L'entropia delle lampadine a incandescenza di MarcoBacchella (/viewuser.php?uid=239738)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Capitolo
1
"Isabella,
devi capire che il fatto che Corrado sia scomparso non rappresenta
minimamente un reato o tanto meno un qualcosa su cui indagare. L'ha
già fatto per seguire altri casi, chi ti dice che sia per forza
correlato a quell'altra roba lì?"
Mario
era il solito personaggio secondario di qualsiasi altro giallo mai
scritto fino ad ora: con un nome generico tipo Mario, calvo, baffi
bianchi, sulla sessantina, collega di un tale Corrado, ovviamente in
contrasto con la nostra protagonista per qualche motivo che non
possiamo definire immediatamente ma potrebbe essere un punto pivotale
della trama.
"Non
puoi bollare il fatto che quelle lampadine siano scomparse davanti a
casa sua come una semplice coincidenza. Insomma, non è che esistono
bande di ladri di lampadine."
Isabella,
invece, contrariamente ai soliti stereotipi dei gialli, non aveva
nessuna backstory particolarmente tragica.
Nata
in Cina, fu adottata in tenera età da una coppia italiana.
Ebbe
un'infanzia felice.
Prima
che partano le speculazioni, no, Corrado non è il padre biologico.
Corrado
era solamente colui che assunse Isabella come stagista nell'ufficio
investigativo.
"Per
quanto possa sembrare strano, le lampadine costano fin troppo al
supermercato. Le lampadine e le pile per i telecomandi costano un
occhio della testa. Secondo te perché quando compri i televisori
dentro i telecomandi non ci sono le pile?"
"Senti,
sono mesi che non abbiamo un lavoro che non sia seguire il coniuge di
qualcuno per smascherare qualche fetish strano. Non ti chiedo neanche
soldi per farlo. Dammi solo le chiavi del suo appartamento."
Mario
tirò su con il naso. In piena estate.
"Tu
pippi ancora." gli disse Isabella.
Mario
tirò ancora su con il naso.
"Guarda,
non mi interessa. Dammi le chiavi e mi farò un po' di cazzi miei."
Coincidentalmente,
farsi i cazzi suoi coincideva con il frugare tra la roba di Corrado.
Mario
tirò su con il naso per una terza volta. Poi indicò un cassetto.
Lì,
per un qualche motivo, c'erano le chiavi dell'ufficio e
dell'appartamento di Corrado.
Mario era solito tirar fuori deus
ex machina a destra e a manca, e non solo perché il ruolo di un
personaggio secondario è solo quello di facilitare il lavoro del
narratore: attraverso una scusa semplice come “ce le aveva per
un'emergenza del genere” si
può far finta che il fatto che Mario avesse le chiavi di Corrado
abbia un briciolo di senso nello schema generale di due persone che a
mala pena lavorano assieme pur condividendo l'ufficio.
"Gli
agenti sono al lavoro da giorni per trovare al più presto i
responsabili di questi atti gravosi contro la nostra comunità, ma,
purtroppo, ancora brancolano nel buio."
Møbel
prestava sempre attenzione alle notizie della radio quando faceva
yoga.
Dal
suo ultimo tracollo mentale si era convinto, corrompendo il principio
di Pareto, quello che constata che l'80% delle risorse sarà
distribuito sul 20% della popolazione, che l'80% dei momenti
memorabili della sua esistenza sarebbe partito con quello che
succedeva mentre faceva yoga, ovvero, il 20% della sua giornata.
Concludendo
con un "Namaste", decise che era giunto il momento.
L'universo
gli disse di cambiarsi i pantaloni.
Non era interessato a quali
pantaloni si sarebbe dovuto mettere;
infatti quella decisione non
comportava in minimo modo una sua eventuale selezione, in quanto essa
comprendeva una miriade di variabili che partivano circa dall'ultima
lavatrice che Møbel decise che l'universo richiedeva, al pasto
precedente alla sessione di yoga precedentemente citata. In caso
fosse consistito di fichi avrebbe dovuto evitare a tutti i costi i
pantaloni bianchi.
Quello che era importante era che l'universo
gli avesse detto che c'era bisogno della sua particolare abilità nel
cambiarsi i pantaloni.
D'altronde,
farlo richiede svariate abilità che non sono proprio da tutti.
Il
camminare brevi distanze senza morire o rischiare la vita è una di
queste abilità, spesso dimenticata in favore di altre, come quella
di scegliere i pantaloni in base all'accostamento cromatico in
relazione agli altri capi che in quel momento si stanno indossando.
Insomma,
l'universo aveva, ancora una volta, bisogno della sua capacità nel
camminare brevi distanze senza morire perché c'era un qualcosa che
avrebbe dovuto fare che sarebbe partito proprio da quei
pantaloni.
Quello che Møbel ignorava, però, era cosa.
L'ufficio
di Corrado era il classico ufficio dei telefilm: porta vetro, con
questo, ovviamente, sabbiato, con il nome scritto a caratteri neri,
mobilio vecchio, risultato della crisi di mezza età continua che
perseguitava il proprietario da oramai trent'anni.
“Corrado,
quello che paga le bollette.” riportava la scritta sulla porta.
Avrà pur avuto una crisi d'identità, ma il suo titolo lo sapeva
bene.
In quel quadrilocale effettivamente c'erano solo due uffici
e una sorta di atrio, non è che potevi sbagliarti.
Per quanto
fossero oramai mesi che Isabella lavorava in quello studio, non era
mai riuscita a entrare nell'ufficio personale di Corrado. Già dalle
prime settimane lei cominciava a farsi delle storie assurde su cosa
potesse nasconderci, paragonabile soltanto a quelle che i veri fandom
creano in tutte le fanfiction.
Quando entrò vide la dotazione
standard di un qualsiasi ufficio: scrivania, fogli di carta, un
portatile polveroso, memorabilia dei vari casi.
Sapendo di che
tipo di casi si occupavano, sapeva benissimo che non era proprio il
caso di toccare nulla.
Non che fosse pericoloso in qualche modo,
ma era meglio evitare di toccare ciò che era stato trovato sotto al
letto di un coprofago.
Quello spazzolino la teneva ancora alzata
la notte.
Accese il portatile, e dopo una trentina di secondi,
riuscì a vedere la schermata della password.
Ci pensò un po'.
Cercò un post-it o un qualcosa che era stranamente vicino alla
scrivania con una data o un nome qualsiasi, un quadro spolverato con
su scritto qualsiasi informazione desueta, come il numero di
scatolette di tonno che Corrado comprava mensilmente, ma nessuno ha
più quadri nel proprio ufficio e nessuno si ricorda la password in
modo così stupido.
Provò,
quindi, a improvvisare.
Dopo i primi tentativi, quasi ironici,
come “password01” e “mariopippa”, capì che Corrado non era
tecnofobico come la maggior parte della sua generazione, e se aveva
una password, allora aveva una password sicura. Certo, era uno di
quelli che metteva il nastro adesivo sulla webcam, ma proprio per
questa sua paranoia Isabella sapeva che la password doveva essere
sicura.
Corrado non era un fanatico di una cosa in particolare,
anche se il suo lavoro l'aveva portato a conoscere qualsiasi tipo di
pratica sessuale praticata negli ultimi quarant'anni da qualsiasi
deviato del nord Italia, senza poi contare quelle illegali, non
propriamente definibili sessuali, e quelle borderline legali, sempre
non propriamente definibili sessuali.
“pannoliniperadulti” non
era la password.
Optò
per i kakhi corti.
Li
scelse per molteplici ragioni.
Garantivano
una massima mobilità, avevano ben sei tasche, gli permettevano di
mostrare il polpaccio allenato al mondo, e in più, erano gli unici
puliti.
Uscito
di casa slegò la bici dal palo e inforcò i pedali.
Arrivato
al primo semaforo rosso, appena cento metri da casa, si domandò
perché si dicesse "inforcare" i pedali.
Scattò
il verde. Lui non partì, ma tirò fuori il telefono per cercare la
risposta alla sua domanda.
Proprio
in quel momento, da destra arrivò un SUV che bruciò un rosso e
prese in pieno la macchina che, appena tre secondi prima, era alla
sinistra di Møbel.
Mattinata
normale a Milano.
L'etimologia
è derivante dal latino volgare, "forca". Non spiegò
molto.
Riprese
a pedalare, schivò l'unione dei rottami delle due macchine e
proseguì per la sua strada.
Møbel
non usava un vero e proprio navigatore. Lui contava le persone ferme
sul marciapiede e se erano pari girava a destra al primo semaforo, se
erano dispari girava a sinistra. Se non c'erano persone continuava
dritto.
Quando
tentò di fare il pizza boy venne licenziato dopo la prima consegna,
ovviamente avvenuta in ritardo di diverse ore.
Arrivò,
non si sa esattamente come, davanti a un complesso residenziale della
Milano più ricca di quindici anni fa: tra corso Magenta e corso
Vercelli. Capì dove fermarsi per il numero di volanti ferme davanti
al portone d'ingresso di un palazzo bianco.
Due.
Lo
interpretò come un segno e legò la bici ad un palo lì vicino.
Capendo
perfettamente che non c'era modo di entrare senza destare sospetti,
fece una delle cose più sospette possibili.
Si
mise dall'altro lato della strada e tirò fuori un binocolo con cui
esaminò il palazzo.
L'odore
che c'era nell'appartamento non era quello di sigaro, come Isabella
si aspettava da Corrado, ma era di bruciato e di pipì di gatto.
Non
sapeva che Corrado avesse un gatto.
I
segni del gatto erano visibili ovunque, effettivamente.
Mobili
graffiati, piume per terra, probabilmente provenienti dal divano,
scatolette di tonno mezze aperte sparse per tutto quello che era il
mono ambiente salone-cucina. Però, nessun gatto.
Isabella lo
cercò per un po', più per altruismo che per amore effettivo per gli
animali. Pensò che se Corrado si fosse rimaterializzato, sarebbe
stato rincuorato nel sapere che la sua palla di pelo non era morta di
fame.
Ma
non c'era.
Cercò sotto il letto, sopra al letto, dentro
l'armadio, fuori dall'armadio, dietro le tende e davanti alle tende.
Non lo trovò.
“Sarà scappato.” Disse una voce fuori campo.
Ecco,
nella eventuale versione cinematografica questa scena sarebbe molto
più semplice da descrivere: fate finta che la voce appena sentita
era, di fatto, familiare.
Entrò
dalla finestra che dava sul cortile interno del condominio,
contemporaneamente alla voce, la testa di un ragazzo caucasico,
capelli castani e disordinati.
A
questa testa era già diretto un bicchiere che Isabella prontamente
gli lanciò contro.
“La
legge di Poe constata che senza nessun tipo di emoticon, la parodia
dell'estremismo e l'estremismo puro non sono discernibili.
Se un
testo si mantiene sulla zona grigia del non essere prettamente
parodistico e del non essere esattamente rappresentativo di un
genere, pur mantenendo i punti chiave dello stesso, come si
definisce?”
“Quel
bicchiere ti ha fatto male”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Capitolo
2
Møbel
prese una decisione importantissima, dopo che il bicchiere lo prese
in pieno.
Decise di svenire.
Svenendo ha aiutato me narratore
a saltare parte della narrazione per simulare una dinamicità
inesistente, quindi di per sé mi ha fatto apparire migliore di
quello che sono in realtà, e in più mi ha aiutato a citare Dante
che, come tutti ben sanno, svenne ogni qualvolta non sapeva come
continuare nella Commedia. Quindi, io, per continuare la tradizione
innovativa italiana di non discostarsi mai da quello che hanno
scritto Dante e Petrarca nel quattordicesimo secolo, farò svenire
Møbel per ancora un paio di volte, poi mi annoierò e troverò altri
modi di proseguire la narrazione. Forse.
“Come
sei entrato?” chiese Isabella inviperita, dimenticandosi di come
fosse entrato dalla finestra.
“Dalla finestra” rispose Møbel.
Ci furono degli attimi occupati soltanto dal rumore del
corrugarsi della fronte di Isabella.
“Perché mi hai lanciato un
bicchiere?”
Møbel non era un individuo particolarmente
brillante. Cioè, era brillante, ma in un numero altamente limitato e
selezionato di campi, come quello del percorrere brevi distanze senza
morire e quello dell'entrare dalle finestre.
Sapeva esattamente
come fare e come sono state fatte le cose, ma le motivazioni dietro
alle cose gli sfuggivano.
“Sei entrato dalla finestra.”
“Sarei
entrato dalla porta, non l'avessi chiusa.”
In meno di trenta
secondi di reciproca conoscenza, per colpa dei cliché di genere, i
primi screzi tra i due coprotagonisti già si erano creati.
Se
si pensa alla presentazione generale di tutti gli altri gialli
post-moderni questo dettaglio è superfluo ma onnipresente.
Si
presentano, sotto forma di archetipi, fin dai primi attimi, due
caratteri differenti e inconciliabili, ma per qualche ragione, il
rapporto funziona sempre.
“Dammi una buona ragione per non
farti anche uscire dalla finestra.”
Questo tipo di
affermazione, invece, non è tipica dei gialli in generale, quanto
caratteristico della miriade di donne amazzoni della letteratura
post-rivoluzione femminista degli anni 60. Le informazioni che ci da
sul carattere di Isabella sono molteplici ed efficaci: sappiamo che è
emancipata, che questo sia dovutamente a una backstory tragica o ad
una semplice sopravvivenza nella giungla che è la laurea in
giurisprudenza in Statale.
“Se l'avessi voluto fare
l'avresti già fatto.
E in più, non scoprirei mai che genere di
crimine c'è stato.”
Per quanto Isabella corrugasse la fronte,
Møbel non reagiva.
“Scoprirai? Non vorrai mica dire
“scopriresti”?”
“No, no” rispose lui, alzandosi
da terra “non ho la benché minima idea di cosa sia successo qui”
a quel punto il signorino prese un fazzoletto dal bancone a isola
della cucina e se lo mise sulla fronte.
“Ma non stai
sanguinando” Il fatto che non stesse sanguinando non era l'unico
quesito che aveva la giovane.
“Sì, lo so che adesso non sto
sanguinando”
Isabella fece quella cosa con indice e pollice che
stringono i lati del naso, poi sospirò”
“Quindi chi sei e
perché sei qui?”
Il giovane spettinato, che nel frattempo aveva
cominciato a sanguinare dalla fronte, si mise a posto i pantaloni
khaki e porse la mano alla ragazza.
“Mi chiamo Møbel, e non ho
la minima idea di perché io sia necessario in questo posto. E
proprio per questo sono qui.”
La
povera ragazza non riusciva a capacitarsi di quello che stava
succedendo, quindi fece l'unica cosa ragionevole in questo tipo di
situazioni, ovvero, si fiondò verso la porta e tentò di aprire il
migliaio di serrature tipiche delle porte di Milano.
“Te
ne vai di già?” chiese lui, stranito.
Lei cominciò a urlare e
a battere i pugni sulla porta, come ogni persona dotata di senno
farebbe dopo aver visto uno che sanguina dalla fronte a comando.
“Siamo
a Milano, per quanto batterai sulla porta e urlerai, otterrai
soltanto degli insulti dai vicini.”
Isabella si rannicchiò con
la schiena alla porta e cominciò a respirare in modo affannato.
“Capisco il tuo stato d'animo, ma posso spiegarti tutto. Lascia
che ti aiuti” disse lui, ottenendo soltanto che la ragazza
prendesse una scopa e gliela puntasse contro.
Ci furono degli
attimi di silenzio utili solo ad uno scambio di sguardi intenso che
portò all'abbassamento della scopa.
Poi lui ricominciò a
parlare.
“Non
c'è un cadavere. Quindi non lo possiamo chiamare omicidio.
“
“Scusa?”
“Dico, non vedo cadaveri e non sento puzza
di cadavere triturato e scaricato nella vasca da bagno.
Niente
sangue in giro, quindi immagino che non ci sia stata neanche
un'aggressione alla pari.
La casa è in ordine, quindi anche
un'irruzione in senso comune è da escludere.
Niente segni di
lotta, o presenza del proprietario, quanto meno.”
“Continuo a
non capire. E se fossi io la proprietaria?”
“Non hai più di
venticinque anni. Non ti puoi permettere questo appartamento, o un
qualsiasi appartamento in questa zona. O un qualsiasi
appartamento.”
La prima deduzione di ogni giallo ha sempre lo
stesso fine: deve creare fiducia tra il componente Sherlock del duo e
il resto del mondo. Il primo deve dimostrare di avere delle buone
intenzioni e che ci sia del buono nelle proprie capacità. Passando
immediatamente alle deduzioni poi, si può saltare la parte in cui i
comportamenti degli altri personaggi vengono spiegati.
“Ora te
lo chiedo per l'ultima volta. Perché sei qui?”
“Credo
per trovare chiunque abbia rubato quel centinaio di lampadine, che
dovrebbe essere la stessa persona che ha rapito il proprietario di
casa.”
“Ma perché?”
“Perché rubare delle lampadine,
perché rapire il proprietario di casa, o perché sono qua?”
Isabella
avrebbe voluto chiedere tutti i perché del mondo.
“L'ultima.”
“È
semplice, cara “ancora non ti sei presentata”, c'è bisogno di
me.”
Finalmente “Isabella, comunque” smise di fare domande
stupide in un giallo. Certo, questi personaggi possono anche leggere
un libro, ogni tanto.
“L'unico dettaglio importante sono queste
piume.”
Sherlock, dopo le deduzioni, trova una prova, la
prima di una lunga serie, che non corrisponde a quello che gli altri
componenti della trama pensavano che fosse.
“Non
è del divano?”
“Tu hai sempre vissuto a Milano?”
“Che
c'entra adesso?”
“Nulla, “Isabella, comunque”, se non che
almeno ho una motivazione valida sul perché tu non sappia
riconoscere le piume di pulcino da quelle del divano.
Che poi, il
divano non è un tipo di uccello.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Capitolo
3
Saltando
propriamente le scene che logicamente ci dovrebbero essere, si può
evitare di dover spiegare perché o come i due protagonisti si stiano
aiutando a vicenda. Se si segue questo metodo, un modo efficace per
farlo è evitare in qualsiasi modo di dire che si è cambiato luogo,
in modo tale da confondere il lettore. Come per ogni incipit degno di
nota, l'inizio in medias res aiuta.
Premete invio,
cambiate paragrafo, mi raccomando.
“Quindi
l'universo ti parla.” disse lei, ancora più confusa di prima.
“No, l'universo non parla. Non ha una vera e propria bocca. La
questione è molto più sottile di quanto lo si faccia. Devi pensarla
in un modo non-antropomorfo. D'altronde, se gli asini avessero una
divinità, avrebbe la forma di un asino, e questo concetto sta alla
base dell'antropologia inversa come strumento per lo studio della
teologia di culture e religioni estere. Però
io ascolto l'universo.”
Isabella era visibilmente
confusa. Aveva già sentito
qualcuno parlare così, ma non sapeva dove. Era stato anni fa,
ma non riusciva a collegare dove.
“Quindi tu ascolti
l'universo. E che ti dice?”
“Ascolto
quello che devo fare.”
“Ma perché?” replicò
immediatamente lei.
“Questo,
ogni tanto, è il problema. Non mi comunica mai il perché. So solo
che devo fare una certa cosa, ad un certo punto, ad una certa ora. Il
risultato è che io non so perché dovessi venire in Corso Vercelli,
o che dovessi andare proprio in Corso Vercelli, eppure ci sono
arrivato.
Adesso potresti slegarmi dal termosifone?”
Isabella
aveva imparato a legare le persone a qualsiasi tipo di mobilio, dalle
testiere del letto alle cucine a isola, grazie ad alcuni documentari
a cui si era appassionata durante le notti solitarie passate a
studiare per una triennale presa in due anni e mezzo.
“Capisco
lo sgomento. Quando me ne resi conto ero nella tua stessa situazione.
Solo, senza maestria nel fare i nodi. Eri una scout?”
Qualsiasi
cosa detta da lei avrebbe potuto essere mal'interpretata. Quindi non
disse nulla.
“Senti, la spiegazione più semplice è sempre
quella corretta. Quindi, o ho poteri magici, o l'universo mi comunica
le cose.”
Effettivamente, per Møbel, solo una di queste aveva
senso, ed era quella che l'universo gli comunicasse “le cose”.
Isabella ci pensò su. Quel giochino del fazzoletto e del sangue
le dovrebbe aver detto qualcosa, d'altronde.
“Sei tipo
un'illusionista e mi stai tirando scema, vero?”
“No. Guarda,
io ti chiedo soltanto di credermi, almeno fino a che non avrai la
prova che io ascolto effettivamente l'universo.”
“Crederti?
Sei in un appartamento non tuo e, guarda, dobbiamo proprio
ricominciare con sta storia della finestra?”
Isabella anticipò
il narratore tagliando corto con la storia della finestra.
“Sì, lo so, ma perché sono qui?”
“È proprio
quello che ti sto chiedendo da un bel po'.”
“Giusto, e hai
trovato una risposta?”
“No.”
“Ecco, possiamo
cominciare da questo. Di chi è l'appartamento?”
Isabella,
rassegnata, si rimise seduta per terra con la schiena alla porta,
sull'orlo di un pianto nervoso.
“Sai che ti dico? Va bene. Non
che io ti creda o che non stia per chiamare i carabinieri, ma sto al
tuo gioco. Tanto non è che ti sleghi da quel termosifone.”
“Qual
era una parola di sicurezza?”
“Cosa?”
“Nulla.
Quindi di chi è l'appartamento?”
“È di Corrado.”
“E
lui è per te...”
“Il mio capo.”
“Ecco, ma il tuo capo
che lavoro fa?”
“Fa l'investigatore privato.”
“Tipo...Sherlock
Holmes o quello di Hawaii Five coso?”
“Tipo nessuno dei due.
Principalmente pedina le mogli o i mariti o entrambi del cliente di
turno. La televisione e i mass media fanno sembrare il lavoro
dell'investigatore qualcosa di emozionante, ma in realtà stai in un
pandino coi vetri oscurati per un terzo della giornata ad
aspettare.”
“Il pandino quello nuovo o quello vecchio?”
“Un
pandino dell'ottantotto verde menta coi vetri oscurati.
Ma perché
lo vuoi sapere?”
“Ah, nulla. Solo curiosità. La mia prima
macchina era un pandino 750 bianco. N'ero innamorato.”
“Eri?”
“L'ho
incidentato dopo due mesi.”
Ci furono altri attimi di silenzio.
Il silenzio era popolare tra i due.
“Dovrei...dovrei farti le
condoglianze? Perché non sono dell'umore adatto, sai, con il mio
capo scomparso.”
“Ah già. Quando l'hai visto l'ultima
volta?”
“Due giorni fa.”
“E da quanto lo stai
cercando?”
“Circa un giorno.”
“È troppo presto. Non
troveremo nulla adesso.”
“In che senso non troveremo nulla? Al
massimo troveremo più indizi ambientali adesso.”
“No, non è
così che funziona.”
“Sì, è così che funziona.”
Per
l'ennesima volta, il silenzio. Il narratore ad un certo punto si
stancherà pure di parlare di silenzio.
“Sai cos'è il principio
di Pareto?” disse lui.
“Dimmi che non è un'altra delle tue
stronzate sull'universo.”
“È una delle regole che governa
tutti i campi dell'universo.”
Isabella sprofondò la sua faccia
in mezzo alle ginocchia.
“Perché ti sto anche ad
ascoltare?”
“Essenzialmente, il 20% di qualche cosa sarà
responsabile dell'80% di qualcos'altro.”
“Ma
di cosa stai parlando?”
“Beh, di tutto, anche se in
realtà è una legge economica e statistica. Ora, lui è sparito da
due giorni, giusto? Due giorni sono 48 ore. Il 20% di 48 ore sono 9,6
ore. Durante le ultime 9 ore e 36 minuti dei due giorni che ha
passato da scomparso troveremo l'80% delle prove relative alla sua
sparizione. Quindi, visto che sono circa le due e dieci, e stabilendo
che Corrado è scomparso circa a mezzanotte di due giorni fa, tra
quattordici minuti cominceremo a vedere le prove. Almeno l'80% di
esse.”
“Ma tu hai deciso adesso tutto questo, o te lo sei
sognato ieri notte? Non ha nessuna logica.”
“Ma anche se non
ha una logica, l'universo ha voluto che io ti dicessi tutto
questo.”
“Basta, va bene, l'ho capito. Sei un drogato. Non
avrei dovuto infierire. Ora ti lascio andare...a fare qualsiasi cosa
l'universo ti dica che devi fare.”
“Sicura di non aver bisogno
di me?”
Isabella lo guardò fisso mentre disfaceva i
nodi.
“Sicura.”
“Sicura sicura?”
“Sì, sicura.
Adesso vai a fare qualsiasi cosa, però fuori di qui.”
Lo
slegò e lo sbatté fuori dall'appartamento. Prese un grande respiro.
Tirò fuori dallo zaino il telefono. Nessuna chiamata, nessun
messaggio. Né da Corrado, né da qualsiasi altra persona.
Isabella,
da buona milanese, alle 14:15 di un qualsiasi giorno cominciava ad
avere fame, quindi frugò un po' nelle varie dispense. Corrado aveva
solo scatolette di pesce. Sgombro, tonno, acciughe, una mezza
verdesca sottolio.
Isabella sentì vibrare il telefono. 14:24.
Una mail da Amazon. C'erano trenta metri di corda in sconto.
Aggiunse al carrello, e proprio appena prima di pagare, un
furgoncino bianco fece casino in strada, schiantandosi tra una
macchina della polizia e un palo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
Capitolo
4
Il
ragazzo finalmente ebbe l'opportunità di utilizzare la porta
d'ingresso dell'edificio. Non trovando il pulsante apri porta, accese
tutte le luci delle scale, poi provò a spingere, poi a tirare, poi
bussò al portinaio, che, da buon portinaio, era in vacanza, e infine
capì che doveva semplicemente usare la maniglia.
Uscì in
strada, e notò la polizia di cui tanto si era preoccupato in
precedenza troppo indaffarata a capire come ci fosse arrivato un
furgoncino senza guidatore tra una delle loro macchine e un palo
della luce per notare la
sua presenza.
Alzò lo sguardo e vide Isabella sporgersi dalla
finestra.
La ragazza non pensava al fatto che è risaputo che è
pericolosissimo, ma lei, come ogni donna della letteratura post
moderna che si rispetti, era sprezzante del pericolo. Non si sa
perché, ma deve essere un qualcosa relativo al fatto che, per come
ragionano alcuni ambienti letterari, le donne forti e senza paura
corrispondono per forza a personaggi femminili ben scritti.
“Che
ore sono?” gridò Møbel.
“Che importanza ha?” replicò,
sempre urlando, Isabella.
“Le due e ventiquattro” disse la
vecchia del primo piano “e ora smettete di rompere il cazzo!”
“Grazie!” urlò Møbel, non recependo il messaggio.
Nel
mentre che la vecchia era rientrata borbottando in dialetto, intorno
al furgone si erano radunati diversi spettatori.
Un furgone che
si guida e si “parcheggia” alla milanese da solo era l'ultimo
ritrovato della tecnica e della tecnologia nostrana, ma proprio
mentre uno dei vari carabinieri stava vedendo se almeno fosse aperto,
sul finestrino batté il becco di una gallina.
Il carabiniere
sobbalzò. Non so dire se dalla paura o dalla sorpresa.
Guidatori
così esperti erano una rarità a Milano, quello era vero,
esattamente come il fatto che le patenti non possano essere
rilasciate alle galline.
È anche vero che l'avere una patente non
è un requisito per poter guidare, come averla non è per forza
sinonimo di saper guidare.
Il carabiniere si riprese, non
poteva aver paura di un uccello che non vola, e aprì la portiera
della macchina.
“Bguok!” disse la gallina.
“Bguok!”
urlò Møbel.
“La smetti di rompere il cazzo?” urlò la
vecchia.
Il volatile si dimenò in mezzo alle forze dell'ordine
saltando e beccandosi una strada in mezzo alla folla, fino a che non
arrivò davanti al nostro protagonista.
Quest'ultimo, sorpreso,
capì che doveva prendere sotto braccio il volatile. Il gallus
gallus domesticus, incurante dell'odore di sudore dell'ascella di
Møbel, rimase calmo e smise di urlare “Bguok!”, per la gioia
della vecchia.
I carabinieri, ovviamente, si avvicinarono al
nostro eroe.
“È sua la gallina?”
“Ha appena presunto il
suo gender?”
“Cosa?”
“Dico, ha appena presunto il suo
gender?”
“Ma cosa sta dicendo?”
“L'ha chiamata
“Gallina” quando può essere tranquillamente un “Gallo” in
transizione.”
“È una gallina perché sembra una gallina in
quanto non è un gallo, e sicuramente questo uccello non è un
gallo.”
“Ah, quindi adesso la donna è solo una
contrapposizione dell'uomo?”
Ciò
che il povero poliziotto ignorava era il dibattito della questione
generesesso che infiammava tutti gli ambienti di sinistra
anglosassoni.
Ciò che il povero Møbel ignorava era il completo
disinteresse da parte del resto del mondo.
I poliziotti si
guardarono tra di loro. Quelli non interessati alla conversazione
facevano spallucce, quelli più vicini all'azione, invece, annuivano
tra di loro.
“Facciamo gli spiritosi, quindi.”
“Beh, no.
Perché vi serve l'animale?”
“Potrei farti la stessa domanda.
Te lo richiedo un'ultima volta. Il volatile è tuo?”
“No.”
“E
allora perché l'hai preso?”
“Beh mi sembrava nervoso, e poi
ha appena fatto un incidente in macchina. Potrebbe essere in stato di
shock, ha bisogno di cure. Ma voi non dovreste pensare a come è
arrivato qua ?”
Le forze dell'ordine ci pensarono un po'.
Parlottarono tra di loro. Potevano fermarlo per ostruzione
d'indagine, o per semplice schiamazzo,
oppure potevano fare come facevano per i profughi, potevano
portarlo dentro con un accusa di spaccio in mancanza di prove.
Nel
frattempo, il nostro eroe si era già dileguato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Capitolo
5
“Tu
hai rubato la gallina?”
“Anche tu. Non sai se è una gallina o
un gallo in transizione.” rispose a Isabella.
“Perché l'hai
fatto?”
Møbel ci pensò su. Non c'era una vera e propria
ragione, se non quella che ci fosse una gallina.
“Sono un
cleptomane.” disse lui.
Isabella pensò a tutto quello che gli
aveva sempre detto Corrado, quello che ora, per motivi di archetipi
relativi al genere letterario di questo testo, dobbiamo definire suo
mentore.
Le veniva in mente solo “non fumare in macchina o
non ti pago”
Allora la signorina provò a pensare a
tutt'altro. Si rese conto che per semplificare la trama poteva
semplicemente cedere e accettare che la gallina avesse qualche
importanza, anche perché non ci sarebbe stata se non avesse avuto
nessun tipo di rilevanza, che oramai siamo arrivati al quinto
capitolo e nulla di tutto quello che è stato scritto ha un briciolo
di senso e i lettori cominciano ad annoiarsi.
Isabella si alzò
dalla sedia della cucina, appoggiò la scatoletta di tonno che nel
frattempo si era messa a mangiare, andò nel corridoio e tornò con
una lavagna bianca coperta da un telo: oramai si era rassegnata pure
lei.
“Non hai pennarelli, vero?” disse lui.
Lei ancora
non era chiaramente cosciente di essere all'interno di un romanzo e
sarebbe bastato un piccolo deus ex machina per farli apparire dal
vaso alla sua destra, quindi cercò dove aveva
trovato la lavagna. Che poi, col senno di poi, è il posto più
logico dove potevano essere.
Li trovò lì, ma nel mentre che lei
era nello stanzino, il coprotagonista aveva già levato il telo,
rivelando solo a lui e al gallus un plot twist importantissimo: la
lavagna era piena di scritte e scarabocchi.
Quello che appariva
davanti a quelle tre paia di occhi sembravano le lyrics di una
canzone di Battiato.
La parola IKEA compariva al centro
della lavagna, cerchiata più volte. Da uno dei cerchi partiva una
freccia che puntava alla scritta COMODINO.
Due bollette
dell'a2a attaccate con lo scotch nella parte inferiore, bollette da
3500 euro di un edificio della parte est di Milano, erano affiancate
dalle scritte “VEGANI?” e “UOVA”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
Capitolo
6
“Quindi
hai idee?” chiese Isabella.
“Beh, in realtà no. Oramai è un
po' di tempo che l'universo non ci sta dicendo nulla.” disse Møbel,
ignorando di avere in mano un uccello arrivato su un furgoncino
mentre stava davanti a una lavagna con tutti gli indizi possibili per
risolvere il caso.
“Forse dovremmo andare all'IKEA.” continuò
lui, dimostrando non solo di saper camminare brevi distanze senza
morire, ma anche di saper leggere.
Isabella era oramai rassegnata
a farsi muovere come gli escrementi dalla corrente del mare, e ancora
non sapeva quanti escrementi ci potessero essere in questa trama.
Arrivati
a Corsico col pandino, i nostri due coprotagonisti e il volatile si
persero nel parcheggio.
“Dovevi proprio portarti dietro la
gallina?”
“Credo abbia un nome, sai? Ha la faccia di un
animale che ha un nome.”
Isabella respirò nel modo più
rumoroso che il buon dio delle trame campate per aria e delle
reazioni esagerate dei testi le permetteva.
“Quale sarebbe il
suo nome?”
“Rosit*.” Møbel schivò così una denuncia per
copyright infringement, grazie ad un asterisco.
“Rositasterisco.”
Il nome comunque rimaneva Rosita Sterisco, ma questo non lo si
nota se si parla velocemente, e il narratore conviene che è meglio
non calcare su questa battutaccia.
Come ogni volta in cui si
sentiva perso, Møbel decise di provare a contare le persone ferme
per stabilire dove e quando girare. Essendo in un parcheggio, le
poche persone che c'erano stavano o andando verso l'IKEA, o andando
verso le macchine.
La
mancanza di persone ferme da contare mandò in crisi il povero Møbel,
obbligato a trovare altri modi per trovare l'entrata nel negozio,
dimenticandosi che se la gente si stava dirigendo verso l'ingresso,
molto probabilmente sarebbe bastato seguirle.
Eppure così non
avrebbe rispettato una delle sue tante regole create in mesi di dura
crisi mistico-spirituale.
Questa
era partita per caso, quasi per sfizio, quando decise di levare tutti
i soprammobili dal loculo in cui viveva: meno oggetti c'erano, meno
avrebbe dovuto spolverare. Una logica di fondo in realtà ce l'ha
sempre avuta.
Nel frattempo, Isabella, annoiata dall'aspettare
che un coprotagonista in piena epifania si svegliasse, decise di
cominciare a trascinarlo verso la porta del negozio.
Mentre
la nostra locomotiva delle trame poco elaborate trascinava il nostro
protagonista ossessionato dagli articoli sul digiuno intermittente e
da James Joyce, la stessa locomotiva sentiva di dover riempire il
silenzio, con un insulto o una domanda chiarificante, un po' come se
il narratore glielo stesse dicendo con una prefazione chilometrica.
“Ma te lo dice l'universo di fare il rincoglionito?”
Lui,
scosso dalla sua epifania neanche il suo nome fosse Molly Bloom,
tentò di spiegare perfettamente ciò che stava succedendo.
“L'universo ha delle regole molto semplici.
-
Mai
mangiare la neve gialla
-
Mai
abbandonare il proprio bagaglio
-
Rimanere
sempre in vita
-
Guardare
sempre il sole con gli occhiali
Adesso,
se mi consideri come il tuo bagaglio, allora entrambi abbiamo
rispettato le regole del gioco. Tu non hai abbandonato il tuo
bagaglio e entrambi siamo rimasti in vita, e non mi pare sia stagione
di neve. In più, siamo a Milano. Non si vede il Sole dal 1931,
quindi non c'è neanche il rischio che tu lo possa fare.”
“La
tua famiglia non ti ha mai voluto internare?”
A questo punto il
nostro coprotagonista, oramai sulla soglia del superstore, aveva
un'espressione molto confusa. Lui, tra tutti, un'espressione confusa.
Indubbiamente era relativa alla sua backstory tragica di cui ancora
non si sa nulla, ma che si comincia a delineare come un qualcosa su
cui si possa speculare nelle menti dei pochi lettori.
Entrati
nel negozio di mobili, cibi, stili di vita e lampadine a
incandescenza, i nostri protagonisti si trovarono di fronte al solito
labirinto di arredamenti minimal e lavoratori part-time con poca
voglia di vivere senza una vera e propria strada da seguire: certo,
in una qualsiasi IKEA la strada è sempre una sola e l'oggetto che si
sta cercando è sempre l'ultimo prima delle casse e della conseguente
uscita, ma loro non sapevano ancora cosa stessero cercando.
“Dici
che le vendono le lampadine?” chiese lei.
“Se ti impegni e
metti i soldi nelle tasche giuste puoi trovare gli organi. E gli
strumenti musicali hanno una sezione propria.”
Lui era
stranamente informato su cosa succedesse all'interno del superstore,
come se fosse parte della sua backstory tragica.
“Lavoravi qui?”
chiese Isabella, invitando il nostro coprotagonista distratto a
condividere il suo passato.
“No, no. Mai lavorato in vita
mia.”
“Come sarebbe a dire che non hai mai lavorato? Come
sopravvivi?”
I casi erano due: o la famiglia che non l'ha mai
internato gli pagava tutte le spese, o avrebbe partorito un'altra
delle sue stronzate sull'universo.
“L'universo provvede a
me”
Ovviamente, la risposta più ovvia è sempre quella giusta.
Isabella, stranita, cominciò a non dargli più tanto peso e si
diresse, con un finto fare indaffarato per evitare che Møbel
decidesse di continuare con le sue dissertazioni sull'universo.
Era
principalmente colpa della nostra protagonista, comunque: dopo che
uno ti dice di non mangiare la neve gialla e di non abbandonare mai
il tuo bagaglio non gli chiedi di parlarti della sua vita.
Mentre
i nostri protagonisti ragionavano, in rigoroso silenzio come erano
soliti tenere, con una gallin* sotto l'ascella, su cosa dovessero
fare lì, a Isabella venne in mente una cosa, proprio mentre guardava
il custode del volatile.
“ Møbel,
come scrivi il tuo nome?”
“Con una penna, o con una
tastiera.”
“Dico, come lo scrivi?”
“Prima la M, poi la
O, poi la B, poi la E, poi la L, poi aggiungo la sbarretta alla
O.”
“E perché questo nome?”
“Beh, perché è la prima
cosa che mi è venuta in mente.”
“In che senso?”
“Mi
sono svegliato senza ricordarmi nulla, e la prima cosa che ho visto
era una cassettiera Møbel.”
“Come sarebbe a dire?”
“Che
mi sono svegliato qua all'IKEA, davanti ad una cassettiera Møbel.
Credo che sia tu quella da internare. Continui a farmi domande
stupide.”
“Tu ti sei svegliato qui e non sapevi dove fosse
l'entrata?”
“A mia difesa, io mi sono svegliato all'interno
del negozio, non avevo bisogno di sapere come entrare.”
Pur non
avendo torto, il nostro protagonista si rivelava avere sempre meno
senso.
“Perché non mi hai detto che hai avuto un'amnesia o che
ti sei “risvegliato” proprio qua?”
“Non è che ci
conosciamo così bene da dirti cose così intime.”
Proprio
mentre gli animi si scaldavano su una backstory tragica campata per
aria e non detta al momento opportuno, perché quando mai è spiegata
nei modi e nei tempi adatti, la gallin* decise di scendere
dall'ascella del suo custode per andarsene per i fatti suoi,
ovviamente con la velocità di una gallina normale, il tutto per
dirigersi, col passo di una gallina normale, nel posto in cui tutte
le galline normali dovrebbero andare, almeno una volta ogni tanto.
In bagno.
Il nostro protagonista, pur avendola prelevata,
si era dimenticato che questa era un animale vero e proprio, con
bisogni corporali ben precisi.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3703929
|