è la Mietitrice!
La Mietitrice, la leggendaria spada brandita da Terallian III nella battaglia di Lerisa, combattuta contro i demoni cinque secoli prima. Nessuno l’aveva più impugnata dopo di lui, convinti che contenesse il suo spirito. Si diceva che fosse in grado di uccidere qualsiasi creatura maligna. 
Andorev sgranò gli occhi, percependo il potere diminuire esponenzialmente, assorbito e annullato dal diaspro disciolto nel metallo. Digrignò i denti e afferrò la lama nella mano destra, incurante delle stilettate di dolore che esplosero sulla sua pelle. Con uno sbuffo irritato torse il polso e si voltò, reprimendo a stento un grugnito. 
Un uomo alto e grosso, dalla pelle nera e gli occhi di pece, lo guardò spaventato, ma non si mosse. Dietro di lui, una donna e un altro uomo attendevano il momento opportuno per sferrare l’attacco decisivo, lei con un fiala nel pugno e lui con una cerbottana di fronte al viso.
Le iridi di Andorev brillarono d’ira. Con un movimento repentino, appoggiò il palmo della sinistra sul petto del suo assalitore, incanalò l’energia e la spinse fuori, prendendolo pieno. L’onda d’urto lo scaraventò contro il muro del terrazzo e l’uomo giacque inerte, il sangue che gli colava fuori da naso, occhi, orecchie e bocca in rivoli scuri e densi.
“Qolton!” gridò la donna, correndo ad accovacciarsi accanto all’amico.
Lo stregone si agitò nel tentativo di estrarre quella maledetta spada dallo sterno, ma più la lama gli tagliava la carne più il potere defluiva dal suo corpo, indebolendolo. Grugnì di nuovo e puntò lo sguardo imbestialito sull’uomo con la cerbottana, le parole dell’incantesimo già pronte sulla punta della lingua. Ma prima che potesse pronunciarle, l’uomo si portò alle labbra la cerbottana e un attimo dopo un dardo si conficcò nella giugulare di Andorev. Il dardo era avvelenato, come capì dall’intenso bruciore che si diramò dal collo alla faccia, ma la magia lo rendeva immune e non se ne preoccupò. 
“Cosa pensavi di fare, eh?” lo sfidò ridacchiando, raccogliendo la magia nel palmo della mano.
L’uomo scoccò un altro dardo, stavolta mirando alla fronte, ma esso di infranse sullo scudo opalescente che si eresse a protezione dello stregone, circondando la sua figura con una corazza spessa e vibrante. Andorev era consapevole che non sarebbe durato molto, non con la Mietitrice che risucchiava il suo potere in maniera costante, ma era ancora forte abbastanza per contrastare la spossatezza e schiacciare quegli insetti fastidiosi.
Rivolse l’attenzione sulla ragazza e, con una leggera flessione delle dita, la scagliò dalla parte opposta del terrazzo. Regolarizzò il respiro affannato e ignorò la fitta di dolore che gli inferse la spada, focalizzato sulla minaccia incombente. Vide l’uomo e la donna scambiarsi occhiate fugaci e, dopo un momento di esitazione, lo attaccarono in simultanea da entrambi i lati. Innalzò lo scudo e i due ci rimbalzarono sopra, finendo supini sulla pietra con gemiti sorpresi. Però questo non li scoraggiò, anzi, semmai rinforzò i loro propositi. Rinnovarono l’attacco, accerchiandolo e testando la resistenza dello scudo con le armi che sfoderarono da sotto i mantelli.
Però, preso com’era a non lasciarsi sfuggire nemmeno un tic nervoso dei due avversari, Andorev compì un passo indietro, avvicinandosi pericolosamente alla ringhiera del terrazzo. La spada penetrò più a fondo nella carne dello stregone, facendolo guaire come un cane bastonato, e lo scudo tremolò. Fu sufficiente perché la lama di un pugnale creasse una breccia e si conficcasse nella sua spalla, strappandogli il fiato. 
Da lì tutto si svolse troppo velocemente perché avesse il tempo di reagire.
Un secondo coltello comparve alla sua sinistra, piantandosi nella carotide, e un altro affondò nel suo ventre, squarciandogli le budella. Poi una mano scivolò dietro di lui, si strinse sull’elsa della spada e la estrasse bruscamente. Andorev non ebbe modo di esalare un sospiro di sollievo. Colse il baluginare di una lama ai margini del suo campo visivo e subito dopo una pressione alla base del collo. 
All’improvviso sperimentò una strana sensazione, come un taglio netto nell’anima, e qualcosa si staccò con violenza, separandosi dalla sua essenza. Sgranò gli occhi nel vuoto. Ebbe l’impressione di tornare a respirare dopo un lungo periodo passato sott’acqua, incatenato in un’oscurità opprimente e torbida che gli annebbiava la coscienza. Il senso di colpa, il disgusto per se stesso e il rimorso gli piombarono addosso come una valanga, ma come arrivarono sparirono, lasciando il posto a una pace che non percepiva da secoli. L’energia che lo intrappolava in un limbo ovattato si dissolse e il suo corpo, come se qualcuno avesse reciso i fili che lo sorreggevano, si accasciò a terra. 
La testa dello stregone rotolò sulla pietra in una scia di sangue e si arrestò sul bordo del terrazzo, gli occhi vacui e l’espressione quasi serena.
Utros e Phyroe si guardarono sgomenti, ansimando come se avessero corso per ore. Tuttavia, prima che potessero anche solo pensare di muoversi, una nuvola di fumo blu scuro si levò dal cadavere decapitato ai loro piedi. La nuvola assunse le sembianze dello stregone e Phyroe rinserrò la presa sull’elsa della spada, preparandosi ad aggredirla, ma in un battito di ciglia i contorni si ridefinirono in una forma mostruosa, che ruggì imbufalita al loro indirizzo. I due arretrarono di scatto, la guardia alta e i nervi tesi. La nuvola non li attaccò, emise soltanto un altro terrificante ruggito e infine evaporò, estinguendosi come una fiamma.
“Cos’era quello?” squittì Phyroe, le braccia che le tremavano sotto il peso della spada.
“Che ne so!”
“Dici che è finita?”
Utros esaminò la scena incerto, quindi annuì a labbra strette e si allontanò. Phyroe buttò fuori l’ossigeno in una volta sola e fece una smorfia quando i polmoni si contrassero nella cassa toracica. Si concesse ancora un minuto per riacquistare una parvenza di controllo e, non appena i brividi si calmarono, mollò la spada, che precipitò a terra con un clangore metallico. Allora la sua attenzione venne calamitata da Qolton e in un secondo l’angoscia tornò alla ribalta.
“Qolton!” esclamò impaurita, quasi gettandosi in braccio all’uomo nella fretta di raggiungerlo, “Qolton, svegliati! Ti prego, svegliati!” 
Lo schiaffeggiò, lo scosse con vigore e gli gridò nelle orecchie, ma Qolton rimase immobile, la faccia ricoperta di sangue e i lineamenti distesi, pacifici.
“Phy…” soffiò flebilmente Utros, avvicinandosi piano, mentre le lacrime si incastravano tra le ciglia.
“No… no! Svegliati, Qolton! Svegliati!”
L’amico le posò una mano sulla spalla e strinse nel tentativo di elargire una briciola di conforto, nonostante lui stesso si sentisse andare in pezzi. Phyroe si divincolò e continuò a chiamare Qolton, sempre più disperata, finché la realtà non le franò sul cuore spegnendole la voce. Fissò il moro in silenzio, annientata, le guance bagnate di lacrime e lo sguardo smarrito, impotente. 
Utros si chinò, portò due dita sul polso di Qolton per verificare che non ci fosse la pulsazione e scosse debolmente il capo. Quindi si trascinò dietro la ragazza, le cinse i fianchi e l’abbracciò forte, acciambellandosi sopra di lei e intorno a lei come un’armatura di carne e sangue e vita, tentando di non imitare i suoi singhiozzi e tenere a bada i tremori del suo esile corpo.
Trascorse un’eternità, o forse solo una manciata di minuti. Quando Phyroe smise di piangere, Utros se la caricò in braccio come una sposa, permettendole di incastrare il viso nell’incavo del suo collo. Riservò un’ultima straziante occhiata al cadavere di Qolton, ringraziandolo tacitamente per la sua gentilezza, la sua lealtà, la sua guida e compagnia, lodandolo per il suo coraggio e determinazione, e dentro di sé promise che si sarebbe preso cura di Phyroe traendo spunto dai suoi insegnamenti, che avrebbe lavorato sodo per diventare un uomo degno di fiducia. Giurò che non avrebbe più anteposto i propri interessi a quelli dei suoi cari e che avrebbe reso Qolton fiero di lui. 
Un boato assordante riecheggiò dappertutto. Il cielo si oscurò e la terra tremò. Alcuni edifici della città si sfracellarono al suolo e tre diversi corni risuonarono in lontananza, accompagnati dalle grida spaventate dei soldati rinsaviti.
Utros sussultò, combatté contro l’impulso di raggomitolarsi in posizione fetale e tapparsi le orecchie e ignorò il groppo in gola che minacciava di soffocarlo. Si voltò barcollando, mentre la pietra sotto di lui si crepava con una rapidità allarmante, e strinse Phyroe a sé. Si lasciò inghiottire dalle tenebre del corridoio da cui erano arrivati e corse, il battito accelerato, spinto solo dal desiderio di frapporre quanta più distanza possibile tra loro e l’orrore che avevano vissuto. Corse senza che nessuno arrestasse la sua avanzata, corse fino a farsi dolere la milza, ma non si fermò, Phyroe un peso familiare sul suo petto. I muri crollarono dietro di lui, il pavimento fece la stessa fine, e con un urlo esasperato superò i propri limiti, aumentando il passo. Uscì dal palazzo un secondo prima che l’architrave della porta si abbattesse su di lui. Attraversò di filato il cortile e, senza pensare, imboccò il sentiero fra i monti Lerisa, una precisa destinazione in mente, l’unica possibile: Durandel.

La terra tremava. Sentiva le vibrazioni nelle ossa, nel sangue e nell’anima, più che sotto i piedi. Luce abbagliante lo avvolgeva in una corazza che pulsava a ritmo del suo cuore. Nuova energia lo pervase, danzando sulla sua pelle in armonia con l’universo. Energia che scaturiva dalla vita stessa, opponendosi con naturalezza alle ondate di oscurità che si infrangevano sulla corazza come il mare sugli scogli.
Nell era al sicuro nella sua bolla di luce, niente lo avrebbe toccato.
Schiuse gli occhi, curioso. Quasi non avesse aspettato altro, la collana che gli era stata imposta si staccò, galleggiò davanti a lui e si polverizzò di fronte al suo sguardo sbalordito. Allora avvertì la propria energia fluire con più libertà, roteando attorno a lui in una miriade di puntini luminosi. 
Quella vista gli strappò un sorriso e una breve risata.
Dopo un po’, impossibile calcolare quanto, l’energia cominciò a pulsare più velocemente, vibrando e ronzando in uno schema di suoni che Nell fu in grado di memorizzare senza problemi. E all’improvviso lo scenario mutò.
Era a Rocca Smeralda, nella camera nuziale. Riconobbe il letto a baldacchino, i mobili, le suppellettili, i tappeti. Pure l’odore era identico. Dalla finestra filtravano i raggi del sole mattutino, illuminando la stanza di una luce calda e confortante.
Solo un particolare era diverso. Accanto al letto c’era una culla imbottita. Nell si avvicinò cauto. Appena fu a un paio di passi, un gorgoglio innocente gli stuzzicò le orecchie. Si affacciò emozionato, senza curarsi di catalogare le sensazioni che provava per non perdersi niente della meraviglia che giaceva su morbidi cuscini ricamati. Un neonato stava giocando con un piedino, il pugnetto dell’altra mano in bocca ricoperto di saliva. Delle bollicine spuntavano agli angoli delle labbra. 
Il bambino, come se avesse percepito la sua presenza, alzò lo sguardo su Nell e sorrise emettendo squittii deliziati. Il ragazzo si immerse nei suoi occhi rossi e con le dita gli sfiorò delicatamente il ciuffo di capelli biondi sulla testa. Non poté fare a meno di ricambiare il sorriso, mentre il suo cuore si riempiva di così tanto amore da lasciarlo privo di fiato.
Due braccia forti e muscolose gli cinsero i fianchi, attirandolo verso un torace solido e familiare. Lunghe ciocche di capelli biondi e ricci ricaddero sul petto scoperto di Nell e gli accarezzarono il ventre. Poi il viso sereno di Ysril emerse alla sua destra, una guancia poggiata mollemente sulla sua spalla e un sorriso pigro sulla bocca. Le iridi ambrate lo scrutarono con devozione e una mano prese a disegnare fantasiosi ghirigori sulla sua pelle nuda.
Quando Nell tornò a osservare il bambino, la culla era sparita e al suo posto c’era un giovane alto e avvenente, con occhi rossi e capelli biondi e lisci, lunghi fino alle spalle. Sorrideva felice. Era nudo come Nell e Ysril, ma a nessuno di loro importava. Il giovane si accostò alla coppia e si tuffò nel loro calore, venendo accolto da braccia gentili e odore di casa.
In quel momento, Nell si sentì completo, finalmente in pace con se stesso.
La luce che filtrava dalla finestra aumentò d’intensità, facendo brillare la stanza, si avviluppò attorno alle tre figure legate in un abbraccio e si irradiò nei loro corpi in una corrente che sapeva di quiete e serenità.
Di colpo Nell si ritrovò solo, circondato da un paesaggio bianco e monotono, ma ancora avvertiva il calore della luce e della sua famiglia intorno a lui. La sua pelle formicolava, vibrava, pulsava e l’energia ricominciò a mulinare in coriandoli luminosi, finché il ragazzo non sentì una spinta brutale e malvagia ributtarlo indietro.
Una nuvola blu scuro volteggiava innanzi a lui, al centro due occhi tondi e sinistri che lo fissavano famelici. Non aveva idea di come, ma Nell capì subito che quella creatura era immonda. Più la guardava, più il suo volume cresceva, diventando gigantesca nell’arco di pochi secondi. E più cresceva, più la luce si ritraeva. Desiderò scacciarla dal suo reame una volta per tutte, il mondo dei viventi non era il posto adatto per un tale abominio. 
I muscoli guizzarono e il potere esplose in scintille calde nel suo sangue, dandogli l’impressione che scorresse al contrario. Prese lo slancio e si scagliò contro la creatura, avvolto dalla sua corazza e animato da una determinazione che gli faceva brillare gli occhi. Costrinse la bestia a indietreggiare, ignorò i suoi ruggiti furiosi e lo attaccò con più foga. Tuttavia, nulla pareva avere effetto. 
Gli occhi blu della creatura rifulsero di bagliori sinistri e il suo corpo si ingrossò di nuovo, obbligando la luce a una seconda ritirata.
Seguitarono così per un po’, nessuno dei due intenzionato a cedere terreno al nemico. Nell non sapeva come procedere, come attingere all’energia incanalandola in un colpo mirato e pulito. Certo era che se avesse continuato a combattere in quel modo goffo, avrebbe perso. 
Rifletté mentre schivava la bestia, osservandola con estrema attenzione in cerca di un punto debole, ma tutto di lei era fatto di fumo.
Eccetto gli occhi.
Un lampo di consapevolezza lo scosse da capo a piedi, rinvigorendolo e rafforzando i suoi propositi. Il potere fluì e rispose prontamente alla sua implicita richiesta, concentrandosi sulle dita per trasformarle in artigli affilati e ricurvi. Nell attese l’occasione propizia.
La creatura si lanciò su di lui ringhiando, inghiottendo la luce al suo passaggio e rimpiazzandola con l’oscurità. Nell non si oppose alla sua avanzata, non lo respinse, nonostante il bisogno di farlo gli mordesse le viscere con insistenza. Non si mosse finché non fu a portata di salto. Allora spiccò un balzo. Tentò di tenere a bada l’impulso di fuggire, di non farsi toccare dal fumo per salvarsi dalla corruzione che il contatto avrebbe provocato, e si fiondò sulla bestia, gli artigli protesi verso i bulbi oculari.
L’oscurità lo mangiò e iniziò senza indugio a risucchiare la sua luce, spogliandolo di qualunque difesa disponesse. Nell non si fece intimorire e le sue mani afferrarono gli occhi dell’essere. Erano duri e lisci come pietra levigata, ma all’interno ardeva un fuoco freddo e senziente che gli scavava dentro mettendolo a nudo, violandolo nel profondo. Digrignò i denti, affondò gli artigli e tirò con tutta l’energia rimastagli. 
Alla fine, gli occhi vennero via e la bestia urlò. I suoi versi disperati sembrarono scuotere le fondamenta del mondo e per un istante Nell ebbe paura che l’onda lo trascinasse nell’abisso, ma la luce lo soccorse e lo abbracciò protettiva, lasciando scoperte solo le mani che ancora erano serrate attorno agli occhi del mostro. Questo si contorse su se stesso, si accartocciò e rimpicciolì guaendo alla stregua di un animale ferito a morte. Eppure, pur di dimensioni ridotte, non scomparve, continuando imperterrito ad assorbire luce e convertirla in tenebra, come a volersi rigenerare.
Nell abbassò lo sguardo sulle due sfere fredde che erano gli occhi della creatura. Aggrottò le sopracciglia e si morse il labbro, a corto di un piano. Fu il suo potere a suggerirgli cosa fare, sfiorandogli il dorso delle mani per spingerlo a racchiudere nel pugno le sfere.
Distruggile.
Esercitò pressione e le sentì creparsi. Incrementò la forza, di più, sempre di più, sebbene la pelle bruciasse e le piaghe da ustioni gli incidessero la carne. Diede fondo alla propria energia, la richiamò a sé tutta quanta, convincendola a collaborare. Poi, con un ultimo “crack”, le sfere esplosero in mille pezzi, tramutandosi in polvere e infine in un fumo bluastro, che svanì nell’arco di un respiro.
Lo spazio intorno a Nell tremò e si sgretolò pian piano, la luce si spense lasciandolo svuotato e un tuono ruppe il silenzio aggredendogli i timpani.
Il cielo plumbeo si delineò sopra di lui, così come le montagne, il vulcano in eruzione e la piattaforma triangolare sospesa nel vuoto. Ma la Sylmaran e la regina dei demoni stavano gridando, le mani premute sulle orecchie e i gomiti sulle ginocchia. La piattaforma venne percorsa da grosse crepe e delle rocce si staccarono dalle montagne, franando al suolo o precipitando nella bocca del vulcano.
“Che cosa hai fatto?!” sbraitò inviperita la strega, mostrandogli i denti marci, e strinse la presa sul bastone mentre inceneriva Nell con un’occhiata omicida, gli occhi spiritati e screziati di rosso, sintomo della pazzia che albergava nel suo animo.
Il giovane, d’un tratto calmo, infuse le proprie braccia di energia e si liberò dalle corde che lo tenevano legato al palo. Quindi condusse una mano sullo stomaco e la passò sopra la pelle. Quando la spostò, le rune erano sparite. Avanzò verso la Sylmaran con decisione, torreggiò sulla sua sagoma rattrappita e con un gesto fulmineo le strappò il bastone dalle dita adunche, per poi spezzarlo nel mezzo. Una lieve deflagrazione quasi lo sbilanciò, ma mantenne stoicamente l’equilibrio. Dopodiché, gettò il bastone nel vulcano. 
La vecchia arretrò gattonando, portandosi sul bordo della piattaforma, tremando come una foglia.
“No! No, fermati, ti prego… figlio mio, fermati.”
Nell non rispose, si limitò ad agguantarla per il collo e sollevarla come se non pesasse nulla. La squadrò con espressione indecifrabile per lunghi attimi. Prima che la strega avesse il tempo di capire le sue intenzioni, la scaraventò giù e la osservò cadere tra le fiamme. Allora si girò per occuparsi della regina, ma ella era già scappata.
La piattaforma tremò e a quel punto Nell tornò lucido. Rimase immobile per un paio di secondi, poi si fece coraggio e schizzò verso il figlio e il marito, prima liberandoli dei gioielli e poi delle corde. 
Reeven era sveglio e riuscì a sorreggersi da solo, anche se barcollava pericolosamente. Si massaggiò le tempie e i polsi e scrollò il capo per scacciare la foschia che gli ottenebrava il cervello. Osservò il caos atterrito e cercò subito Nell per ottenere un po’ di conforto, trovandolo accanto al padre, splendidamente nudo e avvolto da un’aura così potente da fargli venir voglia di inginocchiarsi. 
Ysril era piombato nell’incoscienza e non era che un peso morto sulla spalla del biondino.
“Reeven, aiutami!”
L’ibrido accorse e prese in custodia Ysril, caricandoselo sulla schiena. 
Abbandonarono la piattaforma un secondo prima che si sgretolasse. Sfrecciarono dentro il tunnel verso il quale conduceva la passerella e una volta lì non si fermarono mai finché non furono al sicuro all’esterno, ai piedi della montagna. Stranamente non avevano incontrato alcun demone durante la fuga e Nell incrociò le dita.
Un altro boato scosse la terra e la lava cominciò a scorrere sulle pareti del vulcano, riversandosi in fiumi di fuoco sulla roccia. Spaventati, il trio aumentò il passo e in meno di mezzora raggiunsero i confini di Lankara. 
Nell si voltò a guardare le fiamme che lambivano le montagne e si insinuavano nei tunnel che punteggiavano la roccia, udendo le grida dei demoni che sciamavano in ogni direzione per mettersi in salvo. Non provò un briciolo di compassione per la loro sorte.
“Nell, andiamo.” lo esortò Reeven con urgenza in un bisbiglio roco e affaticato.
Il ragazzo sospirò, diede le spalle alla città e si affiancò al figlio prendendolo per mano. Occhieggiò Ysril e rughe di apprensione si dipinsero sulla sua fronte, ma decise di occuparsene una volta tornati nel mondo umano. 
Insieme si allontanarono, seguendo il ronzio sordo emanato dal portale.
Le nubi si aprirono per lasciar filtrare timidi raggi di sole e via via il fragore si attenuò.
Nell alzò il viso e si godé il vento sulla pelle, il sapore della libertà sulla lingua.
Era finita.









 

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Capitolo 13
*** Immortali ***








 



Nell emise un gemito acuto e arcuò la schiena, il capo rovesciato all’indietro e lo sguardo appannato rivolto verso il soffitto. Si sentiva andare a fuoco, i muscoli erano tesi in continui spasmi, le dita artigliate alle lenzuola nel vano tentativo di restare ancorato alla realtà. Non poté impedire ad altri versi imbarazzanti di lasciare la barriera delle labbra e dei denti in una melodia che il suo cervello non registrava, ma che Ysril pareva apprezzare a giudicare dai suoi mugugni soddisfatti, quasi facesse le fusa come un gatto. Avvertì montare l’orgasmo lentamente, come la marea dell’oceano che sale e sale attratta dal moto della luna. In quel caso, la luna era la bocca del marito che lavorava con zelo fra le sue cosce. Quando raggiunse l’apice, si inarcò con un movimento languido, gemette forte e una lacrima scivolò sullo zigomo.
Ysril si arrampicò di nuovo sul corpo del suo sposo e ridacchiò quando alcune delle sue ciocche lunghe e ricce provocarono il solletico a Nell durante la risalita. Dipinse una ragnatela di baci e morsi sulla pelle candida dell’amato, dedicando particolare attenzione ai capezzoli, alle costole e all’incavo del collo, fino a fermarsi sopra il suo viso, deliziosamente arrossato, mentre i suoi folti capelli biondi scendevano a incorniciarlo adagiandosi in morbide volute intorno a Nell, imitando una corona dorata. Ysril gli circondò la testa con gli avambracci, facendo aderire il torso alle forme più minute dell’altro, e si tuffò vorace su di lui, per poi immergere la lingua nella cavità orale e coinvolgere la gemella in un ulteriore scambio di fluidi. 
A Nell girava la testa, aveva l’impressione di essere ubriaco, e non riusciva a pensare lucidamente. Sapeva di stare sfoggiando un’aria meravigliosamente sbattuta, non che gli importasse. Mugolò nel bacio e massaggiò la nuca del marito con i polpastrelli. Percepire il sapore del suo piacere nella bocca di Ysril era sempre strano, ma non in senso negativo. Una parte di lui voleva ricambiare e donargli la medesima ebbrezza, però al momento era troppo stanco per sperare di portare a termine il servizio senza cedere al sonno. Rimandò tutto a dopo, non appena i fumi dell’orgasmo avessero abbandonato le sue membra tremanti.
Il demone si staccò con uno schiocco, ghignò pigro, compiaciuto e filino arrogante, e lo scrutò dall’alto con le palpebre a mezz’asta e un’espressione inebetita che rifletteva quella del suo umano, il quale si sentì rimescolare e avvampare sotto quello sguardo penetrante. I raggi del sole filtravano dalla finestra della camera e accarezzavano i fili dorati dei capelli di Ysril, illuminandogli i lineamenti divini, gli occhi del colore dell’ambra e le labbra gonfie e tumide, rendendolo simile una visione mistica.
“Stai bene?” chiese Ysril in un sussurro.
Il ragazzo annuì e gli elargì un sorriso sghembo e sazio.
A lungo Nell aveva dubitato di poter sperimentare ancora la felicità, e a volte, persino a due anni di distanza dai fatti di Lankara, quando calava la notte e le stelle punteggiavano il firmamento doveva tirarsi dei pizzicotti per appurare di non stare sognando. Il tepore di Ysril era reale, la sua presenza al suo fianco era solida, la sua voce nelle orecchie un balsamo prezioso che curava le sue ferite giorno dopo giorno e lo riportava in vita come un fiore appassito che, grazie alla luce del sole, si convinceva a sbocciare di nuovo.
Dopo la fuga oltre il portale di Lankara, si erano riparati in una grotta sui monti Lerisa e avevano atteso di riacquistare le forze. Nell aveva dormito per tre giorni e tre notti, mentre Reeven e Ysril si guardavano in cagnesco e facevano la guardia, e quando si era svegliato aveva scoperto di aver guadagnato il controllo sul suo potere, assieme a una nuova consapevolezza di sé. In pratica, era divenuto conscio che la sua magia era pressoché illimitata, doveva solo imparare a incanalarla con precisione. Aveva evocato dei vestiti per tutti e dell’acqua per lavarsi, e aveva recuperato il cadavere di Selis materializzandolo nella grotta con la sola forza di volontà, al fine di seppellirlo poi a Rocca Smeralda. In seguito, avevano provveduto a cremare Qolton, e Reeven aveva disperso le sue ceneri al vento. Non avevano detto una parola, ripiegati ognuno nel proprio lutto, mentre Ysril vegliava su di loro e li confortava come poteva.
Un  mese dopo, non appena si era sparsa la notizia dei trattati di pace fra tutti i regni del continente e della promessa dei sovrani di non permettere mai più a una guerra di simili proporzioni di avere luogo, Nell aveva lasciato la fattoria abbandonata in cui si erano temporaneamente stabiliti e aveva accompagnato il figlio a Durandel. Ysril li avrebbe aspettati lì per tutto il tempo necessario, consapevole del bisogno di Reeven di chiudere con il passato. 
Per mezza giornata Reeven aveva gironzolato per la città, affascinato dagli edifici bassi in marmo grezzo, collegati l’un l’altro da scale e passerelle, con il tetto piatto e le imposte blu, le strade di argilla e i vasi di fiori colorati sui balconcini delle finestre rotonde. Non aveva mai visto nulla del genere, pareva di trovarsi in un mondo alternativo. Non solo per l’architettura peculiare, ma anche per l’atmosfera calma e serena che si respirava, per i sorrisi e gli sguardi placidi degli abitanti e le risate dei bambini. Era un bel posto per ricominciare, doveva dargliene atto. E non era nemmeno densamente popolato, poiché accedere a Durandel era più facile a dirsi che a farsi: l’unica via era attraverso una montagna di ghiaccio e un ponte sottilissimo sospeso nel vuoto, questo dopo una marcia lunga e proibitiva nel deserto sotto il sole a picco. Soltanto i più temerari e determinati ce la facevano, e il premio meritava decisamente la pena.
Reeven aveva bighellonato qua e là, esaminato la merce delle bancarelle e goduto della pace inalando il profumo di dolci emanato dai forni, un profumo quasi identico a quello di Nell. Portava la borsa con il bottino dell’ultimo colpo a Ferenthyr sulla spalla e un talismano appeso alla cintura, dono di Nell, che avrebbe dovuto renderlo invisibile a sua discrezione. La borsa l’aveva rinvenuta per caso, mentre perlustrava la foresta nei dintorni di Dun’har in cerca dell’odore dei suoi amici. Lì per lì non aveva saputo cosa farci. Poi aveva scoperto il cadavere di Qolton e qualcosa in lui si era rotto. Aveva ponderato di tenere la borsa come ricordo, ma un’idea gli era subito balenata in testa ed era stato Nell a spingerlo a non accantonarla. 
Passata qualche ora a Durandel, il nervosismo gli aveva costretto di nuovo la gola in una morsa d’acciaio, ma Nell lo aveva spronato a non mollare. Verso il tramonto si era deciso a intrufolarsi in una casetta nei pressi del mercato, aveva posato la borsa piena sul tavolo di cucina e se n’era andato in fretta respirando con la bocca, per impedire all’odore familiare che impregnava i muri di penetrargli nelle narici e sgretolare la sua risolutezza. Dopodiché, celato dall’ombra di un vicolo là vicino con Nell al suo fianco a stringergli la mano, aveva osservato Phyroe e Utros imboccare la via chiacchierando del più e del meno, rientrare in casa e chiudersi la porta alle spalle. Solo per precipitarsi fuori un minuto più tardi e scandagliare con occhi sgranati la strada, la borsa del bottino tra le braccia. Phyroe aveva sussurrato il nome di Reeven, un richiamo timido e incerto al quale non aveva ricevuto risposta, ma nei suoi occhi il biondo aveva scorto una scintilla di gratitudine e speranza. Reeven aveva sorriso tristemente, un sentimento dolceamaro nello stomaco e il cuore colmo di calore. Era stato allora che aveva avvertito il distacco, come un filo che viene reciso con dolcezza, e aveva capito che era la cosa giusta. 
Lui e Nell non si era trattenuti oltre e avevano lasciato Durandel all’imbrunire per ricongiungersi a Ysril non fare mai più ritorno. 
Fu Nell a scovare quell’isoletta con una magia di localizzazione, a una settimana di nave dalla costa. Era piccola ma non troppo, la vegetazione lussureggiante e uno spiazzo modesto verso il centro dove costruire una casa. Per farlo non erano stati necessari incantesimi, poiché a quanto pareva Nell era capace di usare il potere senza pronunciare parole o compiere gesti rituali - inaudito -, e in un solo giorno aveva plasmato una villa a due piani, con due camere da letto, un terrazzo, due bagni, una cucina-laboratorio e un salotto. Dietro la casa aveva piantato un orto dove coltivava le erbe che servivano a Ysril per assumere le sembianze umane, che poi cucinava e amalgamava in una pozione. Non che Nell obbligasse Ysril a berla, a lui andava più che bene la sua forma demoniaca, ma dopo i primi mesi sull’isola avevano constatato che per il sesso era meglio quella umana.
Non era stato facile riavvicinarsi carnalmente, a Nell ci era voluto un po’ per arrendersi al benessere e abbandonarsi alla corrente senza temere di veder svanire tutto come un’allucinazione. Ysril si era impegnato duramente per riconquistare il suo compagno, farlo sentire amato e venerato, protetto, al sicuro dalle minacce esterne e dal fantasma della solitudine che aleggiava su di lui alla stregua di un parassita. Le esperienze che Nell aveva vissuto lo avevano cambiato, segnato irrimediabilmente, trasformandosi in cicatrici indelebili nella sua anima e nel cuore. Il demone ce l’aveva messa tutta per distogliere il ragazzo dai brutti ricordi e farlo concentrare sul presente, su loro due, ancora una volta sotto lo stesso tetto, e un figlio, sangue del loro sangue, a rallegrare le giornate.
Reeven, alla fine, si era adattato senza troppa difficoltà alla nuova vita. In principio avevano incontrato qualche ostacolo, vuoi perché sia lui che Nell piangevano la morte di una persona cara - Selis e Qolton -, vuoi perché l’incubo di Lankara era ancora fresco nelle loro menti per concedersi di crogiolarsi nel sollievo. C’erano state incomprensioni, scontri verbali, erano volate parole grosse ed erano state condivise lacrime, ma poi, pian piano, si era creato un equilibrio e ad un tratto erano ricomparsi i sorrisi.
Ysril aveva dato loro l’opportunità di legare e instaurare un rapporto padre-figlio sano, restando ai margini paziente e rifiutandosi di intervenire, anche se aveva dovuto usare violenza sui propri istinti. Nell aveva notato spesso la gelosia nei suoi occhi e gli era stato grato per il controllo che aveva esercitato su di sé, conscio di quanto potesse rivelarsi un’impresa ardua. Tuttavia Reeven doveva ricostruirsi, trovare un pilastro sul quale erigere la propria identità, e solo Nell sembrava in grado di fornirgli i mezzi per riuscirci. 
Nessuno dei tre aveva bisogno di mangiare o dormire, perciò i giorni li trascorrevano a parlare, a raccontarsi aneddoti, individuare schemi nelle stelle, giocare a nascondino tra gli alberi, rincorrersi sulla sabbia o a fare il bagno nel mare, circondati da acqua cristallina e pesci colorati. 
Qualche volta Nell e Ysril desideravano un po’ di intimità e allora Reeven, pur con un gigantesco broncio e l’espressione funerea, si defilava per un paio d’ore. Ysril aveva spiegato a Nell cosa stava accadendo al loro figlio e che sarebbe stato così per almeno altri dieci anni, come minimo, prima che avvertisse l’impulso di andarsene per conto proprio. In sostanza, Reeven sarebbe rimasto incollato alla sottana di Nell finché non fosse diventato adulto e non c’era nulla che potessero fare eccetto munirsi di infinite scorte di pazienza e ignorare al meglio gli approcci dell’ibrido, che coglieva ogni occasione per saltare addosso al padre, quello umano, e baciarlo sulle labbra con trasporto. Ysril non tentava neanche di fermarlo o palesare la gelosia, perché sapeva che era inutile. Si limitava a roteare gli occhi e scrollare le spalle lasciando a Nell il compito di respingerlo, cosa che non mancava mai di fare con un misto di severità e tenerezza.
Tutto sommato, la vita procedeva tranquilla, intervallata da attimi di tensione, come quando una nave entrava nelle acque dell’isola, solo per essere respinta al largo dalla magia di Nell un secondo dopo, e da momenti di quiete, in cui Reeven e Ysril facevano finta di andare d’accordo e si allenavano insieme. Talvolta Nell ripensava con nostalgia alla valle di Mesil, a sua sorella, suo cognato e sua nipote, e si chiedeva come stavano, se fossero felici e se gli affari andassero bene. Non sarebbe tornato, no, aveva detto addio da tempo alla sua terra d’infanzia, e non ne era pentito. Sentiva che era giusto così e, in tutta onestà, adesso non poteva chiedere di meglio. Lontano dalla civiltà, in compagnia di suo marito e suo figlio, su un’isola deserta, seduti in spiaggia a osservare incantati il tramonto o a bisticciare su stupidaggini. Era tutto perfetto, come aveva sempre sognato, e anche di più.
“Mia fulgida gemma, sei vivo?” scherzò Ysril, ridacchiando al borbottio sconclusionato che ricevette in risposta, mentre giocherellava con le ciocche bionde del suo klheis
Il giovane ripiombò nel presente e grugnì stiracchiandosi, ancora prigioniero sotto il peso del demone.
“Mmpfhmfonno…”
“Hai sonno?”
“Mh.”
“Ma come, già stanco? Credevo che dopo più di vent’anni di astinenza tu fossi pronto ad altrettanti di sesso sfrenato. Sai, per recuperare il tempo perduto…” ammiccò giocoso, premendo il bacino su quello di Nell per fargli sentire l’erezione turgida.
“Sono venuto quattro volte di seguito, dammi tregua. Sarò pure lo stregone più potente del mondo, ma ho bisogno del mio periodo refrattario come qualsiasi umano. Non sono un demone perennemente arrapato come qualcuno che conosco.” lo rimbeccò stizzito.
“Ah sì? E chi è?”
“Oh, beh, sai, è un demone, quindi ragiona con le parti basse, per lo più. Ha un pessimo senso dell’umorismo, è appiccicoso, non sa neanche usare chiodi e martello o innaffiare le piante del giardino senza provocare danni, tocchiccia in continuazione ciò che non dovrebbe tocchicciare, come le erbe velenose che tengo appositamente nascoste proprio per non metterlo in pericolo, e non ha una faccia molto intelligente.”
“Mmm… no, non mi suona familiare.” borbottò Ysril, mentre si prendeva il mento tra le dita simulando serietà.
“Nonostante tutto questo, è devoto, gentile, passionale, premuroso e paziente. Oh, e mi ama alla follia.”
“Aspetta, aspetta! Ecco, questo sì che è familiare!” esclamò, un sorriso trionfante sulle labbra e le iridi ambrate che brillavano di genuino affetto, “Direi che costui si merita un premio, mh?”
Scoppiarono a ridere all’unisono e si baciarono ancora tra le lenzuola sfatte del letto, mentre all’esterno del loro piccolo universo la natura cantava e il mondo andava avanti.
Ysril gli divaricò le gambe con le ginocchia e si insinuò nel mezzo, prendendo a ondulare i fianchi per strusciarsi sull’inguine di Nell e invogliarlo ad arrendersi all’ennesimo assalto. Il ragazzo gemette nel bacio e, a fatica, voltò il viso così che Ysril potesse attaccare il collo e morderlo nei punti che sapeva lo avrebbero acceso. Il suo corpo non aveva più segreti per lui, eppure ad ogni incontro si regalava minuti interi per riscoprirlo, mapparlo, marchiarlo da cima a fondo, dentro e fuori, ridurlo in pezzi e ricomporlo secondo il suo personale gradimento, come se volesse riaffermare l’esclusiva proprietà su Nell. 
Una stoccata decisa e il giovane stregone si aggrappò alle spalle ampie del demone, percependo il piacere crescere un’altra volta e serpeggiargli nelle vene sottoforma di formicolio. Avvolse le gambe attorno al busto di Ysril ed espose l’apertura arrossata in un chiaro invito, che il marito colse immediatamente. Era ancora rilassato dai precedenti amplessi, quindi non sentì dolore, solo un po’ di fastidio. Ysril iniziò a muoversi veloce senza dargli tempo di abituarsi all’intrusione, non ce n’era bisogno, e affondò con frenesia nell’antro bollente del compagno come se non fosse mai abbastanza. Tutte le volte era simile a un ritorno a casa dopo un lungo periodo d’assenza, non esistevano altre parole per descrivere quella sensazione che gli mozzava il fiato e gli inumidiva gli occhi. 
L’orgasmo giunse rapido, entrambi smaniosi di venire e godere insieme, quando all’improvviso la porta della camera ruotò sui cardini e si aprì, rivelando un Reeven annoiato immobile sulla soglia. Però ormai era troppo tardi. Nell emise un grido strozzato e le sue guance si colorarono dall’imbarazzo mentre schizzava il proprio piacere sugli addominali di Ysril, che si riversò l’istante successivo dentro al canale dell’umano con un ringhio roco e bruschi scatti del bacino.
Reeven.” sibilò il demone appena si riebbe, pronunciando il suo nome come una minaccia in sé e per sé, tanto che non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro.
“Mamma, mi annoio.” sbuffò l’ibrido, ignorando deliberatamente Ysril, “Non fate che scopare e scopare e scopare e io sono stufo di tirare sassolini sulla spiaggia. Da solo. Nella solitudine. Nella solitudine più sola.” scandì drammatico.
“Siamo un po’ impegnati, adesso…”
Reeven fece spallucce, come se lo spettacolino di fronte a lui non lo avesse minimamente scalfito, ma subito condusse una mano sul cavallo dei pantaloni per aggiustarsi.
Nell pigolò e nascose la faccia dietro i palmi delle mani. Reeven lo chiamava “mamma” solo quando voleva vendicarsi per essere stato ignorato per ore intere, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine e non reagiva più al nomignolo. Anche se in quel momento avrebbe voluto ucciderlo.
“Allora va’, figlio, rema fino a una città, trova un bordello e sfoga la tensione sessuale.” dichiarò Ysril in tono esasperato, continuando a coprire Nell col proprio corpo.
“Ti sento roteare gli occhi da qui, padre.” proferì con voce piatta Reeven.
“Perché lo sto facendo, oh frutto dei miei lombi.” rilanciò esageratamente affabile.
“Bene, girati così ne parliamo faccia a faccia.” lo sfidò e incrociò le braccia sul petto.
“Se lo facessi, dolce pargoletto mio, Nell morirebbe di autocombustione spontanea.” illustrò Ysril serafico, assestando un’altra spinta nella carne del biondino, e lo guardò mordersi le labbra, serrare le palpebre e irrigidirsi, tutto pur di non tradire un singolo suono.
Una visione celestiale.
“Non è la prima volta che vi sorprendo in atteggiamenti intimi. Posso partecipare?”
“No!” esclamarono in coro i genitori.
“Non ne posso più di usare la mano!”
“Reeven, ho detto no.” sentenziò Ysril in un tono che non lasciava spazio a obiezioni.
“Reeven,” soffiò Nell, il fiato corto e la voce strascicata, lo sguardo puntato sul soffitto, “sulla spiaggia troverai una barca a vela. Sali a bordo e pronuncia ‘kerene havi’. Essa ti porterà al porto più vicino senza bisogno di remare e il vento sarà sempre a tuo favore. C’è pure una scarsella piena di monete sulla panca a prua.”
“Uh. E da quando abbiamo una barca a vela?”
“L’ho materializzata un minuto fa! Vai.” sbottò spazientito.
“Va bene, va bene. Grazie! Vado e torno!” esclamò eccitato, catapultandosi fuori di casa come un fulmine.
Ysril e Nell sollevarono una mano ciascuno e lo salutarono dal letto sbuffando, incuranti del fatto che Reeven non fosse più lì.
“Non so proprio da chi abbia preso.” commentò distratto il demone, ricominciando a baciare e leccare il collo dell’amante.
La porta si spalancò di nuovo facendoli sussultare e Reeven si affacciò con un sorrisino impacciato: “Ehm… qual era la parola d’ordine?”
Kerene havi! Dei…” esalò Nell e si schiaffò una mano sulla fronte.
“Capito. A presto!”
I due coniugi grugnirono ad occhi chiusi e stavolta ascoltarono i piedi del figlio pestare le assi del pavimento, la sabbia, i rami, le foglie e svanire in direzione della spiaggia.
“Dici che è andato?” indagò Ysril.
Nell ridacchiò, stupito di quanto la sua vita potesse essere assurda, e non poté bloccare la risata piena che scosse le sue membra, facendo risplendere i suoi occhi azzurri come stelle. 
Ysril lo fissò in silenzio, incantato e perdutamente innamorato. Pensò che l’eternità era degna di essere vissuta se poteva ammirare il sorriso del suo klheis giorno e notte. Infinite albe li attendevano e avrebbero calcato la terra finché i loro cuori avessero battuto.
Un demone e il suo stregone, insieme per sempre. Immortali. Uhm. Potremmo diventare materiale per una ballata.
“Ysril!”
“Sì, eccomi, mio adorato!”







 
Fine







Ed eccoci giunti alla fine di questa storia! Ci ho messo una vita a terminarla, ma spero ne sia valsa la pena ^^
Ringrazio tutti quelli che hanno letto/commentato/seguito e invito chi non l'ha ancora fatto a lasciarmi un'opinione, positiva o negativa che sia, così che possa prendere le misure per una futura revisione.
Poi, per chi ancora non lo sapesse, ho una pagina facebook dove pubblico notizie sullo stato degli aggiornamenti, progetti futuri e foto/immagini indicative dei personaggi (anche se non sempre riesco a trovare quelle giuste). Perciò, chi lo desidera può stalkerarmi lì ^^
Un bacio a tutti!
Lady1990

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