Figlia della Foresta

di KeyLimner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lontano da casa ***
Capitolo 2: *** Incontro inatteso ***
Capitolo 3: *** Jared ***
Capitolo 4: *** E questo cosa cambia? ***
Capitolo 5: *** Pongono il loro onore nel meritare fiducia ***
Capitolo 6: *** Speranza e fede ***
Capitolo 7: *** Carne ***
Capitolo 8: *** Un faro nella nebbia ***
Capitolo 9: *** Cambiare ***
Capitolo 10: *** Rondine ***
Capitolo 11: *** Il Cerchio ***
Capitolo 12: *** Volpe Azzurra ***
Capitolo 13: *** Partenza ***
Capitolo 14: *** La Legge ***
Capitolo 15: *** Buco nero ***
Capitolo 16: *** Casa ***
Capitolo 17: *** Sentiero ***
Capitolo 18: *** Ritorno ***



Capitolo 1
*** Lontano da casa ***


Sole era molto elettrizzata quella mattina, come del resto tutti i suoi compagni. Non capitava spesso che la scuola organizzasse delle visite alla Città, e dopo l’ultima richiesta d’autorizzazione conclusasi in un nulla di fatto si erano ormai quasi rassegnati all’idea che non ce ne sarebbe mai stata un’altra.
Le relazioni con la Città erano estremamente difficoltose, soprattutto a causa della scarsa familiarità dei Saggi con il suo complesso apparato burocratico. Era un vero e proprio campo minato; altro che i semplici costumi della Foresta. C’erano un’infinità di titoli da ricordare… decine e decine di documenti da compilare… centinaia di prassi da seguire per incontrare chicchessia. E guai a non seguire la loro rigida etichetta, fosse per dimenticanza o con un reale intento offensivo. Gli Abitanti della Città erano molto suscettibili.
«Ragazzi, per favore», disse la maestra, alzando la voce per sovrastare il brusio eccitato. «So che siete emozionati… tutti lo sono, alla loro prima visita… ma cercate di contenervi, o non vi porterò proprio da nessuna parte. Sapete bene che la nostra presenza laggiù non è gradita e che ci è stata concessa solo grazie all’insistenza del Gran Consiglio, perciò cercate di non farmi pentire di aver chiesto l’autorizzazione».
«Come se servisse a qualcosa ricordarcelo», bisbigliò Rondine all’orecchio di Sole. «Ci pensano i Grigi a rinfrescarci la memoria ogni giorno».
E aveva ragione. I “Grigi” (per usare la volgare espressione con cui il Popolo della Foresta era solito bollare coloro che abitavano entro i confini della Città) odiavano la Foresta e i suoi abitanti, e non mancavano di rammentarlo loro ad ogni occasione. Avevano chiuso i contatti fin dai tempi della Secessione, e da allora si limitavano a malapena a tollerare qualche visita di tanto in tanto… tutt’altro che di buon grado.
Sotto la guida della maestra, gli alunni si alzarono dal cerchio in cui erano riuniti e disponendosi in fila ordinata lasciarono la radura. Mentre si allontanavano dal loro caldo rifugio e gli alberi prendevano lentamente a diradarsi, Sole sentì il cuore battere a mille. Non poteva crederci. Per la prima volta nella sua vita, stava per uscire dalla Foresta. Che effetto le avrebbe fatto l’assenza dei giganti frondosi cui era stata abituata fin dalla nascita?
«Ragazzi, quando ci troveremo fuori dalla Foresta potreste avvertire un po’ di disagio», li avvertì la maestra. «Ma non preoccupatevi, basterà poco ad abituarvi».
Pian piano, anche le ultime tracce di vegetazione svanirono, ed il terreno divenne brullo. Ad un certo punto, Sole fu investita da un’ondata di luce intensa e fu costretta a ripararsi il volto con l’avambraccio. Quando riuscì a guardare di nuovo, spalancò la bocca per lo stupore.
Sopra di lei, una gigantesca cupola d’azzurro si estendeva all’infinito in ogni direzione, lontanissima e irraggiungibile. La palla infuocata del sole ardeva proprio sulla sua testa, ma se provava a fissarla per più di qualche secondo sentiva immediatamente gli occhi lacrimare. Piccoli batuffoli bianchi punteggiavano il cielo ad intervalli irregolari, e gli stormi d’uccelli che lo attraversavano sembravano solo mari di puntini neri. In lontananza, la Foresta appariva come un tetro ammasso oscuro.
Improvvisamente, Sole si sentì assalire da un senso di smarrimento.
Si rese conto che non c’era niente fra lei e l’orizzonte, fra lei e le altre, fra lei ed il cielo. E nessun rumore oltre allo scricchiolio della sabbia mossa dal vento turbava la quiete assoluta. Niente brusii di animali che zampettavano nel sottobosco… o pigolii di uccelli che saltellavano da un ramo all’altro… neanche l’esile fruscio del vento tra le foglie. O il placido gorgoglio di un torrente nelle vicinanze. Solo silenzio. Un silenzio assordante che pareva dilatarsi sempre di più intorno a lei e avvolgere tutto in una cappa spessa e opprimente. E sulla sua testa, nessun tetto di rami ostruiva la vista del sole - lasciando filtrare solo sottili lame di luce -, cosicché esso l’assaliva brutalmente con tutta la forza accecante del suo bagliore. Incantata da quella palla infuocata, per la prima volta scoperta sotto il suo sguardo, non poté fare a meno di fissarla. Dopo poco, sentì gli occhi bruciare e dovette chinare il capo.
Si sentì nuda.
Di colpo, provò l’urgente bisogno di nascondersi. Ma intorno a lei non si intravedeva l’ombra d’un riparo: solo un vuoto sterminato, da qualunque parte guardasse; unico confine, un orizzonte la cui distanza sembrava crescere in modo proporzionale al suo bisogno di avvicinarlo.
Spesso aveva sentito parlare di gente caduta in preda ad autentici attacchi di panico davanti alla prospettiva di attraversare quel vuoto, e in vista della partenza era stata messa più volte in guardia contro una simile eventualità… ma non aveva mai colto appieno la portata delle emozioni che l’avrebbero invasa di fronte a quello spettacolo spaventoso. Ora capiva. Ora sentiva la propria paura come qualcosa di tangibile, che ribolliva minaccioso appena sotto la soglia del suo controllo, e doveva impiegare una scrupolosa attenzione per riuscire a tenerla a bada.
«Su, non restate lì impalati. Manca ancora parecchio alla Città, e il nostro turno di visita è solo tra mezz’ora».
All’esortazione della maestra, il gruppetto riprese ad avanzare, sebbene più lentamente di prima. Sole, incapace di distogliere lo sguardo dal meraviglioso spettacolo della volta celeste, rimase col naso per aria, rischiando continuamente di inciampare in qualche asperità del terreno. Si sentiva intimidita, e per reprimere l’istinto naturale di fuggire e correre a nascondersi nuovamente dietro i suoi amati alberi - ormai già lontanissimi -, poteva soltanto incassarsi nelle spalle ed incrociare le braccia al petto.
Ad un tratto, davanti a loro, cominciò a fare capolino il profilo scuro della Città.
Torri nere come il carbone si stagliavano contro l’azzurro abbacinante del firmamento, sovrastando le alunne di parecchie decine di metri. Via via che si avvicinavano, si fecero sempre più imponenti e spaventose, finché non finirono per trovarsi diritto sopra le loro teste. A quel punto, anche tendendo il collo al massimo, per Sole era impossibile vederne la sommità.
«Ecco, ragazzi, siamo arrivati», bisbigliò la maestra mentre si avvicinavano ad un accesso. «Adesso fate i bravi, mi raccomando. Non una parola».
I bambini rimasero immobili al loro posto, intimoriti, mentre la maestra si faceva avanti per trattare con il tizio dietro lo sportello di servizio. Fu molto gentile, ma il suo ossequio, come Sole poté notare senza sforzo, non fu affatto ricambiato dall’uomo, che si limitò a rispondere alle sue formule di cortesia in modo freddo e tagliente, lanciando di tanto in tanto occhiate di fuoco al loro indirizzo.
Sbrigare le pratiche indispensabili all’ingresso parve richiedere un’eternità, poi finalmente la maestra chinò il capo per ringraziare l’operatore e tornò verso di loro. «Possiamo entrare», bisbigliò.
Quando l’enorme cancello nero si aprì davanti a loro, rompendo la continuità del lungo tratto di muro, ai loro occhi si prospettò uno spettacolo ancor più sbalorditivo di quello dietro di loro.
Una strada correva diritta verso l’orizzonte invisibile, e una miriade di viottole minori vi confluivano, serpeggiando in modo sinistro fra gli edifici squadrati. I marciapiedi erano inondati da una folla di dimensioni colossali, e spaventosi mostri di metallo - che dalle descrizioni che aveva sentito Sole associò a quelle cose che la gente chiamava “macchine” - sfrecciavano sull’asfalto, accompagnati dal rombo fragoroso dei motori, che diveniva ancor più assordante se associato al chiacchiericcio della folla e al suono incalzante dei clacson.
«Ragazzi, ecco a voi la Città», disse la maestra, alzando la voce per cercare di sovrastare quel frastuono. «Come ben sapete, questa adesso è l’unica esistente, ma un tempo la superficie del pianeta era interamente ricoperta da queste gigantesche opere dell’ingegno umano. Estesa per più di dieci milioni di chilometri quadrati, senza contare il territorio esterno al perimetro delle mura - adibito a terreno agricolo e industriale - è la più grande mai costruita nella storia dell’umanità, e da sola riversa nell’aria tonnellate e tonnellate di smog ogni giorno. Guardate laggiù… sì, lì, proprio dietro di voi… vedete quella grande ciminiera? È una fabbrica di scarpe… gli Abitanti della Città le indossano ai piedi. La colonna di fumo che esce dalla ciminiera contiene più anidride carbonica di quella che potremmo produrre in tre anni nel Giorno del Falò».
A quelle parole, Sole ripensò alle centinaia e centinaia di giganteschi fuochi che ogni anno, la notte del solstizio d’estate, ardevano nelle radure di tutta la Foresta - in luoghi anche lontanissimi fra loro - levando al cielo le ceneri degli oggetti che il Popolo degli Alberi bruciava per ringraziare Madre Natura di tutto ciò che aveva ricevuto nel corso di quell’anno. Pensò al fumo esalato da tutti quei fuochi accesi assieme, e nella sua mente lo paragonò a quel filo di fumo nero come la pece che usciva dalla ciminiera della fabbrica. Provò una sensazione di stordimento.
«Naturalmente, essendo questa l’ultima Città rimasta, si tratta di una quantità limitata. Le vastissime dimensioni della Foresta, nonché le misure preventive messe in atto dalla Città stessa, consentono di mantenere i livelli di CO2 al di sotto di certi limiti. È questa l’unica ragione per cui il Consiglio permette ancora alla Città di stare in piedi».
«Perché?», domandò una ragazzina, testarda. «Che senso ha? Ormai quasi tutti hanno abbandonato le Città. Non sarebbe meglio distruggerle tutte?».
«Non è così semplice, Rosa. Il dibattito su questo punto è ancora molto acceso… e non nego che parecchi dei nostri concittadini siano d’accordo con te. Ma… vedi, per gli Abitanti della Città questi “mostri d’acciaio” significano ancora molto. Per chi è ancora ancorato alla tradizione, è difficile abituarsi all’idea che l’umanità abbia abbandonato la via del progresso tecnologico per tornare alla Foresta che le ha dato la luce».
«Ma era la cosa più logica da fare!».
«Certo che lo era. E infatti, quando le autorità internazionali del passato furono costrette ad accettare la consapevolezza che il loro stile di vita stava conducendo la Terra sull’orlo della distruzione, riuscirono lo stesso a fare ciò che andava fatto. Ma occorse tempo… molto tempo. Ancora oggi questo processo non si può dire del tutto concluso. I Saggi sono certi che, per come stanno andando le cose, nel giro di qualche secolo anche questa Città sarà completamente svuotata, e perciò non ritengono indispensabile fare pressioni in proposito. In questo stesso instante, migliaia di persone stanno abbandonando la loro caotica esistenza per sperimentare la vita nella Foresta, e anche con gli spaventosi ritmi di crescita che hanno da sempre caratterizzato la popolazione della Città, pian piano resteranno troppe poche persone perché appaia sensato continuare a farla funzionare».
Quel ragionamento non riuscì a convincere del tutto Sole. La ragazzina non ricordava di aver mai visto tante persone tutte insieme, e le pareva impossibile che qualcosa - qualsiasi cosa - potesse arrestarne il flusso. Tutto intorno a lei aveva l’aria di funzionare alla perfezione, e per quanto ciò la mettesse a disagio, nessuno di quei frenetici individui pareva turbato dal caos che regnava loro intorno.
La folla si apriva al loro passaggio, restando a debita distanza. Tutti si rendevano subito conto delle loro origini straniere, e le occhiate diffidenti si alternavano a veri e propri sguardi d’odio. Nessuno appariva contento della loro presenza, e anche se tutti parevano tenere a bada i propri istinti violenti, Sole avvertiva una tensione palpabile nell’aria. Sapeva che qualunque cosa avrebbe potuto spezzarla e far esplodere una rivolta, perciò cercava di apparire il più possibile insignificante.
Si guardò intorno. Per qualche motivo, la presenza di mura e di edifici a dare dei confini alla sua visuale, invece di farla sentire a proprio agio (perché poteva costituire in qualche modo un sostituto dei suoi amati alberi), le dava un forte senso di claustrofobia. Improvvisamente rimpianse il deserto di prima. Fu presa da un senso di nausea, ed ebbe la fulminea certezza che non avrebbe resistito a lungo prima di dare di stomaco.
Corse via, e sentì dietro di sé le urla della maestra che la richiamava. Ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a raggiungerla, a meno di calpestare la gente al suo passaggio.
Andò a sbattere più volte contro le persone che nutrivano quella folla infinita, e nessuno mancò di spingerla via con ribrezzo, apostrofandola aspramente. Si fiondò dentro una struttura, dimenticando che per gli Abitanti della Foresta era proibitissimo, e ignorando le grida del proprietario sgattaiolò dentro quello che (come poteva dedurre grazie ai suoi studi) era un bagno pubblico.
Incapace di resistere oltre, si chinò sul primo lavandino e vomitò.
Quando ebbe finito, alzò la testa. Si ritrovò davanti un grande specchio.
Dall’altra parte del vetro, la sua immagine, più nitida che attraverso l’acqua, la osservò di rimando. Occhi viola, grandi e penetranti, con le pupille dilatate al massimo; capelli verdi di clorofilla, morbidi e lisci come gli steli d’erba di un prato; pelle bianca d’alabastro, vellutata come i petali di un fiore, con un accenno di corteccia lungo il tronco e le cosce laddove la scissione dal suo Albero Madre non era ancora del tutto terminata.
Era una figlia della Foresta, e la patria dei suoi antenati le sembrava estranea più che mai, adesso che era lontana miglia e miglia dalla pianta con cui aveva praticato la Fusione. La sentiva pulsare allo stesso ritmo del proprio cuore, portando in circolo la medesima linfa che in quel momento nutriva ogni parte del suo corpo e le permetteva di muoversi e di aspirare il fumo che impregnava l’aria per restituirlo sotto forma di bolle d’ossigeno.
Non era mai stata così lontana da casa.

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Capitolo 2
*** Incontro inatteso ***


Il cinguettio degli uccelli. Il brontolio di un torrente nelle vicinanze. Lo zampettare di piccoli animali nel sottobosco.
Quei suoni si fondevano nelle orecchie di Sole a formare una musica dolcemente familiare, che le infondeva un senso di profonda quiete. Ad occhi chiusi, si concentrava per distinguere dalle diverse andature le bestioline che sgattaiolavano al suo fianco, sopra e sotto di lei. Ormai, era talmente avvezza ad esse che riusciva a riconoscerle solo dal rumore che producevano.
Ascoltando il gorgoglio del corso d’acqua poco distante, si smarrì dipingendo nella sua mente la forma delle singole gocce, che scorrevano disordinatamente le une sulle altre e cozzavano tra di loro per poi riprendere subito la loro frenetica corsa… e pian piano perse del tutto il contatto con il proprio corpo. Era anche lei una goccia. Poteva quasi sentire la consistenza dei ciottoli levigati sotto di sé.
Dopo alcuni minuti - o ore - aprì gli occhi. Il sole aggredì le sue pupille ancora mezze assopite, e le occorse qualche istante per abituarvisi. Si alzò lentamente a sedere, recuperando a poco a poco il controllo degli arti. Il suo respiro aveva un ritmo lento e regolare.
Ripensò alla mattina appena trascorsa. Quel giorno la lezione era stata particolarmente interessante. Avevano parlato delle proprietà curative di alcune radici, e Sole si era sentita particolarmente realizzata perché sua madre era una Guaritrice e le parlava spesso di queste cose: aveva guardato con orgoglio i suoi compagni concentrarsi per assorbire quei nuovi nomi con cui la sua mente aveva invece tanta dimestichezza, e aveva anche potuto rispondere tutta soddisfatta a un paio di domande poste a bruciapelo dall’insegnante. Una volta sciolto il cerchio, gli altri le avevano chiesto di unirsi a loro per una corsa lungo il fiume, ma lei aveva declinato gentilmente l’invito. Era uno di quei giorni. Uno di quei giorni in cui l’unica compagnia cui agognava era quella degli alberi e dei monti. Uno di quei giorni in cui voleva solo vagare da sola, annusare il profumo dei fiori e ascoltare la natura… sentirla fluire dentro di sé.
Si alzò in piedi e prese a camminare senza meta, girandosi da una parte all’altra per captare segnali della vita che le scorreva attorno. Dopo qualche passo, vide una strana figura accasciata a terra.
A prima vista, non riuscì a riconoscere nulla in quella forma. Quindi, aggrottando le sopracciglia, vi si accostò. Non appena fu giunta abbastanza vicina da distinguerne le sembianze, fece un balzo indietro.
Era un abitante della Città!
Non c’era ombra di dubbio. I vestiti che aveva indosso non lasciavano spazio a incertezze: da nessuna parte nella Foresta sarebbe stato possibile incontrare indumenti di quella foggia. L’individuo - ancora non aveva avuto modo di identificarne i tratti - portava una spiegazzata camicia a quadri rossi senza maniche, con una serie di piccoli bottoncini che potevano essere stati realizzati soltanto in una fabbrica (Sole rabbrividì ricordando quelle costruzioni gigantesche, terrificanti mostri di metallo che ingurgitavano tonnellate di materie prime per vomitarle sotto forma di catene interminabili di oggetti in serie, perfettamente identici gli uni agli altri) e dei pantaloni militari tutti strappati, sui quali le chiazze verdi del tessuto si confondevano con i residui di muschio.
Superato lo stupore iniziale, la giovane lo osservò con vivo interesse. Erano passati cinque anni ormai dall’ultima volta in cui aveva avuto l’occasione di vedere uno di loro… durante la sua prima ed unica visita alla Città… e la curiosità era alle stelle. Era un ragazzo… poco più che adolescente, a giudicare dall’accenno di barba che gli spuntava sul viso dai tratti ancora un po’ infantili. Se ne stava a terra raggomitolato in posizione fetale, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Doveva essere svenuto.
Lo sguardo avido di Sole indugiò a lungo sul suo volto, saziandosi con la vista di quella pelle olivastra - così inusuale fra la sua gente, in cui (data la scarsa esposizione al sole) predominavano i visi pallidi - e di quelle ciglia brune, notevolmente lunghe per un maschio. Dello stesso colore scuro delle ciglia e delle sopracciglia era anche la zazzera che gli ricadeva disordinatamente ai lati del capo, e così la peluria che gli cresceva lungo gli avambracci.
Ma ciò che più di tutto affascinava la ragazza era il modo in cui dal colore rosato della cute si poteva indovinare la presenza del sangue. Con un misto di eccitazione e timore, si figurò il getto di liquido vermiglio che scorreva con la forza di un fiume nelle sue vene, appena al di sotto del sottile strato di epidermide. Due fiori rossi sbocciavano sulle sue gote, e Sole non poté che contemplare attonita lo splendido disegno formato dalla ragnatela di capillari che si espandeva sulla loro superficie liscia.
Seguì avvinta il percorso di una vena sporgente sulla sua gola, percorrendone il profilo bluastro fino al punto in cui si diramava in corrispondenza del mento in una sorta di delta, i cui bracci sfumavano dolcemente nel rosa delle guance. Poteva vederla pulsare, come un piccolo cuore in miniatura. I suoi occhi s’incatenarono ad essa, rapiti da quel battito ritmico, dal regolare sollevarsi e abbassarsi di quel minuscolo frammento di carne. Com’era rapido quel movimento! Un guizzo che riassumeva in sé tutto l’impeto della vita dentro di lui, impegnata in una lotta instancabile per autoperpetuarsi.
Come in trance, Sole si sporse sulla figura emaciata del giovane e allungò un dito verso quel miracolo. Poi, di colpo - appena un istante prima che lo sfiorasse - il giovane aprì gli occhi.
Due iridi verdi come foglie di menta si spalancarono di colpo su di lei, lasciandola paralizzata. Nel vedere quelle sfere attonite dalla sorprendente intensità fisse su di sé… le pupille - strette come capocchie di spillo - contornate da quell’incredibile massa palpitante, attraversata da decine di striature di una ricchissima gamma di sfumature di quello stesso verde abbacinante… un’ondata di pensieri si riversò nella sua mente.
Non può essere…
Non poteva credere che fosse lui. Eppure, non c’era alcun dubbio. Non avrebbe dimenticato quegli occhi neanche se fossero passati dieci anni, e nel frattempo lui avesse cambiato faccia, indossato una barba finta e fosse cresciuto di due spanne.
Immagini di quel giorno infausto nei bagni pubblici della Città sfrecciarono fulminee davanti ai suoi occhi. Il vomito nel lavandino. Lo specchio che rifletteva l’immagine delle opprimenti pareti beige, rischiarate dalla luce soffusa - fastidiosamente artificiale - di due lampade a neon. E poi, all’improvviso… quegli occhi, su un viso più infantile ma con gli stessi lineamenti… spalancati con lo stesso muto stupore di allora. Si era voltata lentamente verso la sua condanna… e nel momento in cui i due si erano ritrovati faccia a faccia, uno strillo acuto era partito dalle labbra del bambino. Era corso fuori come un razzo, e poco dopo aveva avuto inizio la catena di eventi che aveva condotto Sole in una saletta spoglia degli Uffici per la Gestione degli Affari Esteri, dove aveva dovuto attendere per ore seduta su una poltrona rivestita di fredda pelle nera - con un omaccione dall’aria severa che la fissava senza mai battere le palpebre attraverso uno spesso strato di vetro trasparente - che la maestra accorresse con tutti gli altri allievi per spiegare la situazione ai responsabili della sicurezza… e poi che facessero chiamare i suoi genitori e cominciasse una lunga serie di procedure burocratiche per farla uscire da quell’inferno. Erano state ore interminabili. E per tutto il tempo, mentre aspettava col cuore in gola che la maestra, i suoi genitori, e infine persino un paio di Saggi venuti apposta per calmare le acque risolvessero la situazione (poteva sentirli discutere animatamente oltre la porta blindata in fondo alla stanza, in una lingua che non capiva), quell’uomo inquietante non aveva staccato gli occhi dai suoi neanche per un secondo. In tutto quel tempo, l’espressione sul suo volto non era cambiata di una virgola… tanto che a un certo punto Sole si era domandata se non fosse stato colpito da una paralisi facciale. Intimidita da quel duro cipiglio, non aveva potuto fare a meno di fissarlo di rimando, sentendo un rivolo di sudore freddo che le colava lungo il collo.
Rivedere il sole, dopo essere stata finalmente liberata, le era parso un sogno. Aveva inspirato a pieni polmoni quell’aria così pura dopo tanto tempo passato al chiuso. Ma il suo sollievo non era durato a lungo: non appena si erano allontanati a sufficienza dal perimetro della Città, il silenzio minaccioso con cui l’insegnante l’aveva accompagnata per tutto il percorso lungo i corridoi dell’Ufficio per gli Affari Esteri era esploso in una sequela di aspri rimbrotti. Quei rimproveri - e la lunga estenuante attesa - bastarono a imprimere in modo indelebile nella sua mente il ricordo di quell’esperienza. Una sufficiente esortazione a non ripeterla mai più.
I due si studiarono in silenzio per qualche istante, immobili come statue. Poi la tensione si ruppe.
Il ragazzo si alzò di scatto a sedere e indietreggiò verso l’albero alle sue spalle. Anche Sole si ritrasse d’istinto. L’altro bofonchiò qualche parola incomprensibile, poi sbiancò di colpo, e con una smorfia di dolore perse nuovamente i sensi.
Sole aggrottò la fronte. Studiò il corpo del giovane, e fu allora che si accorse della chiazza scura sulla sua camicia, all’altezza del fianco. Con cautela, si chinò su di lui e sollevò il tessuto strappato. Trattenne il respiro: un lungo taglio slabbrato, contornato da un alone rossastro e da una striscia giallognola di pus, si apriva sulla pelle immacolata del suo ventre fin quasi all’ombelico. Dai lembi della ferita fuoriusciva un denso liquido cremisi.
Ogni pensiero sul da farsi svanì dalla mente di Sole, sostituito da una nuova determinazione. Il ragazzo smise immediatamente di essere uno straniero ai suoi occhi e divenne soltanto un essere umano bisognoso d’aiuto: del resto, nelle sue vene scorreva pur sempre la linfa di una Guaritrice.
Con lucida freddezza, strappò un pezzo della camicia e la arrotolò più volte attorno alla vita del giovane per fermare l’emorragia. Poi cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa per disinfettare la ferita. I suoi occhi attenti individuarono subito una radice sporgente che sapeva avere proprietà curative: la lezione di quella mattina si era rivelata utile. Si alzò per andare a staccarla dal terreno, e slegato dalla cintura il coltellino, prese a tagliarla a pezzetti per farne uscire tutto il succo. Raccolse il liquido su di una foglia larga, dopodiché rovistò nella borsetta delle erbe medicinali che portava sempre a tracolla e ne trasse una garza di cotone. Quindi si accostò ancora una volta al ragazzo. Slegò attentamente il bendaggio di fortuna e fece sgocciolare parte del succo sulle estremità del taglio. Lo spalmò con movimenti rapidi e decisi lungo tutta la superficie della ferita, cercando di fare più in fretta possibile per limitare la perdita di sangue. Poi, tenendo la stoffa premuta su di essa per bloccare il deflusso, versò il succo restante sulla garza, e quando essa ne fu totalmente imbevuta tirò fuori dalla borsa una boccetta di impiastro verdognolo che applicò sul tessuto umido. Infine, mise da parte la camicia stracciata e poggiò i bordi della garza sulla ferita. La resina appiccicosa di cui erano impregnati aderì subito alla pelle, e la spessa fasciatura arrestò definitivamente l’emorragia.
Terminata l’operazione, Sole si allontanò leggermente per contemplare il risultato con occhio critico. Dopo un’attenta analisi, decise che poteva andare. Quindi - con la vita il giovane fuori pericolo - poté finalmente fermarsi a riflettere sulla sua situazione.
Chi era quel ragazzo, e che cosa ci faceva lì? E soprattutto… quale sarebbe stata la sua prossima mossa? Se lo avesse denunciato alle autorità della Foresta, si sarebbe scatenato senz’altro il putiferio. E chissà che cosa ne sarebbe stato di lui. D’altro canto, se l’avessero scoperta a nascondere un Grigio penetrato abusivamente nel territorio del Popolo della Foresta sarebbero stati guai seri.
Incerta sul da farsi, scrutò ancora il volto del giovane. I suoi lineamenti, distesi nella quiete dell’incoscienza, emanavano un’innocenza e una purezza commoventi. Aveva un’aria così indifesa… lì disteso sul prato, completamente alla sua mercé. Dipendeva dalle sue cure come un bambino. Se lo avesse lasciato dov’era, sarebbe senz’altro morto.
Sentì il cuore sciogliersi davanti a quella vista. Come poteva abbandonarlo al suo destino in quelle condizioni? Da quel pensiero capì di aver già inconsciamente preso una decisione. Stabilì quindi che, prima di adottare qualunque misura aggiuntiva, avrebbe aspettato che si rimettesse in sesto.
Forte di quella nuova risoluzione, il suo cervello cominciò subito a lavorare frenetico per elaborare un piano di marcia.
Dunque, per prima cosa occorreva trovare un luogo sicuro in cui nasconderlo… e doveva fare in fretta, perché qualcuno avrebbe potuto arrivare da un momento all’altro. La sua mente corse subito al Covo - una grotta infrattata che aveva scoperto anni addietro durante una delle sue passeggiate solitarie e che da allora aveva eletto suo rifugio segreto. Non appena il pensiero le balenò in testa, sentì che era la cosa giusta da fare.
Quando fece per caricarsi il ragazzo in spalla, però, dovette constatare che prima di fare qualsiasi cosa bisognava ripulire la zona dalle tracce del suo passaggio: tutta l’area circostante era imbrattata di sangue. Guardando le mani con cui aveva medicato la ferita, vide che uno strato di quello stesso liquido vermiglio ricopriva anche le sue palme. Per qualche secondo rimase stregata da quella vista. Il sangue avvolgeva le sue mani interamente, formando come dei guanti rossi, e quel colore cupo pareva risucchiare il suo sguardo come un vortice mozzafiato. Si ritrovò a fissarlo con tale intensità che sentì la vista offuscarsi e il battito cardiaco accelerare. Ma dopo poco si costrinse a riprendersi: doveva sbrigarsi.
Ripulì rapidamente il prato e i cespugli, seppellendo tutto il materiale insudiciato, poi sollevò il giovane come un sacco di patate e lo prese in braccio. Questi ovviamente non oppose resistenza. Era abbastanza pesante, ma non in modo intollerabile.
Lanciò un’ultima occhiata allo spiazzo erboso dietro di sé per controllare che fosse tutto a posto. Poi scattò verso gli alberi col suo carico inerte. Dopo pochi secondi, sparì nella macchia. 

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Capitolo 3
*** Jared ***


«Jared?».
Eccola. Era impossibile non riconoscere la sua voce. Lo sarebbe stato in qualunque altro luogo… e ancor più in quella grotta dove di certo a nessun altro sarebbe saltato in mente di venire a cercarlo.
Quella voce aveva un che di estremamente affascinante che non avrebbe saputo spiegare. Era piuttosto grave per una ragazza, e calda; sembrava vibrasse toccando profondità misteriose. E poi… il modo in cui pronunciava il suo nome! Non aveva mai sentito nessuno pronunciarlo a quel modo. Ci aveva messo un bel po’ a insegnarle ad articolare quelle due sillabe nel modo corretto, e ancora adesso lei sembrava avere qualche difficoltà: la “J” le usciva piuttosto strascicata, la “R” dura e sonora (non c’era stato verso di addolcirla), mentre la “D” risuonava in modo sordo. Tra le sue labbra, il nome che era abituato a sentire tante volte da non farci più neanche caso acquistava tutto un altro significato… gli sembrava nuovo, e inaspettatamente degno di interesse.
Tante cose di lei lo inquietavano, ma la sua voce… aveva il potere di farlo rabbrividire con un sussurro.
Mentre faceva quelle riflessioni, la vide apparire all’imboccatura della grotta in un bagno di luce. Come sempre, la guardò a lungo: non riusciva proprio ad abituarsi alla stranezza dei suoi tratti… alla pelle dal pallore inquietante… alla massa di capelli verdi come foglie di pino… agli occhi color ametista in cui gli riusciva impossibile fissare lo sguardo. La cosa che più di tutte lo disorientava era l’estraneità di quei tratti associata alle proporzioni di una familiarità sconcertante: conciliare le due cose richiedeva un grosso sforzo per la sua mente, che lo colmava spesso di un acuto senso di disagio.
Ritrovarsela davanti, a un soffio dal suo volto, dopo aver aperto gli occhi sul paesaggio sconosciuto della Foresta, era stato un vero e proprio shock.
«Chi sei!?», aveva bofonchiato, ma era parso subito chiaro che lei non poteva capirlo. L’aveva vista guardarlo con aria interrogativa e inclinare la testa con gli occhi (quegli occhi così strani… che sembravano frantumarsi in mille sfaccettature opalescenti che riflettevano in modo vario e imprevedibile la luce del sole) che lo fissavano curiosi. Era stato un attimo. Poi il suo corpo aveva dimostrato il proprio dissenso per lo sforzo di sollevarsi a sedere di colpo e il fianco si era destato con una fitta acuta. Le tenebre avevano presto inghiottito il suo campo visivo.
Quando si era svegliato nella penombra della grotta, solo e incapace di muoversi, era stato subito aggredito dalla paura. Dalla fasciatura con cui era stato medicato e dal giaciglio di foglie ed erba secca sul quale stava disteso, aveva presto intuito di essere stato portato in salvo da qualcuno, ma attorno a sé non vedeva anima viva, e per quanto si sforzasse era troppo debole persino per sporgersi a guardare fuori dall’angusta caverna. Si era dimenato non poco nel tentativo di alzarsi. La ferita bruciava in modo intollerabile in tutta risposta, ma l’aveva ignorata. Fortunatamente, la ragazza era tornata prima che si procurasse qualche danno serio.
Era rimasto paralizzato non appena l’aveva vista.
Un’Abitante della Foresta!
Subito, era stato preso da un attacco di panico. Tutti i racconti terribili che aveva sentito su quella gente dai costumi selvaggi avevano iniziato a girargli vorticosamente nella testa… e al pensiero che adesso era lì, con quella creatura pericolosa, potenzialmente letale, a pochi metri da lui - incapace sia di difendersi che di fuggire - il terrore lo aveva afferrato in una morsa stretta.
Quando lo aveva visto sveglio, anche la ragazza si era immobilizzata di colpo. Lo aveva osservato a lungo con quegli occhi più grandi del normale spalancati, presa alla sprovvista. Si erano studiati in silenzio per qualche minuto, senza azzardate il minimo movimento. Poi lei aveva sorriso in modo incoraggiante, come per cercare di rassicurarlo, e si era avvicinata a passi piccoli e lenti, senza staccare per un attimo gli occhi dal suo volto.
Quando si era inginocchiata al suo fianco, Jared aveva sentito il cuore battere ad un ritmo vertiginoso.
Ecco, è la mia fine, aveva pensato dentro di sé con una strana tranquillità. E in quel momento in lui non c’era il minimo dubbio al riguardo. Neanche più la paura trovava posto in quella lucida consapevolezza. Gli restava solo un vago senso di stordimento… come in un sogno.
La sconosciuta aveva sollevato il braccio, e Jared si era rannicchiato subito in attesa del colpo fatale. Ma lei, invece di colpirlo, si era portata la mano allo sterno. Un insieme di suoni incomprensibili era uscito dalle sue labbra.
«Come?!».
Lei aveva ripetuto la stessa parola, scandendo bene i suoni.
Mi sta dicendo il suo nome!, aveva realizzato Jared, sbalordito.
Ancora incredulo, aveva tentato di riprodurre il suono in modo incerto, caricando l’ultima sillaba di un tono interrogativo. Aveva sentito quei suoni alieni impastarglisi in bocca.
La ragazza aveva scosso il capo e aveva ripetuto ancora una volta il suo nome, pazientemente. Ancora una volta, il ragazzo non era riuscito a pronunciarlo nel modo corretto, incespicando nel tentativo, e allora lei aveva raccolto una pietra friabile da terra e con la scia di pietrisco bianco aveva disegnato sulla parete della grotta una palla circondata di raggi.
«Sole!», aveva esclamato di colpo Jared, attraversato da un lampo di comprensione. «Ti chiami Sole?».
Lei aveva guardato in alto con aria meditabonda.
«Sole…», aveva ripetuto, assaporando la parola.
«Sole», aveva detto nuovamente lui.
Il volto della giovane era stato acceso da un sorriso luminoso.
«Sole».
D’accordo. Dunque sarebbe stata “Sole”.
A quel punto, la ragazza - Sole -, indicò tutta seria il suo petto. Lui ci mise un po’ a capire che gli stava chiedendo come si chiamasse.
Un po’ esitante, aveva detto il proprio nome, e lei aveva cercato subito di replicarlo.
«J-Jar…».
«Jared», aveva ripetuto lui, spalancando la bocca per scandire bene.
C’erano voluti parecchi tentativi per farle pronunciare il nome in modo accettabile. Ad un tratto lei aveva messo il gesso nella sua mano e aveva indicato la parete di roccia su cui aveva disegnato il sole per esortarlo ad imitarla, ma lui - che non avrebbe saputo tradurre il proprio nome come aveva fatto lei - aveva scosso il capo in segno di diniego e aveva spinto la pietra verso di lei. Alla fine si era arreso a lasciare che dicesse il suo nome in quel suo modo strano.
Terminate le presentazioni, Sole aveva fatto qualche cenno insistente verso la sua fasciatura, e alla fine lui aveva capito che intendeva rinnovargli la medicazione. Dunque era stata lei a curarlo! Dopo un attimo di esitazione, aveva annuito facendole segno che poteva procedere.
La ragazza si era accovacciata al suo fianco e aveva preso a rovistare nella sua borsetta di foglie di fico intrecciate. Lui l’aveva osservata con interesse estrarre una serie di boccette e pomate e disporle con espressione concentrata ai suoi piedi. Lei aveva armeggiato per qualche momento con tutte quelle cianfrusaglie - del tutto sconosciute per lui - con le quali aveva l’aria di essere esperta, poi aveva rimosso delicatamente la benda che gli fasciava il fianco. Jared si era lasciato sfuggire un sospiro di sollievo quando una fantastica sensazione di freschezza lo aveva invaso, non appena le sue mani avevano cominciato a spalmare l’impiastro sulla sua pelle con tocco sapiente.
Una volta terminata l’operazione, Sole aveva sostituito la garza vecchia, impregnata di sangue secco, con un nuovo bendaggio, e si era alzata a sedere sulle ginocchia.
Si erano guardati a lungo. Uno sguardo carico di significati. In lei traboccava una grande curiosità, in lui un’inquieta e non ancora placata diffidenza.
Quella diffidenza non era ancora scomparsa del tutto.
Se fosse stato libero di muoversi, Jared sarebbe senz’altro fuggito… ma la sorte - per un qualche sfortunato capriccio - aveva voluto renderlo completamente dipendente da quella ragazza. Il fianco guariva lentamente, e se anche avesse avuto forze sufficienti per alzarsi, non avrebbe saputo curarsi senza l’aiuto di Sole. In qualunque momento la ferita avrebbe potuto riaprirsi, o infettarsi, e lui non avrebbe saputo che pesci prendere. Senza contare che non aveva idea di come muoversi nella Foresta. Né di dove andare. Senza una guida, si sarebbe senz’altro perso.
Guardò Sole che si avvicinava con il solito sorriso. I suoi occhi caddero immediatamente sul carico che portava tra le braccia, che ella depose dolcemente ai suoi piedi. Bacche. E una strana pagnotta di colore violetto, ripiena di una salsa giallognola dall’aspetto poco invitante.
Prese il pane con poca convinzione. Dopotutto, non aveva scelta. E aveva fame. Ma, sin dal primo morso, dovette ammettere che non era affatto male: aveva un sapore simile a quello del pane di segale, con un retrogusto di more (dovevano essere quelle a dare la colorazione violacea); non riuscì a identificare la composizione del ripieno, ma fra i vari aromi sconosciuti gli parve di distinguere quello del miele.
Mentre terminava il suo pasto, adocchiò nuovamente Sole, che sembrava non stancarsi mai di osservarlo e seguiva attentamente tutte le sue movenze.
Non posso nemmeno mangiare in pace…, pensò contrariato, sentendosi a disagio a masticare e deglutire con quegli occhi da falco sempre incollati addosso. Di tanto in tanto, lanciava occhiate fulminee al suo indirizzo, come per controllarla. La sensazione di inquietudine che provava ogni volta che il suo sguardo registrava il pallore mortale della sua pelle non accennava a scomparire. La cosa che gli risultava più sconvolgente era il fatto che sotto quella pelle non scorreva una goccia di sangue: trovava quel pensiero agghiacciante. E ancor più se ripensava a come ella maneggiava di continuo bende impregnate del suo sangue, a come quel sangue le imbrattava le mani di marmo - creando un macabro contrasto fra quel colore vivido e il bianco della sua pelle -, quando nelle sue vene (le si poteva chiamare vene?) non fluiva che una strana linfa incolore. Era assolutamente ripugnante. Ripensò con un brivido a quando, pochi giorni prima, l’aveva vista assaggiarlo. Lo stava medicando, come al solito; aveva appena spalmato la sua solita pomata sulla zona irritata attorno allo squarcio e stava per coprire di nuovo la ferita, quando, al momento di risistemare la garza al suo posto, si era improvvisamente bloccata. E adesso che c’è?, si era chiesto lui, vedendola fissarlo con una strana intensità. Poi lei - con la rapidità di un falco - aveva avvicinato la mano al suo fianco e l’aveva posata deliberatamente sulla ferita. Un gemito di dolore gli era sfuggito dalle labbra. Troppo sbigottito per fermarla, l’aveva guardata sollevare il dito insanguinato e ficcarselo in bocca sotto il suo sguardo incredulo. Per un po’ l’aveva osservata a bocca aperta mentre assaporava il suo sangue con aria assorta, incapace di alcuna reazione. Poi lei aveva arricciato il naso e, toltosi il dito di bocca, era scoppiata a ridere. A quel punto un’ondata di disgusto l’aveva assalito, e aveva dovuto voltarsi rapidamente per reprimere un conato di vomito.
Una volta terminato di consumare il suo magro pranzo, Sole si decise finalmente a liberarlo della prigione del suo sguardo, e solo allora tirò fuori una pagnotta identica alla sua dalla borsa e prese a piluccarla a sua volta. Chissà in che modo riusciva a trarne energia, si chiese Jared ascoltando il suono che i suoi denti producevano triturando la mollica morbida. Era vero che quelle creature erano in grado di svolgere il processo di fotosintesi come le piante, come aveva sentito spesso dire? E, se la risposta era sì, non era forse l’energia che ricavavano da quel processo sufficiente a soddisfare le loro esigenze biologiche? Pensò con un misto di fascino e ripulsa ai frammenti di cibo che scendevano giù per il suo esofago fino allo stomaco, e poi alle sostanze che attraversavano le pareti sottili dell’intestino e entravano nella circolazione, dove venivano trasportate ai vari organi immerse in quel liquido biancastro… ma fu costretto a troncare in fretta quell’immagine prima di sentirsi male.
Cercò di pensare a qualcos’altro per distrarsi mentre anche Sole finiva di mangiare, e alla fine la sua mente cadde sulla propria famiglia. Chissà che cosa stava pensando adesso suo padre… Lo immaginò mentre metteva sottosopra tutte le stazioni di polizia nel raggio di un chilometro per sollecitare le ricerche, e sperò ardentemente che riuscisse a rintracciarlo in qualche modo… anche se non avrebbe saputo come. Sorrise al pensiero dei commissari spaesati di fronte ai suoi temibili scatti d’ira.
Non vorrei essere nei loro panni…
Ormai erano almeno sei giorni che mancava da scuola, rifletté. I suoi insegnanti dovevano averlo dato per disperso. Si figurò con una fitta di acuta nostalgia il volto di Alice… la scorbutica Alice, con cui era stato compagno di banco fin dall’inizio dell’anno, e che spesso non sopportava per il suo modo dispotico di allargarsi occupando tutta la superficie del banco e ascoltare la musica a tutto volume (con quelle sue cuffie infernali nascoste sotto la felpa di una o due taglie più grande), impedendogli di seguire le lezioni per il frastuono che facevano. Gli mancava persino Albert… quel secchione insopportabile, che passava tutto il tempo con la mano alzata quasi a voler toccare il soffitto (tanto che a volte Jared si chiedeva con disprezzo se facesse qualche esercizio per allenare i suoi muscoli a star tesi tanto tempo).
Che cosa non avrebbe dato per trovarsi di nuovo fra quei banchi tanto odiati…
Non aveva la più pallida idea di dove accidenti fosse capitato.
Una volta, quando Sole non c’era, aveva provato a raccogliere le forze per strisciare fino all’entrata della caverna, ma fuori non aveva visto che un oceano infinito di verde. Il suo sguardo aveva vagato per un po’ smarrito per quella moltitudine di alberi… e alla fine se ne era tornato al suo posto con la coda fra le gambe, aspettando docilmente il ritorno della sua custode.
Quello che gli provocava il maggior sconcerto era che non sapeva come diavolo era finito in quel posto sperduto. Non ricordava assolutamente nulla. Rammentava di essere stato in un parco deserto al tramonto, mentre le ultime luci del crepuscolo svanivano all’orizzonte e una cupa penombra calava lentamente sulle giostre abbandonate. Ci andava spesso: soprattutto ultimamente, sentiva di trovarsi davvero a suo agio soltanto nella solitudine; quando era completamente solo, era come se la tensione che lo teneva sempre imbrigliato quando era fra le altre persone cadesse di colpo. Si rendeva conto del peso che essa aveva esercitato su di lui solo allora, quando ne era finalmente libero. E facendosi cullare da quella dolce sorpresa, poteva lasciare andare la sua mente alle riflessioni… perdersi nella contemplazione estatica di ciò che lo circondava.
Ma per quanto si sforzasse… da qualunque angolazione lo guardasse… in quello scenario continuava a percepire una nota stonata. Un dettaglio fondamentale che la sua mente non riusciva a catturare, che denotava la presenza di qualcosa di profondamente sbagliato. E lo spasmodico tentativo di captare quel dettaglio - sempre conclusosi in un fallimento - lo riempiva di inquietudine.
Era appunto perso in queste ponderazioni quando accadde il mistero. Si dondolava avanti e indietro su un’altalena scassata (riusciva a entrarci a malapena, il che gli ricordava - e non poteva lasciarsi attraversare da questo pensiero senza provare una punta di amarezza - che stava crescendo), con lo sguardo perso tra le sagome spettrali delle giostre in controluce. Sotto la luce cupa del crepuscolo, il loro profilo sembrava coronarsi d’un’aura surreale, aveva osservato affascinato.
Mentre quel pensiero sfociava nelle solite considerazioni sul senso della vita, la sua attenzione era stata catturata da un rumore improvviso alle sue spalle. Si era voltato di scatto. Si era scrutato attorno alla ricerca della fonte del rumore, ma il suo sguardo non aveva individuato nulla. Quindi, credendo si fosse trattato di una suggestione, era tornato a guardare dritto innanzi a sé. In quel momento, era stato colpito da una violenta fitta alla nuca.
E poi…
Aggrottò le sopracciglia in un accesso di frustrazione.
Non ricordava più nulla!
Per quanto si spremesse le meningi, non gli riuscì di cavare nient’altro dalla sua testa. All’immagine del parco si sovrapponeva direttamente quella della Foresta, e di Sole che lo fissava con aria curiosa. In mezzo, c’era solo un oceano di nero… inframezzato da una matassa confusa di ricordi dalla quale non gli riusciva di cavare nulla.
Scagliò rabbiosamente la pietra che aveva stritolato fino a quel momento.
Sole sobbalzò. Lo guardò con aria interrogativa, sorpresa dal suo scatto d’ira. Lui si limitò a scuotere violentemente la testa in tutta risposta. Ci si metteva pure lei. Se solo avesse potuto parlarle in qualche modo… magari avrebbe saputo dargli qualche spiegazione. Quantomeno, avrebbe potuto fornirgli una descrizione un po’ più precisa dello stato in cui l’aveva trovato, per aiutarlo a vederci chiaro. Ma tutte quelle parole erano imprigionate nella sua testa, irraggiungibili. Come lei: così vicina… eppure irraggiungibile. Un intero sistema di simboli, suoni e gesti li separava. Dannazione!
Si mise a braccia conserte.
Guardò per un po’ le braci spente del falò con aria imbronciata. Del fuoco che le aveva accese non c’era più traccia. Scrutò con lo sguardo fra i granelli di carbone che cospargevano la roccia, come cercando fra di essi il guizzo arancione di una scintilla, e si rese conto che cominciava a sentire freddo. Si sfregò le braccia per generare un po’ di calore, chiedendosi in che modo avrebbe potuto comunicare a Sole quella sua esigenza.
In quel momento ebbe un’illuminazione.
«Sole?».
La ragazza si voltò al suo richiamo.
Lui si alzò a sedere sui calcagni, e trattenendo a stento l’entusiasmo indicò il braciere e disse, con aria concentrata: «Fuoco».
Sole inizialmente non capì e aggrottò la fronte, emettendo un grugnito interrogativo.
Il giovane non si scompose. «Fuooo-co», ripeté, scandendo bene. «Fuoco. Sole… fuoco».
Un lampo di comprensione attraversò gli occhi della ragazza, seguito dall’eccitazione. Si avvicinò carponi, in fretta, e guardando prima le braci, poi Jared, cercò subito di imitarlo: «Fo… foco?».
«Fuoco. Fuoco».
«Fuu… oco».
«Sì. Esatto. Fuoco. Brava, Sole! Fuoco! Fuoco!».
Ovviamente, ella non poté capire quelle ultime parole, ma non parve curarsene, tutta contenta di quell’unico vocabolo appena conquistato. Si alzò in piedi di scatto e si guardò freneticamente attorno per trovare il suo acciarino. Lo prese, e cominciò a sfregarlo in modo impaziente, fino a cavarne una scintilla. Quando riuscì a farla attecchire sullo stoppino di una piccola torcia e la fiamma divampò nelle sue mani, si voltò di nuovo verso di lui e indicò le lingue cremisi con aria febbrile.
«Fuoco?».
Lui annuì. Aveva capito.
La giovane prese a saltellare tutt’intorno come una pazza, sventolando il suo trofeo.
«Fuoco! Fuoco! Fuoco! Sole, fuoco!».
Jared rise.
Quando si fu calmata, le fece cenno di avvicinarsi, e con aria seria ripeté ancora la parola “fuoco”, indicando prima la fiaccola e poi lei. Dopo un po’ Sole afferrò, e pronunciò una parola che nella sua lingua doveva essere l’equivalente di “fuoco”. Jared la ripeté un po’ di volte finché lei non lo ritenne accettabile. Poi la ragazza si guardò intorno alla ricerca di qualcos’altro. Il suo sguardo cadde sull’acciarino che aveva gettato a fianco a sé, la prima cosa che le capitò sotto tiro. Glielo tese, impaziente.
«Acciarino», disse lui, e lei ripeté a pappagallo. Poi cominciò a porgergli una serie di altri oggetti a raffica, e Jared ogni volta disse la parola corrispondente. «Pietra. Bastone. Bisaccia. Casa… no, no, anzi… grotta. Caverna».
Dopo un po’, la giovane si bloccò e parve fermarsi a riflettere su qualcosa.
«Che c’è, Sole? Cosa vuoi chiedermi?».
Lei indicò sé stessa. «Sole». Poi indicò lui. «Jared». E lo guardò in attesa.
Lui non capì. Scosse la testa.
La ragazza sbuffò. Alzò gli occhi al cielo, arrovellandosi il cervello, poi si illuminò. Si mise una mano sul petto. «Sole… Sole?».
«Non capisco… mi dispiace».
Lei allora fece un gesto eloquente in direzione del suo inguine. «Jared». Dopodiché, si indicò il seno e disse ancora una volta il proprio nome.
Finalmente il ragazzo capì e ridacchiò imbarazzato. «Ragazzo… ragazza…», farfugliò, indicando rispettivamente sé stesso e lei. «Uomo… donna».
«Uomo… ragazzo?», ripeté lei, come chiedendo quale delle due alternative fosse quella corretta.
«Vanno bene entrambi… Tutti e due giusti! Ragazzo», disse ancora, e sollevò la mano ad una certa altezza, non troppo elevata, poi, alzandola di più, fece: «Uomo».
«Ahhh».
Sole parve comprendere. Quindi puntò il dito verso di lui. «Ragazzo?».
«Sì. Ragazzo».
La giovane scoppiò a ridere. «Jared, ragazzo. Sole, ragazza».
«Brava. Proprio così».
«Uomo, donna… donna, uomo. Ragazzo, ragazza».
«Sei sveglia!», ridacchiò Jared.
«Jared, ragazzo. Sole, ragazza», ripeté ancora una volta Sole… ma stavolta un lampo di malizia le accese gli occhi.
Il giovane afferrò dopo qualche istante… e arrossì violentemente.
Prima che potesse ribattere, Sole  si alzò e andò a caccia di altri oggetti da sottoporre al suo esame.
La lezione era iniziata.

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Capitolo 4
*** E questo cosa cambia? ***


«... Un’altra pianta piuttosto comune nella Valle delle Ginestre è il biancospino. Il nome scientifico è Crataegus monogyna, e deriva dal greco kràtos, che significa “forza” – in riferimento alla robustezza della pianta e in particolare del legno – , mònos, “unico”, e gynè, “femmina” –  in riferimento al fatto che il fiore ha un solo pistillo, l’organo riproduttore femminile. Prima di passare a descrivere le caratteristiche necessarie per il riconoscimento, ripassiamone le proprietà. Come sapete si tratta di una pianta ricca di proprietà interessanti. Sole… vuoi rinfrescarci la memoria?».
Nessuna risposta. La ragazza, immersa nei propri pensieri, era occupata a intagliare con il coltellino un rametto trovato fra l’erba. Nel frattempo, ripassava mentalmente le parole apprese quella mattina da Jared. Si era alzata prima dell’alba per andare a controllare le sue ferite (ormai quasi del tutto rimarginate), e come di consueto lui le aveva insegnato alcuni vocaboli della propria lingua e lei aveva fatto altrettanto. Adesso erano in grado di comunicare con discreta scioltezza, ma i termini da imparare erano ancora tanti per entrambi: del resto erano passate solo un paio di settimane, anche se avevano già compiuto progressi incredibili.
«Sole?».
Cadde dalle nuvole.
«Sì… maestra?».
La donna sospirò.
«Hai sentito quello che ti ho chiesto?».
«No», ammise Sole, imbarazzata.
«Le proprietà del biancospino. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, ricordi?».
La ragazza ricordava vagamente. Allora aveva la testa da un’altra parte: era riuscita per la prima volta a parlare con Jared del modo in cui si era ritrovato nella Foresta, ed era troppo su di giri per prestare attenzione. Chinò il capo.
La maestra scosse la testa e si rivolse al resto della classe: «Il biancospino è noto per le sue proprietà diuretiche, ipotensive, astringenti, antispasmodiche, sedative, vasodilatatrici e antidiarroiche. È possibile trovarlo in boschi, siepi, boscaglie e pendii erbosi con preferenza per i terreni calcarei, dal litorale marino alla montagna fino a 1600 metri di quota…».
Più tardi, alla fine della lezione, venne a parlarle in privato.
«Sole, ti vedo molto distratta in questo periodo».
«Sì».
«Che ti succede? Un tempo ti interessavi moltissimo alle proprietà delle piante, credevo volessi essere una Guaritrice come tua madre».
«Lo voglio ancora».
«Ma non ti applichi. Hai sempre la testa fra le nuvole, arrivi in ritardo alle lezioni e spesso non partecipi alle attività del gruppo. Sei sempre stata in prima linea in tutto. Cosa è cambiato adesso?».
«Ha ragione. Mi impegnerò di più. È che… ho avuto un po’ da fare ultimamente».
«Da fare cosa?».
Sole rimase in silenzio.
La maestra sospirò. «D’accordo, non voglio costringerti a parlarne. Però fra pochi mesi la classe partirà per il Cammino. C’è tanto da organizzare, e tu non ti stai preparando. Ricordati che sei uno dei membri anziani del Cerchio. Hai delle responsabilità verso i tuoi fratelli».
La ragazza distolse lo sguardo e tacque per alcuni secondi.
«Non credo che parteciperò al Cammino, quest’anno».
La maestra strabuzzò gli occhi.
«Cosa dici, Sole? È la fine del tuo percorso come Guida. Tutto il lavoro fatto durante l’anno culmina in questo momento. Senza contare che mi avevi parlato del fatto che ti sentivi pronta per spiccare il Volo. Abbiamo organizzato la cerimonia, eravamo tutti pronti ad accoglierti fra gli Alati… ma non devo essere di certo io a spiegartelo. Lo sai benissimo da sola».
«Sì, ne sono consapevole… Solo che, come le ho detto, ho piuttosto da fare in questo periodo».
La donna la osservò a lungo.
«Sole… è normale. Questo momento di crisi, è perfettamente comprensibile. Ci siamo passati tutti. Ma tu sei una ragazza forte, e salda, hai sempre rispettato tutti i punti della Legge senza battere ciglio, e non l’hai fatto in modo superficiale, ma con un grado di maturità e consapevolezza superiore a tutti i tuoi compagni. Non lasciare che un piccolo tentennamento ti allontani dalla Strada proprio nel momento in cui ti trovi in cima alla Rupe. Prenditi il tuo tempo. Rifletti con attenzione. Ma cerca di ritrovare te stessa in fretta, perché la partenza è fra poco e non puoi permetterti di perdere questa occasione. Invito sempre i miei studenti a riflettere bene su questa scelta, a prolungare il più possibile il loro tempo nel Cerchio per essere assolutamente certi della propria decisione… ma so che per te è diverso: un altro anno sarebbe uno spreco».
La maestra se ne andò, e Sole rimase immobile per un bel po’ di tempo, riflettendo.
Più tardi, passò nuovamente al Covo da Jared.
«Oggi sono riuscito a camminare fino alla fine del sentiero senza sentire alcun dolore», le disse questi eccitato mentre lei rimuoveva la fasciatura e ispezionava la gamba.
«Non dovresti spingerti così in là. Potrebbero vederti».
«Sì, lo so… ma dai, non posso mica stare seduto qui tutto il giorno. È una noia mortale».
«È pericoloso». La pelle del fianco appariva perfettamente liscia, senza segni di infezione. Al posto della ferita rimaneva solo una lunga striscia rossastra, che probabilmente avrebbe lasciato una bella cicatrice, ma nulla di più. Sole depose le bende. «Sei guarito. Non ti servono più medicazioni. Adesso puoi camminare, però devi ancora andarci piano».
Il ragazzo sbuffò. «Adesso stai facendo la Guaritrice noiosa. Si dice Guaritrice, giusto? Mi ricordi mia madre». Poi la guardò con più attenzione. «C’è qualcosa che non va? Sembri triste».
Lei aggrottò la fronte. «Triste?».
«Si dice quando una persona è giù di corda… insomma, quando è preoccupata per qualcosa, oppure è successo qualcosa di brutto».
Sole si guardò le mani con aria pensierosa. «Sì, sono preoccupata per qualcosa».
«Per cosa?».
La ragazza pensò a come avrebbe potuto spiegarglielo, in un modo che lui fosse in grado di capire. Non sapeva se nella Città esistesse qualcosa di simile al Cerchio. «Fin da piccoli», disse, «noi figli della Foresta veniamo introdotti nella Confraternita. È come… una grande famiglia. E in ogni famiglia ci sono nuclei più piccoli, legati fra loro dalla comunanza di sangue anche se con rapporti sempre più lontani, un po’ come la differenza fra una mamma e una zia, fra un cugino e un fratello… mi segui?».
«Più o meno».
«Ecco, questi nuclei sono i vari Cerchi. Si entra nel Cerchio prima come Novizi, verso i sei anni. All’inizio le attività che si fanno riguardano perlopiù il gioco, ma si fanno anche delle lezioni, con dei maestri che ti insegnano cose utili per la sopravvivenza e alcune nozioni importanti che riguardano la nostra cultura, ma sempre in modo abbastanza blando. Poi fra gli undici e i dodici anni si diventa Esploratori. A questo stadio si fanno attività più pratiche, si impara a costruire rifugi sugli alberi, a distinguere le piante commestibili da quelle velenose e da quelle che invece possiedono proprietà curative o d’altro tipo, a riconoscere l’habitat di determinati animali e ad affrontarli nel caso in cui fossero pericolosi. A sedici anni scegli se fare o meno la Promessa».
«La Promessa?».
«È una cerimonia con cui ti impegni a fare del tuo meglio per i tuoi fratelli e per rispettare la Legge della Confraternita, e diventi ufficialmente una Guida. Cioè quello che sono io adesso».
«Cos’è questa Legge?».
«Sono solo alcuni punti che riguardano il vivere in comune, l’atteggiamento da tenere verso il prossimo e verso l’ambiente in cui vivi. È una legge positiva: non c’è nessun divieto, solo esortazioni a fare ciò che viene ritenuto giusto. E nessuna di queste è vincolante. Con la Promessa tu ti impegni a “fare del tuo meglio” per seguirle in ogni circostanza, ma è un percorso, una ricerca. Non c’è nessuna punizione per chi sbaglia: ognuno è giudice di sé stesso. La comunità è sempre lì per aiutarti nel cammino, ma la Strada è personale, può portare ciascuno di noi in una diversa direzione. Ciò che ci lega è l’impegno comune nel rispetto della Legge».
«Sembra una roba complicata».
«Non lo è. È tutto molto semplice. I rituali e le gerarchie possono apparire complicati, ma ciò che c’è alla base è estremamente semplice. Ed è tutto assolutamente volontario: si può uscire dalla Strada in qualsiasi momento, per riprenderla quando ci si sente pronti o non riprenderla più. Nessuno ti biasima se esci. Se esci dopo aver recitato la Promessa, continui a far parte della Confraternita, ma con il titolo di “Viandante”, che vuol dire che sei ancora sul sentiero, ancora alla ricerca. Se invece ti senti pronto ad abbracciare in toto i princìpi della Confraternita, allora si dice che sei arrivato in cima alla Rupe e che sei pronto per spiccare il Volo e diventare un Alato. Gli Alati possono essere messi a capo di nuovi Cerchi e guidarli. Entro i vent’anni, tutti dobbiamo scegliere se spiccare il Volo e diventare Alati, oppure proseguire il sentiero da Viandanti».
Jared sembrava confuso e piuttosto scettico. «E tu che genere di cose fai nel tuo… Cerchio? Come Guida, intendo».
«Quella delle Guide è la branca della scelta. Quindi non facciamo più tanto ciò che facevamo da Esploratori, quando ci mandavano da soli nel bosco per insegnarci a cavarcela. Passiamo la maggior parte del tempo a riflettere insieme sulle motivazioni che ci spingono, e a prestare servizio nelle branche dei più piccoli per prepararci eventualmente a guidarle in qualità di Alati. Alla fine di ogni anno c’è il Cammino, in cui tutto il Cerchio sceglie un percorso da fare insieme, attraverso il quale ci si mette alla prova sia fisicamente che mentalmente, e da cui poi si trae il bilancio della Strada fatta durante l’anno».
Jared rimase in silenzio per qualche istante, pensieroso. «Quindi è per questo che sei turbata? Non sai se “spiccare il Volo” o no?». Sembrava faticasse molto a restare serio nel proferire quelle parole.
«Non è questo. Io mi sento pronta, e tutti gli Alati pensano che io lo sia».
«E allora qual è il problema? Sali sulla tua… Rupe e fai quello che devi fare, no?».
«Avrei dovuto farlo durante il Cammino di quest’anno. Era tutto preparato».
«E poi?».
Sole arrossì.
«E poi sei arrivato tu».
Jared tacque. La guardò a lungo, con una sorta di cautela, una strana luce negli occhi.
«E questo cosa cambia?».
«Be’, non posso lasciarti qui da solo», balbettò lei. «Sei ferito, e…».
«Hai detto tu stessa che ormai sono in grado di camminare sulle mie gambe».
«Sì, ma non sai come muoverti nella Foresta. Non sei abituato, potresti mangiare delle piante velenose, o farti attaccare dalle bestie feroci, o farti del male in qualche altro modo…».
«Io sono un abitante della Città, Sole. Non ho bisogno di sapermi muovere nella Foresta, perché presto tornerò a casa e sarà tutto finito. Presto potrai riaccompagnarmi indietro e tornare alla tua vita di sempre». La fissò con un’intensità sconcertante. «Non è così?».
Sole lo guardò di rimando, ad occhi spalancati. Il suo cuore batteva come un tamburo. Cercò nella mente le parole, ma non ne trovava nella sua lingua tali che lui avrebbe potuto capire, e non conosceva abbastanza quella di lui per poterle trovare in essa. Forse quelle parole non esistevano e basta, in nessuna lingua.
Si avvicinò lentamente, senza staccare lo sguardo, e lui non si mosse. Poi, quando i loro volti furono a pochissima distanza, le afferrò la nuca e la baciò.

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Capitolo 5
*** Pongono il loro onore nel meritare fiducia ***


Distretto di Conan,
11 gennaio, 157 d.S.
 
A volte la vita è davvero un groviglio di coincidenze improbabili.
Seriamente: qual era la probabilità che accadesse una cosa simile? Se avessi provato a calcolarla prima, con l’aiuto delle mie scarse nozioni di statistica, probabilmente mi sarei riso in faccia da solo. E se non ci fossimo mai incontrati? Se quella sera non mi fossi trovato in quel parco al tramonto, se mi fossi trovato da qualsiasi altra parte, e se la strana ragazza dagli occhi d’ametista avesse voltato le spalle allo sconosciuto ferito in mezzo al bosco?
Del resto, l’ha detto anche lei stessa. Con una luce indefinibile che le brillava negli occhi, mentre scrutava i lembi di cielo fra i rami degli alberi in cerca di chissà cosa, forse un barlume del futuro straniante appena intravisto. Straniante… ma probabilmente non più di quel bacio.
Ci siamo incontrati (o scontrati) a metà strada come due calamite, come se non potessimo più resistere all’attrazione magnetica che scorreva fra noi sin dal primo istante, ed è stata la cosa più naturale del mondo. È una pazzia. Lei abita nella Foresta, io do di matto se sto più di qualche giorno senza telefonino (e sì, il tempo passato da solo in quella dannata grotta, isolato da tutto e da tutti, è stato terribile). Nelle sue vene non scorre neanche il mio stesso sangue, ma… Dio quanto è calda, quando la stringo fra le braccia. E quanto sono morbidi i suoi capelli verdi…
Dopo un po’ che stavamo avvinghiati, ha sussurrato: «Perché tremi?».
Mi sono fatto piccolo piccolo. Era vero: tremavo come una foglia. Non me ne ero accorto.
«Non lo so».
Ha riso. «Poi parlo io che ho il cuore a mille».
Sì, lo sentivo. Un piccolo tamburo. Era bellissimo. L’ho attirata sopra di me per poter sentire ogni centimetro del suo corpo. Lei ha affondato il visto nella mia gola e ha iniziato ad annusarmi. Io sono scoppiato a ridere.
«Che fai? Sei diventata un cane?».
«Mi ricorderò di quest’odore», mi ha risposto, ignorando il mio sarcasmo.
«Quale odore?».
«Il tuo».
«È buono?».
«Le persone odorano sempre di buono».
Ho sogghignato. «Dovresti spiegarlo a tutte quelle signore imbellettate sull’autobus la mattina, che si cospargono di profumo fino a farti soffocare».
Quando ha ritenuto che mi fossi del tutto ristabilito, mi ha riaccompagnato in Città. Giunti appena oltre gli ultimi alberi, di fronte al tratto desertico che circondava le mura da ogni parte, l’ho vista impallidire di colpo.
«Non è niente», mi ha risposto, quando le ho chiesto cosa non andasse, «è solo che non sono abituata a tutto questo spazio aperto. La prima volta è stato uno shock, adesso è solo… mi mette a disagio, tutto qui. È meglio se vai da solo da qui in poi».
Le ho stretto la mano. Non volevo staccarmi da lei.
«Ci rivedremo, vero?».
«Certo. Ogni volta che potremo».
«D’accordo allora».
A casa, come previsto, mio padre stava andando al manicomio. E come non bastasse, ci si era messa anche la mamma, a tartassarlo di rimproveri per non avermi saputo tenere sotto controllo. A quanto pare, è stato un gruppo di teppistelli ad aggredirmi, al parco. Li hanno rintracciati facilmente, perché uno di loro è stato così idiota da lasciar cadere la patente proprio sotto l’altalena su cui mi trovavo quando mi sono saltati addosso. Certo, questa storia continua a sembrarmi parecchio strana: soprattutto non capisco perché degli stupidi armadi in cerca di rogna, dopo avermi pestato, si siano presi il disturbo di raccogliermi da terra e farsi tutti i chilometri che li separavano dalla Foresta anziché lasciarmi semplicemente lì abbandonato a leccarmi le ferite. Probabilmente si sono spaventati nel vedere come mi avevano ridotto… ma mi sembra comunque assurdo.
A scuola mi hanno fatto una piccola festicciola di bentornato. Alice ha lasciato una mia caricatura sulla mia metà del banco, con il naso rotto e i capelli pieni di fogliame. Mi ha commosso. È piuttosto brava a disegnare: passa metà delle lezioni a ricopiare personaggi dei fumetti sulle pagine del quaderno, anziché prendere appunti.
Ma da quando io e Sole ci siamo salutati… Oh, non faccio che pensare a lei. Vorrei poterla vedere ogni giorno.
La prima notte che ho passato nella Città da quando ci siamo incontrati, sono andato a dormire con una brutta sensazione. È vero: sono il tipo che quando lo conosci è facile trovare interessante. Ho un sacco di passioni, so essere spiritoso e arguto ma anche all’occorrenza intrattenere una conversazione seria, per cui anche se fisicamente non sono un granché… insomma non salto all’occhio… basta conoscermi un po’ meglio per farsi una buona impressione (ma solo nelle mie giornate sì). Eppure… quanto ci metterà a scoprire che, malgrado tutto il mio sarcasmo, probabilmente non sono affatto la persona che pensa? Io sono cupo e pessimista. Lei positiva e solare. Probabilmente non sono quello giusto per lei… e non dipende dal fatto che ha i capelli verdi e io castani. Non sono quello giusto per lei, ma in qualche modo… penso che lei sia quella giusta per me. È possibile?
Qualche giorno fa, l’ho fatta venire a casa mia. Papà non c’era, e sono riuscito a farla intrufolare in Città con un travestimento. Ha subito colonizzato il mio letto. Non è abituata a simili comodità.
«Non mi hai ancora detto quali sono i punti di questa famosa Legge», ho osservato a un certo punto, arrotolandomi intorno alle dita i suoi capelli tinti di rosso scuro. Quel colore le donava.
Diventa sempre molto seria quando parla della Confraternita. La cosa mi mette a disagio, perché io invece tendo ad assumere un tono scherzoso quando caschiamo sull’argomento.
«”Pongono il loro onore nel meritare fiducia”, “sono leali”, “si rendono utili e aiutano gli altri”, “sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida ed Esploratore”, “sono cortesi”, “amano e rispettano la natura”, “sanno obbedire”, “sorridono e cantano anche nelle difficoltà”, “sono laboriosi ed economi”, “sono puri di pensieri, parole e azioni”».
Mi sono dovuto sforzare molto per non scoppiare a ridere.
«Ma che roba è, un cartone animato per poppanti?».
È sembrata molto offesa. «Sono leggi importanti, semplici ma importanti. Se tutti le rispettassero, il mondo sarebbe un posto migliore. Forse le consideri scontate, ma le cose che si danno per scontate si dimenticano in fretta, e si ignorano facilmente». È rimasta pensierosa per qualche momento. «La mia preferita è la prima».
«”Pongono il loro onore nel meritare fiducia”?».
«Esatto. Se ci pensi, è una cosa bellissima. Impegnarsi affinché gli altri ripongano la loro fiducia in te, che è il più grande segno di stima».
«Io non mi fido di nessuno», ho ribattuto, gelido.
Mi ha guardato esterrefatta. «È orribile non potersi fidare di nessuno».
«Le persone vanno e vengono. L’unico su cui potrai sempre contare sei tu. Anzi, a volte non ci si può fidare nemmeno di sé stessi».
«Come si fa a vivere in questo modo?».
Ho fatto spallucce.
Dopo un po’, mi ha chiesto a bruciapelo: «Ti fideresti di me?».
Io sono rimasto un po’ stupito. Perché quella domanda?
«Non saprei», ho risposto cautamente. «Non ti conosco abbastanza».
Lei mi si è avvicinata e mi ha preso la mano, mentre io continuavo a stringere il cuscino fra le ginocchia, incerto.
Quella sera l’ho portata da Alice. Aveva organizzato una specie di rinfresco (in realtà era molto più l’alcol che il cibo), e volevo farle conoscere la mia combriccola… la mia vita, insomma. Ho detto loro che era una mia vecchia amica, del distretto in cui abitavo prima di venire qui a Conan. Eravamo noi tre, alcuni compagni di classe e i compagni di squadra di Alice (ha ripreso a giocare a basket: è piccolina, ma corre come un demonio e salta più di un grillo). George ha portato un vino che mi è salito alla testa con molta facilità, forse per la stanchezza. Abbiamo giocato a Sinco, poi a Trentuno e a Scopa. Io ero abbastanza brillo e continuavo a sparare stronzate: mi sono divertito, come tutti gli altri, ma mi sentivo anche abbastanza stupido. Sole è stata molto in silenzio, ad osservare, come se stesse valutando la situazione. A un certo punto si è messa a cantare una ninnananna del suo popolo che mi aveva insegnato pochi giorni prima, e io quasi istintivamente l’ho seguita a ruota. Quando abbiamo finito ci hanno applaudito.
«Che strano dialetto. Lo parlavate giù a Cricket?», ha chiesto George.
«Sì», ho risposto, evasivo. «Una vecchia canzone. In realtà molte parole non le conosco neanche io».
Poi, in un momento in cui eravamo entrambi stati eliminati dal gioco (Sole aveva imparato subito e aveva stracciato tutti alla prima mano), ci siamo ritrovati a parlare fitto fitto, come fossimo da soli, pur trovandoci agli estremi opposti del tavolo, circondati di persone.
Poco prima che andassimo via, Alice in privato mi ha dato una gomitata nelle costole.
«Amico, quella è cotta di te», ha bisbigliato con aria complice.
Io ho sorriso e ho abbassato lo sguardo.
È tutto così meraviglioso che ho il timore che esploda da un momento all’altro, come una bolla di sapone. 

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Capitolo 6
*** Speranza e fede ***


Distretto di Conan,
15 febbraio, 157 d.S.
 
Perché sto così male?
Mi sento come se cascassi a pezzi. Ogni tanto mi chino a raccogliere i frammenti, li rimetto insieme e li lego stretto; mi dico che andrà tutto bene, non c’è niente che non va. Ma un secondo dopo sento che la corda inizia già a scricchiolare…
Forse Sole, che è una Guida, saprebbe fare un nodo migliore del mio. Glielo insegnano quando sono Esploratori, sanno fare ogni genere di nodi. Forse è per questo che sembra sempre così sicura.
«Tutto a posto? Sicuro di star bene?», mi chiede continuamente, e io annuisco, seppellisco la faccia nel suo petto per proteggerla dai miei occhi tristi senza motivo.
Vorrei poterla rendere felice, ma come faccio? Come faccio se la notte è lunga come un serpente a sonagli, e il giorno brilla di una luce abbagliante, che mi spoglia come una radiografia e mi fa sentire nudo in un immenso e arido deserto? Forse è questa la sensazione che prova Sole ogni volta che varchiamo il confine, che attraversiamo il lembo di terra che separa i nostri due mondi. Ma lei fa un respiro profondo e avanza. Esce dalla sua zona sicura. Cammina al mio fianco.
Quando è sdraiata accanto a me, gli occhi chiusi, un braccio che mi circonda, sul viso quell’espressione beata che mi dice che sta bene con me, e anche se ha mille cose da fare – con il Cerchio, la famiglia, la preparazione del suo Volo – non vorrebbe andar via… la guardo e mi si scioglie il cuore. E mi odio per quel bisogno di piangere che non riesco a scacciare. Respingo le lacrime con rabbia, mentre quel dolore bruciante si arrampica dal mio petto lungo le braccia, fino alla punta delle dita, quel dolore familiare che mi tormenta la notte e sempre più spesso mi sorprende durante il giorno, mentre cerco di studiare o semplicemente di distrarmi.
Non ora. Ti prego, non ora.
Lei lo sente. Come potrebbe non sentirlo? Lo sente, e so che la fa star male. Vorrebbe aiutarmi e non sa come, e neanch’io lo so, so solo che a volte sto così male che la vorrei vicino, e poi quando ce l’ho a fianco mi sento ancora peggio perché sto coinvolgendo anche lei in questo schifo. Allora mi dico che dovrei stare da solo. Che non sono fatto per condividere la mia vita con qualcuno. Forse è per questo che ho sempre fatto tante cazzate con le ragazze… ma prima era sempre quella sbagliata, adesso lei è quella giusta. E questa cosa mi distrugge, perché io continuo ad essere quello sbagliato.
Ieri era San Valentino. Festa idiota, lo so, ma Sole mi aveva chiesto di fare qualcosa insieme (a quanto pare questa stupida tradizione è sopravvissuta anche nel suo popolo), e io all’inizio ero un po’ scettico, ma poi mi ha fatto quella faccia da cucciolo bastonato e non ho saputo resistere.
Ma ieri mattina mi sono svegliato con un nodo allo stomaco che non mi è riuscito di sciogliere in alcun modo. Continuavo a piangere a intermittenza, e più cercavo di smettere, più piangevo perché non ci riuscivo, e ho pensato più volte: “Adesso mi invento una scusa, le dico che non mi sento bene”, perché non mi andava di farle passare una serata di merda solo perché ho dei problemi emotivi.
Abbiamo fatto una lunga passeggiata nel centro storico di Conan, facendo discorsi parecchio impegnativi, lei con le sue idee socialiste (a quanto pare la Confraternita si ispira ad alcuni principi del comunismo, pensa un po’), io con il mio individualismo inattuabile quanto ostinato. Lei è così buona. Io invece ho sempre visto l’umanità come qualcosa da cui difendermi, piuttosto che come una comunità in cui posso cercare aiuto e al cui progresso posso contribuire nel mio piccolo.
Mi dispiace. So di essere il tipo di persona con cui combatte politicamente, il tipo di persona che impedisce il realizzarsi del sogno di quelli come lei. E non è perché abito in Città. Cioè, sicuramente influisce, sicuramente vivere nella Foresta ti dà un’altra visione del mondo rispetto a queste strade grigie in cui la gente passa senza guardarti in faccia, sbattendoti contro senza chiederti scusa, e a nessuno importa se scoppi in lacrime sulla metropolitana, anzi ti scansano perché non vogliono essere coinvolti nei tuoi problemi. Ma forse… se fossi una persona diversa, potrei crederci anch’io. Potrei credere anch’io nel sogno che siamo tutti fratelli, pronti a fare il bene del mondo. Vorrei crederci. Ma il punto è che non ci credo.
Tempo fa, sdraiati sotto un grande castagno, abbiamo avuto un’altra discussione simile, anche se più prolifica, e alla fine abbiamo trovato il nodo fondamentale del nostro dissidio nel contrasto fra fede e speranza. Per lei fede e speranza sono la stessa cosa.
«Io spero e basta», le ho detto io. «Spero perché non c’è un altro modo di andare avanti. O fai le cose che devi fare, come se ci credessi davvero, oppure ti trascini, ti lasci morire. E questo è inaccettabile».
«Io spero perché credo nel cambiamento», ha ribattuto. «Come potrei sperare se non credessi?».
«Quindi tu speri che un giorno la gente smetterà di guardarti in cagnesco vedendo la tua pelle pallida quando passeggi per la strada? Speri che io possa venire a casa tua e salutare i tuoi genitori, i tuoi amici, senza che corrano a denunciarmi?».
«Io non ci spero, io ci credo». Mi ha accarezzato la testa. «E i miei genitori non ti denuncerebbero affatto. Te l’ho detto un sacco di volte. Dovresti venirli a trovare, sai che ho parlato loro di te e sono impazienti di conoscerti».
Be’, forse ha ragione. Forse la speranza non basta.
Mi piace troppo vederla sorridere. Mi fa impazzire. Con quelle gote morbide che si sollevano, e me le mangerei di baci. Mi guarda con una luce negli occhi che mi accende qualcosa dentro… ma quando mi fissa in modo così diretto e sento che mi scruta nell’anima, ho paura di non riuscire a nascondere tutto lo schifo sul fondo.
Forse dovrei andare a conoscere la sua famiglia. Non è la prima volta che me lo dice, forse sono davvero ben disposti nei miei confronti. Forse i figli della Foresta sono più aperti di quel che pensassi.

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Capitolo 7
*** Carne ***


Distretto di Conan,
10 marzo, 157 d.S.
 
Cos’è un orgasmo? Nient’altro che una risposta a una sollecitazione meccanica, che provoca piacere perché la natura ha scelto questo mezzo per autoperpetuarsi. E l’amore? Niente di più lontano da un qualcosa di meccanico, sembrerebbe. Eppure è anch’esso una sorta di espediente, un trucco. Ma un trucco molto più subdolo, perché ti lega assai più profondamente di quel fugace istante di godimento.
A volte ho così tanta voglia di fare l’amore con lei che quasi impazzisco. Non so come funzioni per loro. Cioè, so che hanno tutte le cose al posto giusto, insomma, anche se quando nascono i bambini vengono legati a un albero con uno strano rituale che non ho ancora ben capito, e che li fa restare in comunione con la Foresta per tutta la vita. Però, ecco… la parte prima dovrebbe essere la stessa.
I suoi occhi. I suoi occhi mi incatenano. Potrei scrutarli per ore alla ricerca di quella scintilla che li accende all’improvviso, ma quando la porta si apre e mi sorride, tutta l’ansia dell’attesa cade di colpo, come un effimero velo di Maya strappato via dal vento.
No so come fare a comunicarglielo, né se esiste un modo in fondo. Non è un problema linguistico… ormai la mia lingua la parla meglio di tanti babbei in classe mia, e anch’io con la sua me la cavo. Forse c’è un problema di incomunicabilità più profondo.
Ho paura che non capirebbe, o addirittura si spaventerebbe. Lei così sicura e razionale… con tutte le sue erbe curative, e un rimedio per tutto… Come faccio a dirle che mi manca quando non c’è, sempre, e che quando sono con lei sento il petto vibrare e vorrei annegare fra le sue braccia? So che mi vuole bene, ma non credo che provi tutto questo. Sento che potrebbe benissimo fare a meno di me: lei ha la sua famiglia, la Confraternita… ha tutto un mondo ad aspettarla. Be’, anch’io posso fare a meno di lei, probabilmente. Solo che non voglio.
Mi sento così distante… fra me e il mondo, lo spazio di una galassia. Forse è per questo che ho tanto bisogno di abbracciarla: per colmare quella dolorosa distanza. Spogliami. Stringimi fino a farmi male. Fammi dimenticare di esistere come individuo singolo, come quest’unico e indivisibile punto di materia solitario. Ma lei non mi sfiora neanche. Mi accarezza la schiena, le guance, le labbra… e io brucio come un fuoco di campo, come quelli che accendono il Giorno del Falò. Sento la scia rovente delle sue mani sulla mia carne.
Non so quali siano le sue usanze in materia, quindi aspetto. Aspetto e basta. Ma non posso fare a meno di chiedermi… mi vuoi davvero? E se non mi vuoi, perché stai con me?
Quando tocco il mio corpo sotto le coperte provo solo rabbia e disgusto, vorrei liberarmi da quell’inutile involucro e sgusciare via nell’etere. Il corpo è la nostra prigione e la nostra casa. È il mio cuore che pulsa dappertutto e non mi fa dormire. È il mio petto che si stringe, quel dolore formicolante che mi si arrampica fino alla punta delle dita e che mi fa sentire vivo, anche quando vorrei solo sparire, che mi ricorda che anche quando vorrei andarmene io sono qui, aggrappato alla terra con le unghie e con i denti.
Il corpo è il segno del nostro esserci.
Ed è il corpo che amiamo, quando amiamo. Non un’entità astratta, ma quelle mani, quelle spalle, quel petto, quel sorriso. Quella massa solida a cui possiamo abbarbicarci, e la cui consistenza ci rassicura sulla nostra stessa esistenza e solidità.
Quando ti stringo forte io mi sciolgo, e non sono più io, ma al contempo sono io più di quanto non lo sia mai stato. Mi ricordi il senso di questa massa sudicia di cui ho vergogna, che ha senso perché ci sei tu ad abbracciarla e perché abbracciarla ti fa sorridere e mi fa esplodere il cuore in petto, e se non avessi cuore, con che organo potrei mai ardere così tanto?
Sto diventando terribilmente sdolcinato. Da quando sono così sdolcinato? Che ne è del mio cinismo?
Il fatto è che credo di amarla. No, anzi, la amo da impazzire. E ho una paura folle che se ne vada… ma come faccio a trattenerla? Non ho niente da offrirle, niente oltre a quest’amore incomunicabile e insensato, che però le donerei seduta stante se me lo chiedesse, insieme a tutta questa carne che a me ripugna e a lei fa sorridere.

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Capitolo 8
*** Un faro nella nebbia ***


Distretto di Conan
27 maggio, 157 d.S.
 
La luce è una lama sottile, che trafigge le cose e le sfigura per sempre. Ma come puoi dire di no alla luce? Anche mentre ti brucia la carne, sai che non potresti vivere senza, perché fuori c’è il buio e nel buio si annidano i mostri.
Io ho visto una luce abbagliante, un faro nella nebbia, tu forse solo una candela. E ti odio, adesso, perché non posso scordare quella luce, non posso scordare il tuo sorriso, il tuo profumo, le tue guance morbide, il suono della tua voce… mentre io per te sono forse solo una pagina sbiadita, e neanche troppo ben scritta.
Volevo essere la tua lama sottile. Per trafiggerti e illuminarti, e lasciare un segno indelebile. Invece tu hai marchiato la mia carne e dietro di te non c’è neanche l’ombra dei miei passi.

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Capitolo 9
*** Cambiare ***


Quelle ultime parole erano scritte a matita. I caratteri erano aguzzi e marcati, la pagina piena di chiazze umide.
Jared stava sdraiato supino sul letto, il volto impassibile mentre fissava il soffitto. La stanza era un casino: cianfrusaglie e vestiti sparsi ovunque sul pavimento.
Come la mia testa. Strano: mi ci vorrebbe un attimo a mettere a posto, solo un attimo. Osserverei la mia camera immacolata, e la mia testa continuerebbe ad essere un casino.
Di colpo il cellulare prese a squillare. Era Alice. Ci mise un po’ a decidere se rispondere.
«Pronto?».
«Jared, non dirmi che sei ancora sul letto a piagnucolare per la tua ragazza».
«Non sto piagnucolando».
«Sì che stai piagnucolando, lo sento dal tuo tono lagnoso. Senti, al cinema danno quel film che volevamo vedere insieme… ci stai?».
«A dire il vero, non credo di essere dell’umore adatto».
Alice sbuffò.
«Senti, sono giorni che fai la larva. Ti ho dato tempo, sono stata paziente. Sono stata una mattinata intera a passarti fazzoletti e portare fuori mucchi di carta igienica sporca del tuo moccio, ma ora basta. Ci sono tanti pesci nel mare, bello. Non ti consento di disperarti un altro giorno per quella smorfiosetta di Cricket. Quindi alza il culo e vedi di presentarti alle cinque in punto all’inizio della Tredicesima, davanti al tabaccaio. Non accetto scuse».
Subito dopo riattaccò, e Jared sorrise. La solita Alice.
Dopo che Sole lo aveva piantato in asso, aveva subito tutte le sue fasi alterne. Prima la disperazione, l’autocommiserazione, e poi la furia omicida.
«Sai che ti dico? Ne ho abbastanza di starle appresso, e piegarmi, e capire. Ma sì. Resta nel tuo blocco di granito del cazzo, con le tue meravigliose idee e i tuoi meravigliosi princìpi. Va’ a salvare il mondo. Certo che una persona che vuole salvare il mondo e non è neanche in grado di affrontare le differenze…».
«La gente che vuole salvare il mondo è quella peggiore», aveva commentato Alice con aria comprensiva, restando pazientemente seduta a osservare Jared che faceva avanti e indietro nella sua cameretta, incapace di starsene fermo.
«Sì… vogliono curare i mali dell’umanità, e non vedono quello che hanno sotto il naso. Quella fottuta Legge è solo un mucchio di stronzate per cerebrolesi».
«Quale Legge?».
Il ragazzo era talmente preso dalla propria ira che si era dimenticato che la povera Alice non sapeva un bel niente del Popolo degli Alberi.
«Lascia perdere. Mi parlava con un tono… un tono… Come se fosse tutto maledettamente ovvio. Continuava a dirmi che lei ci sarebbe sempre stata se ne avessi avuto bisogno, ma la sua voce era seccata. Fredda». Aveva serrato i pugni fino a farsi male. «Io ho creduto di poter uscire insieme a lei dalla stanza in cui sono rinchiuso da anni, invece lei è rimasta lì sulla soglia, si è guardata un po’ attorno e ha sbattuto la porta, e ora sta lì fuori a dirmi che devo uscirne. Ti rendi conto del paradosso? E tutti quei bei discorsi sulla fiducia… dannazione! Ma come faccio… come faccio a fidarmi se si rivela sempre tutto falso? Questi mesi, che per me sono stati tutto, per lei sono stati nulla».
Alice aveva cercato di placare quel torrente di malumore.
«Non essere catastrofico. Non vuol dire che non sia stato nulla, vuol dire solo che per lei non era abbastanza. E comunque sono cose che si dicono. Frasi di circostanza. Adesso fa l’amica perché si sente in colpa, ma fidati, non le interessa affatto esserti amica: quello che vuole è levartisi dai coglioni al più presto, senza sporcarsi le mani. Ascolta la zia Alice».
Jared sapeva che razionalmente avrebbe dovuto darle ragione. Ma qualcosa dentro di lui si ribellava a quell’idea.
«Non lo so», disse. «Non lo so».
Ad ogni modo, il film era orribile. O almeno così parve a lui. Alice invece sembrava piuttosto soddisfatta.
«Niente a che vedere con il primo della saga», bofonchiò uscendo dal cinema, la bocca piena di popcorn. «Però dai, hai visto che figata il drago con tre teste in mezzo alle scorie radioattive? Ammetti che è stata una trovata geniale».
Jared annuì distrattamente, e lei lo guardò come se fosse un caso disperato.
«Senti, posso venire a dormire da te, stasera? Mio fratello sta a casa con Rebecca, e mi ha fatto capire piuttosto chiaramente che sarebbe meglio se mi levassi dai piedi».
«Certo, non c’è problema. Il letto dovrebbe essere già fatto».
Ormai erano praticamente due fratelli: dormiva da lui una settimana sì e una no.
«Ottimo. Così domani mattina controllo anche che tu ti metta a studiare qualcosa. Scommetto che non stai combinando un tubo. Ricordati che gli esami di fine corso sono fra pochissimo».
«Da che pulpito! Sicuramente sto studiando più di te».
La ragazza sbuffò stizzita.
Jared la guardò con un sorriso, e si rese conto che era tanto che non la osservava così. Non era molto alto, ma lei gli arrivava a malapena al mento. Aveva gli occhi vispi: tutto in lei sprizzava vita, movimento; non c’era nulla che apparisse statico o monotono… persino i capelli, sempre pieni di vertigini malgrado passasse il tempo a ravviarseli. Da quando si era fatta la frangetta, poi, non faceva che lamentarsene ogni volta che le finiva davanti agli occhi e doveva scostarla con un gesto brusco (perché Alice faceva solo gesti bruschi).
Loro due erano in qualche modo complementari. Chissà come facevano a sopportarsi ancora, dopo tanti anni… Si erano conosciuti alle elementari, e anche allora lui era un bambino calmo e riflessivo, lei un vulcano in perenne eruzione. Ma quando qualcuno provava ad attaccare briga o cercava di approfittarsi di lui, Alice era sempre in prima linea per difenderlo, e lui era sempre lì a raccogliere i cocci dopo che una delle sue trovate folli non era andata a buon fine. Si guardavano le spalle a vicenda.
Andarono a prendere un gelato e sulla strada incontrarono alcuni amici di Alice, la quale naturalmente aveva delle novità pazzesche da raccontare a tutti – il che richiese parecchio tempo. Poi si avviarono verso casa di Jared. Suo padre aveva preparato la cena… se si può definire cena un piatto di verdure bollite accompagnate da pane secco. Rimproverò Jared per non averlo avvertito che avevano ospiti, ma lui sapeva benissimo che avvertirlo non avrebbe cambiato nulla: il frigo era vuoto da una settimana, ormai. Da quando i suoi si erano separati, se non era lui a fare la spesa rischiavano di morire di fame.
Mangiarono in silenzio – se si esclude qualche patetico tentativo di battuta da parte del padre di Jared, a cui Alice rise solo per pietà. Sgattaiolarono in camera il prima possibile.
«Non c’era bisogno che facessi finta di ridere, alla barzelletta dell’esploratore», disse il ragazzo all’amica, dopo aver chiuso la porta.
Lei fece spallucce. «Dai, era divertente. Sei troppo duro con tuo padre. Fa del suo meglio».
«Mah».
Mentre Alice si infilava il suo pigiamone a chiazze bianche e rosa, Jared ispezionò il comodino. Fra le pile di libri, trovò una palletta colorata, vinta probabilmente a qualche gioco al luna park. La afferrò e iniziò a lanciarla contro il muro per poi riacchiapparla, tanto per tenere impegnate le mani.
«Sai, forse la storia con Sole mi ha fatto capire una cosa», disse, quando Alice si fu messa sotto le coperte. «Forse è vero che sono troppo individualista. Sono sempre stato il tipo “chi fa da sé fa per tre”. Forse in Città sono tutti troppo abituati a farsi gli affari propri».
Alice alzò gli occhi al cielo. «Intanto, parli di lei come se fosse un alieno: guarda che anche lei vive qui, e non credo che Cricket fosse una sorta di paradiso celeste in cui tutti si vogliono bene e sono pronti a dare un rene per la comunità».
Jared sorrise imbarazzato. In effetti non aveva mai conosciuto nessuno del Popolo degli Alberi, a parte Sole, e anche se nella sua testa immaginava che fossero tutti come lei dalle sue parti, non ne aveva affatto idea.
«E poi guarda che a Conan non sono mica tutti dei mostri insensibili. La fai troppo tragica… solo perché lei ti ha fulminato con la sua “nobiltà d’animo”. È vero, sei sempre stato un tipo solitario. Mi ricordo quando andavamo alle medie e tu stavi sempre per i fatti tuoi, col muso lungo fino a terra, perennemente incazzato col mondo. Per te era sempre tutto una questione di principio: il posto a tavola, il tuo lato del banco, il tizio che copiava al compito in classe… Ma con gli anni sei migliorato un sacco. E poi c’è stato quel professore di filosofia in primo liceo… il professor Siles, te lo ricordi? Con tutte quelle storie sull’anarco-individualismo…».
Jared ridacchiò. «Stravedevamo tutti per lui ai tempi».
«Tu stravedevi per lui. A noialtri c’è voluto un po’ più di tempo per imparare ad apprezzarlo. Ti ricordi Claire?».
«Quella con la famiglia super cattolica, che se ne è andata al secondo anno? Be’ sì, la metteva parecchio in crisi, quando partiva con le sue tirate contro il Cristianesimo e la morale cristiana. Però alla fine anche lei gli voleva bene, dai. Nonostante le discussioni accanite».
«Sì, è vero».
Jared chinò il capo. «Sai, quando mia madre viveva ancora con noi, mi dava continuamente dell’egoista. In realtà il più delle volte ce l’aveva con mio padre… si arrabbiava con lui per qualcosa, poi mi vedeva in giro e se la prendeva con me. E “egoista” era la parola che mi ossessionava di più. Mi feriva da morire. Quindi quando il professor Siles venne a farci tutti quei discorsi esaltanti, ho detto “Sì, viva Stirner e viva Nietzsche, sono egoista e fiero di esserlo, perché l’egoismo è vita, è affermazione della propria esistenza”».
Alice, che nel frattempo stava combattendo con il proprio caschetto nel tentativo di farsi una coda, lo interruppe: «Bei discorsi, senza dubbio… però dimentichi un particolare importante».
«Quale?».
«Ti sembra che il professor Siles fosse un uomo felice?».
Lui ci pensò su, poi storse la bocca. «In effetti no».
La ragazza sembrava aver finalmente rinunciato a legarsi i capelli. Posò l’elastico sul comodino, irritata, poi si rivolse a lui. «Sembrava ce l’avesse con tutto e con tutti. Un po’ come te a dodici anni. Il Cristianesimo, la Chiesa, lo Stato, la scienza… tutti coalizzati contro la libertà dell’essere umano, contro la sua possibilità di realizzazione. E se ci rifletti, perché pensava tutto questo? Perché è un uomo frustrato. Deluso e frustrato. Non ha famiglia. Suo fratello è stato malato per anni e adesso è morto. Ha amato un’unica donna in tutta la vita e lei lo ha respinto. Ci credo che fosse incazzato col mondo, chiunque lo sarebbe».
«Per questo era tanto attaccato ai suoi studenti», mormorò Jared. «Non ho mai visto nessuno mettere tanta passione nell’insegnamento. In qualche modo, per lui eravamo i figli che non ha mai avuto».
«Già. E infatti da quando sta in pensione sembra che non abbia più una vera ragione di vita. Te l’ho detto, è normale che sia arrabbiato, le sue esperienze gli hanno insegnato questo, e ora ha sessantacinque anni, è al capolinea, ed è un po’ tardi per rivedere le proprie convinzioni, ti pare? Ma tu non hai sessantacinque anni. Tu hai tutto il tempo per cambiare rotta. Quindi smettila di parlare di te stesso come se fossi un vecchio lupo di mare segnato dagli anni, che se ne sta lì sul molo a passare in rassegna le proprie cicatrici».
Jared si sentì punto sul vivo. Ma dovette incassare il colpo.
«Forse dovresti provare a fare un po’ di volontariato. Ti farebbe bene».
Il ragazzo rise. Ricordava bene cosa diceva il professor Siles dell’altruismo. “È solo una forma mascherata di egocentrismo. La bontà disinteressata non esiste: chiunque faccia qualcosa di buono verso un’altra persona si aspetta un tornaconto, consciamente o inconsciamente. E dando a qualcuno qualcosa che non potrebbe procurarsi da solo ti poni automaticamente su un piano superiore a lui, ribadisci la sua incapacità, la sua inettitudine”, oppure: “L’altruismo è egoismo dei deboli. Perché l’egoismo dei deboli dovrebbe essere più importante del mio? Lo Stato che impone l’altruismo impone l’assoggettamento e l’asservimento dei forti al bene comune, svilisce l’uomo e livella la società, impedendo agli individui veramente eccezionali di emergere”.
«Jeanne, un’amica di mio fratello che ha studiato scienze sociali all’università, ha avviato uno sportello d’ascolto per ragazzi in difficoltà. Li aiutano a studiare, parlano con loro per trovare delle soluzioni ai loro problemi, a volte li ospitano per qualche notte quando non sanno dove andare. Penso che tu saresti tagliato per una cosa del genere: sei molto empatico. Potresti tenere qualche corso da loro. Io ci sono stata un paio di volte: fa davvero bene al cuore, te lo assicuro».
Jared grugnì, in tutta risposta.
«Be’», fece Alice voltandosi dall’altra parte, «non so te, ma io crepo di sonno. Buonanotte».
A lui il sonno era ormai passato del tutto. Quella conversazione gli aveva riacceso il cervello, e ora non riusciva più a frenarlo.
Rimase nel buio ad occhi sbarrati.
È vero. Dove sta scritto che io sono così e basta, che non posso cambiare?
Sapeva che Sole aveva preso il Volo recentemente. Avevano anticipato la cerimonia, e ora era ufficialmente un’Alata pronta a formare un nuovo Cerchio. Nel frattempo, il suo vecchio Cerchio sarebbe partito fra non molto per il Cammino, senza di lei.
Un’idea folle si insinuò nella sua mente.
E se fosse andato con loro?
Forse avrebbe capito qualcosa di più di quel mondo alieno, e sarebbe riuscito a esorcizzare la sensazione che lo tormentava da settimane… da quando Sole se ne era andata.

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Capitolo 10
*** Rondine ***


È una pazzia, continuava a ripetersi Jared, avanzando nel sottobosco. Una vera pazzia.
Sole una volta gli aveva spiegato come raggiungere il suo villaggio (che chiamava con il nome di Cordignola): a quanto pare il Popolo degli Alberi usava contrassegnare i sentieri in vario modo, principalmente attraverso chiazze di gesso colorato sulla corteccia, trattate in modo da durare a lungo. Sperava di ricordarsi la strada; in caso contrario era probabile che avrebbe continuato a vagare nella Foresta per sempre.
Non poteva ancora credere di essere lì.
Da quando quel pensiero gli era balenato in mente per la prima volta, a casa sua, non era riuscito a pensare ad altro. Dopo che lui e Sole avevano rotto, aveva perso interesse in qualsiasi cosa: passava le giornate a letto, o a guardare stupide serie TV. Era da tempo che non sentiva la spinta verso nulla. Quell’idea assurda, invece, gli infondeva nuova motivazione.
Alla fine il suo corpo aveva deciso per lui, per così dire. Un sabato mattina si era svegliato prestissimo, prima dell’alba, e le sue gambe lo avevano trasportato fuori dal letto. Aveva indossato i primi stracci che gli erano capitati sotto tiro ed era uscito senza far rumore, per non svegliare suo padre. Aveva lasciato un biglietto dicendo che sarebbe andato a studiare da un amico.
Solo quando la brezza fresca del mattino gli aveva investito il volto, mentre muoveva i primi passi fuori dalla Città, si era reso conto della situazione.
Che cosa sto facendo?, si era chiesto, spaventato, ma i piedi non ne volevano sapere di fermarsi.
Aveva attraversato la distesa brulla fuori le mura, per poi immergersi fra i primi alberi e infine nella boscaglia sempre più fitta, e ora era un po’ che camminava. Non era mai stato lì senza Sole, a parte quando era ferito e lei lo lasciava nella caverna ad aspettarlo, ma allora sapeva di essere al riparo. Adesso ogni minimo fruscio lo faceva sobbalzare.
D’un tratto, su una pietra al bordo del sentiero che stava percorrendo, scorse due segni paralleli, uno rosso e uno bianco.
Ci siamo. Deve essere qui vicino.
Rallentò il passo, cauto, guardandosi attentamente intorno. Dopo un po’, vide che la vegetazione si diradava lasciando posto a una radura. Sul terreno si ergevano costruzioni di legno, paglia e fango dall’aria piuttosto rudimentale, forse una cinquantina in tutto. Fra le abitazioni, sciami di uomini pallidi dai capelli verdi.
Jared trattenne il fiato e si fermò.
Che fare?
Rimase lì ad osservare affascinato per un tempo indefinito, scrutando i lineamenti di quegli esseri estranei eppure ormai così familiari. Fino ad ora, l’unico esemplare della loro specie con cui aveva avuto a che fare era Sole. Vedere quegli stessi tratti, ma su altri volti, su altri corpi, gli fece uno strano effetto.
Ad un certo punto udì un gridolino alle proprie spalle e si voltò di scatto. Di fronte a lui c’era una ragazza piuttosto minuta, gli occhi spalancati e una mano sulla bocca, i nervi tesi come sul punto di attaccare o scappare via. Aveva lunghi e morbidi capelli color tiglio, che le ricadevano in onde voluminose sulle spalle sommergendole quasi completamente.
«Chi sei? Che cosa ci fai qui?».
Aveva parlato nella lingua di Sole. La sua voce era piuttosto acuta… e spaventata.
Jared tese subito le mani per mostrare di essere disarmato. «Non temere», disse. «Non sono qui per farvi del male. Sono venuto perché volevo incontrare il Cerchio di Sole… la conosci?».
Lei si rilassò e lo guardò con curiosità. «Sole? Certo che la conosco. Ma tu come fai a sapere chi è? Non vieni dalla Città? Come… come hai fatto ad arrivare qui?».
«È stata lei a indicarmi la strada, qualche tempo fa. Mi trovò svenuto nella Foresta… ti parlo di parecchi mesi fa… mi ha curato e mi ha dato un rifugio, e più avanti mi ha spiegato come raggiungere il villaggio».
La giovane spalancò la bocca. «Sei… sei Jared?».
Lui rimase di sasso. «Come fai a saperlo?».
Un sorriso smagliante le si stampò in faccia. Quando lo fece, Jared si rese conto che aveva la bocca molto grande, a differenza di tutto il resto. Quell’inatteso contrasto lo stupì e gli fece subito apparire la situazione più distesa… più normale.
«Sole mi ha parlato di te. Sono Rondine, lieta di conoscerti». Gli tese la mano, e lui la strinse lentamente.
Rondine… ma certo, Sole l’aveva nominata più volte. Era una Guida del suo Cerchio. Che fortuna che avesse incontrato proprio lei!
«Ciao, Rondine, il piacere è mio».

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Capitolo 11
*** Il Cerchio ***


Rondine lo accompagnò in un edificio leggermente più ampio degli altri. Quando passavano accanto alla gente, questa lanciava esclamazioni di sorpresa, ma la ragazza provvedeva a rassicurare subito tutti.
Jared le aveva spiegato per quale motivo si trovava lì. Era un po’ impacciato, non essendo ancora del tutto convinto di star facendo la cosa giusta, ma Rondine si era subito mostrata entusiasta. Aveva detto che sarebbe stata impaziente di mostrargli ogni cosa lì nel villaggio, e soprattutto di presentarlo al Cerchio. La sua esuberanza lo disorientava: non si era aspettato un’accoglienza simile.
«Sono una Guida anziana, anch’io fra poco prenderò il Volo. Penso alla fine di questo Cammino».
«So che Sole l’ha già fatto».
«Oh sì, è stato pazzesco. La cerimonia c’è stata la settimana scorsa, avresti dovuto vederla: il suo discorso ha commosso tutti quanti. Ora è partita per un altro villaggio. Farà un’ultima esperienza di servizio presso gli Alati e poi fonderà un nuovo Cerchio, da qualche parte».
«Sono molto contento per lei», mormorò Jared.
Rondine non sembrava in uno stato d’animo tale da poter cogliere il disappunto nella sua voce. «Oddio, è fantastico che tu sia qui!», esclamò. «Lei parlava spessissimo di te, ci ha raccontato un sacco di cose. Sarai emozionato».
«Sì», ammise lui. Le sue affermazioni lo imbarazzarono, perché lui non aveva mai parlato di Sole con i suoi amici… non della vera Sole almeno. Aveva sempre usato la storia di Cricket. Solo Alice sapeva che erano stati insieme, e nemmeno lei era a conoscenza di tutta la vicenda.
«Ma come mai questo improvviso interesse? Sole mi ha detto che ha cercato più volte di convincerti a venire qui».
«Prima ero troppo… orgoglioso. Diciamo che stare con lei mi ha fatto capire alcune cose. Soprattutto, ho capito di essere stato ostile senza ragione. Vorrei provare… a superare i miei pregiudizi».
«Be’, questo è lo spirito migliore per essere introdotti al Cerchio».
Aprì la porta d’ingresso. Dentro era abbastanza umido, ma la temperatura era più fresca che all’esterno; le pareti dovevano essere dotate di un qualche rivestimento isolante. C’erano quattordici persone sedute in circolo: undici ragazzi, due adulti dall’aria abbastanza giovane e un altro più anziano. Quando li sentirono entrare, tutti si girarono e li guardarono increduli. Il più vecchio si alzò in piedi. Jared lo osservò per un po’: aveva cespugliose sopracciglia che sovrastavano gli occhi cupi e incorniciavano delle profonde rughe d’espressione, segno che doveva passare parecchio tempo con la fronte aggrottata. Chissà perché, aveva un’aria familiare…
«Rondine… perché hai portato un Grigio nella nostra sede?».
«È Jared, il vecchio compagno di Sole. Ha detto che vuole vedere quello che facciamo qui».
L’uomo lo squadrò da capo a piedi con aria severa, la bocca serrata in una linea sottile. Aveva un aspetto minaccioso. Jared si fece piccolo piccolo sotto il suo sguardo.
«Allora benvenuto, Jared. Perdona l’accoglienza un po’ fredda, come potrai immaginare non siamo abituati a questo genere di visite».
Tutti ridacchiarono, e la tensione scese.
«Io sono Nube Solitaria. Ti presento i ragazzi». Indicò uno per uno i giovani seduti intorno a lui, pronunciando una sfilza di nomi che Jared dimenticò subito. Rispose ai loro cenni di saluto con sorrisi imbarazzati, maledicendosi per quella stupida, stupida idea.
«Su, non fate i maleducati, fate posto a Jared e Rondine».
A quelle parole, gli altri si affrettarono a spostarsi lasciando uno spazio vuoto in cui poterono accomodarsi. Il suolo era freddo e leggermente umido.
«Nella sede principale non c’è il pavimento», gli bisbigliò Rondine all’orecchio. «Ma non è così dappertutto. Solo che veniamo qui soltanto per le riunioni, non c’è nessuno che ci dorme, quindi sarebbe inutile. In realtà io ho sempre pensato che staremmo tutti più comodi mettendo almeno dei pagliericci per sederci».
Jared annuì, ancora pietrificato. Si accorse che c’era un ragazzo che lo fissava in modo particolare: aveva una zazzera di capelli ricciuti e un bel paio di occhi vivaci, ma era piuttosto magrolino e senza un accenno di barba; aveva un aspetto un po’ acerbo.
«Allora, stavamo discutendo delle scorte da portare con noi lungo il Cammino. La commissione addetta al cibo ha deciso qualcosa?».
Un giovanotto ben piazzato gli rispose: «Ci stiamo ancora lavorando. In realtà pensavamo che dovremmo cercare di stare più leggeri possibile, tanto possiamo sempre cacciare o pescare. Se non sbaglio passeremo nei pressi di un lago».
«Sì, ma sai che non possiamo contare solo su quello. Dobbiamo portare delle provviste. Carne essiccata, sale, pane… Dovreste iniziare a prendere un po’ più sul serio queste valutazioni: durante questo Cammino non passeremo attraverso altri villaggi, lo sapete, e non avremo occasioni di fare rifornimento. So che sei ancora una Guida giovane, Vento, ma imparare a gestire queste faccende pratiche ti sarà molto d’aiuto, vedrai».
«Purtroppo le riunioni di questo periodo saranno tutte un po’ noiose», sussurrò ancora Rondine a Jared. «Stiamo organizzando gli ultimi dettagli per il Cammino».
Infatti il resto dell’incontro proseguì su quella linea. I ragazzi riesaminarono con cura il percorso, le tappe da raggiungere ogni giorno e le ore di marcia necessarie – considerando eventuali imprevisti –, le attività da svolgere.
«Siamo noi a organizzarle», spiegò Rondine. «Per ogni Cammino scegliamo un tema, e ogni coppia lavora sull’attività di una giornata legata a quel tema. Quest’anno abbiamo scelto la Legge della Confraternita, perciò ognuno di noi si occuperà di uno o due punti della Legge per il suo giorno».
Jared rimase lì seduto ad ascoltare, sentendosi sempre più stupido e fuori luogo. Capiva poco e niente di quello che dicevano… non era per la lingua, dopo cinque mesi passati assieme a Sole ormai la intendeva perfettamente… ma era come se usassero un linguaggio in codice. Aveva l’impressione che nel Cerchio fosse tutto perfettamente scandito e organizzato, come una macchina ben oliata.
Quando la seduta fu sciolta e vide che gli altri iniziavano ad alzarsi, si alzò in piedi a sua volta. Restò un attimo indeciso sul da farsi mentre i ragazzi chiacchieravano di stupidaggini, non sapendo se avrebbe dovuto dire qualcosa o solo salutare e andarsene. Alla fine stava per avviarsi verso l’uscita quando Nube Solitaria fece un cenno nella sua direzione.
«Ehi ragazzo, mi dispiace che tu abbia dovuto ascoltare tutti questi discorsi noiosi, comunque se vorrai tornare sarai il benvenuto. Che dici, pensi di venire a trovarci ancora?».
«Sì, perché no», rispose Jared sorprendendo sé stesso. «Probabilmente dovrei provare qualche altra volta per… capire meglio».
«Bene, allora. Noi ci riuniamo ogni settimana, di solito il sabato a quest’ora».
«Potresti venire al Cammino con noi», esclamò Rondine in tono esaltato. «Sarebbe così divertente».
Jared restò un po’ spiazzato. Non sapeva che rispondere.
Nube Solitaria lanciò un’occhiataccia alla ragazza. «Non essere affrettata. Jared è venuto da noi solo una volta, il Cammino è un’esperienza faticosa e lui è abituato agli agi della vita cittadina. Non è detto che se la senta». Ora il suo tono era sarcastico.
Jared si sentì punto sul vivo. «No, no… davvero, grazie della proposta. Ci penserò».

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Capitolo 12
*** Volpe Azzurra ***


Dopo la riunione, rimase su di giri per un paio di giorni. Continuava a pensare che fosse un’idea folle, assurda, ma per qualche motivo non riusciva a pensare ad altro.
Andò alla riunione la settimana seguente. E anche quella dopo. Dopo le prime due volte, la gente smise di guardarlo con diffidenza e iniziò ad abituarsi a lui. Si sentì accolto. Non gli accadeva spesso di sentirsi parte di qualcosa, e questa sensazione nuova lo elettrizzò. Del resto, era il loro codice di comportamento: “sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida ed Esploratore”. Era così che diceva sempre Sole, giusto?
Parlò con il ragazzo che l’aveva guardato con tanto interesse alla prima riunione. Si chiamava Volpe Azzurra, ed era un amico di infanzia di Sole; lei gliene aveva parlato più volte. Era molto incuriosito da lui.
«E quindi… sei qui», gli disse, una volta dopo la riunione. Faina – uno di quelli che insistevano sempre per radunarsi al di fuori del Cerchio (non doveva essere il tipo che fa amicizia facilmente) – aveva offerto a tutti una tisana alle erbe che a quanto pareva era la specialità di sua madre. Alla fine però erano rimasti solo lui, Volpe Azzurra, Rondine e Codirosso, il migliore amico di Faina (quei due erano apparentemente inseparabili).
«Eh già. Non me lo sarei mai aspettato neanche io».
«Non so se è mai successo niente del genere prima d’ora. Uno che viene dalla Città nel Cerchio. Roba forte». Volpe Azzurra allargò le braccia per sottolineare l’enormità della cosa. Poi lo guardò con aria maliziosa. «Ma di’ la verità: è per Sole, eh? Cerchi di riconquistarla?».
«No», rispose Jared sinceramente. «So che può sembrare così, ma… be’, lei non è neanche qui in fondo».
«Ma sa che tu sei venuto. E tu sapevi che lo sarebbe venuto a sapere».
Il ragazzo chinò il capo. «Sì», ammise. «Lo sapevo».
«Ne è rimasta molto sorpresa. Aveva provato più volte a convincerti a venire, prima, ma tu non hai mai voluto».
«Sì, è vero. Ma prima era diverso. Prima non capivo un sacco di cose».
«E adesso capisci?».
«No, ma vorrei provarci». Jared strinse la mascella, teso. «Quando Sole se n’è andata, il messaggio che ne ho ricavato… che ho creduto di ricevere forte e chiaro… è stato: “Tu non puoi cambiare”. E quel pensiero mi ha fatto male più di tutto il resto. Perché mi sono reso conto all’improvviso che la persona che fino ad allora avevo difeso a spada tratta… non era la persona che volevo essere. Era quella persona… che lei stava lasciando».
«Quindi sei qui per capire se sei o no quella persona?». Una strana luce brillò negli occhi di Volpe Azzurra.
«Sono qui per capire se c’è un’altra strada. Non ho sessantacinque anni, ho tutta la vita davanti e posso farne ciò che voglio. Posso andare a dare una mano nell’associazione dell’amica di Alice perché questo mi fa star bene, perché mi fa sentire migliore. Posso venire qui e ascoltare voi che parlate di fratellanza e amore universale sforzandomi di non alzare gli occhi al cielo. Ho sempre pensato che questo fosse ipocrisia, ma alla fine… che male c’è? Se fai del bene a qualcuno, non lo fai mai in modo disinteressato, è chiaro. Lo fai perché ti gratifica, perché fa stare meglio te… e questo perché non è vero che l’uomo è un essere solitario. L’uomo è fatto per vivere assieme agli altri».
«Lo stai dicendo per convincere me o te stesso?», domandò Volpe Azzurra in tono furbesco.
Jared ridacchiò. «Nessuna delle due. Riuscire a dirlo ad alta voce senza sentirmi ridicolo è il mio primo obiettivo».
Il ragazzo gli diede una pacca sulla spalla. «È un buon inizio, amico mio… è un buon inizio». Fece una pausa. «E ora che dici, ci vieni al Cammino con noi? Potrebbe essere un’esperienza interessante».
«Penso… penso di sì».
«Lo pensi o ne sei sicuro?».
Jared esitò un attimo. Poi il suo sguardo s’indurì.
«Ne sono sicuro».

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Capitolo 13
*** Partenza ***


Era tutto pronto per partire.
Jared aveva ricontrollato il suo zaino centinaia di volte, passando in rassegna tutto ciò che aveva preso con sé per assicurarsi di non aver scordato nulla. Rondine aveva compilato per lui una lista delle cose essenziali da portare, raccomandandosi di non appesantire eccessivamente il carico per non affaticarsi più del necessario.
A metterlo in guardia sulle difficoltà del Cammino ci aveva già pensato Nube Solitaria. Aveva indetto una riunione speciale con gli altri Alati per ragguagliarlo su tutto ciò che avrebbe dovuto sapere. Seduto a quel tavolo con lui, Cinciallegra e Felce Ribelle (gli altri capi del Cerchio), si era sentito terribilmente in soggezione, tuttavia aveva cercato di darsi un contegno.
«Allora Jared, devo chiedertelo di nuovo, sei del tutto certo di voler intraprendere quest’avventura? Sai già che sarà molto faticoso, soprattutto per te che non sei allenato».
«La fatica fisica non mi spaventa», aveva mentito lui.
«Bene. Passerai una settimana totalmente isolato da tutti esclusi i membri del tuo Cerchio. Durante questi giorni sarai sempre a stretto contatto con loro, so che potrebbe essere difficile visto che li conosci così poco. E una volta partiti non ci sarà modo di tornare indietro».
«Non credo sarà un problema… mi trovo bene con tutti».
«Allora meglio così».
Gli aveva fornito una lunga serie di istruzioni, al termine della quale lui era rimasto piuttosto stordito. Nel vederlo così, Felce Ribelle gli aveva posato una mano sulla spalla: «Non lasciarti intimidire, Nube Solitaria è un capo vecchio stampo, piuttosto ortodosso. Sono sicuro che sarà un’esperienza che ti lascerà il segno. Sicuramente sarà difficile, però non è tutto fatica e sudore: il Cammino è il culmine del nostro percorso, cominciare a questo punto forse è un po’ forzato, è vero, ma entri subito nel vivo, e capisci subito se fa per te oppure no».
Jared lo aveva ringraziato per le sue parole di conforto, un po’ incerto.
L’ultima cosa che gli aveva detto Nube Solitaria prima di lasciarlo andar via era stata: «Ricordati che al termine di questo percorso dovrai decidere se pronunciare o no la Promessa. Se lo farai, sarai a tutti gli effetti uno di noi».
Nei giorni prima della partenza non aveva avuto molto tempo per riflettere: aveva dovuto mettersi sotto a studiare per recuperare il tempo perso. Gli esami erano andati abbastanza bene, considerate le circostanze. Fra una cosa e l’altra, aveva anche dovuto trovare il tempo per incontrarsi con Vento e Rondine per organizzare l’attività della loro giornata. All’inizio era piuttosto teso, credeva che non gli sarebbe venuto in mente niente e avrebbe fatto la figura dello stupido, invece la seduta si era rivelata piuttosto prolifica. Aveva anche scoperto in Vento un ragazzo divertente e alla mano. Si erano presi subito.
Il giorno della partenza, si incontrarono tutti all’ingresso del villaggio, con gli zaini già in spalla. I ragazzi portavano l’uniforme, che consisteva in una casacca di lino molto semplice su cui erano cucite diverse toppe ricamate, ciascuna delle quali - stando a quanto gli avevano spiegato - ricordava qualche successo all’interno del Cerchio, e un fazzolettone a strisce bianche e rosse (ogni Cerchio ne aveva uno di un colore diverso in segno di riconoscimento). Tutti la indossavano. O meglio, tutti tranne Jared. Quando arrivò e li vide tutti lì riuniti perfettamente in tinta, si sentì fuori posto. Ma cercò di ricacciare indietro quella sensazione.
Nube Solitaria – che, come aveva fatto presente in precedenza, non sarebbe venuto con loro – li salutò, e furono ufficialmente pronti ad andare.
Arrivarono a cavallo fino a Corteccia di Castagno, il villaggio più vicino al punto da cui avrebbe avuto inizio il Cammino vero e proprio. Una coppia di muli portava un carro con i loro carichi. Il viaggio durò parecchio, quasi dodici ore, durante le quali fecero solo due soste per non rallentare di troppo la marcia. All’inizio Jared era parecchio elettrizzato: la sua unica esperienza a cavallo risaliva a quando aveva dieci anni e suo padre lo aveva portato a un maneggio vicino casa, e allora aveva cavalcato per mezz’ora entro un recinto di quaranta metri quadri. Ma presto l’euforia iniziale passò, le gambe iniziarono ad atrofizzarsi e la sua unica sensazione persistente divenne lo sfregamento delle cosce contro la sella.
«Usate sempre i cavalli per gli spostamenti lunghi?», domandò a Felce Ribelle, che cavalcava a fianco a lui.
«Di solito sì, ma abbiamo anche altri tipi di cavalcature».
«Sembra piuttosto lento. Come fate se dovete andare davvero lontano?».
«Ci arrangiamo. Facciamo più tappe e ci mettiamo tutto il tempo necessario».
«Ma questo spesso vuol dire parecchi giorni!».
«Sì, è vero, ma comunque capita di rado di doversi allontanare così tanto. Abbiamo tutto quello che ci serve nei nostri villaggi, se poi uno di noi decide di partire per andarsene da qualche altra parte, allora sì, deve affrontare un lungo viaggio. Di solito gli Alati partono per un altro villaggio dopo aver spiccato il Volo, per fondare un nuovo Cerchio o comunque entrare in un Cerchio già formato. Questa è una delle ragioni per cui il Cammino è così importante: ci dà la possibilità di conoscere altri luoghi, altre comunità…».
«E come fate con il commercio?».
«Commercio?». Vento, che stava ascoltando, lo guardò perplesso.
Felce Ribelle sorrise. «Non intendiamo la stessa cosa con questa parola, Vento». Poi si rivolse a Jared. «Noi non usiamo… non ricordo il termine… denaro, giusto?». Aveva pronunciato la parola nella lingua di Jared.
«Sì, giusto».
«Scusa, è che non abbiamo nessun vocabolo equivalente. Comunque i villaggi sono perlopiù autosufficienti, e non abbiamo bisogno di vendere il sovrappiù. Ci sono alcuni scambi tra i vari villaggi, ma niente che non si possa fare tramite bestie da soma. Se ci sono corsi d’acqua, possiamo usare delle chiatte».
«Sì, Sole mi aveva parlato del fatto che non avete nessun tipo di moneta… anche se, francamente, faccio fatica a crederlo. L’uomo ha iniziato a usare il denaro tantissimo tempo fa, per risolvere problemi di ordine pratico, e non riesco a immaginare come si possa organizzare una società senza un sistema di questo tipo. D’accordo per gli scambi – anche se è molto scomodo, c’è sempre il baratto –, ma come fate con la retribuzione del lavoro manuale?».
«Non c’è nessun tipo di retribuzione», rispose semplicemente Felce Ribelle. «I villaggi sono organizzati in modo comunitario, ognuno fa la propria parte. Il lavoro è distribuito a seconda delle esigenze e delle capacità di ciascuno, e la suddivisione delle risorse si basa sullo stesso criterio».
Jared scoppiò a ridere. «E funziona davvero? Cioè vuoi dirmi che tutti fanno quello che devono fare, così, spontaneamente… e vissero tutti felici e contenti?».
«Non dico che vada sempre tutto alla perfezione… però sì, in linea di massima funziona. Intere generazioni di filosofi hanno cercato in tutti i modi di convincerci che una cosa del genere è impossibile, che l’uomo è un animale assetato di sangue pronto ad assalire il vicino per i propri interessi e l’unico mezzo per tenere insieme più esseri umani senza che si sbranino a vicenda è la coercizione, e per tanto tempo le idee di questi filosofi sono andate per la maggiore. Be’, noi nella Foresta abbiamo dimostrato che non è così. Abbiamo mostrato al mondo un nuovo modello di società umana. L’uomo può decidere di sua spontanea volontà di far parte di un organismo più grande e di collaborare al suo funzionamento, senza cercare di prevaricare gli altri… e sai perché? Perché “l’unione fa la forza” non è una frase di circostanza: ciascuno di noi, sottomettendosi alle esigenze della comunità e facendo anche dei sacrifici per essa, ottiene più di quanto potrebbe mai avere se fosse da solo. Basta averne la consapevolezza».
Jared cercò di immaginare qualcosa del genere all’interno della Città. Centinaia di industrie che sfornavano materiali raffinati a partire da materia grezza e li spedivano ad altre industrie per la fabbricazione di ogni genere di manufatti… tonnellate di cibo prodotte ogni anno per sfamare milioni di bocche, e per ciascuna di esse altre industrie che producevano pacchetti, incarti, scatolame… migliaia e migliaia di strade stracolme di veicoli, con un enorme problema di traffico da gestire in ciascun distretto… e la lista era ancora lunga. Scosse la testa: era inconcepibile.
«Un modello simile è possibile solo perché i vostri centri sono piccoli. Vi conoscete tutti, praticamente».
«Sì, infatti probabilmente non reggerebbe in un sistema più complesso. So che stai pensando alla Città, e ti confermo che tutto questo sarebbe assolutamente ingestibile da voi, anche considerando solo i singoli distretti… che poi sono tutti strettamente interconnessi. Tralasciando le enormi difficoltà che si creerebbero a livello amministrativo, come sarebbe possibile controllare l’operato di ogni singolo cittadino?».
«Be’, se come dici tu l’uomo è un essere così ben disposto verso il prossimo, non dovrebbe essere necessario controllarlo, no…? Ognuno farebbe quello che deve fare e tanti saluti». Il tono di Jared era volutamente provocatorio.
L’uomo sorrise. «Vedo che cerchi di cogliermi con le mani nel sacco… ma devi convenire che la situazione è totalmente diversa. In Città l’individuo è solo uno su un miliardo, un piccolo numero fra milioni di milioni di numeri. Come fai a sentirti davvero parte di qualcosa, se quel qualcosa è migliaia di volte più grande di te? Quasi nessuna tua azione ha il potere di influire sul quadro generale. Da noi, se un’idea non convince anche uno solo di noi se ne discute, si valutano le diverse opzioni, si cerca di raggiungere un accordo e solo in casi estremi si mette ai voti. Una cosa simile sarebbe del tutto impensabile in Città. Paradossalmente, abbiamo molto più rispetto per l’individuo nel nostro modello comunitario di quanto ne riservi la vostra società individualista. È normale che a voi serva uno Stato, un’organizzazione politica, e parallelamente un apparato di polizia che controlli che tutto fili liscio. Noi non abbiamo bisogno di niente del genere».
Jared rifletté. In realtà era una cosa a cui pensava continuamente. Gli capitava spesso di sentirsi così… una nullità, in un mare impetuoso in cui non poteva far altro che annaspare seguendo la corrente, e ogni tentativo di invertire la rotta era una fatica mortale… destinata il più delle volte al fallimento. Quando camminava per strada, nessuno lo guardava mai in faccia. A nessuno importava chi fosse, come si chiamasse, dove stesse andando o se era stanco, affamato, felice… o disperato. E anche lui aveva sempre fatto lo stesso. Aveva sempre considerato tutto questo la normalità. Ma al villaggio… e ancora prima tramite le parole di Sole (a cui però aveva riservato quasi sempre solo scherno)… aveva conosciuto qualcosa di diverso. Ed era bello. Era bellissimo. Eppure… qualcosa di lui continuava a credere che la scelta fosse obbligata: secoli di siccità, carestie, disastri naturali ed epidemie avevano portato l’uomo al progresso scientifico… e alla Città. Con tutti i suoi annessi e connessi.
«È il prezzo da pagare per un livello di organizzazione così alto», disse infine.
Felce Ribelle sorrise nuovamente, bonario. «Tutto sta nel capire se un simile livello di organizzazione è necessario oppure no».
«Certo che è necessario», ribatté Jared, iniziando a scaldarsi. «Come potremmo altrimenti curare tutte le malattie che siamo in grado di curare oggi? Come potremmo, senza ospedali e medici specializzati, avanzati programmi di ricerca… Come potremmo dar da mangiare a miliardi di persone senza che nessuno corra il rischio di morire di fame per una cattiva annata o un incendio? Siamo andati sulla luna, e di recente anche su Marte. Avremmo potuto farlo, forse, senza l’ausilio delle moderne tecniche di ingegneria aerospaziale di cui disponiamo al giorno d’oggi? L’uomo è diventato grande, grazie a tutto questo. Non sarebbe stato possibile altrimenti. E un giorno, da qualche parte, una calamità che con le vostre tecniche rudimentali non siete in grado di affrontare vi ridurrà in fin di vita, e sarete inermi di fronte alla forza della natura come qualsiasi altra bestia. Quel giorno, chiederete il nostro aiuto».
Dopo quell’arringa, cadde il silenzio. Il ragazzo si rese conto di aver parlato con più veemenza di quanto fosse sua intenzione, e se ne vergognò. Tuttavia, sapeva di parlare di fatti, e i fatti – a differenza delle correnti filosofiche – non si possono ignorare né contraddire.
Passò qualche minuto senza che nessuno aggiungesse nulla, poi Rondine prese la parola. «Hai ragione», disse, con inattesa dolcezza. «L’uomo non avrebbe potuto fare nessuna delle cose che hai nominato, senza la Città. Ma sono davvero queste cose, a rendere grande l’uomo? E poi c’è un altro fatto da tenere in considerazione: questo stile di vita, condotto su vasta scala, stava distruggendo il pianeta. Nessuno ha mai detto che fosse semplice. Ma non esiste un modo facile di distribuire ragione e torto in questa situazione».

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Capitolo 14
*** La Legge ***


Arrivarono a Corteccia di Castagno quella sera.
Il sole stava per tramontare e colorava le foglie di un caldo rosso-aranciato. Jared osservò affascinato un uccellino posarsi su un rametto proprio all’altezza del disco lucente, finché l’abbaglio del sole non lo costrinse a distogliere lo sguardo. Si stropicciò gli occhi indolenziti, e con un gesto automatico si guardò il polso in cerca dell’orologio – salvo poi ricordarsi che gli era stato proibito di portare qualsiasi dispositivo elettronico con sé durante il Cammino. Sorrise. Ormai era diventata talmente un’abitudine che gli faceva strano non aver modo di sapere con esattezza che ora fosse. Comunque doveva essere tardi, quasi le otto: le giornate si erano allungate dall’ultima volta in cui ci aveva fatto caso. Che strano: sembrava passato un attimo da quell’incredibile inverno. Possibile che quei mesi non fossero mai esistiti? Che fossero stati solo una parentesi sospesa tra la sua vita di prima… e quel momento?
Per quella sera, alloggiarono al villaggio. Vennero accolti presso la sede del Cerchio locale, che si premurò di fornire loro coperte e cibo caldo.
«Non fatevi viziare troppo», li canzonò Cinciallegra. «Questa sarà l’ultima notte in cui godrete di simili comodità. Dopodiché saranno solo sassi e carne essiccata».
«Visto?», bisbigliò Rondine all’orecchio di Jared, indicando i giacigli su cui avrebbero dormito. «Qui hanno persino dei letti per ospitare gli stranieri. Lo farò presente a Nube Solitaria la prossima volta che mi dirà che non ci servono dei pagliericci in sede».
Dormirono un po’ stretti, ma ragionevolmente comodi. La mattina seguente Cinciallegra buttò tutti giù dal letto all’alba.
«Gambe in spalla! È ora di rimettersi in marcia».
Lasciarono i cavalli lì a Corteccia di Castagno per partire a piedi con i loro zaini. Il primo turno per portare la tenda fra quelli del suo gruppo era di Jared, che presto si pentì di aver fatto lo spaccone, il giorno prima, quando diceva che il suo carico non era per niente pesante. «Ce la faccio benissimo», aveva detto. «Diciotto chili sulla schiena non sono terribili come pensavo». E si era offerto di portare la tenda per primo. Pessima idea. Ora, dopo solo mezz’ora di marcia, le spalle gli bruciavano per il dolore.
Camminarono tutta la mattina. All’inizio Jared credeva di non farcela, ma dopo che ebbe preso il ritmo gli sembrò tutto molto più semplice. Del resto, tutto ciò che doveva fare era mettere un piede dopo l’altro. Uno. Due. Uno. Due. E magicamente avevano superato un dislivello di duecento metri, e poi trecento, e lui non doveva far altro che mettere un piede dopo l’altro.
A un certo punto, Volpe Azzurra si mise a cantare una canzone, e tutti lo seguirono a ruota:
«Nella neve e la bufera
marcia il bravo Esplorator.
Gambe in spalla! Mano al cuor!
Che la meta dista ancor.
Giungerò dalla mia bella,
prima che finisca il dì,
e avrò pronta una storiella
per tenerla inchiodata lì.
Narrerò dell’usignolo
che cinguetta in mezzo al bosco,
del veloce capriolo.
Il bosco è nostro! Il bosco è nostro!».
«È carina», disse Jared quando ebbe finito.
«Una canzoncina degli Esploratori. Abbiamo un repertorio infinito».
«Non sei male a cantare. Suoni qualcosa?».
«La chitarra». Volpe Azzurra fece un sorriso furbesco. «Ce l’ho nello zaino, stasera al falò ti faremo sentire un po’ di cose».
«Non è così leggera da portare dietro, una chitarra», ridacchiò Jared.
«Ma ne vale la pena».
Si fermarono a pranzare in uno spiazzo erboso. Mangiarono qualche striscia di carne essiccata e della frutta secca per recuperare le energie: la sera, dopo essersi sistemati e aver esaurito le attività della giornata, avrebbero consumato un pasto più serio.
Il primo turno spettava a Cinciallegra e Narvalo – un ragazzone robusto con cui Jared non aveva ancora mai parlato, ma gli era sembrato un tipo alla mano.
«Io e Cinciallegra volevamo proporre un gioco, prima di iniziare», disse, dopo che gli altri si furono seduti in cerchio. Tirò fuori un foglio e ci scrisse sopra tre parole, poi lo posò al centro. «Dovete dividervi a gruppi e cercare questi tre fiori nei dintorni, e poi portarli qui».
Jared sbirciò i nomi dei fiori, dubbioso: “guacciabiglia”, “zimbala” e “aspisia”.
«Mai sentiti», fece Rondine dopo averli letti. «Non avete per caso una descrizione… delle immagini… così sappiamo cosa cercare».
Narvalo scosse la testa. «Spiacente, dovrete tirare a indovinare».
«Quindi cerchiamo solo più fiori che possiamo, sperando che siano fra questi?».
«E come ci dividiamo a gruppi?», chiese Vento. «Deve essere lo stesso gruppo della tenda? Oppure facciamo a squadre?».
Il ragazzo allargò le braccia. «Fate come volete. Potete anche andare per conto vostro».
«Ma come?!».
«Sei sicuro che questa roba esista sul serio?», chiese Chiodo di Garofano, grattandosi il mento. «Questi fiori hanno dei nomi parecchio strani».
«Non fatevi tutti questi problemi», disse Narvalo. «Andate solo a cercarli».
Vento scrollò le spalle e si alzò. «D’accordo. Quanto tempo abbiamo?».
«Tutto il tempo che desiderate».
Il giovane alzò un sopracciglio, ma non fece più domande.
Si divisero. Codirosso si avviò con Faina, Volpe Azzurra con Felce Ribelle e Vento, Chiodo di Garofano con Alpaca (che a quanto pareva era la ragazza di Narvalo), e Jared con Rondine. Talia andò con Dalia, naturalmente… quelle due stavano sempre appiccicate, e parlavano poco col resto del gruppo. Jared aveva anche provato ad attaccarci bottone quella mattina, ma non aveva ricevuto un gran risultato: Talia si era fatta male ad un ginocchio prima di partire e camminare le costava molto dolore; non sembrava avere una gran voglia di fare conversazione.
Jared e Rondine non sapevano da dove iniziare. Non c’erano molti fiori in quella zona, per cui dovettero setacciare attentamente il prato e ogni cespuglio che incontravano sulla strada. Alla fine racimolarono un mazzolino di fiori dall’aria piuttosto comune e un paio di piante un po’ più bizzarre… e trovarono anche uno strano fungo violaceo, che Jared inizialmente voleva raccogliere, ma Rondine glielo sconsigliò calorosamente.
«Non toccare mai qualcosa nella Foresta se non sai esattamente cos’è. Potrebbe essere velenoso».
Jared rise. «E tu non lo sai? Mi sorprendi. Vivi qui da quando sei nata e non sai riconoscere un fungo».
«Sono sempre stata un disastro come raccoglitrice», ammise lei. «Nel nostro gruppo, quella brava era Sole. Voleva fare la Guaritrice… ma immagino tu lo sapessi già. Se ci fosse stata lei, adesso, avremmo vinto a mani basse».
«Sì, probabilmente sì». Impaziente di cambiare argomento, Jared disse: «Tu pensi che ci stiano prendendo in giro?».
«È possibile. Ma cerchiamo un altro po’, prima di tornare alla base».
Quando arrivarono, il gruppo di Chiodo di Garofano era già lì, e aveva raccolto solo un mucchio di sterpaglia. Rondine espose con fierezza il loro mazzolino. Un po’ alla volta arrivarono anche gli altri.
«Bene», disse Narvalo quando furono tutti riuniti. «Adesso che siamo al completo, vorrei dichiarare i vincitori. Sono Chiodo di Garofano e Alpaca».
Questi esultarono e si diedero il cinque.
«Ehi, aspetta un attimo», protestò Rondine. «Non mi dirai che in mezzo a quell’erbaccia ci sono anche i fiori che hai detto!».
«Non ho detto questo», ribatté lui. «Ho semplicemente detto che sono stati loro a vincere. Non avevamo stabilito dei criteri di vittoria. Non avevamo stabilito un bel niente, in realtà. Quindi io decreto che i vincitori sono loro perché sono arrivati per primi».
«Ma non è giusto!».
«No, infatti, ed è proprio questo il punto». Narvalo li guardò uno per uno. «Durante questo Cammino, abbiamo deciso di analizzare insieme i punti della nostra Legge. Prima di cominciare, ho ritenuto opportuno fermarci a riflettere sul concetto stesso di legge, e sul perché abbiamo bisogno di una legge. Il piccolo giochino che abbiamo fatto serviva a questo. Vi abbiamo mandati a cercare in giro dei fiori che… come avrete immaginato… non esistevano. Avete raccolto un po’ di piante a casaccio, riunendovi in gruppi composti da un numero arbitrario di persone (il che avrebbe messo per forza di cose dei gruppi in vantaggio rispetto agli altri), e avevate un tempo indeterminato a disposizione. Alla fine a vincere sono stati quelli che hanno fatto prima, per una decisione presa da me sul momento ma che non era tra le condizioni iniziali del gioco, e naturalmente quelli di voi che si sono impegnati di più nella ricerca si sono sentiti offesi. E giustamente, aggiungerei». Allargò le braccia. «Non c’è nessun divertimento in un gioco senza regole. Sono le regole a definire il campo d’azione, un campo d’azione in cui ci muoviamo tutti in accordo con gli altri, perché siamo stati noi stessi a sceglierle e ad accettarle».
Vento alzò gli occhi al cielo. «Quindi ci hai fatto scorrazzare per un’ora nel bosco cercando delle cose inesistenti. Lo sapevo, sei proprio un cazzone».
«Be’, comunque non sempre siamo noi a scegliere le regole del gioco», disse Jared. «A volte le regole ci vengono imposte, e noi le subiamo e basta».
«Ma quando fai parte di una comunità, automaticamente scegli di seguire le regole di quella comunità», ribatté Felce Ribelle. «Si tratta comunque di una scelta. Ti è sempre concesso andartene, se quelle regole non ti stanno bene».
«Andare dove? Dovunque andrai, ci saranno sempre regole già esistenti che a te non vanno bene».
«Puoi cercare di cambiarle», disse Narvalo. «Non ha senso scappare ogni volta che qualcosa non ti va giù. Puoi restare, e fare del tuo meglio perché le cose vadano per il verso giusto. Parlare con gli altri per capire se davvero quella regola che non ti piace è sbagliata, o ci sono delle cose che non capivi e che puoi imparare ad apprezzare… e se continui a pensare che sia sbagliata, allora cercare di far cambiare idea anche agli altri».
«E nel frattempo che fai? Segui quella regola, oppure fai di testa tua?».
«Non puoi fare di testa tua, quando fai parte di una comunità», si intromise Chiodo di Garofano. «Se nel tuo villaggio la legge vieta l’omicidio e tu vai in giro ad ammazzare la gente, non puoi pensare che vada bene, anche se tu pensi che l’omicidio sia giusto».
«Ma non tutte le leggi sono come “non uccidere”. Non tutte riguardano qualcosa che nuoce gli altri. Andiamo… vi vantate tanto del fatto che la vostra Legge è una legge positiva, che non impone divieti ma invita a fare, a coltivare buoni sentimenti e buoni pensieri. È chiaro che non posso infrangere una legge che riguarda la pacifica convivenza, se voglio far parte di un gruppo… ma per quanto riguarda le leggi che regolano la sfera intima della persona?».
«Nessuno può importi cosa pensare, certo».
«Non sono d’accordo», disse Volpe Azzurra. «Cioè… certamente nessuno può importi cosa pensare. Però, come hai detto tu, la Legge del Cerchio è una legge positiva, che ci dice cosa dovremmo impegnarci a fare per essere delle buone Guide. È quell’impegno ad accomunarci. Se già in partenza non sei disposto a impegnarti per quelle cose, a che pro entrare nel gruppo?».
Jared si sentì punto sul vivo da quelle parole.
«Andiamo, non essere drastico», disse Felce Ribelle. «Entri nel gruppo perché sei alla ricerca di qualcosa. Tutti noi siamo alla ricerca».
«Sì, ma alla base della ricerca c’è il presupposto che sei disposto a mettere in discussione quello che pensi. Altrimenti potrai andare in giro per tutto il tempo che vorrai, ma per tutto il tempo crederai di trovare solo le cose che già conosci». Volpe Azzurra guardò Jared dritto negli occhi, e lui rispose all’occhiata.
Dopo un lungo silenzio, Cinciallegra si fregò le mani. «Bene, direi che adesso possiamo montare le tende e dare inizio alle attività della giornata».
A Jared occorse un po’ per capire come infilare la paleria nel telo affinché la tenda stesse in piedi e quale fosse l’angolazione adatta per ficcare i picchetti nel terreno per fissarla. Vento gli diede una mano con i passanti e gli spiegò la procedura pazientemente. In realtà era abbastanza semplice. Poi Narvalo e Cinciallegra introdussero le attività vere e proprie del giorno, sulle leggi “Pongono il loro onore nel meritare fiducia” e “sono leali”. Per la prima, dopo aver fatto un lungo discorso sul significato della legge in sé, Cinciallegra propose lo stupido giochino che Jared ricordava di aver visto fare molte volte da ragazzino, quello di buttarsi bendati all’indietro fiducioso che il compagno alle proprie spalle fosse lì a prenderlo, e mentre gli altri si divertivano ad acchiapparsi tra gridolini spaventati e risate lui si defilò senza farsi notare. Che gioco stupido. Per la seconda legge Narvalo aveva proposto invece una lettura dell’Antigone, che trovò più interessante, soprattutto perché l’aveva studiata a scuola. Sorse una bella discussione, sulla linea di quella iniziata dopo pranzo.
Quando iniziò a farsi buio, accesero il fuoco. Volpe Azzurra creò un focolare disponendo delle pietre in circolo, e poi fece una specie di capanna di rametti, all’interno della quale ficcò un mucchietto di carta facilmente infiammabile cui diede fuoco servendosi di una pietra focaia. Quando la fiamma attecchì, iniziò a disporre velocemente altri rami in modo ordinato intorno alla capannetta per alimentarla. Jared osservò tutta l’operazione affascinato.
Costruirono una sorta di braciere su cui disposero le pentole per cucinare. Cenarono allegramente, parlando del più e del meno, poi come promesso Volpe Azzurra tirò fuori la chitarra e iniziarono a cantare. Jared naturalmente non conosceva quasi nessun brano, a parte quei pochi che gli aveva insegnato Sole, ma cercò comunque di seguire.
Dopo un po’ i ragazzi si alzarono in piedi e iniziarono una specie di danza intorno al fuoco. Biascicando una strana litania, giravano in tondo spingendo a turno le persone al centro, dove si pavoneggiavano un po’ con qualche mossa particolare. Quando fu il suo turno di essere spinto vicino alle fiamme, Jared inizialmente arretrò d’istinto, colpito da quel calore improvviso, poi accennò qualche gesto imbarazzato e si affrettò a tornare nei ranghi. Dopodiché gli altri iniziarono una serie di strani giochini… solitamente c’era uno che prendeva l’iniziativa e attaccava una canzoncina cantilenante accompagnata da alcuni gesti che gli altri ripetevano… e a Jared ricordarono tanto quelli che facevano al centro estivo, quando suo padre lo costringeva ad andarci (ancora sentiva la voce dell’animatrice nella testa: “C’è un buco nel secchio, Arturo Arturo…”).
Quando si sedettero di nuovo e tornarono alla normalità, Volpe Azzurra gli diede una gomitata e ridacchiò sotto i baffi. «Ti saremo sembrati degli strampalati. I ban effettivamente possono sembrare parecchio strani, se non sai di che si tratta».
«Ban?».
«Sta per “ballo animato”. Si usano per animare il fuoco di bivacco e riempire i momenti morti. Alla nostra età potrà sembrare un po’ infantile, ma ti assicuro che quando sei Esploratore ti diverti da morire. Poi la parte migliore è quando capita di incontrare altri Cerchi e puoi farli insieme a loro, e imparare dei ban nuovi. Crea un legame forte, con persone che non conosci».
«Non me la sono mai cavata molto con queste cose ritualistiche», disse Jared imbarazzato. «Mi sento un po’ ridicolo. Mia madre è cattolica, quando ero piccolo mi portava a messa, qualche volta. Una volta mi hanno raccontato di avermi chiesto che cosa ne pensassi della chiesa, se mi piacesse andarci insomma, e che io alzai le spalle e risposi: “È tutto un alzarsi e sedersi”».
Volpe Azzurra scoppiò a ridere. «Forte».
Gli appoggiò una mano sulla spalla, con naturalezza, come se fossero vecchi amici. Jared inizialmente si irrigidì, poi si rilassò e sorrise.

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Capitolo 15
*** Buco nero ***


I giorni seguenti trascorsero in modo simile. La mattina, macinavano chilometri. Poi si fermavano per pranzo e trascorrevano il pomeriggio fra le varie attività.
Quando venne il turno del loro gruppo, Jared era nervoso. Vento e Rondine avevano organizzato l’attività sulla legge “amano e rispettano la natura”: avevano compilato delle schede con caratteristiche e immagini relative ad alcune delle piante più comuni nel posto (tutte reali, a differenza dei fiori strampalati di Narvalo), e ognuno doveva cercare di trovarne quante più possibili e piantare nelle vicinanze dei semi dello stesso tipo, in segno di collaborazione alla vita della Foresta. Rondine aveva anche insegnato agli altri come costruire un “nefoscopio”, uno strumento realizzato disegnando una rosa dei venti su uno specchietto per poter indovinare la direzione delle correnti d’aria tramite il movimento delle nuvole, con l’aiuto di una bussola.
Jared si era occupato della parte relativa alla cortesia. Fece sedere tutti in circolo e raccolse un grosso ramo.
«A scuola abbiamo fatto un corso sull’antica Grecia», disse, dopo essersi alzato in piedi. «Durante i simposi, i Greci usavano un ramo di mirto – sacro a Venere – per passarsi la parola. Chi aveva il ramo, parlava. Gli altri ascoltavano». Guardò i ragazzi radunati attorno a lui. «Noi non siamo qui per recitare poesie e questo non è un ramo di mirto… ma faremo la stessa cosa in segno di rispetto, perché la cortesia ha come scopo principale quello di preservare la bontà della comunicazione. Così tutti potranno parlare senza essere interrotti».
Gli altri trovarono divertente questa sua trovata.
Il gioco era semplice: si faceva girare al centro il ramo (opportunamente scheggiato a un’estremità), e chi veniva indicato estraeva un bigliettino e leggeva la domanda che c’era scritta. Si trattava di situazioni – spesso anche un po’ inverosimili – in cui veniva richiesto come avrebbe dovuto comportarsi la persona in una circostanza simile. Jared aveva creduto che sarebbe sembrato ridicolo, ma invece si divertirono tutti un mondo e sorsero delle discussioni interessanti.
Il quinto giorno, fecero l’ultima sosta prima di arrivare alla Valle. Felce Ribelle aveva parlato di un centro abitato, quindi Jared fu piuttosto sorpreso quando si fermarono presso un gruppetto isolato di case in cima a una collina.
Li ospitò una donna anziana dall’aria indaffarata, che li accolse in modo spiccio e poi corse in un’altra stanza senza troppi complimenti.
«Tipa strana», commentò Vento, poi lasciò cadere a terra lo zaino e tutta la sua attenzione si concentrò sul cibo.
Diedero inizio alle attività, ma per tutto il tempo Jared non poté fare a meno di seguire i movimenti della donna, che continuava a entrare e uscire dalla camera portando vasetti con strani impiastri e altri oggetti. Aveva la fronte imperlata di sudore.
Quando ebbero finito, si avvicinò per sbirciare, incuriosito. Vide la donna al capezzale di un uomo dall’aria piuttosto malridotta, che emanava un terribile fetore. Storse il naso.
«Ah, sei qui», disse lei, guardandolo con la coda dell’occhio. «Tu devi essere il ragazzo che viene dalla Città».
«Sì, signora».
«Ti sorprendi che non sia sconvolta alla vista di uno come te da queste parti? Sono una Guaritrice, giovanotto e sono molto vecchia. I miei occhi hanno visto ogni genere di cose. Tu non sei di certo la più strana».
Una Guaritrice! Quel pensiero fece saltare il cuore in gola a Jared.
Restò lì impalato, finché lei non gli fece cenno di avvicinarsi. Obbedì, muovendosi con circospezione, e si sedette al capezzale dell’uomo. Era sudato e ansimava. D’un tratto spalancò gli occhi, e guardò la Guaritrice con espressione colma di panico misto a speranza. Poi li richiuse.
La donna sospirò. «Detesto quello sguardo», disse. «Quello sguardo denso di aspettative che accende gli occhi delle persone cui ho appena diagnosticato un male incurabile. “E adesso?”, sembrano dire quegli occhi. Come se aspettassero che io tiri fuori dal cappello la cura miracolosa che li salverà. Non c’è spazio per il dubbio in quegli occhi, solo una speranza morbosa… la fiducia disperata della vita che non vuole - non può - accettare la fine». Nel frattempo passò una spugna umida sulla fronte dell’uomo. «E la supplica - lo so bene - fa presto a trasformarsi in assurda pretesa, in un pianto isterico o, peggio, in rabbia, come se li stessi privando di qualcosa che è un loro diritto inalienabile. E la cosa peggiore è che hanno ragione. Senza dubbio lo è: senza dubbio la vita è un diritto intoccabile e sacro. Il problema è che non sono io a negarglielo… anche se è da me, da questo misero e debole essere umano, che vengono a rivendicarne l’applicazione». Guardò Jared. «A te tutti questi impacchi sembreranno sciocchi trucchi da fattucchiera… e non guardarmi con quell’aria da pesce lesso, so che non abbiamo tutti gli strumenti dei vostri stupidi ospedali. Ma neanche i vostri chirurghi più esperti possono fermare la morte, quando ha deciso dove colpire».
«Immagino di sì», mormorò Jared.
La donna sospirò. «Guarda». Indicò fuori dalla finestra, dove stava un albero avvizzito. «Quello è l’albero di quest’uomo. Sai come funziona, non è vero? Ognuno di noi è legato dalla nascita ad uno di questi alberi… è ciò che ci tiene ancorati alla Foresta. E quell’albero sta lentamente morendo. Quest’uomo vivrà al massimo un altro paio di settimane, e io non posso farci niente. Eppure sto qui a tirarlo per i capelli per non farlo andar via». Ridacchiò – una risata rauca. «Siamo bestioline ostinate, noi esseri umani, eh? Anche quando sappiamo che non c’è più niente da fare, continuiamo lo stesso ad affannarci per tirare fuori il coniglio dal cappello». Fece una pausa. Poi scosse il capo come per scrollarsi di dosso qualcosa. «Detesto quegli occhi. Li odio. Ti si appiccicano addosso come un insetto, ti avviluppano nelle loro spire e non ti abbandonano neanche quando quella creatura alla fine si arrende e se ne va, ridotta all’ombra di sé stessa. E poi tornano a trovarti in sogno. Ma la cosa che detesto di più…» – sospirò – «è il dover deludere quegli occhi. La frustrazione. L’impotenza. Vedere quelle teste basse che si allontanano da me, dalle mie mani inette. Avere la consapevolezza bruciante di non essere stata in grado di aiutarli». E a quelle parole, finalmente lo guardò e i suoi duri lineamenti si distesero in un’espressione dolce, benevola. «Non so perché, ma tu mi sembri uno che va forte con le cause perse. Oppure non saresti qui, no? In mezzo a un branco di quelli che ai tuoi occhi devono sembrare dei primitivi, al fianco di una povera vecchia che sfida la morte con impiastri e bastoncini». Storse la bocca. «Ho sempre pensato che prima o poi avrei finito per trasferirmi in Città… ma forse ora sono troppo vecchia».
Quella conversazione lasciò Jared molto scosso.
Non sapendo bene che fare, se ne andò in un angolo a mettere in ordine il proprio zaino. Rondine gli aveva ripetuto più volte che tenere in ordine lo zaino era una delle cose più importanti, durante il Cammino, perché così era certo di avere sempre tutto a portata di mano. Mise da una parte la busta in cui teneva i vestiti sporchi, ripromettendosi di lavarli non appena avesse trovato una fonte.
«Tutto a posto?», chiese Volpe Azzurra, vedendolo pensieroso in disparte.
Jared rise nervosamente. «Sì, sono solo…». Sospirò. «Niente».
Il ragazzo lo osservò a lungo, in silenzio. «So che scrivevi a Sole», disse dopo un po’.
Jared fu preso in contropiede. Strinse i pugni, ma non disse nulla.
«Quando ti ha lasciato… avete continuato a sentirvi. La maggior parte della gente non lo sa, perché le comunicazioni fra la Città e il Popolo della Foresta ormai si limitano praticamente a questioni burocratiche… ma all’epoca della Secessione molti di quelli che abbandonavano le metropoli avevano ancora dei legami con coloro che restavano, e così fu istituito un servizio postale anche fra di noi. Ed è ancora funzionante… e incredibilmente rapido, tutto considerato. Io non lo sapevo. È stata Sole a dirmelo, quando ha iniziato a ricevere le tue lettere».
Jared serrò la mascella. «E allora? Che importa? Sì, le scrivevo. Le ho scritto per un bel po’. Ma ora è tutto finito».
«Le hai detto delle cose pesanti».
«Ho detto un sacco di cose stupide. Ero fuori di me».
«Le hai detto che la ami».
Jared rimase paralizzato. Aprì la bocca per parlare un paio di volte, poi la richiuse. Scosse il capo rabbiosamente. «Ho detto un sacco di cose stupide», ripeté.
«Questa non mi sembra una cosa stupida. O almeno, non credo che lo sia sembrato a lei».
«Ah sì?», ringhiò il ragazzo, voltandosi di scatto con una vena che pulsava sulla tempia. «Be’, io credo di sì. Mi ha trattato come se mi fossi bevuto il cervello. E probabilmente aveva ragione. Non c’è niente di cui discutere».
Volpe Azzurra lo guardò con aria comprensiva. «Non voglio obbligarti a parlarne… cerco solo di capire. Non devi dirmi nulla, se non ti va».
Jared si massaggiò le tempie. «No, no… non è che non voglia parlarne, è che… Mi sembra tutto così patetico, e detesto essere patetico». Si guardò le mani, imbarazzato. «Fra me e lei è stato una specie di colpo di fulmine. Non sapevamo nulla l’uno dell’altra… accidenti, non parlavamo neanche la stessa lingua… eppure abbiamo sentito entrambi quella sintonia. I mesi che abbiamo passato insieme sono stati una fatica continua. Lei mi ha parlato di un muro fra noi, e aveva ragione, anch’io l’ho sentito. Era lì, due metri di filo spinato che a tratti ferivano entrambi, costringendoci a stare lontani per un po’».
«Mi ha detto che non riuscivate più a parlare di nulla, da tanto tempo».
«Sì, è così. Passato l’idillio delle prime settimane, la distanza fra noi ha iniziato a sedimentarsi, strato su strato. Non so dire bene quando sia iniziato, quale sia stato il fattore scatenante… però è stato presto, questo è certo. Lei mi faceva sentire… giudicato. Non compreso. Non lo faceva apposta, è chiaro, però era così. Era sempre dannatamente complicato… ogni discussione una guerra, una questione di principio. E nonostante tutto io non ho mai smesso di provare quello che provavo all’inizio. Mai. C’è stato un unico momento… ed è stato circa una settimana prima che ci lasciassimo… in cui l’ho sentito chiaramente. Eravamo in Città, sull’autobus. Non ricordo di che parlassimo. A un certo punto lei mi ha detto che quel fine settimana non avremmo potuto vederci perché aveva parecchi impegni col Cerchio, ma non è stato quello, forse qualcosa che ha detto dopo, forse niente di particolare in realtà. L’ho guardata in faccia, e davanti a me in quel momento ho visto una completa sconosciuta. Stavamo lì, l’uno davanti all’altra, annaspando nel tentativo di trovarci, quando eravamo probabilmente consapevoli del fatto che entrambi avremmo voluto essere da qualche altra parte».
Per qualche secondo, l’unico suono udibile fu il crepitio del fuoco, che Felce Ribelle aveva acceso poco prima. Jared fissò le lingue ardenti che guizzavano fra i ciocchi di legno divorandone la polpa a poco a poco, e per un istante gli parve di intravedervi la sagoma di un cavaliere che galoppava in cima a una collina. Era uno spettacolo ipnotico.
«Eppure sei rimasto con lei».
«Sì. Volevo provarci». Il ragazzo chinò il capo. «Perché anche se era così maledettamente difficile, per me ne valeva la pena. È così che ci siamo conosciuti, per l’amor del cielo. Venivamo da due mondi completamente opposti: il nostro incontro è stato una collisione. All’inizio pensavo che questa fosse la nostra maggiore forza». Guardò di nuovo il fuoco, dove il cavaliere era sparito per lasciare il posto a una belva agonizzante – forse la preda dello spavaldo fantino. «Io per lei mi sono messo completamente in discussione… anche se forse non è riuscita a sentirlo più di tanto perché in fondo non mi conosce, e non capisce il significato di tante cose… Ogni nostra discussione, anche quando le rispondevo a pesci in faccia (anzi, soprattutto in quei momenti), mi portava a lunghe ore di riflessione su di me, sulla mia vita, su tutto ciò che avrei voluto cambiare. Per lei non era lo stesso. Lei non ha mai messo in discussione nulla». Allargò le braccia. «Non gliene faccio una colpa… quando le ho scritto che io avevo visto le nostre differenze come una sfida, ma come una sfida che volevo affrontare, lei mi ha semplicemente risposto: “E se io non volessi? Se io non volessi affrontarle?”. Ed è effettivamente così. Io volevo, lei no. Io provavo dei sentimenti, lei no. Semplice. Molto semplice».
Volpe Azzurra fece una smorfia. «In effetti, nella maggior parte dei casi purtroppo si tratta solo di questo».
Jared annuì debolmente. «Certo, è chiaro che ci teneva, che mi voleva bene… forse mi vuole bene anche adesso, nonostante tutto quello che le ho vomitato addosso… ma non sono mai riuscito a liberarmi dalla sensazione che facesse la maggior parte delle cose per senso del dovere. Come se sentisse di dover portare avanti quello che aveva iniziato, e assecondare quella scintilla iniziale che per lei si era già spenta. Lei era un’aspirante Guaritrice. Come quella donna con cui parlavo un attimo fa. E io il suo caso perso, a cui non voleva rinunciare. Ma alla fine ha rinunciato».
«Io credo che tu sia ingiusto. Non la conosci abbastanza per dire queste cose. Lei mi ha detto che continuavi a infuriarti perché pensavi ti desse spago solo per compassione o senso di colpa, e non sapeva come riuscire a farti cambiare idea».
«Be’, è molto difficile pensare qualcosa di diverso. Quando una persona ti dice che non c’è possibilità di dialogo, che cosa resta da dirsi? Ma io non sopporto i tagli netti, e così ho continuato a scriverle. Sai, per tanto tempo sono stato convinto di voler stare da solo, o quantomeno che la solitudine fosse la cosa che mi si addiceva di più. Ma non è vero. Passo la vita a cercare porte aperte, e appena ne trovo una devo entrare ed esplorare tutto. Amo passare il tempo nelle stanze degli altri. Il tempo passato solo nella mia stanza, o peggio, vagando per il corridoio, è solo tempo di buio e nulla». Jared si stupì delle proprie parole. Non era del tutto certo neanche lui di cosa significassero, ma Volpe Azzurra sembrò cogliere al volo.
«Sono d’accordo. È sempre meglio discutere con qualcuno, piuttosto che con la propria testa».
Jared si guardò le mani. «L’ho odiata, per un po’». Rialzò la testa. «Ma poi ho capito che è molto più difficile odiare che amare una persona. Per odiare occorrono molta coerenza e determinazione. Per amare basta assecondare un istinto naturale che alberga nel nostro spirito, nella nostra carne».
«È vero: un vento improvviso ti attraversa e fa vibrare certe corde, e uno strano calore ti invade. Ma poi di colpo quell’aria ti fa sentire esposto, nudo, e ti ritrai. Per me è stato così, con Rondine». Volpe Azzurra ridacchiò nervosamente. «Probabilmente non lo sai, ma un tempo sono stato cotto di lei».
«Maddai!». Jared scoppiò a ridere. «Non l’avrei mai detto».
«Invece sì. Quando mi sono dichiarato e lei mi ha dato due di picche, pensavo non mi sarei più ripreso. A volte mi chiedo… se sia voluto, questo strano gioco di attrazione e repulsione. Forse una qualche legge fisica ci tiene bloccati a una certa altezza di una curva di potenziale, che ci impedisce di allontanarci più di un tot, ma allo stesso tempo non ci consente di compenetrarci, mantenendoci lì, in orbita verso un qualche centro o una moltitudine di centri».
«O forse sono gli strascichi dell’ira di Zeus. Dopo che ha separato i famosi ermafroditi del Simposio di Platone, questi sono costretti a vagare per sempre in cerca della loro metà senza potervisi ricongiungere».
Stavolta fu il turno di Volpe Azzurra di ridere. «Stai in fissa con questi Greci, tu».
«Da quando abbiamo fatto quel corso a scuola, non faccio che trovare spunti interessanti».
Guardarono insieme il focolare. Il fuoco si stava spegnendo lentamente: spariti cavaliere e bestia, ora non restavano che le braci rosseggianti, testimoni dell’antico furore.
«Sì… comunque stai svagando. Alla grande, anche».
Jared alzò le spalle. «Non so se sia rimasto molto da dire. Cioè, potremmo star qui a parlare per ore senza esaurire l’argomento, ma a che pro?».
«Be’, è pur sempre una conversazione interessante. Mi sei simpatico, mi piace il tuo modo di ragionare. Capisco perché piacevi a Sole, anche se lei come tipo è in effetti un po’ granitica… difficile smuoverla dalle sue convinzioni».
Jared guardò in lontananza e strinse gli occhi, come se cercasse di vedere qualcosa senza riuscirci. «Hai mai letto qualcosa sui buchi neri? Non so cosa studiate di scienze, qui nella Foresta».
«Qualcosa studiamo, non è tutta roba su bacche e frutti. Ti ho appena parlato di curve di potenziale».
«Giusto. Be’, a me hanno sempre affascinato da morire i buchi neri. Mio padre da piccolo mi fece vedere un documentario, e io non facevo che rivederlo e rivederlo. Ci pensi? Un buco nello spazio tempo. Un corpo celeste nato dal collasso di un altro corpo celeste su sé stesso. La gravità esterna preme sul nucleo della stella morente, e a combustibile esaurito la pressione interna non può più contrastarla e la stella implode, creando una enorme voragine da cui niente può uscire… e quella voragine conduce chissà dove, forse in un altro universo, non lo sapremo mai. E ancora meno lo saprebbe la sfortunata persona che vi andasse incontro. La gravità preme a un’estremità, il corpo si deforma, si allunga verso il centro. La cosiddetta spaghettificazione. E mentre ti avvicini, sei già oltre l’orizzonte degli eventi, dopo il quale la velocità di fuga supera quella della luce, il che vuol dire che non c’è possibilità di ritorno. Vedi quell’orizzonte allontanarsi all’infinito, proprio come l’orizzonte che conosciamo».
«Tutto molto affascinante… ma perché ne stai parlando adesso?».
Jared si voltò verso Volpe Azzurra. «Perché era così che mi sentivo. Come se dentro di me ci fosse un enorme buco nero. Non succedeva mai nulla, ed io ero lì fermo ad aspettare, non sapevo neanch’io cosa. Facevo quello che dovevo fare, parlavo e ridevo con la gente, e perlopiù stavo bene. Ma continuavo a sprofondare, ogni giorno un altro piccolo passo. Restavo solo, guardavo il muro e vedevo quell’enorme buco nero che mi fissava, e mi chiedevo quanto ero lontano ancora dall’orizzonte degli eventi… se non l’avevo già oltrepassato. Ho sempre fantasticato molto, e fino a un certo punto questo mi è bastato: costruivo il mondo in cui volevo vivere nella mia testa, ed era così vivido da compensare il fatto che quello in cui vivevo realmente non mi piaceva affatto. Ma non ci riesco più adesso. Ora ho bisogno di una realtà vera».
Volpe Azzurra lo guardò con una strana tenerezza negli occhi.
«Questa è la realtà, Jared. Quello che provi è la realtà».
Il ragazzo abbassò lo sguardo. «Non ne sono così sicuro», mormorò. «Ho detto a una ragazza che ero innamorato di lei. Gliel’ho detto. Assurdo, no? Lei lo trovava assurdo. Ora è da qualche parte nella Foresta a godersi la sua nuova vita da Alata… e io non ho idea di chi sia. Forse non ce l’ho mai avuta».
«Dai, adesso sei melodrammatico».
«No, invece. Sono stato male, molto male, e a lungo… ma non è mai stato per lei, probabilmente. Ho sempre avuto dentro quell’orribile buco nero che mi divorava, ho sempre fatto altro, scaricato l’angoscia in un’attività febbrile… poi quando l’ho incontrata ho improvvisamente capito che non potevo continuare così. Lei mi ha solo aperto gli occhi». Sorrise debolmente. «Ed eccomi qui».

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Capitolo 16
*** Casa ***


E infine arrivarono nella Valle.
A Jared sembrò di vederla sbucare dal nulla: un momento prima arrancavano sul pendio della montagna, con Narvalo che sbraitava contro Cinciallegra per la sua lentezza… e l’istante successivo innanzi a loro si parava l’enorme fenditura, simile a una ferita slabbrata nel massiccio montuoso. Fra i due lembi della ferita zampillava un torrente cristallino, con tante piccole cascate dove massi irregolari sbarravano il cammino dell’acqua. Jared non poté fare a meno di paragonarlo al sangue surrogato del Popolo degli Alberi, che scorreva nella Foresta iniettandole continuamente nuova vita.
Avanzarono fino al Rifugio, dove vennero accolti da un gruppo di Alati che mostrò loro dove potevano accamparsi. C’era uno spiazzo di terra in una posizione rialzata, in cui c’era abbastanza posto per tutti. Jared notò che c’era già un gruppo di tende a riva.
«È un altro Cerchio», disse Rondine. «Qui vengono tantissime Guide, ogni anno. È il luogo dove si riunivano i Cerchi clandestini nel periodo della Persecuzione… sai, quando gli squadroni degli Avveniristi ci davano la caccia per riportare l’umanità nella gabbia del progresso industriale. Per noi ha un alto significato simbolico». Jared ricordava bene quel capitolo di storia, l’avevano studiato a scuola: sapeva che dopo la Secessione era stato molto difficile sedare tutte le sacche di rivolta sorte nelle città che si stavano progressivamente spopolando, e diversi gruppi di esaltati – come gli Avveniristi – si divertivano a fare incursioni a mano armata nella Foresta, seminando il terrore.
Le attività del giorno erano tutte dedicate alla memoria dei caduti nella lotta contro gli Avveniristi e gli altri gruppi di squilibrati che minacciavano la pace della Foresta. Un vecchio che era vissuto in quell’epoca sedette fra loro per parlarne, di ciò che aveva significato per tutti loro, e al termine del suo discorso Jared aveva le lacrime agli occhi.
Osservò le Guide dell’altro Cerchio con sguardo critico, cercando di cogliere le differenze fra di loro. Era un Cerchio più grande e più chiassoso, e i ragazzi indossavano un fazzolettone blu e arancio per distinguersi.
Vento e Nube Solitaria insistettero per fare il bagno nel torrente, seguiti a ruota da Chiodo di Garofano. Jared si avvicinò con tutte le buone intenzioni. Si spogliò. Poi, non appena ebbe messo un piede nell’acqua, si ritrasse immediatamente: era gelida. Ma gli altri lo presero in giro finché non si fu buttato anche lui. Fu una sensazione stranissima: dapprima perse sensibilità a tutto il corpo, poi quando uscì fu colto da una vampata di calore, prima di iniziare a battere i denti per il freddo.
La sera erano indecisi sul da farsi. Il grande focolare allestito sulla riva era occupato dall’altro Cerchio, e i guardiani del posto li avevano avvertiti che era vietato accendere altri fuochi per evitare incendi (era già capitato in precedenza, quando c’erano molti gruppi ammassati insieme).
A un certo punto Narvalo si alzò in piedi e iniziò a gridare parole confuse in direzione dell’altro Cerchio. Inizialmente Jared pensò che fosse impazzito, ma vide che gli altri lo imitavano eccitati, e presto giunse la risposta dei ragazzi giù a riva. Si rese conto che si trattava di un ban, e ricordò che Volpe Azzurra gli aveva parlato di come li usassero per creare un ponte con gruppi stranieri.
Scesero giù al focolare, dove si unirono agli altri per cantare e ballare tutti insieme. Jared partecipò con un fervore che non aveva mai dimostrato nei giorni precedenti, esaltato nel vedere tutta quella gente riunita assieme. Per la prima volta non si sentì ridicolo o fuori posto: non si era mai sentito così vivo.
Quando i due gruppi si separarono, diretti verso le rispettive tende, gli salì un groppo in gola al pensiero che l’indomani sarebbero tornati a casa… che tutto questo sarebbe finito. Sistemò il sacco a pelo, pensando che era l’ultima volta, e sorrise al pensiero della prima notte nella Foresta con i ragazzi, che aveva passato sveglio, teso come una corda di violino, con le orecchie protese a cogliere i versi degli animali notturni fuori dall’accampamento mentre passava mentalmente in rassegna tutte le armi a sua disposizione. Ora tutto questo non lo spaventava più: lo faceva sentire a casa.
Qual era davvero la sua casa?

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Capitolo 17
*** Sentiero ***


Il corpo è una macchina perfetta… il più delle volte. Quando non si abbandona a una meravigliosa broncopolmonite in agosto, diciamo.
Jared era a casa da appena una settimana, e l’aveva passata tutta fra il letto e il divano. E come se non bastasse, al proprio ritorno aveva trovato un’invasione di formiche ad attenderlo: suo padre era partito per lavoro; doveva aver dimenticato qualche finestra aperta prima di andarsene. Il risultato era che ora lui non faceva che correre come un ossesso da una parte all’altra armato di candeggina, con una tosse da fumatore incallito che gli squassava il petto a intervalli regolari. Comico, che proprio al rientro dal Cammino la natura cercasse di prendere possesso della sua abitazione in quel modo.
Ma forse era meglio così, pensava. Almeno, aveva qualcosa da fare. La stasi lo terrorizzava: non appena si fermava un attimo, veniva colto da un terribile senso di vuoto. Di vuoto e solitudine.
Eppure tutto funziona, pensava meravigliato, quando sedeva e fissava il muro intatto, senza una crepa, mentre dentro di lui ogni cosa andava in mille pezzi. Guardava il muro e il cuore batteva. Tic tac… come un orologio. I polmoni si gonfiavano d’ossigeno. Era dolorosamente consapevole del loro lavoro, da quando aveva quel rospo acquattato in fondo alla trachea a fargli sputare fuori l’aria con violenza non appena la inghiottiva. Anche se adesso la tosse si era un po’ calmata.
Si sentiva… tranquillo. Troppo tranquillo. Encefalogramma piatto, forse è l’espressione giusta.
Tornati a Cordignola, alla fine del viaggio, Nube Solitaria gli aveva chiesto quale fosse la sua decisione, se avrebbe pronunciato o meno la Promessa per entrare a far parte del Cerchio. Lui si era fatto piccolo piccolo, avvertendo gli sguardi di tutti puntati su di sé.
«Penso… penso di no», aveva risposto, dopo un bel po’. «Io… non fraintendetemi, sono stato benissimo con voi… quello che fate è fantastico… Ma non sono uno di voi. Non credo che potrei mai esserlo».
Vento aveva alzato gli occhi al cielo. «Tu puoi essere quello che ti pare. Ti fai troppi problemi, Jared».
Ma lui aveva scosso la testa. «Non posso proprio. Non posso».
Avevano cercato di convincerlo. Alcuni erano stati abbastanza insistenti – soprattutto Rondine –, ma ogni tentativo si era rivelato vano. Alla fine era stato Volpe Azzurra a chiudere la questione: «Ragazzi, se non vuole, non vuole. Lasciatelo stare».
Nube Solitaria l’aveva osservato in silenzio per tutto il tempo, senza staccare gli occhi per un secondo. Quando infine tutti avevano taciuto, si era alzato in piedi e aveva dato al ragazzo il proprio addio formale. Lui aveva salutato tutti con un groppo in gola, poi aveva voltato le spalle e se ne era andato senza guardarsi indietro. Sapeva che guardarsi indietro sarebbe stato solo peggio.
Non si trattava di un capriccio, malgrado l’opinione di Vento. Non era qualcosa che lui aveva scelto. Se avesse creduto di poter scegliere, probabilmente sarebbe rimasto con loro, perché il Cerchio per lui era stato una boccata d’aria fresca dopo mesi di torpore. Ma… era come con Sole: quando stavano insieme, lei lo faceva sentire così bene che l’idea di perderla, e tornare in quel limbo grigio e triste che era stato la sua vita di prima, lo terrorizzava. Ma non sapeva come trattenerla. Ogni istante che passavano insieme, la sentiva scivolare via un altro passo. E un altro ancora. Gli sembrava di potersi vedere dall’esterno, mentre stava lì impalato a guardare lei che si allontanava sempre di più… fino a sparire del tutto.
Ora il pensiero di riprendere la sua vita di sempre gli dava la nausea. Alice lo aveva chiamato un paio di volte, da quando era tornato in possesso del cellulare, ma lui non aveva risposto. Non avrebbe saputo che dirle. Passava il tempo davanti alla televisione, cambiando continuamente canale perché niente riusciva a interessarlo, e la pubblicità lo innervosiva al punto che un paio di volte arrivò a scagliare il telecomando sul pavimento.
E stava appunto guardando la televisione, quando sentì suonare il campanello.
Si irrigidì. Chi poteva essere? Era presto perché suo padre tornasse, e non aspettava visite. Forse è Alice, pensò. Forse si era preoccupata perché non rispondeva al telefono. Si trascinò verso la porta. Quando la aprì, rimase di sasso.
Di fronte a lui c’era nientepopodimeno che Nube Solitaria. Portava una barba finta e si era tinto i capelli di nero, ma era lui, non c’era alcun dubbio.
Il telecomando gli scivolò dalla mano. Ancora sotto shock, si ritrovò a pensare che quel povero arnese non avrebbe di certo sopportato altri maltrattamenti.
«Buongiorno a te, giovanotto», bofonchiò l’uomo, spostandolo per passare (probabilmente aveva intuito che Jared lo avrebbe lasciato lì impalato sulla soglia ancora per un bel po’).
«Che… che…», balbettò Jared, mentre si accomodava tranquillamente nel suo soggiorno.
«Su, non fare quella faccia da stoccafisso, non è certo la prima volta che vengo in Città. Anche se ammetto che era un bel po’ che non facevo un salto… dopo l’ultima».
Jared aprì la bocca un paio di volte, ma non ne uscì niente. Alla fine si chinò meccanicamente a raccogliere il telecomando. Chiuse la porta d’ingresso, non senza aver controllato un paio di volte che non ci fosse nessuno sulle scale del palazzo.
«Be’? Non mi offri nulla? Scusa se te lo dico, ma sei un gran maleducato. Gradirei molto una Coca Cola. Una cosa che mi manca terribilmente nella Foresta sono le bevande zuccherate. E il cibo spazzatura».
«Non ho… Coca Cola», rispose Jared ancora frastornato.
«Che razza di teenager sei? Una casa senza Coca Cola. Roba da non crederci».
Il ragazzo scosse la testa per cercare di recuperare la lucidità. «Ok. Adesso mi dice che cosa ci fa qui e come ha fatto ad arrivare. Come… come fa a sapere dov’è casa mia?». Si rese conto all’improvviso di questo particolare… uno dei tanti che non quadravano in effetti.
«Ti ho seguito, è logico. Ora, per favore, siediti, perché potrebbe essere una cosa lunga».
Jared obbedì, ancora perplesso.
«Dunque, innanzitutto entrare nella Città è molto più semplice di quel che può sembrare… ma te ne sarai già accorto, dopo tutte le volte che hai fatto imbucare Sole da te».
Il ragazzo avvampò. «Lei come sa…».
«Io so tutto, ragazzo. Tutto. Abituati a questa cosa. Ad ogni modo, sono venuto perché ho la sensazione che io e te abbiamo qualcosa in sospeso».
«Ah sì?».
«Sì. Finora stava andando tutto secondo i piani. Anzi, ben oltre le aspettative, direi. Non avrei mai immaginato che fra te e Sole potesse nascere qualcosa… né tantomeno che dopo che vi eravate lasciati tu saresti venuto da noi nella Foresta… eppure è successo. E poi all’improvviso sei diventato così maledettamente cocciuto da mandare tutto all’aria».
«Aspetti un attimo». Jared era sempre più confuso. «Che significa? Mandare all’aria cosa? Ma di che sta parlando?».
Nube Solitaria sospirò. «Immagino di dover cominciare dal principio». Lo guardò dritto negli occhi. «Jared, io un tempo vivevo nella Città. Sono nato qui, proprio come te».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi. «Cosa?!».
«Sì. Tra lo smog e la puzza di ascelle sudate alla fila per le poste. Insomma, lo sai. Non andavo molto d’accordo con il mio vecchio… era un alcolizzato, a volte era così ubriaco che non riusciva neanche a cambiarsi le mutande, credi a me. Comunque me ne andavo spesso di casa, a volte per settimane intere, e lui non mi diceva mai niente – probabilmente perché di solito era troppo ubriaco per rendersene conto. Sapevo un sacco di cose sulla Foresta… il mio bisnonno aveva militato fra gli Avveniristi e quando era ancora vivo non faceva che ripetermi un mucchio di storie sulle volte in cui era stato lì… così una volta decisi di andarci. Per curiosità. Venni in contatto con un Cerchio, che mi accolse – dopo una certa diffidenza iniziale –, come abbiamo fatto noi con te, e me ne innamorai fin da subito. Non avevo mai conosciuto niente di così simile alla famiglia, prima di allora. Per fartela breve, alla fine decisi di restare».
Jared era sbalordito. «Ma lei… lei ha…».
«I capelli verdi? Sì, ho praticato la Fusione. Mi sono legato a un albero e sono entrato ufficialmente a far parte del Popolo della Foresta. Si può fare. È vero, solitamente la procedura è attuata su bambini appena nati, ma se ci pensi i primi uomini che hanno abbandonato la Città per la Foresta dopo la Secessione erano adulti». Fece una pausa. «Ti sto dicendo questo, Jared, per farti capire che anch’io ci sono passato. La situazione era diversa, d’accordo, ma anch’io ho passato quello che stai passando tu adesso. E non è perché voglio convincerti che la Foresta sia una specie di paradiso terrestre, e che sia un modello da preferire alla Città sotto ogni punto di vista. Quello che vorrei farti capire… è che non c’è un “noi” e un “loro”. Continui a comportarti come se dovessi scegliere da che parte stare, e questo è esattamente quello contro cui lottavo quando ti ho portato nella Foresta».
Quest’ultima affermazione confuse Jared ancora di più, se possibile. «Un momento… non è stato lei a portarmi nella Foresta. Sono venuto da solo».
Nube Solitaria sorrise. «Non la prima volta».
Jared non capì subito. Poi la consapevolezza si fece strada nella sua testa e lo lasciò a bocca aperta. «È stato lei. È stato lei fin dall’inizio!».
«Sono felice di vedere che inizi a riattivare le sinapsi».
«Ma come… e soprattutto… perché?».
«La prima volta che Sole venne a far visita alla Città, ero con lei. Con la sua classe, intendo. In qualità di secondo accompagnatore. La maggior parte della gente non conosce il mio passato, ma gli Alati sì, e sanno che so trattare con quella gente, quindi mi mettono sempre in mezzo in queste occasioni. Ho assistito alla scena, quando la piccola è corsa a vomitare nel bagno e c’eri tu… che poi andasti a denunciarla. Non so perché mi sei rimasto impresso. Ho pensato: “un ragazzino così innocente… e il suo primo pensiero di fronte a una coetanea in difficoltà, solo perché fa parte di qualcosa che non conosce… è quello di denunciarla alle autorità”. La cosa mi colpì. Così ti ho seguito. Per tutti questi anni. Venivo spesso in Città – anche prima di quel momento – per ricordarmi com’è la vita laggiù, suppongo. Da quando ti ho incontrato, mi sono reso conto di fare automaticamente le tue stesse strade, di sedermi sulle tue stesse panchine… insomma, ho iniziato pedinarti senza neanche accorgermene».
«Ecco perché aveva un’aria familiare», ridacchiò nervosamente Jared.
«Comunque, quando quei ragazzi ti hanno aggredito, ero lì. All’inizio ho pensato di intervenire. Poi qualcosa mi ha bloccato. “E se lo portassi nella Foresta?”, ho pensato. Sapevo che Sole passava sempre per un punto specifico del sentiero, e lei è una Guaritrice nel sangue, sicuramente si sarebbe fermata ad aiutarti se ti avesse trovato lì, ferito. Chissà se ti avrebbe riconosciuto. Più ci pensavo, più mi dicevo che era assurdo, e più non riuscivo a levarmi quel pensiero dalla testa. Così alla fine l’ho fatto. Ti ho portato nella Foresta. E il resto della storia lo sai».
Jared rimase in silenzio. Sentiva che tutti i pezzi si stavano incastrando, e gli sembrava tutto così folle che gli scoppiava la testa. «Ma… perché?».
«Te l’ho detto. Volevo che conoscessi. Che sapessi… cosa c’è dall’altra parte. Viviamo sullo stesso pianeta come se abitassimo due universi paralleli, noi esseri umani. E tutto questo è assurdo. Potremmo convivere pacificamente, scambiarci le ricchezze che ciascuno di noi possiede… e invece portiamo avanti questa stupida guerra fredda da decenni. Il mio bisnonno e gli Avveniristi… erano un branco di deficienti. Ora lo so. Per questo ho portato il Cerchio su alla Valle, quest’anno. E perché anche tu potessi vedere».
Jared rifletté, gli occhi che guizzavano da una parte all’altra della stanza impazziti, come se cercasse di mettere insieme tutti i frammenti del puzzle. Alla fine gli sfuggì un sorriso amaro. «Be’, allora dev’essere stata una gran bella delusione per lei. Io e Sole ci siamo lasciati, e io ho lasciato il Cerchio. A quanto pare, siamo effettivamente incompatibili».
Nube Solitaria sbuffò. «Sei ancora più testardo di quel che credevo. Fammi un favore, non offendere la mia e la tua intelligenza. Ti è andata male con una ragazza… e allora? Succede a tutti. Tutti veniamo scaricati, una volta o l’altra. Ma continuate a sentirvi, o sbaglio? Volpe Azzurra mi ha detto che vi scrivevate delle lettere».
Jared alzò gli occhi al cielo. «Quante altre persone sono a conoscenza di questa storia? Tanto valeva che appendessi dei manifesti, anziché scriverle delle lettere».
«Non fare il bambino. Non c’è mica niente di cui vergognarsi. E comunque il punto è che non c’è alcuna barriera insormontabile fra voi, nessuna misteriosa forma di incomunicabilità sostanziale a impedirvi di coltivare un rapporto umano… di che natura non è importante, siete voi a deciderlo. E lo stesso vale per il Cerchio. Capito?».
Jared abbassò la testa. «Come fa ad esserne tanto sicuro?».
«Perché ci sono passato prima di te, zuccone! Te l’ho già detto. E adesso basta parlare, ne ho abbastanza». Nube Solitaria si alzò e si avviò verso l’uscio. Prima di andarsene si voltò un’ultima volta verso di lui e gli puntò un indice contro. «E riguardati! Sei uno straccio».
Poi uscì sbattendo la porta.

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Capitolo 18
*** Ritorno ***


Ed eccolo di nuovo lì. Sembrava che la Foresta lo attraesse a sé come una calamita: da quando vi era entrato la prima volta non riusciva più a staccarsene.
Aveva parlato con Alice. Le aveva raccontato ogni cosa. Lei lo aveva fissato a bocca aperta per tutto il tempo, ed era rimasta in quello stato per parecchio anche dopo che aveva finito, incapace di proferire parola. Poi naturalmente si era ripresa e aveva iniziato a sommergerlo di domande, a cui lui aveva risposto con pazienza. Confidarsi con lei era stata una liberazione: gli era parso che all’improvviso tutta la sua storia uscisse dai confini del sogno e assumesse finalmente dei contorni reali, ben definiti.
Il secondo passo era stato naturale. Si era avventurato nella Foresta, lungo il tratto che ormai conosceva come le proprie tasche – lui, nato e cresciuto in Città, fra i palazzoni grigi e le strade asfaltate. Arrivato a Cordignola, aveva trovato tutto il Cerchio ad aspettarlo. Erano sorpresi di vederlo, dopo l’ultima volta che era parsa a tutti un addio definitivo. Tutti tranne Nube Solitaria, che l’aveva guardato con un sorrisetto soddisfatto.
«Ci ho pensato a lungo», aveva detto, guardandoli uno per uno mentre lo fissavano in attesa delle sue spiegazioni. «E non ho cambiato idea. So che non posso far parte di questo Cerchio… perché non è questa la mia casa. Però ho capito una cosa». Il suo sguardo cadde su Nube Solitaria, che gli riservò un guizzo complice degli occhi. «Quest’esperienza mi ha insegnato molto… e voglio che anche altri possano impararlo. In Città abbiamo tante cose che voi non avete, certamente, ma voi avete qualcosa che nessuno di noi possiede, e che vale la pena conoscere anche se si proviene da un ambiente totalmente diverso. Per questo ho deciso di fondare un Cerchio, nel mio distretto».
Versi di stupore si levarono da tutti i ragazzi lì riuniti.
Jared alzò le braccia per placarli. «Ovviamente non sarà una cosa facile. Dovrò chiedere delle autorizzazioni per portare gli altri nella Foresta per il Cammino, parlare con il Consiglio e con l’Ufficio degli Affari Esteri per farmi dare il via libera… e ci saranno un mucchio di scartoffie da compilare. Ma… penso ne valga la pena. È troppo tempo che ci facciamo la guerra, quando abbiamo tanto da imparare gli uni dagli altri».
Dopo il suo discorso ebbe inizio una cascata di domande. Volevano sapere cosa aveva in mente, come avrebbe organizzato ogni cosa. Lui rispose a tutti con solerzia, dopodiché rimase a lungo a chiacchierare.
Pian piano gli altri si ritirarono e rimase solo Volpe Azzurra, che gli si avvicinò con una luce divertita negli occhi.
«Ma sei certo che troverai qualcuno disposto a fare questa cosa? Sai bene che in Città ci odiano… come molti del Popolo della Foresta odiano voi Grigi».
Lui alzò le spalle. «Pensavo la stessa cosa di voi, prima di conoscere Sole. Secondo me c’è molta più gente aperta di quel che credi. E per molti altri quell’odio non è che una patina superficiale… che si può riuscire a rimuovere con un po’ di sforzo. Ho già parlato con Alice e lei è stata entusiasta dell’idea: vedrai che non farò fatica a trovarne altri. E chissà, magari un giorno diventerà una cosa diffusa».
Volpe Azzurra ridacchiò. «Sei ambizioso».
«Qualcuno deve esserlo. Altrimenti non si comincia mai».
Allora Volpe Azzurra fece un gesto di commiato. «Be’, sono contento. Se non altro ci rivedremo ancora».
«Direi di sì».
Il ragazzo si allontanò insieme agli altri. Jared si voltò, e stava per andarsene quando un’improvvisa stretta al braccio lo fermò.
Trasalì. Avrebbe riconosciuto quel tocco fra migliaia di altri.
Si prese del tempo prima di girarsi, per cercare di darsi un contegno. Sentiva il cuore battere così forte che ebbe timore potesse sfondare la gabbia toracica e schizzargli fuori dal petto.
«Jared».
Dio, la sua voce…
Con un sospiro, si voltò. Lei gli parve ancora più bella dell’ultima volta che l’aveva vista, ma di una bellezza diversa… quasi spettrale. Sì, la guardava proprio come si guarda un fantasma, in effetti. Aveva la testa in controluce: proprio dietro di lei, una fessura nel tetto frondoso lasciava passare una lama di luce bianca che le investiva il capo immergendola in un’aura irreale, e accrescendo in lui la sensazione di trovarsi di fronte a uno spirito.
«Sole».
Non riuscì a trovare nient’altro da dire. Tutte le parole che aveva macinato per mesi nella sua testa sembravano essersi volatilizzate di colpo, lasciandosi alle spalle solo una nebbiolina indistinta.
Lei lo guardò in silenzio. Dopo pochi secondi lui non fu più in grado di sostenere il suo sguardo e chinò il capo.
«Avrei voluto incontrarti prima, ma… non sapevo se fosse la cosa giusta».
Jared si lasciò sfuggire una smorfia sarcastica. «Strano. Tu sai sempre qual è la cosa giusta». Si pentì all’istante di averlo detto, quando vide l’espressione addolorata di Sole.
«Sai che non è così. E men che meno in questa situazione».
«Hai ragione. È stata una cosa stupida da dire. Stupida e cattiva».
Rimasero di nuovo in silenzio. Nell’aria aleggiava una tensione palpabile.
«Quando sei tornata?», chiese lui dopo un po’, tanto per colmare quel vuoto.
«Non da molto. Sono venuta per salutare il mio Cerchio e chiedere alcuni consigli a Nube Solitaria… e mi hanno detto che c’eri anche tu».
Jared sorrise debolmente. «So che ti sembra incredibile».
«Niente affatto, invece. Sì, è vero, sono rimasta un po’ sorpresa all’inizio, dopo averti sentito più volte sparare a zero sul Cerchio e sul Popolo della Foresta. Ma io ti ho sempre detto che saresti stato un’ottima Guida. E da quello che mi hanno raccontato, avevo ragione».
Il ragazzo scosse il capo. «Non lo sono per niente, in realtà. Solo che… mi sono reso conto che tenere il punto con il pessimismo storico-cosmico è una faticaccia ancora peggiore, suppongo».
Sole rise, e quando lui vide i suoi zigomi sollevarsi in quell’espressione così familiare, e così familiarmente dolce, non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
«Vedo che sei sempre il solito testone».
«Ti aspettavi forse qualcosa di diverso?».
La ragazza indicò davanti a sé con un ampio gesto delle braccia. «Perché non facciamo due passi, ti va?».
Lui annuì e la seguì quando lei si incamminò lungo il sentiero sassoso. Passeggiarono per un po’, e pian piano sentì riaffiorare tante di quelle cose che avrebbe voluto dirle da tempo che non disse nulla, non sapendo da dove iniziare.
«Mi sei mancata», disse alla fine, non del tutto certo che fosse una scelta saggia.
Lei lo osservò con cautela prima di rispondere: «Anche tu mi sei mancato».
Non te ne saresti andata, se fosse vero, pensò Jared, ma tenne a freno la lingua. Disse invece: «Dove stiamo andando?».
«Voglio portarti a vedere una cosa. Aspetta». Fece una pausa. «Come stai, Jared?».
Lui si fece piccolo piccolo. Alzò le spalle. «Al solito. Ho finito da poco gli esami, mi aspetta una lunga estate di dolce far nulla».
«No, intendo… come stai veramente?».
Jared sospirò. «Perché me lo chiedi?».
«Perché ti voglio bene. So che non ci credi, e non so davvero più come posso convincerti del contrario. Dopo tutto quello che mi hai scritto…».
«Mi dispiace. Mi dispiace per tutto».
Sole lo guardò con gli occhi colmi di tristezza. «Non dovresti essere tu a dispiacerti. O a sentirti in colpa».
«Invece sì», mormorò lui. «Ho fatto un sogno stanotte, sai?», disse poi, cambiando bruscamente argomento.
«Che sogno?».
«Ero nella mia vecchia camera, nel nostro appartamento a Cricket… sai, quando vivevo ancora con mamma e papà. Avevo un letto a castello, per quando venivano i miei cugini a stare da noi. Be’, c’era un uomo lì nella mia stanza, nel sogno. Non ricordo neanche la sua faccia: era buio. Ricordo solo che lui era prigioniero, per qualche ragione, e ogni tanto entrava un tale che lo afferrava per le spalle e lo insultava, gli diceva delle cose orribili, e poi lo picchiava… e lui stava lì, impassibile, lasciandosi maltrattare. Io stavo sul letto di sopra a guardare la scena, e mi sentivo malissimo per lui. Avrei voluto scendere giù e scuoterlo con violenza. A un certo punto il suo aguzzino dopo essere entrato lasciava inavvertitamente la porta aperta: ecco, finalmente l’uomo poteva scappare. Era la sua occasione. Ma lui se ne stava lì, immobile, a fissare quello spiraglio senza muovere un passo. Nel vederlo così inerte mi saliva una rabbia cocente… non potevo sopportarlo. Iniziavo a urlare: “Vattene! Vattene!”, con tutta la forza che avevo in corpo. Mi sono svegliato continuando a gridare quelle parole, prima di rendermi conto che era stato tutto un sogno».
«Jared…».
Il ragazzo continuò senza ascoltarla: «Credo… credo che fossi io l’uomo prigioniero nella stanza. Nel sogno. Sono stato io a rinchiudermici: potrei uscire, ma non lo faccio. E mi merito le conseguenze. Per questo… per questo sento di dover chiedere scusa».
«Sai che non è così. Non c’è niente di sbagliato in te. Non è colpa di nessuno se… non ha funzionato. Siamo diversi, tutto qui».
Lui scosse la testa. «Sì, siamo diversi. Tu sei molto migliore di me: sei una persona buona. Io no».
«Smettila con queste sciocchezze».
«No, perché è vero. Ho avuto un brutto periodo… ho scaricato tutto su di te, e tu non te lo meritavi. E invece di mandarmi al diavolo continuavi a darmi spago e a subire i miei sfoghi. A volte…». Chinò il capo. «A volte ho la sensazione di occupare solo spazio».
«In che senso… spazio?».
«Spazio. Spazio fisico, spazio mentale. È proprio la sensazione stessa di esistere. Mi sento così… ingombrante. Vorrei sparire, o diventare trasparente. Quando mi prende male mi metto a letto, mi rannicchio su me stesso e cerco… di occupare meno spazio possibile. Mi dico: “Adesso passa”. Ma non passa. Non passa mai».
«Come puoi dire questo, Jared?».
«È così. Occupo così tanto spazio che non riesco più a vedere niente, a concentrarmi su niente. Vorrei essere d’aiuto, a tutti, vorrei poter essere utile. Ma occupo troppo spazio… così tanto spazio che non riesco a muovermi. E allora cerco di mettermi in un angolino e restarci». A quel punto il ragazzo fu costretto a fermarsi, perché le lacrime che gli bruciavano in gola gli spezzarono la voce. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. «Ecco. Lo sto facendo di nuovo. Mi dispiace… mi ero ripromesso di non essere più così. Non so nemmeno… se riuscirò più a guardarti in faccia».
«Non devi scusarti di niente. Io voglio aiutarti».
Una lacrima traditrice sfuggì al controllo di Jared e gli scivolò lenta lungo una guancia. La asciugò rabbiosamente. «No. Non voglio farti questo. Non più». Tacque un attimo, cercando di controllare la voce. «Sarebbe stato meglio se non ci fossimo mai incontrati. Io sarei stato male lo stesso, colpa del mio cervello difettoso… ma tu no. Non avresti passato mesi a cercare di capire, quando non c’era niente da capire. Io volevo solo sparire, e invece continuavo ad occupare così tanto spazio…».
«Queste parole…». Sole sospirò. «Ci fanno stare male entrambi. A che servono?».
A quel punto Jared crollò. Fece un passo indietro, come per tentare di difendersi dalla marea che stava per travolgerlo. Batté un paio di volte le palpebre, poi le lacrime presero a scorrergli copiosamente lungo le gote. Sole lo guardò con aria impotente. Gli si avvicinò lentamente, con titubanza, e gli sfiorò una spalla con la mano. Nel sentire il suo tocco, anche gli ultimi argini si sfondarono e Jared si ritrovò a singhiozzare disperatamente, senza più ritegno. Lei gli si avvicinò ancora di più, e alla fine lo abbracciò, prima timidamente, poi con forza, stringendolo a sé come per assorbire tutto il suo dolore. Lui inizialmente stava per respingerla, quasi per istinto, ma poi si abbandonò fra le sue braccia, aggrappandosi a lei come a un’ancora, e all’improvviso pensò che loro due erano proprio così: lei uno scoglio solido, ben piantato sul fondale, lui il mare, che continuava a infrangervisi contro nel suo moto irrequieto come per afferrarlo, ma essendone respinto ogni volta. Poggiò il capo sulla sua spalla morbida, aspirandone il profumo inebriante che sapeva di muschio e alberi… di vita.
Rimasero così per un tempo che parve infinito.
Pian piano i singhiozzi si placarono, le lacrime cessarono di scorrere e Jared rimase lì, svuotato. Immobile. Se non per quel lieve tremito che non riusciva a controllare… come la prima volta. Lei se ne accorse e lo strinse più forte, finché anche il tremito non si fu calmato. Solo allora si allontanò.
«Vieni con me».
Stordito, Jared la seguì mentre si avventurava fuori dal sentiero lungo una salita scoscesa. Faceva quasi fatica a starle dietro, tanta era l’agilità con cui si muoveva fra le rocce appuntite che costellavano il suolo.
Giunsero in cima a una rupe. Solo a quel punto lei si girò verso di lui, ritta a pochi passi di un precipizio vertiginoso. Gli sorrise, e indicò la quercia che svettava al suo fianco.
Jared la fissò senza capire.
«Questo è il mio albero», disse lei.
Un’espressione colma di stupore si aprì all’improvviso sul volto del ragazzo. Si avvicinò, pieno di timore reverenziale, fino ad arrivare al suo fianco. Seguì con lo sguardo il profilo ruvido del tronco, a partire dalle radici nodose fino ad arrivare all’intrico possente dei rami. La quercia sembrò scrutarlo di rimando, altera, maestosa come la sua sorella umana… e altrettanto misteriosa. Si sentì minuscolo, sotto la sua ombra.
Jared conosceva l’enormità del gesto di Sole. Sapeva che il Popolo della Foresta era legato agli alberi che la componevano e poteva percepire il loro dolore come sulla propria pelle: se avesse voluto, avrebbe potuto conficcare il taglierino che portava in tasca nel legno tenero, e una smorfia di sofferenza avrebbe solcato il volto della ragazza. Quasi nessuno mostrava mai a un proprio simile la pianta con cui aveva praticato la Fusione… un po’ per paura di subire violenza in una parte di sé che non era in grado di difendersi, un po’ per pudore, perché quel legame intimo svelava molto dell’interiorità di una persona. E infatti a Jared quella quercia diceva molto di Sole. Con un barlume di divertimento, pensò che se fosse stato legato a un albero, probabilmente sarebbe stato un salice. Un piccolo salice storto, chino su uno specchio lacustre come a cercare di vedervi attraverso, oltre l’immagine che l’acqua gli restituiva.
Guardò Sole, che lo guardò di rimando, con un’espressione indecifrabile. Poi si voltò nuovamente verso la quercia e lentamente posò una mano sulla corteccia. Sotto la sua pelle, l’albero parve quasi rispondere al tocco con un guizzo.
Dopo un po’, Sole poggiò la mano sulla sua, e la strinse dolcemente.
Rimasero lì in silenzio, respirando piano, finché il sole non iniziò a declinare oltre il bordo del dirupo. E la Foresta parve impregnarsi del suo calore e avvolgerli, come una coperta. La Foresta che aveva dato la luce all’uomo e che l’aveva riaccolto a braccia aperte dopo essere stata da lui martoriata e offesa. Senza una parola di biasimo.

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