Dedalus (prima stesura - in revisione)

di NicolaAlberti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Le mie prigioni ***
Capitolo 2: *** La mia Beatrice ***
Capitolo 3: *** Rinascita ***
Capitolo 4: *** La Torre di Babele ***
Capitolo 5: *** Cubiculum ***
Capitolo 6: *** Agorà ***
Capitolo 7: *** La Biblioteca di Alessandria ***
Capitolo 8: *** Epifania ***
Capitolo 9: *** Arcadia ***
Capitolo 10: *** Lete ***
Capitolo 11: *** Icarus ***
Capitolo 12: *** Intermezzo - Digressione: L'Aggregazione ***
Capitolo 13: *** Metempsicosis ***
Capitolo 14: *** La Selva Oscura ***
Capitolo 15: *** Ade ***
Capitolo 16: *** La Città dei Dannati ***
Capitolo 17: *** Il Lama ***
Capitolo 18: *** Analisi e sintesi ***
Capitolo 19: *** Per Aspera ***
Capitolo 20: *** Catarsis ***
Capitolo 21: *** Maelstrom ***
Capitolo 22: *** Lucida Veritas ***
Capitolo 23: *** Epilogo - Il risveglio ***



Capitolo 1
*** Prologo - Le mie prigioni ***


Morti... siete tutti morti! Voi che siete al di là di questa aliena realtà, voi che siete al sicuro e vegliate sulle vostre decisioni, siete morti per me. Ma cosa importa? Io per voi non sono mai esistito, io che difetto del libero arbitrio a voi concesso. Scorgo solamente un barlume della vostra stilla vitale nel vostro sonno. Attendo con impazienza che Amal si addormenti per potermi raccontare...

Il Dedalus. Ventidue chilometri di altezza, tre chilometri e centottantadue metri di diametro, ventotto milioni e cinquantaseimila residenti, più una cifra di circa settantaquattro milioni di persone che vi transitano i maniera temporanea. Gli spazi sono efficacemente ottimizzati e tutte le persone vivono e si spostano col minimo sforzo e senza sovraffollamenti. La Senna, semi prosciugata e il cui corso è stato opportunamente deviato per fare spazio a questo mastodontico colosso tecnologico, vi scorre intorno come un timido rigagnolo. Al suo centro un monumento svilito e riciclato: la Tour Eiffel. Questa è la mia prigione, un labirinto di circuiti ed anime dannate. Tutte condividono lo stesso destino e la stessa condanna. Inconsapevoli portano avanti, istante per istante, la propria ombra, senza preoccupazioni. Ma nessuno ricorda com'era lì fuori, com'era prima... Nemmeno io...

Ho preso coscienza della mia condizione. Ho intuito che, da qualche parte, forse in un altro universo, c'è ancora vita, c'è libertà di scelta. Ma questa consapevolezza non mi giova, semmai ha solamente aggravato la mia pena. Sono forse l'unica persona sveglia in questo mondo narcotizzato? No, non l'unica...

Ricordo ancora le urla insensate di un uomo dal portamento solenne e dal cipiglio tipico di chi è abituato all'uditorio. Aveva la fronte alta e i capelli corvini rigati di bianco, un naso importante e gli angoli della bocca allargati, piegati verso il basso, in un'espressione di disgusto. Usava parole molto simili alle mie.
«Mortiii! Siete tutti morti! Siete delle maledette copie... voi non esistete! Svegliatevi ipocriti figli di una generazione che ha dimenticato la propria storia e le proprie origini! Non siete altro che una stupida e inutile replica di voi stessi! Così come questo abominio è una replica di ciò che un tempo fu elevato e solenne. Non vi è testo che non condanni tutto ciò! Svegliatevi maledetti!». Mentre l'oratore, completamente arrossato dall'ira, sputava sentenze assieme a stille di saliva, due sfere fluttuanti con un lucido involucro esterno color pece giunsero sul posto. Una voce metallica e incolore proveniente da una delle sfere intimò all'uomo: «Signore, è necessario un suo immediato adeguamento delle reazioni sociali agli standard protocollari del piano zero. Si rileva minaccia psicofisica per i presenti. Mantenere il costume entro il limite prescritto!». L'uomo si voltò improvvisamente verso la sfera che aveva emesso quella serie di avvertimenti e quasi schiumando dalla bocca urlò: «Voiii... esseri senz'anima, patetica progenie di una mente malata! Chi siete voi per darci limiti etici e di costume?! Non siete nient'altro che delle fottute telecamere!! Ci spiate, sondate la nostra anima con i vostri sistemi post-bellici... ma è arrivato il momento di ribellarsi a questa ipocrisia di cui siete la parte più oscura. Non mi ridurrete ad un'inutile robot di carne come questi esseri dormienti!!». L'uomo allungò una gamba colpendo con un calcio la sfera, questa si spostò in aria per circa un metro senza subire alcun danno. Immediatamente si sentì una sorta di vibrazione, come un schiocco liquido invisibile e l'uomo cadde a terra tramortito. Entrambe le sfere volanti si avvicinarono, il corpo dell'uomo si sollevò a mezz'aria e venne trasportato altrove.

Anch'egli era consapevole, ma, a differenza di me, non volle nascondersi dietro la propria paura. Egli forse era solo, forse esasperato e senza nulla da perdere. Qual è la mia angoscia? La morte? No... non la morte, ve l'ho detto... per voi non esisto... anzi, forse, nel profondo dell'anima, bramo la morte più di ogni altra cosa.

Eppure sono terrorizzato, terrorizzato dal pensiero di dimenticare Amal...

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Capitolo 2
*** La mia Beatrice ***


Mi si potrebbe chiedere cosa mi spinse ad innamorarmi di una persona così abissalmente lontana da me per carattere, abitudini e stile. Io potrei semplicemente rispondere che Amal rappresentava un canone di bellezza completamente estraneo alla classicità , ma in perfetto accordo con le mie preferenze estetiche per i tratti tipici delle razze umane che abitavano la fascia sud del Mare di Mezzo prima dell'Aggregazione. Molto più di questo, vibrava in lei una sorta di potere attrattivo recondito, qualcosa di inevitabile e persuasivo, che sembrava, al di là della distanza da questi canoni classici e letterari ai quali ero abituato per ragioni culturali, accordarsi quasi forzatamente al mio gusto. Era un po' come se questa sua forza attrattiva, questo suo modo di piacermi, mi fosse stato imposto dall'esterno, quasi contro la mia volontà . Dovetti accorgermi, ad un certo punto, che fu proprio una sua decisione quella di piacermi ed io non potevo rifiutarmi di accondiscendere a questo suo "capriccio" nei miei confronti.

Era improvvisa e imprevedibile, spontanea e ribelle, incosciente e furiosa, spensierata e altalenante negli umori. Esplodeva in risate brillanti e chiassose per poi scrosciare in pesanti e malinconiche crisi di pianto sincero. Esprimeva, nel suo pieno disequilibrio verso le convenzioni, tutto quello che io mi ero abituato, per quanto posso ricordare della mia adolescenza, a frenare tramite una pausa calibrata del pensiero. Se i miei eccessi passati erano riusciti sempre a sembrare ben collocati nei limiti di ciò che una persona comune scuserebbe, i suoi, invece, non si curavano di apparire scusabili da nessuno. Semplicemente ciò che faceva era l'esito immediato di quello che lei sentiva dentro. Tutto il resto non importava. Ciò che pensavano gli altri non importava. Le conseguenze non importavano. Il dolore che poteva colpire lei stessa o altre persone, proprio a causa di questo suo eccentrico modo di comportarsi, lo vedeva come una pura ingiustizia. Questo perché non poteva smettere di essere com'era neanche per un istante; tentare di adeguarsi alla normalità le sembrava come tradire la sua natura. Non parlava quasi mai a bassa voce e si esprimeva in modo estremamente diretto, semplice, non sorvegliato nelle costruzioni fraseologiche, per lo più utilizzando un linguaggio scurrile. Non riusciva mai ad apparire completamente seria, anche quando voleva esserlo. Preferiva ridere delle cose, spesso banalizzandole, anche se mi ero abituato a capire quando dietro questa sua finzione difensiva si celava qualcosa di più profondo. Reagiva in maniera esagerata al dolore, sia fisico che psicologico; semplicemente non riusciva a contenersi di fronte a qualsiasi acquisizione sensibile: se una cosa le toccava il cuore urlava di gioia, se una cosa le faceva male urlava di rabbia. Si annoiava facilmente e si divertiva anche per le cose più semplici e a volte stupide. Rifiutava la complessità, sebbene lei stessa fosse estremamente complessa nell'animo e nell'intelligenza. Di fronte a qualsiasi genere di problema semplicemente rispondeva sempre con comica stizza «che palleee!!», variando accento e intensità a seconda del grado di difficoltà riscontrato. Quando ero con lei tornavo, spontaneamente e quasi senza accorgermene, ad essere un diciottenne, se non proprio nella mentalità , quantomeno negli atteggiamenti. Amal era in grado di influenzarmi in maniera così profonda da potermi plasmare e riassemblare a suo piacimento, qualora l'avesse voluto, eppure non abusava mai di questo suo ascendente, anzi, faceva sempre intendere, forse appositamente, che ero io ad avere il controllo su di lei. Mi amava per vezzo, ma ne era così convinta che riusciva a convincere anche me. A volte riusciva ad essere di una tenerezza così estrema e spontanea, soprattutto nei miei confronti, che io non potevo far altro che rispondere con dolcezza a questi suoi bisogni e premure. Altre volte si abbandonava con facilità in atteggiamenti provocatori verso le persone del sesso opposto, anche se, per lo più, si trattava certamente di finzioni ben calcolate. Possedeva una mente pratica ed estremamente abile. Possedeva sempre l'ultimo modello di olofono 3D portatile e sapeva padroneggiare con estrema precisione e versatilità tutte le neo-tecnologie sviluppate dalle diverse Corporazioni. Io invece facevo fatica anche solamente a inviare un messaggio olografico e i miei maldestri tentativi di sembrare spigliato e disinvolto mi facevano solamente apparire patetico.

Amal denigrava nella maniera più assoluta il ragionamento filosofico e tutto ciò che era puramente astratto, quindi anche la mia materia di ricerca e di insegnamento: Analisi del pensiero pre-aggregato. Intesi però, col passare del tempo, che questa sua forma di rifiuto era tuttavia generata, ancora una volta, dalla sua propensione alla banalizzazione di tutto ciò che è serio e concettoso. In realtà , tutto quello che potevo conoscere e che potevo insegnarle non era nient'altro che scontato per lei. Non le ho mai insegnato nulla che non sapesse già , sebbene in una forma più diretta e sintetizzata. Tutte le parabole di pensiero che io potevo proporle per arrivare ad un ragionamento filosofico non facevano che confondere il risultato. Sapeva già la risposta ancora prima che potessi formulare la domanda, il resto erano tecnicismi inutili. A volte avevo quasi l'impressione (e a ragione) che fosse lei stessa a dare una direzione ai nostri discorsi, quasi come se a parlare fosse soltanto lei ed io non fossi che un semplice tramite... un'ombra.

Se dovessi descriverne il viso nei suoi tratti salienti non troverei parole migliori di quelle contenute nel Cantico dei Cantici, un libro antichissimo e oramai dimenticato, che precede di quasi cinque millenni l'Aggregazione. Ciò che più mi colpisce di questa stupenda poesia del Re Salomone è la descrizione degli occhi e delle labbra:

Come sei bella, amica mia, come sei bella!

Gli occhi tuoi sono colombe, [...]

Come nastro di porpora le tue labbra

e la tua bocca è soffusa di grazia;

Certo questa è una poesia che esprime la bellezza tramite metafore vetuste, ormai incomprensibili sia nei rifermenti che nelle stesse immagini. La "compagna" di Salomone, già in quei tempi remoti, era tuttavia descritta come una donna dalla bellezza non convenzionale. Una bellezza che riecheggia il deserto e l'oriente più prossimo. Così lontana dal roseo pallore e dall'aurea chioma di una Elena di Troia, di una Laura petrarchesca o della Beatrice di Dante, o almeno per come le ho figurate durante le mie elucubrazioni su questi antichi volumi pre-aggregati: file che oramai non visualizza più nessuno, eccetto qualche tedioso ed inutile "esperto" in materia come me.

Amal aveva un incarnato scuro, al sole quasi bronzeo, ma con un vago tono tendente all'oliva. Era snella e non troppo alta. Agile e perfetta nelle forme e nell'equilibrio tra le parti. Soda e compatta, con un seno pronunciato e alto, glutei stretti e scattanti. Caviglie e polsi sottili e ben torniti. La linea del collo si estendeva sul petto in maniera dolce per rialzarsi subito sugli alti seni, ricadeva invece presto ai lati, accordandosi a delle spalle morbide, strette ma sostenute. I suoi capelli erano corvini e leggermente mossi, le disegnavano con naturalezza i contorni degli zigomi tondi e della mascella che sporgeva lievemente sui lati; come onde defluivano morbidamente, ricadendo in maniera sensuale, distribuiti equamente, sul petto e sulla schiena. Le sue labbra erano soffuse di grazia, perfettamente disegnate ed equilibrate, non erano ne strette ne troppo carnose, ma sembravano leggermente protendersi in un bacio. Il suo sorriso era largo ed illuminante ed era sempre accompagnato da un allargarsi dei suoi stupendi occhi. Le sue iridi erano del colore della notte, simili all'onice, larghe e contornate da un velo di ciglia lunghissime e perfettamente separate. Gli occhi tuoi sono colombe. La forma dei suoi occhi ricordava proprio il profilo di una colomba che, verso l'interno, chinava la testa nell'atto di abbeverarsi, mentre gli estremi erano la coda lievemente protesa verso l'alto. Mai vidi occhi più belli dei suoi. Mai vidi altri occhi se non i suoi.

Amal adorava vestirsi, acconciarsi e truccarsi. Era sempre estremamente attenta alle mode. Non portava mai qualcosa di classico, blando e scontato. Rifuggiva la sobria eleganza preferendo abbinamenti che enfatizzassero il suo essere giovanile e sensuale. L'estetica del puro apparire era per lei una passione e una delle poche cose sulle quali valesse la pena riflettere e dedicarsi con pazienza e premura. A volte sfoggiava piercing in punti improbabili, altre volte occasionali tatuaggi luminor dalle fluorescenze sgargianti, altre ancora lenti a contatto dei colori più disparati. Cosa che personalmente non amavo, perché il colore naturale dei suoi occhi era così raro al giorno d'oggi e la rendeva unica. Ogni volta riusciva ad adattare il proprio stile di vestiario alle svariate occasioni proposte dai club più in voga del Dedalus. Non possedeva un perenne elemento distintivo che la identificasse. Nonostante ciò era impossibile per lei riuscire a passare inosservata o uniforme: bastava il suo carattere e il suo essere sé stessa, per distinguerla come una candela nel buio indistinto della massa. Colorava le sue labbra con pazienza e perizia usando spesso un pennello di precisione, strumento ormai desueto e quasi introvabile, visto lo spadroneggiare delle neo-tecnologie in ogni campo dell'esistenza, compreso il make-up e la cosmetica. Lei disegnava il contorno della sua bocca con la stessa attenzione di un antico maestro pre-aggregato come Van Eyke o Giorgione, quasi stesse lavorando sul particolare di un'opera solenne. Il risultato della sua meticolosità era sempre impeccabile e riusciva ad enfatizzare ancora di più le caratteristiche già di per sé eccezionali del suo viso. In fin dei conti tuttavia, qualunque soluzione scegliesse per il suo look, qualsiasi cosa indossasse o in qualunque maniera decidesse di acconciare i suoi capelli o rassettare il suo trucco, a me non poteva che apparire inevitabilmente splendida. Ero come ipnotizzato dal suo essere, ammaliato dal suo apparire e stregato dalla sua persona.

Ho amato Amal. Se inizialmente potevo dire di esserne semplicemente innamorato e affascinato, in seguito non ho potuto fare a meno di ammettere a me stesso che l'amavo. Ho veramente amato Amal: non avevo altra scelta. Lei diceva di amarmi, anche se, con molta probabilità , ero solo un capriccio scaturito dalla forza delle sue emozioni più profonde, ed io mi trovai mio malgrado ad amarla, accondiscendendo, ancora una volta e senza possibilità di rifiuto, ad una sorta di istruzione scritta nei miei geni: qualcosa di perentorio ed inevitabile, qualcosa di costrittivo, che tuttavia al mio animo appariva come naturale ed adeguato. Lei era letteralmente il mio mondo, non solo la mia ragione di vita, ma anche il mio spazio di esistenza. Io, all'interno di questo spazio che lei rappresentava non ero che un'illusione che prendeva vita, progressivamente e senza rendermene conto.

Era solo per stare in prossimità di lei se ad un certo punto decisi di trasferirmi nel Dedalus. Era la mia Beatrice, ed io avevo accettato di seguirla attraverso l'Inferno di questa megalopoli aggregata, sperando un giorno di salirne la vetta, per poter volgere lo sguardo in alto, verso i cieli cristallini del paradiso, e là, nell'estasi illuminante della contemplazione di qualcosa di divino, cercare il mio spazio nell'universo e nell'esistenza, stando semplicemente seduto, assieme a lei, nel semplice atto di rimirar le stelle.

 

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Capitolo 3
*** Rinascita ***


...

«Amal».

...

Il suo nome risuonò come una voce nel buio della coscienza, lontana e subito zittita dalle tenebre circostanti. La voce era la mia e il buio era la mia mente che riprendeva forma. Il nero divenne grigio scuro e, lentamente schiarendosi, cominciò a prendere i contorni del suo viso. L'immagine sbiadì subito al comparire di una luce accecante che improvvisa cancellò le tenebre precedenti. In questo spazio astratto non vi era orientamento e direzione, eppure, da qualche parte, da un punto che istintivamente collocherei dietro le mie percezioni, sentii ridacchiare... «Eccooo!». Era il suo accento inconfondibile che esprimeva, nel suo solito modo, un misto di ilarità e di blando rimprovero. Un acuto fischio mi circondò aumentando di volume fino a divenire assordante. La luce incrementò la sua intensità fino a diventare insostenibile, quasi accompagnando la sgradevole emissione di quel suono. Un ultima e distante eco tentò di farsi largo: «... Prof... ».

Ci fu soffio poderoso. Ripresi forma e coscienza. Ero circondato da una fitta nebbia di gas sterilizzatore. Intravidi i contorni di una cabina cilindrica a misura d'uomo, spoglia e metallica. Di fronte a me vi era un vetro opaco che fungeva da uscita. Una voce femminile, suadente e pacata, risuonò dagli altoparlanti sopra la mia testa: «verifica genetica completata. Identità confermata. Materializzazione avvenuta con successo. Si prega di indossare la tuta di accoglienza. Potete recuperare le valigie e i vostri effetti personali in uscita, presso lo sportello di materializzazione inanimati A 050».

Mi vestii con triste lentezza, forse emisi involontariamente un gemito, non ero completamente padrone del mio stato emotivo in quel momento. Era come se stessi vivendo un trauma del quale non ricordavo l'origine, ma ne sentivo il peso. Attraversai il vetro che al mio passaggio divenne liquido. Sulla sua superficie si disegnò la mia sagoma e questa si riverberò con piccole onde scomposte verso i margini del portale. Emersi presso l'estremità di una spaziosa lastra circolare color onice. Sulla semicirconferenza del lato dove mi trovavo erano distribuite, fianco a fianco, qualche centinaio di cabine identiche alla mia. Mi trovavo presso lo snodo internazionale del Louvre, dove ora era costruita questa immensa struttura chiamata Materializzatore. Il posto poteva essere paragonato, per conformazione e funzione, ad un aeroporto di una civiltà pre-aggregata. Su questo stesso suolo, un tempo, vi era situato uno dei più grandi e importanti musei del mondo. In alto si intravedeva il riflesso di una cupola trasparente e al di là di essa il cielo perennemente plumbeo di Parigi. Osservai con neutralità ciò che mi si offriva davanti agli occhi. Il luogo era stravolto dalla folla e dalla pressante ispezione degli osservatori. C'era un brulichio spasmodico di persone, artificiali, droni e sintetici che andavano e venivano, tutti affaccendati in un indistinta confusione di attività e di suoni. In distanza si intravedevano gli sportelli e l'uscita dello snodoMi avviai con sicurezza verso lo sportello A050 a recuperare la mia roba e dieci minuti dopo ero già in piedi sul corridoio magnetostatico a velocità multiple che conduceva al Dedalus.

Il cosiddetto "corridoio" era in realtà un ingegnoso sistema di spostamento a cielo aperto per i pedoni. Questo permetteva, attraverso una serie di condotti evidenziati da scie luminose, di scorrere a fil di terra, aumentando la propria velocità man mano che ci si approssimava verso il centro della strada. La scia centrale arrivava alla velocità di circa trenta chilometri orari. Nel momento in cui si desiderava rallentare o fermarsi era sufficiente spostarsi gradualmente verso l'esterno, tramite un leggero sbilanciamento del corpo. Lo trovai un sistema intuitivo e sicuro. I condotti erano segnalati con luci di colori diversi che si intensificavano verso il centro. La variazione di velocità era progressiva e senza sbalzi. Nonostante la sicurezza del mezzo devo ammettere di aver avuto sul momento un po' di impaccio. Mi spostavo adagio da un condotto all'altro, all'inizio leggermente sbilanciandomi all'indietro, o portando una gamba oltre l'altra in maniera innaturale. Avevo come la vaga e assurda impressione che la gamba posteriore si allungasse in maniera elastica, come se il mio corpo fosse fatto di gomma. Sicuramente dovetti apparire un po' goffo alle persone più esperte, suscitando una normale ilarità e qualche risatina, o almeno questo era ciò che pensavo. Ma d'altronde, in quella situazione e in quel momento, ero come un bambino ai suoi i primi passi, seppur in un ambiente controllato e sicuro. Sparsi lungo il percorso c'erano numerosi droidi di servizio e di sicurezza il cui compito era, oltre quello di sorvegliare, anche quello di aiutare nel recupero da eventuali cadute i passeggeri diretti al Dedalus. In realtà, nessuno sembrava interessarsi di nessuno, men che meno dei miei maldestri movimenti lungo il corridoio. Sguardi assenti e anonimi. Non avevo la facoltà o la possibilità di rendermene conto in quel momento, ma, dal momento in cui venni materializzato allo snodo, anche il mio sguardo aveva assunto quelle stesse caratteristiche, il che rendeva ancora più ambiguo, e quasi grottesco, il mio progressivo familiarizzarmi con questo sistema di spostamento. Mentre raggiungevo con sempre maggior sicurezza il nastro centrale, i pedoni più esperti e frettolosi si destreggiavano superandomi da sinistra e da destra con uno scarto laterale.    

Nel periodo in cui giunsi al Dedalus praticamente l'intera società parigina si era già trasferita nella costruzione. I dintorni non erano nient'altro che un ammassamento di basse e grigie costruzioni fatiscenti, in gran parte disabitate o occupate abusivamente da droidi di servizio o da sintetici. Un altissimo muro di carbonite separava le decadenti costruzioni dal canale principale: un'estensione dei Champs Elysees in cui erano stati trasferiti la maggior parte degli edifici storici nell'Ancient Paris. Il canale era stato allargato a dismisura ed esteso al di là dell'Arc de Triomphe con una brusca svolta a gomito, che conduceva direttamente presso il luogo in cui si ergeva "timidamente" la Tour Eiffel; avverbio più che giustificato, dato che ora, quello che un tempo si poteva considerare un gigantesco monumento, era completamente inglobato, quasi come fosse una miniatura o un portachiavi, all'interno del mastodontico progetto del Dedalus.

Passai l'ampio cortile del Louvre in un baleno e subito fui proiettato nella nuova compagine degli stipati monumenti e palazzi che formavano i nuovi Champs Elysees. Il trasferimento aveva stravolto completamente la conformazione originale, trasformando il luogo in un grottesco assembramento statuario e architettonico: un ricordo sbagliato dell'Ancient Paris, che nulla conservava di ciò che un tempo possedeva di squisitamente artistico. Lungo il canale non vi era più l'affollamento di negozi di alta moda, centri commerciali e ristoranti della più alta cuisine francese; era come il rapido scorrere della memoria sui resti di una società vetusta, vissuto con lo stesso rispetto ed emozione che si hanno di fronte a delle rovine di città greco-romane, viste di sfuggita dal finestrino di un aero-bus. Dopo uno stupore obbligatorio, qualche bocca aperta, un sospiro e qualche foto, il dovere intellettuale di ogni buon turista è risolto, quindi ci si può dimenticare istantaneamente di quelli che non sono nient'altro che sedimenti umani storicamente attardati in qualche mucchio di mattoni. Lo squallore di quell'ammassamento era rafforzato da quell'insieme di luci trasversali, che dal basso allungavano le ombre di questo mucchio sconnesso di monumenti sulle retrostanti altissime mura di carbonite e non facevano altro che enfatizzare quella forzatura. Di tanto in tanto, tra le ombre dei monumenti, si intravedeva una inquietante sagoma sferica galleggiante di colore nero che emetteva una luce viola intermittente: un osservatore.

Mentre viaggiavo ormai ad un andatura stabile, ritto al centro della strada, sulla sinistra, per tutto il percorso, ben al di sopra delle mura di carbonite, si innalzava luminoso, imponente e senza fine il mio obiettivo. Appena passata quella curva a gomito, che un tempo segnava il passaggio sotto l'Arc de Triomphe, il Dedalus, la più grande struttura architettonica che mai fu creata dall'uomo, mi era completamente di fronte e si approssimava lentamente, inesorabile e titanico, quasi a sfidare il giudizio di Dio.

 

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Capitolo 4
*** La Torre di Babele ***


Non c'era altro che occupasse la vista e la mente, solo questo colosso spaventoso e invadente. Un brivido sinistro di timore reverenziale e nel contempo di stupita soddisfazione mi pervase, facendomi accapponare la pelle delle braccia. Quando alzai la testa, quasi caddi all'indietro, ma anche in distanza, la cima si perdeva nel buio della notte e delle nubi, rivelando solo qualche baluginio distante di chilometri. Allo snodo avevo sentito di sfuggita discutere alcune persone che dicevano capitasse abbastanza frequentemente che il nastro conducesse a destinazione alcune persone svenute. Il sistema di sicurezza e i droidi di sicurezza medica erano stati programmati anche per intervenire in questo genere di situazioni e quando accadeva che qualcuno rimanesse tramortito sul nastro, veniva prontamente recuperato e rianimato. Alla vista del Dedalus, in tutta la sua terribile imponenza, non mi riusciva incredibile credere che potessero accadere degli episodi di questo tipo. Ma in quel momento non mi sarei accorto di niente, ero semplicemente sopraffatto da una sensazione di piccolezza ed impotenza, turbato nel profondo da quella che si prospettava essere una nuova ed oscura pagina della mia esistenza.

Vi erano altri esempi nel mondo di megalopoli aggregate che potevano essere paragonate al Dedalus di Parigi, come il Kubilai di Beijing, l'Odhinn di Dublino o il McDonalds di Newyork. Questi erano altrettanti immensi esempi di queste nuove forme di insediamento umano, ma nessuno di essi sfidava il trono di Dio con la stessa esagerata spudoratezza del Dedalus. Dalle basi lunari, era sufficiente un vecchio binocolo, neanche troppo potente, per discernerne la sagoma: era come un grosso chiodo luminoso, profondamente conficcato sulla superficie terrestre.

Mi trovavo di fronte a un tripudio di fasci di luce iridescente, insegne luminose e giganteschi schermi pubblicitari, convulsamente incastrati tra grovigli inestricabili di un complesso di tubature e collegamenti in fibra fotosintetica. Un numero infinito di piattaforme parcheggio levitanti si arrampicavano sulla struttura, perdendosi in distanza e, attorno ad esse, si distingueva un perpetuo ronzare di aeromobili che svolazzavano, pullulanti e attive, come api attorno ad un alveare. La vastissima base, il cui perimetro quadrato si estendeva per chilometri, era una vaga e grottesca imitazione del progetto originale della oramai inghiottita Tour Eiffel. I quattro immensi pilastri angolari emanavano una tenue luce blu fluorescente, mentre suggevano energia dal nucleo terrestre, per distribuirla senza economia in tutta la struttura. Queste luci salivano sempre più su, perdendosi nella notte, con una leggera curvatura e un progressivo e lento assottigliamento, che lasciava solamente intuire un loro possibile congiungimento verso la vetta. Un'unica e roboante volta, protetta dalla schermatura di cristalli-laser, lasciava in trasparenza penetrare lo sguardo all'interno della base, dove si poteva distinguere, non troppo chiaramente, l'incrocio di ferro del vecchio monumento. Tutto intorno ad esso, il saettare di ascensori tubolari brulicanti di attività umana e non, il frastuono caotico di suoni, lingue, musica, ritmi meccanici e pubblicità promanati dal Dedalus in un disperato e forzato tentativo di assimilazione globale, mi incusse un timore biblico, in maniera ancora più pesante di quanto avessi potuto cogliere fino al quel punto semplicemente con lo sguardo. Nella mia mente risuonavano con gravità le parole dell'antico libro della Genesi:

"venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra",

ma questa volta, a dispetto di ogni monito divino, la costruzione della torre di Babele aveva trovato compimento.

Il Dedalus non sfidava solo la volta celeste. Si vociferava infatti che esso sprofondasse le sue radici per chilometri anche sotto la crosta terrestre: un labirinto infernale di sobborghi poveri e malfamati, con piani e piani, quasi gironi danteschi, di strumentazioni di alimentazione e sostegno per la struttura sovrastante. Questo inferno sotterraneo era costantemente mantenuto in funzione da robot riparatori e sorvegliato da migliaia di osservatori, che, con la freddezza che solo una macchina poteva avere, applicavano indistintamente la legge della dematerializzazione. A nessun vivente era infatti consentito l'accesso nell'Ade e nessuno, a quanto si diceva, aveva mai provato a violare questa legge. Cosa ci fosse sul fondo di questo abisso nessuno lo sapeva con certezza. Si congetturava verosimilmente che nel nucleo più infimo e buio di quel martirio d'acciaio vi fosse "Lo 'mperador del doloroso regno": il computer centrale del Dedalus.

Mentre mi accingevo, nella mia piccolezza, a sorbire quanto più potevo da quel colosso, tramite le mie limitate percezioni umane, accadde un episodio bizzarro. Qualcosa dentro di me suggerì di voltarmi verso sinistra, probabilmente avevo colto un insolito movimento con la coda dell'occhio. Appena mi voltai notai ad un paio di canali di distanza, appena sotto il campo visivo, una macchia nera, sinuosa e lucida. Vidi due triangolini neri appuntiti sulla sommità di un piccolo cranio rotondo e un musetto allungato: era un gatto. La sua lunga coda sventolava morbidamente e con gli occhi chiusi, con lentezza, allungava la linguetta rosata, forbendo con pazienza la sua zampetta destra. Cosa diavolo ci faceva là un gatto? Non era di certo il contesto più comune in cui trovare un animale da compagnia. Isolato e nella sua placida tranquillità sembrava perfettamente a suo agio e fluttuava lentamente sulla strada non badando minimamente a tutto ciò che succedeva intorno ad esso. Lo vedevo lentamente allontanarsi all'indietro, mentre il mio nastro mi trasportava poco a poco e regolarmente verso la struttura, ad una velocità leggermente superiore alla sua. Quando alzai gli occhi di fronte a me sul resto della folla in esodo verso il Dedalus, per vedere se ero l'unico tra i presenti ad averlo notato, il mio cuore per un momento sembrò come arrestarsi. Ogni singola persona che mi stava davanti era girata verso l'animale, nessuno escluso! Tutti stavano immobili con uno sguardo fisso e incredulo, lo stesso tipo di sguardo che pochi istanti prima era rivolto verso la costruzione. Per un momento calò un silenzio spettrale sulla scena. Era come se fossi in presenza di un esercito di fantasmi silenti. Anche le macchine erano completamente ferme, solo le luci del corridoio magnetostatico continuavano a pulsare, mentre i canali emettevano un sommesso ronzio. Mi voltai nuovamente verso il felino, che in quel momento credetti essere piuttosto distante alle mie spalle e mi venne un capogiro quando, nel voltarmi, vidi di fronte a me una folla indistinta nella sua totale, caotica e normalissima mobilità . Tutte le persone mi davano le spalle e sullo sfondo, ancora una volta, il Dedalus! Dell'animale non vi era alcuna traccia e il corridoio proseguiva la sua corsa lineare verso la struttura, senza nessun intoppo o cambio di direzione... Possibile? E se in un primo momento mi fossi voltato all'indietro, dando le spalle alla struttura, senza nemmeno accorgermene? L'unica spiegazione vagamente plausibile che mi passò per la testa fu che, probabilmente, la materializzazione poteva avere qualche effetto collaterale temporaneo, generando occasionalmente degli sfasamenti a livello percettivo. «Hahahahahaha», risi forzatamente, come per auto-convincermi di questo pensiero, sebbene il mio viso rivelasse, dietro l'ilare maschera che mi ero creato, la spaventosa evidenza del mio terrore inconscio. Ma certo! Cos'altro poteva essere? Sicuramente appena avessi raggiunto la mia sistemazione, dopo aver riposato un po', mi sarei dimenticato di tutta quella orrenda faccenda e ogni cosa sarebbe tornata ad essere assurdamente normale. Sì... sarebbe stato di certo così...  

 

 

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Capitolo 5
*** Cubiculum ***


Il drone ronzava fluttuando lentamente di fronte a me. Le mie valigie galleggiavano a mezz'aria appena sotto di esso, avvolte da un campo magnetico invisibile. Camminavo lungo un infinito corridoio squadrato, freddo e metallico, le cui pareti lucide riflettevano le nostre immagini distorte e oblunghe. Su entrambi i lati, a intervalli regolari, comparivano delle porte dissolventi di vetro oscurato, simili a quelle delle cabine del Materializzatore, ma queste erano di forma ottagonale e si aprivano tramite una chiave a riconoscimento genetico. Le strutture abitative dei piani intermedi, come l'hotel cubicolare in cui mi trovavo, erano molto simili a degli alveari. Si dividevano spesso in piani intermedi che seguivano il bordo esterno della struttura. I cubicula erano abitazioni tutte identiche, sia nella conformazione interna che nell'accesso esterno ed era pressoché impossibile distinguerli. Mi chiesi con una certa preoccupazione come avrei fatto a ritrovare il mio cubiculum una volta uscito.

Il corridoio proseguiva senza sosta, quasi rettilineo, solo molto in lontananza si poteva intravedere una lieve svolta verso sinistra che lasciava intuire la conformazione circolare del piano interno in cui mi trovavo. Il drone si fermò improvvisamente di fronte ad una delle porte e fece scivolare dolcemente verso il basso i miei bagagli. Si rivolse a me emettendo dagli altoparlanti una voce cordiale, che simulava perfettamente quella di un maggiordomo e disse: «eccoci a destinazione monsieur». Allungò un asticella meccanica porgendomi un oggetto che assomigliava ad un sottile orologio da polso e aggiunse: «ecco a lei la chiave della sua abitazione. Possiede molte funzioni. Per conoscerle può consultare la guida in linea alla voce "aiuto". Tra le varie funzionalità inoltre, grazie al dispositivo di guida e localizzazione, la sua chiave genetica può individuare il percorso da seguire per raggiunge la sua dimora. Questo ovviamente nel caso decidesse di allontanarsi, per esplorare le meraviglie del Dedalus». Potevo quindi smettere di preoccuparmi. Tutto, in questa neo-società, sembrava pensato e calcolato per rendere facile e automatica l'esistenza degli abitanti. Sembrava quasi che le persone, per qualche assurda e innaturale consuetudine acquisita, dovessero avere il diritto di essere dispensate da ogni minimo sforzo.

«Le auguro un'incantevole permanenza monsieur». E con queste parole il mio maggiordomo si congedò, allontanandosi con lo stesso monotono ronzio che aveva accompagnato la nostra passeggiata d'accoglienza. Indossai l'orologio e allungai timidamente la mano facendola passare oltre il vetro. Volevo semplicemente assicurami che la chiave funzionasse evitando di andare a piantare il naso contro una lastra impenetrabile; cosa che sarebbe inevitabilmente successa se avessi tentato di attraversare una qualsiasi altra porta.

Il vetro conduceva ad una cabina angusta ma ampiamente illuminata. Ai due lati c'erano altre due porte a dissolvenza. Sul vetro di entrambe, come in uno schermo, appariva un simbolo che indicava la stanza che era stata predisposta all'interno di ogni porta. Come in ogni cubiculum, questo stretto spazio in cui mi trovavo era definito: cabina di conversione. In pratica, quando si voleva cambiare stanza, bastava selezionarla con un semplice slide della mano di fronte allo schermo e, quasi istantaneamente, la stanza assumeva la forma desiderata, perfettamente riassettata e ripulita, con gli oggetti predisposti esattamente così come li si aveva lasciati. Gli imperativi erano comodità, economia ed efficienza. I muri interni delle stanze erano costituiti da pannelli interattivi che potevano essere impostati con qualsiasi genere di motivo o immagine, oltre che fungere da schermo per qualsiasi genere di applicazione.

Gli hotel cubicolari occupavano generalmente piccole porzioni delle circonferenze periferiche della struttura. Il centro era invece costituito da spazi più larghi e variamente dedicati ad aree comuni di vario genere: commerciali, sociali, culturali, aree di produzione e aree definite bucoliche.

Le aree commerciali e sociali erano gremite di locali, negozi, centri benessere, palestre, nightclub, discoteche, pub e piazze simulate. Erano sostanzialmente la perfetta imitazione di un centro città. La loro ampiezza e lo stile variavano in base al piano di residenza. I primissimi piani erano per la quasi totalità impostati per il turismo e ci si poteva trovare locali ed esercizi di ogni sorta e di ogni livello economico, un po' come accadeva nei centri pre-aggregati. Nei piani più alti, verso la vetta del Dedalus, c'erano ovviamente solo le abitazioni più raffinate e i locali più prestigiosi. L'accesso a questi piani era riservato a pochi eletti e per raggiungerli era necessario possedere dei permessi speciali. I piani intermedi invece erano molto più caotici e variegati. Per lo più ci si aspettava di trovare zone destinate ai ceti medi, ma non tutto era distribuito con una coerente soluzione di continuità. L'aspetto e la conformazione di ogni piano era l'esito immediato della società che ci viveva. Era come trovarsi tra i differenti distretti di una gigantesca città. Tutto seguiva l'economia e il flusso commerciale prodotto dalle aggregazioni umane che vi abitavano. Non era quindi impossibile, o così inconsueto, trovare un centro rinomato, affollato e per così dire "alla moda", appena al di sotto di un piano il cui centro era invece parzialmente ghettizzato o povero.

Le aree bucoliche erano una delle meraviglie tecnologiche del Dedalus. In tutta la struttura era presente un sistema detto simulatore atmosferico. Ogni genere di ambiente (naturale e non) e ogni genere di condizione atmosferica, potevano essere perfettamente riprodotte. Non erano semplici proiezioni olografiche, dato che non si trattava di mere immagini sospese nell'aria, bensì di qualcosa che aveva un riscontro materiale e percettivo coinvolgente tutti e cinque i sensi. Alcuni dei più ricchi aristocratici e magnati del Dedalus, certamente abitanti dei piani alti, possedevano un simulatore atmosferico integrato nelle proprie dimore, con la possibilità di regolarne intensità e funzioni. Sebbene funzionasse in maniera simile in ogni area, a seconda delle più svariate necessità, nelle zone bucoliche il simulatore trovava la massima espressione del suo potenziale. In queste zone "all'aperto", quando il sistema lo riteneva abbastanza verosimile, poteva ancora capitare che qualcuno maledicesse un acquazzone. C'era addirittura un canale che, per puro intrattenimento, trasmetteva le previsioni del tempo, seguendo un algoritmo che si modulava solo parzialmente sul sistema di simulazione. In tal modo, la casistica di previsione non era sempre perfettamente corretta, lasciando che il sistema generasse occasionalmente delle sorprese.

La nuova Parigi mi sorprendeva sempre di più e mi chiedevo quanto questa assurda novità non cercasse di essere nient'altro che una replica della realtà, spesso così fedele da sfuggire al controllo umano: un'infallibile analogia di ciò che nell'antichità era attribuito al potere divino e che ora non era nient'altro che un complicatissimo calcolo digitalizzato del Caso. Un calcolo che solo pochi avevano il privilegio di bypassare. Ma anche i piani alti, e più ancora gli intermedi, dove c'era una sorveglianza meno pressante, avevano i loro luoghi oscuri: vicoli segreti e corrotti, dove reietti e criminali continuavano le loro attività; così come d'altronde ci si può aspettare che accada nei retrobottega di una metropoli esausta come Parigi. Per quanto si spazzi, la polvere si accumula, e anche i topi nel tempo imparano a svincolarsi dalle trappole elettroniche, forse fin troppo velocemente.

Mi ero già sistemato, avevo disfatto le valigie e mi ero praticamente lasciato cadere sul letto che, accogliendomi morbidamente, prese perfettamente la forma del mio dorso, assestandomi elettronicamente nella posizione più comoda possibile. Non chiusi gli occhi. Mi assalì subito con impazienza la necessità di far sapere ad Amal che mi trovavo lì, nello stesso luogo in cui si trovava lei, sebbene distanziato da chilometri di mura metalliche e illusioni. Mi recai nella stanza a fianco, già preimpostata come bagno, e stando davanti a un gigantesco specchio, cercai di rassettare la mia figura e il viso. Quando mi chinai per sciacquarmi la faccia e mi rialzai, vidi un'espressione non mia. Chi era la persona che mi stava davanti? Le fattezze erano solo parzialmente corrispondenti. Ma non era solo la mia espressione, c'era qualcosa di totalmente insolito nei miei connotati. Non riconoscevo i miei lineamenti. Mentre l'acqua mi gocciolava dagli zigomi e dal naso, feci lentamente e inavvertitamente un passo indietro sconvolto. Non avevo distolto lo sguardo per una sola frazione di secondo e mi ero proteso in avanti, ponendo una mano sulla bocca. Ero sicuro di non aver sbattuto le palpebre, neanche una sola volta, eppure, eccomi lì allo specchio... ero di nuovo io! Mi riscossi con decisione, allontanando i pensieri oscuri che cominciavano a profilarsi in risposta all'evento appena accaduto. Ignorando forzatamente il senso di inquietudine che mi stava prendendo lo stomaco, tornai in camera per accendere l'olofono. Composi immediatamente il mio viso in un sorriso, forse un po' esagerato e finto, ma non volevo apparire ne sconvolto per quanto mi era appena capitato ne avvilito o rattristato per come la situazione si era interrotta nei miei precedenti contatti con Amal. Quando cominciai a pensarci, il ricordo dell'immagine allo specchio svanì immediatamente per lasciare il posto allo sconforto. Era una emozione familiare, alla quale mi ero oramai abituato e che, in un certo senso, mi fece sentire un po' meglio, perché mi assicurava che quella persona ero io e lo ero in profondità. Sebbene fosse sorta in me improvvisamente questa sicura e familiare tristezza, ero anche abituato a dissimularla, o per lo meno era ciò che pensavo di saper fare, quindi mi apprestai ad inviare il mio olostato ad Amal con questo intento.

«Heilà, stella, so che non dovremmo sentirci... Questi erano gli accordi... Ma... cazzo, è più forte di me, non riesco a starti lontano!», feci un ampio sorriso e di fronte al mio viso comparve un gigantesco faccione rotondo e giallo, uno smile 3d con i dentoni. «Non ci crederai mai... Sono qui! ... Sono venuto nel Dedalus... solo per te!». Ci fu una pausa, forse troppo lunga. Per un momento credetti di star tradendo le mie emozioni. Non volevo assolutamente mostrare la mia debolezza, quindi sorrisi di nuovo in maniera dolce, anche se forse un po' malinconica e chiusi il messaggio dicendo semplicemente e con sincerità: «ti amo Stella...». Inviai l'olostato sospirando in maniera pesante e attesi. Attesi ore con ansia quella maledetta sferetta verde che confermava la visualizzazione del messaggio.

Non accadde nulla.

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Capitolo 6
*** Agorà ***


Vivevo in un mondo nel quale il sonno non era mai esistito. Sinceramente non riuscivo a ricordare quando fosse stata l'ultima volta in cui avevo dormito. Attesi, avvilito e svuotato, le cosiddette ore della veglia, anche se, nelle atmosfere simulate di questa metropoli, non esisteva veramente un giorno e una notte. Tutto poteva variare da un piano all'altro secondo delle regole e delle consuetudini che mi erano del tutto oscure. Il tempo era incalcolabile. Forse ero lì da un solo giorno, forse ero lì da alcune settimane. Mi sovvenne il terribile sospetto di essere nato in quel luogo e di non essermi mai mosso. Materialmente parlando non era un affermazione falsa: mi ero materializzato nella nuova Parigi e in tal modo ero come rinato in essa, sebbene totalmente reincarnato nel mio sé preesistente.

Attesi a lungo una risposta dall'olofono che non arrivò mai. Poi decisi di vagare, nell'improbabile speranza di incontrare Amal o, per lo meno, di coglierne un immagine sfuggevole tra gli assembramenti di giovani, più incoscienti che spensierati, che si raggruppavano attorno a un locale alla moda o si sparpagliavano più semplicemente nelle piazze a fare baldoria.

I rumori scivolavano su di me, mescolandosi in un concerto di cacofonie incomprensibili. Le luci imprimevano, su asfalti e ciottolati fittizi, l'ombra dei miei passi incalcolabili.

Ti ho inseguito, in un paese d'illusioni. Così vicina e irraggiungibile, tu sei il mio sangue. Ombra della Senna che non è più, volevo affogare nei tuoi flutti. Ti ho cercato, disperandomi in silenzio e tu eri lì: dove le mie orme s'erano appena estinte. La tua immagine mi perseguitava, come uno spettro. Eri le mille donne che mi davano le spalle. Così vicina e irraggiungibile, ombra. Dalle cime di false vedute, la mia vista spaziava su fluorescenti lumi, cercando la luce oscura dei tuoi occhi.

Densi sbuffi di fumo mi accompagnavano, mentre la pipa bruciava, arancio brace, lenta e intermittente. La speranza si allacciava a questi sbuffi di nebbia, lentamente dissipandosi, di giorno in giorno, di minuto in minuto... Mi portasti via le tue mani, mi portasti via il tuo viso... Il silenzio rimbombava dentro di me, come un grido terrificante che aveva il sapore di morte. Da dove veniva questo terribile presentimento? Questo annichilimento che non era mai stato parte di me, prima che tu lo inventassi di proposito?... solo per me.

Ero sbucato in una larga piazza ad impianto medievale. Tutto il lato sud era occupato dalla replica di una chiesa in stile novecentesco con tanto di affreschi esterni. Nella strada contrapposta c'erano una serie di edifici semi-restaurati, al di sotto dei quali scorreva un lungo porticato a volte. Ovviamente era un ambiente completamente simulato, ma il sistema dava un tale effetto d'immersione che ci si abituava quasi subito a vagare nelle sue illusioni.

Sentii un urlo esagerato di euforia. Appena dietro un largo incrocio, vidi un ragazzo di colore slittare su un hoverboard: una sorta di tavola volante. Il ragazzo saltò all'indietro in maniera goffa, lasciando scivolare in avanti la tavola che andò a urtare violentemente un passante. Dietro di lui c'era una compagnia mista di ragazzi e ragazze che ridevano chiassosamente. Il passante protestò irritato e in cambio ottenne una risposta scurrile. Alcuni dei ragazzi seguivano la scena, mentre altri continuavano le loro futili e spensierate conversazioni. Non potevo sapere se fossero felici, ma lo sembravano, o almeno davano l'impressione di divertirsi, come se non ci fosse questione o problema che li potesse sfiorare. Erano belli nella loro spontaneità e semplicità. Mi sovvenne che anch'io avrei potuto essere stato così, in un tempo che non ricordavo, anche se non troppo lontano. Sentii una fitta al cuore. Tra di loro c'era Amal! La si vedeva completamente a suo agio in quel contesto. Non era finzione. Si sentiva bene e il suo stato d'animo traspariva, palesandosi nel suo modo di ridere, sempre esagerato, a bocca spalancata, ma che le donava una simpatia singolare.

Mi trovavo ad una certa distanza, sul lato opposto della larga piazza che mi separava dall'incrocio e, in mezzo a tutta la gente, potevo non essere notato. Non mi sfiorò nemmeno l'idea di provare ad avvicinarmi, era come se vedessi una scena completamente dall'esterno, una scena alla quale non appartenevo. Emisi uno sbuffo con la pipa e dietro il bocchino le mie labbra si allungarono in un sorriso sincero e un po' malinconico. Vidi un osservatore avvicinarsi al ragazzo di colore, probabilmente per riprenderne il comportamento. Il ragazzo sbuffò scocciato, ma non si permise di contraddire la macchina. Amal stava dietro al gruppo, coprendosi la bocca aperta con la mano, ma gli occhi le ridevano ancora. Stetti ancora qualche istante a godere dell'immagine e poi mi allontanai fingendo indifferenza. «Così vicina e irraggiungibile», pensai. Decisi che sarei tornato alla mia abitazione a piangermi addosso. La situazione non poteva cambiare e venire nel Dedalus era stato un errore. Non ricordavo però quando avevo preso quella malsana decisione e per qualche strano motivo gli avvenimenti che l'avevano preceduta apparivano sbiaditi e disordinati nei miei ricordi, un po' come se non fossero dei ricordi totalmente miei. Nella mia mente sembrava che tutto ciò che precedeva il mio arrivo al Dedalus fosse in realtà il ricordo del racconto di un'altra persona.

Non passarono più di trenta secondi dal momento in cui decisi di muovermi, quando esplose il suono acutissimo di un allarme. Improvvisamente tutto il sistema di simulazione ambientale si spense, rivelando gli sfondi metallici e squadrati della vastissima sala in cui ci trovavamo. Il tetto emetteva una fortissima luce bianca che pioveva dall'alto, cancellando le ombre dei presenti. Una voce femminile si diffuse dagli altoparlanti, alternandosi al suono dell'allarme. «Anomalia rilevata! si pregano i presenti di rimanere stazionari per un controllo genetico». Molti, incuranti dell'avviso, fuggivano in varie direzioni. Io rimanevo al centro di quella che pochi istanti prima era la piazza, completamente spaesato e paralizzato dall'evento. Mi sentivo come denudato, come se fossi stato scoperto in un atto perverso che non avevo commesso, ma che per qualche ragione di origine inconscia mi faceva ugualmente sentire in colpa. Lanciai un'occhiata in direzione dei ragazzi, voltando rapidamente la testa. Li vidi di schiena mentre se la davano a gambe, ma ebbi per un istante l'illusione di cogliere uno sguardo fuggevole di Amal, un po' come se nella fuga fosse riuscita a catturare ugualmente la mia immagine con la coda dell'occhio. D'altronde era quasi impossibile non notarmi, ero praticamente l'unico rimasto in mezzo a quella lastra metallica. Poche altre anime stavano immobili vicino alle pareti esterne. Tutti, per qualche strana ragione, stavano guardando me. Due osservatori, palle fluttuanti di un lucido color giaietto, si avvicinavano silenziosamente. «Verifica genetica Monsieur», disse il primo con una voce cordiale che lo rendeva ancora più inquietante. Io rimanevo immobile senza sapere cosa fare. La palla ripeté, sempre cordialmente: «verifica genetica Monsieur. La prego di allungare l'arto superiore sinistro». Pensai per un momento che volesse verificare la mia identità tramite la chiave genetica da polso. Quando allungai la mano verso la macchina quasi mi cedettero le gambe: avevo sei dita!

L'osservatore emise una luce rossa e con una voce fredda e robotica, completamente differente dalla precedente, squillò: «anomalia genetica rilevata, identità non confermata!». Non avevo la minima idea di quello che mi sarebbe successo o cosa mi avrebbero fatto, ma, a questo punto, mi sembrava evidente che le mie paure, legate a un qualche difetto nel trasferimento avvenuto al Materializzatore, fossero fondate.

«Procedo con verifica di approfondimento», un fascio di luce verde smeraldo uscì dal centro della sfera nera e mi scansionò a partire dalla testa. Mi sentii svenire. Quando raggiunse il livello delle braccia guardai ancora quella deformità... No... com'era possibile? era svanita! La mia mano era perfettamente integra e normale! Credetti di stare impazzendo. L'osservatore terminò la scansione ed annunciò il responso: «identità confermata, anomalia non rilevata». La voce dell'osservatore riprese il tono cordiale precedente: «grazie per la collaborazione Monsieur! Mi scusi per il disagio».

Ma non era ancora finita. Il secondo osservatore si avvicinò al primo e cominciò a scansionarlo: «controllo di routine». Il fascio verde di scansione cambiò improvvisamente colore divenendo di un intenso rosso lampeggiante. «Anomalia rilevata! Macchina difettosa, si procede con la disattivazione». Ci fu come un sibilo liquido nell'aria, seguito da un'onda d'urto in direzione della sfera. Questa volò a mezz'aria per qualche metro per poi schiantarsi a terra, come se si fosse improvvisamente spenta. L'involucro esterno si infranse in migliaia di pezzetti di vetro nero, rivelando all'interno una serie di circuiti e schede elettroniche. Un liquido di raffreddamento color blu fluorescente si diffuse sulla pavimentazione grigiastra. L'osservatore si rivolse a me in tono pacato, con la stessa formula del precedente: «grazie per la collaborazione Monsieur! Mi scusi per il disagio». Dalle pareti laterali si aprirono delle fessure dalle quali uscirono dei piccoli robot simili a dei ragni meccanici. Il bulbo posteriore di questi esseri era costituito da una specie di involucro, formato da fasci incrociati di laser, che andavano a creare una rete atta a raccogliere i pezzi rotti dell'osservatore. Mentre questi ripulivano il terreno, ripresi la mia strada con una camminata nervosa. Dove diavolo ero capitato? Era tutto troppo assurdo!

Mi diressi senza indugio verso il mio cubiculum seguendo le indicazioni vocali della mia chiave da polso. Intanto, il simulatore ambientale aveva ripreso a funzionare e le persone affollarono nuovamente la piazza, come se non fosse successo niente.

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Capitolo 7
*** La Biblioteca di Alessandria ***


Il rumorio frastornante del Dedalus accompagnò, totalmente ignorato, il mio ritorno all'hotel cubilcolare. L'affermazione dell'osservatore risuonava costante nel mio cervello: «identità confermata, anomalia non rilevata», ma più la ripetevo dentro di me, meno la trovavo convincente. Il gatto nero sul nastro, il comportamento di tutte le persone che mi circondavano, il volto allo specchio che non mi apparteneva, la miriade di sensazioni inspiegabili che mi assalivano in continuazione da quando mi trovavo al Dedalus, infine le sei dita della mia mano sinistra. Non c'era analisi genetica che potesse convincermi del fatto che tutto ciò fosse normale. Cos'altro mi sarebbe capitato? Fino a quando avrei potuto mantenere la mia sanità  mentale? Sempre che questi stessi avvenimenti non fossero già  da cogliersi come segnali di una forma di follia che serpeggiava nella mia psiche.

Sentivo la necessità  di trovare il modo di occupare la mia mente e nel contempo bramavo un briciolo di spiegazione logica che sostituisse, o quanto meno confermasse, le mie più buie supposizioni. Quando tornai al mio cubiculum chiesi all'olofono se c'erano messaggi. La risposta negativa che ricevetti non mi sorprese affatto. Mi buttai sfinito sul letto, il materasso si adattò perfettamente alla mia forma senza darmi il sollievo che mi aspettavo e cominciarono a salirmi le lacrime agli occhi. Piansi caldamente, sbuffando come un bambino, sentendo nella maniera più imperante la mia totale solitudine. Non saprei dire quanto rimasi in quelle condizioni, dato che il tempo in quel nuovo mondo, come ho già  avuto modo di puntualizzare, era praticamente inesistente. Non mangiai, non mi lavai ne mi cambiai. Mi alzai con uno scatto deciso, mentre il letto si riassettava in automatico, e mi convinsi che sarebbe stato opportuno visitare la Biblioteca di Alessandria, per affogare i pensieri nella lettura e nel lavoro. Dentro di me covavo l'improbabile speranza di trovare qualche risposta.

La Biblioteca di Alessandria era la più grande raccolta di libri digitali del mondo moderno e si trovava proprio nel Dedalus. Al suo interno era possibile trovare file risalenti direttamente al mondo pre-aggregato e sistemi informatici in grado di leggerli e interpretarli. Durante il periodo della grande digitalizzazione, tutti gli antichi manoscritti della cultura classica e moderna vennero trasformati in versioni anastatiche digitali, accompagnate da sistemi di traslitterazione e traduzione in ogni lingua. A tutela della cultura e del sapere, la maggior parte di questi cimeli di dati non erano disponibili nella rete pubblica, quindi si rendeva necessario recarsi di persona in questi "luoghi di culto", che oramai interessavano solamente pochi esperti del settore e qualche appassionato. Alessandria sarebbe diventata il nuovo punto di riferimento per le mie ricerche linguistiche e letterarie, ma anche questa volta le mie speranze sarebbero state inevitabilmente disilluse.

La struttura si trovava ai piani alti, anche se non propriamente nella vetta di questa torre di Babele. Il tragitto in ascensore mi sembrò interminabile. Mi trovai a sorridere ironicamente, mentre pensavo che avrebbero potuto creare dei piccoli materializzatori per permettere alle persone di teletrasportarsi velocemente dai piani inferiori a quelli superiori. Mi venne un brivido al solo pensiero di dover effettuare un altro trasferimento. Quando le porte dell'ascensore si aprirono mi trovai di fronte ad uno spettacolo incredibile.

La Biblioteca di Alessandria si distribuiva circolarmente, come una sorta di anfiteatro romano. I gradoni che ne costituivano i piani erano evidenziati da brillanti luci colorate che partivano dal suolo. I colori sfumavano, di porzione in porzione, seguendo l'ordine dei vari generi e sotto-generi letterari che vi erano contenuti. Lungo le pareti di ogni piano c'erano degli schermi di lettura: degli ampi ed eleganti vetri sospesi nell'aria. Sulla volta di questo anfiteatro del sapere, veniva perennemente proiettata una spettacolare e nitida veduta del cielo stellato di Parigi. Era uno spettacolo rarissimo in natura, poiché i cambiamenti climatici del secolo appena passato hanno dato origine ad una perenne cappa di nubi che ricopre quasi interamente il pianeta. La presenza umana nella biblioteca era una minoranza. C'erano numerosi droni a forma piramidale che scivolavano da uno schermo all'altro, lentamente e uniformemente. Alcuni sintetici, di fattezze femminili molto sobrie e anonime, facenti sempre parte dello staff della biblioteca, accompagnavano le poche anime presenti, aiutandole nelle loro ricerche. Uno di loro si avvicinò a me. A differenza dei droni e degli artificiali, che sostanzialmente erano macchine programmate per scopi specifici e con funzioni sociali molto limitate, i sintetici erano programmati e ottimizzati per interagire con gli umani, facendo da ponte interpretativo con le altre macchine.

«Benvenuto gentile lettore, il mio nome è Alma 84, come posso aiutarla nelle sue ricerche? Desidera una guida che la delucidi sulle varie sezioni di lettura di Alessandria? Oppure preferisce visitare in libertà  la biblioteca, senza le fastidiose pressioni di una macchina?». Un po' come tutti i robot del Dedalus la sua voce era calma e pacata, ma, a differenza di quelli che avevo incontrato precedentemente, forse anche per la mimica facciale estremamente realistica, la sentii meno finta, meno forzata; sicuramente mancava di quell'effetto scostante che avevo provato di fronte agli osservatori. Riflettei un attimo sul da farsi, non volevo immediatamente indagare sui miei problemi. Avevo bisogno di staccare almeno momentaneamente da quel pensiero. Decisi di proseguire con alcune ricerche che ricordavo di aver lasciato in sospeso prima di venire a Parigi.

«Cerco un testo filosofico del 1600. In realtà si tratta di un testo molto particolare... forse avete una sezione dedicata all'occultismo?». «Oh, ma certo signore! Che argomento affascinante! La sezione dedicata alla filosofia e al pensiero umano è la penultima in altezza». Sorrise in maniera molto naturale. «Un posto appropriato per una materia così elevata, non trova? Un po' come se ad una salita fisica corrispondesse una contemporanea elevazione spirituale». Mi sembrò un'osservazione molto ben centrata ed intelligente. Non mi sarei mai aspettato una simile risposta da un sintetico. Pensai che la capacità di proporre questo tipo di analogie fosse una prerogativa umana e non credevo che una macchina ne fosse capace. Sorrisi anch'io divertito e incuriosito e tentai un dialogo. «Ma certo! è sicuramente uno dei miei maggiori interessi. Anche voi sintetici vi dilettate nello studio del pensiero umano?». Sorrise ancora, ma sorprendentemente, la sua risposta fece trasparire immediatamente quelli che erano i suoi limiti. «Ha ha ha, non mi fraintenda signore, noi non siamo programmati per questo genere di cose. Il nostro compito è fare in modo di accompagnare voi lettori verso l'illuminazione, ma a noi questa possibilità è negata e, ovviamente, non ne sentiamo il bisogno, così come non possiamo realmente comprendere cosa significhi. Tutto ciò che noi diciamo ed elaboriamo non è nient'altro che una simulazione dell'umano, non l'umano stesso». Nonostante avesse appena ammesso di essere una macchina, ero affascinato dalle sfumature di pensiero che era in grado di concepire. Un po' mi metteva tristezza pensare che esistessero persone molto più superficiali di questo sintetico. Purtroppo, la sua complessa personalità non era nient'altro che una finzione molto elaborata. «Se vuole seguirmi...», disse allungando il suo sottile braccio verso una piattaforma magnetica.

Mentre la piattaforma si alzava con una dolce parabola verso il penultimo piano, osservai i piani sottostanti. La biblioteca aveva un sistema di indicizzazione e catalogazione bibliografica molto singolare. Comprendevo ora che la battuta di spirito di Alma 84 era probabilmente legata proprio all'ordine e alla disposizione dei testi all'interno della sala e che, probabilmente, era qualcosa che ripeteva di routine a tutti coloro che chiedevano di vedere dei testi di filosofia. Era come se ogni piano fosse legato ad una sorta di gerarchizzazione del sapere, ma non si riusciva a capire completamente quale dei due estremi fosse ritenuto quello più importante. Se da un lato la filosofia era posta tra i piani più alti, era anche vero che il primo piano era quello immediatamente accessibile all'utente e quindi il più consultato. Per citare solo alcune delle cose che riuscii a cogliere di sfuggita, vidi che alla base c'era l'hobbistica, la manualistica di stampo pratico e gli "How to". Appena sopra c'era la narrativa di consumo. Salendo compariva la sezione dedicata agli sport e al benessere psicofisico. Poi c'erano le arti dello spettacolo, comprendenti: la musica, il cinema, i fumetti, il teatro, etc., quindi la letteratura classica e moderna, la sezione linguistica, le scienze pratiche, le tecniche e la tecnologia, le scienze teoriche etc. Ogni piano era suddiviso in spicchi di diverso colore, ognuno legato a un sottogenere. Nella narrativa di consumo ogni sezione colorata era legata a un genere: narrativa per ragazzi, giallo, horror, erotico, onirico, storico, comico, e via via secondo questa logica. Giungemmo al piano dedicato alla filosofia e svoltammo con un ampio movimento circolare verso una sezione color ambra: l'occultismo.

«Qual è il testo che desidera consultare?», chiese Alma 84. «Il De Occulta Philosophia, di Cornelius Agrippa. Potrebbe visualizzare per me una versione anastatica con traslitterazione latina a fianco, per favore?». «Ma certo!», rispose sempre sorridendo. A quel punto emise un segnale wifi verso uno dei droni. Immediatamente dopo la mia richiesta, vidi la piramide più prossima a noi avvicinarsi e posizionarsi di fronte allo schermo di vetro. Una delle punte si illuminò e vidi comparire un fotogramma digitale della copertina del libro, con un ingrandimento e una risoluzione fantastiche. Non mi fu quindi difficile accorgermi che c'era qualcosa di strano. Il titolo in copertina recitava: «DJ @(%%GHTA PJ892SDPJ8 (?ìè]]». Anche la traslitterazione a fianco era un insieme di caratteri senza senso. Mi sembrò evidente che il file caricato era corrotto o qualcosa del genere. «Mi scusi Alma 84, abbia pazienza, ma il file che ha caricato il drone deve essere corrotto oppure questo terminale è malfunzionante». «Ma ciò non è possibile, mio gentile lettore, a me sembra perfettamente leggibile. Infatti, come da lei richiesto, il testo a fronte recita: "De Occulta Philosophia di Cornelius Agrippa"». Fui immediatamente infastidito dalla cosa, sembrava una presa in giro, tuttavia mantenni la calma e riflettendo risposi: «Alma, probabilmente il suo programma di decriptazione linguistica le permette di interpretare queste stringhe ugualmente, ma questa è una cosa che personalmente, tramite il mio limitato bagaglio umano, non posso fare». «è sicuro di conoscere la lingua in questione?», rispose pacatamente il sintetico. «No, io conosco il latino antico, ma il file che vedo proiettato, ripeto, è in un linguaggio criptato che non riesco a interpretare... comunque... lasciamo stare! Mi mostri, cortesemente, il codice Hamilton 90 del Decameron di Boccaccio». Ci avviammo verso la sezione di letteratura volgare classica, la scena si ripeté identica: il testo era illeggibile. L'unica cosa distinguibile erano i bozzetti dei personaggi disegnati a margine dall'autore stesso. Di fronte alle patetiche scuse del sintetico e alle sue stupide domande di conferma sul mio livello di conoscenza linguistica, cominciò a salire in me un senso di frustrazione. Sentivo in maniera sempre più pesante la distanza tra uomo e macchina. Chiesi di visionare i testi più disparati, per epoca e per genere: il "Simposio" di Platone, "V per Vendetta" di Alan Moore, il "Siddharta" di Herman Hesse, "Il signore degli anelli" di J.R.R: Tolkien, "Esplorando il mondo dei Sogni Lucidi" di Stephen LaBerge, "Le montagne della follia" di Lovecraft, "Lo stretching scientifico" di Thomas Kurtz e "L'arte della guerra" di Suntzu. Tentai anche tra i più banali testi di narrativa contemporanea come, "Anche Dio può sbagliare" di Oolon Colluphid, ma si ripeteva sempre e inevitabilmente lo stesso fenomeno. Mi sembrò quantomeno strano che i pochi utenti che vedevo nei paraggi non lamentassero lo stesso problema. Ero tentato di rivolgere loro la parola per una conferma, ma provavo una certa vergogna per la situazione, un po' come se infondo fosse colpa mia. C'era inoltre una sorta di vago ed inspiegabile presentimento dentro di me, che mi faceva sospettare che quelle persone non esistessero e fossero in realtà una sorta di proiezione virtuale: una simulazione atta a dare la sensazione all'utente di trovarsi in un luogo di studio. Non volevo dipendere da un sintetico per interpretare ciò che vedevo. Il mio scopo era quello di leggere in solitudine e fare le mie valutazioni. Era come se tutti i testi della biblioteca fossero stati corrotti e resi illeggibili da un virus, un tragico incendio digitale. Pensai all'ironia della cosa: il ripetersi delle vicende della storia in contesti con evidenti analogie, ma in forme completamente diverse. Alma mi assicurò che tutti i file subivano diversi backup di sicurezza e che questi venivano opportunamente dislocati al fine di proteggere le informazioni. Tuttavia il problema riscontrato necessitava di un'analisi dall'esterno e non si sarebbe potuto fare niente prima di diverse ore o forse giorni. Cambiai argomento, spostando la mia curiosità su un soggetto che precedentemente era stato escluso dalle spiegazioni del sintetico. «Cosa tenete all'ultimo piano?», domandai ad Alma. Rimase per qualche secondo in silenzio e poi, come se fosse una risposta automatica, disse: «l'ultimo piano è inaccessibile, è una zona riservata». Alzai le sopracciglia, «come? Riservata a chi?». «Al personale del Dedalus», rispose Alma immediatamente. Personale? Di quale personale stava parlando? Se, seguendo il precedente ragionamento di Alma, all'ultimo piano della biblioteca c'era la più alta forma di conoscenza umana, significava che vi si tenevano dei testi di fondamentale importanza (oppure della più inutile specie). Fui mosso da maggiore curiosità . «Serve un permesso speciale? Come si può accedervi?». Dopo qualche secondo di silenzio ripeté meccanicamente la stessa frase precedente: «l'ultimo piano è inaccessibile, è una zona riservata». Dato che, vista la situazione, non sarei riuscito comunque a leggere ciò che di misterioso si celava tra quei testi, lasciai cadere la questione, ma mi ripromisi di tornare in futuro per indagare più a fondo. Volli però chiedere ad Alma se c'era qualche testo o qualche informazione ai quali avrei potuto accedere, almeno in forma acustica o video, che riguardassero il processo di materializzazione. Mi interessava capire se il sistema poteva generare errori o creare problemi fisici alle persone trasferite. «Oh, ma, mio caro lettore, a questo posso tranquillamente rispondere io stessa. I dati genetici vengono automaticamente registrati nel nucleo centrale di materializzazione e possono essere ripristinati a piacimento, seguendo ovviamente le leggi del paese di destinazione. Non può esserci quindi nessun errore irreparabile. Per correggerlo è sufficiente un semplice ripristino, previa verifica genetica e convalida data dagli osservatori». La sua risposta mi fece sobbalzare. «Intende dire quindi che se dovessi riscontrare qualche problema potrei essere automaticamente rimaterializzato?». «Certamente! E le sue memorie, così come il suo stadio di coscienza attuale, non subirebbero alcuna alterazione, poiché lei tornerebbe ad essere semplicemente quello che era al momento del trasferimento». Non potevo credere a ciò che mi era stato appena detto, era una totale e inumana assurdità! «Ma, mi scusi, ci deve essere sicuramente un errore, nessuna delle legislazioni umane lo permetterebbe!». Mentre Alma continuava a osservarmi con un sorriso ingessato continuai: «e cosa dovrebbe accadere alla "copia" materializzata in maniera erronea?». «Ha ha ha, ma è molto semplice, mio caro lettore», rispose Alma, «ogni osservatore che riscontri un errore genetico deve provvedere immediatamente con una dematerializzazione della copia errata». Un brivido mi corse lungo la schiena. In parole povere ogni trasferimento comportava potenzialmente la propria cancellazione e ripristino. Significava morire e rinascere identico a prima, ma in un altro luogo. Significava che da qualche parte, in un computer, c'era un file con l'esatta riproduzione di ogni persona trasferita! Le implicazioni di questo sistema erano assurde. Com'era possibile che venisse approvata una cosa del genere? Ma soprattutto mi sembrava inconcepibile che nessuno si fosse mai posto domande simili alle mie.Perché poi, io stesso, mi ponevo il problema solo ora? Era come se tutte le persone del pianeta fossero sotto una sorta di incantesimo dal quale, per qualche ragione incomprensibile, io mi ero momentaneamente svincolato, riuscendo a vedere la terrificante realtà che vi era dietro. Al momento del trasferimento, una mia copia era stata salvata in un dispositivo, per poter essere in seguito ricaricata e materializzata presso lo Snodo Centrale del Louvre!

Fui colto da un capogiro che mi sbilanciò e quasi svenni. La mia mente continuava a sondare le folli sfaccettature di questa aliena verità . Potenzialmente si parlava di immortalità! Gli stessi ricordi e pensieri di una persona, una volta separati dalla matrice genetica, potevano essere conservati e reintegrati di volta in volta in una copia più giovane. Sarebbe bastato separare i dati fisici da quelli legati alla memoria e alla coscienza. Il processo avrebbe potuto ripetersi in eterno! Ma chi era colui che aveva in mano tutto questo? Se c'era questa possibilità , significava anche che, questa persona o entità , poteva decidere di cancellare una qualsiasi anima e reintegrarla a piacimento in uno stadio precedente, senza che la persona in questione avesse la minima percezione di essere stata letteralmente e fisicamente manipolata!

Sentii che stavo scavando in qualcosa di estremamente pericoloso. Non ero al sicuro. «Si sente bene?», chiese Alma con una leggera nota di preoccupazione. Risposi di sì, quasi automaticamente, ma nel frattempo il mio sguardo era perso nel vuoto. Possibile che tutto ciò mi venisse rivelato con tale leggerezza? «Ne è sicuro? Mi dà l'impressione di essere sconvolto», aggiunse Alma 84. Cercai di ricomporre la mia espressione. «No, no, non si preoccupi, solamente non mi sono dovutamente rifocillato dopo l'ultimo viaggio, niente di cui preoccuparsi... la ringrazio... passerò a breve per verificare i testi di cui abbiamo già  discusso». «Ma certo! Le prometto che quanto prima cercheremo di correggere l'errore di sistema, così potrà svolgere le sue ricerche con più efficacia. Arrivederci!». Il sorriso ingessato di Alma 84 ora mi sembrava sempre di più una maschera che celava macchinazioni e ipocrisie inaudite. Probabilmente l'unico errore che avrebbero corretto sarebbe stato la mia scomoda esistenza. Mi avrebbero eliminato e avrebbero cancellato ogni ricordo di questo dialogo!

Tornando a casa evitai le vie principali e mi guardai in torno paranoico, come un ladro colto in flagrante. Iniziavo a pensare che, dopotutto, ciò che mi era capitato fino a quel momento, non fosse legato a una mia particolare condizione o a qualche errore di trasferimento, bensì a un mondo che era cambiato seguendo le direttive di un'entità maligna che aveva creato delle leggi abominevoli. Il problema non riguardava tanto me come singolo individuo, ma qualcosa di molto più grande e terribile: un'indicizzazione e digitalizzazione dell'umano! 

Dovevo trovare Amal.

 

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Capitolo 8
*** Epifania ***


Avanzavo spedito e circospetto, avrei voluto nascondere il mio volto dietro un bavero o sotto uno spesso cappuccio. Tenevo lo sguardo nudo puntato verso il basso, cercando di cogliere maniacalmente, con la coda dell'occhio, i movimenti di chi mi capitava appresso. In realtà considerando che ogni cosa era controllata da robot con sensori e scanner genetici, questo mio comportamento era totalmente insensato, ma avevo il sospetto e il timore che gli osservatori incorporassero anche un qualche sistema di riconoscimento ottico. Le persone mi scivolavano a fianco senza prestarmi attenzione. Ognuno era rapito dalla propria vita e dal proprio mondo. Un mondo appositamente ricreato per distogliere l'attenzione dal pensiero e dalla riflessione, annegando l'uomo in un tripudio di sensi e di peccato.

Arrivai quindi completamente ignorato all'entrata del mio hotel cubicolare e imboccai il lungo e curvo corridoio che portava alla mia stanza. La mia chiave digitale da polso emetteva un tenue segnale acustico che indicava una distanza di poco meno di cinquecento metri. Alzai lo sguardo di fronte a me. Ciò che vidi comparire improvvisamente appena dietro la lieve curvatura del corridoio mi fece gelare il sangue. Istintivamente abbassai la testa e feci qualche passo indietro. Davanti alla porta della mia stanza c'erano due osservatori e un sintetico. Una delle due sfere di vetro nero stava proiettando un fascio laser color rubino sulla mia serratura genetica. Continuai ad indietreggiare cautamente per uscire dal campo visivo e appena ne ebbi l'occasione me la diedi a gambe. Fuggii senza una destinazione precisa, lanciandomi senza alcuna esitazione e senza guida nei complicatissimi meandri di quel labirinto di luci e metallo.

E adesso? Cosa dovevo fare? In quella stanza c'era quanto rimaneva della mia esistenza e forse anche l'unica possibilità  di contattare Amal. Ma, d'altra parte, se avevo ben interpretato le parole di Alma, una volta preso, mi avrebbero sicuramente dematerializzato. Era un rischio che non mi sarei mai sognato di correre, codardo com'ero. Vagavo totalmente disperso e disperato tra i piani del Dedalus. Salii e scesi diverse volte, cercando un posto che fosse il meno controllato e affollato possibile. Ogni volta che vedevo una macchina cambiavo direzione, fuggendo come un pazzo anche dal più tenue riflesso di ogni sfera nera che intravedevo in lontananza. Qualcuno dei passanti cominciò a notarmi, vidi le loro espressioni allucinate. Quando mi accorsi della cosa, la mia paranoia si acuì. Cominciai a pensare che qualcuno potesse denunciarmi agli osservatori o portare la loro attenzione su di me. Ad un certo punto sentii vibrare il polso. La mia chiave genetica pulsava emettendo una luce di un colore blu fluorescente. Ebbi l'atroce dubbio che potessero rintracciarmi sfruttando il segnale guida al contrario. Ma certo! Cosa c'era di più semplice per dei sistemi informatici così avanzati?! Dovevo sbarazzarmene, ma come avrei fatto poi a tornare al mio cubiculum? Mentre mi slacciavo febbrilmente il cinturino osservai per un secondo il quadrante. Il display proiettava una foto di Amal... una semplice olochiamata! Quella luce lampeggiante e quella vibrazione non erano nient’altro che la suoneria della mia chiave. Chissà quali altre funzioni possedeva quell'arnese! Probabilmente era in collegamento diretto con l'olofono dell'abitazione. Mi venne l'atroce sospetto che rispondendo sarei stato sicuramente intercettato. Chiusi gli occhi e deglutii, dovevo rispondere.

Mi appostai sotto l'ombra di una scala magnetica che saliva verso dei locali sopraelevati. Erano delle sale da gioco distribuite attorno ad una sorta di vicolo cieco, un androne chiuso e piuttosto appartato. Un intreccio indescrivibile di emozioni contrastanti mi attanagliava lo stomaco, sentivo i battiti del cuore che mi esplodevano nel cervello. Con voce tremolante dissi: «accetta olochiamata».

Comparve una miniatura della testolina di Amal a pochi centimetri dal display. Aveva gli occhi spalancati e ridenti, con il loro inconfondibile taglio mediorientale, e i capelli corvini le cadevano con leggerezza ai lati del viso sfumando nell'aria. Le sue labbra erano aperte in un sorriso un po' ingenuo. «Haaaaa!!!», urlò con voce acuta. Mi prese un colpo. Dovevo avere un'espressione allucinata, ma mi sforzai di sorridere e, fingendo stizza, posi un dito sulle labbra. «Sshhh, ma che cazzo Amal! Ti ha dato di volta il cervello? Non sai in che situazione mi trovo!». Lei rispose ridendo ancora più chiassosamente, strinse leggermente gli occhi e rispose: «Ha ha ha, certo che lo so! Ti ho visto in centro al tredicesimo, sai!!». Quindi non era solo una mia impressione, mi aveva visto. Risposi sarcastico: «Eee ti credo, mi hanno fatto praticamente una perquisa dei geni! Tutta quella la gente che mi guardava... ma che cazzo succede in sto posto??!». Lei esplose in un altro urlo seguito da una risata che mi costrinse a coprire gli altoparlanti dell'olofono con la mano. Mi guardai intorno sudando freddo. «Che belloo! Sei quiii! Mi hai seguito perché mi ami vero??» disse Amal. Un'espressione placida sorse spontanea sul mio viso, sorrisi dolcemente: «ma certo, come potevi pensare che avrei lasciato andare tutto a quel modo?». Divenne seria. Riuscivo a capire quando lo era. Riconoscevo i suoi sentimenti anche dietro alla risata perenne che usava come maschera per nascondere l'immediatezza dei suoi cambi d'umore. Continuò il discorso esitando: «... sai che non potevo farci niente io... cioè... boh. Capisci che quello che ho fatto era l'unico modo per poterti stare lontana... intendo, senza conseguenze... Tu per me sei tutto! Eccoo!!». I contorni della vicenda alla quale faceva riferimento, e che avevo appena rievocato, mi sfuggivano. Era come se stesse parlando di un suo passato e non di qualcosa che io avevo vissuto direttamente sulla mia pelle. Era una sensazione che già diverse volte mi era capitato di provare da quando mi trovavo nel Dedalus. Sapevo tuttavia che era una memoria che mi riguardava e di cui facevo parte. Che fosse ancora una volta un effetto collaterale della materializzazione? Forse il processo di transizione aveva alterato i miei ricordi, cancellandoli o, per così dire, allontanandoli? Risposi in maniera automatica, come se stessi recitando la battuta di un personaggio, la cosa mi sorprese: «ma stai scherzando? Non ho mai dubitato per un solo secondo di te! So che l'hai dovuto fare!». Ma cosa era successo? Cosa mi aveva fatto in passato Amal?! I discorsi che facevamo avevano immediatamente ripreso quel nostro modo scherzoso e banale di comunicare, anche in mezzo alle situazioni più disperate. Tutto era avvenuto con naturalezza, mi bastò semplicemente un suo sorriso. «Ascolta Amal... sono nei casini... gli osservatori mi cercano!». «Ma sììì, ma sììì, chissene... anche a me mi stanno cercando, ha ha ha, mi hanno sgamato a rubare in un negozio!», ribatté ridacchiando dietro alle mani, mentre gli occhi le si spalancavano nuovamente. «Ma ti sei rincoglionita? Che cazzo fai?». Sbottai con un tono di rimprovero. «... comunque... io qui rischio la dematerializzazione! Altro che rubare!». «Ma vaaa!! Vedrai che andrà tutto bene... ti proteggo io!», disse protendendo le labbra e mandandomi un bacio. «Seee, ti vedo a combattere contro le palle di vetro tirando calci e sbracciando mentre urli: "stronziiiiiii"!», dissi ridendo di gusto. Ero felice. «Come faccio a trovarti? Credo che sto coso che ho al polso li porti da me... devo sbarazzarmene». «Ti ho detto di non preoccuparti! Se ti fai le pare è sicuro che ti trovano, se stai tranquillo vedrai che non può succederti niente. Quell'affare è indifferente se lo butti o meno, se lo tieni forse ti è più facile richiamarmi... mah, magari puoi fare altre cose che non sai neanche di poter fare... insomma fidati!». I classici ragionamenti sconclusionati di Amal! Eppure qualcosa, dentro di me, mi suggeriva di seguire i suoi consigli. Proseguì: «Allora, se vuoi farti trovare, semplicemente stai vicino ad una porta e aspettami... ti trovo io, ciaooo amooo!». Prima che potessi ribattere qualsiasi cosa, la sua testolina scomparve. E adesso?? Avrei dovuto posizionarmi vicino ad una porta qualsiasi e lei mi avrebbe trovato? Era una cosa che deviava da ogni logica! "Magari ha un dispositivo che le permette di rintracciarmi", pensai. Ma chi mi assicurava che non mi avrebbero trovato prima gli osservatori? Mi abbandonai comunque a quell'irrazionale speranza, dato che, ormai, mi ero reso conto che in quel luogo potevano trovare compimento le cose più assurde, ma soprattutto perché Amal, terminando l'olochiamata, non mi aveva dato altra scelta.

Mi avvicinai ad una delle porte delle sale giochi, attendendo inesorabilmente l'arrivo di qualcuno o qualcosa. Pensai che probabilmente la prima persona che avrei avuto modo di vedere uscire da quella porta sarebbe stata un giocatore spennato con gli occhi gonfi e l'alito che puzzava di alcol. Peggio ancora poteva uscirne un droide di sorveglianza che mi avrebbe immediatamente segnalato agli osservatori, decretando così la mia fine. Quasi nello stesso istante in cui mi accostai alla porta, questa si aprì e ne uscì una ragazza poco più che diciottenne con una pettinatura all'orientale. Ai lati della testa i capelli erano raccolti in due chignon e due ciuffi scuri le contornavano il viso color bronzo: era Amal!

Erano passati a malapena una manciata di secondi dal termine dell'olochiamata al momento in cui lei comparve dalla porta della sala da gioco e, per di più, aveva una pettinatura diversa da pochi istanti prima. «No, adesso mi dici come cazzo hai fatto! Eri qui dentro per tutto sto tempo?! E poi... i capelli???». Lei protese le dita scuotendole di fronte ai miei occhi e, abbassando la voce in un tono grave, disse: «magiiiaaaa». «A parte gli scherzi... c'ho messo molto di più di quello che pensavo, non so quanto tempo abbiamo... Ti sono mancata?». Senza esitazione risposi: «non sai quanto!». «Caaaroo». Fece una breve pausa e mi guardò intensamente stando in silenzio. Volevo avvicinarmi per baciarla, ma esitai imbarazzato e dissi: «forse dovremmo andarcene da qui». «Vaa beeene... Dove vorresti andare?». «Non ne ho la minima idea, conosci un posto al sicuro?». Lei fece un sospiro e disse: «Ooo, ma che palleeee, non l'hai ancora capito? Non c'è un posto che sia veramente pericoloso qui al Dedalus... è solo una tua paranoia!». «Ma...», tentai un obiezione che venne immediatamente interrotta dalla sua irruenta spontaneità. Mi prese per mano e aprì la porta della sala da gioco. «So io dove portarti, ti mostro l'ultimo piano!». Quando varcammo l'uscio ci ritrovammo nel bel mezzo di un disco-club. Il posto era stracolmo di gente e una musica elettronica si diffondeva a massimi volumi, mentre uno speaker gridava qualcosa in una lingua che non distinguevo. «Ma non doveva esserci una sala da gioco qui?», le chiesi perplesso. Senza rispondere alla mia domanda si limitò a dire: «tranquillo, conosco una scorciatoia se abbiamo fortuna in un paio di varchi siamo in cima». Si diresse senza esitazione in mezzo alla calca alzando le braccia e urlando, mentre sculettava a suon di musica. Io la osservavo esterrefatto cercando di tenere il passo. Uscì quasi subito dalla calca, salutando di tanto in tanto qualcuno dei presenti con un bacio sulla guancia e, lasciandosi alle spalle la gente, si diresse con sicurezza verso i bagni. Attraversammo una porta scorrevole che conduceva ad uno spiazzo antistante agli ingressi dei servizi per le donne e per gli uomini. «Niente... cessi! Cazzooo, che palleeee!» disse lei stizzita. «E cosa ti aspettavi di trovare? Un ascensore?», domandai abbandonandomi sarcasticamente alla mia stupida ovvietà. Lei si voltò verso di me e disse: «ascolta... proviamo qualcosa di diverso. Tieni la mia mano e immagina che il muro sia poroso. Immagina che sia fatto di sabbia oppure come un liquido... una roba del genere insomma. Seguimi senza fermarti!». Io, che ancora navigavo nella piena ignoranza di ciò che stava succedendo, credetti che fosse sotto l'effetto di qualche droga o fosse totalmente impazzita. Si diresse verso una parete completamente spoglia e mentre mi teneva la mano destra allungò l'altro braccio verso la parete.

Impossibile!!!

La sua mano attraversò senza difficoltà , anche se lentamente, lo strato metallico della parete e, piano piano, dopo la mano, passarono il braccio, la spalla e il resto del corpo. Stava per scomparire completamente dietro il muro trascinandomi a sé. Mi dovetti a quel punto convincere che tutto quello che mi aveva detto era reale. Chiusi gli occhi e pensai di attraversare una parete liquida. Gradualmente mi sentii immergere in una specie di fluido molto denso e colloso, come il miele. Prima la mia mano, poi il braccio passarono attraverso il liquido, poi immersi il viso. Trattenni il respiro mentre il mio cuore esplodeva ritmicamente all'interno del petto. Sentii come una brezza leggera sfiorarmi le guance, sentii il tepore di un sole che sembrava reale. Ripresi a respirare e mi calmai.

«Apri gli occhi», disse Amal.

 

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Capitolo 9
*** Arcadia ***


Non ricordavo di aver mai visto luogo più bello di quello che mi si presentava davanti agli occhi. Poteva essere una simulazione, poteva essere un'illusione, ma ciò non diminuiva affatto ai miei occhi e al mio cuore l'amenità e lo splendore dello spettacolo cui stavo assistendo.

Vidi una distesa erbosa che discendeva con una dolce curvatura verso dei vitigni allineati ad arte. L'erba fresca e smeraldina, perfettamente curata e pareggiata, emanava un profumo fresco e naturale che non avevo mai avuto il piacere di sentire prima d'allora. Alla mia sinistra il colle risaliva con un'altra balza, al di là della quale proveniva il rilassante rumore dello scorrere di un ruscello. In lontananza si sentiva lo sciacquio di una cascatella che terminava nelle placide acque di un piccolo lago azzurro cielo. In esso spiccavano balzi dei pesci argentati, la cui danza intermittente si offriva alla vista con giochi di luce arcobaleno. Tutt'intorno a questa polla d'acqua cristallina c'erano macchie di alberi da frutto di ogni sorta, distribuite con calibrato equilibrio. Mi meravigliava la varietà dell'insieme, ma soprattutto l'intensità dei colori che, a discapito della distanza, apparivano con una nitidezza irreale. C'erano sfumature che non conoscevo e colori che non credevo possibili. Era come se quel luogo avesse la qualità di ampliare lo spettro percettivo umano.

Sulla destra c'era una chiazza di ulivi dalla corteccia argentata. Ovunque si sentiva l'irregolare ma costante cinguettio degli uccelli, che si dilettavano a saltare di ramo in ramo o andavano a piccoli gruppi ad abbeverarsi nei pressi della cascatella. Di tanto in tanto si poteva cogliere l'ombra o il fruscio di qualche cerbiatto o di qualche lepre che compariva da dietro un tronco per osservarci a debita distanza, ma senza timore. Appena sotto gli ulivi si apriva, alla piena luce del sole, una vasta radura, dove dimoravano, in perfetta simbiosi tra loro e con il resto dell'atmosfera naturale, animali di ogni genere: leoni e gazzelle, tigri e buoi, lupi e vitelli, orsi e volpi. Alcuni di questi si spostavano con lentezza, affiancandosi pacificamente ad altri animali, senza che si venisse a creare alcun tipo di conflitto.

Ancora più in basso, la radura mutava colore gradualmente, lasciando spazio ad una spiaggia dorata che, attraverso numerose insenature, contornate da scogli rotondi, si immergeva nel distante baluginio di acque marine.

Di fronte a noi, giù giù in profondità, vi era un immenso salice, alto e largo al di là di ogni possibilità naturale. L'albero troneggiava al di sopra di tutto, come una sorta di replica vegetale del Dedalus. Dai suoi rami stranamente pendevano dei giganteschi frutti circolari di un intenso color carminio. Una tenue nebbiolina ne circondava la base, mentre i rami spiccavano danzando al di sopra di essa, sospinti da una brezza leggera.

Dubitavo seriamente di trovarmi ancora in quella maledetta torre. Amal rise dolcemente del mio stupore e della mia esitazione, quindi disse: «questo è l'ultimo piano del Dedalus, lo chiamano Arcadia, è una simulazione dei giardini e dei boschi descritti nei libri che piacciono tanto a te... non so, boh, forse... come si chiamava quello lì? l'italiano che ha scritto la roba dell'inferno e tutto il resto?... beh insomma, uno di quei tizi folgorati che leggi tu, ha ha ha. Ricordo che una volta mi hai parlato di un posto del genere che sta sopra una montagna, il paradiso terrestre se non sbaglio...». Sebbene il suo eloquio fosse sconclusionato e confuso, dovetti ammettere che aveva colto perfettamente l'analogia. Se questa era veramente la cima di questa montagna del peccato che era rappresentata dal Dedalus, allora sulla vetta non poteva che comparirvi il paradiso terrestre, così come lo aveva inserito Dante Alighieri nella sua opera immortale: "La Divina Commedia"; opera che, a discapito del tempo, in questo mondo in decadenza, veniva ancora studiata.

«Ascolta... io non riesco a comprendere ciò che sta succedendo... sento che c'è un motivo in tutto questo, ho come una sorta di intuizione, qualcosa nel profondo che non riesco a mettere a fuoco. Ma quanto è accaduto, ciò che sto vedendo in questo momento, va veramente al di là della mia comprensione. Com'è possibile? Come può essere reale tutto questo?». Divenne seria, aveva uno sguardo molto dolce, quasi materno, sebbene con un'evidente nota di tristezza. Un angolo della sua bocca si alzò in un mezzo sorriso. «Non posso spiegarti bene questa cosa... ti devi fidare di me e divertirti finché possiamo, non credo di avere ancora molto tempo. Pensa solo che tutto quello che vedi è finto, anche se sembra reale, e che puoi controllarlo un po'... basta che ti concentri e pensi le cose come se le vuoi veramente, non so... con me funziona così. Per te comunque non è proprio la stessa cosa, almeno credo, non so spiegarti...».

Avevo visto cadere il velo di Maya, eppure non riuscivo ad adattarmi alla nuova verità che Amal, nel suo semplice e spontaneo agire, mi aveva rivelato. Non sapevo come muovermi in queste "sue" regole che sembravano appoggiarsi totalmente su di un'irrazionalità che mi era estranea e che riuscivo solamente a gustare passivamente.

«... cerca comunque di non pensare cose brutte, sennò di solito succedono, ha ha ha». Rise con sincerità e mi guardò intensamente e tristemente, come se intuisse che non avremmo avuto altre occasioni per incontrarci. Ma ora non riuscivo a pensare ad altro che a lei. Era sicuramente un sogno o un'illusione, ma, proprio per questo, il mio gesto fu spontaneo. La cinsi dolcemente alla vita, lei abbasso la testa. Posai la mia mano sinistra sulla sua nuca. Lei alzò gli occhi verso di me, anche se teneva la bocca rivolta verso il basso. Mentre il cuore mi balzava alla gola la cercai con le labbra sollevandole il capo e la baciai, prima per un istante, poi ad occhi chiusi più a lungo. Mentre le nostre labbra si intrecciarono mi sentivo una cosa sola con lei. La sensazione svanì svaporando e lei scomparve scivolando via, come sabbia tra le dita.

 

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Capitolo 10
*** Lete ***


Amal era scomparsa ed io mi trovavo nel paradiso terrestre. Ora mi appariva chiaro cosa intendesse ripetendo più volte che avremmo avuto poco tempo. L'affermazione fino a un secondo prima era passata inosservata, come se non avessi voluto mai crederci veramente, ed ora mi trovavo nel luogo più bello del quale avessi mai potuto fare esperienza, ma senza la persona per la quale tutto ciò che stavo esperendo prendeva effettivamente senso. Avrei preferito trovarmi nelle profondità dell'Inferno con lei, piuttosto che nel paradiso in terra da solo. Forse era un suo regalo per me, forse, agendo così, aveva tentato di salvarmi dagli orrori del Dedalus. Eppure senza di lei tutto quello che avevo di fronte non era che una mera illusione senza significato. Dentro di me sapevo che non l'avrei più rivista, non in questa vita e non in questo luogo. Dovevo uscirne.
 

Ero comparso nel bel mezzo del nulla, non c'erano costruzioni, non c'erano porte, mi sentivo come intrappolato in quella vastità di colori e amenità . Mi prese un vago senso si agorafobia, mi girava la testa. Decisi di seguire l'unica direzione che mi era stata data come disponibile: il gigantesco salice in lontananza.
 

Costeggiai il ruscello fino ad arrivare al lago. Vidi che appena dietro alla cascatella, che si versava con dolcezza nello stagno, c'era una piccola grotta. Mi domandai per un secondo se fosse il caso di entrarci e cosa vi avrei trovato. Avrei potuto usarla come una sorta di portale alla stessa maniera in cui Amal aveva usato il passaggio nel locale che avevamo attraversato? Sarei stato in grado di raggiungerla semplicemente convincendomi di poterlo fare? L'istinto mi deviò da quell'idea. Il percorso mi era già stato tracciato davanti: entrare nella grotta sarebbe stato un passo indietro, un po' come rientrare nella caverna platonica dopo aver scoperto la verità che si apre al di fuori di essa, e riabbandonarsi così alle ombre e all'ignoranza precedenti. Seguii il ramo d'acqua che usciva dal piccolo lago e proseguiva in direzione delle macchie d'alberi. Vi entrai e mi accorsi che, man mano che proseguivo, la vegetazione e i rami divenivano più fitti e la luce esterna faceva fatica a penetrare le fronde. Da dentro alla foresta non riuscivo a vedere il salice ma sapevo di star seguendo la giusta direzione. Proseguii a lungo dentro gli alberi, dove c'era solo il rumore dei miei passi e degli animali silvani che vi abitavano. Ad un certo punto stimai che non dovevo essere molto lontano, eppure, in alto nel cielo, la cima dell'albero non la si vedeva spuntare da nessuna parte. Forse avevo inavvertitamente preso un'altra direzione?
 

Distinguevo nuovamente un rumore d'acqua corrente, diverso dal precedente, costante e intenso, sebbene distante dal punto in cui mi trovavo. Mi ero già lasciato il ruscello alle spalle da un pezzo. Avevo deciso di scostarmi dalle sue rive quando mi accorsi che stava deviando rispetto alla direzione che mi ero prefissato. Eppure questo non era sicuramente il rumore di quel ruscello. Era certamente un corso d'acqua più importante, forse un fiume. La luce cominciava ad ampliare il suo spettro e colori vivaci dardeggiavano da diverse direzioni di fronte a me. Piano piano gli alberi si fecero più radi e il rumore d'acqua si fece più forte e distinguibile.
 

Sbucai in una radura fiorita completamente imbiancata da minuscole e fitte margherite primaverili. Appena oltre la radura scorreva un fiume in piena dal flusso impetuoso sebbene non eccessivamente esteso tra sponda e sponda. Le sue acque avevano degli strani riflessi rossastri o violacei. C'era una figura umana nel bel mezzo della radura. Era una figura femminile che si chinava a raccogliere delle erbe da terra e se le portava alla bocca. Incuriosito mi avvicinai nella speranza di ottenere delle indicazioni o un aiuto. Mentre mi avvicinavo cercai con lo sguardo la mia meta, ma sebbene mi trovassi in un luogo totalmente aperto ad ogni direzione, il gigantesco albero non si vedeva.
 

Era una ragazza giovanile d'aspetto, anche se stimai avesse un'età superiore a quanto dimostrasse. Era vestita in maniera semplice, con dei pantaloni larghi, una tunica bianca che le arrivava appena sopra le ginocchia e i piedi scalzi. Aveva i capelli castani con dei riflessi biondi, leggermente e naturalmente scompigliati, un viso rotondo e morbido, labbra carnose e dei grandi occhi azzurri con un taglio dolce che solo molto vagamente poteva apparire orientale. Nella sua semplice e naturale forma umana sembrava essere perfettamente in simbiosi con il luogo in cui si trovava. La sua visione mi scatenò una sorta di potente reminiscenza che tuttavia mi travolse come qualcosa di distante e separato da me stesso. Ancora una volta mi sembrava di vivere il ricordo di qualcun altro, eppure le immagini mi sembravano vivide e chiare. Era come se la conoscessi da sempre. Risvegliò in me una vita tranquilla e colma di esperienze di ogni sorta. Una vita completa di tutti i suoi passaggi, una preadolescenza fatta di tentativi d'amore impacciati, studi e viaggi fatti assieme, anche in luoghi lontani, amicizie comuni, piccoli problemi di coppia, ma anche tanta serenità e disponibilità. Risvegliò in me il ricordo di un amore vero e duraturo, la possibilità di una vita sostanzialmente perfetta e con poche rinunce, dove ognuno dei due riusciva a ottenere i suoi spazi e la sua forma di felicità: un amore che si sovrapponeva così tanto ad un'amicizia da non riuscire facilmente a distinguerne i confini.
 

Avvicinandomi, senza sapere effettivamente come fosse possibile, la chiamai per nome: «Francesca?». Lei apparve sorpresa, mi guardò con espressione neutra e gli occhi ben aperti, ma senza spavento. «Come conosci il mio nome? Aspetta... quello non è il mio nome, almeno non in questa vita e in questo luogo... tu non sei... Io aspetto qualcun altro».
 

Mi riscossi e scusandomi le chiesi: «Sì, perdonami, non so bene perché ti abbia chiamato così... Ma dov'è il salice?». Sembrò sorpresa. «Hai visto il salice? Strano... Ma se ora non lo vedi penso sia una buona cosa... per te intendo. Non so, tu che ne pensi?».
 

Riflettei un momento osservandomi interiormente. Era come se stessi dialogando in completa serenità con un'entità proveniente da un altro mondo e l'argomento in questione era qualcosa che mi riguardava intimamente.
 

«Era una visione bellissima e cercavo di avvicinarmi, poi però il percorso è divenuto difficile e ho cominciato a dubitare di riuscire a raggiungerlo... Ho come l'impressione che se l'avessi raggiunto non sarei riuscito a sopportarne il peso... Come se avessi dovuto raccogliere in me un'estrema sofferenza».
 

«Mmm, probabile... potresti aver ragione, ma quindi ora cosa cerchi?».
 

«Non lo so. E' tutto così confuso, come se stessi dimenticando qualcosa... credo di voler uscire da qui comunque, anche se ci sei tu».
 

Ancora una volta avevo parlato come se inconsciamente avessi dato per scontato che lei fosse una persona indispensabile per me. Al ricordo della visione dell'albero mi salì una fitta di dolore e di sconforto che prima non avevo notato. Solo ora che mi trovavo in quella situazione riuscivo a sentirla in maniera nitida... che fosse dolore? «Io non sono quella che cerchi... Io aspetto qualcuno che ti assomiglia, ma non sei tu. La confusione che senti e dovuta alla vicinanza di questo fiume. Le sue particelle in sospensione, i suoi fumi, confondono i ricordi e la mente. Non puoi andartene da qui se non attraversandolo. E' un'esperienza che pochi hanno avuto il coraggio di fare e non saprei dirti quali conseguenze potrebbe avere per la tua identità e la tua coscienza».
 

Rimasi per qualche secondo in meditazione, ma sapevo già cosa avrei dovuto fare, non c'era ritorno... un'unica via.
 

«Grazie... ti rivedrò? Qual è il tuo vero nome?».
 

«No, non mi rivedrai... non credo. Il mio nome l'ho dimenticato da tempo, ma so quali nomi non possiedo». Sorrise placidamente.
 

Mi avvicinai alle acque violacee del fiume che scorreva impetuoso di fronte a me. Man mano che proseguivo era come se venissi colto da un'ebbrezza sempre più intensa. Quando mossi gli ultimi passi verso la riva il mondo alle mie spalle cominciò ad offuscarsi e scomparire in una densa nebbia. Immersi la mano sinistra. Non ero in grado di contare quante dita avessi. La visione si distorse e dimenticai di aver camminato fino a lì, dimenticai di aver incontrato Francesca, dimenticai il Dedalus, dimenticai tutto... Dimenticai Amal. Caddi come a rallentatore, svenendo dentro i flutti del Lete. Non sentii dolore ne alcuna sensazione spiacevole. Non opposi alcuna resistenza.
 

Tutto intorno a me divenne buio.
 

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Capitolo 11
*** Icarus ***


Rinvenni completamente fradicio, una fitta pioggia ghiacciata mi inondava diagonalmente mentre un vento fortissimo mi sferzava penetrando sotto i vestiti. Ero disteso su una base di duro acciaio, allagata da circa cinque centimetri di acqua piovana. Gli scoli laterali non riuscivano a stare dietro all'intensità della pioggia. Ero circondato da un parapetto circolare del diametro di una ventina di metri. Sopra di me, dalle nubi color carbone, scrosciavano fulmini a catena, pericolosamente vicini, con esplosioni assordanti. Al mio fianco si ergeva un pinnacolo luminescente che pulsava di una luce rossastra a intermittenza. Mi sollevai a fatica scivolando e annaspando. Guardai appena oltre il parapetto. Si vedevano solo le nubi, come se fossi sospeso nell'aria nel bel mezzo di una tempesta. L'atmosfera era pesante e si respirava a fatica, non c'era ossigeno a sufficienza, così come accade quando ci si trova sulla vetta di una montagna altissima. Provai a sporgermi ulteriormente e fui subito colto da un capogiro che mi fece cadere all'indietro. Solo nubi distanti. Non vi erano aperture ne porte, mi trovavo sulla cima di una costruzione umana: una specie di postazione di vedetta. Non vi erano dubbi: ero sulla cima del Dedalus.

Come ero arrivato lì? Doveva per forza esserci una maniera per scendere! Starnutii e cominciai a tossire convulsamente. Quanto avrei potuto sopravvivere in quelle condizioni? Ero stato abbandonato lì a morire, senza possibilità di fuga, non vi era altra spiegazione. Sicuramente sarei morto assiderato o fulminato prima ancora che di fame.

Mentre tremavo gocciolando copiosamente, dalle mie labbra violacee ne fuoriuscì un sussurro: «Amal...». E improvvisamente mi sovvenne ogni cosa: la materializzazione, gli osservatori, il mio cubiculum, la chiave genetica, la biblioteca, Alma 84 e le sue pazzesche affermazioni, l'assurdo viaggio compiuto con Amal, il paradiso terrestre, il salice e il fiume dell'oblio. Quanto di tutto ciò era reale? Che senso aveva ormai per me questa parola: "Realtà".

E infine la verità mi colpì repentina, con uno schianto dentro la mia testa, come se fossi stato elettrizzato da uno di quei fulmini. C'era una logica in tutto questo: qualcosa di perfettamente razionale. L'unica cosa di cui potevo rendere conto in tutto il mio viaggio era la mia propria coscienza, il senso di esistere, tutto il resto sembrava sfuggirmi tra le dita: il Velo di Maya. Vivevo in un mondo di illusioni, un mondo programmato dalla mia stessa consapevolezza di esistere.

Probabilmente avevo veramente compiuto un viaggio verso il Dedalus grazie al Materializzatore. In questo processo la mia coscienza era stata salvata e registrata, quindi contenuta in un qualche sistema appositamente creato a questo scopo. Quella che doveva essere la mia identità, la mia coscienza, il mio Io, era divenuto una serie di informazioni e di dati: un file. Forse questo stesso file era stato copiato e rigenerato in una forma umana che ora si trovava realmente nel Dedalus. Tuttavia IO ERO questo file! Così come non potevo che essere sempre Io in tutte le forme future nelle quali mi avrebbero copiato.

Esistevo contemporaneamente in diverse realtà, ed ero un insieme di dati genetici registrati. Chi poteva credere che un file copiato in un sistema potesse vivere ed esperire come stavo facendo io in questo istante? Come poteva comprendere un computer fino a che punto, o a che stadio dell'esistenza, un qualsiasi essere senziente abbia la possibilità di percepire il mondo che lo circonda e crearsi un'identità? Ecco il supremo errore della tecnologia moderna! Ecco il più grande dei suoi orrori! Erano riusciti a copiare l'Io così come si copia un insieme infinito di zeri e di uno, ma nessuno poteva sapere che, durante questo processo, il risultato che ne sarebbe scaturito non era nient'altro che una forma di vita cosciente e senziente, bloccata eternamente nel Presente: un effimero istante della vita della sua copia originale.

Ero un file e mi muovevo tra ricordi e aspettative, in un mondo che mi ero creato apposta per sfuggire dall'oblio e dal torpore di un contenitore: un hardisk genetico. Non c'era niente che potessi perdere, non c'era niente di reale che potesse nuocermi. Ancora una volta... c'era una sola via.

Mi chiesi solo cosa avrei ricordato e se sarei rinato, oppure se questo sarebbe semplicemente stato un modo per auto-cancellarsi, una sorta di auto-formattazione. Mi vedevo come un'immagine sgranata che in un soffio si dilatava lasciandosi dietro stringhe di codice color rosso sangue.

Mentre riflettevo sulla quella che era la mia prigione di illusioni urlai a squarciagola: «Morti... siete tutti morti! Voi che siete al di là di questa aliena realtà, voi che siete al sicuro e vegliate sulle vostre decisioni, siete morti per me. Ma cosa importa? Io per voi non sono mai esistito, io che difetto del libero arbitrio a voi concesso... ». La mia voce si disperse ovattata dalla pioggia. Attesi. Piansi. Mi calmai, e il mio pensiero indugiò su Amal.

Ti ho inseguito, in un paese d'illusioni. Così vicina e irraggiungibile, tu sei il mio sangue. Ombra della Senna che non è più, volevo affogare nei tuoi flutti. Ti ho cercato, disperandomi in silenzio e tu eri lì: dove le mie orme s'erano appena estinte. La tua immagine mi perseguitava, come uno spettro. Eri le mille donne che mi davano le spalle. Così vicina e irraggiungibile, ombra. Dalle cime di false vedute, la mia vista spaziava su fluorescenti lumi, cercando la luce oscura dei tuoi occhi.

Volai, volai per un tempo infinito e attraversando le nubi e i fulmini intravidi le luci sotto di me così distanti... così belle. Mi allontanavo gradualmente dalla superficie della torre oscura mentre tutto intorno a me svolazzavano aeromobili e piattaforme che riuscivo a cogliere a malapena a causa della velocità folle. Sentivo perdersi dietro di me le lacrime, non sapevo se di tristezza o di gioia, forse erano solo un effetto dell'aria e della pioggia che mi frustava con veemenza.

Volai, volai e sorrisi, mentre tutto si ingigantiva sotto di me. Si sentì un urlo atroce, ma non sapevo se era la mia bocca ad emetterlo, la credevo chiusa. Sentii un rumore assordante e un lungo fischio e ancora una volta, per la seconda volta, tutto intorno a me divenne buio, e, in un silenzio che credetti eterno, ci fu in lontananza una risata cristallina sempre più fievole, sempre più soffocata. Non la riconobbi e prima del nulla aleggiò nel torpore della mente un nome diverso... «Francesca?».

 

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Capitolo 12
*** Intermezzo - Digressione: L'Aggregazione ***


Gli sporadici attacchi terroristici da parte di alcuni gruppi etnici d'estremo oriente si fecero sempre più frequenti e cruenti. Fino agli anni trenta del duemila non si assistette mai ad una vera e propria spinta in direzione bellica. L'America si fece portavoce della più agguerrita posizione antiterroristica, ma i riflettori dei media sulla questione rendevano sempre più evidente che, al di sotto delle posizioni ideali, c'erano evidenti vantaggi di ordine meramente economico per entrambe le parti. A complicare la situazione si mosse una coalizione anti-americana che comprendeva Corea, Russia e Cina. Questa coalizione sembrava appoggiare in maniera indiretta gli sforzi promossi dai fautori della Jihad, anche se, ancora una volta, il caos che si venne a creare fu il risultato dei gretti interessi di stampo economico delle suddette nazioni. Nessuna delle forze in campo era esente da colpa. Il risultato fu la Guerra dei Miscredenti.

Lo scontro durò sette anni e si mosse su i campi più disparati. Coinvolse i larga misura i mezzi telematici, ma ci furono anche numerosi scontri diretti e assassinii mirati che colpirono indistintamente sia membri del governo americano che membri della coalizione. I servizi segreti russi si permettevano il doppio gioco. Alcune delle modalità applicate sembravano replicare le strategie della Guerra Fredda.

La netta supremazia orientale al termine di questo periodo distrusse definitivamente tutti gli antichi timori verso ogni forma di superstizione religiosa e verso un Dio che in tutto questo periodo non si era mai fatto sentire. Anche se per alcuni questa triste parentesi storica sembrò l'evidente annuncio di un'imminente apocalisse, per i più era ormai giunto il tempo di abbandonare l'ipocrisia di ogni forma di fede. Paradossalmente l'idea partiva proprio da quei gruppi che avevano generato il conflitto con lo scopo originario di imporre un unico pensiero religioso in tutto il mondo. Il disgusto per quello che era un messaggio puramente utilizzato con secondi fini aveva generato una sorta di collettiva presa di coscienza.

Il risultato fu una sorta di assurdo e forse inutile compromesso. Venne confermato, tra i diritti universali dell'uomo, quello di libertà di religione puramente individuale e, parallelamente, il divieto universale di associazione religiosa e comunitaria. Nella pratica ognuno era libero di credere ciò che voleva, ma solo ad un livello puramente filosofico. Nessuno poteva più professare alcun credo. Il mondo era ateo.

Le generazioni successive, già a partire dal ventiduesimo secolo, non erano più in grado di sentire timore divino. Nessuno aveva più paura di essere giudicato nell'Aldilà . L'etica dell'individualità e della superiorità dell'Uomo, come creatura prediletta del Creato, non aveva ragion d'essere. Sebbene l'umanità continuasse a considerarsi superiore rispetto agli altri esseri viventi (e sarebbe sembrata assurda quasi a chiunque l'idea che una formica o un filo d'erba potesse avere pari diritto di esistenza rispetto a un uomo), alcune delle remore legate all'immoralità delle sperimentazioni genetiche sul soggetto umano vennero a blandirsi. In breve si giunse alla conclusione che, una volta venute meno le ragioni religiose e una volta caduto il mito dell'individualità , non c'era più alcun motivo che potesse rallentare l'idea di un possibile miglioramento dell'esistenza umana sfruttando anche questa risorsa, lasciata da parte proprio a causa di ragioni etiche che non avevano più senso di esistere.

Ci fu una vera e propria rivoluzione biotecnologica che portò in poco tempo verso una rapidissima evoluzione dell'eugenetica. Proprio come aveva prospettato Habermas, che appena agli inizi del duemila aveva evocato uno scenario che trovava infine compimento circa cento anni più tardi, vi furono tutta una serie di esperimenti in campo medico sulla cura di malattie congenite. L'idea era giustamente quella di curare e migliorare le condizioni di vita di tutte le persone che, loro malgrado, si trovavano ad avere disturbi legati a genomi difettosi. Presto si cominciò a modificare il codice genetico umano permettendo così di evitare a priori questa casistica. Poi si pensò che non potesse esserci nulla di sbagliato nell'idea di migliorare alcune delle qualità degli esseri umani, come le capacità atletiche o intellettive, grazie all'applicazione mirata di queste scoperte. Infine si giunse a veri e propri interventi, preventivi e non, di tipo puramente estetico. Tutti potevano generare figli sani, belli e intelligenti grazie alle favolose scoperte dell'eugenetica. Si era riusciti a raggiungere un tale controllo applicativo di questa scienza che si era reso possibile intervenire direttamente su difetti già presenti e rimuoverli: era sufficiente lasciare che il corpo si adattasse gradualmente alla cura. Tutto questo processo sembrava non avere delle vere e proprie conseguenze negative dal punto di vista medico. Non c'erano effetti collaterali ne fisici ne mentali. Anche se verosimilmente errori ce ne furono molti, nessuno lo venne a sapere, o tutti fecero finta di non vedere. I risultati erano straordinari e giustificavano ogni vita rovinata o stroncata.

Il seguito della storia lo aveva previsto, ancora una volta, il filosofo tedesco. Quando le generazioni modificate cominciarono a diffondersi nel mondo e a prendere posizioni di potere, si resero evidenti, a livello sociale, quelle che erano le differenze tra Modificati e i Naturali.

Si crearono fazioni sociali e ci furono prese di posizione di ordine razziale anche all'interno delle scuole. Se da un lato i Modificati si ritenevano uno stadio superiore dell'evoluzione umana, dall'altro, i Naturali si vedevano come una razza pura e incontaminata. Negli atteggiamenti e nelle formulazioni di pensiero di questi ultimi si poteva in parte riconoscere alcune delle modalità dell'Arianesimo nazista.

Fu una donna, questa volta, a farsi da portavoce di quest'ultimo movimento: una sociologa e studiosa di storia novecentesca, che assunse significativamente il soprannome di Anna Shitler.

Assieme a lei si unirono grandi masse di Naturali da tutto il mondo che, ognuno con le proprie competenze, cercava di ostacolare la sperimentazione progressiva dell'eugenetica. In brevissimo tempo si arrivò a vere e proprie rivolte, spargimenti di sangue e pesanti sabotaggi ai più grandi centri di ricerca genetica.

I governi, intuendo il ripetersi di un grave capitolo della storia umana, misero in gioco una delle carte che tenevano nascosta già a partire dalle prime battute di questa infinita diatriba: l'eusoldato.

A scontrarsi contro le agguerrite e "idealiste" masse dei Naturali, i governi cominciarono a sguinzagliare dei guerrieri perfetti e sostanzialmente imbattibili. Gli eusoldati si diedero senza pietà al massacro dei civili impazziti che appoggiavano la causa di Anna Shitler. Un primo e potente impatto estinse i gruppi maggiori di sediziosi, poi si giunse ad una vera e propria caccia all'uomo. I Modificati crearono dei sistemi portatili di scansione che permettevano di verificare la conformazione genetica delle persone etichettandole come Modificate o Naturali. In brevissimo tempo la situazione era precipitata: l'uomo che possedeva un codice genetico naturale era considerato inferiore e, in quanto tale, poteva essere arrestato, incarcerato e in alcuni casi anche giustiziato.

Tra le file della Shitler c'erano tuttavia anche grandi menti Naturali, sia nel campo della scienza pura che nel campo della tecnologia, della chimica e dell'ingegneristica. In risposta alle misre belliche dei Modificati vennero create segretamente delle macchine che si sostituissero all'uomo naturale negli scontri che fino a quel momento erano pesantemente sbilanciati a proprio sfavore. Un chimico di antica discendenza ebraica riuscì, sfruttando gli stessi scanner di verifica genetica utilizzati dai Modificati, a creare una bio-tossina che colpiva in maniera selettiva solo le persone che presentavano modifiche genetiche.

Le bio-tossine vennero rilasciate nell'acqua e, nel giro di sei mesi, la popolazione modificata venne dimezzata a livello mondiale. I Modificati riuscirono infine a trovare una soluzione chimica che servisse da antidoto annullando l'azione della bio-tossina e purificando l'acqua, ma nel frattempo gli scontri tra eusoldati e le nuove creazioni ingegneristiche degli scienziati della Shitler continuavano.

Tra le varie e le più temute creazioni degli ingegneri e programmatori della Shitler, c'erano dei robot che sfruttavano una tecnologia che si basava su un'evoluzione molto particolare delle teorie della magnetostatica. Questa ramo scientifico molto basilare, unito alle concezioni sperimentali sul trasferimento wireless dell'energia già teorizzate anticamente da Tesla, diede vita a una tecnologia dalle possibilità pressoché illimitate. Questi robot potevano auto-alimentarsi attingendo a distanza dai nodi magnetici terrestri. La stessa tecnologia permetteva a queste macchine sia di creare dei flussi elettromagnetici invisibili dalla considerevole potenza offensiva che delle barriere difensive deflettenti pressoché impenetrabili; solo un potente attacco fisico ravvicinato poteva oltrepassare la barriera, e con difficoltà. 

Questi robot, che avevano la forma di una sfera di color nero di circa un metro di diametro, venivano chiamati "osservatori". Fluttuavano nell'aria, e riconoscevano la conformazione genetica delle persone che incontravano sulla loro stradatramite un bioscanner integrato, simile a quello utilizzato dai Modificati durante i loro controlli casuali. 

Il mondo conobbe così quella che, dopo la Guerra dei Miscredenti, venne considerata la Quarta Guerra Mondiale. In ogni dove, erano riapparsi predicatori farneticanti profezie sulla fine del mondo e nuove sette religiose che auspicavano l'avvento dell'Apocalisse. Altre persone, nauseate dall'atrocità di questo conflitto devastante, richiamavano l'uomo all'unità contro il vero e comune nemico: le macchine.

La maggior parte delle macchine belliche erano, di fatto, controllate dai Naturali, ma sembrava ci fossero errori nel software di base. La convinzione che queste fossero state programmate per lo sterminio completo della razza umana si radicò sempre più profondamente nella mente di entrambe le parti in lotta. Il moltiplicarsi dei casi di errori di analisi e auto-riprogrammazioni, che portarono gran parte di questi macchinari infernali a ribellarsi contro la popolazione naturale, consolidò quelle convinzioni che inizialmente sembravano generate solo da un timore atavico.

Negli anni quaranta del ventitreesimo secolo, quando Anna Shitler venne assassinata da un osservatore, nessuno aveva più dubbi su quale fosse il vero nemico.

La guerra aveva letteralmente spazzato via intere città. I danni collaterali avevano distrutto gran parte della storia delle antiche civiltà. Molti studiosi combattevano per conservare quanto più possibile dell'arte e della cultura precedente, spostando e ricostruendo vecchi monumenti e copiando libri di ogni genere e di ogni lingua in grandi banche dati informatiche. Gli osservatori, che non erano stati programmati per abbattere questi resti dell'intelligenza umana, li ignorarono.

Uno delle più grandi menti tra i Modificati, un programmatore dell'ormai decaduta Francia, Stephan Dedalus, riuscì nell'intento di riprogrammare alcuni degli osservatori, sfruttando una combinazione di frequenze e impulsi che si basavano su antiquati sistemi a onde radio. Gli stessi osservatori riprogrammati da Dedalus intervennero disattivando gli altri macchinari. L'operazione bonificò dapprima tutto il territorio francese e poi si estese in scala europea.

Molti dei governi erano decaduti nel corso del ventitreesimo secolo e avevano potuto recuperare una certa stabilità solo grazie ai finanziamenti e la collaborazione delle grandi multinazionali che, nonostante la guerra, riuscirono a mantenersi in piedi e ad influenzare, di volta in volta, l'una e l'altra delle due parti in conflitto. Il connubio tra i nuovi governi restaurati e le multinazionali diede vita alle cosiddette Corporazioni: enti neo-governativi che seguivano una politica decisionale basata sugli andamenti di mercato e che auto-giustificavano in senso legalizzato la propria diretta influenza all'interno degli Stati. 

Con l'aiuto delle Corporazioni, Stephan riuscì ad estendere il progetto di riassetto delle macchine a tutto il mondo, e si giunse così al termine del conflitto.

Le operazioni durarono circa una decina d'anni. Nel frattempo gli umani furono costretti a nascondersi e rifugiarsi in grandi ammassi abitativi bonificati e schermati contro gli attacchi elettromagnetici. Questo processo venne conosciuto col nome di Aggregazione.

Stephan Dedalus ebbe l'idea di sfruttare l'occasione per ricreare una forma di civiltà avanzata basandosi sulla ristrutturazione e l'ampliamento di questi nuovi centri abitativi messi in sicurezza. Le Corporazioni appoggiarono il suo progetto e lo finanziarono. A partire da questa idea si vennero a creare le grandi metropoli aggregate.

La prima si sviluppò a partire da un'idea dello stesso Dedalus, che, pur non essendo un architetto, si rivelò essere una persona dalle poliedriche capacità, anche se dal gusto eccentrico. Il centro abitativo che si era venuto spontaneamente a creare attorno alla vecchia torre Eiffel fu il primo a giovare di questo sviluppo. Il risultato fu l'immensa costruzione che assunse il nome di colui che aveva salvato il mondo: il Dedalus.

Nel corso del ventiquattresimo secolo, i centri aggregati si espansero a dismisura e, una volta limitate nelle funzioni e negli armamenti, a distanza di circa sessant'anni, quando ormai la diffidenza umana era rientrata nella misura di una plausibile accettazione, vennero reintrodotte nella società anche le macchine che avevano rischiato l'intera cancellazione della razza umana. Le sole e giustificate finalità erano quelle di aiutare l'uomo nella produzione, nella sicurezza e nella costruzione di nuovi centri.

Agli inizi del venticinquesimo secolo non vi era quasi più nessun essere umano che si dedicasse a lavori di tipo manuale: tutto era lasciato alle macchine e all'incredibile evoluzione in tutti i campi della tecnologia magnetostatica a trasferimento energetico. Le metropoli aggregate si allargavano e si innalzavano verso il cielo. Si prospettò così il momento propizio per unire gli oramai consolidati traguardi raggiunti dall'eugenetica alle nuove avanguardie in campo tecnologico. Era sentita da tutti la necessità di fornire un collegamento diretto ed istantaneo tra i grandi centri corporativi che erano nati in ogni parte del mondo. L'obiettivo era permettere a chiunque di spostarsi da un centro all'altro istantaneamente, e fare in modo che gli abitanti delle piccole e residue città pre-aggregate potessero raggiungere agilmente queste grandi metropoli. La cosa sarebbe stata possibile grazie al teletrasporto. 

L'idea partì sfruttando i vecchi sistemi di bioscansione utilizzati dagli osservatori durante la Quarta Guerra Mondiale. Migliorando questa tecnologia fino ad ottenere una scansione genetica completa a livello atomico, sarebbe stato possibile registrare e copiare il codice genetico umano fino alla sua più infinitesima particella, per poi poterla rimaterializzare grazie ai cannoni particellari a trasferimento energetico, che oramai avevano raggiunto una precisione tale da poter replicare qualsiasi forma a livello subatomico. Nella teoria i cannoni permettevano il riposizionamento esatto delle particelle, senza alcun margine d'errore. I dati raccolti potevano così essere inviati da un luogo all'altro. Il prodotto del processo sarebbe stato una replica dell'elemento originale, nelle stesse identiche condizioni nelle quali si trovava al momento in cui aveva preso avvio il processo di copia e trasferimento. 

Vennero creati così dei grandi interporti, gli Snodi,  in cui furono costruiti dei giganteschi e precisissimi sistemi di teletrasporto istantaneo: i Materializzatori. Al fine di verificare che i processi di trasferimento funzionassero con efficienza, vennero assegnati alla sorveglianza ancora una volta gli osservatori. Essi effettuavano controlli genetici casuali registrando le eventuali anomalie. Quando veniva riscontrata un'anomalia si procedeva con un riassetto genetico... qualunque cosa ciò volesse dire.

Gli interporti vennero direttamente collegati con i nuclei centrali delle metropoli aggregate al fine di facilitare lo scambio di dati e i controlli. I sistemi di bioscansione vennero in seguito installati anche all'interno delle zone abitative delle metropoli stesse.

I centri si stiparono e si affollarono. L'avanzamento tecnologico fece un ulteriore e inaspettato salto. I sistemi di simulazione in tridimensionale, che avevano già raggiunto un ottimo livello appena dopo la Guerra dei Miscredenti, non trovarono un vero e proprio spazio di evoluzione durante la Quarta Guerra Mondiale, probabilmente perché le necessità di sopravvivenza avevano spostato l'attenzione umana verso altre forme di evoluzione tecnologica. Ora però che ci stava vivendo un periodo di sostanziale tranquillità a livello bellico, il processo di evoluzione di questi dispositivi riprese con velocità spasmodica. La simulazione tridimensionale trovò applicazione in ogni campo: educazione, pubblicità, telecomunicazioni, svago, medicina, arti, spettacolo, sesso virtuale e molto altro.

Queste tecnologie divennero sempre più complesse e si riuscì in breve tempo a simulare non solo le percezioni visive e uditive, ma anche olfattive e tattili, grazie alla proiezione di microparticelle di energia in sospensione temporanea e a complessi sistemi che generavano onde di pressione precise e regolate. Le particelle, messe in vibrazione dai cannoni particellari (gli stessi utilizzati nei Materializzatori), potevano assumere qualsiasi forma a livello microscopico, interagendo direttamente con le papille olfattive e tattili della persona. Le onde di pressione invece erano direzionabili in maniera così precisa da poter determinare il peso e la combinazione di queste particelle, fino a riuscire simulare perfettamente il contatto fisico di una goccia di pioggia. Il passo successivo fu la creazione del Simulatore Ambientale. 

Alle soglie del ventiseiesimo secolo era sostanzialmente divenuto possibile replicare, all'interno di una piccola stanza, qualsiasi cosa fosse materialmente percepibile: un luogo, un oggetto, una persona. Per creare l'illusione di movimento nello spazio fu utilizzata, ancora una volta, la tecnologia magnetostatica; la persona che si trovava dentro il simulatore aveva l'impressione di camminare in un ampio spazio, grazie al coinvolgimento di tutte le sue percezioni sensoriali, in realtà le sue gambe si muovevano a mezz'aria all'interno di una piccola stanza. Vennero costruiti infine dei sistemi di trasporto, come i "corridoi" o gli aereobus, che facilitassero gli spostamenti a breve distanza.

Era cominciata una nuova Era dove, chiunque avesse il controllo di queste neo-tecnologie, aveva quindi la possibilità di crearsi il proprio paradiso personale. Di fatto, la completa gestione dei simulatori ambientali all'interno delle metropoli aggregate era affidata alle Corporazioni e ai loro membri più importanti.

La parola "realtà", da questo momento in poi, cominciava a perdere di significato, se non attaccandosi disperatamente a mere speculazioni filosofiche. In ogni momento e in ogni luogo era sostanzialmente possibile ricreare qualsiasi situazione e qualsiasi evento immaginabile, sorpassando le potenzialità della stessa realtà.

L'illusione divenne talmente precisa, coinvolgente e convincente che si cominciò a dubitare dei suoi confini. Si perse la cognizione del tempo e dello spazio. Si perse il senso della storia e del passato.

Anche questo stupido tentativo di offrirvi un luogo e un tempo per questa storia non può che apparire come un'operazione fittizia e vana. Come posso essere sicuro di fornirvi con precisione un'indicazione sul momento esatto in cui comincia l'illusione storica, dal momento che io stesso ci sono immerso totalmente? Quanto di tutto ciò che ho raccontato durante questa lunga cornice costituisce una vera storia dell'ultimo mezzo millennio dell'umanità?

Posso solo dirvi che qui la gente è così assuefatta da questa illusione che da lungo tempo ha smesso di dubitare.

Abbiate pietà di me voi che esistete e vi dirò ciò che sento. Non è per diletto o per sfogo, ma per necessità che racconto. A voi la mappa del labirinto.

Aiutatemi a trovare l'uscita.

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Capitolo 13
*** Metempsicosis ***


...

«... Francesca??... »

«Chi sei?», domandò con curiosità una voce femminile.

«Non ricordo, ma non penso di essere... lui... », rispose la mia voce.

Comparve uno specchio, che sospeso in uno spazio indefinito, una distesa di bianco senza fine, rifletteva il nulla; quasi una cornice vuota che galleggia nella luce.

...

«Francesca», ripeté la mia voce con una nota di rimpianto.

...

Il nome riverberò ripetendosi in un'eco distante, la luce si convertì in tenebre, mentre il suono si allontanava, sempre di più, affievolendosi: una voce nel buio della coscienza, lontana e subito zittita dalle tenebre circostanti. La voce era la mia e il buio era la mia mente che riprendeva forma. Il nero divenne grigio scuro e, lentamente schiarendosi, cominciò a prendere i contorni di un viso che non conoscevo... o forse avevo conosciuto... da qualche parte... in un'altra vita?

L'immagine improvvisamente sbiadì e comparve di nuovo una luce accecante, che spazzò in un lampo le tenebre precedenti. In questo spazio astratto non riuscivo a orientarmi o a trovare una direzione, eppure, da qualche parte, da un punto che istintivamente avrei collocato dietro le mie percezioni, sentii un suono strano: la voce di qualcuno che imita per scherzo un gatto che soffia: «PPfffffffhnn!». Al suono seguì una risatina brillante e divertita, poi, con un tono affettuoso e dolce, sentii la voce femminile di prima, che disse semplicemente: «ti amo!».

Un acuto fischio mi circondò, aumentando di volume fino a divenire assordante. La luce incrementò la sua intensità, accompagnando la sgradevole emissione di quel fischio, fino a diventare insostenibile agli occhi.

Quando ripresi coscienza ero immerso nuovamente nell'oscurità più totale. Sentivo una fitta atroce a livello dei lobi temporali, come un chiodo che penetrava stridendo. La repentina ed esplosiva alternanza tra luci e tenebre mi aveva causato un ritardo nell'assimilazione degli stimoli percettivi. Quando cominciai a udire i suoni che mi circondavano capii di essere precipitato in un inferno.

Tutt'intorno a me sentivo urla disperate e agghiaccianti, parole incomprensibili e lamenti strazianti. Non ero in grado di muovermi. Ero come avvolto e sopraffatto da un caotico divincolarsi di corpi, braccia e gambe. Dovetti combattere per trovare il terreno sotto i piedi.

Ci fu uno schianto. Un rumore meccanico. La vibrazione lenta e graffiante di un motore elettrico si diffuse nell'aria intorno a me, mescolandosi alla disperazione delle voci. Faticavo a respirare e credetti di finire schiacciato dagli esseri che mi pressavano convulsamente in cerca di spazio. In lontananza cominciò a profilarsi una tenue luce rossa. La luce filtrava da un'apertura che si stava lentamente allargando partendo dal basso, seguendo il ritmo del motore: era il gigantesco portone di un hangar che si stava sollevando.

Cominciai a distinguere vagamente i contorni degli esseri che mi stavano schiacciando da ogni lato: erano persone. Tutti noi stavamo lottando disperatamente per trovare uno spazio minimo in cui stare. Ognuno di noi cercava semplicemente di capacitarsi della propria esistenza. Era evidente che stava per succedere qualcosa di terribile. In questo panico di corpi e furia di sopravvivenza, cercavamo inutilmente di fuggire da qualche parte. Non riuscivo a vedere i volti che mi circondavano, ma avevo come l'assurdo presentimento di riconoscerli alla cieca. Il portone si sollevò quasi completamente e dallo sfondo rossastro cominciarono a sciamare all'interno dell'hangar decine di globi neri fluttuanti.

Partirono raffiche di colpi invisibili, sibilando nell'aria, con il rumore di vibrazioni liquide. Le urla inaudite della gente aumentarono di volume assordandomi, mentre vedevo i loro corpi, avvolti da una bioluminescenza bluastra, svanire in piccoli mucchietti di cenere fosforescente. Cercai di svincolarmi all'indietro terrorizzato, finché, lottando e colpendo con spalle, braccia e testa, non mi trovai appoggiato con la schiena nuda su una fredda lastra metallica. Le sfere avanzavano inesorabili mietendo vittime, una dopo l'altra, senza esitazione.

Alzai le mani, incrociandole impotente di fronte al viso e cercando di spingere vigliaccamente, verso un destino di morte, chi mi stava di fronte. Chiusi gli occhi, desiderando con tutte le mie forze che il muro alle mie spalle non esistesse. In che razza di incubo ero finito? Come fuggire da quella follia? Lasciai ogni speranza, sentendomi ad un passo dalla fine.

Il mio corpo cedette improvvisamente all'indietro attraversando qualcosa di fluido. Avevo ancora le mani protese di fronte a me e caddi pesantemente di spalle colpendo con la schiena il duro terreno.

Silenzio.

Non c'erano più grida. Non c'erano più colpi sibilanti nell'aria. Aprii gli occhi.

Vidi una spessa coltre di nubi che si estendeva senza fine. Sentii un tuonare distante, mentre la brillava luce dei lampi, soffocata dal grigiore profondo dei nembi. Sotto di me c'era un terreno sconnesso: ciottoli e ghiaia. Appena oltre i miei piedi un muro di acciaio impenetrabile. Mi sollevai da quella posizione supina, avvilito e impaurito. Tremavo più per lo shock che per il freddo penetrante di quell'ambiente. Ero completamente nudo.

«Ero... io... », dissi, ma il suono della mia voce fuoriuscì strozzato dalle lacrime e dalla disperazione.

Erano centinaia di copie di me stesso! Centinaia di reincarnazioni errate. Copie che non avevano passato i test genetici. Ma io ancora non capivo, poiché avevo dimenticato ogni cosa del mio precedente viaggio e mi chiedevo come fosse possibile tutto ciò. In quale assurdo incubo ero capitato? Dov'era il Dedalus?

Pensavo semplicemente che avrei dovuto materializzarmi presso lo snodo centrale del Louvre, per raggiungere la più famosa metropoli aggregata del mondo. L'unica cosa che volevo era incontrare Amal. Ero lì solo per lei! Invece mi trovavo proiettato in un luogo che forse non apparteneva neanche a questo universo. "Sono morto?", pensai.

Cosa fare? Dove dirigersi? Solo, nudo, frustrato, disperso e avvilito dal terrore, mossi qualche passo tremolante lungo il sentiero che mi stava sotto i piedi. La strada ciottolata si disperdeva nella nebbia in lontananza. Non sapevo dove mi avrebbe condotto. La tetra valle che mi stava di fronte, oscurata dal grigiore delle nubi, declinava verso un bosco di alberi secchi e morti. I rami irregolari si intrecciavano scheletrici senza proiettare alcuna ombra sul terreno. Non c'era anima in quel luogo, non c'era vita. Non c'era un solo essere nel raggio di chilometri.

«Ero io... », ripetevo meccanicamente, mentre i miei piedi nudi si spingevano avanti con passi troppo corti e duri, calpestando i sassi taglienti. Non sentivo dolore. Non sentivo nulla. Come ero riuscito a fuggire da quella stanza, da quella specie di hangar?

L'immagine di un ricordo sfocato, quasi un pensiero subcosciente, comparve inattesa nella mia mente. In questa scena, Amal mi stava trascinando oltre il muro solido di un bagno, mentre rideva divertita. Quando era successo? Ma, soprattutto, come poteva essere possibile una cosa del genere? Forse era la mia immaginazione: una scena prodotta dal desiderio inconscio di darmi una spiegazione... una qualsiasi spiegazione, anche la più assurda!

Abbandonai ogni pensiero e continuai a camminare, svuotato e inerte come un'anima dannata: ero l'ironico esito di una reincarnazione sbagliata.

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Capitolo 14
*** La Selva Oscura ***


Ero giunto sul limitare del bosco spettrale, che sembrava riposare immoto, nel mezzo di quella valle coperta di bruma. Man mano che mi avvicinavo, la nebbia sembrava misteriosamente allontanarsi e riuscivo a distinguere le forme intirizzite di quei strani rami. Si protendevano in maniera irregolare, con angolature complesse e, come già notai in lontananza, non proiettavano alcuna ombra. I rami spogli si interrompevano tutti, con desueta regolarità, in degli snodi, recanti cinque punte raggrinzite, terribilmente assomiglianti a delle ossute mani stilizzate. Dai tronchi si protendevano delle protuberanze tondeggianti che spuntavano dalle posizioni più disparate. Ognuna di queste sporgenze aveva un taglio aperto, mai perfettamente collocato al centro del bosso.

Mi inoltrai in quel bosco da incubo, muovendo dei primi cauti passi tra gli alberi. Dapprima mi sembrò di notare qualche impercettibile movimento accompagnato da un fruscio. Non vi era alcuna forma di vita, ne volatile ne terrestre, eppure ero sicuro di aver sentito qualcosa rompere impercettibilmente quel silenzio innaturale. Qualcosa si stava muovendo, ma sempre al di fuori del mio campo visivo. Ebbi un fremito e salì dentro di me una sensazione scostante, accompagnata da una scarica adrenalinica di paura.

Che fine avevano fatto le macchine sferiche omicide? Che mi stessero inseguendo? Non percepivo in quel luogo la freddezza indistinta degli osservatori. La minaccia era un'altra, dentro di me lo sapevo. C'era qualcosa di orrido e ancestrale in quei rami.

Mi ero lasciato ormai ad un paio di chilometri di distanza quello spesso muro d'acciaio. Non avevo visto passaggi da nessun lato. Il muro, dalla curvatura solo vagamente percepibile, si estendeva a perdita d'occhio, come un limite altissimo e invalicabile; non c'erano aperture. Come potevano inseguirmi? Da dove sarebbero spuntati? Avevo l'impressione di essere capitato, casualmente e inspiegabilmente, al di là di una sorta di zona protetta. Ora che non mi trovavo più nel campo d'azione degli osservatori, sembrava che non costituissi più una minaccia per loro.

D'altronde, un luogo come questo non aveva di certo il bisogno di essere protetto da niente e da nessuno. Non c'era essere vivente, con un minimo di buon senso, che vi si sarebbe spinto dentro così come avevo fatto io. Vagare alla cieca in qualsiasi altra direzione, con il rischio di non ritrovare la strada, sarebbe stato comunque preferibile a questo lugubre sentiero, del quale, tra l'altro, non conoscevo la destinazione. Dovevo aver perso la sanità mentale, forse a causa dello shock e della disperazione. Non riuscivo a capacitarmi di come potessi avere il coraggio di muovere i miei piedi nudi in quel bosco fantasmagorico, i cui alberi avevano fattezze umane contorte e agonizzanti. Ma certo! Era proprio così! Sembrava che in ogni tronco ci fossero intrappolate delle persone urlanti che cercavano di divincolarsi e farsi strada fuori dalla corteccia.

Mi venne un brivido.

Quello che fino all'istante precedente era stato un pensiero subcosciente divenne pura evidenza: ero circondato da alberi umanoidi!

Una curiosità morbosa mi spinse ad approssimarmi sbalordito, per analizzare uno di quei vegetali. Osservai più da vicino uno dei tagli obliqui di quelle protuberanze. Al di sotto dello strato esterno si poteva distinguere un colore rossastro, come di corteccia scorticata... no, c'era della... carne?! Sembrava l'interno di una bocca umana!

In una parte di me balenò la malsana idea di infilarvi un dito dentro, ma l'altra parte di me che, più per orrore che per prudenza, mi voleva trattenere, ebbe la meglio. Ritrassi la mano. Mi ero tuttavia avvicinato abbastanza con lo sguardo da riuscire a cogliere in quella protuberanza una forma e dei tratti che dapprima non avevo notato... lineamenti!

Con quella mia imprudente azione d'ispezione disturbai qualcosa. Il fruscio si fece più intenso e si cominciarono a sentire schiocchi sinistri e movimenti in ogni direzione. Il bosso che mi era di fronte si smosse e comparvero improvvisamente altre due aperture dalle quali distinsi nettamente due bulbi oculari completamente neri. La ferita al di sotto di essi si aprì verticalmente e ne fuoriuscì un urlo acutissimo e lancinante che mi ferì i timpani e il cervello.

Improvvisamente in ogni direzione avvenne la stessa cosa: tutte le feritoie di tutti gli alberi di quella selva maledetta esplosero in un urlo senza fine.

Persi il briciolo di ragione che mi era rimasta.

Completamente stravolto e terrorizzato mi misi a correre senza pensare ad altro. Il frastuono era insopportabile e fui molto presto sull'orlo di un collasso.

Corsi freneticamente, cercando di tenermi il più possibile lontano da quei rami, mentre con i palmi delle mani mi premevo le orecchie nell'inutile tentativo di proteggermi da quel frastuono impossibile.

In quel momento non avevo spazio per pensare ad altro che a correre e a non svenire; era evidente che, se qualcosa mi stava veramente cercando al di fuori di quei rami, sempre che ne fossi uscito sano, mi avrebbe sicuramente trovato, ma rimanere immobile e imperturbato in quel boato agghiacciante e interminabile era qualcosa di umanamente impossibile. Anche se fossi stato cosciente del pericolo che stavo correndo nell'uscire da lì, avrei comunque preferito gettarmi direttamente incontro al mio carnefice.

Corsi per un tempo indefinito, senza respiro, mentre la vista cominciava ad annebbiarsi. La rabbia di quegli esseri immondi sembrava prendere forza direttamente dalle sofferenze dell'abisso, ed era come se volessero scaricarla completamente su di me in un atto di pura malvagità.

Mi sembrò di vedere una luce, come un tenue chiarore, che aumentava dal fondo del mio campo visivo. Credetti, nell'immagine sbiadita che vedevo, che ciò indicasse il progressivo digradarsi di quella foresta del supplizio. Mi slanciai in un ultimo scatto disperato verso la luce, l'estremo limite della selva. Sentii un liquido caldo e vischioso colare dalle orecchie e i rumori si attenuarono.

Stramazzai a terra senza forze, appena oltre il bosco, in mezzo alla terra brulla e spoglia.

Così come erano esplose d'improvviso, le urla cessarono immediatamente, nel momento esatto in cui posai il piede al di fuori del bosco.

Il silenzio fu improvviso e assoluto, giunse con la stessa potenza di un fulmine.

Ero disteso bocconi. Mentre un fischio acufenico aumentava d'intensità all'interno del mio cranio cercai disperatamente di rivolgere il mio sguardo di fronte a me, quasi masticando la sabbia. Ci fu un ronzio che le mie capacità uditive non riuscirono a cogliere, ma sentii l'aria vibrare di fronte a me, seguita da un ritmico pulsare del terreno. Intravidi le forme allungate di due alti aracnidi metallici che si avvicinavano al mio corpo inerme. Assieme a queste, vidi un osservatore.

Chiusi gli occhi, rassegnato e quasi contento che fosse tutto finito.

Sentii uno sferragliare distane e ovattato, seguito da una serie di schianti. Sopra di me volarono pezzi d'acciaio e uno dei due giganteschi ragni meccanici si accasciò accartocciato al mio fianco. Alcuni frammenti di vetro scuro mi ferirono superficialmente la schiena e un terzo schianto, ancora più lontano, segnò la fine del secondo aracnide.

«Alzati!». Non riuscivo a distinguere nulla se non uno strano muggito.

«ALZATI!», ordinò con maggiore veemenza una voce umana.

La fonte di quel suono non era un organo di fonazione organico. Sebbene si distinguesse chiaramente un timbro umano, il suono fuoriusciva da un dispositivo elettronico, una specie di altoparlante, collocato appena sopra la mia testa.

«MUOVITI, PER DIO, NE GIUNGERANNO ALTRI!!!».

Mi sforzai di mettermi carponi e, sollevando la testa, rivolsi lo sguardo, ancora sfocato per lo shock, verso il punto d'origine di quella voce. Intontito e assordato com'ero, credetti di essermi ingannato: a pochi passi da a me, galleggiava minaccioso nell'aria un osservatore.

La mia reazione istantanea fu quella di strisciare all'indietro come un verme, mentre mugugnavo in preda al panico.

«Fermo, fermo... non aver timore!» rassicurò la voce proveniente dall'osservatore, «questa macchina è sotto il mio controllo. Seguivo questi automi e ti ho trovato. Non preoccuparti, hanno cessato di esistere», fece una breve pausa valutativa e poi aggiunse, «sei sopravvissuto al Bosco dei Suicidi... un'impresa notevole.»

Il tono amichevole di quella macchina e le sue parole concilianti mi tranquillizzarono subito. «Chi sei?», chiesi debolmente mentre mi rialzavo a stento.

«Prima prendiamo la via, celeri e senza indugio! Ti condurrò in un luogo sicuro, dove potremo parlare di persona».

Mi alzai senza ulteriori domande e mossi alcuni passi tremolanti. Mi cedette una gamba e caddi nuovamente a terra.

«Calma, un passo alla volta!», si affrettò a dire la voce, «certo, dobbiamo affrettarci, ma se continui a incespicare ci vorranno ore! Per adesso, la cosa fondamentale è spostarsi da questo luogo. Proseguiamo appena oltre quelle dune».

A qualche centinaio di metri di distanza, alla mia sinistra, c'erano degli alti e irregolari tumuli di terra e sassi. Sopra di essi si riuscivano a distinguere dei rari e consumati resti di antiche costruzioni in uno stile architettonico che non riconoscevo, ma che ricordavano, molto alla lontana, degli antichi templi greci. La sfera mi precedette, mentre io riuscii gradatamente a prendere il passo.

Sebbene sfinito e avvilito, quella voce amica mi diede speranza: la tenue luce di una candela nell'ombra della notte.

«Ecco, così, forza!», ripeteva di tanto in tanto la voce.

«Dove siamo?», ebbi il coraggio di chiedere ad un certo punto.

«Benvenuto nell'Ade, amico mio!», rispose la sfera.   

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Capitolo 15
*** Ade ***


Proseguimmo per svariate ore scalando dune e attraversando i ruderi di quello che un tempo doveva essere un complesso di costruzioni con scopi ritualistico-religiosi. Non mi posi nemmeno la questione su quale potesse essere la religione che vi si professava e di che genere potessero essere i rituali che vi si praticavano. Già partendo dal muro d'acciaio ebbi l'impressione che i luoghi e i paesaggi si susseguissero senza alcuna logica di continuità. Era come se stessi percorrendo un flusso cinetico di immagini che mi apparivano di fronte e ad ogni momento potevo aspettarmi un completo stravolgimento ambientale che andava al di fuori di ogni regola della realtà. Avevo passivamente rinunciato a fare ogni previsione, eppure, dentro di me, questa mia rassegnata accettazione mi riusciva al tempo stesso sorprendente, come se mi rendessi imponentemente conto della sua innaturalezza.

Per tutto il tragitto non vi fu nessuna avvisaglia di pericolo e mi ripresi in maniera sorprendentemente veloce dal precedente trauma. La presenza di quell'amichevole macchina mi dava una certa sicurezza, e da questa ritrovata tranquillità mentale sembravo trovare anche un certo vigore.

Quasi dimentico della mia nudità e di essere ferito, presto anche il mio udito tornò alla normalità. Sembrava esserci una stretta correlazione tra il mio stato d'animo e le mie condizioni fisiche. Mi appariva sempre più evidente che queste ultime dipendessero strettamente e direttamente dal primo. A volte accade che una persona si abitui talmente al proprio disagio che questo cominci improvvisamente a sembrargli meno pesante, ma il mio caso era diverso, non si trattava di un semplice adattamento mentale alle mie condizioni: era qualcosa di molto più profondo. Immerso in questa riflessione ebbi come un flash, una rimembranza della voce di Amal, che mi diceva: "... cerca comunque di non pensare cose brutte, sennò di solito succedono... ", non riuscivo a ricordare nessuna occasione in cui mi furono dette queste parole, ma sapevo che erano da intendersi nel loro senso più letterale: in quel momento non stavo pensando al mio disagio e come diretta conseguenza mi ero praticamente rigenerato, non avevo più nessuna ferita o dolore fisico! Sapevo inoltre che queste mie sporadiche rimembranze erano sempre legate direttamente a ciò che mi stava succedendo. Apparivano nei momenti di bisogno, come se la mia mente, posta di fronte al pericolo o ad esigenze estreme, trovasse la forza di scavare tra ricordi rimossi, al fine di recuperare delle informazioni vitali.

Le dune cominciarono progressivamente ad appiattirsi e i resti pseudo-dorici presto svanirono, lasciando il posto ad ammassi di ferraglia e vecchi macchinari scomposti e semi-arrugginiti.

«Ci stiamo approssimando al canale. Un tempo, tutto questo cerchio era sotto il dominio delle macchine...».

Non capivo a cosa stesse facendo riferimento, ma non me ne preoccupai, mi chiesi solamente se per "canale" intendesse far riferimento a qualcosa di simile al canale magnetostatico del Louvre. Cominciai a sentirmi impaziente e stranamente curioso di sapere quale sarebbe stata la mia prossima meta. Dentro di me non potevo credere che Amal si trovasse in questo luogo. L'idea non mi sfiorò nemmeno. Lei stava di certo al sicuro, lontano da qui. Sentivo che la mia unica speranza di ritrovarla era legata alla mia attuale sopravvivenza e alla possibilità di trovare una via d'uscita da questa utopia.

Il robot riprese il suo discorso: «... nel corso di un tempo incalcolabile, tutta questa zona è stata smantellata dai dannati. Ci siamo costruiti un rifugio e siamo riusciti ad assumere il controllo di alcune di queste macchine. Ora, amico mio, ci stiamo dirigendo proprio verso questo rifugio, un luogo che noi chiamiamo "la città dei dannati"... Ma eccoci al canale!».

Era evidente che il mio accompagnatore, con quel termine, intendeva qualcosa di molto differente alle mie aspettative. Giungemmo ad una sorta di largo canale di scolo a cielo aperto, una conca di cemento della larghezza di circa una cinquantina di metri, attraversata da un'acqua nerastra che odorava fortemente di olio per motori. L'acqua scorreva lenta e melmosa perdendosi in numerosi gangli che scendevano un deserto di rottami. A qualche chilometro di distanza, questo fiume di lordura, entrava in una sorta di discarica, formata da altissime pile di cianfrusaglie elettroniche.

«Ed ora non ci resta che attendere il nostro passaggio», disse la sfera.

Qualche minuto dopo, si accostò alla nostra riva una specie di piattaforma galleggiante, bucata e arrugginita. Mi chiedevo come facesse a rimanere in superficie e se fosse stata sufficientemente sicura per il nostro trasporto. In quella che doveva essere la poppa della nostra sgangherata imbarcazione, c'era un cubo con un motore a pale. Una lunga antenna, atta a ricevere comandi radio, si protendeva direttamente dal centro di quel cubo. Evidentemente qualcuno direzionava quell'imbarcazione a distanza, forse direttamente dalla nostra destinazione.

Salimmo sulla zattera e questa subito riprese la sua lenta corsa, conducendoci con brusche svolte tra i meandri che si snodavano in mezzo alle valli di ferraglia e spazzatura che si ergevano di fronte a noi. Presto non riuscii più ad orientarmi. Fu una sensazione strana e ridicola. Non avevo mai avuto un effettivo punto di riferimento da quando ero letteralmente apparso nell'Ade, quindi, la stessa idea di perdersi, in quel luogo, era qualcosa di totalmente insensato.

Mentre attraversavamo quel labirinto di lamiere e circuiti notai che alcune persone, camuffate con mantelli e caschi e munite di zaini e cesti, esploravano i rilievi, in cerca di qualcosa. Qualcuno era accompagnato da ragni meccanici giganti che si trascinavano dietro scarti elettronici di grandi dimensioni.

Viaggiavamo ormai da un certo tempo e fino a quel momento mi ero completamente affidato alla mia guida senza questioni. Tuttavia, in quel momento, balenò nella mia mente una giustificata e semplice domanda, che non esitai a porre: «perché mi trovo qui?... Voglio dire, come mai non sono stato materializzato nel Dedalus?».

«Mio spaesato amico. Tu SEI nel Dedalus. Solo che non ti trovi all'interno della torre che si erge in superficie, bensì nei suoi piani sotterranei!», la sfera proseguì dandomi alcune delucidazioni sulle caratteristiche dell'ambiente che mi circondava: «parte di ciò che vedi, come la luce e le nubi, sono un prodotto residuo del sistema di simulazione ambientale che funziona all'interno della torre. Il sistema proietta costantemente quest'unica simulazione ambientale, come se fosse una forma di semplice risparmio energetico, una sorta di screensaver. Riflette in pratica le condizioni atmosferiche del mondo reale al di fuori del Dedalus: nubi, temporale e grigiore. Una cappa costante di smog e di nulla».

Anche se la risposta della mia guida non mi risultò particolarmente sorprendente, legandomi ai luoghi comuni e alle dicerie su questo posto dissi: «Credevo che questo luogo fosse solo una leggenda. Ne avevo sentito parlare, ma non pensavo che gli esseri umani potessero accedervi».

«Non gli esseri umani!» mi corresse la sfera.

Compresi immediatamente il suo sottinteso: faceva riferimento alle copie, le numerose copie di me stesso che erano state "dematerializzate" prima che riuscissi a fuggire. Terminai a voce alta il ragionamento, con lo sguardo perso nel vuoto: «non possono accedervi gli esseri umani... ma le loro copie...».

Eppure io mi sentivo IO. Mi venne un brivido pensando al fatto che ognuna di quelle copie, probabilmente, aveva percepito la propria individualità e la propria identità nella stessa imperante potenza con la quale la sentivo io stesso in quel preciso istante. Ognuno di essi era una parte di me, una parte di me che aveva incontrato una morte orrenda. C'era un originale, una forma prima, dalla quale ognuna di noi copie aveva avuto origine. E questa dov'era? Esisteva ancora? Si trovava nel Dedalus o da qualche altra parte nel mondo? Perché non ricordavo nulla di ciò che precedeva il mio arrivo nell'Ade? Mi chiesi se questi "ricordi" potevano essere stati selettivamente cancellati, e a quale scopo. Sentivo un disperato attaccamento alla vita, la mia vita di semplice copia. Sentivo il mio istinto di sopravvivenza, ora, così come lo avevo sentito nell'hangar. Capivo le emozioni e i sentimenti. Eppure, tutte queste sensazioni erano come attenuate e ovattate nel fondo della mia coscienza, da qualcosa di più complesso e arcano che ancora non riuscivo a discernere. Forse l'originale non si poneva nessuna di queste questioni e proseguiva la sua esistenza, ignorando completamente l'amara condizione di noi prodotti secondari. Forse questa mia stessa blanda apatia riflessiva era indice del fatto che non avrei dovuto mai esistere e che ero sbagliato?

Chiaro! Il Materializzatore faceva i suoi calcoli e compiva il trasferimento. Se durante il processo incontrava degli errori, non faceva nient'altro che deviare la destinazione della copia nell'Ade.

Sì, ero sbagliato... ero una copia sbagliata! Una copia sbagliata che si portava dietro i suoi attaccamenti e le sue abitudini. Incapace di gestire con coerenza umana le proprie sensazioni, come se, alla base della ricezione e comprensione di queste, ci fosse ancora una volta qualcosa di sbagliato. L'unica cosa che riuscivo a sentire con forza era la mia ossessione per Amal!

La zattera proseguì il suo corso uscendo dalla discarica. Lo sguardo si aprì in un baratro così vasto da non poter essere compreso dalla nuda vista. Era come un immenso canyon che si perdeva nelle profondità di un abisso senza fondo. Il canale continuava per diverse centinaia di metri sospeso nell'aria, per poi addentrarsi in un complicatissimo assembramento di costruzioni galleggianti. Mi era impossibile stabilire cosa in quel luogo fosse materiale e cosa fosse una semplice proiezione olografica del sistema. Non ebbi la possibilità di sporgermi per guardare verso il basso in quel momento, ma riuscivo a intuire che quel "buco" andava gradualmente restringendosi, di piano in piano. Da qualche parte, a chilometri e chilometri di profondità, doveva avere un fondo. Di tanto in tanto, dalle pareti dei gironi che stavano sotto di noi, si protendevano delle piattaforme e degli ammassi di costruzioni squadrate, non troppo dissimili per forma, ma di dimensioni nettamente più contenute, alla città verso la quale ci stavamo dirigendo.

La città dei dannati era così estesa da coprire una buona porzione dell'intero diametro di quel piano, quasi la metà, stimai. Essa stava sospesa asimmetricamente nel lato sinistro, lasciando una grande porzione di vuoto nella semicirconferenza opposta. I piani inferiori erano sicuramente legati, per funzioni e finalità, alle varie strutture che, nel loro complesso, costituivano il Dedalus in superficie. Da qui aveva origine ogni cosa; ogni particella di energia che trovava sfogo nelle luci spasmodiche di quella torre della perdizione veniva sorbita da questo abisso. Lo stesso simulatore ambientale sicuramente aveva il suo generatore principale e il suo computer centrale in uno di questi gironi. Tutto era amministrato, sorvegliato con efficacia e in maniera totalmente indipendente da ciò che succedeva al di sopra. L'Ade era il cuore, lo stomaco e il subconscio del Dedalus. Ne forniva il nutrimento e ne riceveva il rigurgito, lo scarto e la merda. Lo stesso canale in cui scorrevamo era il defluire esausto della Senna, che una volta succhiata e utilizzata nella struttura superiore, insieme a tutte le altre fonti idrauliche, veniva vomitata nel sottosuolo.

Ma l'uomo (se così poteva essere chiamato), riusciva, nella sua inesauribile volontà di sopravvivere a tutti i costi, a raccogliere anche tutta questa lordura e trasformarla in un luogo dove esistere. L'esito di questo sforzo disperato era il luogo in cui stavo per entrare, la Città dei Dannati, conosciuta anche con il nome di Dite.

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Capitolo 16
*** La Città dei Dannati ***


«Questo osservatore non entrerà nella città di Dite insieme a te. La schermatura al piombo non permette a nessuna macchina di varcare la soglia di Dite. Tutti i droidi che vedrai nella città sono stati costruiti direttamente al suo interno. Lo ritirerò in uno degli hangar nei paraggi. Abbi pazienza e non temere, verrò a prenderti di persona». Detto ciò, l'osservatore si sollevò di qualche metro e si allontanò velocemente. Risalì al girone superiore per poi sparire oltre la balza più vicina. Rimasi solo sulla zattera mentre questa proseguiva la sua corsa fino a giungere ad uno scolo, dove il rumore assordante di un depuratore sovrastava l'intenso affaccendarsi dei dannati all'interno della città. Scesi su un'ampia e pesante piattaforma di piombo che conduceva ad una larga gradinata, fatta dello stesso materiale. Ai lati della gradinata c'erano due alte colonne di metallo che terminavano in due grovigli di tubi snodati e retrattili. All'estremità di ogni singolo tubo spuntava un piccolo scanner bioelettrico. Nell'avvicinarmi, quei grovigli di tentacoli si protesero, quasi con una sferzata, verso di me, come per osservarmi con curiosità. Rimasi immobile senza sapere come comportarmi.

«Medusa! Lascia che il nostro amico varchi la soglia della disperazione!». A quel comando le serpi si ritirarono posizionandosi in un motivo che ricordava una pianta sottomarina. La voce proveniva da un uomo dalla fronte alta e i capelli corvini rigati da strisce di bianco, la sua bocca era distesa in un sorriso un po' forzato. Vestiva di una tunica bianca molto simile ad una toga. Era una figura vagamente familiare, ma non ricordavo dove l'avessi vista prima di allora.

«Finalmente ti sei ricordato dei vestiti!», esclamò l'uomo con un tono di voce sonoro. Riconobbi la voce dell'osservatore che mi aveva accompagnato, anche se prima, attraverso l'altoparlante della macchina, il timbro ne riusciva attenuato e distorto. Osservai il mio corpo dalle braccia ai piedi. Indossavo una camicia a righe molto anonima e paio di pantaloni beige un po' sgualciti, ma sostanzialmente puliti. Non ricordavo assolutamente da dove avessi preso quegli indumenti e, meno che meno, quando li avessi indossati, eppure sapevo che erano miei.

«Ma cosa..??», domandai tra me e me sottovoce.

«Rinuncia a comprendere le leggi di questo mondo, oppure abbracciale nella loro più completa integrità», rispose la figura che mi stava di fronte, cogliendo la mia perplessità, «entriamo, dannato!», esclamò.

Quando attraversai le colonne vidi un complesso sistema cittadino che si delineava con sagome improbabili. Stradicciole di metallo sospese si attorcigliavano attorno a quelle geometrie, e numerose scale si inerpicavano in ogni direzione con svolte impossibili. Il lavorio costante delle persone che vi abitavano produceva un rumore quasi ipnotico. Pochissimi parlavano tra loro, ognuno era indaffarato nelle proprie faccende e nel proprio esistere, senza turbare il prossimo con questioni che non fossero strettamente necessarie. Il canale proseguiva al di là del rumore assordante del depuratore, entrando direttamente nella città. L'efficacia di questo marchingegno era degna di nota. Le acque vi entravano putrescenti e puzzolenti di olio, per poi uscirvi, scorrendo secondo un complesso sistema di canali, all'interno dei vari sobborghi di Dite, completamente ripulite, limpide e inodori.

Dimenticatomi, improvvisamente e stranamente, della questione dei vestiti, proprio come se li avessi sempre avuti dall'inizio, e colto da una nuova perplessità, rivolsi la mia attenzione all'uomo che mi stava davanti e chiesi: «Io ti ho già incontrato da qualche parte? Ci siamo già conosciuti? No... devo averti semplicemente visto... nel Dedalus... ».

«Non escludo questa, seppur remota, possibilità. Sicuramente non ero io. Ma ciò che tu probabilmente vedesti, potrebbe essere stata una mia forma alterna o addirittura la mia forma prima, chissà?!!». Mi invitò a proseguire il cammino con un gesto della mano accompagnato da un sorriso quasi paterno e, mentre passeggiavamo, continuò la spiegazione: «i tuoi ricordi sono letteralmente mescolati e confusi, in quanto, essendo dannato, sei una copia errata, come tutti coloro che dimorano in questo luogo. Le tue memorie e ciò che conosci, provengono da frammenti di ricordi ed esperienze di altre copie o della tua forma prima».

Riuscivo stranamente a comprendere quanto quell'uomo mi stava dicendo, avevo già avuto esperienza di questo ragionamento in precedenza, ma sentivo comunque molte domande sorgere spontanee nella mia testa.

«Tu chi sei? E cosa fanno queste persone qui, esattamente?», chiesi con ingenuità.

L'uomo esplose in una risata sonora e poi mi rispose non senza una certa ironia: «Tu forse ricordi il tuo nome o chi sei veramente?». Riflettei per un momento sulla questione e dovetti ammettere che fino a quel momento avevo pensato alla mia identità e alla mia esistenza solo da un punto di vista puramente filosofico, cogliendo i dati che mi erano stati offerti a livello percettivo, ma non riuscivo a rispondere alla domanda più elementare e banale che avrei potuto pormi fin dall'inizio: qual è il mio nome?

«Il mio nome...», ripetei sommessamente guardando a terra sconvolto.

«Non preoccuparti», disse l'uomo cercandomi lo sguardo e dandomi una pacca amichevole sulla spalla, «inventatene uno!». Cercò poi di rispondermi, evitando di aggiungere ulteriori enigmi: «qui mi chiamano Cicero. Ma d'altronde non c'è quasi mai bisogno di chiamarsi per nome. Come avrai potuto forse constatare tu stesso, qui la gente sopravvive e basta, non vi è altro scopo in questo luogo se non quello di seguire il nostro istinto più basilare: è la paura della morte che tiene in piedi Dite».

Era una cosa triste eppure estremamente realistica, inserita in un luogo assurdo e probabilmente illusorio. "Illusorio", ripetei dentro la mia testa, come se avessi colto improvvisamente un suggerimento del mio inconscio. Ebbi improvvisamente la capacità di vedermi dall'esterno di questo complicato paradosso. Mi sentii improvvisamente inserito in una gigantesca proiezione semi-illusoria i cui confini tra materia e immagini erano resi incomprensibili a causa dell'azione combinata di due macchine: il Materializzatore e il Simulatore Ambientale. Mi chiesi per un istante da quale luogo della mia anima fosse giunto questo punto di vista esteriore. Se anch'io ero parte di questa grande proiezione, come potevo ora non subirne gli effetti? Da dove mi giungeva questa sorta di consapevolezza che mi permetteva di discernere la mia attuale situazione? Era come se avessi la capacità di distaccarmi momentaneamente dalla realtà nella quale ero immerso, grazie a degli istanti di lucido risveglio, che mi permettevano di vedere oltre il velo dell'illusione. Eppure, non era solo questo, c'era qualcosa di più! Ero certo di essermi spinto più in là nella comprensione di questo mondo. Sicuramente io non ero lì solamente per sopravvivere, c'era in me una volontà più grande, un sentimento residuo che si faceva sentire con potenza. Sentivo di possedere una identità che avevo dimenticato. Non ero una semplice copia. La stessa persona che avevo davanti mi appariva ora come un insieme di incongruenze, e la credetti incapace di spingersi oltre un certo limite nella comprensione: un limite che avevo già oltrepassato in precedenza. Ora dovevo solamente ricordare.

«No, io devo ritrovare Amal, devo uscire da questo luogo, voglio ricordare!!», dissi con convinzione e con determinazione. Evitai di esporre troppo il mio pensiero a Cicero, poiché sentivo che da lui potevo ottenere ancora un aiuto, nonostante tutto. Speravo che mi avrebbe direzionato verso una probabile soluzione, anche se sapevo di trovarmi di fronte ad un essere senza una vera identità, senza... essenza.

Pose una mano sotto il mento squadrandomi incuriosito: «Mmm... è raro trovare un dannato che abbia un così forte attaccamento a il Dedalus». Volevo obiettare che semmai era proprio il contrario, che volevo fuggire dal Dedalus non meno di quanto volessi fuggire dai suoi sotterranei, ma mi interruppe quasi immediatamente, dicendomi che a Dite vi era un luogo in cui forse potevo trovare alcune delle risposte che stavo cercando e forse una direzione.

Camminammo a lungo tra le carcasse trapezoidi di Dite, seguendo tortuosi percorsi di scale che salivano e scendevano. In alcuni punti, i parapetti davano sul vuoto, permettendomi di lanciare lo sguardo sul fondo dell'Ade. Mi sembrò ad un certo punto di cogliere, molto in lontananza, un riflesso bluastro, ma la luce laggiù era troppo tenue e distante e non mi permetteva di distinguere chiaramente cosa ci fosse nel punto più basso di quell'abisso.

Una piattaforma magnetica ci sollevò permettendoci di raggiungere il punto più alto della città. Cicero allungò l'indice mostrandomi una costruzione al centro di Dite. Vidi un enorme cubo di bronzo levigato che intuii essere una sorta di tempio. Attorno ad esso non c'erano altri agglomerati di costruzioni che disturbavano la vista. Sembrava vi fosse stata l'intenzione, da parte di chi aveva realizzato l'impostazione urbanistica di quel "agglomerato cittadino", di conferire un certo rispetto a quello strano edificio. C'erano quattro lunghe passerelle magnetiche, sospese nel vuoto, che conducevano all'interno del cubo di bronzo, attraversando quattro portali dorati che si aprivano con degli archi polilobati inflessi.

«Quello è il Tempio e al suo interno vi è il Lama», disse con affettata gravità Cicero.

«Il Lama?» ripetei interrogandolo incuriosito.

«Non mi sono mai rivolto personalmente al Lama, per ciò non posso anticiparti nulla ne consigliarti come affrontare questa esperienza. Il mio unico suggerimento è quello di ascoltare le sue parole e di non parlare a vanvera». Mi osservò intensamente attendendo un mio cenno di assenso. «Proseguiamo», disse, mentre l'ascensore cominciò a scendere lungo una strada laterale che si collegava direttamente ad una delle passerelle sospese.

Percorrevamo la passerella con modesta velocità e, già dal fondo, riuscivo a distinguere le sagome di entrata e di uscita dei portali del tempio. Non vi era nulla che impedisse la vista nel mezzo. Man mano che ci avvicinavamo si cominciava a vedere il colore degli interni: rosso rubino, molto scuro. Scorsi dei tappeti e degli arazzi sul fondo, dello stesso colore, completamente ricoperti da motivi in foglia d'oro, che sembravano puramente decorativi e non sembravano rappresentare nulla di particolare, se non una vaga e stilizzata vegetazione in stile orientaleggiante.

Appena scesi dalla passerella mossi i miei passi verso il centro del tempio. Mi trovavo al centro di una immensa sala dalla forma cubica, completamente vuota e decorata d'oro su uno sfondo rosso e inerte.

Non c'era nessuno.

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Capitolo 17
*** Il Lama ***


La situazione mi metteva in soggezione. Mi voltai indietro in cerca di Cicero, ma non c'era. Il mio accompagnatore era improvvisamente sparito e io mi trovavo da solo al centro di questa spaziosa sala, spaesato e leggermente intimorito. Ma dove era finito? "Forse mi sta aspettando fuori", pensai.

 

E adesso? Dovevo forse tentare invocare il Lama? Chiamarlo e aspettarmi una sorta di apparizione?

 

"Lama", che strana parola, era il titolo di un'importante figura spirituale nell'ambito dell'antica religione buddista. Mi accorsi improvvisamente, e con una certa sorpresa, che quella parola era esattamente il palindromo di "Amal". Una coincidenza?

 

Mi sovvenne poi che, in una qualche occasione passata che non ricordavo, avevo trovato qualcun altro (o qualcun'altra) con un nome che suonava stranamente simile a questa parola, quanto meno per assonanza. Nella mia mente sondavo le varie possibilità : "Amal... Lama... Mala... Alma?... Com'era??". Proprio mentre ero assorto in questi pensieri pindarici, una voce femminile, decisa, ma dolce nel tono, si diffuse nella sala; non ero in grado di capire da dove provenisse.

 

«Benvenuto Cacciatore! Lama ti accoglie nel suo tempio di analisi e risoluzione problemi. Puoi rivolgere a Lama tre domande. Prego, direziona la tua voce verso la proiezione olografica di ricezione al centro del tempio... ».

 

Il mio sguardo era rivolto verso l'alto, nell'inutile ricerca dell'origine di quel messaggio vocale, che sembrava tuonare da ogni dove. Seguendo le istruzioni abbassai immediatamente il capo verso il centro del tappeto rosso che adornava il pavimento del tempio. Un gatto nero era improvvisamente apparso di fronte a me. Stava accovacciato su un fianco, con la schiena curva a forma di chiocciola. Nel vedermi, sollevò il musetto ed emise un tenue miagolio. Notai che aveva dei canini innaturalmente lunghi e sottili per essere un semplice gatto domestico.

 

Quando vidi quell'esserino, scuro come la notte, in testa mi esplose un'immagine: rividi distintamente il canale magnetostatico che conduceva al Dedalus. Il ricordo si sovrapponeva paradossalmente al momento in cui avevo attraversato la passerella per giungere al Tempio. Ne colsi le analogie e le differenze, lasciando che la mia mente componesse una serie di libere associazioni, delle quali non sapevo assolutamente spiegarmi il significato. Mi trovai tuttavia a pensare al fatto che il gatto, in quell'occasione, era sparito... "anche Cicero è sparito...", pensai. Ma che razza di collegamento era? Cicero non era mica un gatto! Quasi senza accorgermene, disperso nel marasma della mia confusione mentale, la mia bocca pronunciò queste esatte parole: «No, non ho capito niente! Mi state forse prendendo per il culo?».

 

«No, Cacciatore, hai ancora due domande a tua disposizione!».

 

Cosaa? Avevo appena sprecato una domanda???

 

Sembrava la scena di un fumetto demenziale di epoca pre-aggregata.

 

Dentro di me esplosi in una risata, che tuttavia si palesò a malapena in un sorriso accennato, come se fossi costretto, dal luogo e dalla situazione, a mantenere un decoro che mi ero appena preso il lusso di trasgredire, sia con la mia reazione avventata che con il mio lessico inappropriato. Avevo risposto reagendo esattamente alla maniera di Amal: con avventatezza e senza pensare. Era evidente che mi trovavo di fronte ad una macchina o a un computer e che avrebbe interpretato alla lettera ogni mia richiesta. Dovevo pesare le mie prossime parole con attenzione. Stranamente, una voce femminile con un timbro diverso, molto più umano e caldo, anche questa volta familiare, sembrò interpretare il mio pensiero. Era come se la voce provenisse direttamente da dentro il mio cervello, ma avevo la grottesca impressione che fosse il gatto che mi stava di fronte a parlarmi. Rimanendo accovacciato, l'animale mi guardava con occhi sottili e faceva le fusa.

 

«Da Lama otterrai solo la più pura e pragmatica verità , Cacciatore, non c'è presa in giro, la voce di Lama filtra le illusioni di questo mondo».

 

Indugiai stralunato fissando il felino. Perché mai continuavano a chiamarmi Cacciatore? Non credetti fosse il caso di sprecare un'altra domanda per indagare su una cosa così futile. Intuii la dinamica della situazione: il tempio, l'oracolo e l'interprete; un po' come nell'antica Grecia. Lama emetteva dei responsi e il gatto era una proiezione del sistema che sembrava possedere alcune delle funzioni di interazione sociale tipiche dei sintetici: interpretava le risposte di Lama chiarendone o precisandone il senso. Avevo ancora due domande, ma c'era una sola cosa che volevo veramente sapere.

 

«Come posso rincontrare Amal?»

 

Ci fu una lunga pausa. Si sentì un rombo, mentre le mura del tempio cominciarono a tremare. Scese una sinistra luce violacea sulla stanza. Il gatto emise un lungo e inquietante miagolio che divenne roco e profondo come un ringhio. Da qualche parte si udì un urlo di rimprovero: «AMAL!!», era una voce distante ed era praticamente identica alla mia. Credetti di aver sbagliato qualcosa, di aver fatto scattare una qualche forma di allarme del sistema. Mi si gelò il sangue nelle vene.

 

Poi l'atmosfera tornò improvvisamente normale, come se la scena alla quale avevo appena assistito non fosse mai accaduta o me la fossi semplicemente immaginata.

 

«La strada più breve la indossi a sinistra, Cacciatore, la strada più lunga è la discesa nel Maelstrom».

 

Osservai il lato sinistro del mio corpo. Notai che appena sotto la manica della camicia c'era una protuberanza, sentii distintamente di avere legato qualcosa al polso: un orologio? "La chiave genetica!", mi ricordai, "la chiave della mia stanza!".

 

Ma quale stanza? C'era una stanza da qualche parte, nella quale avevo dimorato per un breve periodo. Questa era la chiave che permetteva di accedervi, ma aveva altre funzioni. Affiorò in me il ricordo di un'olochiamata vicino il sottoscala di in un vicolo, ma così come i ricordi precedenti, era una memoria costituita da immagini confuse e residue, frammenti che faticavo a collocare nel tempo e nello spazio.

 

«Se vuoi semplicemente vedere Amal ti basta chiamarla... sempre che lei voglia vedere te», riprese la voce nella mia testa, «se invece vuoi incontrarla, devi discendere l'Ade. Attento però, Cacciatore, non vi è via d'uscita da questo luogo. Puoi raggiungere il fondo, se lo desideri, e se ne hai il coraggio. Laggiù potrai scoprire la verità. Ma la verità non ti condurrà alla salvezza! Dovrai ripristinare la tua identità, deframmentarla, renderla uno. Assorbire i ricordi, le esperienze e il dolore della moltitudine di copie che sono parte di te. Solo a quel punto sarai in grado di vedere e comprendere il Maelstrom». Ancora una volta il felino aveva interpretato il responso di Lama. Ma l'interpretazione mi parve quasi più criptica della stessa risposta. Non ero in grado di capire quale fosse la giusta strada da prendere. E non ero ancora in grado di capire cosa comportasse tutto ciò, quali fossero le reali conseguenze. Avrei potuto chiedere ulteriori spiegazioni, ma intuii che sarebbe stato solamente un modo per sprecare un'altra domanda. Sapevo già che avrei, in ogni caso, tentato entrambe le opzioni, sperando che l'una non escludesse automaticamente l'altra. Come aveva spiegato il gatto, chiamarla era semplice! Ora... per quanto riguarda la discesa nel Maelstrom... non sapevo veramente da dove iniziare! Ma d'altronde, quale altra strada c'era se non il fondo dell'Abisso? Nel momento in cui ero giunto qui, sopravvivendo a tutte le mie copie, il mio destino era già  stato scritto: avrei disceso l'Ade ad ogni costo o sarei stato distrutto nel tentativo.

 

Avevo ancora una domanda. Avrei potuto chiedere di ottenere maggiori informazioni sul luogo in cui mi trovavo; chiedere cosa di tutto ciò che mi stava di fronte fosse reale. Avrei potuto azzardare un quesito metafisico; chiedere dell'origine dell'Universo o dell'esistenza di Dio, anche solo per il semplice gusto di sentire che risposta avrei ottenuto. E se non avessi creduto alla risposta? Paventavo fortemente questa possibilità, perché avrebbe inevitabilmente sollevato dei dubbi anche sulla risposta precedente, facendomi pensare che non sarei riuscito a rincontrare la mia Stella. Non volevo avere dubbi. Volevo credere a tutti i costi di poter rivedere Amal. Anche se ero completamente sovrastato dall'assurdità di questo mondo infernale e di questa situazione incredibile, volevo crederci!

 

l'Ade, il Dedalus, le mie copie, Dite, le mie memorie: tutto quanto mi appariva come un elaborata e pazzesca illusione. Eppure, in alcuni momenti, me ne dimenticavo, e mi attaccavo alla semplice speranza che almeno Amal fosse vera! Non avrei mai potuto sopportare di sentirmi dire che Amal non esistesse, e non mi passò nemmeno per la testa di pensarlo in quel momento.  

 

Posi infine la più semplice e, forse, la più complicata delle domande: «Chi sono io veramente?».

 

La risposta giunse immediata e fulminea.

 

«Sei il personaggio di un libro».

 

Rimasi interdetto.

 

Attesi ancora una volta la voce felino nella mia testa. La desiderai. Ne sentii la necessità, ma non vi fu altro che il vuoto.

 

Avevo provato a darmi fino a quel momento ogni possibile spiegazione. Avevo ottenuto parziali risposte ed ero convinto di essere giunto, quanto meno, a parziali verità: sulla mia identità, sulla mia situazione e su ciò che mi stava accadendo. Ognuna delle interpretazioni che ero riuscito a darmi e ognuna delle risposte che, di volta in volta, avevo ricevuto, mi erano sembrate, quanto meno sull'istante, parzialmente plausibili, certo, mantenendosi sempre, con un buon margine, all'interno della pura assurdità. Questa risposta però andava troppo oltre ogni assurdità e ben al di là di ciò che potevo comprendere. Era qualcosa che andava così tanto al di fuori della mia capacità di inserirmi in un qualsiasi sistema metafisico, che la ritenni la più grande delle stupidaggini che avessi mai sentito fino ad allora. Come temevo, di fronte ad una risposta alla quale non credevo, cominciai a dubitare anche dei responsi precedenti. Sicuramente mi trovavo in un sogno o qualcosa del genere! Poi però sopraggiunse una sorta di istinto di conservazione, che mi impediva, a tutti i costi, di eliminare Amal dal quadro complessivo del mio essere. Quindi scartai, dimenticandola immediatamente, l'ultima risposta e tutti i dubbi che affioravano da essa.

Concentrai i miei sforzi psichici nel tentativo di recuperare informazioni utili da quanto mi era stato detto finora.

 

Ma sìì, avevo già trovato una risposta alla mia attuale condizione, ne ero certo! In passato ero già riuscito a collocare il mio Io all'interno di questo universo illusorio, e alcune delle parole del gatto me lo avevano improvvisamente ricordato: dovevo ... ripristinaredeframmentare la mia identità ... ECCO!!

 

Ero un... 

 

... FILE???

 

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Capitolo 18
*** Analisi e sintesi ***


Ero nuovamente consapevole. Ero un file vivente. Questa volta, a differenza della passata realizzazione di questa verità, non percepivo la mia condizione come qualcosa di annichilente e insopportabile; tutto ciò che c'era di tragico in questo fatto era come scivolato via. Ero un file VIVENTE. Mi sentivo VIVO! Avevo letteralmente preso vita all'interno di un mondo illusorio.

Il solo fatto di sapere che avrei potuto ancora incontrare Amal, nel bene o nel male, e al di là di ogni simulazione, mi generava un'incomprensibile e assurda speranza alla quale attaccarmi. Cominciavo a sospettare (ma non osai ancora domandarmelo esplicitamente) che anche lei condividesse il mio stesso destino e la mia stessa condizione, la mia stessa inconsistenza, ma, per quanto terribile potesse sembrare, tutto questo significava anche che c'era quantomeno la possibilità di poter vivere assieme ad Amal in questo universo virtuale. Era come se il terrore di crederla finta si fosse tramutato in una droga per l'anima. Obliavo, forse volutamente, tutte le incongruenze che stavano alla base delle esperienze che avevo vissuto in quel luogo. Per esempio, le copie. Erano anch'esse dei file copiati infinite volte o erano vere? Quanto di questo mondo era parte di ciò che proiettavo io stesso e quanto era indipendente? Mi era impossibile stabilire quali fossero i confini di questo reame fittizio, di questo spazio, generato all'interno di un dispositivo di salvataggio informatico, nel quale sembravo virtualmente muovermi ed esperire. Procedevo semplicemente trascinato dagli eventi e, ad ogni nuova tappa, mi credevo realizzato o distrutto, cogliendo, di volta in volta, solamente l'ultimo sviluppo della storia che stavo vivendo. Il resto aleggiava nel mio subconscio, incompreso e tralasciato, fino al momento in cui un nuovo evento vi puntava un fascio di luce a rinverdirne la memoria. Ero semplicemente e stupidamente assorbito solo nel presente, come se mi spostassi in una sorta di memoria temporanea.

All'uscita del Tempio rincontrai Cicero. L'uomo proseguiva fluttuando lungo la passerella, diretto verso di me. Si trovava a circa trequarti del percorso e sembrava parlasse da solo. Stava ripetendo le ultime parole che mi aveva rivolto prima di dirigerci al Tempio: «Io non mi sono mai rivolto personalmente al Lama, per cui non so dirti come affrontare questa esperienza. Il mio unico consiglio è quello di ascoltare e di non parlare a vanvera... Proseguiamo».

Lo interruppi giungendo dal lato opposto.

«Ma non era ciò che mi stavi dicendo poco fa?», chiesi incuriosito.

Ci fu qualcosa di simile ad uno scarto temporale, come un frame mancato. La passerella ora scorreva nell'altro verso e avevo l'impressione che stesse lentamente scendendo verso il basso. Sorrisi. Ora che sapevo di muovermi all'interno di una realtà virtuale, credevo scioccamente di aver compreso, almeno in parte, alcune delle leggi e delle sfasature di questo mondo. Ricordai le parole di Amal: "pensa solo che tutto quello che vedi è finto anche se sembra reale e che puoi controllarlo un po'...cerca comunque di non pensare cose brutte, sennò di solito succedono... ". Prima ero convinto che Cicero fosse un personaggio incongruente, ma non capivo il perché, ora invece lo vedevo per ciò che era: una semplice proiezione della coscienza di qualcuno, se non addirittura una banale simulazione che io avevo creato per me stesso. Avrei provato a seguirne i consigli e le regole. Volli dargli fiducia, credendolo un po' come la proiezione del mio Maestro Interiore.

Il corridoio continuò ad aumentare la sua inclinazione fino a tuffarsi letteralmente verso il basso. Sebbene stessimo praticamente precipitando, i nostri piedi rimanevamo sospesi a una decina di centimetri dal canale. Cominciai a notare, sul distantissimo fondo di quell'abisso, un riflesso blu oltremare, uno sfondo d'oceano che si stagliava oscuro, delineando i contorni delle piattaforme che ci saettavano velocemente da ogni lato. Una luce spettrale e innaturale si diffondeva da quel fondo indistinto, senza che si riuscisse a capire quale ne fosse la fonte.

La nostra corsa cominciò a diminuire di velocità e contemporaneamente sentii che stava diminuendo anche la pendenza. La sensazione era quella di star raggiungendo il fondo di un iperbolico e chilometrico scivolo. Seguii l'onda di quella sensazione e mi lasciai trasportare fino a che non ci fermammo con un semplice passo su una piattaforma trasparente, forse di vetro.

Ora che eravamo fermi riuscivo a vedere distintamente sotto i miei piedi. Avevamo percorso circa metà di quel abisso e sembrava che sul suo fondo non ci fosse nient'altro che una distesa d'acqua, una sorta di mare sotterraneo: probabilmente un bacino idrico che raccoglieva le acque residue della Senna. "Tutto qui?", pensai. Sicuramente ci dovevano essere su quel fondo delle sale di controllo, dei terminali e dei generatori di energia. Giudicai che la distanza fosse ancora troppa per poter discernere con esattezza alcunché. Era impossibile dare un giudizio. "Probabilmente ci sono delle stazioni laterali che non riesco a vedere da qui", pensai molto semplicemente.

Cicero allungò il braccio indicando qualcosa a breve distanza, proprio di fronte a noi. Giusto a ridosso del muro dal quale si allungava la nostra piattaforma trasparente c'era una cabina.

«la RAM», disse, «al suo interno vi sono contenuti tutti i dati che compongono le tue identità. Quando uscirai dall'altra parte sarai Uno e riuscirai a vedere il Maelstrom».

Per quanto mi fosse stata ripetuta questa cosa, le parole di Cicero non sembravano aggiungere nessuna delucidazione utile. Riconobbi comunque immediatamente l'oggetto che mi stava di fronte: era una cabina di trasferimento, identica a quelle dello snodo. Vedendola, ogni mia sicurezza, ogni ragionamento svanì, per lasciare posto ad un rinnovato senso di spaesamento e di frustrazione. Come mi si poteva chiedere di entrare lì dentro a sangue freddo, ancora una volta? Il Lama aveva detto esplicitamente che non c'era via d'uscita dall'Ade. Quindi cosa avrebbe comportato un mio ulteriore tentativo di teletrasporto? Dove sarei finito questa volta?

Tentai di rassicurare me stesso pensando al fatto che faceva tutto parte di una simulazione, della quale ero il protagonista. Indugiai nuovamente sulla riflessione che avevo fatto appena uscito dal tempio, e mi domandai: "Se veramente tutto ciò che vedo è una simulazione, un luogo creato dalla mia coscienza, qual è il ruolo di Amal?" Non ero in grado di comprendere come potessi avere un attaccamento così morboso verso una "persona" così lontana e diversa da me. Non capivo il perché le dessi così tanta e ingiustificata importanza e perché rischiassi così tanto per lei.

Questi dubbi si fecero strada, strisciando tra i meandri della mia psiche, restituendomi alla più buia e agghiacciante paura di perdere ogni cosa. Sentivo ora, con rinnovata potenza, l'imperare di quell'istinto di sopravvivenza che Cicero denotava nei dannati. Non volevo entrare.

Mi sentivo perso nell'oblio di questo mondo e mi erano state date due opzioni per poter rivedere Amal: l'orologio e l'abisso, ma solo la seconda delle due, a quanto avevo capito, mi permetteva di incontrarla di persona. Mi era stato detto dal gatto nero che avrei dovuto assorbire i ricordi, le esperienze e il dolore della moltitudine. Anche Amal era intrappolata in questo incubo, in questo dolore?

Ebbi paura. Non fu più la volontà di riunirmi a lei, ma la volontà di saperla in salvo a spingere le mie successive decisioni. La paura divenne terrore e disperazione, inginocchiato al di sopra del nulla mi colsero le vertigini e un senso di nausea.

Allungai il braccio sinistro e quasi in preda al panico balbettai: «e-effettua olochiamata... A-Amal...».

Qualche istante dopo comparve la sua figura a mezz'aria sopra il dispositivo. Aveva una espressione dura e distante, che esprimeva con evidenza rimprovero e disprezzo. «Cosa vuoi?», disse seccamente. Sembrava non cogliere minimamente il mio evidente sconvolgimento, oppure non se ne curava.

«S-stai bene Stella? Dove sei... sei al sicuro?».

«Sì, sono a casa, che cazzo vuoi?». La sua voce era alterata e scocciata, ne fui ferito profondamente. Sembrava mi stesse facendo un favore a rispondermi, una concessione. Avrei potuto anche morire e non gliene avrebbe importato nulla! Non ci credevo.

«Amal... so che sei qui da qualche parte, non preoccuparti... sto arrivando e ce ne andremo assieme da questo inferno».

«Ma chissene... fai quel cazzo che ti pare, ma non sognarti di provare a cercarmi! Fatti una vita!».

La sua immagine scomparve lasciandomi interdetto e distrutto.

Cicero era rimasto in piedi a pochi passi di distanza. Aveva assistito a tutto e non aveva fiatato.

«Perché?» sussurrai con gli occhi sbarrati verso la cabina, mentre le lacrime scendevano silenziose rigandomi il volto, «non ha nessun senso! Lei mi amava...».

«Ama come se più tardi dovessi odiare». Sentenziò in risposta Cicero, invitandomi ancora una volta verso la cabina con un gesto del braccio. Aveva un'espressione grave.

Mi alzai e mi inviai meccanicamente verso la cabina. I miei piedi si muovevano quasi da soli. Posto di fronte al vetro oscurato della cabina scorsi il riflesso di un volto. Sovrapposi l'immagine del viso di Amal alla mia, fino a riuscire a distinguerne nitidamente le fattezze e l'espressione: sorridente, pazza, spensierata... felice.

«Il volto è lo specchio dell'anima», dissi: erano parole che non uscivano da me, ma da una sorta di spirito che sembrava controllarmi intimamente.

Attraversai il portale.   

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Capitolo 19
*** Per Aspera ***


Il passaggio fu notevolmente diverso questa volta. Fu semplice, istantaneo. Ero ancora lo stesso di prima ed ero ancora nell'Ade. Non sentivo alcuna differenza rispetto alla normale sensazione che si prova nell'attraversare una comune porta che dà su un'altra stanza. Forse era una prova psicologica, una sorta di prova di coraggio? Qualcuno o qualcosa voleva vedere se ero in grado di abbandonarmi ciecamente al mio destino, per l'ennesima volta? Pensai che ogni maledetto passo che compievo non fosse nient'altro che questo: un salto nel buio e nell'ignoto. Sì, una prova di coraggio: un coraggio che tuttavia sapevo di non avere. Quindi cos'era a spingermi? Era forse l'amore per Amal? Era l'ineluttabilità  di ogni tappa? Anche i bivi e le scelte che mi erano state presentate di fronte finora, in realtà , si sono sempre rivelate essere una pista a senso unico. Non muovevo il mio destino seguendo delle scelte. Semplicemente mi trovavo di fronte a delle uniche possibilità. No... non era sicuramente coraggio. Facevo quello che facevo perché non avevo mai avuto altra scelta. Tutto il mio viaggio finora era stato come l'intreccio di una storia o di un film. Ero completamente immerso, con tutti i miei sensi, in questa trama, e mi muovevo seguendo delle direzioni che era già state decise dall'esterno. Tutte le volte che avevo avuto l'impressione di una scelta, in realtà, ero stato posto di fronte all'illusione di una scelta, l'impressione di una fuga: una finta libertà. Eppure ero ancora qui. Con lo stesso scopo dell'inizio del mio viaggio: rivedere Amal, e anche se ora il suo amore era divenuto odio e disprezzo, non mi importava. Mi sarebbe bastato vederla un'ultima volta e avrei compreso... e poi? Poi basta. Ciò che sarebbe successo dopo non avevo ne la volontà  ne la forza di pensarlo.

 

Di fronte a me, alla distanza di una centinaia di metri, c'era un apertura quadrangolare che si affacciava sul buio. Tra me e la porta c'era una stanza molto alta, ma piuttosto stretta, illuminata da un'intensa luce bianca. Ebbi l'impressione di essere osservato. Pensai che ci dovessero essere per forza delle telecamere nascoste in diversi punti della stanza, posizionate al solo scopo di spiarmi. Dai muri laterali partivano innumerevoli fasci di luce rossa, dei laser, che saettavano in ogni direzione, ma che si muovevano sempre all'interno del limite di spazio che mi separava dalla buia apertura che vedevo in fondo alla stanza. Osservai la scena per un po', chiedendomi cosa fossero e quale effetto avrebbero avuto se mi avessero intercettato. Era impossibile passare dall'altro lato senza toccarli. Appena di fronte a me vidi un alto archivolto, sopra il quale c'era una specie di terrazza. La struttura sembrava delimitare uno spazio iniziale che i laser non potevano attraversare.

 

Esaminai la sala spostandomi dal lato sinistro a quello destro. Mi abbassai per controllare se si riuscivano ad intravedere dei punti vuoti che mi avrebbero permesso di passare: non c'erano. Mi posizionai appena al di sotto dell'arco, facendo molta attenzione a non oltrepassare il limite che mi avrebbe inevitabilmente esposto ai raggi. Non c'erano scale e non c'era modo di salire sulla terrazza. La stanza era immersa in un silenzio surreale, come se l'intera zona fosse totalmente e innaturalmente insonorizzata. Fui sorpreso quando mi accorsi che non riuscivo a sentire nemmeno il rumore del mio respiro. Poi riflettei sul fatto che il respiro è un'abitudine di chi è materiale e vivo, e che in realtà, in questo mondo simulato, non avevo mai veramente respirato perché non era necessario. Qualcosa si stava smuovendo dentro di me: una nuova risposta stava per saltare fuori dalle mie memorie pregresse. Era come se i ricordi sopraggiungessero grazie a improvvisi input, solamente in certe occasioni, e di fronte ad alcuni avvenimenti. Non ero ancora in grado di svincolarmi dal presente: se in un momento mi era perfettamente chiaro di trovarmi all'interno di un'illusione nel momento successivo potevo rischiare di perdermi nei ragionamenti, sprofondando nuovamente nell'oblio di un'amara realtà. Purtroppo, ogni filo del pensiero, ogni ragionamento nella mia mente suonava estremamente convincente. Eppure, consciamente o meno, fino a d'ora, ero riuscito a comprendere qualcosa, non ero sicuramente fermo al punto di partenza, riuscivo quantomeno a sguazzare e tenermi a galla nel mare di questa immensa assurdità  in cui ero immerso.

 

Feci fisicamente un passo indietro e analizzai la conformazione dell'arco che mi stava davanti. C'erano numerose sporgenze che mi avrebbero permesso di scalarla se fossi stato abbastanza abile come rocciatore. Il punto più sicuro mi sembrò essere il piatto dell'abaco delle colonne laterali che sostenevano le basi dell'arco. Purtroppo era a circa tre metri e mezzo d'altezza. Normalmente non sarei mai riuscito a raggiungere quella sporgenza con un salto e non avrei avuto la forza sufficiente per sollevarmi da quella posizione.

 

Feci un goffo tentativo lanciandomi verso l'alto che confermò le mie aspettative. Ma mi accorsi, con estrema sorpresa, di come la mia discesa fosse innaturalmente lenta. Ebbi l'impressione che il luogo fosse soggetto ad un abbassamento della forza gravitazionale. Mi resi conto che, all'interno di una realtà in cui tutto era potenzialmente possibile, la fonte del problema era solamente l'aspettativa: non dovevo aspettarmi di fallire, questo era ciò che aveva cercato di spiegarmi Amal!

 

Riprovai slanciandomi e cercando di rimanere in aria il più possibile. Mi trovai a spingermi verso l'alto con facilità  e quasi volai, eseguendo dei semplici tocchi con i piedi e con le mani, come se quei brevi contatti con la colonna fossero sufficienti a darmi una contro-spinta abbastanza forte da permettermi di mantenermi in aria. Il mio obiettivo era quello di raggiungere l'abaco, ma, quasi senza accorgermene, avevo raggiunto la terrazza che stava sopra l'arco, con tre semplici spinte. Fu così facile che mi sorpresi di non averci pensato prima. Mi parve un movimento naturale.

 

"Ma sììì, che stupido, daii... è così che si vola!", pensai tra me e me. Ero completamente sicuro che avrei potuto fare la stessa cosa scalciando l'aria.

 

Saltai da una parte all'altra della terrazza per testare l'acquisizione di questa mia nuova abilità e mi accorsi che funzionava. Muovevo le gambe in aria come se stessi camminando o nuotando, in maniera abbastanza simile a quella utilizzata dagli atleti che effettuano il salto in lungo, ma con un movimento molto più lento. Mi resi conto però che non riuscivo a rimanere in aria troppo a lungo: avevo bisogno di pratica e, soprattutto, di un lungo slancio. Mi domandai, poi, se sarei riuscito a passare quella lunga fascia di laser semplicemente scavalcandoli in questa maniera. Dentro di me lo avevo quasi dato per scontato: sì, era possibile!

 

Osservai attentamente il pattern seguito dalle luci in mezzo alla stanza e mi resi conto che, per lo più, i fasci laser coprivano la base del terreno, fino a circa tre metri da terra. Solo raramente, qualcuno di questi fasci piegava lentamente verso l'alto, colpendo il soffitto, ma la cosa accadeva sporadicamente e mi sembrarono facilmente evitabili. Pensai che il problema non sarebbe stato tanto quello di evitare i laser che finivano per coprire la zona più alta, quanto il fatto stesso di volare fino all'apertura! Come potevo raccogliere abbastanza spinta?

 

Mi venne un'idea. Mi lasciai cadere giù dalla terrazza dallo stesso lato da dove l'avevo scalata. Planai piuttosto dolcemente e atterrai quasi senza rumore. Avrei usato lo stesso slancio che in precedenza avevo sfruttato per saltare sulla terrazza e, questa volta, avrei provato a salire il più possibile verso il soffitto. Da lì avrei proseguito con un percorso parabolico rallentando la caduta con la tecnica che avevo appena imparato. Sembrava plausibile, soprattutto in una realtà nella quale le regole sembravano più facilmente plasmabili. Non ci pensai più di tanto e non ebbi paura, finché non mi trovai in volo.

 

Presi tutto lo spazio di rincorsa possibile, ancora una volta tre tocchi: mano, piede mano. Questa volta però continuai, deviando leggermente in avanti, verso il parapetto della terrazza, e cercando un'ultima e sicura spinta con la punta del piede destro su di esso. Venni proiettato verso l'alto raggiungendo quasi il soffitto. Pensai di aiutarmi con le mani, ma ebbi il timore che facendo così avrei deviato la traiettoria a causa di una contro-spinta involontaria. Appena cominciai a scendere lentamente in direzione del portale mossi le gambe camminando nell'aria: stava funzionando!

 

Vidi un fascio rosso passarmi a circa un metro sulla destra. Dal momento che non costituiva un pericolo lo ignorai e continuai a concentrare la mia attenzione nell'atto di mantenermi in volo.

 

Il percorso era ancora molto lungo, ma scendevo con un ritmo molto lento. Stimai che sarei arrivato davanti al passaggio con un altezza abbondante. Vidi altri due fasci laser che mi costrinsero a delle micro-variazioni di traiettoria; lo feci semplicemente spostando il baricentro leggermente di lato, giusto per essere sicuro di tenermene lontano. Ero a poco più di metà  stanza e galleggiavo abbondantemente al di sopra di quella serie di trappole, delle quali ignoravo l'effetto, quando vidi comparire un improvviso fascio laser proprio davanti al mio percorso. Balenò diretto verso di me con una velocità  più alta di quanto mi aspettassi e non potei fare altro che deviare la mia direzione scartando lateralmente. In quel momento, per un istante, fermai la corsa a mezz'aria e fui costretto a riprenderla aggirando il fascio di luce. L'operazione mi costò una perdita di velocità che non avevo previsto. Riuscii a proseguire, ma stavo perdendo quota molto velocemente e non percorrevo più la stessa quantità di strada in paragone ai passi: sarei caduto in mezzo ai laser a qualche metro prima dell'arrivo!

 

Cercai disperatamente di scalciare recuperando aria, il movimento non sembrò avere l'effetto sperato: non faceva nient'altro che consumare le mie energie e aumentare il mio stato di panico. Un altro fascio passò diagonalmente da sinistra costringendomi ad abbassarmi e perdere altra quota. Presto avrei scoperto l'effetto di quei raggi; ormai si trattava solo di guadagnare qualche manciata di inutili secondi! I laser saettavano furiosamente a pochi centimetri dalla pianta dei miei piedi.

 

Chiusi gli occhi e caddi.

 

Ero a circa dieci metri di distanza dall'apertura e nel cadere mi coprii istintivamente il viso con le braccia.

 

Quando li riaprii un secondo dopo, non era ancora successo niente. Non erano assolutamente gli strumenti di morte che mi ero immaginato e non suonò nessun allarme, come ci si sarebbe potuto aspettare in alternativa. Vedevo l'apertura di fronte a me, mentre i raggi scorrevano incrociandosi tutt'intorno alla mia figura.

 

Avevo aperto gli occhi, ma avevo mantenuto le braccia di fronte al mio viso, per quanto potessi ricordare. Con mia sorpresa fui costretto a chiedermi dove fossero finite le mia braccia! Cercai il resto del mio corpo e mi accorsi che non c'era: ero completamente immateriale!

 

Era forse stato l'inconscio desiderio di sparire che già  in precedenza mi aveva salvato dalla carneficina dell'hangar? Non mi ero assolutamente reso conto di aver, per così dire, cambiato stato. D'altronde, dal momento in cui mi ero teletrasportato in questa stanza, era stato solo in questo preciso istante che mi ero effettivamente posto il problema della mia materialità. E se mi fossi già  trovato in quella condizione sin dall'inizio? Potevo essermi forse immaginato di afferrare l'orlo dell'abaco con una mano o di spingermi con l'ausilio di piedi che non c'erano?

 

Mi resi conto di come, in momenti diversi, mutasse la focalizzazione delle mie percezioni, restituendomi un feedback spesso parziale. Questo limitato processo di ricezione delle informazioni percettive, sembrava essere così naturale, che nella mia mente non mi ero posto alcuna domanda al riguardo. Almeno fino a questo preciso momento in cui vi avevo posto diretta attenzione.

 

Camminai cautamente in avanti dirigendomi verso il buco e notai che c'era una sorta di sfasamento nell'aria, più o meno come quando ci sono delle onde di calore distanti che danno un effetto di sfocatura. Feci ancora qualche passo e sollevai le mani. Vidi distintamente muoversi qualcosa di fronte a me, qualcosa di fluido, ma traslucido: mi resi conto di non essere immateriale, bensì trasparente!

 

"E se stessi gradualmente riacquistando forma?", mi domandai con un certo timore.

 

Mossi rapidamente, ma con cautela, gli ultimi passi verso l'apertura paventando di apparire improvvisamente nel bel mezzo dei fasci di luce.

 

Mi lasciai alle spalle i laser e la stanza inoltrandomi nelle tenebre del passaggio che mi stava di fronte.

 

Come attraversai l'apertura, una luce simile alle antiquate lampade al neon lampeggiò dai lati, a intervalli irregolari, illuminando fiocamente quello che sembrava essere uno stretto e umido corridoio. Questo terminava bruscamente contro un altro condotto perpendicolare al primo. Le due direzioni del bivio che mi stava di fronte erano avvolte dalle tenebre.

 

Presi senza pensare la sinistra, un'altra luce lampeggiante illuminò il mio cammino a poca distanza, rivelando una serie di tre svolte a destra e uno sbocco a sinistra piuttosto lontano e immerso nelle tenebre buio. Sentii lo sfrigolare delle lampade alle mie spalle che improvvisamente si spensero. Mi voltai di scatto con un brivido.

 

Mi mossi timoroso ancora un po' in avanti, per ispezionare i nuovi corridoi. Si distinse nettamente l'eco dei miei lenti passi sul fondo del lungo corridoio. A questo seguì in risposta un rumore rapido, sfasato e innaturale. Ebbi l'inquietante impressione che ci fosse qualcun altro alle mie spalle. Qualcuno che tentava di adattare la sua andatura alla mia, come se non volesse farsi scoprire mentre mi stava inseguendo.

 

Accelerai leggermente e passai la prima svolta: buio; passai la seconda: buio. Le luci alle mie spalle cominciarono a spegnersi sfrigolando a partire dal fondo… il rumore dei passi alle mie spalle continuava.

 

Accelerai ancora. Imboccai la terza svolta: luci. Sentii una risata di ragazza di fronte a me. Mi venne la pelle d'oca.

 

Cercai di calmarmi. Dopotutto era tutto una semplice simulazione...   

 

Il corridoio proseguiva per un lungo tratto e c'era un altro incrocio a T sul fondo. Mi era ormai chiaro che mi trovavo in un labirinto o qualcosa del genere. C'era una logica per uscirne? O era una semplice prova con lo scopo di snervarmi? Prova di cosa, poi?

 

La risata che avevo sentito era quella di Amal, ne ero sicuro. Mi aveva colto di sorpresa e mi aveva messo paura a causa dell'assurda situazione in cui mi trovavo, ma era impossibile per me non riconoscerla.

 

Cominciai a correre seguendo la strada e sentii ancora una volta la risata, questa volta da destra. Imboccai quella direzione senza indugio.

 

Sinistra; terza a sinistra; Incrocio a T sulla destra; poi di nuovo a destra. Intanto le luci alle mie spalle sparivano e il rumore di passi non si sentiva più. Mi fermai un momento ad ascoltare... un ronzio distante... osservatori!!

 

Mi gettai nel corridoio che avevo di fronte preso dal panico, non sentivo più alcuna risata, non avevo più una guida, sempre che fosse stata effettivamente una guida e non un maledetto inganno! Il ronzio sembrava provenire da ogni lato. Corsi con l'unico obiettivo di allontanarmi il più possibile da quel rumore infestante, ma dovetti tornare indietro diverse volte perché la strada era sbarrata da vicoli ciechi. Il ronzio mi attanagliava le caviglie, mi erano sicuramente addosso! Lo squillo di una inconfondibile ed improvvisa esclamazione mi colse da sinistra: «Eccooo!!».

 

Mi voltai.

 

Una stanza cubica, spoglia, umida. Le luci sfrigolanti si riflettevano sul guscio lucido di una palla orbitante nera, ferma nel centro.

 

Una riproduzione audio partì dagli altoparlanti della sfera: «ha ha ha... Eccooo!!».

 

Mi fermai di colpo e si fermò anche il battito del mio finto cuore.

 

Mi avvicinai con la rassegnazione negli occhi.

 

«Ha ha ha... Eccooo!!», ripeté la registrazione meccanicamente.

 

L'osservatore non fece nulla. Mi avvicinai. Distesi le braccia e contornai l'osservatore stringendomi al freddo vetro.

 

«Amal», sussurrai.

 

 

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Capitolo 20
*** Catarsis ***


La sfera sembrò scaricare il suo peso su di me, abbandonandosi dolcemente e con premura. Era leggera. La stavo sostenendo tra i palmi delle mani e la mia guancia posava sulla sua superficie liscia. Riconobbi, al contatto della pelle con il vetro, che stava cambiando qualcosa nella composizione del materiale, come se ciò che avevo tra le braccia non fosse più fatto di vetro, ma si fosse, quasi alchemicamente, tramutato in un oggetto di gomma. Mi sembrava di stringere un pallone morbido e colmo d'aria.

Lasciai la presa incuriosito, ma non provavo ne spavento ne sorpresa. La palla cadde a terra rimbalzando e cominciò a scorrere lungo il pavimento. Rotolò per qualche metro in direzione della parete che mi stava di fronte e poi scomparve dietro di essa, attraversandola senza alcun impedimento.

Dopo la folle corsa tra i meandri di quel labirinto, con il duplice scopo di seguire la voce di Amal e di sfuggire dalla minaccia degli osservatori, sarebbe stato lecito pensare che la riproduzione audio, emessa dall'osservatore che mi era improvvisamente apparso di fronte, non fosse nient'altro che un bieco stratagemma per attirarmi in una trappola. Eppure non lo pensai neanche per un solo istante. Sapevo che era un richiamo sin dall'inizio. In realtà, non abbracciai la sfera nell'atto rassegnato di abbandonarmi ad un destino di morte, lo feci perché mi sembrava uno degli assurdi gesti che avrebbe potuto compiere Amal. Lo feci perché semplicemente amavo quella voce indipendentemente da dove provenisse. Credetti che quella sfera potesse percepire il mio amore e sapevo che avrebbe funzionato. Sapevo che nonostante Amal mi avesse detto di starle lontano, in realtà stava cercando di chiamarmi a sé. Non avevo ancora chiaro in che misura lei c'entrasse in tutto questo, ma ero perfettamente conscio del fatto che dietro ogni cosa c'era lei.

Seguii la sfera senza indugiare. Non mi posi neanche il problema di pensare di attraversare quel solido muro fingendo che fosse immateriale, lo feci e basta, nella piena convinzione che non avrei trovato alcuna resistenza: fu come attraversare una nube di fumo.

Mi trovai al centro di una stanza, le cui pareti altissime si perdevano verso l'infinito. I muri erano costellati da video-terminali. Erano a migliaia, non c'era alcuno spazio vuoto.

Ogni schermo proiettava a ripetizione una serie indipendente di immagini. Tutte le sequenze erano riprese dal punto di vista dello spettatore. Gettai casualmente l'occhio di qua e di là, riconoscendo le scene che vedevo. Ogni schermo riproduceva scene di vita e di esistenza di ognuna delle mie copie: all'interno del Dedalus, nell'Ade, nei pressi dello snodo internazionale di Parigi, nel paradiso terrestre, sulla vetta della torre, nella biblioteca, nella città di Dite, in questa stessa stanza.

Era la mia storia completa.

Vidi scene brevissime, nelle quali si assisteva all'immediato termine della mia vita. Vidi le innumerevoli scene della strage all'interno dell'hangar. Mi vidi, completamente divelto, in una macchia di sangue e cruore che si sparpagliava largamente sul terreno ai piedi della torre. Mi vidi compiere scelte diverse a discapito dell'ineluttabilità del mio destino. Mi vidi morire, ancora e ancora e ancora, per centinaia, migliaia di volt... e capii. Capii e ricordai.

Ricordai immediatamente quelle scene, tutte quante. Erano reminiscenze distanti, memorie che, fortunatamente, non erano accompagnate da alcun sentimento travolgente, ne sarei stato sicuramente distrutto. Come avrei potuto campire di tale colore di morte e sofferenza la mia povera mente senza soccombere o diventare folle?

Invece di rivivere ognuno di quei singoli istanti, mi fu concesso di vederlo così come si vede un film. Dovevo comprendere il dolore e il destino delle mie copie, delle mie identità, e quello era stato un modo pacato, un gesto dolce da parte di Amal, per permettermi di comprendere, risparmiandomi l'atrocità di assorbirlo direttamente.

Ma lei lo aveva provato tutto... infinite volte... Povera, Stella mia!

Alla fine di quel silenzioso e addolcito supplizio, una serie di informazioni giunsero direttamente al mio cervello, come se fossero state scaricate direttamente da un computer. In quell'istante seppi che potevo raggiungerla. Sul fondo dell'abisso avrei visto il vortice che rappresentava quel caos di realtà e di sofferenza che in questa realtà prendeva il nome di Maesltrom.

Ma non era solo questo.

Seppi finalmente, e con certezza, che era lei. Era lei fin dall'inizio, in diverse forme, in diversi luoghi.

Nel nostro passaggio in Arcadia aveva tentato di condurmi in un luogo dove avrei potuto essere felice, vivendo, all'interno di un simulato paradiso, sprazzi della mia vita precedente. Mi aveva concesso di provare, incontrando Francesca, quello che doveva essere stato il mio amore al di fuori di questa simulazione... nella vita reale. E quando mi ero rifiutato di accettare questo destino, non riconoscendolo come mio, Amal, aveva cercato di allontanarmi da sé, sebbene mi amasse, perché non scoprissi l'atroce verità su di lei... su ciò che era.

L'unica cosa che avrebbe desiderato offrirmi più di ogni altra cosa era una via di uscita, purtroppo però questa era anche l'unica cosa che non aveva la capacità, né la possibilità, di darmi.

Capii di essere intrappolato qui per sempre: in un mondo illusorio creato da lei. Forse questo stesso luogo infernale non era nient'altro che una sua valvola di sfogo: un posto in cui si scaricare la tristezza e il dolore dell'enorme peso che gravava sulla sua anima.

Come poteva avere una tale forza? La percepivo sovrumana. Mi sentivo amato e prediletto direttamente da qualcosa che si avvicinava al divino.

I limiti di questa terribile riflessione tendevano a sfuggirmi, faticavo a mantenerla chiara all'interno della mia psiche. Ne sentivo l'immensa tragicità  e la desolante mestizia, ma riuscivo solamente a valutarla con cruda logicità; non avevo abbastanza cuore per poterla comprendere nella sua totalità a livello emotivo.

Gli schermi cambiarono improvvisamente immagine, riproducendo, tutti contemporaneamente, il volto di Amal. Il suo sguardo era diretto verso di me. I suoi occhi neri erano gonfi e lucidi. Piangeva sommessamente con deboli sbuffi. Le lacrime scendevano accumulandosi ai lati della bocca formando delle perle trasparenti. Non diceva nulla.

«Povera Stella...», dissi. Una voce metallica risuono dai lati della stanza: «deframmentazione completata». Le singole immagini si unirono e si delineò una gigantesco primo piano di lei che si divideva tra i vari schermi. Cercò di dire qualcosa balbettando tra i singhiozzi.

«No-non è co-come... fffn... pensi... ho-ho cercato d-di... fffn... di...  salvarti. M-ma tu... tu facevi di... fffn... di testa tua c-CAZZO! Non po... non posso controllar-ti... Non voglio!».

«Non sento dolore Amal... non è colpa tua», dissi, cercando di consolarla.

Sorrise mestamente tra le lacrime «Seee... s-sai quante volte mi... mi hai detto il contrario?».

Era vero. Ricordavo anche quello.

Ricordavo questa conversazione e le sue varianti. Eppure adesso che sapevo, e credevo di aver capito ogni cosa di ciò che era accaduto, il seguito di questa vicenda mi sfuggiva completamente, il futuro mi sfuggiva. Cosa sarebbe successo a partire da questo momento? Quali esiti avrebbero avuto le mie prossime scelte?

«Questo casino... vedrai, sistemeremo tutto... lo faremo funzionare, Stella, in qualche modo». Lei non reagì, guardò verso il basso e non rispose nulla.

La voce metallica annunciò che il ripristino era terminato. Subito dopo l'avviso, l'immagine di Amal scomparve.

Mi voltai deciso. Si sentì un rumore di leve idrauliche che entravano in azione. Gli schermi alle mie spalle si spostarono incassandosi su più livelli di gradini. Al centro si creò un apertura che conduceva direttamente all'esterno, sulla piattaforma trasparente. Scorsi in lontananza una figura umana in attesa, era Cicero. Era rimasto in standby, ancora con il braccio teso nella mia direzione.

Mi avvicinai ed egli sembrò come risvegliarsi. Mi chiese: «Hai visto le tue Personae?».

«Non capisco bene cosa tu voglia intendere, mio buon Cicero. Ci sono ancora molte cose che non comprendo, ma sicuramente ho acquisito una più ampia "visione" d'assieme».

«Riesci a vedere il Maelstrom?».

Non ebbi neanche bisogno di buttare l'occhio sotto i miei piedi: lo sentivo, ne sentivo la sua forza straordinaria e terribile. Feci un semplice cenno con la testa.

«E vuoi ancora raggiungerla? Nonostante tu sappia che l'amore che senti è un'illusione?», mi chiese Cicero con espressione neutra.

«Non hai compreso assolutamente niente dell'amore, mio buon amico, anche se lo sai annunciare e descrivere tramite deliziosi aforismi. L'amore che sento è l'unica cosa reale di tutta questa storia!».

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Capitolo 21
*** Maelstrom ***


«Scendiamo!», dissi a Cicero con risolutezza. Egli annuì senza aggiungere altro e fece un gesto con la mano.

Anche lui era un prodotto di Amal. Era una sorta di guida e protezione: un aiuto che mi era stato fornito affinché non commettessi altre fatalità , permettendomi così di arrivare a lei, una volta per tutte. Non ero mai stato veramente in pericolo, questo lo avevo già  intuito; l'unica cosa che poteva nuocermi era quel tanto di "libero arbitrio" che avevo acquisito all'interno di questo regno simulato. Il più grande rischio che potevo correre era quello di ricominciare tutto nuovamente daccapo, a causa dei miei errori e della mia ignoranza.

Solo io potevo essere fautore della mia cancellazione e della mia fine. Il mio dubitare e la mia capacità  di immaginare la mia stessa fine, erano le uniche cose che potevano produrla. Se mi fossi, sin dall'inizio, affidato ad Amal, non mi sarebbe mai potuto accadere nulla. Fino a questo istante mi aveva evitato solamente per risparmiarmi il dolore di venire a conoscenza del fatto che io non ero reale, così come non lo era lei.

Il nostro era un amore impossibile.

Eravamo un file e un programma che si amavano.

La mia stessa esistenza dipendeva da quel programma, ne ero una parte. Per certi aspetti, era come se anch'io fossi Amal. Questo era ciò che ero arrivato a capire dopo l'episodio avvenuto dentro la stanza della "RAM".

Cominciammo una discesa vertiginosa, ancora più rapida della precedente. L'impressione tuttavia era quella di stare completamente fermi su quella piattaforma di vetro, mentre le pareti di quell'abisso salivano scorrendo spasmodicamente ai nostri lati. Le vedevo sfrecciare lucide, mentre il calore aumentava, come se ci stessimo avvicinando al centro della terra.

Sentivo una forza soprannaturale sprigionarsi da sotto i miei piedi: un'energia di una tale potenza da farmi vibrare interiormente, anche a distanze ultradimensionali. Era qualcosa che non avevo mai provato prima d'ora, qualcosa che dubitavo potesse aver sperimentato qualsiasi essere prima di me.

La piattaforma si fermò con uno scatto immediato, senza alcun rinculo o forza inerziale residua. Il mondo era scivolato davanti ai nostri occhi e si era fermato di colpo, mostrandoci un'altra scena e un altro luogo, esattamente come se fossimo stati completamente fermi di fronte ad un oloproiettore.

Vidi davanti a me una mastodontica figura, che sapevo essere un semplice prodotto della mia mente o di quella di Amal, ancora non capivo qual era il vero confine tra le due.

Era una specie di gargantuesco demone, barbuto e gigante, vestito di stracci dalla vita in giù. Le gambe erano immerse nelle acque, mentre il resto del corpo sporgeva al di sopra di noi, sovrastandoci. La sua bocca era un taglio triangolare che partiva direttamente da orecchio ad orecchio e si spalancava, con fauci aguzze e ingiallite, in un sorriso sardonico. Reggeva tra le mani un gigantesco remo con il quale fendeva le acque conferendo un moto circolare a quel mare oscuro.

Guardai in basso verso il fulcro di quella forza inaudita e vidi il Maelstrom: un portale abissale generato dalla sofferenza. Fiumi di lacrime e dolore che scivolavano giù a partire dalla valle oscura fino a formare un gorgo turbinante alla base dell'Ade. C'era letteralmente un buco in mezzo alle acque, un cilindro di vuoto dalle pareti lucide, nere e lisce: un pozzo largo centinaia di metri, che dava su un'oscurità  quasi materiale e palpabile. Quell'atroce e impossibile fenomeno succhiava ogni speranza, e vomitava un senso di disperazione, diffondendolo ovunque tramite una colonna invisibile di energia emotiva.

Potevo vederlo distintamente solo ora. Ora che avevo capito il dolore di Amal e ne avevo saggiato l'estensione. Ora che mi trovavo a diretto contatto con una tale energia, ero sempre più convinto che questo stesso sentimento negativo, sprigionato da Amal, fosse l'origine del lato oscuro del Dedalus, di tutte queste visioni infernali e dell'intera esperienza che aveva costituito la mia discesa.

Mentre Cicero rimase immobile sul bordo di quel piano, la piattaforma di vetro cominciò a distendersi, assottigliandosi e deformandosi, portandomi direttamente al centro di quella forza. Sentivo l'instabilità della pedana trasparente sotto i miei piedi. Era come un filo frustato dai venti ed io vi ero incollato, in attesa di un gesto volitivo, una replica della mia precedente fine sulla cima della torre, un abbandono che mi avrebbe condotto direttamente da Amal.

Ero completamente conscio del fatto che quel gesto non poteva realmente distruggermi. Tuttavia, sebbene quel salto non fosse un gesto disperato e incognito paragonabile al volo suicida dalla cima del Dedalus, era comunque un'azione che richiedeva uno sforzo sovrumano. Era un gesto terribile paragonabile solamente ad un cosciente abbandono della propria anima.

Esitai. Rividi il volto di Francesca, forse il più grande gesto d'amore di Amal: la proiezione di un amore che faceva parte della mia vita precedente, della realtà. Una ragazza che, in questa vita, non avevo mai conosciuto, perché non ero mai stato veramente la persona che l'amava, ma un suo subalterno, un suo prodotto. Tuttavia, nel profondo, sapevo che Francesca era ciò che c'era di più importante nell'esistenza della mia forma prima, del mio vero Io. Non potevo fare a meno di chiedermi se ci fosse qualcosa di sbagliato in tutto quello che stavo facendo, se dovessi cercare di raggiungerla comunque, di riunirmi a lei. Perché, ogni volta che stavo per compiere un passo definitivo, rinveniva la sua immagine? Un dubbio inspiegabile serpeggiò nella mia mente.

Provai a fare un passo indietro, ma fui ingannato, e il ponte di vetro, che avevo sotto i miei piedi e che si era letteralmente tramutato in un filo, si ruppe, come se quella forza che aveva atteso il mio gesto inevitabile, vedendo il mio rifiuto di compierlo, avesse immediatamente deciso per me.

Caddi nell'abisso urlando.

Mi vidi cadere, ancora una volta, dalla cima del Dedalus.

Volai, volai per un tempo infinito e attraversando le nubi e i fulmini intravidi le luci sotto di me così distanti... così belle! Mi allontanavo gradualmente dalla superficie della torre oscura mentre tutto intorno a me svolazzavano aeromobili e piattaforme, che riuscivo a cogliere a malapena, a causa della velocità folle. Sentivo perdersi dietro di me le lacrime, non sapevo se di tristezza o di gioia, forse erano solo un effetto dell'aria e della pioggia che mi frustava con veemenza.

Volai, volai e sorrisi, mentre tutto si ingigantiva sotto di me. Si sentì un urlo atroce, ma non sapevo se era la mia bocca ad emetterlo, la credevo chiusa. Vidi l'Ade spalancarsi sotto di me e la caduta proseguì nell'altro mondo. Scorsi il bordo della Valle Oscura saettare ai miei fianchi in una frazione infinitesima. Ad una velocità  che oltrepassava qualsiasi legge fisica vidi: Dite, le innumerevoli piattaforme, il bordo lucido dell'Inferno, il tempio, la piattaforma, Caronte, Cicero, il mare e infine... il buio.

Il buio divenne luce.

Ero sospeso nel bianco e nell'assoluto. Non stavo più cadendo.

In quello spazio metafisico c'era tuttavia una direzione già pronta per me: una porta.

Vidi una comune porta di legno scuro verniciato, come quelle delle camere di una abitazione pre-aggregata. La porta aveva un semplice manico d'ottone e stava sospesa a pochi passi da me. Mi avvicinai camminando nel vuoto. C'era una targhetta ovale su cui era inciso il nome "Amal" in corsivo.

Allungai la mano e la aprii.

 

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Capitolo 22
*** Lucida Veritas ***


Feci qualche passo avanti nella stanza. Era una stanza molto semplice: una stanza da ragazza. I Mobili erano color panna. C'era una cassettiera affiancata da una scrivania di vetro sulla quale era posato un laptop acceso; il monitor proiettava una schermata completamente bianca. C'era un tappeto di pelo color grigio tenue, lo sentivo morbido sotto ai miei piedi. Una finestra sul lato sinistro che dava su uno stretto balcone faceva entrare la luce naturale del giorno. Appena sotto il davanzale c'era un posacenere con qualche sigaretta spenta. Di fianco, sempre sul davanzale, un piccolo bonsai che assomigliava vagamente ad un salice piangente, ma che, molto curiosamente, produceva anche delle bacche che sembravano delle mele in miniatura. Non c'era una libreria, ma c'erano libri scolastici di varie materie sparpagliati sulla scrivania: un manuale di letteratura, una divina commedia, qualche testo di storia scarabocchiato e un libro di matematica con una copertina martoriata. Vidi, sparsi per la camera, soprammobili di ogni sorta, ricordi, foglietti con cuoricini e frasette scritte con caratteri incomprensibili, c'erano anche numerosi peluche lanciati zampe all'aria di qua e di là. C'era un telefono, collegato al caricabatteria, appoggiato su un mobiletto di fianco al letto.

 

Al centro della stanza, su un letto con una copertina di pelo marroncino, c'era Amal. Sembrava dormire. Una serie di tubi snodati fuoriuscivano da delle tasche sottocutanee che si aprivano ai lati del suo corpo e dietro la sua testa. I tubi salivano verso il soffitto disperdendosi in una foschia biancastra che emetteva una luce innaturale.

 

Mi avvicinai e mi sedetti ai piedi del suo letto posandole una mano sul ginocchio al di sopra delle coperte. Lei aprì gli occhi e mi osservò senza segni di stanchezza, come se avesse tenuto gli occhi chiusi appositamente, ma in realtà fosse sempre stata sveglia. Mi guardò con rimprovero e tristezza. «Ti avevo detto di non cercarmi.»

 

«Va tutto bene, Amal, ho capito, preferisco così... », risposi con un sorriso sincero.

 

Lei sembrò infuriarsi e scattò in posizione seduta mentre i tubi sventagliavano da ogni lato. Ci fu come una scossa di terremoto tutto intorno a noi.

 

«Non hai capito un cazzo!... Cosa pensi di aver capito?!».

 

Spostai leggermente indietro il corpo e la testa, un po' sorpreso dalla sua reazione.

 

«Ma sì... dai, il Simulatore Ambientale, questa sorta di spazio mentale che hai creato per noi... Io e te.»

 

Scoppiò in una risata disperata che suonava in maniera molto simile ad un pianto. Sentii l'eco profonda della sua tragica ilarità diffondersi nel mondo che mi circondava. Amal si coprì il viso con le mani. Tutto attorno a noi singhiozzava e sussultava insieme a lei.

 

«Andrea... amore mio, quanto lontano sei dalla verità !!... e quanto vicino... ».

 

La guardai in silenzio con gli occhi sbarrati e poi abbassai la testa meccanicamente, con un'espressione di evidente sconvolgimento. Andrea??... era dunque questo il mio nome?

 

«Pensi che ho fatto tutto questo per noi? Per te?... pensi di amarmi? Tu credi che io sono il Simulatore, non è vero?».

 

Rimasi in silenzio, atterrito. Avevo il terrore che le sue prossime parole mi avrebbero cancellato e distrutto totalmente.

 

«Certo che sì, ho creato io tutto questo, per quanto potevo, e come sono riuscita: con le tue passioni e le tue lezioni... le cose che piacciono A TE!!!», mi guardò fisso negli occhi e continuò: «Ma l'ho fatto per me!! Tu (il vero tu intendo), in realtà sai a malapena che esisto, anzi, forse ti sto anche sulle palle!!».

 

«Co-cosa intendi dire?», balbettai.

 

«Come facevo a sapere che diventavi così vero?? Che ragionavi e avevi una vita tua... non è una cosa possibile. Ho cercato di allontanarti per quello... perché ho capito che eri vivo dentro di me», continuò Amal senza rispondermi direttamente, ma come se stesse ragionando con se stessa.

 

Quando le sentii dire queste parole sorrisi e tirai un sospiro di sollievo... Non aveva capito che avevo accettato questa mia condizione. Che volevo ad ogni costo amarla anche sapendo di essere una coscienza programmata, un file!

 

«Ha ha ha, ma sì, m sì, Amal, lo avevo capito, so che non sono... Andrea, quello vero, ma penso e sono cosciente del fatto di amarti, mi basta questo!»

 

«NOO!!!!», sbottò battendo il pugno sulle coperte. Ci fu uno schianto che fece tremare le luci nella stanza. «NON SONO UN PROGRAMMA E TU NON SEI UN FILE! O qualunque cosa pensi di essere… sei solo un personaggio! Un personaggio che ho creato dentro i miei sogni!!!»

 

Rimasi a bocca aperta, non credevo alle sue parole, quindi risposi in maniera scettica e secca: «Amal, non si è mai sentita una cosa del genere, come fai a controllare i tuoi sogni?».

 

Amal cominciò a raccontarmi tutto piangendo sommessamente, con chiarezza e semplicità:

 

«Tu non hai mai sentito queste cose perché non esisti. Io sono un'onironauta, lo sono sempre stata...  controllo i miei sogni fin da bambina... in parte... non tutti i particolari: quelli li fa la mia mente... », mi guardò con un mesto sorriso e continuò: «Andrea, cioè tu, è un professore... mi sono innamorata di lui. Sta con una tizia di nome Francesca. Mi sono immaginata un mondo in cui incontrarlo e in cui lui mi ama. Ed ecco che sei venuto fuori TU... così reale, così pieno di emozioni, così simile a quello vero e così vivo!!! Non pensavo che potevo fare una cosa così... adesso stai male per questo...  vero??», si fermò guardandomi con un'espressione ingenua e colpevole.

 

Era una cosa impossibile da digerire, ma non meno probabile di tutto quello che avevo pensato fino a quel momento. Mi sembrò finalmente tutto molto più logico, più comprensibile. Ogni cosa sembrava acquisire una dimensione di realtà. Tutta la vicenda, nella maniera più semplice e diretta, finalmente aveva senso. Ma, a questo punto, cosa rimaneva di me? Del mio Io che avevo sentito così reale? Ero certo di essere vivo, dentro la mente di Amal. Non potevo essere semplicemente un parto della sua mente, un suo pensiero. Sentivo che ero riuscito in qualche maniera ad ottenere una mia volontà, un mio libero arbitrio e una mia coscienza. Ero il personaggio di un sogno di Amal!

 

Quindi, quando si sarebbe svegliata, cosa ne sarebbe stato di me?

 

Sollevai lo sguardo e cercai di rassicurare più me stesso che lei con le seguenti parole: «non cambia poi molto, Stella. Non è tanto peggio di ciò che mi ero immaginato finora...». «Ti amo lo stesso», dichiarai.

 

Amal fece un mezzo sorriso, era emotivamente toccata dal mio atteggiamento e dai miei sentimenti così spontanei: non potevano che sembrare così reali, ai suoi occhi!!

 

Ma era arrivato il momento di farmi capire.

 

«Qui dentro sono l'unica cosa reale. Quando mi sveglierò non ci sarai più... è sempre stato così. Muori e poi ritorni. Tu...  ma diverso... non ricordi le cose del sogno precedente...»

 

Le luci si abbassarono e sulla scena calò un'ombra violacea, tutto cominciò a tremare e si sentì tuonare una voce maschile. Era la mia: « ... AMAL!!».

 

Amal sollevò il viso in preda al panico. L'atmosfera si stabilizzò, ma il panico era ancora evidente nei suoi occhi. «è già la seconda volta che mi chiami... sta per succedere!», disse.

 

«Cosa? Cosa sta per succedere, Stella?», chiesi atterrito.

 

Amal allungò una mano accarezzandomi il volto. «Mi devo svegliare, amore». I suoi occhi divennero lucidi e a stento trattenne di nuovo le lacrime.

 

«No, no, ti prego, non abbandonarmi... Non voglio dimenticare! Resta qui con me!!», cercavo inutilmente di trattenerla, disperandomi e contorcendomi come un verme, in un dolore senza vergogna: era la mia consapevolezza di stare per morire.

 

«Non posso dormire in eterno... Lasciami stare, ti prego!! Prova a pensarci, come puoi chiedermi una cosa del genere?? Prima o poi dovrò comunque svegliarmi... o verrò svegliata da qualcuno... ».

 

Poi, cercando le parole per annunciarmi la mia morte, le parole che segnarono per sempre la mia fine, disse:

 

«Ti prometto... ».

 

Mi alzai di scatto, prendendole il viso tra le mani disperato. La implorai, con infiniti, sterili ed inutili baci, tra le sue e le mie lacrime, emettendo parole strozzate: «... No...  ti prego...  Amal... ascolta... non dirlo!!».

 

Si sporse in avanti rispondendo con un bacio secco, anonimo...  forzato e disse:

 

«Ti prometto...  che non ti sognerò più...

 

... 

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Capitolo 23
*** Epilogo - Il risveglio ***


«AMAL!».

La voce del giovane professore esplose dalla cattedra. La classe si ammutolì improvvisamente e la ragazza sollevò di scatto la testa. Qualcuno dal fondo della classe ridacchiò, ci fu uno scambio di battute e un brusio di sottofondo. Un pugno colpì improvviso il ripiano di formica che vibrò con uno schianto. Tutti sussultarono sui loro posti ripristinando il silenzio.

«AMAL! Sei praticamente di fronte a me e ti metti spudoratamente a dormire?! Sarà almeno la quinta volta che ti chiamo!».

«Scu-scusami... mi scusi», balbettò la ragazza ancora intorpidita dal sonno.

«Nooo, nooo, questa volta non te la cavi con le tue solite scuse! Intanto ti becchi una nota!!».

Il professore cominciò a digitare sulla tastiera col volto visibilmente alterato da una combinazione di rabbia contenuta e di sconfitta morale. Sospirò visibilmente mentre le sue labbra si muovevano in un sussurro silenzioso.

La ragazza, che sembrava gradualmente riprendersi dall'intontimento, appariva mortificata. Non si preoccupava mai della reazione degli altri professori, anzi, se ne fregava altamente e spesso rispondeva in maniera maleducata. Ma non con lui, con lui era diversa. Si metteva in primo banco apposta. Seguiva le sue lezioni sulla letteratura italiana e straniera, sulla grammatica, la filosofia e la storia antica, su Dante e su Borges, sforzandosi di essere interessata. Ci provava, sebbene fossero cose che in verità riteneva noiose e inutili. Ma lottando contro ogni sua molecola, che le diceva di alzarsi e andare a fumare una sigaretta in bagno, oppure di buttare giù la testa per farsi un sonnellino, cercava di assorbire ogni parola da quelle labbra, anche quelle inutili. Adorava il suono di quelle labbra che parlavano di cose assurde e inutili. Eppure questa volta aveva ceduto anche a quel dolce suono e, dopo un po', aveva incassato la testa sulle braccia conserte di fronte al banco ed era piombata in un sonno molto particolare... Aveva poi sentito sparire la melodia e questa era diventata uno scroscio di tuoni che l'avevano gradualmente riportata alla materia, privandola di quella complessa, triste, tragica ma amata realtà: il mondo che aveva generato nella sua psiche, tramite la straordinaria capacità che aveva fin da bambina di muoversi volitivamente e controllare i suoi sogni.

Improvvisamente sbiancò quando si rese conto di essere arrivata alla terza nota sul registro...  sapeva la regola: dopo tre note significava essere sospesi!

Cominciò a montare qualcosa dentro di lei, un turbamento represso e indicibile. Sentì uno strappo nel petto che le fece male al cuore. Non riuscì più a contenere in sé quel groviglio inestricabile di emozioni contrastanti, un nodo gordiano fatto di amore e di rabbia, un labirinto di tristezza, dolcezza, senso di colpa e sacrificio. In quel preciso istante esplose.

Si alzò di scatto sollevando le mani e facendo schiantare il banco a terra, si mise a urlare: «MA FAI QUEL CAZZO CHE VUOIII!!!».

Tutta la classe era rivolta verso di lei in un completo silenzio sbalordito. Il professore rimase a guardarla con un'espressione spaventata e sorpresa: non si sarebbe mai aspettato una reazione così forte. Generalmente era buono con Amal, anzi, era piuttosto comprensivo con tutti i suoi studenti, dai quali, per altro, non si distanziava poi così di molto per età e per i modi di fare al di fuori della scuola. Dava l'idea di un fratello maggiore. Certo in classe era diverso. Si sforzava sempre di insegnare trasmettendo passione e positività, cercava coinvolgimento, sebbene sapesse che, nella maggior parte dei casi, ciò che diceva veniva ascoltato solo sporadicamente. Ogni tanto si arrabbiava, ma il più delle volte era una posa. Aveva notato gli sforzi che faceva Amal nelle sue materie, lo apprezzava e spesso la premiava per questo. Quando oggi l'aveva vista piombare nel torpore di fronte a lui l'aveva richiamata prima con un mezzo sorriso tra l'ilarità generale. Poi nuovamente con voce un po' più forte, mentre tutta la classe attorno cominciava sbellicarsi e stava gradualmente uscendo dal controllo. Urlò una volta e non ottenne risposta, allora iniziò a preoccuparsi. Erano cominciati a volare stupidi commenti dalle spalle della ragazza e il professore si sentì preso in giro. Aveva urlato una seconda volta e questa volta con voce irata. L'aveva vista sussultare appena. Dentro di lui tirò un sospiro di sollievo, perché la sua risposta fisiologica indicava che non poteva essere nulla di grave, ma la cosa non fece che farlo infuriare ulteriormente. La classe aveva percepito che il professore si stava alterando e aveva cominciato a calmarsi, sebbene ci fosse ancora qualche coraggioso e azzardato commento che fu subito zittito dal suo sguardo. Ormai sapeva che una volta svegliata avrebbe dovuto punirla, gli dispiaceva, ma non aveva scelta. Sapeva che inevitabilmente questo suo atto avrebbe portato la ragazza alla sospensione, già la seconda dall'inizio dell'anno. Non avrebbe voluto essere lui la causa ultima e l'artefice di tale provvedimento, ma non poteva lasciar passare questa cosa... gli dispiaceva veramente.

Si aspettava una reazione della ragazza. Mentre scriveva la nota sul registro aveva sondato diverse possibilità, nessuna delle quali presentava una scena piacevole, ma questa reazione, così violenta e improvvisa usciva totalmente da ogni aspettativa. Sarebbe stato costretto a provvedere in maniera seria e condurre la ragazza direttamente dal preside...         

Ma Amal cominciò a piangere, non erano lacrime generate dalla punizione della sospensione e neanche per la sua rabbia improvvisa e incontrollata, che sapeva, avrebbe comportato conseguenze ancora peggiori. Era una tristezza disperata e tangibile. Visibile a chiunque tra i presenti.

«SEI MORTO!!! NON HAI CAPITO?? SEI MORTO!!», urlò Amal. Poi uscì dalla classe con falcate nervose, sbattendo rumorosamente la porta alle sue spalle. 

Il Professore rimase interdetto con gli occhi sbarrati, e tutta la classe assieme a lui. Nonostante il senso, quelle parole non suonavano assolutamente come una minaccia, c'era... dolore.  

Una mano si alzò timidamente. Era un'amica di Amal che cercava di dire qualcosa: «Prof. vuole che io...??».

Il Professore si portò una mano alla bocca, poi la tese in avanti e disse con calma simulata: «No... n-no tranquilla, vado io... voi vedete di stare calmi un attimo, per favore».

Quando il professore uscì dalla classe cercò di riassumere il suo solito atteggiamento tollerante e comprensivo. Era evidente che c'era stato qualcosa di grave, qualcosa che oltrepassava le semplici apparenze di una pura ribellione da parte di una studentessa.

Amal era rannicchiata su un angolo, con la schiena appoggiata sul muro esterno della classe. Singhiozzava e tirava su col naso.

La voce del professore si fece dolce e pacata rivolgendosi a quella che gli appariva una creaturina fragile e traumatizzata: «Amal... Io...  Cosa succede?».

Ci fu uno scatto inaspettato e Amal alzandosi si getto verso il professore abbracciandolo. Lui tenne le mani semi alzate in un atteggiamento difensivo, guardandosi intorno nel lungo corridoio. Alcuni alunni che stavano fuori dalle classi guardarono la scena parlottando tra loro coprendosi la bocca con la mano.

Il professore arrossì senza sapere come reagire e disse: «Amal... per favore, non puoi!!». Amal lo strinse ancora più forte, le lacrime e il trucco colato della ragazza gli bagnarono la camicia.

«è colpa mia!!! TI HO UCCISO... TI HO UCCISO MIGLIAIA DI VOLTE... ».

«... nei miei sogni...».

Il professore non seppe cosa rispondere, ma qualcosa dentro di lui si smosse.

Un'intuizione.

Emise un sospiro e la avvolse tra le braccia commosso.

 

 

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