Tu sei
l’orgoglio della
nostra famiglia. Sei il futuro della nazione. Riporta il popolo tedesco
al suo
splendore.
Quando
era bambino non capiva bene cosa volessero dire quelle parole.
Dicembre
si faceva sentire grazie al freddo pungente e ai primi fiocchi.
Finalmente
avrebbe visto qualcosa di bianco, al contrario del grigio e del nero
dei cumuli
di rovine e gru che si stagliavano sulla Berlino dell’epoca.
Anche se erano
passati tanti anni dalla guerra la Germania non aveva dimenticato, i
tedeschi
erano ancora divisi in due o più fazioni, tra cui gli
estimatori del fuhrer.
Erano
tempi cupi per la Germania dell’epoca, e non era passato
nemmeno un mese dal
crollo del muro grazie all’intervento di coloro che volevano
la possibilità di
passare da una parte all’altra della città senza
essere controllati da una
sentinella, col rischio di beccarsi una pallottola alla tempia.
Comunisti
o nazisti che fossero, la realtà era che qualcuno finiva
sempre per lasciarci
la pelle.
Berlino
era libera e prigioniera ancora di un qualcosa che andava oltre il
nazional-socialismo, oltre la parità dei diritti, oltre il
comunismo della
Germania est.
Berlino
aveva perso sé stessa.
Quindi
non c’era da stupirsi se la gente sembrava vuota, non
c’era da stupirsi se la
televisione mandava in onda, tra una pubblicità e
l’altra, le parole del
defunto, per disgrazia o per fortuna, fuhrer, Adolf Hitler. Parole che
nel
piccolo erano impresse già da quando ne aveva memoria. La
sua famiglia era una
di quelle che speravano che qualcuno riportasse la Germania al
prestigio che
Hitler era riuscito a dare, in un modo o nell’altro.
9
dicembre 1999
Erano
passati dieci anni dal crollo di quel muro, mentre mancavano quattro
giorni al
suo decimo compleanno.
-Mamma,
perché ci sono ancora i resti del muro?- chiese il bambino
indicando ciò che
c’era fuori dalla finestra.
-Perché
devono finire dei lavori sul ricordo che hanno lasciato quei bigotti
dei comunisti
alla nazione. Sai quante persone sono morte nel tentativo di
scavalcare? 133, o
anche di più. i comunisti sono tutti così, belle
parole, ma non esitano a
ucciderti per paura di ribellione. Ah, se solo ci fosse il fuhrer la
Germania
sarebbe ancora al suo splendore…-
E
così finchè non trovava qualcosa con cui
distrarsi. Il bambino continuava a
guardare alla finestra.
Muro o non muro, per lui la situazione non mutava
tanto: la gente rimaneva triste e scocciata.
Mentre
se ne stava in pace a decorare il suo cappellino per il compleanno,
sentì la
porta chiudersi. Era ora di cena, forse suo padre era tornato a casa.
Sentiva
borbottare, dall’altra stanza, sembrava dal salotto. Una
prassi quotidiana
ormai. Da quando era piccolissimo suo padre e sua madre non erano mai
contenti
di niente. il lavoro del padre non andava molto bene, e dava la colpa
di tutto
ai comunisti che avevano rovinato il prestigio del padre del padre del
padre e
via discorrendo.
Finché
non ci fu un attimo di tregua da riservare alla cena.
-Mihael!
A tavola, forza!-
-Arrivo!-
posò il cappellino, colorato a metà, e si
presentò davanti al padre, porgendogli
le mani.
Il
padre lo scrutava serio, fino a dargli uno schiaffo sui piccoli palmi
–Non sono
lavate come si devono, queste mani! Non sei mica un ebreo! Fila a
lavartele!-
Quegli
schiaffi non facevano male e Michael c’era abituato. In
realtà voleva bene ai
suoi genitori, non gli avevano mai fatto mancare nulla. Suo padre era
severo di
natura, anche se lui diceva che era colpa dei comunisti e degli ebrei
che
avevano incattivito, con le loro malefatte, la nazione tedesca.
A
tavola il silenzio era rotto dalle posate e dalla televisione, e di
tanto in
tanto qualche chiacchierata.
-Mihael,
stai seduto composto altrimenti ti sporchi!- sua madre era sempre
apprensiva.
Severa e apprensiva.
-Come
va la scuola, Michael?-
-Bene,
papà… Oggi hanno fatto una nuova
sezione… Per quelli stranieri…-
-Scommetto
che sarà una classe di comunisti… Oggi non sei
uscito con gli amici? C’è la
neve, di solito esci sempre a giocare-
-Erano
tutti impegnati. E io non ho chiesto perché, per non essere
invadente, come mi
dici sempre tu, papà-
-Bravo,
figliolo- il padre gli riservava sempre degli sguardi ammirati
–Capelli biondi
e buona educazione… Sei l’orgoglio della nobile
razza ariana, Mihael-
Il
giorno dopo Mihael era sempre più elettrizzato
all’idea di festeggiare i suoi
dieci anni. suo padre le ferie non era riuscito ad averle, ma poco
importava.
Vide
i suoi amichetti avvicinarsi alla sua finestra.
-Ehi,
Mihael! Scendi, scendi!-
Non
se lo faceva mai ripetere due volte.
E
quel giorno i suoi amici avevano un’idea migliore che giocare
a palle di neve
–Oggi facciamo una prova di coraggio! Andiamo davanti al
Berliner Mauer, vicino
alla bancarella dei libri usati! C’è una cosa che
dovrai fare per dimostrare di
essere un vero uomo!-
Mentre
si dirigevano laggiù con le loro biciclette, Mihael si
chiedeva cosa sarebbe
successo, cosa avevano in mente i suoi amici. In parte, più
che paura, era solo
preoccupato per le conseguenze. Troppo cervellotico, Mihael Keehl.
Glielo
dicevano sempre.
Svoltarono
qualche angolo a piedi, per non dare nell’occhio agli adulti,
e arrivarono
davanti a un fornaio.
-Ci
sei mai stato da queste parti?-
-No-
-Quel
forno appartiene a una famiglia ebrea. Qui ci vive una piccola
comunità-
-E
allora?-
-Vediamo
se hai il coraggio di andare a comprare un pezzo di pane da loro!-
-Ma
sono ebrei! Se i miei genitori lo vengono a sapere…-
-Ma
i tuoi genitori non verrebbero mai in un quartiere ebreo! Dai, dai,
vediamo se
ce la fai!-
Suo
padre gli diceva spesso che gli ebrei erano cattivi e che non esitavano
a
picchiare se si trovavano davanti un ariano. E quando Mihael chiedeva
perché si
sentiva sempre rispondere “perché sono gelosi
della nostra razza”.
A
dieci anni dal crollo di quel muro, a chissà quanti dalla
fine della guerra,
Berlino non era ancora cambiata del tutto. O forse sarebbe cambiata in
peggio
se Mihael avesse dato retta ai suoi amici.
Che
farai, Mihael Keehl?
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