XIII Order

di Registe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Sora ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Lumaria ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Arlen ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Lumaria (II) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Axel ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Vexen ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Lumaria (III) ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Vexen (II) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Larxen ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Axel (II) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Axel (III) ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Vexen (III) ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Vexen (IV) ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Marluxia ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Vexen (V) ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Zexion ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Marluxia (II) ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Marluxia (III) ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Vexen (VI) ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Axel (IV) ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Axel (V) ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Vexen (VII) ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Zexion (II) ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Zexion (III) ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Vexen (VIII) ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 - Axel (VI) ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Vexen (IX) ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 - Larxen (II) ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Vexen (X) ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 - Larxen (III) ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 - Axel (VII) ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 - Zexion (IV) ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 - Marluxia (IV) ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 - Vexen (XI) ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 - Zexion (V) ***
Capitolo 36: *** Epilogo ***
Capitolo 37: *** Bonus - Le Interviste del Narratore ***



Capitolo 1
*** Prologo - Sora ***


XIII ORDER



 

Prologo - Sora





Villaggio saccheggiato dai banditi





Le gambe lo implorarono di fermarsi, ma le voci dei suoi inseguitori colpirono le sue caviglie con la violenza di una frusta; per cercare di guardarsi indietro inciampò in una radice e cadde riverso nel sottobosco.
L’urlo del vecchio sacerdote, Kirisin, gli diede nuova forza; si rialzò e riprese a correre come mai aveva fatto in vita sua. Sentiva il proprio cuore pulsargli in gola, nelle orecchie e nelle tempie.
Un altro grido, stavolta di quel contadino così gentile da offrire loro un passaggio. Quando quei banditi erano emersi dai cespugli il sacerdote lo aveva spinto sotto le ruote del carretto intimandogli di scappare più veloce che potesse e lui aveva iniziato a correre senza alcuna direzione, lontano dal sentiero, nella mente soltanto il pensiero di allontanarsi da quei malfattori e di correre, correre, correre.
Era scappato riparandosi dietro un gruppo di querce, eppure i briganti si erano accorti lo stesso di lui: poteva sentire già i loro passi sulle foglie secche e le imprecazioni quando scivolavano sul fango fresco; aveva appena piovuto, ma non sembrava bastare per i suoi inseguitori. Discese per una collinetta prendendo velocità, ma quando provò ad evitare un sasso atterrò malamente a terra e la caviglia sembrò esplodergli; si avvicinò ad una seconda collina stavolta carica di grandi rocce grigie, vi passò sopra e si aggrappò ad una di esse per mantenere l’equilibrio e riprendere fiato fosse stato anche solo per un istante.
Una freccia sibilò sopra la testa di Sora: nella sua mente prese forma un piccolo ringraziamento verso gli dèi, ma fu solo un pensiero che gli morì quando la paura riprese il sopravvento e riprese la fuga lasciandosi rotolare per un pendio nonostante la caviglia destra gli urlava di fermarsi. I banditi gridavano tra di loro in uno strano dialetto delle terre del nord: forse qualcuno di loro voleva prenderlo vivo ed aveva bestemmiato contro l’arciere. Si rimise in piedi e si infilò in un sottobosco di pruni senza badare alle spine, alle ferite e alle radici, sentiva solo il proprio cuore scoppiare anche sopra quelle parole che non facevano altro che sovrapporsi alle ultime preghiere disperate del vecchio Kirisin.
Doveva correre, solo correre.
Qualcuno degli inseguitori estrasse una lama ed iniziò a tagliare i pruni.
Ma non doveva pensarci, doveva correre ancora. Doveva trovare un villaggio, una capanna di un taglialegna, doveva, doveva farlo ed aveva i polmoni in fiamme, doveva trovare qualcuno che avrebbe chiamato aiuto in nome degli dèi. Correre, correre, correre più veloce di loro.
Vide l’ombra troppo tardi.
Il primo uomo lo afferrò per la testa, stringendolo e scaraventandolo a terra; si voltò per mordere quel palmo sporco di terra ma quello lo spinse nel fango facendogli mancare l’aria. Una seconda figura accorse non appena cercò con le proprie dita di liberarsi della presa del primo assalitore e lo sentì strattonargli i polsi fino allo spasmo mentre per gridare aiuto il terriccio gli entrò nella bocca immobilizzandogli persino la lingua. Cercò di fare appello alle ultime forze per sollevare la testa e guadagnarsi almeno una boccata d’aria, ma tutte le sue energie si trasformarono solo in un calcio sferrato contro uno di quei briganti che rise al suo tentativo di ribellione e iniziò a frugargli nelle tasche senza dubbio alla ricerca di qualche moneta. Ne arrivarono altri –tre, quattro, forse cinque, non riusciva e non poteva rendersene conto- e sentì qualcuno afferrargli la caviglia dolente e passarci intorno una corda.
Intorno a lui le bestemmie si moltiplicavano mentre l’aria diventava sempre di meno. Sputò la terra e morse una delle dita che lo imprigionavano; la mano sporca si allontanò da lui per un istante, ma non appena cercò di sollevare la testa un pugno, forte e improvviso, trasformò tutto in un’esplosione di dolore e di sangue che sembrò volergli esplodere nella tempia. La stessa persona lo afferrò per i capelli, ma gli occhi di Sora erano coperti da un velo rosso e biancastro e non riuscì nemmeno a vederlo in volto; le voci si erano fatte ovattate, e quando quel bandito lo apostrofò con parole prive di forma cercò soltanto di piegare la testa tra le spalle per proteggersi dal secondo pugno che sarebbe senza dubbio arrivato.
Ma ciò che arrivò non fu un pugno.
L’uomo abbandonò la stretta sui suoi capelli e Sora rovinò a terra. Le voci intorno a lui si erano fatte più alte e concitate; provò a muovere i piedi e non appena si accorse che la corda non era stata stretta intorno ai suoi piedi fece appello agli dèi e cercò di portarsi almeno sulle ginocchia. Si portò una mano alla tempia dolente nel tentativo di allontanare il sangue dagli occhi, ma quando riuscì a sollevare le palpebre senza più nessuno a immobilizzarlo le chiuse immediatamente trattenendo un conato: il bandito che fino a qualche istante prima lo immobilizzava era riverso nel sottobosco, la schiena aperta in due da … una cosa. Una cosa bianca e rossa con una punta ancora infissa tra i visceri dell’uomo. Il ragazzo cercò subito di distogliere lo sguardo.
Si voltò a sinistra cercando una via di fuga verso i pruni, ma qualcosa attraversò di nuovo il suo campo visivo, stavolta leggero come un’ombra.
La figura ammantata di nero comparve dal nulla –no, non poteva essere davvero apparso dal nulla, pensò Sora nonostante la confusione- come se una scheggia della notte più oscura l’avesse scagliata: il giovane si accorse in quell’istante di un altro brigante che si stava muovendo nella sua direzione, ma la persona con l’abito nero si portò tra loro e afferrò l’aggressore per una manica, incurante del coltello che aveva in mano. Sora si retrasse appena in tempo, perché l’attimo successivo una fiammata comparve proprio nel punto in cui il nuovo venuto stava afferrando il brigante; il fuoco arse con una velocità incredibile ed in un battito di ciglia l’urlo del malcapitato attraversò tutta la foresta. Si infiammò completamente, dalla manica alle scarpe fino alla punta dei piedi: Sora strillò a sua volta, più forte, cercando una forza per scappare di lì che non arrivò mai e rimase immobile mentre le fiamme si ritrassero dall’aggressore, lasciandone a terra solo un corpo annerito, e si avvolsero intorno al braccio della figura ammantata come delle serpi per poi guizzare di nuovo ad un suo schiocco di dita contro gli altri briganti. Il mondo si trasformò in un’esplosione di scintille mentre quelle cose bianche e rosse apparvero nell’aria tra le mani dell’uomo, ma il ragazzo si portò la testa tra le ginocchia e cacciò un altro grido nel disperato tentativo di scacciare tutto, di far sparire tutti, di cancellare tutto quello che gli stava accadendo intorno. L’odore del corpo incendiato gli arrivò alle narici e vomitò.
Con la coda dell’occhio riuscì a vedere solo uno dei briganti –l’ultimo, probabilmente- abbandonare l’ascia a terra per fuggire nella foresta, ma tutto ciò che sentì dopo fu uno schiocco di dita e le urla del malfattore che gridò mentre tutto il suo abito prese fuoco.
Il giovane realizzò solo qualche istante più tardi che adesso l’unico rumore in quel posto era quello del suo cuore che batteva all’impazzata. Nel rialzare la testa ed asciugarsi la bocca dai conati vide le strane armi del nuovo venuto dileguarsi con delle fiammate.
Aveva visto alcuni maghi in vita sua, ma nessuno … così.
I maghi erano tutti anziani e saggi, in fondo. I pochi che erano passati nel suo paese conoscevano delle formule per compiere degli incantesimi ed avevano tutti abiti strani, nulla a che vedere con quel vestito nero che dava l’idea di aderire al suo padrone come un guanto. Eppure il suo salvatore sembrava giovane e veloce. Forse solo i demoni potevano fare quel genere di cose, ma Sora non ne aveva mai visto nemmeno uno –non sarebbe stato vivo, altrimenti.
Si chiese se fosse un angelo.
Forse sua madre, con le ultime preghiere, gliene aveva mandato uno che lo proteggesse nel viaggio verso il Grande Tempio. In fondo l’anziano Kirisin nominava spesso angeli con le armi fiammeggianti, e anche se il suo soccorritore non era proprio come se lo aspettava avrebbe dovuto comunque ringraziarlo inchinandosi ai suoi piedi. Nonostante un dolore violento in ogni parte del corpo cercò comunque di alzarsi e venirgli incontro.
Fu solo quando furono a pochi passi di distanza che lo sconosciuto si levò il cappuccio e Sora lanciò un urlo.
Quello non era un messaggero degli dèi.
Era finito tra le grinfie di un servitore del Diavolo.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Lumaria ***


Capitolo 1 - Lumaria





Lumaria





La coltre di fumo aveva inghiottito le stelle. Si sollevava in spirali sonnacchiose, stiracchiandosi come infastidita dalla luce cruda dei bagliori dell’incendio. La puzza di bruciato aveva inseguito Lumaria per chilometri, fin nel folto della foresta, più rapida persino degli zoccoli dei suoi inseguitori.
Il principe accelerò il passo malgrado fosse ormai allo stremo delle forze. Se lui riusciva a distinguere il profilo di ogni foglia nella notte arrossata dalle fiamme, sicuramente lo stesso valeva per quei bastardi dei Durlyn. Ignorò il fiato corto nei polmoni e l’odore acre della cenere, strinse i denti contro le fitte dolorose alla milza. Mettere un piede avanti all’altro, solo quello contava. Fermarsi equivaleva a morire.
Cadde, senza nemmeno accorgersi di cosa lo avesse fatto inciampare. Una radice sporgente, una buca nascosta, forse solo la spossatezza di una corsa durata ore. Seppe solo che non era più capace di alzarsi, e rimase lì, a faccia in giù nella polvere come un contadino ubriaco qualunque, lasciando che le lacrime di rabbia si mescolassero al terriccio già bagnato dall’umidità della notte. Lontano, il crepitio delle fiamme stese il suo velo funebre sulla foresta.
Era finita. Continuare a correre, nascondersi, e per cosa? Un contadino ubriaco almeno ha il proprio campicello striminzito a cui tornare, ma un principe è meno dei vermi della terra senza il proprio castello, le proprie terre e la fedeltà dei suoi feudatari. In una sola notte, l’antico e glorioso casato dei Dayel era precipitato dall’incenso degli altari alla polvere dell’oblio.
Ora poteva sentire la terra vibrare impercettibilmente sotto l’orecchio e i palmi delle mani. Zoccoli. I Durlyn stavano arrivando.
Neppure il pensiero della morte imminente servì a smuovere Lumaria. Venivano a finire il lavoro, e probabilmente una volta abbattuto lui avrebbero potuto festeggiare davvero. Era sicuro di essere rimasto l’ultimo.
Lo avevano sorpreso sveglio per puro caso. Normalmente lasciava che fosse il suo attendente a occuparsi della corrispondenza, ma le proposte di matrimonio erano una questione a parte e meritavano la sua completa e personale attenzione. Gli sembrava irreale che solo un paio di ore prima fosse comodamente seduto al suo scrittorio di mogano a ponderare se fosse più vantaggiosa l’ingente dote di lady Lereyna dei Sartaer o gli importanti contatti politici del padre di lady Beryl, il potente conte di Ferelden.
Era successo tutto all’improvviso. Un lungo suono di corno nella notte, l’abbaiare furioso dei cani dal cortile e poi un’esplosione di urla e fragore di metallo, il fuoco e l’inferno sulla terra. Lumaria aveva afferrato la spada, pronto a difendere il castello di famiglia fino all’ultima goccia del suo sangue, ma dalla finestra il bagliore delle fiamme gli aveva svelato una verità troppo crudele da sopportare, prosciugandogli ogni energia dalle braccia e dalle gambe. Il ponte levatoio era abbassato, i cancelli aperti. Gli uomini dei Durlyn si riversavano nel cortile uccidendo chiunque capitasse a tiro: gli armigeri che accorrevano alla difesa ancora sorpresi dal sonno, con addosso i primi pezzi di armatura recuperati nel buio, i servi in fuga, e persino i poveri stallieri disarmati che cercavano invano di trattenere i cavalli terrorizzati dalle fiamme.
Non era un assedio, né una battaglia. I cancelli aperti alla mercé del nemico potevano significare soltanto una cosa: qualcuno tra gli uomini dei Dayel aveva tradito.
Ma non c’era tempo per cercare i responsabili né per interrogarsi sulle circostanze; il cortile era perso, presto anche le mura interne sarebbero cadute, qualsiasi guerriero con un minimo di esperienza avrebbe capito che la situazione era irreparabile. Tutto ciò che il principe Lumaria poteva fare era portare in salvo la propria famiglia.
Gli istanti successivi erano un vortice confuso nella sua mente, pieno solo di pozze di sangue come quello in cui aveva trovato Fel, il suo attendente, riverso sulle scale con la gola aperta da parte a parte.
Il suo primo pensiero era corso ad Asfania.
Aveva attraversato col cuore in gola i tre piani che lo separavano dalla cappella. Gli uomini del suo casato avevano dato battaglia ed ancora le grida delle truppe si sentiva in lontananza, ma troppi erano i corpi dei suoi sottoposti e troppo pochi quelli del casato dei Durlyn. Aveva raccolto una spada e l’aveva stretta nel palmo incurante di tutto il sangue ancora caldo che prese a scorrergli tra le dita. Non si sarebbe lasciato prendere vivo.
Non si sarebbe lasciato prendere e basta.
La cappella era dall’altro lato del castello, lontana dall’ingresso. Una fiammata si innalzava proprio da quella direzione, ma il suono delle campane era l’unica cosa che importasse, l’unico indizio che suo fratello minore fosse vivo e stesse chiedendo aiuto.
Aveva lanciato uno sguardo oltre ciò che rimaneva del suo padiglione di caccia per cercare un passaggio, un punto qualsiasi che gli permettesse di correre senza ostacoli da Asfania e portarlo via di lì; forse i Durlyn non sarebbero stati così blasfemi da rivolgere le armi contro un Sacerdote di Bronzo, ma non poteva permettere che un membro della sua famiglia venisse anche solo portato via come ostaggio. Si era destreggiato nel colonnato con in mente soltanto il suono delle campane ed il desiderio di uscire da quell’inferno.
Quando due soldati gli si erano parati davanti li aveva uccisi in un istante. Non si aspettavano di trovarlo lì, senza dubbio, e non riuscirono ad alzare gli scudi in tempo. L’idea di raccoglierne uno aveva sfiorato Lumaria, ma simili oggetti lo avrebbero solo rallentato.
Le frecce avevano ripreso a piovere subito dopo, qualcuno doveva averlo notato. Aveva abbandonato il colonnato senza pensarci un istante sentendo il rumore metallico delle cotte nemiche attraversare il cortile nella sua direzione, la sua prima scelta per raggiungere la cappella ormai totalmente sfumata. Con un salto aveva oltrepassato un filare di siepi che ancora non era stato divorato alle fiamme, quello che separava il padiglione di caccia dal roseto che sua madre aveva fatto piantare quando era giunta al castello; quel piccolo angolo non aveva subito la devastazione dei Durlyn e parte di lui aveva teso la testa verso la torre nord, quella che si affacciava sul giardino ed era la dimora dei suoi genitori, ma di essa non si vedeva che la torre avvolta da un fumo nero e denso come la morte.
Lui ed Asfania avevano sempre adorato usare i piccoli spazi tra i cespugli per nascondersi dal loro precettore di rune e testi arcaici.
E, di una cosa ne aveva la certezza, neppure il viscido traditore che aveva aperto la strada ai Durlyn avrebbe potuto conoscere gli stretti passaggi sempre pieni di fanghiglia tra le mura del palazzo ed i capanni dei giardinieri che avrebbero permesso a qualcuno di molto piccolo e sottile di arrivare fin quasi alle spalle della cappella superando qualunque postazione di guardia.
Lumaria non era più un bambino da tanto tempo, ma le campane continuavano a suonare, dunque aveva stretto i denti e si era spinto in quel dedalo di intercapedini trattenendo il fiato senza mai abbandonare la presa sulla spada. Trattenere il fiato non era mai stato così complicato, il petto compresso tra le due pareti ed i piedi forzati sulle punte. Ad ogni passo aveva sentito una parte della sua tunica lacerarsi ed aveva morso le labbra fino a farle sanguinare, sperando che quell’esile rumore non bastasse ai suoi inseguitori per scoprirlo ed attenderlo all’uscita per ammazzarlo come un topo in trappola. Le foglie e le schegge di legno accumulate in quel buco da anni gli erano sembrate scricchiolare col rumore di mille tamburi.
Aveva cercato di contare i rintocchi.
Di vedere nella sua testa una via di fuga.
Le scale che portavano ai merli delle mura erano a qualche istante di corsa dal sagrato. Sarebbero stati esposti, quello senza dubbio, ma Asfania conosceva la magia meglio di lui ed avrebbe potuto fare qualcosa. Cosa di preciso, di quello Lumaria non ne aveva alcuna idea, ma il suo unico pensiero in quel momento era uscire da quel dedalo soffocante, prendere alle spalle abbastanza Durlyn da aprire una via d’uscita per suo fratello e riprendere l’unico membro della sua famiglia ancora in vita. Se fossero riusciti a trovare qualcuno dei propri soldati ancora in grado di combattere avrebbe potuto farsi coprire la fuga.
Ma in quel momento doveva solo pensare ad avanzare, guidato dall’unico suono di speranza.
Aveva svoltato i piccoli angoli sentendo i mattoni fin tra le costole, ma dall’ingresso non vi era alcuna voce, forse segno che i suoi inseguitori avevano pensato di inseguirlo oltre il giardino, magari verso le tombe di famiglia.
Finché non aveva sentito l’abbaiare dei cani.
Non poteva correre, né difendersi. L’aria si era fatta più secca, e non per il fumo. Si era portato ancora più avanti, incapace anche solo di incespicare, il cuore in gola mentre tentava di attraversare l’ultimo spazio che lo avrebbe condotto al chiostro retrostante l’edificio sacro. I mastini dei Durlyn non erano di certo in grado di entrare lì, ma sapeva i suoi inseguitori non avrebbero impiegato troppo tempo ad immaginare dove sarebbe potuto sbucare. Un chiodo infisso tra i mattoni gli aveva ferito il viso, ma la luce era lì, a pochi passi. Senza abbandonare la propria arma nemmeno per un istante aveva proseguito fino alla fine, le orecchie all’erta per individuare soldati o cani, ma i rintocchi sempre più forsennati erano stati l’unico suono che davvero la sua testa sembrava in grado di afferrare e quando era emerso da lì dentro aveva combattuto contro ogni fibra del suo corpo per non gettarsi a terra ed abbandonare tutto. Sarebbe stato senza dubbio più semplice.
La campana stava lanciando ancora il suo grido di battaglia.
Il fuoco aveva disegnato un groviglio di scintille ed ombre tra le strade e Lumaria si era unito ad essi oltre il dedalo di corpi senza vita di alcuni braccianti del castello macellati mentre ancora stavano preparando le consegne per il giorno successivo. Il fumo acre gli mandava le narici e la gola in fiamme, ma riusciva a tenere lontani i conati che si stavano per affacciare davanti a quel massacro che non aveva altra funzione che umiliare ancora di più la sua casata ed il potere perduto.
Solo di rado si era districato nell’area del castello destinata ai villici e le stradine gli apparivano tutte uguali, ma la sagoma dell’edificio sacro gettava la sua ombra sull’intera zona che gli incendi avevano tinto di uno scarlatto crudele: si era mosso dapprima lentamente, poi con più sicurezza finché il ringhiare dei cani non gli aveva dato la spinta sufficiente da uscire dal suo riparo e buttarsi sul lato destro del cortile che dava su un ingresso secondario della cappella.
Lumaria non era mai stato un grande credente, ma quando aveva visto la piccola porta in legno senza alcun Durlyn a presidiarla, ancora chiusa, aveva ringraziato gli dèi di quel piccolo dono; probabilmente non avevano avuto il coraggio di profanare un simile luogo sacro, oppure stavano ancora cercando di aprire il massiccio portone principale che suo padre aveva fatto rinforzare anni prima con barre del ferro più puro. Un miracolo o una fortuna, ma abbastanza da permettere al nobile di fare un respiro profondo, più profondo di prima, pronto ad attraversare lo spazio aperto tutto d’un fiato e correre a prendere suo fratello. Se fosse riuscito a fare in tempo avrebbero potuto sfruttare la stessa via d’ingresso per correre alle mura e calarsi nel fossato.
Fu solo dopo aver mosso un passo allo scoperto che il cuore gli si era fermato.
Nel crepitare dell’incendio e nel crollo di una torre poco distante c’era qualcosa, qualcosa che non avrebbe mai voluto udire.
Il suono assassino del silenzio.
Il fumo adesso portava soltanto il battito forsennato nel suo petto. Non vi era più alcun rintocco in aria. L’unico suono, se di suono si fosse potuto chiamare, era il debole tintinnare delle piastre dell’Armatura di Bronzo della Lince che stavano dondolando in aria ancora indosso al loro proprietario, una figura senza vita appesa per il collo alla lunga corda della sua preziosa campana. Nemmeno il vento carico di polvere riusciva a cancellare i lunghi capelli rosa di Asfania reclinati su un lato, un’unica cosa con la sua Armatura dissacrata.
Lumaria avrebbe dovuto pensare di essere ormai l’ultimo Dayel rimasto, l’unico in grado di vendicarli tutti. L’unico in grado di combattere, l’unico in grado di fuggire, la perfetta capacità di giudizio di cui si era sempre fatto vanto avrebbe dovuto trascinarlo lontano da lì, da quel sagrato ormai esposto e che a breve sarebbe stato brulicante di nemici pronti a finire il lavoro.
Ma non poteva pensare ad altro che al silenzio ed al vuoto. Un fuoco si era alzato da un granaio antistante, e le fiamme si erano riflesse sulla cotta di Bronzo come un piccolo sole al tramonto che sembrava non chiedere altro se non sorgere ancora, vedere una seconda alba e portare gioia su loro tutti proprio quando suo fratello aveva ricevuto l’onore di indossare la Sacra Armatura insieme alla promessa solenne che il venerabile sacerdote Aphrodite avrebbe vegliato a lungo sulla carriera di Asfania.
La luce si era riflessa anche sulla campana, e Lumaria si era ritrovato a maledire quel silenzio e tutti gli dèi.
Solo un sibilo di una freccia lo aveva riportato alla realtà.
Un arciere Durlyn aveva mirato alla sua testa, ma il giovane Dayel si era scostato un istante prima quasi avvertito dall’aria stessa e si era gettato a terra distogliendo per la prima volta dopo chissà quanti minuti lo sguardo dal campanile; si era rialzato quasi avesse avuto mille draghi nella testa che ruggivano per la paura e si era gettato verso le scale ignorando un secondo ed un terzo dardo che avevano ripreso a piovere verso di lui insieme al nuovo, più incalzante abbaiare dei mastini.
Tutto ciò che era venuto dopo … non riusciva a rammentarlo con lucidità.
Aveva corso, si era tuffato, c’era stato il fossato a proteggerlo …
Le braccia del principe non ressero e cadde di nuovo riverso nel sottobosco. Davanti ai suoi occhi la forma della spada tremolava proprio accanto alla sua mano destra, così come oscillavano i cespugli, le radici ed il manto di foglie che si era attaccato a ciò che rimaneva dei suoi vestiti. Si costrinse ad ignorare anche quello, a strisciare se necessario, ma le gambe si erano trasformate in puro dolore. Si era spinto lontano dal sentiero principale rotolando oltre una collinetta, ma non si era illuso nemmeno per un istante.
Quando sollevò la testa vide a poca distanza dalla sua faccia il muso di un cane con le zanne bene in mostra insieme ad altri due mastini che abbaiavano eccitati, uno mettendosi proprio sopra la spada e ringhiandogli; Lumaria cercò di allontanarlo, ma per tutta risposta quello serrò i denti a pochissima distanza dalla sua mano.
L’ombra di una coppia di cavalli oscurò la poca luce rimasta, e Lumaria non ebbe nemmeno la forza di alzare la testa per guardare gli uomini che erano smontati e che avevano estratto le loro spade dai foderi. “Questo è l’ultimo. Finiamo il lavoro”.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Arlen ***


Capitolo 2 - Arlen





Arlen





Non c’era una persona del suo villaggio che non temesse il bosco. Non quel bosco in particolare, ma qualsiasi ettaro coperto da più alberi di quanti riuscissero a contare.
Il che, a pensarci bene, era una cifra davvero esigua.
Nel bosco vi erano più insidie di quante ve ne fossero nelle prediche di Antoy, il vecchio sacerdote; serpenti velenosi dietro ogni sasso, volpi che avrebbero potuto in una notte depredare un pollaio e gettare gli allevatori nella miseria, rovi in grado di strappare anche i pantaloni della fusciacca più resistente.
Per non parlare dei banditi.
Gli occhi di Arlen guizzarono verso un’ombra che si era mossa alla sua destra e sbuffò di rabbia quando vide soltanto un gufo farsi strada tra i rami più bassi di un pino; per un attimo le era sembrato di udire dei passi, ma dopo diversi tentativi di appostamento si era resa conto di essere circondata solo da stupidi animali. Il sole era tramontato già da qualche ora ma non aveva alcuna intenzione di riposare: la lanterna che si era accesa sarebbe durata ancora un paio d’ore ed in caso di bisogno avrebbe usato un po’ della scarsa magia che era riuscita a tenere sotto controllo per emanare un po’ di luce. “Yu-uh … loschi figuri … se ci siete fatevi avanti!”
Era chiaro che a quell’ora della sera anche i loschi figuri fossero impegnati quantomeno a bersi pinte di birra rossa in taverna. Arlen riprovò a guardarsi intorno ancora un paio di volte, ma a quanto sembrava era finita nell’unico bosco del mondo privo di covi di lestofanti, simile soltanto a quelli dove le principesse delle favole per bambine si ritrovavano e venivano aiutate da cerbiatti e coniglietti parlanti inviati dagli dèi per proteggerle. Non avrebbe detto certo di no ad un bel coniglio parlante –avrebbe potuto esporlo a qualche fiera o lo avrebbe gustato al sugo- ma in quel momento nessun roditore era alla portata del suo coltello e dunque calmò i morsi della fame addentando una mela che si era portata nella bisaccia da quando aveva sbattuto la porta di casa sul naso dei suoi genitori.
Ad essere sincera non aveva la più pallida idea di come fosse fatto, né dove potesse situarsi, un vero covo di banditi: dopotutto nessuno era mai sopravvissuto per raccontarlo.
Il primo posto che aveva preso in considerazione era stata la valle Ney, a poca distanza dal paese: il signor Tomby e la sua famiglia erano stati derubati proprio su una delle strade che serpeggiavano tra le colline circostanti, inoltre l’anziano Antoy aveva più volte messo in guardia tutti loro dagli spiriti malvagi che, almeno a sua detta, infestavano la valle. Arlen aveva sempre voluto saperne di più ed era andata diverse volte, armata di carta ed inchiostro, alla dimora del sacerdote per farsi raccontare tutto su quegli spiriti e di come esattamente si nutrissero delle anime dei malcapitati che finivano loro a tiro. L’uomo in armatura aveva sempre evitato di risponderle, facendo persino chiamare sua madre per riportarla a casa e convincerla a dedicarsi ad “intrattenimenti più consoni ad una pia ragazza”.
Il che, ovviamente, l’aveva spinta ad andare alla valle nel preciso istante in cui aveva messo piede fuori dal suo villaggio. A differenza di quei due imbecilli di Fner e Gorbu, i suoi due vicini di casa, Arlen aveva smesso di credere ai fantasmi da quando era stata grande abbastanza da entrare di soppiatto nella bottega di suo padre e prendergli qualche ricordino dal retro dell’edificio: era certa che in quel luogo vi fossero invece dei banditi così intelligenti da terrorizzare i suoi stupidi concittadini fingendosi spettri –non molto originale ma fantastico in ogni caso- e non appena aveva avvistato la valle Ney si era precipitata lungo la discesa erbosa per approfittare della luce del giorno per conoscere degli autentici criminali. Il punto era stato che in quell’enorme conca non vi era nulla di davvero losco: a parte delle vecchie rovine di metallo annerito la cosa più minacciosa che aveva incontrato era stato un lupo così intento a sbranare la sua preda che non si era nemmeno accorto della sua presenza. Le era persino balenato in mente di ucciderlo ed usarne il pelo per farsi una pelliccia, ma faceva fin troppo caldo ed una bestia morta sulle spalle l’avrebbe solo rallentata. Una volta rivoltato ogni zolla della valle alla ricerca di qualche covo si era spinta sul colle Novot, il posto più elevato che conoscesse e dove un vero ladro avrebbe potuto farsi un rifugio e controllare da quell’altezza la strada che portava alla città di Denerim; con l’agilità di una vera Regina delle Scalate si era arrampicata tra i massi che punteggiavano le pendici del colle, ma la delusione di non trovare nulla a parte un altare votivo abbandonato l’aveva seriamente indispettita.
Si era fatta sera e quel bosco era l’ultima alternativa giornaliera alla portata delle sue gambe. La mappa che aveva sottratto ad Antoy era macchiata in più punti ed aveva delle note scritte in delle rune che Arlen non conosceva, ma era abbastanza intelligente da capire dove si trovasse. Sorrise tra sé, piuttosto soddisfatta all’idea che se le altre ragazze del paese si fossero trovate di notte nel bosco sarebbero esplose in lacrime come delle mocciose.
Scagliò il torsolo in un cespuglio: certo, non aver trovato dei tagliagole sul suo percorso era stato piuttosto deludente –insomma, quando la gente non li desiderava vi si imbatteva puntualmente- ma in fondo anche quella era una Avventura. Aveva letto abbastanza libri da sapere che, se il protagonista avesse trovato subito ciò che desiderava, la storia sarebbe finita e lei non si sarebbe mai emozionata a leggerla.
In realtà avrebbe preferito imbattersi in qualche vero pirata piuttosto che in semplici furfanti, ma il suo paese distava davvero troppe decine di giorni di distanza dalle prime coste disponibili. Si era ripromessa di rubare un cavallo o un carro durante il viaggio, ma in tutta quella giornata non aveva incontrato nulla di più grande del lupo tra le rovine.
Quasi a risposta della sua preghiera un nitrito ruppe il silenzio, seguito da un secondo e poi dal battito forsennato di zoccoli in corsa. Il rumore la fece quasi sobbalzare: due luci, chiaramente delle torce, si mossero velocemente tra gli alberi alla sua destra, dirette verso sud. Dei cani ringhiavano più avanti.
Con un guizzo Arlen si sistemò meglio la bisaccia sulle spalle e prese a correre nella loro direzione. Mentre saltava tra un arbusto e l’altro ripensò al fatto che quel bosco era incredibilmente vicino alla tenuta della nobile famiglia dei Dayel: probabilmente qualche riccone annoiato aveva deciso di trascorrere la nottata in una eccitante caccia alla volpe, e lei non poteva perdere un’occasione simile. Il buio, la distrazione, l’emozione: gli ingredienti perfetti per il suo primo furto di cavalli.
Nella corsa spense la torcia con un soffio, affidandosi solo alla magia per creare una luce sufficiente a vedere dove andasse ma non uno spiraglio di più. Sorrise tra sé già immaginando lo sguardo stupito di quei nobili mentre lei fuggiva con un loro destriero, magari portando con sé qualche bel borsello d’oro “casualmente” rimasto attaccato alla sella.
Rallentò la corsa quando vide le torce interrompere bruscamente la corsa e silenziò la magia. Un tronco enorme le diede riparo, poi sbirciò oltre, raccogliendo i capelli per non averli tra i piedi: i destrieri si erano fermati e gli uomini, due soldati dai drappi verdi di un casato che lei non conosceva, erano scesi, torce in pugno. Tre mastini dai collari borchiati stavano circondando la preda e, Arlen se ne accorse sporgendosi meglio, tutto era tranne che una volpe o una lepre. Una ragazza dai luminosi boccoli rosa e l’abito ridotto a brandelli era sdraiata ai loro piedi, con i cani che le ringhiavano addosso e uno che per poco non le aveva staccato una mano.
Non avrebbe potuto chiedere migliore opportunità.
Scivolò in avanti, trattenendo il respiro. Era sempre stata la migliore nel non far sentire i propri passi quando c’era da sgattaiolare fuori ed evitare le noiose lezioni di storia del loro precettore; le bastarono solo cinque passi per raggiungere gli obiettivi.
I cavalli erano enormi e ben sellati, non di certo come quei ronzini che pascolavano fuori dal villaggio buoni solo a tirare il basto: si avvicinò a quello più basso, un baio che continuava a fissare i suoi proprietari al contrario dell’altra bestia, un palafreno bianco, che stava pigramente brucando l’erba senza curarsi di ciò che stava avvenendo intorno a lui. Il cavallo non oppose alcuna resistenza quando si avvicinò per controllarne la sella.
I soldati le davano le spalle. Uno passò la propria torcia all’altro e sguainò la spada. “Questo è l’ultimo. Finiamo il lavoro”.
Eccellente.
Con un po’ di fortuna i due avrebbero approfittato della ragazza per sfogare un po’ dei loro istinti maschili, quindi aveva campo libero.
Afferrò le redini del baio e, con un unico salto degno della Regina delle Avventure, si portò sulla sella. Lo aveva sognato da troppo tempo per sbagliare.
Non aveva ancora infilato i piedi nelle staffe che l’animale impennò.
Arlen si resse con una mano alle briglie e l’altra stretta nella criniera mentre il cavallo tirò un nitrito che costrinse i due uomini a voltarsi; i suoi piedi mancarono le staffe e se non fosse stato per il pomolo metallico sarebbe caduta all’indietro. Uno dei cani abbandonò la preda e strinse i denti a poca distanza dalla sua caviglia.
La guardia con le due torce avvicinò i tizzoni verso il muso del suo destriero, e Arlen dovette fare appello a tutte le sue forze per non cadere di nuovo. “Ma che ca …?”
Non si era mai divertita così tanto.
Il palafreno iniziò ad agitarsi a sua volta, e quando il soldato cercò di tenerlo al suo posto per evitare che fuggisse Arlen non si fece sfuggire l’occasione: con la magia soffiò dell’aria contro una delle fiaccole, rivolgendo la fiamma verso il viso scoperto dell’uomo. Non era abbastanza per dargli fuoco –purtroppo- ma se lo fece bastare. Quello indietreggiò per la sorpresa mentre l’illuminazione calò in un istante, e lei da sotto il vestito estrasse il coltello che teneva legato in una sacca interna. Spinse il destriero verso il soldato ignorando i cani, poi allungò la lama contro il collo trovando subito la carne. Il sangue le schizzò addosso, appiccicandosi persino alla faccia.
Era come lo aveva sempre immaginato. Ed era … grandioso.
Il soldato si afflosciò a terra emanando qualche rantolio, ma quando lei voltò il cavallo per fronteggiare anche l’altro non si curò nemmeno di evitarlo e la bestia gli montò su con gli zoccoli, visibilmente spaventata dalla confusione ma ben salda ed obbediente al suo comando come un vero cavallo addestrato. Si guardò ancora una volta le mani sporche ed il coltello rosso, il cuore che adesso le rimbombava persino in bocca.
L’altra guardia era ad un braccio da lei, stavolta con la spada puntata nella sua direzione ed una posizione piuttosto salda.
Arlen arrestò il baio, fissando la figura avvolta nel drappo verde e da una cotta di maglia non resistentissima ma abbastanza da non poter essere attraversata dal suo coltello. L’uomo sembrava più temprato del suo compagno, e soprattutto sarebbe stato piuttosto difficile coglierlo di sorpresa o passargli alle spalle. Quello si avvicinò a lei con passi lenti, la punta della spada diretta verso il collo del suo destriero.
Con la coda dell’occhio Arlen vide il corpo dell’uomo che aveva appena ucciso, poi la sua spada ancora rinfoderata caduta tra le foglie. Avrebbe dovuto essere molto, molto veloce, eppure non aveva paura: non aveva la benché minima idea di come manovrare una vera spada in ferro, ma non avrebbe potuto scalfire quell’uomo col coltello di suo padre nemmeno volendo, specie se quello avesse ucciso il suo cavallo per farle perdere l’equilibrio. Con un colpo ai fianchi fece impennare di nuovo la bestia, spaventando i mastini, poi saltò di lato e rotolò nel sottobosco. Vide di sfuggita il soldato scartare ed evitare gli zoccoli per poi giungerle addosso, pronto ad infilzarla.
Con le dita trovò il cadavere e la cotta di cuoio, ma non poté distogliere lo sguardo dal guerriero in arrivo. Scivolò e sputò anche fango, cercando solo con le dita il fodero che avrebbe rappresentato la sua salvezza; lo trovò a malapena e corse per raggiungere l’elsa, ma l’altro le fu addosso. Tirò un calcio verso le sue caviglie, ma un dolore fortissimo la colpì quando si accorse che anche i suoi stivali erano rinforzati in metallo e tutto ciò che ottenne fu di farlo indietreggiare di un passo o due.
Si tirò sulle ginocchia con il sapore dei legnetti fin nella gola, pronta a tutto: tirò l’elsa verso di sé, trovando la spada anche troppo pesante. Cercò di sfoderare la lama, ma quando tirò una seconda volta si accorse dei lacci che la assicuravano al fodero; fece per tagliarli con il coltello, ma l’uomo fu su di lei. Evitò il colpo di spada per un soffio, grazie ai suoi riflessi, ma quando riuscì a riprendersi sentì il guanto di maglio della guardia afferrarle un braccio e spingerla di nuovo a terra, stavolta con un calcio contro il suo ginocchio che non riuscì ad evitare. Allungò la mano verso il cadavere, ma era fuori dalla sua portata.
L’uomo torreggiava su di lei, ma anche a quella distanza poteva sentirne l’alito marcio. “E tu cosa pensavi di fare, donna?”
Non aveva alcuna paura. Non poteva averne. Non quando tutto era così dannatamente perfetto e vivo. Poteva ancora ammazzare quella guardia come un maiale, aveva ancora un po’ di magia nelle vene che non chiedeva altro di trasformarsi in qualcosa di rapido come un fulmine. “Divertirmi, ovvio!”
Mosse le dita in avanti già sentendole pizzicare, ma un nuovo rivolo di sangue le cadde proprio sulle labbra.
Alzò di nuovo lo sguardo all’uomo, rantolante, fissando la lama sottile di una spada emergergli proprio dallo stomaco e dalla cotta distrutta. Si scansò appena in tempo prima che le crollasse addosso. La figura alle sue spalle estrasse la spada e lo spinse a terra, ma prima che quello potesse anche solo respirare gli si avventò sopra una seconda volta, spingendogli l’arma nel collo con quella che chiaramente era tutta la rabbia che aveva in corpo. Quando riuscì a rimettersi in piedi Arlen vide gli occhi azzurri della donna che gli uomini stavano attaccando fino a qualche istante prima volgersi verso di lei, sgranati, prima di sfilare la spada dalla gola della sua vittima. Poteva vedere delle venature di rosso in quelle iridi azzurre anche nella penombra, ma prima che quella potesse articolare qualunque cosa cadde a terra, portandosi le mani all’altezza della caviglia.
I cani provarono ad abbaiare ancora qualcosa, ma parvero capire che era meglio lasciar stare lei, l’indiscussa Regina della Zuffa, e guairono scomparendo nella macchia.
Con un sorrisetto Arlen diede un calcio al soldato appena caduto giusto per controllare se fosse ancora vivo, ma la principessina dai boccoli rosa aveva fatto un bel lavoro. Si avvicinò alla sua forma dolorante, sbrigandosi subito a allontanarle la spada con un calcio prima che si facesse prendere qualche strana idea: era molto più alta di lei, almeno due palmi, ed aveva delle spalle che sarebbero potute stare benissimo su un uomo. Nonostante i graffi ed il sangue che le usciva da ogni lembo libero di pelle aveva una tunica di una stoffa bellissima, pesante, di quelle che sua madre avrebbe pagato un occhio della testa per poterla anche solo stringere tra le mani insieme ad una spilla con cui avrebbe probabilmente potuto comprare tutto il mulino del signor Tomby, i suoi terreni e tutti gli animali.
Come suo primo giorno di Libertà non era stato niente male.
Portò la mano verso quella spilla, ma la principessa doveva avere ancora qualche briciolo di velleità e cercò di scansarla. Arlen ammise tra sé che per essere una nobile spocchiosa aveva energie da vendere, ma non poteva lasciarsi sfuggire il suo primo furto: prese il coltello e glielo sventolò sotto il naso, giusto per farle capire chi era tra loro a comandare. “Se fossi in te, carina, ringrazierei gli dèi per averti salvato le vita e lascerei prendere alla Regina degli Agguati tutto quello che desidera. È il tuo giorno fortunato, non costringermi a sventrarti come un maiale!”
“Forse sei tu a dover ringraziare me, donna!”
Arlen cercò di osservarla meglio. La voce suonava così assurdamente fuori posto. “E tu saresti … un uomo?”
Non attese la risposta per esplodergli a ridere proprio davanti alla faccia. Cielo, conosceva abbastanza ragazze che avrebbero ucciso per dei capelli lunghi e setosi come quelli! Rosa per di più!
Era una serata fantastica, assolutamente folle. E l’espressione della principessa –perché anche con quella voce continuava ad essere molto più femminile di tutte le donne del suo paesino- era il premio finale della sua avvincente battaglia. “Oh, mio virile uomo dalla chioma rosa, dovrei forse baciarvi i piedi e lustrarvi le scarpe per aver salvato una povera e fragile fanciulla come me? Sapete, temo di essere confusa, per un momento ho persino pensato di essere io il prode cavaliere in armatura lucente e voi la damigella in pericolo!”
“Ti consiglio di correggere le tue parole, popolana”.
Certo, nonostante fosse sul procinto di svenire aveva ancora la forza di sputare scemenze. Avrebbe persino potuto apprezzare la cosa. “Sei al cospetto del principe Lumaria dei Dayel. Ed ora che lo sai … sarebbe tuo dovere condurmi immediatamente da un guaritore”.
“I Dayel? Quelli che affamano il popolo?”
Gli elementi per una vera storia d’avventura c’erano tutti: la giovane ed indomita Regina dell’Avventura libera come il vento, i misteri del bosco, un duello contro delle guardie sin nel primo (o secondo) capitolo, un principe in difficoltà … Arlen non poté far altro che gioire, perché in quel momento vi era una sola cosa da fare per rendere il tutto un vero capolavoro e per trasformare la sua storia in una di quelle che i vecchi sacerdoti con la barba avrebbero messo alle fiamme perché “non adatta ad una pia ragazza”.
“Ho capito, in tal caso …”
Per sicurezza spinse ancora più lontano la spada del tipo, poi gli diede un sonoro calcio nello stomaco e gli premette seriamente il coltello contro il collo “… posso rapirti, vero? Non ho mai chiesto un riscatto, sai? E sei proprio il tipo che la nobile famiglia pagherebbe a peso d’oro!”
Dopotutto lei era Arlen, ed era pronta a diventare Arlen la Regina dei Briganti.
La gente avrebbe tremato al solo sentire il suo nome.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Lumaria (II) ***


Capitolo 3 - Lumaria (II)





Uomo incappucciato





“Mi stai dicendo che ho appena rapito l’unico nobile che non vale un cavolo?”
Lumaria si strinse ancora di più nel mantello cercando di cancellare il frastuono di quella povera pazza. Bevve ancora un sorso di birra scura dal boccale, mandando giù con disgusto quel liquido che probabilmente era stato ricavato dal piscio di un asino e che a malapena riuscì a levargli dalla gola il sapore del fango e delle lacrime. “Credi che la cosa mi faccia piacere?” sibilò.
Fissò l’ultimo pezzo di pane nero che lo osservava dal fondo del vecchio cestino che l’oste del Porco Zoppo aveva appoggiato sul loro tavolo con un grugnito insieme a due fette di carne salata che si era ritrovato a divorare prima ancora di rendersi conto di cosa stesse effettivamente mettendo sotto i denti: suo padre avrebbe fatto tagliare la mano a chiunque avesse osato mettere sulla tavola imbandita dei Dayel anche solo una fetta di quel pane duro di tre, forse quattro giorni prima, e Lumaria si accorse con odio di star fissando quel cibo degno solo delle galline con le labbra secche e lo stomaco infuriato. Allungò la mano e lo strinse prima ancora che la sua rapitrice potesse reclamarlo per sé, cercando in tutti i modi di soffocare il groppo alla gola mentre la crosta dura trovò in un istante la strada che andava dai polpastrelli al suo palato.
La voce della sua educatrice che gli ricordava di masticare almeno dieci volte un boccone prima di deglutirlo si perse tra i mille e più ricordi, soffocata dal suono della crosta sotto i denti, inghiottita in fretta e furia.
Non c’era più nessuno.
Per un istante gli parve di scorgere la chioma rosa di Asfania e volse la testa nella sua direzione, ma vide solo una prostituta venire gentilmente allontanata da un mercante Radigata e passare ad un altro tavolo, sollevando in modo sguaiato la gonna. Un uomo armato fino ai denti, probabilmente un mercenario, la afferrò per i fianchi e la mise a sedere sul bancone dell’oste, poi prese una moneta di rame dal borsello e gliela fece passare proprio tra le gambe rubandole un verso così osceno che Lumaria si costrinse a volgere la testa da un’altra parte e ad ignorare le voci di molti avventori che spingevano il mercenario a continuare. Si impose di fissare una piccola macchia di vino –o forse era sangue- sullo stipite dell’ingresso della taverna, ma un vecchio straccione si parò proprio davanti ai suoi occhi con le orbite venate di rosso e la puzza di vino rancido che lo colpirono come un calcio nel torace. Proclamando a gran voce di essere il Grande Satana Baan in persona venuto in quella città per purgarla dalla piaga dei funghi sotto le unghie, l’accattone venne avvicinato da un paio di giovani uomini che lo trascinarono fuori, spingendolo oltre lo stipite: anche dalla sua panca Lumaria riuscì a sentire il rumore dei bastoni e d’istinto si strinse ancora di più contro il muro, cercando di non ricordare. D’istinto trangugiò tutto quello che era rimasto nel suo boccale nella speranza che la troppa birra potesse dargli un briciolo di sollievo, ma l’unica cosa che ottenne fu un maggior bisogno di rimettere: l’interno del Porco Zoppo puzzava quanto il porcile del suo palazzo, il sudore e le latrine vicine si infilarono tra le sue narici ed il sapore della bevanda fece il resto; trattenne a stento un conato, poi cercò di alzarsi in piedi e raggiungere l’esterno per mendicare almeno una boccata d’aria.
Non aveva ancora poggiato i piedi bene a terra che sentì qualcosa sibilargli addosso e piazzarsi pericolosamente tra le sue gambe. “Ti ho dato il permesso di alzarti, Lumy?”
“Ho solo bisogno di respirare un po’ …”
Si morse subito il labbro per il tono quasi debole con cui le aveva risposto. Stava calpestando tutto il suo orgoglio, ma farlo davanti a quella popolana chiaramente pazza era un prezzo fin troppo alto. Specie quando la ragazza gli aveva sottratto la spada e la stava usando per minacciarlo anche da sotto il tavolo. “… e comunque non ti ho dato il permesso di chiamarmi così”.
“Non chiedo il permesso a nessuno più o meno da quando avevo cinque anni, Lumy. E comunque preferisci che gridi a tutta la taverna di avere tra le mani l’ultimo rimasto della famiglia dei Dayel? Ho come l’impressione che ci sarebbe qualcuno disposto a prendere la tua testa e, fidati, non solo i tuoi amichetti Durlyn. Voi Dayel non siete proprio amati da queste parti, sai? Mio padre dice sempre che quasi quasi preferisce pagare i tributi ai demoni che non a voi nobili!”
“Li pagasse pure …”
D’istinto si portò le dita alle labbra, cercando di trovare sollievo nello stringere qualcosa che non fosse il collo della sua rapitrice dai capelli biondi. In tutta risposta lei gli affibbiò un calcio proprio dietro il ginocchio, rubandogli un guaito di dolore che per fortuna nessuno in quel letamaio riuscì a sentire. Portò la mano alla parte ferita, dove avevano applicato delle fasciature di fortuna, e sentì la fitta della ferita in procinto di riaprirsi.
Subito dopo il loro incontro Arlen –quello era il nome della bifolca- lo aveva trascinato fino a quel borgo; gli aveva ripetuto il nome almeno tre volte, ma nella testa di Lumaria vi era soltanto il dolore delle ferite, la stanchezza e l’immagine del suo castello ancora in fiamme. Si era voltato solo una volta, nel corso della loro cavalcata notturna, e dalla collina il fuoco aveva continuato ad illuminare la notte per ore. Arlen lo aveva spinto nella stamberga di un guaritore di nome Jae non appena erano apparse le prime luci del giorno, e quel vecchio bastardo sdentato gli aveva stretto a forza uno straccio tra i denti prima di estrargli la punta della freccia. Non aveva mai sentito tanto dolore.
Almeno finché l’uomo non aveva preteso di essere pagato.
Lumaria avrebbe preferito perdere un occhio piuttosto che dar via la sua spilla di famiglia. Aveva sempre avuto a disposizione più denaro di quanto ne avesse saputo contare, ma quando aveva digrignato nel dolore della ferita che lo avrebbe ricompensato non appena sarebbe ritornato al potere quello gli aveva strappato la spilla a forma di rosa dall’abito e li aveva buttati entrambi fuori dal suo tugurio. Le poche monete che Arlen aveva trovato nelle bisacce dei cavalli dei Durlyn erano bastate appena per pagarsi quel pasto disgustoso.
Lo strappo sul vestito era l’ultima testimonianza del gioiello che ogni futuro erede dei Dayel avrebbe dovuto indossare tutti i giorni, ed il solo pensare di averlo barattato con una fasciatura lurida e qualche unguento gli bruciò dietro agli occhi più amaro di qualsiasi lacrima. Se solo le sue conoscenze di magia fossero state migliori avrebbe persino provato a far rimarginare quella ferita da solo, ma erano trascorsi anni da quando aveva praticato l’incantesimo più elementare e senza dubbio non si sarebbe mai affidato alle magie chiaramente amatoriali della sua aguzzina. Riuscì ad avvicinare a sé uno sgabello abbandonato e vi appoggiò la gamba sinistra.
Su una cosa Arlen aveva ragione: in quella locanda non avrebbe trovato nessuno disposto ad aiutarlo, né gente disposta ad accettare la sua parola di nobile come compenso. Osservò il mercenario che aveva appena suscitato ilarità con la prostituta, chiedendosi con quanta facilità si sarebbe inchinato a lui se solo fosse stato ancora il principe e non un pezzente qualsiasi, di come avrebbe scodinzolato al pari di un mastino davanti all’osso di fronte alla borsa piena di monete d’oro se gli avesse chiesto di far fuori quella ragazza e tutti i Durlyn che si fossero parati sul suo cammino. E lo stesso poteva dirsi di tutti gli avventori di quella bettola, compreso un gruppo di cacciatori che si stava pavoneggiando sotto la testa di un cervo impagliato nemmeno l’avessero ucciso loro; suo padre gli aveva sempre ripetuto che ogni uomo poteva essere acquistato per il giusto prezzo, ma purtroppo tra le dita di Lumaria vi erano meno monete di bronzo di quelle nelle tasche dell’accattone ubriaco che era stato trascinato fuori di lì. Cercò di focalizzare la testa su tutti coloro dai quali avrebbe potuto chiedere aiuto in nome della vecchia amicizia con il suo casato, ma i suoi pensieri vennero interrotti da un piatto di terracotta appoggiato con ben poca grazia sul loro tavolo con due fette di carne, delle patate arrostite, alcune fette di formaggio ed una forma di pane senza dubbio migliore del pezzo di marmo che era stato servito loro poco fa.
L’oste prese i loro boccali vecchi e li sostituì con altri nuovi, adesso pieni. “Credo che il vostro ammiratore voglia vedervi in forma, signorine. Mangiate a sazietà”.
Lumaria si costrinse a sopportare anche quell’ennesimo insulto. Lo stomaco ebbe la meglio su qualsiasi forma di pensiero intelligente e strinse una delle fette di formaggio prima che Arlen potesse metterci sopra le mani, ma con gli occhi seguì il gesto dell’oste, il pollice riverso che indicava il loro benefattore.
Più di una volta degli uomini di Radigat si erano seduti al desco di suo padre. Grandi mercanti.
Grandi oratori.
Se il suo nobile genitore fosse stato davvero ad ascoltare ogni singola parola uscita dalle loro bocche probabilmente avrebbe venduto loro l’intero castello, forse anche il corredo della sua nobile madre. Lumaria li aveva sempre trovati dei commensali fin troppo fastidiosi ed invadenti –una loro ospite Radigata di una certa età aveva insistito per ascoltarlo declamare almeno cinque sonetti di un poeta che disgraziatamente il suo precettore gli aveva proposto proprio quel mese- ma suo padre adorava ripetere che le alleanze si stringevano annuendo davanti ad una tavola imbandita con del buon vino, non certo sui campi di battaglia come facevano le bestie. E nulla rendeva i Radigati più disposti a scendere a patti ragionevoli di lasciarli parlare per ore della gloria dei loro avi e della magnificenza della loro prole. Si era considerato molto fortunato quando nessuna richiesta di alleanza matrimoniale era stata richiesta da una delle loro famiglie.
Il mercate Radigata –lo stesso che qualche minuto prima aveva respinto la corte della prostituta- era seduto al suo tavolo, intento a scambiare qualcosa con altri avventori alla propria sinistra. La sua carnagione bruna risaltava persino tra le facce arrossate e butterate dei vari interlocutori, resa ancora più evidente dai capelli bianchi, quasi argentati, che emanavano riflessi luminosi tutte le volte che l’uomo scuoteva la testa. Tra i ciuffi acconciati in maniera elegante emergevano le orecchie grandi, leggermente appuntite, di cui i Radigati facevano sempre bella mostra nonostante alcune malelingue le considerassero una spia di sangue della famiglia demoniaca nelle loro vene; doveva avere una quarantina d’anni. L’uomo si voltò nella loro direzione con fare discreto e, quando incrociò lo sguardo con Lumaria, sollevò lievemente un bicchiere di vino rosso quasi ad invitarli a raggiungerlo.
Lumaria sapeva riconoscere un nobile quando ne vedeva uno. E nessun nobile dalle pure intenzioni avrebbe messo piede in una taverna simile.
La sensazione che quell’individuo li avesse osservati per tutte quelle ore gli fece immediatamente risalire la birra in bocca, accompagnata alla terribile sensazione che il pasto appena giunto dal loro munifico “benefattore” avesse un secondo e più orribile fine. Si maledisse per la propria idiozia e con uno sforzo incredibile per la sua gamba ancora sanguinante si tirò in piedi. “Arlen, lascia stare tutto e muoviamoci!”
“Suvvia, Lumy, proprio ora che …”
Avrebbe lasciato volentieri lì quella dannata ragazza, ma in quel momento, specie quando il Radigata li stava fissando, aveva il dannato bisogno di qualcuno che potesse aiutarlo a camminare. Lumaria la afferrò per il polso e, fosse santificato l’intero Nirvana, lei non oppose troppa resistenza e si sollevò dal tavolo. “Questo pasto era una scusa per trattenerci q …”
“Guardate, un fiorellino fuori dal suo vaso. L’indicazione era giusta”.
Lumaria rimase immobile, fissando la punta della spada a meno di un palmo dalla sua gola.
L’ingresso della taverna si riempì di uomini Durlyn. Uno di loro scaraventò a terra il loro tavolo mentre tre si avventarono su Arlen non appena l’idiota portò la mano alla cintura per estrarre il coltello. Altri continuarono ad entrare dalla porta ed a estrarre le armi fino a creare un muro di armature, scudi e spade nel bel mezzo della stanza. Lumaria girò gli occhi per chiedere aiuto, ma gli avventori del Porco Zoppo voltarono tutti lo sguardo nel loro piatto, oste compreso. “Complimenti per la fuga, principe Lumaria. Lord Bernard Durlyn ha promesso di ripagare a peso d’oro chiunque gli riporti la vostra testa”.
Il capitano, quello che gli stava parlando con la spada in pugno, sghignazzò sotto il doppio mento ed il dedalo di cicatrici che gli arrivava fino al collo. “Stasera ci conviene mangiare a sazietà, ragazzi!”
Un muro di risate lo circondò. Lumaria cercò disperatamente di guardare in direzione dell’unica via di fuga, la finestra dall’altro capo della taverna, ma uno dei soldati si era piazzato proprio davanti ai battenti. Mosse le mani anche solo per chiamare qualche incantesimo elementare, ma per tutta risposta la punta della lama del capitano si avvicinò fino a sfiorargli la pelle. “Oste, adesso usciamo e sistemiamo la questione. Quando rientriamo vogliamo trovare la tua carne migliore ed il vino per gli ospiti di riguardo. Offre Lord Bernard!” disse, sospingendolo verso la porta. “La ragazza la terremo per il dolce”.
“Mi perdoni, buon uomo. Credo ci sia stato un disgraziato malinteso”.
La prima cosa che entrò nel campo visivo di Lumaria fu una mano avvolta in un guanto di pelle nero che si appoggiò proprio sulla lama premuta contro la sua gola. Il capitano grugnì all’intervento del nuovo arrivato e ruotò la lama fino a fargliene toccare il filo, ma l’altro non allontanò la mano. “I due giovani sono miei compagni di cena, l’oste può confermarvelo. Ritengo che vi stiate accanendo sulle persone sbagliate”.
Visto da così vicino, il Radigata lo superava almeno di un palmo. Aveva una voce piuttosto profonda ma dura, tipica di chi non fosse abituato a ricevere un “no” come risposta. Accanto alle grandi orecchie emergevano degli zigomi sporgenti ed affilati, ben marcati persino per la media della loro gente. Ma ciò che colpì d’impatto Lumaria, nonostante la sua scomoda posizione, furono gli occhi.
La lama riflesse soltanto un guizzo di quelle iridi color ambra intenso, quasi gialle se colpite dai riflessi del sole; erano accesi, curiosi, di un colore peculiare persino per la sua gente e Lumaria capì che anche i soldati Durlyn avevano avuto il suo stesso presentimento perché istintivamente un paio fecero un passo indietro. A quella distanza percepì il debole tintinnare della magia che avvolgeva l’uomo nel suo abito lungo, scuro, e parte del suo cervello si domandò in fretta e furia se fosse meglio rimanere tra le grinfia dei suoi nemici o tra quelle del Radigata; una domanda che trovò subito risposta ricordandosi a chi appartenesse la lama ancora troppo vicina alla sua gola. Guardò oltre il tavolo, sperando che quella pazza di Arlen potesse fare abbastanza idiozie da sembrare un diversivo, ma anche lei stava osservando incuriosita il nuovo venuto –che chiaramente non aveva paura di almeno tre spade puntate contro il suo petto- mentre cercava di divincolarsi dalle guardie. Il capitano fece andare gli occhi chiari da lui al Radigata, poi di nuovo su di lui. Lumaria avrebbe voluto strapparglieli, quegli occhi. “Quando si tratta di oro il vecchio Jae non sbaglia mai. Ha asserito di aver curato sua eccellenza il principe Lumaria dei Dayel proprio stamattina. Adesso le consiglio di tornare al suo vino, signore. Intromettersi negli affari della famiglia Durlyn non fa bene alla salute, sa?”
“Invero dovrei avere più riguardo della mia salute. La ringrazio molto per il riguardo, capitano, ma sarei davvero desolato se infastidisse questi due giovani. Non sarebbe possibile risolvere la questione …” sussurrò, portandosi ancora più vicino al soldato incurante delle lame che cercarono di interporsi. Portò con fare distratto una mano al fianco, ed anche un cieco avrebbe riacquistato la vista al sentire il lieve risuonare di monete in un borsello grande quanto la zanna di un drago “… in un altro modo? Possibilmente fuori di qui”.
Lumaria cercò di almanaccare rapidamente la lista di tutte le persone che avrebbero potuto pagare così tanto per sottrarlo ai Durlyn, ma gli vennero solo in mente una manciata di casate –i Fa’ur, i Jatonilla e forse anche i Vintemya- che avrebbero versato quella somma di denaro per ucciderlo con le loro stesse mani. Cercò lo sguardo ambra dell’uomo, ma le pupille di quello erano puntate sul capitano e non mosse un muscolo finché l’uomo in armatura non emise un verso più simile ad un grugnito che ad un assenso. “Di certe cose è bene discuterne sul retro, non trova?”
“Sono pienamente d’accordo. Tra galantuomini si trova sempre un accordo”.
Un paio di uomini si avvicinò a loro e Lumaria venne spinto senza troppi riguardi attraverso la sala, cercando ancora uno sguardo da quella plebaglia di avventori che non arrivò. L’oste spalancò una piccola porta di servizio, ed il tanfo di letame che li accolse gli fece presagire il peggio.
Fu solo quando una guardia gli diede una spinta un po’ più forte delle altre si accorse di un particolare, un dettaglio che senza dubbio era sfuggito ai suoi persecutori: dall’altro lato della taverna, dove delle travi basse in legno facevano cadere delle ombre agli angoli della stanza, una figura enorme, alta e massiccia si staccò dalla parete dove era stato fin dall’inizio della conversazione, silenzioso fin quasi a svanire anche agli occhi della gente. La sagoma -un uomo dagli stessi abiti lunghi e neri del Radigata, con un cappuccio calato fino agli occhi- attraversò il pavimento in legno senza emettere alcun fiato, fin quasi a raggiungere gli ultimi soldati.
 
“Suppongo che questa possa essere una cifra ragionevole …”
Il Radigata doveva essere assolutamente matto. Oppure ben più pericoloso di quanto le apparenze mostrassero.
Lumaria si trovò quasi a sperare nella prima opzione quando vide più di cinquanta monete d’oro tintinnare a terra ai piedi dei suoi assalitori in quel borsello portato quasi in bella vista in una taverna dove l’uomo più santo avrebbe venduto un proprio figlio solo per metà del suo contenuto. Se non si fossero trovati nel sudicio retro del Porco Zoppo probabilmente dei briganti li avrebbero uccisi tutti per procurarsi quel bottino. E, chiaramente, anche i Durlyn avevano pensato la stessa cosa.
Il capitano scrutò ogni singola moneta caduta, poi avvicinò la punta della spada al borsello quasi si trattasse di un serpente velenoso. Lumaria si morse il labbro, capendo che i Durlyn non avevano assoldato tra le loro fila dei completi idioti, sebbene gli occhi delle altre guardie sembravano quelli di sparvieri rapaci pronti a gettarsi sulle prede. Il misterioso quanto pazzo benefattore guardò il capitano con un’espressione del tutto dispiaciuta. “Sono oro vero, credetemi. Vexen non ammetterebbe nemmeno la più piccola impurità nei metalli del suo laboratorio”.
“Mi fido sulla parola”.
Dopo qualche istante di riflessione, l’uomo costellato di cicatrici si chinò e prese in mano la sacca, fermandosi solo qualche istante a rimettervi dentro le monete cadute. “Ciò che non comprendo è per quale motivo qualcuno dovrebbe sborsare tutto questo denaro per un principe pezzente ed una contadina”.
“Oh, è molto semplice. Lo faccio per il vostro bene” rispose il Radigata, allargando le braccia come a voler spiegare un concetto ovvio ad un moccioso di cinque anni. Solo che, in quel caso, il concetto non era del tutto ovvio ed i mocciosi erano in realtà dei mercenari professionisti armati fino ai denti. “Accettare quella somma sarebbe tutto nel vostro interesse, non trovate?”  
“Sappiamo da soli quali siano i nostri interessi, signore. E, a pensarci bene, lei rientra perfettamente nel nostro concetto di affari” disse, con un ghigno che non sfuggì allo sguardo di Lumaria mentre serrò alla cintura il pesante borsello “Uomini, prendete questo signore! Sono convinto che varrà da solo anche più di queste monete!”
Purtroppo, sospirò Lumaria tra sé mentre cercava ancora una volta di divincolarsi dalla stretta dei suoi aguzzini, il ragionamento del comandante era perfetto e lineare. La plebaglia ed i soldati in particolare tendono a compiere qualunque atto spregevole per qualche soldo in più. Dietro di lui sentì Arlen trovare la questione assolutamente divertente, ma per quel che lo riguardava non avrebbe permesso alla sua unica via di fuga, per quanto pazza, ingenua, sprovveduta o qualunque altra deformità mentale che gli dèi avessero partorito, di farsi catturare e quindi mandare a monte la flebile luce di salvezza che gli era apparsa davanti nel momento in cui quel Radigata si era avvicinato a loro. Si guardò intorno, ma a parte una coppia di ratti non vi era nulla di utile. Un paio di guardie, le ultime uscite dalla taverna, si portarono ai fianchi dell’uomo di nuovo con le armi in pugno e Lumaria sferrò un calcio sugli stinchi al mercenario che lo avviluppava con la gamba ferita, ma quello per tutta risposta gli piazzò un pugno alla base della schiena. Nonostante il dolore cercò di sfuggire alla presa, ma il suo peso non riuscì a forzare le braccia dell’uomo né i suoi bracciali metallici.
Poi, d’un tratto, qualcosa scosse Lumaria. Non fu né un calcio, né un pugno, nemmeno uno spintone o una stretta. Fu come se tutta l’aria intorno alle sue gambe fosse stata scaraventata di netto verso il basso, e l’attimo dopo la presa del suo carceriere si allentò e lui cadde a terra. Nonostante le fitte cercò di rialzarsi, ma non si era nemmeno posto sulle ginocchia che una seconda ondata lo scagliò di nuovo in un angolo del vicolo e si ritrovò riverso in alto, gli occhi puntati al cielo.
Sopra di lui le pareti del Porco Zoppo iniziarono ad oscillare.
Il primo istinto fu di portare le mani alla testa per proteggersi, ma i suoi palmi sentirono di nuovo la terra scuotersi sotto di lui, accanto a lui, tutto intorno a lui quasi come se il Cavaliere del Drago in persona stesse ruggendo per uscire dal sottosuolo. Si raggomitolò nel lerciume del vicolo cercando con gli occhi la via di fuga, ma quello che vide tra le scosse gli fece morire il cuore in gola.
Il soldato che fino ad un istante prima lo stava afferrando sparì.
Lumaria vide le sue forme scivolare dentro la terra del vicolo quasi risucchiate da un vortice, come se una fossa fosse stata scavata proprio sotto le sue gambe; in meno di un istante l’uomo abbandonò la presa della spada e venne trascinato in basso tra grida di terrore, e quando la voce roca del capitano gli fece eco si accorse che tutti i Durlyn stavano lottando per sopravvivere afferrando con le mani ciò che rimaneva del suolo del vicolo mentre sprofondavano nella terra e nei rifiuti. D’istinto il principe sollevò le gambe e se le portò al petto, lontano dal terriccio, ma mentre tutto intorno a lui continuava a scuotersi e vibrare vide il Radigata ancora in piedi, perfettamente calmo in mezzo a quella devastazione anche quando un pezzo dell’edificio al loro fianco si staccò e cadde in un’esplosione di calcina e fango proprio ad un palmo dalla sua figura. “Lexaeus, ti ringrazio. Adesso però ti chiedo di fermarti. Abbiamo causato fin troppo scompiglio”.
Una nuova scossa, più violenta di ogni altra, si abbatté in mezzo a loro. Lumaria si ritrovò in gola un suono odiato, la propria voce quasi spezzata dalla paura mentre un secondo pezzo di parete venne giù proprio accanto a lui e lo coprì di polvere. Sbatté con violenza la schiena a terra e si preparò al peggio.
La vibrazione sparì proprio come era apparsa.
Non si chiese quanto fosse rimasto lì, col cuore in gola. Sapeva solo di avere le dita strette convulsamente al terriccio fino a far sanguinare le unghie e di avere calcina anche sulla lingua. La sua testa sentiva solo la terra tremare per afferrarlo, premendolo in basso quasi ad avvinghiarsi ad un cavallo in procinto di scalpitare e pestarlo a morte. Gli occhi erano chiusi, sbarrati, quasi a non voler vedere gli edifici rovinargli addosso. Sapeva che qualunque cosa fosse era terminata, eppure tutto il suo corpo era teso al massimo e gridava il contrario, pervaso dalla paura che qualunque cosa fosse accaduta sarebbe potuta tornare, la stessa paura che aveva provato al sentire gli zoccoli dei Durlyn dietro di lui nel bosco. Tutto tornava per finire il lavoro.
Senza alcun motivo cercò di affondare di nuovo le dita a terra, ma qualcosa di morbido si chiuse intorno alla sua mano sinistra. “Mi dispiace averti spaventato, figliolo. Ma avevo avvisato quelle guardie di accettare la mia offerta per il loro bene. Cielo, per quale motivo la gente ignora i miei consigli?”
“Non ne comprendono il valore, Superiore”.
La seconda voce, più bassa e profonda di quella del Radigata, spinse lentamente Lumaria ad aprire gli occhi pur continuando a trattenere il respiro: l’uomo dai capelli argentati era chino su di lui, gli strani occhi gialli puntati contro il suo viso che gli generarono subito un senso di puro disagio. Disagio, o forse l’odiosa sensazione di essere commiserato da un perfetto sconosciuto. Cercò di disimpegnarsi da quello sguardo, e le sue pupille misero a fuoco l’uomo a cui apparteneva quella voce profonda e secca.
Se avesse creduto all’esistenza della stirpe dei giganti senza dubbio lo avrebbe considerato tale. Era proprio la figura che li aveva seguiti quando si erano inoltrati sul retro, ma con il cappuccio abbassato e con la sua ombra che torreggiava su di lui appariva ancora più enorme. Se nello sguardo del Radigata vi era un’ombra di commiserazione così fuori posto in quelle sue iridi gialle, negli occhi azzurri di questa figura vi era una severità agghiacciante messa ancora più in evidenza dalla mandibola squadrata e dai lineamenti massicci.
Era più grande di qualsiasi soldato Lumaria avesse mai incontrato. Anche il campione di suo padre, Sir Kelvin, non sarebbe arrivato nemmeno alla spalla di quella figura. Si sentì fissare dal gigante per un periodo che sembrò un’eternità, poi quello si voltò e Lumaria lo vide abbassarsi per aiutare Arlen a rimettersi in piedi. Con stizza notò che la ragazza non sembrava affatto spaventata da ciò che era accaduto.
Anzi.
“Ma è stato fantastico, siete stati voi? Li avete davvero sepolti vivi? Dove as-so-lu-ta-men-te spiegarmi come ci siete riusciti!”
“Non faremmo mai una cosa così barbara, mia cara. Lexaeus li ha semplicemente isolati sotto terra in delle piccole cavità piene di aria” rispose il Radigata. Lumaria strinse la sua mano e cercò di rimettersi in piedi, e trattenne un groppo alla gola quando si accorse che le sue gambe non volevano smettere di tremare. L’uomo rimase fermo, accentuando la stretta in modo da poterlo sostenere. “Quando andremo via di qui li faremo riemergere. Se la caveranno con un brutto spavento, tutto qui”.
“Sono solo assassini!”
Lumaria si meravigliò di avere ancora fiato nei polmoni. Lo sguardò andò subito alle spade ed alle altre armi che i Durlyn avevano perso nello stesso istante in cui la terra li aveva inghiottiti, alcune ancora con aloni rossastri che i padroni non si erano nemmeno presi la briga di pulire. Forse era stata una di quelle lame ad uccidere i suoi nobili genitori. “Hanno avuto quello che si meritavano”.
“Non essere così avventato a decidere chi deve morire, figliolo. La rabbia può farti vedere cose che non esistono”.
“La mia famiglia esisteva eccome!”
Con stizza tirò via la mano, liberandola da quella del Radigata dalle parole vuote come quelle dei sacerdoti; il cuore gli stava ruggendo tra le costole e ogni muscolo delle sue gambe gli stava ordinando di raccogliere le forze e scappare da questa coppia di uomini dagli abiti neri, ma i suoi occhi rimasero a fissare le armi a terra mentre nelle orecchie esplosero insieme le grida dei suoi genitori e la risata di suo fratello. Chiunque fossero i suoi salvatori non avrebbero mai potuto comprendere. L’uomo dai capelli chiari, quello a cui l’energumeno si era rivolto con il termine “Superiore”, continuava ad osservarlo nonostante si fosse chinato per raccogliere il borsello caduto. “Una famiglia distrutta è una disgrazia irripetibile. Non potrei mai accettare che una cosa simile accada alla mia. Hai tutto il mio conforto”.
In un altro tempo, tra i corridoi del proprio palazzo, Lumaria avrebbe preso quel “conforto” e lo avrebbe usato per pulirsi gli stivali insieme a tutta la pietà che chiaramente doveva suscitare in quel nobile. Si costrinse ad inghiottire l’orgoglio per l’ennesima volta in quei giorni, stringendosi nei propri abiti per coprire ancora i tremori. Non aveva lottato per rimanere in vita per poi finire schiacciato come un verme per aver dato una risposta sbagliata a quell’indiscreto benefattore ed al suo energumeno. “Immagino di dovervi ringraziare …”
“Non ve ne è bisogno. Il piacere di incontrarvi è tutto mio. Sono stato molto fortunato nel trovarvi e riconoscervi prima che quelle guardie vi facessero cose orribili”.
“Riconoscerci?”
La questione stava prendendo una piega preoccupante.
Lumaria si morse il labbro, alambiccando tra sé tutti coloro che avrebbero potuto chiedere a quel Radigata di prelevarlo. Se non era entrato in quella taverna per caso, bensì di proposito, significava che vi era qualcosa di misterioso che il nuovo venuto non aveva ancora intenzione di svelare. L’uomo osservò compiaciuto lo sfacelo che lo circondava, per poi scrollarsi dalla lunga tunica di pelle nera alcuni calcinacci. “Ho chiesto al Castello se vi fossero altre persone che potessero unirsi a noi, ed esso mi ha indicato questa città. Grazie al cielo la vostra debole aura magica è bastata per farmi giungere subito da voi. Un istante più tardi e …”
“Siete un mago?”
L’altro sorrise. Cosa ci fosse di tanto ilare, Lumaria non ne aveva idea. “Più o meno …”
Il piccolo terremoto di qualche minuto prima non era un incantesimo per dilettanti. Un demone sarebbe stato in grado di generarlo su larga scala, ma una tale potenza sprigionata con simile precisione –nonché con una discreta dose di potenziale- non era alla portata di semplici maghi umani. Lumaria sapeva che i Cavalieri d’Oro erano in grado di compiere incantesimi di un certo livello, ma senza dubbio quella forza della natura era stata causata da un mago dal potenziale ben più alto della manciata di invocatori che suo padre aveva voluto nella propria milizia personale ma che evidentemente non erano stati in grado nemmeno di difenderlo. Osservò il gigante, quella figura statuaria che mai avrebbe detto in grado di comandare la magia.
Lo sguardo tornò di nuovo sul Radigata, nel dubbio di cosa chiedere ancora, ma Arlen esplose e venne verso il Superiore carica di energie. “Ma siete pazzeschi, dovete assolutamente spiegarmi come avete fatto! E le vostre tuniche sono strepitose, hai visto che cosa fantastica, Lumy?”
“Impressionante …” sibilò, ma era chiaro che quella plebea avesse perso ciò che restava del suo già scarso lume della ragione. Se l’energumeno copriva qualsiasi espressione serrando la mandibola squadrata, il viso del suo capo sembrò illuminarsi non appena si accorse di avere anche le attenzioni di quella povera pazza. Era chiaro che in quel gruppo soltanto lui fosse l’unico a preoccuparsi del fatto che un incantesimo così potente avrebbe prima o poi richiamato l’attenzione dei cittadini (meno probabile) o degli Occhi di Zaboera dei demoni (nel peggiore dei casi) e che non aveva alcuna necessità di attirare chiunque avesse potuto vendere la sua testa per una manciata di monete a Bernard Durlyn. Si schiarì la voce almeno per avere la parola ed andarsene sulle proprie gambe, ma l’uomo dagli occhi gialli lo afferrò nuovamente per i vestiti. “Sono venuto fin qui per farvi una proposta” disse “Il mio Castello ha bisogno di guardiani, gente cui affidare un compito di importanza vitale. Mi ha indicato in che posto recarmi, ed ho trovato voi. Sareste disposti ad ascoltare la mia richiesta?”
Lumaria si accorse di essere confuso. Si guardò intorno, scrutò ogni angolo del vicolo, scosse la testa cercando di comprendere cosa volessero davvero quei due uomini da loro. Erano sbucati dal nulla e, certo, lo avevano aiutato, ma ad ascoltare bene le loro parole non vi era nemmeno una sillaba che avesse senso, a partire dal fatto che vi fosse un Castello parlante scaturito direttamente dalla mente del benefattore dalle iridi gialle. Qualsiasi persona sana di mente avrebbe voltato i tacchi e si sarebbe lanciato a capofitto nella folla sperando di non poterli rivedere mai più, ma Lumaria non poteva concedersi quel lusso specie per tutti gli uomini al soldo dei Durlyn che lo avrebbero decapitato una volta andati via i due misteriosi individui. La prima cosa da fare era cambiare aria ed andarsene di lì.
Al come ed al cosa fare dopo avrebbe potuto pensarci in un secondo momento. D’altronde, si ripeté tra sé, la via di fuga non è mai la più semplice. “Potremmo discuterne …”
“Eccellente. Adoro la gente che sa prendersi i giusti tempi”.
“Un compito?” interruppe Arlen, parandosi tra loro con la faccia indignata di chi detesta non essere presa in considerazione. “I compiti sono noiosi, sapete? Non credo proprio che sarebbero …”
Per la prima volta da quando si erano conosciuti Arlen interruppe il discorso a metà. Lumaria si voltò, più meravigliato che seriamente preoccupato, e quando i suoi occhi puntarono nella direzione della testa della ragazza e della sua bocca spalancata si ritrovò per la seconda o la terza volta in quel breve lasso di ore semplicemente senza parole.
L’uomo che rispondeva al nome di Lexaeus aveva il palmo aperto, rivolto verso il muro della taverna, e tra le sue dita ed i mattoni incrostati si era formata una cosa. Una cosa nera o forse viola, alta quanto colui che l’aveva chiamata; si muoveva di magia propria come se il selciato stesso l’avesse vomitata e la sua forma sembrava attirare a sé ogni piccolo sprazzo di luce. Lumaria si ritrovò a fissare quella strana cosa quasi ipnotizzato, rapito dai guizzi d’oscurità che si muovevano come radici animate tutte intorno ad essa. Sembrava uno squarcio nell’aria, come se la notte più profonda o il male più puro che animava il cuore della famiglia demoniaca si stessero affacciando per afferrarlo e trascinarlo con loro.
Conosceva poco e male gli incantesimi per viaggiare attraverso grandi distanze, e sapeva che soltanto i demoni maggiori o alcuni loro preziosissimi artefatti erano in grado di praticarli. Sentì aumentare ancora più il dubbio verso quell’uomo che li stava affabilmente invitando ad attraversare quel portale … unito al sottile alito di consapevolezza che una magia del genere fosse alla portata di quelli che, almeno all’apparenza, sembravano comuni esseri umani. Passò gli occhi dal Superiore alla sua guardia del corpo, poi qualcosa si mosse alla sua sinistra. “Fate largo alla Regina dell’Avventura!”
Con un paio di balzi Arlen lo superò, gridando di gioia. Fu chiaro che quel poco di cervello che possedesse era totalmente distrutto quando Lumaria la vide correre verso il portale oscuro senza porsi domande o indietreggiare di un passo. La ragazza vi saltò dentro carica di entusiasmo, e Lumaria non fu poi così tanto sicuro della propria scelta quando vide il corpo di lei venire avvolto da sottili lingue di oscurità dal basso e dai fianchi, per poi sparire in un lampo senza finire invece schiacciata contro i mattoni del Porco Zoppo.
Il Radigata gli venne accanto, gongolando. “Ah, l’energia della gioventù!”
“Io la chiamerei l’energia dell’inconsapevolezza …” brontolò il principe. Si avvicinò alla massa nera con circospezione, avvicinando la mano per sfiorare una delle spirali nere: la magia rispose al suo tocco in maniera fredda ma allo stesso tempo perentoria, quasi come un canto che lo chiamasse e gli chiedesse di seguirlo. L’idea di passarvi attraverso era meravigliosa e spaventosa allo stesso tempo.
“Qualche rimpianto prima di andar via?”
Lumaria deglutì a vuoto, lo sguardo ancora fisso sulla magia pronta a portarlo via e ruggire attraverso la fitta rete di incantesimi più erta di un roseto selvatico. Si voltò verso il Superiore, l’immagine del suo castello in fiamme ancora così impressa sul fondo degli occhi da poterla dipingere anche bendato. “Un Dayel non ha mai rimpianti. Andiamo”.
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Axel ***


Capitolo 4 - Axel





Axel





Axel si lasciò sfuggire un sospiro di stizza. Quella che era partita come una buona idea si era chiaramente rivoltata contro di lui nel momento esatto in cui si era richiuso il portale del teletrasporto alle spalle.
Sora, così si chiamava il ragazzino che aveva ritrovato nel bosco, lo stava osservando dal basso, raggomitolato nello stretto spazio che passava tra il letto ed il cassettone; Axel provò ad avvicinarglisi di un passo, ma quello in tutta risposta cacciò un urlo, stringendosi le ginocchia al petto e tenendo sollevato, quasi per proteggersi, un piccolo rosario di legno.
“Senti, piccoletto, siamo partiti col piede sbagliato. Che ne diresti di smettere di urlare e …”
Axel evitò per un pelo una candela –la sua candela preferita- tirata con tutta la forza possibile nella sua direzione. La mano della piccola peste scattò ancora tastando il cassettone per trovare qualche oggetto da scagliargli contro, ma Axel notò con malcelata gioia che non vi era nulla di grande, appuntito o contundente alla portata di mano di quel ragazzo.
“STAMMI LONTANO, PROGENIE DELLO SPIROMORFO!”
“Ok, adesso non ti sembra di stare esagerando?”
“LO SO CHE VUOI INDURMI A VENDERE L’ANIMA AL TUO SIGNORE!”
Per tutta risposta il piccoletto si strinse contro la parete quasi volesse sprofondarci dentro, estese contro di lui il rosario a grani e con la mano libera tirò tutte d’un colpo le coperte del letto di Axel, facendo volare via le lenzuola e trasformando il suo letto in una forma vuota e fredda mentre lui si avvolse nello scudo improvvisato, facendo sparire anche la massa informe di capelli biondi sotto le pieghe delle coperte.
Axel si appuntò mentalmente di non fare mai più buone azioni non richieste. L’idea di potare il ragazzo al Castello per rifocillarlo e farlo riprendere da quella brutta avventura gli era sembrata la cosa più logica da fare sul momento; non era sua intenzione mandarlo in giro a ficcare il naso nel quartier generale dell’Organizzazione, ovviamente, ma fargli passare un paio d’ore tranquille in una stanza calda senza briganti che cercassero di rapirlo o ucciderlo era un piano che non avrebbe dovuto manifestare falle. Invece non solo vi erano falle ovunque, ma si sarebbero allargate ulteriormente se gli strilli ed i pianti del moccioso fossero arrivati alle orecchie dell’inquilino della stanza adiacente alla sua.
Parte del suo cervello avrebbe voluto dar fuoco a quello stupido rosario e lasciare il piccolo ingrato con un palmo di cenere in mano. Lo fermò solo la prospettiva di ritrovarsi tutta l’Organizzazione X in camera a fargli la predica. “Solo perché ho i capelli rossi non vuol dire che …”
“So benissimo cosa vuoi farmi” mormorò l’altro. “Vuoi allontanarmi dal Tempio delle Dodici Case dove stavo andando!”
“Oh, adesso che me lo dici … sì, ne sono proprio contento! Ti sto impedendo di fare un’idiozia grande come questo Castello! Sei troppo giovane per buttare la tua vita facendo il sacerdote e chiuderti in un tempio a fare prediche, dai retta a me!”
“TU HAI SOLO PAURA DELLA SACRA PAROLA DEI SACERDOTI! LORO POSSONO DISTRUGGERE TUTTI QUELLI CHE HANNO VENDUTO L’ANIMA AL MALE!”
“Ancora con questa storia del vendere l’anima …”
Axel aprì la sua dispensa personale, cercando qualcosa da mettere sotto i denti prima di impazzire. La gente del suo mondo era ancora più stupida di quanto ricordasse. “Fidati, se trovassi qualcuno a cui vendere la mia anima gliela avrei già lasciata. Che io ricordi di solito demoni come Lussuria offrono denaro, potere e donne bellissime anche per anime di scarsa qualità, non mi dispiacerebbe affatto …”
Qualcosa di piccolo ma fastidioso impattò proprio contro il suo naso. Axel si massaggiò la faccia, bestemmiando tra le dita contro gli impudenti grani di legno del rosario che per poco non gli avevano colpito l’occhio destro. L’oggetto cadde a terra con un secco clack, e si voltò in tempo per osservare la minuscola mano ritirarsi sotto le coperte dopo aver scagliato l’oggetto consacrato. Lo fissò per un paio di secondi, poi lo scansò con il piede e continuò ad armeggiare con il cibo; probabilmente il ragazzino credeva che il rosario lo avrebbe fatto ardere come un tizzone degli Inferi o avrebbe creato un varco di luce da cui ne sarebbero usciti cherubini adoranti, ma rise tra sé immaginando la delusione di quel Sora nell’accorgersi che anche quel rosario benedetto non era nient’altro che un paio di perline di legno senza alcun potere speciale. Che gli serva da lezione.
Trovò qualche fetta di pane che si era premunito di prelevare quella stessa mattina nella dispensa comune –sottrarre le cose quando Demyx era di vedetta era così semplice che aveva perso qualsivoglia forma di divertimento- e da dietro la sua scorta personale di salumi estrasse il barattolo delle grandi occasioni, quello che apriva tutte le volte che aveva bisogno di qualcosa di piacevole per far funzionare il cervello. Prese l’intero involto e si mise a sedere proprio sul letto, osservando con calma l’ammasso prima furioso, poi piagnucolante ed infine silenzioso che era composto dal ragazzo, dai suoi pregiudizi e dalle coperte. Aprì il barattolo, poi con un coltello estrasse la crema color marrone e la spalmò sul pane; si prese tutto il tempo del mondo, lanciando ogni tanto qualche occhiata noncurante al piccolo testardo, sapendo che quegli occhioni azzurri lo stavano scrutando da dietro le pieghe.
Spalmò con lentezza anche sulla quarta fetta, limitandosi ad aspettare.
Axel sapeva riconoscere la Fame quando la vedeva.
“Questo cibo non è di qui. L’ho prelevato in un altro posto. Un gran bel posto, se vogliamo dirla tutta” disse, soppesando il barattolo e notando con un certo rammarico che non sarebbe durato molto a lungo. Una scusa come un’altra per aprire il teletrasporto e far visita a quel mondo dove la gente non metteva al rogo le persone solo perché avevano i capelli rossi e dove vi erano così tanti tipi di cibi che ogni volta lo lasciava a bocca aperta. “Sì, lo so, il colore non attira, però dovresti assaggiarla. È una specie di crema, ma ci sono le nocciole ed una paio di cose che non conosco. Altro che quelle confetture vecchie di gio …”
“Guarda che lo so che mi stai tentando. Anche la Santa Sacerdotessa Karin venne tentata col cibo dalla progenie dello Spiromorfo”.
“Sarò un po’ arrugginito, ma sono io che ricordo male oppure era proprio quella che morì di fame e sete nel deserto?”
“Lei non si fece tentare e ascese direttamente al Nirvana!”
“Lei non si fece tentare e schiattò come una stupida di una delle morti più brutte che ci siano” ribatté. La tentazione di prendere per il collo il piccolo ingrato sputasentenze, aprire un portale e lanciarlo dritto dritto nella latrina del Gran Sacerdote Dohko gli saltò in gola, però si fermò vedendo l’espressione di terrore misto a confusione che faceva capolino dal fagotto e anche da quella distanza riuscì a sentire che la pancia del ragazzo non era affatto d’accordo con tutti i giustissimi e santi discorsi del padrone. Ripose il barattolo nella dispensa, si sedette di nuovo sul letto sfregandosi le mani ed addentò la prima agognata fetta felice di sentire nelle orecchie sono il croccare del pane ed il suono della sua stessa bocca in azione. Attaccò la seconda senza nemmeno pensare alle briciole, sorridendo tra sé nell’accorgersi che il santarellino si era avvicinato in maniera impercettibile verso di lui e verso l’ultima fetta che aveva lasciato casualmente più vicina a lui.
 
 
Registe: “Narratore? Sai che hai ampiamente superato il limite concesso alle scene melense su Axel e Roxas? Hai appena sforato la pagina e mezza di Word”
Narratore: “E che ci posso fare io se sul copione VOI avete scritto che deve esserci un primo dialogo tra loro due?”
Registe: “Infatti lo abbiamo terminato, ora vedi di tagliare questo battibecco che altrimenti ci scambiano per fan della AkuRoku!”
Narratore: “Scusate, ma … adesso come lo interrompo?”
Registe: “Narratore, dici sempre di essere onnisciente … inventati qualcosa, no? Possibilmente con una scena bella, interessante e movimentata!”
Narratore: “Pure!”
 
 
“Spero che tu sia consapevole di aver violato la prima regola dell’Organizzazione, numero VIII”
Axel saltò sul letto. Si voltò verso la figura che aveva parlato con ancora la bocca sporca di crema e briciole, ma gli occhi confermarono quello che le orecchie avevano udito. Quando riuscì a voltarsi del tutto si ritrovò l’espressione corrucciata di Saïx, il numero VII dell’Organizzazione, a pochi palmi dal proprio naso. “Non sono ammessi intrusi nel Castello”.
 
 
Narratore: “Così va bene?”
Registe: “Molto meglio”.
 
 
Nonostante non fosse il membro più alto dell’Organizzazione, né quello più massiccio, Saïx riusciva ad incutere molto più terrore di gente come Lexaeus. Axel sentì il cuore martellargli non appena i capelli blu del nuovo arrivato si mossero nell’aria fin dentro il suo campo visivo, dei passi in avanti che di umano non avevano proprio nulla. Gli occhi gialli dalle pupille sottili erano rivolti verso Sora ed il suo ammasso di coperte, e di contro il ragazzo aveva ripreso a gridare e scalciare non appena i suoi occhi si erano chiaramente posati sulle orecchie del nuovo arrivato.
“N. VII, posso spiegare … il ragazzo aveva bisogno soltanto di …”
“La segretezza è ciò che permette a questo Castello di sopravvivere” rispose l’altro, per nulla interessato a qualsivoglia scusa che Axel stesse cercando di imbastire. Non che quella creatura feroce avesse mai dimostrato interesse per altre cose che non fossero il cielo, le stelle e gli ordini del Superiore. "Quanto impiegherà questo moccioso a raccontare della nostra esistenza una volta lasciato libero?”
“Sono convinto che …”
“Hai idea di cosa potrebbe succedere se ne venissero a conoscenza … i demoni?”
A quel punto Axel avrebbe dovuto trovare il coraggio di rispondergli per le rime, non per ultimo adducendo come argomento il fatto che nel Castello vi fosse qualcuno senza dubbio più vicino ai demoni che agli uomini, ma un solo ringhio basso del suo diretto superiore lo convinse a ricacciarsi in gola qualunque flebile risposta stesse per creare. Sentì le proprie dita chiudersi nervosamente sulla superficie del materasso ed i suoi occhi andarono da Saïx a Sora, poi da Sora a Saïx nel tentativo di comprendere quale fosse la cosa migliore da fare in quel momento. Axel vide il nuovo arrivato sollevare il labbro superiore e scoprire i denti appuntiti, ma probabilmente anche il ragazzo si era accorto della situazione.
Per quanto si sforzasse di assomigliare ad un essere umano, Saïx apparteneva al ramo licantropo della famiglia demoniaca. “Non sono ammessi intrusi vivi
Il giovane mandò un secondo grido, poi si buttò sotto il letto. Saïx fece un affondo nella loro direzione, e Axel vide la mano del n. VII abbassarsi pericolosamente quasi a far volare via il letto con lui sopra. Il primo istinto fu quello di teleportarsi immediatamente ad almeno cinque o sei piani di distanza, ma il pensiero del piccoletto in preda al panico gli fece fare una cosa che superò di colpo tutte le idiozie che fosse mai riuscito a compiere in una vita intera: aprì il palmo della mano e lasciò che il fuoco esplodesse.
Liberò un incantesimo privo di forma, un richiamo di magia elementare che avvolse la figura del suo diretto superiore tra le fiamme e creò una barriera tra la sua mano tesa ed il loro letto.
Durò poco.
Le strilla di Sora arrivarono probabilmente fin nel Nirvana quando il suo avversario si scrollò le fiamme di dosso senza nemmeno ricorrere ad alcuna magia: il tempo trascorso in compagnia di Saïx aveva insegnato ad Axel quanto il ramo licantropo della famiglia demoniaca sapesse essere coriaceo davanti ad incantesimi elementari, ma evidentemente non lo era stato abbastanza da ricordargli quanto la creatura dagli occhi gialli, i capelli blu e la cicatrice sulla fronte potesse infuriarsi quando qualcuno si opponeva ad una sua decisione. Axel sentì il polso sinistro venire violentemente afferrato e torto; di scatto si buttò dalla stessa parte per impedire al suo avversario di strappargli la mano con un solo colpo, ma nonostante il dolore lancinante mantenne intatta la barriera pur di creare un semplice scudo intorno al ragazzo. Comandò alle fiamme di guizzare contro il n. VII per distrarlo e costringerlo almeno ad abbandonare la presa, ma esse lo avvolsero lungo la tunica e persino contro i capelli senza apparentemente fare danno o dargli una sensazione diversa da un piccolo fastidio.
Detestava quel mostro.
“Il tuo tentativo di opporti è insensato, numero VIII. In quanto tuo diretto superiore …”
La stretta sul polso diventò più dolorosa e Axel sentì come se tutte le ossa della mano fossero sul punto di esplodere e, se ne rese conto quando la fitta si propagò fino al gomito, l’altro non avrebbe esitato a portargli via tutto il braccio. Per il dolore le lacrime gli riempirono gli occhi e la fiammata che stava progettando di lanciare sul muso del licantropo si spense; perse il controllo della barriera e, prima che potesse anche solo cercare di recuperarla, si sentì sollevare per quell’arto e l’attimo dopo si ritrovò dall’altra parte della stanza. Atterrò contro una sedia e lo schienale gli si conficcò tra le reni, levandogli il fiato.
Affrontare il n. VII era una follia. Durante alcuni allenamenti il n. V, Lexaeus, aveva accettato di confrontarsi con Saïx, e nemmeno la forza sovrumana del gigantesco mercenario riusciva ad avere la meglio su quella bestia. Axel cercò di rialzarsi, ma il dolore al di sotto delle costole lo bloccò a metà strada, in ginocchio.
Bestemmiò quando sentì il braccio sinistro cedergli, chiedendosi cosa avesse bevuto di così forte da averlo spinto ad opporsi a quel licantropo solo per aiutare un mocciosetto religioso ed ingrato. Con la mano destra creò una flebile lingua di fiamma che avvicinò subito al polso sinistro per lenire il dolore tramite la vicinanza del proprio elemento, ma si fermò a metà osservando la scena.
Il n. VII si era abbassato ed aveva afferrato il ragazzo per una caviglia. Sora stava cercando di difendersi lanciando dei minuscoli calci che non avrebbero atterrato nemmeno una ragazza e con le mani si stava stringendo ad una gamba del letto. Saïx lo strattonò con un solo colpo secco, ignorando le preghiere che erano diventate prima delle urla e poi delle suppliche, e quando il ragazzo perse la presa lo sollevò per il piede. Con uno sforzo incosciente Axel si tirò in piedi, l’unica certezza che gli balenò davanti agli occhi era che il licantropo conosceva un solo modo per rimuovere ciò che reputava una minaccia.
“Numero VII, lascia andare quel ragazzo”.
Axel si voltò immediatamente al sentire quella voce emergere proprio alle sue spalle.
La figura piccola e minuta uscì dal portale di teletrasporto con un’espressione corrucciata che difficilmente Axel aveva visto su quei lineamenti da bambino. Il nuovo arrivato si chiuse l’incantesimo alle spalle con fare irritato, poi si fece avanti fino a portarsi a meno di un paio di braccia da Saïx. “Lascialo andare”.
“Axel ha introdotto questa persona nel Castello senza autorizzazione, n. VI” ringhiò la bestia. Ad Axel sembrò di udire un sibilo più basso quando il licantropo pronunciò il rango del nuovo arrivato; e, se conosceva bene quell’animale selvaggio, non si trattava di una mera impressione. “Una volta uscito di qui rivelerà l’esistenza del Castello in giro. Non possiamo permetterci una minaccia simile”.
“Sono perfettamente a conoscenza delle regole elementari della sicurezza, Saïx. Nonostante ciò ti chiedo di mettere a terra il ragazzo e di uscire di qui”.
“N. VI, mi permetto di …”
“Non spetta a te l’ultima parola qui dentro” rispose il giovane. Axel cercò di rimettersi in piedi e sembrare meno malconcio del possibile davanti ai suoi due superiori, e l’unico appiglio lo fornì la mensola della dispensa; si sforzò di non interromperli, specie perché la mano di Saïx che stringeva ancora in aria la caviglia di Sora sembrò allentarsi impercettibilmente.
Dei tanti membri dell’Organizzazione che sarebbero potuti venire ad aiutarlo, il n. VI era senza dubbio l’ultimo –o il penultimo- a cui avrebbe mai pensato: eppure il giovane dai capelli argentati non solo era arrivato in tempo, ma sembrava aver convinto la bestia a lasciare la presa. Il n. VIII era sicuro di non aver mai sentito il suo giovane superiore pronunciare così tante parole insieme nello stesso arco di tempo, ma per quello che lo riguardava sarebbe stato disposto a pulirgli le scarpe per un anno con la lingua se fosse riuscito a fermare Saïx. “Ritengo che dovremmo esporre la questione al Superiore. Sarà lui a decidere se il ragazzo rappresenti una minaccia o meno. Immagino che anche tu sia dello stesso avviso, dico bene?”
“Il giudizio del n. I è senza dubbio il più affidabile” rispose il licantropo. Lentamente, facendo passare i suoi occhi gialli dal suo diretto superiore a lui stesso, abbassò le braccia e fece cadere Sora sul pavimento. “Obbedisco all’ordine solo per il rispetto al tuo rango, n. VI, ma informerò personalmente il Superiore di questa grave violazione. La tua disciplina rimane comunque fonte di preoccupazione, Axel. È evidente che debba ancora istruirti su un punto o due …”
Con quell’ultima minaccia lasciata a metà, Saïx aprì un portale e vi svanì dentro.
Axel si mosse quanto più velocemente possibile verso il punto dove Sora era stato lasciato; il ragazzo aveva gli occhi spalancati e stentava a muoversi, anche la frase più elementare sembrava gli fosse stata strappata via. Le sue iridi erano fisse nell’area in cui il licantropo era sparito e le dita si mossero a malapena quando Axel raccolse il rosario e cercò di spingerglielo nel palmo. Non oppose alcuna resistenza nemmeno quando il n. VIII lo afferrò sotto le spalle e lo mise seduto sul materasso appoggiandogli coperte, lenzuola e quanto possibile a portata di mano sulle ginocchia; tremava come una foglia, e Axel non se la sentì di fare alcuna battuta sugli dèi, sul vendere l’anima e su tutte quelle idiozie con cui il nanerottolo si era riempito la bocca fino ad una manciata di minuti prima. Ammise tra sé che un incontro frontale con un licantropo furibondo non fosse il modo migliore di coronare una giornata iniziata con un inseguimento di tagliagole e che prometteva di diventare ancora più burrascosa non appena il Superiore fosse tornato dal suo viaggio.
“Saïx non ha tutti i torti. Il ragazzo non dovrebbe stare qui”.
Axel era così abituato a non vedere né sentire il n. VI che non si era nemmeno accorto che il suo superiore fosse ancora nella stanza. Il suo unico occhio visibile, di un azzurro più chiaro rispetto a quelli di Sora, aveva la stessa espressività di quella di un gatto stecchito. A volte dava persino l’impressione che fosse più un pupazzo semovente creato dal n. IV che non una normale persona di quattordici anni.
“La tua stima nei miei confronti è davvero toccante, n. VIII. Dovrei ricordarmene la prossima volta che ti ritroverò da solo con la furia di Saïx”.
 
Narratore: “Beccato!”
 
Già, tendeva a dimenticare il piccolo quanto stressante problema dell’avere a che fare con quel moccioso. Il n. IV aveva sempre detto che il potere del ragazzo derivasse dal suo olfatto, ma il risultato era che il n. VI sembrava trapassare i suoi pensieri con la stessa facilità con cui un coltello acuminato penetrava nella carne. Nonostante il giovane lo avesse appena tirato fuori da quella spinosa situazione Axel non riusciva a rimuoversi dalla pelle la spiacevole sensazione che accompagnava il n. VI ogni volta che rimaneva troppo a lungo nello stesso posto. “Non preoccuparti, levo il disturbo. Ma faresti bene a portare il nostro nuovo ospite nella sala delle riunioni. Credo che il Superiore non veda l’ora di fare quattro chiacchiere con lui”.
Andò via silenzioso come era entrato, e per la prima volta dopo quella che era sembrata un’eternità Axel si sentì libero di tirare un sospiro di sollievo, quasi grato di essere di nuovo da solo con quel piccolo religioso non più tanto petulante. “Chi è quello?” chiese di colpo Sora, indicando flebilmente gli ultimi stralci d’oscurità che avevano accompagnato il teletrasporto del n. VI. “Ci ha salvati da quel mostro! È un angelo, vero?”
No, decisamente avrebbe dovuto sorbirsi quelle stupidaggini ancora per un bel po’. L’unica consolazione era che il nanerottolo adesso si lasciava avvicinare e non protestò quando Axel rinvenne una delle poche fette di pane sopravvissute alla furia del licantropo e gliela avvicinò alle mani.
“Quello lì si chiama Zexion, e ti assicuro che non è un angelo” sorrise tra sé quando vide Sora affondare i denti nel cibo senza fare complimenti. “E, fidati, quando ci si mette può essere un vero dito nel culo”.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Vexen ***


Capitolo 5 - Vexen





Saïx





Qualsiasi oggetto di un certo interesse ritrovato dai membri dell’Organizzazione X esplorando i mondi prima o poi finiva nel laboratorio di Vexen. Glielo consegnavano titubanti, con l’aria di chi teme che qualcosa possa esplodergli tra le mani, poi facevano un passo indietro e lo spiavano di sottecchi mentre analizzava, sondava e interpretava. Attendevano in silenzio che lo scienziato compisse il miracolo, squarciando il velo dell’ignoranza dalle loro menti inferiori.
A volte, soprattutto quando era il Superiore a mettersi in viaggio, invece di artefatti magici o congegni tecnologici gli riportavano persone. Quasi sempre in pessime condizioni, quasi sempre rimasugli della società a cui Xemnas sperava di donare nuova vita e scopo al servizio della sua gloriosa Organizzazione. Dopo tutti quegli anni, Vexen non aveva ancora capito se il Superiore agisse per autentica bontà d’animo o semplicemente per il compiacimento di rivestire il ruolo del magnanimo salvatore. Forse entrambe le cose erano vere.
“Possiamo escludere con certezza la presenza di danni cerebrali.”
Il suo verdetto si guadagnò un cenno di approvazione da parte del n. I. Non era stato facile convincere il ragazzino portato dal n. VIII che i macchinari per la risonanza magnetica e la tomografia non fossero congegni di tortura partoriti dalla mente del diavolo, ma un paio di parole gentili da parte del Superiore avevano fatto il miracolo. Sora – questo il nome del nuovo arrivato – era imbevuto di pregiudizi religiosi come ogni contadinotto del suo mondo, addestrato dal clero parassita a temere qualsiasi segno di novità e progresso alla stregua di mali incurabili. Quanto ai macchinari, Vexen li aveva prelevati su mondi più avanzati, pianeti in cui esistevano ospedali veri e dove alla medicina e alla scienza venivano tributati gli onori e il rispetto che meritavano.
“Ti lascio questo unguento” fece scivolare un piccolo flacone di vetro nelle mani del ragazzino, il cui sguardo rimaneva ostinatamente fisso sul pavimento. “Applicalo sui lividi ogni sera e in pochi giorni spariranno. Terrà a bada anche il dolore.”
“Ehi, un po’ di quella roba farebbe comodo anche a me.”
“Il tuo turno verrà a tempo debito, n. VIII.”
Il ringhio basso di Saïx era un suono che a Vexen decisamente non piaceva sentire all’interno del suo laboratorio. Allo stesso modo lo infastidiva la presenza di Axel, beatamente spaparanzato con i piedi su una sedia neanche fosse in quel buco sudicio che si ostinava a chiamare “stanza da letto”. Zexion diceva sempre che l’odore del n. VIII era uno dei più pesanti all’interno del Castello dell’Oblio. A quanto pareva Axel considerava il suo status di elementale del fuoco come una scusa per non lavarsi.
“Ti pregherei di non usare la mia sedia come poggiapiedi n. VIII, se vuoi che mi decida a dare un’occhiata a quel polso.”
Axel sbuffò, ma il dolore e la presenza combinata di Saïx e del Superiore ebbero la meglio sul suo atteggiamento irriverente, e si avvicinò obbediente per lasciarsi visitare.
Questione di una manciata di secondi. Gli avessero almeno portato un caso medico interessante per ripagarlo del disturbo. Figuriamoci se poteva contare su tanta fortuna.
“Slogato, ma non rotto. Sopravvivrai.”
“Grazie n. IV. La tua competenza è preziosa come sempre.” Il Superiore si era tenuto in disparte fino a quel momento, lasciandolo lavorare con calma, ma ora si avvicinava con una tazza di tisana calda tra le mani. La porse al giovane Sora con un sorriso rassicurante, poi tornò a rivolgersi a Vexen: “Ti chiedo scusa anche a nome del n. VII e del n. VIII per aver disturbato il tuo lavoro a causa del loro comportamento irresponsabile.”
Tanto farai lo stesso la prossima volta. E quella dopo ancora.
“Nessun disturbo, Superiore.”
Sapeva cosa sarebbe successo adesso. Le parole di Xemnas erano il preludio a una paternale che Vexen aveva fiutato nell’aria nel momento stesso in cui il gruppetto di visitatori indesiderati aveva messo piede nel laboratorio. Il Superiore non scherzava quando affermava di sentirsi un padre per gli altri membri della sua Organizzazione – anche se i nove decimi di loro erano adulti e vaccinati, anche se un paio, tra cui lo stesso Vexen, erano più anziani di lui. E proprio alla maniera di un padre decretava le regole ferree della propria casa, distribuendo premi ai figli diligenti e punizioni a chi disobbediva. Andava detto che Xemnas non era un despota e le punizioni non erano in fondo nulla di terribile: lunghe paternali come quella in arrivo e occasionali turni extra in cucina, in lavanderia o alle pulizie. Ma era il concetto stesso di dover danzare ai capricci di quell’uomo a far digrignare a Vexen i denti per la rabbia. Se non fosse stato per la conoscenza e i poteri che il Castello dell’Oblio gli offriva avrebbe fatto i bagagli, preso Zexion per mano e detto addio all’Organizzazione già da un pezzo.
“E devo le mie più profonde scuse anche a te, Sora. Hai la mia parola che un incidente così increscioso non si verificherà mai più finché la mia parola avrà valore in questo Castello. Nessun membro dell’Organizzazione X alzerà più la mano contro di te, te lo prometto.”
Il lato positivo della faccenda era godere della vista del n. VII, il possente licantropo Saïx, che si faceva piccolo come un cucciolo bastonato di fronte ai rimproveri del padrone. Le spalle curve, lo sguardo contrito da bambino colto sul fatto a rubare la marmellata: mancavano solo un paio di orecchie afflosciate sulla testa e la coda a penzoloni, e il quadro sarebbe stato perfetto.
“Mi rincresce di aver infranto la sua fiducia, Superiore. Le giuro che non accadrà più. Sono costernato.”
“Non è per la mia fiducia che devi dispiacerti, Saïx.” Il n. I manteneva un tono pacato anche nei rimproveri: raramente alzava la voce, preferendo invece assumere il contegno di un maestro paziente la cui missione della vita è far capire al suo allievo dove, come e perché ha sbagliato. Non per aggredirlo o deriderlo, ma soltanto per migliorarlo e farlo crescere. In qualche modo era ancora più irritante di una sfuriata furibonda.
“Devi dispiacerti per aver causato dolore e paura a questo povero ragazzo, che non aveva fatto nulla per meritarselo. Avresti potuto fargli del male.”
“Se lei lo desidera gli chiederò perdono, Superiore.”
“Non mi aspetto di meno da te, Saïx. Ho fiducia in te, so che la tua intenzione di trascendere i tuoi istinti è sincera. E so che ce la farai, perché il sostegno della nostra famiglia non verrà mai a mancarti.”
Parole, parole al vento. Di tutte le iniziative caritatevoli di Xemnas quella di accogliere un licantropo sotto il tetto dell’Organizzazione era stata senza dubbio la più folle, insensata e pericolosa. Per quanto si sforzasse di comportarsi come un umano, il n. VII era e restava una creatura della famiglia demoniaca. La natura della bestia era troppo profonda, troppo radicata in lui perché potesse semplicemente disfarsene come di un abito sporco. Per quelli della sua specie gli umani erano prede su cui sfogare il loro istinto di cacciatori, carne fresca per nutrire il branco. L’unica condizione a cui Vexen avrebbe accettato uno di loro nel Castello era ben sedato all’interno di una gabbia solida e sorvegliato a vista giorno e notte. Studiare la fisiologia di un licantropo sarebbe stato prezioso per comprendere i segreti della lunga vita della famiglia demoniaca, della sua forza e resistenza sovrumane.
Il polso gonfio e pieno di ematomi del n. VIII la diceva lunga sulla pericolosità di quell’animale. Axel poteva dirsi fortunato ad avere il braccio e tutte le dita ancora attaccati al corpo. Nei mesi immediatamente successivi all’ingresso di Saïx nell’Organizzazione Vexen aveva trascorso notti insonni al pensiero che un “incidente” simile potesse accadere a Zexion. Superiore o no, in quel caso niente e nessuno gli avrebbe impedito di aprire la bestia in due e rovesciare le sue interiora sul tavolo del laboratorio. Doveva solo provarci.
L’espressione cupa del n. VIII lasciava intendere che anche lui la pensava così. Per distrarsi dal sermone del Superiore che proseguiva a ruota libera lo scienziato si concentrò sulla medicazione, applicando una benda elastica per tenere fermo il polso slogato e somministrando un antidolorifico che il n. VIII trangugiò con avidità insieme a tre bicchieri d’acqua. In casi normali avrebbe applicato anche del ghiaccio, ma un rimedio del genere poteva solo causare ulteriori danni a un elementale del fuoco come Axel. Si sarebbe fatto bastare gli antidolorifici.
Quando tornò a prestare ascolto al ronzio di sottofondo si accorse che il Superiore era passato a parlare proprio del n. VIII.
“… gesto molto coraggioso. Il giovane Sora è salvo solo grazie a te. Sono azioni come questa che mi rendono ogni giorno orgoglioso dei miei figli.”
“Grazie, Superiore” borbottò Axel con un sorriso tirato che non raggiunse gli occhi verdi.
“Ti chiedo solo di prestare più attenzione la prossima volta, e di rivolgerti ai tuoi superiori prima di portare persone nuove al Castello. A causa della tua dimenticanza adesso siamo costretti a tenere il giovane Sora con noi per un po’, allontanandolo dal suo tempio.”
Persino questa affermazione non suscitò altro che un lieve tremito nelle spalle del ragazzo. Il Superiore doveva già avergli spiegato la situazione, ingarbugliandogli quel poco di cervello ancora non intaccato dai preti con i suoi sorrisi da padre benevolo e le sue chiacchiere intrise di melassa sull’importanza di proteggere la propria famiglia.
Sora era ancora seduto sul bordo del lettino, la tazza ormai vuota sempre stretta tra le dita. Vexen lo aveva colto varie volte intento a fissare gli oggetti del laboratorio con uno sguardo incantato che affiorava sempre più intenso oltre la cortina di paure e pregiudizi. Ai suoi occhi infantili le provette e i flaconi di erbe dovevano apparire come le pozioni di uno stregone in grado di imbottigliare la fama e distillare la gloria, e le macchine lo catturavano seducenti con il loro scintillio metallico, parlandogli in lingue sconosciute di enigmi oltre la portata dell’umana comprensione.
“Perché, Superiore?”
Come al solito il n. VIII era troppo tardo per arrivarci da solo.
“Perché non possiamo essere sicuri che non andrà a spiattellare tutto di noi ai preti, ecco perché” taglio corto Vexen nella speranza di evitare l’ennesimo sermone del Superiore. Non ebbe fortuna.
“Ma sarà una sistemazione temporanea. Sarai libero di andartene una volta che tra di noi si sarà stabilito un rapporto di fiducia, Sora. Oppure continuerai a vivere qui, se lo desideri. Saremo felici di fare del Castello dell’Oblio la tua nuova casa. Per tutto il tempo che starai con noi farai parte della nostra famiglia e verrai trattato come un membro dell’Organizzazione. Non ti mancherà nulla e sarai sempre protetto da chi vorrà farti del male.”
Per la prima volta il ragazzino fece udire la sua voce tremolante all’interno del laboratorio: “La ringrazio, Superiore.”
Vexen lo compatì: l’amara verità era che Sora non aveva alcuna possibilità di scegliere il proprio destino. Da quel giorno in poi sarebbe stato prigioniero in una gabbia dorata.
“Ma Superiore… con tutto il rispetto… non so quanto sia giusto obbligare il ragazzo a restare qui se non lo desidera… “
A Vexen parve quasi di udire i denti di Saïx stridere tra loro come le lame di una tagliola. Il licantropo considerava un affronto personale ogni minima contraddizione all’opinione del Superiore, e probabilmente sarebbe di nuovo saltato alla gola del n. VIII senza il balsamo calmante della presenza di Xemnas. Il n. I era l’unico membro dell’Organizzazione a reggere davvero nelle sue mani il guinzaglio della bestia. Nei suoi confronti Saïx nutriva una venerazione quasi sconfinata.
“Conto proprio su di voi, figli miei, per far sentire il vostro nuovo fratello a casa e al sicuro. Sono sicuro che si affezionerà a voi ancora prima che ve ne rendiate conto.”
Fu allora che l’idea prese forma nel cervello di Vexen. Una soluzione pratica ed efficiente che avrebbe accontentato tutti: nessun rischio per la segretezza dell’Organizzazione, nessun ragazzino segretato contro la sua volontà tra le mura bianche del Castello dell’Oblio. Semplice e geniale come solo le sue idee sapevano essere.
Peccato che da quando Vexen avesse memoria i suoi lampi di genio finivano sempre per infrangersi contro il muro granitico dell’ignoranza di chi lo circondava. Ma uno scienziato non sarebbe uno scienziato se si lasciasse abbattere da una serie di esperimenti falliti.
Determinato a far valere il suo punto di vista, Vexen chiese e ottenne dal Superiore il permesso di parlargli in privato. Si ritirarono in un angolo del laboratorio, protetti dagli sguardi indiscreti dei n. VII e VIII da uno scaffale che arrivava a sfiorare il soffitto con il suo carico di testi scientifici provenienti da tutti i mondi.
Fin dal primissimo momento gli fu chiaro di essersi imbarcato nell’ennesima crociata senza speranza. Nubi di tempesta si addensarono sulla fronte corrucciata di Xemnas non appena le fatidiche parole “Stanze della Memoria” attraversarono come un brivido lo spazio tra di loro.
“Credo di sapere dove porterà questa discussione, n. IV. E devo informarti che la mia risposta non è cambiata.”
“La prego Superiore, mi lasci almeno esporre la mia proposta. Non siamo costretti a rapire un ragazzino per assicurarci il suo silenzio. Possiamo semplicemente fargli dimenticare la nostra esistenza e tutto ciò che ci riguarda. Persino l’incontro con i banditi, se lei lo desidera. Con le Stanze della Memoria è possibile. La procedura non è invasiva né dolorosa, ed è totalmente priva di effetti collaterali. Ho studiato a lungo il funzionamento delle Stanze, almeno nella componente teorica, e non ho alcun dubbio che se lei acconsentisse ad aprirle sarei perfettamente in grado di… “
“Vexen.”
Quanto avrebbe voluto trasformarsi in licantropo solo per un istante e azzannare la mano carica di paternalismo che il n. I gli aveva posato sulla spalla. Invece rimase rigido come una statua di sale, i pugni serrati e una lunga sequela di maledizioni che gli rimbalzava furiosa tra le pareti del cranio.
“Certi pensieri è meglio dimenticarli. Ne abbiamo già parlato. Sei la persona più brillante che io abbia mai incontrato, ma alcune conoscenze sono pericolose persino per te. Manovrare a piacimento i ricordi delle persone è intraprendere una via oscura, e io non permetterò a nessuno dei miei figli di perdersi nelle tenebre. I miei nobili antenati hanno sigillato le Stanze per una ragione. Esistono infiniti campi del sapere in cui la tua abilità può misurarsi senza il bisogno di disturbare ciò che la loro saggezza ha ritenuto opportuno celare agli occhi del mondo.”
Vexen non riuscì a impedire a una sfumatura velenosa di impadronirsi della sua voce: “Invece tenere prigioniero Sora sarebbe un’azione giusta e santa.”
Un’ombra di tristezza velò lo sguardo d’ambra del Superiore: “È un male necessario. Ma non è detto che non si trasformi in un ulteriore stimolo di unità e armonia per la nostra famiglia.”
Lei è pazzo.
Un giorno non sarebbe più riuscito a trattenere dentro di sé quella verità. Un giorno avrebbe finito per sputargliela in faccia insieme a tutto il suo disprezzo. Gliela avrebbe fatta pagare per ogni affronto e umiliazione. Un giorno…
Chiuse gli occhi, consapevole della sconfitta. Per l’ennesima volta si rassegnò a mandare giù l’amaro boccone.
Il Superiore gli strinse ancora la spalla in quello che secondo lui era un gesto di incoraggiamento, poi finalmente lo lasciò andare, ritornando al centro del laboratorio per farsi udire da tutti:
“Riposa ancora per un po’, giovane Sora. Il n. IV e il n. VIII veglieranno su di te. Ci rivedremo tutti tra due ore nella sala riunioni per la presentazione dei nuovi membri della nostra famiglia.”
Vexen non aveva ancora incontrato i due nuovi agnellini smarriti che il n. I aveva recuperato nell’ultimo viaggio, ma sapeva che Zexion e Lexaeus avevano ricevuto l’ordine di accompagnarli nella sala da pranzo per farli rifocillare prima della presentazione ufficiale. Non che nutrisse particolare curiosità di conoscerli: dopo l’arrivo del n. VIII, la sua fiducia nelle capacità del Superiore di selezionare i membri dell’Organizzazione era colata definitivamente a picco.
“Questo è un grande momento per la nostra famiglia.” Xemnas fece scorrere lo sguardo su tutti loro, il petto straripante d’orgoglio neanche avesse compiuto l’impresa del secolo.
“Mai prima d’ora si erano uniti a noi ben tre nuovi membri nello stesso giorno.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Lumaria (III) ***


Capitolo 6 - Lumaria (III)





Xemnas





“Se Ansem il Saggio, nostro fondatore e guida, potesse vederci in questo istante non riuscirebbe a trattenere le lacrime. E se Xehanort, suo successore, fosse seduto qui tra noi ed osservasse la gioia che pervade questa sala vorrebbe senza dubbio stringerci la mano uno ad uno. Una famiglia non è mai abbastanza grande”.
Lumaria fece passare gli occhi da un trono all’altro, dalle tuniche nere tutte identiche ai visi di coloro che le indossavano. Non aveva mai visto una stanza simile.
Se fino a qualche giorno prima gli avessero chiesto di immaginare gli interni di un castello Radigata avrebbe senza dubbio abbondato di tappeti ed arazzi, decorazioni dorate anche negli angoli della mobilia e carovane di servitori dai calici sempre colmi del miglior vino della casa. Da ciò che aveva sentito dai suoi ospiti, molti di loro lastricavano con oro compresso i camminamenti dei loro giardini, e nelle sale da ballo vi erano così tante candele da rendere impossibile agli invitati distinguere il giorno dalla notte.
La prima cosa che lo aveva colpito non appena aveva abbandonato il portale di teletrasporto era stato il bianco accecante, ben lontano da qualsiasi sua immaginazione. Era un bianco forte, imponente, così oppressivo dal fargli esplodere la testa. Un colore assoluto che schiacciava ogni cosa o essere sul suo percorso.
Il Superiore si era allontanato non appena arrivati, discorrendo con un giovane ragazzo che senza dubbio li stava attendendo, e Lumaria era rimasto in silenzio, ammirando il contrasto tra quel colore così aggressivo e la tunica nera di Lexaeus. La figura enorme li aveva condotti attraverso diverse stanze tutte uguali, spoglie, con niente altro ad eccezioni di sottili colonne e decorazioni all’apparenza casuali sul pavimento; i loro passi a stento emettevano suoni.
Un’ora era trascorsa senza fare nulla, attraversando quel posto impensabile con le chiacchiere di Arlen come unica compagnia, cariche di domande a cui l’energumeno rispondeva a monosillabi e senza rivelare nulla di vitale. Lumaria aveva preferito non perdere tempo a discutere con l’uomo e si era limitato ad osservare ogni singolo dettaglio di quelle stanze, ogni battente di quelle porte cercando di recuperare le forze ed il coraggio della famiglia Dayel che fino a poco prima sembrava essergli stato strappato dal petto. Non aveva intenzione di apparire un debole.
Non di nuovo.
Quando il gigante dagli occhi azzurri aveva aperto loro una porta enorme, ben più maestosa e decorata di tutte quelle che avevano incontrato, Lumaria non avrebbe mai pensato di trovarsi davanti qualcosa che avesse potuto lasciarlo senza fiato. Si ricredette nell’istante in cui un nuovo bianco, più vivo e guizzante, scivolò tra le ante ancora dischiuse dell’ingresso e li avvolse prima ancora che potessero mettere piede nella stanza più grande che avesse mai visto.
Era ampia almeno tre volte il salone delle feste del suo palazzo, perfettamente rotonda con le pareti bianche che sembravano risplendere di luce propria e, quando guardò verso l’alto, si accorse di non riuscire a scorgerne il soffitto per il candore che sembrava scaturire proprio da sopra le loro teste e che lo accecò, costringendolo a portarsi una mano davanti agli occhi.
La prima cosa emersa da quel bianco fu il pavimento finemente cesellato di righe e solchi di un materiale che gli ricordava l’argento e che dividevano il salone in settori, congiungendosi al centro in uno spazio tondo. Il simbolo all’interno, una forma appuntita su tre lati e rotondeggiante ad una delle estremità, non apparteneva a nessuna casata che conoscesse.
Tutti intorno alla sala, al di sopra di dieci pilastri all’apparenza inarrivabili nemmeno con delle scale, altrettanti troni candidi sembravano torreggiare su di loro così come i loro occupanti.
“Non uno, non due fratelli. Stavolta il Castello ed il destino portano al nostro cospetto tre nuovi membri, e non saprei dirvi di chi io sia più felice. Fate la loro conoscenza e gioitene, miei adorati figli, perché simili eventi sono segni fausti per la nostra Organizzazione”.
Quando gli occhi di Lumaria si adattarono alla luce –e le sue orecchie al tipico slancio oratorio Radigata- il principe cercò di osservare i visi che lo fissavano dall’alto dei troni e che si distribuivano alla destra ed alla sinistra del loro Superiore. Indossavano tutti la stessa identica tunica scura, così come uguali erano le calzature.
Osservò l’uomo dai capelli argentati mentre si protendeva dal suo trono, il più alto di tutti, aprendo le braccia e tendendo le mani quasi a voler attirare a sé gli occhi di tutti, da quelli dell’uomo guercio alla sua destra fino al ragazzo su uno dei seggi più bassi, una figura magra ed irrequieta che non riusciva a rimanere immobile nemmeno in un momento che, almeno da ciò che Lumaria poteva intuire, rappresentava un evento importante per tutti gli abitanti di quel Castello. “La conoscenza è ciò che ci unisce. È ciò che ha portato a questa famiglia, l’obiettivo che perseguiamo, il bene prezioso che da migliaia di anni i miei avi si sono imposti di salvaguardare e proteggere. Ciò che ci rende forti è la consapevolezza di non custodire tesori luminosi e materiali tra le nostre mura, ma un potere ben più grande che mai dovrebbe cadere nelle mani sbagliate”.
A giudicare dal sonoro sbadiglio del ragazzo dai capelli rossi poco al di sopra di loro era chiaro che quel lungo preambolo fosse qualcosa che tutti gli abitanti del Castello conoscessero quasi a memoria, ma Lumaria socchiuse gli occhi, inspirando a pieni polmoni ogni singola parola che quell’eccentrico misantropo stava sillabando alla sua platea.
Non aveva bisogno della saccenza Radigata per sapere quanto pericolosa fosse la vera conoscenza.
O quanto una scomoda verità potesse causare ben più rovina per una semplice guerra di espansione.
Con la mano ancora a protezione degli occhi si voltò verso l’alto, incrociando in quel bianco implacabile lo sguardo ambra del Superiore. “Il Castello, la nostra casa che da sempre veglia sulla mia famiglia, mi ha mostrato alcuni di voi come propri futuri custodi. Esso non attende altro che infondervi del proprio amore e dei suoi doni, e se voi sarete disposti a proteggere i suoi segreti la nostra intera famiglia vi accoglierà come se foste da sempre dei suoi membri”.
Sulla parte dell’amore Lumaria sarebbe stato ben felice di passare oltre.
Sulla questione dei doni, d’altro canto …
Poco al di sotto del Superiore, un uomo decisamente avanti con gli anni non nascose un suono di stizza.
Svariate espressioni si dipingevano su quei troni, e si imbevve di loro nella lieve pausa che seguì il discorso; se su alcuni occhi era dipinta una forma di adorazione, su altri vi era educazione, su altri indifferenza, su altri ancora riuscì a leggere persino un’ombra di critica. Per un istante gli parve di sentire suo padre, immobile alle sue spalle durante un banchetto, ricordargli di prestare attenzione agli sguardi dei commensali e non alle loro chiacchiere. Al modo in cui le dame poggiavano le mani in grembo, non all’intreccio di stoffe che le rivestiva.
“Permettetemi dunque di presentarvi alla mia famiglia, nella speranza che a breve decidiate di farne parte. Il primo è Lumaria, della famiglia dei Dayel. E già so, in cuor mio, che sarà un figlio prezioso”.

Narratore: “Registe, ma da quando in qua si spacciano acidi dietro le quinte? Perché mi sa che Xemnas …”

“È un piacere ed un onore essere al cospetto di voi tutti” recitò lui, più a denti stretti di quanto pensasse possibile. Il gesto di saluto, l’inchino di ossequio, le parole formali tornarono ad impossessarsi del suo corpo come un tempo. Quello sapeva farlo.
Chinò lievemente la testa senza però smettere di ascoltare, cercando nel lieve brusio che seguì il suo saluto qualche suono, qualche parola che potessero fargli comprendere il pensiero delle persone sopra di lui.
Non ne trovò di interessanti.
“Ed è con grande gioia che invece vorrei presentarvi Arlen. Sarei davvero felice se decidesse di unirsi a noi, in quanto da tempo meditavo sul fatto che la nostra Organizzazione mancasse di una presenza femminile”.
“Con quella seconda scarsa di “femminile” c’è davvero poco, Superiore!”
“Per favore, Xigbar …”
Lumaria osservò la persona che aveva osato interrompere il discorso del suo capo, il guercio dai capelli brizzolati che aveva notato poco prima e che era seduto sul proprio trono con la stessa grazia di un miliziano o un contadino. Il suo posto, alla destra del proprio capo e più in alto di molti altri, doveva essere un segno di importanza. Quello, unito al fatto che avesse interrotto il grande momento del suo capo senza ricevere una punizione –peraltro per motivi futili- lo convinse a segnare in un angolo della sua mente il suo nome.
“Con quell’occhio solo è chiaro che di donne tu non ne abbia viste gran che, sai?”
Arlen fece un passo avanti, superando Lumaria e fissando il guercio con spavalderia. “Anzi, mi sa che vedi le cose proprio a metà. Perché non scendi ed osservi da vicino?” disse, mettendo una mano sul fianco per provocarlo “Ma non correre a piangere da papà Superiore se con un calcio dato bene ti trasformerò nella seconda ragazza di questa Organizzazione!”
“Mamma mia, Xigbar! Incassa!” disse una terza figura, un uomo massiccio alla sinistra del Radigata.
Disgustoso.
Lumaria cercò di fissare con sempre maggiore intensità lo stemma sul pavimento pur di non venire coinvolto da quel fastidioso e triviale scambio di battute degne al massimo della levatura del Porco Zoppo. Il Superiore aveva parlato di proteggere e custodire la conoscenza del suo Castello, ma era chiaro che il livello dei suoi guardiani fosse quantomeno discutibile; cercò di consolarsi sperando che si trattasse solo di un’impressione fugace, ma lo strappo lungo la tunica nel punto dove aveva sempre indossato la spilla di famiglia gli ricordò che, purtroppo, un Dayel non sbagliava mai. E che qualunque organizzazione non criminale avesse deciso di includere quella pazza di Arlen tra le sue fila avrebbe perso credibilità nel giro di qualche minuto.
Si annotò mentalmente anche tutte le figure che mostravano un’espressione disgustata davanti a quella scena indecente.
“Figli miei, per favore …”
Vi era da dire che il richiamo del Superiore fu sufficiente a placare la discussione appena sorta.
Un uomo dal senso della disciplina debole, ma in grado di infondere rispetto anche a persone più grandi o più rudi di lui.
“Desidero che vi comportiate con la signorina Arlen da veri cavalieri quali so che potete essere, se lo desiderate. Così come richiedo voi la massima disponibilità ed educazione verso il giovane Sora, che è giunto presso la nostra Organizzazione per quello che ritengo sia un chiaro segno del destino e della benevolenza dei miei avi”.
Lumaria non si era affatto accorto della terza figura presente nella stanza; il ragazzo si era tenuto bene in disparte, alle loro spalle, appoggiato all’ingresso ormai chiuso con lo sguardo di chi chiaramente non desiderasse trovarsi lì. Avrebbe potuto avere al massimo dodici o tredici anni, ma era comunque di corporatura piccola e gracile, sgraziato come solo un contadino poteva esserlo. Aveva la testa china come se tutti i troni della stanza potessero cadergli sulla testa all’improvviso, i talloni appoggiati allo stipite della porta e degli occhi di un azzurro penetrante che vagavano sul pavimento e si alzavano solo per qualche istante. Teneva le mani serrate dietro la schiena, quasi inchiodate tra loro per impedire al corpo di tremare.
Era chiaro che tutti si aspettassero che spiccasse almeno una parola, ma il silenzio che seguì le parole del Superiore ebbe probabilmente l’effetto opposto e lo straccioncello fece solo uno stentato passo in avanti. “ … io …”
“Non temere, Sora” parlò il n. I, venendogli in aiuto “La nostra famiglia sarà un po’ rumorosa e variegata, questo lo ammetto, ma faremo tutto il possibile per aiutarti a superare la tua perdita. Sei il benvenuto nella nostra Organizzazione e sono convinto che riuscirai presto ad ambientarti. Sarai il fratello minore che tutti, qui dentro, da tempo desideravamo”.
Nonostante la voglia di buttare fuori quella palla al piede che stava chiaramente interrompendo il momento solenne, Lumaria cercò di trattenere la stizza e rimase ad osservare il ragazzo; non gli sfuggì uno sguardo rapido ma intenso verso uno dei troni a metà altezza, un’occhiata carica di dubbio e paura rivolta ad una figura granitica a cui fino a quel momento non aveva prestato alcuna attenzione, troppo intento a fissare il Superiore e gli uomini che sedevano al loro fianco.
Il piccolo contadino biondo stava fissando nervosamente un licantropo.
A Lumaria per poco non mancò un battito quando si accorse dei lineamenti lunghi ed affilati della figura vestita della tunica nera al pari degli altri umani, seduto in maniera impeccabile e con le mani appoggiate lungo i braccioli con fare calmo. Si maledisse per non aver notato subito le orecchie lunghe, appuntite, e gli occhi che non avevano nulla di umano. Nella sala dei banchetti del suo castello vi era impagliata la testa di una di quelle bestie, un mostro che suo nonno aveva cacciato al prezzo di decine di vite dei propri soldati.
La creatura non degnò né lui, né Arlen né il moccioso di più di uno sguardo veloce, intento solo ad osservare dal basso il Superiore.
D’improvviso capì almeno una manciata di motivi della ritrosia di quel Sora.
Cercò di aprire la bocca, raccogliere qualche parola sensata per prendere tempo, ma il Superiore lo anticipò di nuovo, sporgendosi dal proprio trono quasi ad assicurarsi l’attenzione di tutti gli astanti.
“Il nostro Castello è il retaggio di una guerra che fu, una storia che ormai è svanita anche dalle leggende. Esso venne creato durante la guerra che spinse i demoni nel sottosuolo dal quale adesso stanno tornando”.
Lumaria ripensò ai membri della famiglia demoniaca ricomparsi da qualche anno, le creature davanti a cui anche l’esercito reale di Papunika sembrava essersi arreso. I mostri che ridevano degli dèi delle Dodici Case, venerando solo il loro sovrano, il Grande Satana.
“Il grande Ansem il Saggio fu il primo signore del Castello. Mi duole nel profondo non sapere come sia riuscito ad edificare questo posto, questa nostra casa che pensa e ci ama più di una madre. Forse il segreto giace sepolto nella biblioteca, ma nessuno di noi è mai riuscito a trovare una traccia; rimane comunque che il Castello ha accordato la sua protezione alla mia famiglia, e così io la accordo a voi” disse, spalancando le braccia con fare teatrale. Arlen non riuscì a trattenere uno sbadiglio.
“Nella biblioteca vi sono migliaia di libri. Libri di ogni tempo, pieni di sapere del passato, altri che vi appaiono senza che nessuna mano umana li porti all’interno. Riteniamo che alcuni vengano scritti dal Castello in persona. Un sapere che non ha nulla da invidiare alla biblioteca regale di Pharros e che viene da mondi lontani, dove nemmeno i demoni hanno mai messo piede. Catalogarli è un’impresa impossibile …” mormorò piano, scambiando uno sguardo d’assenso con uno dei membri più in alto, un uomo che fino a quel momento era rimasto in silenzio. “… ma proteggerli, quello è fattibile. Proteggere una conoscenza enorme, delle verità che il nostro mondo non è ancora disposto ad accettare. Tra queste mura la magia più potente è il sapere, ed il Castello è pronto a concedervela a patto che lo difendiate, che lo curiate come il più prezioso dei vostri compagni. La cupidigia di conoscenza è una fiamma a cui nessun mortale sa resistere e, credetemi, nemmeno i demoni se sono immuni. È per questo che chiedo a voi di diventare i guardiani di questo posto, di dedicare il vostro amore ai libri che qui dormono, e ad ottenere in cambio sapienza e magia. Quasi tutti voi siete stati scelti dal Castello dell’Oblio in persona e non ho modo di disquisire delle sue decisioni che per me sono più che legge”.
Di sicuro Lumaria non aveva nulla da ridire ad un edificio in grado di spostare i propri abitanti in qualsiasi luogo del mondo e che aveva deciso di nominarlo suo protettore. La cosa continuava a sembrargli del tutto irreale, ma la taglia sulla sua testa emanata da Bernard Durlyn aveva al contrario una consistenza tale da spingerlo a non porsi troppe domande sulla fortuna cadutagli proprio tra le braccia.
Al momento, ovviamente.
“Il mio sincero desiderio è che voi decidiate di restare e di amare questo posto quanto noi. Sarebbero molte le cose di cui vorrei parlarvi, perché tanta è anche la gioia che provo; ritengo però che tocchi a persone ben più adatte di me mostrarvi ciò che il Castello può davvero offrirvi. Stasera organizzeremo una grande festa di benvenuto e, se desidererete restare, provvederemo a preparare degli alloggi per voi”
Il Superiore reclinò la testa verso destra, superando con gli occhi il guercio di nome Xigbar e soffermandosi su una figura silenziosa, un uomo avanti con gli anni che non aveva espresso più di un brontolio o due. “Vexen, confido nella tua preziosa saggezza. Chi altro potrebbe descrivere al meglio la natura della magia che il Castello può offrire?”
“Suppongo di essere l’unico competente, qui dentro. Dopo di lei, Superiore, s’intende”.
Persino da quella distanza Lumaria riuscì a sentire del freddo emergere dalle parole del nuovo interpellato. Il n. I, al contrario, sembrò non aver sentito. “Ho molta stima del tuo intelletto, Vexen, e non smetterò mai ripeterlo. Ammetto che troppo stesso mi dilungo in dissertazioni che senza dubbio farebbero scappar via i nostri ospiti” mormorò con fare ilare “E per questo sono convinto che tu riesca ad essere molto più preciso e dettagliato di me. Ti affido i nostri futuri fratelli, n. IV, e mi raccomando di spiegare loro la questione del nome, delle armi e degli elementi”.
“Il nome?” chiese Sora, uscendo dal suo silenzio.
“Le armi?” fece eco Arlen con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
“Gli elementi?” provò a domandare Lumaria, ma prima che alle loro domande cacofoniche venisse data una risposta esaustiva gli occupanti dei troni, ad un cenno del loro capo, svanirono di nuovo in quei portali oscuri che li avevano condotti lì dentro. Uno di loro, il ragazzo dai capelli rossi, accennò persino un segno di saluto.
Un portale si aprì al centro del simbolo dell’Organizzazione, alla loro altezza, e ne emerse l’uomo a cui il Superiore si era rivolto usando il nome di Vexen.
La prima cosa che Lumaria notò fu l’espressione stizzita, un paio di occhi verdi imbronciati che scrutarono loro tre in un istante. Uno sguardo freddo, fastidioso. Indagatore.
Doveva avere alcuni anni più del Superiore, o forse era un’impressione causata dai lineamenti ancora più affilati di quelli del Radigata, con degli zigomi marcati che delineavano delle guance infossate. Delle vene sottili facevano capolino al di sotto delle tempie chiare, ma per la maggior parte del tempo erano nascosti da dei capelli biondi portati lunghi fino oltre le spalle; un paio di ciuffi sporgevano dalla fronte cadendo ai lati degli occhi. Nonostante l’età era più alto di tutti loro, anche più del n. I in persona. “Immagino di non avere molta scelta …”
Le parole furono esposte in maniera tale da non ammettere repliche, eppure Lumaria vi riconobbe una lieve inflessione, tipica delle regioni settentrionali di Karl.
A quanto pareva l’Organizzazione era riuscita a radunare gente da ogni angolo del mondo. O di ogni razza, rifletté ricordandosi del licantropo in tunica nera e stivali.
“… quindi seguitemi e non perdiamoci in chiacchiere. Ne avremo di cose di cui parlare!”

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Vexen (II) ***


Capitolo 7 - Vexen (II)





Portone delle Stanze della Memoria





In questo luogo trovare è perdere, e perdere è trovare.
 


I nuovi arrivati contemplavano l’incisione che sovrastava l’ingresso alla biblioteca, chi sbuffando con malcelato disinteresse (Arlen), chi con gli occhi sgranati dal timore reverenziale (Sora). Lumaria, sicuramente il più colto del gruppo, ma anche il più bravo a destreggiarsi nelle situazioni sociali, celava piuttosto bene la curiosità dietro la maschera di compostezza che l’educazione da nobile doveva avergli insegnato a indossare in ogni momento. Solo uno scintillio negli occhi, di un blu profondo e indagatore, tradiva il suo vivo interesse.
“Quindi quando il Superiore parlava di libri che si scrivono da soli… “
“Intendeva proprio questo luogo, esatto.” Vexen annuì all’osservazione dell’ex nobile.
“Avrete modo di visitarla spesso, se deciderete di restare.”
“La scritta sul portone… viene dai Salmi, vero?”
Il commento ingenuo di Sora si guadagnò gli sguardi increduli e di tutti.
“Prego?”
Vexen trovò difficile soffocare una risatina, mentre Arlen, senza alcun ritegno, commentava rivolta a Lumaria: “Ma questo qui dove l’hanno preso?”
Rosso come un peperone, Sora cercò di giustificare la figuraccia farfugliando al pavimento: “Gli dèi ci insegnano che bisogna perdere i legami materiali per trovare la vera luce della fede… “
“Quello è un modo raffinato dei preti per convincere gli allocchi a donare soldi ai templi.”
Ora Vexen era genuinamente divertito, anche se non poté fare a meno di notare che il ragazzino, pur indossando abiti umili, era in grado di leggere e usava un linguaggio piuttosto ricercato per la sua classe sociale. Doveva aver studiato in qualche scuola di preti, e forse aveva persino un cervello promettente prima che i religiosi lo annacquassero con le loro idiozie.
“Temo che il significato del motto sia molto più letterale di quello che credi, ragazzo. Un giorno trovi un libro, il giorno dopo scompare. Gli scaffali cambiano continuamente disposizione e contenuto. È un labirinto in cui è impossibile orientarsi. Ma come vi ho detto avrete tutto il tempo di visitarla per conto vostro. Adesso proseguiamo.”
Il gruppetto riprese il giro dei piani del Castello dell’Oblio. L’architettura spartana ma imponente, i lunghi corridoi di marmo bianco immacolato, gli scaloni solenni e le sale vaste, vuote, decorate solo da pochi intarsi essenziali lungo le pareti e le colonne, anch’esse di un bianco accecante, colpivano sempre i nuovi arrivati. Non potevi fare a meno di sentirti minuscolo quando i tuoi passi erano l’unico rumore che echeggiava tra le mura di quel luogo immenso, spezzando un silenzio dall’aria quasi sacrale. Persino la logorroica Arlen tacque per lunghi, meravigliosi minuti di fronte alla maestà di quel luogo che non somigliava a nient’altro si trovasse nel loro mondo.
Anche Vexen seguitò a camminare in silenzio, ma non per stupore o reverenza. Le parole del ragazzino, per qualche motivo che non riusciva a comprendere, gli erano rimaste appiccicate addosso. Per la prima volta in anni si trovò a domandarsi se davvero la citazione della biblioteca non avesse un significato più profondo, se non fosse un monito dei creatori del Castello verso tutti coloro che nei secoli attraversavano le sue sale.
Cosa aveva trovato Vexen nel Castello dell’Oblio, e cosa aveva perso?
Aveva stampato a fuoco nella memoria il giorno in cui il Superiore lo aveva trovato. Ricordava ogni minuscolo dettaglio. L’odore pungente del sangue e dei corpi dei feriti, ammassati sul pavimento della Sala delle Adunanze del villaggio di Idoriel. La stanchezza che gli divorava le ossa dopo due giorni senza chiudere occhio, passati a ricucire ferite, preparare impacchi di erbe e cambiare bende dopo l’attacco di banditi che aveva quasi raso al suolo lo sfortunato villaggio. Il Radigata dai modi raffinati, che a fine giornata gli aveva offerto una cena e un boccale di idromele. Inizialmente Vexen lo aveva scambiato per un gesto di gratitudine per le cure prestate, come talvolta capitava ai medici girovaghi come lui. Invece il Superiore gli aveva fatto la proposta che da un giorno all’altro avrebbe cambiato la sua vita.
Xemnas aveva parlato di custodi della conoscenza, perciò Vexen aveva immaginato di trovare persone come lui al Castello dell’Oblio, scienziati, ricercatori, alchimisti, esuli di un mondo non ancora pronto a comprendere il loro genio. Invece aveva trovato: aristocratici capricciosi, soldati rozzi, soldati perennemente ubriachi, licantropi, ladruncoli di strada, tavernieri e sedicenti bardi. Nulla di diverso dal mondo che credeva di essersi lasciato alle spalle.
Aveva trovato il sapere, conoscenze inimmaginabili e libri di cui non aveva mai neanche sognato l’esistenza, e il potere di viaggiare a piacimento per i mondi ed esplorare i loro segreti.
A sorpresa aveva trovato un bambino, a cui adesso voleva bene come a un figlio.
I primi anni erano stati inebrianti, e non si era accorto subito di ciò che aveva perso.
La fama, la gloria, la possibilità di tracciare il proprio marchio indelebile nel mondo. Negli anni aveva fatto scoperte e raccolto le sue innumerevoli ricerche scientifiche in pagine e pagine di testi, ma il Superiore non permetteva che nemmeno una riga varcasse i confini protetti del Castello. A cosa serviva una conquista scientifica se non c’era nessuno con cui condividerla? A cosa serviva inventare un nuovo elemento chimico o un cerchio alchemico rivoluzionario se nessun altro ne avrebbe mai fatto uso? Se nessun altro avrebbe mai saputo che era stato lui a inventarlo?
“Ehi, Vexy? Ci sei?”
La vocina petulante di Arlen lo salvò dal trarre un bilancio definitivo di ciò che aveva perduto e ciò che aveva trovato. Non era sicuro di arrivare a una risposta positiva.
“Non dovevi parlarci delle armi? Avremo delle vere armi tutte per noi?”
La ragazzina aveva pensato bene di attirare la sua attenzione piantandogli un gomito ossuto nel fianco, e Vexen la scansò con irritazione.
“Sei pregata di non prenderti tutta questa confidenza. Scoprirete presto che una delle regole cardine dell’Organizzazione è il rispetto per i superiori. Voi siete gli ultimi arrivati, quindi sono tutti vostri superiori al momento.”
Arlen atteggiò la bocca in una smorfia che la fece sembrare ancora più infantile: “Certo se sono tutti noiosi come te… “
“Riguardo le armi, ogni membro dell’Organizzazione ne possiede una personale a sua scelta.” Vexen parlò volutamente sopra la ragazzina, e a sorpresa fu lo stesso Lumaria a zittirla del tutto, fulminandola con un’occhiata da nobile altero che doveva aver terrorizzato parecchi popolani all’epoca in cui il nome dei Dayel valeva ancora qualcosa. Lo scienziato però ebbe la netta impressione che la ragazza accettasse di tacere più per curiosità sulle armi che per timore dell’ex principe.
“Le costruirete con l’aiuto dei n. III e V, Xaldin e Lexaeus. Sono i nostri guerrieri migliori. Sora, tu invece dovrai aspettare la maggiore età. Niente armi prima di allora.”
“Ho avuto modo di osservare il n. V in azione, e il suo intervento è stato decisamente provvidenziale per la mia vita, aggiungerei” commentò Lumaria in tono di conversazione. “Il suo potere è a dir poco strabiliante. Il che ci riporta alla questione degli elementi a cui accennava il Superiore. Deduco che quello di Lexaeus sia la terra.”
“Chiunque abbia un paio d’occhi lo capirebbe” fu la secca risposta di Vexen. Indubbiamente Lumaria era abituato a impressionare ogni interlocutore tra saloni profumati della sua corte, ma al Castello dell’Oblio le regole erano diverse. E ci voleva ben altro per impressionare Vexen.
“Sapete cosa sono i maghi elementali, vero?”
Ancora una volta la risposta pronta fu di Lumaria: “Sono incantatori che si specializzano in un solo tipo di magia e arrivano a praticarla a livelli impensabili per un mago comune. Un elementale del fuoco può attraversare le fiamme senza bruciare, ad esempio. Ma ci vogliono decenni di studio per arrivarci.”
Il damerino aveva studiato bene le sue lezioni. Ma neanche lui sapeva tutto. Vexen si concesse un sorrisetto:
“Grazie ai poteri del Superiore e del Castello dell’Oblio questo non è più un ostacolo. Il n. I è in grado di sigillare il vostro potenziale in un attimo, rendendovi sensibili alla magia di un solo elemento. Perciò iniziate a pensare a quale elemento vorreste padroneggiare. Non potete rinunciare a questa scelta, è una regola dell’Organizzazione imposta dal Superiore per tutti i suoi membri.”
“Sembra divertente!” saltellò allegramente Arlen. “Io voglio un elemento fortissimo! Qualcosa di spettacolare come il fuoco o il fulmine! Il tuo invece qual è, Vexy? La muffa?”
“Il ghiaccio” replicò lo scienziato con più durezza del dovuto.
“Un elemento di indubbia grazia ed eleganza” approvò Lumaria. “Posso domandare il motivo della scelta? Sarebbe utile per guidare noi nuovi arrivati."
“Non soffrire il freddo ha le sue comodità. Inoltre il ghiaccio è una sostanza conservante eccellente e può essere una risorsa utile in molti tipi di esperimenti. Tuttavia ogni elemento è debole al suo opposto, e questo vi renderà vulnerabili in determinate situazioni: un elementale dell’aria, ad esempio, si sentirà a disagio in un cunicolo sotterraneo, e avrà difficoltà a usare il suo potere. Una permanenza troppo lunga potrebbe addirittura compromettere seriamente le sue vie respiratorie. Tenetelo a mente quando sceglierete.”
“L’importante è che faccia male al nemico!”
E con il commento idiota di Arlen la discussione venne chiusa. Vexen si chiese come la ragazzina fosse sopravvissuta fino a quel momento con il senso del pericolo completamente fuori fase che si ritrovava. Neanche un’ora in sua compagnia e già la trovava insopportabile.
Il giro continuò toccando rapidamente la larga sala da pranzo, la palestra (dominio incontrastato dei numeri III e V) e le cucine, dove uno sconsolato Demyx alle prese con una frittata di verdure spiaccicata sul soffitto suscitò la potente ilarità di Arlen. Sora volle fermarsi per dare una mano al n. IX e Vexen brontolò per la perdita di tempo, ansioso di farla finita con quell’incarico tedioso da guida turistica.
All’uscita dalle cucine (con i ringraziamenti di Demyx che ancora li inseguivano lungo i corridoi) decise di accelerare e passò a spiegare l’ultimo punto importante del regolamento dell’Organizzazione.
“Il n. I esige che tutti i nuovi membri cambino il proprio nome. Un simbolo del passaggio dal passato alla nuova vita nell’Organizzazione” citò testualmente le parole udite fin troppe volte da Xemnas. “Dovete anagrammare il vostro nome aggiungendovi una X. Non dovrebbe essere un problema se siete tutti in grado di leggere… “ il suo sguardo indugiò dubbioso su Arlen.
“Quindi tu ti chiami Neve! Ecco perché il ghiaccio! Tutto torna! Certo però fattelo dire, è proprio un nome da femmina… “
Come non detto. La squilibrata sapeva leggere. Tre nuovi membri con un livello culturale quantomeno decente erano un record per l’Organizzazione. Peccato che il cervello della ragazza manifestasse tare notevoli in praticamente qualsiasi altro aspetto.
“Adesso vi condurrò a scegliere le vostre stanze, dopodiché finalmente ci saluteremo. Il Castello è enorme e le camere libere sono molte, avete l’imbarazzo della scelta.”
“E su questo piano che cosa c’è?”
Già a metà della scalinata tra il nono e il decimo piano, Vexen si fermò senza reprimere uno sbuffo di impazienza. Lumaria era rimasto immobile ai piedi della rampa, senza seguirlo, e scrutava il corridoio per il quale erano appena passati con curiosità.
“Ci ha illustrato ogni stanza con grande professionalità e attenzione, n. IV, ma stavolta siamo passati senza fermarci. Eppure questi portoni decorati fanno pensare a delle sale importanti. O almeno sarebbe così se si trattasse del mio castello. Mi corregga se sbaglio.”
Il tono del principe era di casuale conversazione, genuinamente curioso, ma qualcosa sul fondo del suo sguardo fece scivolare sulla pelle di Vexen un velato senso di minaccia. Come se Lumaria sapesse esattamente quali corde tirare per farlo sentire a disagio.
Assurdo. Il damerino non aveva certo il potere di leggere le emozioni altrui come Zexion.
“Se ho saltato questo piano è perché temo che non ci sia nulla da vedere. Quei portoni sono sigillati e inaccessibili per ordine del Superiore.”
Questa volta la domanda scaturì da tutte e tre le bocche contemporaneamente: “Perché?”
“Ordini del Superiore” ripeté, odiandosi mentre lo diceva. Da ragazzo detestava quando preti o educatori opponevano ai suoi “perché?” un secco: “così vogliono gli dèi.” Ma in questo caso non c’era davvero niente che potesse fare. Nel Castello dell’Oblio gli ordini del n. I erano legge.
“Il n. I ritiene che le Stanze della Memoria siano troppo pericolose per essere aperte. Neanche a semplice scopo di studio.”
“Ma cosa possono mai contenere da impaurire in questo modo un uomo potente come Xemnas?” incalzò ancora Lumaria. Persino gli occhi del piccolo, innocente Sora adesso brillavano di curiosità. Il desiderio di superare i confini dell’ignoto era il motore dell’iniziativa umana, dopotutto.
“Il potere assoluto sulla mente umana.”
Il rimpianto risuonava acuto nella voce di Vexen. Ecco un’altra cosa che aveva perduto, stavolta ancora prima di trovarla. Dovette fare uno sforzo per distogliere lo sguardo da quei portoni istoriati e proseguire lungo lo scalone di marmo.
“Ma ora seguitemi. Per il vostro primo giorno avete visto abbastanza.”
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Larxen ***


Capitolo 8 - Larxen





Xigbar





La prima volta che si era accorta di possedere la magia aveva avuto dieci, forse undici anni. Suo padre, il macellaio del paese, aveva portato le primizie del proprio mattatoio al piccolo tempio di Stagview in occasione della visita di un Cavaliere d’Argento. Si era alzato di buon mattino ed aveva insistito per portarla con sé. I suoi genitori non avevano mai negato l’idea di voler vedere la loro unica figlia o sposata con qualche bravo ragazzo o addirittura votata al servizio degli dèi in un qualsivoglia tempio della città, quindi sapeva già dall’inizio quante stupide e noiose chiacchiere avrebbero riempito la bocca di suo padre nel corso del viaggio sull’importanza di fare una buona impressione di fronte ai sacerdoti. Aveva provato a nascondersi dentro un barile vuoto per evitare la partenza, ma senza alcuna fortuna.
Il tempio di Stagview era ancora più noioso di quello del loro villaggio, con tante bambine della sua età disposte in riga a cantare inni sacri dirette da una sacerdotessa mascherata con un’armatura vecchia e brutta . Suo padre aveva provato a sospingerla verso il coro, ma senza successo. Si era messa in fila dietro di lui con in mano un cesto pieno di carne macinata quella mattina stessa, coperta con un panno, in attesa di lasciarla tra le mani del Cavaliere d’Argento, fare l’inchino di rito ed andarsene il prima possibile. Aveva provato a fare una linguaccia alle sue coetanee adoranti, ma l’unica che l’aveva notata, una mocciosetta con una lunga treccia nera, era esplosa in lacrime ed aveva iniziato ad additarla.
Il rimprovero di suo padre sul fatto di essere una piccola monella irrispettosa di un luogo sacro agli dèi non si era certo fatto attendere, e si era ritrovata bloccata tra la sgridata, il pianto scemo della sua compagna, l’altare, la fila, le braccia che le pesavano e la noia insopportabile tutti insieme. Se avesse potuto, avrebbe distrutto quella gigantesca massa di idioti come faceva con il formicaio.
Fu proprio in quel momento che si era accorta del filo di fumo proveniente proprio dal suo cestino.
“Ehi, Larxen! Quel tuo sorrisetto non promette niente di buono, sai?”
“Stavo solo ricordando una cosa divertente, Xigbar!” rispose. Non era ancora del tutto abituata al proprio nuovo nome, ma il fondo anche i grandi banditi usavano dei soprannomi per essere ancora più temuti. “Un episodio molto divertente!”
Larxen mosse la mano, osservando la piccola saetta appena nata guizzare tra le dita. La fece correre un po’ sul palmo coperto dal guanto nero della divisa dell’Organizzazione: il piccolo incantesimo sfrigolava al suo controllo, divertito quanto lei al pensiero della nuova missione. Schioccò le dita e la scintilla volò dalla sua mano, diretta verso un cespuglio di rovi.
Il vecchio arbusto si annerì di colpo nel punto in cui i rami vennero a contatto con la magia, ma niente di più. Lei sbuffò e si concentrò di nuovo sulla magia, cercando di creare qualcosa di ancora più grosso.
“Finalmente una recluta che dà un po’ di soddisfazione! Il tuo sì che è un elemento serio, n. XII!”
Larxen lanciò un’occhiata allegra al suo interlocutore: Axel, il n. VIII dell’Organizzazione, le era sembrato l’unico davvero divertente in quella massa di stupidi. Con i suoi capelli rossi, i tatuaggi sulla faccia ed una discreta abilità nel bere e nel bestemmiare si era guadagnato il titolo di membro più simpatico del gruppo. Anche uno dei pochi intelligenti: Larxen avrebbe voluto scegliere come elemento il fuoco, ma Axel lo aveva preso già da tempo ed il Superiore aveva insistito per farle provare un altro tipo di magia. Aveva subito deciso per il fulmine prima che qualcun altro potesse accaparrarselo, ma era rimasta sconvolta dalla grande quantità di elementi stupidi, deboli e noiosi che i suoi superiori avevano già scelto.
Larxen, la Ninfa Selvaggia, la Regina del Fulmine.
Suonava dannatamente bene.
Provò ad aumentare ancora l’intensità della saetta, ma un rimbrotto di Xigbar, il n. II, glielo spense nella mano. “Per adesso basta incantesimi. Siamo arrivati, quindi concentratevi solo sulla missione. Se siete nel dubbio fate parlare me”.
Lei sbuffò, poco convinta, ma l’idea della sua prima missione ufficiale come membro dell’Organizzazione la solleticava abbastanza e spense la magia.
Erano passati circa dieci anni, ma il villaggio di Stagview era identico a come lo ricordava, solo ancora più grigio. Non era mai stata nelle miniere –un vero peccato, sarebbe stato davvero fantastico nascondersi nei cunicoli bui come i veri banditi- ma era chiaro che la cappa che copriva il cielo fosse dovuta a quelle montagne dove gli uomini lavoravano senza sosta. Respirò e sentì la fuliggine entrarle persino nella bocca.
Si erano teleportati nel bosco al di fuori del paese per non creare confusione, ma quando varcarono l’ingresso del centro abitato nessuno fece loro domande. Vide un paio di persone sollevare la testa dalla loro attività per lanciare uno sguardo preoccupato alla criniera rossa di Axel, e ad un cenno del suo superiore quello si sollevò il cappuccio. Dovevano essere una vista ben strana loro quattro –si erano trascinati dietro quella palla al piede dello stupido moccioso, il ragazzino che ovviamente si era ritrovato al n. XIII, l’ultimo di tutta l’Organizzazione- con le loro tuniche scure in mezzo a quella gente triste e grigia, eppure a parte le occhiate al n. VIII nessuno di quei noiosi paesani provò a rivolgere loro la parola. Passarono persino accanto a delle guardie, ma quei tre ragazzotti armati di lance arrugginite erano molto più intenti a rimuovere la fuliggine delle loro armature in cuoio che non a fermarli.
La cosa era piuttosto frustrante: non aveva senso essere vestiti come dei veri tipacci per poi non suscitare nemmeno un po’ di timore. Espresse il proprio pensiero a Xigbar, e quello schioccò la lingua con fare preoccupato. “Guarda lì, n. XII”
Larxen ebbe bisogno di qualche secondo per individuare la fonte del problema. Era una cosa minuscola, che non avrebbe mai notato senza il suggerimento del guercio; stava appollaiato sopra l’insegna del panettiere, ed avrebbe anche potuto trattarsi di una decorazione di cattivo gusto se non fosse stato per il muoversi agitato delle sue propaggini.
Un occhio, grande più o meno quanto il suo pugno, osservava la strada. Tutto intorno a lui dei tentacoli rossi e bluastri sibilavano abbarbicati alle catene dell’insegna: l’iride, minuscola rispetto all’intero bulbo, perlustrava velocemente tutto lo spazio a disposizione.
“Un Occhio di Zaboera” sbuffò il n. II, accelerando il passo. “È una creatura al servizio della famiglia demoniaca, non promette nulla di buono. Testa bassa e niente magia”.
“Quindi è vero ciò che si dice? Che i demoni vogliano conquistare il mondo ed ucciderci tutti?”
“Questo nemmeno il Superiore sa dirlo, n. XIII …”
Passarono al di sotto dell’insegna proprio come tutti gli altri villici, lo sguardo fisso sulla via mal lastricata. Tutti con le nocche strette intorni ai sacchi ed ai carri, una serie di occhiate preoccupate che Larxen non ricordava nella gente di Stagview preoccupata solo di cantare salmi e gioiosa di versare donazioni esorbitanti al Tempio delle Dodici Case. Il pensiero di avere qualcosa di appuntito da lanciare contro quell’occhio fluttuante ed usarlo come puntaspilli le ricordò che doveva ancora terminare la realizzazione della propria arma. Un’idea la aveva, ed in effetti dopo aver visto quel mostriciattolo la sua vena creativa sembrava rafforzata.
Fu solo dopo aver svoltato l’angolo che il loro superiore riprese a muoversi con un’andatura più lenta. “Sono anni che il Superiore cerca di comprendere cosa passi per la mente dei demoni. Ci sono regioni dove si è imposto con la forza, altre dove si fa meramente pagare dei tributi. Fidatevi, ormai nonostante decine di ricognizioni non so nemmeno più io cosa aspettarmi! Bah, beato chi li capisce i demoni!”
“La famiglia demoniaca è stata partorita dalle forze del Male. Sono usciti dal sottosuolo perché gli uomini hanno minor fede negli dèi ed hanno smesso di pregare con la convinzione di un tempo”
Larxen non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere.
Era idiota, così terribilmente idiota. E non solo quel pietoso ragazzino biondo, ma tutti. Quei minatori tutti tremanti, i sacerdoti, anche i suoi genitori che senza dubbio al momento si stavano chiedendo dove potesse essere finita la loro preziosa bambina. Era quella noiosa stupidità ad essere divertente.
Axel si unì a lei, guardando il piccoletto come se fosse un cagnolino ammaestrato alla ricerca di coccole senza nascondere la risata. Il n. II si limitò ad un sorriso, ma era chiaro che la pensasse come lei. “Pregare non credo che servirà a molto, Roxas. Certo, se vuoi inginocchiarti e pregare quell’Occhio di Zaboera sei libero di provarci, ma non credo servirà a molto. Direi di pensare alla missione, anche perché se i demoni sono in città non credo che avremo tutto il tempo del mondo”.
Giunsero nella piazza del villaggio di Stagview dopo qualche passo, e la vista del tempio fece riaffiorare in Larxen diversi ricordi.
Era pronta ad entrare e curiosare, ma il n. II puntò verso un’insegna con sopra un’oca gigante. “Santo cielo, sto iniziando a parlare come quella mummia di Vexen. Va bene, novellini, prima di entrare in azione il buon vecchio Xigbar vi farà assaggiare una birra come non ne fanno dalle altre parti!”
Larxen gli corse dietro sentendosi sempre più positiva per quella nuova avventura.
 
I salmi, la gente, le preghiere e l’interminabile fila. Se aveva sperato che Stagview si fosse evoluta dall’ultima sua venuta … beh, era chiaro che si fosse sbagliata di nuovo.
Il tempio era ancora più gremito di quanto ricordasse, con tante bimbette canterine e la gente carica di offerte. Quella massa di idioti era in grado di lasciarsi morire di fame piuttosto che non portare primizie agli dèi.
“Vediamo un po’ di cosa si tratta …” mormorò Xigbar. “Qualunque cosa sia, parlatene con me. Al momento dobbiamo solo valutarne la pericolosità. La comunicheremo al Superiore e lui ci darà ordini più precisi”.
“E se fosse qualcosa di davvero pericoloso?” chiese Larxen, già immaginando la scena. “Lo dovremmo distruggere, giusto? Lasciate fare a me, la Regina della Distruzione degli Oggetti Magici Misteriosi è qui per far scappare questa banda di bifolchi a gambe levate!”
Se dovesse trattarsi di qualcosa di problematico … ci limiteremo ad attendere una decisione del Superiore. Niente colpi di testa, n. XII”.
Il Superiore di su. Il Superiore di giù. Era partita contenta di viaggiare con il n. II, quello più simile ad un pirata con i capelli raccolti in una coda, la benda sull’occhio ed una vistosa cicatrice, eppure l’uomo si stava rivelando di una noia totale. Alla minima difficoltà non sapeva fare altro che nominare il suo prezioso Superiore nemmeno fosse un Cavaliere d’Oro. Per quel che le riguardava non aveva alcuna intenzione di ridursi ad un simile guscio privo di personalità.
Grazie al cielo quell’Axel non sembrava noioso come il n. II. “Da dove viene questo artefatto?”
“Da quel che sappiamo è stato rinvenuto nelle miniere circa dieci giorni fa. Il minatore ha detto di aver sentito un rumore, come il ronzio di uno sciame d’api, e si è precipitato a scavare. Gli uomini di Stagview lo hanno portato fuori e lo hanno collocato qui nel tempio, adesso cerchiamo di capire cosa davvero sia” disse Axel, accomodandosi su dei sacchi di grano accumulati appositamente per permettere ai pellegrini di sostare. “Il Superiore sostiene che certe cose è bene che stiano lontane dagli uomini”.
“E perché, se sono gli dèi a mandarcele?”
Larxen avrebbe molto volentieri conficcato uno dei suoi tacchi su per la gola del minuscolo biondino dagli occhioni grandi come quelli di una bambola tanto per farlo stare zitto. Il marmocchio era stato affidato all’ala protettrice del n. VIII, ma era chiaro che il rosso non avesse alcuna intenzione di fare da balia al piccolo religioso. “Nelle scritture del santo Hakurei è scritto Di ciò che i Celesti donano, gli uomini possono solo gioirne”.
Larxen si ritrovò sulle labbra una risposta in grado di comprendere il santo Hakurei, il suo libro ed un paio di usi dello stesso possibilmente in presenza di un camino scoppiettante, ma il tintinnare di campanelli richiamò la sua attenzione ed anche quella di tutti i presenti. Tre uomini robusti entrarono, sollevando l’oggetto proprio davanti all’altare.
L’artefatto era ben diverso da come lei lo aveva immaginato. Non vomitava né fuoco né saette, né la gente si decomponeva al solo toccarlo.
Era enorme, alto quanto un uomo. La sua superficie era di un materiale che lei stessa non aveva mai visto: a prima vista sembrava argento, ma non riluceva alla luce delle candele come invece facevano gli altri metalli. Dalla sua distanza non poteva certo vederne i dettagli, ma sembrava liscio, levigato come un ciottolo di fiume. Una sporgenza simile ad un arco ricurvo emergeva su uno dei lati, lunga circa come il suo avambraccio e dello stesso materiale dell’artefatto; emanava un rumore stranissimo, diverso da qualunque altro lei avesse mai ascoltato, flebile e soffuso. Sporse la testa per vedere meglio, ammettendo tra sé che una cosa simile non l’aveva mai vista né letta nei libri.
Gli abitanti di Stagview dovevano averlo ricoperto di olii rituali, perché non sembrava affatto uscito dalle miniere. Con la coda dell’occhio vide il giovane Roxas abbandonare il gruppo ed unirsi alla folla di fedeli adoranti.
“Osservate il miracolo!”
Un uomo, un vecchio sacerdote dall’armatura ingrigita –forse addirittura lo stesso presente al tempio il giorno del suo primo “contatto” con la magia- si frappose tra l’artefatto e la gente. Con una mano afferrò la sporgenza simile ad un arco e la tirò verso di sé.
Qualcuno gridò quando con un rumore stranissimo partì dell’oggetto mentre esso si aprì come se fosse una porta su cardini invisibili e rivelandone l’interno. Ne uscì una luce, ed il vecchio lentamente avvicinò una mano al cuore bianco dell’artefatto e ne estrasse prima una coppia di mele, poi una piccola forma di formaggio. Le passò ad un suo assistente e questo per poco non esplose in lacrime quando toccò il cibo. “Ecco le vostre offerte, fratelli miei. Le stesse offerte che lasciaste qui ben cinque giorni or sono. Toccatele. Osservate il prodigio con i vostri stessi occhi!”
La gente avanzò, sfiorando il cibo. Larxen allungò il collo, stranamente incuriosita dalla questione, ma si accorse che né Xigbar né Axel condividevano la sua curiosità.
Anzi, il n. II sembrava sinceramente divertito.
“Guardate come il tempo non abbia corrotto le vostre offerte. Gli dèi hanno portato in questa città un dono per i loro fedeli, e tutti voi vi siete mostrati degni della loro benevolenza” gridò il sacerdote. “Questa è una promessa di lunga vita, miei fratelli. E come questo miracolo è accaduto per le primizie che avete donato col cuore, così sono certo che anche i nostri corpi mortali ne trarranno giovamento! Portate oggi stesso i vostri cari, i vostri malati, e adorate ciò che gli dèi ci hanno concesso!”
Gli astanti si ammucchiarono uno sull’altro come un gregge di pecore che lottavano per un solo ciuffo d’erba, avvicinandosi all’artefatto per adorarlo.
Le tornò in mente lo stesso tempio, solo anni prima, quando il fumo proveniente dal suo cestino si era trasformato in uno scoppio di scintille facendo scappare la gente proprio come delle pecore disordinate. L’idea di lanciare una saette in mezzo a quella massa sarebbe stato divertente –prima o poi le sarebbero pur serviti dei bersagli mobili- anche solo per disperderle un po’, ma un visibile sghignazzare dei suoi due superiori la distolse. I due si erano spintonati a vicenda, forse complice un po’ la birra ordinata a pinte di poco prima, dietro una colonna per non farsi vedere.
“Ah, non ci provare, Axel! La responsabilità è tua!”
“Non credo proprio. Sei tu il superiore, qui dentro!” disse il n. VIII, soffocando tutta la bocca nella manica della tunica, le lacrime agli occhi per il divertimento. “Tuo il numero basso, tuo il privilegio!”
Larxen si fregò le mani. In realtà non stava capendo gran che, ma se due persone come il n. II ed il n. VIII stavano ridendo in quel modo non poteva as-so-lu-ta-men-te restarne fuori. “Cosa mi sono persa?”
“Nulla, n. XII. Stiamo solo discutendo su chi di noi due dovrà fare rapporto al Superiore e spiegargli come mai il suo amato n. XIII, il suo figlio minore, il nuovo raggio di luce per la nostra Organizzazione e non ricordo nemmeno bene cosa altro ancora …” rispose Xigbar, ancora piegato in due  “… si sia appena inginocchiato davanti ad un frigorifero giurandogli eterna fedeltà. Cazzo, lo sapevo che dovevo portare la videocamera!” 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Axel (II) ***


Capitolo 9 - Axel (II)





I fucili di Xigbar





Axel non riusciva a smettere di ridere. Semplicemente non poteva.
Persino quell’idiota di Demyx non aveva avuto atti di misticismo davanti alla macchinetta del caffè, eppure quella piccola palla al piede dagli occhi grandi era riuscita a sorprenderli tutti.
Gli stessi occhi che adesso lo fissavano dal basso verso l’alto –con un certo lampo di offesa nelle iridi blu- e che pretendevano una risposta.
“Anima candida, tra un paio di settimane il Castello dell’Oblio riconoscerà anche voi come suoi padroni e vi concederà l’accesso ai poteri del teletrasporto. Con quello potrete vedere che ci sono altri mondi oltre questo. Altri bei mondi”.
La faccia della n. XII fu un lampo di entusiasmo, mentre un’ombra carica di dubbio di dipinse su quella del n. XIII.
La stessa che, forse, aveva attraversato il suo viso quando aveva attraversato lui stesso per la prima volta i varchi oscuri del teletrasporto ed aveva scoperto che vi era molto più dei loro piccoli villaggi, delle montagne, dei demoni, del grande regno di Papunika. Saïx gli aveva spiegato che il loro mondo era come una minuscola sfera sospesa tra le stelle, e che esistevano più sfere di quante gente erudita come Vexen o il Superiore sapessero contare. E che in quei mondi c’era gente che viveva nei modi più strambi, città che sembravano giganteschi alveari di metallo e posti dove la gente imbrigliava il calore in tubi di metallo e non aveva bisogno del camino per scaldarsi la notte. Aveva visto un pianeta con sette lune ed uno con due soli gemelli, ed un altro abitato da mostri con le ali che conversavano nella sua stessa lingua. E si era reso conto che in molti di quei luoghi le persone non moriva di fame, e quasi tutte le donne che aveva incontrato nei viaggi avevano trovato i suoi capelli rossi dannatamente attraenti.
Erano nati male, tutti loro.
Erano nati in uno schifo di posto dove solo poca gente, come il n. XI, poteva essere felice. Ma anche le ricchezze del nuovo arrivato erano ben poca cosa davanti a pianeti dove vi erano dei carri di metallo che viaggiavano da soli o dove vi erano negozi con scaffali carichi di cibo abbastanza da nutrire dieci famiglie per un mese. “Ed in quei mondi scoprirete che oggetti come quell’ … artefatto … sono piuttosto comuni. Ogni persona ne possiede almeno uno dentro casa, e vi assicuro che ci sono dei negozi dove si possono acquistare quella e ben altre diavolerie. Demyx è rimasto a fissare una lavatrice per ore …”
“E come ha fatto questo frigocoso ad arrivare qui?”
Per quanto la n. XII sembrasse una pazza scatenata vi era da ammettere che aveva il cervello quantomeno funzionante. Era la prima domanda intelligente fattagli da un nuovo arrivato. “Beh, il Superiore in realtà ha una sua idea, e crede che …”
“Crede che sarebbe meglio se fosse lui ad esporre le proprie teorie. Al sicuro. Nel Castello” tagliò corto Xigbar, guardandosi intorno con fare nervoso. Una volta appurata la non potenziale minaccia dell’artefatto in questione –ed aver testato sul campo l’idiozia del n. XIII- il loro superiore li aveva trascinati fuori da Stagview con una certa fretta. Axel non sapeva dargli torto: nonostante la situazione divertente non aveva potuto non notare un altro paio di Occhi di Zaboera fluttuare nel tempio e nella piazza. Xigbar aveva vietato loro di usare la magia e si erano diretti fuori dalla città a passo spedito senza scambiarsi nemmeno una battuta.
Avevano ripreso a respirare solo quando i tetti di Stagview erano scomparsi dietro le fronde degli alberi, ed anche così l’uomo con i capelli brizzolati aveva intimato a tutti di aumentare la marcia. Aprire dei portali di teletrasporto  accanto a creature sensibili alla magia come gli Occhi di Zaboera avrebbe attirato l’attenzione di quelle disgustose spie fluttuanti, e come da protocollo Xigbar li stava allontanando dall’area percettiva dei loro avversari. Il Superiore stesso non aveva alcuna idea di quanto avanzati fossero i demoni nel campo delle magie di spostamento su lunga distanza, ma in ogni caso non avrebbe mai rischiato che i loro nemici potessero seguirli attraverso un portale da loro stessi creato.
Si fermarono all’altezza di un rigagnolo coperto da sterpi, in cima ad una collina da cui si poteva osservare la città. Dallo sguardo accigliato dell’unico occhio del n. II si poteva intuire che volesse mettere ancora un po’ di spazio tra loro e le creature demoniache, ma il piccolo Roxas si piegò sul ruscello per bere, chiedendo solo qualche minuto di pausa. Axel non aveva idea di come gestire quel moccioso, specie perché il Superiore aveva insistito che se ne occupasse lui “considerato che è stato il tuo intervento non autorizzato a condurlo qui da noi”.
Osservando quel pugno di capelli biondi, Axel si rese conto di non avere la benché minima idea di cosa farne.
Quando era entrato nell’Organizzazione, diversi anni prima, era stato affidato a Saïx e portava ancora i lividi del suo concetto di “educazione”; la bestia gli aveva insegnato a leggere e scrivere, ma Axel aveva il sospetto che il piccolo n. XIII se la cavasse meglio di lui con lettere e numeri. Ci sarebbero voluti anni prima che diventasse abbastanza grande da essere autorizzato all’uso di un’arma, dunque il n. VIII non aveva la più pallida idea di cosa esattamente il n. I volesse che facesse con quel nanerottolo insopportabile –a parte reprimere la voglia di ridergli in faccia ogni minuto.
“E con tutti i poteri del Castello dell’Oblio siamo costretti a scappare al primo bulbo oculare volante? Insomma, a cosa serve tutta questa magia se poi non possiamo prendere a calci nel sedere un demone o due?”
“Combattere il Grande Satana non è nella linea dell’Organizzazione, n. XII” brontolò Xigbar, lanciando diverse occhiate al sottobosco. “Non nego che qualche volta piacerebbe anche a me usare quei mostri gelatinosi come bersagli, ma la nostra arma più importante consiste nella segretezza. Nemmeno noi potremmo resistere ad un intero corpo d’armata demoniaco a piena potenza”.
“Ma ci possiamo teletrasportare, giusto?”
“Se scoprissero del Castello avremmo ben pochi posti per scappare, mia cara. L’Organizzazione si fonda sulla segretezza”.
“L’Organizzazione si fonda sulla noia!”
“L’Organizzazione …”
Non fu l’improvviso interrompersi delle parole del n. II a preoccupare Axel.
Fu l’enorme ombra che coprì il sole per un istante, seguita subito dopo da una seconda.
“Merda”.
Le bestie alate colorarono di scaglie nere e rosse il cielo, lanciando versi che gli fecero raggelare il sangue nelle vene. “Questi non erano nel programma …”
Era la prima volta in chissà quanti fottutissimi secoli che i draghi non solcavano i cieli del loro mondo; le creature, cinque in tutto, discesero dall’alto creando dei cerchi concentrici sempre più piccoli, sfiorandosi appena con le loro code fino ad avvicinarsi del tutto sopra un unico punto: la città di Stagview. Anche da quella distanza si iniziarono ad udire le prime grida.
Xigbar si mise in mezzo a loro. “Andiamocene da qui. Il Superiore deve esserne …”
Axel non fu sicuro di quale delle due cose accadde prima.
Il suo superiore non aveva ancora concluso la frase che un nugolo di Occhi di Zaboera emerse dagli alberi in maniera caotica, fluttuando sia tra i rami alti che nel sottobosco, pigolando versi senza forma mentre si allontanavano da Stagview con quella che sembrava la massima velocità concessa dai loro corpi gelatinosi. Non ci voleva il cervellone del n. IV per capire da cosa stessero scappando.
Fu quando le creature si addensarono tutte intorno a loro, le pupille che si allargavano e si restringevano ritmicamente, che si accorse dei cespugli spezzati alla loro destra e della piccola figura del n. XIII che scappava gridando con quanto fiato avesse in gola.
Quello che avvenne dopo fu il caos. Iniziò con una saetta che attraversò lo spazio e colpì in pieno un Occhio, mandandolo fumante a terra.
Lo sciame di mostri si serrò intorno a loro come insetti dimentichi improvvisamente dei draghi. Axel sentì un ronzio invadergli il cervello e scosse la testa per mandarlo via, alzando d’istinto il fuoco per difendersi.
“AXEL, NON APRIRE UN PORTALE PER ALCUN MOTIVO, CHIARO?” sentì nella mischia, poi scagliò una manciata di scintille contro un bulbo oculare e ne vide la cornea aprirsi in due riversando liquidi e nervi. Il ronzio per un istante si affievolì, poi tornò.
Gli occhi si sollevarono di qualche braccio e tutti insieme iniziarono ad allargare in maniera abnorme le proprie pupille; il ronzio si trasformò in una sensazione ovattata, ed il n. VIII si ritrovò a combattere per tenere le palpebre sollevate, colto da un sonno improvviso e da una violenta voglia di sbadigliare. Le pupille si ritiravano e si allargavano all’unisono, ed ebbe la spiacevole sensazione di non riuscire a distogliere lo sguardo dal loro, colto dal desiderio di avvolgersi in qualcosa di caldo e morbido. Si guardò intorno cercando alla ricerca di un posto comodo per stendersi e notò che in un punto le radici di un vecchio albero si erano sollevate, coperte da un cumulo di terra ed erba; spense il fuoco dalle mani, seguendo il senso di pesantezza che da strisciante si era fatto oppressivo. “AXEL!”
L’urlo lo rivoltò con la forza di uno schiaffo.
Un paio di Occhi di Zaboera, gli stessi con cui aveva appena incrociato lo sguardo, caddero a terra stecchiti.
“BRUTTO ROSCIO DI MERDA, TI PARE IL MOMENTO DI DORMIRE?”
Con un unico movimento Xigbar apparve accanto a lui. “Non ci vogliono lasciare, i figli di puttana. Ti autorizzo ad estrarre le armi in pubblico, n. VIII”
Axel scosse la testa, sentendola dolente e ancora addormentata. I mostri fluttuanti che avevano chiaramente usato su di lui un incantesimo di sonno di sparpagliarono, pigolando frenetici davanti alle canne dei fucili del n. II. Il Superiore aveva espressamente vietato di evocare le loro armi se non in caso di assoluta necessità, ma in effetti cinque draghi ed uno stormo di creaturine gelatinose dello Yomashidan poteva in effetti ricadere nel “caso di assoluta necessità” di cui sopra, specie con due nuovi arrivati cui badare. Ad onor del vero la ragazza sembrava entusiasta: nonostante la sua capacità di controllare il proprio elemento fosse discutibile la vide lanciare una saetta contro una massa di arbusti secchi folgorando un Occhio che stava cercando di nascondersi lì dietro.
Una serie di versi bestiali squarciò la foresta, seguito dal rombo di edifici crollati. Le urla si moltiplicarono dalla cittadina quando i draghi si abbatterono su di essa come bambini contro un formicaio, atterrando sui tetti delle case. Con la coda dell’occhio Axel vide una coda schiantarsi contro una parete facendo esplodere i mattoni, e solo lo stridio dei restanti Occhi di Zaboera lo costrinse a distogliere lo sguardo dal massacro che stava avvenendo.
Per quanto Vexen avesse detto loro più volte che gli Occhi fossero creature da ricognizione, non certo battagliere, il n. VIII si ritrovò a bestemmiare tra i denti per la tenacia di quei piccoli scherzi della natura che continuavano a pungolarli nonostante già oltre dieci di loro fossero stati abbattuti.
“I demoni ormai sapranno di noi!” gridò prima di carbonizzarne un altro.
“Più che di loro mi preoccuperei di quelle lucertole giganti!”
Proprio mentre il suo compagno pronunciava quelle parole Axel vide uno dei draghi avvolgersi intorno al tetto del tempio dove erano stati meno di un’ora prima, afferrando una delle colonne dell’edificio con la coda e mandandolo ad esplodere contro un muro. Un paio atterrarono in un punto dove verosimilmente si trovava la piazza e ne risalirono con uomini e donne straziati tra le fauci. Da quella distanza non riusciva a vedere se qualche guardia cittadina fosse riuscita ad organizzare una difesa, ma in ogni caso era chiaro che per il paese minerario non vi fosse più nulla da fare. Le case e le botteghe sparirono dalla sua vista una dopo l’altra, cancellate al solo passaggio di quei mostri.
Il suo sguardo tornò agli Occhi di Zaboera e al ricordo della loro fuga precipitosa. “Credi che stiano dalla stessa parte?”
“Puoi scommetterci le palle. Questi piccoli spioni se la sono battuta non appena sono stati certi dell’attacco”.
“E da quando il Grande Satana dispone di draghi? Non dovrebbero rispondere soltanto al …”
Xigbar sputò per terra. Axel lo vide avvicinare le canne dei fucili in un unico, fluido movimento ed abbattere una coppia di Occhi che stava cercando di allontanarsi. “Un motivo in più per tornare al Castello e fare rapporto. Vai a cercare quell’idiota del n. XIII, allontanatevi da qui e apri un portale per il Castello solo e soltanto se sei sicuro che non vi siano nemici in vista. Io e la novellina diamo una lezione a questi mostriciattoli e vi raggiungiamo alla base. Chiaro?”
Quasi a confermare le sue parole dalle mani della n. XII uscì una doppia cascata di saette, seguita poi dal suo riso sguaiato. Di sicuro era più autonoma sul campo di battaglia di quanto lo fossero stati lui, Demyx e Luxord dopo un paio di mesi nell’Organizzazione. Axel annuì, poi si tuffò nel bosco con il ruggito di un drago come sottofondo.
Se le fila del Cavaliere del Drago avevano davvero attaccato Stagview su ordine della famiglia demoniaca la situazione era ben peggiore di quanto lo stesso n. I immaginasse.
Ed il tutto per un dannatissimo frigorifero.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Axel (III) ***


Capitolo 10 - Axel (III)





Roxas





Ritrovò Roxas dopo circa mezz’ora. Il ragazzo aveva superato la collina vicina alla loro e sarebbe andato anche oltre se le forze gli fossero bastate. “Non credi che scappare in questo modo, senza nessuno a difenderti, sia una cosa da stupidi?” lo apostrofò Axel.
“Io non so combattere!”.
“Non è un buon motivo per sparire. Io e Xigbar possiamo tenere a bada tutti quegli Occhi” rispose omettendo la parte in cui era quasi caduto vittima di una loro magia di sonno. “E poi non ti ricordi di come ho sistemato quei banditi che ti inseguivano? Te l’ho già ripetuto mille volte, stai vicino a me e non ti succederà nulla”.
“Axel, quelli sono draghi!”
Il n. VIII sospirò, approfittandone per riprendere fiato.
L’argomentazione del ragazzo era giusta, fottutamente giusta. Il che riportava all’ancor più pressante stimolo di prenderlo di peso, impacchettarlo, far fuori tutti gli Occhi, tornare al Castello e scolarsi la prima bottiglia  a disposizione dell’armadietto di Luxord nella speranza di poter lasciare al n. II il “piacere” di far rapporto al Superiore e cercare di scoprire per quale motivo dei draghi se la fossero presa con un frigorifero. Persino da quella distanza si potevano vedere le figure alate alzarsi in cielo e planare su ciò che restava del villaggio di Stagview e dei suoi abitanti.
Anche Roxas le osservava, ancora grondante di sudore e rosso in viso per lo sforzo. Una volta chiaro che non sarebbe riuscito a sfuggirgli si era acquattato tra una roccia piena di muschio e la corteccia di un albero, facendo passare lo sguardo da lui al cielo. Quando una delle bestie mandò un verso ancora più acuto degli altri si portò le mani alla testa quasi a voler sprofondare in quel pertugio improvvisato. “Perché il Cavaliere del Drago è furioso? La gente di Stagview ha portato al dono degli dèi tutti i giusti tributi, per quale motivo …”
“Cosa ti fa pensare che io sappia la risposta?” rispose, mordendosi la guancia subito dopo per il tono pungente appena usato.
Era chiaro che la favoletta per spaventare i bambini, quella del Cavaliere del Drago che scendeva sulla terra per punire i peccatori e portare in cielo le anime pure, avrebbe presto necessitato di qualche modifica.
Sin da quando aveva messo piede al Castello dell’Oblio ed aveva seguito i propri superiori nelle missioni di ricognizione gli avevano spiegato che il Cavaliere del Drago non fosse un’invenzione dei vecchi sacerdoti, ma una creatura realmente esistente. Il Superiore ne aveva accertato la presenza, così come il fatto che per anni fosse rimasto isolato, lontano dal mondo mortale nella sua landa abitata solo da draghi. Non che vi avesse mai dato peso, d’altro canto.
Fino a quel momento.
Facendo appello al tono più conciliante del proprio repertorio si avvicinò a Roxas. “Un motivo in più per tornare dal Superiore e chiederglielo di persona. Vieni con me, raggiungiamo gli altri e …”
L’ombra grigia si stagliò sopra di loro, oscurando il sole, e l’ennesimo grido di terrore del n. XIII svanì nel verso del mostro alato proprio sopra la loro testa.
Di riflesso Axel si buttò dietro ad un albero, osservando la creatura svettare sopra gli alberi, col collo enorme che si muoveva in aria alla ricerca di qualcosa.
Qualcosa che, si rese conto con orrore, poteva benissimo essere un qualcuno.
E quel qualcuno potevano essere loro due.
Un secondo verso, ancora più alto. Strinse i denti con tutta la forza che aveva in corpo, sforzandosi di non gridare come un moccioso. Dalla sua posizione riusciva solo a vedere un pezzo della tunica di Roxas, ancora più acquattato nel suo nascondiglio, e pregò che non strillasse.
Ovunque fossero in quel momento il n. II e la n. XII non erano a portata di udito, ed anche tendendo ogni muscolo del corpo fino allo spasmo non riuscì a sentire altro rumore del proprio cuore martellare nel petto e i versi senza forma della bestia. Si accorse che la propria mano stava componendo le strie elementali che intessevano i portali di teletrasporto del Castello e si costrinse a ricacciare l’istinto di fuggire di lì, serrandola invece contro un pezzo di corteccia: il protocollo di sicurezza del Castello vietava nella maniera più categorica di aprire portali in presenza di altre creature, specie se potenzialmente pericolose. Costrinse il pensiero di fottersene delle regole e scappare di lì in un angolo della mente, inghiottendo un grido quando l’ombra si fece più intensa, segno che la creatura era scesa di quota.
La prima cosa ad infrangersi fu la coda. Abbatté più di sei alberi con un solo movimento, sradicandoli o spezzandone i fusti a metà per permettere alla bestia di scendere. Schioccò una seconda volta quando questa poggiò le due zampe a terra, trascinando con sé un’altra parte di bosco. Vi era solo il suo ruggito.
Il suo ruggito e l’intero bosco che cadeva in pezzi al suo passaggio, con la stessa forza che aveva usato per abbattere muri e case in pietra.
Le ali terminavano con artigli grandi quanto un uomo ed entrambe si arpionarono al terreno come se fossero un altro paio di ali. Uno di essi atterrò su una quercia, spaccandola di netto. Gli occhi del mostro , di un verde simile a quello dei rettili, iniziarono a vagare forsennati tra un albero e l’altro, affamati; Axel si strinse ancora di più contro il suo tronco, costringendosi quasi a non respirare mentre il fiato del drago, simile ad una pozza sulfurea, gli scese in gola forzandogli un conato. Parte del suo corpo rispose quasi apprezzando il fuoco che il corpo della bestia emanava, ma la paura ed il cuore a mille fecero il resto. Premette ancora di più la schiena contro l’albero fin quasi a sparire contro il tronco, imponendosi di non tremare.
Il mostro mandò più versi, acuti e forti, con il collo che si muoveva oltre gli alberi senza mai smettere di cercare. Il terreno tremava ad ogni passo, si scuoteva quando la bestia ringhiava di disapprovazione, priva del pasto. Lentamente la creatura iniziò a spostarsi da loro, cercando verso un punto sulla loro destra: quella parte di bosco cedette immediatamente contro il suo peso, ed in quel momento Axel si accorse che il drago stava dando loro le spalle.
Gli sarebbe bastato allontanarsi, scivolando tra le foglie e confondendo il rumore dei propri passi tra i versi del mostro ed il tonfo delle sue zampe; si sporse quanto bastò per incrociare lo sguardo terrorizzato di Roxas, portarsi un dito alle labbra per intimargli di rimanere in silenzio e fare un primo, flebile passo lontano dal nascondiglio. La bestia colpì il terreno con la coda, ma il suo sguardo era altrove. Capendo che il n. XIII non sarebbe mai uscito allo scoperto senza aiuto si mosse verso di lui tra i cespugli, un passo alla volta.
Un respiro alla volta.
Osservò l’animale muoversi lentamente lontano da loro, stavolta con la testa ed il collo piegati verso il basso, tra gli alberi.
Roxas aveva le lacrime agli occhi per la paura e grazie al cielo dalla sua bocca religiosa non usciva nemmeno un suono inarticolato, quindi lo afferrò per il bavero della tunica e lo spinse in piedi senza troppi riguardi, dritti dritti nella direzione opposta agli occhi del drago.
Fu in quel preciso momento che un suono, una coppia di fischi, squarciò quel poco silenzio che era riuscito a rubare.
Esattamente sopra il nascondiglio, appollaiato tra gli alberi e nascosto tra le foglie arancioni, l’Occhio di Zaboera puntò l’iride contro di loro, ripetendo il suo verso di allarme.
L’istante successivo si ritrovò a fissare lo sguardo verde del drago a pochi metri dalla propria testa.
Il collo saettò su di loro con una velocità impensabile per una bestia di quella taglia; il cranio scrollò via degli alberi e le mandibole si aprirono, pronte a scattare. Axel si buttò di lato col fuoco tra le mani, mandando allo Spiromorfo tutte le regole basilari di sicurezza; fece scintillare la fiamma e la mandò verso la bestia, mancandola. Gridò al suo compagno di distrarre l’avversario, ma era già un miracolo vedere Roxas ancora intero dopo quell’attacco.
Sentì il panico stringergli le gambe.
Chiamò uno dei suoi chackram e lo mandò contro il nemico, ma l’arma infuocata rimbalzò sulle sue scaglie con lo stesso effetto che avrebbe ottenuto lanciandogli una manciata di petali.
Con un verso di battaglia la bestia allargò le ali, poi le puntellò a terra; Roxas ne evitò una per un soffio, troppo terrorizzato per scegliere un luogo preciso verso cui fuggire. Axel provò a scagliare altro fuoco, ma la creatura non ne sembrava infastidita: volgeva la testa da una parte e dall’altra, indeciso su chi azzannare, battendo le zampe e la coda con una forza tale da scuotere tutta la collina e rendendo impossibile il solo alzarsi in piedi e provare a scappare. Un colpo di coda tagliò la strada al n. XIII, che evitò il colpo –che probabilmente gli avrebbe schiacciato la testa- per pura fortuna, inciampando vicino ad una delle zampe posteriori, quasi strisciando sotto al ventre.
Il drago si mosse di scatto, considerando quella mossa un pericolo. Indietreggiò quanto bastava per avere di nuovo il giovane n. XIII in vista, e tempestò il terreno intorno a lui di colpi d’ala e d’artiglio; uno di essi si piantò nella tunica e lo inchiodò a terra.
Senza stare a pensare quanto fossero state remote le probabilità che il ragazzo venisse bloccato invece che infilzato su uno di quegli arti acuminati, Axel si fece avanti. Tutto il cervello gli stava intimando di lasciare il piccolo peso morto in pasto al drago, andarsene e pensare ad una scusa da rifilare al Superiore una volta tornato al Castello, ma maledisse la propria stupidità e corse verso il ragazzo, scagliando un chackram contro la zampa. “Lascialo in pace!”
Per tutta risposta la bestia mosse la propria mole verso di lui per schiacciarlo, ma Axel raggiunse Roxas con un salto, lo tirò a sé con tutta la forza che aveva in corpo e non appena parte della tunica si lacerò lo tirò a sé, liberandolo dalla presa.
“CHE COSA FACCIAMO?”
“Beh, tu che dici?” rispose cercando di farsi sentire. Il collo della creatura si alzò, le mandibole spalancate, pronte a scattare su di loro. “Ce la squagliamo! Al culo i protocolli di sicurezza!”
Quando aprì il portale spinse immediatamente il giovane Roxas lì dentro, e quando sentì i denti del drago chiudersi ad un palmo dal punto in cui si trovava proprio prima decise che non vi era nemmeno un istante da perdere e si tuffò alle sue spalle.
Gli strali oscuri del teletrasporto non gli erano mai sembrati così adorabili.
 


Il bianco accecante del Castello ed il fresco del pavimento marmoreo furono il più grande sollievo della sua esistenza; accanto a lui il n. XIII si buttò di peso per terra con gli occhi sgranati, ed Axel si concesse il lusso di imitarlo, almeno mentre i pensieri ricominciavano a prendere una forma sensata.
Il sollievo finì esattamente una manciata di secondi dopo, quando nello spazio che separava i suoi occhi dal soffitto comparve il profilo del n. VII.
Lo sguardo giallo della bestia, però, non fissava lui. Né Roxas.
“Cosa ci fa quello con voi?”
Una smorfia di disprezzo gli attraversò le labbra, scoprendone i denti, e Axel si costrinse a sdraiarsi sui propri gomiti per osservare l’oggetto della furia del licantropo.
L’Occhio di Zaboera, lo stesso che li aveva segnalati al drago, fluttuava come una sfera mostruosa rossa e blu al centro della stanza, con la pupilla che in un lampo ispezionò tutta la stanza.
“IMBECILLE!”
Saïx superò sia lui che Roxas con un salto, estendendo un braccio per afferrare uno dei tentacoli del piccolo intruso. Quello si spostò di lato ed emise un suono preoccupato, ma era chiaro che ormai le immagini impresse nelle sue pupille fossero già arrivate agli osservatori demoniaci. Con un secondo suono volò alla massima velocità consentita verso una delle porte che conducevano ai livelli superiori, ma con un secondo salto Saïx lo raggiunse e ne acciuffò una propaggine; la creatura si mosse per liberarsi, ma il n. VII la sbatté sul pavimento e vi fu sopra con una violenza tale che anche il Castello tremò. Dalla gola emise un verso orribile, fortissimo, e Axel non riuscì ad evitare le schizzi di umor vitreo che attraversarono la stanza quando la mano del licantropo trapassò il bulbo oculare senza fermarsi, squarciandone la membrana. Ancora avvinghiato alla carcassa sul pavimento ne strappò i tentacoli uno ad uno sporcando di icore le superfici bianche, ed a quella vista Roxas, già pallido, vomitò.
Axel non riuscì a comprendere quanto fosse durato il tutto: senza dubbio pochi attimi, eppure nella sua testa lo spettacolo del licantropo furioso che infieriva sulla creatura demoniaca sembrò durare un’eternità. Un’eternità e forse anche qualcosa di più, specie nel momento in cui le pupille del mostro, ridotte a due fessure nelle iridi gialle, si volsero verso di lui. Dalle labbra del n. VII ne scivolò un rivolo di saliva bianchissima. “Tu lo hai portato qui, Axel”.
“È stato un incidente, siamo stati attaccati!”
“Il protocollo di sicurezza mi è sempre sembrato piuttosto chiaro”.
Si rimise in piedi con la carcassa dell’occhio ancora stretta tra le dita. La gettò per terra tra loro due, poi con un passo la calpestò, portandosi a meno di un braccio da lui. Axel sentì la saliva morirgli in gola.
All’improvviso il drago affamato gli sembrò un’opzione preferibile. Quando Saïx colmò la distanza che li separava riuscì a sentire l’alito umido della creatura e fece d’istinto un passo indietro, ma quello lo afferrò per la tunica. “TI RENDI CONTO DEL DISASTRO CHE HAI COMBINATO? QUELLE CREATURE SONO GLI OCCHI DEL GRANDE SATANA E ADESSO SA DI NOI!”
“Ma non è stata colpa di Axel!”
Fu la voce flebile del n. XIII a farsi avanti. Era ancora minuscolo, piegato in due dopo aver rimesso, ma sollevò la testa cercando di non tremare. Axel avrebbe voluto dirgli di non rispondere in quel modo al licantropo, ma il piccoletto aveva ormai catturato l’attenzione del proprio superiore. “C’era un drago, e se l’era presa con noi! Cosa dovevamo fare? Farci uccidere?”
“Sì”.
Sentì la propria gola farsi rovente, secca, a quella risposta che inchiodò sia lui che il ragazzo sul posto. Per un secondo smise persino di divincolarsi dalla stretta, cercando di mettere a fuoco ciò che aveva appena sentito.
“La sopravvivenza della famiglia prima di tutto”.
Il palmo libero del predatore atterrò proprio sulla sua testa, incurante dei capelli. “E chi mette la propriainsignificante vita prima della famiglia non può farne parte”.
Quando strinse, tutto si trasformò in una scarica di dolore. La prima fitta parti dove il pollice era stretto, vicino all’orbita, ed in un istante la vista di Axel si coprì di rosso mentre il cranio sembrò sul punto di esplodergli. Il rumore secco di qualcosa di spezzato proprio dentro la sua testa gli levò tutte le poche forze rimaste.
L’ultima cosa che sentì fu la propria voce, quasi irriconoscibile per il dolore che la attraversava, sommersa dalle grida di quella che sembrava essere la voce del Superiore.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Vexen (III) ***


Capitolo 11 - Vexen (III)





Lexaeus





Stagview non esisteva più.
Nessuno avrebbe creduto che un villaggio era sorto in quella zona soltanto ventiquattro ore prima. Le case, quasi interamente costruite in legno, erano state ridotte in cenere dalla furia dei draghi, il tempio di pietra collassato in un mucchio di sassi scuri e irriconoscibili. Per metri e metri oltre i confini del villaggio la terra era percorsa da violente striature nere, mentre dai campi devastati si sollevavano volute di fumo che erano arrivate a sommergere il cielo di una spessa cappa grigia. Ci sarebbero voluti anni perché anche il più piccolo filo d’erba potesse ritornare a crescere. La cenere ancora volteggiava nell’aria pesante e aggrediva le narici con il suo odore acre, costringendo Vexen e Lexaeus a coprirsi naso e bocca pezzi di stoffa bagnata.
A differenza degli incendi normali, la magia primordiale del fuoco di drago permeava ancora la zona colpita, anche se le fiamme vere e proprie si erano estinte da ore. L’aria tremolava come per la calura di un deserto e Vexen sentiva gli occhi lacrimare e vampe di calore risalire dal terreno lungo le gambe malgrado la suola spessa degli stivali.
Non era il clima adatto a un elementale del ghiaccio.
“N. IV, se non si sente bene possiamo tornare indietro.”
Non doveva avere una buona cera se persino Lexaeus apriva la bocca di sua spontanea volontà per farglielo notare. Il n. V era il più taciturno tra i membri dell’Organizzazione: non sprecava una parola a meno che non fosse assolutamente necessario, preferendo invece esprimersi con cenni del capo. Per molto tempo Vexen lo aveva ritenuto del tutto incapace di articolare qualsiasi forma di linguaggio.
“Posso resistere ancora per un po’” replicò seccamente.
Gli ordini del Superiore erano semplici: effettuare una breve ricognizione delle rovine di Stagview alla ricerca di indizi su cosa avesse scatenato l’intervento del Cavaliere del Drago e, se possibile, comprendere le ragioni della sua inspiegabile alleanza con i demoni.
Tutte le leggende tramandate nel loro mondo concordavano riguardo la neutralità del Cavaliere del Drago: un terzo demone, un terzo umano e un terzo drago, il Cavaliere era l’arbitro delle contese e il garante della pace tra le tre razze. Le leggende però, come Vexen sapeva bene, fin troppo spesso si rivelavano nient’altro che un mucchio di superstizioni false. L’esistenza del Cavaliere era fuor di dubbio; quanto alla sua lealtà e alla sua missione, la sorte impietosa di Stagview non parlava certo di pace e concordia tra i popoli. Tuttavia, perché il Cavaliere del Drago aveva scelto proprio quel momento per rompere il proprio isolamento? Cosa lo aveva persuaso improvvisamente a unirsi alla crociata dei demoni contro il genere umano?
Forse, dall’alto del suo potere, disprezza semplicemente gli umani di questo mondo arretrato e ignorante. Difficile dargli torto.
Tallonato dall’ombra imponente e silenziosa di Lexaeus, Vexen avanzò cautamente verso i resti del tempio, quello che fino a poche ore prima era stato il centro del villaggio. La concentrazione di corpi carbonizzati, un ammasso contorto in cui i singoli volti erano ormai irriconoscibili, aumentava esponenzialmente man mano che ci si avvicinava a quel punto. La professione di medico aveva abituato Vexen a spettacoli ben più raccapriccianti, tuttavia il solo pensiero di quella morte atroce, della pelle liquefatta dall’abbraccio del fuoco e dell’odore nauseante della carne viva in fiamme, bastò a fargli salire un brivido inquietante lungo la schiena.
Decisamente un clima non adatto a un elementale del ghiaccio. Ma quando si trattava di ricognizioni, nessuno nell’Organizzazione XIII era abile quanto Vexen. Aveva insegnato anche a Zexion la sottile arte del raccogliere dati e formulare deduzioni, ma almeno per una volta in tanti anni lo scienziato e il Superiore si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: portare il giovane n. VI in una missione del genere, con demoni e draghi che potevano apparire dal nulla ad ogni frazione di secondo, era un rischio troppo grande. Xemnas aveva quindi incaricato Lexaeus di partire con il n. IV, con il compito di proteggerlo e l’ordine tassativo di fare immediato ritorno al Castello al minimo segno di pericolo.
Non fu difficile rinvenire tra le macerie i resti del frigorifero di cui aveva parlato il gruppo di Xigbar. Il materiale di cui era fatto aveva resistito alle fiamme meglio di qualsiasi altra cosa all’interno di Stagview. La magia dei draghi lo aveva contorto e annerito, ma la forma e la funzione originarie erano ancora riconoscibili malgrado la devastazione subita.
“Non resistente come il vexenio o l’olihargon, ma una buona lega sicuramente… “ Vexen girò attorno alla carcassa del frigorifero, squadrandola con occhio critico. Il congegno risaliva a prima della catastrofe, a quell’epoca inghiottita dalla sabbia dei millenni in cui il loro mondo era stato qualcosa di più di un nugolo di villaggi di legno dominati da miseria e superstizione. Vexen aveva già esaminato altri artefatti risalenti a quel tempo, ma mai di dimensioni simili. Più sorprendente ancora, Xigbar e Axel sostenevano che al momento del loro arrivo a Stagview il congegno era addirittura funzionante.
“Deve esserci una fonte di energia da qualche parte… “
La maggior parte dei frigoriferi che aveva visto in altri mondi funzionava grazie all’elettricità, ma non poteva essere questo il caso. Il concetto di corrente elettrica era sconosciuto da almeno tremila anni nel loro mondo, e nessuno sarebbe stato in grado di costruire un circuito capace di alimentare un macchinario del genere, meno che mai di comprenderlo.
Vexen avvolse i palmi delle proprie mani con un sottilissimo strato di ghiaccio. Esercitandosi aveva imparato a controllare la magia elementale in modo da mantenere il ghiaccio appena al di sotto della temperatura di scioglimento: la patina semiliquida così creata gli consentiva di muovere agilmente le dita e allo stesso tempo di manipolare oggetti troppo caldi senza danneggiarsi le mani. Mantenere la concentrazione necessaria a lungo andare era faticoso, ma la sua mente da alchimista era ben allenata.
Raggiunse quello che sembrava un pannello apribile alla base del congegno. Il fatto che le fiamme non lo avessero fuso saldamente al resto dell’oggetto era un ulteriore indizio della buona qualità di quella lega sconosciuta. Vexen tirò, le mani protette dal ghiaccio, e il pannello venne via con appena un po’ di sforzo. Avrebbe potuto chiedere a Lexaeus di faticare al suo posto, ma non si fidava di lasciare compiti troppo delicati a un combattente. Il n. V a sua volta non disse nulla, limitandosi a stargli vicino e a squadrare i dintorni con l’aria del veterano che valuta la conformazione del campo di battaglia. Probabilmente si stava accertando dell’assenza di molesti Occhi di Zaboera. A ciascuno il proprio compito.
L’interno del pannello rivelò un ulteriore congegno, abbastanza piccolo da stare in una mano e di forma sferica, che Vexen non aveva mai visto. Una sorta di batteria, probabilmente, della stessa lega di cui era fatto il frigorifero. Plasticacciaio? Avrebbe dovuto analizzarla con le apparecchiature del laboratorio per scoprirlo.
“Quale batteria riesce ad alimentare un congegno per tremila anni?”
Né a Xigbar, né ad Axel, né tantomeno ai nuovi arrivati era venuto in mente di porsi quella domanda. Facevano parte di quel gregge di persone che dà per scontato il funzionamento delle cose: premi un bottone, si accende una luce. La luce si accende perché premi il bottone. Fine della spiegazione. Menti come le loro non riuscivano a immaginare il percorso delle cariche elettriche lungo il conduttore, o l’interruzione nel circuito che porta allo spegnimento della lampadina. Non ne sospettavano neanche l’esistenza, e non se ne curavano.
Eppure quella era l’unica domanda che contava.
Se non avesse già avuto altre prove, questa da sola sarebbe bastata: il popolo scomparso tremila anni prima, i loro lontani antenati, erano una civiltà avanzatissima. Possedevano conoscenze e tecnologie all’avanguardia, erano esperti di tecnica e di scienza. A differenza dei loro discendenti avevano vissuto vite comode, longeve e ricche di opportunità, e i frutti delle loro conquiste sopravvivevano ancora dopo tremila anni. Che cosa poteva aver spazzato via un popolo così pieno di risorse?
Forse la comparsa del Cavaliere del Drago proprio in questo momento non è casuale. Forse è semplicemente tornato a finire il lavoro iniziato tre millenni fa. A cancellare ogni traccia rimasta.
Stagview non era diverso dagli altri villaggi del mondo, e Vexen ne aveva visitati centinaia nei suoi anni da medico girovago. Non possedeva nulla di significativo, niente per cui valesse la pena scomodare un’armata di draghi… niente a parte l’unico congegno perfettamente funzionante del mondo antico mai ritrovato fino a quel momento. Non un banale frigorifero, ma una batteria in grado di immagazzinare energia per millenni. Una batteria che avrebbe potuto alimentare case, veicoli, scudi difensivi… armi. Un retaggio del passato con il potere di ricordare agli umani abbrutiti chi erano veramente, e guidarli verso una comprensione maggiore delle loro reali capacità. Spronarli a porsi domande, a indagare.
Il Cavaliere del Drago aveva temuto che quegli umani troppo intelligenti diventassero più potenti di lui? Per quello li aveva sterminati e aveva fatto precipitare la loro civiltà nell’oblio?
Non possedeva dati sufficienti per poterlo affermare con sicurezza. Ma l’ipotesi era dannatamente valida.
“Potremmo essere i prossimi.”
Le sopracciglia folte del n. V si congiunsero in una linea interrogativa.
“Penso che l’obiettivo del Cavaliere del Drago siano le tecnologie e le conoscenze di tremila anni fa” spiegò Vexen. “La maggior parte delle quali è custodita… nel Castello dell’Oblio.”
Il viso di Lexaeus sembrava una maschera scolpita nella roccia viva. Vexen ricordava poche occasioni in cui aveva visto il n. V sorridere, ma stavolta la serietà della sua espressione non fece che accentuare i timori che andavano crescendo dentro di lui.
Grazie a quell’idiota del n. VIII, un Occhio di Zaboera era penetrato nel Castello. I demoni non potevano conoscere l’ubicazione esatta del rifugio dell’Organizzazione, ma adesso sapevano della sua esistenza.
Da parte sua il Superiore non aveva perso tempo. Il Castello aveva i suoi modi di celarsi e proteggersi, e subito dopo il rapporto del n. II Xemnas aveva attivato tutte le contromisure necessarie per difendere la propria Organizzazione. Tuttavia, se le deduzioni di Vexen erano corrette, avevano a che fare con un avversario il cui rancore non si era raffreddato neppure dopo millenni. Avrebbe indagato. Prima o poi avrebbe scoperto cosa conteneva il Castello. E se aveva destinato cinque draghi al frigorifero di Stagview, cosa poteva tenere in serbo per l’ultimo santuario della conoscenza antica sulla faccia della terra?
Vexen si passò una mano sulla fronte, trovando i capelli appiccicati per il sudore. Iniziava a sentirsi debole, e la colpa non era solo del caldo infernale che avvolgeva quel posto.
“Il Superiore è stato saggio a voler nascondere la conoscenza.”
Il n. V era troppo rispettoso e ligio alle regole per contraddire apertamente un suo diretto superiore. Aveva parlato in tono neutro, come se stesse semplicemente esponendo un dato di fatto. Eppure il rimprovero c’era. Vexen lo lesse nei tratti spigolosi del suo volto, nella severità implacabile degli occhi azzurri che lo inchiodavano al suolo annerito dalle fiamme.
Neanche con un pugno Lexaeus lo avrebbe colpito così forte.
“Stammi bene a sentire, n. V. Se pensi che… “
Un rumore improvviso si mangiò il resto della sua invettiva. Vexen sobbalzò e trattenne a stento un grido, mentre con una velocità impensabile per la sua mole Lexaeus si piantava tra lui e il pericolo sconosciuto, già in posizione da combattimento. Spire di oscurità serpeggiarono lungo il braccio del n. V, condensandosi nella forma imponente del suo tomahawk rosso e nero.
Qualcosa si muoveva tra le rovine di una casa, a pochi passi dal tempio distrutto.
Vexen era sul punto di evocare un portale e darsela a gambe quando udì qualcos’altro. Un gemito sommesso. Durò qualche secondo, poi si interruppe, riprese di nuovo. Quando si fermò per la seconda volta, il silenzio tornò a regnare ancora più profondo di prima.
Scambiò uno sguardo silenzioso con Lexaeus. Il n. V avanzò per primo, cautamente, tutti i muscoli all’erta. Vexen lo seguì a qualche passo di distanza.
Le macerie della casa avevano smesso di muoversi.
Le ampie spalle di Lexaeus si chinarono mentre il gigante frugava nell’ammasso di travi annerite dal fuoco. Quando il n. V si voltò nuovamente verso di lui, Vexen vide che teneva tra le braccia una ragazza svenuta.
Si precipitò al suo fianco. Era incredibile che qualcuno fosse sopravvissuto alla distruzione sistematica e meticolosa che i draghi avevano fatto piovere sullo sfortunato villaggio. La ragazzina, un’adolescente che non doveva avere più dell’età di Zexion, era ricoperta di cenere e presentava diversi tagli e contusioni su tutto il corpo, ma miracolosamente nemmeno un centimetro di pelle era stato intaccato dalla minima traccia di ustioni.
Peccato che la parola miracolosamente non avesse diritto di cittadinanza nel vocabolario di Vexen.
“È strano. Tutto quello che aveva intorno è bruciato, eppure… “
Impossibile che una ragazza così giovane fosse un elementale del fuoco. Persino i suoi capelli rossi e i vestiti si erano salvati dalla furia delle fiamme. Certo, poteva avere genitori o antenati elementali del fuoco e aver ereditato la capacità attraverso una mutazione genetica…
… oppure poteva essere una trappola dei demoni.
Lexaeus lo interrogò con lo sguardo. Vexen capì che avrebbe lasciato la decisione a lui, il suo diretto superiore. L’istinto di conservazione gli gridava di afferrare la batteria del frigorifero e tuffarsi nella sicurezza di un portale prima che qualche altro drago decidesse di rifare una capatina sul luogo del delitto. Sarebbe stata di gran lunga la decisione più saggia.
“Portiamola al Castello” borbottò infine, quasi controvoglia. “Ma non perderla di vista nemmeno per un secondo.”
Mentre gli strati di oscurità li sottraevano al calore insopportabile della carcassa di Stagview, Vexen poté giurare di aver visto un sorriso fugace increspare per un attimo le labbra del n. V.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Vexen (IV) ***


Capitolo 12 - Vexen (IV)





La ragazza misteriosa





Una buona notte di sonno e le opportune medicazioni ristabilirono completamente la ragazza di Stagview.
Vexen la ritrovò la mattina seguente appollaiata su uno sgabello nelle cucine, immersa fino ai capelli in una scodella di latte e cereali al cioccolato. Demyx sfornò in quel momento un vassoio di ciambelle calde, e l’onore appetitoso colpì Vexen a tradimento ricordandogli che aveva fatto colazione soltanto con una tazza di tè. Non si fece pregare quando il n. IX gli offrì uno dei dolci con un sorriso smagliante.
“Anche qui, per favore!”
Demyx inclinò il vassoio verso la ragazza, che si servì tre ciambelle senza fare complimenti, ingoiando metà della prima con un solo morso.
“Dobbiamo parlare”.
Vexen realizzò di non avere un’aria particolarmente minacciosa con una ciambella mordicchiata in una mano e le labbra senza dubbio sporche di zucchero. Ma la curiosità riguardo la scoperta fatta mentre curava la ragazza lo aveva divorato tutta la notte, e non avrebbe atteso un secondo di più a costo di mandare la colazione di traverso a lui ed all’ospite misteriosa. Gettò il guanto sul tavolo, proprio sotto i suoi occhi. “Come mi spieghi questo? A chi lo hai rubato?”
Se immaginava che la sconosciuta sarebbe rimasta intimidita o in imbarazzo si sbagliava di grosso.
La giovane sfoderò un sorriso divertito, rispondendogli tra un boccone di ciambella e l’altro. “Ma l’ho fatto io, naturalmente! Non mi hai ancora riconosciuta? Capisco, non mi avevi ancora vista con questo aspetto ed un cerchio di protezione dal calore è roba da scolaretti, ben al di sotto della portata del mio genio. Ma tu invece non ti stanchi mai? Tutti questi anni e ancora la solita, vecchia faccia? Capisco l’affetto per il fascino dello studioso avanti con gli anni, ma ogni tanto è anche divertente cambiare!”
Aveva sputato tutto questo discorso insieme a qualche granello di zucchero con il tono di conversazione di una vecchia comare che aggiornava l’amica sulle ultime novità. Vexen fu colto alla sprovvista, e per cinque secondi buoni non poté fare altro che aprire e chiudere la bocca senza emettere alcun suono.
La ragazzina conosceva l’alchimia?
Quando Vexen le aveva trovato il guanto con ricamato sopra un cerchio di protezione dal calore aveva compreso come avesse fatto a salvarsi dalla furia dei draghi, ma aveva anche dato per scontato che lo avesse trovato da qualche parte o rubato senza nemmeno sapere cosa fosse. Invece dimostrava di conoscerne perfettamente la funzione.
Certo, poteva anche averlo sentito dire da qualcuno. Ma quanti alchimisti potevano esserci nel loro mondo? In anni di viaggi Vexen non ne aveva mai incontrato nessuno. Quanto al resto del discorso della giovane … non aveva alcun senso. “Credo che il trauma  ti abbia lasciata un po’ confusa” disse infine, meno brusco di prima. “Sai dirmi il tuo nome?”
La ragazza parve mortalmente offesa dalla domanda. “Mi sa che quello confuso qua dentro sei tu. O non hai cambiato corpo in tempo per sfuggire alla demenza senile? Ma persino un lobotomizzato non si dimenticherebbe di me! Andiamo! Il nome Euphemia non ti dice nulla?”
“Non posso certo ricordarmi di ogni singola persona che ho curato!” rispose secco, chiedendosi nello stesso momento perché sentisse il bisogno di giustificarsi davanti a quella strana ragazza.
Non può essere una persona che ho curato, rifletté. Aveva smesso di fare il medico girovago più di dieci anni prima e la ragazza (Euphemia? Mai sentito un nome simile) all’epoca sarebbe stata troppo giovane per ricordarsi di lui dopo tutto quel tempo. Eppure non gli sfuggì il termine che lei aveva usato: lobotomizzato. Una parola che denotava una certa cultura di base. Un concetto che nel loro mondo primitivo non esisteva.
“Tu … da dove vieni?”
“Proprio tu mi fai una domanda del genere? Tu che hai sempre detto che non è importante da dove si viene, ma chi si è? Come se uno potesse giudicare te, il secondo (o terzo) più grande alchimista dei mondi solo perché viene da un posto così arretrato da non avere nemmeno l’elettricità?”
Vexen la fissò di nuovo, sentendo il bisogno di trattenere il fiato. Poteva aver rubato il guanto a qualche sedicente alchimista sparso nel loro mondo. Improbabile, ma possibile. Poteva aver imparato il termine lobotomizzato da qualche libro impolverato prima che i sacerdoti lo dessero alle fiamme. Ancora più improbabile della prima opzione, ma con una probabilità su venti milioni poteva anche accadere.
Ma non sapere di altri mondi.
Quella era una conoscenza propria esclusivamente degli abitanti del Castello dell’Oblio, e Vexen era certo di non aver mai visto quella stramba ragazza tra le loro mura. Lo stesso Superiore ne aveva parlato come di una scoperta assai recente anche tra gli esponenti della sua famiglia. Un simile livello di conoscenza era semplicemente …
“Sbalorditivo”.
Era talmente perso nei propri pensieri che la voce improvvisa lo fece sobbalzare. “Davvero sbalorditivo. Sopravvivere alla furia dei draghi aduna così giovane età … un qualsiasi sacerdote lo definirebbe un miracolo”.
La voce del Superiore aveva da sempre avuto un pessimo effetto sull’umore di Vexen. In quel momento, di fronte a quella piccola forma di enigma su due gambe, ebbe lo stesso effetto di una secchiata d’acqua rovente. L’unica cosa positiva in quell’intrusione fu lo sguardo mortalmente offeso della giovane. “Nel mio vocabolario il termine miracolo non esiste. Se devo ringraziare qualcuno, quello è il mio genio!”
Vexen appoggiò ciò che rimaneva della sua ciambella su un piatto, osservando la reazione. Quella ragazzina –che ad occhio e croce aveva la stessa età del loro non esattamente sveglissimo n. XIII- aveva risposto al signore e padrone del Castello dell’Oblio con una sfrontatezza che nemmeno Xigbar dopo dieci pinte di birra avrebbe mai mostrato.
“Nemmeno nel mio, se questo può tranquillizzarti”.
La cosa odiosa del Superiore –ad essere precisi, una delle tante cose odiose del Superiore- era quel suo tono paterno ed accondiscendente di chi vuole importi la propria morale cercando di indorarti la pillola e di spingerti a credere in modo genuino che sia la cosa migliore del mondo. Vexen si voltò verso l’ingresso, accorgendosi che alle spalle del n. I la cucina si era riempita. Xigbar e Xaldin avevano degnato la nuova venuta di mezzo sguardo e si erano precipitati sulla teglia ancora calda di Demyx, mentre gli onnipresenti Lexaeus e Saïx si tenevano a debita distanza. Ebbe l’impressione di essere circondato.
“Questa è l’Organizzazione XIII, di cui ho l’onore di essere il Superiore. Nessuno di noi intende farti del male, mia cara. Anzi, sono grato al nostro n. IV –disse, indicandolo- per il suo nobile gesto. Riuscire a salvare una vita sembra molto poco, specie dopo la tragedia accaduta a Stagview, ma …”
“Veramente me la sono cavata da sola!”
La ragazza scese dallo sgabello con un salto, poi si stiracchiò. “Per carità, era un po’ che non mangiavo delle ciambelle così buone e vi ringrazio…” disse, sollevando il pollice in maniera complice verso il n. IX “…ma adesso dovrei proprio andare. Ho messo decine di cerchi di protezione sui miei libri prima di recarmi a Stagview, ma preferirei tornare a controllare. Sarebbe davvero una seccatura dovermi procurare altre copie, capite?”
“Mi rendo conto della tua necessità, mia cara. Se hai qualcosa che ti occorre posso mandare subito qualcuno a procurarteli. Hai sicuramente bisogno di rimetterti ancora un po’ in forze, ed oltretutto vi è una cosa di cui volevo discutere con te. Devi sapere che …”
“No, no, no! Non ci siamo capiti!”
Persino Xigbar e Xaldin abbandonarono la presa sui dolci per guardare la fanciulla minuta che aveva appena zittito il Superiore per di più con l’indice sollevato; Vexen sentì il respiro del n. VII farsi più pesante.
“Senti, amico, già so cosa vuoi propormi. Povera fanciulla indifesa, la nostra Organizzazione è una grande famiglia che protegge i segreti millenari del Castello dell’Oblio. Perché non ti unisci a noi? Avrai dei poteri superfantastici, potrai (rullo di tamburi) potenziare la magia sopita che è in te e diventare una custode del sapere. Peccato che dovrai obbedire a tutto quello che io, il sommo N.I, ti dirò. E ci saranno regole, regole e regole. Compresa quella di mettere una X al tuo nome (che, già te lo dico, sarebbe un vero casino. Non credo riuscireste a pronunciarlo in nessuno degli idiomi conosciuti da qui a Nagada). A grandi linee ci ho preso?”
Se Vexen avesse steso uno strato di permafrost su tutto il Castello avrebbe ottenuto più o meno lo stesso livello di silenzio. Persino l’inconfondibile slancio oratorio del loro capo era stato bloccato a metà.
“Sia chiaro, non che io disdegni la vostra biblioteca autoscrivente (anzi, quella sì che si chiama comodità) ed anche il teletrasporto incluso nel pacchetto, ma non siete certo il luogo di sapere più fornito che ci sia! Aveste la Scala della Conoscenza a disposizione ci farei pure un pensierino su, ma quella è off limits e di stare in un posto dove qualche noioso barbogio limiti il mio genio … la cosa mi repelle! E, ora che ci penso, cosa ci fai tu ancora qui?” disse.
E, Vexen se ne rese conto dopo una buona manciata di secondi, la ragazzina era tornata a rivolgersi a lui. Nei suoi occhi azzurri vi era un lampo severo. Si sentì osservato in maniera diversa da prima, e la cosa non gli piacque affatto.
In poche parole la misteriosa arrivata aveva gridato ai quattro venti cosa ne pensasse di quel posto. Cosa lui stesso ne pensasse dell’Organizzazione e del Superiore.
“Superiore, trovo che questo posto stia traboccando di ingratitudine. Ingratitudine verso le premurose cure del n. IV e soprattutto verso la Sua generosità. E anche verso il cibo offerto dal n. IX. Invero credo che …”
“Ehi, ho già ringraziato per le ciambelle, massa di pulci!”
Saïx emerse dalle spalle del loro capo, con un’espressione sul muso di un predatore che aspetti solo che il suo padrone allenti il guinzaglio per saltare sulla preda. Impossibile, rifletté Vexen, se non scappa davanti ad un licantropo o è totalmente fuori di testa oppure …
Il Superiore si mise in mezzo. Sollevò il palmo davanti al n. VII, intimandogli di fermarsi; la bestia tacque, ma non vi era bisogno dell’occhio di uno scienziato per notarne i muscoli del collo in tensione, pronti in ogni caso a scattare. Il n. I si rivolse alla ragazza con la sua solita faccia da prendere a schiaffi, tranquillo ed amorevole come se stessero tutti trascorrendo un piacevole pomeriggio per i campi a raccogliere margherite. “Immagino che tu sappia quanto la segretezza di questo posto sia importante”.
Vexen stava per interromperlo giusto per ricordare che, grazie alla brillante alzata d’ingegno di Axel, al momento l’intera famiglia demoniaca, il Grande Satana e, con un po’ di sana sfortuna, anche il Cavaliere del Drago sapevano di loro, ma si fermò. Ormai una mocciosa in più o in meno non avrebbe fatto la differenza, almeno dal suo punto di vista.
“Credo che la ragazza abbia espresso la sua opinione. N. IV, per favore, non appena la nostra ospite si sarà ristabilita potresti aprirle un portale e riaccompagnarla dove desidera? Temo di avere alcune questioni che richiedono la mia più totale attenzione e non intendo trattenere nessuno di voi” disse il Superiore. Ad un suo cenno tutti gli altri, compreso Demyx, si allontanarono dalla cucina. “Signorina, mi auguro che il suo ingegno ed il suo coraggio possano proteggerla ancora a lungo”.
“Contaci, amico!”
Vexen rimase a fissare il punto in cui le strie del teletrasporto del suo capo si erano dissolte.
Disagio era una parola che da tempo aveva abbandonato il suo vocabolario. Si era assottigliato con la crescita di Zexion e l’accettazione del suo strano olfatto, e in tutti quegli anni non si era fatto sentire. C’era stata –e c’era ancora- una paura soffusa e puramente istintiva alla presenza del n. VII, ma non aveva nulla di quel misto di fastidio, disturbo e, stranamente, flebile curiosità che si intrecciavano dentro di lui davanti a quella ragazzina. Lei prese il guanto dal tavolo e se lo sistemò sulla mano sinistra.
“Come fai a sapere quelle cose?”
“Quelle cose … cosa? Un minimo livello di specificazione sarebbe gradito!”
“Beh, tutto!”
Non c’era proprio nulla di sensato in lei. Aveva usato la propria magia per rilevare tracce di incantesimi psionici –di maghi capaci di leggere in modo lieve la mente ve ne erano stati pochissimi casi, ma era sempre più probabile incontrare uno psionico che non una mocciosa tredicenne che discutesse di alchimia e sfidasse apertamente un licantropo- ma l’intreccio magico del Castello dell’Oblio gli rispose solo col silenzio. “Come potevi sapere cosa ti avrebbe proposto il Superiore?”
“Ehi, allora ti sei davvero bevuto il cervello! Me lo hai detto tu!”
“Questo è il colmo!”
Si sollevò, puntando le mani sul bordo del tavolo. Senza volere il suo potere elementale lo seguì, lasciando una patina di ghiaccio dove si erano poggiati i palmi. “Ragazzina, posso non ricordarmi qualche villico o due che ho curato. E potrei anche essermi dimenticato di averti guarita da un’epidemia quando eri ancora in fasce! Ma penso proprio di ricordarmi dove e con chi ho parlato dei segreti di questo Castello e …”
“MI STAI PARAGONANDO A QUALCHE CONTADINO MORTO DI FAME? IO? Dunque la mia grandezza non ti ispira niente? Sono costernata! Si vede che hai sbagliato a ricreare il tuo corpo e ti sei fritto tutti e due i lobi temporali!”
Anche lei puntò le mani sul lato opposto del tavolo. Per la prima volta sulla faccia della nuova venuta era comparsa un’espressione seria. Seria ed infuriata.
Gli sarebbe piaciuto classificarla solo come una semplice “matta da legare” a cui i fumi tossici dei draghi avessero bruciato quel poco di cervello rimasto, ma era chiaro che vi fosse qualcosa di più. Qualcosa che non riusciva ad afferrare e che stava suonando all’impazzata tutti i campanelli d’allarme nella sua mente. Richiamò il ghiaccio da sotto i guanti per assumere un aspetto meno minaccioso e provare a far parlare la ragazzina con un tono più conciliante, ma lei gli si mise a braccia incrociate davanti. “Sai cosa ti dico? Tu adesso apri uno dei tuoi portali e mi riporti a Stagview. Poi ti fai una bella cura di fosforo, ti imbottisci di vitamine, di anfetamine, di quello che ti pare e fai girare bene TUTTI gli ingranaggi fino a quando non ti ricorderai di me. Non avere memoria del mio genio? Questo è il colmo!”
“Questa discussione non sta portando a nulla”.
 
Narratore: “Ecco, Vexen, grazie di averlo capito!”
 
Stizzito, aprì il varco con un colpo secco. Fin dalle strali oscure si poteva esalare il fetore di morte della cittadina, eppure la ragazza dai capelli rossi vi si avvicinò come si trattasse dello steccato del proprio giardino. “Ti do un solo indizio, e giusto perché quelle ciambelle erano deliziose”.
Si mise una mano in tasca, e Vexen fu rapido ad afferrare una moneta lanciata nella sua direzione. “Valar Morghulis”.
Prima che potesse farle un’altra domanda il portale si era richiuso.
 
 
Narratore: “Ossantissima Trinità, giuro che un dialogo così lungo non lo vedevo dai tempi del processo della scorsa serie! Voi due mi volete morto! E volete morti anche i vostri lettori!”
Registe: “Santo cielo, Narratore, non pensavamo ti sconvolgessi per così poco”
Narratore: “Quelli che si sconvolgono sono tutti quei poveracci che si sono sorbiti questo mattone che … fatemelo dire … definire inutile sarebbe un eufemismo!”
Registe: “Non è affatto inutile. Sai benissimo per cosa ci serve”
Narratore: “Perdonate se le vostre scelte stilistiche sono pessime. Ma credete davvero che chi vi legga si ricordi dove ha già sentito quel “valar morghulis” nella vostra storia? Davvero davvero?”
Registe: “Stai insultando la memoria prodigiosa dei nostri sostenitori?”
Narratore: “Sto semplicemente sottolineando la realtà dei fatti”
Registe: “Molto bene. Amici lettori, sfidate questo Narratore incredulo e dubbioso e mostrategli che ricordate in quale punto delle nostre storie abbiamo seminato questo indizio!”
 
 
 
 
 
Regista: “Ma secondo te se lo ricordano davvero?”
 
 
 
Regista: “Shh …. Le vie dei fan sono infinite. Sono le nostre che sbattono contro un vicolo cieco!”

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Marluxia ***


Capitolo 13 - Marluxia





L'Araldo del Grande Satana





Era la prima volta da quando erano entrati nell’Organizzazione che il Superiore non si univa alla cena.
Marluxia prese il vassoio dalle mani del n. X e versò la propria porzione nel piatto: la carne di capra cucinata con mandorle blu di Papunika aveva un profumo invitante, eppure se ne servì a stento una fetta.
“Per caso non è cotta bene?” chiese Demyx, seduto al suo fianco. Sebbene fosse un suo diretto superiore, il sedicente bardo gli si rivolgeva lo stesso con un tono di voce piagnucoloso.
Un villico, in fondo, rimaneva pur sempre un villico. “La carne appare deliziosa, n. IX. Credo solo che la nuova condizione di elementale stia avendo qualche leggera ripercussione sul mio … appetito”.
Prese il piatto comune e si avventò sulla lattuga intaccata solo dai n. IV e VI, svuotandone il contenuto nelle proprie stoviglie. Mise la prima foglia in bocca, assaporandone la consistenza: al proprio castello le verdure erano sempre state un contorno poco interessante di cui nutrirsi solo per necessità fisica e salute. Eppure, negli ultimi giorni, si era accorto di trovarle appaganti, e non certo per le discutibili doti culinarie del suo giovane superiore.
La scelta di controllare le piante, ed i fiori in special modo, era stata accolta da alcuni membri dell’Organizzazione con delle risate mal nascoste che si era sforzato di evitare. Un elemento debole, così dicevano. Un potere succube di molte altre forme di magia.
Vero e falso allo stesso tempo.
La mancanza della spilla di famiglia, quella con la rosa incastonata di piccoli rubini, si faceva sentire come uno strappo invisibile nella sua nuova tunica nera. Il solo pensare che si trovasse tra le dita unticce di un segaossa gli stringeva lo stomaco.
I Durlyn prima o poi avrebbero imparato quanto le rose fossero difficili da sradicare.
“Tranquillo, non saresti il primo. Qualche verdura in più non sarà un problema”.
Le parole del n. X, seduto di fronte a lui, interruppero il flusso dei suoi pensieri. Il signor Luxord era un uomo posato, molto distinto per il suo basso rango. Aveva dei capelli chiari che risaltavano sulla pelle leggermente abbronzata, e la barba corta, molto curata, finiva sempre per attirare l’attenzione dei suoi interlocutori. “Piuttosto, stasera non abbiamo un po’ troppi posti vuoti?”
Marluxia guardò alla propria sinistra. Oltre al n. VIII, non ancora ripresosi del tutto dallo scontro con Saïx, il Superiore ed i suoi due diretti sottoposti si erano assentati da oltre un’ora. Un silenzio innaturale era sceso sulla tavolata, e lo sguardo teso di Zexion, il giovane n. VI dagli strani poteri, peggiorava soltanto la situazione.
Terminato il pasto Marluxia si servì una mela, la fermò con la forchetta ed iniziò a sbucciarla. Purtroppo il livello di educazione a quel tavolo in assenza del Superiore era sceso ad un punto preoccupante, e cercò di voltarsi dall’altra parte quando vide Larxen immergere un dito nel sugo della carne e leccarlo con avidità.
Tra tutti il più civile sembrava il licantropo: sebbene i suoi movimenti fossero affettati ed artificiali, il n. VII stava tagliando la carne in fette minuscole. Le masticava con calma, come se un guinzaglio invisibile lo stesse tirando per il collo. Marluxia si ritrovò ad osservare i movimenti della bestia con estrema curiosità: era chiaro che fosse stato addestrato dal Superiore e che non vi fosse nulla di naturale, nobile o spontaneo in quei gesti, tuttavia non poté fare a meno di fissarlo.
L’effetto era più o meno quello di una scimmia addestrata ad imitare gli umani, ma in quel caso si trattava di una scimmia con i denti ed in grado di sventrare dieci di loro. Lanciò uno sguardo alla spoglia parete bianca di fronte a lui, immaginandosi la testa del licantropo impagliata e messa al suo giusto posto.
Il dolce –un ammasso gelatinoso e marrone servito da Demyx in mezzo ad una valanga di scuse su un errore nella cottura- atterrò non richiesto sotto il suo naso e fu felice di passare la propria porzione alle fauci della n. XII.
Per quanto il n. I si ostinasse a ripeterlo, quella massa di soldati, bestie feroci e reietti della società non era la sua famiglia. Né lo sarebbe mai stata. Il ricordo di sua madre, che con una voce perfetta intonava una lode alla generosità degli dèi prima del pasto, gli attraversò la mente quasi come un alito di aria fresca. Vi si sarebbe soffermato a lungo, ma il flebile rumore del portale di teletrasporto aperto richiamò la sua attenzione e quella di tutti i presenti.
Il n. II vi emerse, la faccia sfregiata attraversata da un’espressione che non indicava nulla di buono.
“Ragazzi, tutti in sala riunioni. Ordine del Superiore” disse, scrollando le spalle. “Stavolta sono cazzi”.


 
L’araldo della famiglia demoniaca era una figura alta, ma non imponente.
Marluxia si teleportò sul proprio trono posto a meno di due metri da terra, osservandolo da vicino.
Le fattezze apparivano umanoidi, ma nulla di concreto traspariva dal lungo mantello bianco che copriva ogni parte del suo corpo, la testa nascosta da un gigantesco cappuccio bianco a punta. Non sembrava intenzionato a volare –come spesso facevano i demoni- ed il clangore metallico delle sue calzature era l’unico rumore percepibile insieme a quello di una catenella che gli stringeva indosso il manto. Il n. XI si sporse dal proprio sedile per guardarlo meglio in faccia, ma tutto ciò che emergeva da sotto il cappuccio erano due punti luminosi dove si sarebbero dovuti trovare gli occhi.
La figura misteriosa li fissò tutti, uno ad uno.
“Figli miei, porgete i vostri migliori omaggi” parlò il n. I, seduto sul trono più alto. Come potesse vedere da quell’altezza, Marluxia non lo avrebbe mai compreso.
“Il generale Mistobaan, comandante del Maegudan e personale Braccio Destro del Grande Satana Baan è qui per conferire con la nostra Organizzazione”.
 
Muro del Suono: “No. Lui no. Non potete farmi questo. Voi non potete …”
 
“Risparmiate il fiato, umani”.
Con un cenno del braccio, quasi a voler fendere l’aria, il messaggero troncò sul nascere ogni loro saluto. “Serbatelo per quando vi prostrerete davanti al Grande Satana”.
Lentamente i suoi occhi si posarono su ciascuno di loro. Quando i punti luminosi si soffermarono su di lui, Marluxia non poté fare a meno di tremare; sentì la magia del loro interlocutore attraversarlo da parte a parte.
Si strinse nel mantello, attraversato da un brivido di freddo. Sotto di lui, il n. XIII sembrava aver visto lo Spiromorfo in persona.
“Non vedo il motivo per cui dovrei parlare di fronte a questa sudicia massa di parassiti!” tuonò l’inviato. “Non bastava la sua presenza, Superiore? Le parole del Grande Satana non sono cose per infimi sottoposti!”
“Infatti qui non vi sono sottoposti. Questa è la mia famiglia, e con essa non ho alcun segreto”.
Ovviamente sulla questione dei sottoposti Marluxia avrebbe avuto da che dire, ma rimase in silenzio, colpito dal Superiore. Il Radigata aveva, se possibile, un tono ancora più pacato del solito: il suo corpo non mostrava alcuna agitazione. “Quindi la prego, generale Mistobaan, di comunicarci il volere del suo signore. Ammetto che da qualche tempo ero certo che prima o poi un suo ambasciatore sarebbe giunto alla nostra soglia”.
“Se lo immaginavate da così tanto allora saprete il motivo della mia visita!”
Il demone avvolto dal mantello bianco fece un paio di passi avanti, continuando con lo sguardo ad inquisirli uno dopo l’altro. Marluxia fu certo che per qualche istante si fosse soffermato su un trono, uno soltanto, ma quando cercò di focalizzare l’attenzione vide il collo di Mistobaan continuare la sua lenta risalita. “Questo Castello e ciò che contiene non sono materiali per feccia umana come voi. Basti solo ascoltare la magia che anima queste mura per capire che si tratti di un potere ben oltre le limitate capacità della vostra razza”.
“Eppure questo Castello appartiene alla mia famiglia da generazioni. È un luogo creato dagli umani”.
“Mi sento in dovere di dissentire …” ribatté l’araldo, stavolta terminata la perlustrazione. Fissava il Superiore come se volesse trascinarlo giù dal trono. “Un simile potere è appannaggio solo della famiglia demoniaca. Questo posto è imbrigliato di incantesimi che i vostri maghi non oserebbero nemmeno immaginare! Dunque il Grande Satana mi ha inviato qui per avvisarvi che il Castello, insieme a tutte le diavolerie che contiene, verrà requisito dalla sua eccelsa maestà!”
Marluxia sospirò. Purtroppo il momento era arrivato.
“MA il Grande Satana, dall’alto della Sua magnanimità, ha concesso a voi ratti tre giorni di riflessione. SE e SOLO SE, allo scadere del tempo, consegnerete questo luogo e vi prostrerete alla Sua presenza vi verrà graziata la vita e vi dà la Sua parola di demone maggiore che a nessuno di voi verrà fatto del male. E ritengo che sia stato fin troppo generoso a vincolare la Sua sacra parola ad esseri del vostro livello”.
La sala piombò nel silenzio più totale.
Tre giorni, pensò tristemente Marluxia, erano un discreto preavviso. I Durlyn non avevano certo fatto una dichiarazione di guerra prima di entrare con l’inganno e massacrare la sua famiglia.
Guardò verso gli altri troni cercando di interpretare le espressioni dei suoi superiori: dagli sguardi dei numeri II, III e V era chiaro che fossero preparati ad una simile evenienza. Il n. IV era gelido ed enigmatico come al solito, mentre il n. VII, il licantropo, aveva sul volto un’espressione impossibile da leggere. Stava per osservarlo meglio quando la voce del Superiore tornò a riempire la stanza.
“Generale Mistobaan, la ringrazio per averci portato di persona la parola del Grande Satana. Fateci giungere un Occhio di Zaboera e vi faremo avere la nostra risposta entro il tempo da voi proposto” disse. Il tono era quello di un uomo che stesse discutendo al proprio desco in compagnia di ospiti piacevoli e non certo quello di una persona il cui Castello stesse per essere messo a ferro e fuoco da un esercito di draghi.
Senza saperne spiegare il motivo, si ritrovò a detestarlo.
“Inoltre” aggiunse il Radigata “Se stasera volesse unirsi alla nostra tavola ne saremmo davvero onor …”
“CIBO UMANO? GIAMMAI!” urlò il generale Mistobaan facendo fare a tutti, Marluxia incluso, un sobbalzo sul trono. “Sappiate che qualsiasi vostro invito NON, e sottolineo NON è gradito”.
 
Muro del Suono: “Eccolo che si carica …”
 
Il Superiore sembrò non notare il dito avvolto nel guanto metallico puntato verso di lui. “Non era mia intenzione offenderla”.
Probabilmente dalla mano del generale sarebbe potuto partire uno di quegli incantesimi demoniaci in grado di ridurre in cenere anche il mago umano più addestrato, ed il n. XI si ritrovò quasi a sperare che accadesse. L’indice smise di puntare il loro capo, ma si alzò con fare ammonitorio. “Badate, umani, avete solo tre giorni. E non solo per rispondere alla fin troppo magnanima offerta del mio signore e padrone. Perché ho anche IO una condizione da porre”.
Marluxia si accorse che, senza volerlo, le sue mani si erano conficcate nei braccioli. Cosa altro poteva esigere un demone di quel livello da loro? La resa incondizionata era già nella lista …
“Vede, Superiore, mi considero anche io un demone fin troppo tollerante. Non ai livelli del sommo Grande Satana Baan, ma vi sono alcuni comportamenti umani che posso quantomeno fingere di ignorare. La vostra puzza, tanto per cominciare. O la vostra disgustosa alimentazione. Posso PERSINO concedervi di non cancellarvi dalla faccia di Cephiro per il vostro evidente scarso rispetto per il mio signore …”
A Marluxia sembrò che la figura vestita di bianco si fosse girata proprio nella sua direzione, ma gli occhi luminosi si bloccarono poco al di sopra di lui. “MA VEDERVI OSPITARE UN VILE DISERTORE E METTERLO IN MOSTRA INNANZI A ME? LA VOSTRA SFRONTATEZZA NON CONOSCE LIMITI!”
Il dito accusatore si fermò, indicando il n. VII dell’Organizzazione.
Saïx, che fino a quel momento era rimasto impassibile come al solito, si irrigidì.
“IO ESIGO CHE QUESTO RINNEGATO VENGA RESTITUITO ALLA FAMIGLIA DEMONIACA, DOVE È GIUSTO CHE SIA!” gridò. “TU, SUDICIO IBRIDO INFERIORE CLASSIFICATO COME MEBRO DELLA FAMIGLIA DEMONIACA SOLO PER LABILI LEGAMI DI SANGUE, COME OSI MISCHIARTI IN QUESTO MODO AGLI UMANI? LA TUA VITA APPARTIENE AL GRANDE SATANA, ED È COSI CHE INTENDI SERVIRLO? VOLTANDO LE SPALLE AL TUO STESSO SANGUE? RIMEDIERÒ ALLA TUA NATURA ABERRANTE NON APPENA QUESTI UMANI TI AVRANNO RESTITUITO AL MIO SIGNORE, ED ALLORA CHIEDERÒ L’INDUBBIO PRIVILEGIO DI STRAPPARTI IL CUORE CON LE MIE STESSE MANI PER LAVARE L’ONTA DEL TUO TRADIMENTO! IO NON …!”
“ADESSO BASTA!”
Marluxia non aveva mai sentito urlare Xemnas e, da quel poco che aveva sentito in giro, nessun altro aveva mai avuto quel dubbio privilegio.
Quando la voce del n. I superò di diversi toni l’assalto oratorio del generale demoniaco calò un silenzio ancora più spaventoso, reso del tutto innaturale dagli sguardi attoniti dei numeri II e III. Dopo una manciata di secondi il Superiore riprese, tornando senza sforzo al suo tono pacato. “Tra tre giorni risponderò alle richieste del Grande Satana come da accordi, generale, e non verrò meno alla mia parola. Ma …” aggiunse, e stavolta Marluxia fu certo di sentire qualcosa di diverso, quasi minaccioso “… non manderò a morte nessun membro della mia famiglia. E questo, già glielo posso anticipare, non cambierà”.
“QUEL LICANTROPO NON FA PARTE DELLA SUA …”
“Generale Mistobaan, temo che il suo tempo di permanenza presso la nostra fetida magione umana sia scaduto da un po’. Credo che anche lei desideri andarsene, giusto?”
“Oh, su quello potrebbe giocarci il suo onore, Superiore, se solo lei sapesse cosa fosse …” sibilò l’araldo. Le porte bianche alle sue spalle si spalancarono di colpo, e la luce degli interni del Castello si affacciò con prepotenza nella stanza. La figura incappucciata si voltò di nuovo verso il n. VII “CI RIVEDREMO TRA TRE GIORNI, UMANI! ED IN QUEL MOMENTO VI PROSTRERETE AD IMPLORARE PER LE VOSTRE DISGUSTOSE VITE!”
L’essere uscì colpendo violentemente il pavimento con gli stivali intarsiati, continuando ad esprimere la propria ira finché anche l’ultima traccia della sua voce imponente non svanì tra le mura bianche.
Si ritrovarono tutti con un sospiro di sollievo fra le labbra.
Per Marluxia, però, fu di breve durata. Sarebbe stato chiaro persino a quel contadino del n. XIII che il loro beneamato Superiore aveva appena messo alla porta il terzo essere più potente del loro mondo che, a giudicare dagli eventi di Stagview, poteva benissimo inviare loro un esercito di draghi per lavare l’onta col sangue. E che, nell’assai improbabile caso che quel Mistobaan decidesse di ignorare l’offesa ricevuta, avrebbero avuto soltanto tre giorni prima di ritrovarsi tutta la famiglia demoniaca al portone.
Fu però il n. II a dare voce ai suoi dubbi “Ehm … capo … non perché lei non abbia fatto bene a mandar via quel demone insolente … però … come dire … lei ce l’ha un piano, vero? Perché altrimenti mi sa che siamo un tantino nella m …”
“In realtà ho già un’idea. Ma desidero prima parlarne con tutti voi”.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Vexen (V) ***


Capitolo 14 - Vexen (V)





La sala dei troni dell'Organizzazione





Il silenzio pesava come un macigno nella sala dei troni, tanto che ogni fruscio delle tuniche o colpo di tosse risuonava fragoroso e sgradevole alle orecchie. Persino il Superiore sembrava aver perso tutta la retorica e la sicurezza sfoggiate davanti a Mistobaan, e dovette schiarirsi la voce più volte prima di riuscire a iniziare il suo discorso.
Quando finalmente parlò, Vexen non riconobbe più il patriarca bonario che tante volte aveva messo a dura prova la sua pazienza, ma solo un uomo profondamente scosso nelle sue certezze. Era come se la maschera del sovrano fosse scivolata via dal suo volto, lasciando a nudo l’uomo stanco e impaurito.
“Figli miei, oggi la nostra amata Organizzazione si trova a fronteggiare la crisi più terribile dal giorno della sua nascita. Oggi, per la prima volta, la nostra stessa esistenza viene minacciata. La segretezza che ci aveva protetti finora è stata violentemente infranta, e per questo è giunto il momento di prendere una decisione di importanza critica per il nostro futuro.”
Istintivamente, Vexen cercò lo sguardo di Zexion, che gli rispose con un impercettibile sorriso, un tentativo di rassicurarlo che stava bene, che le minacce dell’araldo del Grande Satana non lo avevano scosso. Non avevano avuto modo di scambiare nemmeno due parole da quando il demone era piombato tra di loro nel bel mezzo del pranzo.
L’odore di un demone maggiore, per di più carico di odio e disprezzo verso l’umanità intera, doveva rappresentare uno shock non indifferente per l’olfatto del ragazzo, abituato a routine ben più tranquille e prevedibili. Se le minacce roboanti di Mistobaan avevano sconvolto tutti loro, non immaginava come potesse sentirsi Zexion, che percepiva a livello fisico ogni sfumatura di intento omicida dietro di esse.
“Proteggere il Castello dell’Oblio e il suo tesoro di conoscenza è il compito che mi è stato affidato dai miei saggi antenati, e non intendo tradirlo. Ma non voglio imporre un simile vincolo su nessuno di voi. Chi desidera lasciare l’Organizzazione è libero di farlo, anche in questo stesso momento.”
Nessuno emise un fiato, anche se Axel continuava a cambiare posizione sul suo trono come se fosse seduto su una massa di rovi. Per un attimo parve che il n. IX volesse dire qualcosa, ma aprì la bocca senza spiccicare parola e si ritrasse ancora di più contro lo schienale, forse sperando che questo si spalancasse per inghiottirlo.
“Come ho già accennato, ho un’idea per una possibile via d’uscita. I membri più anziani immagineranno già di cosa sto parlando” proseguì il Superiore. “Ma non è di facile realizzazione, e richiede sforzi notevoli da parte di tutti noi. Potremmo addirittura non avere il tempo di metterla in atto. Nei loro diari, i miei antenati parlano di un incantesimo per teletrasportare il Castello dell’Oblio. Non soltanto entro i confini del nostro mondo, ma ovunque. In qualsiasi dimensione i demoni non possano trovarci. Tuttavia” Xemnas sollevò un dito per rimarcare l’importanza di quanto stava per dire, “si tratta di un rituale lungo e complicato, e richiede il potere magico di tutti gli abitanti del Castello. E soprattutto significa l’allontanamento definitivo dal nostro mondo, che non potremo più visitare nemmeno con i portali dell’oscurità. Non possiamo permettere ai demoni di inseguirci ancora. Per questo motivo ci tengo ad ascoltare il vostro parere prima di prendere una decisione. Parlate liberamente, figli miei, e troviamo insieme la soluzione migliore per salvare la nostra amata Organizzazione e le conoscenze di cui siamo i custodi.”
Il silenzio, se possibile, divenne ancora più profondo. Una ragnatela di sguardi fugaci si intessé rapidamente da un trono all’altro: occhiate rimbalzavano tra Xigbar e Xaldin come in una partita di tennis, ciascuno che palesemente cercava di convincere l’altro a intervenire. Il n. X aveva estratto l’immancabile mazzo da gioco e faceva volare le carte da una mano all’altra in una danza nervosa.
Ma nessuno intervenne, nessuno proferì parola. Vexen quasi sussultò quando udì la sua stessa voce echeggiare nella grande sala bianca.
“Superiore, forse un’alternativa esiste. Possiamo usare il rito di teletrasporto, certo. Finché rimaniamo qui saremo esposti agli attacchi dei demoni. Ma perché nascondersi e basta? Potremmo sfruttare il nostro nuovo nascondiglio per organizzare un contrattacco.”
Aveva parlato senza pensare, con urgenza. Era paradossale, ma in quel momento di incertezza e paura per il futuro la cosa che lo terrorizzava di più non era l’ira dei demoni, né la minaccia racchiusa negli occhi luminosi dell’araldo del Grande Satana. Era l’isolamento, il rintanarsi in qualche mondo selvaggio e lontano come un animale rannicchiato nella tana in attesa di morire. La fuga dai demoni avrebbe portato nuovi divieti, nuove limitazioni imposte dal Superiore.
Una palla di fuoco in piena faccia sarebbe stata preferibile.
Il n. I lo fissò corrugando le sopracciglia, ma stranamente non gli impedì di continuare.
“Spiegati meglio, n. IV. Cosa proponi esattamente?”
“È molto semplice.” Ormai si era messo in gioco, tanto valeva andare fino in fondo. “Gli umani del nostro mondo sono molto più numerosi dei demoni, ma non hanno i mezzi per contrastarli. Noi abbiamo la conoscenza e la magia, ma siamo in pochi. Loro hanno i numeri, noi i mezzi. Quello che propongo è unire le due cose. Insegnare agli umani a usare le nostre conoscenze. Sviluppare tecnologie, potenziare le loro difese… costruire armi per un contrattacco.”
Il silenzio che seguì fu profondo, ma non ostile come si sarebbe aspettato dopo aver lanciato una bomba di quella portata. Incrociò lo sguardo di Xaldin dal trono immediatamente superiore al suo: gli occhi viola del guerriero lo soppesarono con intensità, poi il n. III fece un lento, impercettibile cenno del capo mentre sulle sue labbra appariva l’ombra di un sorriso di approvazione.
In quel momento, inaspettatamente, una voce si levò dalla metà inferiore della sala.
“Superiore, domando umilmente il permesso di parlare.”
Malgrado il tono deferente nulla nel portamento del n. XI suggeriva umiltà. Sedeva eretto contro lo schienale del trono, le mani poggiate sui braccioli e lo sguardo che riusciva ad abbracciare tutti i presenti malgrado si trovasse su uno dei seggi più bassi.
Attese il cenno di assenso del n. I per proseguire.
“Ci tenevo a congratularmi con il n. IV per l’idea che ha voluto condividere con noi. E vorrei rivolgere un appello a tutti voi affinché la prendiate in considerazione, senza lasciarvi sopraffare dall’emozione del momento. È un’idea che a prima vista può spaventare, ed è sacrosanto provare paura quando tutte le certezze che ci hanno protetti per tanto tempo vengono a mancare improvvisamente. Anch'io, che ho ricevuto un addestramento da guerriero, ho avuto paura. Non mi vergogno ad ammetterlo. Tuttavia, le parole del n. IV mi hanno riempito il cuore di una nuova speranza. Il suo piano sconvolge e mette in dubbio tutto ciò in cui crediamo: ma questo, signori, è l’impatto di tutte le grandi idee che cambiano la storia.”
Vexen non poté trattenere un sorriso compiaciuto. Il n. XI aveva mobilitato la lingua comune e la mandava in battaglia in difesa della sua proposta. Per qualche breve attimo, Vexen concesse a un’immagine piacevole di indugiare davanti agli occhi della mente: quella di se stesso circondato da una folla che lo pregava di rivelare i suoi segreti, di insegnare loro tutto sull’alchimia, la scienza, la magia.
“Superiore, lei ci ha ricordato giustamente la nostra responsabilità nei confronti dei segreti che il Castello protegge. Ma con tutto il rispetto, io credo che tale responsabilità vada oltre questo. Noi non siamo i padroni della conoscenza, ne siamo semplicemente i custodi. La proteggiamo in attesa del momento di restituirla ai suoi legittimi proprietari, gli uomini e le donne di questo mondo. Ma quale momento è migliore di questo, quando il mondo stesso è sotto una minaccia senza precedenti? Ragionare con i demoni non è possibile, su questo siamo tutti concordi: non puoi scendere a patti con una tigre se la tua testa è tra le sue fauci. Ma anche fuggire non può, non deve essere una possibilità. Voltare le spalle al mondo in cui tutti noi siamo nati e cresciuti, quando rappresentiamo l’unica forza in grado di opporsi all’invasione demoniaca… sono parole forti quelle che sto per pronunciare, signori, ma ci credo fermamente: se ci ritiriamo ora, il sangue della gente di questo mondo sarà sulle nostre mani.”
Impeccabile. Retorico, enfatico, ma terribilmente coinvolgente, tanto che persino Vexen provò l’impulso di battere le mani. Qualcun altro lo fece davvero. Vexen dubitava che il n. XI credesse veramente a ogni parola che aveva detto (i nobili del loro mondo non erano famosi per avere a cuore gli interessi del popolo), ma stava aiutando la sua causa, ed era tutto ciò che importava. Lanciò un’altra occhiata a Zexion. Il ragazzo guardava verso il basso, e i capelli argentati ne nascondevano completamente l’espressione.
Sul trono più alto, il Superiore era impenetrabile.
“N. IV, n. XI, vi ringrazio per aver parlato con il cuore in mano. Comprendo i vostri sentimenti, e ammiro la vostra risolutezza. Prima di esprimere un giudizio, tuttavia, vorrei sentire l’opinione di tutti gli altri riguardo la vostra proposta. Non voglio influenzare nessuno, pertanto sarò l’ultimo a parlare.”
“È un piano folle.”
Come al solito la voce di Saïx somigliava più a un ringhio che a un suono prodotto da corde vocali umane.
“Il n. XI si è espresso bene, i demoni sono la tigre e la nostra testa è tra le loro fauci. Ma provocare la tigre è il gesto più stupido che si possa commettere! Superiore, con tutto il rispetto, nessuno di loro conosce i demoni quanto me che ho vissuto parte della mia vita tra i loro sottoposti licantropi. Non perdoneranno una fuga da parte nostra, ma addirittura una ribellione? Non avranno pietà. Ci daranno la caccia fino allo stremo e ci distruggeranno completamente, noi e tutti gli umani abbastanza pazzi da seguirci. Se davvero abbiamo una responsabilità nei confronti degli umani di questo mondo, sparire e non farci più rivedere è la cosa migliore che possiamo fare per loro. Ricordatevi di Stagview.”
“Non ti facevo così cacasotto, Saïx!” Il n. II per poco non saltò in piedi sul trono, incapace di trattenersi oltre. “Sei il più forte di tutti noi, non avrei mai creduto che il n. IV potesse avere più palle di te! Superiore, io sono d’accordo con il n XI: scappare è da vigliacchi. Siamo addestrati per questo. Ci alleniamo tutti i giorni da anni al solo scopo di proteggere il Castello… beh, ora siamo pronti a metterci in gioco! Giusto, Xaldin?”
“Concordo pienamente anch’io, Superiore. Siamo membri dell’Organizzazione, ma rimaniamo pur sempre abitanti di questo mondo.”
Quattro voti contro uno. L’appoggio dei n. II e III era importante. Amici inseparabili, i due erano detti da sempre il braccio destro e il braccio sinistro del Superiore. Servivano la famiglia di Xemnas fin dalla nascita, molto prima della fondazione dell’Organizzazione. Erano le persone più vicine al n. I dell’intero Castello.
Saïx non controbatté l’insulto dei suoi superiori, ma i canini affilati che affioravano sotto le labbra ritratte la dicevano lunga sul suo stato d’animo.
“Proprio perché Saïx è il più forte di noi la sua cautela dovrebbe farci riflettere.”
“Non ci credo Lex! Anche tu! Dov’è finito il tuo onore di guerriero?”
“Un guerriero per prima cosa sa valutare quali battaglie può vincere e quali no.”
Quattro contro due. Maledetto n. V. Un guerriero che rifiuta di lottare è come uno scienziato che smette di fare esperimenti.
Prevedibilmente, i n. VIII, IX e X espressero uno dopo l’altro la loro contrarietà al piano con argomenti che andavano dalla cautela (“Ci sono partite in cui rischiare l’intera posta in gioco porta inevitabilmente alla sconfitta.”) al puro e semplice terrore (“Combattere i demoni? Ma siamo scemi?”).
“Io invece ci sto! Sono pronta a far sputare sangue a demoni, mostri, licantropi e chi più ne ha più ne metta, Superiore!”
Vexen non avrebbe mai immaginato di dovere un ringraziamento alla n. XII, anche se la sua risposta era effettivamente prevedibile. Tutte le risposte lo erano state finora, e anche quella del giovane n. XIII non generò alcuna sorpresa.
“Io… non credo che dovremmo combattere. Morirebbe troppa gente per colpa nostra.”
Non aggiunse tiritere sugli dèi solo perché ormai aveva capito che gli avrebbero riso tutti in faccia.
Cinque contro sei.
Rimaneva un ultimo voto prima di quello definitivo del Superiore, e Vexen sorrise amaro all’ironia della situazione. Zexion era la persona che conosceva meglio tra tutti i membri dell’Organizzazione: lo aveva cresciuto, era la cosa più vicina a una famiglia che avesse mai posseduto nella sua vita adulta, l’unica persona vivente a cui tenesse. E proprio per questo non riusciva a prevedere quale sarebbe stata la sua risposta. Incontrò il suo unico occhio azzurro visibile e vi lesse tutto il conflitto che lo dilaniava.
Ti prego, Zexion. Non abbandonarmi adesso. Non a un passo dalla soluzione. Siamo così vicini…
Zexion era un ragazzo chiuso e riservato. Da bambino non aveva mai cercato la compagnia dei suoi coetanei, neanche quando Vexen lo portava a esplorare altri mondi in cui poteva incontrare molte più persone che tra le mura del Castello dell’Oblio. Il suo potere lo induceva a diffidare della gente, perché nessuno è mai del tutto sincero nemmeno con se stesso, e Zexion poteva sentire ogni bugia, ogni ombra di fastidio o fantasma di pensiero inconsapevole prima ancora che la mente che lo formulava se ne accorgesse. Vexen lo aveva imparato molto presto, e a proprie spese.
Per questo non lo aveva mai forzato a cercare contatti con altre persone, e capiva quanto fosse repellente per lui l’idea di entrare in un conflitto, di mischiarsi alle popolazioni di città e villaggi per portare tra gli umani la conoscenza del Castello dell’Oblio. Di respirare il loro odio, la loro paura, tutta la miseria della loro esistenza.
Dall’altro lato, Zexion gli voleva bene, e sapeva quanto quella decisione fosse importante per lui.
Non dovrai fare niente che non vorrai. Penserò io a ogni cosa, mi occuperò di tutto. Non permetterò che ti succeda nulla di male.
“Sono d’accordo con i n. IV e XI.”
Aveva parlato a voce bassa, in tono neutro, e non aggiunse altro. Ma era sufficiente.
Sei contro sei.
Grazie, Zexion.
Gli sorrise dall’alto. Il Superiore adesso non poteva esimersi dal prendere in considerazione una proposta che ben metà della sua Organizzazione aveva appoggiato pienamente. Probabilmente non sarebbe servito a smuoverlo dai suoi ideali isolazionisti, ma ora doveva quanto meno pensarci su. E forse, in sei, avrebbero avuto qualche possibilità in più di convincerlo.
Forse.
“Vi ringrazio, figli miei. Il contributo di ciascuno di voi è prezioso, e mi avete dato molto di che riflettere.” Dall’alto, Xemnas fece scorrere lo sguardo su ciascuno di loro in una sorta di ringraziamento silenzioso.
“Ora, però, ho bisogno di un po’ di tempo per riflettere da solo.”

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Zexion ***


Capitolo 15 - Zexion





La vetrata nella stanza di Saïx





Zexion si immerse nei vapori caldi della tazza di tè. Il profumo di zenzero, lievemente frizzante, riuscì a placare la violenta sensazione di rimettere.
“Stai meglio?”
Suo zio lo osservava preoccupato dall’altra parte del tavolo, e Zexion si limitò ad annuire. Vexen detestava avvicinarsi a qualsiasi oggetto rovente eppure, una volta tornati nel loro laboratorio, aveva preparato per lui la bevanda senza battere ciglio.
“Sì. Ti ringrazio”.
Zexion riusciva a percepire gli odori sin da quando era in grado di ricordare. Gli ci era voluto tempo per comprendere che le sue “percezioni” erano ben diverse dall’olfatto degli altri esseri umani, superiori anche a quelle dei sensi affilati di creature come Saïx.
Gli esseri viventi producono secrezioni diverse a seconda del proprio stato d’animo, quando mentono, quando gioiscono, anche solo quando sono infastiditi da qualcuno o qualcosa: per Zexion era sempre stato palese anche più di un libro aperto, e questo suo “potere” causava disagio a tutti coloro con cui entrava in contatto.
Si sentivano letti nel pensiero, scrutati.
“Durante la riunione eri pallido” disse il n. IV. “Credo che l’odore di quel demone sia stato troppo. Non oso immaginare come tu possa esserti sentito”.
Suo zio era l’unico che non scappasse da lui.
Aveva avuto anche lui un momento di disagio, ma Zexion si era reso conto di quanto fosse stata normale la reazione dello scienziato. Ma, a differenza degli altri abitanti del Castello, lo scienziato freddo ed imperscrutabile aveva capito. E, a modo suo, accettato. Anche il Superiore aveva superato con gli anni quella barriera invisibile, ma con il n. IV si era creato con gli anni un rapporto insostituibile.
Era un uomo dalla sete di conoscenza insaziabile, da un ingegno diverso da quello di chiunque altro. Se fosse nato altrove, Zexion sospettava, sarebbe stato considerato come minimo un genio. Qualsiasi cosa, il più stupido dettaglio, lo pungolava a saperne di più; studiava, dissezionava, compilava infiniti plichi per appuntare le sue conoscenze e non trovava pace finché ogni suo quesito non era stato ampiamente soddisfatto, documentato ed archiviato. Eppure, davanti a quel suo potere, a quel suo olfatto unico sconvolgente, il più grande scienziato ed alchimista del mondo aveva abbandonato ogni tentativo di ricerca.
E, per quello, Zexion non aveva mai trovato una giusta forma di gratitudine.
Bevve il tè a piccoli sorsi, assaporando il calore fino allo stomaco. Con calma le mani smisero di tremare. “Ammetto … ammetto che sia stato forte. Molto più forte di Saïx nelle sere di luna piena, per farti un paragone. Era … era davvero terribile”.
“Vorrei poterti aiutare. Vuoi qualche medicina?”
Se questa sua peculiarità si fosse limitata a sentire soltanto le emozioni degli altri, il n.VI era certo che il tutto sarebbe stato piuttosto sopportabile. Il problema era che tutti quegli odori non si limitavano al suo naso: i sentimenti violenti, la rabbia, l’energia, l’esplosione magica di creature come Mistobaan avevano sul suo corpo risvolti devastanti. La furia del Braccio Destro del Grande Satana aveva avuto più o meno l’effetto di un violento pugno nello stomaco ed anche in quel momento, con l’emissario lontano, parte del suo ventre sembrava ancora scosso. “Sto bene, zio, non preoccuparti. Hai già abbastanza pensieri”.
“Ammetto di non avere idea di come abbia trovato il coraggio di avanzare una simile proposta”.
“Forse perché è quello che hai sempre voluto?”
Il n. IV si alzò dal tavolo, muovendosi con passo lento verso la libreria. Zexion lo vide scegliere un volume piccolo, dalle pagine gialline e rumorose, per poi sedersi sulla poltrona, l’unico oggetto confortabile del loro laboratorio che, almeno da quando il giovane n. VI avesse memoria, era stata la loro unica casa. L’uomo aprì una pagina, iniziando a farvi scivolare lo sguardo.
Non che stesse leggendo, ovviamente.
Per Zexion i gesti dello scienziato erano, qualche volta, persino più rivelatori degli odori. Una persona dalla mente simile aveva bisogno comunque di fare qualcosa anche in preda ai pensieri più disparati, e non bastò l’aroma al mandarino per scacciare il bagaglio di preoccupazioni ed incertezze che suo zio si trascinava da poche ore a quella parte. “Zexion … il Superiore ha chiesto di vederti una volta che ti sarai ripreso”.
“Immagino abbia a che fare con la votazione. Non credo che parleremo d’altro per i prossimi giorni”.
“Ecco, a proposito di questa storia …” sospirò l’altro, sollevando il capo dal testo.
Molti si trovavano a disagio davanti allo sguardo indagatore si suo zio quasi quanto i suoi poteri, ma le sue iridi verdi non avevano nulla di minaccioso, né di preoccupante. Solo curiosità e dubbi, ma quelle erano emozioni che avvolgevano il n. IV dell’Organizzazione come un manto. “… non avrò i tuoi poteri, Zexion, ma qualcosa di te mi permetto di saperla. E so quanto l’idea di uno scontro diretto con il Grande Satana ed il suo esercito non ti appassioni. Anche se riuscissimo a portare la battaglia lontano dal Castello so per certo che molti odori, molte percezioni qui dentro potrebbero cambiare, e non mi aspetto che cambino per il meglio”.
Si fermò, osservandolo, ma Zexion rimase in silenzio.
“Perché hai optato per lo scontro?”
Il ragazzo sospirò.
Aveva portato l’Organizzazione in stallo e costretto Xemnas a decidere. Aveva aspettato il voto di tutti prima di parlare, ma probabilmente solo suo zio si era accorto di questa sua piccola strategia.
O, più probabile, nessuno si sarebbe mai aspettato che lo sparuto n. VI fosse in grado anche solo di pensare.
Vexen, l’osservatore, aveva ragione su tutti i punti.
Lui non era un guerriero. Forse, un giorno, sarebbe diventato uno studioso, ma per Zexion la guerra contro la famiglia demoniaca non era altro che un pericolo pronto a cadere sulle teste di tutti loro. Aveva paura, quella sana paura che nel cuore del suo interlocutore al momento era stata messa a tacere dall’eccitazione di poter uscire, liberarsi, sperimentare davanti agli occhi di tutti.
Zexion si era ripromesso di avere un po’ di paura per tutti e due. “Davvero non ci arrivi?”
Il n. IV era un uomo dal genio senza limiti, ma a volte gli sfuggivano le cose più evidenti.
Appoggiò la tazza ormai vuota e gli venne vicino, appoggiando la propria fronte alla sua. “Perché era quello che volevi tu”.
 



Trovò il Superiore in uno dei corridoi del terzo piano del Castello; si sarebbe immaginato di incontrarlo nella galleria dei quadri di famiglia o nelle sue stanze, ma il n. I stava camminando lentamente tra i corridoi bianchi e lo accolse con un sorriso carico di flemma. Il suo odore, che a Zexion ricordava quello di erbe esotiche, raccontava un’altra storia.
“Forse non avrei dovuto far partecipare te ed il n. XIII alla riunione. Non è stata una bella esperienza” disse. “Te ne chiedo scusa”.
“Non è lei a doversi scusare, n. I. Desiderava vedermi?”
“Sì, figlio mio. È mio dovere decidere del futuro della nostra famiglia, ma non posso farlo senza sapere se il terreno su cui stiamo per incamminarci sia solido o rischi di farci affondare. E per farlo ho bisogno del tuo dono, n. VI”.
Il ragazzo allungò il passo, cercando di rimanere al tempo delle ampie, seppur involontarie, falcate del Radigata.
L’uomo dai capelli argentati si era spesso riferito al suo olfatto come ad un “dono”. Zexion, invece, avrebbe parlato di “maledizione”. Con il passare degli anni aveva persino smesso di chiedersi l’origine di quella sua capacità.
“Credi che quel Mistobaan possa o voglia davvero mettere in atto la sua minaccia?”
“Mi sta chiedendo se stesse bluffando? Se stesse minacciando a vuoto solo per intimidirci?”
L’uomo dai capelli chiari annuì.
Zexion non aveva mai visto un demone da vicino prima dell’incontro con il Braccio Destro, nemmeno durante i viaggi all’esterno del Castello con suo zio, e tutto ciò che sapeva di quella specie era che fossero troppo orgogliosi per mentire. Forse non ne erano nemmeno capaci.
Era chiaro che il Superiore volesse di più.
“La sua rabbia … era sincera, n. I. Non ci attacca perché lo abbiamo disturbato, minacciato e semplicemente perché ci considera delle creature diverse da noi, ci attacca perché ci odia. Credo che, se non fosse stato in veste diplomatica, ci avrebbe uccisi tutti. Ma non posso conoscere l’origine di questo sentimento. Posso leggere le emozioni, Superiore, non la mente” disse a bassa voce. Il Superiore conosceva ogni recesso della sua maledizione quasi quanto suo zio, ma era chiaro che il Radigata fosse così disperato da aggrapparsi a qualsiasi ancora in vista, fosse stato anche un ragazzo di quattordici anni con un olfatto misterioso. “E non esagerava quando ha affermato di voler punire il n. VII”.
“È soprattutto questo ciò che mi preoccupa”.
Preso dal ricordo dell’odore aggressivo dell’ambasciatore, Zexion non si era accorto di dove li avessero condotti i passi del signore del Castello. Un misto di odori lo aggredì da oltre la massiccia porta bianca, quasi come una bestia feroce rinchiusa nella propria tana in attesa di una preda.
Sussultò, guardandosi intorno, ma il corridoio candido era deserto. Il n. I bussò tre colpi secchi, e dopo una manciata di istanti la porta si aprì.
Zexion aveva visto il mare numerose volte. Aveva accompagnato suo zio in perlustrazioni su spiagge di ogni mondo, aiutandolo a raccogliere, classificare ed organizzare reperti di ogni genere, dai sassi color acquamarina del pianeta Achillea fino a dei molluschi dall’icore fortemente elettromagnetico di Panna. I mari e gli oceani che aveva visitato avevano odori diversi, ovviamente, ma tutti emanavano una traccia inconfondibile e forte, un odore tipico dei sali disciolti che persino la gente con un olfatto “normale” riusciva a percepire. Una sensazione che il n. VI per molto tempo aveva trovato piacevole.
Questo finché Saïx non era entrato nell’Organizzazione.
“Lei non dovrebbe bussare per entrare, Superiore” ringhiò il n. VII aprendo i battenti. “Potrebbe teleportarsi senza chiedere il permesso”.
“Cionondimeno, Saïx, io preferisco bussare”.
Il n. I entrò, e Zexion lo seguì in tutta fretta, conscio che il padrone della stanza lo stesse osservando con incertezza.
Non riusciva a comprendere come una creatura come il n. VII, un licantropo che non aveva mai visto il mare in tutta la sua lunghissima vita, potesse portarne addosso l’odore. La sensazione salmastra della bestia, unita a quella che permeava l’intera stanza, si convertì subito il un dolore alla gola intenso, accompagnato dal bisogno di bere. Il primo istinto fu quello di aprire un portale per il laboratorio e correre alla caraffa dell’acqua, ma si convinse a mordersi il labbro e rimanere accanto al n. I.
Era entrato nelle stanze degli altri membri dell’Organizzazione XIII solo di rado: si era soffermato spesso solo in quella del n. III per completare qualche esercitazione sull’uso della magia del vento, e la stanza della guardia personale del Superiore era l’estensione della palestra, piena di strumenti per allenarsi trafugati da qualche altro mondo e con tuniche nere sparse in ogni angolo possibile, compreso il lampadario. Ogni tanto era andato a trovare Demyx –uno dei pochi lì dentro ad avere un aroma davvero piacevole- ed in conformità con il suo elemento vi era un gigantesco materasso ad acqua che il più delle volte finiva per bucarsi. Se gli avessero chiesto di immaginare la stanza del n. VII si sarebbe aspettato una tana piuttosto angusta, dall’odore di mare in tempesta, piena di oggetti distrutti, un letto simile ad un ammasso di stracci e qualche macchia di sangue per completare il quadro. Probabilmente, se lo avesse chiesto a tutti gli altri membri, avrebbero risposto più o meno come lui.
 
Narratore: “Avete presente l’Ala Ovest della Bella e la Bestia? Ecco, una cosa simile. Ma senza ritratto. E senza rosa. Quella, secondo me, la ritroviamo nella toilette privata di Marluxia”
 
La quantità di libri presenti in quella stanza non aveva nulla da invidiare ad un settore della biblioteca del Castello. Due pareti intere erano occupate da una libreria bianca che arrivava fino al soffitto, con volumi che sembravano ordinati per grandezza e colore, nessuno che sopravanzava l’altro nemmeno di un dito. L’unico tomo fuori posto era quello che il n. VII teneva sotto un braccio e che si affrettò a riporre nell’unico spazio libero non appena lui ed il Superiore ebbero varcato la soglia della sua stanza. “Ho bisogno della tua saggezza, figlio mio. Della tua e di quella del nostro n. VI”.
“Con tutto il rispetto, n. I, avrebbe dovuto portare con sé il n. IV” disse il licantropo.
Zexion si fece ancora più piccolo dietro la schiena del suo capo. Saïx non aveva alcuna stima nei suoi confronti. Rispettava il suo rango, ma oltre a quello il suo odore parlava solo in maniera aggressiva, forte. Uno dei motivi per cui ne detestava anche la sola vicinanza. “Il parere di un cucciolo mi sembra poco utile per questo tipo di questioni”.
“Vi è differenza tra cognizione e saggezza, Saïx” rispose pacato il Superiore. “Tu e Zexion rappresentate giudizi opposti in merito al confronto con la famiglia demoniaca, e tra tutti i miei figli vi giudico i più assennati ed oggettivi. Ho bisogno del vostro aiuto”.
“Superiore, non ho nulla da aggiungere. Seguirò qualunque sua decisione, e questo lei già lo sa, ma se sceglierà di scendere in guerra contro la famiglia demoniaca non potrò difendere la sua famiglia in uno scontro diretto. Non a lungo, almeno”.
“Sposteremo comunque il Castello” argomentò Zexion. Il malessere aumentò non appena la bestia lo udì aprire bocca per controbattere. “Se si potesse fare …”
“Non ha senso!”
Il n. VII scosse la mano in aria, con un gesto di furia. Si allontanò da loro di qualche passo, fissando il cielo che traspariva dall’enorme vetrata che occupava un’intera parete della sua stanza quasi come se tutto quel luogo potesse essere proiettato verso l’esterno. Solo in quel momento gli occhi di Zexion si accorsero di uno scrittoio di legno massiccio, privo di sedie, e di quella che sembrava una mappa del cielo redatta in runico, la scrittura demoniaca. Si avvicinò per guardarla meglio, incuriosito, ma il licantropo si voltò ed il suo sguardo giallo, furibondo, lo inchiodò sul posto. “Superiore, ho presto servizio nel corpo d’armata dello Hyakujumadan del generale Crocodyne per più di una vita degli umani. Ho guidato il mio branco ad uccidere centinaia di villaggi, solo la Madre Drago sa di quanti di voi io mi sia nutrito. So come funzionano certe cose”.
Per un attimo Zexion ebbe l’impressione che la bestia potesse davvero saltargli addosso. Il profumo del n. I non tradiva la più piccola forma di paura, ma questo non lo rassicurò nemmeno un po’. L’immagine di Axel nel loro laboratorio, con una frattura del cranio causata dall’attacco d’ira di quella bestia, gli si affacciò alla mente. Dalla vetrata la luce della luna rimbalzò sugli occhi del n. VII illuminando le sue iridi gialle. “Non rischieranno la vita dei loro demoni. Mistobaan manderà contro di noi il corpo dei licantropi dello Hyakujumadan per lavare l’onta che IO ho causato. I branchi non sono numerosi, ma oltre mille guerrieri dei branchi nobili risponderanno alla sua chiamata. Non ci cancellerà con il fuoco dei draghi, Superiore” ringhiò “Ci farà sbranare da coloro che dividono il mio stesso sangue. Trascineranno le interiora del n. IX per ogni corridoio, daranno la caccia anche a te, n. VI, se la loro ferocia non ti avrà già bloccato il cuore. Porteranno via il giovane n. XIII per far mangiare i cuccioli. È questo quello che volete?”
Non avrebbe mai immaginato di sentire un odore simile dal n. VII.
Non avrebbe mai immaginato che fosse in grado di provare paura.
E, di riflesso, l’aroma del n. I si approfondì. “Cosa proponi, Saïx?”
“La soluzione più logica, n. I. Mi consegni al generale Mistobaan stasera stessa. Mi offra come segno della buona volontà dell’Organizzazione e della devozione al Grande Satana. Sarà incline ad offrirvi un altro giorno o due prima della resa”.
Zexion tremò.
Se i pensieri degli abitanti del Castello erano carichi di curiosità su quale scelta avrebbe intrapreso il loro capo, essi erano anche concordi su un unico argomento: consegnare l’odiato n. VII alla famiglia demoniaca il prima possibile, preferibilmente con un bel fiocco intorno al collo ed un bigliettino di profonde scuse al signore dei demoni. Tutti, dal n. II al n. XIII, non avrebbero esitato a disfarsi di quell’odioso membro della famiglia che si trovava lì dentro per l’ennesimo capriccio del Superiore. Egli stesso, se gli fosse stato chiesto fino a qualche istante prima, sarebbe stato più che felice di allontanare quella bestia il cui odore lo trafiggeva ogni volta che lo incontrava, un carico di frustrazione per l’essere considerato al di sotto di un “cucciolo” come lui nella gerarchia. Di mandare via quel mostro che maltrattava tutti coloro che lo contraddicevano.
Eppure, dietro le iridi della bestia, Zexion si accorse che vi era qualcosa di così tristemente umano. “Usi tutto quel tempo per performare il rito di teletrasporto, Superiore, e porti la famiglia via da qui. Che io sappia i demoni non dispongono di magie di teletrasporto, quindi se rimarrete lontani da questo mondo dovreste essere al sicuro”.
“Sai benissimo cosa ne penso di questa parte del piano”.
“E lei sa benissimo cosa ne pensi io” rispose il n. VII. Si avvicinò al loro capo in maniera greve, con la testa bassa e le spalle molto più curve della loro normale postura “Mi permetta di offrire la mia vita per questa famiglia”.
Le sensazioni si intrecciarono tra l’uomo dai capelli argentati ed il licantropo dalla cicatrice sulla fronte, uno scambio di sguardi che lo fece sentire un intruso.
Lui, suo zio ed in fondo tutti gli altri Membri dell’Organizzazione avevano considerato Saïx un becero capriccio del loro capo. Nessuno si era mai chiesto cosa avesse spinto quel predatore di uomini ad accettare.
Nessuno si era mai domandato del perché Mistobaan lo avesse accusato di tradimento.
Il n. I si staccò da lui e si avvicinò al n. VII, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Ho sempre ammirato il tuo punto di vista, figlio mio. Ma non sacrificherò un membro della mia famiglia per salvare tutti gli altri” disse “O almeno, non quando posso salvare ognuno di voi. Il rituale richiede tempo, ma ci faremo bastare quello che il generale ci ha concesso. Sono convinto che ce la faremo. Il Castello dell’Oblio non ha mai tradito la mia famiglia. Non lo farà adesso”.
Zexion si sentì di nuovo chiamato in causa prima ancora che l’uomo aprisse bocca. Lo fissò, per un attimo incantato dal riflesso di loro tre nell’immensa vetrata illuminata dalla luna. “Zexion, se non fosse stato per la posizione del n. IV … avresti seriamente scelto la via della guerra?”
Si ritrovò a sorridere, seppur in modo triste.
Il Superiore, pur non avendo alcun potere, aveva capito.
Non provava per quell’uomo capriccioso l’amore assoluto che aveva per suo zio, ma non poteva nemmeno dichiarare di detestarlo. Lo aveva accolto nel suo Castello quando il suo destino era quello di un qualsiasi bambino abbandonato nella neve e per quello, nonché per la sua bizzarra comprensione, avrebbe sempre avuto il suo rispetto.
“Non posso dirle ciò che ha già compreso da sé, n. I”
“Delle tante cose grandiose fatte dal n. IV, la più lodevole è quella di averti cresciuto come una persona meravigliosa, figlio mio” rispose l’altro. “I vostri pareri mi sono chiari, e ringrazio sia te che il n. VII per avermi parlato col cuore in mano. Avevo già in mente una decisione, ma le vostre motivazioni mi hanno dato la conferma di cui avevo bisogno”.
Zexion sospirò.
Avrebbe dovuto difendere la causa di suo zio in maniera migliore, ma non vi era riuscito.
Osservò di nuovo la stanza dalla libreria ordinata, dal tavolino pieno di carte della volta celeste, dalla vetrata dove la luce lunare, l’elemento scelto dal n. VII, che con il loro odore salato carico di dolore erano riusciti a distrarlo. O forse, rifletté, erano riusciti a respingere da lui quella decisione che sapeva soltanto di sbagliato.
“Domani mattina comunicherò il mio volere a tutti. Sposteremo il Castello e non torneremo mai più in questo mondo. Che i miei antenati veglino su tutti noi”.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Marluxia (II) ***


Capitolo 16 - Marluxia (II)





Marluxia





Marluxia si sedette sul letto, appoggiando il vaso sulle ginocchia.
Non era stato facile convincere la rosa selvatica di Roto a sbocciare nelle sue stanze. Pur avendo raccolto il terreno di quella regione, la scarsa quantità di luce solare lo aveva costretto ad offrire un’ingente quantità di magia all’esile pianta per raggiungere la fioritura.
Al suo tocco i petali gialli si aprirono, invitandolo a sfiorare il polline argentato. Non ve ne era più di un pizzico, ma più che sufficiente per le sue necessità; ripose il vaso vicino all’armadio, dove la poca luce che riusciva ad entrare dalla finestra avrebbe continuato a dare forza e nutrimento al piccolo fiore di bosco. Probabilmente non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo, o almeno non senza la sua magia, ma Marluxia gli versò comunque dell’acqua.
Sarebbe potuto tornare utile in futuro.
Versò il prezioso polline in una minuscola ampolla che aveva chiesto in prestito al n. IV senza molte difficoltà e lo unì agli altri contenitori che aveva accumulato in una bisaccia.
Mancavano solo poche ore.
Stava controllando di nuovo l’inventario quando tre colpi secchi lo avvisarono che qualcuno stava bussando alla sua porta. E nel Castello dell’Oblio, dove alcuni membri usavano il teletrasporto persino per andare dalla stanza da letto al bagno, vi era soltanto una persona che chiedesse il permesso prima di entrare nelle stanze altrui.
“Non attendevo una sua visita, Superiore”.
“Hai forse dimenticato che giorno è oggi?”
Il n. XI sospirò dentro di sé, ma mise sulle labbra il suo sorriso migliore. “Il secondo anniversario. Non potrei mai dimenticarlo”.
Far attendere il n. I alla porta sarebbe stata una grave mancanza di rispetto, quindi fece passare l’uomo dai capelli argentati nella sua stanza, offrendogli l’unica sedia disponibile. Prese con noncuranza la bisaccia e la appoggiò oltre il letto, ma il Superiore sembrò non dare peso alla cosa e si accomodò. “La tua stanza è uno scorcio del Nirvana in questo mondo, figlio mio. Non avrei mai pensato che i fiori potessero crescere in questo posto. Da due anni a questa parte non trascorre giorno in cui io senta la mancanza del sole del nostro mondo”.
I suoi occhi gialli si poggiarono sulla rosa di Roto, e poi sulla finestra. Marluxia seguì quello sguardo con fastidio, fissando la tenue luce che filtrava tra le finestre.
Il luogo in cui avevano teleportato il Castello dell’Oblio era una terra vuota. Il n. IV aveva trascorso numerose ore a far comprendere loro, mediante disegni e mappe, che non avevano spostato la loro casa in una qualsiasi regione del loro mondo, perché in ogni landa ci sarebbe sempre stato un Occhio di Zaboera in attesa di individuarli. Avevano usato la loro magia, unita alla potenza ancestrale del Castello, per spostarsi in un altro mondo.
Marluxia (e molti altri come lui) non avrebbe avuto grossi problemi a recarsi su un qualsiasi pianeta tra quelli che aveva visitato nelle prime missioni -un certo Ithor gli sarebbe piaciuto- ma il Superiore non era stato di quell’avviso. “Ma nonostante tutto sono convinto che si sia trattato della decisione migliore. Nessuno verrà a minacciarci qui”.
“Oh, su quello non ne ho dubbi, n. I” disse, e non si sforzò di nascondere il sarcasmo che gli sgorgò dalle labbra.
Nessuno sano di mente verrebbe qui.
Il posto che avevano scelto non aveva nemmeno un nome. Persino il n. VII aveva setacciato la biblioteca nella speranza di trovare, tra i libri autoscriventi, un nome per quella gigantesca landa fatta di rocce, dirupi, e dei fiumi più simili a dei rigagnoli che a dei veri corsi d’acqua. Vi erano diverse carte celesti, quelle sì, ma nessuna scritta in caratteri che potessero leggere. L’atmosfera era respirabile, per fortuna, ma il sole era molto più piccolo di quello a cui erano abituati. Il n. IV aveva spiegato che fosse un sole persino più grande del precedente, ma assai più lontano: tutti discorsi che, per il n. XI, trovavano solo il tempo di una squisita dissertazione filosofica.
Da quando aveva scelto come elemento le piante ed i fiori, Marluxia si era reso conto di detestare quel luogo arido, buio e privo di forme di vita evolute più di ogni altra cosa al mondo; aveva bisogno del sole, quello vero, e di respirare dell’aria che non contenesse sottili tracce di metano. Aveva provato a convincere il Superiore a spostare altrove il Castello, almeno per un po’, ma il Radigata si era sempre rifiutato; era chiaro che la minaccia della famiglia demoniaca avesse dato il colpo di grazia a quell’uomo stravagante e paranoico, ed il loro capo aveva vietato loro l’apertura dei portali di teletrasporto verso altri mondi salvo suoi specifici permessi e soltanto per brevi periodi.
Regola che Marluxia non aveva mai rispettato.
“So quanto la mia decisione sia pesata su tutti voi. I nostri poteri elementali ne hanno sofferto. Capisco quanto la luce del sole sia necessaria per te, figlio mio, almeno quanto lo è per il giovane Roxas”.
Scegliere come elemento le piante poco prima di essere imprigionato in un luogo con scarsa illuminazione sembrava una crudele ironia, ma senza dubbio al giovane e sprovveduto n. XIII era andata peggio. Il ragazzo aveva scelto come attributo la luce e … beh, una terra avvolta quasi totalmente dalle tenebre non era di certo il posto più salubre. In quei due anni il nanerottolo era cresciuto al massimo di un palmo, ed erano più le ore che trascorreva dormendo che quelle in cui lo si vedeva andare in giro per il Castello trascinandosi dietro al n. VIII. “Non nego che sentire il calore del sole sulla pelle sarebbe un mio grande desiderio, n. I” sorrise, inghiottendo tutto l’amaro che avrebbe voluto sputargli addosso. “Ma il suo giudizio è stato corretto. Qui siamo al sicuro”.
“Vorrei che anche altri condividessero il tuo pensiero, figlio mio. Mi sarebbe di grande conforto. È per questo che volevo dirti che stasera pensavo di indire una festa tra di noi. Qualcosa per ricordarci di essere felici, visto che siamo ancora vivi e lontani da chi ci minaccia” disse. “Ho parlato con Demyx, e ha detto che preparerà qualcosa di speciale. Volevo che tutti voi lo sapeste”.
Che ipocrisia …
“Un pensiero davvero bello, n. I. Ammetto che, prima di entrare nell’Organizzazione, attendevo sempre con ansia che la mia famiglia desse qualche festa”.
L’uomo sorrise, stavolta in maniera meno greve. “È una gioia sentirlo dire, figlio mio. Andrò subito a comunicarlo agli altri!”
Si alzò, e se il n. XI avesse potuto spingerlo con le mani ed i calci oltre la porta della stanza lo avrebbe fatto, eppure attese con pazienza che il suo capo si avvicinasse con tutta la calma del mondo agli stipiti. Sentiva ancora il sorriso falso che aveva indossato per lui tirargli persino le guance.
“Marluxia?”
Il tono era quello casuale di conversazione, ma qualcosa scattò d’istinto sotto la sua pelle.
“Perdona la mia curiosità … cosa c’era in quella bisaccia?”
“Ah … nulla di che, Superiore …” mormorò, maledicendo la propria disattenzione. “Campioni di erbe … e piante. Per il n. IV. Sa, in questo mondo non sboccia praticamente nulla, uso i miei poteri per far crescere anche alcune piante medicinali per lui”.
Lo scrutò da dietro, incapace di vedere la sua espressione, chiedendosi se gli avesse creduto. Rimasero in silenzio diversi secondi, e il n. XI si chiese se l’uomo dalla pelle scura stesse davvero soppesando le sue parole o se avesse intuito qualcosa. Era stato attento, dannatamente attento, non aveva alcun motivo di sospettare del suo operato eppure, senza alcun preavviso, gli aveva posto quella domanda.
Aveva intuito qualcosa?
“Comprendo. Perdona la mia curiosità” rispose, e si voltò per mostrargli un’espressione bonaria, rilassata. Una faccia che Marluxia avrebbe voluto prendere a pugni per strappargli quel sorriso ipocrita che stava mandando tutti, lì dentro, fuori dai gangheri. “Sono felice di sapere che la mia famiglia collabori”.
“È sempre un piacere aiutare i miei superiori” rispose.
E, dopo quelle parole, aspettò che l’uomo avesse varcato la soglia per chiudergli, con educazione ma con una forte urgenza che gli attraversava i polpastrelli, la porta alle spalle.
Riprese fiato, cercando di calmarsi.
Il cuore sembrava impazzito, e solo perché quel maledetto Radigata gli aveva fatto una, una stupida domanda; si era lasciato spiazzare come un marmocchio, e questa sua leggerezza avrebbe potuto mandare a monte il piano che stava mettendo a punto. Un piano che stava elaborando da esattamente due anni e che non poteva più attendere.
Raccolse la sacca, controllò ancora l’integrità di tutte le provette ed aprì un portale di teletrasporto.
 


Il Bosco delle Lame Nere era molto meno oscuro di quanto il nome potesse suggerire. Le querce, basse e piuttosto rade, gettavano delle ombre scomposte sul terreno formato per lo più da fango secco, radici sporgenti e foglie cadute nel precedente autunno; i cespugli di inea si erano riempiti di boccioli azzurri ed arancioni, ma sarebbero trascorse diverse settimane prima di poter godere della loro fioritura, mentre solo in estate inoltrata sarebbero comparse le loro dolci e succulente bacche. Marluxia, scivolando nel sottobosco, si ripromise che ci sarebbe tornato.
L’intero colore del bosco era un bel verde, profondo e vibrante.
Si incamminò verso la meta che si era prefisso, lasciandosi trascinare dal bisogno di sentire l’essenza di quel luogo sin nei polmoni, il senso della vita che da due anni gli era entrata in ogni fibra del corpo.
Imboccò un sentiero sterrato che era poco più di una pista per animali; lo percorse per svariati minuti, scivolando tra vecchi alberi così imponenti da fargli percepire propria forza. Avrebbe potuto teleportarsi, ma il bisogno di attardarsi tra quelle fronde era diventato una fame molto più intensa di giornate di digiuno. Di fianco alla pista, una coppia di ruscelli si riunì in un unico corso e l’acqua che ne usciva aveva un suono cristallino. Un daino si stava abbeverando, ma quando gli passò accanto scappò nel sottobosco.
Sentiva cantare gli uccelli. L’aria che respirava era fresca, pulita, vera, ben lontana da quell’atmosfera rarefatta a cui il Superiore li aveva condannati.
Non aveva scelto quel posto a caso.
Aspettò ancora qualche minuto, sedendosi ai piedi di un albero e scegliendo con cura tra le sue ampolle. Poi, come programmato, un rumore di zoccoli anticipò l’arrivo del suo obiettivo.
Contò otto cavalli prima della carrozza, poi altri otto ed una decina di soldati a piedi. Una lama nera in campo azzurro decorava lo stendardo ed entrambi i lati della carrozza, il simbolo che i signori del bosco e di tutte quelle terre stavano attraversando le loro proprietà.
Pochi passi più avanti il sentiero era leggermente più ripido: nessun problema per i cavalieri, ma il cocchio iniziò a rallentare e, come previsto, nel punto in cui la via curvava intorno ad un enorme castagno, finì per fermarsi quasi del tutto.
Marluxia, nascosto dietro un tronco, soffiò il polline della rosa selvatica di Roto.
Il profumo che si irradiò tra le sue dita gli accarezzò le narici per un istante, poi si disperse nell’aria. La sua magia, eccitata da tutte quelle piante, fece il resto.
Un primo cespuglio di rose gialle sbocciò proprio accanto alle ruote della carrozza, e nel tempo di qualche battito di ciglia lo stelo si attorcigliò su uno dei raggi, avviluppandolo tra le sue foglie ed i primi petali che si schiusero al suo comando. Un secondo serpeggiò lungo la corteccia del castagno, trafiggendo con le sue sottili radici il cuore del tronco e si esibì in una fioritura color del sole. Uno dei soldati appiedati si accorse del processo, ma quando iniziò a gridare non vi era più nulla che non fosse invaso dai petali.
Un primo cavallo impennò, già con la schiuma alla bocca. Con un nitrito scomposto rovinò a terra portandosi dietro il proprio cavaliere, che non riuscì a prevedere la caduta e rimase incastrato sotto di esso. Cercò di liberarsi, ma venne travolto da un secondo destriero agonizzante che gli cadde addosso, schiacciandolo sotto gli zoccoli mentre le narici diventavano violacee al contatto con il polline argentato.
La rosa di Roto, tossica per qualsiasi cavallo, si nutrì della sua magia ed in pochi istanti tutto si trasformò in un letto giallo.
Gli animali caddero uno dopo l’altro. I soldati appiedati corsero verso i cavalieri, cercando di liberarli dal peso tagliando le cinghie delle selle, e solo un manipolo rimase intorno alla carrozza; il cocchiere, un anziano uomo in livrea, scese per controllare le sue bestie ed inciampò dal sellino, finendo riverso nel terriccio.
Quando Marluxia affondò la propria falce nel petto di un fante fu come se tutti gli anni trascorsi in quel mondo vuoto e buio avessero deciso di ruggire insieme sulla punta della sua lama. Lo abbatté come una pianta esile, con un solo colpo netto, e prima che un altro giovane soldato in nero e azzurro potesse opporsi gli calò l’arma color rosa tra capo e collo, disegnando un arco rosso sulla portiera della carrozza. Sollevò il manico quanto bastava per respingere una spada rivolta nella sua direzione, poi con uno strattone mirò al mento scoperto del fante e lo costrinse a perdere la presa sull’arma per poi voltarsi e spargere le sue interiora nel fango.
Non era stato facile apprendere l’uso di una falce, ma Marluxia non aveva mai avuto dubbi. Al momento della scelta dell’arma, scelta che lo avrebbe qualificato ufficialmente come membro dell’Organizzazione XIII, sapeva già che la falce, lo strumento della mietitura, sarebbe stato l’unico suo attributo possibile. Il n. III era un vero esperto nell’uso di armi a due mani, ed aveva appreso da lui tutto il possibile.
Anche se, rifletté Marluxia abbattendo un’altra guardia, l’obbediente Xaldin non sarebbe stato molto felice del sapere come avrebbe messo in pratica i suoi insegnamenti.
Peggio per lui.
Colpì il cocchiere alla tempia prima ancora che potesse riprendersi dalla caduta, poi portò la lama della sua arma in avanti, parando il colpo di una picca che gli avrebbe trapassato le costole. Quasi tutti i cavalieri erano riemersi dalla confusione creata dalla rosa selvatica e si erano riorganizzati, estraendo le spade. Era chiaro che si fossero resi conto di non avere davanti il primo brigante di passaggio, ma probabilmente la persona che li aveva assoldati aveva pagato piuttosto bene il loro coraggio.
“Butta l’arma, figlio di puttana!” disse un uomo dalla corazza borchiata. Gli altri si strinsero intorno a lui, creando uno scudo umano davanti alla carrozza. Alle loro spalle Marluxia udì il suono secco di una balestra caricata. “Siamo in undici contro uno, in caso non lo avessi notato”.
“Che disgrazia, capitano …” mormorò.
Abbassò di poco la falce, lasciando che gli uomini seguissero il movimento della lama. Nessuno prese in considerazione la sua mano, che scivolò con noncuranza tra le pieghe della tunica nera. Sentì i piccoli semi premere contro il proprio guanto, percepì la vita pronta a germogliare impaziente ad un suo comando. E non vi era nulla di più elettrizzante. “… ero quasi convinto di essere io in superiorità numerica qui dentro”.
Poteva sentire tutto il bosco dentro se stesso. Percepiva cose che nessun umano, ma forse nessun mago avrebbe dovuto essere in grado di sentire. Il gemito dei rami scossi dal vento, che lottavano per non spezzarsi. Il sussurro dell’erba calpestata dalle ruote della carrozza e dagli stivali di quei mercenari. Lo scricchiolio della corteccia.
La magia che da sempre nutriva il loro mondo, che scorreva in qualsiasi pianta, quel potenziale sopito che rendeva persino i demoni ebbri di potere: poteva quasi tendere la mano, toccare quello che riusciva ad annusare e ascoltare, assaporare e sentire, come se gli alberi, i rovi e le foglie cadute si unissero a lui. Tutto il Bosco delle Lame Nere rispose alla sua chiamata.
Sorrise quando i semi dell’edera velenosa di Ithor lasciarono il suo palmo e caddero nel sangue appena versato.
“Nascete” ordinò alle piante. “Nascete per me”.
Il primo tralcio di edera scattò accanto al suo piede destro, avvolgendosi contro il cavaliere più vicino. Tutti gli uomini si voltarono all’unisono nella sua direzione, e Marluxia fece calare l’arma davanti a sé. Le piante, assetate di acqua e ferro, si mossero insieme a lui.
Il primo uomo che era stato attaccato mandò un grido quando le foglie verdi ed oro sfiorarono la sua pelle nuda; in pochi istanti il braccio diventò da rosa a rosso acceso, riempiendosi di piaghe che lo costrinsero a perdere la presa della picca per stringerselo in maniera convulsa. La pianta si avventò su di lui, e le minuscole radici attecchirono alla base del collo fino a strisciare al di sotto della gorgiera dell’elmo. Un altro uomo gli si avvicinò per strappargliela di dosso, ma ad un cenno di Marluxia un altro tralcio si scaraventò nella sua direzione, mirando agli occhi.
Le grida coprirono persino quelle del mercenario a cui piantò la falce nello stomaco.
Non aveva mai avuto modo di sperimentare in questo modo i poteri del Castello dell’Oblio, la magia vera, pura.
Capì come potevano sentirsi i demoni.
Quando sollevò la testa dal corpo della guardia abbattuta si accorse che erano rimasti solo cinque avversari, e quello armato di balestra gettò via l’arma e si mise a correre. Marluxia ispirò di nuovo, sentendo addirittura i passi dell’uomo nel sottobosco dritti fin nelle sue orecchie, e quando estese i propri poteri sentì le radici delle querce alzarsi, bloccandogli la fuga. Atterrò un’altra persona con il manico della falce, spezzando in due la sua lancia e spingendolo di peso contro il groviglio di edera che ormai circondava loro e la carrozza, ascoltando le sue piante avvolgersi su di lui fino a farlo scomparire alla vista. Nemmeno si accorse degli ultimi nemici, perché il filo della sua lama trovò le loro teste in pochi istanti.
Si fermò in mezzo a loro, tendendo le orecchie, finché non fu sicuro che il rumore oltre il sentiero fossero le ossa del mercenario che aveva tentato di fuggire.
Si avvicinò alla carrozza e la aprì.
“Vogliate scusare l’interruzione del viaggio, signori” disse. Due paia di occhi, così simili tra loro, si poggiarono su di lui. “Come voi, anche io sono qui per … affari di famiglia”.
La ragazza, sedici anni al massimo, si premette contro il lato opposto del cocchio, trattenendo un grido. Provò ad aprire la portiera dall’altro lato, ma i tralci della rosa selvatica avevano già bloccato la maniglia dall’esterno. Marluxia attese col sorriso sulle labbra che smettesse il suo tentativo puerile di fuga, godendosi l’espressione di puro terrore sotto quei riccioli scuri trattenuti da una tiara ingioiellata. Da qualche parte oltre quel bosco senza dubbio un qualsivoglia nobile si stava domandando come mai la sua promessa sposa fosse in ritardo, ma i suoi pensieri furono rapiti dallo sguardo severo, ma allo stesso tempo terrorizzato, dell’uomo al suo fianco. “Buon pomeriggio, conte Durlyn. È un vero piacere incontrarvi di nuovo”.
L’altro lo riconobbe.
Sul suo viso si delineò un’espressione indefinibile, e quello gli fece scorrere il sangue nelle vene più di qualsiasi incantesimo. Il nobile si alzò dal sedile con uno scatto, parandosi tra lui e la ragazza. La barba ed i capelli presentavano delle screziature argentate, ma il volto era sempre quello che Marluxia aveva coltivato nei propri incubi negli ultimi due anni. “Dovevi essere morto!”
“A quanto pare i vostri sicari si sono dimenticati di finire il lavoro. Sapete, sono cose che succedono quando uno non si occupa di persona di certe questioni”.
“Vattene immediatamente, altrimenti …”
“Altrimenti cosa?” rispose, strappandogli le parole di bocca. La vista dell’uomo che aveva dato l’ordine di massacrare la sua famiglia ridotto ad un animale impaurito lo ripagò in un istante di tutti i giorni, tutte le settimane trascorse in quel mondo tetro e freddo, in attesa. In attesa del momento giusto, del giorno perfetto. Dei portali aperti lontano dagli occhi del Superiore per recarsi di notte nei giardini del palazzo dei suoi nemici, studiando ogni loro mossa, ogni singolo messaggero che entrava ed usciva dal ponte levatoio.
Del sapere con giorni di anticipo il percorso che avrebbe fatto la carrozza che avrebbe trasportato il conte Bernard Durlyn e la sua unica, preziosissima figlia Bernice, il giorno delle nozze e da quanti armigeri ne sarebbe stata composta la scorta.
Aveva aspettato perché lui era come una rosa.
Le sue spine ed i suoi petali si mostravano solo al momento propizio. “Non vi facevo un tipo da minacciare a vuoto, sapete?”
L’uomo si gettò su di lui, brandendo uno stiletto che portava alla cintura. Marluxia non aveva notato l’arma, ma si limitò a scansarsi di lato ed a colpire l’uomo al centro del torace con il manico della falce. Quello perse l’equilibrio, cadendo dal cocchio riverso a terra, e lo colpì di nuovo alla testa prima che potesse rialzarsi.
Quando il conte provò a muoversi i rampicanti erano già avvinghiati ai suoi polsi ed il pugnale era svanito in mezzo alle loro radici.
“L’edera velenosa non è una pianta di questo mondo, sapete? Ne esistono diverse varietà, ma questa di Ithor è in assoluto la mia preferita. Non avete idea di quanta fatica mi sia costata farne crescere i semi nel mio Castello. Ha bisogno di luce, sole e possibilmente un terreno ferroso. Sì, il sangue umano è il concime migliore che possa mai desiderare” commentò con calma. “In realtà, a dispetto del nome non sono propriamente velenose, ma le loro radici contengono un principio così irritante e doloroso che il cuore stesso della vittima non riesce a resistervi molto a lungo. Ho chiesto comunque alla mia edera di attendere un attimo con voi, conte … una decina di minuti, giusto il tempo di concludere un altro lavoro …”
Tornò alla carrozza, afferrò la ragazza e la trascinò nello spazio aperto, puntando a un robusto castagno proprio davanti al nobile immobilizzato. La rosa gialla fece capolino dalle fessure della corteccia, crescendo al tocco della sua mano ed avviluppando i propri tralci proprio all’altezza del ramo più basso. La contessina, resasi conto di ciò che stava accadendo, prese a scalciare ed a gridare.
“Lasciala stare!” gridò Durlyn. Marluxia sorrise, godendosi la vista dell’assassino della sua famiglia più simile ad una mosca nella tela del ragno che ad un essere umano. Delle piaghe rosse ormai erano comparse a livello dei polsi, ma non era certo per quelle che il conte si divincolava. “È con me che hai un conto in sospeso, Dayel!”
“Infatti è voi che sto colpendo, conte”.
Il morbido tralcio scese fino alla sua mano, deponendo nel palmo i petali gialli della più perfetta delle fioriture. Ironico, anche l’abito della giovane sposa era dello stesso colore.
Il destino?
Forse.
“Anche mio fratello Asfania non aveva nessuna colpa”.
Sollevò Bernice Durlyn da terra, ignorando i suoi patetici calci, e lasciò che la rosa di Roto avvolgesse i tralci intorno al suo collo bianco.
Era tutto come lo aveva sempre immaginato.


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Fonte della fanart a inizio capitolo: https://silvestris.deviantart.com/art/TPBOD-Totem-Marluxia-176928377

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Marluxia (III) ***


Capitolo 17 - Marluxia (III)





Xaldin e Xigbar





Quando riemerse dalla vasca da bagno si sentì un altro. Era rimasto oltre un’ora immerso nell’acqua calda, inspirandone i vapori, soffermandosi istante dopo istante sui gloriosi momenti di quel pomeriggio; poteva sentire ancora il piacere della vendetta contro le sue labbra, ed aveva il sapore della conserva di rose.
Scelse con cura il profumo: zenzero e viola, l’essenza più pungente a sua disposizione.
Era abbastanza convinto che l’odore del sangue fosse stato lavato, ma sapeva altrettanto bene che gli strani sensi del n. VI avrebbero avuto bisogno di un odore molto intenso per essere distratti, dunque si versò contro il collo ed i polsi praticamente tutto il contenuto della boccetta. Per sicurezza si era disfatto della tunica sporca di sangue con un portale spalancato su un mondo magmatico, e quando indossò un capo pulito si osservò allo specchio con discreta soddisfazione.
Era di nuovo Marluxia, il n. XI dell’Organizzazione.
Ed era ancora in perfetto orario per la festa del Superiore.
Fu dunque con una certa sorpresa che, entrando nella sua stanza per annaffiare le piante, si ritrovò faccia a faccia con l’occhio color cielo del n. VI puntato contro di lui. “Quello che hai fatto … è imperdonabile”.
Marluxia impiegò un tempo odiosamente lungo per convincere il proprio cuore a riprendere a battere in modo normale.
Il ragazzo era immobile, in piedi al centro della stanza, con il suo solito sguardo privo di vita che in tutti quegli anni non aveva smesso di causargli uno strano tremito lungo la spina dorsale; nel suo unico occhio visibile non c’era nulla che potesse ricordargli ira, furia, delusione, tristezza, non vi era assolutamente nulla a parte l’innaturale sensazione di essere messo a nudo da quei poteri che persino il Superiore aveva ammesso di non capire. Ma, se di solito era solo fastidio quello che provava trovandosi a contatto col n. VI, in quel momento Marluxia si accorse di avere i piedi saldamente radicati al terreno, incapaci di fare anche solo un movimento sensato. “Credi seriamente di potermi ingannare con tutti quei profumi che ti sei versato addosso?”
“In effetti ci speravo …”
Cercò con ogni pensiero a sua disposizione un modo per uscire da quella situazione. “… ma a quanto pare non ha funzionato. Sei venuto fin quaggiù a comunicarmi la tua disapprovazione, n. VI? Sappi comunque che quella gente meritava di morire”.
“Non spettava a te deciderlo”.
“Oh, davvero? E immagino che adesso mi dirai anche che era una decisione che spettava al Superiore”.
Non gli servì nemmeno fissare quell’inquietante occhio azzurro per sapere che il moccioso non avesse una risposta migliore da dargli. Il Superiore, il Superiore, il Superiore.
Sentì persino lo stomaco rivoltarsi al pensiero di quell’uomo e del suo “giudizio”. Un pazzo squilibrato dotato di un Castello con poteri immensi e circondato da gente disposta a scodinzolare ad ogni suo minuscolo capriccio, anche quando fuori da quelle mura accadeva di tutto.
Si meravigliò che non fosse già lì, pronto a fargli la paternale.
“Non so a chi spettasse. L’unica cosa che so è che ho sentito la vendetta e l’odio crescere dentro di te in tutto questo tempo, e non se ne sono mai andate. Il n. I credeva che sarebbe solo servito altro tempo … la cosa gli darà un grande dolore”.
Marluxia deglutì.
Xemnas non era ancora al corrente della sua missione.
Il piccoletto ingenuo era venuto lì a parlargli per chissà quale motivo, e la cosa avrebbe senza dubbio preso una pessima piega nel momento in cui sarebbe uscito fuori da quella stanza per andare a far rapporto al loro beneamato capo, situazione che non poteva assolutamente permettere.
Si voltò distrattamente verso i vasi accanto alla finestra, offrendo loro in silenzio la propria magia. In quel luogo privo di luce la magia del suo elemento era debole rispetto a quella che aveva liberato nel bosco, ma gli sarebbe servito solo un po’ più di tempo. E, almeno di quello, poteva trovarne in abbondanza.
“La vendetta era un mio diritto. Hanno cospirato per eliminare la mia famiglia, e li ho semplicemente ripagati come meritavano. È la legge del sangue, e solo quell’imbecille del Superiore crede che certe offese debbano restare impunite, che i Durlyn potessero continuare a girare con la testa alta vantandosi di aver massacrato la mia famiglia” disse. “Nei miei panni tu saresti rimasto a guardare?”
“Spero di non dovermi mai trovare nella tua situazione, n. XI …”
Marluxia sorrise, ponendosi tra lo sguardo del suo giovane interlocutore e le piante pronte a sbocciare.
Quel dialogo non sarebbe approdato a nulla.
Era solo un moccioso che aveva trascorso la sua intera esistenza dentro quel Castello senza avere la minima idea di cosa volesse dire avere una vera famiglia, non una decina di uomini squinternati che giocavano alla pace a tutti i costi. Non poteva sapere come fosse vivere davvero quel mondo di fuori, provare a dominarlo, il sapore vero di trovarsi in alto, di essere il migliore. Era l’ennesimo fenomeno da circo ambulante pronto a scodinzolare al passaggio del n. I, ed in fondo questo suo olfatto così sensibile gli sarebbe tornato a favore.
L’effetto dei pollini lo avrebbe sentito molto prima.
“… ma il tuo tentativo di prendere tempo non ti servirà a molto”.
Prima ancora di liberare il suo incantesimo sentì un dolore esplodergli contro la nuca. Cadde verso il pavimento, ma prima di toccare terra sentì un secondo colpo, ancora più violento, colpirlo tra il mento e il collo.
“Complimenti per averlo fatto parlare, n. VI. Andiamo, Xigbar, mi aiuti a sollevare questo sacco di merda?”
Marluxia provò a riprendersi, ma anche la magia gli scivolò tra le dita prima di perdere conoscenza.
“Altroché, Xaldin. Diamine, stavolta il capo si incazza di brutto”.
 


La cella era stretta, ma non angusta.
Marluxia cercò di riprendersi, massaggiandosi la testa ed il collo proprio dove i due energumeni lo avevano colpito.
Il bianco dominava anche le segrete del Castello dell’Oblio. Negli ultimi anni si era chiesto se fossero mai state occupate da qualcuno, e quasi sorrise alla sottile ironia del trovarsi lì dentro, gettato su un letto improvvisato, schiacciato da quelle pareti chiare. Non vi era alcuna finestra, né apertura di alcun tipo verso l’esterno, e l’odiosa sensazione di non avere nemmeno il più piccolo raggio di luce solare addosso gli risalì nello stomaco. Delle sbarre verticali, che correvano dal pavimento al soffitto, erano adornate dai simboli della famiglia del n. I ed erano tutto ciò che lo separava dal corridoio esterno.
Fece per alzarsi, ma un paio di occhi gialli lo stava osservando da oltre le sbarre.
Non gli avrebbe dato modo di iniziare una delle sue insopportabili paternali. Scattò in piedi per avvicinarsi all’ingresso e sbattere in faccia a quell’uomo presuntuoso tutto quello che aveva da dirgli, ma le gambe non gli ressero. Si portò una mano alla tempia, con il soffitto che sembrava intenzionato a girare con lui, e quando chiese aiuto ai propri poteri la magia gli giunse ovattata. “Ho fatto preparare a Vexen un siero. Il tuo corpo non risponderà alla magia del Castello per un bel po’”.
Il n. XI tentò di aprire un portale anche solo per tentare una via di fuga, ma non accadde nulla. Serrò i denti, provando una seconda volta, ma quel bastardo gli aveva tagliato le ali.
Erano lui, il Superiore ed una fila di sbarre.
“Non ho niente da dirle”
“Perché io invece credo il contrario?”
Marluxia deglutì. Non si sarebbe scrollato di quell’odioso scrutatore con una mera alzata di spalle, ed anche il pensiero di dargli la schiena e fissare per oltre un’ora il muro della prigione prospettava di tramutarsi in fumo. Era chiaro come il sole che il suo interlocutore avrebbe continuato a parlare all’infinito, se necessario anche da solo.
L’unica soluzione possibile era dare un taglio duro a quello strazio di dialettica. “Quello che lei crede, Superiore, sono le allucinazioni della sua mente malata. Crede che l’Organizzazione sia la sua famiglia felice? Beh, forse è il caso che lei apra gli occhi!”
Pronunciò quelle parole con tutta la stizza che aveva in corpo.
Il Radigata continuò a fissarlo dall’ingresso, con i lineamenti leggermente in ombra a causa delle sbarre e gli occhi socchiusi, con le pupille che non lasciavano andare nemmeno un solo movimento; Marluxia sibilò, cercando di spremere una qualsivoglia espressione da quella faccia che non fosse un viso silenzioso e pacato. Era chiaro che si fosse preparato quella paternale da diverse ore o che avesse previsto le sue reazioni, perché lungo la sua fronte non comparvero segni né di ira né di disgusto.
Si rese conto che avrebbe preferito una sfuriata di quelle in grado di far tremare i muri. Sotto un certo verso sarebbe stato più facile affrontarlo.
Gli sembrò che le sue parole si perdessero nell’aria, quindi si mise seduto di nuovo, pronto all’attacco. “Crede davvero che il grande sogno di tutti noi sia stare qui ad ammuffire in un mondo ostile alla maggior parte dei nostri elementi? Scenda da quel bel trono e apra gli occhi! Vedrà quanto sia felice la sua famiglia …”
“Abbiamo già parlato di questo, figlio mio, e non una volta sola. Sono conscio di aver sacrificato la felicità di molti di voi, ma l’ho fatto per mettervi al sicuro. Ed in questi anni nessuno è mai giunto a disturbarci, e finché i nostri avversari non riusciranno a dominare le magie dello spazio e del teletrasporto rimarrà un baluardo inespugnabile” rispose. “La magia che hai usato in quel bosco stava già richiamando l’attenzione dei demoni. Per fortuna Axel è stato abbastanza rapido da far svanire nel fuoco le prove del tuo operato prima che arrivassero”.
Marluxia sbuffò.
I corpi di Bernard Durlyn e di sua figlia sarebbero stati un gradevole monito a tutti coloro che avevano riso della caduta della sua casata.
Aveva fatto crescere intorno ai loro corpi persino un bellissimo roseto.
“Figlio mio, quelle vittime ricadono per prima cosa sulla mia coscienza. Zexion mi aveva avvisato dei tuoi sentimenti, ma ho sempre creduto che il tuo rancore potesse sfumare con il tempo, come quello di molti altri di noi. E, dal profondo del cuore, parte di me comprende il tuo astio”.
“ASTIO?”
Ignorò il mal di testa e si alzò, dritto verso le sbarre. “Non c’era alcun astio, Superiore. Quei bastardi dovevano morire. E no … si risparmi la predica sul perdono e sugli innocenti. Non c’era nessun innocente in quel nido di serpi! Se è venuto qui a convincermi del contrario può anche tornarsene tra i suoi figlioli adoranti!”
Il Radigata si teneva a distanza di sicurezza, e Marluxia non provò nemmeno ad afferrarlo per la tunica per il solo piacere di spingerlo da qualche parte o cancellargli quell’espressione benevola dalla faccia con un pugno. La voglia di stringergli le mani intorno al collo stava salendo in maniera incontrollabile, e se non fosse stato per quelle sbarre … “Ancora una volta vedi solo ciò che desideri vedere, n, XI”.
Iniziò a trafficare tra gli anfratti del suo abito, e quando la mano ne riemerse Marluxia vide apparire tra le dita un sacchetto di piccole dimensioni, in stoffa scura, trattenuto con un nastro color rosa; fissò il Superiore con dubbio.
“Per quanto trovi riprovevole il massacro che hai fatto, specie di quella povera ragazza … non sei in prigione per questo, figlio mio” disse. “Molti di noi hanno del sangue sulle proprie mani, chi per una ragione, chi per un’altra, e per quanto possa trovare la cosa deprecabile non sono in grado di cambiare il vostro passato. Sei qui perché hai violato un mio specifico ordine, e le tue azioni per poco non hanno portato di nuovo i demoni nel nostro Castello. Ed io non posso permettere che ciò accada”.
Estese il braccio verso di lui, e prima che Marluxia potesse pensare di afferrarglielo, torcerlo o chissà quale altro finale, l’elegante sacchetto finì dal palmo del Superiore al suo. Il primo pensiero sarebbe stato quello di lanciarlo indietro, dritto sul naso di quel presuntuoso, ma sotto la stoffa pesante trovò una forma e nonostante gli anni le sue dita la riconobbero in un istante.
“Ho avuto modo di riaverla indietro. Pensavo di restituirtela alla festa di stasera”.
Il bianco delle pareti del Castello si riflesse nei piccoli rubini della spilla a forma di rosa. Marluxia osservò le foglie modellate nell’oro, con i margini ancora leggermente taglienti, sfiorando col palmo un petalo alla volta quasi per essere sicuro che nessuna mano avesse osato anche solo scalfire il prezioso gioiello da cui era stato costretto a separarsi quella sera di tantissimi anni prima.
Era appartenuta ad un Lumaria spaventato e in fuga.
Il tempo non l’aveva resa meno perfetta.
Rimase rapito dai ricordi per diversi istanti, e solo il sospiro del Superiore gli rammentò a chi dovesse quel regalo. “Non siamo mai stati la tua famiglia, vero?”
“No. Né lo sarete mai”.
Ci fu qualcosa oltre quello sguardo color oro. Marluxia non fu in grado di definirlo, ma fu un guizzo veloce che svanì in un battito di ciglia. Per la prima volta dopo tanto tempo gli parve di vedere una crepa dietro quella maschera di buone parole e follia e, per quanto potesse sembrargli strano, gli parve addirittura di aver ottenuto la seconda vittoria della giornata. Si concesse un sorriso più large del solito, ritirando la mano con la spilla prima che l’altro provasse a riprendersela. “Ci sono alcune cose che la sua preziosa segretezza e le sue parole zuccherine non possono cambiare”.
“Comprendo”.
Il Radigata si allontanò dalla cella, liberandolo finalmente del suo sguardo carico di giudizi. “Ma capirai che, con queste premesse, non posso certo liberarti”.
“Prenderò atto della cosa”.
Si appuntò la spilla alla tunica, assaporando il suono lieve che la punta metallica inflisse all’abito nero. L’educazione lo avrebbe spinto a ringraziare il n. I per il dono, ma Marluxia respirò a fondo e rimase in silenzio.
Aveva finto per troppo tempo.
Aveva sradicato le radici dei Durlyn e anche il Superiore era stato costretto a retrocedere davanti alle sue nuove spine.
La piena fioritura era prossima.
Osservò l’altro andarsene senza proferire parola finché anche l’ombra non fu scomparsa dalla sua vista e rimase in compagnia delle sbarre e del soffitto bianco.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Vexen (VI) ***


Capitolo 18 - Vexen (VI)





Un giovane Even





Il metallo era freddo e liscio come sempre sotto le sue dita. Vexen sfiorava la superficie dell’immenso portone con la stessa delicatezza che riservava ai tomi più preziosi della Biblioteca, talmente antichi da rischiare di dissolversi in polvere non appena esposti alla luce. All’apparenza non sembrava cambiato nulla.
Le decorazioni floreali scintillavano come ogni giorno, il doppio battente era saldamente chiuso, nemmeno il più flebile bagliore di luce trapelava dall’interno di quelle Stanze che Vexen aveva potuto sognare soltanto con gli occhi della mente.
Eppure la magia nelle sue vene era in subbuglio, ribolliva al contatto con la verità che l’olfatto di Zexion aveva percepito prima di chiunque altro di loro: i sigilli imposti dal Superiore si erano spezzati. Dissolti come se non fossero mai esistiti.
Sarebbe bastato dare una spinta alle pesanti maniglie per vedersi spalancare di fronte tutto il potere delle Stanze della Memoria.
“Zio… “
“Lo so, lo so. Non ho intenzione di aprirla. O meglio, non ho intenzione di contravvenire all’ordine del Superiore. Puoi stare tranquillo.”
“È solo che… “
Alle sue spalle, lo scienziato percepì Zexion spostare il peso da un piede all’altro. Comprensibile che il ragazzo fosse nervoso. Abituato alla routine di odori sempre uguali del Castello dell’Oblio, era rimasto stordito per dieci minuti buoni quando al risveglio non aveva trovato al proprio posto uno dei più potenti, una parte dell’essenza stessa del Castello da quando Zexion aveva memoria. Era come, Vexen sospettava, se uno qualsiasi di loro avesse aperto gli occhi al mattino e visto sopra di sé il cielo stellato invece del soffitto immacolato della propria stanza.
“… credo sia una reazione del Castello a… quello che è successo con Marluxia.”
“Cosa c’entra Marluxia con la scomparsa dei sigilli?”
Il Castello aveva una volontà propria, tutti i testi della Biblioteca concordavano su questo punto. Nei primi anni Vexen aveva svolto numerose ricerche in proposito, affascinato dalla prospettiva di entrare in contatto con un’entità millenaria, probabilmente in possesso di conoscenze inimmaginabili. Con il trascorrere del tempo, tuttavia, il suo entusiasmo era andato scemando: la volontà del Castello non rispondeva a nessun tentativo di comunicazione magico o alchemico, né aveva mai mostrato alcun tipo interesse per i membri dell’Organizzazione o le loro attività quotidiane. Nemmeno l’arrivo dei demoni e il rito di teletrasporto avevano cambiato la situazione. In effetti, se non fosse stato per le annotazioni della Biblioteca e le percezioni di Zexion, il n. IV avrebbe stentato a credere che il Castello dell’Oblio fosse un’entità viva.
Quindi perché proprio adesso?
“Non si tratta solo delle azioni del n. XI. Ma le sue emozioni… l’odio, il desiderio di vendetta. Li ha portati dentro di sé e fatti crescere per tutto questo tempo. Credo che abbiano risvegliato il Castello, per così dire. O almeno una parte di esso.”
“L’odio di una sola persona è riuscito dove decine di riti alchemici hanno fallito?”
Lasciò perdere il portone e tornò a concentrare la propria attenzione sul n. VI. Il ragazzo era molto nervoso. E non aveva ancora detto tutto quello che aveva da dire. Vexen incrociò le braccia, ma non gli mise fretta, lasciandogli il tempo di riordinare le parole.
“Zio… “ Era raro che Zexion evitasse il suo sguardo in quel modo. “Marluxia non è l’unico a… provare sentimenti negativi in questo Castello.”
Non era la prima volta che intavolavano quella conversazione. Difficile non doverla affrontare, con Zexion in grado di carpire ogni suo singolo pensiero. Nascondere, minimizzare o fare finta di niente avrebbe soltanto peggiorato le cose.
“Sono almeno dieci anni che provo sentimenti negativi riguardo il modo in cui al Superiore gestisce questo posto. Non è certo una novità.”
Non riuscì a impedire a una sfumatura aspra di impadronirsi della sua voce.
“Ma ultimamente è peggiorato. E non sei l’unico, zio. Diversi membri dell’Organizzazione sono infelici o contrariati da quando abbiamo lasciato il nostro mondo.”
“Puoi biasimarci?”
Si pentì all’istante della sua durezza. Zexion non era responsabile di quella situazione assurda. Aveva a cuore soltanto il suo bene e cercava sempre di sostenerlo. Era solo che… a volte lo scienziato aveva la sensazione che nemmeno lui, nemmeno il ragazzo che amava come un figlio riuscisse a capirlo fino in fondo.
Idiota! Non devi pensare queste cose!
“Mi dispiace” scattò immediatamente Zexion. “Forse se avessi insistito di più con il Superiore a quest’ora… “
“No.” Vexen fece qualche passo lungo il corridoio bianco e strinse con affetto la spalla del ragazzo. Era così minuto e fragile. Il bambino abbandonato nella neve era ancora lì, rannicchiato dietro quegli occhi chiari come il cristallo che lo scrutavano con amore e apprensione.
“Il Superiore aveva già preso la sua decisione. Non c’era nulla che tu potessi fare. Né avevi alcun obbligo di farlo.”
“Mi dispiace di non avere un modo migliore per aiutarti. Vorrei poterti dare quello che cerchi.”
Vorrei poter essere abbastanza, supplicavano gli occhi del bambino nella neve.
Vexen sospirò. Le parole di Zexion lo riportavano con la mente a un altro tempo, quando lo scienziato del Castello dell’Oblio era solo un adolescente allampanato con nient’altro che uno zaino in spalla e lo sguardo perso oltre la soglia di casa.
“Non capisco, Even. Ti giuro che non lo capisco!”
Quel giorno suo padre si era piantato a gambe larghe in mezzo al sentiero, lungo la collina che isolava l’abitazione della sua famiglia dal villaggio vicino, impedendogli di fare un altro passo.
“Non ti manca niente qui, e tu mi dici che preferisci vivere in mezzo a una strada. Che vuoi fare il… medico girovago! Io ti ho dato tutto! Ho lavorato duramente ogni singolo giorno della mia vita per garantire un futuro sereno a te e tua madre!”
Non erano vanterie prive di fondamento. Suo padre aveva messo su una piccola fortuna grazie a un’attività commerciale costruita praticamente dal nulla. Solo l’intraprendenza e la determinazione gli avevano permesso di prevalere sulle tassazioni esose dei signorotti locali e sul bando dei sacerdoti che esecravano la pratica mercantile come il più abietto esercizio del demonio. Il giovane Even lo ammirava, e gli era grato per questo. Tuttavia, sfortunatamente per il genitore, ne aveva anche ereditato tutta la testardaggine e la determinazione.
Rispose a Zexion come aveva risposto quel giorno di tanti anni prima:
“Il fatto che io cerchi qualcos’altro non diminuisce in alcun modo il mio affetto per te, Zexion.”
Suo padre, con il tempo, se ne era fatto una ragione (era assai probabile che sua madre avesse giocato un ruolo critico in proposito). Anche lontano da casa Even aveva mantenuto un buon rapporto con i genitori e, alla fine, con le sue capacità di medico, era riuscito persino a renderli orgogliosi di lui. Suo padre era morto con un sorriso sereno sulle labbra e la mano stretta tra le sue.
Di sicuro poteva trovare un modo per rendere orgoglioso anche Zexion. Non c’era bisogno di rinunciare per forza a qualcosa per raggiungere la felicità.
“Lo so” sussurrò semplicemente il ragazzo.
“Cerchiamo di venire a capo di questo mistero, piuttosto” lo incoraggiò il n. IV. “Il Superiore si aspetta delle risposte da noi.”
Si staccò da Zexion e mosse qualche passo lungo il corridoio. “Voglio dare un’occhiata all’altro ingresso delle Stanze che si trova su questo piano. Naturalmente i sigilli sono infranti anche lì, ma forse potremmo provare a… “
Si sentì tirare per la manica. Zexion si era aggrappato a lui con tutto il suo peso, e Vexen riconobbe immediatamente quel suo sguardo lontano, spalancato su una realtà accessibile soltanto ai suoi sensi. Si affrettò a sorreggerlo passandogli un braccio attorno alle spalle.
“Che succede? Cosa senti?”
La risposta arrivò sotto forma di un tremolio nell’aria, e un istante dopo nel bianco accecante del corridoio sbocciarono le spire oscure di un portale di teletrasporto. Xigbar ne saltò fuori trafelato ed evitò qualsiasi preambolo:
“Il n. XIII è scomparso!”
“Come sarebbe a dire scomparso?”
Letteralmente scomparso. Il n. IX dice che stavano pulendo insieme la cucina e lo ha visto svanire di colpo davanti ai suoi occhi. Puff, sparito da un momento all’altro! Ora, Demyx non è famoso per essere una cima, ma non credo proprio che mentirebbe su una cosa del genere. Zexion, hai idea di cosa possa essere successo?”
“Non è… “ La voce di Zexion era un rantolo spezzato. Aveva ancora la mano stretta sulla manica della sua tunica, e i muscoli contratti in tutto il corpo indicavano che stava provando una forte ondata di nausea e dolore. In mancanza di un posto migliore, Vexen lo fece adagiare sul pavimento con la schiena appoggiata alla parete più vicina, e gli si inginocchiò accanto, tenendogli la fronte. Stava sudando copiosamente.
“Non è… solo il n. XIII” riuscì a mormorare infine. Vexen detestava la propria impotenza in quelle situazioni: era costretto a vederlo soffrire senza poter fare nulla per lenire il suo dolore. I farmaci avevano un effetto blando e comunque poco duraturo, e sì che ne aveva provati a decine, sintetici o naturali che fossero.
“Anche il n. VIII…  non so come sia successo, ma… Axel è dentro le Stanze.”
Anche Xigbar si era inginocchiato accanto al n. VI e borbottava sommessamente: “Tutto questo non ha un cazzo di senso.”
“Temo che non riesca più a uscire.”


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Fonte della fanart a inizio capitolo: https://orig00.deviantart.net/2d14/f/2015/288/8/b/201510082_by_sayuri551-d9d6do8.jpg

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Axel (IV) ***


Capitolo 19 - Axel (IV)





Lo Spirito del Castello dell'Oblio





Il freddo del pavimento contro la sua guancia lo risvegliò con la gentilezza di uno schiaffo.
Un raggio di luce, forte ed abbagliante come non ne vedeva al Castello ormai da due anni, si infilò di prepotenza sotto le sue ciglia ed in quel momento Axel scrollò la testa con violenza cercando di riprendersi.
Si mise a sedere sul pavimento, costringendo gli occhi ad abituarsi alla luce calda di quel posto. La testa gli doleva più o meno come dopo una bella sbornia, ma era prontissimo a giurare di non aver bevuto nemmeno un bicchierino di alcolico nelle ultime cinque o sei ore. E, soprattutto, l’ultima cosa che ricordava era di star portando da mangiare al n. XI nella sua cella e di aver dato un morso ad una delle succulente mele rosse del vassoio.
Accanto a lui non vi era alcun vassoio, né mele o qualsiasi altra cosa commestibile.
Anzi, ad essere precisi non vi era proprio nulla che potesse anche solo lontanamente descrivere come familiare.
Sopra la sua testa non vi era il bianco assoluto del Castello dell’Oblio, ma un altissimo soffitto in tegole rossastre sostenute da travi di legno da cui pendevano enormi lampadari. La luce che lo aveva svegliato filtrava da una coppia di vetrate poste sui due lati della grande stanza in cui si era risvegliato, ed una di esse era socchiusa in modo da far passare aria: doveva essere pieno pomeriggio, perché il sole illuminava praticamente ogni angolo di quel posto. Il calore sulla sua pelle gli diede subito una sensazione di benessere.
La stanza avrebbe potuto ospitare più di duecento persone. Delle lunghe panche erano sparse per tutto l’interno, ed Axel si appoggiò ad una di queste per rimettersi in piedi; il legno scricchiolò sotto il suo peso, e fu l’unico suono che attraversò quel posto, fatta eccezione per il suo stomaco ed il rumore dei propri stivali contro il pavimento fatto di un marmo grigio e consumato. Stava per sedersi sulla panca per fare il punto della situazione, ma uno scintillio rubò del tutto la sua attenzione.
La statua di una donna dai capelli lunghi e fluenti poggiava i propri occhi al centro della stanza. Era stata scolpita in maniera perfetta, di una qualità mille volte superiore a quella delle statue del suo mondo, sbozzate ed essenziali per non distogliere l’attenzione dei fedeli. Se le statue della santissima Marin avevano un volto piatto ed inespressivo, quella figura di fronte a lui sembrava così viva da essere sul punto di piangere. Era rappresentata seduta su chissà cosa, avvolta da vesti lunghissime, e tra le mani stringeva una grande sfera butterata che appoggiava contro il ventre.
Stava per avvicinarsi a quella meravigliosa figura quando si accorse dell’altro, la statua di un uomo con i lunghi capelli ed i vestiti al vento. In sé l’aspetto lo colpì meno della figura femminile, ma la statua che brandiva nella mano destra lo attirò: era pietra, senza alcun dubbio, ma era diversa da quella utilizzata per rappresentare l’uomo e la donna. Sembrava quasi intagliata nel cristallo, e la luce che vi batteva dalla finestra la accendeva di riflessi rossi e dorati come se un piccolo sole si stesse formando sulla lama. Sarebbe stato pronto a giurare di non aver mai visto un materiale del genere –non che si considerasse un grande esperto- ma il desiderio di toccare quell’arma incandescente gli fece compiere tre passi nella direzione delle statue. Si mise in punta di piedi e la sfiorò, sentendo il piacevole calore della luce del sole filtrare dalla pietra ai suoi polpastrelli. “In che diamine di posto mi trovo?”
“Sinceramente pensavo me lo potessi dire tu …”
La voce improvvisa fece sobbalzare Axel, che ritirò subito la mano.
Dove fino a un paio di secondi non vi era stato nessuno, una figura sedeva su una delle panche. La voce era quella di un uomo, ma i suoi lineamenti erano nascosti da una spessa armatura di bronzo che lo ricopriva fino alla punta dei piedi. Non aveva prodotto alcun rumore per entrare.
La mano di Axel si riscaldò. “Chi cazzo sei?”
“Non è questa la domanda importante” rispose l’altro.
Axel lo squadrò.
Il metallo dell’elmo rendeva difficile definire il timbro della voce del nuovo arrivato. Vi era qualcosa che gli ricordò per un istante il tono del Superiore, ma non riuscì a definirlo con certezza. “Sai che fai davvero schifo a presentarti? Ah, immagino non sia nemmeno tanto importante dirmi dove cazzo sono finito e come cazzo ci sono finito …”
L’uomo in armatura si alzò. Lo superava almeno di un palmo, e le decorazioni appuntite sull’elmo rendevano enorme il loro divario. Il metallo della cotta venne colpito dalla luce riflessa dalla spada intagliata, dando l’effetto di un piccolo sole in procinto di illuminare la stanza. “Sei al tuo crocevia. Ogni essere vivente ne attraversa almeno uno”.
“Perfetto, adesso so che fai schifo anche a dare indicazioni … E, per tua informazione, non ho la più pallida idea di dove ci troviamo. Lo giuro!”
L’uomo in armatura volse la testa prima su di lui, poi si girò verso le statue. “Forse perché non è ancora arrivato …”
Axel sbuffò, stizzito, e prese le distanze.
La cosa continuava ad avere sempre meno senso. Per sicurezza si diede un bel pizzico sulla mano, ma l’unico risultato fu un livido.
Realizzò in quel momento che nella sala non vi era alcuna porta che conducesse all’esterno. Vi erano soltanto vetrate, poste peraltro molto in alto, ma non vi era alcun ingresso da cui l’uomo in armatura fosse potuto entrare senza infrangere almeno tre o quattro vetri. Picchiettò un paio di muri per controllare che fossero veri e non qualche strano tipo di illusione molto realistica, ma i mattoni avevano una consistenza … beh, di mattoni. Squadrò da sotto le punte dei capelli i movimenti del nuovo arrivato, che rimase in silenzio per tutto quel tempo osservando ogni sua mossa senza muovere un muscolo. Tese l’orecchio nella speranza che vi fosse qualche altro abitante di quello strano edificio, ma non vi furono voci o eco di passi che risposero alla sua preghiera.
Si chiese se qualcuno al Castello si fosse accorto della sua assenza.
“Premesso che tutto questo non sia un sogno –e potrebbe esserlo- … cosa intendi per il mio crocevia?”
“Ciascuno di noi è chiamato a fare una scelta. Chiunque, in qualsiasi momento della vita” disse la figura “Persino tu, Lea”.
Axel trattenne il fiato.
Erano passati diversi anni dall’ultima volta che qualcuno aveva pronunciato il suo vero nome. In pochi si erano mai curati di conoscerlo, e quei pochi erano al massimo ladruncoli, prostitute o mendicanti. Non era mai importato a nessuno, ed era abbastanza convinto che persino nell’Organizzazione fossero in due o tre a conoscerlo.
Non gli era mai piaciuto.
“Era un bel po’ che non sentivo quel nome” rispose, ostentando calma.
“Lea … Axel … due nomi, stesso destino”.
Axel lasciò che il fuoco formicolasse tra i suoi polpastrelli ed i guanti. Lo sconosciuto non aveva fatto alcun gesto minaccioso, ma nella sua intera figura vi era qualcosa di strano, di aggressivo. A prima vista non aveva armi, ma Axel sapeva fin troppo bene che non erano quelle a decretare il vincitore. “E il tuo destino ti sta aspettando fuori di qui. Io mi occuperò di farti da guida fino all’uscita”.
“Quindi c’è un’uscita …”
“Solo se tu lo vorrai”.
Axel sospirò, fissando intensamente la statua del guerriero nella speranza che gli cadesse la spada di mano e finisse su quel tipo misterioso e fissato con indovinelli utili solo a fargli saltare i nervi.  
La spada, ovviamente, non si mosse di mezzo millimetro.
Estese la magia del fuoco attraverso i muri e le vetrate, alla ricerca dell’energia degli altri Membri dell’Organizzazione; non vi era nessuno, nemmeno quell’imbecille di Demyx, quindi era chiaro non solo che non fosse più nel Castello, ma soprattutto che gli altri non avessero la più pallida idea di dove si trovasse. La situazione era così assurda che si accorse di non avere nemmeno troppa paura.
In fondo aveva fatto incubi molto più movimentati di un imbecille in armatura con il pallino degli enigmi.
“Ok, facciamo quello che cazzo ti pare” rispose seccato. “Ma se non mi farai tornare indietro sarà peggio per te”.
 


Si era sempre considerato piuttosto bravo ad orientarsi.
Nel paese dove era nato vi era un dedalo di vicoli così pieni di sterco e fango che nemmeno i sacerdoti osavano attraversare; era cresciuto tra quelle strade traboccanti di sorci senza nemmeno accorgersene, trascorrendo ogni giorno alla ricerca di un nuovo buco dove nascondersi dalle guardie o dagli altri ragazzi di strada, quelli più affamati e feroci di lui. Conosceva i tetti bene quasi quanto quei vicoli, ed avrebbe saputo raggiungere la piazza del mercato anche ad occhi chiusi.
Era stato uno dei pochissimi membri dell’Organizzazione a non essersi perso nei primi giorni di vita al Castello dell’Oblio –racconti di Xigbar e Xaldin sostenevano che Demyx avesse vagato per tre ore nei sotterranei prima di trovare le scale che portassero alla mensa- ed in tutte le missioni non gli era mai dispiaciuto andare in avanscoperta per esplorare posti nuovi.
Quel luogo, però, aveva qualcosa che non lo convinceva.
Da quando avevano lasciato la sala con le statue, imboccando una rampa di scale in pietra che li aveva condotti al livello superiore, Axel aveva deciso di girovagare a caso. Il tipo in armatura lo aveva liquidato con un secco “Fa ciò che vuoi” e si stava limitando a seguirlo come un’ombra incredibilmente rumorosa.
L’interno dell’edificio ricordava un castello, o forse un monastero. Era stato costruito con pietra buona, di quelle che si usavano solo nei templi più importanti del loro mondo, e non vi era nemmeno un granello di polvere. Aveva ficcato il naso in diverse stanze, quelle che sembravano una serie di dormitori, e per sicurezza aveva frugato un po’ nei cassetti senza però trovarvi nulla di interessante o di valore. Aveva trovato un po’ di indumenti, tuniche dai colori semplici e pezzi di armature di cuoio, tutte cose che potevano benissimo trovarsi nel loro mondo d’origine. Era chiaro che quella parte dell’edificio fosse adibita agli alloggi della servitù o dei soldati, eppure nessun essere vivente era apparso o aveva notato la loro presenza.
Avrebbe pensato ad un castello diroccato, ma ogni dettaglio, dai vestiti lasciati sulle panche un po’ alla rinfusa alle ciotole di cibo ancora tiepido, gli facevano pensare il contrario. Né sopra di loro, né sotto di loro, si udivano voci.
Un paio di volte aveva provato a gettare un’occhiata all’esterno. Le finestre erano niente più che delle lastre di vetro appoggiate contro grosse feritoie, ma il paesaggio fuori era un’anonima distesa erbosa con degli alberi verso l’orizzonte che avrebbe potuto trovarsi letteralmente ovunque, e non soltanto nel loro mondo. La luce del sole era sempre alta, come nel primo pomeriggio, e Axel si accorse che, nonostante fossero passate oltre due ore da quando aveva iniziato a girovagare lì dentro, la luce non aveva accennato a diminuire. Lungo il corridoio comune, quello che collegava le varie stanze, si era arrampicato su una sedia per sbirciare meglio il cielo, ma anche da lì non era riuscito a vedere l’esatta posizione del sole.
Le stanze si aprivano una dopo l’altra, tutte simili ma nessuna identica. Il corridoio, arredato con panche, armature e qualche arazzo, proseguiva in linea retta senza piegarsi nemmeno una volta.
“C’è qualcosa di strano in questo posto. Non mi piace” disse.
“Non deve piacerti”.
“Ma ammetti che questo corridoio non ha nulla di normale. Sono ore che proseguiamo praticamente dritti e queste stanze iniziano veramente a darmi sui nervi” bofonchiò, tirando un calcio distratto ad un tappeto. “Ma non dovevi farmi da guida? Ho visto cimiteri più allegri”
“Se non vuoi andare da nessuna parte non andrai da nessuna parte”.
Axel si fermò.
“Io voglio uscire di qui. Voglio tornare al Castello dell’Oblio”.
“Ne sei sicuro?”
Guardò di nuovo davanti a sé, lungo i mattoni e le finestre tutte uguali.
La prima cosa che gli venne in mente fu la smorfia furiosa di Saïx.
La bestiaccia senza ombra di dubbio in quel momento stava perlustrando il Castello alla sua ricerca, annusando le scale che stava percorrendo prima di raggiungere la cella del n. XI. Senza ombra di dubbio sarebbe andato su tutte le furie.
Probabilmente in quel momento avrebbero tutti pensato ad una sua scappatella, e magari Xigbar e Xaldin sarebbero andati a cercarlo in quel bordello su Ryloth che gli piaceva un sacco.
Sarebbe stato piuttosto difficile spiegare loro che un misterioso tizio in armatura lo aveva rapito e teleportato in un castello disabitato senza uscita con l’unico apparente obiettivo di portarlo ad un crocevia e riempirlo di domande prive di senso. Ad una cazzata del genere non ci avrebbe creduto nemmeno lui.
Almeno una decina di giorni in prigione se li sarebbe fatti tutti. “Non lo so …”
Sinceramente, chi gli avrebbe creduto?
A parte Roxas, ovvio, ma quel piccoletto ancora credeva agli dèi ed allo Spiromorfo cattivo anche dopo due anni lì dentro. Forse in mezzo a quella mandria di pazzi era l’unico che si stesse preoccupando davvero di cosa potesse essergli successo.
Avrebbe potuto contare nella buona fede del Superiore, ma il n. XI aveva ragione sul fatto che il loro capo fosse diventato un paranoico assurdo con quella storia dell’isolamento e della sicurezza. Per carità, Bocciolo di Rosa si era comportato da vero pezzo di merda con quella ragazza, ma a parte quello non aveva tutti i torti quando si lamentava del fatto che quel pianeta buio e freddo fosse più una tomba che una casa.
Così come era chiaro che il n. I era intenzionato a rimanere lì a marcire per tutta l’eternità, trasformando il Castello nel suo mausoleo personale.
Forse, se all’epoca avesse saputo che si sarebbe ridotto a vivere recluso in un castello bianco, pieno di libri, con un licantropo furioso e col divieto di uscire … chi lo sa, forse non avrebbe accettato l’offerta di quel bizzarro Radigata imbottito di soldi. All’epoca l’idea di non dovere più dormire in mezzo ai topi ed accontentarsi della spazzatura dei ricchi gli era sembrata un’offerta tutto sommato vantaggiosa. “Non ho un altro posto dove andare …”
“Certo che lo hai”.
La risposta lo colse impreparato. “E dimmi, ammasso di latta … dove sarebbe questo posto?”
“Tutto dipende se davvero lo vuoi raggiungere”.
Tanto è chiaro che mi trovo in un incubo …
“Suvvia, perché no? Purché non ci siano licantropi o Castelli giganti …” disse, divertito nel fissare la propria faccia riflessa nell’elmo dell’altro. “Dove devo andare?”.
“Dove si trova il futuro, Lea: sempre dritto”.
Axel si voltò di nuovo verso il corridoio, ma non riuscì nemmeno a guardare meglio perché nel fare un passo avanti inciampò su qualcosa di grosso.
Qualcosa che, era pronto a scommetterci le palle, non era certamente lì fino a qualche istante prima.
Stava per tirare un’imprecazione e dare un calcio all’oggetto contundente, ma fermò il piede a metà strada quando si accorse di cosa si trattasse.
Una persona era a terra, con la gola aperta a metà.
Il suo accompagnatore si avvicinò, rivoltando la figura con la punta dello stivale. “Lo conosci?”
Certo che lo conosceva.
Aveva diciassette anni quanto Aral Nasodizolfo aveva deciso di entrare con prepotenza nella sua esistenza. Un figlio di puttana di quelli veri, uno che riusciva a sopravvivere alle guardie o alle malattie quando tutti avrebbero dato venti monete d’argento per vederlo penzolare da una forca. Nel villaggio tutti sapevano che quell’avvoltoio aveva fatto il nido in una sezione delle miniere dove nemmeno i minatori più anziani scendevano -temendo che vi dimorassero le Ombre dello Spiromorfo- ma nessuno aveva il coraggio o la voglia di chiamare le guardie e stanare quel tagliagole.
All’epoca mettersi in combutta con quel tipo era un modo certo per ottenere o una morte rapida o un bottino con i fiocchi, e lui era stato abbastanza ingenuo dal credere che avrebbe ottenuto soltanto la parte relativa al denaro. Il furto degli incensieri d’argento al Sacerdote dello Scorpione in visita al loro piccolo tempio era stato un successo senza precedenti, e l’essere stato invitato da Nasodizolfo nel suo covo personale per dividere per bene la refurtiva gli era sembrata una buona idea, specie perché nessun altro, giù tra i vicoli, poteva vantare un alleato così forte.
Avrebbe avuto il suo rispetto, anche se aveva i capelli rossi.
E, se non fosse stato per la sua prontezza di riflessi, avrebbe avuto anche una bella tomba proprio sul fondo delle miniere. “Un tipo che ha cercato di farmi la pelle”.
“Immagino non gli sia andata molto bene”.
Si era voltato giusto in tempo, insospettito da un lieve tonfo proprio alle sue spalle. Non c’era nemmeno una luce lì sotto, ma non aveva bisogno di vedere per evitare il sibilo di una lama proprio dove l’istante prima vi era stato il suo collo. Gli era andato addosso senza nemmeno pensare, realizzando troppo tardi di aver abboccato alla trappola come il più grande tra i cretini.
Dopo tanti anni non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscito a strappargli il coltello dalla mano. Puro istinto di sopravvivenza, forse. “Non avevo mai ucciso nessuno prima di lui …”
“Lo dici come se ti dispiacesse”.
Axel si voltò verso il suo interlocutore.
Non aveva ben chiaro cosa ci facesse il corpo di Nasodizolfo proprio ai suoi piedi, ma per la prima volta gli parve di riconoscere una lieve nota di interesse nella voce della sua guida.
“Non è questione di dispiacersi” rispose “O io, o lui. E, per tua informazione, sono piuttosto attaccato alla mia pellaccia”.
Fece per dargli un calcio, ma lo stivale trovò soltanto il tappeto ed il marmo del pavimento; si scansò quanto bastava per guardarsi intorno, ma il cadavere era sparito come era apparso.
E, proprio quando stava per lanciare un’imprecazione in grado di rimbombare per tutto il corridoio a venire, si accorse che un muro era comparso davanti al suo naso impedendogli di proseguire.
Accelerò il respiro, chiedendosi se per caso quell’incubo non lo avesse causato qualche erba allucinogena del n. XI.
Vide il suo compagno di viaggio appoggiarsi ad una parete lungo la sinistra, dove una rampa di scale saliva verso l’alto, illuminata da torce. “Che cazzo di magia stai facendo?”
“Sei tu a costruire questo posto, Lea. Nemmeno io so con certezza dove vuoi davvero andare”.
Si guardò di nuovo indietro, cercando il cadavere. Il corridoio che aveva appena attraversato era immacolato, e le scale sembravano l’unica via possibile.
Si accorse di tremare quando mise i piedi sul primo gradino di pietra.
Nessuno poteva sapere di Nasodizolfo. Nemmeno il Superiore.
Salì la scala a chiocciola col cuore in gola. L’idea di fare marcia indietro e provare a sfuggire al suo accompagnatore non sembrava una scelta furba, specie perché non aveva idea di cosa fare anche ammesso che fosse riuscito a tornare tutto intero al salone con le statue. E provare a tramortire l’energumeno sotto la corazza non si prospettava più facile di battere il n. V in una gara di sollevamento pesi.
L’odore di cadavere gli fu addosso non appena superò l’ennesimo pianerottolo.
La sua guida era ferma sui gradini, osservando un corpo accasciato contro la parete con una spada piantata nell’addome. “Anche questa è opera tua?”
“Immagino tu sappia già la risposta” mormorò.
I lineamenti di quel fante, spariti dalla sua memoria fino a quel preciso momento, ritornarono a galla dopo più di cinque anni di oblio. Dettagli insignificanti che credeva di aver rimosso. “Comunque sì. Stavo scappando dalla prigione, e questo imbecille aveva provato a dare l’allarme” disse. Si ritrovò a scuotere la testa, quasi come a scrollarsi il ricordo di quella sera.
Era scappato dalla porta sul retro, ed il suono martellante del suo cuore aveva coperto il gorgoglio dell’uomo agonizzante. “Ma se hai deciso di giocarmi qualche scherzetto facendomi vedere la gente che ho ammazzato … temo che il divertimento sia finito. Non ho ucciso nessun altro”.
“E allora quelli come li spieghi?”
Le scale finirono.
Nel momento esatto in cui Axel superò l’ultima curva si ritrovò in una seconda area, molto simile a quella dei dormitori attraversati poco prima ma meglio illuminato, con candelieri di bella fattura appesi al soffitto ed una tela grande quanto una parete raffigurante due navi che fluttuavano in cielo sotto quella che sembrava una stella di cristallo.
Ma per quanto gli occhi fossero tentati di contemplare ancora un po’ il curioso dipinto, le parole della sua guida lo costrinsero a fissare avanti.
Un corpo carbonizzato, disteso sotto un’enorme finestra, mandava ancora uno spiraglio di fumo. Poco più avanti, verso il margine della stanza, un’altra sagoma sembrava aver fatto la stessa fine. Nonostante lo spettacolo, Axel trovò l’odore quasi rassicurante.
Le fiamme avevano consumato completamente la figura, impedendogli di capire anche solo se si trattasse di un uomo o una donna, e qualsiasi abito avesse avuto indosso era ormai un ammasso di cenere irriconoscibile. Sapeva benissimo -ed il n. I non si era mai stancato di ripeterglielo- quanto fosse pericoloso il proprio elemento, quanto potesse essere incontrollabile anche per un mago ad esso affine; lo aveva scelto anche per quello, perché nessuno avrebbe avuto troppa fantasia di attaccar briga con uno in grado di carbonizzarti all’istante ma … non aveva mai fatto una cosa simile. Certo, una delle prime volte che aveva iniziato a dominare le fiamme aveva bruciato la punta dei capelli di Xigbar, ma a parte i piccoli incidenti si era sempre reputato in grado di controllare il fuoco alla perfezione, anche meglio di un demone.
Quei corpi non avevano l’aria di essere vittime di “incidenti”.
“Non li ho uccisi io” mormorò. “Me ne ricorderei”.
“Non puoi ricordare quello che non hai ancora fatto, amico mio”.
“Mi stai dicendo che sono prigioniero di un sogno dove una strana allucinazione mi sta facendo vedere il futuro?”
Non aveva mai ascoltato molto le lunghe dissertazioni che il n. IV ogni tanto teneva sulla genesi della magia, ma ricordava abbastanza bene la parte in cui il noioso scienziato sottolineava il fatto che non vi fosse nessun artefatto, nessuna sfera magica, nessuna strana lettura di carte o fondi di bevande che potessero svelare il futuro. Nel loro mondo i sacerdoti veggenti pullulavano come le formiche, ma era stato chiaro persino a lui che si trattasse di un nugolo di ciarlatani. “Tutte stronzate”.
“Non sei tenuto a credermi. Ad essere sinceri l’elaborazione di eventi futuri è piuttosto rara, ma non per questo improponibile. È chiaro che la tua vita sia stata priva di importanza fino ad adesso, dunque il crocevia si trova per forza avanti nel futuro. Sei interessante, Lea”.
L’uomo aveva parlato con un tono neutro. “Muoviamoci. Attardarsi in un posto simile non è una buona idea”.
Uscirono da quell’androne, percorrendo un secondo livello di corridoi.
La luce del giorno era intensa come quando avevano intrapreso quell’esplorazione, e dopo un paio di sale Axel di accorse di aver perso del tutto il senso dell’orientamento. L’edificio si snodava in maniera all’apparenza normale, ben diversa dal corridoio senza fine del piano di sotto, eppure parte di lui continuava a gridare segnali di allarme.
In ogni luogo che visitava vi era almeno un corpo.
Aveva smesso di contarli dopo la dozzina.
Ad ogni passo cercava di fissarne i dettagli nella testa, eppure ad ogni salone, ad ogni loggia i particolari gli sfuggivano proprio come quelle figure che svanivano proprio dopo che le aveva superate.
Era qualcosa di più di un incubo.
Non sapeva come, ma era certo di essere sveglio.
Così come era chiaro che la sua guida avesse accelerato il passo: se prima era rimasto in disparte, osservandolo mentre cercava di trovare una via fuori di lì, adesso l’uomo in armatura proseguiva più spedito, senza proferire nessuna di quelle frasi sibilline che aveva sputato al momento del loro incontro. Axel si ritrovò costretto ad allungare il passo per stargli dietro, ed un paio di volte riuscì a ritrovarlo solo perché il rimbombo metallico della sua corazza era il modo più semplice per rintracciarlo. Si accorse di essere più stanco del previsto, ma l’idea di trovare un’uscita gli diede abbastanza forze da seguire l’altro per ancora due rampe di scale, scansando i corpi che si succedevano.
Più saliva e più era convinto che qualcosa lo stesse sospingendo. Qualunque cosa lo stesse aspettando al termine di quel dedalo stava stuzzicando la sua magia, perché il potere delle fiamme gli correva nelle vene, attratto da qualsiasi cosa vi fosse in cima. Per poco non andò a sbattere contro la sua guida quando quello si fermò di punto in bianco davanti ad una stanza su quello che sembrava davvero l’ultimo piano del monastero. La porta ampia, intagliata con la rappresentazione di un disco solare, non apparteneva certo alla stanza di un abitante qualsiasi. Ai lati, scolpite nel legno, la statua di un guerriero e quella di un mago sembravano invitarlo ad entrare.
“I miei complimenti, Lea. Sei arrivato” disse l’altro. Si era bloccato davanti all’ingresso, toccando il battente della maniglia come se anche lui lo vedesse per la prima volta.
“Il tuo vero futuro inizia qui”.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Axel (V) ***


Capitolo 20 - Axel (V)





Axel





Quattro bracieri erano accesi ai lati della stanza.
Axel percepì il piacere del fuoco non appena aprì il portone, ma una seconda sensazione, più acre, lo prese allo stomaco.
I suoi stivali camminarono su qualcosa di appiccicoso. Guardò verso il basso, ma ciò che vide non fu altro che una disgustosa conferma dell’odore forte che lo aveva accolto.
L’intero pavimento era una pozza di fluido rosso. E, abbandonata al centro, vi era una figura accartocciata su se stessa.
Un ragazzo era completamente riverso nel suo stesso sangue; Axel lo osservò con diffidenza, ignorando le proteste del proprio stomaco che lo supplicava di voltarsi e rimettere tutto. Si avvicinò al corpo, circospetto, cercando di trovare un flebile respiro, un qualsiasi cenno di vita, ma non arrivò nulla del genere.
Qualunque cosa avesse ucciso quel ragazzo non era nulla che conoscesse. Lo squarcio nel petto non era certo opera di una spada o di un coltello, bensì di qualcosa di più ampio e irregolare, un’arma che gli aveva fracassato la gabbia toracica prima di attraversarlo da parte a parte. Di certo non era stato un chackram.
Il pensiero lo rassicurò.
“Qualcuno che conosci?”
Il suo accompagnatore era rimasto vicino alla porta, ancora una volta immerso nel proprio silenzio.
Axel osservò il viso del ragazzo: aveva tredici, forse quattordici anni, con i tratti da bambino che si mescolavano con i lineamenti marcati che sarebbero potuti appartenere a qualcuno di più grande. I capelli, in origine castani, erano diventati quasi neri al contatto prolungato con il sangue; dalla sua altezza non riusciva a vedere il colore degli occhi. Avrebbe potuto chinarsi, ma rimase immobile senza però riuscire a staccare del tutto lo sguardo: lo prese un inaspettato senso di disagio, diverso dal disgusto per quel corpo martoriato. Una sensazione che non lo aveva mai sfiorato nemmeno davanti a tutti quei corpi trucidati, accoltellati o inceneriti che aveva incontrato lungo il percorso. Cercò di giustificarlo cercando sul ragazzo qualcosa che potesse essergli familiare, ma dopo brevi istanti scosse la testa. “No. Mai visto primo d’ora. E se sei ancora convinto che anche questo sarà un giorno opera mia …”
Portò con calma il primo stivale fuori dalla pozza “… fidati, non succederà. Non ammazzo bambini. Né adesso né tra mille anni, quindi mettiti l’animo in pace ed inizia a farmi uscire da qui. Se questo è il mio crocevia, o come lo chiami tu … beh, fa davvero vomitare”.
“Ma questa situazione cade comunque sulle tue spalle. Che ti piaccia o no”.
“Ancora con questa storia … il futuro non è scritto, lo sanno anche i mocciosi”.
 
Narratore: “Registe, posso interrompere questa scena struggente per fare un commento?”
Registe: “No”.
Narratore: “Mi dispiace, troppo tardi. Comunque ci tengo a precisare che il futuro non è scritto perché figuriamoci se queste due scansafatiche hanno messo tutto nero su bianco con così tanto anticipo. Però c’è da dire che i tratti salienti li hanno in mente, quindi io credo che Axel stia facendo male i suoi calcoli”.
Registe: “Narratore, rientra nei ranghi!”
 
Gli ci vollero più secondi per allontanare lo sguardo. La sensazione di disagio, però, continuava a crescere. “Fammi tornare indietro”.
“Nemmeno io posso sapere come arriverai a questo punto, Lea. Ma le Stanze della Memoria sono pensate per non mentire mai”.
Furono quelle parole a scuotere il n. VIII. Sollevò la testa, dimenticandosi per un istante del ragazzo, e fissò di nuovo lo sconosciuto.
“Cosa c’entrano le Stanze della Memoria?”
“Ci sei dentro”.
Non si era mai preoccupato della questione, ma aveva sentito fin troppe volte il Superiore ripetere fino a distruggersi le corde vocali –in quelle litigate con il n. IV che si sentivano a tre piani di distanza- che le Stanze della Memoria erano qualcosa di pericoloso. Per carità, il n. I negli ultimi tempi aveva paura anche della propria ombra, ma il fatto che i Sigilli sulle Stanze esistessero già da tempo immemore gli era sembrata tutto sommato una cosa naturale. L’idea di essere ancora dentro il Castello lo risollevò, anche se non quanto avrebbe voluto. L’odore del sangue ormai gli era arrivato persino nel cervello. “Come ci sono entrato?”
“Sei stato invitato”.
“Da te?”
Aveva attraversato un intero monastero ed aveva scalato tantissime rampe di scale. Nulla di ciò poteva essere contenuto in una singola stanza, men che mai cose che sarebbero dovute rimanere sepolte nel suo passato. Il terrore di non essere in un incubo ma in qualcosa di vero gli mosse le gambe, sospingendole fino alla porta. La sua guida era a metà dell’uscita; non si mosse per bloccarlo, ma il n. VIII si ritrovò proprio di fronte a lui nel tentativo di portarsi fuori di lì. Avrebbe dato una mano per vedere chi diamine ci fosse sotto quell’elmo da cui proveniva quella voce quasi senz’anima. “Diciamo di sì. Avevo bisogno di conoscerti meglio, Lea. E posso definirmi soddisfatto”.
Axel si accorse che le proprie gambe tremavano. “Credi che questa lunga lista di cadaveri ti permetta di saperne di più su di me? Sei fuori strada”.
“Del tuo futuro lontano non mi importa gran che. Del prossimo, invece … confido che farai la scelta giusta”
“Giusta … per chi? E cosa pensi che farò? Smettila di parlare per enigmi!”
“Hai bisogno di più forza, Lea”
La voce si era fatta più cupa. L’uomo, per la prima volta da quando aveva messo piede in quella stanza, girò l’elmo verso il corpo senza vita. “Qualunque cosa ti attenda nel futuro, ricordati che potresti essere troppo debole per fronteggiarla. E la debolezza è il principio della fine … della tua e di chi ti verrà troppo vicino. Non dimenticarlo quando uscirai di qui. Quando sarà il momento dell’Invocazione Suprema”.
La testa era ormai sul procinto di esplodergli.
L’unica cosa che continuava a martellargli il cranio era il bisogno disperato di mettere piede fuori da quella stanza che puzzava di sangue e lasciarsi indietro quel guerriero. Persino l’idea di rivedere il muso di Saïx sembrava piacevole.
Se si trovava ancora all’interno del Castello sarebbe riuscito prima o poi a trovare un’uscita.
Senza neanche rispondergli prese il coraggio a quattro mani ed uscì dalla stanza con un solo passo, ma ciò che vide gli fece morire in gola qualsiasi pensiero.
Il corridoio, prima quasi vuoto, era pieno di cadaveri.
Erano ammassati uno sull’altro, impilati come sacchi, alcuni decapitati, altri carbonizzati e dalle fattezze irriconoscibili, più di una dozzina pendevano impiccati ai lampadari. I corpi di due bambini erano stati tranciati a metà, e le loro interiora erano sparse proprio davanti ai suoi stivali. Volti delle razze più disparate sembravano fissarlo, umani e creature che non aveva mai visto in vita sua erano raggruppati in quel carnaio senza alcuna distinzione, ammassati fin dove il suo sguardo potesse vedere. Delle due statue all’ingresso della stanza, quella del guerriero era stata scaraventata a terra, sporca del sangue delle vittime. Axel avrebbe rivolto lo sguardo indietro ben volentieri, ma un particolare costrinse i suoi occhi a rimanere inchiodati a quel massacro.
Una figura era fuori posto, l’unico essere umano vivo in mezzo alla morte. I suoi occhi azzurri erano spalancati dall’orrore.
“Axel … che cosa sta succedendo qui?”
La voce rotta dal pianto fece capire al n. VIII che il Roxas in piedi davanti a lui non era affatto un’illusione delle Stanze della Memoria.
 
Non fu in grado di quantificare quanto tempo rimase in quella posizione. I suoi occhi vagavano da Roxas alla pila di corpi, poi di nuovo a lui per tornare sul corridoio e sulle finestre tinte di rosso da cui anche la luce faticava a passare. Si resse allo stipite, le gambe che avevano ripreso a cedergli. Sarebbe svenuto più che volentieri, ma con Roxas in mezzo a quel massacro non poteva concedersi quel lusso. Riprese abbastanza fiato da rispondergli, ma un’altra voce interruppe il suo pensiero.
“Non ricordo di aver invitato nessun altro”.
Il suo accompagnatore uscì dalla stanza, portandosi con un solo passo accanto a lui. “Come sei entrato?”
Il ragazzo, già chiaramente in preda al panico, si fece ancora più piccolo e si segnò la fronte.
Un paio di anni nel Castello dell’Oblio erano riusciti a impedirgli di nominare gli dèi ed i santi ad ogni singola affermazione, ma non certo a levargli quei gesti radicati nel profondo del suo piccolo animo religioso. E suddetto piccolo animo religioso, osservò Axel, stava per andare in crisi alla vista di quel carnaio. Il tono minaccioso della guida d’altro canto non migliorava la questione.
“I … io ero in cucina con Demyx. Stavamo lavando i piatti e poi … e poi … ti giuro, Axel, ero lì fino ad un secondo fa!”
“Roxas, tranquillo”
Il n. VIII si accorse che non vi era assolutamente nulla di rassicurante nella propria voce. “Adesso usciamo di qui”.
“Nessuno può entrare senza invito. A meno che … a meno che non sia stata lei a farti entrare”.
Axel aveva smesso di capirci anche la benché minima cosa. Oltre al fatto di trovarsi per magia dentro le famose Stanze della Memoria tutto sembrava sfuggirgli di mano: all’improvviso il lungo viaggio fatto meno di qualche minuto prima iniziò a sembrargli una traversata persino ragionevole.
L’uomo in armatura fece un altro passo in direzione del n. XIII “E, se ti ha convocato lei, direi di concludere subito la questione”.
Qualcosa di nero gli avvolse il braccio destro, una versione in miniatura dei portali oscuri del Castello. Gli corse dalla spalla alla mano, e l’attimo dopo il guerriero impugno l’arma più strana che Axel avesse mai visto in vita sua.
 
Narratore: “Detto da uno che usa dei chackram e che vive in un Castello insieme a gente che impugna claymore, asce giganti, sei lance e delle carte potete capire da voi quanto la cosa sia assurda”.
 
La cosa idiota era che sembrava la versione deforme e gigante di una chiave. L’impugnatura, di colore azzurro, cozzava con l’armatura di bronzo e l’asta dell’arma, anch’essa di un marrone che, alla poca luce del corridoio, assumeva delle tinte rossastre. Vi era qualcosa di ridicolo nella forma di quell’arma, a parte il fatto che l’estremità aveva tre intagli per lato chiaramente appuntiti e l’intero oggetto sembrava abbastanza pesante da fracassare il cranio di chiunque con un solo colpo. L’uomo la maneggiava con la stessa disinvoltura con cui Lexaeus scuoteva a terra la propria arma.
Roxas, a quella vista, mandò un grido e fece due passi indietro, ma per poco non inciampò nei cadaveri.
Axel capì di non avere molta scelta.
“Senti, già il fatto che mi hai portato in questa specie di cimitero non ti fa proprio rientrare nelle mie simpatie …” disse cercando di sembrare più deciso di quanto fosse in realtà “… ma se fai un altro passo verso di lui giuro che quell’armatura del cazzo te la faccio fondere addosso. Vedi tu”.
L’altro si fermò, probabilmente a ponderare. “La tua questione è risolta, Lea. Rimuovo questo parassita e ti conduco subito all’uscita”.
“Ho capito l’antifona”.
Il n. VIII sospirò, sapendo che le cose non avrebbero preso una buona piega. Roxas era del tutto incapace con qualsiasi arma: il Superiore riteneva che fosse ancora troppo giovane per manovrare spade, coltelli o affini –l’unica decisione sensata che Axel avesse mai sentito dalle labbra del n. I- e quindi il n. XIII, oltre a qualche esercizio di corse e flessioni per irrobustirsi, non aveva la più pallida idea di come gestire un nemico armato di tutto punto.
O, per essere più precisi, il capo aveva dato l’ordine tassativo che Roxas non andasse mai in missione da solo e che spettasse ai suoi compagni il compito di difenderlo.
Ma Axel lo avrebbe fatto lo stesso, ordini del Superiore o meno.
Una lingua di fuoco saettò proprio sui cadaveri, frapponendosi tra Roxas ed il suo assalitore. “Volevi conoscermi meglio? Vedi di non farmi incazzare … se ci tieni a non essere fatto arrosto!”
“Lo terrò a mente, non temere …”
Gli bastò un solo movimento del braccio.
L’arma emise un secondo bagliore, più intenso, che per un istante Axel attribuì al riflesso delle fiamme. Ma il bagliore aumentò, e quando il n. VIII sentì il richiamo della magia scatenato dal suo avversario riuscì a tenere saldo il muro di fuoco solo per un paio di secondi prima che la strana arma saettasse in mezzo alla barriera magica e la dissolvesse con un solo fendente in un’esplosione di scintille e corpi carbonizzati. Niente incantesimi di acqua o di vento, solo una forte, aggressiva magia primordiale.
Mulinò ancora la chiave gigante, e ad ogni fendente anche le scintille più piccole svanirono senza lasciare traccia; quando l’ultimo colpo impattò a terra della sua barriera di fuoco non rimase nemmeno un pugno di cenere volante. “ … ma, come ti ho detto, sei troppo debole”.
Prima che potesse di nuovo avvicinarsi al ragazzo, Axel si fece avanti. Non c’era un pelo del suo corpo che non gli gridasse di girare i tacchi e farsi da parte, ma aspettò che la chiave si muovesse in avanti per saettare nella sua direzione, intrecciandone gli intagli con uno dei suoi chackram; l’arma per poco non gli colpì le dita.
Il peso dell’avversario lo spiazzò.
Axel non si era mai considerato forte, ed il suo fisico minuto non lo aveva mai aiutato in qualsiasi occasione in cui fosse la forza bruta a primeggiare. Grazie agli insegnamenti di Xaldin era però diventato piuttosto bravo a deflettere un attacco particolarmente potente per sbilanciare l’avversario a proprio favore, ma quando provò a flettere l’arma contro la parete subì l’effetto opposto: un secondo lampo nero corse ancora sull’avambraccio nemico, e prima che Axel potesse allontanarsi da lì trovò la propria arma imbrigliata nell’altra.
La magia lo attraversò dalla punta delle dita, arrivando fino al cuore. Per il dolore perse la presa su entrambi i chackram, ma non ebbe nemmeno il tempo di abbassarsi per tentare di riprenderli: si chinò giusto in tempo per evitare che la chiave gli spaccasse di netto il cranio, però la sua spalla prese l’impatto. Cadde a faccia in giù, in mezzo ai cadaveri, proprio al fianco di Roxas: il ragazzo era paralizzato dal terrore, e poteva solo ringraziare che non fosse già svenuto.
Dove diamine è Saïx quando serve?
La magia oscura attraversò il loro avversario una terza volta, ricoprendogli quasi tutta l’armatura. Axel vide Roxas annaspare in cerca d’aria, reagendo alla presenza dell’elemento opposto al suo. Si obbligò a rimettersi in piedi, sentendo il dolore della ferita al cranio non ancora rimarginata unirsi a quello della spalla; richiamò i chackram a sé, ma gli sembravano pesanti come macigni.
Quando l’uomo misterioso si trovò a soli tre passi da lui creò una barriera di fiamme nei limiti delle proprie forze, eppure l’altro le superò con una sola falcata, entrando dritto nel suo spazio vitale con la chiave puntata contro il n. XIII.
Fu in quel momento che una luce accecante riempì di bianco tutto il suo campo visivo.
Impiegò diversi secondi a trovare il coraggio di riaprirli, e fu felice di notare che anche il suo avversario non si era mosso, inchiodato a terra davanti alla massa candida e luminosa che sfavillava proprio davanti a lui. Era una luce innaturale, fredda, screziata di minuscole scintille che vi volteggiavano intorno rendendolo incapace di accorgersi di qualsiasi altra cosa che non fosse quel bagliore. Ricordava i portali oscuri del Castello dell’Oblio, ma questo era candido come la neve, sebbene non fosse l’unica cosa fuori posto in quella stanza.
Nelle mani di Roxas, infatti, erano comparse due chiavi giganti. Una bianca, quasi striata d’argento, ed una nera come la notte.
Entrambe si riflettevano nello sguardo carico di terrore del ragazzo, che le impugnava con le braccia tese fino allo spasmo, chiaramente incapace di capire cosa stesse succedendo. Era pallido, sudato, e qualunque cosa stesse facendo stava velocemente prosciugando tutte le sue forze; era ovvio che quelle strane chiavi fossero responsabili dell’apertura del nuovo portale, ma Axel capì che non era il momento di dedicarsi ai dettagli tecnici.
Vide il loro avversario riprendersi dalla sorpresa: seppur con lentezza, l’uomo corazzato si rialzò. Il n. VIII era certo che, sotto quell’elmo, gli occhi puntati verso il portale fossero pieni di dubbio. O rabbia.
“Come al solito” mormorò “Intervieni sempre al momento sbagliato!”
A chiunque fosse rivolta questa affermazione, Axel non ne era poi così interessato. Vi era una sola cosa da fare, e chiaramente avrebbe dovuto occuparsene lui.
Il loro avversario scattò di nuovo con l’arma in pugno, dritto verso Roxas, ma Axel gli lanciò un chackram addosso. Non servì a molto, ma gli diede il tempo sufficiente di scattare in avanti ed afferrare il n. XIII, con quelle strane chiavi ancora saldamente inchiodate ai palmi, e scaraventarlo in avanti verso la via di fuga con tutta la forza che aveva in corpo. Non era certo di dove conducesse quel passaggio, ma aveva un buon presentimento.
Prima di tuffarsi a sua volta si girò verso colui che era stato la sua guida, immobile come se fosse bastata l’assenza di Roxas a placare del tutto la sua furia. Erano ancora nelle Stanze della Memoria, in mezzo a quella carneficina non più distinguibile, e per un attimo sentì dentro di sé quella strana angoscia che lo aveva attraversato, quel senso di oppressione che il corpo martoriato di quel bambino senza nome gli aveva lasciato dentro.
“Il crocevia ti sta aspettando, Lea”.
Nonostante il tono profondo, al mago di fuoco parve di sentire un filo di ironia in quelle parole. “Ti aspetto all’Invocazione Suprema”.
Prima che l’uomo potesse ripensarci, però, Axel si era già tuffato nel portale.
 
Ci fu un click.
Uno solo, ma abbastanza forte da entrargli nel cervello.
Lo stesso rumore di una chiave che gira nella toppa, o di una serratura che viene sigillata.
Il suono si impossessò delle orecchie di Axel non appena i suoi piedi trovarono il bianco e familiare pavimento del Castello dell’Oblio. Scivolò fuori dal corridoio di luce con l’unico pensiero di mettersi in salvo, e davanti a lui vi era Roxas, ancora con quelle chiavi sproporzionate in mano puntate proprio nella sua direzione.
Ad un nuovo, più potente scintillio delle armi, il portale si chiuse di scatto.
Axel si trovò a fissare di nuovo i battenti delle Stanze della Memoria dall’esterno, i Sigilli ripristinati come non fossero mai stati rimossi. La testa gli girava come dopo la peggiore delle sbornie, e ci mise qualche istante a mettere a fuoco le figure sbalordite che stavano fissando lui ed il suo amico.
Xigbar stava osservando Roxas più o meno come si avesse visto il Cavaliere del Drago in persona. Il n. VI era in un angolo, contorto come se qualcosa lo avesse appena colpito in pieno petto, ed accanto a lui il n. IV stava facendo correre velocemente lo sguardo dal ragazzo a Roxas.
Poi apparve il n. I e, non appena i suoi occhi gialli si poggiarono sulle chiavi, il Radigata impallidì come se avesse visto un fantasma.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Vexen (VII) ***


Capitolo 21 - Vexen (VII)





I Keyblade di Roxas





Un resoconto lacunoso e confuso da parte del numero VIII, e una singola parola in una lingua sconosciuta, sfuggita alle labbra esangui del Superiore alla vista delle armi misteriose del loro membro più giovane.
Keyblade.
Dati decisamente approssimativi per condurre una ricerca soddisfacente. Vexen stesso aveva colto solo un lampo fugace delle due chiavi giganti – perché quello era l’oggetto a cui somigliavano di più, non c’erano altri termini di paragone – prima che quelle svanissero letteralmente dalle mani del loro proprietario.
Posò il rotolo di pergamena sul tavolo e si massaggiò le tempie con la punta delle dita. Inutile tentare oltre la fortuna tra i tomi della Biblioteca. Le probabilità di trovare informazioni utili con dati di partenza così scarni avrebbero fatto sembrare la ricerca del proverbiale ago nel pagliaio un gioco da ragazzi. Tuttavia, non vi erano altri posti in cui cercare.
Aveva interrogato il Superiore, naturalmente, e il giovane Roxas. Il n. XIII pareva sconvolto e stupito quanto loro. Era la prima volta che “quelle cose” gli comparivano tra le mani, giurava e spergiurava. Il suo spavento era genuino, e il ragazzo aveva dimostrato infinite altre volte di essere del tutto incapace di mentire. Vexen gli aveva domandato più e più volte i dettagli precisi di quanto era accaduto nelle Stanze della Memoria, ma il n. XIII non ricordava, o forse aveva troppa paura di provare a farlo. Aveva dovuto somministrargli un calmante per aiutarlo ad addormentarsi quella notte.
Il Superiore era un’altra storia.
“Nei diari dei miei antenati ci sono menzioni a quelle armi” gli aveva rivelato, in privato. La sua voce era ridotta a un sussurro, quasi volesse eludere uno spauracchio in agguato tra le ombre. “Le chiamano Keyblade, e sono connesse alla catastrofe di tremila anni fa. Ma non so molto altro. La mia teoria, e il mio timore, è che potrebbero essere una delle cause della rovina che ha colpito il nostro mondo.”
Tipico del Superiore, formulare ipotesi sulla base di dati totalmente inesistenti. Probabilmente al primo accenno alla parola “arma” era corso a rintanarsi tremolando nelle sue stanze, a offrire preghiere ai suoi antenati e a battersi il petto.
Vexen aveva chiesto e – sorprendentemente – ottenuto il permesso di esaminare i diari a cui Xemnas si riferiva. Non si trattava degli originali di tremila anni prima, probabilmente sbriciolati dall’usura del tempo o ingoiati dal labirinto della Biblioteca, ma di trascrizioni parziali, vecchie di cinque o sei secoli, da parte di altri avi di Xemnas. Nulla di particolarmente utile a parte un’illustrazione sbiadita e qualche nota approssimativa che non faceva che confermare quanto già detto dal Superiore (a parte le sue teorie fantasiose sull’apocalisse causata da un esercito di chiavi giganti).
Continuò a rimuginare sulla questione lungo tutta la strada per il laboratorio. Forse un tè e qualche ora di riposo lo avrebbero aiutato a guardare il problema con più lucidità. Se solo fosse riuscito a convincere Xemnas che il modo migliore per capire cosa fosse successo alle Stanze della Memoria sarebbe stato esaminare le Stanze stesse…
Aveva a malapena riempito il bollitore d’acqua che il familiare fremito nell’aria annunciò l’aprirsi di un portale oscuro nel bel mezzo del laboratorio. Con un certo disappunto constatò che non si trattava di Zexion di ritorno dalla sua missione con Xaldin.
“Emergenza! N. IV, deve venire subito!”
Aveva afferrato la borsa con gli strumenti medici ancora prima che l’agitato n. IX finisse la frase. Come unico medico del Castello dell’Oblio era fin troppo abituato a chiamate del genere. Il tè avrebbe dovuto aspettare.
“Che è successo?” domandò con un piede già nel portale.
“È Marluxia! Deve aver avuto un infarto!”
“Lascia le diagnosi a chi è competente in materia, n. IX.”
“Ma si è accasciato all’improvviso mentre gli portavo da mangiare e… “
I filamenti di tenebra si diradarono rivelando una fila di sbarre verticali, bianche come il resto del Castello. Dietro di esse si intravedeva un letto improvvisato su cui era adagiata una figura scura, le mani premute sul petto. Respirava in modo affannoso, con rantoli sordi che sovrastarono persino il cigolio del cancello che la n. XII aprì rapidamente per consentirgli di entrare nella cella.
“È successo neanche due minuti fa. Io e Demyx gli avevamo appena lasciato il vassoio del pranzo.”
Vexen non avanzò subito verso il letto. Al suo sguardo esperto non erano sfuggiti alcun segnali decisamente preoccupanti.
Ma non per la salute del paziente.
Il viso del n. XI era contorto dal dolore, gli occhi serrati, ma il colorito della sua carnagione si presentava roseo e sano, senza neanche una goccia di sudore a imperlargli la fronte. Senza contare il tempismo di sentirsi male proprio nei cinque minuti in cui qualcuno lo visitava per portargli il cibo.
O esattamente quando Zexion si trovava in missione lontano dal Castello dell’Oblio.
“Che razza di… “
In quel momento gli occhi di Marluxia si spalancarono. Occhi lucidi e vigili, non le pupille dilatate o arrossate di un malato. Cessò per un attimo di ansimare, e le sue labbra composero poche semplici, silenziose parole.
Devo parlarle. Per favore.
“N. IX, se vuoi puoi andare” stava dicendo intanto Larxen. “Penso io a proteggere il n. IV se questo traditore dovesse tentare brutti scherzi!”
Vexen prese una decisione all’istante.
 
Narratore: “Una decisione di merda, se posso dire la mia.”
 
“Demyx, informa il Superiore che Marluxia non dovrebbe essere in pericolo di vita. Farò un rapporto più preciso non appena conclusa la visita. Pregherei di non essere disturbato mentre lavoro, però.”
“Agli ordini, n. IV!”
I muscoli del n. XI si rilassarono non appena le spire del portale furono scomparse. Il suo respiro tornò regolare, e lentamente Marluxia si mise a sedere sul letto. Larxen scoccò a entrambi un sorrisetto divertito e andò a posizionarsi qualche metro fuori l’entrata della cella, dove il solito scalone bianco collegava il sotterraneo con i piani più alti.
Un silenzio incerto si trascinò per qualche istante nella cella bianca.
“Le chiedo scusa per l’abominevole pantomima, n. IV.”
“Dovresti rivedere le tue capacità drammaturgiche, n. XI.”
“Non avrei mai sognato di ingannare un occhio chirurgico come il suo. La messinscena era a uso e consumo di un sempliciotto come Demyx. Tutto ciò che chiedo è un’occasione per scambiare due parole con lei in privato. Se vorrà consentirmelo.”
Un fruscio della tunica e Marluxia era in piedi, percorrendo lentamente i pochi metri della cella da un lato all’altro. Aveva un modo posato e sicuro di occupare lo spazio, come un padrone di casa che lo stesse invitando ad accomodarsi in uno dei tanti saloni del suo castello.
“Mi dispiace di non poterle offrire nulla. Un buon calice di vino dorato dell’Arbor sarebbe il compagno ideale per una conversazione come questa.”
“Dimmi solo cosa vuoi.”
Vexen serrò le labbra, riducendole a una linea sottile. Si rimproverò mentalmente per essersi mostrato nervoso di fronte a quel traditore. La verità era che il Superiore o chiunque altro sarebbe potuto apparire improvvisamente per verificare le condizioni del n. XI. Marluxia colse il suo sguardo dardeggiare sospettoso oltre le sbarre bianche, e si affrettò a rassicurarlo.
“Può fidarsi di Larxen. Non dirà una parola di questo incontro.”
Nell’atrio, la n. XII ondeggiò una mano in segno di saluto e fece una linguaccia.
“La domanda è: posso fidarmi di te?”
“Sta pensando che avrebbe già dovuto denunciarmi al Superiore. Lo capisco. E non muoverò un dito per impedirle di farlo, se riterrà la mia offerta non vantaggiosa. Credo di comprendere perché ha deciso di assecondare la mia messinscena: lei è una persona curiosa. Una persona che non ha paura di guardare in faccia la verità.”
“E quale sarebbe questa verità, sentiamo?”
“Che l’Organizzazione si sta condannando da sola all’autodistruzione. Che avrebbe i mezzi per salvare il mondo, per costruirne uno migliore addirittura, e non li usa. Che taglia le ali a chi vorrebbe elevarsi al posto che merita e che gli spetta, e che si rinchiude in una tana fangosa ad aspettare la fine invece di combattere per un futuro radioso.” Sorrise, gli occhi scintillanti che cercavano comprensione, complicità. “So che lei la pensa come me, n. IV. Ma non siamo gli unici. E sicuramente meritiamo di più della vita grigia che il Superiore vorrebbe imporci.”
La retorica di Marluxia era calorosa, la sua voce capace di materializzare, nel suo timbro fermo, visioni promettenti di speranza, vittoria e rivalsa. Ma rimanevano visioni. Parole eleganti e profumate come i petali che spargeva la sua falce. Vexen, invece, aveva sempre preferito la lingua ordinata e inoppugnabile dei dati.
“Stai semplicemente ripetendo ciò che dico da una vita, come tutti in questa Organizzazione sanno. Ma non ho ancora sentito alcuna proposta.”
Marluxia sorrise. “Dritto al punto. È questo che ammiro di lei. Sin da quando ha proposto di combattere i demoni in quella fatidica riunione. Eravamo a un soffio dal cambiare le cose.”
La mano del n. XI si protese verso l’aria, le dita flesse, gli occhi blu concentrati su un obiettivo che soltanto lui poteva vedere.
“Abbiamo lottato, e abbiamo perso. Smuovere il Superiore dalle sue posizioni è come cercare di raccogliere l’acqua con le mani. E pensando a questo, mi chiedevo… come farebbe un alchimista?”
Vexen sbatté le palpebre: “Come farebbe in che senso?”
“A raccogliere l’acqua con le mani.”
“La trasformerebbe in ghiaccio.” Non c’era neanche bisogno di pensarci su. Ciò che non riusciva a comprendere era dove volesse arrivare il n. XI con le sue traballanti metafore alchemiche.
Di nuovo un sorriso, un lampo cospiratore negli occhi blu. “Una risposta che apprezzo molto. Un alchimista, una persona superiore, non si sottomette ai capricci della materia, ma la piega alla propria volontà. Credo che lei a questo punto abbia capito la natura della mia proposta. Glielo leggo negli occhi.”
Vexen si accorse solo in quel momento che il n. XI aveva interrotto da un pezzo il suo casuale passeggiare da un lato all’altro della cella. Era immobile di fronte a lui adesso, e sembrava intento a scrutare nella sua espressione risposte che ancora non si erano rivelate neppure alla mente di Vexen. Fu come riscuotersi da un torpore.
“Già. Cos’altro potevo aspettarmi da uno che ha massacrato a sangue freddo una ragazzina?” ribatté in tono secco.
Per la prima volta gli parve di intravedere qualcosa di diverso nello sguardo del suo interlocutore. Un bagliore duro, forse un sussulto di orgoglio rabbioso. Durò lo spazio di un istante. Quando tornò a parlare, la sua voce aveva la consistenza del velluto.
“Non cercherò di giustificare le mie azioni. Ritengo di averlo già fatto a sufficienza. Ma le domando solo una cosa: se qualcuno facesse del male al n. VI, lei riuscirebbe a perdonarlo?”
Sapeva colpire nei punti giusti. Ma non aveva torto. La famiglia del n. XI era stata sterminata, tutto ciò che aveva di caro gli era stato strappato via da un giorno all’altro. Unirsi all’Organizzazione era stata una decisione dettata più dalla necessità di salvarsi la vita che una vera scelta. E, come tutti loro, si era ritrovato prigioniero di un despota che li aveva reclusi in una dimensione sterile ad appassire lentamente di inerzia e abbandono. Nessuna meraviglia che nel suo cuore ribollisse una rabbia capace di far tremare i Sigilli delle Stanze della Memoria.
Vexen provava lo stesso sentimento.
“Non lo nasconda a se stesso. Io e lei siamo più simili di quello che potrebbe immaginare. È per questo che ho bisogno del suo aiuto.”
Adesso era lo scienziato a sentire l’urgenza di camminare su e giù. Era un gesto che lo aiutava sempre a concentrarsi, come se mettere in moto le gambe contribuisse a rendere più veloci anche gli ingranaggi della mente.
Marluxia gli lasciò il tempo necessario. Aveva comunicato il suo messaggio, non gli restava altro da aggiungere. Eppure, anche mentre gli voltava le spalle, continuava a sentire il suo sguardo trapassarlo da parte a parte come una punta di diamante.
Poteva denunciarlo al Superiore e farla subito finita. Non sapeva che sorte avrebbe riservato il n. I a un membro che lo aveva tradito due volte, ma non era questo a importargli.
“Scegliere significa rinunciare per sempre a una delle due possibilità.”
Non voluta, gli tornò alla mente una delle frasi preferite di suo padre. La citava spesso per riferirsi ai rischi che correva ogni giorno con le sue decisioni commerciali. L’aveva usata molte volte per mettere in guardia il figlio dalla via che aveva scelto di imboccare nel suo futuro.
“Io non sto rinunciando a qualcosa. Sto cercando di allargare lo spettro delle mie possibilità.”
Ricordò il primo incontro con il Superiore. Non sapeva se potesse fidarsi del tutto di quel Radigata strampalato, ma rifiutare la sua offerta in tronco gli avrebbe chiuso definitivamente una porta davanti, senza neanche lasciargli il tempo di sbirciare all’interno per verificare se il contenuto valesse davvero qualcosa.
Si accorse di avere molto caldo, e istintivamente si passò una mano tra i capelli.
Un alchimista non si sottomette ai capricci della materia, ma la piega alla propria volontà.
Prese un respiro profondo, e si voltò a fronteggiare Marluxia.
“Si può discutere. Ma ho delle condizioni.”
Stavolta, il n. XI non si sforzò di nascondere il proprio compiacimento.
“Eccellente. Sono sicuro che sapremo arrivare a un accordo da persone ragionevoli.”
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Zexion (II) ***


Capitolo 22 - Zexion (II)





La costellazione dell'Acquario





Narratore: “No. No, no, no, no … ditemi che non è ciò che penso!”
Registe: “Purtroppo sì, Narratore. Fattene una ragione”
Narratore: “Ma io non posso farcela. Ho il diabete, sapete? Tutto questo zucchero in arrivo nuocerà alla mia già precaria situazione di salute e …”
Registe: ……*occhiataccia* …….
Narratore: “Ho capito, ho capito. Ma alle ultime scene riderò io, sappiatelo! Oh, come riderò. Mi prenderò la mia vendetta!”
 

La prima volta che si erano fermati ad osservare le stelle aveva avuto otto anni. Era una notte estiva, tersa, e l’avevano scelta con cura. Le poche carte astronomiche del Castello erano del tutto imprecise, con disegni di animali tracciati nel firmamento senza alcuna corrispondenza con la realtà, ed avevano deciso che ne avrebbero redatta una soltanto loro due.
Zexion ricordava perfettamente l’emozione di quella sera, il suo “voglio contare stelle” che senza dubbio aveva svegliato tutti gli abitanti del Castello. Aveva trascorso i cinque giorni precedenti carico di frenesia, inghiottendo i pochi trattati di astronomia rinvenuti nella biblioteca pur di non farsi trovare impreparato davanti a quella che si prospettava la lezione più straordinaria di tutte. Per sicurezza aveva imparato a memoria le stelle di tutte le costellazioni maggiori, la loro posizione ed anche il giusto periodo dell’anno; sapeva che l’Acquario sarebbe stato presente quella sera ed era determinato a trovarlo subito, certo di poter strappare al suo mentore uno sguardo di approvazione.
E lo aveva ottenuto.
Poi avevano parlato. Di tutto, come facevano sempre.
Aveva trascorso la notte intera ascoltando cose favolose, di come potessero esistere cose chiamate “buchi neri” in grado di inghiottire mondi interi e forse far tornare indietro il tempo. Aveva appreso cosa fossero davvero le stelle, come potessero nascere e morire.
Si era tuffato nel profumo del suo mentore, carico di tutto lo smisurato amore per il sapere che ai suoi occhi lo rendeva il più intrepido degli eroi.
Quella sera, però, le parole tardavano ad arrivare.
Zexion si era accorto del cambiamento in suo zio nel preciso istante in cui era tornato al Castello.
Lo aveva trovato lì, sulla torre ovest, dove quella ed altre volte ancora erano saliti per osservare il cielo, qualche volta con un rudimentale telescopio ma molto più spesso solo aiutandosi con i propri occhi. Il cielo di quel mondo senza nome aveva stelle ben diverse da quelle che avevano imparato a conoscere, e adesso disegnava uno sfondo nero alle spalle dell’uomo.
Si guardarono, ma per Zexion era una convenzione trascurabile.
L’odore della persona di fronte a lui lo preoccupava.
“Lo sai di cosa devo parlarti, vero?”
Quando parlava con lui, la voce di suo zio perdeva il tono glaciale che assumeva spesso con gli altri. Eppure, in quel momento, il ragazzo percepì le difese alzate. “Purtroppo sì”.
Si rese conto che avrebbe dovuto scegliere le parole con cura.
“Non farlo, zio. Te ne supplico. Lo so che odi questo posto, che non sopporti il Superiore, ma …”
Non sopportarlo è un eufemismo, Zexion. Quel pazzo ci ha rinchiusi qui dentro!”
“E ti sembra un buon motivo per … per …” sospirò, trovando disgustosa anche solo l’idea di pronunciare quella parola “… per ucciderli?”
Vi era rabbia nel suo profumo. Una furia che sporcava l’odore alla vaniglia che adorava così tanto.
Sotto di lui, a diversi piani di distanza, anche l’odore di rosa del n. XI si espandeva, invadendo ogni cosa con il suo aroma dolciastro.
Zexion capì.
Marluxia aveva aspettato con pazienza che lui fosse lontano per parlare con suo zio. Per incendiare i suoi pensieri più profondi senza alcun timore che lui potesse scoprirlo. E adesso, con il mosaico davanti, il ragazzo si rese conto che se fosse corso dal Superiore a raccontargli tutto avrebbe condannato Vexen per sempre. Il n. XI aveva lasciato a suo zio il compito di fronteggiarlo, privandoli di qualsiasi scelta.
Il principe era riuscito a legare le mani di entrambi, e lui era stato così stupido da non aver pensato ad una simile possibilità. Gli venne voglia di piangere, ma doveva recuperare l’uomo che aveva di fronte, la persona con cui aveva contato le stelle per tantissimi anni.
Per la prima volta si accorse di dover lottare per lui. “Tu non sei un assassino. E sai meglio di me che il n. XI ti sta usando”.
“Sono semplicemente al capolinea, Zexion. Non intendo abbandonare né le mie ricerche né te. Ma non posso rimanere a marcire nel mausoleo personale del Superiore, e lo sai. Potremmo cambiare il mondo”.
La sua voce divenne un sussurro. “Non soffriranno, vedrai. Devo solo finire di mettere a punto un veleno abbastanza efficace per Saïx, per gli altri non vi è alcuna difficoltà. Per Demyx e Luxord … non intendo fare nulla di male, e anche il n. VIII è d’accordo con me. Una volta eliminati gli altri basterà spaventarli un po’ e torneranno nel nostro mondo senza farsi più rivedere. Limiterò lo spargimento di sangue al minimo e …”
“E sinceramente credi che accetterò una cosa simile?”
Rimase ad ascoltare il silenzio e gli aromi che si diffusero nella terrazza non appena pronunciò quelle parole. Si accorse del tono aspro della propria voce solo qualche istante dopo, ma non se ne curò.
L’odore di suo zio si mosse, come colpito da una frusta. Non sarebbero nemmeno stati necessari i suoi poteri per capire dove fosse la crepa nei pensieri dell’altro. Quale fosse l’unico argine che ancora combatteva contro il violento dilagare dei desideri che il n. XI aveva risvegliato, il solo pensiero che aveva fermato la mente di suo zio per tutti quegli anni.
L’amore indiscusso nei suoi confronti era ancora lì, arroccato nel cuore dello scienziato che tutti credevano fosse fatto solo di ghiaccio. Nessuno aveva mai provato nulla di simile per lui, nemmeno il Superiore.
Avrebbe dovuto aggrapparsi a quell’argine ancora una volta. “Credi sul serio che tutto potrà tornare come prima? Tra di noi? Quando li sentirò morire per mano tua? Anche loro sono la mia famiglia!”
“Non siamo una famiglia, Zexion. Siamo solo tredici persone che vivono insieme agli ordini di un pazzo. Lo so che non hai mai ...”
“… avuto una vera famiglia? No, forse hai ragione, non ho idea di come sia fatta!” lo interruppe, facendo un primo passo verso di lui.
L’uomo e il bambino che contavano le stelle erano lì, anche quella notte. Avevano superato il migliaio già da molto tempo, perdendo il conto più di una volta e ricominciando dall’inizio. Sotto la luna si erano fermati per ricopiare i progressi su una pergamena e le loro capacità di disegno a mano libera erano così stentate che sarebbero potuti sembrare dei ghirigori di uno Xigbar ubriaco. Il bambino si era riproposto di farsi aiutare dal Superiore e l’uomo aveva protestato così forte che si era messo d’impegno, gomma e matita, disegnando per tutta la notte pur di non chiedere l’aiuto di nessuno. Perché non avrebbe mai concesso a nessuno di sottrargli quel bellissimo momento, dove entrambi sorridevano sotto le stelle senza alcuna preoccupazione al mondo. “Ma non mi serve. Mi basti tu”.
Mormorò, trasformando la propria voce in un soffio. “Mi bastate voi”.
Colmò la distanza tra di loro, e lo abbracciò.
L’argine resse, più forte di prima.
Avevano sempre comunicato così, più che con le parole. E in quella piccola stretta, appoggiato contro la sua tunica scura, il ragazzo mise tutto se stesso. Tutto il rispetto che portava per il Superiore e la sicurezza che gli davano Xigbar, Xaldin e Lexaeus quando si parlava della guerra contro i demoni. La paura che portava per Saïx, ma anche la profonda ammirazione che aveva provato nel suo desiderio di offrire la vita per loro. La simpatia per Demyx, Luxord e Roxas, che erano così semplici da non temere il suo potere e che riuscivano a farlo sorridere con i loro modi impacciati.
Gridò di loro, e di lui. Di lui che era il centro del suo mondo, e della paura di perderlo.
Di non riconoscere nel suo viso l’assassino che sarebbe potuto diventare, ma anche il suo desiderio di vederlo felice, di poter appagare la sua sete inesauribile di sapere e libertà. Si diede dell’egoista, sapendo cosa avrebbe innescato quell’abbraccio, ma non lo avrebbe perso. Non per le ambizioni di qualcun altro.
Non disse nulla, ed attese.
Attese finché le sue mani lo avvolsero, ricambiando l’abbraccio. “Va bene, Zexion. Va bene”.
Non erano parole vuote, e lo capì.
Lo zio che amava aveva solo avuto bisogno di una spinta.
“Ma qualcosa faremo, e su quello sai che sono deciso”.
Il cuore di Zexion si strinse, ma non vi era bisogno del suo potere per capire che l’uomo era arrivato alla fine; non se ne sarebbe andato da lì, ed il suo desiderio di conoscenza non si era mai sopito nemmeno per un istante. Sentì il piano prendere forma nella sua mente non appena la loro stretta si allentò. “Per bloccare Marluxia in quella cella è bastato un siero. Niente teletrasporto, niente legame con il Castello. Potremmo addormentarli tutti, iniettare il siero con calma e …”
“… e teleportarli altrove?” concluse il ragazzo. “Però non in un posto pericoloso”.
“Ovviamente. Per quel che mi riguarda posso lasciare al Superiore tutti i soldi della sua famiglia. Dopo di che … faranno quello che vogliono. Ma lontani dal Castello”.
Per un veloce, indescrivibile istante qualcosa nel Castello cambiò. Fu un odore impercettibile, come un sottile alito di vento in una stanza di aria stagnante, ma Zexion se ne accorse. Qualunque creatura vivesse lì dentro, qualunque cosa fosse davvero il loro Castello … si era mosso. Stava reagendo a suo zio, proprio come aveva fatto quando le azioni del n. XI avevano scardinato i Sigilli delle Stanze della Memoria. E, se ne accorse con orrore, non sapeva se si trattasse di qualcosa di positivo.
“Zexion?”
Si riprese. Vi era un ultimo ostacolo.
Quello che aveva sempre cercato di scansare da quando il loro dialogo era iniziato.
Suo zio aveva fatto un passo verso di lui, e era cosciente di quanto gli fosse costato e di quanto avesse dovuto chiedergli.
Adesso, purtroppo, era il suo turno.
“Proporrò questa idea a Marluxia. Non credo che né lui né il n. VIII avranno grandi problemi ad accettarlo, tutti quanti vogliono soltanto liberarsi del Superiore nella maniera più sbrigativa possibile. Ma … se accettassero …”
Il suo tono si abbassò, trasformandosi nello zero assoluto. “Ho bisogno che tu mi prometta che non dirai nulla al Superiore. Non mi servono i tuoi poteri per sapere che disapprovi tutto questo, ma voglio la tua parola che non cercherai di ostacolarmi”.
Un patto.
Un patto tra pari.
Una cosa che suo zio non gli aveva mai chiesto.
La fiducia del n. IV era una lastra di ghiaccio; per la prima volta Zexion si accorse di quanto fosse fragile, e di quanto spesso si fosse addentrato su quel terreno senza paura di sprofondare. Un passo avanti per un altro passo avanti, un pensiero alchemico.
Uno scambio equivalente.
Sospirò, con un brutto presentimento nel cuore. “Hai la mia parola, zio. Se non ucciderete nessuno di loro … lo accetterò”.
Tutto si placò, come il mare dopo una violenta tempesta. Lo sentì nella rete di odori che avvolgevano suo zio, minuscoli fili che lo univano al Castello, al n. XI ed al Superiore.
Guardò in un angolo della torre, dove gli parve di vedere di nuovo l’uomo ed il bambino, sospinti fin nel cuore della notte, il primo addormentato contro il balcone con il secondo sotto il suo braccio. Avevano sbagliato il conto per l’ennesima volta, ed il sonno li aveva presi entrambi sparpagliando carte e matite per tutto l’enorme terrazzo. La costellazione dell’Acquario era stata l’ultima a svanire, proteggendoli finché non erano comparsi i primi raggi del sole.
Erano ancora lì, e non se ne sarebbero mai andati.
Per un istante gli parve che anche suo zio stesse fissando quel punto, cercando di riacciuffare quel ricordo perduto. “Sai una cosa? Quando il n. XI mi ha chiesto di unirmi alla sua rivolta ho posto un’unica condizione”.
“Che nessuno mi facesse del male?”
Gli occhi verdi lo fissarono, in un gioco misto tra irritazione e divertimento. “Dimentico sempre che non ti si può proprio nascondere nulla …”
“Non dare sempre la colpa ai miei poteri, zio …”
Rimase vicino a lui, stavolta afferrandogli uno dei ciuffi “… sei tu che sei piuttosto prevedibile”.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Zexion (III) ***


Capitolo 23 - Zexion (III)





Larxen e Marluxia





“Cielo, Marly, non ne posso più! Mi sto annoiando!”
“Calmati, Larxen. Le grandi vittorie non si ottengono in una sola giornata” fu la risposta. Secca, concisa, ma con quel tono accondiscendente che mise subito la ragazza in miglior disposizione d’animo. “Finché il n. IV non metterà a punto un sonnifero in grado di addormentare il licantropo dobbiamo solo avere pazienza”.
Lo stomaco di Zexion si strinse come in una morsa, ma serrò le labbra e rimase al suo posto.
L’odore del n. XI era qualcosa di orribile.
Il profumo di rosa, persino quello non gli era mai piaciuto; sin dal momento in cui il principe si era unito all’Organizzazione aveva trovato quell’aroma dolciastro fastidioso, come un manto di fiori pronto a coprire un terreno sporco. Quando lo aveva fronteggiato, subito dopo il massacro dei suoi antichi avversari, aveva sentito le rose sbocciare in maniera ordinata e forte, le radici intrise di vendetta.
In quel momento, invece …
“Ma che noia, il sonnifero! Già il piano del veleno era triste di suo, ma addormentarli senza nemmeno tagliare loro la gola … Marly, non era nei piani! E non è divertente. Mi avevi promesso almeno una carneficina!”
Lo avvertì di nuovo.
Strisciante, curioso.
Il Castello era lì, vivo come non lo era mai stato. E sembrava avvolgersi intorno alla mente del n. XI come un roseto selvatico. Si strinse ancora più nell’ombra del suo rifugio, trattenendosi dal rimettere tutto. Rimase immobile, premuto contro l’angolo della parete adiacente alla cella, un punto invisibile dietro la statua benedicente di chissà quale avo del Superiore. Un solo movimento, un piccolo scintillio dei pendenti della tunica e l’occhio della n. XII lo avrebbe scoperto, ma non aveva altre possibilità.
Doveva sapere.
Aveva promesso, ma nella sua testa il mosaico stentava a prendere una forma.
Larxen si alzò in piedi, di fronte alle sbarre, e si stiracchiò. Parlava ad alta voce, sicura che nessuno sarebbe passato lì sotto nemmeno per errore “E poi non ti riconosco più, Marly! Che quel vecchio cagasotto di Vexen abbia scelto il sonnifero … potrei anche accettarlo, tanto a quello le palle si sono ammuffite centinaia di anni fa. E che Axel lo abbia appoggiato … figurati, quel roscio fa tanto il duro ma è solo un povero vigliacco che se la fa sotto appena il n. VII abbaia. Ma tu?”
Con un movimento di anche si avvicinò alla cella, incrociando le braccia a mostrare disappunto “Perché hai accettato la proposta di quel vecchio senza nemmeno protestare? Che c’è, qualche giorno in cella e ti sei già rammollito?”
“Come sempre dovresti guardare un po’ più in profondità, mia cara. E soprattutto alle migliaia di possibilità che ci si apriranno davanti” rispose. “Per questa parte del piano Vexen è indispensabile. Che si tratti di un veleno o di un sonnifero, la realizzazione passa per le sue mani. Sai meglio di me che affrontare il resto dell’Organizzazione in uno scontro diretto sia una follia, quindi per ora dovremo rispettare qualsiasi condizione posta dal n. IV”.
L’odore di Larxen … era particolare, e pericoloso. Gli ricordava le albicocche, quei frutti che ogni tanto Demyx portava dalla Terra I. Era un odore mutevole, incostante, diverso da quelli a cui era sempre stato abituato. Era come un muro bianco chiazzato di emozioni, dove una sopravanzava l’altra con incredibile facilità.
Il Castello le danzava intorno, ma non sembrava sedotto dalla sua mente.
Nonostante fosse nell’ombra non ebbe bisogno di sporgersi per immaginare il sorriso della ragazza quando rispose al n. XI “ …per ora …"  
“Infatti. Per ora”.
Da dietro il suo nascondiglio, Zexion si stupì non aver emesso nemmeno un suono.
Tutto il Castello si mosse, vorticando intorno alle parole del principe. Gli sembrava impossibile che nessuno, lì dentro, fosse in grado di percepire un movimento simile, una traccia della magia, un qualcosa che permettesse di percepire il luogo stesso in cui vivevano da anni muoversi, svegliarsi, bloccato dai Sigilli ma avido di qualcosa che albergava nel cuore del n. XI e sporcava quello di tutti coloro che lo circondavano. Era un vortice di un odore forte, violento, che si insinuò nel suo corpo facendogli stridere la spina dorsale. Si resse alla statua per non cadere.
Era un flusso, e lui vi era dentro.
Era un flusso che nessuno poteva vedere, e rimanevano immobili mentre la marea li travolgeva.
“L’idea di addormentarli potrebbe avere i suoi vantaggi, mia cara. Senza dubbio li priveremo dei poteri, giusto?” mormorò “Non trovi che sarebbe più divertente aspettare qualche giorno e poi … finire il lavoro con tutta calma? Il nostro benamato n. IV si chiuderà nel suo laboratorio e non si accorgerà di nulla”.
Se avesse potuto, Zexion avrebbe pianto.
Quando suo zio era rientrato nel laboratorio, dicendo che Marluxia aveva accettato la proposta, aveva percepito che qualcosa non stesse andando nel verso giusto; non un odore particolare, ma anche a diversi piani di distanza il profumo dolciastro del n. XI seguiva un flusso difficile da leggere.
Era sceso lì sotto per avere conferme, e conferme erano arrivate. L’intero Castello gli parve permeare il seminterrato, quasi in ascolto delle parole del prigioniero.
E, se ne accorse dopo qualche istante, era d’accordo con il piano del n. XI.
Incapace di percepire ancora quella presenza un istante di più, scosse la mano ed aprì un portale di teletrasporto.
Vi era una sola cosa da fare.
 
 


La pendola alla sua destra batteva il tempo in maniera leggermente irregolare. Il suo proprietario l’aveva sempre trovata affascinante proprio per questa sua piccola imperfezione, ed ogni volta che Zexion era entrato in quello studio aveva trovato quel suono scoordinato piuttosto irritante.
Gli oggetti non avevano emozioni, ed i loro odori erano sempre gli stessi; la cassa della pendola, ad esempio, era di un mogano scuro dal profumo labile, quasi evanescente. Tra le tante tracce che impregnavano quella stanza non spiccava certo per intensità ma, unito al battito irregolare, sembrava uno spettatore in attesa di proferire qualcosa, un suggeritore improvvisato a cui il ragazzo si ritrovò più volte a gettare lo sguardo.
Fosse stato anche l’unico modo per non incrociare le iridi con l’uomo che aveva di fronte.
“Quello che mi stai dicendo è grave, ragazzo mio”.
“Altrimenti non sarei qui”.
A più di tre piani di distanza il profumo di suo zio era in movimento, attivo ma tranquillo. L’odore della promessa che si erano scambiati gli era rimasta appiccicata persino nei vestiti, come a ricordargli per la millesima volta cosa stava mettendo in gioco.
Cosa poteva realmente perdere.
“Mi avevi avvisato che il Castello stesse reagendo alle sensazioni del n. XI, ma non credevo che l’odio di mio figlio potesse spingersi fino a questo punto. Posso comprendere il disagio per questa situazione, ma addirittura …”
Zexion fissò la pendola, sperando che la sua flebile presenza potesse anche solo attenuare il dolore in arrivo.
Inutilmente.
La sofferenza del Superiore fu subito sua, e lo prese al centro del petto come se volesse afferrargli la trachea e stringerla fino a farlo soffocare. Un secondo odore, forte come un colpo tra le vertebre, lo attraversò insieme a tutta la rabbia del n. II. Xigbar, in piedi davanti alla porta, esplose in una bestemmia e fu sul punto di dire qualcosa, ma un gesto del loro capo fermò il suo slancio oratorio.
“Zexion, hai corso un grave rischio. Quei due traditori conoscono alla perfezione il tuo dono, se hanno osato tramare una cosa del genere pur sapendo di ciò che sei capace …”
“Lo sanno benissimo, Superiore. Ma non è me che tengono con le mani legate”.
Silenzio.
Immediato, freddo. Persino i rintocchi della pendola attesero qualche istante.
Avrebbe avuto solo una possibilità.
“Le ho parlato di un veleno, n. I. O un sonnifero, questo ancora non lo hanno deciso. Non pensano di certo di sconfiggere tutti noi in uno scontro diretto -disse, sentendo la presenza degli altri due danzargli intorno come falene vicino ad una candela- Senza i suoi poteri il n. XI non è in grado di creare nulla del genere. Dove immagina che cercheranno di procurarselo?”
“Larxen potrebbe andare a prenderlo in un qualsiasi altro mondo?” suggerì Xigbar.
“No, figlio mio. Troppo complesso. La nostra n. XII potrebbe prendere qualcosa di sbagliato, non è il tipo di missione per lei…”
Zexion deglutì.
Doveva arrivare al proprio obiettivo, e non poteva sbagliare nemmeno un passo.
Non quando si parlava del Superiore. “O almeno … non quando vi è qualcuno a portata di mano in grado di farlo per loro. Con la massima precisione”.
Sarebbe stato sciocco negare al resto dell’Organizzazione l’adesione di suo zio al complotto. Vi aveva pensato almeno mille volte prima di bussare ai quartieri privati del Superiore, alla ricerca di una via d’uscita che gli permettesse di tirare fuori di lì l’uomo che amava più di qualsiasi altra cosa al mondo. La persona a cui aveva promesso un silenzio inammissibile.
Xemnas avrebbe impiegato una manciata di minuti a comprendere che Marluxia e Larxen non avevano le possibilità di realizzare un simile piano da soli. E, anche se fosse stato un perfetto idiota, quei due maledetti avrebbero senza dubbio fatto il nome di suo zio al minimo segnale di pericolo.
Poteva fare solo una mossa.
“Superiore, lei sa benissimo che mio zio non farebbe mai una cosa simile. Insomma, non è un mistero che non sopporti Marluxia, specie dopo quello che ha commesso, e con Larxen … chiunque potrebbe confermare che i loro rapporti non sono mai stati molto idillici. Non ha mai ucciso nessuno, nemmeno prima di entrare nell’Organizzazione. Non collaborerebbe con loro di sua spontanea volontà, a meno che …”
Si fermò, alla ricerca del proprio coraggio.
Alla ricerca di un modo di rendere silenzioso il cuore che gli stava martellando nel petto, premendo fino alla base della gola.
“… a meno che non debba proteggere l’unica persona che gli stia a cuore” mormorò, stavolta quasi in un sussurro. Per la prima volta nella sua vita fu grato di non poter percepire il proprio odore. E quello della menzogna che gli stava serpeggiando tra i denti “Larxen, su ordine di Marluxia, ha minacciato mio zio. Credevano che non fossi lì, ma ho ascoltato tutta la loro conversazione. Gli ha detto che la sua collaborazione al complotto sarà l’unico modo possibile per evitarmi incidenti durante le missioni. O nel Castello. O in qualsiasi altra situazione”.
Persino il familiare odore di legno vecchio della pendola sembrava sparito da quella stanza.
Zexion riprese a parlare, sempre più spaventato dal silenzio dello studio e dal rumore infernale del proprio cuore fin dentro lo stomaco. “Posso solo dirle, Superiore, che in effetti la presenza della n. XII è diventata più pungente e viva intorno alla mia persona. So che potrei aprire un portale e rischiare di trovarmela all’uscita, ma ho ritenuto opportuno correre il rischio e venire qui. Sospetto che mio zio stia cercando di prendere tempo, ma lei lo conosce meglio di me, n. I … e sa bene che farà qualsiasi cosa per evitarmi anche solo un pericolo”.
Le lacrime scesero senza volerlo.
Non erano parte della bugia, né di qualsivoglia piano per convincere il Superiore. Forse stavano semplicemente aspettando il momento di uscire.
“Non voglio che diventi un assassino. Per nessuno motivo al mondo”.
Suo zio gli aveva chiesto diverse volte che odore avessero le bugie. La cosa lo aveva sempre affascinato, almeno a modo suo, e la questione dei profumi lo rendeva sempre pieno di curiosità. Era stato con un po’ di mestizia che Zexion gli aveva risposto che no, il punto non era che le menzogne avessero un aroma particolare: era l’odore di chi le pronunciava che si modificava, perché tutta l’adrenalina in corpo si soffermava sul modificare la voce, lo sguardo, il modo di intrecciare le mani. I migliori bugiardi erano stranamente quelli più facili da riconoscere, perché le strategie che mettevano in atto per convincere la loro platea erano tentativi fin troppo evidenti alla sua percezione.
Era sempre stato affascinato da quante poche volte il n. IV avesse avuto bisogno di ricorrere a bugie o frasi di circostanza dentro l’Organizzazione; sapeva che la sincerità era un lusso che solo alcune persone potevano permettersi, e suo zio poteva esprimere disapprovazione e giudizi senza mai celare nulla di sé.
Zexion avrebbe voluto essere come lui.
Ed il non poter percepire se stesso lo fece sentire ancora più distante e sporco.
Il Superiore … era il ritratto del dolore.
“Non fartene una colpa, figlio mio. Le decisioni dei padri non dovrebbero ricadere sui figli” sospirò “So quanto le mie decisioni siano dure e difficili da accettare. Scomode, per la maggior parte di voi. Ma quello che vi è fuori dalle porte del Castello non è un mondo di cui potremmo mai pensare di fare parte. I demoni … gli uomini … tutto il potere di questo luogo, ivi compresi i suoi segreti, sono stati sigillati per una giusta causa. Non posso permettere che nessuno, specie i miei figli, vi metta impunemente le mani mettendo a rischio la vita di tutti. E non parlo della mia …”
“Mio zio è innocente, glielo ho detto! Ha solo paura per la mia vita!”
“Il n. IV ti adora, Zexion. E sì, darebbe la sua vita per la tua senza pensarci un istante. Per questo, almeno per questo, non potrei lodarlo di più …”
Ogni arto del ragazzo iniziò a dolere. Dove il flusso di pensieri del Castello sembrava ormai concentrato solo nei livelli inferiori, le sensazioni di Xemnas e Xigbar avevano ormai riempito l’aria, rendendogli difficile persino respirare. Odio? Dolore?
Non riusciva più a definirli. Non c’era un confine. Era entrato in quella stanza preparandosi ad affrontare tutto ciò che ne sarebbe successo, ma non era semplice. Non poteva descriverlo. Si concentrò sul suo unico obiettivo, la salvezza di suo zio, e strinse le mani sui braccioli della sedia fino ad essere sicuro che il morbido rivestimento gli fosse entrato anche sotto le unghie.
Quando si riprese, il Superiore era proprio davanti a lui, e non accennava a voler nascondere le lacrime.
“Zexion, ti ringrazio di essere venuto da me. So quanto ti stia costando tutto ciò. E sappi che sono orgoglioso di Vexen, perché nonostante i suoi dubbi ti ha cresciuto come io non avrei mai saputo fare. E adesso … adesso lo rivedo in te più che mai. Rivedo la sua determinazione, il suo modo di affezionarsi agli altri, la sua incredibile testa dura …”
Gli mise una mano sulla spalla.
Sicura, gentile, come faceva sempre con tutti loro quando si sentivano smarriti. Come lo aveva sempre fatto con Demyx quando esplodeva in lacrime perché aveva di nuovo bruciato la cena, o quando aveva supportato Saïx, quella sera di due anni prima.
Quel gesto paterno un po’ forzato, ma che –a discapito di quanto borbottasse suo zio- gli aveva sempre conferito una strana forma di sicurezza, quell’atteggiamento fermo a cui tutti loro sapevano di potersi aggrappare in caso di bisogno.
Nella sua semplicità, gliene fu grato.
Si accorse del problema solo qualche istante più tardi, nel momento in cui sollevò la testa e fece un passo indietro per congedarsi.
La mano rimase ancora sulla sua spalla, con una fermezza che aveva una labile sfumatura di forza. Il dolore del Superiore era un uragano in piena, ma tra quei fluttui Zexion riconobbe una consapevolezza che era rimasta sopita tra le onde, nascosta in quei pensieri che lo avevano sopraffatto. “… ed il fatto che sia assolutamente incapace di mentire come si deve”.
Alle sue spalle sentì Xigbar aprire un portale.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 - Vexen (VIII) ***


Capitolo 24 - Vexen (VIII)





Xigbar





L’estratto di lijada ribolliva sommessamente. Soddisfatto, Vexen si adagiò sulla sedia più vicina (una bella sedia girevole con lo schienale alto che si era procurato in un mondo avanzato), e osservò le sottili volute rossicce che si sprigionavano dal liquido nella provetta.
Aveva avuto l’accortezza di prendere l’antidoto almeno venti minuti prima di iniziare il lavoro: la lijada era un sonnifero talmente potente che bastava respirarne i vapori per cadere vittima dei suoi effetti. Vexen aveva aggiunto al distillato tre milligrammi di polvere lienaar per contrastare l’estrema volatilità dell’estratto (altrimenti il sonnifero sarebbe evaporato ancora prima di poter essere versato nel cibo) e quindici milligrammi di nileomilina per amplificarne ulteriormente gli effetti. Neanche il sistema immunitario di un licantropo sarebbe stato in grado di resistere. Vexen non aveva mai avuto occasione di studiare il n. VII come avrebbe desiderato, ma i pochi campioni di sangue raccolti durante i controlli medici che il Superiore imponeva alla propria famiglia gli avevano fornito dati sufficienti.
Era certo dell’efficacia del suo sonnifero. Le sue creazioni si rivelavano sempre infallibili.
Trascorso il tempo necessario, Vexen spense la fiamma e trasferì il liquido in un’ampolla che sigillò ermeticamente. Dieci dosi, di cui quattro destinate al solo Saïx.
Ora non restava altro che aspettare che Larxen o Axel fossero di turno in cucina. Vexen li avrebbe accompagnati in ogni caso: non aveva un briciolo di fiducia nella loro capacità di dosare correttamente il sonnifero. Il complotto poteva anche essere un’idea di Marluxia, ma la verità pura e semplice era che senza l’aiuto dello scienziato quelle tre teste calde non avrebbero neanche saputo da dove cominciare la loro patetica rivolta. In effetti, si chiese perché non avesse pensato a fare tutto da solo molto tempo prima. Si sarebbe risparmiato anni di litigi e frustrazioni inutili.
Le frustrazioni, fortunatamente, stavano per avere fine. Giorni, forse ore, e il potere del Castello dell’Oblio sarebbe stato suo, totalmente e senza confini. Gli girava la testa a pensare alle possibilità che si sarebbero spalancate di colpo, alla libertà improvvisa, intossicante, illimitata. A cominciare dalle piccole cose di tutti i giorni: forse quella era l’ultima volta che doveva ripulire da solo provette e strumentazione dopo un esperimento. Da tempo desiderava un assistente che alleviasse la parte più umile e faticosa del suo lavoro, ma nessuno degli attuali abitanti del Castello possedeva le competenze necessarie a muoversi in un laboratorio senza causare cataclismi. Zexion lo aiutava sempre volentieri, ma lo scienziato non se la sentiva di caricarlo eccessivamente con compiti da servitore.
 
Narratore: “Attento a desiderare qualcosa troppo intensamente: potrebbe avverarsi!”
 
Finita la pulizia degli strumenti si sfilò i guanti di plastica e stiracchiò le dita con soddisfazione. Ripose la fiala con il sonnifero in una dispensa che chiuse con un lucchetto, e fece scivolare la chiave al sicuro nella tasca del soprabito. Ed ecco, puntualissima, la vibrazione nell’aria che annunciava il ritorno di Zexion tramite un portale oscuro. Aveva preferito tenerlo lontano mentre manipolava la lijada. Considerata la potenza dell’estratto, era probabile che nemmeno l’antidoto tenesse l’olfatto del ragazzo al riparo dai suoi effetti.
“Voltati lentamente, bastardo.”
Non era la voce di Zexion.
“Xigbar? Sei di nuovo ubria… “
Girandosi ne colse dapprima lo scintillio, una frazione di secondo. Sussultò nel ritrovarsi la canna del fucile di Xigbar puntata a pochi centimetri dal cuore.
L’arma, viola, affusolata ed elegante, non tremava nella mano del suo proprietario. La presa del n. II era salda, l’unico occhio color ambra lucido e determinato, le linee del viso scarno dure come appena scolpite nella pietra.
Non aveva bevuto.
Vexen si accorse di essere lui a tremare.
Lo sa.
Fece del suo meglio per darsi un contegno stupefatto e oltraggiato, raddrizzando la schiena ed ergendosi in tutta la sua considerevole altezza: “Levami immediatamente quell’affare di dosso. Se è uno scherzo non lo trovo affatto… “
La canna del fucile premette contro la sua tunica, soffocandogli subito qualsiasi protesta nella gola.
“È inutile che continui a recitare. Anche perché non ne sei capace. Sappiamo tutto. Quindi adesso vieni con me e spieghi bene questa storia del complotto guardando il Superiore dritto negli occhi, o giuro che ti ci porto a calci in culo.”
Non aveva mai visto una tale furia sul viso di Xigbar. Aveva sempre considerato i n. II e III come i buffoni di corte di Xemnas, beoni e re delle battute sconce con il quoziente intellettivo di una mazza da golf. I lunghi anni di quiete gli avevano fatto dimenticare che Xigbar e Xaldin erano, prima di ogni altra cosa, soldati addestrati alle armi fin dalla più tenera età. Deglutì, rimpiangendo di non avere la parlantina sciolta di Marluxia.
“Aspetta, Xigbar… “ sollevò le mani con i palmi aperti bene in vista. Il battito accelerato del suo stesso cuore gli martellava fin dentro il cervello. “Non so chi ti abbia detto cosa su di me, ma… ci conosciamo da anni. Non posso credere che abbiate dato peso alla prima calunnia che… “
“Ah, ci conosciamo? Davvero? Io conosco solo un vecchio rompipalle che guarda tutti dall’alto in basso, schifa noi altri neanche fossimo merda di cane spiaccicata e non parla mai con nessuno. Perciò non mi stupisce affatto che hai deciso di farci fuori. Probabilmente per te le nostre vite valgono meno dei microbi sotto il tuo microscopio.”
Vexen tentò di indietreggiare, ma urtò con le spalle contro la credenza in cui aveva nascosto il sonnifero. Se solo non l’avesse chiusa a chiave…
“Ma perché… perché pensate che voglia tradirvi? Vi giuro che non c’è niente di vero!”
Le probabilità di riuscire ad aprire un portale prima che Xigbar gli sparasse, a quella distanza, erano pressoché nulle. La canna del fucile brillava minacciosa, mettendo a dura prova la sua capacità di ragionare lucidamente.
“Vuoi davvero saperlo?” Il viso del n. II si aprì in un ghigno beffardo. La guancia sinistra, solcata da una vecchia cicatrice frastagliata, sembrava specchio e parodia di quel sorriso.
“Indovina chi è arrivato tutto terrorizzato dal Superiore a raccontarci una simpatica storiella di complotti e tradimenti? Esatto: il n. VI.”
Vexen sentì il sangue defluirgli dal viso e dalle guance come se qualcuno lo avesse risucchiato.
“Ha persino provato a difenderti, poverino. Ha detto che ti hanno costretto. Il Superiore ha i suoi bravi dubbi, però. Io invece non ci credo per niente.”
“No… non può essere… non è vero… “
Appoggiò tutto il peso alla credenza, le gambe molli e pesanti come se fossero fatte d’acqua. Il sorriso di Xigbar era più appuntito della canna del suo fucile, e faceva dieci volte più male.
“Che c’è?” La verità doveva leggerglisi in faccia ormai, ma non aveva più importanza. “Qualcuno non aveva messo in conto la ribellione del ragazzino? Com’è che dite voi cervelloni? Una variabile impazzita? È un miracolo che il n. VI sia cresciuto un essere umano decente, considerato chi ha avuto come esempio.”
La mano libera di Xigbar si mosse appena, richiamando l’oscurità di un portale al suo comando. Gli indicò il varco con una parodia di inchino: “Prego. Prima gli anziani.”
“Xigbar… ti supplico, io… “
“Risparmia il fiato e la dignità. Ti sto dando la possibilità di andare dal Superiore camminando sulle tue gambe. Non sprecarla.”
Vexen giunse le mani davanti a sé. Era un bene che la sua voce suonasse così debole: “Lasciami almeno spiegare… “
Il suo indice sfiorò appena la canna del fucile, ma fu sufficiente.
Il ghiaccio si propagò in un istante, e anche se Xigbar fu rapido a premere il grilletto il proiettile magico rimase bloccato, sfrigolò all’interno della canna e scoppiò come un petardo, lasciando a entrambi appena il tempo di scansarsi.
Xigbar bestemmiò e fece sparire l’arma danneggiata, stringendosi la mano dolorante. Vexen scartò di lato e allontanò l’altro con uno spintone approfittando della differenza di altezza. Mise nel colpo di gomito tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo, liberandole con un grido disperato. Corse dall’altro lato del laboratorio, evocando a sua volta un portale. Un luogo sicuro, lontano dal Castello dell’Oblio, dove a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarlo…
Le tenebre lo accolsero rassicuranti, e Vexen si lasciò cadere nel loro abbraccio.
E per poco non si ruppe il naso contro lo spigolo di uno scaffale di ferro.
Nel tentativo di mantenere l’equilibrio si aggrappò al primo appiglio che riuscì a trovare, facendo oscillare paurosamente lo scaffale. Un’intera fila di ampolle rovinò fragorosamente al suolo, spargendo liquidi ovunque e trasformando il pavimento in un pantano scivoloso e costellato da frammenti di vetro.
Si rimise in piedi a fatica. Qualcosa di vischioso gli colava lungo la guancia destra, giù per il collo e fin dentro la tunica. L’odore aspro del succo di haralia gli pizzicò le narici. Quantomeno non era tossico o velenoso. Ma il sollievo fu di breve durata.
Xigbar lo teneva di nuovo di mira con il fucile – l’altro fucile – e si godeva divertito la scena, in piedi nel luogo esatto in cui fino a un attimo prima si trovava il portale aperto da Vexen.
Lo scienziato si rese conto di trovarsi a troppi metri di distanza da quel punto per essere semplicemente scivolato.
“Dèi ladri.”
Aveva sottovalutato il potere di elementale dello spazio di Xigbar. Il n. II poteva teletrasportare se stesso e altri oggetti o persone in qualsiasi punto compreso nel suo campo visivo a una velocità incredibilmente superiore a quella di un comune portale oscuro. Non ebbe neanche un secondo per reagire: Xigbar sparì e riapparve in un lampo a pochissimi centimetri da lui.
Fu investito dal suo alito pesante di cibo speziato mentre l’altro lo afferrava per il davanti della tunica e gli assestava un pugno in piena faccia. Vexen rotolò a terra tra i pezzi di vetro, portando una mano allo zigomo che già si gonfiava a vista d’occhio. Rimase per qualche attimo intontito a fissare il palmo della mano, gocciolante di un misto di sangue e succo arancione di haralia. Una minuscola scheggia di vetro si era infilata proprio sotto l’indice. Il punto dove Xigbar lo aveva colpito pulsava e bruciava da morire, e aveva l’impressione che dal viso il calore si diffondesse in ondate roventi per tutto il corpo.
Troppo calore.
Se ne accorse un attimo prima del n. II, e l’istinto lo fece rannicchiare a terra, incurante del vetro e dei liquidi potenzialmente pericolosi.
Percepì su ogni centimetro di pelle l’esplosione bruciante di calore. Davanti alle palpebre chiuse lampeggiarono fiammate bianche e rosse mentre il grido di dolore di Xigbar riempiva il laboratorio.
Udì un tonfo sordo, poi il calore si affievolì. Una forte puzza di bruciato ora sovrastava qualsiasi altro odore proveniente dalle ampolle rotte sul pavimento. Vexen aprì gli occhi.
Xigbar era riverso su un fianco, e l’odore di bruciato proveniva da lui. L’oggetto circolare e irto di punte conficcato nella sua schiena era uno dei chakram del n. VIII.
“Tu… bastardo… “
Xigbar urlò quando Axel si avvicinò a passi rapidi e gli sfilò il chakram dal corpo. La tunica del n. II era bruciata in più punti, la pelle al di sotto rossa e ricoperta di vesciche. Il dolore che provava doveva essere indicibile.
Eppure, in qualche modo, aveva ancora la forza di parlare: “Axel… il ragazzino… non ci aveva detto che anche tu… pezzo di… “
Sollevò una mano tremante, raccogliendo una flebile luce di energia magica attorno alle dita. Faticosamente, la sagoma del suo fucile iniziò di nuovo a prendere forma.
Axel gli piantò il chakram dritto nella gola.
I rantoli del n. II che soffocava nel proprio sangue durarono pochi secondi, ma a Vexen sembrarono protrarsi all’infinito nel silenzio assoluto del laboratorio.
Non era così che doveva andare. Adesso avrebbero avuto tutto il resto dell’Organizzazione alle calcagna. Avrebbero dovuto lasciare il Castello. E Zexion…
Afferrò la mano tesa di Axel e si rimise in piedi traballando.
“Wow. Sei uno schianto, n. IV.”
La battuta disinvolta non riusciva a celare il tremito della voce e il respiro affannato. Gli occhi del n. VIII erano dilatati, sfrecciavano tutto intorno al laboratorio come quelli di un animale braccato.
“Non sprecarti a ringraziare, mi raccomando. Venivo per dirti che Larxen è di turno stasera in cucina, ma… come cazzo ti sei fatto scoprire?”
“Siamo stati traditi” sibilò Vexen con filo di voce. Aveva la tunica bagnata, strappata e ricoperta di frammenti di vetro. Sentiva dolore in almeno dieci punti diversi del corpo. Evocò del ghiaccio e lo premette delicatamente sullo zigomo contuso: gli pareva che la metà destra del viso stesse andando a fuoco.
Ma tutto questo era niente, niente in confronto al vuoto gelido che sentiva spalancarsi dentro di sé.
“Da chi?” Il tono di Axel era pressante. “Xigbar ha parlato di un ragazzino… possibile che… “
Vexen lo fulminò prima che potesse arrivare a una qualsiasi conclusione da solo.
“Ci ha spiati e ha riferito tutto al Superiore. Il n. XIII ci ha traditi, Axel.”

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 - Axel (VI) ***


Capitolo 25 - Axel (VI)





Roxas e Axel





“Axel … cos’è quell’oggetto?”
“Aspetta e vedrai!”
A detta di Larxen era facilissimo. Una cosa da neonati. Ma a detta di Larxen anche battere il n. V a braccio di ferro era semplice.
Doveva solo attaccare i cavi nell’ordine che le aveva detto.
Axel si mise in punta di piedi sul bordo della sedia, facendo luce con le fiamme per guardare dentro il buco che la n. XII aveva fatto sul soffitto della camera di Roxas mentre il proprietario dormiva.
Vide una massa di fili, ed erano tutti alla rinfusa. “Questo oggetto ti cambierà la vita, parola mia!”
Con una certa titubanza ne afferrò uno ed iniziò a collegarlo.
Un pianeta baciato da un sole fioco, per di più per poche ore al giorno, non era stata la scelta più felice per un ragazzo che aveva scelto come proprio elemento la luce: nei mesi successivi allo spostamento Roxas aveva avuto continui malesseri e svenimenti improvvisi che avevano messo a dura prova la pazienza del n. IV. Lo stesso Axel aveva faticato ad adattarsi a quel posto gelido, ma per il n. XIII non vi era stato molto da fare: privo della sua principale fonte di energia, il ragazzo dormiva quasi venti ore al giorno di un sonno così profondo che le prime volte lo aveva persino spaventato.
Ed Axel si era sentito in dovere di rimedire.
“Lo hai comprato in un altro mondo? Anche se il Superiore ha vietato di andarci?”
“Oh, lo sai che non sono bravo ad ubbidire agli ordini. E poi non l’ho esattamente comprato …” disse, lasciandosi scappare un sorriso compiaciuto al ricordo di Larxen che distraeva i commessi mentre lui se la svignava con la refurtiva.
Era pronto a ricevere l’ennesimo rimprovero sulla sua condotta peccaminosa, quindi decise di concentrarsi sul secondo filo di corrente ed iniziò ad armeggiare con l’oggetto per tenerlo in posizione. Si accorse solo dopo dell’enorme paio di occhi azzurri che lo fissavano dal basso con fare interrogativo “Ti serve una mano, Axel?”
Perché, in effetti, in piedi su una sedia traballante con un enorme lampadario nella mano sinistra e le dita della mano destra in un buco del soffitto pieno di fili non era esattamente l’immagine dell’affidabilità e del successo.
“Sembro veramente così in difficoltà?”
“Sì. Molto”
Prese un’altra sedia e gli venne accanto, anche se con le sue gambe corte e malferme non arrivava ai cavi nemmeno con la fantasia. “Non è che chiederesti ai tuoi dèi di illuminare con la loro suprema grazia questo buco? Larxen ha messo questi fili chiaramente sotto ispirazione dello Spiromorfo!”
“Gli dèi non vanno scomodati per montare oggetti” gli rispose il piccoletto. Axel lo vide concentrarsi con una smorfia, poi dal palmo della sua mano uscì una piccola sfera luminosa. Era chiaro che in quel mondo in penombra anche solo creare una simile sciocchezza gli costasse molta più energia del solito. La sfera fluttuò proprio nella cavità, appoggiandosi sopra i fili per concedergli di vedere.
“Allora ogni tanto la usi quella cazzo di magia …”
In effetti Larxen doveva essersi davvero divertita ad ingarbugliare quei fili di rame come una matassa.
Ci mise quasi mezz’ora a venirne a capo, attaccandoli l’uno all’altro e stringendo un paio di viti senza perdere di vista il ragazzino nel timore che si potesse addormentare anche in piedi sulla sedia. Riproponendosi di non rubare mai più un oggetto simile -o, in alternativa, di non provare a montarlo da solo- applicò l’ultimo cavo e lasciò il lampadario pendere dal soffitto. Sebbene l’effetto fosse più simile a quello di un gatto impiccato che di uno strumento atto a fare luce, l’espressione contenta sul volto del più piccolo gli fece capire che non aveva sprecato il proprio tempo. Le cinque lampadine all’interno erano ancora spente, ma accenderlo era l’unica parte facile.
“Vedrai, adesso viene il bello! Pronto alla grande festa?”
Non aveva ben chiaro il funzionamento di quella “elettricità”, ma aveva visto la n. XII accendere tante di quelle lampadine che non aveva bisogno di saperne di più. Si leccò per bene le dita della mano sinistra e le spinse su per il soffitto, in mezzo ai cavi.
“E luce fu!”
L’attimo dopo lui e Roxas si ritrovarono a terra, bruciacchiati come se un fulmine fosse calato dal Nirvana dritto sulle loro teste.
Oltre la porta della stanza avrebbero sentito le risate della Ninfa Selvaggia persino nell’altra parte dell’universo conosciuto.
 
 
 
Si teleportò nella stanza di Roxas con tutta la velocità che aveva, quasi si sentisse Saïx già alle calcagna. Nella foga si concentrò in modo pessimo ed aprì il portale proprio sul comodino, travolgendo quello, la lampada ed i libri.
Il proprietario della stanza non si svegliò.
Probabilmente non lo avrebbe fatto nemmeno se Axel gli avesse distrutto l’intera libreria ed i due armadi.
Si avvicinò al letto e lo strattonò, ma una bambola sarebbe stata più reattiva.
Maledicendo Saïx, il Superiore ed almeno un’altra dozzina di persone aprì un secondo portale e vi spinse dentro il ragazzo senza troppi riguardi.
Doveva sapere.
Non appena atterrarono nel vicolo si richiuse il portale, fissando ogni singolo strale oscuro spegnersi nell’aria nel timore che qualcuno lo attraversasse all’ultimo secondo.
Si sentiva l’odore della carne di Xigbar sulla tunica.
“Che succede, Axel?”
Sebbene il vicolo fosse in ombra, la poca luce di quel mondo era stata più che sufficiente a risvegliare il suo amico. Le iridi e le pupille del ragazzo si allargarono all’istante. “Una missione urgente?”
“Missione no. Urgente sì” rispose. “Dobbiamo parlare”.
 Il suo occhio affilato di ladro si accorse subito di un paio di soldati all’estremità del vicolo che lanciarono un’occhiata sospetta nella loro direzione. Si limitò a rimettere in piedi il ragazzo, a strattonarlo un po’ e lo sospinse in mezzo alla strada, tra la folla.
Non aveva idea del perché il suo cervello avesse scelto come primo luogo per fuggire la città di Ulnar, nel cuore del Magnamund: era un mondo arretrato come tanti, senza nulla di particolare. La capitale aveva un livello di civiltà un po’ più avanzato, ma la mancanza di elettricità o qualsiasi altra tecnologia lo rendeva un pianeta “primitivo”. Forse gli ricordava il loro mondo, ma senza i demoni.
La statua di una chissà quale divinità armata di una spada di luce attirò l’attenzione del giovane, che si fermò e fece un cenno di rispetto. Axel si accorse che la folla era fitta, ed in quel punto il ragazzo non sarebbe potuto comunque andare molto lontano.
Provò a formulare un inizio decente, ma non era mai stato portato per la retorica e le frasi ad effetto. “Hai fatto tu la soffiata al Superiore?”
I due grandi occhi blu si voltarono verso di lui, interrogativi. “… cosa? …”
“Non mi ripeterò due volte. Hai detto tu al Superiore del complotto? Come lo hai scoperto?”
Roxas lo fissò come se fosse appena diventato un enorme mostro verde. E, sebbene non avesse l’olfatto prodigioso di Zexion, il n. VIII sapeva che il ragazzo era assolutamente incapace di mentire a dovere. Non era in grado di essere convincente nemmeno per bugie organizzate per fare qualche scherzo ai loro compagni, figuriamoci se preso a bruciapelo. Il n. XIII mosse qualche passo all’indietro, ma Axel lo afferrò per il polso e lo fissò. “Xigbar ha fatto il tuo nome”.
“Ma io non …”
“Ho bisogno di sentirlo da te. E credo di meritarmi una spiegazione”.
 
 
“Lo sai cosa ne penso, Marly. Questa storia del veleno non mi piace”.
“Ecco perché ti ho fatto chiamare. Ci sono delle novità”.
Il n. XI camminava dietro le sbarre della cella come un principe nel suo castello. La sua fottuta nobiltà gli traboccava da ogni poro assai più di quanto avesse fatto negli ultimi due anni, e nella durata di pochi passi ad Axel parve di vedere Bocciolo di Rosa quasi felice di essersi sbarazzato della maschera di bravo Membro dell’Organizzazione ubbidiente. “Il n. IV sta lavorando ad un sonnifero abbastanza potente da stendere persino Saïx. Quindi niente spargimenti di sangue, proprio come piace a te”.
“Ed hai modificato il tuo grande piano solo per farmi contento? Ma fammi il piacere, Marly!”
Axel non poteva dire che quella storia del complotto gli dispiacesse del tutto. Che il n. XI fosse un grandissimo bastardo non era mai stata una novità, ma dietro quello che aveva fatto alla sua famiglia rivale c’era un atto di sfida nei confronti del Superiore che non era rimasto indifferente a nessun abitante del Castello.
Forse era stato quello il motivo che lo aveva spinto ad accettare di incontrarlo nella sua cella, tre giorni prima.
“L’omicidio è un mezzo, non un risultato. E, nonostante le nostre giuste differenze, io e te siamo simili, n. VIII” sussurrò l’uomo dai capelli rosa “Ci interessa solo ottenere un risultato. E ottenerlo nella maniera più rapida e sicura possibile”.
“Mettiamo bene in chiaro un dettaglio, Bocciolo di Rosa: io e te non siamo simili. Dei poteri delle Stanze della Memoria non me ne frega nulla, e ti dico chiaro e tondo che se desideri riprendere la tua crociata contro i demoni per liberare gli umani la farai senza di me. Intesi?”
Nonostante l’offesa, il n. XI continuava a sorridere. Spostava il peso del corpo da un piede all’altro con incredibile naturalezza, senza tradire alcun nervosismo. Al contrario, appariva divertito “Stai tranquillo, n. VIII, non ho mai fatto appello al tuo istinto filantropico e, credimi, non inizierò adesso soltanto perché sono chiuso in una cella. Tu hai un obiettivo, io il mio, ed è solo una coincidenza che corrispondano”.
Sbarazzarsi di Saïx, quello era il primo obiettivo di Axel. Il mastino personale del Superiore era diventato, se possibile, ancora più paranoico ed insopportabile dopo aver scoperto di un ribelle come il n. XI in grado di sfidare la volontà del suo padrone. La lontananza dalla luna aveva reso il licantropo ogni giorno più furioso ed instabile.
“Secondo errore, Marly. Tu credi di conoscere il mio obiettivo …”
Con il Superiore era un altro paio di maniche. Senza quel Radigata pazzo e fuori dagli schemi probabilmente sarebbe stato uno dei tanti ladri affamati dei bassifondi del suo villaggio, o forse uno cadavere lasciato nei campi, ucciso da una coltellata volante durante una rissa. Certo, non lo aveva mai considerato un “padre”, ma sapeva di avere con quell’uomo un debito davvero difficile da ripagare. Anche le sue decisioni assurde, specie quella di isolarsi in un mondo disabitato, buio e freddo, non gli avevano mai fatto mancare un tetto sulla testa o un piatto di cibo caldo. Uccidere lui, così come tutti gli altri, era stato fuori discussione.
Specie all’idea della reazione di Roxas. “… ma ti avviso, sei fuori strada”.
Escludere il ragazzo dal complotto era stata una sua ferrea volontà, e fortunatamente né Marluxia né Larxen si erano opposti. Ma sapeva che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto spiegare al ragazzo come mai più di metà dell’Organizzazione fosse svanita nel nulla come per magia: e non avrebbe potuto delegare quel compito a nessun altro.
Forse era stata l’assenza di una valida bugia a farlo tentennare. “Comunque questa idea del sonnifero non mi dispiace. Per una volta quel vecchio gufo del n. IV ne ha pensata una giusta”.
“Sai, Axel, sto iniziando a sospettare che tu e Vexen siate più simili di quanto immagini. Avete dei problemi … “affini”, se mi passi la considerazione”.
“No, non te la passo. Ma approvo questo piano, fammi mandare a chiamare da Larxen quando è tutto pronto!” rispose, poi si allontanò dalle sbarre ed intraprese le scale. Non riuscì però a levarsi la sensazione che i due occhi blu fossero puntati contro la sua schiena, pronti a conficcarsi come un coltello tra le sue scatole. “Mi auguro solo che il tuo dolce amichetto sia così stupido da credere a tutte le bugie che dovrai raccontargli, Axel”.
 
 
Il ricordo delle parole di Marluxia gli scosse la schiena come un tocco gelido.
Aveva trascorso gli ultimi giorni immaginando miliardi di scenari: nella maggior parte dei casi si trattava di futuri dove avrebbe inventato a Roxas una bella frottola di comodo, per esempio che gli altri fossero partiti per una missione urgente e non fossero più tornati. Quasi sempre il nanerottolo piangeva, tentava di organizzare inutili squadre di ricerca per poi abituarsi lentamente all’assenza.
In altre situazioni, più rare, gli avrebbe confessato tutto a complotto finito; certo, ovviamente condito con le dovute rivisitazioni, ma vi erano persino dei momenti in cui Axel aveva osato sperare di trovare il coraggio di vuotare il sacco davanti a quel piccoletto.
In qualsiasi scenario, però, Roxas piangeva.
Un pianto diverso ogni volta, con vari sussurri e preghiere inframezzate, ma non vi era alcuno scorcio del futuro in cui il viso del ragazzo non fosse attraversato da un dedalo di lacrime.
Tranne nella scena che gli si stava parando davanti agli occhi.
“Cosa sta succedendo, Axel?”
Nonostante avesse la mano bloccata dalla sua, sul viso del n. XIII si alternavano la preoccupazione, il dubbio ed il sospetto che il suo migliore amico fosse impazzito del tutto. Ma nessuno squarcio di paura. “Non ho idea di cosa tu stia parlando. Per favore, lasciami”.
“Lo sai qual è la cosa divertente? Che potresti essere del tutto innocente o il miglior attore che abbia mai incontrato”
“Forse, se mi dicessi cosa …”
“Te lo ho già detto. Hai rivelato al Superiore il nostro complotto”
“Ma di quale complotto vai parlando? Sei ubriaco?”
Gli sarebbe piaciuto esserlo, ammise tra sé. Essersi scolato tutta la birra del Diadema di Rame ed essere tornato al Castello convinto fradicio che fossero stati scoperti, ed al massimo di aver avuto col n. II una sana scazzottata di quelle che scappavano sempre quando entrambi alzavano il gomito. E nulla altro.
Purtroppo, però, non era mai stato così lucido e confuso allo stesso tempo. “Ti ho già detto che Xigbar ha …”
“Cosa, Axel? COSA?” rispose senza sottrarre il polso “Io non vedo Xigbar da più di due settimane! La sera è sempre in giro con Xaldin, e quando siamo a tavola con il Superiore ci sei anche tu? Cosa dovrei aver fatto, ti prego, dimmelo! È da quando è successa quella cosa dei Keyblade che …”
“Lasciamo fuori quelle chiavi e quel tipaccio nelle Stanze della Memoria, va bene? Per una volta sto parlando di qualcosa molto più … problematico. Tipo Saïx che a breve vorrà la mia testa, per dire un piccolo quanto cruciale dettaglio!”
“Allora dimmi cosa è successo. Ti prego”.
Le parole cariche di veleno del n. XI gli ritornarono alla mente tutte insieme.
Le bugie che aveva pensato, così come le giustificazioni per se stesso.
Non poteva essere stato Roxas a tradirli, non con quella voce o con quegli occhi. Roxas che lo fissava, immobile, senza approfittare della folla e della luce del sole per dileguarsi.
Roxas che era una schiappa a mentire, e non aveva mai avuto un’espressione così sincera.
Si diede dell’idiota.
Xigbar aveva chiaramente mentito al n. IV, ma le motivazioni se le era portate con sé nel Nirvana.
Un tassello del mosaico gli mancava, e al ricordo di quello che era accaduto solo un’ora prima gli tremarono le mani. Lasciò andare il polso del ragazzo, spaventato dalla sincerità di quegli occhi blu e dalle risposte che stavano implorando. “Non posso”
“Ma …”
“Ti prego. Non posso. Non ora”
Dietro le sue palpebre, il sorriso da sparviero del n. XI si allargò.
“C’è una cosa che devo scoprire. E devo farlo subito”.
Non riusciva a comprendere il motivo che avesse spinto Xigbar a nominare Roxas, ma se davvero il n. IV avesse raccontato questo dettaglio a gente come Larxen le cose sarebbero cambiate.
Nessuno sarebbe stato clemente con un traditore, loro che stavano creando un complotto.
E la vita di quel marmocchio che aveva raccolto nel bosco due anni prima era qualcosa che non aveva alcuna intenzione di perdere. “Aspettami qui, in questa piazza. Non ti muovere, non andare dove non posso ritrovarti”.
L’altro fece per rispondere, ma non gliene diede l’opportunità. “Non tornare al Castello per nessun motivo al mondo, chiaro? Non aprire nemmeno un portale grande come una noce! Ci sono delle cose che devo assolutamente sistemare. Ma verrò a prenderti, tranquillo, entro stasera sarò di ritorno!”
Cercò di non fissarlo nelle pupille, ma quando voltò la testa non poté nascondere a se stesso che adesso, più che in qualsiasi altro momento, un velo di terrore e preoccupazione aveva attraversato il viso del n. XIII.
“Roxas … ti fidi di me?”
“Ma certo, Axel. Ti imploro, che cosa …”
Non aveva esitato nemmeno un istante nel rispondergli. Questo fu per Axel la prova definitiva.
“Allora rimani qui e non muoverti. Torno tra poco!”
Si allontanò di corsa da lui, lanciandosi nella folla del mercato. Sapeva che il piccoletto lo avrebbe seguito, ma gli anni trascorsi fuggendo dalle guardie del suo villaggio gli tornarono nelle gambe e scattò fino al vicolo in cui si erano teleportati poco prima. Si gettò tra le ombre ed aprì il varco oscuro.
Si ritrovò di nuovo nella stanza di Roxas, solo.
Fissò il punto dove era riemerso per oltre un minuto, temendo che il nanerottolo provasse a disubbidirgli ed a corrergli dietro, ma nessuna spira nera si disegnò contro le pareti bianche.
Doveva agire in fretta, e scoprire perché gente come Xigbar -e quindi il Superiore- avesse deciso di fare il nome di Roxas in quella faccenda, e impedire a Vexen di raccontare il tutto agli altri. Fece per aprire un altro varco, stavolta diretto al laboratorio del n. IV, quando una sensazione pungente lo attraversò lungo il corpo, bloccandogli le gambe in una morsa. Le mani persero l’incantesimo di trasporto, e prima di collassare a terra, col freddo piantato fin dentro il cervello, gli parve di sentire una voce.
“Sapevo che non ci avresti mai creduto”.

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 - Vexen (IX) ***


Capitolo 26 - Vexen (IX)





Vexen





L’apparizione improvvisa dell'uomo in armatura gli strappò un sussulto, ma dopo i primi attimi di smarrimento Vexen si rese conto di provare molta meno paura di quel che avrebbe immaginato.
Forse perché era appena scampato a un pestaggio da parte di Xigbar, o perché era già a conoscenza della forma assunta dallo Spirito del Castello grazie al racconto del n. VIII. A conti fatti, preferiva rischiare le sue carte con un'entità neutrale piuttosto che affrontare il giudizio del Superiore e dei membri leali dell'Organizzazione.
Le prime parole dello Spirito non fecero che confermare l'esattezza della sua intuizione.
“Non hai nulla da temere da me, Even. Sono qui per aiutarti.”
Il timbro della voce aveva una qualità metallica, probabilmente dovuta all'elmo di bronzo che gli ricopriva interamente la testa, e Vexen si chiese se ci fosse veramente una creatura di carne e sangue celata sotto la cortina di metallo. Malgrado la situazione critica, mille domande si inseguivano nella sua mente.
Ma la curiosità avrebbe dovuto attendere.
“Se è così, dammi una mano a spostarlo in un luogo sicuro.”
Il n. VIII era ancora inerte tra le sue braccia, nel pieno del coma farmaceutico indotto dal listrio che gli aveva iniettato nella carotide. Avrebbe dormito per almeno cinque ore. Accasciato a pochi metri di distanza, il cadavere di Xigbar emanava un puzzo tremendo di carne bruciata. Presto il Superiore si sarebbe allarmato non vedendolo tornare, e avrebbe mandato qualcuno a cercarlo. Prima di quel momento, Vexen doveva sparire.
Lo Spirito si mosse con rapidità e grazia straordinarie per una persona in armatura completa, quasi senza produrre rumore e sollevando Axel come fosse un fuscello. Se lo caricò in spalla e con la mano libera evocò un portale. Per una buona manciata di secondi Vexen rimase a fissare le spire oscure che si stiracchiavano pigramente in mezzo alla devastazione del laboratorio. Lo zigomo continuava a pulsare come una piccola fucina malgrado tutto il ghiaccio che vi aveva applicato.
“Dove stiamo andando?”
“In un luogo che desideri conoscere da molto, molto tempo.”
 


“Aspettami qui. Torno tra poco.”
Gli occhi del n. XIII erano l'elemento più vivido nell'ultimo ricordo di Axel. Enormi, dilatati per la paura e di un azzurro intenso che trapassava le pareti immacolate della Stanza dell’Invocazione Suprema. Il ricordo fluttuava letteralmente sopra la testa del n. VIII, impalpabile e circondato da un alone tremolante e lattiginoso.
È straordinario.
Era la prima volta che provava a modificare i ricordi di un essere umano. Negli anni passati si era esercitato su cavie animali di piccole dimensioni (rigorosamente in segreto, fuori dal Castello dell’Oblio e senza l'autorizzazione del Superiore), e per quanto i suoi esperimenti fossero limitati e insoddisfacenti, Vexen era arrivato all'importante conclusione che nella stragrande maggioranza delle creature, comprese quelle umanoidi, la porta di accesso ai ricordi era la fronte.
Axel era steso su un blocco bianco, apparso al centro della Stanza nel momento in cui lo scienziato ne aveva avuto bisogno. Aveva dovuto rasare i capelli del n. VIII attorno all'area d'intervento, un taglio praticato con il bisturi, sottile e lungo appena tre centimetri. A fine lavoro avrebbe provveduto a farli ricrescere con l’alchimia, rendendo la cicatrice praticamente invisibile. Axel non si sarebbe mai accorto di niente.
“Sono entrato anch'io nei ricordi di Lea. Non è un debole. Ha solo bisogno di un incoraggiamento per superare il suo crocevia. E non riesco a immaginare guida migliore un alchimista.”
Lo Spirito non si era mosso da quando erano entrati nella Stanza dell’Invocazione Suprema. Gambe divaricate, le braccia conserte, lo avrebbe scambiato per una statua ornamentale se non avesse saputo che era in grado di muoversi e parlare. Gli aveva garantito che nessuno sarebbe entrato nelle Stanze per tutta la durata dell'operazione e, almeno per il momento, stava mantenendo la promessa.
“Non potrei essere più d'accordo.”
Le dita di Vexen sfiorarono la superficie del ricordo. Con le cavie animali aveva dovuto agire direttamente sulle sinapsi e lavorare manualmente su ogni connessione neuronale, un'opera minuziosa di chirurgia che avrebbe fatto impallidire i medici più titolati dei mondi tecnologici di ogni universo. Le Stanze della Memoria rendevano tutto infinitamente più semplice: una volta creato l'accesso tramite la fronte, poteva richiamare e materializzare ogni ricordo per modificarlo direttamente con la semplice volontà.
Non era poi tanto diverso da usare l’alchimia.
Si concentrò sulle immagini che continuavano a susseguirsi davanti ai suoi occhi in un ciclo continuo.
Visualizzò i colori: l'azzurro accecante degli occhi di Roxas, il vortice multicolore e indistinto delle persone che popolavano la piazza di quel mondo medievale. Vi dipinse sopra il rosso e il giallo cangiante delle fiamme.
Assimilò i suoni: il vocìo di sottofondo dei venditori che decantavano le proprie merci, lo stupore e lo smarrimento nella voce infantile del n. XIII. Ricoprì il tutto con urla stridule e disperate.
Percepì le sensazioni e gli odori: la puzza di escrementi di cavallo e del sudore dei passanti, la calura del pomeriggio estivo sulla pelle. Intensificò il calore, infuse nel ricordo l'odore di carne che brucia, il senso di nausea che paralizza le viscere.
Davanti ai suoi occhi, la scena si intorpidì come uno specchio d'acqua in cui viene lanciato improvvisamente un sasso. Quando la superficie tornò cristallina, il ricordo si era trasformato.
Vexen sorrise.
“Lo fai per quel ragazzo.”
Il tono dello Spirito era neutro, una semplice constatazione, ma Vexen si ritrovò istintivamente a serrare i denti e affondare le dita nei palmi delle mani. Lo Spirito poteva averlo aiutato, ma c'erano cose che non aveva intenzione di condividere con lui. Zexion era una di quelle.
Sapeva che la bugia su Roxas non poteva durare. Xigbar lo aveva involontariamente messo con le spalle al muro parlando di un “ragazzino” davanti al n. VIII e, di fronte all’urgenza di Axel, lo scienziato aveva dovuto improvvisare. Marluxia non sarebbe stato altrettanto credulone.
“La sua scelta è già compiuta. Il suo crocevia conduce nella direzione opposta al tuo.”
Vexen sentì il palato seccarsi insieme alla risposta irata che stava per pronunciare.
“Ma ciò che hai fatto eliminerà la debolezza nel cuore di Lea.”
“Mostrami gli altri,” ordinò, tagliando corto. Non era il momento di pensare a Zexion. Lo aveva protetto con ogni mezzo a sua disposizione, e questo per adesso doveva bastare.
Lo Spirito annuì. Se era infastidito dal comando perentorio, i suoi movimenti non tradirono alcuna contrarietà. Vexen aveva notato che l'atteggiamento dell'essere nei suoi confronti era diverso da quello che aveva riferito Axel nel racconto del suo viaggio nelle Stanze della Memoria. Un sesto senso indefinibile gli diceva che lo Spirito, per qualche motivo, lo riteneva degno di rispetto.
Ci voleva una creatura soprannaturale per riconoscere le mie abilità.
Sul palmo aperto dello Spirito si formò una sfera turbinante che lentamente si allargò, dando forma a un'immagine sospesa nell'aria i cui contorni sfumavano in un alone indistinto, confondendosi nel bianco delle pareti. Stavolta però non si trattava di un ricordo.
“In quanto padrone del Castello potrai evocare questo potere anche senza il mio intervento diretto. Ma solo nelle Stanze della Memoria.”
“È ciò che speravo.”
La figura di Marluxia galleggiò davanti ai suoi occhi. Era seduto sul letto, nella sua cella, le mani giunte in grembo, lo sguardo fisso sulla parete davanti a lui. Non c’era modo di sapere se gli fosse giunta voce del complotto svelato o della morte di Xigbar, ma probabilmente sarebbe apparso molto più agitato in quel caso. Apparentemente, ancora nessuno dei membri leali si era presentato per portarlo al cospetto del Superiore.
Un lieve sfarfallio e l'immagine cambiò. I boccoli rosa del n. XI svanirono per lasciare spazio ai volti tesi di Demyx e Luxord, in piedi l'uno accanto all'altro nello studio del Superiore. Xemnas stava spiegando loro qualcosa, accompagnando le parole con ampi gesti delle braccia, ma non fu la tristezza negli occhi d’ambra del n. I a mozzare il fiato nella gola di Vexen.
La mano di Luxord era posata sulla spalla di una figura piccola ed esile che sembrava fare ogni sforzo possibile per confondersi tra le tuniche nere degli uomini che lo circondavano. Il viso di Zexion era rivolto verso il pavimento, i capelli d'argento ne celavano completamente l'espressione.
È la vergogna per non aver mantenuto la promessa? Oppure…
“Puoi ascoltare le loro voci, se lo desideri.”
Vexen annuì impercettibilmente, e subito l'immagine si colorò del timbro profondo e addolorato del Superiore. I suoni avevano una qualità ovattata, ma le parole erano perfettamente distinguibili.
“... in un luogo sicuro. Torneremo a prendervi quando l'emergenza sarà passata. N. X, sei il membro più anziano. Affido a te i nostri giovani.”
“E il n. XIII, Superiore?”
“Quando Saïx lo avrà trovato lo porterà da voi.”
Dunque si erano accorti dell'assenza di Axel e Roxas e, verosimilmente, il licantropo era stato spedito a cercarli.
“Non troveranno né l'uno né l'altro.”
La capacità dello Spirito di leggergli la mente iniziava a stancarlo. Tuttavia si sforzò di tenere a bada ogni manifestazione di fastidio: l'essere in armatura era il miglior alleato che avesse al momento e forse, grazie a lui, il piano per impadronirsi del Castello dell’Oblio poteva ancora riuscire. Davanti al cadavere di Xigbar lo scienziato si era visto perduto, condannato nel migliore dei casi a un futuro in cui sarebbe morto da medico girovago, accasciato sul bordo di una strada quando non sarebbe più stato capace di rialzarsi. L’apparizione dello Spirito aveva rimesso in gioco tutte le carte.
Prima di progettare una contromossa adeguata, però, doveva conoscere la posizione dei suoi nemici.
“Mostrami Xaldin.”
Fu un sollievo vedere la figura di Zexion sfarfallare e dissolversi. L'immagine si spostò nel laboratorio, e Vexen ordinò al suono di sparire giusto in tempo per non venire assordato dalle urla del n. III, il viso contorto di una furia, impegnato a prendere a pugni qualsiasi cosa trovasse sulla sua traiettoria. Inginocchiato a terra, il n. V stava avvolgendo il corpo di Xigbar in un lenzuolo con una delicatezza inconsueta per la sua stazza possente.
Prima o poi se ne sarebbero dovuti accorgere.
“Dobbiamo portare qui Marluxia e Larxen e decidere il da farsi. Puoi aiutarci a eliminare Xemnas e gli altri?”
“Non direttamente. Se fossi davvero libero di agire come desidero mi sarei manifestato a voi molto tempo fa. Ma è grazie allo spirito di ribellione di persone come te e Lumaria se ho potuto riprendere coscienza, e a voi concederò ogni frammento di potere a cui riuscirò ad attingere. La vostra libertà e la mia sono legate a doppio filo. I nostri crocevia conducono nella stessa direzione.”
C’erano milioni di dubbi che avrebbe voluto sottoporre allo Spirito, ma era il momento dell’azione, non delle parole. Decise di togliersi la soddisfazione di un'unica domanda, prima che la situazione precipitasse.
“Ti sei mostrato a me perché sono un alchimista?”
No, non poteva essere una creatura di carne e sangue. Nessun essere con un corpo biologico sarebbe riuscito a mantenere l’immobilità assoluta per un tempo così lungo. Non spostava il peso da un piede all'altro, né aveva bisogno di abbassare il braccio per riposarlo.
Eppure, a quella domanda, lo Spirito chinò lievemente la testa.
“Un tempo in questo mondo esisteva un intero ordine di alchimisti, un baluardo contro la barbarie dei demoni. Ma la famiglia demoniaca, spaventata dal loro potere, li ha sterminati tutti. Mai avrei creduto di incontrarne uno in questa epoca buia. È un onore per me fare la tua conoscenza, Even, Ultimo Alchimista.”
“Chi sei veramente? Conosci il mio vero nome… qual è il tuo?”
“Il mio nome non ha più alcun significato in quest'epoca. Sono un guerriero di tremila anni fa, e ho combattuto al fianco della razza umana nella guerra contro i demoni. Quel giorno fummo sconfitti. Tuttavia, il mio spirito combattivo non si è mai spento, malgrado la maledizione che mi lega a questo Castello.”
Un guerriero di tremila anni fa.
I demoni che distruggono ogni traccia di tecnologia rimasta in questo mondo.
Il Grande Satana desidera i poteri del Castello dell’Oblio…
Ebbe la sensazione di essere alle porte di una rivelazione straordinaria, ma non ci fu tempo per riordinare i tasselli del mosaico. L'immagine del laboratorio fluttuava ancora sopra il palmo aperto dello Spirito, e gli occhi di Vexen furono catturati dallo sbuffo nero di un portale che si apriva.
Nell'immagine, Xaldin sollevò lo sguardo dal corpo del n. II. Lexaeus non era più in vista, forse si era allontanato per lasciare al n. III il tempo di salutare il migliore amico per l'ultima volta.
Larxen si trovò davanti il suo sguardo furioso non appena mise piede fuori dal portale.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 - Larxen (II) ***


Capitolo 27 - Larxen (II)





Xaldin





“Come si dice, Marly?”
Sua eccellenza il principe si contorceva fino alla punta dei boccoli. Nonostante l’espressione impeccabile era chiaro che ancora gli bruciasse il dover chiedere e non comandare.
E a lei di certo non comandava nessuno.
“… per favore, Larxen”.
“Stiamo facendo progressi, wow! Guarda, lo faccio proprio perché me lo hai chiesto in modo carino. Ma non montarti la testa!”
L’altro sibilò.
Più il momento del loro trionfo si avvicinava, più il suo compagno petaloso si contorceva. Gli cadeva quel suo sorrisetto ipocrita più spesso del solito e nemmeno perdeva tempo a raccoglierlo e rimetterselo sulla faccia. “Vexen non è mai in ritardo”.
“Magari la demenza senile ha avuto finalmente il sopravvento?”
“Non c’è niente da scherzare, Larxen. Aveva promesso di portarmi la pozione …” disse “… stasera”.
Larxen sorrise, e non si sforzò di nasconderlo: Marly, sempre dritto al punto.
Mancavano pochi, pochissimi giorni al loro trionfo, ed il principe bramava di uscire da quella cella ed avere nuovamente il controllo del Castello. Grazie al Nirvana l’unico produrre (e possedere) il filtro in grado di ripristinargli i poteri era proprio quel barbogio del n. IV, dunque almeno la parte del piano in cui il n. XI sarebbe tornato operativo era fattibile.
Se non fosse stato che, per la prima volta in due anni, la mummia era in ritardo.
“Ho capito, ho capito, vado. Pozione blu, frizzante, molto fredda” rispose, lasciando che la sua lamentela fosse ben chiara e marcata quando aprì un portale. L’aria di noia e di muffa si respirava già dai primi strali. “Tanto cosa vuoi che gli sia successo?”
Eppure, per la prima volta da quando aveva avuto a che fare con quello scienziato, la sorpresa ebbe il sopravvento.
L’armadio bianco, quello dove il n. IV custodiva i suoi camici, era stato investito da qualcosa di contundente: le ante erano state quasi divelte dai cardini, ed il contenuto sembrava essere entrato a contatto con una palla di fuoco di Axel.
Così come il tavolo operatorio. Ed il ripiano delle erbe officinali.
E la vecchia sedia di legno che forse era l’unica cosa lì dentro più ammuffita del padrone.
In effetti, ad una seconda occhiata, TUTTO lì dentro dava l’idea di aver avuto un incontro ravvicinato o con un chackram impazzito del n. VIII o con un attacco selvaggio del n. VII. Entrambi, nel caso dell’armadio.
Sotto i suoi piedi dei cristalli di ghiaccio si sgretolarono per poi liquefarsi lentamente a contatto degli stivali. Crepitavano piacevolmente, accompagnati da ciò che rimaneva di chissà quale contenitore di vetro dai liquidi più disparati. Su ciò che rimaneva del tavolo, un libro giaceva aperto con le pagine centrali divelte ed annerite.
Del Gelido Accademico nessuna traccia.
Qualunque cosa fosse accaduta lì dentro, lei, la Regina delle Risse nei Laboratori, non era stata invitata.
Una scarica elettrica le attraversò tutto il braccio destro.
Fece per liberarla contro uno dei macchinari, furiosa, ma il polso le si bloccò a metà, inchiodato in una morsa.
“Sapevo che prima o poi uno di voi bastardi sarebbe ripassato per qui”.
Provò a liberarsene con uno strattone, ma l’unico risultato fu accorgersi che l’ombra gigantesca aveva appena oscurato la già flebile luce del laboratorio “Anche se personalmente avrei preferito un un pesce più grosso”.
Venne strattonata contro uno dei mille strumenti distrutti, incapace di divincolarsi dalla morsa.
Quando riuscì a voltarsi, le iridi viola del n. III dell’Organizzazione erano venate di rosso.
Il gigante che controllava il vento, che li faceva correre come dei forsennati durante gli allenamenti in palestra, che aveva sempre un cipiglio truce per tutti, aveva pianto. Nel silenzio di quell’istante, Larxen sentì i denti del soldato stridere. “Lo avete preso alle spalle, maledetti figli di puttana”.
“Ehi, sarebbe carino avere una spiegazione, stupida massa di muscoli!”
“Una spiegazione … io a VOI traditori?”
Questo al caro Marly non piacerà neanche un po’ …
Cercò di affibbiargli un calcio tra le gambe, ma l’altro la spinse contro un’altra parete, senza mai perdere la presa. Larxen fu abbastanza veloce da spostare il collo ed evitare di colpire con la testa lo spigolo di uno scaffale, e in quell’istante vide una figura nera, accartocciata e distesa a terra nell’angolo della stanza da cui era sbucato Xaldin e che non aveva notato affatto al suo arrivo. Dalla tunica ancora risalivano degli sbuffi di fumo, ed il braccio destro, allungato nell’ultimo istante quasi ad afferrare qualcosa, non era più altro che una massa carbonizzata.
Non sarebbe riuscita a riconoscere nessuno in quella figura, ma l’espressione distrutta del n. III poteva essere interpretata solo in un modo.
Così come la firma dell’omicidio.
E, notò con sommo disdegno, Axel aveva iniziato il gioco al massacro senza di lei. “Cosa vuoi farci, scemo di un gorilla? Lo diceva sempre Xigbar che solo i coglioni si fanno prendere alle spalle” ghignò “Stavolta il coglione è stato lui”.
Le due sopracciglia nere si contrassero. “Ripetilo di nuovo, se hai il coraggio”.
In quell’istante, davanti a quegli occhi, Larxen capì di essere libera.
Prese l’obbediente n. XII degli ultimi mesi, quella che fingeva di essere dolce e tranquilla per non destare sospetti, quella che attendeva con pazienza che un vecchio bavoso preparasse un sonnifero per vincere la loro guerra, e la buttò in un inceneritore. Contro le sue gambe sentì il metallo di uno dei macchinari che aveva visto usare decine di volte dal n. IV, uno che analizzava il contenuto delle sue provette e gli comunicava il contenuto.
Nonostante i colpi ricevuti, l’oggetto era ancora funzionante.
“Certo che te lo ripeto. Xigbar era un coglione, beveva come un coglione, parlava come un coglione, obbediva al Superiore da bravo coglione”.
La mano libera toccò il metallo, felice. “E quindi è morto come il più grande dei coglioni”
L’elettricità attraversò tutto il suo corpo come un’unica onda. Lo strumentario si spense in uno sbuffo di fumo, e lei ballò.
Il Feroce Lanciere tentò di mantenere la presa, ma fu costretto a ritirare la mano. Lei si portò indietro, evocando i suoi kunai tra le dita, e con un salto si portò oltre il lettino da lavoro, alla ricerca di un vantaggio. Si mosse in tempo, perché l’istante successivo lo stesso lettino venne sbalzato via quando una folata di vento nata dal palmo del n. III attraversò il laboratorio e lo fece schiantare contro un armadio a vetri.
Per non cadere si aggrappò ad un frigorifero. Ne risucchiò l’energia, poi scagliò due saette in rapida successione verso l’avversario. Entrambe vennero respinte nella sua direzione, e le sei lance del n. III fluttuarono nell’aria, chiamate solo per difendere il loro padrone: comparvero da altrettanti portali oscuri, e fluttuarono intorno all’enorme figura creando a loro volta dei piccoli flussi d’aria.
Xaldin ne afferrò una con la mano sinistra e la scagliò nella sua direzione; lei si gettò di lato appena in tempo, schivando uno scaffale e tutto ciò che vi era poggiato sopra ormai in caduta libera. Qualcosa schizzò da una provetta in frantumi, ma prima di potersi anche solo rimuovere il liquido dal viso fu costretta a rotolare in un altro angolo perché una seconda lancia scattò verso di lei. Sentì la punta seghettata sfiorarle la coscia e strapparle la tunica, ma si rimise in piedi.
Qualunque cosa le fosse esploso in faccia bruciava più del fuoco.
Con la coda dell’occhio vide le aste appena scagliate svanire nell’oscurità e materializzarsi di nuovo intorno al loro proprietario.
Si accorse di sanguinare.
E non si era mai sentita così viva.
“Che c’è, stupido gorilla? Non riesci a prendermi? Non sarai troppo lento?”
Stare sulla difensiva non faceva per lei.
Saltò su un fornello, sfidando il vento. Caricò un kunai e lo scagliò proprio davanti a sé, evocando una cascata di scintille. Quelle schizzarono contro le lance, ma la difesa del soldato le rimandò indietro come la mano di un gigante contro delle mosche.
Ne approfittò.
Quando il vortice d’aria si attenuò per deflettere l’attacco saltò verso l’alto con tutta l’energia che aveva. Afferrò l’angolo di una lampada rettangolare fissata al soffitto e la mano sinistra vi impresse tutta la propria forza; prese tutta l’elettricità possibile, e dopo meno di un istante si lanciò di nuovo in avanti, esplodendo di energia.
Due lance si inclinarono per bloccarla, ma lei andò loro incontro e ne afferrò una.
Non aveva mai saltato un allenamento in palestra con Xigbar, Xaldin o Lexaeus. Lei, al contrario di quella margheritina di Marly, si divertiva solo quando ci si poteva far male sul serio. Solo i preti imparavano le cose sui libri, ed in quegli anni si era preparata a diventare l’unica Regina della Battaglia.
Certo, sollevare l’arma del n. V era stata un’impresa impossibile, ma un paio di volte aveva colpito il centro dei bersagli con entrambi i fucili di Xigbar.
Aveva fatto un sacco di prove con le lance del n. III, perché combattere con più di due armi era sempre stato uno dei suoi grandi sogni nel cassetto.
E sapeva benissimo quanto potessero condurre il fulmine.
La strinse tra le mani, lottando per impedire al nemico di evocarla di nuovo al suo fianco. Si lasciò attraversare dalla corrente, concentrandola prima tra le dita e poi sull’asta grigia e violacea: la liberò in entrambe le direzioni, ridendo al metallo che si anneriva contro i suoi palmi. Le saette partirono in ogni direzione. Rimbalzarono lungo le altre cinque lance, saettando intorno al nemico.
Una gabbia di fulmini illuminò a giorno il laboratorio, e lei ne era l’unica e sola batteria. Anche il bruciare del liquido contro il suo viso era un tutt’uno col suo cuore che batteva, galvanizzato dalla cascata di scintille pronte solo a friggere la massa di muscoli intrappolata al loro interno.
Piantò gli stivali a terra, caricandosi con tutte le proprie forze.
Premette, premette la catena di fulmini in avanti, chiudendo nella sua morsa il n. III, arroccato dietro un turbinare impetuoso di vento.
Tra le saette vide le prime scintille rompere la barriera e bruciargli la tunica.
Rise, pregustando il lanciere alla griglia in arrivo.
Quando vide il labbro dell’altro inarcarsi in un sorriso fu troppo tardi.
Cinque lance svanirono nell’aria, scagliando scintille in ogni direzione. Quella ancora tra le sue dita crepitò di elettricità, ma per lo sforzo sostenuto lei scivolò in avanti. Perse l’equilibrio e tentò di puntellarsi con l’arma, ma Xaldin le fu addosso. Cercò di aumentare la carica lungo la lunga asta, ma l’attacco di prima doveva averla scaricata. Con rabbia puntò l’oggetto ormai annerito contro il soldato, ma quello si mosse e tese il braccio per afferrarla.
La scagliò via, pronta a richiamare i propri kunai, ma l’altro la prese al volo. Provò a schivare, ma l’assenza del proprio potere la disorientò.
L’asta la colpì alla testa, proprio sull’occhio sinistro. Cercò di difendersi, mulinando un kunai in avanti, ma il suo braccio era troppo distante dal bersaglio.
Il secondo colpo, piazzato tra capo e collo, le portò via il fiato.
Si ritrovò sul pavimento, con frammenti di vetro piazzati contro tutto il corpo. Estese un braccio verso un altro macchinario, ma una raffica di vento feroce la fece rotolare contro una vetrina, sfondandola di netto. Si pulì il sangue dalla faccia con un solo gesto, ma tutto fu molto più doloroso del previsto.
Due fiale si sgretolarono quando i piedi del n. III le calpestarono senza esitazione. “Già, perché la cosa non mi stupisce? Non avreste vinto in uno scontro faccia a faccia con Xigbar nemmeno tutti insieme. Figuriamoci quel vigliacco del n. VIII …”
Cercò di rispondergli, ma si ritrovò a sputare sangue.
Si sforzò almeno di rialzare il busto, ma la mano sinistra incespicò in mezzo ad un cumulo di filtri, pozioni e boccette che il n. IV aveva stipato chiaramente alla rinfusa in quella vetrina. Una di queste, gelida come un intero ghiacciaio, per poco non le ustionò la mano nonostante il guanto.
Per la seconda volta l’ombra dai capelli neri le coprì la luce.
“Il Superiore ha detto che dobbiamo portarvi da lui vivi. Vuole guardarvi negli occhi, tutti quanti” ringhiò “Se fosse per me gli porterei direttamente i vostri cadaveri”.
Eccola, di nuovo.
La voglia di ridere.
Di ridere di quelle cazzate. Di quei cani addomesticati.
Di quelle masse di muscoli dai poteri enormi che potevano battersi come mostri, e che ballavano davanti ad un pazzo.
Marluxia ci perdeva il sonno, cercava di studiarli.
Lei no.
“Che c’è, Xaldin? Fai ancora il bravo cagnolino? E quando troverai Axel cosa farai, lo porterai al tuo adorato Superiore con un bel fiocchetto al collo?”
“Non credo che la cosa ti riguardi, n. XII”
L’estremità appuntita della lancia le si parò proprio davanti alla bocca. Provò a sputarci sopra, ma anche la bocca non le rispondeva. “Tu verrai con me dal Superiore in questo preciso momento”
“Ma guarda un po’ …”
Strinse con forza il filtro ghiacciato. Sentì il freddo bruciarle contro il guanto, ed il dolore le diede la giusta carica.
Nessun lanciere avrebbe messo dietro le sbarre la Regina della Fuga all’Ultimo Secondo. “… io non credo proprio!”
Si caricò un’ultima volta, ed aprì un portale proprio sotto di sé.
Poteva farcela.
I primi sprazzi di bianco all’uscita non lasciarono spazio a molti altri dubbi. “AL VOLO, MARLY!”
Non riuscì a vedere la traiettoria della pozione, perché nel momento preciso in cui i suoi piedi toccarono terra venne afferrata per il cappuccio dal n. III. La massa di muscoli mandò un grugnito non appena emerse dal suo stesso portale, scrollandosi gli ultimi strali prima che si richiudesse. La scagliò contro le sbarre della cella, e per un istante vide tutto rosso. Ma il cuore le batteva anche nelle orecchie, e tutto il dolore sembrava soltanto una cascata di folgori che le bruciavano ogni fibra dei muscoli. Con un colpo di kunai tagliò il cappuccio di netto. Barcollò, usando una delle sbarre per non perdere l’equilibrio, ma si portò a diversi passi dal gigante.
Era viva.
Viva come l’ultimo lampo prima del dissiparsi delle nuvole.
“Due traditori al prezzo di uno. Il principe senza poteri e la sua tagliagole” sbuffò. Sollevò la lancia, prendendole di mira proprio il centro del petto. “Forse hai ragione, ho proprio voglia di lasciarti inchiodata a quella parete. E, rispetto a quello che avete fatto al mio amico, sarebbe comunque un trattamento di favore”
“Ma fammi il piacere!”
Era lì, tutto come lo aveva sempre immaginato. Il sangue che bolliva, e la punta della lancia dritta contro di lei. “Xigbar era un povero ubriaco. È morto come un imbecille …”
Sorrise.
“… e tu insieme a lui”.
La lancia venne strattonata via. Il clangore metallico risuonò per tutta la cella quando l’asta sbatté con violenza contro le sbarre, trascinata insieme a tutto il braccio del padrone.
Xaldin grugnì quando i rampicanti si avvolsero prima intorno alle sue caviglie, poi intorno alle braccia. Su uno di essi esplose una spina lunga quanto il dito di un umano, e gli si piantò nel polso con un unico movimento. Cercò di strapparseli di dosso, ma quelli sfuggivano alla presa delle sue mani, inchiodandolo contro le grate della cella.
Una seconda spina, ancora più acuminata, gli attraversò la carne subito dopo la prima, e con un grido che avrebbe richiamato tutto il Castello perse la presa sull’arma.
Larxen si scagliò verso la lancia con tutte le poche energie rimaste, afferrandola prima ancora che toccasse il suolo.
Da oltre le sbarre il sorriso feroce di Marly sembrava attendere soltanto lei.
“Scusami, n. III” disse “Ma è una vita che volevo farlo!”
Si bagnò nella pioggia di sangue.
Rossa, fantastica, l’unico segno inconfutabile della vittoria.
Della sua vittoria.
Vide Marly, ormai riacquistati tutti i suoi poteri, teleportarsi all’istante fuori dalla prigione. Con il suo solito cenno imperioso richiamò i rampicanti, ed il corpo del nemico cadde a terra, con la lancia ancora infissa tra capo e collo.
Larxen non sentiva più né le gambe né le braccia, eppure scoppiò a ridere.
Non si era mai sentita così bene.
Stava ancora ridendo quando un portale oscuro apparve sotto i loro piedi, risucchiandoli.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 - Vexen (X) ***


Capitolo 28 - Vexen (X)





Un Heartless





Tutti lì, pensò.
Marluxia e Larxen, appena usciti da un portale oscuro e con la n. XII con più tagli e lividi di quanti gliene avesse mai visti. Axel, risvegliatosi da qualche minuto dall’operazione, lo sguardo perso nel vuoto.
E se stesso.
Il ricordo del viso di Zexion, scivolatogli via nella visione create dalle Stanze, lo distrasse per pochi istanti.
Loro quattro, i “traditori”.
E lui.
Lo Spirito del Castello aveva aperto il portale sotto i piedi di Marluxia e Larxen proprio quando Saïx stava per mettere piede nelle segrete. Vexen aveva osservato ogni cosa dalla sua postazione privilegiata, e più volte si era chiesto perché il misterioso guardiano non fosse sceso al fianco della n. XII se così tanto desiderava la caduta del Superiore e dei suoi tirapiedi. Ma lo Spirito si era fatto silenzioso, e non era certo quella la domanda che all’uomo bruciava nel petto.
“Un salvataggio provvidenziale, invero”.
Se l’imponente figura in armatura avesse impressionato la lingua di miele del n. XI, questo non gli era dato saperlo. Aveva imparato quanto di rado i sentimenti sfuggissero dalla maschera del principe Dayel. “La stessa anima del Castello che si unisce a noi. La cosa avrebbe dell’ilare, se non ci fosse un licantropo sulle nostre tracce”.
“Se vuoi trovare qualcosa di ilare, Lumaria dei Dayel, cercalo nel nostro destino”.
Innaturale. Immobile, quasi fosse una statua.
Chissà se vi era ancora un volto sotto quell’elmo.
“Vi è anche uno solo di voi che sappia dirmi il nome del vostro mondo? Del mondo dove siete nati e cresciuti?”
“Beh, ci sono il regno di Carl, il regno di Ringaia, il principato di Banora, il regno di …”
“No”.
La testa della figura metallica si voltò in direzione di Larxen, bloccando il suo elenco. Con una certa soddisfazione Vexen si accorse che la ragazza era ancora troppo stanca dal combattimento per rispondere a tono allo spirito. L’elmo si mosse, come se lo sguardo del suo padrone potesse toccarli tutti. “Non mi interessano questi minuscoli regni. Ciò che conta è qualcosa di molto più grande”.
Vexen si ritrovò a sospirare.
Prima di accedere alla sapienza del Castello dell’Oblio non aveva alcuna idea di cosa fosse un pianeta. Se fosse giunto da lui qualcuno dicendo che tutti loro vivevano su una minuscola sfera nell’immensità del vuoto lo avrebbe forse considerato pazzo. Il mondo era ciò che veniva disegnato sulle mappe, ed i limiti soltanto delle righe vergate con inchiostro vecchio di secoli.
Il teletrasporto del Castello gli aveva permesso di raggiungere qualsiasi posto desiderasse.
Era stato meraviglioso.
E inebriante.
Il loro piccolo, arretrato pianeta brulicante di demoni era solo un triste granello di sabbia. L’idea che potesse essere stato qualcosa di più era stato solo un pensiero fugace tra i mille altri.
Lo spazio, la stanza bianca in cui si trovavano, mutò forma.
Vexen si ritrovò insieme agli altri come sospesi in aria mentre il soffitto si tingeva di scuro ed il pavimento si allontanava, colorandosi di scuro. Accanto a lui Axel bestemmiò tra i denti, ancora scosso dai sedativi.
Sotto di loro prese forma una città.
Uomini, donne e bambini camminavano senza fretta, occupando strade così grandi da far passare otto carri insieme. Erano vestiti con indumenti che gli ricordarono quelli del pianeta Coruscant, semplici ma puliti, privi dei gioielli di cui i nobili si caricavano. Edifici alti, lucidi, alcuni di vetro ed altri di materiali simili al metallo, che riflettevano la luce del sole ed illuminavano le vie di un colore vivo, intenso. Guardò meglio in un angolo, e vide quello che chiaramente era un negozio abbondare di frigoriferi, lavatrici e quelli che sembravano computer, con gente che entrava ed usciva senza sosta. Larxen rimase persino in silenzio quando vide un gruppo di uomini uscire dal negozio, caricare un frigorifero su uno strano oggetto e vedere questo sollevarsi da terra e prendere il volo, scivolando tra le strade come un carretto ma senza conducenti.
Ad un cenno dello Spirito si abbassarono, trovandosi proprio in mezzo a quella gente.
Si accorse di potersi muovere, e d’istinto estese la mano verso gli schizzi di una fontana; l’acqua gli passò attraverso, come aveva sospettato, ma questo non rendeva la scena meno vivida. Un altro di quegli oggetti volanti gli passò attraverso, stavolta con due ragazzi a bordo. Gli ricordarono gli hovercraft di Hosnian Prime e Cardota, ma più leggeri, semplici e dalle forme lineari. Scorrevano sopra le strade in file ordinate, arrivando persino a superare in altezza alcuni degli edifici più bassi.
Si ritrovò a trattenere il fiato quando uno di questi velivoli, più grande degli altri, si fermò a pochi passi da loro e ne uscì della musica.
Persino Marluxia, che fino a qualche istante prima aveva mantenuto la sua solita espressione, fece un passo verso quella macchina, vinto dalla curiosità.
“Questa era Autozam”.
Lo Spirito, fino a quel momento impassibile, guardò verso il basso. Un bambino sembrò guardare proprio nella sua direzione, ed il guerriero fece un impercettibile segno di saluto. Per la prima volta a Vexen sembrò di scorgere un barlume di emozioni in quella voce metallica. “La capitale degli uomini”.
Axel aveva gli occhi incollati ad un negozio traboccante di dolci dalle forme più svariate, con barattoli dai mille colori che avrebbero rapito lo sguardo di chiunque. “Stai dicendo che questo posto era il nostro mondo?”
“Lo era. Finché il Grande Satana non lo bramò per i suoi demoni”.
Il primo a notarlo fu Marluxia. “Che cos’è quello?”
Vexen si voltò.
I suoi occhi impiegarono qualche secondo a notarlo, troppo distratti dalle luci azzurre e verdi provenienti da un negozio. Registrarono un movimento strano, e dovette seguire il dito del n. XI per capire cosa fosse.
Un’ombra si mosse.
Priva di un corpo d’origine, scivolava da una persona all’altra. Una macchia nera lungo il viale grande poco meno di un braccio. La vide muoversi da un’ombra all’altra.
E, senza sapere cosa fosse, capì che era viva.
Lo Spirito si avvicinò a loro, con un cenno d’assenso. “Heartless” mormorò “Il frutto della nera magia dei demoni”.
Sebbene tutto intorno a loro non avesse alcuna forma, Axel mandò un grido e si scansò quando un’altra di quelle macchie passò lungo il muro di un edificio, staccandosene e atterrando a pochi passi da lui. In pochi istanti, il tempo di voltarsi, e le ombre avevano invaso più di metà della via. Intorno a loro la gente iniziò a correre.
Vexen si accorse di non riuscire a staccare lo sguardo da quelle macchie. Prima una, poi tutte le altre, iniziarono ad aumentare dimensione e forma fino ad essere dense. Diventarono creature strane, diverse da qualsiasi altra avesse mai visto di persona o letto nei cataloghi del Castello, assenti persino nei libri di creature magiche che aveva trovato per Zexion. Avevano addosso l’oscurità dei portali, quel buio capace di risucchiarti.
Gli arrivavano al ginocchio, con quelle che potevano ricordare delle zampe assai gracili. Gli occhi erano l’unica fonte di luce in quel buio.
Tutto divenne nero.
Gli Heartless, ormai più di quanti riuscisse a contarne, si avventarono sugli uomini. Axel d’istinto lanciò una fiammata contro un gruppo che assalì una bambina, ma la sua magia passò attraverso le figure. La bambina non fece in tempo a gridare che Vexen la vide cadere, assalita dalle creature come un branco di predatori su un cucciolo finché non riuscì nemmeno più a vederla. Si staccarono da lei dopo poco tempo, e da sotto i vestiti dilaniati vide le minuscole forme diventare sempre più scure, fino a farne emergere un nuovo Heartless. Un gruppo di donne alla sua sinistra sprangò l’ingresso del negozio, ma le ombre scivolarono attraverso e le grida furono fin troppo reali per non volgere lo sguardo. Persino gli schermi lungo le abitazioni, pieni di immagini che scorrevano, iniziarono a spegnersi uno dopo l’altro, come finestre nere.
Si ritrovarono stretti tra loro più del necessario quando una raffica di spari irruppe nel bel mezzo del massacro.
Solo nei suoi viaggi Vexen aveva appreso l’esistenza di altre armi che non fossero spade, lance o asce, ma aveva ben chiaro cosa volesse dire il rumore di uno sparo.
L’aria ionizzata si illuminò a pochi palmi dalle loro teste, ed un gruppo di uomini emerse dalle vie, armati con blaster ed altre armi che il n. IV non avrebbe saputo definire. Entrarono nello spazio visivo a decine, creando muri di elettricità statica tra i mostri e la gente disarmata, caricando tutti su dei velivoli e Larxen non nascose un grido di giubilo quando un raggio rosso emerse da un macchinario grande quanto un uomo e fece esplodere una decina di mostri. Altri soldati entrarono ancora, avvolti in armature che non avevano nulla delle cotte sgangherate delle guardie del loro mondo, dove un elmo di ferro era il massimo delle difese possibili.
Poi dall’altro lato della piazza, emersero degli uomini vestiti di blu. Si inginocchiarono all’unisono, e quando tracciarono dei segni a terra al cuore di Vexen mancò un battito.
“Gli Alchimisti di Stato del maestro Xehanort” mormorò lo Spirito. “L’unione perfetta tra scienza e magia. Uno dei pochi baluardi degli uomini in grado di fronteggiare la magia selvaggia della famiglia demoniaca”.
Scoprì di non riuscire a trattenere l’emozione.
Stava vedendo il passato, la storia di un mondo che non avrebbe mai immaginato.
Gli umani del suo stesso pianeta avevano posseduto conoscenze e tecnologie da far impallidire quelle di mondi avanzati come Coruscant, che Vexen aveva visitato per giorni con il naso all’insù, incapace di accettare che si potesse anche solo vivere tra quelle meraviglie mentre lui era stato condannato a nascere in un posto arretrato e primitivo.
Si rivide anni prima, mentre imprecava la sorte per non essere cresciuto in un luogo che avrebbe esaltato la sua brama di sapere, invece che reprimerla come avevano fatto i sacerdoti. Sentì l’invidia che lo aveva pervaso nello scoprire che nell’universo esistevano università, laboratori, santuari della Conoscenza che avrebbero potuto spalancargli le porte.
E, quando dai cerchi alchemici vide le mura d’acciaio degli edifici piegarsi in due, schiacciando decine di Heartless, capì.
“I demoni avevano paura di noi”.
“Invero”.
Sopra di loro, nemmeno avesse udito le loro parole, un demone si librò sui tetti di Autozam. Le sue mani si riempirono di energia oscura, e la nube di Heartless sembrò prendere vigore dalla sua magia.
I soldati si voltarono verso il nuovo arrivato, puntando le armi al cielo. I mostri si abbatterono su di loro come un fiume in piena, e per quanti gli alchimisti ne riuscissero a distruggere, altrettanti se ne formavano dalle persone coinvolte. Luci, armi e scudi ionici si mossero contro l’invasore, e Vexen non poté non notare il pugno dello Spirito, serrato con rabbia come se potesse distruggere il guanto stesso.
Gli uomini combattevano contro i demoni.
A testa alta, con delle armi vere.
Non gli servivano i poteri di Zexion per accorgersi che anche i suoi compagni provavano le sue stesse emozioni. E, mentre il buio calava sempre più sulla città degli uomini, comprese il motivo per cui lo Spirito del Castello aveva deciso di venire in loro soccorso.
“Hai ascoltato la nostra riunione, anni fa” disse. “Quando proponemmo al Superiore di usare i poteri del Castello per combattere ancora una volta la famiglia demoniaca”.
“Esatto”.
Uno alla volta, anche gli alchimisti svanirono. Avevano eretto dei muri con l’asfalto della strada ed erano giunte delle pattuglie in loro soccorso, ma ormai la quantità di Heartless era così immane che non si riusciva nemmeno a vedere il terreno. Correvano lungo i muri, si ammassavano l’uno sull’altro quasi a ricreare delle torri, ed anche se il demone furioso era scomparso si accorsero che tutte le luci della città si erano ormai spente, e l’unica fonte di luce erano gli occhi delle creature sempre più numerose ed affamate.
Una dopo l’altra, anche le grida di aiuto si spensero.
Il bianco del Castello colpì i loro occhi come una coltellata. Si ritrovarono di nuovo nelle Stanze della Memoria, e sui volti di ciascuno di loro vi era qualcosa di insolito. Larxen, ad esempio, mostrava un’eccitazione semplice e poco rumorosa. Axel si stringeva nel cappotto, gli occhi spalancati dalla paura. E Marluxia, dopo tanto tempo, aveva dipinta sulla faccia un’espressione di stupore incredibile. La stessa, pensò Vexen, che doveva trasparire anche dal proprio viso.
“Per la prima volta dopo secoli ho visto persone nuove tra queste mura. Persone diverse”.
Era stato umano.
Qualsiasi cosa fosse adesso quello Spirito, vi era stato un tempo in cui era stato come loro.
Qualsiasi cosa fosse stato negli ultimi millenni, erano stati i sentimenti degli uomini a restituirgli coscienza e forma.
Quando Zexion lo aveva avvisato che il Castello fosse qualcosa di vivo non avrebbe mai immaginato nulla di simile.
“Lumaria dei Dayel” disse “Gli oligarchi di Autozam deprecavano l’immobilità. Credevano nel cambiamento, nell’oltrepassare le convenzioni imposte dalle convinzioni immutabili dei demoni. Sapevano quando scegliere la pace … e quando la guerra. Hanno guidato gli uomini a testa alta, senza mai rifuggire dai demoni più feroci. A modo tuo, me li ricordi molto”.
Un sorriso si increspò sulle labbra del n. XI. Vexen avrebbe avuto di che dissentire, ma questa volta la forma del guardiano si piantò davanti a lui. Non gli era mai giunto così vicino. Ma, anche a quella distanza, nulla si intravedeva oltre il visore dell’elmo. “Even, Ultimo Alchimista. Negli ultimi tre millenni ho visto i nobili alchimisti svanire, i loro testi bruciati. Uno dei più grandi vanti degli uomini ridotto a meno di un pugno di individui nascosti, e nessuno di essi mai al tuo livello. Hai desiderato portare la conoscenza agli uomini, e per questo non te ne sarò mai abbastanza grato”.
Vexen annuì.
Durante quella riunione, due anni fa che ormai sembravano almeno due secoli, aveva agito soprattutto per se stesso. Per sfuggire ai divieti che erano comunque giunti. Per non finire isolato su un pianeta buio, bloccato nella libreria come un topo.
Per poter finalmente mostrare al mondo chi era e cosa poteva fare, per avere gente che lo guardasse col rispetto che nessuno, nemmeno gli stessi membri del Castello, gli avevano mai tributato.
A parte Zexion.
Ma adesso, dopo quello che aveva visto, qualcosa di diverso iniziò a battergli dentro.
“Il tempo e la paura non hanno cancellato soltanto il sapere. Hanno distrutto la forza, e i demoni ci hanno piegati. Arlen, ho visto le fiere donne di Autozam, le grandi guerriere ed i migliori generali, svanire nel buio. Sentirsi inferiori di fronte agli uomini, un concetto degno solo di un mondo che mi rifiuto accettare sia il mio. Se devo a qualcuno il mio risveglio, è anche dovuto alle tue certezze incrollabili. E anche tu, Lea …”
Si immobilizzò. Aveva appena sottoposto il n. VIII ad un condizionamento di una certa rilevanza, e non aveva alcuna idea pratica di come e quanto uno stimolo così importante potesse influenzare l’operazione svolta. I collegamenti sinaptici dovevano ancora riallacciarsi correttamente. Se qualcosa fosse andato storto …
Lo Spirito fece qualcosa di strano.
Si avvicinò ad Axel, estese un braccio, e gli poggiò la mano sulla spalla.
Che Vexen avesse mai visto, l’essere in armatura non aveva mai sviluppato un contatto fisico con nessuno. La pressione e l’improvviso sobbalzare nel n. VIII gli confermarono che la creatura aveva davvero un livello di fisicità.
“Quando ti ho chiamato a me, trascinandoti nelle Stanze, ho voluto testare la tua risolutezza. Ho voluto vedere il tuo crocevia. Se questo ti ha spaventato, o confuso, te ne chiedo perdono. Ci sarà sangue nel tuo futuro, ma … so che avrai la forza di sopportarlo”
Nonostante il tempo fosse stato scarso, Vexen era riuscito ad osservare anche i ricordi di Axel connessi al viaggio nelle Stanze. La curiosità sullo Spirito, sui ricordi e su ciò che era accaduto al n. XIII aveva preso il sopravvento, ed aveva osservato i mille corpi di quel luogo, dove il passato ed il futuro sembravano carte da gioco mescolate su un tavolo. Aveva visto i corpi carbonizzati, ed al pensiero di Xigbar aveva tremato.
In quel mondo confuso e distorto, il n. VIII aveva davvero visto stralci del proprio futuro.
E, come lui, il ragazzo nella pozza di sangue gli aveva lasciato addosso qualcosa.
“Noi umani non siamo come i demoni. Non siamo immutabili. Non viviamo così a lungo da arrogarci la presunzione di conoscere ogni cosa”.
Si ritrovarono tutti a fissarlo. “Siamo fragili. Le creature più semplici possono avere ragione di noi, se hanno abbastanza artigli. Il dono della magia è stato dato solo ad alcuni, ed a livelli così infimi rispetto a quelli dei nostri nemici. Davanti ad un ostacolo rispondiamo con la paura. Perché sappiamo cosa sia la paura. Perché la viviamo ogni giorno, con la disperata certezza che potrebbe essere l’ultimo. I demoni ci considerano vili e pusillanimi perché non sanno cosa voglia dire doversi conquistare la vita palmo a palmo. Non sanno quanto sia difficile, per un essere debole, sopravvivere”.
Vexen si accorse di vibrare. Dai ciuffi alla punta dei piedi, con maggiore intensità. Si accorse di sentire i propri pensieri, quelli sempre alla rinfusa nella sua mente, prendere forma nella voce metallica dello Spirito.
“Ma noi umani sopravviviamo. Deboli, primitivi, diversi, ma anche davanti alla furia dei demoni ed alla furia degli Heartless abbiamo continuato ad esistere. Non ci siamo estinti. Ci siamo piegati. Ma ciò che è piegato, con la giunta spinta, può sollevarsi di nuovo. Ci siamo divisi, allontanati, ma per combattere coloro che ci schiacciano possiamo unirci ancora. E per sempre. Grazie alla vostra guida ed ai poteri del Castello la razza umana ha ancora una speranza”.
“Ci sono giusto tre o quattro ostacoli da superare …”
Il commento del n. XI li riportò bruscamente alla realtà. Vexen ebbe la sgradevole sensazione che il principe avesse ascoltato il discorso dello Spirito solo in parte, come un serpente in attesa di colpire solo il proprio obiettivo.
Se la creatura non se ne fosse accorta o se accettasse la cosa, questo non gli era dato saperlo. Anche se purtroppo il n. XI non aveva tutti i torti.
Fuori dalle Stanze della Memoria, il Superiore li stava aspettando.
Che lo Spirito non avesse alcuna inclinazione verso Xemnas, quello ormai era chiaro. Il Superiore, la sua famiglia, le sue antiche tradizioni ed il rispetto verso il Castello non valevano nulla agli occhi del guardiano.
Xemnas aveva cercato di allontanare il Castello dagli uomini per le proprie paure, quando ormai era chiaro che la creatura non bramasse altro che ricongiungersi alla sua stessa gente.
Ilare.
Si chiese cosa ne avrebbe pensato l’ottuso Radigata a quella rivelazione. A giudicare dal sorriso feroce, anche il n. XI stava pensando la stessa cosa.
“E li supererete”.
Quattro forme bianche apparvero lungo la stanza. Al n. IV ricordarono dei boccioli, sebbene molto articolati. Ciascuno di loro era grande abbastanza per contenere una persona.
“Io sono il Castello. Ma il Castello è la mia prigione. Non mi è dato manifestarmi al di fuori di questo luogo. Per ora”.
Ad un suo cenno, le quattro forme si aprirono, proprio come dei fiori ed i loro petali. Ne uscì una luce bianca, non violenta, ma allo stesso tempo abbastanza forte da impedire loro di vedere cosa ci fosse all’interno. Ma la magia che gli correva nelle vene non aveva bisogno di occhi per bearsi di quel richiamo. “Posso offrirvi parte della mia forza, ma solo per poco tempo. Immergetevi nel Cuore del Castello, ed uscitene come siete degni davvero di essere. Non potrò ottenere una nuova forma per molto tempo, ma so di lasciare la mia stessa essenza nelle mani giuste. Rimuovete gli ostacoli che vi impediscono di portare la sapienza alla razza umana”.
“Quindi non ci rivedremo?”
“Per ora rivendica il Castello per voi, Even Ultimo Alchimista”.
Con una mano, lentamente, li invitò ad entrare. La n. XII fu la prima ad avvicinarsi alle strutture, madida di curiosità. “Una volta ottenuto ciò che vi spetta, cercate nella biblioteca tutto ciò che concerne l’Invocazione Suprema. Se la porterete a compimento, la magia draconica che mi incatena a questo luogo sarà spezzata. Sono stato rinchiuso tra queste mura, per il mio amore per la nostra gente, e non intendo rinnegarlo. Se vorrete il mio potere, e la mia lealtà, essa sarà vostra. Ma prima … pensate al vostro presente. Perché è questo ciò che dà agli uomini la vera forza”.
Uno ad uno entrarono. Larxen con solito entusiasmo, Axel con un po’ di dubbio, Marluxia con voluta calma, quasi come un sovrano che scegliesse il momento adatto per sedere sul proprio trono.
Con lentezza, anche Vexen si avvicinò.
La luce non era né calda, né fredda. Era accogliente, e ogni singolo raggio parlava di magia.
“Entrate, nuovi umani, e sognate del vostro passato. Sognate della vostra grandezza, del vostro coraggio, di ciò che vi è stato portato via dall’ingordigia di creature terrorizzate dalle vostre potenzialità”.
Entrò, e con un lieve ronzio i petali della capsula iniziarono a chiudersi intorno a lui. Si sentì cullato in un abbraccio vivo, dolce, come lo aveva conosciuto tantissimo tempo addietro.
“Sognate del vostro regno, e prendetevene cura. Sognate della grandezza di Autozam, il passato che vi è stato strappato via. Delle vostre teste erette, della conoscenza che vi spettava. Sognate dell’intero pianeta, che un domani potrete chiamare vostro, e libero con il suo vero nome”.
Chiuse gli occhi, e l’ultimo pensiero fu lo sguardo triste di Zexion.
“Sognate del nostro mondo. Sognate del mio amato Cephiro”.
 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 - Larxen (III) ***


Capitolo 29 - Larxen (III)





Il tomahawk di Lexaeus





“Questa roba è pazzesca.”
Ferite, lividi, persino il dolore, tutto sparito. Anche la tunica dell’Organizzazione sembrava appena uscita dalla lavanderia, stirata di fresco come non era stata neanche il suo primissimo giorno al Castello dell’Oblio.
E la magia della capsula buffa non si era limitata a guarirla. Larxen non si era mai sentita così forte, potente ed esplosiva in vita sua. L'energia del fulmine scalpitava dentro di lei, pizzicava insistentemente sulla punta delle dita, pregando, no, esigendo di venire rilasciata. La n. XII era più che entusiasta di accontentarla.
“Pronti a spaccare il culo a Xemnas, ragazzi?”
“Frena i tuoi impeti omicidi, Larxen. Dobbiamo pianificare attentamente le prossime mosse. Il successo della nostra impresa dipenderà dall’astuzia oltre che dalla forza.”
Davvero non capiva come gli altri potessero restare tanto impassibili. Vexen era un vecchio patetico, Marly un signorino scopa-nel-culo e Axel un ritardato completo, ma possibile che nessuno di loro percepisse la magnificenza del potere che avevano appena ricevuto? Come riuscivano a starsene seduti attorno a un tavolo a discutere mentre la magia ruggiva assordante nelle loro vene? Da quando era uscita dalla capsula, nemmeno un'ora prima, Larxen non era in grado di pensare ad altro. La sua unica certezza era che doveva liberare quel potere o sarebbe esplosa in un tripudio di saette.
“Basta temporeggiare, Marly! Stiamo solo perdendo l'effetto sorpresa!”
La ignorarono. Di nuovo.
Il n. IV stava tenendo una sorta di noiosissima conferenza, illustrando un piano arzigogolato che prevedeva una serie di fughe per il Castello e il collocamento in punti strategici di “sigilli alchemici”, o come diavolo si chiamavano. Sorprendentemente, Axel pendeva dalle sue labbra, chiedendo diverse volte di rispiegare i passaggi che non capiva (cioè quasi tutti) e annuendo con vigore. Bocciolo di Rosa invece si teneva sulle sue, assorto nella contemplazione di ciò che accadeva in quel momento all'interno del Castello. L'immagine fluttuante di Xemnas, Lexaeus e Saïx che tentavano di sfondare a suon di incantesimi il portone delle Stanze della Memoria gettava luci aguzze sulla sua fronte corrugata, rendendo la sua espressione quasi ferale.
“Assurdo che non si senta nulla del casino là fuori.”
Perse le speranze di ricevere attenzione dai suoi tre (deludentissimi) complici, Larxen decise di rivolgersi all'unico altro essere presente nella stanza, il misterioso uomo in armatura. Il suo discorso era stato epico, c’era poco da dire. Di fronte alla battaglia campale di Autozam, la n. XII aveva provato il desiderio di saltare nella mischia e falciare orde di creature nere con una di quelle armi fantastiche che gli umani erano in grado di costruire tremila anni prima. Erano solo immagini ed echi del passato, solo una storia. Ma una bella storia. Come l’avventura del Re Kraken Uccisore di Draghi che leggeva di nascosto da piccola e le faceva battere il cuore. Poche cose nel mondo reale l'avevano fatta sentire così viva fino a quel momento. Far fuori il n. III dopo un sanguinoso duello era una di quelle.
“Ho promesso che vi avrei protetti entro i confini di questa stanza, e la mia parola è sacra.”
L’uomo-lattina restava immobile, imperscrutabile. Probabilmente le creature millenarie avevano anche una pazienza millenaria. Ma Larxen non era una creatura millenaria.
“Prima o poi dovremo uscire di qui.”
“Niente ve lo impedisce.”
Ah.
Un ultimo sguardo al tavolo dei presunti strateghi, poi gli occhi di Larxen inchiodarono il portone come dardi infuocati.
L’unica via di accesso alla sala in cui erano asserragliati da ore. La barriera sottile che li separava dagli ultimi tre ostacoli rimasti tra loro e la conquista del Castello (i n. VI, IX e X avevano abbandonato la nave mentre lei stava combattendo con Xaldin, ma erano irrilevanti in ogni caso).
Mancava così poco.
Il fulmine accorse al suo comando ancora prima che sollevasse la mano. Spalancati! Ordinò. È la Regina delle Tempeste che te lo comanda!
I cardini saltarono, tranciati di netto dalla forza dei battenti che esplodevano verso l'esterno. Il boato assordante le vibrò fin dentro le ossa, facendole battere i denti e scorrere un brivido di piacere lungo la schiena.
Ora inizia il divertimento.
Dalla mano tesa un groviglio di saette eruppe in un'estensione del suo pugno, tuffandosi come un razzo-missile nello spazio tra i battenti scardinati. Per un attimo la luce del fulmine accecò persino lei, ma le urla degli altri si fecero comunque strada fino alle sue orecchie, accarezzandole come la più dolce delle melodie.
Le urla di stupore dei suoi alleati.
E quelle, infinitamente più soddisfacenti, dei suoi nemici. La prima cosa che vide quando il lampo si spense furono il Superiore e i suoi potentissimi guerrieri accartocciati a gambe all'aria, le vesti bruciacchiate.
Scoppiò a ridere.
“Gorilla alla griglia! Cotti a puntino!”
Ad onore di Lexaeus e Saïx andava detto che furono fulminei a rialzarsi per fare da scudo al n. I. In pochi secondi il tomahawk e il claymore apparvero nelle loro mani, e Larxen piantò i piedi a terra, pronta ad affrontare l’inevitabile carica.
“Fatevi sotto, grassoni!”
E poi, mentre Larxen già pregustava lo stridio dei suoi kunai sulle armi dei gorilla, al Superiore venne la malsana idea di posare le mani sulle braccia di entrambi, frenando il loro slancio. Alle sue spalle Larxen percepì, senza vederli, i suoi tre complici che la raggiungevano sulla soglia. Marluxia stava abbaiando qualcosa, verosimilmente rimproveri o ordini, ma Larxen restò con gli occhi puntati sui nemici, relegando il n. XI a brusio di sottofondo. Ve la siete presa comoda.
Lo sguardo di Xemnas abbracciò i quattro traditori, ricolmo di dolore. Neanche dopo la morte dei due membri più fedeli quegli occhi d’ambra riuscivano a tingersi di rabbia.
Eppure te li abbiamo serviti per benino. Un’anatra arrosto e un maiale allo spiedo.
E osava definirsi un leader. Le faceva schifo, per quanto era debole.
“Vi prego, figli miei. Non vi basta il sangue già versato nella nostra famiglia? Possiamo ancora fermare questo… “
Eh, no.
Il tempo dei sermoni era finito.
“Non ci provare!”
Scattò, ogni muscolo del corpo unito in una perfetta sintonia. Era sempre stata veloce, ma adesso le sembrava di volare, di scivolare senza peso sul pavimento bianco. Le altre ragazze del villaggio si emozionavano per un vestito nuovo o una corona di fiori nei capelli, ma Larxen non si era mai sentita bella come in quel momento, mentre caricava il nemico con i kunai tra le dita, il corpo snello circondato dai fulmini.
Non arrivò nemmeno a sfiorare il Superiore. Con un boato assordante, un muro di roccia esplose dal terreno davanti a lei, nascondendo la preda alla sua vista. Larxen vacillò, sul punto di perdere l’equilibrio per le scosse che si propagavano sul pavimento e le pareti del Castello. Piantò i piedi e si morse l'interno del palato, valutando l'ostacolo in una frazione di secondo.
Il muro di roccia continuava a innalzarsi, presto avrebbe raggiunto il soffitto. Era veloce.
Larxen lo era di più.
Saltò, usando le protuberanze e gli spuntoni nella parete rocciosa come punti d'appoggio. La scia di fulmini la seguì come la coda di una cometa, un balzo dopo l'altro. Arrivò in cima poco prima che la pietra si congiungesse al soffitto e si infilò nel pertugio con l'agilità di un serpente, una manovra degna della Regina degli Inseguimenti Rocamboleschi. Atterrò dall'altra parte leggera come una piuma.
Il muro di roccia si schiantò contro il soffitto e il boato riecheggiò fin nelle fondamenta del Castello.
 Purtroppo, il Superiore non si vedeva da nessuna parte.
“Il tuo padrone è un cagasotto. Come pretende di comandare se non fa che nascondersi dietro voi masse di muscoli?”
La massa di muscoli in questione non mosse un sopracciglio. Non c’era nessun altro nel pezzo di anticamera rimasto isolato dalla parete rocciosa. Alle orecchie di Larxen arrivavano grida e rumori confusi, attutiti dallo spesso strato di pietra. Dall'altra parte dovevano aver già iniziato a darsele di santa ragione. Di fronte a lei, un secondo muro: la sagoma possente del n. V.
“Mi lusinghi, comunque. Tutto questo casino solo per rimanere solo con me. Peccato tu non sia il mio tipo.”
Lexaeus dava poca soddisfazione. Non rispondeva alle provocazioni, non insultava, non si arrabbiava. Si limitava a fissarla con disprezzo e disapprovazione scolpiti negli occhi blu. Era come fronteggiare un golem di pietra. Le conveniva farlo fuori in fretta, per poter passare a sfide più divertenti.
Lasciò danzare i fulmini. Inarcò le dita, lanciandoli in una rete ad avviluppare il suo ingombrante avversario, allacciandoli intorno alle braccia e alle gambe solide come tronchi e lanciandosi in avanti in un lampeggiare di kunai. Nessuno nell'Organizzazione poteva rivaleggiare con la forza di Lexaeus, ma la sua stazza da bisonte lo rendeva lento e prevedibile. Allenandosi sotto la sua guida Larxen aveva capito ben presto che il n. V puntava a concludere gli scontri rapidamente, con pochi colpi micidiali e ben assestati.
"Prendimi se ci riesci!"
Lo sfolgorare delle saette non nascose il lampo di sorpresa negli occhi del gorilla, e Larxen rise con malignità mentre i kunai facevano centro una, due, tre volte. Accerchiato dalla gabbia di fulmini, il n. V non riuscì né a parare né a schivare. Poté solo guardare con impotenza mentre tre larghi squarci si aprivano lungo l'avambraccio, il torace e il fianco sinistro. Con una capriola, Larxen si portò di nuovo a distanza di sicurezza e sfrecciò di nuovo all'attacco come il proiettile di una fionda. In un mondo di cui non ricordava il nome aveva scoperto un gioco chiamato "flipper", in cui si premevano freneticamente due levette per far schizzare una pallina di metallo da una parte all'altra e colpire bersagli disseminati lungo il percorso. Da quel momento aveva sempre pensato che sarebbe stato divertente e altamente spettacolare combattere come una pallina da flipper.
Prima delle capsule buffe non sarebbe riuscita ad attaccare tenendo la rete di saette attiva così a lungo, ma adesso non aveva nemmeno il respiro affannato. Lo sfrigolio dell'elettricità faceva da piacevole sottofondo ai grugniti del bestione ogni volta che i kunai affondavano nella carne.
"Ti infilzerò come un porco in un buffet!"
Non riuscì a fare un terzo passaggio. Lexaeus gettò al vento la compostezza e cacciò un urlo che sembrò erompere dalle profondità stesse della terra. Strinse la presa sull'impugnatura del massiccio tomahawk e piantò i piedi sul terreno, attingendo forza dal suo elemento. Il pavimento tremò e Larxen incespicò sui propri piedi. Ma fu l'esplosione farla cadere in ginocchio.
Il muro di pietra si infranse con un boato, e i frammenti schizzarono verso il loro padrone, alcuni grossi come la testa di una persona, altri minuscoli e affilati come dardi. Larxen si appiattì sul terreno, proteggendo occhi e viso con le mani.
Le saette morirono con un ultimo guizzo, e a Larxen sembrò che qualcuno le avesse risucchiato tutto il sangue dalle vene, lasciando soltanto un vuoto gelido al suo posto.
Ora Lexaeus troneggiava, trionfante in mezzo al bianco. Un gigantesco pianeta roccioso attorno a cui ruotavano centinaia di meteoriti più piccoli, lanciati in una girandola vorticosa. L'altra metà della stanza, oltre il muro infranto, era deserta. In fondo si scorgevano soltanto i resti del portone divelto delle Stanze della Memoria.
Larxen non ebbe tempo per domandarsi dove fossero finiti i suoi compagni. All'improvviso, senza che da parte del n. V ci fosse alcun gesto o cenno di comando, tutti i pezzi di roccia si bloccarono sospesi a mezz'aria. L'istante successivo, una raffica di proiettili si dirigeva impazzita verso di lei.
Aveva sempre deriso il n. IV per aver scelto uno scudo come arma, ma mai come in quel momento desiderò averne uno. I proiettili di pietra ignorarono i fulmini e si fecero beffe dei kunai, investendola in pieno. Gridò, rotolando disperatamente sul pavimento.
Era un dolore diverso da quello delle ferite da taglio, più selvaggio, più sordo e brutale. Quando viveva al villaggio, suo padre aveva minacciato varie volte di picchiarla con un bastone per levarle dalla testa "quelle idee da bambina disobbediente" ma, pur con tutta la sua rabbia, nemmeno lui aveva mai trovato il coraggio di sottoporre a un castigo così violento la sua unica figlia. Lexaeus, a quanto pareva, non aveva remore a massacrare giovani ragazze ben più piccole di lui.
Bene.
Avrebbe detestato un avversario che si faceva scrupoli.
Con la guancia ormai premuta contro il pavimento freddo, riuscì a muovere le dita quel tanto che bastava ad aprire un portale subito sotto di lei. Sprofondò nel buio, e il freddo delle spire oscure fu un sollievo contro la pelle martoriata. Alcuni frammenti di roccia finirono nel portale insieme a lei, rimbalzando sull'ennesimo pavimento bianco. Non si era spostata di molto, e lo aveva fatto di proposito. Non era una fuga, solo una ritirata strategica.
"Larxen?"
Che sorpresa. Il caso o il destino l'avevano portata ad atterrare davanti a uno sbigottito n. VIII, intento ad armeggiare con uno dei giocattoli alchemici di Vexen.
"Che ti è saltato in mente a spaccare tutto e attaccare senza preavviso?! Cosa cazzo ti è saltato in mente?!"
Axel era bianco come un lenzuolo e rigirava tra le dita il sigillo alchemico (o quello che era) con evidente nervosismo, ma non appariva ferito.
E si lamenta pure.
Scrollò le spalle, anche se il semplice gesto spedì una fitta di dolore lungo tutta la schiena. Poteva sentire i lividi affiorare dappertutto sotto la tunica dell’Organizzazione, ma ciò non le impedì di scoccare al n. VIII un sorriso di scherno.
"Perché, volevate chiedere scusa al Superiore e baciargli i piedi? Dove sono gli altri?"
"Noi stiamo cercando di fermare Saïx, sai com'è. Lo sapresti se avessi ascoltato un decimo di quello che ha detto Vexen. Quel figlio di puttana di Bocciolo di Rosa invece ha… "
Il crepitio di un portale risuonò minaccioso alle sue spalle.
Ogni fibra del suo corpo agì con la rapidità del suo elemento, più veloce del pensiero. Prima ancora che il portale si aprisse, Larxen era già svanita a sua volta in un varco oscuro.
"Ma che cazzo. .. ?!"
Riapparve al di là della porta della stanza adiacente, ma Axel non poteva saperlo. Senza fare rumore, socchiuse il battente quel poco che bastava a godersi la scena. Lento e stupido com'era, il roscio rimase a fissare l'apparizione del n. V con una faccia da ebete assoluto che minacciò di farla scoppiare dalle risate e distruggere la sua copertura.
"Insegui un traditore, ne trovi un altro."
Bravo Axel. Renditi utile e fammi da esca.
"Oh… ciao Lex."
Larxen vide il tomahawk sollevarsi negli occhi dilatati dal terrore di Axel. Il n. VIII iniziò a evocare un portale, ma i movimenti di entrambi sembravano lentissimi allo sguardo della Ninfa Selvaggia, fotogrammi proiettati da una cinepresa rotta.
Lei era il fulmine. Tutti gli altri erano polvere bruciata, calpestata e abbandonata nella sua scia.
Il balzo agile di un gatto e fu alle spalle del bestione, sicura e mortale come una freccia. Spiccò il salto nel preciso istante in cui Axel si tuffava nel portale e il tomahawk si abbatteva dall'alto, tagliando solo aria e brandelli di oscurità. 
I kunai lampeggiarono, descrivendo un cerchio verso la testa del bestione.
Forse fu lo spostamento d'aria, o i muscoli doloranti che le impedirono di essere silenziosa come avrebbe voluto, ma Lexaeus si voltò con una frazione di secondo d'anticipo.
Una morsa ferrea le serrò il collo, mozzandole il fiato, bruciandole i polmoni. Si ritrovò ad annaspare con i piedi a mezz'aria, le dita strette ad artiglio sulle braccia del n. V, i kunai svaniti in uno sbuffo di luce. Scalciò e si contorse, la bocca spalancata alla disperata ricerca d'aria. Il viso di pietra di Lexaeus si intorbidì, sorprendentemente ingentilito dal velo di lacrime che le annebbiava lo sguardo. I bulbi oculari bruciavano, sembravano contorcersi nel tentativo disperato di saltare via dal cranio.
Il bestione strinse la presa, e Larxen capì che non poteva farcela. Le braccia caddero sconfitte lungo i fianchi, l'intero corpo si afflosciò come il cadavere di un impiccato. La testa sembrava sul punto di esplodere. Il dolore intorno al collo si dilatò coprendo ogni angolo del suo mondo.
Il n. V fece sparire il tomahawk e la afferrò con entrambe le mani. Per la prima volta la sua espressione cambiò, rivelando un ghigno soddisfatto, ferino. Spaventoso.
"Questo è per Xaldin."
Bravo idiota. Ci sei cascato in pieno.
Il dolore e la rabbia ribollirono nelle sue vene, nutrendo il fulmine. Larxen lasciò che l'energia la attraversasse, la trapassasse, la possedesse. La fece bruciare sulla pelle, danzare lungo le braccia e le gambe, esplodere da ogni centimetro del suo corpo.
Brillò di luce accecante, splendente e bellissima.
Lexaeus bruciò insieme a lei.
Ora Larxen non vedeva più nulla. Voleva urlare, ma il bastardo non riusciva a mollare la presa, anche se i suoi arti erano contorti dagli spasmi e il suo ruggito di bestia ferita a morte faceva tremare la terra.
Continuò a far bruciare il fulmine con ogni cellula del suo corpo finché la morsa intorno al collo non svanì del tutto. Poi, come una candela mozzata dal vento, si spense.
La accolse il pavimento, freddo e meraviglioso. E il silenzio.
Fumi di vapore si sollevarono dalla sua pelle, sibilando e confondendosi nel bianco. Era l'unico colore che riusciva a vedere, e non sapeva se era solo il soffitto del Castello o il fulmine che le aveva bruciato le retine. Ma no, il suo elemento non le avrebbe mai fatto del male. Lei era la Regina del Fulmine.
Non riusciva a muovere un muscolo. Non sentiva più nulla, né il dolore né la minima traccia del calore che l'aveva fatta sfavillare. Sentiva il proprio respiro, spezzato e flebile, ma vivo.
Di quello di Lexaeus nessuna traccia.
Avrebbe voluto sorridere, sussurrare una battuta epica con il poco fiato che le restava.
Invece la sua mente sprofondò nel buio.

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 - Axel (VII) ***


Capitolo 30 - Axel (VII)





Saïx in berserk e la sua Claymore





Toccare il punto A, toccare il punto B, accendere il dispositivo, teleportarsi alla postazione successiva, ripetere.
Vexen la faceva facile.
Era solo al secondo portale ed Axel già si sentiva il cuore in gola. Aveva evitato di pochissimo uno scontro con Lexaeus, tenuto a bada da Larxen, ma sapeva che non era quello il problema.
Una volta usciti da quelle strane capsule nella Stanza della Memoria, Axel si era sentito … diverso. Non aveva parole per spiegarlo. Era come se nel suo petto battesse un altro cuore, uno che sembrava fatto di magma e lapilli. Era chiaro che lo Spirito del Castello avesse ceduto loro parte dei propri poteri, ma non avrebbe mai immaginato quanto quel fuoco fosse desideroso di uscire e di trasformare tutto in cenere.
Nonostante i nuovi poteri sia Vexen che Marluxia avevano preferito concordare un piano d’azione per fronteggiare il Superiore ed i suoi leccapiedi, e quando quei due erano d’accordo su una cosa era chiaro che la situazione fosse molto delicata o molto complessa. Entrambe, talvolta.
Quell’imbecille di Larxen si era lanciata in avanti senza ascoltare le loro indicazioni, e adesso qualunque cosa Vexen avesse ideato doveva funzionare per forza.
Anche perché la parte più pericolosa del piano era stata affidata (o forse sarebbe stato meglio dire “scaricata” a lui).
Toccare il punto A, toccare il punto B, accendere il dispositivo.
Che poi, a dirla tutta, di dispositivo aveva ben poco. Era più una serie di fogli scarabocchiati con cerchi tutti diversi su cui il n. IV aveva incastonato con del ghiaccio dei pezzetti di piantine che si era fatto creare sul momento dal n. XI. Axel doveva solo toccare due punti precisi (solo quelli, si era raccomandato Vexen almeno cinquanta volte) ed attendere che le linee su quel disegno si colorassero di azzurro.
Poi, prima recarsi nelle altre stanze del Castello per ripetere la stessa manovra, doveva attendere.
E quella era la parte peggiore.
“È nella natura dei topi quella di scappare. Ma i topi sono molto più evoluti di te”.
Saïx uscì dal portale. Un passo alla volta.
Axel, ancora piegato in due, appoggiò il dispositivo a terra, coprendolo con uno stivale.
Sapeva che la bestia non gli avrebbe fissato i piedi.
“In effetti, una volta sistemati voi traditori, credo che mi scuserò con i ratti per averli insultati. Non mi viene in mente nulla di abbastanza infimo a cui paragonarti, Axel”.
“Allora non mi paragonare e basta. Che ne dici?”
Rimpianse la bravata non appena gli uscì dalla bocca.
Non aveva mai risposto a Saïx. Non in quel modo, almeno.
Sapeva che il licantropo lo avrebbe seguito. Il fiuto di quelle bestie non era certo a livello delle stregonerie del n. VI, ma anni nell’Organizzazione avevano insegnato ad Axel che il ramo licantropo della famiglia demoniaca aveva un olfatto da non sottovalutare. La bestia aveva sempre saputo dove si trovasse, o comunque gli era sempre bastato molto poco tempo per raggiungerlo.
Stavolta lo avrebbe usato a proprio vantaggio.
Perché, ne era sempre stato certo, Saïx avrebbe seguito soltanto lui. E questo avrebbe permesso a Vexen di lavorare indisturbato alla sua diavoleria alchemica che avrebbe dovuto stendere il licantropo in maniera definitiva.
Axel pregò solo di arrivare vivo per vedere quel momento.
L’altro lo fissava, le iridi gialle che non si spostavano affatto. Mandibola serrata, i muscoli della faccia così in contrazione che gli zigomi sembravano ancora più evidenti del normale. Nemmeno la spessa tunica nera riusciva a nascondere gli arti pronti a scattare, ed Axel sapeva che lo spazio che li separava non sarebbe stato sufficiente a proteggerlo se non fosse stato per la nuova magia infusa dallo Spirito.
Eppure, quando un piano sotto si potevano sentire i segni dello scontro tra Larxen ed il numero V, intorno al n. VII regnava uno strano silenzio.
Lo aveva seguito, ma non aveva ancora tentato di fracassargli il cranio contro la parete.
La cosa non lo rassicurò nemmeno un po’.
Cercò di almanaccare rapidamente tutte le possibilità, ma la bestia prese la parola. “Dov’è il n. XIII?”
Già.
Avrebbe dovuto aspettarselo.
Al solo sentir nominare il moccioso ingrato sentì una scarica attraversarlo dalla testa ai piedi. “Ha scelto da che parte stare. Quella sbagliata”.
“Cosa gli hai fatto?”
“Non mi dire che ti preoccupi di quello stronzetto”.
Ce l’aveva ancora, inchiodato nelle narici. Ben radicato dentro, come se fosse entrato nel suo cervello e vi si fosse aggrappato con gli artigli. Era lì, e più cercava di scacciarlo e più quello si faceva sentire con prepotenza.
L’odore del piccolo traditore che bruciava, ricordandogli di aver riposto per anni la fiducia nella persona sbagliata. L’odore della tunica che andava a fuoco, e del metallo delle sue chiavi diventate incandescenti. L’odore della delusione nell’aver scoperto che il suo “migliore amico” aveva spifferato tutto al Superiore.
E quell’odore lo faceva davvero incazzare.
“L’ho mandato a trovare Xigbar e Xaldin. Preferiva così tanto la loro compagnia che non ho potuto negargliela” rispose.
“Come immaginavo”
Si mosse, con calma, scivolando intorno a lui in modo circolare. Si teneva a distanza, ma non vi era alcuna sicurezza.
Axel si limitò a seguirne il movimento, attento a non scoprire il dispositivo alchemico casualmente ai suoi piedi.
Stava provocando Saïx, ma non aveva molte altre scelte.
Doveva tenerlo lontano dal n. IV, e finché la bestia sembrava più orientata a parlare che a saltargli alla gola avrebbe avuto qualche possibilità. La magia del Castello aveva reso i portali rapidi a nascere dalle sue mani, ma non era affatto desideroso di testare la sua nuova forza contro i muscoli e le zanne del nemico. Poteri dello Spirito o meno.
“Il Superiore era certo che non gli avresti mai fatto del male. Che lo avresti difeso in ogni caso, perché te lo aveva affidato. Gli ho espresso i miei dubbi, e detesto sapere di dover tornare da lui e dirgli che aveva torto”
“Beh, credo che il Superiore dovrà farsene una ragione. Non è l’unica cosa che abbia sbagliato negli ultimi tempi”
“Concordo” rispose.
Fece un solo passo avanti, ed Axel capì.
“Come ad esempio aver raccolto uno come te”.
Se l’energia del Castello non fosse stata nelle sue vene sarebbe molto sul colpo. Saïx mulinò la sua Claymore in aria proprio nel punto dove si trovava un istante prima. L’arma si abbatté contro la parete, ma il licantropo la mosse e nel giro di un istante fu di nuovo in perfetto equilibrio nella sua mano.
Axel aprì un portale e vi saltò dentro.
Atterrò proprio dove Vexen gli aveva indicato, la mensa estiva. Estrasse l’ennesimo dispositivo e lo attivò immediatamente, per poi appoggiarlo su una sedia lontano dallo sguardo del suo inseguitore. Saïx, guidato dal suo olfatto, lo raggiunse una manciata di secondi dopo.
Si circondò di un muro di fiamme non appena sentì il portale dell’altro aprirsi. Quello vi si scagliò contro, ma indietreggiò. “La tua magia è cambiata”.
“E non solo quella”.
La scarica che gli attraversò i nervi quando richiamò i poteri del Castello fu misto di fastidio e piacere: partì dai piedi, gli scosse tutta la schiena e corse fino alla punta delle dita.
I suoi chackram si accesero.
Li scagliò oltre la barriera di fiamme, poi l’incantesimo esplose.
Il primo chackram colpì il n. VII in piena faccia. I poteri del Castello dovevano averlo fatto desistere dall’attaccarlo frontalmente, ed aveva abbassato la guardia.
Decise che poteva fare di più.
Che voleva fare di più.
Il secondo chackram volò lungo il perimetro della stanza, e glielo fece atterrare alle spalle. Pensò a quando la bestia gli aveva quasi sfracellato il cranio in un impeto di rabbia, e le armi gemelle entrarono in risonanza. Detonarono prima una volta, poi due, poi tre, ogni istante che il n. VII lo aveva insultato ed umiliato gli scivolò davanti agli occhi, poi dentro i chackram. Gli sembrò di sentire persino la magia di Larxen, qualche piano più sotto, sintonizzarsi con la sua come due dita di una mano.
Era bellissimo.
Sapeva che ci sarebbe voluto ben altro per ammazzare quella bestia, ma quando l’energia nei suoi chackram si dissipò lo spettacolo fu ben oltre le sue aspettative.
Saïx aveva usato la sua Claymore come uno scudo. L’enorme mazza aveva assorbito la maggior parte del danno dei chackram, ed il metallo bianco ed azzurro si era trasformato in una massa nera attraversata da crepe rossastre. Tutte le decorazioni che riportavano lo stemma dell’Organizzazione erano esplose, ed anche le punte che ne caratterizzavano l’estremità erano ridotte a dei coni mozzati inutilizzabili. Ma fu l’aspetto di Saïx a colpirlo.
La massa di capelli azzurri era in fiamme. La bestia si scrollò il fuoco di dosso, ma la metà destra del muso doveva aver subito buona parte dell’attacco, perché la pelle era attraversata da ustioni e l’occhio sembrava quasi del tutto bianco, come se la sua magia avesse portato via iride e pupilla. Su quel lato i capelli erano quasi inesistenti, e la manica della tunica era stata incenerita ben oltre il gomito. Il braccio non era in condizioni migliori della faccia.
Se aveva dolore, la bestia non lo dava a vedere.
Richiamò le armi nei suoi palmi.
Non era mai riuscito a sfiorargli la punta dei capelli con una fiammata, e nemmeno Lexaeus o Xaldin durante gli allenamenti o le dimostrazioni erano mai arrivati a lasciargli più di un paio di lividi. Le volte in cui aveva osato sfidarlo il suo fuoco non sembrava nemmeno in grado di dargli fastidio.
Ma in quel momento … in quel momento .
Mandò a quel paese il piano di Vexen e tornò all’attacco.
Poteva farcela.
Poteva combattere. Poteva vincere.
Creò un cerchio tutt’intorno alla bestia. Andargli vicino sarebbe stata comunque una mossa stupida, ma adesso aveva qualcosa in più.
Si mosse nel fuoco, al sicuro, sentendo che quel calore inceneriva ogni forma di stanchezza. Senza pensarci vi guizzò all’interno, e prima che l’altro potesse anche solo voltarsi per contrattaccare si mosse alle sue spalle e gli scagliò un chackram addosso. Il licantropo lo parò, ma non con la sua solita velocità: Axel se ne accorse e corse nel fuoco subito alla sua sinistra, lanciando il secondo chackram nell’angolo scoperto e colpendo il bersaglio.
Saïx mandò un verso agghiacciante quando la punta dell’arma conficcata sopra il fianco gli esplose nella carne; mulinò la Claymore in mezzo al fuoco, ma al n. VIII i colpi sembravano scagliati al rallentatore. Li evitò tutti, dal primo all’ultimo, come un soffio in mezzo alle fiamme danzanti.
Richiamò le armi e le scagliò contemporaneamente: attraversarono i lati opposti della stanza e si incontrarono proprio sul corpo del n. VII, che ormai si faceva sempre più lento e da sotto la tunica non si contavano più le macchie carbonizzate del suo corpo.
Lui, Axel, poteva fermare un licantropo maggiore. Con i poteri del Castello poteva fare qualsiasi cosa.
Nonostante le ferite abbondanti, la bestia si voltò verso la sua figura tra le fiamme. “Cosa avete fatto ai vostri poteri?”
Il solito tono di comando, ma Axel riconobbe qualcosa.
Qualcosa di strisciante, che da quella gola assassina non si era mai affacciata.
Stanchezza.
“Abbiamo solo fatto l’uso giusto del Castello. L’uso pensato per gli esseri umani”.
E sì, era stanco.
Era curvo, e poggiava quasi tutto il peso sulla Claymore. L’ultima raffica di chackram si era abbattuta sul suo ginocchio destro, e Axel lo vide barcollare.
Il cacciatore e la preda avevano finalmente invertito i ruoli.
Di pericoloso, in quella bestia, adesso c’erano soltanto gli occhi. “Non dire sciocchezze, n. VIII” rispose “Stai usando la magia della famiglia demoniaca”.
“Notizia dell’ultima ora, Saïx” disse “Noi umani abbiamo più risorse di quante pensiate”.
“Voi umani non avete nulla”.
Fu in quell’istante che Axel se ne accorse.
Era flebile, quasi impercettibile: non vi avrebbe nemmeno fatto caso se non fosse stato per la posizione del suo avversario.
“Il Superiore vi aveva ammonito di non risvegliare la magia del Castello …”
Fu un riflesso, una comparsa oltre l’enorme vetrata del Castello dell’Oblio. Misera rispetto a quella del mondo che si erano lasciati alle spalle, ma abbastanza da disegnare una lama tra le loro figure e le tuniche nere. “… e adesso dovrete pagarne le conseguenze”.
La luce della luna si accucciò tra i capelli di Saïx.
L’istante successivo Axel si trovò contro la parete. Il suo corpo andò a fuoco e si accorse che, se non fosse stato per la magia del Castello, ogni singolo osso del suo corpo sarebbe andato in frantumi il colpo ricevuto. Il dolore che gli attraversava il petto era lancinante.
Ancora in ginocchio si buttò a terra, evitando per un soffio quella che a stento ricordava una mano. L’enorme arto, con addosso i brandelli del guanto distrutto, si conficcò nel muro bianco e l’intera parete fu scossa da una crepa. Axel sollevò lo sguardo, fissando il proprietario di quella mano.
Che la follia del sangue, lo stadio Berserk, appartenesse alla famiglia demoniaca era risaputo.
Che il ramo licantropo ne fosse maggiormente influenzato, anche quello lo si raccontava, anche solo come favola per impedire ai bambini di uscire nel bosco la notte.
Ma mai Axel aveva visto la follia del sangue in azione.
I lineamenti del n. VII erano un dedalo di forme impazzite. I muscoli delle guance erano tesi fino allo spasmo e lasciavano la bocca aperta. I denti, che nel n. VII apparivano soltanto più appuntiti di un umano, sporgevano da un lato all’altro senza regole. Si serrarono nella sua direzione, secchi come uno scatto, ma li evitò e si costrinse a rialzarsi, chackram di nuovo in pugno.
Con un solo movimento tirò a sé la mano incastrata e gli fu addosso. Axel frappose il chackram tra sé e la figura massiccia, ma quando comandò all’arma di caricarsi di nuovo di magia ed esplodergli addosso, l’altro vi si aggrappò con forza ed incastrò tutto l’arto nelle forme del chackram. Il n. VIII li tirò a sé, cercando di teleportarli con la magia, ma la presa dell’altro glielo impedì: provò a piantargli le punte dritte nel petto, ma questa volta nemmeno una minima smorfia di dolore attraversò il nemico, che lo strinse a sé ignorando le lame nel petto.
Axel fu costretto ad abbandonare la presa.
Per un attimo vide la bestia con entrambe le armi conficcate nel costato, forte come se si fosse trattato di una coppia di colombe. Sentì gli occhi gialli, dilatati e privi di pupilla, inseguirlo e mangiarlo nel profondo. Creò un muro di fiamme, ma l’altro lo superò con un solo salto.
Ne creò un altro, e chiese alle scintille di esplodergli sul viso, ma l’unico effetto che ottenne fu di scompigliargli i capelli.
La cicatrice sulla fronte, che aveva sempre trovato piuttosto particolare, sembrava essergli esplosa sul volto. Era più ampia, estesa, come se tutta la pelle del vecchio Saïx avesse deciso di rivoltarsi dall’interno.
Usò di nuovo i propri poteri per richiamare nei palmi i chackram. Evitò due attacchi per pura fortuna.
Il licantropo non usava nemmeno più la sua Claymore. Si lanciava in avanti con le zampe e con i denti, ed Axel non aveva alcun dubbio che se il mostro fosse riuscito ad afferrarlo sarebbe morto, intercessione dello Spirito o meno.
Aveva sottovalutato quello spiacevole dettaglio.
Ordinò alle fiamme di corrergli lungo tutte le braccia, poi le fece volare contro ciò che rimaneva del cappotto nemico.
La potenza delle fiamme attecchì sul vestito, ma non fu sufficiente. Saïx gli venne incontro di nuovo, incurante del fuoco che gli stava avvolgendo tutto il corpo.
Era chiaro che non provasse nemmeno dolore.
Axel scivolò dall’altra parte della stanza nel tempo necessario di vedere la pelle del suo braccio, ustionata prima della trasformazione, perfettamente intatta e con i muscoli dilatati fino allo spasmo.
Il bastardo rigenerava.
Le sue possibilità di vittoria si azzerarono.
Si difese spostandosi dietro al tavolo, ma prima che quello venisse travolto dalla furia del nemico si accorse del motivo per cui era giunto in quella stanza.
Il dispositivo alchemico era ormai ridotto ad un piccolo cumulo di cenere, così come gli altri che avrebbe dovuto posizionare. Non aveva la più pallida idea di cosa avrebbero dovuto realmente fare, ma capì che vi era ancora un membro che potesse aiutarlo.
Mandò i chackram di nuovo contro il nemico in carica, e non appena questi liberarono una cascata di scintille ne approfittò per aprire un portale.
“Vexen … ABBIAMO UN PROBLEMA!”
Vexen, inginocchiato nel bel mezzo della sala dei troni, lo fissò come se avesse appena visto un drago a tre teste “AXEL, HAI ATTIVATO I DISPOSITIVI?”
“NO!”
Sentì il rumore di un portale aprirsi sopra le sue teste, ed in un boato il n. VII atterrò in mezzo a loro. L’enorme cerchio che il n. IV stava disegnando con tanta foga esplose insieme al pavimento non appena il licantropo batté entrambe le zampe a terra.
Axel evitò i detriti teleportandosi sul primo trono a disposizione, ma lo scienziato non fu così rapido e venne sbalzato via. Vide il suo corpo ricoprirsi di una spessa patina di ghiaccio, e quella andò in frantumi al posto delle sue ossa quando impattò contro una parete.
L’animale fece scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, quasi indeciso su chi sbranare per primo.
Axel si accovacciò nel trono, stavolta senza vergognarsi di sentire il cuore a mille. Aveva sperato in un aiuto più concreto da parte di Vexen e dei suoi nuovi poteri, ma la cosa non sembrava prendere una piega eccellente.
Gli occhi gialli di fermarono su di lui.
La voce, che fino alla trasformazione era stata molto simile nei toni a quella di un umano, stavolta sembrava uscire dalla gola di un mostro. “Quelli che se la prendono con i cuccioli …”
Si accorse in quel momento di dove fosse atterrato.
Il piccolo trono di cui stava stringendo convulsamente i braccioli era quello del n. XIII.
“… devono morire per primi”.
Non riuscì a capire se la cosa che gli esplose nella testa furono gli occhi azzurri del ragazzino o una Claymore appena evocata sopra le sue spalle. Il dolore divenne un tutt’uno con la testa, e quando cadde dal trono sentì il mondo trasformarsi in un’unica scintilla bianca.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 - Zexion (IV) ***


Capitolo 31 - Zexion (IV)





Demyx





“Cosa credi che stia succedendo, Luxord?”
Demyx stringeva il Sitar tra le dita. A Zexion sembrò un naufrago aggrappato all’unico asse di legno.
Da quando il n. IX si era unito ai ranghi dell’Organizzazione Zexion lo aveva sempre visto strimpellare qualcosa, anche un motivetto, ma in quel momento dallo strumento non uscì nemmeno una nota. La radura in cui si trovavano sembrava avvolta da una cappa di silenzio.
Luxord, l’affidabile Luxord, scrutava la foresta intorno a loro. Non avrebbe saputo descrivere il suo odore nemmeno volendo. “Non lo so. Ma c’è Saïx con loro. Andrà tutto bene, vedrai”.
Non servivano i suoi poteri per capire che stava mentendo.
Zexion si strinse nel cappotto e si rannicchiò tra i numerosi sassi che costellavano il posto. Per precauzione il Superiore aveva insistito per fargli bere il siero che sigillava il suo corpo alle emanazioni del Castello dell’Oblio, lo stesso che aveva somministrato per privare Marluxia dei suoi poteri e rinchiuderlo. Per la prima volta da moltissimo tempo si sentiva stanco.
Il viso deluso di suo zio non riusciva ad andarsene.
Aveva infranto la loro promessa, e non era nemmeno riuscito a salvarlo.
Era stato un idiota.
Quando aveva sentito l’odore di suo zio e le sensazioni del n. II avrebbe preferito morire. Le lacrime gli scivolarono sulle guance senza che se ne accorgesse.
“Stai tranquillo, n. VI”.
Luxord gli si sedette vicino, porgendogli un fazzoletto. “Ce la caveremo, vedrai. E sarà solo merito tuo”.
Merito? Tu dici?”
“E cos’altro?”
Gli mise una mano sulla spalla. Per Zexion, che detestava il contatto fisico, sembrò un macigno pronto a staccargli le ossa dal corpo. “Ci hai salvati, n. VI. Ci avrebbero uccisi tutti se non fosse stato per le tue informazioni” disse “Sei stato molto coraggioso. Dico sul serio”.
Da sotto le pieghe della sua tunica scivolò l’odore dell’antidoto. La pozione in grado di restituirgli i poteri, la fiala dal liquido blu, frizzava fino alle sue narici. Il Superiore doveva averlo affidato al n. X in caso di necessità.
Il siero, l’antidoto. Ogni cosa del Castello portava la firma silenziosa di suo zio. E lui, con la sua idiozia, lo aveva mandato dritto nelle fauci di Saïx.
“Volevo solo che non morisse nessuno di noi”.
“Ma io non capisco!”
Demyx li interruppe, sedendosi a poca distanza da loro, il Sitar stretto tra le gambe. “Ma perché volevano ucciderci? Non gli abbiamo mai fatto nulla di male, vero, Luxord? Ad Axel ho sempre cucinato tutto quello che gli piaceva!”
“Non lo so, Demyx”.
Il n. X fece apparire un mazzo di carte. Le mescolò con calma, senza alcun motivo apparente. Tanti anni nell’Organizzazione avevano insegnato a Zexion che l’uomo con la barba usava quel gesto per allentare la propria tensione interiore. “Forse ad alcune persone ciò che possiedono non basta mai”.
Zexion seguì il movimento ipnotico delle carte, i semi dai diversi colori ed i volti che sbucavano ogni volta che il suo compagno muoveva le dita.
Sì, per suo zio la conoscenza non era mai stata abbastanza.
Aveva sentito la sua frustrazione, la sua rabbia, la sua insofferenza rimbalzare tra le mura del loro laboratorio sin dal giorno in cui Xemnas li aveva confinati su quel mondo, ormai più di due anni prima. L’uomo che cercava anche di trattenere i propri sentimenti pur di non farlo soffrire e star male, ma che in quel modo amplificava ancora di più il suo disagio per quel posto che ormai vedeva come delle enormi catene.
Avrebbe voluto vederlo felice, punto. Avrebbe voluto dargli tutto il sapere dell’universo, se fosse servito a placarlo. Sapeva delle sue uscite clandestine nonostante i divieti ed aveva sempre cercato di coprirlo e dargli tutto l’aiuto possibile, anche se ormai la sua smania era diventata inarrestabile.
E sì, gli sarebbe piaciuto dargli tutto il sapere che il Castello custodiva.
Ma non poteva renderlo un assassino.
A nessun costo.
Luxord fece volare le carte da un palmo all’altro. Un semplice trucco dalle dita agili, ma abbastanza per distrarre per qualche secondo lo sguardo disperato di Demyx. Iniziò a voltarle una dopo l’altra, senza fretta, quasi come se quelle gli parlassero.
Era un uomo buono, Zexion lo sapeva. Una persona semplice e pragmatica, in grado di raffreddare gli animi e vedere le cose sempre da un lato positivo. In qualsiasi altra circostanza avrebbe volentieri accettato un suo consiglio, ma in quel momento la sua testa era in subbuglio. Cercò di farsi ipnotizzare dalle carte, ma l’unica cosa che gli uscì dalle labbra fu un’altra domanda “Cosa credi che faranno loro?”
“Non lo so. Il Superiore è già stato clemente una volta con il n. XI” mormorò, quasi disgustato dall’idea di pronunciare il nome del principe. “Ed hai visto come è andata. Non credo che quello lì meriti una seconda possibilità. O che la voglia. Se il Superiore ha mandato noi tre lontano è perché vuole metterci al sicuro dalla battaglia che senza dubbio ci sarà”.
Il ragazzo si strinse ancora di più nel cappotto.
Lo aveva sempre saputo, ma le parole di Luxord gli avevano dato l’ultima conferma. Ci sarebbe stata una guerra, e suo zio era chiaramente dalla parte svantaggiata.
L’idea che in quel preciso istante Saïx potesse fare irruzione nel laboratorio e trascinare il n. IV a brandelli fuori da lì gli strinse lo stomaco in una morsa pur senza alcun odore. Il ricordo della stretta del Superiore sulla sua spalla sembrava più forte che mai.
Lo aveva mandato lui a morire.
Per proteggerlo lo aveva servito su un vassoio d’argento all’intera Organizzazione.
Ed era suo dovere trascinarlo via di lì. A qualsiasi costo.
Sotto la pelle del guanto le sue dita riconobbero qualcosa che sarebbe potuto tornargli utile, se davvero lo avesse desiderato.
Voleva salvarlo?
Era una domanda crudele. Ma, forse, l’unica di cui avesse bisogno.
Si alzò con flemma dalla sua posizione, fingendo di osservare in modo preoccupato un punto ben preciso del bosco. “Luxord, credo che non siamo soli …”
“Cosa hai sentito?”
Gli bastò. L’uomo con la barba fece per alzarsi di scatto, guardando a sua volta in quella direzione. L’istante dopo cadde a terra, e Zexion sentì il sasso con cui lo aveva appena colpito alla nuca bruciargli fin nei polpastrelli. L’olfatto guidò la sua mano prima ancora della vista, ed individuò subito il punto del cappotto in cui il n. X nascondeva il siero. Aprì la boccetta e la versò in gola tutta d’un fiato, e mentre già sentiva i poteri ed il legame con il Castello tornare come prima si voltò per incrociare lo sguardo di Demyx, il suo aroma di fragola quasi svanito per la confusione e la paura che lo permeavano. “Zexion, cosa hai …”
“Tranquillo. Si sveglierà con un grosso bernoccolo. Non potrei fargli seriamente del male nemmeno volendo”.
L’altro ragazzo brandì il Sitar, indeciso se puntarglielo contro o usarlo per difendersi. Zexion avrebbe voluto dirgli tante cose, ma una persona importante lo stava aspettando. “Non pretendo che tu capisca, Demyx. Dì a Luxord che mi dispiace”.
“Ma non eri dalla nostra parte?”
“Non volevo proprio che vi fossero delle parti, ad essere sincero …”
La magia lo attraversò di nuovo, e il familiare portale oscuro si spalancò al suo comando. “Demyx, qualsiasi cosa accada …tornate al Castello solo su ordine del Superiore”.
La paura lo prese fin dal primo passo nel portale.
“Altrimenti non tornate affatto. Lo dico per il vostro bene”.
 


L’intero Castello dell’Oblio gli esplose nella testa.
Gli odori arrivarono tutti insieme, infuriati, impazziti. Gli entrarono nei polmoni e poi dritti al cervello, alla ricerca di qualcosa su cui sfogare la loro stessa forza.
Era una massa informe, ma tra essi quello di Saïx superava qualsiasi altro odore che avesse mai sentito: gli aveva sempre ricordato il mare, l’aria salmastra, le scogliere, ma in quel turbine aggressivo e senza controllo non riuscì a percepire nulla che potesse ricondurlo a qualcosa che conoscesse o potesse descrivere. Il licantropo era tre piani sopra di lui, nella sala dei troni, e qualsiasi cosa stesse irradiando attraversava l’intero Castello come il più violento dei temporali.
Zexion non aveva mai sentito l’odore di un demone in stadio Berserk, ma non gli ci volle molto a capire cosa fosse successo.
Lo respirò per intero, sentendo quasi degli artigli lacerargli la gola. Lo fece correre, ignorando il dolore, cercando di ritrovare in mezzo a quella follia la persona per cui era giunto lì.
Il Superiore ed il n. XI erano lontani dal centro della battaglia: alternavano le loro emozioni come due rampicanti uno in lotta con l’altro, ma si allontanò da loro prima che i loro sentimenti gli entrassero nei polmoni e lo annegassero.
Dell’odore di Lexaeus, invece, era rimasta soltanto qualche traccia nell’aria, un silenzio dei sensi totalmente innaturale.
Il ragazzo deglutì all’asciutto, incapace anche solo di reggersi in piedi.
Si appoggiò alla parete, e cercò.
Inseguì la traccia dell’aroma di suo zio, e quando la sentì vicina al licantropo sentì il cuore aprirsi in due. Cercò di riacciuffarla, sottile come un filo che tentava di sfuggirgli tra le dita. Estese tutto se stesso immergendo i sensi fino alla stanza dei troni, assorbì tutta la furia che scaturiva senza limiti dalla figura del n. VII mentre sentì la coscienza di Axel vacillare sotto gli attacchi del licantropo.
Il profumo che tanto gli ricordava la vaniglia lo condusse fino a suo zio.
Era vivo, ed era cosciente. Spaventato ed in preda al terrore, ma vivo.
E Zexion capì che non lo sarebbe rimasto per molto.
La prima idea fu quella di andare da lui, approfittare che l’attenzione del n. VII fosse ancora focalizzata su Axel ed andarsene col teletrasporto. Con un po’ di fortuna vi sarebbe riuscito.
Il portale oscuro stava già apparendo nella sua mano quando si diede dell’idiota: Saïx non avrebbe lasciato nessun “traditore” vivo. Con le Stanze della Memoria spalancate li avrebbe trovati in qualsiasi angolo della galassia e, poteri del Castello o meno, non avrebbero avuto scampo.
Cercò di percepire le ultime emanazioni del cerchio che suo zio stava preparando, ma a parte frammenti di magia sparsi non riuscì ad aggrapparsi a nulla. Le sue conoscenze di alchimia sarebbero state comunque troppo limitate per aiutare l’uomo nel suo progetto, ma di qualsiasi cosa si fosse trattato l’intero lavoro era esploso insieme al pavimento della stanza. Cercò di nuovo in quella matassa di incantesimi un appiglio.
Fu una sensazione, un’idea. Un soffio in mezzo alla tormenta.
L’odore era impercettibile, ma riuscì ad isolarlo in mezzo alla battaglia.
La mano completò il portale che stava per evocare, ma tracciò una nuova direzione e Zexion vi entrò col cuore in gola.
Il luogo dove atterrò non aveva nulla da spartire con il laboratorio in cui era cresciuto. Armadi abbattuti, un tavolo incenerito, l’odore straziante del n. II impresso persino nei cocci delle provette fracassate. Il santuario di suo zio era un campo di battaglia ormai freddo, grondante di emozioni, ma il ragazzo trattenne le lacrime ed il rigetto mentre i suoi passi lo guidarono contro una parete.
Nonostante la battaglia nei livelli superiori fosse ancora in corso, i sentimenti giungevano distanti, come un’eco.
L’odore che lo aveva guidato parlava di mirto di Kal’Naar e di verbena montana. Una combinazione insolita, che copriva la maggior parte delle altre erbe che il n. IV dell’Organizzazione aveva fuso insieme. Zexion ne aveva seguito la preparazione fino al momento in cui aveva deciso di recarsi dal Superiore, e sapeva cosa quell’infuso fosse in grado di fare.
Aprì un vano del muro, uno di quelli dove suo zio inseriva spesso le creazioni più delicate. Prese il liquido ancora nella provetta di preparazione e con calma se lo portò contro il petto.
Il sonnifero contro i licantropi non era raffinato, lo poteva sentire dall’amaro che gli serrò la parte superiore del naso. Il n. IV stava facendo le ultime prove per stabilizzarlo quando Xigbar doveva essergli entrato nel laboratorio, ma Zexion aveva trascorso tutta la sua esistenza nell’unica certezza che nessun infuso, pozione o filtro dello scienziato si era mai rivelata un fallimento totale.
Non lo sarebbe stata quel giorno.
Aprì il portale all’altezza del proprio trono.
I suoi sensi lo avvisarono appena in tempo, perché da ben oltre la sua testa si aprì un portale e la Claymore di Saïx cadde dall’alto, rovinando su un Axel già allo stremo delle forze.
Tutti gli odori, lì dentro, sembravano alterati da un pittore folle: se il licantropo esprimeva la propria furia Berserk come un mare in tempesta, suo zio ed Axel erano impregnati di un sistema di magie fastidioso che gli bruciò le tempie nello stesso istante in cui il portale gli si chiuse alle sue spalle. Il Castello dell’Oblio era vivo, e gridava la sua rabbia attraverso loro. Quando inspirò per la seconda volta l’intestino sembrò andargli a fuoco.
Provò a concentrarsi, ma le sensazioni della battaglia gli entrarono dentro come mille aghi. Fissò verso il basso nel tentativo di scagliare la fiala, ma le fitte si propagarono per tutto il braccio e lo strinse contro di sé pur di non perdere la presa. Chiuse gli occhi per isolare almeno parte delle sensazioni, ma la furia cieca del m. VII lo travolse insieme al rumore di un trono che collassava ed un grido di terrore di Axel.
Percepì suo zio provare ad alzarsi, e la bestia rivolgere il suo odio contro di lui. “Il Superiore …” ruggì tra le zanne “… anche a te il Superiore aveva affidato qualcuno, n. IV …”
“E questo è il risultato …”
Di tutti i dolori che gli attraversavano le tempie, quello fu il peggiore.
La rabbia di suo zio era rivolta anche verso di lui, come non l’aveva mai sentita.
Lo sapeva.
La promessa che non aveva mantenuto.
Iniziò a sentire freddo, molto più del dovuto. Sentì la persona per cui stava rischiando la vita assorbire tutta l’energia nera del Castello solo con la propria delusione. Sentì il bisogno di piangere, di andarsene da lì e non bagnarsi in quei sentimenti, ma il licantropo richiamò di nuovo tutti gli odori nella stanza. La Claymore nelle sue mani era diventata ancora più terrificante, ed il muro di cristallo che il n. IV aveva eretto davanti a sé non avrebbe mai retto l’impatto, supporto del Castello o meno.
Saïx la sollevò, e per un istante sembrò che la luna intera si stesse riflettendo lungo l’estremità, pronta all’attacco.
Zexion tremò fin nel profondo.
Poi aprì il portale.
Quando lo riaprì, gli occhi senza pupilla del n. VII si trovarono ad un palmo dal suo viso. “Perdonami, Saïx”.
Sentì le schegge di vetro fin sulle labbra.
La fiala del sonnifero lasciò il palmo della sua mano ed atterrò proprio sul volto nel licantropo. Zexion venne afferrato dalla mano sinistra del nemico, quella non occupata dalla Claymore, e fu scagliato indietro come una bambola di stracci senza riuscire ad opporre la minima resistenza. Sentì l’odore del liquido pervadere tutta la stanza, e se il preparato fosse stato efficace anche sugli esseri umani senza dubbio sarebbe svenuto sul posto.
Si ritrovò sul pavimento a meno di un braccio di distanza da suo zio. Sollevò la testa, ed a poca distanza da loro vide l’effetto del suo lavoro: Saïx, l’enorme Saïx, torreggiava ancora su di loro, la follia Berserk ben lontana dall’essere dissipata. Le creazioni del n. IV, però, si rivelavano come sempre perfette.
Il primo segnale fu la Claymore. Senza alcun preavviso l’enorme arma bianca smise di brillare, quasi come se avesse perso tutta l’energia che la alimentava. Il braccio che la sosteneva si abbassò, prima impercettibilmente e poi con maggiore velocità finché la testa dell’arma non toccò il pavimento. Il suo padrone oscillò debolmente, ed il passo che stava per compiere nella loro direzione si trasformò in un incespicare strano, confuso, e Zexion lo vide costretto ad appoggiarsi alla propria arma per rimanere in piedi. Ondeggiò la testa in ogni direzione, quasi per scrollarsi di dosso l’odore che ormai gli stava assalendo la testa e di cui chiaramente non riusciva a capacitarsi. Strinse entrambe le mani contro l’elsa dell’arma alla ricerca di tutta la forza, ma un cristallo di ghiaccio partì da dietro di lui e gli trafisse la spalla sinistra.
Suo zio, pallido come mai lo aveva visto, sembrava assorbire da solo tutta l’energia del Castello. “Non ci riprovare, bestia!”
Saïx gli riversò contro un verso debole, ma ancora carico di odio. Cercò di saltare contro lo scienziato con le poche forze che gli rimanevano, ma l’uomo gli congelò entrambi i piedi. Zexion sentì la coscienza del n. VII lottare ancora per rimanere a galla, ma tutti gli odori si mescolarono gli uni sugli altri, e quando cercò di farfugliare qualcosa, anche solo una flebile richiesta di tregua, un odio ed una furia cieca invasero la stanza.
La punta di un chackram emerse dal petto del licantropo. “CREPA, DEMONE DI MERDA!”
Il ragazzo sentì tutto dentro la sua testa. Il secondo chackram, e tutto il corpo del n. VII che non riusciva a rigenerare per il sonnifero. Sentì il gelo, e lame di ghiaccio cariche di rancore gli scivolarono davanti agli occhi, piantandosi nel ventre del nemico senza alcuna sosta, uno dopo l’altro, mentre le urla del licantropo squarciavano il Castello da un’ala all’altra.
Si fecero sempre più flebili, o forse era lui che stava perdendo conoscenza.
Chiuse gli occhi, ma la furia della battaglia, le sensazioni, il sangue, rimasero con lui, insieme alla sensazione di aver commesso, ancora una volta, un errore imperdonabile.
Si accasciò a terra, estendendo la mano verso la sagoma nera di suo zio, ma l’ultimo odore che riuscì a distinguere fu quello di un dolore senza fine, ed infine quello di carne bruciata.

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 - Marluxia (IV) ***


Capitolo 32 - Marluxia (IV)







Xemnas con le sue Lame Eteree





L’oscurità di rado è considerata un vantaggio. In ogni battaglia la luce del giorno è una benedizione per uno schieramento come per l’altro, e alla notte si delegano soltanto gli assalti che richiedono la segretezza più assoluta.
Si ricorre alla notte solo in caso di necessità.
Marluxia sorrise, muovendo il primo passo. La sottile grondaia non emesse nemmeno un cigolio.
In quel mondo in cui erano stati confinati la luce del giorno era un ricordo lontano. Il sole non era che una stella poco più evidente delle altre, e le figure che si muovevano sul tetto del Castello dell’Oblio erano macchie d’ombra nel nero più fitto.
A pochi metri da lui, la figura del Superiore seguì il suo movimento. “Ancora non riuscite a comprendere la gravità del vostro gesto?”
Nella notte, anche il più piccolo dettaglio può cambiare le sorti della battaglia. E i capelli chiari dell’uomo mandarono un sottile riflesso argenteo. “Vi avevo proibito di aprire quelle Stanze”.
“Eppure lo abbiamo fatto lo stesso, Superiore. E, come vede, stiamo benissimo. Anzi …”
Secche, asciutte. Le tegole verdi erano perfette. “Mai stati meglio”.
Il boato diversi piani più sotto sembrò dare forza alle sue parole.
Il piano di Vexen per fermare Saïx con un cerchio alchemico potenziato dallo Spirito gli era sembrata un’ottima idea. Andavano solo rallentati gli ultimi tre membri superstiti, ed aveva scelto il proprio bersaglio con la giusta sicurezza. A Larxen sarebbe andato benissimo qualsiasi bersaglio in grado di camminare, e uno scontro frontale con il licantropo era stato qualcosa che aveva assegnato ad Axel con un discreto piacere.
Il Superiore spettava a lui.
“I poteri del Castello devono rimanere sepolti”.
“Al contrario” rispose. Provò di nuovo il tetto, stavolta appoggiandosi più in alto. Mantenere l’equilibrio non era semplice, ma i suoi piedi si adattarono in pochi attimi. Proprio come delle radici.
“È il Castello a volerci come suoi nuovi guardiani. Come suoi nuovi padroni
Xemnas stavolta non si mosse. Anche al buio lo vide spostare il pedo prima su un piede, poi sull’altro, ma rimase nello spazio dove si era confinato sin dal loro primo scambio di battute. Trovandosi più in basso aveva un netto svantaggio, ma il Radigata sembrò non curarsene. Teneva le braccia incrociate al petto, anche se nel buio Marluxia non riuscì a vedere cosa stessero facendo le sue mani. “Il Castello non ha padroni, figlio mio. Ha solo custodi. Ma credo che questa sia solo una delle tante lezioni che ho fallito nell’impartirvi”.
Tutta l’insofferenza che aveva per quell’uomo patetico gli tornò a galla “Quanti altri membri della sua corte di giullari dovrò uccidere prima di levarle di bocca quel figlio mio, Superiore?”
“Nessuno”
Fu in quel momento che Marluxia realizzò di non aver mai visto combattere il Superiore. Né di sapere se avesse un’arma. In realtà era sempre stato piuttosto convinto che il vecchio Radigata viziato avesse una conoscenza delle armi relegata a qualche colpo di stocco nei cortili del Castello durante l’educazione nobiliare. Ma il modo in cui allargò le mani lo avvisò che l’uomo dai capelli chiari non sarebbe rimasto sulla difensiva.
Un guizzo di energia brillò tra le sue dita. “Innanzitutto perché nulla di ciò che potrai mai fare cambierà ciò che sei, n. XI. E soprattutto …”
L’aria gli si elettrizzò fino ai capelli sulla nuca, e decise di non rimanere a guardare.
“… perché io, Lexaeus e Saïx vi fermeremo”.
Marluxia chiamò la falce e la abbatté sul nemico.
Come previsto qualcosa ne bloccò la discesa.
L’aria intorno a lui mandò un odore forte, strano, come se parte della lama della propria arma si fosse scontrata con qualcosa di vivo più del fuoco. Non vi era la puzza di bruciato che accompagnava puntualmente tutte le esibizioni pirotecniche del n. VIII, piuttosto come se tutto lo spazio intorno a sé si fosse saturato di elettricità. Si spostò indietro, incuriosito, l’arma in avanti per parare.
Nella notte erano comparse due lame rosse lunghe quasi un braccio ciascuna. Non riusciva a vederne il metallo o la forma, ma la luce cremisi accecante sembrava essere la fonte del ronzio che gli attraversava la testa. Nonostante l’intensità della luce la sagoma del loro padrone rimaneva indistinta, così come il punto in cui le mani dell’uomo dovevano impugnare le armi.
Non aveva mai visto nulla di simile, nel loro mondo o altrove.
E non era molto sicuro di sapere cosa avrebbero fatto quelle strane spade contro la sua carne.
Lo caricò una seconda volta, stavolta con la lama all’altezza del ventre. Il Superiore, come previsto, parò il colpo. Marluxia testò il metallo della falce con attenzione, lo sguardo più attento alle flebili scintille dell’impatto che non alla vera posizione del suo nemico.
La sua arma poteva reggere l’impatto di quelle strane spade per diversi colpi, ma non era certo che potesse proteggerlo in eterno, almeno a giudicare dai segni scuri apparsi sulla lama rosa.
“Anche se non pensavo che si sarebbe scomodato per noi vili traditori …”
“Come anche tu sai, n. XI …”
La voce del Radigata sembrava molto meno autoritaria di pochi istanti prima “… i problemi della famiglia vengono prima di tutti”.
Con un terzo, preciso assalto, Marluxia mosse la falce dal basso verso l’alto. L’avversario incrociò le lame in avanti e parò, ma l’obiettivo del principe non era quello di entrare nelle sue difese. Come il campione di suo padre, Sir Kelvin, adorava ricordargli durante gli allenamenti, la prima regola era conoscere la forza del proprio avversario e la sua potenza.
La parata del Radigata era stata energica, e a discapito dell’aspetto sempre idiota e trasecolato era stata compiuta con la velocità di un uomo anche di dieci anni più giovane. Le sue lame sembravano eteree, eppure riuscivano a sostenere il peso della falce ed a spostarlo nella direzione che volevano con uno sforzo decisamente inferiore alle aspettative. Marluxia sferrò due attacchi di lato con maggiore velocità, ed il nemico li deflesse.
Poi il Superiore passò al contrattacco.
Marluxia si mantenne in equilibrio quando l’altro fece tre passi in avanti, entrando nella sua area. La luce delle spade per un attimo fu più intensa, e sentì gli occhi bruciargli, fissi sull’unico punto di riferimento in quell’oscurità; parò immediatamente l’attacco portato con il braccio destro, respingendolo, ma la seconda lama fu molto più veloce del previsto e la sentì nello spazio della propria guardia. Si ritirò dalla propria posizione e con un salto si spostò su una delle torrette adiacenti.
Anche al buio si accorse che parte della tunica all’altezza del petto aveva uno squarcio carbonizzato.
“Non riesco a comprenderti, n. XI”
Il Radigata si portò fin sulla grondaia, con la punta degli stivali che quasi oscillava nel vuoto. Le spade erano ancora accese, come se volesse farsi vedere di proposito. “Anzi, non riesco a comprendere nessuno di voi. Dove vi porterà questo complotto, ditemelo”.
“Lontano, Superiore”
Rivide la gente che camminava per le strade di Autozam, ed i loro veicoli volanti. Gli alchimisti vestiti di blu che fendevano gli Heartless senza paura.
Il potere dello Spirito del Castello dentro di sé, lo stesso potere che persino i demoni del Grande Satana guardavano con timore. “Più lontano di dove un piccolo uomo come lei potrà anche solo immaginare di andare. Persino il Castello è disgustato dalla sua ottusità”.
La magia delle Stanze della Memoria iniziò ad entrargli dentro. Poteva sentirla fluire ovunque, sulle mura, sui tetti, come la linfa dentro un albero stanco di un inverno durato migliaia di anni. Passava vicino ai suoi compagni ed intorno ai nemici che si susseguivano nei piani inferiori, ma era diretta verso di lui.
Il Castello bramava la primavera, e lui ne era il fiore preferito.
“Addio, Superiore”.
Non ebbe nemmeno bisogno di chiederlo o di immaginarlo. L’oscurità che li circondava era come una cappa sui suoi poteri, ma stavolta non era la propria magia a chiedere di essere scatenata.
Iniziò dai suoi piedi, poi dagli stivali. Camminò tra le tegole verdi delle torri, una dopo l’altra, sottile come una ragnatela che si dipanava lungo le pareti, le grondaie ed i balconi, un palmo alla volta.
Si muoveva nel buio più totale, e chiedeva solo al suo cuore di alimentarla, di battere e sentirne la forza alla sua più totale disposizione. La magia da una divenne dieci, poi cento, poi una distesa maggiore di quanto egli stesso riuscisse a contare.
Sbocciarono da ogni singola fessura.
I semi assorbirono l’intera magia del Castello, e nel tempo di un battito d’occhi il tetto fu invaso da un immenso roseto.
Il Superiore si voltò e tranciò un ramo carico di spine che saettava nella sua direzione, ma nel farlo fu costretto a dargli le spalle. Marluxia si caricò della forza del Castello e saltò in avanti, e atterrando sul cornicione assestò un colpo con tutta l’energia in corpo. La falce, però, perse l’obiettivo quando gli strali oscuri di un portale avvolsero l’uomo e lo portarono via; l’arma calò soltanto sulle proprie rose, che si riformarono pochi istanti dopo essere state danneggiate.
Sentì di nuovo il sottile vibrare del portale oscuro, stavolta a diversi metri di distanza tra lui. Ci fu il ronzio delle lame eteree, ed altre piante furono spazzate via.
“Ho commesso molti errori di giudizio nei tuoi confronti, figlio”.
Marluxia diresse una nuova ondata di spine nella sua direzione, ma dopo averle respinte con un paio di movimenti l’uomo spense le spade.
Si ritrovò a fissare il punto dove si trovava, entrambi gli occhi ancora troppo abituati alle lunghe sagome rosse per accettare che fossero svanite. Strinse le palpebre, ma la notte lo aveva divorato. “Zexion mi aveva avvisato del tuo odio. Della tua ambizione. Di ciò che stavi facendo sbocciare dentro di te. Ed io l’ho ignorato”.
Si accorse che la voce si era spostata.
Sul tetto del Castello, in mezzo alle torri, la voce del suo avversario gli giunse distorta, come un’eco. Si voltò a destra, sicuro che venisse da oltre l’ala sovrastante la biblioteca, ma i suoi occhi non colsero nessuna luce rossa, né un guizzo dei capelli chiari.
“Ho nascosto la nostra famiglia alla vista dei demoni per questi anni. Eppure, se mi avessi chiesto di andartene, avrei accettato. Con la morte nel cuore, ma avrei accettato” disse.
Un secondo fruscio, stavolta alle sue spalle “Ma hai preferito restare”.
Col un colpo secco Marluxia affondò la falce alle proprie spalle. Trovò soltanto i suoi stessi rampicanti.
“Tutti voi avete preferito restare”.
Ruotò la falce tutt’intorno al corpo, un unico cerchio che per pochi istanti segnò il vuoto intorno a lui. Non trovò assolutamente nulla. Appoggiò una mano ad una delle rose, chiedendo al Castello di aiutarlo, ma fu costretto a ritirarla quando un raggio rosso saettò dal buio e carbonizzò il tronco proprio nel punto in cui aveva posato le dita. L’aria mandò un secondo ronzio, e con un salto evitò un secondo ed un terzo raggio che esplosero proprio dove l’istante prima si trovavano i suoi stivali.
L’aria intorno a lui divenne rossa.
Decine di raggi iniziarono a piovergli addosso, a battere i tetti senza sosta. Ne deflesse una decina con la falce, ma uno superò le sue difese e lo colpì alla gamba sinistra. Sentì un bruciore intenso, come se Axel avesse deciso di incendiarsi la mano e afferrargli il polpaccio subito dopo; si alzò l’odore di qualcosa di bruciato, e se la sua falce non avesse avuto una lama così estesa un secondo raggio lo avrebbe colpito al petto. Estese la mano, sapendo di dover ricorrere ad un portale per teleportarsi lontano, ma nel momento esatto in cui l’oscurità magica si spalancò di fronte al suo palmo essa sembrò torcersi su se stessa, poi diventare di un rosso sospetto.
I raggi rossi uscirono dal suo stesso portale. Marluxia richiuse l’incantesimo con tutta la velocità possibile, ma uno dei colpi sfuggì al suo controllo e gli saettò tra il collo e la spalla.
Dall’orecchio un dolore lo attraversò fin dentro la testa. Resistette all’istinto di portarsi una mano al lato ferito e strinse il manico della propria arma con tutte le forze che aveva in corpo.
Le rose gli gridavano dentro la testa, dentro il suo stesso corpo. I colpi luminosi continuavano a cadere, incenerendole; cercò di comprendere la quale punto originassero, ma ogni raggio sembrava provenire da un punto diverso del cielo, o da dietro una torre o un davanzale. Era una forma di magia lontana dai loro elementi, ma la testa sembrava sul punto di esplodergli e cercò di difendersi il più possibile, concentrandosi sul restare in equilibrio.
Provò a riaprire un portale, sperando in un errore dell’avversario, ma lo chiuse nel momento in cui i primi punti rossi comparvero nell’oscurità.
“Un trucco che mi ha insegnato Xigbar. E io che ho sempre pensato che esagerasse quando si trattava di difendermi”.
Comparve nel bel mezzo dell’esplosione luminosa. I raggi delinearono un contorno rosso, infiammato, lungo le forme della tunica, ed entrambe le lame si incrociarono all’altezza del viso del n. XI, che fu costretto a puntellarsi sul manico dell’arma per non cedere alla forza dell’attacco. “Senza l’inganno non avreste mai sconfitto un guerriero del suo livello”.
Entrambe le armi smisero di attaccarlo frontalmente e puntarono alla sua guardia. Marluxia parò più di cinque fendenti in rapida sequenza, ma l’arco disegnato dalla sua falce non intimidiva l’avversario che continuava ad incalzare. Chiese energia al Castello, e dopo aver puntato i piedi percepì più forza nelle braccia. L’altro non si aspettava chiaramente quella risposta, e il n. XI corse al contrattacco.
Sotto di loro, in corrispondenza della sala dei troni, il ruggito Saïx scosse persino le pareti. Il Superiore parò un altro colpo, ma nella luce delle sue stesse armi Marluxia notò lo sguardo del Radigata spostarsi verso il basso.
Qualunque fosse il motivo per cui il licantropo avesse lanciato quel verso disumano doveva approfittarne. “Cadrete uno dopo l’altro, Superiore. È stato il suo adorato Castello a decretare la vostra condanna a morte”.
Disegnò con la falce un cerchio di fronte a sé, spostando il peso verso l’avversario. Quello tentò una parata, ma non resse alla forza derivata dal suo nuovo potere e fu costretto ad indietreggiare di un passo. Roteò su se stesso, scoprendo il fianco per un istante, però Marluxia non riuscì ad affondare la lama nell’obiettivo.
O, almeno, non in quell’obiettivo.
“E tutto per le sue decisioni insensate. Mi chiedo se, alla fine della storia, il vero boia della sua preziosa Organizzazione siamo stati noi … o lei”.
“Smettila di giocare con le parole!”
Il tono cambiò, e così i movimenti. Entrambe le lame smisero di danzargli intorno, e gli vennero all’unisono contro il petto, un fendente singolo dall’alto verso il basso guidato solo dalla forza. “Sono state le vostre ambizioni a condurci qui!”
Il colpo, sebbene carico della potenza di entrambe le braccia, venne deviato dalla falce. Riaprì le braccia, ma la posa di battaglia non aveva nulla di coordinato.
Marluxia prese di nuovo il respiro, e si impegnò solo a parare. Sentì le rose create da pochi minuti rispondere alla sua stessa presenza, persino quelle tranciate o carbonizzate dal loro nemico.
Furiose.
Sentirono la vibrazione creata dal portale del Superiore prima ancora che i suoi occhi vedessero gli strali oscuri nel bel mezzo della notte. Altri raggi saettarono ad un gesto dell’uomo, ma li respinse tutti, resosi conto di quanto fossero ben più deboli di prima. Si parò davanti al portale con un unico gesto, respingendolo. Qualsiasi cosa stesse combinando Axel con il licantropo -e qualunque trucco avesse usato per strappargli quel verso- non avrebbe permesso al Superiore di correre da loro.
L’uomo si sarebbe dovuto accontentare di sentire i suoi “figli” morire.
Quasi a confermare quel suo pensiero un’esplosione scosse le torri e una parete del Castello si trasformò in una nube di fuoco e cenere.
Il suo nemico provò di nuovo ad aprire un portale, stavolta con le iridi che guizzavano in ogni direzione, un’espressione così terrorizzata che nemmeno la notte riusciva a nasconderla.
E lui si accorse di sorridere.
“Va di fretta, n. I?”
Le rose saettarono dal terreno nell’istante in cui il Radigata mise una gamba nel varco di teletrasporto. L’uomo si voltò, tagliandone una ventina con un unico fendente, ma bastò per fargli perdere la concentrazione ed il portale gli sfumò tra le dita. Per un istante le gambe sembrarono cedergli, ma Marluxia rimase in attesa, gustando la scena. Un tralcio di spine si eresse proprio alla sua destra, e con una mano gli sfiorò i petali, immergendosi nella connessione col proprio elemento e la magia senza freni del Castello e dello Spirito.
I rovi emersero non appena il nemico creò un terzo, flebile varco. Mosse con calma le dita, e dei rampicanti sbocciarono tra le tegole, avvinghiandosi alle caviglie del Superiore. Quello perse l’equilibrio e si ritrovò in ginocchio, ma tutto il suo corpo ed i suoi poteri erano concentrati sul mantenere aperto il portale. Nello sforzo una delle lame ebbe un guizzo, poi un secondo, e si spense. Con un atto di forza sorprendente si mise di nuovo in piedi, la spada libera saettata contro gli impedimenti, e il n. XI decise che era arrivato il momento preferito del gioco.
Aspettò con pazienza, un istante dopo l’altro.
Chiese ai rampicanti di lasciare la presa, di farlo avvicinare al varco oscuro. Di fargli provare la sensazione di essere in grado di raggiungere la sua famiglia, di poterli salvare.
Osservò ogni gesto di quel folle che li aveva sepolti vivi nel suo palazzo di famiglia per un potere di cui non comprendeva assolutamente nulla. Fissò la sua gamba che entrava nel portale, avvolta da strali nere, poi il braccio e metà del torso.
E, in quel momento, un tralcio carico di spine si mosse tra le tegole con la velocità di un battito di ciglia.
Il volto dell’uomo era quasi scomparso nel varco quando la pianta si gettò contro la sua gola, trascinandolo indietro. Quello annaspò per la stretta e per la sorpresa, perdendo il controllo dell’incantesimo. Il portale si spense in uno scintillio nero, ed anche la seconda lama eterea sfarfallò nella notte fino a svanire.
La preda si divincolava nella tela di rovi.
“Prima ha parlato di ambizioni, Superiore. Di come le nostre ambizioni abbiano rovinato la sua preziosa Organizzazione” disse, appoggiando con calma la lama tra il collo e la gola del nemico. “Ma mi ritrovo a dissentire con lei. I nostri sogni, quelli di noi traditori, non sono tutti uguali”.
Sollevò l’arma.
Gli occhi color ambra, sotto di lui, non avevano più nemmeno le sfumature della paura. Erano carichi di tutto l’odio del mondo.
E questo lo mandava in estasi.
“Quelli degli altri sono obiettivi che cadranno come petali in autunno. C’è un solo sogno che guarda al futuro, qui dentro …”
Sorrise.
“… ed è il mio”.
Riprese fiato solo qualche istante dopo, sorridendo alla complicità della notte. Nel silenzio ci furono soltanto i tre tocchi della testa del suo nemico che rotolò lungo il tetto spiovente; rimase in bilico qualche istante sulla grondaia, poi cadde nel vuoto.
Marluxia non sentì nulla, o non volle sentire.
Si sdraiò lungo le tegole, lasciando che le piante svanissero una dopo l’altra. Respirò il silenzio, ed il profumo della vittoria con esso.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 - Vexen (XI) ***


Capitolo 33 - Vexen (XI)







Zexion





Registe: “Bene, siamo davvero soddisfatte! Forse con il nuovo anno riusciremo a finire la nostra puntata speciale. Adesso dobbiamo solo scrivere l’ending e potremmo permetterci il lusso di segnare questo nuovo traguardo”
Narratore: “Ehm … adorate Registe …”
Registe: “Cosa vuoi, Narratore? Non vedi che siamo impegnate a festeggiare?”
Narratore: “Non state dimenticato un piccolo piccolo quanto cruciale dettaglino?”
Registe: “Noi non dimentichiamo mai nulla”
Narratore: “Lo so che voi non dimenticate nulla. Voi omettete, che è diverso. E lo so che c’è quella pagina del copione che avete strappato e nascosto sotto il cuscino, vi ho viste”
Registe: “Suvvia, Narratore, era una scena noiosa e superflua, avrebbe annoiato i nostri lettori e, come dici sempre tu, non possiamo rompere le scatole al pubblico, no? Dunque converrai anche tu che sia il caso di passare direttamente ai titoli di coda e …”
Narratore: “Registe, datemi quella pagina. The Show Must Go On, è il vostro motto, giusto?”
Registe: “Ma noi non …”
Narratore: “ADESSO”
 

Non era così che Vexen aveva immaginato il loro trionfo.
Aveva pregustato a lungo l’euforia, assaporato nella sua fantasia la sensazione di libertà improvvisa, così potente da far girare la testa. Aveva immaginato di sentirsi almeno vent’anni scivolare via dalle spalle come un mantello logoro. Di ritrovare, bruciante nelle vene, l’entusiasmo che lo animava quando si era lasciato alle spalle la porta di casa tanto tempo prima, pieno di fiducia e amore per il mondo.
Invece si aggirava come uno spettro tra le rovine del suo laboratorio, e gli sembrava di contemplare la devastazione da una distanza di miliardi di anni luce, con l’occhio spassionato ed efficiente di una macchina che si limita a calcolare danni e tempi di ricostruzione, senza fastidiose implicazioni emotive.
E non provava assolutamente niente.
Aveva riempito il silenzio successivo alla battaglia di una lunga lista di cose da fare, com’era suo solito. Le sue ferite non erano troppo gravi, lividi che sarebbero guariti da soli e che non gli avevano impedito di prestare cure mediche agli altri tre complici al meglio delle sue abilità.
Larxen era il caso più critico. Gli era bastato uno sguardo rapido per capire che senza i poteri del Castello non ce l’avrebbe mai fatta. Aveva dato fondo alle ultime, preziose riserve di fluido bacta, immergendo la n. XII in una capsula di sospensione che l’avrebbe aiutata, in combinazione con i poteri del Castello, a rigenerare i tessuti danneggiati dall’attacco suicida sferrato per distruggere Lexaeus.
Osservandola fluttuare nella sostanza gelatinosa, con un respiratore calato sul viso, si chiese oziosamente se non fosse il caso di spegnere la macchina e lasciarla semplicemente crepare. Scoprì che, in fin dei conti, per lui non cambiava niente che la n. XII vivesse oppure no. Se non altro occuparsi di lei serviva a tenere il cervello occupato.
Con un po’ di fortuna avrebbe almeno perso la vista.
Marluxia era stato liquidato con una semplice prescrizione di antidolorifici e unguenti per lividi e ferite superficiali.
“È la tua grafia o il disegno di una catena montuosa fatto da un ubriaco con tre dita amputate?” il n. XI si rigirava il foglietto tra le mani, gli angoli della bocca piegati in giù per il disgusto. A Vexen non era sfuggito il cambiamento radicale nell’atteggiamento dell’uomo più giovane. Appena ottenuta la vittoria tanto sospirata ogni traccia di rispettosa cortesia era svanita dai suoi modi, l’uso del “lei” subito abbandonato, rimpiazzato dal tono neutro e secco dell’uomo d’affari che ha poco tempo da sprecare e che si attende il massimo della produttività dal suo scienziato migliore.
Solo due giorni prima lo avrebbe assalito con una trafila di insulti per un affronto del genere. Ma adesso persino la sua ironia da due soldi sembrava farsi strada fino a lui da galassie lontane, stemperata dal gelo dello spazio profondo.
“Puoi vedere da te che le scorte del laboratorio sono andate distrutte” aveva risposto, senza alzare lo sguardo dal microscopio di cui stava cercando di salvare i pezzi ancora integri. “Troverai i farmaci che ti ho scritto in qualsiasi mondo con un minimo di evoluzione tecnologica.”
Axel aveva richiesto qualche sforzo in più. Aveva riportato un paio di fratture alle costole e avrebbe dovuto portare un gesso al braccio sinistro per una trentina di giorni. Ciò non gli aveva impedito di provare un notevole piacere nel dare fuoco ai cadaveri dei nemici, concentrando le fiamme fino a che di loro non erano rimasti che pochi brandelli di ceneri, finissimi e morbidi come sabbia.
Le ossa rotte del n. VIII sarebbero guarite in poco tempo. Quanto al lampo efferato che era balenato sul fondo dei suoi occhi mentre il corpo di Saïx si accartocciava tra le fiamme… quello era un tipo di ferita che nemmeno un medico eccezionale come lui avrebbe saputo curare. Aveva sempre considerato Axel un idiota con il quoziente intellettivo di un cercopiteco, ma fino a quel momento non lo avrebbe ritenuto il tipo da godere di uno spargimento di sangue.
Parte della responsabilità era certamente sua. Non aveva risparmiato odio e violenza nel dipingere il ricordo falso impiantato nel cervello del n. VIII grazie alle Stanze della Memoria. Si era assicurato che la “morte” di Roxas avvenisse tra fuoco, fiamme e urla disumane. Aveva conferito ad ogni parola pronunciata dai due ex amici la forma e l’acume di un dardo intriso di veleno. Non era questione di crudeltà o sadismo: semplicemente, un ricordo artificiale risultava più vivo e credibile se ancorato a emozioni potenti.
Ma il problema non era lo sguardo efferato nelle iridi di Axel, le parole taglienti del n. XI o la vita appesa ad un filo della n. XII.
Il vero problema era seduto in un angolo del laboratorio, con gli occhi bassi intenti ad avvolgersi un braccio nelle poche bende rimaste. Non emetteva alcun suono, a parte l’apertura di un’ampolla di cui versò un paio di gocce sul livido che gli correva dal gomito alla spalla sinistra. Probabilmente sentì i suoi occhi addosso, perché mormorò un “Tranquillo, faccio da solo”.
“Già. Tu fai sempre tutto da solo, giusto?”
A quelle parole Zexion alzò lentamente la testa. Non abbastanza da fissarlo negli occhi, ma a Vexen bastò.
Non aveva alcun senso rimandare quella discussione.
“Zio, io …”
“Mi avevi fatto una promessa … o sbaglio? Rinfrescami la memoria, per favore” disse “Perché ho il sospetto di non ricordarmi più di chi io mi possa fidare o meno”.
Sì, la cosa era davvero ironica. Se non si fossero trovati nel suo laboratorio, nel suo santuario ridotto a ceneri e strumenti inutilizzabili, avrebbe persino trovato la cosa divertente, di quell’ironia così amara da lasciarti sul fondo della gola la necessità di voler bere qualcosa di forte.
Non si era mai fidato di nessuno. Forse dei suoi genitori, un tempo.
Ma aveva trascorso abbastanza anni tra i paesi affamati e le città superstiziose da sapere con certezza che chiunque avrebbe potuto denunciare per eresia o blasfemia un medico girovago che guariva la gente senza professare alcuna fede verso le divinità. Se aveva accettato l’offerta del Superiore, quel giorno di tantissimi anni addietro, era stato anche per lasciarsi alle spalle per mondo disgustoso da cui doveva costantemente guardarsi alle spalle. Nonostante tutti i difetti dell’odioso Radigata e della sua banda di scimmie ammaestrate, almeno in quel Castello, nei suoi sotterranei, aveva potuto essere se stesso. E aveva cresciuto quel bambino dallo sguardo triste nella consapevolezza che con lui non avrebbe avuto bisogno di costruirsi una torre di segreti.
A conti fatti era stato davvero un imbecille.
Il ragazzo si ritirò contro la sedia su cui era appoggiato, chiaramente alla ricerca di qualcosa con cui controbattere.
Per una volta Vexen fu quasi felice che il n. VI potesse sentire i suoi pensieri. Gli avrebbe risparmiato parte della fatica. “Sei andato da Xemnas. Gli hai spifferato tutto. Ed io sono stato così idiota da coprirti davanti a Marluxia!”
“Credi che io non ti sia grato per questo? Lo so che hai fatto il nome di Roxas per …”
“E allora perché mi hai tradito?”
Dal fondo della sedia i capelli chiari ebbero un sussulto, e per la prima volta da quando era entrato nel laboratorio Zexion sollevò la testa, la pozione di guarigione ancora stretta tra le sue dita. “Perché non volevo che tu diventassi un assassino”.
“E così hai pensato bene di rivelare tutto al Superiore. Così non sarei mai diventato un assassino …” disse, costringendosi ad appoggiare sul tavolo il contenitore di bacta prima di congelarlo per la furia “… perché sarei morto giustiziato da Xigbar, vero?”
“Io ho detto loro che tu eri innocente. Che ti avevano ricattato. Ma Xemnas non mi ha creduto e …”
“E lo sai perché non ti ha creduto? Lo sai perché? Perché non sai nemmeno mentire!”
Gli sembrò di rivedere ancora le sguardo senza pupille di Saïx in pieno stadio Berserk riverse su di lui mentre distruggeva il cerchio alchemico, e l’istante dopo i fucili del n. II contro il proprio petto, con il click che stava pronunciando la sentenza di morte. In pochissime ore aveva rischiato la propria vita per colpa di quel ragazzino che, anche dopo essere stato travolto dalla furia omicida del n. VII, non sembrava intenzionato a capire la portata della sua idiozia. “Dannazione a me ed a quando ti ho insegnato a parlare! SAREBBE STATO MEGLIO PER TUTTI SE FOSSI RIMASTO MUTO!”
Sì, Zexion doveva capirlo. Doveva sentirlo con gli occhi, con le orecchie, con tutti i suoi sensi da fenomeno da baraccone.
Doveva sentire la paura di morire che gli aveva attraversato lo stomaco. Ascoltò il silenzio che arrivò dopo le sue parole, e con calma lo riempì di ogni cosa che gli era rimasta aggrappata al corpo durante tutta la battaglia. Rivide davanti agli occhi le Stanze della Memoria che aveva finalmente aperto, il mondo promesso degli uomini che vi dormiva cristallizzato, ed il potere che aveva ricevuto. La conoscenza che dormiva dentro al Castello in attesa che lui allungasse la mano per prenderla.
Fissò il tavolo quasi carbonizzato, l’armadio in frantumi, le tracce nere sul pavimento. Pensò ad Axel, ed a cosa fosse riuscito a fare nella sua testa.
Marluxia era un nobile insolente, un serpente che nemmeno dava mostra di volersi nascondere, ma Vexen da giorni si era già reso conto che, senza quel complotto, sarebbe ancora stato bloccato al punto di partenza. Nel suo laboratorio, tra le pagine, gli alambicchi e gli strumenti rubati da qualche pianeta, incatenato nel mausoleo personale del Superiore in attesa che anche il suo cervello si coprisse di polvere e le giornate si cristallizzassero in battiti di pendola sempre uguali.
Adesso, finalmente, era libero.
“No, non lo sei!”
La voce del ragazzo, di solito nulla più di un sussurro, riempì da sola il vuoto che Vexen era riuscito a creare. Si accorse, appoggiando una mano contro l’estremità del suo vecchio letto chirurgico, di non averla mai sentita così netta. “Non sei libero, zio. La tua Scienza, la tua dea, non ti lascerà mai libero”.
“Novità dell’ultimo minuto, Zexion: io sono uno scienziato. La ricerca del sapere è la mia vita. E preferisco passare venti volte sul corpo del Superiore piuttosto che marcire qui dentro”.
“Beh, se questa è la tua vita …”
In un unico gesto, fin troppo veloce per un ragazzo così minuto, la provetta che Zexion stringeva tra le mani finì a terra in un’esplosione di vetri. Il liquido verdastro schizzò sugli stivali di entrambi e per qualche istante si riflesse nell’occhio del ragazzo. “…allora tienitela!”
Si riempì, ancora una volta. Vexen lo aveva sempre voluto, il silenzio, ma stavolta probabilmente lo avrebbero sentito tutti, anche ai piani più alti.
Il suono secco attraversò la stanza da parte a parte, e nemmeno avrebbe saputo dire se fosse partito dalla sua mano o da qualsiasi altra parte del laboratorio. Si accorse di star trattenendo il fiato quando il suono finì, ed i suoi occhi incontrarono il punto in cui le proprie dita avevano incontrato la guancia di Zexion. Sotto il guanto il palmo della mano iniziò a bruciare.
Il ragazzo aprì la bocca un paio di volte, ma ne uscirono solo una dozzina di suoni senza forma. L’ultimo, però, sarebbe riuscito chiunque a comprenderlo “IO TI ODIO!”
In fondo anche quello era un prezzo da pagare per la propria libertà. Un prezzo accresciuto dalla sensazione di essere stato tradito dall’unica persona a cui avesse mai avuto il coraggio di lasciare le spalle.
“Bene, adesso che hai pronunciato la tua ultima e tragica battuta … QUELLA È LA PORTA!”
Rimase ad ascoltare la magia degli strali oscuri del Portale di teletrasporto ancora per qualche magnifico istante. E sì, altro silenzio. Eterno, ma vero.
Il silenzio, in fondo, non poteva pugnalarti alle spalle.
 
 
Narratore: Registe? Registe? Cielo, sembrate Vossler e Gabranth dopo il megaprocesso … oddio, e adesso quando la smettono di piangere … forse non avrei dovuto mettere la scena dello schiaffo … Registe, serve un fazzoletto? Vi supplico, dite qualcosa …”

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 - Zexion (V) ***


Capitolo 34 - Zexion (V)







I tralci di spine di Marluxia





La stanza era come l’aveva vista l’ultima volta; i libri erano ancora ordinati in maniera quasi maniacale, lo scrittoio illuminato dai raggi della luna che filtravano attraverso la vetrata e l’odore salmastro ancora pronto ad impregnarne ogni palmo. L’enorme letto era ancora dove lo ricordava, in un angolo sacrificato rispetto a qualsiasi altro mobile accatastato in mezzo a tutto quel bianco. Due anni prima aveva messo piede lì dentro nascondendosi dietro le spalle larghe del Superiore con gli occhi fissi sul pavimento; l’odore dell’abitante di quella stanza conteneva mille storie, parlava di guerra e di paura. Aveva osservato con curiosità una mappa del cielo appoggiata sull’enorme scrivania intarsiata chiedendosi come una creatura della famiglia demoniaca potesse trovare interesse in qualcosa che non fosse la mera magia selvaggia o la caccia agli esseri umani. In quel luogo il Superiore aveva deciso delle loro vite.
Zexion appoggiò le dita contro i volumi posti nella libreria bianca.
Non lesse i titoli.
Li sfiorò con i polpastrelli uno ad uno, da un’estremità all’altra dello scaffale.
Poi tornò indietro.
La maggior parte era in pelle di capra o vitello, di un profumo debolmente agre che riusciva a sopravvivere dopo aver trascorso oltre due secoli di silenzio tra le mura di quel Castello. Alcuni erano composti da pagine rilegate a malapena e tenute insieme da cuciture che probabilmente sarebbero saltate se vi si fosse soffermato troppo a lungo con la mano.
Amava i libri. Li aveva adorati fin da quando riuscisse a ricordare. Gli avevano sempre dato l’idea che vi potesse trovare tutto ciò di cui sentisse la mancanza.
Forse per quel momento si era ritrovato lì: aveva aperto il portale senza pensare a dove volesse davvero andare, guidato solo dal bisogno di potersi scrollare di dosso l’odore deformato di suo zio. Avrebbe potuto ritrovarsi in qualsiasi luogo esistente, anche ad un pianetino a migliaia di parsec dalla loro posizione, eppure parte del suo subconscio aveva tirato i fili della magia oscura fino a quel luogo.
Sentiva gli occhi di Saïx. Li sentiva su di sé insieme alle schegge di vetro dell’ampolla che gli aveva spaccato sulla faccia ed all’odore tossico di quel sonnifero.
Ogni parte del suo corpo si era intrisa dell’odore della sua morte, e con essa la consapevolezza di essere stato lui a causarla. Lui, e la sua scelta di difendere suo zio dalla più brutale delle morti. Si strinse ancora di più nel cappotto, fissando i volumi nella speranza che i titoli vergati in nero ed oro potessero catturare la sua attenzione quanto bastasse per non pensare anche solo per una manciata di minuti. Le lettere, però, sfuggivano dalla sua testa senza ancora che riuscisse a dare loro un senso compiuto, limitandosi a scintillargli davanti alle iridi ed a volare via. Aprì un tomo a caso, uno dalla copertina verdastra in apparenti buone condizioni, ma anche così i suoi occhi non lessero nemmeno una riga e lo ripose con rabbia.
Cercò di riprendere fiato e fissare il vuoto oltre la vetrata, ma nello scintillio gli parve di vedere il sorriso triste del Superiore.
Forse la verità era che aveva tradito tutti … senza aver salvato nessuno. Nessuno, nemmeno se stesso.
Respirò, ma non vi era un singolo odore all’interno del Castello che potesse considerare “amico” a parte quello che proveniva dalle lenzuola abbandonate e dai libri che lo fissavano, come se tutto il Castello volesse stringersi intorno a lui e fossero rimaste le mura di quella stanza a fargli da rifugio. Gli venne da piangere, ma le lacrime non arrivarono.
Si accorse di star pensando a Demyx ed alla sua espressione attonita quando li aveva lasciati indietro: lui e Luxord erano stati abbastanza furbi da non seguirlo in quel carnaio, e fu l’unico pensiero rassicurante nel turbine di quelli che gli serravano la bocca dello stomaco. Erano ancora nel loro vecchio mondo, probabilmente in attesa di una chiamata del Superiore che non sarebbe arrivata mai più.
Era suo dovere avvertirli. E sì, forse anche guardarli negli occhi e dare loro una spiegazione. Poi … “poi” qualcosa sarebbe accaduto. Qualsiasi cosa.
Fu a metà dell’apertura del portale oscuro che si voltò. Il nuovo arrivato si era teleportato nella sua stanza senza fare alcun rumore. “Andiamo da qualche parte, Zexion?”
Quell’odore.
Quanto lo odiava quell’odore. Portava la morte, e lo sentì diretto contro di lui.
Provò ad articolare qualcosa, ma dalla sua gola ne uscì soltanto un suono privo di forma; si voltò con tutta la lentezza possibile nella speranza di non incrociare ancora una volta quegli occhi blu.
“Se fossi in te chiuderei quel portale. Non mi piace che la gente mi si teletrasporti davanti, lo trovo un segno di pessima educazione”.
Il profumo di rosa del n. XI gli entrò dentro la testa. Fu come concedere ad un tralcio di spine di stringergli il cervello e si portò le dita alla testa per contenere il dolore. Il portale abortì in pochi istanti e con due falcate l’altro gli fu addosso. Zexion provò ad indietreggiare, ma l’altro lo afferrò per manica e lo spinse contro la libreria. Evitò un volume caduto per un soffio, ma non fece in tempo a riprendere fiato che la lama rosa della falce di Marluxia gli saettò contro la gola. “Non mi sono dimenticato della tua piccola soffiata al Superiore quando diedi a quei bastardi dei Durlyn quello che si meritavano. Certo, adesso non ci sono Xigbar e Xaldin dietro cui nasconderti …”
“Io non …”
La lama premette ancora di più. Dentro la testa qualsiasi cosa graffiava, ed i polmoni si contraevano come se qualcosa li stesse accoltellando.
“Non ti ho dato il permesso di rispondermi, n. VI. E vorrei un attimo di silenzio da parte tua, non vorrei che si creassero … malintesi” mormorò. Scostò la lama verso l’alto, ed il ragazzo fu costretto a sollevare il mento. “Sai, il Superiore aveva un debole per te. Eri il figliolo debole e stupido che scodinzolava ad ogni sua minima parola. Soffrirebbe persino nella tomba se ti facessi a pezzi adesso, ed in effetti sono parecchio tentato. A giudicare dalla tua espressione credo che nemmeno a quella vecchia mummia di Vexen importerebbe poi gran che”.
Provò a respirare, anche solo ad aprire la bocca, ma la falce intercettò anche quel minuscolo movimento. L’odore salmastro della stanza di Saïx venne totalmente annullato da quello dolciastro e feroce dell’uomo che aveva davanti. Tentò di ricacciare le lacrime, ma la lama sotto la gola non gli permise nemmeno quello. Non ebbe bisogno di aprire gli occhi per sentire quanto il suo pianto eccitasse il predatore. “Siamo alle lacrime del coccodrillo, Zexion? In effetti ti donano, magari un imbecille come Axel potrebbe persino commuoversi”.
Sorrise, e rimase in silenzio per qualche secondo.
Quando riprese la voce assunse un tono molto più dolce e mellifluo. “A proposito, sono quasi convinto che il nostro compianto Superiore sarebbe davvero molto addolorato se accadesse qualcosa anche ai numeri IX e X, o sbaglio? Illuminami, Zexion. Perché vedi … ora che le Stanze della Memoria sono aperte qualcuno armato di malvagie intenzioni potrebbe raggiungerli con un portale anche senza conoscerne l’esatta locazione. Magari qualcuno che troverebbe molto divertente l’idea di finire il lavoro”.
“Loro non …”
Li sentì crescere dal legno della libreria, ma l’arma rosa lo ricacciò indietro ed i due tralci gli furono al collo. D’istinto sollevò le mani per rimuoverli, ma se le ritrovò bloccate a mezz’aria.
I rami strinsero.
“Zexion, tu parli troppo per i miei gusti. Ti preferivo quando eri solo il pupazzo cerebroleso del n. IV. Gradirei finire di parlare …”
Il ragazzo aprì la bocca per prendere aria, ma la morsa si serrò e uscì solo un verso inarticolato. I polmoni gli andarono a fuoco per lo spasmo e anche gli odori si affievolirono.
“Lo Spirito del Castello è tornato al suo sonno dopo averci prestato i suoi poteri, ma ho intenzione di chiedergli una seconda volta. In maniera definitiva, s’intende. Lo Spirito si è dimostrato davvero ben disposto nei nostri confronti, direi che liberarlo sarebbe il modo migliore per ottenere la sua gratitudine, non trovi?”
Zexion si contorse dalla testa ai piedi, ma Marluxia non diede cenno di velocizzare la sua agonia. Con la mano libera giocherellò con i pendenti argentati della tunica, ma senza alcuna fretta. “Lo Spirito ci ha chiesto di cercare informazioni sull’Invocazione Suprema per risvegliarlo. Ho fatto delle ricerche, e la biblioteca non è stata avida. Il procedimento non è né rapido né semplice ma … credo che lavorando tutti insieme otterremo dei risultati sorprendenti. Dovremo coinvolgere una quantità notevole di persone estranee al Castello, ed i tuoi poteri potrebbero rivelarsi … utili. O almeno è quello che mi piacerebbe pensare. Tu sei d’accordo?”
L’aria gli venne meno. Il mondo divenne ovattato, ed il bianco della libreria divenne in pochi istanti grande come tutta la sua stessa vita.
Aveva quasi perso del tutto conoscenza quando i tralci che gli bloccavano i polsi ed il collo si ritrassero nel mobile; si portò le mani alla gola, afferrando l’aria un gorgoglio strozzato che nulla aveva della sua stessa voce. Dove i rami erano affondati contro la pelle ed i muscoli sentì un violento bruciore, ma nonostante il dolore sentì i suoi polmoni dilatarsi come se nulla vi fosse di più importante. Marluxia scostò la punta della falce quanto bastò per farlo cadere a terra, in ginocchio. Non vi era muscolo del corpo del ragazzo che non implorasse per un po’ d’aria, ma dopo i primi, disperati respiri gli odori tornarono. Davanti ai suoi occhi confusi comparve la forma di una rosa rossa e della mano che pigramente gliela agitava proprio davanti al naso, per schernirlo. “Sono felice che tu abbia deciso di accettare, n. VI. Sarei stato davvero dispiaciuto se avessi deciso di andartene, sai?”
Zexion non provò nemmeno a ribellarsi quando l’altro appoggiò il fiore proprio tra i suoi capelli, ogni minuscola parte di lui che ancora bruciava per riuscire a sopravvivere. Il buffetto che il n. XI gli appoggiò sulla guancia bruciava come mille fiamme infernali. “Ricordati, posso trovarti ovunque tu sia. E lo stesso vale per i numeri IX e X. Che io vada da loro, magari in compagnia di Larxen, dipende tutto da quanto farai il bravo bambino” sorrise, e tutto il suo profumo floreale si espande nella stanza come delle spore. Un portale si aprì alla sua destra, e vi entrò con il passo fermo, gli occhi che non lasciarono i suoi nemmeno per un istante “Appuntamento alla sala dei troni tra un’ora, Zexion. Mi raccomando, renditi presentabile. Hai davvero una brutta faccia”.
Inspirò, poi espirò.
Inspirò di nuovo, tre volte, finché nella sua gola la fame d’aria non venne placata.
Poi gridò, ma nessuno gli rispose.
 
 
 
Narratore: “Oddio, davvero ce l’abbiamo fatta? La prossima volta vediamo l’epilogo?”
Registe: “Sì, Narratore, stavolta sì. Anche se questo finale non ci piace per niente …”
Narratore: “Ah, a voi non piace? E che devo dire io, che mi sono sgolato per narrarlo. Beh, almeno sono felice di vedere per una volta Vexen e Zexion nella mer …”
Registe: “Narratore, sei insensibile!”
Narratore: “E voi due siete due inique tiranne che non accettano che i loro personaggi preferiti litighino. Fossero morti capire! Ma suvvia, una litigata ed uno schiaffo, placatevi! Va bene, amici lettori ed adorate lettrici, qui si va dritti con coraggio verso la fine. Non mancherò di deludervi nemmeno stavolta!”

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Capitolo 36
*** Epilogo ***


Epilogo







Roxas





Il laboratorio era deserto.
Poteva sentirli tutti: il principe dormiva nei suoi sogni di gloria, l’alchimista era in biblioteca per ottenere maggiori informazioni, la ragazza era andata in chissà quale mondo e l’uomo dai capelli rossi era in cucina. Il ragazzo, la variabile che non aveva considerato, era chiuso nelle sue stanze.
Le tre capsule occupavano un’intera parete, e da oltre i vetri tre volti respiravano nel liquido.
L’uomo in armatura non aveva davvero un corpo, ma si avvicinò.
Nel primo contenitore galleggiava un uomo massiccio, dal viso e dal corpo coperti di cicatrici. I capelli scuri stavano cedendo il passo a diversi ciuffi bianchi, ma anche in quella vasca di sospensione i muscoli tesi non tradivano le sue abilità di guerriero. In un angolo, una grossa spada e dei vestiti rossi logori confermarono la sua impressione.
Lo aveva scelto bene.
Sul secondo aveva avuto molti dubbi. Ricordava i tempi in cui era ancora un uomo, e la sua guerra. Una guerra dove la determinazione e la forza d’animo erano state fondamentali quanto la padronanza delle armi migliori.
Le mani del ragazzo erano giunte anche nel liquido. Forse sognava di stringere qualcosa tra quelle dita, ma ogni suo avere era stato riposto vicino all’armatura dorata che i nuovi padroni del Castello avevano faticato a rimuovere.
Un sacerdote, uno spirito guida. Non la persona più adatta al compito, ma sapeva quanto l’apparenza potesse ingannare, o quanta forza potessero nascondere le corna del montone più pacifico di un gregge. Fissò ancora i suoi capelli chiari, il movimento ipnotico che disegnavano tra le bolle rosse del liquido di combinazione mentale.
Poteva andare. Sì, poteva.
Cercò di guardare meglio la terza figura, un giovane uomo dal fisico asciutto, ma qualcosa cambiò.
Lei era lì.
“Sparisci”
Lei era lì, proprio come lui. Non avevano più un corpo, ma esistevano.
Erano, e sarebbero stati. Lo Spirito lo sapeva. “Ancora non ti decidi ad andartene?”
“Pensi davvero di poterti liberare di me?” disse lei. Non aveva più una voce, ma le parole risuonarono lo stesso dentro la sua stessa esistenza, fatte di melodie antiche e ruggito di draghi.
“Non potrai trattenermi a lungo. Gli ingranaggi dell’Invocazione Suprema sono stati attivati, e la nuova Organizzazione renderà di nuovo reale il sogno degli uomini. Il sogno di Autozam”.
“Sono solo sogni, Terra. Autozam non esiste più”.
“Risorgerà, invece”.
Aveva scelto bene i suoi guerrieri. Quello che si era riflesso nei loro occhi nell’istante in cui la visione della Città degli Uomini si era manifestata nelle Stanze lo aveva ripagato dei secoli trascorsi lì dentro, nelle catene che quella donna aveva stretto intorno alla sua stessa anima. Lei, che aveva condannato gli esseri umani all’eterna sottomissione dei demoni. “Risorgerà, vedrai. E stavolta non sarò solo. Lumaria, Arlen, Lea e Even saranno al mio fianco. Schiacceremo una volta per tutte la famiglia demoniaca”.
“Sai che ti combatterò con tutte le mie forze”.
“Ma le tue forze non sono più quelle di una volta”.
Lo aveva sentito, secolo dopo secolo. Anche le magie della famiglia dei draghi non erano immuni allo scorrere del tempo; si erano allentate ogni giorno, leggermente, come capelli spezzati in una lunga treccia. Aveva dovuto attendere migliaia di anni per potersi manifestare, parlare, apparire con una forma che potesse essere compresa dai mortali, ma l’attesa era stata ripagata. Aveva mosso i primi passi verso la propria libertà, e tra poco anche gli ultimi intralci sarebbero stati spazzati via.
La sua furia non si sarebbe spenta nemmeno in altri mille anni. “Quel ragazzino … sei stata tu a farlo entrare nelle Stanze della Memoria ed a risvegliare i suoi Keyblade. Hai consumato quasi tutte le tue energie per quella follia. Sei sempre stata una sconsiderata”.
“Le mie azioni non ti riguardano, Terra”.
Non aveva più una bocca, ma avrebbe sorriso volentieri. Avrebbe sorriso a quella donna capricciosa e volitiva, a quella creatura visionaria che aveva condannato il mondo intero per una persona sola. E adesso, ancora una volta, per quella stessa persona aveva rinunciato ai propri poteri, lasciando a lui abbastanza libertà d’azione da assistere Lumaria ed i suoi compagni nella ribellione. Lei, che aveva a cuore il Superiore e la sua famiglia, era rimasta inerme a guardarlo morire. “Sei stata avventata e stupida. Il tuo sentimentalismo ha condotto i tuoi protetti al massacro. E quando sarò libero dalla tua prigione porterò a termine la mia missione” disse, pregustando ancora una volta di sentire il vento tra i capelli, la forza, ed il proprio Keyblade stretto tra le dita. “La pace che tu desideravi è un progetto irrealizzabile. Una speranza fatta solo di parole vuote. Mi assicurerò che stavolta Cephiro vedrà il trionfo degli uomini”.
Una speranza di parole vuote, eh?”
Lei rispose, e la sua presenza scivolò nell’aria del laboratorio, sottile come una goccia d’acqua. Passò intorno al guerriero ed al sacerdote, un alito di vento che nessun umano sarebbe riuscito nemmeno a percepire. La sua essenza si avvolse come le spire di un drago intorno alla terza capsula ed i capelli della figura che vi dormiva si mossero verso l’alto in un turbine di minuscole bolle.
Capelli azzurri come il cielo.
“Non dovrei essere io a dirtelo, Terra …” mormorò con una sottile risata “… ma lo sai che la speranza è l’ultima a morire?”
 
 
 
Luxord appoggiò il panno al bancone, stringendosi le tempie tra le mani. Senza la luce del giorno la meridiana della taverna del Bivio Notturno era inutilizzabile ed i clienti ne approfittavano per restare sbronzi fino anche alle prime luci dell’alba, ma lui non aveva bisogno di alcuno strumento per capire che fossero trascorse oltre tre ore dalla mezzanotte. Si sedette sullo sgabello e subito le palpebre cercarono di chiudersi, ma si dette un pizzicotto sulla mano e si rizzò in piedi.
Si disse tra sé che era solo la stanchezza di essere stato di turno dietro al bancone per tre notti consecutive, e che avrebbe avuto bisogno solo di stendere un po’ le gambe e chiudere gli occhi. Cercò di concentrarsi sulla pila di boccali di birra che doveva ancora finire di lavare.
Il Bivio Notturno era una buona taverna. Era lontana dai quartieri poveri di Papunika, e la posizione a pochi metri dal comando della guarnigione non invogliava i borseggiatori o i delinquenti ad entrare attraverso la solida porta in legno. Nettel, la giovane proprietaria, era rimasta vedova del marito due anni prima, proprio quando lui e Demyx erano giunti alla capitale nel momento in cui era stato chiaro che nessuno del Castello dell’Oblio sarebbe più venuto a riprenderli. La ragazza era stata più che felice di trovare qualcuno che sapesse gestire quel posto, lei che si occupava soltanto della cucina e della pulizia delle stanze e che svaniva nel retro della locanda ogni volta che un avventore faceva un commento audace sulle sue forme.
Luxord sapeva di piacerle, ma aveva deciso di mantenere il loro rapporto strettamente professionale, limitandosi a distrarre i clienti più molesti con un sorriso ed una accogliente partita a carte.
Quella sera, però, era davvero al limite delle forze.
Da cinque giorni pioveva senza sosta: le strade della capitale erano quasi tutte impraticabili, ed i pochi mercanti che avevano raccolto il coraggio di uscire dalle proprie case si erano ritrovati con le ruote dei carri impantanate nei canali di scolo incrostati da sterco e fango mai rimosso. Diversi soldati della ronda si erano ritrovati bloccati nei peggiori vicoli della città, quelli dove i tagliagole ed altri criminali affini avrebbero reso preferibile persino la comparsa di un demone infuriato. Le stalle della guarnigione erano state invase dall’acqua, e diversi ufficiali avevano optato proprio per il Bivio Notturno per soggiornare e far riposare gli animali. Il salone della taverna ormai puzzava di umidità e stantio, ma aprire le persiane era fuori discussione. Avevano servito birra e manzo senza sosta, e nonostante in quei giorni avessero guadagnato più che nello scorso mese, Luxord aveva davvero bisogno di riposare e di occuparsi dei rifornimenti.
Demyx lo aveva aiutato, ovviamente: la sua magia allontanava la pioggia dalla taverna e dalle stalle, impedendo che l’acqua si infiltrasse nella cantina dove tenevano le riserve. La sua musica teneva alti gli spiriti degli avventori, ma allo stesso tempo la gente aveva così tanto desiderio di un po’ di allegria che ormai anche il giovane bardo non appoggiava la testa sul cuscino prima dello spuntar del sole. Vicino al camino un ragazzo si alzò in piedi ed ordinò un altro giro di birra per tutti i suoi compagni, gridando all’intera taverna che a breve sarebbe diventato padre. Si elevò una cacofonia di applausi, e Luxord si avvicinò alle botti più per riflesso che non per lucidità.
“Non servite ciambelle?”
Doveva essere davvero a pezzi per non essersi accorto dell’arrivo del nuovo avventore. Fece cenno a Demyx di aiutarlo ai tavoli e si sforzò di mettere su il sorriso più convincente che avesse per non cacciare a male parole l’imbecille che senza dubbio era entrato nella taverna a notte fonda solo perché non sapeva come meglio impiegare il proprio tempo. “La cucina è chiusa, mi dispiace. Ma la birra è ancora disponibile e forse mi è rimasto un po’ di formaggio”.
“Il formaggio mangiatelo tu! Io voglio le ciambelle!” borbottò la figura. Si arrampicò su uno dei sedili, sganciandosi il mantello gocciolante e abbassando il cappuccio. “E comunque sì, dammi della birra. Questo tempo del cavolo non vuole saperne di smettere di piovere. Mi si bagnano i libri, sai?”
Luxord tremò, e per poco il boccale che stava riempiendo non gli cadde dalle mani.
Aveva sentito quella voce una volta sola, ma non era riuscito a dimenticarla. Così come il viso della persona a cui apparteneva.
La ragazza si girò verso il centro della stanza, e quando fece un cenno di saluto verso Demyx per poco il ragazzo non versò la birra contro l’armatura di un avventore. Un gruppetto di soldati sollevò la testa dai resti della propria cena, ma erano chiaramente troppo ubriachi per domandarsi cosa ci facesse a quell’ora di notte una fanciulla dai capelli rossi tutta sola in una taverna.
Lei gli lanciò una moneta e ci mancò poco che non gli strappasse il boccale che teneva ancora tra le mani tracannando il contenuto tutto d’un fiato. “Ma voi non eravate al Castello dell’Oblio?”
“Beh … noi …”
Le mani di Luxord strinsero nervosamente un panno.
Aveva impiegato due lunghi, lunghissimi anni per lasciarsi quel luogo alle spalle. Aveva combattuto contro se stesso e contro i propri occhi quelle sere in cui i ricordi si facevano più pesanti ed immaginava che Xigbar e Xaldin entrassero lì, proprio dalla porta del Bivio Notturno, dicendogli che volevano la birra migliore di Papunika e che a breve sarebbe passato anche il Superiore per riportare lui e Demyx a casa.
E, nonostante i brindisi levati dai soldati dentro la taverna, parte della sua mente si ritrovò di nuovo al Castello il giorno dopo la fine di Stagview, con quella misteriosa fanciulla sopravvissuta al fuoco dei draghi che aveva rifiutato a male parole l’offerta di entrare nell’Organizzazione. I suoi occhi chiari erano un po’ umidi per la birra, ma in due anni non sembrava cresciuta nemmeno un po’. “È … complicato … suppongo …”
“Oh, sono bloccata qui per questo tempaccio, direi che per qualche ciambella potrei persino ascoltare quello che voi due avete da raccontarmi! Negli ultimi tempi mi sono davvero annoiata a morte, sapete?”
Tirò fuori dal borsello una seconda moneta, più grande di tutte quelle che avesse mai visto. Non riuscì ad identificarne il conio, perché la ragazza la fece volare in aria con uno schioccò delle dita e la fece sparire nel palmo sinistro in quello che fu poco più di uno scintillio. “E chi lo sa, magari potrei anche risolvere questa situazione … come hai detto tu … complicata
Gli lanciò una strizzatina d’occhio, e quello che attraversò la schiena di Luxord fu un brivido che nulla aveva a che vedere con il freddo e la pioggia battente “Valar Morghulis”.
 
 

Ci volle un po’ per convincere la gente a farlo passare.
L’area del Mercato del Ponte era impraticabile sin dalle prime luci dell’alba: i carri erano lasciati in qualsiasi punto vi fosse spazio, ed i banchi apparivano dal nulla come se la notte stessa li avesse rigurgitati. Erano anni che la Gilda aveva proposto un piano per regolare quantomeno la disposizione dei banchi e consentire un afflusso decente dal Rione del Vespro alla piazza, ma le poche guardie che tentavano di portare ordine in quel marasma di rumori e odori veniva ignorata nella migliore delle volte. Dalla sconfitta di Gnaag le campagne erano tornate praticabili, e sebbene molta gente avesse lasciato Sommerlund per recarsi di nuovo nelle proprie terre, ogni mattina le stesse persone si riversavano nel Mercato del Ponte per vendere, acquistare o anche solo per ascoltare i bandi che venivano declamati ad alta voce nella speranza che si offrisse qualche posto nella milizia o vi fossero volontari per gestire l’approvvigionamento della torre della Stella di Cristallo.
All’uomo piaceva quella confusione.
Mastro Kennar gli fece un saluto dalla bocca della sua fucina. Si riforniva da lui da anni, e le sue cotte erano tra le migliori che potesse rinvenire nell’intera Sommerlund. L’uomo dalla barba nera come il carbone gli lasciava spesso anche delle frecce in omaggio, e più di una volta si era attardato nel suo antro di fuoco e cenere per bere qualcosa di buono e canticchiare una di quelle canzonacce che risalivano ai tempi della guerra. Ricambiò il saluto del fabbro, ma alzò le spalle e proseguì.
La discesa che conduceva alla piazza era ancora più piena del solito. Si fece strada a fatica, rimpiangendo per qualche istante di non essere venuto a cavallo. Due ragazzetti scalzi e scuri appollaiati su una pila di casse dovettero aver riconosciuto la sua tunica, perché li vide scambiare dei fischi con qualcuno dall’altra parte della strada e, nel tempo si scavalcare un vaso caduto chissà quando, una folla di bambini e bambine erano apparsi dalle finestre delle case con ancora gli abiti da notte indosso.
Sorrise tra sé, sentendosi gli sguardi addosso.
Si disse che avrebbe dovuto esserci abituato, ma non era affatto così.
Un drappello di guardie con lo stemma di Re Ulnar stava tenendo lontana la gente. Il fiume di teste impediva di vedere l’accesso alla piazza, ma nemmeno il brusio ed il nitrito dei cavalli era in grado di sovrastare le grida che venivano dall’area della fontana. Una donna si staccò dal drappello e si fece strada a spallate nella sua direzione non appena si accorse del suo arrivo. La prima cosa che notò fu il pezzo di metallo informe che doveva essere stato un piccolo scudo.
Lei chinò la testa e serrò i piedi. “Maestro Lupo Solitario, la ringrazio di essere qui”.
“Cos’è successo, ufficiale? Il messaggero non è stato molto chiaro …”
“Ci perdoni, Maestro. Sappiamo che non dovremmo contare su voi Ramas per ogni …” lui la guardò, e lei si interruppe. La guardia cittadina non era famosa per saper gestire questioni di crisi più complesse di una banda di ladruncoli di strada o qualche criminale autonomo della borsa nera, ma lui non era lì per ricordarle quel dettaglio. “… mi scusi, Grande Maestro. C’è uno straniero molto pericoloso vicino alla fontana. Lo avevo notato già da qualche giorno, ma mi sembrava solo l’ennesimo accattone. Gli ho detto che non poteva stare lì, che era d’intralcio, ma niente. Allora ho cercato di spostarlo con la forza e questo …” disse, sollevando lo scudo “…è il risultato”.
Di certo gli scudi della guardia cittadina non erano allo stesso livello di quelli di Mastro Kennar, ma Lupo Solitario aveva combattuto abbastanza a lungo da sapere che nessuna ascia, spada o mazza forgiate da un armaiolo del Magnamund sarebbe riuscita a ridurre in quel modo uno scudo di un ufficiale.
Ma era stato abbastanza spesso nelle terre dei Signori della Guerra da sapere che alcune delle creature più antiche e selvagge del Magnamund e del Daziarn possedevano quelle ed altre capacità. Vide gli occhi scuri del soldato poggiarsi sul suo fianco, e capì per quale motivo un ufficiale della guardia cittadina aveva avuto il coraggio di far accorrere il Grande Maestro dei Ramas rischiando di essere derisa e degradata.
Sapeva cosa si dicesse in giro dei poteri della sua Spada del Sole.
“Va bene, fatemi vedere di cosa si tratta. Speriamo solo di non dover chiamare anche i maghi della Stella”.
Lei annuì, e con un grido cacciò tutti i curiosi che si erano accalcati alla fine della discesa. Alcuni lo riconobbero e gli lanciarono grida di incitamento, ed un paio applaudirono. Gli altri uomini della milizia non nascosero la loro espressione sollevata, e Lupo Solitario capì che la donna che lo aveva accolto non doveva essere stata l’unica ad aver cercato di avvicinarsi allo straniero. Uno di loro stava cercando goffamente di riparare con delle cinghie la propria armatura, ed un paio avevano lo sguardo fisso sull’unica figura al centro della piazza, una persona dagli abiti così neri che per un attimo gli ricordò le Ombre delle celle di Kraagenskull.
I lineamenti non avevano nulla di Sommerlund, ma probabilmente nemmeno dell’intero Magnamund. Anche da quella distanza riusciva a vederne gli occhi, due iridi di un azzurro così profondo da causargli un fortissimo disagio.
Nelle sue mani c’erano due armi che non aveva mai visto da nessuna parte, nemmeno sulla Terra II o durante le incursioni nelle roccaforti dell’Impero Galattico. Sembravano due enormi chiavi, una nera ed una color argento, e ci avrebbe scommesso l’intero Monastero che erano state quelle a ridurre a pezzi le armi della guardia. Il nuovo arrivato le puntava in avanti, senza fissare qualcosa o qualcuno in particolare, stringendole con molta più forza di quello che sarebbe stato necessario. Scintillavano in maniera strana, come se la luce dell’alba si riflettesse in modo confuso lungo la loro superficie.
Delle tante creature partorite dai Signori delle tenebre che si era immaginato, quello non ne faceva di certo parte. Gli venne da sorridere, e l’ufficiale probabilmente interpretò quel gesto in ben altra maniera. “Dunque ha la vittoria in pugno, Grande Maestro? Non è nulla davanti alla potenza della Spada del Sole, dico bene?”
“Questo non è un problema da risolvere con una spada, ufficiale”.
Prese il mantello, e con un gesto fece sparire il fodero e l’elsa sotto le pieghe. I soldati gli fecero ala non appena mosse i primi passi verso la piazza, e ancora una volta si rammaricò di quanto trovasse fastidioso sentirsi gli occhi di tutti gli astanti addosso. Ma, questo era ancora più chiaro, il ragazzo dalle enormi chiavi doveva trovarlo ancora più odioso di lui.
Si mosse nella sua direzione, ma quello non attaccò.
Anche a quella distanza poteva accorgersi che, sotto la lunga tunica scura, le braccia gli tremavano come una foglia.
Ancora una volta i soldati della guardia cittadina avevano sentito il bisogno di chiedere aiuto alla Spada del Sole per risolvere una situazione di cui invece non avevano capito assolutamente nulla.
Sotto il cappuccio scuro lo fissavano gli enormi occhi, forse un po’ strani, di un ragazzino spaventato, affamato e solo. Che probabilmente non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
“Tranquillo, piccoletto. Mi chiamo Lupo Solitario, e non voglio farti nulla di male”.
Quello lo fissò con più intensità. Lo squadrò da capo a piedi, nervoso, come se stesse cercando di vedere se nascondesse delle armi.
Rimase immobile, ma al Ramas non sfuggì il lieve abbassarsi della punta delle chiavi.
Ci sarebbe voluto un po’ di tempo, ma qualcosa dentro di sé gli disse che quel ragazzo valeva tutto il tempo del mondo.
“Come ti chiami?”
 
 
 
Ed abbiamo finito! Andiamo! Cento, mille, duemila, diecimila giorni di festa! Sono tre anni che quelle tiranne stanno scrivendo questo “rapido” spin-off, a breve torneremo tutti alla nostra serie regolare (Registe, ohibò, dove eravamo arrivati?)
Molto bene, molto bene! Dopo questi titoli di coda, che spero vi siano piaciuti, in qualità di Narratore arriva uno dei miei momenti preferiti, ovvero…
 
Registe: “Va bene, Narratore, ma fai in fretta. Ti piace proprio umiliarci, vero?”
 
Benvenuti, amati lettori, alla Director’s Cut. Il vostro Narratore preferito è qui per raccontarvi tutto, ma proprio TUTTO ciò che quelle due arpie non vi hanno detto della creazione della storia, ovvero come hanno coperto in corso d’opera le loro numerose cazzate. Preparatevi a vederle smutandate!
 
  • Nella prima, fantomatica stesura, tutti i Membri dell’Organizzazione esterni al blocco dei protagonisti sarebbe dovita morire. Sì, anche Demyx e Luxord. Poi le Registe si sono messe a piangere a metà del copione ed hanno deciso che non avevano cuore di giustiziare anche i due membri più deboli.
  • Sempre nella stesura originale vi era un ordine dei duelli davvero folle. Una volta saputo da Zexion del complotto, il Superiore non avrebbe mandato tutte le sue forze in campo per schiacciare i suoi avversari. Mentre Demyx affrontava Vexen in un titanico scontro (cogliete la mia ironia, ve ne supplico), Larxen e Marluxia avrebbero dovuto affrontare ed uccidere sia Luxord che Xaldin. Xemnas, Lexaeus e Saïx sarebbero giunti molto dopo e soltanto perché il Superiore aveva altro da fare che occuparsi dei guai della propria famiglia.
  • L’intervento dello Spirito del Castello è stato programmato in un secondo momento. La stesura originale risale a circa dodici anni fa, quando le registe non avevano ben chiara la genesi del castello e la sua natura. L’arrivo di Terra e la visione di Autozam sono richiami alla storia della guerra tra uomini e demoni che sarà uno dei pilastri portanti dell’intera saga.
  • Lo stesso dicasi per la misteriosa bambina dai capelli rossi. Quella poi è un’aggiunta veramente dell’ultimo secondo, sempre perché le Registe mettono mille trame ma non ne chiudono mai nessuna.
  • E sì, lo schiaffo tra Vexen e Zexion è una MIA aggiunta. Mie care lettrici, non sapete da quanto tempo stavo programmando questa “sorpresina” alle due tiranne.
 
Credo di aver detto tutto ciò che c’era da rivelare. Ma, prima, di scrivere la parola che tutti noi stiamo aspettando da diverso tempo, le Registe mi hanno fatto una richiesta. Si tratta di una piccola domanda rivolta a tutti voi lettori, nessuno escluso. Un piccolo sondaggio volto a creare un minuscolo extra per festeggiare la fine di questa impresa a dir poco titanica.
La domanda è questa: nominate i 5 personaggi comparsi in questa storia che vi sono piaciuti maggiormente.
 
 
E dunque, in attesa delle vostre risposte, io sottoscritto, il Narratore, sono orgoglioso di mettere ancora una volta la parola
 
 
 
FINE

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Capitolo 37
*** Bonus - Le Interviste del Narratore ***


Bonus - Le Interviste del Narratore




Narratore: “E cosa sarebbe questa novità? Altro lavoro extra?”
Registe: “Esattamente. Ora che lo sai puoi procedere”
Narratore: “Questo è contro il contratto! Mi rivolgerò al sindacato dei Narratori Autonomi e allora vedrete!”
Registe: “Certo che è contro il contratto. Ma tu non ne hai uno, quindi a ben vedere la cosa è legale. Totalmente legale. E poi ti avevamo avvisato che ci sarebbero stati dei capitoli extra dove sarebbe stata richiesta la tua lingua sciolta e la tua disponibilità, dunque di cosa ti lamenti?”
Narratore: “Il punto è che VOI avete le idee e poi tirate in ballo ME”
Registe: “Non lo abbiamo mai negato. Ora muoviti. Il pubblico si è espresso”
 
 
Mi aspetta nella sua stanza, nove di sera in punto. Avrei sinceramente preferito essere altrove, ma ormai mi hanno incastrato e tanto vale finire al più presto questa situazione.
In piedi, appoggiato alla vetrata, le braccia incrociate per farmi capire che il mio ritardo di circa ventisette secondi sulla tabella di marcia lo sta innervosendo.
Peggio per lui. “Buonasera, Saïx”.
“Narratore, la puntualità non è il tuo forte”.
“Vuoi davvero rendermi il lavoro difficile, dì la verità!”
“No”.
Si avvicina al tavolo e sposta entrambe le sedie per fare spazio. Credo che abbia bisogno di qualche istante per ricordarsi che sono incorporeo. Si rende conto dell’inutilità del gesto ed emette un ringhio sordo. “Vorrei solo riposare un po’, tutto qui. Sono stati anni pesanti”.
“Dritto al punto. Perché è proprio di questo che dovremmo parlare”.
Io adesso non ho la più pallida idea di come i nostri lettori siano riusciti a votare in massa per questo tizio dall’aspetto affamato, lugubre e pericoloso, ma come al solito le mie perplessità non vengono mai tenute da conto. Spero solo di ottenere le mie risposte quanto prima e tornarmene alla stesura del copione della prossima serie prima che quelle due sconclusionate aggiungano pezzi melensi dei loro personaggi preferiti lasciando a me il compito di narrare tutto quello zucchero. “Sei stato selezionato come uno dei più amati di XIII Order. Un gran bel traguardo per un personaggio comparso solo in questa stagione. Come sono stati questi anni a contatto con le Registe?”
“Ho passato anni a lavorare con Nomura, Narratore” risponde, e stavolta uno strano sorriso gli appare tra le labbra “Se il set di XIII Order ti sembra un caos ti consiglio di passare qualche mese su quello di Kingdom Hearts. Quello sì che è un delirio”.
“Dici sul serio?”
“Ti sembro un tipo che scherza?”
Aggrotta la fronte, tornando di nuovo il licantropo minaccioso. La cicatrice a forma di X aggiunge un certo carico a quell’espressione che sembra trovare molto più faticoso sorridere che non combattere centinaia di nemici. “Nomura cambia il copione almeno una volta al giorno. E se non lo fa lui, ci sono gli assistenti che devono mettere bocca. Sono stato costretto a rivedere il mio ruolo nel corso degli episodi della serie, ed ammetto che non è stato semplice da interpretare”
“La situazione più problematica?”
“Uff, tutto” ringhia, lanciando uno sguardo oltre la vetrata.
In effetti ha davvero l’aria un po’ stanca. “Mi aveva scritturato per un personaggio malvagio, leale, molto carismatico. Tormentato per l’assenza di cuore, anche. Un bel ruolo, semplice ma incisivo, in cui sinceramente mi rispecchiavo molto e grazie al quale anche le Registe mi hanno notato. E poi qualche mese fa mi sono ritrovato a recitare una scena in cui morivo tra le braccia di Axel con delle frasi da adolescente invidioso … giuro, mi sarei trafitto da solo per la vergogna!”
“Già, la questione dell’amicizia con Axel …”
Devo ammettere che non ho parole per spiegare a tutti i miei lettori l’espressione del possente licantropo a questa affermazione; potrebbe essere classificata banalmente come una smorfia di disgusto, ma sono convinto che vi sia qualcosa di divertito tra quei denti appuntiti e bianchissimi. “Fidati, ad Axel la cosa è piaciuta ancora meno che a me. Quando abbiamo interpretato quella scena si era sbronzato per bene, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta. Una cosa da vomitare. Per questo ti dico che con XIII Order non mi sono trovato male”
“Non l’avrei mai detto”.
“Certo, il dietro le quinte è disorganizzato e le Registe spesso non si tengono a freno, ma mi sono trovato bene. È stata la mia prima esperienza con loro e devo dire che non ho avuto problemi ad ambientarmi sul set: Axel lavora con loro da tantissimo tempo e mi ha aiutato nelle prime scene a prendere il ritmo” risponde. “Da fuori non si direbbe, ma sul set io ed Axel abbiamo una discreta sinergia. Con Kingdom Hearts abbiamo lavorato a decine di coreografie di duelli, e su quello Nomura è sempre stato molto pignolo. Ogni tanto quell’imbecille improvvisa e deve arrivare il tecnico degli Effetti Speciali con l’estintore, ma devo dire che sono sempre soddisfatto delle scene. Solo che rendiamo molto bene come avversari, meno in quelle cose melense che sono comparse nel copione di Kingdom Hearts 3”.
“Molti fan vi vedrebbero bene come duo romantico!”
Aggrotta le sopracciglia, e credo che se non fossi incorporeo mi sarei ritrovato il voluminoso fermacarte posto sulla scrivania ben piazzato al centro della fronte. Dopo solleva gli occhi al cielo, e credo che gli scarsi secondi di silenzio abbiano appena evitato una lunga serie di insulti. “Sì, lo so, me ne hanno parlato. Ma la risposta è no. No, e ancora no. Sarebbe terrificante”
“Eppure numerosi altri autori hanno ingaggiato Axel per storie romantiche. Qualcuno anche in dei porno”
“Ecco, e gradirei tenermene fuori. Già è abbastanza imbarazzante salire sulla Torre dell’Orologio e mangiare quello schifo di gelato al sale marino con un vestito da adolescente, immagina il resto …”
“I tuoi fan hanno un’immaginazione molto fervida, te lo assicuro …”
La sua faccia è davvero uno spasso. “Va bene, Saïx, non girerò il coltello nella piaga. Parliamo di altro, che qui le righe di Word a disposizione stanno finendo. La tua interpretazione da licantropo della famiglia demoniaca in XIII Order è stata apprezzata in modo caloroso dal pubblico a casa, e sappiamo che è stato un punto su cui entrambe le Registe sono state entusiaste. Come ti sei trovato in questi panni?”
“Narratore, essere un licantropo era già insito nel mio primissimo ingaggio con Nomura, o quantomeno un mio lato Berserker. Su quello mi sono trovato a mio agio. Mi sono confrontato con il Grande Satana, Hadler e Zaboera per conoscere ed interiorizzare i tratti principali della famiglia demoniaca, specie la loro dedizione alla gerarchia ed all’onore, e mi sento di aver fatto un buon lavoro. Sono stati davvero pazienti, e devo ringraziarli dei loro consigli. Anche se non ero preparato alla veemenza che Mistobaan riesce a mettere nelle orazioni, quella volta nella Sala dei Troni mi ha davvero spiazzato! È davvero bravo come dicono”
In effetti sì, ricordo che quel pezzo è stato davvero un incubo. Specie per il Muro del Suono, che una di queste volte secondo me chiede alle Registe un risarcimento così grande da costringerle a vendere i loro polmoni. Anche se è stata una bella scena, devo complimentarmi con me stesso per come la ho descritta. “Siamo in chiusura, Saïx, quindi ti chiedo solo un’ultima informazione: cosa devono aspettarsi i tuoi fan nel futuro?”
“Beh, a Gennaio uscirà il nuovo DLC di Kingdom Hearts 3 -se quel pazzo schizzato di Nomura non ritarda ancora la data di uscita- e senza ombra di dubbio mi rivedrete lì. Per il futuro … chissà. Dalle parti della Square si vocifera di ambientazioni ai tempi della caduta di Radiant Garden, ma tanto lì dietro fanno e disfano copioni in continuazione”.
“E per i fan della serie Il Ramingo e lo Stregone c’è qualcosa che bolle in pentola?”
“Oh, Narratore, tu lo sai meglio di me”
Beh, in effetti è vero, e quando incrocia le braccia mi fa capire in modo fin troppo esplicito che ha passato a me la famosa patata bollente. “Sai che non mi piace fare spoiler, anche se …”
Si allontana dalla scrivania, e con questo l’intervista è chiaramente terminata. C’è però una strana espressione sulla sua faccia.
“… ammetto di essere emozionato. Non avevo idea che sarei piaciuto così tanto”.
 
 
Il bastardo mi accoglie con l’immancabile sorrisetto che gli increspa un angolo delle labbra sottili. Quello tipico di quando è compiaciuto, di quando le cose procedono secondo i suoi piani o ha appena compiuto una scoperta importante.
Il mio ingresso nel suo laboratorio è una vittoria per lui, perché io lo so, lo so che per quanto possa ostentare di continuo superiorità e disprezzo nei confronti del resto del genere umano, a suo dire nient’altro che un gregge di pecore prive di genio e intelletto, nel profondo del suo cuore lui ama essere adulato. Basta il più piccolo complimento, il minimo accenno alle sue doti di intuito e perspicacia affinché il suo ego si innalzi nei cieli come un pallone aerostatico.
“Buonasera, Vexen. Un sondaggio tra i lettori ti ha selezionato come uno dei personaggi più amati di XIII Order. Guarda un po’, non se lo aspettava nessuno.”
“Che cosa vorresti insinuare con questo?”
Il suo tono è annoiato, e a stento solleva lo sguardo dal taccuino su cui sta appuntando alcune note nella sua grafia fitta e inintelligibile.
“Ansiamo, sai benissimo di essere un privilegiato.”
Saïx sarà riuscito a farsi apprezzare dal pubblico con le proprie forze, ma anche un cieco capirebbe che nel caso di Vexen è in atto sin dal primo capitolo una campagna propagandistica con i fiocchi, un vero e proprio complotto mediatico da parte delle diaboliche Registe per far scintillare il loro beniamino più di qualsiasi altro personaggio sotto le luci della ribalta. Vexen è il Tyrion Lannister di questa storia: le Registe vogliono farcelo amare a tutti i costi, e ce lo propinano a forza e con roboanti squilli di fanfare.
“Se essere privilegiati significa rischiare la vita una pagina sì e l’altra pure… “
“Come se non lo sapessi che alla fine tanto ti salvi sempre.”
“Sì, ma a che prezzo?”
 Ha persino il coraggio di lamentarsi, sicuro com’è della sua imbattibilità. È proprio vero che chi ha tutto finisce per non accontentarsi mai e volere sempre di più.
“Sarai anche il cocco delle Registe, ma qui le domande le faccio io” meglio accelerare sull’intervista e farla finita il prima possibile con questa farsa. “Dunque… ne Ramingo e lo Stregone godi di grande popolarità, ma lo stesso non si può dire del fandom di Kingdom Hearts. Qualche commento in proposito?”
Con la mano compie un gesto stizzoso, come a voler scacciare una mosca fastidiosa: “Il fan medio di Kingdom Hearts ama storie melense, dialoghi diabetici ed equivoche storie d’amore tra personaggi con le facce… com’è che dicono i ragazzini di oggi? Ah sì, pucciose.”
Sembra che gli vada di traverso un cucchiaio di aceto mentre pronuncia quella parola.
“È chiaro che non è un pubblico idoneo ad apprezzare contenuti più profondi. Tanto è vero che si lascia abbindolare da quelle storie assurde di viaggi nel tempo e cuori che trasmigrano di corpo con la frequenza con cui una persona normale si cambia le mutande.”
“Eppure sembra che in Kingdom Hearts III ci sia stata un’inversione di tendenza, almeno per quel che riguarda il tuo ruolo.”
Puntuale come un orologio, ecco tornare il sorrisetto infido.
“Semplicemente, Nomura si è accorto di essersi legato da solo mani e piedi con la sua trama caotica, e gli serviva una persona seria per sbrogliare la matassa. Tutti quei ragazzini buoni solo a brandire a caso chiavi giganti, e poi chi è dovuto entrare in scena per dare un contributo concreto alla storia e salvare la situazione? Senza di me sarebbero ancora tutti a domandarsi dove trovare una Replica.”
Ad essere sinceri, ho il forte sospetto che Nomura abbia ricevuto minacce in vero e proprio stile mafioso da due certe Registe di mia conoscenza, perché altrimenti non mi spiego come gli sia saltato in mente di dare il ruolo eroico di antagonista redento a uno che fino a cinque secondi prima veniva usato nelle fanfiction come maniaco di turno e incarnazione di tutti i vizi più riprovevoli dell’universo. Decido però di tenere per me queste considerazioni, perché vorrei davvero che questa odiosa intervista finisse il prima possibile.
“E dei fan che ti vorrebbero vedere in una relazione romantica con Marluxia cosa ne pensi?”
“Due parole: fatevi curare.”
“Incantevole come al solito. E invece cosa vorresti dire ai lettori riguardo il tuo lavoro con le Registe?”
“Le Registe sono diverse dal pubblico medio. Sanno guardare più in profondità. Tuttavia… “ un’improvvisa esitazione si infila nella sua voce, e per la prima volta dall’inizio dell’intervista il suo manto di sicumera sembra afflosciarsi, lasciar trapelare uno spiraglio di incertezza. Le mani dalle dita affusolate (una delle Registe mi chiede sempre di aggiungere il particolare delle dita affusolate quando narro di Vexen, ora sapete a quali bassezze devo prestarmi per mantenere questo mio precario posto di lavoro), dicevo, le sue mani richiudono il taccuino in un gesto automatico, rimanendo qualche istante a giocherellare con la penna.
“A volte è molto faticoso. Devo interpretare scene… impegnative. A livello emotivo, soprattutto.”
“Dunque il grande scienziato non è all’altezza del compito?”
Il taccuino sbatte sul tavolo con uno schiocco secco, facendo rotolare la penna sul pavimento.
La crepa di incertezza si è richiusa.
“Io sono sempre all’altezza del compito, Narratore. E credo di averti concesso fin troppo tempo stasera.”
Non credevo che sarebbe mai avvenuto, ma per la prima volta io e lui concordiamo totalmente su qualcosa.

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