Letters To A Stranger

di Alison92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1.“Caro sconosciuto…” ***
Capitolo 3: *** 2. Solitudine ***
Capitolo 4: *** 3. Il primo passo ***
Capitolo 5: *** 4. Felicità e ricordi ***
Capitolo 6: *** 5. Prossima fermata ***
Capitolo 7: *** 6. Note dal passato ***
Capitolo 8: *** 7. Cicatrici ***
Capitolo 9: *** 8. Ragioni ***
Capitolo 10: *** 9. La scrittrice ***
Capitolo 11: *** 10. Un’amante avversa alle stelle ***
Capitolo 12: *** 11. Le sorelle Ridway ***
Capitolo 13: *** 12. Occhi profondi e stelle ***
Capitolo 14: *** 13. Lacrime dal cielo ***
Capitolo 15: *** 14. Amore e amicizia ***
Capitolo 16: *** 15. Lezioni ***
Capitolo 17: *** 16. Morte ai ricordi ***
Capitolo 18: *** 17. Sangue e plastica ***
Capitolo 19: *** 18. Felix ***
Capitolo 20: *** 19. Stanton e Caldwel ***
Capitolo 21: *** 20. Avorio ***
Capitolo 22: *** 21. Consapevolezza ***
Capitolo 23: *** 22. Acciaio ***
Capitolo 24: *** 23. Sconosciute mete ***
Capitolo 25: *** 24. L'altalena ***
Capitolo 26: *** 25. Migliori amiche per sempre ***
Capitolo 27: *** 26. J12 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


25 settembre
Forse non dovrei scriverti questo adesso, avrei dovuto farlo parecchie settimane fa, quando gli eventi erano meglio impressi nella mia memoria, ma il tempo può solo avermi aiutata. O forse non avrei mai dovuto scrivere e basta, il silenzio è sempre l’opzione più rapida e indolore. Stavolta non potevo tacere, perché tu sei stato l’ennesima illusione. Sei scomparso tanto rapidamente quanto sei apparso. Così veloce che non mi sono neanche resa conto di cosa stava succedendo. Mi pento di aver dato così tanta importanza a qualcosa che non avrebbe mai dovuta averne. Credevi forse che fossi anche io una ragazza come tutte le altre? Forse era così, ci ho meditato quando le tue parole hanno cominciato a riaffiorare crudeli. Il primo sentimento che il mio cuore spezzato ha prodotto dopo il dolore e la sofferenza? L’odio. Parecchio scontato, non di certo per una tipa come me, una brava ragazza non dovrebbe odiare così tanto qualcuno. Invece odio quanto amo, hai scambiato il mio amore con mille bugie, hai solo reso ogni mio sforzo effimero e l’ardente rabbia non ha atteso molto per venire aggalla. Ti ho amato con la sincerità di una bambina, con il cuore devastato in preda alla gioia di essere infine capace di suturare le ferite. Se potessi tornare indietro non lo farei, quella notte sarei subito tornata a casa mia, non avrei passato con te anche un minuto in più del necessario, invece le cose non possono tornare indietro per nessuno. Avrei dovuto capirlo che il mio cuore non aveva mai battuto abbastanza, che tu non potevi solo che strapparmi un pezzo di me arrecandomi solo dolore. Era forzato, era difficile e credevo fosse sincero, invece erano menzogne anche quelle. Odiare non serve a molto, ti arde dentro la voglia di vendicarti, di spezzare il suo cuore come ha fatto con il tuo, senza troppi ripensamenti. Una parte di me avrà sempre voglia di farlo, ma l’odio serve solo a condannare anche la mia anima. Morale della storia: non è giusto che persone che disconoscono l’amore e il dolore spezzino in questo modo un cuore. Ma alcune ferite sono curabili e le tue lo sono. Perché non eri importante, la mia disperazione ti ha fatto apparire tale ai miei occhi.
 
Susan lesse e rilesse quella lettera, tormentandosi le mani. Afferrò il pezzo di carta, consapevole che i mesi passati con Henry non potevano riassumersi con solo quella pagina. Si diresse in bagno e fissò a lungo il suo riflesso allo specchio. C’era una traccia di sollievo nei suoi occhi castani, ma sentiva ancora il torpore avvolgerla. Estrasse dalla tasca dei vecchi jeans l’accendino d’oro che Vera le aveva regalato, sapendo che quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che l’avrebbe utilizzato. Rilesse per l’ultima volta la lettera, consapevole che nessun’altro l’avrebbe mai vista, neanche lui. Fece scattare l’accendino e avvicinò la fiamma alla carta. Le parole d’inchiostro si contorsero, la pagina fu avvolta dal fatale abbraccio del fuoco e il tempo che lei e Henry avevano passato insieme svanì, come se la loro relazione non fosse mai avvenuta. Susan rimase ad osservare la lettera bruciare, finché non ne rimase che la cenere. Ecco cos’era rimasto di loro due, ceneri e ricordi. Era tempo di lasciar andare la vecchia Susan, quella che nonostante i ventitré anni e tutta la vita davanti non riusciva a concludere nulla di buono. No, non sarebbe mai più stata la stessa. Indossò un abito giallo a fiori, le sue scarpe preferite e passò il mascara sulle sue ciglia ancora umide per le lacrime. Quando uscì, l’aria briosa di fine estate la investì e non sapeva che strada prendere. Poteva andare ovunque, sentiva che la città era sua. Si accorse che senza rendersene conto era giunta davanti alla sua vecchia e fatiscente scuola di musica. “Vattene, non è rimasto più nulla qui per te” si disse, cercando di dominare il suo istinto di voltarsi mentre camminava spedita lontano da quella che era stata la scuola di pianoforte migliore della città. A quel luogo erano legati troppi dei suoi ricordi più repressi, non voleva rivivere quegli anni. Susan quel giorno stava fuggendo lontano da sé stessa e da chi l’aveva ferita.
Il mare, il mare era il suo luogo sicuro, la sua terra proibita. Suo padre aveva l’abitudine di portarla in riva al mare ogni prima domenica del mese e Susan aveva continuato quella tradizione, anche quando suo padre era morto. Quel giorno le acque erano agitate e trasmisero un’insolita calma a Susan. “L’odio serve solo a condannare anche la mia anima”. Socchiuse gli occhi e sorrise, consapevole che poteva iniziare un nuovo capitolo nella sua monotona vita.
Susan restò sdraiata sulla spiaggia finché non vide la luna alta nel cielo. Si alzò levando la sabbia dal suo vestito e si diresse a casa. Quando tornò nella sua stanza, vide quell’unica foto di lei e Henry che era sopravvissuta alla sua iniziale furia. Aveva distrutto, gettato e dimenticato dell’esistenza di tutto ciò che di materiale quella relazione le aveva donato. Stava per strappare quell’ultima foto, poi decise di riporla in un cassetto, lontano dalla sua vista. Risparmiò quell’ultimo ricordo nella speranza che un giorno avrebbe potuto guardarla con il sorriso sulle labbra. Restò a contare le stelle dalla sua finestra aspettando il sonno, sicura che se avrebbe guardato alla volta celeste quella avrebbe fatto svanire tutto, l’avrebbe condotta in una nuova era felice. Susan si addormentò quando arrivò alla novantaduesima stella.
 

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Capitolo 2
*** 1.“Caro sconosciuto…” ***


Erano le quattro, ma Susan non aveva ancora intenzione di abbandonare il suo comodo giaciglio sul divano consumato. “Devo alzarmi?” continuava a chiedersi, accucciata a causa dell’improvviso freddo di quel giorno. Il buonsenso vinse, decise di uscire di casa. Fu costretta ad indossare un maglione, perché quella giornata d’ottobre prometteva di divenire più fredda. “Un ottimo libro, ecco cosa ti ci vuole “rifletté. Susan era sempre stata un’avida lettrice, ma era da un po' che non faceva scorta di volumi nella biblioteca della sua città. Sembrava che quell’anno l’inverno non avrebbe tardato a giungere e si strinse nella giacca blu finché non arrivò nei locali della biblioteca. Solo un chilometro separava casa sua dalla biblioteca, un tempo era solita percorrere tragitti molto più estesi e si meravigliò di quanto la pigrizia l’aveva colpita negli ultimi tempi.
L’atmosfera della biblioteca le fece dimenticare il freddo e la noia che l’avevano percossa. L’odore delle pagine ingiallite, dei volumi rilegati e dei libri freschi di stampa la fecero sentire a suoi agio, come se in un attimo fosse tornata a dieci anni prima, quando la tredicenne dalla zazzera castana passava i suoi pomeriggi lì dentro. Si riscosse, non avrebbe mai più avuto tredici anni, tutta l’innocenza del tempo e la voglia di scoprire cos’avrebbe riservato il giorno seguente. Afferrò due libri i cui titoli l’attraevano, poi altri due di cui aveva sentito parlare. In breve, si ritrovò con le braccia cariche di volumi e si diresse dalla bibliotecaria affinché questa potesse registrare i libri da lei scelti. Quel giorno la biblioteca era piena e dovette attendere qualche minuto prima che arrivasse il suo turno. La donna non poteva avere più di quarant’anni, aveva grandi occhi vispi e capelli rossi arruffati. Scribacchiò qualcosa su un registro e ticchettò nella tastiera del moderno computer. Non si facevamo mancare proprio nulla lì. 
-Cara, hai sentito del nuovo progetto che stiamo facendo proprio qui?
Susan scosse la testa, anche se aveva notato qualche foglietto che illustrava la nuova idea per attirare l’interesse dei cittadini. 
-Non hai mai sentito il bisogno di parlare con libertà con qualcuno, che magari possa comprendere le tue situazioni, con il quale vorresti sfogarti o soltanto scambiare qualche opinione? Per avallare l’imbarazzo o la timidezza, restare in incognito è l’ideale. Così abbiamo aperto una sezione dove chiunque decida di partecipare al progetto, può disporre di due piccole cassette della posta, una per depositare le lettere e l’altra per riceverle. “Lettere a uno sconosciuto” ti permetterà di mettere a nudo la tua anima senza che nessuno lo sappia.
La donna le fece l’occhiolino porgendole i libri. La salutò e Susan rimase un attimo a pensare a ciò che le aveva detto. Lettere? A uno sconosciuto? Sembrava divertente e d’ausilio al tempo stesso, avrebbe potuto far leggere a qualcuno le lettere che non avrebbe mai avuto il coraggio d’inviare. Susan ci rifletté con cautela, era davvero una buona idea? “Al diavolo, tanto cosa potrà mai essere?”. Si diresse al bancone dove alcuni si affollavano per parlare con un uomo dall’aria stanca.
-Sei qui per avere anche tu una casetta della posta?
Le chiese e Susan annuì, senza pensare molto a ciò che stava facendo. L’uomo controllò su un libro alcuni numeri e nomi, poi fece firmare Susan con uno pseudonimo. Se non depositava almeno una lettera nella sua cassetta al mese, avrebbero assegnato il suo contenitore per la posta a qualcun’altro. L’uomo le consegnò un foglietto con il numero della sua cassetta, la numero 92. Le fu indicata la parete dove si trovavano buste di carta, le “cassette della posta”. Susan non ne fu estasiata, credeva che potesse essere meglio di quello. Tornò a casa, con il numero stretto fra le dita congelate per il freddo. Non sapeva se avrebbe mai scritto anche una sola lettera da infilare in quelle fragili buste, ma l’idea le ronzava in testa. Aveva deciso che avrebbe depositato una lettera, solo se avesse avuto il desiderio di scriverne una. No, a Susan non importava molto. Si, era sola, ma cosa mai avrebbe potuto darle uno sconosciuto? Erano le due di notte, ma lei non dormiva e così non era riuscita a resistere, alla fine la tentazione di scrivere quella maledetta lettera era troppa.
 
10 Ottobre
Caro sconosciuto…dovrei chiamarti cosi? Credo che molte cose, per esempio il genere di cose che dovrei raccontare a te, debbano restare segrete, celate solo per noi stessi. Alla fine, la verità è che non sempre riusciamo a mantenere dei segreti, neanche con noi stessi, quindi eccomi qui, a raccontare a un perfetto sconosciuto ciò che penso e provo. Chi lo avrebbe mai detto? Sono sola, completamente sola. Ecco il primo mio grande tormento. Chi non si è sentito solo almeno una volta nella vita? Non so se tu hai vissuto la mia stessa situazione, o se la stai vivendo proprio adesso, ma senti di essere intrappolata in una gabbia, dove vedi mille volti passarti davanti, ma nessuno di loro prova pietà per il tuo dolore, o gioia per la tua felicità. Non ti vede nessuno, sei invisibile al mondo intero quando sei sola. Ecco, oltre a essere abbandonata a me stessa, non ho concluso nulla nella mia vita. Sono stata mollata, già proprio così, dopo mesi e mesi, quando credevo di conoscere la persona con cui stavo, quando avevo cominciato a credere che l’amore potesse essere la soluzione a tutto. Non era amore, adesso lo vedo con chiarezza. Non ho un lavoro, ho appena perso quello al bar sotto casa mia, il destino ha voluto che il proprietario decidesse di chiudere, dando il ben servito a tutti. Mi dirai: perché non trovi qualcos’altro allora? Che cosa, cosa potrei mai trovare? In verità ho solo paura, un timore radicato dentro di me, perché sono cosciente di non essere buona per niente. In conclusione, mio caro\a sconosciuto\a, la mia vita non ha nulla d’interessante, quindi se sei venuto qui alla ricerca di qualcosa che avrebbe esaltato, mi dispiace tanto per te. Puoi buttare la mia lettera, non importa poi così tanto che io abbia una risposta.
In conclusione: se tu sei qui a leggere questa lettera, di certo le nostre vite non sono un granché. Forse potremmo aiutarci a vicenda, forse no, infondo siamo solo due persone che non si conoscono, quanto mai potrebbe aiutare quest’anonimato?
È tempo di salutarti, spero che tu sia felice.
Unknown

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Capitolo 3
*** 2. Solitudine ***


Susan aveva la lettera stretta al petto, indecisa su cosa fare. Era andata in biblioteca quella mattina, con la scusa di riconsegnare due dei libri che aveva preso, ma la verità era che voleva consegnare quella lettera. “Stai indugiando troppo, potrebbe anche non risponderti nessuno” pensò mentre a passo svelto raggiungeva la struttura antica adibita a biblioteca. Non c’era l’affollamento del giorno precedente e Susan scrutò la poca gente che si trovava lì. Il suo sguardo si soffermò su un ragazzo girato di spalle, con una pesante giacca verde militare e capelli color del grano. Timorosa si avvicinò alla sua cassetta, depositando quella prima lettera. Sarebbe tornata dopo un paio di giorni, a controllare se qualcuno avesse deciso di risponderle, o solo di leggere la sua lettera. Quando si girò, a pochi passi da lei c’era il ragazzo biondo con la giacca verde. La stava fissando con un’insolita curiosità e per un attimo anche Susan si perse nel suo sguardo scuro, cercando di capire se avesse già incontrato quegli occhi familiari. No, non aveva mai visto quel ragazzo. Lasciò lo spazio dedicato alle cassette della posta e si diresse verso l’uscita. Si voltò e, con sua grande sorpresa, il ragazzo la stava ancora scrutando con cautela. Susan distolse lo sguardo e uscì dalla biblioteca, diretta a casa sua.
Si era ripromessa di non andare in biblioteca per almeno due giorni, ma l’indomani era già lì, sperando che qualcuno le avesse risposto. La sua lettera però era ancora lì, nessuno l’aveva portata con sé e letta. Susan tornò nella biblioteca il giorno dopo e il giorno dopo ancora, convinta che prima o poi qualcuno le avrebbe risposto. Per quattro giorni Susan ripensò allo sguardo confuso del ragazzo e alla sua lettera, ignorata e abbandonata a sé stessa. Il quinto giorno, quando aveva ormai imparato i nomi e i turni dei bibliotecari, la sua lettera era sparita. Il cuore di Susan ebbe un sussulto, qualcuno aveva preso le parole intrappolate nella carta, qualcuno avrebbe letto la sua disperazione e forse le avrebbe risposto. Forse. Magari avrebbe potuto prendere le lettere dalle cassette di qualcun altro, rispondere a loro nell’attesa. Si, era un ottimo modo per ingannare il tempo. La lettera della cassetta numero 26 era concisa, chi l’aveva scritta non aveva perso tempo con ricercati aggettivi, o a formulare complicati periodi. Susan aveva aspettato di tornare nel suo piccolo appartamento per leggere le poche parole che aveva scritto lo sconosciuto.
Mia sorella è morta. Sono a pezzi, non so come andare avanti. Quando chiudo gli occhi la vedo, vedo mia sorella e non so più distinguere l’irreale dal reale.
Susan non aveva idea di cosa rispondere a quella persona distrutta, quali parole confortanti avrebbe dovuto usare? Si sentì in colpa per aver scritto la sua lettera, forse il dolore per la sua solitudine non poteva eguagliare quello di chi aveva perso una persona cara. Sapeva cosa si provava, un pezzo di lei era stato portato via quando suo padre era morto. Sentiva il suo cuore battere come per consuetudine, se solo avesse potuto avrebbe terminato il rimbombo nel suo petto. Prese la carta e una penna, non sapeva cosa scrivere, ma credeva che le parole sarebbero fluite da sole appena la mano avrebbe impugnato la penna.
 
17 Ottobre
Sconosciuto\a,
non so che dolore stai affrontando, ma posso comprenderti e immaginare la tua pena in questo momento. Ho perso anche io qualcuno, anche io ho sentito la morsa dell’angoscia insediarsi nel mio cuore, rendere doloroso ogni mio singolo respiro. Volevo morire anche io, ma ho compreso che non era questo ciò che avrebbe voluto, voleva che io vivessi e fossi felice. Vivo, ma non penso che potrò mai sentire ancora quella felicità, non senza di lui, non senza quel pezzo del mio cuore che ha portato con sé. Non posso dirti di essere felice, posso solo rassicurarti che, nonostante io non abbia idea di chi sia stata tua sorella, lei avrebbe voluto che tu fossi serena.
Ti mando la mia comprensione e il mio amore,
una sconosciuta che ha perso qualcuno come te.  
 
Infilò quella lettera nella cassetta numero 26, sperando che chiunque l’avesse letta, avrebbe trovato anche solo un attimo di conforto. Magari, oltre che sperare di essere aiutata, avrebbe anche voluto aiutare qualcuno. Si ripromise di controllare quella cassetta, per sapere se avesse avuto una risposta.
Grazie all’iniziativa della biblioteca, Susan ricominciò a uscire, guardava anche le vetrine, alla ricerca di un negozio che poteva offrirle un lavoro. Se non fosse stato per i soldi di sua madre e quel poco che aveva ereditato dal padre, Susan non avrebbe potuto permettersi il suo appartamento economico ed essenziale. Poteva chiedere in giro, informarsi con qualche vecchia conoscenza, ma voleva trovare da sola un lavoro. Susan era stanca, non voleva più restare sul suo vecchio divano a ripensare al passato, senza nessuno scopo. Aveva vissuto solo per abitudine, mai sarebbe ricaduta in quella condizione. Tornò in biblioteca, ormai faceva parte della sua routine andare lì. Non sapeva cosa si stesse aspettando, lei stessa non sapeva perché continuava a sperare in una lettera di risposta.
Il 19 ottobre la trovò, trovò la sua risposta che tanto aveva atteso. Corse fuori dalla biblioteca, spedita verso casa, trepidante per quella lettera che in conclusione stringeva fra le dita pallide. Quasi strappò la carta quando fu nel suo appartamento.
 
18 Ottobre
Cara sconosciuta,
per puro caso mi sono imbattuto nella tua lettera. Per giorni non ho saputo cosa risponderti, potevo raccontarti di me, o solo chiederti di te. La solitudine, quale perfido mostro pronto a divorare chiunque gli capiti sotto tiro. Ebbene, anche io sono stato colpito da questa piaga e quando ho letto della tua simile situazione, ho sentito di aver trovato la persona giusta a cui scrivere. Sono stato io ad attirare su di me il mostro, ero io che ho cercato la solitudine. Ero distrutto, speravo che stare lontano da tutti e tutto avrebbe rimarginato le mie ferite. Come potrai immaginare, me ne pento. Al contrario di te, trovo interessante rivelare tutto a qualcuno che non conosco…o forse ci conosciamo? Forse non lo sapremo mai, qui possiamo scrivere tutto ciò che celiamo agli altri e magari anche a noi stessi. Potresti benissimo essere la mia vicina scorbutica che ha adottato almeno tre quarti dei gatti randagi del quartiere, oppure la stravagante adolescente che lavora insieme a me, non lo saprò mai.
Tornando a noi, la domanda è una sola: come uscire da questo guscio che ci siamo costruiti per isolarci dal mondo intero? Non possiedo la risposta, non ho idea di cosa fare. Posso solo darti un consiglio e darlo a me stesso in questo preciso istante: esci. Vaga per la città, incontra gente che non rivedrai mai più, scopri cos’ha la città da offriti. Ci proverò anche io, solo promettimi che farai un tentativo anche tu. Magari un giorno le cose cambieranno, dobbiamo avere speranza, no?
Attendo la tua risposta,
uno sconosciuto solo.   
 
Susan posò la lettera e fissò la finestra davanti a sé. Uscire, vagare, sperare. Si, ci avrebbe provato.         

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Capitolo 4
*** 3. Il primo passo ***


Erano passati due giorni, forse tre, da quando Susan aveva ricevuto quella prima lettera di risposta. Aveva seguito il consiglio di quello sconosciuto, aveva preso la sua giacca migliore e le scarpe che preferiva ed era uscita. Era rimasta a girare senza meta per tre ore nella sua cittadina. Si era accorta che, mentre lei passava le giornate senza nessun’apparente scopo, la crescente popolazione della città si era tenuta impegnata nell’inaugurazione di nuovi negozi, in eventi di ogni tipo e manifestazioni che lei si era persa. Entrò in uno dei locali preferiti di sua madre, quando ancora abitava in quella città e ordinò qualcosa da mangiare. A causa delle sue ristrettezze economiche, raramente poteva concedersi di pranzare fuori casa. Per quel giorno però avrebbe fatto un’eccezione. Aveva intenzione di cercare un lavoro, era l’unica cosa che in quel momento le importava. Susan si concentrò sul suo piatto e sorrise, al ricordo della sua famiglia felice.
Non sapeva ancora cosa rispondere, non aveva idea di cosa potesse mai dire allo sconosciuto che si era preso la briga di scriverle qualcosa. Forse era meglio aspettare, vedere se il suo consiglio poteva aiutata, se poteva aiutare entrambi. Purtroppo, uscire non la portò a familiarizzare con qualcuno, neanche a conoscere gente nuova, però le fu utile quando si accorse di un piccolo ristorante a solo un isolato da casa sua che cercava personale. Appena lesse il cartello, si fiondò all’interno del locale. Era semplice e senza pretese, ma era pulito e ordinato. Susan scorse un uomo robusto dietro la cassa infondo alla sala e andò verso di lui.
-Mi scusi, ho letto che cercate personale…
L’uomo la interruppe con movimento della mano e mostrò un flebile sorriso.
-Seguimi nel mio studio
Il locale era vuoto a quell’ora del giorno e oltre a quell’uomo, sembrava non esserci nessuno. Susan seguì il signore in una stanza di piccole dimensioni dietro il bancone. Lo “studio” dell’uomo era semplicissimo, c’era un mobiletto che conteneva documenti e carte varie, una scrivania in legno e una sedia rustica, sulla quale l’uomo si accomodò.
-Il nostro ultimo cameriere si è licenziato tre giorni fa e siamo disperati. Io e mia sorella dirigiamo questo piccolo locale e fino al momento i nostri affari sono sempre andati bene, solo che negli ultimi tempi siamo accorto di personale. Disponiamo solo di tre cuochi e per me e mia sorella è impossibile occuparsi della cassa e della sala assieme.
Susan si soffermò sui capelli radi e bianchi dell’uomo e sull’aria stanca che aveva dipinta sul volto tondo.
-Non assumo mai qualcuno così prontamente, ma se puoi renderti disponibile da stasera, avrò fiducia in te.
Un’ora dopo Susan era a casa sua, intenta a prepararsi per la sua prima serata di lavoro. La retribuzione non era eccellente, ma considerando che aveva avuto un contratto in così poco tempo, non le importò. Avrebbe potuto mettere qualcosa da parte, poteva ricostruire un frammento alla volta la sua vita. Non le importava quanto tempo le ci sarebbe voluto, Susan avrebbe ripreso in mano la sua esistenza.
La proprietaria del ristorante, la signora Waterson, le aveva consegnato un semplice gilè rosso da mettere sopra una camicia bianca.
-Ti troverai bene qui, io e mio fratello Thomas abbiamo sempre lavorato in modo splendido con tutti e poi tu sembri una ragazza tanto gentile.
Susan sorrise al complimento della donna che le stava aggiustando il colletto bianco della camicia. Rachel Waterson aveva lavorato da quattro anni con il fratello in quel piccolo ristorante e, nonostante non fosse uno dei più conosciuti della città, era soddisfatta dell’impegno che aveva messo in quel posto. Rachel aveva capelli biondi raccolti, 45 anni, occhi profondi castani e, come le aveva detto lei stessa, forse troppi figli a cui badare. Fin da quando aveva visto i tratti dolci di Rachel, Susan aveva provato un moto di simpatia per quella donna. Al contrario del fratello, la signora Waterson era alta e smilza. Susan era subito stata messa a lavorare in sala, poche erano state le spiegazioni dei due proprietari. Il suo compito era prendere le ordinazioni e portare le pietanze ai tavoli. Il signor Waterson le promise che l’indomani l’avrebbero istruita meglio sul menù e su come comportarsi con i clienti del locale, ma per quella sera il tempo era limitato. Pur essendo la prima volta che lavorava in un ristorante e nonostante le poche informazioni che le erano state fornite, Susan riuscì a destreggiarsi bene fra i tavoli della sala e la stretta cucina dove tre cuochi erano indaffarati con i piatti.
-Signorina Winter, sono soddisfatto del suo servizio questa sera.
Iniziò Thomas quando i clienti erano ormai andati via e la notte era calata sulla città.
-Domani mattina l’aspettiamo alle 11, cerchi di essere puntuale.
Susan non poteva essere più lieta di come si era svolta quella giornata. Tutto era successo in fretta, ma aveva trovato un’occupazione e questo le bastava. A dispetto della stanchezza e del suo comodo letto che la reclamava, Susan si sedette sulla scrivania e cominciò a scrivere, sapendo che la prima cosa che avrebbe fatto l’indomani sarebbe stata mettere la lettera nella sua cassetta.
 
21 Ottobre
Caro sconosciuto,
a te vanno i miei più sinceri ringraziamenti, perché il tuo suggerimento mi è stato più che utile. Ho trovato un lavoro che potrebbe condurmi sulla buona strada per ripartire, anzi, sento già di aver imboccato la via giusta. Forse anche tu hai trovato qualcosa che ha migliorato le tue giornate, anche se entrambi siamo lontani dall’abbattere il “mostro”. L’importante è iniziare, no? Ho posto la prima pietra oggi, domani potrei porre la seconda e spero che tu possa fare lo stesso.
Pretendo negli aggiornamenti da parte tua,
Unknown.  

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Capitolo 5
*** 4. Felicità e ricordi ***


Susan aveva spedito la lettera, ma non era l’unica cosa che doveva fare in biblioteca. Controllò la cassetta numero 26. La cassetta non era vuota e Susan afferrò in fretta quella lettera. Si stava già facendo tardi, avrebbe dovuto recarsi al ristorante a breve. Lesse la lettera per strada, mentre si dirigeva al suo nuovo lavoro.
 
Senza troppi giri di parole, devo ammettere che ero scettica su questa storia degli sconosciuti, ma la tua lettera mi ha dato forza. Grazie, è di conforto per me sapere che non sono sola, che qualcuno condivide un dolore simile al mio.
Se ti va, potresti parlarmi di chi hai perso e io potrei parlarti di mia sorella. Ecco, ho già le lacrime agli occhi solo a pensare a lei. Si può essere tanto infelici come me?
S. 
 
Susan era restia a parlare di suo padre con qualcuno. Non aveva mai affrontato sul serio l’argomento neanche con la madre, era troppo doloroso per lei. Susan lo riconosceva, era il suo più grande problema non riuscire a confidarsi con nessuno. Le avrebbe risposto, avrebbe parlato della sua perdita e le avrebbe chiesto di raccontarle della sua, se non avesse potuto condividere il ricordo del padre con nessun conoscente, avrebbe potuto farlo con un estraneo. Era tempo di andare a lavorare, avrebbe pensato più tardi alle lettere. Susan scorse l’insegna del piccolo ristorante, l’EndLand, e fiduciosa per quel nuovo capitolo, entrò nel locale. Rachel e Thomas Waterson la stavano aspettando.
Qualche ora e parecchie spiegazioni dopo, Susan tornava a casa sua, con il volto sorridente. Infilò in una borsa tutto quello che le sarebbe stato necessario per il servizio serale al ristorante, carta e penna. Quella giornata era mite e passarla in casa sarebbe stato uno spreco. Perché non sfruttare la grande città? Entrò in un bar, uno di quei luoghi dove l’atmosfera accogliente e calda ti fanno desiderare di restare lì per ore. Si accomodò a uno dei tavoli e ordinò del tè, poi tirò fuori la carta e la penna. Restò a fissare il foglio bianco per un po’, non aveva idea di cosa scrivere, da dove iniziare. Dal principio, da dove aveva cominciato parecchie volte il racconto nella sua testa.
 
22 Ottobre
Beh, cara sconosciuta, io non ho mai raccontato a nessuno della morte di mio padre. Ne ho il terrore, perché so che scoppierò a piangere alle prime parole, so che non riuscirò a cogliere la storia o l’emozioni che ho provato. Sarò breve e concisa: lui era mio amico. Non era solo uno di quei genitori intransigenti che ti vedono solo come un trofeo da esibire, potevo confidarmi con lui, mi comprendeva e mi ascoltava. Adesso sono rimasta sola, mia madre vive in un’altra città, lontana da me e indaffarata con la sua carriera promettente, invece io sono rimasta qui, sola.
Mio padre è morto in un incidente stradale, un anno fa.  
Unknown.  
  
Susan non pianse, non una sola lacrima scese sulle sue guance pallide. Quando finì di bere il suo tè si alzo, con la lettera ancora in mano, senza una direzione. Dato che era riuscita a richiamare il ricordo del padre senza che il dolore l’annientasse, poteva tornare davanti alla sua vecchia scuola di musica, forse anche quei ricordi annebbiati non avrebbero lacerato la sua anima. No, il passato era passato, i fantasmi del suo remoto non potevano più toccarla, lui non poteva più raggiungerla. Scacciò quei pensieri dalla sua testa, non era di certo il momento di perdersi nel suo passato.
Invece di rincorrere i ricordi, Susan andò in stazione. Di certo non era il luogo migliore dove passare del tempo, ma era l’unico dove sarebbe stata al riparo da tutti e tutto. Restò lì, a vedere i treni che sfrecciavano veloci e persone, ignoti dai mille volti, che le passavano davanti. “Infondo non è così male” pensò. Sembrava aver riacquistato la serenità, ma il suo tempo era limitato e quando guardò il suo orologio, si accorse di dover andare al ristorante. Susan lasciò la stazione, ripromettendosi di tornare appena finito di lavorare.
-Sei pronta ragazza?
Susan rispose con un cenno al signor Waterson, mentre legava i suoi capelli castani in una coda.
-Allora prendi le ordinazioni al tavolo 12, ho già portato loro i menù.
Susan sorrise al suo capo e scomparve dietro la porta. I clienti del tavolo 12 erano quattro amici, avevano forse la sua età.
-Buonasera, siete pronti per ordinare?

Era da poco passata la mezzanotte e Susan era appena uscita dall’EndLand. Quella serata era stata meglio della precedente, la signora Rachel le aveva rivolto uno smagliante sorriso alla fine del servizio. Era ormai troppo tardi per infilare la lettera nella cassetta numero 26, la biblioteca chiudeva alle otto di sera e lei non aveva avuto il tempo di passare lì prima di andare a lavorare. Tornò invece alla stazione, non era stanca e restare nel suo letto freddo a contare le stelle non le appariva una buona idea. La stazione era vuota, solo qualche treno con limitati passeggeri passava. Il silenzio di quel luogo e il vento che scompigliava i capelli scuri, trasmisero un’improvvisa serenità a Susan. Era appena diventato il suo nuovo luogo sicuro, il mare conservava ancora il suono della voce di suo padre, lì sentiva solo il suono dell’aria fresca che le alitava sul viso. Susan sorrise, era sola e serena per la prima volta dopo settimane. Sola. Non era sola.
Notò il ragazzo seduto su una panchina a un metro dalla sua dopo del tempo. Quando era arrivato? Susan non si era accorta della sua presenza fino a quando non aveva voltato la testa e aveva incontrato lo sguardo di quel ragazzo solitario come lei. Perché lo sconosciuto la fissava? Susan rimase a guardarlo per qualche secondo, senza capire cosa trovasse di così interessante in lei. I due rimasero a scrutarsi per qualche istante, quando Susan capì che non era la prima volta che incontrava lo sguardo di quel ragazzo. Lo aveva già visto in biblioteca, era il ragazzo biondo con la pesante giacca verde. Che si conoscessero e lei non lo ricordava? No, impossibile, non dimenticava così qualcuno. Mentre Susan vagava nei suoi ricordi alla ricerca di un nome da associare a quel ragazzo, lui si alzò, diretto verso di lei.
Susan rimase immobile, non aveva idea di cosa fare. Mai si era trovata in una simile situazione. Il ragazzo biondo non era di molto più alto di lei, i suoi occhi scuri penetranti continuavano a fissarla e Susan si convinse di non averlo mai conosciuto. Il ragazzo si sedette accanto a lei e le rivolse un radioso sorriso.
-Buongiorno.
“Buongiorno? Ma se è quasi l’una di notte”. Susan rimase interdetta davanti a quell’estraneo.
-Ciao.
Disse e distolse lo sguardo dal suo.
-Scusa, so che ti appaio strano, ma mi ricordi tanto qualcuno. Ci conosciamo?
Susan voltò di scatto la testa e osservò ancora i tratti di quel ragazzo, la barba rada sulla mascella e le guance rosate. No, non si conoscevano.
-Mi dispiace, non credo.
-Oh, devo averti scambiata per qualcun’altra. Ti avevo già vista in biblioteca, ma non ho avuto il coraggio di chiederti nulla perché non avevi dato segno di riconoscermi. Colpa mia.
Susan accennò a un sorriso, forse in un lontano passato si erano incontrati e lei non lo rammentava.
-Piacere, mi chiamo Felix Harvey.
Il ragazzo le porse la mano e, dopo un attimo di titubanza, Susan l’afferrò.
-Susan Winter, piacere mio.
 

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Capitolo 6
*** 5. Prossima fermata ***


Susan aveva chiacchierato con Felix per un quarto d’ora, poi entrambi erano tornati a casa. Quel ragazzo tanto stravagante si era rivelato cordiale  e simpatico. Le aveva detto che alla fine lui non aveva preso una cassetta, era solo rimasto incuriosito dall’iniziativa. Felix le aveva detto che amava la città, non si era mai spostato da lì. Lavorava in un pub e Susan si sorprese di conoscere quel locale, era andata a prendere qualcosa lì una volta o due. Forse era stato con Vera, la sua amica d’infanzia, forse Felix l’aveva vista lì e lei non conservava nessun ricordo. Improbabile, si disse, davvero inverosimile.
Quel ragazzo l’aveva messa di buon’umore e non ci mise molto quella notte per cadere in un sonno profondo. Non le aveva lasciato nessun mezzo per contattarlo, le aveva solo detto che di sicuro si sarebbero incontrati ancora, in stazione. Anche lui era solito restare lì, per qualche ora senza nulla da fare. Susan non vedeva già l’ora di tornare lì, di rivedere quel ragazzo biondo.
Andare in biblioteca era oramai diventata parte della sua vita, se non andava in biblioteca quel giorno era sprecato. Mise la lettera per la ragazza che aveva perso la sorella e controllò la sua cassetta. Trovò quello che sperava, una lettera nella sua busta per ricevere. Che fosse la stessa persona che aveva preso la sua prima lettera. Fece un respiro profondo prima di aprire la carta accuratamente ripiegata.
23 Ottobre
Cara sconosciuta,
sono lieto che tu abbia trovato un lavoro! Incredibile, per una volta sono stato utile, mi ricorderò questo giorno per anni! Tornando a noi, anche io ho trovato qualcosa che sta lentamente migliorando le mie giornate. Un lavoro? No, quello lo avevo già. Non so come andrà a finire, posso solo dirti che ho finalmente trovato il coraggio di non mostrarmi più debole davanti al mio peggior nemico. Abbiamo fatto entrambi il primo passo, riuscire anche con il secondo sarà egualmente facile? Infondo, cosa c’è di facile nelle nostre vite? Sconosciuta, siamo in questo insieme.
Voglio che tu mi racconti di questo tuo nuovo lavoro, sono piuttosto curioso.
Uno sconosciuto meno solo.
Si, era il tempo di fare il secondo passo. Susan per la prima volta osservò attentamente il suo riflesso allo specchio. Si soffermò sui capelli bruni e lunghi, ancora umidi dato che li aveva da poco lavati. I suoi occhi nocciola non erano come al solito circondati da scure occhiaie, la sua espressione meno dura e malinconica. Susan riassaporava la voglia di vivere, di andare avanti.
Quel giorno il piccolo EndLand era ricolmo e Susan dovette destreggiarsi fra i tavoli con vassoi carichi e le braccia occupate. I tre cuochi sfornavano i loro piatti freschi dalle calde cucine e lei doveva servire in fretta e con amabilità le ordinazione. Non era complesso, solo stancante.
-Signorina Winter, crede di potercela fare da sola? Non le occorre un aiutante?
Le chiese alla fine di quella serata Rachel Waterson. Susan era visibilmente sfinita, era sabato sera e non c’era un solo tavolo vuoto. Lei sorrise, consapevole che poteva riuscirci.
-No, non occorre. Magari nel fine settimana devo solo riposare di più per la sera, ma va bene.
Rachel le rivolse un sorriso, quella donna aveva lo stesso sguardo materno che era solita a intravedere in sua madre, quando era piccola.
-Allora per oggi è tutto, vai a casa e riposati, cara.
Susan non aveva però intenzione di andare a casa. La stazione era la sua prossima fermata. E se avesse rivisto Felix? Con i capelli arruffati e i suoi vecchi jeans, di sicuro non era il caso di farsi vedere da quel ragazzo tanto solare e affascinante. “Al diavolo, non m’importa” si disse mentre percorreva la strada che la separava dalla stazione. Le strade deserte le trasmettevano timore, chissà quanti ignoti potevano esserci in agguato, in attesa di una preda da artigliare. Susan aveva sempre creduto che fosse sbagliato vivere con quella costante paura, voleva sentirsi libera di camminare per le strade sgombre dal clamore mattutino.
Tentò di aggiustare i suoi capelli mossi, che alla fine legò in una treccia. Si sedette sulla stessa panchina della sera precedente, aveva portato con sé anche qualcosa per scrivere la lettera allo sconosciuto. Scribacchiò qualcosa, speranzosa d’incontrare il ragazzo biondo un’altra volta.
24 Ottobre    
Caro sconosciuto,
lavoro in un ristorante! Non ti dirò quale per ovvi motivi, siamo pur sempre estranei. Io non idea di chi tu sia, ne tu sai chi sono io. Non posso di certo spiattellarti tutto della mia vita privata. Aspetta, ho una vita privata? Da oggi si, sono tornata a uscire, a vedere gente, anche se ancora sono disgraziatamente sola. Come hai detto tu stesso, è pur sempre un passo avanti. Che altro dirti, ho anche trovato un nuovo luogo dove rifugiarmi. Non è dei migliori, scommetto che drogati e criminali si aggirano qui, ma a me va bene così. In compenso posso dirti...
-Cosa scrivi?
Susan fu colta di sorpresa. Non si era per niente accorta di Felix, che curioso si era avvicinato a lei e adesso tentava di leggere ciò che Susan aveva scritto. Nascose in fretta la lettera, non aveva intenzione che lui la vedesse.
-Nulla, a volte scrivere aiuta.
-Aiuta?
Chiese sedendosi accanto a lei. Indossava una giacca blu e dei pantaloni scuri logori e Susan non si sentì più a disagio per i suoi abiti malmessi.
-Aiuta liberarsi dei pensieri.
Felix le sorrise, forse non capendo cosa intendeva.
-Mi stai dicendo che scrivendo tutto ciò che mi affligge, mi sentirò leggero come una piuma?
-Non so, per ognuno è diverso, scrivere mi fa sentire pulita, come se riuscissi a liberarmi da tutto ciò che affolla la mia testa.
Il ragazzo annuì e fissò lo sguardo sulla vecchia borsa di Susan, dove lei aveva prontamente conservato la sua lettera.
-Quindi hai parecchi pensieri in testa al momento?
Non sapeva che rispondere. Come lo sconosciuto a cui qualche attimo prima stava scrivendo, anche Felix le era estraneo.
-Chi non ne ha?
Felix rise e le sue ciocche bionde gli ricaddero sulla fronte.
-Devo provarci anche io, magari mi servirà.
-Te lo consiglio.   
Restarono in silenzio per qualche minuto, seduti l’uno accanto all’altra e fissando i binari davanti a loro.
-Io ne ho parecchi di pensieri in testa.
Susan volse lentamente la testa per guardarlo.
-Forse dovrei scrivere anche io.
Disse ridendo. Susan accennò ad un sorriso, quel ragazzo aveva un’aria talmente spaesata e beata.
- Qui i pensieri sembrano acquietarsi però, non lo credi anche tu?
Felix incontrò il suo sguardo e annuì.
-Per questo vengo qui, qui non sono nessuno.
Continuarono a parlare fino a quando l’orologio di Susan non segnò le due ed entrambi tornarono nelle loro case. Susan era ammaliata da quel ragazzo, inoltre in poco tempo aveva trovato un’occupazione, qualcuno a cui raccontare di se stessa e un amico. Finì la lettera per lo sconosciuto, prima di andare a dormire.     

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Capitolo 7
*** 6. Note dal passato ***


Susan aveva sempre odiato l’inverno. Odiava il freddo, il gelo che s’insediava dentro di lei provocandole atroci mal di testa. Tuttavia, quell’anno il clima sembrava insolitamente mite. Non tirò subito fuori le sue mille sciarpe e le poche giacche logore che aveva. Magari, con i soldi guadagnati al ristorante, avrebbe finalmente potuto acquistare una giacca nuova. Magari. No, quei soldi andavano messi da parte e risparmiati per il futuro. Susan ci pensò per la prima volta, al futuro. Vedeva davanti a sé delle possibilità, un giorno avrebbe voluto scoprire se poteva concludere qualcosa di buono da quelle.
Aveva “spedito” la sua lettera e adesso trepidante ne aspettava la risposta. Riguardo alla ragazza, non aveva trovato nulla dentro la sua busta per ricevere, quindi non si era data troppi pensieri riguardo a lei.
Susan decise di passare la mattinata seguendo il primo consiglio ricevuto dallo sconosciuto. Poteva essere cambiata tanto la sua città in qualche mese? Il mondo non l’aveva di certo aspettata, toccava a lei stare al passo con la crescente comunità. Poco male, almeno avrebbe potuto esplorare posti diversi, vedere volti nuovi.
La sua voglia di esplorare ancora la città non fu esaudita, si ritrovò davanti alla sua vecchia scuola di musica. Osservò il palazzo annoso, la porta principale sbarrata e le finestre ermeticamente chiuse. Nella sua testa però, quel luogo era accogliente e ospitale, la grande porta in legno era levigata, si potevano vedere le tendine celesti alle finestre e i vetri sui quali non un solo granello di polvere era presente. Il tempo aveva ridotto male la sua scuola. Percorse i pochi passi che la separavano dall’entrata. Nonostante le assi di legno che bloccavano la porta, c’era uno spiraglio abbastanza spazioso affinché lei potesse passare. Se solo si fosse infilata…
“No Susan, tu avevi lasciato andare questo capitolo. Vai via”. La sua mente le sussurrava di voltarsi e lasciar perdere, ma allo stesso tempo la pregava di entrare nell’edificio abbandonato alla corrosione degli anni. La sua volontà di entrare ebbe la meglio, si assicurò che nessuno la stesse guardando, poi s’intrufolò nella villa, sgusciando fra le assi che erano state palesemente forzate. Ebbe un sussulto quando scorse quel luogo nel quale non entrava da oltre dieci anni. Ragnatele e polvere avevano stabilito lì il loro dominio, poca luce fioca proveniva dalle fessure delle finestre.  
-Mio Dio.
I mobili erano stati tutti pressoché portati via, restava solo il tendaggio pesante, qualche tappeto polveroso e il mobilio più economico. L’entrata della casa era uno spazioso corridoio, che conduceva nelle varie aule e nello studio del maestro. Il maestro, che aveva seguito Susan nel corso dei suoi 3 anni di pianoforte, era una delle migliori pianiste della città, forse la più competente.     
Giselle Choran era la sua insegnante, l’aveva guidata in quegli anni, le aveva fatto amare quel portentoso strumento e le aveva donato un sogno: diventare una musicista. Inutile dire che tutto finì quando Susan lasciò la scuola di musica. Giselle era morta due anni dopo, a causa di un infarto che aveva stroncato la sua vita dedita alla musica. La scuola era stata chiusa subito dopo, le figlie non si sentivano di continuare il laborioso lavoro della madre e dei maestri che insegnavano con lei in quell’edificio.
Se l’abbandono aveva annientato la scuola, i suoi ricordi ne conservavano gelosamente il ricordo. L’odore degli spartiti e della cannella aleggiava nell’edificio, spesso la maestra offriva ai suoi allievi delle caramelle ai frutti di bosco e per Susan ricevere uno di quei confetti rossi, era sempre un motivo di gioia. Ora era tutto cessato, l’anima di quel luogo era viva solo nei suoi reconditi ricordi. Se richiamava attentamente quegli anni, poteva addirittura sentire le melodie vagare fra le pareti.
Quelle note che la allietavano tanto, poteva ricordarle tutte, poteva udire un pianoforte suonare…ma era troppo reale per essere custodito nella sua testa. Una melodia giungeva da una delle aule, Susan riconobbe subito “Al Chiaro Di Luna” di Beethoven. Per un attimo ebbe timore, chi poteva suonare in un luogo abbandonato? Tentennante si lasciò guidare dal suono, che la condusse in una stanza la cui porta era semiaperta e lasciava intravedere una ragazza seduta al pianoforte, con le abili dita che pigiavano sui tasti. La ragazza si accorse subito del rumore dei passi di Susan e spezzò la magia rievocatrice che si era creata in quel luogo smettendo di suonare. Quando si voltò, Susan riconobbe subito quella ragazza. Aveva i capelli neri che le ricadevano in morbidi boccoli sulle spalle, gli occhi castani lucidi e il volto leggermente abbronzato.
Angelica Choran Mason era talmente simile alla madre, che per un’istante Susan credette di fissare un fantasma.
-Io…mi dispiace avevo visto le assi allentante e volevo solo…
Angie le sorrise per farle capire che non era infastidita dalla sua presenza.
-Mi ricordo di te, sei Susan Winter, vero? Eri un’allieva di mia madre.
Susan annuì e Angie si alzò dal pianoforte, mettendosi difronte a lei.
-Questo posto per me conserva talmente tanti ricordi, è stato difficile resistere alla tentazione di non dare un’occhiata.
Angie rise e portò una ciocca scura dietro l’orecchio. Poggiò le mani sui fianchi e osservò il posto, rendendosi conto di quanto era stato stravolto.
-Sono venuta qui per rilevare l’abbandono della scuola. Io e mia sorella pensavamo di metterlo a nuovo, forse di venderlo se serviranno troppi soldi, non lo sappiamo ancora. Mi pento di aver lasciato tutto così, mia madre non sarebbe stata felice di vedere che abbiamo abbandonato i suoi progetti.
“Erano i suoi, non i vostri” pensò Susan, ma non osò ricordare ad Angie che lei e sua sorella non avrebbero potuto eguagliare la madre.
-È un vero peccato, questo posto era incantevole.
Disse Susan scrutando l’alto soffitto. Era in qualche modo ancora incantevole.
-Già, tutta colpa nostra. Non commetterei lo stesso errore, sapendo che fine avrebbe fatto la scuola. Io e Sally pensavamo che senza la mamma non sarebbe più stato lo stesso, noi non potevamo ignorare che con lei questo luogo brillava di un’altra luce.
Susan era d’accordo, non sarebbe mai stato lo stesso.
-Mi fa veramente piacere che tu sia ancora legata alla scuola, mia madre sarebbe stata contenta di vedere dopo tutti questi anni un’allieva ancora devota.
-Sono stati gli anni migliori della mia vita.
Era vero, i suoi più lieti ricordi erano custoditi in quegli anni. La sua innocenza, l’infanzia che l’abbandonava lentamente, la sua rapida crescita.
-Sono stati anche i miei. Avrò avuto diciotto anni, no? Caspita, il tempo passa anche per noi Susan!
Susan sorrise, rendendosi conto di quanto quell’affermazione fosse vera. Lei e Angie vagarono per un po’ fra quelle aule deserte, finché Angie non dovette andare a causa di un impegno di lavoro.
-Vieni qui quando vuoi Susan, gli allievi di mia madre sono sempre i benvenuti.
Senza di lei, Susan risentì tutti i fantasmi di quel luogo. Giselle vagava libera fra quelle stanze, sembrava vivida nel presente. Susan si strofinò il viso con le mani, era tutto irreale. Quando uscì da quel luogo, un flashback improvviso la condusse alla parte migliore di quegli anni, o forse la peggiore, Susan non poteva dirlo. Fuori dalla scuola di musica, lui era lì. Si era accorta della sua presenza in una giornata piovosa, ma sembrava che lui l’avesse già squadrata più volte. Era come un piccolo fantasma, c’era e non c’era. Per Susan, lui era ovunque. Troppi, troppi anni erano passati e la sua figura era talmente confusa, i colori scemati. Eppure, quando uscì dalla scuola di musica, le sembrò di rivederlo lì, con i suoi tredici anni, l’altezza media e una zazzera di capelli chiari.
Susan era ferma sulla soglia della strada, in attesa che i suoi genitori la venissero a prendere alla fine della lezione. Pioveva, ma a Susan la pioggia piaceva. Alzò il viso al cielo, per assaporare le lacrime che le ricadevano sul viso pallido.
-Buongiorno, chi sei?
Susan volse la testa e incontrò lo sguardo nocciola di quel ragazzino che aveva adocchiato mentre usciva.
-Tu chi sei?
Il ragazzino fece un cenno vago con la testa e poi le sorrise.
-Leonard, ma voglio essere chiamato Leo.
-Leo non mi piace, sembra il nome di un cane.
Il ragazzino la guardò imbronciato, mentre Susan ridacchiava per la sua buffa espressione.    
-Io sono Susan.
Leo le porse la mano e lei gliela strinse, osservando il suo smagliante sorriso.
-Vai alla scuola di musica? Io vorrei tanto poterci andare.
-Perché non la frequenti allora?
-Perché non posso.
Leo aveva dodici anni, il suo sguardo era fiero e malinconico al tempo stesso. Era rimasto orfano da poco e tutto ciò che lo allietava era ascoltare le melodie degli strumenti. Era il suo luogo preferito, ci passava giornate intere e Susan si meravigliò di non averlo mai visto prima.
-Vieni qui per ascoltare la musica?
Ripeté meravigliata.
-Si, se solo mia nonna me lo permettesse, rimarrei qui tutto il giorno.
Susan era solo una decenne, aveva i capelli mossi sempre disordinati e spesso portava un libro stretto al petto, in caso non avesse nulla da fare e la noia prendesse il sopravvento. Dopo quel primo incontro con Leo, ogni volta che andava alla scuola di musica sperava di vederlo, di poter parlare con lui. Susan credeva di essersi invaghita di quel ragazzino divertente, cominciava a crescere e a chiedersi cosa fosse l’amore.
Parlò con Leo fuori dalla sua scuola di musica per oltre due anni, poi Leo non venne più. Passarono tre giorni, poi due settimane, qualche mese e infine un anno. Leo non sarebbe più venuto e Susan non comprendeva il motivo. Solo sentendone la mancanza, Susan comprese di tenere a lui. Anni dopo, lei non aveva ancora dimenticato Leo. Si era scoperta ad amarlo, a comprendere che le loro anime erano talmente affini, da non poter provare quella stessa sintonia con nessun’altra persona. Ricordava ancora l’ultima volta che lo aveva visto e si era disperata cercando il suo volto fra quello dei passanti, d’incontrare nuovamente i suoi occhi. Susan non lo rivide più, ma Leo era impresso nella sua mentre e mai avrebbe lasciato il suo cuore. Era stato il suo primo amore, forse anche l’ultimo. Quel ricordo le faceva male. Aveva dimenticato il suono della sua voce, i suoi tratti, aveva persino cominciato a dubitare della sua esistenza. Era talmente perfetto, che Susan pensò fosse stata la sua testa a creare Leo.
“Smettila, era solo un bambino, tu eri solo una bambina”. Susan corse via, al riparo nella sua fredda e solitaria casa.    

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Capitolo 8
*** 7. Cicatrici ***


Felix non si fece vedere in stazione quella notte, Susan lo aspettò oltre l’una dopo aver finito di lavorare, nonostante sentisse addosso la stanchezza per quella domenica. La mattina seguente svegliarsi fu difficile, doveva recarsi al ristorante per discutere con Rachel e Thomas che avevano intenzione di apportare modifiche al menù, poi avrebbe dovuto comprare qualcosa da mangiare per il pranzo, infine si sarebbe recata in biblioteca prima d’iniziare il suo turno a lavoro. Sarebbe stata una giornata impegnativa, ma era soddisfatta di aver da fare qualcosa.
Era appena uscita dal ristorante e si diresse al primo supermercato che le capitò a tiro. Doveva rifornire la sua misera dispensa, era ormai accorto di pane e non aveva neanche nulla con cui pranzare. Era ancora indecisa davanti al banco dei surgelati, quando sentì il suo cellullare squillare. Si affrettò a cercare fra le tasche della sua giacca, finché non trovò il dispositivo. Riconobbe subito il numero che qualche settimana prima aveva immediatamente cancellato dalla sua rubrica. Esitò prima di rispondere alla chiamata.
-Pronto?
-Susan? Sono io, Henry.
-Si, riconosco ancora la tua voce.
Susan non era arrabbiata più con lui, non provava che un’inesprimibile nulla per quello che era stato il suo ragazzo. Suo? Era mai stato “suo”?
-Spero di non disturbarti, volevo solo dirti che hai lasciato qualcosa di tuo a casa mia.>>
Susan non aveva idea di cosa mai avesse potuto lasciare a casa di Henry, dato che non avevano mai abitato insieme, era raro che Susan lasciasse effetti personali in giro.
-Cosa?
-Sono vari oggetti, qualche maglia e altro.
Si scervellò pensando a quali mai vestiti poteva aver scordato a casa di Henry e come mai lui se ne fosse accorto solo in quel momento, dopo settimane.
-Ti sei accorto di questo solo adesso?
-Esatto.- Susan sospirò, perché non aveva voglia né intenzione di vedere Henry.
-Senti, non mi ricordo neanche cosa siano, quindi puoi benissimo disfatene, non mi occorrono.
-Beh, io non butto nulla, quindi vieni qui a prenderteli, oppure passo io domani a lasciarteli.
 Con riluttanza, Susan gli disse che sarebbe passata lei nel pomeriggio. Alla fine, si sarebbe volentieri disfatta di quegli oggetti di cui non ricordava neanche l’esistenza. La casa di quello che era ormai il suo ex da mesi, era poco distante dal centro della città e Susan ringraziò di essere venuta a piedi, notando il traffico caotico di quel giorno. Suonò al campanello di Henry Davies e il ragazzo moro le aprì. Susan non provò la minima emozione alla vista di quello che qualche mese prima chiamava teneramente “amore”. Era trasandato, una macchia d’olio era presente sulla sua maglia grigia e i capelli erano disordinati.
-Ciao.
Susan annuì e con un cenno della testa chiese di entrare. Henry si fece da parte e le disse di accomodarsi. La casa minimalista di Henry non le era mai piaciuta, adesso si era scoperta a detestarla. Henry le indicò la sedia della sua stretta cucina e Susan si sedette sul cuscino verde e malconcio che la rivestiva.
-Ecco, queste sono le tue cose.
Susan si sporse sullo scatolone che Henry mise sopra il tavolo. Estrasse due felpe, una di un detestabile rosa shocking e l’altra verde pastello
-Non ho mai visto questa cosa in vita mia- Disse lasciando cadere sul tavolo la felpa rosa.
-E questa, beh, ti avevo detto mesi fa che potevi buttarla.
Lui alzò le spalle e prese l’indumento che Susan aveva scartato.
 -Credevo fosse tua.
 Si meravigliò di notare come Henry la conoscesse poco, come in quell’arco di tempo lui non avesse mai compreso nulla di lei.
-Forse di qualche tua altra fiamma che adora quel colore, ma lo stile Barbie non ha mai fatto per me.
Henry non aggiunse nulla mentre lei controllava il contenuto dello scatolo. C’era un suo vecchio libro che aveva ceduto a lui, nella speranza che ne avrebbe apprezzato la storia, qualche fermaglio che non ricordava di aver lasciato a casa sua e una camicia che lei gli aveva regalato per il compleanno.
-Non comprendo perché mi stai dando queste cose. Potevi benissimo tenerti la camicia e il libro, erano regali. Il resto non m’interessa più di tanto, lo avrei comunque buttato.
-Non mi servono queste cose, quindi pensavo che ti potevano tornare utili.
-Un vecchio libro, qualche molletta, una felpa consunta e una camicia da uomo? Certo, in effetti ne avevo un impellente bisogno, ti ringrazio Henry.
Lui ebbe l’accortezza di mostrarsi imbarazzato e Susan sospirò mentre riponeva tutto all’interno dello scatolo.
-Li butterò per te, nonostante tu mi abbia fatto perdere del tempo utile.
-Perdere tempo? Almeno ci siamo rivisti. Quanto era passato? Due o tre mesi forse.
Susan lo guardò inespressiva, non aveva di certo voglia di vederlo. Se fosse stato per lei, non si sarebbero mai più rivisti.
-Potresti venire da me una di queste sere, potrei fare uno dei miei ottimi risotti, come quando eravamo dei buoni vecchi amici.
Lei si sforzò di non ridere, o di rivolgerli parole pungenti. Non aveva intenzione di aver a che fare con lui. Forse era solo accorto di amici e di ragazze con le quali trastullarsi, ma non aveva intenzione di lasciarsi catturare una seconda volta da lui. Non lo amava, non lo aveva forse mai amato e adesso voleva solo liberarsi di lui per sempre.
-Henry, io non credo che sia il caso e penso che tu possa comprenderne il motivo. Inoltre, sono piuttosto impegnata, ho un nuovo lavoro in un ristorante e il mio tempo è sempre limitato.
Lui annuì sconsolato, forse non aspettandosi una risposta simile da parte sua. Susan si diresse verso la porta e lui la seguì.
-Allora ciao Susan, speriamo di rivederci.
 “Speriamo di no”
-Certo.
Susan tornò in stazione. Non aveva trovato nessuna lettera, ma le sue erano scomparse, quindi ebbe fiducia che presto avrebbe avuto una risposta. Erano le due di notte. Attendeva, attendeva forse un treno che l’avrebbe condotta via dalla città, forse un ragazzo che non aveva mai più riveduto, forse Felix. Non importava molto, perché il ragazzo che sperava di vedere comparve davanti a lei e Susan scordò le sue angosce.
-Winter, cosa ti preoccupa?
Susan scosse la testa e fece spazio a Felix affinché lui potesse sedersi accanto a lei.
-Nulla, Harvey, riflettevo.
-Hai l’aria di una che riflette, molto.
Susan sorrise, perché ne era a conoscenza. Probabile, forse doveva approfittare dell’aria magica e rilassante della stazione per lasciar andare qualsiasi pensiero.
-Tu hai l’aria di uno che osserva molto.
Stavolta fu Felix a sorridere.
-Può darsi. Se tu mi dici su cosa riflettevi, io ti dirò che cosa osservo.
Susan scoppiò in una risata e poggiò una mano sulla spalla del ragazzo. Si stupì di come in breve tempo aveva acquistato familiarità con quell’estraneo.
-Beh, se la metti così…
 Susan fu interrotta dalla sua squillante suoneria. Chiese scusa a Felix e rispose al cellulare, senza neanche vedere il numero.
-Susan sono io, volevo solo domandarti scusa per oggi, forse ti sono apparso stupido.
Lei s’irrigidì sentendo la voce di Henry e pregò che non la sentisse anche Felix accanto a lei.
-Fa nulla, tranquillo.
-E mi dispiace anche per quello che ho fatto, so di averti ferita.
Susan rifletté un attimo prima di rispondere a Henry.
-Immagino che si, forse ti dispiace. Non m’importa più così tanto, alcune ferite possono rimarginarsi e della tua non ne è rimasta neanche la cicatrice. Adesso devo andare, ci sentiamo.
Non gli diede il tempo di ribattere e chiuse la chiamata. Henry non l’aveva ridotta in brandelli, era stato Leo a lasciarle una cicatrice a forma di cuore sul petto. Sentiva che le era stato strappato qualcosa che le aveva causato una ferita perenne. No, Henry non le aveva fatto nulla. Ripose il cellulare nella borsa, attendendo che Felix le dicesse qualcosa.
-Era su di lui che riflettevi?
-No, ho smesso di pensare a lui da troppo.
Felix annuì in silenzio, timoroso di aggiungere altro.
-Riflettevo sulla mia famiglia, sulla mia precedente vita, sulla mia infanzia.
Sembrò aspettarsi quella risposta da lei, lo aveva forse aveva scritto sul viso. 
-Mi piace osservare i comportamenti delle persone, come se potessi comprenderli dalle loro azioni. È solo una perdita di tempo, ho compreso che tentare di comprendere qualcuno è troppo complesso e io sono troppo semplice.
Felix si passò una mano sui capelli biondi e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, poi voltò la testa per fissare Susan.
-Tu mi trovi strano?
Susan rise e incrociò il suo sguardo.
-Non più di quanto non lo sia io.

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Capitolo 9
*** 8. Ragioni ***


L’indomani Susan si svegliò stanca e la voglia di tornare nel suo comodo letto quasi la vinse. L’unica cosa che poteva distrarla dalla stanchezza erano le lettere che attendeva. Fu ripagata quando trovò ciò che attendeva nella sua cassetta. Estrasse la lettera e la lesse velocemente.

27 Ottobre
Cara sconosciuta,
sono fiero e contento per te, hai finalmente trovato un lavoro e dovresti essere orgogliosa di te stessa! Per quanto riguarda me, la notte è diventata il mio momento preferito della giornata. Quando la sera scende sulla città tutto si placa, il caotico traffico si arresta, la gente tace e si rifugia nelle loro buie case. La vita scorre più lentamente, alla luce della luna e delle stelle tutto appare uguale, ogni cosa è malevola e mostra il suo doppio lato. Se il giorno sono solo, la notte mi sento parte delle parole sussurrate nel buio, dei crimini loschi che avvengono fra le ombre e della quiete cittadina. Sto esponendo ciò che sono, non è questo che dovrei fare scrivendo tali lettere?
Uno sconosciuto.

Susan rilesse la lettera una, due e tre volte. Non era proprio questo che doveva fare? Esprimere senza riserbo e timore se stessa? Un’altra lettera la trovò nella cassetta 26, ma aspettò di tornare a casa sua prima di leggere quella. Quasi in maniera abitudinaria, si sedette sul tavolo della cucina per leggere e scrivere.

Mia sorella era più piccola di me, di due anni. Era la quint’essenza della perfezione. Si prendeva cura di me, di tutti quelli che avevano bisogno anche del più semplice aiuto. Mia sorella si chiama Jane. Dovrei dire “si chiamava”? Suona così innaturale, proprio lei che era piena di vita, radiosa e operosa. Me l’ha portata via la malattia che tutti temiamo, il cui nome sembra essere ormai un tabù. Il tumore me l’ha strappata, l’ho vista prosciugarsi e morire fra le mie braccia. Non ho potuto fare nulla, solo restare a guardarla mentre con gli occhi umidi mi diceva che andava bene, che lei era contenta lo stesso. Come poteva esserlo? So che a lei stava bene sul serio, ha accettato quei pochi anni che le sono stati concessi senza lamentarsene.
Dov’era il mondo mentre mia sorella moriva con un tumore ai polmoni? Dov’erano tutti? Dov’era Dio?
Decido di uscire allo scoperto sconosciuta, mi chiamo Ashley.
Grazie per avermi ascoltata.  

Susan era immobile, le lacrime le scivolarono sul viso e ricaddero sulla carta. L’inchiostro si contorse e Susan si asciugò di scatto gli occhi.
 
28 Ottobre
Ashley,
la tua storia mi ha lasciata spiazzata e consapevole di non poter comprendere cosa si prova nel vedere una sorella morire. Vorrei usare parole per consolarti, ma a cosa servono belle frasi? Nulla, non diminuiranno il tuo dolore, forse possono solo donarti sollievo, coscienza che non sei sola a questo mondo.
Pregherò per te e per Jane,
Susan.

Tentennò quando tracciò la prima lettera serpentina del suo nome, non aveva considerato di dover rivelare a qualcuno anche solo in parte la sua identità. Chiuse la lettera e prese un foglio nuovo, era tempo di rispondere a qualcun’altro.   

28 Ottobre
Eccomi ancora qui.
Ebbene, posso solo dirti che sono sempre stata un’amante delle giornate nuvolose, la pioggia da piccola poteva solo rendermi felice. Tutt’ora i temporali mi rilassano, infondo tutti cambiamo, ma rimaniamo gli stessi. Il buio m’inquieta, mi ricorda che sono sola ed esposta, ma nell’ultimo periodo la serenità che emana la notte mi sta affascinando.
Come siamo finiti a parlare di pioggia e di buio?
Unknown

Susan posò le lettere e si diresse verso il bagno. Aveva intenzione di fare una doccia calda prima di precipitarsi nel piccolo ristorante per il suo turno. Notò l’accendino dorato, con il quale aveva bruciato quella sua prima lettera, che le aveva regalato Vera. La sua vecchia amica le aveva detto che prima o poi le sarebbe tornato utile, ma Susan credeva che Vera si era solo accorta troppo tardi di averle fatto un pessimo regalo d’addio. Lei adesso era lontana, aveva attraversato la possibilità di andare via ed era spuntata dall’altra parte del mondo, lontana da lei e dal luogo dov’era cresciuta. Non poteva certo biasimarla, lei avrebbe fatto la stessa cosa. Vera May era sempre stata intraprendente, con un carattere forte e pronta alla lite se venivano colpiti i suoi interessi. Com’era possibile che lei e Susan fossero diventate amiche? Tornò al primo giorno di scuola, quando aveva solo sei anni e nessun pensiero che vagava nella sua testolina riccioluta. Ripose l’accendino in uno dei cassetti del bagno, rimproverandosi per averlo lasciato lì. Fece scorrere l’acqua e i pensieri. Smise di prestare attenzione a Vera.
Rachel era insolitamente irascibile quella sera.
-I miei figli vogliono farmi diventare pazza!
-Con la sua pazienza e la sua bontà, lo reputo impossibile.
Le disse Susan di ritorno dal tavolo 14 con le generose ordinazioni che i clienti avevano fatto.
-Oh cara, la verità è che sto diventando vecchia.
Susan rise e afferrò il vassoio sul tavolo di legno accostato alla parete della cucina.
-La verità è che se non mi muovo saremo sommersi di lamentele!
Esclamò prima di sparire dietro la porta.
Felix arrivò prima di lei in stazione, era già comodamente seduto sulla panchina e leggeva un libro. Susan si avvicinò silenziosamente e, senza prendersi la briga di salutarlo, gli chiese che libro leggeva.
-Un thriller, quest’autrice non fa che sorprendermi.
Susan cercò di memorizzare il nome dell’autrice e si accomodò accanto a lui.
-Comunque buongiorno anche a te, Susan Winter.
-‘Sera Felix Harvey.
Lui le sorrise, tornando alla lettura del libro. Susan osservo le sue dita scorrere sulla carta, le sue palpebre abbassarsi e alzarsi con calma, la sciarpa stretta al collo svolazzare al vento di quella sera.
-Vuoi passare tutta la notte a fissarmi?
Disse alzando gli occhi dal libro.
-Non sei l’unico che osserva la gente.
Felix le indirizzò un gesto vago della mano e le sorrise radioso.
-Solo che io non ho nulla d’interessante.
-Lo credevo anche io, ma tutti abbiamo qualcosa di attraente in noi. Non lo pensi anche tu?
Felix chiuse il libro, incastrando l’indice fra le pagine.   
-Potrebbe darsi.
Le rivolse un sorriso privo di qualsiasi apparente emozione, poi le poggiò la mano destra sulla spalla.
-Cosa ci trovi in me?
-Non lo so ancora, ma se restiamo tutte le notti seduti accanto in una stazione ci sarà una ragione.
Felix alzò la testa al cielo, come per osservare distrattamente le stelle, poco visibili a causa dell’inquinamento luminoso.
-C’è sempre una ragione. 

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Capitolo 10
*** 9. La scrittrice ***


Susan ripensò alle parole di Felix per tutta la notte e anche il giorno successivo poteva sentire la sua voce risuonarle nella testa. Riuscì a liberarsi da quei pensieri solo leggendo qualche buon libro. Era andata a consegnare le lettere in biblioteca e ne aveva approfittato per concedersi qualche ore lì dentro, esplorando i volumi contenuti quel luogo a lei noto.
Contro ogni previsione, Henry non si era fatto più sentire e a Susan andava bene così. Voleva tirarsi fuori da quella situazione per sempre, non aveva nulla da aggiungere alla storia. Aveva subito gettato tutto ciò che Henry le aveva restituito, si era tenuto solo la felpa rosa che non apparteneva a Susan. Aveva chiuso quel capitolo una volta per tutte.
Alla fine di quella giornata, si sentiva più stanca del giorno precedente. Il lavoro estenuante la logorava, ma Rachel e Thomas le avevano promesso uno stipendio più sostanzioso, se fosse stata in grado di mantenere quei ritmi ogni sera.
-Non esitare a dirci se hai bisogno di una mano, capiamo che sia difficoltoso per te essere da sola a servire.
Le aveva detto il signor Waterson, ma Susan aveva detto che per il momento le andava bene, almeno aveva il pomeriggio libero e tutta la mattina per riposarsi. Appena finito di lavorare avrebbe dovuto andare a coricarsi, tornare nella sua ristretta casa e dormire, magari bere una camomilla per contrastare l’insonnia che spesso la colpiva. Andava in stazione invece, osservava i treni e aspettava, attendeva con pazienza Felix che finiva il suo turno nel pub all’una di notte. Restava con lui un’ora, spesso due, parlavano del loro presente e Susan spesso accennava al suo passato, mentre Felix non dialogava mai del suo con lei. Era come se Felix Harvey non avesse avuto un passato, solo un continuo presente. Più volte si erano confrontati su un argomento caro a entrambi, i libri, e Felix ne approfittava sempre per chiederle consigli sulla sua prossima lettura. Quella notte lui arrivò in anticipo, Susan aveva impiegato del tempo in eccesso per giungere in stazione.
-Allora, stanca anche questa sera?
Susan annuì e sorrise, prima di sedersi sulla solita panchina accanto a lui.
-Già è tanto che non sia aperto anche all’ora di pranzo.- Disse sospirando, poi estrasse dalla sua borsa un libro minuto, uno dei pochi che custodiva in casa sua.
-Devi leggerlo, l’ho trovato straordinario.
Felix afferrò il libro e ne fissò le pagine sottili.
-Se me lo consiglia una scrittrice, lo leggerò senza ombra di dubbio.
-Non sono una scrittrice.
-Però scrivi.
 “Già, scrivo” pensò sperando di ricevere presto una risposta da Ashley e dallo sconosciuto.
-Non significa che io mi possa definire tale.
Felix incrociò le braccia al petto, tenendo ancora il libro in mano.
-Perché non mi fai leggere qualcosa di tuo?
Susan trasalì, perché oltre alle lettere indirizzate a quei due sconosciuti, non aveva mai permesso che qualcuno leggesse i suoi scritti.
-Non credo che sia una buona idea.- Disse e si voltò per incontrare lo sguardo di Felix.
-Questo non lo puoi sapere.
-Credimi, non ho nulla di speciale e non scrivo che pensieri banali.
-Hai solo paura.- Le disse Felix e attese la sua reazione. Susan non disse nulla, perché infondo sapeva bene che era così. Aveva paura di esporsi troppo, di mostrare altri lati di sé che temeva, che preferiva mantenere celati nelle ombre della sua personalità.
-Perché hai paura Susan?
Perché? La risposta era scontata quanto complessa da dedurre. Forse il timore di essere giudicata? Magari la paura di essere ritenuta fragile, debole, banale. Erano così tante le risposte, che Susan arrivò alla conclusione che non ne esisteva una giusta. Potevano esserci dei “forse”, ma nulla di più.
-Perché ci tieni tanto a leggere quello che scrivo?- Sbottò e Felix lasciò che le sue braccia ricadessero sui fianchi. Susan cercò nella sua espressione una risposta, ma per lei Felix era un enigma senza soluzione, impossibile.
-Beh, immagino che ci deve essere una ragione, no?
Si arrese, non era dicerto brava a dialogare e a ribattere.
-Bene, se è questo che vuoi.
Felix la guardò meravigliato, non aspettandosi che lei si arrendesse con così tanta facilità.
-Domani notte ti farò leggere qualcosa che ho scritto.
Susan non aveva idea di cosa le era passato per la testa. Erano appena le nove di mattina e aveva iniziato la sua ricerca già da una buona mezz’ora. Erano numerosi i frammenti di carta che aveva scritto e poi sparso ovunque, ne trovò qualcuno persino dentro il suo armadio. L’unico scritto che le apparve all’altezza era stato conservato nel cassetto della sua scrivania, sommerso da documenti e carte varie, forse nel tentativo di celarlo per sempre alla sua vista. Era scritto per Leo. Non aveva posto una data per quell’ennesima lettera che mai sarebbe stata inviata, ma immaginava che non fosse troppo remota, forse risaliva a due anni prima, magari tre. Sapeva bene cos’aveva scritto, ma rilesse la lettera, finché non ne memorizzò le parole contenute.
 
Eri tutto, lo sei sempre stato. Fin dal primo istante. Quando è cominciato questo calvario? Credo fosse quel giorno, sì, sono sicura che la scintilla si accese quel mercoledì di troppi anni fa. Uno sguardo fu quello che abbatté ogni singola barriera, ogni altra ragione. Hai maledetto il mio cuore, mi hai dato una motivazione per vedere ogni cosa sotto occhi diversi. Dovrei dirti grazie per questo, amarti di più per ogni singolo giorno da quel giorno. Forse non dovrei. Dovrei dire che mi dispiace perché non sono abbastanza, non sei abbastanza, siamo solo insignificanti cuori che battono inauditi, solo anime disperate che vagano, che chiedono di essere accolte nella casa celata di qualcuno. Alcuni incendi finiscono, alcuni sono destinati ad avere una misera vita breve fin da quando sono innescati. Alcuni poi sono nati per bruciare in eterno, non importi quanto ardano, quanto male o bene possano compiere, continueranno a essere intoccabili. Credevo che una di queste fiamme pure ardesse dentro di me, forse è stato così per un breve periodo, ma il fuoco non porta mai a nulla di buono. È stata la pioggia a farmi rendere conto di quanto io avessi bisogno non della fiamma, non del sentimento, ma di te, solo di te. È stato questo il mio errore, non comprendere fin da subito che amare, per ottenere qualcosa in cambio è scorretto, non è giusto neanche chiedere amore in cambio di amore. Sono un’amante avversa alle stelle, ma sono state loro a condurmi da te, è colpa loro se sono caduta per te, se adesso non mi restano che poche fioche memorie. A volte immagino che tutto questo sia un sogno, che mi sveglierò la mattina del mio primo giorno di scuola nel mio primo anno di medie. Immagino che ogni cosa fosse solo un’illusione e che la realtà è diversa, che sarà dissimile. Immagino che questo non possa mai essere possibile. Ma ogni giorno chiedo che io possa tornare, tornare a quel giorno in cui i nostri sguardi si sono incontrati. Riportatemi alla mia vita prima di te, prima dell’amore indissolubile che ho tentato di occultare. Che Dio ti benedica, non perché tu abbia fatto qualcosa in particolare, solo perché sei “te stesso” e questo mi ha permesso di essere me stessa.     
    
Leo. Perché non era tornato? Perché l’aveva lasciata sola? Leo. Si, Susan aveva paura.

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Capitolo 11
*** 10. Un’amante avversa alle stelle ***


Il tempo di pensare a Felix era concluso, il lavoro l’attendeva quel pomeriggio. Rachel le aveva chiesto di anticipare il suo turno a causa di parecchi clienti che avevano prenotato per quella sera. Susan aveva accettato, le era stato promesso a breve un sostanzioso stipendio e voleva mostrare la sua disponibilità e volontà a compiere il suo lavoro nel migliore dei modi. Quella giornata di fine mese si prospettava fredda e stancante. L’inverno stava velocemente calando sulla città e Susan ne fu contenta. Per la prima volta, sentiva che quella stagione l’avrebbe resa felice. Mentre da Ashley non aveva ricevuto risposta, lo sconosciuto aveva già abbandonato una lettera nella sua cassetta.

30 Ottobre
Perdonami se ho dirottato la conversazione sulle ore notturne e sul clima, non ho potuto far a meno di confessare a qualcuno i miei pensieri sulla notte. Adesso torniamo a noi però, devi raccontarmi come va il tuo lavoro. Per quanto riguarda me, posso solo dirti che ho intenzione di fare un piccolo viaggio. Non sarà di piacere, devo sbrigare qualche vecchia commissione che riguarda la mia famiglia. Nulla di particolare, ma posso solo dirti che mi dispiace lasciare la città. Ho le mie radici e la mia casa, il mio cuore è sepolto in questa terra, sotto l’asfalto della mia crescente città natale. Sono troppo sentimentale, non trovi? Immagino che tu abbia lasciato la città, almeno una volta nella tua breve o lunga vita che sia. Io l’ho fatto, anni fa. Sono stato costretto, non lo avrei mai fatto altrimenti. Eccomi, sono tornato a fatica nella mia città e lasciarla mi appare un dramma ogni volta. Adesso lascio te sconosciuta, la mia valigia mi attende!
Uno sconosciuto in partenza (e che non vorrebbe andarsene)     

Susan poteva contare le volte che aveva lasciato la sua città su una mano. Quando aveva diciannove anni, i suoi genitori si erano trasferiti in un’altra città e lei li aveva raggiunti. Era rimasta lì fino alla morte del padre, poi aveva fatto pressioni sull’ultimo genitore che le era rimasto, affinché potesse acquistare un piccolo appartamento nella sua città d’origine. La madre non ne aveva fatto una tragedia e un mese dopo era tornata lì. Credeva potesse essere un modo per ricominciare da zero, ma poco dopo era arrivato Henry, prima c’erano i ricordi che la tormentavano, infine l’aveva raggiunta la depressione. Vera, Leo, suo padre, i suoi vecchi amici, Giselle Choran e molti altri visi familiari e conosciuti, l’avevano accusata di essere scappata, nella sua testa la condannavano tutti. Anche loro l’avevano abbandonata. Leo non era più tornato, la sua insegnante Giselle era morta, suo padre aveva fatto la stessa sofferente fine, Vera era partita per non tornare mai più, i suoi amici non erano più tali. Era stata lei a sbagliare, oppure erano stati loro?

Susan attese prima di scrivere la risposta, temeva da un po’che la sua lettera potesse essere presa da un altro, non aveva intenzione di chiudere la lunga conversazione di carta e inchiostro con quello sconosciuto. Senza di lui dubitava che avrebbe trovato il suo lavoro e non avrebbe mai conosciuto Felix. In un modo o nell’altro, le aveva dato più di quanto si sarebbe mai immaginata.    
  
La giornata trascorse rapida e Susan custodiva quel piccolo frammento di carta dedicato a Leo stretto sotto la divisa rossa dell’EndLand. Attendeva impaziente di farla leggere a Felix. Forse non avrebbe dovuto, era fin troppo personale. Quando arrivò in stazione, si era già dimenticata i timori riguardo l’ennesima lettera scritta e mai letta dal destinatario. Felix era lì e la salutò alzando la mano. Aveva sostituito le sue pesanti giacche con un semplice maglione blu notte, sotto il quale spiccava una camicia rosa vivo. Susan fu stupita dalla combinazione stravagante e le scappò una risata prima di sedersi accanto a lui.
-So bene cosa stai pensando e no, non mi sento ridicolo. Amo questa camicia e ne vado fiero.
Susan gli chiese scusa con ancora il sorriso stampato sulle labbra. Lei aveva preferito indossare una vecchia maglia dal tenue color caramello e pantaloni bianchi, ormai strappati in più punti. A causa del cambiamento repentino del tempo, aveva aggiunto una giacca chiara e una sciarpa che sua nonna le aveva ricamato anni prima.
-Allora, mia cara signora Winter, dov’è?
Susan tirò fuori dalla borsa la sua lettera, affidandola alle dita calde di Felix.
-Non mi giudicare per questo.
Gli disse ridendo di se stessa. Pensava a Leo, pensava che magari quella lettera avrebbe voluto spedirla, se solo ne avesse avuto mai la possibilità. Felix rimase immobile e in silenzio, mentre i suoi occhi assorbivano le parole e i polpastrelli accarezzavano la carta. Susan rimase a fissarlo, passando lo sguardo dalle palpebre di Felix fino ai suoi polsi, seminascosti dalle maniche della camicia dallo stravagante colore. Si prese il suo tempo, non aveva fretta e neanche Susan. Non spostò gli occhi sulle sue stesse parole, guardare Felix le faceva dimenticare per chi era scritta quella lettera. Quando finì di leggerla, piegò debolmente la carta leggermente spiegazzata e alzò lo sguardo su Susan.
-Posso tenerla?
Fu tutto ciò che disse e Susan comprese che le sue parole avevano avuto effetto su di lui. Annuì, anche se una parte di lei non voleva sbarazzarsene. Felix conservò con cura la lettera nella tasca dei suoi jeans, poi tornò a guardarla.
-Per chi l’hai scritta? Era per il ragazzo del telefono?
-Henry? Ma no, mai potrei scrivere una cosa simile per lui.
Susan scoppiò a ridere, tanto aveva trovato buffa quell’idea.
-Per chi allora?
La volontà di Susan rimase in bilico. Poteva sfogarsi con lui, raccontare tutta la storia che non aveva mai narrato a nessuno. A Felix non importava però, non potevano interessarlo i sentimenti di una sciocca dodicenne.   
-L’ho conosciuto tanti anni fa, troppi forse. Lui è sparito, non gli ho mai detto nulla di tutto questo.
Felix annuì e rimase in silenzio. Susan immaginò che forse anche lui aveva vissuto una situazione simile, storie d’amore che non nasceranno mai, amanti sfumati per le cause più varie. Infondo, la sua storia non poteva essere molto distante da mille altre che la gente aveva preferito celare, dimenticare. Era questo il problema di Susan, lei non riusciva a seppellire Leo. Felix rialzò la testa e le mostrò uno smagliante sorriso. Non c’era la minima traccia di malinconia, come se quella che avesse appena letto fosse stata la storia di un grande amore a lieto fine. Susan ci aveva creduto, aveva sognato che la sua amicizia con Leo potesse divenire una storia d’amore. Magari, se lui non se ne fosse andato, adesso lei sarebbe stata con lui, Henry non sarebbe mai entrato a disturbare la sua quiete. Forse. Lui era un’amante perduto nei meandri delle possibilità, del passato che non ritorna e che reclama di essere modificato.
-Susan, che Dio ti benedica per aver amato così tanto qualcuno.
Fu quello che le disse Felix, ma dentro di sé sentiva le risate dell’undicenne che era stata trasformarsi in un pianto infinito.   

 *** 'Giorno a tutti! Sono una tipa piuttosto loquace, ma sotto i miei capitoli raramente parlo.
 Per chiunque sia arrivato a questo punto: sono curiosa di sapere cosa ne pensi! Quindi non esitare, caro sconosciuto/a (ehm...riferimenti alla storia del tutto casuali) e fammi sapere la tua opinione. 
Alison 💙         

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Capitolo 12
*** 11. Le sorelle Ridway ***


Susan trovò una lettera di Ashley quella fredda mattina. Uscì dalla biblioteca tremante e aprì la lettera mentre si recava nell’ampia piazza della cittadina. Avendo la mattinata libera, Susan voleva restare all’aria aperta, nonostante il clima non fosse dei migliori.

Cara Susan,
comprendo le tue parole e le condivido, alcune ferite non possono essere rimarginate. Per quanto faccia male questa verità, non possiamo negare a noi stessi che il dolore rimarrà, perché non riavrò mai più indietro il sorriso di Jane, la semplicità dei suoi gesti, le sue parole leggere e la sua sincerità. Mi reco sulla sua tomba tutti i giorni, non posso fare nient’altro se non starle vicino nella morte come lei lo è stata con me in vita. È una piccola consolazione, una speranza che lei possa sentire le mie parole e magari sorridere come un tempo.
Ash

S’interrogò se Ashley le avesse rivelato quel dettaglio nella speranza che, magari, lei potesse sapere dove trovarla. Forse ci sarebbe andata, al cimitero, era da tanto che non tornava da suo padre. Non scrisse una risposta per Ashley, la scrisse per lo sconosciuto. Si sedette su una panchina accanto a una fontanella che decorava l’affollata piazza della sua città.

2 Novembre
Caro sconosciuto,
spero che il tuo viaggio vada bene, almeno tu puoi concederti il lusso di assentarti qualche giorno dal lavoro e dalla vita frenetica della città. Ma a te della città caotica non interessa, vero? Tu desideri la solitudine, il buio, la calma e la serenità, talmente impensabile trovare tutto questo qui. C’è qualcosa di straordinario in questo posto, come se fosse un’oasi sicura, plasmabile come noi vogliamo. Se voglio essere immersa nella moltitudine dei cittadini, mi basta scendere in strada, se invece voglio restare sola posso benissimo recarmi in riva al mare, o attendere che cali la notte. Per quanto riguarda il mio lavoro…posso solo dirti che i turni mi stanno distruggendo, ma sono grata dell’opportunità.
Tempo di andare!
Unknown.

Felix non si presentò quella notte. Un foglio, trattenuto dal libro che qualche sera prima lui aveva letto, l’aspettava al posto del ragazzo. Una calligrafia semplice aveva scritto “Per Susan”. Aprì il foglio ripiegato per leggerne il contenuto.
“Winter! Questo fine settimana sarà ricolmo d’impegni e di turni al pub, quindi non mi aspettare. Sorry Susie, il tuo caro Felix non potrà essere in stazione per qualche giorno. In compenso rileggo la tua lettera tutte le notti, ben fatto mia cara scrittrice!
F.”  

Su di lei calò un’improvvisa tristezza, perché le sarebbe mancato parlare con il ragazzo biondo della stazione. Felix…Felix le piaceva, più di quanto osasse ammettere. Conservò il foglio e prese il libro, quella sera Felix avrebbe letto le parole di Susan, ancora una volta, lei avrebbe riletto le sue.
Susan si alzò all’alba quella mattina, perché aveva un appuntamento. Il suo armadio era certamente povero, ma non mancava un abito nero e corto adatto per l’occasione. Non era dicerto il tempo adatto per mettere un abito simile, la cui stoffa era troppo leggera, ma Susan decise che non ci avrebbe fatto caso. Le sue attenzioni sarebbero state per l’uomo che l’attendeva. Fu costretta a servirsi dei mezzi pubblici, a piedi non sarebbe mai potuta arrivare a destinazione. Un’anziana signora la squadrò, vedendo le sue gambe pallide e magre nude, ma Susan voltò lo sguardo dalla parte opposta e non si curò della gente attorno a lei. Quando giunse al capolinea, il suo corpo tremava e per una volta non era stato il freddo a scuoterla. Sapeva bene dove andare, anche se erano mesi che non si recava da lui. Si fermò appena scorse il nome inciso sulla lapide fredda del padre. Philip Winter era dormiente sotto la lastra di pietra, a pochi metri da lei. Cadde in ginocchio e la polvere svolazzò sopra la tomba.
-Ciao papà, mi dispiace di non essere venuta prima, ma tu comprenderai il perché.
Una lacrima solitaria le attraversò il viso e le macchiò le guance di mascara. Spazzò via quella nota di dolore sul suo viso e tornò a fissare le date che avevano segnato morte e vita di suo padre.
-Forse non sono la figlia modello che tu volevi, ma so per certo che a te non importava. Tu mi volevi bene e io volevo bene te, non c’è molto altro d’aggiungere.
Restò lì, prostrata sulla tomba di suo padre per quelle che le apparvero ore, incapace di proferire altro, di distogliere lo sguardo dal terreno umido e dalla pietra gelata. Si alzò tremante, instabile sui tacchi neri e con il vestito macchiato di polvere e lacrime scure. Lasciò una margherita solitaria che aveva raccolto sulla lapide del padre, a lui non piacevano i fiori e neanche a lei.
-Non è un addio, noi ci rivedremo.
Sussurrò prima di voltarsi.
Trovare la tomba di Jane, la sorella di Ashley, fu complesso. Susan scandagliò decine di tombe, ricolme di fiori oppure dimenticate da tempo. Su tutte erano incise le solite parole gentili e generose, come per far credere che la morte trasforma gli umani in dolci agnelli amorevoli. Sulla sua di tomba, Susan non avrebbe fatto scrivere che il suo nome. Le tenere parole dei parenti e degli amici, poco valevano incise per sempre sulla pietra. Alcuni versavano false lacrime sulle croci appena conficcate nel terreno, altri si disperavano addolorati per aver perso una persona casa. La maggior parte delle persone guardava il cimitero con solenne rispetto e una punta d’indifferenza, come se la loro vita fosse intoccabile. Anche Susan aveva creduto che suo padre fosse intoccabile, robusto nei suoi cinquant’anni e in ottima salute. Lo aveva creduto, ora non credeva più in nulla.
Quando vide una ragazza dai capelli biondi stretti in una treccia, di media statura e con un lungo e velato abito nero, seppe che si trovava accanto ad Ashley. Lesse poco dopo il nome di Jane Ridway sulla tomba che la ragazza fissava. Si accostò a lei e rimase in silenzio, osservando a lungo le incisioni sulla lapide. Ashley tirò su con il naso e asciugò le lacrime con la manica dell’abito e Susan le mise una mano sulla spalla. Senza neanche conoscere il volto della ragazza, l’abbracciò e la strinse come una sorella. Quando Ashley smise di singhiozzare, si allontanò da Susan e mostrò il viso rosato e gli occhi di cristallo ricolmi di lacrime.
-Sei Susan?
-Susan Winter. Tu invece sei Ashley Ridway.
La ragazza annuì e strinse la mano calda di Susan.
-Speravo di vederti qui.

Un’ora dopo Susan era a casa di Ashley, che l’aveva invitata a prendere un tè. Le aveva chiesto di aspettare in salotto, dato che sentiva l’esigenza di togliersi il vestito nero. Susan si accomodò su uno dei divani chiari dell’ampia villetta di Ashley. Era dei suoi genitori, le aveva detto, e sarebbe toccata a entrambe le sorelle. Adesso però era sua, solo sua. Ashley aveva venticinque anni, lavorava come contabile presso un noto studio e aveva più soldi di quanti avrebbe mai potuto spenderne. Susan la invidiò appena salì sulla Maserati rosso fiammante. Non era stato difficile comprendere che la famiglia Ridway non aveva mai avuto problemi economici, con il suo vestitino economico e banale, i tacchi scuri ormai vecchi e gli orecchini d’oro ormai fuori moda, Susan si sentiva in imbarazzo in quella grande casa arredata con gusto e un portafoglio pieno.
-Eccomi.
Disse dopo qualche minuto, spuntando in un completo verde acqua ricco di lustrini. I pantaloni di seta constavano sicuramente più di tutto il guardaroba di Susan. Ashley le offrì del vino pregiato e le servì qualche tartina con il salmone.
-Immagino che mi odierai per tutto questo.
Le disse mentre Susan assaggiava il cibo raffinato e costoso che non poteva permettersi.
-Certo che t’invidio, chiunque sarebbe geloso di te, ma non poso fartene una colpa!
Ashley si lasciò sfuggire una risata e prese un sorso della sua bevanda rosso sangue.
-Io invidio te. Vorrei avere di meno, una vita più semplice. La ricchezza ti conduce molti amici, tutti interessati ai soldi.
-Beh, se vorresti la mia vita per avere amicizie sincere, posso dirti che non troverai neanche un’amica o un conoscente che frequento nella schiera delle poche persone che conosco.
Ashley non ne fu stupita, ma non la giudicò, anche lei si sentiva sola.
-Però un’amica come te la vorrei.
Le disse posando il suo bicchiere ghiacciato.
-Se avere te come amica significa buon cibo, allora ci sto.
Ashley scoppiò a ridere ed entrambe scordarono il luogo dove si erano incontrate.    
            

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Capitolo 13
*** 12. Occhi profondi e stelle ***


Quel giorno Susan aveva trovato una nuova amica e Felix era lentamente scivolato via dai suoi pensieri. Senza più dovere premurarsi di scrivere ad Ashley, la sua attenzione era tornata allo sconosciuto. Come aveva precedentemente detto, non gli sarebbe stato possibile rispondere alla sua lettera e Susan perse interesse a recarsi ogni giorno in biblioteca. In compenso, il lavoro la teneva impegnata e con la mente lontana da qualsiasi altra cosa. Erano passati quattro giorni dall’ultima lettera che aveva scritto e quella sera si trovava all’EndLand. Il piccolo locale non era particolarmente affollato e solo pochi abituali clienti si erano presentati quella sera. Per Susan era meglio così, non avrebbe dovuto faticare in eccesso.
Tuttavia, quella sera scorse Henry, in compagnia di un’altra ragazza. Dallo stile della giovane, immaginò che la felpa rosa Barbie appartenesse a lei. Nel suo abito violetto e con i capelli biondi acconciati con cura, quella ragazza corrispondeva all’immagine che si era creata nella sua mente quando aveva pensato a quale fiamma di Henry appartenesse l’indumento che non era suo. Henry la scorse proprio quando si stava rintanando nelle cucine per non essere vista.
-Susan!
Controvoglia, si diresse al tavolo dei due, consapevole che prima o poi avrebbe dovuto servirli.
-Buonasera, volete ordinare?
Lo sguardo di Henry si oscurò quando lei assunse il classico tono che utilizzava con i clienti.
-Non sapevo che lavorassi qui.
La ragazza nell’abito lilla la squadrò, come per costatare chi era la sua concorrente. Alzò il capo e cercò d’ignorare che l’attenzione di Henry si era spostata a Susan.
-Beh, adesso lo sai.
Susan ignorò la ragazza che con il suo sguardo penetrante e pesantemente truccato, sembrava volerla minacciare di andare via. Susan non aveva alcun interesse a partecipare alla sfida di sguardi felini alla quale la ragazza la stava invitando. Si limitò a prendere le loro ordinazioni e lesta andò via per servire gli altri clienti.
-Conosci quel ragazzo moro?
Le chiese Rachel mentre Susan attendeva che le pietanze del tavolo 16 fossero pronte.
-Si, è solo il mio ex che non avevo la minima intenzione di rivedere.
Rachel Waterson le posò una mano sulla spalla nel suo classico modo materno di interagire con lei e Susan le fu grata per quel piccolo conforto. 
-Non soffro per quella rottura da mesi ormai.
La rassicurò e scorse il sorriso di Rachel prima di dirigersi fuori dalle cucine. Per tutto il servizio si sentì addosso gli occhi di Henry, la seguivano origli e non volevano lasciarla andare. Quando si diressero alla cassa, Rachel fissò Henry con indifferenza e diffidenza nello sguardo. Lui le rivolse un cenno di saluto e la ragazza bionda la guardò per un’ultima volta, mostrandole la sua figura slanciata e perfetta nel corto e leggero tessuto violetto. Susan tirò un sospiro di sollievo quando Henry andò via, trascinando con sé l’arpia bionda che l’aveva esaminata minuziosamente. Forse la ragazza non sapeva che non aveva nulla da temere, per Susan il suo ex ragazzo era solo un ricordo lontano e in procinto di sbiadirsi per sempre.
-Non è granché Susan, meriti di meglio.
Le disse alla fine della serata Rachel, con le braccia incrociate al petto e un lieve sorriso stampato sul volto ormai stanco. Susan si lasciò sfuggire un risolino prima di darle ragione. Quella sera voleva andare in stazione, anche se Felix non si sarebbe presentato. Ripensò al ragazzo biondo appena l’aria d’inizio inverno la investì. Felix, chissà dov’era in quel momento. Magari la stava pensando, oppure era già in compagnia di un’altra ragazza come “abito violetto”. Felix non era Henry però, lui era molto di più. Felix era Felix, era perfetto nelle sue stravaganze, nel suo unico modo di saper ascoltare e comprendere le parole, con il suo sorriso sornione sempre splendente e i gesti tipici che lo caratterizzavano. Si, sarebbe andata in stazione. Vide a poca distanza dall’entrata dell’EndLand una ragazza con un abito rossiccio e scarpe alte sfavillanti e capì che non sarebbe andata in stazione quella notte. Riconobbe Ashley per il tipico colore rosso, suo marchio distintivo.
-Ehi, che cosa ci fai qui?
Susan era sorpresa, ma non poi così tanto. Era stata lei a dirle dove lavorava, ma non immaginava che Ashley si sarebbe presentata lì una sera.
-Ciao! Spero di non sembrare invadente o inopportuna, ma avevo voglia di passare un po' di tempo con la mia nuova amica. Posso portarti in un posto?
Susan non rifletté minimamente prima di accettare la sua proposta. Ashley si sentiva sola come lei, però lei era più intraprendente e sfrontata di come Susan sarebbe mai potuta essere. La Maserati di Ashley sembrava brillare di luce propria, in quel colore scarlatto della carrozzeria. La macchina era perfettamente ordinata e un vago odore di mandorli aleggiava al suo interno.
-Allora, dove andiamo?
Disse dopo essersi allacciata la cintura. Da quando suo padre aveva perso la vita sulla strada, Susan era divenuta la prudenza in persona. Aveva rinunciato a prendere la macchina usata di sua madre, non voleva guidare. La paura di rivivere quello che era successo l’attanagliava e la rendeva incapace di mettere le mani sul volante senza scoppiare in un pianto.
-Tranquilla, sono certa che ti piacerà.
A Susan in effetti piacque il luogo dove Ashley l’aveva condotta. Era appena fuori città, un punto panoramico avvolto da alberi e fiori dai mille colori e profumi. Susan si abbasso per sfiorare i petali di qualche margherita selvatica che sbucava dal prato verdeggiante.
-La cosa più bella di questo luogo è il gelato.
Le disse indicandole un chiostro aperto nonostante l’ora tarda.
-Michael è un mio caro amico, resta aperto la notte e qualche ora durante il giorno. Prima era sommerso di clienti a quest’ora, soprattutto coppiette, ma poi successe un incidente, un ragazzo fu accoltellato da una banda di delinquenti. Da quel momento sono sempre meno le persone che vengono qui la notte.
Susan non ne fu tubata, qualche mese fa era successa una cosa simile nella strada accanto a casa sua.
-Inutile dire che lascio sempre una generosa mancia quando vengo qui.
Ashley la invitò a prendere qualcosa, dato che aveva proclamato il chiostro di Michael come uno dei migliori. L’uomo ormai anziano, dai capelli radi sulla testa e di carnagione olivastra, le preparò un generoso cono e non obbiettò quando Ashley gli lasciò più soldi del dovuto. Per quella cifra, avrebbe potuto acquistare tutti i dolciumi che erano esposti nel piccolo chiostro. Susan addentò la cialda croccante del suo cono e non poté che trovarsi d’accordo con Ashley.
-Venivo qui con mia sorella, adesso voglio creare nuovi ricordi in questi luoghi, voglio rivederli a colori e aggiungere alle memorie dolorose quelle felici. Non trovi che sia giusto così?
-Trovo che sei più forte di me, non sono riuscita a fare lo stesso con mio padre.
Ashley annuì e appoggiò una mano su quella di Susan.
-Possiamo provarci insieme, adesso siamo amiche.
-Adesso siamo amiche.
Ripeté lei e le sorrise radiosa, consapevole che era quello di cui entrambe avevano bisogno. Susan e Ashley restarono sotto le stelle, a fissare i corpi celesti lontani e le fronde fruscianti degli alberi. Quando Susan si mise a contare le stelle, come spesso faceva quando era sovrappensiero, rifletté se Felix stava pensando a lei. Forse stavano guardando lo stesso cielo in quell’istante. Felix, le mancava più di quanto avrebbe mai pensato e voleva ammettere. Quella rivolse i suoi ultimi pensieri ai suoi occhi scuri, alle ciocche bionde e al suo sorriso bambinesco talmente innocente. Susan sorrise, poi le braccia di Morfeo l’accolsero nel loro abbraccio.  
     
 

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Capitolo 14
*** 13. Lacrime dal cielo ***


Felix tornò la sera successiva, Susan non si stupì quando lo vide seduto sulla panchina con lo sguardo fisso sui vicini binari.

-Winter, credevo che non saresti più venuta.

Susan arrossì, costatando che il ragazzo biondo la stava attendendo.

-Allora, cosa l'ha tenuto tanto impegnato, signor Harvey?

-Il mio amabile lavoro. Non puoi neanche immaginare Susie, tre giorni di fuoco.

-Non chiamarmi così.

Felix le sorrise e incrociò le braccia al petto.

-Così come, Susie?

-Da quando sei diventato talmente dispettoso?

Lui alzò le spalle con aria noncurante. Susan si soffermò a fissare un taglio dietro l'orecchio, parzialmente coperto dai capelli chiari che prima non aveva notato.

-Come te lo sei fatto?

Susan sfiorò la pelle ferita di Felix e lui si scostò, come scottato da quel contatto.

-Non è nulla.

-Ne sei certo?

Felix la fissava e Susan lesse l'indecisione nei suoi occhi.

-Susie, se c'è qualcuno di cui non devi preoccuparti, quello sono io.

Susan distolse lo sguardo e lottò contro se stessa per non contraddire Felix. Avrebbe potuto dirgli quello che pensava, ciò che lentamente stava cominciando a provare, ma Susan aveva paura. Se anche Felix un giorno avesse deciso di abbandonarla? Come poteva rischiare un'atra delusione, un altro sofferente addio?

-Va bene.

Disse infine, lasciando che il suo sguardo si concentrasse sulla trama del maglione che quel giorno Felix indossava. Nonostante il clima gelido e piovoso di quei giorni, Felix sembrava a suo agio e per nulla infreddolito come lei, con le braccia strette al petto sotto la giacca consumata.

-Che ne dici di andare da un'altra parte stanotte?

-Possibile che volete tutti portarmi in qualche luogo?

Disse sorridendo al pensiero della serata serena che aveva passato con Ashley sotto le stelle.

-Susie, non ho idea di chi ti porti chissà dove, ma posso prometterti che non te ne pentirai.

Felix si alzò e le porse la mano. Susan esitò solo per un istante, poi afferrò la mano calda di Felix e si fece condurre lontano dalla fredda stazione. La piccola macchina blu su cui salì, era certamente diversa da quella di Ashley. Nell'auto di Felix si respirava un vago odore di lavanda, colonia e cioccolato. Lo stomaco di Susan protestò, affamato e voglioso d'ingerire qualcosa di dolce.

-Mi sembra di sentire odore di cioccolata.

-Oh, è vero. Controlla lì dietro, dovrebbero esserci gli avanzi di una torta al cioccolato che ha fatto mia nonna.

Susan si sporse verso i sedili anteriori e afferrò un piattino avvolto in diversi strati di pellicola trasparente.

-Avevo chiesto a mia nonna di prepararmi una delle sue solite torte di pandispagna con la panna, lei è una cuoca eccezionale. Sfortunatamente, l'età avanza e lei ha preparato un dolce diverso da quello che le avevo chiesto.

-Vorrei avere anche io una nonna simile.

Susan srotolò la grande fetta di torta che era avanzata dall'involucro, senza neanche chiedere il permesso a Felix. Poi si voltò verso di lui, concentrandosi per far comparire sul suo volto l'espressione più dolce e tenera che possedeva.

-Mangiala pure, io ne ho presa anche troppa.

Susan lo ringraziò con uno smagliante sorriso, prima di affondare i denti nella soffice torta. Si lasciò sfuggire un verso compiaciuto, quando il sapore inteso del cioccolato la riportò alle torte che un tempo era solita cucinare con la madre.

-Potrà non essere l'eccellente torta con la panna e il pandispagna di tua nonna, ma è straordinaria.

Felix si lasciò sfuggire una risata, mentre teneva gli occhi fissi sulla strada scarsamente illuminata.

-Sarò felice di riferirglielo. Magari, la prossima volta potrai avere l'onore di assaggiare la sua specialità.

-Allora, dove stiamo andando?

Chiese prima di prendere un altro morso della torta.

-Ti piace la musica?

Si, le piaceva eccome. La musica la riportava ai suoi studi di pianoforte, a Leo.

-C'è per caso qualche cantante che si esibisce?

Felix scosse la testa e le ciocche bionde gli ricaddero sulla fronte chiara.

-Qualcosa di meglio.

Quando arrivarono alla misteriosa destinazione, Susan non riuscì a riconoscere quel luogo. Erano poco distanti dalla città, poteva ancora vedere le mille luci che animavano la cittadina in lontananza.

-Seguimi.

Felix l'aveva portata in un luogo a lei estraneo, era circondata da un prato verde curato e un percorso composto da miriadi di sassolini dalle più svariate sfumature. La via terminava con una grande struttura, certamente era un teatro, con delle alte colonne nivee e un tappeto rosso all'entrata. Due signori vestiti elegantemente erano appostati fuori dalla porta in vetro.

-Non avevo idea dell'esistenza di questo teatro.

-Neanche io lo sapevo, fino a qualche mese fa. A quanto pare, stasera ci sarà un'intera orchestra che suonerà, ma noi siamo poveri e non possiamo permetterci un biglietto.

Felix le afferrò la mano e la condusse nella parte anteriore del teatro, dove una piccola porticina faceva capolino fra lo spesso intonaco chiaro.

-Fidati di me, ho fatto questa cosa centinaia di volte.

Le disse prima di aprire la porta e portarla con sé all'interno del teatro. Si ritrovarono in una piccola stanzetta, forse uno sgabuzzino, ricolmo di stoffe, piume e vestiti consunti.

-Mi meraviglio sempre dell'imprudenza di queste persone che lasciano aperta questa porta.

Felix spostò qualche scatolo sul quale erano adagiati sgargianti vestiti di scena, rivelando una piccola botola di legno.

-Non credi che sia un tantino pericoloso?

Gli sussurrò, quando Felix aprì la porta della botola. Una rampa di scale scendeva verso il basamento del teatro. Era talmente buio, che Susan fu attanagliata dalle sue vecchie paure di bambina.

-Per niente. Io vado per primo, tu seguimi.

Le disse prima di scomparire sotto la botola. Susan si affrettò dietro di lui, tendendo una mano per accertarsi che lui fosse davanti a lei. Scese i gradini con attenzione, tentando di farsi guidare dal ragazzo e di non perdere l'equilibrio. Afferrò un lembo del maglione di Felix e si tenne aggrappata ad esso, finché le scale non finirono e i due si ritrovarono esattamente sotto il palco scricchiolante.

-Hai idea di quanto questo sia pericoloso?

Gli sussurrò, stringendo ancora l'indumento di Felix.

-Lo so, ma ne vale la pena. Adesso puoi anche lasciarmi andare, Winter.

Susan si scostò di scatto da Felix e biascicò delle scuse. Felix si addentrò cautamente fra le assi di legno, poi si sedette al centro, accanto a un barile ricoperto da un pesante telo e invitò Susan a fare lo stesso. Molteplici suoni animavano il teatro, gente che chiacchierava rumorosamente, maestri che ispezionavano i loro strumenti a corde prima dell'inizio del concerto, sussurri celati e ultime raccomandazioni. Dalle assi filtrava la luce del teatro e Susan fu grata che quel posto non fosse immerso nel buio come lo stretto corridoio. Si sedette accanto a Felix, con la sua spalla contro quella di lui e le mani a solo pochi centimetri di distanza. Improvvisamente, Susan non aveva più caldo.

-Spero che ne vanga veramente la pena.

Felix le fece segno di fare silenzio, perché il concerto stava per iniziare. Le corde tese di violini, viole e contrabassi vibrarono, producendo le prime note dell'esecuzione musicale. Agli strumenti a corda si aggiunsero quelli a fiato, armoniche arpe si alternavano alle leggere note dei flauti, fino alle chiare note di un pianoforte. Diverse melodie si susseguirono, riportando Susan a un lontano passato. Dodici anni prima, era tornata ad avere undici anni. Accanto a lei Felix socchiuse gli occhi, come per udire meglio le note, per imprimere nella sua mente le sinfonie di famosi compositori che si intervallavano. Anche Susan socchiuse gli occhi e rivide Giselle, sul suo pianoforte, durante uno dei concerti a cui la sua maestra l'aveva invitata ad assistere. Voleva esserci lei su quel palco, a stregare chiunque con le sue note e la sua dedizione. Quando riaprì gli occhi, era tornata nel suo corpo da ventitreenne. Voleva tornare a quel passato. Sentì la mano calda di Felix accarezzarle il viso e si voltò verso di lui. Solo in quel momento si accorse di stare piangendo, le lacrime le avevano rigato il viso e scendevano copiose sulla sua maglia celeste.

-Scusami.

Sussurrò e Felix lasciò ricadere la mano sul ventre. Susan voltò la testa e osservò le assi di legno, convinta che se solo ci avesse provato abbastanza, avrebbe potuto intravedere le stelle che quella notte illuminavano il cielo.

Quella notte, però, il cielo era coperto di nubi e se ne accorse solo quando lei e Felix uscirono dal teatro, poco prima della fine del concerto.

-Perché piangevi?

Fu la prima cosa che le chiese quando l'aria fredda li investì.

-La musica mi ha riportato a una persona che non c'è più.

Disse prima di alzare gli occhi al cielo. Pesanti gocce cominciarono a scendere e un ampio sorriso comparve sul volto di Susan.

-Oh, piove.

Constatò Felix avvicinandosi a lei.

-Amo la pioggia.

Disse Susan spalancando le braccia e lasciando che la poggia le lambisse il viso.

-Lo so.

Susan chiuse le braccia e si voltò verso Felix, i cui capelli inzuppati d'acqua si erano incollati sulla fronte.

-Si vede.

Aggiunse poi sorridendole. Le porse la mano e Susan lo fissò senza capire.

-Ho sempre desiderato danzare sotto la pioggia.

-Ti avverto, sono una pessima ballerina.

-Anche io.

Susan afferrò la sua mano, cominciando a volteggiare sotto il temporale. Tuoni lontani e fulmini luminosi la fecero sussultare, ma restò stretta a Felix.

-Rovineremo la tua auto.

Disse lei ridendo e fissò le gocce scendere leste sul volto di Felix, come lacrime che solcavano dolcemente la sua pelle.

-Si, ma quante volte ricapita un'occasione simile?

Susan appoggiò la testa sulla spalla di Felix e riuscì a percepire il martellante battito del cuore di lui. Si strinse alla lana bagnata del suo maglione e alla pelle ormai diventata congelata di Felix. Poteva rimanere tutta la notte lì, le sarebbe piaciuto. Felix la ricondusse a casa un'ora dopo e le lasciò un bacio sulla guancia prima di andare via. Susan posò una mano sul suo petto dopo esser entrata in casa. Batteva come quello di Felix. 

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Capitolo 15
*** 14. Amore e amicizia ***


Susan non era in grado di rimuovere il martellante pensiero di Felix dalla sua testa. Perfino al lavoro, durante uno dei suoi rari turni pomeridiani, lasciò quasi cadere il pesante vassoio, quando un giovane simile al ragazzo biondo passò davanti al locale. La somiglianza si fermava alla statura e al colore chiaro dei capelli, ma bastò per far perdere un battito al suo cuore. “Che sei stupida”, continuò a ripetersi, mortificando se stessa per la sua disattenzione. Quando Ashley la chiamò, Susan non fece cadere il telefono per un soffio. Il cellulare, dallo schermo ormai graffiato e i tasti mal funzionanti, non avrebbero ben retto l’ennesima caduta.
-Ti va di fare un giro? Passo a prenderti fra un’ora.
Susan ebbe solo il tempo di darle una risposta affermativa, poi la ragazza chiuse la chiamata. Poco male, avrebbe avuto il tempo di andare in biblioteca. La lettera dello sconosciuto era lì, immobile ad aspettarla.
7 Novembre
Cara sconosciuta,
il tempo vola e la mia “vacanza” è già terminata. Hai compreso alla perfezione i miei gusti, straordinario dato che non conosci neanche il mio nome, come io ignoro il tuo. Devo farti una confessione in questa lettera, spero solo che non ti annoino i miei pensieri e le vicende che si susseguono lente nella mia vita. Ho una sorella, una sorella che non ho avuto accanto a me per molti anni e di cui mi ero dimenticato. Sono stato adottato da piccolo, insieme a mia sorella maggiore, solo che lei capitò in un’altra famiglia. Era questo che dovevo fare fuori città, incontrare dopo anni mia sorella. L’ho riconosciuta subito, siamo talmente simili che non avrei mai potuto sbagliarmi, quando le sono andato incontro. Non sapevamo cosa dirci, non avevamo idea di cosa eravamo diventati, in chi il tempo e le esperienze ci hanno trasformati. Lei è mia sorella, ma in quel momento poteva essermi estranea quanto te. La tensione si è allentata dopo poco, siamo entrati in sintonia in breve tempo, ma ho ancora difficoltà ad abituarmi a lei. Si trasferirà in città a breve e io non posso che essere felice, perché avrò l’opportunità di spendere più tempo con ciò che è rimasto della mia famiglia. Sento di amarla e odiarla, perché mi ha lasciato solo e non ha cercato di contattarmi tempo prima. Dovrei darle una colpa di questo, della mia solitudine?
Scusami, volevo solo sfogarmi,
Il tuo sconosciuto preferito.
Susan, che non aveva mai conosciuto cosa significasse avere un fratello o una sorella, poteva solo immaginare cosa provasse chiunque si celasse dietro le lettere e Susan non era molto capace di dare consigli utili. Si diresse verso casa, sperando di avere il tempo per poter scrivere una risposta che la soddisfacesse.
9 Novembre
Caro sconosciuto,
posso solo in parte comprendere ciò che provi. Immagino che anche io sentirei gli stessi sentimenti contrastanti per qualcuno che mi è stato lontano per così tanto tempo. Ho sempre pensato alla solitudine come un problema interiore, ma spesso è la società che ci abbandona, che ci emargina. Sarei infuriata con una mia ipotetica sorella, se lei mi avesse abbandonato o non avesse tentato di trovarmi. Tuttavia, non puoi sapere se tua sorella non ha sofferto come te, se anche lei non ha desiderato avere qualcuno al suo fianco. Perdonatevi a vicenda, avete anni da passare insieme, potete essere una famiglia felice, è l’unico consiglio che posso darti.
Susan si arrestò, indecisa se confessare e chiedere un suggerimento a sua volta. Quando riprese la penna in mano, sentiva le parole cariche di consapevolezza chiederle di essere svelate.
Anche io ho una confessione da fare. Mai lo ammetterei ad alta voce, quindi questa è l’occasione perfetta. Credo di essermi innamorata. Certo, le mie questioni di cuore non possono interessarti, lo comprendo, ma ho bisogno di qualcuno che ascolti e comprenda le mie parole. Sento che tu puoi essere in grado d’intendere. Fin ad adesso, in amore non ho sempre avuto la carta vincente, diciamo mai. Le relazioni, quelle poche che ho avuto, sono sempre finite nello stesso triste modo. Lui sembra tutto ciò che ho sempre voluto, ma mai ottenuto. Ho paura, sono già stata abbandonata da qualcuno a cui mi ero legata al tal punto, da considerarlo l’unica mia anima gemella. Mille domande mi tormentano e ho tutti i sintomi delle classiche adolescenti invaghite, mani di burro e distrazione, costanti pensieri e sospiri, le solite stupidaggini che fanno le persone innamorate. Fortunatamente, non ho ancora mostrato la conseguenza di scrivere ovunque il suo nome e d’incorniciarlo di cuori. Ho da temere l’ennesima delusione, il solito cuore spezzato e la solitudine che sembra intenzionata a lasciarmi in pace per qualche tempo. Che cosa dovrei mai fare? Lasciare che il mio cuore batta per lui e non rivelarlo mai? Oh, perché l’amore dev’essere tanto complesso?
Unknown
Susan alzò gli occhi dal foglio e sentì il rombo della potente auto di Ashley e, senza aspettare che lei la chiamasse, afferrò il giubbotto di falsa pelle economica e la borsetta nera. Scacciò dai suoi pensieri Felix, lo sconosciuto e chiunque altro.
-Pronta per andare a fare un po’ di shopping?
Le chiese Ashley con uno smagliante sorriso. L’auto partì e Susan allacciò la cintura prima di risponderle.
-Ash, il mio portafoglio non è certo all’altezza del tuo…
-Oh, ma lo so già Susan! Proprio per questo voglio andare a comprare qualcosa insieme a te, oggi la mia carta servirà a entrambe.
Susan scosse la testa, era troppo orgogliosa per farsi comprare qualcosa da lei.
-Fidati, ho fin troppo soldi e non farai che un favore al mio conto in banca.
Non dubitava che quella fosse la realtà, ma vedendo il quartiere più ricco della città dove l’aveva condotta, seppe che insistere non avrebbe distolto Ashley dal suo scopo.
-Questo è divino!
Esclamò Ashley appena Susan sbucò dal suo camerino. Quando la benestante figlia dei Ridway aveva visto quell’abito rosso dalla scollatura vertiginosa, aveva insistito affinché Susan lo provasse. Si guardò allo specchio e si stupì di vedere che non era più la stessa. Allo specchio di quel lussuoso negozio c’era un’altra Susan Winter, senza i soliti cenci addosso, non indossava stivali consumati, ma scarpe in vernice dal generoso tacco e l’abito scarlatto le incuteva quasi timore.
-Prendilo.
-Io non ho il tuo fisico, Ash!
Disse Susan scoppiando a ridere. Era vero, ma rimirandosi allo specchio non poteva negare di apparire affabile.
-Beh, prova gli altri e poi scegli quali prendere.
-Quali? Intendi che vuoi comprarmene più di uno?
Quella sarebbe stata una lunga giornata piacevolmente faticosa per Susan. Al suo ritorno, aveva le mani cariche di borse. Ashley e Susan si erano divertite a provare abiti da gala, indossando scarpe i cui tacchi sottili minacciavano di spezzarsi e con addosso gioielli che non avrebbe mai avuto l’occasione d’indossare. Il suo armadio adesso era ricolmo di maglioni, abiti eleganti e gonne svolazzanti. Quella sera, si recò a lavoro con i nuovi pantaloni grigi che Ashley le aveva consigliato e una catenina che lei aveva insistito per pagarsi con i suoi risparmi. Comprendeva che Ashley volesse mostrarsi utile, fare partecipe Susan di agi che non conosceva, donarle ciò che non avrebbe potuto mai comprare da sé. Non poteva che esserle grata, perché aveva trovato un’amica sincera e un’anima buona con cui non sentirsi più sola.
Felix era lì, un’altra volta per un’altra notte. I passi di Susan erano incerti, mentre fissava il ragazzo di profilo, con lo sguardo rivolto lontano. Felix sussultò quando la vide sbucare dal nulla, non essendosi accorto del suo arrivo.
-Ti stai trasformando in un fantasma, Winter?
-Beh, dato il mio aspetto non posso escluderlo.
Susan prese posto accanto a lui, pregando che mai se ne andasse.
-Dato che la piccola gita di ieri sembra esserti piaciuta, potresti portarmi tu in un posto stasera.
In un posto? Quale luogo poteva mai piacere a Felix? Aveva imparato a conoscerlo, ma non credeva di essere in grado di azzeccare il posto giusto.
-Immagino che questo significhi che la stazione ha perso il suo fascino per te.
Azzardò lei con un sorriso. Felix scosse la testa e si aggiustò le maniche della leggera giacca blu.
-Voglio solo sapere cos’altro questa città nasconde.
C’era un posto. No, Susan non poteva tornare lì, non con Felix soprattutto. C’era centinaia di posti, perché la sua mente tornava sempre nello stesso?
-Bene, so dove andare.

Si maledisse per la sua scelta sconsiderata, ma sentiva il richiamo del suo passato ottenebrarle la mente. Voleva tornare nella sua scuola di musica. 

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Capitolo 16
*** 15. Lezioni ***



 

Per Susan, non era stata poi un'idea malvagia. Infondo, era pur sempre un luogo carico di pace, o almeno lo era per lei. Felix riuscì a trovare la scuola di musica con facilità e parcheggiò l'auto a poca distanza dalla struttura che appariva più lugubre che mai. Le iniettava uno strano effetto essere tornata dopo così poco tempo, con una compagnia inaspettata.

-Sei sicura che sia prudente entrare?

Le chiese Felix, quando furono accanto alle assi di legno allentate.

-Non sei forse stato tu quello che mi ha convinta a infiltrarmi in un teatro?

Felix rise, ammettendo che Susan non poteva che avere ragione. Entrambi s'insinuarono fra le assi cadenti e si ritrovarono all'interno della scuola. Senza luce e i rumori provenienti dalla strada, tutto appariva oscuro e potenzialmente pericoloso.

-Immagino che non sia la prima volta che tu vieni qui.

Le disse, osservando come Susan si muovesse agilmente fra i brevi corridoi. Stava scovando le immagini del suo passato fra le memorie, voleva ricordare quei luoghi com'erano stati un tempo.

-Questa scuola ha conosciuto tempi migliori.

Susan si voltò verso Felix, che in silenzio osservava la pittura delle pareti prossima a sgretolarsi e qualche solitario quadro, lasciato in balia della polvere.

-Tu c'eri mai venuto prima?

Azzardò Susan, mentre spalancava la porta di una stanzetta.

-No.

La stanza era la medesima dove aveva incontrato Angie Choran Manson. La luce della strada e della luna filtrava pigramente da una finestra sull'alta parete di destra e Susan si accomodò sul pavimento, accanto allo strumento sul quale decine di musicisti avevano prodotto melodie.

-Suonavo, tanti anni fa. Era il mio posto magico, uno dei miei luoghi sicuri, finché non ho deciso di lasciare gli studi. La mia insegnante, la migliore pianista che la città abbia mai conosciuto, è morta e i suoi sacrifici, il suo estenuante lavoro e la sua dedizione sono svaniti. Ecco cos'è rimasto, delle mura fragili e polverose, mobili che nessuno vorrebbe e qualche vecchio quadro senza alcun valore.

Felix si sedette accanto a lei, senza badare al pavimento di marmo sudicio. Restò a fissare Susan, con il volto illuminato dalla flebile luce della notte.

-Suonami qualcosa.

Le sussurrò e Susan avvertì il suo fiato leggero sul collo. Suonare? Da quanto i suoi polpastrelli non sfioravano i tasti di quello strumento? Nove, forse dieci anni erano passati, si chiese se ricordasse ancora anche solo una nota.

-Potresti suonarmi qualcosa tu.

Gli disse incontrando lo sguardo del ragazzo, a pochi centimetri da lei. I capelli del colore del grano di Felix erano arruffati e dal colletto della semplice maglietta bianca s'intravedevano delle iniziali ricamate, che certamente non erano quelle del ragazzo. Susan rimase a osservare le sue iridi scure, scordando chi era lei, chi era lui e dove si trovavano.

-Sono certo che tu sei più capace di me, non ho mai studiato nessuno strumento, anche se qualche volta un'amica di mia nonna mi ha insegnato qualche nota.

La voce di Felix era carezzevole e suadente, tanto da convincerla a distogliere lo sguardo dal suo e posizionarsi sullo sgabello avvolto dal pulviscolo. Erano poche le melodie che ancora serbava nella sua memoria, ma le note vennero da sé, quando premette il dito sul primo tasto. Erano note incerte, deboli e alla ricerca delle memorie passate. Non suonavano come quelle della dodicenne che era stata, non erano le stesse note felici e prive di malinconia. Susan abbozzò un sorriso, mentre le sue mani si muovevano, anche se con arrugginita destrezza. Non aveva mai avuto le mani di una pianista, fu la prima cosa che le disse Giselle.

-A questo però, possiamo rimediare.

Susan risentì il tono materno di Giselle, che la rassicurava. Con la passione, tutto appariva meno irraggiungibile, anche per le sue piccole mani di undicenne. Terminò nel momento in cui sentì le lacrime minacciare di sgorgare dai suoi occhi, non avrebbe pianto una seconda volta davanti a Felix.

-Perché non m'insegni?

Susan sorrise a quella richiesta, tornando accanto al ragazzo biondo.

-Harvey, io non sono granché, non potrei mai insegnare a nessuno.

-Immagino che per te sia difficoltoso, dopo tanti anni, ma vorrei essere in grado anche solo di saper suonare come te.

-Impossibile.

Felix assunse un'espressione poco convinta e le palesò il suo disaccordo.

-Credo che sia questo il tuo più grande problema Susie, non riesci mai a credere in te, nelle possibilità che ti vengono messe davanti.

Susan non poteva essere d'accordo con lui, ma sentiva dentro di sé che c'era un fondo di verità in ciò che Felix le aveva detto.

-Allora insegnami, mostrami come essere sicura come te.

-Io non ho nulla da insegnarti, sei tu che hai qualcosa da donare agli altri.

Non fiatò, non riusciva a pensare a una risposta da dare a quel ragazzo a cui si era talmente legata. Se Felix voleva suonare, allora lei avrebbe fatto del suo meglio per renderlo in parte possibile. Si alzò e invitò Felix a fare lo stesso.

-Le nostre lezioni iniziano adesso. Tutti i giorni alle tre del pomeriggio, sempre se tu non hai altri impegni. Cercherò anche io di ripassare qualcosa, affinché non sia troppo impreparata.

Susan non si esercitava da anni e non ricordava bene dov'erano stati conservati i suoi vecchi libri. Non se n'era disfatta, non avrebbe mai potuto. Felix sembrava felice del cambiamento repentino, comprendendo che le sue parole avevano avuto effetto su Susan.

-Allora mastra, da dove cominciamo?

Felix era entusiasta più di quanto lei avrebbe mai potuto essere, tanto che la convinse a rimanere fino alle quattro, quando ormai i suoi occhi erano annebbiati dal sonno. Il ragazzo aveva ormai memorizzato la strada che conduceva a casa sua, mentre Susan ignorava ancora molto di Felix.

-Buonanotte, piccola pianista.

Le disse scendendo dalla sua vettura, seguito a ruota da Susan.

-Vedrai che ne rimarrai deluso, sono parecchio inesperta e gli anni hanno peggiorato le cose.

Lui le sorrise fiducioso, quasi non avesse udito le sue parole.

-Non mi dai anche tu la buonanotte?

Le chiese rivolgendole un altro brillante sorriso. Susan si sporse in avanti, per poggiare le labbra sulla sua guancia. Quando si ritrasse, era certa che il suo viso avesse assunto lo stesso colore delle unghie curate color sangue di Ashley.

-Buonanotte anche a te, Felix.

Disse prima di voltarsi e precipitarsi nel suo appartamento. Se fosse rimasta un minuto in più, non avrebbe esitato ulteriormente a baciare Felix.

-Spero che tu abbia un buon consiglio per me, sconosciuto.

Sussurrò al cielo stellatoalla sue finestra. Le sarebbe servito tutto il suo scarno coraggio perconfessare di essersi innamorata di lui. 

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Capitolo 17
*** 16. Morte ai ricordi ***


-Ti avevo detto di prendere anche la gonna dorata, ma tu non mi hai ascoltata!

Susan ammise che Ashley aveva ragione, con la nuova camicia in seta nivea, la stretta e costosa gonna che le aveva consigliato la sua amica sarebbe stata l'ideale. Quando Susan aveva accennato all'incontro con Felix, Ashley era corsa da lei per sapere tutto sul misterioso ragazzo a cui aveva promesso delle lezioni di pianoforte.

-Meglio una delle mie classiche felpe, questi vestiti non mi si addicono.

-Scherzi? Come pretendi di far colpo con quelle orribili e vecchie maglie? Devi optare per qualcosa di più femminile.

Dire ad Ashley della sua infatuazione "di poco conto", non era stata un'ottima idea. Si era proclamata come un'esperta di relazioni e aveva sommerso Susan di mille domande e le chiese una dettagliata descrizione su tutto ciò che riguardava Felix.

-Lasciami fare Susan, se tutto va a buon fine potrò prendermi i crediti per aver messo insieme due anime affini.

Nel suo abito blu notte in pizzo, di certo Ashley sapeva cosa significava l'eleganza e la femminilità. Un suo sguardo aveva la capacità di stendere chiunque, quindi si affidò alla sua nuova amica, non curandosi del tempo che trascorreva. Infine, si erano accordate per un abbigliamento sobrio, anche se Ashley aveva lasciato il suo marchio, prestandole la sua giacca in pelle corallo. Con la camicia pregiata chiara, i pantaloni appena acquistati e quella giacca che non le apparteneva, Susan era divenuta un'altra persona. Erano mutati diversi aspetti della sua vita, da quando aveva deciso di andare in biblioteca quella prima volta. Se non fosse stato per le numerose lettere inviate, Susan non avrebbe mai conosciuto Ashley. La ragazza stava cambiando insieme a lei, trovando sempre un nuovo motivo per sorridere. Susan l'aveva dissuasa a non recarsi giornalmente al cimitero, i morti sono morti e lei non avrebbe mai potuto cambiare il corso degli eventi.

-Ti passo a prendere dopo questa "lezione", almeno mi racconti com'è andata.

Susan annuì, poi abbracciò Ashley e la ringraziò per il suo aiuto. Felix era in anticipo, con lo sguardo fisso sui tasti e le dita sospese, come se avesse avuto paura di sfiorare la superficie dello strumento. Alla luce del sole, i fantasmi di Susan sembravano acquietarsi.

-Ti ho portato qualcosa.

Felix balzò sentendo le sue parole, non avendo udito i passi leggeri di Susan. La osservò tirare fuori dalla giacca un vecchio libro, sottile e macchiato sui bordi.

-Era uno dei tanti libri che usai io.

Aveva faticato non poco per recuperare quell'unico volume, ma sapeva che quel libro era uno dei migliori in circolazione, ottimo per apprendere alcune basi.

-Sarò spietata con te.

Felix sorrise, senza la minima preoccupazione negli occhi scuri.

-Non mi aspettavo altro da te.

Susan non sfogliava quel libro da anni, serbava ancora la scrittura elegante di Giselle, che era solita inserire commenti su come eseguire il brano, oppure modificare eventuali note. I segni della matita erano stati tracciati un decennio fa, ma sembravano rimandare ancora alle lezioni settimanali, come se si fossero svolte solo pochi giorni prima.

-Per me è tutto incomprensibile.

Le disse, appena Susan appoggiò il libro sul leggio del pianoforte.

-Ne sono consapevole, quindi per prima cosa impariamo a leggere le note, poi cerchiamo di suonarle.

Felix era un ottimo allievo, non occorse molto tempo affinché memorizzasse la posizione delle note sul pentagramma e sullo strumento, le figure musicali e le pause. Susan costatò meravigliata di quanto ricordasse, nonostante i suoi ultimi studi sulla musica risalissero a tanto tempo prima.

-Per oggi va bene, il lavoro mi reclama.

-Posso tenere il libro? Stasera o domani te lo ridarò.

Susan annuì e riprese la giacca costosa di Ashley che aveva poggiato sul pianoforte. L'attenzione di Felix fu catturata da quell'indumento tanto distante dai regolari abiti indossati da Susan.

-Ti devono pagare molto al ristorante.

"In realtà è poco quello che mi hanno pagato per il momento" pensò infilando la giacca fiammeggiante.

-Non è mia, un'amica ha deciso di regalarmela.

Felix la fissava, cercando di comprendere se era una buona bugia per non rivelargli come aveva ottenuto il capo di marca.

-Devi avere ottime amicizie allora.

Susan scosse la testa, ma si rese conto che, sebbene lei non la vedesse così, l'amicizia con Ashley non le aveva che portato facilitazioni.

-Ho un'amica solamente, l'ho conosciuta da poco e ha più di quanto le serva.

-Beh, mi fa piacere vederti con qualcosa di diverso dai soliti abiti logori.

"Gli stessi che porti anche tu?". Susan aveva notato delle iniziali differenti sulla maglia del ragazzo, forse perché erano abiti di seconda mano, appartenuti a qualche fratello o a un amico che non ne aveva più necessità. Susan non aveva intenzione di chiedergli una cosa simile, per quanto i loro rapporti si stessero consolidando, lui era pur sempre lontano, aveva innalzato muri invisibili di cui Susan si era resa conto. Non raccontava nulla del suo passato, era sempre enigmatico sul presente e diceva di non aver idea di cosa lo aspettasse. Nonostante Susan avesse mostrato a lui i suoi ricordi, i suoi luoghi e parte delle storie che si celavano, sebbene gli avesse fatto leggere una delle sue lettere più riservate e raccontato di Henry, lui taceva su sé stesso. Non voleva mai parlare di sé, al contrario di qualsiasi altra persona, sempre pronta a raccontare il più possibile di ciò che lo riguardava o gli stava a cuore.

-Adesso devo andare.

Disse infine, lasciando scivolare il suo sguardo lontano da quello di Felix. Era come amare uno sconosciuto, sapeva il suo nome e riconosceva il suo sorriso migliore, ma non aveva idea di cosa si celasse dietro la maschera di riservatezza di Felix Harvey.

-Grazie Susan, so che non avresti voluto farlo.

Lei si voltò, consapevole che era vero. Susan non voleva tornare a suonare, era un cimitero quella scuola per lei, erano sepolti sotto strati di polvere e anni i ricordi e le emozioni. Aveva smosso tutto per lui, riviveva per Felix il passato al quale avrebbe voluto sfuggire. Perché lo faceva? Perché lasciava il suo cuore soffrire ancora per Leo, ogni volta che entrava e usciva dalla scuola? Leo è morto, si ripeteva, finché non associava al ragazzino anche un loculo immaginario, come se fosse morto veramente, dopo non essere tornato da lei. In realtà, Leonard poteva essere realmente morto e lei non lo avrebbe mai saputo.

-Avrei voluto invece, non devi ringraziarmi.

Era vero, sarebbe tornata comunque, era stata lei a deciderlo. Si voltò, distogliendo lo sguardo dal ragazzo dai capelli dorati di cui aveva compreso essere invaghita. Lo avrebbe rivisto presto, ma se avesse potuto, si sarebbe voltata una seconda volta e sarebbe rimasta con lui. Susan odiava gli addii, non aveva mai detestato qualcosa a tal punto. Non si voltò, lasciò la scuola di musica e scorse la macchina di Ashley. Fissò il marciapiede, dove nella sua testa un ragazzino era appostato, con gli occhi socchiusi per catturare meglio le melodie provenienti dalla scuola e le mani dentro le tasche dei jeans scoloriti. Era solo un fantasma, perché Leo era morto, nonostante Susan si ostinasse a scoperchiarne frequentemente la tomba. Leo era morto, come lo era parte di lei.         

 

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Capitolo 18
*** 17. Sangue e plastica ***


Secondo Ashley, Susan aveva ottime possibilità, solo molto terrore. Susan ne dubitava, ma qualche ora dopo, anche la lettera dello sconosciuto le dava gli stessi consigli della sua amica.
12 Novembre
Mia cara sconosciuta,
ho il permesso di chiamarti mia cara, no? Tornando a noi, comprendo che tu temi di restare affranta ancora una volta, ma la persona che ami non ti ha abbandonata, quindi perché temere? Non è stato lui e tu non devi lasciarti condizionare dal passato. Il mio modesto consiglio è: buttati, potrai anche uscirne fuori con il cuore frantumato, ma in futuro non rimpiangerai di essere rimasta in silenzio ad attendere, troppo spaventata. Ho vissuto una condizione simile alla tua e, se da una parte comprendo che ho sbagliato a tacere, dall’altra forse è stato meglio in questo modo, perché mi ha dato l’opportunità di riflettere e maturare. Tu invece, lascia che sia il tuo cuore a decidere, permetti che la ragione e la paura facciano un passo indietro e vivi.
Mia cara, non ho consiglio migliore da darti,
il tuo sconosciuto.
Il cuore di Susan sussultò quando lo sconosciuto l’aveva definita “mia cara” e si era proclamato il “suo” sconosciuto. Se solo avesse potuto incontrarlo, come aveva fatto con Ashley. No, Susan stava fantasticando troppo. Era quello lo scopo della pensata dei bibliotecari, permettere di liberare i propri pensieri e i sentimenti senza nessuno che attende di giudicarti. Lei poteva anche avere il coraggio di conoscere chi si celava dietro quelle lettere, ma lo sconosciuto poteva non essere d’accordo. Susan scrisse una lettera per ringraziarlo delle sue parole e per chiedergli di sua sorella e di come si stava evolvendo il loro rapporto. Quel giorno Rachel e Thomas avevano deciso di aprire il ristorante solo per l’ora di pranzo, avevano un evento di famiglia che li attendeva la sera e avrebbero preso un giorno di sosta dal servizio serale.  
-Abbiamo deciso di ampliare i nostri orizzonti e prenderemo anche un altro cameriere, abbiamo intenzione di restare aperti più a lungo e da tempo tu sei stanca di ore troppo faticose di lavoro.
Le aveva detto il signor Waterson, mentre passava le dita sulla barba grigia. Le aveva inoltre dato una discreta somma che coincideva con la sua paga mensile e Susan uscì dal locale, al termine del servizio pomeridiano, con il sorriso stampato sul volto. L’indomani avrebbe dovuto comprare ciò che le occorreva per i pasti, pagare alcune bollette e cambiare una lampadina che si era fulminata nel bagno, ma la cifra era sufficiente e le sarebbe rimasta certamente una parte, che avrebbe risparmiato in caso qualcosa le avesse impedito di lavorare. La piega presa dalla sua vita le piaceva, aveva Ashley e Felix, un lavoro e stava riacquistando il sorriso sul suo volto. Il prossimo passo era recarsi in biblioteca, consegnare la lettera e godersi la giornata libera. La sua cassetta non era vuota quella volta, erano stati lascianti almeno tre diversi bigliettini. Dando un’occhiata discreta alle altre cassette fragili, si rese conto di non essere stata l’unica a ricevere più posta del solito. Che la tanto odiata pubblicità l’avesse raggiunta anche lì? Il primo bigliettino era un disegno, un tenero coniglietto disegnato da una mano precisa e sicura le sorrideva, alzando la piccola zampa come per rivolgerle un saluto. Susan sorrise e conservò con cura il disegno, poi si concentrò sulle altre due lettere che aveva ricevuto. Un foglio conteneva alcuni versi su cui Susan si soffermò.
Ieri ti ho riposto il mio cuore,
oggi soffro per tua sola causa,
domani non saprai più
il mio nome.
Fra cent’anni ti verrò a cercare,
fra secoli ti ritroverò,
mio amore,
ti rincontrerò fra mille anni.   
Quelle parole scavarono un solco fra i sentimenti di Susan. Mille anni, era questo il tempo che sarebbe trascorso finché non avrebbe potuto rivedere i suoi occhi scuri? Si distrasse da quel pensiero e guardò l’ultimo foglio, dove qualche fanatico aveva scritto un misto di parole e previsioni sul futuro, chiedendole di professare le giuste credenze, di tenersi pronta per la fine. Susan accartocciò il foglio, che riteneva solo uno spreco di tempo e carta. Affidò la sua risposta alla cassetta e dentro di sé, sperò che quello sconosciuto l’avrebbe nuovamente definita “sua”. Susan guardò l’orario sul grande orologio in legno della biblioteca. Erano appena le quattro del pomeriggio e poteva andare ovunque, quella serata era sua. Chiamò Ashley per informarla che era libera e la ragazza le disse che sarebbe passata a prenderla a casa sua nel giro di una mezz’ora. Susan uscì dalla biblioteca, nel suo cardigan blu notte e con indosso una semplice maglia bianca e una gonna in tinta. Quel giorno un timido sole aveva illuminato e infuso la giornata con i suoi raggi autunnali e adesso la città era avvolta da un raro tepore. Attraversò le strade caotiche senza badare molto alla gente indaffarata che le passava davanti, che non le rivolgeva nient’altro che uno sguardo assente. “Sembrano di plastica” rifletté quando una donna nel suo completo nero le passò accanto di fretta, urtandola. “Tutta plastica, solo finzione e apparenza”. Finché restavano al loro posto, a Susan non interessava molto di quelle bambola dalla carne simile alla sua. Infondo, lei non era poi così dissimile da loro.
L’unico problema della plastica è che brucia e quel giorno incendiò. Lo scontro poteva essere stato causato dall’uomo trentenne alla guida, come dal signore in compagnia della moglie, nel pick-up cinereo. La dinamica non fu chiara, l’unica cosa che Susan riuscì a imprimere nella sua memoria a lungo termine, fu lo scontro violento, la carcassa dell’auto che si trovava sulla sua traiettoria. Non ci rifletté molto quando si scagliò sul marciapiede e finì sull’asfalto che le lacerò la maglia candida. Piccole fiammelle cominciarono a bruciare a pochi metri da lei. Suo padre, poteva esserci suo padre lì dentro. Si alzò di scatto e corse verso la vettura che aveva subito più danni. In breve tempo, tutti i passanti indaffarati avevano cominciato a correre urlanti, chiedendo aiuto e attaccandosi ai propri smartphone. L’auto capovolta mostrava l’uomo intrappolato nel suo posto da guidatore, con la mano fracassata dai cristalli del vetro e il sangue sgocciolante da una ferita alla testa. Le mani di Susan si fecero strada fra pezzi di vetro e i frammenti dello sportello. Far uscire l’uomo era difficile e urlò con quanto fiato aveva in gola, affinché qualcuno l’aiutasse. I suoi polpastrelli raggiunsero la carotide dell’uomo e un fievole battito era ancora udibile.
-Presto!
Continuò a urlare, finché un uomo non le venne accanto e l’aiutò a liberare l’uomo dalla sua gabbia di metallo. Parecchie ferite erano state aperte dalla colluttazione sulla pelle dell’uomo e si potevano scorgere delle bruciature. Quando la plastica brucia, emette un odore orribile. Susan mise l’uomo in posizione laterale di sicurezza, dopo aver cercato di fermare la fuoriuscita di sangue dalla ferita alla testa. Aveva le mani e gli abiti bianchi grondanti di sangue e polvere, ma dopo aver fatto il possibile per l’uomo, si diresse verso la seconda auto. L’uomo alla guida era ancora cosciente e aveva preso solo un brutto colpo al collo, oltre ad aver subito una pioggia di vetro sulla sua testa, che gli aveva aperto diversi tagli sul corpo. La donna, era riversa per terra con il viso pallido. Un rivolo di sangue scendeva lugubre dall’orecchio sinistro della donna.
-No.
Sussurrò Susan e sentì gli occhi bruciarle. L’otorragia significava trauma cranico, che si traduceva in morte. Spostare la donna era inutile, poteva solo pregare qualcuno di avvisare immediatamente che una donna giaceva morente sulla strada. I soccorsi arrivarono e i due uomini divennero stabili, per la donna le lotte furono estenuanti. Susan fu chiamata dalle autorità per raccontare la sua versione dei fatti e fu lì che seppe che stavano indagando per omicidio stradale colposo. Si ritirò a casa sua alle sette di sera, non era stato necessario spiegare molto ad Ashley, dato che la notizia si sparse velocemente per tutta la città. Susan non voleva parlare, desiderava solo recarsi nel suo appartamento e buttar via gli abiti imbrattati di sangue e rovinati dall’asfalto. Scagliò gli abiti del cestino, senza riflettere, poi si stese sul suo letto e si lasciò andare ai suoi pensieri. Secondo uno dei medici, aveva fatto del suo meglio e comprese subito che Susan aveva avuto a che fare con il primo soccorso, dopo aver visto come aveva trattato le ferite dell’uomo. Susan tornò a contare le stelle, apparentemente sbiadite quella notte. Passò la novantaduesima stella, ma il sonno non era ancora giunto. Al millesimo puntino luminoso che tentava di contare, si alzò dal suo letto e infilò i suoi soliti abiti logori. Voleva suonare, voleva liberarsi dal ricordo del padre e dalla sensazione d’impotenza difronte alla morte di una donna sull’asfalto ancora caldo. Andò a suonare, nella scuola di musica ormai fatiscente che era divenuta l’unico luogo nel quale rifugiarsi. La tremula luce della luna proiettava spettri nella stanza del pianoforte e poteva sentire la voce del padre aleggiare per l’aula. Si lasciò andare alla musica, le sue dita vagarono per i tasti formando melodie che credeva di aver dimenticato. Le lacrime non tardarono a giungere e i polpastrelli cominciarono a bruciarle, a causa della foga che stava mettendo nel brano carico di malinconia. Le dita le scivolarono sulle ultime note e batté il palmo contro i tasti. Gridò e pianse, ripensando al rivolo di sangue che lento bagnava il nero dell’asfalto. Era in ginocchio sul pavimento, a pochi passi dal suo amato strumento, quando braccia forti la circondarono. Si dimenò e tentò di liberarsi, ma appena riconobbe il tocco caldo e rassicurante di chi la stringeva a sé, si lasciò andare.                                      
 

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Capitolo 19
*** 18. Felix ***


Quando si risvegliò, la luce del sole filtrava da una tenda pesante blu. Non era la sua stanza e quando cercò di richiamare ciò che era avvenuto la sera precedente, si accorse che la sua memoria non aveva serbato molto. Aveva ceduto alla stanchezza poco dopo che quelle braccia l’avevano circondata, non ricordava tanto altro. Aveva ancora addosso la sua felpa dalle sfumature ametista e i pantaloni sportivi scuri. Le lenzuola, che le erano state rimboccate, erano finite sul pavimento. Susan guardò la stanza, cercando di capire dove si trovava. Le pareti bianche erano spoglie, con l’unica eccezione di un dipinto marino difronte a lei. Un grande armadio nero era appoggiato alla parete di sinistra, dal lato opposto la finestra coperta dalla tenda riempiva la parete. Alcuni vestiti erano sparpagliati su una sedia e sulla scrivania di fronte a lei non poche carte e vari oggetti erano disposti senza un preciso ordine. Si alzò e indossò le sue scarpe, poggiate accanto al letto a due piazze. Quando uscì dalla camera, la luce la investì e restò per qualche secondo con gli occhi socchiusi.
-Buongiorno!
Susan vide Felix dal corridoio che armeggiava con qualche padella nella cucina. Non badò molto ai capelli arruffati e all’aspetto devastato che doveva avere il suo viso, si diresse nella cucina minimalista e bianca di Felix.
-Perché sono qui?
Felix si voltò verso di lei e le rivolse un sorriso.
-Perché non dovresti?
Susan stava per ribattere, ma Felix alzò una mano per fermarla.
-C’è il bagno a sinistra, prenditi tutto il tempo che vuoi e poi ne riparleremo.
Non se lo fece ripetere due volte. Sciacquò il viso con l’acqua gelata e legò i suoi capelli in una coda, poi si specchiò. Il suo riflesso era distorto, i suoi occhi castani erano iniettati di sonno e un’espressione malinconica traspariva. Quando uscì dal bagno, l’odore di pancake e cioccolato le risollevò l’umore. Felix stava sistemando qualche piatto sulla tavola di legno chiaro. La piccola cucina era luminosa, ricolma di piantine verdeggianti e predominavano i colori chiari. Susan prese posto accanto a Felix e fissò i suoi occhi su di lui. Indossava una maglia a maniche corte, nonostante l’inverno fosse alle porte e sembrava avere un aspetto sereno.
-Allora?
Felix si sedette e incontrò il suo sguardo.
-Sapevo che eri lì, ho sentito dell’incidente e immaginavo che avessi bisogno di qualcuno, che non avresti voluto rimanere sola.
Susan abbassò gli occhi sul suo piatto ricolmo di dolci e sentì la fame che le attanagliava lo stomaco.
-Perché sono qui?
-Avevi bisogno di aiuto e non potevo lasciarti da sola, tu non lo avresti mai fatto.
-Io sto bene.
Felix intercettò subito la sua bugia e alzò le sopracciglia. Susan sospirò, prima di far ricadere nuovamente il suo sguardo sul piatto.
-Ho sentito la notizia al telegiornale e mi sono precipitato alla scuola di musica, appena finito di lavorare.
-Perché non in stazione?
-Non era il tuo luogo, sapevo saresti andata lì.
Felix prese uno dei pancake ancora caldi e la incoraggiò a fare lo stesso. Susan addentò il dolce e sentì l’aroma della cannella che la rallegrò.
-Perché hai nominato l’incidente, cosa c’entra?
-Ho visto come hai guardato la mia macchina la prima volta che ci sei salita, la fretta che hai avuto nell’allacciare la cintura di sicurezza e lo stesso sguardo di chi soffre di claustrofobia.
Per Susan non bastava quella risposta, anche se rimase interdetta quando Felix le disse di quei dettagli che lei stessa non aveva mai notato.
-Hai ricevuto decine di chiamate qualche ora fa, così ho deciso di rispondere io. Era la tua amica, Ashley Ridway, era preoccupata per te. Le ho detto di averti portato a casa mia e che stavi dormendo in quel momento. Mi ha chiesto se avevi bisogno di qualcuno che ti accompagnasse a casa, o se necessitavi di qualcosa, ma le ho detto di non preoccuparsi. Mi ha detto di tuo padre, di cosa è successo e del perché avevi reagito in tal modo alla vicenda.
Le lacrime minacciarono di rigare il viso di Susan, ma lottò contro sé stessa per non mostrare le proprie debolezze ancora una volta. La sera precedente si era lasciata andare alle braccia di Felix, noncurante di celare il suo dolore.
-Hanno poi parlato di te ieri sera, hanno detto che tu hai assistito all’incidente e aiutato le autorità, oltre che soccorso le vittime. Se non ci fossi stata tu l’uomo…
-Una donna è morta davanti ai miei occhi e io non ho potuto far nulla.
-Tu non potevi fare altro, hai avuto il coraggio di aiutare nonostante quello che è successo a tuo padre. Sei stata senza paura Susan.
Tornò a prestare attenzione al suo piatto, perché non voleva richiamare il ricordo della giornata precedente.
-Come stai?
Le chiese, appoggiandole la mano destra sulla spalla. Susan incontrò il suo sguardo, scorgendo la sofferenza del suo cuore specchiarsi negli occhi di Felix. Lui sentiva il suo dolore, lui vedeva le sue mani sporche di sangue e avvertiva le lacrime calde sulle guance come lei.
-Come se mio padre fosse morto, una seconda crudele volta.
Felix non aggiunse altro, sapevano entrambi che le parole non aiutavano più. Susan avrebbe ricucito quell’ennesima ferita, con la consapevolezza che la strada aveva preso un’altra vittima e per poco non aveva scalfito anche lei. Finì la sua colazione, aveva fame e voglia di dimenticare. Aiutò Felix a sparecchiare, decisa a rivolgergli altre domande.
-Hai per caso due letti?
Felix scosse la testa mentre adagiava i piatti nel lavandino.
-Però ho un divano confortevole.
Aveva visto solo qualche stanza della casa di Felix, ma le apparve più grande e ospitale della sua.
-Ti pagano bene al pub?
Felix rise e si voltò verso di lei.
-Era la casa di mia nonna, ma lei non la abita più da molti anni, così ha deciso di regalarla a me. Con qualche aggiustatina e qualche mobile polveroso in meno, sembra quasi la casa adatta a me.
-Perché indossi abiti di seconda mano e logori, se non sei nella mia stessa condizione?
Felix non comprese subito a cosa si riferisse, ma poi Susan gli accennò delle diverse iniziali sulla maglia.
-Non mi occorrono abiti nuovi, fino a qualche tempo fa indossavo ancora le magliette di quando avevo tredici anni. Alcuni dei miei vestiti erano di mio cugino, non gli servivano più.
Susan annuì, poi prese il suo cellulare e mandò un messaggio ad Ashley, per ringraziarla e chiederle di non preoccuparsi per lei.
-Felix.
Lui si voltò, aveva appena finito di riordinare. Susan si mosse di qualche passo, fino a quando il ragazzo non era che a un metro di distanza da lei. Se avesse potuto, avrebbe annullato il distacco fra loro, ma si trattenne dal farlo.
-Mi hai detto che io avrei fatto lo stesso e forse è così, ma tu hai fatto più del dovuto. Non mi hai lasciata sola, mi hai ceduto il tuo letto e ti sei occupato di me, che ho rivisto la morte in faccia. Non so come potrei mai ringraziarti.
Felix le sorrise e si avvicinò di un passo, fino a far sfiorare le sue dita con quelle di Susan.
-Non potevo lasciati sola, eri talmente affranta. Vorrei poter estirpare il tuo dolore, ma non posso, come tu non hai potuto nulla difronte a quella donna. Abbiamo i nostri limiti Susie, siamo pur sempre umani.
Non aveva altro d’aggiungere, così si lasciò stringere nuovamente da Felix, abbandonandosi alla sua sicurezza. La maglia del ragazzo aveva un vago odore di cannella e zucchero, mentre le sue braccia erano accoglienti come la sera precedente, erano il suo nuovo luogo sicuro.
Tornò a casa alle sei del pomeriggio, pronta per la serata di lavoro che l’attendeva. Non voleva lasciarsi cadere una seconda volta, sapeva che non avrebbe potuto permetterlo. Aveva passato gran parte della giornata con Felix, a parlare e a ridere l’uno dell’altra, finché non era giunta l’ora di pranzo. Felix era un cuoco provetto, più capace di quanto avrebbe mai potuto esserlo lei. Il resto del pomeriggio lo avevano trascorso su confortevole divano sul quale lui aveva dormito tutta la notte, guardando qualche film e discorrendo sulle loro letture attuali. Per Susan era chiaro che non si trattasse più di un’infatuazione, bensì di amore. Amore, era la parola adatta per racchiudere ciò che provava per Felix? Susan non s’interrogò oltre, sapeva che non occorrevano altre domande. Leo, lo aveva amato e continua ad amarlo, di un amore che trascendeva gli anni e la fisicità, che l’aveva condotta alla sofferenza e alla gioia. Poteva amare Felix allo stesso modo? Non rispose alla sua domanda, conosceva già la risposta.             

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Capitolo 20
*** 19. Stanton e Caldwel ***


Ashley l’aveva invitata a casa sua, il giorno seguente. La sua cucina poteva non essere al pari di quella di Felix, ma il suo primo rimaneva superbo.
-Credo che sia stato incredibilmente tenero da parte sua.
Susan non aveva tardato a raccontarle tutto, era partita dalla parte peggiore per giungere alla migliore. Ashley si era subito offerta di ospitarla in casa sua, di aiutarla e portarla ovunque volesse.
-Sto bene Ash, davvero.
Era stata la sua unica risposta. Ashley si era accontentata, ma aveva insistito per portarla fuori per l’intera giornata. Le supposizioni di Felix erano reali, Susan aveva acquistato un timore nei confronti delle automobili.
L’inverno era infine giunto. Il freddo di quel giorno aveva spinto molti a restare in casa e il parco cittadino, solitamente affollato da famiglie, adolescenti e anziani, era insolitamente vuoto. Gli alberi avevano perso quasi tutte le foglie morenti e secondo le previsioni, quell’anno avrebbe anche nevicato.
-Da piccola ci venivo spesso con Jane. Lei adorava i parchi, l’aria fresca e l’erba cosparsa di rugiada.
Ashley sorrideva, ma la nota malinconia nella sua voce era palese.
-Adesso, non riesco più a vederla correre felice qui come un tempo.
-Non riesci perché credi che lei non sia più felice.
Ashley la guardò, forse non comprendendo le parole di Susan. Per lei, il concetto di morte era direttamente proporzionale a quello di sofferenza e malinconia eterna. Le anime in pace non esistevano, Susan stessa aveva trovato difficoltà a scorgere un lato differente della perdita di qualcuno. La donna sull’asfalto, aveva cominciato a perseguitarla nei suoi incubi. Ora, il posto accanto a suo padre, nella macchina bianca di cui andava fiero, era occupato dalla donna, con le orecchie gocciolanti e gli occhi irrimediabilmente sigillati.   
-Ma lei lo era, felice. Era felice mentre io piangevo, perché voleva che io fossi forte.
Susan annuì e non rispose, era meglio lasciare i morti alle loro tombe e ai ricordi. Il parco non era l’unico luogo dove Ashley la trascinò. Secondo lei, per ritrovare il “contatto con la natura”, non c’era posto migliore di una foresta. Ashley si recava sovente nel boschetto di Stanton, a solo nove chilometri di distanza dalla città. Era un luogo quasi surreale e qualche leggenda di poco conto era nata fra quei rami contorti e la nebbia onnipresente. Tuttavia, era frequentato raramente a causa del percorso intralciato da tronchi e rami. Susan non era mai stata in quella foresta, sua madre ne aveva il terrore quando, da piccola, le era stata raccontata la storia di un fantasma che percorreva quei sentieri lugubri. Lei, oltre il negozio di dolciumi sulla strada opposta alla sua, non aveva mai osato andare. Non perché le fosse impedito, ma Susan non aveva mai voluto conoscere cosa si trovasse “oltre”. Adesso, rimpiangeva di non aver alimentato il suo animo con la curiosità di comprendere meglio la sua realtà. Ashley invece, amava le foreste, il verde dei prati e le alte chiome che s’impadronivano del cielo. Che alla sua amica la vegetazione era sempre piaciuta, lo si poteva ben comprendere dalle numerose piante e fiori che teneva gelosamente per casa. Il giardino di Ashley era adorno di piante di ogni specie, con l’aggiunta di qualche fiore tropicale e Susan non aveva mancato a chiedersi come potessero sopravvivere piante abituate a climi tanto caldi, nella fredda città piovosa.
Non c’erano panchine, non era lastricata la stradina che conduceva all’interno della foresta e non erano state istallate fonti d’illuminazione o cartelli d’avvertimento. Non era stato difficile comprendere che il paradiso verde non era mantenuto nel migliore dei modi. Un cartello pericolante indicava il nome della foresta, ma non diceva molto altro.
-Avanti, vedrai.
La incoraggiò Ashley dopo aver visto l’espressione dubbiosa e timorosa di Susan. Non poteva che dare ragione alla sua amica, la foresta era un luogo raro e mistico, nulla a che vedere con le foto scattate con perfetta luce e risoluzione che ogni tanto ammirava su internet. La sua pelle poteva sentire le foglie frusciare e il vento dimenarsi. Nonostante strati di cotone e la salopette chiara di tessuto pesante, avvertiva ogni minimo sussurro bisbigliare sulla sua pelle e scavarle dentro, alla ricerca delle sue emozioni nascoste. La luce filtrava dalle cime degli alberi e non era facile destreggiarsi fra i tronchi a terra e i piccoli rami scricchiolanti.
-Una volta provai a correre in questo bosco, armata di abiti comodi e cuffie alle orecchie. Sono inciampata e mi sono procurata una brutta storta. Da quel momento, ho compreso che non era il luogo migliore dove praticare attività sportive.
Susan rise al pensiero di Ashley che tentava di evitare ogni minimo ostacolo, ma che infine era stata battuta dalla foresta e si era ritrovava a giacere per terra.
-Beh, almeno tu hai mai provato a correre, al contrario di me.
Ashley alzò le spalle e si accostò allo spesso tronco di un albero forse secolare.
-Il fisico non è tutto, non se non possiedi gli abiti adatti per mostrare quanto sangue hai buttato per ottenere quel risultato. Certo, puoi anche farlo per te stessa, ma lascio questo a chi ha più caparbietà di me e un metabolismo più lento del mio.
L’aria fra quel tripudio di alberi era frizzante e invernale, ma Susan non si curò del clima, la sua attenzione era rivolta alla natura attorno a lei. Si sedette su una sporgenza rocciosa, viscida a causa della presenza del fitto muschio che guarniva il boschetto. Ashley era a pochi passi da lei, contro il tronco sul quale crescevano pigramente dei funghi.
-Abbiamo già passato la metà del mese, mi sembra che il tempo sfugga.
Erano passati due mesi da quando aveva bruciato la lettera che Henry non avrebbe mai letto. Le cose erano cambiate, in un arco così breve di tempo la vita di Susan era mutata incredibilmente.
-Dove sono i tuoi genitori, Ash?
La ragazza si voltò verso di lei, stupita dalla domanda improvvisa.
-Chi può saperlo? Forse sono a New York oggi, domani potranno essere a Londra, ma non sono mai qui.
Susan avrebbe potuto dire la stessa cosa di sua madre, intraprendente e vogliosa d’esplorare il globo. Dov’era adesso? Non si sentivano da giorni e Susan non aveva molta voglia d’intrattenersi al telefono con lei.  
-Ash, chi hai oltre me?
Lei aprì la bocca con aria sicura, pronta a menzionare una sfilza di nomi, forse di conoscenti, vecchie cugine e amici d’infanzia, magari qualcuno che lavorava presso il suo stesso capo. Ashley rimase però in silenzio, non nominò nessun possibile amante, o qualche amica su cui sentiva di poter sostenersi.
-La solitudine è qualcosa di terribile.
Disse infine, dopo aver inutilmente cercato qualche nome o qualche cognome, anche solo un volto amichevole.
-Lo so.
Susan si accostò a lei e le circondò le spalle con le braccia. I capelli lisci e biondi le coprivano il capo chino e i suoi occhi chiari fissavano le scarpe firmate da chissà quale importante stilista. Le foglie attorno a loro vibravano, fra i colori sempreverdi e quelli ormai appassiti da settimane. Rimasero nel bosco di Stanton per due ore, poi per Susan era arrivato il momento di guadagnarsi con il sudore ciò che ad Ashley non era mai mancato.
Adair Caldwel non le aveva fatto subito un’ottima impressione. Con i riccioli ramati che gli ricadevano sul volto, gli occhi grandi e azzurri da perfetto innocente, le numerose lentiggini che gli tempestavano le guance e la statura media, appariva un’incolpevole creatura celeste. Quando fece cadere il suo pesante vassoio per la seconda volta, Susan sospirò alzando gli occhi al cielo. Aveva solo un anno in meno rispetto a lei, ma in quanto a forza ed equilibrio, Susan non poteva che essere migliore. Per quanto fosse sempre stata sbadata, Adair la superava di gran lunga.
-Mi dispiace, devo solo abituarmi.
Lei annuì e Rachel le rivolse uno sguardo comprensivo. Infondo, era certa che anche lei non era stata perfetta i primi giorni. Nonostante la sua inesattezza, grazie all’aiuto di Adair quella serata sembrò durare di meno.Si sarebbero divisi i turni all’ora di pranzo e avrebbero collaborato assieme alla sera. Thomas Waterson le aveva garantito che il suo compenso mensile non sarebbe variato di molto, il ristorante stava riscuotendo un moderato successo nella zona e i guadagni erano ottimi. Anche quel mese, avrebbero chiuso con un profitto oltre le previsioni d’inizio stagione. Mancavano ancora poco meno di due settimane all’arrivo di dicembre.
Al termine del servizio, Adair indossò la sua giacca in pelle nera e attese che Susan uscisse dal locale.
-Ti va di fare un giro per conoscerci meglio?
Susan stava per simulare una scusa, dire di no al nuovo cameriere dell’EndLand, ma alla fine accettò di buon grado. Quando Adair la condusse verso il luogo dove aveva parcheggiato la moto scura, Susan ci ripensò.
-Non mi fido molto dei motori.
Il ragazzo scoppiò a ridere e qualche ricciolo gli scivolò sulla fronte.
-Non puoi che fidarti di me, Susan.
Sospirò, tirò velocemente fuori il suo cellulare e inviò un breve messaggio a Felix, dove gli diceva che non sarebbe stato possibile per lei andare in stazione quella notte. Parte di lei avrebbe voluto correre lontano dal ragazzo lentigginoso per andare da Felix, d’altro canto avrebbe potuto approfittarne per crearsi un nuovo amico. Adair estrasse due caschi neri e fissò Susan con un vago sorriso sulle labbra.  
-Avanti, passami quel casco.   

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Capitolo 21
*** 20. Avorio ***


Correva veloce, fra le strade pigramente illuminate e l'aria gelata di quella notte. Susan tremava e istintivamente si strinse ad Adair con più forza. La condusse in un locale dove non era mai andata, di cui non conosceva l'esistenza. Il luogo non emanava di certo l'atmosfera a cui era abituata, non con le luci soffuse e le false fiamme di luce viola e blu. Ogni tavolo di un nero lucido era riempito di bicchieri mezzi vuoti e candelabri gotici che emettevano luce di quell'insolito colore. Adair la guardò e le sorrise, come per dirle che quel luogo lo affascinava. L'atmosfera era cupa e l'odore dell'alcol si confondeva con un insolito profumo d'incenso. Tuttavia, quel luogo non era poi così malvagio. Susan continuò a fissare le persone sedute ai tavoli e al grande bancone in marmo nero striato di sfumature chiare. La musica, perfettamente in tema con il locale, era prepotente e rendeva le chiacchiere della gente semplici borbottii che era impossibile intercettare.

-Che te ne pare?

Le urlò Adair e lei fu tentata di voltarsi e lascialo lì solo. Oltre che non sapere la strada per tornare indietro, Susan stava solo giudicando troppo aspramente il luogo. Se non fosse stato per il volume della musica, avrebbe meglio apprezzato quello che appariva quasi come un covo di occultismo. Susan non rispose alla domanda di Adair, ma gli sorrise, mostrando un rado apprezzamento. "Almeno", pensò Susan "alla fine di questa serata potrei aver guadagnato un nuovo amico". Adair appese la giacca a un tetro manichino che simulava uno scheletro umano. Susan si tenne stretta la giacca in dispendiosa eco-pelle che aveva acquistato con Ashley. Si diressero verso il barman nella sua tenuta grigio-nera lucida, che serviva drink d'ogni tipo e colore. Susan si sedette accanto a una donna con indosso un vestito di trina nero aderente, che aveva appena serrato le unghie laccate su un bicchiere ricolmo di un liquido rossiccio. Distolse lo sguardo e incontrò gli occhi chiari di Adair.

-Non conoscevi questo posto?

-No, solitamente sono altri i posti in cui vado.

"Come le biblioteche o scuole di musica abbandonate" pensò e rivolse un sorriso ad Adair. Il ragazzo ordinò qualcosa da bere e chiese a Susan se voleva lo stesso. Per un attimo esitò, poi diede la sua approvazione ad Adair. Non aveva mai saputo reggere l'alcol e non lo aveva neanche mai apprezzato, ma non aveva intenzione di rivelarlo al ragazzo. Il barman servì loro un drink azzurrino in bicchieri di vetro rettangolari. Susan passò le dita sugli angoli appuntiti del bicchiere, indugiando a bere il cocktail azzurro.

-Mi dispiace se ho fatto degli errori oggi, ma non sono eccellente in queste cose.

-Non devi scusarti con me, ci sono passata anche io.

Lo rassicurò e avvicinò il bicchiere alle labbra. Il drink era peggiore di quanto credesse, un sapore intenso e brusco le scivolò lungo la gola e Susan posò il bicchiere dalla curiosa forma cercando di non dare a vedere il suo disgusto.

-La prima volta fa sempre quest'effetto.

Le disse Adair, prima di svuotare il suo bicchiere in pochi sorsi.

-Perdonami se non era di tuo gusto, la prossima volta sarai tu a scegliere.

Susan avrebbe voluto dirgli che non ci sarebbe stata una prossima volta, ma accennò un sorriso e si volse a osservare gli altri clienti del locale. La sua attenzione ricadde su una ragazza bionda, con uno stretto abito borgogna e un luminescente girocollo. Accanto a lei, un altro ragazzo con indosso una camicia a pois in tinta con l'abito della bionda stava degustando del vino dall'aria costosa. Susan lo riconobbe subito e si voltò di scatto, non volendo che il ragazzo la vedesse.

-Vecchie conoscenze?

Le chiese Adair accennando un malizioso sorriso.

-Più o meno.

Rispose con indifferenza, tornando a concentrarsi sul suo drink. Trangugiò un altro sorso del liquido azzurrastro e strinse la mascella per mostrare quanto lo trovasse disgustoso.

-Potrei scommettere che è un ex.

Susan annuì, non aveva necessità di mentire. Avrebbe preferito non affrontare l'argomento con Adair che per lei era poco più di un estraneo, ma il ragazzo le dava l'impressione che poteva consegnargli la sua fiducia.

-Hai bisogno di prenderti qualche rivincita? Ci sono passato anche io e so cosa si prova.

-Oh no, a me non importa più nulla di lui.

Adair non aggiunse altro, sentendo il tono sicuro di Susan. Tuttavia, l'idea di mostrare a Henry che poteva sostituirlo con facilità, l'allettava.

-E va bene.

Con i suoi pantaloni gessati di una taglia più piccoli, perché secondo Ashley le davano un maggior risalto sulle gambe, il maglione dai colori coordinati attentamente con il resto del completo e sprovvista di qualsiasi gioiello, fatta eccezione per la catenina in oro che aveva preso a portare, Susan era il contrario della ragazza con Henry. Adair abbandonò il suo posto al bancone e le prese con garbo il braccio e andarono in direzione dei due. Si accomodarono su un divanetto scuro, difronte a Henry e alla misteriosa ragazza bionda. Guardandola con maggiore attenzione, l'ennesima fiamma con i capelli decolorati di Henry, non era la stessa che l'aveva squadrata come una rivale al ristorante qualche sera prima. A quanto le apparve, per Henry non era complesso trovare una nuova ragazza con fulminea sveltezza. Adair le circondò le spalle con il braccio e le sorrise amabilmente, intavolando una conversazione sulle sue passioni. Susan rimase ad ascoltare la voce suadente di Adair, preferendo restare in silenzio. Scorse Henry rivolgere l'attenzione su di lei, accorgendosi a un tratto della presenza di Susan. Si alzò dal suo comodo divanetto sotto lo sguardo esterrefatto della ragazza nell'abito borgogna.

-Susan, non speravo di rivederti tanto presto.

Henry si accorse di Adair solo dopo aver pronunciato quella frase e i suoi occhi scuri scandagliarono i riccioli rossi del ragazzo stretto a Susan e le numerose lentiggini che gli frastagliavano le gote.

-Henry, ti presento Adair Caldwel. Adair, lui è Henry Davies, non ricordo se te ne ho parlato.

Il volto di Henry divenne rosso quanto i pallini sulla sua camicia in tinta con l'abito della ragazza bionda, che nel frattempo si era aggiunta a loro.

-No Susie, non mi ricordo che tu abbia accennato a lui.

Susan rabbrividì, sentendosi chiamare con il diminutivo che le aveva assegnato Felix.

-Lui è il mio ex.

Disse con tono naturale e disinvolto, prima di afferrare la mano destra di Adair. Henry sorrise nervosamente e si voltò verso la sua nuova fiamma ossigenata.

-Lei è Ivory, la mia ragazza.

Ivory allungò la mano anellata verso Susan che la strinse, sentendo le unghie rifatte della ragazza affondarle nel dorso della mano.

-Ivory Steel, molto piacere.

Gli occhi magnetici e grigiastri di Ivory si adattavano al suo importante cognome. Ivory doveva essere imparentata con Fiona Steel, una ricca imprenditrice della città. Era impossibile per Susan dire se i gioielli di Ivory fossero più o meno veri, ma non dubitò della presenza di un generoso conto in banca a suo nome. Come aveva fatto Henry, con la sua mediocrità e la sua incuranza nei confronti dei sentimenti, a convincere Ivory a definirsi sua "ragazza"?

-Io sono Adair, il ragazzo di Susan.

Henry, ancora ancorato all'idea che Susan non avrebbe mai potuto trovare qualcuno di diverso da lui, serrò la mascella quando Adair si presentò come suo compagno.

-Non sapevo che stessi uscendo con qualcuno, Susan.

-Io credevo che uscissi ancora con quella ragazza, quella dal delizioso profilo e con quell'abito ciclamino.

Ivory fissò subito lo sguardo su Henry, con gli occhi di metallo arroventati dalla gelosia.

-Non era il mio tipo.

Rispose con semplicità, allacciando le sue dita con quelle di Ivory.

-Sono felice per te Susan, meriti di essere felice.

"Merito di essere felice". Susan non ci credeva. Che cosa doveva fare qualcuno per meritare veramente la felicità? Che fosse solo un premio affidato ai migliori, ai più generosi e sofferenti? No di certo, non era un trofeo da esibire, la felicità per Susan era un cielo limpido, pronto a essere imbrattato con nuvole ricolme di pioggia. Susan aveva dovuto affrontare diverse tempeste, ma aveva compreso che aspettare il sole con speranza infinita era inutile, così aveva imparato a danzare sotto la pioggia, senza curarsi di buscarsi qualche raffreddore. Felix le aveva mostrato la bellezza di un temporale che lei aveva dimenticato dalla morte di suo padre. Susan non meritava di essere felice, le bastava essere sé stessa.

L'incontro con Ivory e Henry l'aveva stranamente messa di buonumore e non ebbe paura quando Adair partì con foga. Lui abitava a solo un isolato di distanza dalla casa di Susan, quindi non fu difficile per lui trovare la strada.

-Grazie per la serata Susie, spero che potremmo uscire altre volte insieme.

-Grazie a te!

La vendetta non era certamente qualcosa di cui Susan si curava, ma era stato divertente vedere Henry rosso in viso e la ragazza bionda incollerita. Susan salutò Adair con un abbraccio, poi entrò in casa, pronta a scrivere una lettera allo sconosciuto. 

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Capitolo 22
*** 21. Consapevolezza ***


La mattina seguente trovò un bigliettino sotto la sua porta, della carta pentagrammata strappata da un foglio adatto per scrivere note ed esercizi di musica. Susan aprì il pezzo di carta senza esitazione, non comprendendo chi avesse potuto lasciarle quel messaggio.

Alle 12 in punto, ti aspetto sotto casa mia

Non era necessaria una firma, Susan riconobbe subito la scrittura di Felix e lui lo sapeva. Erano appena le dieci e mezza, poteva andare in biblioteca e chiamare Ashley nel frattempo. Susan conservò dentro la tasca dei jeans chiari il bigliettino di Felix, con il cuore che già palpitava.

19 Novembre

Mio caro sconosciuto,

sono appena tornata a casa, dopo aver passato la serata con il mio nuovo collega di lavoro. Mi ha portata in un locale dove difficilmente tornerei, ma è stata una serata piacevole. Non puoi immaginare chi ho incontrato lì. Eh già, proprio il vecchio ex che mi ha mollata per qualche avventura passeggera. A quanto pare, adesso è passato alle bionde. Era stretto stretto a una ragazza fin troppo di buona famiglia per lui, ma non m'interessano i loro affari. Sai, ho bruciato, cestinato e stracciato ogni cosa che mi era rimasta di lui dopo la fine della nostra relazione, la rabbia ha preso il sopravvento su tutto il resto. Alla mia furia era scampata solo una foto, una delle prime che avevamo scattato e poi fatto sviluppare, come ricordo. Eravamo davanti al nostro vecchio liceo, dove ci siamo conosciuti anni fa e dove ci siamo incontrati ancora una volta parecchi mesi fa. Eravamo io e lui, a diciotto anni e pieni di vita, con gli zaini blu pesanti sulle spalle e un sorriso stampato sul volto. Indossavo una gonna a quadri giallo pastello e una blusa bianca, era una delle rare volte che andavo a scuola con qualcosa di diverso dai soliti pantaloni o dai miei jeans lacerati. Lui indossava una di quelle camicie che solo lui potrebbe mai aver il coraggio di acquistare, una di quelle che fino a pochi mesi fa conservavo fra i suoi cassetti che odoravano sempre di sapone alla lavanda, perché lui era troppo pigro per serbarseli da sé. Ero così piccola quando abbiamo scattato quella foto, sembrano passati troppi anni, adesso appaio invecchiata e consumata, giudicata da quella diciottenne, come se fosse ancora con me, quella ragazzina ingenua. Devo combattere con ventidue diverse versioni di me ogni volta che mi specchio, ogni volta che prendo una decisione giusta o scorretta. Vogliono tutte avere voce in capitolo, vogliono avere la meglio sulla ventitreesima e dimostrare come siano loro i miei anni migliore, le versioni migliori di quella che sono adesso.

Quindi, quando ho deciso di risparmiare quell'unica foto, tutte si sono ribellate, chiedendomi di sfogare la mia furia anche su quell'ultimo ricordo. La più vecchia, che in fin dei conti è solo la più giovane e inesperta, ha deciso di conservarla per tempi migliori, per quando l'avrebbe potuta guardare con il sorriso sul volto, lo stesso smagliante sorriso che aveva quella diciottenne. Questa notte ci sono riuscita, ho messo a tacere tutti i miei riflessi smarriti e ho visto la ventunesima sorridere con me, ridere della nostra stupidità. Caro sconosciuto, adesso sono libera e guardo al futuro, guardo a chi è nel mio cuore adesso e a chi ci rimarrà.

Li ho seppelliti tutti, i miei morti viventi del passato, mi rimane un ultimo resistente ricordo sfumato che non vuole lasciarmi. Io ci ho provato, ma non è qualcosa di fattibile, non posso solo lasciare cadere la terra sulla sua bara semiaperta. Ti lascio con questi versi, vorrei averli scritti io, ma non me ne posso vantare.

Cosa potrei mai compiere,

quando anche le sorelle stelle

mi sono avverse?

Quanto potrei arrivar a dire,

senza che siano svalutate

le mie parole?

Non è solo la pelle che reclama

il tuo unico tocco,

è la mia anima a desiderare

che la tua resti per sempre.

Susan lesse e rilesse la sua lettera, sorridendo all'inchiostro che la sera prima aveva inciso sulla carta che custodiva caramente sulla sua scrivania in legno chiaro. La biblioteca era la sua prossima abituale destinazione.

Quando arrivò davanti al portone della casa di Felix, erano le 11.52, ma attese qualche minuto aggiuntivo, mentre tentava di far calmare il suo cuore e tenere sotto le redini la curiosità. Si specchiò sullo schermo scuro del telefono, sperando che i suoi capelli fossero in ordine. Passò un velo di gloss sulle labbra scarlatte morse e tormentate dai suoi canini e ravvivò i capelli castani. Suonò al campanello di "Harvey" e attese. Nessuna risposta, dovette attendere altri due minuti di pazienza per veder spuntare Felix dal portone.

-Sempre in perfetto orario Susie.

-Allora, come mai quel bigliettino?

-Perché voglio portarti in un posto che sono sicuro gradirai.

Susan piegò la testa di lato e fissò Felix con un sorriso.

-Già stanco delle nostre lezioni?

-Non potrei mai stancarmi di quelle.

Felix non le lasciò aggiungere altro e si diresse verso la sua automobile.

-Dove andiamo?

-Da qualche parte.

Susan salì sull'auto e allacciò la cintura, poi si voltò nuovamente verso Felix.

-Da qualche parte dove?

-Winter, mettiti comoda e smettila di fare domande.

Susan si appoggiò al sedile e fissò lo scorcio della città caotica dal finestrino, sbuffando e cercando di comprendere dove Felix l'avrebbe portata. Le strade che imboccarono le erano poco familiari e in breve tempo non comprese in che direzione stessero andando. Lasciarono la città, le macchine che percorrevano le nuove strade extraurbane erano di minor numero e Susan scandagliò con lo sguardo i primi alberi che costeggiavano la via.

-Allora?

-Susie, perché tutta quest'impazienza di sapere dove stiamo andando?

Susan sorrise e non aggiunse altro, Felix non le avrebbe rivelato nulla.

-Parlami invece di come va al ristorante.

Come di consuetudine, Felix aveva dirottato la conversazione a lei. Susan si era stupita quando Felix l'aveva portata nel suo appartamento, era certa che volesse nasconderle anche il luogo in cui abitava. Le aveva rivolto il meraviglioso gesto di starle vicino, di non lasciarla nel momento in cui aveva più bisogno. Felix aveva sentito la sua sofferenza e l'aveva compresa fino in fondo, Susan non poteva che essere grata di questo. La silenziosa conversazione dei loro sguardi era giunta fino a quel punto, le parole spesso erano effimere nei loro dialoghi.

-Perché per una volta non sei tu a parlare?

Felix le raccontò del pub, di come era noioso quel lavoro che rendeva abbastanza per permettergli di vivere in maniera dignitosa. Inoltre, grazie alla casa che sua nonna gli aveva dato, poteva permettersi di risparmiare qualcosa per il futuro. Felix era un tipo che al futuro ci pensava eccome, nulla da dire su questo. Aveva organizzato scrupolosamente i suoi prossimi due anni, lo aveva sempre fatto fin da bambino, perché sperava che qualcosa mandasse a monte tutti i suoi piani. Gli imprevisti erano ben accolti nella sua vita, rendevano tutto più interessante e conferivano un sincero valore alle sue giornate. Felix rimase molto vago sugli imprevisti che erano spuntati come funghi nella sua vita e rimase altrettanto velata la sua prospettiva per il futuro. Furono ben poche le rivelazioni su di lui che Susan riuscì a strappargli.

-Siamo arrivati?

Chiese Susan appena lui finì di parlare.

-Non ancora.

Felix sorrise sentendo il tono impaziente di Susan e intavolò una nuova discussione che poneva al centro lei. Il viaggio durò per altri venti minuti, poi Felix si addentrò con la sua automobile blu in una stradina campagnola con un selciato composto di pietre irregolari e un prato rigoglioso. Si fermò in una distesa di verde, nella campagna disseminata di qualche rado albero e ricolmo di fiori.

-Le giornate di sole qui sono sempre state rade, quindi non potevo che approfittare del clima di oggi.

Felix scese dall'auto e si diresse verso il portabagagli, dove Susan intravide uno di quei cestini da pic-nic in vimini che da piccola le avevano regalato. Lei non lo aveva mai usato per tramezzini o dolci, il cestino fatto di giunchi era stato riempito con un servizio da tè in porcellana fiordaliso e qualche orsacchiotto in miniatura che rischiava di perdere, se lasciati incustoditi. In quello di Felix, si trovavano invece panini dolci ripieni con marmellata ai frutti di bosco, crocchette dall'odore allettante e carote arricchite da spezie.

-Hai cucinato tutto questo?

Si meravigliò Susan, aiutandolo a stendere un plaid scarlatto sull'erba smaltata di verde.

-In realtà non ho fatto io la marmellata, ma comprendimi Winter, non ho avuto la possibilità di trovare frutti di bosco freschi.

Susan scoppiò a ridere e si stese sulla coperta, fissando lo sguardo su Felix, che tranquillamente armeggiava con posate e piattini.

-Ci venivi da piccolo, vero?

Gli chiese e afferrò uno dei piatti che lui le porse. Felix indugiò prima di rispondere e tenne gli occhi sul cestino ricolmo di cibo.

-In realtà si. Prima che arrivasse l'inverno, la migliore giornata d'autunno la passavo con la mia famiglia qui. È stato molto tempo fa, non ho che pochi ricordi di questo posto.

Susan annuì e iniziò a mangiare, incapace di distogliere lo sguardo da Felix. La giornata era mite, ma il freddo autunnale era onnipresente in quei giorni. Un venticello si era alzato in quelle settimane e Susan si strinse nella sua giacca nera, la quale prima d'essere sua, era stata indossata per qualche mese da Ashley, che l'aveva ceduta all'amica dicendole che sarebbe stata meglio indosso a lei. Avrebbe volto stringersi a Felix, permettere che il calore della loro pelle si fondesse e rimanere accanto a lui fino al termine di quella giornata.

-Grazie, ho apprezzato ogni cosa di questo giorno.

Gli disse, con un filo di voce appena ebbero finito di mangiare. Felix si raggomitolò contro lo spesso tronco di un albero e Susan gli venne vicino.

-Perché mai Susan? Volevo solo passare qualche oretta qui insieme a te, l'ho fatto anche per me. 

Susan gli diede un colpetto sulla spalla e si appoggiò all'albero imitandolo. Rimase per qualche secondo a osservare la curva delle sue labbra, le ciglia che si piegavano pacatamente e la rada barba bionda che gli ricopriva la mandibola. Henry, chi era Henry? Fissava Felix e la sua mente era sgombra da qualsiasi altro pensiero estraneo a lui. Felix non si voltò verso di lei, socchiuse gli occhi e rimase in ascolto del vento che trascinava lontano foglie e ricordi, senza curarsi di nient'altro. Lei rimase accanto a lui, tentando d'imprimere nella sua memoria l'immagine di Felix per sempre. Per quanto il destino avrebbe mai potuto volerli dividere, Susan avrebbe conservato in eterno un frammento di lui.  

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Capitolo 23
*** 22. Acciaio ***


L’EndLand era insolitamente pieno quel mercoledì sera e Susan dovette destreggiarsi con Adair per il locale. Entrambi erano del parere che sarebbe stato saggio scegliere un locale più spazioso, gli affari non avrebbero mai raggiunto picchi eccellenti, non in un luogo talmente esiguo. A Rachel e Thomas non importava molto di divenire ricchi, gli bastava quello che avevano ottenuto.
Susan aveva promesso ad Ashley di andare con lei quella sera, probabilmente l’avrebbe trascinata al cinema, erano giorni che le parlava di un film dal titolo vintage e dal cast sconosciuto. La ragazza era lì fuori, appoggiata alla sua auto rossa, con indosso uno dei suoi soliti pantaloni in pelle nera e un top crop così poco adatto a quella stagione. Apparentemente Ashley non soffriva il freddo, la contrario di Susan che aveva tenuto la sua giacca più pesante per quella sera.
-Susan!
Esclamò lei alzando la mano per farsi scorgere da Susan. Adair uscì da quel momento dal ristorante e mosse qualche passo verso le due ragazze. Gli occhi chiari e attenti di Ashley intercettarono subito il ragazzo.
-Oh Ash, lui è Adair Caldwel, il nuovo cameriere di cui ti avevo accennato.
Susan aveva veramente detto poco di lui ad Ashley, non lo riteneva indispensabile. Ashley fissava Adair, scandagliando con le iridi azzurre i ricci rossi del ragazzo e soffermandosi sulle lentiggini che erano disseminate sulle guance.
-Ashley Ridway.
Disse lei porgendogli la mano anellata con argento e oro.
-Adair.
Il ragazzo le sorrise, senza celare un velato imbarazzo.
-Susan, dobbiamo andare. Ci vediamo Adair, piacere di averti conosciuto.
Adair fece un cenno con la testa e Susan entrò nella macchina di Ashley.
-Allora, ti piace, non è vero?
-Avanti Susan, non dire stupidaggini.
La risata di Susan fu coperta dal rombo del motore della Maserati scarlatta.
-Ho visto come hai fissato Adair, non puoi mentirmi Ash.
-E va bene, magari lo considero carino.
Susan sorrise con compiacimento, aveva imparato a conoscere Ashley e a comprendere i suoi stati d’animo. Anche durante la proiezione di quel film piuttosto sottotono, Susan scorse l’apprezzamento della sua amica per gli attori sconosciuti ma capaci, per la fotografia eccellente e la regia che lei trovò ottima.
-Posso dirmi soddisfatta, la prossima volta sceglierai tu.
Le disse Ashley uscendo dalla sala. In realtà, Susan sapeva bene che avrebbe sempre e solo deciso Ashley, c’era continuamente qualche nuova proiezione che la interessava.
-La prossima volta non ci dividiamo i popcorn.
Ashley rise e ammise la sua ingorda colpa. Se fosse stato per Susan, avrebbero guardato qualche film visto e rivisto, comode sul divano logoro di Susan oppure su quello in pelle bianco e lussuoso di Ashley. Le poltrone rosso fuoco del cinema erano confortevoli e la sala profumava di burro e bibite frizzanti, ma non sapeva di casa, d’intimità e di quotidianità.
Come aveva predetto, alla fine della serata Ashley le aveva chiesto se avesse il numero di Adair. “Solo per curiosità, non voglio certo che tu me lo dia!” aveva prontamente aggiunto lei. Susan non poteva non dirle che no, Adair non le aveva dato il suo numero e né tanto meno lei aveva avuto interesse a chiederglielo. Neanche Felix aveva dato molta importanza a chiederle dove fosse, se quella notte sarebbe andata in stazione o se il giorno seguente lei fosse stata libera per suonare qualcosa al pianoforte. Susan si ripromise che sarebbe stata lei, se Felix non l’avesse chiamata, a mettersi in contatto con lui. Andò a dormire con il profilo di lui impresso nella mente, sperando che avrebbe potuto rivederlo l’indomani.
Sfortunatamente, non fu il viso di Felix che vide quella mattina. Il turno al ristorante toccava ad Adair quel pomeriggio, così Susan si era concessa qualche ora per sé. Il piccolo mercatino della città era il posto migliore dove trovare frutta e verdura a poco prezzo e di ottima qualità. Pur di mettere qualche risparmi da parte, Susan era ancora costretta a rifornirsi spesso in quelle bancarelle che erano certamente estranee all’igiene e alla gentilezza. Uomini e donne appioppavano davanti agli occhi dei passanti la loro merce, urlando e starnazzando con foga. Mille mani e polpastrelli sudici tastavano, sfioravano ed esaminavano quella che i venditori definivano “la migliore” merce. Pur non avendo nulla contro quelle persone, Susan detestava i loro modi grezzi e spesso bruschi che le propinavano, rendendole quel luogo come ostile.
Susan aveva molto sentito parlare della nobile e facoltosa famiglia Steel, così quando vide Ivory, la bionda ragazza del momento di Henry, la mela che stava ispezionando per capire se fosse matura o meno, le scivolò dalle dita e tornò nel mucchio con le sorelle. Con un abito argenteo che le discendeva con grazia, tacchi vertiginosi e fuori stagione, Ivory Steel vagava per il mercato con aria confusa. Una pelliccia a macchie nere le copriva il busto e le braccia strette al petto, tutti la notavano e molti visi paonazzi la seguivano curiosi. Ivory incrociò il suo sguardo e, dopo qualche attimo di esitazione, le venne incontro.  
-Susan Winter?
-Ivory Steel.   
Ivory sorrise mestamente e lasciò che le sue mani cadessero fino ai fianchi fasciati nella longuette argentata lucida.
-Volevo parlarti.
-Come facevi a sapere che mi trovavo qui?
Il viso avorio quanto il suo nome divenne rosato e si tinse di timore e timidezza.
-Che ne dici di andare a prendere una tazza di tè assieme?
Susan tenne per sé parole spinose che avrebbero potuto offendere Ivory e annuì. Si accomodarono sui tavoli legnosi di un bar che si trovava nei dintorni e Susan rimase in attesa, non avendo molto da dirle.
-Potrei averti seguito, ma non avevo altro modo per poter parlare con te.
-Qualcuno deve averti dato il mio indirizzo e quel qualcuno poteva almeno darti anche il mio numero, senza bisogno che una sconosciuta mi pedinasse.
-Mi spiace.
Ivory abbassò le palpebre truccate d’oro e corvino, giocherellando con la manica della sua pelliccia.
-Non so molto dio te e Henry, ma voglio che tu sappia che per me lui è importante.
-Non lo metto in dubbio.
-Chi era l’altra ragazza di cui hai parlato?
Susan scoppiò a ridere, mai avrebbe immaginato d’avere una conversazione simile.
-Non ho idea di chi sia e né ho voglia di scoprirlo. Perché invece di chieder a me non lo dici al tuo amore? Io non sono certo la persona adatta per fare lusinghe sul suo conto e non conosco che una breve parte dei suoi ultimi mesi.
-Eppure è da anni che lo conosci.
Era vero, Susan e Henry si conoscevano da troppo tempo, anche se negli ultimi due o tre anni avevano perduto ogni contatto. Susan aveva conosciuto versioni differenti di Henry Davies e avrebbe preferito rimanere all’oscuro di ognuna di esse. Lei e Henry si odiavano, si detestavano a vicenda e hanno continuato a farlo per anni. Durante l’ultimo anno di scuola le cose erano cambiate e Susan era diventata sua cara amica. Quattro anni dopo si erano rivisti e messi insieme, parte della storia del loro rapporto che Susan avrebbe preferito non vivere mai.
-Ivory, che cosa vuoi veramente?
-Voglio sapere se sto riponendo il mio cuore in mani sicure.
-L’amore non si basa forse sulla fiducia e sull’affetto reciproco? Allora non dovresti dubitare di lui, altrimenti potresti dire di avergli dato il tuo cuore?
Susan non voleva parlare di Henry, ma trovava singolare il fatto che una delle fiamme di Henry potesse essere veramente innamorata di lui.
-Chiamalo come vuoi, dimmi ciò che ritieni giusto, io voglio solo sapere più di lui.
-Chiedi a Henry allora!   
Era spazientita dalle richieste e dai modi di Ivory, ma vedendo la ragazza affranta, il suo sguardo duro s’addolcì.
-Dimmi, non ho molto tempo.
-Ti ha fatto soffrire?
-Abbastanza, ma è anche colpa mia, io non avrei mai dovuto stare con lui. Se ci siamo odiati dal principio un motivo doveva esserci: noi non siamo compatibili. Lo siamo stati per qualche tempo, ma per quanto amore ci possa essere da entrambe le parti, se due pezzi di un simile puzzle non combaciano, non potranno mai restare uniti per sempre. Se credi d’aver trovato il tuo pezzo compatibile non posso che essere felice per entrambi. 
-Tu lo hai trovato?
I pensieri di Susan volarono a Leo, poi circumnavigarono i ricordi per giungere a Felix. Stava per dirgli di lui, che nonostante sentisse di essere talmente simile a lui, non trovasse le parole per esplicitarglielo. Poi ricordò della sera precedente, dove Adair si era presentato come il suo ragazzo. 
-Credo di sì.
-Ti ha spezzato il cuore?
Lo aveva fatto? Le parole che Susan aveva bruciato le tornarono in mente, insieme alle lacrime di quel giorno. “L’odio serve solo a condannare anche la mia anima”, non certo il modo migliore per cominciare quella storia, ma abbastanza efficace.
-Si, ma è stato meglio così. I cuori spezzati non sono sempre sintomo di dolore e sofferenza, di occasioni sfumate e di relazioni che terminano nel peggiore dei modi possibili. Se un cuore affranto significa afflizione, da una parte potrebbe voler dire libertà e gioia futura. Ivory, non ho idea di quanto sia intenso o profondo il vostro rapporto e dubito che sia radicato come lo era il nostro, dato che non è da molto che state assieme, ma posso dirti che se lo ami e lui ama te, non hai nulla di che preoccuparti. Avrai il cuore spezzato, prima o poi lui lo maltratterà, che sia con intenzione o meno, ma siamo umani e tutti commettiamo errori, sta a te decidere se lasciare a lui il tuo amore oppure no.
Ivory passò una mano anellata fra le ciocche bionde, poi le sorrise radiosa.
-Susan, non posso che ringraziati e augurare il meglio a te e a lui. Spero che un giorno c’incontreremo ancora, vorrei poterti essere amica.
-Spero che sia così. 

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Capitolo 24
*** 23. Sconosciute mete ***


La risposta dello sconosciuto arrivò qualche giorno dopo, quando dicembre era ormai alle porte e il gelo aveva preso possesso della cittadina. La biblioteca cominciava lentamente a riempirsi di studenti e anziani, il reparto dedicato a "lettere a uno sconosciuto" era particolarmente rigoglioso. Le cassette della posta di molti erano ricolme, giovani, bambini e qualche pensionato rovistava fra fogli e pezzi di carta appallottolati. Cercavano conforto, parole di solidarietà e di vicinanza, altri volevano solo confessare i loro segreti, liberandosi da macigni e pesi insopportabili. Aveva trovato quella un'insensata trovata, incapace di recare qualche sollievo nella sua penosa vita e si rendeva conto di quanto aveva errato a pensare una cosa simile. Squadrò le figure maschili presenti quel giorno in biblioteca, fra di loro poteva esserci il suo sconosciuto. Qualche ragazzo moro, biondo e dagli occhi corvini vagavano nell'edificio, fra la gente che Susan non aveva mai incontrato, ma fra di loro poteva esserci qualcuno che la conosceva pur non avendola mai scorta.

Voleva veramente incontrare lo sconosciuto? Conoscerlo significava interrompere per sempre quello scambio di lettere, cessare quel cartaceo conforto. Susan distolse lo sguardo da quegli estranei, trovò curioso come in una folla di sconosciuti si possa nascondere la tua ancora di salvezza.

23 Novembre

Mia cara sconosciuta,

l'inverno si avvicina e io vorrei poter esserne scontento, invece mi auguro che giorni d'ordinarie nuvole grigie possano seguire a questi giorni ventosi e con un pallido sole. Mia sorella, ti ricordi di quando ho parlato di lei? È una tipa piuttosto impegnata, è andata qualche giorno fa a una conferenza fuori città e probabilmente non tornerà prima di due giorni. Le cose fra di noi cominciano a migliorare, ma la sento distante, è proprio vero che il sangue non significa amore.

Di amore invece parlavano proprio le tue ultime lettere. Le rileggo ogni tanto, non ho intenzione di buttarle o dimenticarmene in qualche recondito cassetto della mia casa. Posso dirti che non mi dispiace? Se sei felice adesso, conta quanto hai sofferto prima? Voglio sperare che la gioia, quella vera, possa soppiantare qualsiasi precedente dolore, che la felicità possa essere l'unico mezzo per far svanire ogni altro pensiero triste. Non tentare di seppellire morti che non sono mai stati uccisi, non serve a nulla. Lasciali vivere dentro di te e, se loro stessi hanno scelto di morire nella tua vita, custodiscili per sempre. Se non sei tu l'assassina non hai motivo di dimenticare o di sentire dolore, esibisci i tuoi "morti", vivono nei tuoi ricordi, nella tua testa e sono parte di te. La gente va e viene, se dovessimo considerare come "morte" tutte le persone che non fanno più parte di noi, potremmo riempire un cimitero di lapidi e croci ben allineate.

Mia sconosciuta, posso solo dirti che ti auguro ogni bene, con solo le tue parole mi hai dato più conforto di quanto immagini. Io non so chi sei e né tu sai chi sono, ma vedere la tua grafia elegante e tremante, tracciata con cura e riflessione, mi dona una fotografia dei tuoi pensieri, della tua anima e della tua vita che altrimenti non potrei mai avere.

Uno Sconosciuto.

Susan strinse la lettera al petto, poi corse via, lontano dalla biblioteca.

Era da poco passata la mezzanotte, quando Susan scorse Ashley fuori dall'EndLand, appoggiata con disinvoltura alla sua auto fiammeggiante. Adair, dietro di lei, fissò subito la sua attenzione sull'amica di Susan.

-Ash, non ti aspettavo per stasera.

I pensieri di Susan vagavano per i binari della stazione, lontano da qualsiasi altra persona che non fosse Felix.

-Volevo solo chiederti se questo sabato sei libera.

Susan rifletté e fissò con attenzione la sua amica prima di risponderle.

-Siamo liberi sabato sera?

Chiese al suo collega, a pochi passi da loro. Adair non rispose, scosse la testa e tornò a guardare Ashley.

-Ci sarà un party al J12, contavo sulla tua compagnia.

Il J12? Susan comprese solo dopo qualche secondo che Ashley stava parlando della nota discoteca fuori città, sempre ricolma di eventi e giovani. A Susan non erano mai piaciute le canzoni assordanti dei dj, neanche le persone che si barcamenavano fra di loro, le fronti grondanti di sudore e le mani sgradite di qualche sconosciuto senza ritegno.

-Sei invitato anche tu, Adair.

Aggiunse poco dopo abbassando la voce, come per mascherare l'imbarazzo.

-Allora dobbiamo andare, Susan.

Doveva andare? Susan non era di certo entusiasta come i due, ma non si sentiva di rifiutare quella proposta. Poteva invitare anche Felix. No, lui no, a Felix non piacevano di sicuro le discoteche.

-Ma è solo mercoledì, c'è ancora tempo.

-Meno di quanto tu possa pensare.

Susan indugiò per qualche altro istante prima di rassegnarsi al volere di Ashley e Adair.

-D'accordo, andiamo a questo evento.

Così, decise di non farne parola con Felix. Come quasi ogni notte, lui era lì, stavolta il freddo aveva vinto anche lui, che indossava una giacca blu, pesante e con i bottoni argentei. Susan più di un cardigan stretto e nero, non aveva nulla con cui coprirsi, uscendo di casa non aveva previsto un così repentino cambiamento di temperature. Viveva in quella città da anni, ma non era ancora riuscita a convivere con il clima cangiante.

-Winter, mi sembri piuttosto infreddolita, non rispecchi di certo il tuo stesso nome.

-Sono pur sempre umana.

Felix teneva le braccia incrociate al petto, mostrando che infondo Susan non era la sola a sentire freddo. Un treno passò davanti a loro in quel momento, poi continuò la sua corsa lontano dalla stazione deserta della città.

-Dovremmo prendere un treno, un giorno?

-Per andare dove?

Felix alzò le spalle, la meta era l'ultimo dei suoi pensieri.

-Il solo fatto di salire su uno di quei treni è sufficiente. Che cosa importa il luogo dove ti condurrà? Avrai comunque lasciato la tua casa per una destinazione sconosciuta.

-Fai tanti bei discorsi Harvey, ma quando li realizzerai concretamente?

Felix fissò il suo sguardo su Susan, tremante e con la mente che vagava fra i palazzi della sua città, le lettere che aveva ricevuto e inviato, insieme ai suoi due amici e fra le croci premature del cimitero cittadino.

-Adesso.

-Adesso?

-Si, lo faremo insieme, ora.

Non le dette il tempo di ribattere, Felix le afferrò la mano e la condusse verso la biglietteria automatica della stazione.

-E se io non volessi?

-Fidati Susie, tu non vedi l'ora di andartene anche per solo un'ora da questa città.

Forse Felix aveva ragione, perché l'attesa per il treno successivo fu estenuante. Per un'ora e mezza rimasero ad aspettare, infreddoliti e stretti fra loro. Susan la riteneva una pazzia, cosa che la rendeva impaziente. La meta l'aveva decisa lei, chiudendo gli occhi e cliccando sullo schermo del dispositivo senza avere la minima idea di cosa stesse selezionando. La fortuna volle che il suo dito puntò sul nome di una città piuttosto vicina, fra andata e ritorno avrebbero impiegato meno di tre ore. Felix si era offerto di pagare per entrambi, visto che la natura dell'idea era sua, ma Susan insistette per essere lei a sborsare per quel viaggio senza nessun apparente senso.

-Susan, se avessi potuto scegliere con consapevolezza, dove saresti andata?

-Da nessuna parte, sarei stata condizionata dalle spese, dalla durata del viaggio o dalle possibili mete stesse. Alla fine, non avrei scelto nulla.

I vari fattori della sua condizione l'avevano sempre influenzata, non permettendole di compiere molte scelte, di farne altre a malincuore. Se avesse scelto a occhi ciechi, almeno non avrebbe sentito su di sé i suoi rimpianti e biasimi.

-Eccolo!

Felix puntò il dito verso il treno che stava giungendo nel binario dov'erano fermi. Oltre loro, nessun'altro salì sul treno. Gli scompartimenti erano quasi del tutto vuoti, solo un signore appisolato e con a testa appoggiata al finestrino e una ragazza dall'aria assonnata, viaggiavano insieme a loro. La ragazza dalla carnagione ebano e i magnetici occhi scuri, li fissò per qualche istante, poi portò all'orecchio qualche ciocca riccia e distolse lo sguardo da entrambi. Susan si sedette a poca distanza dalla ragazza insonnolita e Felix la imitò.

-Allora, faremo un giretto quando saremo arrivati?

-Felix, ma sono quasi le due! Ti sembra forse l'ora di fare "un giretto"?

La ragazza la guardò e le rivolse uno stentato sorriso, che Susan ricambiò radiosa.

-Va bene, ma sappi che stiamo prendendo un'occasione.

Susan guardò fuori dal finestrino la pioggia che sferzava sui finestrini, il rumore poco piacevole che emetteva il treno e le poche luci fioche che s'intravedevano nel buio di quella notte.

-Forse dovremmo scappare, tu e io, fuggire dalla nostra vita e scoprire cosa può offrire il mondo a noi.

Sussurrò Susan, più a sé stessa che a Felix.

-E se il mondo non avesse nulla da darci?

Alzò le spalle, non pensava a quella possibilità. Se andare via dalla città era la cura, allo stesso tempo poteva essere il veleno per entrambi.

-Noi però abbiamo così tanto da dare, non è vero?

Felix non le rispose, dopo qualche secondo le circondò le spalle con il braccio e fissò insieme a lei il panorama fuori dal treno.

-Non è forse quello che pensiamo tutti? Susan, tu potresti donare la tua anima al mondo, ma sai bene che nessuno ne comprenderebbe il valore.

-Cosa m'importa? Ci sarà sempre qualcuno che lo apprezzerà, non voglio certo la gloria eterna, o i favori di alcuno. Felix, tu hai sfiducia nel mondo e nelle persone diverse da te, io non posso che comprenderti, ma allo stesso tempo credo che ci sia del buono che tutti noi celiamo. Ho fiducia che, prima o poi, smetteremo di autodistruggerci e di odiarci.

-Forse un giorno sarà così, ma non oggi e neanche domani.

Susan annuì e posò la testa sulla spalla di Felix. Non sarebbe stato neanche dopodomani, ma confidava che gli anni le avrebbero dato ragione.      

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Capitolo 25
*** 24. L'altalena ***


Non era difficile prevedere il vento gelido di quella notte, ma il cielo all’inizio sgombro, divenne carico di nubi grigiastre. La pioggia scivolava quasi stanca, le gocce sulle ciocche di Susan cadevano ritmicamente e i suoi vestiti erano ormai impregnati dall’odore del temporale. Non avevano fatto molta strada, a quell’ora le luci sembravano più flebili e tutte le saracinesche erano abbassate. Solo una farmacia era ancora aperta, ma oltre a un signore dall’aria stanca, non c’era nessuno. Sembrava una città fantasma. Un paio di fanali illuminarono la notte e Susan dovette socchiudere gli occhi.
-Non c’è molto da vedere.
-So che c’è un parco nelle vicinanze. Niente di che, ma è pur sempre qualcosa.
Susan si era infine lasciata convincere da Felix, nonostante non avesse molta voglia di girare la città. Nessuno dei due si curava molto della pioggia, Felix non si protesse la testa dall’acqua neanche utilizzando il cappuccio della sua giacca. Il piccolo parco, come il resto di quella sconosciuta città, era deserto. Susan temeva di trovarlo occupato da gente di malaffare, ma chiunque era stato scoraggiato dal cattivo tempo. La pioggia scorreva sugli scivoli come fiumi in piena, il terreno era saturo di acqua e dalle foglie degli alberi cadevano pesanti gocce. Oltre al tintinnio prepotente dell’acqua, non si univa nessun’altro rumore. Susan si diresse verso le altalene, seguita da Felix, e si accomodò sul sedile fradicio. Strinse le dita alle catene e lasciò che le sue scarpe s’infradiciassero sulla pozza di acqua e terriccio sotto di lei.
-Quando ero piccola ne avevo il terrore.- Disse voltandosi verso Felix, seduto sull’altalena accanto alla sua.
-Vedevo i bambini volteggiare e arrivare a sfiorare con le punte dei piedi i rami degli alberi che circondavano il parco. Sembrava che potessero alzarsi in volo, oppure rovinare per terra e rompersi qualche ossa. Sentivo il cuore battere più del dovuto quando mi dondolavo anche io, non ero in grado di entrare in armonia con il movimento dell’altalena e temevo di cadere. Alla fine, decisi di non salire mai più su uno di questi giochi infernali, non volevo finire all’ospedale con un braccio rotto, o una costola fratturata. Infine, un giorno, superai la mia paura. Ero insieme a una bambina poco più grande di me, una delle classiche ragazzine che riuscivano a catalizzare l’attenzione sulle sue trecce bionde, le numerose catenine al collo e i racconti di cose considerate da noi proibite. Pur di non apparire incapace e spaventata, salii su quell’altalena e concentrai i miei pensieri sulla spinta corretta che dovevo darmi con i piedi, per cercare di non perdere l’equilibrio o lasciare la presa sulle catene. Mi lasciai andare e anche i miei piedi sfiorarono i rami alti dell’albero difronte all’altalena. Adesso non comprendo neanche come io abbia potuto avere paura di questo.
Felix ascoltò in silenzio, rimanendo con gli occhi fissi su Susan. 
-Sembra così facile abbattere le proprie paure. Io, nonostante tutti gli anni che sono passati, ho ancora timore di guardare “Lo Squalo” da solo.  
Susan scoppiò a ridere e strinse le mani alle catene dell’altalena, pronta per lasciarsi dondolare.
-Non so Harvey, magari è davvero facile. Stasera mi hai fatto affrontare una delle mie paure più recenti ed è stato più facile di quanto credessi.
-Non hai lasciato la città da quando ti sei trasferita?
Scosse la testa, aveva raccontato a Felix di suo padre, dell’incidente e del suo cambio di residenza. Non avrebbe mai più cambiato città, era nata lì e ci sarebbe rimasta finché avrebbe potuto.
-Sei stata tu, io non ho fatto nulla Susie. Anche senza di me, saresti stata in grado di uscire dalla città, perché potresti fare qualsiasi cosa se solo lo volessi.
-Io non direi.
Se Susan fosse stata in grado di fare ciò che le aveva detto Felix, avrebbe già deciso di cercare Leo, di ricostruire il suo passato dal principio e continuare a vivere. Riuscire a rimettere al loro posto i pezzi di quel capitolo sarebbe significato per lei andare avanti, segnare un taglio definitivo con il passato. Cosa la bloccava dall’andare a cercare quel ragazzino? Aveva forse paura di sapere chi fosse diventato, com’era cresciuto? Nella sua testa era perfetto, se solo lo avesse rincontrato l’immagine di lui si sarebbe frantumata.
-Prima o poi te ne renderai conto tu stessa.
Smise di piovere. Le grosse nubi coprivano ancora il cielo e il freddo si era insidiato fin dentro le ossa di Susan. I vestiti e i capelli bagnati non aiutavano, si sarebbe svegliata l’indomani intorpidita e raffreddata.
-Andiamo?
-Andiamo.
Il ritorno non fu piacevole come l’andata. Susan aveva freddo e la pelle delle sue mani era arrossata e gelata. Felix la strinse a sé, nel tentativo di riscaldarla durante il viaggio che li avrebbe riportati entrambi in città.
-Ne è valsa la pena comunque.- Le disse un’ora e mezza dopo. Susan si era raggomitolata sul sedile anteriore della macchina di Felix, che le aveva ceduto la sua giacca. Al contrario di lei, il ragazzo non appariva per niente infastidito dal freddo della notte e dall’acqua che gli infradiciava ancora i vestiti e i capelli biondi.
-Rachel e Thomas non saranno per niente felici quando li chiamerò per dirgli che sono a letto con la febbre.
-Però ne è valsa la pena.
Susan voltò la testa affinché potesse guardare meglio Felix. Con il viso illuminato dalla fievole luce stradale, i capelli gocciolanti e gli occhi scuri fissi sulla strada, appariva come un angelo in quella notte troppo fredda per lei.
-Si, hai ragione.
-Sembri stanca.
-Lo sono.
Felix voltò la testa, osservando Susan rannicchiata dentro la sua giacca, in un disperato tentativo di tenersi al caldo.
-Sembri una bambina.- Le disse, ridendo e rivolgendo il suo sguardo alla strada. Per qualche secondo, Susan tornò bambina seduta sul sedile della macchina di Felix, con le luci della strada che illuminavano la notte di fine novembre e il lieve odore piacevole che emanava la giacca del ragazzo. Se solo avesse potuto tornare piccola, se solo le fosse stato concesso di rivivere tutto dall’inizio.
-Eccoci.
Erano sotto casa di Susan. Lei non avrebbe voluto scendere e separarsi da Felix, restare con lui era tutto ciò che voleva in quel momento.
-Sono le quattro di mattina.
-Eppure, non è ancora sorto il sole. Avanti Susan, sono certo che il tuo letto è più comodo della mia macchina.
-Lo credo anche io.
Susan si tolse di dosso la giacca del ragazzo e il freddo torno ad accapponarle la pelle. Felix si sporse e le pose un bacio sulla fronte ancora umida, poi le sorrise.
-Grazie per avermi accompagnato, sono stato felice questa sera.
Anche Susan era felice quella sera, lo sarebbe sempre stata in qualsiasi sera trascorsa con Felix.
La mattina seguente, con sua meraviglia, Susan non sentiva gli effetti della pioggia della sera precedente. Le ore antimeridiane trascorsero veloci e arrivò già l’ora di mangiare ciò che era rimasto nella sua cucina. Una donna dai capelli corvini e abbondante lucidalabbra rosa stava annunciando con voce sicura e chiara le notizie di quel giorno, quando il telefono di Susan squillò, facendola balzare per la sorpresa. Era Vera. Vera? Possibile che si fosse ricordata di avere ancora un’amica dall’altra parte del mondo?
-Pronto? Susan?
-Vera, sono io.
-Grazie al Cielo, è da ieri sera che ti chiamo.
-Cos’è successo?
Risentire la voce di Vera dopo mesi era un improvviso ritorno al passato, non gradito e giunto nel momento meno opportuno.
-Susan, mi dispiace di doverti chiamare per dirti questo, ma qualcuno deve pur riferirtelo.
-Riferirmi cosa?
-Brandon Ruby è morto ieri, sapevi anche tu che aveva un tumore.
Le ci vollero dei secondi prima di assimilare la notizia che le aveva dato Vera. Brandon era un loro compagno di scuola, amico di vecchia data di entrambe, che negli ultimi tempi aveva cambiato città e abitudini. Susan era venuta a conoscenza del tumore ai polmoni del ragazzo, ma non aveva mai saputo quanto gravi erano le sue condizioni.
-Verrò in città oggi stesso con Drew, i funerali saranno domani e dobbiamo esserci.
-Certo, noi dobbiamo…
Susan trattenne le lacrime e sperò che non fosse reale quello che le aveva detto la sua amica.
-Susan, sai bene quanto mi dispiace, quanto dispiace a tutti. Sono in aeroporto, ti richiamo appena atterriamo in città, va bene?
-Si, a dopo.
Il primo pensiero di Susan furono i vestiti. “A Brandon non piace il nero, devo mettere qualcosa di scuro? No, a Brandon non piaceva il nero, non piaceva”. Susan rimase per qualche ora senza far nulla se non pensare al suo vecchio amico di scuola, non rendendosi conto di quanto la notizia l’avesse stravolta. La morte non si addiceva a Brandon, il ragazzo solare dalla chioma castana e pieno di vita e progetti per il futuro. Se avesse potuto, Susan avrebbe preferito morire lei per far vivere Brandon, che avrebbe fatto più di quello che lei avrebbe mai potuto immaginare. Il mondo continuò ad andare avanti, anche se il tempo per Susan si era arrestato. Come poteva mai il mondo continuare a girare, quando lei non riusciva neanche a sentir più la terra sotto i piedi? Susan si accasciò sul pavimento della sua stanza, stringendo l’abito nero che avrebbe indossato il giorno seguente, poi scoppiò a piangere. 

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Capitolo 26
*** 25. Migliori amiche per sempre ***


La minuta chiesetta dove si svolse la funzione era satura. Secondo il volere di Brandon, la cerimonia doveva avvenire nella chiesa del suo quartiere e non in un luogo più ampio e adatto a contenere amici, parenti e conoscenti. Vera le aveva detto che era invece stata una scelta della matrigna del loro amico, la quale avrebbe cominciato a organizzare il funerale del figlio acquisito prim’ancora della sua effettiva morte. Susan sapeva bene quant’era divisa la famiglia di Brandon, ma non riusciva ad associare l’immagine che la sua amica aveva dipinto con la donna che disperata piangeva sulla spalla del padre di Brandon. 
-Le parole di suo fratello sono state toccanti.- Le disse alla fine della cerimonia Vera. Avevano avuto solo pochi minuti per abbracciarsi e parlare delle solite ordinarie cose. Vera aveva tagliato i capelli che adesso le scendevano in onde castano chiaro fino alle spalle. Accanto a lei c’era il suo storico fidanzato, Drew, che aveva tinto i suoi capelli con la stessa sfumatura verde smeraldo dei suoi occhi. Impossibile nono notare entrambi e nonostante i cambiamenti di entrambi, Susan li vedeva sempre piccoli, come se nessuno di loro fosse mai cresciuto.
-Resterete in città per molto?
-Oh no Susan, il lavoro chiama entrambi, le mie modelle non attenderanno più di un giorno.
Era comprensibile la fretta di entrambi, Susan sperava comunque di passare qualche giorno con lei, almeno per ricordare gli anni passati insieme. Solo la morte poteva riportare Vera May nella sua città natale e Susan si chiese chi sarebbe stata la prossima bara da seppellire e quanto tempo avrebbe atteso per ricontrare la coppia. Era così, una volta lasciata la sua città, gli amici e le abitudini, non si torna più indietro, Vera e Drew non sarebbero tornati, nonostante le promesse di farlo. Si recarono al cimitero, in quella giornata dove il cielo aveva scelto di mostrare il proprio dolore al posto dei più cari di Brandon.
-Oh, immaginavo che il tempo sarebbe cambiato.
Vera aprì il suo ombrello in plastica trasparente per ripararsi dalla pioggia e si avvicinò a Susan.
-Vera, è solo un po' di pioggia.
Cercò di abbozzare un sorriso mentre le diceva quelle parole. Notò la presenza di Henry solo dopo qualche minuto. Mentre il prete terminava la funzione e la terra cospargeva la bara di Brandon, Henry le venne incontro. Susan aveva gli occhi lucidi per le lacrime, i capelli inzuppati d’acqua e il vestito nero liso.
-Tu e Vera siete qui, credevo che non foste state avvisate in tempo.
-Lo sapevi?
Henry e Susan si conoscevano da anni, le parole fra di loro erano spesso superflue e un ostacolo alle conversazioni silenziose che avvenivano fra di loro.
-Mi era stato detto che le sue condizioni erano peggiorate all’improvviso. Se intendi dire che ho avuto la possibilità di parlare con lui no, non ne ho avuto la prontezza e la forza necessaria. Vera è tornata per lui?
Henry sporse la testa per osservare meglio Vera, stretta al braccio di Drew.
-Si, ripartirà presto. Perché non mi hai informata tu? Scommetto che lo sapevi da più tempo di lei.
Henry non mentì, Susan avrebbe subito intercettato le sue bugie.
-Pensavo di darti un dolore.
Susan rise priva d’ironia, non credendo all’espressione seria e misera di Henry.
-Cosa pensavi? Di non informarmi che uno dei miei amici più cari era morto? Prima o poi lo avrei scoperto da me, o qualcun altro me lo avrebbe riferito. È questo il tuo problema Henry, puoi anche avere ottime intenzioni, ma non hai idea di come applicarle e fuggi via da situazioni come questa.
Henry non disse nulla, abbassò gli occhi e i capelli castani gli scivolarono sulla fronte chiara.
-E la tua bella Ivory? L’hai lasciata a casa degli Steel?
-Non se la sentiva di venire, a lei non piacciono i funerali. Il tuo ragazzo invece, quel certo Adam?
-Si chiama Adair e lui lavorava.
Se solo Henry avesse indagato meglio nelle iridi di Susan, avrebbe scorto la verità e la storia del “nuovo ragazzo” non avrebbe più retto. Quel giorno il suo vecchio amico e amante era disattento, non prestava attenzione alle parole che diceva e divagava spesso da un argomento all’altro. Vera non si degnò di salutarlo, pur accorgendosi della sua presenza e lo stesso fece Drew. Solo qualche ora dopo Susan avrebbe capito il distacco di Vera nei confronti di quello che era stato anche suo amico. Fra loro non scorreva più buon sangue, non da quando Henry, qualche tempo prima, aveva insultato Vera a una festa, in apparenza ubriaco e stordito.
-Credo che farò visita a suo fratello uno di questi giorni, ha bisogno di tutto il conforto che noi gli possiamo offrire.- Le sussurrò Henry posando lo sguardo su un ragazzo dall’aspetto simile all’amico ormai sepolto sotto strati di terra e fango.
-Ci penserai tu? Sarebbe meglio, non sia mai che io soffra troppo parlando di Brandon.
-Susan, ti prego, ero turbato e non avevo voglia di parlare con nessuno, né tantomeno di condividere il mio dolore. Hai ragione, continuo a comportarmi come il bambino che hai conosciuto anni fa e per questo ti chiedo scusa, ma sappiamo entrambi che non so reggere eventi simili. Mi dispiace, Susan io ti voglio bene quanto ne volevo a Brandon, forse più di quanto io stesso abbia voglia di ammettere. Potrai perdonarmi per quello che ho fatto?
Susan incontrò lo sguardo di Henry, le stesse iridi chiare che aveva fissato per anni senza comprenderne solo una parte. Dentro di sé, Susan aveva ormai perdonato Henry per averle spezzato il cuore, per essere stato un pessimo amante e un peggior convivente. Lo amava di quello stesso amore che provava quando erano entrambi ancora troppo giovani, quando era stata scattata quella foto che lei aveva conservato. Poteva perdonare sé stessa per aver rovinato quel rapporto, sostituendolo con uno fragile e irreale? Avvolse le sue braccia attorno a Henry, allo stesso ragazzo che era stato il suo amante, ma che non aveva mai amato come sarebbe stato giusto.
-Oh Henry, vorrei tornare indietro, vorrei tornare a quando avevamo diciotto anni e rifare ogni cosa, vorrei non commettere i miei peggiori errori.
Susan lasciò che le lacrime le scendessero sul viso, fino alla giacca già umida di Henry.
-Io no, i miei peggiori errori li vorrei rifare tutti, mi hanno donato la vita imperfetta che voglio avere.
L’abbraccio terminò insieme alle lacrime di Susan, non c’era molto altro da aggiungere.
-Credo che sia il tempo di scrivere un nuovo capitolo, cerchiamo di allontanare i precedenti dalla nostra memoria.
Henry annuì e afferrò fra le dita una ciocca umida. La pioggia scendeva lungo i loro visi come lacrime che entrambi avrebbero voluto versare, le nubi esprimevano il loro dolore e il tempo si fermava con i loro sguardi.
-Non dovremmo pentirci di aver vissuto, ma di aver sprecato il nostro tempo con autocommiserazione e bugie.
-Susan, avrei voluto dirti tutto questo prima, perché non ti ho mai amata come avrei dovuto e lo stesso hai fatto tu. Ho perdonato me stesso e adesso che so che anche tu lo hai fatto, posso continuare senza ripensamenti questa nuova prospettiva.
-Ti ho perdonato, ho perdonato tutti.
No, non aveva perdonato un’ultima persona, non aveva scordato la sua scomparsa. Se Henry era stato sincero con sé stesso e con Susan, lei non lo era stata con sé. Dimenticare era la chiave per perdere tutti gli anni spesi con fatica e pazienza, ricostruire dalle basi era l’unica cosa che avrebbe potuto salvare il loro rapporto, la sua coscienza. Susan rivolse il volto al cielo, sperando di poter scorgere gli occhi di Brandon fra le nubi scure, sicura che lui, in quel momento, aveva rivolto le sue iridi vitree verso di loro. Vera le venne accanto e quando Susan abbassò il capo, Henry era già sparito, diretto verso la famiglia di Brandon.
-Che cosa ti ha detto?
-Lo sai bene Vera, se mi conosci lo sai di già.
Gli occhi chiari di Vera si fissarono su quelli dell’amica per qualche istante, poi la sua espressione dura si addolcì e abbassò lo sguardo sulle sue decolté lucide e di certo scomode.
-Hai fatto bene così, ma io non avrei fatto lo stesso. Andiamo, c’è fin troppo freddo per i miei gusti.
“Non abbastanza per me”. Il vecchio bar dove passavano sempre il pomeriggio a bere una tazza di tè era vuoto quel giorno. Era un rito passare lì, quindi, nonostante i capelli umidi e i vestiti eleganti lugubri, le due vecchie amiche si sedettero a uno dei tavolini, insieme a Drew.
-Amo i tuoi capelli, vorrei avere il coraggio di tingerli anche io.
-Ne vado fiero, anche se occorrono cura e attenzione. 
Non c’era molto su cui dialogare, potevano parlare del presente e del loro futuro imminente, quel giorno rievocare il passato era fin troppo doloroso. Vera le disse dei suoi progetti come stilista, delle conoscenze che aveva fatto nel mondo della moda e del desiderio di aprire un suo negozio, magari di disegnare un’intera linea che avrebbe portato il suo nome. Susan poteva già immaginare un vestito color pesca, con merletti pregiati e di seta, che riportava il nome di Vera May. Drew era più taciturno riguardo i suoi progetti, ma confessò che lavorare insieme a Vera lo rendeva felice e soddisfatto. Susan pensò che si sarebbero sposati prima o poi, avrebbero creato una famiglia, sarebbero stati ricchi, finché anche la giovinezza non sarebbe scomparsa dai loro corpi. Nelle grandi città le tendenze cambiano vorticosamente insieme alla gente, sarebbero cambiati anche loro, avrebbero smesso di amarsi e forse di credere in quello che avrebbero ottenuto. Susan forse non li avrebbe più rivisti per molto tempo, ma per la prima volta questa possibilità non la rese infelice. Avevano preso strade diverse, non si sarebbero mai incrociate un’altra volta.
-Susan, qualsiasi cosa ti occorresse, sai che puoi contare sempre su di noi.
Fu quello che le disse Vera all’aeroporto, poco prima di prendere il volo che l’avrebbe ricondotta lontano.
-Sarai la mia migliore amica per sempre.- Aggiunse e Susan si sforzò di crederle, nonostante spazio e tempo le avevano già divise. Forse, Vera non era mai stata sua amica, solo una delle tante conoscenze, altrimenti avrebbe compreso ciò che Susan aveva affrontato e non sarebbe andata via, prendendo valigie e sogni insieme a Drew. Che cosa pretendeva? Che gli altri smettessero di vivere per lei? “Sarai la mia migliore amica per sempre”, Susan sorrise con la voce di Vera che rimbombava fra presente e passato, sicura che, prima o poi, loro due si sarebbero incontrate ancora.

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Capitolo 27
*** 26. J12 ***


Susan non sapeva quale evento raccontare al suo sconosciuto. Era stata una settimana impegnativa e quando era giunto il sabato, Susan aveva voglia di restare sotto le coperte e rinunciare a qualsiasi impegno preso. Poteva darsi per malata, l’inverno era a soli venti giorni di distanza e il freddo in città si faceva sentire prepotente. Ashley la chiamò proprio in quel momento e Susan non si sentì di mentirle, inventando una scusa solo per restare in casa quella notte.
-Dobbiamo ad ogni costo comprare degli abiti per stasera, quindi fra dieci minuti sono sotto casa tua e andiamo alla ricerca dei nostri vestiti perfetti.
-No, Ash, dimmi dove vuoi andare e ti raggiungo io, volevo andare in un posto prima.
Ashley le diede l’indirizzo del negozio di alta moda dove si sarebbero incontrate, poi Susan uscì. La giacca di lana tartan che aveva acquistato insieme alla sua amica si rivelò preziosa, con quel clima le sue giacche di jeans o i vecchi impermeabili stinti non l’avrebbero tenuta al caldo. Com’era suo solito, passò davanti alla scuola di musica. Si meravigliò quando vide l’entrata libera dalle assi e due uomini discutere davanti a essa. Susan si avvicinò, incuriosita dall’insolito trambusto attorno a quell’edificio, qualche ora prima deserto.
-Buongiorno, è successo qualcosa?
I due uomini si voltarono verso di lei e uno dei due, con gli occhi scuri e con una chioma bianca in testa, le sorrise. Susan impiegò qualche secondo per rendersi conto di avere difronte il marito di Giselle Choran. Stephen Mason era invecchiato parecchio dall’ultima volta che Susan lo aveva visto e lui non la riconobbe, forse ricordandola quando era ancora bambina, oppure avendo rimosso il ricordo di quell’allieva della moglie dalla sua memoria.
-Le mie figlie, Sally e Angelina, hanno deciso di fare un sopraluogo dettagliato della struttura.
-Angie me ne aveva parlato.
-Sei un’amica di mia figlia?
Susan si morse le labbra e si chiese se potesse ritenersi amica di Angie.    
-Si, la conosco da qualche anno.
-Beh, se vuoi entrare a salutarla fai pure, sarà lieta di vederti.
-Immagino che siano occupate al momento, la chiamerò io questo pomeriggio.
Mentì, prima di congedarsi dall’uomo. Non voleva rientrare nella scuola di musica, il tempio dei suoi ricordi era stato sconsacrato e rivederlo sarebbe significato sentire il peso dei suoi sentimenti gravarle addosso. Lasciò quella strada e si diresse verso il negozio, consapevole che i suoi fantasmi dannati l’avrebbero seguita comunque, anche dopo essere stati liberati.
Ashley scelse per sé un abitino dorato e ricco di pietre che l’avrebbero resa la regina della serata, mentre Susan fu indirizzata verso un abito in jersey nero, dalla generosa scollatura a V incrociata sul petto. A Susan non importava molto, apparire affascinante per una sera era allettante, ma non certo qualcosa a cui dava molto peso.
-Che cosa avete fatto tu e Adair l’altra sera?
Ashley arrossì e lasciò cadere la gruccia che teneva stretta fra le dita.
-Abbiamo solo passeggiato un po', era molto tardi ed eravamo entrambi stanchi.
Susan ridacchiò e porse l’abito che aveva scelto alla commessa. La biblioteca presto svanì dai suoi pensieri, sommersa da scarpe costose e vertiginose, abiti dorati e giacche in preziosa ecopelle. Solo il pensiero ormai assillante di Felix la seguiva ovunque, non c’erano stoffe o gioielli che potevano distrarla da lui e da ciò che provava. Avrebbe mai trovato il coraggio di confessare a Felix quello che sentiva da ormai settimane?      
-Susan? Mi stai ascoltando?
-Certo.
Susan scosse la testa nel tentativo di liberarsi dall’immagine del viso di Felix che la perseguitava. Forse quella sera avrebbe potuto distogliere la sua attenzione da quel ragazzo.
-Bene, allora dimmi quali mi stanno meglio.
-Non importa Ash, ti staserebbe bene qualsiasi cosa.
Ashley fissò con attenzione i sandali dispendiosi e i tacchi sottili che aveva appena provato.
-Significa che le prenderò entrambe.
Susan la invidiò, avrebbe voluto risolvere anche lei i suoi problemi in quel modo semplice e senza ripercussioni insistenti.
La fiammante macchina di Ashley arrivò davanti al J12. La discoteca era affollata come non mai, nonostante non fosse neanche mezzanotte. Susan si destreggiò insieme ad Ashley e Adair fra i corpi madidi di sudore e pesante profumo economico.
-Sei scintillante come non mai Ash.
Le disse Adair con le guance coperte di lentiggini rosate.
-E anche tu Susan, ti dona quest’abito.
-Tranquillo Adair, so bene che Ash è di gran lunga più attraente di me.
Ashley le diede un buffetto sulla schiena, poi sorrise con imbarazzo al ragazzo. La musica rendeva difficile comunicare in alcun modo, quindi Susan si appiattì contro il muro della discoteca, sperando che il dj scegliesse qualche canzone più allettante. Osservare quel mucchio di gente sconosciuta, che strusciava i propri corpi contro quelli degli altri, che agitava chiome voluminose e si muoveva con impaccio era uno spettacolo grottesco per Susan. Poteva buttarsi anche lei nella mischia, di certo alcuni l’avrebbero adocchiata, magari anche poggiato le loro mani irriverenti sui fianchi di Susan. Poteva essere una ragazza come tutte le altre, una giovane donna che si divertiva e gustava il piacere di quella nube di ormoni e sentimenti effimeri. Voltò la testa verso Ashley e Adair, appoggiati al bancone del bar a parlottare l’una stretta all’altro, con bicchieri ricolmi di un liquido rosato fra le mani. Susan fece un passo verso la gente, sentendo curiosità per quella folla trepidante. Che cosa potevano mai provare? Qualcuno la spinse e Susan barcollò sui tacchi fin troppo sottili e alti per lei. Il ragazzo dalla chioma rossa che l’aveva urtata si voltò e le rivolse un sorriso di scuse, poi la ignorò e continuò a muoversi come il resto del gruppo. I giovani più popolari erano tutti lì, Susan ne riconobbe alcuni che non avrebbero mai potuto ricordarsi di lei. Grandi accentratori e ammaliatori per quella città fin troppo piccola, il posto di capobranco era sempre conteso dai migliori, dai personaggi immortali delle vite di qualcuno considerato “di poco conto”. I popolari sarebbero stati ricordati, chi per la loro attrattiva, chi per il portafogli, altri per le imprese giovanili memorabili. Susan non aveva mai fatto parte di loro, né tantomeno ne sarebbe mai stata, quella era una delle poche occasioni nelle quali entrava a contatto con quel gruppo. non riuscì a muovere neanche un muscolo, restò ferma fra i corpi che la spingevano, la urtavano e la ignoravano.
Al lato opposto, lui era lì. Lontano dalle persone che ballavano fra le luci accecanti e soffuse della discoteca, ma abbastanza vicino per sentire il calore che gli altri emanavano. Lì, accanto alle poltrone scure e la gente accomodata sui tavoli che ingollava cocktail di ogni tipo, appariva un’altra persona. Fuori dal tempo e dallo spazio, forse non si aspettava di vederla. Restò con il suo bicchiere in vetro fra le mani, con il ghiaccio che tintinnava immerso nel liquido chiaro. Camicia bianca, giacca scura e pantaloni abbinati, non poteva scegliere abiti migliori per magnetizzare l’attenzione su di sé. Poteva essere uno dei tanti, Susan lo fissò e credette che i suoi occhi le stessero giocando un brutto scherzo. Lui era uno di loro, non alzò una mano per salutarla, né diede cenno di conoscerla mentre la fissava inespressivo. Susan avanzò un passo tremante, quando emerse un’altra figura. Una cascata di capelli scuri e in boccoli le discendeva fino alla schiena, i pantaloni bianchi erano separati dal top nero da una striscia di perfetta pelle marmorea. La ragazza serrò la mano sul braccio di lui, in una morsa che Susan poté interpretare solo come possesso. Perché era lì e perché c’era anche lei? O andarsene via, oppure avvicinarsi ai due. Susan respinse le lacrime e avanzò verso Felix.  

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