Grappa&Purga - La vita è una zitella

di Ulisse Degli Architravi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non rende a chi lo prende ***
Capitolo 2: *** Chi si impiastriccia è perduto ***



Capitolo 1
*** Non rende a chi lo prende ***


Amo solo alcuni.
Nell’inevitabile bruttura del resto.
 
**** Avvertenza: strane forme del periodo, similitudini a caso, sgradevoli assonanze, parlata sciatta dei personaggi e sciatto uso di certi tempi, sono assolutamente voluti. Non lo sono i refusi, che certo ci saranno. Ma il vostro Ulisse si annoia di correggerli e quindi lo perdonerete. ****
 
Intanto lo guardava. Non poteva smettere di guardarlo. Il tizio era buttato sul tavolaccio di legno, circondato dal gruppo di uomini che l’aveva preso e che ora gli girava attorno bevendo e discutendo di lui. E la vecchia Rimasuglia lo guardava.
Doveva avere il volto incorniciato da capelli marroni, come le feci animali nelle quali era stato ritrovato faccia in giù, per la parte del corpo che non era bagnata dall’acqua fangosa e sporca. Era stato trovato in mezzo a ciò che era rimasto dopo il mercato, e solo alla fine qualcuno si era accorto che a terra, tra tutto, vi era quel corpo.
Ora, per come l’avevano sistemato, non vedeva più il viso, ma Rimasuglia pensava che ciò che guardava fosse anche meglio e di una bellezza che si mostrava anche più chiaramente nel difetto, quello che contemplava: il segno di una graticolata sul culo. Ritrovato a sera, in quelle condizioni, era stato portato via rapidamente da un gruppo di uomini del paese, già brilli, che pure non avevano idea se fosse morto o altra cosa che pure vi somigliava, tanto sembrava gonfio e pieno di gas, che sfuggiva in dissonanti accordi, strombazzando, in quella stanza, dal retto del suo retro esposto.
Steso su quel tavolaccio, ma faccia in giù, perché faceva impressione più davanti che dietro, gli avevano tolto quasi tutto di dosso, perché troppo bagnato, e poi non avevano fatto altro, ricominciando a bere alla sua salute, vivo o morto che fosse, perché in fondo l’avevano messo lì senza sapere che farsene o volerci capire qualcosa.
Già puzzava, in ogni caso.
Quando era stato tirato su dalla merda animale, più di qualcuno aveva gridato: “un morto, un morto!” e attorno gente, senza nessuna impressione. Era così che si era avvicinata Rimasuglia, perché i morti le piacevano sempre tanto ed erano gli unici a non protestare, se pure aveva modo di avvicinarsi troppo e le veniva voglia di fare qualcosa. Nota tra molti per essere una “resuscitatrice” ai bei vecchi tempi, aveva avuto a che fare sempre con salme, anche se d’altro genere, e di lei si diceva che fosse capace di tirare su anche le carni molli loro malgrado; ma non certo interi corpi! E quello lo era.
Per il suo istinto di conservazione, Rimasuglia si era subito unita alla fila che si era portata via il “morto” e nessuno degli uomini aveva pensato di scacciarla. Spesso si aggregava ai funerali piangendo sinceramente e finiva per rimediare un po’ di pane e formaggio. Era bene o male come le mosche e più di qualcuno credeva che portasse sfortuna cacciarla. Era certo più facile dargli da mangiare rimasuglie e frattaglie, come per i cani, ed aspettare che l’istinto per la carogna la portasse altrove. Ma in quel momento era lì. Con loro. Ma come fosse sola con lui, anche se purtroppo non lo era.
Quando Rimasuglia si sedette su una delle sediacce di paglia sfatta e si piazzò accanto al morto, vicino al tavolo, gli uomini nella stanza sembravano aver finito da bere ma non di parlare e camminare. Continuavano a girare attorno alla tavola. E il tizio lì; immobile e quasi muto, poiché il petare, per quanto espressivo, non era propriamente parlare. Sapevano chi era, l’uomo in questione. Ma nessuno si azzardava a dirne il nome. A Rimasuglia pareva un culo familiare, ma non per quel segno. Era poi giovane, “il morto”. Pensò che forse aveva conosciuto padre e nonno, somiglianti, ma tra tante chiappe passate, poca chiarezza, a quel punto della vita. Le sarebbe molto piaciuto sapere il nome, ma tacevano tutti su quello.
- Se pure è morto, e non è detto, com’è morto? – chiese finalmente uno di loro.
Completamente sbronzo, più degli altri, si era messo in testa un secchio come elmetto, ostentando, senza saperlo, una caricatura di compostezza militare, del tutto inconsapevole anche del fatto che in quel secchio vi avevano precedentemente pisciato. Poco male, rispetto al resto. L’odore del morto era forte.
- Per quanto sembra… pare intero fuori, più o meno. Ma per capire se è intero dentro dovremmo farlo a pezzi e quindi intero non sarebbe più – all’acuta riflessione, gli uomini vicini al genio annuirono gravemente.
- Io mi chiedo come si sia fatto questa – un altro di loro indicò la bruciatura sul culo.
- Non che sia gran cosa. E certo non vi è morto – rispose a quel punto il signor Carnefrolla, che pure iniziava ad innervosirsi, nella situazione – e comunque sia, ci tengo a farlo presente, io non ce lo volevo mica, sul mio tavolo.
- Non lo volevate morto?
- Certo che no! E non lo conosco.
- Il solo… - mormorò uno di loro.
- Ma io intendevo dire…
- Che neanche è detto che sia morto! – lo interruppe il tizio con in testa l’elmetto pisciato. Il nervoso signor Carnefrolla alzò gli occhi al cielo, che poi era il tetto della casa in cui si trovavano.
- Defunto o addormentato, che pure non pare, io intendevo dire che portarlo qui è stato uno schifo, cari signori! – continuò stizzito – vi ho visti arrivare dal mercato e con questo tizio dietro, che pareva ubriaco. Vi siete accomodati, vi ho offerto del vino e poi vengo a scoprire che razza di dono m’avevate portato! Io che speravo in una visita di cortesia.
- Lo è diventata!
- Scortese, invece! – indicò il corpo riverso che sottolineò l’esclamazione esclamando a suo modo – ecco! Ma che razza di situazione inverosimile!
- Mi fido su cosa voglia dire, signore.
- Da non credersi, ecco che vuol dire! Che dovrei farmene di costui, in ogni caso, delle salsicce da seccare?
- Sarebbe utile nel suo peso, certo parlando di lui come fosse un animale – accennò uno che intanto si era azzardato a tastarlo.
- La carne è carne ma questa… è da buttare – gli rispose il nervoso signor Carnefrolla, mentre girava attorno al tavolo, come facevano anche gli altri.
- Se è vivo, mettiamo il caso… che cosa gli è successo?
- Certo gli è successa la cosa che non lo ha ammazzato.
- Se invece è morto?
- Non lo sappiamo e non mi interessa! Io non lo toccherò ancora – lo disse Bernardo Bernababbeo che del tipo, come gli altri, sapeva nome e cognome ma che da lui sembrava ancora più disturbato di quello che l’aveva sul tavolo della sua cucina – certo speravo di non vederlo tornare indietro da queste parti. Sapevo che l’avevano mandato lontano per un po’, forse per riprendersi da quel male che dicevano avesse addosso.
 - Quale? – chiese il nervoso signor Carnefrolla e tutti si rivolsero verso Bernababbeo guardandolo con occhi di bella triglia, tanto erano storditi, anche se l’intenzione sarebbe stata quella di fargli capire che avrebbe dovuto tacere sulla cosa. Funzionò lo stesso, perché intuì acutamente che, nonostante sembrassero ambigui ammiccamenti, nessuno lo trovava particolarmente affascinante. Con un sospiro, forse deluso, scosse il capo come avrebbe fatto con un sonaglio e ci mancò poco che ne facesse il rumore. E intanto continuavano a fare il giro del tavolo e un giro di sguardi come fosse di carte, e sempre ignorando la vecchia sulla sedia tra loro.
I vestiti del tizio erano in fondo, vicino al fuoco, ma solo come sarebbe stato per degli stracci da buttare. Le scarpe erano da parte, solitarie anche se in paio. Rimasuglia pensò che sembravano incazzate e pronte a prendere a calci nel culo i presenti. Sorrise, senza denti, perché marci li aveva inghiottiti alla fine, uno ad uno, per noia della loro inutilità e insieme per fame. Intanto notava come gli uomini sicuramente vivi, sembrassero persino piccoli, rispetto al tizio faccia in giù sul tavolo e altre glorie in mostra. Era proprio una gran bellezza. Anche se era morto. Forse.
- Se pure glielo restituiamo, a… “quelli”, in qualche modo… potremmo cavarci qualche cosa? – disse uno ad un tratto. Nessuno gli rispose.
- Possibilmente sì – una voce indecisa spezzò il silenzio come pane duro.
- Per loro, vivo o morto fa certo uguale! – esclamò quasi entusiasta un altro e poi si afflosciò di colpo, di corpo e parole – intendo dire… visto che glielo ridiamo indietro, dovrebbero ringraziarci tanto.
- Ma se dici così, pare che ce lo siamo rubato! – osservò l’uomo dal secchio pisciato. Di nuovo annuirono gravemente gli altri.
- A tal proposito… non certo per interesse, ma ho notato che non aveva niente in tasca! Che peccato! Le monete si perdono facilmente…
- Niente di niente, infatti. Aveva solo … quell’anello – lo teneva il nervoso signor Carnefrolla e questo perché il tavolo era il suo e pure la casa, così pensava – è d’oro, oro vero. Questo è sicurissimo – lo era, si capiva bene. Ma si trattava pure di un oggetto bruttissimo. Il tizio sul tavolo, lo portava al medio ed era così spesso e pesante che glielo aveva quasi teso in un bel gesto garbato al prossimo. Inciso, sulla grossa testa tonda, un asino nano con cinque zampe. Carnefrolla si stava chiedendo perché ne avesse cinque. Ma una di quelle, era davvero una... zampa…? E cosa sembrava uscirgli da dietro, sotto la coda alzata? L’anello era comunque un oggetto di valore, anche se Carnefrolla si chiedeva chi potesse aver impiegato denaro e tempo per realizzare una simile cosa. Ma almeno aveva un certo valore.
- L’anello… se lo teniamo da parte per qualche tempo, intendo dire che se lo fa qualcuno, ci si potrebbe farci qualcosa…
- Farlo sparire e fonderlo!
- Non sarebbe facile, c’è gente che si rifiuterebbe pure di toccarlo. E a ragione – il signor Carnefrolla divenne ancora più nervoso allora, che pure se lo rigirava tra le mani, come nulla fosse, e apprendeva solo adesso del perché glielo avessero mollato senza storie. Avrebbe, a quel punto, dato un colpo sul tavolaccio; ma il tizio l’ingombrava tanto e farlo avrebbe fatto tremolare quelle bianche chiappe offese da quell’insolito danno. L’aveva immaginato con disgusto, anche di averlo immaginato, e si decise ad usare solo un tono più offeso.
- Ma insomma, signori miei! – sbottò
- vi pare corretto tutto questo?
- Che cosa intendete per tutto? – biascicò uno di loro. Il signor Carnefrolla divenne ancora più nervoso.
- Ma come “tutto”? Io intendo proprio dire “cosa”! – tutti lo guardarono con aria confusa e realizzò di essersi confuso anche lui, a parlare – intendevo dire – riprese con tono più stridulo – che se non va fatto neanche il suo nome e quello della sua famiglia, perché vi siete dati la pena di toglierlo dalla merda e portarvelo in spalla, così conciato, fino alla mia casa?
- Per carità cristiana – disse uno di loro. - Perché un uomo morto è sempre un uomo morto! – aggiunse un altro.
- Questo anche se ancora non sappiamo se è morto! – ricordò un altro, per l’ennesima volta.
- E in ogni caso non si poteva lasciarlo a quel modo, come stava – disse Bernardo Bernababbeo come stesse per fare una precisazione intelligente – e voi non avete moglie.
- Ma cosa c’entra?
- Tale lerciume sarebbe stato impossibile da portare in una delle nostre case a caso! Ce l’avrebbero fatto scaricare a terra, pure lontano dalla soglia. Se non si può mangiare e non si può vendere, una donna non capisce cosa farci.
- Ma questo è un uomo!
- E’ bene allora che non sappia cosa farci – sghignazzò il tizio con il secchio in testa.
- Non che ti vada così bene, se la tua donna non sa cosa farci, con un uomo...
- C’hai ragione pure tu...
- Ma non che con un morto ci si possa fare qualcosa, anche volendo, se sei una donna - osservò un altro. Ma la sua precisazione si tirò al seguitò occhiate allusive, sempre per quanto possibile visto lo stato di tutti. Non vide invece, il tizio, che a quelle parole Rimasuglia aveva sorriso maliziosamente. La vecchia era lì, in mezzo a loro, ed era ignorata da tutti come parete e pavimento insieme. Neanche il padrone di casa aveva detto una sola parola.
Sembrava invisibile. Lo era? Forse l’ubriachezza stava rendendo tutti più perplessi, ma gli uomini in quella stanza, dopo aver bevuto troppo e discusso, non avevano voglia di fare altro.
E neanche sapevano cosa fare. Era evidente che a quel punto desiderassero solo tornarsene alle rispettive case, ma non potevano perché il problema restava. E continuava a petare.
Visto che dovevano fare qualcosa, dopo essersi passati un’altra mano di sguardi e avendo evidentemente preso uno di loro una brutta carta, questo si rivolse al nervoso signor Carnefrolla, che pure sembrava stesse per avere un colpo, con il tono migliore che la lingua impastata gli consentiva.
- Signore, ci terremmo tutti a dire che quello che abbiamo fatto non è stato per dispetto. Voi siete un uomo perbene, anche se non siete di queste parti. E’ il pensiero di tutti.
- Ma lo credo bene! – disse il signor Carnefrolla.
- Infatti. A questo punto, riflettendoci meglio, avremmo fatto pure bene a portarlo al prete…
- … è a puttane…
- O chiamare il medico, che dev’essere da qualche parte…
- … sempre a puttane. Forse…
- Ma sì, da chiunque altro! Ma dove avete la testa? – ringhiò il nervosissimo signor Carnefrolla – era la cosa più ovvia da fare, da subito!
- Non ovvia come pensate, siete qui da troppo poco – disse Bernardo Bernababbeo – ma anche fosse stato libero, il prete non l’avrebbe voluto e il medico non c’era sicuramente. Abbiamo fatto la cosa giusta senza volere. Per ricompensa del disturbo, potreste pure tenervi l’anello d’oro, che certo io non lo voglio – gli fecero eco gli altri, con parole simili, tra qualche singhiozzo e un barcollar di passi, striscianti verso la porta in modo sempre più evidente. Il tizio con il secchio in testa, fece un teatrale sospiro.
- Non era il suo caso, ma mi pesa non potermi portare a casa qualcosa…! – mormorò – poi però pazienza! Si fa anche questo, per le donne che ci siamo presi!
- Amen, Amen – dissero uno dopo l’altro.
- Ma… io cosa faccio, adesso? – protestò acutamente il signor Carnefrolla, fuori di sé per un pezzo.
- Non scoraggiatevi, signore. Solo scorreggia! E al peggio per lui, non si muove! – tutti i presenti risero, senza neanche molta considerazione. Il signor Bernardo Bernababbeo mise una mano sulla spalla del signor Carnefrolla, prendendosi di confidenza come lui non avrebbe permesso, più da sobrio.
- Non è poi male come sembra. Avete l’anello, potete prendervelo.
- Ma io…
- Avanti, non abbiatela a male! Vi promettiamo tutti, solennemente, che domani saremo di nuovo qui a riprendercelo. Se poi non fosse morto, altra storia
- e lo aggiunse con tono sinistro. Il padrone di casa ebbe un brivido.
- Ma costui è un assassino? – chiese impallidito Carnefrolla con voce tremolante.
- Certo che no! – esclamò con voce carica di convinzione Bernababbeo – ma in caso, la prudenza di un giro di chiave, alla vostra stanza, non vi farà torto sicuro.
- Oddio…- gemette piano Carnefrolla. Bernababbeo gli rifilò una forte pacca alla schiena e quindi fece cenno agli altri di prendere la porta.
- Siamo uomini di parola, signor Carnefrolla. Non temete, quindi! Domani mattina presto ce lo portiamo via. E se resta morto come pare, lo restituiremo alla famiglia. Non vi daremo più noie al proposito – l’affranto signor Carnefrolla annuì lentamente, gli occhi incollati sulle chiappe chiare del tizio sul tavolaccio e pareva davvero che lo guardasse, anche se non era così e fissava solo un posto come un altro, pur di non guardare più nessuno negli occhi.
Uno dopo l’altro, gli uomini uscirono. Restò quindi solo. Con l’ignorata vecchia sulla sedia, ancora messa lì a guardare il morto.
Il signor Carnefrolla rimase immobile per qualche istante e quindi, con fare disgustato e sparando una bella bestemmia, così parve quella commossa confusione tra canidi e divinità, gettò con disprezzo l’anello con l’asino sul tavolo dove giaceva il tizio.
- Se pure tutti non l’hanno voluto, meglio che te lo restituisca! Chissà che cosa hai fatto o chi sei stato, se pure gente simile ti ha stimato il peggiore di tutti! – dette quelle significative parole, il signor Carnefrolla pestò i piedi piagnucolando, per non poter prendere a pedate nessuno, neanche il morto, e quindi se ne uscì dalla stanza con uno strascico di lamento. Non una parola alla vecchia che se ne continuava a stare in cucina, con il tizio sul tavolaccio, come fosse una sedia o una pentola a caso. Non si era però portato via la lampada, che continuava a fare luce. Rimasuglia alla fine non aveva neanche mangiato nulla. Era rimasta digiuna ma ora era sola con lui e stavolta ne valeva la particolare pena.
A lei piaceva davvero, farsela con i morti. Trovava sempre un modo.
Si alzò lentamente dalla sedia e quindi si avvicinò al corpo. Mise le mani secche, sul fondello pallido e accarezzò con le unghie lerce la cicatrice a croci incisa a fuoco sulla chiara chiappa.
Era così bello, toccarlo! Le venne spontanea, perché le piaceva la poesia, una delle sue lagne che rimediava in rima.
 
“Son io, la più lurida delle tue porche;
E tu il mio pastore, che mi sbatte forte”
 
Mise la guancia rattrappita sul sedere del tizio e fece un amoroso sospiro.
Rispose, quasi a tono, un sussurrato peto.

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Capitolo 2
*** Chi si impiastriccia è perduto ***


L’aria era malata e fetente, per le finestre chiuse alla notte di fuori e per i malumori del tizio sul tavolaccio, che continuava a dialogare con il Padreterno nell’aldilà forse,  ma certamente restava con il mormorante culo a terra e in quella precisa stanza.
Dopo ore, ogni cosa attorno, come impregnata da tanto forte essenza, sembrava abbastanza lurida; questo forse anche perché la vecchia aveva rovistato ovunque, alla ricerca di qualche avanzo da mangiare, poi raccattato in un pentolino di smalto rosso sbeccato e messo da parte a terra, tra altre cose, con qualche frattaglia di giorni, ancora buona per un animale. Qualche povera bestia infatti aveva saltato il pasto, visto l’imprevisto avvenuto e un morto su un tavolaccio della cucina, al luogo della solita cena.
Aveva digiunato il padrone di casa e così i suoi tanti gatti.
Il signor Carnefrolla aveva, attorno a casa, un invisibile esercito di spelacchiati felini, davvero poco domestici e infidi, animali che neanche troppo in fondo detestava. Fosse stato possibile diversamente, non avrebbe voluto tra i piedi quelle lagne insistenti, ma certo i gatti erano più simpatici dei sorci, che pure spopolavano in campagna e facevano molti più danni di qualunque altro animale, persino più delle donnole e le volpi.
Attirare i randagi attorno alla casa quindi, con un po’ di pessima pappa, era diventata una buona abitudine per il nervoso signor Carnefrolla e anche quella sera avrebbe fatto il suo pessimo dovere in merito, se l’improvvisata del gruppo di uomini, che se n’era venuto da lui con il “morto”, non gli avesse alla fine fatto mettere da parte (con il proprio piatto) ogni altro pensiero ed anche voglia.
Così, nella sua camera da letto, chiuso a chiave come gli avevano quasi raccomandato quelli, e con un nervoso tale da spingerlo ad usare il pitale di ceramica sotto il letto ogni mezz’ora, come un vecchio incontinente tormentato dal desiderio di svuotarsi, il signor Carnefrolla rimuginava sul morto di cui non sapeva niente. E intanto anche i budelli gli si torcevano in pancia e lo facevano in complicati nodi da marinaio, perché tale era stato per molti anni; e questo mentre appunto rimpiangeva qualunque brutta bagnarola in acqua smossa sulla quale si era anche trovato a vomitare; nonostante tutti i casi sventurati stare malamente in mare era decisamente più confortevole che vivere su quella terra mal ferma e tremante, per i troppi passi dei cretini attorno. Così, mentre il nervoso signor Carnefrolla si sentiva davvero all’inferno e indeciso se osare alzarsi del tutto per andare a prendersi, con la dovuta prudenza del caso, un goccio di qualcosa di forte o una purga (magari insieme) nella cucina della sua casa qualcun altro si beava.
La vecchia Rimasuglia aveva divorato la pappa dei gatti da parte, sbavando e borbottando al proposito, e si era goduta quell’improvvisato pasto dopo aver molestato un po’ il tizio sul tavolaccio; che forse era morto e forse no, ma certo abbastanza da sopportare (e forse gradire) le sdentate attenzioni di Rimasuglia e quel suo devoto strofinarlo e pizzicargli il lurido fondello esposto, anche maledicendo di non riuscire a girarlo da sola. Potendo l’avrebbe morso, pensava Rimasuglia; ma non aveva quasi che labbra e qualche dondolante dente. Era però quello che immaginava di fare di fronte a tanta abbondanza, vista sempre dal punto di vista di una donna che le carogne le frequentava in tanti sensi.
E se i notturni erano per gli animali spazzini o piccoli predatori, Rimasuglia vegliava perché era il suo momento.
Attorno, tutto taceva. Sembrava davvero la camera di un malato, più che di un morto, o una cucina; che pure restava tale, nonostante tutto.
Ma non in quel momento. Era l’ora stregata e Rimasuglia lo sentiva.
I vestiti bagnati ancora in quell’angolo a parte, forse iniziavano ad asciugarsi. Le scarpe vuote, a quel punto avrebbero ballato volentieri per poi diventare di nuovo violente con gli altrui sederi. Forse necessitavano di più di qualche sputo per essere lucidate. Vi avrebbe pensato lei, se le fossero avanzati tempo e voglia da altro.
Si immaginava tante cose, Rimasuglia. Cose da fare con il morto, ovviamente. E con un pasto che imputridiva nella pancia, tutto sembrava quasi perfetto.
Certo, su ogni cosa vi era sempre quella goccia che la disturbava. Non c’era per davvero, ma c’era lo stesso nella sua testa. Continua e costante come certo singhiozzare e tossire, era una goccia che quel mucchietto d’ossa di Rimasuglia sentiva precipitare ritmicamente nel pozzo che aveva in cranio. Così si vedeva: Un pozzo; che però non era d’acqua, ma più simile alla minestra di sterco e terra che si lasciavano gli animali dietro, nei recinti fangosi dopo il camminare in circolo e la pioggia. La goccia puzzava, come tutto il resto.
Di questo ne era inconsapevole e al tempo stesso sicura.
Sicura come di trovare qualcosa di troppo familiare in quel bel fondello esposto, così ben disegnato e segnato da quell’incidente. Lo era poi stato? Lo ripensò nell’atto di sedersi sul ferro incandescente, per casualità infelice. Come doveva aver urlato! Ma se invece, in tal segno, vi fosse stato qualcosa di intenzionale? Allora chiunque aveva agito per danno, lo aveva abbellito ulteriormente! Chissà se qualcuno aveva inteso di marchiarlo a fuoco come fosse una bestia perché era come tale oppure... per farlo suo anche agli occhi di tutti coloro che l’avrebbe visto con le braghe calate.
Le idee facevano un ballo di fantocci attorno alla sua testa e la goccia cadeva e cadeva.
Se solo quegli uomini avessero detto il nome…!
Ma anche la carità di girarlo di faccia sarebbe stata apprezzabile, da più punti di vista.
- Chi lo sa come ti chiami, bel ragazzo, di cui adesso vorrei vedere il … – l’ultima parola della rima poetica, si perse nella sgradevole biascicata singhiozzante su una risatina maliziosa – colpa tua, che mi fai venire voglie…!
che van per tocchi, pizzicati e morsi!
Sebbene ora non abbia più denti
(che furon croce e delizia di alcuni)
certo mi resta appallottolata in bocca
una lunga lingua, lenta e passionale!
Ti piacerebbe averla,
me la faresti entrare? – e glielo chiese così, come potesse dirle un “sì”.
Vi fu però silenzio e Rimasuglia, rise.
Se presente, con il morto sul tavolaccio e lei vicino, ci fosse stato qualcuno ad ascoltarla, possibilmente non avrebbe capito bene le sue parole, tanto le diceva male. A sarebbe stato un peccato, visto il parlar forbito e il ricercare la rima in fastidioso “a capo”, spesso preso per rutto o singhiozzo. Ma la poesia non era compresa da gentaglia che a stento sapeva fare croci sui fogli per la propria firma ed era già paradossale, per tale donna, impiegare il tempo a tentare di rimare. Ma era così, nel suo mistero.
E nell’ignoranza di tutti coloro che la ignoravano, come ombra, a lei piaceva poetare.
Ma praticamente senza denti e con troppa saliva in bocca, Rimasuglia sbavava più che discorrere e così, della bellezza dei suoi pensieri, nessuno si accorgeva. Per fortuna. Come di ciò che teneva sotto i luridi stracci che l’avvolgevano, come un sacco di patate floscio.
Se qualcuno le avesse rovistato nella veste, ma certo nessuno si azzardava a farlo per lo schifo e la certezza di poterle trovare addosso solo ossa e pulci, avrebbe scoperto ciò che dopo il pasto, e in quella eccitazione, aveva lì tirato fuori per conforto: uno straccetto piegato a forma di testolina lorda.
Un fantoccio con una faccia che sembrava aver avuto per la benedizione di uno starnuto di cenere sopra, e la successiva asciugatura di un denso moccio. Forse era stato un vecchio fazzoletto infatti, ma per la vecchia era già una bambola e il suo feticcio del momento. Per corpo, un pezzo di legno di scarto rimediato chissà come e già per grazia, forse, vi aveva tolto i chiodi; forse memore di qualche intima disavventura al proposito. Infatti, nonostante tutta la buona volontà che forse vi metteva, ogni suo pupazzo finiva per somigliare all’unica cosa di cui avesse certa anatomica competenza, dopo una vita intera. Falliche creature dotate al difetto di una sola palla, sembravano oggetti adatti ad altri scopi, rispetto al teatrino solitario di Rimasuglia. E forse lo erano. Da lì, l’incerta cura per i chiodi.
Faceva quelle bambole ogni volta che poteva, con la qualunque; e la fantasia al proposito le veniva regolarmente dopo aver mangiato o aver  visto un funerale, era la regola.
In quel caso aveva almeno fatto la prima cosa e la seconda, possibilmente, l’avrebbe avuta un paio di giorni seguenti. Si sentiva quindi allegra. Ma tutto sarebbe stato come doveva se quegli uomini, che dovevano tornare a prenderselo, non avessero dovuto riportare il morto a qualcuno che stava lontano. Allora avrebbe perso sia la messa, che ciò che avrebbe volentieri morso. La cosa la inquietò con tanta evidenza da far mormorare a testa bassa anche il molle fantoccio che agitava, come fosse presa dal fottere malamente l’aria che la circondava, visto il raffinato gesto. 
Fuori sarebbe presto arrivato il giorno e non vi era forse molto per godere di ciò che poteva avere e toccare, piuttosto che di tutto il resto che avrebbe rimpianto.
Si rivolse quindi verso il pupo lordo che scosse il capo a quel pensiero che non aveva espresso.
- Non essere geloso, mia piccola testina! Dopo ti metterò dove più t’aggrada – Rimasuglia baciò il fantoccio e lo ripose in una piega degli stracci che la coprivano e quindi si avvicinò al morto sottosopra, come le sue budella piene di pappa per gatti e attorcigliate dalla commossa emozione che provava nel guardare quel tizio sul tavolaccio. Con lenta cura, si chinò all’unico suo buco che forse ancora ascoltava qualcosa di quel mondo e con il quale, pure morto, continuava a parlare. Così, sussurrò le sue bavose parole, quelle che le colavano dal cuore – mi piacerebbe essere di te, ciò che non hai digerito o questa cicatrice storta; bellissimo sarebbe essere quello che ti rende difettoso, ma che facendoti tale è segno stesso di celata perfezione…! – e sempre nessuno avrebbe capito una sola parola, ma ben compreso il gesto che ne seguì, fatto dalla vecchia con sincera passione. Rimasuglia strinse tra le secche dita la carne molle di ciò che guardava avidamente, come per lasciarvi un altro segno di possesso, poi si chinò su quel piccolo, neanche tanto, umido buco. Infilò la lunga lingua nell’antro posteriore, e mentre lo faceva sentì nel cuore qualcosa di simile a cosa dovesse essere l’amore.
Perché era perfetto e lui, sapeva dell’unico Paradiso che Rimasuglia avrebbe riconosciuto come tale: un luogo nascosto che odorava male. Il suo paradiso era viscido, forse troppo freddo e purtroppo già finito in terra, oltre il tempo che le sarebbe rimasto in bocca. Ma non era attimo di perdere l’impegno del trasporto! E così non fece infatti, fedele al suo desiderio.
Nella muta stanza in cui erano soli, le luci stavano spegnendosi nel giorno e il silenzio era stropicciato solo da quel grigio risucchiare. Al culmine di quell’appassionato bacio, Rimasuglia, insoddisfatta nel cuore, non poté che fare il più grande atto d’affetto di cui fosse capace. Si cercò addosso il fantoccio e quindi tolse la bocca dal paradiso per conficcarvi dentro il suo feticcio, il suo personale tappo a quel pozzo di goduria!
E mentre lo faceva, senza trattenersi, gli chiese se gli piaceva a quel modo o se forse lo preferiva messo al rovescio. Con tale cura continuò fino alle prime luci, che strisciarono, dagli scuri di legno rimasti mezzi aperti al buio di quella notte, come fossero altre lingue bianche. Si risentì gelosa, quando le vide sfiorare le carni morte dell’uomo riverso sul tavolaccio e che era suo. Ma certo non al sole aveva dato tutta quella confidenza, il morto. E questo la fece quietare in parte.
L’alba vera giunse con la grazia di una secchiata di piscio rivoltata giù per la finestra e non poté che odiarla. Rimasuglia, commossa e ancora più disfatta dal pensiero che stava per perdere ciò che aveva appena imparato ad amare, fece giusto in tempo a riporre il suo intimo segreto più al caldo di dov’era stato.
Intanto la conchiglia della casa mormorava.
Il nervoso signor Carnefrolla si era alzato dal letto, in cui si era quasi strozzato con le lenzuola, e lavandosi la faccia con acqua fredda faceva un rosario di insulti ai cristiani, senza toccare i santi.
Ce l’aveva certo con chi stava per venire. Venire a portarlo via e chissà dove!
Neanche sapeva il nome del suo amore.
Le restava solo quello che c’era stato tra loro. Il segreto che il suo fantoccio avrebbe raccontato al prossimo pupazzo che avrebbe fatto, di sicuro, quando avrebbero spettegolato del luogo oscuro in cui era stato.
La vecchia rivolse al tavolaccio un’occhiata liquida e malinconica, quindi trascinò la sedia su cui prima era stata tanto seduta e si andò ad acquattare nell’angolo, dove stavano i suoi vestiti ormai asciutti. E quelle scarpe, da pulire a sputi. Ma ormai non le restava più umore per quello, in tutti i sensi.
Povere scarpe che non avevano ballato! E neanche tirato in calci che desideravano.
Lo pensò mesta, quasi avrebbe pianto, sapendolo fare.
Intanto, bussarono alla porta come l’alba aveva fatto sull’oscuro cielo. C’era già più di qualche uomo, fuori. Le voci oltre la soglia erano fumose e basse, come le nuvole.
 

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